Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1/9
Author: Giannone, Pietro
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1/9" ***


                             ISTORIA CIVILE
                                  DEL
                            REGNO DI NAPOLI


                                   DI
                            PIETRO GIANNONE


                              VOLUME PRIMO



                                 MILANO
                           PER NICOLÒ BETTONI
                               M.DCCC.XXI



                     AL POTENTISSIMO E FELICISSIMO

                                PRINCIPE

                           CARLO VI IL GRANDE

                 DA DIO CORONATO IMPERADORE DE' ROMANI
          RE DI GERMANIA, DELLE SPAGNE, DI NAPOLI, D'UNGHERIA
                       DI BOEMIA, DI SICILIA, EC.


_Avventurosa, e non men di queste Province fortunata deggio reputar
io l'_Istoria Civile del Regno di Napoli_, che ora umilmente, e
coll'animo, il più ch'io possa, riverente e divoto alla _CESAREA E
CATTOLICA MAESTÀ VOSTRA_ presento; non sol tanto per aver ella la
sorte d'uscire alla luce del Mondo sotto un Principe non meno eccelso e
poderoso, che magnanimo e benigno; e di così rara e maravigliosa bontà,
ch'essendo le sue grandezze maggiori della fama, non isdegna di prender
in grado le più basse ed umili cose, allorchè da ossequiosa mano
se gli porgono in dono; ma ancora per esser venuta a terminarsi ne'
vostri innumerabili e segnalati beneficj, de' quali avete colmo questo
Regno, e nelle vostre sublimi e gloriose azioni, di cui avete riempiuto
il Mondo tutto; onde la beneficenza, e la fama di tutti gli altri
Principi, che lo dominarono, di gran lunga sopravanzando, lo splendore
stesso de' vostri Augusti Antecessori avete certamente oscurato._

_Se mai, per effetto di vostra natural cortesia, tra la moltitudine
delle occupazioni gravissime, che nel governamento di sì numerose
Province, ed ampj Regni, onde il vostro grande Imperio si compone,
tengono debitamente la divina vostra mente occupata, dall'altezza
del supremo grado delle mondane cose, dove non men per retaggio de'
vostri Maggiori, che per vostri meriti e virtù siete elevato, degnerà
la Maestà Vostra abbassar l'occhio a riguardare ciò, che 'n questa
Istoria si narra, per lo corso di presso a quindici secoli; potrà
quindi chiaramente comprendere, non pur questo suo fedelissimo Regno,
per dignità e per grandezza, non cedere a quanti ora ubbidiscono
al suo gran nome; ma, che sotto tanti e sì varj Principi di nazioni
diverse, onde e' fu dominato, dopo tanti, e sì varj cambiamenti del suo
governo civile, veduto mai non fu nella più alta ventura, ed in tanta
tranquillità e splendore, come ora, che riposa sotto il di Lei giusto
e clementissimo dominio._

_Nello scadimento del Romano Impero, sotto quegli ultimi Cesari, fu da
straniere nazioni miseramente combattuto ed afflitto. I Longobardi,
pugnando co' Greci e co' Normanni, e sovente tra lor medesimi, il
renderon teatro miserabile di guerre e di rapine. Gli Svevi l'avrebbon
certamente rilevato, se non fosse lor convenuto, quasi sempre
colle armi in mano, dalle altrui intraprese coprirlo e difenderlo.
Gli Angioini, che dal favore de' Romani Pontefici ne riconobbero
l'acquisto, il posero in mille soggezioni e servitù; e dopo la morte
dell'inclito Re Roberto, essendo caduto sotto la dominazione di
femmine, e tra le competenze di più Reali di quella stirpe, da più
parti combattuto, streme miserie ebbe a sofferire. Fu poi dal magnanimo
Alfonso Re d'Aragona restituito nel suo antico lustro; ma avendolo
in morte separato dagli altri suoi paterni Regni, e lasciatolo a
Ferdinando suo natural figliuolo, non tanto sotto costui, quanto sotto
i suoi discendenti, ritornò nelle primiere calamità e disordini. Il
savio Re Ferdinando il Cattolico restaurollo dalle passate sciagure,
e sotto l'imperio del vostro gran Zio, dell'invitto e glorioso Carlo
V, videsi portato anche a maggior fortuna. Ma Filippo II di lui
figliuolo, abbagliato da altre sue vastissime idee, poco ne curò la
dechinazione, e molto meno i suoi discendenti. Ma essendosi a' nostri
felicissimi tempi avventurosamente restituito sotto il vostro alto e
potente imperio, a tanta grandezza con la vostra benefica mano l'avete
sollevato là dove non fu veduto giammai. Stolta cosa mi parrebbe a
dover credere, che i vostri immensi beneficj a quelli degli altri Re
vostri predecessori comparar si potessero. Voi spinto dalla fedeltà
e dall'amore de' nostri cuori, e più dalla grandezza e generosità del
proprio, che non saprebbe donare, senza arricchire; non pur l'antiche
degnaste di confermare, ma di nuove e copiosissime grazie, e tutte
considerabili fregiarne. Onoraste la città nostra, e i suoi Eletti,
di nuovi e più ragguardevoli titoli. Antiponeste i nativi del Regno
nelle cariche, beneficj, e negli uffizj, escludendone i forestieri.
Severamente vietaste, non più per utile del vostro erario, che de'
vostri sudditi l'alienazione de' fondi dell'entrate regali. Imponeste,
che per niun modo nelle cause appartenenti alla nostra S. Fede
procedessero, se non gli Arcivescovi e gli altri Ordinarj di questo
Regno, come Ordinarj, e con la via ordinaria che si pratica negli altri
delitti, e cause criminali ecclesiastiche. Con più vostri regali editti
comandaste, che in tutti i Beneficj, Vescovadi, Arcivescovadi, ed altre
Prelature del Regno, ne fossero esclusi gli stranieri. Accresceste
i privilegj a' Baroni, oltre a' gradi già stabiliti la succession
feudale stendendo. Vostro ordinamento fu, che la ruota del Cedulario
si togliesse: contro del regio fisco la prescrizion centenaria
si ammettesse, anche nelle regalie, nelle cose giurisdizionali, e
nell'altre vostre fiscali ragioni. E non minor beneficio è quello che
ritrae il Regno, oggi che vive sotto le vostre temute insegne, dal
venir compreso nelle tregue, che si fanno tra l'Imperio e 'l Turco;
e dal commerzio, il quale Vostra Maestà è tutta intesa ad aprire, ed
allargare nei nostri Porti colla Germania, e con altre più remote
regioni. Cose tutte, di cui, in altri tempi, vano sarebbe stato il
desiderio, non che la speranza._

_Ma il maggior pregio, onde dobbiamo gir alteri nel suo felicissimo
regno, è l'aver Ella col decoro dell'Imperial Maestà sostenute, e fatte
valer tra noi, ed a nostro pro i suoi legali diritti, e le sue alte
e supreme Regalie: affinchè più non si confondessero, come già fu, i
confini tra 'l Sacerdozio e l'Imperio. Sotto i vostri auspicj furon
queste due potenze ridotte ad una perfetta armonia e corrispondenza; e
prendendo lodevolmente la cura dell'esterior politia ecclesiastica, vi
mostrate tutto volto a restituir la disciplina nella Chiesa, di cui per
instituzion Divina siete protettore ed avvocato; tal che oggi ammirasi
la giustizia e la giurisdizione ecclesiastica nel suo giusto punto,
lasciandosi al Sacerdozio quel, ch'è di Dio, ed all'Imperio quel, ch'è
di Cesare._

_Se adunque questa Storia non si troverà degna d'altro pregio, sì
n'avrà ella d'assai, nè potrò io pentirmi di avervi logorati in
faticose vigilie molti anni, coll'aver manifestato al Mondo, quanto
Voi nel beneficarci e nell'illustrarci, e negli atti di magnanimità
e di valore, avete superati i beneficj e l'opere di tutti altri Re
vostri predecessori; e che per rendervi per fama immortale ed eterno,
immortali ed eterne cose operando, ogni umana grandezza addietro vi
lasciate._

_Il vostro grande e sublime intendimento ben comprenderà quali, e
quanti debban essere i nostri obblighi per sì rari e stupendi beneficj,
la cui dolce memoria non si estinguerà se non col Mondo. E se le
grazie, e doni non altronde sogliono, che da dilezion provenire, quali
più chiari segni, e più certi potrà mai darne il vostro paterno amore?
E perchè essendo Voi ottimo, e nel più sublime grado di vera virtù,
non potete amare se non se 'l buono, e ciò che maggiormente a quel
s'avvicina; dovrem noi sempre più studiarci d'esser buoni e grati,
almeno per le stesse massime de' cattivi, cioè per proprio interesse,
per non interromperci il corso favorevole delle vostre benignissime
grazie._

_Vengono, Principe eccelso, in quest'Opera, dove l'opportunità l'ha
richiesto, sostenute le vostre regalie e preminenze, e le ragioni
di quelle con ischietta e pura verità messe in chiaro; non già con
intendimento, che s'abbia punto da scemare altrui ciò, che dirittamente
se gli dee, che questo alla santa sua mente non s'affarebbe; ma
perchè possan riformarsi con modi legittimi quegli abusi, a' quali la
debolezza umana, in processo di tempo, ha potuto abbandonarsi; e per
quell'affezione ed ardore, che ciascun vostro fedel vassallo è tenuto
d'avere, non men per amore della verità, e per l'obbligo dovuto al
proprio Signore, che per l'interesse che noi medesimi ci abbiamo. E
quindi fia, se non m'inganno, che non solamente non abbia a dispiacer
altrui, se vedrà d'averle io con franchezza cristiana difese; ma che
questa Storia si renda meritevole dell'alta protezione della vostra
potente mano: il che reputerò io degna mercede di queste mie lunghe
fatiche, le quali portando in fronte la gloriosa scritta del vostro
Imperial Nome, ed uscendo alla luce, come dono, ancorchè basso e
mal conveniente a tanto Principe, sotto l'ombra de' vostri temuti
allori, saranno sicure di non esser percosse dagli ardenti fulmini
della maledica invidia, nè pur crollo veruno, o scossa dovran temere
d'ingiuriosa fortuna._

_La vostra sola benignità mi fa ragion di sperare, che siate per
accettarle con lieto e favorevol viso, onde le obbligazioni, ch'insieme
con questo comune io porto, me con particolar maniera costringano a
pregare con incessabili voti la Divina Bontà, che lungamente e sempre
più prosperandola, conservi la sua eccelsa Persona, in guisa, che non
ce n'abbiano a portar invidia i nostri nipoti: largamente concedendole
ciò, che tanto si sospira, e che sol manca per compimento della
universal tranquillità e contentezza._

_Napoli 12 febbraio 1723._

  _Di V. S. C. e C. M._

                  _Umiliss. devotiss. ed ossequiosiss. Vass. e Serv._

                                                     PIETRO GIANNONE.



INTRODUZIONE


L'Istoria, che prendo io a scrivere del Regno di Napoli, non sarà
per assordare i leggitori collo strepito delle battaglie, e col romor
dell'armi, che per più secoli lo renderon miserabil teatro di guerra;
e molto meno sarà per dilettar loro colle vaghe descrizioni degli
ameni e deliziosi suoi luoghi, della benignità del suo clima, della
fertilità de' suoi campi, e di tutto ciò, che natura, per dimostrar suo
potere e sua maggior pompa profusamente gli concedette: nè sarà per
arrestargli nella contemplazione dell'antichità e magnificenza degli
ampj e superbi edificj delle sue città, e di ciò, che l'arti meccaniche
maravigliosamente vi operarono: altri quest'ufficio ha fornito; e forse
se ne truova dato alla luce vie più assai, che non si converrebbe.
Sarà quest'Istoria tutta civile; e perciò, se io non sono errato, tutta
nuova, ove della politia di sì nobil Reame, delle sue leggi e costumi
partitamente tratterassi: parte, la quale veniva disiderata per intero
ornamento di questa sì illustre e preclara region d'Italia. Conterà,
nel corso poco men di quindici secoli, i varj stati, ed i cambiamenti
del suo governo civile sotto tanti Principi, che lo dominarono; e per
quanti gradi giugnesse in fine a quello stato, in cui oggi 'l veggiamo:
come variossi per la politia ecclesiastica in esso introdotta, e per li
suoi regolamenti: qual uso ed autorità ebbonvi le leggi romane, durante
l'Imperio, e come poi dichinassero; le loro obblivioni, i ristoramenti,
e la varia fortuna delle tant'altre leggi introdotte da poi da varie
nazioni: l'accademie, i Tribunali, i Magistrati, i Giureconsulti,
le Signorie, gli Ufficj, gli Ordini, in brieve, tutto ciò, che alla
forma del suo governo, così politico e temporale, come ecclesiastico e
spiritual s'appartiene.

Se questo Reame fosse sorto, come un'isola in mezzo all'Oceano,
spiccato e diviso da tutto il resto del Mondo, non s'avrebbe avuta
gran pena a sostenere, per compor di sua civile istoria molti
libri: imperciocchè sarebbe bastato aver ragione de' Principi, che
lo dominarono, e delle sue proprie leggi ed istituti, co' quali fu
governato. Ma poichè fu egli quasi sempre soggetto, e parte, o d'un
grand'Imperio, come fu il romano, e da poi il greco, o d'un gran Regno,
come fu quello d'Italia sotto i Longobardi, o finalmente ad altri
Principi sottoposto, che tenendo collocata altrove la regia lor sede,
quindi per mezzo de' loro Ministri 'l reggevano; non dovrà imputarsi,
se non a dura necessità, che per ben intendere la sua spezial politia,
si dia un saggio della forma e disposizione dell'Imperio romano, e
come si reggessero le sue province, fra le quali le più degne, ch'ebbe
in Italia, furon certamente queste, che compongono oggi il nostro
Regno. Non ben potrebbe comprenders'il loro cambiamento, se insieme
non si manifestassero le cagioni più generali, onde variandosi il
tutto, venisse anche questa parte a mutarsi; e poichè queste regioni,
per le loro nobili prerogative invitarono molti Principi d'Europa
a conquistarle, furon perciò lungamente combattute, ciascheduno
pretendendo avervi diritto, e chi come tributarie, chi in protezione, e
qual finalmente come feudatarie le pretese: si è riputato perciò pregio
dell'opera, che i fonti di tutte queste pretensioni si scovrissero;
nè potevano altramente mostrarsi, se non col dare una general'idea,
e contezza dello stato d'Italia in varj tempi, e sovente degli altri
principati più remoti, e de' trasportamenti de' reami di gente in
gente, onde sursero le tante pretensioni, che dieron moto all'imprese,
e fomento.

Nè cotali investigamenti sono stati solamente necessarj per dare
un'esatta, e distinta cognizione dello stato politico e temporale di
questo regno, come per avventura sarà da alcuni riputato; ma eziandio
per quello, che s'aspetta ad ecclesiastici affari; imperocchè non
minori furon le contese fra' Principi del secolo, che fra' maggiori
Prelati della Chiesa. Fu anche questo regno combattuto da' due
più celebri Patriarchi del Mondo, da quel di Roma in occidente,
e dall'altro di Costantinopoli in oriente. Per tutte le ragioni
apparteneva il governo delle nostre Chiese al Pontefice romano, non pur
come Capo della Chiesa universale, ma anche come Patriarca d'occidente,
eziandio se l'autorità sua patriarcale avesse voluto restringersi alle
sole città _suburbicarie_; ma il costantinopolitano con temerario
ardire attentò usurpare le costui regioni: pretese molte Chiese di
questo Reame al suo patriarcato d'oriente appartenersi: che di lui
fosse il diritto di erger le città in metropoli, e d'assegnar loro que'
Vescovi suffraganei, che gli fossero piaciuti. Era perciò di mestiere
far vedere, come questi due patriarcati dilatassero pian piano i loro
confini: il che non potea ben farsi senza una general contezza della
politia dello Stato ecclesiastico, e della disposizione delle sue
diocesi e province.

L'istoria civile, secondo il presente sistema del Mondo cattolico, non
può certamente andar disgiunta dall'istoria ecclesiastica. Lo stato
ecclesiastico, gareggiando il politico e temporale de' Principi, si
è, per mezzo dei suoi regolamenti, così forte stabilito nell'imperio,
e cotanto in quello radicato, e congiunto, che ora non possono
perfettamente ravvisarsi li cambiamenti dell'uno, senza la cognizione
dell'altro. Quindi era necessario vedere, come, e quando si fosse
l'ecclesiastico introdotto nell'Imperio, e che di nuovo arrecasse in
questo Reame: il che di vero fu una delle più grandi occasioni del
cambiamento del suo stato politico e temporale; e quindi non senza
stupore scorgerassi, come, contro a tutte le leggi del governo,
abbia potuto un Imperio nell'altro stabilirsi, e come sovente il
sacerdozio abusando la divozion de' Popoli, e 'l suo potere spirituale,
intraprendesse sopra il governo temporale di questo Reame, che fu
rampollo delle tante controversie giurisdizionali, delle quali sarà
sempre piena la repubblica cristiana, e questo nostro Regno più che
ogni altro; onde preser motivo alcuni valentuomini di travagliarsi per
riducere queste due potenze ad una perfetta armonia e corrispondenza,
e comunicarsi vicendevolmente la loro virtù ed energia; essendosi
per lunga sperienza conosciuto, che se l'imperio soccorre con le sue
forze al sacerdozio, per mantenere l'onor di Dio ed il sacerdozio
scambievolmente stringe ed unisce l'affezion del Popolo all'ubbidienza
del Principe, tutto lo Stato sarà florido e felice; ma per contrario,
se queste due potenze sono discordanti fra loro, come se il sacerdozio,
oltrepassando i confini del suo potere spirituale, intraprendesse sopra
l'Imperio e governo politico, ovvero se l'Imperio rivolgendo contro Dio
quella forza, che gli ha messa tra le mani, volesse attentare sopra il
sacerdozio, tutto va in confusione ed in ruina; di che potranno esser
gran documento i molti disordini, che si sentiranno perciò in questo
istesso nostro Reame accaduti.

Nel trattar dell'uso e dell'autorità, ch'ebbero in queste nostre
province, così le leggi romane, come i regolamenti ecclesiastici, e le
leggi dell'altre nazioni, non si è risparmiato nè fatica nè travaglio:
e forse il veder l'opera in questa parte abbondare, farà scoprir la
mia professione, palesandomi al Mondo più Giureconsulto, che Politico.
Veracemente meritava questa parte, che fosse fra noi ben illustrata;
poichè non in tutti luoghi, nè in tutti tempi fu cotal uso ed autorità
delle romane leggi sempre uniforme: onde avendo i nostri Giureconsulti
trascurata questa considerabilissima parte, siccome altresì quella
dell'origine ed uso dell'altre leggi, che da poi nello stesso nostro
Regno da straniere Nazioni s'introdussero; è stata potissima cagione,
ch'abbian costoro riempiuti i lor volumi di gravi e sconci errori;
da' quali con chiaro documento siamo ancora ammaestrati, quanto a
ciaschedun sia meglio affaticarsi per andar rintracciando in sua
contrada le varie fortune ed i varj casi delle leggi romane, e delle
proprie, che con dubbio, e poco accertamento andar vagando per le
province altrui. Imperocchè quantunque si possa, per un solo, tesser
esatta istoria dell'origine e progressi delle lettere nell'altre
professioni, e della varia lor fortuna per tutte le parti d'Europa,
siccome veggiamo esser ad alcuni talora riuscito; nientedimeno quanto
è alla Giurisprudenza, la quale spesso varia aspetto al variar de'
Principi e delle Nazioni, egli non è carico, che possa già per un solo
sostenersi, ma dee in più esser ripartito, ciascun de' quali abbia a
raggirarsi nell'uso, nell'autorità e nelle varie mutazion, che troverà
nella propria regione essere accadute. Così scorgiamo essersi della
Giurisprudenza romana per alcuni eccellenti Scrittori compilata qualche
istoria; però quasi si son affaticati a renderla chiara ed illustre, in
narrando la sua origine ed i progressi ne' tempi, che l'Imperio romano
nacque, crebbe, e si stese alla sua maggior grandezza; ma i varj casi
di quella, quando l'Imperio cominciò poi a cader dal suo splendore, la
sua dichinazione, obblivione e ristoramento, l'uso e l'autorità, che le
fu data ne' nuovi Dominj, dopo l'inondazione di tante nazioni in Europa
stabilite; quando per le nuove leggi rimanesse presso che spenta, e
quando ristabilita quelle oscurasse; non potranno certamente in tutte
le parti d'Europa da un solo esattamente descriversi. Perciò ben si
consigliarono alcuni nobili spiriti, dopo aver dato un saggio delle
cose generali nel proprio Regno o provincia, prefiggersi i confini,
oltre a' quali di rado, o non mai trapassarono.

Un uom di Bretagna, e dal Mondo diviso, reputando gli altri in
troppo brevi chiostri aver ristretto l'ardire dell'ingegno umano,
mostrò d'aver coraggio per tant'impresa. Fu questi il celebre _Arturo
Duck_[1], il quale oltre a' confini della sua _Inghilterra_ volle in
altri e più lontani Paesi andar rintracciando l'uso e l'autorità delle
romane leggi ne' nuovi dominj de' Principi cristiani; e di quelle di
ciascheduna Nazione volle ancora aver conto: le ricercò nella vicina
_Scozia_, e nell'_Ibernia_; trapassò nella Francia, e nella Spagna;
in Germania, in Italia, e nel nostro Regno ancora: si stese in oltre
in Polonia, Boemia, in Ungheria, Danimarca, nella Svezia, ed in più
remote parti. Ma l'istessa insigne sua opera ha chiaramente mostrato
al Mondo, non esser questa impresa da un solo; poichè sebbene la gran
sua diligenza, e la peregrinazione in varj paesi d'Europa, come nella
Francia, nella Germania e nell'Italia, avessero potuto in gran parte
rimuovere le molte difficoltà al proseguimento della sua impresa;
nondimeno il successo poi ha dimostrato essersi ciò ben potuto da
lui esattamente adempire nella sua _Inghilterra_, nella _Scozia_,
nell'_Ibernia_, ed in alcune regioni da se meno lontane; ma nell'altre
parti, e spezialmente nel nostro Reame, si vede veramente essersi
da pellegrino diportato; conciossiacosachè, seguendo le volgari
scorte, cadde in molti errori, non altro avendoci somministrato, che
una molto leggier contezza dell'uso, e dell'autorità delle leggi,
così romane, come proprie, qui introdotte da varj Principi, che lo
ressero. Ned egli, per la sua ingenuità, nella conchiusion del libro
potè dissimularlo, promettendosi appo stranieri trovar perdono,
se trattando delle loro leggi e costumi, così parco stato fosse: e
confesso altro non essere stato suo intendimento, che d'invogliare
i Giureconsulti d'altri paesi, acciocchè, prendendo esempio da lui,
quel che egli aveva adempiuto nella sua _Inghilterra_, volessero essi
fare con più diligenti trattati ne' proprj loro Regni o province. Per
questa cagione, poco prima d'Arturo, alcuni Scrittori, senz'andar molto
vagando, alle proprie regioni si restrinsero. _Innocenzio Cironio_[2]
Cancellier di Tolosa volle raggirarsi per la sola _Francia_, ancorchè
assai leggiermente la scorresse. Ma _Alteserra_[3] ciò con maggior
esattezza, e più minutamente volle ricercare in quella provincia,
ove ei nacque, cioè nell'_Acquitania_. E _Giovanni Costa_ eccellente
Cattedratico in Tolosa, promise di far lo stesso con maggior diligenza
in tutto il Regno di _Francia_: ma questa sua grand'opera, che con
impazienza era aspettata dal Cironio[4], da Arturo[5], e da tutti
gli altri eruditi, non sappiamo ancora a' dì nostri, se mai uscita
sia alla luce del Mondo. _Giovanni Doujat_[6] fece da poi lo stesso,
non oltrapassando i confini della _Francia_; e talora è accaduto, che
volendo alcuni esser troppo curiosi nelle altrui regioni, abbiano nelle
proprie trascurate le migliori ricerche, ed in mille errori esser per
ciò inciampati.

Alla _Germania_ non manca il suo Istorico, intorno a questo suggetto.
_Ermanno Coringio_[7] compilò un trattato dell'origine, e varia fortuna
delle leggi romane e germaniche, del quale fassi onorata memoria
presso a Giorgio Pasquio[8]; ed a' dì nostri _Burcardo Struvio_[9] ne
ha compilato un altro più difuso, rapportando altri Autori, che per
l'Alemagna fecero lo stesso.

Non manca all'_Olanda_ il suo, e _Giovanni Voezio_ compilò un libro,
intitolato: _De Usu Juris Civilis et Canonici in Belgio unito_.

Per la Spagna abbiamo, che _Michele Molino_ ne distese un consimile per
lo Regno d'_Aragona. Giovanni Lodovico Cortes_ scrisse l'Istoria _Juris
Hispanici_; e _Gerardo Ernesto di Franckenau_ sopra questo argomento si
distese più d'ogni altro[10]. Hanno pure intorno a ciò i loro Istorici,
la _Svezia_, la _Danimarca_, la _Norvegia_, e l'altre province
settentrionali. Nè ve ne mancano ancora in alcune parti della nostra
_Italia_, come in Milano per l'industria di _Francesco Grasso_[11], ed
in altri paesi ancora della medesima.

Nel nostro Regno solamente, ciò che gli altri, tratti dall'amor della
gloria della loro Nazione, fecero, è stato sempre trascurato. Nè per
certo dovrebb'essere maggior l'aspettazione e 'l desiderio, che vi si
provedesse, della maraviglia, come in un Regno così ampio e fecondo di
tanti valorosi ingegni che con le loro opere han dato saggio al Mondo,
null'altro studio esser loro più a cuore, che quello delle leggi,
abbian poi tralasciato argomento sì nobile ed illustre. Imperciocchè
una Storia esatta dell'uso ed autorità, che nel nostro Regno ebbero
le leggi romane, e de' varj accidenti dell'altre leggi, che di
tempo in tempo furon per diverse nazioni in esso introdotte, onde ne
vennero le prime oscurate, e come poi risorte avessero racquistato
il loro antico splendore ed autorità, e siansi nello stato, in cui
oggi veggiamo, restituite; dovrebbe in vero essere una delle cose
appresso noi più considerabili, non per leggieri e vane, ma per gravi
ed importantissime cagioni. Non perchè per troppa curiosità, e forse
inutile, si dovesse esser ansioso di spiar le varie vicende di quelle;
non perchè ne ricevano esse maggior pompa e lustro, nè per ostentazione
di peregrina e non volgar'erudizione; ma per più alte cagioni: queste
sono, perchè da un esatta notizia di tutto ciò, che abbiam proposto
oltre all'accrescimento della prudenza, per l'uso delle leggi, e per
un diritto discernimento, ciascuno potrà ritrarne l'idea d'un ottimo
Governo; poichè notandosi nell'Istoria le perturbazioni ed i moti delle
cose civili, i vizj e le virtù, e le varie vicende di esse, saprà molto
ben discernere, quale sia il vero, ed al migliore appigliarsi.

Ma sopra ogni altro, da ciò dipende in gran parte il rischiaramento
delle nostre leggi patrie, e de' nostri proprj istituti e costumi;
le quali cose non per altra cagione veggonsi dai nostri Scrittori
sì rozzamente trattate, e sovente, senza comprendersene il senso, sì
stranamente a noi esposte; se non perchè ignari della storia de' tempi,
de' loro Autori, delle occasioni, onde furono stabilite, dell'uso e
dell'autorità delle leggi romane, e delle longobarde, sdrucciolaron
perciò in quei tant'errori, de' quali veggonsi pieni i lor volumi, e di
mille puerilità, e cose inutili o vane caricati; e tanta ignoranza avea
loro bendati gli occhi, che si pregiavano d'essere solamente Legisti,
e non Istorici; non accorgendosi, che perchè non erano Istorici, eran
perciò cattivi Legisti, e rendevansi dispregevoli appo gli estranei,
ed a molti ancora de' loro compatrioti. _Carlo Molineo_[12] di quanti
sconci errori riprese, per ignoranza d'Istoria, non pur _Baldo_, ma
eziandio il nostro _Andrea d'Isernia_? E di quanto scherno furono
perciò i nostri agli altri Scrittori? Di quanto riso fu a costoro
cagione _Niccolò Boerio_, che scrisse, i Longobardi essere stati certi
Re venutici dalla Sardegna, il nostro _Matteo degli Afflitti_, e tanti
altri?

Si aggiunge eziandio l'utilità grande, che dalla cognizione di tal
Istoria si ritrae per l'uso del Foro, e de' nostri Tribunali, e per
le controversie medesime forensi. Nel che non possiamo noi in questi
tempi allegar miglior testimonio, che il _Cardinal di Luca_, stato
celebre Avvocato in Roma, ed uomo nel Foro compiutissimo, il quale
in quasi tutti i suoi infiniti discorsi, onde furon compilati tanti
volumi, con ben lunga esperienza ha dimostrato in mille luoghi[13],
non altronde esser derivati i tanti abbagli de' nostri Scrittori, se
non dall'ignoranza dell'Istoria legale, tanto che non predica altro,
così a' Giudici, come agli Avvocati, che l'esatta notizia di quella,
senza la quale sono inevitabili gli errori, e le scipitezze. Ma fra'
nostri, niun altro rendè più manifesta questa verità, quanto quel lume
maggiore della gloria de' nostri Tribunali, l'incomparabile _Francesco
d'Andrea_, il quale in quella dotta disputazione feudale[14], che diede
alla luce del Mondo, ben a lungo dimostrò, che non altronde, che da
questa Istoria potevan togliersi le difficoltà, dove aveano inviluppata
tal materia i nostri Scrittori; onde si videro perciò in mill'errori
miseramente caduti. Ciò che dovea essere a tutti d'ammonimento quanto
la cognizione dell'Istoria legale sia necessaria a tutte l'altre
controversie del Foro. Nè lasciò questo gran Letterato, per quanto
comportava il suo istituto, di darci di quella non debil lume. E
veramente nostra disavventura fu, che ciò, che gli altri Scrittori
fecero per gli loro paesi, non avesse egli tentato di far per lo nostro
Reame, che certamente non avremmo occasione di dolerci oggi di tal
mancanza. Poichè qual cosa non ci avremmo potuto promettere dalla forza
del suo divino ingegno, dalla gran perizia delle leggi, dell'Istoria, e
dell'erudizione; da quella maravigliosa eloquenza, e dall'infaticabile
applicazione ed esatta sua diligenza? Nè minori prerogative, a mio
credere, si ricercano per riducere una tal impresa al suo compiuto
fine, le quali, se disgiunte pur con maraviglia osserviamo in molti,
tutte congiunte in lui solo s'ammiravano.

Grave dunque, e per avventura superiore alle mie poche forze, sarà
il peso, ond'io ho voluto caricarmi: e tanto più grave, ch'avendo
riputato, che non ben sarebbe trattata l'Istoria legale, senza
accoppiarvi insieme l'Istoria civile, ho voluto congiungere in uno la
politia di questo Reame con le sue leggi, l'Istoria delle quali non
avrebbe potuto esattamente intendersi, se insieme, onde sursero, e qual
disposizione e forma avessero queste province, che con quelle eran
governate, non si mostrasse. E quindi è avvenuto, che attribuendosi
il lor cambiamento a' regolamenti dello Stato ecclesiastico, che poi
leggi canoniche furono appellate, siasi veduta avvolgersi questa mia
fatica in più alte imprese, ed in più viluppi essermi intrigato, da
non poter così speditamente sciormene: perciò fui più volte tentato
d'abbandonarla, imperocchè, pensando tra me medesimo alla malagevolezza
dell'impresa, a' romori del Foro, che me ne distoglievano, e molto
più conoscendo la debolezza delle mie forze, ebbi credenza, che non
solamente ogni mio sforzo vano sarebbe per riuscire, ma che ancora
di soverchia audacia potrebbe essere incolpato; onde talora fu, che,
atterrito da tante difficoltà, rimossi dall'animo mio ogni pensiero
di proseguirla, riserbando a tempo migliore, ed a maggior ozio queste
cure.

S'aggiungeva ancora, che fin dalla mia giovanezza aveva io inteso, che
il _P. Partenio Giannettasio_ nelle solitudini di Surrento, sciolto
da tutte le cure mondane, con grandi aiuti, e grandi apparati, erasi
accinto a scrivere l'Istoria Napoletana, e se ben mio intendimento
fosse dal suo tutto differente, nientedimeno dovendoci amendue,
avvegnachè con fine diverso, raggirare intorno ad un medesimo soggetto,
e ch'egli spiando più dentro, mi potesse toglier la novità di molte
cose, ch'io aveva notate, ed altre forse meglio esaminarle, che non
poteva io, a cui e tanti aiuti, e tant'ozio mancava, fui più volte in
pensiero d'abbandonar l'impresa.

Ma per conforto, che me ne davano alcuni elevati spiriti, non
tralasciai intanto di proseguire il lavoro, con intendimento, che per
me solo avesse avuto a servire, e per coloro, che se ne mostravan
vaghi; fra' quali non mancò chi, oltre d'approvare il fatto, e di
spingermi al proseguimento con acuti stimoli, di soverchia viltà
accagionandomi, più audace perciò mi rendesse. Considerava ancora, che
queste fatiche, quali elle si fossero, non doveano esporsi agli occhi
di tutti: esse non dovean trapassare i confini di questo Reame; poichè
a' curiosi solamente delle nostre cose erano indirizzate; e che se mai
dovessero apportar qualche utilità, a noi medesimi fossero per recarla,
e spezialmente, a coloro, che ne' Magistrati, e nell'Avvocazione
sono impiegati, l'umanità de' quali essendo a me per lunga sperienza
manifesta, m'assicurava, non dover essere questo mio sforzo riputato
per audace, e che appo loro qualunque difetto avrebbe trovato più
volentieri scusa e compatimento, che biasimo o disprezzo.

Ma mentre io così spinto per tanti stimoli proseguiva l'impresa, ecco,
ch'appena giunto al decimo libro di quest'opera, si vide uscire alla
luce del Mondo nell'anno 1713. la cotanto aspettata Istoria Napoletana,
dettata in idioma latino da quel celebre letterato. Fu immantinente
da me letta, e contro ad ogni mia espettazione, non si può esprimere,
quanto mi rendesse più animoso al proseguimento; poichè conobbi,
altro quasi non essere stato l'intendimento di quel valentuomo, che in
grazia di coloro, che non hanno della nostra italiana favella perfetta
contezza, trasportare in buon latino l'Istoria del _Summonte_.

Essendomi pertanto liberato da questo timore, posso ora imprometter
con franchezza a coloro, che vorranno sostenere il travaglio di legger
quest'Istoria, d'offerirne loro una tutta nuova, e da altri non ancor
tentata.

Mi sono studiato in oltre, tutte quelle cose, che da me si narrano,
di fortificarle coll'autorità d'uomini degnissimi di fede, e che
furono, o contemporanei a' successi, che si scrivono, o i più diligenti
investigatori delle nostre memorie. Il mio stile sarà tutto schietto
e semplicissimo, avendo voluto, che le mie forze, come poche e
deboli, s'impiegassero tutte nelle cose, più che nelle parole, con
indirizzarle alla sola traccia della verità; ed ho voluto ancora, che
la sua chiarezza dipendesse assai più da un diritto congiungimento de'
successi colle loro cagioni, che dalla locuzione, o dalla commessura
delle parole. Non ho voluto nemmeno arrogarmi tanto d'autorità, che si
dovesse credere alla sola mia narrazione; ho perciò procurato additar
gli Autori nel margine, i più contemporanei agli avvenimenti, che si
narrano, o almeno de' più esatti, e diligenti; e tutto ciò, che non
s'appoggiava a documenti legittimi, o come favoloso l'ho ricusato, o
come incerto l'ho tralasciato.

Io non son cotanto ignaro delle leggi dell'istoria, che non m'avvegga,
alcune volte non averle molto attentamente osservate; e che forse
l'aver voluto con troppa diligenza andar ricercando molte minuzie,
abbia talor potuto scemarle la dignità; e che sovente, tirando le
cose da' più remoti principj, siami soverchio dilungato dall'istituto
dell'opera. Ma so ancora, che non ogni materia può adattarsi alle
medesime forme, e che il mio suggello, raggirandosi intorno alla
politia e stato civile di questo Reame, ed intorno alle sue leggi,
siccome la materia era tutt'altra, così ancora doveasi a quella
adattare altra forma; e pretendendo io, che qualche utilità debba
ricavarsene, anche per le cose nostre del Foro, non mi s'imputerà a
vizio, se discendendo a cose più minute, venga forse in alcuna parte a
scemarsene la gravità, perchè finalmente non dovranno senza qualche lor
frutto leggerla i nostri Professori, a' quali per la sua maggior parte,
e massimamente in ciò, che s'attiene all'Istoria legale, è indirizzata;
anzi alcune cose avrebbero per avventura richiesto più pesato e sottile
esaminamento; ma non potendomi molto giovar del tempo, sarebbe stato
lo stesso, che non venirne mai a capo. E l'essermi io talora dilungato
ne' principj delle cose, fu perchè non altronde poteano con maggior
chiarezza congiungersi gli avvenimenti alle cagioni; il che, oltre alla
notizia, mena seco anche la chiarezza, come si scorgerà nel corso di
quest'Istoria.

Ma sopra quali più stabili fondamenti potea io appoggiar l'Istoria
civile del nostro Reame, se non cominciando da' Romani, de' quali fu
propria, per così dire, l'arte del Governo, e delle leggi; quando
queste istesse nostre province ebbero la sorte d'esser per lungo
tempo da essi signoreggiate? Per questo fine nel primo libro, anzi
che si faccia passaggio a' tempi di _Costantino Magno_, che sarà
il principio della nostra Istoria, si darà, come per _Apparato_, un
saggio della forma e disposizione dell'Imperio romano, e delle sue
leggi: dei favori de' Principi, onde furon quelle sublimate: della
prudenza delle loro costituzioni: della sapienza de' Giureconsulti;
e delle due celebri Accademie del Mondo, una di Roma in occidente,
l'altra di Berito in oriente; poichè conoscendosi in brieve lo stato
florido, in cui eran queste nostre province, così in riguardo di ciò,
che s'attiene alla loro politia, come per le leggi, ne' tempi, ch'a
Costantino precederono, con maggior chiarezza potranno indi ravvisarsi
il dichinamento, e le tante rivolte e mutazioni del loro stato civile,
che seguiron da poi, che a questo Principe piacque di trasferire la
sede dell'Imperio in Costantinopoli, e d'uno, ch'egli era, far due
Imperi.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO PRIMO


Quest'ampia e possente parte d'Italia, che Regno di Napoli oggi
s'appella, il qual circondato dall'uno e dall'altro mare, superiore
ed inferiore, non ha altro confine mediterraneo, che lo Stato della
chiesa di Roma, quando per le vittoriose armi del Popolo romano fu
avventurosamente aggiunta al suo Imperio, ebbe forma di governo pur
troppo diversa da quella, che sortì da poi ne' tempi degli stessi
romani Imperadori. Nuova politia sperimentò quando sotto la dominazione
de' Re d'Italia pervenne. Altri cambiamenti vide sotto gl'Imperadori
d'oriente. E vie più strane alterazioni sofferse, quando per varj casi
trapassata di gente in gente, finalmente sotto l'Augustissima Famiglia
Austriaca pervenne.

Non fu ne' tempi dalla libera Repubblica divisa in _province_, come
ebbe da poi; nè comunemente altre leggi conobbe se non le romane. I
varj Popoli che in lei abitarono presero insieme, o diedero il nome
alle tante _regioni_, ond'ella fu divisa; e le città di ciascuna
regione, secondo che serbarono amicizia, e fedeltà al P. R. quelle
condizioni o dure, o piacevoli ricevettero, che s'aveano meritate.
Nè bisogna cercare miglior forma di governo di quella, che in cotai
primi tempi v'introdussero i providi Romani, appo i quali l'arte del
governare fu così lor propria, che per quella sopra tutte l'altre
Nazioni del Mondo si distinsero. Testimonio è a noi l'incomparabile
Virgilio[15], il quale dopo aver date a ciascuna Nazione le lodi
per quelle arti, onde sopra tutt'altre preson grido, del solo Popolo
romano cantò, esser stata di lui propria l'arte del governare, e del
ben reggere i Popoli. Per questa, non già per quella del conquistare
si rendè quest'inclita gente sopra tutt'altre sublime; imperocchè se
si vuole por mente alla grandezza del suo Imperio, posson ancora gli
Assiri in alcun modo vantarsi del loro per Nino acquistato; i Medi,
ed i Persi di quello per Ciro; ed i Greci dell'altro per Alessandro
Magno fondato. Gli acquisti de' Turchi non furono inferiori a quelli
de' Romani, e sotto i famosi Imperadori Maometto II. e Solimano,
il loro imperio non fu a quello minore[16]; ed anche gli Spagnuoli
con maggior ragione potranno opporgli quello de' Serenissimi Re di
Spagna; maggiore, se si riguarda l'ampiezza de' confini, di quanti
ne vide il Mondo giammai[17]. E quantunque la prudenza de' consigli,
l'intrepidezza de' loro animi, la felicità, e le molte virtù, onde
tutte le loro imprese erano ricolme, fossero state eccellenti, ed
incomparabili; nulla di manco il giudizio del Mondo, e de' più gravi
Scrittori[18], che riputarono quasi tutte le loro spedizioni ingiuste,
e le loro armi sovente senza ragionevol cagione mosse e sostenute,
venne a' medesimi, e alla lor gloria non picciol detrimento a recare.
Solamente in celebrando la sapienza del governo, e la giustizia
delle loro leggi si stancarono le penne più illustri del Mondo, e
per questo unico pregio meritamente sopra tutt'altri ne andarono
gloriosi. Chiarissimo argomento sarà l'essersi veduto, che rovinato
ed estinto già il loro impero, non per questo mancò ne' nuovi dominj
in Europa fondati, la maestà e l'uso di quelle. Nè per altra cagione
è ciò avvenuto, se non perchè le leggi de' Romani con tanta maturità
e sapienza dettate, si diffusero e propagarono per tutte le parti del
Mondo; non tanto per la potenza del loro imperio, nè perchè secondo la
ragion delle genti fu sempremai inalterabil legge di vittoria, che i
vinti passassero ne' costumi, e sotto le leggi de' vincitori, quanto
per l'evidente utilità, che i popoli soggiogati ritraevano dal loro
equabile e giusto governo. Quindi avvenne che le Nazioni più remote e
barbare spontaneamente ricevessero le loro leggi, avendo la giustizia
e prudenza delle medesime per conforto della loro servitù. Così
Cesare mentre trionfa in Eufrate, ed al suo imperio si sottopongono
quelle regioni, vittorioso dava a que' popoli le leggi, ma a' _popoli
volenti_. Nè vi bisognava meno, che la sapienza del lor governo, e
la giustizia di queste leggi per produrre fra tante nazioni diverse
e lontane quella docilità ed umanità di costumi, che Libanio[19]
esagerava a coloro, che viveano secondo gl'istituti e leggi romane;
e quella concordia, e quel nodo d'una perfetta società civile, che
ci descrive Prudenzio[20] fra coloro, che sotto il giogo di quelle
usavano. Anzi non sono mancati Scrittori[21] gravissimi, fra' quali non
è da tacere l'incomparabile Agostino[22], che credettero per divina
previdenza essersi fatto, che i Romani signoreggiassero il Mondo,
affinchè per lo loro governo ricolmo di sapienza e di giustizia, i
costumi e la fierezza di tante Nazioni si rendessero più trattabili
e mansueti; perchè con ciò il genere umano si disponesse con maggior
facilità a ricevere quella religione, la qual finalmente dovea
abbattere il gentilesimo, e stabilita in più saldi fondamenti dovesse
illuminar la terra, e ridurla ad una vera credenza, laonde in premio
della loro giustizia fosse stato a loro conceduto l'imperio del Mondo.
Gl'Impp. Diocleziano e Massimiano in un loro Editto, che si legge nel
Codice Gregoriano, ci lasciarono delle leggi romane questo gravissimo
encomio: _Nihil nisi sanctum, ac venerabile nostra Jura custodiunt: et
ita ad tantam magnitudinem Romana majestas cunctorum Numinum favore
pervenit: quoniam omnes suas leges religione sapienti, pudorisque
observatione devinxit_[23]. Per questa cagione avvenne che le Nazioni
d'Europa, non come leggi d'un sol Popolo, ma come le leggi universali
e comuni di tutte le genti le riputassero, e che i Principi e le
Repubbliche si studiassero comporre i loro Stati alla forma di quelle,
in guisa che oggi pare, che l'orbe cristiano si regga e si governi
alla lor norma, ond'è che nell'Accademie ben istituite pubblicamente
s'insegnino, e s'apparino a questo fine.

Ben egli è vero, che a chiunque riguarda la felicità dell'armi del
P. R. parrà cosa stupenda, come in così breve tempo avesse potuto
stendere il suo imperio sopra tante province, e sì lontane. Nè potrà
senza sorprendersi, sentire, come nella sua infanzia, quasi lottando
co' vicini, tosto gli vincesse; che soggiogata indi a poco l'Italia,
adulto appena, stendesse le sue braccia in più remoti paesi. Prendesse
la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e s'inoltrasse poi nell'ampie
regioni della Spagna; e renduto già virile e possente, soggiogasse da
poi la Macedonia, la Grecia, la Siria, la Gallia, l'Asia, l'Africa, la
Bretagna, l'Egitto, la Dacia, l'Armenia, l'Arabia, e l'ultime province
dell'oriente; tanto che alla perfine oppresso dal grave peso di
tanta, e sì sterminata mole, bisognò che cedesse sotto il suo incarico
medesimo.

Ma forse cosa più ammirabile e degna di maggior commendazione dovrebbe
sembrare l'istituto e la moderazione, che praticò colle genti vinte e
debellate. E non seguendo l'esempio degli Ateniesi, e de' Lacedemoni,
da' quali tutte come straniere venivan trattate prendendo di loro
troppo aspro governo: quelle condizioni, o dure o piacevoli lor
concedeva, che s'avesse meritato, o la loro fedeltà ed amicizia,
ovvero l'ostinazione e protervia. Alcuni Popoli, dice Flacco[24],
pertinacemente contra i Romani guerreggiarono. Altri conosciuta
la virtù loro serbaron a' medesimi una costante pace. Alcuni altri
sperimentando la loro fedeltà e giustizia, spontaneamente a color si
rendettono ed unirono, e frequentemente portaron le armi contra loro
nemici; onde era di dovere, che secondo il merito di ciascuna Nazione
ricevessero le leggi e le condizioni; imperciocchè non sarebbe stata
cosa giusta, che con eguali condizioni s'avessero avuto a trattare
i Popoli fedeli, e coloro che tante volte violando la fede ed i
giuramenti dati, ruppero la pace, e portarono guerra a' Romani. Per
questa cagione fu da essi con diverse condizioni governata l'Italia
dall'altre province dell'Imperio. Quindi avvenne, che nelle città
istesse d'Italia fossero stati introdotti que' varj gradi, e quelle
varie ragioni di cittadinanza Romana, di Municipj, di Colonie, di
Latinità, di Prefetture, e di Cittadi Federate; e quindi avvenne
ancora, che rendutisi Signori di tante, e sì remote province, con
prudente consiglio si fosse istituito, che altre fossero Vettigali,
altre Stipendiarie, o Tributarie: altre Proconsolari, ed altre
Presidiali.



CAPITOLO I.

_Delle Condizioni delle città d'Italia._


I Romani avendo cacciati i loro Re, si vollero esentare affatto dalla
signoria pubblica, per godere di una perfetta ed intera libertà,
così per le loro persone, come per le loro facoltà. In quanto alle
persone, essi non dipendevano da alcun Re, o Monarca: siccome non
vollero dipendere da alcun Magistrato per diritto di signoria, per
cui potessero essere chiamati sudditi, ch'è quel, che chiamavano _Jus
libertatis_, il qual era uno de' diritti e privilegi de' cittadini
romani. Nè tampoco vollero astringersi affatto alla potenza pubblica
de' Magistrati, avendole tolto la facoltà di condannare a morte,
e di far battere alcun cittadino romano. Ed egli è da credere, che
sarebbonsi eziandio astenuti di Magistrati, se avessero potuto trovare
altra forma di governarsi: cotanto odiavano la Signoria pubblica, a
cagion della tirannia d'alcuni de' loro Re, i quali se n'erano abusati.
Era ancora diritto de' cittadini romani l'esser annoverati nelle Tribù,
e nelle Centurie da' Censori: dare i suffragi: poter esser assunti
a' primi onori e supremi Magistrati: esser soli ammessi nelle legioni
romane, e partecipi de' beneficj militari, e del pubblico erario: goder
soli della potestà patria verso i figliuoli[25], delle ragioni della
gentilità, dell'adozioni, della toga, del commercio, de' connubj, e
degli altri privilegi spiegati dottamente dal Sigonio[26].

In quanto alle facoltà, vollero ancora i Romani, che i loro retaggi
fossero interamente liberi, cioè a dire, esenti dalla pubblica
signoria, e che appartenessero ai proprietari di quelli _Optimo Jure_,
ovvero, com'essi dicevano, _Jure quiritium_. Ciò che spinse Bodino[27]
a dire, che la signoria pubblica sia una invenzione di popoli barbari,
e che i Romani non la riconoscevano, nè sopra le persone, nè sopra i
beni; la qual cosa è ben vera per le persone de' cittadini romani, e
di coloro, che per privilegio eran tali divenuti; ed intorno a' beni,
per le terre d'Italia: ma egli è facilissimo avvisare, che essi la
riconoscevano a rispetto di coloro, che non erano cittadini romani,
e che per conseguenza non avevano quel diritto di libertà, ch'era lor
proprio: e sopra i retaggi situati fuori d'Italia, ben la riconobbero,
come si vedrà quinci a poco, non essendo a' provinciali per le loro
robe conceduto quel _Jus Quiritium_, che si conosceva per quell'antica
loro divisione _rerum mancipi et nec mancipi_.

Questi erano i più ragguardevoli privilegi de' cittadini romani, cioè
di coloro che in Roma, o ne' luoghi a se vicini ebbero la fortuna di
nascere: e secondo, che alcuni di essi erano conceduti per ispezial
grazia, e favore agli altri luoghi d'Italia, vennero quindi a formarsi
quelle varie condizioni di Municipj, di Colonie, di Città federate e di
Prefetture.

La condizione de' _Municipj_ era la più piacevole ed onorata, che
potesse alcuna città d'Italia avere, particolarmente quando era a'
medesimi conceduto anche il privilegio de' suffragi; nel qual caso,
toltone l'ascrizione alle Curie romane, ch'era propria de' cittadini
di Roma, i quali in essa dimoravano, i Municipj poco differivano da'
cittadini romani stessi; ed eran chiamati _Municipes cum suffragio_
per distinguergli da coloro, a' quali tal privilegio non era conceduto,
detti perciò _Municipes sine suffragio_. Era ancora lor permesso creare
i Magistrati, e di ritener le leggi proprie a differenza de' Coloni,
che non potevan aver altre leggi, che quelle de' Romani. E quindi
deriva, che infino a' nostri tempi, le leggi particolari d'un luogo o
d'una città, le appelliamo leggi municipali; la quale prerogativa, o
permettendo o dissimulando il Principe, veggiamo anche oggi, che molte
città di queste nostre province la ritengono[28].

A' Municipj seguivano nell'onore le _Colonie_. Non possono gli
Scrittori d'ogni età abbastanza lodar l'istituto di Romolo, così
frequentemente da poi praticato da' Romani, di mandare nelle regioni
vinte o vote, nuovi abitatori, che chiamarono Colonie. Da questo
meraviglioso istituto ne derivavano più comodi: alla città di Roma, la
quale oppressa dalla moltitudine de' cittadini per lo più impotenti
e gravosi, veniva perciò a sgravarsene: a' cittadini medesimi, i
quali, con assegnarsi loro in quelle regioni i campi, venivano ad aver
conforto e comodità di vivere: agli stessi Popoli soggiogati, perchè
erano i loro paesi più frequentati, i campi meglio coltivati, ed il
tutto riducevasi a più grata forma di vivere, onde acquistavan essi
ancora costumi più politici e civili: e per ultimo, allo stesso romano
Imperio; poichè oltre all'esser cotal ordinamento cagione, che nuove
terre, e città s'edificassero, rendeva il paese vinto al vincitor
più sicuro, e riempieva d'abitatori i luoghi voti, e manteneva nelle
regioni gli uomini ben distribuiti: di che nasceva, che abitandosi
in una regione più comodamente, gli uomini più vi moltiplicavano, ed
erano all'offese più pronti, e nelle difese più sicuri, perchè quella
Colonia, la qual è posta da un Principe in paese nuovamente occupato,
è come una rocca, ed una guardia a tener gli altri in fede. Per queste
cagioni le Colonie, come quelle, che in tutto derivavano dalla città
di Roma, a differenza de' Municipj, (che per se soli si sostenevano,
appoggiati a' propri Magistrati, ed alle proprie leggi) niente di
proprio aveano, ma dovevan in tutto seguire le leggi e gl'instituti del
P. R. La qual condizione, ancor che meno libera apparisse, nulladimeno
era più desiderabile ed eccellente per la maestà e grandezza della
città di Roma, di cui queste Colonie eran piccioli simulacri ed
immagini. E col sottoporsi alle leggi del P. R. per la loro eccellenza
ed utilità, era più tosto acquistar libertà, che servitù. Oltre che le
leggi particolari e proprie de' Municipj, come rapporta Agellio[29],
eran così oscure e cancellate, che per l'ignoranza delle medesime, non
potevano nè anche porsi in usanza. Ma l'amministrazione ed il governo
delle Colonie non d'altra guisa era disposto, se non come quello della
città stessa di Roma; imperocchè siccome in Roma eravi il Popolo ed il
Senato, così nelle Colonie la Plebe ed i Decurioni: costor l'immagine
rappresentando del Senato, colei del Popolo. Da' Decurioni ogn'anno
eleggevansi due o quattro, secondo la grandezza o picciolezza della
Colonia, appellati _Duumviri_ o _Quatuorviri_, che avevan somiglianza
co' Consoli romani. Vi si creava l'Edile, il qual dell'annona, de'
pubblici edificj, delle strade, e delle simiglianti cose teneva
cura: il Questore, cui davasi in guardia il pubblico Erario, ed altri
Magistrati minori a somiglianza di Roma. In breve vivevasi in tutto co'
costumi, colle leggi e cogli istituti de' Romani stessi: ed ai nuovi
abitatori pareva, come se vivessero nella città stessa di Roma. Augusto
fu che, avendo in Italia accresciute ventiotto altre Colonie, stabilì
che queste non avessero facoltà indipendente d'eleggere dal loro corpo
i Magistrati, ma lor concedette solamente, che i Decurioni dassero essi
i suffragi di que' Magistrati che volevano, i quali suffragi dovessero
mandar chiusi e suggellati in Roma, dove doveano crearsi[30].

Oltre a Municipj e alle Colonie furon ancora, prima della guerra
italica, altre cittadi in Italia, che tenevano condizioni assai più
onorate e libere. Queste erano le _città federate_, le quali toltone
qualche tributo, che pagavan a' Romani per la lega e confederazione con
essi pattuita, nell'altre cose erano riputate in tutto libere. Avevano
la lor propria forma di Repubblica, vivevano colle leggi loro, creavano
esse i Magistrati, e spesso ancora s'avvalevan de' nomi di Senato e di
Popolo. Così appresso Livio leggiamo, che Capua ne' primi tempi, quando
era Città Federata, non peranche ridotta in Prefettura, si governava
in forma di Repubblica, avendo Magistrati, Senato e Popolo, e proprie
leggi. De' Tarentini ancor si legge, che se bene vinti, furono da'
Romani lasciati nella loro libertà: de' Napolitani, de' Prenestini[31],
di que' di Tivoli, e d'altri Popoli, essere il medesimo accaduto, ben
ce n'accerta Polibio[32], le città de' quali eran così libere, ch'era
permesso a' condennati in esilio, di farvi dimora, e soddisfar così
all'imposta pena.

Sieguono nell'ultimo luogo le _Prefetture_. Non v'ha dubbio alcuno, che
fra tutte le città d'Italia, quelle ridotte in forma di Prefettura,
sortissero una condizione durissima; poichè quelle città che ingrate
e sconoscenti al P. R. la fede datagli violavano, ridotte di nuovo in
sua podestà, non altra condizione ricevevano, che di Prefettura; laonde
siccome alle province ogni anno da Roma solean mandarsi i Pretori, così
in queste città mandavansi i Prefetti, all'amministrazione e governo
de' quali eran commesse; e perciò vennero chiamate Prefetture. Coloro,
che in esse abitavano, non potevan usare, o le proprie leggi ritenere
come i Municipj, nè dal loro corpo creare i Magistrati, come i Coloni:
ma da' Magistrati di Roma venuti, eran essi retti, e con quelle leggi
vivevano che a coloro d'imporre piaceva. Di questa condizione fu già
un tempo Capua, cioè dopo la seconda guerra di Cartagine, ed avantichè
da Cesare fosse stata mutata in forma di Colonia. Le Prefetture
ancora eran di due sorti. Dieci città, tutte poste in questo Reame,
eran governate da dieci Prefetti, che dal Popolo romano si creavano
e si mandavan al governo delle medesime. Queste furono Capua, Cuma,
Casilino[33], Vulturno, Linterno, Pozzuoli, Acerra, Suessula[34],
Atella e Calatia[35]. All'altre soleva il Pretor Urbano ogni anno
mandare i Prefetti per reggerle, e queste erano Fondi, Formia[36],
Ceri, Venafro, Alife, Piperno, Anagni, Frusilone, Rieti, Saturnia,
Nursia ed Arpino.

Fu tempo, che il numero delle città federate in Italia era maggiore
delle Colonie, de' Municipj e delle Prefetture: ma da poi si videro
varie mutazioni, passando l'una Città nella condizione dell'altra, e
questa in quella. Così Capua da Città Federata passò in Prefettura,
indi nel Consolato di C. Cesare in Colonia: Cuma, Acerra, Suessula,
Atella, Formia, Piperno ed Anagni prima Municipj, indi Colonie, e
talora anche Prefetture. Fondi, Ceri ed Arpino in alcun tempo furono
Municipj: Casilino, Vulturno, Linterno, Pozzuoli e Saturnia, Colonie:
e Calatia, Venafro, Alife, Frusilone, Rieti e Nursia, mentre durò la
libertà del P. R. furono sempre Prefetture.

Ma non dobbiamo tralasciar di notare, che questi varj gradi, e varie
condizioni delle città d'Italia ebbero tutta la lor fermezza, mentre
durò la libertà del P. R. poichè dopo, tralasciando che Augusto privò
della libertà molte Città Federate, le quali licenziosamente troppo
di quella abusavano[37]: essendosi per la legge Giulia adeguati i
suffragi di tutti, e conceduta parimente la cittadinanza a tutta
l'Italia, siccome da poi da Antonino Pio fu conceduta alle province: le
ragioni de' Municipj, delle Colonie e delle Prefetture furono abolite,
e cominciarono questi nomi a confondersi, in guisa che alle volte la
Colonia veniva presa per Municipio, il Municipio per Colonia, ed anche
per Prefettura: onde dopo la legge Giulia tutte le città d'Italia, alle
quali fu conceduto il Jus de' suffragi, potevan Municipj nomarsi; e da
poi Antonino Pio fece una la condizione non pur delle città d'Italia,
ma di tutte le genti, e Roma fu comun patria di tutti coloro, che al
suo imperio eran soggetti[38].

Queste furon le varie condizioni delle città d'Italia. Non dissimil
avrem ora da narrar quelle, che il Popolo romano concedette alle
province fuori di quella.



CAPITOLO II.

_Delle Condizioni delle Province dell'Imperio._


Le terre delle province non lasciarono d'esser nella signoria pubblica
dell'Imperio romano, e d'essere tributarie, come prima. I Romani,
avendo nel corso di cinquecento anni soggiogata l'Italia, portando le
vittoriose loro armi fuori di essa, sottoposero al loro imperio molti
vasti ed immensi paesi, che divisero non in regioni, ma in forma di
province. Le prime furon la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, le due
province della Spagna, l'Asia, l'Etolia, la Macedonia, l'Illirico, la
Dalmazia, l'Affrica, l'Acaja, la Grecia, la Gallia Narbonese, l'Isole
Baleari, la Tracia, la Numidia, Cirene, Cilicia, Bitinia, Creta,
Ponto, la Siria, Cipro e la Gallia transalpina. Alle quali da poi da'
Cesari s'aggiunsero la Mauritania, la Pannonia, la Mesia, l'Egitto, la
Cappadocia, la Bretagna, la Dacia, l'Armenia, la Mesopotamia, l'Assiria
e l'Arabia.

Le principali condizioni, e le comuni a tutte queste province del
romano Imperio furono: I. che dovessero ubbidire al Magistrato romano,
ond'è che da' varj nomi de' Magistrati fossero altre appellate
Proconsolari, altre Presidiali; II. che ricevessero le leggi del
vincitore; III. che fossero al medesimo tributarie. Ma nell'imporre
i tributi, fuvvi infra loro varietà considerabile: poichè i Romani,
de' campi[39] occupati a' nemici, alcuni ne vendevano, altri venivan
assegnati a' veterani, altri ancora si lasciavano agli antichi
possessori, o per grazia, o per amicizia, o per altra cagione, che
movesse il Capitano. Quelli, a' quali i campi non erano in tutto o
in parte tolti, fecero o vettigali, o stipendiarj, ovvero tributarj;
per la qual cosa alcune province si dissero da poi vettigali, altre
stipendiarie, e tributarie. Le vettigali eran quelle, che pagavano
certe gabelle, o dazj di cose particolari, e determinate, come del
porto, delle cose venali, de' metalli, delle saline, della pece,
e di cose simili, le quali solevano affittarsi a' Pubblicani.
Le stipendiarie ovvero tributarie eran quelle, le quali un certo
stipendio o tributo pagavano al P. R., ed ancorchè da Ulpiano[40] si
confondessero questi due nomi di stipendio e di tributo, in realtà però
erano diversi; poichè lo stipendio era un peso certo ed ordinario:
il tributo era incerto e straordinario, che secondo la varietà, o
necessità de' tempi e delle cose s'imponeva[41].

In questa guisa adunque alcune province dell'Imperio romano furono
vettigali, come l'Asia, la Gallia Narbonense e l'Aquitania: alcune
altre tributarie. Ma siccome le condizioni delle città d'Italia non
furono sempre le medesime, nè costanti, e furon poscia da' Cesari
mutate: così lo stato delle province, cominciando ad introdursi
il Principato, e l'autorità degl'Imperadori sempre più crescendo,
mutarono anch'esse le condizioni, secondo il volere de' Principi.
Così l'Asia fu vettigale infino, che Cesare, debellato Pompeo, non
la trasformasse in tributaria[42]. La Gallia fu mutata parimente da
vettigale in tributaria da Augusto, dappoichè intera fu manomessa[43].
Ed all'incontro ne' tempi seguenti si vide, che Vespasiano concedè il
_Jus Latii_ alle Spagne[44]. Nerone pur egli diede la libertà alla
Grecia tutta; ma Vespasiano glie la tolse ben tosto, facendola di
nuovo vettigale, e la sottopose a' Magistrati romani, come quella, che,
siccome scrive Pausania[45], s'era dimenticata di servirsi a bene della
libertà.

Finalmente gli altri Imperadori Romani, che nient'altro badavano,
che di ridurre a poco a poco l'Imperio alla Monarchia, per togliere
a' Romani tutti i lor privilegi (siccome erasi fatto delle città
d'Italia, che per la legge Giulia furon tutte uguagliate a Roma) fecero
anch'essi delle province; laonde l'Imperador Antonino[46], non osando
alla scoverta togliere questi privilegi al Popolo romano, gli comunicò
per un fino tratto di stato a tutti i sudditi dell'Imperio, donando
a' provinciali la cittadinanza romana[47], con fargli tutti Romani;
il che altro non fu che togliere con effetto, ed abolire i privilegi
de' cittadini romani, riducendogli in diritto comune; e come ben a
proposito disse S. Agostino[48], _ac si esset omnium, quod erat ante
paucorum_. Ciocchè Rutilio Numaziano spiegò così bene in que' suoi
versi[49].

E lungo tempo appresso, Giustiniano tolse scovertamente questa
differenza di terre d'Italia, e di province; e per abolire tutti i
vestigi e l'orme della libertà popolare, disse finalmente, che questo
_Jus Quiritum_ era un nome vano e senza soggetto[50]. Ed in verità se
gli tolse tutto il suo effetto, allorchè abolita la differenza _rerum
mancipi, et nec mancipi_[51], fu stabilito, che ciascuno fosse arbitro
e moderatore delle sue robe. Così da una parte i Romani rimasero
senza privilegi; e dall'altra i Provinciali, a' quali fu conceduta
la cittadinanza, non perciò ne guadagnarono cosa alcuna; imperocchè
pian piano si ridusse l'esser riputati cittadini romani, ad un nudo e
vano nome d'onore; poichè non per questo non erano costretti a pagare
i dazj ed i tributi, come scrisse S. Agostino medesimo[52]: _Nunquid
enim illorum agri tributa non solvunt?_ Anzi negli ultimi tempi della
decadenza del loro Imperio, la condizione de' Provinciali si ridusse
a tanta bassezza e servitù, che impazienti di soffrire il giogo e la
tirannide degli Uffiziali romani, passavan volentieri alla parte de'
Goti, e dell'altre Nazioni straniere. Salviano[53], Scrittore di questi
ultimi tempi, che fiorì nell'imperio d'Anastasio Imperadore, rapporta,
che i Provinciali passavano frequentemente sotto i Goti, nè di tal
passaggio si pentivano, eleggendo più tosto, sotto specie di cattività
viver liberi, che sotto questo specioso nome di libertà, essere in
realità servi; in maniera, che e' soggiunge, _nomen Civium Romanorum
aliquando non solum magno aestimatum, sed magno emptum, nunc ultro
repudiatur, ac fugitur; nec vile tantum, sed etiam abominabile pene
habetur_. Ed Orosio[54], ed Isidoro parimente rendono testimonianza,
che i medesimi eleggevano più tosto poveri vivere fra' Goti, che esser
potenti fra Romani, e sopportare il giogo gravissimo de' tributi:
di che ci sarà data altrove più opportuna occasione di lungamente
ragionare.

Tali, e così varie furono le condizioni delle città d'Italia, e
delle province dell'Imperio romano; ma qual forma di politia, e
quante divisioni ricevesse l'Imperio infino a' tempi di Costantino il
Grande, uopo è qui, per la maggior chiarezza delle cose da dirsi, che
brevemente trattiamo.



CAPITOLO III.

_Della disposizione dell'Imperio sotto Augusto._


Quattro divisioni, per comun consentimento degli Scrittori, le
quali altrettanti Autori riconoscono, e quattro aspetti e forme di
Repubbliche ebbe l'Imperio Romano fino alla sua decadenza. Della prima,
di cui Romolo fu l'autore, troppo a noi remota, e che niente conduce
all'istoria presente, non farem parola: ma della seconda stabilita da
Augusto, e della terza, che riconosce per suo autore Adriano, egli è di
mestieri, che qui ristrettamente se ne ragioni, senza la cui notizia
non così bene s'intenderebbe la quarta, che introdotta da Costantino
M. fu poi da Teodosio il Giovane ristabilita, della quale nel secondo
libro, come in suo luogo, ragioneremo.

Tutte quelle regioni, che nel corso di 500. anni furono soggiogate
dal P. R. non con altro general nome, che sotto quello d'Italia furon
appellate. Ma questa ebbe varj distendimenti, e varj confini; poichè
prima i suoi termini erano il fiume Eso dal mar superiore, e il fiume
Macro dal mar inferiore; ma dopo vinti, e debellati i Galli Senoni si
distese infin al Rubicone; e finalmente essendosi a lei aggiunta anche
tutta la Gallia Cisalpina, allargò i suoi confini infin alle radici
dell'Alpi; onde furono i di lei termini, verso il mare superiore,
l'Istria, il Castello di Pola, ed il fiume Arsia; nel mar inferiore, il
fiume Varo, che da' Liguri divide la Gallia Narbonense; e per confine
mediterraneo ebbe le radici dell'Alpi.

Fu l'Italia, secondo questa estensione, divisa da Cesare Augusto in
undici _Regioni_[55], delle quali la I. abbracciava il vecchio, e 'l
nuovo Lazio e la Campania: la II. i Picentini: la III. i Lucani, i
Bruzj, i Salentini ed i Pugliesi: la IV. i Ferentani, i Marrucini, i
Peligni, i Marsi, i Vestini, i Sanniti ed i Sabini: la V. il Piceno: la
VI. l'Umbria: la VII. l'Etruria: l'VIII. la Gallia Cispadana: la IX. la
Liguria: la X. Venezia, Carni, Japigia ed Istria: e la XI. la Gallia
Traspadana. Queste regioni, com'abbiam di sopra narrato, secondo la
varia condizione delle loro città, eran governate da' Romani, e secondo
le costoro leggi viveansi, nè furon divise in province giammai.

In province furon divisi que' luoghi e quegli ampi paesi, che
soggiogata l'Italia, coll'ajuto di lei conquistò da poi il P. R. Le
prime furono la Sicilia, la Sardegna e la Corsica: quindi avvenne che
la Sicilia, secondo questa descrizione dell'Imperio, fosse riputata
provincia fuori d'Italia; onde Dione lasciò scritto, che avendo Augusto
fatto un Editto, che i Senatori non dovessero andar senza licenza di
Cesare fuori d'Italia, eccettochè nella Sicilia, e nella provincia
Narbonense, bisognò che espressamente eccettuasse dall'Editto queste
due province, perchè altrimente vi sarebbero state comprese. Furono
poi aggiunte le Spagne e l'Asia, l'Etolia, la Macedonia, l'Illirico, la
Dalmazia, l'Affrica, l'Acaja, la Grecia, la Gallia Narbonense, l'Isole
Baleari, la Tracia, Numidia, Cirenaica, Cilicia, Bitinia, Creta, Ponto,
l'Assiria, Cipro, e la Gallia Transalpina.

Nel tempo della libera Repubblica, il governo di queste province era
regolarmente a' Presidi commesso, che da Roma in esse mandavansi.
V'erano ancora delle province Consolari, a' Consoli, o vero Proconsoli,
date in governo; queste sotto Pompeo e Cesare, furon le Spagne, le
Gallie, l'Illirico e la Dalmazia: e la Cilicia e la Siria sotto
Cicerone e Bibulo Proconsoli. Altre Pretorie, le quali furono I.
Sicilia, II. Sardegna e Corsica, III. Affrica e Numidia, IV. Macedonia,
Acaja e Grecia, V. Asia, Lidia, Caria, Jonia e Misia, VI. Ponto e
Bitinia, VII. Creta, ed VIII. Cipro.

Furon da poi da' Cesari aggiunte altre province all'Imperio romano,
ciò sono, la Mauritania, la Pannonia, la Mesia, l'Affrica, le province
orientali, la Cappadocia, Britania, Armenia, Mesopotamia, Assiria,
Arabia ed altre; le quali province da Augusto, altre in Proconsolari
partite furon, altre in Presidiali. Le province più pacifiche e quiete,
le quali senz'arme, ma col solo comandamento potevan governarsi, le
diede egli in guardia e le commise alla cura del Senato, il quale vi
mandava i Proconsoli. Le più feroci e le più torbide, che senza militar
presidio non potevan reggersi, riserbò a se, ed in queste mandava
egli il Preside. Ecco in brieve qual fosse la disposizion dell'Imperio
romano sotto Augusto.



CAPITOLO IV.

_Della disposizione e politia di queste regioni, che oggi compongono il
Regno di Napoli: e della condizione delle loro città._


Questa parte d'Italia adunque, che ora appelliamo Regno di Napoli, non
era partita in _Province_; come fu fatto da poi ne' tempi d'Adriano.

Ella fu divisa in _Regioni_ e da varj popoli, che in esse abitarono
presero insieme, o diedero il nome agli abitatori. Abbracciava i
Campani, i Marrucini, i Peligni, i Vestini, i Precuzj, i Marsi, i
Sanniti, gl'Irpini, i Picentini, i Lucani, i Bruzj, i Salentini, gli
Japigi, ed i Pugliesi.

Ciascuna di queste regioni ebbe città per loro medesime chiare ed
illustri, le quali secondo la varia lor condizione eran da' Romani
amministrate, e secondo le leggi de' medesimi viveano. Vi furon di
quelle, che sortirono la condizione di _Municipj_, le quali, oltre alle
leggi romane, potevan anche ritener le proprie e municipali. Di questa
condizione nella _Campania_ furono Fondi e Formia, la quale da poi
fu da' _Triumviri_ fatta Colonia; Cuma, ed Acerra, altresì da Augusto
renduta Colonia; Sessa, ed Atella, le quali parimente lo stesso Augusto
in Colonie da poi mutò: Bari in _Puglia_, e molte altre città poste in
altre regioni.

Ma più numerose furon in queste nostre regioni le _Colonie_, che da
tempo in tempo, e nella libera Repubblica, e sotto gl'Imperadori furono
successivamente accresciute.

Colonie nella _Campania_ furon Calvi, Sessa, Sinvessa[56], Pozzuoli,
Vulturno, Linterno, Nola, Suessula, Pompei, Capua, Casilino, Calazia,
Acquaviva, Acerra, Formia, Atella, Teano, Abella, e poscia la nostra
Napoli ancora, la quale da Città Federata fu trasformata in Colonia.

Colonie parimente furono nella _Lucania_ Pesto[57], Buxento[58], Conza
ed altre città. Nel _Sannio_, Saticula[59], Casino, Isernia, Bojano,
Telese, Sannio, Venafro, Sepino, Avellino, ed altre.

Nella _Puglia_, Siponto, Venosa, Lucera, che da città federata passò
ancor ella in Colonia; e, per tralasciar l'altre, Benevento che ne'
tempi d'Augusto, come rapporta Plinio[60], non già alla Campania, come
fu fatto da poi, ma alla Puglia appartenevasi[61].

Colonie anche furono Brindisi, Lupia, ed Otranto, ne' _Salentini_.
Valenzia, Tempsa, Besidia, Reggio, Crotone, Mamerto, Cassano, Locri,
Petelia, Squillace, Neptunia, Ruscia, e Turio, ne' _Bruzj_[62]; alcune
delle quali avvegna che prima godessero il favor di Città Federate,
furon quindi in Colonie mutate; siccome Salerno, Nocera, ed altre
città, ne' _Picentini_; ed alcune altre poste nell'altre regioni, che
non fa mestieri qui tesser di loro un più lungo catalogo.

In tutte queste città si viveva conforme al costume, alle leggi ed
agl'istituti dell'istessa Roma. A somiglianza del Senato, del Popolo,
e de' Consoli, aveano ancor'esse i Decurioni, la Plebe, e i Duumviri.
Avean similmente gli Edili, i Questori, e gli altri Magistrati minori
in tutto uniformi a quelli di Roma, di cui erano piccioli simulacri
ed immagini: quindi è che si valevan de' nomi di _Ordo_, ovvero di
_Senatus Populusque_[63]. E per questa ragione in alcuni marmi,
che sottratti dal tempo edace son ancora a noi rimasi, veggiamo,
che indifferentemente si valsero di questi nomi. Moltissimi possono
osservarsi in quella stupenda e laboriosa opera di Grutero[64], ove fra
l'altre leggiamo più inscrizioni poste da' Nolani ad un qualche loro
benefattore, che tutte finiscono: S. P. Q. _Nolanorum_. Anche i Segnini
nel Lazio ad un tal Volumnio dirizzarono un marmo, che diceva così[65].

                              L . VOLVMNIO
                              L . F . POMP
                            JULIANO . SEVERO
                        IIII . VIRO . COL . SIGN
                       PATRONO . COLONIAE . SUAE
                          S . P . Q . SIGNINUS

E Minturno pure ad un tal Flavio eresse quell'altro[66].

                           M . FLAVIO . POSTU
                           C . V . PATR . COL
                             ORDO . ET POPV
                               MINTVRNEN

Furonvi in queste nostre regioni eziandio le _Prefetture_. Erano in
Italia, secondo il novero di Pompeo Festo ventidue Prefetture. A dieci
città, che tutte eran in questo Reame, cioè Capua, Cuma, Casilino,
Volturno, Linterno, Pozzuoli, Acerra, Suessola, Atella, e Calazia,
si mandavan da Roma dieci Prefetti dal Popolo romano creati, a' quali
il governo e l'amministrazione delle medesime era commessa. A dodici
altre, i Prefetti mandavansi dal Pretor Urbano, e secondo il costui
arbitrio si destinavano: queste città eran Fondi, Formia, Cerri,
Venafro, Alife ed Arpino, tutte nel Regno; Anagni, Piperno, Frusilone,
Rieti, Saturnia e Nurcia, nell'altre regioni d'Italia.

La condizione di queste Prefetture, come s'è detto, era la più dura;
non potevano aver proprie leggi, come i Municipj: non potevan dal Corpo
delle loro città creare i Magistrati, come le Colonie: ma si mandavan
da Roma per reggerle. Sotto le leggi de' Romani vivevano, e sotto
quelle condizioni, che a' Magistrati romani loro piaceva d'imporre.

Non mancaron ancora in queste regioni, che oggi formano il nostro
Reame, le _Città Federate_. Queste toltone il tributo, che per la
lega e confederazion pattuita co' Romani pagavan a' medesimi, erano
reputate nell'altre cose affatto libere: avevano la loro propria forma
di Repubblica, vivevano colle leggi proprie: creavan esse i Magistrati,
e spesso ancora valevansi de' nomi di Senato e di Popolo. Di tal
condizione ne fu per molto tempo la nostra città di Napoli, furon i
Tarentini, i Locresi, i Reggioni[67], alcun tempo i Lucerini[68], i
Capuani, ed alcun altre delle città greche, le quali eran in Italia,
che tali furono, e Napoli, e Taranto, e Locri, e Reggio, le quali
per molto tempo non solo nelle leggi e ne' costumi e negli abiti non
s'allontanarono da' Greci, onde ebbero la lor origine, ma nè tampoco
nella lingua. Queste città da' Romani furon sempre trattate con tutta
piacevolezza e riputate più tosto per amiche e federate, che per
soggette, e toltone il tributo, che in segno della confederazione
esigevan da esse, lasciavanle nella loro libertà; tanto che, come
se queste città fossero fuori dell'Imperio, era permesso a gli esuli
Romani in quelle dimorare[69].


I. DI NAPOLI,

_Oggi capo e metropoli del Regno._

Napoli, ancorchè piccola città, ritenne tutte queste nobili
prerogative: ebbe propria politia, proprj Magistrati, e proprie leggi.
Ma quali queste si fossero, siccome dell'altre Città Federate, ben dice
il Sigonio[70], esser impresa molto malagevole in tanta antichità, e
fra tante tenebre andarle ricercando. Pure per essere stat'ella città
greca non sarà fuor di ragione il credere, essersi ne' suoi principj
governata colla medesima forma di Repubblica e di leggi, che gli
Ateniesi. Ella ebbe i suoi Arconti, ed i Demarchi, Magistrati in tutto
conformi a que' d'Atene. L'autorità degli Arconti prima non durava
più, che un anno, come quella de' Consoli in Roma: da poi fu prorogata
infino al decim'anno. Essi erano dell'ordine Senatorio, ed equestre:
siccome i Demarchi, a somiglianza dei Tribuni romani, appartenevano al
Popolo. Quindi non senza ragione i nostri più accurati Scrittori[71],
la divisione, che oggi ravvisiamo in questa città tra i Nobili,
ed il Popolo, la riportano fin'a questi antichissimi tempi. Altra
congettura ancora ci somministra di ciò credere, dal veder, ch'essendo
stata questa città greca, anzi con ispezialità così chiamata dagli
antichi Scrittori, siccome dimostra[72] Giano Dousa per quel luogo
di Tacito[73], dove di Nerone scrisse, _Neapolim quasi Graecam urbem
delegit_, avea altresì, come Atene, le sue _Curie_, che i Napolitani
con greco vocabolo chiamavano _Fratrie_.

Fu solenne istituto de' Greci distribuire i cittadini in più corpi,
ch'essi appellavano _File_; e quelli sottodividere in altri corpi
minori, che chiamavano _Fratrie_. Così in Atene il popolo era diviso
in File, e le File in Fratrie; non altrimenti che i Romani, i quali
anticamente erano distribuiti in Tribù, e le Tribù in Curie. Ma non in
tutte le città greche eravi questa doppia distribuzione: alcune aveano
solamente le File; altre le Fratrie; ond'è che i Grammatici spiegano
l'un per l'altro, e danno l'istessa potestà così all'uno, che all'altro
vocabolo. Napoli certamente ebbe distribuiti i cittadini in Fratrie, nè
vi furon File.

Queste Fratrie, o sian Curie non eran altro che confratanze, o vero
corpi, ne' quali si scrivevano e univano non già soli i congiunti
o fratelli d'un'istessa famiglia, ma molt'insieme della medesima
contrada; e per lo più la Fratria si componeva di trenta famiglie. Il
luogo ove univansi era un edificio, nel quale oltre a' portici ed alle
loro stanze, v'ergevano un privato tempio, che dedicavano a qualche
loro particolar Dio, o Eroe; e da quel Nume, a cui essi dedicavan la
Confratanza, si distingueva l'una dall'altra Fratria. In questo luogo
celebravano i loro privati sacrificj, i conviti, l'epule, e l'altre
cose sacre, secondo i loro riti e cerimonie distinte e particolari e
convenienti a quel Dio, o Eroe, a cui era il tempio dedicato. Eranvi
i Sacerdoti, i quali a sorte dovean eleggersi da questa, o da quella
famiglia; e poichè regolarmente le Fratrie si componevano di trenta
famiglie, da ciascheduna s'eleggevano a sorte i Sacerdoti. Convenivano
quivi costoro, ed i primi della contrada; e non solamente univansi per
trattar le cose sacre, i sacrificj e l'epule, ma anche trattavano delle
cose pubbliche della città, onde presero anche nome di Collegj.

In Napoli vi furon molte di queste Confratanze dedicate a loro
particolari Dii. Fra i Dii de' Napoletani i più rinomati e grandi
furono Eumelo, ed Ebone: onde quella Fratria, che adorava il Dio
Eumelo, fu detta _Phratria Eumelidarum_. Così l'altra, ch'era dedicata
al Dio Ebone, era nominata _Phratria Heboniontorum_. Fra gli Dii Patrii
che novera Stazio, ebbe ancor Napoli Castore e Polluce, e Cerere;
onde varj tempj a costoro furon da Napoletani eretti, de' quali serba
qualche vestigio ancora. Quindi la Fratria dedicata a questi Numi
fu detta _Phratria Castorum_: intendendo per questo dual numero così
Castore, come Polluce, siccome l'appellavan gli Spartani, onde i loro
giuramenti, _per Castores_; e quella dedicata a Cerere chiamossi perciò
_Phratria Cerealensium_. N'ebbero ancora un'altra dedicata a Diana,
della _Phratria Artemisiorum_, poichè presso a' Greci _Artemisia_ era
chiamata la Dea Diana[74]. Non pur agli Dii, ma anche agli Eroi solevan
i Greci dedicar le Fratrie; così parimente Napoli oltre a quelle,
che consecrò a' suoi patrii Dii, n'ebbe anche di quelle dedicate
agli Eroi; ed una funne dedicata ad Aristeo, onde fu detta _Phratria
Aristeorum_. Fu Aristeo figliuolo d'Apolline, e regnò in Arcadia: vien
commendato per essere stato egli il primo inventore dell'uso del mele,
dell'olio, e del coagulo: non fu però avuto per Dio, ma per Eroe. Delle
Fratrie de' Napoletani Pietro Lasena avea promesso darcene un compiuto
trattato, ma la sua immatura morte, siccome ci privò di molt'altre sue
insigni fatiche, le quali non potè egli ridurre a perfezione, così
anche ci tolse questa. Da tali Fratrie, siccome fu anche avvertito
dal Tutini[75], nelle quali s'univano i primi e i più nobili della
contrada, non pur per le funzioni sacre, ma anche per consultare de'
pubblici affari, hanno avuto origine in Napoli i Sedili de' Nobili,
i quali ne' monumenti antichi di questa città da' nostri maggiori
eran chiamati Tocchi, ovvero Tocci, dal greco vocabolo θῶκος, che i
latini dicono _Sedile_, ed oggi noi appelliamo Seggi, de' quali a più
opportuno luogo ci tornerà occasione di lungamente favellare.

Questi greci instituti si mantennero lungamente in Napoli; e Strabone,
che fiorì sotto Augusto, ci rende testimonianza, che fino a' suoi
tempi eran quivi rimasi molti vestigi de' riti, costumi ed instituti
de' Greci, il Ginnasio, di cui ben a lungo ed accuratamente scrisse P.
Lasena[76]; l'Assemblee de' giovanetti, e queste Confratanze, ch'essi
chiamavano Fratrie, e cent'altre usanze: _Plurima_, e' dice[77],
_Graecorum institutorum ibi supersunt vestigia, ut gymnasia, epheborum
Coetus, Curiae (ipsi Phratrias vocant) et graeca nomina Romanis
imposita_; e Varrone[78] che fu coetaneo di Cicerone, pur lo stesso
rapporta: _Phratria est graecum vocabulum partis hominum, ut Neapoli
etiam nunc_.

Egli è però vero, che tratto tratto questa città andava dismettendo
questi usi proprj de' Greci, ed essendo stata lungamente Città Federata
de' Romani, e da poi ridotta in forma di Colonia, divenendo sempre
più soggetta a Romani, cominciò a lasciare i nomi de' suoi antichi
Magistrati, come degli Arconti e dei Demarchi, de' quali par che si
valesse infino a' tempi d'Adriano, giacchè Sparziano[79] rapporta,
parlando di questo Imperadore, che fu Demarco in Napoli; poichè era
costume d'alcuni Imperadori romani volendo favorire qualche città
amica, d'accettare, quando si trovavan in quella, i titoli e gli onori
de' Magistrati municipali[80]. Ma da poi divvezzandosi col correr
degli anni dagl'istituti greci, e divenuta Colonia de' Romani, seguì
in tutto l'orme di Roma, con valersi de' nomi di Senato, di Popolo,
e di Repubblica, e de' Magistrati minori a somiglianza degli Edili,
Questori, ed altri Ufficiali di quella città, non altrimenti che usavan
tutte l'altre Colonie romane, come di qui a poco diremo.

Sono alcuni[81], che credono non esser mancati affatto in Napoli, non
ostante il lungo corso di tanti secoli, questi istituti, ed alcune
sue antichissime leggi; ma che ancora parte delle medesime durino fra
noi, e sian quelle, che furon registrate nel libro delle consuetudini
di questa città, che sotto Carlo II. d'Angiò si ridussero in iscritto,
traendo quelle consuetudini (che non può dubitarsi essere antichissime)
origine da queste leggi, le quali se bene dalla voracità del tempo
furon a noi tolte, lasciarono però ne' cittadini, come per tradizione,
quegl'instituti e costumanze, che nè il lungo tempo, nè le tante
revoluzioni delle mondane cose, poteron affatto cancellare. Ma questo
punto sarà meglio esaminato quando della compilazione di quel libro ci
toccherà di ragionare.

Riguardando adunque ora questa città, come federata a' Romani, non può
negarsi, che innanzi e dopo Augusto toltone il tributo, che pagava a'
Romani, fu da essi trattata con tutta piacevolezza, e lasciata nella
sua libertà, con ritener forma di Repubblica, e riputata più tosto
amica, che soggetta. Chiarissimo argomento della sua libertà è quello,
che ci somministra Cicerone[82]; poich'e' narra, ch'essendo stata per
la legge Giulia conceduta la cittadinanza romana all'Italia, fuvvi
fra que' d'Eraclea, e nostri Napoletani gran contrasto e grandissimi
dispareri, se dovessero accettare, o rifiutare quel favore da tutti
gli altri popoli d'Italia molto avidamente bramato; e reputando alla
perfine esser loro più profittevole rimanere nella lor antica libertà,
che soggettarsi, per quest'onore della cittadinanza, a' Romani,
anteposero la libertà propria alla romana cittadinanza. In brieve,
toltone il tributo, che in segno della sua subordinazione pagava a'
Romani, nel resto era tutta libera, siccome eran ancora tutte l'altre
Città Federate, e si reputavano come fuori dell'Imperio romano;
tantochè come s'è veduto, gli esuli de' Romani potevan in quelle
soddisfar la pena dell'imposto esilio[83].

Ma a qual tributo fosse obbligata Napoli non men che Taranto, Locri
e Reggio città anch'esse Federate, ben ce lo dimostran due gravissimi
Scrittori, Polibio, e Livio. La lor obbligazione era di prestar le navi
a' Romani nel tempo delle loro guerre. Queste città come marittime
abbondavan di vascelli, e gli studj de' Napoletani furon più, che in
altro, nelle cose di mare, come ben a proposito notò Pietro Lasena[84];
onde a quello gli obbligarono, che potevan esse somministrare; come
in fatti nella lor prima guerra navale, ch'ebbero co' Cartaginesi, i
Napoletani, i Locresi ed i Tarentini mandaron loro cinquanta navi. E
Livio[85] introducendo Minione rispondente a' Romani, i quali eran
venuti a dissuadergli la guerra che in nome d'Antioco intendeva
fare ad alcune città greche, le quali stavan alla loro divozione,
in cotal guisa lo fa parlare: _Specioso titulo uti vos, Romani,
Graecorum Civitatum liberandarum, video; sed facta vestra orationi non
conveniunt, et aliud Antiocho juris statuistis, alio ipsi utimini. Qui
enim magis Smyrnaei, Lampsacenique Graeci sunt, quam Neapolitani, et
Rhegini, et Tarentini, a quibus stipendium, a quibus naves ex foedere
exigitis?_

I Capuani, secondo che suspica l'accuratissimo Pellegrino[86], quando
la loro città era a' Romani federata, non dovettero pagar tributo
di navi, ma d'eserciti terrestri; perciocchè dominando eglino una
fecondissima regione, dovevan i loro eserciti militari esser di
fanteria, e di cavalleria; ed è ben noto, che i Capuani militarono in
gran numero negli eserciti terrestri de' Romani. Ma siccome l'infedeltà
de' Capuani verso i Romani portò la ruina della loro città, poichè
ridotta in Prefettura, rimase senza Senato, senza Popolo, senza
Magistrati, ed in più dura condizione, e servitù[87]; così all'incontro
Napoli perseverando con molta costanza nella medesima amicizia co'
Romani in ogni loro prospera e contraria fortuna, e singolarmente nel
tempo della seconda guerra Cartaginese, quando le frequenti vittorie,
che di coloro ottenne Annibale, avean riempiuta tutta l'Italia e la
medesima Roma di confusione e di terrore, fu loro sempre fedele,
e costante. Fu ancora questa città gratissima a' Romani per gli
piacevoli costumi ed esercizj dei suoi Greci, e per l'amenità del suo
clima, ond'i Romani d'ogni grado e d'ogni età, non che i men robusti
ed i consumati dalle fatiche e dagli anni quivi solevansi condurre a
diporto. Meritarono perciò i Napoletani, che nella lor città non si
mandasse alcun presidio, siccome all'incontro per la loro infedeltà
meritaron i Capuani, che nella loro Città continuamente dimorasse
presidio di soldati Romani, eziandio cessato il timore delle guerre co'
prossimi Sanniti, giacchè la sua incostanza così richiedeva[88]. Ma in
Napoli non fu mandato tal presidio, nè men in quel pericoloso tempo
della sudetta guerra Cartaginese, fuorchè a richiesta de' medesimi
Napoletani[89].

Così ancora per la loro intera fede meritarono, che niente si fosse
scemato dell'altra condizione della loro confederazione, per la
quale agli esuli Romani era permesso di potersi ricovrare in Napoli,
e dimorarvi senza timore; dove condurre volevasi a questo fine
lo scelerato Q. Pleminio, quando fra via fu fatto prigione da Q.
Metello[90]. Nè è leggiero argomento, ch'una tal franchigia non fosse
giammai violata, l'essersi anche in Napoli salvato Tiberio Nerone[91]
allorchè nell'Imperio romano per le lunghe guerre civili e per le
fazioni, nè le pubbliche leggi, nè altra cosa eran più rimase salve.
In questa guisa adunque fu da' Romani premiata la fedeltà napoletana; e
finchè si mantennero nella medesima città i suoi antichi usi, e costumi
greci; ella quasi sola di tutte l'altre città di queste regioni non
provò mutazione; avendo solamente avute per compagne, Reggio, Taranto
e Locri[92].


II. _Napoli non fu Repubblica affatto libera, ed indipendente da'
Romani._

Ma tutte queste prerogative furon de' Romani in premio della sua
fedeltà, e per la vita gioconda, che in questa città solevan essi
menare[93]; non già che Napoli fosse affatto libera da ogni servitù,
e totalmente independente Repubblica, anche a dispetto e contra i
sforzi de' Romani, come alcuni dall'amor della patria pur troppo
presi, non si ritennero di dire. Potrà alcun forse persuadersi mai,
che i vittoriosi e trionfanti Romani, avidissimi d'imperio, dopo aver
fatto acquisto, non solamente di tutta l'Italia, ma quasi dell'intera
terra nel loro tempo conosciuta, avendo soggiogati Re potentissimi e
bellicosissime Nazioni, con lunghissimi terrestri e marittimi viaggi,
e con faticosissime imprese per lo corso di molti secoli; non avessero
avute forze bastanti a conquistare una città sola, che pur era su gli
occhi loro? Mostrano ben costoro non avere nè pur piccola contezza
delle romane istorie, e molto meno della generosità Romana. È egli
cosa nuova avere i Romani in varj modi fatto dono della libertà a molti
popoli, ed a molte città, e singolarmente alle greche dopo averne fatto
acquisto, e talora d'avernele private in pena d'alcun lor fallo? Ne
sono pieni d'esempj i libri d'Appiano Alessandrino[94], di Livio, di
Svetonio, di Strabone, di Tacito, di Dione di Vellejo, de' due Plinj,
di Diodoro Siculo, di Giustino, di Plutarco, e d'altri assai; e per
non andar raccogliendo ogni detto di sì gravi Autori intorno a questo
non mai dubitato punto, potrassi apprender da quello, che della romana
Monarchia, come in un epilogo, raccolse un solo Strabone[95] nel fine
de' suoi libri della Geografia, cioè che fra le varie condizioni
de' Regi, e delle province, le quali ubbidivano a quell'Imperio,
eran ancora alcune città libere, o rimase in libertà per aver durato
nell'antica loro confederazione; o fatte nuovamente libere in premio
della lor fede: le sue parole in latino sono queste: _Eorum, quae
Romanis obediunt, partem Reges tenent, aliam ipsi habent, provinciae
nomine, et Praefectos, et Quaestores in eam mittunt. Sunt et nonnullae
Civitates liberae conditionis: aliae ab initio per amicitiam Romanis
adjunctae: aliae ab ipsis honoris gratia libertate donatae. Sunt et
principes quidam sub eis, et Reguli, et Sacerdotes: his permissum est
patria sectari instituta._

Erano adunque tutte queste prerogative loro doni; e dalla forma
del dire del romano Publio Sulpicio rispondente a Minione sul
fatto di sopra recato, _quae ex foedere debent, exigimus_[96] ben
si dinota aversi i Romani riserbato il tributo delle navi per una
certa spezie di servitù: tanto è lontano, ch'essi all'incontro ne'
bisogni de' Napoletani dovessero anche scambievolmente contribuir
le navi, come pure alcuni hanno sognato. Cicerone[97] ne somministra
un simigliantissimo esempio di Messina, città parimente confederata
coll'obbligo di dare una nave, declamando contra Verre, che per doni
l'avesse fatta franca di quel tributo nel tempo della sua siciliana
Pretura, e con ciò avesse diminuita la maestà della Repubblica,
l'ajuto del Popolo romano, e tolto il jus dell'imperio. _Pretio,
atque mercede minuisti majestatem Reipublicae; minuisti auxilia P. R.
minuisti copias, majorum virtute, ac sapientia comparatas. Sustulisti
jus imperii, conditionem Sociorum, memoriam foederis_; soggiungendo
appresso: _inerat nescio quomodo in illa foedere societatis, quasi
quaedam nota servitutis_. Oltre che i romani anche sopra i Napoletani
sovente s'assumevan certa potestà di comporre i loro litigi co'
popoli vicini, onde si legge appresso Valerio Massimo[98], che il
Senato mandò Q. Fabio Labeone come arbitro a stabilire i confini
fra' Nolani e Napoletani, per li quali erano venuti in contesa. In
breve, queste città quanto ritenevan della loro franchigia e libertà,
tutto lo riconoscevano dalla moderazione e dalla generosità romana: e
sovente molte città, che di questo lor dono abusavansi, n'eran esse
private: all'incontro alcune, le quali sapevan adoperarlo in bene,
erano profusamente di maggiori prerogative ed onori arricchite. In
fatti i Massiliesi furono liberati anche dal tributo; e Strabone[99]
oltre all'esempio di Massilia, aggiunge anche quello di Neumasio.
Cicerone[100] ancor rapporta, che per decreto del Senato fu conceduta,
oltre a Massilia, e a Neumasio, anche ad alcune altre cittadi,
l'immunità dalla giurisdizione de' Romani, e rendute esenti da ogni
potestà di qualunque lor Magistrato.

Essendo tale il costume e tanta la generosità dei Romani, potè credere
con fondamento quel diligentissimo investigatore delle nostre antichità
Camillo Pellegrino[101] che i Romani in decorso di tempo avesser anche
fatti liberi i Napoletani non solamente dall'obbligo delle navi, ma
anche d'ubbidire a qualunque lor Magistrato, sì per gli meriti della
loro costante fedeltà, come per gli piacevoli diporti, che in Napoli
prender solevano: onde, ei dice, che non sarebbe da riputarsi cosa
strana, che questa città cotanto lor cara fosse stata da essi renduta
franca del tributo delle navi nella universal pace del Mondo, imperando
Augusto, e che l'avesser anche sottratta da ogni potestà di qualunque
lor Magistrato. Cesare ben alcun tempo ebbe a sdegno i Napoletani,
come scrisse Cicerone[102]; forse perch'essendosi in Napoli gravemente
infermato Pompeo nel principio della lor gara, i Napoletani per la
sua salute offerirono molti sacrificj, e col lor esempio mossero
l'altre città d'Italia, e grandi e piccole a far perciò molti giorni
feriati[103]. Ma Augusto all'incontro gli ebbe molto cari; e che
d'alcun segnalato privilegio avesse lor fatto nobil dono, può esserne
manifesto argomento, ch'essi in onor suo dedicaron e celebrarono un
nobil giuoco d'Atleti, in cui egli stesso bramò d'esser presente[104].
La sua Livia, la quale condottavi dal suo primo marito Tiberio ne'
loro maggiori perigli, vi si era ricoverata[105]; il suo Virgilio, cui
piacquer tanto gli ozj napoletani[106]; tutte queste cose dovettero
essere stati soavi mantici d'un tant'amore; ond'è che non senza ragione
s'attribuisca ad Augusto d'aver accresciuta questa città d'altre
nuove prerogative, e d'averla prosciolta dall'obbligo delle navi, e
sottratta dalla potestà di qualunque romano Magistrato. E per questa
ragione alcuni[107], su la falsa credenza, che Napoli fosse interamente
divenuta cristiana, sin dal primo giorno della predicazione, che si
narra essersi quivi fatta da S. Pietro Apostolo, allorchè da Antiochia
venendo a Roma, vi ordinò il primo Vescovo Aspreno: tennero fermamente,
che in Napoli non vi fossero stati martirj di Cristiani; siccome
quella, che non soggetta a' Principi gentili, nè ad alcun altro lor
Magistrato, non permise quel macello in sua casa. Ma quanto ciò sia
dal ver lontano, ben fu avvertito da Pietro Lasena[108] e ben a lungo
fu dimostrato dal P. Caracciolo[109], e da noi sarà esaminato, quando
della politia ecclesiastica di queste regioni farem parola.

Duraron in Napoli lungo tempo sotto i successori d'Augusto queste
belle prerogative e queste piacevoli condizioni. Ma dappoichè i
Napoletani cominciaron pian piano a svezzarsi da' costumi natii, e
dagli usi de' Greci, e a quelli de' Romani accomodarsi, e finalmente
ad imitare in tutto i costoro andamenti: prese la lor città nuovo
aspetto e nuova forma di Repubblica. Fulvio[110] Ursino credette,
che Napoli da Augusto fosse stata renduta Colonia insieme coll'altre,
che dedusse in Italia; ma da quanto si è finora detto e da ciò che ne
scrive il P. Caracciolo[111], riprovando l'opinione di quest'Autore,
si conosce chiaro, che non da Augusto, ma in tempi posteriori o di
Tito, o di Vespasiano Napoli fu renduta Colonia. Che che ne sia, nè
perchè passasse nella condizione di Colonia, perdè quella libertà e
quella politia intorno a' Magistrati, che prima avea: non essendo a lei
intervenuto, come a Capua, che da Città Federata passò in Prefettura.
Ella come Colonia latina ritenne quel medesimo istituto di poter
dal suo corpo eleggere i magistrati[112]: non si mandavan da Roma i
Prefetti per governarla: ritenne ancora il Senato, il Popolo: ebbe
i Censori, gli Edili, ed altri Magistrati a somiglianza di Roma. Se
le permise valersi de' nomi di Senato e di Popolo e di Repubblica: e
molti marmi perciò leggiamo co' nomi di S. P. Q. N. e fra gli altri
quei trascritti da Grutero[113], che i Napoletani ad un tal Galba Bebio
Censore della Repubblica dirizzarono.

                        S . P . Q . NEAPOLITANVS
                     D . D . L . ABRVNTIO . L . F .
                         GAL · BAEB · CENSORI ·
                             REIPV . NEAP .

e quell'altro,

                        S . P . Q . NEAPOLITANVS
                       L . BAEBIO . L . F . GAL .
                       COMINIO PATRONO COLONIAE .

Il qual nome di _Senato_ mutaron poscia in quello d'_Ordine_, onde in
molti marmi si legge O. P. Q. N. scambiandosi regolarmente questi nomi,
come osserviamo indifferentemente in altri marmi d'altre Colonie.

Nè fu detta Colonia, perchè da Roma, o altronde fossero stati in lei
mandati nuovi abitatori, ma rimanendo gli antichi, se le concedettono
le ragioni del Lazio, siccome a tutte l'altre Colonie latine, le quali
e della Cittadinanza e di molte altre prerogative erano fregiate[114];
e per questa cagione potè ritenere, a differenza dall'altre Colonie,
le leggi patrie e municipali, senza avere in tutto a dipendere e a
reggersi colle sole leggi romane, siccome in fatti molte patrie leggi
e molti riti grecanici ritenne, i quali mai non perdette, e d'alcuni
d'essi tuttavia ne serba oggi vestigio.

Grave adunque è l'error di coloro, che riputaron Napoli Repubblica
totalmente libera ed indipendente dall'Imperio romano, solamente perchè
si legge il nome della napoletana Repubblica in più d'una antica
inscrizione, ed in più d'un antico Autore. Non avendo avvertito,
che ne' tempi d'Adriano, e molto più di Costantino M. e degli altri
Imperadori suoi successori fu città, come tutte l'altre, al Consolare
di Campagna sottoposta, siccome appresso mostreremo.

Molto maggiore fu l'error di coloro, i quali dieronsi a credere, che
infin a' tempi di Rugiero I. Re Normanno, non fu ella in alcun modo
soggetta a gl'Imperadori romani, nè da poi a' Goti Re d'Italia, e molto
meno agi Imperadori d'oriente, tanto che Alessandro Abate Telesino[115]
nell'istoria sua Normanna, parlando di Napoli soggiogata da Rugiero,
preso da quest'errore, non potè contenersi di dire, che questa città,
la quale _vix unquam a quoquam subdita fuit. nunc vero Rogerio, solo
verbo praemisso, submittitur_; imperciocchè non perchè Napoli, come
Città d'origine greca fosse da' Romani così benignamente trattata
coll'onore di Città Federata; nè perchè, eziandio dopo divenuta Colonia
latina, ritenesse lo stesso antico aspetto di Repubblica di poter
dal suo corpo creare i Magistrati, e le propie leggi servare, delle
dure condizioni dell'altre Prefetture non aggravata, dovrà dirsi, che
fosse stata esente dal roman Imperio; e molto meno, che non fosse da
poi sottoposta a' Goti, ed agl'Imperadori greci. Conciosiacchè ella
certamente in potestà di costoro, non solamente per forza d'armi, ma
per antichissima soggezione coll'Italia passò, ed a' medesimi ubbidì;
come nel proseguimento di quest'istoria si farà manifesto; e se dagli
Scrittori vien nominata Repubblica, fu perchè ritenne quella forma di
governo, che nè da Romani, nè da' Goti le fu vietata.

Nè veramente dovrà muovere tanto cotali Autori quella parola
_Repubblica_; poichè nella latina favella quel vocabolo denota la
comunità, non la dignità delle pubbliche cose, e sovente è usata per
denotare qualche forma d'amministrazione, o di governo pubblico;
anzi nelle Prefetture ancora, le quali eran prive d'ogni pubblico
consiglio, _erat_, come disse Festo[116], _quaedam earum Resp. neque
tamen Magistratus suos habebant_; a questo lor modo sarebbero state
Repubbliche, nel tempo di Seneca[117], Capua ancora, e Teano, ovvero
Atella. Il medesimo potrebbe anche dirsi di Nola, di Minturno, di
Segna, e di molte altre Colonie, che pur si chiamaron Repubbliche, e
ne' loro marmi mettevano parimente a lettere cubitali quel S. P. Q.
Ne' tempi più bassi ancora ve ne sono ben mille esempj appresso buoni
Autori, ed infiniti ce ne somministra il Codice di Teodosio[118].

Molto meno dovean cadere in quest'errore, traendo argomento dal dominio
ch'ebbe Napoli dell'isola di Capri, e poi dell'isola d'Ischia, con
cui quella permutò, per piacere a Tiberio[119]; poichè, come ben loro
risponde l'accuratissimo Pellegrino[120], senza che fossero andati
molto lontano, avrebbon potut'osservare, che Capua altresì, mentr'era
Colonia, possedeva nell'isola di Creta la regione Gnosia. E se questo
lor argomento, aver Napoli avuta signoria di quell'isola, fosse
bastante a riputarla libera Repubblica, nè men sarebbe da dubitarsi,
che questa prerogativa non l'avesse ancora ritenuta per molti secoli
seguenti sotto i Goti, sotto gl'Imperadori d'Oriente, e sotto altri
Principi; perciocchè ritenne delle sue vicine isole il dominio, anche
nel tempo di S. Gregorio M.[121], e più innanzi nel tempo ancora del
Pontefice Giovanni XII. e similmente nel Pontificato di Benedetto VIII,
ed eziandio in tempi meno a noi lontani, ne' quali, come si conoscerà
chiaro nel corso di quest'istoria, sarebbe follia il credere, che
fosse stata libera Repubblica ed indipendente da qualsivoglia altra
dominazione.


III. _Delle altre città illustri poste in queste regioni._

Ecco in brieve l'aspetto e la politia che avevan nell'età, di cui si
tratta, quelle regioni, che oggi compongon il Regno. Non era allora
diviso in province, come fu fatto da poi, ma in regioni: ciascheduna
delle quali aveva città, che secondo le loro condizioni, o di
Municipio, o di Colonia, o di Prefettura, o di Città Federata, si
governavano. Si viveva generalmente colle leggi de' Romani, siccome
quelle, che per la loro eccellenza eran venerate da tutte le genti,
come le più giuste, le più sagge, e le più utili all'umana società.
Solamente si permise, che i Municipj, e le Città Federate potessero
ritener le proprie e le municipali, ma queste mancando, si ricorreva a
quelle, come a' fonti d'ogni divina ed umana ragione. Eran i governi
secondo le condizioni di ciascheduna città: molte venivan rette da
Prefetti mandati da Roma, moltissime da' Magistrati, che dal proprio
seno era lor permesso d'eleggere, e quasi tutte si studiavano d'imitare
il governo di Roma lor capo, della quale erano piccoli simulacri ed
immagini.

Non, come ora, tutte le bellezze, tutte le magnificenze e le ricchezze,
stavan congiunte in una città sola, che fosse capo e metropoli sopra
l'altre: ciascuna regione avea molte città magnifiche ed illustri per
se medesime, Capua solamente un tempo innalzò il suo capo sopra tutte
le altre: già così chiara ed illustre, Lucio Floro[122] attesta essere
stata anticamente paragonata a Roma ed a Cartagine, le più famose e
stupende del Mondo: città così numerosa di gente e di traffico, ch'era
riputata l'emporio d'Italia; in guisa, che i nostri Giurisconsulti[123]
l'agguagliavan sempre ad Efeso, e quasi tutti gli esempj, che recano, o
di casi seguiti per contrattazioni, o di rimesse di pagamenti promessi
farsi in Capua da luoghi remotissimi, o di traffichi tra famosi
mercadanti, non altronde sono tolti, che da Capua, e da Efeso.

Ebbe la _Puglia_ quella famosa e per gli scritti di Livio, e d'Orazio
cotanto celebrata Luceria: ebbe Siponto che per antichità non cedette
a qualsivoglia altra città del Mondo: ebbe Venosa cotanto chiara
ed illustre per gli natali d'Orazio: ebbe Benevento la più famosa e
celebre Colonia de' Romani: ebbe Bari, ed altre Città per se medesime
rinomate ed illustri.

Ebbero i _Salentini_ Lupia, Otranto, e la vaghissima e deliziosa
Brindisi, città anche celebre per lo famoso suo porto, e sovente da'
nostri Giurisconsulti[124] rinomata a cagion delle spesse navigazioni,
che regolarmente quindi s'intraprendevano per oriente. Ebbero i _Bruzj_
tante altre chiare ed illustri città, Taranto, Crotone, Reggio, Locri,
Turio, Squillace: città feconde e produttrici di tanti chiari ed
insigni Matematici e Filosofi, onde ne sorse una delle più nobili Sette
della filosofia, detta perciò italica, ch'ebbe per Capo e Gonfaloniere
Pitagora, il qual in esse visse ed abitò per lunghissimo tempo, ed in
Crotone ebbe tal volta fino a secento discepoli, che l'ascoltarono.

