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Title: Verso la cuna del mondo - Lettere dall'India
Author: Gozzano, Guido
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Verso la cuna del mondo - Lettere dall'India" ***


   [Illustrazione: Guido Gozzano.]



                             GUIDO GOZZANO


                        Verso la cuna del mondo

                           LETTERE DALL'INDIA
                              (1912-1913)


                    _Con prefazione di G. A. BORGESE
                       e il ritratto dell'autore_



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                 1917.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

     _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
      tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda._

                  Copyright by Fratelli Treves, 1917.

     Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera che
    non porti il timbro a secco della Società Italiana degli Autori.

                          Milano, Tip. Treves.



È bene che il lettore, chiuso questo libro del nostro caro morto Guido
Gozzano, indugi un poco prima di giungere ad una conclusione sul suo
significato e sul suo valore.

Udrà allora molti suoni fievoli e sordi comporsi in una triste armonia
seduttrice; vedrà molte macchie di colore, che parevano buttate a
caso, connettersi pei margini e formar quadro. Le tinte, elementari e
franche, parevano, finché leggevamo, giustaposte. Il ricordo le modula,
così come fa la distanza per certe tele del Segantini o del Previati.

Da principio non si vede altro ordine e legge che quelli della
curiosità esotica. Si pensa a un De Amicis meno colto e ardito,
a un Barzini meno esperto e potente. L'Italia deve molto a questa
strana categoria di scrittori, tutta italiana. Dopo secoli di piè di
casa, di provincialismo non senza odore d'aglio, ecco l'Italia nuova
e avida di novità, un po' giapponese per l'ansietà d'avvenire, un
po' americana per il disdegno delle catene tradizionali. V'è già un
accenno di futurismo in questo viaggiare per viaggiare, così diverso
dai viaggi intimi e psicologici dei romantici, in queste esplorazioni
del settentrione e dell'Oriente, delle capitali brumose e dei fronti
di battaglia. Sciami di circumnavigatori e di grandi reporters,
ritornando in patria, non contribuivano soltanto a introdurvi il
_whisky and soda_ e il rasoio automatico; ma anche un certo numero
d'impressioni fresche e d'idee elastiche, utili per mettere bene a
fuoco l'obbiettivo dell'attenzione nostra; ed anche un certo numero di
parole giovani, d'immagini acri, di temerità sintattiche, delle quali
la tecnica sperimentale delle nuove scuole poetiche ha fatto un'orgia,
ma che daranno qualche buon frutto nella poesia di domani. Lo stesso
d'Annunzio dell'inno ad Ermes, il d'Annunzio di Corrado Brando e degli
Ulissidi, si ricollega, almeno in parte, a questa tendenza, ch'era già
preannunziata nel Carducci innografo della locomotiva.

Il Gozzano del viaggio in India desume le occasioni e i metodi da
questa scuola. Ma, dentro di sé, è assai più romantico e sentimentale,
con molto maggiori affinità ai viaggiatori sterniani. In India cercava
soprattutto se stesso, il se stesso fisico e morale: un po' di buona
salute, un po' di quiete e d'oblio promessigli dalla dottrina vagamente
intravveduta del nirvana, e forse un ampliamento del suo dolce
orizzonte canavesano. Cercava anche le farfalle — ch'egli adorava,
egli così magro e fragile e occhiuto, egli così simile a una povera
farfalla dall'ali bruciate —: le farfalle sotto archi anche più grandi
che quello di Tito.

I suoi tentativi d'interessarsi alle cose esterne, quali sono
realmente, non mancano: ma scissi, deboli, abbandonati ben presto quasi
col gesto pallido e febbrile con cui l'incurabile rifiuta la pozione
accostata alle labbra in una velleità di speranza. Né la salsedine può
rifabbricargli i polmoni, né le lontananze esotiche possono nutrirgli
l'anima che ha ormai compiuto il suo ciclo e si consuma in sé medesima.
Non ignora certo Kipling, eppure non lo ricorda mai, perfino temendo
la vicinanza di quell'imperiale britannico appetito di esistere; e
i suoi occhi, già colmi di penombra, non sostengono le policromie
fragorose che Gauguin cercava pei mari australi. Ammira gl'inglesi
conquistatori e organizzatori, senza che questa ammirazione oltrepassi
l'accento giornalistico e tocchi la soglia della storia. Ha appreso lì
per lì, non senza sazietà e noia, le alcune cose che ci riferisce; e a
lui, così vicino al gelo dell'eternità, la storia non è ormai che una
lacrimevole commedia di equivoci in uno scenario orpellato. E tale gli
era parsa, anche prima, immutabilmente; e non v'è nulla che neghi il
carduccianesimo epico quanto _l'Amica di Nonna Speranza_: obbiezione
nichilistica pronunciata con tanto più radicale decisione quanto più
semplice e cordiale vi è la modestia del discorso. Perciò quasi non gli
costa fatica la lealtà di confessare che, prima di sbarcare in India,
confondeva i Parsi coi Paria. Nessuna dissimulazione d'ignoranza,
nessuna pretesa di sapienza. Le cose che guarda sono spesso «buffe
ed assurde». «Buffa ed assurda questa torre, circondata di alti
palmizi, alternati alle aste della luce elettrica e del telegrafo,
buffi ed assurdi quest'automobile e noi che sostiamo su questo pendio
come dinanzi ad un aereodromo, a un ippodromo occidentale...» Tra
l'incomprensibile passato e l'impossibile avvenire egli vacilla in
un'ondulazione inconsistente — che è il ritmo lirico di queste sue
prose — come uno che vada innanzi, su una passerella tarlata, certo in
cuor suo che da un istante all'altro cadrà nell'abisso.

Poi tornò in Italia. E vennero i giorni di questa immensa
rappresentazione storica. Bisognava credere nella realtà della storia,
o sparire. Ma egli, Gozzano, già da tanto tempo amava le farfalle, il
simbolico animale della rinunzia nel fuoco trasfiguratore. Già da tanto
tempo aveva detto addio alle donne, agli amici, alle immagini care.
Partì silenzioso — per un viaggio più lungo — verso il mitico buio
Occidente, questa volta, ove tramonta il desiderio.

                                   *

Anche allora, in India, aveva sperato questa pace. Sapeva delle
dottrine orientali, vagamente. Ma era troppo stanco e sfiduciato per
un pellegrinaggio ascetico; e, in fondo, soffriva troppo per imporsi
penitenze. Nella terra ove fu rinnegata «la ruota delle cose» e fu
celebrato il silenzio, udiva invece il frastuono di una barbarica
idolatrica polifonìa. E doveva oscuramente riconoscere d'essere troppo
artista perché gli riuscisse facile la condanna dei sensi.

Un odore di sensualità esotica circola qua e là per queste pagine. Ma
ha qualcosa di chiuso, di stantìo, ed è come punteggiato da acredini
di preziosa putrefazione. «Mi sono avvezzo agli strani frutti che si
spaccano offrendo una polpa gelida, mantecata come un sorbetto, odorosa
di muschio e di creosoto; strani frutti che si direbbero preparati da
un confettiere, da un profumiere e da un farmacista. E da un orefice si
direbbero ideate le orchidee che ho dinanzi; petali di lacca policroma,
polverizzata di mica, gole fantastiche e sogghignanti di draghi
nipponici, petali gibbuti, cornuti, panciuti, nell'interno iridescenti
come le tinte intraviste nei toraci aperti delle bestie macellate; il
fascino dà l'incubo della peste e del malefizio, e nell'afa pomeridiana
emana un odore fetido insostenibile». Senza ambizioni metafisiche, per
associazioni forzose e istintive cui vediamo seguire sul suo viso un
pallore madido, una contrazione di agonizzante, appanna anche altre
volte il desiderio della vita con l'alito della corruzione. Ecco la
danza della Devadasis, ed ecco le due misere cortigiane francesi che
vorrebbero prostituirsi al Gran Mogol, morto trecent'anni prima.
Ecco nudità intravvedute, così perfette che il poeta s'esalta,
riconoscendosi puro e immune di lascivia: od ecco lo stridulo ricordo
di Madame Angot.

La volontà di vivere era già quasi esausta, e il desiderio di morire
tardava ancora. Lo vedo tutto freddoloso e rattrappito, povero caro
fanciullo esangue, davanti al focherello malcerto della sua vita, come
già lo vidi, in una giornata di nevischio, davanti al camino della
_salle à manger_, in un alberghetto di montagna, ove, prima che in
India, era venuto a cercare un po' di salute.

                                   *

Lo ricordo ancora altrimenti, come lo vidi in un giorno d'agosto
1913, in riva al mare ligure. La memoria del bene che mi volle e
della stima ch'ebbe per me (gli parevo un luminare di scienza: caro,
umile, timoroso fanciullo che temeva i còmpiti e riveriva i professori
e i primi della classe!) è fra le cose buone e nobili che m'ha date
la vita. Era venuto per vedermi e parlarmi. Aveva ancora il volto
abbronzato dal lungo viaggio, con una maschera illusoria di floridezza.
Parlava piano, fissando la lontananza e il queto Occidente che
s'oscurava, con uno sguardo leopardiano. Progenie di Leopardi, aveva
varcato la siepe, aveva navigato verso l'infinito. Era freddo, deluso,
risoluto.

Credeva nelle farfalle, per la sua gioia; nella pellicola
cinematografica, pel suo pane; in qualche amico. Anche, soprattutto
nella poesia; ma in una poesia fatta _sibi et paucis_, stampata
in pochi esemplari non venali, condotta fino all'ultima nudità
d'espressione, ridotta a sé medesima: senza risonanza pratica e senza
gloria. Mi parlò delle poesie, candide e ignude, che aveva scritte in
India: e che non conosco.

In questo volume non mancano echi di canto. Vi è il Tai-Mahal coi
suoi cipressi di bronzo e il suo cielo di cobalto (un po' di quel
«soprannaturale» che sperava di trovare in India); vi è Giaipur
(«nessuna cosa è più inutile di questa grande città color di rosa»
— «mi ricorderò di Giaipur...»); e quella pagina dei frutti e dei
fiori; e il conquistador di Goa (p. 54). E v'è «la demenza beata
che accompagna le agonie senza fine di certi consunti», e, sulla
fine, il gracidìo conclusivo dei corvi: «l'altro romore che è la
nota acustica dell'India, alla quale bisogna abituarsi come in certi
paesi al fragore del mare o dei torrenti: il gracidìo dei corvi così
monotono, assiduo, che non rompe, ma sottolinea il silenzio; inno alla
putredine, dove prorompe la gamma di tutte le r, dove l'orecchio sembra
discernere tutte le parole non liete: _Ricordati! Ricordati! Morire!
Morte! Morirai!_». E v'è, soprattutto, quell'occulta accentuazione
lirica che sorregge tutta questa prosa piana; ma l'una e gli altri,
la musica occulta e gli echi percettibili, indipendenti dalla volontà
dello scrittore, permeati nella quieta e modesta prosa quasi suo
malgrado. Giacché non amava più (non aveva forse mai amato) questi
intarsî equivoci, e spregiava, senza indignazioni oratorie, le cose
brillanti da bazar. Qui voleva dare notazioni semplici e opache,
diarî di curiosità forestiere, per molti lettori: un po' di buona
cinematografia, se si vuole. La poesia doveva essere altrove, nella sua
anima e nel suo cassetto, per il poeta e per pochi cari. Doveva essere,
ormai, tanto più schiva quanto più veritiera: una nudità pudica che non
si mostra in piazza, una lealtà che non ricorre all'enfasi, perché non
le giova di persuadere le folle.

Ho già detto pocanzi la parola lealtà per Gozzano. E non mi dolgo della
ripetizione. Soprattutto per questo egli è e rimane un maestro: per
avere contribuito a restaurare nella nostra lirica il gusto del parlare
sobrio e a bassa voce, del riferire l'esperienza interna qual'è, del
collocare il valore poetico nell'accentuazione più che nel lessico: per
aver dunque lavorato a rimettere in onore la verità dell'emozione e la
lealtà della parola.

  _Parigi, aprile 1917._

                                                       G. A. BORGESE.



Le grotte della Trimurti.


Garapuri: «città degli antri o Deva Devi, isola degli Dei»: è forse
la più bella gita che offra Bombay, certo quella che unisce in
minimo spazio i motivi esotici più interessanti pel forestiero. Ma
difficilmente un inglese, un nativo tanto meno, la propone al suo
ospite; trova di miglior gusto condurvi alla spettacolosa sala di
_skating_ (sì, hanno il coraggio di darsi a questo sport, con una
temperatura minima di trenta gradi), o all'unica _matinée_ che dà
la Cleo De Merode, di passaggio per Bombay alla volta del Siam, con
un plutocrate innominato, o al gigantesco teatro cinematografico
dell'Esplanade, dove al soffio — ohimè! vano — di trenta ventilatori
la vostra nostalgia d'italiano sussulta vedendo apparire a sfondo di
qualche _film_ poliziesco il Canal Grande, il Pincio, il Valentino.
Ma veramente non si viene in India per questo. Non è facile l'arte del
Cicerone perfetto, del duca ideale nel proprio paese; le cose vicine,
anche bellissime, non si vedono più; e l'inglese non pensa a farvi
vedere l'isola d'Elefanta, come noi italiani esitiamo prima di proporre
la baedekeriana gita a Capri, a Monreale, a Superga. Gli inglesi
vanno ad Elefanta per due cose soltanto: mangiare e fare all'amore.
Il vaporino che supera le sei miglia di mare dall'isola di Bombay
all'isola d'Elefanta, è in gran parte occupato da famiglie merendanti
e da coppie amorose: viaggio al paese di Cuccagna, _embarquement pour
Cithère_....

                                   *

Ma oggi non è domenica, e lo _steam-lunch_ è quasi deserto. Non è
domenica, e l'immensa rada di Bombay non è paralizzata dall'inesorabile
riposo festivo, offre tutta la policromia gaudiosa, la bellezza
varia della sua attività. Dobbiamo attraversare il porto della grande
metropoli asiatica; la lancia passa come un moscerino ronzante tra
i fianchi delle navi: navi di tutta la terra: inglesi, francesi,
olandesi, giapponesi, australiane, americane; di tutti i tempi:
colossali alcune, nuove, intatte, saggio imponente dell'ultima civiltà;
altre di forma arcaica, di età non definibile, zattere immense con una
sola grande vela, che osano attraversare l'Oceano Indiano dall'Africa
all'India, affidandosi per lunga esperienza a quel dato soffio di
monsone in quel dato giorno stabilito: velieri decrepiti che fingono
di ignorare ancora l'istmo di Suez, poichè la tassa di transito che
si paga a Porto Said varia dalle trenta alle cento e più mila lire, e
ripetono il loro viaggio secolare circumnavigando l'Africa, l'Arabia,
la Persia; velieri panciuti, d'una tinta uniforme di vecchio legno
fradicio, dalle vele gialle a sbrindelli e a rattoppi, così decrepiti
che fanno pensare alle galee portoghesi che ripararono per la prima
volta in Buona-Bahia (Bombay), ai negrieri, ai pirati che furono per
tanti secoli i signori indisturbati di questi mari e di queste terre.

Non è leggenda: tutta la popolazione marinara e peschereccia di Bombay,
che vive nelle isole vicine, in capanne minuscole, sotto l'ombra dei
cocchi eccelsi, è discendente di pirati; l'isola di Colaba, che si
disegna verdeggiante oltre la foresta delle antenne e delle vele,
era abitata ancora al principio del secolo scorso da _cacciatori di
naufraghi_: i suoi villaggi, si dice, sono costrutti interamente con
rottami di navi. Barbarie pittoresca e civiltà vittoriosa, tutte
le razze e tutti gli idiomi, tutte le linee e tutte le tinte si
contendono, stridono in questo convegno del Mondo, che offre tante cose
rare all'amatore dell'anacronismo e del paradosso.

                                   *

Avanziamo lungo un piroscafo inglese giunto da poco: la parete
curva, nera, vertiginosa s'alza su di noi come il fianco d'un cetaceo
colossale; dagli infiniti sportelli aperti giungono voci, s'affacciano
volti impazienti; lungo una scaletta troppo fragile scendono i
viaggiatori in una lancia d'approdo; quattro _indu_ ignudi ricevono
i bagagli, aiutano i fanciulli, i malsicuri nel balzo. Una signora
biondissima si rifiuta al passo, i viaggiatori l'incalzano alle spalle,
l'incoraggiano, protestano; un gigante di bronzo l'afferra senz'altro,
la solleva in alto, la passa ad un altro gigante ignudo, che la
depone delicatamente, la siede incolume nella barca tra i suoi bagagli
ordinati: strida convulse della signora, risa degli astanti. Quella
biondezza e quelle braccia candide avvinte disperatamente alle spalle
barbare mi hanno fatto pensare una romana della decadenza, una _flava
coma_ contesa da due schiavi nubiani un poco irriverenti....

Tutto il porto dà il senso della schiavitù, ma non è un senso penoso:
i dominatori sanno sfruttare l'uomo fino all'ultima energia, comandano
con alterigia, ma con giustizia. Sulle navi, da nave a nave, su corde
tese, su scale pendule, su palafitte è un brulichio di forme nere;
tutti _indu_ di bassa casta, che vanno, vengono in file ordinate
ed opposte come le formiche, o si passano dall'uno all'altro, in
catena, le gerle di carbone, le balle di cotone, i caschi di banane,
le casse di spezie. È strano come questa misera, infima gente abbia
innata la scienza della grazia, l'armonia del passo, del gesto,
dell'atteggiamento. Tutti cantano lavorando, com'è costume nelle città
orientali. È una melopea a denti chiusi, che nell'attimo dello sforzo o
dell'intesa si accentua con un ritmo più forte e produce nell'insieme
l'effetto di una orchestra ronzante, monotona, non priva di dolcezza.
Ci sono donne tra quegli infelici, sono ignude, con un _panio_ alle
reni, ma si stenta a riconoscerle; quasi tutte son vecchie; il tempo,
la fatica hanno riassorbito il seno, fatte angolose le spalle, rudi
le braccia, maschile tutta la persona. Infelici? Forse no; certo meno
infelici, dacchè l'europeo li ha emancipati dalla crudeltà delle caste.
Poichè quasi tutti sono _paria_, cioè «non salvabili», da meno dei
corvi e dei cani, creature che si potevano uccidere impunemente, poichè
fuori del ciclo evolutivo, escluse per l'eternità da ogni speranza,
dannati in vita e in morte per la sola colpa di essere nati. Ora
la maggior parte ha sul petto di bronzo la scapolare, ha nel cuore,
rozza ed incerta, ma consolante, l'idea di una possibile salvezza, la
speranza di poter pretendere dalla morte ciò che non ha dato la vita.

                                   *

Il porto interminabile ci resta a poco a poco alle spalle: dirada
la selva dei piroscafi, dei velieri, delle giunche; qualche zattera
vaga ancora sul mare di stagno, sul quale emergono frequenti le pinne
dorsali degli squali o balzano improvvisi, a frotte, i pesci volanti.
Cielo e mare si confondono in una calma eguale, senza limiti, incolore.
Si ha l'impressione di navigare nel vuoto; al tempo delle origini,
quando i mari caldi nutrivano i germi dei pleosauri e delle felci
colossali, le acque e i cieli immobili dovevano avere questo silenzio
d'attesa.

Ma d'improvviso, come sospesa nello spazio, disegnata sopra una parete
di cristallo, si profila l'isola di Elefanta, tutta verde, e dopo
l'isola la fascia fulva della terra ferma coronata dalla catena dei
Gati: il Bor-Ghat, una muraglia eccelsa di basalto sanguigno intagliato
dalla natura a torri, a spalti guerreschi.

Sono le dieci del mattino. Il caldo è tale, che la corsa della lancia
non dà refrigerio. Il sole, pure attraverso la doppia tenda, si fa
sentire sulla fronte, contro le gote, con l'ardore di un braciere
troppo vicino. Un _boy_, armato d'una pompa, irrora d'acqua marina
l'intavolato e le tende, ma i disegni scompaiono subito evaporati
dall'ardore di questo dicembre tropicale. Mai come in questi climi
mi sono rallegrato delle mie non molte carni: l'India è un soggiorno
veramente infernale per le persone anche appena fiorenti.

Il caldo provoca i miraggi, scompone l'aria, la fa vibrare, oscillare
all'orizzonte col tremolio del rivo sulla sabbia; l'isola d'Elefanta,
già prossima, s'addoppia, si riflette quadrupla, s'avvicina,
s'allontana, scompare.

Quando riappare, siamo giunti.

                                   *

Approdiamo su grandi cubi di granito, viscidi d'alghe rosse e
azzurre, abbandonate dall'alta marea, pendule come capigliature di
sirene sconosciute. La collina s'innalza ripida sul mare: due cose
sono interessanti in quest'isola: non il _lunch_ e l'amore degli
inglesi domenicanti, ma la vegetazione e i templi famosi. Per la
prima volta, dacchè sono a Bombay, vedo in libertà selvaggia la flora
tropicale. I magnifici scenari verdi del Vittoria Garden, delle ville
dell'Esplanade, e del Malabar-Hill sono meditati da giardinieri esperti
su modelli inglesi, e ogni albero reca sul tronco una targa ovale col
nome in corretto latino: _Cinnamomum canphora, Vanilla aromatica, Ficus
elastica, Strychnos nux vomica, Tamarindus indica_, ecc., ecc., pessima
consuetudine che dà alla poesia d'un giardino esotico un sentore
farmaceutico e tutta la prosa d'una rivendita di droghe e coloniali.

Qui è la natura soltanto, la flora demente, senza freni e senza
nome. La spiaggia è fiancheggiata da pandani colossali che immergono
nell'acqua le loro radici multiple, sollevano in alto la corona delle
foglie, e fanno pensare a candelabri capovolti o a buffi trampolieri
vegetali. Si sale la collina lungo una scala ripida scavata nel basalto
da un brahamino, per ex-voto, a beneficio dei visitatori. A tratti
la vegetazione s'intreccia sul nostro capo, forma un corridoio verde,
dove il sole giunge tremulo come nei paesaggi sottomarini. Tra i fusti
bianchi e flessuosi dei cocchi, tra i fusti neri, diritti come colonne
delle _palme-palmira_, è il groviglio delle liane che allacciano
d'albero in albero tutta la foresta, e fanno dell'isoletta un fascio di
verzura emerso dal mare.

Vorrei uscire dal sentiero, internarmi sotto gli alberi, nel refrigerio
della notte verde, ma i _boys_ e gli amici si oppongono recisamente: è
l'ora calda, l'ora dei cobra, e i cobra abbondano nell'isola sacra.

A metà della collina s'apre il tempio famoso. È un ipogeo, che ricorda
le costruzioni egizie e consta di varie grotte scavate in una pietra
nera, simile al porfido. Le colonne si moltiplicano all'infinito,
pendono spezzate dalla volta tenebrosa o s'innalzano monche come
stalattiti. Il tempio è lavorato con un'arte pazientissima nei
particolari, qualche volta mirabili, ma noncurante delle proporzioni
e dell'armonia dell'insieme. Sebbene mutilato dai millenni, dalle
infiltrazioni e dalle frane, dal fanatismo mussulmano e portoghese,
presenta ancora una sintesi completa e imponente dell'olimpo brahamino;
olimpo complicatissimo, difficile a chiarire per chi non ha speciali
attitudini nel collegare le parentele numerose. Domina nella grotta
principale un altorilievo di forse quindici metri, raffigurante un
corpo formidabile a tre teste, la _Trimurti_ famosa: Siva che crea,
Visnu che conserva, Rudra che distrugge. Ma questa trinità s'incarna
all'infinito, si trasforma nei bassorilievi dei porticati semibui in
mille altre figure del simbolismo pazzesco. Ed ecco Siva che cavalca
un toro e si fa maschio e femmina ad un tempo, col simbolo maschile
_linga_, e femminile _joni_, circondato da infinite figure: elefanti,
tigri, serpenti, da saggi, _rhisi_, da _apsare_, uri dell'olimpo
brahamino, da Indra, da Brahma adagiato sul loto e portato da quattro
cigni, Visnu sorridente, altovolante sull'avvoltoio dalla testa
umana. È ancora Siva, la scultura divina dalla cui fronte sgorgano i
tre grandi fiumi, Gange, Jamma, Sarasvati; Siva che passa a giuste
nozze con Parvati, la Dea dalla vita sottile, dal seno enorme, che
con l'una mano abbraccia lo sposo, con l'altra strozza non so quale
rivale in forma di mostro femminino. E intorno è scolpita una turba
di Dei e Semidei, parenti e convitati, devoti e servi, che offrono
cibi e rinfreschi. Un altro bassorilievo rappresenta un giardino: il
paradisiaco monte Kaillasa, pieno di saggi e di donne in letizia,
poichè dall'unione di Siva con Parvati è nato Ganesa, il Dio della
Sapienza, mostro dalla testa di elefante, dal corpo umano, piccolino,
tondeggiante, panciuto. È ancora Siva in un bassorilievo che ritrae
le più desolanti e borghesi rappresaglie di famiglia che possano
affliggere un nume. Siva ha sposato una seconda moglie: Durga, figlia
di Daksha, figlio di Bhraham e genitore di sessanta figliuole; Daksha
dà un convito rituale, aduna tutti gli Dei e dimentica sciaguratamente
il suocero Siva e consorte. Questa interviene al rito, e, non attesa,
male accolta, si getta sulle fiamme dell'ara. Compare Siva, al quale
nel furore si moltiplicano le braccia, e taglia la testa al genero,
alle cinquantanove figlie, ai convitati con lo spaventoso congegno
delle molte braccia roteanti; intorno è un turbinare di teste mozze....

Una grotta è dedicata a un _lingam_ inghirlandato di fiori gialli:
in giorni speciali migliaie d'indiane vengono in pellegrinaggio,
s'inginocchiano, siedono sul rozzo obelisco di pietra, girando più
volte: e la cerimonia assicura la fecondità. In tutto il tempio domina
sovrano il _Civa-Lingam_, ed è strano questo simbolo procreatore in
una religione dove il supremo bene è il non essere nati, o essendo
nati annichilirsi al più presto. Ma è certo il mio cervello profano
d'occidentale che non comprende l'occulto senso della pietra scolpita.
Queste figure, ad esempio, che ricorrono su tutte le arcate d'ingresso
e rappresentano uomini armati recanti il sesso nella mano protesa,
e al posto del sesso un teschio che ride, dànno veramente un brivido
d'orrore e il senso del più tragico pessimismo. L'impressione tuttavia
di questo ipogeo troppo vasto, umido, oscuro, non animato che dallo
squittire dei pipistrelli e dallo stillicidio delle infiltrazioni,
è tetra, non religiosa. Quelle figure, che sembrano balzare dalle
pareti, precipitarsi furibonde contro i poveri mortali, armate di
clave, di lancie, di braccia multiple per meglio ferire, dànno il
senso dell'idolatria paurosa; vien fatto di domandare a questi numi
il perchè di tanto furore e quale guaio riserbano ai miseri mortali
peggiore della vita, peggiore della morte. Certo lo studioso, anche il
dilettante soltanto, che viene d'Europa dopo aver sfogliato i sacri
testi indiani e aver chiesto qualche ora di conforto alle sublimi
speculazioni dei Veda e degli Upanesed, resta deluso e sdegnato dinanzi
a questa teogonia barbara e selvaggia. Ma è il destino fatale di
tutte le religioni, che diventano culto, di tutte le fedi che si fanno
pietra, metallo, colore, forma: idolatria.

A queste malinconie certo non pensano i visitatori dell'ipogeo
d'Elefanta: sulle trenta mammelle della dea Dassavi, sulla tiara
delle Apsare, sulla fronte ampia, elefantina di Ganesa, la matita,
il temperino ha segnato nomi, date, cuori trafitti, ghirlande di rose
all'amore che passa. Precisamente come da noi.

                                   *

Si esce all'aperto, nel tripudio verde dell'isola paradisiaca.
Si passa dall'ombra alla luce, dalla barbarie alla civiltà, dal
passato decrepito al presente vittorioso. Tutta Bombay è disegnata
sull'orizzonte con la sua rada, il suo arcipelago, le sue penisole.
Da nessuna altura si può meglio capire la topografia mirabilmente
equilibrata di questa metropoli asiatica. E si pensa non senza orgoglio
al miracolo che l'attività occidentale ha fatto in poco più di mezzo
secolo in queste paludi febbricose.

«Due monsoni dura la vita di un uomo» dicevano gli indigeni agli
europei che approdavano. Oggi Bombay è tra le città più salubri
dell'India, certo superiore a Calcutta, a Goa, a Madras. Ma quale
sovvertimento ciclopico ha dovuto operare la forza dell'uomo! Due
secoli or sono, alla foce del fiume Ulas, si prolungavano in mare,
lontane dalla costa, le creste parallele di due colline sommerse;
l'intervallo era occupato da laghi salmastri, da _jungle_ popolate
di belve. Gli esploratori portoghesi giudicarono quell'acquitrino
insanabile. Giovanni IV di Portogallo diede l'arcipelago di Bombay
quale dote — trascurabile — di sua figlia Caterina, sposa di Carlo II.
La Compagnia delle Indie l'ebbe da Carlo II per la cifra incredibile
di lire 250 annue. Se ne fece un luogo d'asilo, si cercò di popolare
la plaga umidiccia ed infuocata. Ma solo con l'annessione definitiva
all'Inghilterra, cominciò a delinearsi sull'arcipelago insalubre la
futura città. Le paludi e le _jungle_ furono prosciugate e distrutte,
le due colline parallele si congiunsero, formarono l'isola d'oggi.
Alcuni grandi giardini conservano esemplari di teck, di palme
centenarie, superstiti di quella flora selvaggia: la civiltà le
rispettò come rispetta le colonne dei templi indiani, formò giardini
intorno ai tronchi venerabili, costrinse in gabbia le belve. Dove
sorgevano paurosi paesaggi antidiluviani verdeggiano aiuole ben
pettinate, corrono _babies_ biondi dagli occhi ceruli, seguiti da
un'_aia_ indigena, da una mamma, da una sorella che sfoggia l'ultimo
figurino europeo; un'orchestra scelta risponde con una melodia verdiana
o wagneriana al ruggito delle tigri prigioniere.

Dall'alto di quest'isola d'Elefanta — tomba del passato — si contempla
l'isola di Bombay — cuna dell'avvenire — e nessun contrasto è più
profondo e più significativo. La filosofia orientale e la filosofia
occidentale con le loro conseguenze opposte: un tempio tetro, pauroso,
idolatra, una metropoli fiorente, colma di tutte le abbondanze. E
penso all'ammonimento dei simboli fallici e macabri: meglio non esser
nati....

Meglio non esser nati. Certo. Ma essendo nati.... adagiarsi nella vita
con tutti i beni che la vita può dare....



Le Torri del Silenzio.


Non è il titolo di un volume di versi decadenti.

_The Towers of Silence_: è la passeggiata che propone qualunque _Cook's
boy_ di Bombay al viaggiatore incerto sulla sua mèta. La Torre del
Silenzio: anzi, le Torri, poichè sono cinque le _Dakmas_, dove i Parsi
espongono i cadaveri agli avvoltoi. Io le credevo un'invenzione di quei
romanzi di avventura, già cari alla nostra adolescenza, dove, per gli
occhi languidi della figlia di un Marajà, un esploratore giovinetto
era narcotizzato a tradimento, avvolto in un lenzuolo ed esposto agli
avvoltoi dell'edificio favoloso, ma veniva salvato da un servo fedele
e unito a giuste nozze con l'oggetto dei suoi desiderî.

Le Torri esistono invece e sono intatte, come mille anni fa; tutto
è intatto in quest'India britanna, tutto è come nei libri e nelle
oleografie: danze di bajadere, templi colossali, ciurmerie di fakiri;
e guai per chi soffre la ripugnanza dei luoghi comuni, o la nostalgia
delle cose inedite; qui il letterato è esposto di continuo al rammarico
acuto, al dispetto indefinibile che si prova quando la realtà imita
la letteratura; non c'è altra salvezza che uscire dall'albergo senza
guida e senza amici, perdersi nella vasta metropoli luminosa dagli
edifici a ogive, a terrazze, a verande, a scalee, coronate di fiori
e di palme; edifici di uno stile gotico inglese, illeggiadrito dalle
esigenze del clima, immuni dal lercio stile _liberty_ che appesta le
metropoli europee; edifici che appaiono come tanti castelli della Bella
Addormentata e sono invece il Demanio, l'Archivio, il Lazzaretto, il
Tribunale, la Posta, ecc. E allora si trova il nuovo nelle piccole cose
della strada: il _cipay_, che si mette sull'_attenti_ se lo richiedete
di un'informazione, e ha gli occhi dipinti di azzurro, prolungati
sino alle tempia, contro i malefizi degli sconosciuti; lo _chauffeur_,
che porta sotto la visiera di celluloide, disegnato in rosso vivo, il
tridente di Wisnu; un _tram_ zeppo di passeggieri indigeni, che siedono
invariabilmente sulle calcagna incrociate, così che si ha l'illusione
penosa di veder passare carrozzoni elettrici interamente occupati da
infelici senza gambe; un ramo di orchidee malefiche, che si protende
dalla cancellata di un giardino; due bimbi Indu, che sono venuti alle
mani per una latta di sardelle vuota; un santo, che medita, seduto sui
gradini del monumento alla Regina Vittoria; i bengalini minuscoli, che
nidificano nell'elsa della spada di Re Edoardo....

