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Title: La Divina Commedia di Dante
Author: Dante Alighieri
Language: Italian
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version by Al Haines.



  LA DIVINA COMMEDIA
  di Dante Alighieri



  INFERNO



  Inferno • Canto I


  Nel mezzo del cammin di nostra vita
  mi ritrovai per una selva oscura,
  ché la diritta via era smarrita.

  Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
  esta selva selvaggia e aspra e forte
  che nel pensier rinova la paura!

  Tant’ è amara che poco è più morte;
  ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
  dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

  Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
  tant’ era pien di sonno a quel punto
  che la verace via abbandonai.

  Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
  là dove terminava quella valle
  che m’avea di paura il cor compunto,

  guardai in alto e vidi le sue spalle
  vestite già de’ raggi del pianeta
  che mena dritto altrui per ogne calle.

  Allor fu la paura un poco queta,
  che nel lago del cor m’era durata
  la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

  E come quei che con lena affannata,
  uscito fuor del pelago a la riva,
  si volge a l’acqua perigliosa e guata,

  così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
  si volse a retro a rimirar lo passo
  che non lasciò già mai persona viva.

  Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
  ripresi via per la piaggia diserta,
  sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

  Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
  una lonza leggera e presta molto,
  che di pel macolato era coverta;

  e non mi si partia dinanzi al volto,
  anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
  ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

  Temp’ era dal principio del mattino,
  e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
  ch’eran con lui quando l’amor divino

  mosse di prima quelle cose belle;
  sì ch’a bene sperar m’era cagione
  di quella fiera a la gaetta pelle

  l’ora del tempo e la dolce stagione;
  ma non sì che paura non mi desse
  la vista che m’apparve d’un leone.

  Questi parea che contra me venisse
  con la test’ alta e con rabbiosa fame,
  sì che parea che l’aere ne tremesse.

  Ed una lupa, che di tutte brame
  sembiava carca ne la sua magrezza,
  e molte genti fé già viver grame,

  questa mi porse tanto di gravezza
  con la paura ch’uscia di sua vista,
  ch’io perdei la speranza de l’altezza.

  E qual è quei che volontieri acquista,
  e giugne ’l tempo che perder lo face,
  che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

  tal mi fece la bestia sanza pace,
  che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
  mi ripigneva là dove ’l sol tace.

  Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
  dinanzi a li occhi mi si fu offerto
  chi per lungo silenzio parea fioco.

  Quando vidi costui nel gran diserto,
  «Miserere di me», gridai a lui,
  «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

  Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
  e li parenti miei furon lombardi,
  mantoani per patrïa ambedui.

  Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
  e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
  nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

  Poeta fui, e cantai di quel giusto
  figliuol d’Anchise che venne di Troia,
  poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

  Ma tu perché ritorni a tanta noia?
  perché non sali il dilettoso monte
  ch’è principio e cagion di tutta gioia?».

  «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
  che spandi di parlar sì largo fiume?»,
  rispuos’ io lui con vergognosa fronte.

  «O de li altri poeti onore e lume,
  vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
  che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

  Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
  tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
  lo bello stilo che m’ha fatto onore.

  Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
  aiutami da lei, famoso saggio,
  ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».

  «A te convien tenere altro vïaggio»,
  rispuose, poi che lagrimar mi vide,
  «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;

  ché questa bestia, per la qual tu gride,
  non lascia altrui passar per la sua via,
  ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;

  e ha natura sì malvagia e ria,
  che mai non empie la bramosa voglia,
  e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

  Molti son li animali a cui s’ammoglia,
  e più saranno ancora, infin che ’l veltro
  verrà, che la farà morir con doglia.

  Questi non ciberà terra né peltro,
  ma sapïenza, amore e virtute,
  e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

  Di quella umile Italia fia salute
  per cui morì la vergine Cammilla,
  Eurialo e Turno e Niso di ferute.

  Questi la caccerà per ogne villa,
  fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
  là onde ’nvidia prima dipartilla.

  Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno
  che tu mi segui, e io sarò tua guida,
  e trarrotti di qui per loco etterno;

  ove udirai le disperate strida,
  vedrai li antichi spiriti dolenti,
  ch’a la seconda morte ciascun grida;

  e vederai color che son contenti
  nel foco, perché speran di venire
  quando che sia a le beate genti.

  A le quai poi se tu vorrai salire,
  anima fia a ciò più di me degna:
  con lei ti lascerò nel mio partire;

  ché quello imperador che là sù regna,
  perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
  non vuol che ’n sua città per me si vegna.

  In tutte parti impera e quivi regge;
  quivi è la sua città e l’alto seggio:
  oh felice colui cu’ ivi elegge!».

  E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
  per quello Dio che tu non conoscesti,
  acciò ch’io fugga questo male e peggio,

  che tu mi meni là dov’ or dicesti,
  sì ch’io veggia la porta di san Pietro
  e color cui tu fai cotanto mesti».

  Allor si mosse, e io li tenni dietro.



  Inferno • Canto II


  Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
  toglieva li animai che sono in terra
  da le fatiche loro; e io sol uno

  m’apparecchiava a sostener la guerra
  sì del cammino e sì de la pietate,
  che ritrarrà la mente che non erra.

  O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
  o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
  qui si parrà la tua nobilitate.

  Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
  guarda la mia virtù s’ell’ è possente,
  prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.

  Tu dici che di Silvïo il parente,
  corruttibile ancora, ad immortale
  secolo andò, e fu sensibilmente.

  Però, se l’avversario d’ogne male
  cortese i fu, pensando l’alto effetto
  ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale

  non pare indegno ad omo d’intelletto;
  ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
  ne l’empireo ciel per padre eletto:

  la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
  fu stabilita per lo loco santo
  u’ siede il successor del maggior Piero.

  Per quest’ andata onde li dai tu vanto,
  intese cose che furon cagione
  di sua vittoria e del papale ammanto.

  Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
  per recarne conforto a quella fede
  ch’è principio a la via di salvazione.

  Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
  Io non Enëa, io non Paulo sono;
  me degno a ciò né io né altri ’l crede.

  Per che, se del venire io m’abbandono,
  temo che la venuta non sia folle.
  Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».

  E qual è quei che disvuol ciò che volle
  e per novi pensier cangia proposta,
  sì che dal cominciar tutto si tolle,

  tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa,
  perché, pensando, consumai la ’mpresa
  che fu nel cominciar cotanto tosta.

  «S’i’ ho ben la parola tua intesa»,
  rispuose del magnanimo quell’ ombra,
  «l’anima tua è da viltade offesa;

  la qual molte fïate l’omo ingombra
  sì che d’onrata impresa lo rivolve,
  come falso veder bestia quand’ ombra.

  Da questa tema acciò che tu ti solve,
  dirotti perch’ io venni e quel ch’io ’ntesi
  nel primo punto che di te mi dolve.

  Io era tra color che son sospesi,
  e donna mi chiamò beata e bella,
  tal che di comandare io la richiesi.

  Lucevan li occhi suoi più che la stella;
  e cominciommi a dir soave e piana,
  con angelica voce, in sua favella:

  “O anima cortese mantoana,
  di cui la fama ancor nel mondo dura,
  e durerà quanto ’l mondo lontana,

  l’amico mio, e non de la ventura,
  ne la diserta piaggia è impedito
  sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;

  e temo che non sia già sì smarrito,
  ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
  per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.

  Or movi, e con la tua parola ornata
  e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
  l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.

  I’ son Beatrice che ti faccio andare;
  vegno del loco ove tornar disio;
  amor mi mosse, che mi fa parlare.

  Quando sarò dinanzi al segnor mio,
  di te mi loderò sovente a lui”.
  Tacette allora, e poi comincia’ io:

  “O donna di virtù sola per cui
  l’umana spezie eccede ogne contento
  di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,

  tanto m’aggrada il tuo comandamento,
  che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
  più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.

  Ma dimmi la cagion che non ti guardi
  de lo scender qua giuso in questo centro
  de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.

  “Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
  dirotti brievemente”, mi rispuose,
  “perch’ i’ non temo di venir qua entro.

  Temer si dee di sole quelle cose
  c’hanno potenza di fare altrui male;
  de l’altre no, ché non son paurose.

  I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
  che la vostra miseria non mi tange,
  né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.

  Donna è gentil nel ciel che si compiange
  di questo ’mpedimento ov’ io ti mando,
  sì che duro giudicio là sù frange.

  Questa chiese Lucia in suo dimando
  e disse:—Or ha bisogno il tuo fedele
  di te, e io a te lo raccomando—.

  Lucia, nimica di ciascun crudele,
  si mosse, e venne al loco dov’ i’ era,
  che mi sedea con l’antica Rachele.

  Disse:—Beatrice, loda di Dio vera,
  ché non soccorri quei che t’amò tanto,
  ch’uscì per te de la volgare schiera?

  Non odi tu la pieta del suo pianto,
  non vedi tu la morte che ’l combatte
  su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?—.

  Al mondo non fur mai persone ratte
  a far lor pro o a fuggir lor danno,
  com’ io, dopo cotai parole fatte,

  venni qua giù del mio beato scanno,
  fidandomi del tuo parlare onesto,
  ch’onora te e quei ch’udito l’hanno”.

  Poscia che m’ebbe ragionato questo,
  li occhi lucenti lagrimando volse,
  per che mi fece del venir più presto.

  E venni a te così com’ ella volse:
  d’inanzi a quella fiera ti levai
  che del bel monte il corto andar ti tolse.

  Dunque: che è? perché, perché restai,
  perché tanta viltà nel core allette,
  perché ardire e franchezza non hai,

  poscia che tai tre donne benedette
  curan di te ne la corte del cielo,
  e ’l mio parlar tanto ben ti promette?».

  Quali fioretti dal notturno gelo
  chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
  si drizzan tutti aperti in loro stelo,

  tal mi fec’ io di mia virtude stanca,
  e tanto buono ardire al cor mi corse,
  ch’i’ cominciai come persona franca:

  «Oh pietosa colei che mi soccorse!
  e te cortese ch’ubidisti tosto
  a le vere parole che ti porse!

  Tu m’hai con disiderio il cor disposto
  sì al venir con le parole tue,
  ch’i’ son tornato nel primo proposto.

  Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
  tu duca, tu segnore e tu maestro».
  Così li dissi; e poi che mosso fue,

  intrai per lo cammino alto e silvestro.



  Inferno • Canto III


  ‘Per me si va ne la città dolente,
  per me si va ne l’etterno dolore,
  per me si va tra la perduta gente.

  Giustizia mosse il mio alto fattore;
  fecemi la divina podestate,
  la somma sapïenza e ’l primo amore.

  Dinanzi a me non fuor cose create
  se non etterne, e io etterno duro.
  Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’.

  Queste parole di colore oscuro
  vid’ ïo scritte al sommo d’una porta;
  per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».

  Ed elli a me, come persona accorta:
  «Qui si convien lasciare ogne sospetto;
  ogne viltà convien che qui sia morta.

  Noi siam venuti al loco ov’ i’ t’ho detto
  che tu vedrai le genti dolorose
  c’hanno perduto il ben de l’intelletto».

  E poi che la sua mano a la mia puose
  con lieto volto, ond’ io mi confortai,
  mi mise dentro a le segrete cose.

  Quivi sospiri, pianti e alti guai
  risonavan per l’aere sanza stelle,
  per ch’io al cominciar ne lagrimai.

  Diverse lingue, orribili favelle,
  parole di dolore, accenti d’ira,
  voci alte e fioche, e suon di man con elle

  facevano un tumulto, il qual s’aggira
  sempre in quell’ aura sanza tempo tinta,
  come la rena quando turbo spira.

  E io ch’avea d’error la testa cinta,
  dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
  e che gent’ è che par nel duol sì vinta?».

  Ed elli a me: «Questo misero modo
  tegnon l’anime triste di coloro
  che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.

  Mischiate sono a quel cattivo coro
  de li angeli che non furon ribelli
  né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

  Caccianli i ciel per non esser men belli,
  né lo profondo inferno li riceve,
  ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».

  E io: «Maestro, che è tanto greve
  a lor che lamentar li fa sì forte?».
  Rispuose: «Dicerolti molto breve.

  Questi non hanno speranza di morte,
  e la lor cieca vita è tanto bassa,
  che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.

  Fama di loro il mondo esser non lassa;
  misericordia e giustizia li sdegna:
  non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

  E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
  che girando correva tanto ratta,
  che d’ogne posa mi parea indegna;

  e dietro le venìa sì lunga tratta
  di gente, ch’i’ non averei creduto
  che morte tanta n’avesse disfatta.

  Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
  vidi e conobbi l’ombra di colui
  che fece per viltade il gran rifiuto.

  Incontanente intesi e certo fui
  che questa era la setta d’i cattivi,
  a Dio spiacenti e a’ nemici sui.

  Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
  erano ignudi e stimolati molto
  da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

  Elle rigavan lor di sangue il volto,
  che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
  da fastidiosi vermi era ricolto.

  E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
  vidi genti a la riva d’un gran fiume;
  per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi

  ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
  le fa di trapassar parer sì pronte,
  com’ i’ discerno per lo fioco lume».

  Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
  quando noi fermerem li nostri passi
  su la trista riviera d’Acheronte».

  Allor con li occhi vergognosi e bassi,
  temendo no ’l mio dir li fosse grave,
  infino al fiume del parlar mi trassi.

  Ed ecco verso noi venir per nave
  un vecchio, bianco per antico pelo,
  gridando: «Guai a voi, anime prave!

  Non isperate mai veder lo cielo:
  i’ vegno per menarvi a l’altra riva
  ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.

  E tu che se’ costì, anima viva,
  pàrtiti da cotesti che son morti».
  Ma poi che vide ch’io non mi partiva,

  disse: «Per altra via, per altri porti
  verrai a piaggia, non qui, per passare:
  più lieve legno convien che ti porti».

  E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
  vuolsi così colà dove si puote
  ciò che si vuole, e più non dimandare».

  Quinci fuor quete le lanose gote
  al nocchier de la livida palude,
  che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

  Ma quell’ anime, ch’eran lasse e nude,
  cangiar colore e dibattero i denti,
  ratto che ’nteser le parole crude.

  Bestemmiavano Dio e lor parenti,
  l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
  di lor semenza e di lor nascimenti.

  Poi si ritrasser tutte quante insieme,
  forte piangendo, a la riva malvagia
  ch’attende ciascun uom che Dio non teme.

  Caron dimonio, con occhi di bragia
  loro accennando, tutte le raccoglie;
  batte col remo qualunque s’adagia.

  Come d’autunno si levan le foglie
  l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
  vede a la terra tutte le sue spoglie,

  similemente il mal seme d’Adamo
  gittansi di quel lito ad una ad una,
  per cenni come augel per suo richiamo.

  Così sen vanno su per l’onda bruna,
  e avanti che sien di là discese,
  anche di qua nuova schiera s’auna.

  «Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
  «quelli che muoion ne l’ira di Dio
  tutti convegnon qui d’ogne paese;

  e pronti sono a trapassar lo rio,
  ché la divina giustizia li sprona,
  sì che la tema si volve in disio.

  Quinci non passa mai anima buona;
  e però, se Caron di te si lagna,
  ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».

  Finito questo, la buia campagna
  tremò sì forte, che de lo spavento
  la mente di sudore ancor mi bagna.

  La terra lagrimosa diede vento,
  che balenò una luce vermiglia
  la qual mi vinse ciascun sentimento;

  e caddi come l’uom cui sonno piglia.



  Inferno • Canto IV


  Ruppemi l’alto sonno ne la testa
  un greve truono, sì ch’io mi riscossi
  come persona ch’è per forza desta;

  e l’occhio riposato intorno mossi,
  dritto levato, e fiso riguardai
  per conoscer lo loco dov’ io fossi.

  Vero è che ’n su la proda mi trovai
  de la valle d’abisso dolorosa
  che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.

  Oscura e profonda era e nebulosa
  tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
  io non vi discernea alcuna cosa.

  «Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
  cominciò il poeta tutto smorto.
  «Io sarò primo, e tu sarai secondo».

  E io, che del color mi fui accorto,
  dissi: «Come verrò, se tu paventi
  che suoli al mio dubbiare esser conforto?».

  Ed elli a me: «L’angoscia de le genti
  che son qua giù, nel viso mi dipigne
  quella pietà che tu per tema senti.

  Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
  Così si mise e così mi fé intrare
  nel primo cerchio che l’abisso cigne.

  Quivi, secondo che per ascoltare,
  non avea pianto mai che di sospiri
  che l’aura etterna facevan tremare;

  ciò avvenia di duol sanza martìri,
  ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
  d’infanti e di femmine e di viri.

  Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
  che spiriti son questi che tu vedi?
  Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,

  ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
  non basta, perché non ebber battesmo,
  ch’è porta de la fede che tu credi;

  e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
  non adorar debitamente a Dio:
  e di questi cotai son io medesmo.

  Per tai difetti, non per altro rio,
  semo perduti, e sol di tanto offesi
  che sanza speme vivemo in disio».

  Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
  però che gente di molto valore
  conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.

  «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
  comincia’ io per voler esser certo
  di quella fede che vince ogne errore:

  «uscicci mai alcuno, o per suo merto
  o per altrui, che poi fosse beato?».
  E quei che ’ntese il mio parlar coverto,

  rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
  quando ci vidi venire un possente,
  con segno di vittoria coronato.

  Trasseci l’ombra del primo parente,
  d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
  di Moïsè legista e ubidente;

  Abraàm patrïarca e Davìd re,
  Israèl con lo padre e co’ suoi nati
  e con Rachele, per cui tanto fé,

  e altri molti, e feceli beati.
  E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
  spiriti umani non eran salvati».

  Non lasciavam l’andar perch’ ei dicessi,
  ma passavam la selva tuttavia,
  la selva, dico, di spiriti spessi.

  Non era lunga ancor la nostra via
  di qua dal sonno, quand’ io vidi un foco
  ch’emisperio di tenebre vincia.

  Di lungi n’eravamo ancora un poco,
  ma non sì ch’io non discernessi in parte
  ch’orrevol gente possedea quel loco.

  «O tu ch’onori scïenzïa e arte,
  questi chi son c’hanno cotanta onranza,
  che dal modo de li altri li diparte?».

  E quelli a me: «L’onrata nominanza
  che di lor suona sù ne la tua vita,
  grazïa acquista in ciel che sì li avanza».

  Intanto voce fu per me udita:
  «Onorate l’altissimo poeta;
  l’ombra sua torna, ch’era dipartita».

  Poi che la voce fu restata e queta,
  vidi quattro grand’ ombre a noi venire:
  sembianz’ avevan né trista né lieta.

  Lo buon maestro cominciò a dire:
  «Mira colui con quella spada in mano,
  che vien dinanzi ai tre sì come sire:

  quelli è Omero poeta sovrano;
  l’altro è Orazio satiro che vene;
  Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.

  Però che ciascun meco si convene
  nel nome che sonò la voce sola,
  fannomi onore, e di ciò fanno bene».

  Così vid’ i’ adunar la bella scola
  di quel segnor de l’altissimo canto
  che sovra li altri com’ aquila vola.

  Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
  volsersi a me con salutevol cenno,
  e ’l mio maestro sorrise di tanto;

  e più d’onore ancora assai mi fenno,
  ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
  sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

  Così andammo infino a la lumera,
  parlando cose che ’l tacere è bello,
  sì com’ era ’l parlar colà dov’ era.

  Venimmo al piè d’un nobile castello,
  sette volte cerchiato d’alte mura,
  difeso intorno d’un bel fiumicello.

  Questo passammo come terra dura;
  per sette porte intrai con questi savi:
  giugnemmo in prato di fresca verdura.

  Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
  di grande autorità ne’ lor sembianti:
  parlavan rado, con voci soavi.

  Traemmoci così da l’un de’ canti,
  in loco aperto, luminoso e alto,
  sì che veder si potien tutti quanti.

  Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
  mi fuor mostrati li spiriti magni,
  che del vedere in me stesso m’essalto.

  I’ vidi Eletra con molti compagni,
  tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
  Cesare armato con li occhi grifagni.

  Vidi Cammilla e la Pantasilea;
  da l’altra parte vidi ’l re Latino
  che con Lavina sua figlia sedea.

  Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
  Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
  e solo, in parte, vidi ’l Saladino.

  Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
  vidi ’l maestro di color che sanno
  seder tra filosofica famiglia.

  Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
  quivi vid’ ïo Socrate e Platone,
  che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;

  Democrito che ’l mondo a caso pone,
  Dïogenès, Anassagora e Tale,
  Empedoclès, Eraclito e Zenone;

  e vidi il buono accoglitor del quale,
  Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
  Tulïo e Lino e Seneca morale;

  Euclide geomètra e Tolomeo,
  Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
  Averoìs, che ’l gran comento feo.

  Io non posso ritrar di tutti a pieno,
  però che sì mi caccia il lungo tema,
  che molte volte al fatto il dir vien meno.

  La sesta compagnia in due si scema:
  per altra via mi mena il savio duca,
  fuor de la queta, ne l’aura che trema.

  E vegno in parte ove non è che luca.



  Inferno • Canto V


  Così discesi del cerchio primaio
  giù nel secondo, che men loco cinghia
  e tanto più dolor, che punge a guaio.

  Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
  essamina le colpe ne l’intrata;
  giudica e manda secondo ch’avvinghia.

  Dico che quando l’anima mal nata
  li vien dinanzi, tutta si confessa;
  e quel conoscitor de le peccata

  vede qual loco d’inferno è da essa;
  cignesi con la coda tante volte
  quantunque gradi vuol che giù sia messa.

  Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
  vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
  dicono e odono e poi son giù volte.

  «O tu che vieni al doloroso ospizio»,
  disse Minòs a me quando mi vide,
  lasciando l’atto di cotanto offizio,

  «guarda com’ entri e di cui tu ti fide;
  non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
  E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?

  Non impedir lo suo fatale andare:
  vuolsi così colà dove si puote
  ciò che si vuole, e più non dimandare».

  Or incomincian le dolenti note
  a farmisi sentire; or son venuto
  là dove molto pianto mi percuote.

  Io venni in loco d’ogne luce muto,
  che mugghia come fa mar per tempesta,
  se da contrari venti è combattuto.

  La bufera infernal, che mai non resta,
  mena li spirti con la sua rapina;
  voltando e percotendo li molesta.

  Quando giungon davanti a la ruina,
  quivi le strida, il compianto, il lamento;
  bestemmian quivi la virtù divina.

  Intesi ch’a così fatto tormento
  enno dannati i peccator carnali,
  che la ragion sommettono al talento.

  E come li stornei ne portan l’ali
  nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
  così quel fiato li spiriti mali

  di qua, di là, di giù, di sù li mena;
  nulla speranza li conforta mai,
  non che di posa, ma di minor pena.

  E come i gru van cantando lor lai,
  faccendo in aere di sé lunga riga,
  così vid’ io venir, traendo guai,

  ombre portate da la detta briga;
  per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
  genti che l’aura nera sì gastiga?».

  «La prima di color di cui novelle
  tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
  «fu imperadrice di molte favelle.

  A vizio di lussuria fu sì rotta,
  che libito fé licito in sua legge,
  per tòrre il biasmo in che era condotta.

  Ell’ è Semiramìs, di cui si legge
  che succedette a Nino e fu sua sposa:
  tenne la terra che ’l Soldan corregge.

  L’altra è colei che s’ancise amorosa,
  e ruppe fede al cener di Sicheo;
  poi è Cleopatràs lussurïosa.

  Elena vedi, per cui tanto reo
  tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
  che con amore al fine combatteo.

  Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
  ombre mostrommi e nominommi a dito,
  ch’amor di nostra vita dipartille.

  Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
  nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
  pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

  I’ cominciai: «Poeta, volontieri
  parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
  e paion sì al vento esser leggeri».

  Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
  più presso a noi; e tu allor li priega
  per quello amor che i mena, ed ei verranno».

  Sì tosto come il vento a noi li piega,
  mossi la voce: «O anime affannate,
  venite a noi parlar, s’altri nol niega!».

  Quali colombe dal disio chiamate
  con l’ali alzate e ferme al dolce nido
  vegnon per l’aere, dal voler portate;

  cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,
  a noi venendo per l’aere maligno,
  sì forte fu l’affettüoso grido.

  «O animal grazïoso e benigno
  che visitando vai per l’aere perso
  noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

  se fosse amico il re de l’universo,
  noi pregheremmo lui de la tua pace,
  poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

  Di quel che udire e che parlar vi piace,
  noi udiremo e parleremo a voi,
  mentre che ’l vento, come fa, ci tace.

  Siede la terra dove nata fui
  su la marina dove ’l Po discende
  per aver pace co’ seguaci sui.

  Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
  prese costui de la bella persona
  che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

  Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
  mi prese del costui piacer sì forte,
  che, come vedi, ancor non m’abbandona.

  Amor condusse noi ad una morte.
  Caina attende chi a vita ci spense».
  Queste parole da lor ci fuor porte.

  Quand’ io intesi quell’ anime offense,
  china’ il viso, e tanto il tenni basso,
  fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».

  Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
  quanti dolci pensier, quanto disio
  menò costoro al doloroso passo!».

  Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
  e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
  a lagrimar mi fanno tristo e pio.

  Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
  a che e come concedette amore
  che conosceste i dubbiosi disiri?».

  E quella a me: «Nessun maggior dolore
  che ricordarsi del tempo felice
  ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.

  Ma s’a conoscer la prima radice
  del nostro amor tu hai cotanto affetto,
  dirò come colui che piange e dice.

  Noi leggiavamo un giorno per diletto
  di Lancialotto come amor lo strinse;
  soli eravamo e sanza alcun sospetto.

  Per più fïate li occhi ci sospinse
  quella lettura, e scolorocci il viso;
  ma solo un punto fu quel che ci vinse.

  Quando leggemmo il disïato riso
  esser basciato da cotanto amante,
  questi, che mai da me non fia diviso,

  la bocca mi basciò tutto tremante.
  Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
  quel giorno più non vi leggemmo avante».

  Mentre che l’uno spirto questo disse,
  l’altro piangëa; sì che di pietade
  io venni men così com’ io morisse.

  E caddi come corpo morto cade.



  Inferno • Canto VI


  Al tornar de la mente, che si chiuse
  dinanzi a la pietà d’i due cognati,
  che di trestizia tutto mi confuse,

  novi tormenti e novi tormentati
  mi veggio intorno, come ch’io mi mova
  e ch’io mi volga, e come che io guati.

  Io sono al terzo cerchio, de la piova
  etterna, maladetta, fredda e greve;
  regola e qualità mai non l’è nova.

  Grandine grossa, acqua tinta e neve
  per l’aere tenebroso si riversa;
  pute la terra che questo riceve.

  Cerbero, fiera crudele e diversa,
  con tre gole caninamente latra
  sovra la gente che quivi è sommersa.

  Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
  e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
  graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

  Urlar li fa la pioggia come cani;
  de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
  volgonsi spesso i miseri profani.

  Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
  le bocche aperse e mostrocci le sanne;
  non avea membro che tenesse fermo.

  E ’l duca mio distese le sue spanne,
  prese la terra, e con piene le pugna
  la gittò dentro a le bramose canne.

  Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
  e si racqueta poi che ’l pasto morde,
  ché solo a divorarlo intende e pugna,

  cotai si fecer quelle facce lorde
  de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
  l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

  Noi passavam su per l’ombre che adona
  la greve pioggia, e ponavam le piante
  sovra lor vanità che par persona.

  Elle giacean per terra tutte quante,
  fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
  ch’ella ci vide passarsi davante.

  «O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,
  mi disse, «riconoscimi, se sai:
  tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».

  E io a lui: «L’angoscia che tu hai
  forse ti tira fuor de la mia mente,
  sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.

  Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
  loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
  che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».

  Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
  d’invidia sì che già trabocca il sacco,
  seco mi tenne in la vita serena.

  Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
  per la dannosa colpa de la gola,
  come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

  E io anima trista non son sola,
  ché tutte queste a simil pena stanno
  per simil colpa». E più non fé parola.

  Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
  mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
  ma dimmi, se tu sai, a che verranno

  li cittadin de la città partita;
  s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
  per che l’ha tanta discordia assalita».

  E quelli a me: «Dopo lunga tencione
  verranno al sangue, e la parte selvaggia
  caccerà l’altra con molta offensione.

  Poi appresso convien che questa caggia
  infra tre soli, e che l’altra sormonti
  con la forza di tal che testé piaggia.

  Alte terrà lungo tempo le fronti,
  tenendo l’altra sotto gravi pesi,
  come che di ciò pianga o che n’aonti.

  Giusti son due, e non vi sono intesi;
  superbia, invidia e avarizia sono
  le tre faville c’hanno i cuori accesi».

  Qui puose fine al lagrimabil suono.
  E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni
  e che di più parlar mi facci dono.

  Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
  Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
  e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,

  dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
  ché gran disio mi stringe di savere
  se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca».

  E quelli: «Ei son tra l’anime più nere;
  diverse colpe giù li grava al fondo:
  se tanto scendi, là i potrai vedere.

  Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
  priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
  più non ti dico e più non ti rispondo».

  Li diritti occhi torse allora in biechi;
  guardommi un poco e poi chinò la testa:
  cadde con essa a par de li altri ciechi.

  E ’l duca disse a me: «Più non si desta
  di qua dal suon de l’angelica tromba,
  quando verrà la nimica podesta:

  ciascun rivederà la trista tomba,
  ripiglierà sua carne e sua figura,
  udirà quel ch’in etterno rimbomba».

  Sì trapassammo per sozza mistura
  de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
  toccando un poco la vita futura;

  per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
  crescerann’ ei dopo la gran sentenza,
  o fier minori, o saran sì cocenti?».

  Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,
  che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
  più senta il bene, e così la doglienza.

  Tutto che questa gente maladetta
  in vera perfezion già mai non vada,
  di là più che di qua essere aspetta».

  Noi aggirammo a tondo quella strada,
  parlando più assai ch’i’ non ridico;
  venimmo al punto dove si digrada:

  quivi trovammo Pluto, il gran nemico.



  Inferno • Canto VII


  «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
  cominciò Pluto con la voce chioccia;
  e quel savio gentil, che tutto seppe,

  disse per confortarmi: «Non ti noccia
  la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
  non ci torrà lo scender questa roccia».

  Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
  e disse: «Taci, maladetto lupo!
  consuma dentro te con la tua rabbia.

  Non è sanza cagion l’andare al cupo:
  vuolsi ne l’alto, là dove Michele
  fé la vendetta del superbo strupo».

  Quali dal vento le gonfiate vele
  caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
  tal cadde a terra la fiera crudele.

  Così scendemmo ne la quarta lacca,
  pigliando più de la dolente ripa
  che ’l mal de l’universo tutto insacca.

  Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
  nove travaglie e pene quant’ io viddi?
  e perché nostra colpa sì ne scipa?

  Come fa l’onda là sovra Cariddi,
  che si frange con quella in cui s’intoppa,
  così convien che qui la gente riddi.

  Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,
  e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,
  voltando pesi per forza di poppa.

  Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
  si rivolgea ciascun, voltando a retro,
  gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».

  Così tornavan per lo cerchio tetro
  da ogne mano a l’opposito punto,
  gridandosi anche loro ontoso metro;

  poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,
  per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
  E io, ch’avea lo cor quasi compunto,

  dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
  che gente è questa, e se tutti fuor cherci
  questi chercuti a la sinistra nostra».

  Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
  sì de la mente in la vita primaia,
  che con misura nullo spendio ferci.

  Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
  quando vegnono a’ due punti del cerchio
  dove colpa contraria li dispaia.

  Questi fuor cherci, che non han coperchio
  piloso al capo, e papi e cardinali,
  in cui usa avarizia il suo soperchio».

  E io: «Maestro, tra questi cotali
  dovre’ io ben riconoscere alcuni
  che furo immondi di cotesti mali».

  Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
  la sconoscente vita che i fé sozzi,
  ad ogne conoscenza or li fa bruni.

  In etterno verranno a li due cozzi:
  questi resurgeranno del sepulcro
  col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

  Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
  ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
  qual ella sia, parole non ci appulcro.

  Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
  d’i ben che son commessi a la fortuna,
  per che l’umana gente si rabbuffa;

  ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
  e che già fu, di quest’ anime stanche
  non poterebbe farne posare una».

  «Maestro mio», diss’ io, «or mi dì anche:
  questa fortuna di che tu mi tocche,
  che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».

  E quelli a me: «Oh creature sciocche,
  quanta ignoranza è quella che v’offende!
  Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.

  Colui lo cui saver tutto trascende,
  fece li cieli e diè lor chi conduce
  sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,

  distribuendo igualmente la luce.
  Similemente a li splendor mondani
  ordinò general ministra e duce

  che permutasse a tempo li ben vani
  di gente in gente e d’uno in altro sangue,
  oltre la difension d’i senni umani;

  per ch’una gente impera e l’altra langue,
  seguendo lo giudicio di costei,
  che è occulto come in erba l’angue.

  Vostro saver non ha contasto a lei:
  questa provede, giudica, e persegue
  suo regno come il loro li altri dèi.

  Le sue permutazion non hanno triegue:
  necessità la fa esser veloce;
  sì spesso vien chi vicenda consegue.

  Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
  pur da color che le dovrien dar lode,
  dandole biasmo a torto e mala voce;

  ma ella s’è beata e ciò non ode:
  con l’altre prime creature lieta
  volve sua spera e beata si gode.

  Or discendiamo omai a maggior pieta;
  già ogne stella cade che saliva
  quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».

  Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
  sovr’ una fonte che bolle e riversa
  per un fossato che da lei deriva.

  L’acqua era buia assai più che persa;
  e noi, in compagnia de l’onde bige,
  intrammo giù per una via diversa.

  In la palude va c’ha nome Stige
  questo tristo ruscel, quand’ è disceso
  al piè de le maligne piagge grige.

  E io, che di mirare stava inteso,
  vidi genti fangose in quel pantano,
  ignude tutte, con sembiante offeso.

  Queste si percotean non pur con mano,
  ma con la testa e col petto e coi piedi,
  troncandosi co’ denti a brano a brano.

  Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
  l’anime di color cui vinse l’ira;
  e anche vo’ che tu per certo credi

  che sotto l’acqua è gente che sospira,
  e fanno pullular quest’ acqua al summo,
  come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.

  Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
  ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
  portando dentro accidïoso fummo:

  or ci attristiam ne la belletta negra”.
  Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
  ché dir nol posson con parola integra».

  Così girammo de la lorda pozza
  grand’ arco tra la ripa secca e ’l mézzo,
  con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.

  Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.



  Inferno • Canto VIII


  Io dico, seguitando, ch’assai prima
  che noi fossimo al piè de l’alta torre,
  li occhi nostri n’andar suso a la cima

  per due fiammette che i vedemmo porre,
  e un’altra da lungi render cenno,
  tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.

  E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
  dissi: «Questo che dice? e che risponde
  quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».

  Ed elli a me: «Su per le sucide onde
  già scorgere puoi quello che s’aspetta,
  se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».

  Corda non pinse mai da sé saetta
  che sì corresse via per l’aere snella,
  com’ io vidi una nave piccioletta

  venir per l’acqua verso noi in quella,
  sotto ’l governo d’un sol galeoto,
  che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».

  «Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto»,
  disse lo mio segnore, «a questa volta:
  più non ci avrai che sol passando il loto».

  Qual è colui che grande inganno ascolta
  che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
  fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.

  Lo duca mio discese ne la barca,
  e poi mi fece intrare appresso lui;
  e sol quand’ io fui dentro parve carca.

  Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
  segando se ne va l’antica prora
  de l’acqua più che non suol con altrui.

  Mentre noi corravam la morta gora,
  dinanzi mi si fece un pien di fango,
  e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».

  E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
  ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
  Rispuose: «Vedi che son un che piango».

  E io a lui: «Con piangere e con lutto,
  spirito maladetto, ti rimani;
  ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».

  Allor distese al legno ambo le mani;
  per che ’l maestro accorto lo sospinse,
  dicendo: «Via costà con li altri cani!».

  Lo collo poi con le braccia mi cinse;
  basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa,
  benedetta colei che ’n te s’incinse!

  Quei fu al mondo persona orgogliosa;
  bontà non è che sua memoria fregi:
  così s’è l’ombra sua qui furïosa.

  Quanti si tegnon or là sù gran regi
  che qui staranno come porci in brago,
  di sé lasciando orribili dispregi!».

  E io: «Maestro, molto sarei vago
  di vederlo attuffare in questa broda
  prima che noi uscissimo del lago».

  Ed elli a me: «Avante che la proda
  ti si lasci veder, tu sarai sazio:
  di tal disïo convien che tu goda».

  Dopo ciò poco vid’ io quello strazio
  far di costui a le fangose genti,
  che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

  Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
  e ’l fiorentino spirito bizzarro
  in sé medesmo si volvea co’ denti.

  Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
  ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
  per ch’io avante l’occhio intento sbarro.

  Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
  s’appressa la città c’ha nome Dite,
  coi gravi cittadin, col grande stuolo».

  E io: «Maestro, già le sue meschite
  là entro certe ne la valle cerno,
  vermiglie come se di foco uscite

  fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
  ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
  come tu vedi in questo basso inferno».

  Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
  che vallan quella terra sconsolata:
  le mura mi parean che ferro fosse.

  Non sanza prima far grande aggirata,
  venimmo in parte dove il nocchier forte
  «Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».

  Io vidi più di mille in su le porte
  da ciel piovuti, che stizzosamente
  dicean: «Chi è costui che sanza morte

  va per lo regno de la morta gente?».
  E ’l savio mio maestro fece segno
  di voler lor parlar segretamente.

  Allor chiusero un poco il gran disdegno
  e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
  che sì ardito intrò per questo regno.

  Sol si ritorni per la folle strada:
  pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
  che li ha’ iscorta sì buia contrada».

  Pensa, lettor, se io mi sconfortai
  nel suon de le parole maladette,
  ché non credetti ritornarci mai.

  «O caro duca mio, che più di sette
  volte m’hai sicurtà renduta e tratto
  d’alto periglio che ’ncontra mi stette,

  non mi lasciar», diss’ io, «così disfatto;
  e se ’l passar più oltre ci è negato,
  ritroviam l’orme nostre insieme ratto».

  E quel segnor che lì m’avea menato,
  mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
  non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.

  Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
  conforta e ciba di speranza buona,
  ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».

  Così sen va, e quivi m’abbandona
  lo dolce padre, e io rimagno in forse,
  che sì e no nel capo mi tenciona.

  Udir non potti quello ch’a lor porse;
  ma ei non stette là con essi guari,
  che ciascun dentro a pruova si ricorse.

  Chiuser le porte que’ nostri avversari
  nel petto al mio segnor, che fuor rimase
  e rivolsesi a me con passi rari.

  Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
  d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
  «Chi m’ha negate le dolenti case!».

  E a me disse: «Tu, perch’ io m’adiri,
  non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
  qual ch’a la difension dentro s’aggiri.

  Questa lor tracotanza non è nova;
  ché già l’usaro a men segreta porta,
  la qual sanza serrame ancor si trova.

  Sovr’ essa vedestù la scritta morta:
  e già di qua da lei discende l’erta,
  passando per li cerchi sanza scorta,

  tal che per lui ne fia la terra aperta».



  Inferno • Canto IX


  Quel color che viltà di fuor mi pinse
  veggendo il duca mio tornare in volta,
  più tosto dentro il suo novo ristrinse.

  Attento si fermò com’ uom ch’ascolta;
  ché l’occhio nol potea menare a lunga
  per l’aere nero e per la nebbia folta.

  «Pur a noi converrà vincer la punga»,
  cominciò el, «se non . . . Tal ne s’offerse.
  Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».

  I’ vidi ben sì com’ ei ricoperse
  lo cominciar con l’altro che poi venne,
  che fur parole a le prime diverse;

  ma nondimen paura il suo dir dienne,
  perch’ io traeva la parola tronca
  forse a peggior sentenzia che non tenne.

  «In questo fondo de la trista conca
  discende mai alcun del primo grado,
  che sol per pena ha la speranza cionca?».

  Questa question fec’ io; e quei «Di rado
  incontra», mi rispuose, «che di noi
  faccia il cammino alcun per qual io vado.

  Ver è ch’altra fïata qua giù fui,
  congiurato da quella Eritón cruda
  che richiamava l’ombre a’ corpi sui.

  Di poco era di me la carne nuda,
  ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro,
  per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

  Quell’ è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
  e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
  ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.

  Questa palude che ’l gran puzzo spira
  cigne dintorno la città dolente,
  u’ non potemo intrare omai sanz’ ira».

  E altro disse, ma non l’ho a mente;
  però che l’occhio m’avea tutto tratto
  ver’ l’alta torre a la cima rovente,

  dove in un punto furon dritte ratto
  tre furïe infernal di sangue tinte,
  che membra feminine avieno e atto,

  e con idre verdissime eran cinte;
  serpentelli e ceraste avien per crine,
  onde le fiere tempie erano avvinte.

  E quei, che ben conobbe le meschine
  de la regina de l’etterno pianto,
  «Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

  Quest’ è Megera dal sinistro canto;
  quella che piange dal destro è Aletto;
  Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.

  Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
  battiensi a palme e gridavan sì alto,
  ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.

  «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
  dicevan tutte riguardando in giuso;
  «mal non vengiammo in Tesëo l’assalto».

  «Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
  ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
  nulla sarebbe di tornar mai suso».

  Così disse ’l maestro; ed elli stessi
  mi volse, e non si tenne a le mie mani,
  che con le sue ancor non mi chiudessi.

  O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
  mirate la dottrina che s’asconde
  sotto ’l velame de li versi strani.

  E già venìa su per le torbide onde
  un fracasso d’un suon, pien di spavento,
  per cui tremavano amendue le sponde,

  non altrimenti fatto che d’un vento
  impetüoso per li avversi ardori,
  che fier la selva e sanz’ alcun rattento

  li rami schianta, abbatte e porta fori;
  dinanzi polveroso va superbo,
  e fa fuggir le fiere e li pastori.

  Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
  del viso su per quella schiuma antica
  per indi ove quel fummo è più acerbo».

  Come le rane innanzi a la nimica
  biscia per l’acqua si dileguan tutte,
  fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,

  vid’ io più di mille anime distrutte
  fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
  passava Stige con le piante asciutte.

  Dal volto rimovea quell’ aere grasso,
  menando la sinistra innanzi spesso;
  e sol di quell’ angoscia parea lasso.

  Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
  e volsimi al maestro; e quei fé segno
  ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.

  Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
  Venne a la porta e con una verghetta
  l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

  «O cacciati del ciel, gente dispetta»,
  cominciò elli in su l’orribil soglia,
  «ond’ esta oltracotanza in voi s’alletta?

  Perché recalcitrate a quella voglia
  a cui non puote il fin mai esser mozzo,
  e che più volte v’ha cresciuta doglia?

  Che giova ne le fata dar di cozzo?
  Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
  ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».

  Poi si rivolse per la strada lorda,
  e non fé motto a noi, ma fé sembiante
  d’omo cui altra cura stringa e morda

  che quella di colui che li è davante;
  e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
  sicuri appresso le parole sante.

  Dentro li ’ntrammo sanz’ alcuna guerra;
  e io, ch’avea di riguardar disio
  la condizion che tal fortezza serra,

  com’ io fui dentro, l’occhio intorno invio:
  e veggio ad ogne man grande campagna,
  piena di duolo e di tormento rio.

  Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
  sì com’ a Pola, presso del Carnaro
  ch’Italia chiude e suoi termini bagna,

  fanno i sepulcri tutt’ il loco varo,
  così facevan quivi d’ogne parte,
  salvo che ’l modo v’era più amaro;

  ché tra li avelli fiamme erano sparte,
  per le quali eran sì del tutto accesi,
  che ferro più non chiede verun’ arte.

  Tutti li lor coperchi eran sospesi,
  e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
  che ben parean di miseri e d’offesi.

  E io: «Maestro, quai son quelle genti
  che, seppellite dentro da quell’ arche,
  si fan sentir coi sospiri dolenti?».

  E quelli a me: «Qui son li eresïarche
  con lor seguaci, d’ogne setta, e molto
  più che non credi son le tombe carche.

  Simile qui con simile è sepolto,
  e i monimenti son più e men caldi».
  E poi ch’a la man destra si fu vòlto,

  passammo tra i martìri e li alti spaldi.



  Inferno • Canto X


  Ora sen va per un secreto calle,
  tra ’l muro de la terra e li martìri,
  lo mio maestro, e io dopo le spalle.

  «O virtù somma, che per li empi giri
  mi volvi», cominciai, «com’ a te piace,
  parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.

  La gente che per li sepolcri giace
  potrebbesi veder? già son levati
  tutt’ i coperchi, e nessun guardia face».

  E quelli a me: «Tutti saran serrati
  quando di Iosafàt qui torneranno
  coi corpi che là sù hanno lasciati.

  Suo cimitero da questa parte hanno
  con Epicuro tutti suoi seguaci,
  che l’anima col corpo morta fanno.

  Però a la dimanda che mi faci
  quinc’ entro satisfatto sarà tosto,
  e al disio ancor che tu mi taci».

  E io: «Buon duca, non tegno riposto
  a te mio cuor se non per dicer poco,
  e tu m’hai non pur mo a ciò disposto».

  «O Tosco che per la città del foco
  vivo ten vai così parlando onesto,
  piacciati di restare in questo loco.

  La tua loquela ti fa manifesto
  di quella nobil patrïa natio,
  a la qual forse fui troppo molesto».

  Subitamente questo suono uscìo
  d’una de l’arche; però m’accostai,
  temendo, un poco più al duca mio.

  Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
  Vedi là Farinata che s’è dritto:
  da la cintola in sù tutto ’l vedrai».

  Io avea già il mio viso nel suo fitto;
  ed el s’ergea col petto e con la fronte
  com’ avesse l’inferno a gran dispitto.

  E l’animose man del duca e pronte
  mi pinser tra le sepulture a lui,
  dicendo: «Le parole tue sien conte».

  Com’ io al piè de la sua tomba fui,
  guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
  mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

  Io ch’era d’ubidir disideroso,
  non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi;
  ond’ ei levò le ciglia un poco in suso;

  poi disse: «Fieramente furo avversi
  a me e a miei primi e a mia parte,
  sì che per due fïate li dispersi».

  «S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
  rispuos’ io lui, «l’una e l’altra fïata;
  ma i vostri non appreser ben quell’ arte».

  Allor surse a la vista scoperchiata
  un’ombra, lungo questa, infino al mento:
  credo che s’era in ginocchie levata.

  Dintorno mi guardò, come talento
  avesse di veder s’altri era meco;
  e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,

  piangendo disse: «Se per questo cieco
  carcere vai per altezza d’ingegno,
  mio figlio ov’ è? e perché non è teco?».

  E io a lui: «Da me stesso non vegno:
  colui ch’attende là, per qui mi mena
  forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».

  Le sue parole e ’l modo de la pena
  m’avean di costui già letto il nome;
  però fu la risposta così piena.

  Di sùbito drizzato gridò: «Come?
  dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora?
  non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».

  Quando s’accorse d’alcuna dimora
  ch’io facëa dinanzi a la risposta,
  supin ricadde e più non parve fora.

  Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
  restato m’era, non mutò aspetto,
  né mosse collo, né piegò sua costa;

  e sé continüando al primo detto,
  «S’elli han quell’ arte», disse, «male appresa,
  ciò mi tormenta più che questo letto.

  Ma non cinquanta volte fia raccesa
  la faccia de la donna che qui regge,
  che tu saprai quanto quell’ arte pesa.

  E se tu mai nel dolce mondo regge,
  dimmi: perché quel popolo è sì empio
  incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?».

  Ond’ io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
  che fece l’Arbia colorata in rosso,
  tal orazion fa far nel nostro tempio».

  Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
  «A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
  sanza cagion con li altri sarei mosso.

  Ma fu’ io solo, là dove sofferto
  fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
  colui che la difesi a viso aperto».

  «Deh, se riposi mai vostra semenza»,
  prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
  che qui ha ’nviluppata mia sentenza.

  El par che voi veggiate, se ben odo,
  dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
  e nel presente tenete altro modo».

  «Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
  le cose», disse, «che ne son lontano;
  cotanto ancor ne splende il sommo duce.

  Quando s’appressano o son, tutto è vano
  nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
  nulla sapem di vostro stato umano.

  Però comprender puoi che tutta morta
  fia nostra conoscenza da quel punto
  che del futuro fia chiusa la porta».

  Allor, come di mia colpa compunto,
  dissi: «Or direte dunque a quel caduto
  che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;

  e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
  fate i saper che ’l fei perché pensava
  già ne l’error che m’avete soluto».

  E già ’l maestro mio mi richiamava;
  per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
  che mi dicesse chi con lu’ istava.

  Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
  qua dentro è ’l secondo Federico
  e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio».

  Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
  poeta volsi i passi, ripensando
  a quel parlar che mi parea nemico.

  Elli si mosse; e poi, così andando,
  mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
  E io li sodisfeci al suo dimando.

  «La mente tua conservi quel ch’udito
  hai contra te», mi comandò quel saggio;
  «e ora attendi qui», e drizzò ’l dito:

  «quando sarai dinanzi al dolce raggio
  di quella il cui bell’ occhio tutto vede,
  da lei saprai di tua vita il vïaggio».

  Appresso mosse a man sinistra il piede:
  lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
  per un sentier ch’a una valle fiede,

  che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.



  Inferno • Canto XI


  In su l’estremità d’un’alta ripa
  che facevan gran pietre rotte in cerchio,
  venimmo sopra più crudele stipa;

  e quivi, per l’orribile soperchio
  del puzzo che ’l profondo abisso gitta,
  ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio

  d’un grand’ avello, ov’ io vidi una scritta
  che dicea: ‘Anastasio papa guardo,
  lo qual trasse Fotin de la via dritta’.

  «Lo nostro scender conviene esser tardo,
  sì che s’ausi un poco in prima il senso
  al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».

  Così ’l maestro; e io «Alcun compenso»,
  dissi lui, «trova che ’l tempo non passi
  perduto». Ed elli: «Vedi ch’a ciò penso».

  «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,
  cominciò poi a dir, «son tre cerchietti
  di grado in grado, come que’ che lassi.

  Tutti son pien di spirti maladetti;
  ma perché poi ti basti pur la vista,
  intendi come e perché son costretti.

  D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista,
  ingiuria è ’l fine, ed ogne fin cotale
  o con forza o con frode altrui contrista.

  Ma perché frode è de l’uom proprio male,
  più spiace a Dio; e però stan di sotto
  li frodolenti, e più dolor li assale.

  Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
  ma perché si fa forza a tre persone,
  in tre gironi è distinto e costrutto.

  A Dio, a sé, al prossimo si pòne
  far forza, dico in loro e in lor cose,
  come udirai con aperta ragione.

  Morte per forza e ferute dogliose
  nel prossimo si danno, e nel suo avere
  ruine, incendi e tollette dannose;

  onde omicide e ciascun che mal fiere,
  guastatori e predon, tutti tormenta
  lo giron primo per diverse schiere.

  Puote omo avere in sé man vïolenta
  e ne’ suoi beni; e però nel secondo
  giron convien che sanza pro si penta

  qualunque priva sé del vostro mondo,
  biscazza e fonde la sua facultade,
  e piange là dov’ esser de’ giocondo.

  Puossi far forza ne la deïtade,
  col cor negando e bestemmiando quella,
  e spregiando natura e sua bontade;

  e però lo minor giron suggella
  del segno suo e Soddoma e Caorsa
  e chi, spregiando Dio col cor, favella.

  La frode, ond’ ogne coscïenza è morsa,
  può l’omo usare in colui che ’n lui fida
  e in quel che fidanza non imborsa.

  Questo modo di retro par ch’incida
  pur lo vinco d’amor che fa natura;
  onde nel cerchio secondo s’annida

  ipocresia, lusinghe e chi affattura,
  falsità, ladroneccio e simonia,
  ruffian, baratti e simile lordura.

  Per l’altro modo quell’ amor s’oblia
  che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
  di che la fede spezïal si cria;

  onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto
  de l’universo in su che Dite siede,
  qualunque trade in etterno è consunto».

  E io: «Maestro, assai chiara procede
  la tua ragione, e assai ben distingue
  questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede.

  Ma dimmi: quei de la palude pingue,
  che mena il vento, e che batte la pioggia,
  e che s’incontran con sì aspre lingue,

  perché non dentro da la città roggia
  sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
  e se non li ha, perché sono a tal foggia?».

  Ed elli a me «Perché tanto delira»,
  disse, «lo ’ngegno tuo da quel che sòle?
  o ver la mente dove altrove mira?

  Non ti rimembra di quelle parole
  con le quai la tua Etica pertratta
  le tre disposizion che ’l ciel non vole,

  incontenenza, malizia e la matta
  bestialitade? e come incontenenza
  men Dio offende e men biasimo accatta?

  Se tu riguardi ben questa sentenza,
  e rechiti a la mente chi son quelli
  che sù di fuor sostegnon penitenza,

  tu vedrai ben perché da questi felli
  sien dipartiti, e perché men crucciata
  la divina vendetta li martelli».

  «O sol che sani ogne vista turbata,
  tu mi contenti sì quando tu solvi,
  che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.

  Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,
  diss’ io, «là dove di’ ch’usura offende
  la divina bontade, e ’l groppo solvi».

  «Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende,
  nota, non pure in una sola parte,
  come natura lo suo corso prende

  dal divino ’ntelletto e da sua arte;
  e se tu ben la tua Fisica note,
  tu troverai, non dopo molte carte,

  che l’arte vostra quella, quanto pote,
  segue, come ’l maestro fa ’l discente;
  sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote.

  Da queste due, se tu ti rechi a mente
  lo Genesì dal principio, convene
  prender sua vita e avanzar la gente;

  e perché l’usuriere altra via tene,
  per sé natura e per la sua seguace
  dispregia, poi ch’in altro pon la spene.

  Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
  ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
  e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,

  e ’l balzo via là oltra si dismonta».



  Inferno • Canto XII


  Era lo loco ov’ a scender la riva
  venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
  tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.

  Qual è quella ruina che nel fianco
  di qua da Trento l’Adice percosse,
  o per tremoto o per sostegno manco,

  che da cima del monte, onde si mosse,
  al piano è sì la roccia discoscesa,
  ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:

  cotal di quel burrato era la scesa;
  e ’n su la punta de la rotta lacca
  l’infamïa di Creti era distesa

  che fu concetta ne la falsa vacca;
  e quando vide noi, sé stesso morse,
  sì come quei cui l’ira dentro fiacca.

  Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
  tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
  che sù nel mondo la morte ti porse?

  Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
  ammaestrato da la tua sorella,
  ma vassi per veder le vostre pene».

  Qual è quel toro che si slaccia in quella
  c’ha ricevuto già ’l colpo mortale,
  che gir non sa, ma qua e là saltella,

  vid’ io lo Minotauro far cotale;
  e quello accorto gridò: «Corri al varco;
  mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».

  Così prendemmo via giù per lo scarco
  di quelle pietre, che spesso moviensi
  sotto i miei piedi per lo novo carco.

  Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
  forse a questa ruina, ch’è guardata
  da quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi.

  Or vo’ che sappi che l’altra fïata
  ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
  questa roccia non era ancor cascata.

  Ma certo poco pria, se ben discerno,
  che venisse colui che la gran preda
  levò a Dite del cerchio superno,

  da tutte parti l’alta valle feda
  tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
  sentisse amor, per lo qual è chi creda

  più volte il mondo in caòsso converso;
  e in quel punto questa vecchia roccia,
  qui e altrove, tal fece riverso.

  Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
  la riviera del sangue in la qual bolle
  qual che per vïolenza in altrui noccia».

  Oh cieca cupidigia e ira folle,
  che sì ci sproni ne la vita corta,
  e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!

  Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
  come quella che tutto ’l piano abbraccia,
  secondo ch’avea detto la mia scorta;

  e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
  corrien centauri, armati di saette,
  come solien nel mondo andare a caccia.

  Veggendoci calar, ciascun ristette,
  e de la schiera tre si dipartiro
  con archi e asticciuole prima elette;

  e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
  venite voi che scendete la costa?
  Ditel costinci; se non, l’arco tiro».

  Lo mio maestro disse: «La risposta
  farem noi a Chirón costà di presso:
  mal fu la voglia tua sempre sì tosta».

  Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
  che morì per la bella Deianira,
  e fé di sé la vendetta elli stesso.

  E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
  è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
  quell’ altro è Folo, che fu sì pien d’ira.

  Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
  saettando qual anima si svelle
  del sangue più che sua colpa sortille».

  Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
  Chirón prese uno strale, e con la cocca
  fece la barba in dietro a le mascelle.

  Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
  disse a’ compagni: «Siete voi accorti
  che quel di retro move ciò ch’el tocca?

  Così non soglion far li piè d’i morti».
  E ’l mio buon duca, che già li er’ al petto,
  dove le due nature son consorti,

  rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
  mostrar li mi convien la valle buia;
  necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.

  Tal si partì da cantare alleluia
  che mi commise quest’ officio novo:
  non è ladron, né io anima fuia.

  Ma per quella virtù per cu’ io movo
  li passi miei per sì selvaggia strada,
  danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,

  e che ne mostri là dove si guada,
  e che porti costui in su la groppa,
  ché non è spirto che per l’aere vada».

  Chirón si volse in su la destra poppa,
  e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
  e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».

  Or ci movemmo con la scorta fida
  lungo la proda del bollor vermiglio,
  dove i bolliti facieno alte strida.

  Io vidi gente sotto infino al ciglio;
  e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni
  che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.

  Quivi si piangon li spietati danni;
  quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
  che fé Cicilia aver dolorosi anni.

  E quella fronte c’ha ’l pel così nero,
  è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo,
  è Opizzo da Esti, il qual per vero

  fu spento dal figliastro sù nel mondo».
  Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
  «Questi ti sia or primo, e io secondo».

  Poco più oltre il centauro s’affisse
  sovr’ una gente che ’nfino a la gola
  parea che di quel bulicame uscisse.

  Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
  dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
  lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola».

  Poi vidi gente che di fuor del rio
  tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
  e di costoro assai riconobb’ io.

  Così a più a più si facea basso
  quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
  e quindi fu del fosso il nostro passo.

  «Sì come tu da questa parte vedi
  lo bulicame che sempre si scema»,
  disse ’l centauro, «voglio che tu credi

  che da quest’ altra a più a più giù prema
  lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
  ove la tirannia convien che gema.

  La divina giustizia di qua punge
  quell’ Attila che fu flagello in terra,
  e Pirro e Sesto; e in etterno munge

  le lagrime, che col bollor diserra,
  a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
  che fecero a le strade tanta guerra».

  Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.



  Inferno • Canto XIII


  Non era ancor di là Nesso arrivato,
  quando noi ci mettemmo per un bosco
  che da neun sentiero era segnato.

  Non fronda verde, ma di color fosco;
  non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
  non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.

  Non han sì aspri sterpi né sì folti
  quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
  tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

  Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
  che cacciar de le Strofade i Troiani
  con tristo annunzio di futuro danno.

  Ali hanno late, e colli e visi umani,
  piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
  fanno lamenti in su li alberi strani.

  E ’l buon maestro «Prima che più entre,
  sappi che se’ nel secondo girone»,
  mi cominciò a dire, «e sarai mentre

  che tu verrai ne l’orribil sabbione.
  Però riguarda ben; sì vederai
  cose che torrien fede al mio sermone».

  Io sentia d’ogne parte trarre guai
  e non vedea persona che ’l facesse;
  per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

  Cred’ ïo ch’ei credette ch’io credesse
  che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
  da gente che per noi si nascondesse.

  Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
  qualche fraschetta d’una d’este piante,
  li pensier c’hai si faran tutti monchi».

  Allor porsi la mano un poco avante
  e colsi un ramicel da un gran pruno;
  e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

  Da che fatto fu poi di sangue bruno,
  ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
  non hai tu spirto di pietade alcuno?

  Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
  ben dovrebb’ esser la tua man più pia,
  se state fossimo anime di serpi».

  Come d’un stizzo verde ch’arso sia
  da l’un de’ capi, che da l’altro geme
  e cigola per vento che va via,

  sì de la scheggia rotta usciva insieme
  parole e sangue; ond’ io lasciai la cima
  cadere, e stetti come l’uom che teme.

  «S’elli avesse potuto creder prima»,
  rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
  ciò c’ha veduto pur con la mia rima,

  non averebbe in te la man distesa;
  ma la cosa incredibile mi fece
  indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.

  Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
  d’alcun’ ammenda tua fama rinfreschi
  nel mondo sù, dove tornar li lece».

  E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
  ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
  perch’ ïo un poco a ragionar m’inveschi.

  Io son colui che tenni ambo le chiavi
  del cor di Federigo, e che le volsi,
  serrando e diserrando, sì soavi,

  che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi;
  fede portai al glorïoso offizio,
  tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.

  La meretrice che mai da l’ospizio
  di Cesare non torse li occhi putti,
  morte comune e de le corti vizio,

  infiammò contra me li animi tutti;
  e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
  che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

  L’animo mio, per disdegnoso gusto,
  credendo col morir fuggir disdegno,
  ingiusto fece me contra me giusto.

  Per le nove radici d’esto legno
  vi giuro che già mai non ruppi fede
  al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

  E se di voi alcun nel mondo riede,
  conforti la memoria mia, che giace
  ancor del colpo che ’nvidia le diede».

  Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
  disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
  ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

  Ond’ ïo a lui: «Domandal tu ancora
  di quel che credi ch’a me satisfaccia;
  ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».

  Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
  liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
  spirito incarcerato, ancor ti piaccia

  di dirne come l’anima si lega
  in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
  s’alcuna mai di tai membra si spiega».

  Allor soffiò il tronco forte, e poi
  si convertì quel vento in cotal voce:
  «Brievemente sarà risposto a voi.

  Quando si parte l’anima feroce
  dal corpo ond’ ella stessa s’è disvelta,
  Minòs la manda a la settima foce.

  Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
  ma là dove fortuna la balestra,
  quivi germoglia come gran di spelta.

  Surge in vermena e in pianta silvestra:
  l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
  fanno dolore, e al dolor fenestra.

  Come l’altre verrem per nostre spoglie,
  ma non però ch’alcuna sen rivesta,
  ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.

  Qui le strascineremo, e per la mesta
  selva saranno i nostri corpi appesi,
  ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».

  Noi eravamo ancora al tronco attesi,
  credendo ch’altro ne volesse dire,
  quando noi fummo d’un romor sorpresi,

  similemente a colui che venire
  sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
  ch’ode le bestie, e le frasche stormire.

  Ed ecco due da la sinistra costa,
  nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
  che de la selva rompieno ogne rosta.

  Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
  E l’altro, cui pareva tardar troppo,
  gridava: «Lano, sì non furo accorte

  le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
  E poi che forse li fallia la lena,
  di sé e d’un cespuglio fece un groppo.

  Di rietro a loro era la selva piena
  di nere cagne, bramose e correnti
  come veltri ch’uscisser di catena.

  In quel che s’appiattò miser li denti,
  e quel dilaceraro a brano a brano;
  poi sen portar quelle membra dolenti.

  Presemi allor la mia scorta per mano,
  e menommi al cespuglio che piangea
  per le rotture sanguinenti in vano.

  «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
  che t’è giovato di me fare schermo?
  che colpa ho io de la tua vita rea?».

  Quando ’l maestro fu sovr’ esso fermo,
  disse: «Chi fosti, che per tante punte
  soffi con sangue doloroso sermo?».

  Ed elli a noi: «O anime che giunte
  siete a veder lo strazio disonesto
  c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,

  raccoglietele al piè del tristo cesto.
  I’ fui de la città che nel Batista
  mutò ’l primo padrone; ond’ ei per questo

  sempre con l’arte sua la farà trista;
  e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
  rimane ancor di lui alcuna vista,

  que’ cittadin che poi la rifondarno
  sovra ’l cener che d’Attila rimase,
  avrebber fatto lavorare indarno.

  Io fei gibetto a me de le mie case».



  Inferno • Canto XIV


  Poi che la carità del natio loco
  mi strinse, raunai le fronde sparte
  e rende’le a colui, ch’era già fioco.

  Indi venimmo al fine ove si parte
  lo secondo giron dal terzo, e dove
  si vede di giustizia orribil arte.

  A ben manifestar le cose nove,
  dico che arrivammo ad una landa
  che dal suo letto ogne pianta rimove.

  La dolorosa selva l’è ghirlanda
  intorno, come ’l fosso tristo ad essa;
  quivi fermammo i passi a randa a randa.

  Lo spazzo era una rena arida e spessa,
  non d’altra foggia fatta che colei
  che fu da’ piè di Caton già soppressa.

  O vendetta di Dio, quanto tu dei
  esser temuta da ciascun che legge
  ciò che fu manifesto a li occhi mei!

  D’anime nude vidi molte gregge
  che piangean tutte assai miseramente,
  e parea posta lor diversa legge.

  Supin giacea in terra alcuna gente,
  alcuna si sedea tutta raccolta,
  e altra andava continüamente.

  Quella che giva ’ntorno era più molta,
  e quella men che giacëa al tormento,
  ma più al duolo avea la lingua sciolta.

  Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
  piovean di foco dilatate falde,
  come di neve in alpe sanza vento.

  Quali Alessandro in quelle parti calde
  d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
  fiamme cadere infino a terra salde,

  per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
  con le sue schiere, acciò che lo vapore
  mei si stingueva mentre ch’era solo:

  tale scendeva l’etternale ardore;
  onde la rena s’accendea, com’ esca
  sotto focile, a doppiar lo dolore.

  Sanza riposo mai era la tresca
  de le misere mani, or quindi or quinci
  escotendo da sé l’arsura fresca.

  I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci
  tutte le cose, fuor che ’ demon duri
  ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,

  chi è quel grande che non par che curi
  lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
  sì che la pioggia non par che ’l marturi?».

  E quel medesmo, che si fu accorto
  ch’io domandava il mio duca di lui,
  gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.

  Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
  crucciato prese la folgore aguta
  onde l’ultimo dì percosso fui;

  o s’elli stanchi li altri a muta a muta
  in Mongibello a la focina negra,
  chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,

  sì com’ el fece a la pugna di Flegra,
  e me saetti con tutta sua forza:
  non ne potrebbe aver vendetta allegra».

  Allora il duca mio parlò di forza
  tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
  «O Capaneo, in ciò che non s’ammorza

  la tua superbia, se’ tu più punito;
  nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
  sarebbe al tuo furor dolor compito».

  Poi si rivolse a me con miglior labbia,
  dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regi
  ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia

  Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
  ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti
  sono al suo petto assai debiti fregi.

  Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
  ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
  ma sempre al bosco tien li piedi stretti».

  Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
  fuor de la selva un picciol fiumicello,
  lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

  Quale del Bulicame esce ruscello
  che parton poi tra lor le peccatrici,
  tal per la rena giù sen giva quello.

  Lo fondo suo e ambo le pendici
  fatt’ era ’n pietra, e ’ margini dallato;
  per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.

  «Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
  poscia che noi intrammo per la porta
  lo cui sogliare a nessuno è negato,

  cosa non fu da li tuoi occhi scorta
  notabile com’ è ’l presente rio,
  che sovra sé tutte fiammelle ammorta».

  Queste parole fuor del duca mio;
  per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto
  di cui largito m’avëa il disio.

  «In mezzo mar siede un paese guasto»,
  diss’ elli allora, «che s’appella Creta,
  sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.

  Una montagna v’è che già fu lieta
  d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
  or è diserta come cosa vieta.

  Rëa la scelse già per cuna fida
  del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
  quando piangea, vi facea far le grida.

  Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
  che tien volte le spalle inver’ Dammiata
  e Roma guarda come süo speglio.

  La sua testa è di fin oro formata,
  e puro argento son le braccia e ’l petto,
  poi è di rame infino a la forcata;

  da indi in giuso è tutto ferro eletto,
  salvo che ’l destro piede è terra cotta;
  e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.

  Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
  d’una fessura che lagrime goccia,
  le quali, accolte, fóran quella grotta.

  Lor corso in questa valle si diroccia;
  fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
  poi sen van giù per questa stretta doccia,

  infin, là ove più non si dismonta,
  fanno Cocito; e qual sia quello stagno
  tu lo vedrai, però qui non si conta».

  E io a lui: «Se ’l presente rigagno
  si diriva così dal nostro mondo,
  perché ci appar pur a questo vivagno?».

  Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo;
  e tutto che tu sie venuto molto,
  pur a sinistra, giù calando al fondo,

  non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
  per che, se cosa n’apparisce nova,
  non de’ addur maraviglia al tuo volto».

  E io ancor: «Maestro, ove si trova
  Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
  e l’altro di’ che si fa d’esta piova».

  «In tutte tue question certo mi piaci»,
  rispuose, «ma ’l bollor de l’acqua rossa
  dovea ben solver l’una che tu faci.

  Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
  là dove vanno l’anime a lavarsi
  quando la colpa pentuta è rimossa».

  Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
  dal bosco; fa che di retro a me vegne:
  li margini fan via, che non son arsi,

  e sopra loro ogne vapor si spegne».



  Inferno • Canto XV


  Ora cen porta l’un de’ duri margini;
  e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
  sì che dal foco salva l’acqua e li argini.

  Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
  temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
  fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;

  e quali Padoan lungo la Brenta,
  per difender lor ville e lor castelli,
  anzi che Carentana il caldo senta:

  a tale imagine eran fatti quelli,
  tutto che né sì alti né sì grossi,
  qual che si fosse, lo maestro félli.