Ebbero i _Lucani_ Pesto, e Bussento: i _Picentini_ Salerno, e Nocera: i
_Sanniti_ Isernia, Venafro, Telese, e Sannio cotanto chiara, che diede
il nome alla regione. Ove lascio Sulmona ancor famosa per gli natali
d'Ovidio, Nola, Sorrento, Pozzuoli, e quell'altre amene ed antiche
città, Cuma, Baja, Miseno, Linterno, Vulturno, Eraclea, Pompei, e le
tante altre, che ora appena serban vestigio delle loro alte rovine?


IV. _Scrittori illustri._

E chi potrebbe annoverare i tanti chiari e nobili spiriti, che in sì
illustri città ebbero i natali, i Filosofi, i Matematici, gli Oratori,
e sopra tutto i tanti illustri e rinomati Poeti? In breve. Quanto
degli antichi oggi abbiamo di più rado e di più nobile nella filosofia
e nelle matematiche, nell'arte oratoria, e sopra tutto nella poesia,
tutto lo debbiamo a quegl'ingegni, che o furono prodotti da questo
terreno, o che nati altrove in esso vissero, e quivi coltivaron i loro
studj.

Così fra tanti potessi anch'io annoverarvi per la nostra giurisprudenza
l'incomparabile Papiniano, come han fatto alcuni, che gli diedero per
patria Benevento, che molto volentieri 'l farei: ma la necessità di
dire il vero, e di non dover ingannare alcuno, mi detta il contrario;
poichè della patria di sì valentuomo niente può dirsi di certo, e
per vane congetture si mossero coloro, dall'amor della Nazione pur
troppo presi, a scrivere che fosse beneventano. Peggiore, e da non
condonarsi fu la loro ignoranza, quando ciò vollero raccorre dalle
nostre _Pandette_, e da quella legge di Papiniano[125] che sotto il
titolo _Ad S. C. Treb._ abbiamo; imperciocchè ivi dal Giurisconsulto
si riferiscono le parole di certo testamento fatto da un Beneventano,
nel quale lasciava egli un legato _Coloniae Beneventanorum patriae
meae_; e credendo che Papiniano di se medesimo favellasse, scrissero
che la patria di questo Giurisconsulto fosse Benevento. Ciò che abbiam
voluto avvertire, perchè quest'errore avendo per suo partigiano uno
Scrittor grave fra noi qual'è Marino Freccia[126], ritrovasi ora sparso
e disseminato in molti libri de' nostri Professori, ed anche appresso
un moderno Scrittore del Sannio[127], a' quali, siccome Autori non
tanto ignari e negligenti di queste cose, come gli altri, avrebbe forse
potuto darsi facile credenza.



CAPITOLO V.

_Della disposizione d'Italia, e di queste nostre province sotto ADRIANO
insin'a' tempi di COSTANTINO il Grande._


Durò questa forma e disposizione delle regioni d'Italia e delle
province dell'Imperio infin'a' tempi d'Adriano. Questo Principe fu
che, siccome diede nuovo sistema alla giurisprudenza romana, così,
dopo Augusto, descrisse in altra maniera l'Italia; poichè la divise
non in regioni ma in province[128]. Siccome prima le sue regioni
non eran più che undici, così egli poi distinsela in XVII. province.
L'Isole, come la Sicilia, la Corsica, e la Sardegna che Augusto divise
e separò dall'Italia, annoverandole con l'altre province dell'Imperio
romano, Adriano alle province d'Italia unille. Dilatò i confini della
Campagna, poichè quantunque Augusto vi avesse raccolto qualche parte
del Sannio, i due Lazj, la Campania, e i Picentini, Adriano vi aggiunse
da poi gl'Irpini, tanto che Benevento venne perciò in appresso ad esser
chiamata città della Campagna[129]

Mutò anche la politia ed i Magistrati, poichè instituì quattro
consolari[130], a' quali fu commesso il governo delle maggiori province
d'Italia, e l'altre secondo la lor varia condizione si commisero poi a'
Correttori, ed altre a' presidi che furon nomi di magistrati di dignità
disuguale.

Sotto la disposizione de' Consolari furon commesse otto province, le
quali furono I. Venezia, ed Istria, II. la Emilia, III. la Liguria,
IV. la Flaminia, e 'l Piceno, V. la Toscana, e l'Umbria. VI. il Piceno
suburbicario, VII. la Campania, VIII. la Sicilia.

Sotto la disposizione de' Correttori due province I. la Puglia, e la
Calabria, II. la Lucania, ed i Bruzj.

Sotto i Presidi sette, I. l'Alpi Cozzie, II. la Rezia prima, III. la
Rezia seconda, IV. il Sannio, V. la Valeria, VI. la Sardegna, VII. la
Corsica.

Diede alle province fuori d'Italia altra forma e disposizione.

La Spagna la divise in sei province, delle quali altre sortirono la
condizione di presidiali, altre di consolari. Divise la Gallia, e la
Britannia in diciotto province. L'Illirico in diciassette. La Tracia
in sei. L'Affrica similmente in sei: e così parimente fece dell'Asia,
e dell'altre province, delle quali non è uopo qui farne più lungo
catalogo.

Presero per tanto nuova forma di governo queste _Regioni_, che oggi
compongono il Regno di Napoli. Allora incominciossi a sentire in Italia
il nome di _Province_; e secondo questa nuova disposizione d'Adriano
quel che ora è regno, fu diviso in quattro sole province, I. parte
della Campagna. II. la Puglia, e la Calabria, III. la Lucania, e li
Bruzj, IV. il Sannio.

Nuovo apparve il governo e più assoluto togliendosi alle città molte
di quelle prerogative, che o la condizione di Municipio, o di Colonia,
di Città Federata loro arrecava: molto perdette Napoli della sua
antica libertà: molto l'altre Città Federate, e le Colonie. L'autorità
e giurisdizione de' Consolari, de' Correttori, e de' Presidi era
pur grande e maggior accrescimento acquistò, quando Costantino M.
traslatando l'Imperial seggio in Oriente, commise interamente a coloro
il governo di queste nostre province che fu dar l'ultima mano alla
rovina d'Italia, introducendosi in quella nuova forma e disposizione,
che sarà più distesamente narrata nel secondo libro di quest'Istoria.



CAPITOLO VI.

_Delle leggi._


Non bastava aver sì bene distribuite le province e le regioni se di
buone leggi ed instituti insieme non si fosse a quelle proveduto. Nel
che non minore mostrossi la saviezza e prudenza de' Romani, poichè
se si riguarda l'origine delle loro leggi, e con quanta maturità e
sapienza furono stabilite, con quanta prudenza da poi esposte, ed alla
moltitudine e varietà degli affari adattate, a niuno la loro perpetuità
parrà strana, o maravigliosa.

I Romani quantunque per lo spazio di più di due secoli si fossero
governati colle leggi de' loro proprj Re[131], nulladimanco, quelli
poi discacciati cancellaron eziandio le leggi loro[132], alcune
poche solamente ritenendone, cioè le leggi Tullie, le Valerie, e
le Sacrate[133]. Del rimanente si governavano con gli antichi loro
costumi, e con alcune non scritte leggi, le quali essendo varie ed
incerte eran cagione di gravissime contese e disordini. Per la qual
cosa considerando, che quelle non eran bastanti per lo stabilimento
d'una perfetta e ben composta Repubblica; e che le peregrinazioni, e
'l conoscere le leggi e gl'instituti di varie genti, giova molto alla
scienza di ben stabilirle, come dice Aristotele[134], procurarono che
le leggi ed i costumi non pur d'una città, ma di molte si conoscessero
ed esaminassero; affinchè ciò che in esse si rinveniva di specioso e
d'illustre si ricevesse, ed a loro si trasportasse. E considerando
altresì, che le leggi ottime dovevan esser quelle, che dal seno
d'una vera e solida filosofia derivano, e che fra tutte le Nazioni la
Greca fosse quella, la quale dimostravasi nella sapienza superiore
a tutte l'altre: mandaron perciò in Atene, e nell'altre città della
Grecia; eziandio nella città greche ch'erano in Italia, ed in quella
parte ancora, che Magna Grecia anticamente fu detta, ove fiorirono i
Pitagorici, e que' due celebri Legislatori Zeleuco, e Caronda[135], de'
quali quegli diede le leggi a Locri, questi, a Turio[136]. Mandarono
in Lacedemonia, mandarono nell'Etruria; facendo con ciò conoscere
con nuovo e rado esempio come la filosofia, la quale appresso i Greci
era solamente ristretta ne' Portici, e nell'Accademie, potesse recar
giovamento ancora alla società civile di tutti i cittadini; e come le
massime ed assiomi di quella maneggiati non da semplici Filosofi, ma da
Giureconsulti, potessero talora all'uman commercio adattarsi in guisa,
sì che nel genere umano ne ritraesse insieme, ed utilità e giustizia;
fonte di tutte le tranquillità e mondane contentezze. Così dalle leggi
ed instituti di tante chiare, ed illustri città, e da quelle che Roma
stessa ritenne, fu da' Decemviri nella maniera che ci vien largamente
rapportata da Rittershusio[137], compilata la ragion civile de' Romani,
e si composero quelle tante famose e celebri leggi delle XII. Tavole
che furono i primi e perpetui fondamenti della romana giurisprudenza,
ed i fonti come dice Livio[138], d'ogni pubblica e privata ragione, e
delle quali ebbe a dir Cicerone[139]: _Fremant omnes licet, dicam quod
sentio, Bibliothecas mehercule omnium philosophorum unus mihi videtur
duodecim tabularum libellus, si quis legum fontes, et capita viderit,
et auctoritatis pondere et utilitatis ubertate superare_.

Nè minore fu la loro sapienza nello stabilimento dell'altre leggi
che da poi dal Popolo romano furono promulgate; poichè discacciati i
Re, la maestà dell'Imperio rimanendo presso al popolo, era della sua
potestà far le leggi[140]. Siccome non fu minore ne' Plebisciti, a'
quali per la legge Ortenzia fu data forza ed autorità non inferiore a
quella delle leggi medesime[141]; ne' Senatusconsulti, che non avevan
inferiore autorità[142]; e finalmente negli Editti de' Magistrati i
quali d'annuali ch'erano fatti perpetui per la legge Cornelia, furono
sotto Adriano Imperadore per opera di Giuliano in ordine disposti
che chiamarono _Editto perpetuo_[143]; donde forse quella bella parte
della giurisprudenza[144], la quale fu poi cotanto illustrata da G. C.
romani, che servì in appresso per cinosura e base di quella, ch'oggi è
a noi rimasa ne' libri di Giustiniano[145].



CAPITOLO VII.

_De' Giureconsulti, e loro libri._


Ma quel che principalmente alle leggi de' Romani recasse maggior
autorità e fermezza, fu l'essersi mai sempre lo studio della
giurisprudenza avuto in sommo pregio ed onore appresso gli uomini
nobilissimi di quella Repubblica. Conoscevano assai bene, che non mai
abbastanza si sarebbe provveduto a' bisogni de' cittadini colle sole
e nude leggi, se nella città non vi fosse eziandio chi la lor forza
e vigore intendesse ed esponesse; e nell'infinita turba delle cose e
varietà degli affari, non potesse al Popolo giovare. Perciò vollero,
che a sì nobile esercizio si destinassero uomini sapientissimi ed i più
chiari lumi della città, i Claudj, i Sempronj, gli Scipioni, i Muzj, i
Catoni, i Bruti, i Crassi, i Lucilj, i Galli, i Sulpizj[146], ed altri
d'illustre nominanza; a' quali è manifesto, non altra cura essere stata
più a cuore, che lo studio della giurisprudenza, e la cognizione della
ragion civile; giovando al pubblico o colle loro interpretazioni, o
disputando, o insegnando, o veramente scrivendo. E qual altra gente
possiamo noi qui in mezzo recare, la quale colla romana potesse in ciò
contendere? Non certamente l'ebrea, la cui legal disciplina, essendo
molto semplice e volgare non fu mai avuta in molta riputazione[147].
Non i Greci stessi (per tralasciar d'altri) presso de' quali l'ufficio
de' Giureconsulti si restringeva in cose pur troppo tenui e basse,
e la lor opera si raggirava solamente nell'azioni, nelle formole e
nelle cauzioni, in guisa che i Professori come quelli che erano della
più vile e bassa gente, non venivano decorati col venerando nome di
Giureconsulti, ma di semplici Prammatici; tanto che Cicerone[148]
soleva dire che tutte le leggi e costumi dell'altre Nazioni a fronte di
quelle de' Romani, gli sembravan ridevoli ed inette. Appresso dunque
i Romani solamente presiedevano, quasi custodi delle leggi, uomini
nobilissimi, dotati d'ogni letteratura e di sapienza incomparabile,
gravi, incorrotti, severi e venerabili, ne' quali era riposto tutto
il presidio de' cittadini: a costoro e per le pubbliche e per le
private cose si ricorreva per consiglio: a costoro o passeggiando
nel Foro, o sedendo in casa, non solamente per le cose appartenenti
alla ragion civile, ma per ogni altro affare ricorreva il padre di
famiglia volendo maritar la figliuola, ricorreva chi voleva comperare
il podere, coltivare il suo campo ed in somma non vi era deliberazione
così pubblica, come privata e domestica, che da' loro consigli non
dipendesse; tanto che soleva dire lo stesso Cicerone[149], che la
casa d'un Giureconsulto era l'oracolo della città. Avevano essi ancora
tre altre principali funzioni: il consigliar le parti ch'era l'unica
funzione degli antichi pratici: il consultare i Giudici su i punti del
diritto ne' processi che si dovean giudicare: e finalmente l'esser
assessori de' Magistrati per istruire e qualche volta per giudicare
i processi o con loro, o senza loro[150]: Avevan ancora un'altra
autorità cioè, che quando sopravveniva qualche difficile questione
in Roma, essi univansi tutti insieme per disputarla e concertarla, e
questa conferenza appellavasi _disputatio fori_, di cui Cicerone fa
menzione nel libro primo _ad Q. F._ e nelle _Topiche_; e quel ch'essi
risolvevano in tali assemblee era chiamato _Decretum_, ovvero _recepta
sententia_, la quale era una spezie di legge non iscritta, come tratta
molto metodicamente Revardo[151].

Ma se grande ed in sommo onore fu lo studio della giurisprudenza
ne' tempi della libera Repubblica, non minore fu certamente sotto
gl'Imperadori infin a' tempi di Costantino M. Poichè essendo negli
ultimi tempi del cadimento della Repubblica mancati tanti insigni G.
C. e per vizio del secolo tratto tratto introdottosi, che ciascuno
fidando solamente ne' suoi studj, pubblicamente interpretava a suo modo
le leggi, ed a suo talento consigliava e rispondeva, acciocchè per
la moltitudine de' Professori, o per la loro imperizia e sordidezza,
una cosa di tanto pregio ed importanza non s'avvilisse: ovvero come
dice Pomponio[152] (o qual altro si fosse l'Autore di quel libro)
affinchè fosse maggior l'autorità delle leggi, fu da Augusto stabilito
che indifferentemente niuno potesse arrogare a se questa potestà
come erasi fatto per lo passato; ma per sola sua autorità e licenza
interpretassero e rispondessero; e che ciò dovessero riconoscere per
suo beneficio; e per premio delle insigni loro virtù, della singolar
erudizione e per le perizia delle leggi civili: laonde ingiunse egli,
che si dovesse prender lettere da lui; e quindi avvenne che i G. C.
fossero riputati come ufficiali dell'Imperio; di che l'Imperadore
Adriano s'offese a ragione, dicendo, che non era dell'Imperadore dar
carattere di capacità, qual si richiede per esser Giureconsulto; ond'è
che Pomponio[153] saggiamente scrisse: _Hoc non peti, sed praestari
solere_. Di maniera che d'allora innanzi i Giureconsulti, consigliando
per l'autorità dell'Imperadore, erano come ufficiali pubblici[154], ed
in perpetuo magistrato: almeno come Manilio qualifica il Giureconsulto:
_Perpetuus populi privato in limine Praetor_.

Si vide ancora la giurisprudenza romana per li favori de' Principi
ne' medesimi tempi al colmo della sua grandezza e dell'onore; poichè
i Principi stessi, a' quali oggi solamente si commendan le discipline
matematiche, non altro studio maggiormente avevan a cuore, che quello
delle leggi: nè altri che i Giureconsulti negli affari più ardui e
gravi si chiamavan a consiglio. Così leggiamo d'Augusto prudentissimo
Principe, che volendo a' codicilli dar quella forza ed autorità,
che poi diede, dice il nostro Giustiniano[155] che convocò a se
uomini sapientissimi, tra i quali fu Trebazio, del cui consiglio
soleva sempre mai valersi nelle deliberazioni più serie e gravi.
Così parimente appresso gl'Istorici di que' tempi osserviamo, che
Trajano avesse in sommo onore Nerazio Prisco e Celso padre: Adriano
si servisse del consiglio di Celso figliuolo di Salvio Giuliano, e
d'altri insigni Giureconsulti[156]. Piacque ad Antonino Pio l'opera di
Volusio Meziano, d'Ulpio Marcello e d'altri. Marco Antonino Filosofo,
nelle deliberazioni e nello stabilir le leggi voleva sempre per
collega Cerbidio Scevola gravissimo Giureconsulto, al quale si dà
il pregio d'avere avuti per discepoli molti celebri Giureconsulti,
e fra gli altri Paolo, Trifonino, ed il grande e l'incomparabile
Papiniano: Alessandro Severo adoperava i consigli d'Ulpiano, nè da lui
stabilivasi costituzione senza il parere di venti Giureconsulti[157]:
Massimino il Giovane si serviva di Modestino. Nè per ultimo gli stessi
Imperadori nelle loro constituzioni medesime, vollero fraudare quei
grand'uomini del meritato onore; poichè in esse con sommi encomj si
valevano della coloro autorità come fecero Caro, Carino, e Numeriano
di Papiniano[158], e come fece Diocleziano, che con elogi si vale
dell'autorità di Scevola, e fecero altri Imperadori degli altri
Giureconsulti[159].

E nel vero chi attentamente considererà quel, che oggi è a noi rimaso
dell'opere di questi Giureconsulti (poichè di coloro, che fiorirono
ne' tempi della libera Repubblica poche cose ci restano) la maggior
parte delle quali non so se dobbiamo dolerci di Giustiniano, che per
quella sua compilazione ci tolse, ovvero lodarci di lui, perchè per
le vicende e revoluzioni delle cose mondane, senza quella forse niente
ne sarebbe a noi pervenuto; conoscerà chiaramente non solamente quanto
fosse ammirabile la loro saviezza e dottrina, ma s'accerterà eziandio
che niente dalla loro esattezza fu tralasciato per la deliberazione
di quanto mai potesse occorrere, o nel Foro, o negli altri affari
della Repubblica. Perciocchè a' Prammatici e Forensi si provvide
abbastanza co' libri delle _questioni_ e de' _responsi_, de' _decreti_,
delle _costituzioni_, dell'_epistole_ e de' _digesti_. A coloro che
ne' Magistrati, ed all'ufficio di giudicare venivan assunti, erano
ben pronti ed apparecchiati moltissimi libri degli ufficj de' vari
Magistrati, e della loro autorità e giurisdizione. Quei che delle cose
teoretiche eran vaghi per apprendere la disciplina legale, avevan
abbondantissimi fonti, onde il loro desiderio potessero adempiere:
trovavan chi con note pienissime a loro sponeva le leggi del Popolo
romano i Senatusconsulti, gli Editti de' Magistrati, l'Orazioni, le
Costituzioni de' Principi, ed i Responsi degli antichi Giureconsulti;
e chi compilasse speciali _trattati_ di quasi tutte le materie, che
alla giurisprudenza potessero mai appartenere. Nè mancarono ancora i
libri delle _varie lezioni_: e per ultimo, chi pensasse di ridurre a
certo metodo ed ordine la giurisprudenza istessa, come oltre di quel
che di se lasciò scritto Cicerone[160], lo ci dimostran l'iscrizioni
de' loro volumi, che ragionevolmente oggi deploriamo, gli _enchiridj_,
le _pandette_, le _regole_, le _sentenze_, le _definizioni_, i _brevi_,
ed i libri delle _instituzioni_. In guisa che se il corso di tanti
secoli e le funeste vicende del Mondo, siccome n'ha involati molti
altri pregi dell'antichità, non ci avesse tolt'i libri ancora di così
eminenti Giureconsulti, non avremmo certamente oggi bisogno dell'opere
di coloro, che nella barbarie de' tempi a questi succedettero; o
per meglio dire, non sarebbe stata data lor occasione di gravar la
giurisprudenza di tanti nuovi ed insipidi volumi.

Nè minore alla prudenza e diligenza de' medesimi fu la dignità e
l'eleganza dell'orazione. Egli è veramente cosa degna d'ammirazione,
che l'eleganza del dire sia in tutti così uguale e perfetta, ancorchè
non fiorissero in un tempo medesimo, ma distanti per secoli interi
che niente si possa aggiungere o desiderare; e se vuole porsi mente
al loro stile ed al carattere, non saprebbesi distinguere di leggieri
a qual di loro dovesse darsi il primo luogo: ed è degno ancora da
notarsi, ciocchè Lorenzo Valla[161] e Guglielmo Budeo[162] di questa
ugualità e nettezza di parole e di sentenze de' loro libri parlando,
lasciaron scritto, che se ad essi fu di maraviglia l'ugualità che
nell'epistole di Cicerone s'osservava, quasi che non da molti, ma da
un solo Cicerone fossero state scritte; maggiore senz'alcun dubbio era
quella, che dall'opere di questi Giureconsulti raccolte nelle Pandette
prendevano; siccome quelli i quali non in un istesso tempo, ma in tempi
lontanissimi e per secoli distanti ebbero vita: poichè incominciando
da Augusto infin a' tempi di Costantino M. sotto di cui pur furon in
pregio Ermogeniano, Arcadio Carisio Aurelio e Giulio Aquila (le memorie
de' quali anche da Giustiniano si veggono sparse ne' suoi cinquanta
libri de' Digesti) corsero ben tre secoli, ne' quali, se appresso
gl'Istorici Oratori e Poeti, e negli altri Scrittori osserviamo lunga
differenza di stile, in questi Giureconsulti però fu sempre uguale e
costante.

Non dovrà adunque sembrar cosa strana, se in decorso di tempo, (e
precisamente sotto Valentiniano III.) acquistassero tanta autorità
e forza le sentenze e l'opinioni di questi Giureconsulti, che dice
Giustiniano[163] essere stato finalmente deliberato, che i Giudici non
potessero nel giudicare allontanarsi da' loro Responsi.

Ma poichè questo è un punto d'istoria, che non ben inteso ha
cagionato in alcuni molti errori, però siami lecito avvertire che
ciò non dee sentirsi, come han creduto alcuni, che quest'autorità
l'acquistassero quando Augusto ingiunse di prender lettere da lui,
quasi che consigliando per l'autorità dell'Imperadore, avessero i loro
Responsi tanta forza ed autorità, sì che i Magistrati dovessero nel
giudicare seguitargli. Ciò repugna a tutta l'istoria legale; poichè
fin da' tempi della libera Repubblica fu data loro quest'autorità, ma
nel caso solamente, come abbiam di sopra narrato, quando sopravveniva
qualche difficile questione in Roma, ed essi univansi tutti insieme
per disputarla e diffinirla, e quel che da loro risolvevasi in tali
assemblee, era chiamato _decretum_, ovvero _recepta sententia_, ch'era
una spezie di legge non iscritta, dalla quale non potevan certamente
i Giudici allontanarsi nel decidere i piati: come quella che nel
foro lungamente disputata e ricevuta, avea acquistata forza e vigore
non inferior alle leggi medesime. Il che fu da poi anche praticato
di qualche lor sentenza nel Foro ricevuta a' tempi d'Augusto, e
sotto gli altr'Imperadori suoi successori. Ma è affatto repugnante
al vero, che, senza questo, ogni semplice lor sentenza ed opinione
avesse tosto che proferita, tanta autorità, sì che i Magistrati
dovessero inviolabilmente seguitarla; e ciò tanto meno ne' tempi
d'Augusto, quando le contese fra' Giureconsulti proruppero in manifeste
fazioni, onde si renderono così famose le Sette de' _Sabiniani_,
e de' _Cassiani_ da una parte; e de' _Proculejani_, e _Pegasiani_
dall'altra[164]. Nè giammai queste contese si videro più ostinate,
che sotto Augusto, quando la Repubblica cominciava a prender forma
di Principato; poichè sotto il di lui imperio erano per una parte
sostenute da Attejo Capitone discepolo d'Offilio; e per altra da
Antistio Labeone, discepolo di Trebazio: sotto Tiberio, da Massurio
Sabino, ch'ebbe per antagonista Nerva padre: sotto Cajo, Claudio
e Nerone, da _Cassio_ Longino, onde preser nome i _Cassiani_; e da
_Proculo_, onde i _Proculejani_: sotto i Vespasiani, da Relio _Sabino_,
onde sorsero i _Sabiniani_; e da Nerva figliuolo, e _Pegaso_, onde i
_Pegasiani_. E sotto Trajano, Adriano, ed infin a' tempi d'Antonino
Pio, furon dalla parte de' _Sabiniani_ e _Cassiani_, Prisco, Javoleno,
Alburnio, Valente, Tusciano e Salvio Giuliano: e da quella de'
_Proculejani_ e _Pegasiani_, Celso padre, Celso figliuolo e Prisco
Nerazio.

E se bene dopo Antonino Pio fosse mancato il fervore di così acerbe
contese, e le discordie non fossero cotanto ostinate, onde ne sorsero
i Giureconsulti _Mediani_[165], i quali non volendo soffrire la servitù
di giurare nelle parole de' loro maestri, prendessero altro partito non
perciò cessarono le controversie e l'opinioni difformi, in guisa che fu
d'uopo poi, che alcune si terminassero colle decisioni de' Principi.
Nè Giustiniano, ancorchè si vantasse per quella sua compilazione aver
tolte tutte queste dissensioni, potè molto lodarsi della diligenza
del suo Triboniano, il quale se bene desse ciò ad intendere a quel
Principe, non però moltissime ne scapparono dalla sua accuratezza,
ed oggi giorno se ne veggono i lor vestigj nelle _Pandette_; tanto
che coloro, i quali vivendo in tal pregiudicio per li vanti di
Giustiniano, si dieder a credere non esservi in quella compilazione
antinomia alcuna, quando poi s'abbattevano nella contrarietà di due
leggi, sudavano ed ansavano per conciliarle, nè altra impresa in fine
si trovavan avere per le mani, se non come suol dirsi _Peliam lavare_;
ed in fatti sovente osserviamo Ulpiano di proposito discordar da
Affricano, e così un Giurisconsulto dall'altro[166].

In tanta varietà di pareri, sarebbe sciocchezza il credere, che fosse
a' Magistrati imposta necessità di seguire le coloro opinioni, toltone
però quelle, che dopo lungo dibattimento fossero state nel Foro
ricevute. E molto meno ne' tempi d'Augusto, e degli altri Imperadori
infino a Costantino M., ne' quali presedevano Magistrati adorni di
molte rade ed insigni virtù, e ad essi per la loro dottrina e prudenza
era pur troppo noto, quali sentenze di Giureconsulti erano state nel
Foro ricevute, e seguentemente quali dovessero rifiutare, e di quali
tener conto ne' loro giudicj; senza che alla lor esperienza e sommo
sapere nulla confusione potè mai recare la varietà dell'opinioni. La
loro prudenza e dottrina, ed il fino giudicio non era inferior a quello
de' Giureconsulti medesimi; poichè i Romani mostrarono la lor sapienza
non pur nello stabilire le leggi e nell'interpretarle; ma conoscendo,
come dice Pomponio[167], che non si sarebbe a bastanza provveduto a'
bisogni de' cittadini colle sole leggi, e colle interpretazioni, che
a quelle si davano da' Giurisconsulti, se non si deputassero ancora
Giudici gravissimi, severi, incorrotti e sapientissimi, che potessero
a ciascheduno render sua ragione, grandissima per tanto fu la cura e
la diligenza, che posero a creare ottimi Magistrati. Onde ciò, che
dice Giustiniano essersi deliberato, che i Giudici non potessero
dalle opinioni e sentenze de' Giureconsulti allontanarsi, non dee
attribuirsi nè ad Augusto, come credettero Cujacio ed altri, del quale
certamente non può recarsi sopra ciò veruna costituzione, nè a niuno
degli altr'Imperadori di quei tempi, ne' quali la giurisprudenza
era nel colmo della sua magnificenza e grandezza: ma tener per
fermo, che Giustiniano parlasse degli ultimi tempi, ed intendesse
della costituzione[168] di Valentiniano III. quando caduta già la
giurisprudenza romana dal suo splendore, e mancati quei chiarissimi
Giureconsulti, e quei gravi ed incomparabili Magistrati, e succeduta
l'ignoranza delle leggi, delle sentenze e de' Responsi di quei lumi
della giurisprudenza, si ridusse la bisogna in tanta confusione e
disordine, che i Giudici per la loro dappocaggine non sapevan ciò,
che dovessero farsi nel giudicare, e sovente dagli Avvocati eran
con false allegazioni aggirati. Per riparar dunque a tanti mali, fu
uopo a Valentiniano dar norma a' Giudici, e stabilir loro di quali
Giureconsulti dovessero vedersi nel giudicare, e dalle sentenze de'
medesimi non partirsi. Rifiutò le note da Paolo e da Ulpiano fatte
a Papiniano (ma intorno a ciò fu da poi contraria la sentenza di
Giustiniano), ordinò in oltre, che recitandosi diverse sentenze,
dovesse vincere il maggior numero degli autori e se fosse il numero
uguale, dovesse preporsi quella parte, per la quale era Papiniano: e
per ultimo, che dovesse rimettersi alla moderazione ed arbitrio del
Giudice, se le sentenze riuscissero in tutto pari. Tanto riparo ne'
tempi di Valentiniano III fu mestiere darsi, ruinata già la legal
disciplina: il che non era necessario ne' tempi di que' chiarissimi
Giureconsulti infin al Gran Costantino, dove par che cessassero, dopo
Modestino, Ermogeniano ed Arcadio Carisio, questi famosi oracoli di
giurisprudenza; poichè alcun'altri, che fiorirono sotto di lui, e de'
suoi figliuoli d'oscura fama, niente di preclaro diedero alla luce del
Mondo, mancato già quell'antico e grave instituto dell'interpretazioni
e de' Responsi; e solamente furono contenti nelle scuole insegnare
ciò, che da quei primi si era scritto e trattato, come andrem appresso
divisando.

Abbiamo riputato trattenerci alquanto in parlando di questi
Giurisconsulti, e delle loro opere, solamente perchè il corpo delle
leggi, che dopo Costantino vagò per l'Oriente e per l'Occidente
era composto per la maggior parte delle loro sentenze; poichè delle
leggi delle XII tavole, dopo l'incursione de' Goti in Italia, e 'l
devastamento di Roma, nel qual tempo, al creder di Rittersusio[169],
quelle si perderono, non ne fu tramandato altro a' posteri, che
alcuni frammenti, i quali in Cicerone, Livio, Dionisio, Agellio[170] e
singolarmente in alcuni libri di questi Giureconsulti si leggono; e ciò
che oggi di esse abbiamo, tutto si dee alla felicità de' nostri tempi
e de' nostri avoli, ed all'industria d'alcuni valent'uomini, che le
raccolsero ed interpretarono; fra' quali i primi furono Rivallio[171],
Oldendorpio, Forstero, Balduino, Contio, Ottomano, Revardo, Crispino,
Rosino, Pighio, ed Adriano Turnebo, a' quali succederono Teodoro
Marcilio, Francesco Piteo, Giusto Lipsio e Corrado Rittersusio; ed
ultimamente alla gran diligenza ed accuratezza di Giacomo Gottifredo
dobbiamo, che nelle sue tavole, secondo che furono da' Decemviri
composte, le ordinasse e disponesse. E dell'altre leggi, che dal Popolo
romano furono da poi stabilite, de' Plebisciti, de' Senatusconsulti,
e degli editti de' Magistrati, non altra notizia a' nostri maggiori ne
pervenne, se non quella, che nell'opere de' riferiti antichi Scrittori,
e sopra tutto ne' libri di questi stessi Giureconsulti si ritrova
notato; nel che parimente fu ammirabile la diligenza degli Scrittori
degli ultimi tempi, che con instancabile fatica l'andaron da' varj
marmi e tavole, e da' ruderi dell'antichità raccogliendo; e stupenda
certamente fu in ciò quella di Barnaba Brissonio[172], di Antonio
Augustino, di Fulvio Ursino, di Balduino, di Francesco Ottomano, di
Lipsio, e di molti altri amatori dell'antichità romana. Solamente
de' volumi di questi Giureconsulti, che dopo Augusto fiorirono ne'
tempi che a Costantino precedettero, era pieno il Mondo, e da' quali
si regolavano i Tribunali; tanto che da poi ne' tempi di Valentiniano
III per la lor confusione bisognò darvi provedimento; e ne' tempi, che
seguirono, per la loro moltitudine fu data occasione a Giustiniano di
far quella sua compilazione delle _Pandette_, che ne' seguenti secoli
infino a dì nostri formarono una delle due parti più celebri della
nostra giurisprudenza.



CAPITOLO VIII.

_Delle costituzioni de' Principi._


Se grande era il numero de' libri de' Giureconsulti, non minore poi
apparve l'ampiezza delle costituzioni de' Principi: tanto che vennero
a farsi delle medesime più compilazioni, e _Codici_. E quindi tutto
il corpo delle leggi si vide ridotto a queste due somme parti: cioè a'
libri de' Giureconsulti, per li quali poi se ne compilarono dal nostro
Giustiniano le _Pandette_: ed alle costituzioni de' Principi, onde ne
sorsero le compilazioni di più _Codici_, e le molte collazioni per le
costituzioni _Novelle_; e ciò oltre alle _Instituzioni_, che solamente
per istruire la gioventù, vaga dello studio legale, furono compilate.
E poichè la narrazione di questi fatti n'ha trattenuti più di ciò, che
per avventura non richiedeva una general contezza, convien ora, che con
ugual diligenza facciam altresì distinta memoria delle costituzioni
di que' Principi, che prima di Costantino regnarono nella floridezza
della romana giurisprudenza: con che si renderà ancora di più chiara
intelligenza quel che avrà a dirsi nel proseguimento di quest'Istoria.

Approvato che fu dal Popolo romano il Principato, come alla Repubblica
più salubre ed espediente (_neque enim_, dice Dione[173], _fieri
poterat, ut sub populi Imperio ea diutius esset incolumis_) tutta
quella potestà, che teneva egli in promulgar le leggi, fu trasferita
al Principe, niente in sostanza presso di se rimanendo; imperocchè
il sentimento d'alcuni, che credettero il Popolo romano non essersi
spogliato della sua autorità, ma che solamente al Principe l'avesse
comunicata, è un errore così conosciuto, e da valentissimi Scrittori
dimostrato, che stimeremmo, oltre d'esser fuori del nostro istituto,
abbondar d'ozio a volerlo qui confutare. E somma simplicità certamente
sarebbe darsi a credere, che il Popolo romano non si fosse, o non
fosse stato affatto spogliato di quella potestà, solamente perchè
gl'Imperadori romani si fossero astenuti de' nomi di Re, e di Signore.
Fu questo un tratto di fina politica; poichè conoscendo esser questi
nomi al Popolo odiosi, mostraron anch'essi d'abbominargli; e di
vantaggio per non introdurre nella Repubblica in un tratto nuova
forma totalmente diversa, vollero ritenere i medesimi Magistrati, e
l'istesse solennità de' Comizj, e del Senato[174]: ma in sostanza sotto
queste speziose apparenze esercitavano la piena potestà regia, come ce
n'accertano[175] Alessandrino, e Dione[176] il qual dice: _Haec omnia
eo fere tempore ita sunt instituta: at re ipsa Caesar unus in omnibus
rebus plenum erat imperium habiturus; soggiungendo più innanzi: Hoc
pacto omne populi, Senatusque imperium ad Augustum rediit_. E molto
meno doveano cadere in quest'errore, perciocchè al Popolo rimanesse
quella immaginaria e vana ragione di dare gli suffragj, o quella
precaria e finta autorità del Senato nello stabilir le leggi; poichè
in questi tempi erano ancor rimasi, come savissimamente dice Tacito,_
vestigia morientis libertatis_; onde con verità, del Popolo romano
parlando, disse Giovenale[177], che colui, il quale innanzi dava
l'Imperio, i fasci, le legioni, e tutto, nei suoi giorni solamente due
cose ardentemente desiderava, _Panem et Circenses_.

Egli è però vero che procurando gl'Imperadori di mantener quella
medesima apparenza di Repubblica, s'usurparono non in un tratto, ma
a poco a poco la sovranità di quella; e che nel corso di molt'anni si
renderono da poi veri Monarchi; poichè il Senato romano dopo le guerre
civili, avendo, sia per timore o per lusinga, conferito a Giulio Cesare
il nome d'Imperadore, questo soprannome o titolo d'onore fu continuato
in appresso da Augusto, e poi da' suoi successori, che lo trovarono
molto acconcio a' loro disegni, prendendolo a doppio senso in cumulando
e giungendo insieme le sue due significazioni, la cui prima attribuiva
loro il puro comandamento in ultimo grado, quale è il comando militare
d'un General d'armata, e l'altro rendeva la lor carica perpetua e
continua in tutti i luoghi; la qual cosa non era degli altri uffici,
della Repubblica romana. E benchè nel cominciamento quest'Imperadori
facessero sembiante di contentarsi del comando militare libero ed
esente dalle forme, alle quali i Magistrati ordinari eran astretti, con
soggezione alla sovranità della Repubblica; nondimeno essi comandavan
assolutamente, e disponevano della Repubblica come loro piaceva,
per la qual cosa Svetonio chiamava la loro dominazione _speciem
principatus_[178].

Se tanta autorità dunque aveansi usurpata i primi Imperadori, allorchè
nella languente Repubblica conservavansi ancora reliquie d'antica
libertà: essendo poi di questa a poco a poco ogni immagine affatto
svanita, non si può dubitare che gl'Imperadori seguenti, di veri
Monarchi, e di Sovrani Principi il carattere e l'assoluta potestà
independentemente non esercitassero; e più quelli, che ritrovaronsi
poscia in Oriente, paese di conquista.

Trasferita per tanto nel Principe questa potestà, ciò che a lui
piacque ebbe vigor di legge; ma per accorta politica, chiamaron que'
loro ordinamenti, editti o costituzioni, e non leggi, simulando di
voler lasciare intatta al popolo la potestà di far le leggi[179].
Queste costituzioni de' Principi non erano d'una medesima spezie, ma
si distinguevano dal fine e dall'occasione, che aveva il Principe
quando le stabiliva. Alcun eran chiamate _Editti_; ed era allorchè
il Principe per se medesimo si moveva a promulgar qualch'ordine
generale per l'utilità ed onestà de' suoi sudditi, indirizzandolo o al
Popolo, o a' provinciali, ovvero, ciò che accadeva più frequentemente,
al Prefetto del Pretorio. Altr'eran nomate _Rescritti_, i quali
dagl'Imperadori alle domande de' Magistrati, ovvero alle preghiere dei
privati s'indirizzavano. Eran ancora di quelle appellate _Epistole_;
ed accadeva quando il Principe rescriveva a' privati, che della loro
ragione il richiedeano; e venivan dette eziandio Epistole quelle,
che per occasion simile dirizzava egli talora al Senato, a' Consoli,
a' Pretori, a' Tribuni, ed a' Prefetti del Pretorio. Vi furono anche
di quelle, le quali chiamaronsi _Orazioni_, indirizzate al Senato,
colle quali gl'Imperadori confermavano i senatusconsulti; e sovente
si scrivevano anche a richiesta del Senato, o del Senato e del
Popolo insieme. Costituzioni parimente si dissero i _Decreti_, che si
profferivano su gli atti fabbricati nel concistoro del Principe; ed
era quando il Principe stesso conoscendo della causa, intese le parti,
profferiva il decreto. Fu questo lodevol costume degl'Imperadori non
abbastanza commendato da tutti gli Scrittori dell'Istoria Augusta, e
molti esempi n'abbiamo nel Codice di Teodosio[180], siccome altresì uno
molto elegante nelle _Pandette_ di Giustiniano[181]. E questi decreti,
ancorchè interposti in causa particolare, per la dignità ed eminente
grado di chi gli profferiva, avean in simiglianti casi forza e vigor di
legge[182].

Si leggono ancora nel codice Teodosiano[183] alcune costituzioni
appellate _Prammatiche_, promulgate in occasione di domande venute
da qualche provincia, città, o collegio; ed il Principe comandava
ciò che credea convenire; nelle quali quando ordinava doversi far
qualche cosa, chiamavansi _Jussiones_, quando si proibiva, e vietava
di farsi, eran dette _Sanctiones_. Ve n'eran in fine dell'altre, che si
dissero _Mandati_ de' Principi, ed erano per lo più alcuni ordinamenti
dirizzati a' Rettori delle province, a' Censitori, Inspettori, Tribuni,
e ad alcun'altri Ufficiali, in occasione di qualche particolar loro
bisogno, che per bene e quiete della provincia richiedeva spezial
providenza; de' quali mandati nel Codice di Teodosio se ne ha un titolo
intero[184].

Tutta questa sorte di costituzioni, delle quali ne sono pieni i Codici
di Teodosio e di Giustiniano, a tre spezie furon da Ulpiano[185]
ristrette; a gli _Editti_, ai _Decreti_, ed all'_Epistole_; ciò
che volle anche far Giustiniano, quando a queste tre parimente le
restrinse[186].

Fu veramente cosa di somma maraviglia, che fra quelli romani
Imperadori, che ressero l'Imperio fino a Costantino, essendovi stati
alcuni iniqui, crudeli, e più tosto mostri sotto spezie umana, come
Nerone, Domiziano, Commodo, Eliogabalo, Caracalla, ed altri; le
loro costituzioni nondimeno ugualmente splendessero di saviezza, di
giustizia e di gravità: tutte sagge, tutte prudenti, eleganti, brevi,
pesanti, e tutto diverse da quelle, che da Costantino, e dagli altri
suoi successori furon da poi promulgate, convenienti più tosto ad
Oratori, che a Principi[187]. Il che non altronde derivò, se non
da quel buon costume, ch'ebbero di valersi nel loro stabilimento
dell'opera di celebri Giureconsulti, senza il consiglio de' quali così
nell'amministrazione della Repubblica, come in tutte l'altre cose più
gravi, niente si facea. Per questa ragione dee presso di noi esser
in maggior pregio il Codice di Giustiniano, che quello di Teodosio;
imperocchè Giustiniano compilò il suo anche delle costituzioni
degl'Imperadori avanti Costantino, ciò che non fece Teodosio, che
solamente volle raccorre quelle de' Principi, che da Costantino
M. infino al suo tempo regnarono. E per questa ragione parimente
osserviamo, che alcune costituzioni, delle quali i Giureconsulti fanno
menzione nelle _Pandette_, si trovano nel Codice di Giustiniano, ma non
già possono leggersi in quello di Teodosio.



CAPITOLO IX.

_De' Codici Papiriano, Gregoriano, ed Ermogeniano._


Le costituzioni di questi Principi, che dopo Augusto, incominciando
da Adriano infino a Costantino M. fiorirono, furono per la somma loro
eccellenza anche raccolte in certi Codici. La prima compilazione,
ancorchè non universale di tutti i Principi, che precedettono, per
quanto n'è stato a noi tramandato, fu quella, che _Papirio Giusto_
fece delle costituzioni di Vero, e d'Antonio; questo celebre G. C. del
quale Giustiniano ce ne lasciò anche memoria nelle _Pandette_, fiorì
ne tempi di Settimio Severo, e le costituzioni di questi due fratelli
compilò; partendole in venti libri[188]. Giacomo Labitto[189] in quella
sua opera ingegnosa, e molto utile, dell'_Indice delle leggi_, fa
un catalogo di tutte le leggi, che da questi venti libri di Papirio
raccolse Triboniano. Nè dopo questa compilazione s'ha memoria, che
se ne fosse fatta altra nei tempi, che seguirono, se non quelle due
di Gregorio e d'Ermogeniano, Giureconsulti, che fiorirono ne' tempi
di Costantino M. e de' suoi figliuoli, e da coloro presero il nome
i due Codici _Gregoriano_, ed _Ermogeniano_. In questi due Codici
furon raccolte le costituzioni di più Principi, cominciando da Adriano
Imperadore fino a' tempi di Costantino: poichè nel Codice Gregoriano si
riferisce una costituzione sotto il Consolato di Diocleziano nell'anno
296, dieci anni prima dell'imperio di Costantino[190]. Questi due
Giureconsulti si proposero l'istessa epoca, e ne' loro Codici amendue
raccolsero le costituzioni indistintamente di quelli Principi, che
da Adriano fino a Costantino M. ressero l'Imperio, come è manifesto
dalle leggi, che in essi si leggono; onde meritamente fu da Giacomo
Gottifredo[191] notato d'error Cujacio, che stimò aversi Gregorio, ed
Ermogeniano proposte epoche diverse, e che ne' loro Codici riferissero
le costituzioni di diversi Principi, non senza distinzione alcuna, come
fecero, ma bensì Gregorio d'alcuni, ed Ermogeniano d'altri.

Credette Giacomo Gottifredo non fuor di ragione, che intanto questi
Giureconsulti avessero cominciata la loro compilazione da Adriano, e
non da Principi predecessori, perchè Adriano fu creduto autore d'una
certa nuova giurisprudenza per quel celebre suo _Editto perpetuo_, che
stabilì, la cui materia ed ordine, servì per cinosura ed archetipo
della giurisprudenza; e che fu il corpo più nobile della legge de'
Romani, e Capo della giurisprudenza, che a noi è oggi rimasa. E forte
indizio n'è, che Ermogeniano[192] istesso ne' libri epitomatici, le
reliquie de' quali pur le dobbiamo a Giustiniano, si propone voler
seguire l'ordine medesimo dell'Editto perpetuo. Fu ancora d'Adriano
singolare e notabile la forma, che diede per l'amministrazione degli
uffici pubblici e palatini, e della milizia parimente, la qual forma
fu costantemente osservata fino a Costantino, il quale cominciò
a variarla, e poi a' tempi di Teodosio il Giovane fu all'intutto
variata e mutata, e prese la giurisprudenza altro aspetto, come si
farà vedere nel corso di quest'istoria. Nè pare inverisimile ciò, che
suspica Gotifredo[193], che questi Codici, quando si pervenne all'età
di Costantino, e de' suoi figliuoli Imperadori cristiani, si fossero
continuati da questi Giureconsulti gentili, per ritenere almeno qualche
aspetto dell'antica giurisprudenza, giacchè per le nuove leggi, le
quali da coloro, e da altri cristiani Imperadori frequentemente si
promulgavano, veniva a cagionarsi in quella notabile mutazione. E che
cotali Giureconsulti de' tempi di Costantino, e dei suoi figliuoli,
fossero pur anche gentili, con assai forti congetture ce n'assicura il
lodato Gotifredo.

Egli è però a noi incerto, se per autorità pubblica, o per privata
fossero stati questi due Codici compilati da Gregorio, e da
Ermogeniano: parendo che un luogo d'Egineta riferito da Gotifredo possa
persuaderne a credere, che fossero stati scritti per privata autorità.
Ma che che sia di ciò, egli è indubitato, che l'autorità di questi
Codici fu grandissima; e furono pubblicamente ricevuti, in maniera che
gli Avvocati, e gli Scrittori di que' tempi, e de' più bassi ancora,
degl'interi loro libri si servirono, quando dovevan allegar qualche
costituzione. Di essi valevasi S. Agostino[194], come è manifesto
nel _lib. 2. ad Pollentium_; ove s'allega del Codice Gregoriano una
costituzione d'Antonino, che fu pretermessa nel Codice di Giustiniano.
De' medesimi ancora si servì l'Autore della collazione delle leggi
Mosaiche colle romane, che secondo Freero[195], e Gotifredo[196]
fiorì nel sesto secolo prima però di Giustiniano, e nell'istessa età
di Cassiodoro: si allega da costui una costituzione di Diocleziano
dal Codice Gregoriano nel _lib. 5. de nuptiis_; parte della quale fu
inserita da Giustiniano nel suo Codice[197]; e dell'istesso Codice
Gregoriano se ne rapporta un'altra, con notarsi ancora il Consolato
di Diocleziano nell'anno 296. Se ne servì parimente l'Autore di
quell'antica consultazione, che serbata dall'ingiuria del tempo ancor
oggi leggiamo per l'industria di Cujacio fra le sue, citandosi del
Codice Ermogeniano la _l. 2. de Calumniatoribus_: se ne valse per
ultimo Triboniano, il quale da questi due Codici, e da quello di
Teodosio compilò il suo per ordine di Giustiniano. E del compendio,
ovvero breviario di essi si servirono dappoi, oltre all'Autore della
suddetta antica consultazione, Papiniano nel libro de' Responsi, ed
altri Scrittori de' tempi più bassi, come a suo luogo dirassi. Di
questi due Codici oggi appena sono a noi rimase alcune reliquie, e
certi frammenti, che dopo lo scempio fattone da Triboniano sono a noi
pervenuti, e che pur le dobbiamo alla diligenza di Cujacio.

Della compilazione del Codice Teodosiano, come quella, che si fece
molti anni da poi ne' tempi di Teodosio il Giovane, avrem occasione
di lungamente ragionare, quando de' fatti illustri di quel Principe ci
toccherà favellare.



CAPITOLO X.

_Delle Accademie._


Non solamente in questi fioritissimi tempi, e specialmente sotto
l'Imperio d'Adriano, per tanti celebri Giureconsulti, e per la sapienza
di questo Principe, per quel suo editto, e per le tante costituzioni
degli altri savissimi Principi, era lo studio della giurisprudenza nel
maggior suo splendore, e nel colmo della sua grandezza, ma lo rendevan
ancor florido e rilevato le due celebri Accademie del Mondo, l'_Ateneo_
di Roma in Occidente, e la _Scuola_ di Berito in Oriente.


I. _Dell'Accademia di ROMA in Occidente_

Prima d'Adriano nell'inclita città di Roma non vi erano pubbliche
Accademie. I Maestri nelle loro private stanze, ch'essi chiamavan
_pergole_, insegnavano alla gioventù[198]; ed i Giureconsulti stessi,
oltre a quelle commendabili loro funzioni d'interpretare, scrivere,
rispondere, consigliare, ed altre rapportate di sopra, avean ancora
per costume nelle lor case insegnare a' giovani la ragion civile;
e Cicerone racconta di se, ch'egli attese a questi studj sotto la
disciplina di Q. Scevola figliuolo di Publio, ancorchè questi, com'e'
dice, _nemini ad docendum se dabat_[199]. Labeone[200] così s'avea
diviso l'anno, che sei mesi era in Roma frequentato da' studiosi, che
andavan da lui ad apprender la legal disciplina, e sei altri mesi si
ritirava in Villa a comporre libri, onde lasciò quattrocento volumi.
Sabino, come anche narra Pomponio[201], poichè non era dei beni di
fortuna abbastanza fornito, sovente da' suoi scolari era sovvenuto:
_huic nec amplae facultates fuerunt: sed plurimum a suis auditoribus
sustentatus est_; e così anche si praticava nell'altre professioni,
siccome per le matematiche n'abbiamo il testimonio di Svetonio[202], e
per la grammatica l'Autore del libro degl'illustri Grammatici.

Adriano fu il primo, che nella regione VIII del Foro romano fondò
l'Ateneo, ove pubblicamente dovessero insegnarsi le discipline, e le
lettere; e quel luogo, ch'è posto alle radici del monte Aventino, ancor
oggi ritiene la memoria delle scuole de' Greci[203], imperocchè in esso
si facea professione non meno della latina, che della greca eloquenza,
e non meno i Retori, e Poeti latini, che i greci vi avevan il loro
luogo. Fanno di questo Ateneo onorata memoria Dione[204], Lampridio,
Capitolino, Gordiano, e Simmaco[205].

Alessandro Severo l'ampliò, e ridusse in forma più nobile. Stabilì il
salario a' Retori, Medici, Grammatici, ed a tutti gli altri Professori.
Instituì gli Auditori pubblici, ed assegnò ancora alcune rendite a'
Studenti, figliuoli di poveri, pur che però fossero ingenui[206].
I Romani di queste genti di lettere non facevan ordine a parte, ma
le lasciavano mescolate nel terzo stato, e non avean tante persone,
quante noi, che prendesser le lettere per professione e vocazione loro
speciale[207]: da poi quelle poche ch'essi n'aveano, le ridussero in
milizie, le quali eran uffici quasi perpetui, di maniera che facevan di
loro più stima, che noi, e di grandissimi privilegi onoravangli, come
si vede nel Codice di Teodosio.

Or per la celebrità di questa famosa Accademia, concorrevano in Roma in
gran numero i giovani da tutte le parti per apprender le buone lettere,
e spezialmente la legal disciplina. Non eran sole queste nostre
province, ch'oggi forman il Regno di Napoli, a mandar lor giovanetti
a studiare in Roma, ma le province più remote e lontane eziandio;
e non pur dalle Gallie, ma dalla Grecia, e dall'Affrica ancora ne
venivano. Nelle nostre Pandette sono ancor rimasi alcuni vestigi, che
n'accertano di quest'usanza di mandarsi in Roma i giovani a studiare:
abbiamo un responso di Scevola, che diede a favor d'un giovane, che
_studiorum causa Romae agebat_, rapportato da Ulpiano[208], il qual
anche parla del viatico solito assegnarsi dai padri a' figliuoli
quando gli mandavan in Roma a studiare: e questo medesimo Giureconsulto
altrove[209] fa anche memoria di quest'usanza di mandare i giovani a
Roma a studiare, della quale ne fa altresì menzione Modestino[210],
ed altri nostri Giureconsulti. E venivano, particolarmente per dare
opera allo studio delle leggi, sin dalla Grecia i giovani in Roma;
onde si rendè celebre anche perciò la sfacciata libidine di Domiziano,
che imprigionò Arca avvenente fanciullo, il qual fin dall'Arcadia era
venuto in Roma per apprender la giurisprudenza, solamente perchè con
rado e memorando esempio non volle acconsentire alle sue impudiche
voglie[211]: di che il giovanetto appresso Filostrato[212] tutto
dolente accagionava suo padre, che potendo farlo instruire delle
greche lettere in Arcadia, l'avea mandato in Roma per apprender le
leggi. I Greci medesimi, che non sogliono esser paghi, se non di loro
stessi, e delle cose proprie, pur furono costretti confessare, che
dalle leggi romane solamente potevasi apprender una giusta e diritta
norma di costumi; onde Dione Crisostomo[213] orando presso a' Corinti,
e volendo persuader loro, ch'egli essendo dimorato per lungo tempo in
Roma appresso l'Imperador Trajano, avea sempre onestamente vivuto, di
quest'argomento si valse: ch'egli stando in Roma, era stato in mezzo
alle leggi, non potendo traviare, chi fra quelle conversava. Ne vennero
anche dall'Affrica, come nei tempi più bassi testimonia d'Alipio
l'incomparabil Agostino[214], del quale narra, che _Romam processerat,
ut jus disceret_. Dalla Gallia, e dall'altre province occidentali in
questi medesimi tempi men a noi lontani era frequente il concorso
de' giovani in Roma per lo studio delle leggi. Di Germano Vescovo
altissiodorense n'è testimone Errico altissiodorense in que' suoi
versi[215]. E Costanzo[216] nella di lui vita pur dice: _Post Auditoria
Gallicana, intra Urbem Romam Juris scientiam plenitudini perfectionis
adjecit_. Rutilio Numaziano[217] favellando di Palladio gentil giovane
franzese, pur disse, ch'era stato mandato in Roma ad apprender legge.

E Sidonio[218] Apollinare persuade Eutropio, che vada ad apprender
giurisprudenza in Roma, che perciò chiamolla, _domicilium legum_.
Onde non pur dagli Scrittori di questi tempi, ma anche de' tempi
che seguirono, meritò Roma questi encomi, non solamente per la
giurisprudenza, ma per l'eloquenza, e per tutt'altre discipline. Così
leggiamo appresso Claudiano, Roma esser chiamata _Armorum, Legumque
parentem, quae prima dedit cunabula juris_[219]: ed altrove _legum
genitricem_: appresso Simmaco, _Latiaris facundiae domicilium_[220]: e
così appresso Ennodio, Girolamo, Cassiodoro, e molt'altri Scrittori.

E fu cotanta la cura degl'Imperadori, ed il loro studio d'invigilar
sempre al decoro e ristabilimento di quest'Accademia, ch'essendo,
ne' tempi di Valentiniano il vecchio, Roma già caduta dal suo antico
splendore, ed i giovani dati in braccio a' lussi, e ad ogni sorte di
vizio, tanto che l'Accademia era molto scaduta dal suo instituto, ed
introdotti in essa molti abusi, pensò questo Principe, di cui era
molto grande la sollecitudine de' studj di Roma, riparare a cotali
disordini, e promulgò quivi a tal effetto quella celebre costituzione,
che dirizzò nell'anno 370. ad Olibrio Prefetto di quella città, parte
della quale ancor si legge nel Codice Teodosio[221], ove stabilì
undici leggi accademiche per rimediare a tanti abusi, delle quali
in più opportuno luogo farem parola. Tanto che ristorata per queste
leggi potè poi lungamente mantenere il suo lustro, e tirare a se,
come innanzi, i giovani da tutte le parti d'occidente per apprender
le lettere, e massimamente la Giurisprudenza. Così ne' tempi di
Teodorico Ostrogoto vediamo ancor durare quest'usanza di mandarsi a
Roma i giovani ad apprender le discipline; anzi volle questo Pincipe,
che non dovesse concedersi licenza a' medesimi di far ritorno alle
paterne case, se non compiuti in quella città i loro studj. In fatti
negò tal licenza a Filagrio, ancorchè suo benemerito, il quale avendo
mandat'in Roma a studiare alcuni suoi nipoti, e volendo richiamarli,
ordinò a Festo, che non gli lasciasse partire, esagerando cotanto la
stanza di Roma per li giovani: _Nulli sit ingrata Roma, quae dici non
potest aliena: illa eloquentiae faecunda mater: illa virtutum omnium
latissimum templum_[222]. La negò parimente a Valeriano, il quale avea
mandati li suoi figliuoli a Roma a studiare, e scrisse a Simmaco, che
non lasciassegli partire[223]. Questo medesimo instituto fu da poi
continuato da Atalarico suo nipote, il qual imitando Valentiniano
ne prese anche spezial cura e pensiero, e si legge ancora appresso
Cassiodoro[224] una lettera, che volle scrivere perciò al Senato di
Roma, nella quale riordina i studj, e stabilisce i soliti stipendi
per coloro, che militavano in quell'Accademia, nella quale oltre a'
Grammatici, Oratori ed altri Professori, v'avevan ancora luogo gli
_Espositori delle leggi_: onde per questo nuovo ristoramento potè da
poi, eziandio ne' tempi più barbari, meritar Roma que' pregi e quegli
encomj, che le danno più Scrittori di questa bassa età, raccolti dal
Savarone[225] sopra Sidonio[226] Apollinare.


II. _Dell'Accademia di BERITO in Oriente._

Berito è città posta nella provincia di Fenicia in Oriente, e fu
cotanto benemerita a Teodosio il Giovane, che la decorò del titolo di
metropoli della Fenicia, come Tiro, città per lo studio delle leggi non
men celebre in Oriente, che Roma nell'Occidente; e siccome in Roma la
legge civile era insegnata in latino, così a Berito in greco. Per la
famosa accademia in essa stabilita fu chiamata la _città delle leggi_;
e che riempieva perciò il Mondo delle medesime. Da chi quest'Accademia
fosse stata instituita, non se ne sa niente di certo: quel che però non
può pors'in disputa è, che fiorisse molto tempo prima di Diocleziano
Imperadore, com'è manifesto da una costituzione di questo Imperadore,
che si legge nel Codice di Giustiniano[227], indirizzata a Severino,
e ad altri scolari dell'Arabia, i quali per apprender la disciplina
legale dimoravan in Berito.

A questa città, come domicilio delle leggi, concorrevano i giovanetti
di tutte le province dell'Oriente. Chiarissima testimonianza è
quella, che ce ne dà Gregorio Taumaturgo Vescovo di Neocesarea
nell'orazion panegirica ad Origene[228], ove narra aver egli appresa
la giurisprudenza romana nell'Accademia di Berito, celebre per lo
studio di tutte le professioni, ma singolarmente per quella delle
leggi. Nè minore fu la fama di questa Accademia sotto Costanzo e
Costante circa gli anni di Cristo 350. Il Geografo antico[229], (il
qual Autore dobbiam noi alla diligenza dell'eruditissimo Giurisconsulto
G. Gotifredo) che fiorì ne' tempi medesimi, parlando della città di
Berito, e dell'Accademia delle leggi dice così, secondo l'antica
traduzione latina: _Berytus Civitas valde delitiosa, et Auditoria
legum habens, per quae omnia judicia Romanorum. Inde enim viri
docti in omnen orbem terrarum adsident Judicibus, et scientes leges
custodiunt Provincias, quibus mittuntur legum ordinationes._ Per
ciò Nonno[230] nelle Dionisiache diceva, che Berito riempieva la
terra tutta di leggi. Eunapio[231] ancora, che fiorì sotto Costanzo,
Zaccaria Scolastico[232] e Libanio[233], che visse sotto Valente,
chiamano perciò Berito madre delle leggi. E ne' tempi dell'Imperador
Valente fu tanto il concorso de' giovani a questa città per apprender
le leggi, che Libanio stesso si duole essersi perciò tralasciato lo
studio dell'eloquenza. Ed Agatia[234], favellando della ruina di Berito
a cagione del tremuoto, che abbattè quasi tutta la città, afferma
esservi accaduta strage grandissima de' cittadini, e di gran numero di
coloro, che ivi dimoravano per apprender le leggi Romane. Finalmente
il nostro Giustiniano[235] pur nomò Berito _città delle leggi_, ed
altrove[236], _nutrice_ delle medesime; donde egli fece venir Doroteo
ed Anatolio, perchè unitamente con altri avesser parte nella fabbrica
de' Digesti, non concedendo licenza d'esplicar le leggi in Oriente
ad altre Accademie, fuorchè a quelle di Berito, e di Costantinopoli
(perchè questa si trovava ne' suoi tempi fondata già da Teodosio il
Giovane l'anno 425.) siccome nell'Occidente a quella di Roma.

Vi furon ancora in questi tempi in alcune città d'Oriente altre
Accademie, ove si professavan lettere, come in Laodicea, della
quale Alessandro Severo fece menzione in una sua costituzione, che
ancor oggi leggiamo nel Codice di Giustiniano[237]. In Alessandria,
intitolata il _Museo_, della quale parla Agatia[238]; ed in Cesarea.
Siccome in Occidente, oltre di quella famosa di Roma, alcune città
avevan similmente le loro scuole, ove potevan i giovani apprender
lettere. Nè la nostra Napoli ne fu priva, poichè, come dirassi quando
dell'instituzione dell'Accademia napoletana favelleremo, Federico II.
Imperadore non fu il primo, che da' fondamenti la ergesse, ma l'essere
stata sempre questa città, come Federico stesso la chiama, _antiqua
mater, et domus studii_[239], si mosse egli perciò a rinovar questi
suoi antichi studj, e ad ingrandirli in una più nobile, e magnifica
forma, innalzando l'Accademia napoletana sopra tutt'altre, e comandando
perciò, che i giovani così di questo Regno, come di quello di Sicilia
andassero in Napoli ad apprender le discipline, come più a lungo si
diviserà, quando di tal ristoramento farem parola. Nè mancarono Scuole
nell'altre città greche di queste nostre province, in quella maniera,
che richiedeva il loro istituto; ma questi studj, allorchè fioriva
Roma, rimasero tutti oscurati ed estinti, tosto che sorse l'_Ateneo_;
e da poi avendo Roma riempiuto l'Imperio tutto delle sue leggi, le
province d'Occidente mandavan i loro giovani in quella città, come
lor madre, ad apprenderle; siccome quelle d'Oriente mandavangli a
Berito. E si diede finalmente l'ultima mano alla ruina di tutte queste
Scuole minori, quando Giustiniano a tre sole città concedè licenza
d'esplicar le leggi, cioè all'una, e all'altra Roma, ed a Berito; non
ad Alessandria, non in Cesarea, non alla perfine ad alcuna altra città
dell'uno, o dell'altro Imperio.

Dell'Accademia di Costantinopoli non era qui luogo di favellare, come
quella, che molto tempo da poi nell'anno 425. fu da Teodosio il Giovane
instituita e ridotta nella sua forma; onde se ne darà saggio nel libro
seguente di quest'istoria.


III.

Ecco in qual floridissimo stato erano queste nostre province ne' tempi,
che a Costantino precedettero: quando ciascheduna città si studiava di
comporre la sua politia e governo, ad imitazion di Roma, della quale
vantavano essere piccioli simulacri ed immagini: quando secondo le sue
leggi vivevano: e quando la giurisprudenza romana, ch'era la lor norma
e regola, era giunta nel colmo e nella più alta stima, se si pon mente
o a' favori de' Principi, o alla prudenza delle loro costituzioni,
o alla sapienza de' Giureconsulti, o alla maestà dell'Accademie, e
dottrina de' Professori, o alla probità de' Magistrati. Non è occulto,
che alcuni pur troppo vaghi di novità, volendo rendersi per qualche
stravaganza rinomati, non si sono ritenuti di biasimar le leggi
romane come troppo sottili e ricercate, e che sovente s'oppongono
al buon senso, ed al comunale intendimento degli uomini. Si è veduto
ancora, chi ha voluto perciò prendersi briga d'andarle esaminando, con
riprovarne alcune, come alla ragione ed all'equità contrarie. Altri
ne dettaron particolari trattati, che vengon rapportati da Giorgio
Pasquio[240]: e fra' nostri volle anche tentarlo il Cardinal di Luca,
che ne distese più discorsi[241]. Ma ben si sarà potuto conoscere
quanto costoro siano traviati; i quali col debole e corto lume de'
loro ingegni han preteso affrontare una verità per tanti secoli
conosciuta e professata da' maggiori uomini, che fiorirono quando il
genere umano si vide in tant'elevamento ed eminenza, in quanta non
fu mai per l'addietro, e che non sappiamo se mai potrà ritornare in
quella sublimità, in cui fu ammirato mentre durò il roman Imperio.
I Romani ci diedero le leggi savie e giuste, come per isperimento
si conobbe ch'erano le più utili, conformi all'equità naturale, e
adattate per la società civile ed all'umano commercio: che se fosse
ad ognuno lecito farsi giudice sopra le leggi, ed a suo giudicio e
capriccio dar regola a questa bisogna, vorrebbe ciascuno, fidando nel
suo ingegno, sostenere al pari di chiunque altro la propria opinione;
ed ecco i disordini e le confusioni, ed ecco alla per fine introdotto
fra noi un deplorabile scetticismo. Solone perciò dimandato s'egli
aveva date agli Ateniesi le più giuste e le più savie leggi, rispose,
le migliori che si confacessero a' loro costumi, e le più acconce a'
loro profitti; imperocchè la giustizia e la sapienza delle leggi non
dipende da ragioni astratte e metafisiche, ma dall'utilità che recan
a' popoli, al commercio ed alla vita civile: di che per più secoli ne
diedero bastanti riprove le romane: onde avvenne che ruinato l'Imperio,
non per questo ne' nuovi dominj in Europa stabiliti, cessò la maestà e
l'uso delle medesime. L'utilità e l'onestà sono la norma delle leggi,
e quelle saranno sempre le giuste, che riescono a' popoli utili ed
oneste: ciò che meriterebbe un trattato a parte, non essendo del nostro
instituto.

Altri vi sono, i quali empiono il Mondo di querele contra i Romani
per la moltiplicità di tante leggi: questa querela non è nuova, ma
molto antica, e fin da' tempi della libera Repubblica s'intese; tanto
che Cesare[242], e Pompeo pensarono di darvi qualche compenso, con
ridurre ad un cert'ordine la giurisprudenza romana: il che se non
potè mai ridursi ad effetto da uomini sì illustri, molto meno s'è
potuto da poi sperare dagli altri, come impresa affatto disperata ed
impossibile, non che dura e malagevole. Ma queste querele, o quanto
meglio farebbon costoro, se le scagliassero contra i depravati costumi
degli uomini, contra la lor ambizione e dissolutezza, anzi che contro
alle leggi: ben è egli vero che moltitudine di vizj e moltitudine di
leggi si secondano, e si producono l'una l'altra quasi sempre; ond'è
che Arcesilao[243] soleva dire, che siccome dove sono molte medicine
e molti medici, quivi sono infermità abbondanti, così dove abbondan
le leggi, ivi essere ingiustizia somma; nulladimanco non è somma
ingiustizia, nè sono molti vizj, perchè sieno molte leggi, ma ben
sono molte leggi, perchè sono molti vizj. Per riparare a' corrotti
costumi degli uomini, non v'era altro rimedio, che quello delle leggi.
L'Imperio romano molto tempo prima avrebbe veduta la sua rovina, se
di quando in quando la prudenza di qualche Principe non v'avesse dato
riparo per mezzo delle leggi. Eran a' Romani sempre innanzi agli occhi
molti domestici esempi, che gli ammonivano, niun altro freno esser
più potente alla dissolutezza degli uomini, quanto le leggi. Sapevan
benissimo, che fin da' primi tempi della loro Repubblica niente altro
più ardentemente bramavasi dalla licenziosa gioventù romana, salvo
che non esser governati dalle leggi, ma che dovesse al Re ogni cosa
rimettersi, ed al suo arbitrio; nè ciò per altra cagione, se non per
quella, che con molta eleganza vien rapportata da Livio[244]: _Regem_,
e' dicevano, _hominem esse a quo impetres ubi jus, ubi injuria opus
sit: esse gratiae locum, esse beneficio, et irasci, et ignoscere
posse: inter amicum, et inimicum discrimen nosse. Leges, rem surdam,
inexorabilem esse, salubriorem melioremque inopi, quam potenti; nihil
laxamenti nec veniae habere, si modum excesseris: periculosum esse,
in tot humanis erroribus, sola innocentia vivere._ Sentimenti pur
troppo licenziosi e dannevoli, e che dirittamente si oppongono a quel
che insegnò Aristotele nella sua politica[245]. Ove sia Repubblica
senza vizj, certamente mal fa, chi vuol caricarla di leggi, siccome
mal fa, chi ad un corpo sano vuol applicar medicamenti. Ma se quella,
già data in preda a' lussi, minaccia rovina, non v'è altro riparo,
che ricorrere alle leggi. E meglio in questi casi sarà, che nella
Repubblica abbondino le leggi, le quali proveggano e s'oppongano ad
ogni vizio[246], che rimetter tutto all'arbitrio de' Magistrati, il
giudicio de' quali sta sottoposto agli affetti ed alle macchinazioni e
tranelli de' litiganti.

Egli è pur vero, che alla corruttela de' costumi non si rimedia
abbastanza colle leggi; ed in ciò non si può non commendare quel
gravissimo ammaestramento di Bacone di Verulamio[247], che dovrebbon i
Principi aver sempre innanzi agli occhi, dicendo egli che la maggiore
lor cura e pensiero dovrebbe essere non tanto, come fanno, di rimediar
agli abusi ed alle corruttele colle leggi, quanto d'invigilare su
l'educazione de' giovani. Sopra il buono allevamento de' medesimi
dovrebbon impiegare per mezzo delle leggi tutto il lor rigore; poichè
in questa maniera in gran parte si scemerebbe il numero de' vizj e per
conseguenza il numero delle leggi. Star tutt'intesi a ben ristabilire,
e fornir di buoni instituti e di Professori l'Accademie e l'Università
de' studj, ed in ciò porre ogni lor cura. Erasi negli ultimi nostri
tempi cominciato a veder qualche riparo da' Collegj instituiti per la
gioventù, nel che furon eminenti i Gesuiti. Ma par ora che scaduta
già in quelli la prima disciplina, veggasi ancora andare scemando
quell'antico fervore, e corrompersi sempre più ogni buon instituto.
Richiederebbero veramente queste cose più tosto un Censore, che un
Istorico, onde potendo fin qui bastare ciò che se n'è divisato come
per un apparato delle cose che avranno a seguire, farem passaggio,
dopo aver narrata la politia ecclesiastica di quest'età, a' tempi di
Costantino, donde quest'istoria prende suo principio.



CAPITOLO XI.

_Della Politia Ecclesiastica dei tre primi secoli._


La nuova religione cristiana, che da Cristo Signor nostro cominciò ne'
tempi di Tiberio a disseminarsi fra gli uomini, ci fece conoscere due
potenze in questo Mondo, per le quali e' bisognava che si governasse,
la spirituale, e la temporale, riconoscenti un medesimo principio, ch'è
Iddio solo[248]. La spirituale nel Sacerdozio, o stato ecclesiastico,
che amministra le cose divine e sacrate: la temporale nell'Imperio, o
Monarchia, o vero stato politico, che governa le cose umane e profane:
ciascuna di loro avente il suo oggetto separato: i Principi perchè
soprantendano alle cause del secolo: i Sacerdoti alle cause di Dio.
Ciascuna ancora ha suo potere diverso e distinto; de' Principi il
punire, o premiare con corporale pena, o premio: de' Sacerdoti con
spirituale. In breve, a ciascuna fu dato il suo potere a parte: laonde
siccome non senza cagione il Magistrato porta la spada, così ancora i
Sacerdoti le chiavi del Regno de' Cieli.

Non così era prima presso a' pagani, i quali non riconoscevano nel
Mondo queste due potenze infra loro separate e distinte; ma in una sola
persona l'unirono: ond'è che i loro Re soli n'eran capi e moderatori:
e la ragion era, perch'essi della religione si servivan per la sola
conservazione dello Stato, e non la indirizzavano, come facciam noi,
ad un altro più sublime fine. Così presso a' Romani il Pontificato
Massimo lungo tempo durò nella stessa persona degl'Imperadori[249],
e se bene avessero separati Collegi di Sacerdoti, a' quali la cura
della lor religione era commessa, nientedimeno come che della medesima
si servivano per la sola conservazione dello Stato, dovean per
conseguenza le deliberazioni più gravi al Principe riportarsi, che
n'era il Capo: istituto, che ad essi fu tramandato da' loro maggiori,
appo i quali, come dice Cicerone[250], _qui rerum potiebantur, iidem
auguria tenebant; ut enim sapere, sic divinare, regale ducebatur_.
Quindi Virgilio[251] del Re Annio cantò. _Rex Anius, Rex idem hominum,
Phoebique Sacerdos._

Appresso gli antichi Greci questo medesimo costume veggiamo, che ci
rappresenta Omero, dove gli Eroi, cioè i Principi, eran quelli che
facevan i sacrifizj: degli Ateniesi e di molte altre città della Grecia
lo stesso narra Platone: appresso gli Etiopi, scrive Diodoro, che i Re
eran i Sacerdoti: siccome ancora appresso gli Egizj narra Plutarco; ed
appresso gli Spartani Erodoto[252].

Ma presso a' Cristiani la religione non è indirizzata alla
conservazione dello Stato, ed al riposo di questo Mondo, ma ad un più
alto fine, che riguarda la vita eterna, e che ha il suo rispetto a
Dio, non agli uomini: e quindi presso di noi il Sacerdozio è riputato
tanto più alto e nobile dell'Imperio, quanto le cose divine sono
superiori all'umane, e quanto l'anima è più nobile del corpo e de'
beni temporali. Ma dall'altra parte, essendo stata data da Dio la spada
all'Imperio per governar le cose mondane, vien ad essere questa potenza
più forte in se medesima, cioè a dire in questo Mondo, che non è la
potenza spirituale data da Dio al Sacerdozio, al quale proibì l'uso
della spada materiale; poscia che ha solamente per oggetto le cose
spirituali, che non sono sensibili; ed il principale effetto della sua
forza è riserbato al Cielo; come ce ne fece testimonianza l'istesso
nostro buon Redentore, dicendo, il suo Reame non esser di questo Mondo,
e che se ciò fosse, le sue genti combatterebbono per lui.

Riconosciute fra noi queste due potenze procedenti da un medesimo
principio ch'è Iddio, da cui deriva ogni potestà, e terminanti ad
un medesimo fine, ch'è la beatitudine, vero fine dell'uomo; è stato
necessario, si proccurasse, che queste due potenze avessero una
corrispondenza insieme, ed una sinfonia[253], cioè a dire un'armonia ed
accordo composto di cose differenti, per comunicarsi vicendevolmente
la loro virtù ed energia, dimanierachè se l'Imperio soccorre colle
sue forze al Sacerdozio, per mantenere l'onor di Dio; ed il Sacerdozio
scambievolmente stringe ed unisce l'affezion de' Popoli all'ubbidienza
del Principe, tutto lo Stato sarà felice e florido: per contrario, se
queste due potenze sono discordanti fra loro, come se il Sacerdozio
abusandosi della divozion de' Popoli intraprendesse sopra l'Imperio, o
governamento politico e temporale, ovvero se l'Imperio voltando contra
Dio quella forza, che gli ha posta fra le mani, attentasse sopra il
Sacerdozio, tutto va in disordine, in confusione ed in ruina.

Egli è Iddio, che ha messo quasi da per tutto queste due potenze in
diverse mani, e l'ha fatte amendue sovrane in loro spezie, affinchè
l'una servisse di contrappeso all'altra, per timore che la loro
sovranità infinita non degenerasse in disregolamento, o tirannia. Così
vedesi, che quando la sovranità temporale vuole emanciparsi contra le
leggi di Dio, la spirituale le si oppone incontanente; e medesimamente
la temporale alla spirituale[254]: la qual cosa è gratissima a Dio,
quando si fa per via legittima, e sopra tutto quando si fa direttamente
e puramente per suo servigio, e per lo ben pubblico, non già per
l'interesse particolare e per intraprender l'una sopra l'altra.

E poichè queste due potenze si rincontrano per necessità insieme in
tutti i luoghi, ed in tutti i tempi, ed ordinariamente in diverse
persone; e dall'altra parte tutte due sono sovrane in loro spezie,
niente affatto dipendendo l'una dall'altra; l'infinita Sapienza per
evitare il disordine estremo, che nasce inevitabilmente dalla loro
discordia, ha piantati limiti sì fermi, ed ha messe separazioni
sì evidenti fra loro, che chiunque vorrà dare, benchè piccol luogo
alla ragione, non si potrà ingannare nella distinzione delle loro
appartenenze; poichè qual cosa è più facile a distinguere, che le cose
sacrate dalle profane, e le spirituali dalle temporali? Non bisogna
dunque, se non praticare questa bella regola, che il nostro Redentore
ha pronunciata di sua propria bocca, _Reddite quae sunt Caesaris
Caesari, quae sunt Dei Deo_. Regolamento assai breve, ma per certo
assai netto e chiaro, perchè quando la cura dell'anime, e delle cose
sacrate appartiene al Sacerdozio, egli bisogna, che il Monarca stesso
se gli sottometta in ciò, che concerne direttamente la religione
ed il culto di Dio, se sente d'avere un'anima, e se vuol essere
nel numero de' figliuoli di Dio e della Chiesa; chiaro e famoso è
l'esempio dell'Imperador Teodosio, il quale alla censura d'un semplice
Arcivescovo si rendè, ed adempiè la penitenza pubblica, che gli era
stata da colui ingiunta: l'attesta ancora l'esempio di Davide, _Qui
et si regali unctione Sacerdotibus, et Prophetis praeerat in causis
saeculi, tamen suberat eis in causa Dei_[255].

Reciprocamente ancora, poichè la dominazion delle cose temporali
appartiene a' Principi, e la Chiesa è nella Repubblica, come dice
Ottato Milevitano, e non già la Repubblica nella Chiesa, bisogna che
tutti gli Ecclesiastici, ed anche i Prelati della Chiesa ubbidiscano
al Magistrato secolare in ciò ch'è della politia civile[256]. _Si omnis
anima potestatibus subdita est, ergo et vestra_ (dice S. Bernardo[257]
ad Errico Arcivescovo di Sens) _quis vos excepit ab Universitate?
Certe, qui tentat excipere, tentat decipere_; e S. Gio. Grisostomo
sponendo il passo di S. Paulo: _Omnis anima potestatibus sublimioribus
subdita est_, dice, _etiam si fueris Apostolus, Evangelista, Propheta,
Sacerdos, Monachus, hoc vero pietatem non laedit_[258]. In breve, il
Papa S. Gregorio[259] il Grande: _Agnosco_, dice, _Imperatorem a Deo
concessum non militibus solum, sed et Sacerdotibus etiam dominari_.

Poichè dunque la distinzione di queste due potenze è tanto
importante, egli è stato ben necessario dar loro nomi differenti,
cioè coloro, i quali hanno la potenza ecclesiastica, sono chiamati
_Pastori_ e _Prelati_; e gli altri, che possedono la temporale, sono
particolarmente nominati _Signori_ o _Dominatori_. Appellazione, ch'è
interdetta agli Ecclesiastici di propria bocca di N. S. il quale in
due diversi tempi, cioè nella domanda de' figliuoli di Zebedeo, e nel
contrasto di precedenza sopravvenuto fra' suoi Apostoli, poco avanti
la sua santa passione, reiterò loro questa lezione: _Principes gentium
dominantur eorum, vos autem non sic, etc._ Lezion che S. Pietro ha
ben raccolta nella sua prima lettera, dicendo a' Vescovi: _Pascite,
qui in vobis est, gregem Dei non ut Dominantes in Cleris, sed forma
facti gregis_, cioè a dire, stabilito in forma di greggia, il cui
pastore non è il signore e proprietario, ma il ministro e governatore
solamente[260]. Così Dio gli dice: _Pasce oves meas_, e non già
_tuas_[261].

Ed in verità la potenza ecclesiastica essendo diretta sopra le cose
spirituali e divine, che non sono propriamente di questo Mondo, non può
appartenere a gli uomini in proprietà, nè per diritto di signoria, come
le cose mondane, ma solamente per esercizio ed amministrazione, fin
a tanto che Iddio (il qual solo è il Maestro, e signore delle nostre
anime) commette loro questa potenza soprannaturale, e per esercitarla
visibilmente in questo Mondo sotto suo nome, ed autorità, come suoi
Vicarj e Luogotenenti, ciascuno però secondo il suo grado gerarchico,
appunto come nella politia civile più Ufficiali, essendo gli uni sotto
gli altri, esercitano la potenza del Sovrano Signore.

Tutto ciò si dice per ispiegare la proprietà de' termini del soggetto
della presente opera, non già per diminuire in parte alcuna la potenza
ecclesiastica, la quale per contrario riferendosi direttamente a Dio,
dee essere stimata ben più degna di quella de' Principi della Terra
i quali ancora non avean nel principio la loro, che per ufficio e
per amministrazione, appartenendo la Sovranità, o per meglio dire la
libertà perfetta allo Stato in corpo. Così in que' tempi erano pur essi
chiamati _Pastori_ de' Popoli, come vengon qualificati da Omero: ma
l'oggetto della lor potenza, che consiste nelle cose terrene, essendo
adattato a ricever la signoria, o potenza in proprietà, essi l'hanno
da lungo tempo guadagnata, ed ottenuta in tutti i paesi del Mondo: de'
quali molti parimente ve ne sono, dove essi han ottenuto non solamente
la Signoria pubblica, ma ancora la privata, riducendo il lor Popolo in
ischiavitudine.

Non si possono ritrovar pruove più considerabili della distinzione di
queste due maniere di potestà, nè più solenni esempj del cambiamento
della potestà per ufficio e per esercizio, in quella di proprietà e
per diritto di signoria, che in quel che accadde nel Popolo di Dio,
quando annojato d'esser comandato da' Giudici, ch'esercitavano sopra
di lui la sovranità per ufficio ed amministrazione assolutamente, egli
volle avere un Re, il quale da allora innanzi avesse la sovranità per
diritto di signoria. Ciò che dispiacque grandemente a Dio, il quale
disse a Samuello ultimo de' Giudici, _essi non hanno te ricusato, ma
me, affinchè io non regni più sopra loro_: e poco da poi: _Tale sarà
il diritto del Re, etc._[262]. Il che significa, che Iddio stesso era
il Re di questo Popolo, ed aveva sopra lui la proprietà e la potenza,
allorchè era governato da semplici Giudici o Ufficiali[263]; ma che ciò
non sarà più, quando avrà un Re, il quale s'abuserà di questa potenza
in proprietà. Bella instruzione agli Ecclesiastici di lasciare a Dio
la proprietà della potenza spirituale, e contentarsi dell'esercizio di
quella, come suoi Vicarj e suoi Luogotenenti, qualità la più alta e la
più nobile, che potesse esser sopra la terra.

Ecco la distinzione della potenza spirituale e della temporale, che ben
dimostra, che l'una non include e non produce l'altra, medesimamente
non è superiore all'altra; ma che amendue sono o sovrane, o subalterne
in diritto loro, e in loro spezie.

Ma nientedimeno questa distinzione non impedisce, che l'una e l'altra
non possano risiedere in una istessa persona, e talora, ch'è più, a
cagion d'una medesima dignità. Tuttavolta bisogna prender cura, che
quando esse risiedono nella medesima dignità, fa mestiere, che ciò sia
una dignità ecclesiastica, e non già una signoria, o ufficio temporale;
poichè la potenza spirituale essendo più nobile della temporale,
non può dipendere, nè essere accessoria a quella, siccome non può
appartenere agli uomini laici, a' quali appartengono ordinariamente le
potenze temporali, e sopra tutto la potenza spirituale non può tenersi
per diritto di signoria, nè deferirsi per successione, nè possedersi
ereditariamente, come le signorie temporali.

Donde siegue, per dir ciò di passaggio, che è errore contro al senso
comune d'aver in Inghilterra voluto attribuire al Re, o alla Reina la
sovranità della Chiesa anglicana, in quel modo, che se l'attribuisce
la temporalità del suo Reame, quasi fosse da questa dependente[264]:
ebbe ciò suo cominciamento da collera, e da una particolar indegnazione
d'Errico VIII. contra 'l Papa, il qual negò d'approvare il di lui
divorzio, di che prese egli tanto sdegno, che ricusò per l'innanzi
di pagargli più quel tributo, che lungo tempo avanti si pagava in
Inghilterra; e quel ch'è più, seguendo lo sfrenato impeto dell'ira, si
dichiarò Capo della Chiesa anglicana immediatamente dopo Gesù Cristo,
e costrinse il suo Popolo a giurare, che lo riconosceva Signor sovrano
tanto nelle cose spirituali, che temporali: error, che apparve poi
visibilmente, quando la Reina Elisabetta sua figliuola venne a regnare;
imperocchè si vide allora una femmina per Capo della Chiesa anglicana,
e la sovranità spirituale caduta nella conocchia.

Ora, benchè per qualche tempo queste due potenze sieno state nelle
medesime persone fra il Popolo di Dio, cotesto però si fece in modo,
che la temporale era sempre accessoria al Sacerdozio; ma da poi che il
Popolo volle esser dominato da' Re, questi Re non ebbero la potenza
spirituale: e se pur talora la vollero essi intraprendere, ne furon
aspramente puniti da Dio, come è manifesto per l'istoria d'Ozia[265]:
ed in quanto a' Pagani, s'è già veduto, che in più Nazioni i Re sono
stati Sacerdoti, sottomettendo la religione allo Stato, e non se
ne servivano, che in quanto ella era necessaria allo Stato: ma noi
instruiti in migliori scuole, abbiam'appreso di preferire la religione,
c'ha il suo rispetto a Dio, e riguarda la vita eterna, allo Stato, che
non riflette, se non agli uomini, ed al riposo di questo Mondo. Ma non
vi è però alcun inconveniente, nè repugnanza, che la potenza temporale
sia annessa, e rendasi accessoria e dependente dal Sacerdozio, come ne'
seguenti libri di quest'Istoria osserveremo nella persona del Pontefice
romano, e negli altri Prelati della Chiesa: non già perchè fosse stata
prodotta dalla sovranità spirituale, e fosse una delle sue appartenenze
necessarie, ma si è da loro acquistata di volta in volta per titoli
umani, per concessioni di Principi, o per prescrizioni legittime, non
già _Apostolico Jure_, come dice S. Bernardo[266]; _nec enim ille tibi
dare, quod non habebat, potuit_.

Ecco il rincontro di queste due potenze in sovranità independenti l'una
dall'altra, e riconoscenti un sol principio, ch'è Iddio, distinte con
ben fermi limiti per propria bocca del nostro Salvatore, in guisa che
l'una non ha che impacciarsi coll'altra.


§. I. _Politia Ecclesiastica de' tre primi secoli in Oriente._

Riconoscendo noi adunque per la religione cristiana nel Mondo queste
due potenze, bisognerà che si narri ora, come la spirituale fosse
cominciata ad amministrarsi fra gli uomini, e come perciò tratto
tratto nell'Imperio, ed in queste nostre province si fosse stabilita la
politia, e lo stato ecclesiastico, che ne' secoli seguenti portò uno
de' maggiori cambiamenti dello stato politico, e temporale di questo
Reame.

In que' tre primi secoli dell'umana redenzione, prima che da Costantino
Magno si fosse abbracciata la cristiana religione, non potrà con
fermezza ravvisarsi nell'Imperio alcuna esterior politia ecclesiastica.
Gli Apostoli ed i loro successori intenti alla sola predicazione del
Vangelo, non molto badarono a stabilirla; e ne furon impediti ancora
dalle persecuzioni, che gli costringevano in privato e di soppiatto a
mantenere l'esercizio della loro religione fra' Fedeli.

Il nostro buon Redentore adunque, dovendo ritornar al Padre, che
lo mandò in questo Mondo per mostrarci una più sicura via di nostra
salute, volle, dopo averci dati tanti buoni regolamenti, lasciare in
terra suoi Luogotenenti, a' quali questo potere spirituale comunicò,
perchè come suoi Vicarj mantenessero e promulgassero da per tutto la
sua religione. E volle valersi, non già del ministero degli Angioli,
ma piacendogli innalzare il genere umano, volle eleggere per più
profondi misteri non i più potenti uomini della terra, ma i più vili
ed abbietti; volendo con ciò darci un'altra nota di distinzione tra
queste due potenze, che l'una non riguarda nè stirpe, nè altri pregi,
che il Mondo stima, ma solamente lo spirito, non il sangue e gli altri
umani rispetti. Lasciò per tanto questa potenza agli Apostoli suoi
cari discepoli, i quali, mentre egli conversò fra noi in terra, lo
seguirono; a' medesimi diede incumbenza d'insegnare e predicare la sua
legge per tutto il Mondo; e diè loro il potere di legare e sciorre,
come ad essi pareva, impegnando la sua parola, che sarebbe sciolto
in Cielo, quel ch'essi prosciogliessero in terra, e legato quel che
legassero.

Gli Apostoli ancorchè riconoscessero per lor Capo S. Pietro, nel
principio a tutt'altro pensarono, che a stabilire un'esterior
politia ecclesiastica, poichè intenti solamente alla predicazion
del Vangelo, ed a ridurre l'uman genere alla credenza di quella
religione, ch'essi procuravano di stabilire, e di stenderla per tutte
le province del Mondo, non badarono, che a questo solo: si sparsero
perciò e s'incamminarono per diverse parti, ove più il bisogno, ovvero
l'occasione gli portava. Le prime province furon quelle d'Oriente, come
più a Gerusalemme ed alla Palestina vicine: scorsero in Antiochia, in
Ismirna, in Efeso, in Alessandria e nell'altre città delle province
d'Oriente, nelle quali fecero miracolosi progressi, riducendo que'
Popoli alla vera credenza: nel che non molto venivano frastornati ed
impediti dagli Ufficiali dell'Imperio, poich'essendo queste province
lontane da Roma, capo e sede degl'Imperadori, non erano così da presso
i loro andamenti osservati; onde poterono stabilire in molte città
di quelle province la religione: e fare in più luoghi più unioni di
Fedeli, ch'essi chiamaron _Chiese_. Ma in questi principj, come dice
S. Girolamo[267], fondate ch'essi avevano nelle città le Chiese,
erano quelle governate dal comun consiglio del Presbiterio, come in
Aristocrazia. Da poi cresciuto il numero de' Fedeli, e cagionandosi
dalla moltitudine confusioni e divisioni, si pensò, per ovviare a'
disordini, di lasciare bensì il governo al Presbiterio, ma di dar la
soprantendenza ad uno de Preti il qual fosse lor Capo, che chiamaron
_Vescovo_, cioè a dire, Inspettore, il quale collocato in più
sublime grado, avea la soprantendenza di tutti i Preti, ed al quale
apparteneva la cura ed il pensiero della sua Chiesa, governandola però
insieme col Presbiterio: tanto che 'l governo delle Chiese divenne
misto di monarchico ed aristocratico, onde Pietro di Marca[268] ebbe
a dire, che il governo monarchico, della Chiesa veniva temperato
coll'aristocratico.

Alcuni han voluto sostenere, che in questi primi tempi il governo
e politia delle Chiese fosse stato semplice e puro aristocratico
presso a' Preti solamente, niente di più concedendo a' Vescovi, che
a' Preti, non reputandogli di maggior potere ed eminenza sopra gli
altri: ma ben a lungo fu tal errore confutato dall'incomparabile
Ugone Grozio[269]; ed il contrario ci dimostrano i tanti cataloghi de'
Vescovi, che abbiamo appresso Ireneo, Eusebio, Socrate, Teodoreto ed
altri, da' quali è manifesto, che fin da' tempi degli Apostoli ebbero
i Vescovi la soprantendenza della Chiesa, e collocati in più eminente
grado soprastavano a' Preti, come loro Capo. Così, non parlando de'
Vescovi di Roma come cosa a tutti palese, in Alessandria, morto che fu
S. Marco Evangelista, il qual soprastava a quella Chiesa, narra San
Girolamo[270], che i Preti sempre ebbero uno, che eleggevan per loro
Capo, _et in celsiori gradu collocatum. Episcopum nominabant_. Morì
S. Marco nell'anno 62 della fruttifera incarnazione, e nell'ottavo
anno dell'Imperio di Nerone[271]: e dopo lui fu in suo luogo rifatto,
vivendo ancora S. Giovanni Apostolo, Aniano; ad Aniano succedette nel
governo di quella Chiesa Abilio; ad Abilio, Cerdone; e così di mano in
mano gli altri[272]. In Antiochia, Evodio, Ignazio, ec. In Gerusalemme,
vivente ancor S. Giovanni, dopo la morte di S. Giacomo, tennero
il Vescovato di quella città, Simone, Giusto, ec. In Ismirna dagli
Apostoli stessi, cioè da S. Giovanni, fu preposto a' Preti per Vescovo
Policarpo, che governò quella Chiesa fin ad un'età provetta. Così
ancora la Chiesa d'Efeso, ancorchè amministrata da' Preti, a costoro
però uno era, che presedeva, e dopo Timoteo, ne fu per qualche tempo
Capo S. Giovanni medesimo: detto perciò Principe del Clero, ed Angelo
della Chiesa: succedettero quindi Tito ed altri in appresso; tanto
che nel Concilio di Calcedonia[273] per bocca di Leonzio Magnesiano
leggiamo: _A Sancto Timotheo, usque nunc XXVII. Episcopi facti, omnes
in Epheso ordinati sunt._

Nè dovrà sembrar cosa strana, per dir ciò di passaggio, che gli
Evangelisti, il cui impiego era d'andar girando per le province
dell'Imperio, e predicare il Vangelo, avessero potuto essere Vescovi
d'alcune città; poichè, come ben avvisa Ugon Grozio[274], essi
avean anche per costume di fermarsi in qualche luogo ove scorgevano,
che la loro più lunga dimora potesse essere di maggior profitto: e
fermati adempievano tutte le parti d'un buon Vescovo, presedendo al
Presbiterio. E per questa cagione noi leggiamo, che gl'istessi Apostoli
furono Vescovi d'alcune città, perchè in quelle lungamente dimorati
aveano governate le loro Chiese, come tutti gli altri Vescovi, da essi
in altre città instituiti, facevano.

Così col correr degli anni, disseminata la religion cristiana per
tutte le province dell'Imperio, ancorchè mancassero gli Apostoli,
succedettero in lor luogo i Vescovi, i quali, soprastando al
Presbiterio, ressero le Chiese: e si videro perciò nelle città
costituiti i Vescovi, come dice S. Cipriano: _Jam quidem per omnes
Provincias, et per Urbes singulas constituti sunt Episcopi_. Onde da
poi fu stabilmente costituito, che nel governo delle Chiese uno de'
Preti dovesse soprastare agli altri, ed al quale dovesse appartenere
la cura della Chiesa, come testifica S. Geronimo[275]: _In toto Orbe
decretum est, ut unus de Presbyteris electis caeteris superponeretur,
ad quem omnis cura Ecclesiae pertineret_.

Egli è però vero, che quantunque S. Cipriano dica, che in ciascheduna
città fosse stato il Vescovo instituito, si sa nondimeno che moltissime
non l'ebbero, e furon governate e rette dal solo Presbiterio; poichè
gli Apostoli non in ogni Chiesa instituirono i Vescovi, ma molte ne
lasciaron al solo governo del Presbiterio, quando fra essi non v'era
alcuno, che fosse degno del Vescovato, come dice S. Epifanio[276]:
_Presbyteris opus erat, et Diaconis, per hos enim duos Ecclesiastica
compleri possunt; ubi vero non inventus est quis dignus Episcopatu,
permansit locus sine Episcopo; ubi vero opus fuit, et erant
digni Episcopatu, constituti sunt Episcopi_. E quelle Chiese, che
rimanevan senza Vescovo, dice S. Girolamo, che _communi Presbyterorum
consilio gubernabantur_. Così di Meroe città dell'Egitto testifica
S. Atanasio[277], che fino ai suoi tempi non avea avuto Vescovo,
e si governava dal solo Presbiterio: e così di molte altre città
dell'Imperio testificano molti Scrittori di que' tempi.

Tale fu la politia in questi primi secoli dello stato ecclesiastico,
nè altra gerarchia si ravvisò, nè altri gradi distinti, se non di
Vescovi, Preti e Diaconi, i quali come loro Ministri teneano anche
cura dell'oblazioni, e di ciò che al sacro ministero era necessario.
Questi componevano un sol Corpo, di cui il Vescovo era Capo, e gli
altri Ministri, o meno o più principali erano i membri, ed era come
un Consiglio o Senato del Vescovo, che insieme con lui governava la
Chiesa. Quindi S. Girolamo[278] ragionando de' Vescovi, dicea che anche
quelli aveano il lor Senato, cioè il ceto de' Preti; siccome anche
dicea San Basilio[279]; ed Ignazio scrivendo a' Tralliani affermava,
che i Preti fossero i Consiglieri del Vescovo, gli Assessori di
quello, e che dovessero riguardarsi come succeduti in luogo del Senato
Apostolico: quindi era che S. Cipriano non soleva trattar cos'alcuna di
momento senza l'intervento o consiglio de' suoi Preti e Diaconi, come
si raccoglie dalle sue epistole[280].

Alcuni credettero[281], che questa politia di dar la soprantendenza
a' Vescovi e superiorità su i Preti fosse stata introdotta anche ad
esempio de' Gentili, appresso i quali nel Sacerdozio parimente si
notavano più gradi; e si vede ciò non solamente essersi praticato
da' Greci e da' Romani, ma essere stata anche disciplina antichissima
de' Druidi nella Gallia, come narra Cesare ne' suoi Commentarj[282]:
_Druidibus praeest unus, qui summam inter eos habet authoritatem_.
Presso a' Burgundi fuvvi ancora il Sacerdote massimo, come narra
Marcellino[283], e nella Repubblica giudaica questo stesso costume
approvò anche Iddio S. N. quando a tutti i Sacerdoti prepose uno di
maggiore autorità.

Ma quantunque fosse ciò probabile, e che a loro imitazione si fosse
instituito tal ordine, nulladimanco dovrà sembrare a ciascuno più
verisimile ciò che Grozio[284] suspica, essersi questa politia
introdotta ad esempio delle Sinagoghe degli Ebrei, delle quali par chè
le Chiese fondate dagli Apostoli fossero simulacri ed immagini: ed in
fatti osserviamo, che in molti luoghi le Sinagoghe erano senz'imperio,
siccome la Chiesa da se non ha imperio alcuno, e tutta la sua potenza
è spirituale; si vede ancora, che gli Apostoli predicando per la
Palestina e per le province d'intorno il Vangelo, trovavano in que'
tempi molte Sinagoghe ben instituite fin da' tempi della dispersione
babilonica: e ricevendo queste per la predicazione degli Apostoli
la fede di Cristo, giacchè ad esse prima d'ogn'altro fu predicato
l'Evangelo, non vi era cagione, perchè dovessero mutar politia,
ed allontanarsi da quella, che l'esperienza di molti secoli aveva
approvata e commendata per buona; si aggiungeva ancora, che riusciva
agli Apostoli più acconcia al loro fine, perchè in cotal guisa, dovendo
disseminar una nuova religione nell'Imperio gentile, si rendeva la
novità meno strepitosa, nè dava tanto su gli occhi agli Ufficiali
dell'Imperio, a' quali poco importava, che niente mutandosi della
lor esteriore politia, le Sinagoghe divenissero Chiese; e fondandosi
altrove altre Chiese, perchè all'intutto conformi agl'instituti
giudaici, a' quali già essi s'erano accomodati, picciola novità loro
s'arrecava nè tanta che potesse turbar lo stato civile dell'Imperio.
Così in ogni Sinagoga essendovi uno, il qual soprastava agli altri, che
chiamavan il Principe, in suo luogo sostituirono il Vescovo: erano in
quelle i Pastori, ed a costoro succedettero i Preti: v'eran ancora gli
Elemosinieri, i quali avean in gran parte corrispondenza co' Diaconi.


§. II. _Politia ecclesiastica in Occidente, ed in queste nostre
regioni._

Sparsa intanto per le province d'Oriente questa nuova religione, ed
avendo in quelle parti avuto mirabili progressi, si procurò anche
stabilirla nell'Occidente. Alcuni degli Apostoli, e molti loro
discepoli s'incamminaron perciò verso queste nostre regioni. Narrasi
che S. Pietro stesso lor Capo, lasciando la Cattedra d'Antiochia,
avendo instituito Vescovo in quella Chiesa Evodio, navigasse con
molti suoi discepoli verso Italia per passare in Roma: che prima
approdasse in Brindisi, quindi ad Otranto[285], e di là a Taranto,
nella qual città vi predicasse la fede di Cristo, con ridurre molti
di que' cittadini alla nuova credenza, e vi lasciasse Amasiano per
Vescovo[286]. Alcuni anche han voluto[287], che visitasse eziandio
Trani, Oria, Andria, e per l'Adriatico navigasse infino a Siponto;
indi voltando le prore indietro, costeggiando i nostri lidi capitasse
a Reggio, nelle quali città piantasse la religione cristiana: poi
da Reggio partitosi con suoi compagni, navigando il mar Tirreno, e
giunto nel nostro mare, riguardando l'amenissimo sito della città di
Napoli, determinossi di sbarcarvi per ridurla alla vera credenza: e
qui vogliono, che incontratosi nella porta della città con una donna
chiamata Candida, molti prodigi con lei e con suo fratello Aspreno
adoperasse, di che mossi i Napoletani, riceverono da lui il battesimo,
e prima di partirsi per Roma, instituisse Vescovo di questa città
Aspreno, che fu il primo. Narrasi ancora, che in questo passaggio
medesimo S. Pietro s'innoltrasse insino a Capua, e che dopo aver
ridotta questa città, vi lasciasse per Vescovo Prisco, uno degli
antichi discepoli di Cristo nella cui casa fece apparecchiar la Pasqua,
e nel Cenacolo cibossi co' suoi discepoli. Che in oltre essendosi
portato fin ad Atina, città ora distrutta, v'avesse istituito Marco
per Vescovo: e finalmente prendendo il cammino per Roma nel passar
per Terracina, avesse quivi ordinato Vescovo Epafrodito. I Baresi
similmente pretendono, che S. Pietro in questo passaggio, non meno che
a Taranto ed Otranto, fosse capitato anche in Bari[288]. I Beneventani
che pure ad essi avesse lasciato il primo Vescovo Fotino[289]. Que'
di Sessa pretendono il medesimo, e che avesse lor dato Simisio per
Vescovo. In brieve, se si vuol attendere a sì fatte novelle, non vi
riman città in queste nostre regioni, che non pretenda avere i suoi
Vescovi instituiti, o da S. Pietro o dall'Apostolo Paolo, come vanta
Reggio del suo primo Vescovo Stefano, o da gli settantadue discepoli
di Cristo nostro Signore, o finalmente dai discepoli degli Apostoli.
In fatti Pozzuoli tiene il suo primo Vescovo essere stato Patroba
de' 72 discepoli, e discepolo di S. Paolo, del quale egli fa menzione
nell'epistola a' Romani, e che ordinato Vescovo da S. Pietro, capitato
in Pozzuoli, vi seminasse la fede cristiana.

Narrasi ancora, che questa prima volta giunto S. Pietro in Roma,
bisognò che tosto scappasse via, a cagion de' rigorosi editti, ch'avea
allora pubblicati l'Imperador Claudio contra gli Ebrei, volendo che
tutti uscissero di Roma[290]. Che ritornato perciò in Gerusalemme,
dopo avere ordinati molt'altri Vescovi nelle città d'Oriente, se ne
venisse di nuovo in Italia per passare la seconda volta in Roma; e che
in questo secondo passaggio capitando nella Villa di Resina presso
a Napoli, e quivi colle sue predicazioni convertendo e battezzando
quella gente, vi lasciasse Ampellone per meglio instruirli nella
fede di Cristo: donde ritornato poscia in Napoli, fu da Aspreno e da'
Cristiani napoletani ricevuto con infiniti segni di stima e di giubilo,
fondandovi una Chiesa: e che in questo secondo passaggio scorresse
per molte altre città della Puglia. Indi passato in Roma, stabilisse
in quella città la sua Sede, ordinandovi Vescovo Lino, il quale dopo
patito il martirio, ebbe per successore Clemente, indi Cleto, ed
Anacleto, e gli altri Vescovi, secondo il catalogo, ch'abbiamo de'
Vescovi di Roma[291].

Altri all'incontro con un sol fiato han preteso mandar a terra tutti
questi racconti, e rendergli favolosi: poichè si sono impegnati con
pari temerità, che pertinacia, a sostenere che S. Pietro non solamente
non fosse capitato in queste nostre parti, ma sfacciatamente han
ardito d'affermare, che nemmen fosse stato in Roma giammai. Il più
impegnato per questa parte, si vede esser Salmasio[292], il quale
contra ciò che credettero i Padri[293] antichi della Chiesa, e ciò che
a noi per antica tradizione fu tramandato da' nostri maggiori, vuol
egli per ogni verso che S. Pietro non fosse mai stato a Roma; ponendo
in disputa quel, che con fermezza ha tenuto sempre e costantemente
tiene la Chiesa: il che diede motivo a Giovanni Ovveno[294] di credere
falsamente, che rimanesse questo punto ancor indeciso.

    _An Petrus fuerit Romae, sub Judice lis est._

Ma che che sia di questa disputa, la quale tutta intera bisogna
lasciarla agli Scrittori ecclesiastici, che ben a lungo hanno confutato
quest'errore: a noi, per quello che richiede il nostro instituto,
basterà, che sia incontrastabile, che o da S. Pietro stesso, o da
gli Apostoli, ovvero da' loro discepoli, o da altri lor successori,
fosse stata in molte città di queste nostre regioni introdotta la
religione cristiana, e fondate molte Chiese, o sien unioni di Fedeli,
ed instituiti perciò molti Vescovi, assai prima che da Costantino M.
si fosse abbracciata la religione nostra, cioè ne' tre primi secoli
dell'umana Redenzione. Si rende tutto ciò manifesto, non pure da'
frequenti e spessi martirj, che seguiron in queste nostre regioni, ma
da' cataloghi antichi, che ancor ci restano de' Vescovi di molte città.
Napoli prima di Costantino M. ne conta moltissimi: Aspreno, Epatimito,
Mauro, Probo, Paolo, Agrippino, Eustazio, Eusebio, Marciano, Cosma,
ed altri. Capua novera ancora i suoi, Prisco, Sinoto, Rufo, Agostino,
Aristeio, Proterio e Proto. Nola, Felice, Calionio, Aureliano e
Massimo. Pozzuoli, Patroba, Celso e Giovanni. Cuma, Mazentio. Benevento
anche ha i suoi, fra i quali il famoso Gennaro, che sotto Diocleziano
sostenne il martirio. Atina vanta fin da' tempi degli Apostoli, Marco,
da poi Fulgenzio ed Ilario. Siponto novera parimente i suoi. Bari,
Otranto, Taranto, Reggio, Salerno, ed altre città di queste nostre
province prima di Costantino, ebbero i loro Vescovi, de' quali lungo
catalogo ne fu tessuto da Ferdinando Ughello in quella laboriosa opera
dell'Italia Sacra.

