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Title: La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte II - Terza serie - Storia
Author: Various
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte II - Terza serie - Storia" ***


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                                  LA
                             VITA ITALIANA
                                  NEL
                              RISORGIMENTO

                              (1846-1849)

                              TERZA SERIE


                                  II.

                                STORIA.


      A sedici anni sulle barricate di Milano   PAOLO MANTEGAZZA.
      Venezia nel 1848-49                       POMPEO MOLMENTI.
      Volontari e regolari alla prima guerra
        dell'Indipendenza italiana              FORTUNATO MARAZZI.
      La démocratie spiritualiste selon
        Mazzini, et selon Lamartine             PAUL DESJARDINS.



                                FIRENZE
                          R. BEMPORAD & FIGLIO
            CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI
                         7, Via del Proconsolo
                                 1900



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                       RISERVATI TUTTI I DIRITTI

       _Gli editori R. BEMPORAD & FIGLIO dichiarano contraffatte
            tutte le copie non munite della seguente firma:_

     [Illustrazione: firma manoscritta]

        Firenze, 1900. — Tip. Cooperativa, Via Pietrapiana, 46.



A SEDICI ANNI SULLE BARRICATE DI MILANO

CONFERENZA DI PAOLO MANTEGAZZA


Se volete darmi la mano, rimonteremo insieme la corrente del tempo, che
mai non posa, e ci fermeremo là dove il calendario ci dice, che siam
giunti al 18 marzo dell'anno 1848.

Giunti là avremo fatto un viaggio di 51 anni, poco pili di mezzo
secolo. Pochi di voi erano vivi allora, pochissimi eran già fanciulli
o giovinetti. Io sono fra quei pochissimi, e non vorrete accusarmi
di vanità se ho voluto quest'oggi parlarvi di ricordi miei. Se quei
ricordi son miei, appartengono però alla storia della nostra Italia e
in parte ancora alla storia di tutta l'Europa.

A quel passato remoto voi non siete giunti, fortunatamente per voi, che
colla guida del libro stampato o della tradizione parlata. Io invece
vi giungo sulle ali della mia memoria, memoria che, ricordando, ama e
sospira.

Il ricordare il passato, l'evocarlo dalle nebbie del tramonto, per
farlo più vicino a noi, è uno dei più cari bisogni dell'anima umana. E
se vi fu un solo Giosuè, che per assicurar la vittoria del suo esercito
fermò il sole per qualche ora; noi tutti, figli di donna, cento e mille
volte fermiamo il tempo, dicendogli: prima di disperderti nell'infinito
dell'oblio che tutto seppellisce e consuma, fermati e lasciati guardare
e amare. Lascia che i miei occhi ti contemplino, che le mie mani ti
accarezzino.

Il presente è l'ombra d'un sogno e quando voglio fermarlo, è già
divenuto un passato. — L'avvenire è lontano, è oscuro. O passato, che
fosti veramente mio, o passato che io ho vissuto con tanti altri, oggi
morti, rallenta la tua fuga all'indietro che tutto ingoia; fermati
ancora, prima che anche la memoria che ti fa vivo, si sommerga con me
e mi faccia raggiungere i miei morti.

Il passato è il fascino dei fascini, appunto perchè ci dà una sete,
che non si appaga mai e perchè come tutte le forme dell'infinito e
dell'impalpabile, non ci sazia mai, deliziandoci sempre.

Ciò che proviamo, fissando lo sguardo nel passato, non è gioia e non è
dolore, ma è malinconia; è, come lo disse Victor Hugo, «_un crépuscule,
dans le quel le souffrance s'y fond dans une sombre joie_; aggiungendo
poi sublimemente: _la mélancolie c'est le boneheur d'ètre triste_.» E
con meno parole e genio eguale cantò lo Shelley:

    Sweet though in sadness.

E se voi che mi ascoltate avete ancora tutti i vostri capelli neri
e non siete disposti a fare con tue un viaggio nelle nebbie della
malinconia; se invece avete il pessimismo di moda del presente, vi
consolerete, vedendo quanta strada si sia percorsa in questi 50 anni,
che ci separano dal 18 marzo 1848.

Io non sono ancora decrepito: eppure io ho viaggiato nel primo treno di
ferrovia nel 38, ho conosciuti i fiammiferi ad immersione, e ho veduto
la prima lampada a gas. E questo per il progresso materiale. Quanto al
politico e al civile basti una citazione sola.

S'aveva in famiglia una villetta a Cannero sul Lago Maggiore e si
viveva a Milano. Or bene. Cannero era sulla costa piemontese e si
doveva chiedere il passaporto al Governo austriaco, e ci volevano
almeno 15 giorni e la mamma doveva presentare il consenso del marito in
carta bollata!

Ma io non vi ho invitato a fare della filosofia o a cantarvi un inno
alla malinconia, soggetto caro che mi occupa da un anno e che, Dio
volendo, si trasformerà in un libro. Torniamo dunque sulle barricate di
Milano.

                                   *
                                  * *

Chi ha fatto le cinque giornate?

Tutti e nessuno.

Le rivoluzioni son come la febbre. Quando i primi brividi accapponano
la pelle e ci fanno battere i denti, quando poco dopo il sangue si
accende e il termometro ci dice inesorabilmente: tu hai la febbre; il
volgo non vede che lei e crede che il male, che pure ci porterà alla
tomba, è piombato su di noi, come un fulmine a ciel sereno. E invece la
febbre è l'ultima scena di un dramma preparato da lungo tempo dietro le
quinte. Abbiamo respirato un'aria infetta, dove si annidavano bacilli
insidiosi: sono entrati in noi e hanno percorso tutte le vie dei nostri
organi, circolando nel sangue. Altri bacilli li hanno combattuti, ma
sono stati vinti. Gli invasori hanno trovato il terreno libero e son
diventati padroni del campo. E ora stanno vivendo alle nostre spese
e secernono veleni e il sangue arde e i nervi inondati da un'onda
troppo calda si ribellano e sussultano. Il respiro è angoscioso; alla
coscienza di una vita tranquilla e lieta tien dietro il malessere di
tutti i visceri, di tutti i muscoli. Perfino il cervello, che pili
d'ogni altro viscere resiste alle lotte, alle invasioni, alle insidie,
perchè è responsabile di tutte quante le vite sparse nei suoi Stati;
soffre, vacilla e delira.

Ecco la febbre, ed ecco la rivoluzione.

E come nella febbre due elementi contrari si combattono con incerto
successo, e come essa può essere seguita dalla vittoria, cioè dalla
salute; così può distruggere l'organismo o lasciarlo così debole, da
farlo facile preda di altre febbri o di altri malanni.

Così nelle rivoluzioni i due avversarli che vengono in lotta si
urtano, si attaccano, si mordono e si feriscono, finchè l'uno sovrasti
all'altro, e lo vinca, lasciandolo morto o ferito.

Nella rivoluzione milanese, tutto era pronto e preparato da lunga mano.
— La polvere era accumulata nel sottosuolo, nei sotterranei, nei pili
sottili meandri della vita nazionale. Non mancava che la scintilla, e
questa guizzò nell'aria di Milano il 18 di marzo.

Noi lombardi eravamo italiani come i piemontesi, come voi altri gentili
toscani, e invece a vent'anni si doveva vestire l'uniforme del giallo
e del nero

    Colori esecrabili
    A un italo cuore.

I nostri vicini avevano un re italiano: noi avevamo il nostro re a
Vienna, e da Vienna, ci venivano leggi, maestri, soldati.

