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Title: La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I - Conferenze fiorentine - Storia Author: Various Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I - Conferenze fiorentine - Storia" *** (This file was produced from images generously made LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO (1815-1831) I. STORIA. _Invece di Prefazione_ GUIDO BIAGI. La genesi storica dell'unità italiana. ISIDORO DEL LUNGO. La Lombardia alla caduta del Regno Italico. GEROLAMO ROVETTA. Il Congresso di Vienna. ERNESTO MASI. Sui moti di Napoli del 1820. FRANCESCO S. NITTI. Politica e bel mondo (Cronache fiorentine). GUIDO BIAGI. FIRENZE R. BEMPORAD & FIGLIO CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI 7, Via del Proconsolo 1897. PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATI TUTTI I DIRITTI. _Gli editori_ R. BEMPORAD & FIGLIO _dichiarano contraffatte tutte le copie non munite della seguente firma_: [Illustrazione: firma manoscritta] Firenze, 1897. Tip. Cooperativa, Via Pietrapiana, 46. _Invece di Prefazione._ Queste Letture Fiorentine su _la Vita italiana_ nei vari secoli, iniziate ott'anni sono, a cura d'una Società di gentiluomini[1], hanno fin qui ottenuto una grande e non immeritata fortuna. Per sei anni consecutivi ebbero la signorile ospitalità d'uno di quei nostri palazzi, in cui la gentilezza e il buon gusto son domestica gloria, e presero nome di «Conferenze del Palazzo Ginori»; poi quando il cresciuto favore crebbe altresì il numero delle ascoltatrici e degli uditori devoti, convenne alla Società mutar sede. E la fortuna le fu novamente propizia nell'ottenere ospitalità in un altro palazzo, quasi di fronte a quello Ginori, in una sala già famosa per antiche letterarie adunanze, adornata dal pennello di un geniale pittore. Il _Palazzo Riccardi_ e la _Sala di Luca Giordano_, offerta con premurosa cortesia dalla Deputazione Provinciale, sempre amica agli studii, videro crescer nell'inverno e nella primavera del 1896 e del 1897 il numero dei fedeli a queste letture, per le due ultime serie, quella sulla vita italiana _durante la Rivoluzione francese e l'Impero_, e l'altra che or vede la luce sui primi quindici anni del _Risorgimento italiano_. Soggetti attraentissimi, trattati con l'usata maestria da' lettori più noti e pregiati, ormai familiari al nostro uditorio, e ai quali si aggiunsero nuovi e valorosi oratori anche per riempire i vuoti che nell'eletta schiera ha pur troppo fatto la morte, togliendoci due cari e indimenticabili amici: Enrico Nencioni e Diego Martelli. E di questi l'opera e l'ingegno commemorava con caldezza d'affetto e felice eloquenza, Enrico Panzacchi preludendo al corso di quest'anno con la conferenza sul _Romanticismo_ che sarà pubblicata nel terzo volume. Il periodo assegnato alle ultime conferenze che toccano di eventi a noi più vicini, è senza dubbio il più curioso e importante; anche perchè questa recentissima storia, che abbiam visto quasi svolgersi sotto gli occhi nostri, è ne' suoi particolari, nelle sue ragioni politiche, ne' suoi documenti men nota. La _Società di pubbliche letture_, cui da prima convenne affrettarsi nel suo cammino per non indugiarsi ne' secoli più tetri della vita italiana, poi che vide di aver in gran parte colorito il vagheggiato disegno, pensò di svolgere con maggiore larghezza questo periodo del _Risorgimento_ dividendolo nei suoi momenti storici principali, di cui piantò i contrassegni Giosuè Carducci; negli anni di contrasto, di confusione, di aspettazione che arrivano fino al 1830, e in quelli di ravviamento, di svolgimento, di risolvimento che vanno dal 1831 al 1870. Anche le piacque tentare un'altra novità, e chiamare letterati stranieri che avessero a parlare di certi argomenti una particolare competenza, procurando così quello scambio di opinioni e di idee che giova nella storia a serbare la serenità dei giudizi, affinchè l'opera, che esce da queste conferenze, viva e feconda, e si perpetua nel libro letto e cercato nei salotti, nelle scuole, da' giovani, dalle gentildonne, in Italia e fuori, non sia panegirico di vuota rettorica, ma offra de' tempi, de' casi, degli uomini, un quadro animato e veritiero. Perchè il segreto del favore onde le _Conferenze fiorentine_ sono accolte, quando si pubblicano per le stampe, e quello dell'efficacia che ormai hanno e possono avere sulla cultura nazionale, in due cose consiste: nel nesso ideale che le congiunge, e nell'aver reso piacevole la storia, invitando a trattarne quanti sanno renderne più facile l'intelligenza, e più attraente la narrazione. Ricordo un desiderio del Giusti: quello d'esser delle più difficili questioni addottrinato da persone competenti, che le cose più astruse spiegassero senza sussiego, con quella semplicità onde si discorre tra amici a fin di tavola. Allora, quando il Giusti scriveva, le «conferenze» non erano state inventate, per soddisfare appunto cotesto desiderio d'imparare senza fatica e senza perdita di tempo. Imparare? E perchè no, se gli uomini più illustri non disdegnano, anzi ricercano, di farsi ascoltare dalle uditrici della Sala di _Luca Giordano_, e se gl'_immortels_ dell'_Académie Française_ tengono ad onore sedere su quella poltrona di damasco rosso, che ha ormai sentito il peso di tutta la scienza e la letteratura italiana? La _Società di letture_, fatta certa del favore onde fu accolto il suo disegno, non pensa di disertare il campo, fra tre o quattr'anni, quando il programma della prima serie sulla _Vita Italiana_ sembri compiuto. Essa si propone di continuare nel suo assunto, poichè il pensiero che lo inspirava ha superato una difficile prova: quella di pigliar la forma d'un libro che si fa leggere. GUIDO BIAGI. LA GENESI STORICA DELL'UNITÀ ITALIANA CONFERENZA DI ISIDORO DEL LUNGO. I. _Altezze Reali_[2], _Signore_, _Signori_. Sul cader dell'autunno del 1852, un italiano ritirato a Parigi moriva nottetempo, solo, in un modesto quartierino da studente. Era il triste decennio che successe alla caduta delle speranze italiane; e sei anni ancora dovevano passare, sei anni d'indecoroso servaggio, di aspirazioni mal represse, di angosciose trepidazioni, prima che i patimenti della patria nostra si accogliessero, da regione a regione, in quel grido di dolore che sulle labbra del Primogenito di Carlo Alberto fu squillo di guerra, della guerra trionfale per la giustizia e per la libertà. Sopra il letto di quel glorioso solitario, da ambasciatore del suo Piemonte fattosi esule e restituitosi banditore dei nazionali destini, due libri si trovarono aperti, i due ultimi a cui fossero consacrate le veglie di quella gran mente: i _Promessi Sposi_, l'_Imitazione di Cristo_. Il filosofo che le ragioni del diritto italico congiungeva con le funzioni provvidenziali dei popoli nella cristiana civiltà; lo scrittore che nella parola italica cercava il suggello indelebile della nazione; ebbe da que' due libri immortali le visioni alla mente, le ispirazioni al cuore, supreme; ebbe l'affidamento delle magnanime speranze per la patria terrena, delle speranze cristiane nella divina finalità. Su quella «deserta coltrice» scendevano dall'alto alla morte di Vincenzo Gioberti consolazioni degne. La vita di quell'uomo fu tutta una contemplazione in ispirito, e un apostolato in azione, della potenziale e attuale grandezza della patria italiana. Di vocazione sacerdote e filosofo; per abito d'ingegno e vigoria di spiriti, divulgatore d'idee; integratore e innovatore negli ordini morali e civili, con larga e razionale comprensione storica dai loro ideali principii all'auspicato avvenire; il Gioberti segna nella storia del pensiero italiano il compiuto svegliarsi della coscienza nazionale, che, dal Parini evocata, si era con l'Alfieri, quasi sobbalzando, riscossa. E come questo riscuotersi fu violento e convulso, così quello svegliamento veniva a diffondersi in una specie di estasi, i cui fantasmi, le idealità del _Primato_, erano sovrapposizioni luminose a quel «vero» che, secondo il concetto dantesco, si sogna «presso al mattino.» Ma il mattino era l'età nuova d'Italia; e il vero, la realtà destinata, di quei sogni augurali era il _rinnovamento civile_ d'Italia, sotto l'egemonia politica del Piemonte guerriero e dinastico, e ne' santi auspicii dell'unità della Patria. Il Gioberti, che aveva veduto svanirsi dinanzi agli occhi, nel vorticoso turbine delle contingenze mondane, le splendide fantasie del Primato, non sopravvisse alla profezia di quel Rinnovamento, del quale designò, con la lucidità d'un veggente biblico, in Vittorio Emanuele e in Cammillo Cavour gli eroici iniziatori. Ma il nome di lui è con que' due nomi indissolubilmente congiunto; mentre poi, nella storia dei nostri fatti e del nostro pensiero, egli è quello che, mediante il largo avvolgimento delle sue sintesi, conserta i tempi nuovi dell'Italia che tra il 1815 e il 1870 ha compiuta la sua laboriosa evoluzione, con le età precedenti, durante le quali l'evo barbarico e medio, i Comuni e le libertà, i Principati e le domestiche o straniere servitù, contengono di quella Italia e trattengono i germi. Che se verso quel fortunoso passato un altro nobilissimo e vigoroso pensatore subalpino, Cesare Balbo, spinse più addentro, con pazienti e sagaci analisi, l'acume della ricerca storica, e si studiò di rannodare le memorie d'Italia con le speranze, il termine ultimo a cui queste per impulsione provvidenziale si spingevano; fu tuttavia il Gioberti che di grado in grado lo attinse, e lo determinò, e lo additò con sicuro intuito alla generazione che sorgeva quand'egli, adempiuti in breve spazio gli uffici di una lunga vita, scendeva nel sepolcro. Tale testimonianza è doveroso rendergli oggi noi, che posseditori di fatto della unità della patria, ci accorgiamo aver già bisogno di ravvivarne le generose idealità, e che i giovani abbiano presente da quali vicende preparata e disposta, a quale susseguita irrequieto alternarsi di condizioni di fatto deficienti d'un diritto supremo e reale, da quali contrasti emersa, l'unità di nazione abbia finalmente coronata di legittima corona la storia d'Italia. Fra le letture di quest'anno sul Risorgimento italiano, non Vi dispaccia che una, ed è questa mia, rimonti pe' tempi, e rannodi e rattesti con l'antica storia della patria italiana l'ordine nuovo di cose, che ha trasformate le relazioni nostre con le altre nazioni, integrando il diritto, iniquamente impeditoci, d'essere una di esse. La genesi storica dell'unità italiana, che io mi studierò di tracciar sommariamente nella breve ora concessami, dimostra che l'unità nella quale l'Italia oggi si afferma ed è, non ce l'hanno data gl'impeti della rivoluzione, nè i maneggi delle sètte, nè le espansioni d'un'ambizione dinastica; ma che ad essa per lento e involuto procedimento hanno dovuto far capo, col non fermarsi mai in nessun'altra forma organica e sospinti sempre dalla coscienza del pensiero italiano, gli elementi costitutivi della nostra nazionalità. Il tema, come vedete, esce alquanto, da capo e da piedi, fuor de' limiti cronologici delle Conferenze di quest'anno, proponendomi io, fra la _Vita italiana_ dei passati secoli e il _Risorgimento italiano_, dal quale avrà nella storia titolo d'onore il secolo nostro, disegnarvi come una linea di congiunzione, i cui estremi risalgono e discendono, fuori di quei confini, necessariamente. A ogni modo, se riuscirò a cattivarmi, come altre volte, la vostra attenzione benevola, meglio avere sconfinato non dispiacendovi, che se vi avessi, dentro i confini dal 15 al 31, fatta parer lunga o vuota quest'ora del 97 che mi fate l'onore di passare con me. II. La tesi della tradizione unitaria (com'è stata chiamata in lodati studi di questi ultimi decennii), della tradizione unitaria nella storia d'Italia, è una di quelle che richiedono, ad essere tenute ne' loro veri termini, la maggiore indipendenza di spirito da ogni, sia pur generoso, preconcetto ideale, come la maggior cautela contro o le gretterie d'una critica troppo materiale e letterale ai fatti, o le negazioni passionate e partigiane. Che innanzi al decennio dal 1861 al 1870 la unità non soltanto politica, ma anche la storica, o etica che voglia dirsi, sia mancata, la prima sempre, la seconda quasi sempre, nella vita reale ed effettiva di quella che per l'idioma è pur da dieci secoli la nazione italiana, apparisce innegabile. Che, d'altro lato, la figura della unità nazionale abbia balenato; sia dai fatti, nel loro atteggiarsi e connettersi; sia in idea, o a menti elette di pensatori, o alla ispirata fantasia di poeti, o al sentimento magnanimo di cittadini operanti; si comprova positivamente senza sussidio di interpretazioni. Ma accettata l'una cosa e l'altra, rimane a vedersi come questo disgregato procedimento di quasi altrettante storie; quante le regioni che il dialetto e la geografia fisica ha differenziate, e quante altresì le energie di Comune vivacissime e contrastanti nel seno stesso di ciascuna regione; abbia, questo procedimento, pur fatto capo all'unità: e non per violenze di conquista, nè per isforzamento settario contro la volontà e l'acquiescenza dei più, ma vi abbia fatto capo siccome ad una suprema necessità di diritto e di fatto, ed inoltre siccome ad una giustizia dinanzi alla quale debba inchinarsi chi voglia conservar fede in una Provvidenza che prepara e indirizza a destinati termini le cose umane. III. Conquistata, più faticosamente che tutto il resto del mondo, dalla predestinata fra le città sue ad essere, di civiltà in civiltà, l'urbe mondiale; l'Italia, che da questa sua figlia superba, Roma, non aveva potuto avere una unità latina, vi si trovò (strano a dirsi) più prossima, dopo che il giardino peninsulare, dalle valli gallo-padane alla costiera greco-italica, venne a mano dei Barbari, che vi eseguivano ferocemente le vendette della umanità conculcata. Da Teodorico a Carlo Magno, la storia di cotesti Barbari, che con Odoacre avean rovesciato il simulacro d'Impero rimasto a Roma disfatta, è pure, ciò che non era mai stata la storia dell'Impero, una storia d'Italia; e la gesta Gotica, e la rivendicazione Bizantina, e il poderoso regno Longobardico, hanno sempre per obietto e subietto, sia regno, sia esarcato, siano ducati in vincolo di regia signoria, hanno, dico, per loro base, uno stato e dominio italiano. È quindi fatalmente logico, che col restaurarsi dell'Impero d'Occidente, tale condizione di cose, nata dalle rovine di quello, si muti: sotto il quale rispetto, la caduta dei Longobardi, quando anche si giungesse a provare che le loro relazioni con le plebi latine furono assolutamente di tiranni verso schiavi, riman tuttavia la caduta d'una forza, assimilatrice, fosse pur violenta, di elementi italiani a costituire nazione italiana. Catastrofe degna, invero, che il più grande Poeta nostro di questa età ripensatrice del passato, il Manzoni, vi abbia esercitate sopra le mirabili facoltà dell'acume suo critico, per circondarla poi di tanta pietà, quanta emana dalla virtù guerriera di Adelchi, dalle cocenti lacrime del vecchio re tradito e consegnato, dalla perdonatrice agonia della ripudiata Ermengarda. Carlo Magno restaura nominalmente l'Impero, e instaura effettivamente il Papato politico: e condanna l'Italia a neanche pensare l'unità sua di nazione: subordinare il concetto della libertà ai diritti supremi di cotesto Impero ideale; di cui addiviene «il giardino», ma non la casa; e la propria indipendenza tollerare mescolata alle vicende di esso e alle relazioni di esso coi Pontefici, diventati per donazione, questa volta non fittizia pur troppo (sebbene mal definita e sin da principio litigiosa), sovrani in Italia, senza ch'e' possano mai, perchè obbligati al loro universal magistero affermarsi ed operare da sovrani italiani. E da Carlo Magno, attraverso a quella sua fantasmagoria di Regno Italico associato alla dignità Imperiale, e poi per gli Ottoni, gli Svevi, gli Asburgo, i Lussemburgo, gli Austriaci, sino a Carlo V, l'Impero e il Papato politico sovrastanno alla vita italiana di ben sette secoli; lungo i quali la evoluzione del Comune, feconda di operosità sociale, splendida di rinnovata civiltà, si compie energicamente, e si dissolve nei Principati, senza che nessuna delle maggiori Repubbliche, nessuna di quelle ambizioni comitali o durali, nessuna di quelle avventure di regia conquista dopo che sul cadere del secolo XV l'Alpe è dischiusa novamente alle armi straniere, raccolga intorno a sè in un concetto o in un proposito, foss'anche solamente d'una lega nazionale, l'Italia. Vengono sì a questa Italia i Cesari tedeschi a cingervi la corona di Roma: ma una corona storica: poichè l'«alma Roma» è diventata in realtà «il loco santo» dove il Papa incoronatore pontefica e, non senza contrasti anche sanguinosi, signoreggia e regna: e Cesare e Papa, sovrani e signorie regionali comunali, ciascuno procacciante per sè, sono, rispetto all'italianità della penisola, altrettante forze negative, il cui positivo resultato è che una Italia non sia. Non sia: mentre fra i contrasti di coteste forze, nell'esercizio delle quali è trasferita e dispersa la legittima virtù dell'esser suo di nazione, tuttavia si contesse l'istoria d'Italia: atteggiandosi spesso il Papato politico a propugnatore di diritti italici, e talvolta l'Impero accennando a voler essere, non una nominalità, bensì una cosa, italiana: ma in effetto ambedue le istituzioni subordinando ciascuna all'immanente interesse proprio queste mutabili contingenze della loro politica. Così nella rivendicazione che le città della gloriosa Lega lombarda fanno dei loro diritti contro l'Impero ferocemente invasore, Alessandro III benedice le loro armi contro il comune nemico: ma appena riconciliato col Barbarossa, abbandona i vincitori di Legnano, che la pace di Costanza restituirà fedeli al Cesare inutilmente vinto. Così Innocenzo III seconderà l'impresa italica di Ottone IV, favorirà altresì fino ad un certo segno le libertà dei Comuni; ma l'una cosa e l'altra sottoponendo a quel preconcetto di teocrazia, che iniziato vigorosamente dall'austero e virtuoso Gregorio VII, non sarà da Innocenzo sospinto alla massima altezza, che per finire, non ancor passati cent'anni, nelle mondane macchinazioni di Bonifazio VIII tanto ignobilmente, quanta è la distanza morale che disgiunge il trionfo di Canossa dallo sfregio d'Anagni. Che se guardiamo agli imperatori, e propriamente ai tre che soli, forse, ebbero ed accettarono dai fatti occasione ed impulso a favorire in Italia un assetto politico nazionale, Ottone IV, Federigo II, Arrigo VII, l'opera loro, ove ben si consideri, non assunse mai il carattere d'una obiettiva costituzione delle cose italiane, qualunque dovesse poi o potesse essere la forma del reggimento; ma fu piuttosto un destreggiarsi tra la fazione loro imperiale e quella chiesastica, con intenzioni più o men generose verso la libertà popolare. Le quali buone intenzioni certo non mancarono nemmeno ad alcuni Pontefici; però fatalmente negli uni e negli altri, pontefici o imperatori, vincolate a ciò: che quel doppio diritto pontificio e cesareo si sovrapponesse al fatto, di per sè non giuridico, dell'esserci questa Italia, le cui cittadinanze, mal compaginate di elementi latini e barbarici, travagliate fra impossenti grandigie feudalesche e irrequiete democrazie, gran mercè se avessero balìa d'insanguinare con le loro discordie le bandiere, neanch'esse italiane, anzi mancipate esse pure o all'Impero o alla Chiesa, le bandiere malaugurate di Ghibellino e di Guelfo. Quando poi dai Comuni, pel gradino delle Signorie, si ascese ai Principati, l'una e l'altra delle due grandi Potestà politiche preoccupanti le funzioni vitali dell'organismo italiano, si trovarono a molto miglior agio per maneggiare e patteggiare le respettive ambizioni. E d'allora in poi l'Impero tradizionale si straniò sempre più dall'Italia, ma sanzionando e convalidando i Principati che a ventura se la spartivano, ed esso rimanendo come quasi un padrone locatore di questa sua ideale proprietà. Nei Pontefici poi fermentarono sempre più acremente i maligni umori, pei quali sullo spirituale prevalse il politico o, a dirlo con appropriata parola, la mondanità: la mondanità che rinnegava il santo vangelo di Cristo — non essere di questo mondo il suo regno —; la mondanità, che cooperò all'annullamento di quel grande moto di civiltà cristiana, che vollero, e avrebber potuto, essere le Crociate; la mondanità, che dopo aver cagionato Avignone e lo scisma d'Occidente, segnò il ritorno della sede pontificia al legittimo centro della cattolica civiltà. Roma, lo segnò e lo disonorò con le spedizioni di sanguinarii Legati per tutta Roma-magna: in quella Romagna dove un secolo appresso il duca Valentino avrebbe, condegnamente al padre suo papa Borgia, menata la infausta gesta del poter temporale, e Giulio II avrebbe sfruttato, a solo benefizio di questo malaugurato potere, il nobilissimo sentimento della nazionale indipendenza. Infausto il poter temporale, alla Chiesa, poichè assorbiva in una signoria del tutto secolaresca le aspirazioni teocratiche, che, se non evangeliche, erano state almeno sacerdotali: infausto all'Italia, nella quale cotesto fatto suggellava la impossibilità di essere nazione una ed intera; pregiudicandosene poi immensamente la religione, in quanto si mescolavano le cose dello spirito e gl'interessi materiali, con scandalo delle anime pie e dei più nobili intelletti. E lo scandalo addivenne presto una irreparabile calamità della Chiesa, quando nello splendido pontificato mediceo di Leone X dilagata la corruzione, se ne rompeva con la Protesta nordica l'unità religiosa, che lo Scisma orientale aveva già lacerata. E intanto la barbarie Musulmana, invano deprecata dall'ultimo e quasi postumo Papa Crociato, il buono e magnanimo Pio II, si era insediata minacciosa di qua dal Bosforo, calpestando le ultime realtà dell'Impero latino e cristiano: la barbarie Musulmana: questa sozza, che troppo lungamente si è poi alimentata di sangue cristiano.... e di egoismo europeo. Fra la Protesta di Lutero e a pochi anni di distanza l'Assedio di Firenze: fra il papato di Leone e l'altro quasi immediato papato mediceo di Clemente VII, alle cui mani le orde imperiali rinnovano col Sacco di Roma le geste dei Goti e dei Vandali; patiscono gli estremi danni, degnamente congiunte, le due divine animatrici di tanta italiana grandezza nell'età dei Comuni, la fede e la libertà. Il rogo del Savonarola, che ha sperato di salvarle insieme, illumina sinistramente la loro rovina, e investe di sanguigni riflessi la corona dei Cesari che papa Clemente pone sul capo di Carlo V, il gran bargello d'Europa; corona consacrata da mani fatte a ciò degne pel consumato matricidio fiorentino! Oggi cotesti due pontefici, Leone e Clemente, riposano l'uno dirimpetto all'altro nella Minerva di Roma: ma l'urna che in mezzo ai due monumenti superbi custodisce alla pia ombra dell'altare le ossa verginali di Caterina senese, l'eroina dell'amore e della carità, che ben altro sperò alla fede di Cristo riconducendone da Avignone a Roma i vicarii, cotesta urna in mezzo a quelle due statue, inchiude la più acerba condanna che, in nome di tuttociò che è santo, possa aggravarsi sul papato mondano e politico. Con la caduta della libertà d'Italia, e la consegna di lei schiava e mutilata nelle mani dei non aventi, dinanzi all'eterna giustizia, alcun diritto su lei, la storia de' suoi Popoli cessa per non essere più che la storia de' suoi Stati. E possiamo dire de' suoi Principi: e principi stranieri più o meno, o portati o retti dallo straniero: senza che facciamo grande torto al poco, e non bene, sopravvissuto di Stati repubblicani: sol che si rilevino (oltre quella, tutta a sè, dello Stato Ecclesiastico) due eccezioni gloriose: — una grande Repubblica, Venezia, cui l'intendimento all'Oriente alienò, ne' secoli suoi vigorosi, da qualsiasi egemonia italica; e che, rinchiusa nel suo aristocratico pomerio, fu distrutta di lenta decrepitezza anche prima che d'un colpo a tradimento finita; — e un Ducato alpigiano, domestico retaggio di valorosi, che bilanciate alcun poco le proprie aspirazioni fra il di là e il di qua de' suoi monti, si affermava risolutamente italiano, quando appunto addosso all'Italia si aggravò la servitù: e sulla fronte di quei Duchi la corona di Re era predestinata a divenire la corona popolare d'Italia. Ma prima che ciò fosse, doveva l'Italia discendere tutta intera la via dolorosa della politica decadenza, sino all'annientamento suo in espressione geografica, terra di morti, nazione da carnevale, paese (tutt'al più) dove i poeti venissero a veder fiorire il cedro e l'arancio, il mirto e l'alloro: dovevano i suoi Stati esser ridotti alla condizione di merce quotabile e permutabile nel mercato della diplomazia europea: dovevano, non per la gloria del nome italiano, ma per la vita nostra utile di nazione, andar frustrati e dispersi il lavorio scientifico sperimentale del secolo XVII; il movimento di civili e sociali riforme del XVIII, che anticipava negli ordini ideali la rivoluzione francese; e finalmente, doveva non essere per l'Italia che una fuggitiva luminosa meteora il grande travolgimento napoleonico: nel quale però il braccio italiano si ritemprava alle armi, e il Regno italico non rinnovava soltanto una memoria od un nome che suona nazione, ma rifioriva senno e operosità di cittadinanza cosciente, e la corona di Monza cingeva, per que' pochi anni di gloria e di ebra violenza, la fronte cesarea dell'abolitore del Sacro Romano Impero. Col secondo decennio del secolo che ora tramonta, e propriamente con l'infausto 1815, il ribadimento delle imperiali catene trisecolari, la servitù dei popoli concordata in Santa Alleanza dalle Potenze, la sanzione del Pontefice, restaurato re, a quest'altra riattiva violenza, furono i provvidenziali flagelli, sotto il cui stimolo la coscienza nazionale si svegliò finalmente, per non assopirsi più mai. Ammaestrava gl'Italiani tutto un passato d'illusioni, di sventure, di errori, di colpe, dominato fatalmente dalla bugiarda idealità dell'Impero, che subordinando l'Italia ad una sopravvivenza nominale di Roma pagana, aveva insieme e impedito la sua personalità reale di nazione moderna, e soggettata la Chiesa di Gesù alle funzioni d'un ministero essenzialmente politico. Ammaestramento che era sublimato dalle eroiche prove, confermato dalle repressioni sanguinose, consacrato dal martirio: le fosse dello Spielberg, le forche di Modena, i Bandiera fucilati a Cosenza, preparavano l'era nuova d'Italia. Il moto dei popoli sforzava la coscienza dei principi: e la prima guerra d'indipendenza, che si svolge tra la benedizione del Pontefice piamente ribelle, per breve ora, all'Impero, e il sacrifizio del Re che, devoto al patto giurato, non abbandona il campo dell'ultima battaglia che per cercare l'esilio di Oporto; quella prima guerra, in cui tutta Italia, se non ancora con le armi, ma coi cuori, combatte; alla quale Milano dà le cinque giornate, Toscana i giovanetti veterani di Curtatone e Montanara, Messina Venezia Roma gli assedii gloriosi, Palermo e Bologna i vittoriosi impeti del braccio plebeo, Brescia lo strazio de' suoi eroici insorti, Napoli le sue galere nobilitate dal fior dell'ingegno e del cuore, e il Piemonte tutto sè stesso: quella guerra, di nazione e di popolo, annunzia al mondo che l'Italia ha finalmente ritrovato il vero esser suo. La sconfitta delle armi è vittoria dell'idea: lo spergiuro dei Principi, legittimi per convenzione diplomatica, ma non nel diritto storico della nazione, toglie di mezzo il generoso equivoco di quel primo movimento: e la questione italiana, imposta ormai alla vecchia tenace Europa di Carlo V e di Metternich, la questione italiana maturata con ben altri auspicii nel decennio di preparazione alla guerra seconda, trionferà in questa e nelle sue conseguenze, e trionferanno con essa il diritto e la civiltà. Nel marzo del 1861 l'Italia, nel suo primo parlamento, proclama il suo Re e la sua capitale. E quando l'Emanuele della nazione mancherà, innanzi tempo, ai destini di lei rivendicata e costituita, non ne accoglieranno la salma lacrimata i sotterranei dell'avita Superga, ma il Pantheon d'Agrippa, il grande monumento imperiale, darà in Roma cattolica la tomba legittima all'unificatore d'Italia: legittima in Roma, e non altrove che in Roma, al cui nome politicamente abusato fu incatenata per secoli, con doppia catena, la statuale esistenza d'Italia e la sua unità di nazione. Se l'alba d'un lieto giorno spunterà mai, che annunzi conciliate, nell'augusta serena libertà del pensiero, le energie della fede e della scienza verso il divino ignoto che, volenti o ribelli, consapevoli o ignari o dimentichi, ci predomina tutti; quel giorno incoroneranno quella tomba i fiori d'una primavera italica, che noi non siamo destinati a vedere; e la civiltà umana, novellamente attratta verso la cosmopoli eterna, segnerà forse dall'unità d'Italia un nuovo ordine di secoli, nel quale sia restituita ai popoli anche la consolatrice unità del consentire almeno in una speranza non offuscata da vapori mondani. IV. Ma questa unità d'Italia, che si è svolta latente, avanzando sempre per progressi e regressi, finchè, giunta l'ora sua, si è rivelata come il termine destinato e non removibile, al quale, e solo a quello, si doveva arrivare; questa unità, che già da secoli sarebbe stata l'ordine, quando gli elementi dell'organismo nazionale si attraevano per natura, e per contingenza si respingevano; sarebbe stata la pace, quando le discordie bruttavano di sangue fraterno le nostre contrade; sarebbe stata la forza, quando gli stranieri vi calavano alla preda; la unità nazionale fu, siccome quella necessità che era, fu ella intuita da quel grande anticipatore dei fatti umani, che è l'umano pensiero? fu, in quel doloroso secolare problema di «essere o non essere» che pareva sciogliersi col «morire, dormire.... null'altro», fu ella il sublime «sognare forse» con che Amleto riattacca il filo della vita? sorrise la unità nostra alla fantasia di quei profeti delle nazioni, che sono i grandi poeti? suscitò, prima del secol presente, alcuni di quei generosi tentativi, la cui vittima trasmette all'avvenire, con la vendetta, la riuscita? A queste domande fu risposto con più d'una di quelle diligenti e sottili analisi che caratterizzano gli studi nostri in questo scorcio di secolo; e che a me, nel conferire, gentili Signore, con voi, altra parte non lasciano che di condensarne in breve tratto le conchiusioni somme, e lumeggiarne qualche figura. Quella «umile Italia», che i compagni d'Enea salutano, nel verso di Virgilio, dall'alto mare, come la meta della venturosa peregrinazione in cerca d'una patria seconda; e che nel verso di Dante accomuna gli eroi della guerra laziale, «Camilla Eurialo Turno e Niso», coi nuovi destini italici, che il Poeta dei Guelfi Bianchi augura dalla ricacciata della negra Lupa curiale nell'inferno per opera del Papa Angelico che il Medio Evo inutilmente aspettò; è, quella Italia de' due sacri poeti di nostra gente, è, ben dessa, la figura d'una patria unica, che si sposò fedelmente alle immaginazioni di quanti, con dolente pietà di figliuoli o con fierezza di propugnatori del materno diritto, han poetato di patria nella lingua del sì. Patria unica, che si sovrapponeva idealmente alle condizioni di fatto della penisola italiana. Dante, che sollecita l'Imperatore a «drizzare Italia», e compiange che non sia ancora a ciò «disposta» questa «Italia, serva» non tanto, per allora, di genti straniere, quanto della guerra intestina che «intorno dalle prode delle sue marine», e nel «seno» suo, la diserta: — il Petrarca, che su «le piaghe di quel bel corpo» sospira, e vuol essere interprete delle «speranze» che dalle rive del Tevere, dell'Arno, del Po congiuntamente si levano a Dio: — l'Ariosto, che impreca alla calata delle «Arpie» straniere sulle mense d'Italia, invocando il giorno ch'ella richieda ai «figli neghittosi» la sua libertà: — il Tasso che vagheggia la unione delle «voglie divise e sparse» da tutto il paese che «i monti e i fiumi» dividere non possono, perchè «quel che partì natura, amor congiunge»: — e nello sfacelo d'Italia lungo il Cinquecento fatale, la voce d'un virtuoso prelato, il Guidiccioni, che in nobilissimi versi consacra al medesimo rimpianto la violata libertà nazionale e il disonor dell'Impero e la fede pericolante di Cristo: — e poi, nell'aggravarsi della servitù e della decadenza, i cortigiani stessi di quei principati sotto tutela, levarsi contro la obbrobriosa tirannide iberica, e convertire come il Tassoni la poesia giocosa in filippiche per il conculcato diritto d'Italia, e volgersi con arcano presentimento a un Duca irrequieto e valoroso di casa Savoia, Carlo Emanuele I, che risponde ancor egli con versi italiani: — e da quelle medesime aule, sia di corte sia d'accademia, qualche alata apostrofe di retorica generosa, o sulla culla d'un Principe pur di cotesta Casa acclamare col Manfredi «Italia, Italia, il tuo soccorso è nato», o deplorare nel sonetto del Filicaia la «funesta bellezza» che le ha tirato addosso, con le straniere cupidigie, la condanna di «servir sempre o vincitrice o vinta»: — finchè l'Alfieri, prenunciatore della libertà che si approssima, dedichi l'opera sua tragica e fatidica «al popolo italiano futuro»: — è tutta, insomma, una non interrotta comunicazione come di una sacra parola, di secolo in secolo, da Dante all'Alfieri, la quale attesta e proclama una Italia, che impedita d'essere nel fatto, vive, come nel decreto divino, così nel cuore e nella fantasia de' suoi fedeli poeti. E non per questo diremo che la poesia d'Italia fosse una cospirazione a conseguire in effetto l'unità politica della patria italiana; tradurre in atto, con determinati mezzi e deliberata intenzione, quel sentimento italico che empiva i petti e li dilatava in un'aspirazione generosa, o vibrava nei raggi luminosi della visione poetica. A noi, che scendiamo ormai la curva del mezzo secolo nella vita civile della patria costituitasi libera ed una, non si addicono davvero, se anche fossero ormai possibili, certi entusiasmi, ne' quali, aspettando i nuovi tempi, o nella prima esultanza dell'avvento loro, si compiacque l'accademia e la scuola d'allora; quando Italia libera ed una pareva la parola d'ordine che le fide scolte del pensiero italiano si fossero trasmesse perpetuamente dall'uno all'altro dei vigilati posti d'arme; e la rivelazione dei precursori vaticinati, nuova maniera di oroscopia a rovescio, addiveniva esercizio di fantasie quotidiane; e quel povero Veltro dantesco «salute dell'umile Italia» veniva tramutato in tuttociò che tornasse opportuno farlo essere, ma soprattutto nella figura del Re liberatore: di che la Maestà di Vittorio Emanuele è lecito credere che sotto i gran baffi molto di cuore ridesse. La poesia, o, altramente atteggiato, il saluto del pensiero italiano, non mancò (questo è vero; e i moderni studi critici ne hanno aggiunto preziosi documenti ai già noti) non mancò di augurare, od anco di secondare, a più d'una di quelle che potremmo