                                   *

I miei amici di Bombay si adoperano invece per farmi vedere dell'India
le cose che si lessero nei libri e che si videro dipinte. Esistono
anche queste. Così, per cortesia di Monsieur Lebaut, l'agente famoso
del famoso Hagembeck, assisterò, forse, ad una caccia alla tigre; per
i buoni offici del dottor Faraglia, il medico italiano notissimo di
Bombay, vedrò una danza di bajadere in una famiglia bramina tra le meno
accessibili all'europeo. Da tre giorni mi si vuol condurre alle Torri
del Silenzio. Ma non muore nessuno.

Quest'oggi Lady Harvet, una signora attempata e bellissima, tutta
bianca, vestito, volto, cappello, capelli, con non altro di colorito
che gli occhi azzurri, entra esultando nella sala di lettura del
_Majestic Hôtel_: — È morto! — E seguìta dal figlio e dal dottor
Faraglia, tutti esultanti: — È morto! È morto, ieri sera, un _parsi_
di qualche importanza, l'architetto Donald-Antesca-Cabisa; i funebri
saranno oggi, alle 18: siete fortunato; abbiamo il tempo di fare una
gita sull'Esplanade e di salire alla collina di Malabar per assistere
alla cerimonia; faremo il _lunch_ nel _Tower's Garden_; abbiamo le
provviste con noi....

Ed eccoci in auto a tutta corsa, — io che vado così volentieri
a piedi, lentamente, gustando in questi primi giorni la gioia di
premere la nuova terra, — e la città ci sfugge ai lati come una
_film_ svolta troppo vertiginosamente. Ecco l'Esplanade, dove l'ansare
delle automobili, lo scalpitìo degli equipaggi, si fonde col vociare
di una folla composta di dieci razze diverse e il suono di venti
bande militari. È la passeggiata, il Bois de Boulogne di Bombay:
interessante, misto, illogico, come un quadro futurista: tutti i
veicoli: carrozzelle indigene, tirate da zebu gibbosi, dalle corna
dorate, elefanti gualdrappati fino a terra di velluti ricchissimi, dai
quali non emergono che i quattro zoccoli enormi, le zanne tronche,
la proboscide, gli orecchi agitati di continuo come due ventagli;
carrozze dai cavalli candidi precedute da araldi ansanti e vocianti:
e dentro è adagiata la moglie, la figlia di un funzionario inglese,
e la biondezza della signora, stilizzata secondo l'ultimo figurino
europeo, fa uno strano contrasto con la magnificenza esotica ed arcaica
dell'equipaggio, con i turbanti e i velluti dei cocchieri, con la
nudità bronzata degli araldi. L'_auto_ di un ricco Parsi, l'_auto_ del
Vescovo di Bombay, che sorride fra due prelati e benedice con la mano
alzata di continuo la folla che s'inchina o s'inginocchia riverente.

In quest'ora di grande animazione, non ostante le rotaie, le
automobili, le vesti parigine, la città ricorda Babilonia ed
Alessandria, Roma e Bisanzio, i tempi favolosi; dà un senso di
ricchezza e di abbondanza; dà un senso d'invidia inevitabile,
fanciullesca, di rancore ingiusto, contro questi Inglesi, così forti e
così ricchi, padroni di mezza la Terra....

                                   *

I secondi padroni di Bombay, dopo gli Inglesi, sono i Parsi. I Parsi,
da non confondersi con gli Indu (io li confondevo addirittura con i
Paria: è desolante l'ignoranza di chi muta d'improvviso venti gradi di
latitudine senza qualche studio preventivo), da non confondersi con
i Maomettani, gli Afgani, dai quali differiscono come un tedesco da
un arabo. I Parsi sono i discendenti degli antichi Persiani emigrati
dalla Persia in India, dopo la conquista di Maometto. È veramente
biblico e grandioso il destino di questi seguaci di Zoroastro, che,
per non rinnegare il Sole, loro divinità, abbandonarono, dodici
secoli or sono, la patria, giunsero raminghi e perseguitati in India,
rifugiandosi prima a Diu; poi a Tabli; trattando con i Marajà per
avere un'ospitalità non molestata. Furono, invece, molestatissimi per
quasi un millennio, e la loro pace e la loro floridezza non data che
dalla conquista degli Inglesi, i quali riconobbero le loro qualità, li
incoraggiarono e li protessero. Oggi sono nelle mani dei Parsi i più
grandi capitali di Bombay. Dipende dai Parsi gran parte del movimento
politico, escono dai Parsi i migliori commercianti e i migliori
laureati. Eppure, nessuno è più del Parsi ligio al suo passato,
nessuno è meno di lui affetto da _anglomania_. Molti Indu vanno in
tuba e in isparato. I Parsi vestono come mille anni fa, quando vennero
profughi da Persepoli; gli uomini con una larga zimarra bianca, sul
capo un'alta tiara nera simile ad una mitra (la cosa che più colpisce
l'europeo sbarcato da poco); le donne si avvolgono di sete a vivi
colori, giallo-zolfo, gridellino, rosso ciliegia, verde-salice, che
dànno rilievo ai capelli nerissimi e al pallore ambrato del volto. Come
alle loro foggie millenarie, così sono ligi alla loro fede e ai loro
riti: la dottrina di Zoroastro, ispirata alla religione degli elementi
creatori e conservatori, il Sole prima di tutto, e il Fuoco, imagine
del Sole sulla Terra. L'Inghilterra, che tollera tutti i riti, tollera
anche la Torre del Silenzio e le usanze funebri dei Parsi, che sono
certo le meno conciliabili col nostro sentimento occidentale.

                                   *

Si sale lungo il Colle di Malabar; la città si abbassa rapidamente, si
offre tutta allo sguardo che la domina e ne gode come si gode di Napoli
dall'altura di Posillipo: una Napoli tripla, adagiata tra le montagne
del Dekan, il Borg-Hat, il Golfo di Bak-Baj e l'Oceano Indiano;
coronata da una vegetazione barbara, inconciliabile col nostro clima,
immersa in una luce intollerabile sotto il nostro cielo. L'automobile
ascende lungo la strada rossiccia, corre all'ombra dei cocchi, dei
_baniam_: gli alberi dalle radici multiple, ascendenti, discendenti,
moltiplicanti i tronchi all'infinito. Si riesce all'aperto, si scende
in un giardino lindo, fra grandi ajuole di rose del Bengala. Prendiamo
posto sotto una veranda intrecciata di grosse campanule strane, e
subito son tolte dall'automobile la tavola portatile, le provviste,
che Lady Harvet dispone in un grande vassoio: quei vassoi, che sono la
tavolozza gastronomica dell'invidiabile appetito inglese, contenenti
venti prodotti di tutti i climi: latte, miele, thè, marmellate indigene
ed europee, canditi, sott'aceto, salati, e frutti tropicali.... Spolpo
un frutto, un _mangustani_, che si mangia nella sua corteccia come
un sorbetto, mitigando col succo di limone la sua dolcezza troppo
aromatica; guardo intorno: il giardino ridente domina tutta Bombay, ma
è deturpato dalla Società del Gaz, che ha insediato tra gli alti fusti
delle palme-palmira un serbatoio colossale.

— Un gazometro? È la Torre del Silenzio, la maggior Torre; quelle altre
sono le _Dakmas_ minori, usate in caso di pestilenza.

La mia delusione è grande. _Tower of Silence_: il nome shelleyano
mi prometteva non quel cilindro imbiancato a calce, ma quanto di più
fantastico ha scolpito nella pietra la poesia della morte.

Un vallo senz'acqua circonda la torre e due ponti vi sono sospesi, che
dànno ad una porticina ovale, minuscola, unica apertura nella mole
bianca. Ed ecco fra il candore dell'edifizio e l'azzurro del cielo
un'enorme forma nera e sinistra: il primo avvoltoio; poi un secondo,
un terzo; poi sei, sette coronano la Torre, dànno al suo squallore un
tetro motivo ornamentale. Questi grifoni funerari superano veramente
l'orrore di ogni aspettativa; si direbbe che la Natura li abbia
foggiati secondo il loro tetro destino; hanno ali immense, possenti
al volo, fatte per gli abissi del cielo, ma che nel riposo lasciano
pendere lungo il corpo, trascinano nella polvere con una sconcia
stanchezza, artigli formidabili, ma senza la linea nobile dell'aquila,
artigli fatti per affondare nella carne putrida, non per lottare con la
preda viva. E alla base del petto, sopra una collarina di piume fitte,
si innesta un altro animale, un tronco di serpente ignudo, gialliccio,
grinzoso, dalla testa calva, con un becco oscuro ed occhi dallo sguardo
insostenibile, dove s'alterna la ferocia ingorda alla viltà e alla
malinconia.

La _Dakma_ si corona di avvoltoi, non più calmi nel loro pensoso
atteggiamento consunto, ma frementi, con i colli serpentini protesi
verso una cosa nuova. Lungo la strada, a mezza costa della collina,
biancheggia tra la polvere fulva e il verde del fogliame, il corteo
funerario. È tutto candido; strana usanza opposta alla nostra, che
ammanta di veli bianchi il dolore dell'ultimo addio.

— Entreremo anche noi nella Torre? — domando, non senza inquietudine
d'una tale proposta.

— Nessuno, nemmeno l'Imperatore, potrebbe penetrarvi; soltanto una
speciale setta di necrofori e il _dastur_ accompagnatore, possono
entrare.

— Il modello è molto semplice. — E il dottore mi disegna a matita
un anfiteatro, diviso in tre circoli concentrici, suddiviso da raggi
che formano tante cellette aperte: — Ecco: il cerchio interno, dalle
celle minori, è per i bimbi, il mediano per le donne, l'esterno per
gli uomini. Questo è il pozzo centrale, dove si raccolgono le ossa
ignude, che un acquedotto sotterraneo trasporta al mare. La logica
della barbara usanza? E barbara, perchè? Per i Parsi il fuoco è la
manifestazione divina, anzi, la divinità stessa, come per il cristiano
l'Ostia Consacrata. Rifuggono dunque dall'abbandonare il cadavere
al rogo, come fanno gli Indu, per non offendere con la putredine la
divinità; rifuggono dall'inumazione, perchè l'Avesta, il loro testo
sacro, proibisce di lasciare alla decomposizione lenta della terra quel
corpo, che fu l'agente di un'anima. Gli avvoltoi, gli uccelli sacri
per rito millenario, sono forse i più adatti ad annientare la misera
sostanza morta e a ritornarla nel ciclo vitale....

Ecco il corteo. Forse venti persone, interamente vestite di bianco,
con la testa, il volto velati di veli candidi. Quattro portatori
recano il cadavere resupino, coperto da un sudario leggiero, sotto il
quale traspaiono le spalle aguzze, il profilo fine, le gambe scarne.
I seguaci si tengono uniti a due a due con un fazzoletto attorto:
il _crati_ funerario, emblema di alleanza nella sventura. Il quadro
è molto semplice e molto grandioso, quasi non triste; ricorda certe
teorie cimiteriali sculpite nel marmo. Al primo ponte tutto il corteo
si arresta, come per intesa, e solo qualche figura bianca segue il
cadavere; parenti più consanguinei, la madre, il padre, un fratello.
La barella è deposta dinanzi alla porticina aperta; i seguaci sostano
pochi secondi dinanzi al cadavere, forse per una preghiera di addio.
Di fronte è il _dastur_, il sacerdote Parsi con due addetti. Non altri,
non altro; nessun gemito, nessuna lacrima, nessun gesto tragico; forse
anche nella religione dei Parsi, come in quella dei Bramini e dei
Buddisti, è cancellato il senso che noi occidentali abbiamo dell'_io_,
e la loro filosofia millenaria attenua lo strazio del distacco senza
ritorno. La barella è scomparsa nella porticina, che si è chiusa
silenziosa, le ombre candide ritornano a due a due, unite sempre dal
lino funerario, si allontanano _senza volgersi indietro_, come il rito
prescrive, dispaiono fra i tronchi dei palmizi.

Ma in alto, nell'aria, è il turbinio fitto, spaventoso delle ombre
nere. Dalle profondità dell'azzurro si avvicinano, ingrandiscono,
precipitano con la velocità della pietra che cade, i grifoni funerari;
sull'azzurro del cielo, sul candore della torre, le ali fosche sembrano
attratte e respinte da un turbine avverso, fanno pensare alle grandi
ali degli angeli maledetti. Ma nessun grido, nessuna lotta, uno stridìo
querulo e sommesso, quasi timoroso di svegliare un dormiente.

Io ho un tremito leggiero, ho l'orrore dello strazio che non vedo.

— ... Un ottimo giovine. Prometteva di farsi un architetto valoroso,
aveva vinto il concorso per il palazzo del Museo di Igiene. Suo zio
l'avvocato Makalla....

Un architetto, un avvocato: uomini come noi, dunque, che hanno studiato
i nostri libri, assimilate le nostre formule e le nostre idee, e le
hanno potute conciliare con sentimenti remoti, ripugnanti dal nostro
sentire, come quelli del selvaggio più sanguinario. E l'abisso tra
uomo e uomo mi appare sempre più terribile ed incolmabile, e il mondo
sempre più stridulo e buffo ed assurdo. Buffa ed assurda questa
torre, circondata di alti palmizi, alternati alle aste della luce
elettrica e del telegrafo, buffi ed assurdi quest'automobile e noi che
sostiamo su questo pendìo come dinanzi ad un aereodromo, un ippodromo
occidentale....

— ... Nessuno strazio. Il cadavere è finito in venti minuti, — mi
spiega il dottor Faraglia, addentando un terzo _sandwich_, — ed è
spolpato con una delicatezza veramente religiosa; lo scheletro resta
intatto nella sua cella, composto come se preparato per un gabinetto
anatomico. Con un sol colpo di becco il cranio è aperto dove l'osso
frontale s'incastra alla nuca....

— Ma il vostro amico non mangia, non beve, — osserva cortesemente Lady
Harvet. — Non sopporterete il clima di Bombay se non raddoppierete i
vostri pasti.



Goa: «la Dourada».


                              Oceano Indiano. A bordo del _Pedrillo_.
                                                    14 dicembre 1912.

Nessuno ha voluto seguirmi a Goa. Gli amici sono rimasti a Bombay,
già presi dalle varie dolcezze della metropoli ospitale. Andare a Goa,
perchè? I perchè sono molti, tutti indefinibili, quasi inconfessabili;
parlano soltanto alla mia intima nostalgia di sognatore vagabondo.
Perchè Goa non è ricordata da Cook, nè da Loti, perchè nessuna società
di navigazione vi fa scalo, perchè mi spinge verso di lei un sonetto
di De Heredia, indimenticabile, perchè pochi nomi turbavano la mia
fantasia adolescente quanto il nome di Goa: Goa la Dourada.

Oh! Visitata cento volte con la matita, durante le interminabili
lezioni di matematica, con l'atlante aperto tra il banco e le
ginocchia: ora passando attraverso l'istmo di Suez e il Mar Rosso,
l'Oceano Indiano, ora circumnavigando l'Africa su un veliero
che toccava le Isole del Capo Verde, il Capo di Buona Speranza,
Madagascar.... Mi seguiva nel mio pellegrinaggio un compagno che
non ho più rivisto da allora, e che aveva tutti i diritti a bordo
della mia fantasia: aveva un fratello missionario a Goa: un fratello
che non vedeva da anni, che quasi non ricordava, ma al quale doveva
l'abbondanza invidiabile di francobolli coloniali e certe lettere che
parlavano del Malabar e dei Gati, di tigri e di San Francesco Saverio
e certe fotografie della Cattedrale e della missione tra i cocchi
svettanti. Francobolli, lettere, fotografie, il nome di lui: Vico
Verani: tutto m'è impresso nella memoria, come se visto da un'ora,
anzi v'è impresso questo soltanto; e il viaggio sull'atlante mi pare la
realtà viva, e pallida fantasia mi sembra questo cielo e questo mare:
cielo e mare di stagno fuso, limitato da una fascia di biacca verde: la
costa del Malabar....

Ancora una volta penso che i nostri sentimenti di fronte alle cose
non sono che la magra fioritura di pochi semi deposti dal caso nel
nostro povero cervello umano, nell'infanzia prima. Termina oggi il
viaggio intrapreso a matita sull'atlante di vent'anni or sono, termina
a bordo di questa tejera sobbalzante, una caravella panciuta, lunga
trenta metri, alla quale è stata senza dubbio aggiunta la prima caldaia
a vapore che sia stata inventata. Ma tutto questo è indicibilmente
poetico e mi compensa della vuota eleganza dei grandi vapori moderni
dalle cabine e dalle sale presuntuose di specchi e di stucchi Impero
e Luigi XV, dall'odore di volgarissimo _hôtel_, dove è assente ogni
poesia marinaresca, ogni senso della _cosa nuova_ e dell'_avventura_.
Qui tutto è poetico, e la mia nostalgia può sognare d'essere ai tempi
di Vasco De Gama, di navigare alle _Terrae Ignotae_, alle _Insulae non
repertae_....

Dormo in una cuccia dall'_oblock_ a telaietti come una finestra
settecentesca. Scorpioni, blatte, termiti in abbondanza, ma in compenso
ho intorno immagini e statuette di santi: da Nostra Signora del
Soccorso a San Francesco Saverio: con strane preghiere in portoghese,
per l'ora del naufragio....; e il legno della cabina sa di salmastro e
di decrepitudine, e stride, di notte, al rodio ritmico dei tarli.

Pochi viaggiatori a bordo; qualche mercante Goanese, e cinque monaci
che ritornano a Goa dalle Missioni del Nord. Ho sperato subito di aver
notizie del missionario sconosciuto:

— Sì, vado a Goa per vedere il fratello d'un mio amico. Vico Verani,
_Vielha Citade_...

Ma i cinque monaci non sanno:

— Noi siamo del Convento di Pandjim; Pandjim è la Goa nuova. Ma conosco
tutti i Monaci della Citade, le farò una presentazione per Padre
Jacques della Chiesa di Bom Jesù, un'altra per la Cattedrale....

Strani questi Monaci Goanesi dal volto angoloso e terreo, dal sorriso
larghissimo, dagli occhi piccoli, neri come scaglie d'onice incastonate
sotto i sopraccigli enormi e baffuti: figure di Zuloaga, esagerate dal
clima e dall'incrocio; vivacissimi nel riso, nello sguardo, nel gesto,
opposti in tutto alla rigida biondezza degli Inglesi confinanti....


                                                         15 dicembre.

Oggi sono sceso nella stiva. Quanta merce disparata abbiamo con noi!
Pianoforti, macchine da scrivere, biciclette, balle di cotone a fiorami
vivacissimi per le belle dei coloni, tre casse enormi, dove viaggia,
diviso in tre parti, una statua gigantesca di San Francesco Saverio,
omaggio del vescovo di Bombay a non so quale convento portoghese, e
un'infinità di sacchi pieni di cocci: cocci di stoviglie raccattati in
tutti gli spazzaturai occidentali, frantumi a colori vivi, ricercati
dai musaicisti goanesi che ne fanno pavimenti a disegni complicati, di
bellissimo effetto.

Ho avuta una gradita sorpresa. In cucina, tra un casco di banani e una
latta di conserve, ho trovato un libro: _Os Lisiades_, le _Lusiadi_
il poema immortale di Camoens: un'edizione arcaica sucidissima, con
in calce la _real alvaira_: la licenza dei superiori. Non conosco il
portoghese e non mi giova ad avvicinarmi il poco spagnuolo che so, ma i
versi sono così armoniosi, così perfette le rime che alla fine d'ogni
strofe capisco esattamente ciò che il poeta ha voluto dire. Mi aiuta,
d'altra parte, il cuoco, lo sguattero di bordo, qualunque marinaio:
il poema è popolare tra gli illetterati come da noi _Bertoldo_ o i
_Reali di Francia_: con questa variante che il libro è tra i capolavori
più completi che il Rinascimento abbia dato alla letteratura europea.
È l'opera nazionale portoghese, quanto sopravvive, ohimè, di tutta
la grandezza coloniale dei giorni splendidi. Non per nulla, e non
indegnamente, Camoens fu detto il Tasso del Portogallo. Tutti gli
elementi delle grandi epopee sono ricordati intorno alla figura
dell'eroe: Vasco De Gama, e intorno alla sua gesta: la scoperta delle
Indie Orientali. Eppure non so leggerlo senza un sorriso d'irriverenza.
La figura dell'Ulisside portoghese è così grottesca, camuffata secondo
l'ossessione classicheggiante del tempo: sembra di vedere gli stivali,
il robone logoro d'un pirata medioevale spuntare sotto la corazza, il
casco clipeato delle reminiscenze omeriche e virgiliane. Tutto l'Olimpo
Pagano e Cristiano presiede alle gesta. La Vergine Maria da una parte
— una Vergine troppo paganeggiante — e Venere dall'altra — una Venere
che sa di sacrestia e di Santa Inquisizione — si contendono a volta a
volta l'eroe navigatore. Il poema s'apre con una bufera d'antico stile,
quando Vasco De Gama piega il Capo delle Tempeste: Bacco lo perseguita,
Venere lo protegge. Sbarco a Melinda, accoglienza del Re e della
figlia, ed ospitalità generosa, a sdebitarsi della quale Vasco riassume
in tre lunghi canti gli annali del Portogallo, le sue glorie passate
e future; la filastrocca oratoria di tutti gli eroi antichi quando
giungevano alla Reggia ospitale.... Ed ecco Didone camuffata da Ines
de Castro, e il quadro commovente della partenza di Vasco con la sua
flotta, e il Ciclope, parodiato dal gigante Adamastorre. E tra queste
reminiscenze omeriche e virgiliane Vasco giunge a Goa, la espugna,
s'impossessa di tutta l'India e non dimentica con i vari Rahja un
formale contratto di commercio, in belle ottave armoniose. I navigatori
ritornano in patria trionfalmente e sono accolti in un'isola incantata,
paradiso allegorico dove le ninfe di Teti, ferite da Venere, li
compensano d'ogni dura fatica. I santi del Paradiso Cristiano assistono
plaudendo — che libro buffo! — alle cose che si fanno sull'erbetta
accademica di questo giardino d'Armida.

Che libro buffo! Ma pieno di bellezze, ed è certo il viatico poetico
più adatto per il sognatore che naviga verso Goa leggendaria, il più
adatto per ingannare le ore di torpore tropicale, resupini sul ponte,
sotto la doppia tenda, nella monotonia d'un viaggio che sembra non
dover finire più mai....

Vasco De Gama: nome tra i più favolosi che io conosca: tanto che non
riesco a vedere l'uomo fuori della favola, non lo so pensare vivo,
mortale, su questo mare, sotto questo cielo che furono i suoi! E pure
la sua flotta navigava forse queste acque quando ospitava a bordo, in
gran pompa, il Negus complice ed alleato. E l'Imperatore d'Etiopia e
il Capitano portoghese erano chini sulla carta a meditare un'impresa
degna dei Ciclopi, una vendetta da semidei: deviare il corso del Nilo,
costringerlo ad una nuova foce sul Mar Rosso, inaridire così tutta la
valle del Delta, annientando per sempre l'Egitto rivale; forse le navi
di Vasco seguivano questo stesso solco, avevano d'innanzi questo stesso
orizzonte, quando l'esploratore giunse un'ultima volta alla terra della
sua gloria e del suo tormento, già vecchio, misconosciuto, agonizzante,
e — turbandosi la calma dell'Oceano Indiano per un maremoto improvviso
— il morente impose coraggio alla ciurma allibita, gridando con voce
ferma: Non temete! È il mare che trema d'innanzi a noi!


                                                         16 dicembre.

Ohimè! il mare non trema d'innanzi a noi. Da tre giorni quadro
invariabile. Cielo e mare di stagno fuso, con emerso qualche tratto
nero: le pinne degli squali, con sempre all'orizzonte, unica traccia
concreta, la fascia sottile ondulata di biacca verde: la costa del
Malabar....


                                                         17 dicembre.

Sono salito sul ponte all'alba. Si costeggia la terra. Il verde s'è
innalzato come una cortina che si prolunga all'infinito. Sono i cocchi,
gli alberi che regnano le coste di tutto il Malabar, di Ceylon, della
Papuasia: compatti, monotoni, abbarbicati fin sulla sabbia, tanto che
l'alta marea inghirlanda i loro tronchi d'alghe e di attinie. Sono i
cocchi, la nota visiva dominante di queste contrade, le palme selvaggie
che dànno al tropico quel suo profilo nostalgico. E non so come un mio
compagno di viaggio li possa chiamare datteri, confonderli col dattero
africano dal tronco a colonna, fatto di scaglia e di stoppa, dalle
foglie di latta rigida, arido compagno del deserto e della piramide.
Il cocco è l'amico della pagoda, il figlio dell'ombra umida e calda.
I tronchi si profilano bianchi sulla compagine verde, obliqui, sottili
come steli di gramigne favolose, lancianti a venti, a trenta metri nel
cielo il razzo verde delle foglie espanse, gigantesche, ondeggianti con
una grazia infinita sul tronco troppo gracile. Appoggiato al parapetto
del ponte, col mento chiuso tra le mani guardo da un'ora quell'unico
scenario di creature vegetali. La loro bellezza m'incanta....


                                             17 dicembre, pomeriggio.

E non immaginavo una città cristianissima sepolta sotto l'ombra
selvaggia.

Il Pedrillo ha risalito l'estuario della Mandavj, ci ha deposti
sull'_imbarcadero_ malfermo della _Vielha Citade_, ed è ripartito
in tutta fretta verso la Nova Citade, prima che la bassa marea lo
paralizzi su queste rive.

Da due ore m'aggiro per la più strana, la più triste delle città morte.
L'Oriente è pieno di città che furono. Ma risalgono a millenni, nella
notte delle origini buddiche e bramine, ce le fa indifferenti l'abisso
del tempo, della razza, della fede. La nostra malinconia ritrova
invece a Goa lo spettro di cose nostre: conventi, palazzi, chiese del
Cinquecento e del Seicento: una vasta città che ricorda a volte una via
di Roma barocca o una piazza dell'Umbria: una città che fu suntuosa
e ricca, sorta per imposizione della croce e della spada, città che
conteneva trecentomila abitanti ed ora ne conta trecento: tutti monaci
o guardiani dei palazzi e delle chiese crollanti, testimoni indolenti
che non ristorano una pietra, rassegnati all'opera implacabile del
clima e della foresta. Per le cose come per gli uomini il tropico
è deleterio; e sotto questo cielo di fiamma e d'uragano i secoli
contano per millenni. La città è vastissima, ma sono pochi gli edifici
completi. Avanzo a caso, senza una mèta, senza una commendatizia,
scortato da un monello vivace che m'interroga sulla mia scelta: —
Palazzo dell'Inquisizione? Chiesa di San Francesco Saverio? Cattedrale
di Nostra Signora degli Elefanti? — E comincia a considerare il
mio vagabondaggio trasognato con qualche inquietudine. Un edificio
m'attira, un palazzo del Seicento, imponente, dalle grate panciute,
dai balconi a volute aggraziate, recanti al centro, in corsivo, un
monogramma o uno stemma padronale; e lo stemma è riprodotto in pietra
sul vasto androne d'ingresso. Il cortile è circondato da un doppio
loggiato barocco, a colonne spirali; ma il loggiato è crollato per una
buona metà e s'apre sopra la campagna selvaggia. Seguo il portico a
caso, entro nella vasta dimora. Ohimè! Vedo il soffitto; e, attraverso
il soffitto, larghe chiazze azzurre: il cielo del tropico. Dei tre
ripiani, delle fughe interminabili di sale e di corridoi, non resta
più traccia, tutto è crollato, e il palazzo non è che una scatola, una
topaja deserta, che serve di magazzino per le noci di cocco. In terra,
fino a vari metri d'altezza, sono accumulati i grossi frutti chiomati
che fanno pensare a piramidi di teste tronche. Esco all'aperto, mi
siedo sotto il portico sopra un capitello infranto, mi disseto ad un
cocco che il guardiano rompe e mi porge.

— Di chi è il palazzo?

— Dell'Abbazia.

— Ma chi l'abitava, chi l'ha fatto costrurre?

Il guardiano non comprende, mi guarda perplesso. Accenno allo stemma
che traspare anche qui, sul selciato consunto. L'uomo non sa, fa un
gesto d'indifferenza.

— Chi può sapere? Un _conquistador_, nei tempi dei tempi....

Ma quale _conquistador_? È mai possibile che tre secoli possano
annientare a tal segno ogni memoria del nostro passaggio sulla terra?
E la memoria di uomini possenti, di dominatori temuti ed invidiati che
empirono il mondo delle loro gesta e del loro nome, che il loro nome
imposero con la croce e con la spada, scolpirono in marmo ed in ferro
sui loro palazzi magnifici. Fu un Diego Lajnez? Un Alfonso Dequero? Un
Manrico Tizzona? Forse ne ho già incontrati gli occhi sopraccigliuti in
qualche galleria europea, in una tela di Velasquez o di Van Dyck, uno
di quei _conquistador_ mezzo mercanti, pirata, guerriero, esploratore
che s'avanzano in tutta la pompa delle sete, delle piume, dei velluti,
recando la consorte per mano, una pingue signora a riccioli simmetrici,
sorridente nonostante il ferreo busto ad imbuto, la gorgiera crudele;
e la prole segue in bell'ordine, già tutta imbustata e corazzata
come i genitori, e un servo negro reca una scimmia sulla spalla
e un pappagallo nell'una mano, sollevando con l'altra una cortina
di velluto, e tra le due colonne appaiono le galee potentissime,
d'innanzi al porto d'una città favolosa: Goa. Goa la Dourada, Regina
dell'Oriente, orgoglio dei figli di Luso, quando sui dominii portoghesi
il sole non tramontava mai. «Chi ha visto Goa non ha più bisogno di
veder Lisbona».

Ancora una volta tocco l'ultimo limite della delusione, sconto la
curiosità morbosa di voler vedere troppo vicina la realtà delle pietre
morte, di voler constatare che le cose magnificate dalla storia,
dall'arte, cantate dai poeti, non sono più, non saranno mai più, sono
come se non siano state mai!

Strade interminabili, alternate di palazzi cadenti, vuoti come teschi,
di verzura selvaggia sopravanzante alti muri massicci, di torrioni
rivestiti di capillarie pendule, di liane gonfie, maculate come pitoni;
e chiese, ruine religiose più tristi delle ruine profane. Sosto nella
frescura ombrosa d'un frammento di vòlta a sesto acuto, rimasta in
piedi per prodigio, poichè sorretta da un solo muro superstite. La
mia nostalgia s'illude per un attimo d'essere in una chiesa diroccata
della Romagna o dell'Abruzzo. Ma tre scimmie oscene — vero simbolo
apocalittico di Satanasso — occupano il vano dell'abside, una frotta
di pappagalli minuscoli corre sulle quattro ogive; non l'edera, non la
lucertola amica animano la pietra morta, ma uno strano rampicante dai
fiori sogghignanti, e i camaleonti diabolici, dagli occhi strabici....
Dall'alto un cocco ha introdotto nella chiesa una foglia immensa e
l'agita lento, proiettando in terra l'ombra di una mano che benedica.

La malinconia della città morta è tutta nel contrasto di questo
medioevo europeo, di questo passato nostro, sepolto sotto un cielo
d'esilio, in una terra selvaggia.

Non ho altra mèta, altra indicazione in questa solitudine di piante e
di ruine che il nome di un italiano non conosciuto mai: e lo ripeto
a tutti i rari passanti; ma nessuno sa indicarmi il suo convento. I
conventi sono molti e passo dall'uno all'altro inutilmente; nessuno
conosce Vico Verani e senza il suo nome religioso sarà difficile la
ricerca; e non ricordo quel nome. Mi consigliano di rivolgermi alla
Cattedrale dov'è la Direzione Ecclesiastica con tutti i registri....

Affretto il passo, seguìto dal monello goanese che si interessa a
quella ricerca con grandi esclamazioni grottesche, e agitar d'occhi
e di braccia: una mimica eccessiva che rivela il rampollo di razza
bastarda. Si arriva nel centro di Goa: solitudine, silenzio, morte
anche qui. Formidabile come una fortezza il Palazzo della Santissima
Inquisizione: inquisizione più spaventosa di quella europea, causa
prima della decadenza d'un dominio coloniale che non ebbe l'eguale in
grandezza.

Ecco la Cattedrale, chiesa abbaziale delle Indie, moschea trasformata
in tempio cristiano da San Francesco Saverio. Ed ecco la chiesa del
Bom Jesù su di una piazza deserta, ombrata di palme. Visito la tomba
del Santo, suntuoso mausoleo barocco di giada, di marmo, d'argento.
Il corpo del Santo fu ufficialmente dichiarato Vicerè delle Indie e
Luogotenente generale; il vero governatore che giungeva dal Portogallo
doveva chiedere il permesso alla salma idolizzata, e ancora al
principio del secolo XIX egli veniva in gran pompa a questa chiesa
prima di prendere il suo posto: il rito voleva che ritornasse a
colloquio con le sante reliquie, prima d'ogni decisione importante....

Il monaco mi fa passare nelle sacrestie: attraversiamo un cortile
interno, vasto e murato, dove lo stile tozzo d'altri tempi, la
malinconia secolare fanno uno strano contrasto con la verzura ed il
cielo abbagliante. Si sale al primo piano; nella biblioteca sono
presentato al Padre Superiore. Il monaco m'accoglie benevolo, fa
togliere dagli scaffali tre, quattro registri di epoche diverse,
sfoglia con rapidità accurata, appuntando sulla carta giallognola
l'indice gemmato d'una grossa pietra violacea. Nel silenzio considero
quella tonsura grigia ed occhialuta, la persona massiccia nella tunica
nera e bianca, e l'altro compagno silenzioso, scarno, irrigidito,
addossato ad un planisferio antico recante a figure di belve e di
selvaggi i confini portoghesi. E dietro le spalle del padre, dietro
l'alta sedia a bracciuoli, s'apre la vetrata, appare un cortile
alberato dove una schiera di monelli indigeni, dai volti più foschi
nel camice bianco, fanno esercizi ginnastici accompagnati da una specie
di canto liturgico. Odore d'incenso putrido, di tabacco aromatico, di
tempo e di santità, odore di fiori sconosciuti e di miasmi tropicali.
Ho l'incubo. Guardo con impazienza ansiosa l'indice che scorre sul
vasto registro. Il silenzio mi pare eterno. E mai avrei pensato
di tanto desiderare l'incontro d'un italiano, sia pure il fratello
sconosciuto di un amico dimenticato.