E prima di essere italiani eravamo uomini, e i nostri polmoni si
sentivano capaci di respirare l'aria della libertà; quella che
respiravano gli Inglesi, gli Americani, tanti altri popoli. Avevamo
nati nelle nostre mura il Manzoni, Carlo Porta, il Parini, e nelle
scuole dovevamo leggere libri tradotti dal tedesco e da chi non sapeva
l'italiano. Nessun libro poteva apparire, nessun giornale si poteva
leggere, senza che libro e giornale passassero prima tra i denti fitti
e crudeli della censura. Da quei denti nulla usciva, che non fosse
lacerato, storpiato, malmenato.

Ci sentivamo italiani e dovevamo essere nient'altro che sudditi
austriaci. Ci sentivano uomini civili e degni di libertà, e non
potevamo muoverci senza il permesso di poliziotti, di censori, di
passaporti.

L'uomo, che cade e si trova rinchiuso in una fogna, cerca l'aria pura e
unghie e muscoli punta e titanizza per cercarla. Si lacera le unghie,
si spezza le membra, si lacera i polmoni colle grida; ma vuol l'aria,
perchè l'aria vien prima del pane, prima dell'amore, prima della luce.
O respirare o morire.

E le rivoluzioni sono gli sforzi di un popolo, che vuole quell'aria dei
polmoni collettivi, che è la libertà. O morire o esser liberi.

L'uomo caduto nella fogna che lo asfissia, non misura le proprie forze,
nè calcola le speranze della salvezza; ma lotta, si agita e grida. O
morire o respirare.

E il popolo senza libertà non conta i nemici, non pesa le speranze, ma
lotta e grida. O morire o esser libero.

Ecco la rivoluzione, or vincitrice, or soccombente; ma sempre febbre
sociale, preparata da lunga mano, dal lento assorbimento dei miasmi
della tirannide. Ed ecco anche la rivoluzione di Milano, che potè
sembrare un miracolo, e non fu che una delle pagine di storia, che
scrisse la vittoria del diritto contro il dispotismo; la vittoria di
pochi che avevano ragione, contro i molti che avevano torto; ciò che
non succede ogni giorno.

Ecco le cinque giornate, nelle quali una popolazione inerme, senza
generali, senza cannoni, che si arma svaligiando le botteghe degli
armaiuoli e le collezioni archeologiche, che si batte con un esercito
di 15,000 uomini guidati dal Radetzky; ottimo generale, che ha cannoni,
razzi alla Congrève, baionette a mille e mille, e mitraglia.

                                   *
                                  * *

La sera del 17 marzo ed anche la mattina del 18, nessun milanese
pensava che sarebbe scoppiata la rivoluzione. Io poi meno di tutti, che
ero un giovanetto, quasi un fanciullo. Tanto ero gracile e sottile e
l'onor del mento era più un desiderio che una realtà.

Erano poco più delle 10 o delle 11 del mattino, quando dopo aver
studiato fisica (ero nel Liceo) col mio condiscepolo Boselli per
prepararci all'esame e dopo aver fatto colazione, mi affacciai alla
finestra che dava sulla piazza di San Giovanni in Conca, dove è il
Liceo, e vidi la piazza e le strade prese da pànico. Erano i brividi
della febbre che incominciava. Chi correva, chi fuggiva. Servi,
cameriere coi bimbi che non conducevano a scuola, ma che erano andati a
riprendere, e che dal passo concitato si vedeva che li riconducevano a
casa. Vedo chiudere le porte di molte case e dalle finestre semiaperte
e diffidenti affacciarsi gente curiosa, che guarda nelle vie e sulle
piazze.

Corro nel cortile, che nelle case lombarde è come la piazza della casa,
e trovo che i vicini hanno sentito lo stesso bisogno che ho sentito io;
quello di rivolgersi domande e aspettar risposte; di sapere perchè si
corre, si fugge.

Le domande si incrociano colle risposte, si parla in due, in tre;
si interrompe chi parla e si fa parlare chi tace. Raccolgo notizie
confuse, incerte, contraddittorie.

Sento dire che a Porta Renza vi sono uomini attruppati, chi dice di
popolo armato, chi di austriaci pronti alla lotta. Si assicura che sono
cittadini e che hanno una bandiera tricolore. — Al Broletto i cittadini
fanno folla per iscriversi nei ruoli della guardia civica, che nasceva
per la prima volta.

Riporto, correndo su per le scale, le notizie raccolte. La mamma manda
subito la nostra balia, rimasta cameriera in casa da tanti anni, a
riprendere mio fratello Emilio e riportarlo a casa.

Mi ero offerto io, ma la mamma, che era a letto malata, non volle. — La
balia parte, ma non ritorna. I minuti ci sembran secoli. La mamma salta
dal letto, si veste, sta alla finestra a spiare il sospirato ritorno. —
Se la balia non si vede, si vestirà e colla febbre in corpo andrà essa
stessa a cercar di Emilio.

Io poi avrei accompagnato la mamma: questo nessuno poteva impedirmelo,
ma balia e Emilio ritornano. Vengono in furia, correndo anch'essi. Pare
che in questi giorni tutti debbano correre.

Abbracciato e baciato Emilio, stiamo tutti alla finestra, divenuta il
nostro osservatorio.

Passan gruppetti di uomini, di giovani, colle coccarde tricolori
all'occhiello e gridano: _Viva la Repubblica: Viva Pio IX_. — Molti
sono inermi, ma altri hanno spade, bastoni armati, poche pistole o
fucili da caccia.

Dirimpetto alla nostra casa vi è una gran _sostra di legna_, e tre o
quattro giovanotti armati di coccarde picchiano, ma invano. La porta
è chiusa. Se non si apre la porta, incendieranno il magazzino delle
legna. Questa minaccia si fa anche alle case vicine, e _sostra_ e case
si aprono.

E là entrano e se ne cava un gran numero di casse, di scale, di stie e
si trascinano in piazza e si gettano a traverso la via. Io non sapevo
che cosa fosse una barricata, e mi si dice che tutti quegli oggetti
devono servire ad impedire il passaggio della cavalleria. Son quelle le
barricate, fortezze del popolo delle città contro le truppe regolari.

Ma ecco che ad uno di quei rivoluzionari viene l'idea di aprire il
magazzino delle carrozze vicereali, che è appunto nella vecchia e
abbandonata chiesa di San Giovanni in Conca.

Qui non si può picchiare, nè suonare il campanello per farsi aprire,
perchè nel magazzino non stanno di guardia che i topi. Conviene dunque
buttar giù la porta, e a colpi di ascie, di martelli, di grossi pali,
si sfondano le vecchie tavole e se ne cavan venti e più carrozze
coperte d'oro, di festoni, di ghirigori, campate in alto su ruote
colossali, ballonzolanti sulle loro quattro gambe. Si portano a braccia
di popolo, fra grida, fra urli di evviva e di gioia, e si rovesciano
all'entrata delle vie, che sboccano nella piazza, divenuta così una
fortezza.

Mentre le carrozze vicereali divengono barricate e vanno a gambe
all'aria, alcuni cittadini hanno portato una scala e l'hanno appoggiata
alla porta del Liceo di Sant'Alessandro, dove campeggia l'aquila
austriaca e in men che non lo dico l'hanno buttata giù a colpi di scure
e di martello. E chi sta ai piedi della scala la rompe fra grida e urli
e risate assordanti, e coi piedi vi saltan sopra e la calpestano e la
fanno a pezzi. Io scendo precipitoso dalle scale con un coltellaccio di
cucina, e voglio anch'io ferire quell'aquila grifagna, che per meglio
mangiar due becchi tiene; voglio anch'io avere una reliquia di quel
cadavere.