Ma siccome non può mettersi in disputa, che la religione cristiana
fosse stata introdotta in molte città di queste nostre province ne'
primi secoli, e che vi fosse in ciascuna di esse molto numero di Fedeli
riconoscenti i Vescovi per loro moderatori; così non potrà dubitarsi,
che l'esercizio di questa religione si fosse da essi usato con molta
cautela, e di soppiatto e ne' nascondigli più riposti delle lor case,
e sovente nelle grotte più sconosciute e lontane dal commercio delle
genti. Con minor libertà certamente poterono i nostri primi Vescovi
in queste province cotanto a Roma vicine, mantener tra' Fedeli questa
religione, di quel che far potevan coloro delle province orientali,
come da Roma più lontane. Erano gl'Imperadori romani tutt'intesi a
spegnere affatto questa nuova religione. Il solo nome di Cristiano
gli faceva esosi ed abbominevoli, e per rendergli più esecrandi,
gli accagionavan di molti delitti e scelleraggini: ch'essi fossero
omicidi, aggiugnendo che ammazzassero gl'infanti, e si cibassero
delle loro carni: che fossero incestuosi, e che nelle loro notturne
assemblee mischiati, con esecrande libidini si contaminassero[295]. Ed
a coloro che per la manifesta lor probità non potevan imputar queste
scelleratezze, rendevano detestabili presso agli Imperadori, come
disprezzatori del culto degl'Iddii; che defraudassero gl'Imperadori
del lor onore, mettessero sottosopra le leggi romane ed i loro
costumi e tutta la natura, non volendo invocar gl'Idii, nè degnando di
render loro i sacrifizj, laonde venivan chiamati _Atei, Sacrileghi,
Perturbatori_ dello Stato e dei costumi, e pestilenza eterna del
genere umano e della natura; poichè col disprezzo, dicevan essi, che
i Cristiani facevan de' loro Dii, ne stimolavan l'ira alla vendetta,
onde eran cagione di molti mali negli uomini e nelle Nazioni; tanto
che presso de' Gentili passò per comune e perpetua querela, che i
Cristiani fossero cagione di tutti i loro mali: la qual perversa
opinione durò in Roma fin a' tempi di Alarico, quando prese quella
città, attribuendo questa lor disgrazia all'ira degl'Iddii, i quali per
lo disprezzo, che di lor si faceva e della loro religione, vendicavansi
in cotal guisa de' Romani: ciò che mosse S. Agostino contra questa vana
credenza a scrivere i libri della città di Dio, e di far sì, che Orosio
scrivesse la sua _Orchestra_, ovvero i suoi libri dell'Istoria contra
i Pagani[296].

Per queste cagioni gli Imperadori cominciarono a perseguitargli: e
terribile sopra ogni altra fu la persecuzione di Nerone, che con severi
editti gli condannò, come pubblici inimici dello Stato e del genere
umano, a pena di morte[297]. Domiziano seguitò le sue orme. Trajano
non fu contro d'essi cotanto crudele, poichè, rescrivendo a Plinio,
Proconsole allora in Ponto ed in Bitinia, che lo richiedeva, come
dovesse punirgli, atterrito dal numero grande, che alla giornata vedeva
crescere in quelle province, gli ordinò che accusati e convinti, contro
di loro severamente procedesse, ma non accusati, non dovesse farne
altra inquisizione, usando più tosto connivenza. Nel che, come nota
Vossio, fu maggiore la clemenza di Trajano gentile contra i Cristiani,
che degli stessi nostri Cristiani, non pur contra i Maomettani,
ma contra i Cristiani medesimi imputati d'eresia, contro a' quali
l'Inquisizione, Tribunale nuovamente introdotto, procede con molto
rigore, per inquisizione e senz'accusa: del quale Tribunale altrove
ci tornerà occasione di lungamente ragionare. Crudelissimi nemici del
nome cristiano ancora furon Adriano e gli Antonini: Severo, Massimino,
Decio, Valeriano, Diocleziano, Massimiano, Galerio e finalmente
Massenzio; e se cotali persecuzioni furono nell'altre province
dell'Imperio feroci, assai più terribili si patirono senza dubbio nella
nostra Campagna, e nell'altre province, delle quali ora si compone
questo Reame, come più a Roma vicine. Gli Ufficiali, da' quali venivan
governate, per aderire al genio de' Principi, e per farsi conoscere
zelanti del lor servigio, essendo più da presso osservati, eseguivan
con rigore e prontezza i loro editti: quindi è che dalla Campagna e
da queste nostre province a ragione si vantino tanti Martiri[298], e
che quasi tutti que' primi Vescovi delle loro città s'adorino oggi per
Santi, siccome quelli, che in mezzo a sì fiere tempeste costantemente
confessarono la fede di Cristo, ed intrepidi non curarono nè stragi,
nè morti. Sono ancor oggi a noi rimasi i vestigi del Cimiterio
Nolano: le memorie de' martirj[299] praticati in Pozzuoli ne' tempi di
Diocleziano: e tanti altri Cimiterj de' Martiri nell'altre province,
che da poi, data la pace di Costantino alla Chiesa, furon da' Fedeli
scoverti e manifestati; onde è che concorrendo alle tombe de' Martiri
per devozione i Popoli delle città convicine, si fossero in appresso
que' luoghi frequentati e renduti pieni d'abitatori, e costruttevi
nuove terre e castelli: e quindi è nato, che prendessero il nome di
quel Santo, e che oggi nel nostro Reame, le nuove terre non altronde
s'appellino, che da qualche Santo lor tutelare[300].

In questi tempi cotanto turbati, niuna esterior politia ecclesiastica
poteva certamente ravvisarsi in queste nostre province: i Fedeli per
lo più nascosi e fuggitivi, e con tante turbolenze, se non di soppiatto
potevan attendere a gli esercizj della lor novella religione. I Vescovi
badavano con molto lor pericolo alle sole conversioni, e praticando in
città tutte gentili, secondo che la necessità gli astringeva, scorrevan
or in una, or in altra città; tanto era lontano, che potessero pensare
al governo politico delle lor Chiese.

Per queste cagioni niuna mutazione o cambiamento potè recarsi nella
politia dell'Imperio, e tanto meno in queste nostre province a
tali tempi, per la nuova religione cristiana. Le città eran tutte
gentili, gentile era la religione, che pubblicamente si professava,
i Magistrati, le leggi, i costumi, i riti tutti. I Cristiani erano
riputati come pubblici inimici, perturbatori dello Stato, e come tali
fuori della Repubblica: le loro adunanze severamente proibite, non
potevan aver Collegi separati, non potevan le lor Chiese posseder
cos'alcuna. Tutte le città di queste nostre province, ancorchè nelle
medesime molti Cristiani vivessero di nascosto, e tuttavia il numero
de' Fedeli crescesse, eran gentili, ed il Gentilesmo era pubblicamente
professato. Ciascuna città governandosi ad esempio di Roma, e molte
da' Magistrati romani, si studiava anche nella religione imitare il suo
Capo: e ciò non pur facevano i Municipj, le Colonie, e le Prefetture:
ma anche le Città Federate, che maggior libertà avevano.


§. III. _NAPOLI, siccome tutte l'altre città di questo Regno erano
universalmente Gentili._

Napoli non già, come altri crede, divenne tutta intera cristiana fin
dal primo dì della predicazione, che dicesi esservi stata fatta da
San Pietro. Ben è probabile, che alcuni de' Napoletani abbracciasser
incontanente la fede di Cristo, e con molta cautela, seguendo il lor
Vescovo Aspreno, vivessero occulti in tal credenza; ma tutto il resto
era idolatra, e questo culto veniva pubblicamente professato. Anzi che
fra le città greche di queste nostre regioni, Napoli fu certamente
la più superstiziosa e la più attaccata a gli errori degli Etnici,
ed all'antica sua religione. Aveva pubblici templi, e varie Deità: ad
Eumelo suo patrio Dio: ad Ebone[301], che per l'aggiunto se gli dava
di chiarissimo, ovvero risplendentissimo Dio, si crede lo stesso che
Apollo, ed era ancor detto Dio Mitra: a Castore e Polluce: a Diana:
a Cerere, ed a tant'altri Numi. Ebbe altresì le Fratrie (come s'è
già notato) dedicate non solamente a' suoi patrj Dii, ma anche agli
Eroi, dove ne' privati tempj in quelle costrutti, sacrificavasi dalle
famiglie, che quivi si raunavano. Infiniti eran ancora i giuochi, che
per celebrare con maggior pompa e solennità le lor feste in questa
città si facevano, e rinomati tanto, che tiravan dalle più remote parti
gli spettatori: famosissimi fra i quali eran i giuochi Lampadici,
celebrati con tanto studio e maestria, che invogliavano gli stessi
Cesari ad esserne spettatori; nè inferiori ammiravansi i festeggiamenti
al tempio di Cerere presso alla marina, onde perciò questa Dea vien da
Stazio nomata _Actia Ceres_[302].

Vanamente credono alcuni, che in Napoli cessassero queste festività,
e questi tempj, tantosto che fuvvi da S. Pietro predicato il Vangelo.
Imperocchè è manifesto, che vi si mantenner quelli per molto spazio
dappoi: Stazio, che scrisse sotto Domiziano, nelle sue _Selve_ ed
altrove fa di queste feste e di questi giuochi frequente menzione.
Più scioccamente ancora si sono altri persuasi, che nel Ginnasio,
il qual era in Napoli dedicato ad Ercole, vi si facessero esercizj
di lettere, e che fosse stat'onorato da Ulisse, come ascoltatore;
quasi che in mezzo a que' tanti suoi lunghi e faticosi errori, se gli
fosse svegliato l'appetito di metters'in Napoli ad apprender lettere.
Era il Ginnasio instituito per esercitarvi il corpo nel corso, nel
cesto, nelle lutte, e negli altri giuochi Ginnici ed Atletici: e
tanto celebre ed illustre era questo Ginnasio per lo rado e stremo
valore degli Atleti, che non solamente tirava a se peregrini di
remotissimi paesi ma (ch'è più notabile) fino gli stessi Imperadori,
i quali portavansi spesso in questa città, e godevan d'esserne
spettatori insieme e spettacolo. Fu tal Ginnasio favorito da Augusto,
da Tiberio, da Caligola, da Claudio, ed assai più da Nerone. Tito ne
fu sommamente vago ed, abbattuto dal tremuoto, il rifece: l'onoraron
ancora Domiziano, Trajano, Adriano, M. Aurelio il filosofo, Comodo,
Settimio, ed Alessandro Severo, e quasi tutti gl'Imperadori, che
a Costantino precederono. Venendo dunque Napoli, a cagion di tali
spettacoli, cotanto da questi Imperadori frequentata, la più parte
de' quali essendo stati nemici fieri ed acerbi, e crudelissimi
persecutori della cristiana religione; qual mai potrà persuadersi,
che questa città, dopo il passaggio di S. Pietro per Roma, avesse il
Gentilesimo deposto e pubblicamente abbracciata la religione cristiana
e professata? Non i costumi de' Napoletani tenacissimi del culto dei
loro patrj Dii, non le frequenti dimore de' romani Imperadori in questa
città, non il costoro mortal odio contro de' Cristiani il possono
certamente persuadere; ma ben più tosto chiaramente convincon il
contrario, e ne dimostrano quanto grave errore sia stato il credere,
che in Napoli non vi furon martirj, quando è indubitato, siccome
nemmen potè negarlo lo stesso P. Caracciolo, che ve n'ebbero, e molti
e spessi; ed il Cardinal Baronio[303], favellando de' SS. Fausto e
Giulita, rapporta in Napoli essere stati martoriati. Conciossiachè
la città, quantunque creder si volesse, che come federata non fosse
stata sottoposta a' romani editti, era ella nondimeno per se stessa
idolatra, onde acerbissima nemica de' Cristiani, e tali parimente eran
coloro, che ne ministravan il governo. Anzi per la gran superstizione
de' Napoletani, e per la somma loro venerazione verso i patrj Numi,
eziandio dappoichè Costantino M. diede la pace alla Chiesa, si penò
gran tempo innanzi che il falso culto potesse interamente abolirvisi,
siccome in altre città dell'Imperio altresì, ed in Roma stessa fino
a' tempi degl'Imperadori Arcadio, ed Onorio, Principi religiosissimi e
risoluti di sterminare nell'Imperio l'Idolatria, non vi si potè affatto
estinguere. Ed è tutta mal tessuta favola ciò, che narrasi delle
tante chiese ed altari in Napoli eretti da Costantino M. come chiaro
vedrassi ne' seguenti libri di quest'Istoria: onde a ragione reputò il
Giordano, seguitato dal Tutini[304], che il tempio dedicato in Napoli
da Tiberio Giulio Tarso a Castore e Polluce, fosse stato poscia da'
Napoletani consecrato al vero Nume in onor di S. Paolo Apostolo, non
già nel tempo di Costantino M. ma di Teodosio Imperadore. Simmaco[305],
il qual ebbe vita nel quarto secolo, ci fa vedere ch'ella si mantenne
gentile per molt'anni, dappoichè da Costantino fu abbracciata la
religione Cristiana; laonde per questa costanza di non aver seguitato
l'esemplo dell'altre città, ma d'aver ritenuta l'antica religione, vien
da lui lodata e fregiata del titolo di città _religiosa_. Ecco le sue
parole: _Quamprimum Neapolim petitu Civium suorum visere studeo: illic
honori Urbis religiosae intervallum bidui deputabo. Dehinc, si bene Dii
juverint, Capuano itinere; venerabilem nobis Romam, laremque petemus._
Ciascun sa, che Simmaco fu fiero ed atroce nemico de' Cristiani, onde
chiamando Napoli città _religiosa_ non poteva a patto veruno intendere
della cristiana religione; ma solamente perchè ruinando da ogni lato il
Gentilesimo, reputò egli Napoli cospicua e religiosa per quella falsa
religione, che da lei costantemente si riteneva e professava.

Camillo Pellegrini[306] lasciò a' Letterati napoletani la cura di
sciogliere il nodo, che questo passo di Simmaco gli metteva per le
mani, poichè veramente è incompatibile colla comun credenza de'
Napoletani, che questa città fosse divenuta cristiana fin dalla
prima predicazione di S. Pietro. Ma questo difficil passo, ben fu
assai prima scoverto dal nostro accuratissimo Chioccarelli[307],
(cui a ragione P. Lasena suo amicissimo solea chiamare, per le sue
diligenti investigazioni, _can bracco_) e s'impegnò di superarlo,
con dare diverso senso a quella parola _Religiosae_; cioè che
volesse intender Simmaco, non già della religione pagana, ma della
cristiana. Interpretazione, la quale in vero pur troppo s'allontana
dalla condizione di que' tempi, e dalla religione di quell'Autore,
alla quale fu egli tanto tenacemente attaccato, quanto alla cristiana
implacabilmente nemico. Un Frate Carmelitano Scalzo[308] a' nostri
tempi ha voluto ancor egli prendersi questa briga, ma non eran da ciò
le sue penne, onde assai più infelicemente ne venne a capo. Se però
la verità dee esserne più amica d'ogni altra cosa, e se liberi dalla
passione d'un affettato ed ozioso amore verso la Patria vorremo con
diritto occhio guardarvi, agevolissima per nostro avviso la soluzione
del nodo si troverà, anzi niun nodo esservi certamente scorgeremo,
quando si voglia por mente allo stato d'allora di queste città cotanto
a Roma vicine, della quale si pregiavan come di lor Capo imitare ogni
andamento, ed a queste nostre province d'Occidente, dove non si finì
d'abbatter l'Idolatria fin'a' tempi d'Arcadio e d'Onorio.

Nell'altre province, e più in quelle d'Oriente poteva un poco meglio
ravvisarsi la politia ecclesiastica, e professarsi con più libertà
la cristiana religione, come quelle, dove le persecuzioni non furon
cotanto rabbiose e feroci; ma non per tutto ciò recossi alterazione
alcuna allo Stato civile, o altro cambiamento: imperocchè come
perseguitata e sbandita dall'Imperio, non poteva pubblicamente
ritenersi, e molto meno professarsi.


§. IV. _Gerarchia ecclesiastica, e Sinodi._

Non conobbe la Chiesa in questi tre primi secoli altra gerarchia,
nè altri gradi, se non di Vescovi, Preti e Diaconi. I Vescovi
ch'avevan la soprantendenza, e a' quali tutti gli ordini della Chiesa
ubbidivano, col loro sommo zelo e carità, se per avventura divisione
alcuna scorgevan tra' Fedeli, tosto la componevano, e sedavano gli
animi perturbati. La carità era uguale, così negli uni, che negli
altri, ne' primi di servirsi con moderazione della loro preminenza,
ne' secondi d'ubbidir loro con intera rassegnazione. Se occorreva
deliberarsi affare alcuno di momento intorno alla religione, acciocchè
si mantenesse fra tutte le Chiese una stabile concordia e legame,
e non fosse discordante dall'altra: solevan i Vescovi infra di loro
comunicar ciò che accadeva, e per mezzo di messi o di lettere, che
chiamavan _formate_, mantenevan il commercio, e così tutti uniti con
istretto nodo, rappresentanti la Chiesa universale, si munivano contra
le divisioni e scismi, che mai avessero potuto insorgere[309].

Quando lor veniva fatto, e le persecuzioni davan qualche tregua, sicchè
avesser potuto da varie città unirsi insieme in una, raunavansi essi
ne' Sinodi, per far delle decisioni sopra la vera fede, per regolar
la politia e' costumi de' Cristiani, ovvero per punire i colpevoli, e
deliberavano ciò che altro occorreva: seguitando in ciò l'orme degli
Apostoli, e di S. Pietro lor Capo, il quale in Gerusalemme ragunati i
Fedeli, tenne Concilio, che fu il primo, detto perciò Gerosolimitano,
e che negli atti degli Apostoli fu da S. Luca inserito[310].

Nel secondo secolo, quando erasi più disseminata la religione, così
nelle province d'Oriente, come d'Occidente si tennero altri Sinodi.
I primi furono nell'Asia, nella Siria e nella Palestina. In Occidente
ancora cominciaron in questo secolo, essendosene in Roma e nella Gallia
tenuti contra l'eresie di Montano, de' Catafrigi, e per la controversia
Pascale[311].

Nel terzo secolo si fecero più spessi in Roma contro Novato e suoi
seguaci, ma più nell'Asia e nell'Affrica.


§. V. _De' regolamenti ecclesiastici._

Non ebbe la Chiesa ne' primi tempi altri regolamenti, se non quelli,
ch'erano della Scrittura Santa, nè altri libri erano conosciuti: da poi
per l'occasione de' Concilj tenutisi, furon alcuni altri regolamenti in
quelli stabiliti, onde erano le Chiese di quelle province governate.

Questi non eran, che regolamenti appartenenti alla disciplina della
Chiesa, non essendo stato giammai negato al Sacerdozio il conoscimento
delle differenze della religione, ed il far regolamenti appartenenti
alla lor disciplina. Anche a' Sacerdoti del Paganesimo era ciò lecito
di fare: ed era diritto comune, così di Romani, come di Greci, che ogni
Comunità legittima conoscesse de' suoi proprj negozj, e vi facesse
de' regolamenti. Cajo nostro Giureconsulto, favellando di simili
Comunità e Collegi, dice: _His autem potestatem facit lex, pactionem
quam velint sibi ferre, dum ne quid ex publica legge corrumpant_; e
rapporta una legge di Solone, nella quale lo stesso era stabilito fra
Greci[312]. Giovanni Doujat[313], e Dupino[314] gran Teologo di Parigi,
insegnarono, che la Chiesa non solamente abbia tal autorità per diritto
comune, per cui ciascuna società dee aver qualche forma di governo,
per mantenersi senza confusione e disordini, e per potervi stabilire
de' regolamenti, ma che fu anche da Cristo conceduta agli Apostoli
questa potestà di far de' canoni appartenenti alla disciplina della
Chiesa; essendo indubitato, che N. S. diede autorità a' suoi Apostoli
e loro successori di governare i Fedeli in tutto ciò che riguarda la
religione, così circa il rischiaramento de' punti della fede, come
intorno alla regola de' costumi. E questi furono i primi fondamenti ed
i principj, onde trasse origine la ragion canonica, la quale da poi,
col lungo correr degli anni, emula della ragion civile, maneggiata da'
romani Pontefici, ardì non pur pareggiare, ma interamente sottomettersi
le leggi civili, tanto che dentro un Imperio medesimo, contra tutte le
leggi del governo, due corpi di leggi diverse si videro, intraprendendo
l'una sopra l'altra. Origine che fu ne' seguenti secoli delle tante
contese giurisdizionali, e de' tanti cangiamenti dello Stato politico e
temporale dell'Imperio, e di queste nostre province, come nel corso di
quest'Istoria partitamente si conoscerà.

In questi primi secoli però niuna alterazione recaron alla politia
dell'Imperio tali regolamenti: essi eran solamente ristretti per le
differenze della religione, ed a ciò che concerneva il governo delle
Chiese, e la lor disciplina: nè delle cose civili e dell'Imperio
s'impacciavano, lasciando tutto intero a' Principi il governo della
Repubblica, come prima.


§. VI. _Della conoscenza nelle cause._

Ebbe ancora la Chiesa in questi tempi, come cosa attenente alla sua
disciplina, la censura, e correzion de' costumi fra Cristiani. Se
qualche Fedele deviando dal diritto cammino, inciampava in qualche
eresia, ovvero per qualche pubblico e notorio peccato, scandalizzava
gli altri, era prima secretamente ripreso, perchè si ravvedesse: se non
s'emendava, denunciavasi alla Chiesa, cioè al Vescovo e Presbiterio
co' Fedeli, dalla quale era la seconda volta ripreso, e se per fine
ciò non ostante s'ostinava nell'errore e nella libertà del vivere, era
scacciato dalla loro Comunione, ed avuto come tutti gli altri Gentili e
Pubblicani, privandolo di tutto ciò, che dava la Chiesa a' suoi Fedeli,
e 'l lasciavan nella società civile con gli altri Gentili; nè, se non
dopo un vero pentimento ed una rigorosa penitenza, veniva di nuovo
ammesso nella loro Comunione.

Questa correzion di costumi, durante lo stato popolare di Roma,
risedeva presso a' Censori, chiamati perciò _Magistri morum_, i quali
avevan potere di notar d'ignominia ogni sorta di persone, per li casi,
di cui la giustizia non avea costume d'inquirere, come saggiamente e
ben a lungo tratta Bodino. Instituto certamente assai commendevole,
il qual essendo mancato sotto gl'Imperadori, fu rilevato da' primi
Cristiani, che per mezzo di questa censura mantenevansi in una singolar
purità di costumi, come testimonia Plinio de' Cristiani de' suoi
tempi: ed è quello, che dice Tertulliano nel suo Apologetico, parlando
dell'Assemblee della Chiesa: _Ibidem_, dic'egli, _Exhortationes,
castigationes, et Censura Divina_: ond'è, ch'essi chiamaron il Capo
di ciascuna Chiesa _Episcopon_, come che significasse Inspettor de'
costumi della sua Chiesa: per la qual cosa, le scomuniche ed altre pene
della Chiesa sono chiamate ancor oggi censure ecclesiastiche: materia,
che richiederebbe più lungo discorso, ma quello di Bodino può supplire.

Erasi ancora in questi tempi introdotto costume fra' Cristiani di
sottomettere le loro differenze al giudicio della Chiesa, a fine di non
piatire avanti a' Giudici pagani, secondo il precetto di S. Paolo nella
_prima a' Corinti_. Talmente che si vede in Tertulliano, in Clemente
Alessandrino, ed in altri Autori di questi tempi, che coloro, i quali
non volendovisi sottomettere, facevan litigare i Cristiani dinanzi
a' Magistrati gentili, erano riputati presso che infedeli, o almeno
cattivi Cristiani: ma questi giudicj, che davansi da' Vescovi, non
eran che pareri arbitrali, nè obbligavan i litiganti che per onore;
come allorchè persone ragguardevoli intromettonsi alla composizione di
qualche differenza: del rimanente nè eran costretti a sottomettervisi,
nè proferito il parere potevan essere astretti ad eseguirlo, lasciando
loro la libertà di ricorrere a' Magistrati secolari.

Sopra queste tre sole occorrenze prese la Chiesa a conoscere nel suo
cominciamento; ciò sono, sopra gli affari della fede e della religione,
di cui ella giudicava per forma di politia: sopra gli scandali e minori
delitti, di cui ella conosceva per via di censura e di correzione: e
sopra le differenze fra' Cristiani, che a lei riportavansi, le quali
decideva per forma d'arbitrio e di caritatevole composizione. Donde si
vede, che gli Ecclesiastici non avevan quella cognizione perfetta, che
nel diritto chiamasi _giurisdizione_: ma la loro giustizia era chiamata
_notio_, _judicium_, _audientia_, non giammai _jurisdictio_.


§. VII. _Elezione de' Ministri._

Era ancor cosa appartenente alla disciplina della Chiesa di fornirla
de' suoi Ministri: e Dupino[315] scrisse, essere stata da Cristo
conceduta anche questa potestà a gli Apostoli di sostituire nelle
Chiese i loro successori, cioè i Vescovi, i Preti ed altri Ministri.
Ed in vero gli Apostoli, come si raccoglie dall'Istorie Sacre[316],
in molti luoghi ordinaron i Vescovi e gli lasciaron al governo delle
Chiese, ch'essi aveano fondate: ma da poi mancati gli Apostoli, quando
per la morte d'alcun Vescovo rimaneva la Chiesa vacante, si procedeva
all'elezione del successore; ed allora si chiamavan i Vescovi più
vicini della medesima provincia, almeno al numero di due, o di tre;
ch'era difficile in questi tempi il tener Concilj numerosi, se non
negl'intervalli delle persecuzioni: ed alle volte le sedi delle Chiese
restavano gran tempo vacanti; e quelli unendosi insieme col Presbiterio
e col Popolo fedele della città, procedevan all'elezione[317]. Il
Popolo proponeva le persone che desiderava s'eleggessero, e rendeva
testimonianza della vita e costume di ciascuno, finalmente unito col
Clero, e i Vescovi presenti, acconsentiva all'elezione, onde tosto il
nuovo eletto era da' Vescovi consecrato. Alcune volte il Clero ed il
Popolo avean nell'elezioni maggiore o minor parte, poichè in alcune
esponeva solamente i suoi desiderj, e rendeva le testimonianze della
vita e costumi: in altre s'avanzava ad eleggere[318], come accadde
nell'elezione di S. Fabiano Vescovo di Roma, che al riferir d'Eusebio
fu eletto a viva voce di Popolo, il quale aveagli veduta sul capo
fermarsi una colomba: il che quando accadeva, ed i Vescovi lo stimavan
conveniente, era da essi l'elezione approvata, ed ordinato l'eletto:
e nell'istesso tempo si faceva l'elezione e la consecrazione, ed
i medesimi Vescovi erano gli elettori e gli ordinatori. Nè vi si
ricercava altro; imperciocchè in questi tre primi secoli non era
stata ancor dichiarata da' canoni la ragion de' Metropolitani sopra
l'ordinazioni de' Vescovi della loro provincia, come fu fatto da
poi nel quarto secolo; di che tratteremo nel libro seguente, quando
dell'esterior politia ecclesiastica del quarto e quinto secolo ci
tornerà occasione di favellare.

Questa in brieve fu la disciplina ecclesiastica intorno all'elezioni
de' Vescovi di questi tre primi secoli, secondo si ravvisa
dall'Epistole di S. Clemente Papa, e di S. Cipriano Scrittore del
terzo secolo[319]. L'elezione de' Preti e de' Diaconi s'apparteneva
al Vescovo, al qual unicamente toccava l'ordinazione, ancorchè
nell'elezione il Clero ed il Popolo v'avessero la lor parte.


§. VIII. _Beni temporali._

Non furon nella Chiesa in questi primi tempi tante facoltà e beni,
sicchè dovesse molto badare all'amministrazione e distribuzione de'
medesimi, e stabilire anche sopra ciò suoi regolamenti. Ne' suoi
principj non ebbe stabili, nè peranche decime[320] certe e necessarie:
i beni comuni delle Chiese non consistevano quasi che in mobili,
in provigioni da bocca, ed in vestimenti, ed in danajo contante,
che offerivano i Fedeli in tutte le settimane, in tutti i mesi, o
quando volevano, atteso che non vi era cos'alcuna di regolato, nè di
forzato in quelle offerte. Quanto agl'immobili, le persecuzioni non
permettevano di acquistarne, o vero di lungo tempo conservargli. I
Fedeli volontariamente davan oblazioni e primizie, per le quali fu
destinata persona, che le conservasse, e ne' tempi di Cristo Salvator
nostro ne fu Giuda il conservatore; ma non v'era altro uso delle
medesime, se non che di servirsene per loro bisogni d'abiti e per
vivere, e tutto il di più che sopravanzava, distribuivasi a' poveri
della città.

Quest'istesso costume, dopo la morte del nostro Redentore, serbarono
gli Apostoli, i quali tutto ciò che raccoglievan da' Fedeli, che
per seguirgli si vendevan le case ed i poderi, offerendone ad essi
il prezzo, riponevan in comune: e non ad altr'uso, come s'è detto
del denaro si servivano, se non per somministrare il bisognevole
a loro medesimi, ed a coloro che destinavano per la predicazione
del Vangelo, e per sostenere i poveri e bisognosi de' luoghi dove
scorrevano. E crescendo tuttavia il numero de' Fedeli, crescevano per
conseguenza l'oblazioni, e quando essi le vedevano così soprabbondanti,
che non solamente bastavan a' bisogni della Chiesa d'una città, ma
sopravanzavano ancora: solevan anche distribuirle nell'altre Chiese
delle medesime province, e sovente mandarle in province più remote,
secondo l'indigenza di quelle ricercava: così osserviamo nella
scrittura, che S. Paolo, dopo aver fatte molte raccolte in Macedonia,
in Acaja, Galazia e Corinto, soleva mandarne gran parte alle Chiese
di Gerusalemme. E dopo la morte degli Apostoli, il medesimo costume
fu osservato da' Vescovi loro sucessori. Da poi fu riputato più utile
ed espediente, che i Fedeli non vendessero le loro possessioni, con
darne il prezzo alle Chiese: ma che dovessero ritenersi dalle Chiese
stesse, acciocchè da' frutti di quelle e dall'altre oblazioni si
potesse sovvenire a' poveri ed a' bisogni delle medesime: ed avvenga
che l'amministrazione appartenesse a' soli Vescovi, nulla di manco
costoro intenti ad opere più alte, alla predicazione del Vangelo e
conversion de' Gentili, lasciavan il pensiero di dispensar li danai a'
Diaconi: ma non per ciò fu mutato il modo di distribuirgli; poichè una
porzione si dispensava a' Sacerdoti e ad altri Ministri della Chiesa,
i quali per lo più vivean tutti insieme ed in comunità, e l'altra parte
si consumava per gli poveri del luogo.

In decorso di tempo nel Pontificato di Papa Simplicio intorno all'anno
467, essendosi scoverta qualche frode de' Ministri nella distribuzione
di queste rendite, fu introdotto, che di tutto ciò, che si raccoglieva
dalle rendite e dall'oblazioni, se ne facessero quattro parti,
l'una delle quali si serbasse per li poveri, l'altra servisse per
li Sacerdoti ed altri Ministri della Chiesa, la terza si serbasse al
Vescovo per lui e per li peregrini che soleva ospiziare, e la quarta,
cominciandosi già ne' tempi di Costantino M. a costruire pubblici
templi, e farsi delle fabbriche più sontuose, e ad accrescersi il
numero degli ornamenti e vasi sacri, si spendesse per la restaurazione
e bisogni dei medesimi. Nè questa distribuzione fu in tutto uguale;
poichè se li poveri erano numerosi in qualche città, la lor porzione
era maggiore dell'altre; e se i Tempj non avean bisogno di molta
reparazione, era la lor parte minore.

Ecco in breve qual fosse la politia ecclesiastica in questi tre primi
secoli della Chiesa, che in se sola ristretta, niente alterò la politia
dell'Imperio, e molto meno lo stato di queste nostre province, nelle
quali per le feroci persecuzioni a pena era ravvisata: in diverso
sembiante la riguarderemo ne' secoli seguenti, da poi che Costantino
le diede pace: ma assai mostruosa e con più strane forme sarà mirata
nell'età men a noi lontane, quando non bastandole d'aver in tante guise
trasformato lo stato civile e temporale de' Principi, tentò anche di
sottoporre interamente l'Imperio al Sacerdozio.


                         FINE DEL LIBRO PRIMO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO SECONDO


Il principio del quarto secolo dell'umana redenzione, ed il decorso de'
seguenti anni, vien a recare nel romano Imperio sì strane revoluzioni,
che mostruosamente deformato nel suo capo e nelle membra, prendendo
altri aspetti e nuove forme, più non si riconosce per quello che già
fu. Ecco, che mancato ogni generoso costume, i Romani dati in preda
agli agi ed alle morbidezze, da forti e magnanimi, renduti effeminati
e deboli: da gravi, severi ed incorrotti, pieni d'ambizione e di
dissolutezza. Vedesi perciò snervata e scaduta la militar disciplina; e
quell'armi, che prima avean portato il terrore e le vittoriose insegne
fin a gl'ultimi confini del Mondo, divenire cotanto vili ed imbelli,
che non vaglion più a reprimer le forze di quelle medesime Nazioni,
delle quali esse tante e tante volte avevan gloriosamente trionfato;
ma con eterna lor ignominia cedendo, e lasciandosi vergognosamente
vincere, ne vien in brieve l'Imperio tutto fracassato e miseramente
trafitto. Vedasi la Pannonia, la Rezia, la Mesia, la Tracia e l'Illiria
soggiogate dagli Unni; le Gallie perdute; le Spagne da' Vandali, e da'
Goti manomesse; l'Affrica già occupata da' Vandali; la Brettagna da'
Sassoni; e l'Italia, Regina delle province, dai Goti già debellata
e vinta; e Roma stessa saccheggiata e distrutta. Nè miglior fortuna
ebbero col correr degli anni le cose de' Romani in Oriente. Vedesi la
Siria, la Fenicia, la Palestina, l'Egitto, la Mesopotamia, Cipro, Rodi,
Creta, e l'Armenia occupate da' Saracini. Ecco perduta l'Asia minore.
Ecco finalmente tutte debellate e vinte le province dell'Imperio
romano.

Vedesi nel cader dell'Imperio declinare ancor le lettere e le
discipline tutte: comincia la giurisprudenza a perder quel suo
lustro e quella dignità, in cui per sì lungo corso d'anni l'avevan
mantenuta e conservata tanti preclarissimi Giureconsulti, il favor
de' Principi, la sapienza delle loro costituzioni, la prudenza de'
Magistrati, la dottrina de' Professori, l'eccellenza dell'Accademie.
Più non s'udiranno i nomi di Papiniano, di Paolo, o d'Africano:
tacquero questi oracoli, nè altri responsi per l'avvenire ci saran
dati da' loro successori; i quali, d'oscura fama essendo, maggior
peso non s'addossarono, che d'insegnare nelle Accademie ciò, che que'
maravigliosi spiriti avean lasciato delle loro illustri fatiche. E pure
di queste (tanto calamitosi e lagrimevoli tempi succederono) appena una
rada ed oscura notizia a' posteri n'era pervenuta, la quale sarebbesi
eziandio in tutto certamente spenta, se la prudenza di Valentiniano
III. non fosse opportunamente con le sue costituzioni accorsa al
riparo. E vedesi ancora la scienza delle leggi che prima era solamente
professata da' maggiori lumi della città di Roma, vilmente maneggiata,
e ridutta ad esser mestiere de' più vili uomini del Mondo.

Non si leggeranno più con ammirazione e stupore quelle prudenti e savie
costituzioni de' Principi con tanta eleganza e brevità composte; ma da
ora avanti prolisse e tumide, e più convenienti ad un Declamatore, che
ad un Principe, da non paragonarsi di gran lunga colle prime, nè per
eloquenza, nè per gravità, nè per prudenza civile.

I Magistrati, perduta quella severità e dottrina, prenderanno altri
nomi e co' nuovi nomi, nuovi costumi ancora: da incorrotti, venali:
da sapienti e gravi, ignoranti e leggieri: da moderati, ambiziosi: ed
alla fine ripieni di tanta rapacità e dissolutezza, che se la prudenza
di Costantino, di Valentiniano, e d'alcuni altri Principi di quando in
quando non avesse repressa la loro venalità ed ambizione per mezzo di
molti editti[321], che pubblicarono a questo fine, più gravi ed enormi
disordini avrebbon infallibilmente partorito.

L'Accademie già per l'ignoranza de' Professori, e per li pravi costumi
de' giovani rendute inutili e piene di sconcerti. I giovani dati
già in braccio a' lussi, agl'intemperati conviti, a' giuochi, agli
spettacoli, alle meretrici, ed a mille altre scelleratezze, di rado le
frequentavano; tanto che sarebbon affatto mancate, se la providenza
di Valentiniano il vecchio non fosse stata presta a darvi riparo con
quelle sue XI. leggi Accademiche, che in Roma ad Olibrio Prefetto di
quella città dirizzò nell'anno 370.

Tante e sì strane mutazioni, non solamente alla corrotta disciplina
ed a' depravati costumi deon attribuirsi, ma ancora a quella nuova
divisione e nuova forma, che a Costantino piacque di dare all'Imperio
romano. Egli fu il primo, che volle recare ad effetto, ciò che
Diocleziano avea primo tentato, di divider l'orbe romano in due
principali parti, e di uno far due Imperi[322]. Imperocchè quantunque
fossero stat'innanzi più Imperadori talora a regnare insieme;
nientedimeno non feron fra di loro giammai divisione alcuna, nè
l'Imperio, o le province, nè le legioni furon a guisa d'eredità mai
partite. Costantino fu il primo, che, come dice Eusebio[323], divise
tutto l'Imperio romano in due parti, _quod quidem nunquam antea factum
esse memoratur_. Perciò pose tutto 'l suo studio a fondar nell'Oriente
Costantinopoli, ed impiegò per quest'opera tutta la sua magnificenza
e tutto il suo potere, acciocchè emula di Roma fosse, come questa
Capo nell'Occidente, così quella nell'Oriente[324]. Divise per tanto
l'Imperio in Orientale ed Occidentale, assegnando a ciascuno le
sue province. Tutte quelle province Orientali oltramarine, che sono
dallo stretto della Propontide insino alle bocche del Nilo, l'Egitto,
l'Illirico, Epiro, Acaja, la Grecia, la Tessaglia, la Macedonia, la
Tracia, Creta, Cipro, tutta la Dacia, la Mesia, e l'altre province di
quel tratto, all'Imperio Orientale, ed alla città di Costantinopoli
suo Capo le sottopose, e sotto più Diocesi comprese. All'Imperio
Occidentale ed alla città di Roma lasciò le Spagne, la Brettagna,
le Gallie, il Norico, la Pannonia, le province della Germania, la
Dalmazia, tutta l'Affrica, e l'Italia; disponendole in guisa, che due
Imperadori potessero regger l'Imperio, l'uno nell'Occidente, l'altro
nell'Oriente. Divise parimente il Senato, e que' Senatori, ch'eran
eletti dalle province dell'Imperio occidentale, volle, che rimanessero
in Roma; quelli d'Oriente in Costantinopoli: e lo stesso stabilì de'
Consoli. Diede a Costantinopoli, come a Roma, il Prefetto con uguali
preminenze e privilegi; e tutte le parti dell'Imperio in altra guisa
distinse. La qual nuova divisione è di mestiere qui distintamente
rapportare; poichè gioverà non solamente per ben intendere la spezial
politia e stato temporale di queste nostre province; ma servirà ancora
in appresso per capire con maggior chiarezza la politia ecclesiastica,
e come siasi in quella maniera, che oggi si vede, introdotta
nell'Imperio ed in questo nostro Reame.



CAPITOLO I.

_Disposizione dell'Imperio sotto Costantino Magno._


Costantino adunque dubitando, per l'esempio dei suoi predecessori,
del troppo potere del Prefetto Pretorio, che sovente s'avea usurpato
l'Imperio, divise il suo ufficio in quattro parti, e questo fu
per moltiplicazione, facendo quattro Prefetti: e con ciò venne a
dividersi tutto l'orbe romano in quattro climi, o vero tratti. Questi
abbracciavano un immenso spazio di Cielo e di terra, e dentro i loro
confini più diocesi si comprendevano[325]; e furono, l'_Oriente_,
l'_Illirico_, le _Gallie_, e l'_Italia_, a' quali diede quattro
Rettori, che con nome antico, ma di nuova amministrazione, chiamò
Prefetti al Pretorio: e noi abbiam collocata in ultimo luogo l'Italia
perchè in essa dovremo fermarci.


ORIENTE.

Sotto la disposizione del Prefetto Pretorio dell'_Oriente_ pose cinque
diocesi, ed erano, l'Oriente, l'Egitto, l'Asiana, la Pontica, e la
Tracia; le quali diocesi, secondo è manifesto dal Codice Teodosiano,
e dagli atti d'alcuni antichi Concilj, in questi tempi componevansi di
più province[326].

I. Nella diocesi d'_Oriente_, capo della quale era la città
d'_Antiochia_, erano XV. province, I. Palestina prima. II. Palestina
seconda. III. Fenicia prima. IV. Siria. V. Cilicia. VI. Cipro. VII.
Arabia. VIII. Isauria. IX. Palestina salutare. X. Fenicia del Libano.
XI. Eufratense. XII. Siria salutare. XIII. Osdroena. XIV. Mesopotamia.
XV. Cilicia seconda.

II. Nella diocesi dell'_Egitto_, il cui capo era _Alessandria_, eran
sei province. I. la Libia superiore. II. la Libia inferiore. III. la
Tebaïde. IV. l'Egitto. V. l'Arcadia. VI. l'Augustanica.

III. Nella diocesi _Asiana_, capo essendo _Efeso_, erano dieci
province. I. Panfilia. II Ellesponto. III. Lidia. IV. Pisidia. V.
Licaonia. VI. Frigia Pacaziana. VII. Frigia salutare. VIII. Licia. IX.
Caria. X. L'isole di Rodi, Lesbo, e le Cicladi.

IV. Undici province ebbe la _Pontica_, cui capo era _Cesarea_, e queste
furono. I. Paflagonia. II. la Galazia. III. Bitinia. IV. Onoriade.
V. Cappadocia prima. VI. Cappadocia seconda. VII. Ponto Polemoniaco.
VIII. Elenoponto. IX. Armenia prima. X. Armenia seconda. XI. la Galazia
salutare.

V. La _Tracia_, della quale prima ne fu capo _Eraclea_, da poi
_Costantinopoli_, si componeva di sei province. I. Europa. II. Tracia.
III. Emimonto. IV. Rodope. V. Mesia seconda. VI. Scizia.


ILLIRICO.

Sotto l'amministrazione del Prefetto Pretorio dell'Illirico erano due
diocesi, la Macedonia, e la Dacia.

I. La _Macedonia_, di cui fa capo _Tessalonica_, si componeva di sei
province. I. Acaja. II. Macedonia. III. Creta. IV. Tessaglia. V. Epiro
vecchio, ed Epiro nuovo. VI. parte della Macedonia salutare.

II. La _Dacia_ di cinque. I. la Dacia Mediterranea. II. la Dacia
Ripense. III. Mesia prima. IV. Dardania Prevalitana. V. parte della
Macedonia salutare.


GALLIE.

Sotto l'amministrazione del Prefetto Pretorio delle Gallie erano tre
diocesi, le Gallie, le Spagne, e la Brettagna.

I. La diocesi delle _Gallie_ era composta da diciassette province, e fu
I. Viennense. II. Lugdunense prima. III. Germania prima. IV. Germania
seconda. V. Belgio primo. VI. Belgio secondo. VII. l'Alpi Marittime.
VIII. l'Alpi Pennine. IX. Maxima Sequana. X. Aquitania prima. XI.
Aquitania seconda. XII. Novempopulana. XIII. Narbonense prima. XIV.
Narbonense seconda. XV. Lugdunense seconda. XVI. Lugdunense Turonia.
XVII. Lugdunense Senonica.

II. Quella delle _Spagne_ era composta di sette province. I. Betica.
II. Lusitania. III. Galizia. IV. Tarraconense. V. Cartaginense. VI.
Tingitania VII. le Baleari.

III. L'altra della _Brettagna_, di cinque. I. Maxima Cesariense.
II. Valentia. III. Britannia prima. IV. Britannia seconda. V. Flavia
Cesariense.


ITALIA.

Finalmente sotto la disposizione del Prefetto Pretorio d'Italia erano
tre diocesi: l'_Italia_, l'_Illirico_, e l'_Affrica_. La diocesi
dell'Illirico, della quale _Sirmio_ fu la principal città, era composta
di sei Province. I. Pannonia seconda. II. Savia. III. Dalmazia. IV.
Pannonia prima. V. il Norico Mediterraneo. VI. il Norico. L'_Affrica_
di cinque. I. Affrica, ove era Cartagine. II Bisacena. III. Mauritania
Sitifense IV. Mauritania Cesariense. V. Tripolitana.

L'_Italia_ fu divisa in diciassette province, siccome furon distinte
sotto Adriano; e questa divisione durò nell'età più bassa infino a'
tempi di Longino: l'ordine delle quali, secondo si legge nel libro
della _Notizia_ dell'Imperio (che per comun parere non può dubitarsi,
che sia antichissimo e composto a' tempi di Teodosio il Giovane) è
questo, che siegue. I. Venezia. II. Emilia. III. Liguria. IV. Flaminia,
e Piceno Annonario. V. Tuscia, ed Umbria. VI. Piceno Suburbicario. VII.
Campania. VIII. Sicilia. IX. Puglia, e Calabria. X. Lucania, e Bruzj.
XI. Alpi Cozzie. XII. Rezia prima. XIII. Rezia seconda. XIV. Sannio.
XV. Valeria. XVI. Sardegna. XVII. Corsica.

Paolo Warnefrido[327] Diacono d'Aquileja dà a quelle divers'ordine,
perciocchè, per cagion d'esempio, la _Liguria_, che qui è posta nel
terzo luogo, e l'_Emilia_ nel secondo, le colloca nel secondo, e
nel decimo. Ma vi è fra loro una più notabile varietà, poichè Paolo
dividendo la provincia dell'Alpi in due province, chiamando l'altra
Alpi Appennine, accrebbe il numero con una di più di quelle, che nella
_Notizia_ sono descritte, nella quale solamente il nome dell'Alpi
Cozzie si ritrova. Ma egli, come ben dice Camillo Pellegrino[328],
par che abbia ciò fatto di suo proprio arbitrio, poichè cita a favor
suo la forma del ragionare d'Aurelio Vittore contra coloro, che non
le stimavan due, e non più tosto alcun imperial rescritto, il quale
in questo proposito sarebbe stato il proprio e fermo autore, in cui
avrebbe avuto da appoggiare il creder suo; sicchè ancor di suo parere
dovette mutar l'ordine suddetto, che molto meno importava.

Tutte queste province non sortiron una medesima condizione, imperocchè,
avvegnachè tutte ubbidissero e stassero sotto la disposizione
del Prefetto Pretorio d'Italia, avevan però altri più immediati
Amministratori, a' quali era particolarmente commesso il loro governo.
Erano prima divise in due Vicariati, uno detto di Roma, l'altro
d'Italia. Nel Vicariato di _Roma_ erano dieci province: la Campagna:
l'Etruria e l'Umbria: il Piceno Suburbicario: la Sicilia: la Puglia
e Calabria: la Lucania e Bruzj: il Sannio: la Sardegna: la Corsica e
la Valeria. Nel Vicariato d'Italia, il cui capo era _Milano_[329],
furono sette province: la Liguria: l'Emilia: la Flaminia e Piceno
Annonario: Venezia, a cui da poi fu aggiunta l'Istria: l'Alpi Cozzie:
e l'una e l'altra Rezia. Le prime erano sotto la disposizione del
Vicario di Roma, onde perciò si dissero anche province _Suburbicarie_.
Le seconde tenevansi sotto la disposizione del Vicario d'Italia, e
perciò da alcuni Scrittori vengono semplicemente chiamate province
d'Italia, distinguendole dall'altre, le quali ancorchè racchiuse
tra l'Alpi, e l'uno e l'altro mare, e perciò comprese nell'Italia
(prendendo questo nome nella sua ampia significazione) nulla di meno
ristrettamente province d'Italia eran nomate quelle, che al Vicario
d'Italia ubbidivano, la cui sede era Milano. Così osserviamo negli
atti del Concilio di Sardica celebrato nell'anno 347 che correndo allor
il costume di sottoscriversi i Vescovi, che intervenivano ne' Concilj
non solamente col nome della propria città, ma anche della provincia,
alcuni si sottoscrissero in questa maniera: _Januarius a Campania
de Benevento. Maximus a Tuscia de Luca. Lucius ab Italia de Verona.
Fortunatus ab Italia de Aquileja. Stercorius ab Apulia de Canusio.
Securus ab Italia de Ravenna. Ursacius ab Italia de Brixia. Portasius
ab Italia de Mediolano, ec._ E questo era, perchè Verona, Aquileja,
Ravenna, Brescia, e Milano erano nelle province, che al Vicario
d'Italia ubbidivano: ciò che non potea dirsi di Benevento, di Lucca, e
di Canosa, le quali erano nelle province del Vicariato di Roma, non già
del Vicariato d'Italia[330].

Ebbero ancora queste province altri più immediati Ufficiali, a ciascuno
de' quali era particolarmente il governo d'una provincia commesso;
ma non erano d'un medesimo grado e condizione. Alcune eran dette
Consolari; perchè per loro moderatore sortirono un Consolare come
furono Venezia, Emilia, Liguria, Flaminia, e Piceno Annonario, la
Toscana e l'Umbria, il Piceno Suburbicario e la nostra _Campania_.
Altre si dissero Correttoriali, perchè da' Correttori, non già
da' Consolari eran amministrate; le quali furono la _Sicilia_: la
_Puglia_, _e Calabria_; _la Lucania_, _e Bruzj_. E per ultimo alcune
si nomarono Presidiali, perchè ai Presidi sottoposte; e queste furono
l'Alpi Cozzie, la Rezia prima e seconda, il nostro _Sannio_, Valeria,
Sardegna, e Corsica. Così i primi Moderatori di queste province erano
i Prefetti Pretorj, i secondi li Vicarj, gli ultimi e' più immediati
eran i Consolari, i Correttori, ed i Presidi, dell'ufficio ed impiego
de' quali è di mestiere, che qui brevemente si ragioni.



CAPITOLO II.

_Degli Ufficiali dell'Imperio._


I Prefetti al Pretorio eran quelli, ne' quali dopo i Cesari, s'univano
i primi onori e le prime dignità dell'Imperio[331]: a costoro si
dava la spada dall'Imperadore per insegna della loro grandissima
autorità[332]: sotto la cui amministrazione e governo erano più
diocesi, e colle diocesi, le tante province, che le componevano:
avevan sotto di loro i Vicarj, i Rettori delle province, i Consolari, i
Correttori, i Presidi, e tutti i Magistrati di quelle diocesi, alla cui
amministrazione soprastavano. Essi dovevano con vigilanza attendere e
provvedere a' difetti di questi Magistrati[333], ammonirgli, insinuar
loro le leggi, ed in somma invigilare a tutte le loro azioni: i quali
Magistrati all'incontro ai Prefetti dovevan ricorrere, riferire e
consigliarsi di ciò che di dubbio e scabroso loro veniva per le mani.
Potevasi, oltre a ciò, da tutti i Tribunali suddetti appellare a'
Prefetti Pretorj, da' quali riconoscevansi le cause dell'appellazioni,
e le coloro sentenze discusse, o le rifiutavan, o l'ammettevan, senza
che delle deliberazioni de' Prefetti Pretorj ad altra appellazione
alcuna si dasse luogo, ma solamente alla retrattazione, che noi ora
diciamo _Reclamazione_[334].

A' Prefetti per lo più gl'Imperadori solevan dirizzare le loro
costituzioni, affinch'essi le promulgassero per le province di lor
disposizione: avevano sotto la lor censura anche i Proconsoli, e
d'infinite altre prerogative eran adorni, delle quali dottamente
scrissero Codino, Gotifredo, e Giacomo Gutero[335]. Furon, oltre
a costoro, due altri Prefetti destinati al governo delle due
città principali del Mondo, cioè Roma, e Costantinopoli, sotto la
disposizione de' quali eran i Prefetti dell'Annona, e molt'altri
Magistrati, che alla cura e governo di quelle città sotto varj impieghi
venivan destinati: de' quali non accade qui far parola.

Dopo i Prefetti seguivan i Proconsoli; dignità pur _illustre_, ed
ornata dell'alte insegne, delle scuri e dei fasci. Nell'Oriente ve ne
furon due, cioè nell'Acaja, e nell'Asia, ed alcune volte fuvvi il terzo
in Palestina. Nell'Occidente solamente uno, e questi nell'Affrica.

Tenevan il terzo luogo i Vicarj, inferiori a' Proconsoli, ma di
gran lunga superiori, ed eminenti sopra tutt'altri Magistrati.
Questi, che tali si dissero, perchè le veci e la persona de'
Prefetti rappresentavano, onde nell'antiche iscrizioni si chiamano
_Propraefecti_, erano preposti al reggimento dell'intere diocesi,
e delle province, delle quali si componevano. Soprastavano ai
Rettori, ed agli altri Magistrati inferiori. La loro principal cura
era d'invigilare a' tributi, ed all'annona, gastigar i desertori
ed i vagabondi, e custodirgli infino che al Principe se ne desse
notizia[336]. Non solamente giudicavano _ex ordine_, ma sovente _ex
appellatione_, ed alcune volte anche _ex delegato_[337]. Ebbero
i Vicarj l'Asia, la Pontica, la Tracia, l'Oriente, la Macedonia,
l'Affrica, la Spagna, la Gallia, e la Brettagna. Fuvvi ancora il
Vicario della città di Roma, sotto la cui disposizione erano, come
s'è detto, alcune province d'Italia, che si dissero perciò province
Suburbicarie. Italia similmente ebbe il suo Vicario, e del di lui
governo furon alcun'altre province, onde province d'Italia propriamente
si dissero. E tutti questi, per esser d'alto ed eminente grado, eran
chiamati _Judices majores_[338].

Sieguono in appresso gli Ufficiali di minor grado, detti perciò
_Judices minores_; e fra questi il primo luogo era de' Rettori delle
province, a' quali il governo e l'amministrazione d'alcune d'esse era
commessa: questi erano sotto la disposizione del P. P. al quale degli
atti di coloro potevasi appellare. Tenevan il _Jus gladii_; e la lor
principal cura era di spedir le liti tanto civili, quanto criminali,
ove della roba e della vita degli uomini si trattava, e d'invigilare,
che a' provinciali non si facesse ingiuria e danno dagli Ufficiali
minori, e perciò eran tenuti in certo tempo dell'anno a scorrere
tutta la provincia, e non pur nelle città, ma in tutti i villaggi,
per ricevere le querele de' provinciali, e con diligenza ricercar
l'insolenze e disordini ivi accaduti, per darvi riparo. A costoro fu
diretto da Costantino M. quell'aureo editto, con cui si puniscono così
severamente le venalità e rapacità dei Giudici, che si legge nel Codice
di Teodosio[339].

Sieguono in secondo luogo i Consolari, a' quali il governo e
l'amministrazione d'una sola provincia si commetteva. Questi eran in
maggior dignità, che i Correttori, ed i Presidi: e per insegne tenevano
ancor essi i fasci, ed erano distinti col nome di _Clarissimi_.
Solevano anche a' Consolari gl'Imperadori dirizzare le loro
costituzioni e perciò le province Consolari erano di maggior dignità,
che le Correttoriali, e le Presidiali. Fra l'altre, la Fenicia ebbe
il Consolare che ora in Tiro, ora in Berito, ora in Damasco faceva
residenza, ed al quale da' Cesari molte leggi furon dirizzate. Sotto il
governo de' Consolari furono quasi tutte le province più riguardevoli
d'Italia, l'Emilia, la Liguria, Venezia, il Piceno, la Sicilia, la
Flaminia, e la nostra _Campania_.

Dopo i Consolari erano i Correttori a' quali parimente si commettevano
i governi delle province, che sotto la disposizione del P. P.
amministravano, ed erano parimente ornati col nome di _Clarissimi_.
Questi quasi in niente eran inferiori a' Consolari, di gran lunga
però avanzavano nella dignità i Presidi: ed anche ad essi i Principi
dirizzavano le loro costituzioni. Alcune province d'Italia furon
governate da' Correttori, come la Toscana, la cui sede fu Firenze[340]:
la Puglia, e Calabria; e la Lucania, e' Bruzj, delle quali più innanzi
distintamente tratteremo.

Vengono nell'ultimo luogo i Presidi, a quali i governi delle province
erano parimente commessi; questi altresì venivan nomati _Clarissimi_,
aveano per insegne le bandiere, e sotto la disposizione del P. P.
eran collocati. L'altre province d'Italia furono all'amministrazione
de' Presidi assegnate, come il _Sannio_, Valeria, l'Alpi, le Rezie,
la Sardegna, e la Corsica: e rade volte gl'Imperadori dirizzavano a
costoro le loro costituzioni. Giacomo Gutero[341] tiene altro ordine,
collocando in primo luogo i Presidi, indi i Consolari, i Correttori,
e nell'ultimo i Rettori delle province, seguendo l'ordine tenuto
da Zenone[342] in una sua costituzione, che leggiamo nel Codice di
Giustiniano. A noi però giova con Gotofredo[343] seguir meglio l'ordine
tenuto dall'Imperadore Graziano nel Codice Teodosiano, ove i Presidi
tengono l'ultimo luogo.



CAPITOLO III.

_Degli Ufficiali, a' quali era commesso il governo delle nostre
province._


Ciò che dunque ora noi appelliamo Regno di Napoli, o si riguardi la
disposizione d'Adriano, o quella di Costantino, era diviso in quattro
sole province: anzi la _Campania_ non è ora tutta intera dentro a' suoi
confini; ma parte di quella è rimasa fuori, ed occupa molto altro paese
ch'ora è dello Stato della Chiesa romana. Queste Province erano: I. la
Campagna: II. la Puglia, e la Calabria: III. la Lucania, ed i Bruzj:
IV. il Sannio. Una Consolare: due Correttoriali: e l'altra Presidiale.
Tutte del Vicariato della città di Roma, e perciò tutte _Suburbicarie_
appellate.

Richiede per tanto l'ordine di quest'opera, che partitamente di
ciascheduna di queste province si ragioni, de' Magistrati a' quali ne
fu commesso il governo, delle leggi e de' loro ordinamenti; perchè si
vegga qual forma di politia avessero ne' tempi di Costantino fin agli
ultimi Imperadori d'Occidente.


§. I. _Della Campagna, e suoi Consolari._

Quella regione, che al dir di Paolo[344] Warnefrido, per gli ubertosi
e piani campi, che intorno a Capua sono, Campania fu detta, ebbe già
in varj tempi ora più ristretti, ora più spaziosi confini di quel,
ch'oggi non sono. Si distese in alcun tempo dal territorio romano
insino a Silaro fiume della Lucania; abbracciava Benevento, e dilatò
per altra parte i suoi termini fino ad _Equo Tutico_ oggi appellato
Ariano. Fu perciò riputata una delle più celebri ed illustri province
d'Italia, e per l'ampiezza e vastità de' suoi confini, e per le molte
e preclare città, che l'adornavano, ma soprattutto per Capua, suo
capo e metropoli, cotanto chiara, ed illustre; perciò al governo ed
amministrazione di questa provincia non furon mandati Correttori, o
Presidi, ma Consolari: Magistrato, come s'è detto, se bene inferior al
P. P. ed al Vicario di Roma, sotto la cui disposizione reggevasi, era
nondimeno ornato di più grandi prerogative di quelle dei Correttori,
e de' Presidi. La loro sede era Capua: e fu tanta la stima ed il lor
grado appresso gl'Imperadori, che sovente venivan loro indirizzate
molte costituzioni, e mandati imperiali.

Costantino il Grande, dopo avere sconfitto e morto Massenzio (che
fattosi acclamar in Roma Augusto, per sei anni con vera tirannide
avea signoreggiata l'Italia) trionfando in Roma, e sottomettendosi
volentieri al suo dominio l'Italia, e tutte l'altre province
dell'Occidente, come prima avean fatto le Gallie, la Spagna, e la
Brettagna, mentre nell'anno 313 risedeva in quella città, cominciò a
ristorar l'Italia dei passati danni, ed a provvedere a' di lei bisogni.
Promulgò quivi a tal fine molte utili e salutari costituzioni, che
dirizzò al Popolo romano, e che ancor oggi abbiamo nel Codice di
Teodosio[345]; ed indi passato in Milano, per mezzo d'altri editti,
che pubblicò in quella città, ristabilì, come potè il meglio, le
cose d'Italia. Passossene da poi nella Gallia, e nella Pannonia; e
quindi fatta la pace con Licinio, nuovamente in Italia si restituì, e
nell'anno 315, in Aquileja fermatosi, passò poi in Roma, ed a Milano: e
dopo altri viaggi ne' seguenti anni fatti nella Dacia, e nella Gallia,
ritornò in Roma nel 319 ove per li seguenti quattro anni si trattenne,
nè ad altro intese, se non per mezzo di varj editti a restituire quanto
più fosse possibile nell'antica forma le cose di Roma, e d'Italia.

Ma passato da poi in Oriente, e vinto nell'anno 325, e spento Licinio,
fattosi già Monarca di tutto l'Imperio, cominciò (secondo che contro
la comun credenza prova Pagi[346]) a gettare i fondamenti della nuova
Roma; ed ancorchè nel seguente anno 326 tornando in Italia, da Aquileja
passasse a Milano, e quindi a Roma, partissi nondimeno da poi da questa
città, nè mai più fecevi ritorno, ma nell'Oriente trasferì per sempre
la sua sede, dove nell'anno 338 volendo ridurre a fine la gran mole
di Costantinopoli, adoperovvi tutta la sua cura e tutto lo studio,
consumandovi il resto della sua vita, contento di mirar da lontano le
cose di queste nostre parti. Quindi nacque il principio d'ogni male
in Occidente, che in progresso di tempo portò la ruina di Roma, e la
dissoluzion dell'Imperio. Quindi le tante querele de' Romani: onde
Porfirio nel Panegirico a Costantino dirizzato, scongiurandolo gli
dice:

    _Et reparata jugans moesti divortia mundi_
    _Orbes junge pares: det leges Roma volentes_
    _Principe te in populos._

Per la qual cagione alcuni lo riputarono più tosto distruttore
dell'antica Roma, che facitor della nuova: poichè avendo egli commesso
il governo d'Italia ai suoi Ufficiali, cominciò a venir meno ogni buona
disciplina: e stando egli lontano, questi abusando l'alta potestà a lor
conceduta, si videro in breve declinar le forze ed il vigore di queste
nostre province. Lasciò l'amministrazione al Prefetto P., a' Vicarj, e
nell'ultimo luogo a' Consolari, a' Correttori, ed a' Presidi, a' quali
immediatamente era commesso il governo di ciascuna provincia.

Ebbe l'Italia per Prefetto P. sotto questo Principe nell'anno 321,
_Menandro_. Negli anni seguenti 334, 335 e 336, ebbe _Felice_,
quegli, che da Preside, che fu di Corsica nell'anno 319 fu poi in
quest'anni inalzato da Costantino a cotal sublime dignità. Questi per
suo successore ebbe nello stesso anno 336 _Gregorio_, di cui sovente
ragiona Ottato Milevitano nei suoi libri. De' Vicarj di Roma, che
ressero sotto Costantino, non s'ha altra notizia, se non che d'un tal
_Gennaro_, ovvero _Gennarino_[347], nell'anno 320.

Ma de' Consolari di questa nostra provincia di Campagna, è di mestiere
che dal lungo obblio, ove fin'ora sono stati sepolti, qui se ne
sottragga la memoria.

Il primo Consolare, del quale possa da noi aversi contezza, che
sotto Costantino M. avesse immediatamente governata e retta la nostra
Campagna, fu _Barbario Pompejano_. Tenne questi, siccome tutti gli
altri Consolari di questa provincia, la sua residenza in Capua,
la quale n'era capo e metropoli. A costui, che ne fece richiesta,
dirizzò Costantino M. nell'anno 333, mentre risedeva nella Tracia e
propriamente in Apri: luogo non molto distante da Costantinopoli,
quella cotanto celebre e famosa costituzione[348], per la quale
s'impone a' Magistrati, che debbiano inchiedere della verità delle
preci ne' rescritti ottenuti dal Principe, in guisa che non possano
eseguirgli, se l'esposto dalle parti non sia conforme al vero: della
quale si compiacque tanto Giustiniano, che volle inserirla anche
nel suo Codice[349]. Ciò che poi vollero eziandio imitare i romani
Pontefici, inserendola nelle loro decretali[350].

L'altro Consolare della nostra Campagna, che governò sotto questo
stesso Principe, fu _Mavorzio Lolliano_, per la testimonianza che ce
ne dà Giulio Firmico[351]. A costui dedicò Firmico, sotto l'imperio
di Costantino, i suoi libri astronomici, celebrando nella prefazione
dell'opera[352] gli alti meriti d'un tal sublime spirito, il quale
dopo aver deposte l'insegne di Consolare di Campagna, fu da Costantino
innalzato a' più eccelsi onori, dandogl'il governo di tutto l'Oriente
e finalmente l'insegne d'ordinario Console; e morto Costantino, fu poi
nell'anno 342, sotto Costante, rifatto Prefetto della città di Roma,
e sotto Costanzio suo fratello fu anche Prefetto P. d'Italia. Di lui
fassi eziandio memoria presso ad Ammiano Marcellino, appo il qual
Autore ne' gesti dell'anno 356, si legge anche il di lui elogio[353].

Nè d'altri Consolari di questa provincia, del tempo di Costantino
abbiam noi notizia, se non che in un marmo trovato nell'anno 1712, nel
tenimento della terra di Atripalda, ov'era l'antica città d'Avellino,
si legge la seguente iscrizione, nella quale fassi memoria di un tal
_Taziano_, che fu Consolare della Campagna.

                                TATIANI
                           C. JULIO RUFINIANO
                       ABLAVIO TATIANO C. V. RUFI
                     NIANI ORATORIS FILIO FISCI PA
                        TRONO RATIONUM SUMMARUM
                     ADLECTO INTER CONSULARES JUDI
                    CIO DIVI CONSTANTINI LEGATO PRO
                    VINCIAE ASIAE CORRECTORI TUSCIAE
                        ET UMBRIAE CONSULARI AE
                      MILIAE ET LIGURIAE PONTIFICI
                       VESTAE MATRIS ET IN COLLE
                          GIO PONTIFICUM PROMA
                          GISTRO SACERDOTI HER
                          CULIS CONSULARI CAM
                         PANIAE HUIC ORDO SPLEN
                         DIDISSIMUS ET POPULUS
                        ABELLINATIUM OB INSIGNEM
                     ERGA SE BENIVOLENTIAM ET RELI
                  GIONEM ET INTEGRITATEM EJUS STATUAM
                          CONLOCANDAM CENSUIT.

Questa iscrizione maggiormente conferma ciò, che fu da noi dimostrato,
che anche dopo Costantino Magno non fu presso noi affatto abolita
l'antica religione pagana, leggendosi quivi, che questo Consolare
era del Collegio de' Pontefici, e Sacerdote d'Ercole: dei quali pregi
gli Avellinesi non vollero fraudarlo in una sì pubblica iscrizione,
riponendogli fra gli altri suoi titoli, come furon quelli di Correttore
della Toscana, di Consolare dell'Emilia, e della nostra Campagna. La
Toscana fu pure provincia Correttoriale, e la sede de' Correttori era
Fiorenza, siccom'è manifesto da più leggi del Codice Teodosiano: di che
è da vedersi Giacomo Gotifredo; onde ben si legge nel marmo _Correctori
Tusciae_.

Nè di Costantino si leggono nel Codice di Teodosio altre costituzioni
dirizzate ad altri Consolari della nostra Campagna. Non mancan però in
quello altri suoi editti indirizzati al Prefetto Pretorio d'Italia,
o al Vicario di Roma, a' quali non solamente la cura delle diocesi a
lor commesse generalmente s'incarica, ma particolarmente per questa
provincia in più sue leggi altri particolari provvedimenti si danno.

Tolto intanto a' mortali nel mese di Maggio dell'anno 337 questo
Principe, le cui alte e magnanime imprese gli portaron il soprannome
di Grande, succedè all'Imperio d'Occidente _Costante_ suo figliuolo,
al quale nella divisione fatta cogli altri fratelli toccò l'Affrica,
e l'Illirico, la Macedonia, la Grecia, e l'Italia, ed in conseguenza
queste nostre province. Per tal cagione molte costituzioni si leggono
di questo Principe nel Codice di Teodosio, che riguardan il governo
di quelle, e particolarmente della Campagna; e se non sappiamo quali
Consolari avesse questa provincia sotto Costante, si veggon però sue
leggi, per le quali appare aversi presa di essa particolar cura e
pensiero. Di questo Principe è quella legge registrata nel suddetto
Codice sotto il titolo _de Salgamo_, letta ed accettata in Capua,
metropoli di questa provincia, promulgata da Costante nell'anno 340 per
reprimere l'insolenza de' soldati, che coll'occasione della guerra, che
allora faceva in Italia con Costantino suo fratello (il quale in questo
stess'anno presso Aquileja fu vinto e morto) inquietavano la Campagna,
e per li fastidiosi lor tratti e licenza militare l'onore e le sostanze
de' provinciali malmenavano; e forte argomento di credere, che Costante
in quest'anno avesse per qualche tempo fatta dimora in Capua, ce ne dà
Atanasio per quel che scrive nella sua Apologia a Costanzo[354].

Ma, morto in appresso Costante nell'anno 350, dieci anni dopo
Costantino suo fratello, rimase solo Imperadore l'altro suo fratello
_Costanzo_; onde queste nostre province coll'Italia caddero sotto il di
lui Imperio. Regnando dunque Costanzo, furono Prefetti al P. d'Italia
negli anni 352 e 353 _Merilio Ilariano_; a cui succedè _Mavorzio
Lolliano_ nell'istesso anno 353 quegli, che fu Consolare della nostra
Campagna, e negli anni seguenti, _Tauro_; a' quali da Costanzo furono
indirizzate molte sue costituzioni. Governò anche in questi medesimi
tempi per Vicario di Roma _Volusiano_, al quale parimente Costanzo
indirizzò alcune sue leggi[355]. E quantunque sotto questo Principe
sian ignoti i Consolari della Campagna, nè si sappiano i loro nomi,
in modo che non si leggono editti indirizzati a coloro da Costanzo,
vi sono però molte di lui costituzioni dirette a' P. P. d'Italia
per le quali si prende cura di questa provincia. In fatti nell'anno
355 dirizzò una sua costituzione a Mavorzio Lolliano allora P. P.
d'Italia, la quale perchè toccava i bisogni di questa provincia fu
letta e pubblicata in Capua, come porta la sua soscrizione[356]. E
questo Principe fu colui, che per torre le contese giurisdizionali, che
sovente sorgevano fra i Prefetti P. d'Italia, ed i Prefetti di Roma,
intorno all'appellazioni, separò le province; e mentre egli risedeva
a Sirmio, città assai illustre della Pannonia, dirizzò nell'anno 357 a
Tauro P. P. d'Italia quella celebre costituzione[357] ove stabilì, che
tutte l'appellazioni, che dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla nostra
_Campagna_, dalla _Puglia_ e _Calabria_, dalla _Lucania_ e _Bruzj_,
Piceno, Emilia, Venezia, e dall'altre province d'Italia, si riportavan
in Roma, non già dal Prefetto di Roma, ma da quello d'Italia, si
dovessero conoscere e giudicare.

Resse Costanzo l'Imperio undici anni, avendo finito suoi giorni
nell'anno 361, e gli succedè _Giuliano_, al quale perciò ricaddero
queste nostre province. Fu sotto lui Prefetto Pretorio d'Italia
_Mamertino_, e Vicario di Roma _Imerio_; a costoro Giuliano, e
particolarmente al primo, dirizzò molte leggi. Quali fossero stati
i Consolari della Campagna ne' tempi di Giuliano, Simmaco[358]
chiaramente ce l'addita nel libro decimo delle sue epistole. Quivi
volendo dimostrar la congiunzione, che in questi tempi era fra i
Pozzolani e' Terracinesi, poichè stendendosi allora i confini della
Campagna infino a Terracina, erano gli uni, e gli altri sotto un sol
Moderatore, ch'era il Consolare, dice Simmaco che _Lupo_, essendo sotto
Giuliano Consolare della Campania, ben s'avvide e considerò l'angustie,
nelle quali vivevano i Terracinesi. Di questo _Lupo_ Consolare della
Campania ancor oggi in Capua se ne serban le memorie in una iscrizione
di marmo attaccata alla chiesa de' Frati del Carmelo, dove si leggono,
benchè alquanto tronche, queste parole[359]:

                             . . RIUS LUPUS
                              . . . . V. C
                             . . ONS. CAMP
                               . . URAVIT

Da quest'istessa epistola di Simmaco si raccoglie eziandio, che a Lupo
in quella carica fosse succeduto _Campano_. In Napoli, come città al
Consolare di Campagna pur sottoposta, serbasi ancora la memoria d'un
altro Consolare chiamato _Postumio Lampadio_: il marmo si vede oggi
prostrato in terra avanti la chiesa della Rotonda, dove si legge

                               POSTUMIUS
                               LAMPADIUS
                            V. C. CONS. CAMP
                                CURAVIT

Ma nel Codice di Teodosio non vi è alcun vestigio, che da Giuliano, o
dal suo successore, fosse stato a costoro indirizzato editto, o mandato
alcuno imperiale.

Morto Giuliano nella guerra de' Persi nell'anno 373, ed indi a poco
anco _Gioviano_, non durando più l'Imperio di questo religiosissimo
Principe[360], che otto mesi, se vogliamo prestar fede a Zosimo[361]
e Sozomeno, ovvero dieci, secondo Filostorgio[362], fu assunto
all'Imperio _Valentiniano_, il quale creò Augusto _Valente_ suo
fratello, e fra di loro fu in cotal guisa diviso l'Imperio[363].

Valentiniano serbossi l'intero Occidente, cioè tutto l'Illirico colla
Macedonia, l'Affrica, le Gallie, le Spagne, la Brettagna, e l'_Italia_.
Ed a Valente si lasciò tutto l'Oriente[364].

Valentiniano adunque, a cui l'Italia fu sottoposta, dopo avere scorse
l'altre regioni del suo Imperio, e date a quelle i provvedimenti
opportuni, venne in Italia, e prima in Aquileja, ove in due soli mesi,
settembre ed ottobre di quest'anno 364, dieci costituzioni pubblicò, ed
allo stato d'Italia ed al governo della medesima attese, e varj editti
e per la Campagna diretti al Consolare, e per la Lucania e Bruzj e
Toscana a' Correttori, ed a Mamertino allora Prefetto d'Italia, furon
da questo savissimo Principe promulgati[365].

Governarono nel suo Imperio come Prefetti Pretorj d'Italia _Mamertino_
cotanto rinomato nell'opere d'Ammiano Marcellino, _Rufino_, _Probo_,
ed ultimamente _Massimino_. Vicarj di Roma furono nell'anno 364
_Severo_, nell'anno 367 _Magno_, nell'anno 372. _Probo_, e nell'anno
373 _Simplicio_[366]. Si leggono ancora più Consolari della nostra
Campagna, a' quali varie leggi furono dirizzate.

Era in quest'anno 364 Consolare della Campagna _Buleforo_, al quale,
risedendo Valentiniano in Altino città di Venezia, furono dirizzate
due costituzioni, che si leggono nel Codice di Teodosio, una sotto il
titolo, _Quibus equorum usus_, l'altra sotto il titolo, _usus interd._
per le quali, affinchè da questa provincia s'estirpassero i ladronecci
e molt'altri disordini, fu proibita severamente l'asportazione de'
cavalli e dell'armi, comandando, che niuno senza sua licenza potesse
quelle movere. A quest'istesso Buleforo, mentr'era Consolare della
Campagna, dirizzò nell'anno seguente 365 quell'altra costituzione[367],
che si legge sotto il titolo _de Cursu publico_, risedendo egli in
Milano. Diede ancora questo Principe opportuni provvedimenti, perchè
fossero esterminati i ladroni, che allora grandemente infestavano la
Campagna, proccurando che fosse restituita la pace e tranquillità
a questa provincia. Sue parimente furono la l. 1. _de Pascuis_,
ed alcune altre costituzioni, per le quali alla quiete d'Italia, e
precisamente di queste regioni, ch'oggi forman il Regno, con somma
applicazione e studio intese. Egli ancora in quest'istess'anno 365
mentre era in Verona, provvide a' bisogni del comune d'Avellino,
città posta dentro a' confini di questa provincia, comandando con sua
particolar costituzione[368], ch'ancor leggiamo nel Codice di Teodosio,
che s'abolisse tutto ciò, che dall'ordinario Giudice erasi fatto in
pregiudicio di quel comune, contra l'antica lor consuetudine.

Succedè a Buleforo in quest'anno 365 per Consolare _Felice_, a cui
parimente in quest'anno, risedendo Valentiniano in Milano, indirizzò
quella costituzione[369], che si legge nel _C. Teod._ sotto il _tit.
ad S. C. Claudianum_, della quale fece anche menzione l'Autore di
quell'antica consultazione inserita da Cujacio tra le sue nel _cap._
10. E se bene quell'Autore in vece di _Campaniae_ legga _Macedoniae_:
nondimeno, siccome notò il diligentissimo Gotifredo[370], si convince
d'errore per la soscrizione che porta, donde è chiaro essere stata
soscritta da Valentiniano Imperadore d'Occidente, mentr'era in Milano,
e per conseguenza dover quella appartenere all'Occidente, non già
all'Oriente, nel quale è posta la Macedonia.

A Felice sotto Valentiniano stesso succedè nella carica di Consolare
della Campagna _Anfilochio_. A costui nell'anno 370, stando
Valentiniano in Treveri, fu indirizzata quella legge, che sotto il
_tit. de Decurionibus_ ancor si vede nel Codice di Teodosio[371].

Resse Valentiniano l'Occidente, e con tanta prudenza l'Italia, e queste
nostre province, che niente era da desiderare: ristabilì l'Accademia di
Roma, e molto riparò la giurisprudenza già inchinata, e quasi affatto
caduta dal suo antico lustro e splendore: represse per varj editti la
rapacità e venalità de' Giudici. Principe religiosissimo, al quale dopo
Costantino Magno molto dee la cristiana religione, e maggiori utilità
certamente n'avrebbe l'Italia ritratte, se dopo soli dodici anni
d'Imperio non fosse stato tolto dal Mondo.

Morì Valentiniano nell'anno 364, e fu dopo sei giorni nella Pannonia
fatto Imperadore il figliuol _Valentiniano_, il quale con _Graziano_
suo fratello in questa guisa si divise l'Imperio d'Occidente (poichè
l'Oriente era retto da Valente lor zio): a Graziano toccarono le
Gallie, le Spagne e la Brettagna: a Valentiniano l'Illirico, l'Affrica
e l'_Italia_[372].

Sotto Valentiniano II. e Graziano furono Prefetti Pretorj d'Italia,
_Massimino_, _Antonio_, _Esperio_, _Probo_, _Siagrio_, _Ipazio_,
_Flaviano_, _Principio_, _Eusignio_, _e Pretestato_. Sotto Valentiniano
solo, _Trifolio_, _Polemio_, _Taziano_, _Apodemio_, _Destro_, _ed
Eusebio_. I Vicarj di Roma furono, _Potito_, _Antidio_, _Ellenio_, _ed
Orienzio_[373].

Ma quali fossero sotto questo Imperadore i Consolari della Campagna
non se ne trova alcun vestigio. Non mancan però di Valentiniano II.
moltissime costituzioni, come quegli, che resse l'Imperio diciotto
anni, colle quali al governo ed amministrazione di queste province,
e dell'Italia generalmente provvide. Quella legge[374], che sotto il
_tit. de Extraord._ leggiamo nel _Cod. Teod._ è di questo Principe,
che l'anno 382 dirizzò a Siagrio Prefetto Pretorio d'Italia, per la
quale si prende cura della _Campania_, _Puglia e Calabria_, _Lucania e
Bruzj_; in questi tempi molto turbate ed afflitte.

Morì Valentiniano II. presso a Vienna l'anno 392 dopo aver regnato
diciotto anni; e tennero dopo lui l'Imperio _Teodosio M._ ed _Arcadio_,
ed _Onorio_ suoi figliuoli. Ad Onorio toccò l'Occidente, onde
l'_Italia_, e queste nostre province a lui si sottoposero. E morto
Teodosio nell'anno 395 pur Onorio ritenne l'Occidente, avendo Arcadio
suo maggior fratello regnato in Oriente. Molti furono i Prefetti
Pretorj d'Italia sotto Onorio, come colui, che lungamente visse,
tenendo l'Imperio d'Occidente trentun'anno: e quelli furono _Messala_,
_Teodoro_, _Adriano_, _Longiniano_, _Senatore_, _Curzio_, _Teodoro II_,
_Ceciliano_, _Giovio_, _Giovanni_, _Faustino_, _Palladio_, _Melizio_,
_Liberio_, _Felice_, _Faustino_, _Giovanni_, _Selevio_, _Adriano_,
_Palladio_, _Giovanni_, _e Proculo_. I Vicarj di Roma, che ressero in
tempo d'Onorio, furon _Varo_, _e Benigno_[375]. E de' Consolari della
Campagna, pur sotto di lui si legge _Gracco_. A costui, mentre risedeva
Onorio in Milano dirizzò nell'anno 396 quella costituzione, che
leggiamo nel Codice di Teodosio sotto il _tit. de Collegiatis_[376]. A
questa provincia ancor provvide Onorio, concedendole qualche indulgenza
nel pagare i tributi, com'è manifesto da quella sua Costituzione[377],
che dirizzò a Destro Prefetto Pretorio d'Italia. E molte altre sue
leggi abbiamo, per le quali governò queste nostre province, nel
medesimo tempo, che in Oriente imperava _Teodosio_ il Giovane figliuolo
d'Arcadio.

Morto finalmente Onorio in Ravenna l'anno 423, ancorchè Teodosio il
Giovane per un anno reggesse solo l'uno e l'altro Imperio, nulladimeno
nell'anno seguente 424 creò in Occidente per Augusto _Valentiniano_
III. al quale coll'Italia furono sottoposte queste nostre province.
Furon sotto di lui Prefetti Pretorj d'Italia _Volusiano_, e _Teodosio_.
E quantunque non si leggano di questo Valentiniano costituzioni
dirizzate a' Consolari della Campagna, fu non però egli un Principe, a
cui molto dee non solamente l'Italia, e queste nostre province per la
particolar cura e provvido governo, che ne prese, ma anche la nostra
giurisprudenza, che già vacillante fu da lui ristabilita in Occidente,
nell'istesso tempo, che Teodosio suo collega avea posto tutto il suo
studio a ripararla in Oriente; di che a più opportuno luogo ci toccherà
distesamente ragionare.

Questi dunque sono stati gli Ufficiali per li quali da' tempi
di Costantino M. infino a quest'ultimi di Valentiniano III. fu
amministrata e retta la nostra Campagna. Per questa cagione osserviamo
noi alcuni marmi d'antichi edifici, che nelle città di questa
provincia, per opera de' Consolari della Campagna, dirizzavano i
Campani, i Napoletani, i Beneventani, ed altri, che possono vedersi
in quella laboriosa opera di Grutero dell'iscrizioni dell'orbe antico
romano; ed in Capua, ed in Napoli ancor oggi, come s'è veduto, si
serba di lor memoria. Capua fu la lor sede, siccome quella, che in
questi tempi era capo e metropoli della Campagna, come la chiamò anche
Atanasio[378], il quale favellando nell'_Epistola ad Solitarios_ del
Concilio di Sardica, e de' Legati da lui spediti, fra i quali Vincenzo
Vescovo di Capua, acciocchè l'Imperador Costanzo facesse ritornare alle
loro sedi que' Vescovi, che avea discacciati, dice; _Missis a Sancto
Concilio in legationem Episcopis Vincentio Capuae, quae Metropolis
est Campaniae etc._ E per questa cagione ancora s'osservano molte
costituzioni del Codice di Teodosio lette, ed accettate in Capua,
perchè il Consolare, che faceva sua residenza in questa città, doveva
pubblicarle ed aver cura, che si spargessero per l'altre città di
questa provincia, acciocchè fossero note a tutti i provinciali.


§. II. _Della Puglia e Calabria, e suoi Correttori._

Alla Campagna siegue la Puglia accompagnata con la Calabria, nella
quale è la regione Salentina, che unite insieme, secondo il libro
della _Notizia_ dell'uno, e dell'altro Imperio, formavano la nona
provincia d'Italia, e secondo il novero di Paolo Diacono[379], la
decima quinta. Si distendeva quest'ampia provincia da Oriente fino al
mar Adriatico, ch'ebbe per confine, e verso Occidente e Mezzo dì; i
suoi termini furono il Sannio, i Bruzj e la Lucania. Le sue più celebri
ed abbondanti città furono Lucera, Siponto, Canosa, Acerenza, Venosa,
Brindisi, e Taranto, e nel sinistro corno d'Italia, che si distende
per cinquanta miglia, ebbe Otranto, città assai comoda ed adatta a
qualunque traffico, e che suo emporio meritamente potè nomarsi.

I Pugliesi adunque ed i Calabresi eran governati e retti da un solo
Moderatore. L'ampiezza ed estensione di questa provincia meritò, che
non fosse Presidiale, ma Correttoriale; cioè, che l'amministrazione di
essa si commettesse a' Correttori, non a' Presidi, Ufficiali a coloro
inferiori. Ma quali fossero stati i Correttori di questa provincia, ed
ove avessero fermata la lor sede, niente può affermarsi di certo. Nel
Codice di Teodosio non si legge alcun imperial editto, che a questi
Correttori fosse stato indirizzato: in Venosa solamente città della
Puglia, fra gli antichi monumenti, che serba, si legge un'iscrizione,
nella quale d'un tal Emilio Restituziano, Correttore della Puglia e
della Calabria, fassi memoria con queste parole[380]:

                      LUCULLANORUM. PROLE. ROMANA
                        AEMILIUS. RESTITUTIANUS
                V. C. CORRECTOR. APULIAE. ET. CALABRIAE
                               IN HONOREM
                   SPLENDIDAE. CIVITATIS. VENUSINORUM
                              CONSECRAVIT

Simmaco[381] fa anche menzione de'_Correttori_ della Puglia, i quali
impropriamente chiamò anche _Rettori_. Soleasi ancora in luogo di
Correttore mandarsi talora alle province Magistrato d'ugual potere,
che appellavasi _Juridicus_. E di questo nella nostra Puglia ne serbano
ancora la memoria due iscrizioni rapportate da Gutero[382]; in una si
legge:

                         HERCULI. CONSERVATORI
                         PRO SALUTE. L. RAGONI
                         JURIDIC. PER. APULIAM
                              PRAEF. J. D.

in un'altra ch'è in Roma:

                      C. SALIO. ARISTAENETO. C. V.
                       JURIDICO. PER. PICENUM. ET
                                APULIAM

S'incontrano ancora bene spesso nel Teodosiano Codice molte leggi,
per le quali a' bisogni di questa provincia si diede particolar
provvedimento. Era quella posta (oltre del Correttore, dal quale
immediatamente veniva governata) sotto la disposizione del Prefetto
P. d'Italia, al quale, per via d'appellazione, potevasi aver ricorso;
e se mancano costituzioni dirette a' Correttori, non mancan però di
quelle, che al Prefetto P. d'Italia per lo governo della medesima si
mandavano. Sotto l'Imperio di Valentiniano il Vecchio fu travagliata
ed infestata da' ladroni; in guisa che a quel prudentissimo Principe
fu uopo con severe leggi darvi riparo e proccurarne sollecitamente lo
sterminio, indirizzando a tal fine quella sua costituzione a Rufino
allora P. P. d'Italia in luogo di Mamertino, a cui apparteneva ancora
tener cura di questa provincia, come dell'altre d'Italia, per la
quale costituzione[383] a' mali sì gravi di questa provincia fu dato
opportuno rimedio.

Osservasi parimente in questo Codice un'altra legge dello stesso
Valentiniano data in _Lucera_ nell'anno 365 che porta questa
soscrizione: _VIII. Kal. Octobris. Dat. Luceriae ad Rufinum (in
locum Mamertini) PF. P. Italiae_. Giacomo Gotofredo[384] suspica, che
questa Lucera non fosse quella di Puglia, ma l'altra che nella Gallia
Circumpadana, fra Milano, Verona, ed Aquileja è posta, oggi detta
_Luzara_: ma dall'argomento di quella legge, e da quanto in essa si
contiene intorno a' pascoli, per più veementi conghietture dobbiamo
creder'esser questa di Puglia, siccome quella che tiene i più ubertosi
e piani campi, che altra regione non ebbe giammai, per la pastura degli
armenti e delle gregge assai celebri e considerabilissimi presso a'
Romani, ed appo tutti i Scrittori delle cose rusticane e pastorali, e
che anche tengono il vanto presso di tutte le regioni d'Europa. Ma ciò
che sia di questo, egli è certissimo, che non minore dell'altre, fu
la cura di questa provincia appo gli altri Imperadori occidentali, a'
quali il governo dell'Italia s'apparteneva.

Era la Puglia e la Calabria ne' tempi d'Onorio molto infestata da'
Giudei, i quali licenziosamente vivendo, di non poca confusione eran
cagione, e non piccol detrimento da essi si recava alla religione
cristiana: ritrovavasi in questo medesimo tempo Prefetto P. d'Italia
_Teodoro_, uomo religiosissimo, appo il quale pari era l'abbominazione
a questa nazione, che l'amore ardentissimo verso la religione
cristiana; tanto che meritò quella stima, che della di lui persona
ebbe S. Agostino, dedicandogli quel suo libro intitolato _de vita
beata_, com'egli stesso testifica[385]. Per dare a tanti mali qualche
compenso proccurò Teodoro, che si reprimesse in questa provincia tanta
insolenza e licenziosa vita de' Giudei; onde nell'anno 398 ottenne
da Onorio quella cotanto laudevole, e non mai a bastanza celebrata
costituzione[386], colla quale fu repressa la lor insolenza ed a ben
dure condizioni gli sottopose.

Da Onorio eziandio fu a questa provincia nell'anno 413 conceduta
l'immunità e qualche indulgenza de' tributi, come si legge in una
sua costituzione[387], di cui a più opportuno luogo ragioneremo:
e non mancan ancora altre costituzioni riguardanti il governo e
retta amministrazione che gli altri Principi presero di sì vasta e
considerabile provincia, a' Prefetti d'Italia indirizzate, delle quali
secondo l'opportunità farem parola.


§. III. _Della Lucania e Bruzj, e suoi Correttori._

La Lucania stese i suoi ampj confini molto più, che oggi non si
mirano: incominciando dal fiume Silaro abbracciava non pur quel ch'ora
appellasi _Basilicata_, ma dall'altra parte si dilungava infin a
Salerno, anzi questa stessa città era dentro a' suoi confini, poichè i
Correttori della Lucania anche quivi solevano risedere. A lei in quanto
all'amministrazione furon congiunti i Bruzj, che s'estendevano oltre a
Reggio fino allo stretto siciliano nell'ultima punta d'Italia.

Erano i Lucani, e' Bruzj sotto un solo Moderatore. Il Correttore,
che dagl'Imperadori si mandava al governo di queste regioni, reggeva
con piena autorità amendue queste province. La sua dignità ancorchè
non tanta quanto quella de' Consolari, era di gran lunga superiore al
grado de' Presidi, e solamente eran dipendenti e sottoposti a' Prefetti
d'Italia, ed a' Vicarj di Roma, a' quali potea aversi ritorso.

La loro sede era collocata nella città di Reggio, capo e metropoli di
questa provincia, avvegnachè talora solessero i Correttori trasferirla
anche in Salerno nella Lucania, secondo richiedeva il bisogno de'
pubblici affari. Quindi è, che in queste due città ancor oggi si
veggano gli avanzi d'alcuni marmi, che a' Correttori erano stati
dirizzati: in Reggio nella chiesa della Cattolica si legge, ancorchè
dal tempo in qualche parte rosa, questa iscrizione.

                          CORRECTORI. LUCANIAE
                          ET. BRITTIORUM. INTE
                         GRITATIS. CONSTANTIAE
                          MODERATIONIS. ANTI-
                         STI. ORDO. POPULUSQUE
                                RHEGINUS

E nella città di Salerno in un arco, che prima era, ove oggi è il
sedile di Portaretese, vi s'osservavano alcune statue di marmo sopra le
loro basi, in una delle quali si leggevano queste parole[388].

                         ANNIO. VITTORINO, V. C
                          CORRECTORI. LUCANIAE
                           ET. BRUTIORUM. OB
                          INSIGNEM. BENEVOLEN
                        TIAM. EJUS. ORDO. POPU-
                          LUSQUE. SALERNITANUS

Solevano gl'Imperadori eziandio a questi Correttori indirizzare le loro
costituzioni, che per utilità delle province, e per dar compenso a'
disordini, che ivi nascevano, sovente eran costretti di promulgare; e
può pregiarsi questa provincia sopra l'altre, che le prime leggi, che
Costantino M. dopo sconfitto Massenzio promulgasse per Italia, fossero
quelle, che a' Correttori della Lucania, e de' Bruzj si mandarono:
tanto che a noi è più antica la memoria de' Correttori di questa
provincia, che de' Consolari della Campagna.

Il primo, che ne' primi anni dell'Imperio d'Italia di Costantino
reggesse questa provincia, fu _Claudio Plotiano_, al quale fin
dall'anno 313 poco dopo la sconfitta di Massenzio dirizzò Costantino,
stando in Treveri, quelle due costituzioni, che si leggono nel Codice
di Teodosio[389], per le quali diede nuova forma e modo alle consulte,
che solevan i Giudici dubbiosi fare all'Imperadore nelle cause de'
privati.

Succedè a Claudio nell'anno 316 _Mechilio Ilariano_, a cui da
Costantino in quest'istesso anno fu mandata quella legge, che nel
Codice di Teodosio[390] vedesi sotto il _tit. de Decur._, e che dal
nostro Giustiniano portando l'istessa iscrizione d'Ilariano Correttore
della Lucania e de' Bruzj, fu inserita nel suo Codice sotto il
medesimo titolo[391]. Ed a quest'istesso Correttore s'indirizzò l'altra
costituzione di Costantino, che si legge sotto il _tit. ad l. Corn. de
Falso_ nel Teodosiano[392].

Ad Ilariano succedè nel 319 alla dignità di Correttore di Lucania,
_Ottaviano_, al quale, risedendo egli in Reggio, dirizzò Costantino
M. la _l. 1. de Filiis Milit. apparit._ che fu letta ed accettata in
Reggio, poichè quivi era la sede de' Correttori[393].

Ma niun'altra memoria è sì chiara ed illustre, che faccia vedere in
quanta stima ed eminenza fossero i Correttori della Lucania, quanto
quella famosa e celebre costituzione di Costantino, che si legge nel
Codice di Teodosio[394] sotto il _tit. de Episcopis_, che a questo
Ottaviano Correttore nella Lucania in quest'anno 319, dirizzò; per
la quale rendè i Cherici immuni da' pesi civili, affinchè non si
distogliessero dagli ossequj delle cose sacre e divine. Costantino una
consimile legge dettata coll'istesse parole, aveva dirizzata sette
anni prima ad Anulino Proconsole dell'Affrica; e come accuratamente
notò Gotofredo, quella costituzione era simile, non però la stessa,
che poi mandossi ad Ottaviano: quella fu proferita molti anni prima,
cioè nell'anno 315 ovvero nel fine dell'anno 312; questa nell'anno 319;
quella fu indirizzata ad altro Magistrato, cioè ad Anulino: questa
ad Ottaviano; quella apparteneva ad altra parte del suo Imperio,
cioè all'Affrica, della quale allora Anulino era Proconsole; questa
alla Lucania, ed a' Bruzj, della quale Ottaviano era Correttore. Fu
tal rinomata costituzione pretermessa da Giustiniano nel suo Codice,
perchè in esso molte consimili lessi s'inserirono: ma ben dal Cardinal
Baronio[395] vien riferita, e nell'istesso anno 319 fu puntualmente
notata.

Quali fossero i Correttori di Lucania sotto l'Imperio di Costante, di
Costanzo, e di Giuliano, non vi è di loro memoria alcuna; non potendo
noi mostrare alcun editto, che da questi Principi fosse stato a costoro
indirizzato: ma non mancan però loro costituzioni spedite a' Prefetti
d'Italia, le quali mostrano quanta cura e sollecitudine avessero delle
cose d'Italia, e di questa provincia in particolare.

Ma de' Correttori della Lucania, che sotto Valentiniano ebbero il
governo e l'amministrazione di questa provincia, ben possiamo dal
lungo e profondo obblio trar fuori i loro nomi. _Artemio_ fu il primo,
quegli, di cui sovente s'incontrano memorie nell'istoria d'Ammiano
Marcellino[396]: a costui, risedendo Valentiniano in Aquileja,
indirizzossi nel 364 quella costituzione che sotto il _tit. de privil.
Apparit. Magistr._ leggiamo. E dall'iscrizione di questa legge si vede,
che quest'Artemio trasferisse sovente la sua residenza in Salerno,
poichè in Salerno fu quella letta ed accettata. A quest'Artemio stesso
furono da Valentiniano, permanendo ancora in Aquileja, indirizzate in
questo medesimo anno la _l. 6. de privileg. eor. qui in sacr. palat._,
e la _l. 21. de Cursu publico_.

Ma da niun'altra apparirà meglio la dignità e la stima appo
gl'Imperadori, de' Correttori della Lucania, e di questo Artemio,
quanto da quella costituzione[397] non abbastanza celebrata di
Valentiniano I. che sotto il _tit. de officio Rectoris Provinciae_
si vede. Fu quella, quando ancora questo Principe risedeva in
Aquileja, nell'anno 364 indirizzata ad Artemio. I più ragguardevoli
e chiari titoli, che dalla generosità e magnanimità d'alcun Principe
possono sperarsi, eran profusamente a questo Correttor della Lucania
conceduti: _Carissime nobis_: _Gravitas tua_: _Sublimitas tua_, ed
altri consimili, eran i più frequentati. A costui indirizzò quella
costituzione, nella quale inculcava ai Giudici l'integrità e la
diligenza nella spedizione delle liti: che dovessero conoscere e
deliberar nelle cause, o si trattasse della vita, o delle sostanze
degli uomini, pubblicamente e nel cospetto e sotto gli occhi di
tutti, non privatamente e ne' secreti delle case, ove davasi luogo
a' negoziati ed a' traffichi: che le sentenze una volta proferite,
dovessero pubblicarsi e leggersi al cospetto di tutti, perchè sotto gli
occhi d'ogn'uno si ponesse ciò che i Giudici faceano, e se secondo le
leggi e l'ordine della verità avesser giudicato, ovvero perversamente
e per gratificare l'una delle parti; ond'è che ne' Tribunali di questo
Regno fu sempre, ed ancor oggi dura lo stile di leggersi e pubblicarsi
le sentenze, ancorchè ridotto ora a pura cerimonia e formalità. Proibì
a cotali Giudici i pubblici spettacoli ed i giocosi trattenimenti,
acciocchè non si allontanassero e trascurassero la cura dalla pubblica
e privata utilità, e si sottraessero perciò dagli atti serj e gravi.

Sotto Valentiniano I. ancora resse la Lucania e' Bruzj _Simmaco_, che
succedè ad Artemio nel seguente anno 365. Quella costituzione[398] che
sotto il _tit. de Cursu publico_, si legge nel _C. Teod._ fu, mentre
questo Principe era in Milano, mandata a Simmaco allora Correttore
di questa provincia. Nè d'altri Correttori della Lucania più innanzi
trovasi vestigio in quel Codice, e non pur sotto questo, ma nè anche
ne' tempi degli altri Imperadori, che seguirono: poichè, se bene sotto
il _tit. de contr. empt._ si legga una costituzione[399] di Teodosio
M. che porta anche il nome di Valentiniano II. accettata e pubblicata
in Reggio nell'anno 384, ed un'altra[400] pur accettata in Reggio sotto
il _tit. de operib. publicis_, non dee però intendersi di Reggio città
posta ne' Bruzj, ma, come nota il diligentissimo Gotofredo, d'un altro
Reggio posto nell'Oriente dodici miglia lontano da Costantinopoli. Il
che si rende manifesto, non solamente perchè all'Imperio di Teodosio M.
non fu assegnata l'Italia, ma quella, essendo toccata coll'Occidente
a Valentiniano II. veniva da costui retta ed amministrata; ma ancora
perchè quelle leggi da Teodosio furono indirizzate, la prima a
_Cinegio_, l'altra a _Cesario_ amendue Prefetti P. dell'Oriente, di
cui Teodosio fu Imperadore. Ed in questo luogo non dee tralasciarsi di
notare il costume degl'Imperadori di questi tempi, i quali, ancorchè
diviso fra loro l'orbe romano, ciascuno reggesse la sua parte, nè
dell'altra s'impacciasse, con tutto ciò le leggi, che da essi ne' loro
dominj si promulgavano, portavan il nome di tutti que' Imperadori, che
allora reggevano l'Imperio, avvegnachè da uno solamente fosse stata
ordinata[401]: siccome ne' pubblici monumenti s'osserva, che quantunque
l'opera ad un solo fosse stata eretta, porta nondimeno il nome di
tutti gl'Imperadori regnanti. L'ignoranza del qual costume fu cagione
a molti Scrittori di gravissimi errori, e che le leggi d'un Principe
riferissero ad un altro; di che secondo l'opportunità se ne vedranno
gli esempj.

Occorrono ancora nello stesso Codice di Teodosio molte altre
costituzioni de' Principi, le quali (se bene non dirette a' Correttori
di questa provincia, ma o a' Prefetti d'Italia, ovvero ad altri
Magistrati) mostrano de' Lucani, e de' Bruzj aver somma cura e
providenza tenuta. Dovevano questi Popoli, come tutti gli altri di
queste province, portare il vino in Roma per provvedere all'annona
di quella città: ma come che da questa eran alquanto lontani, fu loro
conceduto, che potessero soddisfare in danaro ciò ch'essi eran tenuti
in vino[402].

Onorio concedè loro anche l'immunità de' tributi e gabelle, come si
vede da quella sua costituzione[403], che sotto il _tit. de indulg.
debit._ leggesi nel Codice di Teodosio. E fin qui sia detto abbastanza
della Lucania e de' Bruzj, e suoi Correttori.


§. IV. _Del Sannio, e suoi Presidi._

Tiene l'ultimo luogo il Sannio, provincia ancorchè assai nota ed
illustre presso agli antichi Romani per la ferocia e valore de' suoi
Popoli, e per la felicità delle lor armi, che spesso ebbero il vanto
d'abbatter quelle de' Romani stessi, non fu però decorata ne' tempi
più bassi d'altri Magistrati, che de' Presidi, inferiori in dignità a
tutti gli altri Moderatori di province. Sortì per tanto la condizione
di provincia Presidiale, e perchè rade volte solevan gli Imperadori
indirizzar le loro costituzioni a' Presidi, perciò di essi, e de'
loro nomi è a noi affatto incerta ed oscura la memoria. Varj furono
i suoi confini, secondo il variar de' tempi. Paolo Diacono la ripone
fra la Campagna, il mare Adriatico, e la Puglia; e fuvvi tempo, nel
quale abbracciava molto più di ciò ch'ora comprendon l'Abbruzzi, il
Contado di Molise, e la Valle Beneventana. Le sue più rinomate città
furon Isernia, Sepino, Theate, oggi Chieti, Venafro, Telesia, Bojano,
Afidena, e Sannio, che diede il nome all'intera provincia.

Era questa provincia, oltre del Preside, da cui immediatamente
reggevasi, sotto la disposizione e governo del Prefetto P. d'Italia,
e del Vicario di Roma. Nè fu trascurata da Valentiniano il Vecchio,
il quale, essendo pervenuto a sua notizia, che veniva infestata da'
ladroni, pensò tosto al riparo, mandando per quest'effetto al Prefetto
suddetto d'Italia quella costituzione[404], che oggi ancor si legge nel
C. Teodosiano.

Non fu eziandio trascurata da Onorio, il quale nell'anno 413 concedè
a questa provincia non mediocremente aggravata, alcun rilascio di
tributi, come dalla costituzione[405] di quest'Imperadore che dirizzata
al Prefetto suddetto d'Italia leggiamo nel Codice di Teodosio. Nè
mancan altre leggi, per le quali diedesi dagli altri Imperadori
providenza a gli affari di questa provincia, dirette a' Prefetti
d'Italia, a' quali era sottoposta.



CAPITOLO IV.

_Prima invasione de' Vestrogoti a' tempi d'Onorio._


Non sentirono queste province nel Regno di Costantino, nè degli altri
suoi sucessori, infin ad Onorio, que' mali e quelle calamità ch'avevan
già cominciato a portare i Goti nell'altre province dell'Imperio.
Questi Popoli, usciti dalla Scandinavia ne' tempi di Costantino M. e
prima ancora, vissero in comune fortuna, quantunque sotto un sol Capo
militassero, fino a _Ermanarico_, che si fece loro Re, ma morto costui,
fra di loro si divisero, e ne' tempi di Valente Imperadore, quelli, che
chiamavansi Vestrogoti s'elessero per lor Capitano _Fridigerno_, e poi
per loro Re _Atanarico_. Teodosio il Grande, amator della pace, seppe
sì ben contenergli ne' loro limiti, che con essi non pur ebbe continua
pace, ma gli ridusse in tale stato, che morto Atanarico loro Re, senza
prendersi essi cura di eleggerne un altro, tutti si sottoposero al
romano Imperio, e fecero della milizia un sol corpo, militando sotto
l'insegne di Teodosio, che gli ebbe per suoi confederati ed ausiliarj.
Ma estinto questo Principe nell'anno 395 e succeduto all'Imperio
d'Oriente Arcadio suo figliuol maggiore, e reggendosi l'Occidente
dall'altro suo figliuolo Onorio, cominciaron questi Principi,
lussuriosamente vivendo, a turbar la Repubblica, ed a togliere a'
Vestrogoti lor ausiliarj que' doni e quelli stipendj, che Teodosio lor
padre, per contenergli sotto l'Imperio romano e sotto le sue insegne,
largamente avea loro assegnati. Del che malcontenti i Vestrogoti,
e dubitando, che per sì lunga pace potesse nell'ozio snervarsi il
lor valore e fortezza, deliberarono far di presente, ciò che avean
trascurato ne' tempi di Teodosio, creandosi un Re, che fu _Alarico_,
uomo che per la sua bizzaria aveasi appo i suoi acquistato soprannome
d'_audace_; e come quegli, che traeva sua origine dall'illustre stirpe
de' _Balti_, lo riputaron abilissimo a poter con decoro e magnificenza
sostenere la regal dignità. Questi considerando, che di sua maggior
gloria e della sua nazione sarebbe stato acquistar con proprj sudori i
Regni, che viver oziosi e lenti in quelli degli altri, persuase a' suoi
di cercar nuovi paesi per conquistargli; onde raccolto, come potè il
meglio, un competente esercito, avendo superata la Pannonia, il Norico
e la Rezia, entrò in Italia, che trovatala vota di truppe ed in lungo
ozio, con molta celerità cominciò ad invaderla, e presso a Ravenna
fermossi, sede allora dell'Imperio d'Occidente[406].

Avea già Onorio, lasciato Milano, in quest'anno 402 trasferita la sua
residenza in Ravenna, da lui destinata sede dell'Imperio, acciocchè
potesse con più facilità opporsi all'irruzione, che per questa parte
solevan tentare le straniere Nazioni. Ma gli venne cotanto improviso ed
inaspettato quest'insulto degli Vestrogoti, che trovandosi sorpreso,
nè potendo con quella celerità, che sarebbe stata necessaria, ragunar
eserciti per reprimergli, fu obbligato a prestar subitamente orecchio
a' trattati di pace da Alarico offertigli, il quale se bene proccurasse
co' suoi fermarsi in Italia, nulladimeno fu accordato, che dovessero
i Goti abbandonarla, dandosi loro in iscambio l'Aquitania e le
Spagne, province quasi che perdute da Onorio; poichè da Gizerico Re
de' Vandali erano state in gran parte occupate. Consentirono i Goti,
e lasciata l'Italia, alla conquista di quelle regioni erano tutti i
loro animi rivolti; nè per questo lor primo passaggio patì l'Italia
cos'alcuna di male. Ma furon irritati da poi per gl'ingannevoli tratti
di _Stilicone_, il quale presso a Polenzia, città della Liguria,
mentr'essi a tutto altro pensavano, gli attaccò improvisamente; e
quantunque dissipati e vinti[407], nulladimeno ripreso da poi tantosto
animo e raccolti insieme, dall'inganno e dall'ingiuria stimolati,
furiosamente si rivolsero, e lasciando la destinata impresa, posero
in fuga Stilicone col suo esercito, e nella Liguria ritornati,
proseguirono a devastar con quello l'Emilia, la Flaminia, la Toscana,
e tutto ciò che altro lor veniva tra' piedi, fin a Roma trascorrendo,
ove tutto il circostante paese similmente depredarono e saccheggiarono:
alla fine entrati in Roma, la spogliarono solamente, non permettendo
Alarico che s'incendiasse, nè ch'alcuna ingiuria a' tempj si facesse.

Non pur Roma più volte, e le province sopraddette patirono questi
travagli e questi mali, ma non molto da poi l'istesse calamità
sostennero l'altre ancora, che oggi compongon il nostro regno. La
Campagna, la Puglia e la Calabria, la Lucania ed i Bruzj, ed il Sannio
soffersero lo stesso destino. Scorrevano i Goti portando in ogni parte
flagelli, e ruine, nè si fermarono se non arrivati nell'ultima punta
d'Italia, ove trattenuti dallo stretto Siciliano, ne' Bruzj posero la
lor sede: e quivi mentre a nuove imprese della Sicilia, e dell'Affrica
si dispone Alarico, essendosi in quello stretto naufragate le navi, che
per ciò aveva disposte, dall'avversità di sì funesto accidente toccato
amaramente nell'animo, finì suoi giorni con morte immatura presso a
Cosenza, e non mai abbastanza pianto da' suoi, fu nel fondo del fiume
Busento con molte ricchezze depredate in Roma seppellito[408].