  Già eravam da la selva rimossi
  tanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era,
  perch’ io in dietro rivolto mi fossi,

  quando incontrammo d’anime una schiera
  che venian lungo l’argine, e ciascuna
  ci riguardava come suol da sera

  guardare uno altro sotto nuova luna;
  e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
  come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.

  Così adocchiato da cotal famiglia,
  fui conosciuto da un, che mi prese
  per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».

  E io, quando ’l suo braccio a me distese,
  ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
  sì che ’l viso abbrusciato non difese

  la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
  e chinando la mano a la sua faccia,
  rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».

  E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
  se Brunetto Latino un poco teco
  ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia».

  I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
  e se volete che con voi m’asseggia,
  faròl, se piace a costui che vo seco».

  «O figliuol», disse, «qual di questa greggia
  s’arresta punto, giace poi cent’ anni
  sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.

  Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
  e poi rigiugnerò la mia masnada,
  che va piangendo i suoi etterni danni».

  Io non osava scender de la strada
  per andar par di lui; ma ’l capo chino
  tenea com’ uom che reverente vada.

  El cominciò: «Qual fortuna o destino
  anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
  e chi è questi che mostra ’l cammino?».

  «Là sù di sopra, in la vita serena»,
  rispuos’ io lui, «mi smarri’ in una valle,
  avanti che l’età mia fosse piena.

  Pur ier mattina le volsi le spalle:
  questi m’apparve, tornand’ ïo in quella,
  e reducemi a ca per questo calle».

  Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
  non puoi fallire a glorïoso porto,
  se ben m’accorsi ne la vita bella;

  e s’io non fossi sì per tempo morto,
  veggendo il cielo a te così benigno,
  dato t’avrei a l’opera conforto.

  Ma quello ingrato popolo maligno
  che discese di Fiesole ab antico,
  e tiene ancor del monte e del macigno,

  ti si farà, per tuo ben far, nimico;
  ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
  si disconvien fruttare al dolce fico.

  Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
  gent’ è avara, invidiosa e superba:
  dai lor costumi fa che tu ti forbi.

  La tua fortuna tanto onor ti serba,
  che l’una parte e l’altra avranno fame
  di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

  Faccian le bestie fiesolane strame
  di lor medesme, e non tocchin la pianta,
  s’alcuna surge ancora in lor letame,

  in cui riviva la sementa santa
  di que’ Roman che vi rimaser quando
  fu fatto il nido di malizia tanta».

  «Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
  rispuos’ io lui, «voi non sareste ancora
  de l’umana natura posto in bando;

  ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
  la cara e buona imagine paterna
  di voi quando nel mondo ad ora ad ora

  m’insegnavate come l’uom s’etterna:
  e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo
  convien che ne la mia lingua si scerna.

  Ciò che narrate di mio corso scrivo,
  e serbolo a chiosar con altro testo
  a donna che saprà, s’a lei arrivo.

  Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,
  pur che mia coscïenza non mi garra,
  ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.

  Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
  però giri Fortuna la sua rota
  come le piace, e ’l villan la sua marra».

  Lo mio maestro allora in su la gota
  destra si volse in dietro e riguardommi;
  poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

  Né per tanto di men parlando vommi
  con ser Brunetto, e dimando chi sono
  li suoi compagni più noti e più sommi.

  Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono;
  de li altri fia laudabile tacerci,
  ché ’l tempo saria corto a tanto suono.

  In somma sappi che tutti fur cherci
  e litterati grandi e di gran fama,
  d’un peccato medesmo al mondo lerci.

  Priscian sen va con quella turba grama,
  e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
  s’avessi avuto di tal tigna brama,

  colui potei che dal servo de’ servi
  fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
  dove lasciò li mal protesi nervi.

  Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
  più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
  là surger nuovo fummo del sabbione.

  Gente vien con la quale esser non deggio.
  Sieti raccomandato il mio Tesoro,
  nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».

  Poi si rivolse, e parve di coloro
  che corrono a Verona il drappo verde
  per la campagna; e parve di costoro

  quelli che vince, non colui che perde.



  Inferno • Canto XVI


  Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
  de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
  simile a quel che l’arnie fanno rombo,

  quando tre ombre insieme si partiro,
  correndo, d’una torma che passava
  sotto la pioggia de l’aspro martiro.

  Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
  «Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
  esser alcun di nostra terra prava».

  Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
  ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
  Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.

  A le lor grida il mio dottor s’attese;
  volse ’l viso ver’ me, e «Or aspetta»,
  disse, «a costor si vuole esser cortese.

  E se non fosse il foco che saetta
  la natura del loco, i’ dicerei
  che meglio stesse a te che a lor la fretta».

  Ricominciar, come noi restammo, ei
  l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
  fenno una rota di sé tutti e trei.

  Qual sogliono i campion far nudi e unti,
  avvisando lor presa e lor vantaggio,
  prima che sien tra lor battuti e punti,

  così rotando, ciascuno il visaggio
  drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
  faceva ai piè continüo vïaggio.

  E «Se miseria d’esto loco sollo
  rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
  cominciò l’uno, «e ’l tinto aspetto e brollo,

  la fama nostra il tuo animo pieghi
  a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
  così sicuro per lo ’nferno freghi.

  Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
  tutto che nudo e dipelato vada,
  fu di grado maggior che tu non credi:

  nepote fu de la buona Gualdrada;
  Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
  fece col senno assai e con la spada.

  L’altro, ch’appresso me la rena trita,
  è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
  nel mondo sù dovria esser gradita.

  E io, che posto son con loro in croce,
  Iacopo Rusticucci fui, e certo
  la fiera moglie più ch’altro mi nuoce».

  S’i’ fossi stato dal foco coperto,
  gittato mi sarei tra lor di sotto,
  e credo che ’l dottor l’avria sofferto;

  ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,
  vinse paura la mia buona voglia
  che di loro abbracciar mi facea ghiotto.

  Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
  la vostra condizion dentro mi fisse,
  tanta che tardi tutta si dispoglia,

  tosto che questo mio segnor mi disse
  parole per le quali i’ mi pensai
  che qual voi siete, tal gente venisse.

  Di vostra terra sono, e sempre mai
  l’ovra di voi e li onorati nomi
  con affezion ritrassi e ascoltai.

  Lascio lo fele e vo per dolci pomi
  promessi a me per lo verace duca;
  ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi».

  «Se lungamente l’anima conduca
  le membra tue», rispuose quelli ancora,
  «e se la fama tua dopo te luca,

  cortesia e valor dì se dimora
  ne la nostra città sì come suole,
  o se del tutto se n’è gita fora;

  ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
  con noi per poco e va là coi compagni,
  assai ne cruccia con le sue parole».

  «La gente nuova e i sùbiti guadagni
  orgoglio e dismisura han generata,
  Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».

  Così gridai con la faccia levata;
  e i tre, che ciò inteser per risposta,
  guardar l’un l’altro com’ al ver si guata.

  «Se l’altre volte sì poco ti costa»,
  rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
  felice te se sì parli a tua posta!

  Però, se campi d’esti luoghi bui
  e torni a riveder le belle stelle,
  quando ti gioverà dicere “I’ fui”,

  fa che di noi a la gente favelle».
  Indi rupper la rota, e a fuggirsi
  ali sembiar le gambe loro isnelle.

  Un amen non saria possuto dirsi
  tosto così com’ e’ fuoro spariti;
  per ch’al maestro parve di partirsi.

  Io lo seguiva, e poco eravam iti,
  che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
  che per parlar saremmo a pena uditi.

  Come quel fiume c’ha proprio cammino
  prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
  da la sinistra costa d’Apennino,

  che si chiama Acquacheta suso, avante
  che si divalli giù nel basso letto,
  e a Forlì di quel nome è vacante,

  rimbomba là sovra San Benedetto
  de l’Alpe per cadere ad una scesa
  ove dovea per mille esser recetto;

  così, giù d’una ripa discoscesa,
  trovammo risonar quell’ acqua tinta,
  sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.

  Io avea una corda intorno cinta,
  e con essa pensai alcuna volta
  prender la lonza a la pelle dipinta.

  Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
  sì come ’l duca m’avea comandato,
  porsila a lui aggroppata e ravvolta.

  Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
  e alquanto di lunge da la sponda
  la gittò giuso in quell’ alto burrato.

  ‘E’ pur convien che novità risponda’,
  dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno
  che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.

  Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
  presso a color che non veggion pur l’ovra,
  ma per entro i pensier miran col senno!

  El disse a me: «Tosto verrà di sovra
  ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
  tosto convien ch’al tuo viso si scovra».

  Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
  de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
  però che sanza colpa fa vergogna;

  ma qui tacer nol posso; e per le note
  di questa comedìa, lettor, ti giuro,
  s’elle non sien di lunga grazia vòte,

  ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
  venir notando una figura in suso,
  maravigliosa ad ogne cor sicuro,

  sì come torna colui che va giuso
  talora a solver l’àncora ch’aggrappa
  o scoglio o altro che nel mare è chiuso,

  che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.



  Inferno • Canto XVII


  «Ecco la fiera con la coda aguzza,
  che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
  Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!».

  Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
  e accennolle che venisse a proda,
  vicino al fin d’i passeggiati marmi.

  E quella sozza imagine di froda
  sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
  ma ’n su la riva non trasse la coda.

  La faccia sua era faccia d’uom giusto,
  tanto benigna avea di fuor la pelle,
  e d’un serpente tutto l’altro fusto;

  due branche avea pilose insin l’ascelle;
  lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
  dipinti avea di nodi e di rotelle.

  Con più color, sommesse e sovraposte
  non fer mai drappi Tartari né Turchi,
  né fuor tai tele per Aragne imposte.

  Come talvolta stanno a riva i burchi,
  che parte sono in acqua e parte in terra,
  e come là tra li Tedeschi lurchi

  lo bivero s’assetta a far sua guerra,
  così la fiera pessima si stava
  su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.

  Nel vano tutta sua coda guizzava,
  torcendo in sù la venenosa forca
  ch’a guisa di scorpion la punta armava.

  Lo duca disse: «Or convien che si torca
  la nostra via un poco insino a quella
  bestia malvagia che colà si corca».

  Però scendemmo a la destra mammella,
  e diece passi femmo in su lo stremo,
  per ben cessar la rena e la fiammella.

  E quando noi a lei venuti semo,
  poco più oltre veggio in su la rena
  gente seder propinqua al loco scemo.

  Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena
  esperïenza d’esto giron porti»,
  mi disse, «va, e vedi la lor mena.

  Li tuoi ragionamenti sian là corti;
  mentre che torni, parlerò con questa,
  che ne conceda i suoi omeri forti».

  Così ancor su per la strema testa
  di quel settimo cerchio tutto solo
  andai, dove sedea la gente mesta.

  Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
  di qua, di là soccorrien con le mani
  quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:

  non altrimenti fan di state i cani
  or col ceffo or col piè, quando son morsi
  o da pulci o da mosche o da tafani.

  Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
  ne’ quali ’l doloroso foco casca,
  non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi

  che dal collo a ciascun pendea una tasca
  ch’avea certo colore e certo segno,
  e quindi par che ’l loro occhio si pasca.

  E com’ io riguardando tra lor vegno,
  in una borsa gialla vidi azzurro
  che d’un leone avea faccia e contegno.

  Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
  vidine un’altra come sangue rossa,
  mostrando un’oca bianca più che burro.

  E un che d’una scrofa azzurra e grossa
  segnato avea lo suo sacchetto bianco,
  mi disse: «Che fai tu in questa fossa?

  Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
  sappi che ’l mio vicin Vitalïano
  sederà qui dal mio sinistro fianco.

  Con questi Fiorentin son padoano:
  spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
  gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,

  che recherà la tasca con tre becchi!”».
  Qui distorse la bocca e di fuor trasse
  la lingua, come bue che ’l naso lecchi.

  E io, temendo no ’l più star crucciasse
  lui che di poco star m’avea ’mmonito,
  torna’mi in dietro da l’anime lasse.

  Trova’ il duca mio ch’era salito
  già su la groppa del fiero animale,
  e disse a me: «Or sie forte e ardito.

  Omai si scende per sì fatte scale;
  monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
  sì che la coda non possa far male».

  Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
  de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
  e triema tutto pur guardando ’l rezzo,

  tal divenn’ io a le parole porte;
  ma vergogna mi fé le sue minacce,
  che innanzi a buon segnor fa servo forte.

  I’ m’assettai in su quelle spallacce;
  sì volli dir, ma la voce non venne
  com’ io credetti: ‘Fa che tu m’abbracce’.

  Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
  ad altro forse, tosto ch’i’ montai
  con le braccia m’avvinse e mi sostenne;

  e disse: «Gerïon, moviti omai:
  le rote larghe, e lo scender sia poco;
  pensa la nova soma che tu hai».

  Come la navicella esce di loco
  in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
  e poi ch’al tutto si sentì a gioco,

  là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse,
  e quella tesa, come anguilla, mosse,
  e con le branche l’aere a sé raccolse.

  Maggior paura non credo che fosse
  quando Fetonte abbandonò li freni,
  per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;

  né quando Icaro misero le reni
  sentì spennar per la scaldata cera,
  gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,

  che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
  ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
  ogne veduta fuor che de la fera.

  Ella sen va notando lenta lenta;
  rota e discende, ma non me n’accorgo
  se non che al viso e di sotto mi venta.

  Io sentia già da la man destra il gorgo
  far sotto noi un orribile scroscio,
  per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.

  Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
  però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
  ond’ io tremando tutto mi raccoscio.

  E vidi poi, ché nol vedea davanti,
  lo scendere e ’l girar per li gran mali
  che s’appressavan da diversi canti.

  Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
  che sanza veder logoro o uccello
  fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,

  discende lasso onde si move isnello,
  per cento rote, e da lunge si pone
  dal suo maestro, disdegnoso e fello;

  così ne puose al fondo Gerïone
  al piè al piè de la stagliata rocca,
  e, discarcate le nostre persone,

  si dileguò come da corda cocca.



  Inferno • Canto XVIII


  Luogo è in inferno detto Malebolge,
  tutto di pietra di color ferrigno,
  come la cerchia che dintorno il volge.

  Nel dritto mezzo del campo maligno
  vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
  di cui suo loco dicerò l’ordigno.

  Quel cinghio che rimane adunque è tondo
  tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
  e ha distinto in dieci valli il fondo.

  Quale, dove per guardia de le mura
  più e più fossi cingon li castelli,
  la parte dove son rende figura,

  tale imagine quivi facean quelli;
  e come a tai fortezze da’ lor sogli
  a la ripa di fuor son ponticelli,

  così da imo de la roccia scogli
  movien che ricidien li argini e ’ fossi
  infino al pozzo che i tronca e raccogli.

  In questo luogo, de la schiena scossi
  di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta
  tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

  A la man destra vidi nova pieta,
  novo tormento e novi frustatori,
  di che la prima bolgia era repleta.

  Nel fondo erano ignudi i peccatori;
  dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
  di là con noi, ma con passi maggiori,

  come i Roman per l’essercito molto,
  l’anno del giubileo, su per lo ponte
  hanno a passar la gente modo colto,

  che da l’un lato tutti hanno la fronte
  verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
  da l’altra sponda vanno verso ’l monte.

  Di qua, di là, su per lo sasso tetro
  vidi demon cornuti con gran ferze,
  che li battien crudelmente di retro.

  Ahi come facean lor levar le berze
  a le prime percosse! già nessuno
  le seconde aspettava né le terze.

  Mentr’ io andava, li occhi miei in uno
  furo scontrati; e io sì tosto dissi:
  «Già di veder costui non son digiuno».

  Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
  e ’l dolce duca meco si ristette,
  e assentio ch’alquanto in dietro gissi.

  E quel frustato celar si credette
  bassando ’l viso; ma poco li valse,
  ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette,

  se le fazion che porti non son false,
  Venedico se’ tu Caccianemico.
  Ma che ti mena a sì pungenti salse?».

  Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;
  ma sforzami la tua chiara favella,
  che mi fa sovvenir del mondo antico.

  I’ fui colui che la Ghisolabella
  condussi a far la voglia del marchese,
  come che suoni la sconcia novella.

  E non pur io qui piango bolognese;
  anzi n’è questo loco tanto pieno,
  che tante lingue non son ora apprese

  a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno;
  e se di ciò vuoi fede o testimonio,
  rècati a mente il nostro avaro seno».

  Così parlando il percosse un demonio
  de la sua scurïada, e disse: «Via,
  ruffian! qui non son femmine da conio».

  I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
  poscia con pochi passi divenimmo
  là ’v’ uno scoglio de la ripa uscia.

  Assai leggeramente quel salimmo;
  e vòlti a destra su per la sua scheggia,
  da quelle cerchie etterne ci partimmo.

  Quando noi fummo là dov’ el vaneggia
  di sotto per dar passo a li sferzati,
  lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia

  lo viso in te di quest’ altri mal nati,
  ai quali ancor non vedesti la faccia
  però che son con noi insieme andati».

  Del vecchio ponte guardavam la traccia
  che venìa verso noi da l’altra banda,
  e che la ferza similmente scaccia.

  E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
  mi disse: «Guarda quel grande che vene,
  e per dolor non par lagrime spanda:

  quanto aspetto reale ancor ritene!
  Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
  li Colchi del monton privati féne.

  Ello passò per l’isola di Lenno
  poi che l’ardite femmine spietate
  tutti li maschi loro a morte dienno.

  Ivi con segni e con parole ornate
  Isifile ingannò, la giovinetta
  che prima avea tutte l’altre ingannate.

  Lasciolla quivi, gravida, soletta;
  tal colpa a tal martiro lui condanna;
  e anche di Medea si fa vendetta.

  Con lui sen va chi da tal parte inganna;
  e questo basti de la prima valle
  sapere e di color che ’n sé assanna».

  Già eravam là ’ve lo stretto calle
  con l’argine secondo s’incrocicchia,
  e fa di quello ad un altr’ arco spalle.

  Quindi sentimmo gente che si nicchia
  ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
  e sé medesma con le palme picchia.

  Le ripe eran grommate d’una muffa,
  per l’alito di giù che vi s’appasta,
  che con li occhi e col naso facea zuffa.

  Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
  loco a veder sanza montare al dosso
  de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.

  Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
  vidi gente attuffata in uno sterco
  che da li uman privadi parea mosso.

  E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
  vidi un col capo sì di merda lordo,
  che non parëa s’era laico o cherco.

  Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
  di riguardar più me che li altri brutti?».
  E io a lui: «Perché, se ben ricordo,

  già t’ho veduto coi capelli asciutti,
  e se’ Alessio Interminei da Lucca:
  però t’adocchio più che li altri tutti».

  Ed elli allor, battendosi la zucca:
  «Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
  ond’ io non ebbi mai la lingua stucca».

  Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
  mi disse, «il viso un poco più avante,
  sì che la faccia ben con l’occhio attinghe

  di quella sozza e scapigliata fante
  che là si graffia con l’unghie merdose,
  e or s’accoscia e ora è in piedi stante.

  Taïde è, la puttana che rispuose
  al drudo suo quando disse “Ho io grazie
  grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.

  E quinci sian le nostre viste sazie».



  Inferno • Canto XIX


  O Simon mago, o miseri seguaci
  che le cose di Dio, che di bontate
  deon essere spose, e voi rapaci

  per oro e per argento avolterate,
  or convien che per voi suoni la tromba,
  però che ne la terza bolgia state.

  Già eravamo, a la seguente tomba,
  montati de lo scoglio in quella parte
  ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.

  O somma sapïenza, quanta è l’arte
  che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
  e quanto giusto tua virtù comparte!

  Io vidi per le coste e per lo fondo
  piena la pietra livida di fóri,
  d’un largo tutti e ciascun era tondo.

  Non mi parean men ampi né maggiori
  che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
  fatti per loco d’i battezzatori;

  l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,
  rupp’ io per un che dentro v’annegava:
  e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.

  Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
  d’un peccator li piedi e de le gambe
  infino al grosso, e l’altro dentro stava.

  Le piante erano a tutti accese intrambe;
  per che sì forte guizzavan le giunte,
  che spezzate averien ritorte e strambe.

  Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
  muoversi pur su per la strema buccia,
  tal era lì dai calcagni a le punte.

  «Chi è colui, maestro, che si cruccia
  guizzando più che li altri suoi consorti»,
  diss’ io, «e cui più roggia fiamma succia?».

  Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
  là giù per quella ripa che più giace,
  da lui saprai di sé e de’ suoi torti».

  E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace:
  tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
  dal tuo volere, e sai quel che si tace».

  Allor venimmo in su l’argine quarto;
  volgemmo e discendemmo a mano stanca
  là giù nel fondo foracchiato e arto.

  Lo buon maestro ancor de la sua anca
  non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
  di quel che si piangeva con la zanca.

  «O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
  anima trista come pal commessa»,
  comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».

  Io stava come ’l frate che confessa
  lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
  richiama lui per che la morte cessa.

  Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,
  se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
  Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

  Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio
  per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
  la bella donna, e poi di farne strazio?».

  Tal mi fec’ io, quai son color che stanno,
  per non intender ciò ch’è lor risposto,
  quasi scornati, e risponder non sanno.

  Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
  “Non son colui, non son colui che credi”»;
  e io rispuosi come a me fu imposto.

  Per che lo spirto tutti storse i piedi;
  poi, sospirando e con voce di pianto,
  mi disse: «Dunque che a me richiedi?

  Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
  che tu abbi però la ripa corsa,
  sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;

  e veramente fui figliuol de l’orsa,
  cupido sì per avanzar li orsatti,
  che sù l’avere e qui me misi in borsa.

  Di sotto al capo mio son li altri tratti
  che precedetter me simoneggiando,
  per le fessure de la pietra piatti.

  Là giù cascherò io altresì quando
  verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
  allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.

  Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
  e ch’i’ son stato così sottosopra,
  ch’el non starà piantato coi piè rossi:

  ché dopo lui verrà di più laida opra,
  di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
  tal che convien che lui e me ricuopra.

  Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
  ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
  suo re, così fia lui chi Francia regge».

  Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
  ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
  «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle

  Nostro Segnore in prima da san Pietro
  ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
  Certo non chiese se non “Viemmi retro”.

  Né Pier né li altri tolsero a Matia
  oro od argento, quando fu sortito
  al loco che perdé l’anima ria.

  Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
  e guarda ben la mal tolta moneta
  ch’esser ti fece contra Carlo ardito.

  E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
  la reverenza de le somme chiavi
  che tu tenesti ne la vita lieta,

  io userei parole ancor più gravi;
  ché la vostra avarizia il mondo attrista,
  calcando i buoni e sollevando i pravi.

  Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
  quando colei che siede sopra l’acque
  puttaneggiar coi regi a lui fu vista;

  quella che con le sette teste nacque,
  e da le diece corna ebbe argomento,
  fin che virtute al suo marito piacque.

  Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
  e che altro è da voi a l’idolatre,
  se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?

  Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
  non la tua conversion, ma quella dote
  che da te prese il primo ricco patre!».

  E mentr’ io li cantava cotai note,
  o ira o coscïenza che ’l mordesse,
  forte spingava con ambo le piote.

  I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
  con sì contenta labbia sempre attese
  lo suon de le parole vere espresse.

  Però con ambo le braccia mi prese;
  e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
  rimontò per la via onde discese.

  Né si stancò d’avermi a sé distretto,
  sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
  che dal quarto al quinto argine è tragetto.

  Quivi soavemente spuose il carco,
  soave per lo scoglio sconcio ed erto
  che sarebbe a le capre duro varco.

  Indi un altro vallon mi fu scoperto.



  Inferno • Canto XX


  Di nova pena mi conven far versi
  e dar matera al ventesimo canto
  de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.

  Io era già disposto tutto quanto
  a riguardar ne lo scoperto fondo,
  che si bagnava d’angoscioso pianto;

  e vidi gente per lo vallon tondo
  venir, tacendo e lagrimando, al passo
  che fanno le letane in questo mondo.

  Come ’l viso mi scese in lor più basso,
  mirabilmente apparve esser travolto
  ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,

  ché da le reni era tornato ’l volto,
  e in dietro venir li convenia,
  perché ’l veder dinanzi era lor tolto.

  Forse per forza già di parlasia
  si travolse così alcun del tutto;
  ma io nol vidi, né credo che sia.

  Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
  di tua lezione, or pensa per te stesso
  com’ io potea tener lo viso asciutto,

  quando la nostra imagine di presso
  vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
  le natiche bagnava per lo fesso.

  Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
  del duro scoglio, sì che la mia scorta
  mi disse: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi?

  Qui vive la pietà quand’ è ben morta;
  chi è più scellerato che colui
  che al giudicio divin passion comporta?

  Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
  s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
  per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,

  Anfïarao? perché lasci la guerra?”.
  E non restò di ruinare a valle
  fino a Minòs che ciascheduno afferra.

  Mira c’ha fatto petto de le spalle;
  perché volle veder troppo davante,
  di retro guarda e fa retroso calle.

  Vedi Tiresia, che mutò sembiante
  quando di maschio femmina divenne,
  cangiandosi le membra tutte quante;

  e prima, poi, ribatter li convenne
  li duo serpenti avvolti, con la verga,
  che rïavesse le maschili penne.

  Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
  che ne’ monti di Luni, dove ronca
  lo Carrarese che di sotto alberga,

  ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
  per sua dimora; onde a guardar le stelle
  e ’l mar non li era la veduta tronca.

  E quella che ricuopre le mammelle,
  che tu non vedi, con le trecce sciolte,
  e ha di là ogne pilosa pelle,

  Manto fu, che cercò per terre molte;
  poscia si puose là dove nacqu’ io;
  onde un poco mi piace che m’ascolte.

  Poscia che ’l padre suo di vita uscìo
  e venne serva la città di Baco,
  questa gran tempo per lo mondo gio.

  Suso in Italia bella giace un laco,
  a piè de l’Alpe che serra Lamagna
  sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.

  Per mille fonti, credo, e più si bagna
  tra Garda e Val Camonica e Pennino
  de l’acqua che nel detto laco stagna.

  Loco è nel mezzo là dove ’l trentino
  pastore e quel di Brescia e ’l veronese
  segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.

  Siede Peschiera, bello e forte arnese
  da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
  ove la riva ’ntorno più discese.

  Ivi convien che tutto quanto caschi
  ciò che ’n grembo a Benaco star non può,
  e fassi fiume giù per verdi paschi.

  Tosto che l’acqua a correr mette co,
  non più Benaco, ma Mencio si chiama
  fino a Governol, dove cade in Po.

  Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
  ne la qual si distende e la ’mpaluda;
  e suol di state talor essere grama.

  Quindi passando la vergine cruda
  vide terra, nel mezzo del pantano,
  sanza coltura e d’abitanti nuda.

  Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
  ristette con suoi servi a far sue arti,
  e visse, e vi lasciò suo corpo vano.

  Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
  s’accolsero a quel loco, ch’era forte
  per lo pantan ch’avea da tutte parti.

  Fer la città sovra quell’ ossa morte;
  e per colei che ’l loco prima elesse,
  Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.

  Già fuor le genti sue dentro più spesse,
  prima che la mattia da Casalodi
  da Pinamonte inganno ricevesse.

  Però t’assenno che, se tu mai odi
  originar la mia terra altrimenti,
  la verità nulla menzogna frodi».

  E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
  mi son sì certi e prendon sì mia fede,
  che li altri mi sarien carboni spenti.

  Ma dimmi, de la gente che procede,
  se tu ne vedi alcun degno di nota;
  ché solo a ciò la mia mente rifiede».

  Allor mi disse: «Quel che da la gota
  porge la barba in su le spalle brune,
  fu—quando Grecia fu di maschi vòta,

  sì ch’a pena rimaser per le cune—
  augure, e diede ’l punto con Calcanta
  in Aulide a tagliar la prima fune.

  Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
  l’alta mia tragedìa in alcun loco:
  ben lo sai tu che la sai tutta quanta.

  Quell’ altro che ne’ fianchi è così poco,
  Michele Scotto fu, che veramente
  de le magiche frode seppe ’l gioco.

  Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
  ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
  ora vorrebbe, ma tardi si pente.

  Vedi le triste che lasciaron l’ago,
  la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
  fecer malie con erbe e con imago.

  Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
  d’amendue li emisperi e tocca l’onda
  sotto Sobilia Caino e le spine;

  e già iernotte fu la luna tonda:
  ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
  alcuna volta per la selva fonda».

  Sì mi parlava, e andavamo introcque.



  Inferno • Canto XXI


  Così di ponte in ponte, altro parlando
  che la mia comedìa cantar non cura,
  venimmo; e tenavamo ’l colmo, quando

  restammo per veder l’altra fessura
  di Malebolge e li altri pianti vani;
  e vidila mirabilmente oscura.

  Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
  bolle l’inverno la tenace pece
  a rimpalmare i legni lor non sani,

  ché navicar non ponno—in quella vece
  chi fa suo legno novo e chi ristoppa
  le coste a quel che più vïaggi fece;

  chi ribatte da proda e chi da poppa;
  altri fa remi e altri volge sarte;
  chi terzeruolo e artimon rintoppa—:

  tal, non per foco ma per divin’ arte,
  bollia là giuso una pegola spessa,
  che ’nviscava la ripa d’ogne parte.

  I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
  mai che le bolle che ’l bollor levava,
  e gonfiar tutta, e riseder compressa.

  Mentr’ io là giù fisamente mirava,
  lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,
  mi trasse a sé del loco dov’ io stava.

  Allor mi volsi come l’uom cui tarda
  di veder quel che li convien fuggire
  e cui paura sùbita sgagliarda,

  che, per veder, non indugia ’l partire:
  e vidi dietro a noi un diavol nero
  correndo su per lo scoglio venire.

  Ahi quant’ elli era ne l’aspetto fero!
  e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
  con l’ali aperte e sovra i piè leggero!

  L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
  carcava un peccator con ambo l’anche,
  e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.

  Del nostro ponte disse: «O Malebranche,
  ecco un de li anzïan di Santa Zita!
  Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche

  a quella terra, che n’è ben fornita:
  ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
  del no, per li denar, vi si fa ita».

  Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
  si volse; e mai non fu mastino sciolto
  con tanta fretta a seguitar lo furo.

  Quel s’attuffò, e tornò sù convolto;
  ma i demon che del ponte avean coperchio,
  gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto!

  qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
  Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
  non far sopra la pegola soverchio».

  Poi l’addentar con più di cento raffi,
  disser: «Coverto convien che qui balli,
  sì che, se puoi, nascosamente accaffi».

  Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
  fanno attuffare in mezzo la caldaia
  la carne con li uncin, perché non galli.

  Lo buon maestro «Acciò che non si paia
  che tu ci sia», mi disse, «giù t’acquatta
  dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;

  e per nulla offension che mi sia fatta,
  non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
  perch’ altra volta fui a tal baratta».

  Poscia passò di là dal co del ponte;
  e com’ el giunse in su la ripa sesta,
  mestier li fu d’aver sicura fronte.

  Con quel furore e con quella tempesta
  ch’escono i cani a dosso al poverello
  che di sùbito chiede ove s’arresta,

  usciron quei di sotto al ponticello,
  e volser contra lui tutt’ i runcigli;
  ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!

  Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,
  traggasi avante l’un di voi che m’oda,
  e poi d’arruncigliarmi si consigli».

  Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;
  per ch’un si mosse—e li altri stetter fermi—
  e venne a lui dicendo: «Che li approda?».

  «Credi tu, Malacoda, qui vedermi
  esser venuto», disse ’l mio maestro,
  «sicuro già da tutti vostri schermi,

  sanza voler divino e fato destro?
  Lascian’ andar, ché nel cielo è voluto
  ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro».

  Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
  ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
  e disse a li altri: «Omai non sia feruto».

  E ’l duca mio a me: «O tu che siedi
  tra li scheggion del ponte quatto quatto,
  sicuramente omai a me ti riedi».

  Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
  e i diavoli si fecer tutti avanti,
  sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;

  così vid’ ïo già temer li fanti
  ch’uscivan patteggiati di Caprona,
  veggendo sé tra nemici cotanti.

  I’ m’accostai con tutta la persona
  lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi
  da la sembianza lor ch’era non buona.

  Ei chinavan li raffi e «Vuo’ che ’l tocchi»,
  diceva l’un con l’altro, «in sul groppone?».
  E rispondien: «Sì, fa che gliel’ accocchi».

  Ma quel demonio che tenea sermone
  col duca mio, si volse tutto presto
  e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».

  Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo
  iscoglio non si può, però che giace
  tutto spezzato al fondo l’arco sesto.

  E se l’andare avante pur vi piace,
  andatevene su per questa grotta;
  presso è un altro scoglio che via face.

  Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’ otta,
  mille dugento con sessanta sei
  anni compié che qui la via fu rotta.

  Io mando verso là di questi miei
  a riguardar s’alcun se ne sciorina;
  gite con lor, che non saranno rei».

  «Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina»,
  cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
  e Barbariccia guidi la decina.

  Libicocco vegn’ oltre e Draghignazzo,
  Cirïatto sannuto e Graffiacane
  e Farfarello e Rubicante pazzo.

  Cercate ’ntorno le boglienti pane;
  costor sian salvi infino a l’altro scheggio
  che tutto intero va sovra le tane».

  «Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?»,
  diss’ io, «deh, sanza scorta andianci soli,
  se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.

  Se tu se’ sì accorto come suoli,
  non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
  e con le ciglia ne minaccian duoli?».

  Ed elli a me: «Non vo’ che tu paventi;
  lasciali digrignar pur a lor senno,
  ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti».

  Per l’argine sinistro volta dienno;
  ma prima avea ciascun la lingua stretta
  coi denti, verso lor duca, per cenno;

  ed elli avea del cul fatto trombetta.



  Inferno • Canto XXII


  Io vidi già cavalier muover campo,
  e cominciare stormo e far lor mostra,
  e talvolta partir per loro scampo;

  corridor vidi per la terra vostra,
  o Aretini, e vidi gir gualdane,
  fedir torneamenti e correr giostra;

  quando con trombe, e quando con campane,
  con tamburi e con cenni di castella,
  e con cose nostrali e con istrane;

  né già con sì diversa cennamella
  cavalier vidi muover né pedoni,
  né nave a segno di terra o di stella.

  Noi andavam con li diece demoni.
  Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
  coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

  Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
  per veder de la bolgia ogne contegno
  e de la gente ch’entro v’era incesa.

  Come i dalfini, quando fanno segno
  a’ marinar con l’arco de la schiena
  che s’argomentin di campar lor legno,

  talor così, ad alleggiar la pena,
  mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
  e nascondea in men che non balena.

  E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
  stanno i ranocchi pur col muso fuori,
  sì che celano i piedi e l’altro grosso,

  sì stavan d’ogne parte i peccatori;
  ma come s’appressava Barbariccia,
  così si ritraén sotto i bollori.

  I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
  uno aspettar così, com’ elli ’ncontra
  ch’una rana rimane e l’altra spiccia;

  e Graffiacan, che li era più di contra,
  li arruncigliò le ’mpegolate chiome
  e trassel sù, che mi parve una lontra.

  I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
  sì li notai quando fuorono eletti,
  e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.

  «O Rubicante, fa che tu li metti
  li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
  gridavan tutti insieme i maladetti.

  E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
  che tu sappi chi è lo sciagurato
  venuto a man de li avversari suoi».

  Lo duca mio li s’accostò allato;
  domandollo ond’ ei fosse, e quei rispuose:
  «I’ fui del regno di Navarra nato.

  Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
  che m’avea generato d’un ribaldo,
  distruggitor di sé e di sue cose.

  Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
  quivi mi misi a far baratteria,
  di ch’io rendo ragione in questo caldo».

  E Cirïatto, a cui di bocca uscia
  d’ogne parte una sanna come a porco,
  li fé sentir come l’una sdruscia.

  Tra male gatte era venuto ’l sorco;
  ma Barbariccia il chiuse con le braccia
  e disse: «State in là, mentr’ io lo ’nforco».

  E al maestro mio volse la faccia;
  «Domanda», disse, «ancor, se più disii
  saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia».

  Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii
  conosci tu alcun che sia latino
  sotto la pece?». E quelli: «I’ mi partii,

  poco è, da un che fu di là vicino.
  Così foss’ io ancor con lui coperto,
  ch’i’ non temerei unghia né uncino!».

  E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
  disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
  sì che, stracciando, ne portò un lacerto.

  Draghignazzo anco i volle dar di piglio
  giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
  si volse intorno intorno con mal piglio.

  Quand’ elli un poco rappaciati fuoro,
  a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
  domandò ’l duca mio sanza dimoro:

  «Chi fu colui da cui mala partita
  di’ che facesti per venire a proda?».
  Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,

  quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
  ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
  e fé sì lor, che ciascun se ne loda.

  Danar si tolse e lasciolli di piano,
  sì com’ e’ dice; e ne li altri offici anche
  barattier fu non picciol, ma sovrano.

  Usa con esso donno Michel Zanche
  di Logodoro; e a dir di Sardigna
  le lingue lor non si sentono stanche.

  Omè, vedete l’altro che digrigna;
  i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
  non s’apparecchi a grattarmi la tigna».

  E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
  che stralunava li occhi per fedire,
  disse: «Fatti ’n costà, malvagio uccello!».

  «Se voi volete vedere o udire»,
  ricominciò lo spaürato appresso,
  «Toschi o Lombardi, io ne farò venire;

  ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
  sì ch’ei non teman de le lor vendette;
  e io, seggendo in questo loco stesso,

  per un ch’io son, ne farò venir sette
  quand’ io suffolerò, com’ è nostro uso
  di fare allor che fori alcun si mette».

  Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
  crollando ’l capo, e disse: «Odi malizia
  ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!».

  Ond’ ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
  rispuose: «Malizioso son io troppo,
  quand’ io procuro a’ mia maggior trestizia».

  Alichin non si tenne e, di rintoppo
  a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
  io non ti verrò dietro di gualoppo,

  ma batterò sovra la pece l’ali.
  Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
  a veder se tu sol più di noi vali».

  O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
  ciascun da l’altra costa li occhi volse,
  quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.

  Lo Navarrese ben suo tempo colse;
  fermò le piante a terra, e in un punto
  saltò e dal proposto lor si sciolse.

  Di che ciascun di colpa fu compunto,
  ma quei più che cagion fu del difetto;
  però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».

  Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
  non potero avanzar; quelli andò sotto,
  e quei drizzò volando suso il petto:

  non altrimenti l’anitra di botto,
  quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
  ed ei ritorna sù crucciato e rotto.

  Irato Calcabrina de la buffa,
  volando dietro li tenne, invaghito
  che quei campasse per aver la zuffa;

  e come ’l barattier fu disparito,
  così volse li artigli al suo compagno,
  e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.

  Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
  ad artigliar ben lui, e amendue
  cadder nel mezzo del bogliente stagno.

  Lo caldo sghermitor sùbito fue;
  ma però di levarsi era neente,
  sì avieno inviscate l’ali sue.

  Barbariccia, con li altri suoi dolente,
  quattro ne fé volar da l’altra costa
  con tutt’ i raffi, e assai prestamente

  di qua, di là discesero a la posta;
  porser li uncini verso li ’mpaniati,
  ch’eran già cotti dentro da la crosta.

  E noi lasciammo lor così ’mpacciati.



  Inferno • Canto XXIII


  Taciti, soli, sanza compagnia
  n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
  come frati minor vanno per via.

  Vòlt’ era in su la favola d’Isopo
  lo mio pensier per la presente rissa,
  dov’ el parlò de la rana e del topo;

  ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’
  che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
  principio e fine con la mente fissa.

  E come l’un pensier de l’altro scoppia,
  così nacque di quello un altro poi,
  che la prima paura mi fé doppia.

  Io pensava così: ‘Questi per noi
  sono scherniti con danno e con beffa
  sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.

  Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
  ei ne verranno dietro più crudeli
  che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.

  Già mi sentia tutti arricciar li peli
  de la paura e stava in dietro intento,
  quand’ io dissi: «Maestro, se non celi

  te e me tostamente, i’ ho pavento
  d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
  io li ’magino sì, che già li sento».

  E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,
  l’imagine di fuor tua non trarrei
  più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.

  Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
  con simile atto e con simile faccia,
  sì che d’intrambi un sol consiglio fei.

  S’elli è che sì la destra costa giaccia,
  che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
  noi fuggirem l’imaginata caccia».

  Già non compié di tal consiglio rendere,
  ch’io li vidi venir con l’ali tese
  non molto lungi, per volerne prendere.

  Lo duca mio di sùbito mi prese,
  come la madre ch’al romore è desta
  e vede presso a sé le fiamme accese,

  che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
  avendo più di lui che di sé cura,
  tanto che solo una camiscia vesta;

  e giù dal collo de la ripa dura
  supin si diede a la pendente roccia,
  che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.

  Non corse mai sì tosto acqua per doccia
  a volger ruota di molin terragno,
  quand’ ella più verso le pale approccia,

  come ’l maestro mio per quel vivagno,
  portandosene me sovra ’l suo petto,
  come suo figlio, non come compagno.

  A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
  del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
  sovresso noi; ma non lì era sospetto:

  ché l’alta provedenza che lor volle
  porre ministri de la fossa quinta,
  poder di partirs’ indi a tutti tolle.

  Là giù trovammo una gente dipinta
  che giva intorno assai con lenti passi,
  piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

  Elli avean cappe con cappucci bassi
  dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
  che in Clugnì per li monaci fassi.

  Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
  ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
  che Federigo le mettea di paglia.

  Oh in etterno faticoso manto!
  Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
  con loro insieme, intenti al tristo pianto;

  ma per lo peso quella gente stanca
  venìa sì pian, che noi eravam nuovi
  di compagnia ad ogne mover d’anca.

  Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi
  alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
  e li occhi, sì andando, intorno movi».

  E un che ’ntese la parola tosca,
  di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
  voi che correte sì per l’aura fosca!

  Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi».
  Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta,
  e poi secondo il suo passo procedi».

  Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
  de l’animo, col viso, d’esser meco;
  ma tardavali ’l carco e la via stretta.

  Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
  mi rimiraron sanza far parola;
  poi si volsero in sé, e dicean seco:

  «Costui par vivo a l’atto de la gola;
  e s’e’ son morti, per qual privilegio
  vanno scoperti de la grave stola?».

  Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio
  de l’ipocriti tristi se’ venuto,
  dir chi tu se’ non avere in dispregio».

  E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto
  sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
  e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.

  Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
  quant’ i’ veggio dolor giù per le guance?
  e che pena è in voi che sì sfavilla?».

  E l’un rispuose a me: «Le cappe rance
  son di piombo sì grosse, che li pesi
  fan così cigolar le lor bilance.

  Frati godenti fummo, e bolognesi;
  io Catalano e questi Loderingo
  nomati, e da tua terra insieme presi

  come suole esser tolto un uom solingo,
  per conservar sua pace; e fummo tali,
  ch’ancor si pare intorno dal Gardingo».

  Io cominciai: «O frati, i vostri mali . . . »;
  ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
  un, crucifisso in terra con tre pali.

  Quando mi vide, tutto si distorse,
  soffiando ne la barba con sospiri;
  e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,

  mi disse: «Quel confitto che tu miri,
  consigliò i Farisei che convenia
  porre un uom per lo popolo a’ martìri.

  Attraversato è, nudo, ne la via,
  come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
  qualunque passa, come pesa, pria.

  E a tal modo il socero si stenta
  in questa fossa, e li altri dal concilio
  che fu per li Giudei mala sementa».

  Allor vid’ io maravigliar Virgilio
  sovra colui ch’era disteso in croce
  tanto vilmente ne l’etterno essilio.

  Poscia drizzò al frate cotal voce:
  «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
  s’a la man destra giace alcuna foce

  onde noi amendue possiamo uscirci,
  sanza costrigner de li angeli neri
  che vegnan d’esto fondo a dipartirci».

  Rispuose adunque: «Più che tu non speri
  s’appressa un sasso che da la gran cerchia
  si move e varca tutt’ i vallon feri,

  salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia;
  montar potrete su per la ruina,
  che giace in costa e nel fondo soperchia».

  Lo duca stette un poco a testa china;
  poi disse: «Mal contava la bisogna
  colui che i peccator di qua uncina».

  E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna
  del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
  ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna».

  Appresso il duca a gran passi sen gì,
  turbato un poco d’ira nel sembiante;
  ond’ io da li ’ncarcati mi parti’

  dietro a le poste de le care piante.



  Inferno • Canto XXIV


  In quella parte del giovanetto anno
  che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
  e già le notti al mezzo dì sen vanno,

  quando la brina in su la terra assempra
  l’imagine di sua sorella bianca,
  ma poco dura a la sua penna tempra,

  lo villanello a cui la roba manca,
  si leva, e guarda, e vede la campagna
  biancheggiar tutta; ond’ ei si batte l’anca,

  ritorna in casa, e qua e là si lagna,
  come ’l tapin che non sa che si faccia;
  poi riede, e la speranza ringavagna,

  veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
  in poco d’ora, e prende suo vincastro
  e fuor le pecorelle a pascer caccia.

  Così mi fece sbigottir lo mastro
  quand’ io li vidi sì turbar la fronte,
  e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;

  ché, come noi venimmo al guasto ponte,
  lo duca a me si volse con quel piglio
  dolce ch’io vidi prima a piè del monte.

  Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
  eletto seco riguardando prima
  ben la ruina, e diedemi di piglio.

  E come quei ch’adopera ed estima,
  che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
  così, levando me sù ver’ la cima

  d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
  dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa;
  ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia».

  Non era via da vestito di cappa,
  ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
  potavam sù montar di chiappa in chiappa.

  E se non fosse che da quel precinto
  più che da l’altro era la costa corta,
  non so di lui, ma io sarei ben vinto.

  Ma perché Malebolge inver’ la porta
  del bassissimo pozzo tutta pende,
  lo sito di ciascuna valle porta

  che l’una costa surge e l’altra scende;
  noi pur venimmo al fine in su la punta
  onde l’ultima pietra si scoscende.

  La lena m’era del polmon sì munta
  quand’ io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,
  anzi m’assisi ne la prima giunta.

  «Omai convien che tu così ti spoltre»,
  disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma,
  in fama non si vien, né sotto coltre;

  sanza la qual chi sua vita consuma,
  cotal vestigio in terra di sé lascia,
  qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

  E però leva sù; vinci l’ambascia
  con l’animo che vince ogne battaglia,
  se col suo grave corpo non s’accascia.

  Più lunga scala convien che si saglia;
  non basta da costoro esser partito.
  Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia».

  Leva’mi allor, mostrandomi fornito
  meglio di lena ch’i’ non mi sentia,
  e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito».

  Su per lo scoglio prendemmo la via,
  ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
  ed erto più assai che quel di pria.

  Parlando andava per non parer fievole;
  onde una voce uscì de l’altro fosso,
  a parole formar disconvenevole.

  Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso
  fossi de l’arco già che varca quivi;
  ma chi parlava ad ire parea mosso.

  Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
  non poteano ire al fondo per lo scuro;
  per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi

  da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;
  ché, com’ i’ odo quinci e non intendo,
  così giù veggio e neente affiguro».

  «Altra risposta», disse, «non ti rendo
  se non lo far; ché la dimanda onesta
  si de’ seguir con l’opera tacendo».

  Noi discendemmo il ponte da la testa
  dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
  e poi mi fu la bolgia manifesta:

  e vidivi entro terribile stipa
  di serpenti, e di sì diversa mena
  che la memoria il sangue ancor mi scipa.

  Più non si vanti Libia con sua rena;
  ché se chelidri, iaculi e faree
  produce, e cencri con anfisibena,

  né tante pestilenzie né sì ree
  mostrò già mai con tutta l’Etïopia
  né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.

  Tra questa cruda e tristissima copia
  corrëan genti nude e spaventate,
  sanza sperar pertugio o elitropia:

  con serpi le man dietro avean legate;
  quelle ficcavan per le ren la coda
  e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

  Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
  s’avventò un serpente che ’l trafisse
  là dove ’l collo a le spalle s’annoda.

  Né O sì tosto mai né I si scrisse,
  com’ el s’accese e arse, e cener tutto
  convenne che cascando divenisse;

  e poi che fu a terra sì distrutto,
  la polver si raccolse per sé stessa
  e ’n quel medesmo ritornò di butto.

  Così per li gran savi si confessa
  che la fenice more e poi rinasce,
  quando al cinquecentesimo anno appressa;

  erba né biado in sua vita non pasce,
  ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
  e nardo e mirra son l’ultime fasce.

  E qual è quel che cade, e non sa como,
  per forza di demon ch’a terra il tira,
  o d’altra oppilazion che lega l’omo,

  quando si leva, che ’ntorno si mira
  tutto smarrito de la grande angoscia
  ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:

  tal era ’l peccator levato poscia.
  Oh potenza di Dio, quant’ è severa,
  che cotai colpi per vendetta croscia!

  Lo duca il domandò poi chi ello era;
  per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
  poco tempo è, in questa gola fiera.

  Vita bestial mi piacque e non umana,
  sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
  bestia, e Pistoia mi fu degna tana».

  E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
  e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
  ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci».

  E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
  ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
  e di trista vergogna si dipinse;

  poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto
  ne la miseria dove tu mi vedi,
  che quando fui de l’altra vita tolto.

  Io non posso negar quel che tu chiedi;
  in giù son messo tanto perch’ io fui
  ladro a la sagrestia d’i belli arredi,

  e falsamente già fu apposto altrui.
  Ma perché di tal vista tu non godi,
  se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,

  apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
  Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
  poi Fiorenza rinova gente e modi.

  Tragge Marte vapor di Val di Magra
  ch’è di torbidi nuvoli involuto;
  e con tempesta impetüosa e agra

  sovra Campo Picen fia combattuto;
  ond’ ei repente spezzerà la nebbia,
  sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.

  E detto l’ho perché doler ti debbia!».



  Inferno • Canto XXV


  Al fine de le sue parole il ladro
  le mani alzò con amendue le fiche,
  gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».

  Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
  perch’ una li s’avvolse allora al collo,
  come dicesse ‘Non vo’ che più diche’;

  e un’altra a le braccia, e rilegollo,
  ribadendo sé stessa sì dinanzi,
  che non potea con esse dare un crollo.

  Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
  d’incenerarti sì che più non duri,
  poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?

  Per tutt’ i cerchi de lo ’nferno scuri
  non vidi spirto in Dio tanto superbo,
  non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.

  El si fuggì che non parlò più verbo;
  e io vidi un centauro pien di rabbia
  venir chiamando: «Ov’ è, ov’ è l’acerbo?».

  Maremma non cred’ io che tante n’abbia,
  quante bisce elli avea su per la groppa
  infin ove comincia nostra labbia.

  Sovra le spalle, dietro da la coppa,
  con l’ali aperte li giacea un draco;
  e quello affuoca qualunque s’intoppa.

  Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
  che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
  di sangue fece spesse volte laco.

  Non va co’ suoi fratei per un cammino,
  per lo furto che frodolente fece
  del grande armento ch’elli ebbe a vicino;

  onde cessar le sue opere biece
  sotto la mazza d’Ercule, che forse
  gliene diè cento, e non sentì le diece».

  Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
  e tre spiriti venner sotto noi,
  de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,

  se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
  per che nostra novella si ristette,
  e intendemmo pur ad essi poi.

  Io non li conoscea; ma ei seguette,
  come suol seguitar per alcun caso,
  che l’un nomar un altro convenette,

  dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
  per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
  mi puosi ’l dito su dal mento al naso.

  Se tu se’ or, lettore, a creder lento
  ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
  ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.

  Com’ io tenea levate in lor le ciglia,
  e un serpente con sei piè si lancia
  dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.

  Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
  e con li anterïor le braccia prese;
  poi li addentò e l’una e l’altra guancia;

  li diretani a le cosce distese,
  e miseli la coda tra ’mbedue
  e dietro per le ren sù la ritese.

  Ellera abbarbicata mai non fue
  ad alber sì, come l’orribil fiera
  per l’altrui membra avviticchiò le sue.

  Poi s’appiccar, come di calda cera
  fossero stati, e mischiar lor colore,
  né l’un né l’altro già parea quel ch’era:

  come procede innanzi da l’ardore,
  per lo papiro suso, un color bruno
  che non è nero ancora e ’l bianco more.

  Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
  gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
  Vedi che già non se’ né due né uno».

  Già eran li due capi un divenuti,
  quando n’apparver due figure miste
  in una faccia, ov’ eran due perduti.

  Fersi le braccia due di quattro liste;
  le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
  divenner membra che non fuor mai viste.

  Ogne primaio aspetto ivi era casso:
  due e nessun l’imagine perversa
  parea; e tal sen gio con lento passo.

  Come ’l ramarro sotto la gran fersa
  dei dì canicular, cangiando sepe,
  folgore par se la via attraversa,

  sì pareva, venendo verso l’epe
  de li altri due, un serpentello acceso,
  livido e nero come gran di pepe;

  e quella parte onde prima è preso
  nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
  poi cadde giuso innanzi lui disteso.

  Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
  anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
  pur come sonno o febbre l’assalisse.

  Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
  l’un per la piaga e l’altro per la bocca
  fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.

  Taccia Lucano ormai là dov’ e’ tocca
  del misero Sabello e di Nasidio,
  e attenda a udir quel ch’or si scocca.

  Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
  ché se quello in serpente e quella in fonte
  converte poetando, io non lo ’nvidio;

  ché due nature mai a fronte a fronte
  non trasmutò sì ch’amendue le forme
  a cambiar lor matera fosser pronte.

  Insieme si rispuosero a tai norme,
  che ’l serpente la coda in forca fesse,
  e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.

  Le gambe con le cosce seco stesse
  s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
  non facea segno alcun che si paresse.

  Togliea la coda fessa la figura
  che si perdeva là, e la sua pelle
  si facea molle, e quella di là dura.

  Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
  e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
  tanto allungar quanto accorciavan quelle.

  Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
  diventaron lo membro che l’uom cela,
  e ’l misero del suo n’avea due porti.

  Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
  di color novo, e genera ’l pel suso
  per l’una parte e da l’altra il dipela,

  l’un si levò e l’altro cadde giuso,
  non torcendo però le lucerne empie,
  sotto le quai ciascun cambiava muso.

  Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
  e di troppa matera ch’in là venne
  uscir li orecchi de le gote scempie;

  ciò che non corse in dietro e si ritenne
  di quel soverchio, fé naso a la faccia
  e le labbra ingrossò quanto convenne.

  Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
  e li orecchi ritira per la testa
  come face le corna la lumaccia;

  e la lingua, ch’avëa unita e presta
  prima a parlar, si fende, e la forcuta
  ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.

  L’anima ch’era fiera divenuta,
  suffolando si fugge per la valle,
  e l’altro dietro a lui parlando sputa.

  Poscia li volse le novelle spalle,
  e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
  com’ ho fatt’ io, carpon per questo calle».

  Così vid’ io la settima zavorra
  mutare e trasmutare; e qui mi scusi
  la novità se fior la penna abborra.

  E avvegna che li occhi miei confusi
  fossero alquanto e l’animo smagato,
  non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

  ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
  ed era quel che sol, di tre compagni
  che venner prima, non era mutato;

  l’altr’ era quel che tu, Gaville, piagni.



  Inferno • Canto XXVI


  Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
  che per mare e per terra batti l’ali,
  e per lo ’nferno tuo nome si spande!

  Tra li ladron trovai cinque cotali
  tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
  e tu in grande orranza non ne sali.

  Ma se presso al mattin del ver si sogna,
  tu sentirai, di qua da picciol tempo,
  di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

  E se già fosse, non saria per tempo.
  Così foss’ ei, da che pur esser dee!
  ché più mi graverà, com’ più m’attempo.

  Noi ci partimmo, e su per le scalee
  che n’avea fatto iborni a scender pria,
  rimontò ’l duca mio e trasse mee;

  e proseguendo la solinga via,
  tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
  lo piè sanza la man non si spedia.

  Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
  quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
  e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,

  perché non corra che virtù nol guidi;
  sì che, se stella bona o miglior cosa
  m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

  Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
  nel tempo che colui che ’l mondo schiara
  la faccia sua a noi tien meno ascosa,

  come la mosca cede a la zanzara,
  vede lucciole giù per la vallea,
  forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:

  di tante fiamme tutta risplendea
  l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi
  tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.

  E qual colui che si vengiò con li orsi
  vide ’l carro d’Elia al dipartire,
  quando i cavalli al cielo erti levorsi,

  che nol potea sì con li occhi seguire,
  ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
  sì come nuvoletta, in sù salire:

  tal si move ciascuna per la gola
  del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
  e ogne fiamma un peccatore invola.

  Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
  sì che s’io non avessi un ronchion preso,
  caduto sarei giù sanz’ esser urto.

  E ’l duca che mi vide tanto atteso,
  disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
  catun si fascia di quel ch’elli è inceso».

  «Maestro mio», rispuos’ io, «per udirti
  son io più certo; ma già m’era avviso
  che così fosse, e già voleva dirti:

  chi è ’n quel foco che vien sì diviso
  di sopra, che par surger de la pira
  dov’ Eteòcle col fratel fu miso?».

  Rispuose a me: «Là dentro si martira
  Ulisse e Dïomede, e così insieme
  a la vendetta vanno come a l’ira;

  e dentro da la lor fiamma si geme
  l’agguato del caval che fé la porta
  onde uscì de’ Romani il gentil seme.

  Piangevisi entro l’arte per che, morta,
  Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
  e del Palladio pena vi si porta».

  «S’ei posson dentro da quelle faville
  parlar», diss’ io, «maestro, assai ten priego
  e ripriego, che ’l priego vaglia mille,

  che non mi facci de l’attender niego
  fin che la fiamma cornuta qua vegna;
  vedi che del disio ver’ lei mi piego!».

  Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
  di molta loda, e io però l’accetto;
  ma fa che la tua lingua si sostegna.

  Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
  ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
  perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto».

  Poi che la fiamma fu venuta quivi
  dove parve al mio duca tempo e loco,
  in questa forma lui parlare audivi:

  «O voi che siete due dentro ad un foco,
  s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
  s’io meritai di voi assai o poco

  quando nel mondo li alti versi scrissi,
  non vi movete; ma l’un di voi dica
  dove, per lui, perduto a morir gissi».

  Lo maggior corno de la fiamma antica
  cominciò a crollarsi mormorando,
  pur come quella cui vento affatica;

  indi la cima qua e là menando,
  come fosse la lingua che parlasse,
  gittò voce di fuori e disse: «Quando

  mi diparti’ da Circe, che sottrasse
  me più d’un anno là presso a Gaeta,
  prima che sì Enëa la nomasse,

  né dolcezza di figlio, né la pieta
  del vecchio padre, né ’l debito amore
  lo qual dovea Penelopè far lieta,

  vincer potero dentro a me l’ardore
  ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
  e de li vizi umani e del valore;

  ma misi me per l’alto mare aperto
  sol con un legno e con quella compagna
  picciola da la qual non fui diserto.

  L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
  fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
  e l’altre che quel mare intorno bagna.

  Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
  quando venimmo a quella foce stretta
  dov’ Ercule segnò li suoi riguardi

  acciò che l’uom più oltre non si metta;
  da la man destra mi lasciai Sibilia,
  da l’altra già m’avea lasciata Setta.

  “O frati”, dissi “che per cento milia
  perigli siete giunti a l’occidente,
  a questa tanto picciola vigilia

  d’i nostri sensi ch’è del rimanente
  non vogliate negar l’esperïenza,
  di retro al sol, del mondo sanza gente.

  Considerate la vostra semenza:
  fatti non foste a viver come bruti,
  ma per seguir virtute e canoscenza”.

  Li miei compagni fec’ io sì aguti,
  con questa orazion picciola, al cammino,
  che a pena poscia li avrei ritenuti;

  e volta nostra poppa nel mattino,
  de’ remi facemmo ali al folle volo,
  sempre acquistando dal lato mancino.

  Tutte le stelle già de l’altro polo
  vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
  che non surgëa fuor del marin suolo.

  Cinque volte racceso e tante casso
  lo lume era di sotto da la luna,
  poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

  quando n’apparve una montagna, bruna
  per la distanza, e parvemi alta tanto
  quanto veduta non avëa alcuna.

  Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
  ché de la nova terra un turbo nacque
  e percosse del legno il primo canto.

  Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
  a la quarta levar la poppa in suso
  e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,

  infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».



  Inferno • Canto XXVII


  Già era dritta in sù la fiamma e queta
  per non dir più, e già da noi sen gia
  con la licenza del dolce poeta,

  quand’ un’altra, che dietro a lei venìa,
  ne fece volger li occhi a la sua cima
  per un confuso suon che fuor n’uscia.

  Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
  col pianto di colui, e ciò fu dritto,
  che l’avea temperato con sua lima,

  mugghiava con la voce de l’afflitto,
  sì che, con tutto che fosse di rame,
  pur el pareva dal dolor trafitto;

  così, per non aver via né forame
  dal principio nel foco, in suo linguaggio
  si convertïan le parole grame.

  Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
  su per la punta, dandole quel guizzo
  che dato avea la lingua in lor passaggio,

  udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo
  la voce e che parlavi mo lombardo,
  dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,

  perch’ io sia giunto forse alquanto tardo,
  non t’incresca restare a parlar meco;
  vedi che non incresce a me, e ardo!

  Se tu pur mo in questo mondo cieco
  caduto se’ di quella dolce terra
  latina ond’ io mia colpa tutta reco,

  dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
  ch’io fui d’i monti là intra Orbino
  e ’l giogo di che Tever si diserra».

  Io era in giuso ancora attento e chino,
  quando il mio duca mi tentò di costa,
  dicendo: «Parla tu; questi è latino».

  E io, ch’avea già pronta la risposta,
  sanza indugio a parlare incominciai:
  «O anima che se’ là giù nascosta,

  Romagna tua non è, e non fu mai,
  sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
  ma ’n palese nessuna or vi lasciai.

  Ravenna sta come stata è molt’ anni:
  l’aguglia da Polenta la si cova,
  sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.

  La terra che fé già la lunga prova
  e di Franceschi sanguinoso mucchio,
  sotto le branche verdi si ritrova.

  E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
  che fecer di Montagna il mal governo,
  là dove soglion fan d’i denti succhio.

  Le città di Lamone e di Santerno
  conduce il lïoncel dal nido bianco,
  che muta parte da la state al verno.

  E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
  così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte,
  tra tirannia si vive e stato franco.

  Ora chi se’, ti priego che ne conte;
  non esser duro più ch’altri sia stato,
  se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte».

  Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato
  al modo suo, l’aguta punta mosse
  di qua, di là, e poi diè cotal fiato:

  «S’i’ credesse che mia risposta fosse
  a persona che mai tornasse al mondo,
  questa fiamma staria sanza più scosse;

  ma però che già mai di questo fondo
  non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
  sanza tema d’infamia ti rispondo.

  Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
  credendomi, sì cinto, fare ammenda;
  e certo il creder mio venìa intero,

  se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
  che mi rimise ne le prime colpe;
  e come e quare, voglio che m’intenda.

  Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
  che la madre mi diè, l’opere mie
  non furon leonine, ma di volpe.

  Li accorgimenti e le coperte vie
  io seppi tutte, e sì menai lor arte,
  ch’al fine de la terra il suono uscie.

  Quando mi vidi giunto in quella parte
  di mia etade ove ciascun dovrebbe
  calar le vele e raccoglier le sarte,

  ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
  e pentuto e confesso mi rendei;
  ahi miser lasso! e giovato sarebbe.

  Lo principe d’i novi Farisei,
  avendo guerra presso a Laterano,
  e non con Saracin né con Giudei,

  ché ciascun suo nimico era cristiano,
  e nessun era stato a vincer Acri
  né mercatante in terra di Soldano,

  né sommo officio né ordini sacri
  guardò in sé, né in me quel capestro
  che solea fare i suoi cinti più macri.

  Ma come Costantin chiese Silvestro
  d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
  così mi chiese questi per maestro

  a guerir de la sua superba febbre;
  domandommi consiglio, e io tacetti
  perché le sue parole parver ebbre.

  E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
  finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
  sì come Penestrino in terra getti.

  Lo ciel poss’ io serrare e diserrare,
  come tu sai; però son due le chiavi
  che ’l mio antecessor non ebbe care”.

  Allor mi pinser li argomenti gravi
  là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
  e dissi: “Padre, da che tu mi lavi

  di quel peccato ov’ io mo cader deggio,
  lunga promessa con l’attender corto
  ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.

  Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
  per me; ma un d’i neri cherubini
  li disse: “Non portar: non mi far torto.

  Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
  perché diede ’l consiglio frodolente,
  dal quale in qua stato li sono a’ crini;

  ch’assolver non si può chi non si pente,
  né pentere e volere insieme puossi
  per la contradizion che nol consente”.

  Oh me dolente! come mi riscossi
  quando mi prese dicendomi: “Forse
  tu non pensavi ch’io löico fossi!”.

  A Minòs mi portò; e quelli attorse
  otto volte la coda al dosso duro;
  e poi che per gran rabbia la si morse,

  disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;
  per ch’io là dove vedi son perduto,
  e sì vestito, andando, mi rancuro».

  Quand’ elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
  la fiamma dolorando si partio,
  torcendo e dibattendo ’l corno aguto.

  Noi passamm’ oltre, e io e ’l duca mio,
  su per lo scoglio infino in su l’altr’ arco
  che cuopre ’l fosso in che si paga il fio

  a quei che scommettendo acquistan carco.



  Inferno • Canto XXVIII


  Chi poria mai pur con parole sciolte
  dicer del sangue e de le piaghe a pieno
  ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?

  Ogne lingua per certo verria meno
  per lo nostro sermone e per la mente
  c’hanno a tanto comprender poco seno.

  S’el s’aunasse ancor tutta la gente
  che già, in su la fortunata terra
  di Puglia, fu del suo sangue dolente

  per li Troiani e per la lunga guerra
  che de l’anella fé sì alte spoglie,
  come Livïo scrive, che non erra,

  con quella che sentio di colpi doglie
  per contastare a Ruberto Guiscardo;
  e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie

  a Ceperan, là dove fu bugiardo
  ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
  dove sanz’ arme vinse il vecchio Alardo;

  e qual forato suo membro e qual mozzo
  mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
  il modo de la nona bolgia sozzo.

  Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
  com’ io vidi un, così non si pertugia,
  rotto dal mento infin dove si trulla.

  Tra le gambe pendevan le minugia;
  la corata pareva e ’l tristo sacco
  che merda fa di quel che si trangugia.

  Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
  guardommi e con le man s’aperse il petto,
  dicendo: «Or vedi com’ io mi dilacco!

  vedi come storpiato è Mäometto!
  Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
  fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

  E tutti li altri che tu vedi qui,
  seminator di scandalo e di scisma
  fuor vivi, e però son fessi così.

  Un diavolo è qua dietro che n’accisma
  sì crudelmente, al taglio de la spada
  rimettendo ciascun di questa risma,

  quand’ avem volta la dolente strada;
  però che le ferite son richiuse
  prima ch’altri dinanzi li rivada.

  Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,
  forse per indugiar d’ire a la pena
  ch’è giudicata in su le tue accuse?».

  «Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena»,
  rispuose ’l mio maestro, «a tormentarlo;
  ma per dar lui esperïenza piena,

  a me, che morto son, convien menarlo
  per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
  e quest’ è ver così com’ io ti parlo».

  Più fuor di cento che, quando l’udiro,
  s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
  per maraviglia, oblïando il martiro.

  «Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
  tu che forse vedra’ il sole in breve,
  s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,

  sì di vivanda, che stretta di neve
  non rechi la vittoria al Noarese,
  ch’altrimenti acquistar non saria leve».

  Poi che l’un piè per girsene sospese,
  Mäometto mi disse esta parola;
  indi a partirsi in terra lo distese.

  Un altro, che forata avea la gola
  e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,
  e non avea mai ch’una orecchia sola,

  ristato a riguardar per maraviglia
  con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
  ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,

  e disse: «O tu cui colpa non condanna
  e cu’ io vidi su in terra latina,
  se troppa simiglianza non m’inganna,

  rimembriti di Pier da Medicina,
  se mai torni a veder lo dolce piano
  che da Vercelli a Marcabò dichina.

  E fa saper a’ due miglior da Fano,
  a messer Guido e anco ad Angiolello,
  che, se l’antiveder qui non è vano,

  gittati saran fuor di lor vasello
  e mazzerati presso a la Cattolica
  per tradimento d’un tiranno fello.

  Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
  non vide mai sì gran fallo Nettuno,
  non da pirate, non da gente argolica.

  Quel traditor che vede pur con l’uno,
  e tien la terra che tale qui meco
  vorrebbe di vedere esser digiuno,

  farà venirli a parlamento seco;
  poi farà sì, ch’al vento di Focara
  non sarà lor mestier voto né preco».

  E io a lui: «Dimostrami e dichiara,
  se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
  chi è colui da la veduta amara».

  Allor puose la mano a la mascella
  d’un suo compagno e la bocca li aperse,
  gridando: «Questi è desso, e non favella.

  Questi, scacciato, il dubitar sommerse
  in Cesare, affermando che ’l fornito
  sempre con danno l’attender sofferse».

  Oh quanto mi pareva sbigottito
  con la lingua tagliata ne la strozza
  Curïo, ch’a dir fu così ardito!

  E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
  levando i moncherin per l’aura fosca,
  sì che ’l sangue facea la faccia sozza,

  gridò: «Ricordera’ti anche del Mosca,
  che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”,
  che fu mal seme per la gente tosca».

  E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
  per ch’elli, accumulando duol con duolo,
  sen gio come persona trista e matta.

  Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
  e vidi cosa ch’io avrei paura,
  sanza più prova, di contarla solo;

  se non che coscïenza m’assicura,
  la buona compagnia che l’uom francheggia
  sotto l’asbergo del sentirsi pura.

  Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
  un busto sanza capo andar sì come
  andavan li altri de la trista greggia;

  e ’l capo tronco tenea per le chiome,
  pesol con mano a guisa di lanterna:
  e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».

  Di sé facea a sé stesso lucerna,
  ed eran due in uno e uno in due;
  com’ esser può, quei sa che sì governa.

  Quando diritto al piè del ponte fue,
  levò ’l braccio alto con tutta la testa
  per appressarne le parole sue,

  che fuoro: «Or vedi la pena molesta,
  tu che, spirando, vai veggendo i morti:
  vedi s’alcuna è grande come questa.

  E perché tu di me novella porti,
  sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
  che diedi al re giovane i ma’ conforti.

  Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
  Achitofèl non fé più d’Absalone
  e di Davìd coi malvagi punzelli.

  Perch’ io parti’ così giunte persone,
  partito porto il mio cerebro, lasso!,
  dal suo principio ch’è in questo troncone.

  Così s’osserva in me lo contrapasso».



  Inferno • Canto XXIX


  La molta gente e le diverse piaghe
  avean le luci mie sì inebrïate,
  che de lo stare a piangere eran vaghe.

  Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
  perché la vista tua pur si soffolge
  là giù tra l’ombre triste smozzicate?

  Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
  pensa, se tu annoverar le credi,
  che miglia ventidue la valle volge.

  E già la luna è sotto i nostri piedi;
  lo tempo è poco omai che n’è concesso,
  e altro è da veder che tu non vedi».

  «Se tu avessi», rispuos’ io appresso,
  «atteso a la cagion per ch’io guardava,
  forse m’avresti ancor lo star dimesso».

  Parte sen giva, e io retro li andava,
  lo duca, già faccendo la risposta,
  e soggiugnendo: «Dentro a quella cava

  dov’ io tenea or li occhi sì a posta,
  credo ch’un spirto del mio sangue pianga
  la colpa che là giù cotanto costa».

  Allor disse ’l maestro: «Non si franga
  lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello.
  Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;

  ch’io vidi lui a piè del ponticello
  mostrarti e minacciar forte col dito,
  e udi’ ’l nominar Geri del Bello.

  Tu eri allor sì del tutto impedito
  sovra colui che già tenne Altaforte,
  che non guardasti in là, sì fu partito».

  «O duca mio, la vïolenta morte
  che non li è vendicata ancor», diss’ io,
  «per alcun che de l’onta sia consorte,

  fece lui disdegnoso; ond’ el sen gio
  sanza parlarmi, sì com’ ïo estimo:
  e in ciò m’ha el fatto a sé più pio».

  Così parlammo infino al loco primo
  che de lo scoglio l’altra valle mostra,
  se più lume vi fosse, tutto ad imo.

  Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
  di Malebolge, sì che i suoi conversi
  potean parere a la veduta nostra,

  lamenti saettaron me diversi,
  che di pietà ferrati avean li strali;
  ond’ io li orecchi con le man copersi.

  Qual dolor fora, se de li spedali
  di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
  e di Maremma e di Sardigna i mali

  fossero in una fossa tutti ’nsembre,
  tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
  qual suol venir de le marcite membre.

  Noi discendemmo in su l’ultima riva
  del lungo scoglio, pur da man sinistra;
  e allor fu la mia vista più viva

  giù ver’ lo fondo, la ’ve la ministra
  de l’alto Sire infallibil giustizia
  punisce i falsador che qui registra.

  Non credo ch’a veder maggior tristizia
  fosse in Egina il popol tutto infermo,
  quando fu l’aere sì pien di malizia,

  che li animali, infino al picciol vermo,
  cascaron tutti, e poi le genti antiche,
  secondo che i poeti hanno per fermo,

  si ristorar di seme di formiche;
  ch’era a veder per quella oscura valle
  languir li spirti per diverse biche.

  Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
  l’un de l’altro giacea, e qual carpone
  si trasmutava per lo tristo calle.

  Passo passo andavam sanza sermone,
  guardando e ascoltando li ammalati,
  che non potean levar le lor persone.

  Io vidi due sedere a sé poggiati,
  com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
  dal capo al piè di schianze macolati;

  e non vidi già mai menare stregghia
  a ragazzo aspettato dal segnorso,
  né a colui che mal volontier vegghia,

  come ciascun menava spesso il morso
  de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
  del pizzicor, che non ha più soccorso;

  e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
  come coltel di scardova le scaglie
  o d’altro pesce che più larghe l’abbia.

  «O tu che con le dita ti dismaglie»,
  cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
  «e che fai d’esse talvolta tanaglie,

  dinne s’alcun Latino è tra costoro
  che son quinc’ entro, se l’unghia ti basti
  etternalmente a cotesto lavoro».

  «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
  qui ambedue», rispuose l’un piangendo;
  «ma tu chi se’ che di noi dimandasti?».

  E ’l duca disse: «I’ son un che discendo
  con questo vivo giù di balzo in balzo,
  e di mostrar lo ’nferno a lui intendo».

  Allor si ruppe lo comun rincalzo;
  e tremando ciascuno a me si volse
  con altri che l’udiron di rimbalzo.

  Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
  dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
  e io incominciai, poscia ch’ei volse:

  «Se la vostra memoria non s’imboli
  nel primo mondo da l’umane menti,
  ma s’ella viva sotto molti soli,

  ditemi chi voi siete e di che genti;
  la vostra sconcia e fastidiosa pena
  di palesarvi a me non vi spaventi».

  «Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena»,
  rispuose l’un, «mi fé mettere al foco;
  ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.

  Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
  “I’ mi saprei levar per l’aere a volo”;
  e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,

  volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
  perch’ io nol feci Dedalo, mi fece
  ardere a tal che l’avea per figliuolo.

  Ma ne l’ultima bolgia de le diece
  me per l’alchìmia che nel mondo usai
  dannò Minòs, a cui fallar non lece».

  E io dissi al poeta: «Or fu già mai
  gente sì vana come la sanese?
  Certo non la francesca sì d’assai!».

  Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
  rispuose al detto mio: «Tra’mene Stricca
  che seppe far le temperate spese,

  e Niccolò che la costuma ricca
  del garofano prima discoverse
  ne l’orto dove tal seme s’appicca;

  e tra’ne la brigata in che disperse
  Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
  e l’Abbagliato suo senno proferse.

  Ma perché sappi chi sì ti seconda
  contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
  sì che la faccia mia ben ti risponda:

  sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
  che falsai li metalli con l’alchìmia;
  e te dee ricordar, se ben t’adocchio,

  com’ io fui di natura buona scimia».



  Inferno • Canto XXX


  Nel tempo che Iunone era crucciata
  per Semelè contra ’l sangue tebano,
  come mostrò una e altra fïata,

  Atamante divenne tanto insano,
  che veggendo la moglie con due figli
  andar carcata da ciascuna mano,

  gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli
  la leonessa e ’ leoncini al varco»;
  e poi distese i dispietati artigli,

  prendendo l’un ch’avea nome Learco,
  e rotollo e percosselo ad un sasso;
  e quella s’annegò con l’altro carco.

  E quando la fortuna volse in basso
  l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
  sì che ’nsieme col regno il re fu casso,

  Ecuba trista, misera e cattiva,
  poscia che vide Polissena morta,
  e del suo Polidoro in su la riva

  del mar si fu la dolorosa accorta,
  forsennata latrò sì come cane;
  tanto il dolor le fé la mente torta.

  Ma né di Tebe furie né troiane
  si vider mäi in alcun tanto crude,
  non punger bestie, nonché membra umane,

  quant’ io vidi in due ombre smorte e nude,
  che mordendo correvan di quel modo
  che ’l porco quando del porcil si schiude.

  L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
  del collo l’assannò, sì che, tirando,
  grattar li fece il ventre al fondo sodo.

  E l’Aretin che rimase, tremando
  mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
  e va rabbioso altrui così conciando».

  «Oh», diss’ io lui, «se l’altro non ti ficchi
  li denti a dosso, non ti sia fatica
  a dir chi è, pria che di qui si spicchi».

  Ed elli a me: «Quell’ è l’anima antica
  di Mirra scellerata, che divenne
  al padre, fuor del dritto amore, amica.

  Questa a peccar con esso così venne,
  falsificando sé in altrui forma,
  come l’altro che là sen va, sostenne,

  per guadagnar la donna de la torma,
  falsificare in sé Buoso Donati,
  testando e dando al testamento norma».

  E poi che i due rabbiosi fuor passati
  sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
  rivolsilo a guardar li altri mal nati.

  Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
  pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
  tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.

  La grave idropesì, che sì dispaia
  le membra con l’omor che mal converte,
  che ’l viso non risponde a la ventraia,

  faceva lui tener le labbra aperte
  come l’etico fa, che per la sete
  l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.

  «O voi che sanz’ alcuna pena siete,
  e non so io perché, nel mondo gramo»,
  diss’ elli a noi, «guardate e attendete

  a la miseria del maestro Adamo;
  io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
  e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.

  Li ruscelletti che d’i verdi colli
  del Casentin discendon giuso in Arno,
  faccendo i lor canali freddi e molli,

  sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
  ché l’imagine lor vie più m’asciuga
  che ’l male ond’ io nel volto mi discarno.

  La rigida giustizia che mi fruga
  tragge cagion del loco ov’ io peccai
  a metter più li miei sospiri in fuga.

  Ivi è Romena, là dov’ io falsai
  la lega suggellata del Batista;
  per ch’io il corpo sù arso lasciai.

  Ma s’io vedessi qui l’anima trista
  di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
  per Fonte Branda non darei la vista.

  Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
  ombre che vanno intorno dicon vero;
  ma che mi val, c’ho le membra legate?

  S’io fossi pur di tanto ancor leggero
  ch’i’ potessi in cent’ anni andare un’oncia,
  io sarei messo già per lo sentiero,

  cercando lui tra questa gente sconcia,
  con tutto ch’ella volge undici miglia,
  e men d’un mezzo di traverso non ci ha.

  Io son per lor tra sì fatta famiglia;
  e’ m’indussero a batter li fiorini
  ch’avevan tre carati di mondiglia».

  E io a lui: «Chi son li due tapini
  che fumman come man bagnate ’l verno,
  giacendo stretti a’ tuoi destri confini?».

  «Qui li trovai—e poi volta non dierno—»,
  rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
  e non credo che dieno in sempiterno.

  L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
  l’altr’ è ’l falso Sinon greco di Troia:
  per febbre aguta gittan tanto leppo».

  E l’un di lor, che si recò a noia
  forse d’esser nomato sì oscuro,
  col pugno li percosse l’epa croia.

  Quella sonò come fosse un tamburo;
  e mastro Adamo li percosse il volto
  col braccio suo, che non parve men duro,

  dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
  lo muover per le membra che son gravi,
  ho io il braccio a tal mestiere sciolto».

  Ond’ ei rispuose: «Quando tu andavi
  al fuoco, non l’avei tu così presto;
  ma sì e più l’avei quando coniavi».

  E l’idropico: «Tu di’ ver di questo:
  ma tu non fosti sì ver testimonio
  là ’ve del ver fosti a Troia richesto».

  «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio»,
  disse Sinon; «e son qui per un fallo,
  e tu per più ch’alcun altro demonio!».

  «Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
  rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
  «e sieti reo che tutto il mondo sallo!».

  «E te sia rea la sete onde ti crepa»,
  disse ’l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia
  che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!».

  Allora il monetier: «Così si squarcia
  la bocca tua per tuo mal come suole;
  ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,

  tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
  e per leccar lo specchio di Narcisso,
  non vorresti a ’nvitar molte parole».

  Ad ascoltarli er’ io del tutto fisso,
  quando ’l maestro mi disse: «Or pur mira,
  che per poco che teco non mi risso!».

  Quand’ io ’l senti’ a me parlar con ira,
  volsimi verso lui con tal vergogna,
  ch’ancor per la memoria mi si gira.

  Qual è colui che suo dannaggio sogna,
  che sognando desidera sognare,
  sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,

  tal mi fec’ io, non possendo parlare,
  che disïava scusarmi, e scusava
  me tuttavia, e nol mi credea fare.

  «Maggior difetto men vergogna lava»,
  disse ’l maestro, «che ’l tuo non è stato;
  però d’ogne trestizia ti disgrava.

  E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
  se più avvien che fortuna t’accoglia
  dove sien genti in simigliante piato:

  ché voler ciò udire è bassa voglia».



  Inferno • Canto XXXI


  Una medesma lingua pria mi morse,
  sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
  e poi la medicina mi riporse;

  così od’ io che solea far la lancia
  d’Achille e del suo padre esser cagione
  prima di trista e poi di buona mancia.

  Noi demmo il dosso al misero vallone
  su per la ripa che ’l cinge dintorno,
  attraversando sanza alcun sermone.

  Quiv’ era men che notte e men che giorno,
  sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
  ma io senti’ sonare un alto corno,

  tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
  che, contra sé la sua via seguitando,
  dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.

  Dopo la dolorosa rotta, quando
  Carlo Magno perdé la santa gesta,
  non sonò sì terribilmente Orlando.

  Poco portäi in là volta la testa,
  che me parve veder molte alte torri;
  ond’ io: «Maestro, dì, che terra è questa?».

  Ed elli a me: «Però che tu trascorri
  per le tenebre troppo da la lungi,
  avvien che poi nel maginare abborri.

  Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
  quanto ’l senso s’inganna di lontano;
  però alquanto più te stesso pungi».

  Poi caramente mi prese per mano
  e disse: «Pria che noi siam più avanti,
  acciò che ’l fatto men ti paia strano,

  sappi che non son torri, ma giganti,
  e son nel pozzo intorno da la ripa
  da l’umbilico in giuso tutti quanti».

  Come quando la nebbia si dissipa,
  lo sguardo a poco a poco raffigura
  ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,

  così forando l’aura grossa e scura,
  più e più appressando ver’ la sponda,
  fuggiemi errore e cresciemi paura;

  però che, come su la cerchia tonda
  Montereggion di torri si corona,
  così la proda che ’l pozzo circonda

  torreggiavan di mezza la persona
  li orribili giganti, cui minaccia
  Giove del cielo ancora quando tuona.

  E io scorgeva già d’alcun la faccia,
  le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
  e per le coste giù ambo le braccia.

  Natura certo, quando lasciò l’arte
  di sì fatti animali, assai fé bene
  per tòrre tali essecutori a Marte.

  E s’ella d’elefanti e di balene
  non si pente, chi guarda sottilmente,
  più giusta e più discreta la ne tene;

  ché dove l’argomento de la mente
  s’aggiugne al mal volere e a la possa,
  nessun riparo vi può far la gente.

  La faccia sua mi parea lunga e grossa
  come la pina di San Pietro a Roma,
  e a sua proporzione eran l’altre ossa;

  sì che la ripa, ch’era perizoma
  dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
  di sovra, che di giugnere a la chioma

  tre Frison s’averien dato mal vanto;
  però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
  dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto.

  «Raphèl maì amècche zabì almi»,
  cominciò a gridar la fiera bocca,
  cui non si convenia più dolci salmi.

  E ’l duca mio ver’ lui: «Anima sciocca,
  tienti col corno, e con quel ti disfoga
  quand’ ira o altra passïon ti tocca!

  Cércati al collo, e troverai la soga
  che ’l tien legato, o anima confusa,
  e vedi lui che ’l gran petto ti doga».

  Poi disse a me: «Elli stessi s’accusa;
  questi è Nembrotto per lo cui mal coto
  pur un linguaggio nel mondo non s’usa.

  Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
  ché così è a lui ciascun linguaggio
  come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto».

  Facemmo adunque più lungo vïaggio,
  vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro
  trovammo l’altro assai più fero e maggio.

  A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
  non so io dir, ma el tenea soccinto
  dinanzi l’altro e dietro il braccio destro

  d’una catena che ’l tenea avvinto
  dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
  si ravvolgëa infino al giro quinto.

  «Questo superbo volle esser esperto
  di sua potenza contra ’l sommo Giove»,
  disse ’l mio duca, «ond’ elli ha cotal merto.

  Fïalte ha nome, e fece le gran prove
  quando i giganti fer paura a’ dèi;
  le braccia ch’el menò, già mai non move».

  E io a lui: «S’esser puote, io vorrei
  che de lo smisurato Brïareo
  esperïenza avesser li occhi mei».

  Ond’ ei rispuose: «Tu vedrai Anteo
  presso di qui che parla ed è disciolto,
  che ne porrà nel fondo d’ogne reo.

  Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
  ed è legato e fatto come questo,
  salvo che più feroce par nel volto».

  Non fu tremoto già tanto rubesto,
  che scotesse una torre così forte,
  come Fïalte a scuotersi fu presto.

  Allor temett’ io più che mai la morte,
  e non v’era mestier più che la dotta,
  s’io non avessi viste le ritorte.

  Noi procedemmo più avante allotta,
  e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
  sanza la testa, uscia fuor de la grotta.

  «O tu che ne la fortunata valle
  che fece Scipïon di gloria reda,
  quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle,

  recasti già mille leon per preda,
  e che, se fossi stato a l’alta guerra
  de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda

  ch’avrebber vinto i figli de la terra:
  mettine giù, e non ten vegna schifo,
  dove Cocito la freddura serra.

  Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
  questi può dar di quel che qui si brama;
  però ti china e non torcer lo grifo.

  Ancor ti può nel mondo render fama,
  ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta
  se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».

  Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
  le man distese, e prese ’l duca mio,
  ond’ Ercule sentì già grande stretta.

  Virgilio, quando prender si sentio,
  disse a me: «Fatti qua, sì ch’io ti prenda»;
  poi fece sì ch’un fascio era elli e io.

  Qual pare a riguardar la Carisenda
  sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
  sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:

  tal parve Antëo a me che stava a bada
  di vederlo chinare, e fu tal ora
  ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.

  Ma lievemente al fondo che divora
  Lucifero con Giuda, ci sposò;
  né, sì chinato, lì fece dimora,

  e come albero in nave si levò.



  Inferno • Canto XXXII


  S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
  come si converrebbe al tristo buco
  sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,

  io premerei di mio concetto il suco
  più pienamente; ma perch’ io non l’abbo,
  non sanza tema a dicer mi conduco;

  ché non è impresa da pigliare a gabbo
  discriver fondo a tutto l’universo,
  né da lingua che chiami mamma o babbo.

  Ma quelle donne aiutino il mio verso
  ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
  sì che dal fatto il dir non sia diverso.

  Oh sovra tutte mal creata plebe
  che stai nel loco onde parlare è duro,
  mei foste state qui pecore o zebe!

  Come noi fummo giù nel pozzo scuro
  sotto i piè del gigante assai più bassi,
  e io mirava ancora a l’alto muro,

  dicere udi’mi: «Guarda come passi:
  va sì, che tu non calchi con le piante
  le teste de’ fratei miseri lassi».

  Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
  e sotto i piedi un lago che per gelo
  avea di vetro e non d’acqua sembiante.

  Non fece al corso suo sì grosso velo
  di verno la Danoia in Osterlicchi,
  né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,

  com’ era quivi; che se Tambernicchi
  vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
  non avria pur da l’orlo fatto cricchi.

  E come a gracidar si sta la rana
  col muso fuor de l’acqua, quando sogna
  di spigolar sovente la villana,

  livide, insin là dove appar vergogna
  eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
  mettendo i denti in nota di cicogna.

  Ognuna in giù tenea volta la faccia;
  da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
  tra lor testimonianza si procaccia.

  Quand’ io m’ebbi dintorno alquanto visto,
  volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
  che ’l pel del capo avieno insieme misto.

  «Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
  diss’ io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
  e poi ch’ebber li visi a me eretti,

  li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
  gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
  le lagrime tra essi e riserrolli.

  Con legno legno spranga mai non cinse
  forte così; ond’ ei come due becchi
  cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

  E un ch’avea perduti ambo li orecchi
  per la freddura, pur col viso in giùe,
  disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?

  Se vuoi saper chi son cotesti due,
  la valle onde Bisenzo si dichina
  del padre loro Alberto e di lor fue.

  D’un corpo usciro; e tutta la Caina
  potrai cercare, e non troverai ombra
  degna più d’esser fitta in gelatina:

  non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
  con esso un colpo per la man d’Artù;
  non Focaccia; non questi che m’ingombra

  col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
  e fu nomato Sassol Mascheroni;
  se tosco se’, ben sai omai chi fu.

  E perché non mi metti in più sermoni,
  sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
  e aspetto Carlin che mi scagioni».

  Poscia vid’ io mille visi cagnazzi
  fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
  e verrà sempre, de’ gelati guazzi.

  E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
  al quale ogne gravezza si rauna,
  e io tremava ne l’etterno rezzo;

  se voler fu o destino o fortuna,
  non so; ma, passeggiando tra le teste,
  forte percossi ’l piè nel viso ad una.

  Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
  se tu non vieni a crescer la vendetta
  di Montaperti, perché mi moleste?».

  E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta,
  sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
  poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».

  Lo duca stette, e io dissi a colui
  che bestemmiava duramente ancora:
  «Qual se’ tu che così rampogni altrui?».

  «Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
  percotendo», rispuose, «altrui le gote,
  sì che, se fossi vivo, troppo fora?».

  «Vivo son io, e caro esser ti puote»,
  fu mia risposta, «se dimandi fama,
  ch’io metta il nome tuo tra l’altre note».

  Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
  Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
  ché mal sai lusingar per questa lama!».

  Allor lo presi per la cuticagna
  e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
  o che capel qui sù non ti rimagna».

  Ond’ elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
  né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti,
  se mille fiate in sul capo mi tomi».

  Io avea già i capelli in mano avvolti,
  e tratti glien’ avea più d’una ciocca,
  latrando lui con li occhi in giù raccolti,

  quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
  non ti basta sonar con le mascelle,
  se tu non latri? qual diavol ti tocca?».

  «Omai», diss’ io, «non vo’ che più favelle,
  malvagio traditor; ch’a la tua onta
  io porterò di te vere novelle».

  «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
  ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
  di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.

  El piange qui l’argento de’ Franceschi:
  “Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera
  là dove i peccatori stanno freschi”.

  Se fossi domandato “Altri chi v’era?”,
  tu hai dallato quel di Beccheria
  di cui segò Fiorenza la gorgiera.

  Gianni de’ Soldanier credo che sia
  più là con Ganellone e Tebaldello,
  ch’aprì Faenza quando si dormia».

  Noi eravam partiti già da ello,
  ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
  sì che l’un capo a l’altro era cappello;

  e come ’l pan per fame si manduca,
  così ’l sovran li denti a l’altro pose
  là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:

  non altrimenti Tidëo si rose
  le tempie a Menalippo per disdegno,
  che quei faceva il teschio e l’altre cose.

  «O tu che mostri per sì bestial segno
  odio sovra colui che tu ti mangi,
  dimmi ’l perché», diss’ io, «per tal convegno,

  che se tu a ragion di lui ti piangi,
  sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
  nel mondo suso ancora io te ne cangi,

  se quella con ch’io parlo non si secca».



  Inferno • Canto XXXIII


  La bocca sollevò dal fiero pasto
  quel peccator, forbendola a’ capelli
  del capo ch’elli avea di retro guasto.

  Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
  disperato dolor che ’l cor mi preme
  già pur pensando, pria ch’io ne favelli.

  Ma se le mie parole esser dien seme
  che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
  parlar e lagrimar vedrai insieme.

  Io non so chi tu se’ né per che modo
  venuto se’ qua giù; ma fiorentino
  mi sembri veramente quand’ io t’odo.

  Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
  e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
  or ti dirò perché i son tal vicino.

  Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
  fidandomi di lui, io fossi preso
  e poscia morto, dir non è mestieri;

  però quel che non puoi avere inteso,
  cioè come la morte mia fu cruda,
  udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.

  Breve pertugio dentro da la Muda,
  la qual per me ha ’l titol de la fame,
  e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,

  m’avea mostrato per lo suo forame
  più lune già, quand’ io feci ’l mal sonno
  che del futuro mi squarciò ’l velame.

  Questi pareva a me maestro e donno,
  cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
  per che i Pisan veder Lucca non ponno.

  Con cagne magre, studïose e conte
  Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
  s’avea messi dinanzi da la fronte.

  In picciol corso mi parieno stanchi
  lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
  mi parea lor veder fender li fianchi.

  Quando fui desto innanzi la dimane,
  pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
  ch’eran con meco, e dimandar del pane.

  Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
  pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
  e se non piangi, di che pianger suoli?

  Già eran desti, e l’ora s’appressava
  che ’l cibo ne solëa essere addotto,
  e per suo sogno ciascun dubitava;

  e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
  a l’orribile torre; ond’ io guardai
  nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.

  Io non piangëa, sì dentro impetrai:
  piangevan elli; e Anselmuccio mio
  disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.

  Perciò non lagrimai né rispuos’ io
  tutto quel giorno né la notte appresso,
  infin che l’altro sol nel mondo uscìo.

  Come un poco di raggio si fu messo
  nel doloroso carcere, e io scorsi
  per quattro visi il mio aspetto stesso,

  ambo le man per lo dolor mi morsi;
  ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
  di manicar, di sùbito levorsi

  e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
  se tu mangi di noi: tu ne vestisti
  queste misere carni, e tu le spoglia”.

  Queta’mi allor per non farli più tristi;
  lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
  ahi dura terra, perché non t’apristi?

  Poscia che fummo al quarto dì venuti,
  Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
  dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.

  Quivi morì; e come tu mi vedi,
  vid’ io cascar li tre ad uno ad uno
  tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’ io mi diedi,

  già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
  e due dì li chiamai, poi che fur morti.
  Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno».

  Quand’ ebbe detto ciò, con li occhi torti
  riprese ’l teschio misero co’ denti,
  che furo a l’osso, come d’un can, forti.

  Ahi Pisa, vituperio de le genti
  del bel paese là dove ’l sì suona,
  poi che i vicini a te punir son lenti,

  muovasi la Capraia e la Gorgona,
  e faccian siepe ad Arno in su la foce,
  sì ch’elli annieghi in te ogne persona!

  Che se ’l conte Ugolino aveva voce
  d’aver tradita te de le castella,
  non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

  Innocenti facea l’età novella,
  novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
  e li altri due che ’l canto suso appella.

  Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
  ruvidamente un’altra gente fascia,
  non volta in giù, ma tutta riversata.

  Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
  e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
  si volge in entro a far crescer l’ambascia;

  ché le lagrime prime fanno groppo,
  e sì come visiere di cristallo,
  rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.

  E avvegna che, sì come d’un callo,
  per la freddura ciascun sentimento
  cessato avesse del mio viso stallo,

  già mi parea sentire alquanto vento;
  per ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
  non è qua giù ogne vapore spento?».

  Ond’ elli a me: «Avaccio sarai dove
  di ciò ti farà l’occhio la risposta,
  veggendo la cagion che ’l fiato piove».

  E un de’ tristi de la fredda crosta
  gridò a noi: «O anime crudeli
  tanto che data v’è l’ultima posta,

  levatemi dal viso i duri veli,
  sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
  un poco, pria che ’l pianto si raggeli».

  Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
  dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
  al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».

  Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
  i’ son quel da le frutta del mal orto,
  che qui riprendo dattero per figo».

  «Oh», diss’ io lui, «or se’ tu ancor morto?».
  Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea
  nel mondo sù, nulla scïenza porto.

  Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
  che spesse volte l’anima ci cade
  innanzi ch’Atropòs mossa le dea.

  E perché tu più volentier mi rade
  le ’nvetrïate lagrime dal volto,
  sappie che, tosto che l’anima trade

  come fec’ ïo, il corpo suo l’è tolto
  da un demonio, che poscia il governa
  mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.

  Ella ruina in sì fatta cisterna;
  e forse pare ancor lo corpo suso
  de l’ombra che di qua dietro mi verna.

  Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
  elli è ser Branca Doria, e son più anni
  poscia passati ch’el fu sì racchiuso».

  «Io credo», diss’ io lui, «che tu m’inganni;
  ché Branca Doria non morì unquanche,
  e mangia e bee e dorme e veste panni».

  «Nel fosso sù», diss’ el, «de’ Malebranche,
  là dove bolle la tenace pece,
  non era ancora giunto Michel Zanche,

  che questi lasciò il diavolo in sua vece
  nel corpo suo, ed un suo prossimano
  che ’l tradimento insieme con lui fece.

  Ma distendi oggimai in qua la mano;
  aprimi li occhi». E io non gliel’ apersi;
  e cortesia fu lui esser villano.

  Ahi Genovesi, uomini diversi
  d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
  perché non siete voi del mondo spersi?

  Ché col peggiore spirto di Romagna
  trovai di voi un tal, che per sua opra
  in anima in Cocito già si bagna,

  e in corpo par vivo ancor di sopra.



  Inferno • Canto XXXIV


  «Vexilla regis prodeunt inferni
  verso di noi; però dinanzi mira»,
  disse ’l maestro mio, «se tu ’l discerni».

  Come quando una grossa nebbia spira,
  o quando l’emisperio nostro annotta,
  par di lungi un molin che ’l vento gira,

  veder mi parve un tal dificio allotta;
  poi per lo vento mi ristrinsi retro
  al duca mio, ché non lì era altra grotta.

  Già era, e con paura il metto in metro,
  là dove l’ombre tutte eran coperte,
  e trasparien come festuca in vetro.

  Altre sono a giacere; altre stanno erte,
  quella col capo e quella con le piante;
  altra, com’ arco, il volto a’ piè rinverte.

  Quando noi fummo fatti tanto avante,
  ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
  la creatura ch’ebbe il bel sembiante,

  d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
  «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
  ove convien che di fortezza t’armi».

  Com’ io divenni allor gelato e fioco,
  nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
  però ch’ogne parlar sarebbe poco.

  Io non mori’ e non rimasi vivo;
  pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
  qual io divenni, d’uno e d’altro privo.

  Lo ’mperador del doloroso regno
  da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia;
  e più con un gigante io mi convegno,

  che i giganti non fan con le sue braccia:
  vedi oggimai quant’ esser dee quel tutto
  ch’a così fatta parte si confaccia.

  S’el fu sì bel com’ elli è ora brutto,
  e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
  ben dee da lui procedere ogne lutto.

  Oh quanto parve a me gran maraviglia
  quand’ io vidi tre facce a la sua testa!
  L’una dinanzi, e quella era vermiglia;

  l’altr’ eran due, che s’aggiugnieno a questa
  sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
  e sé giugnieno al loco de la cresta:

  e la destra parea tra bianca e gialla;
  la sinistra a vedere era tal, quali
  vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.

  Sotto ciascuna uscivan due grand’ ali,
  quanto si convenia a tanto uccello:
  vele di mar non vid’ io mai cotali.

  Non avean penne, ma di vispistrello
  era lor modo; e quelle svolazzava,
  sì che tre venti si movean da ello:

  quindi Cocito tutto s’aggelava.
  Con sei occhi piangëa, e per tre menti
  gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.

  Da ogne bocca dirompea co’ denti
  un peccatore, a guisa di maciulla,
  sì che tre ne facea così dolenti.

  A quel dinanzi il mordere era nulla
  verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
  rimanea de la pelle tutta brulla.

  «Quell’ anima là sù c’ha maggior pena»,
  disse ’l maestro, «è Giuda Scarïotto,
  che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.

  De li altri due c’hanno il capo di sotto,
  quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
  vedi come si storce, e non fa motto!;

  e l’altro è Cassio, che par sì membruto.
  Ma la notte risurge, e oramai
  è da partir, ché tutto avem veduto».

  Com’ a lui piacque, il collo li avvinghiai;
  ed el prese di tempo e loco poste,
  e quando l’ali fuoro aperte assai,

  appigliò sé a le vellute coste;
  di vello in vello giù discese poscia
  tra ’l folto pelo e le gelate croste.

  Quando noi fummo là dove la coscia
  si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
  lo duca, con fatica e con angoscia,

  volse la testa ov’ elli avea le zanche,
  e aggrappossi al pel com’ om che sale,
  sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.

  «Attienti ben, ché per cotali scale»,
  disse ’l maestro, ansando com’ uom lasso,
  «conviensi dipartir da tanto male».

  Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
  e puose me in su l’orlo a sedere;
  appresso porse a me l’accorto passo.

  Io levai li occhi e credetti vedere
  Lucifero com’ io l’avea lasciato,
  e vidili le gambe in sù tenere;

  e s’io divenni allora travagliato,
  la gente grossa il pensi, che non vede
  qual è quel punto ch’io avea passato.

  «Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede:
  la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
  e già il sole a mezza terza riede».

  Non era camminata di palagio
  là ’v’ eravam, ma natural burella
  ch’avea mal suolo e di lume disagio.

  «Prima ch’io de l’abisso mi divella,
  maestro mio», diss’ io quando fui dritto,
  «a trarmi d’erro un poco mi favella:

  ov’ è la ghiaccia? e questi com’ è fitto
  sì sottosopra? e come, in sì poc’ ora,
  da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».

  Ed elli a me: «Tu imagini ancora
  d’esser di là dal centro, ov’ io mi presi
  al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.

  Di là fosti cotanto quant’ io scesi;
  quand’ io mi volsi, tu passasti ’l punto
  al qual si traggon d’ogne parte i pesi.

  E se’ or sotto l’emisperio giunto
  ch’è contraposto a quel che la gran secca
  coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto

  fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
  tu haï i piedi in su picciola spera
  che l’altra faccia fa de la Giudecca.

  Qui è da man, quando di là è sera;
  e questi, che ne fé scala col pelo,
  fitto è ancora sì come prim’ era.

  Da questa parte cadde giù dal cielo;
  e la terra, che pria di qua si sporse,
  per paura di lui fé del mar velo,

  e venne a l’emisperio nostro; e forse
  per fuggir lui lasciò qui loco vòto
  quella ch’appar di qua, e sù ricorse».

  Luogo è là giù da Belzebù remoto
  tanto quanto la tomba si distende,
  che non per vista, ma per suono è noto

  d’un ruscelletto che quivi discende
  per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
  col corso ch’elli avvolge, e poco pende.

  Lo duca e io per quel cammino ascoso
  intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
  e sanza cura aver d’alcun riposo,

  salimmo sù, el primo e io secondo,
  tanto ch’i’ vidi de le cose belle
  che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.

  E quindi uscimmo a riveder le stelle.



  PURGATORIO



  Purgatorio • Canto I


  Per correr miglior acque alza le vele
  omai la navicella del mio ingegno,
  che lascia dietro a sé mar sì crudele;

  e canterò di quel secondo regno
  dove l’umano spirito si purga
  e di salire al ciel diventa degno.

  Ma qui la morta poesì resurga,
  o sante Muse, poi che vostro sono;
  e qui Calïopè alquanto surga,

  seguitando il mio canto con quel suono
  di cui le Piche misere sentiro
  lo colpo tal, che disperar perdono.

  Dolce color d’orïental zaffiro,
  che s’accoglieva nel sereno aspetto
  del mezzo, puro infino al primo giro,

  a li occhi miei ricominciò diletto,
  tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
  che m’avea contristati li occhi e ’l petto.

  Lo bel pianeto che d’amar conforta
  faceva tutto rider l’orïente,
  velando i Pesci ch’erano in sua scorta.

  I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
  a l’altro polo, e vidi quattro stelle
  non viste mai fuor ch’a la prima gente.

  Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
  oh settentrïonal vedovo sito,
  poi che privato se’ di mirar quelle!

  Com’ io da loro sguardo fui partito,
  un poco me volgendo a l ’altro polo,
  là onde ’l Carro già era sparito,

  vidi presso di me un veglio solo,
  degno di tanta reverenza in vista,
  che più non dee a padre alcun figliuolo.

  Lunga la barba e di pel bianco mista
  portava, a’ suoi capelli simigliante,
  de’ quai cadeva al petto doppia lista.

  Li raggi de le quattro luci sante
  fregiavan sì la sua faccia di lume,
  ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.

  «Chi siete voi che contro al cieco fiume
  fuggita avete la pregione etterna?»,
  diss’ el, movendo quelle oneste piume.

  «Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,
  uscendo fuor de la profonda notte
  che sempre nera fa la valle inferna?

  Son le leggi d’abisso così rotte?
  o è mutato in ciel novo consiglio,
  che, dannati, venite a le mie grotte?».

  Lo duca mio allor mi diè di piglio,
  e con parole e con mani e con cenni
  reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.

  Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
  donna scese del ciel, per li cui prieghi
  de la mia compagnia costui sovvenni.

  Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
  di nostra condizion com’ ell’ è vera,
  esser non puote il mio che a te si nieghi.

  Questi non vide mai l’ultima sera;
  ma per la sua follia le fu sì presso,
  che molto poco tempo a volger era.

  Sì com’ io dissi, fui mandato ad esso
  per lui campare; e non lì era altra via
  che questa per la quale i’ mi son messo.

  Mostrata ho lui tutta la gente ria;
  e ora intendo mostrar quelli spirti
  che purgan sé sotto la tua balìa.

  Com’ io l’ho tratto, saria lungo a dirti;
  de l’alto scende virtù che m’aiuta
  conducerlo a vederti e a udirti.

  Or ti piaccia gradir la sua venuta:
  libertà va cercando, ch’è sì cara,
  come sa chi per lei vita rifiuta.

  Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
  in Utica la morte, ove lasciasti
  la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.

  Non son li editti etterni per noi guasti,
  ché questi vive e Minòs me non lega;
  ma son del cerchio ove son li occhi casti

  di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
  o santo petto, che per tua la tegni:
  per lo suo amore adunque a noi ti piega.

  Lasciane andar per li tuoi sette regni;
  grazie riporterò di te a lei,
  se d’esser mentovato là giù degni».

  «Marzïa piacque tanto a li occhi miei
  mentre ch’i’ fu’ di là», diss’ elli allora,
  «che quante grazie volse da me, fei.

  Or che di là dal mal fiume dimora,
  più muover non mi può, per quella legge
  che fatta fu quando me n’usci’ fora.

  Ma se donna del ciel ti move e regge,
  come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
  bastisi ben che per lei mi richegge.

  Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
  d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
  sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;

  ché non si converria, l’occhio sorpriso
  d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
  ministro, ch’è di quei di paradiso.

  Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
  là giù colà dove la batte l’onda,
  porta di giunchi sovra ’l molle limo:

  null’ altra pianta che facesse fronda
  o indurasse, vi puote aver vita,
  però ch’a le percosse non seconda.

  Poscia non sia di qua vostra reddita;
  lo sol vi mosterrà, che surge omai,
  prendere il monte a più lieve salita».

  Così sparì; e io sù mi levai
  sanza parlare, e tutto mi ritrassi
  al duca mio, e li occhi a lui drizzai.

  El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
  volgianci in dietro, ché di qua dichina
  questa pianura a’ suoi termini bassi».

  L’alba vinceva l’ora mattutina
  che fuggia innanzi, sì che di lontano
  conobbi il tremolar de la marina.

  Noi andavam per lo solingo piano
  com’ om che torna a la perduta strada,
  che ’nfino ad essa li pare ire in vano.

  Quando noi fummo là ’ve la rugiada
  pugna col sole, per essere in parte
  dove, ad orezza, poco si dirada,

  ambo le mani in su l’erbetta sparte
  soavemente ’l mio maestro pose:
  ond’ io, che fui accorto di sua arte,

  porsi ver’ lui le guance lagrimose;
  ivi mi fece tutto discoverto
  quel color che l’inferno mi nascose.

  Venimmo poi in sul lito diserto,
  che mai non vide navicar sue acque
  omo, che di tornar sia poscia esperto.

  Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque:
  oh maraviglia! ché qual elli scelse
  l’umile pianta, cotal si rinacque

  subitamente là onde l’avelse.



  Purgatorio • Canto II


  Già era ’l sole a l’orizzonte giunto
  lo cui meridïan cerchio coverchia
  Ierusalèm col suo più alto punto;

  e la notte, che opposita a lui cerchia,
  uscia di Gange fuor con le Bilance,
  che le caggion di man quando soverchia;

  sì che le bianche e le vermiglie guance,
  là dov’ i’ era, de la bella Aurora
  per troppa etate divenivan rance.

  Noi eravam lunghesso mare ancora,
  come gente che pensa a suo cammino,
  che va col cuore e col corpo dimora.

  Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
  per li grossi vapor Marte rosseggia
  giù nel ponente sovra ’l suol marino,

  cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
  un lume per lo mar venir sì ratto,
  che ’l muover suo nessun volar pareggia.

  Dal qual com’ io un poco ebbi ritratto
  l’occhio per domandar lo duca mio,
  rividil più lucente e maggior fatto.

  Poi d’ogne lato ad esso m’appario
  un non sapeva che bianco, e di sotto
  a poco a poco un altro a lui uscìo.

  Lo mio maestro ancor non facea motto,
  mentre che i primi bianchi apparver ali;
  allor che ben conobbe il galeotto,

  gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali.
  Ecco l’angel di Dio: piega le mani;
  omai vedrai di sì fatti officiali.

  Vedi che sdegna li argomenti umani,
  sì che remo non vuol, né altro velo
  che l’ali sue, tra liti sì lontani.

  Vedi come l’ha dritte verso ’l cielo,
  trattando l’aere con l’etterne penne,
  che non si mutan come mortal pelo».

  Poi, come più e più verso noi venne
  l’uccel divino, più chiaro appariva:
  per che l’occhio da presso nol sostenne,

  ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
  con un vasello snelletto e leggero,
  tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva.

  Da poppa stava il celestial nocchiero,
  tal che faria beato pur descripto;
  e più di cento spirti entro sediero.

  ‘In exitu Isräel de Aegypto’
  cantavan tutti insieme ad una voce
  con quanto di quel salmo è poscia scripto.

  Poi fece il segno lor di santa croce;
  ond’ ei si gittar tutti in su la piaggia:
  ed el sen gì, come venne, veloce.

  La turba che rimase lì, selvaggia
  parea del loco, rimirando intorno
  come colui che nove cose assaggia.

  Da tutte parti saettava il giorno
  lo sol, ch’avea con le saette conte
  di mezzo ’l ciel cacciato Capricorno,

  quando la nova gente alzò la fronte
  ver’ noi, dicendo a noi: «Se voi sapete,
  mostratene la via di gire al monte».

  E Virgilio rispuose: «Voi credete
  forse che siamo esperti d’esto loco;
  ma noi siam peregrin come voi siete.

  Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
  per altra via, che fu sì aspra e forte,
  che lo salire omai ne parrà gioco».

  L’anime, che si fuor di me accorte,
  per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
  maravigliando diventaro smorte.

  E come a messagger che porta ulivo
  tragge la gente per udir novelle,
  e di calcar nessun si mostra schivo,

  così al viso mio s’affisar quelle
  anime fortunate tutte quante,
  quasi oblïando d’ire a farsi belle.

  Io vidi una di lor trarresi avante
  per abbracciarmi con sì grande affetto,
  che mosse me a far lo somigliante.

  Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
  tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
  e tante mi tornai con esse al petto.

  Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
  per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
  e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.

  Soavemente disse ch’io posasse;
  allor conobbi chi era, e pregai
  che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.

  Rispuosemi: «Così com’ io t’amai
  nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
  però m’arresto; ma tu perché vai?».

  «Casella mio, per tornar altra volta
  là dov’ io son, fo io questo vïaggio»,
  diss’ io; «ma a te com’ è tanta ora tolta?».

  Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio,
  se quei che leva quando e cui li piace,
  più volte m’ha negato esto passaggio;

  ché di giusto voler lo suo si face:
  veramente da tre mesi elli ha tolto
  chi ha voluto intrar, con tutta pace.

  Ond’ io, ch’era ora a la marina vòlto
  dove l’acqua di Tevero s’insala,
  benignamente fu’ da lui ricolto.

  A quella foce ha elli or dritta l’ala,
  però che sempre quivi si ricoglie
  qual verso Acheronte non si cala».

  E io: «Se nuova legge non ti toglie
  memoria o uso a l’amoroso canto
  che mi solea quetar tutte mie doglie,

  di ciò ti piaccia consolare alquanto
  l’anima mia, che, con la sua persona
  venendo qui, è affannata tanto!».

  ‘Amor che ne la mente mi ragiona’
  cominciò elli allor sì dolcemente,
  che la dolcezza ancor dentro mi suona.

  Lo mio maestro e io e quella gente
  ch’eran con lui parevan sì contenti,
  come a nessun toccasse altro la mente.

  Noi eravam tutti fissi e attenti
  a le sue note; ed ecco il veglio onesto
  gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?

  qual negligenza, quale stare è questo?
  Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
  ch’esser non lascia a voi Dio manifesto».

  Come quando, cogliendo biado o loglio,
  li colombi adunati a la pastura,
  queti, sanza mostrar l’usato orgoglio,

  se cosa appare ond’ elli abbian paura,
  subitamente lasciano star l’esca,
  perch’ assaliti son da maggior cura;

  così vid’ io quella masnada fresca
  lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa,
  com’ om che va, né sa dove rïesca;

  né la nostra partita fu men tosta.



  Purgatorio • Canto III


  Avvegna che la subitana fuga
  dispergesse color per la campagna,
  rivolti al monte ove ragion ne fruga,

  i’ mi ristrinsi a la fida compagna:
  e come sare’ io sanza lui corso?
  chi m’avria tratto su per la montagna?

  El mi parea da sé stesso rimorso:
  o dignitosa coscïenza e netta,
  come t’è picciol fallo amaro morso!

  Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
  che l’onestade ad ogn’ atto dismaga,
  la mente mia, che prima era ristretta,

  lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
  e diedi ’l viso mio incontr’ al poggio
  che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.

  Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
  rotto m’era dinanzi a la figura,
  ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio.

  Io mi volsi dallato con paura
  d’essere abbandonato, quand’ io vidi
  solo dinanzi a me la terra oscura;

  e ’l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
  a dir mi cominciò tutto rivolto;
  «non credi tu me teco e ch’io ti guidi?

  Vespero è già colà dov’ è sepolto
  lo corpo dentro al quale io facea ombra;
  Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.

  Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
  non ti maravigliar più che d’i cieli
  che l’uno a l’altro raggio non ingombra.

  A sofferir tormenti, caldi e geli
  simili corpi la Virtù dispone
  che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.

  Matto è chi spera che nostra ragione
  possa trascorrer la infinita via
  che tiene una sustanza in tre persone.

  State contenti, umana gente, al quia;
  ché, se potuto aveste veder tutto,
  mestier non era parturir Maria;

  e disïar vedeste sanza frutto
  tai che sarebbe lor disio quetato,
  ch’etternalmente è dato lor per lutto:

  io dico d’Aristotile e di Plato
  e di molt’ altri»; e qui chinò la fronte,
  e più non disse, e rimase turbato.

  Noi divenimmo intanto a piè del monte;
  quivi trovammo la roccia sì erta,
  che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.

  Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
  la più rotta ruina è una scala,
  verso di quella, agevole e aperta.

  «Or chi sa da qual man la costa cala»,
  disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
  «sì che possa salir chi va sanz’ ala?».

  E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso
  essaminava del cammin la mente,
  e io mirava suso intorno al sasso,

  da man sinistra m’apparì una gente
  d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
  e non pareva, sì venïan lente.

  «Leva», diss’ io, «maestro, li occhi tuoi:
  ecco di qua chi ne darà consiglio,
  se tu da te medesmo aver nol puoi».

  Guardò allora, e con libero piglio
  rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
  e tu ferma la spene, dolce figlio».

  Ancora era quel popol di lontano,
  i’ dico dopo i nostri mille passi,
  quanto un buon gittator trarria con mano,

  quando si strinser tutti ai duri massi
  de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
  com’ a guardar, chi va dubbiando, stassi.

  «O ben finiti, o già spiriti eletti»,
  Virgilio incominciò, «per quella pace
  ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,

  ditene dove la montagna giace,
  sì che possibil sia l’andare in suso;
  ché perder tempo a chi più sa più spiace».

  Come le pecorelle escon del chiuso
  a una, a due, a tre, e l’altre stanno
  timidette atterrando l’occhio e ’l muso;

  e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
  addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
  semplici e quete, e lo ’mperché non sanno;

  sì vid’ io muovere a venir la testa
  di quella mandra fortunata allotta,
  pudica in faccia e ne l’andare onesta.

  Come color dinanzi vider rotta
  la luce in terra dal mio destro canto,
  sì che l’ombra era da me a la grotta,

  restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
  e tutti li altri che venieno appresso,
  non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto.

  «Sanza vostra domanda io vi confesso
  che questo è corpo uman che voi vedete;
  per che ’l lume del sole in terra è fesso.

  Non vi maravigliate, ma credete
  che non sanza virtù che da ciel vegna
  cerchi di soverchiar questa parete».

  Così ’l maestro; e quella gente degna
  «Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
  coi dossi de le man faccendo insegna.

  E un di loro incominciò: «Chiunque
  tu se’, così andando, volgi ’l viso:
  pon mente se di là mi vedesti unque».

  Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
  biondo era e bello e di gentile aspetto,
  ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

  Quand’ io mi fui umilmente disdetto
  d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
  e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.

  Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
  nepote di Costanza imperadrice;
  ond’ io ti priego che, quando tu riedi,

  vadi a mia bella figlia, genitrice
  de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
  e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.

  Poscia ch’io ebbi rotta la persona
  di due punte mortali, io mi rendei,
  piangendo, a quei che volontier perdona.

  Orribil furon li peccati miei;
  ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
  che prende ciò che si rivolge a lei.

  Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
  di me fu messo per Clemente allora,
  avesse in Dio ben letta questa faccia,

  l’ossa del corpo mio sarieno ancora
  in co del ponte presso a Benevento,
  sotto la guardia de la grave mora.

  Or le bagna la pioggia e move il vento
  di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
  dov’ e’ le trasmutò a lume spento.

  Per lor maladizion sì non si perde,
  che non possa tornar, l’etterno amore,
  mentre che la speranza ha fior del verde.

  Vero è che quale in contumacia more
  di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
  star li convien da questa ripa in fore,

  per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
  in sua presunzïon, se tal decreto
  più corto per buon prieghi non diventa.

  Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
  revelando a la mia buona Costanza
  come m’hai visto, e anco esto divieto;

  ché qui per quei di là molto s’avanza».



  Purgatorio • Canto IV


  Quando per dilettanze o ver per doglie,
  che alcuna virtù nostra comprenda,
  l’anima bene ad essa si raccoglie,

  par ch’a nulla potenza più intenda;
  e questo è contra quello error che crede
  ch’un’anima sovr’ altra in noi s’accenda.

  E però, quando s’ode cosa o vede
  che tegna forte a sé l’anima volta,
  vassene ’l tempo e l’uom non se n’avvede;

  ch’altra potenza è quella che l’ascolta,
  e altra è quella c’ha l’anima intera:
  questa è quasi legata e quella è sciolta.

  Di ciò ebb’ io esperïenza vera,
  udendo quello spirto e ammirando;
  ché ben cinquanta gradi salito era

  lo sole, e io non m’era accorto, quando
  venimmo ove quell’ anime ad una
  gridaro a noi: «Qui è vostro dimando».

  Maggiore aperta molte volte impruna
  con una forcatella di sue spine
  l’uom de la villa quando l’uva imbruna,

  che non era la calla onde salìne
  lo duca mio, e io appresso, soli,
  come da noi la schiera si partìne.

  Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
  montasi su in Bismantova e ’n Cacume
  con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;

  dico con l’ale snelle e con le piume
  del gran disio, di retro a quel condotto
  che speranza mi dava e facea lume.

  Noi salavam per entro ’l sasso rotto,
  e d’ogne lato ne stringea lo stremo,
  e piedi e man volea il suol di sotto.

  Poi che noi fummo in su l’orlo suppremo
  de l’alta ripa, a la scoperta piaggia,
  «Maestro mio», diss’ io, «che via faremo?».

  Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia;
  pur su al monte dietro a me acquista,
  fin che n’appaia alcuna scorta saggia».

  Lo sommo er’ alto che vincea la vista,
  e la costa superba più assai
  che da mezzo quadrante a centro lista.

  Io era lasso, quando cominciai:
  «O dolce padre, volgiti, e rimira
  com’ io rimango sol, se non restai».

  «Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira»,
  additandomi un balzo poco in sùe
  che da quel lato il poggio tutto gira.

  Sì mi spronaron le parole sue,
  ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
  tanto che ’l cinghio sotto i piè mi fue.

  A seder ci ponemmo ivi ambedui
  vòlti a levante ond’ eravam saliti,
  che suole a riguardar giovare altrui.

  Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
  poscia li alzai al sole, e ammirava
  che da sinistra n’eravam feriti.

  Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava
  stupido tutto al carro de la luce,
  ove tra noi e Aquilone intrava.

  Ond’ elli a me: «Se Castore e Poluce
  fossero in compagnia di quello specchio
  che sù e giù del suo lume conduce,

  tu vedresti il Zodïaco rubecchio
  ancora a l’Orse più stretto rotare,
  se non uscisse fuor del cammin vecchio.

  Come ciò sia, se ’l vuoi poter pensare,
  dentro raccolto, imagina Sïòn
  con questo monte in su la terra stare

  sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn
  e diversi emisperi; onde la strada
  che mal non seppe carreggiar Fetòn,

  vedrai come a costui convien che vada
  da l’un, quando a colui da l’altro fianco,
  se lo ’ntelletto tuo ben chiaro bada».

  «Certo, maestro mio,» diss’ io, «unquanco
  non vid’ io chiaro sì com’ io discerno
  là dove mio ingegno parea manco,

  che ’l mezzo cerchio del moto superno,
  che si chiama Equatore in alcun’ arte,
  e che sempre riman tra ’l sole e ’l verno,

  per la ragion che di’, quinci si parte
  verso settentrïon, quanto li Ebrei
  vedevan lui verso la calda parte.

  Ma se a te piace, volontier saprei
  quanto avemo ad andar; ché ’l poggio sale
  più che salir non posson li occhi miei».

  Ed elli a me: «Questa montagna è tale,
  che sempre al cominciar di sotto è grave;
  e quant’ om più va sù, e men fa male.

  Però, quand’ ella ti parrà soave
  tanto, che sù andar ti fia leggero
  com’ a seconda giù andar per nave,

  allor sarai al fin d’esto sentiero;
  quivi di riposar l’affanno aspetta.
  Più non rispondo, e questo so per vero».

  E com’ elli ebbe sua parola detta,
  una voce di presso sonò: «Forse
  che di sedere in pria avrai distretta!».

  Al suon di lei ciascun di noi si torse,
  e vedemmo a mancina un gran petrone,
  del qual né io né ei prima s’accorse.

  Là ci traemmo; e ivi eran persone
  che si stavano a l’ombra dietro al sasso
  come l’uom per negghienza a star si pone.

  E un di lor, che mi sembiava lasso,
  sedeva e abbracciava le ginocchia,
  tenendo ’l viso giù tra esse basso.

  «O dolce segnor mio», diss’ io, «adocchia
  colui che mostra sé più negligente
  che se pigrizia fosse sua serocchia».

  Allor si volse a noi e puose mente,
  movendo ’l viso pur su per la coscia,
  e disse: «Or va tu sù, che se’ valente!».

  Conobbi allor chi era, e quella angoscia
  che m’avacciava un poco ancor la lena,
  non m’impedì l’andare a lui; e poscia

  ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena,
  dicendo: «Hai ben veduto come ’l sole
  da l’omero sinistro il carro mena?».

  Li atti suoi pigri e le corte parole
  mosser le labbra mie un poco a riso;
  poi cominciai: «Belacqua, a me non dole

  di te omai; ma dimmi: perché assiso
  quiritto se’? attendi tu iscorta,
  o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?».

  Ed elli: «O frate, andar in sù che porta?
  ché non mi lascerebbe ire a’ martìri
  l’angel di Dio che siede in su la porta.

  Prima convien che tanto il ciel m’aggiri
  di fuor da essa, quanto fece in vita,
  per ch’io ’ndugiai al fine i buon sospiri,

  se orazïone in prima non m’aita
  che surga sù di cuor che in grazia viva;
  l’altra che val, che ’n ciel non è udita?».

  E già il poeta innanzi mi saliva,
  e dicea: «Vienne omai; vedi ch’è tocco
  meridïan dal sole e a la riva

  cuopre la notte già col piè Morrocco».



  Purgatorio • Canto V


  Io era già da quell’ ombre partito,
  e seguitava l’orme del mio duca,
  quando di retro a me, drizzando ’l dito,

  una gridò: «Ve’ che non par che luca
  lo raggio da sinistra a quel di sotto,
  e come vivo par che si conduca!».

  Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
  e vidile guardar per maraviglia
  pur me, pur me, e ’l lume ch’era rotto.

  «Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
  disse ’l maestro, «che l’andare allenti?
  che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

  Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
  sta come torre ferma, che non crolla
  già mai la cima per soffiar di venti;

  ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
  sovra pensier, da sé dilunga il segno,
  perché la foga l’un de l’altro insolla».

  Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
  Dissilo, alquanto del color consperso
  che fa l’uom di perdon talvolta degno.

  E ’ntanto per la costa di traverso
  venivan genti innanzi a noi un poco,
  cantando ‘Miserere’ a verso a verso.

  Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
  per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,
  mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;

  e due di loro, in forma di messaggi,
  corsero incontr’ a noi e dimandarne:
  «Di vostra condizion fatene saggi».

  E ’l mio maestro: «Voi potete andarne
  e ritrarre a color che vi mandaro
  che ’l corpo di costui è vera carne.

  Se per veder la sua ombra restaro,
  com’ io avviso, assai è lor risposto:
  fàccianli onore, ed esser può lor caro».

  Vapori accesi non vid’ io sì tosto
  di prima notte mai fender sereno,
  né, sol calando, nuvole d’agosto,

  che color non tornasser suso in meno;
  e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
  come schiera che scorre sanza freno.

  «Questa gente che preme a noi è molta,
  e vegnonti a pregar», disse ’l poeta:
  «però pur va, e in andando ascolta».

  «O anima che vai per esser lieta
  con quelle membra con le quai nascesti»,
  venian gridando, «un poco il passo queta.

  Guarda s’alcun di noi unqua vedesti,
  sì che di lui di là novella porti:
  deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?

  Noi fummo tutti già per forza morti,
  e peccatori infino a l’ultima ora;
  quivi lume del ciel ne fece accorti,

  sì che, pentendo e perdonando, fora
  di vita uscimmo a Dio pacificati,
  che del disio di sé veder n’accora».

  E io: «Perché ne’ vostri visi guati,
  non riconosco alcun; ma s’a voi piace
  cosa ch’io possa, spiriti ben nati,

  voi dite, e io farò per quella pace
  che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
  di mondo in mondo cercar mi si face».

  E uno incominciò: «Ciascun si fida
  del beneficio tuo sanza giurarlo,
  pur che ’l voler nonpossa non ricida.

  Ond’ io, che solo innanzi a li altri parlo,
  ti priego, se mai vedi quel paese
  che siede tra Romagna e quel di Carlo,

  che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
  in Fano, sì che ben per me s’adori
  pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.

  Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
  ond’ uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
  fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,

  là dov’ io più sicuro esser credea:
  quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
  assai più là che dritto non volea.

  Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
  quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
  ancor sarei di là dove si spira.

  Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco
  m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’ io
  de le mie vene farsi in terra laco».

  Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
  si compia che ti tragge a l’alto monte,
  con buona pïetate aiuta il mio!

  Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
  Giovanna o altri non ha di me cura;
  per ch’io vo tra costor con bassa fronte».

  E io a lui: «Qual forza o qual ventura
  ti travïò sì fuor di Campaldino,
  che non si seppe mai tua sepultura?».

  «Oh!», rispuos’ elli, «a piè del Casentino
  traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
  che sovra l’Ermo nasce in Apennino.

  Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
  arriva’ io forato ne la gola,
  fuggendo a piede e sanguinando il piano.

  Quivi perdei la vista e la parola;
  nel nome di Maria fini’, e quivi
  caddi, e rimase la mia carne sola.

  Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
  l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
  gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?

  Tu te ne porti di costui l’etterno
  per una lagrimetta che ’l mi toglie;
  ma io farò de l’altro altro governo!”.

  Ben sai come ne l’aere si raccoglie
  quell’ umido vapor che in acqua riede,
  tosto che sale dove ’l freddo il coglie.

  Giunse quel mal voler che pur mal chiede
  con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento
  per la virtù che sua natura diede.

  Indi la valle, come ’l dì fu spento,
  da Pratomagno al gran giogo coperse
  di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,

  sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
  la pioggia cadde, e a’ fossati venne
  di lei ciò che la terra non sofferse;

  e come ai rivi grandi si convenne,
  ver’ lo fiume real tanto veloce
  si ruinò, che nulla la ritenne.

  Lo corpo mio gelato in su la foce
  trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
  ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce

  ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
  voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
  poi di sua preda mi coperse e cinse».

  «Deh, quando tu sarai tornato al mondo
  e riposato de la lunga via»,
  seguitò ’l terzo spirito al secondo,

  «ricorditi di me, che son la Pia;
  Siena mi fé, disfecemi Maremma:
  salsi colui che ’nnanellata pria

  disposando m’avea con la sua gemma».



  Purgatorio • Canto VI


  Quando si parte il gioco de la zara,
  colui che perde si riman dolente,
  repetendo le volte, e tristo impara;

  con l’altro se ne va tutta la gente;
  qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
  e qual dallato li si reca a mente;

  el non s’arresta, e questo e quello intende;
  a cui porge la man, più non fa pressa;
  e così da la calca si difende.

  Tal era io in quella turba spessa,
  volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
  e promettendo mi sciogliea da essa.

  Quiv’ era l’Aretin che da le braccia
  fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
  e l’altro ch’annegò correndo in caccia.

  Quivi pregava con le mani sporte
  Federigo Novello, e quel da Pisa
  che fé parer lo buon Marzucco forte.

  Vidi conte Orso e l’anima divisa
  dal corpo suo per astio e per inveggia,
  com’ e’ dicea, non per colpa commisa;

  Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
  mentr’ è di qua, la donna di Brabante,
  sì che però non sia di peggior greggia.

  Come libero fui da tutte quante
  quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
  sì che s’avacci lor divenir sante,

  io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
  o luce mia, espresso in alcun testo
  che decreto del cielo orazion pieghi;

  e questa gente prega pur di questo:
  sarebbe dunque loro speme vana,
  o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?».

  Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
  e la speranza di costor non falla,
  se ben si guarda con la mente sana;

  ché cima di giudicio non s’avvalla
  perché foco d’amor compia in un punto
  ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;

  e là dov’ io fermai cotesto punto,
  non s’ammendava, per pregar, difetto,
  perché ’l priego da Dio era disgiunto.

  Veramente a così alto sospetto
  non ti fermar, se quella nol ti dice
  che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.

  Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice;
  tu la vedrai di sopra, in su la vetta
  di questo monte, ridere e felice».

  E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,
  ché già non m’affatico come dianzi,
  e vedi omai che ’l poggio l’ombra getta».

  «Noi anderem con questo giorno innanzi»,
  rispuose, «quanto più potremo omai;
  ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi.

  Prima che sie là sù, tornar vedrai
  colui che già si cuopre de la costa,
  sì che ’ suoi raggi tu romper non fai.

  Ma vedi là un’anima che, posta
  sola soletta, inverso noi riguarda:
  quella ne ’nsegnerà la via più tosta».

  Venimmo a lei: o anima lombarda,
  come ti stavi altera e disdegnosa
  e nel mover de li occhi onesta e tarda!

  Ella non ci dicëa alcuna cosa,
  ma lasciavane gir, solo sguardando
  a guisa di leon quando si posa.

  Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
  che ne mostrasse la miglior salita;
  e quella non rispuose al suo dimando,

  ma di nostro paese e de la vita
  ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
  «Mantüa . . . », e l’ombra, tutta in sé romita,

  surse ver’ lui del loco ove pria stava,
  dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
  de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.

  Ahi serva Italia, di dolore ostello,
  nave sanza nocchiere in gran tempesta,
  non donna di province, ma bordello!

  Quell’ anima gentil fu così presta,
  sol per lo dolce suon de la sua terra,
  di fare al cittadin suo quivi festa;

  e ora in te non stanno sanza guerra
  li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
  di quei ch’un muro e una fossa serra.

  Cerca, misera, intorno da le prode
  le tue marine, e poi ti guarda in seno,
  s’alcuna parte in te di pace gode.

  Che val perché ti racconciasse il freno
  Iustinïano, se la sella è vòta?
  Sanz’ esso fora la vergogna meno.

  Ahi gente che dovresti esser devota,
  e lasciar seder Cesare in la sella,
  se bene intendi ciò che Dio ti nota,

  guarda come esta fiera è fatta fella
  per non esser corretta da li sproni,
  poi che ponesti mano a la predella.

  O Alberto tedesco ch’abbandoni
  costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
  e dovresti inforcar li suoi arcioni,

  giusto giudicio da le stelle caggia
  sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
  tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!

  Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
  per cupidigia di costà distretti,
  che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.

  Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
  Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
  color già tristi, e questi con sospetti!

  Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
  d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
  e vedrai Santafior com’ è oscura!

  Vieni a veder la tua Roma che piagne
  vedova e sola, e dì e notte chiama:
  «Cesare mio, perché non m’accompagne?».

  Vieni a veder la gente quanto s’ama!
  e se nulla di noi pietà ti move,
  a vergognar ti vien de la tua fama.

  E se licito m’è, o sommo Giove
  che fosti in terra per noi crucifisso,
  son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

  O è preparazion che ne l’abisso
  del tuo consiglio fai per alcun bene
  in tutto de l’accorger nostro scisso?

  Ché le città d’Italia tutte piene
  son di tiranni, e un Marcel diventa
  ogne villan che parteggiando viene.

  Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
  di questa digression che non ti tocca,
  mercé del popol tuo che si argomenta.

  Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
  per non venir sanza consiglio a l’arco;
  ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.

  Molti rifiutan lo comune incarco;
  ma il popol tuo solicito risponde
  sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».

  Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
  tu ricca, tu con pace e tu con senno!
  S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.

  Atene e Lacedemona, che fenno
  l’antiche leggi e furon sì civili,
  fecero al viver bene un picciol cenno

  verso di te, che fai tanto sottili
  provedimenti, ch’a mezzo novembre
  non giugne quel che tu d’ottobre fili.

  Quante volte, del tempo che rimembre,
  legge, moneta, officio e costume
  hai tu mutato, e rinovate membre!

  E se ben ti ricordi e vedi lume,
  vedrai te somigliante a quella inferma
  che non può trovar posa in su le piume,

  ma con dar volta suo dolore scherma.



  Purgatorio • Canto VII


  Poscia che l’accoglienze oneste e liete
  furo iterate tre e quattro volte,
  Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?».

  «Anzi che a questo monte fosser volte
  l’anime degne di salire a Dio,
  fur l’ossa mie per Ottavian sepolte.

  Io son Virgilio; e per null’ altro rio
  lo ciel perdei che per non aver fé».
  Così rispuose allora il duca mio.

  Qual è colui che cosa innanzi sé
  sùbita vede ond’ e’ si maraviglia,
  che crede e non, dicendo «Ella è . . . non è . . . »,

  tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,
  e umilmente ritornò ver’ lui,
  e abbracciòl là ’ve ’l minor s’appiglia.

  «O gloria di Latin», disse, «per cui
  mostrò ciò che potea la lingua nostra,
  o pregio etterno del loco ond’ io fui,

  qual merito o qual grazia mi ti mostra?
  S’io son d’udir le tue parole degno,
  dimmi se vien d’inferno, e di qual chiostra».

  «Per tutt’ i cerchi del dolente regno»,
  rispuose lui, «son io di qua venuto;
  virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.

  Non per far, ma per non fare ho perduto
  a veder l’alto Sol che tu disiri
  e che fu tardi per me conosciuto.

  Luogo è là giù non tristo di martìri,
  ma di tenebre solo, ove i lamenti
  non suonan come guai, ma son sospiri.

  Quivi sto io coi pargoli innocenti
  dai denti morsi de la morte avante
  che fosser da l’umana colpa essenti;

  quivi sto io con quei che le tre sante
  virtù non si vestiro, e sanza vizio
  conobber l’altre e seguir tutte quante.

  Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
  dà noi per che venir possiam più tosto
  là dove purgatorio ha dritto inizio».

  Rispuose: «Loco certo non c’è posto;
  licito m’è andar suso e intorno;
  per quanto ir posso, a guida mi t’accosto.

  Ma vedi già come dichina il giorno,
  e andar sù di notte non si puote;
  però è buon pensar di bel soggiorno.

  Anime sono a destra qua remote;
  se mi consenti, io ti merrò ad esse,
  e non sanza diletto ti fier note».

  «Com’ è ciò?», fu risposto. «Chi volesse
  salir di notte, fora elli impedito
  d’altrui, o non sarria ché non potesse?».

  E ’l buon Sordello in terra fregò ’l dito,
  dicendo: «Vedi? sola questa riga
  non varcheresti dopo ’l sol partito:

  non però ch’altra cosa desse briga,
  che la notturna tenebra, ad ir suso;
  quella col nonpoder la voglia intriga.

  Ben si poria con lei tornare in giuso
  e passeggiar la costa intorno errando,
  mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso».

  Allora il mio segnor, quasi ammirando,
  «Menane», disse, «dunque là ’ve dici
  ch’aver si può diletto dimorando».

  Poco allungati c’eravam di lici,
  quand’ io m’accorsi che ’l monte era scemo,
  a guisa che i vallon li sceman quici.

  «Colà», disse quell’ ombra, «n’anderemo
  dove la costa face di sé grembo;
  e là il novo giorno attenderemo».