Ma ahimè, le mamme e i babbi della nostra casa hanno barricata la
porta, e non s'esce. Allora da una inferriata di una camera a pian
terreno chiamo uno dei fortunati demolitori dell'aquila grifagna, e
che era un mio condiscepolo. Porgo il mio coltellaccio a lui che era
inerme. Lo adoperi, e dia a lui e a me un osso, anche una scheggia sola
di questo cadavere imperiale.

Quel giorno si passò fino a sera alla finestra, passando di angoscia in
angoscia, di trepidazione in trepidazione.

Fatte le barricate, rovesciati i carrozzoni vicereali, demolito lo
stemma del liceo, si sentirono da lungi, a lunghi intervalli, delle
schioppettate, poi qualche campana che suonava a martello e poi e
poi, con un crescendo formidabile di triste augurio, anche un colpo di
cannone.

Ma dunque la battaglia si era impegnata, ma dunque la città di Milano
aveva sollevato lo stendardo della rivoluzione, ma dunque si battevano.
— Da una parte un esercito ben armato, con cannoni appoggiati ad un
castello, dall'altra cittadini inermi o quasi, che senza misurar le
proprie forze volevano la libertà.

Che la battaglia si fosse impegnata, anche senza i colpi di cannone e
senza le fucilate, io avrei dovuto già saperlo, perchè fra il popolo
che trascinava le carrozze e le gettava gambe all'aria, avevo veduto
due cittadini vestiti colle spoglie di due soldati di fanteria, e due
altri colle giacche di due ussari. Avevo visto un altro, che correva
schiamazzando e gridando, ebbro di gioia e che sulla punta di una spada
portava il cappello d'un soldato.

Intanto pioveva a dirotto, ma la pioggia non impediva che corressero
per le vie drappelli di cittadini, e che alle 24 gridassero: _Fuori i
lumi! Fuori i lumi!_

Fu in quell'ora che 15 o 20 croati, malgrado le barricate, passarono
correndo e tirando in aria verso le finestre chiuse colpi di fucile.

                                   *
                                  * *

Ma lasciamo il povero giovinetto, che si accontentava di prendere una
scheggia della terribile aquila grifagna e vediamo che cosa volesse e
facesse in quel giorno la città di Milano.

Questa pacifica città voleva assai più di quel giovanetto: voleva
almeno ciò che l'Imperatore aveva dato a Vienna, che per una strana
coincidenza insorse anch'essa il 18 di marzo.

Vienna è in rivoluzione e i Milanesi esclamano: _Se tanto si fa dai
Viennesi, come staremo noi tranquilli?_

Già da molti giorni, se di fuori nessun sintomo esteriore diceva
che Milano era minacciata da una gran febbre, la polizia però aveva
toccato il polso alla città ed era inquieta. L'arciduca Ranieri partiva
con tutta la sua famiglia per Verona il 16 marzo, accompagnato da un
reggimento di granatieri italiani, che non si credeva prudente lasciare
in quella città. E prima di lui era partito anche lo Spaur, governatore
della Lombardia, lasciandovi il vicepresidente O'Donnell.

La mattina del 18 marzo si legge su tutti i canti delle vie un editto
imperiale e reale, nel quale si diceva che _Sua Maestà ha determinato
di concedere ai suoi popoli istituzioni liberali, e convocherà i
rappresentanti dei diversi paesi a Vienna per il 3 luglio_.

Sapete tutti che quando si vuol elevare la temperatura di un forno
vi si getta un po' d'acqua. Molta acqua lo spegnerebbe, ma pochina lo
ravviva. L'ordinanza imperiale fece l'effetto di quella poca acqua.

Per tutte le vie si formano capannelli di persone, che anche senza
conoscersi, per l'emozione comune e forte che ne fa battere il cuore,
diventano amici, quasi parenti per un momento. Vi è una consanguineità
più calda di quella del sangue, ed è quella del sentimento e del
pensiero. In una rivoluzione tutti quelli che s'incontrano diventan più
che amici, fratelli.

E in quei crocchi si sente dire:

_Oggi si fa la dimostrazione al Governo. — Vanno tutti al Broletto. —
Bisogna finirla. — Vienna è insorta: non è più tempo di dimostrazioni;
ci vogliono dei fatti._

Quelle esclamazioni (che esclamazioni erano e non discorsi),
sottolineate dall'accento poderoso e dalle voci grosse, esprimevano due
opposte correnti, che in ogni moto popolare delineano i temperamenti di
due diversi caratteri, il prudente ed il violento.

Dall'una parte si vuole raggiungere lo scopo per le vie legali:
dall'altra si vuole la lotta, la guerra; si aspira con voluttà al
sangue.

Alle 10 del mattino tutta Milano era in moto; non v'era mente che
stesse ferma, non cuore che non battesse più forte.

Il carattere violento trascina il carattere prudente. La folla irrompe
nella bottega del Colombi, il primo armaiuolo di Milano, e la svaligia.
Ne escono con pistole, con fucili da caccia, con carabine, con
sciabole; con tutto ciò che può uccidere.

Ma le armi non bastano; si dirigono tutti al Borgo Monforte, dove è
il Palazzo di Governo e il Torelli si unisce alla folla. Domanda che
cosa si vuole e gli rispondono: _Si fa una grande dimostrazione per
appoggiare la domanda di concessioni che si vogliono dal Governo e
quanto prima verrà il Municipio, verrà anche il Delegato (Prefetto) in
persona_.

Più in là il Torelli vede un giovane, che escito dalla bottega di un
tappezziere, con un grosso ferro acuto e forte, tenta di smuovere il
selciato per fare una barricata.

Ma gli gridano: _No, no, a che pro vuoi rovinare la strada?_

Ancora e sempre violenza e prudenza, che vogliono la stessa cosa, ma
per diverse vie.

Intanto la folla si urta, si addensa, corre e divien fiume, corrente,
che trascina ogni cosa che incontra.

Si ode gridare: _Sono qui, sono qui!_

È infatti la Deputazione solenne, che si avvia a chiedere al Governo le
concessioni.

Avanza lentamente, solo gli uscieri e i pompieri possono difenderla
dall'onda del popolo e permetterle di andare innanzi.

Guardate quei coraggiosi. Sono il delegato provinciale Antonio Bellati,
il podestà conte Gabrio Casati, e intorno ad essi assessori, cittadini
notevoli per censo e per fama.

Popolo e deputazione giungono al Palazzo, l'onda del popolo ne invade
cortile, scale, e su su è entrata nelle sale, negli uffici, dovunque.
Si ferma forse l'acqua torbida di un fiume, quando travolge alberi e
armenti e case, ed uomini e cose?

Quelli che sono rimasti fuori si sentono cader sulle spalle registri,
libri e per l'aria volano fogli, lettere.

Il Torelli, rimasto addietro, penetra più tardi nel palazzo, e sotto il
portico vede da un materasso gettato a terra escire due paia di piedi
calzati come sono i soldati ungheresi. Quei piedi sono immobili. Sono
di due cadaveri, delle due sentinelle che erano alla porta del Palazzo
e che, avendo voluto opporsi all'onda del popolo, erano state uccise,
l'uno con un colpo di pistola, l'altro colla stessa baionetta di cui
era armato il suo fucile.