La morte d'Alarico fu cagione, che le cose d'Italia, e di queste
nostre province, ripigliando sotto l'imperio dello stesso Onorio
qualche tranquillità, assai pacifiche ritornassero: poichè se bene
_Ataulfo_[409], che ad Alarico suo parente succedè, ritornato in
Roma, avesse a guisa delle locuste raso ciò che in quella città
dopo le tante prede e saccheggiamenti era restato ed avesse da capo
miseramente spogliata l'Italia, ed Onorio esausto di forze non potesse
contrastargli; nientedimeno, essendosi da poi Ataulfo congiunto in
matrimonio con Galla Placidia sorella d'Onorio, potè tanto l'amor,
che portava a questa Principessa, ed il vincolo del nuovo parentado
appresso lui, che racchetatosi con Onorio, tutta libera lasciogli
l'Italia, ed egli co' suoi nelle Gallie fece ritorno, contro a' Franchi
ed a' Borgognoni, che quelle infestavano, portando le sue armi; donde
si gittarono in quelle regioni i primi semi del loro Reame, imperocchè
dopo la morte d'Ataulfo ed indi a poco di _Rigerico_, essendo succeduto
_Vallia_, gli fu da Onorio stabilmente assegnata l'Aquitania con
molt'altre città della provincia di Narbona, ove fermata la residenza
in Tolosa, si dissero Re de' _Vestrogoti_, cioè de' Goti Occidentali,
a differenza degli _Ostrogoti_, che le parti orientali, e l'Italia da
poi signoreggiarono, come più innanzi diremo.

Onorio adunque, morto Alarico e purgata di Goti l'Italia, per la pace
indi fatta con Ataulfo, volendo ristorar de' passati danni queste
province, nell'anno 413 promulgò quella costituzione[410], ch'oggi
ancor leggiamo nel C. di Teodosio. Erano la Campagna, la Toscana,
il Piceno, il Sannio, la Puglia e la Calabria, la Lucania e' Bruzj,
in istato pur troppo lagrimevole ridotte, e perciò risedendo egli
in Ravenna, sede allora dell'Imperio d'Occidente, dirizzò a Giovanni
Prefetto P. d'Italia quella legge, nella quale a tutte queste province
concedè indulgenza di non potere i suoi provinciali esser astretti a
pagare interamente i tributi, ma contentossi, che pagando solamente
la quinta parte di ciò, ch'essi solevano, tutto il resto lor si
rimettesse.

Nè minore ne' seguenti anni fu la cura, che prese Onorio di queste
province; poichè risedendo, come si disse, in Ravenna, molte leggi per
la buona amministrazione di esse promulgò. Sua parimente fu quella data
in Ravenna[411]; per cui passato il decennio si tolse a' testamenti
ogni vigore, la qual oggi pur abbiamo nel Codice di Giustiniano.
E nell'anno 418 nuovo indulto di tributi concedè alla Campagna, al
Piceno, ed alla Toscana; e sinchè visse al riparo delle cose d'Italia
fu tutto inteso e pronto.

Ma essendo egli in Ravenna, nell'anno 423 finì i giorni suoi; onde
Teodosio il Giovane, che nell'Imperio d'Oriente era succeduto ad
Arcadio suo padre[412], quantunque per breve tempo avesse e' solo
governato l'Imperio, fece tantosto dichiarar Augusto, ed Imperador
d'Occidente Valentiniano III. figliuolo di Costanzo, e di Placidia,
la quale dopo la morte d'Ataulfo, restituita ad Onorio, a Costanzo
fu sposata. Valentiniano portatosi in Ravenna, ed indi a poco in
Roma, rassettò molte cose di quella città, e a dar riparo alla
giurisprudenza, ne' suoi tempi già caduta dall'antico splendore, pose
ogni cura; mentre nello stesso tempo Teodosio pensava in Oriente a
ristabilirla nell'Accademia di Costantinopoli; ed alla fabbrica del
nuovo Codice, che dal di lui nome fu detto Teodosiano, avea rivolti i
suoi pensieri.

Questo fu dunque lo stato delle province ch'oggi forman il nostro
Regno, da' tempi di Costantino fino a Valentiniano III., ne' quali
tempi furon dominate da quelli Cesari, a' quali, secondo le varie
divisioni dell'Imperio, l'Italia appartenne: questi sono Costantino M.,
Costante e Costanzo suoi figliuoli, Giuliano, Gioviniano, Valentiniano
I., Valentiniano II., Onorio e Valentiniano III. Furono parimente sotto
la disposizione e governo de' Prefetti d'Italia, e de' Vicarj di Roma.
Ed ebbero in oltre altri più immediati Moderatori: un Consolare, due
Correttori, ed un Preside, da' quali, risedendo nelle province a loro
commesse, eran più da presso rette e governate.

Secondo le leggi romane, e le costituzioni di questi Principi venivan
amministrate; nè il nome d'altre leggi s'udiva. Toltone alcune città,
nelle quali essendo ancor rimaso qualche vestigio dell'antiche ragioni
di Municipio e di Città Confederata, conforme a' loro particolari
istituti si vivea; in ogni provincia non si riconobbero altre leggi,
che quelle de' Romani, alle quali solevan quest'istesse città in
mancanza delle loro municipali, aver ricorso, siccome a' fonti d'ogni
umana e divina ragione. Nè quel primo turbamento, che sotto Alarico
portarono i Vestrogoti a queste nostre province, recò verun oltraggio
alla politia ed alle leggi de' Romani; poichè questo Principe in mezzo
all'armi non potè pensare alle leggi; non fece, che scorrere queste
regioni; e quantunque per qualche tempo si fosse fermato ne' Bruzj,
nuove leggi da lui non furon introdotte. Nè tampoco dopo lui, dal suo
successore Ataulfo, il quale pacificatosi finalmente con Onorio, tutta
libera lasciò a costui l'Italia, la quale egli poscia, e Valentiniano
III. resse ed amministrò, come avean fatto gli altr'Imperadori
d'Occidente loro predecessori.


§. I. _Non furono queste province ad altri cedute, o donate._

Nella considerazione delle quali cose se si fossero pur un poco
fermati i Scrittori di questo Regno, e massimamente i nostri
Giureconsulti, non sarebbon certamente incorsi in quelli così gravi
e sconci errori de' quali han riempiuti i lor volumi: nè cotanto
leggiermente sarebbonsi lasciati persuadere a creder quella favolosa
donazione di tutt'Italia, che voglion supponere fatta da Costantino
nell'anno 324 a Silvestro romano Pontefice, quattro giorni da
poi, che fu da costui in Roma battezzato. Errore, che sparso negli
Scrittori italiani, e più ne' libri de' nostri Professori, toltone
un solo Bartolo, fu cagione d'infiniti altri abbagliamenti, anche in
cose di più perniziose conseguenze: imperciocchè alcuni di essi si
son avanzati fino a porre in istampa, che dopo questa donazione gli
altr'Imperadori succeduti a Costantino non ebbero ragione, o diritto
alcuno sopra queste nostre province, come quelle che s'appartenevano
a' Pontefici romani ed erano del patrimonio di San Pietro: e quindi
esser nata la ragione dell'investiture date poi da essi ad altri
diversi Principi: aggiugnendo che fin da tali tempi il nostro Regno
fosse stato distaccato dall'Imperio, e perciò non mai più sottoposto a
gl'Imperatori d'Occidente, e molto meno a quelli d'Oriente. Il nostro
Consigliere Matteo degli Afflitti[413] arrivò a tal estremità, che
non si sgomentò di dire, che dopo questa donazione, tutte l'altre
costituzioni promulgate dagli altr'Imperadori succeduti a Costantino,
per difetto di potestà, non ebbero in queste nostre province forza,
nè vigor alcuno di legge scritta. I Reggenti[414] stessi del nostro
C. Collaterale non arrossiron eziandio di scrivere, che dopo questa
donazione, i successori di Costantino non ebbero giurisdizione alcuna
di far leggi sopra queste province, e che perciò dovea ricorrersi
alla ragion canonica, e non alla civile. Merita pertanto che qui
non si defraudi della meritata lode Marino Freccia[415] nostro
Giureconsulto; egli, fra' nostri fu il primo, che per avere avuto buon
gusto dell'istoria, rimproverò a' nostri Scrittori error sì grave:
nè 'l perdonò tampoco al Consigliero Afflitto, di cui professava
esser congiunto per affinità: nè con altra difesa seppe di tal errore
scusarlo, se non col dire, _affinis meus historicus non est_.

Ma se questi Scrittori per l'ignoranza de' tempi, ne' quali vissero,
meritan qualche scusa, e a loro non già, ma al vizio del secolo si
volessero questi difetti imputare: non meritano però compatimento
veruno i nostri moderni, i quali dopo tante riprove, dilettansi per
impegno tener chiusi gli occhi, acciocchè non ricevan un poco di lume,
che tanto basterebbe per isgombrare le lor tenebre, nelle quali si
compiaccion di vivere. È oggi mai stato dimostrato abbastanza per tanti
chiari e valent'uomini[416], che quel finto istromento di donazione fu
opera, che non sorse prima dell'ottavo, o nono secolo, come che da poi
siasi proccurato di farlo anche inserire ne' decreti di Graziano[417],
quando negli antichi, secondo attestano S. Antonino[418], ed il
Cardinal Cusano[419], non si leggeva: nè prima di quel tempo s'ebbe di
lui notizia alcuna: ora disputasi solamente fra' Scrittori, qual abbia
potuto essere l'Autore, che da prima diede corpo e moto a questa larva.
Alcuni contendono, che fosse stata opera di qualche greco Scismatico,
il quale, o per rifondere tutta la grandezza della Chiesa in Roma
agl'Imperadori d'Oriente, ovvero per aver campo da declamare e burlarsi
della Chiesa latina e de' romani Pontefici, secondo il costume della
nazione a quelli avversissima, avesse proccurato, coll'iscovrimento
poi di cotal falsa invenzione, di discreditargli e rendergli odiosi
al Mondo; siccome imputavan ad essi parimente molt'altri fatti strani
e portentosi, eccedenti la lor potestà. E conforme nel progresso di
quest'Istoria vedremo, i Greci di Gregorio II. scrissero, ch'avesse
scomunicato l'Imperador Lione, depostolo dall'Imperio, ordinato a'
sudditi di non pagargli tributi, e perciò assolutigli dal giuramento,
e mille altri eccessi narrati nelle loro storie, non per altro, che
per rendergli esosi e per mostrargli al Mondo usurpatori dell'altrui
ragioni; ancorchè poi i più impegnati per la Corte di Roma, di ciò che
i Greci scrissero per un fine, se ne valessero per un altro.

Altri, fra i quali è Pietro di Marca[420], scrissero, che
quell'istrumento fosse stato finto e supposto non già da alcun Greco,
o Scismatico, ma da Latino e Fedele: tutti però concordano esser
favoloso; e tanto più se ne persuasero, quanto che molti esemplari
veggonsene tutti infra loro varj e difformi. D'una maniera si legge
questa donazione nel decreto di Graziano[421]: di un'altra è quella
trasferita dal greco in latino, rapportata da Teodoro Balsamone[422],
e trovata nella libreria Vaticana: di diverso tenore la riferiscono
l'istessi R. Pontefici, Nicolò III. e Lione IX.[423]; d'altro modo
Pier Damiano[424], Matteo Blastare, Ivone di Chartres, e Francesco
Burfatto[425]: ed altrimente la rapporta Alberico[426]: in brieve
sin a dodici, e più esemplari se ne leggon tutti infra loro varj e
differenti.

Ma se a cotali rapportatori furon ignoti i fatti di Costantino, e
niente curaron d'Eusebio e degli altri Scrittori contemporanei, appo i
quali d'un fatto sì strepitoso e grande evvi un profondissimo silenzio;
almeno avrebbon dovuto disingannarsi dal solo Codice Teodosiano, e
dalle costituzioni dello stesso Costantino, che in quello si leggono.
Voglion comunemente costoro, che Costantino mentr'era in Roma nella
primavera di quest'anno 324 avesse usata questa cotanta prodigalità
con Silvestro, quattro giorni dopo il suo battesimo: ma certa ed
indubitata cosa è, che Costantino in questi stessi supposti mesi del
324 mai in Roma non fu siccome colui, che di quel tempo trovavasi in
Oriente tutto occupato nella guerra contra Licinio; la quale terminata
con averlo sconfitto, e riportatane piena vittoria, è noto altresì,
che passato in Tessalonica quivi si fermasse, ed in questi stessi mesi
appunto di quest'istess'anno 324 non partissi da quella città[427]: il
che manifestamente si prova per due sue costituzioni, che nel suddetto
Codice Teodosiano ancor si leggono: ciò sono per la _l_. 4. sotto
il _tit. de Naviculariis_, la quale fu promulgata da Costantino in
quest'istesso tempo mentre era in Tessalonica, e dirizzata ad Elpidio,
sotto il Consolato di Costantino III. e Crispo III. che porta questa
data: _Dat. VIII. Id. Mart. Thessalonicae. Crispo III. et Constantino
III_. Coss. e per quell'altra sua famosa costituzione[428] ove si
prescrive la norma delle dispense dall'età così a maschi, come a
femmine, che alquanto guasta e tronca fu inserita anche da Triboniano
nel Codice di Giustiniano[429]. Questa legge Costantino la fece quando
in quest'istesso anno 324 era in Tessalonica, come narra Zosimo[430]
e porta la sua data: _Dat. VI. Id. Aprilis Thessalonicae, Crispo III.
et Constantino III. Coss_. come emenda Gotofredo: e fu indirizzata
a Lucrio Verino, il quale in quest'anno era Prefetto della città di
Roma, com'è manifesto dalle parole della _Notizia_ de Prefetti di Roma,
ove si legge _Crispo III. et Constantino III. Coss. Lucr. Verinus
Praefectus Urbi_: ond'è che scorrettamente si legga l'iscrizione di
questa legge nel Codice di Giustiniano: _ad Verinum P. Praetorio_.

Queste leggi convincono per favolosa non meno questa donazione, che
il battesimo di Costantino per mano del Pontefice Silvestro[431].
Nè dovean altri moversi per gli atti di questo Pontefice, i quali
dallo stesso Baronio non sono ricevuti, ma riputati per favolosi:
e favola certamente è ciò, che in essi si narra, che in quest'anno
324 fosse stato Prefetto di Roma Calfurnio, quando dalle date delle
riferite leggi è manifesto, che fu Prefetto di quella città Lucrio
Verino. Dovea più tosto movergli l'istoria d'Eusebio di Cesarea[432]
uom grave ed ingenuo, che fiorì ne' medesimi tempi e che i gesti
di questo Principe minutamente descrisse: e dove fatti sì grandi
e memorabili, se fossero veramente accaduti, egli non è credibile,
che dalla diligenza ed accuratezza di sì fatt'uomo si fossero potuti
tralasciare e trascurargli in un'istoria, che pochi anni dopo la morte
di Costantino fu pubblicata alla luce del Mondo, e girava fra le mani
di tutti, i quali con molto scorno e biasimo d'Eusebio avrebbon allora
potuto rinfacciargli tant'ignoranza, e smentirlo ancora di ciò, ch'avea
narrato d'essersi Costantino battezzato in Nicomedia negli ultimi
giorni di sua vita, non già in Roma.

Ma di ciò, ch'ora alcuni dubitano, non ne dubitaron certamente gli
antichi Scrittori così greci, come latini. Teodoreto, Sozomeno,
Socrate, Fozio, ed altri greci Autori scrissero[433], Costantino aver
ricevuto il battesimo non già per le mani di Papa Silvestro in Roma,
ma in Nicomedia, essendo per morire: e fra' Latini, S. Ambrogio, S.
Girolamo, il Concilio d'Arimini pur tennero la medesima credenza[434].
Quindi è che i nostri più gravi e dotti Teologi, ed i più diligenti
Scrittori ecclesiastici, quali furon il Cardinal di Perrone, Spondano,
Petavio, Morino, e l'incomparabile Arnaldo[435] contra il sentimento
del Baronio, come favoloso riputarono ciò, che volgarmente si crede
del battesimo di Costantino finto in Roma per mano di Silvestro romano
Pontefice in quest'anno 324 quattro giorni prima della favolosa
donazione. Ciò che dovea bastare ad Emanuello Schelstrate[436], e
non ricorrere, come fece, a quella strana ed infelice difesa, che
Costantino battezzato già in Roma, fu da Eusebio fatto ribattezzare
in Nicomedia; poichè anche se si volesse concedere, che Costantino
nell'ultimo di sua vita inchinasse alla dottrina d'Arrio, e de' suoi
seguaci; non avevano però gli Arriani, in questi primi tempi del lor
errore, usato mai di ribattezzare i Cattolici, che passavano nella
loro credenza, come ben pruova Cristiano Lupo: nè se non molto da poi
S. Agostino[437] intese tal novità, che alcuni Arriani pretendevan di
fare, di che egli, come di cosa assai stravagante e nuova, cotanto si
maravigliava e biasimava.

Nè dovrà sembrar cosa strana (quantunque questo sia uscire alquanto
dal nostro cammino) che Costantino, cotanto zelante della cristiana
religione, e che nell'anno seguente 325 volle esser presente al gran
Concilio di Nicea, ove diede l'ultime prove della sua pietà, operasse,
essendo ancor Catecumeno, tanti pietosi e generosi atti verso questa
sua novella religione. Niuna stranezza apparirà se si distingueranno i
tempi, ne' quali Costantino abbracciò questa religione, da quelli del
suo battesimo; e se si considererà il costume, che correva allora tra'
Grandi di differire il battesimo fin al tempo della lor morte.

Costantino non molto dopo la sconfitta di Mazenzio, assai prima
dell'anno 324 in cui si narra il suo battesimo in Roma, avea
abbracciata la religion nostra, dando segni manifestissimi di se, e
del suo amore e beneficenza inverso di quella. Prima di quest'anno
324 molte costituzioni aveva promulgate attinenti o all'immunità de'
Cherici da' pesi civili, o alla costruttura de' suoi tempj, o alla
destruzione ed abbattimento di quelli de' Gentili; ed eziandio quella
cotanto rinomata sua costituzione[438], per la quale fu conceduta
licenza alle Chiesa di potere acquistare robe stabili, ed a tutti
data libertà di poter lasciare a quelle nei loro testamenti ciò che
volevano, onde nacque il principio delle loro ricchezze, e massimamente
della Chiesa di Roma sopra ogn'altra, non fu altrimente promulgata
da poi, ma tre anni innanzi, che seguisse in Roma questo favoloso
battesimo. Non dee adunque sembrar cosa strana, se negli anni seguenti
ancor Catecumeno, proseguisse con tenor costante a favorirla, e di
tante prerogative e pregi adornarla.

Era ancor in questi tempi costume, come s'è accennato, che i maggiori
e più illustri personaggi dell'Imperio, ancorchè abbracciassero questa
religione solevan però per pessima usanza differire il battesimo fino
a' maggiori loro pericoli di vita, e quando s'esponevan a qualche
dubbia e perigliosa impresa. Nè tal costume si spense ne' tempi di
Costantino, o de' suoi figliuoli, ma durò molto da poi anche nel regno
degli altri suoi successori, quantunque vi fossero dei Principi per
altro religiosissimi. Così leggiamo di Teodosio il Grande, il qual
ancorchè abbracciasse la religione cristiana e chiari segni della
sua pietà mostrasse, visse però sempre Catecumeno, e non prima volle
battezzarsi, se non quando gravemente infermato in Tessalonica l'anno
380, vedendosi in pericolo, fece chiamare a se il Santo Vescovo Acolio,
da cui fu battezzato, e non meno la salute dell'anima, che quella del
corpo recuperò[439].

Valentiniano II. Principe, di cui soleva dirsi, che siccome tutto
il male nel suo Regno a Giustina sua madre dovea attribuirsi, così a
lui tutto il bene, come ben si conobbe dopo la costei morte; essendo
ancor Catecumeno, non prima, che quando fu nel procinto d'andare a
combatter co' Barbari, sollecitò S. Ambrogio a venire prestamente
a battezzarlo. Ma mentre quel santo Vescovo traversava l'Alpi per
rendersi a Vienna, ove questo Principe dimorava, intese la sua funesta
morte: poichè Arbogasto mal contento d'essergli da lui stato tolto
il comando dell'esercito, guadagnatosi alcuni suoi Ufficiali, e gli
eunuchi del palazzo, lo fece strangolar nel proprio letto mentre
dormiva la notte del Sabato a' 15 Maggio dell'anno 392, vigilia di
Pentecoste. Il qual funesto accidente meritò esser compianto per una
dotta e molto elegante orazion funebre di quel Vescovo[440], che recitò
nelle di lui magnifiche e pompose esequie: nella quale mostrò, che il
battesimo desiderato da questo Principe, e domandato con tant'ardore,
avealo purificato di tutte le macchie de' suoi peccati, e portatolo al
godimento delle delizie d'una vita eterna.

È nota parimente l'istoria di S. Ambrogio stesso, a cui non prima,
che fosse promosso al Vescovato di Milano, fu dato il battesimo. E
narrasi ancora di quel famoso e celebre _Benevolo_ primo Cancelliere
dell'Imperadrice Giustina, che per non istromentar quell'editto, per
cui davasi licenza agli Arriani di professar liberamente il lor errore,
fece quel sì generoso e nobil rifiuto, e ritiratosi dalla Corte,
volle allora ricevere il battesimo, ch'avea, secondo il costume dei
grandi, agli ultimi tempi differito: e molti altri esempj potrebbon qui
recarsi, tratti dalle profane e sacre storie. E di questo costume è da
credersi, che intendesse il nostro Torquato[441], e che fosse ancor in
Etiopia nel Regno di Senapo, allorchè favoleggiando di Clorinda e del
suo differito battesimo cantò:

    _A me, che le fui servo, e con sincera_
    _Mente l'amai, ti diè non battezata;_
    _Nè già poteva allor battesmo darti,_
    _Che l'uso nol sostien di quelle parti._

Credevasi, che differendosi il battesimo fin agli ultimi momenti di
vita, venivan perciò a sfuggirsi i cotanti rigori delle pubbliche
penitenze, che di que' tempi usava la Chiesa co' Cristiani penitenti: e
che fosse di maggior accertamento per la lor salute eterna prolungarlo,
poichè potendo ciascuno esser ministro di questo Sacramento, eziandio
l'Infedele, il Neofito, ed ogni vil femminetta, ed essendo la sua
materia sempre presta, qual è l'acqua, e la sua forma molto spedita e
facile, consistendo in poche e semplici parole: rado, o non mai al più
disgraziato e sfortunato uomo del Mondo potrebbe accader morte così
improvisa, che non vi fosse un poco di tempo da poter esser tocco da
sì salutifere acque, le quali in un istante per gl'infiniti meriti
di Cristo, rendendolo mondo di tutte le sozzure in questa mortal
vita contratte, lo sbalzavan con certezza nella felicità d'un'altra
immortale ed eterna.

Ma avvedutisi da poi, che per un sì reo costume si dava occasione a
gli uomini di menare una vita licenziosa e prona ad ogni enormità e
scelleratezza: e fatti ancora dall'esperienza accorti, che molti così
ne morivano, come vissero; e che sovente il caso potea esser così
improviso, che mancassero questi ajuti, nel che terribile dovette
sembrar loro il funesto accidente di Valentiniano; cominciaron per
tanto i Padri della Chiesa a declamare contro a questa perniziosa
usanza: onde Basilio, col suo fratello Gregorio[442] di Nizza, fecero
tutti i loro sforzi in questo medesimo secolo, per abolire cotal
pericoloso costume; e S. Ambrogio, che l'avea seguito, dopo aver
compianto il suo infortunio, si diede a combatterlo, e fece quanto
potè per isradicarlo, declamando spesse volte e fortissimamente
contra questo abuso[443]; tanto che alla fine fu dalla Chiesa affatto
discacciato, nè giammai più tollerato, onde oggi il suo contrario
lodevolmente si pratica.

Ma ritornando là, onde siam partiti, queste nostre province nel Regno
di Costantino, ad altri non furon sottoposte, nè donate. Da questo
medesimo Principe dopo l'anno 324 come prima, e finchè visse furon
dominate e rette, egli n'ebbe la cura ed il pensiero, commettendo
a' Prefetti d'Italia, a' Consolari, a' Correttori, ed a' Presidi il
governo ed amministrazione di quelle; e moltissime leggi a costoro
dirette stabilì, per le quali furon molti provedimenti dati intorno
alla retta lor amministrazione. Così spedito che fu Costantino dal
Concilio Niceno, e dagli affari d'Oriente, tornò nell'anno seguente
326 per la Pannonia in Italia, ed in Aquileja fermossi; ove nel mese
d'Aprile di quest'anno promulgò alcune costituzioni[444]; indi passato
in Milano, ne promulgò dell'altre[445] nel mese di Luglio; e finalmente
nello stesso mese venuto per l'ultima volta a Roma, lungo tempo vi si
trattenne con Elena sua madre, la quale in questo medesimo anno 326 del
mese d'Agosto tra gli abbracciamenti del figliuolo, e de' nipoti quivi
trapassò e fu sepolta[446]. In questo anno stesso molte leggi[447] in
Roma furon da Costantino promulgate intorno all'annona della medesima
città; e per altre bisogne di queste province d'Italia molte cose
furon da questo Principe stabilite, infino che tornato in Oriente, al
ristabilimento del nuovo Imperio, e di Costantinopoli volse ogni suo
pensiero.

Ma non per questo si trascurarono le cose d'Occidente, e di queste
nostre province, le quali commesse a' Prefetti d'Italia, e più
immediatamente a' Consolari, Correttori e Presidi, furon così
da Costantino, come dagli altri Principi suoi successori fino a
Valentiniano III. come si è veduto, rette e dominate: tanto è lontano,
che altri avessero avuto sopra di quelle diritto, o superiorità alcuna.

Favola dunque dee riputarsi ciò, che di Napoli a questo proposito si
narra, ch'essendo in questi tempi dentro a' confini della Campagna, ed
al Consolare d'essa provincia sottoposta, fosse stata da tal donazione
solamente eccettuata, essendo piaciuto a Costantino per se ritenerla,
per quella graziosa cagione, che dovendo fare frequenti e spessi
viaggi da Roma alle parti orientali oltramarine volesse serbarsi una
città, nella quale potesse tra via fermars'un poco, e dagli incomodi
e strapazzi del viaggio ristorarsi. Più favolosi ancora sono e più
inetti gli altri racconti de' viaggi fatti da questo Principe con Papa
Silvestro in Napoli: e quel che più degno si fa di riso è, ch'entrambi
si fossero imbarcati nel porto di questa città, ed andati insieme in
Nicea metropoli della Bittinia, e quivi fossero intervenuti a quel
gran Concilio: e ritornando poscia Costantino in Italia nell'anno 326
si fosse fermato in Napoli, ove fu di nuovo accolto dalla Repubblica
napoletana con grandissimi segni di stima e di giubilo; e che avesse
quivi tante chiese edificate, e cento altre seccaggini, delle quali
hanno sin al vomito ripieni i lor volumi: tanto che coloro, che
considerano sì favolosi racconti, e che questo Principe nel passare
in Italia, non per altra strada vi si conducea, che per la Pannonia;
e che se pur voleva di Roma portarsi nelle parti orientali per viaggi
marittimi, avea pronta e spedita la via Appia, che fu continuata
fin a Brindisi, ove potea con più agio imbarcarsi; tantochè il P.
Caracciolo[448], il quale ci vuol render verisimile lo sbarco di S.
Pietro a Brindisi, non per altra cagione si mosse a crederlo, se non
perchè questa era la strada più battuta da coloro, i quali per viaggi
marittimi volean o da Roma portarsi in Oriente, o quindi a Roma, per
queste cagioni ragionevolmente dubitano, se mai Costantino avesse
veduta Napoli, tanto è lontano, che quivi fosse dimorato, e tante
chiese avessevi edificate, come se non per altra cagione, che per
fondarvi tempj sacri egli vi si conducesse[449]; quando al contrario,
qualche vestigio di greca struttura, che vediamo ancor rimaso in alcune
chiese di questa città, non all'età di Costantino M. dee riportarsi,
ma a' tempi più bassi degli altri Costantini Imperadori d'Oriente
verso gli ultimi tempi de' Greci, quando il Ducato napoletano era
a gl'Imperadori Greci sottoposto: di che ci tornerà occasione a più
opportuno luogo di ragionare. Ed il P. Caracciolo[450] stesso non potè
negare, che molte Chiese, le quali s'attribuiscono a Costantino M.
fossero state erette in Napoli da altri in tempi posteriori; ancorchè
persuaso egli, che questo Imperadore fosse stato con Elena sua madre
in Napoli, abbia creduto, che quella di S. Restituta, e l'altra de SS.
Apostoli fossero state da lui edificate: ciò che non potendo provare
colla testimonianza d'Autori contemporanei, ricorre alla tradizione, e
ad Anastasio, ed a gli altri Scrittori dei tempi più bassi[451].



CAPITOLO V.

_Delle nuove leggi, e nuova giurisprudenza sotto Costantino, e suoi
successori._


La nuova disposizione dell'Imperio di Costantino, siccome portò tante
mutazioni nello stato civile delle sue province, così ancora all'antica
giurisprudenza de' Romani fu cagione di varj cambiamenti. Cominciò
quella a prender nuova forma e nuovi aspetti, dappoichè cominciaron da
lui le nuove leggi, ponendo tutto il suo studio a cancellar l'antiche
ed introdurre nuovi costumi nell'Imperio: quindi è, che Giuliano soleva
chiamarlo _Novatore_ e perturbatore dell'antiche leggi e costumi[452]:
ecco per lui mutati i giudizj, ed abolite l'antiche formole, e nuovi
modi d'instruirgli introdotti. I Magistrati prendon altro nome, e se
talora si ritiene l'antico, diversa però è la loro giurisdizione e
vario l'impiego; s'introducono nuove dignità, e differenti veggonsi non
pur gli Ufficiali del palazzo, ma della Milizia ancora: varie fra essi
e nuove sono le precedenze; onde avvenne, che nuovi nomi e nuovi titoli
attenenti alla loro giurisdizione ed autorità si leggano nel Codice di
Teodosio[453].

Ma per niun'altra più potente cagione si recò alla giurisprudenza
antica de' Romani tanto cambiamento, quanto che per la veneranda
religione cristiana, che abbracciata con tanto ardore da Costantino,
lo rendè tutto inchinato e desideroso di stabilir nuove leggi, le
quali secondo le massime di questa nuova religione dovettero essere
alquanto contrarie e difformi da quelle de' Gentili. Fu egli imprima
tutto inteso a mutare i costumi de' Romani e la lor antica religione: a
questo fine promulgò molti editti al Popolo romano indirizzati, ed a'
Prefetti di quella città, ed in tutti que' quattr'anni, che dimorò in
Roma, cioè dall'anno 319 fin all'anno 322 non ad altro attese: proibì
in Roma, che fu la città più attaccata alle superstizioni dell'antica
religione, che gli Aruspici potessero privatamente presagire de'
futuri avvenimenti, ancorchè in pubblico il permettesse: che i padroni
non potessero valersi della potestà, ch'aveano sopra i servi, se non
moderatamente e con sommo ritegno[454]; e ciò secondo le massime della
nuova religione, e per quel ch'esageravano i Padri della Chiesa, fra
i quali era Lattanzio, che non inculcava altro, se non che i servi,
come fratelli dovessero trattarsi da' loro Signori. Nuovi modi di
manumissioni introdusse nelle Chiese; perchè a costoro fosse più
agevole, e pronto l'acquisto della libertà[455]. Diede nuovo sistema a'
repudj, agli sponsali, ed a' matrimonj[456]; represse la leggerezza de'
divorzj e stabilì con più tenace nodo la santità degli sponsali e delle
nozze. Abolì le pene del celibato[457], e scosse altri pesanti gioghi,
che l'antica legge romana su la cervice degli uomini avea imposto[458].

Seguendo i dettami di questa nuova religione, fu terribile co' rapitori
delle vergini, e con coloro che disprezzando la santità delle nozze
si dilettavano di Venere vaga[459]; pose freno al concubinato, contro
al quale già prima avea cotanto declamato e scritto Lattanzio[460].
Vietò qualsivoglia opera nel dì di Domenica, e secondo il nuovo rito
della Chiesa, rendè feriati altri giorni, che prima non erano[461].
Volle che per qualunque formole o parole, che nelle chiese si facessero
le manumissioni, s'acquistasse a' manumessi piena libertà[462].
Concedè a tutti licenza, che liberamente potessero lasciare alle
chiese per testamento ciò, ch'essi volessero[463]: ed oltre di prender
lodevolmente la cura e la protezione della Chiesa, e de' suoi canoni,
volle anche intrigarsi, più di quel che forse comportava la dignità sua
imperiale, nelle quistioni sorte fra i Padri d'essa: onde rendè perciò
le contese più strepitose, e si diede maggior fomento alle discordie
e contenzioni, che non si sarebbe fatto, se quelle dispute a coloro
si fossero interamente lasciate, a' quali bene stavano: nè si sarebbe
veduta la Chiesa poco dappoi ardere fra l'accese faci degli Arriani,
che così la malmenarono; ma forse si sarebbe mantenuta con quella
schiettezza e simplicità, colla quale si mantenne in que' tre primi
secoli, e nella quale Cristo Redentor nostro l'avea lasciata.

Reputò a lui doversi appartenere il governo, e la politia esteriore
della Chiesa: perciò molte leggi attinenti a questo furon da lui
promulgate, vietando ai benestanti, ed a coloro ch'erano idonei
per l'amministrazione de' pubblici Ufficj, di poter assumere il
Chericato, permettendolo solamente ad uomini di tenue fortuna e di
bassa condizione[464]; e diede inoltre altri provvedimenti intorn'alle
persone e beni delle chiese. Quindi avvenne, che gli altr'Imperadori
a lui succeduti nell'Imperio e nella medesima religione, seguitando
le stesse pedate, varie altre costituzioni aggiugnessero appartenenti
alla politia esteriore della Chiesa, ed alle persone de' Vescovi e de'
Cherici, ed all'amministrazione e governo de' loro beni. E quantunque
di Valentiniano I. scriva Sozomeno[465], che poco s'impacciò di queste
cose, niente imponendo a' Sacerdoti, nè fu studioso di mutar nulla
di meglio, o di peggio nell'osservanze della Chiesa; contuttociò pur
si leggono nel Codice di Teodosio alcune sue costituzioni riguardanti
alla sua politia, e particolarmente intorno all'elezion de' Cherici,
e degli altri Ministri della Chiesa. Ma moltissime altre costituzioni
aggiunsero da poi tutti gli altri suoi successori, Valentiniano II,
Teodosio, Graziano, Arcadio, Onorio, e gli altri: tantocchè nei
tempi di Teodosio il Giovane, di queste leggi ne fu compilato un
intero libro, ch'è l'ultimo di quel suo Codice: e si vide perciò la
giurisprudenza romana per quella parte, che s'apparteneva alla ragion
divina, e pontificia, tutta diversa da quel di prima, ed affatto nuova,
e da quella difforme. Il qual istituto essendosi da poi continuato
dagli altri Imperadori, e particolarmente dal nostro Giustiniano,
cadde finalmente negli ultimi Imperadori d'Oriente, i quali abusando
la loro potestà, ridussero negli ultimi secoli dell'Imperio la cosa
in tale stato, che all'arbitrio del Principe sottomisero interamente
la religione: per la qual cosa fu da valentuomini[466] saviamente
avvertito, esser error grave di coloro, che dalle costituzioni novelle
di questi ultimi Imperadori vogliono prendere una sicura norma per
porre i giusti confini fra il Sacerdozio e l'Imperio, e fra l'una e
l'altra potestà: ma di ciò più diffusamente ci toccherà ragionare,
quando della politia ecclesiastica di questi tempi tratteremo.

Il zelo adunque della nostra religione, direttamente opposta a
quell'antica de Gentili, impresso nel cuore d'un Principe, a cui
ubbidiva l'uno e l'altro Imperio, potè variare i costumi, le leggi, e
gl'instituti degli uomini. Questo non solamente gli fece pensare alla
costruttura di nuovi tempj, ed all'abbattimento degli antichi, ma ciò,
che fra le leggi loro sembravagli o troppo superstizioso, o soverchio
sottile, mutava egli e cancellava: di che chiarissima testimonianza
ne danno le molte sue costituzioni, che a questo fine furon da lui
promulgate, e che si leggono nel Codice di Teodosio[467]. E Costanzo
suo figliuolo, che alL'Imperio gli succedè, tenne pure il medesimo
ordine, e volle ancor egli in molte cose allontanarsi dagli antichi
instituti, ed in cose di religione massimamente, com'è chiaro da molte
sue costituzioni, che si leggon in quel Codice[468].

Dal che ne nacque, che Costantino lasciò di se varia e diversa fama
appo i Cristiani, e presso a' Gentili. I nostri per questi fatti
il cumularon d'eccelse lodi; e quindi prese argomento Nazario[469]
nell'Orazion panegirica, che nell'anno 321 gli fece, d'innalzar le
sue lodi, con dire: _Novae leges, regendis moribus, et frangendis
vitiis constitutae, veterum calumniosae ambages recisae, captandae
simplicitatis laqueos perdiderunt_. Isidoro[470] nel libro dell'Origini
pur disse, che da Costantino cominciarono le _nuove leggi_: e Prospero
Aquitanico[471] chiamò Principi legittimi gli Autori di tali leggi,
perchè da' Principi Cristiani furono promulgate.

Ma presso a' Gentili, i quali mal volentieri soffrivano queste
mutazioni, così lui come Costanzo suo figliuolo furon acerbamente
biasimati e mal voluti. Perciò Gregorio, ed Ermogeniano Giureconsulti
ambedue Gentili che fiorirono sotto Costantino e suoi figliuoli,
dubitando, che per queste nuove costituzioni di Principi cristiani la
giurisprudenza de' Gentili non venisse affatto a mancare, si diedero a
compilare i loro Codici, ne' quali le leggi degl'Imperadori Gentili,
cominciando da Adriano infino a Diocleziano, uniron insieme; perchè
quanto più fosse possibile si ritenesse l'antica. E quindi avvenne,
che assunto all'Imperio Giuliano nipote del G. Costantino, come quegli
che nacque da Costanzo suo fratello, avendo pubblicamente rinunziata
la religione cristiana, ed abbracciato il paganesimo, ingegnossi a
tutto potere (ancorchè non gli paresse usare l'armi della crudeltà,
come avean fatti gli altri Imperadori Gentili suoi predecessori) di
ristabilire il culto dell'antica religione, e l'antiche leggi, per
abbattere il Cristianesimo: onde fu tutto rivolto a cancellare ciò,
che Costantino avea fatto, chiamandolo perciò, come narra Ammiano
Marcellino[472], _Novatore_ e perturbatore dell'antiche leggi, e
degli antichi costumi: _Julianum, memoriam Constantini, ut Novatoris,
turbatorisque priscarum legum, et moris antiquitus recepti, vexasse_;
molte sue leggi perciò ancor ora nel Codice di Teodosio si leggono,
per le quali è manifesto non avere avuto ad altro l'animo rivolto, che
ad abolir le leggi di Costantino, e restituir l'antiche: ecco quali
fossero le sue frequenti formole sopra di ciò: _Amputata Constitutione
Constantini patrui mei, etc. antiquum Jus, cum omni firmitate
servetur_[473]; ed altrove:[474] _Patrui mei Constantini Constitutionem
jubemus aboleri, etc. Vetus igitur Jus revocamus_. Ed avendo questo
Principe secondo l'antica disciplina di molte costituzioni accresciuta
la ragion civile, e sopra tutto invigilato alla spedizione delle
liti, avendo anche in gran parte recise l'imposizioni, che tiravan i
suoi predecessori, e dati chiari documenti della sua vigilanza, valor
militare, e di molte altre virtù, fu che non pure presso a' Gentili
acquistasse fama d'un Principe saggio e prudente, come Libanio[475]
per questo stesso l'innalza e lo magnifica nell'Orazion funebre, che
gli fece; ma che ancor da Zonara riportasse questi encomj; e ciò che
sembrerà strano, eziandio dai Scrittori di questi ultimi nostri tempi;
fra quali tiene il primo luogo Michele di Montagna[476], il quale oltre
a prender la di lui difesa dell'Apostasia, e d'altri misfatti, che
comunemente se gl'imputano, di eccessive lodi lo cumula, e fin'al cielo
l'estolle.

Ma perchè l'Imperio di questo Principe non durò più che due anni,
essendo stato nel fiore della sua età ucciso da' Parti, non avendo che
31 anni; succeduto Valentiniano il Vecchio nell'Occidente, e Valente
suo fratello nell'Oriente, Principi a' quali non era men a cuore la
religione cristiana, di quello che fu a Costantino; riuscì perciò
vano ogni sforzo di Giuliano contro di lei, la quale fu parimente
dagli altri Principi successori ritenuta, avvegnacchè mal concia e
depravata per la pestilente eresia d'Arrio, che attaccatasi ne' Capi
dell'Imperio, si diffuse per tutto l'orbe cristiano, e penetrò ancora
ne' petti delle Nazioni straniere; ed essendo da questi Principi state
calcate le medesime orme di Costantino, ed alle costui leggi altre lor
proprie aggiunte, si venne a dare alla giurisprudenza quell'aspetto e
quella forma, che nel Codice di Teodosio ora ravvisiamo.



CAPITOLO VI.

_De' Giureconsulti, e loro libri; e dell'Accademia di Roma._


Quantunque la giurisprudenza de' Romani per la nuova divisione
dell'Imperio, per la nuova disposizione degli Ufficiali, e per la
nuova politia, e religione in esso introdotta, prendesse altri aspetti
e nuove forme, non può nulladimeno dubitarsi, che la cagione del
suo cambiamento e della sua declinazione, non in gran parte fosse
anche stata la perduta antica disciplina, e la mancanza d'una buona
educazione ne' giovani: mancata dunque la disciplina, e l'educazione,
si videro i giovani dati in braccio a' lussi, a' frequenti conviti,
alle delicatezze, a' giuochi, ed alle meretrici, siccome di questo
secolo appunto si doleva Ammiano Marcellino[477]: onde non potè
certamente produrre que' incorrotti e gravi Magistrati, quei saggi
e prudenti Giureconsulti, gli Africani, i Marcelli, i Papiniani, i
Paoli, ed i tant'altri insigni e rinomati, che ne' preceduti secoli
fiorirono. L'opera de' Giureconsulti, che ne' tempi di Costantino, e
de' suoi figliuoli, a que' primi lumi succederono (essendovi tra essi
stato un certo _Innocenzio_ cotanto da Eunapio celebrato, _Anatolio_,
ed alcuni altri d'oscuro nome) non si raggirava in altro, se non
ad insegnare ed esporre nell'Accademie ciò, che da que' preclari ed
incomparabili Spiriti trovavasi scritto, e di raccogliere, comentare,
e a miglior lezione ridurre i loro libri. Ed essendo mancato l'uso
dell'interpretazione, e de' responsi, e ridotto l'esercizio de'
Giureconsulti a due cose solamente, cioè all'insegnare nell'Accademie,
e all'arringare, o scrivere per le liti nel Foro, che tratto tratto
cominciò a farsi per danajo contra l'antica legge Cincia: si ridusse il
mestiere in questi tempi a tal vilipendio, che alla fine divenne arte
di liberti. Perciò Mamertino[478] soleva compiangere questa perduta
dignità della giurisprudenza, anche prima di Giuliano, ed amaramente
dolersi, e dire: _Juriscivilis scientia, quae, Manlios, Scaevolas,
Servios in amplissimum gradum dignitatis extulerat, libertorum
artificium dicebatur._ Presso a Fozio[479] si legge, che Asterio
Vescovo di Amasea, che visse intorno l'anno 400, raccontava esser
egli stato discepolo d'un certo Scita servo comprato da un cittadino
d'Antiochia, che pubblicamente professava giurisprudenza; quando presso
agli antichi Romani l'esercizio degli Oratori, o Padroni delle cause,
che erano gli Avvocati parlanti, era sì onorevole, che i Senatori
romani, e gli altri personaggi grandi vi menavan la lor giovanezza:
parimenti era il principal modo nello stato popolare di giungere alle
cariche grandi, poichè difendendo le cause gratuitamente, siccom'essi
facevano, obbligavano strettamente molte persone, ed acquistavano per
conseguenza un gran numero di clienti, e quindi un grandissimo rispetto
ed autorità fra il Popolo, che lor importava molto per conseguire i
grandi Ufficj. S'aggiungea, che coloro, che sapevan ben arringare,
avean un gran vantaggio nell'assemblee del Popolo, il quale si mena
volentieri per l'orecchie: onde avviene che nello Stato popolare
gli Avvocati sono ordinariamente quegli, che hanno più potenza od
autorità; ma sotto gl'Imperatori l'autorità degli Avvocati fu assai
diminuita, come dice l'Autore del Dialogo _de Oratoribus_, attribuito
a Tacito, perciocchè il favor popolare non serviva più a niente per
ottener le grandi cariche, ed allora fu, che non potendo più esser
ricompensati, se non con danari, divennero per tanto mercenarj; gli
Imperadori però non volendogli affatto abbassare, gli ridussero in
Milizia, attribuendo loro in conseguenza tutti que' belli privilegi,
che avevan i soldati, ed ancora altri particolari, spezialmente questo,
che dopo aver esercitata la loro carica per lo spazio di 29 anni,
divenissero Conti[480]. Ma se tanto abbassamento si fosse solamente
veduto ne' Giureconsulti, sarebbe stato più comportabile; penetrò egli
nell'Accademie ancora, e ne' Tribunali.

L'Accademia di Roma erasi per l'ignoranza e viltà de' Professori, e
per le dissolutezze degli Scolari ridotta a tal lagrimevole stato,
che Valentiniano il Vecchio, perchè non fosse affatto estinta, fu
neccessitato nell'anno 370, essendo in Treveri, promulgare una ben
lunga costituzione, che dirizzò ad Olibrio Prefetto della città di
Roma, nella quale XI leggi accademiche stabilì, dando riparo a molti
abusi in quella introdotti. Volle primieramente, che gli Scolari,
i quali dalle province dell'Imperio andavan a Roma per istudiare,
portassero lettere dimissoriali spedite da' Rettori, ovvero da'
Consolari, Correttori, o Presidi di quelle province donde partivano,
nelle quali lettere si esprimesse la loro patria, i loro natali, ed i
meriti e la dignità de' loro progenitori, e della loro razza.

Per II ordinò, che giunti in Roma dovessero presentar queste lettere al
Maestro del Censo, ed a' Censuali; III che questi Ufficiali avesser il
pensiero subito che gli Scolari eran entrati in Roma, di domandar loro
a quale professione intendevan applicare, se all'eloquenza romana o
greca, ovvero se volessero attendere a' più profondi studj, come della
filosofia, o giurisprudenza; IV che fosse cura e pensiero de' medesimi
Ufficiali assegnare agli Studenti gli Ospizj in luoghi lontani e remoti
da ogni disonestà; V che dovessero invigilare a' lor andamenti, e star
tutt'accorti per allontanargli dalle prave conversazioni, molto per
la gioventù pericolose; VI proibì Valentiniano a' medesimi Scolari la
troppa frequenza de' pubblici spettacoli, dando riparo con ciò a quegli
abusi, che Ammiano Marcellino si doleva d'essers'introdotti per questi
giovani, che consumavan il tempo in continui lussi, in amoreggiamenti,
ed in frequenti spettacoli, come corruttela di costumi, e cagione
d'allontanarsi dagli studj; VII proibì loro parimente gl'intempestivi e
frequenti conviti, ne' quali solevan per gran parte del giorno e della
notte menar l'ore in crapule, e tra mille licenziosi ragionamenti;
VIII che quegli Scolari, che contro queste leggi menassero vita
licenziosa, e indegnamente si portassero, dovessero severamente
punirsi, con battergli pubblicamente, indi scacciargli dalla città, e
fargli imbarcare, per mandargli donde eran venuti; IX stabilì il tempo
de' loro studj: che il ventesimo anno della loro età sia il fine di
quelli, quando prima ne' tempi di Diocleziano era nell'età di 25 anni,
e che cinque anni dovessero impiegare a' studj più gravi: siccome della
giurisprudenza particolarmente, stabilì ancora il nostro Giustiniano;
X ordinò, che si dovessero in un libro notare i nomi degli studiosi
in ciascun mese, quali essi fossero, e donde venissero, per sapersi
quanto tempo eran dimorati in Roma, ed il tempo ancora de' loro studj:
ciò che ancora oggi noi diciamo _Matricolarsi_, e descriversi nella
_Matricola_; XI Valentiniano stabilì, che dovesse ogn'anno mandarsi a
lui la Matricola, per conoscere quali fossero gli Studiosi in quella
descritti, acciocchè secondo il merito ed istituzione di ciascuno
potesse egli premiargli, e servirsene nel governo della Repubblica.

Cotanto questo provvido Principe ebbe a cuore l'educazione de' giovani,
e la riforma di questa Accademia; tanto che ristorata per queste
leggi, potè ne' seguenti anni richiamare a se, e dall'Affrica, e dalla
Francia, e dall'altre province occidentali, in gran numero i giovani
ad apprender le buone lettere, e la legge civile in Roma, che fu perciò
poi detta il domicilio delle leggi.

Si riparò da Valentiniano nel miglior modo che si potè la ruina
della giurisprudenza nell'Accademie; ma nel Foro, e ne' Tribunali era
pur troppo miserabile lo scempio, e l'aspro governo, che di quella
facevasi da' Giudici, e dagli Avvocati. La dappocaggine dei Magistrati,
e sovente la loro rapacità ed ambizione, l'ignoranza ancora degli
Avvocati, e più la malizia, ed i lor inganni avevan posto in confusione
tutte le costituzioni de' Principi, ed i libri de' Giureconsulti.

Da' soli Codici Gregoriano ed Ermogeniano poteva aversi certezza,
quando s'allegava qualche costituzione imperiale per la decisione
d'alcun litigio, e a quelli si dava tutto il peso e autorità: del
resto, tutto era disordine, e confusione. Perocchè da Costantino,
e da' suoi successori molte costituzioni eran state promulgate di
condizioni varie, appartenenti a diverse regioni de' due Imperj, ed
a varj Magistrati, secondo il bisogno indirizzate, e spesse volte fra
loro opposte; delle quali prima che da Teodosio il Giovane si fossero
in un certo volume raccolte e partite, non s'aveva distinta notizia, e
moltissime ne stavan sepolte; onde ciascun allegava, e cacciava fuori
quella costituzione, che pareagli condurre alla decision favorevole
della sua causa[481].

De' libri di tanti famosi e celebri Giureconsulti non minor era la
confusione ed il disordine. La notizia, che se n'aveva, era assai
confusa ed incerta: quale sentenza avesse per la disputazione del Foro
acquistata forza di legge, e dovessero i Giudici seguire, era uscito
dalla lor memoria; s'allegava indifferentemente, e sovente si recitava
un responso all'altro contrario; delle contrarietà de' quali era allora
il numero grandissimo, tanto che Giustiniano con tutti i suoi sforzi
non potè nella sua Compilazione toglierli affatto. A questa confusione
sen'aggiungeva un'altra considerabilissima, che que' Codici, i quali
giravano attorno fra le mani degli uomini, non essendo ancor in Europa
introdotto l'uso delle stampe, eran per l'incuria de' Librari, e degli
Antiquarj, scorrettissimi, e pieni di mille errori.

A riparar tanti danni, che per lungo tempo avevan ne' Tribunali a
questo lagrimevole stato ridotta la giurisprudenza, surse alla fine
Valentiniano III nell'Occidente, e Teodosio il Giovane nell'Oriente.
Questi Principi furono, che cospirando ad un medesimo fine, unirono
insieme la lor opera, ed il loro studio, prendendosi ciascuno a riparar
per la sua parte mali così gravi: Valentiniano a dar compenso a'
disordini, che per la dubbia autorità delle costituzioni de' Principi,
e varietà de' libri di Giureconsulti antichi ne seguivano; e Teodosio
ad impresa più nobile e generosa accingendosi, alla fabbrica d'un nuovo
Codice, ed allo ristabilimento dell'Accademia di Costantinopoli, volse
tutti i suoi pensieri.

Valentiniano adunque nell'anno 426 risedendo in Ravenna, dove aveva
trasferita la sede dell'Imperio, mandò al Senato di Roma una ben lunga
e prolissa orazione, per la quale fra le molte cose, a tutti questi
disordini spezialmente diede riparo: parte di questa orazione si legge
nel Codice di Teodosio, sotto il _tit. de Responsis prudentum_, e
parte, ancorchè in questo Codice oggi non sia, fu da Giustiniano[482]
però inserita nel suo, sotto il _tit. de Legibus_. In questa parte
registrata da Giustiniano dassi la norma, quali costituzioni imperiali,
quali rescritti potessero ne' giudicj leggersi ed allegarsi per le
decisioni delle cause, e quali fra quelle dovessero appresso i Giudici
aver forza e vigore: quali leggi, come generali, dovessero da tutti
ugualmente osservarsi, con eccettuarne que' rescritti, che a relazione,
e particolar richiesta furono in qualche particolar negozio emanati:
che non tutti i rescritti de' Principi, che dalle Parti si producevano
nei giudicj, avessero vigore; non quelli, che contro alle disposizioni
delle leggi, da' litiganti erano stati estorti; non quegli altri nè
meno, che contenevan surrezioni, ed orrezioni, i quali tutti volle, da'
Giudici si rifiutassero, e non s'eseguissero[483].

In quell'altra parte della sua orazione da Teodosio approvata, e nel
suo Codice inserita, dassi particolar provvidenza intorno a' libri
degli antichi Giureconsulti, che senz'ordine sparsi in questa età erano
di non poca confusione.

Volle primieramente, che agli scritti di questi cinque Giureconsulti,
cioè di Papiniano, Paolo, Cajo, Ulpiano, e Modestino si prestasse
intera fede, ed allegati e ne' giudicj letti, avessero appo i Giudici
tutta la forza, e tutta l'autorità per la decisione delle cause.
II Che quest'istessa forza avessero le sentenze, ed i trattati di
Scevola, di Sabino, di Giuliano, di Marcello, e degli altri G. C., che
da que' cinque nelle lor opere fossero stati inseriti, o che da essi
si celebrassero. Gli scritti di questi antichi Giureconsulti eran in
Occidente allora ancor in essere, se bene nel Regno di Tolosa appo i
Goti ne' tempi posteriori fossero dispersi, come testifica l'Interprete
su questa costituzione di Valentiniano. In Oriente però si conservarono
fino a' tempi di Giustiniano, il quale di questi scritti si valse
nella sua compilazione delle Pandette. III Diede le cautele, e la
norma in qual maniera i Giudici potessero sicuramente degli scritti di
questi G. C. valersi nella decisione delle cause, e come i Causidici
dovessero allegargli, cioè, che quelli, che per lo più si portavan
attorno inemendati e scorretti, si riscontrassero co' Codici emendati:
per le quali correzioni solevan in quest'età, non solamente per li
libri di giurisprudenza, ma di tutt'altre professioni, scegliersi
uomini i più dotti, ed i più esatti Gramatici di questi tempi; de'
quali non altro era la loro cura e studio, se non di ridurre ad una
perfetta lezione col confronto de' più esatti ed emendati testi, gli
scritti, che correvano per le mani de' Professori. Siccome altresì
all'emendazione degli esemplari di Livio, e de' libri della Scrittura
Sacra spezialmente, ove le scorrezioni erano più perniziose, furon
impiegati uomini avvedutissimi. Di Luciano, testimone dignissimo ne è
Suida: ed Ireneo scongiurava il suo libraro _per dominum nostrum Jesum
Christum, et gloriosum ejus adventum, quo judicaturus est vivos, et
mortuos, ut conferat postquam transcripserit, et emendet ad exemplar
unde descripsit_. L'istessa sollecitudine ebbero Aponio, Girolamo, ed
Agostino, i quali non molto si curavano de' ricchi e vistosi Codici, ma
tutto il loro studio era d'avergli esatti ed emendati[484]. Cotanto in
questi tempi s'invigilava a tal opera, come quella, che riputavasi di
somma importanza; poichè da ciò sovente dipendeva la decisione di molte
controversie nella Chiesa, e d'infinite cause nel Foro.

Diffinì in oltre Valentiniano, siccome abbiamo anche altrove ricordato,
che quando ne' giudicj venivan allegate diverse ed opposte sentenze
di questi antichi e famosi Giureconsulti, dovesse il maggior numero
degli Autori prevalere, cioè, che le loro sentenze si numerassero,
non si pesassero, ed a quello dovesse il Giudice appigliarsi, di che
ebbe poi contrario sentimento Giustiniano; ma se il caso portasse,
che il numero dell'una parte, e dell'altra fosse uguale, volle che
fra tutti soprastasse Papiniano, in guisa che prevalesse quella
parte, che dal suo canto trovavasi avere sì illustre Giureconsulto:
la qual prerogativa non dovrà sembrar strana per Papiniano, riputato
in ogni età il più insigne di tutti gli altri, quando ne' tempi de'
nostri avoli si narra, che simile prerogativa per decreto regio
fosse stata ancora conceduta a Bartolo per la Spagna e per la
Lusitania, se dobbiamo prestar fede a Gio. Batista de Gazalupis,
che lo rapporta[485]. Maggiore fu quella di S. Gio. Crisostomo
nell'interpretazione delle Scritture Sacre; giacchè nella Chiesa
orientale fu per invecchiata consuetudine introdotto, che la di lui
interpretazione dovesse preporsi a quanto mai dagli altri Padri della
Chiesa si fosse variamente esposto: siccome nell'occidentale di gran
peso furono anche le sue interpretazioni; di che ben chiari testimoni
posson essere a noi Girolamo, ed Agostino. Di vantaggio stabilì
Valentiniano, che se in tutto, e d'autorità, e di numero fossero pari
le sentenze allegate, in questo caso al prudente arbitrio del Giudice
il tutto si rimettesse, il quale fra se medesimo con giusta bilancia
pesando l'opinioni, a quelle dovesse attenersi, che più giuste, e
all'equità conformi reputasse.

Per ultimo le note di Paolo, e d'Ulpiano fatte al Corpo di Papiniano
lor maestro, rifiutò, e volle che niuna autorità avessero ne' giudicj:
ed in questo altresì fu poi differente il sentimento di Giustiniano,
il quale non affatto le rifiutò, ma molte, e particolarmente quelle di
Paolo, nella compilazione de' Digesti mescolò e ritenne: le Sentenze
di Paolo però, ordinò Valentiniano, che sempre valessero, ed avessero
ogni autorità e vigore. E di questa costituzione di Valentiniano,
e dell'altre simili in questi tempi promulgate, intese Giustiniano,
quando disse, ch'era stato ordinato, che le sentenze de' Giureconsulti
avessero tanta autorità, sicchè non fosse lecito a' Giudici
allontanarsi da' loro responsi, siccome fu anche da noi avvertito nel
primo libro di questa Istoria.

Tale fu la providenza di Valentiniano III acciocchè nel Foro si
togliessero que' perpetui disordini, e quelle confusioni, che recava
la poca notizia delle costituzioni de' Principi, e de' libri de'
Giureconsulti: onde fu in Occidente restituita la giurisprudenza, nel
miglior modo che fu possibile, a qualche dignità e splendore.


§. I. _Dell'Accademia di Costantinopoli._

Ma maggiori furon gli sforzi di Teodosio il Giovane, per ristorare
la giurisprudenza in Oriente: egli cominciò dodeci anni prima della
fabbrica del suo nuovo Codice a ripararla nell'Accademie. Costantino
il Grande fin dall'anno 332 per fornir la città di Costantinopoli di
tutto ciò che mai fosse di rado ed eccellente, e per renderla in tutto
emula di Roma, aveva posta ogni sua cura e diligenza, ad invitare in
quella molti Professori di lettere. Costanzo suo figliuolo verso l'anno
354 l'adornò d'una famosa Biblioteca, onde Temistio perciò il cumulò di
tante lodi. Valente nell'anno 372 l'accrebbe grandissimamente, tanto
che volle, che alla conservazione della medesima vi fossero sette
Antiquarj, quattro greci e tre latini, i quali badassero a comporre
i Codici, ed a riparar quelli dal tempo consumati, ed altri Ministri
destinò, perchè ne avessero cura e pensiero. Niuno però infino a' tempi
di Teodosio il Giovane, pensò a stabilire in questa città un'Accademia,
che potesse pareggiar quella di Roma. Teodosio adunque fu colui, che
nell'anno 425 pensò di stabilirla: il suo luogo fu il Campidoglio
nella regione VIII lontana dal mare, e mediterranea, ricca di molti
portici costrutti a questo fine, e fu perciò chiamata _Capitolii
Auditorium_. Acciocchè abbondasse di Professori, e di Scolari, e
ritenesse quella dignità e grandezza, ch'egli intendeva di dargli,
stabilì, che i Professori non potessero insegnar la gioventù fuori
di questo Auditorio nelle private _celle_, come prima soleva farsi in
Roma. Assegnò a quest'Accademia molti Professori secondo la facultà,
che dovevan appararsi; e tutti arrivavan al numero di trent'uno. Tre
Oratori per la romana eloquenza, e diece Gramatici. Per l'eloquenza
greca stabilì cinque Sofisti, e parimente diece Gramatici: onde
vent'otto eran coloro, parte Gramatici, parte Oratori e Sofisti, perchè
di queste facultà istruissero la gioventù. Per coloro poi, che a più
profonde scienze volevan impiegarsi, ne stabilì tre solamente, uno per
la filosofia, e per la giurisprudenza due, i quali in essa insegnassero
le leggi civili[486]. A' tempi dello stesso Teodosio vi spiegò le leggi
Leonzio famoso Giureconsulto, che tra' Legisti fu il primo ad aver
l'onore e 'l grado di Conte Palatino: nè mancaron da poi altri celebri
Professori, che la renderon chiara ed illustre. A' tempi di Giustiniano
professaron quivi giurisprudenza Teotilo, e Cratino, que' medesimi, che
chiamati da lui intervennero alla fabbrica dei Digesti[487].

Nè fu minore in quest'Accademia il concorso dei giovani per apprender
legge civile, di quello, che nell'Occidente teneva Roma, e Berito
nell'Oriente. E maggiore eziandio si vide, quando da Giustiniano
fu vietato all'altre Accademie, come a quella d'Alessandria e di
Cesarea, d'esplicar le leggi, non concedendo licenza ad altre, fuorchè
nell'Oriente, a quella di Berito, ed a questa di Costantinopoli, e
nell'Occidente a quella di Roma.



CAPITOLO VII.

_Delle costituzioni de' Principi, onde formossi il Codice Teodosiano._


Non bastò a Teodosio d'aver in cotal guisa dato riparo alla cadente
giurisprudenza, e d'averla in cotal modo restituita nell'Accademie:
erano ancora pochi coloro, come dice l'istesso Teodosio[488], _qui
juris civilis scientia ditarentur, et soliditatem verae doctrinae
receperint_. L'immensa copia de' libri[489], la gran mole delle tante
costituzioni imperiali fra se discordanti, tenevagli ancor'in una
profonda oscurità e densa caligine. A toglier queste tenebre volse
finalmente Teodosio l'animo suo, onde alla fabbrica d'un nuovo Codice
tutto inteso, rifiutate le tante efimere costituzioni de' Principi
dettate secondo l'occasion de' tempi, e le molte inutili e fra di lor
contrarie, raccolse in un volume solamente quelle, che credè bastare
a quanto mai potesse occorrere ne' Tribunali per la decisione delle
cause.

Adunque nell'anno 438, come ben pruova l'avvedutissimo Gotofredo, non
già nell'anno 435 come stimò Cironio, e credettero altri, ingannati
dalla erronea soscrizione della Novella di Teodosio[490], fu tal
Codice da questo Principe compilato e pubblicato: alla fabbrica
del quale elesse otto insigni e nobili Giureconsulti, e come e' ci
testifica, di conosciuta fede, di famosa dottrina, e tale in somma
da potersi paragonare agli antichi. Il primo, che vi ebbe la maggior
parte, fu Antioco, già Prefetto P. ed Ex-Console, di cui s'incontrano
sovente presso a Marcellino, Suida, e Teodoreto onorate memorie. Fuvvi
Massimino, _vir Illustris_, come lo chiama Teodosio istesso[491],
_Exquaestor nostri Palatii, eminens omni genere literarum_. Fuvvi
Martirio, _vir Illustris, Comes, et Quaestor nostrae Clementiae
fide interpres_. Furonvi Speranzio, Apollodoro, e Teodoro, _viri
spectabiles, Comites sacri nostri Consistorii_. Fuvvi Epigenio, _vir
spectabilis, Comes, et Magister memoriae_; e per ultimo Procopio,
_vir spectabilis, Comes ex magistro libellorum, jure omnibus veteribus
comparandi_: tutti delle più sublimi dignità fregiati, e della dottrina
legale espertissimi.

L'impiego a lor dato in quest'opera fu di raccoglier le costituzioni
di molti Principi, che stavano nascose ed in tenebre sepolte, ed in un
corpo unirle: quelle poi raccolte, emendarle, e dalle molte brutture
ed errori purgarle: per ultimo colla maggior brevità in compendio
raccorciarle.

Era senza alcun dubbio assai grande la selva delle costituzioni degli
Imperadori cristiani, che da Costantino M. infine a questi tempi
s'erano nell'uno, e nell'altro Imperio diffuse e sparse; onde non
bisognò meno a questi Compilatori, che il numero di sedici libri, ne'
quali ancorchè accorciate, potessero accorle ed unirle. Imperciocchè
se si riguarda il tempo, che si framezza, non è meno di cento ventisei
anni, cioè dagli anni di Costantino 312 infino a questo anno 438; se
gl'Imperadori, le cui costituzioni in questo Codice si raccolsero, il
lor numero non è minore di sedici: Costantino M: tre suoi figliuoli
Costantino, Costanzo e Costante: Giuliano, Gioviano, Valentiniano,
Valente, Graziano, Valentiniano il Giovane, Teodosio M., Arcadio,
Onorio, Teodosio il Giovane, Costanzo e Valentiniano III; se le varie
sorte delle costituzioni, in esso s'incontrano non pur gli editti,
ma eziandio i varj rescritti, le molt'epistole a' Magistrati dirette:
l'orazioni al Senato, le prammatiche, gli atti, ed i decreti fatti nel
Concistoro de' Principi, e finalmente i molti lor mandati a' Rettori
delle province, ed a gli altri Ufficiali indirizzati.

Non fu certamente tralasciata niuna parte della pubblica e privata
ragione, che in questo Codice non si fosse trasferita, come è pur
troppo manifesto dall'argomento de' suoi libri, e dal novero de'
titoli. Delle costituzioni de' Principi appartenenti alla ragion
privata, a' contratti, a' testamenti, alle stipulazioni, a' patti,
all'eredità, e ad ogn'altro a questa attenente, se ne compilarono ben
cinque libri. Per quel che s'attiene alla ragion pubblica, niente evvi
che desiderare; qui si descrivono le funzioni di tutti i Magistrati,
dassi la _Notizia_ delle dignità, dassi la norma per le cose militari:
dispongonsi gl'impieghi degli Ufficiali: si stabiliscono l'accusazioni
criminali: si dichiarano le ragioni del Fisco: si dispongono le cose
appartenenti all'annona, ed a' tributi: si dà providenza al Comune
delle città, a' Professori, agli spettacoli, alle pubbliche opere,
agli ornamenti, ed in somma si prende cura e pensiero di tutto ciò,
che alla pubblica pace e tranquillità possa mai conferire. Nè si
tralasciò la ragion Pontificia, anzi un intero libro si compilò di
varie costituzioni a questa appartenenti, nelle quali varj negozj
ecclesiastici, ed alla religione attinenti, si diffiniscono: in guisa
che non v'è parte della ragion privata, pubblica, o divina, che in
questo Codice non si racchiuda.

I nomi de' Principi, che le proferirono, il luogo, il tempo, le persone
a cui furon indirizzate, perchè non s'invidiasse a' lor Autori la
gloria, e s'evitasse ogni confusione e disordine, non furon soppressi,
ma con ogni diligenza lasciati intatti.

Nondimeno l'opera non riuscì così esatta e compiuta, che in essa non
s'osservino molti difetti ed errori lungo di lor catalogo ne tessè il
diligentissimo Gotofredo[492], che non fa uopo qui rammemorargli; ma
non dee passarsi sotto silenzio quello gravissimo, e non da condonarsi
a Teodosio Principe cristiano, d'avervi anche in esso molte leggi
empie, e alla sua religione in tutto opposte, inserite. Il proponimento
suo fu delle costituzioni de' Principi cristiani solamente far
raccolta, incominciando da quelle del G. Costantino: perciò Prospero
Aquitanio chiamò questo Codice, libro nel quale le leggi de' Principi
legittimi furon raccolte, Principi legittimi appellando egli i Principi
cristiani, delle cui sole costituzioni era composto. In oltre il
suo disegno, ed il fine in compilarlo fu, affinchè potesse servir
nel Foro, e nelle cotidiane controversie allegarsi, e secondo le sue
leggi, quelle terminarsi in tempo, che la religion cristiana erasi già
fermamente nel suo soglio stabilita. Come dunque potrà condonarglisi
d'avere ancor quivi mescolate molte costituzioni di Giuliano apostata,
affatto contrarie a molte altre di Principi cristiani, ed oltre ciò,
del titolo di _Divo_ decorarlo? Come inserirvi quelle costituzioni,
che a' suoi tempi avevan acquistata nota pur troppo chiara d'empietà
e di superstizione, come la _l._ 1. _de paganis_ di Costantino Magno,
nella quale si permette l'uso pubblico dell'Aruspicina, e l'altra
di Valentiniano il Vecchio, per la quale vien permessa la libertà di
qualunque religione, ed approvato anche l'uso dell'Aruspicina[493]?
Leggi ancorchè tollerabili, quando da quelli Principi per dura
necessità si proferirono, da non riferirsi però in un Codice, che
all'uso di un'altra età dovea servire, ed in tempi, nei quali la
religion cristiana avea già poste profonde radici ne' petti umani. Chi
potrà soffrire in esso la _l._ 4, _et_ 6. di Giuliano _de Sepulchris
violatis_, le quali sono piene di superstizione, e di gentilesmo; chi
la _l. ult._ di Valentiniano il Giovane collocata sotto il titolo _de
fide Catholica_, per la quale confermandosi il Conciliabolo d'Arimini
diedesi alla pestilente eresia d'Arrio maggior vigore e forza, che
non le poteron dare gli Autori medesimi, ed i suoi maggiori fautori
e parteggiani? Dovrebbe certamente l'animo suo essere stato rimosso
da questo misfatto, per quello generoso insieme, e pietoso rifiuto di
Benevolo, che ritrovandosi primo Cancelliere dell'Imperadrice Giustina,
l'unica promotrice di quella legge, non volle in alcun modo segnarla,
e contentossi anzi vivere privatamente nelle sue paterne case, che
rimanersi pien di stima in Corte partecipe di opera sì indegna. Chi per
ultimo le leggi da Arcadio promulgate apertamente contra i Cattolici,
e contra Crisostomo, e suoi Joanniti[494]?

Non così certamente si portaron i Compilatori del Codice di
Giustiniano, i quali tutte queste costituzioni rifiutarono, come si
dirà, quando dovrem favellare della compilazione di quello, seguita nel
sesto secolo dell'umana Redenzione.


§. I. _Dell'uso, e autorità di questo Codice nell'Occidente, ed in
queste nostre province._

Compilato adunque che fu in questo anno 438 il Codice di Teodosio, e
per pubblica autorità promulgato, fu subito ricevuto, non meno per
l'Oriente, che per l'Occidente. Nell'Oriente acquistò immantenente
tutto il vigore, perchè Teodosio suo Autore, appena pubblicato, cacciò
fuori una sua _Novella_ diretta a Florenzio Prefetto P. dell'Oriente,
che porta il titolo _de Theodosiani Codicis auctoritate_, per la
quale vietò, che d'allora in poi a niuno fosse lecito nel Foro valersi
delle costituzioni d'altri Principi, se non di coloro, che in questo
Codice fossero inserite: incaricandogli ancora, che per mezzo di
pubblici editti, a tutti i Popoli, ed a tutte le province facesse noto
questo suo divieto, ed alla lor notizia portasse la promulgazione, ed
autorità, ch'egli dava a questo Volume.

Nell'Occidente non fu minore la sua fortuna; ancorchè Teodosio,
come quegli, a cui ubbidiva solamente l'Oriente, non potesse in
queste parti occidentali dargli quell'autorità, che gli diede nel
suo Imperio; nulladimeno, perchè prima con Valentiniano suo Collega
n'aveva egli comunicato il consiglio, anzi di concerto avevan ogni
lor opera a questo stesso fine indirizzata; non tantosto fu quello
ricevuto nell'Oriente, che Valentiniano gli diede tutta l'autorità
e forza nell'Occidente. Ancora avea prima questo Principe mandato a
Teodosio, ed a coloro, che furon eletti alla fabbrica di questo Codice,
suoi scrigni delle costituzioni promulgate in Occidente da' Principi
suoi predecessori, che 'l dominarono[495], ed insieme con esse aveva
raccolte ancora le costituzioni sue, che per tutto l'anno 425 aveva,
risedendo ora in Aquileja, ora in Roma, e finalmente in Ravenna, ove
trasferì la sua sede, promulgate; e fra queste, ancor quella sua famosa
Orazione, che molto all'intento di Teodosio conferiva, per la quale
a' disordini delle tante costituzioni, e de' libri de' Giureconsulti
si dava riparo, la qual Orazione da Teodosio fu inserita in questo
Codice, cioè quella parte solamente, in cui trattavasi de' libri
de' Giureconsulti, riputando superflua l'altra per le costituzioni
de' Principi; imperocchè egli sopra di ciò dava più esatta e minuta
providenza in questo stesso suo Codice.

Per questa cagione Valentiniano gli diede nell'Occidente il medesimo
vigore, che gli avea dato Teodosio nell'Oriente; e se bene non si legge
sopra ciò alcuna speziale sua costituzione, non può nondimeno cadervi
dubbio veruno: poichè anche dopo scorsi diece altri anni, ne' quali
da Teodosio s'erano promulgate molt'altre sue _Novelle_, e che in un
altro volume separato furon pubblicate, Valentiniano con espressa sua
_Novella_[496], la qual è fra le Teodosiane, quelle parimente confermò,
aggiungendovi questa ragione, _ut sicut uterque Orbis individuis
ordinationibus regitur, iisdem quoque legibus temperetur_. Oltre che
il rispetto e l'obbligazioni, che Valentiniano teneva con Teodosio eran
pur troppo grandi, essendo da lui stato creato Augusto, e da poi fatto
suo genero; ond'è, che Valentiniano il soleva chiamar padre, e Teodosio
a lui, suo figliuolo; quindi è, che nell'istessa _Novella_, facendo
menzione di questo Codice, come di già ricevuto nel suo Imperio, con
questi segni di stima ne favelli: _Gloriosissimus Principum Dominus
Theodosius Clementiae meae pater leges a se post Codicem Numinis
sui latas, nuper ad nos, sicut repetitis Constitutionibus caverat,
prosequente sacra praeceptione direxit_. Anzi fu tanta la venerazione,
in cui Valentiniano ebbe questo Codice, che nelle sue _Novelle_, le
quali da tempo in tempo infino all'anno 452 poco prima della sua morte
promulgò, sovente in confermazione de' suoi editti, e per dar loro
maggior autorità, valevasi delle leggi, che nel Codice di Teodosio
eran inserite: così nella Novella[497] 10 dell'anno 451, e nella
_Novella 12 de Episcopali judicio_ del 452, e nell'altra sotto il _tit.
de honoratis etc._ 45 si vede essersi servito delle leggi d'Onorio,
d'Arcadio, e di Graziano, che in questo Codice furono da Teodosio
inserite.

Ma quel che parrà strano, assai più fortunati successi ebbe questo
Codice nell'Occidente, che nell'Oriente: poichè nelle parti orientali
la sua durata non s'estese più, che a novant'anni, cioè fin a' tempi
di Giustiniano, il quale facendosi Autore d'un nuovo Codice, quello
estinse e cancellò; ma nell'Occidente ebbe eziandio presso a quelle
nazioni, che barbare si dicevan, assai miglior fortuna; poichè presso
agli Ostrogoti in Italia, a' Vestrogoti nelle Gallie e nelle Spagne,
e presso a' Borgogni, Franzesi e Longobardi, fu in tanta stima ed
onore avuto, che conforme alle leggi, che in quello si contenevano,
a lor piacque di reggere non pure i Popoli, che soggiogavano, ma loro
medesimi ancora, siccome nel progresso di quest'Istoria ne' seguenti
libri più partitamente dirassi. E per ultimo ne' nostri tempi, e
de' nostri avoli meritò questo Codice, che per la sua sposizione e
rischiaramento s'impiegassero le fatiche de più valorosi e sublimi
ingegni, che fiorissero ne' due ultimi secoli, quando risorto dalle
lunghe tenebre, nelle quali era giaciuto, per opera di Giovanni
Sicardo, che al sentir di Doujat[498] fu il primo, che lo cavò fuori
alla luce del mondo in Basilea, ancorchè assai tronco e mutilato;
ridotto poi in miglior forma nell'anno 1540 in Parigi da Giovanni
Tillio[499] (quegli che da Protonotario della Corte del Parlamento
di Parigi, e ch'ebbe parte nella fabbrica del processo della cotanto
famosa causa del Principe di Condè, fu da poi creato Vescovo di
Meaux) meritò che intorno a tant'opera impiegasse la sua dottrina
e diligenza eziandio l'incomparabile Cujacio; ed alla fine, che con
perpetui, e non mai abbastanza lodati commentarj, ricolmi della più
fina ed elevata erudizione, ponesse tutto se stesso, e tutto il suo
sapere ed accuratezza il diligentissimo Giacopo Gotofredo, il quale
morto al piacere dell'immortal suo nome, dopo le sue cotanto lunghe ed
ostinate fatiche, non potè aver la fortuna di sopravvivere a questa sua
impareggiabil opera, e degna d'immortale ed eterna memoria.

Ecco quali furono le vicende della giurisprudenza romana da' tempi
di Costantino M. insino all'Imperio di Teodosio il Giovane, e di
Valentiniano III suo collega: ecco con quali leggi essi governarono
l'uno e l'altro Imperio. I volumi, che giravan intorno, onde dovean
prendersi ed allegarsi le leggi per le controversie del Foro, ed
insegnarsi nell'Accademie, furono: de' Giureconsulti, i libri di
Papiniano, Paolo, Cajo, Ulpiano, e Modestino tenevano il primo luogo:
i trattati di Scevola, Sabino, Giuliano, Marcello, e degli altri
Giureconsulti celebrati da' sopraddetti cinque nei loro scritti, avevan
parimente tutta l'autorità e forza. Le note di Paolo, e di Ulpiano
fatte al Corpo di Papiniano furon in questi tempi da Valentiniano
rifiutate, ancorchè da poi da Giustiniano ricevute ed ammesse; ma le
sentenze di Paolo sopra ogni altro furono stimate, e di somma autorità
e vigore riputate.

Delle costituzioni de' Principi: i due Codici, Gregoriano ed
Ermogeniano, ne' quali le leggi de' Principi Gentili da Adriano
sin a Diocleziano furon raccolte, facevan in questi tempi piena
autorità, ancorchè per privato studio, senza commission pubblica, da
que' due G. C. fossero stati compilati: le costituzioni de' Principi
quivi raccolte, s'allegavano con piena fiducia nel Foro, e nelle
consultazioni: d'esse si servì, come s'è veduto nel primo libro, S.
Agostino[500], allegando una costituzione d'Antonino registrata nel
Codice Gregoriano: se ne valse l'Autor della collazione delle leggi
mosaiche colle romane, che secondo Gotofredo fiorì nel decorso del
sesto secolo ne' tempi di Cassiodoro; l'adoperò ancora l'Autor di
quell'antica consultazione, ch'oggi fra quelle di Cujacio leggiamo: e
ne' seguenti tempi anche Triboniano; e del loro Compendio, Papiano,
ed altri Scrittori de' tempi più bassi. E per ultimo era tenuto nel
maggior vigore ed autorità il _Codice_ di Teodosio, colle _Novelle_
recentemente da questo Principe, e da Valentiniano suo collega
promulgate.

Questi adunque furon i libri, ne' quali in questa età contenevasi
tutta la ragion civile de' Romani; dai quali ne' Tribunali, e nelle
Accademie, presso a' Professori, e Causidici, e presso a' Magistrati,
e Giudici si prendevan le norme del giudicare, dello scrivere, e
dell'insegnare. Insino a tali tempi non s'udiron leggi straniere in
queste province, che oggi formano il nostro Regno. Il venerando nome
solamente della legge romana era inteso e riverito, e conforme a'
suoi dettami furon quelle rette ed amministrate, fin che non furon
nuovamente infestate da quelle medesime Nazioni, che già in questi
tempi stessi aveanle cominciate a perturbare, le quali ancorchè non
osassero di fare alle romane leggi alcun oltraggio, anzi dassero a
quelle fra loro onorato luogo, non poteron però fra tanti ravvolgimenti
di cose rimaner così intere e salde, che non restassero contaminate,
ed in maggior declinazione, appresso non si vedessero, come si mostrerà
ne' seguenti libri di quest'Istoria.



CAPITOLO VIII.

_Dell'esterior politia ecclesiastica, da' tempi dell'Imperador
Costantino M. infino a Valentiniano III._


Dopo aver Costantino M. abbracciata la religione cristiana, e
posta in riposo la Chiesa, si vide quella in un maggiore esterior
splendore ed in una più ampia e nobile Gerarchia. I Vescovi, che
in que' tre primi secoli, in mezzo alle persecuzioni, nelle città
dell'Imperio governavano le Chiese, ora che pubblicamente da tutti
poteva professarsi questa religione, e che cominciavan ad ergersi
tempj ed altari per mantenere il culto di quella, si videro, secondo
la maggioranza delle città, nelle quali reggevan le Chiese, in varj e
diversi gradi disposti, ed in maggior eminenza costituiti. Cominciarono
perciò a sentirsi i nomi di Metropolitani, di Primati, d'Esarchi,
ovvero Patriarchi, corrispondenti a quelli de' Magistrati secolari,
secondo la maggiore o minor estensione delle province, ch'essi
governavano.

Pietro di Marca Arcivescovo di Parigi[501], Cristiano Lupo Dottor
di Lovanio, Emanuello Schelstrate Teologo d'Anversa, Lione Allacci,
ed altri, con ben grandi apparati sforzaronsi di sostenere, che
così la dignità di Metropolitano, come la Patriarcale, dagli
Apostoli riconoscessero il lor principio, e che da essi fossero
state instituite. Ma Lodovico Ellies Dupin[502] insigne Teologo di
Parigi ben a lungo riprova il lor errore, e confutando gli argomenti
recati dall'Arcivescovo di Parigi, dimostra con assai forti e chiare
pruove, che nè da Cristo, nè da gli Apostoli tali dignità fossero
state instituite: ma che in questi tempi, data che fu la pace da
Costantino alla Chiesa, cominciaron ad instituirsi, e che secondando la
disposizione delle province dell'Imperio, e le condizioni delle città
metropoli di ciascheduna di quelle, fosse stata introdotta nella Chiesa
questa politia e questa nuova Gerarchia.

E la maniera colla quale ciò si facesse, fu cotanto naturale e propria,
che sarebbe stata maraviglia, se altrimenti fosse avvenuto. Già
dalla descrizione delle province dell'Imperio fatta sotto Costantino
s'è ravvisato, che le diocesi, componendosi di più province, avean
alcune città primarie, ovvero metropoli, dalle quali l'altre della
medesima provincia dipendevano: a queste si riportavan tutti i giudicj
dell'altre città minori: a queste per li negozj civili, e per gli
altri affari, come suole avvenire, tutti i provinciali ricorrevano.
La Chiesa, essendo stata fondata nell'Imperio, come dice Ottato
Milevitano, non già l'Imperio nella Chiesa, prese per ciò, data che
le fu pace, nelle cose ecclesiastiche l'istessa politia, adattandosi
a quella medesima disposizione delle province, ed alle condizioni
delle città che ritrovò. Così quando dovea ordinarsi o deporsi
qualche Vescovo, quando nelle Chiese occorreva qualche divisione,
o disordine, quando dovea deliberarsi sopra qualche affare, ch'era
comune a tutte l'altre chiese della provincia, non essendovi gli
Apostoli a' quali prima per queste cose solea aversi ricorso, era
mestiere, che si ricorresse al Vescovo della città metropoli, e Capo
della provincia. Ed in cotal guisa cominciò prima per consuetudine
tratto tratto ad introdursi questa politia; onde la distribuzione delle
Chiese si fece secondo la forma dell'Imperio, e le città metropoli
dell'Imperio divennero anche metropoli della Chiesa, ed i Vescovi, che
vi presedevano, acquistarono sopra l'intere province la potestà, così
d'ordinare, o deporre i Vescovi delle città soggette, e di comporre le
loro discordie, come anche di raunare i Sinodi, e sopra altre bisogne;
ma questa potestà non era assoluta, poichè senza il consiglio de'
Vescovi della stessa provincia niente potevan fare; questa consuetudine
fu nel quarto secolo, e ne' seguenti ancora per molti canoni in alcuni
Concilj stabiliti, confermata; onde tutta la Chiesa al modo della civil
politia fu disposta e distribuita.

Questa distribuzione e Gerarchia della Chiesa, conforme alla politia
dell'Imperio apparirà più chiara e distinta, se avremo innanzi agli
occhi quella disposizione delle diocesi, e delle province, che in
questo libro abbiam descritta sotto l'Imperio di Costantino: quivi
si vide l'Imperio diviso in quattro parti, al governo delle quali
altrettanti moderatori destinati. L'Oriente, l'Illirico, le Gallie e
l'Italia.

(Questa istessa disposizione delle diocesi, e province dell'Imperio,
alla quale si conformò la divisione delle province della Chiesa, viene
parimente descritta da Binghamo[503]).


ORIENTE.

Fu l'Oriente diviso in cinque diocesi, ciascuna delle quali abbracciava
più province, Oriente, Egitto, Asia, Ponto, e Tracia.

La diocesi d'_Oriente_ ebbe per sua città primaria, Capo di tutte
l'altre, _Antiochia_ nella Siria, ond'era ben proprio, che questa
città anche nella politia ecclesiastica innalzasse il capo sopra tutte
l'altre, e che il Vescovo, che reggeva quella Cattedra, s'innalzasse
parimente sopra tutti gli altri Vescovi delle Chiese di tutte quelle
province, delle quali questa diocesi si componeva. Si aggiugneva ancora
l'altra prerogativa d'avere in Antiochia il Capo degli Apostoli S.
Pietro fondata la Chiesa, e predicatovi il primo l'Evangelo; ancorchè
poi gli fosse piaciuto di trasferir la sua cattedra in Roma.

Le province che componevano la diocesi d'Oriente, prima non eran più
che dieci, la Palestina, la Siria, la Fenicia, l'Arabia, la Cilicia,
l'Isauria, la Mesopotamia, Osdroena, Eufrate e Cipro; ma da poi crebbe
il lor numero insin a' quindici; imperocchè la Palestina fu partita
in tre province, la Siria in due, la Cilicia in due, e la Fenicia
parimente in due. Ecco come ora ravviseremo in ciascuna di queste
province i loro Metropolitani, secondo la politia dell'Imperio.

La Palestina, prima che fosse divisa, non riconosceva altra città
sua metropoli, che _Cesarea_; onde il suo Vescovo acquistò le
ragioni di Metropolitano sopra i Vescovi dell'altre città minori: ed
essendo poi stata divisa in più province, ebbe in una per metropoli
la città di _Scitopoli_, e nell'altra quella di _Gerusalemme_; ma
non perchè d'una provincia ne fossero fatte tre, venne, per questa
nuova divisione ed accrescimento di due altre metropoli, a derogarsi
le ragioni di Metropolitano al Vescovo di Cesarea, ma rimasero come
già eran i Vescovi di Scitopoli, e di Gerusalemme suffraganei al
Metropolitano di Cesarea: e quando celebrossi il gran Concilio di
Nicea, ancorchè a Gerusalemme città Santa molti onori e prerogative
fossero state concedute, in niente però vollero quei Padri, che si
recasse pregiudizio al Metropolitano di Cesarea, _Metropoli propria
dignitate servata_, dice il settimo canone di quel Concilio; e non per
altra ragione, se non perchè, essendo una la provincia della Palestina,
e Cesarea antica sua Metropoli, trovandosi acquistate già tutte le
ragioni di Metropolitano da quel Vescovo, non era di dovere, che per
quella nuova divisione venisse a perderle, o a scemarsele. Nè se non
molto tempo da poi, la chiesa di Gerusalemme fu decorata della dignità
Patriarcale, come più innanzi vedremo.

L'altra provincia di questa diocesi fu la Siria, ch'ebbe per metropoli
Antiochia, Capo ancora di tutta la diocese; ma poi divisa in due, oltre
ad Antiochia, riconobbe l'altra, che fu _Apamea_.

La Cilicia, che parimente fu in due province divisa, riconobbe ancora
due metropoli, _Tarso_, ed _Anazarbo_.

La Fenicia, divisa che fu in due province, riconobbe anche due
Metropoli, _Tiro_ e _Damasco_. Eravi ancora nella Fenicia la città
di _Berito_, celebre al Mondo, come s'è veduto nel primo libro, per
la famosa Accademia ivi eretta. Ne' tempi di Teodosio il Giovane,
Eustazio Vescovo di questa città ottenne da quel Principe rescritto,
col quale Berito fu innalzata a Metropoli: per la qual cosa Eustazio
in un Concilio, che di que' tempi si tenne in Costantinopoli,
domandò, ch'essendo la sua città stata fatta metropoli, si dovesse
in conseguenza far nuova divisione delle Chiese di quella provincia,
ed alcune di esse, che prima s'appartenevan al Metropolitano di
Tiro, dovessero alla sua nuova metropoli sottoporsi. Fozio, che si
trovava allora Vescovo di Tiro, scorgendo l'inclinazion di Teodosio,
bisognò per dura necessità, che approvasse la divisione. Ma morto
l'Imperador Teodosio, e succeduto nell'Imperio d'Oriente Marciano,
portò il Vescovo Fozio le sue doglianze al nuovo Imperadore del
torto fattogli, chiedendo, che alla sua città antica metropoli si
restituissero quelle Chiese, che l'erano state tolte. Fece Marciano
nel Concilio di Calcedonia riveder la Causa, e parve a que' Padri, che
tal affare non secondo la nuova disposizione di Teodosio, e secondo
le novelle costituzioni de' Principi dovesse regolarsi, ma a tenor
de' canoni antichi: e lettosi nell'Assemblea il canone del Concilio
Niceno, col quale si stabiliva, che in ciascheduna provincia un solo
fosse il Metropolitano, fu determinato a favor del Vescovo di Tiro, e
restituite alla Cattedra tutte le Chiese di questa provincia: poichè
secondo l'antica disposizione delle province della diocesi d'Oriente,
la Fenicia era una provincia, ed un solo Metropolitano riconobbe.

Così quando i Vescovi volevan intraprendere sopra le ragioni del loro
Metropolitano, solevan ricorrere agl'Imperadori, ed ottener divisione
della provincia, e che la lor città s'innalzasse a metropoli, affinchè
potessero appropriarsi le ragioni di Metropolitano sopra quelle Chiese,
che toglievansi al più antico. In fatti l'Imperador Valente in odio di
Basilio divise la Cappadocia in due parti, e così facendosi nell'altre
province, seguì ancora la divisione delle province della Chiesa, come
testimonia Nazario; perocchè ne' tempi, che seguirono, non fu ritenuto
il rigore del Concilio Niceno, il quale, possiam dire, nella sola
causa di Fozio Vescovo di Tiro essere stat'osservato, giacchè da poi
secondo eran le città dagl'Imperadori innalzate a metropoli, e divise
le province, si mutava per ordinario anche la politia ecclesiastica;
anzi dallo stesso Concilio Calcedonense fu anche ciò permesso,
per quelle parole del _can. 17. Sin autem etiam aliqua Civitas ab
Imperatoria auctoritate innovata fuerit, civiles, et publicas formas,
ecclesiasticarum quoque Parochiarum ordo consequatur._ Quindi poi
nacque, che mutandosi la disposizione e politia dell'Imperio, si videro
anche tante mutazioni nello Stato ecclesiastico, siccome si vedrà
chiaro nel corso di questa Istoria.

In cotal guisa l'altre province ancora di questa diocesi d'Oriente,
come l'Arabia, l'Isauria, la Mesopotamia, Osdroena, Eufrate e Cipro,
secondo la disposizione e politia dell'Imperio riconobbero i loro
Metropolitani, i quali furon così chiamati, perchè presedevan nelle
Chiese delle città principali delle province, e per conseguenza
godevano d'alcune ragioni e prerogative, che non aveano gli altri
Vescovi preposti all'altre Chiese delle città minori della provincia.
Così essi ordinavan i Vescovi eletti dalle Chiese della provincia;
convocavan i Concilj provinciali, ed aveano la soprantendenza e la
cura, perchè nella provincia la fede, e la disciplina si serbasse,
ch'erano le ragioni, e privilegj de' Metropolitani, per li quali si
distingueano sopra i Vescovi: ed in cotal maniera, dopo il Concilio
Niceno, intesero il nome di Metropolitano tutti gli altri Concilj, che
da poi seguirono, e gli altri Scrittori ecclesiastici del quarto, e
quinto secolo.

Egli è ancor vero, che vi furon alcuni Vescovi, ch'ebbero solamente
il nome di Metropolitano, e per sol onore furono così chiamati, non
già perchè ritenessero alcuna di quelle ragioni e prerogative: così il
Vescovo di Nicea solamente per onore ottenne il nome di Metropolitano,
con esser anteposto a tutti gli altri Vescovi di quella provincia;
ma non già restò esente dal Metropolitano di Nicomedia, di cui era
suffraganeo: così anche furon i Vescovi di Calcedonia, e di Berito. E
secondo questo instituto negli ultimi nostri tempi pur veggiamo nel
nostro Regno molti Vescovi come quelli di Nazaret, di Lanciano, e
di Rossano, ed in Sardegna il Vescovo Arborense, o sia d'Oristagni,
i quali per onore godono il titolo di Metropolitano, ancorchè non
avessero provincia, o Vescovo alcuno per suffraganeo.

Il nome d'Arcivescovo non è di potestà, come il Metropolitano, ma solo
di dignità: e prima non soleva darsi, se non a' primi, e più insigni
Vescovi, ed anche molto di rado. Ne' tre primi secoli non s'intese,
nè si legge mai tal nome: cominciò nel quarto secolo a sentirsi,
prima presso ad Atanasio, e da poi in alcuni altri Scrittori, ma di
rado. Nel quinto secolo fu più usitato, e cominciò a darsi a' Vescovi
di Roma, a quelli d'Antiochia, d'Alessandria, di Costantinopoli, di
Gerusalemme, d'Efeso, e di Tessalonica. Nel sesto diedesi anche a quel
di Tiro, d'Apamea, e ad alcuni altri: San Gregorio Magno diede da poi
questo nome a' Vescovi di Corinto, di Cagliari, e di Ravenna: e ne'
seguenti tempi del secolo ottavo fu dato a questi, e ad altri insigni
Metropolitani, come di Nicopoli, di Salona, d'Acquileja, di Cartagine,
e d'altre città. Ma negli ultimi tempi, e ne' secoli men a noi lontani
questo nome promiscuamente se l'attribuirono tutti i Metropolitani
anzi sovente fu dato a' semplici Vescovi, che non erano Metropolitani;
donde avvenne, che presso a' Greci degli ultimi tempi fossero più gli
Arcivescovi che i Metropolitani, perchè fu facile a' semplici Vescovi
d'attribuirsi questo spezioso nome, ma non così facile di sottoporsi le
Chiese altrui. E per questa cagione si veggon ancora nel nostro regno
molti Arcivescovi senza suffraganei: di che più ampiamente tratterassi,
quando della politia ecclesiastica di questi ultimi tempi ci toccherà
ragionare.

Ecco come nelle province della diocesi d'Oriente ravvisiamo
i Metropolitani secondo la disposizione delle città metropoli
dell'Imperio. Ecco ancora come in questa diocesi ravviseremo il suo
Esarca, ovvero _Patriarca_, che fu il Vescovo d'_Antiochia_, come
quegli, che presedendo in questa città, Capo della intera diocesi,
presedeva ancora sopra tutti i Metropolitani di quelle province,
delle quali questa diocesi era composta, e di cui erano le ragioni,
e privilegj patriarcali, cioè d'ordinare i Metropolitani, convocare
i Sinodi diocesani, ed aver la soprantendenza e la cura, che la fede
e la disciplina si serbasse nell'intera diocesi. Prima questi erano
propriamente detti _Esarchi_, perchè alle principali città delle
diocesi erano preposti, e più province sotto di essi avevano: onde
nei canoni del Concilio di Calcedonia in cotal guisa, e per questa
divisione di province, e di diocesi, si distinguevano gli Esarchi da'
Metropolitani: così Filalete Vescovo di Cesarea, e Teodoro Vescovo
d'Efeso furon chiamati Esarchi, perchè il primo avea sotto di se la
diocesi di Ponto, ed il secondo quella dell'Asia. Egli è però vero, che
alcune volte questo nome fu dato anche a' semplici Metropolitani: ed i
Greci negli ultimi tempi lo diedero profusamente a più Metropolitani,
come a quel d'Amira, di Sardica, di Nicomedia, di Nicea, di Calcedonia,
di Larissa, ed altri. Nulladimeno la propria significazion di questa
voce _Esarca_ non denotava altro, che un Vescovo, il quale a tutta la
diocesi presedeva, siccome il Metropolitano alla provincia. Alcuni
di questi Esarchi furon detti anche _Patriarchi_, il qual nome in
Oriente, in decorso di tempo, a soli cinque si restrinse, fra i quali
fu l'_Antiocheno_.

I confini dell'Esarcato d'Antiochia non s'estesero oltre a' confini
della diocesi d'Oriente, poichè l'altre province convicine essendo
dentro i confini dell'altre diocesi, appartenevano a gli altri
Esarchi. Così la diocesi d'Egitto, come quinci a poco vedrassi, era
all'Esarca d'Alessandria sottoposta, e l'altre tre diocesi d'Oriente,
come l'Asiana, la Pontica, e la Tracia, erano fuori del suo Esarcato;
anzi nel Concilio costantinopolitano espressamente la cura di queste
tre diocesi a' propri Vescovi si commette. Nè quando il Vescovo di
Costantinopoli invase queste tre diocesi, ed al suo Patriarcato
le sottopose, come diremo più innanzi, si legge, che il Vescovo
d'Antiochia glie l'avesse contrastato, come a lui appartenenti.

La seconda diocesi, ch'era sotto la disposizione del Prefetto Pretorio
d'Oriente, fu l'Egitto. La città principale di questa diocesi fu la
cotanto famosa e rinomata _Alessandria_: quindi il suo Vescovo sopra
tutti gli altri alzò il capo, e la sua Chiesa, dopo quella di Roma,
tenne il primo luogo: s'aggiungea ancora un'altra prerogativa, che in
questa Cattedra vi sedè S. Marco Evangelista primo suo Vescovo.

Fu questa diocesi prima divisa in tre sole province, l'Egitto
strettamente preso, la Libia e Pentapoli, e quindi è che nel sesto
canone del Concilio Niceno si legga: _Antiqua consuetudo servetur
per Aegyptum, Lybiam, et Pentapolim, ita ut Alexandrinus Episcopus
horum omnium habeat potestatem._ La Libia fu da poi divisa in due
province, la superiore e l'inferiore: s'aggiunse l'Arcadia, la Tebaide
e l'Augustamnica: e finalmente, la diocesi d'Egitto si vide divisa in
dieci province, ed altrettante città metropoli sursero, onde dieci
Metropolitani furon a proporzione del numero delle province indi
accresciuti. Questi al Vescovo d'Alessandria, come loro _Esarca_, e
Capo della Diocesi erano sottoposti, sopra i quali esercitò tutte
le ragioni, e privilegi esarcali. I confini del suo Esarcato non
si distendevano oltre alla diocesi d'Egitto, che abbracciava queste
dieci province. Nè s'impacciò mai dell'Affrica occidentale, come ben
pruova l'accuratissimo Dupino[504], onde furon in gravissimo errore
coloro, che stimarono tutta l'Affrica, come terza parte del Mondo, al
Patriarcato d'Alessandria essere stata sottoposta. Anche questo Esarca,
come quello d'Antiochia, acquistò da poi il nome di _Patriarca_, e fu
uno de' cinque più rinomati nel quinto, e sesto secolo, come diremo più
innanzi.

La terza diocesi disposta sotto il Prefetto P. d'Oriente fu l'_Asia_,
nella quale, una provincia, detta ristrettamente Asia, fu Proconsolare;
e metropoli di questa provincia, ed insieme Capo dell'intera diocesi
fu la città d'_Efeso_. L'altre province, come Panfilia, Elesponto,
Lidia, Pisidia, Licaonia, Licia, Caria, e la Frigia, che in due fu
divisa, Pacaziana, e Salutare, erano al Vicario dell'Asia sottoposte,
e ciascuna ebbe il suo Metropolitano: oltre ciò era un Metropolitano
nell'isola di Rodi, ed un altro in quella di Lesbo.

La diocesi asiana divenne una delle _Autocefale_, come quella che nè al
Patriarca d'Alessandria, nè a quello d'Antiochia fu giammai sottoposta.
Riconosceva, solamente il Vescovo d'Efeso per suo Primate, come
colui, che nella città principale di tutta la diocesi era preposto;
per questa ragione Teodoro Vescovo d'Efeso fu detto _Esarca_, siccome
furon appellati tutti gli altri, che ressero quella Chiesa; poichè la
lor potestà si distendeva non pure in una sola provincia, ma in tutta
la diocesi asiana. Ma non poterono questi Esarchi conseguire il nome
di Patriarca; perchè tratto tratto quello di Costantinopoli non pur
restrinse la loro potestà, ma da poi sottopose al suo Patriarcato tutta
intera questa diocesi.

La quarta fu la diocesi di _Ponto_, la cui città principale era
_Cesarea_ in Cappadocia. Prima questa diocesi si componeva di sei sole
province, che furono Cappadocia, Galazia, Armenia, Ponto, Paflagonia,
e Bitinia; tutte queste da poi, toltone Bitinia, furon divise in due,
onde di sei, che prima erano, si vide il lor numero multiplicato in
undici, che altrettanti Metropolitani conobbero. In questa diocesi
era la città di Nicea, che nel civile, e nell'ecclesiastico ebbe la
prerogativa d'essere dagl'Imperadori Valentiniano e Valente innalzata
in metropoli. S'oppose a tal innalzamento il Vescovo di Nicomedia,
ch'era la città Metropoli di quella provincia, pretendendo, che ciò
non dovesse cagionar detrimento alcuno alle ragioni, e privilegi della
sua Chiesa metropolitana; ma perchè Valentiniano e Valente avevan
bensì conceduta a Nicea quella prerogativa, ma non già, che perciò
intendessero togliere le ragioni altrui; per ciò furon al Metropolitano
di Nicomedia conservati i privilegi della sua Chiesa, e che quella
di Nicea potesse ritener solamente l'onore ed il nome, ma non già le
ragioni e privilegi di Metropolitano. Sopra tutti questi Metropolitani
presedeva il Vescovo di _Cesarea_, ch'era la città principale di questa
diocesi. Per questa ragione fu anch'egli appellato _Esarca_, come
quelli d'Antiochia, d'Alessandria, e d'Efeso: ma non già come quei
due primi potè acquistar l'onore di Patriarca, poichè la sua diocesi
fu da poi non altrimenti, che l'Asiana sottoposta al Patriarcato di
Costantinopoli.

La quinta ed ultima diocesi, che ubbidiva al Prefetto P. d'Oriente,
fu la _Tracia_, Capo della quale era _Eraclea_. Si componeva di
sei province, Europa, Tracia, Rodope, Emimonto, Mesia e Scizia; e
ciascuna riconobbe il suo Metropolitano: ma da poi in questa diocesi
si videro delle molte e strane mutazioni, così nello stato civile, che
ecclesiastico. Prima per suo Esarca riconosceva il Vescovo d'_Eraclea_,
come Capo della Diocesi, il quale avea per suffraganeo il Vescovo di
_Bizanzio_; ma in appresso, che a Costantino piacque ingrandir cotanto
questa città, che fattala Capo d'un altro Imperio, volle anche dal
suo nome chiamarla, non più Bizanzio, ma _Costantinopoli_, il Vescovo
di questa città innalzossi, secondando la politia dell'Imperio, sopra
tutti gli altri, e non solamente non fu contento delle ragioni di
Metropolitano, ovvero di _Esarca_, con sopprimer quello d'Eraclea; ma
decorato anche dell'onore di _Patriarca_, pretese poscia stender la sua
autorità oltre a' confini del suo Patriarcato, ed invadere ancora le
province del Patriarcato di Roma, come più innanzi dirassi.

Ecco in breve, qual fosse in questi tempi, che a Costantino seguirono,
la politia dello Stato ecclesiastico nella Prefettura d'Oriente, tutta
conforme e adattata a quella dell'Imperio.


ILLIRICO.

Non disuguale potrà ravvisarsi l'ecclesiastica politia in quelle
diocesi, che al Prefetto P. dell'_Illirico_ ubbidirono, cioè nella
_Macedonia_, e nella Dacia. La diocesi di Macedonia, che abbracciava
sei province, cioè Acaja, Macedonia, Creta, Tessaglia, Epiro
vecchio, ed Epiro nuovo, ebbe ancora la città sua principale, che
fu _Tessaglia_, dalla quale il suo Vescovo, come Capo della diocesi,
reggeva l'altre province, e sopra i Metropolitani di quella esercitava
le sue ragioni _esarcali_. La diocesi della _Dacia_ di cinque province
era composta, della Dacia Mediterranea, e Ripense, Mesia prima,
Dardania, e parte della Macedonia Salutare. Ci tornerà occasione della
politia di queste diocesi più opportunamente favellare, quando del
Patriarcato di Roma tratteremo; e potendo fin qui bastare ciò, che
della politia dello Stato ecclesiastico d'Oriente fin'ora s'è narrato
per la conformità, ch'ebbe con quella dell'Imperio, passeremo in
_Occidente_, per potere fermarci in Italia, e più da presso in queste
nostre province ravvisarla, per conoscere ciò che di nuovo ne recasse,
e qual mutazione portasse al loro Stato politico, e temporale.


GALLIE.

Ma prima bisogna notare ciò, che da' valenti investigatori delle cose
ecclesiastiche fu osservato, che più esattamente corrispose la politia
della Chiesa a quella dell'Imperio in Oriente, e nell'Illirico, che
in Occidente, ed in queste nostre province. Nell'Oriente appena potrà
notarsi qualche diversità di piccol momento; ma nell'Occidente se
n'osservano molte. Nelle Gallie se ne veggon delle considerabili:
nell'Italia pur alcune se ne ravvisano: ma molto più nell'Affrica
occidentale, ove le metropoli ecclesiastiche non corrispondono per
niente alle civili.

Le Gallie, secondo la descrizione di sopra recata, che a quel Prefetto
ubbidivano, eran divise in tre diocesi: la Gallia, che abbracciava
diciassette province, la Spagna, che si componeva di sette, e la
Brettagna di cinque.

La Gallia non v'è alcun dubbio, che prima tenesse disposte le sue
Chiese, secondo la disposizione delle province, che componevano la
sua diocesi, in maniera che ciascuna metropoli ecclesiastica aveva
corrispondenza colla civile; ed in questi primi tempi non riconobbe la
Gallia niun Primate, ovvero _Esarca_, siccome le diocesi d'Oriente,
ma i Vescovi co' loro Metropolitani reggevano in comune la Chiesa
gallicana. E la cagion era, perchè nella Gallia non vi fu una città
cotanto principale ed eminente sopra tutte altre, sì che da quella
dovessero tutte dipendere, siccome nell'altre parti del Mondo. Ma
da poi si videro molte di quelle città in contesa per le ragioni di
Primate. Nella provincia di Narbona fuvvi gran contrasto fra i Vescovi
di Vienna, e l'Arclatense[505], di cui ben a lungo tratta Dupino[506].
Nell'Aquitania ne' tempi posteriori altra contesa s'accese fra i
Vescovi Bituricense[507], e Burdegalense[508], che potrà vedersi
appresso Alteserra[509]. In quest'ultimi tempi nell'Occidente quei
Vescovi, i quali di qualche principalissima città erano Metropolitani,
s'arrogaron molte altre prerogative sopra gli altri Metropolitani,
e si dissero Primati, ancorchè prima questo titolo s'attribuiva
indifferentemente a tutti i Metropolitani: così nella Francia
il Metropolitano di Lione appellasi Primate, e ritiene assai più
prerogative, che non gli altri Metropolitani.

La Spagna riconobbe in questi primi tempi qualche politia
ecclesiastica, conforme a quella dell'Imperio, ma da poi mutandosi
il suo governo politico, fu tutta mutata, e secondo che una città, o
per la residenza de' Principi, o per altra cagione s'innalzava sopra
l'altre di più province, così il Vescovo di quella Chiesa, non contento
delle ragioni di Metropolitano, s'arrogava molte prerogative sopra
gli altri, e Primate diceasi: così oggi la Spagna ha per suo Primate
l'Arcivescovo di Toledo, come la Francia quello di Lione.

La Brettagna, ancorchè prima riconoscesse qualche politia
ecclesiastica, conforme alla civile dell'Imperio, nulladimeno occupata
che fu poi da' Sassoni, perdè affatto ogni disposizione, nè in essa si
ritenne alcun vestigio dell'antica politia, così nello stato civile,
come nell'ecclesiastico.


ITALIA.

Abbiam riserbato in questo ultimo luogo la Prefettura d'Italia, poichè
in quella secondo il nostro istituto dovremo fermarci, per conoscere
più minutamente la politia ecclesiastica delle nostre province in
questi tempi.

Sotto il Prefetto d'Italia, come s'è veduto, erano tre diocesi,
l'Illirico, l'Affrica, e l'Italia: delle due prime non accade qui
favellare; ma dell'Italia, nella quale veggiamo instituito il più
celebre Patriarcato del Mondo, è di mestieri, che un poco più
diffusamente si ragioni: ciò che anche dovrà riputarsi uno de'
maggiori pregi di questa diocesi, che quando gli altri Patriarcati,
e quell'istesso di Costantinopoli, che attentò di usurpar eziandio le
costui ragioni, sono già tutti a terra, il solo Patriarca di Roma sia
in piedi; ed unendosi anche nella sua persona le prerogative di Primo,
e di Capo sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico, e sopra quanti
Patriarchi vi furon giammai, meritamente può vantarsi la nostra Italia,
e Roma, esser ella la principal sede della religione, siccome un tempo
fu dell'Imperio.