  Tra erto e piano era un sentiero schembo,
  che ne condusse in fianco de la lacca,
  là dove più ch’a mezzo muore il lembo.

  Oro e argento fine, cocco e biacca,
  indaco, legno lucido e sereno,
  fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,

  da l’erba e da li fior, dentr’ a quel seno
  posti, ciascun saria di color vinto,
  come dal suo maggiore è vinto il meno.

  Non avea pur natura ivi dipinto,
  ma di soavità di mille odori
  vi facea uno incognito e indistinto.

  ‘Salve, Regina’ in sul verde e ’n su’ fiori
  quindi seder cantando anime vidi,
  che per la valle non parean di fuori.

  «Prima che ’l poco sole omai s’annidi»,
  cominciò ’l Mantoan che ci avea vòlti,
  «tra color non vogliate ch’io vi guidi.

  Di questo balzo meglio li atti e ’ volti
  conoscerete voi di tutti quanti,
  che ne la lama giù tra essi accolti.

  Colui che più siede alto e fa sembianti
  d’aver negletto ciò che far dovea,
  e che non move bocca a li altrui canti,

  Rodolfo imperador fu, che potea
  sanar le piaghe c’hanno Italia morta,
  sì che tardi per altri si ricrea.

  L’altro che ne la vista lui conforta,
  resse la terra dove l’acqua nasce
  che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:

  Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce
  fu meglio assai che Vincislao suo figlio
  barbuto, cui lussuria e ozio pasce.

  E quel nasetto che stretto a consiglio
  par con colui c’ha sì benigno aspetto,
  morì fuggendo e disfiorando il giglio:

  guardate là come si batte il petto!
  L’altro vedete c’ha fatto a la guancia
  de la sua palma, sospirando, letto.

  Padre e suocero son del mal di Francia:
  sanno la vita sua viziata e lorda,
  e quindi viene il duol che sì li lancia.

  Quel che par sì membruto e che s’accorda,
  cantando, con colui dal maschio naso,
  d’ogne valor portò cinta la corda;

  e se re dopo lui fosse rimaso
  lo giovanetto che retro a lui siede,
  ben andava il valor di vaso in vaso,

  che non si puote dir de l’altre rede;
  Iacomo e Federigo hanno i reami;
  del retaggio miglior nessun possiede.

  Rade volte risurge per li rami
  l’umana probitate; e questo vole
  quei che la dà, perché da lui si chiami.

  Anche al nasuto vanno mie parole
  non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta,
  onde Puglia e Proenza già si dole.

  Tant’ è del seme suo minor la pianta,
  quanto, più che Beatrice e Margherita,
  Costanza di marito ancor si vanta.

  Vedete il re de la semplice vita
  seder là solo, Arrigo d’Inghilterra:
  questi ha ne’ rami suoi migliore uscita.

  Quel che più basso tra costor s’atterra,
  guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
  per cui e Alessandria e la sua guerra

  fa pianger Monferrato e Canavese».



  Purgatorio • Canto VIII


  Era già l’ora che volge il disio
  ai navicanti e ’ntenerisce il core
  lo dì c’han detto ai dolci amici addio;

  e che lo novo peregrin d’amore
  punge, se ode squilla di lontano
  che paia il giorno pianger che si more;

  quand’ io incominciai a render vano
  l’udire e a mirare una de l’alme
  surta, che l’ascoltar chiedea con mano.

  Ella giunse e levò ambo le palme,
  ficcando li occhi verso l’orïente,
  come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’.

  ‘Te lucis ante’ sì devotamente
  le uscìo di bocca e con sì dolci note,
  che fece me a me uscir di mente;

  e l’altre poi dolcemente e devote
  seguitar lei per tutto l’inno intero,
  avendo li occhi a le superne rote.

  Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
  ché ’l velo è ora ben tanto sottile,
  certo che ’l trapassar dentro è leggero.

  Io vidi quello essercito gentile
  tacito poscia riguardare in sùe,
  quasi aspettando, palido e umìle;

  e vidi uscir de l’alto e scender giùe
  due angeli con due spade affocate,
  tronche e private de le punte sue.

  Verdi come fogliette pur mo nate
  erano in veste, che da verdi penne
  percosse traean dietro e ventilate.

  L’un poco sovra noi a star si venne,
  e l’altro scese in l’opposita sponda,
  sì che la gente in mezzo si contenne.

  Ben discernëa in lor la testa bionda;
  ma ne la faccia l’occhio si smarria,
  come virtù ch’a troppo si confonda.

  «Ambo vegnon del grembo di Maria»,
  disse Sordello, «a guardia de la valle,
  per lo serpente che verrà vie via».

  Ond’ io, che non sapeva per qual calle,
  mi volsi intorno, e stretto m’accostai,
  tutto gelato, a le fidate spalle.

  E Sordello anco: «Or avvalliamo omai
  tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
  grazïoso fia lor vedervi assai».

  Solo tre passi credo ch’i’ scendesse,
  e fui di sotto, e vidi un che mirava
  pur me, come conoscer mi volesse.

  Temp’ era già che l’aere s’annerava,
  ma non sì che tra li occhi suoi e ’ miei
  non dichiarisse ciò che pria serrava.

  Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei:
  giudice Nin gentil, quanto mi piacque
  quando ti vidi non esser tra ’ rei!

  Nullo bel salutar tra noi si tacque;
  poi dimandò: «Quant’ è che tu venisti
  a piè del monte per le lontane acque?».

  «Oh!», diss’ io lui, «per entro i luoghi tristi
  venni stamane, e sono in prima vita,
  ancor che l’altra, sì andando, acquisti».

  E come fu la mia risposta udita,
  Sordello ed elli in dietro si raccolse
  come gente di sùbito smarrita.

  L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse
  che sedea lì, gridando: «Sù, Currado!
  vieni a veder che Dio per grazia volse».

  Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado
  che tu dei a colui che sì nasconde
  lo suo primo perché, che non lì è guado,

  quando sarai di là da le larghe onde,
  dì a Giovanna mia che per me chiami
  là dove a li ’nnocenti si risponde.

  Non credo che la sua madre più m’ami,
  poscia che trasmutò le bianche bende,
  le quai convien che, misera!, ancor brami.

  Per lei assai di lieve si comprende
  quanto in femmina foco d’amor dura,
  se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende.

  Non le farà sì bella sepultura
  la vipera che Melanesi accampa,
  com’ avria fatto il gallo di Gallura».

  Così dicea, segnato de la stampa,
  nel suo aspetto, di quel dritto zelo
  che misuratamente in core avvampa.

  Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
  pur là dove le stelle son più tarde,
  sì come rota più presso a lo stelo.

  E ’l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?».
  E io a lui: «A quelle tre facelle
  di che ’l polo di qua tutto quanto arde».

  Ond’ elli a me: «Le quattro chiare stelle
  che vedevi staman, son di là basse,
  e queste son salite ov’ eran quelle».

  Com’ ei parlava, e Sordello a sé il trasse
  dicendo: «Vedi là ’l nostro avversaro»;
  e drizzò il dito perché ’n là guardasse.

  Da quella parte onde non ha riparo
  la picciola vallea, era una biscia,
  forse qual diede ad Eva il cibo amaro.

  Tra l’erba e ’ fior venìa la mala striscia,
  volgendo ad ora ad or la testa, e ’l dosso
  leccando come bestia che si liscia.

  Io non vidi, e però dicer non posso,
  come mosser li astor celestïali;
  ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso.

  Sentendo fender l’aere a le verdi ali,
  fuggì ’l serpente, e li angeli dier volta,
  suso a le poste rivolando iguali.

  L’ombra che s’era al giudice raccolta
  quando chiamò, per tutto quello assalto
  punto non fu da me guardare sciolta.

  «Se la lucerna che ti mena in alto
  truovi nel tuo arbitrio tanta cera
  quant’ è mestiere infino al sommo smalto»,

  cominciò ella, «se novella vera
  di Val di Magra o di parte vicina
  sai, dillo a me, che già grande là era.

  Fui chiamato Currado Malaspina;
  non son l’antico, ma di lui discesi;
  a’ miei portai l’amor che qui raffina».

  «Oh!», diss’ io lui, «per li vostri paesi
  già mai non fui; ma dove si dimora
  per tutta Europa ch’ei non sien palesi?

  La fama che la vostra casa onora,
  grida i segnori e grida la contrada,
  sì che ne sa chi non vi fu ancora;

  e io vi giuro, s’io di sopra vada,
  che vostra gente onrata non si sfregia
  del pregio de la borsa e de la spada.

  Uso e natura sì la privilegia,
  che, perché il capo reo il mondo torca,
  sola va dritta e ’l mal cammin dispregia».

  Ed elli: «Or va; che ’l sol non si ricorca
  sette volte nel letto che ’l Montone
  con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,

  che cotesta cortese oppinïone
  ti fia chiavata in mezzo de la testa
  con maggior chiovi che d’altrui sermone,

  se corso di giudicio non s’arresta».



  Purgatorio • Canto IX


  La concubina di Titone antico
  già s’imbiancava al balco d’orïente,
  fuor de le braccia del suo dolce amico;

  di gemme la sua fronte era lucente,
  poste in figura del freddo animale
  che con la coda percuote la gente;

  e la notte, de’ passi con che sale,
  fatti avea due nel loco ov’ eravamo,
  e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;

  quand’ io, che meco avea di quel d’Adamo,
  vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
  là ’ve già tutti e cinque sedavamo.

  Ne l’ora che comincia i tristi lai
  la rondinella presso a la mattina,
  forse a memoria de’ suo’ primi guai,

  e che la mente nostra, peregrina
  più da la carne e men da’ pensier presa,
  a le sue visïon quasi è divina,

  in sogno mi parea veder sospesa
  un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
  con l’ali aperte e a calare intesa;

  ed esser mi parea là dove fuoro
  abbandonati i suoi da Ganimede,
  quando fu ratto al sommo consistoro.

  Fra me pensava: ‘Forse questa fiede
  pur qui per uso, e forse d’altro loco
  disdegna di portarne suso in piede’.

  Poi mi parea che, poi rotata un poco,
  terribil come folgor discendesse,
  e me rapisse suso infino al foco.

  Ivi parea che ella e io ardesse;
  e sì lo ’ncendio imaginato cosse,
  che convenne che ’l sonno si rompesse.

  Non altrimenti Achille si riscosse,
  li occhi svegliati rivolgendo in giro
  e non sappiendo là dove si fosse,

  quando la madre da Chirón a Schiro
  trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
  là onde poi li Greci il dipartiro;

  che mi scoss’ io, sì come da la faccia
  mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,
  come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.

  Dallato m’era solo il mio conforto,
  e ’l sole er’ alto già più che due ore,
  e ’l viso m’era a la marina torto.

  «Non aver tema», disse il mio segnore;
  «fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
  non stringer, ma rallarga ogne vigore.

  Tu se’ omai al purgatorio giunto:
  vedi là il balzo che ’l chiude dintorno;
  vedi l’entrata là ’ve par digiunto.

  Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
  quando l’anima tua dentro dormia,
  sovra li fiori ond’ è là giù addorno

  venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
  lasciatemi pigliar costui che dorme;
  sì l’agevolerò per la sua via”.

  Sordel rimase e l’altre genti forme;
  ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,
  sen venne suso; e io per le sue orme.

  Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
  li occhi suoi belli quella intrata aperta;
  poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro».

  A guisa d’uom che ’n dubbio si raccerta
  e che muta in conforto sua paura,
  poi che la verità li è discoperta,

  mi cambia’ io; e come sanza cura
  vide me ’l duca mio, su per lo balzo
  si mosse, e io di rietro inver’ l’altura.

  Lettor, tu vedi ben com’ io innalzo
  la mia matera, e però con più arte
  non ti maravigliar s’io la rincalzo.

  Noi ci appressammo, ed eravamo in parte
  che là dove pareami prima rotto,
  pur come un fesso che muro diparte,

  vidi una porta, e tre gradi di sotto
  per gire ad essa, di color diversi,
  e un portier ch’ancor non facea motto.

  E come l’occhio più e più v’apersi,
  vidil seder sovra ’l grado sovrano,
  tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;

  e una spada nuda avëa in mano,
  che reflettëa i raggi sì ver’ noi,
  ch’io drizzava spesso il viso in vano.

  «Dite costinci: che volete voi?»,
  cominciò elli a dire, «ov’ è la scorta?
  Guardate che ’l venir sù non vi nòi».

  «Donna del ciel, di queste cose accorta»,
  rispuose ’l mio maestro a lui, «pur dianzi
  ne disse: “Andate là: quivi è la porta”».

  «Ed ella i passi vostri in bene avanzi»,
  ricominciò il cortese portinaio:
  «Venite dunque a’ nostri gradi innanzi».

  Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
  bianco marmo era sì pulito e terso,
  ch’io mi specchiai in esso qual io paio.

  Era il secondo tinto più che perso,
  d’una petrina ruvida e arsiccia,
  crepata per lo lungo e per traverso.

  Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
  porfido mi parea, sì fiammeggiante
  come sangue che fuor di vena spiccia.

  Sovra questo tenëa ambo le piante
  l’angel di Dio sedendo in su la soglia
  che mi sembiava pietra di diamante.

  Per li tre gradi sù di buona voglia
  mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
  umilemente che ’l serrame scioglia».

  Divoto mi gittai a’ santi piedi;
  misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,
  ma tre volte nel petto pria mi diedi.

  Sette P ne la fronte mi descrisse
  col punton de la spada, e «Fa che lavi,
  quando se’ dentro, queste piaghe» disse.

  Cenere, o terra che secca si cavi,
  d’un color fora col suo vestimento;
  e di sotto da quel trasse due chiavi.

  L’una era d’oro e l’altra era d’argento;
  pria con la bianca e poscia con la gialla
  fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento.

  «Quandunque l’una d’este chiavi falla,
  che non si volga dritta per la toppa»,
  diss’ elli a noi, «non s’apre questa calla.

  Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa
  d’arte e d’ingegno avanti che diserri,
  perch’ ella è quella che ’l nodo digroppa.

  Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
  anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
  pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».

  Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
  dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
  che di fuor torna chi ’n dietro si guata».

  E quando fuor ne’ cardini distorti
  li spigoli di quella regge sacra,
  che di metallo son sonanti e forti,

  non rugghiò sì né si mostrò sì acra
  Tarpëa, come tolto le fu il buono
  Metello, per che poi rimase macra.

  Io mi rivolsi attento al primo tuono,
  e ‘Te Deum laudamus’ mi parea
  udire in voce mista al dolce suono.

  Tale imagine a punto mi rendea
  ciò ch’io udiva, qual prender si suole
  quando a cantar con organi si stea;

  ch’or sì or no s’intendon le parole.



  Purgatorio • Canto X


  Poi fummo dentro al soglio de la porta
  che ’l mal amor de l’anime disusa,
  perché fa parer dritta la via torta,

  sonando la senti’ esser richiusa;
  e s’io avesse li occhi vòlti ad essa,
  qual fora stata al fallo degna scusa?

  Noi salavam per una pietra fessa,
  che si moveva e d’una e d’altra parte,
  sì come l’onda che fugge e s’appressa.

  «Qui si conviene usare un poco d’arte»,
  cominciò ’l duca mio, «in accostarsi
  or quinci, or quindi al lato che si parte».

  E questo fece i nostri passi scarsi,
  tanto che pria lo scemo de la luna
  rigiunse al letto suo per ricorcarsi,

  che noi fossimo fuor di quella cruna;
  ma quando fummo liberi e aperti
  sù dove il monte in dietro si rauna,

  ïo stancato e amendue incerti
  di nostra via, restammo in su un piano
  solingo più che strade per diserti.

  Da la sua sponda, ove confina il vano,
  al piè de l’alta ripa che pur sale,
  misurrebbe in tre volte un corpo umano;

  e quanto l’occhio mio potea trar d’ale,
  or dal sinistro e or dal destro fianco,
  questa cornice mi parea cotale.

  Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
  quand’ io conobbi quella ripa intorno
  che dritto di salita aveva manco,

  esser di marmo candido e addorno
  d’intagli sì, che non pur Policleto,
  ma la natura lì avrebbe scorno.

  L’angel che venne in terra col decreto
  de la molt’ anni lagrimata pace,
  ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,

  dinanzi a noi pareva sì verace
  quivi intagliato in un atto soave,
  che non sembiava imagine che tace.

  Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’;
  perché iv’ era imaginata quella
  ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;

  e avea in atto impressa esta favella
  ‘Ecce ancilla Deï’, propriamente
  come figura in cera si suggella.

  «Non tener pur ad un loco la mente»,
  disse ’l dolce maestro, che m’avea
  da quella parte onde ’l cuore ha la gente.

  Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea
  di retro da Maria, da quella costa
  onde m’era colui che mi movea,

  un’altra storia ne la roccia imposta;
  per ch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso,
  acciò che fosse a li occhi miei disposta.

  Era intagliato lì nel marmo stesso
  lo carro e ’ buoi, traendo l’arca santa,
  per che si teme officio non commesso.

  Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
  partita in sette cori, a’ due mie’ sensi
  faceva dir l’un ‘No’, l’altro ‘Sì, canta’.

  Similemente al fummo de li ’ncensi
  che v’era imaginato, li occhi e ’l naso
  e al sì e al no discordi fensi.

  Lì precedeva al benedetto vaso,
  trescando alzato, l’umile salmista,
  e più e men che re era in quel caso.

  Di contra, effigïata ad una vista
  d’un gran palazzo, Micòl ammirava
  sì come donna dispettosa e trista.

  I’ mossi i piè del loco dov’ io stava,
  per avvisar da presso un’altra istoria,
  che di dietro a Micòl mi biancheggiava.

  Quiv’ era storïata l’alta gloria
  del roman principato, il cui valore
  mosse Gregorio a la sua gran vittoria;

  i’ dico di Traiano imperadore;
  e una vedovella li era al freno,
  di lagrime atteggiata e di dolore.

  Intorno a lui parea calcato e pieno
  di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
  sovr’ essi in vista al vento si movieno.

  La miserella intra tutti costoro
  pareva dir: «Segnor, fammi vendetta
  di mio figliuol ch’è morto, ond’ io m’accoro»;

  ed elli a lei rispondere: «Or aspetta
  tanto ch’i’ torni»; e quella: «Segnor mio»,
  come persona in cui dolor s’affretta,

  «se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov’ io,
  la ti farà»; ed ella: «L’altrui bene
  a te che fia, se ’l tuo metti in oblio?»;

  ond’ elli: «Or ti conforta; ch’ei convene
  ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
  giustizia vuole e pietà mi ritene».

  Colui che mai non vide cosa nova
  produsse esto visibile parlare,
  novello a noi perché qui non si trova.

  Mentr’ io mi dilettava di guardare
  l’imagini di tante umilitadi,
  e per lo fabbro loro a veder care,

  «Ecco di qua, ma fanno i passi radi»,
  mormorava il poeta, «molte genti:
  questi ne ’nvïeranno a li alti gradi».

  Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti
  per veder novitadi ond’ e’ son vaghi,
  volgendosi ver’ lui non furon lenti.

  Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi
  di buon proponimento per udire
  come Dio vuol che ’l debito si paghi.

  Non attender la forma del martìre:
  pensa la succession; pensa ch’al peggio
  oltre la gran sentenza non può ire.

  Io cominciai: «Maestro, quel ch’io veggio
  muovere a noi, non mi sembian persone,
  e non so che, sì nel veder vaneggio».

  Ed elli a me: «La grave condizione
  di lor tormento a terra li rannicchia,
  sì che ’ miei occhi pria n’ebber tencione.

  Ma guarda fiso là, e disviticchia
  col viso quel che vien sotto a quei sassi:
  già scorger puoi come ciascun si picchia».

  O superbi cristian, miseri lassi,
  che, de la vista de la mente infermi,
  fidanza avete ne’ retrosi passi,

  non v’accorgete voi che noi siam vermi
  nati a formar l’angelica farfalla,
  che vola a la giustizia sanza schermi?

  Di che l’animo vostro in alto galla,
  poi siete quasi antomata in difetto,
  sì come vermo in cui formazion falla?

  Come per sostentar solaio o tetto,
  per mensola talvolta una figura
  si vede giugner le ginocchia al petto,

  la qual fa del non ver vera rancura
  nascere ’n chi la vede; così fatti
  vid’ io color, quando puosi ben cura.

  Vero è che più e meno eran contratti
  secondo ch’avien più e meno a dosso;
  e qual più pazïenza avea ne li atti,

  piangendo parea dicer: ‘Più non posso’.



  Purgatorio • Canto XI


  «O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
  non circunscritto, ma per più amore
  ch’ai primi effetti di là sù tu hai,

  laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
  da ogne creatura, com’ è degno
  di render grazie al tuo dolce vapore.

  Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
  ché noi ad essa non potem da noi,
  s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.

  Come del suo voler li angeli tuoi
  fan sacrificio a te, cantando osanna,
  così facciano li uomini de’ suoi.

  Dà oggi a noi la cotidiana manna,
  sanza la qual per questo aspro diserto
  a retro va chi più di gir s’affanna.

  E come noi lo mal ch’avem sofferto
  perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
  benigno, e non guardar lo nostro merto.

  Nostra virtù che di legger s’adona,
  non spermentar con l’antico avversaro,
  ma libera da lui che sì la sprona.

  Quest’ ultima preghiera, segnor caro,
  già non si fa per noi, ché non bisogna,
  ma per color che dietro a noi restaro».

  Così a sé e noi buona ramogna
  quell’ ombre orando, andavan sotto ’l pondo,
  simile a quel che talvolta si sogna,

  disparmente angosciate tutte a tondo
  e lasse su per la prima cornice,
  purgando la caligine del mondo.

  Se di là sempre ben per noi si dice,
  di qua che dire e far per lor si puote
  da quei c’hanno al voler buona radice?

  Ben si de’ loro atar lavar le note
  che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
  possano uscire a le stellate ruote.

  «Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
  tosto, sì che possiate muover l’ala,
  che secondo il disio vostro vi lievi,

  mostrate da qual mano inver’ la scala
  si va più corto; e se c’è più d’un varco,
  quel ne ’nsegnate che men erto cala;

  ché questi che vien meco, per lo ’ncarco
  de la carne d’Adamo onde si veste,
  al montar sù, contra sua voglia, è parco».

  Le lor parole, che rendero a queste
  che dette avea colui cu’ io seguiva,
  non fur da cui venisser manifeste;

  ma fu detto: «A man destra per la riva
  con noi venite, e troverete il passo
  possibile a salir persona viva.

  E s’io non fossi impedito dal sasso
  che la cervice mia superba doma,
  onde portar convienmi il viso basso,

  cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
  guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,
  e per farlo pietoso a questa soma.

  Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
  Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
  non so se ’l nome suo già mai fu vosco.

  L’antico sangue e l’opere leggiadre
  d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
  che, non pensando a la comune madre,

  ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante,
  ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
  e sallo in Campagnatico ogne fante.

  Io sono Omberto; e non pur a me danno
  superbia fa, ché tutti miei consorti
  ha ella tratti seco nel malanno.

  E qui convien ch’io questo peso porti
  per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
  poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra ’ morti».

  Ascoltando chinai in giù la faccia;
  e un di lor, non questi che parlava,
  si torse sotto il peso che li ’mpaccia,

  e videmi e conobbemi e chiamava,
  tenendo li occhi con fatica fisi
  a me che tutto chin con loro andava.

  «Oh!», diss’ io lui, «non se’ tu Oderisi,
  l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte
  ch’alluminar chiamata è in Parisi?».

  «Frate», diss’ elli, «più ridon le carte
  che pennelleggia Franco Bolognese;
  l’onore è tutto or suo, e mio in parte.

  Ben non sare’ io stato sì cortese
  mentre ch’io vissi, per lo gran disio
  de l’eccellenza ove mio core intese.

  Di tal superbia qui si paga il fio;
  e ancor non sarei qui, se non fosse
  che, possendo peccar, mi volsi a Dio.

  Oh vana gloria de l’umane posse!
  com’ poco verde in su la cima dura,
  se non è giunta da l’etati grosse!

  Credette Cimabue ne la pittura
  tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
  sì che la fama di colui è scura.

  Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
  la gloria de la lingua; e forse è nato
  chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

  Non è il mondan romore altro ch’un fiato
  di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
  e muta nome perché muta lato.

  Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
  da te la carne, che se fossi morto
  anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ’l ‘dindi’,

  pria che passin mill’ anni? ch’è più corto
  spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
  al cerchio che più tardi in cielo è torto.

  Colui che del cammin sì poco piglia
  dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
  e ora a pena in Siena sen pispiglia,

  ond’ era sire quando fu distrutta
  la rabbia fiorentina, che superba
  fu a quel tempo sì com’ ora è putta.

  La vostra nominanza è color d’erba,
  che viene e va, e quei la discolora
  per cui ella esce de la terra acerba».

  E io a lui: «Tuo vero dir m’incora
  bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
  ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».

  «Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani;
  ed è qui perché fu presuntüoso
  a recar Siena tutta a le sue mani.

  Ito è così e va, sanza riposo,
  poi che morì; cotal moneta rende
  a sodisfar chi è di là troppo oso».

  E io: «Se quello spirito ch’attende,
  pria che si penta, l’orlo de la vita,
  qua giù dimora e qua sù non ascende,

  se buona orazïon lui non aita,
  prima che passi tempo quanto visse,
  come fu la venuta lui largita?».

  «Quando vivea più glorïoso», disse,
  «liberamente nel Campo di Siena,
  ogne vergogna diposta, s’affisse;

  e lì, per trar l’amico suo di pena,
  ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
  si condusse a tremar per ogne vena.

  Più non dirò, e scuro so che parlo;
  ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
  faranno sì che tu potrai chiosarlo.

  Quest’ opera li tolse quei confini».



  Purgatorio • Canto XII


  Di pari, come buoi che vanno a giogo,
  m’andava io con quell’ anima carca,
  fin che ’l sofferse il dolce pedagogo.

  Ma quando disse: «Lascia lui e varca;
  ché qui è buono con l’ali e coi remi,
  quantunque può, ciascun pinger sua barca»;

  dritto sì come andar vuolsi rife’mi
  con la persona, avvegna che i pensieri
  mi rimanessero e chinati e scemi.

  Io m’era mosso, e seguia volontieri
  del mio maestro i passi, e amendue
  già mostravam com’ eravam leggeri;

  ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe:
  buon ti sarà, per tranquillar la via,
  veder lo letto de le piante tue».

  Come, perché di lor memoria sia,
  sovra i sepolti le tombe terragne
  portan segnato quel ch’elli eran pria,

  onde lì molte volte si ripiagne
  per la puntura de la rimembranza,
  che solo a’ pïi dà de le calcagne;

  sì vid’ io lì, ma di miglior sembianza
  secondo l’artificio, figurato
  quanto per via di fuor del monte avanza.

  Vedea colui che fu nobil creato
  più ch’altra creatura, giù dal cielo
  folgoreggiando scender, da l’un lato.

  Vedëa Brïareo fitto dal telo
  celestïal giacer, da l’altra parte,
  grave a la terra per lo mortal gelo.

  Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
  armati ancora, intorno al padre loro,
  mirar le membra d’i Giganti sparte.

  Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
  quasi smarrito, e riguardar le genti
  che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro.

  O Nïobè, con che occhi dolenti
  vedea io te segnata in su la strada,
  tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!

  O Saùl, come in su la propria spada
  quivi parevi morto in Gelboè,
  che poi non sentì pioggia né rugiada!

  O folle Aragne, sì vedea io te
  già mezza ragna, trista in su li stracci
  de l’opera che mal per te si fé.

  O Roboàm, già non par che minacci
  quivi ’l tuo segno; ma pien di spavento
  nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci.

  Mostrava ancor lo duro pavimento
  come Almeon a sua madre fé caro
  parer lo sventurato addornamento.

  Mostrava come i figli si gittaro
  sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
  e come, morto lui, quivi il lasciaro.

  Mostrava la ruina e ’l crudo scempio
  che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
  «Sangue sitisti, e io di sangue t’empio».

  Mostrava come in rotta si fuggiro
  li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
  e anche le reliquie del martiro.

  Vedeva Troia in cenere e in caverne;
  o Ilïón, come te basso e vile
  mostrava il segno che lì si discerne!

  Qual di pennel fu maestro o di stile
  che ritraesse l’ombre e ’ tratti ch’ivi
  mirar farieno uno ingegno sottile?

  Morti li morti e i vivi parean vivi:
  non vide mei di me chi vide il vero,
  quant’ io calcai, fin che chinato givi.

  Or superbite, e via col viso altero,
  figliuoli d’Eva, e non chinate il volto
  sì che veggiate il vostro mal sentero!

  Più era già per noi del monte vòlto
  e del cammin del sole assai più speso
  che non stimava l’animo non sciolto,

  quando colui che sempre innanzi atteso
  andava, cominciò: «Drizza la testa;
  non è più tempo di gir sì sospeso.

  Vedi colà un angel che s’appresta
  per venir verso noi; vedi che torna
  dal servigio del dì l’ancella sesta.

  Di reverenza il viso e li atti addorna,
  sì che i diletti lo ’nvïarci in suso;
  pensa che questo dì mai non raggiorna!».

  Io era ben del suo ammonir uso
  pur di non perder tempo, sì che ’n quella
  materia non potea parlarmi chiuso.

  A noi venìa la creatura bella,
  biancovestito e ne la faccia quale
  par tremolando mattutina stella.

  Le braccia aperse, e indi aperse l’ale;
  disse: «Venite: qui son presso i gradi,
  e agevolemente omai si sale.

  A questo invito vegnon molto radi:
  o gente umana, per volar sù nata,
  perché a poco vento così cadi?».

  Menocci ove la roccia era tagliata;
  quivi mi batté l’ali per la fronte;
  poi mi promise sicura l’andata.

  Come a man destra, per salire al monte
  dove siede la chiesa che soggioga
  la ben guidata sopra Rubaconte,

  si rompe del montar l’ardita foga
  per le scalee che si fero ad etade
  ch’era sicuro il quaderno e la doga;

  così s’allenta la ripa che cade
  quivi ben ratta da l’altro girone;
  ma quinci e quindi l’alta pietra rade.

  Noi volgendo ivi le nostre persone,
  ‘Beati pauperes spiritu!’ voci
  cantaron sì, che nol diria sermone.

  Ahi quanto son diverse quelle foci
  da l’infernali! ché quivi per canti
  s’entra, e là giù per lamenti feroci.

  Già montavam su per li scaglion santi,
  ed esser mi parea troppo più lieve
  che per lo pian non mi parea davanti.

  Ond’ io: «Maestro, dì, qual cosa greve
  levata s’è da me, che nulla quasi
  per me fatica, andando, si riceve?».

  Rispuose: «Quando i P che son rimasi
  ancor nel volto tuo presso che stinti,
  saranno, com’ è l’un, del tutto rasi,

  fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti,
  che non pur non fatica sentiranno,
  ma fia diletto loro esser sù pinti».

  Allor fec’ io come color che vanno
  con cosa in capo non da lor saputa,
  se non che ’ cenni altrui sospecciar fanno;

  per che la mano ad accertar s’aiuta,
  e cerca e truova e quello officio adempie
  che non si può fornir per la veduta;

  e con le dita de la destra scempie
  trovai pur sei le lettere che ’ncise
  quel da le chiavi a me sovra le tempie:

  a che guardando, il mio duca sorrise.



  Purgatorio • Canto XIII


  Noi eravamo al sommo de la scala,
  dove secondamente si risega
  lo monte che salendo altrui dismala.

  Ivi così una cornice lega
  dintorno il poggio, come la primaia;
  se non che l’arco suo più tosto piega.

  Ombra non lì è né segno che si paia:
  parsi la ripa e parsi la via schietta
  col livido color de la petraia.

  «Se qui per dimandar gente s’aspetta»,
  ragionava il poeta, «io temo forse
  che troppo avrà d’indugio nostra eletta».

  Poi fisamente al sole li occhi porse;
  fece del destro lato a muover centro,
  e la sinistra parte di sé torse.

  «O dolce lume a cui fidanza i’ entro
  per lo novo cammin, tu ne conduci»,
  dicea, «come condur si vuol quinc’ entro.

  Tu scaldi il mondo, tu sovr’ esso luci;
  s’altra ragione in contrario non ponta,
  esser dien sempre li tuoi raggi duci».

  Quanto di qua per un migliaio si conta,
  tanto di là eravam noi già iti,
  con poco tempo, per la voglia pronta;

  e verso noi volar furon sentiti,
  non però visti, spiriti parlando
  a la mensa d’amor cortesi inviti.

  La prima voce che passò volando
  ‘Vinum non habent’ altamente disse,
  e dietro a noi l’andò reïterando.

  E prima che del tutto non si udisse
  per allungarsi, un’altra ‘I’ sono Oreste’
  passò gridando, e anco non s’affisse.

  «Oh!», diss’ io, «padre, che voci son queste?».
  E com’ io domandai, ecco la terza
  dicendo: ‘Amate da cui male aveste’.

  E ’l buon maestro: «Questo cinghio sferza
  la colpa de la invidia, e però sono
  tratte d’amor le corde de la ferza.

  Lo fren vuol esser del contrario suono;
  credo che l’udirai, per mio avviso,
  prima che giunghi al passo del perdono.

  Ma ficca li occhi per l’aere ben fiso,
  e vedrai gente innanzi a noi sedersi,
  e ciascun è lungo la grotta assiso».

  Allora più che prima li occhi apersi;
  guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti
  al color de la pietra non diversi.

  E poi che fummo un poco più avanti,
  udia gridar: ‘Maria, òra per noi’:
  gridar ‘Michele’ e ‘Pietro’ e ‘Tutti santi’.

  Non credo che per terra vada ancoi
  omo sì duro, che non fosse punto
  per compassion di quel ch’i’ vidi poi;

  ché, quando fui sì presso di lor giunto,
  che li atti loro a me venivan certi,
  per li occhi fui di grave dolor munto.

  Di vil ciliccio mi parean coperti,
  e l’un sofferia l’altro con la spalla,
  e tutti da la ripa eran sofferti.

  Così li ciechi a cui la roba falla,
  stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna,
  e l’uno il capo sopra l’altro avvalla,

  perché ’n altrui pietà tosto si pogna,
  non pur per lo sonar de le parole,
  ma per la vista che non meno agogna.

  E come a li orbi non approda il sole,
  così a l’ombre quivi, ond’ io parlo ora,
  luce del ciel di sé largir non vole;

  ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
  e cusce sì, come a sparvier selvaggio
  si fa però che queto non dimora.

  A me pareva, andando, fare oltraggio,
  veggendo altrui, non essendo veduto:
  per ch’io mi volsi al mio consiglio saggio.

  Ben sapev’ ei che volea dir lo muto;
  e però non attese mia dimanda,
  ma disse: «Parla, e sie breve e arguto».

  Virgilio mi venìa da quella banda
  de la cornice onde cader si puote,
  perché da nulla sponda s’inghirlanda;

  da l’altra parte m’eran le divote
  ombre, che per l’orribile costura
  premevan sì, che bagnavan le gote.

  Volsimi a loro e: «O gente sicura»,
  incominciai, «di veder l’alto lume
  che ’l disio vostro solo ha in sua cura,

  se tosto grazia resolva le schiume
  di vostra coscïenza sì che chiaro
  per essa scenda de la mente il fiume,

  ditemi, ché mi fia grazioso e caro,
  s’anima è qui tra voi che sia latina;
  e forse lei sarà buon s’i’ l’apparo».

  «O frate mio, ciascuna è cittadina
  d’una vera città; ma tu vuo’ dire
  che vivesse in Italia peregrina».

  Questo mi parve per risposta udire
  più innanzi alquanto che là dov’ io stava,
  ond’ io mi feci ancor più là sentire.

  Tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava
  in vista; e se volesse alcun dir ‘Come?’,
  lo mento a guisa d’orbo in sù levava.

  «Spirto», diss’ io, «che per salir ti dome,
  se tu se’ quelli che mi rispondesti,
  fammiti conto o per luogo o per nome».

  «Io fui sanese», rispuose, «e con questi
  altri rimendo qui la vita ria,
  lagrimando a colui che sé ne presti.

  Savia non fui, avvegna che Sapìa
  fossi chiamata, e fui de li altrui danni
  più lieta assai che di ventura mia.

  E perché tu non creda ch’io t’inganni,
  odi s’i’ fui, com’ io ti dico, folle,
  già discendendo l’arco d’i miei anni.

  Eran li cittadin miei presso a Colle
  in campo giunti co’ loro avversari,
  e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.

  Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
  passi di fuga; e veggendo la caccia,
  letizia presi a tutte altre dispari,

  tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,
  gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
  come fé ’l merlo per poca bonaccia.

  Pace volli con Dio in su lo stremo
  de la mia vita; e ancor non sarebbe
  lo mio dover per penitenza scemo,

  se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
  Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
  a cui di me per caritate increbbe.

  Ma tu chi se’, che nostre condizioni
  vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
  sì com’ io credo, e spirando ragioni?».

  «Li occhi», diss’ io, «mi fieno ancor qui tolti,
  ma picciol tempo, ché poca è l’offesa
  fatta per esser con invidia vòlti.

  Troppa è più la paura ond’ è sospesa
  l’anima mia del tormento di sotto,
  che già lo ’ncarco di là giù mi pesa».

  Ed ella a me: «Chi t’ha dunque condotto
  qua sù tra noi, se giù ritornar credi?».
  E io: «Costui ch’è meco e non fa motto.

  E vivo sono; e però mi richiedi,
  spirito eletto, se tu vuo’ ch’i’ mova
  di là per te ancor li mortai piedi».

  «Oh, questa è a udir sì cosa nuova»,
  rispuose, «che gran segno è che Dio t’ami;
  però col priego tuo talor mi giova.

  E cheggioti, per quel che tu più brami,
  se mai calchi la terra di Toscana,
  che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.

  Tu li vedrai tra quella gente vana
  che spera in Talamone, e perderagli
  più di speranza ch’a trovar la Diana;

  ma più vi perderanno li ammiragli».



  Purgatorio • Canto XIV


  «Chi è costui che ’l nostro monte cerchia
  prima che morte li abbia dato il volo,
  e apre li occhi a sua voglia e coverchia?».

  «Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo;
  domandal tu che più li t’avvicini,
  e dolcemente, sì che parli, acco’lo».

  Così due spirti, l’uno a l’altro chini,
  ragionavan di me ivi a man dritta;
  poi fer li visi, per dirmi, supini;

  e disse l’uno: «O anima che fitta
  nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai,
  per carità ne consola e ne ditta

  onde vieni e chi se’; ché tu ne fai
  tanto maravigliar de la tua grazia,
  quanto vuol cosa che non fu più mai».

  E io: «Per mezza Toscana si spazia
  un fiumicel che nasce in Falterona,
  e cento miglia di corso nol sazia.

  Di sovr’ esso rech’ io questa persona:
  dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno,
  ché ’l nome mio ancor molto non suona».

  «Se ben lo ’ntendimento tuo accarno
  con lo ’ntelletto», allora mi rispuose
  quei che diceva pria, «tu parli d’Arno».

  E l’altro disse lui: «Perché nascose
  questi il vocabol di quella riviera,
  pur com’ om fa de l’orribili cose?».

  E l’ombra che di ciò domandata era,
  si sdebitò così: «Non so; ma degno
  ben è che ’l nome di tal valle pèra;

  ché dal principio suo, ov’ è sì pregno
  l’alpestro monte ond’ è tronco Peloro,
  che ’n pochi luoghi passa oltra quel segno,

  infin là ’ve si rende per ristoro
  di quel che ’l ciel de la marina asciuga,
  ond’ hanno i fiumi ciò che va con loro,

  vertù così per nimica si fuga
  da tutti come biscia, o per sventura
  del luogo, o per mal uso che li fruga:

  ond’ hanno sì mutata lor natura
  li abitator de la misera valle,
  che par che Circe li avesse in pastura.

  Tra brutti porci, più degni di galle
  che d’altro cibo fatto in uman uso,
  dirizza prima il suo povero calle.

  Botoli trova poi, venendo giuso,
  ringhiosi più che non chiede lor possa,
  e da lor disdegnosa torce il muso.

  Vassi caggendo; e quant’ ella più ’ngrossa,
  tanto più trova di can farsi lupi
  la maladetta e sventurata fossa.

  Discesa poi per più pelaghi cupi,
  trova le volpi sì piene di froda,
  che non temono ingegno che le occùpi.

  Né lascerò di dir perch’ altri m’oda;
  e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta
  di ciò che vero spirto mi disnoda.

  Io veggio tuo nepote che diventa
  cacciator di quei lupi in su la riva
  del fiero fiume, e tutti li sgomenta.

  Vende la carne loro essendo viva;
  poscia li ancide come antica belva;
  molti di vita e sé di pregio priva.

  Sanguinoso esce de la trista selva;
  lasciala tal, che di qui a mille anni
  ne lo stato primaio non si rinselva».

  Com’ a l’annunzio di dogliosi danni
  si turba il viso di colui ch’ascolta,
  da qual che parte il periglio l’assanni,

  così vid’ io l’altr’ anima, che volta
  stava a udir, turbarsi e farsi trista,
  poi ch’ebbe la parola a sé raccolta.

  Lo dir de l’una e de l’altra la vista
  mi fer voglioso di saper lor nomi,
  e dimanda ne fei con prieghi mista;

  per che lo spirto che di pria parlòmi
  ricominciò: «Tu vuo’ ch’io mi deduca
  nel fare a te ciò che tu far non vuo’mi.

  Ma da che Dio in te vuol che traluca
  tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
  però sappi ch’io fui Guido del Duca.

  Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso,
  che se veduto avesse uom farsi lieto,
  visto m’avresti di livore sparso.

  Di mia semente cotal paglia mieto;
  o gente umana, perché poni ’l core
  là ’v’ è mestier di consorte divieto?

  Questi è Rinier; questi è ’l pregio e l’onore
  de la casa da Calboli, ove nullo
  fatto s’è reda poi del suo valore.

  E non pur lo suo sangue è fatto brullo,
  tra ’l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno,
  del ben richesto al vero e al trastullo;

  ché dentro a questi termini è ripieno
  di venenosi sterpi, sì che tardi
  per coltivare omai verrebber meno.

  Ov’ è ’l buon Lizio e Arrigo Mainardi?
  Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
  Oh Romagnuoli tornati in bastardi!

  Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?
  quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
  verga gentil di picciola gramigna?

  Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,
  quando rimembro, con Guido da Prata,
  Ugolin d’Azzo che vivette nosco,

  Federigo Tignoso e sua brigata,
  la casa Traversara e li Anastagi
  (e l’una gente e l’altra è diretata),

  le donne e ’ cavalier, li affanni e li agi
  che ne ’nvogliava amore e cortesia
  là dove i cuor son fatti sì malvagi.

  O Bretinoro, ché non fuggi via,
  poi che gita se n’è la tua famiglia
  e molta gente per non esser ria?

  Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
  e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
  che di figliar tai conti più s’impiglia.

  Ben faranno i Pagan, da che ’l demonio
  lor sen girà; ma non però che puro
  già mai rimagna d’essi testimonio.

  O Ugolin de’ Fantolin, sicuro
  è ’l nome tuo, da che più non s’aspetta
  chi far lo possa, tralignando, scuro.

  Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta
  troppo di pianger più che di parlare,
  sì m’ha nostra ragion la mente stretta».

  Noi sapavam che quell’ anime care
  ci sentivano andar; però, tacendo,
  facëan noi del cammin confidare.

  Poi fummo fatti soli procedendo,
  folgore parve quando l’aere fende,
  voce che giunse di contra dicendo:

  ‘Anciderammi qualunque m’apprende’;
  e fuggì come tuon che si dilegua,
  se sùbito la nuvola scoscende.

  Come da lei l’udir nostro ebbe triegua,
  ed ecco l’altra con sì gran fracasso,
  che somigliò tonar che tosto segua:

  «Io sono Aglauro che divenni sasso»;
  e allor, per ristrignermi al poeta,
  in destro feci, e non innanzi, il passo.

  Già era l’aura d’ogne parte queta;
  ed el mi disse: «Quel fu ’l duro camo
  che dovria l’uom tener dentro a sua meta.

  Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
  de l’antico avversaro a sé vi tira;
  e però poco val freno o richiamo.

  Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira,
  mostrandovi le sue bellezze etterne,
  e l’occhio vostro pur a terra mira;

  onde vi batte chi tutto discerne».



  Purgatorio • Canto XV


  Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
  e ’l principio del dì par de la spera
  che sempre a guisa di fanciullo scherza,

  tanto pareva già inver’ la sera
  essere al sol del suo corso rimaso;
  vespero là, e qui mezza notte era.

  E i raggi ne ferien per mezzo ’l naso,
  perché per noi girato era sì ’l monte,
  che già dritti andavamo inver’ l’occaso,

  quand’ io senti’ a me gravar la fronte
  a lo splendore assai più che di prima,
  e stupor m’eran le cose non conte;

  ond’ io levai le mani inver’ la cima
  de le mie ciglia, e fecimi ’l solecchio,
  che del soverchio visibile lima.

  Come quando da l’acqua o da lo specchio
  salta lo raggio a l’opposita parte,
  salendo su per lo modo parecchio

  a quel che scende, e tanto si diparte
  dal cader de la pietra in igual tratta,
  sì come mostra esperïenza e arte;

  così mi parve da luce rifratta
  quivi dinanzi a me esser percosso;
  per che a fuggir la mia vista fu ratta.

  «Che è quel, dolce padre, a che non posso
  schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
  diss’ io, «e pare inver’ noi esser mosso?».

  «Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
  la famiglia del cielo», a me rispuose:
  «messo è che viene ad invitar ch’om saglia.

  Tosto sarà ch’a veder queste cose
  non ti fia grave, ma fieti diletto
  quanto natura a sentir ti dispuose».

  Poi giunti fummo a l’angel benedetto,
  con lieta voce disse: «Intrate quinci
  ad un scaleo vie men che li altri eretto».

  Noi montavam, già partiti di linci,
  e ‘Beati misericordes!’ fue
  cantato retro, e ‘Godi tu che vinci!’.

  Lo mio maestro e io soli amendue
  suso andavamo; e io pensai, andando,
  prode acquistar ne le parole sue;

  e dirizza’mi a lui sì dimandando:
  «Che volse dir lo spirto di Romagna,
  e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?».

  Per ch’elli a me: «Di sua maggior magagna
  conosce il danno; e però non s’ammiri
  se ne riprende perché men si piagna.

  Perché s’appuntano i vostri disiri
  dove per compagnia parte si scema,
  invidia move il mantaco a’ sospiri.

  Ma se l’amor de la spera supprema
  torcesse in suso il disiderio vostro,
  non vi sarebbe al petto quella tema;

  ché, per quanti si dice più lì ‘nostro’,
  tanto possiede più di ben ciascuno,
  e più di caritate arde in quel chiostro».

  «Io son d’esser contento più digiuno»,
  diss’ io, «che se mi fosse pria taciuto,
  e più di dubbio ne la mente aduno.

  Com’ esser puote ch’un ben, distributo
  in più posseditor, faccia più ricchi
  di sé che se da pochi è posseduto?».

  Ed elli a me: «Però che tu rificchi
  la mente pur a le cose terrene,
  di vera luce tenebre dispicchi.

  Quello infinito e ineffabil bene
  che là sù è, così corre ad amore
  com’ a lucido corpo raggio vene.

  Tanto si dà quanto trova d’ardore;
  sì che, quantunque carità si stende,
  cresce sovr’ essa l’etterno valore.

  E quanta gente più là sù s’intende,
  più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
  e come specchio l’uno a l’altro rende.

  E se la mia ragion non ti disfama,
  vedrai Beatrice, ed ella pienamente
  ti torrà questa e ciascun’ altra brama.

  Procaccia pur che tosto sieno spente,
  come son già le due, le cinque piaghe,
  che si richiudon per esser dolente».

  Com’ io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’,
  vidimi giunto in su l’altro girone,
  sì che tacer mi fer le luci vaghe.

  Ivi mi parve in una visïone
  estatica di sùbito esser tratto,
  e vedere in un tempio più persone;

  e una donna, in su l’entrar, con atto
  dolce di madre dicer: «Figliuol mio,
  perché hai tu così verso noi fatto?

  Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
  ti cercavamo». E come qui si tacque,
  ciò che pareva prima, dispario.

  Indi m’apparve un’altra con quell’ acque
  giù per le gote che ’l dolor distilla
  quando di gran dispetto in altrui nacque,

  e dir: «Se tu se’ sire de la villa
  del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
  e onde ogne scïenza disfavilla,

  vendica te di quelle braccia ardite
  ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
  E ’l segnor mi parea, benigno e mite,

  risponder lei con viso temperato:
  «Che farem noi a chi mal ne disira,
  se quei che ci ama è per noi condannato?»,

  Poi vidi genti accese in foco d’ira
  con pietre un giovinetto ancider, forte
  gridando a sé pur: «Martira, martira!».

  E lui vedea chinarsi, per la morte
  che l’aggravava già, inver’ la terra,
  ma de li occhi facea sempre al ciel porte,

  orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
  che perdonasse a’ suoi persecutori,
  con quello aspetto che pietà diserra.

  Quando l’anima mia tornò di fori
  a le cose che son fuor di lei vere,
  io riconobbi i miei non falsi errori.

  Lo duca mio, che mi potea vedere
  far sì com’ om che dal sonno si slega,
  disse: «Che hai che non ti puoi tenere,

  ma se’ venuto più che mezza lega
  velando li occhi e con le gambe avvolte,
  a guisa di cui vino o sonno piega?».

  «O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
  io ti dirò», diss’ io, «ciò che m’apparve
  quando le gambe mi furon sì tolte».

  Ed ei: «Se tu avessi cento larve
  sovra la faccia, non mi sarian chiuse
  le tue cogitazion, quantunque parve.

  Ciò che vedesti fu perché non scuse
  d’aprir lo core a l’acque de la pace
  che da l’etterno fonte son diffuse.

  Non dimandai “Che hai?” per quel che face
  chi guarda pur con l’occhio che non vede,
  quando disanimato il corpo giace;

  ma dimandai per darti forza al piede:
  così frugar conviensi i pigri, lenti
  ad usar lor vigilia quando riede».

  Noi andavam per lo vespero, attenti
  oltre quanto potean li occhi allungarsi
  contra i raggi serotini e lucenti.

  Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
  verso di noi come la notte oscuro;
  né da quello era loco da cansarsi.

  Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.



  Purgatorio • Canto XVI


  Buio d’inferno e di notte privata
  d’ogne pianeto, sotto pover cielo,
  quant’ esser può di nuvol tenebrata,

  non fece al viso mio sì grosso velo
  come quel fummo ch’ivi ci coperse,
  né a sentir di così aspro pelo,

  che l’occhio stare aperto non sofferse;
  onde la scorta mia saputa e fida
  mi s’accostò e l’omero m’offerse.

  Sì come cieco va dietro a sua guida
  per non smarrirsi e per non dar di cozzo
  in cosa che ’l molesti, o forse ancida,

  m’andava io per l’aere amaro e sozzo,
  ascoltando il mio duca che diceva
  pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».

  Io sentia voci, e ciascuna pareva
  pregar per pace e per misericordia
  l’Agnel di Dio che le peccata leva.

  Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia;
  una parola in tutte era e un modo,
  sì che parea tra esse ogne concordia.

  «Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?»,
  diss’ io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
  e d’iracundia van solvendo il nodo».

  «Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,
  e di noi parli pur come se tue
  partissi ancor lo tempo per calendi?».

  Così per una voce detto fue;
  onde ’l maestro mio disse: «Rispondi,
  e domanda se quinci si va sùe».

  E io: «O creatura che ti mondi
  per tornar bella a colui che ti fece,
  maraviglia udirai, se mi secondi».

  «Io ti seguiterò quanto mi lece»,
  rispuose; «e se veder fummo non lascia,
  l’udir ci terrà giunti in quella vece».

  Allora incominciai: «Con quella fascia
  che la morte dissolve men vo suso,
  e venni qui per l’infernale ambascia.

  E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso,
  tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte
  per modo tutto fuor del moderno uso,

  non mi celar chi fosti anzi la morte,
  ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;
  e tue parole fier le nostre scorte».

  «Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
  del mondo seppi, e quel valore amai
  al quale ha or ciascun disteso l’arco.

  Per montar sù dirittamente vai».
  Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego
  che per me prieghi quando sù sarai».

  E io a lui: «Per fede mi ti lego
  di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
  dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.

  Prima era scempio, e ora è fatto doppio
  ne la sentenza tua, che mi fa certo
  qui, e altrove, quello ov’ io l’accoppio.

  Lo mondo è ben così tutto diserto
  d’ogne virtute, come tu mi sone,
  e di malizia gravido e coverto;

  ma priego che m’addite la cagione,
  sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
  ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».

  Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,
  mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
  lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.

  Voi che vivete ogne cagion recate
  pur suso al cielo, pur come se tutto
  movesse seco di necessitate.

  Se così fosse, in voi fora distrutto
  libero arbitrio, e non fora giustizia
  per ben letizia, e per male aver lutto.

  Lo cielo i vostri movimenti inizia;
  non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,
  lume v’è dato a bene e a malizia,

  e libero voler; che, se fatica
  ne le prime battaglie col ciel dura,
  poi vince tutto, se ben si notrica.

  A maggior forza e a miglior natura
  liberi soggiacete; e quella cria
  la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.

  Però, se ’l mondo presente disvia,
  in voi è la cagione, in voi si cheggia;
  e io te ne sarò or vera spia.

  Esce di mano a lui che la vagheggia
  prima che sia, a guisa di fanciulla
  che piangendo e ridendo pargoleggia,

  l’anima semplicetta che sa nulla,
  salvo che, mossa da lieto fattore,
  volontier torna a ciò che la trastulla.

  Di picciol bene in pria sente sapore;
  quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
  se guida o fren non torce suo amore.

  Onde convenne legge per fren porre;
  convenne rege aver, che discernesse
  de la vera cittade almen la torre.

  Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
  Nullo, però che ’l pastor che procede,
  rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;

  per che la gente, che sua guida vede
  pur a quel ben fedire ond’ ella è ghiotta,
  di quel si pasce, e più oltre non chiede.

  Ben puoi veder che la mala condotta
  è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
  e non natura che ’n voi sia corrotta.

  Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
  due soli aver, che l’una e l’altra strada
  facean vedere, e del mondo e di Deo.

  L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
  col pasturale, e l’un con l’altro insieme
  per viva forza mal convien che vada;

  però che, giunti, l’un l’altro non teme:
  se non mi credi, pon mente a la spiga,
  ch’ogn’ erba si conosce per lo seme.

  In sul paese ch’Adice e Po riga,
  solea valore e cortesia trovarsi,
  prima che Federigo avesse briga;

  or può sicuramente indi passarsi
  per qualunque lasciasse, per vergogna
  di ragionar coi buoni o d’appressarsi.

  Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
  l’antica età la nova, e par lor tardo
  che Dio a miglior vita li ripogna:

  Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
  e Guido da Castel, che mei si noma,
  francescamente, il semplice Lombardo.

  Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
  per confondere in sé due reggimenti,
  cade nel fango, e sé brutta e la soma».

  «O Marco mio», diss’ io, «bene argomenti;
  e or discerno perché dal retaggio
  li figli di Levì furono essenti.

  Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
  di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
  in rimprovèro del secol selvaggio?».

  «O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta»,
  rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
  par che del buon Gherardo nulla senta.

  Per altro sopranome io nol conosco,
  s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
  Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.

  Vedi l’albor che per lo fummo raia
  già biancheggiare, e me convien partirmi
  (l’angelo è ivi) prima ch’io li paia».

  Così tornò, e più non volle udirmi.



  Purgatorio • Canto XVII


  Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe
  ti colse nebbia per la qual vedessi
  non altrimenti che per pelle talpe,

  come, quando i vapori umidi e spessi
  a diradar cominciansi, la spera
  del sol debilemente entra per essi;

  e fia la tua imagine leggera
  in giugnere a veder com’ io rividi
  lo sole in pria, che già nel corcar era.

  Sì, pareggiando i miei co’ passi fidi
  del mio maestro, usci’ fuor di tal nube
  ai raggi morti già ne’ bassi lidi.

  O imaginativa che ne rube
  talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
  perché dintorno suonin mille tube,

  chi move te, se ’l senso non ti porge?
  Moveti lume che nel ciel s’informa,
  per sé o per voler che giù lo scorge.

  De l’empiezza di lei che mutò forma
  ne l’uccel ch’a cantar più si diletta,
  ne l’imagine mia apparve l’orma;

  e qui fu la mia mente sì ristretta
  dentro da sé, che di fuor non venìa
  cosa che fosse allor da lei ricetta.

  Poi piovve dentro a l’alta fantasia
  un crucifisso, dispettoso e fero
  ne la sua vista, e cotal si moria;

  intorno ad esso era il grande Assüero,
  Estèr sua sposa e ’l giusto Mardoceo,
  che fu al dire e al far così intero.

  E come questa imagine rompeo
  sé per sé stessa, a guisa d’una bulla
  cui manca l’acqua sotto qual si feo,

  surse in mia visïone una fanciulla
  piangendo forte, e dicea: «O regina,
  perché per ira hai voluto esser nulla?

  Ancisa t’hai per non perder Lavina;
  or m’hai perduta! Io son essa che lutto,
  madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina».

  Come si frange il sonno ove di butto
  nova luce percuote il viso chiuso,
  che fratto guizza pria che muoia tutto;

  così l’imaginar mio cadde giuso
  tosto che lume il volto mi percosse,
  maggior assai che quel ch’è in nostro uso.

  I’ mi volgea per veder ov’ io fosse,
  quando una voce disse «Qui si monta»,
  che da ogne altro intento mi rimosse;

  e fece la mia voglia tanto pronta
  di riguardar chi era che parlava,
  che mai non posa, se non si raffronta.

  Ma come al sol che nostra vista grava
  e per soverchio sua figura vela,
  così la mia virtù quivi mancava.

  «Questo è divino spirito, che ne la
  via da ir sù ne drizza sanza prego,
  e col suo lume sé medesmo cela.

  Sì fa con noi, come l’uom si fa sego;
  ché quale aspetta prego e l’uopo vede,
  malignamente già si mette al nego.

  Or accordiamo a tanto invito il piede;
  procacciam di salir pria che s’abbui,
  ché poi non si poria, se ’l dì non riede».

  Così disse il mio duca, e io con lui
  volgemmo i nostri passi ad una scala;
  e tosto ch’io al primo grado fui,

  senti’mi presso quasi un muover d’ala
  e ventarmi nel viso e dir: ‘Beati
  pacifici, che son sanz’ ira mala!’.

  Già eran sovra noi tanto levati
  li ultimi raggi che la notte segue,
  che le stelle apparivan da più lati.

  ‘O virtù mia, perché sì ti dilegue?’,
  fra me stesso dicea, ché mi sentiva
  la possa de le gambe posta in triegue.

  Noi eravam dove più non saliva
  la scala sù, ed eravamo affissi,
  pur come nave ch’a la piaggia arriva.

  E io attesi un poco, s’io udissi
  alcuna cosa nel novo girone;
  poi mi volsi al maestro mio, e dissi:

  «Dolce mio padre, dì, quale offensione
  si purga qui nel giro dove semo?
  Se i piè si stanno, non stea tuo sermone».

  Ed elli a me: «L’amor del bene, scemo
  del suo dover, quiritta si ristora;
  qui si ribatte il mal tardato remo.

  Ma perché più aperto intendi ancora,
  volgi la mente a me, e prenderai
  alcun buon frutto di nostra dimora».

  «Né creator né creatura mai»,
  cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,
  o naturale o d’animo; e tu ’l sai.

  Lo naturale è sempre sanza errore,
  ma l’altro puote errar per malo obietto
  o per troppo o per poco di vigore.

  Mentre ch’elli è nel primo ben diretto,
  e ne’ secondi sé stesso misura,
  esser non può cagion di mal diletto;

  ma quando al mal si torce, o con più cura
  o con men che non dee corre nel bene,
  contra ’l fattore adovra sua fattura.

  Quinci comprender puoi ch’esser convene
  amor sementa in voi d’ogne virtute
  e d’ogne operazion che merta pene.

  Or, perché mai non può da la salute
  amor del suo subietto volger viso,
  da l’odio proprio son le cose tute;

  e perché intender non si può diviso,
  e per sé stante, alcuno esser dal primo,
  da quello odiare ogne effetto è deciso.

  Resta, se dividendo bene stimo,
  che ’l mal che s’ama è del prossimo; ed esso
  amor nasce in tre modi in vostro limo.

  È chi, per esser suo vicin soppresso,
  spera eccellenza, e sol per questo brama
  ch’el sia di sua grandezza in basso messo;

  è chi podere, grazia, onore e fama
  teme di perder perch’ altri sormonti,
  onde s’attrista sì che ’l contrario ama;

  ed è chi per ingiuria par ch’aonti,
  sì che si fa de la vendetta ghiotto,
  e tal convien che ’l male altrui impronti.

  Questo triforme amor qua giù di sotto
  si piange: or vo’ che tu de l’altro intende,
  che corre al ben con ordine corrotto.

  Ciascun confusamente un bene apprende
  nel qual si queti l’animo, e disira;
  per che di giugner lui ciascun contende.

  Se lento amore a lui veder vi tira
  o a lui acquistar, questa cornice,
  dopo giusto penter, ve ne martira.

  Altro ben è che non fa l’uom felice;
  non è felicità, non è la buona
  essenza, d’ogne ben frutto e radice.

  L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona,
  di sovr’ a noi si piange per tre cerchi;
  ma come tripartito si ragiona,

  tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi».



  Purgatorio • Canto XVIII


  Posto avea fine al suo ragionamento
  l’alto dottore, e attento guardava
  ne la mia vista s’io parea contento;

  e io, cui nova sete ancor frugava,
  di fuor tacea, e dentro dicea: ‘Forse
  lo troppo dimandar ch’io fo li grava’.

  Ma quel padre verace, che s’accorse
  del timido voler che non s’apriva,
  parlando, di parlare ardir mi porse.

  Ond’ io: «Maestro, il mio veder s’avviva
  sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
  quanto la tua ragion parta o descriva.

  Però ti prego, dolce padre caro,
  che mi dimostri amore, a cui reduci
  ogne buono operare e ’l suo contraro».

  «Drizza», disse, «ver’ me l’agute luci
  de lo ’ntelletto, e fieti manifesto
  l’error de’ ciechi che si fanno duci.

  L’animo, ch’è creato ad amar presto,
  ad ogne cosa è mobile che piace,
  tosto che dal piacere in atto è desto.

  Vostra apprensiva da esser verace
  tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
  sì che l’animo ad essa volger face;

  e se, rivolto, inver’ di lei si piega,
  quel piegare è amor, quell’ è natura
  che per piacer di novo in voi si lega.

  Poi, come ’l foco movesi in altura
  per la sua forma ch’è nata a salire
  là dove più in sua matera dura,

  così l’animo preso entra in disire,
  ch’è moto spiritale, e mai non posa
  fin che la cosa amata il fa gioire.

  Or ti puote apparer quant’ è nascosa
  la veritate a la gente ch’avvera
  ciascun amore in sé laudabil cosa;

  però che forse appar la sua matera
  sempre esser buona, ma non ciascun segno
  è buono, ancor che buona sia la cera».

  «Le tue parole e ’l mio seguace ingegno»,
  rispuos’ io lui, «m’hanno amor discoverto,
  ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno;

  ché, s’amore è di fuori a noi offerto
  e l’anima non va con altro piede,
  se dritta o torta va, non è suo merto».

  Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede,
  dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta
  pur a Beatrice, ch’è opra di fede.

  Ogne forma sustanzïal, che setta
  è da matera ed è con lei unita,
  specifica vertute ha in sé colletta,

  la qual sanza operar non è sentita,
  né si dimostra mai che per effetto,
  come per verdi fronde in pianta vita.

  Però, là onde vegna lo ’ntelletto
  de le prime notizie, omo non sape,
  e de’ primi appetibili l’affetto,

  che sono in voi sì come studio in ape
  di far lo mele; e questa prima voglia
  merto di lode o di biasmo non cape.

  Or perché a questa ogn’ altra si raccoglia,
  innata v’è la virtù che consiglia,
  e de l’assenso de’ tener la soglia.

  Quest’ è ’l principio là onde si piglia
  ragion di meritare in voi, secondo
  che buoni e rei amori accoglie e viglia.

  Color che ragionando andaro al fondo,
  s’accorser d’esta innata libertate;
  però moralità lasciaro al mondo.

  Onde, poniam che di necessitate
  surga ogne amor che dentro a voi s’accende,
  di ritenerlo è in voi la podestate.

  La nobile virtù Beatrice intende
  per lo libero arbitrio, e però guarda
  che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende».

  La luna, quasi a mezza notte tarda,
  facea le stelle a noi parer più rade,
  fatta com’ un secchion che tuttor arda;

  e correa contro ’l ciel per quelle strade
  che ’l sole infiamma allor che quel da Roma
  tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade.

  E quell’ ombra gentil per cui si noma
  Pietola più che villa mantoana,
  del mio carcar diposta avea la soma;

  per ch’io, che la ragione aperta e piana
  sovra le mie quistioni avea ricolta,
  stava com’ om che sonnolento vana.

  Ma questa sonnolenza mi fu tolta
  subitamente da gente che dopo
  le nostre spalle a noi era già volta.

  E quale Ismeno già vide e Asopo
  lungo di sè di notte furia e calca,
  pur che i Teban di Bacco avesser uopo,

  cotal per quel giron suo passo falca,
  per quel ch’io vidi di color, venendo,
  cui buon volere e giusto amor cavalca.

  Tosto fur sovr’ a noi, perché correndo
  si movea tutta quella turba magna;
  e due dinanzi gridavan piangendo:

  «Maria corse con fretta a la montagna;
  e Cesare, per soggiogare Ilerda,
  punse Marsilia e poi corse in Ispagna».

  «Ratto, ratto, che ’l tempo non si perda
  per poco amor», gridavan li altri appresso,
  «che studio di ben far grazia rinverda».

  «O gente in cui fervore aguto adesso
  ricompie forse negligenza e indugio
  da voi per tepidezza in ben far messo,

  questi che vive, e certo i’ non vi bugio,
  vuole andar sù, pur che ’l sol ne riluca;
  però ne dite ond’ è presso il pertugio».

  Parole furon queste del mio duca;
  e un di quelli spirti disse: «Vieni
  di retro a noi, e troverai la buca.

  Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,
  che restar non potem; però perdona,
  se villania nostra giustizia tieni.

  Io fui abate in San Zeno a Verona
  sotto lo ’mperio del buon Barbarossa,
  di cui dolente ancor Milan ragiona.

  E tale ha già l’un piè dentro la fossa,
  che tosto piangerà quel monastero,
  e tristo fia d’avere avuta possa;

  perché suo figlio, mal del corpo intero,
  e de la mente peggio, e che mal nacque,
  ha posto in loco di suo pastor vero».

  Io non so se più disse o s’ei si tacque,
  tant’ era già di là da noi trascorso;
  ma questo intesi, e ritener mi piacque.

  E quei che m’era ad ogne uopo soccorso
  disse: «Volgiti qua: vedine due
  venir dando a l’accidïa di morso».

  Di retro a tutti dicean: «Prima fue
  morta la gente a cui il mar s’aperse,
  che vedesse Iordan le rede sue.

  E quella che l’affanno non sofferse
  fino a la fine col figlio d’Anchise,
  sé stessa a vita sanza gloria offerse».

  Poi quando fuor da noi tanto divise
  quell’ ombre, che veder più non potiersi,
  novo pensiero dentro a me si mise,

  del qual più altri nacquero e diversi;
  e tanto d’uno in altro vaneggiai,
  che li occhi per vaghezza ricopersi,

  e ’l pensamento in sogno trasmutai.



  Purgatorio • Canto XIX


  Ne l’ora che non può ’l calor dïurno
  intepidar più ’l freddo de la luna,
  vinto da terra, e talor da Saturno

  —quando i geomanti lor Maggior Fortuna
  veggiono in orïente, innanzi a l’alba,
  surger per via che poco le sta bruna—,

  mi venne in sogno una femmina balba,
  ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
  con le man monche, e di colore scialba.

  Io la mirava; e come ’l sol conforta
  le fredde membra che la notte aggrava,
  così lo sguardo mio le facea scorta

  la lingua, e poscia tutta la drizzava
  in poco d’ora, e lo smarrito volto,
  com’ amor vuol, così le colorava.

  Poi ch’ell’ avea ’l parlar così disciolto,
  cominciava a cantar sì, che con pena
  da lei avrei mio intento rivolto.

  «Io son», cantava, «io son dolce serena,
  che ’ marinari in mezzo mar dismago;
  tanto son di piacere a sentir piena!

  Io volsi Ulisse del suo cammin vago
  al canto mio; e qual meco s’ausa,
  rado sen parte; sì tutto l’appago!».

  Ancor non era sua bocca richiusa,
  quand’ una donna apparve santa e presta
  lunghesso me per far colei confusa.

  «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
  fieramente dicea; ed el venìa
  con li occhi fitti pur in quella onesta.

  L’altra prendea, e dinanzi l’apria
  fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
  quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.

  Io mossi li occhi, e ’l buon maestro: «Almen tre
  voci t’ho messe!», dicea, «Surgi e vieni;
  troviam l’aperta per la qual tu entre».