Povere ed innocenti vittime del dovere professionale! Il libro degli
Edda lo ha detto da tanti secoli. Nessuno è forte contro tutti. E quei
poveri soldati giacciono lì sotto quel pietoso materasso che solo
li nasconde alla curiosità del popolo tumultuante, e le loro povere
madri pensano forse a loro in quella stessa ora nelle lontane steppe
dell'Ungheria al dì del ritorno e che non verrà mai, mai più!

Quella folla, che si è già macchiata di sangue, non ha però tempo ne
voglia di occuparsi di quei poveri morti. Tumultua, grida, schiamazza,
mentre la Deputazione è in conferenza coll'O'Donnell.

Era le mille voci che riempiono il cortile, le scale, la via, si ode
una voce più alta, che per un momento fa tacere le altre e ad esse si
sovrappone: _L'Arcivescovo, l'Arcivescovo! Largo all'Arcivescovo!_

Era il Romilli, che l'anno prima, l'8 di settembre, aveva fatto il suo
solenne ingresso in Milano e che succeduto al Gaisruck tedesco, era
divenuto subito popolare, perchè italiano e buon uomo.

Il Romilli più che camminare era portato anch'egli su per lo scalone,
mal difeso da alcuni sacerdoti, che lo difendevano dal troppo caldo
entusiasmo dei suoi concittadini. Salutava a destra e a sinistra,
sorrideva, ma era agitatissimo. Guardava con certo terrore una coccarda
tricolore, che gli avevano appiccicata sulla veste talare.

Si conferiva intanto nel gabinetto del Governatore, e la folla
febbricitante di impazienza alzava sempre più le note del suo
patriottico entusiasmo. Ma ecco che si apre la porta del gabinetto e ne
esce il conte Carlo Taverna, che dà la notizia delle prime concessioni.

_Signori, il Governo ha fatto le concessioni...._

E non si ode il seguito.... _Concessioni, sta bene, ma di che, ma di
cosa?_ La impazienza cresce, diventa angosciosa e le grida crescendo
impediscono di udire.

Un tale grida: _Scriviamo la concessione e gettiamo il foglio nel
cortile. Una penna, dei calamai, dei fogli!_

Si trova dopo confuse ricerche un calamaio, ma senza penne e senza
carta. La _carta_ la _troverò io_, grida un impiegato e _porta dei
bollettini di leggi e circolari_, che hanno sempre un foglio in bianco.

Si strappano le pagine bianche e senza penna vi si scrive con
bastoncini, con matite; perfino colle dita tuffate nel calamaio.

E i fogli volan per l'aria e scendono dalle finestre nelle vie, dal
corridoio e dalla scala nel cortile.

Si legge male ciò che peggio era scritto, ma tutti possono leggere però
queste parole: _Il Governo ha conceduto_. E allora si ode da per tutto:
_Evviva la concessione, evviva il Municipio!_

Le concessioni strappate a forza erano: _Guardia nazionale — Libertà di
stampa — Garanzia personale_.

Miste agli evviva si udivano però altre grida: _Vogliamo armi, vogliamo
armi!_ Ma un altro grido più forte, più angoscioso vien su dalla
piazza: _I Tedeschi, i Tedeschi!_

Il pànico invade la folla in gran parte inerme, e fugge, mentre la
Deputazione esce dal Palazzo, portando seco come ostaggio o come
prigioniero il vicepresidente O'Donnell, che messo nel palazzo del
conte Carlo Taverna vi rimaneva tranquillo e indisturbato per tutte le
cinque giornate.

Intanto, però, in varii punti della città eran corse schioppettate
fra il popolo e la truppa, e in più luoghi si erano inalzate delle
barricate.

I soldati avevan saputo dell'uccisione delle due sentinelle del Palazzo
di Monforte e si vendicavano, dando la caccia ai cittadini. E questi
tiravano sui soldati. Non si trattava più di Milanesi oppressi e di
Austriaci oppressori. Era la vampa atavica dell'uomo selvaggio, che
morsicato morde, che ferito ferisce. Due giovani fra gli altri, di
condizione civile, inseguiti, fuggirono in una bottega di cartoleria,
che era aperta, avendo la folla strappate le porte per farne una
barricata. E i soldati dietro. I fuggenti corrono su per le scale,
finchè trovano il tetto, e i soldati sempre dietro. Non si seppe
mai, se scivolando dal pendio del tetto cadessero nella via o prima
fossero stati uccisi e poi precipitati dall'alto. Il fatto si è, che
i loro cadaveri, sfigurati, rimasero dov'eran caduti per più giorni,
non riconosciuti, nè raccolti dalle turbe ebbre di lotta e che avevan
altro da fare che di pensare a due poveri morti. Chi conta i cadaveri
nell'ora della battaglia?

E la battaglia era ormai impegnata, nè consiglio di prudenti, nè pietà
di filantropi poteva ormai arrestarla.

Nè solo i combattenti cadevano, ma anche i fuggiaschi, che per caso o
per necessità si trovavano nelle vie. Il bravo Torelli, che armato di
una sciabola e di due grossi pistoloni andava verso il Broletto, trova
sul marciapiedi presso la via della Spiga un povero vecchio ucciso da
una palla nel mezzo della fronte, e la pioggia lavava quella ferita
e portava lungo il leggier pendio della strada un sottile rigagnolo
di sangue. Il Torelli aiutato da alcuni cittadini portò quel povero
vecchio sotto l'atrio d'una casa.

                                   *
                                  * *

Ecco il principio della rivoluzione, ecco la prima delle cinque
gloriose giornate, che scrissero una pagina d'eroismo nella storia
d'Italia e diedero una lezione ai despoti; nè starò a descrivervi
tutte le scaramuccie, tutti i particolari della lotta, che non aveva
un solo generale, nè un solo piano di tattica, ma che si combatteva
in tanti centri, quanti erano rappresentati dalle caserme, dal Comando
di piazza, dalla polizia e con diversa fortuna, secondo i luoghi e gli
uomini che combattevano.

Non accennerò che a qualche episodio. Mettendoli l'uno accanto
all'altro, avrete il quadro della sommossa.

Corre la voce, che davanti al Gran Comando Generale posto in via
di Brera, i soldati fraternizzano col popolo. Si spiega la cosa,
aggiungendo che quei soldati son tutti ungheresi e italiani. Se un
cittadino di alta autorità e di grande energia si presentasse al
Comando, potrebbe intimare la resa a quel battaglione.

Ma c'è chi soggiunge:

È vero: son tutti italiani e ungheresi, non chiederanno di meglio che
di arrendersi; ma gli ufficiali son tutti tedeschi e conviene che per
trattare con essi ci voglia chi sappia il tedesco.

L'uomo coraggioso si trova, anzi se ne trovano due, perchè al Torelli
si aggiunse l'Anfossi, e entrambi, senza misurare il pericolo della
loro impresa, si avviano al Comando.

Era tutto un quadrato di soldati, che fitti fitti e armati stavano
davanti alla porta del palazzo. Il Torelli, traendo un fazzoletto
bianco e sollevandolo in alto, gridò con tutto l'entusiasmo: _Eljen
Madjar!_ Risposero in molti _Eljen! Eljen!_ e parecchi strinsero la
mano al nostro Torelli.

Egli ravvisò un maggiore, che ravvolto in un gran mantello impermeabile
a causa della pioggia, stava dinanzi alla porta chiusa del Comando
e tentò di persuaderlo ad arrendersi. Ormai il popolo era padrone
della città, era bene evitare un inutile spargimento di sangue.... si
arrendesse.