chiamar geste regionali, non molte del resto, che in diversi momenti della storia d'Italia, allettarono questa o quella, più o meno generosa o interessata, iniziativa, sia di principi, sia di tribuni o cospiratori. Se anche non è a Cola di Rienzo che il Petrarca abbia indirizzata l'altra delle sue magnanime canzoni italiche, certo accompagnò con altre espresse manifestazioni la impresa repubblicana di lui; la quale, come già quasi quattro secoli prima quella di Crescenzio, poteva, col mutare le condizioni di Roma rispetto al Papato, aprire nuove strade ai destini d'Italia. Ed era naturale che il Petrarca, sì gagliardamente compreso di patriottica latinità, e così fervidamente intento a restaurarla negli studi, si volgesse, con la mobile fantasia, ad accogliere, come una promessa di rinnovamento italico anche negli ordini civili, qualsifosse evento o persona, che più o meno direttamente accennassero a tanto: fosse oggi quel suo re angioino Roberto, che nel trono di Napoli, e nel capitanato di Parte Guelfa in tutta Italia, avrebbe avuto (se non era il «re da sermone» ben proverbiato da Dante) solido fondamento alle medesime ambizioni di supremazia italica, che su codesto trono avean circondata la corona di Federigo II re ghibellino; o fosse domani l'Impero, se anche nella persona del più dappoco di tutti quei Cesari posticci, Carlo IV di Lussemburgo. Nel modo stesso, quando, pochi anni dopo, un'altra ambizione, e ben altramente audace e invasiva, quella del Conte di Virtù Giangaleazzo Visconti, fattosi con le armi il ducato di Milano, compratane dall'Impero l'investitura, sentì angusti i confini del Po e dell'Appennino; — e fu quello, in tutta la triste storia frammentaria delle Signorie e Principati domestici, il solo momento che una di codeste avventure (poichè non fu la sola) per una piccola tirannide più o meno italica parve poter essere generatrice d'una forza concentrativa e unitaria in benefizio della nazione; — non più allora la voce di alcun grande poeta, ma voci molte di minori si levarono; non tutte di consenso e d'applauso, ma tutte di apprensione per cosa grande e vitale alla patria italiana. E come in nome d'Italia («Sappi ch'i' sono Italia che ti parlo») avevano vituperato quel «di Lucimburgo ignominioso Carlo»; così ora a questa nuova, ma non degna, speranza d'Italia e di Roma esclamavano: Roma vi chiama: — o Cesar mio novello, I' sono ignuda, e l'anima pur vive: Or mi coprite col vostro mantello. Poi francherem colei, che Dante scrive Non donna di provincie, ma bordello; E piane troverem tutte sue rive. Non degna speranza, e ambizioni bieche, codeste del Visconti: alle quali il più libero de' nostri Comuni, Firenze, nido e seggio ormai d'italianità intellettuale, contrastò fieramente, nel nome di quella tradizione di libertà municipali, che si era concretata in centri a raggio anche men che regionale, Stati sia di Popolo, sia di Signore o Tiranno; fronteggianti l'uno l'altro, e amici e bonvicini non a più larga stregua che del respettivo tornaconto. Tale tradizione, era, un secolo appresso, da Lorenzo de' Medici fermata e consolidata in equilibrio, ma pe' soli pochi anni che al Pericle fiorentino bastò la vita per la vagheggiata grandezza di questa Atene fatta retaggio suo e de' suoi. Cotesto equilibrio di Stati (che il Guicciardini nel Proemio alla sua storia descrive) imperniato da Lorenzo nella intrinsichezza con Roma papale, e il cui turbamento, loscamente macchinato dal Moro, segna l'era nefasta della intrusione straniera nelle cose d'Italia, fu pur sempre bilanciamento di soli interessi. E ben si addiceva ne descrivesse i congegni il Guicciardini, questo grande scettico della unità di nazione in omaggio alla libertà dei municipii, contro la quale finì egli poi ministro di tirannide; lo descrivesse con quel suo tatto pratico schivo d'ogni idealità, e con la sua impassibile Liviana magnificenza. L'equilibrio che possiamo, da Cosimo il Vecchio al magnifico Lorenzo, chiamare Mediceo, fu maneggiato con quel sentimento pagano di realtà, o quotidiana o archeologica, che caratterizza la politica e la cultura dell'umanismo: e come indarno vi cercheremmo un'alta ispirazione, che dal passato domestico e d'ieri aleggi verso l'avvenire della patria, così da nessuno dei togati umanisti esce pur uno di que' magnanimi accenti d'evocazione, ne' quali il Petrarca, iniziatore di cotesta scuola, con tanta passione congiungeva la Roma antica dominatrice del mondo e quella ch'egli avrebbe voluto veder risorgere, Roma _italiana_ e _cristiana_, dalle gloriose rovine. Gli accademici vivono nell'antico; i politici lavorano al presente, con tutte le brutali energie della forza e le perfidie sanguinose della frode: finchè un generato e da quelle accademie e da quelle cancellerie, ma sovrano intelletto, Niccolò Machiavelli; — dopo avere nelle ambascerie del suo Comune esercitato le arti di cotesta politica, e nel silenzio campestre del suo studiolo investigato ansiosamente sulle storie di Roma repubblicana il segreto della potenza e della grandezza; — testimone e sperimentatore, e complice egli stesso, di quella collisione di forze, tutte insieme ripugnanti e discordi ad unificarsi, od anche soltanto ad unirsi, e nessuna valida a subordinare le altre o a schiacciarle; — consapevole di quanto egli valga, e fremente di nulla potere; — ficcherà, egli solo fra tutti gli uomini del suo tempo, l'acuto sguardo nell'avvenire, nell'avvenire disperato e lontano; e lo invocherà, e lo attrarrà a sè, con le più generose parole forse che mai, duranti i secoli che Italia non fu, siano uscite da petto italiano. «Provvedetevi» dice egli a quel suo Principe, che nè un Borgia nè un Medici erano degni di essere, nè doveva essere ciò che egli allora era condotto a volere che fosse «Provvedetevi d'armi proprie.... che si vedano comandare da loro Principe.... per potersi con virtù italiana difendere dagli stranieri.... Era necessario che l'Italia si conducesse ne' termini presenti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi; senza capo, senz'ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa; ed avesse sopportato d'ogni sorta rovine.... Vedesi come la prega Dio che le mandi qualcuno che la redima.... Vedesi ancora tutta prona e disposta a seguire una bandiera, purchè ci sia alcuno che la pigli.... L'Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore. Nè posso esprimere con quale amore ei fussi ricevuto in tutte le provincie...; con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli serrerebbono? quali popoli gli negherebbono la obbedienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio?...» Parole fatidiche, le quali non possiamo noi Italiani ripetere senza che il cuore presti alla voce il suo accento; ma che sopraffatte, vivente pure il Machiavelli, dalla violenza delle due grandi Potestà in nome di Roma contro l'Italia alleate, non osò egli stesso riadattare a un altro Medici, il condottiero delle Bande Nere, che con ben altra vigoria avrebbe alzata quella bandiera, se bandiera solamente soldatesca fosse potuta essere: nè furono certamente, coteste parole, nemmen ripensate negli efimeri episodii che quel medesimo secolo ebbe, di qualche cospirazione (quella del Morone, quella del Burlamacchi) contro la signoria straniera. Solo ai giorni nostri, sugli albori ancora incerti del risorgimento nazionale, il Gioberti le convertiva in apostrofe a Carlo Alberto, quando ancora nè il Re aveva vinti gl'intimi contrasti che formavano il suo segreto, nè al filosofo stava in cospetto, come poi sull'estremo limitare della vita, la visione della nuova Italia. Pochi anni ancora: e il successore di quel Re ebbe adempito, fra il 59 e il 70, il vaticinio di Niccolò Machiavelli. Nè questa volta erano fatti moderni, ai quali, dopo il grande lavorio di tutta una letteratura civile, quanta intercede dall'Alfieri al Carducci, fosse adattato quasi per parafrasi un simbolo tradizionale della nostra storia e della nostra poesia. Non era l'aquila cesarea di Dante, addestrata col logoro retorico a roteare in larghi giri attorno alla corona dell'Italia plebiscitaria, e librar goffamente su quella corona le vecchie ali spennacchiate: non la navicella d'Enea navigante dalla Sicilia alle foci del Tevere con seco i fati latini, che mostrasse il solco a quella sulla quale Garibaldi e i suoi Mille dallo scoglio di Quarto cercavano «l'isola del fuoco», per muovere di laggiù, con l'Italia di Vittorio Emanuele sulle invitte spade, verso Roma destinata. Erano, questa volta, senza simboli e senza interpretazioni, tali quali il Segretario fiorentino aveva, con fioca o forse già soffocata speranza, invocato, erano finalmente l'Italia redenta e il suo Re. È poi notabile, che se altre voci, di ben minore portata, si levarono in quel triste splendido secolo iniziativo del nostro servaggio, mosse da affetto di patria ad augurare dondechessia un liberatore, non furono indirizzate verso quella regione d'Italia di dove la Provvidenza dovea suscitarlo. Scriveva Benedetto Varchi, rilevando l'interessata politica di Venezia nelle cose italiane, e altresì la necessità d'una egemonia nazionale sulle forze vive della penisola, «non essere le fatiche e gl'infortunii d'Italia mai per cessare, infino che i Veneziani (poichè sperare da' Pontefici un cotal benefizio non si dee) o alcuno prudente e fortunato principe non ne prenda la signoria»: e ciò, forse, con qualche intenzione, del tutto cortigiana, al suo duca Cosimo de' Medici; certo, con nessuna ai duchi di Savoia. Nè altri che Venezia e i Pontefici, «Marco e Piero», pensava il Guidiccioni possibili propugnatori dell'indipendenza italica: ma soggiungeva dolorosamente, non avere speranza alcuna dell'opera loro. Nel quale concetto dovevano quei nostri del Cinquecento essere indótti dal considerare lo Stato ecclesiastico e il dominio di San Marco siccome le sole provincie d'Italia, cui non investisse quel complicato intrico d'interessi dinastici paesani, alleati sinistramente con la rapacità straniera, nelle maglie del quale era irretita, per tutto il rimanente, la patria nostra infelice. Ma e il Guidiccioni e il Varchi, uomini di chiesa ambedue, sentivano pure, quanto ai Pontefici, come questa potenziale attitudine del loro Principato a benefizio d'Italia fosse da altre condizioni storiche o contingenze di fatto impedita: il che si era veduto in Giulio II, e si vide poi in Paolo IV; confermandosi sempre la tremenda sentenza con la quale il Machiavelli e il Guicciardini ebbero, quasi con identiche parole, condannata la Signoria temporale dei Pontefici e la corrottissima Curia, dello avere e fatto «diventar gl'Italiani senza religione e cattivi» e «impedita l'unione d'Italia». E quando il Gioberti disegnò e radiosamente colorì l'apoteosi civile del Papato, non però gli resse l'entusiasmo, nè gli bastò l'eloquenza, ad attribuirgli una iniziativa che innanzi tutto bisognava fosse guerriera; ma di questa riconobbe e i caratteri storici e le condizioni giuridiche nel suo Piemonte, anche senza evocare, come avrebbe potuto, le tradizioni di quella che, gesta ambiziosa e di ereditaria ambizione, ma fu pur gesta d'indipendenza italiana, di Carlo Emanuele I. D'allora in poi, dico dal 1848, fu nella egemonia subalpina fermato il concetto, e anticipato con auspicii immanchevoli il fatto, prima, dell'unione, poi dell'unità, d'Italia: di questa unità, alla quale fin dal 1821 era volato il verso di Alessandro Manzoni; della unità italiana, in nome della quale, nel 31, a Carlo Alberto che ascendeva il trono, Giuseppe Mazzini avea mandato il saluto o la minaccia (scegliesse egli) del pensiero italiano; di questa sacra unità, che il venerando Gino Capponi (raccolgo dalle labbra di lui una parola non dimenticabile) diceva essere stata, agli uomini della sua generazione, il primo dei desiderii, l'ultima, perchè la più bella, delle speranze. V. Se non che all'unità politica avea precorso da secoli l'unità intellettuale: l'unità che emerge dal solo fatto del concepire e rappresentare, e il concetto e l'immagine atteggiare esteriormente secondo un ideale e sopr'uno stampo, che è quello e non altro che quello. Nella parola de' suoi poeti, nella mente de' suoi pensatori, nei miracoli dell'arte emulatrice a quella di Grecia e di Roma, nella sospirosa melodia de' suoi canti, nella musica perpetua della sua lingua, l'Italia sempre era stata, e splendidamente era stata. Il sentimento di questa immanente sopravvivenza ai fenomeni transitorii, anche nei tempi più depressi e desolati della nostra storia, si salvò sempre, e con esso fu salva la parte di noi più preziosa: la coscienza di essere, ed esser noi. Non eravamo «in eterno periti», come nella voce di Giacomo Leopardi sonava nel 1818 il pianto d'Italia serva: «In eterno perimmo?»: poichè, rispondeva il poeta, Voi, di che il nostro mal si disacerba, Sempre vivete, o care arti divine, Conforto a nostra sventurata gente, Fra l'itale ruine Gl'itali pregi a celebrare intente. E salutava il sorgere nel tempio di Santa Croce d'un altro di quei monumenti, dai quali, e dalla storia del nostro pensiero, aveva Ugo Foscolo invocati gli auspicii al risorgimento d'Italia. Ben può oggi affermarsi, che il primo passo alla unificazione politica fu, in quei primi decennii del secolo, la restaurazione della italianità nel pensiero e nella lingua: della qual restaurazione furono benemeriti anche tali che, nelle conseguenze sue estreme, non avrebber certo voluta preparare l'altra unità; ma questa aveva, lo abbiamo veduto, ragioni di necessità e di diritto che di secolo in secolo l'hanno avviata e guidata, spingendola innanzi anche quando è sembrato che ristesse e indietreggiasse, finchè si sia potuto dire: Siam giunti, e qui stiamo: _hic manebimus optime_! Non pensava certo a un'Italia dell'avvenire, o ne avrebbe avuto sgomento, il buon padre Cesari, quando straniandosi valorosamente dal gergo italo-franco che aveva finito col sostituirsi alla lingua italiana, scriveva le novellette boccaccevoli, o assettava nel suo artefatto trecento Orazio e Cicerone, e nel volgar fiorentino del Cinquecento manipolava la commedia latina: ed è certo altresì che la _Proposta_ di correzioni al Vocabolario, con la quale il Monti si atteggiò a guerra di lombardo a toscani, attesta, più ancora che della sua dottrina di lingua e vivacità di spiriti indomita, della senile sua incoscienza politica. Ma bene a questa Italia aveva pensato l'Alfieri, quando protestava contro la soppressione che i pedanti della filosofia riformatrice avean fatto dell'Accademia della Crusca: ci pensava il Foscolo quando si appellava alla nazione, dalla sentenza del Gran Consiglio Cisalpino contro la lingua latina: era purista cittadino il Giordani, quando incorando negli amici suoi lo stile greco e la lingua del Trecento, si sottoscrive fratello nel nome dell'«augusta e cara nostra mamma l'Italia»: e filologia preveggente era quella di Niccolò Tommasèo, il quale dalla critica delle dottrine del Perticari, dalla vagliatura fiorentina dei sinonimi, dovea condursi con Daniele Manin al Palazzo dei Dogi, prigioniero prima, poi Ministro della Repubblica, e, fino agli estremi delle armi del colèra e della fame, sostenitore d'un diritto nazionale che al Dalmata si era fin da giovanetto fatto sentire nel caro idioma d'Italia. Sì, il purismo è stato anch'esso una potenza benefica alla costituzione della patria, ravvivando e rivendicando le ragioni della lingua, dagli stranieri influssi e preponderanze corrotta: al corpo poi, così risanato, un possente interprete del pensiero e del sentimento umani, restituiva il vivo alito della toscanità, cioè dell'idioma d'Italia: Alessandro Manzoni. La unità idiomatica avea suggellato del suo stampo il Poema, sul cui fondo, disteso fra «cielo e terra», rilevava in figure immortali il Medio Evo italiano: la unità idiomatica, ricondotta al suo principio vivente, reintegrò quel medesimo suggello sopra un altro, esso pure grande poema, dove la servitù e la corruttela italiana, lungo i più lacrimevoli anni suoi, era ritratta e condannata nella storia di due egualmente immortali figure, di due poveri perseguitati Promessi Sposi del contado lombardo. Ed è questa italianità, di pensiero e di forma, che noi dobbiamo oggi, insieme con la unità che ce la garantisce, custodire gelosamente e propugnare: è questa italianità che noi con trepido affetto consegnamo, raccomandiamo, ai nostri figliuoli. La santa centenaria bandiera, per la quale combattono, soffrono, muoiono da eroi, i nostri soldati, non si difende solamente sui campi di battaglia: ogni cittadino operante è per essa soldato. Altezze Reali, Signore, Signori, Quella «storia ideale eterna» che Giambatista Vico idealeggiava, «sopra la quale corrono in tempo tutte le nazioni», assunse nell'alta mente di lui, la figura d'un circolo: dove però il corso dal male al bene soggiacerebbe alla legge del ricorso dal bene al male; e simbolo della vita civile, sarebbe quella linea circolare che «sè in sè rigira», e a cui gli Aristotelici attribuivano maggior perfezione che non alla linea retta, apponendo a questa la manchevolezza dell'essere non finita. Ma Galileo rispose agli Aristotelici; e le teorie del Vico, detrattone quel che di _a priori_ scolastico si aggravava sopr'esse, possono conciliarsi con una legge positiva di progresso, che saldi in armonia scientifica le tradizioni e le speranze del genere umano. Pure, se ad un elemento della vita delle nazioni rimane tuttavia adattabile puntualmente cotesta imagine vichiana del circolo, è a quell'elemento che in sè comprende i caratteri essenziali e distintivi di ciascuna nazione, pe' quali esse rassomigliano a un conserto di famiglie, il cui padre unico sovrasta alle cose terrene. Nel circolo della italianità, nessun progresso è interdetto alla patria nostra: sfasciandosi quello, i movimenti non avrebbero più nè cammino diritto nè meta sicura. Il pensiero e la lingua, gli studi del vero e le arti del bello, le istituzioni e le leggi, descrivono la circonferenza di cotesto circolo: ma nel centro sta, somma di tutte le forze, principio di vita necessario, fortezza ed altare, l'unità della Patria. LA LOMBARDIA ALLA CADUTA DEL REGNO ITALICO CONFERENZA DI GEROLAMO ROVETTA. Signore e Signori, Il secolo non è finito ancora, e già se noi ci volgiamo indietro a considerare gli avvenimenti che ne agitarono il principio, essi ci appaiono lontani lontani, estranei affatto alla vita nostra, quasi che tra essi e noi intercedesse l'ombra di un intero evo storico, non lo spazio di una vita d'uomo. A mano a mano che la ricerca erudita, fatta oramai positiva e serena, studia quei casi snebbiandoli dalle leggende che già vi si formarono intorno, e corregge gli errori, ripara alle ingiustizie, assolve i calunniati e condanna gli usurpatori di gloria; mentre la critica si affatica sui documenti e la verità torna in luce; in noi, strano a dirsi, nell'impressione comune di chi oggi ripensa a quegli anni fortunosi, nella coscienza della gente anche istruita, la distanza tra la fine e il principio del secolo cresce di continuo; e gli uomini e i fatti del tempo che segnò la giovinezza dei nostri nonni par che si ritraggano sempre più rapidamente nel buio del passato, vi si avvolgano di una nebbia sempre più densa, impiccioliscano, scompaiano dalla memoria delle moltitudini. Napoleone, la sua sanguinosa e trista epopea, le catastrofi di Russia e di Germania, quell'avvicendarsi di avvenimenti che soltanto sette od otto decine d'anni fa mettevano a soqquadro l'Europa.... e le nostre famiglie, che insidiavano gli averi di cui ora noi stessi godiamo e turbavano e scompigliavano gli amori dai quali i nostri padri sono nati, tutto non sembra — se ci pensiamo — appartenere ad un'altra epoca ben più remota? La critica moderna «vergine di codardi oltraggi» ma implacabile nelle sue deduzioni positive, ha relegato «l'uomo fatale» tra i malinconici nefasti della storia, fra gli antichi maniaci per la guerra, violenti ed infelici: ed il feticismo che per lui nutrivano i suoi soldati, a noi almeno, appare come un caso diffuso di allucinazione morbosa delle moltitudini. — Come mai? Donde tanta disparità del vivere e del sentire? — Io credo che tale enorme _allontanamento_ dalla coscienza nostra di uomini e di cose storicamente vicine, non provenga tanto dai molti e varî casi intervenuti tra loro e noi, quanto dal velocissimo, anzi precipitoso cammino compiuto dalle idee in questo intervallo di tempo, che, se per sè medesimo è breve, relativamente alla importanza storica contiene la materia non di uno, ma di più secoli! Ciò che non è d'oggi o di ieri è già per noi antico: tanto s'è slargato innanzi a noi il mondo, tanto volo abbiamo spiccato incontro all'avvenire! Le idee han soverchiato i fatti, han dato una nuova anima battagliera, feconda, a questo vecchio secolo pieno di esuberanze giovanili, hanno oramai tolto di mezzo quanto del passato poteva esser loro d'impaccio, e abbandonato negli avelli della storia tutto ciò che non era vivo e germogliante.... come la calce sparsa sulle rovine di un disastro cela agli sguardi le macerie e i cadaveri insieme. Ed è per ciò che debbono avere la acuta e perspicace pazienza degli archeologi, coloro che vanno frugando in un mondo pur così vicino a noi, e come gli archeologi debbono saper dar vita alle pietre e parole alle tombe e leggere tra le righe dei non ancora ingialliti documenti, e scrutare il senso riposto delle satire, delle caricature, delle canzoni, delle arguzie, delle tradizioni popolari: debbono svestirsi d'ogni propria passione politica, debbono cercare la luce _vera_ che illuminava quei tempi e giudicare gli odii, e gli amori d'allora come gli odii e gli amori d'adesso, cioè come passioni umane, fallaci quindi ed ingiuste il più delle volte, torbide dispensatrici di fama.... e d'infamia, non sempre meritata. Questo non è cómpito per le mie forze, nè per i miei gusti. Io penso, invece, con intimo compiacimento d'artista che, mentre tutte quelle cose e quella gente ci appaiono così come se le guardassimo col canocchiale a rovescio, l'arte e gli artisti sono rimasti così vicini a noi, così _nostri_ e del _nostro_ tempo da indurre noi pure — imbevuti di tanto scetticismo! — in quella fede classica che vate chiamava il poeta, cioè veggente nell'avvenire, ed _eterna_ proclamava l'arte, cioè immortale nei secoli. Non è forse così? Mentre la logistica delle battaglie napoleoniche non interessa più che gli studiosi delle Accademie militari, al pari di quella delle campagne di Alessandro o di Giulio Cesare, e le bricconate di certi ministri del vicerè Eugenio, gli spionaggi ed il gabinetto nero, si confondono colle altre iniquità di palazzo del cardinale di Richelieu e il dominio dell'Austria rinnova le gesta di tutte le più antiche e sinistre tirannidi: ecco qui vive e parlanti, colle nostre idee, colle nostre ribellioni, le nostre speranze, gli stessi nostri sarcasmi, ecco qui le figure del Foscolo e di Carlo Porta, e col nostro stesso culto del vero, le tele dell'Appiani e del Canonica: ecco ripetersi, con esempi nuovi, l'amabile storia della giovinezza di Gioacchino Rossini, a cui la fortuna e le belle donne aprono le braccia e spianano la via; ecco rinnovarsi oggi tra idealisti e veristi, tra naturalisti e spiritualisti, quella vivace e multiforme polemica d'allora tra classici e romantici che, in fondo, preparava i germi a tutte le battaglie intellettuali dell'avvenire. I critici dicevano ottant'anni sono molta parte di quel che dicono adesso; e i gazzettieri — anche allora — insegnavano l'armonia al «signor Rossini», la chiarezza al capitano Foscolo, e al giovane autore del Carmagnola un po' di lingua italiana; e di questi, i più accaniti — erano forse i francesi! — Ancora gl'impeti del Foscolo, noi li abbiamo nel cuore; e quante, quante volte la musa lepida, ed anche salace del Porta, non ci soccorre per irridere alle ipocrisie che oggigiorno tocchiamo con mano! Il Foscolo ed il Porta — meno di tutti gli artisti di quell'epoca — sono invecchiati, perchè, in modo diverso, la loro poesia rispecchia ciò che in apparenza soltanto è mutevole, e rimane invece tal quale: «_l'anima del popolo_»; — l'uno ruggendo nelle prose concitate le sue imprecazioni contro gli autori d'ogni servaggio, o cantando nei versi grecamente armoniosi le illusioni e le delusioni dello spirito moderno; l'altro sintetizzando nella rima epigrammatica e tagliente l'umorismo formidabile che del popolo è un'arma, un conforto, ed uno sfogo ad un tempo. Così l'arte del Foscolo e quella del Porta, come i tipi umani dei due poeti, ci appaiono unite con vincoli di fratellanza alla grande arte e ai grandi tipi delle epoche più remote; ed è perciò ch'essi sono tuttora modernissimi. Un soldato poeta, prode, ardito, cavalleresco, con qualche spacconata, pieno di debiti, di duelli, di amori, di gelosie turbolenti; ed un altro — un poeta cassiere — tutto arguzia, tutto malizia nella rima gioconda e così bonario nella vita semplice e prudente d'impiegato, sempre amico della giustizia, ma benanche del quieto vivere; — un ribelle, che dà al popolo la satira demolitrice di poteri e di tirannidi, ma che si tapperebbe in casa — gottoso e pieno d'acciacchi — ove nelle vie scoppiasse la sommossa.... sono due tipi umani — sono due _estri_, per così dire, che in tutti i tempi le vicende hanno destato ed ispirato. Ma il Foscolo, nella gravezza che incombeva sulla vita milanese in quel procelloso finire del Regno Italico, rappresenta anche l'irrequietudine dei presagî. Dalle nebbie di Milano, fra le bieche congiure degli austriacanti, le paure dei napoleonici e i tentennamenti degli italici, egli anelava al bel sole di Toscana, alla luminosa villa di Bellosguardo ove gli erano fioriti sotto la penna i versi delle Grazie, nitidi e flessuosi come le forme divine scolpite dal Canova; anelava a questa Firenze dell'anima sua, sacra a lui per le memorie dei Grandi cantate nei _Sepolcri_, da Dante all'Alfieri, e insieme per indimenticabili dolcezze d'amore: Per me cara, felice, inclita riva!... Ove sovente i piè leggiadri mosse Colei che, vera al portamento Diva, In me volgeva sue luci beate, Mentr'io sentìa dai crin d'oro commosse Spirar ambrosia l'aure innamorate.... * * * Era una specie di nostalgia pei tepori e i profumi che gli assaliva l'anima, una sete di parole italiane pronunciate dalle labbra delle donne fiorentine che tanta grazia aggiungono all'efficacia del perfetto dire.... e non Voi, che di azzurro e di fragranze avete in ogni tempo dovizia, ma noi, di lassù, poveri inglesi d'Italia, possiamo comprendere le smanie del Foscolo per la vostra bella città. — Marmi e fiori, le memorie e l'eloquio, il serto delle colline, l'aria stessa che qui si respira, tutto ci attrae sino al dolore, e noi ricordiamo sino al rimpianto. Qui da voi sorrideva, come sempre, amica fida, l'arte; da noi, in Lombardia, non si respirava che l'intrigo. Dico l'_intrigo_, non la politica. La politica vera era maneggiata dai sovrani, dai ministri, dagli ambasciatori; il resto, i sudditi, anche quelli delle classi sociali più elevate, non conoscevano altro che il pettegolezzo di società, le trame personali, ordite per interesse privato, per vizio senile, per passatempo. Nell'esercito, e più nell'aristocrazia, si congiurava come si intavola un giuoco: erano ancora i cicisbei dell'arcadia belante che divenivano a un tratto cospiratori tra le gonne della _dama servita_. Rancori, invidie, gelosie di corte o d'alcova; e ognuno aveva pronto il suo re, per diventarne il vicerè. Trista politica di corridoio e d'anticamera, sospettosa, cupida, procacciante, che pur preparava la ruina della patria prima ancora che nei fatti, negli animi, dove la grande idealità dell'Italia unita, libera, indipendente non s'era accesa ancora a illuminare, come avvenne più tardi, anche i giorni squallidi della schiavitù, a confortare i migliori, a compensarli d'ogni sacrificio, a irradiare per essi anche le segrete delle prigioni e le forche drizzate ad attenderli. Che poteva mai l'arte in tanta miseria spirituale? Non l'arte del pensiero, ma quella dei sensi e della furberia era in onore presso il volgo patrizio e plebeo! Gli scherni, si dispensavano in egual misura al Foscolo «matto infido» e al Monti «cortigiano pagato». Giorni egualmente tristi s'annunziavano ai due grandi poeti, che erano da amici divenuti irreconciliabili; e veramente quanto diversi nell'arte e nella vita! E per ciò, come già tra il Foscolo e il Porta, così tra il Foscolo e il Monti dovrebbe riuscire il raffronto attraente e curioso allo spirito indagatore. Il Foscolo, non sempre buono e probo nella vita privata, aveva pur sempre espresso ne' suoi scritti la grande anima italiana, sdegnosa di padroni vecchi e nuovi, assorta in una virile idea di libertà classica insieme e moderna; ed ora, al cadere della fortuna napoleonica, passava non curato in mezzo agli armeggioni e agli opportunisti, dai quali al ritorno dell'Austria doveva separarsi per sempre, esulando lontano con l'anima ferita, ma altera e sicura. — Il Monti buono, troppo buono, e nella sua mutabilità intimamente onesto, aveva cantato prima il trono e l'altare, poi il fanatismo giacobino, poi la libertà italica, poi l'onnipotenza di Napoleone — il Giove Massimo — il Dio Terreno; e con la gloria di Napoleone vedeva cadere la sua, sentiva fors'anco l'amarezza di essere considerato dagli intriganti e dai faccendieri come un adulatore venale che, per opportunità o per interesse, avrebbe seguitato a cantare per i vincitori d'oggi.... i dominatori del domani. * * * A Milano, nella capitale del Regno agonizzante, non si congiurava che per mutar di padrone. Pareva ad alcuni — ai migliori forse — che una parte di ciò che allora si diceva «la gloria di Napoleone» toccasse di riverbero ai Lombardi: e ci tenevano, e non si ribellavano ancora all'orgoglio e all'egoismo feroce di lui: invece, tentavano ridestare intorno al suo nome gli entusiasmi svaniti. E tra questi il duca Melzi — l'ex presidente della Repubblica Italiana, e allora, del Regno Italico, presidente del Consiglio dei Ministri — e col duca Melzi, il conte Giuseppe Prina. E il Melzi e il Prina erano fautori di Napoleone e dei Napoleonidi.... chi sa?... anche per un primo barlume di quell'Italia, ch'era forse ancora più nella mente che nel cuore dei due uomini di Stato; che, ancora, era forse.... un concetto politico, un regno, più che una nazione; quell'Italia, a cui già mirava, cupidamente, l'orgoglio sfrenato del Murat, e alla quale occhieggiava, come con una ballerina della Scala, la bramosia senile, la vanità eroicomica del _divisionario_ Pino. Ma se qualche magnanimo illuso, o qualche insoddisfatto avventuriero poteva unirsi al Murat, disertore di Napoleone; se nelle chiassose e allegre adunanze dell'Albergo del Gallo, le vecchie mercantesse e gli strozzini inneggiavano col barbèra e col barolo «al generale Pino re d'Italia», chi mai poteva seguire il Melzi e il Prina, i due bigotti dell'Impero, i due _compari_ del Vicerè? Chi poteva seguirli?... Chi del popolo, specialmente? Non vi era quasi famiglia nella quale le ecatombe di Russia e di Germania non avessero lasciato un lutto o rimandato un infermo; le donne più ancora, madri, spose, sorelle, non si rassegnavano a tanta.... seminagione di dolori, di cui non vedevano lo scopo, mentre fra gli uomini, essa poteva trovar pretesto nello spirito militare ritemprato e fatto consuetudine e nella smania politicante. Nei ceti più umili delle città e fra le plebi delle campagne, sbollita l'ubbriacatura dei grandi avvenimenti, dell'imprevisto, delle teatrali partenze delle truppe e l'ansia dell'attendere e del commentare le notizie della guerra, era subentrato lo sconforto amaro, profondo, del danno patito, delle braccia mancanti, dei cari morti e perduti nei gorghi dei fiumi gelati e sotto le nevi delle steppe.... La fantasia popolare rievocava quei quadri di battaglie sfrondandoli d'ogni epica attrattiva, ne aumentava, se pure era possibile, l'orrore, e un grande sentimento d'odio dilagava nelle anime contro coloro che si erano gravata la coscienza di tanto lutto, di tanta desolazione, di tanta miseria. Oh, la miseria!... Si faceva di giorno in giorno più cruda, più feroce. I _signori_, i ricchi, ammaestrati dai casi, non pensavano che a difendere i redditi; a nessuno veniva in mente di arrischiare un po' di danaro per dar lavoro ai poveri, in qualunque industria, che un disperato tentativo di Napoleone e delle potenze avrebbe buttato all'aria. Mancava il lavoro, mancava il pane; turbe di poveri, di pezzenti, di oziosi, mendicavano alle porte dei presbiterî, delle scarse locande, dei palazzi, degli uffici pubblici; e in quegli stomachi vuoti si preparava l'urlo della rivolta. E tanta e così grande miseria era poi esacerbata, invelenita, giorno per giorno, dalle rapacità del fisco. I balzelli e le tasse più odiose crescevano di numero e di gravezza. Anche il poco che non rappresentava il diritto di non languire per l'inedia, destava le ingordigie del fisco, veniva insidiato, carpito, portato via con atti esecutivi, che costituivano un succedersi di ignobili rapine, larvate di legalità e compiute colla forza del governo. Naturalmente, dalle furfanterie dei soldati e dei finanzieri, prendevano audacia i birbanti, per così dire, spiccioli: il malandrinaggio era ancora.... una professione! In mancanza del guadagno offriva almeno la promessa, in quella scarsità di pane, di un pane in galera; e mai come allora, gli stradali di Lombardia furono infestati da tanta e così feroce canaglia. Eugenio Beauharnais, il figlio dell'imperatrice Giuseppina, era il Vicerè di questo povero paese. Strana e melanconica figura! Un altro cittadino, creato sovrano da Napoleone e che da principe non ha saputo fare nè il bene nè il male, per cui i principi, talvolta, affrettano le soluzioni della storia. Il Romagnosi parla del vicerè Eugenio come di un uomo mal conosciuto, di retti sentimenti, ma non così saldo, da non lasciarsi sviare fra gli intrighi del tempo, ed abbagliare da quell'altra peste, pure del tempo, la vanità militare. Dopo la campagna del 1813, i principi confederati gli avevano promesso il Regno d'Italia, purchè avesse vôlte le armi contro l'Imperatore; ma egli fedele e riconoscente, aveva respinto le blandizie: e di ciò chi mai vorrebbe biasimarlo? Poi, Napoleone gli aveva ingiunto di abbandonare l'Italia e di ridursi in Francia, colle sue truppe. Eugenio gli dimostrò che queste lo avrebbero abbandonato, ma — come sottilmente nota il De Castro — non seppe nè riaffermarsi virilmente per lui, nè separarsene per unirsi alle potenze alleate, nè prendere il partito più giudizioso e più generoso ad un tempo, quello, cioè, di sposare francamente, lui del popolo, la causa dei popoli e farsi ad un tempo loro capo e difensore. Il 22 novembre 1813, al principe La Tour e Taxis che nel villaggio di San Michele, fra Vicenza e Verona, gli rinnuovava l'offerta del trono purchè si unisse alla Santa Alleanza, Eugenio rispondeva collo stesso rifiuto dato pochi dì innanzi ad una deputazione del Senato che gli proponeva di organizzare un moto in Milano per proclamarlo re. «Non si