  Sù mi levai, e tutti eran già pieni
  de l’alto dì i giron del sacro monte,
  e andavam col sol novo a le reni.

  Seguendo lui, portava la mia fronte
  come colui che l’ha di pensier carca,
  che fa di sé un mezzo arco di ponte;

  quand’ io udi’ «Venite; qui si varca»
  parlare in modo soave e benigno,
  qual non si sente in questa mortal marca.

  Con l’ali aperte, che parean di cigno,
  volseci in sù colui che sì parlonne
  tra due pareti del duro macigno.

  Mosse le penne poi e ventilonne,
  ‘Qui lugent’ affermando esser beati,
  ch’avran di consolar l’anime donne.

  «Che hai che pur inver’ la terra guati?»,
  la guida mia incominciò a dirmi,
  poco amendue da l’angel sormontati.

  E io: «Con tanta sospeccion fa irmi
  novella visïon ch’a sé mi piega,
  sì ch’io non posso dal pensar partirmi».

  «Vedesti», disse, «quell’antica strega
  che sola sovr’ a noi omai si piagne;
  vedesti come l’uom da lei si slega.

  Bastiti, e batti a terra le calcagne;
  li occhi rivolgi al logoro che gira
  lo rege etterno con le rote magne».

  Quale ’l falcon, che prima a’ pié si mira,
  indi si volge al grido e si protende
  per lo disio del pasto che là il tira,

  tal mi fec’ io; e tal, quanto si fende
  la roccia per dar via a chi va suso,
  n’andai infin dove ’l cerchiar si prende.

  Com’ io nel quinto giro fui dischiuso,
  vidi gente per esso che piangea,
  giacendo a terra tutta volta in giuso.

  ‘Adhaesit pavimento anima mea’
  sentia dir lor con sì alti sospiri,
  che la parola a pena s’intendea.

  «O eletti di Dio, li cui soffriri
  e giustizia e speranza fa men duri,
  drizzate noi verso li alti saliri».

  «Se voi venite dal giacer sicuri,
  e volete trovar la via più tosto,
  le vostre destre sien sempre di fori».

  Così pregò ’l poeta, e sì risposto
  poco dinanzi a noi ne fu; per ch’io
  nel parlare avvisai l’altro nascosto,

  e volsi li occhi a li occhi al segnor mio:
  ond’ elli m’assentì con lieto cenno
  ciò che chiedea la vista del disio.

  Poi ch’io potei di me fare a mio senno,
  trassimi sovra quella creatura
  le cui parole pria notar mi fenno,

  dicendo: «Spirto in cui pianger matura
  quel sanza ’l quale a Dio tornar non pòssi,
  sosta un poco per me tua maggior cura.

  Chi fosti e perché vòlti avete i dossi
  al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri
  cosa di là ond’ io vivendo mossi».

  Ed elli a me: «Perché i nostri diretri
  rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
  scias quod ego fui successor Petri.

  Intra Sïestri e Chiaveri s’adima
  una fiumana bella, e del suo nome
  lo titol del mio sangue fa sua cima.

  Un mese e poco più prova’ io come
  pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
  che piuma sembran tutte l’altre some.

  La mia conversïone, omè!, fu tarda;
  ma, come fatto fui roman pastore,
  così scopersi la vita bugiarda.

  Vidi che lì non s’acquetava il core,
  né più salir potiesi in quella vita;
  per che di questa in me s’accese amore.

  Fino a quel punto misera e partita
  da Dio anima fui, del tutto avara;
  or, come vedi, qui ne son punita.

  Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara
  in purgazion de l’anime converse;
  e nulla pena il monte ha più amara.

  Sì come l’occhio nostro non s’aderse
  in alto, fisso a le cose terrene,
  così giustizia qui a terra il merse.

  Come avarizia spense a ciascun bene
  lo nostro amore, onde operar perdési,
  così giustizia qui stretti ne tene,

  ne’ piedi e ne le man legati e presi;
  e quanto fia piacer del giusto Sire,
  tanto staremo immobili e distesi».

  Io m’era inginocchiato e volea dire;
  ma com’ io cominciai ed el s’accorse,
  solo ascoltando, del mio reverire,

  «Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?».
  E io a lui: «Per vostra dignitate
  mia coscïenza dritto mi rimorse».

  «Drizza le gambe, lèvati sù, frate!»,
  rispuose; «non errar: conservo sono
  teco e con li altri ad una podestate.

  Se mai quel santo evangelico suono
  che dice ‘Neque nubent’ intendesti,
  ben puoi veder perch’ io così ragiono.

  Vattene omai: non vo’ che più t’arresti;
  ché la tua stanza mio pianger disagia,
  col qual maturo ciò che tu dicesti.

  Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
  buona da sé, pur che la nostra casa
  non faccia lei per essempro malvagia;

  e questa sola di là m’è rimasa».



  Purgatorio • Canto XX


  Contra miglior voler voler mal pugna;
  onde contra ’l piacer mio, per piacerli,
  trassi de l’acqua non sazia la spugna.

  Mossimi; e ’l duca mio si mosse per li
  luoghi spediti pur lungo la roccia,
  come si va per muro stretto a’ merli;

  ché la gente che fonde a goccia a goccia
  per li occhi il mal che tutto ’l mondo occupa,
  da l’altra parte in fuor troppo s’approccia.

  Maladetta sie tu, antica lupa,
  che più che tutte l’altre bestie hai preda
  per la tua fame sanza fine cupa!

  O ciel, nel cui girar par che si creda
  le condizion di qua giù trasmutarsi,
  quando verrà per cui questa disceda?

  Noi andavam con passi lenti e scarsi,
  e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia
  pietosamente piangere e lagnarsi;

  e per ventura udi’ «Dolce Maria!»
  dinanzi a noi chiamar così nel pianto
  come fa donna che in parturir sia;

  e seguitar: «Povera fosti tanto,
  quanto veder si può per quello ospizio
  dove sponesti il tuo portato santo».

  Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio,
  con povertà volesti anzi virtute
  che gran ricchezza posseder con vizio».

  Queste parole m’eran sì piaciute,
  ch’io mi trassi oltre per aver contezza
  di quello spirto onde parean venute.

  Esso parlava ancor de la larghezza
  che fece Niccolò a le pulcelle,
  per condurre ad onor lor giovinezza.

  «O anima che tanto ben favelle,
  dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola
  tu queste degne lode rinovelle.

  Non fia sanza mercé la tua parola,
  s’io ritorno a compiér lo cammin corto
  di quella vita ch’al termine vola».

  Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto
  ch’io attenda di là, ma perché tanta
  grazia in te luce prima che sie morto.

  Io fui radice de la mala pianta
  che la terra cristiana tutta aduggia,
  sì che buon frutto rado se ne schianta.

  Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
  potesser, tosto ne saria vendetta;
  e io la cheggio a lui che tutto giuggia.

  Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
  di me son nati i Filippi e i Luigi
  per cui novellamente è Francia retta.

  Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
  quando li regi antichi venner meno
  tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi,

  trova’mi stretto ne le mani il freno
  del governo del regno, e tanta possa
  di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno,

  ch’a la corona vedova promossa
  la testa di mio figlio fu, dal quale
  cominciar di costor le sacrate ossa.

  Mentre che la gran dota provenzale
  al sangue mio non tolse la vergogna,
  poco valea, ma pur non facea male.

  Lì cominciò con forza e con menzogna
  la sua rapina; e poscia, per ammenda,
  Pontì e Normandia prese e Guascogna.

  Carlo venne in Italia e, per ammenda,
  vittima fé di Curradino; e poi
  ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

  Tempo vegg’ io, non molto dopo ancoi,
  che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
  per far conoscer meglio e sé e ’ suoi.

  Sanz’ arme n’esce e solo con la lancia
  con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
  sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.

  Quindi non terra, ma peccato e onta
  guadagnerà, per sé tanto più grave,
  quanto più lieve simil danno conta.

  L’altro, che già uscì preso di nave,
  veggio vender sua figlia e patteggiarne
  come fanno i corsar de l’altre schiave.

  O avarizia, che puoi tu più farne,
  poscia c’ha’ il mio sangue a te sì tratto,
  che non si cura de la propria carne?

  Perché men paia il mal futuro e ’l fatto,
  veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
  e nel vicario suo Cristo esser catto.

  Veggiolo un’altra volta esser deriso;
  veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele,
  e tra vivi ladroni esser anciso.

  Veggio il novo Pilato sì crudele,
  che ciò nol sazia, ma sanza decreto
  portar nel Tempio le cupide vele.

  O Segnor mio, quando sarò io lieto
  a veder la vendetta che, nascosa,
  fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?

  Ciò ch’io dicea di quell’ unica sposa
  de lo Spirito Santo e che ti fece
  verso me volger per alcuna chiosa,

  tanto è risposto a tutte nostre prece
  quanto ’l dì dura; ma com’ el s’annotta,
  contrario suon prendemo in quella vece.

  Noi repetiam Pigmalïon allotta,
  cui traditore e ladro e paricida
  fece la voglia sua de l’oro ghiotta;

  e la miseria de l’avaro Mida,
  che seguì a la sua dimanda gorda,
  per la qual sempre convien che si rida.

  Del folle Acàn ciascun poi si ricorda,
  come furò le spoglie, sì che l’ira
  di Iosüè qui par ch’ancor lo morda.

  Indi accusiam col marito Saffira;
  lodiam i calci ch’ebbe Elïodoro;
  e in infamia tutto ’l monte gira

  Polinestòr ch’ancise Polidoro;
  ultimamente ci si grida: “Crasso,
  dilci, che ’l sai: di che sapore è l’oro?”.

  Talor parla l’uno alto e l’altro basso,
  secondo l’affezion ch’ad ir ci sprona
  ora a maggiore e ora a minor passo:

  però al ben che ’l dì ci si ragiona,
  dianzi non era io sol; ma qui da presso
  non alzava la voce altra persona».

  Noi eravam partiti già da esso,
  e brigavam di soverchiar la strada
  tanto quanto al poder n’era permesso,

  quand’ io senti’, come cosa che cada,
  tremar lo monte; onde mi prese un gelo
  qual prender suol colui ch’a morte vada.

  Certo non si scoteo sì forte Delo,
  pria che Latona in lei facesse ’l nido
  a parturir li due occhi del cielo.

  Poi cominciò da tutte parti un grido
  tal, che ’l maestro inverso me si feo,
  dicendo: «Non dubbiar, mentr’ io ti guido».

  ‘Glorïa in excelsis’ tutti ‘Deo’
  dicean, per quel ch’io da’ vicin compresi,
  onde intender lo grido si poteo.

  No’ istavamo immobili e sospesi
  come i pastor che prima udir quel canto,
  fin che ’l tremar cessò ed el compiési.

  Poi ripigliammo nostro cammin santo,
  guardando l’ombre che giacean per terra,
  tornate già in su l’usato pianto.

  Nulla ignoranza mai con tanta guerra
  mi fé desideroso di sapere,
  se la memoria mia in ciò non erra,

  quanta pareami allor, pensando, avere;
  né per la fretta dimandare er’ oso,
  né per me lì potea cosa vedere:

  così m’andava timido e pensoso.



  Purgatorio • Canto XXI


  La sete natural che mai non sazia
  se non con l’acqua onde la femminetta
  samaritana domandò la grazia,

  mi travagliava, e pungeami la fretta
  per la ’mpacciata via dietro al mio duca,
  e condoleami a la giusta vendetta.

  Ed ecco, sì come ne scrive Luca
  che Cristo apparve a’ due ch’erano in via,
  già surto fuor de la sepulcral buca,

  ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
  dal piè guardando la turba che giace;
  né ci addemmo di lei, sì parlò pria,

  dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace».
  Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
  rendéli ’l cenno ch’a ciò si conface.

  Poi cominciò: «Nel beato concilio
  ti ponga in pace la verace corte
  che me rilega ne l’etterno essilio».

  «Come!», diss’ elli, e parte andavam forte:
  «se voi siete ombre che Dio sù non degni,
  chi v’ha per la sua scala tanto scorte?».

  E ’l dottor mio: «Se tu riguardi a’ segni
  che questi porta e che l’angel profila,
  ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni.

  Ma perché lei che dì e notte fila
  non li avea tratta ancora la conocchia
  che Cloto impone a ciascuno e compila,

  l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia,
  venendo sù, non potea venir sola,
  però ch’al nostro modo non adocchia.

  Ond’ io fui tratto fuor de l’ampia gola
  d’inferno per mostrarli, e mosterrolli
  oltre, quanto ’l potrà menar mia scola.

  Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli
  diè dianzi ’l monte, e perché tutto ad una
  parve gridare infino a’ suoi piè molli».

  Sì mi diè, dimandando, per la cruna
  del mio disio, che pur con la speranza
  si fece la mia sete men digiuna.

  Quei cominciò: «Cosa non è che sanza
  ordine senta la religïone
  de la montagna, o che sia fuor d’usanza.

  Libero è qui da ogne alterazione:
  di quel che ’l ciel da sé in sé riceve
  esser ci puote, e non d’altro, cagione.

  Per che non pioggia, non grando, non neve,
  non rugiada, non brina più sù cade
  che la scaletta di tre gradi breve;

  nuvole spesse non paion né rade,
  né coruscar, né figlia di Taumante,
  che di là cangia sovente contrade;

  secco vapor non surge più avante
  ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,
  dov’ ha ’l vicario di Pietro le piante.

  Trema forse più giù poco o assai;
  ma per vento che ’n terra si nasconda,
  non so come, qua sù non tremò mai.

  Tremaci quando alcuna anima monda
  sentesi, sì che surga o che si mova
  per salir sù; e tal grido seconda.

  De la mondizia sol voler fa prova,
  che, tutto libero a mutar convento,
  l’alma sorprende, e di voler le giova.

  Prima vuol ben, ma non lascia il talento
  che divina giustizia, contra voglia,
  come fu al peccar, pone al tormento.

  E io, che son giaciuto a questa doglia
  cinquecent’ anni e più, pur mo sentii
  libera volontà di miglior soglia:

  però sentisti il tremoto e li pii
  spiriti per lo monte render lode
  a quel Segnor, che tosto sù li ’nvii».

  Così ne disse; e però ch’el si gode
  tanto del ber quant’ è grande la sete,
  non saprei dir quant’ el mi fece prode.

  E ’l savio duca: «Omai veggio la rete
  che qui vi ’mpiglia e come si scalappia,
  perché ci trema e di che congaudete.

  Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
  e perché tanti secoli giaciuto
  qui se’, ne le parole tue mi cappia».

  «Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto
  del sommo rege, vendicò le fóra
  ond’ uscì ’l sangue per Giuda venduto,

  col nome che più dura e più onora
  era io di là», rispuose quello spirto,
  «famoso assai, ma non con fede ancora.

  Tanto fu dolce mio vocale spirto,
  che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
  dove mertai le tempie ornar di mirto.

  Stazio la gente ancor di là mi noma:
  cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
  ma caddi in via con la seconda soma.

  Al mio ardor fuor seme le faville,
  che mi scaldar, de la divina fiamma
  onde sono allumati più di mille;

  de l’Eneïda dico, la qual mamma
  fummi, e fummi nutrice, poetando:
  sanz’ essa non fermai peso di dramma.

  E per esser vivuto di là quando
  visse Virgilio, assentirei un sole
  più che non deggio al mio uscir di bando».

  Volser Virgilio a me queste parole
  con viso che, tacendo, disse ‘Taci’;
  ma non può tutto la virtù che vuole;

  ché riso e pianto son tanto seguaci
  a la passion di che ciascun si spicca,
  che men seguon voler ne’ più veraci.

  Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;
  per che l’ombra si tacque, e riguardommi
  ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca;

  e «Se tanto labore in bene assommi»,
  disse, «perché la tua faccia testeso
  un lampeggiar di riso dimostrommi?».

  Or son io d’una parte e d’altra preso:
  l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
  ch’io dica; ond’ io sospiro, e sono inteso

  dal mio maestro, e «Non aver paura»,
  mi dice, «di parlar; ma parla e digli
  quel ch’e’ dimanda con cotanta cura».

  Ond’ io: «Forse che tu ti maravigli,
  antico spirto, del rider ch’io fei;
  ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.

  Questi che guida in alto li occhi miei,
  è quel Virgilio dal qual tu togliesti
  forte a cantar de li uomini e d’i dèi.

  Se cagion altra al mio rider credesti,
  lasciala per non vera, ed esser credi
  quelle parole che di lui dicesti».

  Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
  al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
  non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi».

  Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate
  comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
  quand’ io dismento nostra vanitate,

  trattando l’ombre come cosa salda».



  Purgatorio • Canto XXII


  Già era l’angel dietro a noi rimaso,
  l’angel che n’avea vòlti al sesto giro,
  avendomi dal viso un colpo raso;

  e quei c’hanno a giustizia lor disiro
  detto n’avea beati, e le sue voci
  con ‘sitiunt’, sanz’ altro, ciò forniro.

  E io più lieve che per l’altre foci
  m’andava, sì che sanz’ alcun labore
  seguiva in sù li spiriti veloci;

  quando Virgilio incominciò: «Amore,
  acceso di virtù, sempre altro accese,
  pur che la fiamma sua paresse fore;

  onde da l’ora che tra noi discese
  nel limbo de lo ’nferno Giovenale,
  che la tua affezion mi fé palese,

  mia benvoglienza inverso te fu quale
  più strinse mai di non vista persona,
  sì ch’or mi parran corte queste scale.

  Ma dimmi, e come amico mi perdona
  se troppa sicurtà m’allarga il freno,
  e come amico omai meco ragiona:

  come poté trovar dentro al tuo seno
  loco avarizia, tra cotanto senno
  di quanto per tua cura fosti pieno?».

  Queste parole Stazio mover fenno
  un poco a riso pria; poscia rispuose:
  «Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno.

  Veramente più volte appaion cose
  che danno a dubitar falsa matera
  per le vere ragion che son nascose.

  La tua dimanda tuo creder m’avvera
  esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita,
  forse per quella cerchia dov’ io era.

  Or sappi ch’avarizia fu partita
  troppo da me, e questa dismisura
  migliaia di lunari hanno punita.

  E se non fosse ch’io drizzai mia cura,
  quand’ io intesi là dove tu chiame,
  crucciato quasi a l’umana natura:

  ‘Per che non reggi tu, o sacra fame
  de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,
  voltando sentirei le giostre grame.

  Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali
  potean le mani a spendere, e pente’mi
  così di quel come de li altri mali.

  Quanti risurgeran coi crini scemi
  per ignoranza, che di questa pecca
  toglie ’l penter vivendo e ne li stremi!

  E sappie che la colpa che rimbecca
  per dritta opposizione alcun peccato,
  con esso insieme qui suo verde secca;

  però, s’io son tra quella gente stato
  che piange l’avarizia, per purgarmi,
  per lo contrario suo m’è incontrato».

  «Or quando tu cantasti le crude armi
  de la doppia trestizia di Giocasta»,
  disse ’l cantor de’ buccolici carmi,

  «per quello che Clïò teco lì tasta,
  non par che ti facesse ancor fedele
  la fede, sanza qual ben far non basta.

  Se così è, qual sole o quai candele
  ti stenebraron sì, che tu drizzasti
  poscia di retro al pescator le vele?».

  Ed elli a lui: «Tu prima m’invïasti
  verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
  e prima appresso Dio m’alluminasti.

  Facesti come quei che va di notte,
  che porta il lume dietro e sé non giova,
  ma dopo sé fa le persone dotte,

  quando dicesti: ‘Secol si rinova;
  torna giustizia e primo tempo umano,
  e progenïe scende da ciel nova’.

  Per te poeta fui, per te cristiano:
  ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
  a colorare stenderò la mano.

  Già era ’l mondo tutto quanto pregno
  de la vera credenza, seminata
  per li messaggi de l’etterno regno;

  e la parola tua sopra toccata
  si consonava a’ nuovi predicanti;
  ond’ io a visitarli presi usata.

  Vennermi poi parendo tanto santi,
  che, quando Domizian li perseguette,
  sanza mio lagrimar non fur lor pianti;

  e mentre che di là per me si stette,
  io li sovvenni, e i lor dritti costumi
  fer dispregiare a me tutte altre sette.

  E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi
  di Tebe poetando, ebb’ io battesmo;
  ma per paura chiuso cristian fu’mi,

  lungamente mostrando paganesmo;
  e questa tepidezza il quarto cerchio
  cerchiar mi fé più che ’l quarto centesmo.

  Tu dunque, che levato hai il coperchio
  che m’ascondeva quanto bene io dico,
  mentre che del salire avem soverchio,

  dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico,
  Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
  dimmi se son dannati, e in qual vico».

  «Costoro e Persio e io e altri assai»,
  rispuose il duca mio, «siam con quel Greco
  che le Muse lattar più ch’altri mai,

  nel primo cinghio del carcere cieco;
  spesse fïate ragioniam del monte
  che sempre ha le nutrice nostre seco.

  Euripide v’è nosco e Antifonte,
  Simonide, Agatone e altri piùe
  Greci che già di lauro ornar la fronte.

  Quivi si veggion de le genti tue
  Antigone, Deïfile e Argia,
  e Ismene sì trista come fue.

  Védeisi quella che mostrò Langia;
  èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,
  e con le suore sue Deïdamia».

  Tacevansi ambedue già li poeti,
  di novo attenti a riguardar dintorno,
  liberi da saliri e da pareti;

  e già le quattro ancelle eran del giorno
  rimase a dietro, e la quinta era al temo,
  drizzando pur in sù l’ardente corno,

  quando il mio duca: «Io credo ch’a lo stremo
  le destre spalle volger ne convegna,
  girando il monte come far solemo».

  Così l’usanza fu lì nostra insegna,
  e prendemmo la via con men sospetto
  per l’assentir di quell’ anima degna.

  Elli givan dinanzi, e io soletto
  di retro, e ascoltava i lor sermoni,
  ch’a poetar mi davano intelletto.

  Ma tosto ruppe le dolci ragioni
  un alber che trovammo in mezza strada,
  con pomi a odorar soavi e buoni;

  e come abete in alto si digrada
  di ramo in ramo, così quello in giuso,
  cred’ io, perché persona sù non vada.

  Dal lato onde ’l cammin nostro era chiuso,
  cadea de l’alta roccia un liquor chiaro
  e si spandeva per le foglie suso.

  Li due poeti a l’alber s’appressaro;
  e una voce per entro le fronde
  gridò: «Di questo cibo avrete caro».

  Poi disse: «Più pensava Maria onde
  fosser le nozze orrevoli e intere,
  ch’a la sua bocca, ch’or per voi risponde.

  E le Romane antiche, per lor bere,
  contente furon d’acqua; e Danïello
  dispregiò cibo e acquistò savere.

  Lo secol primo, quant’ oro fu bello,
  fé savorose con fame le ghiande,
  e nettare con sete ogne ruscello.

  Mele e locuste furon le vivande
  che nodriro il Batista nel diserto;
  per ch’elli è glorïoso e tanto grande

  quanto per lo Vangelio v’è aperto».



  Purgatorio • Canto XXIII


  Mentre che li occhi per la fronda verde
  ficcava ïo sì come far suole
  chi dietro a li uccellin sua vita perde,

  lo più che padre mi dicea: «Figliuole,
  vienne oramai, ché ’l tempo che n’è imposto
  più utilmente compartir si vuole».

  Io volsi ’l viso, e ’l passo non men tosto,
  appresso i savi, che parlavan sìe,
  che l’andar mi facean di nullo costo.

  Ed ecco piangere e cantar s’udìe
  ‘Labïa mëa, Domine’ per modo
  tal, che diletto e doglia parturìe.

  «O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?»,
  comincia’ io; ed elli: «Ombre che vanno
  forse di lor dover solvendo il nodo».

  Sì come i peregrin pensosi fanno,
  giugnendo per cammin gente non nota,
  che si volgono ad essa e non restanno,

  così di retro a noi, più tosto mota,
  venendo e trapassando ci ammirava
  d’anime turba tacita e devota.

  Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,
  palida ne la faccia, e tanto scema
  che da l’ossa la pelle s’informava.

  Non credo che così a buccia strema
  Erisittone fosse fatto secco,
  per digiunar, quando più n’ebbe tema.

  Io dicea fra me stesso pensando: ‘Ecco
  la gente che perdé Ierusalemme,
  quando Maria nel figlio diè di becco!’

  Parean l’occhiaie anella sanza gemme:
  chi nel viso de li uomini legge ‘omo’
  ben avria quivi conosciuta l’emme.

  Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
  sì governasse, generando brama,
  e quel d’un’acqua, non sappiendo como?

  Già era in ammirar che sì li affama,
  per la cagione ancor non manifesta
  di lor magrezza e di lor trista squama,

  ed ecco del profondo de la testa
  volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
  poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».

  Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
  ma ne la voce sua mi fu palese
  ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.

  Questa favilla tutta mi raccese
  mia conoscenza a la cangiata labbia,
  e ravvisai la faccia di Forese.

  «Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
  che mi scolora», pregava, «la pelle,
  né a difetto di carne ch’io abbia;

  ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
  due anime che là ti fanno scorta;
  non rimaner che tu non mi favelle!».

  «La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
  mi dà di pianger mo non minor doglia»,
  rispuos’ io lui, «veggendola sì torta.

  Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
  non mi far dir mentr’ io mi maraviglio,
  ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».

  Ed elli a me: «De l’etterno consiglio
  cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
  rimasa dietro ond’ io sì m’assottiglio.

  Tutta esta gente che piangendo canta
  per seguitar la gola oltra misura,
  in fame e ’n sete qui si rifà santa.

  Di bere e di mangiar n’accende cura
  l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
  che si distende su per sua verdura.

  E non pur una volta, questo spazzo
  girando, si rinfresca nostra pena:
  io dico pena, e dovria dir sollazzo,

  ché quella voglia a li alberi ci mena
  che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,
  quando ne liberò con la sua vena».

  E io a lui: «Forese, da quel dì
  nel qual mutasti mondo a miglior vita,
  cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.

  Se prima fu la possa in te finita
  di peccar più, che sovvenisse l’ora
  del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,

  come se’ tu qua sù venuto ancora?
  Io ti credea trovar là giù di sotto,
  dove tempo per tempo si ristora».

  Ond’ elli a me: «Sì tosto m’ha condotto
  a ber lo dolce assenzo d’i martìri
  la Nella mia con suo pianger dirotto.

  Con suoi prieghi devoti e con sospiri
  tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,
  e liberato m’ha de li altri giri.

  Tanto è a Dio più cara e più diletta
  la vedovella mia, che molto amai,
  quanto in bene operare è più soletta;

  ché la Barbagia di Sardigna assai
  ne le femmine sue più è pudica
  che la Barbagia dov’ io la lasciai.

  O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
  Tempo futuro m’è già nel cospetto,
  cui non sarà quest’ ora molto antica,

  nel qual sarà in pergamo interdetto
  a le sfacciate donne fiorentine
  l’andar mostrando con le poppe il petto.

  Quai barbare fuor mai, quai saracine,
  cui bisognasse, per farle ir coperte,
  o spiritali o altre discipline?

  Ma se le svergognate fosser certe
  di quel che ’l ciel veloce loro ammanna,
  già per urlare avrian le bocche aperte;

  ché, se l’antiveder qui non m’inganna,
  prima fien triste che le guance impeli
  colui che mo si consola con nanna.

  Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
  vedi che non pur io, ma questa gente
  tutta rimira là dove ’l sol veli».

  Per ch’io a lui: «Se tu riduci a mente
  qual fosti meco, e qual io teco fui,
  ancor fia grave il memorar presente.

  Di quella vita mi volse costui
  che mi va innanzi, l’altr’ ier, quando tonda
  vi si mostrò la suora di colui»,

  e ’l sol mostrai; «costui per la profonda
  notte menato m’ha d’i veri morti
  con questa vera carne che ’l seconda.

  Indi m’han tratto sù li suoi conforti,
  salendo e rigirando la montagna
  che drizza voi che ’l mondo fece torti.

  Tanto dice di farmi sua compagna
  che io sarò là dove fia Beatrice;
  quivi convien che sanza lui rimagna.

  Virgilio è questi che così mi dice»,
  e addita’lo; «e quest’ altro è quell’ ombra
  per cuï scosse dianzi ogne pendice

  lo vostro regno, che da sé lo sgombra».



  Purgatorio • Canto XXIV


  Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento
  facea, ma ragionando andavam forte,
  sì come nave pinta da buon vento;

  e l’ombre, che parean cose rimorte,
  per le fosse de li occhi ammirazione
  traean di me, di mio vivere accorte.

  E io, continüando al mio sermone,
  dissi: «Ella sen va sù forse più tarda
  che non farebbe, per altrui cagione.

  Ma dimmi, se tu sai, dov’ è Piccarda;
  dimmi s’io veggio da notar persona
  tra questa gente che sì mi riguarda».

  «La mia sorella, che tra bella e buona
  non so qual fosse più, trïunfa lieta
  ne l’alto Olimpo già di sua corona».

  Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta
  di nominar ciascun, da ch’è sì munta
  nostra sembianza via per la dïeta.

  Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta,
  Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
  di là da lui più che l’altre trapunta

  ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
  dal Torso fu, e purga per digiuno
  l’anguille di Bolsena e la vernaccia».

  Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
  e del nomar parean tutti contenti,
  sì ch’io però non vidi un atto bruno.

  Vidi per fame a vòto usar li denti
  Ubaldin da la Pila e Bonifazio
  che pasturò col rocco molte genti.

  Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio
  già di bere a Forlì con men secchezza,
  e sì fu tal, che non si sentì sazio.

  Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza
  più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
  che più parea di me aver contezza.

  El mormorava; e non so che «Gentucca»
  sentiv’ io là, ov’ el sentia la piaga
  de la giustizia che sì li pilucca.

  «O anima», diss’ io, «che par sì vaga
  di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
  e te e me col tuo parlare appaga».

  «Femmina è nata, e non porta ancor benda»,
  cominciò el, «che ti farà piacere
  la mia città, come ch’om la riprenda.

  Tu te n’andrai con questo antivedere:
  se nel mio mormorar prendesti errore,
  dichiareranti ancor le cose vere.

  Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
  trasse le nove rime, cominciando
  ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’».

  E io a lui: «I’ mi son un che, quando
  Amor mi spira, noto, e a quel modo
  ch’e’ ditta dentro vo significando».

  «O frate, issa vegg’ io», diss’ elli, «il nodo
  che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
  di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!

  Io veggio ben come le vostre penne
  di retro al dittator sen vanno strette,
  che de le nostre certo non avvenne;

  e qual più a gradire oltre si mette,
  non vede più da l’uno a l’altro stilo»;
  e, quasi contentato, si tacette.

  Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
  alcuna volta in aere fanno schiera,
  poi volan più a fretta e vanno in filo,

  così tutta la gente che lì era,
  volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,
  e per magrezza e per voler leggera.

  E come l’uom che di trottare è lasso,
  lascia andar li compagni, e sì passeggia
  fin che si sfoghi l’affollar del casso,

  sì lasciò trapassar la santa greggia
  Forese, e dietro meco sen veniva,
  dicendo: «Quando fia ch’io ti riveggia?».

  «Non so», rispuos’ io lui, «quant’ io mi viva;
  ma già non fïa il tornar mio tantosto,
  ch’io non sia col voler prima a la riva;

  però che ’l loco u’ fui a viver posto,
  di giorno in giorno più di ben si spolpa,
  e a trista ruina par disposto».

  «Or va», diss’ el; «che quei che più n’ha colpa,
  vegg’ ïo a coda d’una bestia tratto
  inver’ la valle ove mai non si scolpa.

  La bestia ad ogne passo va più ratto,
  crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
  e lascia il corpo vilmente disfatto.

  Non hanno molto a volger quelle ruote»,
  e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro
  ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote.

  Tu ti rimani omai; ché ’l tempo è caro
  in questo regno, sì ch’io perdo troppo
  venendo teco sì a paro a paro».

  Qual esce alcuna volta di gualoppo
  lo cavalier di schiera che cavalchi,
  e va per farsi onor del primo intoppo,

  tal si partì da noi con maggior valchi;
  e io rimasi in via con esso i due
  che fuor del mondo sì gran marescalchi.

  E quando innanzi a noi intrato fue,
  che li occhi miei si fero a lui seguaci,
  come la mente a le parole sue,

  parvermi i rami gravidi e vivaci
  d’un altro pomo, e non molto lontani
  per esser pur allora vòlto in laci.

  Vidi gente sott’ esso alzar le mani
  e gridar non so che verso le fronde,
  quasi bramosi fantolini e vani

  che pregano, e ’l pregato non risponde,
  ma, per fare esser ben la voglia acuta,
  tien alto lor disio e nol nasconde.

  Poi si partì sì come ricreduta;
  e noi venimmo al grande arbore adesso,
  che tanti prieghi e lagrime rifiuta.

  «Trapassate oltre sanza farvi presso:
  legno è più sù che fu morso da Eva,
  e questa pianta si levò da esso».

  Sì tra le frasche non so chi diceva;
  per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
  oltre andavam dal lato che si leva.

  «Ricordivi», dicea, «d’i maladetti
  nei nuvoli formati, che, satolli,
  Tesëo combatter co’ doppi petti;

  e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli,
  per che no i volle Gedeon compagni,
  quando inver’ Madïan discese i colli».

  Sì accostati a l’un d’i due vivagni
  passammo, udendo colpe de la gola
  seguite già da miseri guadagni.

  Poi, rallargati per la strada sola,
  ben mille passi e più ci portar oltre,
  contemplando ciascun sanza parola.

  «Che andate pensando sì voi sol tre?».
  sùbita voce disse; ond’ io mi scossi
  come fan bestie spaventate e poltre.

  Drizzai la testa per veder chi fossi;
  e già mai non si videro in fornace
  vetri o metalli sì lucenti e rossi,

  com’ io vidi un che dicea: «S’a voi piace
  montare in sù, qui si convien dar volta;
  quinci si va chi vuole andar per pace».

  L’aspetto suo m’avea la vista tolta;
  per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori,
  com’ om che va secondo ch’elli ascolta.

  E quale, annunziatrice de li albori,
  l’aura di maggio movesi e olezza,
  tutta impregnata da l’erba e da’ fiori;

  tal mi senti’ un vento dar per mezza
  la fronte, e ben senti’ mover la piuma,
  che fé sentir d’ambrosïa l’orezza.

  E senti’ dir: «Beati cui alluma
  tanto di grazia, che l’amor del gusto
  nel petto lor troppo disir non fuma,

  esurïendo sempre quanto è giusto!».



  Purgatorio • Canto XXV


  Ora era onde ’l salir non volea storpio;
  ché ’l sole avëa il cerchio di merigge
  lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:

  per che, come fa l’uom che non s’affigge
  ma vassi a la via sua, che che li appaia,
  se di bisogno stimolo il trafigge,

  così intrammo noi per la callaia,
  uno innanzi altro prendendo la scala
  che per artezza i salitor dispaia.

  E quale il cicognin che leva l’ala
  per voglia di volare, e non s’attenta
  d’abbandonar lo nido, e giù la cala;

  tal era io con voglia accesa e spenta
  di dimandar, venendo infino a l’atto
  che fa colui ch’a dicer s’argomenta.

  Non lasciò, per l’andar che fosse ratto,
  lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca
  l’arco del dir, che ’nfino al ferro hai tratto».

  Allor sicuramente apri’ la bocca
  e cominciai: «Come si può far magro
  là dove l’uopo di nodrir non tocca?».

  «Se t’ammentassi come Meleagro
  si consumò al consumar d’un stizzo,
  non fora», disse, «a te questo sì agro;

  e se pensassi come, al vostro guizzo,
  guizza dentro a lo specchio vostra image,
  ciò che par duro ti parrebbe vizzo.

  Ma perché dentro a tuo voler t’adage,
  ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
  che sia or sanator de le tue piage».

  «Se la veduta etterna li dislego»,
  rispuose Stazio, «là dove tu sie,
  discolpi me non potert’ io far nego».

  Poi cominciò: «Se le parole mie,
  figlio, la mente tua guarda e riceve,
  lume ti fiero al come che tu die.

  Sangue perfetto, che poi non si beve
  da l’assetate vene, e si rimane
  quasi alimento che di mensa leve,

  prende nel core a tutte membra umane
  virtute informativa, come quello
  ch’a farsi quelle per le vene vane.

  Ancor digesto, scende ov’ è più bello
  tacer che dire; e quindi poscia geme
  sovr’ altrui sangue in natural vasello.

  Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme,
  l’un disposto a patire, e l’altro a fare
  per lo perfetto loco onde si preme;

  e, giunto lui, comincia ad operare
  coagulando prima, e poi avviva
  ciò che per sua matera fé constare.

  Anima fatta la virtute attiva
  qual d’una pianta, in tanto differente,
  che questa è in via e quella è già a riva,

  tanto ovra poi, che già si move e sente,
  come spungo marino; e indi imprende
  ad organar le posse ond’ è semente.

  Or si spiega, figliuolo, or si distende
  la virtù ch’è dal cor del generante,
  dove natura a tutte membra intende.

  Ma come d’animal divegna fante,
  non vedi tu ancor: quest’ è tal punto,
  che più savio di te fé già errante,

  sì che per sua dottrina fé disgiunto
  da l’anima il possibile intelletto,
  perché da lui non vide organo assunto.

  Apri a la verità che viene il petto;
  e sappi che, sì tosto come al feto
  l’articular del cerebro è perfetto,

  lo motor primo a lui si volge lieto
  sovra tant’ arte di natura, e spira
  spirito novo, di vertù repleto,

  che ciò che trova attivo quivi, tira
  in sua sustanzia, e fassi un’alma sola,
  che vive e sente e sé in sé rigira.

  E perché meno ammiri la parola,
  guarda il calor del sole che si fa vino,
  giunto a l’omor che de la vite cola.

  Quando Làchesis non ha più del lino,
  solvesi da la carne, e in virtute
  ne porta seco e l’umano e ’l divino:

  l’altre potenze tutte quante mute;
  memoria, intelligenza e volontade
  in atto molto più che prima agute.

  Sanza restarsi, per sé stessa cade
  mirabilmente a l’una de le rive;
  quivi conosce prima le sue strade.

  Tosto che loco lì la circunscrive,
  la virtù formativa raggia intorno
  così e quanto ne le membra vive.

  E come l’aere, quand’ è ben pïorno,
  per l’altrui raggio che ’n sé si reflette,
  di diversi color diventa addorno;

  così l’aere vicin quivi si mette
  e in quella forma ch’è in lui suggella
  virtüalmente l’alma che ristette;

  e simigliante poi a la fiammella
  che segue il foco là ’vunque si muta,
  segue lo spirto sua forma novella.

  Però che quindi ha poscia sua paruta,
  è chiamata ombra; e quindi organa poi
  ciascun sentire infino a la veduta.

  Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
  quindi facciam le lagrime e ’ sospiri
  che per lo monte aver sentiti puoi.

  Secondo che ci affliggono i disiri
  e li altri affetti, l’ombra si figura;
  e quest’ è la cagion di che tu miri».

  E già venuto a l’ultima tortura
  s’era per noi, e vòlto a la man destra,
  ed eravamo attenti ad altra cura.

  Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,
  e la cornice spira fiato in suso
  che la reflette e via da lei sequestra;

  ond’ ir ne convenia dal lato schiuso
  ad uno ad uno; e io temëa ’l foco
  quinci, e quindi temeva cader giuso.

  Lo duca mio dicea: «Per questo loco
  si vuol tenere a li occhi stretto il freno,
  però ch’errar potrebbesi per poco».

  ‘Summae Deus clementïae’ nel seno
  al grande ardore allora udi’ cantando,
  che di volger mi fé caler non meno;

  e vidi spirti per la fiamma andando;
  per ch’io guardava a loro e a’ miei passi
  compartendo la vista a quando a quando.

  Appresso il fine ch’a quell’ inno fassi,
  gridavano alto: ‘Virum non cognosco’;
  indi ricominciavan l’inno bassi.

  Finitolo, anco gridavano: «Al bosco
  si tenne Diana, ed Elice caccionne
  che di Venere avea sentito il tòsco».

  Indi al cantar tornavano; indi donne
  gridavano e mariti che fuor casti
  come virtute e matrimonio imponne.

  E questo modo credo che lor basti
  per tutto il tempo che ’l foco li abbruscia:
  con tal cura conviene e con tai pasti

  che la piaga da sezzo si ricuscia.



  Purgatorio • Canto XXVI


  Mentre che sì per l’orlo, uno innanzi altro,
  ce n’andavamo, e spesso il buon maestro
  diceami: «Guarda: giovi ch’io ti scaltro»;

  feriami il sole in su l’omero destro,
  che già, raggiando, tutto l’occidente
  mutava in bianco aspetto di cilestro;

  e io facea con l’ombra più rovente
  parer la fiamma; e pur a tanto indizio
  vidi molt’ ombre, andando, poner mente.

  Questa fu la cagion che diede inizio
  loro a parlar di me; e cominciarsi
  a dir: «Colui non par corpo fittizio»;

  poi verso me, quanto potëan farsi,
  certi si fero, sempre con riguardo
  di non uscir dove non fosser arsi.

  «O tu che vai, non per esser più tardo,
  ma forse reverente, a li altri dopo,
  rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo.

  Né solo a me la tua risposta è uopo;
  ché tutti questi n’hanno maggior sete
  che d’acqua fredda Indo o Etïopo.

  Dinne com’ è che fai di te parete
  al sol, pur come tu non fossi ancora
  di morte intrato dentro da la rete».

  Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora
  già manifesto, s’io non fossi atteso
  ad altra novità ch’apparve allora;

  ché per lo mezzo del cammino acceso
  venne gente col viso incontro a questa,
  la qual mi fece a rimirar sospeso.

  Lì veggio d’ogne parte farsi presta
  ciascun’ ombra e basciarsi una con una
  sanza restar, contente a brieve festa;

  così per entro loro schiera bruna
  s’ammusa l’una con l’altra formica,
  forse a spïar lor via e lor fortuna.

  Tosto che parton l’accoglienza amica,
  prima che ’l primo passo lì trascorra,
  sopragridar ciascuna s’affatica:

  la nova gente: «Soddoma e Gomorra»;
  e l’altra: «Ne la vacca entra Pasife,
  perché ’l torello a sua lussuria corra».

  Poi, come grue ch’a le montagne Rife
  volasser parte, e parte inver’ l’arene,
  queste del gel, quelle del sole schife,

  l’una gente sen va, l’altra sen vene;
  e tornan, lagrimando, a’ primi canti
  e al gridar che più lor si convene;

  e raccostansi a me, come davanti,
  essi medesmi che m’avean pregato,
  attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.

  Io, che due volte avea visto lor grato,
  incominciai: «O anime sicure
  d’aver, quando che sia, di pace stato,

  non son rimase acerbe né mature
  le membra mie di là, ma son qui meco
  col sangue suo e con le sue giunture.

  Quinci sù vo per non esser più cieco;
  donna è di sopra che m’acquista grazia,
  per che ’l mortal per vostro mondo reco.

  Ma se la vostra maggior voglia sazia
  tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi
  ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,

  ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
  chi siete voi, e chi è quella turba
  che se ne va di retro a’ vostri terghi».

  Non altrimenti stupido si turba
  lo montanaro, e rimirando ammuta,
  quando rozzo e salvatico s’inurba,

  che ciascun’ ombra fece in sua paruta;
  ma poi che furon di stupore scarche,
  lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,

  «Beato te, che de le nostre marche»,
  ricominciò colei che pria m’inchiese,
  «per morir meglio, esperïenza imbarche!

  La gente che non vien con noi, offese
  di ciò per che già Cesar, trïunfando,
  “Regina” contra sé chiamar s’intese:

  però si parton “Soddoma” gridando,
  rimproverando a sé com’ hai udito,
  e aiutan l’arsura vergognando.

  Nostro peccato fu ermafrodito;
  ma perché non servammo umana legge,
  seguendo come bestie l’appetito,

  in obbrobrio di noi, per noi si legge,
  quando partinci, il nome di colei
  che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.

  Or sai nostri atti e di che fummo rei:
  se forse a nome vuo’ saper chi semo,
  tempo non è di dire, e non saprei.

  Farotti ben di me volere scemo:
  son Guido Guinizzelli, e già mi purgo
  per ben dolermi prima ch’a lo stremo».

  Quali ne la tristizia di Ligurgo
  si fer due figli a riveder la madre,
  tal mi fec’ io, ma non a tanto insurgo,

  quand’ io odo nomar sé stesso il padre
  mio e de li altri miei miglior che mai
  rime d’amore usar dolci e leggiadre;

  e sanza udire e dir pensoso andai
  lunga fïata rimirando lui,
  né, per lo foco, in là più m’appressai.

  Poi che di riguardar pasciuto fui,
  tutto m’offersi pronto al suo servigio
  con l’affermar che fa credere altrui.

  Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,
  per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro,
  che Letè nol può tòrre né far bigio.

  Ma se le tue parole or ver giuraro,
  dimmi che è cagion per che dimostri
  nel dire e nel guardar d’avermi caro».

  E io a lui: «Li dolci detti vostri,
  che, quanto durerà l’uso moderno,
  faranno cari ancora i loro incostri».

  «O frate», disse, «questi ch’io ti cerno
  col dito», e additò un spirto innanzi,
  «fu miglior fabbro del parlar materno.

  Versi d’amore e prose di romanzi
  soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
  che quel di Lemosì credon ch’avanzi.

  A voce più ch’al ver drizzan li volti,
  e così ferman sua oppinïone
  prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.

  Così fer molti antichi di Guittone,
  di grido in grido pur lui dando pregio,
  fin che l’ha vinto il ver con più persone.

  Or se tu hai sì ampio privilegio,
  che licito ti sia l’andare al chiostro
  nel quale è Cristo abate del collegio,

  falli per me un dir d’un paternostro,
  quanto bisogna a noi di questo mondo,
  dove poter peccar non è più nostro».

  Poi, forse per dar luogo altrui secondo
  che presso avea, disparve per lo foco,
  come per l’acqua il pesce andando al fondo.

  Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
  e dissi ch’al suo nome il mio disire
  apparecchiava grazïoso loco.

  El cominciò liberamente a dire:
  «Tan m’abellis vostre cortes deman,
  qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.

  Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
  consiros vei la passada folor,
  e vei jausen lo joi qu’esper, denan.

  Ara vos prec, per aquella valor
  que vos guida al som de l’escalina,
  sovenha vos a temps de ma dolor!».

  Poi s’ascose nel foco che li affina.



  Purgatorio • Canto XXVII


  Sì come quando i primi raggi vibra
  là dove il suo fattor lo sangue sparse,
  cadendo Ibero sotto l’alta Libra,

  e l’onde in Gange da nona rïarse,
  sì stava il sole; onde ’l giorno sen giva,
  come l’angel di Dio lieto ci apparse.

  Fuor de la fiamma stava in su la riva,
  e cantava ‘Beati mundo corde!’
  in voce assai più che la nostra viva.

  Poscia «Più non si va, se pria non morde,
  anime sante, il foco: intrate in esso,
  e al cantar di là non siate sorde»,

  ci disse come noi li fummo presso;
  per ch’io divenni tal, quando lo ’ntesi,
  qual è colui che ne la fossa è messo.

  In su le man commesse mi protesi,
  guardando il foco e imaginando forte
  umani corpi già veduti accesi.

  Volsersi verso me le buone scorte;
  e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
  qui può esser tormento, ma non morte.

  Ricorditi, ricorditi! E se io
  sovresso Gerïon ti guidai salvo,
  che farò ora presso più a Dio?

  Credi per certo che se dentro a l’alvo
  di questa fiamma stessi ben mille anni,
  non ti potrebbe far d’un capel calvo.

  E se tu forse credi ch’io t’inganni,
  fatti ver’ lei, e fatti far credenza
  con le tue mani al lembo d’i tuoi panni.

  Pon giù omai, pon giù ogne temenza;
  volgiti in qua e vieni: entra sicuro!».
  E io pur fermo e contra coscïenza.

  Quando mi vide star pur fermo e duro,
  turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:
  tra Bëatrice e te è questo muro».

  Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
  Piramo in su la morte, e riguardolla,
  allor che ’l gelso diventò vermiglio;

  così, la mia durezza fatta solla,
  mi volsi al savio duca, udendo il nome
  che ne la mente sempre mi rampolla.

  Ond’ ei crollò la fronte e disse: «Come!
  volenci star di qua?»; indi sorrise
  come al fanciul si fa ch’è vinto al pome.

  Poi dentro al foco innanzi mi si mise,
  pregando Stazio che venisse retro,
  che pria per lunga strada ci divise.

  Sì com’ fui dentro, in un bogliente vetro
  gittato mi sarei per rinfrescarmi,
  tant’ era ivi lo ’ncendio sanza metro.

  Lo dolce padre mio, per confortarmi,
  pur di Beatrice ragionando andava,
  dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».

  Guidavaci una voce che cantava
  di là; e noi, attenti pur a lei,
  venimmo fuor là ove si montava.

  ‘Venite, benedicti Patris mei’,
  sonò dentro a un lume che lì era,
  tal che mi vinse e guardar nol potei.

  «Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera;
  non v’arrestate, ma studiate il passo,
  mentre che l’occidente non si annera».

  Dritta salia la via per entro ’l sasso
  verso tal parte ch’io toglieva i raggi
  dinanzi a me del sol ch’era già basso.

  E di pochi scaglion levammo i saggi,
  che ’l sol corcar, per l’ombra che si spense,
  sentimmo dietro e io e li miei saggi.

  E pria che ’n tutte le sue parti immense
  fosse orizzonte fatto d’uno aspetto,
  e notte avesse tutte sue dispense,

  ciascun di noi d’un grado fece letto;
  ché la natura del monte ci affranse
  la possa del salir più e ’l diletto.

  Quali si stanno ruminando manse
  le capre, state rapide e proterve
  sovra le cime avante che sien pranse,

  tacite a l’ombra, mentre che ’l sol ferve,
  guardate dal pastor, che ’n su la verga
  poggiato s’è e lor di posa serve;

  e quale il mandrïan che fori alberga,
  lungo il pecuglio suo queto pernotta,
  guardando perché fiera non lo sperga;

  tali eravamo tutti e tre allotta,
  io come capra, ed ei come pastori,
  fasciati quinci e quindi d’alta grotta.

  Poco parer potea lì del di fori;
  ma, per quel poco, vedea io le stelle
  di lor solere e più chiare e maggiori.

  Sì ruminando e sì mirando in quelle,
  mi prese il sonno; il sonno che sovente,
  anzi che ’l fatto sia, sa le novelle.

  Ne l’ora, credo, che de l’orïente
  prima raggiò nel monte Citerea,
  che di foco d’amor par sempre ardente,

  giovane e bella in sogno mi parea
  donna vedere andar per una landa
  cogliendo fiori; e cantando dicea:

  «Sappia qualunque il mio nome dimanda
  ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
  le belle mani a farmi una ghirlanda.

  Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
  ma mia suora Rachel mai non si smaga
  dal suo miraglio, e siede tutto giorno.

  Ell’ è d’i suoi belli occhi veder vaga
  com’ io de l’addornarmi con le mani;
  lei lo vedere, e me l’ovrare appaga».

  E già per li splendori antelucani,
  che tanto a’ pellegrin surgon più grati,
  quanto, tornando, albergan men lontani,

  le tenebre fuggian da tutti lati,
  e ’l sonno mio con esse; ond’ io leva’mi,
  veggendo i gran maestri già levati.

  «Quel dolce pome che per tanti rami
  cercando va la cura de’ mortali,
  oggi porrà in pace le tue fami».

  Virgilio inverso me queste cotali
  parole usò; e mai non furo strenne
  che fosser di piacere a queste iguali.

  Tanto voler sopra voler mi venne
  de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi
  al volo mi sentia crescer le penne.

  Come la scala tutta sotto noi
  fu corsa e fummo in su ’l grado superno,
  in me ficcò Virgilio li occhi suoi,

  e disse: «Il temporal foco e l’etterno
  veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
  dov’ io per me più oltre non discerno.

  Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
  lo tuo piacere omai prendi per duce;
  fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

  Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;
  vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli
  che qui la terra sol da sé produce.

  Mentre che vegnan lieti li occhi belli
  che, lagrimando, a te venir mi fenno,
  seder ti puoi e puoi andar tra elli.

  Non aspettar mio dir più né mio cenno;
  libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
  e fallo fora non fare a suo senno:

  per ch’io te sovra te corono e mitrio».



  Purgatorio • Canto XXVIII


  Vago già di cercar dentro e dintorno
  la divina foresta spessa e viva,
  ch’a li occhi temperava il novo giorno,

  sanza più aspettar, lasciai la riva,
  prendendo la campagna lento lento
  su per lo suol che d’ogne parte auliva.

  Un’aura dolce, sanza mutamento
  avere in sé, mi feria per la fronte
  non di più colpo che soave vento;

  per cui le fronde, tremolando, pronte
  tutte quante piegavano a la parte
  u’ la prim’ ombra gitta il santo monte;

  non però dal loro esser dritto sparte
  tanto, che li augelletti per le cime
  lasciasser d’operare ogne lor arte;

  ma con piena letizia l’ore prime,
  cantando, ricevieno intra le foglie,
  che tenevan bordone a le sue rime,

  tal qual di ramo in ramo si raccoglie
  per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
  quand’ Ëolo scilocco fuor discioglie.

  Già m’avean trasportato i lenti passi
  dentro a la selva antica tanto, ch’io
  non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi;

  ed ecco più andar mi tolse un rio,
  che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
  piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo.

  Tutte l’acque che son di qua più monde,
  parrieno avere in sé mistura alcuna
  verso di quella, che nulla nasconde,

  avvegna che si mova bruna bruna
  sotto l’ombra perpetüa, che mai
  raggiar non lascia sole ivi né luna.

  Coi piè ristetti e con li occhi passai
  di là dal fiumicello, per mirare
  la gran varïazion d’i freschi mai;

  e là m’apparve, sì com’ elli appare
  subitamente cosa che disvia
  per maraviglia tutto altro pensare,

  una donna soletta che si gia
  e cantando e scegliendo fior da fiore
  ond’ era pinta tutta la sua via.

  «Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
  ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
  che soglion esser testimon del core,

  vegnati in voglia di trarreti avanti»,
  diss’ io a lei, «verso questa rivera,
  tanto ch’io possa intender che tu canti.

  Tu mi fai rimembrar dove e qual era
  Proserpina nel tempo che perdette
  la madre lei, ed ella primavera».

  Come si volge, con le piante strette
  a terra e intra sé, donna che balli,
  e piede innanzi piede a pena mette,

  volsesi in su i vermigli e in su i gialli
  fioretti verso me, non altrimenti
  che vergine che li occhi onesti avvalli;

  e fece i prieghi miei esser contenti,
  sì appressando sé, che ’l dolce suono
  veniva a me co’ suoi intendimenti.

  Tosto che fu là dove l’erbe sono
  bagnate già da l’onde del bel fiume,
  di levar li occhi suoi mi fece dono.

  Non credo che splendesse tanto lume
  sotto le ciglia a Venere, trafitta
  dal figlio fuor di tutto suo costume.

  Ella ridea da l’altra riva dritta,
  trattando più color con le sue mani,
  che l’alta terra sanza seme gitta.

  Tre passi ci facea il fiume lontani;
  ma Elesponto, là ’ve passò Serse,
  ancora freno a tutti orgogli umani,

  più odio da Leandro non sofferse
  per mareggiare intra Sesto e Abido,
  che quel da me perch’ allor non s’aperse.

  «Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido»,
  cominciò ella, «in questo luogo eletto
  a l’umana natura per suo nido,

  maravigliando tienvi alcun sospetto;
  ma luce rende il salmo Delectasti,
  che puote disnebbiar vostro intelletto.

  E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,
  dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta
  ad ogne tua question tanto che basti».

  «L’acqua», diss’ io, «e ’l suon de la foresta
  impugnan dentro a me novella fede
  di cosa ch’io udi’ contraria a questa».

  Ond’ ella: «Io dicerò come procede
  per sua cagion ciò ch’ammirar ti face,
  e purgherò la nebbia che ti fiede.

  Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,
  fé l’uom buono e a bene, e questo loco
  diede per arr’ a lui d’etterna pace.

  Per sua difalta qui dimorò poco;
  per sua difalta in pianto e in affanno
  cambiò onesto riso e dolce gioco.

  Perché ’l turbar che sotto da sé fanno
  l’essalazion de l’acqua e de la terra,
  che quanto posson dietro al calor vanno,

  a l’uomo non facesse alcuna guerra,
  questo monte salìo verso ’l ciel tanto,
  e libero n’è d’indi ove si serra.

  Or perché in circuito tutto quanto
  l’aere si volge con la prima volta,
  se non li è rotto il cerchio d’alcun canto,

  in questa altezza ch’è tutta disciolta
  ne l’aere vivo, tal moto percuote,
  e fa sonar la selva perch’ è folta;

  e la percossa pianta tanto puote,
  che de la sua virtute l’aura impregna
  e quella poi, girando, intorno scuote;

  e l’altra terra, secondo ch’è degna
  per sé e per suo ciel, concepe e figlia
  di diverse virtù diverse legna.

  Non parrebbe di là poi maraviglia,
  udito questo, quando alcuna pianta
  sanza seme palese vi s’appiglia.

  E saper dei che la campagna santa
  dove tu se’, d’ogne semenza è piena,
  e frutto ha in sé che di là non si schianta.

  L’acqua che vedi non surge di vena
  che ristori vapor che gel converta,
  come fiume ch’acquista e perde lena;

  ma esce di fontana salda e certa,
  che tanto dal voler di Dio riprende,
  quant’ ella versa da due parti aperta.

  Da questa parte con virtù discende
  che toglie altrui memoria del peccato;
  da l’altra d’ogne ben fatto la rende.

  Quinci Letè; così da l’altro lato
  Eünoè si chiama, e non adopra
  se quinci e quindi pria non è gustato:

  a tutti altri sapori esto è di sopra.
  E avvegna ch’assai possa esser sazia
  la sete tua perch’ io più non ti scuopra,

  darotti un corollario ancor per grazia;
  né credo che ’l mio dir ti sia men caro,
  se oltre promession teco si spazia.

  Quelli ch’anticamente poetaro
  l’età de l’oro e suo stato felice,
  forse in Parnaso esto loco sognaro.

  Qui fu innocente l’umana radice;
  qui primavera sempre e ogne frutto;
  nettare è questo di che ciascun dice».

  Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto
  a’ miei poeti, e vidi che con riso
  udito avëan l’ultimo costrutto;

  poi a la bella donna torna’ il viso.



  Purgatorio • Canto XXIX


  Cantando come donna innamorata,
  continüò col fin di sue parole:
  ‘Beati quorum tecta sunt peccata!’.

  E come ninfe che si givan sole
  per le salvatiche ombre, disïando
  qual di veder, qual di fuggir lo sole,

  allor si mosse contra ’l fiume, andando
  su per la riva; e io pari di lei,
  picciol passo con picciol seguitando.

  Non eran cento tra ’ suoi passi e ’ miei,
  quando le ripe igualmente dier volta,
  per modo ch’a levante mi rendei.

  Né ancor fu così nostra via molta,
  quando la donna tutta a me si torse,
  dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».

  Ed ecco un lustro sùbito trascorse
  da tutte parti per la gran foresta,
  tal che di balenar mi mise in forse.

  Ma perché ’l balenar, come vien, resta,
  e quel, durando, più e più splendeva,
  nel mio pensier dicea: ‘Che cosa è questa?’.

  E una melodia dolce correva
  per l’aere luminoso; onde buon zelo
  mi fé riprender l’ardimento d’Eva,

  che là dove ubidia la terra e ’l cielo,
  femmina, sola e pur testé formata,
  non sofferse di star sotto alcun velo;

  sotto ’l qual se divota fosse stata,
  avrei quelle ineffabili delizie
  sentite prima e più lunga fïata.

  Mentr’ io m’andava tra tante primizie
  de l’etterno piacer tutto sospeso,
  e disïoso ancora a più letizie,

  dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
  ci si fé l’aere sotto i verdi rami;
  e ’l dolce suon per canti era già inteso.

  O sacrosante Vergini, se fami,
  freddi o vigilie mai per voi soffersi,
  cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami.

  Or convien che Elicona per me versi,
  e Uranìe m’aiuti col suo coro
  forti cose a pensar mettere in versi.

  Poco più oltre, sette alberi d’oro
  falsava nel parere il lungo tratto
  del mezzo ch’era ancor tra noi e loro;

  ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto,
  che l’obietto comun, che ’l senso inganna,
  non perdea per distanza alcun suo atto,

  la virtù ch’a ragion discorso ammanna,
  sì com’ elli eran candelabri apprese,
  e ne le voci del cantare ‘Osanna’.

  Di sopra fiammeggiava il bello arnese
  più chiaro assai che luna per sereno
  di mezza notte nel suo mezzo mese.

  Io mi rivolsi d’ammirazion pieno
  al buon Virgilio, ed esso mi rispuose
  con vista carca di stupor non meno.

  Indi rendei l’aspetto a l’alte cose
  che si movieno incontr’ a noi sì tardi,
  che foran vinte da novelle spose.

  La donna mi sgridò: «Perché pur ardi
  sì ne l’affetto de le vive luci,
  e ciò che vien di retro a lor non guardi?».

  Genti vid’ io allor, come a lor duci,
  venire appresso, vestite di bianco;
  e tal candor di qua già mai non fuci.

  L’acqua imprendëa dal sinistro fianco,
  e rendea me la mia sinistra costa,
  s’io riguardava in lei, come specchio anco.

  Quand’ io da la mia riva ebbi tal posta,
  che solo il fiume mi facea distante,
  per veder meglio ai passi diedi sosta,

  e vidi le fiammelle andar davante,
  lasciando dietro a sé l’aere dipinto,
  e di tratti pennelli avean sembiante;

  sì che lì sopra rimanea distinto
  di sette liste, tutte in quei colori
  onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.

  Questi ostendali in dietro eran maggiori
  che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
  diece passi distavan quei di fori.

  Sotto così bel ciel com’ io diviso,
  ventiquattro seniori, a due a due,
  coronati venien di fiordaliso.

  Tutti cantavan: «Benedicta tue
  ne le figlie d’Adamo, e benedette
  sieno in etterno le bellezze tue!».

  Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette
  a rimpetto di me da l’altra sponda
  libere fuor da quelle genti elette,

  sì come luce luce in ciel seconda,
  vennero appresso lor quattro animali,
  coronati ciascun di verde fronda.

  Ognuno era pennuto di sei ali;
  le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo,
  se fosser vivi, sarebber cotali.

  A descriver lor forme più non spargo
  rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
  tanto ch’a questa non posso esser largo;

  ma leggi Ezechïel, che li dipigne
  come li vide da la fredda parte
  venir con vento e con nube e con igne;

  e quali i troverai ne le sue carte,
  tali eran quivi, salvo ch’a le penne
  Giovanni è meco e da lui si diparte.

  Lo spazio dentro a lor quattro contenne
  un carro, in su due rote, trïunfale,
  ch’al collo d’un grifon tirato venne.

  Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale
  tra la mezzana e le tre e tre liste,
  sì ch’a nulla, fendendo, facea male.

  Tanto salivan che non eran viste;
  le membra d’oro avea quant’ era uccello,
  e bianche l’altre, di vermiglio miste.

  Non che Roma di carro così bello
  rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
  ma quel del Sol saria pover con ello;

  quel del Sol che, svïando, fu combusto
  per l’orazion de la Terra devota,
  quando fu Giove arcanamente giusto.

  Tre donne in giro da la destra rota
  venian danzando; l’una tanto rossa
  ch’a pena fora dentro al foco nota;

  l’altr’ era come se le carni e l’ossa
  fossero state di smeraldo fatte;
  la terza parea neve testé mossa;

  e or parëan da la bianca tratte,
  or da la rossa; e dal canto di questa
  l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.

  Da la sinistra quattro facean festa,
  in porpore vestite, dietro al modo
  d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.

  Appresso tutto il pertrattato nodo
  vidi due vecchi in abito dispari,
  ma pari in atto e onesto e sodo.

  L’un si mostrava alcun de’ famigliari
  di quel sommo Ipocràte che natura
  a li animali fé ch’ell’ ha più cari;

  mostrava l’altro la contraria cura
  con una spada lucida e aguta,
  tal che di qua dal rio mi fé paura.

  Poi vidi quattro in umile paruta;
  e di retro da tutti un vecchio solo
  venir, dormendo, con la faccia arguta.

  E questi sette col primaio stuolo
  erano abitüati, ma di gigli
  dintorno al capo non facëan brolo,

  anzi di rose e d’altri fior vermigli;
  giurato avria poco lontano aspetto
  che tutti ardesser di sopra da’ cigli.

  E quando il carro a me fu a rimpetto,
  un tuon s’udì, e quelle genti degne
  parvero aver l’andar più interdetto,

  fermandosi ivi con le prime insegne.



  Purgatorio • Canto XXX


  Quando il settentrïon del primo cielo,
  che né occaso mai seppe né orto
  né d’altra nebbia che di colpa velo,

  e che faceva lì ciascun accorto
  di suo dover, come ’l più basso face
  qual temon gira per venire a porto,

  fermo s’affisse: la gente verace,
  venuta prima tra ’l grifone ed esso,
  al carro volse sé come a sua pace;

  e un di loro, quasi da ciel messo,
  ‘Veni, sponsa, de Libano’ cantando
  gridò tre volte, e tutti li altri appresso.

  Quali i beati al novissimo bando
  surgeran presti ognun di sua caverna,
  la revestita voce alleluiando,

  cotali in su la divina basterna
  si levar cento, ad vocem tanti senis,
  ministri e messaggier di vita etterna.

  Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
  e fior gittando e di sopra e dintorno,
  ‘Manibus, oh, date lilïa plenis!’.

  Io vidi già nel cominciar del giorno
  la parte orïental tutta rosata,
  e l’altro ciel di bel sereno addorno;

  e la faccia del sol nascere ombrata,
  sì che per temperanza di vapori
  l’occhio la sostenea lunga fïata:

  così dentro una nuvola di fiori
  che da le mani angeliche saliva
  e ricadeva in giù dentro e di fori,

  sovra candido vel cinta d’uliva
  donna m’apparve, sotto verde manto
  vestita di color di fiamma viva.

  E lo spirito mio, che già cotanto
  tempo era stato ch’a la sua presenza
  non era di stupor, tremando, affranto,

  sanza de li occhi aver più conoscenza,
  per occulta virtù che da lei mosse,
  d’antico amor sentì la gran potenza.

  Tosto che ne la vista mi percosse
  l’alta virtù che già m’avea trafitto
  prima ch’io fuor di püerizia fosse,

  volsimi a la sinistra col respitto
  col quale il fantolin corre a la mamma
  quando ha paura o quando elli è afflitto,

  per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
  di sangue m’è rimaso che non tremi:
  conosco i segni de l’antica fiamma’.

  Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
  di sé, Virgilio dolcissimo patre,
  Virgilio a cui per mia salute die’mi;

  né quantunque perdeo l’antica matre,
  valse a le guance nette di rugiada,
  che, lagrimando, non tornasser atre.

  «Dante, perché Virgilio se ne vada,
  non pianger anco, non piangere ancora;
  ché pianger ti conven per altra spada».

  Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
  viene a veder la gente che ministra
  per li altri legni, e a ben far l’incora;

  in su la sponda del carro sinistra,
  quando mi volsi al suon del nome mio,
  che di necessità qui si registra,

  vidi la donna che pria m’appario
  velata sotto l’angelica festa,
  drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.

  Tutto che ’l vel che le scendea di testa,
  cerchiato de le fronde di Minerva,
  non la lasciasse parer manifesta,

  regalmente ne l’atto ancor proterva
  continüò come colui che dice
  e ’l più caldo parlar dietro reserva:

  «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
  Come degnasti d’accedere al monte?
  non sapei tu che qui è l’uom felice?».

  Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
  ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
  tanta vergogna mi gravò la fronte.

  Così la madre al figlio par superba,
  com’ ella parve a me; perché d’amaro
  sente il sapor de la pietade acerba.

  Ella si tacque; e li angeli cantaro
  di sùbito ‘In te, Domine, speravi’;
  ma oltre ‘pedes meos’ non passaro.

  Sì come neve tra le vive travi
  per lo dosso d’Italia si congela,
  soffiata e stretta da li venti schiavi,

  poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
  pur che la terra che perde ombra spiri,
  sì che par foco fonder la candela;

  così fui sanza lagrime e sospiri
  anzi ’l cantar di quei che notan sempre
  dietro a le note de li etterni giri;

  ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
  lor compatire a me, par che se detto
  avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,

  lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
  spirito e acqua fessi, e con angoscia
  de la bocca e de li occhi uscì del petto.

  Ella, pur ferma in su la detta coscia
  del carro stando, a le sustanze pie
  volse le sue parole così poscia:

  «Voi vigilate ne l’etterno die,
  sì che notte né sonno a voi non fura
  passo che faccia il secol per sue vie;

  onde la mia risposta è con più cura
  che m’intenda colui che di là piagne,
  perché sia colpa e duol d’una misura.

  Non pur per ovra de le rote magne,
  che drizzan ciascun seme ad alcun fine
  secondo che le stelle son compagne,

  ma per larghezza di grazie divine,
  che sì alti vapori hanno a lor piova,
  che nostre viste là non van vicine,

  questi fu tal ne la sua vita nova
  virtüalmente, ch’ogne abito destro
  fatto averebbe in lui mirabil prova.