Il padre s'arresta, legge finalmente:

— Padre Miguel, al secolo Vico Verani, convento di Santa Trinidad,
insegnante di teologia dal 20 settembre 1884, ordinato nel 1891 e....

Il padre alza il volto, mi fissa con occhi placidi:

— È morto il 22 ottobre 1896.

Un silenzio.

— Si dura poco, sotto questi climi, caro signore.

La solitudine mi par più completa, più vivo il desiderio di andarmene,
ora che so di aver seguita la traccia d'un morto nella città morta. I
monaci m'offrono ospitalità, insistono; ci sono dieci chilometri prima
di arrivare a Pandjim, la Nova Citade dove posso trovare un albergo; la
notte mi accoglierà a mezza via. Poco importa. M'accomiato; salgo su
un trespolo a _zebu_, un veicolo che ricorda una bara o una bigoncia,
dove il viaggiatore si adagia quasi supino, sollevando e abbassando
sul volto una specie di paracuna. E si parte di gran corsa verso la Goa
moderna.

Goa moderna: ma sembra una città di provincia dei tempi andati, una
capitale di qualche Republica dell'America Centrale, sul finire del
secolo XVIII. Passo la mia sera nel modo più banale, pur di convincermi
di vivere ancora, di essere sempre ai giorni nostri. Entro in un
cinematografo. Passo in un caffè, tra questa folla numerosa, così
diversa dalla corretta eleganza degli Inglesi e dalla grazia dignitosa
degli Indu, folla di meticci portoghesi che si riprodussero come la
gramigna sotto questo cielo, sopravvissero alle ruine, più tenaci
della pietra, e che si chiamano pomposamente _Toupas_, cioè europei
«che portano il cappello», ma che d'europeo non hanno più nulla, con
quelle spalle gracili, le gambe smilze, il volto olivigno, angoloso,
dagli occhi vivi, ma scimmieschi sotto la fronte depressa; e hanno
atteggiamenti grotteschi di cavalleria, sono lisciati, impomatati,
portano in giro sigari enormi e compagne languide, che sfoggiano i
figurini di dieci anni or sono, il ritagliume che loro invia qualche
fondo di magazzino europeo.

Sorseggio un bicchierino d'_arach_, il liquore nazionale, il
massimo commercio della colonia. Tra il vociare aspro e sconosciuto
che m'assorda e il fumo che m'accieca e mi soffoca, ricordo con
qualche cartolina illustrata qualche amico d'Europa. E osservo che i
francobolli recano ancora l'effige di Don Carlos; la florida ciera
del monarca trucidato mi sorride sotto la correzione violenta a
grossi caratteri neri: Republica. _Sic transit_. Non so perchè questo
particolare chiude con un'ultima tristezza questa sosta portoghese,
giornata malinconica tra le più malinconiche del mio pellegrinaggio.

Esco dal caffè, passeggio pei giardini, m'allontano lungo il mare
fin dove cessano i fanali a gas ed appaiono tutte le stelle del cielo
tropicale, dominate dalla Croce del Sud; s'ode nel buio il crepitìo
caratteristico che fanno le foglie dei palmizi fruscanti tra loro, alla
brezza marina. E tento di ricordare e di ripetere come una preghiera
sulla tomba della città defunta un sonetto di De Heredia, per la patria
lontana.

    _Morne Ville, jadis reine des Océans!_
    _Aujourd'hui le requin poursuit en paix les scombres_
    _Et le nuage errant allonge seul des ombres_
    _Sur la rade où roulaient les galions géants._

    _Depuis Drake et l'assur des Anglais mécréants,_
    _Tes murs désemparés çroulent en noir décombres_
    _Et, comme un glorieux collier de perles sombres_
    _Des boulets de Pointis montrent les trous béants._

    _Entre le ciel qui brûle et la mer qui moutonne,_
    _Au somnolent soleil d'un midi monotone,_
    _Tu songes, ô Guerrière, aux vieux Conquistadors;_

    _Et dans l'énervement des nuits chaudes et calmes,_
    _Berçant ta gloire éteinte, ô Cité, tu t'endors_
    _Sous les palmier, au long frémissement des palmes._

Più che nel tronfio accademico poema di Camoens, Goa «la Dourada» è
chiusa in questo miracolo di quattordici versi!



Un Natale a Ceylon.


                                    Adam's Peak. Ceylon, 25 dicembre.

Lento martirio del risveglio sotto questi climi!

La coscienza, intorpidita dall'atmosfera di serra calda, si ridesta
penosamente come una ribalta che s'illumini a scatti successivi ed
improvvisi; si direbbe che nel sonno essa abbia abbandonato il corpo,
si sia involata verso la patria lontana e debba ora riguadagnare in
pochi secondi la spaventosa distanza, ritrovarsi la via tra lobo e lobo
del cervello; la ragione, invece, già vigile e desta, assiste a quel
tormento, indaga, commenta, deride:

«È vano che tu m'illuda, o vagabonda notturna! Sono a Ceylon; so
d'essere a Ceylon! È vano che tu mi porti ad ogni risveglio un lembo
di paesaggio ligure o canavesano, il sorriso d'un amico, il profilo
di mia madre.... So di sognare. Questo suono fioco di campane che tu
fingi per ricordarmi la patria, imita assai bene il clangore natalizio
quando la bufera di neve lo investe turbinando. Ma non è vero. Vero è
soltanto il coro assordante e rauco dei pappagalli e delle scimmie sul
tetto del mio _bungalow_. Fra pochi secondi mi sveglierò a Ceylon, nel
mio rifugio solitario, in piena foresta tropicale....

Mi sveglio. Sono a Ceylon. Ho gli occhi bene aperti, vedo attraverso
il velo bianco gli arredi della stanza, la figura di Patrick in piedi,
che attende col vassoio del thè; sono ben desto; ma, attraverso il
coro della foresta, continua il clangore fioco delle campane; scosto
la zanzariera, balzo dal letto con tale sorpresa che il vecchio _boy_
cingalese s'inquieta.

— _What is the matter with you, Sir? _ — Niente, caro. Sto benissimo,
ma che cosa è questo suono?

— _Christmas!_ Il Natale! È la messa delle sei, alle Missioni di
Kandy....

Fin quassù giunge, nell'aria immobile, il suono di Kandy, lontana sei
ore, in fondo alla valle....

Patrick è cristiano. Benchè porti i radi capelli grigi avvolti in
trecciuole sotto il pettine cingalese di tartaruga ricurva, benchè
non abbia altra veste che il gonnellino muliebre a scacchi rossi ed
azzurri, egli ha sul petto ignudo, appesi tra gli amuleti contro
i veleni, i cobra, i malefizi, uno scapulare di celluloide e una
crocetta d'argento. È un puro ariano, dalla nobile faccia socratica
che mi ricorda terribilmente un mio illustre insegnante di Università,
tanto che ancora non riesco a vincere una certa esitanza, quando devo
ordinargli di prepararmi il bagno o di lucidarmi i gambali....

— _Christmas, Christmas!_ Sentite le campane?

È Matthew, l'altro boy, che entra esultando, con tutti i suoi denti
bianchi, abbaglianti nel bronzo del viso. È giovanissimo Matthew,
ha vent'anni e parla sette lingue; è un buon cacciatore e un ottimo
cuoco; nessuno sa meglio di lui rammollire e friggere il legno della
_traveller-palm_ o cucinare la carne del pangolino squamoso o del
vampiro-rossetta.

Con questi due compagni e il guardiano del _bungalow_ — appena
sufficienti in questi climi dove il lavoro è frazionato per età e
per caste — abito da quasi un mese l'ultima _rest-house_ offerta al
viaggiatore dalla mirabile previdenza britanna. A Colombo, a Kandy, fra
le gaie lusinghe degli _hôtels_ cosmopoliti, ho sciupato molto tempo
e danaro (troppo danaro per un letterato entomologo, non lautamente
munito dalle patrie lettere e dai patrii musei) e devo ai buoni uffici
del Console d'Olanda presso il governo cingalese questo rifugio beato,
favorevole più di ogni altro alle mie ricerche.

È minuscola e modesta questa _rest-house_ sul Picco d'Adamo, e non
m'inorgoglisce il pensiero che v'ha pernottato il Kronprinz, lo scorso
anno, quando venne a Ceylon, per la caccia all'elefante. Ohimè,
la dimora non è imperiale! Ha una lindezza squallida di stazione
ferroviaria e di casetta nipponica a un solo piano, come tutte le
costruzioni dei tropici, circondata da una veranda a colonnette
bianche, dal tetto ampiamente proteso; a sera si abbassa una grata
a saracinesca che si chiude intorno premunendoci contro le visite
dei felini. In Europa gli uomini mettono le tigri in gabbia, qui
sono le tigri che costringono in gabbia gli uomini; non la tigre,
veramente, che manca in queste foreste, ma il leopardo e la pantera
nera cingalese, temibilissima. Le stanze sono disposte attorno a un
cortiletto, un piccolo _patium_ centrale, e sono di una malinconia
indescrivibile, in muratura bianca di calce fino a mezza parete, dalla
metà in su in legno traforato a giorno e aperto, così, al minimo soffio
ristoratore; v'entrano liberamente i piccoli alati della jungla, i
passeri bengalini, con la fiducia incredibile che hanno per l'uomo gli
animali dell'India....

Una camera da letto d'una semplicità da certosino, una sala con qualche
pretesa europea, una cucina e una vasta dispensa che ho adibita a
laboratorio con le mie casse e i miei barattoli; dinanzi alla casa un
giardinetto derisorio, con un'aiuola triangolare dove il guardiano cura
con grande amore alcuni grami gerani d'Europa, storditi dal clima e
umiliati dalla flora circostante. In quest'eremo mi raggiunge stamane
il clangore remotissimo delle Missioni.

E per la prima volta, dacchè sono lontano dalla patria, sento in
cuore una trafittura leggera, appena percettibile, ma insistente e
importuna come il primo rodìo del dente cariato: è la nostalgia! Ed
io mi vantavo d'esserne immune! Ohimè, ci si può illudere d'essere
un Robinson e un cenobita buddista, ma non si può scomporre la nostra
sostanza prima, la quale è non soltanto per ciò che è, ma per ciò che
è stata; e non si eliminano dal mistero della nostra psiche millenni
di evoluzione europea e venti secoli di cristianesimo.... La nostalgia,
il male tremendo e indescrivibile fatto di sentimenti indefiniti simili
all'ansia e al rimorso!

Esco all'aperto, ristorato dal bagno, per distrarmi al risveglio della
foresta, delizia e meraviglia sempre nuova ai miei occhi europei. Seguo
un sentiero appena tracciato nella densità del verde, ma per la prima
volta questa natura paradisiaca m'appare ostile, inquietante come un
paesaggio antidiluviano, sul quale debba profilarsi un pleosauro o un
iguanodonte. Attraverso l'intrico della flora demente, dalla profondità
delle valli, giunge ancora una volta il suono delle campane delle
Missioni, poi tace e mai mi son sentito così solo, benchè Patrick e
Matthew mi seguano recando il fucile, le reti, le pinze. Ma quest'oggi
non uccideremo. È nato nella mia terra il fratello di Gautama: la Bontà
Suprema, che ogni tanti millennii s'incarna e culmina in un uomo, s'è
«destata» un'altra volta in uno «svegliato».

Avanziamo in questi stretti sentieri simili a corridoi nel verde,
scavati dalle escursioni notturne degli elefanti selvaggi. Sono le
otto del mattino; la mezzanotte è dunque imminente in Italia, le mense
a quest'ora s'inghirlandano di vischio e d'agrifoglio, le finestre
s'illuminano nelle tenebre glaciali, nevose della notte sacra. Qui è
mattino estivo, una luce abbagliante che giunge mitigata dalle cupole
delle felci arborescenti, come un verde tremolio sottomarino; è il
tepore di serra calda che dura eterno su questa fascia equatoriale
della terra, una quinta stagione senza nome ch'io chiamerei Euforia; la
demenza beata che accompagna le agonie senza fine di certi consunti.
In questo tepore eterno, mitigato nella sera e nella notte da un'ora
di pioggia torrenziale, la flora raggiunge misure, linee, tinte
incredibili; e questa bellezza e questa stagione che non mutano,
aggiungono alla mia nostalgia d'oggi un altro sgomento fatto di
pensieri indefinibili; le primavere, dunque, le estati, gli autunni,
gli inverni immortalati nei capolavori della poesia, della pittura,
della musica europea, non sono che il prodotto d'una latitudine —
tristezza, relatività di tutte le cose, anche di quelle che veneriamo
come divine, ed immortali — tristezza ancora più profonda al pensiero
che questa terra perennemente verde non è che la sottile zona
d'un'estate eterna che copriva, all'inizio, tutto il nostro globo —
sgomento puerile, ma invincibile al pensiero che la nostra patria è
già immersa nella curva della terra che si spegne, che l'inverno, la
notte glaciale e nevosa che l'avvolge in questo mio chiaro mattino,
è già l'imagine della notte glaciale eterna che s'avanzerà nei tempi
e guadagnerà i tropici e raggiungerà fin su questa zona privilegiata
l'ultimo esemplare dell'umanità moribonda....

Non è gaio il mio Natale, e la flora che mi circonda non è
consolatrice, mi ricorda di continuo la spaventosa distanza dalla
patria; l'illusione non è possibile nemmeno limitando lo sguardo in
terra; il piede s'avanza ora fra muschi, licheni mostruosi simili a
polipi o a masse madreporiche, ora passa sul tappeto cinerino della
mimosa azzurra cingalese, e il passo lascia una strana impronta che
s'allarga in pochi secondi, con la contrazione dolorosa del mollusco
offeso. Ai lati, in alto, è il tripudio della flora vegetale e della
flora vivente; strani insetti (_fasmidae_, _phillum_, ecc.) imitano i
rami e le foglie, farfalle enormi abbagliano nel volo, come una brace
verde e azzurra, e, posate, si chiudono in un grigiore di foglia morta;
fiori strani, petali di carne rosea e sanguigna, di porcellana candida
o azzurra, fiori che nessuna parentela hanno con i nostri, foglie
più belle dei fiori, a cuore, a calice, a scudo, lobate, dentate,
frangiate, bianche venate d'azzurro e di rosso, rosse venate di bianco
e di violetto, felci arboree agili come zampilli verdi, felci nane,
capillarie fluttuanti nell'aria, come in fondo ad un acquario; e tutto
è immutato, come ai tempi delle origini, quando non era l'uomo e non
era il dolore....

.... Le undici; il sole è quasi a picco; il paesaggio favoloso si
scompone nelle lontananze verdi, al gioco dei miraggi; i tronchi
serpeggiano nell'aria che si dissolve tremando come l'acqua d'un
rivo. Rientro nel _bungalow_. Ma sulla soglia Matthew che mi precede
s'arresta con alte grida di paura e di giubilo:

— _Cobra! Cobra! The best wish for you!_ Il migliore augurio per voi!

Strana fantasia dell'India, che ha simbolizzata la speranza gioiosa in
questo messaggero di morte certa! — Tkatura — Tka: «ancora — sette —
passi» lo chiamano i cingalesi, perchè, si dice, la vittima barcolla
sette passi ancora, poi cade irrigidita. È certo tra i rettili più
micidiali, ma la sua apparenza non è formidabile. Questo che m'accoglie
nel mio giardino è grosso poco più d'una biscia e fuggirebbe volentieri
se il _boy_ non gli balzasse intorno impaurendolo con le grida e con
la rete; il cobra s'è raccolto a spire, erigendosi a mezzo il corpo
con la gola gonfia, espansa dall'ira, e la piccola testa triangolare
dagli occhi rossi come rubini, dalla lingua bifida dardeggiante, gira
intorno, su sè stessa, vigilando l'uomo, pronta alle difese.

Ma l'uomo lo lascia e il rettile si snoda, s'allunga, dispare nel
folto; sia grazie anche a lui in questo giorno di Natività....

A tavola, solo. La saletta mi dà qualche illusione d'Europa, illusione
che accresce, non mitiga la mia nostalgia. È singolare il contrasto
fra la lindezza tropicale, le pareti bianche di calce, traforate a
mezzo, fino al soffitto, e la pesantezza presuntuosa e vetusta dello
scarso arredo che ricorda le sale d'aspetto di certi dottori o di certi
curati; quattro sedie in giunco, un divano esalante da troppe ferite
l'anima di stoppa, una mensola Impero con sopra un pendolo Robert
di qualche pregio, uno scaffale con una Bibbia enorme, alle pareti
un'oleografia moderna dei Reali d'Inghilterra e due incisioni antiche:
Amsterdam del secolo XVII; cose tolte a qualche vecchio _bungalow_ e
giunte a Ceylon al tempo della dominazione olandese, quando i mercanti
fiamminghi giungevano all'isola favolosa, non anco ben definita sugli
atlanti, dopo un anno d'avventure su velieri mal fidi, circumnavigando
l'Africa e l'India....

Patrick e Matthew vengono e vanno silenziosi, vigilando ogni mio
gesto con quello zelo devoto che è la grande virtù dei servi indiani
e la meraviglia di tutti i viaggiatori. Matthew ha posto in mezzo al
tavolo, dentro una latta per conserve, un fascio enorme d'orchidee,
raccolte nella gita di stamane, e un piatto di manghi enormi. Mi sono
avvezzo agli strani frutti che si spaccano offrendo una polpa gelida,
mantecata come un sorbetto, odorosa di muschio e di creosoto; strani
frutti che si direbbero preparati da un confettiere, da un profumiere
e da un farmacista. E da un orefice si direbbero ideate le orchidee
che ho dinanzi; petali di lacca policroma, polverizzata di mica,
gole fantastiche e sogghignanti di draghi nipponici, petali gibbuti,
cornuti, panciuti, nell'interno iridescenti come le tinte intravviste
nei toraci aperti delle bestie macellate; il fascino dà l'incubo della
peste e del malefizio, e nell'afa pomeridiana emana un odore fetido
insostenibile. Faccio allontanare il mazzo favoloso che a quest'ora,
in una sala europea, sarebbe omaggio non indegno d'una principessa,
e quanto volentieri lo cambierei con un ramo natalizio di agrifoglio
spinoso a bacche rosse o con un ciuffo di vischio perlato!

Ed è l'ora dell'afa pomeridiana, della siesta tropicale sulla sedia a
sdraio, e l'ora del silenzio favorevole alla vista dei bengalini.

I passeri minuscoli, rossi o verdognoli spruzzati di bianco irrompono
in fretta da una parte della sala, l'esplorano, l'attraversano a volo,
rientrano; il mio braccio bruscamente proteso per prendere un libro, li
inquieta, irrompono in cucina, ritornano impauriti dallo sfaccendare
dei boys, turbinano due volte nella sala da pranzo, si dispongono nei
trafori delle pareti, in attesa; alcuni, più audaci, considerano che
non mi decido ad andarmene, scendono, si posano sulla spalliera delle
sedie, sugli scaffali, in terra, a beccare le briciole della colazione,
e ad uno ad uno scendono tutti, saltellano con un pigolio sommesso,
ormai fiduciosi nell'uomo vestito di bianco. Avanzo un braccio, getto
un giornale per vedere fino a qual segno giunga la loro audacia, e i
piccoli temerari si scostano appena.

Nell'afa silenziosa quel cinguettio tracotante s'accorda col tic-tac
del vecchio Robert che ha segnato le ore di tante vite in esilio,
s'accorda col canto in sordina dei _boys_.

Patrick e Matthew non sfaccendano più.

Sono distesi in terra con le spalle al muro, dormono e cantano. Il loro
sogno indolente si traduce per sè stesso, attraverso i denti chiusi, in
una musica sonnolente e bizzarra: azione riflessa, commento delle cose,
parafrasi della solitudine e dell'esilio, del caldo e del silenzio...



Da Ceylon a Madura.


                             A bordo del _Bangalore_, 3 gennaio 1913.

E anche l'isola abbagliante diventa un ricordo, cade nel passato.
Tutti sono sul ponte a dirle addio. Turisti londinesi che fanno sino
a Colombo la loro corsa di due mesi, mercanti olandesi e belgi di
cannella e di perle, tamili che ritornano in India dopo il lavoro
annuale nelle piantagioni cingalesi di thè e di caffè, tutti sono
sul ponte, con occhi fissi alla terra verdeggiante e con un diverso
rimpianto; la nave lascia il porto, già beccheggiando al primo
corruccio del largo.

E l'isola si vela d'improvviso, quasi per troncare la malinconia degli
addii. Dal Picco d'Adamo alle foreste del litorale tutto è avvolto
in pochi secondi da una cortina di nubi tondeggianti, cupe e concrete
come se scolpite nel marmo livido, mentre il cielo intorno e sul nostro
capo resta azzurro e tranquillo; nella cornice fosca, simile all'ovale
di nubi artificiose di certi Inferni e di certi Diluvii, guizzano,
s'intrecciano lampi azzurri e violetti, e lo scenario interno s'accende
di un riverbero sanguigno, profilando in nero i palmizi scapigliati;
un'acquata torrenziale, ignota ai nostri climi, appare di lungi,
riga il centro del quadro di striature oblique di cristallo; un rombo
indescrivibile accompagna l'uragano equatoriale, simile all'orchestra
di mille gonghi formidabili.

La nave s'allontana nel sereno, ma il mare è agitato. L'onda freme di
continuo in questo Stretto di Manaar che, per fortuna, attraverseremo
in una notte soltanto. E domattina, prima dell'alba, sbarcheremo a
Tuticorin, la città più meridionale dell'Industan.


                                                           4 gennaio.

È l'alba, ma la terra non è in vista. Il mare è furente.

Immune, per mia fortuna, dal mal di mare, ma stordito dalla notte
insonne, dolente per le cinghie di sicurezza, sono disteso nella mia
cabina, e sento i lagni dei vicini, gli ordini recisi degli ufficiali
e il rombo dell'elica, che a tratti turbina nel vuoto. Poi anche
l'elica tace; la nave s'arresta; salgo sul ponte, barcollando. — Il
_Bangalore_ «ha stoppato» — mi spiega un ufficiale della British India,
che s'ostina a parlarmi italiano, — perchè si attende il rimorchio. —
Siamo nell'Arcipelago perlifero, tra banchi malfidi, non conosciuti che
dai pescatori indigeni.

È il mare che dà le più belle perle del mondo; lo pensavo diverso,
ricco di bagliori e di tinte vive, sotto un cielo di fiamma; sembra,
invece, un mare nordico o meglio un oceano primordiale, quando
l'acque ed i continenti non avevano ben divisi ancora i loro confini;
l'orizzonte sembra di stagno fuso, agitato non dal vento, ma dalla
corrente che pulsa e ripulsa nei bassifondi e qua e là spumeggia
e ribolle come se sconvolta dalla mole colossale di un mostro
sottomarino; il cielo afoso e torbido, dal quale il sole proietta
i suoi raggi a fasci disuguali, accresce l'illusione malinconica
di oceano antidiluviano. Veramente si aspetta di veder emergere il
dorso immane, l'alto collo serpentino, la piccola testa vorace d'un
Itiosauro. Biancheggiano all'orizzonte, circondate di spume più
furiose, le isolette che collegano Ceylon alla parte meridionale
dell'Industan: così vicine e regolari che, a bassa marea, servono per
l'emigrazione degli elefanti sul continente. Formano per gli Indu
il _Ponte di Rama_, quello che servì all'eroe vedico per irrompere
dall'India all'isola dov'era la Principessa captiva; e formano per i
cristiani l'_Adam's Bridge_: il ponte d'Adamo, che fu passato dal primo
uomo piangente, cacciato con la sua compagna dalle valli incantate
dell'Eden...

La nave ancorata su queste acque ribollenti e ripulsanti, s'agita in un
beccheggio impaziente.

E il rimorchiatore non giunge.


                                                Tuticorin, 5 gennaio.

Siamo approdati a Tuticorin in una specie di chiatta a vapore sulla
quale ci hanno sbalzati ad uno ad uno, come balle di mercanzia,
cogliendo l'attimo in cui l'onda innalzava il vaporetto all'altezza del
piroscafo.

Tuticorin è la città famosa delle perle. Ma da tre anni la pesca è
proibita dall'Inghilterra. Si depredavano i banchi perliferi senza
metodo e senza tregua. Le valve aperte e gettate in una speranza mille
volte delusa, formano bassifondi alti quindici, venti metri, tracciano
nuove spiagge, modificano, nei secoli, il profilo del litorale.

E nella città delle perle, naturalmente, non troviamo una perla.
Quelle che ci mostrano i mercanti girovaghi, troppo grosse e perfette,
troppo nivee nella palma color di bronzo, m'hanno tutta l'aria d'essere
fabbricate da un impresario tedesco in una vetreria di Calcutta o di
Bombay. Quelle in vendita dai gioiellieri accreditati, che si cedono
con regolare contratto e garanzia consolare, hanno prezzi favolosi e
non sono bellissime. La merce migliore è interdetta al viaggiatore, e
incettata per i grandi mercati di Londra e di Amsterdam.

Degno di nota il sobborgo degli intagliatori, raffinatissimi, per
abilità ereditaria di casta, nel lavorare l'ebano, l'avorio e la
madreperla: scolpiscono, cesellano elefanti, amuleti, idoletti secondo
il modello immutabile nei millennii; un cieco ha intagliato sulla
zanna intera di un elefante tutta la leggenda di Rama; e gli episodi
si svolgono a spirale, in gruppi non privi di vivezza e di grazia, con
un'arte che ricorda i nostri primitivi.

Lasciamo Tuticorin per Madura. Ed eccoci ancora in queste ferrovie
indiane che hanno un fascino esotico indefinibile; grandi carrozzoni
quasi quadri, a doppio tetto spiovente, dove la raffinatezza inglese
stride con l'esotismo dei _panka_ che pendono come immensi ventagli,
alternati ai ventilatori elettrici, con le iscrizioni delle targhe,
delle _réclames_ in inglese, tamilo, arabo, cingalese, con i fiori
strani delle mense del _dininge-car_, gli strani servi in camice
bianco, scalzi e silenziosi e pure imponenti come sultani. Si viaggia
verso Madura, «il cuore di Brama», chè così gli indigeni chiamano
tutta questa parte meridionale dell'Industan formata dai tre stati di
Travancore, Madura, Tanjore, dove il bramanesimo è intatto, immune
dall'islamismo che ha dilagato nel Nord e nel centro dell'India e
dal buddismo che impera nell'isola di Ceylon. Riconosco la città di
Madura subito, da lontano, per il profilo ben noto delle sue piramidi
tronche, che s'innalzano sul verdeggiare dei palmizi. Le immaginavo
d'oro le alte _gopuram_ di Brama; sono invece d'un color rosso sangue;
e l'oro non appare che quando si è più vicini, alternato all'azzurro
e al verde, a sottolineare le figure delle quali le immense moli sono
coperte. Quando scendiamo alla stazione è troppo tardi per raggiungere
il Tempio. Il giorno tramonta; il cielo s'arrossa per un istante
e le stelle si accendono tutte insieme sullo scenario che annera
d'improvviso, come una ribalta spenta.


                                                   Madura, 6 gennaio.

E in questa terra di Brama siamo ospitati dalle Missioni Belga dei
_Charmelitains déchaussés_, presentati da una lettera del vescovo di
Bombay. Mancano alberghi a Madura; quello della stazione è inabitabile
per il servizio quasi indiano, il rombo e il fischio dei treni, il
clamore dei pellegrini.

Mi sveglio invece in questa camera linda, aperta sopra un giardino
tranquillo. Non è più la selvaggia flora di Ceylon. Esco tra le aiuole
ben pettinate, dove le rose bengali s'alternano con ortaggi europei,
tanto che in questo mattino di gennaio ho l'illusione di passeggiare
in un giardino canavesano, nelle nostre più belle giornate estive;
ma una frotta di pappagalli verdi, una farfalla troppo ampia e troppo
abbagliante, inconciliabile col nostro cielo, mi ricorda il tropico, mi
dà l'incubo, quasi, dell'estate sempiterna. Giunge di lontano un suono
discorde e assiduo di tam-tam, di gonghi, di pifferi, che sovrasta il
suono delle campane cattoliche, un'orchestra selvaggia che mi parla di
misteri paurosi e d'idolatria.

— L'idolatria! — dice il missionario che m'accompagna, una figura
ancora giovane di fiammingo indurito a tutte le fatiche e a tutte
le prove — l'idolatria è la piaga insanabile di questi popoli. La
loro stessa letteratura sacra, che contiene capolavori di filosofia
edificante, ottima preparazione a ricevere la luce del cristianesimo, è
ignota a questa gente, ignota ai loro stessi sacerdoti specializzati,
per eredità di casta, in pratiche esteriori ed assurde. L'Indu vuole
l'idolo. E siamo costretti a rivelare i simboli cristiani nella forma
più concreta: l'immagine. Tutto ciò che è Vangelo, disciplina morale,
cosa astratta non ha presa su questi spiriti, avvezzi al loro Olimpo
dravidico popolato da migliaia di dei. Sono anime docili, pronte
alla fede, ma una fede eretica che li fa appaiare sui loro altari la
Trinità di Brama alla Trinità di Cristo, Maia-Devi a Maria Vergine,
Mara a Satanasso. E Satana non è per loro il Male, ma una potenza
terribile, quasi rispettabile, certo da ossequiare più della divinità,
da placare con doni e ghirlande. Accettano Cristo, gli stessi sacerdoti
l'accettano, ma per collocarlo tra Ganesa e Parvati, come un _avatar_,
un'incarnazione di più. È forse più facile illuminare un Niam-Niam che
questi cervelli ottenebrati da un'idolatria tre volte millenaria...

Passiamo nella Chiesa. La Messa volge al termine e la folla è al
completo; devoti che assistono genuflessi, quasi carponi, con un
raccoglimento ignoto fra noi. Ma vedo che le navate sono divise in tre
reparti in muratura: divisione di casta, senza la quale i devoti si
rifiuterebbero d'intervenire; perchè nessuna dimostrazione evangelica
potrà mai indurre un indiano ad accostare un indiano di rango diverso;
e accettano il paradiso promesso, ma a patto di suddivisioni di casta
ben definite.

E il missionario mi fa notare sul collo bronzeo delle devote genuflesse
i più strani amuleti pagani: zanne di tigre, idoletti, _lingam_ fallici
alternati a scapolari, crocette, medagliette di santi.

M'avvio verso la città per un viale alberato di _baniam_ colossali
che formano come una galleria di tronchi e di radici aeree. E fra i
tronchi, ad intervalli, sono tempietti, tabernacoli d'un arcaismo
remotissimo, che contengono idoli minuscoli, orridi e grotteschi,
simili a feti sculpiti in metallo od in pietra; e grosse inferriate li
custodiscono come se fossero belve feroci. Alternati ai tempietti noto
certi alti scranni in granito, perchè le donne che passano sotto anfore
enormi, fasci pesanti, possano deporre il carico e riprenderlo senza
aiuto. Passano uomini, tamili foschi, razza aborigena di bassa casta,
bramini dalla pelle chiara, sdegnosi di vesti e d'orpelli, ma dignitosi
nella loro nudità completa, con non altro ornamento che la cordicella
sacra simbolo battesimale d'alta casta, e il monogramma di Visnu, il
tridente disegnato sulla fronte, sul petto; lo stesso tridente di Visnu
che vedo dipinto sulle pareti delle case, sul tronco degli alberi,
sulla fronte spaziosa degli elefanti.

Madura è la città sacra del bramanesimo, mèta di pellegrinaggi senza
fine, luogo d'adorazione continua, dove la vita e la realtà non
servono che alla contemplazione e alla preghiera. La città contiene
quasi più templi che case, più sacerdoti che cittadini. La grande
pagoda a Siva e a Minakshi «la dea dagli occhi di pesce» è per sè sola
una città e un labirinto. Come tutti i templi bramini, non consiste
in un edificio soltanto, ma in varie costruzioni chiuse in cortili
concentrici, in recinti sempre più vasti, ed ogni recinto è sormontato
da due _gopuram_, le cuspidi che innalzano a ottanta metri nel cielo il
simbolismo pazzesco delle loro sculture. Nei cortili sono le abitazioni
per i bramini d'alta casta, le piscine per le abluzioni dei fedeli,
statue, idoli colossali, mercati coperti, tutto quanto concorre alla
vita materiale e morale d'un popolo in adorazione.