Al Prefetto d'Italia, come sè detto, due _Vicariati_ erano sottoposti:
il Vicariato di _Roma_, e quello d'_Italia_. Nel Vicariato di Roma
erano poste dieci province. Tutte le quattro nostre province; onde ora
si compone il Regno, cioè la Campagna: la Puglia e Calabria: la Lucania
e Bruzj: ed il Sannio, appartenevano al Vicariato di quella città. Vi
andavan ancora comprese l'Etruria e l'Umbria: il Piceno Suburbicario:
la Sicilia: la Sardegna: la Corsica e la Valeria.

Sotto il Vicariato d'Italia, il cui Capo fu la città di _Milano_, erano
sette province: la Liguria: l'Emilia: la Flaminia, ovvero il Piceno
Annonario: Venezia, a cui da poi fu aggiunta l'Istria: l'Alpi Cozzie,
e l'una e l'altra Rezia.

Questa divisione d'Italia in due Vicariati portò in conseguenza, che la
politia ecclesiastica d'Italia non corrispondesse a quella d'Oriente;
poichè non ogni provincia d'Italia, siccome avea la città metropoli,
ebbe il suo Metropolitano, come in Oriente, ma le città, come prima,
ritennero i semplici Vescovi; e questi non ad alcun Metropolitano, ma
o al Vescovo di Roma, o a quello di Milano erano suffraganei: quegli
del Vicario di Roma al Vescovo di quella città, gli altri del Vicariato
d'Italia al Vescovo di Milano[510].

Le province, che al Vicariato della città di Roma s'appartenevano,
come ben pruova il Sirmondo[511], per questo stesso s'appellarono
suburbicarie: onde le Chiese suburbicarie eran quelle, che nel
Vicariato di Roma eran comprese. G. Gotofredo, e Cl. Salmasio sono
d'altro sentimento: essi, restringono in troppo angusti confini
le province e le Chiese suburbicarie, e pretendono, che fossero
state quelle, che per cento miglia intorno a Roma, e non oltre si
distendevano, e che al Prefetto della città di Roma ubbidivano. Altri
diedero in un'altra estremità, e sotto nome di province suburbicarie
intesero, chi l'universo Imperio di Roma, e chi almeno tutto
l'Occidente, come con grandi apparati studiaronsi provare Emanuello
Schelstrate, e Lione Allacci[512].

Ma Lodovico Ellies Dupino[513] non può non commendare per vera
l'opinione di Sirmondo, e riprovando così l'una, come l'altra delle
opposte sentenze, sopra ben forti e validi fondamenti stabilisce le
province e le Chiese suburbicarie essere state quelle, che al Vicario
di Roma ubbidivano, e che da quel Vicariato eran comprese.

Per questa cagione avvenne, che secondando la politia della Chiesa
quella dell'Imperio, il Vescovo di Roma sopra tutte queste province
esercitasse le ragioni di Metropolitano. Non potea chiamarsi
propriamente Esarca, perchè non l'intera diocesi d'Italia fu a
lui commessa, siccome eran nomati gli Esarchi d'Oriente, i quali
dell'intere diocesi avean il pensiero; ma la diocesi d'Italia essendosi
divisa in due Vicariati, questo fece, che non si stendesse più oltre
la sua autorità, nè fuori, nè dentro l'istessa Italia; poichè fuori di
queste province suburbicarie, i Metropolitani di ciascuna provincia
ordinavano tutti i Vescovi, ed essi da' Vescovi della provincia eran
ordinati[514]: e se si legge, avere i romani Pontefici in questi
medesimi tempi raunato talora da tutte le province d'Occidente
numerosi Sinodi, cotesto avvenne, non per ragion dell'autorità sua
di Metropolitano, ma per ragion del Primato, che tiene sopra tutte
le Chiese del Mondo cattolico; la qual cosa in progresso di tempo
(confondendosi queste due autorità) portò quell'estensione del
Patriarcato romano, che si vide da poi, quando non contento delle
province suburbicarie, si sottopose l'_Illirico_, dove mandava
suoi Vicarj; ed indi non solamente si dilatò per tutte le province
d'_Italia_, ma per le _Gallie_, e per le _Spagne_ ancora, tanto che
acquistò il nome di Patriarca di tutto l'_Occidente_, come si vedrà più
innanzi.

Ma in questi tempi, ne' quali siamo di Costantino, infino
all'Imperio di Valentiniano III l'autorità sua, che per ordinario
diritto esercitava, non s'estendeva più, che nelle sole province
suburbicarie[515]. E perciò avvenne ancora; che il R. P. esercitasse in
queste province la sua autorità con maggiore e più pieno potere, che
non facevan gli Esarchi d'Oriente nelle province delle loro diocesi;
imperciocchè a lui come Metropolitano s'appartenevano l'ordinazioni,
non solamente de' Vescovi delle città metropoli, ma anche di tutti
gli altri Vescovi di quelle province: quando in Oriente gli Esarchi
l'ordinazione di questi Vescovi la lasciavano a' loro Metropolitani.

Nè il nome di Patriarca dato al Pontefice romano, fu cotanto antico,
come agli Esarchi d'Oriente. Se voglia riguardarsi l'antichità della
Chiesa, fu prima questo nome di Patriarca dato in Oriente per encomio
anche a' semplici Vescovi[516]: poi si ristrinse agli Esarchi, ch'avean
cura dell'intere diocesi, per la qual cosa presso a' Greci tutti gli
Esarchi con questo nome di Patriarca eran chiamati. Ma in Occidente
infra i Latini, il primo che si fosse nomato, fu il Pontefice romano:
ed i Greci medesimi furono i primi a dargli questo encomio, ma non
prima de' tempi di Valentiniano III. In questi tempi Lione R. P. fu da'
Greci e da Marciano stesso Imperador di Oriente chiamato Patriarca; nè
prima, come notò l'accuratissimo Dupino, da' Latini stessi, o da' Greci
se gli diede tal nome: ed il Sirmondo[517] non potè contra Claudio
Salmasio allegar sopra ciò esempi più antichi, che degli Imperadori
Anastasio e Giustino, i quali aveano chiamato Patriarca Ormisda Vescovo
di Roma.

Per questa cagione nelle nostre province non leggiamo noi Metropolitano
alcuno: ed ancorchè dopo Costantino si fosse veduta in maggior
splendore la Gerarchia ecclesiastica, le città delle nostre province
però non ebbero, che i soli Vescovi, come prima, non riconoscenti
altri, che il Vescovo di Roma per loro Metropolitano. Ciò che non
accadde nelle province d'Oriente, nelle quali, come s'è veduto,
ciascuna provincia ebbe il suo Metropolitano, il quale sopra i Vescovi
di quella provincia esercitava le ragioni sue di Metropolitano: presso
di noi fu diversa la politia: poichè, ancorchè la provincia della
Campagna avesse la sua città metropoli, la quale fu Capua, non per
questo il suo Vescovo sopra gli altri Vescovi della medesima provincia
alzò il capo, con rendersegli suffraganei: nè se non ne' tempi a noi
più vicini, e propriamente nell'anno 968, la Chiesa di Capua fu renduta
metropoli, ed il suo Vescovo acquistò le ragioni di Metropolitano
sopra molti Vescovi di quella provincia suoi suffraganei. La Puglia
parimente, e la Calabria non riconobbe se non molto da poi i suoi
Metropolitani; e se non voglia tenersi conto di ciò, che dal Patriarca
di Costantinopoli si disponeva intorno alle Chiese di questa provincia,
Bari, Canosa, Brindisi, Otranto, Taranto, S. Severina, e l'altre città
della medesima, non gli riconobbero, se non ne' secoli seguenti,
e Siponto più tardi da Benedetto IX fu nell'anno 1034 costituita
metropoli. Lo stesso s'osserva nella provincia della Lucania, e de'
Bruzj, dove Reggio e Salerno, che secondo la politia dell'Imperio
erano in questi tempi le città metropoli della medesima provincia, non
ebbero, che i soli Vescovi, e Reggio conobbe da poi i Metropolitani,
mercè del Patriarca di Costantinopoli, siccome Salerno da Benedetto V
nell'anno 984, e così gli altri, che veggiam ora in questa provincia.
Il Sannio ancora gli conobbe molto tardi: Benevento fu innalzato a
questo onore da Giovanni XII nell'anno 969 un anno dopo Capua: e tutti
gli altri Metropolitani, che ora scorgonsi moltiplicati in tanto numero
in tutte queste nostre province, hanno men antica origine, come si
vedrà chiaro più innanzi nel corso di questa Istoria.

Ne' tempi adunque, ne' quali siamo di Costantino sino a Valentiniano
III, le Chiese di queste nostre province, come suburbicarie, ebbero
per loro Metropolitano il solo Pon. Romano: a lui solo s'apparteneva
l'ordinazione de' Vescovi[518]: e quando mancava ad una città il
Vescovo, il Clero ed il Popolo eleggevan il successore, poi si mandava
al R. P. perchè l'ordinasse[519]; il quale sovente, o faceva venir
l'eletto a Roma, ovvero delegava ad altri la sua ordinazione; e da poi
s'introdusse, che quando accadevan contese intorno all'elezione, egli
le decideva, o per compromesso si terminavano: il qual costume vedesi
continuato ne' tempi di S. Gregorio M. del quale ci rimangono ancora
nel Registro delle sue Epistole molti provvedimenti, che diede per
l'elezione de' Vescovi di Capua, di Napoli, di Cuma e di Miseno, nella
Campagna; e nel Sannio, de' Vescovi di Apruzzi[520][521].

Ed in Sicilia, come provincia suburbicaria, pur osserviamo la medesima
autorità esercitata da' romani Pontefici intorno all'elezione de'
Vescovi, come è manifesto dall'Epistole di Lione, e da quelle di
Gregorio M.[522].

Ecco in brieve qual fu del quarto e quinto secolo la politia
ecclesiastica in queste nostre province: ebbero, come prima, i soli
Vescovi, nè riconobbero sopra le loro città alcun Metropolitano: solo
il Pontefice romano esercitava le ragioni di Metropolitano sopra
quelle, e vi tenea spezial cura e pensiero. Per questa cagione, nè
l'eresia d'Arrio, nè la Pelagiana poteron giammai in queste province
por piede[523]. Nè i Patriarchi di Costantinopoli eran ancora entrati
nella pretensione di volere al loro Patriarcato sottoporre queste
province, siccome tentaron da poi a tempo di Lione Isaurico, e del
Pontefice Gregorio II, e posero in effetto ne' tempi seguenti; di che
altrove avrem opportunità di favellare. Nè in queste nostre province
si conobbe fin a questo tempo altra Gerarchia, che di Diaconi, Preti,
Vescovi, e di Metropolitano, qual era il Vescovo di Roma, Capo insieme,
e Primo sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico. Alcuni anche a
questo tempo mettono l'instituzione de' Sottodiaconi, degli Acoliti,
Esorcisti, Lettori, ed Ostiarj; ed eziandio d'alcuni altri Ministri,
che non s'appartengono punto all'ordine gerarchico, ma alla custodia
ed alla cura delle temporalità della Chiesa: di che altrove ci tornerà
l'occasione di ragionare.


§. I. _De' Monaci._

In Oriente però s'erano già cominciati a sentire i Solitarj, appellati
in lor favella _Monaci_: ma questi non eran, che uomini del secolo,
senza carattere e senza grado, i quali nelle solitudini, e ne'
deserti dell'Egitto per lo più menavano la lor vita: data che fu pace
alla Chiesa dall'Imperador Costantino, cominciò a rilasciarsi nella
comunità de' Cristiani quella virtù, che ne' tre primi precedenti
secoli in mezzo alle persecuzioni era esercitata: e siccome non era
più di pericolo l'esser Cristiano, molti ne facevan professione,
senz'esser ben convertiti, nè ben persuasi del disprezzo de' piaceri,
delle ricchezze, e della speranza del Cielo. Così coloro che vollero
praticare la vita cristiana in una maggior purità, trovarono più sicuro
il separarsi dal Mondo, ed il vivere nella solitudine[524].

I primi Monaci, che ci comparvero, furon in fra di loro divisi e
distinti in due ordini, ciò sono, _Solitarj_, e _Cenobiti_: i primi si
chiamaron anche Eremiti, Monaci, Monazonti, ed Anacoreti. Alcuni han
voluto tirar l'origine del Monachismo da' Terapeuti, che credettero
essere una particolar società di Cristiani stabilita da S. Marco
ne' contorni d'Alessandria, de' quali Filone descrive la vita. Ma se
bene Eusebio avesse creduto, che i Terapeuti fossero Cristiani, ed
avesse loro attribuito il nome di Asceti; nulladimanco è cosa affatto
inverisimile riputar quelli, Cristiani e discepoli di S. Marco.
Poichè quantunque la vita, che di lor ci descrive Filone, fosse molto
conforme a quella de' Cristiani, le molte cose però che e' soggiunse
dei loro riti e costumi, come l'osservanza del Sabato, la Mensa sopra
la quale offerivano pani, sale, ed isopo, in onor della sacra Mensa
ch'era dentro al vestibolo del tempio, e mille altre usanze, che non
s'accordano co' costumi degli antichi Cristiani, convincono e fan
vedere, che coloro fossero Ebrei, non Cristiani. Il nome di Asceti, che
Eusebio loro attribuisce, non deve fargli passar per Monaci, poichè
siccome il termine d'Asceti è un termine generale, che significa
coloro, che menano una vita di quella degli altri più austera e più
religiosa, così non si può conchiudere aver egli creduto, che gli
Asceti fosser Monaci[525].

Comunque ciò siasi, egli è cosa certa, che erano nel quarto secolo
questi Monaci moltiplicati in guisa, che non vi fu provincia
dell'Oriente, che non ne abbondasse. La diocesi d'Oriente, il cui
capo era Antiochia, ne fu piena: in Egitto il numero era infinito.
Nell'Affrica, e nella Siria parimente abbondavano: ed in Occidente eran
ancora in questi tempi penetrati fin dentro a' confini del Vescovato
romano, nella nostra Campagna, e nelle circonvicine province, siccome
è chiaro da una costituzione di Valentiniano il Vecchio dirizzata
nell'anno 370 a Damaso Vescovo di Roma[526]. Palladio[527] ancor
rapporta, in queste nostre province, come nella Campagna e luoghi
vicini, verso la fine del quarto secolo, molti aver menata vita
eremitica e solitaria: ed il P. Caracciolo[528] non pur nella Campagna,
ma anche nel Sannio e nella Lucania ne va molti ravvisando.

Questi viveano nelle solitudini e ne' deserti, ed ivi menavan una vita
tutta divota, sciolti da ogni cura mondana, e lontani dalle città,
e dal commercio degli uomini. Si fabbricavano per abitare povere
cellette, e passavano il giorno lavorando, facendo stuoje, panieri,
ed altre opere facili, e questo lor lavorio bastava non solo per
alimentargli, ma ancora per far grandi elemosine. I Gentili reputavano
questa lor vita, oziosa ed infingarda, onde ne furono acerbamente
calunniati da' loro Scrittori[529], accagionandogli, che in queste
solitudini si contaminassero d'ogni sozza libidine, e di nefandi vizj.
Non avevan certa regola, nè si legavan a voto alcuno: la lor vita
quieta tirava della molta gente al bosco, tanto che ne venner tosto
a nascere degli abusi; perchè molti per isfuggire i pesi della Curia,
e degli altri carichi della Repubblica, e per menare una vita affatto
oziosa, e sottrarsi da ogni altra obbligazione, sotto finto pretesto
di religione, lasciavano le città, e andavansi ad unire con questi
Solitarj; tanto che fu di mestieri a Valente di proibire questi loro
recessi, e ordinare, che si richiamassero da que' luoghi nelle città,
a portare i carichi lor dovuti[530].

Ma i Solitarj, non guari da poi, degenerando dal lor instituto, troppo
spesso frequentavano le città, e s'intrigavano negli affari del secolo;
nè vi occorreva lite ne' Tribunali, nè faccenda, o qual altro si
fosse negozio nelle piazze, ch'essi non ne volessero la lor parte: e
crescendo vie più la lor audacia, furon sovente cagione nelle città di
molti disordini e tumulti: di che se ne leggono molti esempj appresso
Eunapio[531], Crisostomo, Teodoreto, Zosimo, Libanio, Ambrosio,
Basilio, Isidoro Pelusiota, Geronimo, ed altri: tanto che bisognò, che
i Giudici, e gli altri Magistrati ricorressero all'Imperador Teodosio
M. perchè rimediasse a' disordini sì gravi, ed alla Rep. perniziosi,
e da quel Principe fu proferita legge, colla quale fu comandato, che
non partissero dalle loro solitudini, nè capitassero mai più nelle
città: ma non passarono venti mesi, che Teodosio in grazia de' medesimi
Solitarj rivocò la legge[532].

Ebbero costoro per loro Gonfaloniere nella Tebaide Paolo, detto perciò
primo Eremita: nella Palestina, Ilarione, e ne' deserti d'Egitto
Geronimo, i quali con intento d'imitare, così vivendo, Elia e Giovanni
precursor di Cristo, si renderono per la loro austerità assai rinomati
e celebri.

Gli altri s'appellaron _Cenobiti_, ovvero Religiosi, perchè essi
avevansi prescritte certe regole di vita, ed in comunità vivevano.
Traggon questi la lor origine dagli _Esseni_, ch'era una Setta di
Giudei distinta dai _Terapeuti_, e la maniera del loro vivere era
molto diversa da coloro, siccome quelli, che menavan una vita tutta
contemplativa, e molto divota, della quale Filone[533] appresso Eusebio
fa lungo racconto, descrivendola tutta simile a quella de' nostri
Religiosi.

Il primo lor Duce nella Tebaide fu Antonio. In Grecia Basilio, il
quale gli obbligò a tre voti, che diciamo ora esser essenziali alla
Religione, cioè d'ubbidienza per combattere l'alterigia del nostro
spirito; di castità risguardante i moti nel nostro corpo; e di povertà,
per una totale abbominazione a' beni di fortuna.

(Altri vogliono, che _Basilio_ non fosse stato Institutore di alcun
nuovo Ordine, ma solo il direttore di que' che si erano già resi
Monaci, siccome infra gli altri credette _Binghamo_[534].)

S. Benedetto gl'introdusse in Italia, e propriamente nella nostra
Campagna: ma ciò avvenne nel principio del sesto secolo sotto il Regno
di Totila, di che nei libri, che seguono, ci verrà a proposito di
ragionare più a lungo, come d'una pianta pur troppo in questo nostro
terreno avventurosa, che distese i suoi rami, e dilatò i germogli in
più remote regioni.

S. Pacomio diede anche perfezione all'ordin monastico, ed unì molti
Monasterj in congregazione: loro diede una regola, e fondò monasterj di
donzelle. Erano state già prima introdotte alcune comunità di donzelle,
le quali facevano voto di virginità, e dopo un certo tempo ricevevano
con solennità il velo. Così essendo la vita monastica dell'uno e
dell'altro sesso divenuta più comune, furono stabiliti monasterj, non
solo vicino alle città grandi, ma eziandio dentro le stesse città, ed
in quelli i Monaci viveano in solitudine in mezzo al Mondo, praticando
la loro regola sotto un Abate, ovvero Archimandrita; ed il Monachismo
da Oriente passò in Occidente verso il fine del quarto secolo.

Di questi Cenobiti ne' secoli seguenti ne germogliaron infiniti altri
Ordini di regole diverse, che potranno vedersi presso a Polidoro
Virgilio[535], de' quali nel corso di questa Istoria, secondo
l'opportunità, se ne farà menzione.

S. Agostino pur volle nell'Affrica introdurre un altro Ordine di
regolarità: egli fu l'Autore de' Canonici Regolari, avendo posti in
vita religiosa i suoi Preti della Chiesa d'Ippona. Non gli chiamò nè
Monaci, nè Religiosi, ma Canonici, cioè astretti a regole, ch'eran
mescolate di chericheria, e della pura vita monastica: e fu chiamata
vita apostolica, per l'intento, che s'avea di rinnovare la vita comune
degli Apostoli: eran essi astretti agli accennati tre voti, ed avean
clausura[536].

(_S. Agostino_ vien anche da _Duareno_[537] riputato Autore
de' Canonici Regolari. Ciò che lo stima molto probabile anche
Binghamo[538], se bene _Onofrio Panvinio_[539], ed Ospiniano[540],
credano che fosse stato Autore Papa _Gelasio I_ intorno l'anno 495.
È certo però, che S. Agostino non fu institutore degli Eremiti
Agostiniani, siccome costoro vantano, poichè nè quel Dottore fu
mai Romito, nè si legge aver dettate regole per loro uso, siccome
saviamente ponderò Binghamo[541]. Delle origini ed istituzioni di
tanti nuovi Ordini de' Monaci venuti da poi nel Mondo, oltre Polidoro
Virgilio, son da vedersi Ospiniano[542] e Creccelio[543]).

Sorsero da poi i _Mendicanti_, i quali agli tre descritti voti
aggiunsero il quarto della mendicità, cioè di vivere di elemosina.
Indi seguiron i Fratelli Cavalieri, come furon quelli di S. Giovanni
in Gerusalemme, i Teutonici, i Templarj, che furono sterminati per
Clemente V, i Commendatori di S. Antonio, i Cavalieri di Portaspada,
di Cristo, di S. Lazaro, ed altri annoverati da Polidoro Virgilio, i
quali erano chiamati Fratelli Cavalieri, ovvero Cavalieri Religiosi,
a differenza de' Cavalieri Laici di nobiltà, de' quali tratteremo ne'
seguenti libri di questa Istoria.

Di questi nuovi Ordini di Religiosi ne' tempi, nei quali si
manifestarono, faremo qualche breve racconto: donde non senza stupore
scorgerassi, come in queste nostre province, col correr degli anni,
abbian potuto germogliar tanti e sì varj Ordini, fondandovi sì numerosi
e magnifici monasterj, che ormai occupano la maggior parte della
Repubblica, e de' nostri averi, formando un corpo tanto considerabile,
che ha potuto mutar lo Stato civile e temporale di questo nostro Reame.

In questi secoli, ne' quali siamo di Costantino M. fino a Valentiniano
III niuna alterazione recaron allo Stato politico, perocchè quantunque
molti _Solitarj_ fossero già nel Vescovato di Roma allignati, per
quello che si ricava dalla riferita costituzione di Valentiniano il
Vecchio: ed in queste nostre province fossero ancor penetrati, dove
ristretti in qualche solitudine menavano la lor vita: niente però
portaron di male, o di turbamento allo Stato, nè furon osservati,
nè avuti in alcuna considerazione, e niente perciò s'accrebbe
all'ecclesiastica Gerarchia.

(È manifesto che a questi tempi i Monaci non si appartenevano alla
Gerarchia ecclesiastica, rigettandosi nell'Ordine de' Laici da quel che
ne scrisse _Isaaco Alberto_[544], dicendo: _Monachi quales primo erant
quo extra Ordinem constituti, ad Hierarchiam imperantem non pertinent_.
_Lindano_[545] pur de' Monaci parlando, disse: _Qui omnes sicuti erant
Ordinis Laici, ita una cum reliquis Templi choro, quem dicimus, erant
exclusi_. Insino _Graziano_ confessò, che fino a' tempi di Siricio, e
di Zosimo, _Monachos simpliciter, et non Clericos fuisse, Ecclesiastica
testatur Historia_, come sono le sue parole[546]).

I _Cenobiti_ è manifesto, che, prima di S. Benedetto, eran radissimi,
ed i lor monasterj assai più radi, e di niun conto. Poichè ciò che si
narra del monastero eretto in Napoli da Severo Vescovo di questa città,
che fiorì nell'anno 375 sotto il nome di S. Martino, quando questo
Santo era ancor vivo[547]; dell'altro di S. Gaudioso, che si pretende
fondato da S. Gaudioso stesso Vescovo di Bitinia nell'anno 438, il
qual, fuggendo la persecuzione di Gizerico Re dell'Affrica, si ricoverò
in Napoli[548]; quando quello ebbe i suoi principj circa l'anno 770
da Stefano II Vescovo di questa città[549]: e di alcuni altri fondati
in altre città di queste nostre province[550], e rapportati a questi
tempi, sono tutte favole mal tessute, e da non perderci inutilmente
l'opera ed il tempo in confutarle.


§. II. _Prime collezioni di canoni._

I regolamenti, che tratto tratto, da poi che Costantino diede pace
alla Chiesa, cominciaron a stabilirsi dallo Stato ecclesiastico, se
bene tuttavia per lo corso d'un secolo e mezzo fino a Teodosio il
Giovane e Valentiniano III. moltiplicassero; nulladimeno non davan
in questi tempi alcun sospetto, o gelosia a gl'Imperadori; imperocchè
allora non si poneva in dubbio, ed era cosa ben mille volte confessata,
anzi non mai negata dagli stessi Ecclesiastici, che i Principi per
la loro autorità e protezione, che tenevan della Chiesa, potevano
lodevolmente della stessa canonica disciplina prender cura e pensiero,
ed emendar ciò, che allo Stato avrebbe potuto esser di nocumento e
di disordine: di che ne rende ben ampia e manifesta testimonianza
l'intero libro decimosesto del Codice di Teodosio, compilato unicamente
per dar provvedimento a ciò, che concerneva le persone e le robe
ecclesiastiche.

All'incontro appartenendo, come s'è detto nel primo libro, alla Chiesa
la potestà di far de' canoni attenenti alla di lei disciplina, avendo
già per la pietà di Costantino acquistato maggior splendore, e posta
in una più ampia e numerosa Gerarchia, ebbe in conseguenza maggior
bisogno di far nuovi regolamenti per buon governo della medesima, e per
accorrere a' disordini, che sempre cagiona la moltitudine: perciò oltre
a' libri del Testamento Vecchio e Nuovo, ed alcuni canoni stabiliti in
varj Sinodi tenuti in quelli tre primi secoli, se ne formaron poi degli
altri in maggior numero ne' Concilj più universali, che si tennero
a questo fine; poichè data che fu pace da Costantino alla Chiesa, fu
più facile, che molte Chiese unite insieme comunicassero e trattassero
sopra ciò, che riguardava la disciplina; poichè intorno a tutti gli
altri affari esteriori, gli Ecclesiastici ubbidivano a' Magistrati, ed
osservavan le leggi civili.

Da questo tempo, e non da più antica origine cominciarono i canoni, de'
quali si formaron da poi più _Collezioni_; poichè quantunque alcuni
abbian creduto, che fin dal principio del nascente Cristianesimo
vi fossero stati alcuni regolamenti fatti dagli Apostoli, che anche
a' nostri dì si veggono raccolti al numero di 85 sotto il titolo di
_Canones Apostolorum_: nulla di meno nè l'opinione del Turriano[551],
che stimò tutti essere stat'opera degli Apostoli, nè quella del Baronio
e del Bellarmino, i quali credettero, che cinquanta solamente di que'
canoni fossero Apostolici sono state da savj Critici abbracciate,
i quali comunemente giudicano esser quella una raccolta d'antichi
canoni, e propriamente de' canoni fatti ne' Concilj congregati prima
del Niceno, come, per non entrare in dispute, potrà vedersi appresso
Guglielmo Beveregio[552], Gabriel d'Aubespine, Lodovico Dupino, ed
altri, e quel ch'è più notabile, Gelasio P. gli dichiara apocrifi nel
can. _Sancta Romana, dist_. 15.

Lo stesso si dice del libro delle costituzioni Apostoliche falsamente
attribuito a S. Clemente, per la grande autorità di quel Santo
Pontefice, o che da prima sia stato supposto sotto il nome di
Clemente, o che da poi fosse stato da Eretici corrotto, egli è certo,
che non tiene alcuna autorità nelle materie di Religione, essendovi
state aggiunte varie cose in diversi tempi; onde se bene in esso
si rappresenti l'intera disciplina, almeno della Chiesa orientale,
conchiudono tuttavia gli uomini più sensati, che non possa esser più
antico del terzo secolo[553]. Ed ancorchè prima di questo tempo dobbiam
credere, che varj Concilj si fossero dagli Ecclesiastici raunati,
secondo le varie occorrenze della purità della dottrina cristiana, o
dell'integrità della disciplina, quanto la persecuzione quasi continua
de' Pagani, e l'infelicità de tempi loro permetteva; nondimeno i veri
canoni di quelli si son perduti, e son tutti apocrifi gli altri, che
si millantano; ed in spezie gli atti del Concilio di Sinuessa per
l'apostasia di Marcellino P., e 'l decreto, che la prima sede da niuno
possa venir giudicata, essere certamente cose tutte apocrife, ben lo
dimostra Baronio[554] per autorità di S. Agostino, come inventato dai
Donatisti; anzi Cironio[555] prova che l'accusa di Marcellino non fu
mai vera: che che ne dica fra' nostri il P. Caracciolo[556].

Finalmente in quanto all'_Epistole_ de' Sommi Pontefici, benchè di
queste se ne trovin antichissime del primo e secondo secolo, pure,
toltone due lettere di S. Clemente a' Corintj, che sono _Ascetiche_ più
tosto, che _Decretali_, oggi è costantissima sentenza de' più diligenti
ed accurati Critici, non dico fra' Protestanti, come Blondello,
e Salmasio, ma tra piissimi Cattolici, come i Cardinali Cusano, e
Baronio, Marca, Petavio, Sirmondo, Labbeo, Tomasino, Pagi, ed altri,
che tutte le _Decretali_, che si leggon scritte da' Pontefici romani
prima di Siricio Papa, che morì nell'anno 398 e che si trovano nella
raccolta d'Isidoro Mercatore, il quale comparve al Mondo verso la fine
dell'Imperio di Carlo Magno, sieno in verità spurie e supposte, e da
quell'impostore a suo talento formate: _de hac Isidori impostura_, dice
Tomasino[557], _inter doctos jam convenit_.

I primi canoni adunque, donde cominciarono le tante Collezioni, sono
quelli, che si trovano ne' Concilj del quarto secolo. I primi Concilj
fra gli Ecumenici furono quel di Nicea in Bitinia, congregato per
ordine di Costantino nell'anno 325, e quello di Costantinopoli per
comandamento di Teodosio M. nell'anno 381. I più antichi de' Concilj
provinciali (benchè variamente se ne fissi l'epoca da Cronologisti,
nè possa additarsene certamente l'anno) furono quel di Gangra nella
Paflagonia, di Neocesarea in Ponto, d'Ancira in Galazia, d'Antiochia in
Siria, e di Laodicea in Frigia: fuor di molti altri fatti in Affrica,
in Ispagna, ed altrove meno rinomati.

Dopo questo tempo, cioè verso la fine del quarto secolo, intorno
l'anno 385 si pubblicò la _prima Collezione di canoni_ per opera d'un
certo Vescovo d'Efeso chiamato Stefano, come su la fede di Cristofano
Justello attesta Pietro di Marca[558]. In essa si veggono cento
sessantacinque canoni presi da que' sette Concilj, due generali, e
cinque provinciali della Chiesa d'Oriente poco fa mentovati, cioè
20 dal Concilio di Nicea, 24 da quello d'Ancira, 14 da quello di
Neocesarea, 20 da quello di Gangra, 25 dal Concilio d'Antiochia, 59
da quello di Laodicea, e 3 da quello di Costantinopoli[559]. Ed è da
notare, che i primi canoni appartenenti alla politia e disciplina
ecclesiastica furono stabiliti nel Concilio d'Ancira celebrato
l'anno 314, poichè negli altri più antichi Concilj solo si trattò di
cose appartenenti a' dogmi, ed alla dottrina della Chiesa. Questa
Collezione, o sia stata fatta da Stefano per proprio studio o per
autorità d'alcun Concilio d'Oriente, non può di certo stabilirsi:
vero è però, che in tal maniera fu applaudita, e così universalmente
ricevuta, che il Concilio di Calcedonia a quella si rapportò, e volle,
che da essa i canoni si leggessero, approvandola con quelle parole:
_Regulas a Sanctis Patribus in unaquaque Synodo usque nunc prolatas
teneri statuimus_[560]. E perchè questi canoni erano tutti scritti in
greco, per comodità delle Chiese occidentali se ne fece una traduzion
latina, il cui Autore è incerto. Nè la Chiesa romana, e le Chiese di
queste nostre province si servirono d'altra raccolta, se non di questa
così tradotta, fino al sesto secolo, quando comparve la Compilazione di
Dionisio il Piccolo: e la Chiesa Gallicana, e Germanica continuarono a
servirsene fin al secolo nono. Ella, secondo Justello, ebbe per titolo:
_Codex Canonum Ecclesiae universae_: e secondo Florente, quest'altro:
_Collectio Canonum Orientalium_.

In processo però di tempo, per una seconda Collezione, o sia Giunta,
autor della quale crede Doujat[561] essere stato l'istesso Vescovo
Stefano, fatta dopo l'anno 451, vi si aggiunsero tutti i sette canoni
del primo Concilio di Costantinopoli, de' quali tre solamente erano
nella prima, otto canoni del Concilio d'Efeso, e ventinove di quello
di Calcedonia, tutti generali; dimodochè tutta questa Collezione era
composta di 206 canoni. Alcun tempo da poi furon aggiunti li canoni
del Concilio di Sardica, e cinquanta degli 89 canoni, che chiamansi
Apostolici, e 68 canoni di S. Basilio; e l'autore di questa nuova
Giunta, o sia Collezione, crede Doujat[562] essere stato Teodoreto
Vescovo di Cirro. È manifesto dunque, che fin ai tempi di Valentiniano
III l'una e l'altra Chiesa non conobbe altri regolamenti, che quelli,
che furon in questo Codice raunati.

Ed è da notare, che non avendo infin a questi tempi la Chiesa niente di
giustizia perfetta, e di giurisdizione, questi regolamenti obbligavano
per la forza della religione, non per temporale costringimento, nè
gli trasgressori eran puniti con pene temporali, ma con censure, ed
altri spirituali gastighi, che poteva imporre la Chiesa: ond'è che i
Padri della Chiesa, quando avean finito il Concilio, dove molti canoni
s'erano stabiliti, perchè fossero da tutti osservati, dubitando,
che per la condizione di que' tempi torbidi e sediziosi, e pieni
di fazioni, particolarmente fra gli Ecclesiastici stessi, i quali
sovente, non ostante le decisioni del Concilio, volevan ostinarsi ne'
loro errori, solevano ricorrere agl'Imperadori, per la cui autorità
erano i Concilj convocati, e dimandar loro che avessero per rato ciò
che nel Concilio erasi stabilito, e comandassero che inviolabilmente
da tutti fossero osservati. Così narra Eusebio[563], che fecero i
Padri del Concilio di Nicea, i quali da Costantino M. ottennero la
conferma de' loro decreti. Ed i Padri del Concilio Costantinopolitano
I, ricorsero all'Imperador Teodosio M. per la conferma de' canoni
di quello[564]. E Marziano Imperadore promulgò un editto, col quale
confermò tutto ciò che dal Concilio di Calcedonia erasi stabilito
con i di lui canoni[565]; e generalmente tutti gli altri Imperadori,
quando volevano, che con effetto si osservassero, solevano per mezzo
delle loro costituzioni comandare, che fossero osservati, e lor davan
forza di legge con inserirgli nelle loro costituzioni, pubblicandogli
colle leggi loro, come è chiaro dal Codice di Teodosio, dalla Raccolta
di Giovanni Scolastico, dal Nomocanone di Fozio, e da ciò, che poi
gli altri Principi d'Occidente, e Giustiniano Imperadore ordinò per
essi, come si conoscerà meglio, quando de' fatti di questo Principe ci
toccherà favellare.


§. III. _Della conoscenza nelle cause._

Lo Stato adunque ecclesiastico ancorchè, da Costantino posto in
tanto splendore, avesse acquistata una più nobile esterior politia,
e fosse accresciuto di suoi regolamenti, non però in questi tempi, e
fino all'età di Giustiniano Imperadore, per quel che s'attiene alla
conoscenza delle cause, trapassò i confini del suo potere spirituale:
egli era ancor ristretto nella conoscenza degli affari della religione,
e della fede, dove giudicava per forma di politia; nella correzion de'
costumi, dove conosceva per via di censure; e sopra le differenze tra'
Cristiani, le quali decideva per forma d'arbitrio, e di caritatevole
composizione.

Non ancora avea la Chiesa acquistata giustizia contenziosa, nè
giurisdizione, nè avea Foro, o territorio nella forma e potere,
ch'ella tien oggi in tutta la Cristianità: poichè quella non dipende
dalle chiavi, nè è propriamente di diritto divino: ma più tosto di
diritto umano e positivo, procedente principalmente dalla concessione o
permissione de' Principi temporali, come si vedrà chiaro nel progresso
di questa Istoria.

Vi è gran differenza tra la spada, e le chiavi, ed ancora tra le chiavi
del Cielo, ed i litigi de' Magistrati: ed i Teologi sono d'accordo che
la tradizione delle chiavi, e la potenza di legare e di sciogliere
data da Cristo Signor nostro a' suoi Apostoli importò solamente la
collazione de' Sacramenti, ed in oltre l'effetto importantissimo della
scomunica, ch'è la sola pena, che ancor oggi possono gli Ecclesiastici
imponere a loro, ed a' laici, oltre all'ingiugnere della penitenza; ma
tutto ciò dipende dalla giustizia, per dir così, penitenziale, non già
dalla pura contenziosa[566]; o più tosto dalla censura e correzione,
che dalla perfetta giurisdizione. Questa porta un costringimento
preciso e formale, che dipende propriamente dalla potenza temporale
de' Principi della terra, i quali, come dice S. Paolo, portano la
spada per vendetta de' cattivi, e per sicurtà de' buoni. E di fatto
le nostre anime, sopra le quali propriamente si stende la potenza
ecclesiastica, non sono capaci di preciso costringimento, ma solamente
dell'eccitativo, che si chiama dirittamente _persuasione_. Quindi è,
che i Padri tutti della Chiesa, Crisostomo[567], Lattanzio, Cassiodoro,
Bernardo, ed altri, altamente si protestano, che a loro non era stata
data potestà d'impedire gli uomini dai delitti, coll'autorità delle
sentenze: _Non est nobis data talis potestas, ut auctoritate sententiae
cohibeamus homines a delictis, dice Crisostomo_[568]; ma tutta la loro
forza era collocata nell'esortare, piangere, persuadere, orare, non già
d'imperare. Per la qual cosa fu reputato necessario, che anche nella
Chiesa i Principi del Mondo esercitassero la lor potenza, affinchè dove
i Sacerdoti non potessero arrivare co' loro sermoni ed esortazioni, vi
giugnesse la potestà secolare col terrore e colla forza[569].

A' Principi della terra egli è dunque, che Dio ha data in mano la
giustizia: _Deus judicium suum Regi dedit_, dice il Salmista: ed il
Popolo d'Israello domandando a Dio un Re, disse: _Constitue nobis
Regem, qui judicet nos, sicut caeterae nationes habent_. E quando Iddio
diede al Re Salomone la scelta di ciò, che volesse, questi dimandò:
_Cor intelligens, ut populum suum judicare posset_: domanda, che fu
grata a Dio; laonde S. Girolamo disse, che _Regum proprium officium
est facere judicium, et justitiam_[570]. In brieve in tutta la Sacra
Scrittura la giustizia è sempre attribuita e comandata a' Re, e non mai
a' Preti, almeno in qualità di Preti; perchè Nostro Signore istesso,
essendo stato pregato da certo uomo, perchè imponesse la divisione fra
lui, e suo fratello, rispose: _Homo quis me constituit Judicem, aut
divisorem super vos_[571]? Ed in quanto agli Appostoli, ecco ciò, che
ne dice S. Bernardo ad Eugenio: _Stetisse Apostolos lego judicandos,
judicantes sedisse non lego_. Nè in quelli tre primi secoli, siccome
s'è veduto nel primo libro, toltone quelle tre accennate conoscenze,
ebbero i Preti quest'ampia giustizia contenziosa, che hanno al
presente.

Nè tampoco l'ebbero nel quarto e quinto secolo: imperocchè quantunque
l'Imperio fosse governato da Imperadori cristiani, toltone la
conoscenza delle sole cause ecclesiastiche, essi venivan da' Magistrati
secolari[572], così ne' giudicj civili, come criminali, giudicati e
riguardati essi ancora come membri della società civile: e non essendo
stata loro conceduta, nè per diritto divino, nè fin allora per legge
d'alcun Principe, immunità, o esenzione alcuna, dovevan in conseguenza
da' Magistrati secolari nelle cause del secolo esser giudicati. E di
fatto nel Concilio Niceno accusandosi i Vescovi l'un l'altro, portaron
i libelli dell'accuse a Costantino, perchè gli giudicasse; ancorchè a
questo Principe fosse piaciuto, per troncar le contese, di buttargli
tutti al fuoco. Costantino stesso giudicò la causa di Ceciliano, ed
Attanasio accusato di delitto di maestà lesa, con sua sentenza fu
condennato in esilio. Costanzo suo figliuolo ordinò, che la causa
di Stefano Vescovo d'Antiochia si trattasse nel suo palazzo[573];
ed essendo stato convinto, fu con suo ordine deposto da' Vescovi.
Valentiniano condannò alla multa il Vescovo Cronopio, e mandò in
esilio Ursicino, e' suoi compagni, come perturbatori della pubblica
tranquillità[574]. Prisciliano, ed Instanzio furono condennati per loro
delitti ed oscenità da' Giudici secolari, come testifica Severo. Della
causa di Felice Aptungitano, di Ceciliano, e de' Donatisti conobbero
ancora i Magistrati secolari[575]. Ed i Vescovi d'Italia ricorsero
a Graziano e a Valentiniano, pregandogli, che prendesser a giudicare
Damaso da loro accusato.

Nè si fece nelle sue cause civili di questi secoli mutazione alcuna,
essendo noto, che non volendo i litiganti acquetarsi al giudicio
de' Vescovi, che come arbitri solevano spesso esser ricercati per
comporle, e volendo in tutte le maniere piatire, e venire al positivo
costringimento, dovevan ricorrere a' Rettori delle province, ed agli
altri Magistrati secolari, ed instituire avanti a' medesimi i giudicj,
e proponere le loro azioni, ovvero eccezioni, come i due Codici
Teodosiano, e Giustinianeo ne fanno piena testimonianza[576]: e quando
venivan citati in alcuno di questi Tribunali, dovevan dar mallevadoria
_judicio sisti_[577].

Nell'estravagante ed apocrifo titolo de _Episcopali judicio_, che
fu collocato in luogo sospetto, cioè nell'ultimo fine del Codice di
Teodosio si legge una costituzione[578] di Valentiniano, Teodosio
ed Arcadio, colla quale pare, che si dia a' Vescovi la cognizione
delle cause fra Ecclesiastici, e parimente, che non siano tirati a
piatire altrove, che avanti di loro stessi: ma quantunque tal legge
sia supposta, come ben a lungo dimostra Gotofredo, e tengono per
certo tutti i dotti; niente però da quella poteron cavarne i Preti;
poichè con espresse e precise parole ivi si tratta delle sole cause
Ecclesiastiche, la conoscenza delle quali l'ebbe sempre la Chiesa
per forma di politia: ecco le sue parole: _Quantum ad causas tamen
Ecclesiasticas pertinet_. Graziano[579], al quale ciò dispiacque, glie
le tolse affatto, e nel suo decreto smembrò la legge, e variò la sua
sentenza: ciò che non fu nuovo di questo Compilatore, siccome altrove
ce ne saranno somministrati altri riscontri. Anselmo[580] su questa
legge pur fece simili scempj, e maggiori in cose più rilevanti se ne
sentiranno appresso.

Oppongono gli Ecclesiastici alcune altre costituzioni di simil tempra,
e molti canoni contro a verità sì conosciuta; ma risponde loro ben a
lungo, ed a proposito Dupino[581] gran Teologo di Parigi, il quale
meglio d'ogni altro ci dimostrò, che i Cherici, così nelle cose
civili e politiche, come nelle cause criminali, non furono per diritto
divino esenti dalla potestà secolare, siccome nè da' tributi, nè dalle
pene: ma che in decorso di tempo per beneficio degl'Imperadori e dei
Principi, in alcuni casi l'immunità acquistarono; ciò che si vedrà
chiaro nel corso di questa Istoria.

Così è, che la Chiesa fin a questi tempi non aveva acquistata quella
giustizia perfetta, che il diritto chiama Giurisdizione sopra i
suoi Preti, e molto meno sopra gli altri del secolo; nè allora avea
territorio, cioè _jus terrendi_, come dice il Giureconsulto[582] nè
per conseguenza perfetta giurisdizione, che inerisce al territorio,
nè preciso costringimento, nè i Giudici di essa erano Magistrati, che
potessero pronunciare quelle tre parole essenziali, _do_, _dico_,
_abdico_. Per la qual cosa essi non potevano di lor autorità fare
imprigionar le persone ecclesiastiche: siccome oggi il giorno ancora
s'osserva in Francia, che non possono farlo senza implorare l'ajuto del
braccio secolare[583]. E perchè per consuetudine s'era prima tollerato,
e poi introdotto, che il Giudice ecclesiastico potesse fare imprigionar
coloro, che si trovavano nel suo Auditorio, tosto Bonifacio VIII alzò
l'ingegno, e cavò fuori una sua decretale[584], con cui stabilì, che
i Vescovi potessero da per tutto, e dove essi volessero ponere il lor
Auditorio, per farv'in conseguenza da per tutto le catture: la qual
opera, perchè non poteva nascondersi, fece, che quella decretale in
molti luoghi non fosse osservata, ed in Francia, come testifica Mons.
Le Maître[585] si pratica il contrario. In fine gli Ecclesiastici
non ebbero carcere fin al tempo d'Eugenio I, come c'insegna il
Volaterrano[586].

Egli è altresì ben certo, che in questi secoli la Chiesa non avea
potere d'imponer pene afflittive di corpo, d'esilio, e molto meno di
mutilazion di membra, o di morte: e ne' delitti più gravi d'eresia,
toccava a' Principi di punire con temporali pene i delinquenti i quali
Principi per tenere in pace e tranquilli i loro Stati, e purgargli di
questi sediziosi, che turbavan la quiete della Repubblica, stabilirono
perciò molti editti, dove prescrissero le pene ed i gastighi a color
dovuti: di queste leggi ne sono pieni i libri del Codice di Teodosio,
e di Giustiniano ancora. Nè in questi tempi i Giudici della Chiesa
potevano condennare all'emende pecuniarie[587]; e la ragion era,
perch'essi non avevan territorio[588], e secondo il diritto de' Romani,
i soli Magistrati, ch'hanno il pieno territorio, potevano condennare
all'emenda[589]; ma poi, ancorchè la Chiesa non tenesse nè territorio,
nè Fisco, intrapresero di poterlo fare, con applicare a qualche pietoso
uso, come a Monaci, a prigioni, a fabbriche di chiese, o altro, la
multa, di che altrove avremo nuovo motivo di ragionare.

Non potendosi adunque dubitare, che tutto ciò, che oggi tiene la Chiesa
di giustizia perfetta e di giurisdizione, dipenda per beneficio e
concessione de' Principi, alcuni han creduto, che queste concessioni
cominciassero da Costantino il Grande, quegli che le diede pace ed
incremento. Credettero, che questo Principe per una sua costituzione
estravagante, che si vede inserita nel fine del Codice di Teodosio[590]
avesse stabilito, che il reo, o l'attore in tutte le materie, ed
in tutte le parti della causa, possa domandare, che fosse quella
al Vescovo rimessa: che non gli possa esser denegato, avvegnachè
l'altra parte l'impedisse e contraddicesse: e per ultimo, che ciò
che il Vescovo proferirà, sia come una sentenza inappellabile, e che
tosto senza contraddizione, e non ostante qualunque impedimento,
debbano i Magistrati ordinarj eseguirla: cosa, che se fosse vera,
la giurisdizione temporale sarebbe perduta affatto, o almeno non
servirebbe, che per eseguire i comandamenti degli Ecclesiastici. Fu
in alcun tempo questa veramente stravagante costituzione reputata
per vera, vedendo parte di quella inserita ne' Capitolari di Carolo
M.[591], ed ancora ne' Breviari del Codice Teodosiano; e Giovanni
Seldeno[592], perchè la trovò in un Codice antico manuscritto di
Guglielmo, Monaco malmesburiense, credette, che veramente fosse di
Costantino.

Altri l'attribuirono non già a Costantino, ma a Teodosio il
Giovane, come fecero Innocenzio[593], Graziano[594], Ivone, Anselmo,
Palermitano, e gli altri Compilatori di decreti, mossi perchè in alcuni
Codici manuscritti portava in fronte questa iscrizione: _Arcad. Honor.
et Theodos._

Ma oggi mai s'è renduto manifesto per valenti e gravi Scrittori esser
quella finta e supposta, non altramente, che la donazione del medesimo
Costantino[595]. Giacomo Gotofredo[596] a minuto per cento pruove
dimostra la sua falsità, tanto che bisogna non aver occhi per poterne
dubitare: si vede ella manifestamente aggiunta al Codice di Teodosio in
luogo sospetto, cioè nell'ultimo fine di quello, intitolata con queste
parole: _Hic titulus deerrabat a Codice Theodosiano_: si porta ancora
senza Console, e senza data dell'anno: e tutta opposta a molt'altre
costituzioni inserite in quel Codice stesso: non si vede posta nel
Codice di Giustiniano, nè di lei presso agli Scrittori dell'Istoria
Ecclesiastica hassi memoria alcuna.

Coloro che l'attribuiscono a Teodosio, di cui la vera legge[597] si
vede dopo questa supposta costituzione, vanno di gran lunga errati;
imperciocchè questa vera legge di Teodosio è tutta contraria a quella,
determinandosi per essa, che i Vescovi non possano aver cognizione,
se non delle materie di religione, e che gli altri processi degli
Ecclesiastici sieno determinati e sentenziati da' Giudici ordinarj:
e non è credibile, che Teodosio avesse voluto inserire nel suo Codice
una legge tutta contraria alla sua. Di vantaggio le leggi degli altri
Imperadori, rapportate in quel Codice, benchè fatte in favor della
Chiesa, non l'attribuiscon però tal giustizia, e spezialmente la
Novella[598] di Valentiniano III. è direttamente contraria, dicendo,
che secondo le leggi degl'Imperadori, la Chiesa non ha giurisdizione,
e che seguendo il Codice Teodosiano, ella non può conoscere, che delle
materie di religione.

Ma oltre alla vera legge di Teodosio di sopra rapportata, si vede,
che in tempo d'Arcadio e d'Onorio, la Chiesa non aveva se non la
sua primitiva ragione di conoscere per forma d'arbitrio, ancorchè
ciò eziandio le venisse contrastato, laonde promulgaron essi una
legge, per mantenergliela, di cui ecco le parole: _Si qui ex consensu
apud sacrae legis Antistitem, litigare voluerint, non vetentur sed
experientur illius, in civili dumtaxat negotio, more arbitri sponte
reddentis judicium_[599]. E questa fu la pratica della Chiesa in
questi secoli, che i Vescovi s'impiegavano per forma d'arbitrio in
comporre le liti, che loro per consenso delle parti erano riportate,
come ne fanno testimonianza Basilio[600], e con addurne gli esempli,
Gregorio Neocesariense, Ambrogio, Agostino e gli Scrittori dell'Istoria
Ecclesiastica Socrate, e Niceforo[601]. Ciò che durò lungamente fino a'
tempi di Giustiniano, il quale fu il primo, che cominciò ad augmentare
la conoscenza de' Vescovi per le sue _Novelle_, come vedremo nel sesto
secolo: poichè negli ultimi tempi, ne' quali siamo di Valentiniano III
egli è costante, che i Vescovi non avevano, nè Foro, nè territorio,
nè potevan impacciarsi d'altre cause, che di religione così tra'
Cherici, come tra' Laici, siccome Valentiniano stesso n'accerta per
una sua molto notabile _Novella_[602], di cui eccone le principali
parole: _Quoniam constat Episcopos Forum legibus non habere, nec de
aliis causis, quam de Religione posse cognoscere, ut Theodosianum
Corpus ostendit; aliter eos judices esse non patimur, nisi voluntas
jurgantium sub vinculo compromissi procedat, quod si alteruter nolit,
sive laicus, sive clericus sit, agent publicis legibus, et jure
communi_; aggiungendo, che i Cherici possano esser citati innanzi al
Giudice secolare: ciò che senza dubbio era il diritto e la pratica
innanzi Giustiniano, come si vede in molte leggi del suo Codice[603]: e
questo solo privilegio era dato agli Ecclesiastici, di non poter essere
tirati a piatire fuori del lor domicilio e dimora; e nelle province
non potevan essere convenuti innanzi altro Giudice, che avanti il
Rettore della provincia; siccome a Costantinopoli innanzi al Prefetto
Pretorio[604].

Così è, che intorno la conoscenza della Chiesa nelle cause, non si
mutò niente in questi tempi di quel che praticavasi negli tre primi
secoli: nè in queste nostre province ebbero i nostri Vescovi giustizia
perfetta, nè Foro, nè territorio: nè per quel che s'attiene a questa
parte, lo Stato ecclesiastico portò, fino a questo tempo, alcuna
mutazione nel politico e temporale, restringendosi la sua conoscenza
alle cause di religione, che giudicava per via di politia, ed a
quell'altre due occorrenze dette di sopra: e tutta la giurisdizione ed
imperio era de' Magistrati secolari, innanzi a' quali sia Prete, sia
laico, si ricorreva per le cause, così civili, come criminali, senza
eccezione veruna.

Ma quantunque per questa parte non s'apportasse allo Stato civile
alterazione alcuna, non fu però, che in questi medesimi tempi non si
cagionasse qualche disordine, per ciò che concerne l'acquisto de' beni
temporali, che tratto tratto agli Ecclesiastici, ed alle Chiese, per la
pietà de' Fedeli si donavano, ovvero per la troppo avarizia de' Cherici
si proccuravano.


§. IV. _Beni temporali._

Chi dice religione, dice ricchezze, scrisse il nostro Scipione
Ammirato[605], che fu Canonico in Firenze; e la ragione è in pronto,
e soggiunge, perchè essendo la religione un conto, che si tiene a
parte con M. Domenedio; ed avendo i mortali in molte cose bisogno
di Dio, o ringraziandolo de' beni ricevuti, o dei mali scampati,
o pregandolo che questi non avvengano, e che quelli felicemente
succedano, necessariamente segue, che de' nostri beni, o come grati, o
come solleciti facciamo parte, non a lui, il quale Signor dell'Universo
non ha bisogno di noi, ma a' suoi tempj, e a' suoi Sacerdoti. Data
che fu dunque da Costantino pace alla Chiesa, potendosi professar da
tutti con piena libertà la nostra religione, cominciò in conseguenza a
crescer quella di beni temporali. Prima di Costantino le nostre Chiese,
come una certa spezie d'unione ed assembramento reputato illecito,
non potevan certamente per testamento acquistar cosa alcuna, non meno,
che le Comunità de' Giudei, e gli altri Collegi, che non aveano in ciò
alcun privilegio[606].

Questi Corpi erano ancora riputati come persone incerte, e per
conseguenza i legati a loro fatti non aveano alcun vigore. Ne' tempi
poi del Divo Marco[607] fu fatto un _Senatus consulto_, col quale si
diede licenza di poter lasciare a' Collegi, o ad altre Comunità ciò,
che si volesse[608]. Fu perciò rilasciato il rigore, che prima vi era;
e quantunque le nostre Chiese come Collegi illeciti, non potevan esser
comprese sotto la disposizione del senatusconsulto, con tutto ciò si
osserva, che nel terzo secolo, sia per tolleranza, sia per connivenza,
cominciavano ad avere delle possessioni: ma subito, che Costantino
nell'anno 312 abbracciò la religione cristiana, rendendo con ciò non
pur leciti, ma venerandi e commendabili i nostri Collegi, si videro
le Chiese abbondar di beni temporali. E perchè non vi potesse sopra
di ciò nascer dubbio, e maggiormente si stimolasse la liberalità de'
Fedeli a lasciargli, promulgò nell'anno 321 un editto, che dirizzò al
Popolo romano, col quale si diede a tutti licenza di poter lasciare
ne' loro testamenti ciò che volessero alle Chiese, ed a quella di Roma
spezialmente[609]. Così Costantino cotanto della cristiana religione
benemerito arricchì le nostre Chiese, e non solamente per questa via,
ma anche per avere ordinato, che si restituissero a quelle tutte le
possessioni, che ad esse appartenevano, e che ne' tempi di Diocleziano,
e di Massimiano eran loro state tolte, sopra di che promulgò anche un
altro editto rapportato da Eusebio[610]. In oltre stabilì, che i beni
de' Martiri, se non aveano lasciati eredi, si dessero alle Chiese, come
afferma l'Autor della sua vita[611].

Ma siccome questo Principe per la nuova disposizione, che diede
all'Imperio, fu riputato più tosto distruggitore dell'antico, che
facitore d'un nuovo, così anche fu da molti accagionato, che più
tosto recasse danno alla Chiesa per averla cotanto arricchita, che
l'apportasse utile; poichè in decorso di tempo gli Ecclesiastici per
l'avidità delle ricchezze ridussero la faccenda a tale, che oltre a
dimenticarsi del loro proprio ufficio, ad altro non badando, che a
tirare e rapire l'eredità de' defunti, furon cagione di molti abusi
e gravi disordini, che perciò nella Repubblica si introdussero: tanto
che obbligaron i Principi successori di Costantino a por freno a tanta
licenza.

Ne' suoi tempi S. Giovan Crisostomo[612] deplorava questi abusi, e si
doleva, che dalle ricchezze delle Chiese n'erano nati due mali, l'uno
che i laici cessavano d'esercitarsi nelle limosine: l'altro che gli
Ecclesiastici, trascurando l'ufficio loro, ch'è la cura delle anime,
diventavano Procuratori, Economi, e Dazieri, esercitando cose indegne
del loro ministerio.

Non erano ancora cinquant'anni passati, da che Costantino promulgò
quelle leggi, che per l'avarizia degli Ecclesiastici, sempre accorti
in profittarsi della simplicità massimamente delle donne, fu costretto
Valentiniano il Vecchio nell'anno 370 a richiesta forse, come suspicano
alcuni, di Damaso Vescovo di Roma, di promulgare altra legge[613],
con cui severamente proibì a' Preti ed a' Monaci di poter ricever sia
per testamento, sia per atto tra' vivi qualunque eredità, o roba da
vedove, da vergini o da qualsivoglia altra donna, proibendo loro, che
non dovessero con quelle conversare, siccome purtroppo licenziosamente
facevano; contro alla quale cattiva usanza declamarono ancora
Ambrogio e Girolamo: e questa legge, oltre ad essere stata dirizzata a
Damaso, fu ancora fatta pubblicare in tutte le chiese di Roma, perchè
inviolabilmente si osservasse. Estese in oltre Valentiniano questa
sua costituzione a' Vescovi, ed alle vergini a Dio sacrate, a' quali
insieme con gli altri Cherici, e Monaci proibì simili acquisti[614].

Venti anni appresso per le medesime cagioni fu astretto Teodosio il
Grande a promulgarne un'altra consimile[615], per la quale fu vietato
alle Diaconesse per la soverchia conversazione, che tenevan con gli
Ecclesiastici, di poter lasciare a' Monaci, o Cherici le loro robe
in qualunque modo, che tentassero di farlo, anzi questo Principe
vietò ancora alle medesime Diaconesse di poter lasciare eredi le
Chiese, e nemmeno i poveri stessi, ciò, che Valentiniano non osò di
fare: se bene Teodosio dopo due mesi rivocò in parte questa sua legge
permettendo[616] alle Diaconesse di poter lasciare a chi volessero i
mobili: ancorchè l'Imperador Marciano nella sua Novella[617] reputasse
in tutto aver rivocata Teodosio la sua legge, siccome infine volle
far egli, di che è da vedersi Giacomo Gotofredo ne' suoi lodatissimi
Comentarj[618].

I Padri della Chiesa di questi tempi non si dolevano di tali leggi, nè
che i Principi non potessero stabilirle, nè lor passò mai per pensiero,
che perciò si fosse offesa l'immunità, o libertà della Chiesa; erano
in questi tempi cotali voci inaudite, nè si sapevano; ma solamente
dolevansi delle ragioni, che producevano tali effetti, e che mossero
quegl'Imperadori a stabilirle, cioè di loro medesimi, e della pur
troppa avarizia degli Ecclesiastici, che se l'aveano meritate: ecco
come ne parla S. Ambrogio[619]: _Nobis etiam privatae successionis
emolumenta recentibus legibus denegantur, et nemo conqueritur. Non enim
putamus injuriam, quia dispendium non dolemus, etc._ Più chiaramente
lo disse S. Girolamo[620], scrivendo a Nepoziano; _Pudet dicere,
Sacerdotes Idolorum, Mimi, et Aurigae, et Scorta haereditates capiunt,
solis Clericis, ac Monachis hac lege prohibetur: et non prohibetur a
Persecutoribus, sed a Principibus Christianis. Nec de lege conqueror,
sed doleo cur meruerimus hanc legem. Cauterium bonum est; sed quo mihi
vulnus, ut indigeam cauterio? Provida, securaque legis cautio: et tamen
nec sic refrenatur avaritia, per fideicommissa legibus illudimus, etc._
Così è, che in questi tempi s'apparteneva alla giurisdizione, e potestà
del Principe il rimediare a questi abusi, e dar quella licenza, o porre
quel freno intorno agli acquisti de' beni temporali delle Chiese, ch'e'
riputava più conveniente al bene del suo Stato. Ciò che ne' secoli
men a noi remoti in tutti i dominj d'Europa fu dagli altri Principi
lodevolmente, e senza taccia di temerità imitato. Così Carlo M. di
gloriosa memoria praticò nella Sassonia; e nell'Inghilterra Odoardo
I, e III, ed Errico V[621]. Nella Francia lo stesso fu osservato da
S. Lodovico[622], ch'è cosa molto notabile, e poi successivamente
confermato da Filippo III, da Filippo il bello, da Carlo il bello, da
Carlo V, da Francesco I, da Errico II, da Carlo IX e da Errico III. Ed
abbiamo un arresto presso a Papponio[623], per cui il Senato di Parigi,
proibì i nuovi acquisti a' Cartusiani, e Celestini. Nella Spagna
Giacomo, Re d'Aragona[624] statuì simili leggi ne' Regni soggetti a
quella Corona; siccome nella Castiglia, in Portogallo, ed in tutti gli
altri Regni di Spagna osservasi il medesimo, ci attestano Narbona, e
Lodovico Molina[625]: ed in varj luoghi di Germania, e della Fiandra si
osservano consimili statuti[626]. Nell'Olanda Guglielmo III Conte con
suo editto dell'anno 1328 lo proibì severamente[627]. E nell'Italia in
Venezia, ed in Milano si pratica il medesimo[628]: nè vi è provincia in
Europa, nella quale i Principi non riconoscano appartenere ad essi, ed
alla loro potestà fornire i loro Stati di simili provedimenti.

Nelle province, ch'ora compongon il nostro Reame di Napoli, se si
riguardano i tempi, che corsero da Costantino fino a Valentiniano III,
le nostre chiese, che già tuttavia in Napoli, e nelle altre città
s'andavan da' Vescovi ergendo, non fecero considerabili acquisti: e
si conosce chiaro dal vedersi, che non possono recar in mezzo altri
titoli, se non procedenti, o da concessioni fatte loro da Principi
Longobardi, o da Normanni, che furon più profusi degli altri, o
finalmente da' Svevi, e dagli Angioini. I monasterj cominciarono nel
principio del Regno de' Longobardi a rendersi, per gli acquisti,
considerabili; ed ancorchè S. Benedetto nel tempo di Totila fosse
stato il primo ad introdurgli in Italia, non si vide però quello di
Monte Casino nella Campagna cotanto arricchito, se non nell'età de'
Re Longobardi: ma col correr degli anni moltiplicossi in guisa il
numero delle Chiese, e dei monasterj in queste nostre province, e
gli acquisti furono così eccessivi, che non vi fu città o castello,
piccolo o grande, che non ne rimanesse assorbito. Fu tal eccesso
ne' tempi dell'Imperador Federico II represso per una sua legge,
che oggi il giorno ancor si vede nelle nostre costituzioni[629], per
la quale, imitando, come e' dice, i vestigi de' suoi predecessori,
forse intendendo di questi Imperadori, o com'è più verisimile, de' Re
Normanni suoi predecessori, la costituzione dei quali ciò riguardante
si trova ora essersi dispersa, proibì ogni acquisto di stabili alle
Chiese.

(La costituzione di Federico II riguardante la proibizione degli
acquisti de' beni stabili alle Chiese, Monasterj, Templarj, ed
altri luoghi religiosi, è una rinovazione della costituzione antica,
che era nel Regno di Sicilia di qua e di là dal Faro, non già, che
l'Imperadore riguardasse alle costituzioni del Codice di Teodosio, o
di Giustiniano. Nelle risposte, che diedero i Vescovi di Erbipoli, di
Wormes, Vercelli, e di Parma a Papa Gregorio IX sopra l'accuse fatte a
questo Imperadore, che avesse spogliati i Templarj, e gli Ospitalieri
de' stabili, che possedevano, dicono, che Federico non fece altro,
che rivocare alcune compre, che essi aveano fatte in Sicilia di beni
Burgensatici contro il prescritto di questa antica costituzione, che
avea avuto nel Regno di Sicilia sempre vigore ed osservanza. Le parole
dell'accusa, e della difesa sono le seguenti, le quali si leggono
non meno presso _Goldasto_[630], che presso _Lunig_[631]. PROPOSITIO
ECCLESIAE: _Templarii et Hospitalarii bonis mobilibus et immobilibus
spoliati, juxta tenorem pacis non sunt integre restituti_. RESPONSIO
IMPERIALIS: _De Templariis et Hospitalariis verum est, quod per
judicium, et per antiquam Constitutionem Regni Siciliae, revocata sunt
feudalia, et burgasatica, quae habuerunt per concessionem Invasorum
Regni, quibus equos, arma, victualia, et vinum, et omnia necessaria
ministrabunt abunde, quando infestabant Imperatorem, et Imperatori,
tunc Regi, pupillo, et destituto, omne omnino subsidium denegabant.
Alia tamen feudalia et burgasatica dimissa sunt eis, qualitercumque ea
acquisierunt et tenuerunt ante mortem Regis Willielmi II seu de quibus
haberent concessionem alicujus Antecessorum suorum. Nonnulla vero
burgasatica quae emerunt, revocata sunt ab eis secundum formam antiquae
Constitutionis Regni Siciliae, quod nihil potest eis sine consensu
Principis de burgasaticis inter vivos concedi, vel in ultima voluntate
legari, quin post annum, mensem, septimanam, et diem, aliis burgensibus
secularibus vendere, et concedere teneantur. Et hoc propterea fuit ab
antiquo statutum, quia si libere eis, et perpetuo burgasatica liceret
emere sive accipere, modico tempore totum Regnum Siciliae (quod inter
Regiones mundi sibi habilius reputarent) emerent, et adquirerent; et
hoc eadem Constitutio obtinet ultra mare)_.

Ma essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso di noi altre
massime, che persuasero non potere il Principe rimediare a questi
abusi; e riputata per ciò la costituzione di Federico, empia ed
ingiuriosa all'immunità delle Chiese, si ritornò a' disordini di
prima; e se la cosa fosse stata ristretta a que' termini, sarebbe stata
comportabile; ma da poi si videro le Chiese, e' Monasterj abbondare di
tanti Stati e ricchezze, ed in tanto numero, che piccola fatica resta
loro d'assorbire quel poco, ch'è rimaso in potere dei secolari: ma di
ciò più opportunamente si favellerà ne' libri seguenti, potendo bastare
quel che finora s'è detto della politia ecclesiastica di queste nostre
province del quarto, e metà del quinto secolo.


                        FINE DEL LIBRO SECONDO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TERZO


I varj moti civili, le grandi mutazioni di Stato, e le vicende della
giurisprudenza romana, che avvennero dopo la morte di Valentiniano
III infino al Regno di Giustino II Imperadore, saranno il soggetto di
questo libro. Si narreranno gli avvenimenti di un secolo, nel quale
nuovi dominj, straniere genti, e nuove leggi vide l'Italia, e videro
queste nostre province, che ora compongono il Regno di Napoli. Infino
a questo tempo non altri Magistrati si conobbero, non altre leggi, se
non quelle de' Romani: da ora innanzi si vedranno mescolate con quelle
di straniere Nazioni, le quali, ancorchè barbare, meritan però ogni
commendazione, non solo per le molte ed insigni virtù loro, ma anche
perchè furon delle leggi romane così ossequiose e riverenti, che non
pur non osaron oltraggiarle, ma con somma moderazione, contro alle
leggi della vittoria, che dettavano di far passare i vinti sotto le
leggi dei vincitori, le ritennero. Non aspettino per tanto i Lettori,
che dovendo io in questo, e ne' seguenti libri favellar de' Goti, de'
Longobardi, e de' Normanni, che hanno una medesima origine, debbia,
come han fatto moltissimi, aspramente trattargli da inumani, da fieri,
e da crudeli, ed avere le loro leggi per empie, ingiuste, ed asinili,
come vengon per lo più da' nostri Scrittori riputate. Splenderà ancora
nelle gesta de' loro Principi, non meno la fortezza e la magnanimità,
che la pietà, la giustizia, e la temperanza; e le loro leggi, e i loro
costumi, se bene non potranno paragonarsi con quelli degli antichi
Romani, non dovranno però posporsi a quegli degli ultimi tempi dello
scadimento dell'Imperio, ne' quali la condizione d'esser Romano divenne
più vile ed abbietta, che quella di coloro, che barbari e stranieri
furono riputati.

Dovendo adunque prima d'ogn'altro favellar de' Goti, non è del mio
instituto, che venga da più alti principj a narrar la loro origine, e
da qual parte del Settentrione usciti, venissero ad inondare queste
nostre contrade. Non mancano Scrittori, che ci descrissero la loro
origine, i progressi, e le conquiste sopra varie regioni d'Europa;
ed ultimamente l'incomparabile Ugone Grozio[632] ne trattò con
tanta esattezza e dignità, che oscurò tutti gli altri: quel che però
dee sommamente importare, sarà il distinguere con chiarezza i Goti
Orientali dagli occidentali: poichè dall'avergli alcuni nostri Autori
confusi e non ben distinti, han parimente confuse le loro leggi e
costumi, ed appropriato agli uni ciò, che s'apparteneva agli altri,
come si vedrà chiaro più innanzi nel corso di questo libro.

L'origine del loro nome non è molto oscura: essi che per l'ospitalità
e cortesia verso i forastieri furono assai rinomati e celebri, anche
prima che abbracciassero il Cristianesimo, s'acquistarono presso a'
Germani il nome di buoni: _Boni_, dice Grozio[633] _Germanis sunt
Goten, aut Guten_: onde avvenne, che poi presso a tutte l'altre
Nazioni d'Europa _Goti_ s'appellassero. Furono divisi secondo i siti
delle regioni, che abitarono, in Goti Orientali, o siano _Ostrogoti_,
e Goti Occidentali, ovvero _Westrogoti_, che i Latini corrottamente
chiamarono Visigoti. Quegli ch'abitarono le regioni più all'Oriente
rivolte verso il Ponto Eussino, insino al fiume Tiras, e che poi con
permissione degli Imperadori orientali ebbero la Pannonia, la Tracia,
ed ultimamente l'Illirico per loro sede, furon appellati _Ostrogoti_,
ed eran governati da Principi della non meno antica, che illustre Casa
degli _Amali_, donde trasse la sua origine Teodorico Ostrogoto, che
resse queste nostre province. Gli altri, che verso Occidente furono
rivolti, e che a' tempi d'Onorio ressero l'Aquitania, e la Narbona, e
da poi molte province della Spagna, _Westrogoti_ furon nominati: questi
erano comandati dai Principi della Casa de' _Balti_: gente illustre
altresì, ma non quanto la stirpe degli Amali, la quale in nobiltà
teneva il vanto: Tolosa fu la loro sede, capitale della provincia,
detta poi per la loro residenza questa contrada Guascogna, che tanto
vuol dire in loro lingua, quanto Gozia Occidentale[634]; benchè altri
dicano, che da' Vasconi, popoli di Spagna, che varcati i Pirenei
occuparono questa provincia, fosse detta Guascogna.



CAPITOLO I.

_De' Goti orientali, e delle loro leggi._


I Principi Vestrogoti della stirpe de' Balti, essendo stata loro
sotto l'Imperio d'Onorio, da questo Principe stabilmente assegnata
l'Aquitania, e molte altre città della Narbona, in Tolosa fermaron
la loro sede, onde poi Re di Tolosa si dissero. Essi a tutto potere
proccuravano stender il lor dominio nell'altre province della Gallia,
e delle Spagne, le quali eran da' Vandali malmenate ed oppresse. Più
volte a _Vallia_, che, come si disse nel precedente libro, a Rigerico
successor di Ataulfo succedè, fortunatamente avvenne, che nelle Spagne
trionfasse d'essi, e lor desse molte gravi, memorabili rotte. Morì
Vallia, dopo aver riportate contro a' Vandali tante vittorie, in Tolosa
l'anno di Cristo 428 ed a lui succedè nel Regno _Teodorico_[635]. Gli
scrittori variano nel nome di questo Principe: Gregorio di Tours[636]
lo chiama Teudo: Isidoro, Teudorido: Idacio, Teodoro; ma noi seguendo
Giornandes[637] Scrittore il più antico, e 'l più accurato delle cose
de' Goti lo chiameremo con Alteserra[638] _Teodorico_. Resse questo
Principe l'Aquitania anni ventitrè, prode ed eccellente Capitano, che
contro ad Attila ne' campi di Chaalon diede l'ultime prove del suo
valore: fu egli in questa battaglia gravemente ferito, e sbalzato di
cavallo restò tutto infranto, ed indi a poco morì. Lasciò di lui sei
figliuoli maschi, Torrismondo, Teodorico il Giovane, Federico, Evarico,
Rotemero, ed Aimerico, ed una figliuola, che collocolla in matrimonio
con Unnerico figliuolo di Gizerico Re de' Vandali.

_Torrismondo_ adunque succedè nel Reame, il quale, ancorchè si
fosse trovato insieme col padre contro ad Attila, e fosse stato in
quella battaglia ferito, intesa ch'ebbe la morte del medesimo, tornò
subito in Tolosa, ove con universale acclamazione fu nel Trono regio
assunto[639]. Il Regno di questo Principe ebbe brevissima durata, e se
dee prestarsi fede ad Isidoro, non imperò più che un sol anno; poichè
per opera di Teodorico e Federico suoi fratelli, che mal soffrivan il
suo governo, fu crudelmente ucciso[640].

_Teodorico il Giovane_ suo fratello gli succedè nel Regno: Principe,
secondo Sidonio Apollinare[641], dotato di nobili ed eccellenti virtù:
ed ancorchè il genio degli Vestrogoti mal s'adattasse alle leggi
romane, contra il costume degli Ostrogoti, che l'ebbero sempre in
somma stima e venerazione, fu non però Teodorico II amantissimo delle
medesime, e n'ebbe grandissima stima.

Gli Vestrogoti per le continue guerre, ch'ebbero co' Romani, furon
non poco avversi alle leggi romane; tanto che parlando de' loro
tempi, ebbe a dire Claudiano[642] : _Moerent captivae pellito judice
leges_. Ataulfo loro Re, che, come si disse, ad Alarico I succedè,
per la ferocia del suo animo, già meditava d'esterminarle in tutto;
ma raddolcito per le continue persuasioni e conforti di Placidia
sua moglie cotanto da lui amata, se n'astenne, e mutò consiglio; ed
ancorchè i suoi Goti mal ciò soffrissero, pur egli appresso Orosio[643]
confessò, che non poteva senza quelle la Repubblica perfettamente
conservarsi, nè gli dava il cuore di toglierle affatto: _Neque
Gothos, e' dice, ullo modo parere legibus posse, propter effraenatam
barbariem, neque Reip. interdici leges oportere, sine quibus Resp. non
est Respublica_. Onde narrasi[644], che questo Principe nell'anno 412
avesse per pubblico editto comandato a' suoi sudditi, che le leggi de'
Romani insieme co' costumi de' Goti osservassero. Goldasto[645] tra le
costituzioni imperiali ne rapporta l'editto, ma si vede esser conceputo
coll'istesse parole poc'anzi riferite di Orosio, e molte cose in esso
aggiunte, che in quell'Autore non sono.

Ma a Teodorico il Giovane, del quale si favella, fu in tanto pregio lo
studio delle romane leggi, che Sidonio Apollinare[646] introducendolo
in un suo Carme a parlar con Avito, così gli fa dire:

    ————— _mihi Romula dudum_
    _Per te jura placent._

Ed altrove[647] chiamò questo Teodorico _.... Romanae columen, salusque
gentis_. Ed appresso Claudiano, parlandosi di questo Principe,
come osservò Grozio[648] pur si legge, _Vindicet Arctous violatas
advena leges_. Nè gli Vestrogoti, ne' tempi di questo Re, o de' suoi
predecessori ebbero proprie leggi scritte, nè si presero mai cura di
formarle.

Ma morto Teodorico nel decimoterzo anno del suo Regno, essendogli
stato renduto da Evarico ciò che egli fece a Torrismondo, succedette
nel Reame _Evarico_ suo fratello. Questi fu il primo, che diede a'
Goti le leggi scritte, come ce n'accerta Isidoro[649]: _Sub hoc Rege
Gothi legum instituta scriptis habere coeperunt, nam antea tantum
moribus, et consuetudine tenebantur_: per la qual cosa da Sidonio[650]
in un epistola, che dirizzò all'Imperadore Lione, fu celebrato Evarico
per Principe saggio, e conditor di leggi: _Modo per promotae limitem
sortis, ut Populos sub armis, sic fraenat arma sub legibus_.

Nel Regno di questo Principe cominciaron le leggi de' Romani ad
oscurarsi, non già in Italia, ma nell'Aquitania, e nella Narbonia, ed
in alcun'altre province della Spagna; poichè queste nuove leggi, che
_Teodoriciane_ furon dette, proposte per opera de' Goti a' provinciali,
si fece in modo, che le _Teodosiane_ non cotanto s'apprezzassero, ed
al deterioramento di quelle non poco vi cooperò ancora la malvagità de'
proprj romani Ufiziali, e particolarmente di _Seronato_ Prefetto allora
delle Gallie, il quale favorendo le parti de' Goti, e tradendo il suo
proprio Principe, era ai Romani avversissimo; tanto che da Sidonio[651]
era chiamato il _Catilina_ di quel secolo. Costui fu pernizioso a'
Romani stessi, non solamente per le gravi perdite cagionate dalla
sua ribalderia all'Imperio d'Occidente nella Gallia, ma molto più
per lo disprezzo e vilipendio, che faceva delle leggi Teodosiane,
con innalzare all'incontro quelle de' Goti. Ancor oggi appresso
Sidonio[652] si leggono le querele de' provinciali contra costui:
_Exultans Gotis, insultans Romanis, illudens Praefectis, colludensque
numerariis, leges Theodosianas calcans, Teodoricianasque proponens,
veteres culpas, nova tributa perquirit_. Onde si vide in questi tempi
la condizione de' Romani, per la rapacità di quest'uomo pestilente,
che d'eccessivi ed esorbitanti tributi gli caricava, ridotta in tale
stato, che come fu detto nel I libro, i provinciali eleggevan più tosto
la servitù de' Goti, che la libertà de' Romani; onde Salviano[653]
d'essi parlando disse: _Passim, vel ad Gothos, vel ad Bagaudas, vel ad
alios ubique dominantes Barbaros migrant et commigrasse non poenitet;
malunt enim sub specie captivitatis vivere liberi, quam sub specie
libertatis esse captivi. Itaque nomen civium Romanorum aliquando non
solum magno aestimatum, sed magno emptum, nunc ultro repudiatur, ac
fugitur, nec vile tantum, sed etiam abominabile pene habetur_. Paolo
Orosio[654] attesta ancora, che i provinciali eleggevan più tosto tra'
Barbari vivere, che tra' Romani: _Qui malint inter Barbaros pauperem
libertatem, quam inter Romanos tributariam sollicitudinem substinere_.
Quindi Isidoro[655] potè conchiudere: _Unde, et hucusque Romani, qui
in Regno Gothorum consistunt, adeo amplectuntur, ut melius sit illis
cum Gothis pauperes vivere, quam inter Romanos potentes esse, et grave
jugum tributi portare_. Ma cotanta ribalderia di Seronato non rimase
lungo tempo impunita, poichè strascinato in Roma, fugli tronco il capo,
in cotal guisa soddisfacendo la pena di tante sue scelleratezze.

Furon le leggi da Evarico stabilite chiamate _Teodoriciane_, non perchè
riconoscessero per loro Autori i due Teodorici di sopra memorati, come
diedesi a credere il Baronio[656], che ne fece Autore Teodorico il
Giovane predecessore d'Evarico, poichè a tempo dei medesimi niuna legge
scritta ebbe questa Nazione. Molto meno furon così appellate, perchè
forse l'Autore di quelle fosse stato Teodorico Ostrogoto Re d'Italia,
come altri si persuasero: perocchè questo Principe, come diremo più
innanzi, ebbe sentimenti assai diversi intorno alla cura delle leggi
romane, e regnò molto tempo da poi in Italia, morto già Sidonio
Apollinare, il quale non poteva nomar queste leggi Teodoriciane,
perchè questo Teodorico ne fosse Autore. Teodorico Ostrogoto, come
dirassi, regnò in Italia ne' tempi di Anastasio Imperador d'Oriente
nell'anno 493 e 500, quando Sidonio Apollinare era già morto, com'è
manifesto appresso Gregorio di Tours[657]; laonde meritamente fu da
Cironio[658] incolpato d'errore Cujacio, che Autore di queste leggi ne
fece Teodorico Re d'Italia.

Sirmondo, e Dadino Alteserra[659] saviamente dissero, che fossero
queste leggi chiamate _Teodoriciane_ per paranomasia, per opporle alle
_Teodosiane_, acciocchè siccome i Romani valevansi delle Teodosiane,
così i Goti avessero leggi proprie, che con diverso senso, ma con
conforme suono si dicessero _Teodoriciane_: ma siccome osservò
Cironio[660], sarebbe questa una _paranomasia_ troppo insulsa, se
Evarico non fosse stato ancora chiamato Teodorico; onde il dottissimo
Savarone[661] sopra quel luogo di Sidonio Apollinare, assai chiaro
dimostra, che il vero nome di questo Principe fosse stato quello di
_Teodorico_: Grozio[662] poi nel suo Nomenclatore ci fa vedere che
questo Re si fosse chiamato anche _Evarico_ per questo stesso, che
fu il primo fra' Re Goti a compor leggi: _Evarix_, e' dice, _alias
Evaricus. Evva ricch, Legibus pollens. In glossis Lex, Evva_.


§. I. _Del Codice d'Alarico._

Poterono sotto il Regno d'Evarico, ma molto più per la ribalderia di
Seronato soffrire questi oltraggi le leggi romane, ma tolto dal Mondo
sì reo uomo, essendo da poi nell'anno 484 morto Evarico, sursero quelle
di bel nuovo, e tornarono nell'antico lor vigore; poichè d'_Alarico_
figliuol d'Evarico, che nel Reame gli succedè, furono i sentimenti
assai diversi; imperocchè le querele de' provinciali, che mal
sofferivan l'abbassamento delle medesime, trovaron quel luogo presso
ad Alarico, che appo al padre non ebbon giammai. Erano note a questo
Principe le doglianze degli Aquitani, e degli altri suoi sudditi, i
quali mal volentieri si sarebbon accomodati alle leggi _Teodoriciane_,
e che a gran torto lor involavansi le leggi romane, colle quali eran
nati e cresciuti. Era altresì a lui noto con quanta stima venivan
ricevute da Teodorico Ostrogoto, che già ne' suoi tempi regnava in
Italia, la cui figliuola Teodelusa egli aveva per moglie, e perciò
da Teodorico veniva suo figliuolo chiamato, come si vede appresso
Cassiodoro in quella affettuosa epistola, che gli scrisse[663]:
fu per tanto risoluto nel ventesimo secondo anno del suo Regno di
compiacergli; onde avendo trascelti uomini prudentissimi, ed i più
insigni Giureconsulti, che fiorissero nella sua età, a quali prepose
_Gojarico_[664], non altramente, che di Triboniano fece l'Imperador
Giustiniano nella Compilazione delle Pandette e del suo Codice, impose
a' medesimi, che dalle costituzioni del Codice Teodosiano, e dalle
sentenze di varj Giureconsulti sparse in diversi libri, ne formassero
un nuovo Codice. E perchè non si diminuisse la maestà del suo Imperio,
quasi che di leggi straniere d'altri Principi avesse bisogno per
governare i popoli a se soggetti, volle, che questo nuovo Codice in
suo nome si pubblicasse, e che le leggi in quello contenute da lui
ricevessero la forza ed il nerbo, perchè potessero costringersi i suoi
sudditi ad ubbidirle.

I più vulgati e celebri libri, ne' quali in questi tempi contenevasi la
ragion civile de Romani, se riguardansi le costituzioni de' Principi,
eran i Codici Gregoriano, Ermogeniano, e quel di Teodosio con le di lui
Novelle, e l'altre di Valentiniano a quello aggiunte; e fra i volumi
de' Giureconsulti, fiorivan in questa età, sopra tutti, le sentenze
di Paolo, e l'Instituzioni di Cajo; perciò per opera di que' valenti
uomini[665] fu dalle costituzioni di que' Codici, dal corpo di quelle
Novelle, e dalle sentenze di questi Giureconsulti compilato questo
nuovo ristretto Codice; laonde perciò anche Breviario del Codice
Teodosiano fu dagli Scrittori di que' tempi, e della seguente età
nominato, il quale secondo il computo del Gotofredo[666] fu condotto
a fine l'anno 506. La cui Compilazione dee a _Gojarico_, e suoi
Colleghi attribuirsi[667], non già ad _Aniano_ Cancellier d'Alarico,
come stimarono Giovanni Tillio e Cujacio, ingannati forse da ciò, che
scrisse Sigeberto[668]. Aniano nella fabbrica del medesimo non v'ebbe
alcuna parte, ma solamente da lui d'ordine d'Alarico fu pubblicato e
sottoscritto in Ayre città della Guascogna nel Concilio d'ambedue gli
Ordini[669], cioè degli Ecclesiastici e de' Nobili; poichè di questi
tempi in Francia il terzo Ordine non era d'alcun momento, nè d'autorità
veruna[670]. La qual pubblicazione, e sottoscrizione d'Aniano rendesi
manifesta dal _Comonitorio_ d'Alarico diretto al Conte Timoteo, che va
innanzi al Codice Teodosiano, nel quale si leggono queste parole[671]:
_Anianus vir spectabilis, ex praecepto D. N. gloriosissimi Alarici
Regis, hunc Codicem de Theodosianis legibus, atque sententiis Juris,
vel diversis libris electum, Aduris anno XXII eo Regnante edidit atque
subscripsit_.

Alcuni per questo stesso rispetto han creduto, che nel medesimo tempo
Aniano avesse composte ancora le note nelle Sentenze di Paolo, e
nell'Instituzioni di Cajo, come scrissero Deciano[672], ed Arturo[673]
con manifesto errore; poichè in questo Breviario, oltre alle leggi
trascelte dal Codice Teodosiano, vi furon anche riposte le sentenze
di questi Giureconsulti dai mentovati Compilatori, non già da Aniano.
E quelle interpretazioni, che s'osservano nel Codice di Teodosio,
non ad Aniano, ma a coloro debbon attribuirsi, come diligentemente
osservò Gotofredo ne' _Prolegomeni_ di quel Codice[674]. È da notarsi
ancora, che essendo state unite queste note ed interpetrazioni a quel
Codice, ne nacque presso agli Scrittori de' seguenti secoli un errore,
che volendo allegar le leggi di quel Codice, allegavan sovente, come
costituzioni del medesimo, una di queste interpretazioni o note di
Paolo Giureconsulto, siccome fu avvertito da Savarone[675] sopra
Sidonio Apollinare. Così veggiamo, che Ivone di Chartres[676], che
fiorì nell'anno 1092 sovente allega per leggi di questo Codice, ciò
ch'era dell'Interpretazione di Paolo Giureconsulto: Graziano[677] poi
nel suo decreto prende moltissimi di somiglianti abbagli, siccome fu da
Gotofredo[678], e da altri osservato.


§. II. _Traslazione della sede regia degli Vestrogoti da Tolosa di
Francia, in Toledo nelle Spagne._

Questa fu la varia fortuna, che la romana giurisprudenza sostenne
appresso gli Vestrogoti Re di Tolosa, che all'Aquitania, ed a molti
luoghi della Gallia, oltre alle province della Spagna, imperavano:
ma vedi le vicende dell'umane cose. Alarico, che dopo ventitre anni
d'Imperio avea sì bene stabilito il suo Regno in Francia, e che
di tutt'altro poteva temere, che di dover'esser egli l'ultimo Re
di Tolosa, fu del Regno e della vita privo, ed in lui s'estinse la
dominazione de' Goti nella Gallia. _Clodoveo_ Re di Francia, sia per
zelo di religione, sia per ragion di Stato, di mal animo soffriva avere
Alarico per compagno nell'Imperio delle Gallie[679]. Era in fatti
Alarico, come furon tutti i Goti, Ariano: Clodoveo ardente di zelo
per la religion cattolica recentemente da lui abbracciata, diliberò
movergli contra l'armi, e dalla Gallia discacciarlo: così questo
Principe, come si legge appresso Gregorio di Tours[680], parlò a' suoi
soldati: _Valde moleste fero, quod hi Ariani partem teneant Galliarum,
eamus cum Dei adjutorio, et superatis redigamus Terram in ditionem
nostram_. Ecco, che assembrati gli eserciti, assale i confini de'
Goti, si pugna ferocemente ne' campi di Vique, ed Alarico sbalzato di
cavallo, rimane dalle mani proprie di Clodoveo estinto. I Goti per la
morte del loro Re in somma costernazione posti, furon dispersi, e quasi
che in tutto alla perfine distrutti. Trionfa Clodoveo, e prende molte
città, e castelli: Teodorico suo figliuolo penetrando nell'interiori
parti dell'Aquitania, tutte si sottomette quelle città: Clodoveo con
trionfal pompa entra in Tolosa, sede che fu già gran tempo de' Re Goti,
e tutti i tesori d'Alarico vi prende. Ecco il fine della dominazion
de' Goti nell'Aquitania, e vedi intanto la mano del Signore, come
trasferisce i Regni di gente in gente.

Conquistatasi da Clodoveo l'intera Aquitania con Tolosa, rimasero
sotto l'Imperio de' Goti le Spagne, ed ancor parte della provincia
di Narbona, per la quale lungo tempo da' Goti fu poi guerreggiato
co' Francesi: ed avvegnachè finalmente se ne fossero questi renduti
padroni, però nella Francia Narbonese, come dice Grozio[681], non
s'estinse affatto il sangue Gotico, nè quivi mancò in tutto la stirpe
de' _Balti_, rimanendovi ancora quelli della famiglia di _Baux_,
i quali non altronde, che da questi Goti tirano la lor origine, e
conservavan tuttavia in quella provincia parte del Principato d'Orange.
Un altro ramo di questa stessa famiglia di Francia fu trasferito nel
nostro Regno di Napoli; dove si disse appresso noi di _Baucio_, ovvero
del _Balzo_, che tenne il Principato d'Altamura, il Ducato d'Andria, ed
il Contado d'Avellino; del che non vogliamo altro miglior testimonio,
che Grozio stesso; ecco le sue parole: _Aliaque ejusdem familiae
propago in Regno Neapolitano Principatum Altamurae, Ducatum Andriae,
Comitatum Avellinae, virtutis non degenerantis monumenta tenuit_.

Gli Vestrogoti discacciati da Tolosa e da Francia posero la loro sede
regia in Toledo nelle Spagne. Quivi per lungo tempo tennero il Regno
infin alla spaventosa e terribile irruzione de' Saraceni. Tennelo
Gesalarico, e da poi _Teodorico_ Ostrogoto Re d'Italia, il quale
volendosene poi ritornar in Italia, lasciò quello ad _Amalarico_
suo nipote. Tennelo anche sotto Giustiniano Imperadore poco men,
che diciotto anni _Teudio_, e dopo lui _Teudiscolo_ per un sol
anno: _Agila_ per cinque: _Atanagildo_ quattordici, e dopo la di
lui morte seguita in Toledo, _Liuba_[682]. _Leovigildo_ suo fratello
gli succedette nel Regno, Principe di vasti pensieri, e che fu tutto
inteso ad ampliare i confini del suo Imperio. Vinse i Cantabri, che
sono i Biscaini, ed i Navarresi, Amaya, e molt'altre ribellanti città
si sottopose: egli fu perciò detto il _Conquistatore_, perchè gran
parte della Spagna conquistò: _Nam antea Gens Gothorum_, come dice
Isidoro[683], _angustis finibus arctabatur_. Ma tante sue virtù furon
oscurate per le persecuzioni, che diede a' Cattolici, e per la ferocità
e crudeltà del suo animo, non perdonò nè meno ad Ermenegildo suo
figliuolo.


§. III. _Del nuovo Codice delle leggi degli Vestrogoti._

Presso a tutti questi Principi le leggi romane non furon in molta
stima avute, e molto meno presso a _Leovigildo_, il quale portando gli
stessi sentimenti d'Evarico, volle alle sue leggi gotiche aggiungerne
dell'altre, e ciò, che nelle medesime egli credette fuor di ordine
o superfluo, volle correggere e togliere, e con miglior metodo
ordinare: _In legibus quoque_ (narra Isidoro[684]) _ea, quae ab Evarico
incondite constituta videbantur, correxit, plurimas leges praetermissas
adjiciens, plurasque superfluas auferens_. Accrebbe ancora questo
Principe di molto l'Erario, e dopo diciotto anni di Regno, nell'anno
586 morì in Toledo sua sede regia.

Non diversi sentimenti intorno alle leggi romane portarono i suoi
successori: _Reccaredo_ suo figliuolo (che fu il primo il quale lasciò
l'Arianesimo per abbracciare la religione cattolica, dal che fu nomato
il _Re Cattolico_, soprannome poi ripigliato da Alfonso, e Ferdinando
Re d'Aragona, e dai suoi successori) _Liuba_ II. _Vitterico_,
_Gundemaro_, _Sisebuto_, _Reccaredo_ II. _Svintila_, _Sisenando_,
_Cintila_, _Tulca_, _e Chindesvindo_, Principi tutti Cattolici e
religiosi, aggiungendo le loro leggi all'altre de' loro predecessori,
fecion sì, che ne surse col correr degli anni questo nuovo _Codice_,
delle leggi Vestrogote detto[685]. Le leggi che si hanno in quello,
alcune portano in fronte il nome degli Autori, come di Gundemaro Re
e degli altri, che regnarono dopo Evarico e Leovigildo: altre sono
sotto il nome di legge antica, che potrebbero attribuirsi ad Evarico
o più tosto a Leovigildo, che corresse ed accrebbe le costui leggi.
Fu tanta l'autorità di questo Codice, che oscurò in queste province
affatto lo splendore delle leggi romane; poichè Chindesvindo[686]
Re dei Vestrogoti, che a Tulca succedè, promulgò un editto, per cui
sbandì la legge romana da tutti i confini del suo Regno, e ordinò, che
solo questo Codice s'osservasse, sotto vano e stupido pretesto, perchè
quella ricercava troppo sottile interpetrazione. Ecco le parole del
suo Editto[687]: _Alienae gentis legibus, ad exercitium utilitatis
imbui, et permittimus, et optamus; ad negotiorum vero discussionem,
et resultamus, et prohibemus. Quamvis enim eloquiis polleant, tamen
difficultatibus haerent: adeo cum sufficiat ad Justitiae plenitudinem,
et praesentatio rationum, et competentium ordo verborum, quae Codicis
hujus series agnoscitur continere, nolumus, sive Romanis legibus, sive
alienis institutionibus amodo amplius convexari_. Questa costituzione
ritrovandosi per errore di Benedetto Levita registrata tra' Capitolari
di Carlo M. diede occasione al Gonzalez[688] di credere, che Carlo
fosse stato il primo a sterminare dal Foro l'uso delle romane leggi.
_Recisvindo_ suo figliuolo, che nel Regno gli succedette, rinovò
gli ordinamenti del padre, e volle, che fuor di questo Codice non
s'ubbidissero altre leggi siano romane, ovvero Teodosiane, o d'altre
straniere genti. _Nullus_, e' dice, _prorsus ex omnibus Regni nostri
praeter hunc Librum, qui nuper est editus, atque secundum seriem hujus
omnimode translatum, alium librum quocumque negotio in judicio offerre
pertentet_[689]. Tenne Recisvindo il Regno dopo la morte del padre
tredici anni, e morì in Toledo l'anno di nostra salute 672[690], nel
quale _Vamba_ fu eletto suo successore.

Egli è però vero, che questo Codice ad emulazione di quello di
Giustiniano fu compilato, e diviso perciò in dodici libri. I
Compilatori ebbero presente ancora il Codice Teodosiano, e quello
d'Alarico, come è manifesto dalle costituzioni, che in esso
si leggono[691]. Si valsero ancora del Codice di Giustiniano,
connumerando[692] i gradi della consanguinità coll'istesso ordine, e
quasi coll'istesse parole, di cui si valse Giustiniano ne' libri delle
Instituzioni; e quel ch'è più notabile, fu con puro latino scritto,
e non già con quello stile insulso e barbaro, del quale valevansi
l'altre Nazioni; tanto che Cujacio[693] perciò ne prende argomento,
che fosse quella gente più culta di tutte l'altre. E fu cotanta
l'autorità di questo Codice, che non solo presso agli Vestrogoti, ma
anche appo l'altre Nazioni ebbe vigore e fermezza, siccome presso a'
Borgognoni, ed a' Sassoni; anzi ne' Concilj tenuti in Toledo spesso le
sue costituzioni s'allegano, e di quelle sovente fassene illustre ed
onorata memoria: onde si videro nella Spagna in cotal guisa mescolate
le leggi romane con quelle de' Goti; e non pure in questa età, ma
anche ne' tempi susseguenti furon osservate non solo da' Goti, ma
anche da' Saraceni[694], i quali dopo l'anno 715 avendo inondata la
Spagna, le ritennero, nè nuove leggi v'introdussero, salvo che alcune
poche intorno a' giudicj criminali, come della bestemmia del falso
lor Profeta Maometto; ed ultimamente questi essendo scacciati, da' Re
Spagnuoli stessi furon ritenute, come per la testimonianza di Roderico
scrisse Grozio[695], fino al Regno d'Alfonso IX o X, il quale, essendo,
cancellate in buona parte per disusanza le leggi de' Goti, introdusse
nella Spagna le romane, che nell'idioma spagnuolo, per opera di Pietro
Lopez, e di Bartolomeo d'Arienza fece tradurre e divulgare, le quali
ora ritengono tutto il vigore, e leggi delle Partite s'appellano[696].

Questo Codice delle leggi degli Vestrogoti, noi lo dobbiamo alla
diligenza di Pietro Piteo, il qual fu il primo, che comunicollo a
Giacomo Cujacio, della qual cortesia tanto se gli dimostra tenuto. Nè
io voglio che mi incresca di qui recarne le sue parole[697]: _Gothorum,
sive Visigothorum Reges qui Hispaniam, et Galiciam Toleto Sede Regia
tenuerunt, ediderunt XII Constitutionum libros, aemulatione Codicis
Justiniani, quorum auctoritate utimur saepe libenter, quod sint in eis
omnia fere petita ex jure civili, et sermone latino conscripta, non
illo insulso caeterarum gentium, quem nonnunquam legimus ingratis: ut
gens illa maxime, quae consedit in Hispania, plane cultior caeteris,
hoc argumento fuisse videatur. Communicavit autem mihi ultro Petrus
Pitheus, quem ego hominem, et si amore, et perpetuo quodam judicio
meo dilexi semper vix jam ex ephebo profatus fore, ut probitate, et
eruditione aequalium suorum, nemini cederet: tamen pro singulari isto
beneficio, maximam modo animi benevolentiam, et summa, ac singularia
studia omnia me ei debere confiteor, idemque erit erga eum animus
bonorum omnium, si, quod vehementer exopto, eos libros in publicum
conferre maturaverit_. Ciò che Cujacio desiderava, fu da Piteo già
adempiuto; poichè non guari da poi, permise, che questi libri si
dassero alle stampe, come e' dice, scrivendo ad Odoardo Moleo: _Imo
etiam, ne quid Orienti Occidens de eadem gente invideret, legis
Visigothorum libros XII ut tandem aliquando ederentur, concessi_[698].
A costui parimente dobbiamo l'_Editto_ di Teodorico Ostrogoto Re
d'Italia, di cui più innanzi favelleremo.

Nè perchè la Spagna fu poi invasa da' Saraceni, mancò ivi affatto il
nome e 'l sangue de' Goti, siccome non mancarono le loro leggi. Vanta
con ragione la maggior parte della Nobiltà di quel Regno ritenerne non
meno il sangue, che i nomi: ed in fatti, come osservò Grozio[699], nomi
Gotici sono quelli di Ferdinando, di Frederico, Roderico, Ermanno, e
altri consimili, che gli Spagnuoli ritengono. I Re medesimi di Spagna
vantarono, e vollero esser creduti discender essi dal figliuolo di
Favilla _Pelagio_, nato di regia stirpe, il quale nell'irruzione
Saracinesca avendo raccolte le reliquie delle sue genti in Asturia,
quivi si mantenne, ancor che in tenue fortuna, ma con nome regio,
sperando, che la sua posterità un tempo, come poi avvenne, potesse
ricuperare i loro aviti Regni: _Ad hunc_, come dice Mariana, _Hispaniae
Reges nunquam intercisa serie cum semper, aut parentibus filii, aut
fratres fratribus successerint, clarissimum genus referunt_. Frouliba,
moglie di Pelagio, fu ancor ella Gota, ed il suo genero _Aldefonso_
fu parimente Goto del sangue del Re Reccaredo. Goti furon dunque, e
della regal stirpe de' _Balti_, i Re di Spagna, i quali per lo spazio
di settecento anni avendo con istancabili e continue fatiche purgata
la Spagna dall'inondamento Arabico, stesero finalmente il loro dominio
non pure sopra gran parte d'Europa, dell'Affrica, e dell'Asia, ma si
sottoposero un nuovo e sconosciuto Mondo, e ressero ancora per lunga
serie d'anni queste nostre province, che ora compongono il Regno di
Napoli.

Abbiam riputato diffonderci alquanto intorno alla serie di questi
Principi vestrogoti, ed intorno alla varia fortuna della giurisprudenza
romana, ch'ebbe presso a' medesimi nella Francia e nella Spagna, con
parlarne separatamente da quello, che n'avvenne fra gli Ostrogoti
nell'Italia; non solamente per additar l'origine de' Re di Spagna, da'
quali ne' secoli più a noi vicini fu questo nostro Reame governato,
ma anche, perchè si distinguessero le vicende della giurisprudenza
romana appresso queste due Nazioni, le quali non ebbero in ciò uniformi
sentimenti, ma totalmente opposti e diversi. E tanto maggiormente
dovea ciò farsi, quanto che gli Scrittori mischiano le leggi degli
uni e degli altri: nè ponendo mente alla serie e genealogia di questi
Principi, e alle varie abitazioni ch'ebbero, confondono gli uni
cogli altri, e credon, che in Italia appresso gli Ostrogoti avesse
avuta parimente autorità questo Codice, con ascrivere a' Principi
ostrogoti ciò che gli vestrogoti fecero. Nel qual errore non possiamo
non maravigliarci d'esservi incorso eziandio il diligentissimo Arturo
Duck[700], il quale senza tener conto de' tempi e delle regioni diverse
dominate da questi Principi, fra i Re Vestrogoti confonde Atalarico
Ostrogoto, e con ordine al quanto torbido e confuso tratta questo
soggetto.



CAPITOLO II.

_De' Goti orientali, e loro editti._


Degli Principi ostrogoti dell'illustre Casa degli _Amali_ lunga
serie ne fu da Giornandes tessuta nelle sue istorie[701]; prima
d'_Ermanarico_ se ne contano ben sei, _Amalo_, _Isarna_, _Ostrogota_,
che fiorì nell'Imperio di Filippo, _Cniva_, _Ararico_, e _Geperico_.
Ermanarico poi fu quegli, che distese più d'ogni altro i confini
del suo Regno, e soggiogò molte Nazioni. Egli fu un Principe di
molto valore, ma d'assai maggior felicità: la sua morte recò alla
condizione degli Ostrogoti non piccolo detrimento; poichè lui estinto,
i Vestrogoti si separarono, ed a' tempi dell'Imperador Valente
elessero _Fridigerno_ per lor Capitano, indi _Atanarico_ per loro
Re, e dopo costui, nell'Imperio d'Onorio, _Alarico_, la serie de'
cui successori, che regnaron prima in Francia, e poi in Ispagna, s'è
di sopra rapportata. _Vinitario_ dell'istessa stirpe degli Amali ad
Ermanarico succedè; ma costui quantunque ritenesse le medesime insegne
del Principato, nulladimeno rimasero gli Ostrogoti sottoposti agli
Unni, come quelli, che nelle loro regioni dimoravano. Mal sofferendo
perciò Vinitario l'Imperio degli Unni; andavasi pian piano studiando
di sottrarsi dal giogo loro, infin che gli venne fatto d'impadronirsi
della persona di Box loro Re, de' suoi figliuoli, e di settanta de'
principali Signori del suo Reame, che tutti per terribile esemplo
degli altri affisse in croce, e per più giorni fece veder pendenti
i loro cadaveri; ma non potè godere della libertà del suo Imperio,
che per un sol anno, perchè avendogli mossa guerra il Re Balambro,
ancorchè nella prima e seconda battaglia rimanesse costui vinto,
e molta strage degli Unni seguisse; nella terza però fu Vinitario
ucciso per un colpo di saetta, che gli percosse il capo, da Balambro
stesso avventatagli. Confusi perciò e costernati gli Ostrogoti,
tutti all'imperio di Balambro si sottoposero; ma per aversi questo
Principe sposata Valadamarca nipote di Vinitario, ricevettero molte
onorevoli condizioni di pace; poichè avvegnachè rimanessero agli
Unni sottoposti, non mancavan però con consiglio e permissione de'
medesimi d'eleggersi sempre un loro Re, che gli governasse. Ebbero
perciò dopo la morte di Vinitario, _Unimondo_ figliuolo del già
famoso e potente Re Ermanarico. A costui succede _Torrismondo_ suo
figliuolo, prode e valente giovane, che contra i Gepidi riportò
sovente grandi vittorie: la memoria del quale fu tanto cara appo gli
Ostrogoti, che, lui estinto, per quarant'anni vollero vivere senza Re,
insino a _Valamiro_. Fu Valamiro figliuolo di Vandalario nato da un
fratello di Ermanarico, e perciò di Torrismondo consobrino[702]. Da
costui nacquero tre figliuoli, _Valamiro_, _Teodemiro_, e _Videmiro_,
ne' quali conservavasi l'illustre famiglia degli Amali. Valamiro
fu assunto al Regno, ma fra questi fratelli fu cotanto l'amore e la
gratitudine, che scambievolmente l'uno all'altro porgeva la sua opera
perchè conservassero in pace il Regno. Erano però sottoposti ad Attila
Re degli Unni, al cui Imperio era uopo ubbidire; nè era lor permesso
di ricusare di combatter sovente contra gli Vestrogoti stessi loro
parenti, così portando la necessità della suggezione nella quale
trovavansi.

Ma la dominazione degli Unni nelle parti Orientali, per la morte
d'Attila lor valoroso ed invitto Re, venne miseramente a mancare;
poichè avendo questo Principe di se, e delle molte sue mogli procreati
innumerabili figliuoli; mentre essi fra loro pugnano e contendono per
la successione del Regno, vennero tutti a perderlo: perocchè Ardarico
Re de' Gepidi approfittandosi delle loro contese, fece d'essi misera
strage, e gli disperse in guisa, che l'altre Nazioni, le quali erano
sotto gli Unni, per sì prosperi avvenimenti poterono scuotere il giogo
della loro servitù, ed insieme co' Gepidi ricorrere a Marciano, che
allora imperava nell'Oriente, perchè stabilmente a loro distribuisse
quelle regioni, ch'essi col proprio valore avevano sottratte dalla
tirannide degli Unni.

Era Marciano nell'anno 450 succeduto a Teodosio il Giovane nell'Imperio
d'Oriente, il quale con gratissimo animo ricevendogli in protezione,
concedè loro la pace, e assegnò a' Gepidi interamente la Dacia,
sede, che fu degli Unni, da' quali essi l'avevano ricuperata. I Goti
scorgendo, che i Gepidi se l'avrebbono ben difesa, per non contrastar
con essi, amaron meglio, che si assegnasser loro del romano Imperio
altre terre, come fu fatto; onde nella Pannonia trasferirono la loro
sede. I confini della Pannonia erano allora, verso l'Oriente la Mesia
superiore, dal Mezzo Giorno la Dalmazia, dall'Occidente il Norico,
e dal Settentrione il Danubio: provincia ornata di più città fra le
quali sopra tutte s'innalzava Sirmio, ove gl'Imperadori sovente solevan
fermarsi.

Trasferita adunque dagli Ostrogoti la lor sede nella Pannonia, vissero
lungo tempo sotto il Regno di Valamiro loro Re, e di Teodemiro e
Videmiro suoi fratelli; i quali ancorchè divisi di luoghi, che fra
essi ripartironsi, eran però ne' consigli e nelle deliberazioni così
strettamente uniti e congiunti, che da un solo sembrava esser la
Pannonia retta e governata[703]. Questi spesso ributtarono le armi,
che loro venivan mosse da' figliuoli d'Attila, i quali riputandogli
desertori del loro Imperio, sovente gli assalivano, sin che sconfitti
da Valamiro, nella Scizia non furon confinati. Nacque a Teodemiro
in questo stesso giojoso tempo della vittoria riportata contro a'
figliuoli d'Attila, _Teodorico_, quegli che fin da' suoi natali dando
di se alte speranze, per le sue nobili maniere ed eccellenti virtù,
entrato in somma grazia dell'Imperador Zenone, ebbe la fortuna per
molti anni con nome regio di signoreggiar l'Italia, e queste nostre
province.