Il maggiore lo ascoltò con tutta la calma, senza dar segno di
impazienza o di sdegno, e si accontentò di rispondere: _No, non lo
posso, non fate ostilità voi, e non ne faremo noi_.

L'Anfossi, che non sapeva il tedesco, non poteva capire il dialogo,
vedendo che i soldati li avevano circondati, disse piano al Torelli:
«Caro mio, andiamocene, ci potrebbero portare in castello.»

Il Torelli ritornò all'assalto con parole più calde, ma il maggiore
con più energia di prima disse di no, e i due temerarii cittadini
ritornarono donde erano venuti.

Se la resa non riusciva colle buone, doveva riuscire colle brusche e a
suon di fucilate.

Il 19 l'Anfossi con una schiera di valorosi compagni prendeva gli Archi
di Porta Nuova, respingendo gli Austriaci e prendendo un'ottima linea
di difesa.

Il giorno dopo, i Tedeschi abbandonavano la Polizia e il Duomo, che
avevano occupato, come un osservatorio e come un ottimo punto di
difesa, dacchè i Tirolesi, ottimi fra tutti i tiratori del mondo, di
lassù uccidevano senza sbagliare un colpo. Aggiungete che accanto al
Duomo sta il Palazzo Reale e si innalza il colosso dell'Arcivescovado.

Il Torelli, appena seppe che il Duomo era abbandonato, chiese ad una
signora una bandiera tricolore, e con pochi compagni la portò su quel
gigante di marmo, e l'innalzò tra gli applausi del popolo, che dal
basso vedeva il vessillo nazionale sventolare per la prima volta sul
caro, sull'adorato _Dom de Milan_.

Questa la poesia della rivoluzione! Accanto alla poesia, però, nello
stesso tempo la prosa robusta e vigorosa dei fatti. È in quello stesso
giorno che la Congregazione Municipale si trasformava in _Governo
provvisorio_, con patriottico pudore però rinunziando alla parola
audace e forse ancora troppo superba, e dicendo solo in un suo proclama
«_che viste le circostante assumeva in via interinale la direzione di
ogni potere allo scopo della pubblica sicurezza_.»

Ai membri ordinarii della Congregazione, oltre il conte Gabrio Casati
podestà e gli assessori Antonio Beretta e conte Cesare Giulini, si
aggiunsero Vitaliano Borromeo, Franco Borgia, Alessandro Porro, Teodoro
Lecchi, Giuseppe Durini, Anselmo Guerrieri, Enrico Guicciardi e Gaetano
Strigelli.

E il Governo provvisorio nominava un Comitato di guerra, poi uno di
difesa, uno di pubblica sicurezza, uno di finanza, uno di sanità e per
ultimo uno di sussistenza.

Troppo governo, direte voi: ma chi potrà accusare di troppa voluttà di
comando chi ha sempre ubbidito; ubbidito a forza e a tiranni odiosi?
Chi potrà accusare di intemperanza un affamato, che a un tratto siede
ad una mensa lautamente imbandita? L'ebbrezza non è soltanto nel fondo
delle bottiglie, ma in ogni battaglia vinta, sia poi d'amore, di gloria
o di libertà. E in quei giorni noi tutti, anch'io quasi fanciullo,
eravamo ebbri d'indipendenza e di lotta.

                                   *
                                  * *

Il 20 di marzo un maggiore croato si presentava come parlamentare in
casa Taverna, portando una proposta del maresciallo Radetzki, quella di
sospendere per tre giorni le ostilità.

Eran presenti a riceverlo i membri del Governo provvisorio, quelli del
Comitato di guerra e quelli del Comitato di difesa: in tutto 14 o 15
cittadini. La proposta fu respinta, e fucili e cannoni continuarono la
loro crudele missione.

Fra le molte scaramuccie, fra i molti assalti, che avvennero in quei
cinque giorni, due assunsero aspetto di veri fatti di guerra, che
meritano una pagina nella storia della strategia e della tattica:
voglio dire la presa del Genio e quella di Porta Tosa.

Il Genio, che era allora dove è oggi la monumentale fortezza della
Cassa di Risparmio, era il cuore della difesa degli Austriaci. Dal
Castello e dalle porte partivano i fulmini, ma dal Genio emanavano le
correnti che li sprigionavano. Là era il cervello, là il denaro, là le
carte del governo.

E da ogni finestra i migliori tiratori tirolesi facevano piovere palle
di piombo sui cittadini armati, che volevano entrarvi e si andavano
avvicinando di barricata in barricata, di tetto in tetto. E seminando
di morti e di feriti le vie e innondando di sangue i ciottoli e i
marciapiedi, si andava innanzi; la porta che resisteva, forte per
natura e barricata per di dentro, fu schiantata da due cannoncini
di legno cerchiati di ferro, che furono improvvisati dai Milanesi,
fatti inventori di una nuovissima artiglieria. Io li ho veduti quei
cannoncini, anneriti, feriti anch'essi, che parevano giocattoli da
bimbi, ma che pure avevano vinto il Genio austriaco. Augusto Anfossi,
l'anima e il cuore delle cinque giornate, l'eroe primo di quella
battaglia tanto disuguale, lasciava la vita in quel'assalto.

Dove si fece il maggior fuoco fu però a Porta Tosa, dove gli Austriaci
con cannoni e battaglioni ben armati, difendevano una delle più forti
posizioni, fulminando la città. Il Corso che conduceva alla porta era
troppo largo, perchè vi si potessero piantare barricate forti e solide,
che potessero difendere gli assalitori e resistere alle artiglierie.

I Milanesi pensarono di fare delle barricate mobili e le ho viste
anch'io e le ammirai come un'altra improvvisazione della strategia
rivoluzionaria.

Eran fatte di grosse fascine legate in forma cilindrica, lunghe due o
tre metri e grosse un metro che si facevano rotolare a forza di spalle,
e i nostri tiratori dietro ad esse ben difesi poterono sloggiare gli
Austriaci e prender la Porta, che a buon diritto fu battezzata da quel
giorno col nome di Porta Vittoria.

Mi par di vederle ancora quelle barricate mobili, che frantumate
dalle palle nemiche lasciavano escire da cento ferite le loro viscere
lacerate. Ma accanto a quel ricordo, che potrei tradurre in un quadro,
se fossi pittore, ce n'è ancora un altro, quello delle acque, che
corrono in quei dintorni e che vidi rosse, come se fossero state tinte
col carminio. E mi parve a quel tragico colore, che in quell'onda quasi
ferma vi dovesse esser più sangue che acqua.

Di quel sangue però nessuna goccia era mia.... e leggendo oggi il mio
vecchio giornale di ora è mezzo secolo, vi leggo con stile infantile
queste parole:

_Io invidio i miei fratelli, che hanno combattuto per la patria e hanno
posto il nome dei Milanesi fra gli eroi i più generosi e robusti...._

Se non sono stato fra i combattenti, fui però di sentinella alle
barricate, e anche di notte e con nessun altr'arme che una gran
scimitarra turca, che avevo chiesto a mio padre. Come ero fiero di
passeggiare in su e in giù davanti alle barricate, colla mia scimitarra
appoggiata alla spalle e gridando il _Chi va là?_ ai passeggeri, ai
quali chiedevo la parola d'ordine. Mi pareva d'essere la sentinella
perduta di un vero accampamento di guerra....