Giungo nel Tempio quasi senza accorgermene, lungo una larga via
fiancheggiata di case a veranda che ricorderebbero le costruzioni di
Roma provinciale se le colonne classiche non fossero sostituite dalla
colonna indiana, quadra, dal capitello a testa elefantina, a mostri
sogghignanti. La via giunge fin sotto la prima piramide, prosegue
dentro il tempio, ampia e popolata, attraverso un arco ciclopico che
s'apre nella piramide stessa; e la città profana continua nella città
sacra. Passo dalla luce abbagliante nella penombra religiosa, m'addosso
alla parete di granito, per orizzontarmi, e sento che il granito
palpita e cede; è uno degli elefanti sacri, un colosso decrepito che
sembra scolpito nella pietra stessa del tempio, la sua proboscide
mi sfiora le mani, il volto in una carezza indulgente; un altro è
sdraiato e profila l'immensa groppa tondeggiante, ingombrando il bel
mezzo della via, deviando il traffico e il transito dei devoti; tre
elefanti novelli, minuscoli ancora, passano al trotto, con tinnito di
sonagli, una mucca _zebu_ s'avanza incerta ammusando gli erbaggi, i
frutti offerti dai fedeli; mucche ed elefanti di questo recinto sono
animali sacri, addetti a cortei religiosi, idoli viventi del tempio di
Madura, e non si gettano come vili nemmeno i loro escrementi. Incombe
su tutto il tempio un senso d'idolatria che mi fa pensare al feticismo
dell'Africa più nera e non alle divine speculazioni dei Veda. Passa
il corteo di Parvati, un rito che si ripete due volte al giorno,
portando in giro l'immagine della moglie di Siva, in visitazione a
tutti i tabernacoli del sacro recinto; il feticcio, pupattola d'oro
massiccio, dalla vita sottile, dai seni turgidi, dagli occhi tondi
d'onice incastonato sotto l'alta mitra ingioiellata, appare, dispare
attraverso le cortine della ricca portantina. Accompagna la scena
un rombo di tam-tam, uno stridìo discorde di trombe e di pifferi,
incutendo nell'anima del forestiero un senso di paurosa diffidenza,
di ripugnanza, come un mistero tetro e grottesco. Ovunque nel tempio
famoso è la profusione di tesori e l'incuria più laida.

M'avventuro fino al secondo, al terzo recinto, passo dall'ombra alla
penombra, alla luce, rientro sotto l'immense vòlte sepolcrali costrutte
a blocchi monolitici di quindici metri di lunghezza, alzati, ordinati a
formare un soffitto titanico che ricorda l'Egitto faraonico. Sotto la
_gopuram_ centrale le colonne si moltiplicano, si perdono nell'ombra,
come tronchi centenari in una foresta d'abeti. Fuori è ancora la chiara
luce del tramonto, ma qui è la notte completa costellata da un'infinità
di lampade votive che disegnano, senza illuminarle, le colonne, le
cancellate sacre, gli idoli colossali. L'occhio si abitua a discernere
a poco a poco la folla di carne, di pietra, di metallo. Veramente non
pensavo di trovare così intatta l'India favolosa, le forme imparate a
conoscere fin dall'infanzia sulle incisioni e sui libri. Sono deluso
invece nella mia attesa filosofica, nel mio amore per la più grande
religione che abbia espressa l'umanità nel suo sgomento di dover
nascere, di dover morire.

È questa la terra di Brama? Di Brama «l'ineffabile, colui che non
dobbiamo nominare, se vogliamo che sia presente?» Ma qui il nome divino
è feticismo immondo, praticato da un popolo forsennato che ha ridotto
le speculazioni astratte ad un simbolismo pazzesco; un popolo che adora
questi simboli e li ignora, un popolo che si genuflette, grida, invoca
e non sa chi, non sa che cosa.

M'avanzo nella penombra, sempre fra le colonne infinite, sotto le
vòlte piatte e sono guidato da due indigeni che sollevano le fiaccole
resinose; e le pareti s'illuminano un poco, e appaiono strane divinità,
sempre chiuse in gabbie dalle sbarre robuste, come belve da custodire;
e Ganesa, il Dio della saggezza che appare più frequente, con tutti
i suoi congiunti a testa elefantina; o una divinità innominata dal
corpo di mucca e dalla testa femminile: e il corpo bovino e gibboso,
è imitato fedelmente sul modello degli zebu indigeni, e il volto
femminile è scolpito sul tipo indiano, con gioielli alla fronte,
agli orecchi, al naso, e un sorriso insostenibile di baiadera
convulsa. Le fiaccole sollevate in alto turbano il sonno dei grandi
pipistrelli-vampiro ed è uno squittire di sorci impauriti, un turbinare
di ale silenziose che ci ventano in volto come grandi lembi di seta
nera.

Si esce all'aperto, nel cortile centrale. E alla luce del tramonto
appare la grande piscina del tempio, un rettangolo di cento metri
di lunghezza, chiuso ai quattro lati da scalee di marmo, circondato
da colonne leggiadre, evocanti la grazia d'un peristilio pompeiano.
Dopo l'ombra tetra e le fiaccole gialle e gli idoli spaventosi,
l'anima si ristora in riva a quest'acqua cristallina, liscia come
uno specchio, dove il cielo riflette con un nitore preciso le nubi
sanguigne, alternate all'azzurro cupo, e le prime stelle della notte
che giunge. Intorno, vicine e lontane, s'alzano le _gopuram_, le
cuspidi che dominano Madura, da tutte le parti. E prima del tramonto
voglio salire sui fianchi della _gopuram_ d'ingresso, vedere vicine,
palpare le sculture famose. Non c'è spazio che non sia stato scolpito
a fregi, a divinità, a mostri; e con altorilievo così audace che le
figure sembrano gesticolare, staccarsi, precipitare verso il profano
per farlo a pezzi con le loro venti braccia armate di scimitarra, con
le loro coorti di tigri, di serpenti che salgono alla sommità dove
la cuspide tronca sfida il cielo con venti lancie disuguali. È tutta
una teogonia simbolica, una personificazione delle forze della Natura
che lo spirito induista ha diviso, suddiviso con un'analisi tragica
e grottesca che suscita lo spavento ed il sorriso. Dal fianco di
questa _gopuram_ si domina la città e la campagna, dove altre pagode
s'innalzano sull'ondeggiare verde vivo dei cocchi; e molte pagode sono
chiese cristiane: chiese costrutte nello stile Indu, e che sono più
antiche delle nostre più antiche cattedrali. Poichè il cristianesimo
fu predicato in questa parte dell'India da San Tommaso, e le Missioni
seguirono le Missioni, indisturbate nei secoli, bene accolte dagli
stessi sacerdoti, in questa terra indulgente per tutti i culti, purchè
si adori, purchè si creda....

Qui dunque, si pronunciava il nome di Cristo quando l'Europa era ancora
pagana! È un pensiero che dà quasi uno sgomento d'esotismo estremo,
di lontananza misteriosa nello spazio e nei secoli. È un pensiero che
sembra inconciliabile con questa piramide popolata di eroi e di mostri
che danno la scalata al cielo di fiamma. E nel cielo che s'arrossa
turbinano falangi di corvi e di pappagalli che ritornano ai loro nidi
sospesi tra le sculture di quest'Olimpo furibondo. Allo stridìo dei
pennuti, che giunge dall'alto, s'accorda lo stridìo dell'orchestra
che giunge dal basso del Tempio, da tutti i templi vicini e lontani:
tam-tam rombanti, pifferi striduli che parlano di furore selvaggio e
d'idolatria....



La danza d'una “Devadasis„.


                                                   Madras, 9 gennaio.

Per i buoni offici del dottor Faraglia assisteremo questa sera alla
danza d'una _Devadasis_: una bajadera d'alta casta, ospite in una
famiglia indiana tra le più ligie al passato e le meno accessibili alla
curiosità del forestiero.

Una _bajadera_: il nome suscita nella mia ignoranza occidentale una
serie d'immagini assolutamente false: complici i libri d'avventura,
le oleografie, i melodrammi, l'operetta. Bajadera, odalisca, uri,
ecc. Una di quelle signore, insomma, di quelle signore d'Oriente,
preferibilmente bruna, ma se occorre, se il soprano ha una bella
chioma ossigenata, anche biondissima, da vestirsi «all'orientale» con
quell'unico costume che la prima donna adatta serenamente a Thais e
a Semiramide, a Cleopatra e a Salomè, vale a dire: due coppe gemmate,
ottime per l'assenza e la presenza eccessiva, una guaina qualsiasi di
tulle stretta alle reni e alle ginocchia da un impaccio d'orpello e
sotto due gambe insolentemente europee, calzate di seta rosa e di due
trampoluti stivaletti Luigi XV.... Bisogna rinunciare a questo figurino
e bisogna sopratutto rinunciare al preconcetto che una bajadera non sia
una signora per bene.

Una Devadasis (ancella della Dea) cioè una bajadera di casta bramina,
vanta, anzitutto, una nobiltà millenaria, poichè non può essere
che figlia di una bajadera come i suoi figli non possono essere
che bajadere, se femmine, musici e letterati, se maschi. È facile
comprendere come, anche per solo istinto ereditario, s'affini in una
Devadasis l'arte del gesto, del passo, dell'atteggiamento, l'arte della
voce e della maschera, l'attitudine letteraria a penetrare, commentare
insuperabilmente i capolavori della poesia indiana.

Nata, cresciuta nel Tempio, educata con una regola inflessibile, essa
non ha bisogno d'imparare le lingue sacre: il _sanscrito_, il _pali_,
le sono famigliari sin dall'infanzia; le strofe dei _Pouranas_, i poemi
storici e sacri indiani, cullano i suoi primi sonni; i suoi primi passi
si muovono istintivamente ad un ritmo di danza, le sue prime parole
ad un ritmo di canto e di poesia, i begli occhi tenebrosi si sono
appena schiusi alla luce e riflettono per immagini prime la favolosa
architettura del recinto sacro, gli Dei, gli eroi, i mostri di pietra e
di metallo, la madre, le sorelle officianti e danzanti nelle cerimonie
e nei cortei. Prigioniera nel tempio fino a quindici anni, essa limita
l'orizzonte dell'universo tra lo stagno dei coccodrilli sacri e l'alte
mura vigilate dagli elefanti di pietra. La sua carne, la sua anima
s'accrescono esclusivamente di religiosità. Essa è nata e vive nella
favola mistica. Tutta la sua educazione è intesa a fare di lei _la viva
scultura del tempio_.

Il fiore della sua bellezza, appena pubere, può, deve anzi, essere
raccolto da un protettore di stirpe nobile, un _nabab_ che sarà legato
a lei, ufficialmente, con un vincolo sacro e indissolubile. Costui deve
dotare la bajadera di un patrimonio cospicuo, riconoscerla, beneficarla
nell'eredità, subito dopo la moglie e prima dei figli, obbligarsi ad
una offerta annua verso il tempio. Questo legame non esclude, anzi
inizia da parte della bajadera un tenor di vita che a noi parrebbe
della più spudorata infedeltà. Poichè da quel giorno essa è addetta
al culto di Ramba-Devi, la Venere del Paradiso d'Indra, attende a
cerimonie non descrivibili, ed è offerta dal sacerdote a tutti quei
devoti — d'alta casta — che pagano un obolo adeguato, il quale obolo
non va alla Devadasis, ma al tesoro del tempio....

Ohimè! A questo punto un occidentale non si ritrova più e pensa
che nel suo paese un tempio, un sacerdote, una sacerdotessa di tal
fatta corrispondono ad una nomenclatura assai meno arcana e meno
rispettabile.

Ma tutto è questione di latitudine. Latitudine nello spazio e nel
tempo. Sono i venti secoli di cristianesimo che dinanzi a tali
consuetudini ci fanno arrossire di pudore o sorridere di malizia. Il
bramino non arrossisce, nè sorride, come non sorrideva, nè arrossiva il
pagano che giungeva in Pafo e in Amatunta e offriva l'obolo al tempio
famoso. È risaputa l'identità di origine dei greci e degli indiani, la
parentela che unisce la teogonia bramina alla teogonia ellenica. Ora
Ramba-Devi, col suo Eros dal volto fosco, armato non di strali, ma di
serpenti cobra, è la Venere del paradiso di Indra, la sorella certa
della Venere greca che sopravvive nella terra di Brama mentre l'altra
si è dileguata per sempre dinanzi all'avvento della nemica: la Vergine
Madre.

Noi, devoti della Madre di Dio, affermazione dello spirito, negazione
della carne, non possiamo comprendere un culto erotico; tutta la nostra
intima essenza foggiata secondo una morale due volte millenaria,
sussulta, si rivolta, vedendo ricomparire dalla notte dei tempi la
sorella dell'antica avversaria.

Per questo non possiamo comprendere una Devadasis, nè definirla.
Bisognerebbe aggiungere all'attrice somma, alla mima insuperabile,
all'erudita, alla cultrice di poesia, la figura della sacerdotessa
invasata, della menade folle.

Ma arrossiamo di pudore o sorridiamo di malizia.

                                   *

Non ridere e non sorridere — non rifiutare la ghirlanda di gelsomini
al collo e la essenza di rose alle mani — non tendere la mano al
padrone di casa — non lodare al padrone di casa la bellezza della
figlia e della consorte, ecc., ecc. Il dottor Faraglia ci espone tutto
un decalogo contro ogni possibile sconvenienza, mentre si viaggia
nella notte illune su carrozzelle indigene trascinate da zebù, i
minuscoli, agilissimi buoi indiani, dalla pelle tatuata, dalle corna
lunghe e ricurve, dipinte in oro. Siamo una quindicina d'europei.
Si viaggia verso Calam, nei sobborghi di Madras, sotto la vòlta dei
cocchi eccelsi che disegnano sul cielo nero il profilo più nero delle
foglie frangiate; in alto, in basso, uno spolverìo, un tremolìo di
stelle e di lucciole, un profumo acuto di fiori ignoti, un sentore
di terra non nostra, abbeverata dall'uragano recente. È nell'aria
di questa notte invernale l'afa pesante delle nostre più calde notti
d'agosto. Una palizzata: si entra in un giardino preceduti da due servi
che illuminano i viali con un gran fanale — un fanale ad acetilene!
—; appaiono le foglie strane, a cuore, a lancia, a colori vivaci, la
vegetazione di zinco, di latta dipinta, di velluto e di carne malefica,
l'intreccio delle radici e dei rami serpentini; un giardino indiano il
quale non si distingue dalla _jungla_ che per le piante moderate dalle
cesoie e per i viali sparsi di ghiaia a vari colori, disposta a disegni
geometrici che i giardinieri pazienti rinnovano ogni giorno. In fondo
la casa, che non si direbbe in verità la dimora d'un indu molte volte
milionario; un edificio basso, imbiancato a calce, a verande spioventi,
a colonnati in legno, un'architettura che ricorderebbe una nostra
stazione di provincia se non le facessero cornice i flabelli verdi
delle palme-palmira, gli zampilli vegetali dei cocchi. Siamo ricevuti
nell'atrio, abbeverati con nostra gran meraviglia di _champagne_ e
_whisky and soda_ che il padrone di casa ha fatto venire, con delicata
ironia, dalla città lontana per dissetare gli impuri con le loro
impure bevande: il padrone di casa che non accetterebbe da noi un
bicchier d'acqua e collocherà certo in disparte, per altri europei,
i calici dove abbiamo bevuto. Davvero non credevo di trovare l'India
così intatta. Fuori delle grandi metropoli è Brama dovunque, Brama
che domina come duemila, come quattromila anni or sono. Il padrone di
casa, un indu sulla cinquantina, ci viene incontro seguito dal figlio,
s'inchinano entrambi con le due mani alla fronte. Non sono vestiti
che di un _panio_ alle reni, ma traspare da tutta la persona ignuda
una nobiltà che impone assai più dell'irreprensibile sparato degli
alti funzionari europei. S'informano benevolmente sui casi nostri,
non disdegnano qualche cortese parola inglese, sorridono, mostrando
i denti abbaglianti fra le labbra rosse, le barbe bidivise e ricurve,
ma gli occhi magnifici sono assenti, freddi, impenetrabili. Il figlio
ci offre alcuni fogli stampati in caratteri _industani_, dove con
gentile previdenza è stata.... dattilografata a tergo la traduzione del
programma sacro.

Un servo ci versa l'essenza di rose sulle mani e sugli abiti, da
certe lunghe ampolle d'argento cesellato, ci passa al collo le
ghirlande di fiori intrecciate a fili e pagliuzze d'oro, come quelle
dei nostri abeti natalizi. Sembra, questa, un'usanza favolosa ed è
invece l'omaggio più frequente e più diffuso in tutta l'India, anche
nelle grandi metropoli, anche nei ricevimenti quasi esclusivamente
europei: delicata poetica usanza; ma certo questi lunghi _boa_ di
grosse magnoliacce odorose se stanno bene al collo d'una _miss_, fanno
sorridere sullo _smoking_ di un _gentleman_: danno, per esempio, al
panciuto roseo, lucente console d'Olanda, non so che aspetto muliebre
di suocera in caricatura....

Attraversiamo il giardino per andare al teatro: è tardi. I padroni non
ci seguono: perchè? Perchè, mi spiega Faraglia, è la terza sera che
la bajadera si produce, ed è la sera riservata a tutte le caste, anche
le caste con le quali un bramino non può avere contatto. Capisco, per
questo siamo stati ammessi. È molto lusinghiero per noi!

Questi indù — quelli veri, ligi al passato, immuni da anglomania —
hanno l'arte d'opporre alla tracotanza europea un orgoglio ben più
fiero ed implacabile, dissimulato da tutta l'etichetta della più
cordiale urbanità.

Il teatro, in fondo al grande giardino, è una semplice, vasta tettoia,
sostenuta dai tronchi vivi dei palmizi simmetrici, come da snelle
colonne vegetali. Da tronco a tronco la diramazione del gas acetilene
— anche qui! — intreccia nell'aria i suoi serpentelli di stagno. Molte
panche zeppe di torsi bronzei, di capigliature corvine, molte stuoie
in terra ed intorno: una povertà primitiva che ricorda non un edificio
destinato a una bajadera pagata mille rupie (1600 lire) per sera, ma
una tettoia magazzino per legnami o cereali.

La danza è già cominciata quando prendiamo posto nelle prime panche
che ci furono destinate; ho la fortuna d'aver dinanzi, a pochi passi,
la danzatrice famosa. M'aspettavo di vederla ignuda o quasi, invece
è la più vestita tra questa folla seminuda; ed è certo più vestita di
una nostra signorina per bene in una serata di famiglia. Una snellezza
alla Rubinstein, non so se illeggiadrita o ingoffata da un costume
singolarissimo, formato di sete, di velluti, di tulli sovrapposti,
che lasciano ignude le spalle e le braccia; ma dalle spalle alla gola,
dalle spalle alle mani è uno scintillìo d'oro e di gemme, oro e gemme
autentici, poichè così è prescritto dalla regola monastica, tutto un
tesoro che tremola e corrusca sulla fine epidermide bruna: oro giallo
del Coromandel, perle di Manaar, rubini, smeraldi, zaffiri di Ceylon;
e dalle stoffe, dall'oro, dalle gemme emergono ignudi soltanto la
maschera del volto, le mani, i piedi perfetti. Il volto! Non ho più
potuto distoglierne lo sguardo. In una razza dove tutti: uomini, donne,
vecchi, bambini, sembrano scelti da una giuria artistica, passati
e corretti in un istituto di bellezza, si può comprendere a quale
prodigio d'armonia impeccabile giunga una bajadera, un esemplare che è
il prodotto d'una selezione millenaria. E quel volto sarebbe in verità
troppo bello, troppo grandi gli occhi, piccola la bocca, regolare
il profilo, troppo simile a certe miniature indiane che credevo di
maniera, se la maschera perfetta non fosse agitata, scomposta dai
sentimenti dell'anima in tempesta. Il gioco mimico è così espressivo
che io temo per qualche secondo che la donna sia furente contro di
noi. Ma non è furore, è dolore, è ansia mortale che s'accresce viepiù,
contrae la bella bocca, dilata le narici vibranti, increspa i vasti
sopraccigli.... È il volto di un'agonizzante, contratto da una visione
spaventosa.

Forse — ho letto sul programma l'intreccio dei vari brani cantati e
mimati — la Devadasis ci rivela lo spasimo della Maharajna agonizzante
che è portata nella sua lettiga d'oro verso il Gange sacro e vede
la morte avanzarsi e teme di non giungere in tempo alle acque
purificatrici.

La Devadasis non danza, s'avanza e retrocede con un ritmo prestabilito,
seguendo la musica e le strofe. Alcuni musici infatti — io non li
avevo nè visti nè uditi, tanto mi aveva preso il gioco di lei —
stanno seduti sulle stuoie e suonano stromenti singolari; enormi
mandole dal lungo manico ricurvo, flauti affusolati, strani tamburi
oblunghi che agitano febbrilmente scuotendone una pietra interna. Ma
l'insieme di quell'orchestra formidabile è lieve come un ronzìo, come
un aliare di libellule e di falene. Nessuno canta, ma tutti, musici
e spettatori, sillabano a mezza voce i versi del poema sacro che la
bajadera ripete per conto suo, come per rammentarsi o per intesa.
Ma più nulla si sente, più nulla si vede che la maschera ovale, il
sorriso triangolare, gli occhi già troppo lunghi, prolungati dal bistro
fin sotto la benda dei capelli compatti, lucenti come se scolpiti
in un ebano raro; una maschera che sembra staccarsi dalla persona,
far parte a sè come un'evocazione spiritica; e spettrali veramente
sembrano le mani, come quelle che apparivano volanti nelle leggende
bibliche e scrivevano sui muri la condanna dei tiranni. Le mani di
questa Devadasis, all'estremità delle braccia immobili, s'agitano con
un movimento vertiginoso di rotazione e di distorsione che sembra
sconvolgere ogni legge anatomica; hanno — mi fu detto — un officio
importantissimo: significa disegnare lo scenario e le didascalie.
La sdegnosa povertà dell'allestimento teatrale di Shakespeare; il
cartellino con _the forest, the king's house_; la foresta, la casa del
re, è abolito, e le cose sono disegnate dall'arte digitale di due belle
mani; disegnate nell'aria, ma restano impresse negli occhi di questi
spettatori frementi che ne fanno sfondo invisibile all'artista; sulla
misera cortina di stuoia appare la reggia favolosa, la riva del Gange,
il paradiso di Indra. Il mio sguardo profano, ignaro di quell'arte, non
può naturalmente godere dell'incantesimo, come non mi è dato di capire
una sillaba del testo famoso, ma la sola mimica della donna basta a
rivelarmi che in quell'istante, la regina agonizzante giunge sulla riva
del fiume, scende nelle acque sacre. Il dolore, l'ansia, si trasmutano
in una gioia che fa del volto contratto un mistero di delizia
ineffabile. La morente rivive, invoca l'Eros dell'Olimpo bramano in una
strofa erotica che certo non troverebbe veste decente in nessuna lingua
europea, e la mimica si esprime con un'intensità che dà il brivido:
brivido d'amore, brivido di morte. La donna arrovescia il capo, lo
rialza; il suo volto è calmo, è uscita dalla ruota dell'esistenza, è
giunta nel regno dell'impossibile: il non essere più; la grazia le è
stata concessa nell'amplesso del Dio. Ancora una volta noto nell'arte
indiana, letteratura, scultura, la predilezione d'avvicinare l'amore e
la morte, facendo dei due simboli un simbolo solo: la felicità del non
essere nati o essendo nati ritornare al non essere....

Il pubblico, un pubblico di forse mille spettatori, ha seguito ogni
sillaba, ogni moto della Devadasis con un'attenzione sconosciuta nei
nostri teatri europei. Ma non è attenzione soltanto: è passione, è
religione, è trasporto di tutte queste anime verso il tesoro della
loro poesia. Poesia! Io penso ad una qualche attrice nostra che
comparisse dinanzi al nostro pubblico e avesse la crudeltà inaudita
di infliggergli un canto d'Omero o di Virgilio; il nostro pubblico il
quale — confessiamolo una buona volta — s'annoia mortalmente a sentir
sillabare, sia pure da dicitori sommi, il non remotissimo Dante. Ora
è meraviglioso il vedere come poemi di tre, di quattro mila anni or
sono accendano di fervore tutta una folla, nessuno escluso: il mercante
di spezie e il Marajà, il monello e la donnicciuola; tutti sono presi
nello stesso cerchio magico, beneficati da un'illusione che non è
letteratura, ma sentimento artistico, ereditario, che confina, si fonde
con la fede più intensa. Arte e fede espresse dalla stessa armonia, una
felicità che noi occidentali non conosceremo forse mai!

                                   *

Dopo l'ultima sillaba la Devadasis raggiunge con un balzo il tappeto,
si siede con un sospiro di sollievo come una scolaretta in riposo. Le
siamo intorno rispettosamente, per osservarla, ma sul suo volto è la
completa assenza spirituale; è cessata la musica e la fiamma e si ha
veramente l'impressione di accostarsi ad una lampada spenta, ad uno
stromento che ha finito di vibrare.

Poichè il dottor Faraglia — l'unico che conosca l'_industani_ — le
rivolge un complimento sulla sua arte, la donna tarda a comprendere,
poi sorride, si copre il volto con l'avambraccio alzato, come
un'educanda, alla quale un temerario dica cose inaudite: un gesto
spontaneo di sincero pudore, che sbigottisce in una sacerdotessa di tal
fatta. Io, che non so l'industani, le accenno alla gota sinistra che
mi sembra tumefatta. Essa porta l'indice e il pollice alle labbra, ne
toglie un bolo vermiglio, che mi porge affabilmente.

— Betel!

Poichè rifiuto la droga pessima, essa riporta il bolo alla bocca,
passandolo dall'una all'altra guancia, battendovi sopra le due mani,
per gioco, con un malvezzo di bimba screanzata.

— Le dica che deploro di non aver capito una sillaba dei suoi poemi.
Le domandi in quanti anni potrei sapere il _sanscrito_, il _pali_, il
_giaïna_....

La donna ascolta il dottore, poi mi fissa, ridendo, alza le dieci dita
ben tese. Dieci anni! Ohimè, no! Non vale la pena improba. E penso che
superata pur anche una tale fatica, padrone degli idiomi difficili,
resterei estraneo all'essenza prima dei testi sacri. Mi divide da essi
una barriera più insuperabile del linguaggio: ed è lo spirito diverso,
la fede opposta. L'occidentale, che ritorna in India, non riconosce più
la sua cuna.

So bene, questi Indu sono ariani del nostro ceppo, fratelli nostri, ma
fratelli che rifiutano di tenderci la mano. Siamo troppo diversi. Ci
dividono troppi millennii. Da troppo tempo ci siamo detti addio.



Le caste infrangibili.


                                                     Madras, gennaio.

«Prima l'Egitto, poi l'Arabia, poi l'India tutta: l'islamismo insorto
sarà la miccia più sicura attraverso la potenza britanna». Nelle sfere
politiche inglesi si pensa seriamente all'Egitto, ma si deve sorridere
non poco sul possibile pericolo indiano. I maomettani dell'India
ignorano la Turchia; il loro stesso islamismo è travisato dai secoli e
dall'ambiente; la loro patria lontana è l'Inghilterra: Londra — e non
Costantinopoli — è la capitale dei loro sogni e delle loro ambizioni.

Percorrete tutta l'India vasta, dalle nevi di Simla alle foreste di
Colombo, interrogate un _nativo_ qualunque: maomettano, bramino, parsi,
buddista, di qualunque casta e di qualunque cultura: il facchino che vi
porta i bagagli, l'albergatore che vi ospita, il filosofo incontrato
nei musei, interrogatelo d'improvviso: «E voi, di che paese siete?».
L'altro vi guarderà meravigliato e vi risponderà subito: «_I am
English!_», con la stessa vivacità un po' risentita con la quale io
e voi risponderemmo: «Sono italiano». L'indiano non dubita d'essere
un inglese. L'anglomania è una delle sue debolezze ben note. Non
per nulla la figura più buffa del teatro parsi è Katiba, una specie
di bellimbusto, che si spaccia per baronetto londinese, mentre ha
avuto i natali a Oodeypore, da un lenone maomettano. Per anglomania
lo studente dell'Università di Bombay, di Calcutta si dà a _sports_
nordici, intollerabili sotto il tropico, frena il suo gesto vivace,
riduce la loquacità istintiva del suo dire alla più corretta freddezza;
e se v'invita a prendere il thè, nella sua gaia stanza universitaria
cercherete invano alle pareti i testi indiani: Avagoka e Kabir sono
sostituiti da Kipling e da Shelley; e nel congedarvi, stringendovi la
mano colla sua mano color di bronzo, non mancherà di raccomandarvi
la poca confidenza coi _nativi_.... Per anglomania le figlie e le
mogli del Maharaja s'imbiondiscono i capelli e s'imbiancano il volto,
implorando dal marito o dal genitore — premio supremo — una _season_
a Londra; una _season_ a Londra con tutte le delizie della vanità
esasperata: i ricevimenti a Corte, l'amicizia con mogli di lords e di
baroni, i trafiletti mondani, le istantanee compiacenti a lato del
Re e della Regina; istantanee e trafiletti da rimbalzare su tutti i
giornali di Bombay, Madras, Calcutta. Per anglomania — e il probabile
titolo di baronetto — i banchieri maomettani e _parsi_ si quotano per
uno, due milioni di _rupie_ sulla lista d'un erigendo ospedale inglese.
L'India è inglese, vuole essere inglese. È radicata nel cervello d'ogni
indiano, intellettuale o analfabeta che sia, l'idea d'una patria
lontana e necessaria, lassù, in Europa, nella curva nebbiosa della
terra, una patria che è il cervello e il cuore del mondo.

                                   *

S'aggiunge alla fedeltà, ribadita ormai da un atavismo due volte
secolare, un altro elemento importantissimo che forma la debolezza
organica dell'India: le _caste_ nelle quali l'India è divisa e
che fanno di essa un colosso dove ogni vertebra è infranta. Che,
altrimenti, non si potrebbe concepire la mansuetudine dell'impero
sconfinato — più d'un quarto dell'Asia tutta — e che l'Inghilterra
tinge del suo colore sulla carta immensa delle sue colonie. Ma se
l'India dovesse colorirsi secondo le caste presenterebbe il più minuto
mosaico. Dall'ultimo censimento inglese risultarono più di quindicimila
caste nel solo Rayputana, la regione settentrionale dove l'influenza
inglese ha maggiormente cancellato le consuetudini locali. Negli Stati
bengali, nell'Industan, dove tutto è intatto come nei secoli andati,
le caste sono infinite, divise e suddivise, ostili fra loro, conservate
con rigidità millenaria. Due cose sono care all'indiano: l'Inghilterra
e la sua casta. «L'India declina?....» — «Poco importa l'India, purchè
sia salva la fede». — «Declina la fede....» — «Purchè sia salva la
casta....». È il dialogo approssimativo con ogni bramino ben pensante.
Per casta — è risaputo — s'intende la sanzione legale e religiosa delle
disuguaglianze sociali, elevata a dogma attraverso i secoli. L'origine
delle caste — per quanto i bramini le pretendano istituite dagli
Dei in persona — va cercata nella diversità di razza e di mestiere;
quando i popoli ariani si rovesciarono dai passi dell'Imalaja nelle
pianure dell'India, lottarono con gli aborigeni che — vinti — ebbero
il titolo di Dasyon (_impuri_), mentre l'appellativo di _puri_: Sudra,
fu privilegio dei vincitori. Poi tra i vincitori stessi si delinearono
le prime caste rivali ed avverse: la casta sacerdotale coi Bramini,
la guerriera con i Kehatryas; poi la casta dei mercanti con i Vaisyo,
suddivisi in infinite corporazioni ostili: Marvary-Bandiary-Baniak,
ecc...., la casta degli agricoltori, dei pescatori, ecc.... Le caste,
sotto questo aspetto, avrebbero dunque qualche analogia con le nostre
_guilde_ antiche, le nostre corporazioni d'arti e mestieri. Ma il medio
evo nostro, anche ai tempi più feroci, non offre un parallelo adeguato
con la barbarie insensata delle caste indiane.