Continuavasi intanto fra l'Imperador Marciano e Valamiro, e suoi
fratelli una perfetta e stabil pace; ma offesi questi, che nella Corte
imperiale di Costantinopoli, un tal Teodorico figliuolo di un soldato
veterano, se ben Goto, però non della stirpe degli Amali, aveva tirato
a se gli animi di tutti, e che dall'Imperadore niun conto d'essi
facevasi, sottraendosi loro gli stipendj, che solevan dall'Imperio
ricevere: sdegnati perciò acerbamente, mossero incontanente centra
l'Imperio l'armi, e posero sossopra la Dalmazia, e l'Illirico.
Prestamente l'Imperadore mutò sentimenti: laonde per tenergli amici,
mandò Ambasciadori a stabilir con essi con più forte nodo una più
ferma e stabil pace, offerendo loro non pur quegli stipendj, che
per lo passato aveva denegati, ma anche tutto ciò, che fin a quel
tempo dovevano conseguire, obbligandosi eziandio di corrispondergli
nell'avvenire, purchè essi si contenessero ne' loro confini, nè guerra
all'Imperio portassero. Furono accordate le condizioni: ma l'Imperadore
per istar maggiormente sicuro, volle che per ostaggio si desse il
fanciullo Teodorico figliuolo di Teodemiro. Ripugnava l'affettuoso
padre, nè poteva soffrire, che sì caro pegno se gli togliesse; ma
finalmente persuaso dalle preghiere di suo fratello Valamiro glie lo
concedette. Fu per tanto fermata tra Goti e Romani una ferma e stabil
pace, pegno della quale fu Teodorico, che, dato in ostaggio, fu in
Costantinopoli portato nelle mani dell'Imperador Lione il Trace,
ch'allora era in Oriente a Marciano succeduto, il quale per l'avvenenza
e gentili maniere del fanciullo, così caro l'ebbe, che più di proprio
figliuolo l'amò e ritenne.

Essendosi adunque i Goti con sì forte nodo di pace stretti co' Romani,
contra varie Nazioni, che con loro confinavano, sovente mossero l'armi:
ma ecco che mentre Valamiro valorosamente combatte i Sciti, sbalzato
dal suo cavallo, fu da essi ucciso, onde i Goti per vendicar la morte
del Re loro, pugnarono sì fortemente contro a' medesimi, che affatto
l'estinsero, e debellarono. Muove altresì Teodemiro l'armi contro a'
Svevi, ed Alemanni, e di essi fa crudel macello, gli disperde, e quasi
affatto gli estingue: e mentre trionfando ritorna nella Pannonia sua
sede, ecco che Teodorico suo figliuolo dato in ostaggio, se ne ritorna
da Costantinopoli onusto di doni, licenziato dall'Imperador Lione,
perchè in libertà piena godesse il patrio suolo.

Ritornato Teodorico nella Pannonia, appena uscito dalla puerizia, non
avendo diciotto anni finiti, comincia a dar di se saggi d'incredibil
valore; poichè senza che Teodemiro suo padre il sapesse, raguna
molte truppe de' suoi più ben affezionati, ed il numero di poco men,
che seimila uomini unendo, valica il Danubio, e contra Babai Re di
Sarmati porta le sue armi, il quale poco anzi aveva trionfato di
Camundo Capitan romano; lo vince, l'uccide, e sopra lui piena vittoria
riportando, sorprende anche la città di Semandria, che da' Sarmati era
stata occupata, nè la rende a' Romani, ma al suo Reame la sottomette.

Ma mentre i Goti così depredano i lor vicini, vie più cresce l'ardore
di dilatare i lor confini, e cercare in altre parti più agiate sedi:
Videmiro per tanto si dispone co' suoi di passar in Italia, come fece,
ma appena ivi giunto, furon da inaspettata morte troncati tutti i
suoi disegni; onde succedutogli nel Regno il figliuolo, che _Videmiro_
parimente nomossi, questi confortato da Glicerio, ch'allora imperava
nell'Occidente; da Italia nella Gallia volse il suo cammino, ed unitosi
cogli Vestrogoti suoi parenti, potè co' medesimi purgar la Gallia, e le
Spagne da molte Nazioni che l'infestavano, e difendere quelle province
centra l'invasione de Vandali.

Teodemiro all'incontro suo zio con Teodorico suo figliuolo, stimolato
anche da Gezerico Re de' Vandali, verso la Dalmazia e l'Illirico portò
le sue armi, prende Neissa principal città di questa provincia, indi
Ulpiano, e tutti gli altri luoghi, ancorchè inaccessibili quelli ti
fossero; sottomette al suo Imperio Eraclea, e Larissa città della
Tessaglia: trascorre più oltre, ed all'impresa di Tessalonica ancor
aspira. Trovavasi alla guardia di questa città Clariano Patrizio e
Capitan romano, il quale colto così inaspettatamente da Teodemiro, e
considerando le sue forze non sufficienti a potergli resistere, gli
mandò Legati con molti doni, perchè dall'assedio di quella città si
rimanesse. Furon accordate tosto le condizioni di pace, lasciandosi a'
Goti tutti que' luoghi, che eransi a loro renduti, cioè Ceropellas,
Europo, Mediana, Petina, Bereo, e gli altri paesi dell'Illirico, ove
i Goti col loro Re, deposte l'armi, tranquillamente si posarono. Non
molto da poi gravemente infermossi Teodemiro, il quale convocati i
Goti, avendo disegnato ad essi Teodorico suo figliuolo per loro Re e
suo successore, da tutti compianto, finì i giorni suoi[704].


§. I. _Di TEODORICO ostrogoto, Re d'Italia._

Intanto l'Italia per la morte di Valentiniano III, accaduta nell'anno
455[705] era per la variazione di tanti Principi e Imperadori tutta
sconvolta e miseramente afflitta: _Massimo_, autor dell'infame
assassinamento, si fece acclamar Imperadore d'Occidente, e sposò
Eudossia moglie di Valentiniano, e figliuola di Teodosio; ma avendole
manifestato, ch'egli era stata la cagione della morte del suo primo
marito, ella chiamò dall'Affrica Genserico Re de' Vandali, il quale
venne con potente armata in Italia, ed entrato in Roma interamente la
devasta e saccheggia, e Massimo, mentre fugge, fu dal Popolo romano
lapidato e sbranato. Dopo aver Genserico scorse molte province, volgesi
in dietro con proposito d'abbandonarla, e ripassare in Affrica: scorre
per la nostra Campagna, e tutta la devasta e scompiglia, prende Capua
e Nola, e molte altre città di questa provincia sono distrutte e poste
a sacco: indi a Cartagine fece ritorno. _Avito_ in queste turbolenze
col favor degli Vestrogoti si fece in Francia gridar Imperadore, ma
ben presto lasciò la porpora; poichè Marciano Imperadore, che, come
si disse, era succeduto nell'Imperio d'Oriente a Teodosio il Giovane,
avendo intesa la morte di Massimo, proccurò, che dal Senato e da'
soldati si creasse Imperadore _Maggioriano_, come seguì nell'anno 457.
Fu questi non molto da poi per opera di _Severo_ fatto uccidere, il
quale s'intruse nell'Imperio; ma non passò il terzo anno, che Severo
fu fatto privar di vita da Ricomero, il quale stabilì in suo luogo
_Antemio_; ebbe questi ancora il favor di Lione, che nell'anno 457 per
la morte di Marciano era nell'Imperio d'Oriente succeduto. Ma essendosi
da poi contra Antemio dichiarato Ricomero, fu da costui parimente fatto
morire nell'anno 472, e fece in suo luogo collocare _Olibrio_, il quale
non regnò più, che otto mesi, e _Glicerio_ più per la sua potenza, e
per essere sostenuto dai Vestrogoti, che per libera elezione, fu in
Ravenna dichiarato Imperadore. Ma questi appena finì un anno d'Imperio,
che Giulio _Nipote_ nell'anno 474 lo fece deporre, e prese egli il
titolo d'Imperadore: Oreste stabilito da lui Generale delle sue armi,
si ribellò contro di esso, e fece dichiarare in Ravenna suo figliuolo
_Augustolo_ Imperadore.

I Principi stranieri vedendo tanta confusione e disordine presso a'
Romani, ben pensarono d'approfittarsene, siccome fece già Evarico
vestrogoto, e fecero molti altri; ma nel Regno d'Augustolo, crescendo
via più il disordine, venne fatto agli Eruli e Turingi, sotto _Odoacre_
lor Capitano, invitato anche dagli amici di Nipote, d'occupar
finalmente l'Italia: uccide Oreste, e discacciato dall'Imperio
Augustolo, lo manda in Napoli in esilio nel Castello di Lucullo,
che ora noi diciamo dell'Uovo[706]. Ed ecco in Augustolo estinto
l'Imperio de' Romani in Occidente in quest'anno 476 tanto che ebbe a
dire Giornande: _Sic quoque Hesperium Romanae Gentis Imperium, quod
septingentesimo vigesimo tertio Urbis conditae anno, primus Augustorum
Octavianus Augustus tenere coepit, cum hoc Augustolo periit, anno
decessorum, praedecessorumque Regni quingentesimo sexto; Gothorum
dehinc Regibus, Romam, Italiamque tenentibus_. Terminò ancora nella
sua persona il nome d'Imperador d'Occidente, perchè Odoacre essendosi
renduto padrone di Italia, non prese altra qualità, che di Re.

Tenne Odoacre il Regno d'Italia, secondo Giornande, poco men, che
quattordici anni[707], infino che da Teodorico Ostrogoto nell'anno 489
non ne venne scacciato, e confinato in Ravenna, ove lo cinse di stretto
assedio. Non ebbe l'Italia, non ebbero queste nostre province tempi
più miserabili di quelli, che corsero dalla morte di Valentiniano III,
infino al Regno di Teodorico; poichè se vorrà considerarsi di quanto
danno sia cagione ad una Repubblica, o ad un Regno variar Principe, o
governo, si potrà quindi facilmente immaginare, quanto in tali tempi
patissero queste nostre province per la variazione di tanti Principi,
ed Imperadori. Tutto era disordine, tutto confusione e sconvolgimento:
le leggi avvilite, e più la giustizia. Gl'Imperadori, che sì spesso
eran rifatti, a tutt'altro badavano: solamente alcune _Novelle_ di
Marciano, di Maggioriano, di Severo, e d'Antemio, sono a noi rimase,
le quali da Giacopo Gotofredo furon raccolte, quelle che veggonsi
impresse dopo il suo Codice Teodosiano. Ma assunto al Regno Teodorico,
meritò questo Principe non mediocre lode; poichè egli fu il primo,
che facesse cessare tante calamità, tal che per lo spazio poco meno di
38 anni, che regnò in Italia, la ridusse in tanta grandezza, che gli
antichi mali e desolazioni più in lei non si conoscevano; imperciocchè
reggendola secondo gl'istituti e leggi de' Romani, la restituì
nell'antico splendore e maestà. Per la quale cosa conviene a noi narrar
particolarmente i gesti di questo eccelso Principe, a cui molto debbon
queste nostre province, ch'ora compongono il Regno di Napoli.

Teodorico dopo la morte di Teodemiro suo padre, assunto al paterno
Reame, dominava nell'Illirico, ove gli Ostrogoti, come dicemmo,
dopo quelle conquiste, posando l'armi si fermarono. Reggeva allora
l'Oriente _Zenone_, il quale nell'anno 474 era all'Imperador Lione
succeduto in Oriente: questi avendo inteso, che Teodorico era stato
dagli Ostrogoti eletto Re, dubitando che per lo troppo suo potere
non inquietasse il suo Imperio, stimò richiamarlo in Costantinopoli,
ove giunto con incredibili segni di stima l'accolse, e fra i primi
Signori del palazzo lo fece prima arrolare; non guari da poi per
suo figliuolo l'adottò, e creollo ordinario Console, dignità in
que' tempi la più eminente del Mondo: nè gli bastò questo, ma volle
ancora, che per gloria d'un sì ragguardevol personaggio gli fosse
eretta avanti la Reggia dell'imperial palagio una statua equestre.
Ma mentre questo Principe godeva in Costantinopoli tutti quegli agi e
quegli onori, che da mano imperiale potevan dispensarsi, il generoso
suo animo però mal sofferiva di veder la sua gente, che nell'Illirico
era trattenuta, invilita nell'ozio ed in povertà ed angustie, ed
egli starsene oziosamente godendo quelle delizie, menando una vita
neghittosa e lenta: da sì potenti stimoli riscosso, si risolve a più
magnanime imprese, e portatosi all'Imperador Zenone, secondo che narra
Giornande[708], così gli parla. Ancorchè a me, ed a' miei Goti, che al
vostro Imperio ubbidiscono, niente manchi per la vostra magnanimità
e grandezza, piacciavi nondimeno udire i voti e i desiderj del mio
cuore, che son ora liberamente per esporvi. L'Imperio d'Occidente,
che lunga stagione fu governato da' vostri predecessori, va tutto
in guerra, e non vi è barbara nazione, che non lo devasti, scompigli
e manometta: Roma, che fu già capo e signora del Mondo con l'Italia
tutta dalla tirannide d'Odoacre è oppressa: voi solo permetterete, che
stando noi qui oziosi e infingardi, altri depredino sì bella parte
del vostro Imperio? che non mandi me colla mia gente a portar ivi
le nostre armi? Noi vendicheremo i vostri torti e le vostre onte, ed
oltre che risparmierete le gravi spese, che, stando noi qui, sostenete,
se io coll'aiuto del Signore vincerò, risanerà la fama della vostra
pietà e del vostro onore per tutto il Mondo. Io son vostro servo
e vostro figliuolo ancora, onde sarà più espediente e ragionevole,
che se vincerò, abbia io per vostro dono a posseder quel Regno, che
ora è premuto dalla tirannide di straniere genti, che tengono il
vostro Senato, e gran parte della vostra Repubblica in vile servitù
e cattività: se io trionferò d'esse, per tua munificenza possederò
l'Occidente: se resterò vinto, al vostro Imperio, ed alla vostra pietà
niente si toglie, anzi ne guadagnerete queste gravi e rilevanti spese.

Sì magnanima risoluzione di Teodorico, ancorchè forte spiacesse
all'Imperador Zenone, che mal sofferiva il suo allontanamento, pure, e
per non contristarlo, e seco medesimo pensando, che meglio fosse, che i
suoi Goti, di riposo impazienti, portassero altrove le loro armi, e non
inquietassero le parti Orientali, volle compiacerlo, e concedendogli
tutto ciò che domandava, caricatolo di ricchissimi doni, lo lasciò
andare, raccomandandogli sopra ogni altra cosa il Senato, ed il Popolo
romano, di cui dovesse averne ogni stima e rispetto. Esce fuor di
Costantinopoli Teodorico ripieno d'altissime speranze, e ritornando
a' suoi Goti, fa sì, che molti lo seguissero, e per cammin diritto,
avviandosi per la Pannonia, verso Italia drizza il suo esercito. Indi
entrando ne' confini di Vinezia, presso al ponte di Lisonzo non lungi
d'Aquileja, pone i suoi alloggiamenti.

I messi intanto di questa mossa eran precorsi ad Odoacre, il quale,
sentendo essersi Teodorico già accampato in quel ponte, gli muove
incontro il suo esercito. Ma Teodorico, prevenendolo, ne' Campi di
Verona, gli presenta la battaglia, pugnasi ferocemente, e Teodorico
delle genti nemiche fa strage crudele: onde audacissimamente entrando
in Italia, passato il Pò, presso a Ravenna accampa il suo esercito,
ed all'assedio di questa imperial città è tutto rivolto. Odoacre, che
si ritrova dentro, fa ogni sforzo in munirla, e sovente con notturne
scorrerie inquieta l'esercito dei Goti; ed in questa guisa pugnando,
ora perdente, ora vincente, si giunge al terzo anno di quest'assedio:
ma invano s'affatica Odoacre, poichè fra tanto da tutta Italia era
Teodorico per suo Re e signore acclamato, ed ogni cosa così pubblica,
come privata, i suoi voti secondava. In tale stato scorgendo Odoacre
esser ridotta la sua fortuna, e riguardandosi solo in Ravenna, e che
già per lo continuo e stretto assedio, mancavano i viveri, deliberò
rendersi, onde mandò Legati a Teodorico a chiedergli pace: fugli
accordata; ma da poi entrato in sospetto, che Odoacre gl'insidiasse il
Regno, gli fece toglier la vita.

Intanto di sì avventurosi successi diede Teodorico distinti ragguagli
all'Imperador Zenone, avvisandolo non rimanergli altro, che Ravenna
sola per l'intera conquista dell'Italia; ébbene sommo piacere Zenone,
onde con suo imperial decreto confermogli l'Imperio d'Italia; e per
suo consiglio deponendo l'abito Goto, non già d'imperial diadema,
ma di regie insegne e di regale ammanto si cuopre, e Re de' Goti
e de' Romani è proclamato[709]. Indi nel secondo anno dell'Imperio
d'_Anastasio_, che a Zenone succedette, prese, per la morte d'Odoacre,
Ravenna, e nell'anno 493 fermò in questa città, come avevan fatto i
suoi predecessori, la regia sede.

Se fu mai Principe al Mondo, in favor del quale nell'acquisto de' suoi
Regni concorressero tanti giusti titoli, certamente dovrà reputarsi
Teodorico a rispetto del Regno d'Italia. Era già a' suoi dì l'Imperio
d'Occidente, per la morte d'Augustolo, finito affatto ed estinto: la
Spagna da' Vandali, dagli Vestrogoti, e dai Svevi era occupata: la
Gallia da' Francesi, e da' Borgognoni: la Germania dagli Alemanni, e da
altre più inculte e barbare Nazioni: l'Italia non potendo essere difesa
dagl'Imperadori d'Oriente, era stata da essi abbandonata, e lasciata
in preda di più barbare genti: Gizerico Re de' Vandali la devasta e
depreda: Odoacre, l'invade, e sotto la sua tirannide la fa gemere.
Giunge Teodorico a liberarla, ed a suo costo per mezzo d'infiniti
perigli, col valor delle sue armi, e colle forze della sua propria
Nazione supera il Tiranno, lo discaccia, e l'uccide. Tutti i Popoli per
loro Re e signore l'acclamano, ed il suo Regno desiderano. Se v'era
chi sopra Italia avesse alcun diritto, era l'Imperador d'Oriente;
ma Teodorico mandato da lui viene a conquistarla, ed a discacciarne
l'invasore. Conquistata che l'ebbe colle proprie forze, gli viene
da Zenone confermato l'Imperio, e per suo consiglio ed autorità
dell'insegne regali s'adorna, e Re d'Italia è gridato, transfondendo
nella sua persona i più supremi diritti. Nel che non vogliamo altri
testimoni, che i Greci stessi, niente dico di Giornande, che come Goto
potrebbe forse ad alcuni sembrar sospetto, niente d'Ennodio, quel Santo
Vescovo di Pavia, che per la giustizia del suo Regno gli stese una
orazione panegirica[710]; vagliami Procopio[711] di nazione greca, il
quale nella sua storia, siccome tanto si compiace de' suoi Greci, così
a' Goti non fu molto favorevole: ecco ciò, ch'e' narra di questo fatto,
secondo la traduzione di Grozio: _At Zeno Imperator, gnarus rebus
uti, ut dabant tempora, Theodorico hortator est, ut in Italiam iret,
Odoacroque devicto, sibi ipse ad Gothis pararet Occidentis Regnum.
Quippe satius homini in Senatum allecto, Romae, atque Italis imperare,
Invasore pulso, quam arma in Imperatorem cum periculo experiri_. Per
la qual cosa i miserabili Goti, quando nel Regno di Teja ultimo loro
Re furono costretti da Giustiniano a lasciar l'Italia, ricorrendo
a' Francesi per aiuto, fra l'altre cose, che per movergli alla loro
difesa poser loro innanzi gli occhi, fu il dire, che ciò, che i
Romani allora facevano ad essi, avrebbono un dì fatto a loro altresì;
poichè or che vedevan le loro forze abbattute, con ispeziosi pretesti
moveano loro guerra, con dire, che Teodorico invase l'Italia, che a'
Romani s'apparteneva: _Cum tamen_, essi dicevano appresso Agatia[712],
_Theodoricus non ipsis nolentibus, sed Zenonis quondam Imperatoris
concessu venisset in Italiam, neque eam Romanis abstulisset, qui pridem
eam amiserant, sed depulso Odoacro invasore peregrino, Belli jure
quaesivisset quaecunque ille possederat_.

E morto l'Imperador Zenone, Anastasio, che gli succedè nell'Imperio
d'Oriente, portò gli stessi sentimenti del suo predecessore avendolo
per giusto e legittimo Principe; poichè se bene appresso l'Anonimo
Valesiano, che fu fatto imprimere da Errico Valesio dopo Ammiano,
rapportato da Pagi nella sua _Dissertazione hypatica de Consulibus_, si
legga, che i Goti, morto nell'anno 493 Odoacre, _sibi confirmaverunt
Theodoricum Regem, non expectantes jussionem novi Principis_
(intendendo d'Anastasio, che allora era a Zenone succeduto) ciò
che, come avverte Pagi[713], insino ad ora fu ignorato; nulladimanco
dall'Epistole di Cassiodoro si vede, che Anastasio approvò poi ciò, che
i Goti aveano per propria autorità fatto; anzi finchè visse, mantenne
con Teodorico una ben ferma e sicura amicizia, esortandolo sempre,
che amasse il Senato, abbracciasse le leggi de' Principi romani suoi
predecessori, e proccurasse sotto il suo Regno mantener l'Italia unita
in una tranquilla e sicura pace: di che Teodorico ne l'accertava con
promesse e con effetti, come si vede dalle sue Epistole, che appresso
Cassiodoro si leggono dirizzate ad Anastasio[714].

Giustiniano stesso, che discacciò i Goti d'Italia, non potè non
riputar giusto e legittimo il Regno di Teodorico, e degli altri Re
d'Italia suoi successori: poichè conquistata che l'ebbe per opera di
que' due illustri Capitani, Belisario, e Narsete, abolì sì bene tutti
gli atti, concessioni e privilegi di Totila da lui reputato invasore
e Tiranno, ma non già quelli di questo Principe, e degli altri suoi
successori[715].

(La subordinazione e riverenza nella quale furono i Re Goti
agl'Imperadori d'Oriente, si convince apertamente dalle monete di
questi Re, che si conservano ancora ne' più rinomati Musei d'Europa,
nelle quali in una parte si vede l'effigie degl'Imperadori, nell'altra
non già imagine alcuna di Re Goto; ma solo i loro nomi, toltene
alcune monete di rame forse per concessione avutane dagl'Imperadori,
se ne vede anche l'effigie. Di quelle d'argento nel Museo cesareo di
Vienna se ne veggono alcune, le quali da una parte hanno l'effigie
dell'Imperadore Giustiniano, e dall'altra i nomi di questi Re:
ATHALARICUS _Rex_. THEODATUS _Rex_. VITIGIS _Rex_. BADUELA _Rex_. Il
Bandurio le ha pure impresse; ed il _Paruta_ porta anche una consimil
moneta del RE TEIA. Il dubbio che sorge, come _Giustiniano_ permettesse
a _Baduela_, che è lo stesso, che _Totila_, coniar monete colla sua
imagine, ed il di lui nome, quando lo riputava invasore e Tiranno,
viene sciolto dal Bandurio, al quale volentieri ci rimettiamo).

In fatti Teodorico, ancorchè non gli fosse piaciuto d'assumere il
nome d'Imperadore, era in realtà da tutti i suoi Popoli tenuto per
tale; e Procopio stesso dice, che niente gli mancava di quel decoro,
che ad uno Imperador si conveniva; anzi Cassiodoro reputò, che questo
nome stava assai più bene a lui, che a qualunque altro, ancorchè
chiarissimo Imperador romano: ed in effetto questo Principe sia per
riverenza degl'Imperadori d'Oriente, sia perchè Odoacre non prese altra
qualità, che di Re, sia perchè queste Nazioni straniere riputassero
più profittevole e vigoroso il titolo di Re, come dinotante una
signoria affatto indipendente e libera, che quello d'Imperadore, non
volle giammai assumere tal nome d'Imperadore di Occidente, come fece
da poi Carlo M. E pure, o si riguardi l'estensione del dominio, o
l'eminenti virtù, che l'adornavano, non meno, che Carlo M. sarebbe
stato meritevole di tal onore. Egli possedeva l'Italia con tutte le sue
province, e la Sicilia ancora. Nè questa parte d'Europa solamente era
sotto la sua dominazione. Tenne la Rezia, il Norico, la Dalmazia colla
Liburnia, l'Istria, e parte della Svevia: quella parte della Pannonia,
ove sono poste Sigetinez, e Sirmio: alcuna parte della Gallia, per la
quale co' Francesi sovente venne all'armi, e per ultimo reggeva, come
Tutore d'Amalarico suo nipote, la Spagna; tanto che Giornande[716] ebbe
a dire: _Nec fuit in parte Occidua gens, quae Theodorico, dum viveret,
aut amicitia, aut subjectione non deserviret_.

Non ancora in Occidente erasi introdotto quel costume, che i Re
s'ungessero, ed incoronassero per mano de' Vescovi delle città
metropoli. In Oriente cominciava già a praticarsi questa cerimonia;
ed in questi medesimi tempi leggiamo, che Lione il Trace dopo essere
stato dal Senato di Costantinopoli eletto Imperadore, fu incoronato da
Anatolio Patriarca di quella città. Se questa usanza si fosse trovata
introdotta in Italia, e fosse piaciuto a Teodorico portarsi in Roma
a farsi incoronare Imperadore da Papa Gelasio, siccome fece Carlo M.
con Papa Lione III, certamente che oggi pure si direbbe essere stato
trasferito l'Imperio d'Occidente da' Romani ne' Goti per autorità della
sede Apostolica romana.


§. II. _Leggi romane ritenute da Teodorico in Italia, e suoi editti
conformi alle medesime._

Ma avvegnachè a questo Principe non fosse piaciuto assumere il nome
d'Imperador d'Occidente, egli però resse l'Italia, e queste nostre
province, non come Principe straniero, ma come tutti gli altri
Imperadori romani. Ritenne le medesime leggi, i medesimi Magistrati,
l'istessa politia, e la medesima distribuzione delle province. Egli
divise prima gli Ostrogoti per le terre co' Capi loro, acciocchè nella
guerra gli comandassero, e nella pace gli reggessero, ed eccetto che la
disciplina militare, rendè a' Romani ogni onore. Comandò in prima, che
le leggi romane si ritenessero, ed inviolabilmente s'osservassero, ed
avessero quel medesimo vigore, ch'ebbero sotto gli altri Imperadori di
Occidente; anzi fu egli di quelle cotanto riverente e rispettoso, che
sovente appresso Cassiodoro in cotale guisa ne favella: _Jura veterum
ad nostrani cupimus reverentiam custodiri_. Ed altrove: _Delectamur
jure Romano vivere_; ed in altri luoghi: _Reverenda legum antiquitas,
etc._[717]. Laonde i Pontefici romani si rallegravano con Teodorico,
che come Principe saggio e prudente avesse ritenuta la legge romana
in Italia. Così Gelasio, secondo rapporta Gotofredo[718], ovvero
Simmaco suo successore, secondo vuole Alteserra[719], si congratulava
con Teodorico: _Certe est magnificentiae vestrae, leges Romanorum
Principum, quas in negotiis hominum custodiendas esse praecepit,
multo magis circa Beati Petri Apostoli Sedem pro suae felicitatis
augumento, velle servari_. E per questa cagione ne' primi cinque libri
di Cassiodoro, che dell'Epistole e editti di Teodorico si compongono,
non vedesi inculcar altro a' Giudici, ed a' Magistrati, che la debita
osservanza e riverenza delle leggi romane: e moltissime costituzioni
del Codice Teodosiano, e molte Novelle di Teodosio, di Valentiniano,
e di Majoriano, in que' libri s'allegano, delle quali lungo catalogo
ne tessè il diligentissimo Gotofredo ne' suoi Prolegomeni a quel
Codice[720].

Nè altra fu l'idea di questo Principe, che mantenere il Regno d'Italia
con quelle stesse leggi, e col medesimo spirito ed unione, con cui
Onorio, Valentiniano III, e gli altri Imperadori d'Occidente l'aveano
governato. Così egli se ne dichiarò con Anastasio Imperador d'Oriente:
_Quia pati vos non credimus inter utrasque Respublicas, quarum semper
unum corpus sub antiquis Principibus fuisse declaratur, aliquid
discordiae permanere; quas non solum oportet inter se otiosa dilectione
conjungi, verum etiam decet mutuis viribus adjuvari. Romani Regni unum
velle, una semper opinio sit_[721]. Per la qual cosa da Teodorico nuove
leggi in Italia non furono introdotte, credendo bastar le Romane, per
le quali lungo tempo s'era governata. E se bene ancor oggi si legga un
suo editto[722] contenente cento cinquanta quattro capi (il quale lo
debbiamo alla diligenza di Pietro Piteo, che lo fece imprimere) però,
toltone alcuni capi, che del gotico rigore sono aspersi, come il capo
56, 61 ed alcuni altri, tutto il rimanente è tolto dalle leggi romane,
siccome Teodorico stesso lo confessa nel fine del medesimo: _Nec
cujuslibet dignitatis, aut substantiae, aut potentiae, aut cinguli, vel
honoris persona, contra haec, quae salubriter statuta sunt, quolibet
modo credat esse veniendum, quae ex Novellis legibus, ac veteris
juris sanctimonia pro aliqua parte collegimus_. Nè vi è quasi capo
del suddetto editto, che disponga cosa, la quale nelle leggi romane
non si trovi. Onde sovente Teodorico per corroborar il suo comando, o
divieto, alle medesime si rapporta. Così nel _cap. 24 secundum legum
veterum constituta: e nel cap. 26 secundum leges_: e nel _cap. 36 legum
censuram, ed altrove_.

Ma ciò, che rende più commendabile questo Principe fu, che volle
eziandio, che queste leggi fossero comuni non solo a' Romani, ma a'
Goti stessi, che fra i Romani vivevano, come è manifesto per questo
suo editto, lasciando a' Goti poche leggi proprie, le quali, come più a
loro usuali, più tosto lor proprie costumanze erano, che leggi scritte:
ma in ciò ch'era di momento, come di successioni, di solennità, di
testamenti, d'adozioni, di contratti, di pene, di delitti, ed in somma
per tutto ciò, che s'appartiene alla pubblica e privata ragione, le
leggi romane erano a tutti comuni. Nè altre leggi contendendo il Goto
col Romano, o il Romano col Goto, volle che i Giudici riguardassero per
decidere le loro liti, come espressamente Teodorico rescrisse ad un tal
Gennaro Preside del nostro Sannio: _Intra itaque Provinciam Samnii, si
quod negotium Romano cum Gothis est, aut Gotho emerserit aliquod cum
Romanis, legum consideratione definias; nec permittimus discreto jure
vivere, quos uno voto volumus vindicare_[723]. Solamente quando le
liti s'agitavan fra Goto e Goto volle, che si decidessero dal proprio
Giudice, ch'egli destinava in ciascuna città, secondo i suoi editti,
i quali, come s'è detto, ancorchè contenessero alcune cose di gotica
disciplina, non molto però s'allontanavan dalle leggi romane; ma in
ciò i Romani anche venivan privilegiati, poichè solo se la lite era fra
Goto e Goto, poteva procedere il lor Giudice: ma se in essa occorreva,
che v'avesse anche interesse il Romano, attore o reo che questi si
fosse, doveva ricorrersi al Magistrato romano: ed in questa maniera
era conceputa da Teodorico la formola della _Comitiva_, che si dava
a coloro, che da lui erano eletti per Giudici de' Goti in ciascheduna
provincia, rapportata da Cassiodoro nel settimo libro fra le molt'altre
sue formole[724].


§. III. _La medesima politia, o Magistrati ritenuti da TEODORICO in
Italia._

Siccome somma fu la cura di Teodorico di ritenere in Italia le
leggi romane, non minore certamente fu il suo studio di ritenere
ancora l'istessa forma del governo, così per quel che s'attiene alla
distribuzione delle province, come de' Magistrati e delle dignità.
Egli ritrovando trasferita la sede imperiale da Onorio e Valentiniano
suoi predecessori in Ravenna, che non a caso, e per allontanarsi da
Roma, ivi la collocarono, ma per esser più pronti ed apparecchiati a
reprimer l'irruzioni de' Barbari, che per quella parte si inoltravan
ne' confini d'Italia, ivi parimente volle egli fermarsi; onde le
querele de' Romani erano pur troppo ingiuste e irragionevoli, quando
di lui si dolevano, perchè in Ravenna, e non in Roma, avesse collocata
la sua sede regia. Ben del suo amore inverso quella inclita città
lasciò egli manifestissimi documenti, ornandola di pubbliche e chiare
memorie della sua grandezza e regal animo, e della sua magnificenza,
cingendola ancora di ben forti e sicure mura. Non fu minore il suo
amore e riverenza verso il Senato romano, come ne fanno pienissima
fede le tante affettuose epistole da lui a quel Senato dirizzate,
piene d'ogni stima e rispetto, che si leggono presso a Cassiodoro. In
Ravenna adunque, come avean fatto i suoi predecessori, collocò la sua
regia sede; e quindi resse l'Italia, e queste nostre province, che
ora compongono il Regno di Napoli, con quelli Magistrati medesimi, co'
quali era stata governata dagl'Imperadori romani.

De' Magistrati e degli altri Ufficiali del palazzo e del Regno,
ancorchè alcuni ne fossero stati sotto il suo governo nuovamente
rifatti, e ne' nomi e ne' gradi qualche diversità vi si notasse,
se ne ritennero però moltissimi, se non in tutto nella potestà e
giurisdizione simili a quelli de' Romani, molti però nel nome ed
assaissimi anche in realtà a' medesimi conformi. Si ritennero i
Senatori, i Consoli, i Patrizj, il Prefetto al Pretorio, i Prefetti
della città, ed i Questori. Si ritennero i Consolari, i Correttori,
i Presidi, e moltissimi altri. Qualche mutazione solamente fu
negli Ufficiali minori, essendo stata usanza dei Goti in ogni,
benchè picciola città, mandare i Comiti, e particolari Giudici per
l'amministrazione del governo e della giustizia, e di creare alcuni
altri Ufficiali, di cui nella _Notizia_ delle dignità dell'Imperio è
ignoto il nome.

Ma se in questo divario de' Magistrati introdotto da' Goti, vogliamo
seguire il sentimento dell'accuratissimo Ugon Grozio, bisognerà dire,
che in ciò fecero cosa assai più commendabile, che i Romani stessi;
imperciocchè, e' dice, appresso a' Romani furon molti nomi di dignità
affatto vani e senza soggetto: _Multa apud Romanos ejusmodi inani
sono constantia, Vacantium, Honorariorum, etc._[725]. All'incontro
i Goti ebbero sentimenti contrarj, come si legge in Cassiodoro[726]:
_Grata sunt omnino nomina, quae designant protinus actiones, quando
tota ambiguitas audiendi tollitur ubi in vocabulo concluditur,
quid geratur_. In oltre Grozio riflette, che i Romani mandando per
ciascheduna provincia un Consolare, o un Preside, il qual dovesse avere
il governo e la cura di tutte le città e castelli della provincia,
molti de' quali eran assai distanti dalla sua sede: quindi avveniva,
che non potendo il Preside esser presente in tutti que' luoghi, venivan
perciò a gravarsi i provinciali d'immense e rilevanti spese, poichè
bisognava ch'essi ricorressero a lui da parti remotissime. Presso a'
Goti la bisogna in altro modo procedeva: avevan bensì le province i
loro Consolari, i Correttori, ed i Presidi, nulladimeno non solamente
alle più principali città, ma eziandio a ciascheduno, benchè piccolo
castello, mandavansi i _Comiti_, o altri Magistrati inferiori, fedeli,
incorrotti, e dal consentimento de' popoli approvati, acciocchè
potessero render loro giustizia, ed aver cura de' tributi, e altri
bisogni di que' luoghi.

Tanto che questa disposizione di Magistrati, che oggidì ancora nel
nostro Regno osserviamo, di mandarsi Governadori e Giudici ad ogni
città, la dobbiamo non a' Romani, ma a' Goti.

E se ne' tempi nostri si praticassero que' rigori e quelle diligenze,
che a' tempi di Teodorico usavansi nella scelta di tali Ministri,
cioè di mandare uomini di conosciuta integrità e dottrina, e a'
Popoli accettissimi, vietando perciò l'appellazioni ad altri Tribunali
lontani, e sol permettendole, quando o la gravità degli affari, o una
manifesta ingiustizia il richiedesse, certamente d'infinite liti, e di
tanti gravi dispendj vedrebbonsi libere queste nostre province, ch'ora
non sono. E per questa cagione presso a molti Scrittori tanto s'esagera
il governo de' Popoli orientali ed affricani, che noi sovente nelle
comuni querele sogliamo perciò invidiargli; perocchè questi non pur
nelle città, ma in ogni piccolo castello hanno i lor Giudici sempre
pronti ed apparecchiati, e le liti non tantosto sono fra essi insorte,
che subito veggonsi terminate, rarissime volte, o non mai, ammettendo
appellazioni; perchè la gente tenendo nella venerazione dovuta il
Magistrato, a' suoi decreti tosto s'acqueta, e soffre più volentieri,
che se le tolga la roba controvertita, che andar girando in parti
lontane e remote con maggiori dispendj, e coll'incertezza di vincere, e
sovente col timore di tornar a perdere; e stiman esser di loro maggior
profitto, che ad essi s'usi una ingiustizia pronta e sollecita, che
una giustizia stentata e tarda. Perciò Clenardo[727] avendo lasciata
Europa, e in Affrica nel regno di Feza ricovratosi, soleva a molti
suoi amici europei scrivere, ch'egli non invidiava le magnificenze
e grandezze di tante belle città, solamente perchè non dovea più nel
Foro rivoltarsi tra tanta gente malvagia e piena di cavilli: nè ivi
faceva uopo de' loquaci Causidici, ma se occorreva tra quegli Affricani
qualche lite, era sempre presto il Giudice a deciderla, nè tornavan a
casa i litiganti, se non terminato il litigio. Ma questo, nello stato
delle cose presenti, è più tosto da desiderarsi, che da sperarsi;
poichè il male è nella radice; oltracchè nell'elezione de' Magistrati
non s'attendon più quelle prerogative, che forse in quei tempi, ch'ora
noi chiamiamo barbari, accuratamente s'attendevano: ciò che allora era
rimedio, presentemente in mortifero veleno si trasmuterebbe: giacchè
fin da' tempi d'Alfonso I. Aragonese si trasfuse il male di concedere
a' Baroni del Regno ogni giurisdizione ed imperio. E oggi sono più i
governi, che si concedono da' medesimi, che quelli, che sono dal Re
provveduti e la maggior parte del Regno è governata da essi nelle prime
istanze; onde era espediente, che s'ammettessero que' tanti ricorsi
a' Tribunali superiori che oggi giorno osserviamo; giacchè non potè
praticarsi il disegno, che Carlo VIII, Re di Francia, in que' pochi
mesi, che tenne questo Regno, avea conceputo, di togliere a' Baroni
ogni giurisdizione ed imperio, e ridurgli a somiglianza di quelli di
Francia, e dell'altre province d'Europa[728].

Ma ritornando onde siamo dipartiti, i Goti, secondo che ci
rappresentano i libri di Cassiodoro, furon molto avvertiti nella scelta
de' Magistrati, e non meno nell'elezione de' maggiori Ufficiali, che
in quella de' minori, che mandavano in ciascuna città, ponendovi ogni
lor cura e diligenza: quindi presso a Cassiodoro leggiamo tanti nuovi
Ufficiali, i Cancellieri, i Canonicarj, i Comiti, i Referendarj; e le
tante formole, colle quali eran tante e sì varie dignità conferite a'
soggetti di conosciuta bontà e dottrina. Pietro Pantino[729] scrisse
un non dispregevol libro delle dignità della Camera gotica: ma come
fu osservato da Grozio[730], senza la costui fatica e diligenza, ben
potevano quelle ravvisarsi e comprendersi dal libro sesto e settimo
di Cassiodoro, ove tutte queste dignità ci vengono rappresentate e
descritte.


§. IV. _La medesima disposizione delle province ritenuta in Italia dal
Re TEODORICO._

Ritenne ancora questo Principe la stessa divisione delle province,
che sotto l'Imperio di Costantino, e de' suoi successori componevano
l'Italia: era ancora il medesimo numero di quel d'Adriano: ed in
diciassette eran ancora distinte, nè ciò, ch'ora appelliamo Regno di
Napoli, in più province fu partito: quattro ancora furono sotto la
dominazione di Teodorico. I. la Campagna. II. la Calabria colla Puglia.
III. la Lucania, e' Bruzj. IV. il Sannio. Alla provincia della Campagna
furono mandati, come prima, i Consolari a governarla: all'altre due di
Calabria, e Lucania i Correttori; ed al Sannio i Presidi.


_Della Campagna, e suoi Consolari._

Il primo Consolare della Campania, che ne' cinque libri di
Cassiodoro[731] s'incontra, fu un tal _Giovanni_, a cui Teodorico mandò
una epistola, nella quale tanto gli raccomandava la giustizia, e la
cura della pubblica utilità, decorandolo col titolo di _Viro Senatori_,
come dall'iscrizione: _Joanni V. S. Consiliari Campaniae, Theod.
Rex_. A questo stesso Giovanni indirizzò Teodorico quel suo editto,
che presso a Cassiodoro[732] anche si legge, per cui fu severamente
proibita quella pessima usanza, che nella Campania e nel Sannio erasi
introdotta, che il creditore senza pubblica autorità, ma per privata
licenza si prendeva la roba del debitore per pegno, nè la restituiva,
se del suo credito non fosse stato soddisfatto; anzi sovente si
prendeva la roba non del debitore, ma d'un suo amico, vicino, o
congiunto, che in Italia son chiamate _Rappresaglie_: si vietò tal
costume severamente, e s'impose pena della perdita del credito, e di
restituire il doppio, nel caso, che si fosse fatta rappresaglia non al
debitore, ma all'amico, o congiunto. Zenone Imperadore quest'istesso
avea comandato per l'Oriente con una sua consimile costituzione[733]:
onde Teodorico, che intendeva reggere l'Italia colle medesime massime,
volle anche in ciò imitarlo: Giustiniano poi lo ripetè nelle sue
Novelle[734]. Nè volle mai Teodorico permettere, che s'usassero simili
violenze nel suo Regno, ma che i creditori, secondo che parimente
dettavano le leggi romane, per vie legittime di pubblici giudizj,
sperimentassero le loro ragioni.

Trovandosi questo Principe esausto a cagion delle guerre sostenute
alcun tempo co' Francesi, ebbe necessità di far da questa provincia
proveder di vettovaglie i suoi eserciti; e si legge perciò un
altro suo editto[735], imponendo a' Navicularj della Campagna, che
trasportassero que' viveri nelle Gallie. Meditava ancora d'imporle
altri pesi; ma orando a pro di questa provincia Boezio Severino[736],
e ponendogli avanti gli occhi le tante sue miserie, e le tante
afflizioni e desolazioni, che per l'invasione de' Vandali aveva
patite, clementissimamente Teodorico le concedè ogni indulgenza, nè
di nuovi pesi volle maggiormente caricarla; anzi avendo i Campani, e
particolarmente i Napoletani ed i Nolani, per l'irruzione del Vesuvio
accaduta in questi tempi, patiti danni gravissimi, concedè a' medesimi
indulgenza anche de' soliti tributi, come scorgesi presso a Cassiodoro
in quell'altro suo editto[737], nel quale con molto spirito e vivezza
si descrivono i fremiti, l'orride nubi, ed i torrenti di fuoco, che
suole mandar fuori quel monte. Cassiodoro è maraviglioso in simili
descrizioni, ma quel che non se gli può condonare, è, che oltre
al valersi d'alcune ardite iperboli, e d'alcune metafore soverchio
licenziose, introduce in sì fatta guisa a parlar Teodorico, che non
saprebbesi scernere, se voglia ordinar leggi, e dar providenza a'
bisogni delle sue province, come era il suo scopo, o pure voglia far
il declamatore, introducendolo sovente a parlare in una maniera, che
non si comporterebbe nè anche a' più stravolti Panegiristi de' nostri
tempi.

Aveva veramente la Campania, quando Gezerico dall'Affrica si mosse
con potente armata ad invadere l'Italia, patiti danni insopportabili.
Fu allora da' Vandali aspramente trattata, devastando il suo paese, e
Capua, ch'era la sua metropoli, fu barbaramente saccheggiata, e poco
men, che distrutta. Queste stesse calamità sofferirono Nola e molte
altre città della medesima. Napoli solamente per cagion del suo sito fu
dal furor di quei Barbari esente: città allora, ancorchè piccola, ben
difesa però dal valore de' suoi cittadini, dal sito, e più dalle mura
forti, che la cingevano. E per questa varia fortuna, che sortirono,
avvenne da poi, che molte città di queste nostre province da grandi si
fecion picciole, e le picciole divennero grandi; quindi avvenne ancora,
che ruinata Capua e molte città di questa provincia, Napoli cominciasse
piano piano ad estollersi sopra tutte l'altre, e ne' tempi dei Greci e
Longobardi si rendesse capo d'uno non picciol Ducato.

Ne' tempi di Teodorico, niuna altra città di questa provincia leggiamo,
che si fosse rallegrata cotanto dell'imperio di questo Principe, quanto
Napoli; nè altra, che avesse con tanti e sì cospicui segni di fedeltà
e di stima mostrata la sua divozione ed ossequio verso di lui. Assunto
che fu Teodorico nel Trono, gli eressero i Napoletani nella maggiore
lor piazza una statua, quella, che da poi s'ebbe per infausto presagio
dell'infelice fine della dominazione de' Goti in Italia; poichè, come
narra Procopio[738], avevan i Napoletani innalzata a Teodorico questa
statua composta, con maraviglioso artificio, di picciole petruzze di
color vario, e così bene tra lor commesse, che al vivo rappresentavano
l'effigie di quel Principe. Essendo ancor vivente Teodorico si vide il
capo di questa statua da se cadere, disciogliendosi quel compaginamento
di pietruzze, che lo formavano: e non guari da poi si seppe in
Napoli la morte di questo Principe, ed in suo luogo esser succeduto
_Atalarico_ suo nipote. Passati otto anni del Regno di costui, si
videro in un subito da loro scomporsi quelle, che formavan il ventre;
e nell'istesso tempe s'intese la morte d'Atalarico. Non molto da
poi caddero l'altre, che componevan le parti genitali, ed insieme
s'ebbe novella della morte d'_Amalasunta_ figliuola di Teodorico. Ma
quando ultimamente si vide Roma assediata da' Goti per riprenderla,
ecco, che vanno a terra tutte quell'altre, che le coscie e i piedi
formavano, e tutta cadde da quel luogo, dove era collocata: dal qual
fatto conghietturarono i Romani, dover l'esercito dell'Imperadore
d'Oriente rimaner superiore, interpretando, per li piedi di Teodorico
non denotarsi altro, che i Goti, a' quali egli avea imperato; e
questo vano e ridicolo presagio fu di tanta forza appresso le genti
volgari, le quali soglionsi muovere più per si fatte cose, che per
qualunque più culta diceria di Capitano, che fattesi ardite, presero
non leggiera speranza della vittoria. Nel che parimente giovaron certi
versi Sibillini, posti fuori da alcuni Senatori romani, molto adattati
ad imposturar la gente, il senso de' quali, come ponderò assai bene
Procopio, prima dell'esito delle cose non potea in veruno conto capirsi
per intelletto umano; poichè que' versi eran cotanto disordinati e
confusi, e veramente fanatici, che sbalzando da' mali dell'Affrica alla
Persia, indi fatta menzione de' Romani, passavan poi a parlar degli
Assirj: ritornavan a favellar de' Romani, e poi a cantar delle calamità
de' Britanni: quando poi si vedeva il successo, allora si ponevano in
opera mille graziose interpretazioni, e scoprivano per l'evento seguito
il senso degli oscuri e fantastici versi.

Ma ritornando al nostro proposito, fu Napoli a Teodorico molto fedele e
divota: ed all'incontro questo gratissimo Principe trattò i Napoletani
con non minori segni d'amore e di gratitudine: nè picciolo segno di
stima dee riputarsi quello, che tra le formole delle _Comitive_ del
primo ordine, che da Teodorico solevan darsi a coloro, a' quali egli
commetteva il governo di qualche illustre città, si legga ancora
appresso Cassiodoro[739] quella destinata per Napoli; poichè questo
Autore le formole solamente rapporta, che a' personaggi destinati al
governo di qualche famosa città si solevan dare, non già quelle delle
minori. Leggonsi solo quelle della città di Siracusa, di Ravenna, di
Roma, ed altri luoghi cospicui: per le altre città minori una generale
solamente se ne legge adattata per tutte; e le _Comitive_, che davansi
per lo governo di queste, non eran del primo, ma del secondo ordine,
com'è manifesto dalla formola stessa appresso Cassiodoro[740]. Nè
si tralasciano nella _Comitiva_ (oppure se ci aggrada nomarla col
linguaggio de' nostri tempi, _Cedola_, ovvero _Patente_) le prerogative
di questa città, le sue delizie, la sua eccellenza, quanto sia decoroso
l'impiego, quanto ampia l'autorità e giurisdizione, che se gli concede;
e quanto pieno di maestà il suo Tribunale: ella è chiamata[741]:
_Urbs ornata multitudine Civium, abundans marinis, terrenisque
deliciis: ut dulcissimam vitam te ibidem invenisse dijudices, si
nullis amaritudinibus miscearis: Praetoria tua officia replent,
militum turba custodit. Conscendis gemmatum Tribunal, sed tot testes
pateris, quot te agmina circumdare cognoscis. Praeterea litora, usque
ad praefinitum locum data jussione custodis. Tuae voluntati parent
peregrina commercia. Praestas ementibus de pretio suo, et gratiae
tuae proficis, quod avidus mercator acquirit. Sed inter haec praeclara
fastigia, optimum esse Judicem decet, etc._ Nè minori sono l'affettuose
dimostranze, che da questo Principe eran espresse nella lettera solita
darsi al provisto, scrivendo alla città di Napoli in commendazione del
medesimo; la formola della quale pur la dobbiamo a Cassiodoro[742];
e da essa può anche raccorsi, che Teodorico lasciasse a' Napoletani
quell'istessa forma di governo, ch'ebbero ne' tempi de' Romani, cioè
d'aver la Curia, o Senato, come prima, dove degli affari di quella
città per quel che s'attiene alla pubblica annona, al riparo delle
strade, ed altre occorrenze riguardanti il governo della medesima,
avessero cura: e solamente loro togliesse il poter da' Decurioni
eleggere i Magistrati, i quali quella giurisdizione avessero, che
concedeva egli al Governadore, o _Comite_, che vi mandava. Ebbe ancora
questa provincia il suo Cancelliero, la cui carica e funzioni ci sono
rappresentate da Cassiodoro nell'undecimo e duodecimo libro delle sue
Opere[743].


_Della Puglia e Calabria, e suoi Correttori._

Siccome non volle Teodorico mutare il governo della Campagna ne'
Magistrati superiori, lasciando i Consolari in essa, come ebbe sotto
i Romani: così nè meno piacque al medesimo mutarlo nella provincia
della Puglia e Calabria. Non divise egli, intorno al governo, la Puglia
dalla Calabria, nè mutarono queste province nomi, come ne' tempi che
seguirono, furon variati: sotto un solo Moderatore furon amministrate,
ancorchè al governo di ciascuna città, particolari _Comiti_, o sia
Governadori mandasse, secondo la commendabile usanza de' Goti.

Il Primo Moderatore della Puglia e Calabria, che ne' primi cinque
libri di Cassiodoro s'incontra, fu un tal _Festo_, ovvero _Fausto_,
come altri leggono; a costui si vede da Teodorico indirizzata
quell'epistola[744], per la quale si concede a' pubblici Negoziatori
della Puglia e Calabria la franchigia de' dazi e gabelle, e sono da
notarsi i speziosi e decorosi titoli co' quali Teodorico tratta questo
Ministro.

Tenne Teodorico particolar cura di questa provincia, e de' suoi campi,
e molte salutari providenze egli vi diede, come in più luoghi appresso
Cassiodoro potrà osservarsi[745]. Fra le città della Puglia più
cospicue fu un tempo Siponto, che ora delle sue alte ruine appena serba
alcun vestigio: città quanto antica, altrettanto nobile e potente,
tanto che i suoi Sipontini ne' seguenti tempi poteron sostenere lunghe
guerre co' Napoletani e co' Greci, come nel suo luogo diremo. Dalle
comuni calamità, che per l'irruzione dei Vandali, e per la tirannide
d'Odoacre travagliarono l'Italia, non restò libera questa città: furono
i suoi cittadini in que' tre, ultimi anni di guerra, che Odoacre
sostenne con Teodorico, per essersi renduti i Sipontini a questo
Principe, crudelmente da Odoacre trattati, ed i loro campi devastati,
tanto che i Negozianti sipontini in grand'estremità ridotti, ricorsero
alla clemenza di Teodorico, chiedendogli l'immunità de' tributi, e
qualche dilazione per li loro creditori: fu loro per tanto pietosamente
da questo Principe conceduto, che per due anni non potessero esser
travagliati per li tributi, nè molestati da' loro creditori, come
da un'altra epistola diretta al suddetto Fausto Moderatore di questa
provincia, o pure, come altri leggono, ad _Atemidoro_, si scorge presso
al Senatore[746].


_Della Lucania e Bruzj, e suoi Correttori._

Siegue la provincia della Lucania e de' Bruzj, intorno al cui governo
niente ancora fu da Teodorico variato. Si ritennero i Correttori, nè i
Bruzj da' Lucani furon divisi, ma sotto un sol Moderatore, come prima,
rimasero. Reggio fu la lor sede, ond'è, che appresso Cassiodoro[747]
si raccomandano i cittadini di questa città ad Anastasio Cancelliero
della Lucania e de' Bruzj, e l'origine del nome di Reggio è descritta:
_Rhegienses cives, ultimi Brutiorum, quos a Siciliae corpore violenti
quondam maris impetus segregavit, unde Civitas eorum nomen accepit;
divisio enim ῥῆγησις Graeca lingua vocitatur etc._

Non dee riputarsi picciol pregio di questa provincia l'avere avuto ne'
tempi di Teodorico per suo Correttore _Cassiodoro_ medesimo, che fu
il primo personaggio di questa età, cui Teodorico profusamente cumulò
di tutte le dignità, che dalla sua regal mano potevan dispensarsi.
Nel principio del suo Regno, essendo le cose della Sicilia, per lo
nuovo dominio, ancora fluttuanti, fu trascelto Cassiodoro al governo
di quell'isola. Indi dato bastante saggio degli altissimi suoi
talenti, nella Lucania e ne' Bruzj per Correttore di questa provincia
fu mandato. Non molto da poi alla dignità di Prefetto Pretorio fu
assunto, e finalmente al supremo onore del Patriziato fu da Teodorico
promosso[748], come per la formola, che Cassiodoro stesso ne' suoi
libri ci propone, è manifesto[749]; dalla quale par che possa senza
dubbio ricavarsi, come il Barrio, Fornerio, Romeo, e moltissimi altri
Autori scrissero[750], essere stata il Bruzio, e propriamente Squillace
patria di sì nobile spirito, e che al suo terreno debba darsi tutto il
vanto d'aver pianta sì nobile prodotta, come anche da quelle parole
di Teodorico si raccoglie: _Sed non eo praeconiorum fine contenti,
Brutiorum, et Lucaniae tibi dedimus mores regendos: ne bonum, quod
peregrina Provincia_ (intendendo della Sicilia) _meruisset, genitalis
soli fortuna nesciret_.

Fu dopo Cassiodoro, sotto questo stesso Principe, Correttore
della Lucania e de' Bruzj _Venanzio_, al quale Teodorico scrisse
quell'epistola, in cui l'esazion de' tributi di questa provincia
gl'incarica; così appresso Cassiodoro leggiamo[751]: _Venantio Viro
Senatori Correctori Lucaniae, et Brutiorum, Theod. Rex_. Di questo
stesso Venanzio fassi da Teodorico onorata menzione in quel suo
editto[752] indirizzato ad Adeodato, dove si legge: _Viri spectabilis
Venantii Lucaniae, et Brutiorum Praesulis_[753] e del Correttore
di questa provincia pur nel capo seguente presso a Cassiodoro fassi
menzione, come da quelle parole: _Corrector Lucaniae, Brutiorumque_.
Tenne ancora la Lucania, e' l Bruzio il suo Cancelliero, come può
vedersi appresso Cassiodoro[754].

A' Navicularj della Lucania, siccome a quelli della Campagna, ancora
fu da Teodorico comandato il trasporto delle vettovaglie in Francia,
come si legge appresso il Senatore[755]. Nè da Atalarico suo nipote
fu questa provincia trascurata. Egli diede opportuni provvedimenti,
perchè una gran fiera, che si faceva in questi tempi, e dove concorreva
molta gente di tutte l'altre province, ed una gran festività, che si
celebrava nel dì di S. Cipriano, non fosse disturbata: donde fu data
occasione a Cassiodoro[756], come altrove[757] fece del fonte Aretusa
posto nel territorio di Squillace, di descriverci il maraviglioso fonte
Marciliano, ch'era nella Lucania, ed impiegare nella descrizione del
medesimo, secondo il solito stile, tutte le sue arditezze ed iperboli:
e quel ch'è più, ponendole in bocca d'un Principe, che non aveva altro
scopo, che con severi editti proibire, che tanta celerità non fosse da'
rei, e perversi uomini disturbata.

(Il fonte Marciliano in Lucania descritto da Cassiodoro _Lib._ 8 _Ep._
33 era vicino alla città chiamata _Cosilina_, oggi distrutta, la quale
avea un sottoborgo, chiamato _Marciliano_, dove poi andò ad abitare
il Vescovo, onde promiscuamente fu da poi nominato, ora _Episcopus
Marcellianensis_, ora _Cosilinus_. Ecco come ne parla Ostenio nelle
note a Carlo S. Paolo in _Lucania, et Brutia_: _Cosilianum antiquissima
Lucaniae Civitas_. Cassiodor. _var. lib. 8 Ep. 33_. _Suburbicum habuit
_Marcilianum_, sive _Marcellianum_, unde Marcellianensis Episcopus,
et Cosilinus promiscue dicebatur._ Contrastano i vicini abitatori per
appropriarsene i ruderi; e chi vuole, che sian quelli, onde sorse la
città di _Marsico_, altri pretendono, che da que' ruderi fosse sorta,
non già _Marsico_, ma la città di _Sala_).


_Del Sannio, e suoi Presidi._

Viene in ultimo luogo il Sannio, provincia, siccome appo i Romani,
così ne' tempi di Teodorico, non decorata d'altro, che di Preside.
In questa provincia si legge presso a Cassiodoro[758] essersi da
Teodorico mandato a preghiere de' Sanniti un tal _Gennaro_, ovvero
come altri[759] leggono, _Sunhivado_ per lor Moderatore e Giudice,
imponendosegli, che accadendo litigio nella medesima tra' Romani con
Goti, ovvero fra' Goti con Romani, dovesse secondo le leggi romane
diffinirlo; non volendo egli permettere, che sotto varie e diverse
leggi i Romani co' Goti vivessero, le cui parole già furon da noi,
ad altro proposito, recate. Ebbe anche questa provincia i suoi
Cancellieri, come è chiaro appresso Cassiodoro[760]; e del Sannio
pur altrove[761] fassi da Teodorico memoria; tanto che non v'è stata
provincia di quelle, che ora compongon il nostro Regno, che, per le
memorie, che a noi sono rimase di questo Principe, le quali tutte fra
gli altri Scrittori le dobbiamo a Cassiodoro, non si vegga da Teodorico
providamente amministrata e dati giusti ed opportuni rimedi per lo
governo loro.


§. V. _I medesimi Codici ritenuti, e le medesime condizioni delle
persone, e de' retaggi._

Quindi può distintamente conoscersi, che le nostre province, estinto
l'Imperio romano d'Occidente, ancorchè passassero sotto la dominazione
de' Goti, non sentirono quelle mutazioni, che regolarmente ne' nuovi
dominj di straniere genti soglion accadere. Non furon in quelle
nuove leggi introdotte, ma si ritennero le romane, e la legge comune
de' nostri provinciali fu quella de' Romani, ch'allora ne' Codici
Gregoriano, Ermogeniano, e sopra ogni altro nel Codice di Teodosio,
e nel Corpo delle Novelle di questo Imperadore, di Valentiniano,
Marziano, Magioriano, Severo, ed Antemio suoi successori si
contenevano: ed a' libri di quelli Giureconsulti, che Valentiniano
trascelse, era data piena autorità e forza.

Non s'introdusse nuova forma di governo, e si ritennero i medesimi
Ufficiali; nè la variazione de' Magistrati fu tanta, che non si
ritenessero le dignità più cospicue e sublimi. Poichè l'idea di
Teodorico, e poi del suo successore Atalarico fu di reggere l'Italia,
e queste nostre province col medesimo spirito e forma, colla quale
si resse l'Imperio sotto gl'Imperadori; ed è costante opinione de'
nostri Scrittori, che le cose d'Italia sotto il suo Regno furon più
quiete e tranquille, che ne' tempi degli ultimi Imperadori d'Occidente,
e ch'egli fosse stato il primo, che facesse quietare tanti mali e
disordini.

Quindi è avvenuto, che ancor che queste nostre province passassero da'
Romani sotto la dominazione de' Goti, non s'introducessero, siccome
nell'altre province dell'Imperio romano, quelle servitù ne' Popoli,
che passati sotto altre Nazioni sofferirono. Così quando la Gallia fu
conquistata da' Franzesi, fu trattata come paese di conquista; essendo
cosa certa, che si fecero signori delle persone e de' retaggi di
quella, cioè si fecero signori perfetti, così nella signoria pubblica,
come nella proprietà e signoria privata[762]: ed in quanto alle
persone, essi fecero i naturali del paese servi, non già di un'intera
servitù, ma simili a quelli, che i Romani chiamavan Censiti, ovvero
Ascrittizj, o Coloni addetti alla gleba[763]. Non così trattaron i Goti
l'Italia, la Sicilia, e queste nostre province, ma lasciaron intatta
la condizione delle persone, poichè non gli governava un Principe
straniero, ma un Re, che si pregiava di vivere alla romana, e di
serbare le medesime leggi ed instituti de' Romani. Furon bensì in molti
villaggi delle nostre province di questi Ascrittizj, e Censiti (siccome
vi furon anche de' servi, perchè a' tempi de' Goti l'uso de' medesimi
non s'era dismesso[764]) ma quelli stessi, loro discendenti, in quella
maniera, che prima si tenevano dai Romani, e di essi ci restano ancora
molti vestigi nei Codici di Teodosio e di Giustiniano, che poi i secoli
seguenti chiamaron angarj e parangarj[765]. Ciò che si conferma per
un avvenimento rapportato da Ugone Falcando in Sicilia a' tempi del
Re Guglielmo II, poichè essendo i cittadini di Caccanio ricorsi al Re
contra Giovanni Lavardino franzese, il quale affliggeva i terrazzani,
con esigere la metà delle loro entrate, secondo che diceva esser la
consuetudine delle sue terre in Francia; e riportate queste querele
al G. Cancelliero, ch'era allora Stefano di Parzio, perchè questi
era ancor egli franzese, lasciò la cosa senza provvedimento, onde i
suoi nemici gli concitarono l'odio di tutti i Siciliani, e di molti
cittadini e terrazzani, gridando, ch'essi eran liberi, e che non dovea
permettere, secondo l'uso di Francia: _Ut universi Populi Siciliae
redditus annuos, et exactiones, solvere cogerentur juxta Galliae
consuetudinem, quae cives liberos non haberet_.

Ed in quanto a' retaggi e terre della Gallia, i Franzesi vittoriosi
le confiscaron tutte, attribuendo allo Stato l'una e l'altra signoria
di quelle[766]. E fuori di quelle terre, che ritennero in dominio del
Principe, distribuiron tutte l'altre a' principali Capi e Capitani
della loro Nazione; a tal uno dando una provincia a titolo di Ducato;
ad un altro un paese di frontiera a titolo di Contea; e ad altri de'
castelli e villaggi con alcune terre d'intorno a titolo di Baronia,
Castellania, o semplice Signoria, secondo i meriti particolari di
ciascheduno, ed il numero de' soldati, ch'aveva sotto di se; poichè
davansi così per essi, che per li loro soldati. Non così fecero i Goti
in Italia, ed in queste nostre province, poichè si lasciarono le terre
a loro posseditori, nè s'inquietò alcuno nella privata signoria de'
loro retaggi: e le province e le città eran amministrate da' medesimi
Ufficiali, che prima, secondo che si governavano sotto l'Imperio di
Valentiniano e degli altri Imperadori d'Occidente suoi predecessori. Nè
in Italia, ed in queste nostre province l'uso de' Feudi, e de' Ducati
e Contadi fu introdotto, se non nel Regno de' Longobardi, come diremo
nel quarto libro di questa Istoria.


§. VI. _Insigni virtù di TEODORICO, e sua morte._

Fu veramente Teodorico di tutte quelle rade e nobili virtù ornato, che
fosse mai qualunque altro più eccellente Principe, che vantassero tutti
i secoli. Per la sua pietà e culto al vero Iddio, fu con immense lodi
celebrato da Ennodio Cattolico, Vescovo di Pavia. E se bene istrutto
nella religione cristiana, i suoi Dottori gliela avessero renduta
torbida e contaminata per la pestilente eresia d'Arrio, siccome fecero
a tutti i Goti; questa colpa non a' Goti dee attribuirsi, ma a' Romani
stessi, e spezialmente all'Imperadore Valente, che mandando ad istruir
questa Nazione nella religione cristiana, vi mandò Dottori Arriani;
tanto che Salviano[767], quel Santo Vescovo di Marsiglia, nomò questa
loro disgrazia, fallo non già de' Goti, ma del Magisterio romano, e
testifica questo Santo Vescovo, che nel medesimo lor errore non altro
fu da essi riguardato, se non che il maggior onore di Dio: e per questa
pia loro credenza ed affetto, non dover essere i Goti reputati indegni
della fede cattolica, i quali, comparate le lor opere con quelle de'
Cattolici, di gran lunga eran a costoro in bontà e giustizia superiori,
o si riguardi la venerazione delle Chiese, o la fede, o la speranza, o
la carità verso Dio; quindi è che Socrate[768], Scrittore dell'Istoria
Ecclesiastica, a molti Goti, che per la religione furono da' Pagani
uccisi, dà il titolo di Martiri, come quelli, che con semplice e
divoto cuore eransi a Cristo lor Redentore dedicati. E se per altrui
colpa incorsero i Goti in quest'errore, ben fu questa macchia tolta
e compensata col merito di Riccaredo del loro sangue, che purgò
dall'Arrianesmo tutta la Spagna.

E fu singular pietà de Goti, e di Teodorico precisamente d'astenersi
da ogni violenza co' suoi sudditi intorno alla religione, nè perchè
essi eran dei dogmi Arriani aspersi, proibiva perciò a' suoi Popoli di
confessar la fede del gran Concilio di Nicea[769]; anzi Teodorico in
tutto il tempo, che resse l'Italia e queste nostre province, non pure
lasciò inviolata ed intatta la religione cattolica a' suoi sudditi,
ma si permetteva ancor a' Goti stessi, se volessero dall'Arrianesmo
passare alla fede di Nicea, che liberamente fosse a lor lecito di
farlo.

Maggiore rilucerà la pietà di questo Principe, in considerando,
che della cattolica religione, ancorchè da lui non professata,
ebbe egli tanta cura e pensiero, che non permetteva, che al governo
della medesima s'eleggessero, se non Vescovi di conosciuta probità
e dottrina, de' quali fu egli amantissimo e riverente: di ciò presso
a Cassiodoro[770] ce ne dà piena testimonianza il suo nipote stesso
Atalarico: _Oportebat enim arbitrio boni Principis obediri, qui
sapienti deliberatione pertractans, quamvis in aliena Religione, talem
visus est Pontificem delegisse, ut agnoscatis illum hoc optasse,
praecipue quatenus bonis Sacerdotibus Ecclesiarum omnium Religio
pullularet._

Quindi avvenne, come Paolo Varnefrido, e Zonara raccontano[771],
ch'essendo nato ne' suoi tempi quel grave scisma nella Chiesa romana,
tosto fu da lui tolto col convocamento d'un Concilio, e le cose
restituite in una ben ferma e tranquilla pace. Si leggon ancora
di questo Principe rigidissimi editti, come similmente d'Atalarico
suo nipote, per li quali severamente vengon proibite tutte quelle
ordinazioni di Vescovi, che per ambizione, o interveniente denaro
si facessero, annullandole affatto, e di niun momento e vigore
riputandole[772]; siccome più distesamente diremo, quando della politia
ecclesiastica di questo secolo favelleremo. E pur di Teodorico si
legge, che quantunque nudrisse altra religione, volle che i Vescovi
cattolici per lui porgessero calde preghiere a Dio, delle quali sovente
credette giovarsi. Per la qual cosa non dee parere strano, siccome
dice Grozio, che Silverio Vescovo cattolico romano fosse stato a' Greci
sospetto, quasi che volesse e desiderasse più la Signoria de' Goti in
Italia, che quella de' Greci stessi.

Ed alla pietà di questo Principe noi dobbiamo, che queste nostre
province, ch'ora formano il Regno di Napoli, ancorchè sotto la
dominazione de' Goti Arriani poco men che 70 anni durassero, non
fossero di quel pestilente dogma infestate, ma ritenessero la cattolica
fede, così pura ed intatta, come i loro maggiori l'avevan abbracciata,
e che potè poi star forte e salda alle frequenti incursioni de'
Saraceni, che nei seguenti tempi l'invasero e le combatterono:
imperocchè piacque a Teodorico non pur lasciarla così stare, come
trovolla, ma di favorirla, ed esser eziandio della medesima custode
e difensore: dal cui esemplo mossi Atalarico, e gli altri Goti suoi
successori, si fece in modo, che durante il loro dominio, non restò
ella nè perturbata nè in qualunque modo contaminata.

Della giustizia, umanità, fede, e di tutte l'altre più pregiabili
e nobili virtù di questo Principe, non accade, che lungamente se ne
ragioni: Cassiodoro nei suoi libri ci fa ravvisare una immagine di
Regno così culto, giusto e clemente, che a ragione potè Grozio[773]
dire: _planeque si quis cultissimi, clementissimique Imperii formam
conspicere voluerit, ei ego legendas censeam Regum Ostrogothorum
Epistolas, quas Cassiodorus collectas edidit_. Onde non senza cagione
potevan i Goti appresso Belisario vantarsi di questa lode[774]: nè
senza ragione Teodorico stesso potè dire: _Aequitati fave: eminentiam
animi virtute defende, ut inter nationum consuetudinem perversam,
Gothorum possis demonstrare justitiam_: ed altrove: _Imitamini certe
Gothos nostros, qui foris praelia, intus norunt exercere justitiam_.
E fu cotanto lo studio e la cura di questo Principe nel reggere i
suoi sudditi con una esatta e perfetta giustizia, che si dichiarò co'
medesimi volersi portar con esso loro in modo, che si dolessero più
tosto d'esser così tardi venuti sotto l'imperio de' Goti. Procopio
ancorchè Greco, non può non innalzare queste regie ed insigni sue
virtù: egli custode delle leggi; giusto nell'assegnare i prezzi
all'annona; esatto ne' pesi e nelle misure; e nell'imporre tributi,
fu maravigliosa la sua equabilità, e sovente per giuste cagioni era
pronto a rimettergli: se i suoi eserciti in passando danneggiavan i
paesani, soleva Teodorico ai Vescovi mandare il denaro per risarcirgli
de' patiti danni: se v'era bisogno di materia per fabbricar navi o di
munire d'altra guisa i suoi campi, pagava immantenente il prezzo: egli
liberalissimo co' poveri, e la maggior parte del suo regal impiego era
il sovvenimento e la cura de' pupilli e delle vedove, di che chiara
testimonianza ce n'ha data Cassiodoro.

La moderazione di questo Principe, da' suoi fatti di sopra esposti
è pur troppo nota: e' potendo far passare i vinti sotto le leggi
de' Goti vincitori, volle, che colle leggi proprie, colle quali
eran nati e nudriti, vivessero. Permise, che sotto il suo Regno Roma
fosse dallo stesso romano Senato governata: che giudicasse il Romano
tra' Romani: tra' Goti e Romani, il Goto ed il Romano. Che quella
religione ritenessero ch'avevan succhiata col latte[775], avversissimo
d'introdurre novità, come quelle, che sogliono essere sempremai alle
Repubbliche perniziosissime, e cagione di molti e gravi disordini.

La sua temperanza fu da Ennodio chiamata modestia sacerdotale: ei
secondo l'usanza della sua Nazione parchissimo ne' cibi, e molto più
sobrio nelle vesti. Nel suo Regno i Goti si mantennero continentissimi
e casti, nè fu insidiata la pudicizia delle donne: _Quae Romani
polluerant fornicatione_ dice Salviano[776], _mundant Barbari
castitate_: ed altrove: _Impudicitiam nos diligimus, Gothi execrantur,
puritatem nos fugimus, illi amant_. Vivevan di cibi semplicissimi,
di pane, di latte, di cascio, di butirro, di carne, e sovente cruda,
macerata solamente nel sale. Tralascio per brevità le sue virtù regie:
infin oggi s'ammirano in Roma ed in Ravenna i monumenti della sua
magnificenza negli edificj, negli acquedotti ed in altre splendide
opere. Dal corso de' suoi fatti egregi, incominciando dalla puerizia,
è pur troppo noto il suo valore, la fortezza, la sua magnanimità,
il suo sublime spirito, ed il suo genio sempre a grandi e difficili
imprese prontissimo. Principe e nella guerra e nella pace espertissimo,
donde nell'una fu sempre vincitore, e nell'altra beneficò grandemente
le città, ed i Popoli suoi: e la virtù sua giunse a tanto, che seppe
contenere dentro a' termini loro, senza tumulto di guerre, ma solo
con la sua autorità, tutti i Re barbari occupatori dell'Imperio. E
per restituire l'Italia nell'antica pace e tranquillità, molte terre
e fortezze edificò infra la punta del mare Adriatico e l'Alpi, per
impedire più facilmente il passo a' nuovi Barbari, che volessero
assalirla. Tanto ch'è costantissima opinione di tutti gli Scrittori,
che mediante la virtù e la bontà sua, non solamente Roma ed Italia,
ma tutte l'altre parti dell'occidental Imperio libere dalle continue
battiture, che per tanti anni da tante inondazioni di Barbari avevan
sopportate, si sollevarono, ed in buon ordine, ed assai felice stato si
ridussero.

So che alcuni credono esser queste tante virtù di Teodorico, state
imbrattate dall'insidie, e morte finalmente fatta dare ad Odoacre;
e nell'ultimo della sua vita da alcune crudeltà cagionate per varj
sospetti del Regno suo. con avere ancora fatto morire Simmaco, e
Boezio suo genero, Senatori, ed al Consolato assunti: uomini di
nobilissima stirpe nati, nello studio della filosofia consumatissimi,
religiosissimi, e per fama di pietà e di dottrina assai insigni.

Ma se vogliano questi fatti attentamente considerarsi, la ragion di
Stato difende il primo; e dell'essere stato crudele con Simmaco,
e Boezio, dobbiamo di quello stesso incolpar Teodorico, di che fu
incolpato da suoi domestici: _Id illi injuriae_, come dice Procopio,
_in subditos primum, ac postremum fuit, quod non adhibita, ut solebat,
inquisitione de viris tantis statuerat_. In questo solamente mancò
Teodorico, ch'essendo stati per invidia imputati Simmaco, e Boezio
di macchinar contro alla sua vita, ed al suo Regno, gli avesse
senza usare molta inquisizione in caso sì grave, in cui richiedevasi
somma avvedutezza, condennati a morte; del resto, come ben osservò
Grozio[777], _Actum ibi, non de Religione, quae Boëthio satis Platonica
fuit, sed de Imperii statu_. Non fu mosso certamente Teodorico da
leggier motivo, ma per cagione di Stato, non già di religione, come
alcuni credono. Ben si sono scorti, quali sentimenti fossero di questo
Principe intorno a lasciare in libertà le coscienze degli uomini, ed
appigliarsi a quella religione, che lor piacesse. Nè per Boezio poteva
accader ciò, la cui religione fu più platonica, che cristiana. E se
dee credersi a Procopio, ben di quel suo fallo poco prima di morire ne
pianse Teodorico amaramente con intensissimo dolore del suo spirito;
poichè essendosegli, mentre cenava, apprestato da' suoi Ministri un
pesce di grossissimo capo, se gli attraversò nella fantasia così al
vivo l'immagine di Simmaco, che parvegli quello del pesce essere il
costui capo, il quale con volto crudele ed orribile lo minacciasse,
e volesse della sua morte prender vendetta: tanto che spaventato per
sì portentosa veduta, corsegli per le vene un freddo, che obbligatolo
a mettersi a giacere, si fece coprir di molti panni; ed avendo
raccontato ad Elpidio suo Medico ciò che gli era occorso, _In Simmacum,
ac Boëthium quod peccaverat, deflevit: poenitentiaeque, ad doloris
magnitudine, non multo post obiit_, come narra Procopio.

Giornande niente dice di sì strano successo, ma lo fa morire di
vecchiezza, narrando, che Teodorico _postquam ad senium pervenisset,
et se in brevi ab hac luce egressurum cognosceret_, fece avanti di lui
convocare i Goti, e' principali Signori del Regno, a' quali disegnò
per suo successore _Atalarico_, figliuolo d'Amalasunta sua figliuola,
il quale morto Eutarico suo padre, pur dell'illustre stirpe degli
Amali, non avendo più, che dieci anni, sotto la cura ed educazione di
sua madre viveva. Non tralasciò morendo di raccomandare a' medesimi la
fedeltà, che dovevan portare al Re suo nipote; raccomandò loro ancora
l'amore e riverenza verso il Senato e Popolo romano, e sopratutto
incaricò, che dovesser mantenersi amico e propizio l'Imperadore
d'Oriente, col quale procurassero tener sempre una ben ferma e
stabil pace e confederazione: il qual consiglio avendo religiosamente
custodito Amalasunta, le cose de' Goti infinchè visse il suo figliuolo
Atalarico, andaron assai prosperamente; poichè per lo spazio d'otto
anni, che regnarono, mantennero il lor Reame in una ben ferma e
tranquilla pace. Tale fu la morte di questo illustre Principe, che
avvenne nell'anno 526 di nostra salute, dopo aver regnato poco men che
38 anni, e ridotta l'Italia, e queste nostre province nell'antica pace
e tranquillità.


§. VII. _Di ATALARICO Re d'Italia._

Prese il governo del Regno per la giovanezza di Atalarico, Amalasunta
sua madre. Principessa ornata di molte virtù, la quale uguagliò la
sapienza de' più savj Re della terra; ella governò il Reame, e la
giovanezza del suo figliuolo con tanta prudenza, che non cedeva guari
a quella di Teodorico suo padre. Ella, appena morto costui, ricordevole
de' suoi consigli, fece da Atalarico scrivere a Giustino I. Imperadore
(il qual essendo succeduto ad Anastasio, allora imperava nell'Oriente)
calde ed officiose lettere, per conservare tra essi quella concordia,
che Teodorico aveva incaricata. Altre parimente ne fece scrivere al
Senato ed al Popolo romano affettuosissime, e piene d'ogni stima le
quali ancor oggi appresso Cassiodoro leggiamo[778].

Mantenne quell'istessa forma ed istituto nel governo che Teodorico
tenne; nè durante il Regno di suo figliuolo permise, che alcuna cosa si
mutasse: le medesime leggi si ritennero[779], gl'istessi Magistrati,
l'istessa disposizione delle province, e la medesima amministrazione.
Tutti i suoi studj erano di far allevare il giovine Principe alla
romana, con farlo istruire nelle buone lettere e nelle virtù, tenendo
per questo effetto molti maestri, che l'insegnassero. Ma i Goti, ed i
Grandi della Corte dimenticatisi prestamente dei consigli di Teodorico
mal sofferivano, che Amalasunta allevasse così questo Principe, e
gridando, ch'essi volevano un Re, che fosse nudrito fra l'armi, come
i suoi antecessori, fu ella in fine costretta d'abbandonarlo alla
lor condotta, la quale fu tanto funesta a questo povero Principe, che
caduto in molte dissolutezze, perdè affatto la salute, e venne in tale
languidezza, che lo condusse ben tosto alla tomba: poichè appena giunto
all'ottavo anno del suo regnare, finì nel 534 i suoi giorni. Origine,
che fu de' mali e della ruina de' Goti in Italia, de' disordini, e
delle tante rivoluzioni, che da poi seguirono, mentre già all'Imperio
d'Oriente era stato innalzato da Giustino, Giustiniano suo nipote,
quegli che per le tante sue famose gesta sarà il soggetto del seguente
capitolo.



CAPITOLO III.

_Di GIUSTINIANO Imperadore, e sue leggi._


Mentre in Italia per la prudenza di Amalasunta conservavasi quella
stessa pace e tranquillità, nella quale Teodorico aveala lasciata,
ed il Regno d'Atalarico, come uniforme a quello del Re suo avolo,
riusciva a' popoli clementissimo, fu da Giustino, richiedendolo il
Popolo costantinopolitano, fatto suo Collega ed Imperadore Giustiniano
suo nipote nel dì primo d'Aprile dell'anno di nostra salute 527.
E morto quattro mesi da poi Giustino, cominciò egli solo a reggere
l'Imperio d'Oriente[780]. Questi fu quel Giustiniano, cui i suoi fatti
egregi acquistaron il soprannome di Grande; sotto di cui l'Imperio
ripigliò vigore e forza, non men in tempo di pace, che di guerra, a
cagion dei famosi Giureconsulti, che fiorirono nella sua età, e del
valore di Belisario e di Narsete suoi illustri Capitani. Le sue prime
grand'imprese furon quello adoperate in tempo di pace. Egli ne' primi
anni del suo Regno s'accinse a voler dare una più nobil forma alla
giurisprudenza romana, ed invidiando non men a Teodosio il Giovane,
che a Valentiniano III quella gloria che acquistaronsi, l'uno per la
compilazione del famoso Codice Teodosiano, e l'altro per la providenza
data sopra i libri de' Giureconsulti, volle non pur imitargli, ma
emulargli in guisa, che al paragone la fama di coloro rimanesse oscura
e spenta; e nell'Oriente non meno, che nell'Occidente non più si
rammentassero i loro egregi fatti.


§. I. _Del primo CODICE di GIUSTINIANO._

Adunque non ancor giunto al secondo anno del suo Imperio, nel mese di
Febbrajo dell'anno 528 promulgò un editto, al Senato di Costantinopoli
dirizzato, per la compilazione d'un nuovo Codice. Trascelse alla
fabbrica di questa opera da tre Ordini gli uomini più insigni del suo
tempo, da' Magistrati, da' Cattedratici, e da quello degli Avvocati:
dall'Ordine de' Magistrati furon eletti Giovanni, Leonzio, Foca,
Basilide, Tomaso, _Triboniano_, e Costantino: dei Professori, fu
trascelto Teofilo; e dall'Ordine degli Avvocati Dioscoro, e Presentino,
a' quali tutti fu preposto il famoso Triboniano, come lor Capo.

La forma, che a costoro si prescrisse, fu di dover da' tre Codici,
Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, raccorre le costituzioni de'
Principi, che quivi erano, ed oltre a questo, di aggiugnervi ancora
l'altre, che da Teodosio il Giovane, e dagli altri Imperadori suoi
successori infin a lui erano state di tempo in tempo promulgate,
eziandio quelle che si trovasse egli medesimo aver emanate; le quali
tutte in un volume dovessero raccogliere. Prescrisse lor ancora
l'istituto ed il modo, cioè di troncar quello, che in esse trovavan
d'inutile e superfluo, togliere le prefazioni, levare affatto quelle,
ch'eran tra loro contrarie, raccorciarle, mutarle, correggerle, e
render più chiaro il loro sentimento: collocarle secondo l'ordine
de' tempi, e secondo la materia, che trattano. Non tralasciassero
a ciascheduna costituzione di porv'i nomi degl'Imperadori, che le
promulgarono, il luogo, il tempo, e le persone a chi furon indirizzate:
il tutto ad emulazione di Teodosio, come è manifesto dall'editto di
Giustiniano, che leggiamo sotto il _tit. de novo Cod. faciendo_.

Impiegarono per tanto quest'insigni Giureconsulti le lor fatiche poco
più d'un anno per la compilazione di questo nuovo Codice, tanto che
nel principio del terzo anno del suo Imperio, e propriamente in Aprile
dell'anno seguente 529 fu compiuto e promulgato: e con altro editto,
che si legge sotto il _tit. de Justinianeo Cod. confirmando_, ordinò,
che questo Codice solamente nel Foro avesse autorità, che i Giudici di
quello si servissero, e che gli Avvocati non altronde, che da questo
allegassero nelle contese forensi le leggi; proibì affatto i tre primi
Codici, i quali volle, che rimanessero senza alcuna autorità, nè in
giudicio potessero più allegarsi; donde nacque, che in Oriente s'oscurò
il Codice di Teodosio. Il che però non avvenne in Occidente, e in
Italia precisamente, ove, durante la dominazione de' Goti, questo di
Giustiniano non fu ricevuto, e furono perciò più fortunati i successi
del Codice Teodosiano in Occidente, che nell'Oriente, per opera di
Giustiniano.

Le Costituzioni, che in questo nuovo Codice, in dodici libri distinto,
unironsi, come raccolte da' tre primi Codici, cominciavan da Adriano,
infin a Giustiniano, e le leggi promulgate da 54 Imperadori,
contenevano. E quindi è, che alcune costituzioni allegate da'
Giureconsulti nelle Pandette, in questo nuovo Codice si leggano, che
non possono leggersi nel Codice di Teodosio, come quello, che comincia
da Costantino M. ma che ben erano ne' Codici di Gregorio e di Ermogene,
da' quali anche fu questo ultimo compilato.


§. II. _Delle PANDETTE, ed INSTITUZIONI._

Per emular Giustiniano la fama di Teodosio, non contentossi del
solo Codice: volle, che ad impresa più nobile e difficile si ponesse
mano, cioè a raccorre ed unire insieme i monumenti di tutta l'antica
giurisprudenza, e con ordine disporgli; e siccome erasi fatto delle
costituzioni de' Principi, che da Adriano infin a lui fiorirono, così
anche si facesse de' responsi degli antichi Giureconsulti; delle
note loro, ch'essi si trovassero aver fatte alle leggi de' Romani,
e precisamente all'editto perpetuo; de' loro trattati; de' libri
metodici, e finalmente di tutti i lor Commentarj; l'opere de' quali
erano così ampie e numerose, che se ne contavan infin a duemila volumi.
Nel quarto anno del suo Imperio diede Giustiniano fuori un altro
editto[781] a Triboniano indirizzato, dove quest'Opera si comanda, ed
al medesimo Triboniano, ed a sedici altri suoi Colleghi si dà l'impiego
di così ardua e malagevole impresa. Furono trascelti ingegni i migliori
di quel secolo, e quali veramente richiedevansi per opera sì difficile.
Oltre a Triboniano furon eletti Teofilo e Cratino, celebri Professori
di legge nell'Accademia di Costantinopoli; Dorodeo, ed Anatolio pur
anche Professori nell'Accademia di Berito: dell'Ordine de' Magistrati
intervenne pure Costantino; e dell'Ordine degli Avvocati undici
ne furono trascelti, Stefano, Menna, Prosdocio, Eutolmio, Timoteo,
Leonide, Leonzio, Platone, Jacopo, Costantino e Giovanni[782].

Mentre costoro sono tutti intesi a questa gran fabbrica, che dopo il
corso di tre anni condussero a fine, piacque al medesimo Giustiniano
d'ordinare a Triboniano, Teofilo, e Doroteo, che in grazia della
gioventù compilassero le Instituzioni, ovvero gli elementi, e principj
della legge, perchè i giovani, incamminandosi prima per questo
sentiero piano e semplicissimo, potessero poi inoltrarsi allo studio
delle Pandette, che già si preparavano: siccome infatti da quelli tre
insigni Giureconsulti, ad esempio degli antichi, cioè di Cajo, Ulpiano
e Fiorentino, furon tantosto compilate; e quantunque la fabbrica de'
Digesti fosse stata innanzi comandata, nulladimeno per questo fine si
procurò, che le Instituzioni si pubblicassero prima delle Pandette,
come in effetto un mese prima, cioè a Novembre dell'anno 533, nel
settimo anno del suo Imperio, furono promulgate e divolgate. Divisero
questi elementi in quattro libri, in novantanove titoli, e, se anche
si vogliano numerare i principj de' medesimi, in ottocento e sedici
paragrafi. Opera, secondo il sentimento dell'incomparabile Cujacio,
perfettissima ed elegantissima, che non dovrebbe caricarsi tanto da
così ampj e spessi commentari, come a' dì nostri s'è fatto, ma da
aversi sempre per le mani, e col solo aiuto di picciole note, e per via
semplicissima a' giovani insegnarsi, siccome fu l'idea di coloro, che
la composero, e di Giustiniano stesso, che la comandò.

Pubblicati questi elementi, si venne prestamente a fine della
grand'Opera delle Pandette, le quali un mese di poi, e propriamente
nel Decembre dell'istesso anno 533 si pubblicarono per tutt'Oriente, e
nell'Illirico. Appena nata, sortì due nomi, l'uno latino di Digesti,
l'altro greco di _Pandette_, ambidue dagli antichi Giureconsulti
tolti ed usurpati: fulle dato nome di Digesti, perchè ne' libri, che
contengono, furono con certo ordine, e sotto ciascun titolo collocate
le sentenze degli antichi Giureconsulti, e disposte, per quanto
fu possibile, secondo il metodo e la serie dell'editto perpetuo:
si dissero anche Pandette, come quelle, che abbracciano tutta la
giurisprudenza antica[783].

Donde, da quali Giureconsulti, e da quali loro libri furono composti
i Digesti, è cosa molto facile a raccoglier dal catalogo degli antichi
Giureconsulti, e dell'opere loro, che ancor oggi veggiamo prefisso alle
Pandette fiorentine. Ivi leggonsi 37 Autori, chiarissimi Giureconsulti
da noi sovente lodati, quando nel primo libro, facendo memoria de'
Giureconsulti, che da Augusto infin a Costantino M. vissero, notammo
sotto quali Imperadori fiorissero: oltre a questi fassi onorata
memoria di molti altri, i quali meritarono esser nominati e lodati
nell'opere loro, ovvero che meritaron esser con giusti commentarj, o
con perpetue note esposti ed illustrati. Nel che non dobbiamo defraudar
della meritata lode Jacopo Labitto, il quale con somma diligenza ed
accuratezza compose un _Indice_ delle leggi, che sono nelle Pandette,
ciascheduna delle quali, oltre al disegnarle, l'Autore va distintamente
notando, da qual libro, o trattato di questi antichi Giureconsulti sia
stata presa, separando fra di loro le leggi, che si trovano sparse in
tutto il corpo de' Digesti, e poi arrolando ciascuna delle medesime
sotto quel trattato, o libro del Giureconsulto, onde fu tolta. Fatica
quanto ingegnosa, altrettanto utilissima per poter ben intendere il
vero senso delle medesime; essendo cosa maravigliosa il vedere, come
l'una riceva lume dall'altra, quando sotto i libri, onde furon prese,
si dispongono; il qual lume non potrà mai sperarsi, quando così sparse
si leggono. E ben quest'Autore diffusamente dimostra con più esempli,
quanto conduca l'uso di quell'Indice alla vera interpretazione delle
leggi, e quanto fosse stato commendato da Cujacio suo Maestro, il quale
fu quegli, che l'animò a proseguire questa bell'opera, e di darla alle
stampe. Confermò Cujacio col suo esempio ciò, che da Labitto era stato
dimostrato, mettendo in opera, e riducendo in effetto ciò che colui
aveva insegnato: quindi si vede, che questo incomparabile Giureconsulto
nel commentar le leggi delle Pandette, tenne altro metodo, ed altro
sentiero calcò di quello, che erasi per l'addietro calcato dagli
altri Commentatori: cioè di separare le leggi, e quelle ch'eran
d'Affricano e prese da' suoi libri, unille insieme, e sotto i propri
titoli le dispose, indi con quest'ordine le commentò, come altresì
fece sopra Papiniano, Paolo, Scevola ed alcuni altri Giureconsulti; il
maraviglioso uso del quale, e di quanti comodi sia cagione ben anche
l'intese Antonio Augustino, che compilò un altro non dissimil Indice,
e lo sentono ancora tutti coloro, che della nostra giurisprudenza sono
a fondo intesi.

Piacque in tanto a Triboniano, ed a' suoi Colleghi partire questa
grand'Opera de' Digesti in sette parti principali, distinguerla in
cinquanta libri, e dividerla in 430 titoli. Se vogliam riguardare le
Pandette fiorentine, ch'oggi con molta stima si conservan in Firenze
nella Biblioteca de' Medici, le vedremo in due volumi ben grandi
divise: se bene Crispino[784] rapporta, che anticamente di tutti i 50
libri ne fosse fatto un sol volume; ma quelle, che vanno or attorno per
le mani d'ogn'uno, sortiron varia divisione, secondo le varie edizioni.
Delle molte, ch'oggi s'osservano, e particolarmente in quest'ultimi
nostri tempi, che sono infinite, tre sono le più celebri, e ricevute
nell'Accademie e ne' Tribunali d'Europa. La prima edizione, cioè la
volgare e meno corretta, è quella, della quale si valsero Accursio,
e gli altri antichi Glossatori. La seconda vien detta Norica, ovvero
di Norimberga, ed è quella che Gregorio Aloandro nell'anno 1531 fece
imprimere. La terza appellasi Fiorentina, ovvero Pisana, la quale da
noi deesi a Francesco Taurello, che nell'anno 1553 dalla libreria dei
Medici fece darla alle stampe.

La vulgata partizione di quest'Opera in tre volumi è assai più antica
di ciò, ch'altri crede; poichè fin da' tempi di Pileo, di Bulgaro e di
Azone, per maggior comodità fu in tal maniera divisa[785], essendo la
mole sua così vasta, che comprendendosi in un sol volume, non avrebbe
potuto senza gran disagio leggersi e maneggiarsi. Come poi a ciascun
volume fosse dato il nome, al primo di Digesto Vecchio, al secondo
d'Inforziato ed al terzo di Nuovo, quando tutti e tre nacquero in un
istesso tempo, egli è assai malagevole a recarne la ragione. Essersi
detto il primo vecchio, e l'ultimo nuovo, non sarebbe cosa molto
strana; ma quel di mezzo appellarsi con istrano vocabolo _Inforziato_,
è quello che ha esercitate le penne di più Scrittori, i quali in cose
cotanto tenui han voluto pure abbassare il lor ingegno.

Alcuni han creduto essersi chiamato Inforziato dalla voce greca
φορτίον, che in latino significa _onus_, perchè quel volume contiene le
leggi più obbliganti, come di restituzioni di dote, di tutele, eredità,
alimenti, prestazioni di fidecommissi ed altro[786]. Più tollerabile
è la conghiettura di Bernardo Valtero[787], il quale disse, che
corrottamente siasi così chiamato per vizio degli Scrittori, i quali in
vece d'_Infarcitum_, come posto in mezzo tra 'l vecchio, e 'l nuovo,
lo dissero _Infortiatum_. Ma sopra tutte l'altre, migliore par che
sembri quella d'Alciato, che la riputò voce barbara ed insulsa[788];
ovvero l'altra che ultimamente comunicò a Giovanni Doujat[789] Claudio
Cappellano Dottor della Sorbona e regio Professor di lingua ebraica in
Parigi: questi suspica esser derivato dal Caldeo _Forthiata_, la qual
voce da' Rabini fu sovente presa per significar testamento ed ultima
volontà dell'uomo; onde potè avvenire, che taluno, o per ischerzo,
o per ostentar novità, volendo dir testamento, avesselo chiamato
Inforziato, ed indi, trasferita questa voce a quel volume de' Digesti,
ove de' testamenti si tratta, avesse preso questo nome; ma ciò che
siasi di questo, in cui certamente non sono riposte le ricchezze della
Grecia, rimettendoci in via, egli è costantissimo, che pubblicati i
Digesti da Giustiniano, e sparsi per tutto l'Oriente, essendo stato
commesso a' Prefetti dell'Oriente, dell'Illirico, e della Libia, che
gli notificassero a tutti i Popoli alla loro giurisdizione soggetti,
come è manifesto dalla prefazione, che Giustiniano prepose a' Digesti
ed altrove[790], non poteron però penetrare allora in Italia, ed in
queste nostre regioni, come quelle, che sotto alieno Principe, e sotto
la dominazione de' Goti ancor duravano; nè in questo terreno poteron
esser piantati ed acquistar quella autorità e quella forza, che poi,
dopo il corso di più secoli, fortunatamente ottennero, ed in tanta
stima e riputazione sursero, quanto è quella nella quale oggi si
veggono.


§. III. _Del Secondo Codice di GIUSTINIANO di repetita prelezione._

Posto fine a quest'Opera veramente regia, non perciò quietossi questo
eccelso Principe; egli essendo stato avvertito, che nel compilar
de' Digesti erasi osservato, che molte controversie restavan ancor
indecise negli scritti di quegli antichi Giureconsulti, e che bisognava
terminarle colla sua autorità imperiale; e di vantaggio avendo
egli fra tanto, dopo pubblicato il primo Codice, promulgate altre
sue costituzioni, le quali vagavano sparse, e non affisse ad alcun
volume; ed essendosi osservato eziandio, che molte cose nel Codice già
compilato mancavano; comandò nel seguente anno, che fu l'ottavo del
suo Regno, e propriamente nell'anno 534, che quel Codice s'emendasse e
ritrattasse, con farsene un altro più compiuto e perfetto[791]. Diedesi
per tanto il pensiero a cinque di coloro, ch'intervennero alla fabbrica
de' Digesti, cioè a Triboniano e Doroteo, ed a tre altri Avvocati,
Menna, Costantino e Giovanni: questi secondo l'ordine prescritto loro
da Giustiniano, che si legge nel suo Codice[792], levarono dal primo
quelle costituzioni, che stimaron oziose e superflue, o che fossero
state dalle altre emanate da poi corrette ed abolite.

Erano corsi cinque anni tra il primo Codice e questo secondo, e
nello spazio di questo tempo molte costituzioni eransi da Giustiniano
stabilite. Nel Consolato di Decio, dopo la promulgazione del primo
Codice, ne furon pubblicate da Giustiniano alcune, fra le quali
fu assai famosa quella che leggiamo sotto il _tit. de bon. quae
lib._[793], dove fu generalmente stabilito, che ciò che il figliuolo
altronde acquistava, non _ex paterna substantia_, fosse suo peculio
avventizio, e l'usufrutto solamente fosse del padre, contra ciò, che
nell'antica e mezza giurisprudenza era disposto. Da poi nel Consolato
di Lampadio e d'Oreste furono promulgate quasi tutte le cinquanta
decisioni, che per togliere le controversie ed ambiguità degli antichi
Giureconsulti, piacque a Giustiniano stabilire[794]; molte delle
quali abbiamo sotto il _tit. de usufr._ come la _l. 12_, _13_, _14_,
_15_ e _16_ poichè la _17_, ancorchè sia una delle 50 decisioni,
fu fatta l'anno seguente dopo il Consolato di Lampadio. Non pure in
questo Consolato si promulgaron quasi tutte queste decisioni, ma anche
furon fatte altre costituzioni, come la _l._ 7 che leggiamo sotto
il _tit. de bon. quae lib._ dove fu stabilito, che non s'acquistasse
al padre l'usufrutto delle robe donate al figliuolo dal Principe, o
dall'Imperadrice, e l'altra nobilissima, cioè _l. un. C. de rei ux.
act._ Fu anche in quest'anno 530, che fu il quarto dell'Imperio di
Giustiniano, promulgata quell'altra sua costituzione, che si legge
sotto il _tit. de vet. jur. enucl._ ove, come si disse, Giustiniano
comandò a Triboniano ed a sedici altri Giureconsulti la fabbrica de'
Digesti.

Nell'anno seguente dopo il Consolato di Lampadio, e quinto dell'Imperio
di Giustiniano, ne furon promulgate moltissime, come la _l. 2 de
Constit. pecun._ ove fu abolita l'azione receptizia, la _l. 2 C.
Com. de legat._ ove fu tolta la differenza de' legati e fidecommessi
particolari; la _l. 2 C. de indic. viduit._ dove restò abolita la legge
Giulia Miscella; la _l. 3 C. de Edict. D. Hadrian. toll._, per la quale
si tolse e cancellò l'editto d'Adriano per la vigesima dell'eredità;
e la _l. 4 C. de liber. praet._ ove rimase abolita la differenza
del sesso nell'eseredazione. In questo medesimo anno furono ancora
promulgate quelle nobili costituzioni, cioè la _l. si quis argentum 35
C. de donat._ la _l. ult. C. de jur. delib._ la _l. ult. C. qui pot. in
pign._ ed alcune altre.

Nel secondo anno dopo il Consolato di Lampadio e d'Oreste si pubblicò
la _l. 2 Cod. de vet. jur. enucl._ e nell'anno seguente 533, settimo
del suo Imperio, furon pubblicate l'Instituzioni, e come si disse, un
mese da poi le Pandette. Questi due anni si notano così, perchè furono
senza Consoli.

Aggiunsero perciò i Compilatori in questo nuovo Codice tutte queste
costituzioni, che secondo Balduino[795] e Rittersusio[796] oltrepassano
il numero di 200, promulgate dopo il primo Codice fra lo spazio
di cinque anni, che possono anche vedersi appresso Aloandro nel
catalogo de' Consoli al suo Codice aggiunto, delle quali Francesco
Raguellio[797] ne compilò particolari commentarj: siccome fece anche
Emondo Merillio sopra le 50 decisioni[798]. Per queste si variò non
poco il sistema di varie materie alla nostra giurisprudenza attinenti,
e particolarmente restò variata la dottrina de' peculj, de' legati e
d'altre moltissime cose. Donde ne siegue, siccome anche avvertirono
Balduino[799] e Rittersusio[800], che sia error grave il credere, che
in questo nuovo Codice vi si fossero solamente aggiunte le cinquanta
decisioni, e che toltone queste decisioni, in niente altro discordano
le Pandette da questo Codice _di repetita prelezione_.

Ridotte adunque in questa miglior forma, ed in questo nuovo Codice
le costituzioni de' Principi, nel quale anche furono inserite alcune
costituzioni dei successori di Teodosio e di Valentiniano, come
di Marciano, Lione, Antemio, Zenone, Anastasio e Giustino, comandò
Giustiniano, che il primo Codice non avesse più autorità, nè vigore
alcuno: ma che questo secondo, che ad esempio degli antichi chiamò
_di repetita prelezione_, dovesse solamente ne' Tribunali in fatti i
giudicj aver forza e vigore; nè d'altronde, che da esso, potessero
le costituzioni nel Foro allegarsi, cassando tutte l'altre, che
forse si trovassero andare sparse e vaghe fuori del medesimo; ond'è,
che alcuni assai a proposito avvertirono, che di niun vigore sien
quelle costituzioni di Zenone, o d'altro Imperadore, che non veggiamo
inserite in questo Codice, le quali solo dobbiamo alla diligenza ed
erudizione di qualche Scrittore, che dalle lunghe tenebre, ove eran
sepolte, le cavò fuori, alla luce del Mondo restituendole; molte
delle quali si debbono all'industria di Conzio, di Giacopo Cujacio,
di Dionisio e di Giacopo Gotofredo, e d'alcuni altri eruditi; l'uso
delle quali sarà, non di valersene, come costituzioni di Principi, che
ci facciano legittima autorità, ma solo per ricever da esse qualche
lume per intender meglio le ricevute, e quelle, che per antica usanza
hanno acquistato appresso noi nel Foro forza di legge. E quantunque
la costituzione di Zenone stabilita intorno agli edificj e prospetto
del mare, sia difesa da molti per legittima e d'autorità, cioè, perchè
quella si vede da Giustiniano confermata nelle sue Novelle, e nel
Codice viene dichiarata non essere stata locale, per Costantinopoli
solamente, ma comprendere tutte l'altre province dell'Imperio[801].

Fu cotanto rigido Giustiniano in non volere ammettere altre
costituzioni, che quelle, le quali in questo Codice fossero
insieme unite e congiunte, che tutte quell'altre, che per qualche
grave bisogno, o per dare altra providenza fossero per emanarsi
nell'avvenire, volle che si raccogliessero a parte in altro volume, al
quale si desse il nome non di Codice, ma di _Novelle_ costituzioni,
e che formassero un altro Corpo separato dal suo Codice: onde se
bene il nome di _Codice_, generalmente parlando, potesse convenire
ad ogni libro, _a caudicibus arborum deducto vocabulo_; nulladimeno
i nostri Giureconsulti per antonomasia Codice solamente appellarono
quel libro, ove con certo ordine erano raccolte le costituzioni
imperiali; poichè siccome dopo Cujacio avvertì Gotofredo[802], le
costituzioni e rescritti de' Principi, solevano scriversi ne' Codici
e Pugillari, ch'eran tavole di legno ed anche di rame, o d'avorio,
le quali per conservarne la memoria serbavansi negli Scrigni, o sia
Cancellaria del Principe, ond'è che leggiamo che Teodosio il Giovane,
quando fece compilare il suo Codice, mandò a ricercare a Valentiniano
III le Costituzioni da lui fatte per l'Occidente, che conservava
ne' suoi Scrigni per poterle unire colle sue, e degl'Imperadori suoi
predecessori, e compilarne quel Codice. All'incontro i responsi de'
Prudenti, onde si compilarono i Digesti, soleano scriversi nelle
Membrane, non già in legno, o in rame.

Abolito dunque il primo Codice, del quale se ne estinse affatto la
memoria, a questo secondo si diede tutta l'autorità, ed è quello
ch'oggi ci va per le mani, e del quale si servono tutti i Tribunali,
tutte le Accademie d'Europa, diviso, come ogn'un vede, in dodici
libri, e distinto in 776 titoli. Le sue costituzioni furon quasi tutte
dettate in lingua latina, e contiene le costituzioni di 54 Imperadori,
cominciando da Adriano infino a Giustiniano, siccome è manifesto dal
loro catalogo, che Aloandro e Dionisio Gotofredo prefissero a' loro
Codici. L'Indice delle leggi promulgate da ciascheduno Imperadore pur
lo dobbiamo alla industria e diligenza di Jacopo Labitto e d'Antonio
Agostino, che agli studiosi della nostra giurisprudenza riesce non
men utile e comodo, che quello composto da' medesimi de' responsi de'
Giureconsulti nelle Pandette.

Alcuni han ripreso Giustiniano, Principe cotanto cattolico, che in
questo Codice abbia fatto inserire molte costituzioni non degne della
sua pietà e religione. Il nostro Matteo degli Afflitti seguitando
questo errore scrisse, che molte leggi inique avesse fatte inserire
ne' tre ultimi libri: ma ben ne fu ripreso dal Valenzuola. Altri
dissero, che mal facesse Giustiniano a trasferir nel suo Codice
la legge di Valente contra i Solitarj, ed Amaja non ardisce in ciò
difenderlo: ma si vede chiaro che quella legge non fu stabilita contra
i veri Solitarj, ma contra coloro, che sotto pretesto di religione,
affettando lo esserci, s'univano con quelli per isfuggire i pesi della
Curia. Alcuni altri lo riprendono, perchè molte leggi riguardanti
l'usure ed i repudj stabilisse, con permettergli; ma Godelino[803],
Leotardo[804] ed altri lo difendono. Altri perchè molte leggi attinenti
all'esterior politia ecclesiastica v'inserisse; ma costoro sono degni
di scusa, perocchè non posero mente alla condizione di que' tempi, ne'
quali furono promulgate, ma secondo le massime de' secoli, ne' quali
scrissero, reputarono non convenirsi all'autorità del Principe di
stabilirle; ciò che meglio si vedrà, quando della politia ecclesiastica
di questo secolo tratteremo.


§. IV. _Delle Novelle di GIUSTINIANO._

Se bene abbastanza si fosse proveduto da Giustiniano allo studio
della giurisprudenza con queste tre sue lodevoli opere, cioè
dell'Instituzioni, de' Digesti e del Codice; nulladimeno, come che
col correr degli anni, secondo le varie bisogne e nuove emergenze, fu
d'uopo dar nuove providenze, ed emanar nuove costituzioni, si fece in
modo, che non molto da poi crebbero queste tanto, che bisognò unirle
in un altro volume, il quale delle novelle costituzioni fu detto.
Furon queste di tempo in tempo da Giustiniano emanate, e non già in
sermon latino, come l'altre racchiuse nel Codice, ma quasi tutte in
greca lingua concepute[805], toltane la Nov. 9, 11, 23, 62, 143, 150
che furono dettate in latino[806], nelle quali veramente evvi molto
che desiderare intorno all'eleganza, brevità, gravità e dottrina;
e quanto le costituzioni de' Principi, che da Costantino M. infino
a lui fiorirono, cedono alle costituzioni degli altri più antichi
Imperadori, da Adriano fino a Costantino, tanto queste Novelle di
Giustiniano cedono in brevità ed eleganza alle seconde, in guisa che
s'è sempre retroceduto, ed andato di peggio in peggio, leggendosi
queste ora con molta nausea piene di loquacità, tumide e prive affatto
di quella brevità, gravità ed eleganza delle prime: ma ciò, che più
importa, osservasi nelle medesime una certa incostanza e leggerezza
inescusabile, mutandosi e variandosi ciò, che non molto prima erasi
stabilito, e quel che poco anzi piacque, poco da poi si muta e si
cancella. La qual cosa ha dato motivo a molti di credere, che tanta
instabilità procedesse dalla leggerezza femminile di Teodora moglie di
Giustiniano, che sovente s'intrigava in sì fatte cose; e dall'avarizia
di Triboniano, che per denaro sovente mutava e variava le leggi a sua
posta[807].