Con quella scimitarra e naturalmente colla mia coccarda tricolore,
andavo a far le provviste di cucina colla serva, quasi a difenderla,
e in quei giorni non era davvero facile il percorrere anche un piccolo
tratto di cammino, essendo quasi ogni via interrotta dalle barricate,
che furono calcolate a circa 2000.

La nostra serva si credeva difesa da quel giovane guerriero e da quella
scimitarra turca! Povera difesa! — Io ero così gracile, così sottile
in quell'epoca, che un croato, incontrandomi, mi avrebbe con un pugno
gettato a terra e disarmato.

Da sentinella di barricate passai dopo le cinque giornate a guardia
nazionale, e ricordo le notti passate sul tavolaccio nel Palazzo
Trivulzio e nel Palazzo Marino. Allora, però, invece della gran
sciabola avevo un fucile.

Un mattino alle 5 dovetti con altri militi della guardia civica
condurre al Castello cinque soldati austriaci nostri prigionieri, e lì
ebbi la gioia di vedere la prima cavalleria piemontese che partiva per
il campo.

Ricordo ancora che un altro giorno tutti i Civici di Sant'Alessandro
furono riuniti sulla piazza dello stesso nome, e di là ci avviammo al
Broletto, al suono allegro del tamburo e seguendo la grande bandiera
tricolore, che si amava come una fanciulla, come una mamma; come la
poesia incarnata della patria.

Giunti al gran cortile del Broletto ci schierammo per eleggere i nostri
capi e per acclamazione si nominò nostro capitano il marchese Trivulzi,
che era però a letto con una palla in una coscia. Con lui furono
eletti i tenenti e poi si ritornò al palazzo Trivulzi, dove sotto le
sue finestre si gridarono evviva fragorosi al nostro Duce. La signora
marchesa, commossa, scese a salutarci, e ci promise che ella stessa ci
avrebbe ricamata una bandiera.

Se mi lasciassi andare alla voluttà dei lontani ricordi, non la finirei
più. Lasciatemi solo richiamarne uno di poca importanza, ma che vi
mostrerà in qual'aria di idealismo generoso si respirasse a Milano in
quei giorni.

Mentre si trattava l'armistizio proposto dal Radetzki, io escii col
mio solito sciabolone e mi avviai verso il teatro della Scala. Tacevano
le campane, che erano il tormento indicibile dell'esercito austriaco,
tacevano le fucilate, tacevano i cannoni.

Giunto nella via di Santa Margherita, dove era l'Ufficio della Polizia
e che era tutta barricata, vidi che le finestre erano occupate da
cittadini, che gettavan giù a cento a cento cartoni pieni di carte,
fascicoli, libri, tutta la triste biblioteca di quella casa, che era
in una volta sola covo di spie, fucina di tirannide e carcere di tante
vittime.

Quel pandemonio era stato abbandonato dai tiranni, ed ora era in mano
delle vittime, che prendevano la loro vendetta sulle carte.

Io raccolsi parecchi fogli timbrati dall'aquila grifagna, e mentre li
stava per leggere, un colpo di mitraglia venne a colpire una barricata
assai vicina a quella in cui mi trovavo, facendo un rumore strano, come
di cento latte che fossero lacerate in una volta sola. Tutti i presenti
si addossarono al muro, ed io visto che il colpo non si ripeteva più,
corsi in mezzo alla via e raccolsi due o tre pallottole di ferro,
ancora fumanti. Facevan parte di quella rozza mitraglia d'allora ed
eran piene di chiodi e perfino di pezzi infranti di ferri di cavallo.

A quel tiro, però, tennero dietro dopo un piccolo silenzio altri tiri,
ed essi ci dicevano ad alta voce che l'armistizio era stato respinto e
che la lotta ripigliava il suo andare.

Portai a casa i miei fogli e li diedi a vedere alla mamma, colla
quale stava per leggerli con viva curiosità. Ma la mamma mi disse,
impallidendo e inorridita: _Sono rapporti segreti di spie italiane....
ahimè! e sono firmati. Non voglio leggere quei nomi.... bruciamo questi
fogli, subito subito._

E quei fogli furon bruciati con mio grande dolore, non per la curiosità
delusa delle firme infami; ma perchè in me nasceva già il futuro
psicologo, che doveva finire sulla cattedra d'antropologia di Firenze.
Quei fogli eran per me documenti umani, che oggi figurerebbero nel mio
Museo psicologico.

Li ho rammentati, perchè il sentimento generoso che aveva ispirato mia
madre a distruggerli, era in quei giorni l'ambiente in cui si viveva,
era l'aria che si respirava noi tutti.

Se entrava un cittadino armato in un caffè, chiedendo un rinfresco,
quando stava per pagarlo, gli si rispondeva con un gesto di grande
meraviglia: _Ma ghe par?_ oppure _O giust!_

I feriti eran raccolti subito e alloggiati dove cadevano. In tutte le
case signore e signorine vegliavano le notti, fabbricando filaccia
o cucendo bandiere tricolori e ho veduto strappare pezzuole di tela
battista d'immenso valore, quando per far filaccie si era dato fondo a
tutti i cenci vecchi della casa.

Uno dei nostri tiranni poliziotti più odiato era il Bolza. Sapendosi
aborrito, nelle cinque giornate si era nascosto in un fienile, ma fu
scoperto e preso. A furia di popolo, più trascinato che condotto, fu
portato non so a qual Comitato davanti a Carlo Cattaneo, chiedendogli
che genere di supplizio doveva essere inflitto a quel boia. Il Bolza
era già più morto che vivo, più pallido di un cadavere e coperto di
fieno, che lo rendeva grottescamente orrendo.

Il Cattaneo sereno e tranquillo rispose:

_Se lo uccideste, fareste cosa giusta, ma se lo lasciate in libertà,
farete cosa santa e degna di un popolo vittorioso, e che aspira alla
libertà._

E il Bolza fu lasciato libero.

Quarantottate, diranno alcuni, ma a questa bestemmia ritornerò fra poco.

I popoli vivono tutti in un dato clima fisico, che è l'aria per i
polmoni e che respiran tutti, ricchi e poveri, contadini nel campo,
operai nelle vie, principi nei palazzi. È un clima che li avvicina e li
affratella.

Ma vi è un clima più efficace, più tirannico, e che è, per il cervello
e per il cuore, ciò che è l'aria per il polmone. È l'ambiente morale,
che diffonde la sua influenza sottile, penetrante, irresistibile in
ogni vena della vita pubblica; che fa battere ogni polso di uomo che
pensa e sente. Nessuno può sfuggirvi, nessuno resistervi.

Quell'ambiente ora è salubre ed ora è mefitico, ora è inebriante ed
ora è deprimente ed è fatto dai sentimenti umani che fanno palpitare il
cuore di una nazione. Se l'orgoglio nazionale è alto, e legittimamente
alto, quell'ambiente vuol dire gioia, entusiasmo, carità, idealismo. Se
l'orgoglio è depresso, quell'ambiente vuol dire tristezza, sentimento,
scetticismo, fors'anche cinismo.

Se quell'ambiente è fatto di gloria e di ricchezza vuol dire salute
morale, energia, generosità, eroismo. Se invece è fatto di paure e di
pentimenti, vuol dire affarismo, viltà collettive, vuol dire marasmo
delle anime.

In quei cinque giorni Milano respirava bene, respirava a pieni polmoni
l'aria della vittoria e della libertà ed era perciò nobile, generosa,
idealista.