può negare — esclamava colle lacrime nella voce, per il ricordo dei propri figli — non si può negare che la stella dell'Imperatore non cominci a impallidire.... Ma per coloro che furono da lui beneficati, è una ragione di più per serbarsi fedeli». Questa è storia, una pagina di storia umana più che politica. Apprezzò Napoleone la devozione di quella resistenza, devozione tanto più grande, dopo che egli aveva ferito nel Beauharnais il cuore del figlio e gli interessi del principe, ripudiandone la madre?... Chi lo sa? Certo il Beauharnais fu compreso da una donna, dalla moglie: la viceregina Amalia Augusta di Baviera, che merita un posto a parte nella storia di quell'epoca, e fra la gente di quel tempo un posto d'onore. Nella storia, perchè certo essa ha molto contribuito col suo consiglio, colla modesta prudenza e colla semplicità affettuosa, alla condotta leale del Beauharnais, risparmiando guerre, non di popoli, ma di interessi dinastici. Il posto d'onore fra le genti di quel tempo le spetta, perchè si conservò virtuosa moglie e buona madre, in mezzo al dilagare di una corruzione e di una licenza, più ipocrita forse, ma più profonda di quella del Direttorio. Qual era, in fatti, questa società?... La moda era impudica nelle sue fogge scollate, aderenti, accarezzanti le forme: curioso il battesimo ai colori del momento: o nomi feroci come: il color «dei cosacchi spaventati», oppure erotici, come: il color «sospiro di vergine», il color «grido di sposa», il color «baciami in bocca» ed altri ed altri che non è decente ricordare, ma che si possono leggere sfogliando la raccolta del _Corriere delle Dame_. Taceremo i nomi e le gesta: solo ricorderemo che le gentildonne più eccelse.... e più belle, si travestivano da ussaro o da dragone nelle scappate coi loro amanti, ufficiali, tenori.... ed anche mimi, e al teatro della Scala, durante lo spettacolo, molte volte, a metà della conversazione fra dama e cavaliere, venivano calate le tendine del palchetto. Nei varî partiti politici, erano pur implicate anche le donne e congiuravano insieme contro tutti i poteri.... e tradivano insieme tutte le fedeltà.... politiche e coniugali. E le vecchie dame, bigotte del partito austriaco? Esse, immemori delle sregolatezze di Leopoldo II, si scandalizzavano per il libertinaggio del principe Eugenio e di tutti gli esecrati _Franciosi_, com'esse li chiamavano a denti stretti; ma ricordavano forse col confessore, l'abatino profumato e galante del settecento. Oh voi leggiadra e virtuosa Viceregina, dal cuore nobile e dall'intelligenza onesta, come risplendete di luce soave, di una giovinezza intatta in mezzo a questa vecchia società intrigante e venale, corrotta e corruttrice, che pareva dissolversi nel vizio. Il principe Eugenio non ebbe certo immeritata la taccia di donnaiuolo; certo non mancavano per colpa sua i mariti offesi.... e non abbastanza ricompensati con adeguate cariche a corte — nei varî _partiti_ che più lo combattevano; pure si direbbe che.... modernamente conciliasse i teneri e facili errori, con un affetto vero e sentito per la sua dolce compagna. Le scriveva dal Tirolo, rimandando a Milano uno de' suoi scudieri che stava per prender moglie: «.... pensa, mia buona Augusta, che il tuo fedele sposo non potrebbe amarti di più. Rinvio il Battaglia, che morrebbe se qui lo tenessi; è così smanioso d'ammogliarsi, che non dorme più. Gli auguro la felicità anelata: ma il matrimonio è una lotteria, nella quale non tutti, al pari di me, estraggono un numero alto.» Come però egli fosse amato, profondamente, santamente amato da lei, che il Foscolo disse: . . . . . . . . . bella fra tutte Figlie di regi e agli immortali amica: lo prova, fra le molte, una lettera scritta dalla Viceregina al principe Eugenio, in un giorno fra i più infelici della loro vita. «...... La notizia del divorzio mi addolora — sempre il divorzio di Napoleone da Giuseppina — e tanto più soffro prevedendo la triste tua posizione e la gioia di coloro che ci fanno tanto male. Ma non arriveranno mai a ciò che agognano, non potendo toglierti una riputazione senza macchia, ed una coscienza senza rimorsi. Tu non hai meritata cotesta sventura, e lo dico nel supposto che altre ne sovrastino. Io vi sono preparata, e nulla rimpiangerò purchè mi resti l'amor tuo, felice di provarti che t'amo per te solo. Cancellati dalla lista dei grandi, c'inscriveranno su quella dei felici: non val meglio? Non scrivo alla tua povera madre; che potrei dirle? Assicurala del mio rispetto e della mia tenerezza. L'avviso del tuo sollecito ritorno mi allevia e impaziente l'aspetto. Eugenio! il mio coraggio eguaglia il tuo, e voglio provarti che sono degna d'esserti moglie. Addio, caro amico; credi alla tenerezza che ti serberò fino all'ultima ora della mia vita.» Ma certo l'uomo del momento non era il Beauharnais, non era il principe, il marito.... che nel consenso della dolce compagna trovava il premio migliore alla rinuncia del trono. Ben altrimenti del Beauharnais, pensava e operava di lontano Gioachino Murat, che si sottraeva al duro giogo del cognato, pur di giungere alle audaci sue mire: fare un'Italia per farla sua. L'aura popolare, il favore dei poeti, le speranze dei Carbonari erano per lui che parlava del «riscatto d'Italia,» ed aderenti ne aveva anche in Milano; fra gli altri il capo della Polizia conte Luini, il generale Giuseppe Lechi, e quell'altro generale di Napoleone, il Pino, che per sè solo vorrebbe, nonchè un discorso, una monografia, un volume, tanto appare stoffa bizzarra di soldato, di avventuriero.... e di affarista. Il Vicerè, gramo conoscitore d'uomini, se n'era fatto un nemico implacato e subdolo, relegando il suo orgoglio in un meschino presidio della Romagna. Riuscito il Pino a tornare a Milano, si diede, per vendicarsi, anima e corpo al re di Napoli; e benchè provvisto, in mezzo alla generale miseria, di uno stipendio di 145 mila franchi all'anno, si attaccava come un polipo alle casse dello Stato, e pur brigando e congiurando contro il Vicerè, lo tempestava di richieste di fondi, di sussidi, di anticipazioni, di gratificazioni, e prostituiva la sua bella fama di soldato valoroso alla più ignobile avidità di danaro, ch'egli poi malamente profondeva al giuoco e colle donne. Tuttavia, e forse, anche per ciò, era popolare: la moltitudine non vedeva in lui che l'eroe vincitore della Pomerania, della Spagna, della Russia; pareva alla gente che quel bell'uomo che sfoggiava teatralmente la divisa e le decorazioni, potesse essere anche un buon sovrano e «Viva Pino re d'Italia!» si ripeteva nelle conventicole dei mestatori, nelle osterie, per le piazze. E il Pino, ringalluzzito, cominciava a ingannare anche il Murat dopo il Beauharnais, e lasciava gridare, e lasciava fare.... Perchè no? «Viva Pino re d'Italia» ripeteva in cuor suo. — Perchè no? — e così, prima blandito e adescato, poi, spiato e raggirato, cascava nelle trappole di quella parte dell'aristocrazia che aspettava coi desiderî, coi brogli e cogli imbrogli, l'avvento dell'Austria, e vedeva nel generale Pino, non già un re, neppure da palcoscenico, ma uno strumento per le sue stesse debolezze prezioso. Solo il popolo, il popolino malaccorto, poteva credere ancora a quella pazza fortuna dei generali napoleonici, che dalle più umili origini erano saliti, per la via dell'armi, ai troni. A quei generali, a quei marescialli, venuti su dal nulla, tutto era stato possibile. Ma questo appunto non voleva la vecchia nobiltà, piena di sprezzo e di astio contro tutti quegli avventurieri, che le avevano tolto la sua vecchia supremazia — non solo non voleva ch'essi fossero gli eredi del loro autore, ma con la caduta di lui voleva sparissero anche gli strumenti della sua potenza, quei chiassosi affascinatori del popolo, che già troppo lungamente avevano sconvolte le cose d'Italia. Frattanto, Austriaci e Inglesi s'inoltravano nel Veneto, nella Romagna, in Toscana; si avanzavano i Napoletani con non ben definite intenzioni. Il Vicerè dirigeva ai sudditi vibrati proclami, scongiurandoli a stringersi intorno alla sua insegna: «Onore e fedeltà» e il dì 8 febbraio 1814, avanzando da Mantova e da Peschiera, batteva gli Austriaci. Il piccolo esercito italiano, mentre tutto rovinava intorno al colosso napoleonico, impavido ed incorruttibile, gli dava l'illusione di saper vincere ancora d'oltralpe. * * * Firmato l'armistizio del 16 aprile 1814, rimpatriate le truppe francesi, il Beauharnais si trovò in Milano, in mezzo ai politicanti che lo odiavano, come sopra un terreno minato. I varî partiti, quello degli italici, degli austriacanti, dei murattiani, si univano non solo nelle congiure per rovesciare il Vicerè, ma nelle calunnie per diffamarlo, per renderlo inviso, odiato. Dice un cronista che «le genti pie o di austere massime non entravano nel palazzo del Vicerè senza provare un segreto raccapriccio; chè di bocca in bocca correvano novelle di donne sedotte, di mariti di padri maltrattati ed anche uccisi.» E si narrava che, per ordine del Vicerè, fosse stata fucilata una guardia d'onore per aver _pensato_ alla diserzione; che fossero stati torturati con cinquanta colpi di bastone al giorno, per un mese di seguito, i condannati ai lavori forzati nelle prigioni di Mantova. I nobili soffiavano nel fuoco, e aizzavano l'odio del popolo anche contro i ministri, tre dei quali specialmente invisi, perchè non milanesi: il Prina di Novara, il Paradisi di Modena e il Vaccari di Bologna. Altro uomo odiatissimo era il segretario del Vicerè, conte Méjean, naturalizzato italiano, un napoleonista cieco e oggetto del livore universale: più ancora di lui quel Darnay, che dal gabinetto del Principe era passato alla direzione generale delle Poste, e, ignobilmente, aveva ridotto il pubblico servizio ad un'insidia quotidiana di polizia, violando, sopprimendo, disperdendo le lettere. Le gesta di questo osceno — è proprio la parola — di questo osceno _gabinetto nero_, oltrechè d'orrore a tutti i cittadini onesti e pacifici, tornavano di grave danno ai commercianti, già esasperati per le difficoltà create dal blocco continentale e stremati di forze dai balzelli; sicchè, tutt'insieme, non si respirava che fiele e vendetta. I fallimenti erano incessanti e disastrosi e.... scandalosi, _quasi_ come adesso; e ciò, mentre le campagne, come ho già detto, erano infestate dai malandrini e dai mendicanti, e le città divise fra chi osava imprecare apertamente all'Imperatore e i più furbi che, pensando potesse egli tornare alla strapotenza di prima, si rammaricavano che gli alleati avessero passato il Reno. Le caricature e i giuochi di parole esprimevano gli umori del tempo. Il citato De Castro ricorda una stampa che rappresentava il padrone del mondo con quattro enormi gozzi, sopra ognuno dei quali erano le lettere componenti la parola _Sire_; le iniziali delle quattro nazioni: Spagna, Italia, Russia, Egitto, ch'egli aveva voluto ingoiare, e che gli erano rimaste in gola. Così la parola di moda era quella che doveva tornare in voga, colla tragica desinenza in _ismo_, presso i rivoluzionari della Russia contemporanea: la parola _Nihil_, e questo solo perchè le sue cinque lettere erano le iniziali dei nomi latini di cinque re detronizzati o che stavano per esserlo, cioè: Napoleone, Joseph, Hieronimus, Joachim, Ludovicus. Le colpe della Francia, gli eccessi del liberticida, dello sterminatore, favorivano la riscossa della vecchia Europa, preparavano la ristorazione del vecchio regime, davano un colore di novità preziosa e desiderabile a tutto ciò che, sotto le parvenze di un ordine riparatore, pur celava le cupidigie grette e crudeli della reazione secolare. In quei giorni, cogli alleati alle porte e mentre il Senato convocavasi pel 17 aprile, per offrire la corona al Beauharnais, aumentavano le irrequietudini di un partito che si era dato un bel nome: quello degli _Italici puri_, ma che mancava di un vero e buon programma.... forse perchè _italici_, a quei tempi, non voleva ancor dire _italiani_. Di questa fazione facevano parte uomini di non comune levatura, che si radunavano presso un noto avvocato, oriundo valtellinese, il Traversi, la cui moglie avida, intrigante, stizzosa contro la corte, a lei preclusa, aiutava il marito, vecchio ed astuto mestatore d'affari, volgare d'animo come d'ingegno. In quelle sale, ove si voleva ad ogni costo un re italiano, ma dove, in attesa di inventarne uno, inconsciamente forse, si faceva il giuoco dell'Austria, bazzicavano i Bossi, i Cicogna, i Durini, i Fagnani, i Balabio, i Silva, Carlo Castiglioni, Luigi Porro e più raramente, perchè si teneva in disparte, Carlo Verri. E capo e despota di questo partito, voleva farsi anche l'aristocratico, l'altiero e il liberale — liberale d'idee, non di abitudini — Federigo Confalonieri, del quale conte Confalonieri, si diceva altresì che odiasse il Vicerè, perchè questi aveva osato ammirare oltre il segno la sua bellissima e castissima sposa. Ed altre e ben meschine gelosiucce, altri ancor più bassi risentimenti, come per gradi e cariche non ottenute a corte e concesse invece ad ufficiali, erano forse le più gravi cagioni d'inimicizia contro il Beauharnais, specie nei giovani patrizi, fautori di una nuova dinastia, colla quale, più proficuamente, venire a patti. Volevano un altro padrone: o il re del Piemonte, o il re di Napoli, o il general Pino, o un patrizio lombardo d'alto nome, o alla peggio anche un re straniero. Non mancavano i candidati di fuori: si parlava, ad esempio — tanto è grottesca la politica, veduta da lontano — del duca di Chiarenza, uno dei dodici figli del re Giorgio III d'Inghilterra; con che gli Italiani si sarebbero assicurata la protezione di lord Castlereagh, che a quei giorni faceva la pioggia e il sereno nell'orizzonte diplomatico d'Europa. — Tale era il funesto effetto della dominazione napoleonica, sorta con la fortuna e con la violenza di un uomo, che, al suo declinare, tutte le ambizioni pazzamente si sfrenavano in un campo rimasto vuoto a un tratto, e quasi in balìa di un nuovo fortunato occupante. È facile immaginare come in un ambiente simile, fra tante correnti diverse, con tanti interessi in giuoco, trovassero la loro cuccagna gli agenti segreti, i provocatori, gli imbroglioni politici, le spie, specialmente austriache e inglesi! L'Austria, però, aveva per sè, in Milano, fautori assai più abili ed efficaci dei soliti arnesi di polizia. Un tristo miscuglio di odii e di vendette contro il Beauharnais, e in genere contro la Francia, di ambizioni e di cupidigie personali, di servile ed ostinata devozione all'Austria, moveva a congiurare in favor suo gente formidabile per astuzia e malvagità. Il posto d'onore tocca al marchese Filippo Ghislieri di Bologna, già consigliere aulico di Francesco I, poi relegato a Mantova, come spia austriaca, poi liberato dal Beauharnais: uomo turbolento, il quale da anni covava nell'animo, e sapeva celarla a tempo, la smania di riafferrare colla restaurazione dell'Austria, le ricchezze e gli onori perduti; abile parlatore, elegante, sarcastico, capace di tutto pur di riuscire. Dopo la parte trista avuta negli eventi a cui siamo arrivati, un'altra ancor più trista egli doveva avere di poi, nel processo politico per cui furono condannati il celebre medico Rasori, il generale De Maister, i colonnelli Gasparinetti, Moretti ed altri, prime vittime dell'Austria rifatta padrona; e in fine dai padroni stessi disprezzato e gittato in un canto, doveva vestire l'abito fratesco, per morire in pochi mesi, dilaniato dai rimorsi. Il Ghislieri era di nascosto a Milano, a riannodare — vestito ora da frate, or da contadino, or da giocoliere.... persino da donna! — i vecchi intrighi col conte Gambarana, col Mellerio, con Alfonso Castiglioni, intrinseco suo, e cogli altri sfegatati austriacanti, o, come erano detti, _materialoni_; e in quegli stessi giorni giungevano da Mantova il Vaccari e il Méjean per indurre il Senato a proclamare re il Beauharnais. Ma il conte Dandolo, al Senato appunto, presentava un decreto, il quale, anzichè l'offerta della Corona, conteneva per Eugenio una specie di benservito, e invano tentavano di opporvisi il Vaccari e gli altri _Eugenisti_ e lo stesso ministro Prina. Durante il 17 e il 18 aprile tutti a Milano si chiedevano: Che farà il Vicerè? Che cosa farà l'esercito? E l'Austria? E gli alleati? Agli angoli delle vie si leggeva: «Non re chi, vicerè d'Italia, sprezza e spoglia.» Al Municipio, uomini di tutti i partiti, firmavano in odio ai francesi, una richiesta di convocazione dei collegi elettorali. V'erano i nomi del Pino e dei più noti fra gli italici puri, quelli di molti austriacanti, dell'anglomane Trecchi, dello stesso podestà Durini e altri già insigni nelle arti e nelle lettere: il Cagnola, il Monteggia, il Rosmini — Carlo Porta e Alessandro Manzoni. Il Melzi — povero duca di Lodi! — era inchiodato in casa dalla gotta, e anche di ciò gli austriacanti gongolavano. Grave e controversa è una circostanza di quei giorni, che verrebbe a cumulare sovra persone irradiate più tardi dalla luce del patriottismo, la grave, la dolorosa responsabilità della vergogna incombente. Voglio dire gli accordi che sarebbero intervenuti prima in casa della letterata Bianca Mileti, poi in quella del consigliere Freganeschi, tra il Gambarana da una parte e il Confalonieri, il Porro, il Botti, il Ciani ed altri _italici_, dall'altra. Se si pensa che cosa meditassero e affrettassero il Gambarana e il Ghislieri e il Traversi, la loro comunanza coi patrizi riesce profondamente amara, rattristante. Due dei loro emissari, un tal Fontana e un sinistro figuro, il Tencino, stavano raccogliendo nel contado, specialmente nel Novarese e nella Lomellina, la feccia dei malfattori: l'assoldavano regolarmente, con mercede fissa — sei lire italiane al giorno per ogni collo da forca, e assicurazione di cibo e di vino. I patti? Trovarsi tutti in Milano la notte del 19 aprile e la giornata seguente: — Ci sarebbe stato da fare! — Gli italici avevano apparecchiato una delle solite «_dimostrazioni_» contro il Senato: or bene, quella feccia di malfattori, quella marmaglia, avida di stragi, d'anarchia e di rapine, doveva a mano a mano ingrossare il gruppo dei _Signori_; doveva a mano a mano mutare la chiassata in tumulto, il tumulto in rivoluzione.... rivoluzione che avrebbe costretto il generale Neipperg, comandante l'avanguardia dell'esercito austriaco, ad entrare in Milano, per ristabilirvi l'ordine.... e una volta entrato poi.... anche a rimanervi, per mantenerlo! Che orribile giornata quella del 20 aprile 1814! II cielo buio, caliginoso, la pioggia diaccia e fitta. Prima ancora del mezzogiorno, intorno al Palazzo del Senato, si formavano capannelli di persone, per lo più ben vestite, che discutevano in tono iracondo, sfidando il maltempo che infuriava, sotto la tettoia mobile e sgocciolante degli ombrelli aperti, sbattuti dal vento. Si aggiravano tra i gruppi parecchi nobili: — il conte Federigo Confalonieri, il Serbelloni, il Durini, il Silva, il ciambellano e consigliere di Stato Fagnani, e non pochi ufficiali della guardia civica. «A misura che giungono le carrozze dei Senatori» narra il Verri, «qualcuno del gruppo salendo su di una scala tenuta in mano da un uomo d'alta statura, s'affacciava allo sportello gridando il nome del Senatore, e scoppiavano urli plebei e fischi contro quelli che nella seduta del 17 avevano sostenuto il Vicerè.» Si seppe poi esser colui il domestico d'un patrizio di parte austriaca. E il Verri continua a narrare di essere stato egli stesso assai «plaudito» mentre infilava il portone del palazzo e d'aver udito, insistente, la domanda di convocazione dei collegi elettorali. Non v'era a custodia del Senato che un picchetto di dragoni: della truppa, comandata dal generale Pino, nè allora presso il Senato, nè dipoi, durante l'imperversare del tumulto, nessuna notizia! La soggezione del Pino a quei medesimi cospiratori che avevano assoldato i sinistri eroi della giornata, non avrebbe potuto apparire, nè più patente, nè più vergognosa. Mentre il capitano Benigno Bossi, ammesso nell'aula, si offriva colla propria guardia civica a custodia del Senato, e i Senatori, per quanto non tutti compresi della gravità del momento, acconsentivano, la folla, col pretesto di volersi riparare dalla pioggia sotto i portici del cortile, vi irrompe, disarmando i dragoni che invano tentano opporvisi; spezza loro le spade, strappa loro la lettera _N_ dalle divise e dagli elmi e prorompe in grida minacciose: «Non più francesi! Non più Vicerè! Costituzione! Indipendenza!» I Senatori, intimoriti, sospendono la seduta, e il Verri si affaccia alla soglia per arringare la folla. «Ma quale non fu la mia sorpresa» — lasciamogli la parola — «nello scorgere totalmente mutata la qualità delle persone ivi affollate: al mio arrivo erano tutti cittadini nobili o almeno civili, colle loro ombrelle; invece vi trovai una sessantina d'individui del basso popolo, tutti a me sconosciuti. Chiesi più volte chi mi conoscesse, e pregai che qualcuno si avanzasse esponendo cosa volevasi. Ma fu inutile: la folla rimase immobile e muta: vidi figure che nulla presagivano di bene, bensì saccheggio e rapina.» Saccheggio, rapina e strage! E la vittima era già designata nel ministro Prina. II conte Giuseppe Prina, nato a Novara il 19 luglio 1766, da nobile famiglia, aveva studiato a Monza, nel collegio dei Barnabiti, poi all'università di Pavia, ove s'era laureato. A 25 anni era ministro delle dissestate finanze di Carlo Emanuele II e nel 1798 rinunciava nobilmente al potere per non emanare un decreto fraudolento col quale si voleva far perdere alla carta monetata due terzi del suo valore nominale. Quintino Sella, Giovanni Lanza, Marco Minghetti e Silvio Spaventa sembrano usciti dallo stesso ceppo dell'onesto ministro del primo regno italico. Nominato podestà da' suoi concittadini, nei Comizi di Lione parla con molto senno e si offre con molta abilità: Napoleone col suo occhio d'aquila, vede in lui il ministro delle finanze che gli occorre, e lo addita, senz'altro, al duca Melzi. Sebbene affranto dal faticosissimo riordinamento delle finanze della Repubblica italiana, il Prina accetta, e co' suoi metodi di esazione e di contabilità, colle imposte indirette e con altri spedienti della sua mente fiscale operosissima, dà al Regno Italico una forza finanziaria non prima conosciuta: triplica l'esportazione dei grani, diffonde l'insegnamento dell'agricoltura, crea a Milano la Manifattura dei tabacchi, fa della Zecca una delle migliori d'Europa, vi annette un museo numismatico ancora invidiato e riesce a gittare per anni e anni milioni e milioni nelle insaziabili fauci napoleoniche, senza arricchire d'un soldo sè stesso, ma stremando, taglieggiando spietatamente il popolo, accumulando un'infinità di dolori, di lacrime, di odii. Se codest'uomo non si fosse dato anima e corpo, colla sua piena, cieca, cocciuta devozione di piemontese e di impiegato, a Napoleone; se avesse saputo por freno alla libidine di danaro del despota, non avrebbe avuto d'uopo d'incrudelire contro i poveri con una specie d'incoscienza che si può spiegare, ma non scusare; e l'opera sua di rinnovamento economico, gli avrebbe assicurata in Lombardia la celebrità che sfida il tempo: quella della gratitudine. Semplice in mezzo agli onori, incorruttibile nella sua amministrazione, probo sino allo scrupolo, vivace e cortese a Corte, dolce e virtuoso nella vita privata, appariva gelido, spietato, quale ministro. Non seppe far altro che spremere danaro per l'Imperatore; e l'Austria, inconsapevole, lo scelse a farne il primo martire — cronologicamente — del risorgimento italiano. Ch'egli fosse vittima designata a prezzolati sicarî, lo prova anche la prima circostanza che ci si riaffaccia, riprendendo la lugubre cronaca del 20 di aprile. La turba ingrossata, anzichè occuparsi dei Senatori, che votata in fretta e in furia la riunione dei collegi elettorali, fuggivano lividi e tremanti, cominciò a gridare, con voce minacciosa, il nome del Prina. Carlo Verri invano rispondeva a quelle torve figure, che il Prina non era al Senato. Il popolaccio, e alcuni signori — dicono anche qualche ufficiale austriaco travestito — invadono le aule, circondano, minacciando, il presidente Veneri, rimasto imperterrito: uno dei nobili — il Verri, lo indica con le sole iniziali — «fu il primo a scagliarsi contro il ritratto di Napoleone dipinto dall'Appiani, lo forò coll'ombrello e gittollo dalla finestra.» Il Confalonieri cui l'atto venne specialmente imputato, smentì poi di averlo commesso, in una lettera a stampa. Intanto il maggior numero dei tumultuanti davasi a saccheggiare, a distruggere: strappava e disperdeva carte, documenti, registri, scagliava i mobili, i tappeti, le librerie nella strada, e ripeteva come un ruggito sempre più spaventoso il grido, imposto da alcuni, e che molti altri avevano certo nel cuore: Morte al Prina! Vogliamo il Prina! Morte al boia della carta bollata! Le grida, le imprecazioni feroci, gli urli di morte si fanno tremendi, fra il rintronare di colpi incessanti per abbattere la porta del palazzo dell'odiato ministro, che un cocchiere era stato in tempo a chiudere. Già da mesi, cartelli satirici si trovavano affissi di nottetempo ai muri di quella casa: «Da affittarsi: recapito dal dottor Scappa.» E altrove: «Prina, Prina, il giorno s'avvicina!» E il Prina sapeva che si era detto di voler far la festa ai tre _P_ delle finanze; cioè a lui, e a' suoi due segretari Pavesi e Pioltini. Durante le sue passeggiate a cavallo per le vie della città — narra il Cusani — era stato insultato, minacciato, ed anche gli era stato consegnato un biglietto anonimo, nel quale si avvertiva di lasciar tosto Milano, se voleva aver salva la vita. Convinto dell'opera sua, testardo, tempra in fondo di buon granatiere, Giuseppe Prina di tutto ciò non si era curato: ed anche la mattina del 20, a chi lo scongiurava di sottrarsi al furore popolare, rispondeva ostinatamente: «_I saria nen piemonteis!_» La porta non resse a lungo: già coloro che capitanavano la masnada salivano le scale,... e il Prina, cui l'imminenza del pericolo aveva ridato l'istinto della conservazione, febbrilmente cominciò a travestirsi, poi si celò nel caminetto di una stanza appartata.... La turba irrompe: pone tutto a soqquadro: sfonda cassettoni e armadi, agguanta gli arredi e il poco danaro. No, no!... non ci sono i tesori che il volgo diceva da lui rubati e accumulati! Anche molte carte e documenti sono sottratti, e questi — credesi con ragione — non dalla plebaglia acciecata, ma da chi fra essa aveva ordini e istruzioni speciali. Fu notato un tale, che corse senz'altro allo scrittoio del ministro; ne forzò il cassetto, ghermì un plico di carte e disparve. E mentre il turpe saccheggio infuriava nell'appartamento, altra gente sui terrazzi e sui tetti cominciava a demolire letteralmente la casa; e la demolizione «fu compiuta poi nella notte e il dì dopo, da persone che parevano del mestiere e che rivelarono più tardi di essere state pagate.» Il conte Giovio, tra i pochi accorsi per salvare l'infelice ministro, fu minacciato e insultato da uomini «cui era sul volto l'indizio dell'ordinato delitto» e frattanto nè Giacomo Luini, capo della polizia, nè il generale Pino, comandante del presidio, si fecero vivi. Anzi, l'aiutante del generale, Luigi Cima, al capitano della guardia civica, Bosisio, che con pochi soldati moveva verso il luogo del saccheggio, intimava di ritirarsi in Castello. La giornata doveva essere tutta dei sicarî chiamati a Milano per affrettare all'Austria il cómpito di ristabilire l'ordine sanguinosamente turbato. Soltanto verso le 4 del pomeriggio, il Pino fece una delle sue teatrali comparse in grande uniforme. Ad un invito perentorio del podestà, finiti appena di intascare altri 50,000 franchi di gratificazione estorti nella mattinata al Vicerè, il vecchio sciagurato si recò alla casa del Prina, si aprì il passo tra la folla furibonda, ne raccolse scherni e minacce, quantunque sfoggiasse la Corona ferrea e la coccarda italiana; e siccome un servo tremando e baciandogli le mani, gli ripetè che il Prina non era nella casa, se ne ritornò come era venuto, lasciando che la masnada sitibonda di sangue continuasse a frugare in ogni camera, fin nelle soffitte. Corrono versioni disparate, intorno al modo preciso col quale il Prina cadde nelle mani de' suoi carnefici. Dicesi che un falegname lo scorse nel nascondiglio ov'era rannicchiato, ebbe la promessa d'un milione purchè tacesse, ma con un grido involontario tradì la vittima e sè stesso. Narrano altri che il ministro fu colto in camicia, fra il soppalco e i tetti. Altri ancora, che avendolo il dottor Bazzoni celato in una vasca nel solaio, fu colà rinvenuto da un garzone muratore che si diè a gridare: «È qui; è qui, il Prina!» attirando tosto contro di lui la turba inferocita. Certo è che l'infelice, semivestito, livido, tremante, a mani giunte, ripetendo convulsamente: «Confessione! Confessione!...» fu tratto giù dai piani superiori nelle sue stanze, percosso coi pugni e cogli ombrelli. Ad ogni colpo gli si gridava: «Questo per il registro! Questo per il focatico! Questo per la carta bollata!» Ridotto quasi nudo, fu prima mostrato dal balcone della scuderia, alla folla imprecante, poi sospinto, legato e tramortito, calato giù, fra le braccia allungate, tese dai più furenti che con grandi urla lo volevano _vivo_, fra le mani! Alcuni pietosi, fingendosi i più accaniti nell'ingiuriarlo, lo circondano, lo spingono traverso la piazza San Fedele poi nella casa Blondel, ove sorge ora il _teatro Manzoni_; ma il generoso tentativo fallisce: strappato loro di mano, riescono ancora a difendere l'infelice dalle ombrellate, a sottrarlo alla folla, a nasconderlo nel cortile di una vicina osteria. Ma intanto si faceva notte: «Vogliamo il Prina! Vogliamo il Prina!» La turba furente vieppiù imbestialiva, assediava la casa, ammucchiava una catasta di fascine per incendiarla: «Fuoco e morte! Vogliamo il Prina!» E il Prina, che nella tregua si era alquanto riavuto, pensando certo che attirava l'estrema rovina su chi lo voleva salvare, uscì da sè stesso dal nascondiglio, e si offrì agli assassini ripetendo: «Confessione! Confessione! Un prete!» Quattro ribaldi — continua a narrare il Cusani — gli si precipitano addosso, ed uno, con un colpo di martello sulla testa, lo stende al suolo, e per le gambe lo getta nella via. Il pensiero ne rifugge, raccapricciando! Al fioco chiarore delle lampade, sotto la pioggia fitta, scrosciante, sanguinolento, livido per le percosse, legato pei piedi sur un asse, il conte Prina, semivivo, fu trascinato per mezza la città da un'orda d'indemoniati. «Le loro grida di patria, di libertà», scrive il Foscolo, «e le loro fiaccole che mi mostravano facce pallide, atroci, e labbra tremanti di rabbia e occhi pieni di stupidità e di delirio, e i loro corpi barcollanti d'ubbriachezza e di furore baccante, e alcuni con mani armate di coltella mezzo rotte o di corde da strozzare e di sacchi vuoti a rubare, m'insegnarono più teorie di libertà che non tutti i libri della filosofia e quanto lessi mai nelle storie!» All'orrenda scena indietreggiavano i popolani atterriti, si chiudevano case e finestre, svenivano le donne.... Finchè ebbe voce, la povera vittima ripetè le parole «Confessione! Confessione! Un prete!» Morì, non per alcuna delle tante ferite — come provò poscia la perizia medica — ma di angoscia, di terrore, di dolore.... Il cadavere pesto, sformato, venne buttato da' suoi carnefici stanchi, affranti, nel cortile del Broletto e là giacque per parecchie ore sotto la pioggia gelida, nel sangue e nel fango, finchè la notte stessa, quasi di soppiatto, fu trafugato e sepolto nel camposanto di porta Comasina. * * * Un pezzo di gronda — creduto nel buio un cannone — valse a mettere in fuga la masnada che si accaniva a demolire la casa del Prina. Compiuto il delitto, uscirono le truppe e per tutta la giornata del 21, il Pino fu nelle vie, sempre a cavallo, a prodigarsi, a farsi acclamare ed anche a farsi minacciare, giacchè la piazza gli aveva preso la mano; e alle intimidazioni proterve, il vecchio soldato non trovò il coraggio di rispondere se non abbottonandosi il pastrano per celare le decorazioni invise, e facendo togliere il cannone posto dinanzi alla porta del palazzo reale, come una mano di facinorosi, con grida sconce, gli imponeva. La cittadinanza, frattanto, sentiva orrore dell'accaduto, e nondimeno pareva consolarsi che una sola fosse stata la vittima. Si riunì tosto il Consiglio comunale, ed elesse una reggenza provvisoria presieduta da Carlo Verri, l'uomo in quei dì più popolare, perchè l'unico veramente puro, tenutosi lontano da tutta la baraonda di bramosie venali e vanitose, dalle sètte, dalle congiure, dai tradimenti. Il Verri, sin dal mattino, cominciò ad abolire le tasse che più gravavano sul popolo, e lo annunziò con manifesti «che scongiuravano i buoni milanesi di tornare in calma.» E i buoni milanesi non domandavano di meglio; ma per le porte, disertate persino dalle guardie del dazio, continuava a piovere in Milano — chiamatavi ancora dall'odor del bottino — la feccia più turpe del contado. — E questa si univa agli eroi del giorno innanzi e stava per muovere verso il palazzo del duca Melzi e contro quello del Vicerè, allorchè — più efficace dei violenti manifesti del Pino — provvide a spazzarne le vie con qualche carica a baionetta in canna, il capitano della guardia civica, Bernardo Ottolini, arrestando molti dei più sinistri figuri, finchè alla sera del 21 una lugubre calma si stese sovra la città, contristata da tanta vergogna.... vergogna non tutta sua. Nondimeno, nè tosto, nè poi, si vollero seriamente, di questa infamia conoscere gli autori, punire i veri colpevoli. Parve che un accordo pauroso si formasse nella cittadinanza, anche fra gli uomini più eletti di mente, il Pellico ed il Manzoni, ad esempio, perchè sulla tragedia del 20 aprile, si stendesse un pronto oblio. E così, gran parte degli arrestati furono messi in libertà, senza inizio di processo, altri, inquisiti fiaccamente, _pro forma_, pochi processati.... ed assolti. Anche la musa popolare non si destò, da principio, se non per inferocire grossolanamente contro il ministro assassinato. Solo due anni più tardi, un poeta, un tranquillo poeta, manzonianamente fluido nella forma e misurato nell'impeto, ma nondimeno vero poeta civile, Tommaso Grossi, rivendicava la probità e la buona fede del conte Prina, in quel piccolo capolavoro di poesia vernacola intitolata la _Prineide_, nel quale il verismo descrittivo e la fine arguzia politica fecero supporre, senz'altro, l'estro possente del Porta. Ma il Porta si affrettò a respingere la gloria di quella coraggiosa opera d'arte che troppe noie.... gli avrebbe attirato dagli Austriaci, i nuovi e sospettosi padroni. E così, anche il verso dialettale ch'era sgorgato finalmente a deplorare l'eccidio del 20 aprile, parve pentito di sè, fu sconfessato quasi, non in nome dell'arte, ma della paura. Quanta nostra _fine di secolo_, in quel _principio di secolo_! Come tra il fluttuare degli ordini sconvolti, degli elementi storici