Di queste Novelle solamente novantasei furono a notizia degli antichi
nostri Glosatori, ancorchè Giuliano Professor di legge nell'Accademia
di Costantinopoli, poco da poi di Giustiniano, avendole in compendio
ridotte e trasportate dalla greca nella lingua latina, infino al numero
di centoventicinque ne traducesse. Ne' tempi meno a noi lontani ne
furon da Aloandro ritrovate dell'altre, ed infino al numero di 165
accresciute: Giacopo Cujacio n'aggiunse altre tre, tanto che il loro
numero arriva oggi a quello di 168[808].

Ma non dee tralasciarsi d'avvertire, che nell'unire insieme queste
Novelle non fu osservato con esattezza l'ordine de' tempi, scorgendosi
molte di esse, che furono promulgate negli ultimi tempi dell'Imperio
di Giustiniano, esser preposte a quelle, che si fecero prima, ed
all'incontro alcune pubblicate prima, occupare l'ultimo luogo. Così
nel nono anno dell'Imperio di Giustiniano nel Consolato di Belisario,
quando cominciarono a stabilirsi, furono promulgate le Novelle 1, 2,
3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 e nel medesimo
anno ancora la Novella 24, 25, 26, 27, 28, 29, 32, 42, 51, 102, 103,
107, 110, 116, 118 e 157. Nel seguente anno, dopo il Consolato di
Belisario, si promulgò la Novella 19, 20, 21, 22, 31, 38, 39, 40, 43,
45, 122, e nell'anno seguente, undecimo del suo Imperio, si fecero le
Novelle 41, 52, 53, 54, 55, 56, 58, 59, 60, 61 ed altre moltissime.

Nel Consolato di Giovanni, e duodecimo dell'Imperio di Giustiniano,
furon pubblicate le Novelle 63, 64, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74,
76, siccome nell'anno appresso le Novelle 78, 79, 80, 81, 83, 97, 99,
101, 133, 162, e nel seguente, nel Consolato di Giustino, la Novella
98.

Nel Consolato di Basilio, e decimoquinto dell'Imperio di Giustiniano
si proferirono le Novelle 108, 109, 111, 113, 115, 117, 119, 120,
121, 123, 124, 125, 128, 129, 130, 131, 132, 134, 135, 136, 137, 145,
146, 147, 153. Ne' seguenti anni niente da Giustiniano promulgossi;
ma nell'anno 32, ultimo del suo Imperio, fu emanata la Novella 141
onde l'ultima di tutte dee riputarsi questa, come quella, che si fece
nell'anno 558.

Queste Novelle insieme co' tredici editti promulgati di tempo in
tempo da Giustiniano, furono unite e raccolte in un volume, non
per ordine di Giustiniano[809], ma dopo la sua morte per privata
diligenza ed industria, come mostrano Cujacio ed Antonio Agostino,
senza tenersi altr'ordine di quello, che di sopra s'è detto. Fu tutta
opera degl'Interpetri poi dividerle in nove _Collazioni_, le quali
a similitudine de' libri contengono ciascheduna più titoli. E fu
nominato da poi ne' tempi di Bulgaro _Autentico_, o perchè a queste
costituzioni, come quelle, che promulgate dopo le leggi del Codice,
loro si desse maggiore autorità e peso; ovvero, com'è più probabile,
che al paragone dell'Epitome latina fatta da Giuliano, questa
opera, come quella, che conteneva le Novelle intere, e come furon da
Giustiniano promulgate, doveva riputarsi l'origine e l'autentica[810].

Abbiam di queste Novelle tre versioni latine: una antica, della quale
si crede Autore Bulgaro; ma Cujacio[811] ed altri vi dissentiscono:
l'altra fatta da Aloandro: e la terza da Errico Agileo. Non convengono
gli Autori nè nel nome, nè nell'età di questo antico Interpetre.
Alcuni lo credettero, o più antico, ovvero coetaneo di S. Gregorio M.,
allegando e trascrivendo questo Pontefice molti passi di queste Novelle
ne' suoi libri, della quale opinione fu anche Balduino[812]. Ma Antonio
Agostino[813] seguitato da Rittersusio rapporta, che ne' tempi di
Irnerio e di Bulgaro fu per opra di un certo Monaco trovato il volume
greco di queste Novelle, il quale lo tradusse in latino. Fu questi
chiamato Bergonzione Pisano, del quale anche si narra, che traducesse
in latino quelle clausole greche, che si trovano ne' libri de' Digesti.

La traduzione fatta da Aloandro seguì in questo modo: conservavasi in
Firenze un volume MS. delle greche Novelle, dal qual libro fiorentino
fu copiato quello di Bologna: di questo si servì Aloandro, e fu il
primo che diede alle stampe le Novelle greche da lui tradotte in
latino. La prima edizione si fece nell'anno 1531, non senza gloria del
Senato di Norimbergh, il quale somministrò le spese. Errigo Scrimgero
molti anni dopo, avendo avuto in mano in Venezia un altro esemplare
MS. più esatto, che fu del Card. Bessarione, supplì da questo nuovo
volume molto di ciò che mancava nell'edizione di Norimbergh, e stampò
le Novelle in quell'idioma, cioè greco: donde ne nacque poi la terza
traduzione di Errico Agileo, il quale tradusse ancora le Novelle di
Lione; e Conzio ne trasportò ancora alcune altre nella latina favella.

Vernero, ovvero, come i nostri l'appellano, _Irnerio_, con non
picciol comodo degli studiosi, avendole accorciate, a ciascuna legge
del Codice, che per le Novelle venisse corretta, o che trattasse
di simil argomento, aggiunse il ristretto delle medesime, perchè
potesse conoscersi ciò, che su quel soggetto erasi innovato per queste
novissime costituzioni di Giustiniano, che perciò acquistaron il
nome d'_Autentiche_, le quali cautamente debbon co' suoi fonti, onde
derivano, confrontarsi; poichè alle volte si discostano da' medesimi,
e Giorgio Rittersusio[814] figliuolo di Corrado novera 70 luoghi, che
discordano da' loro originali.

È ancora d'avvertire, che in tre cose principalmente differisce dal
Codice questo volume delle Novelle. La prima, che il Codice abbraccia
le costituzioni di più Principi, cominciando da Adriano infino a
Giustiniano; e le Novelle sono costituzioni del solo Giustiniano. La
seconda, che le leggi del Codice furono quasi tutte dettate in sermon
latino, e le Novelle in greco. La terza, che nel Codice le costituzioni
sono ripartite in certe classi e collocate sotto varj titoli, secondo
la varietà del soggetto che trattano, e molte volte ne sono state più
disposte sotto un titolo; quando nel volume delle Novelle ciascheduna
costituzione ha il suo titolo, e furono senz'ordine unite insieme, con
serbarsi solamente l'ordine del tempo: il qual ordine nemmeno fu in
tutto osservato, come di sopra s'è veduto.


§. V. _Dell'uso ed autorità di questi libri in Italia, ed in queste
nostre province._

Quantunque Giustiniano, per queste insigni sue opere, avesse
nell'Oriente oscurata la fama di Teodosio, tanto che s'estinse affatto
il nome del costui Codice, nè altrove, che a questi suoi libri
poteva ricorrersi, o nel Foro, o nell'Accademie, e fossero stati
nell'Imperio d'Oriente questi soli ricevuti, e rifiutati tutti gli
altri; nulladimeno nell'Occidente, ed in Italia precisamente, diversa
fu la lor fortuna; poichè essendo stati da Giustiniano pubblicati negli
ultimi anni del Regno d'Atalarico, mentre ancor durava la dominazione
de' Goti, non furono in Italia, nè in queste nostre province ricevuti,
nè qui, come in alieno terreno, poterono esser piantati e metter
profonde radici; ma si ritennero gli antichi Codici, e gli antichi
libri dei Giureconsulti, ed il Codice di Teodosio niente perdè di stima
e di autorità; anzi appresso gli Vestrogoti per l'autorità d'Alarico,
fu in somma riputazione avuto, tanto che il suo Compendio, che essi
chiamavan Breviario, non pure appresso i medesimi, ma anche appresso
gli Ostrogoti e presso a molte altre Nazioni, come Borgognoni, Francesi
e Longobardi niente perdè di pregio e d'autorità, e ciò ch'era legge
dei Romani, in questi libri era racchiuso.

E se bene dopo la morte d'Atalarico, ed indi a poco d'Amalasunta,
le cose de' Goti in Italia si riducessero ad infelicissimo stato, e
Giustiniano col valore di Belisario riportasse di loro più vittorie,
ed avesse con particolar editto[815] ordinato l'osservanza delle leggi
romane, ne' suoi libri contenute, per tutte le province d'Italia; e
da poi che Belisario nel decim'anno del suo Imperio ebbe espugnata
Napoli, la Puglia, la Calabria, il Sannio e la Campania, avesse tolte
ai Goti queste province: nulladimeno avendo poi costoro sotto Totila,
valorosissimo Principe, ripreso l'antico spirito e valore, e poste in
tanta revoluzione le cose d'Italia, che a tutt'altro potè badarsi, che
alle leggi in mezzo a tant'armi e guerre sì crudeli e feroci, rimasero
perciò di nuovo senza vigore ed autorità alcuna le leggi romane ne'
libri di Giustiniano contenute. E quantunque alla fine negli ultimi
anni del suo Imperio avesse riportata de' medesimi intera vittoria, e
sotto Teja ultimo loro Re gli avesse per mezzo di Narsete interamente
debellati e sconfitti; contuttociò, sopraggiunto non molto da poi dalla
morte, e succedutogli Giustino il Giovane, Principe inettissimo, non
andò guari, che l'Italia passò sotto il dominio dei Longobardi, i quali
seguitando gli esempi de' Goti, non altre leggi riconobbero, se non le
proprie e quelle de' Romani, che nel Codice di Teodosio eran comprese,
e ciò che per tradizione era rimaso delle medesime nella memoria de'
provinciali; nulla curando dei libri di Giustiniano, de' quali poca e
rada era la notizia, come quinci a poco partitamente vedrassi.

Si aggiunse ancora, che non passarono molti anni, che questa medesima
fortuna cominciarono ad avere in Oriente, ove, come diremo ne'
seguenti libri, parte per imperizia ed inezia de' suoi successori,
parte per invidia, vennero in tanta dimenticanza, per le tante altre
compilazioni, che ad emulazione di Giustiniano seguirono, che di questa
di Giustiniano rimase ogni fama oscurata e spenta. E vedi in tanto le
strane vicende delle mondane cose: questa grand'opera di Giustiniano
con tanta cura e studio compilata, che per tutti i secoli avrebbe
dovuto correre gloriosa e immortale, appena mancato il suo Autore,
che restò anch'ella per lo spazio di cinque secoli sepolta in tenebre
densissime, ed in una profonda oblivione: risorta poi in Occidente
a' tempi di Lottario, fu così avventurosa, che alzò i vanni e la fama
sopra tutte l'altre province del Mondo, nè trovò Nazione alcuna culta,
o barbara che fosse, che in somma stima e venerazione non l'avesse, e
che non la preferisse alle medesime loro proprie leggi e costumi.



CAPITOLO IV.

_Espedizione di GIUSTINIANO contra TEODATO Re d'Italia successor
d'ATALARICO._


Dopo aver Giustiniano in così fatta guisa posta l'ultima mano a dar
certa e stabil forma alla giurisprudenza romana, disbrigato dalle
leggi, passa con non disugual fortuna all'armi. Principe così nella
pace, come nella guerra fortunatissimo; poichè, siccome per condurre a
fine quell'impresa delle leggi, quanto magnanima e nobile, altrettanto
ardua e difficile, ebbe ne' suoi tempi Giureconsulti insigni, quali
furono Triboniano, Teofilo, Doroteo, e tutti quegli altri, dei quali
s'è fatta onorata menzione, che poteron ridurla a perfezione; così
nell'armi ebbe Capitani valorosissimi ed insigni, un Belisario, un
Narsete, Mondo ed alquanti altri, i quali per le loro incomparabili
virtù e gloriose gesta, accrebbero non meno la sua gloria, che per
tante conquiste l'Imperio; onde potè il suo nome andarne appresso la
posterità fregiato con tanti titoli, d'Alemannico, Gotico, Francico,
Germanico, Antico, Alanico, Vandalico ed Affricano, per le tante
genti vinte e debellate. Nè minor fu la sua fortuna per li tanti
illustri e valorosi Capitani, che fiorirono a' suoi tempi, quanto per
le opportunità, che se gli presentarono per agevolar le conquiste; e
particolarmente nella guerra, che mosse a' Goti per l'impresa d'Italia,
di cui saremo brevemente a narrare i successi.

Da poi che Belisario ebbe trionfato de' Vandali nell'Affrica, e presa
Cartagine, avendo fatto prigioniero Gilimere loro Re, e portatolo in
trionfo a Costantinopoli; vedendo Giustiniano sottomesso al suo Imperio
quel vastissimo Regno, rivolse tutti i suoi disegni alla impresa
d'Italia per sottrarla dalla dominazione dei Goti; ed una opportunità
assai prospera, che presentossegli, accelerò l'impresa, e diede
maggiori stimoli all'esecuzione.

Amalasunta, Principessa prudentissima, come vide suo figliuolo
Atalarico per la sua dissolutezza caduto in una mortale languidezza,
che non v'era più da sperare di sua vita, dubitò, che dopo la morte
di suo figliuolo non sarebbe potuta vivere in sicurezza fra i Goti,
i quali l'odiavano a morte, perciocchè non poteva ella sofferire i
loro disordini e dissolutezze; e perch'era ella infinitamente stimata
dall'Imperadore Giustiniano, e tenuta dal medesimo così cara ed in
tant'onore, che venne fino ad insospettirsene e rendersene gelosa
Teodora sua moglie, incominciò celatamente a trattar con Giustiniano,
come potesse mettere il Reame d'Italia fra le sue mani, pensando,
che in questa maniera otterrebbe la sua quiete e sicurezza; ma la
morte improvvisa di suo figliuolo non le diede tanto tempo di potere
adempiere il suo disegno; per la quale cosa dubitando, che i Goti, non
volendo sofferire il suo governo, non facessero prontamente un Re a
loro capriccio, destramente gli prevenne, mettendo sul Trono Teodato
suo cugino, figliuolo d'Amalafrida sorella del Gran Teodorico, pur
egli dell'illustre gente Amala[816]. Era costui un Principe, che aveva
menata sua vita nelle solitudini di Toscana, e nello studio della
filosofia Platonica era tutto immerso[817]; uomo di molte lettere,
e per la lingua latina sopra ogn'altro eccellente, la quale a' suoi
tempi era tanto caduta dal suo candore, che riputavasi a gran pregio,
chi fosse di quella a pieno esperto; anzi se dobbiamo prestar fede
a Cassiodoro[818], poichè Procopio nulla ne dice, fu Teodato anche
versato nella teologia, e negli studi ecclesiastici; imperocchè
nell'epistola d'Amalasunta scritta al Senato di Roma, ove gli dà conto
dell'innalzamento al Trono del medesimo, fra gli altri pregi e lodi,
che si danno a Teodato, è l'essere ancora un Principe molto erudito
nelle discipline ecclesiastiche. Ma tutte queste lettere e queste
erudizioni non furono bastanti a mutar la sua natura e la bassezza
della sua mente; poichè del rimanente fu un uomo inespertissimo delle
cose militari, timido, pigro, e sopra tutto avarissimo, senza onore,
senza probità e pieno di tanta perfidia e malvagità, ch'era capace di
fare le più cattive azioni del Mondo, quando gli fossero ispirate, o
dalle sue proprie, o dall'altrui passioni.

Ben di questa sua perfida natura sen accorse da poi con suo estremo
periglio l'infelice Principessa Amalasunta; poichè assunto al Trono,
obbliando tutte le promesse, ch'aveva fatte alla sua benefattrice, si
lasciò governare da' parenti di coloro, che questa Principessa avea
fatti morire per loro falli; e seguendo il consiglio di queste genti
la fece levare dal palagio di Ravenna[819], e condurre in prigione in
un'isola posta nel mezzo del lago di Bolsena, e dopo scorsi alquanti
giorni la fece barbaramente strozzare nel bagno, nel medesimo tempo,
ch'egli domandava la pace all'Imperador Giustiniano: avendo costretta
prima questa miserabile Principessa a scrivere all'Imperadore per
ottenerla. Non mancano Scrittori, che narran Teodato esser indotto
a tanta scelleratezza non pure per la malvagità della sua natura, e
per li consigli di quelli di sua Corte, ma anche per opera e per le
persuasioni di Teodora moglie di Giustiniano, la quale ingelosita per
l'amor, che suo marito portava a questa Principessa, dubitò, che questi
un giorno non dovesse abbandonar lei per Amalasunta.

Giustiniano in tanto, furiosamente sdegnato per sì orribile brutalità
di Teodato e degli Ostrogoti, si risolse di vendicar la morte di
Amalasunta: e dall'altro canto ardente di desiderio di riunire l'Italia
all'Imperio, pensò questa esser la miglior opportunità, che mai potesse
presentarsegli per mover guerra a' Goti, e discacciargli d'Italia.

(Un altro pretesto ebbe Giustiniano per l'invasione di Sicilia, e
fu per la restituzione del Promontorio, o sia castello _Lilibeo_ di
Sicilia, che Giustiniano pretendeva appartenersi all'Affrica. Questo
Promontorio, ancorchè parte della Sicilia, Teodorico avealo dato per
dote alla sua sorella _Amalafrida_, quando la maritò a _Trasimondo_
Re de' Vandali, siccome narra _Procopio Lib. I, Belli Vandal. c._ 8.
Avendo dunque Giustiniano per _Belisario_ estinto il Regno vandalico,
e restituita l'Affrica all'Imperio, pretendeva che il _Lilibeo_, come
parte accessoria ed appartenente all'Affrica, dovesse Amalasunta
restituirlo all'Imperio; ma questa savia Regina destramente andava
sfuggendo la dimanda con umilmente rispondergli che di quella dotazione
fatta da Teodorico non dovea aversi conto, come contraria alle leggi
de' Goti, le quali proibiscono potersi alienare alcuna parte del Regno,
siccome Procopio istesso, rapportando le vicendevoli pretensioni,
scrisse nel _Lib. 2 c._ 5. _Amalasunta_, vedendo che colla forza
non potea resistere a Giustiniano, gli rispondeva con ogni rispetto,
dicendo: _Lilybeum est Gothici juris, neque tanta odia meretur_, come
lo ripete _Procopio_ anche nel _Lib. I, Belli Gothici, c. 1 et 3_ e
con maniere rispettose ritenne l'Imperadore a non dare alcuna mossa.
Ma morta questa infelice Principessa, Giustiniano non ebbe più quel
rispetto, che avea fino allora avuto; onde con quest'altro pretesto del
_Lilibeo_ invase tutta la Sicilia, per la qual cosa saviamente ponderò
_Ludewig in vita Justiniani M. c._ 8 §. 91 _n._ 456 _pag._ 417 dicendo:
_Quilibet facile intelligit hoc; non tam Lilybeum hic causam actam,
quam viae vel claudendae, vel aperiendae Siciliae universae_).

Adunque nell'anno del Signore 535, avendo scelto Belisario per
quest'impresa, e fatti molti preparativi per mare e per terra, spedillo
con potent'armata verso la Sicilia, riputando non d'altronde doversi
cominciar le conquiste, che dalla Sicilia, la quale, come nutrice di
quelle province ch'oggi formano il nostro Regno, dovea, quella presa,
rendergli più facile la conquista delle medesime.

Tentò ancora Giustiniano tutte le strade per agevolar questa impresa, e
fece tutti i sforzi per avere in aiuto i Franzesi, portando a' medesimi
le sue doglianze contra i Goti, ed allegando le cagioni, ch'egli
riputava giustissime per questa guerra. I Goti, e' dice appresso
Procopio[820] _rapta Italia, quae nostri haud dubie est juris_, non
pur non curano di restituirla all'Imperio; ma di vantaggio han cercato
il mio disprezzo nella morte crudelmente data ad Amalasunta da me
cotanto stimata, ed in tanto pregio avuta, nell'istesso tempo, che
mi dimandavan pace. Ma i Franzesi non si mossero ad aiutarlo, anzi
irritato da poi Teodeberto loro Principe nipote del gran Clodoveo,
che Giustiniano ne' suoi editti a tanti elogi avea anche aggiunto il
prenome di _Francico_, quasi che pure avesse debellata la sua inclita
gente, gli mossero i Franzesi guerra, e presero l'armi contro di lui a
favore di Teodato, e poi di Vitige.

Frattanto Belisario giunto in Sicilia, non travagliò molto, per
la confusione, ch'ivi era, a conquistarla: la prende, e da Messina
immantenente passa a Reggio, ove gli furon aperte le porte; ed indi
prendendo il cammino per terra, verso Roma indirizzossi. Tutti i
luoghi, che per via incontrava, spontaneamente gli si rendevano. Prende
per tanto senza molto contrasto i Bruzj, la Lucania, la Puglia, la
Calabria, ed il Sannio. Benevento, e quasi tutte le città principali
di queste province, a lui si renderono per lo terrore delle sue armi,
e molto più per lo spavento de' Goti, e per la stupidezza e timore
di Teodato. La Campania solamente contrastò per quanto le sue forze
poterono. In questa provincia le città, che potevan difendersi erano
Napoli e Cuma: Napoli s'oppose con molto valore e intrepidezza, e
sofferse molti giorni l'assedio senza volersi rendere; ma da poi
scovertosi da un soldato fortunatamente un acquedotto, che si stendeva
fin dentro la città, per questo, con somma costanza, ancorchè più volte
costernati, alla fine i Greci penetrarono fin dentro alla medesima, e
con istordimento degli assediati, entrati che furono, posero sossopra
la città, e più lagrimevole e funesto sarebbe stato il sacco, che le
diedero, se Belisario non avesse posto freno alla rapacità de' soldati.
Siegue Belisario dopo la conquista di queste nostre province il cammino
verso Roma, ed in fine la prende nell'undecimo anno dell'Imperio di
Giustiniano, dopo sessanta anni, ch'era stata da straniere Nazioni
occupata.

Intanto per lo spavento di queste armi, e per le tante vittorie di
Belisario, vie più intimorito Teodato tenta tutte le strade per ottener
la pace da Giustiniano: manda più Legati in Costantinopoli, fra quali
Agapito R. P. offerendogli patti e condizioni per rendersi[821]. Aveva
pure Giustiniano mandato in Italia per trattar questa pace un tal
Pietro, uomo assai venerabile, e ne' maneggi di Stato espertissimo:
Teodato fa molti progetti al medesimo, il quale senza espressa volontà
dell'Imperadore non potendogli accettare, fece sì che si mandassero a
dirittura a Costantinopoli. Offeriva Teodato a Giustiniano la Sicilia:
che il Popolo romano ne' giorni solenni e festivi, o in qualunque
altra pubblica funzione, o nel teatro, o nelle piazze potesse,
avanti il nome di Teodato, celebrare il nome dell'Imperadore; che non
potesse dirizzarsi alcuna statua, o sia di marmo, o di bronzo, o di
qualsivoglia altra materia, nè veruna medaglia colla sola immagine
di Teodato, ma dovesse insieme dirizzarsi, o imprimersi quella
dell'Imperadore ancora, con darsi all'effigie dell'Imperadore il
miglior luogo alla destra di Teodato.

Mentre s'attendevano i sentimenti di Giustiniano, non cessava Teodato
di domandare spesso all'Ambasciadore, di cui aveva somma stima e
venerazione, come dalle sue epistole presso a Cassiodoro, se sarebbe
l'Imperadore per accettare l'offerte condizioni. Lagnavasi pure con
Pietro altamente di Giustiniano, che per leggiere cagioni avessegli
mossa sì crudel guerra, e che sotto varj pretesti cercasse togliere ai
Goti l'Italia con somma ingiustizia, quando ch'essi l'avevan ricuperata
dalle mani d'Odoacre colle proprie lor forze, e col consentimento
dell'istesso Imperadore Zenone. Nè a tutte queste querele altro
rispondevasi da Pietro, come ancora si faceva da' Capitani Greci, se
non col dire; che non disconveniva a Giustiniano di ricuperar quelle
province, le quali a tutti era noto essere state tolte all'Imperio,
e che a lui, al qual era commessa la cura del medesimo, conveniva
far tutti gli sforzi per restituirle là donde furon divelte[822]. I
progetti intanto mandati da Teodato a Giustiniano, furon da costui
derisi, non altrimenti, che derise Alessandro M. quelli offertigli da
Dario, il quale offeriva per dote della figliuola tutti que' luoghi,
ch'erano tra l'Ellesponto ed il fiume Hali, i quali erano già stati
da lui conquistati[823]: nè altrimente di ciò, che fece il Popolo
romano con Vologeso Re de' Parti[824]; e che fece da poi Carlo M. con
Niceforo, il qual offeriva la Sassonia già soggiogata[825]; imperocchè
Teodato offeriva la Sicilia, ch'era stata già occupata da Belisario con
le province del nostro Reame: onde ributtate queste condizioni, crebbe
via più il timor di Teodato, e lo sgomento de' Goti.

I miserabili Goti, vedutisi in tanta costernazione, e scorto il timor
di Teodato, e che per la di lui dappocaggine eransi ridotti a stato sì
lagrimevole, vollero tentare se con Belisario almeno potessero riuscire
questi trattati di pace; onde mandaron Legati al medesimo perchè gli
esponessero le loro giuste querele, e lo trattenessero dall'impresa.
Ammessi da Belisario cominciaron ad esporgli i torti, che per questa
ingiusta guerra si facevan a' Goti. Grande ingiuria, ei diceano[826],
è questa, che ci fanno i Romani, i quali contro di noi, essendo ad
essi confederati ed amici, prendon l'armi senza ragione alcuna. I
Goti non per forza hanno tolta a' Romani l'Italia: Odoacre fu quegli,
che con molta strage rapilla, mentre Zenone imperava nell'Oriente, il
quale, non potendo vendicarsi e ritorgli la grande ingiusta preda, nè
avendo forze tali, che potesse opporsi alla tirannide degli Eruli,
chiamò il nostro Principe Teodorico, che minacciavagli allora, per
alcuni disturbi fra di loro insorti, di volerlo assediare dentro a
Costantinopoli medesima, e lo pregò, che volesse perdonare al nuovo
inimico per la memoria delle dignità del Patriziato e Consolato romano,
ch'aveagli conferito, e della stima, che avea fatto sempre della di
lui persona; e che tutto il suo valore, e tutta la ferocia della sua
gente dovesse altrove indirizzare; prendesse l'armi contra Odoacre e
vendicasse la morte d'Augustolo infamemente da colui ucciso: dovesse
ritorgli l'Italia, ch'egli liberamente concedeva a lui ed a' suoi
Goti, affinchè potessero per sempre in ogni futura età reggerla e
ritenersela con sì giusto titolo ed ottima ragione. Venne Teodorico in
Italia, e col suo valore e colle proprie forze de' suoi Goti discaccia
il Tiranno, e col consenso e confederazione di tutti i Principi
d'Oriente resse così bene per tanti anni l'Italia, la quale ora dopo
la di lui morte è da' suoi Goti governata: con qual ragione dunque si
pretende muover guerra sì ingiusta a coloro, che la posseggono con sì
giusti titoli, dopo averla tanti anni con tanta giustizia posseduta ed
amministrata?

Ma Belisario, che vedeva volar dal suo canto la vittoria, non era in
istato di muoversi per sì fatte cose, le quali se non sono accompagnate
colla forza a niente giovano: rispose loro in volto assai severo e
grave, ch'essi soverchio eransi avanzati nel dire, che Teodorico fu ben
mandato da Zenone per combatter Odoacre, ma non già, che da poi avesse
da insignorirsi d'Italia; poichè non importava nulla all'Imperadore,
che non ricuperandosi all'Imperio, stasse sotto la servitù, o dell'uno
o dell'altro Tiranno; ma che si liberasse Italia, e sotto le leggi
Imperiali vivesse: ma Teodorico essendosi valorosamente portato contra
Odoacre, si fece poi lecito molte cose, ricusando di renderla al vero
Padrone. A me, dicea egli, sono in ugual grado, e chi rapisce per
forza, e chi ritiene la roba, che non è sua, contro alla volontà del
padrone: onde quella regione, che s'appartiene all'Imperio, io non sarò
mai per concederla a persona veruna del Mondo.


§. I. _Di VITIGE, ILDIBALDO, ed ERARICO Re d'Italia._

Per sì dura risposta, datisi i Goti in braccio alla disperazione,
usaron tutti i loro sforzi, e tutte le lor arti, per trovare qualche
riparo all'imminente precipizio. Non lasciaron impunita la stupidezza
di Teodato, e veggendo per sua cagione esser caduti in tanta ruina,
ed esser inutile il di lui Imperio per la sua inezia, prima lo
discacciarono, e poi l'uccisero, ed in suo luogo elessero in mezzo
all'esercito Vitige, gridandolo loro Re. Goldasto[827] rapporta
un'altra cagione di sua morte: cioè avere i Goti scoverto, che
Teodato attediato per sì lunghe e travagliose guerre, erasi finalmente
convenuto con Giustiniano di lasciargli il Regno, purchè gli dasse una
grossa pensione annua, per potersi ritirare nelle solitudini, e vivere
a se ed a' suoi studj di filosofia: e le lettere così quella di Teodato
scritta a Giustiniano, come la risposta del medesimo, sono rapportate
dall'istesso Goldasto. Teneva Vitige per moglie Matasuenda figliuola
della Principessa Amalasunta: Principe di molto valore e prudenza,
di cui ce ne rendon testimonianza i suoi egregi fatti, ed alcune sue
orazioni ed epistole, che ancor si leggono appresso Cassiodoro[828], e
Goldasto[829].

Questi appena assunto al Trono, dopo aver tentata in vano la pace
con Giustiniano[830], cinse d'uno stretto assedio Roma, e tennela un
anno e nove giorni assediata, fin che riuscì a Belisario di liberarla
nell'anno 538. Onde vedutosi deluso dalle sue speranze, ritiratosi
con sua moglie in Ravenna, non passò guari, che Belisario vittorioso
da per tutto l'imprigionasse insieme con la Principessa sua moglie,
e fortunatamente gli riuscisse (richiamato da Giustiniano) di nuovo
trionfare in Costantinopoli di Vitige Re dei Goti, come avea fatto di
Gilimere Re de' Vandali.

Avendo l'Imperador Giustiniano richiamato Belisario in Costantinopoli
per sospetti di Stato, e mandati in Italia in suo luogo Giovanni e
Vitale difformi in tutto da colui di valore e di costumi, fece sì, che
i Goti riprendendo animo, crearon per loro Re _Ildibaldo_[831], ch'era
Governador in Verona; ma questi per la sua crudeltà, fu tantosto da'
Goti ucciso, ed eletto in suo luogo _Erarico_, che anche poco da poi
fu dagli stessi Goti morto, per lo sospetto, ch'ebbero di lui d'essersi
confederato co' Greci; e fu Totila innalzato al Trono.


§. II. _Di TOTILA Re d'Italia._

Sotto questo Principe, per la singolar sua virtù ed estremo valore,
i Goti ripresero ardire, e ricuperarono molte province da Belisario
occupate; ruppe egli le genti dell'Imperadore, e racquistò la Toscana.
Non guari da poi ricuperò queste nostre province, che ora forman il
Regno. Riacquista il Sannio, e devasta Benevento, che prese a forza
d'arme, buttando a terra le sue mura. Passa indi nella nostra Campagna,
e pone l'assedio a Napoli, e fra tanto prende Cuma, e tutte l'altre
piazze lungo il mare; e durando ancor l'assedio di Napoli, con ciò sia
che la sua armata s'era renduta potentissima per un infinito numero
di Goti, i quali accorsero a lui da tutte le parti, egli s'impadronì
senza resistenza per suoi Luogotenenti della Puglia, della Calabria,
e dell'altre province, dalle quali ne tirò somme immense, che s'eran
unite per Giustiniano. I Napoletani alla fine renderonsi, e quantunque
dubitassero, che per la fatta resistenza non fossero da Totila
severamente trattati, sperimentaron nondimeno la mansuetudine di questo
Principe, il quale non pur fu difensore e custode della pudicizia delle
donne napoletane[832], ma trattogli assai benignamente, e con somma
umanità. Ed in sì fatta maniera per valore di Totila ritornaron queste
nostre province di nuovo sotto la dominazione de' Goti, che per inezia
di Teodato eransi perdute.

Infin a questi tempi i Pontefici romani non eransi intrigati negli
affari di Stato, e de' Principi; nè molto eransi curati, che l'Italia
da' Romani passasse ora sotto il dominio de' Goti, ora de' Greci.
I loro studj eran tutti indirizzati alla riunione della Chiesa
d'Occidente con quella d'Oriente, e a dar sesto in varj Concilj alle
varie controversie insorte tra' Vescovi d'Oriente intorno a' dogmi,
ed alla disciplina. I Pontefici Silverio, e Vigilio furon i primi:
Silverio rendutosi perciò sospetto a' Greci, quasi che desiderasse
in Italia più la dominazione de' Goti, che quella de' Greci, fu da
Belisario accusato d'avere avuta intelligenza coi Goti. Era Silverio
per la morte di Papa Agapito stato eletto in sua vece in Roma, e
riconosciuto dal Clero e dal popolo Romano per Vescovo legittimo di
quella città. All'incontro Vigilio, Diacono della Chiesa di Roma,
che mandato per affari di religione in Costantinopoli, era rimaso in
quella città, aspirando anche egli al Papato, e vedendosi prevenuto da
Silverio, ch'era sostenuto da' Romani e da' Goti, mette in opera tutti
i maneggi con Giustiniano, per indurlo a mandar Belisario di nuovo in
Italia con potente armata, per ritogliere a' Goti tutto ciò che sotto
Totila avean ricuperato: e già lo persuade a mandarlo. Usa ancora tutte
l'arti ed ingegni coll'Imperadrice sua moglie, permettendole di ricever
Teodosio, Antimo e Severo alla sua comunione, e d'approvare la loro
dottrina, s'ella lo faceva elegger Papa.

Ritorna per tanto Belisario in Italia per discacciarne i Goti; ma
ritornato con poche forze, perde più tosto la riputazione delle cose
prima fatte da lui, che altra maggiore ne racquistasse; imperocchè
Totila, trovandosi Belisario con le sue truppe ad Ostia, sotto gli
occhi suoi espugnò Roma, e veggendo non potere nè lasciarla, nè
tenerla, in maggior parte la disfece e caccionne il Popolo, menando
seco i Senatori; e stimando poco Belisario, andò coll'esercito in
Calabria ad incontrar le genti, che di Grecia in aiuto di Belisario
venivano. Belisario vedendo abbandonata Roma, la ripigliò tantosto,
ed entrato nelle romane ruine, con quanta più celerità potè, rifece
a quella città le mura, e vi richiamò dentro gli abitatori. Vigilio,
ripresa da Belisario Roma, partì da Costantinopoli con ordine secreto
dell'Imperadrice diretto a Belisario per far riuscire il suo disegno.
Giunto a Roma lo diede a Belisario, e gli promise del danaio, purchè
lo ponesse in quella sede: Belisario fece venire a se Silverio, ed
accusatolo d'intelligenza co' Goti, lo stimolò a riconoscere Antimo:
negando di farlo Silverio, fu spogliato degli abiti sacerdotali,
e mandato a Patara in esilio, facendo in sua vece elegger Vigilio.
Ma ai progressi, che si speravano di Belisario, tosto s'oppose la
fortuna, perchè Giustiniano in quel tempo assalito da' Parti, richiamò
Belisario. Questi per ubbidire al suo Signore, abbandonò l'Italia,
e rimase questa provincia a discrezione di Totila, il quale di nuovo
prese Roma; ma non fu con quella crudeltà trattata, che prima, perchè
pregato da S. Benedetto, il quale in que' tempi aveva di santità
grandissima fama, si volse più tosto a rifarla. Giustiniano intanto
aveva fatto accordo co' Parti, e pensando di mandar nuova gente
al soccorso d'Italia, fu dagli Sclavi, nuovi Popoli settentrionali
ritenuto, i quali avevan passato il Danubio, ed assalita l'Illiria e la
Tracia; in modo, che Totila ridusse quasi l'intera Italia sotto la sua
dominazione.

Ma non molto goderon i Goti de' frutti di tante vittorie, perchè vinto
ch'ebbe Giustiniano gli Sclavi, mandò in Italia con potenti eserciti
Narsete Eunuco, uomo in guerra esercitatissimo, il qual accrebbe i
suoi eserciti coll'istesse genti straniere, e fra l'altre Nazioni,
come Eruli, Unni, e Gepidi, servivasi anche de' Longobardi, che portò
dalla Pannonia; i quali da poi seppero così ben valersi della notizia
di sì bel paese, e dell'occasioni che loro si presentarono, che da
ausiliarj fecionsi conquistatori, come più innanzi diremo. Non ancor
Narsete erasi sbrigato dall'impresa della Tracia per venire in Italia,
che il Governador di Taranto, lasciando le parti ed il servigio di
Totila, remise la sua piazza fra le mani d'alcuni imperiali, ch'eran
calati a Cotrone; onde Totila sorpreso per queste perdite, e stordito
dalla grandezza dell'apparecchio della guerra, che la fama pubblicava
ed ingrandiva per tutto, che Narsete faceva contro di lui, inviò Teja
valorosissimo Capitano per arrestar Narsete al passo; ma non essendo
riuscito a Teja d'impedirlo, ecco che Narsete, rotto ogni argine,
inonda con potenti eserciti le Campagne, nè potè farsi altrimente, che
non si venisse ad una campal battaglia, nella quale Totila, avendo dati
gli ultimi segni del suo valore, non potendo resistere alle forze di
gran lunga superiori del suo nemico, rimase vinto e morto, ed i suoi
Goti sconfitti e debellati: onde gl'infelici riunitisi, come poteron il
meglio, dopo sì crudel battaglia, si ritiraron in Pavia, dove crearono
loro Re _Teja_, nel cui valore ed audacia era riposta ogni speranza,
per istabilire il loro imperio in Italia. All'incontro Narsete dopo
questa vittoria prese Roma, e l'altre città a lui si renderono.

Potè questa sconfitta abbattere in guisa le forze de' Goti in Italia
che in appresso più non valsero a ristabilirvisi; ma assai maggior
nocumento recò loro la perdita di Totila valorosissimo loro Re:
Principe, che col suo valore, e molto più colla sua prudenza e bontà
seppe ristorar in modo le fortune de' suoi Goti, che quasi aveale
ridotte in quel medesimo stato in cui lasciolle Teodorico. Egli per lo
spazio poco men di dieci anni che regnò, tanti monumenti lasciò del
suo valore, della sua bontà, e di molt'altre virtù delle quali era
ornato, che non v'è Scrittore, il quale non lo commendi, e per tante
sue virtù infin al Cielo non l'estolga: egli ancor che Goto, dice Paolo
Varnefrido, abitò co' Romani, come un padre co' suoi figliuoli, niente
mutò delle loro leggi, e de' loro istituti. L'istessa amministrazione,
e la medesima forma delle province e del governo ritenne, come
Teodorico aveale lasciate: amantissimo della giustizia e dell'equità;
ed è veramente ammirabile l'orazione[833], che questo Principe fece a'
suoi soldati, dopo aver presa Napoli in commendazione della giustizia e
dell'altre virtù, che presso a Procopio ancor leggiamo. La sua bontà,
e mansuetudine verso i vinti, vien celebrata sovente da quest'istesso
Storico ancor che greco. Egli serbò intatta e sicura da ogni disprezzo
Rusticiana moglie che fu di Boetio, femmina infesta al nome Goto, e
della quale i Goti non erano niente soddisfatti.

Nè men della sua temperanza poteron tacere gl'Istorici: egli fu, che
sovente salvò la pudicizia e la libertà delle matrone romane, e che,
presa Napoli, fu dell'onor delle donne zelantissimo, e che severamente
punisse gli altrui misfatti: che di semplicissimi cibi fosse contento
co' suoi Goti, come di pane, latte, cacio, butirro, e di carni salvagge
e ferine, e di queste allo spesso crude, ed alle volte salate.
Tanto che per l'esempio di questo Principe poterono i Goti avere
il vanto d'esser essi reputati i temperati, i giusti ed i mansueti,
non gl'istessi Romani, ne' quali, come disse Salviano[834], era da
desiderare la virtù, la giustizia, e la temperanza de' Goti medesimi.


§. III. _Di TEJA ultimo Re de' Goti in Italia._

Gl'infelicissimi Goti, dopo la battaglia per loro funestissima datagli
da Narsete, usando tutti i loro sforzi e industria per trovar mezzi
pronti per ristorarsi delle passate perdite, oltr'aver eletto per loro
Re Teja, valorosissimo Principe, tentarono i soccorsi de' Principi
vicini. Ricorsero a' Franzesi, e mandaron ad essi Ambasciadori per
muovergli al loro soccorso. Merita veramente esser da tutti letta
ed ammirata l'orazione di questi Legati tutta piena d'affetti e di
nobilissimi sensi, ch'esposero a' Franzesi, la quale presso Agatia[835]
ancor si legge. Se il nome de' Goti, essi dicevano, mancherà, ecco
che i Romani saranno pronti ed apparecchiati contro di voi a rinovar
l'antiche guerre. Nè alla loro cupidigia mancheranno pretesti
speziosi, e ricercati colori. Vi ricorderanno i Marj, i Camilli e i
molt'Imperadori, che guerreggiarono co' Germani, e che oltre al Reno
estesero i confini del loro Imperio. E per queste ragioni voglion esser
riputati, non come rapitori degli altrui Stati, ma come se niente
fosse d'altrui, ed il tutto lor proprio, vantano di non far altro,
che coll'armi loro giuste e legittime ricuperare ciò, che da' loro
maggiori era stato posseduto: non per altre cagioni mossero a noi così
ingiustamente la guerra; come se il nostro sempre glorioso Principe ed
autore di questa impresa, Teodorico, a torto e per ingiuria avesse ad
essi tolta l'Italia: perciò han creduto esser loro lecito di toglierci
le nostre sostanze, estinguere la maggior parte della nostra gente, e
de' Capitani fra noi i più sublimi ed eminenti: incrudelire contra le
nostre mogli, contra i propri nostri figliuoli, ed a portargli in dura
servitù: quando Teodorico non con loro repugnanza, ma con particolar
concessione e permessione di Zenone lor Imperadore venne in Italia, non
già togliendola a Romani, i quali l'avean perduta, ma colle proprie sue
forze, e col suo proprio valore, avendo discacciato Odoacre invasor
peregrino, _jure Belli_ acquistò ciò, che questi avea occupato. Ma
i Romani da poi che si videro ristabiliti, niente curando del giusto
e del ragionevole, col pretesto della morte d'Amalasunta si finsero
in prima irati contra Teodato, e da poi non tralasciaron di muoverci
ingiusta guerra, e per forza rapirci ogni cosa. E pure questi sono,
che vantan esser soli i sapienti, essi soli esser tocchi del timor di
Dio, essi tutte le cose dirizzare secondo la norma della giustizia.
Perchè dunque non v'accada un giorno quel che da noi presentemente si
patisce, ed il pentimento non vi giunga tardi, quando più non potrà
giovarvi, debbon ora prevenirsi gli inimici, nè dee da voi tralasciarsi
l'occasione presente di mandar contro a' Romani un pari esercito,
al quale presieda un vostro valoroso Capitano, che adoperandosi con
prudenza e valore contro d'essi, procuri disturbargli dall'impresa
d'Italia, e noi restituisca nella possessione della medesima.

Ma riuscì inutile questa lor ambasceria co' Franzesi, da' quali niente
poteron ottenere; perocchè avendo Teodiberto, dopo la guerra mossa a
Giustiniano, poco prima di morire stabilita una ferma e stabile pace
col medesimo nell'anno 548, la quale poi fu confermata da Teodobaldo
suo figliuolo, non vollero, ricordevoli di questi patti, in conto
alcuno indursi a romper la pace; tanto che si trattennero, e di muover
l'armi contro a' Goti ad istigazione di Giustiniano, e di portarle
contra i Romani, ancorchè i Goti glielo richiedessero con calde
istanze: e se bene dopo estinta già la dominazione de' Goti, nell'anno
555 morto il Re Teodobaldo, Leotaro, ed il suo fratello Bucellino
Generale delle truppe d'Austrasia, co' Franzesi e cogli Alemanni
avessero tentata l'impresa d'Italia, e si fosse il primo avanzato
fin in Puglia e Calabria, ed il secondo, oltre all'aver devastato
il Sannio, fosse scorso fino in Sicilia; nulladimeno i loro eserciti
furon non molto da poi disfatti. Quello di Leotaro da un fiero morbo,
che in una state l'estinse: e l'altro di Bucellino, fu da Narsete
a Casilino interamente sconfitto. E fu questa la prima volta, che i
Franzesi tentassero sottoporre alla loro dominazione queste nostre
province: presagio, che fu pur troppo infausto, di dovere le lor
armi nell'impresa d'Italia aver sempremai infelicissimo fine, siccome
sovente l'esperienza ha dimostrato ne' secoli men a noi lontani, che
que' gigli più volte piantati in questi nostri terreni non poteron mai
mettervi profonde e ferme radici.

Esclusi per tanto i Goti dal soccorso de' Franzesi, tutte le speranze
furon collocate nel valore di Teja, il quale fece sforzi i più
maravigliosi, che potessero mai desiderarsi in casi così estremi, per
ristorare le fortune de' Goti. Egli incontrato da Narsete a piedi del
nostro Vesuvio, accampò così bene il suo esercito che con tutto le due
armate non fossero separate, che dal fiume Sarno, dimoraron nondimeno
due mesi a scaramucciare, non potendo Narsete tentare il passaggio
avanti l'esercito di Teja, ch'era Signore del ponte, nè ritirarsi per
paura, che i Goti non portassero soccorso a Cuma: ma alla fine essendo
riuscito a Narsete, ch'era di gran lunga superiore di forze, di dar
battaglia, Teja facendo l'ultime pruove del suo valore ed ardire,
rimase in quella miseramente ucciso; onde i Goti già costernati,
veggendosi privi di sì glorioso Capitano, risolsero di rendersi a
Narsete, il quale lor accordò, che se ne potessero andare dalle terre
dell'Imperio con tutti gli argenti ch'essi avevano, e di vivere secondo
le loro leggi. Così fu accordato il trattato di buona fede da una parte
e dall'altra, dopo 18 anni di guerra, in maniera che tutte le Piazze
essendosi messe fra le mani de' Commessarj di Narsete, i Goti usciron
d'Italia l'anno del Signore 553, dove 64 anni, da Teodorico loro Re,
infin a Teja avevano regnato.

Ecco il fine della dominazione de' Goti in Italia, ed in queste nostre
province: gente assai illustre e bellicosa, che tra gli strepiti
di Marte non abbandonò mai gli esercizi della giustizia, della
temperanza, della fede, e dell'altre insigni virtù, ond'era adorna;
non così barbara ed inumana, com'altri a torto la reputa. Lasciò
vivere i Popoli vinti e debellati colle stesse leggi romane colle
quali eran nati e cresciuti; e delle quali era sommamente ossequiosa
e riverente: che non mutò la disposizione e l'ordine di queste nostre
province; non variò i Magistrati; ritenne i Consolari, i Correttori,
ed i Presidi, e molt'altri costumi ed istituti mantenne, siccome eran
in tempo degl'istessi Imperadori romani: tanto che queste nostre
province ricevettero altra forma e nuova amministrazione, non già
quando stettero sotto la dominazione de' Goti, ma quando passarono
sotto gl'Imperadori d'Oriente; i quali mandando in Italia gli Esarchi,
e dividendo le province in più Ducati, diedero perciò alle medesime
disposizione diversa da quella di prima, come di qui a poco vedremo.

Non si poterono però evitare que' disordini e quelle confusioni, che
le tante feroci e crudeli guerre soglion apportare alle discipline
ed alle lettere: certamente in Italia in questi tempi; per quel
s'appartiene alla giurisprudenza, non potevano sperarsi Giureconsulti
cotanto rinomati, nè così insigni Professori ed Avvocati, ch'avessero
potuto restituirla nell'antico splendore nel Foro e nell'Accademie.
Non dee però riputarsi di piccol momento, in mezzo a tante e sì feroci
armi, che pensassero i Re goti, come fecero Atalarico e Teodato, di
mantener quanto più fosse possibile l'antico lustro del Senato romano,
e dell'Accademia di Roma, con provederla di Professori esperti nella
legal disciplina, come fece Atalarico[836], e d'illustri Grammatici,
perchè la lingua latina non affatto si perdesse fra tante lingue
straniere e barbare: ed infatti in quest'istessi tempi sarebbe mancata
all'intutto, se non si fosse ristabilita in quell'Accademia, e Teodato
col suo esempio, essendone vaghissimo non v'avesse dato riparo. Fin da
questi tempi si lodava Roma per la purità della lingua latina, perchè
in tutte l'altre province d'Italia era già di barbarie ricolma; e
gl'istromenti, che per mano di _Tabellioni_, ch'oggi diciamo Notaj,
si stipulavano, non eran di miglior condizione, intorn'alla lingua,
di quel ch'oggi s'usa in Italia. Narra Fornerio[837] in Cassiodoro,
serbarsi in Parigi nella libreria del Re un antico istromento
di transazione conceputo con formole non migliori di quelle, che
usiam oggi, nel quale un tal Stefano tutore di Graziano pupillo si
transiggè col medesimo per una certa lite, che fu rogato in Ravenna
nell'ultim'anno dell'Imperio di Giustiniano, cioè nel 38 all'indizione
12 che cade nel 564 di Cristo. E perciò anche in questi tempi si
riputava cosa di sommo pregio, chi di lingua latina fosse intendente,
siccome fra l'altre lodi, che si davan a Teodato per le sue molte
lettere, una era questa. Pure con tutto ciò vide Italia in quest'età un
Ennodio, un Giornande, un Boetio Severino, un Simmaco, un Cassiodoro,
un Aratore, ed alcun'altri valent'uomini, non in tutto sforniti di
scienze e d'erudizione.

Giustiniano, sconfitti ch'ebbe per mezzo di Narsete i Goti, e ritolta
l'Italia dalle lor mani, a richiesta, com'ei dice, di Vigilio Pontefice
romano, promulgò nel penultim'anno del suo Imperio una prammatica[838]
di più capi, nella quale a' disordini fin allora patiti in Italia,
e nell'altre parti occidentali, pensò dar qualche riparo; fu questa
indirizzata ad Antioco Prefetto d'Italia, e data in Costantinopoli
nel 37 anno del suo Imperio. In quella, siccome si confermano tutti
gli atti e donazioni fatte da Atalarico, e da Amalasunta sua madre, e
da Teodato istesso, così all'incontro, riputando Totila per Tiranno,
tutti gli atti e donazioni fatte da costui nel tempo della sua
tirannide, gli abolisce, gli abbomina, e vuol che di quelli non se
n'abbia ragione alcuna; vuol che nelle prescrizioni di 30 e 40 anni
non debba computarsi il tempo, ch'Italia stiè sotto la tirannide di
Totila: che nelle liti insorte fra' Romani, non si mescolassero Giudici
militari, ma che i civili l'avessero a decidere: diede previdenza
a' _superinditti_ imposti a' Negoziatori delle province di Calabria,
e di Puglia: e molte altre leggi promulgò allo stato d'Italia, e di
queste nostre province appartenenti, che posson osservarsi in questa
prammatica in più capi distinta, la quale si legge dopo le Novelle.
Ma cosa assai più notabile osserviamo nella medesima: alcuni per
conghietture ed argomenti scrissero, che per essersi la pubblicazione
delle Pandette, e del Codice commessa da Giustiniano al Prefetto
dell'Illirico, per questo dobbiam credere, ch'in Italia si fossero
anche pubblicate: non bisognan argomenti in cosa sì manifesta: per
questa prammatica abbiamo, che Giustiniano per suo particolar editto
ordinò, che le leggi inserite nei suoi libri s'osservassero per
tutt'Italia. Ma perchè poi nel Regno di Totila le cose de' Greci
andaron in ruina, ed i Goti ritornarono nel pristino dominio, in mezzo
a tante rivoluzioni di cose, non poterono certamente aver luogo le sue
leggi. Ristorati da poi per Narsete gli affari de' Greci, e debellati
affatto i Goti, volle per questa prammatica, che non solamente
quelle leggi s'osservassero per tutt'Italia, ma anche quell'altre
sue costituzioni _Novelle_, ch'avea da poi promulgate, in guisa
che, formata col voler di Dio una Repubblica, una e sola anche fosse
l'autorità delle leggi per tutte le sue parti, come sono le parole
della prammatica, che come notabili per lo nostro istituto, e da altri
fin qui, ch'io sappia, non mai osservate, sarà bene di trascriverle:
_Jura insuper, nel leges Codicibus nostris insertas, quas JAM sub
edictali programmate in Italiam dudum misimus, obtinere sancimus; sed
et eas, quas POSTEA promulgavimus Constitutiones, jubemus sub edictali
propositione vulgari ex eo tempore, quo sub edictali programmate
evulgatae fuerint etiam per partes Italiae obtinente, ut una Deo
volente facta Repubblica, legum etiam nostrarum ubique prolatetur
auctoritas._

Ma non perchè si fosse spento il nome de' Goti in Italia, si mantennero
queste province lungo tempo sotto gl'Imperadori d'Oriente, ed i
libri di Giustiniano ebbero forse lunga durata: morto Giustiniano,
ritornarono di bel nuovo, se non sotto la dominazione de' Goti, sotto
quella de' Longobardi, i quali traggon la lor origine da' Goti stessi,
e de' quali sono rampolli e germogli, come si vedrà, quando d'essi
farem memoria.

Nè perchè queste province passassero sotto l'imperio di Giustiniano,
vi fu tanto di spazio, che potessero le di lui leggi stabilirvisi, e
che l'insigni sue Compilazioni avessero potuto in esse poner piede, e
metter qui profonde radici; se pur ci vennero, tosto delle medesime si
spense affatto la memoria ed ogni vestigio, poichè appena Giustiniano
ebbe la gloria d'aver liberata Italia da' Goti, che distratto per
la seconda guerra della Persia, e per l'invasioni degli Unni, fu
dalla morte non guari da poi nell'anno 565 sopraggiunto, in età già
matura d'anni 82, dopo averne imperato 38 e mesi otto. Principe,
che se non avesse nell'ultimo di sua vita oscurata la sua fama per
l'eresia Eutichiana[839], che volle abbracciare, nè mai abjurarla,
avrebbe superata la gloria di molt'Imperadori per la pietà, per la
magnificenza, per li tanti egregi suoi fatti, e per le tante insigni
vittorie, che e nella pace e nella guerra lo renderon immortale;
come ce lo rappresentano tutti i più famosi Storici de' suoi tempi, e
quelli ancora che dopo lui fiorirono, Teofilo Abate suo maestro[840],
Procopio, Agatia, Teofane, Zonara, Marcellino, Evagrio e Niceforo fra'
Greci; e fra' Latini, Cassiodoro, Varnefrido, ed altri moltissimi[841];
tanto che si rende ora inescusabile l'error di coloro, che reputarono,
per la testimonianza di Suida, questo Principe così illiterato e tanto
rozzo, che nemmeno sapesse l'abbiccì; quando Giustiniano egli medesimo
testifica d'aver letti e riconosciuti i libri delle sue Istituzioni.
L'error nacque dalla scorrezione del testo di Suida, che fece stampare
in Milano Demetrio Calcondila, ove in vece di Giustino, come leggesi
in tutti i Codici di Suida del Vaticano, si leggeva Giustiniano[842];
onde ciò, che con errore s'ascrive a Giustiniano, dee attribuirsi
a Giustino, Zio e Padre adottivo di Giustiniano, come il manifesta
Procopio, testimonio di veduta, asserendo che Giustino da pecorajo
divenuto soldato, ed indi _Comite_, finalmente, con maraviglioso
ravvolgimento di fortuna, si vide al Trono imperiale innalzato, e che
non sapendo scrivere, firmava gli atti pubblici con certo istromento,
o segno fatto apposta, siccome usava di far Teodorico ancora; il quale
se bene fosse quel principe cotanto grande, quanto s'è narrato, era
nondimeno di lettere ignaro; e come ne' tempi più bassi si legge di
Vitredo Re di Canzia, e di Tassilone Duca di Baviera. E da alcuni
fu anche detto, che Carlo M. istesso non sapeva scrivere, quantunque
sapesse leggere, e fosse dottissimo.



CAPITOLO V.

_Di GIUSTINO II Imperadore; e della nuova politia introdotta in Italia,
ed in queste nostre province da Longino suo primo Esarca._


Morto Giustiniano, si fransero tutti i suoi disegni, e le fortune
degl'Imperadori orientali tornarono alla declinazione di prima; poichè
essendo succeduto nell'Imperio Giustino il Giovane, figliuolo di
Vigilanzia, sorella di Giustiniano, troppo da lui diverso; e per la
sua stupidezza essendosi dato tutto in braccio al governo di Sofia sua
moglie, per consiglio della medesima rivocò Narsete d'Italia, e gli
mandò nell'anno 568 Longino per successore[843].

Giunto Longino in Italia con assoluto potere ed imperio datogli
dall'istesso Giustino, tentò nuove cose, e trasformò lo Stato di
quella: egli fu il primo, che desse all'Italia nuova forma e nuova
disposizione, e che nuovo governo v'introducesse, il quale agevolò
e rendè più facile la ruina della medesima: egli se bene fermasse la
sua sede in Ravenna, come avevano fatto gl'Imperadori occidentali, e
Teodorico co' suoi Goti, volle però dare all'Italia nuova forma[844].
Tolse via dalle province i Consolari, i Correttori ed i Presidi, contra
ciò ch'avevan fatto i Romani ed i Goti stessi, e fece in tutte le città
e terre di qualche momento, Capi, i quali chiamò Duchi, assegnando
Giudici in ciascheduna d'esse per l'amministrazion della giustizia.
Nè in tale distribuzione onorò più Roma, che l'altre città[845];
perchè tolto via i Consoli ed il Senato, i quali nomi infin a questo
tempo eranvisi mantenuti, la ridusse sotto un Duca, che ciascun anno
di Ravenna vi si mandava, onde surse il nome del Ducato romano: ed a
colui, che per l'Imperadore risedeva in Ravenna, e governava tutta
l'Italia, non Duca, ma Esarca pose nome, ad imitazione dell'Esarca
dell'Affrica. Presso a' Greci, Esarca diceasi colui, che presiedeva ad
una diocesi, cioè a più province, delle quali la diocesi si componeva:
così nella Gerarchia della Chiesa si vide che quel Vescovo, il quale ad
una diocesi, e seguentemente a più province, delle quali si componeva,
era preposto, non Metropolitano, che aveva una sola provincia, ma
Esarca era chiamato. Così l'Italia patì maggiori trasformazioni sotto
l'Imperio di Giustino Imperador d'Oriente, che sotto i Goti medesimi,
i quali avevan procurato di mantenerla nell'istessa forma ed apparenza,
con cui dagli antichi Imperadori d'Occidente fu retta ed amministrata.

Le province, in quanto s'appartiene al governo, furono mutate e divise;
e siccome prima ciascuna aveva il suo Consolare, o Correttore, o il
Preside, ai quali stava raccomandata l'amministrazione ed il governo
delle medesime, per questa nuova divisione poi dandosi a ciascuna
città o castello il suo Duca, ed un Giudice, ciascheduno d'essi
sol s'impacciava del governo di quelle partitamente, e solamente
all'Esarca, che da Ravenna governava tutta l'Italia, stavan sottoposti,
sotto la cui disposizione erano: ed a cui nei casi di gravame si
ricorreva da' provinciali. Quindi nelle nostre province trassero
origine que' tanti Ducati, che ravviseremo nel Regno de' Longobardi,
parte sotto la dominazione de' Greci, come fu il Ducato di Napoli,
di Sorrento e d'Amalfi, il Ducato di Gaeta e l'altro di Bari; e parte
sotto i Duchi Longobardi, i quali avendo ritolto a' Greci quasi tutta
l'Italia, e gran parte di queste nostre province, ritennero questi
medesimi nomi di Ducati: onde poi sopra tutti gli altri s'avanzaron
il Ducato di Benevento, quello di Spoleti e l'altro del Friuli, come
diremo più ampiamente nel libro seguente di questa Istoria.

Ma non durò guari in Italia l'imperio de' Greci, nè Longino potè
molto lodarsi di questa nuova forma, che le diede; poichè questa
minuta divisione delle province in tante parti, ed in più Ducati rendè
più facile la ruina d'Italia, e con più celerità diede occasione a'
Longobardi d'occuparla, imperocchè Narsete fortemente sdegnato contra
l'Imperadore, per essergli stato tolto il governo di quella provincia,
che con la sua virtù e col suo valore aveva acquistata; e non essendo
bastato a Sofia di richiamarlo, che ella vi volle anche aggiungere
parole piene d'ingiuria e di scherno, dicendogli che l'avrebbe fatto
tornar a filare con gli altri Eunuchi e femmine del suo palazzo, questo
Capitano portò tanto innanzi la sua collera, che mal potendo celar
anche con parole il suo acerbo dispetto, rispose, ch'egli all'incontro
l'avrebbe ordita una tela, che nè ella, nè suo marito avrebbon potuto
districarla; ed avendo licenziato il suo esercito, da Roma, ove egli
era, portossi in Napoli, da dove cominciò a trattar con Albino suo
grand'amico, Re de' Longobardi, ch'allora regnava nella Pannonia,
e tanto operò, finchè lo persuase di venire co' suoi Longobardi ad
occupare Italia. Ma poi che per la venuta dei Longobardi in Italia,
le cose di quella presero altra forma; e siccome in essa s'introdusse
nuova politia e nuove leggi, così ancora queste nostre province furono
in altra maniera divise, e prendendo nuovi nomi sotto altri _Dinasti_
si videro disposte ed amministrate; ed in un medesimo tempo sottoposte
alla dominazione non pur d'un sol Principe, ma di varie Nazioni, di
Greci e di Longobardi, e talor anche di Saraceni; sarà utile cosa per
la novità del soggetto, e per la grandezza e verità degli avvenimenti,
che dopo aver narrata la politia ecclesiastica di questo secolo, nel
seguente libro partitamente se ne ragioni.



CAPITOLO VI.

_Dell'esterior politia ecclesiastica._


La Chiesa ancorchè sotto gl'Imperadori Arcadio ed Onorio, Principi
religiosi, i quali quasi terminaron di distruggere l'Idolatria
nell'Imperio romano, si vedesse, per quel che riguarda questa parte, in
istato florido e tranquillo; nulladimeno fu combattuta da tante e sì
varie eresie, che nè li numerosi e sì frequenti Concili, nè le molte
costituzioni degl'Imperadori pubblicate contra gli eretici, bastaron
per darle pace. La religione pagana, se bene sotto gl'Imperadori
cristiani, imitando i sudditi l'esempio de' loro Sovrani, si fosse
veduta in grandissima declinazione, nientedimeno, non essendosi
reputato colla forza estinguerla affatto, anzi avendo gl'Imperadori
suddetti per lungo tempo tollerato i templi de' Gentili, molte
superstizioni pagane, ed il culto degli Dei[846], era quella da' più
professata, ancorchè il numero de' Cristiani era molto maggiore di
quello de' Pagani. Ma sotto gl'Imperadori Arcadio ed Onorio il Culto
Gentile era quasi ridotto a nulla in tutte le città dell'Imperio:
solamente ne' castelli, _in Pagis_, ed in Campagna era l'esercizio
di quella religione mantenuto. Da questo venne il nome de' _Pagani_,
che s'incontra spesso nel Codice di Teodosio[847], per significar
gl'Idolatri: nome che lor era allora dato comunemente dal Popolo
cristiano, in vece di quello di Gentili. Gl'Imperadori Teodosio il
Giovane, e Valentiniano III, avviliron poi i Pagani in guisa, che
vietando d'ammettergli alla milizia, ovvero ad altro Uficio, gli
ridussero a segno, che l'istesso Imperador Teodosio mette in dubbio,
se a' suoi tempi ve ne fosse rimaso pur uno: _Paganos qui supersunt,
quamquam jam nullos esse credamus[848]._ In fine gli condanna e gli
proscrive; ed ordina, che se pur vi erano ancor rimasi lor tempj o
cappelle, siano distrutte e convertite in chiese[849].

Ma con tutti gli sforzi di quest'Imperadori, restarono in Campagna, _in
Pagis_, più antichi tempj, nei quali il culto degli Dei era sostenuto;
e per maggiore tempo vi si mantenne, come quelli, che sono gli ultimi
a deporre l'antiche usanze e costumi; tanto che nella nostra Campagna
pur si narra, che S. Benedetto, a' tempi del Re Totila, abbattesse una
reliquia di Gentilità ancor ivi rimasa presso a' Goti, ed in suo luogo
v'ergesse una chiesa. Restava ancor un'infinità di Nazioni barbare
nelle tenebre dell'Idolatria; ma soprattutto assai più in questi tempi
perturbavano la Chiesa le scorrerie de' Barbari ed i nuovi dominj
stabiliti nell'Imperio da' Principi stranieri: questi o non in tutto
spogliati del Paganesimo, ovvero per la maggior parte Arriani, tutta
la sconvolsero e malmenarono; e se la Italia e queste nostre province
non sofferirono sì strane rivoluzioni, tutto si dee alla pietà e
moderazione del Re Teodorico, il quale, ancorchè Arriano, lasciò in
pace le nostre Chiese; e siccome non variò la politia dello Stato
civile e temporale, così ancora volle mantenere in Italia l'istessa
forma e politia dello Stato ecclesiastico e spirituale.

Lo stesso avvenne, ma per altra cagione, alla Gallia, mercè della
conversione del famoso Clodoveo Re de' Franzesi, il quale nell'anno
496 ricevette la religione cristiana tutta pura e limpida, non già
contaminata dalla pestilente eresia d'Arrio. Non ebbero prima di
Reccaredo questa fortuna le Spagne: non l'Affrica manomessa da'
Vandali: non la Germania soggiogata dagli Alemanni, e da altre più
inculte e barbare Nazioni; non la Brettagna invasa da' Sassoni; non
finalmente tutte l'altre province dell'Imperio d'Occidente. Maggiori
revoluzioni e disordini si videro nelle province d'Oriente. Gli Unni
sotto il loro famoso Re Attila, gli Alani, i Gepidi, gli Ostrogoti,
ed ultimamente i Saraceni posero in iscompiglio non meno lo stato
dell'Imperio, che della Chiesa.

A tutti questi mali s'aggiunse l'ambizione de' Vescovi delle sedi
maggiori, e l'abuso della potestà degl'Imperadori d'Oriente, i quali
ridussero il Sacerdozio in tale stato, che negli ultimi tempi ad
arbitrio del Principe sottomisero interamente la religione. Queste
furono le cagioni di quella variazione, che nello Stato ecclesiastico
osserveremo dalla morte di Valentiniano III, fin all'Imperio di
Giustiniano. Vedremo, come quasi depressi e posti a terra tre
Patriarcati, l'Alessandrino, l'Antiocheno e quello di Gerusalemme,
fossero surti quello di Roma in Occidente, l'altro di Costantinopoli
in Oriente, le cui Chiese discordanti fra loro, cagionaron una
implacabil ed ostinata divisione fra' Latini e' Greci: e come quel di
Costantinopoli, non essendo la di lui ambizione da termine o confine
alcuno circoscritta, tentasse eziandio invadere il Patriarcato di Roma,
e queste nostre province, ancorchè come suburbicarie a quello di Roma
s'appartenessero.


§. I. _Del Patriarca d'Occidente._

Il Pontefice romano, che in questi tempi non meno da' Greci che da'
Latini cominciò a chiamarsi Patriarca, ragionevolmente ottenne il
primo luogo fra tutti i Patriarchi, così per esser fondata la sua
sede in Roma, città un tempo Capo del Mondo; come anche per esser egli
successor di S. Pietro, che fu Capo degli Appostoli. Nella sua persona
s'uniron perciò le prerogative di Primate sopra tutte le Chiese del
Mondo cattolico, appartenendo a lui, come Capo di tutte le Chiese aver
delle medesime cura e pensiero, invigilare, ch'in quelle la fede fosse
conservata pura ed illibata, e la disciplina conforme a' canoni, e che
questi fossero esattamente osservati[850]. L'ordinaria sua potestà,
siccome s'è veduto nel precedente libro, non si stendeva oltre alle
province suburbicarie, cioè a quelle, che ubbidivano al Vicario di
Roma, fra le quali eran tutte le quattro nostre province, onde ora si
compone il Regno; ed in questi limiti s'è veduto essersi contenuta fin
al tempo di Valentiniano.

In decorso di tempo, perchè nella sua persona andavan anche unite le
prerogative di Primate, fu cosa molto facile di stenderla sopra l'altre
province. Per ragion del Primato s'apparteneva anche a lui averne
cura e pensiero: quindi cominciò in alcune province, dove credette
esservene bisogno, a mandarvi suoi Vicarj. I primi che s'istituirono,
furon quelli, che mandò nell'Illirico: Tessaglia, ch'era Capo della
diocesi di Macedonia, nella quale il suo Vescovo esercitava le ragioni
Esarcali, da poi che riconobbe i Vicarj mandati dal Pontefice romano,
si vide sottoposta al Patriarca di Roma, il quale per mezzo de'
medesimi, non pur le ragioni di Primate, ma anche le patriarcali vi
esercitava; e così avvenne ancora, oltre alla Macedonia, nell'altre
province dell'Illirico. Col correr poi degli anni non solo all'autorità
sua patriarcale sottopose l'intera Italia, ma anche le Gallie e le
Spagne; ond'è che non solo da' Latini, ma da' Greci medesimi degli
ultimi tempi era reputato il romano Pontefice Patriarca di tutto
l'Occidente; siccome all'incontro volevano, che quel di Costantinopoli
si riputasse Patriarca di tutto l'Oriente. S'aggiunse ancora, che a
molte province e Nazioni, che si riducevan alla fede della religion
cattolica, erano pronti e solleciti i Pontefici romani a mandarvi
Prelati per governarle, ed in questa maniera al loro Patriarcato
le soggettavano: siccome accadde alla Bulgaria, la quale ridotta
che fu alla fede di Cristo, tosto le si diede un Arcivescovo; onde
nacquero le tante contese per questa provincia col Patriarca di
Costantinopoli, che a se pretendeva aggiudicarla. In cotal guisa tratto
tratto i Pontefici romani estesero i confini del loro Patriarcato per
tutt'Occidente; ond'avvenne (non senza però gravissimi contrasti)
che s'arrogaron essi la potestà di ordinare i Vescovi per tutto
l'Occidente, ed in conseguenza l'abbattere e mettere a terra le ragioni
di tutti i Metropolitani. Di vantaggio trassero a se l'ordinazioni de'
Metropolitani stessi. Così quando prima l'Arcivescovo di Milano, ch'era
l'Esarca di tutto il Vicariato d'Italia, era ordinato da' soli Vescovi
d'Italia, come si legge appresso Teodorito[851] dell'ordinazione
di S. Ambrogio, in processo di tempo i romani Pontefici alla loro
ordinazione vollero, che si ricercasse ancora il loro consenso, come
rapporta S. Gregorio nelle sue Epistole[852]. Trassero a se ancora
tutte le ragioni de' Metropolitani intorno all'ordinazioni per la
concessione del Pallio, che lor mandavane; poichè per quello si dava
da' Sommi Pontefici piena potestà a' Metropolitani d'ordinare i Vescovi
della provincia; onde ne seguiva, che a' medesimi insieme col Pallio
si concedeva tal potestà: quindi fu per nuovo diritto interdetto a'
Metropolitani di poter esercitare tutte le funzioni Vescovili, se non
prima ricevevano il Pallio; e fu introdotto ancora di dover prestare
al Papa il giuramento della fedeltà, che da lui ricercavasi. Fu ancora
in progresso di tempo stabilito, che l'appellazioni de' giudicj,
che da' Metropolitani erano proferiti intorno alle controversie, che
occorrevano per l'elezioni, si devolvessero al Pontefice romano: che
se gli elettori fossero negligenti, ovver l'eletto non fosse idoneo,
che l'elezione si devolvesse al Papa: che di lui solo fosse il diritto
d'ammettere le cessioni de' Vescovati, e di determinare le traslazioni
e le Coadjutorie colla futura successione: e finalmente che a lui
s'appartenesse la confermazione dell'elezioni di tutti i Vescovi delle
province.

Ma tutte queste intraprese, che si videro sopra le altre province
d'Occidente, non portarono variazione alcuna in queste nostre, onde ora
si compone il Regno; poichè essendo quelle suburbicarie, e su le quali
il Papa fin da principio esercitò sempre le sue ragioni patriarcali,
furono come prima a lui sottoposte; nè perciò si tolse ragione alcuna
a' Metropolitani, poichè non ve n'erano; nè intorno all'ordinazioni
dei Vescovi si variò la disciplina de' precedenti secoli. Non ancora
le nostre Chiese erano innalzate ad esser metropoli; nè anche per la
concession del Pallio, a' loro Vescovi eran concedute, come fu fatto
da poi, le ragioni de' Metropolitani: nè fin a questo tempo erano
state invase dal Patriarca di Costantinopoli; poichè ciò che si narra
di Pietro Vescovo di Bari[853], che nell'anno 530 sotto il Ponteficato
di Felice IV avesse dal Patriarca di Costantinopoli ricevuto il titolo
di Arcivescovo, e l'autorità di Metropolitano, con facoltà di poter
consecrare dodici Vescovi per la sua provincia di Puglia, non dee a
quell'anno riportarsi, quando queste province non erano state ancora
dai Greci invase, ed erano sotto la dominazione d'Atalarico Re de'
Goti, ma ne' tempi seguenti, quando sotto gl'Imperadori d'Oriente
essendo rimasa parte della Puglia e Calabria, della Lucania e Bruzio,
e molte altre città marittime dell'altre province, i Patriarchi di
Costantinopoli, col favore degl'Imperadori, s'usurparono in quelle le
ragioni patriarcali, come diremo ne' seguenti libri.


§. II. _Del Patriarca d'Oriente._

Se grandi furono l'intraprese del Patriarca di Roma sopra tutte
le province d'Occidente, maggiori e più audaci senza dubbio furon
quelle del Patriarca di Costantinopoli in Oriente: egli non solamente
sottopose al suo Patriarcato le tre diocesi Autocefale, l'Asiana,
quella di Ponto, e la Tracia; ma col correr degli anni, quasi estinse
i tre celebri Patriarcati d'Oriente, l'Alessandrino, l'Antiocheno
e l'ultimo di Gerusalemme. Nè contenta la sua ambizione di questi
confini, invase anche molte province d'Occidente, nè perdonò a
queste nostre, che per tutte le ragioni al Patriarcato di Roma
s'appartenevano.

Da quali bassi e tenui principj avesse il Patriarcato di Costantinopoli
cominciamento, si vide nel precedente libro. Il Vescovo di Bizanzio
prima non era, che un semplice suffraganeo del Vescovo d'Eraclea, il
quale presiedeva come Esarca nella Tracia[854]. Sopra tutti erano
in Oriente celebri ed eminenti due Patriarcati, l'Alessandrino e
l'Antiocheno. Quello di Alessandria teneva il secondo luogo dopo il
Patriarca di Roma, forse perchè Alessandria era riputata dopo Roma la
seconda città del Mondo: l'altro d'Antiochia teneva il terzo luogo,
ragguardevole ancora per la memoria, che serbava d'avervi S. Pietro
tenuta la sua prima Cattedra. Così le tre parti del Mondo tre Chiese
parimente riconobbero superiori sopra tutte le altre: l'Occidente
quella di Roma, l'Oriente quella di Antiochia, ed il Mezzogiorno quella
d'Alessandria. Non è però, che sopra tutta Europa esercitasse la sua
potestà patriarcale quel di Roma, ovvero quello d'Antiochia per tutta
l'Asia, e l'altro d'Alessandria in tutta l'Affrica: ciascuno, come
s'è veduto nel secondo libro, non estendeva la sua potestà, che nella
diocesi a se sottoposta: l'altre ubbidivano agli Esarchi proprj: e
molti altri luoghi ebbero ancora i loro Vescovi Autocefali, cioè a
niun sottoposti. Tali furon in Oriente i Vescovi di Cartagine e di
Cipro. Tali furon un tempo nell'Occidente i Vescovi della Gallia, della
Spagna, della Germania e dell'altre più remote regioni. Le Chiese
de' Barbari certamente non furon soggette ad alcun Patriarca, ma si
governavano da' loro proprj Vescovi. Così le Chiese d'Etiopia, della
Persia, dell'Indie e dell'altre regioni, ch'eran fuori del romano
Imperio, da' loro proprj Sacerdoti venivano governate.

Vide ancora l'Oriente un altro Patriarca, e fu quello di Gerusalemme.
Se si riguarda la disposizione dell'Imperio, non meno, che il Vescovo
di Bizanzio, meritava tal prerogativa il Vescovo di Gerusalemme;
e siccome quegli era suffraganeo al Metropolitano di Eraclea nella
Tracia, così questi era suffraganeo al Vescovo di Cesarea, metropoli
della Palestina: ma forse con più ragione si diedero gli onori di
Patriarca al Vescovo di Gerusalemme: fin da' tempi degli Appostoli
fu riputato un gran pregio il sedere in questa Cattedra posta nella
città santa, dove il nostro Redentore instituì la sua Chiesa, e dalla
quale il Vangelo per tutte l'altre parti del Mondo fu disseminato;
dove l'Autor della vita conversò fra noi, ove di mille sanguinosi rivi
lasciò asperso il terreno:

    _Dove morì, dove sepolto fue,_
    _Dove poi rivestì le membra sue._

Ma se altrove in ben mille esempj si vide, come la politia della Chiesa
secondasse quella dell'Imperio, e come al suo variare mutasse ancor
ella forma e disposizione, certamente per niun altro convincesi più
fortemente questa verità, che per l'ingrandimento del Patriarcato di
Costantinopoli. Da che Costantino il Grande rendè cotanto illustre e
magnifica quella città, che la fece sede dell'Imperio d'Oriente, con
impegno di renderla uguale a Roma, e che fosse riputata dopo quella la
seconda città del Mondo; cominciò il suo Vescovo anch'egli ad estollere
il capo, ed a scuotere il giogo del proprio Metropolitano. Per essere
stata riputata Costantinopoli un'altra Roma, ecco che nel Concilio
costantinopolitano[855] vengon al suo Vescovo conceduti i primi onori
dopo quella, _eo quod sit nova Roma_. Così quando prima, dopo il
romano, i primi onori erano del Patriarca d'Alessandria, sottentra
ora quello di Costantinopoli ad occupare il suo luogo. Egli è vero,
come ben pruova Dupino[856], che i soli onori furon a lui dal Concilio
conceduti, non già veruna patriarcal giurisdizione sopra le tre diocesi
autocefale: ma tanto bastò, che collo specioso pretesto di questi
onori, cominciasse egli le sue intraprese; non passò guari, che invase
la Tracia, ed esercitando ivi le ragioni esarcali, si rendè Esarca di
quella diocesi, ed oscurò le ragioni del Vescovo di Eraclea.

Dopo essersi stabilito nella Tracia, lo spinse la sua ambizione a
dilatar più oltre i suoi confini: invade le vicine diocesi, cioè
l'Asia e Ponto, ed in fine al suo Patriarcato le sottopone. Non in
un tratto le sorprende, ma di tempo in tempo col favor de' Concilj,
e più degl'Imperadori. S. Giovan Crisostomo più di tutti gli altri
Vescovi di Costantinopoli aprì la strada d'interamente occuparle:
in fine venne ad appropriarsi non solo la potestà d'ordinar egli i
Metropolitani dell'Asia e di Ponto, ma ottenne legge dall'Imperadore,
che niuno senza autorità del Patriarca di Costantinopoli potesse
ordinarsi Vescovo; onde appoggiato su questa legge, si fece lecito
poi ordinare anche i semplici Vescovi. Ecco come i Patriarchi di
Costantinopoli occuparono l'Asia e Ponto; ciò che poi, per render
più ferme le loro conquiste, si fecion confermare dal Concilio di
Calcedonia e dagli editti degl'Imperadori[857]. S'opposero a tanto
ingrandimento i Pontefici romani: Lione il Santo glie le contrastò, il
simile fecero i suoi successori, e sopra tutti Gelasio[858], che tenne
la Cattedra di Roma dall'anno 492 sino all'anno 496. Ma tutti i loro
sforzi riusciron vani, poichè tenendo i Patriarchi di Costantinopoli
tutto il favor degl'Imperadori, fu loro sempre non meno confermato il
secondo grado d'onore dopo il Patriarca di Roma, che la giurisdizione
in Ponto, nell'Asia e nella Tracia. L'Imperador Basilisco in un suo
editto rapportato da Evagrio[859] glie le rattificò: l'Imperador Zenone
fece l'istesso per una sua costituzione, ch'ancor si legge nel nostro
Codice[860]; e finalmente il nostro Giustiniano con sua Novella[861],
secondando quel che da' canoni del Concilio di Calcedonia era stato
statuito, comandò il medesimo. Ciò che poi fu abbracciato dal consenso
della Chiesa Universale; poichè essendo stati inseriti i canoni de'
Concilj costantinopolitano e calcedonense ne' Codici de' canoni delle
Chiese, fu ne' seguenti secoli tenuto per costante, il Patriarca di
Costantinopoli tener il secondo grado di onore, e la giurisdizione
sopra tutte le tre quelle diocesi.

Ecco come questo Patriarca si lasciò indietro gli altri tre, ch'erano
in Oriente: quelle tre sedi non pure per lo di lui ingrandimento e per
le frequenti scorrerie de' Barbari, che invasero le loro diocesi, ma
assai più per le sedizioni e contrasti, che sovente insorsero fra loro
intorn'all'elezioni, e intorno a' dogmi ed alla disciplina, perderon il
loro antico lustro e splendore; e da allora innanzi con quest'ordine
si cominciaron a numerare le sedi patriarcali: la romana: la
costantinopolitana: l'alessandrina: l'antiochena: e la gerosolimitana.
Quest'ordine tenne il Concilio di Costantinopoli celebrato nell'anno
536. Questo medesimo tenne Giustiniano nel Codice e nelle sue Novelle,
e tennero tutti gli altri Scrittori non meno greci, che latini. Non
ancora però il nome di Patriarca erasi ristretto solamente a questi
cinque: alcune volte soleva ancor darsi ad insigni Metropolitani: così
nel sopraccitato Concilio di Costantinopoli si diede anche ad Epifanio
Vescovo di Tiro; e Giustiniano così nel[862] Codice, come nelle[863]
Novelle dà generalmente questo nome agli Esarchi, ch'avevan il governo
di qualche diocesi: non molto da poi però in Oriente questo nome si
restrinse a que' soli cinque.

Ma in Occidente si continuò come prima a darsi ad altri Vescovi
e Metropolitani. In Italia il nostro Re Atalarico, appresso
Cassiodoro[864], chiamò i Vescovi d'Italia Patriarchi, ed il
romano Pontefice loro Capo, lo chiamò per tal riguardo Vescovo
de' Patriarchi. Da Paolo Varnefrido[865] i Vescovi d Aquileja e
di Grado sono anche nominati Patriarchi. In Francia questo nome fu
anche dato a' più celebri Metropolitani, ed a' Primati. Gregorio di
Tours[866] chiamò Nicezio, Patriarca di Lione. Il Concilio di Mascon
celebrato nell'anno 583 chiamò Prisco Vescovo di quella città anche
Patriarca[867]. Desiderio di Cahors appellò ancora Sulpizio Vescovo di
Bourges Patriarca: ed Inemaro di Rems non distingue i Patriarchi da'
Primati[868]. Così ancora nell'Affrica il primo Vescovo de' Vandali
assunse il nome di Patriarca, ciò che non senza riso fu inteso da'
Vescovi cattolici; ed in decorso di tempo presso a quelle Nazioni, che
si riducevan alla fede di Cristo, il primo Vescovo ch'era loro dato, fu
detto Patriarca. Ridotta la Bulgaria alla nostra fede, l'Arcivescovo,
che se le diede, ed i suoi successori presero il nome di Patriarca.
Simili Patriarchi hanno ora i Cristiani d'Oriente[869], dove, toltone
quelli, che propriamente si dicono Greci, i quali ritengon tuttavia i
quattro Patriarchi, il costantinopolitano, l'alessandrino, l'antiocheno
e 'l gerosolimitano, ancorchè i Pontefici romani soglian essi parimente
creargli titolari: quante Sette vi sono, altrettanti Patriarchi si
contano; così i Giacobiti hanno il lor Patriarca: hannolo i Maroniti,
e gli uni e gli altri prendon il nome di Patriarca d'Antiochia. I
Cophti hanno ancora il Patriarca, che si fa chiamare Alessandrino,
e tien la sua sede in Alessandria. Gli Abissini hanno il loro, che
regge tutta l'Etiopia, ancorchè al Patriarca de' Cophti sia in qualche
maniera soggetto. I Giorgiani hanno un Arcivescovo Autocefalo a niun
sottoposto. Gli Armeni hanno due generali Patriarchi: il primo risiede
in Arad, città dell'Armenia; l'altro in Cis, città di Caramania.

Abbiam veduto quanto s'innalzasse il Patriarca di Costantinopoli sopra
gli altri Patriarchi d'Oriente, e quanto stendesse i confini del suo
Patriarcato in questo secolo, fin all'Imperio di Giustino. Ne' due
secoli seguenti lo vedremo fatto assai più grande, volare sopra altre
province e Nazioni; poichè non contenta la sua ambizione di questi
confini, ne' tempi di Lione Isaurico lo vedremo occupare l'Illirico,
Epiro, Acaja e la Macedonia: lo vedrem ancora soggettarsi al suo
Patriarcato la Sicilia e molte Chiese di queste nostre province, e
contendere in fine col Pontefice romano per la Bulgaria e per le altre
regioni.


§. III. _Politia ecclesiastica di queste nostre province sotto i Goti
e sotto i Greci, fin a' tempi di GIUSTINO II._

Teodorico e gli altri Re ostrogoti suoi successori, ancorchè arriani,
lasciarono, come s'è detto, le nostre Chiese in pace;, e quella
medesima politia che trovarono, fu da lor mantenuta inviolata ed
intatta. Il Pontefice romano vi fu mantenuto, ed in queste nostre
province, come suburbicarie, esercitava, come prima, l'autorità
sua patriarcale, anzi era riconosciuto come Patriarca insieme e
Metropolitano; poichè infin a questi tempi le nostre metropoli,
in quanto alla politia ecclesiastica, non ebbero Arcivescovo o
Metropolitano alcuno: nelle città, come prima, erano semplici Vescovi,
riconoscenti il Pontefice romano, come lor Metropolitano: quindi
Atalarico[870], che a' Vescovi soleva dar anche il nome di Patriarca,
chiamollo Vescovo de' Patriarchi. E se in alcune città d'Italia,
nel Regno de' Goti e de' Longobardi ancora, i quali furono parimente
arriani, si videro in una stessa città due Cattedre occupate da due
Vescovi, l'uno cattolico, l'altro arriano; in queste nostre province,
le quali si mantennero sempre salde, e non furon mai contaminate
dagli errori d'Arrio, i Vescovi professaron tutti la fede di Nicea,
e serbaron le lor Chiese pure ed illibate, e mantennero gli antichi
dogmi e quella disciplina, che serbava la romana Chiesa, loro maestra
e condottiera. I Vescovi governavan le lor Chiese col comun consiglio
del Presbiterio. Non si ravvisava in quelle altra Gerarchia, se non di
Preti, Diaconi, Sottodiaconi, Acoliti, Esorcisti, Lettori ed Ostiarj.

I Vescovi eran ancora detti dal Clero e dal Popolo, e ordinati dal
Papa, come prima, ancorchè il favor de' Principi vi cominciasse ad
avere la sua parte: Grozio[871] portò opinione, che i Re goti, o
arriani o cattolici che fossero, _semper Episcoporum electiones in
sua potestate habuere_, e rapporta essersi anche ciò osservato da
Giovanni Garzia: ma da' nostri Re goti non si vide sopra ciò essersi
usata altra potestà, se non quella, ch'esercitarono gl'Imperadori,
così d'Occidente, come d'Oriente. Essi, come custodi e protettori
della Chiesa, e come quelli, che reputavan appartener loro anche il
governo e l'esterior politia della medesima, credettero esser della
lor potestà ed incumbenza di regolare con loro leggi l'elezioni,
proibire l'ambizioni, dar riparo a' disordini e tumulti sediziosi, e
sovente prevenirgli; riparar gli sconcerti, che allo spesso accadevan
per le fazioni delle parti, e far decidere le controversie, che per
queste elezioni solevano sorgere; ma l'elezione al Clero ed al Popolo
la lasciavano, siccome l'ordinazione a' Vescovi provinciali, ovvero
al Metropolitano. Odoacre Re degli Eruli, più immediato successore
di Teodorico in Italia alle ragioni degli Imperadori d'Occidente,
nell'elezione del Vescovo di Roma e degli altri d'Italia, vi volle
avere la medesima parte: Basilio suo Prefetto Pretorio vi invigilò
sempre, anche, come e' diceva, per ammonizione del Pontefice Simplicio,
il quale gl'incaricò, che, morendo, niuna elezione si facesse senza il
suo consiglio e guida[872].

Ad esempio di quel, che fece l'Imperador Onorio nello scisma della
Chiesa di Roma fra Bonifacio ed Eulalio, si osserva che Teodorico
usasse della medesima autorità per l'altro insorto ne' suoi tempi in
Roma fra Lorenzo e Simmaco. Per la morte accaduta nel fine dell'anno
498 di Papa Anastasio, pretendevano ambedue essere innalzati su quella
sede: Simmaco Diacono di quella Chiesa fu da maggior numero eletto ed
ordinato: ma Festo Senator di Roma, che avea promesso all'Imperador
Anastasio di far eleggere un Papa, che sarebbe stato ubbidiente a' suoi
desideri, fece eleggere ed ordinare Lorenzo. I due partiti portarons'in
Ravenna a ritrovare il Re Teodorico, il quale giudicò, che dovesse
rimaner Vescovo di Roma colui, il quale fosse stato eletto il primo,
ed avesse avuto il maggior numero de' suffragi: Simmaco avea sopra
Lorenzo ambedue questi vantaggi; onde fu confermato nel possesso di
quella sede, e nel primo anno del suo Ponteficato tenne un Concilio,
dove furon di nuovo fatti alcuni canoni per impedir nell'avvenire
le competenze in simili elezioni. Quelli che s'eran opposti
all'ordinazione di Simmaco, vedendolo lor mal grado in possesso, fecero
tutti i loro sforzi, perchè ne fosse scacciato; gli attribuiron perciò
molti delitti, sollevaron una gran parte del Popolo e del Senato contro
di esso, e domandaron al Re Teodorico un Visitatore, cui delegasse
la conoscenza di queste accuse: Teodorico nominò Pietro, Vescovo
di Altino, il quale precipitosamente, e contra il diritto, spogliò
incontanente il Papa dell'amministrazione della sua diocesi e di tutte
le facoltà della Chiesa: questa azione sì precipitosa eccitò in Roma
gravi sconcerti, e perniziosi tumulti; Teodorico per acquetargli fece
tosto nell'anno 501 convocare un Concilio in Roma, al quale invitò
tutti i Vescovi d'Italia[873]. V'andarono quasi tutti i Vescovi della
nostra Campagna, quel di Capua, di Napoli, di Nola, di Cuma, di Miseno,
di Pozzuoli, di Sorrento, di Stabia, di Venafro, di Sessa, d'Alife,
d'Avellino, ed alcuni altri dell'altre città di questa provincia. Dal
Sannio vi si portarono i Vescovi di Benevento, d'Isernia, di Bojano,
d'Atina, di Chieti, di Amiterno ed altri.

Da queste due province, come più a Roma vicine, ve ne andaron
moltissimi: dall'altre due, come dalla Puglia e Calabria, e dalla
Lucania e Bruzio, come più da Roma lontane, e più a' Greci vicine,
ve ne andaron molto pochi. Vi vennero ancora i Vescovi di Emilia,
di Liguria e di Venezia, i quali, passando per Ravenna, parlaron
a Teodorico in favor di Simmaco; ed essendo giunti in Roma, senza
volere imprendere ad esaminare l'accuse proposte contra Simmaco, lo
dichiararono, innanzi al Popolo, innocente ed assoluto; e s'adoperaron
in guisa col Re Teodorico, che si contentò di quella sentenza; ed il
Popolo col Senato, ch'erano molto irritati contro al Papa, si placarono
e lo riconobbero per vero Pontefice. Restarono tuttavia alcuni mal
contenti, che produssero contra quello Sinodo una scrittura; ma Ennodio
Vescovo di Pavia vi fece la risposta, la quale fu approvata in un
altro Concilio tenuto in Roma nell'anno 503, nel quale la sentenza
del primo Sinodo fu confermata. Le calunnie inventate contra Simmaco
passaron fino in Oriente, e l'Imperador Anastasio, ch'era separato
dalla comunione della Chiesa romana, glie le rinfacciò; Simmaco con una
scrittura apologetica si giustificò assai bene; il quale, mal grado de'
suoi nemici, dimorò pacifico possessor di quella sede fin all'anno 514,
che fu quello della sua morte.

Fu in questi tempi riputato così proprio de' Principi di regolare
queste elezioni, per evitar gli ambimenti e le sedizioni, che Atalarico
mosso da' precedenti scismi, accaduti in Roma per l'elezione de' loro
Vescovi, volendo dare una norma nell'avvenire, affinchè non accadessero
consimili disordini, imitando gli Imperadori Lione ed Antemio, fece
un rigoroso editto, che dirizzò a Gio. II, romano Pontefice, il quale
nell'anno 532 era succeduto a Bonifacio su la sede di Roma, con cui
regolò l'elezioni non solamente dei Pontefici romani, ma anche di
tutti i Metropolitani e Vescovi, imponendo gravissime pene a coloro,
i quali per ambizione, o per denaro aspirassero ad occupar le sedi,
dichiarandogli sacrileghi ed infami, e che oltre alla restituzion
del denaro, ed altre gravi ammende, da impiegarsi alla reparazione
delle fabbriche delle Chiese, ed a' Ministri di quelle, sarebbono
stati severamente puniti da' suoi Giudici, e le lor elezioni, come
simoniache, avute per nulle ed invalide: diede con questo editto altre
providenze per evitare l'altercazioni e litigi sull'elezioni, le quali
riportate al suo palazzo da' Popoli, egli n'avrebbe tosto presa cura,
e dato provedimento, dichiarando, che ciò che egli stabiliva per questo
suo editto, s'appartenesse non solo per l'elezione del Vescovo di Roma,
_sed etiam ad universos Patriarchas, atque Metropolitanas Ecclesias_.
Fu questo editto istromentato per Cassiodoro[874], il quale ancorchè
cattolico, e nelle cose ecclesiastiche versatissimo, tanto che oggi
vien annoverato fra li non inferiori Scrittori della Chiesa, e da
alcuni riputato per Santo, forse perchè morì monaco Cassinese[875],
non ebbe alcun riparo di non solamente istrumentarlo, ma consigliarlo
ancora, come assai opportuno, al suo Principe; nè fu riputato, secondo
le massime di questo secolo, estranio e lontano dalla sua real potestà.
Fu dirizzato a Papa Giovanni II, che lo ricevè con molto rispetto
e stima, nè se ne dolse; anzi se è vero esser sua quell'epistola,
che leggiamo fra le leggi del Codice[876], scritta all'Imperador
Giustiniano, dove tanto commenda il suo studio intorno alla disciplina
ecclesiastica (poichè Ottomano[877], ed altri[878] ne dubitano,
ancorchè venga difesa da Fachineo[879]), si vede che questo Pontefice
non contrastò mai a' Principi quella potestà, che s'attribuivano sopra
la disciplina della Chiesa. E di vantaggio Atalarico lo mandò ancora
a Salvanzio[880], che si trovava allora Prefetto della città di Roma,
acciocchè dovesse senza frapporvi dimora pubblicarlo al Senato e Popolo
romano; anzi perchè di ciò ne rimanesse perpetua memoria ne' futuri
secoli, ordinogli, che lo facesse scolpire nelle tavole di marmo, le
quali dovesse egli porre avanti l'atrio di S. Pietro Appostolo per
pubblica testimonianza[881].

Vollero i Re goti, come successori degl'Imperadori d'Occidente,
mantener tutte quelle prerogative, che costoro avevan esercitate
intorno all'esterior politia ecclesiastica, delle quali ne rendono
testimonianza le tante loro costituzioni, registrate nell'ultimo
libro del Codice di Teodosio. Così appartenendo ad essi lo stabilire
i gradi, dentro a' quali potevan contraersi le nozze[882], vietare
i matrimonj ne' gradi più prossimi, dispensargli per mezzo di loro
rescritti[883], ed avere la conoscenza delle cause matrimoniali, non
dee parer cosa nuova, se tra le formole dettate da Cassiodoro[884], si
legga ancora quella de' nostri Re goti, formata per le dispense, che
solevan concedere nei gradi proibiti dalle leggi. Così ancora, imitando
ciò che fecero gl'Imperadori d'Occidente e d'Oriente di non permettere
assolutamente e senza lor consenso ai loro sudditi di ascriversi
alle chiese o monasteri, di che ne restano molti vestigi nel Codice
Teodosiano: fu de' Goti ancora, come scrive Grozio[885], _non minus
laudanda cautio, quod subditorum suorum neminem permisere se Ecclesiis,
aut Monasteriis mancipare, suo impermissu_.

La medesima politia intorno a ciò fu ritenuta in queste nostre
province, quando da' Goti passarono sotto gl'Imperadori d'Oriente,
e molto più sotto l'Imperio di Giustiniano. Gl'Imperadori d'Oriente
calcaron ancora le medesime pedate; e dell'Imperador Marciano, che in
ciò fu il più moderato di tutti, siccome scrisse Facondo[886], Vescovo
d'Ermiana in Affrica, si leggono molti editti appartenenti all'esterior
politia della Chiesa. L'Imperador Lione, imitato da poi da Atalarico,
proibì ancora a' Vescovi l'elezione per ambizione e per simonia; ed
oltre alla pena della degradazione imposta dal Concilio di Calcedonia,
v'aggiunse egli quella dell'infamia; ed Antemio fece il medesimo[887].
Ma sopra tutti gli altri Imperadori d'Oriente, Giustiniano fu quegli,
che della disciplina ecclesiastica prese maggior cura e pensiero:
donde nacque, che gli ultimi Imperadori d'Oriente, non sapendo tener
poi in ciò regola nè misura, s'avanzaron tant'innanzi, che finalmente
sottoposero interamente il Sacerdozio all'autorità del Principe. Le
sue Novelle per la maggior parte sono ripiene di tanti editti sopra la
disciplina della Chiesa, che vien perciò egli arrolato nel numero degli
Autori ecclesiastici: egli più leggi stabilì intorno all'ordinazion
de' Vescovi, della loro età, de' requisiti, che debbon aver coloro per
esser eletti e promossi al Vescovado, della loro residenza, della loro
nozione e privilegi, ed infinite altre cose a quelli appartenenti.
Regolò le convocazioni de' Sinodi e de' Concilj, e loro prescrisse il
tempo. Diede varj provedimenti intorno a' costumi e condotta de' Preti,
Diaconi, e Sottodiaconi, delle loro esenzioni e cariche personali. Fece
molti editti riguardanti la degradazione de' Cherici, ed intorno alla
regolarità e professione de' Monaci. Diede con sue leggi maggior forza
e vigore a' canoni che furono stabiliti in varj Concilj, imponendo a'
Metropolitani, a' Vescovi, ed a tutti gli Ecclesiastici l'osservanza di
essi; aggiungendo gravi pene a coloro, che a quelli contravvenissero,
d'esser deposti e degradati dal lor Ordine; e moltissimi altri editti
sopra le cose ecclesiastiche stabilì, che possono vedersi nelle sue
Novelle, e nel suo Codice.

Appartenevasi ancora all'economia del Principe impedire a' Vescovi
l'abuso delle chiavi. Così quando essi s'abusavano delle scomuniche,
tosto lor s'opponevano; e Giustiniano stesso con sua legge[888] proibì
a' Vescovi le scomuniche, se prima la cagione non fosse giustificata:
e ne' Basilici ancor si vede con particolar legge[889] proibito a'
Vescovi di scomunicar senza giusta cagione, e quando non concorrano
i requisiti da' canoni prescritti. Quindi avvenne, che i Principi ne'
loro Reami, che in Europa stabilirono dopo la decadenza dell'Imperio
romano, vi vollero mantenere questo diritto, come praticano gli
Spagnuoli ed i Franzesi, e come ancora veggiamo tuttodì in questo
nostro Reame; di che altrove ci sarà data occasione d'un più lungo
discorso. Nè in questi tempi furono queste leggi reputate come
eccedenti la potestà imperiale; anzi furon queste di Giustiniano
comunemente ricevute non men in Oriente, che in Occidente, come ne
rendon testimonianza Gio: Scolastico Patriarca di Costantinopoli,
S. Gregorio M.[890], Inemaro,[891], ed altri: e se non è apocrifa la
sua epistola, che si legge nel nostro Codice[892], di sì fatta cura e
pensiero, ch'egli mostrò verso l'ecclesiastica disciplina, n'ebbe per
commendatore, e panegirista l'istesso Giovanni, romano Pontefice.

Le medesime pedate furon calcate da Giustino suo successore, sotto
l'Imperio del quale ora veggiamo queste nostre province. Per la qual
cosa non fu insin a questo tempo (per ciò che s'attiene a questa parte)
variata la politia ecclesiastica di queste nostre province, ma da' Goti
e da' Greci fu ritenuta la medesima, che si vide ne' secoli precedenti
sotto i successori di Costantino, fin a Valentiniano III, Imperador
d'Occidente.


§. IV. _De' Monaci._

Cominciarono però in questo secolo le nostre province a sentir qualche
mutazione per riguardo del monachismo, che di tali tempi ebbe nelle
medesime la perfezione e lo stabilimento. Come si vide nel precedente
libro, non ancora fino a' tempi di Valentiniano, eransi in queste
nostre parti stabiliti i Solitarj, o Cenobiti: ma ecco, ch'essendosi
l'Ordine monastico perfezionato in Oriente, tanto per le leggi
degl'Imperadori, quanto da' varj trattati ascetici, e divenuto sopra
tutti gli Ordini quello di S. Basilio celebre e numeroso, che in due
nostre province più a' Greci vicine, cioè nella Puglia e Calabria,
nella Lucania e Bruzj, comincian a fondarsi, in alcune città delle
medesime, monasteri di quell'Ordine, che Basiliani furon appellati.

Nelle due altre, quanto più a' Greci lontane, tanto più a Roma vicine,
cioè nella Campagna, e nel Sannio, vedi stabilito il monachismo per
molte regole, ma sopra tutte per quella di S. Benedetto, il cui Ordine
fu sì avventuroso, che stabilito nella nostra Campagna, si sparse in
poco tempo non solo per l'Italia, ma eziandio per la Francia e per
l'Inghilterra.

S. Benedetto nacque in Norcia città della diocesi di Spoleto verso
l'anno 480. Fu condotto giovane in Roma a studiare[893], ma fastidito
delle cose del secolo, si ritirò in Subiaco, 40 miglia da Roma
distante, e si chiuse in una grotta, ove dimorò per lo spazio di tre
anni, senza che alcuno ne avesse notizia, toltone Romano, Monaco, il
quale gli somministrava dal suo vicino monastero il mangiare: essendo
stato poi conosciuto, i Monaci d'un monastero vicino, per la morte del
loro Superiore, l'elessero Abate; ma i loro costumi non confacendosi
con quelli di Benedetto, egli si ritirò di nuovo nella solitudine,
dove visitato da molte persone, vi fabbricò dodeci monasteri, de' quali
l'Abate della Noce rapporta i nomi, e i luoghi dove furon fondati[894].
Di là passò nell'anno 529 nella nostra Campagna[895], e fermossi nel
monte, che da Casino, antica Colonia de' Romani, la qual è nella sua
costa, prende il nome, lontano da Subiaco intorno a 50 miglia, e da
Roma 70. Quivi giunto, abbatte una reliquia di Gentilità, ch'era in
quell'angolo ancor rimasa presso a' Goti, ed in suo luogo v'erge un
tempio, che dedicò a' SS. Martino, e Giovanni. I suoi prodigiosi fatti
ivi adoperati, e la santità della sua vita, tiraron in quel luogo
della gente, e molti sotto la sua regola ivi rimasero. Si rendè vie
più famoso per l'opinione e stima, che s'acquistò presso a Totila Re
d'Italia, e presso a molti Nobili romani; crebbe perciò il numero de'
suoi Monaci, e vi s'arrolavan i personaggi più insigni; ond'egli stese
la sua regola, e gettò gli stabili fondamenti di un grand'Ordine.

La divozione de' Popoli, e la fama della sua santità tirò ancora la
pietà di molti Nobili ad arricchirlo di poderi e di facoltà: Tertullio
Patrizio romano, vivendo ancor S. Benedetto, gli donò tutto quel
tratto di territorio, ch'è d'intorno al monastero Cassinese[896];
onde Zaccheria in suo Diploma disse esser quel monastero edificato
_in solo Tertulli_[897]: donogli ancora molte altre possessioni che e'
teneva in Sicilia; e Gordonio, padre di S. Gregorio M., gli donò una
sua villa, che possedeva ne' contorni d'Aquino. Così tratto tratto,
non ancor morto S. Benedetto, cominciò questo monastero a rendersi
numeroso ed illustre per la qualità de' suoi Monaci, e ad arricchirsi
per le tante donazioni, che alla giornata gli si facevano. La sua fama
non potè contenersi nella sola Campagna, si mandavan anche Monaci di
sperimentata probità e dottrina a fondar nell'altre nostre province
altri monasteri. Cassiodoro, uno de' più illustri personaggi di questo
secolo, nell'età di 70 anni, ritiratosi dalla Corte, si fece Monaco, e
tratto dalla fama di S. Benedetto, ch'ancor viveva, volle ne' Bruzj, e
propriamente in Squillace suo natìo paese, fondarvi un monastero, che
secondo pruova il P. Garezio[898], e rapporta Duppino[899], lo pose
sotto la regola di S. Benedetto, nella quale egli viveva: e venuto poi
a governarlo, menò in quello venticinque anni, che fu il resto di sua
vita essendovi morto vecchissimo d'età di più di 95 anni, verso l'anno
565 di nostra salute, onde Bacon di Verulamio[900] lo fa quasi che
centenario.

Questo è il monastero Vivariese, ovvero Castellese, di cui tratta
ben a lungo il P. Garezio, Monaco Benedettino della Congregazione
di S. Mauro[901], fondato da Cassiodoro, di cui ne fu Abate, non
molto lungi da Squillace a piè del monte volgarmente chiamato Moscio,
ovvero Castellese da una villa di tal nome quivi vicina, le cui radici
vengono bagnate dal fiume Pelena, oggi detto di Squillace. Fu nomato
Vivariese, perchè Cassiodoro, mentre occupava i primi onori nella
Corte de' Re goti, sovente soleva andar a diporto a Squillace sua
patria, ed in quella villa per la comodità ed abbondanza dell'acque
di quel fiume, che irrigava le radici del monte, fece costruire molti
vivai[902]. Avendo da poi per la caduta de' Goti abbandonata la Corte,
rendutosi Monaco, quivi ritirossi, e costrusse in quel luogo, ove
aveva i suoi vivai e poderi, questo monastero, dove compose la maggior
parte delle sue opere, e nel quale ancora ebbe per compagno Dionigi il
Piccolo[903]. Lo arricchì delle sue possessioni, e d'una biblioteca;
e lo rendè illustre e numeroso per molti Monaci; facendo anche nella
sommità di quel monte costruire molte celle per coloro, i quali dalla
vita monastica volevan passare all'eremitica, e da Cenobiti rendersi
Anacoreti e Solitari[904]. Prima di morire lasciò ivi per Abati,
Calcedonio e Geronzio, l'uno perchè reggesse gli Eremiti, che nella
sommità del monte castellese eransi ritirati, l'altro i Cenobiti del
monastero Vivariese. Il P. Garezio[905] rapporta ancora, che dopo
la sua morte, per molti anni fu ritenuto da' Monaci Benedettini: ma
che poi vi sottentrarono in lor luogo i Basiliani, che lungamente
il tennero, insino che per le susseguenti irruzioni de' Saracini,
non fosse stato disfatto e ruinato. Così non pur nel vicino Sannio
e nella Puglia cominciarono in questi tempi a fondarsi monasteri di
quest'Ordine, ma anche nelle province più remote e lontane.

Nell'ultimo anno di sua vita mandò S. Benedetto Placido suo discepolo
in Sicilia a fondarvi de' monasteri del suo Ordine, dove colle
donazioni di Tertullo e devozione di que' Popoli, fu propagato per
tutta quell'isola. Altre missioni in questi medesimi tempi si fecero
nella Francia, dove S. Mauro, Fausto, e suoi compagni vi fecero
meravigliosi progressi. Morì S. Benedetto secondo Lione ostiense ed
altri, nell'anno 543, ovvero, secondo alcuni altri, nell'anno 547,
non essendo ancor appurato presso agli Scrittori il preciso giorno
ed anno della sua morte, di che l'Abate della Noce[906], come d'un
punto d'istoria molto importante, tanto s'affatica e si travaglia; ma
per la di lui morte crebbero e s'avanzarono più tosto le fortune al
suo Ordine: imperocchè da poi assai più moltiplicaronsi i monasteri,
e si stese non pur in Italia, Sicilia, e nella Francia, ma ancora
nell'Inghilterra, e nell'altre più lontane province dell'Europa.