L'europeo sbarcato da poco sbigottisce ad ogni istante. Nelle belle
vie delle grandi capitali, sotto il riverbero delle lunule elettriche,
la folla indiana s'avanza con uno sguardo ed un passo che non è
soltanto preoccupato dai tram e dalle automobili. Che ha mai questa
gente? Obbedisce a un ordine coreografico o teme il contagio di
qualche epidemia? È semplicemente preoccupata di mantenere le distanze
prescritte dal diagramma delle caste indiane. Quattro passi tra un
bramino e un soldato, due tra un soldato e un contadino, tre tra un
contadino e un paria, ecc.... Prima della dominazione inglese il paria
non poteva comparire nel campo visivo d'un bramino o costui aveva
facoltà di ucciderlo o di farlo schiavo. Perchè l'ombra del paria
lascia una macchia sul passante, il quale non se ne può lavare che
con un rito specialissimo. Il paria è il rifiuto dei rifiuti, non può
piangere i suoi morti, non leggere i testi sacri, non pronunciare il
nome di Brama; l'antiche leggi indiane non fanno cenno di punizione
per chi ne libera la terra. All'altro estremo sta il Bramino, «il
quale, per nascita, ha diritto a tutto ciò che esiste e lascia vivere
gli uomini per pura generosità». Tra questi due estremi le caste si
dividono e suddividono all'infinito. Il viaggiatore europeo vede il
suo fedelissimo _boy_ fermarsi sulla soglia d'un rivenditore di libri
antichi, quasi impedito da una parete invisibile: «Il _bookseller_
è di casta _nakari_: io sono _kardy_, non posso entrare.... Dovrei
pagare dieci rupie al _priest_ per rientrare nella mia casta...». E
siete costretto ad attraversare, solo, il cortile e la piazza con dieci
chili di libri e il vostro servo costernato non può venirvi in aiuto
prima del limite prefisso. Ogni servo, poi, è specializzato in una
sola occupazione casalinga: quella permessa dalla sua casta; le altre
incombenze sono _immonde_; di qui la necessità di una servitù dieci
volte numerosa e di salari — mal per loro — dieci volte ridotti. La
vita d'un indiano è preoccupata, per quattro quinti, dalla paura di
«macchiarsi», di «uscire di casta». E questo fanatismo è inestirpabile,
sopravvive anche alla conversione religiosa. Mi raccontava un
missionario anglicano di ottimi fedeli che si rifiutano di mangiare
o di bere con il prete che li ha convertiti. Più buffo è il caso dei
nobili soldati Nair che alle prese con prigionieri di casta inferiore
li circondano con i fucili spianati, ma non possono agguantarli,
per paura di macchiarsi le mani. Più buffo ancora è lo zelo degli
onesti discendenti delle antiche corporazioni di malfattori, i quali
fanno petizioni al Governo inglese per riavere il nome di casta che
li distingueva nei tempi gloriosi e sono gelosissimi di appellativi
come questi: «_Cacciatore di naufraghi_». — «_Jena del Dekkan_». —
«_Sciacallo del viaggiatore_», ecc...., e gli uni guardano gli altri
con infinito disprezzo, secondo che sono discendenti di ladri di terra
o di mare, di assassini di pianura o di monte. Il fanatismo grottesco,
incredibile, non s'attenua, anzi si fa più intenso nelle classi elevate
ed abbienti dove il bisogno e la fame non impongono transazioni
di sorta. Così v'incontrate ad una serata del Governatore, con un
giovanotto affabilissimo, architetto laureato all'Università di Bombay.
Egli vi parla dell'architettura indiana con una grazia che v'incanta.
Per gusto di reazione gli chiedete che cosa pensi del Partenone,
dell'Abbazia di Westminster. Non risponde. Parlate ancora; gli dite che
sareste ben lieto, se il destino lo portasse in Europa, di fargli da
cicerone a Roma, a Firenze.... Ma vi mozza la parola il suo voltafaccia
improvviso, tra quel silenzio speciale che distingue una _gaffe_. «....
Ma non sapete che l'Ingegnere è cugino in sesto grado col Maharayalo
del Travancore, Razza Lunare, capite, discendente da Rama; razza che
non ha lasciato l'India mai, che non può lasciarla sotto pena di uscire
di casta. Parlare dell'Europa all'Ingegnere è come mettere in dubbio
i suoi titoli di nobiltà. Una sconvenienza imperdonabile!» Ohimè!
Perdonabilissima. Chi poteva immaginare un pronipote di Rama in quel
signore in marsina e monocolo? Chi poteva fiutare il sangue _lunare_ in
quelle sembianze semplicemente lunatiche?...

Episodi che si prestano alla celia. Ma non sorridete più se pensate che
la tradizione di casta chiude milioni e milioni d'uomini, li asserva
nella cerchia illusoria e pure infrangibile come un malefizio. Si
tratta, in realtà, di un tragico millenario fenomeno di suggestione.
Oggi, dopo tanti evi, la casta non si discute; si nasce dominati o
dominatori come si nasce maschi o femmine, biondi o bruni. La casta è
fatale come il destino.

Contro questa follia a nulla vale l'avveduta forza colonizzatrice
degl'inglesi, l'illuminata parola degl'intellettuali indiani, a nulla
valse la riforma di Gotamo. Il buddismo — reazione necessaria a tanta
barbarie — passò sull'India senza lasciar traccia, ed è confinato ora a
Ceylon e nella Cina. L'India è ligia alle caste oggi più che mai; e la
casta s'estende a tutti: maomettani, parsi, cristiani: anche cristiani,
poichè per mimetismo d'opportunità bisogna conformarsi all'ambiente,
e le chiese cristiane sono divise in riparti numerosi e ben distinti,
senza di che i fedeli non interverrebbero alla Messa....

Non solo, ma ogni nuovo mestiere introdotto dall'europeo crea una
casta che oscilla in potenza secondo la floridezza dell'industria
(the, cannella, pelli, indaco, ecc.): si direbbe che l'umanità,
in India, non possa aggrupparsi che così, per misteriose tendenze
etniche dell'ambiente, come certe sostanze non possono aggrupparsi
che in cristalli.... Gl'indiani non formano un popolo e l'India non
pensa e non può ribellarsi. È risaputa la risposta dei bramini a
gl'intellettuali innovatori: «Poco importa essere oppressi. Pur che la
casta avversa lo sia più di noi!».

Nemmeno è necessario il categorico: _Divide et impera!_



I tesori di Golconda.


                                              Haiderabat, 14 gennaio.

In due giorni di corsa vertiginosa la Central India Railway mi
ha portato dalla costa verdeggiante alle terre riarse, dall'India
Indù all'India Maomettana. Tutto è mutato. Non più la freschezza
dei palmizii e delle felci arboree, ma i cacti spettrali, le agavi
dall'immenso fiore centenario, le euforbie a candelabro che sembrano
reggere sui fusti altissimi e smilzi la vòlta sanguigna del cielo.
Non si vedono più le bellezze di bronzo dal seno e dal volto
ignudo, ma le donne maomettane rigidamente velate; non capigliature
profetiche di asceti bramini e buddisti, ma turbanti di seta gialla,
gridellina, celeste, barbe imbiondite all'_henné_, grandi brache
e grandi scimitarre gemmate; non è più l'architettura leggiera dei
_bungalows_ anglo-indiani o la linea acuta delle pagode, ma le moschee
e i minareti, i cubi candidi delle case maomettane, le finestrette ad
ogiva multipla, difese da grate mirabili, fatte con una sola lastra di
marmo sottile lavorato a giorno, raffigurante nel suo delicato traforo
un albero con fiori e con frutti, una danzatrice, due paoni che si
dissetano ad una vasca.

Haiderabat tutta bianca sotto il cielo di fiamma! Davvero non
m'aspettavo una capitale così grande, così bella, così gaia in mezzo
all'infinita desolazione dell'Industan; Haiderabat ben mussulmana,
ma immune dalla decrepitudine sucida che distingue le altre capitali
dell'Islam; e intatta come ai tempi di _Mille e una notte_, senza
traccia di decadenza e senza traccia d'invasione europea! Se io fossi
un sovrano di passaggio crederei davvero che questa folla si sia
vestita nei suoi costumi dei tempi andati e si atteggi in parata per
farmi onore, non già che essa viva della sua vita quotidiana.

La vita quotidiana è fatta di necessità. Ora questa gente non fa
nulla di necessario. Tutti i negozi, sotto le arcate, ostentano le
più deliziose cose inutili: gioielli, sete, velluti, vasi d'argento
e di bronzo, babbuccie ricurve, scimitarre cesellate e gemmate, veli
tinti pur ora e tesi ad asciugare al vento, leggeri come la nube che si
sfalda, vivi di tutte le tinte più delicate; profumi, essenze contenute
in alti vasi suggellati o in barattoli dalla forma singolare, segnati
di lettere cabalistiche. E fiori, fiori in abbondanza, piramidi di
magnolie, di ibischi, di rose decapitate che i mercanti vendono a
peso, come i frutti, e che la folla infilza per via, improvvisando
la ghirlanda quotidiana più necessaria del pane; strana folla che
vive di colori, di profumi, di sogno, d'apparenza! Come siamo lontani
da Bombay, da Calcutta, dalle grandi città della costa, dove già si
sovrappone ed impera la nostra pratica attività occidentale!

L'Inghilterra concede al regno d'Haiderabat — un regno vasto tre
volte l'Italia — l'illusione di un'esistenza indipendente. Ma quale
indipendenza può godere uno stato continentale, custodito intorno da
una cerchia di terre britannizzate, pronte all'invio d'un esercito
sterminato! Il Nizzam, sovrano d'Haiderabat, sa che invece di armati,
l'Inghilterra manda sacchi di grano e che la carestia — endemica
ormai in questa zona sempre più riarsa — si farebbe sentire ogni anno
senza l'illimitata generosità dei custodi accerchiati. E Haiderabat
vive nella sua favola millenaria, intatta come dieci secoli or sono,
bella di tutte le eleganze e le raffinatezze ereditate da Bagdad, da
Persepoli, da Bisanzio.

Rientro nell'albergo abbagliato dalla troppa luce e dai troppi
colori, umiliato da questa folla elegante tra la quale la mia figura
occidentale in casco e gambali deve passare come il fantasma d'un
mendicante. E cerco tra le commendatizie quella più importante: una
lettera di presentazione a Xatar Nilgami, figlio del primo ministro del
Nizzam. Poichè non sono venuto qui per Haiderabat, la città viva, ma
per Golconda la città morta che dorme a pochi chilometri di distanza e
della quale non si possono varcare le mura senza uno speciale permesso.

— Il primo ministro — mi fa osservare l'albergatore — è via con tutta
la famiglia, ha seguìto il Nizzam a Londra....

— A....?

— A Londra, per la _season_ — mi riconferma l'uomo sbigottito della mia
ignoranza — potrete presentare la lettera ad altri della Corte....

Mentre si parla, un servo mi porge la carta d'un commensale che siede
all'altra estremità della sala semibuia. Un professore di Monaco.

Mi presenta la sua signora, mi parla subito con entusiasmo del nostro
Re. Speravo gli fosse dettato dalla bellezza della mia patria, non
fosse che attraverso la divina esaltazione di Goethe, ma il professore
non ha mai visitato l'Italia, non ha mai letto Goethe, ignora le Elegie
romane, e in Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re della più Grande
Italia, non vede che il signor di Savoia, uno dei primi collezionisti
del mondo e suo collega invidiatissimo in numismatica.

Sono scandalizzato. Ma il professore è più scandalizzato di me quando
s'accorge ch'io ignoro l'alto valore numismatico del mio Sovrano e
non so rispondergli a quale volume sia giunto il _Corpus Nummorum
Italicorum_, l'opera colossale che egli sta compilando.

— Io sono qui da cinque mesi, con la mia signora, per ricerche che
possono interessare voi italiani: ho trovato due zecchini e un mezzo
zecchino con l'effige del doge Ludovico Manin. La repubblica veneta,
nei secoli andati, commerciava col centro dell'India meridionale,
quando questa era sconosciuta al resto d'Europa....

Affido al professore la commendatizia e nel pomeriggio stesso
giunge dinanzi all'atrio dell'Hotel una strana vettura di Corte, una
_victoria_ antiquata a grandi molle ovali, con a cassetta due cocchieri
in turbante giallo e due staffieri ai lati, agitanti sui cavalli
un lungo scacciamosche dorato: equipaggio strano fatto di vecchiume
occidentale e di fasto orientale. È incredibile lo sfoggio di servitù
che si ostenta nelle città indiane. Nessuna persona rispettabile può
uscir sola, ma deve avere in ogni sua minima passeggiata un seguito di
servi, di devoti, di clienti; primo dovere d'un signore verso l'ospite
bene accetto si è di mettergli al fianco due seguaci, perchè gli
facciano largo tra la folla, gridando alto il suo nome.

Prendiamo posto in vettura, attraversiamo tutta Haiderabat tra case
candide, sotto un cielo fulvo, solcato da nugoli di corvi neri, di
pappagalli verdi, di colombi tinti artificialmente a colori vivaci.
_Strada di Golconda_ è scritto in cinque, sei lingue sull'estremo
sobborgo della città. Golconda! Quella che fu per tanti secoli la
meraviglia dell'Asia, la città dei diamanti favolosi e delle regine
sanguinarie, Golconda favoleggiata nei romanzi d'amore e d'avventura
dei secoli andati, Golconda la grande guerriera e la grande voluttuosa,
della quale recavano novelle incerte gli esploratori e i mercanti
fiamminghi e veneziani. Come già per Tebe, per Micene, per tutte le
città defunte troppo magnificate dalla favola, mi preparo ad essere
deluso; so che andiamo verso un fantasma. Ma non sono deluso. La strada
stessa che si percorre è degna d'un grande passato. Sotto il cielo
ceruleo e fulvo, sorretto dai fusti diritti dell'euforbie, si stende in
giro, fino all'ultimo orizzonte, un paesaggio che dà la sofferenza e la
voluttà dell'incubo, un paesaggio non terrestre, fatto di pietra livida
qua e là corrosa, qua e là dominata da certi cumuli di enormi macigni,
curvi, lisci, simili ad otri giganteschi o a dorsi di pachidermi e
di cetacei; sembra di percorrere una pianura selenica e veramente la
natura ha fatto qui, con la pietra morta, uno scenario più fantastico
delle vive foreste del Malabar. Via via che si avanza i macigni si
fanno più frequenti e più colossali, si accatastano in piramidi di
cento metri, arieggiano il profilo di colline inverosimili, qua e là
traforati di spazi luminosi, come nei cumuli delle trincee. Esclusa,
per evidenza geografica, la supposizione di massi erratici, non so
davvero come i geologi possano spiegare l'accatastarsi dei macigni in
questa pianura immensa; la leggenda indù li vuole caduti dal cielo;
afferma che essi sono l'avanzo del mondo, rimasto tra le dita del
Creatore e che egli arrotolò per gioco e precipitò sulla Terra. Certo
il gusto dell'inverosimile, del fantastico, del colossale che domina
nell'architettura indiana ha trovato in questa natura ciclopica i suoi
modelli e le sue fondamenta.

Golconda! Al di là d'un gran fiume asciutto s'innalza il fantasma
della città morta, con le sue mura ciclopiche, livide come il macigno
circostante, merlate e traforate con arte singolare. Attraversiamo
il letto del fiume; nel mezzo, in qualche pozza d'acqua superstite,
una schiera d'elefanti lavoratori tenta invano il bagno quotidiano; i
poveri pachidermi aspirano l'acqua con la proboscide e se ne irrorano
i fianchi emersi. Giungiamo sulla riva opposta, ai piedi delle mura
ciclopiche. Il genio guerresco ha trovata qui la collaborazione della
natura, nè si può distinguere dove l'opera di questa finisca e cominci
lo sforzo dell'uomo. L'uomo ha utilizzato macigni di cinquanta metri,
rivestendoli di ammattonato, gettando dall'uno all'altro vòlte e
terrapieni, unendoli con grate grosse come un braccio umano, armate di
uncini difensori. Veramente Golconda doveva nascondere tesori favolosi
se i Sultani pensarono a cingerla d'una difesa tanto formidabile. Si
sale lungo la fortezza principale, un macigno multiplo che domina
tutta la città morta ed è costrutto a gradi decrescenti, coronati
alla sommità da un ciuffo d'alberi verdi che meravigliano in tanta
desolazione e ricordano lo schema della commedia dantesca. Intorno sono
macchine guerresche; cannoni arcaici, i quali attestano che la morte
della città non è remotissima; Golconda fioriva ancora nella metà del
settecento, quando era di moda in Europa il _racconto d'avventure,
le roman merveilleux_, quando vi giunse profuga Madama Angot per
tentare con la sua bellezza occidentale le stanche voglie dei sultani
decrepiti.

Profanazione dei ricordi! La grazia tracotante della pescivendola
parigina mi perseguita mentre il professore mi commenta le vicende
epiche e i monumenti famosi.

— Quella moschea immensa è la Mecca, così chiamata, perchè è una copia
esatta del santuario arabo che il Sultano Car-Alpur volle riprodotto
nella sua città; quella che innalza i suoi minareti sul più alto
contrafforte è la «Moschea dell'ultimo grido» perchè destinata alla
preghiera disperata, quando i nemici avessero già invase le mura....

— Ma come si poteva espugnare una città come questa?

— Fu espugnata. Troppo si parlava delle ricchezze di Golconda.
Aurangseb, imperatore di Delhi, le mosse guerra nel 1787 e l'espugnò
nel 1790. La città fu saccheggiata, il popolo passato a fil di spada,
ma, per ordine di Aurangseb, fu risparmiata la vita del Sultano.
Bisognava strappargli il segreto ch'egli solo conosceva, sapere da lui
il luogo dov'erano scomparse, durante l'assedio, le gemme favolose e
i tesori dello Stato. Rubini dell'Oxsus, zaffiri del Tibet, perle di
Ceylon, diamanti di Sam-Bal-Pur e di Carmur, lapislazzuli di Bavacan:
si parlava di gemme profuse ad altezza d'uomo, in grotte sconosciute,
murate con gli scheletri degli ultimi guardiani, per suggellare il
silenzio. Il Sultano solo sapeva. Il disgraziato fu trascinato ad
Aulabad, nella reggia del vincitore, e fu sottoposto alle più raffinate
torture; uno stuolo di carnefici lo martoriava, uno stuolo di medici
doveva ravvivarlo quando stava per agonizzare. Tutto fu vano; egli
esalò l'anima improvvisamente, portando nell'eternità il mistero dei
tesori accumulati....

Si sale lungo la fortezza, tra le moschee decrepite e i cannoni
interrati a metà nella polvere. Si passa tra le ruine degli antichi
palazzi, espugnati da poco più di un secolo e più distrutti che avanzi
millenarii. Dalla sommità del forte si domina tutta Golconda; le mura
ciclopiche e sinuose vanno da macigno a macigno, ancora formidabili,
ancora intatte, ma vane ormai, poichè più nulla hanno da custodire, e
nella vastissima cerchia tutto è rottame, pietra, polvere, morte. Alla
morte è destinato il paradiso minuscolo che s'innalza alla sommità
della fortezza. La riverenza indiana per le cose funebri mantiene
miracolosamente verdeggiante questo cimitero dove sono le tombe di
tutta la dinastia di Golconda, dal sultano Ibraim al sultano Abdul
Asan, dalla bella indiana Bhima-Mati alla bella mussulmana Chanah-Shah,
strane tombe cufiche dipinte in azzurro, a caratteri bianchi, ornate
ognuna d'un porticato ad ogive e di quattro minareti minuscoli dalle
cupole d'oro; intorno è una vegetazione cimiteriale: mirti, cipressi,
palme nane, con certe aiuole di fiori malaticci, tenuti in vita
dall'acqua che i devoti portano a secchia a secchia, dai pozzi lontani,
come per gli incendi. Non è descrivibile l'infinita tristezza di questo
cimitero esotico, campo della morte nella città della morte....

Ma ancora qui la mia malinconia è rallegrata dalla figura della
pescivendola avventuriera. È veramente esistita quella che la leggenda
chiama Madama Angot e fa pellegrinare ad Algeri, a Costantinopoli, a
Golconda?

    Illustre pescivendola — era Madama Angot.
    Nel regno di Golconda — un giorno capitò;
    il gran Sultan vedutala — se ne invaghì così
    che a cinquecento mogli — lei sola preferì....

Ohimè, la sua tomba non è qui, tra queste sultane. Essa ritornò a
Parigi, carica di quattrini e di gioielli, a godervi i ben meritati
riposi.... Quali favolosi racconti doveva fare delle sue avventure e
dei suoi pellegrinaggi alle illustri colleghe parigine, nelle veglie
della sua vecchiaia venerabile!

Madama Angot.... È veramente esistita? In quest'ora, tra queste
mura la sua gaia figura è più viva che mai, serve a consolare d'ogni
troppo leopardiana tristezza. Dinanzi alle ruine troppo riverite è
consigliabile l'irriverenza. Meglio schernire la fatalità che preme
uomini e cose, canticchiando le strofe d'un melodramma giocoso....



L'Impero dei Gran Mogol.


                                                     24 gennaio 1913.

Il distacco tra l'India braminica e l'India islamitica si fa più
intenso via via che si sale verso il Nord. Si direbbe che l'Islam
prediliga in ogni parte del mondo le terre desolate, i deserti e le
steppe; anche in India occupa l'immensa parte centrale e settentrionale
e può servire a delineare i confini delle provincie riarse. Perchè è un
preconcetto oleografico, una leggenda da libri d'avventura che l'India
sia coperta da una vegetazione meravigliosa. Le foreste tropicali,
dense, decorative come scenari da melodramma, occupano soltanto la
costa del Malabar, l'isola di Ceylon, i monti Nir-Ghirli, le valli
dell'Imalaya. Ma dove cessa il beneficio dei monsoni e delle pioggie
periodiche, cioè in quasi tutto il Deccan e le pianure del nord, domina
la magra vegetazione dell'Islam: scompaiono il cocco ed il banano,
svelti compagni delle pagode, appaiono il palmizio rigido, il cipresso
cimiteriale, compagni delle moschee e dei minareti.

Si viaggia da due giorni in queste ferrovie che chiudono in una rete
fitta tutto l'Impero immenso, e che gareggiano con quelle americane
in velocità vertiginosa. Ma il paesaggio, per giorni e giorni, resta
invariato. L'immensa pianura fulva (il rosso della terra e il gracidìo
dei corvi sono la nota visiva e auditiva di queste contrade) che
durante la stagione delle pioggie rinverdisce in campi di riso e di
miglio, è tutta riarsa in questi mesi di siccità. Le palme-palmira,
gracilissime, s'innalzano nell'azzurro del cielo come caricature di
palmizi, nibbi ed avvoltoi si librano nell'infinito abbagliante:
all'orizzonte, sulla zona sanguigna, passano, come ombre cinesi,
mandre velocissime di gazzelle. Fiancheggiano la linea grandi cacti
a candelabro, tinti in rosso da una parte, dalla polvere sollevata
dal vento della steppa, e alla sommità d'ogni fusto è appollaiato
un avvoltoio meditabondo che al rombo del treno appena si degna di
protendere il capo calvo sul collo serpentino o di distendere una delle
immense ali macabre. Mandre di bufali e di zebù sollevano, voltano la
testa indolenti, e falangi di corvi gracchiano sui loro dorsi gibbosi,
s'avventurano fino alla bocca per beccarvi i tafani e le mosche.
Si entra talvolta in foreste d'alberi enormi, dai tronchi nodosi e
contorti: ma tutto è fulvo e riarso anche qui: i rami rivestiti di
fronda arida, come le nostre quercie in dicembre, dànno al paesaggio
una tinta invernale che stona col cielo implacabilmente estivo.
Nella foresta morta spiccano zone di un bel verde biacca: miriadi di
pappagalli minuscoli che ricordano le foglie vive, o fasci di brace
azzurra e smeraldina: famiglie di pavoni appollaiati sugli alti rami.
Poi si esce dalla foresta morta ed ecco ancora la steppa senza fine
con i suoi cacti spettrali ed i suoi avvoltoi. Si divora lo spazio, il
tempo passa, ma il paesaggio non muta.

E l'ora triste: l'ora in cui il viaggiatore si domanda a quale scopo
ha lasciato l'Italia bella, anticipandosi questo paesaggio infernale.
Distolgo lo sguardo dallo scenario triste. Siamo nel _dining-car_;
indugiamo dopo il caffè, per avere intorno l'illusione di un po'
d'Europa che viaggia con noi, l'illusione che emana dalle vernici,
dagli specchi, dalle stoviglie, dai cibi stessi, dalle salse chiuse
in barattoli inglesi. _Very comfortable_, queste carrozze ampissime,
dal doppio tetto spiovente, aerate da un triplo ventilatore; ma il
congegno si è guastato e funziona il _panka_, il ventaglio immenso
appeso al soffitto, che un servo indiano agita con una corda dal fondo
della carrozza. Tutte le tavole sono occupate: funzionari inglesi,
commercianti parsi, dignitari afgani. Al tavolo vicino sono sedute
due francesi incontrate a Bombay, conosciute per caso, leticando
all'agenzia Cook, e ritrovate qui, ancora per caso, con reciproca
effusione di schietta esultanza. Fra tanti sconosciuti di tutti i
colori, fra tante orribili favelle, dove l'inglese degenere è l'unica
intelligibile, il francese, sia pure sulle labbra ritinte di due
«pellegrinanti esuli dame», ci suona dolce come una lingua di casa.
Signore con le quali si allibirebbe di mostrarci in una via europea,
tanto sono imbellettate, ossigenate, inorpellate, impennacchiate;
ma che qui, nel cuore dell'India sacra, aggiungono al paesaggio
uno stridore pittoresco. Madama Angot, che ho sognato a Golconda,
rivive dunque ancora nelle pronipoti senza paura! Già a Bombay ci
avevano raccontate le loro gesta e le loro disavventure. Giovani,
una giovanissima, parigine entrambe — parigine di Marsiglia o di
Bordeaux — e nate all'arte, votate all'arte, hanno pellegrinato come
«duettiste» tutti i caffè _chantants_ della Tunisia e dell'Egitto. A
Port-Said un impresario le ha scritturate per le colonie dell'Africa
orientale fino a Zanzibar. Da Zanzibar sono fuggite con due ufficiali
inglesi riparando a Bombay. Sole, sperdute ancora una volta, hanno
tentato la fortuna a Calcutta. Deluse si dirigono oggi a Simla,
nel Cachemire, per cantare in un _music-hall_ che s'inaugura con la
stagione elegante. Disfatte dal clima e dai disagi, lasse per troppe
soste in troppe guarnigioni fameliche, sanno tuttavia conservare nella
parola arguta, nel gesto col quale alternano il sorriso alla sigaretta,
nella civetteria del ginocchio sovrapposto, la grazia francese unica
al mondo! E guardo ed ammiro queste due passere sbandite che portano
fino in queste solitudini il loro sorriso intrepido e la loro gaia
mercatanzia.


                                                   Delhi, 25 gennaio.

— Delhi, Agra: Le royaume du Gran Mogol! Le Gran Mogol, Madame, qui
avait un penchant pour les jolies parisiennes. — Peut-on le voir, ce
monsieur-là?

— È morto da trecento anni.

— Hélà! Nous arrivons toujours trop tard....

Ci liberiamo dalla folla policroma dell'immensa stazione indiana.
Fuori, ad attenderci, i più pittoreschi mezzi di locomozione: i
_yinricksharws_, le carrozzelle in lacca e bambù su ruote modernissime
da bicicletta, tirate di corsa da indigeni vociferanti, carrozze
strane, triangolari, che il cocchiere guida seduto in avanti, sul
timone sottile, diligenze barocche sovraccariche di ori, di fiocchi,
di sonagli, trainate da coppie di zebù, il bove indiano, minuscolo,
gibboso, velocissimo; e campeggianti in disparte, disposti in ordine,
gli elefanti da nolo, recanti ognuno un cartello in varie lingue
indicante la mèta, come da noi le carrozze tramviarie. Si sale sopra
uno dei colossi, attraverso una specie d'arrembaggio inclinato e
si sta in otto nel castelletto ad ogive. Misero equipaggio e misera
bestia da nolo, che ebbe certo i suoi giorni splendidi nella reggia di
qualche Maharajah, cent'anni or sono.... Oggi la pelle si è raggrinzata
sull'immensa carcassa, come la corteccia degli olmi secolari; e non
servono a ringiovanirlo la gualdrappa logora frangiata d'oro stinto, nè
la truccatura bianca rossa azzurra, a cerchi vivaci, intorno agli occhi
ed alla proboscide.

— Les pauvres oreilles! On les dirait de feuilles rongées par les
chenilles!

È vero. Le orecchie immense, zebrate di nero, agitate di continuo,
sono logore dagli anni e dai malanni, qua e là tagliate a grandi lobi,
come le foglie corrose dai bruchi. Ma quanta intelligenza negli occhi
minuscoli, dove s'alterna la bontà e la scaltrezza, la mansuetudine ed
il risentimento.

Il _cornac_, un giovinetto, sta seduto alla budda sul collo possente e
dirige la mole immensa con l'_ankus_, un bastoncino ricurvo a gancio
che preme sulla fronte silenziosa, con un grido sommesso d'intesa.
Nessuna bestemmia, nessuna ingiuria come nelle nostre vie occidentali.
La mole s'avanza sicura come un congegno e il rumore delle zampe
enormi che giunge dal basso imita un poco il rombo ritmico di un motore
primitivo. Passiamo per ampie vie modernissime: luce elettrica, tram,
automobili; c'interniamo in viuzze tortuose, dalle case altissime in
legno dipinto e traforato con uno stile da confettiere, con tutti i
colori delle cose dolci, gonfie di _miradors_, di loggie minuscole;
infinite gallerie coperte cavalcano le vie, allacciano l'una all'altra
le case misteriose.

La nostra cavalcatura ci mette all'altezza del primo piano e l'occhio
gode, d'attimo in attimo, attraverso le verande aperte, le scene più
intime e più diverse: una madre che consola un bambino che piange, un
ufficio di mercanti parsi, dove cinque scribi in mitra di tela cerata
sono seduti a modernissime macchine da scrivere, una casa indù semplice
e linda, con non altro alle pareti candide che le incarnazioni di
Brama, una casa maomettana a tappeti sontuosi dove un vecchio scarno,
occhialuto sotto il turbante immenso, sta ginocchioni in mezzo alla
stanza, picchiandosi il petto contrito, una scuola indigena dove venti
monelli, in assenza del pedagogo, si protendono al nostro passaggio
con occhi vivaci e denti abbaglianti, scagliandoci le fiche e le
ingiurie; e, molte cortigiane, bajadere di bassa casta, riconoscibili
al volto ignudo, alle vesti e ai monili, alla casa più adorna e più
appariscente: strane case così aperte sulla via dall'immensa veranda da
inquietare seriamente la pudicizia dei visitatori. L'elefante, che ha
incontrato un confratello che giungeva in senso opposto, s'arresta per
attendere che l'altro retroceda fino al prossimo cortile, e sostiamo di
fronte, vicinissimi, a due cortigiane sorridenti. L'una ravvia con uno
strano pettine quadro ed enorme i lunghi capelli nerissimi e lisci come
due bende di raso tenebroso, l'altra protesa quasi fuori della veranda,
in piena luce, tiene nella mano uno specchietto tingendosi con la
destra, accuratamente, i sopraccigli arcuati. Tutti, in questo paese,
uomini, donne, bambini, hanno occhi splendidi, già troppo neri, già
troppo grandi, e la consuetudine del bistro, imposta per religione, li
fa smisurati, inverosimili, conferisce a questi volti quel loro sguardo
d'idoli assenti.

— Vois-tu, ma chère, quelle ruse ont-elles à se farder? Elles
maquillent seulement la paupière supérieure.

Si fissano alcuni secondi le orientali e le occidentali, poi l'elefante
si muove e la scenetta dispare.


Si passa dalla città viva alla città morta quasi senza avvedercene.
Finiscono le case abitate dagli uomini, cominciano quelle popolate
dalle scimmie. Non più facciate policrome, verande fiorite, ma edifici
vuoti come teschi, muri superstiti con loggie che guardano il nulla, o
scalee, atrii sontuosi in granito ed in marmo che portano a palazzi che
non sono più: tutto ciò che era legno è stato divorato dalla steppa.
Ogni balaustro, ogni cimasa è coronata di code pendule o di faccie
sogghignanti di quadrumani. E le ruine si prolungano all'infinito,
tutta la steppa, fin dove l'occhio può giungere, e oltre, oltre ancora,
è l'immenso ossario di una città morta e risorta dieci volte in quattro
millenni, sotto dieci dominatori diversi. Ci si domanda per quale legge
fatale e misteriosa una città debba evolversi come qualunque altra cosa
viva, e rampollare qua e là sul suo ceppo decrepito, come la pianta che
non vuol morire. Forse in nessuna parte del mondo l'archeologo trova un
così vario tesoro d'architetture esposte. A Roma, in Egitto, in Grecia,
in tutti i luoghi sacri al passato, risorge il fantasma di una civiltà
sola che le esumazioni, i restauri, gli studi ci fanno vicina, certa,
come una cosa presente. Qui è il _caos_ dell'abbandono e dell'oblio,
il convegno di tutte le ruine colossali e del tritume di ruine, un
deserto di frantumi, così che l'archeologo ha la vertigine di essere
sbalzato a cinquecento, a mille, a tremila anni nell'abisso del tempo:
dall'ultimo splendore islamitico dei Gran Mogol al bramanesimo cupo,
imponente delle prime costruzioni giaina e pali, nella notte delle
origini vediche.

Ma dubito che gli archeologi soffrano di vertigini poetiche:
dubito della sensibilità di coloro che sanno. In questa solitudine
s'incontrano sovente figure biondiccie ed occhialute di studiosi
russi, tedeschi, inglesi che osservano con fiero cipiglio, come
sacerdoti indignati, la nostra gaiezza profanatrice. Siamo alla Porta
d'Aladino, un'immensa porta superstite che dà un'idea della moschea
smisurata che non è più. E la mole, di tale grandezza e di tale
purezza architettonica che basterebbe a creare un modello perfetto di
stile indo-moresco, appare lavorata, a chi s'avvicina, come uno stipo
cesellato da un orafo: tutto il Corano con tutti i motivi più delicati
dell'arte islamitica dei secoli d'oro adorna la grazia ogivale che
s'innalza a più di trenta metri. Il vano è riempito dal più azzurro
cielo dell'India, e il nostro elefante, immobile nella zona in ombra,
quasi minuscolo sotto l'immensa ruina, completa quella bellezza
armoniosa. Sente quest'armonia l'inglese eruditissimo — e scortese —
che lavora in una baracca prossima e toglie misure e dirige tre scribi
indigeni che disegnano e calcolano per non so che restauri governativi?
Ho più fiducia nell'entusiasmo e nel buon gusto di queste meretrici di
Francia; la più loquace delle due ha immagini adorabili.

— J'ai toujours revé ce tableau là quand j'étais fillette, sur un
coussin de ma tante Véronique! Et voilà qu'il y a vraiment une chose
comme ça.

Poi trascinando la compagna più vicina all'immensa parete cesellata e
palpando con mano voluttuosa l'intrico della scoltura:

— Il faut se rappeler cette broderie ici, pour une robe d'intérieur!