già disgregati, ma non ancora atti a comporsi in una novella armonia, gli uomini appaiono allora ed ora agitati da passioni che li traggono alla ruina o inspirati da idealità a cui solo i tempi futuri potranno spianare la via! Partiti estremi che non s'intendono fra loro: uomini, che sopra l'ondeggiare di questi partiti rumorosi e vani s'intendono per dominare fin che possono; plebi travagliate e ignare che nei loro impeti insani fanno il giuoco dei loro oppressori medesimi; intelletti confusi e coscienze turbate dall'aspettazione di un avvenire incertissimo, che la volontà più poderosa non può nè allontanare nè affrettare; come tutto ciò che forma il quadro della vita pubblica nella prima grande rivoluzione, si rinnova nell'ultimo scorcio di questo secolo che fu ed è tutto una rivoluzione! Per tal rispetto, a leggere i giornali d'allora, si è colti, talvolta, da uno stupore profondo: se non fosse la carta ingiallita, la vecchia stampa, l'odor d'antico che esalano i volumi di quelle vecchie collezioni, si potrebbe credere di aver sott'occhio i giornali d'oggi, tanto è qua e là, la somiglianza del linguaggio, tanto si pareggiano gl'inni e le contumelie, le adulazioni e le calunnie gettate a piene mani contro questo o quell'uomo politico, destinato a trionfare, destinato a perire, destinato in ogni caso ad essere travolto nell'oblio, fino a che i nipoti curiosi non pensino un giorno a rievocarne la memoria. Possiamo — ahimè! — specchiarci tutti nelle immagini del passato, e impararvi che il mondo rinnova sempre i suoi errori, perchè dalla storia, che Cicerone chiamò maestra della vita, la vita non va mai a scuola.... Tornando a quelle giornate dell'aprile, la figura che novamente ci si riaffaccia, in una luce comicamente fosca, mentre gli austriacanti rimangono nella loro sinistra penombra, è ancora quella del Pino. Quest'uomo, di cui al mondo non andrà mai estinta la razza, per la sua stessa sfacciata vanità, appariva in mezzo al gregge genuflesso, come un salvatore della patria. Quanta analogia tipica in codesto _parvenu_ del potere, con altri violenti, ed avidi e spudorati, saliti in alto molti anni dopo di lui! Si accusava, si vituperava, si calunniava forse e non di meno si temeva: anche allora si ripeteva, supinamente, che quel vecchio era necessario, che quel vecchio assicurava l'ordine, il benessere pubblico, sociale, l'avvenire dello Stato. Uomini probi, disinteressati, che sarebbero morti di vergogna ove di loro si fosse detto ciò che la voce pubblica diceva del Pino; che sapevano de' suoi imbrogli, delle sue cambiali, delle sue malversazioni, delle somme enormi estorte al Vicerè ed allo stesso Napoleone, dell'assassinio del Lahoz sugli spaldi d'Ancona, delle brutture della sua vita intima, giudicavano, nondimeno, che al Pino fosse dovuta in quei frangenti la tutela degli istituti pubblici e delle casse dell'erario. È sorte delle moltitudini questa, di subire periodici accecamenti; di credere che a volte occorra un briccone violento per governare migliaia e migliaia di galantuomini. * * * Il Beauharnais, caduto Napoleone, si trovava davanti un fiero dilemma: o dar guerra o ritrarsi; imporsi per forza, in Milano, ai molti che più non lo volevano, o cedere alle insistenze dei congiunti che lo chiamavano a Monaco. «La condotta del Vicerè — giudica uno scrittore sereno, acuto e coscienzioso — la condotta del Vicerè fu in quel punto morale per ogni verso, semplice, schietta, recisa, ma — aggiunge — terribile per gli Italiani. Non voglio, disse Eugenio a' suoi generali, a' suoi soldati, ai congiunti, alla consorte, ai nemici, non voglio pormi per forza a capo d'un paese che non mi desidera.» E infatti, il 23 aprile, Eugenio stipulava una seconda convenzione militare che sanciva l'abolizione del Regno Italico, e la consegna ormai fatale del suo territorio all'Austria. Nell'esercito costernato, invano tentarono gli ufficiali superiori di opporsi a questa dedizione. Eugenio si accomiatò dal popolo e dalla milizia con proclami nei quali vibrava una nota gentile, cavalleresca, civilmente umana. Se per noi ricominciava l'antica servitù, non ne era già egli l'autore: egli pure cadeva vittima del tristo destino d'Italia. Oh! come ripensando alla calma fierezza di quell'uomo in quei giorni, e rileggendo le sue parole spicca a lui vicina dinanzi alla nostra mente la figura nobile e buona della principessa Amalia! Lei, che aveva voluto che il figlio suo nascesse a Mantova, tra le ansie e i pericoli della guerra, perchè dalla memoria stessa del luogo nativo, fosse indotto ad amare l'Italia, lei, non esitava ora a consigliare al marito la via del disinteresse e delle nobili rinuncie. È anche questa una provvida ricorrenza della storia: quando in basso come in alto rugge la tempesta, e si addensano miasmi di disonestà e di depravazione, chi deve rispondere dei gravi doveri di una corona, trova spesso in una donna la buona consigliera, la purificatrice, la degna alleanza e la salvezza. Ma questa donna non è, non può essere, una che abbia carpito i favori del principe, che ne abbia distratto anzichè temprato il pensiero, che ne abbia spento i begli entusiasmi tra i dolci peccati.... No! No! Il regno di Aspasia è tramontato con Pericle! La salvezza non può venire dalla «favorita», dalla «bella» pel cui capriccio sovrani e popoli, correvano in altri tempi i rischi della rovina e del ludibrio.... Chi tutto salva è ben altra donna, una sola: la moglie, la madre, la compagna del presente e dell'avvenire. Indulgenti e pietose, nella purissima intimità, negli ignorati sacrifici, nella santità degli affetti, donne auguste come Amalia di Baviera, al pari della donna più umile, esercitano un benefico impero d'amore sopra l'uomo amato. La moglie del principe, salva talora un'epica fama e decide di un periodo storico, delle sorti di un popolo, per quella stessa virtù del cuore, che alla oscura moglie dell'uomo di lavoro, suggerisce spesso, nel silenzio e senza che alcun lo sospetti, il franco e generoso consiglio che salva dalla sciagura lui, i suoi figli, la sua casa! IL CONGRESSO DI VIENNA CONFERENZA DI ERNESTO MASI. _Signore e Signori,_ Vi sono nella storia fatti e personaggi, a dir corna dei quali non si sbaglia mai, perchè si è certi d'avere dalla parte vostra il consenso di quella maggioranza di gente, per cui accettare un giudizio bell'e fatto e ripeterlo e adagiarvisi sopra è, se non altro, un gran risparmio di tempo, di fatica e di seccatura; e a tale categoria di fatti e di personaggi appartengono il Congresso di Vienna tra l'anno 1814 e 1815 ed i regnanti e gli uomini di Stato, che vi primeggiarono. Sbagliare in pochi è un gran rischio: essere in molti a sbagliare è quasi come non avere sbagliato. Il parlamentarismo, per esempio, si regge tutto su questo principio, e ritiene anzi d'avervi trovata la massima delle sue forze, qualunque sia poi il modo, con cui la maggioranza fu messa insieme. Gli effetti di questo principio, applicato alla politica, son.... quel che sono. Ma la politica non è spesse volte se non la risultanza, molto volgarmente pratica, degli interessi dei partiti e, peggio ancora, delle persone, che li compongono, e applicare lo stesso principio alla storia sarebbe come rinunciare di proposito alla critica, che è invece la ricerca assidua, obbiettiva e disinteressata della verità. D'altro lato però, se in questi casi l'andar contro corrente è per certi animi, non dirò più eletti, ma più solitari, una tentazione seducentissima e quasi irresistibile, non bisogna neppure esaltarsi ed ostinarsi di troppo in tale tentazione. Un'opinione larga, persistente, tradizionale, nella storia non si forma, se non ha radici, che si diramino profondamente nella realtà, e scartarla, come taluni fanno, solo perchè s'imbattono, frugando per gli archivi, in un gruzzolo di documenti, che sembrano testimoniare in contrario, è un altro grande pericolo di trovarsi dilungati dalla verità, quando appunto si è più persuasi d'averla potuta afferrare per i capelli. Così è del Congresso di Vienna, il quale, per la grandezza delle cagioni che lo promossero, per l'ampiezza e la complessità del fine che si proponeva, e per la varietà e l'importanza dei suoi componenti, fu, senza dubbio, la maggiore assemblea diplomatica adunatasi in Europa dal Congresso di Westfalia, con cui si chiuse la guerra dei Trent'anni, dal Congresso di Westfalia fino al 1814, e la maggiore altresì, che dal 1814 in poi si riescisse ad adunare mai più. Orbene, quale sia l'opinione più diffusa intorno al Congresso di Vienna, non ho bisogno di dirvelo, perchè tutti voi lo sapete. Fu, si dice universalmente, sotto le apparenze della giustizia, il più turpe mercato, che si potesse immaginare. Non si ebbe riguardo a nulla, nè a nazionalità, nè a confini geografici, stabiliti dalla natura, nè a tradizioni, nè a diritti, nè a storia. I popoli furono spartiti come armenti, comprati e barattati come ad una fiera; si voleva fare un'opera di pace, e si posero i germi di nuove rivoluzioni e di nuove guerre; si voleva disfare l'opera della violenza Napoleonica nel suo delirio di monarchia universale, e si imitò: l'ambizione e la cupidigia delle quattro maggiori potenze vincitrici di Napoleone, Russia, Austria, Prussia, Inghilterra, non ebbero altro limite che l'ambizione e la cupidigia di ciascuna di esse. E tale giudizio sul Congresso di Vienna non è quello soltanto delle vittime o degli oppositori liberali, ma è il giudizio dei conservatori e dei legittimisti; è il giudizio di Giuseppe De Maistre, ch'era allora ambasciatore di Sardegna a Pietroburgo; è il giudizio degli stessi, che parteciparono all'opera del Congresso, del signor di Talleyrand, pontefice massimo del dogma della _legittimità_, di Federico Gentz, la penna d'oro che ne vergò i protocolli in qualità di segretario, l'anima dannata del Metternich, il tipo della suprema eleganza e disinvoltura diplomatica del 1815, il quale, in un accesso di sincerità, scrive all'Ospodaro di Valacchia, amico suo, il Congresso di Vienna, con tutte le sue lustre di rigenerazione del sistema politico d'Europa, di rifacimento dell'ordine sociale e di pace durevole fondata su una giusta ripartizione di forze, non essere stato altro in sostanza che uno sbranarsi coi denti fra i vincitori le spoglie del vinto. Che più? Se leggete gli storici posteriori, Russi, Tedeschi, Francesi, Italiani, vedrete che ognuno ha il sentimento d'essere la propria nazione in particolare stata la vittima designata, il capro espiatorio di quell'immenso traffico di popoli e di regni, ed i Russi l'accusano d'avere, impedendo la ricostruzione d'un'intiera Polonia Russa, rapita ad Alessandro I, ch'era il vincitor vero di Napoleone, la più pura gloria del suo regno; i Tedeschi si dolgono che, vietata l'annessione della Sassonia alla Prussia e data all'Austria la presidenza della sconnessa Confederazione Germanica, non siasi voluto altro in sostanza che impedire l'egemonia Prussiana, come se Federigo il Grande non fosse mai esistito, pagare d'ingratitudine gli eroi della sollevazione nazionale del 1813 e ritardare la rigenerazione della gran patria tedesca, la quale dovrà aspettare la fatale apparizione contemporanea di Re Guglielmo, d'un Bismark e d'un Moltke: i Francesi s'arrabbiano che tutto sia stato concertato in odio e per diffidenza verso la Francia, riducendola ai confini del 1790, privandola d'ogni solida difesa sul Reno, stringendola fra la Sardegna ingrossata e un regno dei Paesi Bassi di nuova invenzione; gli Italiani finalmente si disperano di essere stati dati, piedi e mani legate, in preda all'Austria, la quale, ripreso dalla Baviera il Tirolo tedesco, ha fatto suo tutto il territorio fra l'Alpi, il Ticino, il Po e l'Adriatico, sue le vallate della Valtellina, di Bormio e di Chiavenna, sua la riva orientale dell'Adriatico fin oltre Ragusa, e come se tuttociò non bastasse, ha piantato luogotenenti suoi a Parma, a Modena, in Toscana, s'è ritenuta quella parte di provincia ferrarese, che è sulla sinistra del Po, ed ha acquistato persino diritto di guarnigione entro le fortezze di Ferrara e Comacchio negli Stati del Papa. Si direbbe che non v'ha di soddisfatti se non gli Inglesi, che dopo essersi, durante venticinque anni di guerre, beccate a una a una tutte le colonie, ne restituiscono alcune per gran tratto di magnanimità, ma intanto si ritengono il Capo di Buona Speranza, la miglior parte delle Guiane, l'isola di Francia, altre isole delle Indie Occidentali, poi Malta e finalmente, a titolo di protettorato, le isole Jonie, tutti insomma i migliori punti d'appoggio, che assicuravano la loro indisputabile signoria sui mari Atlantico, Indiano e Mediterraneo. Tant'è che il loro rappresentante, l'imperturbabile Castlereagh, era forse il solo, che, a braccetto coll'Austria, poteva andarsene soddisfatto dal Congresso, e se, sette anni dopo, credette bene di tagliarsi la gola, fu per tutt'altro, fu, vale a dire, perchè la signoria del cuore d'una donna è spesse volte più difficile assai della signoria dei mari, e l'amore, quando dice davvero, non comporta gli accomodamenti e i compensi, dei quali la politica può contentarsi. Voi vedete, Signore, sotto quanti e diversi aspetti l'opera del Congresso di Vienna appare ed è, per larghissimo consenso d'opinioni, giudicata trista e biasimevole. In tale giudizio non si può a meno di convenire, nè bastano ad attenuarlo le poche deliberazioni che nel cosiddetto _Atto finale_ di Vienna del 9 giugno 1815 riverberano principii umanitari e non soltanto calcoli egoistici d'interessi e d'ambizioni particolari, l'abolizione cioè della tratta dei negri, la libera navigazione dei fiumi e quella specie di galateo diplomatico, che credo sia vigente tuttora, per la gerarchia delle rappresentanze internazionali. Ci voleva altro a riscattar tutto il resto!! E ciò che imprime un marchio anche più ripugnante sul Congresso di Vienna, e sullo strazio fatto da esso d'ogni ragionevole aspirazione nazionale di popoli, nel preteso assetto, che impose a tutt'Europa, salvo che alla Turchia (materia predestinata a brighe ulteriori e a cui lasciavano intanto martoriare la Grecia) ciò che imprime, per ragione di contrasto, un marchio anche più ripugnante sul Congresso di Vienna, è tutta quell'aria di perpetuo carnevale, che lo circonda, tutta quell'orgia continua di balli, di pranzi, di cene luculliane, in cui si profondono tesori; è quell'incetta universale di cantanti, di comici, di ballerine, di acrobati, di cavallerizzi, di ciurmadori, chiamati da ogni parte a rallegrare gli ospiti della capitale austriaca; è tutta quella giocondità spensierata d'amori e d'intrighi romanzeschi, tutto quello sfoggio d'eleganze, tutto quello scintillìo d'oro e di gioielli, tutta quella prodigalità di lusso, onde una folla d'imperatori, di re, di principi, di diplomatici, di militari, e insieme d'intriganti, d'avventurieri, di scrocconi e di giuocatori di vantaggio circonda un'altra folla (ben più geniale, se vogliamo), quella delle più belle donne d'Europa, fra imperatrici, regine, principesse, dame autentiche, dame di princisbecco, peccatrici di fantasia e peccatrici di professione, _con ali aperte e ferme_ convolate dai quattro punti cardinali ad intrecciare i mirti di Venere agli allori di Marte, a mescolare le grazie, le dolcezze, le seduzioni, i piaceri, i liberi moti del sangue, della gioventù e della vita a tutta quella accigliata, pensierosa, compassata e inamidata solennità diplomatica, che avea il mondo sulle braccia e se lo voleva spartire, facendosi ognuno la parte del leone. Trentamila franchi al giorno costava la sola mensa imperiale; quarantanove milioni di franchi l'Austria sola spese di suo in pompe, spettacoli e cerimonie, e questo è niente a petto allo sperpero di danaro dei più ricchi signori d'Europa, che o gareggiavano di lusso, o liquidavano patrimoni in una notte ai tavolieri da giuoco, o gli arrischiavano sui fondi pubblici, speculando anche allora al rialzo e al ribasso sulle sventure della patria, o li gettavano (meno male!) ai piedi delle deità femminili più in voga. Se io potessi a parole far rivivere dinanzi a voi quel grande quadro, quel caleidoscopio così vario di feste e di spassi non mai interrotti, che rallegrò la società cosmopolita, raccoltasi a Vienna tra il settembre del 1814 ed il giugno del 1815, e rimasto poi un ricordo incancellabile, di cui son piene le _Memorie_ e le _Lettere_ posteriori di molti fra gli eroi e le eroine di quella lieta gazzarra, un ricordo che, a guisa di strascico luminoso, rischiara ancora le ombre e consola ancora le inevitabili mestizie della loro memore vecchiaia, potrei sperare, pur con un simile argomento alle mani, d'intrattenervi molto piacevolmente in quest'ora, che m'è assegnata, certo più piacevolmente di quello che riferendo le discussioni precedenti al trattato e analizzando il contenuto dei 121 articoli dell'Atto finale del Congresso. Due grossi volumi ne ha riempito il De La Garde, uno dei tanti giramondo, che vi assistevano da dilettanti, e framezzo a molti errori grossolani di fatti e di nomi e a molte inutili chiacchiere, che oggi non possono aver più alcun valore, l'opera sua ha una certa importanza, perchè il De La Garde riferisce, con riverenza di discepolo, i giudizi, i racconti e le impressioni del suo Mentore in quell'occasione, che era il famoso Principe di Ligne, un vero sopravvissuto del secolo XVIII, un vero rappresentante, già quasi ottuagenario, dei costumi e della sensualità frivola, gaudente, ma schietta e sincera d'una società già finita, perchè v'era passato sopra nient'altro che il turbine della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche. Bene o male, il Principe di Ligne s'era acconciato anche a queste; ed ora, compiuta ormai la sua lunga carriera di guerriero, di diplomatico e di avventuriere di gran lignaggio, e cinghiate alla meglio le vecchie membra nel suo uniforme onorario di feld-maresciallo austriaco, senza più fede nè illusioni negli uomini, ma conservando sempre una gran tenerezza, purtroppo alla sua età disinteressatissima, per le belle donne, ed ora, dico, amava (forse per gratitudine) che esse almeno si divertissero più che era possibile, avessero pure ad andarne a rifascio tutte le politiche di questo mondo. S'era quindi fatto esso pure promotore e ordinatore instancabile di quella successione di feste, che non soffriva mai nè respiro, nè ripetizioni, ed a chi si lagnava che, oltre alle discordie dei potentati e dei diplomatici, anche questo continuo svago impedisse ai lavori del Congresso di camminare, il Principe di Ligne rispondeva: «_non cammina, ma balla!_» Consolazione da filosofo del secolo XVIII! Il giocondo vecchio nel dicembre del 14 morì, da pari suo, d'un'infreddatura presa all'uscita d'un ballo, e ne' suoi ultimi momenti, dopo d'avere raccomandato che gli scrivessero sulla tomba: Ci gît le prince de Ligne: Il est tout de son long couché. Jadis il a beaucoup péché, Mais ce n'était pas à la ligne, il giocondo vecchio si compiaceva che a Vienna, dove, tra balli, corse sulle slitte, giostre medievali, caccie col falcone, commedie di salotto, quadri plastici, concerti, teatri, non si sapea più oramai come variare spettacolo, le sue dolci amiche potessero, mercè sua, godersi anche quello del funerale di un feld-maresciallo. Se non che il Principe di Ligne era uno spettro del passato. Questa precisa disposizione di spirito, questa gaiezza inesauribile erano già tramontate, ed il romanticismo, con tutti i suoi fervori di restaurazione monarchica, di mesta sentimentalità, di ritorno agli ideali religiosi, di reazione agli eccessi della Rivoluzione e a quelli del Cesarismo soldatesco di Napoleone, il romanticismo aleggiava già dappertutto e sotto tutte le forme, modificava e rinnovava già dappertutto le disposizioni morali d'una società, stanca di tante lotte, di tanti travagli, di tanti sacrifici, di tante ecatombi di vite umane, di tante rovine di fortune, di tanti strazi d'affetti domestici, di tanto rimescolio di classi, di governi e di popoli, d'una società insomma, che sentiva il bisogno di riafferrarsi nuovamente alle vecchie tradizioni scompaginate, il bisogno di tornare a credere per poter tornare a sperare, e intanto cominciava dal godere, l'unica filosofia, in cui gli uomini si sono sempre trovati e si troveranno sempre tutti d'accordo. Napoleone stesso avea avuto sentore di questo mutamento profondo, che s'andava compiendo, e che dovea esser tutto a suo danno, quando avea detto: «il giorno ch'io sparirò dalla scena, il genere umano tirerà un gran: _oh!!_ di sollievo e di riposo», e consentaneo a tale condizione universale degli animi era in fondo il pensiero che moralmente avea inspirato il Congresso di Vienna, oltre alla necessità politica, dopo l'abdicazione di Napoleone e la sua relegazione all'isola d'Elba, di compiere nei suoi particolari quello che il trattato di Parigi del 30 maggio 1814 fra gli alleati vincitori ed i Borboni restaurati aveva appena abbozzato. Far la pace, assicurarla per lungo tempo, mutare quindi uno stato di cose, che non avea avuto altra legge se non la violenza e l'arbitrio più sconfinato, erano concetti veri, giusti e rispondenti alla piena realtà del momento storico, che s'attraversava. Ed eccoci così, o Signore, al punto di non secondare del tutto quell'immensa corrente d'avversione contro il Congresso di Vienna, a cui accennavo in principio; eccoci alla tentazione, che chiamai seducente, di dir bene di quello, di cui una gran maggioranza dice male. Ma eccoci altresì di fronte a due pregiudizi storici: l'uno, che sciupò l'opera del Congresso di Vienna, l'altro che non consente di riconoscere neppure quel tanto di buono, che era nel concetto fondamentale, da cui fu mosso, e che solo può spiegare perchè esso sia il fatto più importante della storia contemporanea dopo la Rivoluzione francese, e perchè, nonostante il come fu attuato, esso creasse uno stato di cose, che bene o male durò circa cinquant'anni e assicurò colla pace all'Europa (una pace travagliata, se si vuole) il periodo più fecondo di progressi materiali e civili, di cui ella avesse goduto mai. Il pregiudizio storico, che sciupò l'opera del Congresso di Vienna, fu che fermarsi, rifar la strada, retrocedere a tutta forza era il solo mezzo di riparare alle malefatte della Rivoluzione, quasichè essa non avesse avuto alcuna giusta ragion d'essere, e prima di essa fosse esistita in Europa una vera _età dell'oro_, un modello, un ideale di gran «repubblica Cristiana», come taluno osava dire, in cui tutto fosse stato regolarissimo, e il più scrupoloso rispetto dei diritti costituiti avesse governato sempre le transazioni internazionali e la più fraterna solidarietà delle monarchie avesse garantito, sempre, col mantenimento dell'ordine pubblico, la durata degli obblighi contratti, ed i diritti dei singoli fossero sempre e unicamente risultati dai doveri di tutti. Ma tuttociò era falso e la realtà era precisamente il contrario. Il secondo pregiudizio, il pregiudizio dei rivoluzionari, che divenne poi quello dei liberali, e impedisce anche oggi di riconoscere il buono del pensiero iniziatore del Congresso di Vienna e quel tanto di bene, nonostante le tristi passioni, dalle quali si lasciò vincere, gli riescì di compire, è che la Rivoluzione avesse, decomponendo del tutto la società preesistente, rimpastato il mondo secondo un ideale, perfetto esso pure, di fraternità umana e di assoluta giustizia, il quale, in conformità ai dogmi nuovi della filosofia, avesse attuato al di dentro d'ogni nazione il modello dei governi e al di fuori il modello delle relazioni internazionali. Ma tuttociò era falso del pari, e la realtà era precisamente il contrario, perocchè la vecchia Europa, trattando colla Rivoluzione, come avea fatto a Campoformio e in tant'altre occasioni, avea bensì riconosciuta la propria impotenza e liquidato quasi sè stessa con una specie, direbbe il Sorel, di bancarotta fraudolenta, ma anche la Rivoluzione, che a tutti i popoli avea promessa una patria, la pace e la libertà, avea contraddetto a sè stessa, di filosofica e pacifica divenendo militare e conquistatrice, facendo consistere in sostanza tutta la forza della Repubblica nella forza de' suoi eserciti, partorendo, novella Roma, un nuovo Cesare, e in cambio di patria, di pace e di libertà manomettendo le patrie di tutti e a tutti recando la guerra ed una nuova foggia di servitù. La Rivoluzione avea vissuto di conquiste; la conquista è violenza, e per questo i popoli la odiarono. Ma le conquiste della Rivoluzione aveano in pari tempo rovesciate molte delle barriere, frapposte già fra popolo e popolo dalle particolari cupidigie delle vecchie monarchie europee, e una volta rovesciate quelle barriere, molti popoli (l'Italiano e il Tedesco in ispecie) si riconobbero e s'affratellarono. La Rivoluzione avea così, suo malgrado, insegnato ai popoli l'indipendenza; la Rivoluzione, che avea trionfato dei Re, era caduta a Lipsia sotto la vendetta dei popoli, e la fine della Rivoluzione francese avea segnato il principio delle Rivoluzioni nazionali, che si compirono nel 1870. È questo, Signore, il concetto critico moderno della storia contemporanea, mercè il quale non si hanno più nè soluzioni di continuità, nè illazioni senza premesse, nè architetture sistematiche e rettoriche, le quali sforzino i fatti ad espressione diversa dalla loro realtà, e al lume di tale concetto esaminando anche il Congresso di Vienna, se ne vede il bene ed il male con quella maggiore obiettività che è possibile, e che sola per lo meno impedisce le innocenti falsificazioni della storia. Mi parrebbe ora, del resto, di considerarlo così. Ottantadue anni sono passati, grande spazio di tempo in un'età, come quella dal 1789 in poi, in cui i periodi storici si vanno via via restringendo quasi metodicamente, la vita dei popoli si affretta come quella degli individui, il decennio surroga il secolo, e un breve volger d'anni sembra contenere in sè tutt'un'epoca storica. Anche le passioni, che il Congresso di Vienna suscitò, si sono calmate; l'opera sua, di cui tante volte si annunciò la fine, senza che in realtà fosse vera, è oggi finalmente e veramente distrutta. Ricorderete che in Italia non ci fu governuccio provvisorio, sorto dai moti popolari fino al 1859 e durato magari ventiquattr'ore, il quale per prima cosa non bandisse ai quattro venti: i_ trattati del 1815 hanno cessato di esistere_, e questo medesimo luogo comune della rettorica rivoluzionaria italiana si ripetè in Francia con singolare perseveranza, dal Guizot sotto il regno di Luigi Filippo, dal Lamartine nel 1848, da Napoleone III nel 1863. Ma l'opera del Congresso di Vienna, che pur s'era venuta sgretolando via via, non finì tutta in realtà che nel 1870. C'erano però voluti più di cinquant'anni, e qual è l'imbroglio diplomatico, che possa esser sicuro di durare altrettanto? Finita dunque l'opera del Congresso di Vienna, anche gli uomini, che v'ebbero parte principale, il Metternich, il Talleyrand, Alessandro I di Russia, sono cadaveri quatriduani, che non destano più nè odii, nè amori. Il successore dello Czar ascolta oggi in piedi e col cappello in mano la _Marsigliese_, una graziosa macchietta, di cui ha tanto riso il Tolstoï; se per le strade d'Italia noi ricantassimo oggi: Io vorrei che a Metternicche Gli tagliassero la testa E per farne una minestra Alla moglie del suo re, nessuno ci darebbe retta o probabilmente l'eco ci risponderebbe coll'_Inno dei lavoratori_; se rievocassimo infine il _Girella_ di Giuseppe Giusti col suo: Tenni per àncora D'ogni burrasca Da dieci o dodici Coccarde in tasca, per farne onta nuovamente al Principe di Talleyrand la libertà e la democrazia ci potrebbero offrire da parte loro tali esemplari di canaglie politiche, da far apparire quell'utilitario camaleonte del dispotismo una candidissima colomba, o tutt'al più un tristaccio, che riscattava almeno colla grandezza dell'ingegno e la mirabile eleganza dello spirito le sue marachelle. Possiamo dunque giudicare spassionatamente uomini e cose, e avendo detto del Congresso di Vienna il male che merita, possiamo soggiungere che il tentativo, dopo un così grande rovinìo e sconvolgimento d'istituzioni, di confini e di popoli, di dare all'Europa un'organizzazione elementare, se attuato con vera elevatezza di concetti politici, sarebbe stato un grande progresso e non un inconsulto ritorno al passato. Tant'è vero, che verso la fine del secolo scorso tale tentativo non era ancora che un'utopia di filosofi, la quale avrebbe fatto passare per mentecatti gli uomini di Stato, che le si fossero mostrati favorevoli, ed era ad arte confusa, per toglierle appunto ogni credito, colle chimere della pace perpetua del Saint-Pierre e del Rousseau, e in buona fede fu poi confusa con tali chimere, dopo il Congresso del 15, dal Saint-Simon, uno dei santi padri del socialismo moderno. Se nel fatto il Congresso di Vienna riuscì un'applicazione del principio d'_intervento_, un attentato continuo all'indipendenza degli Stati minori, un sistema d'alta polizia nelle mani dell'Austria; se come tale è giudicato dalla maggioranza degli storici e dei trattatisti di diritto internazionale, non è men vero che determinare lo stato di possesso dell'Europa, porre questo stato di possesso sotto la garanzia di tutte le Potenze maggiori, far del Congresso europeo, siccome fu stabilito dall'articolo 6 del secondo trattato di Parigi, una instituzione permanente e normale, destinata a prevenire e a regolare, sotto l'arbitrato e l'egemonia delle grandi Potenze, le controversie fra le nazioni e gli Stati, e impedire la guerra, era un abbozzar quasi un disegno di _Stati Uniti d'Europa_, un precorrere di lontano le idealità, sto per dire (e non vorrei vi paresse una bestemmia), le idealità di Garibaldi e di Giuseppe Mazzini. Abbozzare, precorrere di lontano, dico, perchè il disegno resta incompiuto, perchè, come scrive il prof. Scipione Gemma nel suo eccellente libro sulla _Storia dei Trattati nel secolo XIX_, non rappresenta se non «una oligarchia di grandi potenze, che tratta, in circolo chiuso, gli affari delle altre»; perchè, per di più, furono empiriche, abusive, arbitrarie pressochè tutte le sue applicazioni. Ma il concetto fondamentale era buono e progressivo, rispetto almeno ai Congressi ed ai Trattati anteriori, e ciò spiega non solo la sua durata, ma altresì come e perchè, in onta alle sue ingiustizie, il Congresso di Vienna assicurò per lungo tempo la pace generale e con essa un moto largo e fecondo di civiltà. Vorreste ora saper qualche cosa in particolare degli uomini, che vi presero parte? Ma senza contare i regnanti, i principi, i cortigiani d'alto grado, che gli accompagnavano, e gli uomini politici più in vista, ch'erano accorsi al Congresso, ben novanta erano i plenipotenziari di Stati, che aveano cooperato alla guerra, e cinquantatrè quelli di piccoli sovrani, repubblichette, comuni, corporazioni, che tutti avevano rivendicazioni, pretensioni o esigenze da far valere. Per questo anzi vera assemblea generale del Congresso non fu tenuta mai, nè mai si procedette ad una vera e compiuta verifica di poteri fra gli intervenuti, non potendosi equiparare l'importanza di ciascun rappresentante o dare ugual peso al voto, poniamo, degli ambasciatori di Russia, Francia e Inghilterra e a quello degli inviati dei Cavalieri di Malta, della repubblica di Lucca o del principato di Piombino. Non è quindi possibile del pari profilare fra tal folla le singole figure, ma varrebbe la pena, chi ne avesse il tempo, di fermarsi alquanto alle più prominenti, alle tre, se non altro, che ho testè ricordate, Alessandro I, il Metternich ed il Talleyrand. Alessandro I era uno stranissimo impasto di qualità le più opposte: ascetico come San Luigi Gonzaga, e dissoluto come Don Giovanni Tenorio; ingenuo e spensierato come un artista, e subdolo e avido come un greco del Basso Impero; tirannico come un sultano, e umanitario come un filantropo; umile come un anacoreta, e vano d'applausi come una ballerina; infatuato di sè stesso come un Lucifero, e pieghevole a tutti i venti come una canna; un insieme di despota, di mistico e di liberale, che per un pezzo gli imbroglia la testa, poi finisce a dargli l'illusione d'essere il braccio dritto della provvidenza di Dio, destinato a rimetter l'ordine sulla terra e ravviare tutto il gregge umano per la via maestra del bene. A cullarlo in tale illusione, a fissarla anzi sempre più nel suo cervello, contribuì soprattutto, verso appunto il 1815, l'amicizia da lui stretta con Giuliana di Krüdner, una vedovella vagabonda, originaria della Livonia, che in gioventù avea scritto in francese un romanzo eccessivamente sentimentale, intitolato: _Valerie_, e avea ballato nei salotti parigini con grande flessuosità di movimenti e grandi trasparenze di vestiario la cosiddetta _danza dello scialle_. Dall'ideale della sensibilità galante del secolo XVIII era trapassata, invecchiando, all'ideale medievale e cavalleresco della controrivoluzione. Nicomede Bianchi la dice una settaria dell'_illuminismo_ tedesco del Weishaupt e dei Rosa Croce, ma non mi pare sia provato. Il Sainte-Beuve la dice visionaria come il Tasso, anzi una Clorinda battezzata, e mi par troppo. Certo è che durante la campagna del 13 contro Napoleone, e in mezzo a tutto quel bollore di patriottismo tedesco, _Valerie_, o Giuliana di Krüdner, che è lo stesso, diviene la _Velleda_ evangelica, la molto vedova profetessa delle non più vergini foreste del Nord, e nel 15 (_en tout bien, tout honneur_, suppongo, perchè dovea aver più di 50 anni) la più intima e più ascoltata consigliera e inspiratrice di Alessandro I. Dopo Waterloo è dessa in realtà la vera autrice della _Santa Alleanza_, un atto, in cui la mano d'un'isterica devota mi par che si senta. Ma chi riconoscerebbe ora la vezzosa _urì_ della _danza dello scialle_ in quella megèra lunga e allampanata, che coi capelli giallo-grigi sparsi per la fronte e giù per le spalle, e una lunga veste scura, cinta alla vita da un cordone, assiste, a fianco dello Czar, alla rivista delle truppe russe sulle pianure di Sciampagna? Questo però è il colmo della sua fortuna. Quando nel 1824 morì solitaria in Crimea, era già da un pezzo caduta in disgrazia, perchè la povera donna, a tempo dell'insurrezione greca, era divenuta filellena ed il volubile Alessandro I, già ripiombato sotto la pantofola conservatrice del Metternich, non perdonò alla troppo sensibile _Valerie_ quest'ultima trasfigurazione. Di che tenui fila, a guardar bene, s'intreccia in ogni tempo questa grande commedia della politica e della storia!! Ed eccoci, per mutare, dinanzi ad altri due gran commedianti di cartello, il Metternich ed il Talleyrand, i quali, come se abbiano voluto continuar la recita anche da morti, si sono nelle loro autobiografie (per dirla in gergo di palcoscenico) _truccati_ entrambi per la posterità. Li riconosceremo noi per quel che sono a traverso tale travestimento? Molto agevola, ripeto, che siansi ormai dissipati per l'aria gli odii e gli amori suscitati in vita da quei due, e stati già tante volte surrogati da tanti altri odii ed amori. Il Metternich aveva