  Ma tanto più maligno e più silvestro
  si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
  quant’ elli ha più di buon vigor terrestro.

  Alcun tempo il sostenni col mio volto:
  mostrando li occhi giovanetti a lui,
  meco il menava in dritta parte vòlto.

  Sì tosto come in su la soglia fui
  di mia seconda etade e mutai vita,
  questi si tolse a me, e diessi altrui.

  Quando di carne a spirto era salita,
  e bellezza e virtù cresciuta m’era,
  fu’ io a lui men cara e men gradita;

  e volse i passi suoi per via non vera,
  imagini di ben seguendo false,
  che nulla promession rendono intera.

  Né l’impetrare ispirazion mi valse,
  con le quali e in sogno e altrimenti
  lo rivocai: sì poco a lui ne calse!

  Tanto giù cadde, che tutti argomenti
  a la salute sua eran già corti,
  fuor che mostrarli le perdute genti.

  Per questo visitai l’uscio d’i morti,
  e a colui che l’ha qua sù condotto,
  li prieghi miei, piangendo, furon porti.

  Alto fato di Dio sarebbe rotto,
  se Letè si passasse e tal vivanda
  fosse gustata sanza alcuno scotto

  di pentimento che lagrime spanda».



  Purgatorio • Canto XXXI


  «O tu che se’ di là dal fiume sacro»,
  volgendo suo parlare a me per punta,
  che pur per taglio m’era paruto acro,

  ricominciò, seguendo sanza cunta,
  «dì, dì se questo è vero: a tanta accusa
  tua confession conviene esser congiunta».

  Era la mia virtù tanto confusa,
  che la voce si mosse, e pria si spense
  che da li organi suoi fosse dischiusa.

  Poco sofferse; poi disse: «Che pense?
  Rispondi a me; ché le memorie triste
  in te non sono ancor da l’acqua offense».

  Confusione e paura insieme miste
  mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca,
  al quale intender fuor mestier le viste.

  Come balestro frange, quando scocca
  da troppa tesa, la sua corda e l’arco,
  e con men foga l’asta il segno tocca,

  sì scoppia’ io sottesso grave carco,
  fuori sgorgando lagrime e sospiri,
  e la voce allentò per lo suo varco.

  Ond’ ella a me: «Per entro i mie’ disiri,
  che ti menavano ad amar lo bene
  di là dal qual non è a che s’aspiri,

  quai fossi attraversati o quai catene
  trovasti, per che del passare innanzi
  dovessiti così spogliar la spene?

  E quali agevolezze o quali avanzi
  ne la fronte de li altri si mostraro,
  per che dovessi lor passeggiare anzi?».

  Dopo la tratta d’un sospiro amaro,
  a pena ebbi la voce che rispuose,
  e le labbra a fatica la formaro.

  Piangendo dissi: «Le presenti cose
  col falso lor piacer volser miei passi,
  tosto che ’l vostro viso si nascose».

  Ed ella: «Se tacessi o se negassi
  ciò che confessi, non fora men nota
  la colpa tua: da tal giudice sassi!

  Ma quando scoppia de la propria gota
  l’accusa del peccato, in nostra corte
  rivolge sé contra ’l taglio la rota.

  Tuttavia, perché mo vergogna porte
  del tuo errore, e perché altra volta,
  udendo le serene, sie più forte,

  pon giù il seme del piangere e ascolta:
  sì udirai come in contraria parte
  mover dovieti mia carne sepolta.

  Mai non t’appresentò natura o arte
  piacer, quanto le belle membra in ch’io
  rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte;

  e se ’l sommo piacer sì ti fallio
  per la mia morte, qual cosa mortale
  dovea poi trarre te nel suo disio?

  Ben ti dovevi, per lo primo strale
  de le cose fallaci, levar suso
  di retro a me che non era più tale.

  Non ti dovea gravar le penne in giuso,
  ad aspettar più colpo, o pargoletta
  o altra novità con sì breve uso.

  Novo augelletto due o tre aspetta;
  ma dinanzi da li occhi d’i pennuti
  rete si spiega indarno o si saetta».

  Quali fanciulli, vergognando, muti
  con li occhi a terra stannosi, ascoltando
  e sé riconoscendo e ripentuti,

  tal mi stav’ io; ed ella disse: «Quando
  per udir se’ dolente, alza la barba,
  e prenderai più doglia riguardando».

  Con men di resistenza si dibarba
  robusto cerro, o vero al nostral vento
  o vero a quel de la terra di Iarba,

  ch’io non levai al suo comando il mento;
  e quando per la barba il viso chiese,
  ben conobbi il velen de l’argomento.

  E come la mia faccia si distese,
  posarsi quelle prime creature
  da loro aspersïon l’occhio comprese;

  e le mie luci, ancor poco sicure,
  vider Beatrice volta in su la fiera
  ch’è sola una persona in due nature.

  Sotto ’l suo velo e oltre la rivera
  vincer pariemi più sé stessa antica,
  vincer che l’altre qui, quand’ ella c’era.

  Di penter sì mi punse ivi l’ortica,
  che di tutte altre cose qual mi torse
  più nel suo amor, più mi si fé nemica.

  Tanta riconoscenza il cor mi morse,
  ch’io caddi vinto; e quale allora femmi,
  salsi colei che la cagion mi porse.

  Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,
  la donna ch’io avea trovata sola
  sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».

  Tratto m’avea nel fiume infin la gola,
  e tirandosi me dietro sen giva
  sovresso l’acqua lieve come scola.

  Quando fui presso a la beata riva,
  ‘Asperges me’ sì dolcemente udissi,
  che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.

  La bella donna ne le braccia aprissi;
  abbracciommi la testa e mi sommerse
  ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.

  Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
  dentro a la danza de le quattro belle;
  e ciascuna del braccio mi coperse.

  «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
  pria che Beatrice discendesse al mondo,
  fummo ordinate a lei per sue ancelle.

  Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo
  lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi
  le tre di là, che miran più profondo».

  Così cantando cominciaro; e poi
  al petto del grifon seco menarmi,
  ove Beatrice stava volta a noi.

  Disser: «Fa che le viste non risparmi;
  posto t’avem dinanzi a li smeraldi
  ond’ Amor già ti trasse le sue armi».

  Mille disiri più che fiamma caldi
  strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
  che pur sopra ’l grifone stavan saldi.

  Come in lo specchio il sol, non altrimenti
  la doppia fiera dentro vi raggiava,
  or con altri, or con altri reggimenti.

  Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,
  quando vedea la cosa in sé star queta,
  e ne l’idolo suo si trasmutava.

  Mentre che piena di stupore e lieta
  l’anima mia gustava di quel cibo
  che, saziando di sé, di sé asseta,

  sé dimostrando di più alto tribo
  ne li atti, l’altre tre si fero avanti,
  danzando al loro angelico caribo.

  «Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi»,
  era la sua canzone, «al tuo fedele
  che, per vederti, ha mossi passi tanti!

  Per grazia fa noi grazia che disvele
  a lui la bocca tua, sì che discerna
  la seconda bellezza che tu cele».

  O isplendor di viva luce etterna,
  chi palido si fece sotto l’ombra
  sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,

  che non paresse aver la mente ingombra,
  tentando a render te qual tu paresti
  là dove armonizzando il ciel t’adombra,

  quando ne l’aere aperto ti solvesti?



  Purgatorio • Canto XXXII


  Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti
  a disbramarsi la decenne sete,
  che li altri sensi m’eran tutti spenti.

  Ed essi quinci e quindi avien parete
  di non caler—così lo santo riso
  a sé traéli con l’antica rete!—;

  quando per forza mi fu vòlto il viso
  ver’ la sinistra mia da quelle dee,
  perch’ io udi’ da loro un «Troppo fiso!»;

  e la disposizion ch’a veder èe
  ne li occhi pur testé dal sol percossi,
  sanza la vista alquanto esser mi fée.

  Ma poi ch’al poco il viso riformossi
  (e dico ‘al poco’ per rispetto al molto
  sensibile onde a forza mi rimossi),

  vidi ’n sul braccio destro esser rivolto
  lo glorïoso essercito, e tornarsi
  col sole e con le sette fiamme al volto.

  Come sotto li scudi per salvarsi
  volgesi schiera, e sé gira col segno,
  prima che possa tutta in sé mutarsi;

  quella milizia del celeste regno
  che procedeva, tutta trapassonne
  pria che piegasse il carro il primo legno.

  Indi a le rote si tornar le donne,
  e ’l grifon mosse il benedetto carco
  sì, che però nulla penna crollonne.

  La bella donna che mi trasse al varco
  e Stazio e io seguitavam la rota
  che fé l’orbita sua con minore arco.

  Sì passeggiando l’alta selva vòta,
  colpa di quella ch’al serpente crese,
  temprava i passi un’angelica nota.

  Forse in tre voli tanto spazio prese
  disfrenata saetta, quanto eramo
  rimossi, quando Bëatrice scese.

  Io senti’ mormorare a tutti «Adamo»;
  poi cerchiaro una pianta dispogliata
  di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.

  La coma sua, che tanto si dilata
  più quanto più è sù, fora da l’Indi
  ne’ boschi lor per altezza ammirata.

  «Beato se’, grifon, che non discindi
  col becco d’esto legno dolce al gusto,
  poscia che mal si torce il ventre quindi».

  Così dintorno a l’albero robusto
  gridaron li altri; e l’animal binato:
  «Sì si conserva il seme d’ogne giusto».

  E vòlto al temo ch’elli avea tirato,
  trasselo al piè de la vedova frasca,
  e quel di lei a lei lasciò legato.

  Come le nostre piante, quando casca
  giù la gran luce mischiata con quella
  che raggia dietro a la celeste lasca,

  turgide fansi, e poi si rinovella
  di suo color ciascuna, pria che ’l sole
  giunga li suoi corsier sotto altra stella;

  men che di rose e più che di vïole
  colore aprendo, s’innovò la pianta,
  che prima avea le ramora sì sole.

  Io non lo ’ntesi, né qui non si canta
  l’inno che quella gente allor cantaro,
  né la nota soffersi tutta quanta.

  S’io potessi ritrar come assonnaro
  li occhi spietati udendo di Siringa,
  li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;

  come pintor che con essempro pinga,
  disegnerei com’ io m’addormentai;
  ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga.

  Però trascorro a quando mi svegliai,
  e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
  del sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?».

  Quali a veder de’ fioretti del melo
  che del suo pome li angeli fa ghiotti
  e perpetüe nozze fa nel cielo,

  Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
  e vinti, ritornaro a la parola
  da la qual furon maggior sonni rotti,

  e videro scemata loro scuola
  così di Moïsè come d’Elia,
  e al maestro suo cangiata stola;

  tal torna’ io, e vidi quella pia
  sovra me starsi che conducitrice
  fu de’ miei passi lungo ’l fiume pria.

  E tutto in dubbio dissi: «Ov’ è Beatrice?».
  Ond’ ella: «Vedi lei sotto la fronda
  nova sedere in su la sua radice.

  Vedi la compagnia che la circonda:
  li altri dopo ’l grifon sen vanno suso
  con più dolce canzone e più profonda».

  E se più fu lo suo parlar diffuso,
  non so, però che già ne li occhi m’era
  quella ch’ad altro intender m’avea chiuso.

  Sola sedeasi in su la terra vera,
  come guardia lasciata lì del plaustro
  che legar vidi a la biforme fera.

  In cerchio le facevan di sé claustro
  le sette ninfe, con quei lumi in mano
  che son sicuri d’Aquilone e d’Austro.

  «Qui sarai tu poco tempo silvano;
  e sarai meco sanza fine cive
  di quella Roma onde Cristo è romano.

  Però, in pro del mondo che mal vive,
  al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
  ritornato di là, fa che tu scrive».

  Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi
  d’i suoi comandamenti era divoto,
  la mente e li occhi ov’ ella volle diedi.

  Non scese mai con sì veloce moto
  foco di spessa nube, quando piove
  da quel confine che più va remoto,

  com’ io vidi calar l’uccel di Giove
  per l’alber giù, rompendo de la scorza,
  non che d’i fiori e de le foglie nove;

  e ferì ’l carro di tutta sua forza;
  ond’ el piegò come nave in fortuna,
  vinta da l’onda, or da poggia, or da orza.

  Poscia vidi avventarsi ne la cuna
  del trïunfal veiculo una volpe
  che d’ogne pasto buon parea digiuna;

  ma, riprendendo lei di laide colpe,
  la donna mia la volse in tanta futa
  quanto sofferser l’ossa sanza polpe.

  Poscia per indi ond’ era pria venuta,
  l’aguglia vidi scender giù ne l’arca
  del carro e lasciar lei di sé pennuta;

  e qual esce di cuor che si rammarca,
  tal voce uscì del cielo e cotal disse:
  «O navicella mia, com’ mal se’ carca!».

  Poi parve a me che la terra s’aprisse
  tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
  che per lo carro sù la coda fisse;

  e come vespa che ritragge l’ago,
  a sé traendo la coda maligna,
  trasse del fondo, e gissen vago vago.

  Quel che rimase, come da gramigna
  vivace terra, da la piuma, offerta
  forse con intenzion sana e benigna,

  si ricoperse, e funne ricoperta
  e l’una e l’altra rota e ’l temo, in tanto
  che più tiene un sospir la bocca aperta.

  Trasformato così ’l dificio santo
  mise fuor teste per le parti sue,
  tre sovra ’l temo e una in ciascun canto.

  Le prime eran cornute come bue,
  ma le quattro un sol corno avean per fronte:
  simile mostro visto ancor non fue.

  Sicura, quasi rocca in alto monte,
  seder sovresso una puttana sciolta
  m’apparve con le ciglia intorno pronte;

  e come perché non li fosse tolta,
  vidi di costa a lei dritto un gigante;
  e basciavansi insieme alcuna volta.

  Ma perché l’occhio cupido e vagante
  a me rivolse, quel feroce drudo
  la flagellò dal capo infin le piante;

  poi, di sospetto pieno e d’ira crudo,
  disciolse il mostro, e trassel per la selva,
  tanto che sol di lei mi fece scudo

  a la puttana e a la nova belva.



  Purgatorio • Canto XXXIII


  ‘Deus, venerunt gentes’, alternando
  or tre or quattro dolce salmodia,
  le donne incominciaro, e lagrimando;

  e Bëatrice, sospirosa e pia,
  quelle ascoltava sì fatta, che poco
  più a la croce si cambiò Maria.

  Ma poi che l’altre vergini dier loco
  a lei di dir, levata dritta in pè,
  rispuose, colorata come foco:

  ‘Modicum, et non videbitis me;
  et iterum, sorelle mie dilette,
  modicum, et vos videbitis me’.

  Poi le si mise innanzi tutte e sette,
  e dopo sé, solo accennando, mosse
  me e la donna e ’l savio che ristette.

  Così sen giva; e non credo che fosse
  lo decimo suo passo in terra posto,
  quando con li occhi li occhi mi percosse;

  e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
  mi disse, «tanto che, s’io parlo teco,
  ad ascoltarmi tu sie ben disposto».

  Sì com’ io fui, com’ io dovëa, seco,
  dissemi: «Frate, perché non t’attenti
  a domandarmi omai venendo meco?».

  Come a color che troppo reverenti
  dinanzi a suo maggior parlando sono,
  che non traggon la voce viva ai denti,

  avvenne a me, che sanza intero suono
  incominciai: «Madonna, mia bisogna
  voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono».

  Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
  voglio che tu omai ti disviluppe,
  sì che non parli più com’ om che sogna.

  Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
  fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda
  che vendetta di Dio non teme suppe.

  Non sarà tutto tempo sanza reda
  l’aguglia che lasciò le penne al carro,
  per che divenne mostro e poscia preda;

  ch’io veggio certamente, e però il narro,
  a darne tempo già stelle propinque,
  secure d’ogn’ intoppo e d’ogne sbarro,

  nel quale un cinquecento diece e cinque,
  messo di Dio, anciderà la fuia
  con quel gigante che con lei delinque.

  E forse che la mia narrazion buia,
  qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
  perch’ a lor modo lo ’ntelletto attuia;

  ma tosto fier li fatti le Naiade,
  che solveranno questo enigma forte
  sanza danno di pecore o di biade.

  Tu nota; e sì come da me son porte,
  così queste parole segna a’ vivi
  del viver ch’è un correre a la morte.

  E aggi a mente, quando tu le scrivi,
  di non celar qual hai vista la pianta
  ch’è or due volte dirubata quivi.

  Qualunque ruba quella o quella schianta,
  con bestemmia di fatto offende a Dio,
  che solo a l’uso suo la creò santa.

  Per morder quella, in pena e in disio
  cinquemilia anni e più l’anima prima
  bramò colui che ’l morso in sé punio.

  Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
  per singular cagione esser eccelsa
  lei tanto e sì travolta ne la cima.

  E se stati non fossero acqua d’Elsa
  li pensier vani intorno a la tua mente,
  e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,

  per tante circostanze solamente
  la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
  conosceresti a l’arbor moralmente.

  Ma perch’ io veggio te ne lo ’ntelletto
  fatto di pietra e, impetrato, tinto,
  sì che t’abbaglia il lume del mio detto,

  voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
  che ’l te ne porti dentro a te per quello
  che si reca il bordon di palma cinto».

  E io: «Sì come cera da suggello,
  che la figura impressa non trasmuta,
  segnato è or da voi lo mio cervello.

  Ma perché tanto sovra mia veduta
  vostra parola disïata vola,
  che più la perde quanto più s’aiuta?».

  «Perché conoschi», disse, «quella scuola
  c’hai seguitata, e veggi sua dottrina
  come può seguitar la mia parola;

  e veggi vostra via da la divina
  distar cotanto, quanto si discorda
  da terra il ciel che più alto festina».

  Ond’ io rispuosi lei: «Non mi ricorda
  ch’i’ stranïasse me già mai da voi,
  né honne coscïenza che rimorda».

  «E se tu ricordar non te ne puoi»,
  sorridendo rispuose, «or ti rammenta
  come bevesti di Letè ancoi;

  e se dal fummo foco s’argomenta,
  cotesta oblivïon chiaro conchiude
  colpa ne la tua voglia altrove attenta.

  Veramente oramai saranno nude
  le mie parole, quanto converrassi
  quelle scovrire a la tua vista rude».

  E più corusco e con più lenti passi
  teneva il sole il cerchio di merigge,
  che qua e là, come li aspetti, fassi,

  quando s’affisser, sì come s’affigge
  chi va dinanzi a gente per iscorta
  se trova novitate o sue vestigge,

  le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
  qual sotto foglie verdi e rami nigri
  sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.

  Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
  veder mi parve uscir d’una fontana,
  e, quasi amici, dipartirsi pigri.

  «O luce, o gloria de la gente umana,
  che acqua è questa che qui si dispiega
  da un principio e sé da sé lontana?».

  Per cotal priego detto mi fu: «Priega
  Matelda che ’l ti dica». E qui rispuose,
  come fa chi da colpa si dislega,

  la bella donna: «Questo e altre cose
  dette li son per me; e son sicura
  che l’acqua di Letè non gliel nascose».

  E Bëatrice: «Forse maggior cura,
  che spesse volte la memoria priva,
  fatt’ ha la mente sua ne li occhi oscura.

  Ma vedi Eünoè che là diriva:
  menalo ad esso, e come tu se’ usa,
  la tramortita sua virtù ravviva».

  Come anima gentil, che non fa scusa,
  ma fa sua voglia de la voglia altrui
  tosto che è per segno fuor dischiusa;

  così, poi che da essa preso fui,
  la bella donna mossesi, e a Stazio
  donnescamente disse: «Vien con lui».

  S’io avessi, lettor, più lungo spazio
  da scrivere, i’ pur cantere’ in parte
  lo dolce ber che mai non m’avria sazio;

  ma perché piene son tutte le carte
  ordite a questa cantica seconda,
  non mi lascia più ir lo fren de l’arte.

  Io ritornai da la santissima onda
  rifatto sì come piante novelle
  rinovellate di novella fronda,

  puro e disposto a salire a le stelle.



  PARADISO



  Paradiso • Canto I


  La gloria di colui che tutto move
  per l’universo penetra, e risplende
  in una parte più e meno altrove.

  Nel ciel che più de la sua luce prende
  fu’ io, e vidi cose che ridire
  né sa né può chi di là sù discende;

  perché appressando sé al suo disire,
  nostro intelletto si profonda tanto,
  che dietro la memoria non può ire.

  Veramente quant’ io del regno santo
  ne la mia mente potei far tesoro,
  sarà ora materia del mio canto.

  O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
  fammi del tuo valor sì fatto vaso,
  come dimandi a dar l’amato alloro.

  Infino a qui l’un giogo di Parnaso
  assai mi fu; ma or con amendue
  m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

  Entra nel petto mio, e spira tue
  sì come quando Marsïa traesti
  de la vagina de le membra sue.

  O divina virtù, se mi ti presti
  tanto che l’ombra del beato regno
  segnata nel mio capo io manifesti,

  vedra’mi al piè del tuo diletto legno
  venire, e coronarmi de le foglie
  che la materia e tu mi farai degno.

  Sì rade volte, padre, se ne coglie
  per trïunfare o cesare o poeta,
  colpa e vergogna de l’umane voglie,

  che parturir letizia in su la lieta
  delfica deïtà dovria la fronda
  peneia, quando alcun di sé asseta.

  Poca favilla gran fiamma seconda:
  forse di retro a me con miglior voci
  si pregherà perché Cirra risponda.

  Surge ai mortali per diverse foci
  la lucerna del mondo; ma da quella
  che quattro cerchi giugne con tre croci,

  con miglior corso e con migliore stella
  esce congiunta, e la mondana cera
  più a suo modo tempera e suggella.

  Fatto avea di là mane e di qua sera
  tal foce, e quasi tutto era là bianco
  quello emisperio, e l’altra parte nera,

  quando Beatrice in sul sinistro fianco
  vidi rivolta e riguardar nel sole:
  aguglia sì non li s’affisse unquanco.

  E sì come secondo raggio suole
  uscir del primo e risalire in suso,
  pur come pelegrin che tornar vuole,

  così de l’atto suo, per li occhi infuso
  ne l’imagine mia, il mio si fece,
  e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso.

  Molto è licito là, che qui non lece
  a le nostre virtù, mercé del loco
  fatto per proprio de l’umana spece.

  Io nol soffersi molto, né sì poco,
  ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
  com’ ferro che bogliente esce del foco;

  e di sùbito parve giorno a giorno
  essere aggiunto, come quei che puote
  avesse il ciel d’un altro sole addorno.

  Beatrice tutta ne l’etterne rote
  fissa con li occhi stava; e io in lei
  le luci fissi, di là sù rimote.

  Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
  qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
  che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.

  Trasumanar significar per verba
  non si poria; però l’essemplo basti
  a cui esperïenza grazia serba.

  S’i’ era sol di me quel che creasti
  novellamente, amor che ’l ciel governi,
  tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.

  Quando la rota che tu sempiterni
  desiderato, a sé mi fece atteso
  con l’armonia che temperi e discerni,

  parvemi tanto allor del cielo acceso
  de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
  lago non fece alcun tanto disteso.

  La novità del suono e ’l grande lume
  di lor cagion m’accesero un disio
  mai non sentito di cotanto acume.

  Ond’ ella, che vedea me sì com’ io,
  a quïetarmi l’animo commosso,
  pria ch’io a dimandar, la bocca aprio

  e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso
  col falso imaginar, sì che non vedi
  ciò che vedresti se l’avessi scosso.

  Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
  ma folgore, fuggendo il proprio sito,
  non corse come tu ch’ad esso riedi».

  S’io fui del primo dubbio disvestito
  per le sorrise parolette brevi,
  dentro ad un nuovo più fu’ inretito

  e dissi: «Già contento requïevi
  di grande ammirazion; ma ora ammiro
  com’ io trascenda questi corpi levi».

  Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro,
  li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
  che madre fa sovra figlio deliro,

  e cominciò: «Le cose tutte quante
  hanno ordine tra loro, e questo è forma
  che l’universo a Dio fa simigliante.

  Qui veggion l’alte creature l’orma
  de l’etterno valore, il qual è fine
  al quale è fatta la toccata norma.

  Ne l’ordine ch’io dico sono accline
  tutte nature, per diverse sorti,
  più al principio loro e men vicine;

  onde si muovono a diversi porti
  per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
  con istinto a lei dato che la porti.

  Questi ne porta il foco inver’ la luna;
  questi ne’ cor mortali è permotore;
  questi la terra in sé stringe e aduna;

  né pur le creature che son fore
  d’intelligenza quest’ arco saetta,
  ma quelle c’hanno intelletto e amore.

  La provedenza, che cotanto assetta,
  del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
  nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;

  e ora lì, come a sito decreto,
  cen porta la virtù di quella corda
  che ciò che scocca drizza in segno lieto.

  Vero è che, come forma non s’accorda
  molte fïate a l’intenzion de l’arte,
  perch’ a risponder la materia è sorda,

  così da questo corso si diparte
  talor la creatura, c’ha podere
  di piegar, così pinta, in altra parte;

  e sì come veder si può cadere
  foco di nube, sì l’impeto primo
  l’atterra torto da falso piacere.

  Non dei più ammirar, se bene stimo,
  lo tuo salir, se non come d’un rivo
  se d’alto monte scende giuso ad imo.

  Maraviglia sarebbe in te se, privo
  d’impedimento, giù ti fossi assiso,
  com’ a terra quïete in foco vivo».

  Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.



  Paradiso • Canto II


  O voi che siete in piccioletta barca,
  desiderosi d’ascoltar, seguiti
  dietro al mio legno che cantando varca,

  tornate a riveder li vostri liti:
  non vi mettete in pelago, ché forse,
  perdendo me, rimarreste smarriti.

  L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
  Minerva spira, e conducemi Appollo,
  e nove Muse mi dimostran l’Orse.

  Voialtri pochi che drizzaste il collo
  per tempo al pan de li angeli, del quale
  vivesi qui ma non sen vien satollo,

  metter potete ben per l’alto sale
  vostro navigio, servando mio solco
  dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

  Que’ glorïosi che passaro al Colco
  non s’ammiraron come voi farete,
  quando Iasón vider fatto bifolco.

  La concreata e perpetüa sete
  del deïforme regno cen portava
  veloci quasi come ’l ciel vedete.

  Beatrice in suso, e io in lei guardava;
  e forse in tanto in quanto un quadrel posa
  e vola e da la noce si dischiava,

  giunto mi vidi ove mirabil cosa
  mi torse il viso a sé; e però quella
  cui non potea mia cura essere ascosa,

  volta ver’ me, sì lieta come bella,
  «Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
  «che n’ha congiunti con la prima stella».

  Parev’ a me che nube ne coprisse
  lucida, spessa, solida e pulita,
  quasi adamante che lo sol ferisse.

  Per entro sé l’etterna margarita
  ne ricevette, com’ acqua recepe
  raggio di luce permanendo unita.

  S’io era corpo, e qui non si concepe
  com’ una dimensione altra patio,
  ch’esser convien se corpo in corpo repe,

  accender ne dovria più il disio
  di veder quella essenza in che si vede
  come nostra natura e Dio s’unio.

  Lì si vedrà ciò che tenem per fede,
  non dimostrato, ma fia per sé noto
  a guisa del ver primo che l’uom crede.

  Io rispuosi: «Madonna, sì devoto
  com’ esser posso più, ringrazio lui
  lo qual dal mortal mondo m’ha remoto.

  Ma ditemi: che son li segni bui
  di questo corpo, che là giuso in terra
  fan di Cain favoleggiare altrui?».

  Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra
  l’oppinïon», mi disse, «d’i mortali
  dove chiave di senso non diserra,

  certo non ti dovrien punger li strali
  d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi
  vedi che la ragione ha corte l’ali.

  Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».
  E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso
  credo che fanno i corpi rari e densi».

  Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso
  nel falso il creder tuo, se bene ascolti
  l’argomentar ch’io li farò avverso.

  La spera ottava vi dimostra molti
  lumi, li quali e nel quale e nel quanto
  notar si posson di diversi volti.

  Se raro e denso ciò facesser tanto,
  una sola virtù sarebbe in tutti,
  più e men distributa e altrettanto.

  Virtù diverse esser convegnon frutti
  di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
  seguiterieno a tua ragion distrutti.

  Ancor, se raro fosse di quel bruno
  cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte
  fora di sua materia sì digiuno

  esto pianeto, o, sì come comparte
  lo grasso e ’l magro un corpo, così questo
  nel suo volume cangerebbe carte.

  Se ’l primo fosse, fora manifesto
  ne l’eclissi del sol, per trasparere
  lo lume come in altro raro ingesto.

  Questo non è: però è da vedere
  de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,
  falsificato fia lo tuo parere.

  S’elli è che questo raro non trapassi,
  esser conviene un termine da onde
  lo suo contrario più passar non lassi;

  e indi l’altrui raggio si rifonde
  così come color torna per vetro
  lo qual di retro a sé piombo nasconde.

  Or dirai tu ch’el si dimostra tetro
  ivi lo raggio più che in altre parti,
  per esser lì refratto più a retro.

  Da questa instanza può deliberarti
  esperïenza, se già mai la provi,
  ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’ arti.

  Tre specchi prenderai; e i due rimovi
  da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,
  tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.

  Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
  ti stea un lume che i tre specchi accenda
  e torni a te da tutti ripercosso.

  Ben che nel quanto tanto non si stenda
  la vista più lontana, lì vedrai
  come convien ch’igualmente risplenda.

  Or, come ai colpi de li caldi rai
  de la neve riman nudo il suggetto
  e dal colore e dal freddo primai,

  così rimaso te ne l’intelletto
  voglio informar di luce sì vivace,
  che ti tremolerà nel suo aspetto.

  Dentro dal ciel de la divina pace
  si gira un corpo ne la cui virtute
  l’esser di tutto suo contento giace.

  Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,
  quell’ esser parte per diverse essenze,
  da lui distratte e da lui contenute.

  Li altri giron per varie differenze
  le distinzion che dentro da sé hanno
  dispongono a lor fini e lor semenze.

  Questi organi del mondo così vanno,
  come tu vedi omai, di grado in grado,
  che di sù prendono e di sotto fanno.

  Riguarda bene omai sì com’ io vado
  per questo loco al vero che disiri,
  sì che poi sappi sol tener lo guado.

  Lo moto e la virtù d’i santi giri,
  come dal fabbro l’arte del martello,
  da’ beati motor convien che spiri;

  e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
  de la mente profonda che lui volve
  prende l’image e fassene suggello.

  E come l’alma dentro a vostra polve
  per differenti membra e conformate
  a diverse potenze si risolve,

  così l’intelligenza sua bontate
  multiplicata per le stelle spiega,
  girando sé sovra sua unitate.

  Virtù diversa fa diversa lega
  col prezïoso corpo ch’ella avviva,
  nel qual, sì come vita in voi, si lega.

  Per la natura lieta onde deriva,
  la virtù mista per lo corpo luce
  come letizia per pupilla viva.

  Da essa vien ciò che da luce a luce
  par differente, non da denso e raro;
  essa è formal principio che produce,

  conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro».



  Paradiso • Canto III


  Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
  di bella verità m’avea scoverto,
  provando e riprovando, il dolce aspetto;

  e io, per confessar corretto e certo
  me stesso, tanto quanto si convenne
  leva’ il capo a proferer più erto;

  ma visïone apparve che ritenne
  a sé me tanto stretto, per vedersi,
  che di mia confession non mi sovvenne.

  Quali per vetri trasparenti e tersi,
  o ver per acque nitide e tranquille,
  non sì profonde che i fondi sien persi,

  tornan d’i nostri visi le postille
  debili sì, che perla in bianca fronte
  non vien men forte a le nostre pupille;

  tali vid’ io più facce a parlar pronte;
  per ch’io dentro a l’error contrario corsi
  a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte.

  Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi,
  quelle stimando specchiati sembianti,
  per veder di cui fosser, li occhi torsi;

  e nulla vidi, e ritorsili avanti
  dritti nel lume de la dolce guida,
  che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.

  «Non ti maravigliar perch’ io sorrida»,
  mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
  poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida,

  ma te rivolve, come suole, a vòto:
  vere sustanze son ciò che tu vedi,
  qui rilegate per manco di voto.

  Però parla con esse e odi e credi;
  ché la verace luce che le appaga
  da sé non lascia lor torcer li piedi».

  E io a l’ombra che parea più vaga
  di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
  quasi com’ uom cui troppa voglia smaga:

  «O ben creato spirito, che a’ rai
  di vita etterna la dolcezza senti
  che, non gustata, non s’intende mai,

  grazïoso mi fia se mi contenti
  del nome tuo e de la vostra sorte».
  Ond’ ella, pronta e con occhi ridenti:

  «La nostra carità non serra porte
  a giusta voglia, se non come quella
  che vuol simile a sé tutta sua corte.

  I’ fui nel mondo vergine sorella;
  e se la mente tua ben sé riguarda,
  non mi ti celerà l’esser più bella,

  ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
  che, posta qui con questi altri beati,
  beata sono in la spera più tarda.

  Li nostri affetti, che solo infiammati
  son nel piacer de lo Spirito Santo,
  letizian del suo ordine formati.

  E questa sorte che par giù cotanto,
  però n’è data, perché fuor negletti
  li nostri voti, e vòti in alcun canto».

  Ond’ io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
  vostri risplende non so che divino
  che vi trasmuta da’ primi concetti:

  però non fui a rimembrar festino;
  ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
  sì che raffigurar m’è più latino.

  Ma dimmi: voi che siete qui felici,
  disiderate voi più alto loco
  per più vedere e per più farvi amici?».

  Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
  da indi mi rispuose tanto lieta,
  ch’arder parea d’amor nel primo foco:

  «Frate, la nostra volontà quïeta
  virtù di carità, che fa volerne
  sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.

  Se disïassimo esser più superne,
  foran discordi li nostri disiri
  dal voler di colui che qui ne cerne;

  che vedrai non capere in questi giri,
  s’essere in carità è qui necesse,
  e se la sua natura ben rimiri.

  Anzi è formale ad esto beato esse
  tenersi dentro a la divina voglia,
  per ch’una fansi nostre voglie stesse;

  sì che, come noi sem di soglia in soglia
  per questo regno, a tutto il regno piace
  com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.

  E ’n la sua volontade è nostra pace:
  ell’ è quel mare al qual tutto si move
  ciò ch’ella crïa o che natura face».

  Chiaro mi fu allor come ogne dove
  in cielo è paradiso, etsi la grazia
  del sommo ben d’un modo non vi piove.

  Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia
  e d’un altro rimane ancor la gola,
  che quel si chere e di quel si ringrazia,

  così fec’ io con atto e con parola,
  per apprender da lei qual fu la tela
  onde non trasse infino a co la spuola.

  «Perfetta vita e alto merto inciela
  donna più sù», mi disse, «a la cui norma
  nel vostro mondo giù si veste e vela,

  perché fino al morir si vegghi e dorma
  con quello sposo ch’ogne voto accetta
  che caritate a suo piacer conforma.

  Dal mondo, per seguirla, giovinetta
  fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
  e promisi la via de la sua setta.

  Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
  fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
  Iddio si sa qual poi mia vita fusi.

  E quest’ altro splendor che ti si mostra
  da la mia destra parte e che s’accende
  di tutto il lume de la spera nostra,

  ciò ch’io dico di me, di sé intende;
  sorella fu, e così le fu tolta
  di capo l’ombra de le sacre bende.

  Ma poi che pur al mondo fu rivolta
  contra suo grado e contra buona usanza,
  non fu dal vel del cor già mai disciolta.

  Quest’ è la luce de la gran Costanza
  che del secondo vento di Soave
  generò ’l terzo e l’ultima possanza».

  Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
  Maria’ cantando, e cantando vanio
  come per acqua cupa cosa grave.

  La vista mia, che tanto lei seguio
  quanto possibil fu, poi che la perse,
  volsesi al segno di maggior disio,

  e a Beatrice tutta si converse;
  ma quella folgorò nel mïo sguardo
  sì che da prima il viso non sofferse;

  e ciò mi fece a dimandar più tardo.



  Paradiso • Canto IV


  Intra due cibi, distanti e moventi
  d’un modo, prima si morria di fame,
  che liber’ omo l’un recasse ai denti;

  sì si starebbe un agno intra due brame
  di fieri lupi, igualmente temendo;
  sì si starebbe un cane intra due dame:

  per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
  da li miei dubbi d’un modo sospinto,
  poi ch’era necessario, né commendo.

  Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto
  m’era nel viso, e ’l dimandar con ello,
  più caldo assai che per parlar distinto.

  Fé sì Beatrice qual fé Danïello,
  Nabuccodonosor levando d’ira,
  che l’avea fatto ingiustamente fello;

  e disse: «Io veggio ben come ti tira
  uno e altro disio, sì che tua cura
  sé stessa lega sì che fuor non spira.

  Tu argomenti: “Se ’l buon voler dura,
  la vïolenza altrui per qual ragione
  di meritar mi scema la misura?”.

  Ancor di dubitar ti dà cagione
  parer tornarsi l’anime a le stelle,
  secondo la sentenza di Platone.

  Queste son le question che nel tuo velle
  pontano igualmente; e però pria
  tratterò quella che più ha di felle.

  D’i Serafin colui che più s’india,
  Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
  che prender vuoli, io dico, non Maria,

  non hanno in altro cielo i loro scanni
  che questi spirti che mo t’appariro,
  né hanno a l’esser lor più o meno anni;

  ma tutti fanno bello il primo giro,
  e differentemente han dolce vita
  per sentir più e men l’etterno spiro.

  Qui si mostraro, non perché sortita
  sia questa spera lor, ma per far segno
  de la celestïal c’ha men salita.

  Così parlar conviensi al vostro ingegno,
  però che solo da sensato apprende
  ciò che fa poscia d’intelletto degno.

  Per questo la Scrittura condescende
  a vostra facultate, e piedi e mano
  attribuisce a Dio e altro intende;

  e Santa Chiesa con aspetto umano
  Gabrïel e Michel vi rappresenta,
  e l’altro che Tobia rifece sano.

  Quel che Timeo de l’anime argomenta
  non è simile a ciò che qui si vede,
  però che, come dice, par che senta.

  Dice che l’alma a la sua stella riede,
  credendo quella quindi esser decisa
  quando natura per forma la diede;

  e forse sua sentenza è d’altra guisa
  che la voce non suona, ed esser puote
  con intenzion da non esser derisa.

  S’elli intende tornare a queste ruote
  l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse
  in alcun vero suo arco percuote.

  Questo principio, male inteso, torse
  già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
  Mercurio e Marte a nominar trascorse.

  L’altra dubitazion che ti commove
  ha men velen, però che sua malizia
  non ti poria menar da me altrove.

  Parere ingiusta la nostra giustizia
  ne li occhi d’i mortali, è argomento
  di fede e non d’eretica nequizia.

  Ma perché puote vostro accorgimento
  ben penetrare a questa veritate,
  come disiri, ti farò contento.

  Se vïolenza è quando quel che pate
  nïente conferisce a quel che sforza,
  non fuor quest’ alme per essa scusate:

  ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
  ma fa come natura face in foco,
  se mille volte vïolenza il torza.

  Per che, s’ella si piega assai o poco,
  segue la forza; e così queste fero
  possendo rifuggir nel santo loco.

  Se fosse stato lor volere intero,
  come tenne Lorenzo in su la grada,
  e fece Muzio a la sua man severo,

  così l’avria ripinte per la strada
  ond’ eran tratte, come fuoro sciolte;
  ma così salda voglia è troppo rada.

  E per queste parole, se ricolte
  l’hai come dei, è l’argomento casso
  che t’avria fatto noia ancor più volte.

  Ma or ti s’attraversa un altro passo
  dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
  non usciresti: pria saresti lasso.

  Io t’ho per certo ne la mente messo
  ch’alma beata non poria mentire,
  però ch’è sempre al primo vero appresso;

  e poi potesti da Piccarda udire
  che l’affezion del vel Costanza tenne;
  sì ch’ella par qui meco contradire.

  Molte fïate già, frate, addivenne
  che, per fuggir periglio, contra grato
  si fé di quel che far non si convenne;

  come Almeone, che, di ciò pregato
  dal padre suo, la propria madre spense,
  per non perder pietà si fé spietato.

  A questo punto voglio che tu pense
  che la forza al voler si mischia, e fanno
  sì che scusar non si posson l’offense.

  Voglia assoluta non consente al danno;
  ma consentevi in tanto in quanto teme,
  se si ritrae, cadere in più affanno.

  Però, quando Piccarda quello spreme,
  de la voglia assoluta intende, e io
  de l’altra; sì che ver diciamo insieme».

  Cotal fu l’ondeggiar del santo rio
  ch’uscì del fonte ond’ ogne ver deriva;
  tal puose in pace uno e altro disio.

  «O amanza del primo amante, o diva»,
  diss’ io appresso, «il cui parlar m’inonda
  e scalda sì, che più e più m’avviva,

  non è l’affezion mia tanto profonda,
  che basti a render voi grazia per grazia;
  ma quei che vede e puote a ciò risponda.

  Io veggio ben che già mai non si sazia
  nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
  di fuor dal qual nessun vero si spazia.

  Posasi in esso, come fera in lustra,
  tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
  se non, ciascun disio sarebbe frustra.

  Nasce per quello, a guisa di rampollo,
  a piè del vero il dubbio; ed è natura
  ch’al sommo pinge noi di collo in collo.

  Questo m’invita, questo m’assicura
  con reverenza, donna, a dimandarvi
  d’un’altra verità che m’è oscura.

  Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi
  ai voti manchi sì con altri beni,
  ch’a la vostra statera non sien parvi».

  Beatrice mi guardò con li occhi pieni
  di faville d’amor così divini,
  che, vinta, mia virtute diè le reni,

  e quasi mi perdei con li occhi chini.



  Paradiso • Canto V


  «S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
  di là dal modo che ’n terra si vede,
  sì che del viso tuo vinco il valore,

  non ti maravigliar, ché ciò procede
  da perfetto veder, che, come apprende,
  così nel bene appreso move il piede.

  Io veggio ben sì come già resplende
  ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
  che, vista, sola e sempre amore accende;

  e s’altra cosa vostro amor seduce,
  non è se non di quella alcun vestigio,
  mal conosciuto, che quivi traluce.

  Tu vuo’ saper se con altro servigio,
  per manco voto, si può render tanto
  che l’anima sicuri di letigio».

  Sì cominciò Beatrice questo canto;
  e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
  continüò così ’l processo santo:

  «Lo maggior don che Dio per sua larghezza
  fesse creando, e a la sua bontate
  più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,

  fu de la volontà la libertate;
  di che le creature intelligenti,
  e tutte e sole, fuoro e son dotate.

  Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
  l’alto valor del voto, s’è sì fatto
  che Dio consenta quando tu consenti;

  ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto,
  vittima fassi di questo tesoro,
  tal quale io dico; e fassi col suo atto.

  Dunque che render puossi per ristoro?
  Se credi bene usar quel c’hai offerto,
  di maltolletto vuo’ far buon lavoro.

  Tu se’ omai del maggior punto certo;
  ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
  che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto,

  convienti ancor sedere un poco a mensa,
  però che ’l cibo rigido c’hai preso,
  richiede ancora aiuto a tua dispensa.

  Apri la mente a quel ch’io ti paleso
  e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
  sanza lo ritenere, avere inteso.

  Due cose si convegnono a l’essenza
  di questo sacrificio: l’una è quella
  di che si fa; l’altr’ è la convenenza.

  Quest’ ultima già mai non si cancella
  se non servata; e intorno di lei
  sì preciso di sopra si favella:

  però necessitato fu a li Ebrei
  pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta
  sì permutasse, come saver dei.

  L’altra, che per materia t’è aperta,
  puote ben esser tal, che non si falla
  se con altra materia si converta.

  Ma non trasmuti carco a la sua spalla
  per suo arbitrio alcun, sanza la volta
  e de la chiave bianca e de la gialla;

  e ogne permutanza credi stolta,
  se la cosa dimessa in la sorpresa
  come ’l quattro nel sei non è raccolta.

  Però qualunque cosa tanto pesa
  per suo valor che tragga ogne bilancia,
  sodisfar non si può con altra spesa.

  Non prendan li mortali il voto a ciancia;
  siate fedeli, e a ciò far non bieci,
  come Ieptè a la sua prima mancia;

  cui più si convenia dicer ‘Mal feci’,
  che, servando, far peggio; e così stolto
  ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,

  onde pianse Efigènia il suo bel volto,
  e fé pianger di sé i folli e i savi
  ch’udir parlar di così fatto cólto.

  Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
  non siate come penna ad ogne vento,
  e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.

  Avete il novo e ’l vecchio Testamento,
  e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;
  questo vi basti a vostro salvamento.

  Se mala cupidigia altro vi grida,
  uomini siate, e non pecore matte,
  sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!

  Non fate com’ agnel che lascia il latte
  de la sua madre, e semplice e lascivo
  seco medesmo a suo piacer combatte!».

  Così Beatrice a me com’ ïo scrivo;
  poi si rivolse tutta disïante
  a quella parte ove ’l mondo è più vivo.

  Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante
  puoser silenzio al mio cupido ingegno,
  che già nuove questioni avea davante;

  e sì come saetta che nel segno
  percuote pria che sia la corda queta,
  così corremmo nel secondo regno.

  Quivi la donna mia vid’ io sì lieta,
  come nel lume di quel ciel si mise,
  che più lucente se ne fé ’l pianeta.

  E se la stella si cambiò e rise,
  qual mi fec’ io che pur da mia natura
  trasmutabile son per tutte guise!

  Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
  traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
  per modo che lo stimin lor pastura,

  sì vid’ io ben più di mille splendori
  trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
  «Ecco chi crescerà li nostri amori».

  E sì come ciascuno a noi venìa,
  vedeasi l’ombra piena di letizia
  nel folgór chiaro che di lei uscia.

  Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
  non procedesse, come tu avresti
  di più savere angosciosa carizia;

  e per te vederai come da questi
  m’era in disio d’udir lor condizioni,
  sì come a li occhi mi fur manifesti.

  «O bene nato a cui veder li troni
  del trïunfo etternal concede grazia
  prima che la milizia s’abbandoni,

  del lume che per tutto il ciel si spazia
  noi semo accesi; e però, se disii
  di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia».

  Così da un di quelli spirti pii
  detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
  sicuramente, e credi come a dii».

  «Io veggio ben sì come tu t’annidi
  nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
  perch’ e’ corusca sì come tu ridi;

  ma non so chi tu se’, né perché aggi,
  anima degna, il grado de la spera
  che si vela a’ mortai con altrui raggi».

  Questo diss’ io diritto a la lumera
  che pria m’avea parlato; ond’ ella fessi
  lucente più assai di quel ch’ell’ era.

  Sì come il sol che si cela elli stessi
  per troppa luce, come ’l caldo ha róse
  le temperanze d’i vapori spessi,

  per più letizia sì mi si nascose
  dentro al suo raggio la figura santa;
  e così chiusa chiusa mi rispuose

  nel modo che ’l seguente canto canta.



  Paradiso • Canto VI


  «Poscia che Costantin l’aquila volse
  contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio
  dietro a l’antico che Lavina tolse,

  cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio
  ne lo stremo d’Europa si ritenne,
  vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

  e sotto l’ombra de le sacre penne
  governò ’l mondo lì di mano in mano,
  e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

  Cesare fui e son Iustinïano,
  che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
  d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano.

  E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
  una natura in Cristo esser, non piùe,
  credea, e di tal fede era contento;

  ma ’l benedetto Agapito, che fue
  sommo pastore, a la fede sincera
  mi dirizzò con le parole sue.

  Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
  vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi
  ogni contradizione e falsa e vera.

  Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
  a Dio per grazia piacque di spirarmi
  l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;

  e al mio Belisar commendai l’armi,
  cui la destra del ciel fu sì congiunta,
  che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

  Or qui a la question prima s’appunta
  la mia risposta; ma sua condizione
  mi stringe a seguitare alcuna giunta,

  perché tu veggi con quanta ragione
  si move contr’ al sacrosanto segno
  e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.

  Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
  di reverenza; e cominciò da l’ora
  che Pallante morì per darli regno.

  Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
  per trecento anni e oltre, infino al fine
  che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

  E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
  al dolor di Lucrezia in sette regi,
  vincendo intorno le genti vicine.

  Sai quel ch’el fé portato da li egregi
  Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
  incontro a li altri principi e collegi;

  onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
  negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi
  ebber la fama che volontier mirro.

  Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
  che di retro ad Anibale passaro
  l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

  Sott’ esso giovanetti trïunfaro
  Scipïone e Pompeo; e a quel colle
  sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.

  Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
  redur lo mondo a suo modo sereno,
  Cesare per voler di Roma il tolle.

  E quel che fé da Varo infino a Reno,
  Isara vide ed Era e vide Senna
  e ogne valle onde Rodano è pieno.

  Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
  e saltò Rubicon, fu di tal volo,
  che nol seguiteria lingua né penna.

  Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
  poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse
  sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.

  Antandro e Simeonta, onde si mosse,
  rivide e là dov’ Ettore si cuba;
  e mal per Tolomeo poscia si scosse.

  Da indi scese folgorando a Iuba;
  onde si volse nel vostro occidente,
  ove sentia la pompeana tuba.

  Di quel che fé col baiulo seguente,
  Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
  e Modena e Perugia fu dolente.

  Piangene ancor la trista Cleopatra,
  che, fuggendoli innanzi, dal colubro
  la morte prese subitana e atra.

  Con costui corse infino al lito rubro;
  con costui puose il mondo in tanta pace,
  che fu serrato a Giano il suo delubro.

  Ma ciò che ’l segno che parlar mi face
  fatto avea prima e poi era fatturo
  per lo regno mortal ch’a lui soggiace,

  diventa in apparenza poco e scuro,
  se in mano al terzo Cesare si mira
  con occhio chiaro e con affetto puro;

  ché la viva giustizia che mi spira,
  li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,
  gloria di far vendetta a la sua ira.

  Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
  poscia con Tito a far vendetta corse
  de la vendetta del peccato antico.

  E quando il dente longobardo morse
  la Santa Chiesa, sotto le sue ali
  Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

  Omai puoi giudicar di quei cotali
  ch’io accusai di sopra e di lor falli,
  che son cagion di tutti vostri mali.

  L’uno al pubblico segno i gigli gialli
  oppone, e l’altro appropria quello a parte,
  sì ch’è forte a veder chi più si falli.

  Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
  sott’ altro segno, ché mal segue quello
  sempre chi la giustizia e lui diparte;

  e non l’abbatta esto Carlo novello
  coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
  ch’a più alto leon trasser lo vello.

  Molte fïate già pianser li figli
  per la colpa del padre, e non si creda
  che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!

  Questa picciola stella si correda
  d’i buoni spirti che son stati attivi
  perché onore e fama li succeda:

  e quando li disiri poggian quivi,
  sì disvïando, pur convien che i raggi
  del vero amore in sù poggin men vivi.

  Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
  col merto è parte di nostra letizia,
  perché non li vedem minor né maggi.

  Quindi addolcisce la viva giustizia
  in noi l’affetto sì, che non si puote
  torcer già mai ad alcuna nequizia.

  Diverse voci fanno dolci note;
  così diversi scanni in nostra vita
  rendon dolce armonia tra queste rote.

  E dentro a la presente margarita
  luce la luce di Romeo, di cui
  fu l’ovra grande e bella mal gradita.

  Ma i Provenzai che fecer contra lui
  non hanno riso; e però mal cammina
  qual si fa danno del ben fare altrui.

  Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
  Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
  Romeo, persona umìle e peregrina.

  E poi il mosser le parole biece
  a dimandar ragione a questo giusto,
  che li assegnò sette e cinque per diece,

  indi partissi povero e vetusto;
  e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
  mendicando sua vita a frusto a frusto,

  assai lo loda, e più lo loderebbe».



  Paradiso • Canto VII


  «Osanna, sanctus Deus sabaòth,
  superillustrans claritate tua
  felices ignes horum malacòth!».

  Così, volgendosi a la nota sua,
  fu viso a me cantare essa sustanza,
  sopra la qual doppio lume s’addua;

  ed essa e l’altre mossero a sua danza,
  e quasi velocissime faville
  mi si velar di sùbita distanza.

  Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
  fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna
  che mi diseta con le dolci stille’.

  Ma quella reverenza che s’indonna
  di tutto me, pur per Be e per ice,
  mi richinava come l’uom ch’assonna.

  Poco sofferse me cotal Beatrice
  e cominciò, raggiandomi d’un riso
  tal, che nel foco faria l’uom felice:

  «Secondo mio infallibile avviso,
  come giusta vendetta giustamente
  punita fosse, t’ha in pensier miso;

  ma io ti solverò tosto la mente;
  e tu ascolta, ché le mie parole
  di gran sentenza ti faran presente.

  Per non soffrire a la virtù che vole
  freno a suo prode, quell’ uom che non nacque,
  dannando sé, dannò tutta sua prole;

  onde l’umana specie inferma giacque
  giù per secoli molti in grande errore,
  fin ch’al Verbo di Dio discender piacque

  u’ la natura, che dal suo fattore
  s’era allungata, unì a sé in persona
  con l’atto sol del suo etterno amore.

  Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona:
  questa natura al suo fattore unita,
  qual fu creata, fu sincera e buona;

  ma per sé stessa pur fu ella sbandita
  di paradiso, però che si torse
  da via di verità e da sua vita.

  La pena dunque che la croce porse
  s’a la natura assunta si misura,
  nulla già mai sì giustamente morse;

  e così nulla fu di tanta ingiura,
  guardando a la persona che sofferse,
  in che era contratta tal natura.

  Però d’un atto uscir cose diverse:
  ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte;
  per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse.

  Non ti dee oramai parer più forte,
  quando si dice che giusta vendetta
  poscia vengiata fu da giusta corte.

  Ma io veggi’ or la tua mente ristretta
  di pensiero in pensier dentro ad un nodo,
  del qual con gran disio solver s’aspetta.

  Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo;
  ma perché Dio volesse, m’è occulto,
  a nostra redenzion pur questo modo”.

  Questo decreto, frate, sta sepulto
  a li occhi di ciascuno il cui ingegno
  ne la fiamma d’amor non è adulto.

  Veramente, però ch’a questo segno
  molto si mira e poco si discerne,
  dirò perché tal modo fu più degno.

  La divina bontà, che da sé sperne
  ogne livore, ardendo in sé, sfavilla
  sì che dispiega le bellezze etterne.

  Ciò che da lei sanza mezzo distilla
  non ha poi fine, perché non si move
  la sua imprenta quand’ ella sigilla.

  Ciò che da essa sanza mezzo piove
  libero è tutto, perché non soggiace
  a la virtute de le cose nove.

  Più l’è conforme, e però più le piace;
  ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia,
  ne la più somigliante è più vivace.

  Di tutte queste dote s’avvantaggia
  l’umana creatura, e s’una manca,
  di sua nobilità convien che caggia.

  Solo il peccato è quel che la disfranca
  e falla dissimìle al sommo bene,
  per che del lume suo poco s’imbianca;

  e in sua dignità mai non rivene,
  se non rïempie, dove colpa vòta,
  contra mal dilettar con giuste pene.

  Vostra natura, quando peccò tota
  nel seme suo, da queste dignitadi,
  come di paradiso, fu remota;

  né ricovrar potiensi, se tu badi
  ben sottilmente, per alcuna via,
  sanza passar per un di questi guadi:

  o che Dio solo per sua cortesia
  dimesso avesse, o che l’uom per sé isso
  avesse sodisfatto a sua follia.

  Ficca mo l’occhio per entro l’abisso
  de l’etterno consiglio, quanto puoi
  al mio parlar distrettamente fisso.

  Non potea l’uomo ne’ termini suoi
  mai sodisfar, per non potere ir giuso
  con umiltate obedïendo poi,

  quanto disobediendo intese ir suso;
  e questa è la cagion per che l’uom fue
  da poter sodisfar per sé dischiuso.

  Dunque a Dio convenia con le vie sue
  riparar l’omo a sua intera vita,
  dico con l’una, o ver con amendue.

  Ma perché l’ovra tanto è più gradita
  da l’operante, quanto più appresenta
  de la bontà del core ond’ ell’ è uscita,

  la divina bontà che ’l mondo imprenta,
  di proceder per tutte le sue vie,
  a rilevarvi suso, fu contenta.

  Né tra l’ultima notte e ’l primo die
  sì alto o sì magnifico processo,
  o per l’una o per l’altra, fu o fie:

  ché più largo fu Dio a dar sé stesso
  per far l’uom sufficiente a rilevarsi,
  che s’elli avesse sol da sé dimesso;

  e tutti li altri modi erano scarsi
  a la giustizia, se ’l Figliuol di Dio
  non fosse umilïato ad incarnarsi.

  Or per empierti bene ogne disio,
  ritorno a dichiararti in alcun loco,
  perché tu veggi lì così com’ io.

  Tu dici: “Io veggio l’acqua, io veggio il foco,
  l’aere e la terra e tutte lor misture
  venire a corruzione, e durar poco;

  e queste cose pur furon creature;
  per che, se ciò ch’è detto è stato vero,
  esser dovrien da corruzion sicure”.

  Li angeli, frate, e ’l paese sincero
  nel qual tu se’, dir si posson creati,
  sì come sono, in loro essere intero;

  ma li alimenti che tu hai nomati
  e quelle cose che di lor si fanno
  da creata virtù sono informati.

  Creata fu la materia ch’elli hanno;
  creata fu la virtù informante
  in queste stelle che ’ntorno a lor vanno.

  L’anima d’ogne bruto e de le piante
  di complession potenzïata tira
  lo raggio e ’l moto de le luci sante;

  ma vostra vita sanza mezzo spira
  la somma beninanza, e la innamora
  di sé sì che poi sempre la disira.

  E quinci puoi argomentare ancora
  vostra resurrezion, se tu ripensi
  come l’umana carne fessi allora

  che li primi parenti intrambo fensi».



  Paradiso • Canto VIII


  Solea creder lo mondo in suo periclo
  che la bella Ciprigna il folle amore
  raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

  per che non pur a lei faceano onore
  di sacrificio e di votivo grido
  le genti antiche ne l’antico errore;

  ma Dïone onoravano e Cupido,
  quella per madre sua, questo per figlio,
  e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;

  e da costei ond’ io principio piglio
  pigliavano il vocabol de la stella
  che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.

  Io non m’accorsi del salire in ella;
  ma d’esservi entro mi fé assai fede
  la donna mia ch’i’ vidi far più bella.

  E come in fiamma favilla si vede,
  e come in voce voce si discerne,
  quand’ una è ferma e altra va e riede,

  vid’ io in essa luce altre lucerne
  muoversi in giro più e men correnti,
  al modo, credo, di lor viste interne.

  Di fredda nube non disceser venti,
  o visibili o no, tanto festini,
  che non paressero impediti e lenti

  a chi avesse quei lumi divini
  veduti a noi venir, lasciando il giro
  pria cominciato in li alti Serafini;

  e dentro a quei che più innanzi appariro
  sonava ‘Osanna’ sì, che unque poi
  di rïudir non fui sanza disiro.

  Indi si fece l’un più presso a noi
  e solo incominciò: «Tutti sem presti
  al tuo piacer, perché di noi ti gioi.

  Noi ci volgiam coi principi celesti
  d’un giro e d’un girare e d’una sete,
  ai quali tu del mondo già dicesti:

  ‘Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’;
  e sem sì pien d’amor, che, per piacerti,
  non fia men dolce un poco di quïete».

  Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
  a la mia donna reverenti, ed essa
  fatti li avea di sé contenti e certi,

  rivolsersi a la luce che promessa
  tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue
  la voce mia di grande affetto impressa.

  E quanta e quale vid’ io lei far piùe
  per allegrezza nova che s’accrebbe,
  quando parlai, a l’allegrezze sue!

  Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe
  giù poco tempo; e se più fosse stato,
  molto sarà di mal, che non sarebbe.

  La mia letizia mi ti tien celato
  che mi raggia dintorno e mi nasconde
  quasi animal di sua seta fasciato.

  Assai m’amasti, e avesti ben onde;
  che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
  di mio amor più oltre che le fronde.

  Quella sinistra riva che si lava
  di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
  per suo segnore a tempo m’aspettava,

  e quel corno d’Ausonia che s’imborga
  di Bari e di Gaeta e di Catona,
  da ove Tronto e Verde in mare sgorga.

  Fulgeami già in fronte la corona
  di quella terra che ’l Danubio riga
  poi che le ripe tedesche abbandona.

  E la bella Trinacria, che caliga
  tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
  che riceve da Euro maggior briga,

  non per Tifeo ma per nascente solfo,
  attesi avrebbe li suoi regi ancora,
  nati per me di Carlo e di Ridolfo,

  se mala segnoria, che sempre accora
  li popoli suggetti, non avesse
  mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.

  E se mio frate questo antivedesse,
  l’avara povertà di Catalogna
  già fuggeria, perché non li offendesse;

  ché veramente proveder bisogna
  per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca
  carcata più d’incarco non si pogna.

  La sua natura, che di larga parca
  discese, avria mestier di tal milizia
  che non curasse di mettere in arca».

  «Però ch’i’ credo che l’alta letizia
  che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
  là ’ve ogne ben si termina e s’inizia,

  per te si veggia come la vegg’ io,
  grata m’è più; e anco quest’ ho caro
  perché ’l discerni rimirando in Dio.

  Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
  poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
  com’ esser può, di dolce seme, amaro».

  Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso
  mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
  terrai lo viso come tien lo dosso.

  Lo ben che tutto il regno che tu scandi
  volge e contenta, fa esser virtute
  sua provedenza in questi corpi grandi.

  E non pur le nature provedute
  sono in la mente ch’è da sé perfetta,
  ma esse insieme con la lor salute:

  per che quantunque quest’ arco saetta
  disposto cade a proveduto fine,
  sì come cosa in suo segno diretta.

  Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
  producerebbe sì li suoi effetti,
  che non sarebbero arti, ma ruine;

  e ciò esser non può, se li ’ntelletti
  che muovon queste stelle non son manchi,
  e manco il primo, che non li ha perfetti.

  Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?».
  E io: «Non già; ché impossibil veggio
  che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».

  Ond’ elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
  per l’omo in terra, se non fosse cive?».
  «Sì», rispuos’ io; «e qui ragion non cheggio».

  «E puot’ elli esser, se giù non si vive
  diversamente per diversi offici?
  Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive».

  Sì venne deducendo infino a quici;
  poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
  convien di vostri effetti le radici:

  per ch’un nasce Solone e altro Serse,
  altro Melchisedèch e altro quello
  che, volando per l’aere, il figlio perse.

  La circular natura, ch’è suggello
  a la cera mortal, fa ben sua arte,
  ma non distingue l’un da l’altro ostello.

  Quinci addivien ch’Esaù si diparte
  per seme da Iacòb; e vien Quirino
  da sì vil padre, che si rende a Marte.

  Natura generata il suo cammino
  simil farebbe sempre a’ generanti,
  se non vincesse il proveder divino.

  Or quel che t’era dietro t’è davanti:
  ma perché sappi che di te mi giova,
  un corollario voglio che t’ammanti.

  Sempre natura, se fortuna trova
  discorde a sé, com’ ogne altra semente
  fuor di sua regïon, fa mala prova.

  E se ’l mondo là giù ponesse mente
  al fondamento che natura pone,
  seguendo lui, avria buona la gente.

  Ma voi torcete a la religïone
  tal che fia nato a cignersi la spada,
  e fate re di tal ch’è da sermone;

  onde la traccia vostra è fuor di strada».



  Paradiso • Canto IX


  Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
  m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni
  che ricever dovea la sua semenza;

  ma disse: «Taci e lascia muover li anni»;
  sì ch’io non posso dir se non che pianto
  giusto verrà di retro ai vostri danni.

  E già la vita di quel lume santo
  rivolta s’era al Sol che la rïempie
  come quel ben ch’a ogne cosa è tanto.

  Ahi anime ingannate e fatture empie,
  che da sì fatto ben torcete i cuori,
  drizzando in vanità le vostre tempie!

  Ed ecco un altro di quelli splendori
  ver’ me si fece, e ’l suo voler piacermi
  significava nel chiarir di fori.

  Li occhi di Bëatrice, ch’eran fermi
  sovra me, come pria, di caro assenso
  al mio disio certificato fermi.

  «Deh, metti al mio voler tosto compenso,
  beato spirto», dissi, «e fammi prova
  ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!».

  Onde la luce che m’era ancor nova,
  del suo profondo, ond’ ella pria cantava,
  seguette come a cui di ben far giova:

  «In quella parte de la terra prava
  italica che siede tra Rïalto
  e le fontane di Brenta e di Piava,

  si leva un colle, e non surge molt’ alto,
  là onde scese già una facella
  che fece a la contrada un grande assalto.

  D’una radice nacqui e io ed ella:
  Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
  perché mi vinse il lume d’esta stella;

  ma lietamente a me medesma indulgo
  la cagion di mia sorte, e non mi noia;
  che parria forse forte al vostro vulgo.

  Di questa luculenta e cara gioia
  del nostro cielo che più m’è propinqua,
  grande fama rimase; e pria che moia,

  questo centesimo anno ancor s’incinqua:
  vedi se far si dee l’omo eccellente,
  sì ch’altra vita la prima relinqua.

  E ciò non pensa la turba presente
  che Tagliamento e Adice richiude,
  né per esser battuta ancor si pente;

  ma tosto fia che Padova al palude
  cangerà l’acqua che Vincenza bagna,
  per essere al dover le genti crude;

  e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
  tal signoreggia e va con la testa alta,
  che già per lui carpir si fa la ragna.

  Piangerà Feltro ancora la difalta
  de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
  sì, che per simil non s’entrò in malta.

  Troppo sarebbe larga la bigoncia
  che ricevesse il sangue ferrarese,
  e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia,

  che donerà questo prete cortese
  per mostrarsi di parte; e cotai doni
  conformi fieno al viver del paese.

  Sù sono specchi, voi dicete Troni,
  onde refulge a noi Dio giudicante;
  sì che questi parlar ne paion buoni».

  Qui si tacette; e fecemi sembiante
  che fosse ad altro volta, per la rota
  in che si mise com’ era davante.

  L’altra letizia, che m’era già nota
  per cara cosa, mi si fece in vista
  qual fin balasso in che lo sol percuota.

  Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
  sì come riso qui; ma giù s’abbuia
  l’ombra di fuor, come la mente è trista.

  «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
  diss’ io, «beato spirto, sì che nulla
  voglia di sé a te puot’ esser fuia.

  Dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla
  sempre col canto di quei fuochi pii
  che di sei ali facen la coculla,

  perché non satisface a’ miei disii?
  Già non attendere’ io tua dimanda,
  s’io m’intuassi, come tu t’inmii».

  «La maggior valle in che l’acqua si spanda»,
  incominciaro allor le sue parole,
  «fuor di quel mar che la terra inghirlanda,

  tra ’ discordanti liti contra ’l sole
  tanto sen va, che fa meridïano
  là dove l’orizzonte pria far suole.

  Di quella valle fu’ io litorano
  tra Ebro e Macra, che per cammin corto
  parte lo Genovese dal Toscano.

  Ad un occaso quasi e ad un orto
  Buggea siede e la terra ond’ io fui,
  che fé del sangue suo già caldo il porto.

  Folco mi disse quella gente a cui
  fu noto il nome mio; e questo cielo
  di me s’imprenta, com’ io fe’ di lui;

  ché più non arse la figlia di Belo,
  noiando e a Sicheo e a Creusa,
  di me, infin che si convenne al pelo;

  né quella Rodopëa che delusa
  fu da Demofoonte, né Alcide
  quando Iole nel core ebbe rinchiusa.

  Non però qui si pente, ma si ride,
  non de la colpa, ch’a mente non torna,
  ma del valor ch’ordinò e provide.

  Qui si rimira ne l’arte ch’addorna
  cotanto affetto, e discernesi ’l bene
  per che ’l mondo di sù quel di giù torna.

  Ma perché tutte le tue voglie piene
  ten porti che son nate in questa spera,
  proceder ancor oltre mi convene.

  Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
  che qui appresso me così scintilla
  come raggio di sole in acqua mera.

  Or sappi che là entro si tranquilla
  Raab; e a nostr’ ordine congiunta,
  di lei nel sommo grado si sigilla.

  Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta
  che ’l vostro mondo face, pria ch’altr’ alma
  del trïunfo di Cristo fu assunta.

  Ben si convenne lei lasciar per palma
  in alcun cielo de l’alta vittoria
  che s’acquistò con l’una e l’altra palma,

  perch’ ella favorò la prima gloria
  di Iosüè in su la Terra Santa,
  che poco tocca al papa la memoria.

  La tua città, che di colui è pianta
  che pria volse le spalle al suo fattore
  e di cui è la ’nvidia tanto pianta,

  produce e spande il maladetto fiore
  c’ha disvïate le pecore e li agni,
  però che fatto ha lupo del pastore.

  Per questo l’Evangelio e i dottor magni
  son derelitti, e solo ai Decretali
  si studia, sì che pare a’ lor vivagni.

  A questo intende il papa e ’ cardinali;
  non vanno i lor pensieri a Nazarette,
  là dove Gabrïello aperse l’ali.