Avanziamo a piedi tra le ruine che non hanno confini. Una vegetazione
senz'anima: di latta, di cuoio, di stoppa, una vegetazione che non
è mai stata viva s'alterna con la pietra morta; e sui cipressi,
sui _baniam_, nodosi e contorti come in uno spasimo d'arsura, tra
la steppa sanguigna e il cielo di cobalto, mettono una nota gaia
di vita i signori del luogo: i pappagalli, i pavoni, le scimmie.
Come s'illeggiadrisce un capitello giaina, tozzo di quattro teste
elefantine di Ganesa: il Dio della saggezza, se un pavone vi balza
improvviso, inondandolo di una cascata di zaffiro e di smeraldo! E le
grate di marmo candido, frastagliate con tutti i motivi dell'Islam,
come si ravvivano per le chiazze verdi dei pappagalli nani, le comuni
garrule colorite, che giocano al trapezio tra i santi trafori! File
interminabili di scimmie stanno sedute a congresso e volgono la testa
tutte insieme al nostro passaggio, seguendoci a lungo, fissandoci con
occhi di malinconia desolata.

A tratti s'incontra un Jogi, un santo che ha scelto a suo rifugio una
di queste ruine. Tutta l'India abbonda di queste figure singolari; non
sono fachiri leggendari, non fanno miracoli; sono asceti, ridotti dalla
vita contemplativa allo stato di cose: hanno preso il colore della
pietra e dei tronchi morti. Completamente ignudi sotto il sole che
arde e che abbacina, con le chiome, il volto impiastricciato di cenere
e d'argilla, stanno seduti nella posa nirvanica, più indifferenti
e più insensibili degli idoli millenari. La consuetudine religiosa
favorisce queste sètte: ognuno ha vicino una ciotola, ricolma ogni
giorno dalla pietà popolare. Ne interroghiamo qualcuno, offrendo un
frutto, una moneta. Ma non rispondono alle nostre parole, non battono
ciglio alla nostra mano protesa, ci lasciano passare senza volgere il
capo, già perduti nell'increato, nella salvezza del non desiderare
più, già affrancati dall'eterno ritorno, risanati per sempre nella
carne e nell'anima. Sembrano, a noi, i più miserabili avanzi umani,
e sono forse i soli uomini invidiabili, le sole creature che non
debbano ormai più riconoscere alcuna potenza terrena: «.... Che puoi
tu fare, o tiranno, che puoi tu fare a me che nei rigori dell'Imalaia
o negli ardori del Deccan sono in perfetta letizia? Puoi percuotermi, o
tiranno, puoi lacerarmi, ardermi, farmi morire, o tiranno, ma non puoi
farmi male....».

Avanziamo nella tebaide.

Ed ecco fra tante cose morte, fra tante ruine senza nome, una cosa
ben viva e ben nota, fresca di colore e di linea come se innalzata da
ieri. Il minareto di Ktub. Ero preparato da fotografie e da stampe,
anche prevenuto con una certa antipatia. È invece la più leggiadra cosa
inutile che la noia d'un despota abbia scagliato al cielo. Una torre
isolata alta trecento piedi, costrutta da un sultano e offerta alla
figlia malata di malinconia, così come s'offre un gioiello. È veramente
un gioiello che colpisce di lungi per l'altezza vertiginosa, dappresso
per la squisita fattura.

Sembra un fascio di palmizi interminabili, legati, stretti a cinque
altezze digradanti: così che l'insieme del fusto snello è tutto
pieghettato come una gonna di seta; seta lucida e fine sembra la pietra
rossa-salmone, intarsiata d'ornati di marmo bianco. Lavori di mole e di
pazienza inconcepibili ai nostri giorni, possibili nel tempo andato,
quando un popolo intero era stromento cieco e concorde del capriccio
d'un despota. Forse avevano un po' tutti l'anima di Luigi di Baviera,
questi sultani leggendari che profondevano tesori per concretare i
loro sogni in moli di marmo e d'alabastro. Per gli occhi di una bella
distruggevano la loro città, costruivano una città nuova, come il
Maharajah Suvan-Ge-Sigg II che nel 1628 abbandonò Amber, l'antica
capitale del suo regno, e fondò Giaipur, la città fantastica tutta
color di rosa, eretta in poco più di tre anni! Costruivano palazzi,
templi, giardini, e li abbandonavano talvolta, prima che fossero
compiuti, già sazi del sogno che il popolo tardava a concretare in
pietra.

Si sale lungo il fusto eccelso, sostiamo a riposare alla terza, alla
quarta veranda circolare, in marmo traforato che ci spende nel vuoto
e dà la voluttà della più acuta vertigine, e dall'alto la desolazione
appare più disperata, occupa tutto l'orizzonte come un mare di
lava e di scorie: si pensano veramente come eruzioni spaventose le
invasioni delle orde giaina, pali, afgane, mongole che si riversarono
dall'Imalaia e sovrapposero ruine a ruine sulla pianura maledetta
da Dio. Poco lungi dal minareto di Ktub, fra sepolcri d'un tempo
immemoriale, s'alza un obelisco che discorda con la grazia leggera e
la tinta carnicina del cimelio moresco, un obelisco barbaro, tutto di
ferro, elevato — dice l'iscrizione sanscrita — duemila anni fa dal
Raya Dhava per celebrare con una cosa eterna la sua vittoria sulle
tribù Valhihas. È alto quindici metri, fuso in un pezzo solo, documento
misterioso di una civiltà spenta, quasi dimenticata e che pur possedeva
i mezzi di gittare una mole di metallo che inquieterebbe la nostra
industria modernissima.

Anche qui eruditi indigeni ed europei: archeologi, periti, architetti
che prendono modelli e misure. L'Inghilterra s'accinge ad un'opera
colossale: dissodare l'ossario delle città morte, restaurare le ruine,
ordinarle decorosamente alla luce del sole. Opera degna, ma che non so
quanto possa giovare alla poesia di queste memorie.... Certo ringrazio
il cielo di visitarle oggi, nel loro abbandono desolato.

È l'ora torrida. Ed è anche l'ora del pasto. Le nostre compagne «qui
ont soupé des ruines» ci ricordano che abbiamo le provvigioni con noi.
Cosa provvidenziale perchè l'unica bettola nella Porta di Aladino ha
un odore di concia che rivolta lo stomaco. Vi comperiamo soltanto un
ananasso e uva moscata enorme, freschissima, giunta dai monti del Kabul
in certe scatole fatte d'immense foglie coriacee cucite con lunghi
fili di gramigna. Una delizia che disseta e consola sotto questo cielo
di fiamma. E seguiti dai _boys_ e dal _cornac_ si cerca il rifugio
meridiano; non si ha che l'imbarazzo della scelta regale: una moschea,
un atrio moresco, una reggia pali, un tempio giaina. Scendiamo in un
ipogeo conosciuto dai _boys_: un rifugio d'ombra e di frescura, che
sarebbe tetro se non fosse di marmo candido. Grosse colonne quadre
reggono il soffitto a cubi sovrapposti, e tutto è a blocchi monolitici,
in uno stile incerto alla mia ignoranza, uno stile che ricorda le
costruzioni egizie più antiche, o assire, o etrusche, o fenicie, quando
tutte le architetture neonate si somigliavano un poco. Riceviamo luce
da una porta triangolare e da quattro finestre triangolari, quali
non avevo sognate mai, e poichè siamo nell'ombra e fuori è la vampa
del meriggio tropicale i cinque triangoli si disegnano rossi come le
aperture d'una fornace immane. E nella brace dei cinque triangoli si
profilano figure di leggenda: aridi palmizi lontani, l'ogiva nitida
della porta d'Aladino, una trina candida vicinissima: il balaustro di
una moschea, il nostro elefante meditabondo, rigido sulle quattro zampe
a colonna, immobile come i suoi fratelli di pietra....

Ora di sogno. Ristoro e sollievo della frescura e della penombra,
piacere indefinibile di sedere con gli amici, in cerchio, al pasto
singolare, voluttà un poco sacrilega di avere a compagne queste due
profanatrici che dicono e cantano cose enormi tra le pareti sacrosante.
Ora di sogno. La realtà scompare. Le cose si alterano, ingigantiscono,
diventano favolose e magnifiche, come la noce, il sassolino, lo zoccolo
toccati dalla bacchetta magica della leggenda. E dimentico. Vedo con
occhi d'allucinazione grandiosa il tempio ruinato, il misero elefante
da nolo, i poveri boys a mezza rupia, gli amici e il pasto frugale,
e queste due vagabonde delle quali non oserebbe vantarsi uno studente
occidentale.

Sono l'imperatore Acbar, il più possente dei Gran Mogol, e questo è
il mio palazzo; questo è un banchetto servito da trecento schiavi ad
ambasciatori della Serenissima; queste sono due «cristiane» rapite dai
corsari sulle coste di Barberia, vendute al Negus d'Etiopia, donate dal
Negus allo Scià di Persia e offertemi dallo Scià mio cugino, giunte
vergini ed impuberi fino al mio serraglio; due cristiane bionde da
aggiungere alle mie settecento concubine di tutti i colori....

Guai se non si completasse col sogno il magro piacere che la realtà ci
concede!...



Agra: l'immacolata.


                                                    Agra, 27 gennaio.

Ad Agra, più ancora che a Delhi, si può rivivere un'ora nel passato
favoloso dei Gran Mogol. Se l'ultimo di essi: Sha-Jehan s'alzasse
dal suo mausoleo e prendesse per mano la sposa dilettissima:
Montaz-i-Mahal, e uscissero entrambi dalla Reggia funeraria: il
Tai-Mahal, ritroverebbero riconoscibile ancora la città dei loro
splendori, e rispettati dal tempo e dagli uomini i loro palazzi
magnifici. Palazzi uniti, sovrapposti, innalzanti a settanta metri il
loro vario profilo, simili piuttosto ad un ammasso titanico di castelli
feudali che ad una reggia di sogno. Ma la loro grazia leggera fiorisce
in alto, dall'altra parte, verso il fiume Giumma, verso la pianura
sconfinata. Dalla città vedo soltanto le basi di arenaria sanguigna, le
mura ciclopiche, le torri possenti, destinate alla difesa e all'offesa.
Questi forti che gli imperatori mongoli fondavano in India erano
campi trincerati, d'una possanza, di una mole, di una magnificenza
inconcepibile al tempo nostro, villaggi muniti e fortificati dove
quei tiranni dall'anima di guerriero, di artista ed asceta, adunavano
quanto potesse appagare i sensi e lusingare gli spiriti: dalla zenana
voluttuaria alle sale di governo e di giustizia, dai bagni, dalle
palestre alle moschee della purificazione, al mausoleo dell'ultimo
riposo. Era una città regale sospesa sulla città del popolo, che
serviva prono, abbacinato da tanto splendore.

Passiamo il vallo fortificato, le torri, le porte pesanti. Si sale
per scalee fosche, sotto archi medioevali, si percorrono androni a
feritoie e a casematte, e tutto è in arenaria sanguigna, tutto è tetro
e massiccio, evocante nel suo silenzio l'urlo guerriero e il fragore
delle armi. Dove poteva svolgersi la vita voluttuosa dei poeti in
turbante e delle belle dagli occhi interminabili? Si sale, si sale
nelle viscere oscure della mole millenaria, dove la luce non giunge che
da ogive sottili, da feritoie scarse, dalle quali appare sempre più in
basso la città sterminata, si sale, si sale nel labirinto tenebroso.

Ed ecco, con un moto istintivo ed improvviso, le mani si portano a
difesa degli occhi feriti dalla luce abbacinante d'un nevaio. Siamo
giunti nel regno dei marmi immacolati, nella città superna dei tiranni.
Un terrazzo immenso, la sala delle udienze, candido come tutti gli
altri edifizi, con non altro che un trono di marmo nero, per il Gran
Mogol; intorno ricorrono arcate che danno l'illusione d'una grotta
di latte congelato, a stalattiti geometriche, dove il candore è
sottolineato da una linea d'onice nerissima. L'onice, l'oro, l'argento,
la turchese, il porfido sono usati con scaltra leggerezza, in gracili
motivi floreali o in linee che seguono il frastaglio complicato delle
trine marmoree, all'infinito; così che non è menomato, ma accresciuto
l'effetto candido dell'insieme. Tutto è di marmo immacolato, e
l'eleganza si mostra soltanto nel traforo e nella cesellatura, portate
all'ultimo limite d'un'arte inimitabile. Le sale da bagno, dalle vasche
rettangolari, dove si discende per tre, quattro gradini, sembrano
attendere nel loro candore levigato il flutto dell'acqua odorosa, le
carni brune e bionde, le risa argentine delle sultane quindicenni che
dormono da secoli nella pianura sottostante....

Avanziamo nell'infinito candore. Verso il fiume la mole degli edifici
guarda a picco sul piano sottostante ed è una fioritura più intensa
di trine marmoree, di loggie, di _miradors_, di specule dove le belle
sognavano le cose cantate dai poeti del tempo, leggevano le strofe
persiane a venti rime complicate come una formula algebrica, o le
novelle licenziose, o su Corani alluminati pregavano per il ritorno
d'un assente.

Si passa da sala in sala, e le sale sono senza porte, così che
formano prospettive di sogno immacolato, allee di trine candide che si
prolungano all'infinito. Stupisce la nitida freschezza di queste lastre
sottili di marmo, traforate fino all'inverosimile; lastre che ricordano
immensi ricami a giorno, tesi tra due colonne e non pareti concrete:
la mano vi si appoggia con esitanza, meravigliandosi della rigidezza
secolare. Il tempo che sfalda il granito, precipitando templi e
obelischi, ha poca presa sul marmo. Questi miracoli di grazia sembrano
fatti ieri. E certo gl'invasori ebri di saccheggio e di stupro che
irrompevano spezzando e rovesciando ogni cosa, s'arrestavano dinanzi ai
velari candidi, abbassavano la scimitarra e la clava, come dinanzi ad
un incantesimo.

Sosto a lungo ad una delle specule dove le belle dei tempi andati
portavano la loro malinconia. E la vita dei Gran Mogol è tutta nello
scenario che ho d'intorno. La zenana, l'arem che occultava gelosamente
i più bei fiori di carne, poi i terrazzi immensi delle udienze, le sale
di giustizia dove il sultano e la corte, abbaglianti di stoffe vivaci
e di gioielli, formavano sul marmo candido un quadro che abbacinava
il popolo genuflesso, poi i vasti cortili delle giostre, per le lotte
delle tigri e degli elefanti, acre voluttà sanguinaria che i tiranni
alternavano a canti di giullari e a danze di _devadasis_, negli alti
giardini pensili. E intorno, a picco, le mura ciclopiche, simbolo d'una
potenza senza pari; da un lato, contenuta in una cerchia cupa, simile
veramente ad una perla chiusa in uno stipo, la Moschea della Perla,
bianca, translucida, semplice di linea e solenne; e là, in fondo alla
città, candido nella sua cerchia di cipressi e di palme, il Tai-Mahal:
il più puro esemplare di bellezza funeraria che la speranza umana abbia
innalzato alla disperazione della morte.


                                                    Agra, 28 gennaio.

Oggi, costeggiando le rive del Giumma, contemplo dal basso il maniero
ciclopico e stento a ritrovare con gli occhi le loggie, le verande di
trina marmorea dove ieri ho sognato a lungo nel tramonto di brace. I
palazzi di marmo incantato appaiono come un sottile frastaglio niveo
alla sommità della mole rossigna, la quale esisteva già mille, due mila
anni or sono, ai tempi delle origini braminiche, ai tempi dei re Giaina
e Pali. I Gran Mogol, ultimo giunti, sovrapposero alla mole espugnata
la loro dimora aerea, ed il granito fulvo della fortezza ciclopica
fiorì di marmi candidi nell'azzurro del cielo.

Oggi i signori e le belle dormono al piano in un'altra reggia: quella
dei morti, più meravigliosa della reggia dei vivi: il Tai-Mahal.

Il Tai-Mahal! M'avvio al miracolo dell'Oriente con la mia diffidenza
consueta per le cose troppo magnificate dalla leggenda. E mi preparo
alla delusione entrando nel vasto parco alberato di una vegetazione
cimiteriale: palmizi e cipressi. I cipressi formano una galleria sul
mio capo, giganti islamitici che fondono i tronchi e la fronda di
bronzo quasi nero. Ed ecco, d'improvviso, la meraviglia unica del
mondo. Poche volte la realtà ha superato la mia aspettativa, poche
volte una bellezza m'ha investito così violentemente, mozzandomi la
parola ed il respiro, forzandomi all'ammirazione ed alla riverenza
completa.

Sullo scenario a due tinte: l'azzurro cielo e il bronzo cupo dei
cipressi, s'innalza la più immacolata e gigantesca mole sognata da
questi sultani amici del candore. Una semplicità che sfugge alla
parola e all'indagine estetica. Sullo zoccolo immenso una cupola
eccelsa, e ai lati quattro minareti scagliati al cielo: non altro. È
il motivo classico dell'India islamitica, il motivo profanato da tutta
la chincaglieria occidentale, esecrato negli scenari d'operetta, nei
lavori ad uncinetto e nelle oleografie: ma divino nella verità del
modello! Di marmo candido, eterno, e pure sembra fatto della sostanza
labile e translucida delle nubi; le nubi a cumulo, tondeggianti,
che s'alzano in questo momento dietro la cupola immacolata, quasi a
gareggiare in grazia ed in candore, formano nel cielo di turchese un
contrasto forse meno luminoso e meno immacolato. L'azzurro del cielo,
il candore delle nubi e dei marmi, il bronzo cupo dei cipressi, tutto
è riflesso in un gran lago tranquillo che addoppia il miracolo, con il
candore preciso di certi smalti persiani.

Avanziamo quasi increduli, temendo dell'incantesimo creato da un
negromante, di uno scenario che debba dileguare come la Fata Morgana;
ed ora soltanto mi meraviglio della mole del mausoleo. Il tripudio dei
colori m'aveva fatto smarrire il senso della misura. Ma una teoria di
pellegrini che sale le scalee sembra una schiera minuscola d'insetti,
così lenti nel giungere da un portico all'altro. Arriviamo anche noi
alla mole che abbaglia. E da presso appare all'occhio abbacinato
quanto l'arte costretta alla semplicità assoluta possa tuttavia
fare nel marmo, e vediamo il Tai qual è veramente: una mole ed un
gioiello, l'edificio d'un Titano e il capolavoro d'un cesellatore
moresco, ottenuto con gli scarsi motivi islamitici: ornati geometrici,
ghirlande di parole sacre, gracili motivi floreali. E anche qui l'onice
nerissima, intagliata e immessa nel marmo con una tecnica sconosciuta
al tempo nostro, segue ogni voluta, ogni traforo, aumenta il candore
opalescente dell'insieme, come una striscia di _kool_, tracciata
dal pennello sottile sotto la palpebra, aumenta il balenio perlaceo
nell'occhio d'una baiadera.

Le porte d'argento — l'argento sul candore del marmo! — riproducono
l'intero Corano, a parole scomposte e ricomposte, come in una cabala.

Entro nel mausoleo, m'avanzo verso i due mausolei dove dormono
da tre secoli i coniugi amanti che vollero con l'amore vincere la
morte. Poichè tutti sanno che il Tai-Mahal fu eretto dall'imperatore
Shah-Zehan, disperato folle per la morte immatura della sposa: la
bella Mahal che sorride ancor oggi, negli smalti e nelle miniature
indo-persiane, morta nel 1618 non di mal sottile, come vuole la
leggenda sentimentale di qualche viaggiatore, ma nel dare santamente
la luce ad un settimo figlio. E non so dire quanto m'intenerisca
quell'amore passionale e tragico in quel romanzo onestamente
coniugale. Si racconta che il vedovo impazzito, s'aggirasse per
le sale della reggia aerea, vivesse come se la sposa fosse sempre
con lui, sorridendo, parlando, chiamandola a nome, indicandola ai
figli e ai cortigiani allibiti. E la vita che visse ancora fu tutta
un'allucinazione passionale, un'amorosa convivenza con il fantasma
visibile a lui solo, che egli accompagnava per le terrazze e per i
giardini, presentava nei banchetti e nelle feste ai cortigiani e al
popolo impietosito.

Da quella demenza è sorto questo miracolo funerario. L'amore ha
veramente vinto la morte. Il mausoleo tre volte secolare è intatto
come se costrutto da ieri. I coniugi amanti dormono vicini, in eterno.
Sotto la cupola eccelsa più di qualunque nostra cattedrale, luminosa,
nell'ombra senza finestre, d'una luce sua propria, s'intrecciano con
delicati motivi floreali le sentenze del Corano. Sentenze indecifrabili
per me, ma che certo devono ripetere ai due amanti le parole che le
religioni di tutta la terra dissero in ogni tempo all'amore e alla
morte.



Fachiri e ciurmadori.


                                                    Agra, 30 gennaio.

Ci riposiamo dei giorni trascorsi, troppo intensi di emozioni
estetiche, in curiosità più comuni. Visitiamo una fabbrica di tappeti.
Belli i tappeti e singolarissimo il modo di fabbricarli. Una trentina
d'operai, quasi tutti giovinetti, seminudi, stanno seduti al telaio,
nell'afa di una lunga tettoia. E ad ogni operaio corrisponde un filo,
una tinta della trama complicatissima. Il direttore, seduto su un
alto scanno, all'estremità dei telai, tiene sott'occhio lo schema
riassuntivo del lavoro con i numeri corrispondenti ai vari tessitori e
li canta in note diverse; e al numero corrisponde il gesto del piccolo
operaio che ripete la nota, con una voce prolungata d'intesa. Il lavoro
prosegue così su di una nenia regolare e varia, non priva di una certa
dolcezza musicale. Il direttore sembra dirigere un'orchestra di tinte
delicatissime. Ed è veramente la _sinfonia dei colori_, sognata dai
poeti decadenti. Ne risultano quei tappeti inimitabili, dove il pregio
e l'origine si rivelano nella fattura raffinata e primitiva ad un
tempo, nel disegno e nella tinta che s'alterano di tratto in tratto,
ingenuamente, per il filo che vien meno o per la mano diversa, nella
sofficità deliziosa, come se le dita si insinuassero sotto l'ala d'un
cigno. Lavori magnifici, ma che m'attirano sotto questo cielo soltanto.
E per non comperare dimezzo il prezzo. Ed è accettato. Lo dimezzo
ancora. Ed è accettato. Scelgo tre tappeti. Altri mercanti escono dai
loro negozi mentre passiamo nella città indigena, tentandoci con mille
cose inutili; un budda, una trimurti in avorio, un elefante in ebano,
raccolto sulle zampe posteriori e recante in alto, nella proboscide
attorta, un gran vassoio d'argento, bronzi, rami lavorati a sbalzo,
veli tenui come nubi tessute, tinti all'istante sotto i nostri occhi
con tutte le tinte più delicate dei fiori e dei frutti, ed affidati a
due bimbi che li fanno prosciugare correndo, amuleti, monili gemmati,
ori massicci di bajadere. Cose che tentano, ma che compero senza
fede, per qualche amico d'Italia. Non le amo nella mia casa. So quale
malinconia d'esilio, quale stridore borghese acquistano sotto il
nostro cielo, nelle nostre dimore modeste, tra uno scrittoio Luigi XV
ed uno stipo dell'Impero. Ogni bellezza nella sua cornice. Due cose
vorrei portare con me. La reggia dei Gran Mogol, il palazzo di trina
immacolata, lassù, sulla sua mole rossigna, e il Tai-Mahal, con i suoi
cipressi di bronzo e il suo cielo di cobalto. Oggi sono ritornato,
solo, a contemplare per lunghe ore il poema di marmo e di luce....
Quale rimpianto sarà nei miei ricordi!


                                                    Agra, 31 gennaio.

I giocolieri e i fachiri sono una delusione per chi viene in India
mendicando un po' d'inverosimile, di soprannaturale. Ma aggiungono
al paesaggio un motivo pittoresco. Oggi, dinanzi al tempio giaina, ho
assistito alla lotta del _cobra_ e della _mangusta_, lo spettacolo che
gl'incantatori di serpenti offrono ad ogni forestiero per tre modeste
rupie, il prezzo della vittima. Due indù, che sembrano usciti da
un'illustrazione di viaggi, ignudi, fasciati alle reni da un _panio_
sottile, fasciati in testa da un gigantesco turbante giallo, le barbe
divise e uncinate, le orecchie adorne di anelli d'oro massiccio,
siedono di fronte chiudendo ognuno tra le ginocchia un cesto coperto,
e incominciano un preludio di richiamo, una specie di nenia dialogata,
guardandosi con occhi di sfida, di minaccia, di paura, ora l'uno ora
l'altro sollevando il coperchio ed abbassandolo subito, volgendo gli
sguardi sul pubblico attento, come per consultarsi. Poi si decidono.
Una delle ceste s'agita, il coperchio si solleva, ed appare la testa
eretta d'un cobra che esce dalla prigione con lentezza flessuosa,
si raccoglie, s'abbandona pigro sul tappeto come una gomena inerte,
grigia a losanghe nere. Ed ecco balzare dall'altro cesto, d'improvviso,
l'avversario diverso: un felino che ricorda il nostro furetto, fulvo,
snello, ondeggiante, il muso e gli occhi rossi, la coda lunga due
volte il corpo, villosa, dilatata dall'ira come un enorme scopino
rossiccio. Il cobra s'erge a mezzo delle spire attorte, con la veemenza
d'una molla a spirale, la gola espansa, con la figura delle lenti che
si dilatano nel furore, il capo piatto, sottile, scosso dal fremito
continuo d'una foglia agitata dal vento. E tra le grida incitatrici
dei monelli e il rombo d'una musica assordante, i due avversari si
preparano alla difesa e all'offesa: la mangusta correndo rapida attorno
alle spire circolari, come attorno ad una fortezza, e il cobra girando
su sè stesso come un'ansa mobile, vigilando la nemica da tutte le
parti. Il cobra si tende, guizza come un dardo. La mangusta balza
indietro, protetta dalla nube rossigna della coda accartocciata.
Ritorna all'assalto. È respinta. Ritorna tre, quattro volte; per dieci,
per venti minuti gli avversari temporeggiano. Poi è l'impeto furibondo,
una miscela forsennata di spire livide e di pelo fulvo, finchè sul
tappeto non appare più che un gomitolo enorme e palpitante. La mangusta
è perduta. Eppure no: le spire s'allentano, due zampine rosee si
liberano convulse, lo scopino della coda emerge improvviso; l'intera
mangusta esce trionfante dall'intrico del rettile che si svolge inerte:
il felino minuscolo ha divorato il cervello del nemico.

— _It is not interesting. The cobra is dry._

Uno studente indiano che ho vicino si porta l'unghia del pollice ai
denti incisivi, per significarmi che il rettile non aveva più veleno.
Non mi stupisce, data la famigliarità di questi incantatori con il
terribile intercessore di morte. Ma è noto che la mangusta affronta e
distrugge i cobra intatti e selvaggi della jungla, ed è tenuta nelle
case, avversaria vigilante e infaticabile d'ogni rettile intruso, come
il gatto per i topi tra noi.

Qualche liceale color di bronzo, qualche borghese anglomane in solino
rigido e con la mazza gemmata, si sofferma un attimo nella cerchia
dei giocolieri, poi s'allontana con uno sguardo di commiserazione
e di _snob_ come da cosa «_quite native_», troppo indigena e troppo
consueta. Io mi compiaccio invece di osservare nella realtà misera e
cenciosa, ma pittoresca, le figure e le cose troppo lette nei libri.
E trovo interessanti anche il famoso miracolo della pianticella di
mango, un gioco di prestigio fatto con un'abilità senza pari. Uno degli
indigeni fa visitare intorno un seme autentico di mango che solleva
con le due dita, depone in una buca del terreno, ricoprendolo di
terra e calpestandolo accuratamente; poi distende sulla seminagione un
fazzoletto favorito da uno di noi. Allora inizia qualche altro gioco,
per distrarre l'attenzione del pubblico. Ritorna poi, ad intervalli,
al seme di mango, ed ogni volta la pianticella ha messe due, tre foglie
di più, finchè al termine dello spettacolo raggiunge le dimensioni d'un
arboscello con due frutti e qualche fiore. Uno sviluppo miracoloso che
richiede una raccolta progressiva di non meno di cinquanta esemplari,
sostituiti con un'abilità che sfugge ad ogni mia vigilanza.... E che
mi ricorda le cinquanta parrucche progressive di quel tale parrucchiere
calvo che simulava lo sviluppo di una chioma assalonica, alla corte di
non so quale Luigi di Francia.

Ma quali simulatori consumati sono questi giocolieri! Con quale arte
istrionica raffinatissima, sconosciuta ai nostri prestigiatori,
illudono, deviano la nostra attenzione, con quale mimica seguono
lo sviluppo del mango, fingendo l'incredulità nel prodigio, l'ansia
dell'esperimento, la delusione del primo insuccesso, la meraviglia
paurosa per la prima gemma, la gioia del trionfo!

Ma ecco i due s'altercano, s'ingiuriano con ira crescente. Credo in
un litigio autentico. E non è che il preludio d'un altro gioco. I due
tentano di strapparsi di mano un sacco cencioso, finchè l'uno riesce
ad imprigionare l'altro con un rapido gesto traditore, e ve lo lega
solidamente. Allora comincia la mimica della gioia crudele, la danza
feroce sul povero prigioniero che s'agita e geme. L'avversario non pago
prende un randello a clava e percuote l'involto fino ad appiattirlo,
fino a farlo aderire vuoto e floscio sul terreno. Allora il forsennato
slega, esplora il sacco. E comincia il monologo del dolore, del
rimorso disperato, finchè la folla si fende e si vede ritornare lo
scomparso, sano e salvo, non si sa come, non si sa di dove. Sorpresa,
riconciliazione, abbracci fraterni e lacrime vere, abbondanti che
brillano sulle labbra nere, quando i due girano intorno, invitandoci in
corretto inglese all'offerta generosa.

— _A little present, milord! We are so poor fellows!_

_Poor fellows!_ Poveri compari, ma di una abilità e di una scaltrezza
inqiuetante, e tale da frodare dieci volte, in altre occasioni, il
forestiero un po' trasognato! E non saranno certo costoro a darmi
un po' del soprannaturale che speravo di trovare in India, un po' di
inverosimile, un po' di miracolo....


                                                  Agra, 9(?) gennaio.

Il miracolo è pur sempre uno solo. Il Tai-Mahal. Domani partiremo
per Giajpur e oggi son ritornato alla meraviglia che lascerò prima
d'esserne sazio. La meraviglia che ha il fascino non più di una cosa
d'arte, ma di una bellezza naturale ed eterna: come il mare, come il
cielo, come l'alte vette immacolate. Aveva il colore di certi nevai,
oggi, mentre lo contemplavo per l'ultima volta. Poi è passato al
rosa, al cerulo, al verde, all'ardore violaceo dell'acciaio nell'ora
della tempra... E i cipressi di bronzo, il cielo di cobalto, le acque
incantate che addoppiavano il miracolo, tutto m'è impresso nella
palpebra interna come quando si guarda una cosa che abbaglia.

Fra sei mesi, fra un anno, perduto nelle vie delle nostre città
settentrionali, nella nebbia e nel pattume d'un crepuscolo decembrino,
potrò forse resuscitare tra le ciglia socchiuse un po' di questa luce
e di questi colori, e consolare l'anima grigia....

Tai-Mahal! Poema marmoreo di Amore e di Morte, quale tormento, quale
rimpianto sarai per il futuro!



Giaipur: città della favola.


                                                 Giaipur, 3 febbraio.

Paese dell'imprevisto! Dopo tante città marmoree abbacinanti di
candore, ecco una città tutta rosea: Giaipur. L'occhio stanco di
troppa luce riverberata da pareti bianche si riposa su questi palazzi
come sulla dolcezza di certe stoffe attenuate dal tempo. E la nostra
fantasia trova finalmente la città della favola, sognata nell'infanzia
prima. Doveva avere l'anima d'un fanciullo e d'un poeta quel Maraja
Suvni-Ge-Sing II che nel 1670 abbandonò l'antica capitale: Amber, e
ordinò che una città nuova gli fosse costrutta dal suo popolo, una
città quale aveva visto nei sogni dell'oppio, nelle favole persiane o
nelle leggende vediche. Tutto un popolo fu all'opera e la città sorse
per incantesimo: vastissima, con vie lunghe tre, quattro chilometri,
ampie e regolari come le nostre più belle vie europee, tracciate,
ornate, colorite sul modello unico, secondo la dispotica volontà del
sovrano. Giaipur è un'immensa città costrutta pel capriccio di un solo,
come si eseguisce una veste, una collana, uno stipo. Tutto è color di
rosa a delicati fiorami bianchi: rosa le case, gli archi, le cupole, i
minareti delle moschee, le guglie delle pagode.

Dalla veranda dell'albergo osservo sbigottito e non so darmi pace.
Siamo giunti da un'ora, dopo tre giorni di ferrovia, in mezzo all'India
desolata, stanchi dall'ardore polveroso, rattristati dal paesaggio
che si fa sempre più squallido, come un'infinita pianura di scorie
avvolta da un'atmosfera non più terrestre, non più respirabile. Quale
differenza dalla verzura, dalla fresca penombra degli Stati del Sud!
Tutto muore negli Stati Rajputi: anche gli agavi, i palmizi-palmira, i
cacti a candelabro, questa tenace vegetazione di stoppa, di cuoio, di
zinco.