una persuasione fondamentale, d'essere cioè stato creato da Dio (ammettiamo, che credesse in Dio) per arrestare la Rivoluzione francese nel suo corso e rifare il mondo, come prima. Di tale persuasione che a poco a poco gli sale al cervello e gli si muta in una specie di predestinazione provvidenziale, egli si giova per ravvolgere in una gran nuvola di edificante idealità tutta la sua vita privata e la sua vita d'uomo di Stato. L'una e l'altra divengono così, sotto l'unzione e la gravità del suo stile, una tal vita di santo, che meriterebbe (ha detto bene in proposito Augusto Franchetti) d'essere collocata nella _Leggenda Aurea_ di un Jacopo da Voragine e tradotta nella lingua del Cavalca. Ma chi gli può credere? Nessun altro, sto per dire, se non la sua seconda moglie, la principessa Melania, talmente persuasa (e ciò le fa onore del resto) della grandezza del marito, che a scrivere nel suo _Diario_ dover esso _salvare il mondo_ e poi che tutti e due erano stati la sera al teatro per veder ballare Fanny Elssler, le pare di dire la stessa cosa. Certo quest'uomo, che governò l'Austria da padrone per 39 anni, e per 33 anni da padrone l'Europa, non era nè un puro sbirro, nè uno statista volgare, come, per odio, l'abbiamo considerato noi per tanto tempo. Certo Napoleone non ebbe mai più terribile avversario di lui; un avversario, che, mentre lo ammirava, avea così profondamente studiata la sua indole, che fino ad un certo segno potea presagirne gli scatti futuri; un avversario, che non si scaldava mai e sapeva aspettare. Certo, quand'egli nel 1809 diventò Ministro, l'Austria era un paese morto e sei anni dopo (mettiamo pure che la frenesia di Napoleone l'abbia aiutato) sei anni dopo l'Austria era l'arbitra dell'Europa, gloria grande verso la sua patria ed il suo sovrano, che nessuno gli può contestare. Ma da tuttociò a far di sè uno statista, che non ha una colpa da rimproverarsi, perchè è quasi una nuova incarnazione umana dell'eterna giustizia e dell'assoluta verità, che non ha mai sbagliata una mossa, perchè nell'interezza della sua coscienza ha sempre previsti gli errori dei nemici e le infedeltà degli amici, ci corre assai; e, per troppo volere innalzarsi, mi pare che non solo il Metternich abbia troppo sfidata la credula docilità dei posteri, ma che abbia altresì tolto merito a sè stesso, come uomo di Stato, perchè la politica, salvo certe direzioni fondamentali, è più di tutto l'arte degli adattamenti e delle contingenze variabili, e l'immobile fissità di spirito, ch'egli si attribuisce, è la caratteristica dell'utopista e del fanatico, anzichè quella del vero uomo di Stato. Quante volte, del resto, non è egli stato sul punto d'intendersi con Napoleone? Fra le molte, che se ne potrebbero ricordare, prendiamo la maggiore di tutte, il matrimonio di Maria Luigia, la divina figlia dei Cesari, con Napoleone, il gran tipo del _condottiere_ italiano, dice il Taine, che ha usurpato il trono di Francia. Era tutto un tranello questo matrimonio? No, era un'arma a due tagli, che potea salvar l'Austria e Napoleone, se Napoleone era savio, o salvar l'Austria sola e abbatter lui al momento opportuno, s'egli continuava a farneticare. In ciò sta la profondità del calcolo del Metternich, che l'ambizione di Napoleone s'incocciò di far riescire anche al di là d'ogni sua previsione: ma ciò dimostra che a transigere colla Rivoluzione non avea poi il Metternich le invincibili ripugnanze, delle quali si vanta. Nella stessa guisa, s'egli rappresentava unicamente il diritto storico contro la Rivoluzione, perchè mai, caduto Napoleone, non ha egli nel Congresso di Vienna riprese le tradizioni di Maria Teresa, del Kaunitz e del Thugut, cercando di germanizzare l'Austria di nuovo ed ha preferito invece indennizzarsi al sud delle Alpi di tutto quanto perdeva o abbandonava al nord delle medesime, ostinandosi a dominare l'Italia? Egli è che appunto imitare in questo le violenze della Rivoluzione francese sembrò al purissimo eroe del diritto storico un giuoco più facile e più vantaggioso, e questa volta invece l'infallibile aveva sbagliato. In questo medesimo anno 1815, l'impresa di Gioacchino Murat, per quanto arrischiata, il proclama di Rimini, scritto da Pellegrino Rossi, che bandisce la guerra dell'indipendenza italiana, per quanto vagheggi una idealità prematura, avrebbero dovuto farlo avvertire del suo errore e che l'Italia per lo meno non era più l'_espressione geografica_ di prima. Preferì invece ostinarsi ed iniziare un sistema di repressione perpetua, che fece di lui l'incarnazione vivente del dispotismo più odioso e più cieco, e lo abbassò talvolta, come nel colloquio famoso con Federigo Confalonieri, carico di catene e già avviato allo Spielberg, lo abbassò, dico, fino agli scaltrimenti del poliziotto più abbietto per strappar di bocca ad un misero prigioniero il nome de' suoi complici, quello principalmente di Carlo Alberto, principe di Carignano, della cui correità coi congiurati Lombardi del 1821 il Metternich volea ad ogni costo aver nelle mani la prova. Il santo, il semideo delle _Memorie_ metternicchiane scende così alquanto, come vedete, dal suo piedistallo. Se a ciò aggiungete che concordemente i contemporanei lo dicono scettico, frivolo, superficiale, donnaiuolo, non incorruttibile per denaro, voi vedete che razza di premeditata falsificazione egli ha perpetrato di sè stesso per canzonare i posteri, nè vi spiegherete la potenza esercitata da lui per tutta intiera una generazione, se, oltre a molte qualità d'animo e d'ingegno, ch'egli indubbiamente possedeva, non mettete in conto la profonda disposizione alla quiete, all'inerzia politica e al riposo gaudente, che il suo tempo provava e ch'egli rispecchiava, persin nella persona e nei modi, alla perfezione. Quando questa disposizione finì, anche il Metternich era finito. Diversa affatto è la _truccatura_, sotto la quale ha voluto presentarsi ai posteri il Principe di Talleyrand. Pare in sostanza ch'egli dica: «son quel che sono, ed i miei contemporanei, alti e bassi, non valevano meglio di me; ma si prenda la storia com'è, poi si vegga se in conclusione, e senza troppa cura del mio buon nome (ognuno poi sacrifica alla patria quello che crede!) io ho bene o male servita la Francia.» E naturalmente dimostra che l'ha servita bene. Esso, in persona, ha cominciato abate, poi vescovo, ha celebrato ridendo la sua ultima messa nella festa della Federazione Repubblicana, s'è sconsacrato, ha preso moglie, nei tempi peggiori della Repubblica s'è ecclissato, è rientrato a tempo per esser Ministro: Giacobino sotto il Direttorio, repubblicano sotto il Consolato, Bonapartista sotto l'Impero, legittimista sotto i Borboni, e come si spiegano tutte queste metamorfosi? In una maniera sola, dice lui, cioè che agli occhi d'un filosofo le forme politiche son forme vuote; che con tale libertà di spirito egli ha visto sempre, prima, meglio e più lontano d'ogni altro, e che mentre gli altri s'attaccavano ad un partito, egli non ha servito mai che la Francia. È una disinvoltura stupefacente, la quintessenza di quell'arcana dottrina del _savoir vivre_, sotto la quale i Francesi compendiano tante cose, e che il Talleyrand possedeva in grado superlativo. Corazzato di questa, egli prende posto attorno al tappeto verde del Congresso di Vienna, colla serenità medesima con cui si sarebbe seduto alla sua eterna tavola di _whist_, e quando, ambasciatore d'una nazione vinta, egli, con grand'arie di superiorità e per sgominare di primo acchito i segreti accordi degli alleati, osa affermare lui solo rappresentare, intorno a quel tappeto, non interessi, ma principii, e cioè il dogma della _legittimità_, che deve esser la base della Restaurazione, e tutti lo guardano esterrefatti, il Talleyrand non si scompone e persiste e niuno s'accorge, non un principio sostener esso in quel momento, bensì l'unico spediente, a cui poteva appigliarsi. Che diavol mai poteva egli invocare, difatto, dinanzi alle ambizioni della vecchia Europa coalizzata e vittoriosa? Gli immortali principii dell'89, come in un _meeting_? i diritti dell'uomo e del cittadino, come in una scuola? la sovranità popolare, come in una piazza? Non avendo forza materiale per tenere in rispetto i nemici vittoriosi, tutto quanto poteva tentare era di preservare in nome del diritto l'unità della Francia e salvar questa almeno alle conquiste economiche, civili e politiche della Rivoluzione. In parte vi riescì, poichè preservò in sostanza la Francia dal dover sopportare la pena del taglione, l'applicazione pura e semplice di quel diritto del più forte, ch'essa avea durante l'Impero applicato alle altre nazioni. L'imperturbabilità, il coraggio, la fecondità d'espedienti, il calore di patriottismo francese, che il Talleyrand spiega al Congresso di Vienna, sono una meraviglia, ed ha un bel dire il Thiers, che si dovea andare al Congresso colle mani libere, quasichè gli alleati non fossero entrati a Parigi colle cannonate: che il Talleyrand dovea atteggiarsi come un Napoleone, quasichè Lipsia fosse stata Austerlitz: che ebbe fretta, e che invece di far la pace dovea scomporre le alleanze e riprovocare la guerra. Queste critiche, dinanzi alla realtà dei fatti, non mi pare che abbiano alcun valore, e nella mente del Thiers, scrittore e storico grande, ma politico mediocrissimo, scaturiscono evidentemente da quel suo sempiterno pregiudizio tutto francese, per cui un'Europa ridotta in pillole è la sola maniera d'assicurare la grandezza della Francia. Essa non può considerarsi in piedi, se tutti non sono in ginocchio! Del resto il Talleyrand non indietreggiò neppure dinanzi al pericolo d'una nuova guerra, e quando parve che non si potesse più resistere in altro modo alle prepotenze della Russia, egli aderì alla nuova coalizione formatasi nel Congresso contro di essa il 3 gennaio 1815, ed il Thiers lo biasima anche di questo, tanto è contraddittoria ed inconsistente tutta la sua critica. In conclusione, all'opposto del Metternich con tutte le sue pose da santo, da veggente e da messia, il Talleyrand s'è voluto nelle sue _Memorie_ mostrare non per quello che è, ma per quello che vale. È un travestimento anche questo, ma se i contemporanei non l'hanno nè ghigliottinato, nè messo in galera, non mi pare che i posteri abbiano da essere più severi di loro. Oltre a queste tre figure principalissime, tante altre ve ne sarebbero da ritrarre, interessanti e singolari, fuori e dentro il Congresso: Maria Luigia che, con a fianco già il suo _patito_, il Neipperg, non ha neppure la dignità di non esser curiosa, e poichè a lei, moglie di Napoleone e pur ieri Imperatrice dei Francesi, è interdetto prender parte alle feste, vuole almeno goderne pel buco della chiave o sta nascosta fra due tende a veder gli altri ballare; Federico Gentz, grande ingegno di dilettante, cominciato scettico e romantico, finito reazionario e segretario del Congresso, gaudente di professione, che negli ultimi anni tenea il suo gabinetto di studio in casa della ballerina Fanny Elssler, il suo ultimo amore (un romitaggio preferibile di certo a quello concesso alle teste calde italiane nei sotterranei dello Spielberg), e che, tipo dell'_homme blasé_, annunzierà le sua prossima fine ad un amico dicendo: «mi leverò da tavola, come chi ha mangiato a sazietà»; il Pozzo di Borgo, un Côrso al servizio della Russia, incarnazione vivente contro Napoleone degli odii di famiglia e delle implacabili vendette insulari; il cardinale Consalvi, profilo di prelato romano, aguzzo, sottile, insinuante ed anche audace, che, per salvare dagli artigli dell'Austria le quattro Legazioni, finge di ridomandare sul serio Avignone ed il Contado Venosino; il marchese Brignole, l'appassionato oligarca genovese, che vorrebbe trovare un'equazione tra la legittimità dei Borboni e quella della sua vecchia Repubblica, una specie di quadratura del circolo pei diplomatici del Congresso di Vienna; i ministri napoletani del Murat, che s'incontrano a faccia a faccia con quelli di Ferdinando IV; Eugenio di Beauharnais, già vicerè d'Italia e generale napoleonico, eppure ospite festeggiato e graditissimo a Vienna; il Conte di San Marzano, diplomatico piemontese, schermidore politico, valente assai, che avendo servito i forti contro i deboli, sa come si difendono i deboli contro i forti; Don Neri Corsini, ambasciatore del granduca Ferdinando III, che, quando meno se l'aspetta, si trova a fronte l'ambasciatore d'un'Etruria bonapartesca, reclamante nient'altro che tutta la Toscana pei Borboni, e d'altra parte, rappresentando esso un principe austriaco, sentesi, ciò nonostante, così pressato dalla prepotenza degli augusti parenti, che in cambio, come vorrebbe, d'arrotondare lo Stato, rischia talvolta tornarsene a mani vuote, eppure coll'arguta e tenace bonarietà del gran signore fiorentino di vecchia stampa si trae dal mal passo abbastanza bene; e tante, e tante altre, dico, figure importanti, singolari, e caratteristiche in sommo grado, delle quali tutte metterebbe conto parlare. Se non che neppur noi possiamo indugiarci, perchè mentre, dopo tante lentezze e lotte e discordie, il Congresso bene o male s'approssimava alla fine, ecco scoppiare, in mezzo a tutta quella gente, come uno schianto di fulmine, la notizia che l'_Orco di Corsica_ era scappato dall'isola d'Elba. — Dove credete voi, che si sia avviato? — chiese il Metternich al Talleyrand, per scoprire se il furbaccio ne sapeva qualcosa. — Forse in Italia! — rispose il Talleyrand, per mettere una pulce nell'orecchio all'amico. — No, va dritto a Parigi! — riprese il Metternich, guardando fisso il Talleyrand. Ma questi, che già aveva avuto tempo a riflettere, concluse: — può darsi! — come avrebbe detto: — buon pro gli faccia! Val la pena seguir le mosse di questa vecchia volpe in tale frangente. In apparenza è tranquillo. Nelle sue _Memorie_ non fiata; ma veder chiaro, risolver pronto, colpire a segno è la superiorità vera del Talleyrand sugli statisti del suo tempo (e su quelli anche d'altri tempi!); e sia pure che Napoleone sia fuggito dall'Elba, lo accolga pure l'esercito francese a braccia aperte, rivoli pure l'aquila imperiale di campanile in campanile sino alle torri di Nostra Donna di Parigi, sia pur costretto Luigi XVIII di rifugiarsi a Gand; il Talleyrand intuisce subito che un 18 brumaio non si rifà due volte, che questa ripresa d'armi non può essere nè il Consolato, nè l'Impero, bensì un romanzo d'avventuriere; che Napoleone può ben prometter pace e libertà alla Francia e Beniamino Constant ammannirgli un disegno di costituzione, che è un capolavoro, ma Napoleone è irremissibilmente condannato alla guerra immediata; e nella guerra non si troverà più a fronte generali da sbalordire di nuovo coi prodigii della sua tattica, bensì popoli e condottieri di popoli, il Wellington, il Blucher, lo Schwarzenberg, i quali, al pari del Kutusoff, il _Fabio Massimo_ della resistenza russa del 12, e del Rostopkine, l'incendiario di Mosca, sono divenuti gli eroi delle vendette nazionali contro le sue prepotenze. Il Talleyrand quindi approfitta del primo sgomento degli alleati per strappar loro la dichiarazione del 13 marzo 1815, la quale pone Napoleone fuori della legge al pari d'un bandito, poi sta inerte aspettando l'esito della guerra, e si traccheggia anzi fino al giugno in Vienna, nè raggiunge il Re, se non quando Waterloo ha già messo fine al tempestoso romanzo dei _Cento Giorni_. Perchè così lento? Forse ha in fondo all'animo un residuo di dubbio? Chi lo sa? Fatto è che appena giunto a Parigi, il Talleyrand vede nettamente che gli alleati non vogliono più stare ai patti di prima, e che la reazione più dissennata prevale nei Consigli del Re. Si oppose finchè potè; non vinse che a mezzo, e si dimise. È il momento più nobile della sua vita, e lo sente tanto egli stesso nelle sue _Memorie_, che, quasi creda finita la sua carriera politica, vi si drappeggia dentro, come un grande attore al quint'atto d'una tragedia classica, e cala il sipario. In realtà anche l'opera del Congresso di Vienna era finita fino dal giugno. Ma colla seconda pace di Parigi del 20 novembre 1815 la Francia pagò il fio dell'avventura napoleonica dei _Cento Giorni_ e peggio ancora le sarebbe toccato, se non erano le rivalità di lord Wellington coi generali austriaci e prussiani e le fantasie mistico umanitarie di Alessandro I, delle quali anche questa volta la Francia s'approfittò. Queste fantasie toccano il colmo nella _Dichiarazione_ della _Santa Alleanza_, un _quid simile_ di _Credo_ internazionale, che non ha da far nulla col trattato di Vienna, ma sta da sè, a guisa della _Dichiarazione dei Diritti dell'uomo_, messa in testa alle costituzioni repubblicane francesi del 1791 e 1793 e ricalcata alla sua volta, peggiorandola, su quella delle libere colonie inglesi d'America del 1776. Strani riscontri in verità! Ora il nuovo assetto europeo, deliberato a Vienna e reso definitivo colla seconda pace di Parigi, era, mercè della _Santa Alleanza_, posto sotto l'immediata ed alta sovranità di Gesù Cristo, una specie insomma di repubblica savonaroliana, slargata qui ad uno schema universale di Stati cristiani. La dichiarazione della _Santa Alleanza_ reca originariamente le firme sole dei tre sovrani di Russia, Austria e Prussia, non quella d'alcun ministro, nè d'alcun plenipotenziario. Altri sovrani accedettero più tardi, quando cioè si furono persuasi che quello sproloquio non impegnava a nulla, come la Francia e la Sardegna; altri si ricusarono con un pretesto, come l'Inghilterra; il Papa vi subodorò dentro (e forse non a torto) qualcosa d'ereticale; il Gran Turco infine non s'acquetò, se non quando l'ebbero assicurato che la _Santa Alleanza_ non era il principio d'una nuova crociata per la liberazione del _Santo Sepolcro_. «Ma che le pare, signor Turco?» (gli dissero i diplomatici veri), «non ci mancherebbe altro!!». Quanto all'Italia in particolare, il Congresso di Vienna vi stabilì, come già dissi, il dominio dell'Austria; dominio diretto in gran parte, indiretto, ma non meno effettivo, su tutto il rimanente, salvo in Piemonte; e, restituito ai Borboni, schiavi dell'Austria, il regno di Napoli, cominciò a mostrarsi, a guisa di piccolo chiarore d'un'alba, la necessità storica, che se un giorno l'idea nazionale, uscendo fuori dagli eremi dei letterati e dai nascondigli dei cospiratori, potesse mai spiegare al sole la sua bandiera o troncare colla spada la fitta rete in cui il Metternich avea ravvolta l'Italia, questa bandiera si leverebbe in Piemonte e questa spada sarebbe in pugno ai Savoia. Nel 15 siamo però ancora ben lontani da che l'idea nazionale inspiri la politica estera del Piemonte, e questa cerchi imperniarsi su una politica interna appena appena ragionevole. Ma già per parte del Piemonte i sospetti, le diffidenze, le resistenze alle mille insidie dell'Austria sono incessanti e sempre vigili, e, per parte dell'Austria, essa tradisce sempre più il suo segreto, che è di ridurre indifeso, impotente, se non addirittura soggetto, quest'unico Stato italiano, di cui non solo ha dovuto tollerar l'esistenza, ma lasciare che s'ingrossasse colla Liguria, ed ora, nella seconda pace di Parigi, anche con quella parte di Savoia, che nella prima era stata data alla Francia. È bello vedere la concordia, la cooperazione, l'intesa di tutti i diplomatici piemontesi in questa lotta, ed è ancora più bello, pigliandoli per quel che sono in realtà, uomini chiaroveggenti, fedeli alla loro vecchia Monarchia, zelanti dell'onor suo, orgogliosi delle sue tradizionali ambizioni dinastiche, e non trasfigurandoli, per uno zelo malinteso, in avanguardie e, al solito, in apostoli e precursori d'indipendenza e d'unità italiana. Sono sparsi per tutto e sembrano una voce sola, il San Marzano ed il Rossi al Congresso di Vienna, il De Maistre e poi il Cotti di Brusasco a Pietroburgo, il San Martino d'Agliè a Londra, il Revel e poi l'Alfieri di Sostegno a Parigi, il D'Azeglio a Roma, il Pralormo a Vienna dopo il 20, il Valesia, il Balbo, il Saluzzo, ministri in Torino e tanti altri. Tutti questi uomini, non sospettabili di certo di tendenze sovversive nè tampoco di velleità liberali, sentono profondamente le continue provocazioni austriache dal 15 in poi, e vigilano, dappertutto e sempre, le mene del Metternich. Lo stesso Pralormo, che Luigi Carlo Farini ha detto il meno avverso all'Austria, riassumeva con gran forza in un suo splendido dispaccio del 1821 tutti i torti dell'Austria verso il Piemonte, e caratterizzava con profonda sagacia il movimento del 21 per quello che era: non un pronunciamento alla spagnuola, nè una ribellione di nobili alla polacca, come ha preteso in uno dei suoi frequenti accessi di _spleen_ Massimo d'Azeglio, bensì la conseguenza necessaria del contegno dell'Austria, che in Piemonte avea per di più mortalmente offesi nel loro onor militare una dinastia ed un popolo di soldati. Senza di questo, dice il Pralormo, non un soldato si sarebbe ribellato in Piemonte, e se Vittorio Emanuele I fosse corso su Milano, i Carbonari del 21 non avrebbero potuto nulla contro di lui. Tutto militare e aristocratico fu dunque il movimento rivoluzionario del 1821 in Piemonte, ed è uno dei più importanti nella storia dei moti rivoluzionari italiani, appunto perchè crea nell'aristocrazia militare e diplomatica piemontese quella parte nuova, che poi prevarrà sempre più, la quale, senza ripudiar nulla del suo vecchio patrimonio morale e religioso, accetta quanto v'ha di giusto e di umano nelle idee sopravvissute alla Rivoluzione Francese e sente sempre più al vivo l'ufficio storico, che contro la intollerabile preponderanza austriaca spetta alla sola regione Italiana, che abbia armi proprie ed una dinastia nazionale. Beneficio grande, di cui (poichè per sommo studio d'imparzialità si sogliono oggi vantare le candide intenzioni dell'Austria e del Metternich in particolare) io non ho, se si vuole, alcuna difficoltà di esserle riconoscente. E per concludere circa il Congresso di Vienna, che è il mio tema, dirò che le successive riunioni di Aix nel 1818, di Troppau nel 20, di Lubiana nel 1821, di Verona nel 1822, le quali avrebbero dovuto essere l'applicazione del permanente e pacifico arbitrato internazionale, stabilito nel 1815, ebbero avviamento ed effetto contrario, vale a dire che trasmutandosi sempre più in un sistema d'intervento armato, di repressioni bestiali e di alta polizia politica nelle mani dell'Austria e scostandosi così sempre più dal concetto fondamentale del Congresso di Vienna, esse, in cambio di frenare i moti italiani, argomento prediletto di tutti i loro discorsi, li resero sempre più intensi, sempre più larghi e spianarono a questi moti la via del trionfo finale. Ma così va il mondo, Signore! Guastare in pratica quello che in teorica era buono, proporsi un fine e riescire ad un altro sono i fatti, che più comunemente appariscono nella storia, e l'insegnamento di essa, se ne ha uno, si può quasi sempre compendiare così: «_daccapo e ricominciamo!_». SUI MOTI DI NAPOLI DEL 1820 CONFERENZA DI FRANCESCO S. NITTI. I moti di Napoli del 1820 non presentano, a chi li studii con serenità, alcuno dei lati che, pur nei suoi errori, pur nelle sue esagerazioni resero sì bella e sì interessante e, sotto alcuni aspetti, sì grande la rivoluzione avvenuta ventun anno prima, nel 1799. Questa ebbe i suoi rètori, ma ebbe pure i suoi martiri: la rivoluzione del 1820 quasi non ebbe che rètori. Nata per paura di una Corte, che non volle e non seppe resistere, morì per ignavia di una setta, anzi di una classe, che resistere non volle e non seppe. Sorta per tradimento di pochi ufficiali settari, fu soffocata per tradimento di un re, cui furon meriti supremi la menzogna e la viltà. Sicchè parlarne è assai difficile e assai penoso cómpito: tanto più penoso quando chi discorre di un periodo storico del suo paese che altri esaltò, non riesce a trovare in esso cosa che sia bella o grande. La rivoluzione del 1799 di cui ebbi l'anno scorso l'onore di parlarvi, studiata nelle sue intime cause ci apparve come un movimento quasi di reazione alle tendenze riformatrici dei principi. Tutta l'opera di Carlo III e gran parte di quella di Ferdinando I di Borbone, almeno fino al 1799, sembrano dirette a niente altro che a diminuire la enorme potenza della feudalità e del clero. Sorgeva allora ed era già venuta in potenza una classe intermedia, destinata a sostituirsi all'aristocrazia e sorgeva non come altrove dalle manifatture o dai traffici, ma dall'intermediarismo agrario, dalle professioni liberali, la curia soprattutto, e dal commercio del danaro. La rivoluzione del 1799 riunì quindi tutti i malcontenti che la politica dello Stato avea offesi: principi e nobili, che vedevano sminuita la loro classe, preti e sacerdoti, che si credevano privati dei loro diritti, curiali che il rinsaldamento e la sicurezza della proprietà temevano come esiziale al loro ceto. E fra questi vi erano idealisti sinceri, imbevuti delle dottrine degli enciclopedisti; giovinetti desiderosi di novità; uomini insofferenti di servitù. I 97 giustiziati del 1799 furono quanto di meglio Napoli avea: vi erano fra essi uomini d'arme nobilissimi come Manthonè, Federici, Caracciolo; studiosi e pensatori come Pagano e Cirillo; e giovani ardenti come Vincenzo Russo, Filippo Marini, Ettore Carafa, Riario, Pignatelli. Che cosa fu la rivoluzione del 1820? Caduta la repubblica napoletana del 1799 e ritornato Ferdinando I era succeduto un periodo di repressione e di violenza. Ma quando, travolto anch'egli dal turbine napoleonico, Ferdinando era dovuto riparare in Sicilia e il regno era rimasto ai francesi, Giuseppe Buonaparte da prima e Gioacchino Murat dipoi, aveano introdotte gran parte delle leggi di Francia. Per legge del re Giuseppe nel 1806 la feudalità abolita, abolite le istituzioni fidecommissarie, sciolti i legami alla proprietà, modificato il regime dotale, sfasciata la proprietà ecclesiastica, introdotti col codice Napoleone tutti i provvedimenti che più alla classe intermedia giovavano, questa era divenuta potente a tal punto da soverchiare tutte le altre. E anche quando i Borboni rientrarono a Napoli e riconquistarono, non per virtù d'arme, ma per violenza legittimista il reame, non osarono quasi nulla mutare. Le leggi abolitive della feudalità furono mantenute; mantenute tutte le disposizioni che i re Giuseppe e Gioacchino aveano introdotte. Senonchè mentre la classe intermedia quasi dovunque era nata col traffico, a Napoli e nel reame si era formata, come ho detto innanzi, in modo diverso. Una massa enorme di curiali in città, e nelle province affittuari della terra e negoziatori di danaro, eran cresciuti in potenza. Tutte le leggi adottate in cinquant'anni e più ancora non avean fatto che favorirne lo sviluppo e la potenza. Ma ad essi non bastava. Nei regimi assoluti l'esistenza di un'aristocrazia che circondi il trono o che abbia, sia pure nominalmente, il potere nelle mani, è invincibile necessità. Così avveniva nel reame di Napoli, ove le maggiori cariche dello Stato erano dal re concesse a coloro appunto che più egli e suo padre avean depressi. I trionfi di Napoleone e a Napoli la dominazione francese avean determinata una modificazione profonda nello stato degli animi. Ancora pochi anni prima nessuno avrebbe osato attaccare istituzioni che parevano eterne; monarchie ritenute incrollabili. Più ancora: nessuno nella scala sociale pensava elevarsi al di sopra della sua classe. Ma i trionfi di Napoleone e dei suoi generali avean sconvolte tutte le menti e pur dopo la catastrofe napoleonica era in tutti gli animi una febbre di cose nuove; nulla si credeva dovesse essere durevole, nulla si ammetteva che uomini volenterosi potessero non avere. Nel reame di Napoli, ancora turbato da tante e sì varie vicende, la monarchia di Ferdinando I era debole e sospettosa. Avea osato — facile audacia — di far fucilare Gioacchino Murat sulla desolata spiaggia di Pizzo: ma avea conservato i generali e gli alti ufiziali dello Stato, che Murat avea spesso levati in alto da umile condizione. E mentre li avea conservati era sospettosa di essi: timorosa di espellerli tutti, paurosa di tradimenti. I commerci eran depressi da tante lotte, impoverite le banche; le guerre numerose aveano trascinato a Napoli stuoli di persone desiderose di occupazioni civili. L'indole meridionale, la quale attribuisce la fortuna più al caso che alla persistenza, la naturale vivacità delle genti del Sud, l'amore e la tradizione dell'_otium cum dignitate_, il posto o l'ufizio poco penoso, facean sperare rivolgimenti che tanti bisogni appagassero, tante ambizioni accontentassero. La setta dei carbonari, introdotta nel regno pochi anni innanzi, si era venuta allargando. Che cosa era essa? Colletta la chiama _società vasta di possidenti, vaga di meglio e di quiete_, e questa definizione ne dice tutto il carattere. Appartenevano ad essa gran numero di benestanti delle classi medie; ma il fondo era composto di militari desiderosi di avanzamenti, di provinciali e di curiali bisognosi di impieghi, di persone le cui aderenze, la cui posizione al tempo dei francesi rendevano avverse o dubbiose del regime borbonico. Setta piena di misteri massonici, anzi diramazione massonica, che allettava le calde fantasie dei giovani appunto per il suo mistero. I soci e gli aderenti si chiamavan fra loro _cugini_ e anche _buoni cugini_, e fra le altre cose giuravano — il generale Guglielmo Pepe dice per rettorica — l'esterminio di tutti i re. La setta si era estesa e vi appartenevano anche persone messe ai sommi gradi dell'esercito. V'erano i risoluti che volevano una costituzione o sognavano il rovescio della monarchia borbonica; erano idealisti sinceri o nature avventurose; v'erano coloro che nelle _vendite_ — così si chiamavano le singole società carbonare — cercavano come una tutela in tempi difficili, un appoggio in possibili mutamenti politici; nel maggior numero erano infine coloro che desideravano pubblici ufizi, o aspiravano a promozioni e a carriere. Si trovavano spesso insieme generali e ufiziali inferiori; — e questi eran qualche volta nella setta di grado superiore ai primi. Le vendite più attive erano a Napoli, ad Avellino e a Salerno; in quest'ultime città soprattutto. Ritornando a Napoli, Ferdinando I in un goffo e magniloquente proclama datato da Salerno, il 1º maggio del 1815 avea detto ai Napoletani con assai poca precisione storica che i loro antenati avean conquistato fino al Nilo e che le loro trombe guerresche avean fatto piegare le fronti orgogliose ai Tolomei, a Filippo il Macedone, a Mitridate, a Massinissa e ad altri ancora. Dimenticando poi tanti pregi guerreschi e chiamandoli, con una metafora ardita, _docili figli del Sebeto_, avea promesso loro amore e perdono e, quasi queste cose non bastassero, pace, calma e abbondanza. Non avea dato costituzioni; non avea però voluto persecuzioni numerose. In cinque anni, dal maggio 1815 al giugno del 1820 la monarchia borbonica era o pareva assodata. Non avea contro di sè che una setta; avea per sè i sovrani e le corti legittimiste di tutta Europa. L'esercito regolare era forte di 34 mila uomini; inoltre le milizie civili contavano 51 mila uomini in terraferma e 29 mila in Sicilia. E poichè la pace in Europa non era da nulla turbata e i ministri, sì come accade in regime assoluto, esageravano dinanzi al vecchio re il disprezzo della massoneria carbonara ritenuta debole o inattiva, la solidità del trono pareva al sovrano e ai suoi fedeli granitica. I carbonari eran perseguitati come setta dannosa di gente ribalda; ma pericolo da essi non v'era, o si credea non vi fosse. Fu così che scoppiò la rivoluzione del 1820; la più strana, la più incruenta, la più inverosimile di tutte le rivoluzioni che abbia avuto Napoli e forse l'Italia; rivoluzione che rimarrebbe a dirittura inesplicabile a chi si limitasse a considerarla nelle sue manifestazioni esteriori. All'alba del 2 luglio due sottotenenti, Morelli e Silvati, e 127 tra sergenti e soldati del reggimento Borbone cavalleria disertarono dai quartieri di Nola, secondati da un prete Menichini e da venti settari. Si diressero verso Avellino, ove dovean ricongiungersi ad altri carbonari di Salerno. Da Nola ad Avellino sono non più che quindici o sedici chilometri. Il drappello disertore li percorse al grido di viva Dio! viva il Re! viva la costituzione! E poichè quel grido di costituzione non era bene inteso e ognuno, dice il Colletta, vi scorgeva il suo meglio, chi la libertà, chi il potere, chi la minorazione dei tributi, il popolo seguiva con simpatia e con entusiasmo. Così il drappello giunse a Mercogliano, ove Morelli pose il campo e mandò messaggio a un altro carbonaro, il colonnello De Concili, che stava in Avellino, invitandolo ad unirsi a coloro che chiedevano governo più libero. In fondo non si trattava che di piccolo _pronunciamento_ settario e soldatesco, al quale partecipavano meno di 150 persone, fra cui una ventina di borghesi e un prete. A soffocarlo bastava assai poco: anzi nella vita di un regno era episodio insignificante. Quando la notizia giunse a Napoli, il re sopra ricca nave andava incontro al figliuolo ed erede Francesco, duca di Calabria, che allora entrava nel golfo, venendo di Sicilia. La notizia lo costernò, e la diserzione di pochi uomini cui potea contrapporre diecine di migliaia di soldati lo scorò: volea fuggire in Sicilia, volea trattenersi sul mare e non fu poca difficoltà farlo scendere a terra. A Napoli la setta carbonara, all'annunzio dei fatti di Nola cominciava ad agitarsi. I ministri erano incerti; il re cercava invano di esser sereno; non si volea affidare il comando delle truppe che dovean combattere gli insorti a generali di cui si sospettava la fede. E mentre a Napoli si era in tante dubbiezze e si perdeva ciò che nel periglio è più prezioso, il tempo, la piccola schiera di Nola mandava dovunque messaggi, entrava trionfante in Avellino, si univa alle truppe di quella città, accampava poderosa sulle alture di Monteforte. E intanto al 3 luglio, ovunque erano settari si tentavano sollevamenti. Dopo molto esitare, tre generali mossero per diverse vie per espugnar Monteforte e snidarne i ribelli; uno scontrò il nemico il giorno 4; potea vincere e si ritirò. Un altro non giunse il giorno 5 nemmeno a vederlo, poichè i soldati fuggirono. Il terzo non si mosse e preferì trattar di lontano. I soldati non combattevano, poichè non avean fiducia nei capi, i capi non l'avean nei soldati; il re diffidava di tutti. Il generale carbonaro Guglielmo Pepe, che il giorno 3 accettava per speranza di grande premio di andare a combattere i ribelli, sapendosi sospettato e temendo di essere arrestato fuggì da Napoli insieme al generale Napoletani, provocò diserzioni, andò a mettersi a capo degli insorti. Così un regno tranquillissimo il giorno 1º luglio, il giorno 5 era tutto in fiamme. Il re, riuniti a consiglio i suoi timidi ministri non trovò appoggio: non si pensò ad altro che a cedere, e il movimento non parve possibile frenare se non seguendolo. Fuggito il general Pepe da Napoli, disertate molte delle milizie, le altre incerte, l'audacia di qualche settario non ebbe limite. La