                                   *
                                  * *

E dacchè vi ho intrattenuto sempre del 48, permettetemi che nel
chiudere la mia conferenza getti un grido di sdegno contro la brutta
parola di _quarantottate_, che pur si ripete più di una volta, e
soprattutto dai giovani serii, che non hanno potuto battersi e dai
vecchi serissimi, che non si son battuti mai.

Per questi signori, _quarantottata_ vuol dire una dimostrazione un po'
chiassosa, un entusiasmo collettivo espresso forse con uno scampanio
troppo rumoroso; è insomma ogni espressione patriottica, che si
presenti sotto forma troppo arcadica o troppo ingenua.

Si cancelli dalla lingua parlata, dal frasario politico questa parola,
che è una barbarie.

Bestemmia contro tutto ciò che nell'uomo si ha di divino; cioè
l'idealità, l'eroismo, l'amor di patria.

Il 48 fu un sogno, un'illusione, un disinganno. Si credette che il
cuore bastasse senza il cervello. Lo credettero i milanesi, lo credette
anche Carlo Alberto, quando affrontò l'armata austriaca col piccolo
esercito del piccolo Piemonte.

Ma sogni, ma illusioni, ma disinganni che ci portarono al 59, al 66,
al 70; e il quarantotto con le sue quarantottate fu un delirio di amor
di patria, fu un trasporto che lasciò il cielo pieno di luce, e che
fecondò la terra nostra col sangue dei primi martiri.

Anche i vecchi deridono le follie della giovinezza, ma più spesso che
per saviezza, per invidia di non esserne più capaci.

E quando ascolto i giovani, che nel 48 non erano ancor nati, deridere
le quarantottate, esclamo:

«Ecco dei giovani vecchi, che deridono dei vecchi giovani!»

Le barricate, spero, non si innalzeranno più in Italia e forse anche
non avremo più bisogno di rivoluzioni; ma ai giovani che bestemmiano,
pronunziando in tuono di scherno, la parola di _quarantottate_, io che
li amo, auguro loro che nella lor vita provino anch'essi la suprema
voluttà degli entusiasmi patriottici, delle idealità sovrumane, ci
vengano poi dal cielo o dalla terra.

Il divino nell'umano è l'entusiasmo, e chi muore senza averlo goduto,
non ha vissuto mai!



VENEZIA NEL 1848-49

CONFERENZA DI POMPEO MOLMENTI


  _Signore e Signori,_

Nell'ampia sala magnifica del Palazzo dei Dogi — forse la più bella del
mondo — convenivano taciti, avviliti, confusi i veneti patrizî. Era il
12 maggio 1797. Gravi pericoli minacciavano l'esistenza della vecchia
Repubblica. Alle offese del Bonaparte l'imbelle doge Lodovico Manin
rispondeva con vile rassegnazione, e i patrizi degeneri, convocati
a consiglio, con non minore codardia decretarono la fine della
repubblica e l'abolizione dell'ordine aristocratico. Poi uscirono tutti
a precipizio. Erano cinquecento e trentasette; paurosi i più, alcuni
illusi della nuova libertà, parecchi traditori, pochi fieri, risoluti,
sdegnosi. Venti soli votarono contro il sacrifizio della patria,
cinque si astennero. Così finiva la città dei Dandolo, dei Pisani, dei
Veniero, dei Morosini! Un solo giorno faceva dimenticare tutta la sua
forza, tutta la sua maestà, tutta la sua grandezza!

Il 17 ottobre 1797, il Bonaparte, con l'infame mercato di Campoformio,
vendeva Venezia agli austriaci. E allorchè il giorno moriva e i
rintocchi delle campane si spandevano sull'ampia laguna, e le acque
erano solcate da splendori fosforescenti, sotto il Palazzo pieno di
misteri, dinanzi alle pietre fatte brune dai secoli, fra il popolo muto
ed oppresso, un uomo con l'anima in delirio e i nervi agitati, esciva
in una imprecazione che, in quell'avvilimento, risuonò alta e fiera
protesta, e fu seme di riscossa nelle età future. «L'Italia è terra
prostituita» esclamava Ugo Foscolo «premio sempre della vittoria. Potrò
io vedermi dinanzi agli occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi,
venduti e non piangere d'ira?»

Così, con questo alto lamento angoscioso, finisce l'un secolo e
comincia l'altro. Nei misteriosi palazzi s'aprono le porte, si
spalancano le finestre, vi entra una improvvisa folata di vento, un
turbine impetuoso.

Fuggono spaventate le belle donnine tutte frange, fronzoli e cernecchi,
i cavalierini dall'anima di stoppa e dallo spadino inoffensivo; e un
silenzio come di morte piomba nelle stanze fiorite di stucchi e d'oro,
discrete confidenti di colloqui amorosi, dove sorridevano tutte le
eleganze e tutte le letizie della festosa arte del veneto tramonto.

Ed oggi, quando i ricordi del passato si ridestano in quelle vecchie
dimore, in cui i dipinti e le stoffe si stingono in un color d'ombra
diffuso, e tutto ha un dolcissimo profumo di vecchio, e ad ogni oggetto
si accompagna una leggenda amorosa; oggi, quando nella penombra di
quelle stanze sembra di veder salire e vanire entro cirri di nubi
profili femminili, figure eleganti di cavalieri, fantasmi voluttuosi,
ci si domanda in qual modo quei Florindi e quelle Rosaure, tutti _ben
mio_, _vita mia_, _vissare mia_, poterono, dopo appena cinquant'anni,
trasformarsi negli ardimentosi difensori di Venezia.

Come mai il doge Manin, che mentre crollava la longeva repubblica
lamentavasi di non poter esser sicuro nemmen nel suo letto, potè, dopo
mezzo secolo, trovare il più magnanimo contrapposto in un altro Manin
(la storia ha di questi strani riscontri anche di nomi), il quale,
benchè plebeo, seppe vendicare l'antica macchia inflitta al nome
patrizio? E per che modo l'anima gracile della città dai morbidi amori,
dopo una lunga e molle inerzia si destò con tanta possanza? E che cosa
ha veramente prodotto la immensa esplosione del '48?

Vediamo.

                                   *
                                  * *

La città dominatrice, che avea avuto tutte le grandezze, dovea provare
tutte le miserie.

Quando, dopo essere stati cacciati dai francesi nel 1806, gli austriaci
entrarono nel 1814 per la seconda volta a Venezia, il podestà Gradenigo
— un discendente di quel Doge che avea ordinato e rafforzato il
dominio dell'aristocrazia — andava a prosternarsi a Vienna dinnanzi
all'Imperatore, mentre un arciduca austriaco sulla piazza di San Marco
gettava manciate di denaro al popolo plaudente.

Venezia perdeva a brani il suo manto di regina. Le gondole parevano
bare galleggianti, gli uomini attraversanti gli alti ponti ombre del
passato — i monumenti rovinavano, e più di dugento palazzi venivano
demoliti per non pagare le imposte e per vendere i materiali. Nei
cittadini era fiacco lo spirito, nullo il pensiero.

Il governo straniero, senza moderazione e senza giustizia — i balzelli
eccessivi — il commercio inaridito e sacrificato alle altre parti
dell'Impero, specie a Trieste — le spie e gli sbirri, _véritables
forçats_ — secondo la energica frase di Anatole de la Forge — _auxquels
l'Autriche donnait Venise pour bague_ — la mancanza infine d'ogni
libertà politica e civile non valevano a ridestare gli spiriti, immersi
come in uno stupor doloroso. Perfino la religione legittimava la
tirannide e faceva sacro il dispotismo.