In cotal guisa queste nostre due province, la Campagna, ed il Sannio,
videro in maggior numero i monasteri di quest'Ordine, i quali
nell'altre due province, come più remote, furon più radi; ma ben
all'incontro più numerosi quelli fondati sotto la regola di S. Basilio;
la Puglia e la Calabria, il Bruzio e la Lucania, e le città marittime
della Campagna, come Napoli, Gaeta, Amalfi, ed alcune altre, che per
la maggior parte lungo tempo dimorarono sotto gl'Imperadori d'Oriente,
come più a' Greci vicine, e coi quali aveano assai più frequenti
commerci, ricevettero con maggiore prontezza i loro istituti; ed in
Oriente, essendo la regola di S. Basilio assai celebre e rinomata,
quindi avvenne, che tutti, o la più parte dei monasteri, che vi si
fondavano, sotto quell'Ordine erano istituiti. In Napoli S. Agnello
fu il primo, per quanto si sa, che vi stabilisse un monastero,
cominciato prima da S. Gaudioso, di cui egli ne fu Abate. Alcuni[907]
credettero, che S. Agnello seguitasse la regola di S. Benedetto; ma
il P. Caracciolo[908] pruova assai chiaro che fu Monaco Basiliano,
il quale trovando, che S. Gaudioso, quando si ricovrò in Napoli, dove
morì l'anno 453 avanti che fosse nato S. Benedetto, v'avea eretto un
monastero, egli vi stabilì la regola di S. Basilio: Ordine che in
que' tempi erasi renduto assai celebre e rinomato. Nè quello passò
sotto la regola di S. Benedetto, se non ne' tempi posteriori, morto
Agnello, dopo l'anno 590, quando i Benedettini cominciaron ad essere
più considerati, e si renderon più famosi. Molto tempo da poi ne'
secoli men a noi remoti, verso l'anno 1517, fu abitato da' Canonici
Regolari della Congregazione del Salvatore[909], siccome oggi giorno
vi dimorano. E così in questo sesto secolo, come ne' secoli seguenti
si videro in Napoli molti di questi monasteri sotto la regola di S.
Basilio, come il monasterio Gazarese nella piaggia di mare: de' SS.
Nicandro, e Marciano: di S. Sebastiano: de' SS. Basilio, ed Anastasio
nella regione Amelia: di S. Demetrio nella regione Albina: di S.
Spirito, ovvero Spiridione: di S. Gregorio Armeno nella regione
Nostriana di S. Maria di Agnone: di S. Samona: de' SS. Quirico, e
Giulitta, ed altri: ed in Napoli, ed altrove[910].

Ecco come in queste nostre province fossero stati introdotti i
monasteri. I primi, che vi comparvero, furono sotto la regola di S.
Basilio, e di S. Benedetto; e quindi, essendosi già introdotte le
Comunità di donzelle, le quali facevan voto di virginità, e dopo certo
tempo ricevevano con solennità il velo, si videro parimente i monasteri
di donne sotto la regola di S. Benedetto, ch'ebbero ancora per loro
condottiera Scolastica di lui sorella; e sotto quella di S. Basilio,
che sono i più antichi, che ravvisiamo in queste nostre province. Così
presso di noi fu stabilito l'Ordine monastico, il quale però in questi
tempi non avea fatti que' maravigliosi progressi, che si sentiranno in
appresso. Nè gli Abati, e' Monaci erano stati ancora sottratti dalla
giurisdizione de' Vescovi, nè lor conceduti que' tanti privilegi da'
Pontefici romani, i quali per avergli a se devoti e ligi, da poi lor
concedettono. Si rendè perciò il monte Casino uno dei due più celebri
santuarj, ch'ebbero in quest'età le nostre province, ove concorrevano
i peregrini da tutte le parti del Mondo. Un altro in questi medesimi
tempi era surto in Puglia nel monte Gargano per l'apparizione di S.
Michele, che narrasi accaduta in quella grotta a tempo di Papa Gelasio,
mentre la sede di Siponto era occupata dal Vescovo Lorenzo. Santuarj,
che nel regno de' Longobardi e de' Normanni si renderono così chiari
e rinomati, che per la loro miracolosa fama, tiraron a se non pur i
peregrini dalle più remote parti del Mondo, ma anche i maggiori Re e
Monarchi d'Europa, ed i più potenti Principi della terra.


§. V. _Regolamenti ecclesiastici, e nuove Collezioni._

I regolamenti ecclesiastici si videro in questi tempi, non men
intorno a' dogmi, che alla disciplina, assai più ampj e numerosi.
Coll'occasione d'essersi convocati più Sinodi e Concilj, si stabiliron
in conseguenza moltissimi canoni. Si cominciò a stabilirne anche di
quelli, che s'appartenevano alla potestà de' Principi. I gradi di
parentela, che prima si regolavano secondo le leggi civili, furon
anche regolati da' canoni, e le proibizioni delle nozze furono
stese a' cugini, ed ai figliuoli de' cugini. Teodosio M. avea prima
proibite le nozze fra' cugini, il che confermaron Arcadio ed Onorio
suoi figliuoli, come attesta S. Ambrosio[911]: Giustiniano poi le
permise[912], onde Triboniano volendo inserir nel suo Codice la legge
di Teodosio[913], la smozzicò sconciamente per non farla contraddire
a ciò, che Giustiniano avea su ciò variato[914]. I canoni ora le
proibiscono, non pur fra' cugini, come avea fatto Teodosio, ma anche
fra' figliuoli di quelli; ed introdusser poi un nuovo modo di computare
i gradi che Cujacio[915] stima non esser più antico di S. Gregorio M. e
del Papa Zaccheria. Non s'erano ancora intesi regolamenti intorno alle
facoltà delle Chiese, ma essendo in questi tempi cresciute e malmenate
dagli Ecclesiastici, si cominciò a far de' canoni per impedirne il
dissipamento e l'alienazioni. Era della potestà de' Principi il proibir
l'opere servili nel dì di domenica, e gl'Imperadori ne stavano in
possesso, come si vede dalle leggi di Lione e d'Antemio[916]: ed ora
si vede sopra di ciò essersene anche fatti canoni. Il dichiarar le
Chiese per asili[917] s'apparteneva agli stessi Imperadori, come se
ne leggono molte costituzioni nel Codice di Teodosio: ma ora questo
diritto vien anche dichiarato da' canoni. Ne furon eziandio stabiliti
molti su l'usure e divorzj, e sopra altre materie, la cui providenza
e regolamento s'apparteneva, ed era della potestà ed imperio de'
Principi. Quindi si vide il lor numero crescere in immenso; onde
sursero altri Codici e nuove Compilazioni.

Nel precedente libro s'è veduto, che sin a' tempi di Valentiniano
III, così la Chiesa occidentale, come l'orientale non conobbero altri
regolamenti, che quelli che furono raunati nel _Codice de' Canoni
della Chiesa Universale_, compilato per Stefano, Vescovo d'Efeso. Ma
da poi nel primo anno dell'Imperio di Giustiniano nel 527 uscì fuori la
_Collezione di Dionigi il Piccolo_. Questi fu un Monaco scita abitante
in Roma, e fu il primo che introdusse l'uso di numerar gli anni dalla
nascita di Cristo S. N. come noi facciamo ancora[918]; poichè prima
si computavano, o nella maniera dell'antica Roma per li Consoli, o
per li primi stabilimenti de' Principi greci successori d'Alessandro:
ovvero per li tempi de' Martiri, che sofferirono il martirio sotto
Diocleziano: ed in Ispagna per l'Era d'Augusto Imperadore, che precede
38 anni alla nascita di Cristo. Egli fu amicissimo di Cassiodoro, dal
quale fu ricercato, che istruisse nelle discipline, e particolarmente
nella filosofia i suoi Monaci nel monastero Vivariese[919]: lesse quivi
insieme con Cassiodoro la dialettica, e più anni dimorò suo compagno
in quel magisterio. Gli encomj, che da Cassiodoro gli vengon dati, si
leggono ancora nelle sue opere[920]. Egli arricchì la Chiesa latina di
molte traduzioni fedeli dell'opere de' Greci; ed a richiesta di Stefano
Vescovo di Salona[921] in Dalmazia tradusse in latino la raccolta de'
canoni greci più fedelmente, che non era la traduzione antica latina,
della quale si servivano gli occidentali: a questa aggiunse tutto ciò
che v'era nel Codice greco, cioè i 50 canoni appostolici, i canoni del
Concilio di Calcedonia, di Sardica, di Cartagine, e d'altri Concilj
d'Affrica.

Aggiunse parimente l'epistole decretali di Siricio Papa, che morì
l'anno 398 (argomento, che l'epistole, che si rapportano prima di
Siricio sieno apocrife). Si chiamavano lettere decretali quelle, che i
Pontefici scrivevano sopra le consultazioni de' Vescovi per decidere i
punti di disciplina, e le quali si mettevano fra' canoni. Così i Greci
mettevano fra i canoni le tre lettere di S. Basilio ad Anfilochio,
ed alcune altre de' più famosi Vescovi delle sedi maggiori[922]. A
queste poi, dopo la morte di Dionigi, furon aggiunti i decreti di
Gregorio II, compresi in 17 capitoli, come fu osservato da Pietro de
Marca Arcivescovo di Parigi[923]. Quel che reca maraviglia si è, che
benchè il Codice greco, di cui si servì Dionigi, finisse nel Concilio
costantinopolitano I, al quale eransi poi aggiunti discontinuatamente
i canoni del Concilio calcedonense, come afferma il medesimo Dionigi
nella prefazione a Stefano Vescovo di Salona, tuttavia avendovi dovuto
aggiunger tanto del suo, come i canoni sardicensi ed affricani, non fa
niuna menzione del Concilio efesino, o de' suoi canoni fatti nell'anno
431, quando questi canoni si trovano nel Codice greco dato in luce
da Justello nell'anno 1610 onde si rifiuta l'opinione di coloro, che
stimano, che Giustiniano nella Novella 131 fatta nell'anno 451 avesse
confermato, e data forza di legge al Codice de' canoni compilato
da Dionigi; poichè quivi Giustiniano conferma anche i canoni fatti
nel Concilio efesino, ivi: _Sancimus vicem legum obtinere sanctas
Ecclesiasticas regulas, ec. in Ephesina prima, in qua Nestorius est
damnatus ec._ Doujat[924] però dice, che Dionigi non ne fece menzione,
perchè quel Concilio non stabilì canoni attenenti alla disciplina, ma
solamente canoni riguardanti l'esecuzione della condanna di Nestorio,
e suoi aderenti.

Questa Collezione di Dionigi, in Occidente ed in queste nostre province
ebbe tutta l'autorità, e tutto il vigore[925]; e da Niccolò I. R.
P.[926] vien chiamata per eccellenza _Codex Canonum_, e dal diritto
canonico _Corpus Canonum_[927]. E ne' tempi seguenti ebbe tanta
forza, che nell'anno 787 data in dono da Adriano I. a Carlo M.[928],
questo Principe comandò a' Vescovi di Francia, che invigilassero
all'osservanza dei canoni in quella racchiusi; e comprese que' decreti
nel suo _Capitolare_ d'Aix la Chapelle, che fece comporre nell'anno 789
secondo che narra Justello[929].

Intorno al medesimo tempo nell'anno 547 Fulgenzio Ferrando Diacono di
Cartagine fece un'altra raccolta di canoni[930], ma con diverso ordine,
più tosto citandogli, che rapportandogli, e sotto ciascun capo raccolse
i canoni di diversi Concilj, della quale fa menzione Graziano nel suo
decreto[931].

Il Cardinal Baronio[932] stima, che circa questi medesimi tempi sieno
state fatte le Collezioni di Martino di Braga, e di Cresconio. Altri
credono[933] che quella di Martino fosse fatta intorno all'anno 572,
e l'altra di Cresconio circa l'anno 670. Martino, di nazione Unghero,
e Monaco Benedettino, fu Vescovo di Braga in Portogallo. Fece la sua
raccolta per uso delle Chiese di Spagna, traducendo i Sinodi greci,
ed aggiungendovi altri canoni di Concilj latini, e spezialmente dei
toletani: questa Collezione però fuori delle Spagne non ha avuto uso nè
autorità, se non quanto avesse servito per illustrazione[934].

Cresconio Vescovo d'Affrica compose la sua Collezione di canoni, della
quale ci resta un compendio, il cui titolo, secondo un MS. che rapporta
il Baronio, era questo: _Concordia Canonum a Cresconio Africano
Episcopo digesta sub capitibus trecentis_. E perchè ivi fassi anche
menzione d'un poema in versi esametri composto dal medesimo Cresconio
per celebrar le guerre e le vittorie riportate da Giovanni Patricio
contra i Saraceni d'Affrica, fa conto il Baronio, che egli vivesse
intorno a' tempi di Giustiniano Imperadore.

Giovanni Scolastico, che, mandato Eutichio in esilio, fu innalzato al
Patriarcato di Costantinopoli da Giustiniano Imperadore[935], e visse
anche dopo lui, fu il primo, che in Oriente avesse fatta Raccolta,
dove si unissero insieme i canoni colle leggi, spezialmente le Novelle
di Giustiniano; la qual spezie di libro fu chiamata poi _Nomocanone_
da' Scrittori seguenti: e benchè questa Collezione divisa in cinquanta
titoli, da principio ebbe qualch'uso; nondimeno Teodoro Balsamone
nel supplimento osserva, che a tempo suo, cioè nella fine dal secolo
duodecimo, non aveva alcuna stima, come quella ch'era stata adombrata
dal Nomocanone di Fozio, più utile e più abbondante[936].

Queste furono le Collezioni de' canoni, che dopo il Codice de' canoni
della Chiesa universale sursero ne' seguenti tempi infin all'Imperio di
Giustino, successor di Giustiniano[937]: le quali non avevan forza di
legge, se non quando dagl'Imperadori e Principi era lor data. La Chiesa
non avea peranche in questi tempi acquistata giurisdizione perfetta,
sì che potesse far valere i suoi regolamenti, come leggi, ed obbligare
i Fedeli con temporal costringimento all'osservanza de' medesimi, o
punire i trasgressori con pene temporali: obbligavan solamente per
la forza della religione le loro anime; e le pene e gastighi erano
spirituali, di censure, penitenze, e deposizioni. I Principi per mezzo
delle loro costituzioni lor davan forza di legge, obbligando i sudditi
ad osservargli con temporale costringimento, come il manifestano
in Oriente le Novelle di Giustiniano, la Collezione di Giovanni
Scolastico, i Nomocanoni di Fozio e di Balsamone; ed in Occidente,
nella Francia i capitolari di Carlo M. in Ispagna le leggi di que'
Re, per le quali a' canoni stabiliti ne' Concilj tenuti in Toledo, o
altrove, davan tutta la forza ed autorità; ed in Italia i tanti editti
di Teodorico e d'Atalarico, che appresso Cassiodoro si leggono.


§. VI. _Della conoscenza nelle cause._

Lo Stato ecclesiastico, durante la dominazione dei Goti in queste
nostre province, non acquistò maggior conoscenza, o nozione nelle
cause, di quella ch'ebbe ne' precedenti secoli sotto i successori di
Costantino infino all'Imperio di Valentiniano III. Era ancor ristretto
nella conoscenza degli affari della fede e della religione, di cui
giudicava per forma di politia; nella correzione de' costumi, di cui
conosceva per via di censure; e sopra le differenze insorte fra'
Cristiani, le quali decideva per forma d'arbitrio e d'amichevole
composizione. Non ancora avea acquistata giurisdizione perfetta, nè
avea foro o territorio, nè i suoi Giudici eran divenuti Magistrati.
Teodorico e gli altri Re suoi successori lo contennero ne' suoi limiti,
nè la di lui conoscenza trapassò i confini del suo potere spirituale,
toltone la conoscenza in quelle tre sole occorrenze già ricordate;
in tutto il resto gli Ecclesiastici osservavano le leggi civili, e
come membri della società civile ubbidivano, come tutti gli altri,
a' Magistrati secolari, così ne' giudicj criminali, come civili, dai
quali eran giudicati e puniti. L'accuse si riportavan al Principe,
perchè o egli le giudicasse, o delegasse ad altri la loro cognizione,
e sovente per li loro delitti eran mandati in esilio, e deposti
dalle loro cariche. Si è veduto, come il Popolo romano, l'accuse
che inventò contra Simmaco, le portò fin a Ravenna al Re Teodorico,
perchè prendesse a giudicarlo, dimandandogli un Visitatore, siccome
gli fu dato, perchè lo sentenziasse; non altrimente di ciò, che fecero
i Vescovi d'Italia contra Damaso, i quali ricorsero agl'Imperadori
Graziano e Valentiniano, pregandogli che prendessero a giudicare
quel Papa da loro accusato. Non recava maraviglia in questi tempi,
mandarsi dal Re i Vescovi, come loro sudditi, ed il Papa stesso in
varie parti, ove portava il bisogno, e chiamargli a lor posta, nel che
sempre erano pronti ed ubbidientissimi. Papa Giovanni I. fu mandato
dal Re Teodorico fino in Costantinopoli per ottener dall'Imperador
Giustino I. la revocazione d'un suo editto, col quale esprimeva, che le
Chiese degli Arriani si fossero date a' Cattolici: e non avendo avuta
questa imbasciata quel successo da Teodorico sperato, imputandosi alla
sospetta fede di Giovanni, e poca buona condotta da lui usata, quando
egli era di ritorno per Italia, lo fece arrestare in Ravenna, dove
morì il dì 27 di marzo dell'anno 526. E Teodato mandò Papa Agapito
a Costantinopoli per trattar con Giustiniano la pace cotanto da lui
bramata.

Il Re Atalarico stabilì con suo editto istromentato da Cassiodoro[938],
che quelli, i quali per simonia ed ambizione erano stati eletti, fosser
accusati avanti i suoi Giudici e puniti severamente, stabilendo premj
agli accusatori, con dar loro la terza parte di ciò, che venissero
condennati, ed il rimanente da doversi impiegare alle fabbriche delle
Chiese, e per sovvenimento de' loro Ministri.

Intorno alle loro cause civili fu serbata a' Magistrati secolari
la medesima giurisdizione che prima avevano; dovevan innanzi a loro
istituire i giudicj, proponere le loro azioni, e citati dar malleveria
_judicio sisti_. Solamente il Re Atalarico favorì in ciò la Chiesa
romana, approvando una consuetudine, che s'era introdotta nel Clero di
quella, di doversi prima i suoi Preti convenire, o accusare avanti il
loro Vescovo. I Magistrati secolari, che in Roma da quel Principe erano
stati destinati ad amministrar giustizia, secondo ciò che praticavasi
in tutte l'altre province, ad istanza del suo creditore, costrinsero
un Diacono di quella Chiesa a soddisfar il debito; e lo strinsero
con tanta acerbità, che lo diedero in mano del medesimo creditore a
custodirlo. Un altro Prete della medesima Chiesa per leggiere cagioni
accusato, lo trattarono assai aspramente e con molti strazi. Il Clero
di Roma con flebili lamenti e preghiere, ricorse al Re Atalarico,
esponendogli, che nella lor Chiesa, per lunga consuetudine, affinchè
i loro Preti intrigati nelle liti del Foro, e tra' negozj del secolo,
non si distogliessero dal culto divino, erasi introdotto, che avanti
il loro Vescovo dovessero convenirsi: e che ciò non ostante, da'
suoi Magistrati erano stati un lor Prete e un Diacono acerbamente,
e con molte contumelie trattati; pregavano per tanto la clemenza di
quel Principe a darvi opportuno provedimento. Il Re alle loro preci
rispose, che per la riverenza ed onore, che si doveva a quella sede
appostolica[939], d'allora innanzi stabiliva, che se alcuno avea
da convenire qualche Prete del Clero romano in qualsivoglia causa,
dovesse prima ricorrere al giudicio del Vescovo di quella sede, il
quale dovesse, o egli conoscere more _suae sanctitatis_ de' meriti
della causa, ovvero delegarla, _acquitatis studio terminandam_; ma se
l'attore o l'accusatore usando di questa riverenza, si vedesse deluso e
differito nelle sue dimande, o quelle disprezzate; _tunc ad saecularia
fora jurgaturus occurrat_. All'incontro, se pretermesso questo suo
comandamento, ricorrerà alla prima a' Tribunali secolari, gl'impone
pena di dieci libbre d'oro, da doversi da' suoi Tesorieri immantenente
riscuotere, e per le mani del Vescovo dispensarsi a' poveri, e di
vantaggio cadesse dalla causa, e con tal doppia pena fosse punito. Ma
non tralasciò Atalarico nell'istesso tempo d'ammonirgli, che vivessero,
come si conveniva al loro stato, dicendogli: _Magnum scelus est crimen
admittere, quos nec conversationem decet habere saecularem; professio
vestra vita coelestis est. Nolite ad mortalium vota humilia, et errores
descendere. Mundani coerceantur humano jure, vos sanctis moribus
obedite_.

Ecco come in questi tempi in tutte l'altre Chiese, de' Magistrati
secolari era la conoscenza e giurisdizione delle cause, così civili
come criminali degli Ecclesiastici, erano sottoposti a' loro giudicj
ed ammende: nè perchè al solo Clero di Roma, per riverenza di quella
sede, volle Atalarico usar questa indulgenza, fu perciò al suo
Vescovo, o pure a quelli, a' quali egli delegava le cause, data per
giudicarle giurisdizione alcuna; ma solo, che dovessero terminarle
_more suae sanctitatis, et aequitatis studio_, in forma d'arbitrio e di
caritatevole composizione, non già in forma di giudicio e di giustizia
contenziosa.

Giustiniano adunque fu il primo, che cominciò ad accrescere la
conoscenza de' Vescovi nelle cause degli Ecclesiastici, e diede a
quelli privilegio di non piatire avanti Giudici laici. Questo Principe,
siccom'egli era pietoso e religioso, così accrebbe la conoscenza dei
Vescovi, ordinando per le sue Novelle[940], che nelle azioni civili i
Monaci ed i Cherici sarebbero convenuti in prima innanzi al Vescovo,
il quale deciderebbe le loro differenze prontamente, senza processi e
senza alcun rumore o strepito di giudicio; a condizione però, che se
una delle parti dichiarasse fra dieci giorni di non volere acquetarsi
al suo giudicio, il Magistrato ordinario prendesse cognizione della
causa, non per forma d'appellazione, come alcuni credettero, e come in
ciò superiore al Vescovo, ma tutto di nuovo: e se giudicava come aveva
arbitrato il Vescovo, non v'era appellazione da lui: ma se altrimente,
si dava in questo caso luogo all'appellazione. E quanto alle cause
criminali, era permesso d'indirizzarsi contro il Cherico, o innanzi al
Vescovo, ovvero al Giudice ordinario, salvo ne' delitti ecclesiastici,
come d'eresia, simonia, inobbedienza al Vescovo, ed ogn'altro
concernente la loro qualità, la cui conoscenza era attribuita al solo
Vescovo: come altresì delle differenze concernenti alla religione e
alla politia ecclesiastica, anche contro a' laici. Stabilì ancora,
che se nelle cause criminali il Cherico fosse condennato dal Giudice
laico, la sua sentenza non potesse eseguirsi, nè il Prete degradarsi,
senza l'approvazione del Vescovo; che se egli non lo volesse fare,
era necessario di ricorrere all'Imperadore. Ed in quanto a' Vescovi,
diede loro particolarmente questo privilegio di non piatire per niente
innanzi a' Magistrati laici, il qual privilegio diede ancora alle
religiose per la Novella 79 che gl'Interpreti hanno malamente steso a'
religiosi. E questo regolamento di Giustiniano, contenuto nella Novella
123, è quasi interamente reiterato dalle costituzioni dell'Imperador
Costantino III figliuolo d'Eraclio, e di Alessio Comneno, rapportate
per Balsamone nel titolo sesto del suo Nomocanone. Ecco come per
privilegio del Principe si cominciò ad ingrandire la conoscenza de'
Vescovi: non è però, ch'allora acquistassero giustizia perfetta, che
il diritto chiama giurisdizione, sopra i Preti, non avendo di que'
tempi territorio, cioè _Jus terrendi_, nè preciso costringimento.
Per la qual cosa non potevano di lor autorità imprigionare le persone
ecclesiastiche, nè avevan carceri: nè potevano imporre pene afflittive
di corpo, d'esilio e molto meno di mutilazion di membra o di morte,
anche nei più gravi delitti; nè condennare all'ammende pecuniarie.

Le pene, che usavano erano deposizioni, o sospensioni degli Ordini,
digiuni e penitenze: e questa forma di disciplina continuossi per tutto
l'ottavo secolo: ciò che ottimamente notò Gregorio III, in quella bella
epistola, che dirizzò a Lione Isaurico[941], dove fa vedere quanto
sia grande la differenza, fra le pene dell'Imperio e della Chiesa:
gl'Imperadori condannano a morte, imprigionano, mandano i rei in esilio
e rilegano: non così i Pontefici: _Sed ubi_, come sono le sue parole,
_peccarit quis, et confessus fuerit, suspendii, vel amputationis
capitis loco, Evangelium, et Crucem ejus cervicibus circumponunt,
eumque tamquam in carcerem, in secretaria, sacrorumque vasorum aeraria
conjiciunt, in Ecclesiae Diaconia, et in Catecumena ablegant, ac
visceribus corum jejunium, oculisque vigilias, et laudationem ori
ejus indicunt. Cumque probe castigarint, probeque fame afflixerint,
tum pretiosum illi Domini Corpus impartiunt, et Sancto illum Sanguine
potant: et cum illum vas electionis restituerint, ac immunem peccati,
sic ad Deum, purum insontemque transmittunt. Vides, Imperator,
Ecclesiarum, Impertorumque discrimen, etc._

Avevan però gli Ecclesiastici in questi tempi cominciato ad usurparsi
la potestà di bruciare i libri degli Eretici, perchè nell'anno 443
il Pontefice Lione il Santo bruciò in Roma molti libri de' Manichei,
quando prima la censura solamente apparteneva alla Chiesa, ma la
proibizione, o bruciamento al Principe[942], di che altrove ci tornerà
occasione di più lungamente ragionare.


§. VII. _Beni temporali._

Non al pari della conoscenza nelle cause, fu l'ingrandimento de'
beni temporali nelle nostre Chiese: fu questo di gran lunga a quello
superiore. I Principi intorno agli acquisti, che tuttavia facevano,
non molto vi badavano, e non solo poca cura si presero d'impedire
gli eccessivi, come fecero Teodosio M. e gli altri Imperadori
suoi successori, ma anch'essi vi contribuirono con donazioni e
privilegi[943]. Quando prima gli acquisti facevansi dalle sole Chiese,
ora cominciando in queste nostre province a fondarvisi dei monasteri,
ancor essi ne tiravano la lor parte, e molti buoni presagi ne diedero,
fin da' loro natali, i monasteri di S. Benedetto.

S'aprirono ancora nuovi altri fonti, donde ne scaturiva maggior
ricchezza: sursero in questi tempi i santuari, e allargossi grandemente
la venerazione delle reliquie de' Santi. I tanti miracoli, che si
predicavano, l'apparizioni angeliche, le particolari devozioni a'
Santi, e l'esortazioni de' Monaci, tiravano le genti per la loro
devozione ad offerire a' loro monasteri ampie ricchezze. Fu riputato
ancora in questi tempi il donare, o lasciare per testamento alle
Chiese, essere un fortissimo remedio per ottener la remissione de
peccati. Salviano[944] che fiorì nell'Imperio d'Anastasio, esortava
a molti pietosi, che soccorressero le loro anime _ultima rerum suarum
oblatione_. Quindi sovente leggiamo nelle donazioni fatte alle Chiese
quella clausola; _pro redemptione animarum, etc._

Si stabilì ancora un nuovo fondo assai più stabile di quel di prima,
donde se ne ritraevano buoni emolumenti: le decime che ne' tre primi
secoli erano libere e volontarie; e nel quarto e quinto secolo, per la
tepidezza de' Fedeli in darle, erano avvalorate dai sermoni de' PP. e
dalle loro esortazioni, perchè non le tralasciassero; in questo sesto
secolo divennero debite e necessarie[945]. Vedendo, che niente allora
giovavano le prediche e l'esortazioni, fu bisogno ricorrere ad aiuti
più forti e vigorosi; onde si pensò a stabilirle per via di precetti e
di canoni. Così molti Concilj d'Occidente, e più decretali de' romani
Pontefici fecero passare in legge l'uso di pagarle. Per queste ed
altre vie, le ricchezze delle Chiese cominciaron ad essere assai più
ampie e considerabili, ed a posseder esse particolari patrimonj. La
Chiesa di Roma sopra tutte l'altre si rende ricchissima, tanto che
narra Paolo Varnefrido[946], ch'avendo Trasimondo Re de' Vandali in
Affrica mandato in esilio 220 Vescovi, Simmaco, che allor sedeva nella
Cattedra di Roma, fece a tutti somministrare ciò, che lor bisognava
per sostentarsi. Nè si pensò solo a' modi di acquistar le ricchezze, ma
anche a' modi di conservarle; poichè colle ricchezze essendo congiunto
il rilasciamento della disciplina e de' costumi, quelle appropriandosi
gli Ecclesiastici, come facoltà proprie, dove prima non eran
considerate, se non come patrimonio de' poveri, venivan in conseguenza
mal impiegate e peggio distribuite; onde più Concilj (quando che prima
non erasi per anche fatto alcun regolamento sopra questa materia) si
mossero a stabilire un gran numero di canoni, proibendo l'alienazioni,
regolando il modo di distribuirle, e badando sopra tutto alla loro
conservazione e sicurezza. Egli è però ancora vero, che non perciò i
Principi lasciarono di stabilir leggi intorn'a' beni ecclesiastici,
regolando gli acquisti, e tal ora anche le maniere di distribuirgli e
vietar gli abusi: e Giustiniano ci accerta d'aver egli di suo diritto
stabilite molte leggi intorno a' medesimi[947].

La divisione de' frutti di questi beni in quattro parti, una
all'Amministratore o Beneficiato, l'altra alla Chiesa, la terza a'
Poveri, e la quarta a' Cherici, che s'attribuisce a Papa Simplicio, il
qual fu eletto nell'anno 468, non fu in questi tempi sempre costante,
nè la medesima per tutte le province d'Occidente. In Francia nel
Concilio I d'Orleans[948], ragunato l'anno 511, s'assegna la metà
al Vescovo, e l'altra metà al Clero. In Ispagna, dal Concilio I di
Braga[949] tenuta nell'anno 563, la divisione dell'oblazioni si riserva
ai Cherici tutti in comune. Ma da poi nel Concilio IV di Toledo,
convocato sotto il Re Sisenando nell'anno 633, fu stabilito, che i
Vescovi avessero la terza parte delle rendite[950]. Così, come assai
approposito notò Graziano[951], secondo la diversità de' luoghi, e
consuetudine delle regioni, al Vescovo era riservata, in alcune la
terza, in altre la quarta parte: nè tali divisioni furono sempre, e da
per tutto invariabili e perpetue.

Grande che fosse stato in questo sesto secolo l'accrescimento de' beni
temporali delle nostre Chiese e de' monasteri, a riguardo però degli
altri immensi ed eccessivi acquisti, che poi si videro nel Regno dei
Longobardi e de' Normanni, era comportabile, nè molta alterazione
recossi perciò allo Stato civile: maggiore lo ravviseremo sotto i
Longobardi, il Regno de' quali saremo ora per narrare.



TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI NEL TOMO PRIMO


  _Introduzione_                                         pag.   1

  LIBRO PRIMO.                                            »    23

  Cap. I. _Delle condizioni delle città d'Italia_         »    29
  Cap. II. _Delle condizioni delle province
         dell'Imperio_                                    »    36
  Cap. III. _Della disposizione dell'Imperio sotto
         Augusto_                                         »    41
  Cap. IV. _Della disposizione e politia di queste
         regioni, che oggi compongono il Regno
         di Napoli, e della condizione delle loro
         città_                                           »    44
      §. I. _Di Napoli oggi capo e metropoli del
         Regno_                                           »    48
      §. II. _Napoli non fu Repubblica affatto libera
         ed independente da Romani_                       »    57
      §. III. _Delle altre città illustri poste in
         queste regioni_                                  »    66
      §. IV. _Scrittori illustri_                         »    68
  Cap. V. _Della disposizione d'Italia, e di queste
         nostre province sotto Adriano, infin a' tempi
         di Costantino il Grande_                         »    70
  Cap. VI. _Delle leggi_                                  »    72
  Cap. VII. _De' Giureconsulti, e loro libri_             »    75
  Cap. VIII. _Delle costituzioni de' Principi_            »    88
  Cap. IX. _De' Codici Papiriano, Gregoriano ed
         Ermogeniano_                                     »    95
  Cap. X. _Delle Accademie_                               »    99
      §. I. _Dell'Accademia di Roma in Occidente_         »    99
      §. II. _Dell'Accademia di Berito in Oriente_        »   105
  Cap. XI. _Della politia ecclesiastica de' tre primi
         secoli_                                          »   113
      §. I. _Politia ecclesiastica de' tre primi secoli
         in Oriente_                                      »   123
      §. II. _Politia ecclesiastica in Occidente, ed
         in queste nostre regioni_                        »   131
      §. III. _Napoli, siccome tutte l'altre città
         di questo Regno, erano universalmente
         gentili_                                         »   139
      §. IV. _Gerarchia ecclesiastica, e Sinodi_          »   144
      §. V. _De' Regolamenti ecclesiastici_               »   146
      §. VI. _Della conoscenza nelle cause_               »   148
      §. VII. _Elezione de' Ministri_                     »   150
      §. VIII. _Beni temporali_                           »   152

  LIBRO SECONDO.                                          »   155

  Cap. I. _Disposizione dell'Imperio sotto Costantino
         Magno_                                           »   159
  Cap. II. _Degli Ufficiali dell'Imperio_                 »   166
  Cap. III. _Degli Ufficiali, a' quali era commesso il
         governo delle nostre province_                   »   170
      §. I. _Della Campagna, e suoi Consolari_            »   171
      §. II. _Della Puglia e Calabria, e suoi
         Correttori_                                      »   186
      §. III. _Della Lucania e Bruzj, e suoi Correttori_  »   190
      §. IV. _Del Sannio, e suoi Presidi_                 »   197
  Cap. IV. _Prima invasione de' Vestrogoti a' tempi
         d'Onorio_                                        »   198
      §. I. _Non furono queste Province ad altri
         cedute o donate_                                 »   205
  Cap. V. _Delle nuove leggi, e nuova giurisprudenza
         sotto Costantino, e suoi successori_             »   219
  Cap. VI. _De' Giureconsulti, e loro libri; e
         dell'Accademia di Roma_                          »   227
      §. I. _Dell'Accademia di Costantinopoli_            »   237
  Cap. VII. _Delle costituzioni de' Principi, onde
         formossi il Codice Teodosiano_                   »   239
      §. I. _Dell'uso e autorità di questo Codice
         nell'Occidente, ed in queste nostre province_    »   244
  Cap. VIII. _Dell'esterior politia ecclesiastica, dai
         tempi dell'Imperador Costantino M, infino
         a Valentiniano III_                              »   250
      §. I. _Dei Monaci_                                  »   273
      §. II. _Prime collezioni di canoni_                 »   281
      §. III. _Della conoscenza nelle cause_              »   288
      §. IV. _Beni temporali_                             »   299

  LIBRO TERZO.                                            »   309

  Cap. I. _De' Goti occidentali, e delle loro leggi_      »   312
      §. I. _Del Codice d'Alarico_                        »   318
      §. II. _Traslazione della sede regia de'
         Vestrogoti da Tolosa di Francia, in Toledo
         nelle Spagne_                                    »   321
      §. III. _Del nuovo Codice delle leggi de'
         Vestrogoti_                                      »   324
  Cap. II. _De' Goti orientali, e loro Editti_            »   331
      §. I. _Di Teodorico ostrogoto, Re d'Italia_         »   337
      §. II. _Leggi romane ritenute da Teodorico
         in Italia, e suoi editti conformi alle
         medesime_                                        »   349
      §. III. _La medesima politia, e Magistrati
         ritenuti da Teodorico in Italia_                 »  352
      §. IV. _La medesima disposizione delle province
         ritenuta in Italia dal Re Teodorico_             »   357
      _Della Campagna, e suoi Consolari_                  »   358
      _Della Puglia e Calabria, e suoi Correttori_        »   364
      _Della Lucania e Bruzj, e suoi Correttori_          »   365
      _Del Sannio e suoi Presidi_                         »   368
      §. V. _I medesimi Codici ritenuti, e le medesime
         condizioni delle persone e de' retaggi_          »   369
      §. VI. _Insigni virtù di Teodorico, e sua
         morte_                                           »   372
      §. VII. _Di Atalarico Re d'Italia_                  »   380
  Cap. III. _Di Giustiniano Imperadore, e sue leggi_      »   382
      §. I. _Del primo Codice di Giustiniano_             »   383
      §. II. _Delle Pandette ed Instituzioni_             »   385
      §. III. _Del secondo Codice di Giustiniano
         di repetita prelezione_                          »   391
      §. IV. _Delle Novelle di Giustiniano_               »   398
      §. V. _Dell'uso ed autorità di questi libri in
         Italia, ed in queste nostre province_            »   403
  Cap. IV. _Espedizione di Giustiniano contra Teodato
         Re d'Italia, successor d'Atalarico_              »   406
      §. I. _Di Vitige, Ildibaldo ed Erarico, Re
         d'Italia_                                        »   416
      §. II. _Di Totila Re d'Italia_                      »   417
      §. III. _Di Teja ultimo Re de' Goti in Italia_      »   423
  Cap. V. _Di Giustino II. Imperadore; e della
         nuova politia introdotta in Italia, ed in
         queste nostre province da Longino suo I.
         Esarca_                                          »   432
  Cap. VI. _Dell'esterior politia ecclesiastica_          »   435
      §. I. _Del Patriarca d'Occidente_                   »   438
      §. II. _Del Patriarca d'Oriente_                    »   442
      §. III. _Politia ecclesiastica di queste nostre
         province sotto i Goti e sotto i Greci, sin
         a' tempi di Giustiniano II_                      »   449
      §. IV. _De' Monaci_                                 »   458
      §. V. _Regolamenti ecclesiastici, e nuove
         Collezioni_                                      »   465
      §. VI. _Della conoscenza nelle cause_               »   472
      §. VII. _Beni temporali_                            »   478



NOTE:

[1] Arthur. Duck, De Usu, et Auth. Jur. Civ. Rom. in Dominiis Principum
Christianorum.

[2] Ciron. Observat. Jur. Can. lib. 5.

[3] Alteserra Rerum Aquitan. lib. 3.

[4] Ciron. lib. 5. Observ. Jur. Can. c. 6 e 7.

[5] Arthur. lib. 2. c. 5. num. 43.

[6] Doujat. Hist. Jur. Civ.

[7] Erm. Coringio De Orig. Jur. Gernian.

[8] Georg. Pasquio, De Novis Invent.

[9] Struv. Hist. Jur. Germ. cap 6.

[10] V. Struvio in Proleg. ad Hist. Jur. §. 28.

[11] Franc. Crass. in Libello de Orig. Jur. Mediol.

[12] Molin. in Comment. ad Consuet. Par. part. 1. tit. 1. n. 91. et n.
96.

[13] Cardin. de Luca De Servit. Disc. 1. De Judiciis Disc. 35. De
Regularib. Disc. 161. in Miscellaneis. et alibi saepe.

[14] Franc. de Andreys Disp. An. Fratres in Feuda nostri Regn. succed.
ec.

[15]

    Tu regere Imperio Populos, Romane, memento:
    Hae tibi erunt artes etc.

          VIRG. AENEID. _lib. 6. v. 851_.

    ..... victorque volentes
    Per populos dat Jura.

          VIRG. _Georg. lib. 4. v. 561_.

[16] Bodin. de Republ. lib. I. c. 2. Scipion. Ammirat. ne' suoi Opusc.
Disc. 8.

[17] Bodin. de Republ. lib. 2. c. 2. Lipsius, Admiranda Urbis Romae
lib. 1. c. 3. in fine.

[18] Cyprian. lib. de Idolor. vanit. Minutius Felix in Dialog.
Octavius. Arnobius Adver. Gentes tib. 7. Hieronym. in Com. ad c. 2.
Dan. Lact. lib. Divin. Instit. cap. 18. Augustin. de Civit. Dei lib, 4.
c. 4. etc.

[19] In Panegyr. Julian. Cos.

[20] Lib. 2. contra Symmach.

[21] Zonaras ad Canon. et Constitut. Apostol. lib. 7. c. 27.

[22] August. lib. 5. cap. 12. et 15. de Civit. Dei.

[23] Lib. 5. Cod. Greg. tit. de Nupt.

[24] Siculus Flaccus de condit. agror. in princ.

[25] Justin. lib. 1. Instit. de pat. pot. §. jus autem lib. r.

[26] Sigon. de Antiq. Jure Civium Rom. cap. 6.

[27] Bodin. de Rep. lib. 2. cap. 2.

[28] Afflict. in prooem. Constit. Regni, Vin. lib. 1. Instit. tit. 1.

[29] Agell. lib. 16. noct. att. cap. 13. in fin.

[30] Suet. cap. 46. in August. P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum.
cap. 6. sect. 1.

[31] Palestrina.

[32] Exulibus impune degere licet Neapoli, Praeneste, Tibure; item
aliis in Urbibus, quibus hoc Jure foedus intercedit cum Romanis. Polyb.
Lib. 6.

[33] Castelluccio.

[34] Sessula.

[35] Cajazzo.

[36] Mola di Gaeta.

[37] Tranquil. in Aug. cap. 47.

[38] L. Roma, D. Ad Municipalem, L. 6. D. de Excusat. tut.

[39] Flac. de condit. agr. Alteserra Rerum Aquit. lib. 3 cap. 1.

[40] Ulpian in l. ager. D. de verb. oblig.

[41] Alteserra rer. Aquit. lib. 3. cap. 1.

[42] Dio. lib. 41.

[43] Alteser. loc. cit.

[44] Plin. lib. 3. c. 3.

[45] Pausanias in Achaicis.

[46] L. Roma, D. Ad Mun.

[47] L. in orbe 17. D. de statu hom.

[48] August. l. 5. de Civit. Dei c. 17. et in Ps. 58.

[49]

    Fecisti patriam diversis gentibus unam.
      Profuit injustis, te dominante, capi.
    Dumque offers victis proprii consortia Juris,
      Urbem fecisti, quod prius orbis erat.

                     Rutil. Lib. 1. Itiner.

[50] Justinian, in l. unic. C. de jure. Quirit. tol.

[51] L. unic. C. de usucap. et sublata differentia rer. mancipi, et nec
mancipi.

[52] August. loc. cit.

[53] Salvian. l. 5. de gubernat.

[54] Orosius l. 7. c. 28. Isidor. in Chron. Aera 447.

[55] Plin. l. 3. c. 5. Camil. Pellegr. in Campania disc. I. n. 7.

[56] Rocca di Mondragone.

[57] Buxento, nella Lucania, è l'istesso, che Petelia; e L'HOLSTENIO
dice che sia Policastro. Vedasi Binghamo Orig. eccl. Vol. 3 pag. 528.
Furono due Petelie, una ne Bruzj, della quale fa menzione Livio Decad.
3. lib. 3 cap 21. L'altra nella Lucania di cui favella STRABONE Rer.
Geogr. lib. 6.

[58] Policastro.

[59] Saticula, Colonia del Sannio, della quale non vi è ora vestigio.

[60] Plin. lib. 3 e. 5.

[61] Camil Pelleg. Camp. disc. 1 n. 7.

[62] Lupia, la Rocca, Valentia, Binona, Tempsa, Malvito, Besidia,
Bisignano, Namerto, Martorano, Locri, Girace, Petelia, Policastro,
Ruscia, Rossano, Turio, Terranova.

[63] Sigon. de antiq. jur. Ital. l. 2 c. 4.

[64] Gruter. Inscriptiones antiquae totius orbis romani, pag. 463.

[65] Gruter. p. 490.

[66] Gruter. pag. 411.

[67] Cic. pro Corn. Balbo.

[68] Livio chiama i Lucerini bonos, ac fideles sosios.

[69] Polyb. lib. 6.

[70] Sigon. de antiq. jure Italiae.

[71] Tutino dell'orig. de' seggi, c. 7.

[72] Lib. 1. praccidan. in Petron. Arbitr. cap. 2.

[73] Tacit. 15. Annal. 33.

[74] Ant. Aug. dial. 6 p. 156.

[75] Tutino, dell'orig. de' seggi, cap. 7.

[76] P. Lasena del Ginnasio napoletano.

[77] Strabo Geogr. lib 5.

[78] Varro l. 4. de ling. lat. c. 15. Jos. Scalig. in Var. de ling.
lat. eod. loc. num. 23.

[79] Spart. in vita Adrian. Apud Neapolim Demarchus.

[80] Pietro Lasena del Ginnasio Neap. c. 4. p. 74.

[81] Summonte lib. 1. c. 6.

[82] Cicer. pro Corn. Balbo.

[83] Polyb. lib. 6.

[84] Pietro Lasena, c. 3. dell'ant. Gin. Nap.

[85] Liv. lib. 35. c. 14.

[86] Camill. Pell. in Camp. disc. 4 n. 15.

[87] Liv. lib. 36.

[88] Camill. Pell. loc. cit.

[89] Liv. lib. 23. P. Carac de Sacr. Eccl. Neapol. monum. c. 6. sect. 1.

[90] Liv. lib. 29.

[91] Suet. lib. 3. c. 4.

[92] P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. c. 6. sect. 1.

[93] Vellejo lib. 1. hist. _parlando di Napoli e di Cuma_; utriusque
urbis eximia semper in Romanos fides facit eas nobilitate, atque
amoenitate sua dignissimas.

[94] Appian. Alessandr. delle guer. di Mitrid. Livio lib. 33. c. 45.
Sueton. lib. 3. cap. 37. Strab. lib. 12. Tacit. An. lib. 4. et lib. 12.
Dio. lib. 54. Vellejo lib. 2. Plinio ep. 24. lib. 8. et ep. 93. lib.
10. Plin. histor. lib. 4 c. 6. Diod. Sicul. lib. 5 Giustino lib. 33.
Plut. in vita Flam.

[95] Strab. in fin. libror. Geogr.

[96] Livio lib. 35.

[97] Cicero lib. 5. in Verrem.

[98] Valer. Max. lib. 7. c. 3. Cicero lib. 1. de offic.

[99] Strabo Geogr. lib. 4.

[100] Cicer. in Orat. de Prov. Consular.

[101] Camil. Pellegr. in Camp. dis. 4. n. 15.

[102] Cicer. ad Atticum lib. 10. epist. 11.

[103] Plutarc. in Pomp.

[104] Vellejus lib. 2.

[105] Suet. in Tiberio c. 4.

[106] Virg. 4. Georg. in fine. Silv. Italic. lib. 12.

[107] Franc. de Pietri lib. 1. c. 5 istor. Napol.

[108] P. Lasena Giu. Nap. c. 6. p. 104.

[109] Carac. de Sacr. Eccl. Neap. mon. cap. 10.

[110] Fulv. Ursin. de Nummis.

[111] Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. cap. 6. sect. 1.

[112] Camil. Peregr. Castig. in Falc. Benev. A. 1140.

[113] Gruter. inscript. tot. orbis, fol. 366 et fol. 374.

[114] Camil. Per. in Castig. ad Falc. Benev. Ad an. 1140.

[115] Alex. Teles. l. 2. c. 12. et 6.

[116] Fest. V. Praefecturae.

[117] Seneca de Benef. L. 7. c. 4.

[118] Cod. Th. tit. de Rep. et de Locat. Fund. juris emph. et Reip.

[119] Suet. l. 2. c. 92. Strab. l. 5. Dio. l. 52.

[120] Camill. Pelleg. in Cam. disc. 4. nu. 15.

[121] Gregor. l. 8. ep. 53. indit. 3.

[122] Fior. l. 1. c. 16.

[123] Scevola, et Africano nella l. 3. e l. 9. tit. 4. D. lib. 13.
Ulpiano l. 9. tit. 2. D. 45. Giuliano, e Papin. nella l. 17. et l. 50.
tit. 1. D. lib. 46.

[124] Scevola in l. qui Romae D. de verb. oblig. §. Callimachus.

[125] L. haeredes mei D. Ad S. C. Trebell.

[126] Freccia de subfeud.

[127] Ciatlant. del Sannio, lib. 3. c. 5.

[128] Spartian. in vita Adrian. Appian. Alessand. nel lib. 1. delle
guerre civili.

[129] Camil. Pell. in Camp. disc. 1. num. 8.

[130] Spartian. loc. cit. Quatuor. Consulares per omnem Italiam Judices
constituit.

[131] Leges Regiae in ordinem ex eorum fragmentis redactae, notisque ex
parte illustratae sunt a Paulo Manutio, A. Aug. Francisco Modio, Fulvio
Ursino, Lipsio, Rosino, Foresto, ac Balduino.

[132] L. 2. D. de orig. jur. princ.

[133] Dionis. Alicarnas. l. 5. Plutar. in Valer. Liv. l. 3. et 10.

[134] Aristot. lib. 1. Rethoric. ad Theodoct. cap. 4. Legum ferendarum
scientiae, terrarum peregrinationes sunt utiles, exinde enim gentium
instituta, legesque licet cognoscere. Emund. Meril. obs. l. 2. cap. 10.

[135] Di questi due grandi Legislatori diffusamente trattò Diodoro
Siciliano nella sua Biblioteca Istorica, l. 12.

[136] Gunrad. Rittershus. in Com. ad 11. LL. tab. c. I.

[137] Ritter. l. c.

[138] Liv. l. 3.

[139] Cic. l. 1. de Oratore

[140] §. lex. Inst. de jur. nat. gent. et. civ. Bodin. l. 1. de Repub.
c. 10.

[141] L. 2. §. iisdem temporibus, D. de orig. jur.

[142] §. Senatusconsultum Instit. cit. tit.

[143] §. Praetorum instit. tit. perpet. et temp. act. Budeus. in lib.
2. D. de statu hom. Rosin. l. 8. antiq. c. 5.

[144] L. si quis 10. C de condit. in deb.

[145] Jac. Gotofr. in prolog. ad Cod. Theod. cap. I.

[146] L. 2. D. de orig. jur.

[147] Georg. Pasq. de nov. inventis.

[148] Cic. lib. de orat. Viglius in Praefat.

[149] Cicer. loc. cit.

[150] Loiseau Des Ordres, cap 8. num. 24.

[151] Revard. de auth. Prud. cap. 14. et 15.

[152] L. 2. D. de orig. jur.

[153] L. 2. D. de orig. jur. in fin.

[154] Loyseau des Ordres c. 8. n. 27.

[155] Justin. in Instit. lib. 2. tit. 25.

[156] Spartian. in vita Adrian.

[157] Lamprid. in Alexand. Sever.

[158] L. cum virum 16. C. de fideicomm.

[159] L. casus majoris, C. de testam. l. 3. C. cod. tit.

[160] Agell. l. 1. noct. attic. c. 22. Bud. Annot. in Pand. l. 1 de
just.

[161] Valla Eleg. l. 3.

[162] Bud. Annot. in PP. l. 1 de just. et jur.

[163] Justin. in Instit. lib. 1. tit. 1: §. Responsa.

[164] Cont. 1. success. 12. Doujat Hist. jur. civ.

[165] Emud. Merill. lib. 1. obs. cap. 5. et 6.

[166] L. singularia D. de reb. credit. l. qui negotia, D. mandat. et
ibi Cujac. Vinc. qu. illustr. lib. 1. cap. 40.

[167] L. 2. D. de orig. jur.

[168] L. un. Cod. Th. de Resp. prud. Jacob. Got. loc. cit.

[169] Rittershus. Comm. in 12. Tab. cap. 5.

[170] Agell. lib. 20. cap. 1.

[171] Rivall. lib. 2. hist. jur. civ. Oldendorp. lib. var. lect.
ad jur. civ. interp. Forsterus lib. 1. histor. J. C. Rom. cap. 22.
Balduin, Comm. ad 12. Tab. II. Cont. lib. 2. subsec. lect. Rosin.
Antiq. Rom. lib. 8. cap. 6. Pighius, lib. 3. Annal. S. P. Q. R. Turneb.
in Adversar. lib. 13. cap. 26 et seqq.

[172] Bris. de Formul. A. Aug. de Legib.

[173] Dio. lib. 53.

[174] Suet. in Tiber. c. 30.

[175] Appian. Alex, in proëm hist.

[176] Dio. lib. 53.

[177] Juven. Satyr. 10.

[178] Loyseau des Seigneuries, cap. 2 num. 6. Vedi Bodin. lib. I de
Rep. c. 8.

[179] Loyseau loc. cit.

[180] L. ult. C. Th. Qui boni cedere, etc. L. ult. de off. Judic. lib.
1 de his qui ad min. lib. 5. et 8. de fide test.

[181] L. 3. D. de hist. qui in test. Del.

[182] L. 1. §. 1. D. de Const. Princ. lib. ult. C. de Leg.

[183] L. 3. C. Th. de decur. et silent. lib 36. de ann. et trib. lib
52. de haereticis.

[184] C. Th. de Mandatis Principum.

[185] L. 1. D. de Const. Princ.

[186] Instit. lib. 1 tit. 2. §. sed et quod Principi.

[187] Arthur. Duck. lib. 1. c. 3. n. 9. et 10.

[188] Jacob. Got. prolegom. ad C. Th. c. 1 Angel. Polit. ep. 9 lib. 5.
ad Jacobum Modestum.

[189] Jacobus Labittus in Indice legum.

[190] Jac. Got. in Prolegom ad C. Th. c. 1.

[191] Jacob. Got. lib. c.

[192] Ermog. lib. 2. D. de statu hom.

[193] Got. lib. c.

[194] August. lib. 2. ad Pollentium, de Adulterio, cap. 8.

[195] Freher. parerg. 9.

[196] Got. in prolog. c. 3.

[197] L. 7. C. de incest. nupt.

[198] Sueton. in Crassitio Grammatico.

[199] Bud. in annot. ad Pan. lib. 1. de Just. et Jur.

[200] L. 2. D. de or. Jur.

[201] Cit. lib. 2. D. de orig. Jur.

[202] Suet. in Augusto.

[203] Jacob. Gottofr. in C. Th. lib. 1. de Medic.

[204] Dio. in Juliano. Lampr. in Alex. Sev. Capitolin. in Pertinace.

[205] Simmac. lib. 1. epist. 15.

[206] Lampr. in Alexand. Severo.

[207] Loyseau des Ordres, cap. 8.

[208] Ulpian. l. cum filius, D. de reb. cred.

[209] Ulpian. in l. longius, §. ult. D. de Judic.

[210] Modestinus l. Titio, D. Ad Municip.

[211] Alteser. Rer. Aquitan. lib. 3. cap. 5.

[212] Philostr. lib. 7. de vit. Apollo. c. 17.

[213] Dio Chrysost. orat. 87. Altes. loc. cit.

[214] August. lib. 6. Conf. c. 8.

[215] Erric. Altissiodor. lib. 1. Vit. S. Germ.

    Incitus his animis, talique cupidine raptus,
    Qua caput est orbis terrarum maxima Roma
    Tendit iter, Latii nodos addiscere Juris,
    Et didicit, palmamque brevi tulit ille laboris.

[216] Constant. in vit. S. German. cap. 1.

[217] Rutil. Numat. lib. 1. Itin.

    Facundus juvenis, Gallorum nuper ab arvis
    Missus Romani discere Jura fori.

[218] Sidon. lib. 1. epist. 6.

[219] Claudian. in panegyr. 3. Stiliconis.

[220] Simmac. l. 8. epist. 68.

[221] C. Th. l. 1. C. de stud. liberal. urb. Romae.

[222] Cassiodor. l. 1. var. ep. 39.

[223] Cassiod. l. 4. c. 6.

[224] Cassiod. l. 9. c. 21.

[225] Savaro in Sidon. l. 1. ep. 6.

[226] Giustiniano ricuperata per Narsete l'Italia, ristabilì anche
l'Accademia di Roma, comandando che fossero pagati i salarj a'
Professori, siccome facevasi a' tempi di Teodorico. Leggasi la sua
Prammatica al Cap. 22. che vedesi impressa dopo le di lui Novelle, dove
si fa menzione de' Grammatici, Oratori, Siedici e Giurisperiti, che
insegnavano alla Gioventù.

[227] L. 1. C. qui aetat. vel profess. se excus. lib. 10.

[228] Gregor. Thaumat. in paneg. ad Orig. Socrat. l. 4. c. 22. Alteser.
rer. Aquitan. lib. 3. c 5.

[229] Vetus Orbis descriptio, n. 17. §. 3.

[230] Nonn. l. 41. Dionys. v. 174.

[231] Eunap. in vit. Pro pag. 150.

[232] Zacch. Scholast. de Opif. Mund.

[233] Liban. orat. 26. Apolog. p. 225. et ep. 329 et 550. ad Anatol.

[234] Agat. l. 2. hist.

[235] Justin. in prooem. Dig.

[236] Justin. in Constit. ad Antecessores, §. 7.

[237] L. 2. C. de Incolis.

[238] Agat. lib. 2.

[239] Petr. de Vin. l. 3. epist. 10.

[240] Georg. Pasq. de nov. inventis.

[241] Card. de Luca Conflict. legis, et rat.

[242] Suet. in Jul. cap. 24. Cicer. lib. 1. de Orat.

[243] Joh. Stob. serm. 41.

[244] Livio l. 1.

[245] Arist. lib. 3. Polit.

[246] Georg. Pasq. c. 5. de var. fortun. doct. Jur. §. 3. Adam. Rupert.
in Com. ad Pomp. c. 6.

[247] Baco de Augum. scient. lib. 1.

[248] Novel. 6. Can. duo sunt 96. dist. can. Quoniam, dist. 10. et can.
Principes caus. 23. quaest. 5.

[249] Dio lib. 54. Anast. Germon. lib. 1. de Sacr. immun. cap. 9. num.
3.

[250] Cic. de Divin.

[251] Virgil. l. 3. vers. 80.

[252] Grot. de imperio summ. potestat. cap. 2. num. 4.

[253] Novell. 42. Inst.

[254] Loyseau des Seign. cap. 15. n. 4.

[255] Can. 41. §. Item cum David, caus. 2. q. 7.

[256] Dupin. de Antiq. Eccl. disc. diss. 7.

[257] Bern. ep. 42.

[258] Chrysost. ad epist. Paul. ad. Rom. 13.

[259] Gregor. lib. 2. ep. 94.

[260] Loyseau loc. cit. n. 10.

[261] Augustin. ad c. 21. Joan. Richerius par. 3. axiom. 30. in
apologia pro Jo. Gersonio.

[262] 1. Reg. 8. vers. 7.

[263] Loyseau l. c. n. 13.

[264] Loyseau l. c. n. 16.

[265] 2. Paralipomen. 26 Grot. cap. 2. de imp. summ. potest. num. 5. V.
Bovadilla Polit. l. 2. c. 17. e 18.

[266] Bern. l. 2. de Consid. c. 1.

[267] Hieron. in epist. ad Titum.

[268] Pet. de Marc. de Patriarch. Juxta receptum ab omnibus Theologis
axioma, Monarchicum Ecclesiae Regimen Aristocratico temperari.

[269] Grot. de Imp. summ. potest. c. 11. n. 5.

[270] Hieronym. epist. 85.

[271] Eusebio.

[272] Grot. l. c.

[273] Conc. Chalcedonense actione 11.

[274] Grot. loc. cit.

[275] Hieronym. epist. 85.

[276] S. Epiph. haeres. 75.

[277] Dupin. de antiq. Eccl. disc. dissert. 1 §. 8.

[278] Hieron. in cap. 2 Isaiae. Et nos habemus Senatum nostrum coctum
Presbyterorum.

[279] S. Basil. epist. 319.

[280] Ciprian. epist. 10 lib. 1 epist. 7 lib. 2 epist. 2. lib. 4 epist.
10 l. 3 epist. 10 l. 4.

[281] Vedi Claud. Fontejo in Dissert. de Antiq. Jur. Presbyt. in reg.
Eccl. c. 7, 9.

[282] Caesar de Bello Gallic. l. 6.

[283] Ammian. Marcell. lib. 28 hist. cap. 5.

[284] Grot. l. c. c. 11. n. 8.

[285] P. Carac. de Sac. Neapol. Eccl. Mon. cap. 3. sect. 4.

[286] Juven. histor. Tar. l. 8 c. 1 et lib. ult. c. 1.

[287] Summont, lib. 1 c. 1.

[288] Beatil. ist. di Bari l. 1.

[289] Carac. de Sacram. Eccles. Mon. cap. 3 sect. 3.

[290] Suet. in Claud. cap. 36 Judaeos impulsore Christo assidue
tumultuantes, Roma expulit.

[291] Ottato, Ruffino, S. Agostin. Grot. de Imp. sum. pot. c. 11 n. 5.

[292] Salmas. in apparatu ad libros de primatu Papae: de quo admiratur
Grotius defendere sententiam a toto orbe destitutam. Grot. ep. 53.

[293] Irenaeus l. 4. c. 1. Tertullian. de praescript. Cyprian. de
Unit. Eccl. Arnob. adv. gentes. Lact. l. 4. c. 1. Cajus, Dionysius,
Corinthius, _ed altri riferiti da Leone Allacci_ de Eccl. Occident. et
Orient. consen. lib. 1. cap. 2. num. 7.

[294] Ovven. l. 1. epigr. 8.

[295] Min. Fel. Tertull. Apol. cap. 7, 8, 9. Orig. Cont. Cels. c.
6. pag. 293. Voss. in com. ad epist. Plin. ad Trajan. de Christian.
persec.

[296] Voss. l. c.

[297] Sueton. in Neron. c. 16. Tacit. An. 15.

[298] P. Carac. de Sacr. Neap. Eccl. mon. c. 2 sect. 2, 5.

[299] _Delle Memorie de' Martiri, e del concorso del Popolo alle loro
Tombe, onde si rendesser poi que' luoghi abitati, parlando Crisostomo
ne' Comm._ (Sal. 115 Tom. 5.) _dice_: Contemplare Civitates ad Martyrum
Sepulchra concurrentes, et Populos eorum amore inflammatos. _Leggasi
la dotta Epistola, che Valesio scrisse sopra questo soggetto, la quale
va dietro l'Istoria Ecclesiastica di_ Eusebio Cesariense; _e quanto
dottamente trattonne_ Giuseppe Binghamo (Orig. Eccl. l. 8. c. 1. §. 8 et
9.).

[300] Camil. Per. in Falcon. Benev. p. 179.

[301] Macrob. Saturnal. l. 1 c. 18. Tutin. dell'Orig. de' Seggi, c. 19.

[302] Strabone (Rer. Geog. l. 7.) _parlando di un Tempio d'Apollo posto
presso alla Marina nel littorale Ambracio pure lo chiamò così_, Actii
(quasi litoralem diceres) Apollinis Templum.

[303] Baron. Annot, ad Mart. 15. Maji. P. Lasena Ginn. Napol. cap. 6
pag. 104.

[304] Tutin. dell'origine de' Seggi, cap. 4.

[305] Simmac. ep. 27. lib. 8.

[306] Cam. Pellegr. nella Camp. in fin.

[307] Chioccar. de Episc. Neapol. in Severo.

[308] Discorso del P. Fr. Girolamo Maria di S. Anna Carm. Scal.
Dell'ant. Cattol. Relig. e Nobiltà di Nap.

[309] Grot. de imp. sum. pot. c. 11. n. 8.

[310] Act. cap. 15.

[311] Von Mastric. de or. et pr. Jur. Can. cap. 1. Doujat. histor. jur.
can. par. 1. cap. 1.

[312] L. sodales 4. D. de Colleg. V Desider. Herald. observat. et
emend. lib. c. 42. Salmas. observat. ad Jus Attic. et Rom. cap. 4.

[313] Doujat, hist. du Droit Canonique. part. 1. cap. 1.

[314] Dupin. de ant. Eccl. disc. dissert. 1.

[315] Dupin. de antiq. Eccl. disc. diss. 1.

[316] Act. 14. v. 23. 2. ad Corinth. 8. vers. 19.

[317] Can. sacrorum dist. 63. can. quanto, can. nosce. ead. dist.

[318] Ciron. in cap. 1. de restitut. spoliate. Marca de Concord. lib.
8. c. 2. §. 2.

[319] Cyprian. ep. 33.

[320] Tertull. Nam nemo compellitur, sed sponte confert. Dupin ad Cens.
in Bibl. t. 6. in fin. c. 3. §. 13

[321] Si leggono sotto il tit. de offic. Rect. Provin. nel Cod. Teodos.

[322] Pagi dissert. de Consulib. pag. 79.

[323] Euseb. lib. 8. cap. 17. Vales. ibidem.

[324] Jacob. Guther. de off. domus Aug. lib. 1. cap. 45.

[325] Jacob. Guther. de off. domus. August. c. 6.

[326] Petr. de Marca de Patriar. Constant. inst. Dupin de antiq. eccl.
disc. disser. 2. §. 8. l. 9. C. Th. 9. de Legatis, lib. 3. C. Th. de
equor. coulat. Balsamo in Cap. 9. Concil. Chalcedon.

[327] Paol. Diac Ist. Long. lib. 2. cap. 11.

[328] Pellegr. nella Campania.

[329] P. de Marca De Concor. l. 1. cap. 3. n. 12.

[330] Cam. Peregr. diss. 2. de Finib. Duc. Benev.

[331] Jacob. Guther. de Off. domus Aug. lib. 2. cap. 1.

[332] Plin. in Paneg.

[333] Guther. loc. cit. cap. 2. de Off. dom. Aug.

[334] Guth. loc. cit. c. 3.

[335] Codin. de Off. aul. Const. Got. in Notit. PP. t. 6. C. Th. Guth.
de Off. dom. Aug. lib. 2. cap. 1, 2, 3, 4.

[336] Petr. de Marca de Patriar. Const. instit.

[337] Jacob. Got. in Notitia, tom. 6. C. Theod.

[338] L. 5. C. de off. Rect. Provinc. Revard. Collect. 3, 10 Got. l.
unic. C. Th. de om. act. impetr.

[339] Cod. Th. tit. de Off. Rect. Prov.

[340] L. 8. G. Th. de accus.

[341] Guther. de Off. domus Aug. lib. 1, cap. 5, 6, 7, 8.

[342] Zeno in l. 1. C. ut omn. Jud. tam. civil.

[343] L. 13. C. Th. de accusation.

[344] Paolo Diac. lib. 5. cap. 11.

[345] Lib. 1. de Cens. l. 1. de petit. et delat.

[346] Pagi in disser. de Consulib. pag. 145.

[347] Got. in Notitia Dign. tom. 6. C. Theod.

[348] L. 4 C. Th. de divers. rescript.

[349] L. et si 4. C. contr. ius. ec.

[350] Cap. de caetero 5. extr. de sentent.

[351] Got. in Prosopogr. verb. Lollianus, tom. 6 C. Th.

[352] Firmic. in praefat. operis l. 8, c. 15.

[353] Ammian. Marcellin. l. 16, pag. 72. in gest. An. 356.

[354] Ath. in Apol. ad Costant. pag. 526.

[355] Gotofr. in Prosopogr. tom. 6. C. Theod.

[356] L. 25. C. Th. de Appellat.

[357] L. 7. C. Th. de appell.

[358] Symmac. Ep. 53. l. 10. Divo Juliano moderante Remp. cum Lupus
Consulari jure Campaniae praesidens, Terracinensium contemplaretur
angustias.

[359] Cam. Pell. in Camp.

[360] Idatius in Fastis.

[361] Zosim. lib. 3. p. 733. Sozomeno l. 6. c. 6.

[362] Filostorg. l. 8.

[363] Gothofr. prolog. C. Th. c. 8.

[364] Pagi dissert. de Consulib. pag. 259.

[365] Am. Marcell. lib. 27. pag. 370.

[366] Gothofr. in Prosopograph. C. Th. tom. 6.

[367] L. 24. C. Th. de Curs. pub.

[368] L. 68. C. Th. de Decurionib.

[369] L. 5. C. Th. ad S. C. Claudian.

[370] Got. in d. l. 5.

[371] L. 71. C. Th. de Decurionib.

[372] Got. prolegom. C. Th. c. 8.

[373] Got. in Prosop. C. Th. t. 6.

[374] L. 14. C. Th. de Extraord.

[375] Got. in Prosopogr.

[376] L. 1. C. Th. de Colleg.

[377] L. 1. C. Th. de Indulg. debit.

[378] Athanas. Epist. ad Solitarios.

[379] Paul. Diac. l. 2. c. 11.

[380] Si legge presso l'Ughelli Ital. Sacr. de Episc. Venus.

[381] Sym. lib. 10. ep. 5. etc. 53.

[382] Gut. de offic. dom. Aug. lib. 1. c. 8.

[383] L. 1. C. Th. Quibus equor. us.

[384] Got. in Chronol. C. Th. pag. 76.

[385] Aug. lib. 18. de Civit. Dei. cap. ult.

[386] L. 158. C. Th. de Decurion.

[387] L. 7. C. Theod. de indulg. debit.

[388] Vengono rapportate da Mazza de Reb. Saler.

[389] L. 1. C. Th. de Relat. l. 1. C Th. de Appel.

[390] L. 3. C. Th. de Decur.

[391] L. 15. de Decur. lib. 10.

[392] L. 1. C. Th. ad l. Corn. de Falso.

[393] L. 1. C. Th. de Filiis milit. appar.

[394] L. 2. C. Th. de Epis.

[395] Baron. ad A. 319. num. 10.

[396] Ammian. Marcell. lib. 27. pag. 360.

[397] L. 2. C. Theod. de officio Rector. Prov.

[398] L. 25. C. Theod. de Cursu publico.

[399] L. 5. C. Th. de contr. empt.

[400] L. 35. C. Th. de oper. public.

[401] Got. in Proleg. Cod. Theod. cap. 8.

[402] C. Theod. tit. de Usuris.

[403] L. 27. C. Theod. de indulg. debit.

[404] L. 1. C. Theod. Quib. equ. usus.

[405] L. 7. C. Th. de Indulg. debit.

[406] Prudent. l. 2. adv. Simmac. Claud. de Bello Getico.

[407] Claud. l. de vict. Stilic.

[408] Jornand. cap. 30.

[409] Paul Aemil. de reb. Franc. l. 1.

[410] L. 7. C. Th. de Indul. debit.

[411] L. 6. C. Th. de testam.

[412] Pagi Dissert. de Consulib. pag. 282.

[413] Afflict. in Constit. in praelud. q. 2. num. 2. et qu. 20. num. 1.

[414] Tappia de jur. Regni lib. 1. de legib. lib. 2. num 6. Ponte de
potest. proreg. tit. 11. n. 25.

[415] Frec. de Subfeud. lib. 1. pag. 53.

[416] Marca lib. 3. c. 18 et lib. 6 c. 6 §. 5. Schelstrat. antiq.
illust. part. 2 diss. 3 c. 8.

[417] Grat. distint. 96 cap. Constantinus 14.

[418] D. Antonin. Archiep. Florent. 1. part. hist. 8 cap. 1.

[419] Nicol. de Cusa. Concord. Cathol. 3.

[420] Marca l. 3 c. 12 n. 3 de Concor. Sacer. et Imp.

[421] Gratian. dist. 96. c. Constantinus 14.

[422] Balsam. in Photii Nomocan. tit. 9 cap. 8.

[423] Cap. futuram 12. qu. 1 c. fundamenta, de elect. in 6. Leo IX.
Epist. 1 ad Michael.

[424] P. Damian. discep. Sinod. Blastar. Synop. Jur. Can. C. de Bulgar.
Cypr. et Iber.

[425] Burfat. in fin. 1. volum. cons.

[426] Alberic. in l. 1. C de off. Praefect. urb.

[427] V. Zosimum. l. 2 et Anonymum Sirmondi.

[428] L. un C. Th. de his, qui veniam aetat.

[429] L. 2 C. eod. tit.

[430] Zosim. l. 2.

[431] Got. in Chronol. C. Th. A. 324.

[432] Euseb. lib. 4. de vita Constant. c. 61 et 62.

[433] Teodoret. lib. 1. Hist. cap. 32. Sozom. lib. 2. cap. 34. Socrat.
lib. 1. cap. 39. Fozio Cod. 127.

[434] Ambros. Serm. de obitu Theodos. Hieron. in Chronic. Conc. Arimin.
apud. Sozom. lib. 4. cap. 18.

[435] Arnal. Ars cogitand. part. cap.

[436] Emanuel Schelstrat. Antiq. illustr. part. 2. dissert. 3. c. 6.

[437] August. lib. de haeresib. c. 48.

[438] L. 4. C. Th. de Episc.

[439] Socrat. l. 5. c. Sozom. l. 7. c. 4

[440] Ambr. in Orat. fun. Valent.

[441] Torq. Tasso canto 12. ott. 75. G. L.

[442] Gregor. in Orat. in baptis.

[443] Ambros. in Serm. de Sanct. et alibi.

[444] L. unic. C. Th. si quis eam cujus tut.

[445] C. Th. de falsa moneta.

[446] Auct. vitae Costant. l. 3. cap. 46 e 17.

[447] L. 5. C. Th. de Navicul. L. 1. de praed Navicul. L. 4. de infirm.
his, quae sub Tyran.

[448] P. Carac. de Sacr. Neap. Eccl. mon. cap. 3. sect. 4.

[449] Tutin. dell'Orig. de' Seggi, c. 2.

[450] P. Carac. de Sacr. Neap. Eccl. monum. c. 21. sect. 5. et 6.

[451] Idem Aut. l. c. sect. 2. et 3.

[452] Am. Marcel. l. 16 c. 21. p. 205.

[453] Got. in Prolegom. C. Th. c. 12.

[454] L. 1. C. Th. de emendat. serv.

[455] L. ult. C. Th. de his, qui a non Domino.

[456] L. 7. C. Th. de Sponsalib.

[457] L. un. C. Th. de infir. poen. coelib.

[458] L. 3. ad S. C. Claudian. L. un. de commis. rescin.

[459] L. 1. C. Th. de rapt. virg.

[460] Nazar. in Panegir. Porfir. carm. 6.

[461] L. 1. C. Th. de Feriis.

[462] L. un. C. Th. de manum. in. Eccles.

[463] L. 4. C. Th. de Episc.

[464] L. 3. C. de Episc. et Cler.

[465] Sozomen. l. 6. c. 7 et 21.

[466] Tomasin. dissert. in Conc. praefat. 1. nu. 5. Gio. Filesaco
tract. de sacr. epis. auth. c. 7 §. 7 et tract. de idolatr. politic. c.
9.

[467] L. un. C. Th. de domin. rei, quae poscit. L. 3. C. Th. de contr.
empt. Toto tit. C. Th. ad S. C. Claudian. et de longa consuet.

[468] L. 10, C. Th. de operib. publ. l. 5. C. Th. de sepulch. viol.

[469] Nazar. in Orat. paneg.

[470] Isidor. lib. Origin. 5. cap. 1

[471] Prosp. Aquit. l. prior. Chron.

[472] Am. Marcell. l. 16. c. 2. pag. 205.

[473] L. un. C. Th. de dominio rei quae.

[474] L. 3. C. Theod. contr. empt.

[475] Liban. orat. 10 p. 267. in fun. Jul.

[476] Michel di Mont. ne' suoi Saggi, l. 2. c. 18.

[477] Amm. Marcell. l. 30.

[478] Mamertin. in grat. act. pro Consulatu.

[479] Fot. homil. 7. in servum Centurionis, quem Dominus sanavit.

[480] L. 1. C. Advocat. diver. judic.

[481] Ammian. Marcell. lib. 3. pag. 451.

[482] L. 2. et 3. C. de Legib.

[483] L. 7. C. de precib. Imp. offerend. L. pen. C. si contra jus.

[484] Euseb. hist. Eccl. lib. 5. Hieron. init. Chron.

[485] Jo. Bap. de Gazalup. de S. Severino in tract. de modo stud. in
utroque jure, qui subjectus est Vocabulario juris. p. 254.

[486] L. unic. C. Theod. de Profess. qui in urbe Constant.

[487] L. 2. §. quae omnia, C. de vet. jur. enucl. et in Prooemio.

[488] Novell. 1. Teod.

[489] Eunap. in vita Aedisii, pag. 72.

[490] Cit. Novella 1.

[491] Cit. Novella 1.

[492] Gotofr. in Prolegom. c. 2.

[493] L. 2. 3 et 9. C. Th. de Malefic. et Mathem.

[494] L. 1. 4. 5. 6. C. Th. de his, qui seq. relig.

[495] Rittershus. in jure Justinian. in prooem. c. 3. n. 12. Got. in
Prolegom.

[496] Novel. 13.

[497] Nov. 10. de confirmand. his, quae administr.

[498] Doujat. hist. jur. civ.

[499] Gherard. Von Mastrich. hist. jur. pontif. num. 46.

[500] Aug. l. 2. ad Pollent.

[501] Marca l. 6. de Conc. c. 1. Lupo can. 4. Nic. part. 1. Schelstrat.
antiq. illustr. part. 1. diss. 1. c. 3. art. 1. Leo Allat. de Eccl.
Occid. et Orient. conses. lib. 1. c. 2.

[502] Dupin de antiq. Eccl. discipl. diss. 1. §. 6.

[503] Orig. Eccles. lib. 9. cap. 1. §. 5. e 6.

[504] Dupino de Antiq. Eccles. discipl. diss. 1.

[505] Di Arles.

[506] Dupino l. c.

[507] Di Bourges.

[508] Di Bourdeaux.

[509] Alteser. rer. Aquitan. l. 4. c. 4.

[510] P. de Marca, de Conc. lib. 1. c. 3. n. 12.

[511] Sirmond. de Suburb. Region l. 1. c. 7.

[512] Schel. Antiq. illustr. par. 1. dis. 2. c. 3. Leo Allat. de Occid.
et Orient. cons. l. 1. c. 9.

[513] Dupin loc. cit.

[514] Gothofr. Topogr. pag. 420. Cod. Th. tom. 6.

[515] Dupin. l. c. pag. 39.

[516] Dupin. de Antiq. Eccl. disc. diss. 1. pag. 10.

[517] Sirmond. de Eccl. suburb. l. 2. c. 7.

[518] Dupin. l. cit. p. 40.

[519] P. Caracc. de Sacr. Neap. Eccl. monum. de Severo Ep.

[520] Di Capua Epist. 13. lib. 4. et Ep. 26. l. 8. Di Napoli Epist. 40.
l. 8. et Epist. 15. l. 2. Di Cuma Epist. 9. l. 2. Di Miseno Epist. 25.
lib. 7. Di Apruzzi Epist. 13. lib. 10.

[521] Apruzzi _del cui Vescovo parla_ S. Gregorio M. _in questa_
Epist. 13. Lib. 10., _è lo stesso che_ Teramo, _da' Latini chiamato_
Interamnia. _Luca Olstenio nelle Note alla Geografia di_ Carlo da S.
Paolo, in Piceno Suburbicario, §. Interamnia, _dice così_: Interamnia,
Aprutium jam olim dicta, cui Opportunum Episcopum constituendum
scribit Gregorius M. Lib. 10. Ep. 13. In veteri MS. Arnobii apud. Card.
Barbarinum Abruptiensis. Ecclesia vocatur; sed nomen illud a Praegutiis
detortum existimo.

[522] Leo Ep. 16. ad Ep. Sicil. Greg. Ep. 13. l. 5.

[523] Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. c. 4. sect. 4.

[524] V. Fleury Costum. de' Cris. cap. 41.

[525] Della differenza fra gli Asceti, e Monaci, sono da vedersi
Valesio (1), e Binghamo L. 7. c. 1. §. 2. e 3. (1) Not. in Euseb. l. 2.
c. 7.

[526] L. 20. C. Th. de Episc. et Cler. Got. in Parat. in C. Th. l. 1.
de Monach.

[527] Pallad. ad Laudum. Et Romae, et in Campania, et in iis, quae sunt
circa eas, partibus.

[528] P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. c. 2. sect. 5.

[529] Eunap. ed altri, che possono vedersi, fra gli altri, presso Amaja
l. 26. C. de Decurion. l. 10.

[530] L. 26. C. de Decurion. lib. 10. tit. 31.

[531] Eunap. Aedes. p. 78. Chrysost. or. 17. ad Pop. Teodor. l. 5. c.
19. Zosim. l. 5. p. 800. Liban. orat. Ambr. Epist. 29.

[532] L. 12. C. Th. de Monach. Got.

[533] Filon. in Euseb. de Praepar. Evan. Loyseau des Ordres.

[534] Lib. 7. c. 2. §. 12.

[535] Pol. Virg. l. 6.

[536] Loyseau des Ord.

[537] Duar. de Ministr. et Benefic. l. 1. c. 21.

[538] Bingh. l. 7. c. 2. §. 9.

[539] Onofr. Panvin. Adnot. in Platin vit. Gelasii.

[540] Ospinian. de Orig. Monach. l. 3. cap. 6.

[541] L. c. §. 9.

[542] Ospin. de Orig. Monach.

[543] Crescell. Collectanea de Orig. et fundat. Ord. Monast.

[544] Albert. Archieraticon, p. 601.

[545] Lindan. Panopl. l. 4 c. 75.

[546] Gratian. caus. 16. qu. 1. post. cap. 39.

[547] Chioccar. de Epis. Neap. in Sancto Severo.

[548] Ughell de Epis. Neap. tom. 6 pag. 49.

[549] P. Carac. de Sacr. Eccl. Neap. monum. de S. Gaudioso.

[550] Ugh. l. c. p. 61. e 93.

[551] Franc. Turrian. lib. singulari adver. Magdebur. Centur.

[552] Guilielm. Bevereg. Cod. Can. Eccles. primit. vindicatus.

[553] Baron. ad A. 32. §. 27. Bellarm. de script. Eccles. in Clemen.
Perron. in Replic. ad Reg. Brittan. c. 24.

[554] Baron. ad an. 302. Pagi ad 304. n. 12. S. Aug. contra Petilian.
c. 16.

[555] Ciron. 4 obs. 5.

[556] P. Carac. de Sacr. Eccles. Neapol. mon. cap. 2. sect. 3.

[557] Thomas. de vet. Eccl. disc. part. 2. lib. 1. cap. 9 num. 10.

[558] Marca l. 3 de Concord. c. 3.

[559] Doujat. hist. du Droit Canon. part. 1. c. 6.

[560] Conc. Chalced. can. 1.

[561] Doujat. loc. cit. cap. 8.

[562] Doujat. loc. cit. cap. 8.

[563] Euseb. in vita Constant. lib. 3. c. 18.

[564] Epist. Synodica. Socrat. 5. hist. Eccl. 8.

[565] Justell. in Praefat. ad Cod. Can. Eccl. Africanae.

[566] Cap. cum non ab homine, Extr. de judic.

[567] Chrisost. 1. Timot. 33 tit. 17. Lactant. l. 5 c. 13. Cassiod. l.
2 epist. 27. Bernar. ser. 66 in Cautic.

[568] Chrisost. de Consid. l. 1.

[569] Can. Principes 2. qu. 5 Can. inter 33 qu. 2.

[570] Can. Regum 23. qu. 5.

[571] Lucae 12. Apost. ad Roman. 13. Irenaeus l. 5 c. 20. Origen.
epist. ad Rom.

[572] Chrisost. Homil. 23 in epist. ad Rom. Ambros. in Luc. l. 4 c. 5.
Augustin. in Joan. tract. 6. Gelas. epist. 8.

[573] Theodoret. lib. 2 c. 9.

[574] L. 2. C. Th. Quorum appel.

[575] Dupin. diss. ult. §. ult.

[576] L. 33 et 37. C. Th. de Ep. et Cler. L. si quis, C. de Episc.
audient. Novel. Valent. III tit. 12. de Episc. judic.

[577] L. omnes 33. C. de Episc. et Cler.

[578] L. 3. Extrav. de Episc. judic.

[579] C. continua 5. 11. qu. 1.

[580] Anselm. l. 3 e. 109.

[581] Dupin. dis. ult. §. ult.

[582] L. pupillus, §. territorium, D. de verbor. signifi.

[583] Gio. Galli qu. 103. 245 et 275. Le Maître tract. de Appel. c. 5.
Loyseau des Sign. c. 15.

[584] Cap. Episcopus de offic. ord. in 6.

[585] Le Maître de Appel. c. 5.

[586] Volater. L. 22.

[587] C. 1. de dolo, et contum. cap. licet, de poenis, c. irrefragab.
§. ult. de offic. ordin.

[588] Loyseau loc. cit.

[589] L. aliud est fraus, §. inter poenam, de verb. signif. L. 1. si
qu. jus dicenti non obtem. et tot. lit. de mod. mult.

[590] L. 1 C. Th. de Episcop. judic.

[591] Capitul. Caroli M. l. 6 c. 281.

[592] Selden. in uxor Hebraea l. 3 cap. 18 p. 564 et de Syned. l. 1 c.
10 p. 318.

[593] Inn. c. novit. 13 de Judic.

[594] Grat. 11. qu. 1 c. 35, 36, 37.

[595] Loyseau des Sign. c. 15.

[596] Got. t. 6 in fin. C. th. l. 1. de Episc. Judic.

[597] L. 3 de Episc. Judic.

[598] Nov. Valent. de Episc. Judic.

[599] L. 7. C. de Epis. audient.

[600] Basil. c. 247.

[601] Gregor. Niss in vita Greg. Neocaesar. Ambros. Ep. 24 et l. 2
offic. c. 24. August in Psal. 128 et l. de Oper. Monac. c. 20 et homil.
de poenit. 50. c. 12 et Ep. ad Procul donatistam Ep. 147 Socrat. lib.
7 c. 36. Nicef. l. 14 c. 39.

[602] Nov. 12. Valent.

[603] L. cum Clericis, l. omnes 33. C. de Epis. et Cler.

[604] Loyseau des Sign. c. 15.

[605] Ammir. ne' suoi Opusc. disc. 7.

[606] L. 2. D. de Colleg. l. 1. C. de Judaeis l. 8. C. de. haered.
instit.

[607] V. Rittershus. Com. in l. 12. tab. de Colleg. jur. c. 8.

[608] l. 20 de reb. dub.

[609] L. 4. C. Th. de Episc. et Cler. l. 1. C. Just de SS. Eccl.

[610] Euseb. lib. 10. c. 1. Socrates l. 1. Sozomenus, Eutrop. et alii.

[611] Auth. vitae Constant. lib. 2, cap. 20.

[612] Chrisost. in Matth. hom. 26.

[613] L. 20. C. Th. de Episc. et Cl.

[614] L. 21. C. eod. tit.

[615] L. 27. C. Th. de Episc. et Cl. Sozom. l. 7. cap. 16.

[616] L. 28. C. Th. eod. tit.

[617] Marcian. Novell. de testam. Cl. ult.

[618] Got. l. 28. C. Th. eod. tit.

[619] Ambros. libel. ad rer. relat. Symach.

[620] Hier. Ep. 2. ad Nepot. de vit. Cler.

[621] Pet. Greg. de Repub. lib. 13. cap. 16. Polid. Virg. lib. 13.
hist. Anglic.

[622] Jo. Fab. ad l. quoties, C. de rei vind.

[623] Pap. l. 1. Rapsod. an. 7. art. 3.

[624] Petr. Belluca in Specul. Princ. tit. 14.

[625] Narbon. l. 35. Gl. 5. n. 30. tit. 3. l. 1. nov. recompil. Molina
de contr. tit. 2. d. 140. lib. 2 t. 8.

[626] Gaill. lib. 2. observ. 32. n. 5. Chopin. de doman. Franch. l. 2.
tit. 14. Christin. t. 1. decis. 201.

[627] Brant. 1. hist. der. Reform. 1. p. 25. Ant. Matth. manud. ad jus
Can. l. 2. tit 1. Bodin. de Rep. l. 5. c. 2.

[628] Bossius de poenis num. 45. Signorol. de Homedeis cons. 21.
Statut. Civit. Mediol. nov. compil. tit. de poen. colleg.

[629] Costit. Regn. de Reb. stab. Eccl. non alienand.

[630] Goldasto Collect. Const. Imp. t. 2. Edit. Francf. an. 1713. p. 79.

[631] Lunig. tom. 2. del Codice Diplomatico d'Italia, p. 882.

[632] Grot. in Proleg. in hist. Got.

[633] Grot. in Prolegom. pag. 13.

[634] Paulus Aemil. de reb. Franc. lib. 1.

[635] Paul. Aemil. loc. cit.

[636] Greg. L. 2. hist. Franc. cap. 7.

[637] Jornand. de reb. Getic. cap. 24.

[638] Altes, Rer. Aquit. lib. 5 cap. 12.

[639] Jornand. de reb. Getic. cap. 41. Paul. Aemil. loc. cit.

[640] Altes. loc. cit. cap. 13.

[641] Sidon. lib. 1. Ep. 2.

[642] Claud. l. 2. ad Rufin.

[643] Oros. l. 7. c. 29.

[644] Arthur. Duck de usu, et auth. jur. civ. L. 2. c. 6. num. 14.

[645] Goldast. Const. Imp. tom. 3.

[646] Sidon. carm. 7.

[647] Carm. de Narbon.

[648] Grot. in Proleg. hist. Got.

[649] Isid. in Chron. Aera 504.

[650] Sidon. lib. 8. Epist. 3.

[651] Sidon. l. 3. c. 1.

[652] Sidon. lib. 2. Ep. 1.

[653] Salvian. lib. 5. de Guber Dei.

[654] Oros. lib. 7. cap. 28.

[655] Isid. in Chronic. Aera 447.

[656] Baron. Ann. tom. 5. A. 468. n. 11.

[657] Gregor. Tur. hist. Franc. lib. 2. cap. 23.

[658] Ciron. obs. jur. can. l. 5. c. 1.

[659] Altes. rer. Aquit. lib. 5. cap. 15.

[660] Ciron. l. 5. c. 1.

[661] Savaro in l. 2. Sid. Ep. 1.

[662] Grot. in Nomencl. in hist. Got.

[663] Cassiod. l. 3. var. c. 1.

[664] Got. in Prolegom. C. Th. c. 5. n. 6.

[665] Got. in Proleg. C. Th. c. 3.

[666] Gothof. in Prolog. C. Th. c. 5.

[667] Altes. rer. Aquit. l. 3. c. 7.

[668] Sigebert. de Eccles. Scrip. c. 70. Anianus vir spectabilis,
jubente Alarico R. volumen unum de legibus Theodosii Imp. edidit.

[669] Got. in Proleg. c. 5

[670] Loiseau des Ordres.

[671] Altes loc. cit. Cironio l. 5 obs. jur. can. c. 2. Gothofr. in
Proleg. c. 5.

[672] Decian. in Apolog. adver. Alciat. lib. 2 cap. 7.

[673] Arthur. Duck l. 2 c. 6 n. 14.

[674] Got. in Proleg. c. 5.

[675] Savaro sup. Sidon l. 2. Ep. 1.

[676] Ivo Carnot. Ep. 112 quod ex legib. Theod, laudat, id habet ex
interpretat. ad Paul. 5. sent. 11.

[677] Gratian. 2 qu. 6 c. id ex interpretat. in 5 Paul. sent. tit. de
cau. et poenis appellat. §. 1.

[678] Got. in Proleg. c. 6.

[679] Goldast. com. 1. Const. Imp. rapporta le querele di Teodorico Re
d'Italia contra Clodoveo, trattandolo da usurpatore e tiranno, perchè
senza giusta causa avesse mosso le armi contro Alarico.

[680] Greg. Tur. l. 2 hist. Franc. cap. 3.

[681] Grot. in Proleg. hist. Got.

[682] Isidor. Era 592. Grot. in Prolegom. hist. Got.

[683] Isidor. Era 606.

[684] Isidor. in Chron. Era 608.

[685] Ciron. l. 5 obser. jur. can. c. 2.

[686] Altes. rer. Aquit. l. 3 c. 11. Got. in Proleg. C. Th. c. 7.

[687] Leg. Visig. lib. 2 tit. 1 c. 9.

[688] Gonzal. in c. super specula, de privil. nu. 2.

[689] Cod. LL. Visig. lib. 2 tit. 1 c. 10. Got. in Proleg. Ced. Th. c.
7.

[690] Got. loc. cit.

[691] Cod. LL. Visig. l. 5 tit. 5 c. 9 l. 1. C. Th. de usuris Cod. LL.
Visig. lib. 3 tit. 1 c. 1 l. un. C. Th. de nupt.

[692] LL. Visig. l. 4. c. 11.

[693] Cujac. de Feud. l. a. tit. 11.

[694] Arthur. Duck l. 2 c. 6 n. 15.

[695] Grot. in Proleg. hist. Got. Postquam è Saracenorum manu
recuperari partes Hispaniae coepere, resuscitatae a Veremundo,
Aldelfunso, Ferdinando, ut Rodovicus nos docet, Gothicae leges: quarum
Corpus Forum Judicum, et olim, et nunc, dicitur fons verus Hispanici
juris.

[696] Covar. l. 1 var. resol. c. 14 n. 5. Arthur. Duck loc. cit. n. 16.

[697] Cujac. loc. cit.

[698] Piteus ad Edoard. in Ep. praeposita ad Edictum Theodorici in
oper. Cassiod.

[699] Grot. in Proleg. hist. Got. p. 51.

[700] Arthur. Duck de usu et aut. jur. civ. cap. 6 num. 14.

[701] Jornand. hist. Got. c. 48. Grot. in Proleg. hist. Got.

[702] Grot. in Proleg. hist. Got.

[703] Jornand. loc. cit.

[704] Jornand. de reb. Get.

[705] Pagi Dissert. de Consulib. p. 288.

[706] Jornand. de reb. Get. Augustulum filium ejus de Regno pulsum, in
Lucullano Campaniae Castello exilii poena damnavit.

[707] V. Pagi in Proleg. de Consulib. nu. 40.

[708] Jornand. de reb. Get.

[709] Jornand. de reb. Get. Zenonisq. Imperatoris consulto privatum
habitum, suaeque gentis vestitum deponens, insigne regii amictus, quasi
jam Gothorum, Romanorumque regnator, adsumit.

[710] Ennodii Panegyricus, apud Cassiod.

[711] Proc. l. 1. hist. Got.

[712] Agatia l. 1.

[713] Pagi dissert. de Consulib.

[714] Cassiod. l. I. Ep. I p. 300.

[715] Pragm. Sanctio Justin. post Nov. cap. 1 et 2.

[716] Jornand. de reb. Gotic.

[717] Cassiod. l. 3. c. 43 et l. 1. c. 27.

[718] Got. in Proleg. ex Gelasii PP. Ep. in decreto Ivonis part. 1. c.
18. ad Theodoricum.

[719] Alies. Rer. Aquit. l. 3. c. 14. ex decreto Gratiani can. certum
12 dist. 10.

[720] Got. in Proleg. c. 3.

[721] Cassiod. lib. 1. Ep. 1.

[722] Edict. Theod. in operib. Cassiod.

[723] Cassiod. l. 2. var. Ep. 13.

[724] Cassiod. lib. 7. cap. 3.

[725] Grot. in Prolegom. ad hist. Gothor.

[726] Cassiod. lib. 6. cap. 7. Cap. 7.

[727] Clenardi Epistolae ad Arnoldum Streyterium, et ad Jacobum Latomum
A. 1541. Geogr. Pasquius de Nov. inv. de varia fortun. Doct. Juris.

[728] V. Afflict. in Praelud. ad Constit. Regn. Phil. Comin. Koppin. de
Demanio Franciae.

[729] Pet. Pantinus de Diguit. Goth. Aulae.

[730] Gro. in Proleg. ad hist. Gothor.

[731] Cassiod. l. 3 c. 27.

[732] Cass. l. 4 c. 10.

[733] L. un. Li nullas ex Vicanis pro alien. vican. deb. ten. l. 11.

[734] Novell. 52 et 154.

[735] Cass. l. 4 c. 5.

[736] Petrus Bertius in Vita Boëtii.

[737] Cas. l. 4 c. 50.

[738] Procop. l. 1 hist. Got.

[739] Cas. l. 6 c. 24.

[740] Cas. l. 2 c. 26.

[741] Cas. l. 6 c. 23.

[742] Cas. l. 6 c. 26.

[743] Cas. Var. l. 11 c. 37 et l. 12 c. 1 et 3.

[744] Cas. l. 2 c. 26.

[745] Cas. lib. 5 c. 7 et 31.

[746] Cas. l. 2 cap. 37.

[747] Cas. l. 12 c. 14.

[748] Cas. l. 1 c. 3.

[749] Cas. l. 12 c. 15.

[750] P. Garetius in vita Cassiod.

[751] Cas. l. 3 c. 8.

[752] Cas. l. 3 c. 48.

[753] Juret. id. est, Correctoris.

[754] Cas. l. 11 c. 39 et l. 12 c. 12, 14 et 15.

[755] Cas. l. 4 c. 5.

[756] Cas. l. 8 c. 33.

[757] Cas. l. 12 c. 15.

[758] Cas. l. 3 c. 13.

[759] P. Garet.

[760] Cas. l. II c. 36.

[761] Cas. l. 5 c. 27.

[762] Loyseau des Seign. c.

[763] Cod. de Agric. et cens. l. 11 Comnan. in Com. jur. civ. lib. 2
lit. C.

[764] Leon. Ostiens. in Cronic. Cassiu. Glossator. in notis c. 6 num.
532.

[765] Got. in Cod. Theod. L. 8 tit. de curs pub. et angar. l. 4.

[766] Loyseau loc. cit.

[767] Salvian. l. 5 de gubern. Dei.

[768] Soc. lib. 4 cap. 53.

[769] Grot. in Proleg. ad hist. Goth.

[770] Cas. lib. 8 cap. 14.

[771] Grot. loc. cit.

[772] Cas. lib. 9 cap. 15.

[773] Grot. in Prolegom. ad hist. Goth.

[774] Procop. hist. Goth.

[775] P. Garet. in vita Cas. part. 1. §. 12.

[776] Salvian. loc. cit.

[777] Grot. loc. cit.

[778] Cas. l. 8 c. 1, 2, 3.

[779] Cas. l. 8 c. 3.

[780] Pagi diss. hyp. de Consulib. p. 300.

[781] L. 1. C. de vet. jur. enucl.

[782] L. 2. C. de vet. jur. enucl.

[783] V. Ant. August. in libel. de nominib. propriis Pandect. Florent.
c. de Pandect. nom. et gener.

[784] Crispinus in serie PP. in princ.

[785] Barbos. ad rubr. D. Solut. matr. num. 2.

[786] Rainald. Corsus. 1 indagat. jur. 1.

[787] Ber. Walther. in Miscell. obs. lib. 2 cap. 5.

[788] Alciat. lib. 1 dis. punct.

[789] Doujat in hist. jur. civ. in fin.

[790] L. tanta, C. de vet. jur. concl.

[791] Auctor Chronici Alex. apud Pagi in Dissert. Hypatica de Consulib.
pag. 301. His Coss. Justinianeus Codex renovatus est, adjunctis novis,
post priorem Codicem, Constitutionibus, jussusque est, antiquato
priore, suam obtinere vim, sive auctoritatem IV. Kal. Jun. Indict. XII.

[792] Cod. de emendat. C. Justin. et secunda edit.

[793] L. 6 C. de bon. quae lib.

[794] V. Emund. Meril. in decis. Justin.

[795] Balduin. in Justiniano pag. 497.

[796] Rittersus in Jure Justin. in prooëm. c. 1. n. 4.

[797] Fr. Raguel. I. Comment. ad Constitut. et decis. Justin.

[798] Emund. Meril. ad 50 dec. Just.

[799] Balduin. in Justin. pag. 497.

[800] Ritters. loc. cit.

[801] V. Card. de Luca de servit. disc. 1.

[802] Goth. ad tit. de nov. Cod. faciendo in princ.

[803] Godelino de jur. novis. c. 10 in fin.

[804] Leotar. de usur. qu. 6 n. 28.

[805] Ant. Augustin. in Parat. ad Nov.

[806] Ritters. in prooëm. c. 4 n. 1.

[807] Procop. lib. 1 de Bello Persico. Saidas in dictione Tribonianus.

[808] Doujat. hist. jur. civ. Rittersus. in jur. Justin.

[809] Rittersus. in Jure Justin. c. 1 num. 18 in prooemio.

[810] Rittersus. in Jure Justin. in prooem. c. 1 num. 18 c. 1 n. 10,
11, 12.

[811] Cujac. l. 8 obs. cap. ult. Doujat hist. jur. civil.

[812] Balduini Justin. pag. 553.

[813] Ant. August. in Parat. Nov. 90. Ritters. in prooem. c. 4 n. 9.

[814] Georg. Ritters. in Appendice ad Jus Justin. patris.

[815] Pragm. Justin. post. Novel.

[816] Procop. de bello Got. Cassiod. l. 10 c. 1, 2, 3.

[817] Jornand. de reb. Get.

[818] Cass. l. 10 c. 3. Princeps vester etiam Ecclesiasticis est
literis eruditus.

[819] Jornand. de reb. Get.

[820] Procop. l. 1. de bell. Got.

[821] P. Garet. in vita Cassiod. pag. 1.

[822] Procop. de bell. Got. At illum non dedecet repetere terram, quam
constat fuisse eius, quod ipsi commissum est, Imperii.

[823] Curt. l. 4.

[824] Tac. Annal. l. 15.

[825] Avent. l. 4. Annal. Bojor.

[826] Procop. l. 2. de bello Got.

[827] Goldast. t. 1. Const. Imp.

[828] Cas. l. 10. c. 31, 32, 33, 34, 35.

[829] Goldast. Const. Imp. tom. Iº.

[830] Cas. l. 10 c. 33.

[831] Di Ildibaldo presso Goldast. t. 1. Const. Imp. si leggono alcuni
Editti.

[832] Grot. in Prolegom. ad hist. Got.

[833] Presso Goldast. tom. 1. Const. Imp. si leggono molte Orazioni di
Totila.

[834] Salvian. l. 7. de guber. Dei.

[835] Agath. l. 1. histor.

[836] Cas. lib. 9. cap. 21.

[837] Forner. in Cass. lib. 10. var. cap. 7.

[838] Pragm. Justin. post. Nov.

[839] Anastas. Bibliot. Paul. Diacon.

[840] Theophilus Abbas. Justiniani praeceptor extat apud Photium.

[841] Giphanius. Contius. Alemannus in notis ad Procopium.

[842] Nicol. Aleman. ad Procop. pag. 28.

[843] Marquard. Freher. in Chronologia Exarc. Raven. apud Leunclavium.

[844] Sigon. de R. Ital. l. 1.

[845] Biond. hist. l. 8 decad. ult. Jo. Sleidan. de quatuor Sum. Imp.
l. 2.

[846] L. 10 C. Th. de Pagan. l. 1 et 2 C. Th. de Malefic.

[847] L. 18 C. Th. de Episc. L. 46 C. de Haeret. Gentiles, quos
vulgo Paganos appellant. S Aug. lib. 2. Retract. 43. Deorum falsorum,
mutorumque cultores, quos usitato nomine Paganos appellamus. V. Goth.
in Notis ad tit. C. Th. de Paganis.

[848] L. 22 C. Th. de Paganis.

[849] L. 21, 25, 25 C. Th. de Pagan.

[850] Dupin. de vet. Eccl. discip. dissert. 2.

[851] Theodorit. l. 4 hist. c. 7.

[852] Greg. l. 2. E. 31.

[853] Ughel. de Ep. Bar. Beatillo hist. di Bari, p. 9.

[854] Gelsa. Epist. 1.

[855] Conc. Constantin. cap. 3.

[856] Dupin. loc. cit. dissert. 1.

[857] Liberat. in Breviar. c. 13.

[858] Gelas. Epist. 4 et Ep. 13 ad Episcopos.

[859] Evagr. l. 3 c. 3.

[860] L. decernimus 16 C. de Sacros. Eccl.

[861] Nov. 131. c. 1.

[862] Cod. l. 1 tit. 3 c. 47 et tit. 46 c. 34.

[863] Nov. 3 c. 2. Nov. 6 c. 3. Epilog. Nov. 7 et 123 c. 22, 23.

[864] Cas. l. 9 c. 15.

[865] Paul. Warnefr. l. 3 c. 7 et l. 6 c. 11 et l. 4 c. 10.

[866] Greg. Turon. l. 3 hist. c. 20.

[867] Tom. 5 Concil. col. 980.

[868] Hinemar. in lib. Capit. 55 c. 17.

[869] Dupin. loc. cit. disser. 1.

[870] Cas. l. 9 c. 15.

[871] Grot. in Proleg. ad hist. Got.

[872] Conc. Roman. sub Symmac. c. bene 1 dist. 96.

[873] Paul. Warnefrid. Zonaras. Grot. in Prolegom. ad hist. Got.

[874] Cas. l. 9 c. 15.

[875] P. Garet. in vita Cassiod.

[876] L. inter claras, Cod. de summa Trinit. et fid. cath.

[877] Hot. 1 obs. 7 c. 2.

[878] V. Alciat. l. 5 part. c. 25. Cujac. obs. 32 c. 26.

[879] Fachin. controv. l. 8 c. 1.

[880] Cas. l. 9 c. 16.

[881] Leges olim in atriis Ecclesiae locabantur. Cujac. l. 1 Feud. tit.
17. Juret. ad Cassiod. l. 9 c. 16.

[882] L. 3 l. 16 C. Th. de incest. nupt. Ambr. Epist. 65 ad Patern. l.
8 l. si quis, C. de incestis nupt. l. in celebrandis, C. de nupt.

[883] L. 1 C. si nuptiae ex rescripto petantur. V. Launojo iu. in
Tract. Regia in matrimon. potestas part. 3 art. 1.

[884] Cas. l. 7 c. 46.

[885] Grot. in Prolog. ad hist. Got.

[886] Facund. l. 12. c. 3.

[887] Jacob. Got. in Cod. Th. t. 6 Anthem. l. si quemquam. C. de Episc.
et Clericis.

[888] Nov. 223.

[889] Basil. lib. 30. C. de Episcopis et Clericis.

[890] Greg. lib. 2. Epist. 54.

[891] Hinemar. opusc. cap. 17.

[892] L. inter claras, C. de Summa Trinit. ef Fid. Cath.

[893] S. Greg. in vita S. Benedicti.

[894] Ab. de Nuce in not. ad vit. S. Benedicti.

[895] V. Camil. Pellegr. in Serie Ab. Cass. in princ.

[896] Leo Ost. in Chron. l. 1. c. I.

[897] Ab. de Nuce ad Chr. Cass. loc. cit.

[898] P. Garet. in disser. de vita Monast. Cassiod.

[899] Dupin. in biblioth. t. 5. seculo 6.

[900] Baco hist. vitae, et mortis, p. 534.

[901] P. Garet. in vita Cass. par. 2. §. 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12.

[902] Cass. lib. 12. var. ep. 15.

[903] Cass. I. Divin. lect. c. 29. S. Greg. ad Jo. Episc. Scyllaceum,
ep. 33. l. 7. Regist. indict. 1.

[904] Cass. l. Divin. lect. c. 32.

[905] Garet. loc. cit. §. 12.

[906] Ab. de Nuce p. 92.

[907] Bzov. in hist. Trithem.

[908] Carac. Monum. Sacr. Neap. de S. Agnello Abbate. Ughell. de Episc.
Neap. tom. 6. p. 75.

[909] Ugh. loc. cit. p. 80.

[910] P. Carac. loc cit. Ugh. loc. cit.

[911] S. Amb. Ep. 66. ad Paternum.

[912] §. duorum, Inst. de Nuptiis.

[913] L. si quis 5. C. de Incest. Nuptiis.

[914] L. in celebrandis. C. de Nuptiis.

[915] Cujac. tit. decretal. de consanguin. et affin.

[916] L. ult. C. de Feriis.

[917] V. P. Sarp. de jure Asylor.

[918] Doujat hist. du Droit. Can. par. 1. cap. 17.

[919] P. Garet. in vita Cas. par. 2. §. 20 et 21.

[920] Cass. lib. Div. lect. cap. 22.

[921] Cas. loc. cit. Doujat hist. du Droit. Can. par. 1. c. 17.

[922] Fleury in Inst. Jur Can. in princ.

[923] P. de Marca de Concord. lib. 5. cap. 3.

[924] V. Dou. loc. cit. n. 2. et part. 1. cap. 7. num. 4.

[925] Cass. lib. Div. lect. cap. 22.

[926] Can. 1. dist. 19.

[927] In Inscr. cap. 3. de praebend.

[928] Sirmond. tom. 2. Conc. Gall. ad A. 787.

[929] V. Justel. in praef. ad Cod. Eccl. Un.

[930] Don. hist. du Droit Can. par. 1. cap. 22.

[931] Grat. Can. sacror. 34. dist. 63.

[932] Baron. ad An. 527. num. 76.

[933] Donjat loc. cit. num. 2. et 3.

[934] V. Ant. August. par. 2. epitom. jur. Pontific. cap. 15. et in
Grat. Dialog. 10, 11 et 12.

[935] V. Nic. Alemannum ad hist. racan. Procopii. Justel. loc. cit.

[936] V. Franc. Florent. de Orig. jur. Can. par. 3. § 3. Justel. loc.
cit. P. de Marca de Concord. lib. 3. cap. 3. §. 8.

[937] V. Fleury in Instit. Jur. Can.

[938] Cass. lib. 9 cap. 15.

[939] Cass. lib. 8 cap. 24 considerantes Apostolicae Sedis honorem.

[940] Nov. 83 et 123.

[941] Gregor. II. Epist. 13 ad Leon. Isaur. Richer in Apol. Jo. Gerson.
par. 3 ax 36.

[942] Feuret. l. 8 c. 2 n. 7.

[943] Cas. l. 12 c. 13.

[944] Salvian. l. 2 et sequ. adver. avarit. Ant. Matth. manud. ad jus
Can. l. 2 tit. 2.

[945] Fr. de Roye Instit. Canon. lib. 2 de decim.

[946] Paul. lib. 15 sub. Anast.

[947] P. de Marca de Concor. Sac. et Imp. l. 2 c. 11 n. 3.

[948] Cap. 16.

[949] Cap. 21.

[950] Can. Constitutum 62 caus. 16 qu. 1.

[951] Grat. post can. possessiones ead. caus. et qu.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Istoria civile del Regno di Napoli, v. 1/9" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home