notte del 5, sul tardi, cinque carbonari si presentarono alla reggia e chiesero audacemente di parlare col Re, come ambasciatori di causa pubblica. Uscì sollecito il duca d'Ascoli. L'uno dei cinque disse lo scopo dell'ambascerìa; il popolo era in arme, la setta carbonara e i cittadini tutti volevano la costituzione. Si attendevano le decisioni del sovrano. Il duca d'Ascoli entrò dal Re, riferì tutto e, quando uscì, annunziò che il sovrano aveva concessa la costituzione. E il capo dei settari: — Quando? — Subito. — Ossia?.... — Fra due ore. Con aria risoluta uno dei cinque cavò l'orologio dalla tasca del duca d'Ascoli, mostrò il quadrante ai compagni e disse: — È un'ora dopo mezzanotte: alle tre la costituzione sarà pubblicata. — E andarono via tutti. All'alba del giorno 6 uscì un editto del Re che annunziava la nuova costituzione. Così in quattro giorni furono mutate dalle fondamenta le basi politiche di tutto un reame. Altro editto nominò il principe ereditario Francesco duca di Calabria, vicario generale del regno: il Re aveva o disse di avere bisogno di riposo. La costituzione, provvisoriamente concessa, fu quella di Spagna del 1812. A ottenere una così profonda trasformazione non si era versata stilla di sangue: che anzi era bastato a pochi minacciare, a molti fuggire. La costituzione fu causa di gioia quasi generale. Molti vedevano la fine di ogni abuso, la riduzione dei tributi e tutti erano lieti che un così notevole mutamento fosse avvenuto quasi senza contrasto. Così Napoli divenne paese costituzionale. E di un tratto, mutato il regime, mutarono anche le opinioni. La carboneria, temuta fino allora e odiata, divenne oggetto d'ogni lode; i pochi rivoltosi di Nola, trattati fino a qualche giorno prima come banditi, considerati eroi e degni di somma lode. Il regime costituzionale, introdotto il 6 luglio del 1820, durò fino al 23 di marzo del 1821; nacque perchè l'esercito del Re assoluto si sbandò, mandato a combattere contro i ribelli; morì, perchè i soldati del governo costituzionale, mandati a combattere contro lo straniero si sbandarono prima di combattere. Tutto quanto fu fatto in quei nove mesi rivestì sempre carattere di spettacolosa teatralità: tutto era teatrale: l'esercito, i generali, la carboneria, il Parlamento. Non si amano molto se non le cose le quali si conquistano con difficoltà: e un partito è tanto più forte quanto maggiori sono le difficoltà e le sofferenze che ha dovuto incontrare prima della vittoria. La costituzione di Napoli, ottenuta quasi senza lotta, dovea perire senza resistenza. A capo dell'esercito costituzionale si era messo in Avellino il generale Guglielmo Pepe, la più complessa natura meridionale che io possa immaginare: uomo che avea dell'eroe e del ciarlatano, vero generale spagnuolo, che a una vanità morbosa e a una leggerezza ancor più grande, univa uno straordinario ardimento. Fra tante cose buone e cattive, una cosa era sopra tutto: ardentissimo di libertà e insofferente di vincoli. L'eroica difesa di Venezia, nel 1848, coronò in lui nobilmente una vita, in cui vi erano troppi _pronunciamientos_ e troppe leggerezze. Ora il generale Pepe, seguendo la sua natura, amante dei grandi spettacoli e della teatralità, volle, bandita la costituzione, entrare a Napoli con pompa solenne a capo dell'esercito costituzionale, un esercito che, diventato settario, si era anche più abbassato nella disciplina e ove i gradi della setta, si confondevano con quelli delle armi. Il 9 di luglio, a una sola settimana di distanza dalla rivolta di Nola, fu decisa la solenne entrata. Il re era in letto, malato di reumatismi e forse più ancora di paura. Il vicario, in abito da cerimonia, nella stanza del trono, circondato dai principi, dai generali e dai gentiluomini di Corte, attendeva i rappresentanti delle schiere. L'esercito entrò in Napoli con gran pompa. Precedeva tutti il drappello dei disertori di Nola, chiamato, dopo il successo, _squadrone sacro_. Seguivano poi le bande nazionali e quindi il generale Pepe, che aveva a fianco il generale Napoletani e il colonnello De Concili. Pietro Colletta, fine osservatore, nota che il generale Pepe «sconciamente imitava le fogge e i gesti di re Gioacchino.» Venivano poi tutte le altre milizie soldate e civili. E chiudeva il corteo uno spettacolo dei più strani. L'abate Menichini, vestito da prete, armato da guerriero, guarnito di tutti i colori della setta carbonara, precedeva a cavallo settemila settari, fra cui v'erano uomini d'ogni condizione: molti preti, straordinario il numero degli avvocati. Il vicario si affacciò a un balcone della reggia e comandò che ognuno si attaccasse al petto i colori della setta carbonara, il rosso, il nero e il turchino e le coccarde, fatte dalle stesse mani delle principesse, vennero distribuite largamente. Tanto poteva il timore sopra anime deboli. Vi fu solenne ricevimento a Corte, pomposi discorsi del re, del vicario e del generale Pepe e questi non trascurò di baciare la mano a tutti, al re, al vicario, ai principi, alle principesse, e assunse l'alto ufficio di capitano generale dell'esercito, che era o parea dovuto a chi ritenevasi la vera anima del carbonarismo. Il resto non va raccontato. La storia di Napoli dalla metà di luglio del 1820 al marzo dell'anno seguente è nota: a che ripeterla? Pure le cause di sì facile trionfo della idea liberale, le cause per cui il regime costituzionale sì facilmente introdotto non trovò quasi difensori nell'ora del periglio, son cose che io vorrei approfondire se la breve ora che mi avete accordata concedesse. La rivoluzione del '20 fu opera essenzialmente dei carbonari, e i carbonari noi abbiamo visto chi fossero. Carbonari divennero, dopo il luglio, tutte o quasi le classi medie, principalmente le curiali. Una effemeride, che allora avea molta autorità, la _Minerva_, diceva: «Esiste nel regno di Napoli la libertà? Si può francamente rispondere che essa esiste di nome, ma non di fatto. Esiste una setta dei carbonari? Ella esisteva prima del 6 luglio; da quell'epoca memorabile in poi la setta è divenuta la nazione.» Nell'Italia continentale del Mezzogiorno, ove l'aristocrazia era fiaccata anche prima del 1806, l'opposizione al movimento carbonaro non fu viva. Ma la Sicilia avea ben diverse condizioni. La feudalità in quel paese, non distrutta, era anzi potente; vive forse sotto mutate forme in alcune province tutt'ora. La classe intermedia, formatasi con difficoltà, non era ancora sì forte da aspirare al governo. Gli avvenimenti di Napoli non potevano dunque essere seguìti in Sicilia. L'isola volle una costituzione anch'essa, ma una costituzione autonoma e di carattere feudale: l'aristocrazia si agitò, pensò perfino di restaurare il Parlamento del 1812, in cui sedevano 61 pari spirituali, rappresentanti la grande proprietà ecclesiastica e 124 pari temporali, rappresentanti la grande proprietà feudale. La rivolta di Sicilia sciupò parecchi generali napoletani, ma fu soffocata. Il Parlamento napoletano e la setta carbonara sentivano che non era possibile affermare la costituzione di luglio senza vincere le resistenze della Sicilia. Le resistenze furono infatti vinte; ma la vittoria, facile del resto e non contrastata a lungo, sciupò molta parte delle non grandi energie di cui disponeva il nuovo governo costituzionale. Se v'è cosa che caratterizzi la carboneria e i fautori del regime costituzionale nel 1820 è l'avversione che dimostrarono in tutti i loro atti per l'aristocrazia fondiaria. Quando si dovettero fare le elezioni per i membri del Parlamento, nei comizi ogni forma di violenza fu usata contro i nobili, cui fu spesso impedito per forza e con male arti di votare. Dei 72 rappresentanti delle province meridionali 2 soli eran nobili; gli altri quasi tutti avvocati, preti, magistrati e proprietari, inscritti alla carboneria. La Sicilia mandò invece più tardi, in gran maggioranza, nobili e preti. I giornali e le effemeridi annunziavano l'apertura del Parlamento con frasi solenni. Uno di essi diceva: «I giorni del primo entusiasmo sono ora al loro termine: la stagione dell'intelletto si avvicina con l'apertura del Parlamento; la crisalide, è già per rompere l'involucro, che nasconde l'angelica farfalla....» L'angelica farfalla venne fuori, e la stagione dell'intelletto si aprì con una cerimonia solenne. Il Re, il Duca di Calabria, i principi intervennero con gran pompa, pronunziarono discorsi e giurarono sugli evangeli, fra le grida di popolo festante, il rispetto della costituzione. Profferì lungo discorso il presidente Matteo Galdi, avvocato, e quindi amante della parola e della iperbole. L'arte rettorica non possiede tanti traslati e tante figure quanti ne usò il presidente Galdi. Dei Borboni di Napoli si può dare qualunque giudizio; una cosa però non può essere messa in dubbio: la loro incapacità alle armi e la mancanza di ogni attitudine guerresca. In fondo a tutte le loro colpe e a tutti i loro torti, non è che un sentimento solo: la paura. Fu essa che li rese spesso crudeli, sempre sospettosi. Ora il presidente Galdi, nel suo iperbolico discorso, dopo essersi rivolto al Re, al Duca di Calabria e aver citato tutti i tropi che furono inventati, volle elogiare anche i figli del figlio del Re, futuri guerrieri della patria: «Uno ne crescerà certamente fra essi che, di unita alle arti di pace, saprà coltivare quelle della guerra. Egli accoppierà al brillante coraggio e all'alma intrepida di Francesco I e di Enrico IV il sapere militare del gran Condè; e se, tolga il cielo l'augurio, sarà chiamato a combattere, lo vedremo circondato dai bellicosi Marsi, dai Dauni, dai Sanniti, da tutti i popoli della Magna Grecia e della Trinacria alle frontiere del regno, come l'Angelo del Signore, con l'adamantina spada nel pugno, stare alla difesa del paradiso terrestre.» Quel fulmine di guerra si chiamò Ferdinando II! La semplice esistenza del Parlamento, secondo il presidente Galdi, avrebbe fatto pullulare i grandi. Proseguiva infatti: «Le pagine del Codice di Astrea rimarranno immuni da qualunque macchia, e custodite da incorruttibili sacerdoti e il potente braccio e la volontà della Maestà Vostra e le vigili cure del Parlamento Nazionale, assicureranno sì bel retaggio fino alla nostra più remota posterità. Risorgeranno i Zeleuci e gli Architi, gli Archimedi e i Tullii, onore delle nostre regioni e del genere umano.» Strano Parlamento, ove tutto era iperbolico. Le sedute si tenevano in una chiesa, e i deputati parlavano per farsi applaudire dalle tribune, che quasi partecipavano alla discussione e applaudivano sempre i più enfatici e i più violenti. Mentre la costituzione e la patria erano in pericolo, si discutevano gli argomenti più inutili: se il nome di Napoli mutar si dovesse in Partenope, se mutar si dovessero i nomi dei popoli delle province e chiamarli come nell'antichità classica, lucani, irpini, marsi, sanniti. Si facean citazioni classiche, e gli animi si accendevano per cose futili. L'opera legislativa, quando fu efficace, non ebbe per scopo che di deprimere l'aristocrazia: i beni soggetti a maiorascato furono dichiarati liberi, molti provvedimenti furon proposti contro la feudalità in Sicilia. Ma il Parlamento era schiavo della carboneria; e la carboneria, a sua volta, era agitata da una turba di spostati, desiderosi d'impieghi. Chi poteva si trasformava volentieri in impiegato. Perfino l'abate Menichini, che avea secondato gl'insorti di Nola, che era entrato a Napoli a capo dei ribelli carbonari, chiedeva e otteneva impiego non nella Chiesa, non in filantropiche istituzioni, ma nella pubblica sicurezza. La carboneria avea spezzata, se pur ve n'era, ogni disciplina nell'esercito, trasformando i capi in settari e sottoponendoli spesso ai loro subalterni. Altri abusi compieva con ostentata prepotenza. Una notte alcuni carbonari si recarono in casa di un ex direttore di polizia, uomo onesto e sinceramente amico dei Borboni e, sotto gli occhi della moglie e dei figliuoli, lo trafissero con 42 pugnalate. Un carbonaro, arrestato per atroce crimine, passando per la via di Toledo, chiamò in aiuto i _cugini_ della carboneria e fu sciolto. Altri abusi la carboneria commetteva impunemente, quasi sfacciatamente, per mostrare la propria potenza. Allora non vi fu più sicurezza per alcuno. I timidi fuggirono da Napoli, coloro che erano più in alto temettero, chi si salvò ricoverandosi all'estero, chi in campagna. La situazione divenne gravissima. Il popolo, ignorantissimo e depresso, seguiva tutti i mutamenti senza coscienza, sperando sempre in qualunque mutazione per il re o contro il re; l'aristocrazia avversa; l'esercito demoralizzato; la carboneria, che rappresentava gl'interessi della classe media, preda delle concupiscenze di persone desiderose di lucrosi impieghi. E intanto il Re chiudeva nel cuore sensi di timore e di odio: avea per timidità, anzi per viltà, giurata la costituzione, sperava per tradimento abolirla. Fu così che scrisse segretamente ai re congregati a Troppau, e nel novembre giunsero lettere dei tre sovrani che lo invitavano a Laybach, per discutere in un Congresso le questioni politiche dello Stato di Napoli. Il Parlamento non volea farlo partire. Fu grande agitazione in tutta la città. Si protestava che il Re volesse adottare nuova costituzione. Si gridava d'ogni parte: _La costituzione di Spagna o la morte_. Nessuno più tardi volle morire per la costituzione di Spagna: ma quando il pericolo si crede lontano, i più timidi sono sempre per i mezzi estremi. Il Re si rassegnò a fare ciò che gli si chiedeva e partì, fingendo sempre fedeltà a una costituzione che gli era stata imposta dalla paura, e che era destinata a non trovare chi la difendesse. A Troppau parlò infatti contro la costituzione, a gente che quanto e più di lui temeva l'espandersi del movimento liberale: e fu deciso che un esercito austriaco fosse mandato a Napoli a rimettere l'ordine. Il Parlamento napoletano non esitò a dichiarare la guerra. La voleva sopra tutto il generale Pepe, che riteneva le truppe napoletane invincibili; la voleano i migliori che, con pietoso infingimento, dicevano il Re prigioniero e forzato lo scritto; la chiedevano a gran voce i carbonari. Accondiscese il vicario perchè debole e incerto. E la guerra fu proclamata non per valore di popolo, nemmeno per vaghezza di somma lode come dice Colletta, ma per leggerezza. La carboneria volle fare opera utile e riunire a banchetto anche i generali che sapeva a sè avversi, per cementare l'unione nel momento del pericolo. A quel banchetto Gabriele Rossetti improvvisò versi pieni di entusiasmo. A un tratto rivolgendosi a tutti i generali che gli erano intorno, chiese chi fra essi dovesse essere Milziade. Fu un momento di silenzio e di angoscia: poichè ognuno temeva che Milziade dovesse essere un collega, e ognuno credeva di poter essere. Allora il Rossetti, nell'angosciosa aspettativa di tutti, con straordinaria iperbole replicò: _Tutti saran Milziadi!_ Fu un delirio di applausi: ma di Milziadi poco tempo dopo non ve ne fu un solo. L'esercito napoletano contava allora quarantamila uomini, dei quali dodicimila in Sicilia. Fu deciso di mandare contro gli Austriaci trentaduemila soldati e quarantaduemila uomini di nuova leva. Gli Austriaci erano in tutto quarantatremila. La vittoria delle truppe costituzionali sembrava dunque probabile. Vi erano forse molte milizie nuove: ma altre avean già pratica di guerre. Le nuove, d'altronde, parea volesser gareggiar con le antiche. Il generale Pepe credea le milizie napoletane saldissime. Ma come l'esercito austriaco si avvicinava a Napoli, un mutamento strano avveniva. Il popolo che avea creduto che il mutato regime avesse dovuto portargli maggiore prosperità e che, per colpa degli avvenimenti, non avea avuto niente altro che nuove gravezze, si mostrava indifferente; tramavano i partigiani del regime assoluto; i capi della setta carbonara, che si sentivano in pericolo, avean perduta l'audacia. Il generale Pepe fece annunziare solennemente nelle gazzette di Napoli che avrebbe il giorno 7 di marzo dato battaglia e vinto. Strano generale e strani uomini, che annunziavano le battaglie anzi le vittorie a giorno fisso! E la battaglia fu data infatti il 6 marzo. Ma le milizie, o poco fiduciose, o nuove, o incerte, al primo urto non resistettero. I soldati, anche prima di aver contatto col nemico fuggirono, e la voce dei capi non potè rattenerli. Il generale Pepe giunse a Napoli prima che le fuggenti schiere giungessero. Parlò, esortò, chiese nuovi soldati, propose nuovi piani. Ma, poi che vide tutto perduto, fuggì all'estero. Allora non vi fu ritegno. Uscirono subito nuove coccarde, in onore del governo assoluto. Il Parlamento, congrega poco tempo prima altiera, desiderosa anzi di battaglia e di vittoria, fece indirizzo al Re umile, sottomesso. Per una crudele ironia della sorte le truppe che prima eran fuggite dinanzi al nemico eran quelle di Avellino e di Foggia: paesi che primi nel luglio dell'anno precedente avean voluta la costituzione. Di tanti che parean destinati a compiere grandi gesta, che volean morire per tante cose, al momento del periglio non si trovò quasi alcuno. La setta immensa taceva. I deputati, eloquenti in pace, dinanzi al pericolo muti, disertavano il Parlamento. All'ultima ora, quattro giorni prima che il nemico fosse entrato, solo un piccolo numero osò votare una protesta del deputato Poerio, protesta ove ancora si ricorreva alla solita pietosa finzione, e del Re e del vicario si parlava come di uomini la cui volontà fosse stata coartata. Ma almeno qualcuno osò protestare, sia pure timidamente, nell'ora solenne del pericolo. Il 23 di marzo entrarono a Napoli le truppe austriache, e il regime costituzionale finì da quel giorno di fatto. E fu iniziato un periodo di violenze, di persecuzioni e di crudeltà. Moriron tanti per esse, che se avessero voluto incontrar morte più bella di fronte al nemico, il regime costituzionale non sarebbe così malamente finito. Oltre alle cause esteriori, che si soglion di solito allegare, vi furono altre cause e maggiori, che una trasformazione nata subitamente, subitamente dovean soffocare. E queste cause van trovate non come si fa d'ordinario nella pochezza dei capi, nelle colpe dei generali, nelle incertezze del Parlamento, nei tradimenti della famiglia regale. Perchè il popolo non lottò? perchè l'esercito si sbandò? Non mai forze prodigiose nell'arte della guerra, genti dell'istessa razza e delle istesse contrade avean pochi anni prima, anche fuori della patria, dato prova di grande coraggio. I moti del '20 furon promossi da due giovani idealisti: seguìti da genti che non avevan gli stessi intenti, nè gli stessi scopi. Il sostrato della carboneria, come noi abbiam visto, era di spostati, desiderosi di occupazioni civili, di militari desiderosi di avanzamento, di forensi desiderosi di fortuna. Non era possibile contentar tutti: anzi il numero enorme non permise che di contentar pochi. Le promozioni militari, fatte in base alla volontà della setta, demoralizzarono un esercito già inglorioso e privo di tradizioni; gli scontenti di tutte le classi erano il lievito della putrefazione in un regime non stabile. L'aristocrazia fondiaria, potente in Sicilia, si oppose come potè: a Napoli e nelle province, ove se non la forza economica, possedeva almeno il prestigio, screditò con l'astensione e l'avversione. Rimasero sul teatro dell'azione sopra tutto gli avvocati, audacissimi in tempo di pace. La massa dei lavoratori delle campagne non avea coscienza del suo stato: ma per istinto era più dalla parte del Re, che da quella dei suoi avversari, da cui sentiva o credeva di non dover nulla sperare. Chi sapeva la costituzione di Spagna? e che valeva per essa lottare, per essa morire? I carbonari non erano più morali dei loro avversari: ricorrevano anzi, potendo, agli stessi mezzi. La rivoluzione di Napoli dovea cadere: le fu colpa cader vilmente. Ferdinando introdusse la frusta, riempì le carceri, esiliò moltissimi; ma nella persecuzione, già vecchio e stanco, non ebbe la crudeltà che avea avuta nel 1799. I suoi ministri Medici, Canosa eran peggiori di lui; avventurieri e ribaldi, che governavano con male arti, che mentivano con il loro sovrano e non avean fede se non nell'arte dello inganno. E in tante cattive passioni le due figure che rimasero al di sopra e che anche adesso rimangono, furon quelle dei due sottotenenti Morelli e Silvati, che disertori da Nola, aveano più per viltà altrui, che per virtù propria, mutato le basi del reame. Il Re che fu indulgente con altri, temendo forse la riprovazione dei paesi civili, non fu nè volle essere con essi. Nè l'uno, nè l'altro, durante l'imperversare della carboneria, benchè carbonari essi medesimi e rivestiti di alto grado vollero far cosa che suonasse violenza o abuso. All'avvicinarsi delle truppe austriache a Napoli, fugato l'esercito, fuggirono anch'essi, cercando scampo, dopo aver tentato invano sollevare di nuovo la provincia di Avellino. Imbarcati su piccola nave volean raggiungere la Grecia, ma una tempesta li spinse sulle coste di Abbruzzo, ove riconosciuti furon, dopo molte vicende, mandati a Napoli e processati. E furon processati come molti altri in forma crudele e trista. Nel giorno del dibattimento quattro degli accusati erano infermi con febbre, uno soffriva di emottisi, un altro, per riaperte ferite di guerra, dava sangue dal collo e dalla gola. Furon messi tutti insieme: e mentre due eran quasi morenti e altri balbutivano dalla febbre, furono interrogati e condannati, non ostante le proteste dei difensori e del pubblico. A quasi tutti fu fatta grazia della vita: due soli, Morelli e Silvati, come i promotori e i responsabili dei fatti di luglio dell'anno precedente furono giustiziati. E, nel momento supremo, non smentirono sè stessi. Morelli avea tentato di avvelenarsi per morire liberamente: Silvati, cristiano e cattolico convintissimo, non avea voluto. Salendo le scale della forca il 12 di settembre del 1822, Morelli vide silenziosa e avversa la stessa folla, che due anni prima lo avea acclamato insieme al suo compagno, mentre entravano a Napoli a capo delle ribelli truppe di Monteforte. Non però un solo grido in suo favore. Nel tragico momento egli non volle smentirsi. E a folla ostile parlò dei martiri del 99 e disse di esser lieto di morire per la libertà. E accanto a Morelli e Silvati, che furon la poesia di una rivoluzione che poesia quasi non ebbe, mirabile fu la condotta di altri accusati, che imputavan sè per discolpare altri: nobile contrasto al maggior numero, che sè discolpava, altri accusando. Lord Giorgio Byron, dopo la caduta della causa liberale a Napoli, imprecava spietatamente contro i Napoletani: «Vivere liberi o morire, essi gridavano: morire ripetea l'eco delle montagne. Vani trasporti! entusiasmo effimero e fallace! quale derisione sanguinosa cade ora sulle loro teste. Infelici! Eccoli inevitabilmente in preda ai fiotti amari del ridicolo e della infamia. Morire! No, voi non morrete più; la severa e terribile libertà, di cui avete compromessa l'augusta causa, il tradimento dei popoli di cui la vostra risolutezza avea usurpata la stima e di cui il vostro delitto ha tradito la speranza, vi rifiutano egualmente l'asilo della morte e dell'oblio.» Parole crudeli e non eque: le quali trovan forse la loro giustificazione nel fatto che prorompean da un'anima assetata di libertà, che non sapea perdonare di vederne compromessa la causa. Entrati gli Austriaci a Napoli assai furon quelli però che non seppero rassegnarsi alla servitù. Migliaia fuggirono in lontane terre e andarono per il mondo, a lottare, a cospirare, a preparare le rivoluzioni future. E tra essi erano Rossaroll, che avea tentato, anche dopo la catastrofe, di ribellarsi in Messina; Pietro Colletta che nella sua grande storia forse molto s'illuse sul suo popolo, ma fece il più terribile atto di accusa della monarchia borbonica, sì che fu detto a ragione che nessun libro ebbe tanta efficacia sulle sorti del popolo napoletano; e Guglielmo Pepe, che dopo aver molto errato seppe almeno molto amare e molto lottare. La rivoluzione del '20 non fu bella, sopra tutto perchè non ebbe il sacro battesimo del sangue; e perchè seguendo le rivolte di Spagna, n'ebbe tutto il carattere: non fu opera di popolo, ma di cospiratori e di forensi, battaglieri in pace, pacifici in guerra. Ma ad onore delle genti meridionali bisogna dire che per settant'anni la causa della libertà trovò in esse i principali sostenitori. Mentre altre genti d'Italia, più tenaci forse nel pericolo, ma meno insofferenti, chinavano il capo alla servitù, dal lembo estremo della penisola venivan le voci e i tentativi della riscossa. E fu l'esercito napoletano che, nel 1813, tentò, per la prima volta forse l'unità d'Italia, che popolo più fortunato dovea compiere: unità che anche con i suoi svantaggi, è la nostra fortuna e la nostra salvezza, e che noi dobbiamo mantenere oggi sopra tutto che le vecchie e perfide tradizioni separatiste, causa di ogni nostra sventura, risorgono malefiche negli animi italici. E furono i Napoletani che diedero maggior numero di morti e di esuli per causa di pubblica libertà e di amore d'Italia. E se l'opera dei meridionali fu un po', come la loro natura, vivace, tumultuosa, disordinata, fu anche negli anni della servitù, la scintilla che mai non si spense e che determinò altrove più grande e più poderoso incendio. POLITICA E BEL MONDO CRONACHE FIORENTINE DAL 1815 AL 1831 CONFERENZA DI GUIDO BIAGI. _Signore e Signori,_ Il 17 settembre 1814 non fu a Firenze un sabato come tutti gli altri. Sin dall'aurora la gente era tutta in moto, e così dalle povere impannate delle casupole, come di dietro alle vetrate co' piombi delle case civili e dei palazzi, le fiorentine sempre curiose allungavano gli occhi per guardar giù nelle strade formicolanti di popolo: di contadini in calzon corti, di villane infioccate, di birri, di preti con gli abiti di tutti i colori consentiti dalla licenza francese, e di soldati delle milizie toscane e tedesche, i quali, al suono dei pifferi e dei tamburi, movevano dalla gran guardia di Palazzo Vecchio e dalle caserme verso il Duomo e Porta a S. Gallo. Molta la gente a cavallo, moltissime le carrozze padronali con i _lacchè_ a cassetta e in piedi sul predellino di dietro; e procedevano a stento fra il pigia pigia della folla, gravi, pesanti, massiccie come cariaggi, portando quasi in pompa dame e cavalieri, sgargianti negli abiti di gala che alla Restaurazione aveva legato l'Impero. Alle ore sette, le milizie erano già schierate lungo le vie e nell'interno del Duomo: la calca cresceva, e il mareggiare delle teste refluiva verso Porta a S. Gallo; e, più oltre, attraverso all'Arco trionfale e su per il Ponte Rosso, si stendeva a perdita d'occhio lungo la via Bolognese. In mezzo alle file dei soldati, passavano staffieri a cavallo, battistrada, carrozzoni di gala con cerimonieri, ciambellani, magistrati, ufficiali. Alle otto, col primo colpo di cannone sparato da Belvedere, le campane di tutte le chiese cominciarono a suonare, annunziando ai fedeli toscani che S. A. I. e R. l'Arciduca Granduca di Toscana Ferdinando III, movendo dalla villa Capponi alla Pietra, dove aveva fatto breve sosta per riposarsi e cambiarsi gli abiti da viaggio, stava per arrivare a Firenze. Ricevuto dal suo nuovo gran Ciambellano, cav. Amerigo Antinori, e dai due ciambellani di servizio di settimana, Tommaso Corsi e Silvestro Aldobrandini, il Granduca, il cui viaggio da Firenzuola in poi era stato un continuo trionfo, dopo aver vestito il suo grande uniforme, prese posto nella sua _muta_ a sei cavalli infioccata a gala, in compagnia del maggiordomo maggiore don Giuseppe Rospigliosi e del gran Ciambellano cav. Amerigo Antinori. A questa seguiva un'altra _muta_ a sei cavalli, in cui erano i due ciambellani di servizio Corsi e Aldobrandini, insieme con i due ciambellani Bodech e Reinack, che il Granduca avea condotto seco da Wisbourg. Intorno all'equipaggio del sovrano galoppavano, superbi delle monture rosse e delle lucerne piumate, dodici uffiziali del nuovo corpo dei dragoni, e alla portiera il Maggiore che li comandava. Lungo la strada, tra il fragor delle campane e il rombo de' cannoni, tra il vocìo e gli evviva della folla, udivi i comandi degli ufiziali che ordinavano di _presentare le armi_; e giù dalla scesa del Pellegrino si avanzava entro un nuvolo di polvere, scortata dai dragoni e tutta splendente e luccicante al sole, la carrozza del Principe. Gli _evviva_, i battimani, le grida scomposte ma fervide, aumentarono coll'ingrossar della folla. Giunto il Sovrano alla Porta a S. Gallo, il già senatore Girolamo Bartolommei, gonfaloniere del Comune di Firenze, i Priori e il Magistrato civico, fattisi incontro al Granduca, gli presentarono le chiavi della città. Voleva il Gonfaloniere in quel punto pronunziare il discorso già preparato; ma la commozione che provò il valent'uomo come quella onde fu preso il Sovrano, troncò ad ambedue la voce, e le sole lacrime del Gonfaloniere e dei Priori furon l'omaggio ch'essi seppero rendere in nome della città all'amatissimo Principe. La scena può parer comica, poichè risveglia il ricordo di tanti altri ingressi burleschi, di tanti discorsi di gonfalonieri e di sindaci che non furon troncati dalle lagrime, bensì dagli sbadigli e dalle risa. Ma possiamo esser certi che quelle lagrime de' magistrati fiorentini eran vere, sgorganti dal cuore, e che le accoglienze ch'ebbe Ferdinando III in Firenze e in tutta Toscana, quando vi rimise il piede dopo quindici anni di esilio, erano spontanee e sincere. L'entrata del Granduca somigliò ad un trionfo, come il suo ritorno nei dominî toltigli dall'invasione francese parve opera di giustizia riparatrice. Il buon popolo fiorentino l'avea veduto lasciare la reggia e Firenze una triste mattina del marzo 1799, e con lacrime aveva accompagnato la sua dipartita. Ferdinando avea preso la via di Vienna, rassegnato e fidente, raccomandando a' sudditi di rimanersene in calma, e di confidare nella Provvidenza. Ora, dopo tanti rivolgimenti, dopo tante scosse e così rumorose cadute, egli tornava come un padre che rientri in casa sua, con la coscienza di non aver rimproveri da farsi, con la fiducia di poter essere ancora amato dai sudditi. L'ingresso in città fu fatto in gran pompa. Sulla Piazza di S. Marco, trasformata in anfiteatro, sorgeva un gruppo trionfale rappresentante la Vittoria, la Concordia, la Giustizia e la Pace che conducevano il carro su cui sedeva Ferdinando III. I più illustri artisti dell'Accademia avevan lavorato a cotesto gruppo e a tutte quelle simboliche architetture: il Morrocchesi, Pietro Bagnoli, Francesco Benedetti, perfino i cherici del Collegio Eugeniano, avevano cantato il ritorno dell'_ottimo_, del _desideratissimo_ Principe. Dalla Porta a S. Gallo al Duomo, dov'ebbe la benedizione, dal Duomo a Pitti, e poi la sera alle Cascine e per le vie di Firenze, e il giorno appresso e in quelli in che celebraronsi le feste date dalla Comunità col palio dei Cocchi in piazza S. Maria Novella, con illuminazioni e fuochi d'artifizio, gli evviva, gli applausi e le grida gioiose non ebbero freno. L'arciduca Leopoldo principe ereditario, le arciduchesse Maria Teresa e Luisa, che arrivaron dipoi, ebbero anch'esse accoglienze festose, e plausi e acclamazioni. Il canto de' poeti rispecchiava i sentimenti del popolo: Regna e tramanda nell'augusta prole Le tue virtù; basta che a te somigli. Tu lei volesti, e _te_ l'Etruria vuole. Più numerosa gente altri si pigli, Più fida no, nè più in amor sincera: Maggior d'ogni altro è chi sui cori impera! Il ritorno di Ferdinando III chiudeva per Firenze un periodo sciagurato pieno di rivoluzioni, di rimescolii e di paure. In quei quindici anni quante scosse e quante commozioni, quanti ingressi trionfali e quante fughe paurose e precipitose! Nel 1799 il generale Gaultier dà lo sfratto al Granduca, pianta gli alberi della libertà sulle piazze di S. Maria Novella e S. Croce, arresta alla Certosa quel povero vecchio cadente del pontefice Pio VI e lo spedisce prigioniero in Francia a morirvi d'angoscia, spoglia la galleria e la reggia de' Pitti de' suoi capolavori, e pochi mesi dopo, il 5 luglio 1799, sgombra con le sue milizie Firenze. Tornano gli Austriaci e restaurano il governo di Ferdinando III, mentre le frotte dei contadini insultavano e rubavano quanti aveano al governo francese aderito. Ma seguono le vittorie sfolgoranti del Bonaparte e, dopo Marengo, gli Austriaci sloggiano alla lor volta; e Firenze vede, il 15 ottobre 1800, l'entrata del generale Dupont, e poi quella del Miollis, l'amico di Corilla Olimpica; e il 27 marzo 1801, Giovacchino Murat, che in nome del cognato Bonaparte prende il comando della Toscana. Il 12 agosto altro ingresso trionfale! Ricordate? la Toscana, col trattato di Madrid, era stata trasformata in _regno d'Etruria_, e Lodovico di Borbone, già duca di Parma, veniva a prenderne possesso. Regno breve e inglorioso: il 29 maggio 1803, morto Lodovico, gli succedè l'infante Carlo Lodovico suo figlio col titolo di _secondo Re d'Etruria_, e questi, il 10 dicembre 1807, parte da Firenze con Maria Luisa sua madre per occupare un altro regno, quello di Lusitania, largitogli dall'imperatore Napoleone, nel cui nome il generale Reille occupava Firenze. Il 24 maggio 1808, la Toscana, divisa in tre dipartimenti dell'_Arno_, del _Mediterraneo_ e dell'_Ombrone_, fu riunita all'Impero e governata da una Giunta di governo, preseduta dal barone Menou, generale delle truppe francesi. Neppure un anno dopo, il 3 marzo 1809, i tre dipartimenti furon trasformati in _granducato_, e ne fu investita Elisa, sorella dell'Imperatore, sposa a Felice Baciocchi, principessa di Piombino e duchessa di Lucca. Il 1º aprile, Elisa faceva il suo ingresso in Firenze, che di lei e del suo governo ricordava più tardi con piacere due cose: le riviste militari ch'ella passava a cavallo, seguìta dal marito Felice, — e i lampioni a olio messi a spese del Comune per le vie della città dopo il 1809. Ma scorsi appena cinque anni dalla sua venuta, il 1º febbraio 1814, alle nove e mezzo della mattina essa fuggiva alla volta di Lucca, dove aveva già spedito la principessina sua figlia e di nottetempo parecchi carri pieni d'argenterie e di cose preziose. Quell'anno 1814 fu veramente pieno d'eventi, e per Firenze di curiose sorprese. I Francesi eran quasi tutti partiti, assai prima di Madama Elisa, ed entravano le truppe napoletane col Maresciallo di campo Minutolo, che in nome del Murat, anzi di _Gioacchino Napoleone Re delle Due Sicilie_, prendeva possesso della città. Al Minutolo succedeva il Lechi, luogotenente generale comandante superiore della Toscana, che dopo un blocco di 20 giorni e più, faceva, il 23 febbraio, evacuare dalle fortezze da Basso e di Belvedere le guarnigioni francesi rimastevi. Poi, quando già la Toscana era tutta occupata da milizie napoletane, — in forza della convenzione di _Schiarino-Rizzino_ onde il Murat dovette contentarsi del Reame di Napoli, — stabilita con l'atto di Parma la reintegrazione di Ferdinando III in Toscana (20 aprile 1814), giunse il 26 aprile in Firenze il