  Ma Vaticano e l’altre parti elette
  di Roma che son state cimitero
  a la milizia che Pietro seguette,

  tosto libere fien de l’avoltero».



  Paradiso • Canto X


  Guardando nel suo Figlio con l’Amore
  che l’uno e l’altro etternalmente spira,
  lo primo e ineffabile Valore

  quanto per mente e per loco si gira
  con tant’ ordine fé, ch’esser non puote
  sanza gustar di lui chi ciò rimira.

  Leva dunque, lettore, a l’alte rote
  meco la vista, dritto a quella parte
  dove l’un moto e l’altro si percuote;

  e lì comincia a vagheggiar ne l’arte
  di quel maestro che dentro a sé l’ama,
  tanto che mai da lei l’occhio non parte.

  Vedi come da indi si dirama
  l’oblico cerchio che i pianeti porta,
  per sodisfare al mondo che li chiama.

  Che se la strada lor non fosse torta,
  molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
  e quasi ogne potenza qua giù morta;

  e se dal dritto più o men lontano
  fosse ’l partire, assai sarebbe manco
  e giù e sù de l’ordine mondano.

  Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
  dietro pensando a ciò che si preliba,
  s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.

  Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
  ché a sé torce tutta la mia cura
  quella materia ond’ io son fatto scriba.

  Lo ministro maggior de la natura,
  che del valor del ciel lo mondo imprenta
  e col suo lume il tempo ne misura,

  con quella parte che sù si rammenta
  congiunto, si girava per le spire
  in che più tosto ognora s’appresenta;

  e io era con lui; ma del salire
  non m’accors’ io, se non com’ uom s’accorge,
  anzi ’l primo pensier, del suo venire.

  È Bëatrice quella che sì scorge
  di bene in meglio, sì subitamente
  che l’atto suo per tempo non si sporge.

  Quant’ esser convenia da sé lucente
  quel ch’era dentro al sol dov’ io entra’mi,
  non per color, ma per lume parvente!

  Perch’ io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,
  sì nol direi che mai s’imaginasse;
  ma creder puossi e di veder si brami.

  E se le fantasie nostre son basse
  a tanta altezza, non è maraviglia;
  ché sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse.

  Tal era quivi la quarta famiglia
  de l’alto Padre, che sempre la sazia,
  mostrando come spira e come figlia.

  E Bëatrice cominciò: «Ringrazia,
  ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo
  sensibil t’ha levato per sua grazia».

  Cor di mortal non fu mai sì digesto
  a divozione e a rendersi a Dio
  con tutto ’l suo gradir cotanto presto,

  come a quelle parole mi fec’ io;
  e sì tutto ’l mio amore in lui si mise,
  che Bëatrice eclissò ne l’oblio.

  Non le dispiacque; ma sì se ne rise,
  che lo splendor de li occhi suoi ridenti
  mia mente unita in più cose divise.

  Io vidi più folgór vivi e vincenti
  far di noi centro e di sé far corona,
  più dolci in voce che in vista lucenti:

  così cinger la figlia di Latona
  vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
  sì che ritenga il fil che fa la zona.

  Ne la corte del cielo, ond’ io rivegno,
  si trovan molte gioie care e belle
  tanto che non si posson trar del regno;

  e ’l canto di quei lumi era di quelle;
  chi non s’impenna sì che là sù voli,
  dal muto aspetti quindi le novelle.

  Poi, sì cantando, quelli ardenti soli
  si fuor girati intorno a noi tre volte,
  come stelle vicine a’ fermi poli,

  donne mi parver, non da ballo sciolte,
  ma che s’arrestin tacite, ascoltando
  fin che le nove note hanno ricolte.

  E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando
  lo raggio de la grazia, onde s’accende
  verace amore e che poi cresce amando,

  multiplicato in te tanto resplende,
  che ti conduce su per quella scala
  u’ sanza risalir nessun discende;

  qual ti negasse il vin de la sua fiala
  per la tua sete, in libertà non fora
  se non com’ acqua ch’al mar non si cala.

  Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
  questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia
  la bella donna ch’al ciel t’avvalora.

  Io fui de li agni de la santa greggia
  che Domenico mena per cammino
  u’ ben s’impingua se non si vaneggia.

  Questi che m’è a destra più vicino,
  frate e maestro fummi, ed esso Alberto
  è di Cologna, e io Thomas d’Aquino.

  Se sì di tutti li altri esser vuo’ certo,
  di retro al mio parlar ten vien col viso
  girando su per lo beato serto.

  Quell’ altro fiammeggiare esce del riso
  di Grazïan, che l’uno e l’altro foro
  aiutò sì che piace in paradiso.

  L’altro ch’appresso addorna il nostro coro,
  quel Pietro fu che con la poverella
  offerse a Santa Chiesa suo tesoro.

  La quinta luce, ch’è tra noi più bella,
  spira di tale amor, che tutto ’l mondo
  là giù ne gola di saper novella:

  entro v’è l’alta mente u’ sì profondo
  saver fu messo, che, se ’l vero è vero,
  a veder tanto non surse il secondo.

  Appresso vedi il lume di quel cero
  che giù in carne più a dentro vide
  l’angelica natura e ’l ministero.

  Ne l’altra piccioletta luce ride
  quello avvocato de’ tempi cristiani
  del cui latino Augustin si provide.

  Or se tu l’occhio de la mente trani
  di luce in luce dietro a le mie lode,
  già de l’ottava con sete rimani.

  Per vedere ogne ben dentro vi gode
  l’anima santa che ’l mondo fallace
  fa manifesto a chi di lei ben ode.

  Lo corpo ond’ ella fu cacciata giace
  giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
  e da essilio venne a questa pace.

  Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro
  d’Isidoro, di Beda e di Riccardo,
  che a considerar fu più che viro.

  Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
  è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri
  gravi a morir li parve venir tardo:

  essa è la luce etterna di Sigieri,
  che, leggendo nel Vico de li Strami,
  silogizzò invidïosi veri».

  Indi, come orologio che ne chiami
  ne l’ora che la sposa di Dio surge
  a mattinar lo sposo perché l’ami,

  che l’una parte e l’altra tira e urge,
  tin tin sonando con sì dolce nota,
  che ’l ben disposto spirto d’amor turge;

  così vid’ ïo la gloriosa rota
  muoversi e render voce a voce in tempra
  e in dolcezza ch’esser non pò nota

  se non colà dove gioir s’insempra.



  Paradiso • Canto XI


  O insensata cura de’ mortali,
  quanto son difettivi silogismi
  quei che ti fanno in basso batter l’ali!

  Chi dietro a iura e chi ad amforismi
  sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
  e chi regnar per forza o per sofismi,

  e chi rubare e chi civil negozio,
  chi nel diletto de la carne involto
  s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

  quando, da tutte queste cose sciolto,
  con Bëatrice m’era suso in cielo
  cotanto glorïosamente accolto.

  Poi che ciascuno fu tornato ne lo
  punto del cerchio in che avanti s’era,
  fermossi, come a candellier candelo.

  E io senti’ dentro a quella lumera
  che pria m’avea parlato, sorridendo
  incominciar, faccendosi più mera:

  «Così com’ io del suo raggio resplendo,
  sì, riguardando ne la luce etterna,
  li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.

  Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
  in sì aperta e ’n sì distesa lingua
  lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,

  ove dinanzi dissi: “U’ ben s’impingua”,
  e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”;
  e qui è uopo che ben si distingua.

  La provedenza, che governa il mondo
  con quel consiglio nel quale ogne aspetto
  creato è vinto pria che vada al fondo,

  però che andasse ver’ lo suo diletto
  la sposa di colui ch’ad alte grida
  disposò lei col sangue benedetto,

  in sé sicura e anche a lui più fida,
  due principi ordinò in suo favore,
  che quinci e quindi le fosser per guida.

  L’un fu tutto serafico in ardore;
  l’altro per sapïenza in terra fue
  di cherubica luce uno splendore.

  De l’un dirò, però che d’amendue
  si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
  perch’ ad un fine fur l’opere sue.

  Intra Tupino e l’acqua che discende
  del colle eletto dal beato Ubaldo,
  fertile costa d’alto monte pende,

  onde Perugia sente freddo e caldo
  da Porta Sole; e di rietro le piange
  per grave giogo Nocera con Gualdo.

  Di questa costa, là dov’ ella frange
  più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
  come fa questo talvolta di Gange.

  Però chi d’esso loco fa parole,
  non dica Ascesi, ché direbbe corto,
  ma Orïente, se proprio dir vuole.

  Non era ancor molto lontan da l’orto,
  ch’el cominciò a far sentir la terra
  de la sua gran virtute alcun conforto;

  ché per tal donna, giovinetto, in guerra
  del padre corse, a cui, come a la morte,
  la porta del piacer nessun diserra;

  e dinanzi a la sua spirital corte
  et coram patre le si fece unito;
  poscia di dì in dì l’amò più forte.

  Questa, privata del primo marito,
  millecent’ anni e più dispetta e scura
  fino a costui si stette sanza invito;

  né valse udir che la trovò sicura
  con Amiclate, al suon de la sua voce,
  colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;

  né valse esser costante né feroce,
  sì che, dove Maria rimase giuso,
  ella con Cristo pianse in su la croce.

  Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
  Francesco e Povertà per questi amanti
  prendi oramai nel mio parlar diffuso.

  La lor concordia e i lor lieti sembianti,
  amore e maraviglia e dolce sguardo
  facieno esser cagion di pensier santi;

  tanto che ’l venerabile Bernardo
  si scalzò prima, e dietro a tanta pace
  corse e, correndo, li parve esser tardo.

  Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
  Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
  dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

  Indi sen va quel padre e quel maestro
  con la sua donna e con quella famiglia
  che già legava l’umile capestro.

  Né li gravò viltà di cuor le ciglia
  per esser fi’ di Pietro Bernardone,
  né per parer dispetto a maraviglia;

  ma regalmente sua dura intenzione
  ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
  primo sigillo a sua religïone.

  Poi che la gente poverella crebbe
  dietro a costui, la cui mirabil vita
  meglio in gloria del ciel si canterebbe,

  di seconda corona redimita
  fu per Onorio da l’Etterno Spiro
  la santa voglia d’esto archimandrita.

  E poi che, per la sete del martiro,
  ne la presenza del Soldan superba
  predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,

  e per trovare a conversione acerba
  troppo la gente e per non stare indarno,
  redissi al frutto de l’italica erba,

  nel crudo sasso intra Tevero e Arno
  da Cristo prese l’ultimo sigillo,
  che le sue membra due anni portarno.

  Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
  piacque di trarlo suso a la mercede
  ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

  a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
  raccomandò la donna sua più cara,
  e comandò che l’amassero a fede;

  e del suo grembo l’anima preclara
  mover si volle, tornando al suo regno,
  e al suo corpo non volle altra bara.

  Pensa oramai qual fu colui che degno
  collega fu a mantener la barca
  di Pietro in alto mar per dritto segno;

  e questo fu il nostro patrïarca;
  per che qual segue lui, com’ el comanda,
  discerner puoi che buone merce carca.

  Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
  è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
  che per diversi salti non si spanda;

  e quanto le sue pecore remote
  e vagabunde più da esso vanno,
  più tornano a l’ovil di latte vòte.

  Ben son di quelle che temono ’l danno
  e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
  che le cappe fornisce poco panno.

  Or, se le mie parole non son fioche,
  se la tua audïenza è stata attenta,
  se ciò ch’è detto a la mente revoche,

  in parte fia la tua voglia contenta,
  perché vedrai la pianta onde si scheggia,
  e vedra’ il corrègger che argomenta

  “U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”».



  Paradiso • Canto XII


  Sì tosto come l’ultima parola
  la benedetta fiamma per dir tolse,
  a rotar cominciò la santa mola;

  e nel suo giro tutta non si volse
  prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
  e moto a moto e canto a canto colse;

  canto che tanto vince nostre muse,
  nostre serene in quelle dolci tube,
  quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.

  Come si volgon per tenera nube
  due archi paralelli e concolori,
  quando Iunone a sua ancella iube,

  nascendo di quel d’entro quel di fori,
  a guisa del parlar di quella vaga
  ch’amor consunse come sol vapori,

  e fanno qui la gente esser presaga,
  per lo patto che Dio con Noè puose,
  del mondo che già mai più non s’allaga:

  così di quelle sempiterne rose
  volgiensi circa noi le due ghirlande,
  e sì l’estrema a l’intima rispuose.

  Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande,
  sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
  luce con luce gaudïose e blande,

  insieme a punto e a voler quetarsi,
  pur come li occhi ch’al piacer che i move
  conviene insieme chiudere e levarsi;

  del cor de l’una de le luci nove
  si mosse voce, che l’ago a la stella
  parer mi fece in volgermi al suo dove;

  e cominciò: «L’amor che mi fa bella
  mi tragge a ragionar de l’altro duca
  per cui del mio sì ben ci si favella.

  Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
  sì che, com’ elli ad una militaro,
  così la gloria loro insieme luca.

  L’essercito di Cristo, che sì caro
  costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
  si movea tardo, sospeccioso e raro,

  quando lo ’mperador che sempre regna
  provide a la milizia, ch’era in forse,
  per sola grazia, non per esser degna;

  e, come è detto, a sua sposa soccorse
  con due campioni, al cui fare, al cui dire
  lo popol disvïato si raccorse.

  In quella parte ove surge ad aprire
  Zefiro dolce le novelle fronde
  di che si vede Europa rivestire,

  non molto lungi al percuoter de l’onde
  dietro a le quali, per la lunga foga,
  lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,

  siede la fortunata Calaroga
  sotto la protezion del grande scudo
  in che soggiace il leone e soggioga:

  dentro vi nacque l’amoroso drudo
  de la fede cristiana, il santo atleta
  benigno a’ suoi e a’ nemici crudo;

  e come fu creata, fu repleta
  sì la sua mente di viva vertute
  che, ne la madre, lei fece profeta.

  Poi che le sponsalizie fuor compiute
  al sacro fonte intra lui e la Fede,
  u’ si dotar di mutüa salute,

  la donna che per lui l’assenso diede,
  vide nel sonno il mirabile frutto
  ch’uscir dovea di lui e de le rede;

  e perché fosse qual era in costrutto,
  quinci si mosse spirito a nomarlo
  del possessivo di cui era tutto.

  Domenico fu detto; e io ne parlo
  sì come de l’agricola che Cristo
  elesse a l’orto suo per aiutarlo.

  Ben parve messo e famigliar di Cristo:
  che ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
  fu al primo consiglio che diè Cristo.

  Spesse fïate fu tacito e desto
  trovato in terra da la sua nutrice,
  come dicesse: ‘Io son venuto a questo’.

  Oh padre suo veramente Felice!
  oh madre sua veramente Giovanna,
  se, interpretata, val come si dice!

  Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
  di retro ad Ostïense e a Taddeo,
  ma per amor de la verace manna

  in picciol tempo gran dottor si feo;
  tal che si mise a circüir la vigna
  che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.

  E a la sedia che fu già benigna
  più a’ poveri giusti, non per lei,
  ma per colui che siede, che traligna,

  non dispensare o due o tre per sei,
  non la fortuna di prima vacante,
  non decimas, quae sunt pauperum Dei,

  addimandò, ma contro al mondo errante
  licenza di combatter per lo seme
  del qual ti fascian ventiquattro piante.

  Poi, con dottrina e con volere insieme,
  con l’officio appostolico si mosse
  quasi torrente ch’alta vena preme;

  e ne li sterpi eretici percosse
  l’impeto suo, più vivamente quivi
  dove le resistenze eran più grosse.

  Di lui si fecer poi diversi rivi
  onde l’orto catolico si riga,
  sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.

  Se tal fu l’una rota de la biga
  in che la Santa Chiesa si difese
  e vinse in campo la sua civil briga,

  ben ti dovrebbe assai esser palese
  l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
  dinanzi al mio venir fu sì cortese.

  Ma l’orbita che fé la parte somma
  di sua circunferenza, è derelitta,
  sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.

  La sua famiglia, che si mosse dritta
  coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
  che quel dinanzi a quel di retro gitta;

  e tosto si vedrà de la ricolta
  de la mala coltura, quando il loglio
  si lagnerà che l’arca li sia tolta.

  Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
  nostro volume, ancor troveria carta
  u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”;

  ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
  là onde vegnon tali a la scrittura,
  ch’uno la fugge e altro la coarta.

  Io son la vita di Bonaventura
  da Bagnoregio, che ne’ grandi offici
  sempre pospuosi la sinistra cura.

  Illuminato e Augustin son quici,
  che fuor de’ primi scalzi poverelli
  che nel capestro a Dio si fero amici.

  Ugo da San Vittore è qui con elli,
  e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
  lo qual giù luce in dodici libelli;

  Natàn profeta e ’l metropolitano
  Crisostomo e Anselmo e quel Donato
  ch’a la prim’ arte degnò porre mano.

  Rabano è qui, e lucemi dallato
  il calavrese abate Giovacchino
  di spirito profetico dotato.

  Ad inveggiar cotanto paladino
  mi mosse l’infiammata cortesia
  di fra Tommaso e ’l discreto latino;

  e mosse meco questa compagnia».



  Paradiso • Canto XIII


  Imagini, chi bene intender cupe
  quel ch’i’ or vidi—e ritegna l’image,
  mentre ch’io dico, come ferma rupe—,

  quindici stelle che ’n diverse plage
  lo ciel avvivan di tanto sereno
  che soperchia de l’aere ogne compage;

  imagini quel carro a cu’ il seno
  basta del nostro cielo e notte e giorno,
  sì ch’al volger del temo non vien meno;

  imagini la bocca di quel corno
  che si comincia in punta de lo stelo
  a cui la prima rota va dintorno,

  aver fatto di sé due segni in cielo,
  qual fece la figliuola di Minoi
  allora che sentì di morte il gelo;

  e l’un ne l’altro aver li raggi suoi,
  e amendue girarsi per maniera
  che l’uno andasse al primo e l’altro al poi;

  e avrà quasi l’ombra de la vera
  costellazione e de la doppia danza
  che circulava il punto dov’ io era:

  poi ch’è tanto di là da nostra usanza,
  quanto di là dal mover de la Chiana
  si move il ciel che tutti li altri avanza.

  Lì si cantò non Bacco, non Peana,
  ma tre persone in divina natura,
  e in una persona essa e l’umana.

  Compié ’l cantare e ’l volger sua misura;
  e attesersi a noi quei santi lumi,
  felicitando sé di cura in cura.

  Ruppe il silenzio ne’ concordi numi
  poscia la luce in che mirabil vita
  del poverel di Dio narrata fumi,

  e disse: «Quando l’una paglia è trita,
  quando la sua semenza è già riposta,
  a batter l’altra dolce amor m’invita.

  Tu credi che nel petto onde la costa
  si trasse per formar la bella guancia
  il cui palato a tutto ’l mondo costa,

  e in quel che, forato da la lancia,
  e prima e poscia tanto sodisfece,
  che d’ogne colpa vince la bilancia,

  quantunque a la natura umana lece
  aver di lume, tutto fosse infuso
  da quel valor che l’uno e l’altro fece;

  e però miri a ciò ch’io dissi suso,
  quando narrai che non ebbe ’l secondo
  lo ben che ne la quinta luce è chiuso.

  Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo,
  e vedräi il tuo credere e ’l mio dire
  nel vero farsi come centro in tondo.

  Ciò che non more e ciò che può morire
  non è se non splendor di quella idea
  che partorisce, amando, il nostro Sire;

  ché quella viva luce che sì mea
  dal suo lucente, che non si disuna
  da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea,

  per sua bontate il suo raggiare aduna,
  quasi specchiato, in nove sussistenze,
  etternalmente rimanendosi una.

  Quindi discende a l’ultime potenze
  giù d’atto in atto, tanto divenendo,
  che più non fa che brevi contingenze;

  e queste contingenze essere intendo
  le cose generate, che produce
  con seme e sanza seme il ciel movendo.

  La cera di costoro e chi la duce
  non sta d’un modo; e però sotto ’l segno
  idëale poi più e men traluce.

  Ond’ elli avvien ch’un medesimo legno,
  secondo specie, meglio e peggio frutta;
  e voi nascete con diverso ingegno.

  Se fosse a punto la cera dedutta
  e fosse il cielo in sua virtù supprema,
  la luce del suggel parrebbe tutta;

  ma la natura la dà sempre scema,
  similemente operando a l’artista
  ch’a l’abito de l’arte ha man che trema.

  Però se ’l caldo amor la chiara vista
  de la prima virtù dispone e segna,
  tutta la perfezion quivi s’acquista.

  Così fu fatta già la terra degna
  di tutta l’animal perfezïone;
  così fu fatta la Vergine pregna;

  sì ch’io commendo tua oppinïone,
  che l’umana natura mai non fue
  né fia qual fu in quelle due persone.

  Or s’i’ non procedesse avanti piùe,
  ‘Dunque, come costui fu sanza pare?’
  comincerebber le parole tue.

  Ma perché paia ben ciò che non pare,
  pensa chi era, e la cagion che ’l mosse,
  quando fu detto “Chiedi”, a dimandare.

  Non ho parlato sì, che tu non posse
  ben veder ch’el fu re, che chiese senno
  acciò che re sufficïente fosse;

  non per sapere il numero in che enno
  li motor di qua sù, o se necesse
  con contingente mai necesse fenno;

  non si est dare primum motum esse,
  o se del mezzo cerchio far si puote
  trïangol sì ch’un retto non avesse.

  Onde, se ciò ch’io dissi e questo note,
  regal prudenza è quel vedere impari
  in che lo stral di mia intenzion percuote;

  e se al “surse” drizzi li occhi chiari,
  vedrai aver solamente respetto
  ai regi, che son molti, e ’ buon son rari.

  Con questa distinzion prendi ’l mio detto;
  e così puote star con quel che credi
  del primo padre e del nostro Diletto.

  E questo ti sia sempre piombo a’ piedi,
  per farti mover lento com’ uom lasso
  e al sì e al no che tu non vedi:

  ché quelli è tra li stolti bene a basso,
  che sanza distinzione afferma e nega
  ne l’un così come ne l’altro passo;

  perch’ elli ’ncontra che più volte piega
  l’oppinïon corrente in falsa parte,
  e poi l’affetto l’intelletto lega.

  Vie più che ’ndarno da riva si parte,
  perché non torna tal qual e’ si move,
  chi pesca per lo vero e non ha l’arte.

  E di ciò sono al mondo aperte prove
  Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
  li quali andaro e non sapëan dove;

  sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
  che furon come spade a le Scritture
  in render torti li diritti volti.

  Non sien le genti, ancor, troppo sicure
  a giudicar, sì come quei che stima
  le biade in campo pria che sien mature;

  ch’i’ ho veduto tutto ’l verno prima
  lo prun mostrarsi rigido e feroce,
  poscia portar la rosa in su la cima;

  e legno vidi già dritto e veloce
  correr lo mar per tutto suo cammino,
  perire al fine a l’intrar de la foce.

  Non creda donna Berta e ser Martino,
  per vedere un furare, altro offerere,
  vederli dentro al consiglio divino;

  ché quel può surgere, e quel può cadere».



  Paradiso • Canto XIV


  Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
  movesi l’acqua in un ritondo vaso,
  secondo ch’è percosso fuori o dentro:

  ne la mia mente fé sùbito caso
  questo ch’io dico, sì come si tacque
  la glorïosa vita di Tommaso,

  per la similitudine che nacque
  del suo parlare e di quel di Beatrice,
  a cui sì cominciar, dopo lui, piacque:

  «A costui fa mestieri, e nol vi dice
  né con la voce né pensando ancora,
  d’un altro vero andare a la radice.

  Diteli se la luce onde s’infiora
  vostra sustanza, rimarrà con voi
  etternalmente sì com’ ell’ è ora;

  e se rimane, dite come, poi
  che sarete visibili rifatti,
  esser porà ch’al veder non vi nòi».

  Come, da più letizia pinti e tratti,
  a la fïata quei che vanno a rota
  levan la voce e rallegrano li atti,

  così, a l’orazion pronta e divota,
  li santi cerchi mostrar nova gioia
  nel torneare e ne la mira nota.

  Qual si lamenta perché qui si moia
  per viver colà sù, non vide quive
  lo refrigerio de l’etterna ploia.

  Quell’ uno e due e tre che sempre vive
  e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno,
  non circunscritto, e tutto circunscrive,

  tre volte era cantato da ciascuno
  di quelli spirti con tal melodia,
  ch’ad ogne merto saria giusto muno.

  E io udi’ ne la luce più dia
  del minor cerchio una voce modesta,
  forse qual fu da l’angelo a Maria,

  risponder: «Quanto fia lunga la festa
  di paradiso, tanto il nostro amore
  si raggerà dintorno cotal vesta.

  La sua chiarezza séguita l’ardore;
  l’ardor la visïone, e quella è tanta,
  quant’ ha di grazia sovra suo valore.

  Come la carne glorïosa e santa
  fia rivestita, la nostra persona
  più grata fia per esser tutta quanta;

  per che s’accrescerà ciò che ne dona
  di gratüito lume il sommo bene,
  lume ch’a lui veder ne condiziona;

  onde la visïon crescer convene,
  crescer l’ardor che di quella s’accende,
  crescer lo raggio che da esso vene.

  Ma sì come carbon che fiamma rende,
  e per vivo candor quella soverchia,
  sì che la sua parvenza si difende;

  così questo folgór che già ne cerchia
  fia vinto in apparenza da la carne
  che tutto dì la terra ricoperchia;

  né potrà tanta luce affaticarne:
  ché li organi del corpo saran forti
  a tutto ciò che potrà dilettarne».

  Tanto mi parver sùbiti e accorti
  e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,
  che ben mostrar disio d’i corpi morti:

  forse non pur per lor, ma per le mamme,
  per li padri e per li altri che fuor cari
  anzi che fosser sempiterne fiamme.

  Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
  nascere un lustro sopra quel che v’era,
  per guisa d’orizzonte che rischiari.

  E sì come al salir di prima sera
  comincian per lo ciel nove parvenze,
  sì che la vista pare e non par vera,

  parvemi lì novelle sussistenze
  cominciare a vedere, e fare un giro
  di fuor da l’altre due circunferenze.

  Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
  come si fece sùbito e candente
  a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!

  Ma Bëatrice sì bella e ridente
  mi si mostrò, che tra quelle vedute
  si vuol lasciar che non seguir la mente.

  Quindi ripreser li occhi miei virtute
  a rilevarsi; e vidimi translato
  sol con mia donna in più alta salute.

  Ben m’accors’ io ch’io era più levato,
  per l’affocato riso de la stella,
  che mi parea più roggio che l’usato.

  Con tutto ’l core e con quella favella
  ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto,
  qual conveniesi a la grazia novella.

  E non er’ anco del mio petto essausto
  l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi
  esso litare stato accetto e fausto;

  ché con tanto lucore e tanto robbi
  m’apparvero splendor dentro a due raggi,
  ch’io dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!».

  Come distinta da minori e maggi
  lumi biancheggia tra ’ poli del mondo
  Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;

  sì costellati facean nel profondo
  Marte quei raggi il venerabil segno
  che fan giunture di quadranti in tondo.

  Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
  ché quella croce lampeggiava Cristo,
  sì ch’io non so trovare essempro degno;

  ma chi prende sua croce e segue Cristo,
  ancor mi scuserà di quel ch’io lasso,
  vedendo in quell’ albor balenar Cristo.

  Di corno in corno e tra la cima e ’l basso
  si movien lumi, scintillando forte
  nel congiugnersi insieme e nel trapasso:

  così si veggion qui diritte e torte,
  veloci e tarde, rinovando vista,
  le minuzie d’i corpi, lunghe e corte,

  moversi per lo raggio onde si lista
  talvolta l’ombra che, per sua difesa,
  la gente con ingegno e arte acquista.

  E come giga e arpa, in tempra tesa
  di molte corde, fa dolce tintinno
  a tal da cui la nota non è intesa,

  così da’ lumi che lì m’apparinno
  s’accogliea per la croce una melode
  che mi rapiva, sanza intender l’inno.

  Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,
  però ch’a me venìa «Resurgi» e «Vinci»
  come a colui che non intende e ode.

  Ïo m’innamorava tanto quinci,
  che ’nfino a lì non fu alcuna cosa
  che mi legasse con sì dolci vinci.

  Forse la mia parola par troppo osa,
  posponendo il piacer de li occhi belli,
  ne’ quai mirando mio disio ha posa;

  ma chi s’avvede che i vivi suggelli
  d’ogne bellezza più fanno più suso,
  e ch’io non m’era lì rivolto a quelli,

  escusar puommi di quel ch’io m’accuso
  per escusarmi, e vedermi dir vero:
  ché ’l piacer santo non è qui dischiuso,

  perché si fa, montando, più sincero.



  Paradiso • Canto XV


  Benigna volontade in che si liqua
  sempre l’amor che drittamente spira,
  come cupidità fa ne la iniqua,

  silenzio puose a quella dolce lira,
  e fece quïetar le sante corde
  che la destra del cielo allenta e tira.

  Come saranno a’ giusti preghi sorde
  quelle sustanze che, per darmi voglia
  ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?

  Bene è che sanza termine si doglia
  chi, per amor di cosa che non duri
  etternalmente, quello amor si spoglia.

  Quale per li seren tranquilli e puri
  discorre ad ora ad or sùbito foco,
  movendo li occhi che stavan sicuri,

  e pare stella che tramuti loco,
  se non che da la parte ond’ e’ s’accende
  nulla sen perde, ed esso dura poco:

  tale dal corno che ’n destro si stende
  a piè di quella croce corse un astro
  de la costellazion che lì resplende;

  né si partì la gemma dal suo nastro,
  ma per la lista radïal trascorse,
  che parve foco dietro ad alabastro.

  Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
  se fede merta nostra maggior musa,
  quando in Eliso del figlio s’accorse.

  «O sanguis meus, o superinfusa
  gratïa Deï, sicut tibi cui
  bis unquam celi ianüa reclusa?».

  Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
  poscia rivolsi a la mia donna il viso,
  e quinci e quindi stupefatto fui;

  ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
  tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
  de la mia gloria e del mio paradiso.

  Indi, a udire e a veder giocondo,
  giunse lo spirto al suo principio cose,
  ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;

  né per elezïon mi si nascose,
  ma per necessità, ché ’l suo concetto
  al segno d’i mortal si soprapuose.

  E quando l’arco de l’ardente affetto
  fu sì sfogato, che ’l parlar discese
  inver’ lo segno del nostro intelletto,

  la prima cosa che per me s’intese,
  «Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
  che nel mio seme se’ tanto cortese!».

  E seguì: «Grato e lontano digiuno,
  tratto leggendo del magno volume
  du’ non si muta mai bianco né bruno,

  solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
  in ch’io ti parlo, mercè di colei
  ch’a l’alto volo ti vestì le piume.

  Tu credi che a me tuo pensier mei
  da quel ch’è primo, così come raia
  da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;

  e però ch’io mi sia e perch’ io paia
  più gaudïoso a te, non mi domandi,
  che alcun altro in questa turba gaia.

  Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi
  di questa vita miran ne lo speglio
  in che, prima che pensi, il pensier pandi;

  ma perché ’l sacro amore in che io veglio
  con perpetüa vista e che m’asseta
  di dolce disïar, s’adempia meglio,

  la voce tua sicura, balda e lieta
  suoni la volontà, suoni ’l disio,
  a che la mia risposta è già decreta!».

  Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
  pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno
  che fece crescer l’ali al voler mio.

  Poi cominciai così: «L’affetto e ’l senno,
  come la prima equalità v’apparse,
  d’un peso per ciascun di voi si fenno,

  però che ’l sol che v’allumò e arse,
  col caldo e con la luce è sì iguali,
  che tutte simiglianze sono scarse.

  Ma voglia e argomento ne’ mortali,
  per la cagion ch’a voi è manifesta,
  diversamente son pennuti in ali;

  ond’ io, che son mortal, mi sento in questa
  disagguaglianza, e però non ringrazio
  se non col core a la paterna festa.

  Ben supplico io a te, vivo topazio
  che questa gioia prezïosa ingemmi,
  perché mi facci del tuo nome sazio».

  «O fronda mia in che io compiacemmi
  pur aspettando, io fui la tua radice»:
  cotal principio, rispondendo, femmi.

  Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
  tua cognazione e che cent’ anni e piùe
  girato ha ’l monte in la prima cornice,

  mio figlio fu e tuo bisavol fue:
  ben si convien che la lunga fatica
  tu li raccorci con l’opere tue.

  Fiorenza dentro da la cerchia antica,
  ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
  si stava in pace, sobria e pudica.

  Non avea catenella, non corona,
  non gonne contigiate, non cintura
  che fosse a veder più che la persona.

  Non faceva, nascendo, ancor paura
  la figlia al padre, che ’l tempo e la dote
  non fuggien quinci e quindi la misura.

  Non avea case di famiglia vòte;
  non v’era giunto ancor Sardanapalo
  a mostrar ciò che ’n camera si puote.

  Non era vinto ancora Montemalo
  dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
  nel montar sù, così sarà nel calo.

  Bellincion Berti vid’ io andar cinto
  di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
  la donna sua sanza ’l viso dipinto;

  e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
  esser contenti a la pelle scoperta,
  e le sue donne al fuso e al pennecchio.

  Oh fortunate! ciascuna era certa
  de la sua sepultura, e ancor nulla
  era per Francia nel letto diserta.

  L’una vegghiava a studio de la culla,
  e, consolando, usava l’idïoma
  che prima i padri e le madri trastulla;

  l’altra, traendo a la rocca la chioma,
  favoleggiava con la sua famiglia
  d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.

  Saria tenuta allor tal maraviglia
  una Cianghella, un Lapo Salterello,
  qual or saria Cincinnato e Corniglia.

  A così riposato, a così bello
  viver di cittadini, a così fida
  cittadinanza, a così dolce ostello,

  Maria mi diè, chiamata in alte grida;
  e ne l’antico vostro Batisteo
  insieme fui cristiano e Cacciaguida.

  Moronto fu mio frate ed Eliseo;
  mia donna venne a me di val di Pado,
  e quindi il sopranome tuo si feo.

  Poi seguitai lo ’mperador Currado;
  ed el mi cinse de la sua milizia,
  tanto per bene ovrar li venni in grado.

  Dietro li andai incontro a la nequizia
  di quella legge il cui popolo usurpa,
  per colpa d’i pastor, vostra giustizia.

  Quivi fu’ io da quella gente turpa
  disviluppato dal mondo fallace,
  lo cui amor molt’ anime deturpa;

  e venni dal martiro a questa pace».



  Paradiso • Canto XVI


  O poca nostra nobiltà di sangue,
  se glorïar di te la gente fai
  qua giù dove l’affetto nostro langue,

  mirabil cosa non mi sarà mai:
  ché là dove appetito non si torce,
  dico nel cielo, io me ne gloriai.

  Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
  sì che, se non s’appon di dì in die,
  lo tempo va dintorno con le force.

  Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie,
  in che la sua famiglia men persevra,
  ricominciaron le parole mie;

  onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
  ridendo, parve quella che tossio
  al primo fallo scritto di Ginevra.

  Io cominciai: «Voi siete il padre mio;
  voi mi date a parlar tutta baldezza;
  voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.

  Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
  la mente mia, che di sé fa letizia
  perché può sostener che non si spezza.

  Ditemi dunque, cara mia primizia,
  quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
  che si segnaro in vostra püerizia;

  ditemi de l’ovil di San Giovanni
  quanto era allora, e chi eran le genti
  tra esso degne di più alti scanni».

  Come s’avviva a lo spirar d’i venti
  carbone in fiamma, così vid’ io quella
  luce risplendere a’ miei blandimenti;

  e come a li occhi miei si fé più bella,
  così con voce più dolce e soave,
  ma non con questa moderna favella,

  dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave’
  al parto in che mia madre, ch’è or santa,
  s’allevïò di me ond’ era grave,

  al suo Leon cinquecento cinquanta
  e trenta fiate venne questo foco
  a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

  Li antichi miei e io nacqui nel loco
  dove si truova pria l’ultimo sesto
  da quei che corre il vostro annüal gioco.

  Basti d’i miei maggiori udirne questo:
  chi ei si fosser e onde venner quivi,
  più è tacer che ragionare onesto.

  Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
  da poter arme tra Marte e ’l Batista,
  eran il quinto di quei ch’or son vivi.

  Ma la cittadinanza, ch’è or mista
  di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
  pura vediesi ne l’ultimo artista.

  Oh quanto fora meglio esser vicine
  quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
  e a Trespiano aver vostro confine,

  che averle dentro e sostener lo puzzo
  del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
  che già per barattare ha l’occhio aguzzo!

  Se la gente ch’al mondo più traligna
  non fosse stata a Cesare noverca,
  ma come madre a suo figlio benigna,

  tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
  che si sarebbe vòlto a Simifonti,
  là dove andava l’avolo a la cerca;

  sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
  sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
  e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

  Sempre la confusion de le persone
  principio fu del mal de la cittade,
  come del vostro il cibo che s’appone;

  e cieco toro più avaccio cade
  che cieco agnello; e molte volte taglia
  più e meglio una che le cinque spade.

  Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
  come sono ite, e come se ne vanno
  di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

  udir come le schiatte si disfanno
  non ti parrà nova cosa né forte,
  poscia che le cittadi termine hanno.

  Le vostre cose tutte hanno lor morte,
  sì come voi; ma celasi in alcuna
  che dura molto, e le vite son corte.

  E come ’l volger del ciel de la luna
  cuopre e discuopre i liti sanza posa,
  così fa di Fiorenza la Fortuna:

  per che non dee parer mirabil cosa
  ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
  onde è la fama nel tempo nascosa.

  Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
  Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
  già nel calare, illustri cittadini;

  e vidi così grandi come antichi,
  con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
  e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

  Sovra la porta ch’al presente è carca
  di nova fellonia di tanto peso
  che tosto fia iattura de la barca,

  erano i Ravignani, ond’ è disceso
  il conte Guido e qualunque del nome
  de l’alto Bellincione ha poscia preso.

  Quel de la Pressa sapeva già come
  regger si vuole, e avea Galigaio
  dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.

  Grand’ era già la colonna del Vaio,
  Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
  e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.

  Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
  era già grande, e già eran tratti
  a le curule Sizii e Arrigucci.

  Oh quali io vidi quei che son disfatti
  per lor superbia! e le palle de l’oro
  fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.

  Così facieno i padri di coloro
  che, sempre che la vostra chiesa vaca,
  si fanno grassi stando a consistoro.

  L’oltracotata schiatta che s’indraca
  dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente
  o ver la borsa, com’ agnel si placa,

  già venìa sù, ma di picciola gente;
  sì che non piacque ad Ubertin Donato
  che poï il suocero il fé lor parente.

  Già era ’l Caponsacco nel mercato
  disceso giù da Fiesole, e già era
  buon cittadino Giuda e Infangato.

  Io dirò cosa incredibile e vera:
  nel picciol cerchio s’entrava per porta
  che si nomava da quei de la Pera.

  Ciascun che de la bella insegna porta
  del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
  la festa di Tommaso riconforta,

  da esso ebbe milizia e privilegio;
  avvegna che con popol si rauni
  oggi colui che la fascia col fregio.

  Già eran Gualterotti e Importuni;
  e ancor saria Borgo più quïeto,
  se di novi vicin fosser digiuni.

  La casa di che nacque il vostro fleto,
  per lo giusto disdegno che v’ha morti
  e puose fine al vostro viver lieto,

  era onorata, essa e suoi consorti:
  o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
  le nozze süe per li altrui conforti!

  Molti sarebber lieti, che son tristi,
  se Dio t’avesse conceduto ad Ema
  la prima volta ch’a città venisti.

  Ma conveniesi a quella pietra scema
  che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
  vittima ne la sua pace postrema.

  Con queste genti, e con altre con esse,
  vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,
  che non avea cagione onde piangesse.

  Con queste genti vid’io glorïoso
  e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
  non era ad asta mai posto a ritroso,

  né per divisïon fatto vermiglio».



  Paradiso • Canto XVII


  Qual venne a Climenè, per accertarsi
  di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
  quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;

  tal era io, e tal era sentito
  e da Beatrice e da la santa lampa
  che pria per me avea mutato sito.

  Per che mia donna «Manda fuor la vampa
  del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
  segnata bene de la interna stampa:

  non perché nostra conoscenza cresca
  per tuo parlare, ma perché t’ausi
  a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».

  «O cara piota mia che sì t’insusi,
  che, come veggion le terrene menti
  non capere in trïangol due ottusi,

  così vedi le cose contingenti
  anzi che sieno in sé, mirando il punto
  a cui tutti li tempi son presenti;

  mentre ch’io era a Virgilio congiunto
  su per lo monte che l’anime cura
  e discendendo nel mondo defunto,

  dette mi fuor di mia vita futura
  parole gravi, avvegna ch’io mi senta
  ben tetragono ai colpi di ventura;

  per che la voglia mia saria contenta
  d’intender qual fortuna mi s’appressa:
  ché saetta previsa vien più lenta».

  Così diss’ io a quella luce stessa
  che pria m’avea parlato; e come volle
  Beatrice, fu la mia voglia confessa.

  Né per ambage, in che la gente folle
  già s’inviscava pria che fosse anciso
  l’Agnel di Dio che le peccata tolle,

  ma per chiare parole e con preciso
  latin rispuose quello amor paterno,
  chiuso e parvente del suo proprio riso:

  «La contingenza, che fuor del quaderno
  de la vostra matera non si stende,
  tutta è dipinta nel cospetto etterno;

  necessità però quindi non prende
  se non come dal viso in che si specchia
  nave che per torrente giù discende.

  Da indi, sì come viene ad orecchia
  dolce armonia da organo, mi viene
  a vista il tempo che ti s’apparecchia.

  Qual si partio Ipolito d’Atene
  per la spietata e perfida noverca,
  tal di Fiorenza partir ti convene.

  Questo si vuole e questo già si cerca,
  e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
  là dove Cristo tutto dì si merca.

  La colpa seguirà la parte offensa
  in grido, come suol; ma la vendetta
  fia testimonio al ver che la dispensa.

  Tu lascerai ogne cosa diletta
  più caramente; e questo è quello strale
  che l’arco de lo essilio pria saetta.

  Tu proverai sì come sa di sale
  lo pane altrui, e come è duro calle
  lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.

  E quel che più ti graverà le spalle,
  sarà la compagnia malvagia e scempia
  con la qual tu cadrai in questa valle;

  che tutta ingrata, tutta matta ed empia
  si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
  ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.

  Di sua bestialitate il suo processo
  farà la prova; sì ch’a te fia bello
  averti fatta parte per te stesso.

  Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
  sarà la cortesia del gran Lombardo
  che ’n su la scala porta il santo uccello;

  ch’in te avrà sì benigno riguardo,
  che del fare e del chieder, tra voi due,
  fia primo quel che tra li altri è più tardo.

  Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
  nascendo, sì da questa stella forte,
  che notabili fier l’opere sue.

  Non se ne son le genti ancora accorte
  per la novella età, ché pur nove anni
  son queste rote intorno di lui torte;

  ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
  parran faville de la sua virtute
  in non curar d’argento né d’affanni.

  Le sue magnificenze conosciute
  saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
  non ne potran tener le lingue mute.

  A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
  per lui fia trasmutata molta gente,
  cambiando condizion ricchi e mendici;

  e portera’ne scritto ne la mente
  di lui, e nol dirai»; e disse cose
  incredibili a quei che fier presente.

  Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
  di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
  che dietro a pochi giri son nascose.

  Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
  poscia che s’infutura la tua vita
  vie più là che ’l punir di lor perfidie».

  Poi che, tacendo, si mostrò spedita
  l’anima santa di metter la trama
  in quella tela ch’io le porsi ordita,

  io cominciai, come colui che brama,
  dubitando, consiglio da persona
  che vede e vuol dirittamente e ama:

  «Ben veggio, padre mio, sì come sprona
  lo tempo verso me, per colpo darmi
  tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;

  per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
  sì che, se loco m’è tolto più caro,
  io non perdessi li altri per miei carmi.

  Giù per lo mondo sanza fine amaro,
  e per lo monte del cui bel cacume
  li occhi de la mia donna mi levaro,

  e poscia per lo ciel, di lume in lume,
  ho io appreso quel che s’io ridico,
  a molti fia sapor di forte agrume;

  e s’io al vero son timido amico,
  temo di perder viver tra coloro
  che questo tempo chiameranno antico».

  La luce in che rideva il mio tesoro
  ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
  quale a raggio di sole specchio d’oro;

  indi rispuose: «Coscïenza fusca
  o de la propria o de l’altrui vergogna
  pur sentirà la tua parola brusca.

  Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
  tutta tua visïon fa manifesta;
  e lascia pur grattar dov’ è la rogna.

  Ché se la voce tua sarà molesta
  nel primo gusto, vital nodrimento
  lascerà poi, quando sarà digesta.

  Questo tuo grido farà come vento,
  che le più alte cime più percuote;
  e ciò non fa d’onor poco argomento.

  Però ti son mostrate in queste rote,
  nel monte e ne la valle dolorosa
  pur l’anime che son di fama note,

  che l’animo di quel ch’ode, non posa
  né ferma fede per essempro ch’aia
  la sua radice incognita e ascosa,

  né per altro argomento che non paia».



  Paradiso • Canto XVIII


  Già si godeva solo del suo verbo
  quello specchio beato, e io gustava
  lo mio, temprando col dolce l’acerbo;

  e quella donna ch’a Dio mi menava
  disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono
  presso a colui ch’ogne torto disgrava».

  Io mi rivolsi a l’amoroso suono
  del mio conforto; e qual io allor vidi
  ne li occhi santi amor, qui l’abbandono:

  non perch’ io pur del mio parlar diffidi,
  ma per la mente che non può redire
  sovra sé tanto, s’altri non la guidi.

  Tanto poss’ io di quel punto ridire,
  che, rimirando lei, lo mio affetto
  libero fu da ogne altro disire,

  fin che ’l piacere etterno, che diretto
  raggiava in Bëatrice, dal bel viso
  mi contentava col secondo aspetto.

  Vincendo me col lume d’un sorriso,
  ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
  ché non pur ne’ miei occhi è paradiso».

  Come si vede qui alcuna volta
  l’affetto ne la vista, s’elli è tanto,
  che da lui sia tutta l’anima tolta,

  così nel fiammeggiar del folgór santo,
  a ch’io mi volsi, conobbi la voglia
  in lui di ragionarmi ancora alquanto.

  El cominciò: «In questa quinta soglia
  de l’albero che vive de la cima
  e frutta sempre e mai non perde foglia,

  spiriti son beati, che giù, prima
  che venissero al ciel, fuor di gran voce,
  sì ch’ogne musa ne sarebbe opima.

  Però mira ne’ corni de la croce:
  quello ch’io nomerò, lì farà l’atto
  che fa in nube il suo foco veloce».

  Io vidi per la croce un lume tratto
  dal nomar Iosuè, com’ el si feo;
  né mi fu noto il dir prima che ’l fatto.

  E al nome de l’alto Macabeo
  vidi moversi un altro roteando,
  e letizia era ferza del paleo.

  Così per Carlo Magno e per Orlando
  due ne seguì lo mio attento sguardo,
  com’ occhio segue suo falcon volando.

  Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
  e ’l duca Gottifredi la mia vista
  per quella croce, e Ruberto Guiscardo.

  Indi, tra l’altre luci mota e mista,
  mostrommi l’alma che m’avea parlato
  qual era tra i cantor del cielo artista.

  Io mi rivolsi dal mio destro lato
  per vedere in Beatrice il mio dovere,
  o per parlare o per atto, segnato;

  e vidi le sue luci tanto mere,
  tanto gioconde, che la sua sembianza
  vinceva li altri e l’ultimo solere.

  E come, per sentir più dilettanza
  bene operando, l’uom di giorno in giorno
  s’accorge che la sua virtute avanza,

  sì m’accors’ io che ’l mio girare intorno
  col cielo insieme avea cresciuto l’arco,
  veggendo quel miracol più addorno.

  E qual è ’l trasmutare in picciol varco
  di tempo in bianca donna, quando ’l volto
  suo si discarchi di vergogna il carco,

  tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,
  per lo candor de la temprata stella
  sesta, che dentro a sé m’avea ricolto.

  Io vidi in quella giovïal facella
  lo sfavillar de l’amor che lì era
  segnare a li occhi miei nostra favella.

  E come augelli surti di rivera,
  quasi congratulando a lor pasture,
  fanno di sé or tonda or altra schiera,

  sì dentro ai lumi sante creature
  volitando cantavano, e faciensi
  or D, or I, or L in sue figure.

  Prima, cantando, a sua nota moviensi;
  poi, diventando l’un di questi segni,
  un poco s’arrestavano e taciensi.

  O diva Pegasëa che li ’ngegni
  fai glorïosi e rendili longevi,
  ed essi teco le cittadi e ’ regni,

  illustrami di te, sì ch’io rilevi
  le lor figure com’ io l’ho concette:
  paia tua possa in questi versi brevi!

  Mostrarsi dunque in cinque volte sette
  vocali e consonanti; e io notai
  le parti sì, come mi parver dette.

  ‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai
  fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
  ‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.

  Poscia ne l’emme del vocabol quinto
  rimasero ordinate; sì che Giove
  pareva argento lì d’oro distinto.

  E vidi scendere altre luci dove
  era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
  cantando, credo, il ben ch’a sé le move.

  Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
  surgono innumerabili faville,
  onde li stolti sogliono agurarsi,

  resurger parver quindi più di mille
  luci e salir, qual assai e qual poco,
  sì come ’l sol che l’accende sortille;

  e quïetata ciascuna in suo loco,
  la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
  rappresentare a quel distinto foco.

  Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
  ma esso guida, e da lui si rammenta
  quella virtù ch’è forma per li nidi.

  L’altra bëatitudo, che contenta
  pareva prima d’ingigliarsi a l’emme,
  con poco moto seguitò la ’mprenta.

  O dolce stella, quali e quante gemme
  mi dimostraro che nostra giustizia
  effetto sia del ciel che tu ingemme!

  Per ch’io prego la mente in che s’inizia
  tuo moto e tua virtute, che rimiri
  ond’ esce il fummo che ’l tuo raggio vizia;

  sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
  del comperare e vender dentro al templo
  che si murò di segni e di martìri.

  O milizia del ciel cu’ io contemplo,
  adora per color che sono in terra
  tutti svïati dietro al malo essemplo!

  Già si solea con le spade far guerra;
  ma or si fa togliendo or qui or quivi
  lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra.

  Ma tu che sol per cancellare scrivi,
  pensa che Pietro e Paulo, che moriro
  per la vigna che guasti, ancor son vivi.

  Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ’l disiro
  sì a colui che volle viver solo
  e che per salti fu tratto al martiro,

  ch’io non conosco il pescator né Polo».



  Paradiso • Canto XIX


  Parea dinanzi a me con l’ali aperte
  la bella image che nel dolce frui
  liete facevan l’anime conserte;

  parea ciascuna rubinetto in cui
  raggio di sole ardesse sì acceso,
  che ne’ miei occhi rifrangesse lui.

  E quel che mi convien ritrar testeso,
  non portò voce mai, né scrisse incostro,
  né fu per fantasia già mai compreso;

  ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
  e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
  quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.

  E cominciò: «Per esser giusto e pio
  son io qui essaltato a quella gloria
  che non si lascia vincere a disio;

  e in terra lasciai la mia memoria
  sì fatta, che le genti lì malvage
  commendan lei, ma non seguon la storia».

  Così un sol calor di molte brage
  si fa sentir, come di molti amori
  usciva solo un suon di quella image.

  Ond’ io appresso: «O perpetüi fiori
  de l’etterna letizia, che pur uno
  parer mi fate tutti vostri odori,

  solvetemi, spirando, il gran digiuno
  che lungamente m’ha tenuto in fame,
  non trovandoli in terra cibo alcuno.

  Ben so io che, se ’n cielo altro reame
  la divina giustizia fa suo specchio,
  che ’l vostro non l’apprende con velame.

  Sapete come attento io m’apparecchio
  ad ascoltar; sapete qual è quello
  dubbio che m’è digiun cotanto vecchio».

  Quasi falcone ch’esce del cappello,
  move la testa e con l’ali si plaude,
  voglia mostrando e faccendosi bello,

  vid’ io farsi quel segno, che di laude
  de la divina grazia era contesto,
  con canti quai si sa chi là sù gaude.

  Poi cominciò: «Colui che volse il sesto
  a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
  distinse tanto occulto e manifesto,

  non poté suo valor sì fare impresso
  in tutto l’universo, che ’l suo verbo
  non rimanesse in infinito eccesso.

  E ciò fa certo che ’l primo superbo,
  che fu la somma d’ogne creatura,
  per non aspettar lume, cadde acerbo;

  e quinci appar ch’ogne minor natura
  è corto recettacolo a quel bene
  che non ha fine e sé con sé misura.

  Dunque vostra veduta, che convene
  esser alcun de’ raggi de la mente
  di che tutte le cose son ripiene,

  non pò da sua natura esser possente
  tanto, che suo principio discerna
  molto di là da quel che l’è parvente.

  Però ne la giustizia sempiterna
  la vista che riceve il vostro mondo,
  com’ occhio per lo mare, entro s’interna;

  che, ben che da la proda veggia il fondo,
  in pelago nol vede; e nondimeno
  èli, ma cela lui l’esser profondo.

  Lume non è, se non vien dal sereno
  che non si turba mai; anzi è tenèbra
  od ombra de la carne o suo veleno.

  Assai t’è mo aperta la latebra
  che t’ascondeva la giustizia viva,
  di che facei question cotanto crebra;

  ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
  de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
  di Cristo né chi legga né chi scriva;

  e tutti suoi voleri e atti buoni
  sono, quanto ragione umana vede,
  sanza peccato in vita o in sermoni.

  Muore non battezzato e sanza fede:
  ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
  ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”.

  Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
  per giudicar di lungi mille miglia
  con la veduta corta d’una spanna?

  Certo a colui che meco s’assottiglia,
  se la Scrittura sovra voi non fosse,
  da dubitar sarebbe a maraviglia.

  Oh terreni animali! oh menti grosse!
  La prima volontà, ch’è da sé buona,
  da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.

  Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
  nullo creato bene a sé la tira,
  ma essa, radïando, lui cagiona».

  Quale sovresso il nido si rigira
  poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,
  e come quel ch’è pasto la rimira;

  cotal si fece, e sì leväi i cigli,
  la benedetta imagine, che l’ali
  movea sospinte da tanti consigli.

  Roteando cantava, e dicea: «Quali
  son le mie note a te, che non le ’ntendi,
  tal è il giudicio etterno a voi mortali».

  Poi si quetaro quei lucenti incendi
  de lo Spirito Santo ancor nel segno
  che fé i Romani al mondo reverendi,

  esso ricominciò: «A questo regno
  non salì mai chi non credette ’n Cristo,
  né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.

  Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
  che saranno in giudicio assai men prope
  a lui, che tal che non conosce Cristo;

  e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
  quando si partiranno i due collegi,
  l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

  Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
  come vedranno quel volume aperto
  nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?

  Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
  quella che tosto moverà la penna,
  per che ’l regno di Praga fia diserto.

  Lì si vedrà il duol che sovra Senna
  induce, falseggiando la moneta,
  quel che morrà di colpo di cotenna.

  Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
  che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
  sì che non può soffrir dentro a sua meta.

  Vedrassi la lussuria e ’l viver molle
  di quel di Spagna e di quel di Boemme,
  che mai valor non conobbe né volle.

  Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
  segnata con un i la sua bontate,
  quando ’l contrario segnerà un emme.

  Vedrassi l’avarizia e la viltate
  di quei che guarda l’isola del foco,
  ove Anchise finì la lunga etate;

  e a dare ad intender quanto è poco,
  la sua scrittura fian lettere mozze,
  che noteranno molto in parvo loco.

  E parranno a ciascun l’opere sozze
  del barba e del fratel, che tanto egregia
  nazione e due corone han fatte bozze.

  E quel di Portogallo e di Norvegia
  lì si conosceranno, e quel di Rascia
  che male ha visto il conio di Vinegia.

  Oh beata Ungheria, se non si lascia
  più malmenare! e beata Navarra,
  se s’armasse del monte che la fascia!

  E creder de’ ciascun che già, per arra
  di questo, Niccosïa e Famagosta
  per la lor bestia si lamenti e garra,

  che dal fianco de l’altre non si scosta».



  Paradiso • Canto XX


  Quando colui che tutto ’l mondo alluma
  de l’emisperio nostro sì discende,
  che ’l giorno d’ogne parte si consuma,

  lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
  subitamente si rifà parvente
  per molte luci, in che una risplende;

  e questo atto del ciel mi venne a mente,
  come ’l segno del mondo e de’ suoi duci
  nel benedetto rostro fu tacente;

  però che tutte quelle vive luci,
  vie più lucendo, cominciaron canti
  da mia memoria labili e caduci.

  O dolce amor che di riso t’ammanti,
  quanto parevi ardente in que’ flailli,
  ch’avieno spirto sol di pensier santi!

  Poscia che i cari e lucidi lapilli
  ond’ io vidi ingemmato il sesto lume
  puoser silenzio a li angelici squilli,

  udir mi parve un mormorar di fiume
  che scende chiaro giù di pietra in pietra,
  mostrando l’ubertà del suo cacume.

  E come suono al collo de la cetra
  prende sua forma, e sì com’ al pertugio
  de la sampogna vento che penètra,

  così, rimosso d’aspettare indugio,
  quel mormorar de l’aguglia salissi
  su per lo collo, come fosse bugio.

  Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
  per lo suo becco in forma di parole,
  quali aspettava il core ov’ io le scrissi.

  «La parte in me che vede e pate il sole
  ne l’aguglie mortali», incominciommi,
  «or fisamente riguardar si vole,

  perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
  quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
  e’ di tutti lor gradi son li sommi.

  Colui che luce in mezzo per pupilla,
  fu il cantor de lo Spirito Santo,
  che l’arca traslatò di villa in villa:

  ora conosce il merto del suo canto,
  in quanto effetto fu del suo consiglio,
  per lo remunerar ch’è altrettanto.

  Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
  colui che più al becco mi s’accosta,
  la vedovella consolò del figlio:

  ora conosce quanto caro costa
  non seguir Cristo, per l’esperïenza
  di questa dolce vita e de l’opposta.

  E quel che segue in la circunferenza
  di che ragiono, per l’arco superno,
  morte indugiò per vera penitenza:

  ora conosce che ’l giudicio etterno
  non si trasmuta, quando degno preco
  fa crastino là giù de l’odïerno.

  L’altro che segue, con le leggi e meco,
  sotto buona intenzion che fé mal frutto,
  per cedere al pastor si fece greco:

  ora conosce come il mal dedutto
  dal suo bene operar non li è nocivo,
  avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.

  E quel che vedi ne l’arco declivo,
  Guiglielmo fu, cui quella terra plora
  che piagne Carlo e Federigo vivo:

  ora conosce come s’innamora
  lo ciel del giusto rege, e al sembiante
  del suo fulgore il fa vedere ancora.

  Chi crederebbe giù nel mondo errante
  che Rifëo Troiano in questo tondo
  fosse la quinta de le luci sante?

  Ora conosce assai di quel che ’l mondo
  veder non può de la divina grazia,
  ben che sua vista non discerna il fondo».

  Quale allodetta che ’n aere si spazia
  prima cantando, e poi tace contenta
  de l’ultima dolcezza che la sazia,

  tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta
  de l’etterno piacere, al cui disio
  ciascuna cosa qual ell’ è diventa.

  E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
  lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
  tempo aspettar tacendo non patio,

  ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
  mi pinse con la forza del suo peso:
  per ch’io di coruscar vidi gran feste.

  Poi appresso, con l’occhio più acceso,
  lo benedetto segno mi rispuose
  per non tenermi in ammirar sospeso:

  «Io veggio che tu credi queste cose
  perch’ io le dico, ma non vedi come;
  sì che, se son credute, sono ascose.

  Fai come quei che la cosa per nome
  apprende ben, ma la sua quiditate
  veder non può se altri non la prome.

  Regnum celorum vïolenza pate
  da caldo amore e da viva speranza,
  che vince la divina volontate:

  non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
  ma vince lei perché vuole esser vinta,
  e, vinta, vince con sua beninanza.

  La prima vita del ciglio e la quinta
  ti fa maravigliar, perché ne vedi
  la regïon de li angeli dipinta.

  D’i corpi suoi non uscir, come credi,
  Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
  quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.

  Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
  già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
  e ciò di viva spene fu mercede:

  di viva spene, che mise la possa
  ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
  sì che potesse sua voglia esser mossa.

  L’anima glorïosa onde si parla,
  tornata ne la carne, in che fu poco,
  credette in lui che potëa aiutarla;

  e credendo s’accese in tanto foco
  di vero amor, ch’a la morte seconda
  fu degna di venire a questo gioco.

  L’altra, per grazia che da sì profonda
  fontana stilla, che mai creatura
  non pinse l’occhio infino a la prima onda,

  tutto suo amor là giù pose a drittura:
  per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
  l’occhio a la nostra redenzion futura;

  ond’ ei credette in quella, e non sofferse
  da indi il puzzo più del paganesmo;
  e riprendiene le genti perverse.

  Quelle tre donne li fur per battesmo
  che tu vedesti da la destra rota,
  dinanzi al battezzar più d’un millesmo.

  O predestinazion, quanto remota
  è la radice tua da quelli aspetti
  che la prima cagion non veggion tota!

  E voi, mortali, tenetevi stretti
  a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
  non conosciamo ancor tutti li eletti;

  ed ènne dolce così fatto scemo,
  perché il ben nostro in questo ben s’affina,
  che quel che vole Iddio, e noi volemo».

  Così da quella imagine divina,
  per farmi chiara la mia corta vista,
  data mi fu soave medicina.

  E come a buon cantor buon citarista
  fa seguitar lo guizzo de la corda,
  in che più di piacer lo canto acquista,

  sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
  ch’io vidi le due luci benedette,
  pur come batter d’occhi si concorda,

  con le parole mover le fiammette.



  Paradiso • Canto XXI


  Già eran li occhi miei rifissi al volto
  de la mia donna, e l’animo con essi,
  e da ogne altro intento s’era tolto.

  E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
  mi cominciò, «tu ti faresti quale
  fu Semelè quando di cener fessi:

  ché la bellezza mia, che per le scale
  de l’etterno palazzo più s’accende,
  com’ hai veduto, quanto più si sale,

  se non si temperasse, tanto splende,
  che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
  sarebbe fronda che trono scoscende.

  Noi sem levati al settimo splendore,
  che sotto ’l petto del Leone ardente
  raggia mo misto giù del suo valore.

  Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
  e fa di quelli specchi a la figura
  che ’n questo specchio ti sarà parvente».

  Qual savesse qual era la pastura
  del viso mio ne l’aspetto beato
  quand’ io mi trasmutai ad altra cura,

  conoscerebbe quanto m’era a grato
  ubidire a la mia celeste scorta,
  contrapesando l’un con l’altro lato.

  Dentro al cristallo che ’l vocabol porta,
  cerchiando il mondo, del suo caro duce
  sotto cui giacque ogne malizia morta,

  di color d’oro in che raggio traluce
  vid’ io uno scaleo eretto in suso
  tanto, che nol seguiva la mia luce.

  Vidi anche per li gradi scender giuso
  tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
  che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

  E come, per lo natural costume,
  le pole insieme, al cominciar del giorno,
  si movono a scaldar le fredde piume;

  poi altre vanno via sanza ritorno,
  altre rivolgon sé onde son mosse,
  e altre roteando fan soggiorno;

  tal modo parve me che quivi fosse
  in quello sfavillar che ’nsieme venne,
  sì come in certo grado si percosse.

  E quel che presso più ci si ritenne,
  si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando:
  ‘Io veggio ben l’amor che tu m’accenne.

  Ma quella ond’ io aspetto il come e ’l quando
  del dire e del tacer, si sta; ond’ io,
  contra ’l disio, fo ben ch’io non dimando’.

  Per ch’ella, che vedëa il tacer mio
  nel veder di colui che tutto vede,
  mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».

  E io incominciai: «La mia mercede
  non mi fa degno de la tua risposta;
  ma per colei che ’l chieder mi concede,

  vita beata che ti stai nascosta
  dentro a la tua letizia, fammi nota
  la cagion che sì presso mi t’ha posta;

  e dì perché si tace in questa rota
  la dolce sinfonia di paradiso,
  che giù per l’altre suona sì divota».

  «Tu hai l’udir mortal sì come il viso»,
  rispuose a me; «onde qui non si canta
  per quel che Bëatrice non ha riso.

  Giù per li gradi de la scala santa
  discesi tanto sol per farti festa
  col dire e con la luce che mi ammanta;

  né più amor mi fece esser più presta,
  ché più e tanto amor quinci sù ferve,
  sì come il fiammeggiar ti manifesta.

  Ma l’alta carità, che ci fa serve
  pronte al consiglio che ’l mondo governa,
  sorteggia qui sì come tu osserve».

  «Io veggio ben», diss’ io, «sacra lucerna,
  come libero amore in questa corte
  basta a seguir la provedenza etterna;

  ma questo è quel ch’a cerner mi par forte,
  perché predestinata fosti sola
  a questo officio tra le tue consorte».

  Né venni prima a l’ultima parola,
  che del suo mezzo fece il lume centro,
  girando sé come veloce mola;

  poi rispuose l’amor che v’era dentro:
  «Luce divina sopra me s’appunta,
  penetrando per questa in ch’io m’inventro,

  la cui virtù, col mio veder congiunta,
  mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
  la somma essenza de la quale è munta.

  Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
  per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,
  la chiarità de la fiamma pareggio.

  Ma quell’ alma nel ciel che più si schiara,
  quel serafin che ’n Dio più l’occhio ha fisso,
  a la dimanda tua non satisfara,

  però che sì s’innoltra ne lo abisso
  de l’etterno statuto quel che chiedi,
  che da ogne creata vista è scisso.

  E al mondo mortal, quando tu riedi,
  questo rapporta, sì che non presumma
  a tanto segno più mover li piedi.

  La mente, che qui luce, in terra fumma;
  onde riguarda come può là giùe
  quel che non pote perché ’l ciel l’assumma».

  Sì mi prescrisser le parole sue,
  ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi
  a dimandarla umilmente chi fue.

  «Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
  e non molto distanti a la tua patria,
  tanto che ’ troni assai suonan più bassi,

  e fanno un gibbo che si chiama Catria,
  di sotto al quale è consecrato un ermo,
  che suole esser disposto a sola latria».

  Così ricominciommi il terzo sermo;
  e poi, continüando, disse: «Quivi
  al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,

  che pur con cibi di liquor d’ulivi
  lievemente passava caldi e geli,
  contento ne’ pensier contemplativi.

  Render solea quel chiostro a questi cieli
  fertilemente; e ora è fatto vano,
  sì che tosto convien che si riveli.

  In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
  e Pietro Peccator fu’ ne la casa
  di Nostra Donna in sul lito adriano.

  Poca vita mortal m’era rimasa,
  quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
  che pur di male in peggio si travasa.

  Venne Cefàs e venne il gran vasello
  de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
  prendendo il cibo da qualunque ostello.

  Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
  li moderni pastori e chi li meni,
  tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

  Cuopron d’i manti loro i palafreni,
  sì che due bestie van sott’ una pelle:
  oh pazïenza che tanto sostieni!».

  A questa voce vid’ io più fiammelle
  di grado in grado scendere e girarsi,
  e ogne giro le facea più belle.

  Dintorno a questa vennero e fermarsi,
  e fero un grido di sì alto suono,
  che non potrebbe qui assomigliarsi;

  né io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono.



  Paradiso • Canto XXII


  Oppresso di stupore, a la mia guida
  mi volsi, come parvol che ricorre
  sempre colà dove più si confida;

  e quella, come madre che soccorre
  sùbito al figlio palido e anelo
  con la sua voce, che ’l suol ben disporre,

  mi disse: «Non sai tu che tu se’ in cielo?
  e non sai tu che ’l cielo è tutto santo,
  e ciò che ci si fa vien da buon zelo?

  Come t’avrebbe trasmutato il canto,
  e io ridendo, mo pensar lo puoi,
  poscia che ’l grido t’ha mosso cotanto;

  nel qual, se ’nteso avessi i prieghi suoi,
  già ti sarebbe nota la vendetta
  che tu vedrai innanzi che tu muoi.

  La spada di qua sù non taglia in fretta
  né tardo, ma’ ch’al parer di colui
  che disïando o temendo l’aspetta.

  Ma rivolgiti omai inverso altrui;
  ch’assai illustri spiriti vedrai,
  se com’ io dico l’aspetto redui».

  Come a lei piacque, li occhi ritornai,
  e vidi cento sperule che ’nsieme
  più s’abbellivan con mutüi rai.

  Io stava come quei che ’n sé repreme
  la punta del disio, e non s’attenta
  di domandar, sì del troppo si teme;

  e la maggiore e la più luculenta
  di quelle margherite innanzi fessi,
  per far di sé la mia voglia contenta.

  Poi dentro a lei udi’: «Se tu vedessi
  com’ io la carità che tra noi arde,
  li tuoi concetti sarebbero espressi.

  Ma perché tu, aspettando, non tarde
  a l’alto fine, io ti farò risposta
  pur al pensier, da che sì ti riguarde.