E sarebbe la carestia classica, la Fame dei tempi andati, la sorella
del Colera e della Peste, quella che secondo il poeta «viene a
tracciare in India sul libro mastro della natura il dare e l'avere, a
grandi segni di matita bleu», sarebbe la fame classica se l'Inghilterra
non avesse chiusa tutta l'India in una fitta rete ferroviaria,
arterie nelle quali scorre, più vitale del sangue, con la velocità
degli espressi americani, il grano giunto da tutte le parti del
mondo. Grano, grano, infiniti sacchi tondeggianti che s'accumulano
in piramidi colossali ad ogni stazione piccola e grande. E il vecchio
ottuagenario e il bimbo di sei anni, la danzatrice ed il paria, tutti
passano al dispensiere per la provvista quotidiana, senza nemmeno
dir grazie, senza nemmeno capire da chi e perchè giunga quel bene.
E quando ognuno ha ricevuta la sua misura di frumento o di farina
candida attende all'occupazione prediletta: sognare. Chi ha un'ultima
moneta: un'anna, mezz'anna si compera trenta rose, le rose che si
vendono già decapitate, in piramidi irrorate di continuo, e le infilza
su una cordicella d'argento per la ghirlanda quotidiana, o passa
dal profumiere parsi per mezz'oncia di benzoino (tutti si profumano
e s'infiorano in questo paese: anche i cocchieri, anche i bovari) o
compera una pasticca di mastice o un grano d'oppio o un bolo di betel.

Città di sogno e popolo adorabile, che ha la poesia del superfluo e la
scienza delle cose inutili. Nessuna cosa più inutile di questa grande
città color di rosa. Certo mi ricorderò di Giaipur, se un giorno dovrò
scegliere una patria alla mia pigrizia contemplativa. Il dolce far
niente italiano è, al confronto, un vortice di attività spaventosa.

Dalla veranda dell'albergo guardo i palazzi che si succedono regolari,
all'infinito, fasciati, si direbbe, dello stesso damasco color
salmone a fiorami candidi. Non so darmi pace, scendo, attraverso la
via, voglio vedere vicino, palpare con la mano le strane pareti. È
una specie d'intonaco tre volte secolare, più duro, più liscio dello
smalto; le case sono strette, contigue l'una all'altra, come i palazzi
classici di Venezia, ma tutte intonacate dello stesso color di rosa sul
quale i disegni soltanto variano all'infinito. Oh! I delicati motivi
che si possono ottenere con un po' di bianco sul fondo gridellino!
Motivi rievocanti le antiche stoffe dette _indiane_: losanghe
minutissime, zebrature ondulate, mazzolini settecenteschi, ghirlande
di nodi d'_amour_: ogni facciata varia all'infinito, pur fondendosi
nell'armonia dell'insieme, e si ha l'impressione che debba cedere sotto
la mano come un immenso lembo di stoffa tesa per un giorno di gala.

Rosa, tutto color di rosa per compiacere il gusto di un Re! E la
folla che passa per queste vie si direbbe pur essa scelta, istruita,
abbigliata per uno scenario coreografico. In nessuna città indiana,
nemmeno ad Haiderabad, nemmeno a Delhi ho ritrovato così intatto
l'Oriente di maniera. Non rotaie di tram, non automobili, non europei
in casco e gambali, ma elefanti da nolo, dalle gualdrappe numerate,
elefanti nuziali gualdrappati di rosso e d'oro, dipinti di tutti i
colori più vivi come giocattoli di Norimberga, cammelli, dromedari che
passano di corsa, col collo proteso, ricordando la figura e l'aire di
certi polli spennati, muletti candidi dagli occhi rosei e dalle ciglia
mansuete, e cavalli — i cavalli che mancano nell'India meridionale
— cavalli bai, pomellati, bianchi: destrieri classici, dal tipo
arabo, dalla criniera e dalla coda ondulata e prolissa, montati da
cavalieri fantastici che si direbbero eroi cinematografici o comparse
d'operetta se non si vedesse, se non si sentisse che sono _veri_: veri
nonostante la scimitarra gemmata e lo scudo all'arcione, il casco —
turbante adorno di penne svolazzanti, la barba imbiondita al _hennè_, i
sopraccigli, le ciglia annerite con l'inchiostro di _kool_. Ma per chi,
ma per che cosa questo abbigliamento scenico da principi di Mille e una
notte? Forse non tanto per piacere alle loro donne mansuete, quanto per
servire degnamente la Dea Illusione, la Dea Poesia, la Maja-Devi della
teogonia indiana: quella che pone tra noi e _le cose quali sono il velo
delle cose quali devono apparire_. Certo io penso con un sogghigno al
nostro sommario vestito occidentale: un unito nero o bigio, un solino
rigido, un cappello a cencio o a staio: non altro è concesso, non una
tinta vivace, una penna, un velluto per illeggiadrire la nostra già
sempre più scarsa avvenenza mascolina. Tutti hanno qui una eleganza
principesca: principi e bovari; ma non per l'abbigliamento soltanto.
Tutti hanno la pura bellezza del tipo ariano, hanno innata la grazia
del gesto, del passo, dell'atteggiamento.

La bellezza e la grazia raggiunge nelle donne una perfezione forse
eccessiva: si direbbe che avanzano per via a un passo di danza,
avvicendando i piedi nudi e gemmati sulla stessa linea retta, il che
fa ondulare le anche con un ritmo procace, mentre le braccia ignude,
cerchiate di smaniglie, sono sollevate in alto ad equilibrare strane
anfore di argilla variopinta o di rame. Sono vestite di stoffe e di
veli vivaci, fasciate, inorpellate pudicamente fino alla gola: la
scollatura, se così si può dire, traspare invece alla vita, dove il
giubbino e la sottana disgiunti, s'allontanano talvolta scoprendo una
buona parte del torso bronzeo e la base dei seni: una scollatura alla
rovescia, che non dà nessun brivido sensuale, tanto l'atteggiamento
è dignitoso, e perfetta la bellezza dei volti. Forse eccessiva, forse
un po' monotona la bellezza di queste indiane raiputi: sembrano tutte
sorelle. E tutte ricordano singolarmente la Vergine Maria: non la
Vergine bionda della tradizione occidentale ma la Vergine _nigra sed
formosa_ dei musaici bizantini e degli smalti copti: l'ovale eccessivo,
la bocca dal sorriso triangolare, il naso anche troppo minuscolo
tra gli occhi lunghissimi, custoditi dai capelli ordinati con cura
impeccabile, simili a due bende di raso nero e lucente.

Città della favola! Passano i veicoli più strani: vetture triangolari,
semicircolari ricordanti la forma delle bighe, e l'auriga di bronzo
ignudo grida ed incita, in piedi, non i cavalli, ma gli _zebu_, il bue
indiano, piccolino, gibboso, dai garretti impazienti e velocissimi,
dallo sguardo mansueto, fatto più dolce dalle lunghe corna ricurve
ripiegate lungo la gobba, quasi col timore prudente di ferire qualcuno.
Altre vetture passano, simili a piccole berline tutte d'oro, dalle
cortine di broccato rosso; e passano portantine singolari, sormontate
da una specie di guglia a pagoda, dov'è adagiato un ricco mercante
parsi, una bajadera d'alta casta, un dignitario dal vestito e dalla
barba candida, con non altro di nero che gli occhi imperiosi: ed ogni
veicolo è preceduto e seguito da otto, dieci servi che avanzano su una
canzone d'allarme, agitando a destra e a sinistra flabelli di palma
dipinta o bastoni con un lungo pennacchio di seta candida e nera che
è la coda di un'antilope di specie rara. Turbanti di tutte le forme e
di tutti i colori: candidi enormi, fatti di tela rozza per i _Camili_
e gli uomini di bassa casta, turbanti minuscoli piegati e pieghettati
con arte sopra una forma interna come i cappellini delle nostre
signore: circolari, triangolari, o rialzati audacemente da una parte, o
scendenti a custodire le gote e adorni di fermagli gemmati, dai quali
zampilla un'_aigrette_ o una _paradisea_ che farebbe la delizia delle
nostre più raffinate mondane.

Città della favola! Avanzo lungo le belle vie spaziose, sui larghi
selciati di marmo a figure geometriche, e sfioro a quando a quando
con la mano i muri delle case color di rosa, sempre color di rosa, a
delicati fiorami candidi. Quale meraviglia che in una città fantastica
come questa si sia conservato intatto l'Oriente dei tempi andati? Ecco
dignitari di corte, ecco scudieri, falconieri che passano ridendo,
sollevando in alto i girafalchi incappucciati — avevo letto di questi,
in guide sommarie e in descrizioni di pregio, ma non avevo creduto —
ecco falconieri quali si potevano ammirare in Toscana o in Provenza, in
un bel mattino del secolo XIV, ed ecco le tigri, le famose tigri del
Maraja di Giaipur, delle quali tanto m'avevano parlato a Bombay e a
Calcutta. Non sono tigri: sono pantere: non meno belle e formidabili;
m'appaiono d'improvviso, al crocevia del Palazzo dei Venti, condotte
al guinzaglio da una schiera di custodi: fanno parte delle belve che
sfilano nei cortei di gala, pubblicamente. Per questo, per abituarle
alla folla, sono condotte in giro ogni giorno, dopo i pasti abbondanti;
sono cinque nel gruppo, tre color d'ocra a chiazze nero-pece, un'altra
chiarissima, che si direbbe stinta, un'altra tutta nera, d'un bel
nero lucente, dove le chiazze appaiono marezzate, come nel damasco.
Camminano a scatti improvvisi come se avanzassero sopra una lastra di
metallo rovente, ammusando a destra e a sinistra, con bonomia giocosa,
i monelli ignudi che s'affollano intorno. Poichè m'arresto incuriosito
e guardingo, a distanza prudente, uno dei custodi mi sorride, mi fa
cenno cortese di avanzarmi senza esitare, m'accosta lui stesso la belva
al guinzaglio; e sul suo esempio accarezzo la nuca folta, mentre la
belva s'abbioscia, gli occhi obliqui socchiusi nella luce del giorno,
il muso depresso e baffuto come certe maschere giapponesi. Altre
pantere mi sono intorno, con i loro custodi, si strusciano ai miei
gambali, con un ron-ron beato di grosse micione ben pasciute....


                                                 Giaipur, 5 febbraio.

Città dei colori! Si direbbe che il popolo abbia voluto ripagarsi
dell'unica tinta imposta dal tiranno, sfoggiando tra queste pareti
color di rosa tutte le tinte più vive: uomini, donne, principi e
mendicanti: vestiti di cenci o di sete, di percalli o di velluti: passa
per queste vie una fiumana incessante di colori inconciliabili sotto
il nostro cielo, ma che si fondono con questo sole, su questo scenario,
in una concordia discorde che è un vero tripudio visivo: giallo zolfo,
giallo ocra, rosso, carminio, porpora, verde biacca, verde salice,
azzurro, turchino.

Il sobborgo dei tintori è una delle cose più singolari di Giaipur. I
tintori esercitano il loro mestiere all'aperto, con mezzi primitivi
e raffinatezze secolari, sconosciute tra noi. S'aggirano seminudi tra
le tinozze, i barattoli, i lambicchi fatti di grosse zucche e di noci
di cocco unite con una storta di bambù, pestano i loro semi e le loro
polveri in mortai millenari, di marmo o di bronzo, dov'è scolpita
la testa elefantina di Ganesa o il sorriso di Parvati dagli occhi di
pesce. E ne tolgono tele, tulli che appendono a corde tese al sole e
affidano a garzoncelli che le fanno prosciugare correndo, gonfiandoli
nella corsa come grandi aquiloni o turbinandovi dentro come in una
danza serpentina.

A questo popolo il colore è necessario come la luce. Donne
specialmente, donne d'ogni casta s'affollano intorno alle tintorie. E
la giovinetta più povera trova sempre la monetina per far gettare nella
tinozza tre metri di tulle stinto, che le è reso dieci minuti dopo,
vivo della tinta che ama. Sull'unito del fondo l'artista sovrappone
con meravigliosa sveltezza il disegno e la tinta preferita, adoperando
certe spate di setola a spruzzo, o certi rulli di bosso o semplicemente
le dita intinte: e ne risultano marmoreggiature, zebrature, disegni
pomellati, o zone ondulate, delicatissime. E i tulli popolari, avvolti
con una grazia che ricorda in queste donne Raiputi il ceppo comune,
le remote sorelle di Atene, acquistano per trasparenza sovrapposta,
per gioco del sole e del movimento una luminosità che moltiplica
gli effetti come nei cristalli, e fa di queste creature sfamate
quotidianamente dalla carità governativa tante principesse da leggenda.


                                                 Giaipur, 7 febbraio.

E anche i piccioni sono tutti ritinti come arlecchini dell'aria. Quasi
non bastasse il verde naturale dei pappagalli, il bagliore dei pavoni,
il nero lucente dei corvi. Così che le case color di rosa hanno il
marmo candido delle cimase coronato da pennuti di tutti i colori.

Un'altra cosa non avevo osservato, che mi piace e m'intenerisce. Ad
ogni crocivia è una specie di tempietto ad una colonna, dove la carità
dei passanti depone il becchime per gli uccelli anch'essi affamati
nell'intristire dell'ultime gramigne. Sotto le piccole cupole a pagoda
è un vero turbinìo di pennuti minuscoli: cocorite, passeri bengalini
che vengono, vanno trillando di letizia riconoscente. Anime delicate di
fanciullo e di francescano, questi indù raiputi, che hanno la fame alle
porte, e sentono la necessità d'un profumo e d'un fiore, e dividono il
pugno di grano giunto d'oltremare con le piccole creature di Brama!


                                                Giaipur, 10 febbraio.

I giardini del Maraja sono di una malinconia cimiteriale che pure ha
il suo incanto sotto questo cielo non nostro. Le palme, i cipressi,
gli aranci sono tagliati a forme geometriche, tra siepi di busso, di
rose bengali, moderate secondo lo stile francese del secolo XVIII.
Anche le piscine per gli elefanti, gli stagni per i coccodrilli e
le testuggini hanno sagome Luigi XV; a questi motivi occidentali
s'alternano, con bizzarria che non dispiace, le linee indiane: chioschi
a guglia, cupole tre volte panciute, ponticelli di marmo traforato
come trina che cavalcano stagni quasi asciutti dove intristiscono
le ultime ninfee e gli ultimi papiri. Visitiamo il Palazzo Reale —
la parte accessibile al forestiero — ed anche qui è l'anacromismo
orientale e occidentale: sale parate di damasco europeo, sovrapporte
settecentesche con episodi ellenici e pastorali, pendoli Robert,
fiori sotto campana, alte finestre e telaietti; e si passa da questi
appartamenti in corridoi dalle finestre ad ogiva moresca, a verande di
marmo lavorato a stalattiti, a sale non arredate che di tappeti e di
cuscini orientali, dalle pareti candide non decorate che di affreschi
effigianti le incarnazioni di Brama. Si sale dall'uno all'altro
piano di questi appartamenti di sogno in placidi ascensori elettrici
costrutti a Manchester, mentre, per compenso, ci attende in giardino un
elefante messo a nostra disposizione dal gran Cerimoniere della Maraja
assente. Visitiamo i giardini vastissimi, ma dalla magra vegetazione
senz'ombra. Sugli spalti della città, a grandi aranci dalle foglie
accartocciate dall'arsura, s'alternano cannoni dorati e inargentati,
inutili e grotteschi come le soldatesche che fanno i loro esercizi nel
cortile sottostante: uomini alti e snelli come fanciulli, dalle strane
divise miste di rigidezza britanna e di cenciosità orientale. Cose di
una malinconia esotica intraducibile a parole.

E più malinconico di tutto il grande edifizio dell'Osservatorio
Astronomico, fondato dal Maraja Ge-Sing, l'innamorato delle stelle,
l'astronomo che diede alla scienza un contributo riconosciuto anche
dalle società occidentali. Nel cortiletto interno, in mezzo ad
una vasca senz'acqua, un immenso sferisterio sembra girare sulle
spire arcuate del serpente in marmo che lo sorregge. E intorno sono
attrezzi e costruzioni strane, in metallo ed in pietra, incise a
formule misteriose non meditate più che dagli scoiattoli. In alto,
il muro di una specula è tutto coronato di scimmie piccoline, strette
l'una all'altra, freddolose al vento polveroso della sera. E i segni
zodiacali s'alternano ad un'infinità di musetti pensosi e di code
pendule.



L'olocausto di Cawnepore.


                                              Cawnepore, 16 febbraio.

_Remember Cawnepore!_

Per anglomania, per rivalità d'infinite caste, per interessi naturali e
morali l'India non vuole e non può sollevarsi. Guai se potesse, guai se
volesse! La misura è già stata data una volta; la razza bionda sa quale
sangue scorra nelle vene di questi indiani dal sorriso abbagliante di
fanciulla timida, dallo sguardo mansueto sotto le ciglia tenebrose;
e ricordano, come si ricorda nella calma dei secoli, il furore
sotterraneo della terra malfida. E v'è un luogo fra tutti, in India,
dove l'ansia d'ogni cuore britanno si volge come a un cratere. Come a
un cratere e come a un mausoleo: il più tragico che la disperazione dei
sopravissuti abbia elevato mai sull'ecatombe dei suoi fratelli caduti.

_Remember Cawnepore!_ Non so staccare gli occhi dalla targa di
cristallo che ha conservato, dopo cinquant'anni, le due parole
disegnate da un _highlander_ innominato sul cubo di granito. Il soldato
era certo tra quelli che ebbero il còmpito tremendo — più tremendo
che affrontare il nemico — di entrare nella casa della strage, di
restaurare le pareti crollanti, di raccogliere i resti, di detergere
il sangue «che saliva sino alle caviglie». Sopra un macigno sconnesso,
dove il sangue aggrumato — sangue di bimbi biondi, di donne bionde!
— offriva una pagina rossa, il soldato aveva disegnato, con la punta
della spada, a grandi lettere accurate, le parole tragiche.

_Remember Cawnepore!_ Nessuno ha dimenticato, ma certo l'umile soldato
non immaginava che il cubo fosse più tardi rimosso e la sua iscrizione,
tutelata dal cristallo, figurasse oggi nelle cripte del Fatal Well: il
pozzo fatale. Il sangue ha preso col tempo una tinta di fuliggine, dove
le due parole spiccano più chiare; e certo esse mi danno un brivido
d'orrore, mi rievocano i giorni famosi assai più delle grandi lastre
di marmo nero dove sono incisi in oro i nomi e le date delle varie
campagne.

Per ricordare in tutta la sua tragica bellezza quella pagina rossa
della storia Anglo-Indiana — sulla quale si profilano, vittime
innocenti, tante soavi figure di donna — bisogna rivivere la notte
del 14 maggio del 1857. Non invento: tolgo dalla raccolta del _Times_
di quell'anno — sfogliata nella decrepita biblioteca del Queen's
Hôtel — tolgo fedelmente dalla nuda esposizione dei fatti quanto ne
emana di tragica poesia. È la notte famosa. Gran festa da ballo nel
_bungalow_ del colonnello Stanes, festa da ballo e serata diplomatica,
consigliata dalla prudenza coloniale contro gli eventi. Gli eventi
son gravi. Si è in piena rivoluzione; il fermento crepita, s'accende,
si spegne, s'accende qua e là come una miccia non bene nutrita, ma
inquietantissima. Sono in fermento gli Stati del Bengala, Bombay
tumultua, Mirat è a ferro e fuoco, Delhi è in mano dei _sepoys_
ribelli. Sono rimasti fedeli agli inglesi gli Stati del Pengjab,
Madras, Baroda. La sorte oscilla. Ma il tumulto si propaga terribile.
Compie ora il secolo dal giorno dell'occupazione sacrilega (1757-1857)
predicano i Bramini; la profezia dei 100 anni sarà coronata dallo
sfratto degl'infedeli e da un'India degli indiani. I reggimenti di
_sepoys_ si sollevano ad uno ad uno, per cause minime: la proibizione
di portare i grandi cerchi d'oro agli orecchi o di ridurre le lunghe
barbe uncinate, un nuovo tipo di carabina che comporta cartucce da
rompersi coi denti: e le cartucce sono unte con grasso di bue o di
maiale: il bue, animale sacro per gli Indù, il maiale, animale immondo
per i mussulmani; cause occasionali: le cause concrete sono ben
altre. Gl'inglesi annettono uno stato dopo l'altro alla Compagnia.
Lord Dalhousie ha tolto di colpo l'immenso Stato di Ouda, rifiutando
al Marhaja spodestato la pensione e gli onori. Quasi tutti i sovrani
indigeni delle provincie del Nord sono in vedetta, sicuri del popolo,
forti di ricchezze immense e di una speranza quasi certa: l'aiuto
della Russia ferita dalla campagna di Crimea, la Russia in vedetta
all'Himalaja.

L'Inghilterra provvede, combatte l'insurrezione con tutte le qualità
sue migliori. Giunge a Cawnepore la notizia che a Mirat — a dieci
miglia dalla città — i _sepoys_ hanno ucciso gli ufficiali inglesi, e
il colonnello Stanes apre le sue sale ad una festa da ballo, quella
sera stessa, per consiglio del generale Hugh Wheeler, e tutta la
Colonia è invitata in gran gala diplomatica: la guarnigione europea,
tutti i gentiluomini, tutte le signore. Nulla si deve temere, nulla
si teme a Cawnepore: la popolazione sappia ben questo. A Wood-House
l'orchestra alterna i valzer al _God Save the Queen_. Si festeggia
il genetliaco di Sua Maestà la Regina Vittoria. Eppure qualche voce
corre tra gl'invitati, qualche voce corre nella folla. Un reggimento di
_sepoys_ s'è ammutinato quel mattino stesso, appena è corso l'annuncio
dell'assedio di Delhi: poco importa: il reggimento fu internato. La
folla è ostile, il distaccamento europeo non è che di trecento uomini:
poco importa: il generale Wheeler ha avuto due giorni prima un lungo
colloquio con Nana Sahib, ultimo _peshawah_ di Poonah, fedelissimo
dell'Inghilterra, alleato ultra modernista, il quale ha messo a
disposizione del generale diecimila uomini suoi che già occupano
gli edifici della Tesoreria e dell'Arsenale e difendono Cawnepore
in una cerchia infrangibile. La città è in festa, nella bellissima
notte tropicale. Le bionde _ladies_ possono sfoggiare le loro spalle
e i loro gioielli, gli ufficiali alternare le divise vermiglie alle
immense crinoline di seta, nelle graziose volute delle contraddanze
e dei lancieri. Li protegge il Marhaja generoso, li tutela dall'alto,
in effige, la graziosa sovrana ventenne, biondo-cerula sotto la corona
dove scintilla la gemma unica al mondo.

_God save the Queen..._: ma come si prolungan le salve dei cannoni e
delle moschetterie: come s'innalza di lungi il clamore della folla —
senza dubbio festante. — Il frastuono copre quasi la musica e le risa
degli invitati. Ed ecco che Sir Hugh Wheeler fa un cenno e nel silenzio
generale s'avanza nella gran sala e parla. La sua voce è come quella
del capitano che annuncia all'equipaggio inconsapevole il naufragio
imminente:

— Siamo perduti, — s'odono grida femminili, — siamo perduti, se c'è
fra noi chi non sappia dominarsi. Tutti al Forte William. C'è mezz'ora
di tempo. Gli ufficiali accompagneranno le signore ai rispettivi
_bungalows_ per provvedersi di roba e prendere i bambini. Fra mezz'ora
non deve più restare un europeo in città. Fra mezz'ora tutti al forte
se v'è cara la vita. Calma, ordine, silenzio! L'orchestra, — i musici
si sono alzati precipitosi, — l'orchestra continui a suonare fino a
mio ordine: laggiù si deve credere che la festa continui. Fra mezz'ora
tutti al forte! Le ragioni le sapranno poi.

Le ragioni sono queste. Nana Sahib ha gettato la maschera; ha armato
con tutte le munizioni e con tutte le artiglierie dell'arsenale i suoi
diecimila demoni neri, i quattro reggimenti di _sepoys_ ammutinati;
i forsennati stanno per entrare in Cawnepore, non più difesa che da
un gruppo di fedeli; otto ufficiali inglesi sono stati uccisi; tra
mezz'ora la città sarà a ferro e fuoco ed ogni europeo passato a fil di
spada. Non c'è rifugio che tra le mura tozze del Forte inglese.

— Al forte! al forte!

L'allarme corre la città. In mezz'ora tutti gli europei: uomini,
donne, fanciulli — ottocento circa — sono al riparo: ma la difesa è
derisoria: trecento soldati europei contro la falange furibonda! Eppure
il manipolo resiste una settimana, due, tre, resiste fino alla morte
per difendere le donne e i fanciulli che si stringono allibiti alle
spalle. Le pareti decrepite crollano, sotto le granate, un bastione
è aperto dal nemico: i difensori improvvisano trincee sotterranee;
combattono nel fango. Comincia la stagione spaventosa delle pioggie
tropicali. Donne, vecchi, bambini affondano nel paltume, si sviluppano
il vaiuolo e la peste; nel cortile del forte si sotterrano i cadaveri;
mancano le munizioni, mancano i viveri: le donne rifiutano il cibo per
risparmiarlo ai bimbi e ai difensori: si vive di speranza: la notizia
dev'essere giunta a Calcutta, ad Allahabad: la colonna liberatrice è
forse alle porte.

Poi anche la speranza dilegua: è la disperazione, la morte certa:
oggi, domani. Ed ecco il nemico farsi clemente. Nana Sahib propone al
generale Wheeler una capitolazione; il generale si sdegna, rifiuta,
ma la moglie, un'indigena, lo scongiura ad accettare; il generale
esita; le donne, le madri implorano, impongono il consenso per i bimbi
morenti di fame. E Wheeler accetta. Le condizioni, d'altra parte,
sono accettabili: tutti avranno la vita salva e l'onore delle armi. I
prigionieri saranno tutti imbarcati e condotti ad Allahabad, in terra
pacifica. Viene il giorno della liberazione. Nana Sahib non ha mentito.
Sul Gange, che scorre dietro il forte William, ventisette imbarcazioni
attendono gli europei, delle quali due sono piccoli piroscafi a ruote:
_more comfortable_ — spiega il nemico — destinati alle donne e ai
fanciulli. La flotta a remi, a vela, a vapore prende il largo sul fiume
sacro. Ed ecco una cosa incredibile avviene. Sulle due rive, per una
lunghezza interminabile, sono schierate tutte le truppe ribelli, tutta
l'armata di Nana Sahib, con tutte le artiglierie tolte all'arsenale
inglese, puntate sulla flotta che passa. È un saluto d'addio. No, è la
carneficina ultima, sistematica, lo spettacolo infernale che Nana Sahib
offre alla sua ferocia selvaggia. I proiettili s'incrociano dalle due
rive più fitti, più micidiali d'un eruzione vulcanica; le imbarcazioni
avvampano ad una ad una; le vittime balzano dai roghi galleggianti;
molti annegano, quelli che raggiungono la riva sono respinti a colpi di
lancia dai malebranche spietati: a morte! a morte! Carne da caimani!

E i caimani del Gange devono aver giubilato di tanta carne tenera e
bianca: vero è che poco dopo, per mesi e mesi, si moltiplicava in carne
più fosca e men tenera di _sepoys_....

                                   *

Ma la tragedia indescrivibile, quella per la quale Cawnepore è
tristemente celebre, comincia appena. Tutti furono uccisi, fuorchè le
donne e i bimbi — trecento circa — ricoverati sui due vaporetti che
ritornarono a Cawnepore per ordine di Nana Sahib. Costui aveva bisogno
d'un ostaggio contro la vendetta inglese che non poteva tardare e che
sapeva tremenda, adeguata al delitto. I trecento superstiti inermi,
folli di spavento e di dolore, dovevano subire una prima onta. Non
furono restituiti al forte, ma vennero chiusi in una Be-Be-Ghar,
parola intraducibile, tanto meno in inglese, un edificio basso e
malsano; e là, nel luogo turpe, Lady Sotten, Lady Wheeler, Miss Kraty,
tutte le fiere donne d'Inghilterra, le mogli, le sorelle, le figlie
dei dominatori, quelle dinanzi alle quali i nativi parlavano a mani
congiunte, languirono per venti giorni — venti secoli, venti età! —
annichilite, inebetite dall'onta e dallo spavento, in attesa dell'aiuto
che doveva giungere, ohimè — troppo tardi.

La grande colonna Inglese, comandata dal generale Haweloch s'avanzava
da Calcutta verso Cawnepore, batteva i ribelli più volte, guadava il
Bari-Naddu. Nana Sahib si vide perduto, si vide costretto a fuggire
con tutti i ribelli, costretto a lasciare al nemico l'ostaggio
delicato. No! Il nemico doveva trovare un carname! Fu dato l'ordine
della carneficina immediata. I _sepoys_ esitavano. Pietà, forse; forse
viltà; poichè basta lo sguardo d'una donna inglese per far abbassare
lo sguardo di cento nativi. I bruti uccisero senza fissare le vittime,
uccisero a fucilate, attraverso le grate delle finestre, uccisero
a colpi d'accetta, uccisero sfracellando i cranii infantili contro
gli alberi del cortile, come si fa pei botoli malnati o bastardi. In
mezz'ora la carneficina era compiuta. Morti, semivivi, feriti, tutti
furono precipitati nella gran cisterna del cortile. Quando il giorno
dopo irruppero nella Be-Be-Ghar le colonne salvatrici — i mariti, i
padri, i fratelli delle vittime — delle trecento vittime non restava
viva che un'indigena, l'aya (governante) dei due gemelli di Sir
Sotten. E a lui che l'interrogava, che la scrollava alle spalle, perchè
parlasse, essa rispondeva sghignazzando, abbracciando il tronco d'un
palmizio sul quale s'alternavano ciocche bionde e grumi vermigli. La
povera donna era demente.

                                   *

E delle cose atroci come delle cose oscene. La fantasia si ribella e
la penna si rifiuta. Ma è pur necessario ricordare quell'ora per poter
comprendere la misura alla quale salì la vendetta degli Inglesi, e
per poter perdonare ad un popolo europeo le atrocità che seguirono:
gl'indigeni «cannoneggiati» in massa, i bramini torturati e appiccati,
dopo averli costretti a mondare con la lingua l'ultima traccia di
sangue dal luogo del massacro. Ahimè, la vita è non solo soffrire, ma
far soffrire; e la storia del mondo c'impone questo dovere crudele:
fare agli altri il male che è fatto a noi. La repressione salì a
tal segno che in Inghilterra stessa, alla Camera, vi fu chi si alzò
gridando: — Ricordatevi che quelli erano turchi e bramini e che noi
siamo cristiani!

E la pietà cristiana ha convertito in un giardino il luogo del massacro.

Ho visitato i giardini delle Memorie (Memorial Gardens) e non è
traducibile a parole il senso che si prova tra quelle ruine fiorite,
la vibrazione che ha l'anima passando dal brivido dello sdegno a
quell'indulgenza ineffabile che assolve di tutto. Vicino al forte
William sorge la chiesa commemorativa, sacra al nome di tutte le
vittime. Le ruine dell'edificio che fu prima un lupanare indigeno, poi
un macello di donne e di bimbe inglesi, sono ora coronate di clematidi,
di liane, d'orchidee, e custodite intorno da una ringhiera di ferro
come i luoghi memorabili e sacri.

Il _Fatal Weell_, la cisterna ottagonale dove furono precipitati
i corpi palpitanti, fu lasciata com'era, mascherata soltanto da un
mausoleo di squisita fattura. L'edificio è ottagonale, com'è ottagonale
la cisterna, a finestre ogivali e a guglie gotiche, sopra una base
a grandi scalee, e farebbe pensare ad un angolo cimiteriale del
Devonshire, se il giardino, intorno, non profilasse i tronchi multipli
dei banani, simili ad immensi polipi capovolti, o gli svelti flabelli
delle palme Palmira.

Sulla grande scalea che accede al mausoleo un immenso angiolo di marmo
candido — _Angel of the Resurrection_ — prega a capo chino, le mani
congiunte, le immense ali incrociate; e sul cartiglio sono scritte le
parole della Suprema Indulgenza, che non si possono leggere senza occhi
lustri.

  _Traveller, pray for us and our murderers!..._

  (Viaggiatore, prega per noi e per i nostri carnefici!...)



Il fiume dei roghi.


                                                Benares, 23 febbraio.

— Benares.... il Gange....

Devo ripetere i due nomi favolosi per convincermi che veramente
risalgo in barca il fiume sacro, con dinanzi lo scenario della Città
santificata.

— Il Gange.... Benares....

Devo liberarmi dal ricordo di troppe descrizioni — da quelle
deliziosamente arcaiche di Marco Polo a quelle moderne e sentimentali
di Pierre Loti — per rientrare nella realtà, vedere la cosa troppo
attesa con occhi miei. Vano è scrivere, vano è leggere; una bellezza
non esiste se prima non la vedono gli occhi nostri. L'aforisma wildiano
è giusto. Ma prima ancora di saper leggere, io sognavo di Benares. Se
risalgo alle origini prime della mia memoria vedo la città sacra in
un'incisione napoleonica, nella stanza dei miei giochi. E il ricordo è
così chiaro che il sogno d'allora mi sembra realtà e la realtà d'oggi
mi par sogno....

                                   *

— _Slowly!_ Adagio, più vicino, — ripeto di continuo al barcaiuolo
frettoloso.

Benares va vista dal Gange, come la ribalta dalla platea. L'interno
della città è un dedalo infinito di viuzze laide, degno vivaio di tutte
le epidemie del mondo. La città fu costrutta sul Fiume, protende tutta
la sua bellezza verso le acque deificate.