duca di Rocca Romana, Commissario di S. M. il Re di Napoli, per la consegna della Toscana al Commissario generale del granduca Ferdinando III. E in nome di questo, il 1º maggio 1814, don Giuseppe Rospigliosi, come plenipotenziario, ne prendeva possesso. In quindici anni, dieci cambiamenti di governo! di che nella stampa del tempo resta appena la traccia. L'unico foglio politico pubblicato allora in Firenze, soltanto in una settimana del febbraio 1814 muta tre volte il titolo, e da _Giornale del dipartimento dell'Arno_, come si chiamava il 3 febbraio, diventa il 5 febbraio _Giornale politico di Firenze_, e il 10 _Gazzetta di Firenze_. Ma se cambia di titolo non cambia di proprietario, e seguita a stamparsi da Giuseppe Fantosini da S. Maria in Campo. Cambino pure i governi, ma gli uomini di carattere, i tipografi d'allora, non lo cambian davvero! La restaurazione voleva dire per i toscani il benessere, la pace, la tranquillità. Del governo francese e del napoleonico, piuttosto che certe benefiche riforme legislative, ricordavano le spoliazioni vandaliche de' musei, le leve forzate di tanta florida gioventù mandata a morir lungi da' suoi, le imposizioni continue, intollerabili, le persecuzioni ai religiosi ed ai preti, l'infrancesamento della pubblica cosa, l'obbligo di rinunziare alla lingua nativa, e la soggezione ad un padrone lontano. I Toscani, per l'indole loro, per tradizioni antiche, per lingua, si sono sempre sentiti anzitutto _toscani_, e poco o punto disposti ad imbrancarsi con altra gente e a perdersi nella gran confusione di mescolanze diverse, tramezzo alle quali rischiavano di rimanere, nella loro, non so se timidità o selvatichezza, un po' sopraffatti. L'unità napoleonica o murattiana non poteva a loro gradire, massime scorgendone da presso piuttosto il danno che l'utile. Essi ricordavano, a proposito di riforme, quelle iniziate da Pietro Leopoldo e lasciate in retaggio da lui a Ferdinando: ricordavano gli anni prosperevoli, i raccolti abbondanti non disertati dalle milizie straniere, non occhieggiati dall'avido fisco: ricordavano il Principe che si mostrava a' sudditi semplice, buono, alla mano, come un padrone amorevole, e del paterno regime amavano la pacatezza e magari la severità, magari l'arbitrio, perchè le busse del babbo non sono offesa, ma meritato castigo. La stessa scioltezza del vivere ch'era diventata soverchia e stomachevole, massime fra quelli che aveano buttato il saio o il collare alle ortiche, faceva desiderare il ritorno all'antico. E più dovevano augurarlo e pregarlo i nobili che del Codice Napoleone, in cambio del divorzio, di cui non avevano mai sentito il bisogno, videro distruggere le antiche prerogative, per giovare a' nuovi favoriti della fortuna. L'abolizione degli ordini religiosi e l'incameramento dei beni loro avea scosso la proprietà: la mancanza di braccia, tolte dalle leve ai lavori dei campi, nociuto all'agricoltura. Le guerre napoleoniche nelle quali si combatteva in terre remote per l'ambizione di un uomo, costavano troppo buon sangue toscano, e nelle famiglie lasciavano troppi vuoti che non era agevole colmare. «Ferdinando III, ammaestrato dagli avvenimenti, era tornato dall'esilio in Toscana più desideroso di pace che di potenza, risoluto di obbedire alla mitezza della propria indole, anzi che agl'imprudenti rancori del Metternich»[3]. Toscano com'era d'indole e di rimembranza, e in Austria negletto, aveva in uggia i Tedeschi «ch'ei chiamava _legnosi_, e la Corte di Vienna, le cui alterigie, i sussieghi, la grulla rigidità delle cerimonie gli destavano insieme riso e pietà.» A Salisburgo, di cui gli dettero a gran stento la possessione, dolevasi del clima, della solitudine e del sito della città, — della mancanza di gelati e del non vedere italiani. Nominò segretario di Stato il conte Vittorio Fossombroni e gli dette per compagni nel ministero, ma con minor grado, don Neri dei principi Corsini per l'interno e Leonardo Frullani per le finanze. Il Fossombroni, matematico e idraulico valentissimo, «fu quel che poteva essere, dopo il 1815, il ministro di un principe mite nella più mite provincia d'Italia.» Principe e Ministro andavano pienamente d'accordo nel non voler compromettere la dignità del sovrano e l'indipendenza dello Stato. Ferdinando III era franco e non celava la sua ammirazione per Napoleone, al quale soltanto, e non al fratello, dovette il principato di Wurtzburgo, datogli in retaggio per il trattato di Luneville. A quelli che per aver titolo ad ottener da lui grazie od impieghi, vantavansi di non aver mai servito l'Usurpatore, rispondeva: «Faceste male: l'ho servito io, potevate servirlo anche voi.» Avverso alla politica di Metternich, che credeva nociva agl'interessi della sua Casa, e geloso della propria indipendenza, una volta che il conte di Fiquelmont, ministro d'Austria, cercava di mettergli in sospetto alcuni dei più segnalati cittadini, il Granduca rispose: «Ella faccia sapere al suo _sovrano_, come io farò sapere _a mio fratello_ che de' miei sudditi io solo dispongo e rispondo.» Con minor fierezza, anzi con una mellifluità quasi canzonatoria, il rappresentante di cotesto principe alla buona, ch'era un uomo di spirito oltre ad esser un dotto, e a cui la matematica aveva appreso l'equazione fra la politica e il buon senso, al Ministro d'Austria che pretendeva 300,000 scudi per non so quali crediti vantati dall'Imperator d'Austria, rispose: — Eccellenza, si potrebbe disputare se S. M. debba avere questi quattrini; ma si perderebbe tempo, perchè tanto io i 300,000 scudi non li ho. — Ma S. M. l'Imperatore li vuole.... — Eccellenza, e se a S. M. l'Imperatore saltasse in testa di volere da me 300,000 elefanti? Io non potrei che rispondere: Eccellenza, non li ho. — Ma io debbo scrivere a Vienna.... — V. E. scriva che il ministro Fossombroni è sempre pronto a compiacere S. M. l'Imperatore, qualunque sia la cosa che si degni di chiedergli; ma che per il momento si trova a corto così di scudi come di elefanti. — Un altro aneddoto che dipinge l'uomo. Il suo segretario particolare (allora si chiamavano più modestamente _commessi fiduciari_) gli portò un giorno molte carte da firmare; e poi — come successe più tardi a un ministro di Vittorio Emanuele famoso per le sue distrazioni — scambiando il calamaio col vaso del polverino, macchiò d'inchiostro tutti quei fogli. L'impiegato rimasto di sale, si lasciò scappare un: — E ora? — E ora, — rispose con l'usata bonarietà il ministro Fossombroni, — si va a desinare. — Ma, e gli affari? — Domani, mio caro, domani. Il desinare brucia e lo Stato no. — E per quel giorno — scrive l'arguto figlio di quel segretario — le staffette non partirono e la Toscana si governò da sè e nessuno se ne risentì. _Il mondo va da sè_, soleva affermare il Fossombroni, che cotesta massima considerava un assioma di profonda politica. Di che molti oggi, anche ministri, lo han censurato. Ma, secondo me, è bene che così vada. Sarebbe peggio, se lo dovessero mandare i ministri! Checchè altri opini, la Toscana sotto il governo restaurato di Ferdinando III visse anni felici di prosperità materiale, di liberale mitezza, con leggi, se non in tutto buone, certamente applicate con grande moderazione. Uno Stato compreso — come diceva il Niccolini — tra Orbetello e Scaricalasino, non era difficile a governare. Il popolo, de' trambusti passati si rifaceva nella tranquillità, un po' supina, se vuolsi, di quegli anni, ma onesta e sicura; contro le inframmettenze e le prepotenze dell'Austria, vegliavano il Sovrano e i Ministri. L'aristocrazia accarezzata a Corte era tenuta lontana da ogni ingerenza che potesse parere soverchia: favorita la piccola gente: gl'ingegni mezzani e pieghevoli lusingati con accorte blandizie: gli esuli e i liberali sorvegliati senza eccessivi rigori: si voleva, e si ottenne, che i Toscani d'ogni condizione, d'ogni classe, d'ogni età, riuniti nell'amore del Sovrano e del pubblico bene, formassero una sola famiglia. Al Granduca era grato il riposo e il vivere lieto: del principato amava più i comodi che le cure: gli piacevano gli ozi delle villeggiature medicee, nelle quali gradiva la compagnia degli uomini colti, come Gino Capponi, che fu suo ciambellano. Racconta il Capponi che una volta al Poggio a Caiano andarono in gran fretta da Firenze i Ministri per tenere un consiglio straordinario. Partiti i Ministri, il Granduca chiamò il Capponi nella sala stessa dov'erasi adunato il Consiglio, parata d'un drappo di seta a fiorami, e mostrandogli certe rose che ricorrevano di tratto in tratto nel tessuto, gli domandò se gli pareva che avessero tutte un ugual numero di foglie; ed avendo il Capponi risposto affermativamente: «Lei sbaglia, riprese il Granduca, perchè in quell'angolo ce n'è una che ha una foglia di meno, forse per malefatta del tessitore.» Ed era vero; ma il Granduca, per essersene accorto, doveva, durante il consiglio, aver badato più a quelle foglie che agli affari di Stato. II. Piccole le figure; ristretto e piccino anche il quadro. La Firenze di cotesto periodo non era della Firenze d'oggi che il boccio, apertosi più tardi nel fiore che ne uscì fuori con tanto rigoglio e tanta vivezza di colori e di profumi. Allora noverava circa 80,000 abitanti: e nel perimetro della quarta ed ultima cerchia delle sue mura, spesseggiavano verso la cinta gli orti, i giardini, i poderi, tanto da occuparne un buon terzo. Nel centro, le strade, intorno al Vecchio Mercato ed al Ghetto che abbiam veduto distruggere, erano strette, malagevoli, storte. Via de' Calzaioli, che allora chiamavasi Via dei Pittori e Corso degli Adimari, era così angusta che non vi passavano due carrozze di fronte, e quando fu allargata nel 1842 abbattendo l'antica torre che sovrastava il suo ingresso verso Piazza del Duomo, la pacata musa di Emilio Frullani ne salutò la scomparsa non senza rimpianto. Cadrai tu pure, antica Torre degli Adimari; E non gente nemica, Ma cittadini avari Ti combattono i fianchi, e si saluta Con plauso il giorno della tua caduta. I Lungarni, di qua terminavano al Ponte alla Carraia, e poc'oltre Piazza de' Cavalleggeri: di là al Ponte S. Trinita e al Torrino di Santa Rosa. Strettissime Via de' Martelli, Via de' Cerretani, Via de' Panzani e Via de' Tornabuoni, dove la loggetta del palazzo Corsi sorgeva al fianco del palazzo Strozzi. Le Cascine arrivavano sin presso S. Lucia sul Prato, e vi si accedeva o dalla Porta al Prato o dalla Porticciuola di Piazza delle Mulina, dov'è ora Via Curtatone. Fra Valfonda e Via della Scala, nell'area occupata dalla Stazione e dalle strade adiacenti, si stendevano orti e poderi; fra Via S. Zanobi e l'odierna Via Guelfa sino alle Mura, orti e poderi; e così fra Via del Maglio (Via Lamarmora) e Via Gino Capponi, e in quel grande rettangolo che avea per lati: Borgo Pinti, Via de' Pilastri e Borgo la Croce e le mura da Porta a Pinti a Porta alla Croce. In Piazza del Granduca, fra Calimaruzza e Vaccherecchia, la _Tettoia de' Pisani_ copriva l'edificio della Posta, dove entravano e donde movevano allo squillo delle cornette le vetture corriere, co' variopinti postiglioni a cavallo, svelti e vivaci alla partenza, sudati e polverosi all'arrivo desiderato, e sempre accerchiati e molestati dai monelli, dai curiosi, dai fannulloni. Traverso alle inferriate del palazzo si distribuivano le corrispondenze: e nei giorni di posta (perchè a quei tempi beati anche la posta si riposava), sotto il tetto de' Pisani affluivano quanti aspettavano lettere: e ne chiedevano agl'impiegati con quell'ansietà onde ne chiedono anch'oggi, e ne erano accolti colla stessa fiaccona. Di solito, tranne nelle vie principali e la festa, o per qualche ricorrenza, poca gente per le strade. Vetture di piazza non c'erano: fino al 1824 S. Fiacre non ebbe culto fra noi. In quell'anno ne comparvero cinque o sei, ed ebbero per stazione Piazza del Duomo presso il _Sasso di Dante_. In Via Larga, di faccia al palazzo Riccardi, fra una lastra e l'altra cresceva l'erba. Modeste le botteghe, anch'esse tagliate all'antica: come quelle più antiche del Ponte Vecchio o le ultime scomparse presso Badia, aveano dinanzi un muricciuolo, entro il quale si apriva uno stretto usciolino, e di qua e di là sul muricciolo eran le bacheche, di vetri verdastri, tra le cui crociate entrava nella bottega una luce discreta.... come i prezzi d'allora. Dopo il 1814, cominciarono a comparire nei negozi più eleganti le prime vetrine, e ne segnala lo sfarzo meraviglioso nella sua _Cronaca_ manoscritta Gaetano Nardi, cuoco degl'illustrissimi marchesi Niccolini, che a' suoi padroni lasciò in retaggio venti e più volumi di storie, dove ragiona di tutto, d'archeologia e d'edilizia, di religione e di politica, dimostrando le strette attinenze che ha sempre avuto la politica con la cucina. La vita fiorentina di quegli anni, la vita pubblica almeno, consisteva in feste di chiesa, in processioni, sfoggiate e solenni, in fiere di nocciuòle, di cocci di cianfrusaglie, in riviste o come dicevansi _parate militari_, in corse di barberi, nelle quali si correvano palii o bandiere, nella gran corsa dei cocchi in Piazza S. Maria Novella la vigilia di S. Giovanni, in fuochi artificiali che per lo più scoppiavano e sfolgoravano in razzi e pioggie luminose dall'alto della Torre di Palazzo Vecchio; in _mascherate_, in festini sotto gli Ufizi, ed in balli. Lo scoppio del carro del Sabato Santo, la fiera della SS. Annunziata l'8 settembre con l'illuminazione e le _rificolone_, richiamavano a frotte il contadiname e la gente de' paesi vicini, que' buoni _terrazzani_ che, nelle solennità, assaporavano con ghiotta parsimonia un di quei gelati del Bottegone, mantecati, deliziosi, che si ergevano piramidali sopra uno stretto ed esile bicchierino. Le processioni, i servizi di chiesa, ristabiliti col 1815, quando si ripristinarono con gran pompa le feste del _Corpus Domini_ e di S. Giovanni Battista, empivano d'allegrezza l'animo di tutti, e di rimpianto chi era impedito d'assistervi. Giacomo Leopardi, tormentato da uno de' suoi mille malanni, scriveva nel 1827: «Domani sarà per me un giorno feriato. Gli altri avranno corse di bighe, corse di barberi dei primi d'Italia, fuochi artifiziali che costano non so quante migliaia.... Io non vedrò nulla, e me ne dispiace.» E davvero c'era di che lamentarsi! Per il _Corpus Domini_ si faceva la gran processione, preparata, aspettata, desiderata di lunga mano. I giorni innanzi si stendevano grandi tendoni bianchi sulle vie per cui doveva passare, e già la città pigliava un aspetto festivo. Chi abitava più su dei primi piani doveva rassegnarsi a non veder nulla di casa sua; ma i favoriti dalla fortuna addobbavano le finestre e i terrazzini con tappeti ed arazzi, preparavano le bombole, gli scartocci o le padelle per l'illuminazione, con gran gioia dei ragazzi che già apparecchiavano lo stomaco per i rinfreschi e sognavano la notte i fuochi, i soldati e gli spari. Finalmente veniva il gran giorno, salutato dallo scampanìo di tutte le chiese. Il momento solenne si avvicina. Ecco la processione: sfilano le compagnie delle parrocchie con gli stendardi e i fuciacchi; seguono le fraterie salmodiando; e poi, precede il clero di S. Lorenzo, e quello della Metropolitana, prima i seminaristi poi i chierici. Segue un battaglione di fanteria con banda; indi i cappellani e un battaglione di granatieri. Ecco le livree di Corte, la nobiltà in uniforme e spadino, e l'uffizialità in gran montura. Seguono i canonici della Metropolitana, i furieri e gli uscieri in uniforme di gala, poi i ciambellani coperti di croci e di ricami, i canonici dignitari con le pellicce magnifiche, i consiglieri che recano torce date dalla Corte, i Ministri ecclesiastici parati, le cariche di Corte con torcie, e finalmente il baldacchino fiancheggiato da 8 paggi coi loro precettori in linea e senza torcia e 8 guardie del corpo con carabina. L'aste del baldacchino son sostenute da' cavalieri di S. Stefano vestiti del lungo manto bianco con le maniche foderate di rosso, con la croce purpurea a manca o sul petto. E dietro al baldacchino S. A. I. e R. il Granduca, con 4 guardie del corpo armate di carabina, seguìte dal gran ciambellano, dal segretario d'etichetta, dai camerieri e dalle magistrature. Chiudono il corteggio una brigata di guardie a cavallo e le milizie toscane, con gli enormi _gaschi_ e le lucerne; e i tamburi, in doppie, in quadruplici file, seguìti dai pifferi e diretti, guidati, tiranneggiati dal gigantesco capotamburo, che rotea in alto superbo la sua mazza d'ebano col pomo d'argento, al cui terribile cenno essi battono il rullo assordante o lo sospendono d'un tratto... impietriti. La vigilia di S. Giovanni, nel dopopranzo, il palio dei cocchi in Piazza S. Maria Novella, a cui interveniva nei carrozzoni di gala e in gran pompa la Corte, che prendeva posto coi Ministri esteri in un palco sotto le loggie di S. Paolo. Cominciava la festa con un corso di carrozze, mentre i palchi dell'anfiteatro, le finestre, le terrazze e perfino i tetti delle case sulla piazza si empivano, si accatastavano di spettatori. E all'ora fissata, i soldati sgombravano la Piazza e comparivano le quattro bighe alla romana, guidate da un auriga, non diciamo un _cocchiere_, vestito all'eroica, di rosso, di giallo, d'azzurro o di verde come il suo cocchio. Tirato il canapo e data la mossa, tra gli applausi, i fremiti e le ansie della folla, le bighe giravano tre volte attorno allo steccato da una guglia all'altra e chi primo giungesse avea gli onori del trionfo, gli evviva, gli abbracci e la gloria d'un giorno. La sera fuochi d'artifizio da Palazzo Vecchio, e dopo il 1826 sul ponte alla Carraia; illuminazione della città, della Cupola, del Battistero e del Campanile, e trattenimento musicale nel recinto fra la Canonica e il Duomo. Il giorno di S. Giovanni, il Gonfaloniere col Magistrato civico recavasi al tempio per l'offerta della cera; poi messa pontificale dell'Arcivescovo nella Metropolitana, a cui interveniva la Corte. Nel pomeriggio corsa di barberi dalla Porta al Prato a quella alla Croce, con premio d'una ricca bandiera, che si faceva benedire in S. Giovanni. La corte assisteva allo spettacolo dal terrazzo al principio del Prato, con in faccia schierate le guardie a cavallo. Il tragitto era percorso dai barberi in circa sette minuti, e dalla sommità della Porta alla Croce si facevano alcune fumate di polvere per avvisar qual dei cavalli fosse primo arrivato, e le fumate ripetevansi dalla pergamena della Cupola del Duomo: il Sovrano, vedutele dalla sua loggia, segnava il nome del vincitore sulla _nota_ che aveva in mano e che gettava alla folla. La sera _spettacolo di gala_ all'I. e R. Teatro di Via della Pergola con grande illuminazione e con passo libero al popolo, o feste campestri nel giardino del _Teatro di S. Maria_, più tardi intitolato al Goldoni. Ma non scordiamo gli spari, le salve di artiglieria e moschetteria, che si facevano sulla Piazza del Duomo e dal Forte di Belvedere, mentre il Granduca e la Corte assistevano alla messa pontificale! Al comando _caricat'-arm!_ gridato dai comandanti a cavallo, i fucilieri eseguivano i 24 movimenti prescritti; le bacchette d'acciaio, svelte con prestezza dai fucili, luccicavano fra le mobili dita dei militi, e dopo mille giravolte cadevan tutte d'un colpo nelle canne dei moschetti, per uscirne, e dopo altrettanti giri, tornare al loro posto: s'innescava il fucile, l'acciarino batteva sulla pietra; e da quelle mille bocche da fuoco scoppiava il baleno ed il tuono, mentre un fumo denso e biancastro avvolgeva ogni cosa. I ragazzi e le donne strillavano o si tappavano gli orecchi; e dopo il terribile rimbombo, riapparivano le file dei soldati, immobili, come fantocci di legno. Per ogni colpo, 24 movimenti e tre minuti di manovra! Il tempo per scappare fuori di tiro! III. A tutti questi divertimenti, e perfino ai più umili, anche a quello della _caccia al grillo_ il giorno dell'Ascensione alle Cascine, partecipava con la Corte il bel mondo che — come dice lo Stendhal — metteva in pratica la grand'arte d'esser felice, senza neppur sapere quanto sia difficile il possederla. La società elegante, la nobiltà e la cittadinanza più ricca non sdegnava di restare a Firenze molta parte dell'anno. In campagna a villeggiare si andava soltanto in maggio e in giugno, ritornando in città per il _Corpus Domini_ e per le Feste di S. Giovanni. E in città, nei palazzi e nelle case antiche, in quelle vecchie strade dove ne' solleoni senti uscire dalle cantine e dai cortili un frescolino che par quasi alitare dalle pietre come vi fosse dentro conservato da secoli, — non temevano gli ardori canicolari e non sentivano il bisogno nè delle bagnature, nè dell'aria di montagna. I bagni eran soltanto per i malati sul serio; e i medici non conoscevano che la virtù terapeutica dei _Bagni di S. Giuliano_ e delle _Terme di Montecatini_; e ci spedivano chi ne avesse bisogno, e non, come ora, tutta la famiglia. In campagna si tornava dopo la SS. Annunziata (15 d'agosto) e ci si restava fino a S. Michele (29 settembre), senz'altri svaghi che la solita partita, il paretaio o la caccia a tempo e luogo, qualche ballonzolo campestre per la vendemmia, e i dilettevoli giuochi di società come la _berlina_ e il _tibidò_. D'inverno in città si tenevano le _conversazioni_, ricevimenti alla buona dove si giuocava al _terzilio_, alle _minchiate_, a' _quadrigliati_, a _calabresella_, al _whist_ ed all'_hombre_, si faceva un po' di musica con _forte-piano_, cembalo, violini, violoncelli e cantanti da camera, e si giravano rinfreschi, sorbetti, acque, sciroppi, e qualche volta il _thè_. D'estate si riceveva in giardino, e si passava il _cocomero in diaccio_. La padrona di casa riceveva in abito accollato; perchè in giubba e in _décolleté_ non si andava che a feste per inviti in iscritto. Fra i salotti più antichi, quello della contessa d'Albany, che abitava, com'è noto, nel Palazzo Gianfigliazzi in Lungarno. Negli ultimi anni, la Contessa ed il Fabre eran diventati molto agri, lei in ispecie, fosse la politica o la vecchiaia o l'uggia di vedere che tutti la rispettavano, fuori che il tempo. I sabati della Contessa erano frequentatissimi dai forestieri, dai diplomatici e dai Fiorentini, che bofonchiavano un maligno epigramma: Lung'Arno ammirano i forestieri Una reliquia del conte Alfieri. Una sera, coi fratelli Robilant, arrivati allora in Firenze ci capitò, dopo la Pergola, anche Massimo d'Azeglio, che le sentì dire, rivolta al principe Borghese: «_A quelle heure viennent ces Messieurs!_» L'Azeglio, incenerito da quel fulmine, si tirò indietro e s'accostò al conte di Castellalfero, ministro sardo in Toscana, che essendo sera di gala portava il grande uniforme tutto ricamato con gran cordoni e croci e patacche di brillanti e che l'accolse con l'usata benevolenza. Rinfrancato, venne all'Azeglio l'idea di pigliare da un vassoio un gelato, di quelli durissimi, che si chiamavano allora mattonelle, e che voleva rappresentare una pèsca. «Io mi trovavo proprio a petto al Conte, scrive l'Azeglio, e mentre cerco col cucchiaino d'intaccare la mia pèsca, ecco che mi schizza di sotto come un nocciolo di ciliegia pizzicato, la vedo balzare sul gran cordone del Ministro, e dal cordone rimbalzare sul tappeto e rotolare fin davanti alla contessa d'Albany. — Mi pare di correre ancora! e fu quella la mia ultima visita!» Morta la Contessa nel 1824, la sua perdita alla maggior parte dei nostri e degli stranieri, fu meno sensibile che non doveva. La società buona in tutti i paesi, osservava Gino Capponi, che fu assiduo di quel salotto, è _un mauvais lien avoué_, e si reputa virtù il dir male di quelli che si frequentano più. Ma, di case ospitali, a Firenze non c'era penuria. La marchesa Clementina Incontri, nata di Prié, coltissima dama, apriva il suo palazzo di via de' Pucci alla più eletta società, e vi convenivano i Piemontesi più specialmente e i letterati. In casa Incontri, come in casa Rinuccini, le persone più istruite e più liberali eran le meglio accette; perchè coteste due famiglie fin dai tempi dei Francesi furon l'anima del partito rinnovatore italiano e parteggiavano per Eugenio Beauharnais, vagheggiando e caldeggiando la riunione della Toscana al Regno Italico. Il marchese Pier Francesco Rinuccini e il marchese Lodovico Incontri erano stati in gioventù benissimo accolti in casa del ministro Tassoni, che rappresentava il Vicerè d'Italia presso la Regina d'Etruria e dipoi presso il Governo provvisorio francese e la granduchessa Elisa Baciocchi. Le tradizioni liberali delle due famiglie, apparvero anche nei parentadi, perchè le tre figlie del Rinuccini andarono spose una al marchese Trivulzio di Milano, una a don Neri Corsini marchese di Lajatico e la terza all'emigrato pontificio marchese Azzolino; mentre una delle figlie di Gino Capponi ebbe per marito il figlio del marchese Lodovico Incontri. In casa Rinuccini, così nel palazzo d'oltrarno come nella villa alla Torre a Quona, si coltivava la musica e si facevan recite memorabili. Nel teatrino della Torre a Quona, ne rimasero e forse ne durano ancora i ricordi, nei vestiari coi quali le damine e i cavalieri d'allora si trasformavano nei personaggi del Goldoni, del Giraud o del Nota. Un tempo, il marchese Pier Francesco Rinuccini mise in voga le _cene_, che si facevan d'estate, in carrozza, con allegre comitive, andando qua e là ne' dintorni, ne' freschi delle notti stellate. Le cene duravano fin quasi all'alba, i palazzi restavano muti e abbandonati nell'assenza dei padroni. Una notte, il marchese Pier Francesco, tornato a casa all'improvviso, non trova nessuno in porteria, sale le scale quasi a tastoni, entra nel quartiere che vede illuminato, e gli si presenta dinanzi un servo con un vassoio pieno di rinfreschi. — Che cosa fate? dove andate? — gli grida. Il servo allibisce. Il Marchese si fa innanzi, spalanca una porta e vede nel salone una scena singolarissima: coppie che ballavano, e che al suo apparire rimasero di stucco. I servitori e le cameriere, la guardaroba, l'anticamera, la cucina e la scuderia, facevano da padroni, e se la scialavano allegramente. Qualche ballerina svenne, e il Marchese durò gran fatica a fare il serio ed il burbero. Ma d'andar fuori a coteste cene, d'allora in poi, passò la voglia a lui e agli amici. La bonarietà indulgente de' patrizi non veniva mai meno. Se il Granduca andava fuori a passeggiare a piedi, con lo scialle sul braccio, reggendosi l'ombrellino; i signori non erano meno cordiali, espansivi, alla mano. Anche nelle case più nobili si riceveva persone d'altro ceto, e il giovedì e la domenica c'era sempre in tavola la posata o per qualche sacerdote, o per qualche artista o letterato, che riferiva le notizie correnti e restava la sera a far la partita. Le spese non erano grandi: la tavola abbondante ma senza spreco; i vini forestieri venner di moda più tardi coi _nuovi ricchi_, e le gole toscane si contentavano del vermutte, del vin santo e del trebbiano, spremuti dai vigneti fiorenti, ancora immuni dalla crittogama e dalla peronospora, celebrati dal Redi e dal Carli. Per abbozzare alla meglio un quadro della vita fiorentina in quegli anni, riferirò alcuni passi d'una lettera scritta da Vienna nell'aprile del 1822 al senatore Giovanni Degli Alessandri, presidente dell'Accademia di Belle Arti e direttore delle Gallerie, dal conte Angelo Maria D'Elci, grande e benemerito bibliofilo e poeta satirico mordace. Il D'Elci che donò la sua ricchissima collezione di libri rari alla Laurenziana, era un feroce _codino_, che salutò con gioia la caduta di Napoleone e il ritorno del paterno regime: era altresì assai sciolto e libero nello scrivere, e le lettere all'Alessandri, sono assai più _salate_ degli epigrammi che pubblicò. «Quanto all'uniformità e monotonia della vita quotidiana che costì si mena, credetemi che è la stessa cosa anche qua a Vienna; colla sola differenza che costì tutto si fa in piccolo e in brutto e qua in gigantesco e magnifico. Costà si giuoca e si perde al più cinque paoli per sera: qua si giuoca pure e si perdono 4 o 500 zecchini. Parlo di giuochi di società: _hombre_, _whist_, ecc. Quando l'Ambasciatore di Napoli dà pranzi, ogni pranzo costa circa 3 o 400 zecchini. Quindi i principali signori sono gottosi, malsani e s'abbreviano e s'infelicitano la vita col mangiare, col bevere e con gli stravizzi. Tutto ciò si fa anche in Firenze, lo so; ma finalmente non ci si spende tanto. Non vi parlo del lusso di cavalli, di carrozze, di livree, di mobili, nè della magnificenza dei debiti e dei fallimenti. In Firenze nel corso di tutta la mia vita non ho veduto altro fallimento che quello del Sassi, _che abbia fatto onore al paese...._» E prosegue brontolando contro quello che rovina ogni buon principio, divora le sostanze, impedisce l'istruzione, sovverte le famiglie, e turba l'amministrazione pubblica e la privata. «A parer mio, questo gran disordine è l'_epicureismo_, e credetemi che l'ozio, la negligenza, l'ignoranza, la corruzione, l'ambizione stessa viene dall'eccessiva voglia di divertirsi per _fas_ e per _nefas_.» Ma questi rimbrotti codini, non del tutto immeritati, dovevano rivolgersi piuttosto a Vienna, che a Firenze, dove la corruzione elegante delle grandi metropoli trovava una gran rèmora nella parsimonia dei sudditi e nel governo del Granduca. Non dirò che a Firenze imperasse la musoneria sanfedista; ma la sbrigliatezza del vivere vi era ignota o quasi. Tutti i divertimenti consistevano nelle feste, nei teatri e nei ricevimenti. A casa Mozzi, sotto l'impero della bella contessa Teresa, nel palazzo in cui fu ospite nel 1304 il Cardinal da Prato, e nel giardino che in boschetti discreti s'inerpica sulla Costa, l'ospitalità praticavasi con grande larghezza. La _belle italienne_, come la chiamò Napoleone, ammirandone le forme venuste, avrebbe meritato un inno del Foscolo, se alle tre Grazie la Mitologia neoellenica ne avesse aggiunta una quarta, quella sacra al piacere. La società che affollava i salotti o sperdevasi sapientemente in giardino, era un po' mista, senza soverchio sussiego, come l'indole della padrona di casa consentiva. Anche da ricordare le signorili ospitalità delle marchese Luisa e Margherita Panciatici, in via Larga, nel palazzo che sta in fronte a palazzo Riccardi. — Quelle di casa Tempi nel palazzo di via de' Bardi, ora Bargagli, dove conveniva la società elegante, mondana, e si combinavano matrimoni, preparati, agevolati dalla cortese indulgenza della Marchesa. Quelle di casa Orlandini, nel cui palazzo ebbe più tardi dimora Girolamo Bonaparte conte di Monfort. Ma rinomatissimi erano i _lunedì_ d'un'altra gentildonna, le cui conversazioni frequentò nel 1812 e nel 1813, mentre fu a Firenze, un gran corteggiatore di donne, Ugo Foscolo, che la immortalò nelle Grazie. Ricordate? Leggiadramente d'un ornato ostello Che a Lei d'Arno futura abitatrice I pennelli posando edificava Il bel fabbro d'Urbino, esce la prima Vaga mortale, e siede all'ara: e il bisso Liberale acconsente ogni contorno Di sue forme eleganti; e fra il candore Delle dita s'avvivano le rose, Mentre accanto al suo petto agita l'arpa. Eleonora Pandolfini-Nencini, la bella sonatrice d'arpa, nel palazzo edificato non già da Raffaello, ma cominciato da Gianfrancesco Sangallo e compiuto nel 1538 da Bastiano d'Aristotile, continuò anche durante la Restaurazione e più tardi a mostrarsi degna degli omaggi poetici e della passione che aveva ispirato a Ugo Foscolo, e a far gli onori del «leggiadro ostello» con una grazia che le sue stesse rivali, anche la D'Albany, non riuscivano a vilipendere. In casa Corsini, non frequenti gl'inviti. Il principe Don Tommaso, nominato senatore di Roma, riceveva più a Roma che a Firenze. Ma fra il 1819 e il 1824 le signorine, con la governante signora Enriquez, diedero nuovo esempio di ricevimenti alle amiche e compagne, che riuscirono novità gradita e imitabile. Dopo il 1821, la quiete fiorentina consigliò molte grandi famiglie a prender fra noi stabile dimora. Don Camillo Borghese, stanco dei viaggi e delle emigrazioni, venne col fratello Francesco principe Aldobrandini in Firenze e presero stanza nell'odierno villino Salviati in Borgo Pinti. Nel 1825, nella villa Zambeccari, ora Fabbricotti, a Montughi, moriva dopo lunga e penosa malattia, Paolina Bonaparte, un'altra di quelle bellezze canoviane, con la breve testa capricciosa e il cuore di marmo.... o di fuoco. Il trasporto fu fatto con grande pompa e solennità, traversando tutta Firenze: l'esequie celebrate nella chiesa di Badia, donde il corpo fu spedito a Roma, in un carro. Il principe Camillo, parve non mostrarne troppo rammarico; perchè poco appresso dette ordine all'architetto Baccani di edificargli in 18 mesi il Palazzo, che sorse in via Ghibellina, su case che eran già appartenute ai Salviati. Costruito il palazzo, con puntualità che parve miracolosa, vi si dettero feste e ricevimenti magnifici, a cui interveniva la Corte. Principi spodestati e re in esilio cercavan rifugio sotto la protezione di Ferdinando III, che stentò molto a concederla. Ci volle l'intervento dell'imperatore Francesco, perchè Luigi Bonaparte, l'ex re di Olanda, che aveva preso il nome di _Conte di S. Leu_, potesse ottenere il permesso di fermarsi a Firenze. Questi da prima comprò a Montughi dai Capponi delle Rovinate una villa, poi il palazzo Gianfigliazzi, ove rimase fino agli ultimi anni. A Montughi confutava la _Vita di Napoleone_ di sir Walter Scott, componeva romanzi che leggeva alla contessa D'Albany, cui parevano pesanti e noiosi, e spesso non pagava i suoi debiti. Nel 1822 un tal Viviani era creditore dell'ex re di ottocento scudi per biada e foraggi. Il conte di S. Leu voleva fargli una tara di cento scudi, che il Viviani non volle accettare; anzi, avvicinatosi al principe con modi arroganti, gl'impose di pagarlo subito e senza tara. Il principe, temendo quelle minacce, impugnò le pistole: accorsero i servi, e il Viviani fu messo alla porta. Nel frattempo la moglie del Viviani che aspettava nel viale, incontrò un fanciullo con gli occhi cerulei e il naso aquilino, al quale ne disse di tutti colori sul conto di quell'ex re che non pagava i suoi debiti. — Ma il conte è mio padre, signora! — rispose il fanciullo, che doveva essere il futuro Napoleone III. La Viviani restò mortificata; ma il giorno dopo il marito fu soddisfatto di ogni suo credito. Dietro il conte di S. Leu vennero in Firenze gli altri due fratelli: Giuseppe che aveva preso il titolo di _Conte di Surviller_, e l'ex re Girolamo che si faceva chiamare _Conte di Monfort_. Giuseppe con madame Clary e mademoiselle Zenaide dimorò nel palazzo Serristori, dando sontuosi pranzi, ma non balli nè grandi ricevimenti, perchè madame Clary era infermiccia. Proteggeva le arti, faceva lavorare gli artisti, e andava ogni giorno alle Cascine in una gran _calèche_ a otto molle, col carro e la cassa color paglia, come tutti gli equipaggi dei Bonaparte. Il conte di Monfort, di tutti il più giovane, avea preso in affitto il palazzo Orlandini, dove compirono la loro educazione i figli di lui Girolamo e Matilde. Le livree verdi del re Girolamo, le sue feste, le sue avventure