  Quel monte a cui Cassino è ne la costa
  fu frequentato già in su la cima
  da la gente ingannata e mal disposta;

  e quel son io che sù vi portai prima
  lo nome di colui che ’n terra addusse
  la verità che tanto ci soblima;

  e tanta grazia sopra me relusse,
  ch’io ritrassi le ville circunstanti
  da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.

  Questi altri fuochi tutti contemplanti
  uomini fuoro, accesi di quel caldo
  che fa nascere i fiori e ’ frutti santi.

  Qui è Maccario, qui è Romoaldo,
  qui son li frati miei che dentro ai chiostri
  fermar li piedi e tennero il cor saldo».

  E io a lui: «L’affetto che dimostri
  meco parlando, e la buona sembianza
  ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,

  così m’ha dilatata mia fidanza,
  come ’l sol fa la rosa quando aperta
  tanto divien quant’ ell’ ha di possanza.

  Però ti priego, e tu, padre, m’accerta
  s’io posso prender tanta grazia, ch’io
  ti veggia con imagine scoverta».

  Ond’ elli: «Frate, il tuo alto disio
  s’adempierà in su l’ultima spera,
  ove s’adempion tutti li altri e ’l mio.

  Ivi è perfetta, matura e intera
  ciascuna disïanza; in quella sola
  è ogne parte là ove sempr’ era,

  perché non è in loco e non s’impola;
  e nostra scala infino ad essa varca,
  onde così dal viso ti s’invola.

  Infin là sù la vide il patriarca
  Iacobbe porger la superna parte,
  quando li apparve d’angeli sì carca.

  Ma, per salirla, mo nessun diparte
  da terra i piedi, e la regola mia
  rimasa è per danno de le carte.

  Le mura che solieno esser badia
  fatte sono spelonche, e le cocolle
  sacca son piene di farina ria.

  Ma grave usura tanto non si tolle
  contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto
  che fa il cor de’ monaci sì folle;

  ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
  è de la gente che per Dio dimanda;
  non di parenti né d’altro più brutto.

  La carne d’i mortali è tanto blanda,
  che giù non basta buon cominciamento
  dal nascer de la quercia al far la ghianda.

  Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
  e io con orazione e con digiuno,
  e Francesco umilmente il suo convento;

  e se guardi ’l principio di ciascuno,
  poscia riguardi là dov’ è trascorso,
  tu vederai del bianco fatto bruno.

  Veramente Iordan vòlto retrorso
  più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,
  mirabile a veder che qui ’l soccorso».

  Così mi disse, e indi si raccolse
  al suo collegio, e ’l collegio si strinse;
  poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.

  La dolce donna dietro a lor mi pinse
  con un sol cenno su per quella scala,
  sì sua virtù la mia natura vinse;

  né mai qua giù dove si monta e cala
  naturalmente, fu sì ratto moto
  ch’agguagliar si potesse a la mia ala.

  S’io torni mai, lettore, a quel divoto
  trïunfo per lo quale io piango spesso
  le mie peccata e ’l petto mi percuoto,

  tu non avresti in tanto tratto e messo
  nel foco il dito, in quant’ io vidi ’l segno
  che segue il Tauro e fui dentro da esso.

  O glorïose stelle, o lume pregno
  di gran virtù, dal quale io riconosco
  tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

  con voi nasceva e s’ascondeva vosco
  quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
  quand’ io senti’ di prima l’aere tosco;

  e poi, quando mi fu grazia largita
  d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
  la vostra regïon mi fu sortita.

  A voi divotamente ora sospira
  l’anima mia, per acquistar virtute
  al passo forte che a sé la tira.

  «Tu se’ sì presso a l’ultima salute»,
  cominciò Bëatrice, «che tu dei
  aver le luci tue chiare e acute;

  e però, prima che tu più t’inlei,
  rimira in giù, e vedi quanto mondo
  sotto li piedi già esser ti fei;

  sì che ’l tuo cor, quantunque può, giocondo
  s’appresenti a la turba trïunfante
  che lieta vien per questo etera tondo».

  Col viso ritornai per tutte quante
  le sette spere, e vidi questo globo
  tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;

  e quel consiglio per migliore approbo
  che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
  chiamar si puote veramente probo.

  Vidi la figlia di Latona incensa
  sanza quell’ ombra che mi fu cagione
  per che già la credetti rara e densa.

  L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
  quivi sostenni, e vidi com’ si move
  circa e vicino a lui Maia e Dïone.

  Quindi m’apparve il temperar di Giove
  tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
  il varïar che fanno di lor dove;

  e tutti e sette mi si dimostraro
  quanto son grandi e quanto son veloci
  e come sono in distante riparo.

  L’aiuola che ci fa tanto feroci,
  volgendom’ io con li etterni Gemelli,
  tutta m’apparve da’ colli a le foci;

  poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.



  Paradiso • Canto XXIII


  Come l’augello, intra l’amate fronde,
  posato al nido de’ suoi dolci nati
  la notte che le cose ci nasconde,

  che, per veder li aspetti disïati
  e per trovar lo cibo onde li pasca,
  in che gravi labor li sono aggrati,

  previene il tempo in su aperta frasca,
  e con ardente affetto il sole aspetta,
  fiso guardando pur che l’alba nasca;

  così la donna mïa stava eretta
  e attenta, rivolta inver’ la plaga
  sotto la quale il sol mostra men fretta:

  sì che, veggendola io sospesa e vaga,
  fecimi qual è quei che disïando
  altro vorria, e sperando s’appaga.

  Ma poco fu tra uno e altro quando,
  del mio attender, dico, e del vedere
  lo ciel venir più e più rischiarando;

  e Bëatrice disse: «Ecco le schiere
  del trïunfo di Cristo e tutto ’l frutto
  ricolto del girar di queste spere!».

  Pariemi che ’l suo viso ardesse tutto,
  e li occhi avea di letizia sì pieni,
  che passarmen convien sanza costrutto.

  Quale ne’ plenilunïi sereni
  Trivïa ride tra le ninfe etterne
  che dipingon lo ciel per tutti i seni,

  vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
  un sol che tutte quante l’accendea,
  come fa ’l nostro le viste superne;

  e per la viva luce trasparea
  la lucente sustanza tanto chiara
  nel viso mio, che non la sostenea.

  Oh Bëatrice, dolce guida e cara!
  Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
  è virtù da cui nulla si ripara.

  Quivi è la sapïenza e la possanza
  ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
  onde fu già sì lunga disïanza».

  Come foco di nube si diserra
  per dilatarsi sì che non vi cape,
  e fuor di sua natura in giù s’atterra,

  la mente mia così, tra quelle dape
  fatta più grande, di sé stessa uscìo,
  e che si fesse rimembrar non sape.

  «Apri li occhi e riguarda qual son io;
  tu hai vedute cose, che possente
  se’ fatto a sostener lo riso mio».

  Io era come quei che si risente
  di visïone oblita e che s’ingegna
  indarno di ridurlasi a la mente,

  quand’ io udi’ questa proferta, degna
  di tanto grato, che mai non si stingue
  del libro che ’l preterito rassegna.

  Se mo sonasser tutte quelle lingue
  che Polimnïa con le suore fero
  del latte lor dolcissimo più pingue,

  per aiutarmi, al millesmo del vero
  non si verria, cantando il santo riso
  e quanto il santo aspetto facea mero;

  e così, figurando il paradiso,
  convien saltar lo sacrato poema,
  come chi trova suo cammin riciso.

  Ma chi pensasse il ponderoso tema
  e l’omero mortal che se ne carca,
  nol biasmerebbe se sott’ esso trema:

  non è pareggio da picciola barca
  quel che fendendo va l’ardita prora,
  né da nocchier ch’a sé medesmo parca.

  «Perché la faccia mia sì t’innamora,
  che tu non ti rivolgi al bel giardino
  che sotto i raggi di Cristo s’infiora?

  Quivi è la rosa in che ’l verbo divino
  carne si fece; quivi son li gigli
  al cui odor si prese il buon cammino».

  Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli
  tutto era pronto, ancora mi rendei
  a la battaglia de’ debili cigli.

  Come a raggio di sol, che puro mei
  per fratta nube, già prato di fiori
  vider, coverti d’ombra, li occhi miei;

  vid’ io così più turbe di splendori,
  folgorate di sù da raggi ardenti,
  sanza veder principio di folgóri.

  O benigna vertù che sì li ’mprenti,
  sù t’essaltasti, per largirmi loco
  a li occhi lì che non t’eran possenti.

  Il nome del bel fior ch’io sempre invoco
  e mane e sera, tutto mi ristrinse
  l’animo ad avvisar lo maggior foco;

  e come ambo le luci mi dipinse
  il quale e il quanto de la viva stella
  che là sù vince come qua giù vinse,

  per entro il cielo scese una facella,
  formata in cerchio a guisa di corona,
  e cinsela e girossi intorno ad ella.

  Qualunque melodia più dolce suona
  qua giù e più a sé l’anima tira,
  parrebbe nube che squarciata tona,

  comparata al sonar di quella lira
  onde si coronava il bel zaffiro
  del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.

  «Io sono amore angelico, che giro
  l’alta letizia che spira del ventre
  che fu albergo del nostro disiro;

  e girerommi, donna del ciel, mentre
  che seguirai tuo figlio, e farai dia
  più la spera suprema perché lì entre».

  Così la circulata melodia
  si sigillava, e tutti li altri lumi
  facean sonare il nome di Maria.

  Lo real manto di tutti i volumi
  del mondo, che più ferve e più s’avviva
  ne l’alito di Dio e nei costumi,

  avea sopra di noi l’interna riva
  tanto distante, che la sua parvenza,
  là dov’ io era, ancor non appariva:

  però non ebber li occhi miei potenza
  di seguitar la coronata fiamma
  che si levò appresso sua semenza.

  E come fantolin che ’nver’ la mamma
  tende le braccia, poi che ’l latte prese,
  per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma;

  ciascun di quei candori in sù si stese
  con la sua cima, sì che l’alto affetto
  ch’elli avieno a Maria mi fu palese.

  Indi rimaser lì nel mio cospetto,
  ‘Regina celi’ cantando sì dolce,
  che mai da me non si partì ’l diletto.

  Oh quanta è l’ubertà che si soffolce
  in quelle arche ricchissime che fuoro
  a seminar qua giù buone bobolce!

  Quivi si vive e gode del tesoro
  che s’acquistò piangendo ne lo essilio
  di Babillòn, ove si lasciò l’oro.

  Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio
  di Dio e di Maria, di sua vittoria,
  e con l’antico e col novo concilio,

  colui che tien le chiavi di tal gloria.



  Paradiso • Canto XXIV


  «O sodalizio eletto a la gran cena
  del benedetto Agnello, il qual vi ciba
  sì, che la vostra voglia è sempre piena,

  se per grazia di Dio questi preliba
  di quel che cade de la vostra mensa,
  prima che morte tempo li prescriba,

  ponete mente a l’affezione immensa
  e roratelo alquanto: voi bevete
  sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa».

  Così Beatrice; e quelle anime liete
  si fero spere sopra fissi poli,
  fiammando, a volte, a guisa di comete.

  E come cerchi in tempra d’orïuoli
  si giran sì, che ’l primo a chi pon mente
  quïeto pare, e l’ultimo che voli;

  così quelle carole, differente-
  mente danzando, de la sua ricchezza
  mi facieno stimar, veloci e lente.

  Di quella ch’io notai di più carezza
  vid’ ïo uscire un foco sì felice,
  che nullo vi lasciò di più chiarezza;

  e tre fïate intorno di Beatrice
  si volse con un canto tanto divo,
  che la mia fantasia nol mi ridice.

  Però salta la penna e non lo scrivo:
  ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
  non che ’l parlare, è troppo color vivo.

  «O santa suora mia che sì ne prieghe
  divota, per lo tuo ardente affetto
  da quella bella spera mi disleghe».

  Poscia fermato, il foco benedetto
  a la mia donna dirizzò lo spiro,
  che favellò così com’ i’ ho detto.

  Ed ella: «O luce etterna del gran viro
  a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
  ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,

  tenta costui di punti lievi e gravi,
  come ti piace, intorno de la fede,
  per la qual tu su per lo mare andavi.

  S’elli ama bene e bene spera e crede,
  non t’è occulto, perché ’l viso hai quivi
  dov’ ogne cosa dipinta si vede;

  ma perché questo regno ha fatto civi
  per la verace fede, a glorïarla,
  di lei parlare è ben ch’a lui arrivi».

  Sì come il baccialier s’arma e non parla
  fin che ’l maestro la question propone,
  per approvarla, non per terminarla,

  così m’armava io d’ogne ragione
  mentre ch’ella dicea, per esser presto
  a tal querente e a tal professione.

  «Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
  fede che è?». Ond’ io levai la fronte
  in quella luce onde spirava questo;

  poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
  sembianze femmi perch’ ïo spandessi
  l’acqua di fuor del mio interno fonte.

  «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»,
  comincia’ io, «da l’alto primipilo,
  faccia li miei concetti bene espressi».

  E seguitai: «Come ’l verace stilo
  ne scrisse, padre, del tuo caro frate
  che mise teco Roma nel buon filo,

  fede è sustanza di cose sperate
  e argomento de le non parventi;
  e questa pare a me sua quiditate».

  Allora udi’: «Dirittamente senti,
  se bene intendi perché la ripuose
  tra le sustanze, e poi tra li argomenti».

  E io appresso: «Le profonde cose
  che mi largiscon qui la lor parvenza,
  a li occhi di là giù son sì ascose,

  che l’esser loro v’è in sola credenza,
  sopra la qual si fonda l’alta spene;
  e però di sustanza prende intenza.

  E da questa credenza ci convene
  silogizzar, sanz’ avere altra vista:
  però intenza d’argomento tene».

  Allora udi’: «Se quantunque s’acquista
  giù per dottrina, fosse così ’nteso,
  non lì avria loco ingegno di sofista».

  Così spirò di quello amore acceso;
  indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa
  d’esta moneta già la lega e ’l peso;

  ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa».
  Ond’ io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda,
  che nel suo conio nulla mi s’inforsa».

  Appresso uscì de la luce profonda
  che lì splendeva: «Questa cara gioia
  sopra la quale ogne virtù si fonda,

  onde ti venne?». E io: «La larga ploia
  de lo Spirito Santo, ch’è diffusa
  in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia,

  è silogismo che la m’ha conchiusa
  acutamente sì, che ’nverso d’ella
  ogne dimostrazion mi pare ottusa».

  Io udi’ poi: «L’antica e la novella
  proposizion che così ti conchiude,
  perché l’hai tu per divina favella?».

  E io: «La prova che ’l ver mi dischiude,
  son l’opere seguite, a che natura
  non scalda ferro mai né batte incude».

  Risposto fummi: «Dì, chi t’assicura
  che quell’ opere fosser? Quel medesmo
  che vuol provarsi, non altri, il ti giura».

  «Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo»,
  diss’ io, «sanza miracoli, quest’ uno
  è tal, che li altri non sono il centesmo:

  ché tu intrasti povero e digiuno
  in campo, a seminar la buona pianta
  che fu già vite e ora è fatta pruno».

  Finito questo, l’alta corte santa
  risonò per le spere un ‘Dio laudamo’
  ne la melode che là sù si canta.

  E quel baron che sì di ramo in ramo,
  essaminando, già tratto m’avea,
  che a l’ultime fronde appressavamo,

  ricominciò: «La Grazia, che donnea
  con la tua mente, la bocca t’aperse
  infino a qui come aprir si dovea,

  sì ch’io approvo ciò che fuori emerse;
  ma or convien espremer quel che credi,
  e onde a la credenza tua s’offerse».

  «O santo padre, e spirito che vedi
  ciò che credesti sì, che tu vincesti
  ver’ lo sepulcro più giovani piedi»,

  comincia’ io, «tu vuo’ ch’io manifesti
  la forma qui del pronto creder mio,
  e anche la cagion di lui chiedesti.

  E io rispondo: Io credo in uno Dio
  solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
  non moto, con amore e con disio;

  e a tal creder non ho io pur prove
  fisice e metafisice, ma dalmi
  anche la verità che quinci piove

  per Moïsè, per profeti e per salmi,
  per l’Evangelio e per voi che scriveste
  poi che l’ardente Spirto vi fé almi;

  e credo in tre persone etterne, e queste
  credo una essenza sì una e sì trina,
  che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.

  De la profonda condizion divina
  ch’io tocco mo, la mente mi sigilla
  più volte l’evangelica dottrina.

  Quest’ è ’l principio, quest’ è la favilla
  che si dilata in fiamma poi vivace,
  e come stella in cielo in me scintilla».

  Come ’l segnor ch’ascolta quel che i piace,
  da indi abbraccia il servo, gratulando
  per la novella, tosto ch’el si tace;

  così, benedicendomi cantando,
  tre volte cinse me, sì com’ io tacqui,
  l’appostolico lume al cui comando

  io avea detto: sì nel dir li piacqui!



  Paradiso • Canto XXV


  Se mai continga che ’l poema sacro
  al quale ha posto mano e cielo e terra,
  sì che m’ha fatto per molti anni macro,

  vinca la crudeltà che fuor mi serra
  del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
  nimico ai lupi che li danno guerra;

  con altra voce omai, con altro vello
  ritornerò poeta, e in sul fonte
  del mio battesmo prenderò ’l cappello;

  però che ne la fede, che fa conte
  l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
  Pietro per lei sì mi girò la fronte.

  Indi si mosse un lume verso noi
  di quella spera ond’ uscì la primizia
  che lasciò Cristo d’i vicari suoi;

  e la mia donna, piena di letizia,
  mi disse: «Mira, mira: ecco il barone
  per cui là giù si vicita Galizia».

  Sì come quando il colombo si pone
  presso al compagno, l’uno a l’altro pande,
  girando e mormorando, l’affezione;

  così vid’ ïo l’un da l’altro grande
  principe glorïoso essere accolto,
  laudando il cibo che là sù li prande.

  Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
  tacito coram me ciascun s’affisse,
  ignito sì che vincëa ’l mio volto.

  Ridendo allora Bëatrice disse:
  «Inclita vita per cui la larghezza
  de la nostra basilica si scrisse,

  fa risonar la spene in questa altezza:
  tu sai, che tante fiate la figuri,
  quante Iesù ai tre fé più carezza».

  «Leva la testa e fa che t’assicuri:
  che ciò che vien qua sù del mortal mondo,
  convien ch’ai nostri raggi si maturi».

  Questo conforto del foco secondo
  mi venne; ond’ io leväi li occhi a’ monti
  che li ’ncurvaron pria col troppo pondo.

  «Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
  lo nostro Imperadore, anzi la morte,
  ne l’aula più secreta co’ suoi conti,

  sì che, veduto il ver di questa corte,
  la spene, che là giù bene innamora,
  in te e in altrui di ciò conforte,

  di’ quel ch’ell’ è, di’ come se ne ’nfiora
  la mente tua, e dì onde a te venne».
  Così seguì ’l secondo lume ancora.

  E quella pïa che guidò le penne
  de le mie ali a così alto volo,
  a la risposta così mi prevenne:

  «La Chiesa militante alcun figliuolo
  non ha con più speranza, com’ è scritto
  nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:

  però li è conceduto che d’Egitto
  vegna in Ierusalemme per vedere,
  anzi che ’l militar li sia prescritto.

  Li altri due punti, che non per sapere
  son dimandati, ma perch’ ei rapporti
  quanto questa virtù t’è in piacere,

  a lui lasc’ io, ché non li saran forti
  né di iattanza; ed elli a ciò risponda,
  e la grazia di Dio ciò li comporti».

  Come discente ch’a dottor seconda
  pronto e libente in quel ch’elli è esperto,
  perché la sua bontà si disasconda,

  «Spene», diss’ io, «è uno attender certo
  de la gloria futura, il qual produce
  grazia divina e precedente merto.

  Da molte stelle mi vien questa luce;
  ma quei la distillò nel mio cor pria
  che fu sommo cantor del sommo duce.

  ‘Sperino in te’, ne la sua tëodia
  dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
  e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?

  Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
  ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
  e in altrui vostra pioggia repluo».

  Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
  di quello incendio tremolava un lampo
  sùbito e spesso a guisa di baleno.

  Indi spirò: «L’amore ond’ ïo avvampo
  ancor ver’ la virtù che mi seguette
  infin la palma e a l’uscir del campo,

  vuol ch’io respiri a te che ti dilette
  di lei; ed emmi a grato che tu diche
  quello che la speranza ti ’mpromette».

  E io: «Le nove e le scritture antiche
  pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
  de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.

  Dice Isaia che ciascuna vestita
  ne la sua terra fia di doppia vesta:
  e la sua terra è questa dolce vita;

  e ’l tuo fratello assai vie più digesta,
  là dove tratta de le bianche stole,
  questa revelazion ci manifesta».

  E prima, appresso al fin d’este parole,
  ‘Sperent in te’ di sopr’ a noi s’udì;
  a che rispuoser tutte le carole.

  Poscia tra esse un lume si schiarì
  sì che, se ’l Cancro avesse un tal cristallo,
  l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì.

  E come surge e va ed entra in ballo
  vergine lieta, sol per fare onore
  a la novizia, non per alcun fallo,

  così vid’ io lo schiarato splendore
  venire a’ due che si volgieno a nota
  qual conveniesi al loro ardente amore.

  Misesi lì nel canto e ne la rota;
  e la mia donna in lor tenea l’aspetto,
  pur come sposa tacita e immota.

  «Questi è colui che giacque sopra ’l petto
  del nostro pellicano, e questi fue
  di su la croce al grande officio eletto».

  La donna mia così; né però piùe
  mosser la vista sua di stare attenta
  poscia che prima le parole sue.

  Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta
  di vedere eclissar lo sole un poco,
  che, per veder, non vedente diventa;

  tal mi fec’ ïo a quell’ ultimo foco
  mentre che detto fu: «Perché t’abbagli
  per veder cosa che qui non ha loco?

  In terra è terra il mio corpo, e saragli
  tanto con li altri, che ’l numero nostro
  con l’etterno proposito s’agguagli.

  Con le due stole nel beato chiostro
  son le due luci sole che saliro;
  e questo apporterai nel mondo vostro».

  A questa voce l’infiammato giro
  si quïetò con esso il dolce mischio
  che si facea nel suon del trino spiro,

  sì come, per cessar fatica o rischio,
  li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
  tutti si posano al sonar d’un fischio.

  Ahi quanto ne la mente mi commossi,
  quando mi volsi per veder Beatrice,
  per non poter veder, benché io fossi

  presso di lei, e nel mondo felice!



  Paradiso • Canto XXVI


  Mentr’ io dubbiava per lo viso spento,
  de la fulgida fiamma che lo spense
  uscì un spiro che mi fece attento,

  dicendo: «Intanto che tu ti risense
  de la vista che haï in me consunta,
  ben è che ragionando la compense.

  Comincia dunque; e dì ove s’appunta
  l’anima tua, e fa ragion che sia
  la vista in te smarrita e non defunta:

  perché la donna che per questa dia
  regïon ti conduce, ha ne lo sguardo
  la virtù ch’ebbe la man d’Anania».

  Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo
  vegna remedio a li occhi, che fuor porte
  quand’ ella entrò col foco ond’ io sempr’ ardo.

  Lo ben che fa contenta questa corte,
  Alfa e O è di quanta scrittura
  mi legge Amore o lievemente o forte».

  Quella medesma voce che paura
  tolta m’avea del sùbito abbarbaglio,
  di ragionare ancor mi mise in cura;

  e disse: «Certo a più angusto vaglio
  ti conviene schiarar: dicer convienti
  chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio».

  E io: «Per filosofici argomenti
  e per autorità che quinci scende
  cotale amor convien che in me si ’mprenti:

  ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende,
  così accende amore, e tanto maggio
  quanto più di bontate in sé comprende.

  Dunque a l’essenza ov’ è tanto avvantaggio,
  che ciascun ben che fuor di lei si trova
  altro non è ch’un lume di suo raggio,

  più che in altra convien che si mova
  la mente, amando, di ciascun che cerne
  il vero in che si fonda questa prova.

  Tal vero a l’intelletto mïo sterne
  colui che mi dimostra il primo amore
  di tutte le sustanze sempiterne.

  Sternel la voce del verace autore,
  che dice a Moïsè, di sé parlando:
  ‘Io ti farò vedere ogne valore’.

  Sternilmi tu ancora, incominciando
  l’alto preconio che grida l’arcano
  di qui là giù sovra ogne altro bando».

  E io udi’: «Per intelletto umano
  e per autoritadi a lui concorde
  d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.

  Ma dì ancor se tu senti altre corde
  tirarti verso lui, sì che tu suone
  con quanti denti questo amor ti morde».

  Non fu latente la santa intenzione
  de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi
  dove volea menar mia professione.

  Però ricominciai: «Tutti quei morsi
  che posson far lo cor volgere a Dio,
  a la mia caritate son concorsi:

  ché l’essere del mondo e l’esser mio,
  la morte ch’el sostenne perch’ io viva,
  e quel che spera ogne fedel com’ io,

  con la predetta conoscenza viva,
  tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
  e del diritto m’han posto a la riva.

  Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
  de l’ortolano etterno, am’ io cotanto
  quanto da lui a lor di bene è porto».

  Sì com’ io tacqui, un dolcissimo canto
  risonò per lo cielo, e la mia donna
  dicea con li altri: «Santo, santo, santo!».

  E come a lume acuto si disonna
  per lo spirto visivo che ricorre
  a lo splendor che va di gonna in gonna,

  e lo svegliato ciò che vede aborre,
  sì nescïa è la sùbita vigilia
  fin che la stimativa non soccorre;

  così de li occhi miei ogne quisquilia
  fugò Beatrice col raggio d’i suoi,
  che rifulgea da più di mille milia:

  onde mei che dinanzi vidi poi;
  e quasi stupefatto domandai
  d’un quarto lume ch’io vidi tra noi.

  E la mia donna: «Dentro da quei rai
  vagheggia il suo fattor l’anima prima
  che la prima virtù creasse mai».

  Come la fronda che flette la cima
  nel transito del vento, e poi si leva
  per la propria virtù che la soblima,

  fec’ io in tanto in quant’ ella diceva,
  stupendo, e poi mi rifece sicuro
  un disio di parlare ond’ ïo ardeva.

  E cominciai: «O pomo che maturo
  solo prodotto fosti, o padre antico
  a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,

  divoto quanto posso a te supplìco
  perché mi parli: tu vedi mia voglia,
  e per udirti tosto non la dico».

  Talvolta un animal coverto broglia,
  sì che l’affetto convien che si paia
  per lo seguir che face a lui la ’nvoglia;

  e similmente l’anima primaia
  mi facea trasparer per la coverta
  quant’ ella a compiacermi venìa gaia.

  Indi spirò: «Sanz’ essermi proferta
  da te, la voglia tua discerno meglio
  che tu qualunque cosa t’è più certa;

  perch’ io la veggio nel verace speglio
  che fa di sé pareglio a l’altre cose,
  e nulla face lui di sé pareglio.

  Tu vuogli udir quant’ è che Dio mi puose
  ne l’eccelso giardino, ove costei
  a così lunga scala ti dispuose,

  e quanto fu diletto a li occhi miei,
  e la propria cagion del gran disdegno,
  e l’idïoma ch’usai e che fei.

  Or, figluol mio, non il gustar del legno
  fu per sé la cagion di tanto essilio,
  ma solamente il trapassar del segno.

  Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
  quattromilia trecento e due volumi
  di sol desiderai questo concilio;

  e vidi lui tornare a tutt’ i lumi
  de la sua strada novecento trenta
  fïate, mentre ch’ïo in terra fu’mi.

  La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
  innanzi che a l’ovra inconsummabile
  fosse la gente di Nembròt attenta:

  ché nullo effetto mai razïonabile,
  per lo piacere uman che rinovella
  seguendo il cielo, sempre fu durabile.

  Opera naturale è ch’uom favella;
  ma così o così, natura lascia
  poi fare a voi secondo che v’abbella.

  Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
  I s’appellava in terra il sommo bene
  onde vien la letizia che mi fascia;

  e El si chiamò poi: e ciò convene,
  ché l’uso d’i mortali è come fronda
  in ramo, che sen va e altra vene.

  Nel monte che si leva più da l’onda,
  fu’ io, con vita pura e disonesta,
  da la prim’ ora a quella che seconda,

  come ’l sol muta quadra, l’ora sesta».



  Paradiso • Canto XXVII


  ‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’,
  cominciò, ‘gloria!’, tutto ’l paradiso,
  sì che m’inebrïava il dolce canto.

  Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
  de l’universo; per che mia ebbrezza
  intrava per l’udire e per lo viso.

  Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
  oh vita intègra d’amore e di pace!
  oh sanza brama sicura ricchezza!

  Dinanzi a li occhi miei le quattro face
  stavano accese, e quella che pria venne
  incominciò a farsi più vivace,

  e tal ne la sembianza sua divenne,
  qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte
  fossero augelli e cambiassersi penne.

  La provedenza, che quivi comparte
  vice e officio, nel beato coro
  silenzio posto avea da ogne parte,

  quand’ ïo udi’: «Se io mi trascoloro,
  non ti maravigliar, ché, dicend’ io,
  vedrai trascolorar tutti costoro.

  Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
  il luogo mio, il luogo mio, che vaca
  ne la presenza del Figliuol di Dio,

  fatt’ ha del cimitero mio cloaca
  del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
  che cadde di qua sù, là giù si placa».

  Di quel color che per lo sole avverso
  nube dipigne da sera e da mane,
  vid’ ïo allora tutto ’l ciel cosperso.

  E come donna onesta che permane
  di sé sicura, e per l’altrui fallanza,
  pur ascoltando, timida si fane,

  così Beatrice trasmutò sembianza;
  e tale eclissi credo che ’n ciel fue
  quando patì la supprema possanza.

  Poi procedetter le parole sue
  con voce tanto da sé trasmutata,
  che la sembianza non si mutò piùe:

  «Non fu la sposa di Cristo allevata
  del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
  per essere ad acquisto d’oro usata;

  ma per acquisto d’esto viver lieto
  e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
  sparser lo sangue dopo molto fleto.

  Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
  d’i nostri successor parte sedesse,
  parte da l’altra del popol cristiano;

  né che le chiavi che mi fuor concesse,
  divenisser signaculo in vessillo
  che contra battezzati combattesse;

  né ch’io fossi figura di sigillo
  a privilegi venduti e mendaci,
  ond’ io sovente arrosso e disfavillo.

  In vesta di pastor lupi rapaci
  si veggion di qua sù per tutti i paschi:
  o difesa di Dio, perché pur giaci?

  Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
  s’apparecchian di bere: o buon principio,
  a che vil fine convien che tu caschi!

  Ma l’alta provedenza, che con Scipio
  difese a Roma la gloria del mondo,
  soccorrà tosto, sì com’ io concipio;

  e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
  ancor giù tornerai, apri la bocca,
  e non asconder quel ch’io non ascondo».

  Sì come di vapor gelati fiocca
  in giuso l’aere nostro, quando ’l corno
  de la capra del ciel col sol si tocca,

  in sù vid’ io così l’etera addorno
  farsi e fioccar di vapor trïunfanti
  che fatto avien con noi quivi soggiorno.

  Lo viso mio seguiva i suoi sembianti,
  e seguì fin che ’l mezzo, per lo molto,
  li tolse il trapassar del più avanti.

  Onde la donna, che mi vide assolto
  de l’attendere in sù, mi disse: «Adima
  il viso e guarda come tu se’ vòlto».

  Da l’ora ch’ïo avea guardato prima
  i’ vidi mosso me per tutto l’arco
  che fa dal mezzo al fine il primo clima;

  sì ch’io vedea di là da Gade il varco
  folle d’Ulisse, e di qua presso il lito
  nel qual si fece Europa dolce carco.

  E più mi fora discoverto il sito
  di questa aiuola; ma ’l sol procedea
  sotto i mie’ piedi un segno e più partito.

  La mente innamorata, che donnea
  con la mia donna sempre, di ridure
  ad essa li occhi più che mai ardea;

  e se natura o arte fé pasture
  da pigliare occhi, per aver la mente,
  in carne umana o ne le sue pitture,

  tutte adunate, parrebber nïente
  ver’ lo piacer divin che mi refulse,
  quando mi volsi al suo viso ridente.

  E la virtù che lo sguardo m’indulse,
  del bel nido di Leda mi divelse,
  e nel ciel velocissimo m’impulse.

  Le parti sue vivissime ed eccelse
  sì uniforme son, ch’i’ non so dire
  qual Bëatrice per loco mi scelse.

  Ma ella, che vedëa ’l mio disire,
  incominciò, ridendo tanto lieta,
  che Dio parea nel suo volto gioire:

  «La natura del mondo, che quïeta
  il mezzo e tutto l’altro intorno move,
  quinci comincia come da sua meta;

  e questo cielo non ha altro dove
  che la mente divina, in che s’accende
  l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove.

  Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
  sì come questo li altri; e quel precinto
  colui che ’l cinge solamente intende.

  Non è suo moto per altro distinto,
  ma li altri son mensurati da questo,
  sì come diece da mezzo e da quinto;

  e come il tempo tegna in cotal testo
  le sue radici e ne li altri le fronde,
  omai a te può esser manifesto.

  Oh cupidigia che i mortali affonde
  sì sotto te, che nessuno ha podere
  di trarre li occhi fuor de le tue onde!

  Ben fiorisce ne li uomini il volere;
  ma la pioggia continüa converte
  in bozzacchioni le sosine vere.

  Fede e innocenza son reperte
  solo ne’ parvoletti; poi ciascuna
  pria fugge che le guance sian coperte.

  Tale, balbuzïendo ancor, digiuna,
  che poi divora, con la lingua sciolta,
  qualunque cibo per qualunque luna;

  e tal, balbuzïendo, ama e ascolta
  la madre sua, che, con loquela intera,
  disïa poi di vederla sepolta.

  Così si fa la pelle bianca nera
  nel primo aspetto de la bella figlia
  di quel ch’apporta mane e lascia sera.

  Tu, perché non ti facci maraviglia,
  pensa che ’n terra non è chi governi;
  onde sì svïa l’umana famiglia.

  Ma prima che gennaio tutto si sverni
  per la centesma ch’è là giù negletta,
  raggeran sì questi cerchi superni,

  che la fortuna che tanto s’aspetta,
  le poppe volgerà u’ son le prore,
  sì che la classe correrà diretta;

  e vero frutto verrà dopo ’l fiore».



  Paradiso • Canto XXVIII


  Poscia che ’ncontro a la vita presente
  d’i miseri mortali aperse ’l vero
  quella che ’mparadisa la mia mente,

  come in lo specchio fiamma di doppiero
  vede colui che se n’alluma retro,
  prima che l’abbia in vista o in pensiero,

  e sé rivolge per veder se ’l vetro
  li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
  con esso come nota con suo metro;

  così la mia memoria si ricorda
  ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
  onde a pigliarmi fece Amor la corda.

  E com’ io mi rivolsi e furon tocchi
  li miei da ciò che pare in quel volume,
  quandunque nel suo giro ben s’adocchi,

  un punto vidi che raggiava lume
  acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca
  chiuder conviensi per lo forte acume;

  e quale stella par quinci più poca,
  parrebbe luna, locata con esso
  come stella con stella si collòca.

  Forse cotanto quanto pare appresso
  alo cigner la luce che ’l dipigne
  quando ’l vapor che ’l porta più è spesso,

  distante intorno al punto un cerchio d’igne
  si girava sì ratto, ch’avria vinto
  quel moto che più tosto il mondo cigne;

  e questo era d’un altro circumcinto,
  e quel dal terzo, e ’l terzo poi dal quarto,
  dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.

  Sopra seguiva il settimo sì sparto
  già di larghezza, che ’l messo di Iuno
  intero a contenerlo sarebbe arto.

  Così l’ottavo e ’l nono; e chiascheduno
  più tardo si movea, secondo ch’era
  in numero distante più da l’uno;

  e quello avea la fiamma più sincera
  cui men distava la favilla pura,
  credo, però che più di lei s’invera.

  La donna mia, che mi vedëa in cura
  forte sospeso, disse: «Da quel punto
  depende il cielo e tutta la natura.

  Mira quel cerchio che più li è congiunto;
  e sappi che ’l suo muovere è sì tosto
  per l’affocato amore ond’ elli è punto».

  E io a lei: «Se ’l mondo fosse posto
  con l’ordine ch’io veggio in quelle rote,
  sazio m’avrebbe ciò che m’è proposto;

  ma nel mondo sensibile si puote
  veder le volte tanto più divine,
  quant’ elle son dal centro più remote.

  Onde, se ’l mio disir dee aver fine
  in questo miro e angelico templo
  che solo amore e luce ha per confine,

  udir convienmi ancor come l’essemplo
  e l’essemplare non vanno d’un modo,
  ché io per me indarno a ciò contemplo».

  «Se li tuoi diti non sono a tal nodo
  sufficïenti, non è maraviglia:
  tanto, per non tentare, è fatto sodo!».

  Così la donna mia; poi disse: «Piglia
  quel ch’io ti dicerò, se vuo’ saziarti;
  e intorno da esso t’assottiglia.

  Li cerchi corporai sono ampi e arti
  secondo il più e ’l men de la virtute
  che si distende per tutte lor parti.

  Maggior bontà vuol far maggior salute;
  maggior salute maggior corpo cape,
  s’elli ha le parti igualmente compiute.

  Dunque costui che tutto quanto rape
  l’altro universo seco, corrisponde
  al cerchio che più ama e che più sape:

  per che, se tu a la virtù circonde
  la tua misura, non a la parvenza
  de le sustanze che t’appaion tonde,

  tu vederai mirabil consequenza
  di maggio a più e di minore a meno,
  in ciascun cielo, a süa intelligenza».

  Come rimane splendido e sereno
  l’emisperio de l’aere, quando soffia
  Borea da quella guancia ond’ è più leno,

  per che si purga e risolve la roffia
  che pria turbava, sì che ’l ciel ne ride
  con le bellezze d’ogne sua paroffia;

  così fec’ïo, poi che mi provide
  la donna mia del suo risponder chiaro,
  e come stella in cielo il ver si vide.

  E poi che le parole sue restaro,
  non altrimenti ferro disfavilla
  che bolle, come i cerchi sfavillaro.

  L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
  ed eran tante, che ’l numero loro
  più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla.

  Io sentiva osannar di coro in coro
  al punto fisso che li tiene a li ubi,
  e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro.

  E quella che vedëa i pensier dubi
  ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
  t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.

  Così veloci seguono i suoi vimi,
  per somigliarsi al punto quanto ponno;
  e posson quanto a veder son soblimi.

  Quelli altri amori che ’ntorno li vonno,
  si chiaman Troni del divino aspetto,
  per che ’l primo ternaro terminonno;

  e dei saper che tutti hanno diletto
  quanto la sua veduta si profonda
  nel vero in che si queta ogne intelletto.

  Quinci si può veder come si fonda
  l’esser beato ne l’atto che vede,
  non in quel ch’ama, che poscia seconda;

  e del vedere è misura mercede,
  che grazia partorisce e buona voglia:
  così di grado in grado si procede.

  L’altro ternaro, che così germoglia
  in questa primavera sempiterna
  che notturno Arïete non dispoglia,

  perpetüalemente ‘Osanna’ sberna
  con tre melode, che suonano in tree
  ordini di letizia onde s’interna.

  In essa gerarcia son l’altre dee:
  prima Dominazioni, e poi Virtudi;
  l’ordine terzo di Podestadi èe.

  Poscia ne’ due penultimi tripudi
  Principati e Arcangeli si girano;
  l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.

  Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
  e di giù vincon sì, che verso Dio
  tutti tirati sono e tutti tirano.

  E Dïonisio con tanto disio
  a contemplar questi ordini si mise,
  che li nomò e distinse com’ io.

  Ma Gregorio da lui poi si divise;
  onde, sì tosto come li occhi aperse
  in questo ciel, di sé medesmo rise.

  E se tanto secreto ver proferse
  mortale in terra, non voglio ch’ammiri:
  ché chi ’l vide qua sù gliel discoperse

  con altro assai del ver di questi giri».



  Paradiso • Canto XXIX


  Quando ambedue li figli di Latona,
  coperti del Montone e de la Libra,
  fanno de l’orizzonte insieme zona,

  quant’ è dal punto che ’l cenìt inlibra
  infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
  cambiando l’emisperio, si dilibra,

  tanto, col volto di riso dipinto,
  si tacque Bëatrice, riguardando
  fiso nel punto che m’avëa vinto.

  Poi cominciò: «Io dico, e non dimando,
  quel che tu vuoli udir, perch’ io l’ho visto
  là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando.

  Non per aver a sé di bene acquisto,
  ch’esser non può, ma perché suo splendore
  potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,

  in sua etternità di tempo fore,
  fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
  s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.

  Né prima quasi torpente si giacque;
  ché né prima né poscia procedette
  lo discorrer di Dio sovra quest’ acque.

  Forma e materia, congiunte e purette,
  usciro ad esser che non avia fallo,
  come d’arco tricordo tre saette.

  E come in vetro, in ambra o in cristallo
  raggio resplende sì, che dal venire
  a l’esser tutto non è intervallo,

  così ’l triforme effetto del suo sire
  ne l’esser suo raggiò insieme tutto
  sanza distinzïone in essordire.

  Concreato fu ordine e costrutto
  a le sustanze; e quelle furon cima
  nel mondo in che puro atto fu produtto;

  pura potenza tenne la parte ima;
  nel mezzo strinse potenza con atto
  tal vime, che già mai non si divima.

  Ieronimo vi scrisse lungo tratto
  di secoli de li angeli creati
  anzi che l’altro mondo fosse fatto;

  ma questo vero è scritto in molti lati
  da li scrittor de lo Spirito Santo,
  e tu te n’avvedrai se bene agguati;

  e anche la ragione il vede alquanto,
  che non concederebbe che ’ motori
  sanza sua perfezion fosser cotanto.

  Or sai tu dove e quando questi amori
  furon creati e come: sì che spenti
  nel tuo disïo già son tre ardori.

  Né giugneriesi, numerando, al venti
  sì tosto, come de li angeli parte
  turbò il suggetto d’i vostri alimenti.

  L’altra rimase, e cominciò quest’ arte
  che tu discerni, con tanto diletto,
  che mai da circüir non si diparte.

  Principio del cader fu il maladetto
  superbir di colui che tu vedesti
  da tutti i pesi del mondo costretto.

  Quelli che vedi qui furon modesti
  a riconoscer sé da la bontate
  che li avea fatti a tanto intender presti:

  per che le viste lor furo essaltate
  con grazia illuminante e con lor merto,
  si c’hanno ferma e piena volontate;

  e non voglio che dubbi, ma sia certo,
  che ricever la grazia è meritorio
  secondo che l’affetto l’è aperto.

  Omai dintorno a questo consistorio
  puoi contemplare assai, se le parole
  mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.

  Ma perché ’n terra per le vostre scole
  si legge che l’angelica natura
  è tal, che ’ntende e si ricorda e vole,

  ancor dirò, perché tu veggi pura
  la verità che là giù si confonde,
  equivocando in sì fatta lettura.

  Queste sustanze, poi che fur gioconde
  de la faccia di Dio, non volser viso
  da essa, da cui nulla si nasconde:

  però non hanno vedere interciso
  da novo obietto, e però non bisogna
  rememorar per concetto diviso;

  sì che là giù, non dormendo, si sogna,
  credendo e non credendo dicer vero;
  ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.

  Voi non andate giù per un sentiero
  filosofando: tanto vi trasporta
  l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero!

  E ancor questo qua sù si comporta
  con men disdegno che quando è posposta
  la divina Scrittura o quando è torta.

  Non vi si pensa quanto sangue costa
  seminarla nel mondo e quanto piace
  chi umilmente con essa s’accosta.

  Per apparer ciascun s’ingegna e face
  sue invenzioni; e quelle son trascorse
  da’ predicanti e ’l Vangelio si tace.

  Un dice che la luna si ritorse
  ne la passion di Cristo e s’interpuose,
  per che ’l lume del sol giù non si porse;

  e mente, ché la luce si nascose
  da sé: però a li Spani e a l’Indi
  come a’ Giudei tale eclissi rispuose.

  Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi
  quante sì fatte favole per anno
  in pergamo si gridan quinci e quindi:

  sì che le pecorelle, che non sanno,
  tornan del pasco pasciute di vento,
  e non le scusa non veder lo danno.

  Non disse Cristo al suo primo convento:
  ‘Andate, e predicate al mondo ciance’;
  ma diede lor verace fondamento;

  e quel tanto sonò ne le sue guance,
  sì ch’a pugnar per accender la fede
  de l’Evangelio fero scudo e lance.

  Ora si va con motti e con iscede
  a predicare, e pur che ben si rida,
  gonfia il cappuccio e più non si richiede.

  Ma tale uccel nel becchetto s’annida,
  che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe
  la perdonanza di ch’el si confida:

  per cui tanta stoltezza in terra crebbe,
  che, sanza prova d’alcun testimonio,
  ad ogne promession si correrebbe.

  Di questo ingrassa il porco sant’ Antonio,
  e altri assai che sono ancor più porci,
  pagando di moneta sanza conio.

  Ma perché siam digressi assai, ritorci
  li occhi oramai verso la dritta strada,
  sì che la via col tempo si raccorci.

  Questa natura sì oltre s’ingrada
  in numero, che mai non fu loquela
  né concetto mortal che tanto vada;

  e se tu guardi quel che si revela
  per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia
  determinato numero si cela.

  La prima luce, che tutta la raia,
  per tanti modi in essa si recepe,
  quanti son li splendori a chi s’appaia.

  Onde, però che a l’atto che concepe
  segue l’affetto, d’amar la dolcezza
  diversamente in essa ferve e tepe.

  Vedi l’eccelso omai e la larghezza
  de l’etterno valor, poscia che tanti
  speculi fatti s’ha in che si spezza,

  uno manendo in sé come davanti».



  Paradiso • Canto XXX


  Forse semilia miglia di lontano
  ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
  china già l’ombra quasi al letto piano,

  quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
  comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
  perde il parere infino a questo fondo;

  e come vien la chiarissima ancella
  del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
  di vista in vista infino a la più bella.

  Non altrimenti il trïunfo che lude
  sempre dintorno al punto che mi vinse,
  parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,

  a poco a poco al mio veder si stinse:
  per che tornar con li occhi a Bëatrice
  nulla vedere e amor mi costrinse.

  Se quanto infino a qui di lei si dice
  fosse conchiuso tutto in una loda,
  poca sarebbe a fornir questa vice.

  La bellezza ch’io vidi si trasmoda
  non pur di là da noi, ma certo io credo
  che solo il suo fattor tutta la goda.

  Da questo passo vinto mi concedo
  più che già mai da punto di suo tema
  soprato fosse comico o tragedo:

  ché, come sole in viso che più trema,
  così lo rimembrar del dolce riso
  la mente mia da me medesmo scema.

  Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
  in questa vita, infino a questa vista,
  non m’è il seguire al mio cantar preciso;

  ma or convien che mio seguir desista
  più dietro a sua bellezza, poetando,
  come a l’ultimo suo ciascuno artista.

  Cotal qual io lascio a maggior bando
  che quel de la mia tuba, che deduce
  l’ardüa sua matera terminando,

  con atto e voce di spedito duce
  ricominciò: «Noi siamo usciti fore
  del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:

  luce intellettüal, piena d’amore;
  amor di vero ben, pien di letizia;
  letizia che trascende ogne dolzore.

  Qui vederai l’una e l’altra milizia
  di paradiso, e l’una in quelli aspetti
  che tu vedrai a l’ultima giustizia».

  Come sùbito lampo che discetti
  li spiriti visivi, sì che priva
  da l’atto l’occhio di più forti obietti,

  così mi circunfulse luce viva,
  e lasciommi fasciato di tal velo
  del suo fulgor, che nulla m’appariva.

  «Sempre l’amor che queta questo cielo
  accoglie in sé con sì fatta salute,
  per far disposto a sua fiamma il candelo».

  Non fur più tosto dentro a me venute
  queste parole brievi, ch’io compresi
  me sormontar di sopr’ a mia virtute;

  e di novella vista mi raccesi
  tale, che nulla luce è tanto mera,
  che li occhi miei non si fosser difesi;

  e vidi lume in forma di rivera
  fulvido di fulgore, intra due rive
  dipinte di mirabil primavera.

  Di tal fiumana uscian faville vive,
  e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
  quasi rubin che oro circunscrive;

  poi, come inebrïate da li odori,
  riprofondavan sé nel miro gurge,
  e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

  «L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
  d’aver notizia di ciò che tu vei,
  tanto mi piace più quanto più turge;

  ma di quest’ acqua convien che tu bei
  prima che tanta sete in te si sazi»:
  così mi disse il sol de li occhi miei.

  Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
  ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
  son di lor vero umbriferi prefazi.

  Non che da sé sian queste cose acerbe;
  ma è difetto da la parte tua,
  che non hai viste ancor tanto superbe».

  Non è fantin che sì sùbito rua
  col volto verso il latte, se si svegli
  molto tardato da l’usanza sua,

  come fec’ io, per far migliori spegli
  ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
  che si deriva perché vi s’immegli;

  e sì come di lei bevve la gronda
  de le palpebre mie, così mi parve
  di sua lunghezza divenuta tonda.

  Poi, come gente stata sotto larve,
  che pare altro che prima, se si sveste
  la sembianza non süa in che disparve,

  così mi si cambiaro in maggior feste
  li fiori e le faville, sì ch’io vidi
  ambo le corti del ciel manifeste.

  O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
  l’alto trïunfo del regno verace,
  dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!

  Lume è là sù che visibile face
  lo creatore a quella creatura
  che solo in lui vedere ha la sua pace.

  E’ si distende in circular figura,
  in tanto che la sua circunferenza
  sarebbe al sol troppo larga cintura.

  Fassi di raggio tutta sua parvenza
  reflesso al sommo del mobile primo,
  che prende quindi vivere e potenza.

  E come clivo in acqua di suo imo
  si specchia, quasi per vedersi addorno,
  quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,

  sì, soprastando al lume intorno intorno,
  vidi specchiarsi in più di mille soglie
  quanto di noi là sù fatto ha ritorno.

  E se l’infimo grado in sé raccoglie
  sì grande lume, quanta è la larghezza
  di questa rosa ne l’estreme foglie!

  La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
  non si smarriva, ma tutto prendeva
  il quanto e ’l quale di quella allegrezza.

  Presso e lontano, lì, né pon né leva:
  ché dove Dio sanza mezzo governa,
  la legge natural nulla rileva.

  Nel giallo de la rosa sempiterna,
  che si digrada e dilata e redole
  odor di lode al sol che sempre verna,

  qual è colui che tace e dicer vole,
  mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
  quanto è ’l convento de le bianche stole!

  Vedi nostra città quant’ ella gira;
  vedi li nostri scanni sì ripieni,
  che poca gente più ci si disira.

  E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
  per la corona che già v’è sù posta,
  prima che tu a queste nozze ceni,

  sederà l’alma, che fia giù agosta,
  de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
  verrà in prima ch’ella sia disposta.

  La cieca cupidigia che v’ammalia
  simili fatti v’ha al fantolino
  che muor per fame e caccia via la balia.

  E fia prefetto nel foro divino
  allora tal, che palese e coverto
  non anderà con lui per un cammino.

  Ma poco poi sarà da Dio sofferto
  nel santo officio; ch’el sarà detruso
  là dove Simon mago è per suo merto,

  e farà quel d’Alagna intrar più giuso».



  Paradiso • Canto XXXI


  In forma dunque di candida rosa
  mi si mostrava la milizia santa
  che nel suo sangue Cristo fece sposa;

  ma l’altra, che volando vede e canta
  la gloria di colui che la ’nnamora
  e la bontà che la fece cotanta,

  sì come schiera d’ape che s’infiora
  una fïata e una si ritorna
  là dove suo laboro s’insapora,

  nel gran fior discendeva che s’addorna
  di tante foglie, e quindi risaliva
  là dove ’l süo amor sempre soggiorna.

  Le facce tutte avean di fiamma viva
  e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco,
  che nulla neve a quel termine arriva.

  Quando scendean nel fior, di banco in banco
  porgevan de la pace e de l’ardore
  ch’elli acquistavan ventilando il fianco.

  Né l’interporsi tra ’l disopra e ’l fiore
  di tanta moltitudine volante
  impediva la vista e lo splendore:

  ché la luce divina è penetrante
  per l’universo secondo ch’è degno,
  sì che nulla le puote essere ostante.

  Questo sicuro e gaudïoso regno,
  frequente in gente antica e in novella,
  viso e amore avea tutto ad un segno.

  O trina luce che ’n unica stella
  scintillando a lor vista, sì li appaga!
  guarda qua giuso a la nostra procella!

  Se i barbari, venendo da tal plaga
  che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
  rotante col suo figlio ond’ ella è vaga,

  veggendo Roma e l’ardüa sua opra,
  stupefaciensi, quando Laterano
  a le cose mortali andò di sopra;

  ïo, che al divino da l’umano,
  a l’etterno dal tempo era venuto,
  e di Fiorenza in popol giusto e sano,

  di che stupor dovea esser compiuto!
  Certo tra esso e ’l gaudio mi facea
  libito non udire e starmi muto.

  E quasi peregrin che si ricrea
  nel tempio del suo voto riguardando,
  e spera già ridir com’ ello stea,

  su per la viva luce passeggiando,
  menava ïo li occhi per li gradi,
  mo sù, mo giù e mo recirculando.

  Vedëa visi a carità süadi,
  d’altrui lume fregiati e di suo riso,
  e atti ornati di tutte onestadi.

  La forma general di paradiso
  già tutta mïo sguardo avea compresa,
  in nulla parte ancor fermato fiso;

  e volgeami con voglia rïaccesa
  per domandar la mia donna di cose
  di che la mente mia era sospesa.

  Uno intendëa, e altro mi rispuose:
  credea veder Beatrice e vidi un sene
  vestito con le genti glorïose.

  Diffuso era per li occhi e per le gene
  di benigna letizia, in atto pio
  quale a tenero padre si convene.

  E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
  Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
  mosse Beatrice me del loco mio;

  e se riguardi sù nel terzo giro
  dal sommo grado, tu la rivedrai
  nel trono che suoi merti le sortiro».

  Sanza risponder, li occhi sù levai,
  e vidi lei che si facea corona
  reflettendo da sé li etterni rai.

  Da quella regïon che più sù tona
  occhio mortale alcun tanto non dista,
  qualunque in mare più giù s’abbandona,

  quanto lì da Beatrice la mia vista;
  ma nulla mi facea, ché süa effige
  non discendëa a me per mezzo mista.

  «O donna in cui la mia speranza vige,
  e che soffristi per la mia salute
  in inferno lasciar le tue vestige,

  di tante cose quant’ i’ ho vedute,
  dal tuo podere e da la tua bontate
  riconosco la grazia e la virtute.

  Tu m’hai di servo tratto a libertate
  per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
  che di ciò fare avei la potestate.

  La tua magnificenza in me custodi,
  sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
  piacente a te dal corpo si disnodi».

  Così orai; e quella, sì lontana
  come parea, sorrise e riguardommi;
  poi si tornò a l’etterna fontana.

  E ’l santo sene: «Acciò che tu assommi
  perfettamente», disse, «il tuo cammino,
  a che priego e amor santo mandommi,

  vola con li occhi per questo giardino;
  ché veder lui t’acconcerà lo sguardo
  più al montar per lo raggio divino.

  E la regina del cielo, ond’ ïo ardo
  tutto d’amor, ne farà ogne grazia,
  però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo».

  Qual è colui che forse di Croazia
  viene a veder la Veronica nostra,
  che per l’antica fame non sen sazia,

  ma dice nel pensier, fin che si mostra:
  ‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
  or fu sì fatta la sembianza vostra?’;

  tal era io mirando la vivace
  carità di colui che ’n questo mondo,
  contemplando, gustò di quella pace.

  «Figliuol di grazia, quest’ esser giocondo»,
  cominciò elli, «non ti sarà noto,
  tenendo li occhi pur qua giù al fondo;

  ma guarda i cerchi infino al più remoto,
  tanto che veggi seder la regina
  cui questo regno è suddito e devoto».

  Io levai li occhi; e come da mattina
  la parte orïental de l’orizzonte
  soverchia quella dove ’l sol declina,

  così, quasi di valle andando a monte
  con li occhi, vidi parte ne lo stremo
  vincer di lume tutta l’altra fronte.

  E come quivi ove s’aspetta il temo
  che mal guidò Fetonte, più s’infiamma,
  e quinci e quindi il lume si fa scemo,

  così quella pacifica oriafiamma
  nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte
  per igual modo allentava la fiamma;

  e a quel mezzo, con le penne sparte,
  vid’ io più di mille angeli festanti,
  ciascun distinto di fulgore e d’arte.

  Vidi a lor giochi quivi e a lor canti
  ridere una bellezza, che letizia
  era ne li occhi a tutti li altri santi;

  e s’io avessi in dir tanta divizia
  quanta ad imaginar, non ardirei
  lo minimo tentar di sua delizia.

  Bernardo, come vide li occhi miei
  nel caldo suo caler fissi e attenti,
  li suoi con tanto affetto volse a lei,

  che ’ miei di rimirar fé più ardenti.



  Paradiso • Canto XXXII


  Affetto al suo piacer, quel contemplante
  libero officio di dottore assunse,
  e cominciò queste parole sante:

  «La piaga che Maria richiuse e unse,
  quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi
  è colei che l’aperse e che la punse.

  Ne l’ordine che fanno i terzi sedi,
  siede Rachel di sotto da costei
  con Bëatrice, sì come tu vedi.

  Sarra e Rebecca, Iudìt e colei
  che fu bisava al cantor che per doglia
  del fallo disse ‘Miserere mei’,

  puoi tu veder così di soglia in soglia
  giù digradar, com’ io ch’a proprio nome
  vo per la rosa giù di foglia in foglia.

  E dal settimo grado in giù, sì come
  infino ad esso, succedono Ebree,
  dirimendo del fior tutte le chiome;

  perché, secondo lo sguardo che fée
  la fede in Cristo, queste sono il muro
  a che si parton le sacre scalee.

  Da questa parte onde ’l fiore è maturo
  di tutte le sue foglie, sono assisi
  quei che credettero in Cristo venturo;

  da l’altra parte onde sono intercisi
  di vòti i semicirculi, si stanno
  quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.

  E come quinci il glorïoso scanno
  de la donna del cielo e li altri scanni
  di sotto lui cotanta cerna fanno,

  così di contra quel del gran Giovanni,
  che sempre santo ’l diserto e ’l martiro
  sofferse, e poi l’inferno da due anni;

  e sotto lui così cerner sortiro
  Francesco, Benedetto e Augustino
  e altri fin qua giù di giro in giro.

  Or mira l’alto proveder divino:
  ché l’uno e l’altro aspetto de la fede
  igualmente empierà questo giardino.

  E sappi che dal grado in giù che fiede
  a mezzo il tratto le due discrezioni,
  per nullo proprio merito si siede,

  ma per l’altrui, con certe condizioni:
  ché tutti questi son spiriti ascolti
  prima ch’avesser vere elezïoni.

  Ben te ne puoi accorger per li volti
  e anche per le voci püerili,
  se tu li guardi bene e se li ascolti.

  Or dubbi tu e dubitando sili;
  ma io discioglierò ’l forte legame
  in che ti stringon li pensier sottili.

  Dentro a l’ampiezza di questo reame
  casüal punto non puote aver sito,
  se non come tristizia o sete o fame:

  ché per etterna legge è stabilito
  quantunque vedi, sì che giustamente
  ci si risponde da l’anello al dito;

  e però questa festinata gente
  a vera vita non è sine causa
  intra sé qui più e meno eccellente.

  Lo rege per cui questo regno pausa
  in tanto amore e in tanto diletto,
  che nulla volontà è di più ausa,

  le menti tutte nel suo lieto aspetto
  creando, a suo piacer di grazia dota
  diversamente; e qui basti l’effetto.

  E ciò espresso e chiaro vi si nota
  ne la Scrittura santa in quei gemelli
  che ne la madre ebber l’ira commota.

  Però, secondo il color d’i capelli,
  di cotal grazia l’altissimo lume
  degnamente convien che s’incappelli.

  Dunque, sanza mercé di lor costume,
  locati son per gradi differenti,
  sol differendo nel primiero acume.

  Bastavasi ne’ secoli recenti
  con l’innocenza, per aver salute,
  solamente la fede d’i parenti;

  poi che le prime etadi fuor compiute,
  convenne ai maschi a l’innocenti penne
  per circuncidere acquistar virtute;

  ma poi che ’l tempo de la grazia venne,
  sanza battesmo perfetto di Cristo
  tale innocenza là giù si ritenne.

  Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
  più si somiglia, ché la sua chiarezza
  sola ti può disporre a veder Cristo».

  Io vidi sopra lei tanta allegrezza
  piover, portata ne le menti sante
  create a trasvolar per quella altezza,

  che quantunque io avea visto davante,
  di tanta ammirazion non mi sospese,
  né mi mostrò di Dio tanto sembiante;

  e quello amor che primo lì discese,
  cantando ‘Ave, Maria, gratïa plena’,
  dinanzi a lei le sue ali distese.

  Rispuose a la divina cantilena
  da tutte parti la beata corte,
  sì ch’ogne vista sen fé più serena.

  «O santo padre, che per me comporte
  l’esser qua giù, lasciando il dolce loco
  nel qual tu siedi per etterna sorte,

  qual è quell’ angel che con tanto gioco
  guarda ne li occhi la nostra regina,
  innamorato sì che par di foco?».

  Così ricorsi ancora a la dottrina
  di colui ch’abbelliva di Maria,
  come del sole stella mattutina.

  Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria
  quant’ esser puote in angelo e in alma,
  tutta è in lui; e sì volem che sia,

  perch’ elli è quelli che portò la palma
  giuso a Maria, quando ’l Figliuol di Dio
  carcar si volse de la nostra salma.

  Ma vieni omai con li occhi sì com’ io
  andrò parlando, e nota i gran patrici
  di questo imperio giustissimo e pio.

  Quei due che seggon là sù più felici
  per esser propinquissimi ad Agusta,
  son d’esta rosa quasi due radici:

  colui che da sinistra le s’aggiusta
  è il padre per lo cui ardito gusto
  l’umana specie tanto amaro gusta;

  dal destro vedi quel padre vetusto
  di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi
  raccomandò di questo fior venusto.

  E quei che vide tutti i tempi gravi,
  pria che morisse, de la bella sposa
  che s’acquistò con la lancia e coi clavi,

  siede lungh’ esso, e lungo l’altro posa
  quel duca sotto cui visse di manna
  la gente ingrata, mobile e retrosa.

  Di contr’ a Pietro vedi sedere Anna,
  tanto contenta di mirar sua figlia,
  che non move occhio per cantare osanna;

  e contro al maggior padre di famiglia
  siede Lucia, che mosse la tua donna
  quando chinavi, a rovinar, le ciglia.

  Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna,
  qui farem punto, come buon sartore
  che com’ elli ha del panno fa la gonna;

  e drizzeremo li occhi al primo amore,
  sì che, guardando verso lui, penètri
  quant’ è possibil per lo suo fulgore.

  Veramente, ne forse tu t’arretri
  movendo l’ali tue, credendo oltrarti,
  orando grazia conven che s’impetri

  grazia da quella che puote aiutarti;
  e tu mi seguirai con l’affezione,
  sì che dal dicer mio lo cor non parti».

  E cominciò questa santa orazione:



  Paradiso • Canto XXXIII


  «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
  umile e alta più che creatura,
  termine fisso d’etterno consiglio,

  tu se’ colei che l’umana natura
  nobilitasti sì, che ’l suo fattore
  non disdegnò di farsi sua fattura.

  Nel ventre tuo si raccese l’amore,
  per lo cui caldo ne l’etterna pace
  così è germinato questo fiore.

  Qui se’ a noi meridïana face
  di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
  se’ di speranza fontana vivace.

  Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
  che qual vuol grazia e a te non ricorre,
  sua disïanza vuol volar sanz’ ali.

  La tua benignità non pur soccorre
  a chi domanda, ma molte fïate
  liberamente al dimandar precorre.

  In te misericordia, in te pietate,
  in te magnificenza, in te s’aduna
  quantunque in creatura è di bontate.

  Or questi, che da l’infima lacuna
  de l’universo infin qui ha vedute
  le vite spiritali ad una ad una,

  supplica a te, per grazia, di virtute
  tanto, che possa con li occhi levarsi
  più alto verso l’ultima salute.

  E io, che mai per mio veder non arsi
  più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
  ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

  perché tu ogne nube li disleghi
  di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
  sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.

  Ancor ti priego, regina, che puoi
  ciò che tu vuoli, che conservi sani,
  dopo tanto veder, li affetti suoi.

  Vinca tua guardia i movimenti umani:
  vedi Beatrice con quanti beati
  per li miei prieghi ti chiudon le mani!».

  Li occhi da Dio diletti e venerati,
  fissi ne l’orator, ne dimostraro
  quanto i devoti prieghi le son grati;

  indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
  nel qual non si dee creder che s’invii
  per creatura l’occhio tanto chiaro.

  E io ch’al fine di tutt’ i disii
  appropinquava, sì com’ io dovea,
  l’ardor del desiderio in me finii.

  Bernardo m’accennava, e sorridea,
  perch’ io guardassi suso; ma io era
  già per me stesso tal qual ei volea:

  ché la mia vista, venendo sincera,
  e più e più intrava per lo raggio
  de l’alta luce che da sé è vera.

  Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
  che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
  e cede la memoria a tanto oltraggio.

  Qual è colüi che sognando vede,
  che dopo ’l sogno la passione impressa
  rimane, e l’altro a la mente non riede,

  cotal son io, ché quasi tutta cessa
  mia visïone, e ancor mi distilla
  nel core il dolce che nacque da essa.

  Così la neve al sol si disigilla;
  così al vento ne le foglie levi
  si perdea la sentenza di Sibilla.

  O somma luce che tanto ti levi
  da’ concetti mortali, a la mia mente
  ripresta un poco di quel che parevi,

  e fa la lingua mia tanto possente,
  ch’una favilla sol de la tua gloria
  possa lasciare a la futura gente;

  ché, per tornare alquanto a mia memoria
  e per sonare un poco in questi versi,
  più si conceperà di tua vittoria.

  Io credo, per l’acume ch’io soffersi
  del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
  se li occhi miei da lui fossero aversi.

  E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
  per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
  l’aspetto mio col valore infinito.

  Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
  ficcar lo viso per la luce etterna,
  tanto che la veduta vi consunsi!

  Nel suo profondo vidi che s’interna,
  legato con amore in un volume,
  ciò che per l’universo si squaderna:

  sustanze e accidenti e lor costume
  quasi conflati insieme, per tal modo
  che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

  La forma universal di questo nodo
  credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
  dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

  Un punto solo m’è maggior letargo
  che venticinque secoli a la ’mpresa
  che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

  Così la mente mia, tutta sospesa,
  mirava fissa, immobile e attenta,
  e sempre di mirar faceasi accesa.

  A quella luce cotal si diventa,
  che volgersi da lei per altro aspetto
  è impossibil che mai si consenta;

  però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
  tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
  è defettivo ciò ch’è lì perfetto.

  Omai sarà più corta mia favella,
  pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
  che bagni ancor la lingua a la mammella.

  Non perché più ch’un semplice sembiante
  fosse nel vivo lume ch’io mirava,
  che tal è sempre qual s’era davante;

  ma per la vista che s’avvalorava
  in me guardando, una sola parvenza,
  mutandom’ io, a me si travagliava.

  Ne la profonda e chiara sussistenza
  de l’alto lume parvermi tre giri
  di tre colori e d’una contenenza;

  e l’un da l’altro come iri da iri
  parea reflesso, e ’l terzo parea foco
  che quinci e quindi igualmente si spiri.

  Oh quanto è corto il dire e come fioco
  al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
  è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.

  O luce etterna che sola in te sidi,
  sola t’intendi, e da te intelletta
  e intendente te ami e arridi!

  Quella circulazion che sì concetta
  pareva in te come lume reflesso,
  da li occhi miei alquanto circunspetta,

  dentro da sé, del suo colore stesso,
  mi parve pinta de la nostra effige:
  per che ’l mio viso in lei tutto era messo.

  Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
  per misurar lo cerchio, e non ritrova,
  pensando, quel principio ond’ elli indige,

  tal era io a quella vista nova:
  veder voleva come si convenne
  l’imago al cerchio e come vi s’indova;

  ma non eran da ciò le proprie penne:
  se non che la mia mente fu percossa
  da un fulgore in che sua voglia venne.

  A l’alta fantasia qui mancò possa;
  ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
  sì come rota ch’igualmente è mossa,

  l’amor che move il sole e l’altre stelle.



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  TAVOLA DEI CARATTERI SPECIALI
  TABLE OF SPECIAL CHARACTERS

      à = a grave
      è = e grave
      ì = i grave
      ò = o grave
      ù = u grave

      é = e acute
      ó = o acute

      ä = a uml
      ë = e uml
      ï = i uml
      ö = o uml
      ü = u uml

      È = E grave
      Ë = E uml
      Ï = I uml

      « = left angle quotation mark
      » = right angle quotation mark

      “ = left double quotation mark
      ” = right double quotation mark

      ‘ = left single quotation mark
      ’ = right single quotation mark

      — = em dash

      • = middot

  . . . = ellipsis





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