La mia barca costeggia i _ghati_: così si chiamano i gradi più bassi
delle immense scalee. La stagione asciutta scuopre la città quasi alle
fondamenta ed appaiono gli immensi cubi di granito, i templi tozzi, le
teste elefantine dei Ganesa, le braccia multiple dei Siva, le statue
massiccie destinate ad un'immersione annua di molti mesi e patinate ora
da un limo rossiccio, di bellissimo effetto. La patina rossa colora
la città fluviale, indica il regno delle acque fino all'altezza di
venti e più metri; dopo comincia la città abitabile, dalla fantastica
architettura. Duemila sono i templi di Benares eretti come una selva
lungo i dieci chilometri che la città occupa sulla riva sinistra del
Gange: templi a pagoda buddista, piramidi e guglie bramine, cupole
panciute, minareti maomettani, chiese eurasiane, sinagoghe, tutto è
tollerato in questa «Terra dell'Indulgenza» pur che si creda. Tu non
dirai che la tua religione sia migliore delle altre. Colui che dice: io
sono nella verità, colui non è nella verità....

Ecco il noto profilo dei templi e dei palazzi, con le scalee, le
verande, le specule, le infinite finestre tutte rivolte verso il
fiume, ecco le strane «cupole a pigna», così caratteristiche nella
architettura indiana. Gran parte dei superbi edifici appartengono a
marahja delle terre più lontane, sono residenze di espiazione. Come
nel Medio Evo i principi andavano ad espiare i loro trascorsi in Terra
Santa, così i signori indiani visitano Benares una volta all'anno o si
ritirano in vecchiaia per esalare l'anima in cospetto del Fiume-Dio
che assolve di tutto. È risaputa la credenza; colui che muore a
Benares, lasciando le sue ceneri al Gange, foss'anche un infedele, è
dispensato dal martirio d'ogni reincarnazione, raggiunge la felicità
dell'Increato. Malati, diseredati, vecchi d'ogni genere giungono dalle
contrade più remote, dalle foreste equatoriali di Ceylon, dalle vette
nevose del Cachemire, per aver pace nel seno di Brama.

                                   *

Sono le sette, l'ora della preghiera mattutina. Il sole illumina
obliquamente la zona più alta degli edifici; accende l'oro superstite
delle cupole e delle guglie attorno alle quali nugoli neri, verdi,
rossi di corvi, di tortore, di pappagalli, turbinano salutando la luce
con un inno assordante. E tutto ciò che vive scende verso il fiume.
Dalle scalette tortuose tra palagio e palagio, dalle immense scalee
che danno alla riva del fiume non so che profilo assiro o babilonese,
scende una folla varia, densa, incessante; uomini, donne, fanciulli,
vecchi, giovani fachiri, pellegrini. E tutti recano ghirlande di fiori;
grosse magnolie, gardenie, corolle sconosciute dal profumo acutissimo,
infilzate come rosarii, e prima di scendere nell'acqua le gettano al
fiume, pel rituale quotidiano. I turbanti, le sete, i velluti sono
appesi a cespugli o sotto certi ombrelli immensi, senza nervatura,
simili a funghi singolari; gli uomini entrano nell'acqua quasi ignudi,
le donne conservano una lunga tunica che dopo la prima abluzione
aderisce alla pelle e rivela più ancora l'ambra delle carni, l'armonia
delle forme stupende. E tutti pregano e meditano. Meditano su che? La
mia barca passa loro innanzi, deve deviare per non urtarli, ma quelli
mi fissano e non mi vedono. Il loro sguardo è al di là, la loro anima è
perduta negli abissi dell'ineffabile. Strana città dove tutti credono!

Perchè molti di costoro non sono fachiri, nè santi, nè pellegrini. Sono
uomini di venti, di trent'anni, vigorosi e sani: artigiani, mercanti,
soldati, operai che risaliranno le scalee per riprendere la lotta
consueta, che rientreranno nella vita, ma che ogni giorno, due volte al
giorno, scendono nella morte, s'immergono nel fiume a colloquio con la
propria anima, per prepararsi quotidianamente al trapasso inevitabile.
Odioso confronto con i nostri uomini, con i nostri _borghesi_
occidentali che ignorano ogni cosa dell'anima, deridono ogni scienza
dello spirito, bestemmiano Dio, ostentando un ateismo fatto più odioso
dal vigliacco ravvedimento dell'ultim'ora!

                                   *

Turba infinita che sempre si rinnova, magnificenza di bronzi cupi, di
bronzi chiari, di forme stupende! Ma non tutto è forza e giovinezza.
Gli aspetti della vecchiaia, della malattia, della morte, così
necessari alla perfetta meditazione buddista, offrono sotto questo
cielo magico un contrasto non descrivibile. Poichè è bene ricordare
che gran parte di questa folla è qui giunta per morire, per «morire
in salute» come mi spiega con bisticcio atroce il buon rematore.
Tutti i più crudeli martirii con i quali Siva distruttore ritorna al
nulla la povera carne umana si son dati convegno sulle rive del fiume
luminoso, offrendo al visitatore un campionario strano, interessante
come la nuova flora, la nuova fauna: scabbie, lebbre, eczemi tropicali
(_framboesia_, _albinite_, ecc.), che disegnano le pelli bronzate
di chiazze candide e regolari, di chiazze vermiglie come lamponi,
di zebrature ondulate; piaghe orride, tumori che hanno corroso un
torace, mettendo a nudo i precordi lividi o hanno corrose le gote
scoprendo tutta la dentatura candida in un sogghigno che non si potrà
dimenticare più mai; elefantiasi che tumefanno le gambe, il seno, le
pudenze in modo incredibile, tanto che la vittima sembra scomparire tra
otri immensi e non può muoversi senza il soccorso di qualche devoto,
portatore del singolarissimo pondo. Un gruppo di questi miserabili è
adunato intorno ad un santo ancora giovane, dalla bruna barba divisa,
dallo sguardo di fiamma; che può mai predicare quel veggente per
consolare tante miserie, per far tacere i gemiti di quel carname senza
nome? Forse ripete a quei moribondi le parole dell'Illuminato: «.... il
saggio si rallegra della sua carne che si sfascia, come il prigioniero
impaziente si rallegra della prigione che si schiude. Beata la musica
che si diparte per sempre dallo stromento, beata la fiamma che si
diparte dalla fiaccola, beata l'anima che abbandona la carne...».

                                   *

Passiamo oltre. Il sermone non è per noi. Mai come oggi mi son sentito
schiavo della apparenza, innamorato folle di tutto ciò che è forma,
colore, ombra, luce: bellezza viva, preda della morte.

La città è interminabile: ancora templi, ancora torri, terrazzi,
scalee. Intorno, sul fiume galleggiano infinite le ghirlande votive
e le corolle vivaci, i gioielli, i denti, gli occhi abbaglianti,
le chiome nere lucenti formano tra il riverbero dell'acqua e lo
splendore del sole un musaico a chiazze vive come nelle tele di certi
impressionisti. Lo sguardo si stanca. Passiamo in una zona d'ombra
riposante, lungo i ghati interminabili. L'acqua lenta orla di bava
sordida i cubi di granito decrepito. Un fetore sinistro di fiori
maceri, di carne putrefatta, di umidità febbricosa e di pestilenza
mi fanno ricordare — con un brivido — che da questo focolaio unico
si dipartono a quando a quando, nei secoli, il colera, la peste,
i peggiori flagelli del mondo.... E non meraviglia. Ecco un tronco
di palma morta che ha fatto diga nel pattume e contro vi s'accumula
una putredine varia: ghirlande di queste corolle carnose che l'acqua
converte in viscidume fetido, buccie, carta, cenci, tizzi di carbone,
rami, un osso candido, una tibia umana che il remo solleva lentamente:
un misero avanzo sfuggito ad un rogo troppo povero. E poco oltre la
Marayana di Kandaba fa le sue abluzioni sotto un baldacchino sorretto
da quattro servi in turbante; intorno le sue donne reggono le vesti, le
collane, l'immenso pettorale di gemme, mentre l'augusta sovrana — una
pingue signora attempata — immerge nel fiume le carni vizze, fa coppa
delle mani, beve l'acqua fetida alternando ogni sorso con un breve
gesto d'offerta verso il Cielo.

Più oltre una frotta di bimbi corre ridendo, cerca nel pattume gli
avanzi del legno e del carbone; oltre ancora alcune donne immergono le
anfore di rame lucente, di classica forma, e equilibrandole sul capo
con l'una mano, s'avviano verso la sponda, l'altra mano al fianco,
onduleggiando le anche con un incedere di procace eleganza.

Proseguiamo, passiamo dinanzi ad un'altra piattaforma di roghi — sono
molte, ma quasi tutte deserte in quest'ora — altri templi, altri
palazzi dominanti il fiume dall'alto come castelli feudali. Strana
città rimasta intatta nei millennii, intatta nella sua pietra e nella
sua fede! Altre città favolose esistono al mondo, dinanzi alle quali
si esalta la nostra fantasia; ma sono il fantasma di quelle che furono.
Benares è oggi qual'era nella notte dei tempi ariani. Quando in Grecia
si celebravano i riti dionisiaci, quando a Roma le feste arvali, quando
Tebe offriva olocausto a Ita, Benares già splendeva sulla riva del
Fiume-Dio, come oggi; come oggi la sua folla scendeva nelle acque sacre
a meditare il mistero del divenire.

                                   *

Un'altra piattaforma che si protende sul fiume: un'altra serie di
roghi; ma son quasi deserti in questa stagione salutare. Quale carname
in fiamme deve fornire a queste rive l'ora della peste!

Approdiamo. Due cadaveri sono in molle nel fiume, legati ad una corda.
Fluttuanti nel sudario candido per l'ultima abluzione di rito. Un
altro finisce di ardere, irriconoscibile ormai; solo i due piedi si
protendono fuori delle fiamme, contratti, le dita divaricate come in
uno spasimo estremo; saranno gettati nelle fiamme per ultimi, poichè
è consuetudine di lasciare i piedi fuori del rogo, rivolti verso il
fiume, simboleggianti l'ultimo avvio. Questi roghi non sono grandiosi.

La nostra fantasia immagina cataste eccelse, nubi avvolgenti ogni
cosa in vortici odorosi, cerimoniali e preghiere solenni: i roghi
dei martiri e dei poeti. Nulla di tutto questo. Una semplicità che
sa lo squallore. I roghi sono piccoli, simili a lettucci, a fornelli
in cemento, appena capaci d'un corpo umano, e il legno si direbbe
misurato con parsimonia, in questo paese delle grandi foreste! E negli
addetti, quale frettolosa indifferenza! Ecco: il cadavere è tolto
dal fiume con una specie di barella a grate, è disteso sul letto di
cemento tra due strati di legno sottile: un indù versa una piccola
latta d'olio resinoso, un altro accende. Il rogo avvampa, e ai quattro
lati i quattro necrofori in giubba e turbante candido vigilano la
cremazione, armati ognuno di una lunga spatola ricurva con la quale
respingono i tizzi crepitanti; lo spettacolo è misero, profanatore;
i quattro messeri in bianco, chini sul braciere modesto, con quei
cucchiai singolari, mi fanno pensare a quattro cuochi affaccendati,
e non hanno nulla di tragico. Ma è qui, come altrove, la completa
indifferenza degli indiani per la salma, la nessuna venerazione pel
corpo quando l'anima s'è involata per sempre. Una sola cura frettolosa,
darlo alle fiamme, ritornarlo al nulla al più presto. Intorno ad ogni
rogo, poco distante, ricorre un sedile di granito ricurvo dove siede la
famiglia del defunto. Ma nessuna lacrima, nessun commiato straziante;
i congiunti assistono all'incenerimento per vigilare che il rito sia
compiuto esattamente, che il legno sia sufficiente, che tutta la cenere
sia data al fiume.

Un terzo cadavere è giunto. Un fanciullo di forse dodici anni,
bellissimo, falciato dalla morte d'improvviso, poichè il volto ha la
calma del sonno placido e il braccio oscilla pendulo e la testa dalle
chiome bluastre s'arrovescia sulla spalla dei portatori non per anco
irrigidita. Un uomo — il fratello forse — una donna ancora giovane —
forse la madre — assistono all'opera, scambiano con gli addetti poche
sillabe, discutendo certo sulla resina che la donna annusa e trova
di qualità non buona. E il piccolo attende resupino sulla catasta,
il profilo perfetto fatto più delicato dal sonno senza risveglio,
le frangie tenebrose delle palpebre solcate dallo smalto candido
dell'occhio socchiuso. Non so che dolore indefinibile mi stringa
il cuore fissando quel volto adolescente, fissando l'altro volto
di vegliardo che già le fiamme disfanno. Forse riconosco nell'uno e
nell'altro — attraverso le remote analogie d'un'unica stirpe — i volti
di fanciulli e di vecchi che mi furono cari. Noi amiamo il volto,
questo specchio dell'io; amiamo le rughe, la canizie dei vecchi, i
capelli biondi, gli occhi sereni dei bimbi. Non possiamo concepire
il ritorno d'un caro defunto senza il suo volto, il suo sorriso, la
sua voce. La nostra religione (con un dogma tra i più medievali e
puerili, è vero, ma che mi piace non discutere), soddisfa questa nostra
illusione promettendoci la _resurrezione della carne_.

Come costoro sono lontani da noi! Prima di nascere, prima di morire
si sono già detto addio. Si sono rassegnati serenamente, dai tempi
dell'origine ariana, a questa disperata certezza «_Nulla è; tutto
diviene_». L'io ed il non io sono il frutto d'una mera illusione
terrestre. Perchè se così non fosse sarebbe mostruosa, rivoltante la
calma di questa giovane madre che compone tra le braccia del fanciullo
il piccolo elefante d'ebano, il mulino minuscolo, un rotolo di carte:
preghiere forse, o forse quaderni di scolaretto diligente! E tutto
questo fa senza una lacrima, senza che una fibra del suo volto abbia
un sussulto! Certo costei è una bramina compiuta, migliore assai
di quell'altra madre, quella Marayana citata nei sacri testi che si
strappava le chiome, ululando sul cadavere del suo unico figlio. E
i yogi — si racconta — cercavano invano di richiamarla alla verità,
di strapparla al demone dell'illusione. E tanto era lo strazio della
donna che, per il potere d'un fachiro, l'anima ritorna al cadavere già
disteso sul rogo. E la madre si getta sul resuscitato, folle di gioia.
Ma il principe giovinetto s'alza sulla catasta, respinge la donna con
un gemito, si guarda intorno sbigottito, dice: «Chi mi chiama? Chi mi
strazia? Dove sono? Chi ha spezzato in me l'armonia della Ruota? In
quale delle innumerevoli apparenze del mio passato mi ebbi per madre
questa forsennata? Portatela dall'esorcista! Mara, il tentatore, ulula
in lei!». Così parlato il giovine ricade resupino e l'anima s'invola
nell'ineffabile. La madre, la marayana Kritagma, fu quella che andò
penitente fino ad Anuradhapura, nel centro di Ceylon, la Roma buddista,
ed ebbe la grazia somma d'essere illuminata da Gotamo in persona, come
racconta il poeta Kalidasa....



Il vivajo del Buon Dio.


I signori dell'India non sono gl'Indiani. E non sono nemmeno
gl'Inglesi. I signori dell'India sono gli animali. I corvi, anzi
tutto; è l'impressione visiva e auditiva che si ha subito, appena
sbarcati in una delle grandi Capitali: Bombay o Calcutta, Madras, o
Rangoon. Incredibilmente numerosi, più numerosi dei colombi di Venezia,
i corvi brulicano, nereggiano ovunque: nel porto, tra le balle di
cotone e di spezie, nelle belle vie alberate di cocchi, nelle grandi
piazze moderne; si dissetano, si bagnano starnazzando nelle vasche
monumentali, orlano di nerazzurro i capitelli, le cimase, le guglie
della frastagliata architettura gotico-indiana. Se gli avvoltoi sono
i necrofori, i corvi sono gli spazzaturai del vastissimo Impero. E ne
sono anche i ladri, ladri fatti tracotanti dalla tolleranza millenaria,
contro i quali non vi difende nessun _policeman_ volenteroso.

Il viaggiatore, che è innalzato in _lift_ ad una delle linde stanzette
degli immensi _hôtels_ tropicali, resta sbigottito dinanzi agli
avvisi delle pareti: _Guardarsi dai corvi._ — _Abbassare le grate
prima di uscire._ — _Non abbandonare gioielli._ — _Il padrone non
prende responsabilità di sorta_, ecc. — Sembra incredibile, ma ci si
ricrede il giorno stesso. Ecco, sono le quindici, l'ora della siesta
e del torpore. La città immensa è addormentata: nessuno, nemmeno un
indigeno, attraversa la grande piazza, dove il sole avvampa, abbaglia,
trema, facendo fluttuare in uno strano paesaggio subacqueo i tronchi
dei palmizii, il monumento alla Regina Vittoria, le guglie della
Cattedrale. In ogni stanza dell'albergo un europeo sogna la Patria
lontana, resupino sotto il refrigerio dell'immenso ventilatore.
Silenzio. Non s'ode che il ronzìo del congegno e l'altro romore che è
la nota acustica dell'India, alla quale bisogna abituarsi come in certi
paesi al fragore del mare, o dei torrenti: il gracidìo dei corvi: così
monotono, assiduo, che non rompe, ma sottolinea il silenzio; inno alla
putredine, dove prorompe la gamma di tutte le r, dove l'orecchio sembra
discernere tutte le parole non liete: _Ricordati! Ricordati! Morire!
Morte! Morirai!_

— Sì! Lo sappiamo anche troppo, bestie dannate! E intanto si dorma....

Il sonno viene quasi subito, ma quasi subito ci sveglia una strano
romore. E allora, attraverso le ciglia socchiuse, si assiste a questo
curioso spettacolo: un corvo scosta la stuoia pendula della grande
finestra, sosta sul davanzale, esplora la stanza tranquilla, balza
leggiero sul pavimento; un altro ripete il gesto, un altro ancora.
Quattro, cinque messeri saltellano cauti sull'impiantito. Sono corvi
(_corvus splendens?_) più piccoli dei nostri, snelli, nerazzurri, con
una penna bianca nell'ala estrema, così buffi di forme e di movenze!
Saltellano, avanzano in fila, cauti, l'uno proteso in avanti, l'altro
eretto verticale, in vedetta, l'altro claudicando, sbilenco, simili
veramente alle caricature della favola, degni eroi di Esopo e di La
Fontaine. Nelle cucine, nei magazzini, i corvi entrano per ingordigia,
ma in queste stanze linde, odorose di ragia e di bucato, non li attira
che il demone della curiosità, del rischio, del ladroneccio. E i
cinque ladruncoli s'arrestano ammirati, fanno cerchio intorno alle
bretelle pendule da una sedia, tentano coi becchi le fibbie lucenti,
tirano concordi, finchè bretelle e calzoni precipitano e questi
cominciano a pellegrinare sul pavimento, tirati a ritroso da cinque
becchi robusti. Allora scagliate la ciabatta prossima, o il volume che
s'era addormentato con voi, pensando uno starnazzar d'ali ed una fuga
precipitosa; ma i corvi, prima che il proiettile giunga, si salvano
con un balzo, s'innalzano silenziosi verso il soffitto, si posano in
bell'ordine sull'asta somma della zanzariera. Aprite tutte le vetrate,
li invitate ad uscire, li minacciate con l'ombrello — troppo breve! —
ma quelli non si decidono, sanno benissimo che non siete nè un bramino,
nè un buddista, e che, passandovi a tiro, spezzereste loro, senza
rimorso, le ali od il cranio. Allora, disperato, suonate, chiamate il
boy. Il boy sorride indulgente, vi prega di deporre l'ombrello, batte
le palme protese e i cinque appollaiati — riconosciuto l'uomo che non
uccide — attraversano ad uno ad uno la stanza, escono silenziosi.

Tutti gli animali hanno in India una incredibile familiarità con
l'uomo. I passeri, le tortore, gli scoiattoli striati invadono i
cortili e i giardini, scendono a prendere le bricie quasi dalle vostre
mani, pieni di una francescana fiducia: ma nei corvi e nelle scimmie
la famigliarità è fatta di tracotanza insolente, di calcolo ingordo;
certo pensano che Bombay e Calcutta siano state edificate per loro e
che l'uomo sia un bipede intruso, da tollerarsi con palese rancore.
E l'uomo, a sua volta, tollera i corvi delle immense capitali; essi
mondano le vie da ogni sozzura prima che questa si decomponga nel sole
ardente, lacerando, inghiottendo tutto, anche la carta fracida, i cenci
logori, i frantumi di vetro. Dopo qualche giorno diventano simpatici:
offrono all'osservatore scene impagabili, strani motivi di psicologia
animalesca. Certo nessun uccello è più scaltro; basta osservarne
l'atteggiamento vario di fronte alle varie persone. Verso sera, quando
il thè delle cinque anima di veli e di sete, di occhi azzurri e di
capelli biondi ogni giardino pubblico e privato, ogni veranda d'_hôtel_
e di _bungalow_, le falangi nere scendono da ogni parte, con un
gracidìo querulo e sommesso, quale si conviene ad accattoni questuanti.
Accerchiano i tavolini svolazzando, saltellando, tutti col becco
proteso, abbastanza lontani per sfuggire alla mano, abbastanza vicini
per ghermire a volo il biscotto o la buccia di banana. E intuiscono
la buona o la mala accoglienza, non s'accostano dove ci sono uomini,
mazze, ombrelli, prediligono i tavolini delle signore e dei bimbi.

Con gli indigeni tengono tutt'altro contegno, non sono accattoni, ma
despoti; nelle _native-towns_ che si estendono dopo le città europee,
fanno vita quasi comune con l'uomo, entrano nelle case, noncuranti
di qualche minaccia impaziente, ben certi del patto millenario: «non
essere uccisi». Adorabili scenette dei sobborghi indigeni! Una bimba
— un idoletto di bronzo ignudo, di non forse tre anni — esce da una
bottega stringendo una coppa di riso bollito, corre verso la madre
che l'attende sulla soglia della casa opposta. A mezza via venti corvi
le sono sopra; punto impaurita dalla cerchia delle ali turbinose, la
piccola si piega col petto sulla coppa, si piega chinandosi fino a
terra, alzando nel sole, contro l'ingordigia dei nemici, una parte che
non è precisamente la faccia. E la madre sopraggiunge, libera la bimba,
disperde gli assalitori, non senza aver dato in offa una manciata di
riso. Entrambe rientrano in casa, sorridendo tranquille, come allo
scherno consueto di buoni amici. Altre volte la vittima non è un bimbo,
ma una scimmia. I corvi turbinano in alto, spiando un gruppo di scimmie
che ha rubato una noce di cocco sul mercato vicino; seguono quella più
prepotente che l'ha tolta alle altre, e quando la ladra è riuscita a
spezzarne il frutto legnoso, nell'istante in cui sta per portare alla
bocca il gariglio candido, i corvi piombano su di lei, le strappano il
tesoro, la lasciano ringhiosa, a mani vuole, tra lo schiamazzare delle
compagne.

Le scimmie contendono ai corvi il dominio delle città indiane, ma non
infestano come quelli i quartieri europei, vivono nei sobborghi, nelle
città nere, nei templi ruinati. E dai coloni sono più detestate dei
corvi. Una frotta quadrumane può in una notte scoperchiare una villa,
togliendo, per gioco, tutte le tegole, passandole da mano a mano,
andandole ad accumulare in fondo ad un sotterraneo o sulla sommità di
un colle, a qualche chilometro di distanza; altre volte saccheggiano
un giardino, lo spogliano di tutto: frutti acerbi, fiori, foglie, per
solo malvagio istinto di distruzione. E sono le tiranne dei mercati,
dove i fruttivendoli si rassegnano per esse ad una decima gravosa.
Intorno alle grandi piramidi di banane, di manghi, di mangustani, di
catie, s'aggirano le scimmie polverose, pronte ad allungare la mano,
noncuranti della sferzata inflitta dal ragazzetto custode. A sera tutte
le lunghe vie dei sobborghi hanno le grondaje ornate di code pendule;
ma se passa un europeo, un'automobile, una cosa nuova qualunque, le
code scompaiono, fanno luogo ad altrettanti musi protesi verso la via,
con la bocca digrignante in uno spasimo di curiosità. È infinita la
varietà di creature tollerate o protette o venerate in questo vivaio
del Buon Dio. Sulle vetrate degli alberghi, anche eleganti, corrono
certe lucertole gibbose, ruvide, dalle zampe a ventosa, aderenti
al vetro e che l'albergatore vi prega di non molestare. I passeri
bengalini, rossi spruzzolati di bianco argento, invadono a centinaia
le verande e le sale, vengono a beccare le bricie sotto i tavoli del
thè; le manguste, simili a faine fulve, passano guardinghe lungo i
corridoi, vigilando — per un dono strano di immunità — le vite umane
dall'ospite terribilissimo: la _naja tripudians_: il cobra dagli
occhiali. Ed ecco le creature enormi, le più simpatiche di tutte: gli
elefanti. Completano il paesaggio indiano, hanno una laboriosità,
una bontà che commuove, una intelligenza che confonde. Elefanti di
lusso, destinati a cortei nuziali o religiosi, tatuati a colori come
vecchi cuoi di Cordova, gualdrappati di velluti, di sete pesanti, con
non altro di libero che le zanne, la proboscide, le orecchie zebrate:
elefanti da lavoro, più intelligenti ancora, vecchissimi alcuni: dalla
pelle rugosa, logora, troppo abbondante per la mole dimagrita dalle
fatiche d'un secolo e più, elefanti che hanno visto tre generazioni
d'uomini e che lavorano oggi per le case degli usurpatori biondi.
S'incontrano per le strade di campagna, a coppie, non accompagnati
da nessun _cornac_, percorrono da soli, a piccolo trotto, dieci,
quindici chilometri di strada ben conosciuta, trasportando sul dorso
o tra le zanne e la proboscide tronchi colossali, colonne, cubi di
granito; li depongono a destinazione, rifanno di corsa il lungo cammino
per ricevere un altro carico. Il loro passo s'annunzia di lontano
con un rombo sordo; se incontrano un europeo retrocedono, scendono
ai lati della strada, lasciando libero il passo; e protendono — se
l'hanno libera — la proboscide, con gesto di preghiera. Se ricevono
una monetina — un'_anna_, mezz'_anna_ — sostano alla prima bottega
campestre, la depongono per avere in cambio dall'indù una focaccia
di riso muffita o un casco di banane fracide. La loro intelligenza è
inaudita, imbarazzante: nell'occhio microscopico, quasi perduto nella
mole della testa, s'alterna un bagliore indefinibile di scaltrezza
derisoria e di bontà indulgente. Sono certo che comprendono ciò che
dico, che intuiscono ciò che penso; e non so come dimostrare loro la
mia fraterna simpatia: le mie mani giungono appena ad accarezzare la
proboscide ruvida come un tronco, l'estremità delle orecchie logore,
strappate come vecchie gualdrappe di cuoio.

E altre creature vi sono, ripugnanti e malefiche: e le più malefiche
sono le più venerate. Il cobra, simbolizzato dalla teogonia bramina,
divinizzato in marmo e in metallo in tutti i templi, è salutato con
uno speciale rituale di riverenza e di scongiuro dal contadino indù che
l'incontra attraverso un sentiero di campagna.

Ogni tempio ha negli stagni liminari legioni di testuggini e di
coccodrilli decrepiti e venerati. Il pasto dei coccodrilli sacri è
una delle grandi curiosità offerte al forestiero e che si ripete con
rituale identico nei templi di Giaissur, di Ambex, di Tuadura. Un
custode scende alle ultime scalee, seguito da un servo che reca un
cesto di carne putrida; batte con un crescendo fragoroso un disco
di rame, ed ecco sollevarsi pigramente le grandi foglie di ninfea e
di nelumbo, ceco apparire tra i calici rossi dei nenufari i mostri
spaventosi, simili a carcasse di vecchio metallo corazzato e borchiato,
dai denti gialli, radi, aguzzi, oltrepassanti qua e là le mascelle
formidabili. S'avanzano pigri, fanno cerchio dall'acqua intorno al
custode, il quale lancia brani di carne legata ad una corda, perchè non
venga ghermita a volo dai nibbi turbinanti intorno, attirati dal fetore
nauseabondo.

L'Inghilterra che tollera tutto, tollera anche questo. Tollera anche
l'_Ospedale degli animali_, in Bombay, che è il non _plus ultra_ del
genere, l'esponente massimo di questa filosofia bramina, così opposta
alla nostra, educata al cristianesimo il quale riduce ogni divinità
all'uomo soltanto e fa di tutto ciò che vive sulla terra una materia
sorda, condannata senza speranza.

L'ospedale degli animali — un recinto-parco che costa centinaia di
migliaia di rupie — accoglie tutti gli animali ammalati perchè possano
guarirvi o morirvi in pace. Lo spettacolo (e il fetore!) è tale che
l'europeo non s'indugia a lungo; falangi di bestie da soma: ronzini di
piazza, bufali, zebù ischeletriti o idropici, sciancati, anchilosati,
coperti d'ulceri e di piaghe, scimmie, cani, gatti ciechi, monchi,
senza pelo: una parodia lacrimevole dell'Arca salvatrice. La nostra
pietà occidentale insorge, domanda sdegnata perchè non si dà a quelle
povere bestie il colpo di grazia, addormentandole con una doppia dose
di cloroformio.

— Perchè non si ha il diritto di spezzare una vita, qualunque essa sia.

— Ma vivere a che?

— Per soffrire.

— E soffrire a che?

— Per divenire, per accrescersi, per allontanarsi sempre più dalla
materia attraverso il peso della materia, per spegnere, nella ruota
d'infinite incarnazioni, il desiderio di esistere: questo peccato che
ci condanna a ritornare in vita.

E se fosse vero? Se veramente noi non fossimo il Re dell'Universo come
la nostra religione ci promette? Se veramente il verme, il cane, l'uomo
non fossero che graduazioni varie dello spirito, della stessa forza
immanente che palpita ovunque, esitando incerta verso una mèta che
ignoriamo e che non è forse se non la pace dell'Increato?

Retorica elementare, fatta odiosa da tutti i trattatelli teosofici, ma
che, esposta con brevi parole da questo guardiano dal volto ascetico
come un San Francesco di bronzo, non ci può far sorridere come il
nostro orgoglio occidentale vorrebbe.


  FINE.



INDICE


  Le grotte delle Trimurti                           Pag.   1
  Le Torri del Silenzio                                    21
  Goa: “la dourada„                                        39
  Un Natale a Ceylon                                       63
  Da Ceylon a Madura                                       79
  La danza d'una _devadasis_                               99
  Le caste infrangibili                                   119
  I tesori di Golconda                                    133
  L'Impero dei Gran Mogol                                 149
  Agra: l'immacolata                                      171
  Fachiri e ciurmadori                                    185
  Giaipur: città della favola                             197
  L'olocausto di Cawnepore                                215
  Il fiume dei roghi                                      231
  Il vivajo del Buon Dio                                  249



DEL MEDESIMO AUTORE:

  _I colloqui_, liriche. In-8, copertina disegnata da
    LEONARDO BISTOLFI      L. 4 —



PREZZO DEL PRESENTE VOLUME: =Quattro Lire.=


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    d'Aosta=. Sontuoso volume in-4, di 380 pagine di testo e 253
    pagine di incisioni, in carta di gran lusso, col ritratto della
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  _Nel Marocco, Ricordi personali di vita intima_, di =Lena=
    (MADDALENA CISOTTI FERRARA). Un volume in-16, con 15 incisioni
    fuori testo e il ritratto dell'autrice. L. 4 —

  _Il passaggio Nord-Ovest: il mio viaggio al Polo sulla «Gjöa»_, di
    =Roald Amundsen= (1903-05). Un volume in-8, di 640 pagine, con
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  _La scoperta del Polo Nord_, del contramm. =Roberto Peary=
    (1909). Un volume in-8, di circa 400 pagine, in carta distinta,
    illustrato da oltre 100 incisioni, da 8 tavole a colori e da una
    grande carta. L. 15 —

  _Verso il Polo Sud_, del Cap. =S. A. Duse=. Memorie della
    spedizione antartica diretta dal professor O. Nordenskjöld
    (1901-1903). Tn volume in-8, con 148 incisioni e carte
    geografiche. L. 5 —

  _Alla conquista del Polo Sud. Il cuore dell'Antartico_, del
    luogotenente =E. H. Shackleton= (1907-09). Due volumi in-8
    grande, di 914 pagine, con oltre 300 incisioni, 12 tavole a
    colori, e una grande carta che segna la presente e le passate
    spedizioni al Polo Antartico. L. 30 —

  _La conquista del Polo Sud._ La spedizione norvegese del _Fram_
    verso il Polo Australe (1910-12), di =Roald Amundsen=. Due
    volumi in-8, con 8 tavole a colori, 67 tavole in nero, 115
    incisioni intercalate nel testo e 4 carte geografiche a colori.
    L. 25 —

  _L'ultima spedizione del Capitano Scott._ Diario del Capitano
    Scott con i rilievi scientifici del dottor E. A. WILSON, e dei
    superstiti della spedizione, e prefazione di sir CLEMENTS R.
    MARKHAM. Due volumi in-8, di complessive 730 pagine, illustrati
    da 90 tavole fuori testo e una carta geografica a colori. L.
    15 —

  _Dalla Persia all'India attraverso il Seistan e il Belucistan_,
    del dottor =Sven Hedin=. Due volumi in-8, di 960 pagine, con 285
    incisioni. 6 tavole colorate, 2 carte geografiche, e il ritratto
    dell'autore (1911). L. 25 —

  _Trans-Himalaja. Scoperte ed avventure nel Tibet_, del dottor =Sven
    Hedin=. Due volumi in-8, di complessive 1010 pagine, con 397
    incisioni, 2 panorami, 8 tavole a colori e 10 carte (1910). L.
    25 —

_Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves Editori, in Milano._



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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