interruppero la musoneria fiorentina, e duraron gran tempo nella memoria di tutti. Jules Janin, che fu a Firenze nel 1838, ricorda una festa sontuosa a cui intervennero i Borboni di Napoli e di Spagna, e di cui faceva gli onori una giovinetta bianca e vermiglia, la principessa Matilde, che accoglieva gli ospiti, non come una principessa esiliata, ma come una bella giovane parigina dimenticata sulle sponde dell'Arno. In casa Serristori presso il fratello maggiore Giuseppe, solevano i Bonaparte riunirsi la sera: e l'affitto di quel palazzo ceduto dal conte Niccola Demidoff al conte di Surviller fu pronubo delle nozze fra la Matilde e Anatolio Demidoff ch'ebbe in tale occasione dal Granduca il titolo di Principe di S. Donato. I Demidoff eran già venuti a Firenze dopo il 1809. Del conte Niccola, ricco come un Creso, e così come ricco benefico, è ancor vivo il ricordo fra noi. Nel 1814 comprato il convento di S. Donato, lo ridusse in breve in una villa magnifica, circondata da un parco adorno di loggiati, di statue, di rarissime piante. Poi si dette a fare opere di beneficenza: istituì asili, pensioni, ospizi, scuole gratuite, opificî. — Il fratello Paolo, ricchissimo anch'egli, a lui non somigliava punto: viveva solitario, e soltanto di tratto in tratto dava una gran festa in cui profondeva tesori. Nel 1831 dette un ballo e fece parare di nuovo tutte le sale; poi staccò i parati e li regalò ai servitori, che li rivenderono 100,000 franchi. Non poteva toccare un oggetto se altri prima di lui l'avesse toccato senza guanti. Un giorno fu trovato da un amico tutto intento a bagnare nell'acqua odorosa, entro un calice d'oro, i biglietti della Banca di Pietroburgo. — Lavo, — disse, — questi fogli, perchè puzzano orribilmente! — Un'altra volta, invitò a colazione un diplomatico inglese, che nel calore della conversazione prese senza badarci dalla zuccheriera un pezzo di zucchero con le dita. Il Russo ordinò subito al servitore di buttar lo zucchero rimasto fuor di finestra. Ma il flemmatico Inglese non si scompose: bevuto il caffè, gettò dalla finestra tazza, piattino, cucchiaino e ogni cosa, e voltosi sorridente all'ospite: — Non sapevo, — disse, — che in Russia ci fosse quest'uso. — Coi Demidoff, coi Borghese, e coi Bonaparte, e più tardi coi Poniatowsky, la vita mondana fiorentina cambiò carattere. La Corte era eclissata: affluivano i forestieri da ogni parte di Europa, nei salotti si parlavano tutte le lingue. Il Lamartine che nel 1827 era _chargé d'affaires_ a Firenze si lodava del Principe, delle violette che fiorivan di febbraio e delle grandi feste cui era invitato. «Je termine très-honorablement mon carnaval par deux grands festins. Sur ce, je souhaite le bonsoir à mon cuisinier et je rentre dans la classe des grands seigneurs du pays, qui mangent et ne donnent point à manger.» — «Il fait ici — era il dicembre del 1827 — un printemps superbe ces temps-ci. Mais à peine avons-nous le temps d'en jouir et de sortir: c'est un _brouhaha_ interminable. Il y a toute l'Europe voyageante, et chaque année cela devient plus nombreux en Français.» — «Nous voyons beaucoup le prince Borghese. Sa maison est des _Mille et une nuits_, plus encore que celle de M. Demidoff. Enfin c'est un monde et un éclat à en perdre la tête..... Il faut s'habiller à dix heures et sortir à onze heures, les bals commencent à minuit.» E nel febbraio 1828 soggiungeva: «Nous n'avons plus qu'un grand bal à avaler chez le prince Borghese, après demain, et un diner diplomatique chez moi dimanche.» E in aprile: «Nous avons ici un grand monde diplomatique en ce moment. Le carnaval a recommencé et nous ennuie et fatigue. C'est tous les jours un dîner, tous les soirs un bal.» E nel maggio: «Florence est dans sa beauté physique, car nous avons déjà vingt degrés de chaleur. Mais elle est dans la solitude et le deuil par la mort de M. Demidoff, qui y tenait plus d'état qu'une ou deux cours, avec ses six millions de rente.» E nel giugno: «Nous sommes dans une semaine de fêtes jusqu'au cou: des courses de chars, de chevaux, des théâtres. Toute la journée en uniforme et en _gala_ par la ville et toute la nuit en bals.» E in luglio, con 28 gradi Réaumur di calore: «Il n'y a pas d'amitié, pas de verve, pas de zèle qui resiste à 28 degrés: l'amour seul est à cette température, et véritablement c'est son règne à Florence. Les nuits sont divines. Je les passe à errer en calêche dans les rues, ou sous les pins harmonieux des _Cascines_, environné de beautés séduisantes qui disent _ohimè_, et à qui je ne dis rien.» Ma, se non vi spiace, fermiamoci un momento ad osservar queste belle creature che dicono _ohimè_, e cercano nella frescura delle notti refrigerio al caldo soffocante, e forse all'ardore della passione. Non più volti rosei ed accesi, non più labbra coralline, o del bel rosso garofanato. La moda è cambiata; fin dal 1824, cantava il Guadagnoli: Un viso rosso è un viso da osteria E non è un viso di galanteria. Le donne son diventate pallide, languide, sentimentali: l'anemia romantica, il veleno sottile della passione è penetrato nelle lor vene, e un ardore interno, nuovo, insolito, misterioso, le abbrucia. Prima, quando la _Gazzetta di Firenze_ annunziava in 4ª pagina la _Biblioteca piacevole ed istruttiva_ pubblicata da Guglielmo Piatti, che conteneva la _Storia dei quattro spagnoli_, in 11 volumi, le _Sventure della famiglia d'Ortemberg_, in 6 volumi, il _Cimitero della Maddalena_, in 8 volumi, e altre dilettose novità di questo genere; le donne non consumavan le veglie in simili letture, e all'amore bell'e fatto dei romanzi preferivano quello che sapevano fabbricarsi da loro; al sentimento preferivano la realtà, magari un po' volgare, un po' prosaica, ma viva e palpitante. Tutto il periodo napoleonico, nella vita, nell'arte, nella letteratura fu l'apoteosi della forza, del vigore, della forma. La pittura, la scultura, la moda idoleggiarono la bellezza esteriore; e quell'aura di rinnovato ellenismo, che aleggiò da per tutto, ricoperse con gli studiati lenocinii d'un'arte mascherata all'antica il sensualismo, che il settecento aveva incipriato con la galanteria. Scomparso l'_eroe_ — o l'_eroe de' farabutti_ come lo chiamava il D'Elci — il sensualismo rimase. Non più guerre, non più quei macelli di giovine carne umana che lasciavano tanti vuoti dolorosi nelle famiglie e nel censimento: seguì la gioia del vivere, un senso di liberazione, come di chi si toglie un incubo doloroso; e il desiderio del piacere — l'_epicureismo_ del D'Elci, — prese il sopravvento. Si cominciò a ballare e a godersela al _Congresso di Vienna_, mentre tutta Europa attendeva ansiosa il proprio assetto definitivo. Ma sì! chi poteva frenare quegl'impeti folli? Poi seguiron le restaurazioni; la religione riebbe il disopra, riprese a poco a poco il suo impero: le leggi, i motupropri tentarono rimettere le nuove generazioni, dopo tanti anni di sregolatezze giacobine e soldatesche, nella vecchia carreggiata. Ma ci volevano altro che le prediche del Presidente del Buon Governo e le musonerie del Granduca! _Il mondo va da sè_, ripeteva con la sua ghigna sarcastica il conte Fossombroni, e dai rapporti della polizia lo sapeva lui dove andasse. Perchè il paterno regime di Ferdinando III e di Leopoldo II ebbe sempre gran cura di sapere a puntino ciò che si faceva nelle famiglie, nelle dimore patrizie e nelle case dei cittadini. Fioccavano le denunzie anonime: si mettevano in moto gli emissari, si riferiva, si scriveva, si chiamavano i colpevoli a Palazzo Nonfinito o negli Ufizi dei Commissari: e lì grandi lavate di capo e minacce di sfratto pei non regnicoli e per gli altri minacce di clausure in conventi e d'esercizi spirituali in qualche casa di novizi. La gente stava a sentire, lasciava passar la burrasca: e poi daccapo, come prima, se non peggio di prima! L'esempio, diciamolo pure, veniva dall'alto, non dalla Corte però; anche i Vicari e i Ciambellani e i Podestà e i Governatori erano spesso soggetto d'inquisizioni, e la loro domestica infelicità era argomento d'inchieste e di sopraccapi per i Ministri e per lo stesso Granduca. Chi legga le polverose filze della Presidenza del Buon Governo troverebbe talvolta particolari curiosi. Oh, l'occhio della Polizia è come quello di Dio, e vede attraverso le pareti, nei salotti eleganti, nelle alcove discrete; e il buon pastore di questo gregge toscano doveva pur confessare a sè stesso d'aver nel branco parecchie pecore matte! Ma, in buon punto, capitarono a Firenze i forestieri e dilagò la colluvie de' romanzi sentimentali: tutto allora cambiò, a poco a poco, carattere, e la passione accese i cuori, e l'amore bell'e fatto dei romanzi, il misticismo, l'ideale fu come un balsamo salutare, che calmò gli ardori troppo scomposti. L'amore bell'e fatto, rese inutile quello da farsi: o almeno lo rivestì d'un velo d'idealità vereconda. E la moda aiutò, cooperò alla riforma: non più le vesti attillate e discinte che consentivano ogni linea della persona. La Rivoluzione, ne' suoi impeti selvaggi, aveva spazzato via i guardinfanti, i _paniers_, i busti che stringevano i fianchi e la vita. Durante l'Impero non fu possibile la restaurazione del busto, perchè Mad. de Longuéville e l'Imperatrice, la cui vita era corta e tozza, vi si opposero recisamente. Più tardi, dopo il 1820, e trionfalmente nel 1825, riapparve con le sue stecche, co' suoi legacci, con le sue morse di ferro, chi sapeva con arte comprimere i superbi, sostenere i deboli e gli smarriti, sostituire gli assenti. — La gemma rientrò nel suo astuccio; e sotto le sapienti corazze fu più malagevole trovar la via dei deboli cuori. IV. Ma, non avvertiti dalla gente leggiera, in mezzo a queste mondanità e galanterie, di cui tentai abbozzarvi un quadro fuggevole, vivevano in Firenze uomini seri e gravi, compresi dell'assunto che spettava all'Italia dopo la ruina napoleonica, e che con gli scritti, con l'opera, nei crocchi fidati, tendendo l'orecchio ad ogni bisbiglio di libertà, preparavano i tempi nuovi e le libere istituzioni. Costoro, non sdegnavano mescolarsi alla turba de' gaudenti, e dei giramondo; anzi, a sommo studio, nascondevano i segreti pensieri sotto le più spensierate apparenze. Firenze, in cotesto periodo, ebbe la fortuna di aver nel suo seno, fra gli altri, tre uomini: Gino Capponi, Cosimo Ridolfi e Pier Francesco Rinuccini. Com'è virtù dei minerali di cristallizzare in una forma determinata, così è di certe figure ideali. Gino Capponi, a tutti noi che lo ammirammo vecchio, cieco e venerando, apparve quasi cristallizzato in quelle gravi ed austere sembianze. Il _candido Gino_ della Palinodia leopardiana, lo fece a molti ingenui creder canuto anzi tempo. Ma tale non fu sempre; e a noi piace rievocare la giovanile immagine del gentiluomo dotto, operoso, intelligente, che fin dall'uscir dell'adolescenza, avea dato saggio di dottrina non frequente nei marchesi d'allora e di poi, possedendo il latino, il greco, il francese, l'inglese e il tedesco, studiando le matematiche con passione. Rimasto vedovo a ventidue anni, con due bambine di cui prese cura la marchesa Maddalena, piissima donna, potè dedicarsi interamente alle lettere, viaggiar l'Italia, osservandone i monumenti e i capolavori dell'arte, e nella vita di Corte, cui fu chiamato a partecipare per la benevolenza di Ferdinando III, non affatturare il carattere. Un viaggio in Francia e in Inghilterra, donde ritornò per il Belgio, l'Olanda, la Germania e la Svizzera, fu veramente il principio della sua _virilità morale_. Ne tornò con idee che in un paese dove, come diceva il Fossombroni, si facevan le cose _da vinai_, potevan sembrare sospette di soverchio liberalismo. L'Inghilterra, la Svezia, l'Irlanda, con le loro istituzioni nazionali, gli parvero paesi ammirabili. Conobbe personaggi illustri, avvicinò gli esuli italiani, fra i quali Ugo Foscolo, vagheggiando di stringer con essi relazioni frequenti per la pubblicazione d'un giornale; fu presentato in nobili ed ospitali famiglie, attinse informazioni preziose sulle scuole, l'educazione e l'insegnamento, ammirò le corse e i cavalli, rovistò nelle botteghe de' librai e ne' magazzini dei sarti, collazionò per l'abate Masini vari codici del Decamerone, eseguì le commissioni degli amici che volevano acquistare tabacchiere e tela batista, s'empì la testa di cognizioni di politica, di letteratura, di storia e i bauli di robe — come e' diceva _fashionabilissime_ — e dopo una lunga peregrinazione tornò a casa rattristato dall'idea di ricader sotto l'unghie dei tedeschi e dei preti, e di una massa di volgo degno degli uni e degli altri. Effetti di quel viaggio furon le cure ch'egli pose alle _scuole lancasteriane_ di mutuo insegnamento, insieme col Ridolfi, e l'istituzione di un Collegio per le fanciulle del patriziato, che sorse di poi col patrocinio dell'Arciduchessa sposa, e fu quello della SS. Annunziata. Le bianche e morbidissime mani delle ragazze inglesi, da lui ammirate, gli fecer pensare alle gialle e povere mani delle ragazze italiane, condannate dall'educazione codina agl'inutili ricami, ai fiori di carta, alle frutta di lana e all'ornamento delle pantofole e delle berrette paterne. Frattanto un altro disegno, quello del giornale, che ruminava anche in viaggio trottando sul cielo delle carrozze di diligenza, avea trovato occasione propizia ad esser effettuato. Nel luglio 1819 era venuto in Firenze un ginevrino, oriundo di Oneglia, che dopo aver percorso Europa ed Affrica per i commerci del padre e proprio, e dalla Finlandia alla Barberia visto e osservato di molto, aperse nel gennaio del 1820, a' primi due piani del palazzo Buondelmonti a Santa Trinita, quel _Gabinetto letterario_ ove si raccolsero, in un intento concordi, i migliori ingegni italiani. Giampietro Vieusseux univa alla operosità del commerciante, l'ingegno del giornalista, l'istinto, la misura, le audacie d'un editore di genio. Il Capponi, conosciuto l'uomo, lasciò l'opera al _signor Pietro_, come gli piaceva chiamarlo con amorevole, e tra signorile e popolare familiarità. Così al _Saggiatore_, risorto per poco seguì l'_Antologia_, di cui il Capponi fu la mente regolatrice; perchè il nome del _signor Gino_, come gli scriveva il Cellini, conciliava molte amicizie. — Ma del _genius loci_ del Gabinetto e dell'_Antologia_ ch'ebbe l'onore di ravvivare il culto delle patrie lettere e dar ombra all'Austria e parecchi fastidi al Governo granducale, costretto più tardi a sopprimerla, non è qui luogo per discorrere con quell'ampiezza che il soggetto richiede. Basti ricordare le riunioni che il Vieusseux soleva tenere settimanalmente la sera, precedute da un modesto pranzo al quale invitava alcuni degli amici più assidui: il Niccolini, il Montani, il Colletta, il Pepe, il Tommasèo, il Giordani e quel feroce lodator di sè stesso che fu Mario Pieri, cronista di cotesti ritrovi in quel _giornale_ manoscritto, per il quale è assai più noto che non sia per le _operette in prosa_ e per quelle — Dio ce ne scampi — _in versi_! Il Gabinetto era un centro pericoloso di propaganda liberale. I giornali e i periodici che vi giungevan di fuori, i libri, le stampe, eran merce da tenersi d'occhio. La polizia vigilava: in un rapporto d'un confidente, del 30 luglio 1822, si racconta essere stato veduto nel Gabinetto Vieusseux un rame rappresentante tutti i principali sovrani d'Europa stretti insieme con un basamento sulla testa, sul quale posa la statua della Costituzione. Proprietario del rame era naturalmente il marchese Gino Capponi, «che più volte ha fatto capitare in quel Gabinetto articoli di simil genere, che gli vengono dall'estero per vie segrete.» La società letteraria fiorentina e anche la politica liberale, faceva capo sempre al Capponi e al Gabinetto. Il Vieusseux era giudicato un liberale feroce, astuto e intraprendente: era sospettato di aver relazioni coi rivoluzionari più pericolosi; ma non poteron mai coglierlo in fallo, nè il governo ebbe mai l'audacia di «penetrare nei recessi del Gabinetto» o di molestare il Capponi. Ferdinando III, che nel suo esilio di Salisburgo, scriveva al padre del marchese Gino, «_finchè avrò vita sarò italiano_,» non volle mai piegare ai rigori e agli ammonimenti dell'Austria: e quando il Salvotti tempestava da Milano affinchè Gino Capponi fosse mandato a deporre de' carteggi passati fra lui e il Confalonieri, il Granduca fece rispondere ch'egli non obbligava a cotesti uffici i suoi gentiluomini. — Così, fra le distrazioni mondane e lo studio del greco, il Marchese preparavasi ad essere, per il suo paese, quel che il povero Confalonieri avrebbe bramato d'essere per il proprio. Il Capponi portava il nome, la fama, la ricchezza e la stima di tutti con quella disinvoltura colla quale indossava il vestito più scelto, foggiato sul figurino di Londra. I pettegolezzi del bel mondo ascoltava pacato, ma non degnava ripeterli neppure ai più intimi. Nel 1821, quando il conte Giraud già sfogava la sua vena satirica nei salotti fiorentini, il Capponi scriveva al Velo: «V'è un suo epigramma recente, che forse voi potreste aver curiosità di conoscere, ma io non sarò mai quello che ve lo dirò, perchè l'argomento è di quelli che non vo' toccare.» Dagli ozii meditabondi di Varramista, tornava alla vita elegante in qualcuno di quelli accessi di dissipazione ond'era preso, ma che — com'e' sentiva — non erano vizio organico in lui. Al marchese Pucci, che se la spassava a Londra, soleva dare commissioni mondane, ordinando al sarto Stultz vestiti e sottoveste di _picqué_; e al sarto Williams pantaloni di panno _bleu_ e di _rusciadok_. Desiderava camiciole di maglia della più fina, pezzole da collo bianche, fazzoletti di seta da naso, se vi erano _fashionabilissimi_ e scatole da tabacco di Scozia, fra le quali alcune da donne. Poi macchinette per temperare le penne e riappuntarle, e rasoi; ma insieme i classici, le opere di Byron, e qualche bel libro di storia. A lui, grande e liberale signore, ricorrevan gli amici per ogni impresa da tentarsi, per ogni opera buona: e lo trovavano sempre pronto a spendere il denaro e a pagar di persona. Guglielmo Libri, ingegno potente, sviato da una gioventù tempestosa, ebbe da lui ammonimenti, aiuti, consigli. Pietro Colletta, venuto a Firenze quasi infermo pel freddo sofferto in Moravia dov'era stato relegato, trovò quiete ed agio agli studi in una villetta cedutagli dal Capponi, vicino alla Pietra, e quivi scrisse gran parte della sua Storia. A correggere le pagine dell'amico, che diceva d'aver un cuore come la cupola del Duomo e di sminuzzarlo nel suo stile, si riunivano intorno al Colletta, il Capponi, Giuliano Frullani ingegnere e uomo di molta coltura, il Vieusseux, il Montani, Giacomo Leopardi, il Giordani, il Niccolini e Francesco Forti. Di quelle correzioni il Colletta era lieto, e una volta si sdegnò col Leopardi che in parecchi quinterni della Storia avea mutati soltanto un _alla_ in _nella_ e un _cosicchè_ in _sì che_. Erano conversazioni caldissime, nelle quali spesso il Giordani arrabbiavasi, e il Niccolini si accendeva. Mario Pieri, il vero _Pilade_ di cotesti letterati tanto di lui maggiori, era ogni settimana in lite con qualcuno: perfino col Niccolini, che credette geloso d'un premio datogli dalla Crusca, ma con il quale si rappattumò per tornare alle solite colazioni a cui l'amico lo invitava, e che d'estate e d'autunno consistevano soltanto in un piatto di fichi. La società letteraria toscana aveva poi alcune _Egerie_, e prima di queste, la marchesa Carlotta de' Medici Lenzoni, nella cui casa il Giordani conobbe quella giovinetta quattordicenne bellissima, tutta occupata in una malinconia inconsolabile, ch'ei celebrò con una delle più sonanti sue prose: la _Psiche_ di Pietro Tenerani. In casa della colta donna, che fregiò il sepolcro del Boccaccio a Certaldo, convenivano col Niccolini, col Pananti, col Pieri, col Giraud, col Montani e col Nota, la Rosellini, scrittrice di versi ormai dimenticati, e quanti artisti e musicisti fossero di passaggio a Firenze. E dalle sorelle Certellini, nella Vigna Nuova, in quella casa che è a fianco della Loggetta Rucellai, si raccoglievano in più intimi e più modesti colloqui gli ammiratori fidati del Niccolini, che vi fu ospite e quasi padrone fino agli ultimi suoi anni. Ma di salotti letterari, chiuso quello della D'Albany, non ve n'ebbe allora propriamente alcuno a Firenze. Il fiore della società seria e colta raccoglievasi dal Vieusseux, e non mancava di fare una visita al marchese Capponi. Dal Vieusseux, ogni tanto capitava un dotto di grido; e allora i ricevimenti eran quasi solenni, come quando nell'agosto del 1827 giunse con la moglie e sei figliuoli Alessandro Manzoni, e vi comparvero ammirati e festeggiati il Fauriel, il Sismondi, Casimir Delavigne, il Savigny, Bartolommeo Borghesi, Champollion, il dantofilo Witte, il conte di Guilford e tanti altri illustri. Perchè Firenze, anche allora, fu mèta desiderata d'ogni artistico pellegrinaggio, e rifugio quieto e sicuro alle grandi anime meditabonde. Lord Byron ci venne nel 1817, per visitare le gallerie, dalle quali — com'ei scrive — si esce «_ubriacati di bellezza_.» Lo Shelley, che vi stette alcuni mesi del 1819, e vi compose l'ultimo atto del _Prometeo_, nella Venere Medicea, nella Niobe e nelle tele riprese alla Francia e riportate trionfalmente fra noi, tre anni innanzi, dal senatore Alessandri e dal pittore Benvenuti, cercava lo spirito delle forme ideali. Ma non potè trattenercisi a lungo, a cagione del vento gelato e dell'acqua cattiva. Pure alle Cascine, dove gli piaceva passeggiar solitario, scrisse l'_Ode al vento d'ovest_, una delle sue liriche più perfette, e in Galleria immaginò il frammento sulla _Medusa di Leonardo_, dove ha tentato esprimere le impressioni che la poesia può attinger dall'arte. Samuele Rogers passava le intere mattinate nella _Tribuna_, contemplando la Venere, non so se per animarla o per esserne animato alla poesia. Walter Savage Landor, giunto in Firenze nel 1821, ci rimase tutta la vita, dimorando prima nel palazzo Medici e poi in quella villetta fiesolana a cui traevano quanti inglesi capitavano in Toscana, ammirati dello scrittore che nelle _Conversazioni immaginarie_ e nelle elegantissime prose, seppe congegnare l'arte e la erudizione, l'antico e il moderno, e l'un coll'altro animare. Brusco, stravagante, non tollerava soperchierie: dell'ordine di sfratto datogli da un birro di bassa sfera, messo su da un servo cacciato per ladro, appellossi al Granduca che gli dette ragione. Della società fiorentina era poco amico e non grande estimatore; e ne scriveva a periodici inglesi liberamente, narrandone le grettezze, e fra le altre quelle d'un certo signore che vendette gli spogli della moglie non appena fu morta. Col marchese Medici si guastò e gli scrisse, dolendosi che gli avesse preso un cocchiere. Il Medici, andato per iscusarsi forse, entrò nel salotto, dov'era la signora Landor, con il cappello in testa. Sopraggiunto il Landor, gli cavò di testa il cappello e presolo per un braccio lo mise fuori, e gli mandò lui poi la disdetta per mano d'un birro. V. Ma poichè l'ora ci sforza a conchiudere, torniamo alla politica, soltanto per accennare ad alcuni degli avvenimenti più memorabili, occorsi fra il 1815 e il 1831. Il 30 settembre 1817 sotto le maestose vòlte di Santa Maria del Fiore, monsignor Morali celebrava le nozze di Carlo Alberto di Savoia-Carignano con Maria Teresa di Toscana, giovinetta sedicenne, pia ed ornata delle doti più squisite che convengano ad una principessa. Le solite salve di gioia, i soliti colpi di cannone, le vie affollate, due file di soldati per lo stradale dal Duomo a Pitti; e poi pranzo di gala a Corte, passeggiata alle Cascine in gran treno e la sera fuochi d'artifizio dalla torre di Palazzo Vecchio. Il 6 ottobre gli sposi partiron per Torino, accompagnati sino al Covigliaio, sull'Appennino, dal Granduca, dall'arciduca Leopoldo e dalla sorella. — Il 16 novembre altri sponsali nella chiesa dell'Annunziata. Leopoldo, Gran Principe Ereditario di Toscana, sposava la principessa Maria Anna Carolina di Sassonia. Nuove feste, nuove cannonate, e fuochi d'artifizio, e pranzi di Corte e balli ne' teatri; ma il matrimonio auspicato rimase infecondo, e per evitare che la Toscana passasse nel dominio di Casa d'Austria, secondo i patti di famiglia e i trattati, Ferdinando III che aveva superato la cinquantina s'indusse il 6 di maggio 1821, a sposare in seconde nozze Maria Ferdinanda di Sassonia sorella della sua nuora. Il 2 aprile 1821, alle ore 3 dopo mezzanotte, sotto il nome di Conte di Barge, scendeva alla Locanda dello Shneiderff, Lungarno Guicciardini, S. A. Serenissima il Principe di Carignano. Alle 8 inviava a Palazzo Pitti l'aiutante a partecipare il suo arrivo al Granduca, e alle 9 recavasi personalmente a visitarlo, restando più d'un'ora a colloquio col suocero, e tornando dipoi a pranzo con i Sovrani senza nessuna formalità d'etichetta. Ospite forzato del Granduca, presso il quale pochi giorni dopo lo raggiungeva la principessa Maria Teresa che da Nizza a Livorno corse pericolo di naufragare col figlio, Carlo Alberto portava attorno per la città la sua faccia seria e triste che la gente avvezza a veder sempre volti gioviali guardava con meraviglia. Gli toccava andar qua e là con la Corte, a Siena per assistere a noiose e interminabili processioni, a Prato per un'orribile corsa di cavalli; e seguiva il Granduca, ringiovanito e ringarzullito dal secondo matrimonio che in cappello di paglia e con le ghette visitava le sue tenute, a piedi, dando una tastatina ai foraggi e un'occhiata alle biade, come un buon proprietario. Una parte dell'estate si passava al Poggio Imperiale, donde il Granduca scendeva a piedi in città: la sera passeggiata alle Cascine, frequentatissime dai forestieri, e al teatro quando non c'erano ricevimenti a Corte. Il Principe di Carignano, avvilito, malvisto, chiudendo in cuore come un rimorso il segreto della sua condotta, passava dalle cupe tristezze alle distrazioni mondane, delle quali al suo buono e leale scudiere, al suo _Sancho Panza_, Silvano Costa, toccavano alle volte le più difficili soluzioni. Il 16 settembre 1822, accadde alla Villa del Poggio un fatto che per poco non tolse all'Italia il suo futuro liberatore. La nutrice del piccolo Principe di Carignano, volendo con un cerino ammazzare le zanzare, dette fuoco allo zanzariere del letto di Vittorio Emanuele; e vedendo il letto in fiamme, per salvare il fanciullo che ebbe soltanto alcune ustioni in tre parti del corpo, rimase talmente offesa da correr pericolo della vita. Alla principessa Maria Teresa, che due mesi dopo dava in luce il principe Ferdinando, futuro Duca di Genova, dovettero levar sangue per lo spavento avuto. Il 18 giugno 1824, dopo cinque giorni di malattia, mentre tutta Firenze e la Toscana trepidava per la sorte del Principe, Ferdinando III moriva. Quella morte parve una pubblica sventura: la gente piangeva per le strade, ed eran lacrime vere, spontanee, sincere, e piangevano gli esuli che del principe buono riconoscevano le virtù, e i liberali che ne sapevano a prova la tolleranza. Il Landor, fa del Granduca un degnissimo ritratto, in un de' suoi _Dialoghi immaginari_, e ne riferisce gli ultimi detti al figliuolo Leopoldo: «Abbi cura di mia moglie, di tua sorella e del mio popolo.» E poi dopo una pausa: «In queste circostanze si chiudono i teatri per un tempo assai lungo: ma molti, che ci campano, ne soffrirebbero; abbrevia il lutto di Corte!» Poche ore dopo che il cadavere del buon principe era stato chiuso ne' freddi sepolcri di San Lorenzo, mentre il Principe ereditario e la Granduchessa eransi ritirati a sfogare il cordoglio nella villa di Castello, il conte di Bombelles, ministro d'Austria, si presentò a Corte per parlare all'_arciduca_ Leopoldo, dicendo avere istruzioni da Vienna per lui. Il Fossombroni, subodorato l'inganno, si affrettò a riceverlo in qualità di Ministro _segretario di Stato del nuovo sovrano_, la cui successione al trono avrebbe voluto il Bombelles impedire, e all'alba del 19 giugno pubblicava un editto per annunziare la morte di Ferdinando e l'assunzione del novello Granduca, col nome di Leopoldo II. Questi diminuì subito d'un terzo la tassa prediale, revocò l'altra sui macelli che vigeva fin dal tempo della repubblica, compilò il nuovo catasto, continuò le bonifiche maremmane, dette esempi quasi ostentati di economia. La bottiglia di Borgogna che centellinava a desinare, ritornava in tavola scema parecchi giorni: modesto il vestire delle principesse, modesta la vita di Corte. Durava ancora nel Governo la politica paterna di Ferdinando: gli esuli tollerati; minacciati di sfratto, se allegavano alcuna scusa rimanevano senza molestie. Ricorderete il famoso duello del Pepe col Lamartine, che la polizia non soltanto non riuscì ad impedire, ma di cui ebbe notizia a cose fatte; e il Pepe restò a Firenze quasi benviso agli stessi governanti. Al duello aveva pòrta occasione la nota disputa sul verso di Dante: _Poscia più che il dolor potè il digiuno_, sostenendo l'avvocato Carmignani che il conte Ugolino avesse divorati i figliuoli. E corse allora, nel 1826, per Firenze il seguente epigramma: _Che un uom per fame mangi i figli morti_ _Non può sembrare strano a un avvocato,_ _Che divora per genio disperato_ _Vivi coi figli i padri e i lor consorti._ La Censura e il Buongoverno non riparavano: un'aura epigrammatica alitava per Firenze, come più tardi quando a Giuseppe Giusti dette forse, coi versi del Giraud, le prime ispirazioni alla satira. Nelle carte del Censore, padre Mauro Bernardini, esiste una raccolta di epigrammi, di cui sembra autore un certo Gherardo Ruggieri; e se ne leggon di quelli che assai dopo il 1826 trovarono chi li mise fuori per propri. Un buon pievano a Serafin pittore Ministrando l'estrema eucaristia Diceva: «Serafino, ecco il Signore «Che verso voi s'invia «Qual di Gerusalemme entro le mura.» Ed ei con voce fioca: — «Sì signore, «Ben lo ravviso alla cavalcatura.» Anche in Toscana l'opposizione liberale, non avendo altri mezzi, si sfogava coi versi, se non riusciva a compromettere il Sovrano con qualche bene architettato espediente. Nel 1830, quando Leopoldo II doveva tornare da Vienna, dove si temeva avesse ceduto alle suggestioni dell'Austria, parve opportuno a Cosimo Ridolfi, al Capponi e al Rinuccini, fargli affettuose accoglienze, celebrandone il ricordo con una iscrizione da incidersi in una marmorea colonna che doveva sorgere tre miglia fuori della Porta a San Gallo, sulla via Bolognese. L'epigrafe dettata da Pietro Giordani era stata approvata, conceduto il permesso di raccogliere pubbliche sottoscrizioni per le feste.... Quando ad un tratto fu revocato il permesso, e ogni manifestazione proibita. Il Ridolfi, il Capponi e il Rinuccini rinunziarono, quegli l'ufficio di Direttore della Zecca, questi il grado di ciambellani. Il giorno dopo che le rinunzie furono accettate, Giuseppe Poerio e Pietro Giordani, che da molti anni avean dimora in Firenze, ebbero ordine perentorio di sfratto, e ordine di partire ebbe altresì il generale Colletta, che potè ottenere una dilazione a causa della sua rovinata salute. La polizia diretta allora dal Ciantelli e sobbillata dai sanfedisti, sospettosa dei moti rivoluzionari scoppiati qua e là dopo le mutazioni di Francia, cominciava a incrudelire, e guardava con occhio bieco anche il monumento a Dante Alighieri che nel 1830 fu inaugurato in Santa Croce. Il Principe non aveva chi gli desse consigli sinceri, chi bilanciasse il prepotere del Ciantelli. I moti di Bologna e di Modena del febbraio 1831 e quelli dello Stato Romano, la insurrezione che circondava da ogni parte la Toscana, richiedevano preveggenze e ripari. I più ardenti fra i liberali fremevano: sembrava giunto il momento di costringere il Principe a dare una costituzione. Guglielmo Libri, tornato da Parigi dov'era stato assai implicato nei moti di luglio, si recò, nel gennaio 1831, da Gino Capponi per averlo favorevole alla preparata cospirazione. La sera di Berlingaccio, mentre il Granduca secondo il solito, passeggiava nella platea del Teatro della Pergola, dovevano i congiurati accerchiarlo, rapirlo e condurlo in luogo sicuro per costringerlo a firmare non so che fogli. Ma il Capponi saviamente si oppose, perchè gli parve cotesta opera rischiosa, d'esito ruinoso, tale da consigliare poi il Principe a secondare i disegni dell'Austria. E la congiura, benchè tentata, fallì. Il Granduca, la sera del 10 febbraio 1831, andò secondo il solito alla Pergola e dopo le dieci e mezzo scese in platea e ci rimase fin dopo mezzanotte. La Polizia vigilava: il Libri ed i suoi non comparvero. Ma presso al Granduca, con un'arme corta nascosta nella manica, stava un certo Marco Ciatti, custode della Riccardiana, uomo robusto e risoluto, deliberato a manomettere chi primo alzasse una voce. Il solo congiurato era lui! _Signore e signori,_ Giacomo Leopardi, in un di que' suoi _Pensieri_ tersi e taglienti come il cristallo, lamentando che il recitare i componimenti propri sia uno dei bisogni della natura umana, augurava s'istituissero accademie o atenei di ascoltazione dove persone stipendiate ascolterebbero, a prezzi determinati, chi volesse leggere. Il voto beffardo del Poeta recanatese può dirsi oggi — ma a rovescio — effettuato, grazie alla vostra indulgenza. La donna, la fragile creatura cantata dai poeti, che fresca e sorridente sa resistere ad una nottata di _cotillon_, e vegliare infaticata a studio della culla, questo essere delicato e gentile, ha ora saputo darci un'altra prova della sua tempra d'acciaio, resistendo a un corso di quindici letture. Diciamolo all'inglese, signore: — A voi il _record_ della pazienza![4]. Pasqua del 1897, 18 aprile. GUIDO BIAGI. NOTE: [1] I promotori furono: Guido Biagi, G. O. Corazzini, Tommaso Corsini, Francesco Gioli, Diego Martelli, Carlo Placci, Arnaldo Pozzolini, Piero Strozzi, Pasquale Villari. [2] Erano presenti le LL. AA. RR. il Principe e la Principessa di Napoli. [3] Cito una volta per tutte alcune opere delle quali mi son largamente servito: vari scritti di Ferdinando Martini, raccolti nel volume _Di palo in frasca_ (Modena, Sarasino) e la bella prefazione di lui alle _Commedie dell'Anonimo Fiorentino_ (Vincenzo Martini) edite dai Succ. Le Monnier; i Ricordi del Capponi, la biografia del Capponi medesimo dettata da Marco Tabarrini; le _Storie_ di Enrico Poggi e dello Zobi e i _Misteri di Polizia_ di Emilio Del Cerro. Molte preziose notizie sulla Società fiorentina, oltre a quelle trovate nelle filze dell'Archivio del Buongoverno, debbo all'amichevole cortesia del marchese Pierfilippo Covoni. [4] Con questa lettura, si chiuse la serie annuale. INDICE G. BIAGI. — _Invece di prefazione_ Pag. 3 I. DEL LUNGO — La genesi storica dell'unità italiana 11 G. ROVETTA. — La Lombardia alla caduta del Regno Italico 49 E. MASI. — Il Congresso di Vienna 97 F. S. NITTI. — Sui moti di Napoli del 1820 139 G. BIAGI. — Politica e bel mondo. (Cronache fiorentine dal 1815 al 1831) 171 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I - Conferenze fiorentine - Storia" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.