Ah! se dagli abissi del passato, le anime delle antiche generazioni
avessero potuto riveder quei luoghi consacrati dalle loro rimembranze!
Se le anime dei dogi, dei senatori, dei guerrieri avessero potuto
rivisitare la loro città, ravvolta come in un funebre sudario, e vedere
invaso da una volgar turba d'impiegati tedeschi il palazzo dogale,
dove gli acuti e gravi magistrati erano stati custodi vigilanti delle
libertà più antiche del mondo e sulle antenne della Piazza la bandiera
gialla e nera in luogo del temuto vessillo, che s'era inalzato sulle
torri imperiali di Bisanzio e s'era agitato ai venti della vittoria
sulle acque di Lepanto; se quelle inclite anime avessero potuto veder
tutto ciò, tra i gemiti di un immenso dolore si sarebbe udito risuonar
per l'aere la lamentazione dell'antico profeta: _Quomodo sedet sola
civitas plena populo: facta est quasi vidua domina gentium?_

Senza palpito e senza respiro veramente sembrava la Gerusalemme
dell'Adriatico.

                                   *
                                  * *

Dopo la rivoluzione e dopo il fulmineo cruento passaggio di Napoleone,
parve fatale e necessaria la reazione politica, che col trattato
del 1815 e con la Santa Alleanza, stese un'ombra mortifera su tutta
l'Europa.

Ma non poteva durar lungamente; e già dopo alcuni anni in Francia,
in Ispagna, nel Portogallo i legittimisti erano vinti; la Grecia e
il Belgio si rivendicavano a libertà, e contro la Santa Alleanza si
stringeva la lega occidentale tra l'Inghilterra, la Francia, la Spagna
e il Portogallo.

Anche in Italia il germe vitale non era spento. La coscienza
patriottica si andava lentamente formando, e sorde indignazioni
covavano in alcune anime generose, alle quali fu corona di grandezza il
martirio.

Il 24 dicembre 1821 sulla piazza di San Marco, dal poggiuolo del
palazzo dei Dogi, veniva letta una terribile sentenza ad alcuni
imputati di Carboneria, che stavano sovra un palco d'infamia, esposti
alla curiosità di una folla ammutolita.

Fra gli altri veniva commutata la pena di morte in venti anni di duro
carcere nello Spielberg a Villa, Bacchiega, Fortini, Oroboni, Munari
e Foresti — sante figure di martiri, che vediamo passare per mezzo
alle pagine di quel libro, in cui il dolore ha accenti di semplicità
sublime, le _Prigioni_ del Pellico.

Dopo il processo dei Carbonari, s'addensò più cupa la maledetta tenebra
della tirannide, e sembrò che Venezia di quella silente e paurosa
servitù non sentisse vergogna.

    I re che ha sul collo son quei che mertò,

si sarebbe potuto dir col poeta.

I veneziani rassegnati o gaudenti senza odio verso il dispotismo, senza
amore per la libertà, traevano i giorni inutili e oziosi nei caffè,
tra le chiacchiere, nei teatri. Venezia era divenuta la città della
musica e della danza. Bellini e Verdi, la Ungher e la Grisi, la Essler
e la Taglioni occupavano gli animi di quella gente immemore, assidua
consigliatrice di tranquillo vivere.

Silvio Pellico, che a questo tempo si trovava a Venezia, scriveva:

«Qui mi annoio. I veneziani sono troppo chiacchierini; la loro vita di
piazza e di caffè è molto scioperata; non pensano, non sentono. Io erro
le intere giornate nelle gallerie di quadri, nelle chiese, nei palazzi
crollanti, dappertutto mi colpisce lo spettacolo della passata forza
e ricchezza veneziana e della presente miseria. Come mai non vedo in
ciascun volto il dignitoso sentimento del dolore? Ad ogni sghignazzare
pantalonesco io fremo.»

La sventura incodardisce le anime deboli. Con onorificenze e pensioni
erano ricompensate le servili umiliazioni al monarca austriaco: e le
famiglie patrizie decadute — servitù decorata! — strisciando inchini
pitoccavano sussidî.

Movimento di pensieri e di studî, andava, è vero, timidamente
manifestandosi, ma fuori della vita reale. Il Carrer, il Betteloni,
il Capparozzo, il Cabianca erano gentili poeti. Il Romanin, il
Cappelletti, il Cicogna ricercavano e studiavano i vecchi documenti —
ritorno non del tutto infruttuoso alla civile sapienza repubblicana.
Non erano spenti il brio grazioso e la vivacità acuta, che aveano dato
gli ultimi guizzi nelle conversazioni di Giustina Renier Michiel morta
nel '32 e di Isabella Teotochi Albrizzi morta nel '36. E a quando
a quando scoppiava la poesia di Pietro Buratti caustica, personale,
locale, in cui abbondava la ciarla maligna dei vecchi poeti giocosi,
non mai il fremito cocente della satira politica.

La coscienza era vuota d'ogni alto volere, d'ogni intento patriottico,
e anche la letteratura, sbiadita e muliebre letteratura da strenne,
s'abbandonava a un tenerume, cui davasi il nome di sentimentalità.

La poesia o era lagrimosa ed elegiaca, nuova Arcadia al lume di luna
con le castellane e i menestrelli, in luogo delle dee e dei numi
dell'olimpo, o finiva nelle canzonette per chitarra, nelle strofette
fluenti di quel dialetto molle e carezzevole, che la Signora di Staēl
si meravigliava fosse parlato da coloro che resistettero alla lega di
Cambray.

E nel sereno armonioso delle notti veneziane, dalla gondola solinga,
s'alzava il canto del Lamberti:

    La biondina in gondoleta
      L'altra sera go menà,
      Dal piacer la povareta,
      La s'a in bota indormenzà.
    La dormiva su sto brazzo,
      Mi ogni tanto la svegiava,
      Ma la barca che ninava,
      La tornava a indormenzar.

Nell'umido alito profumato della muta laguna l'amore persuadeva le
anime effemminate ai morbidi sonni.

A un tratto un grido di rivolta rompe il letargo dei giacenti.

Nel '44 tre ufficiali veneziani della marina austriaca, i fratelli
Bandiera e Domenico Moro, disertavano, e il loro eroico disegno
d'insurrezione era spento, nel vallon di Rovito, dal piombo borbonico,
che troncava su quelle giovani labbra il grido: Viva l'Italia!

Dopo tre anni, il pontificato di Pio IX annunziava la giustizia e la
pace. La religione benediceva alla patria, gravata sotto la pressura
straniera, e Cristo ridiveniva la speranza degli oppressi.

Dovunque aspettazioni inquiete, palpiti indefiniti, indistinti presagi,
un desiderio insomma di rivivere. Le questioni economiche e giuridiche,
le discussioni scientifiche, le nuove vie ferrate, le riforme edilizie
davano modo ai patriotti di avvicinarsi, d'intendersi, di concitare
l'animo ad un solo, altissimo intento: rialzare le energie e ritemprare
i caratteri, aspettando che gli eventi sorgessero propizi. Anche le
lettere e le arti, ravvivate dalle fiamme del Mazzini, del Berchet, del
Guerrazzi, incominciavano, ad acuire la spada, che doveva affrancare la
patria.

Quando, il 13 settembre del '47 s'apriva a Venezia il Congresso dei
dotti, il nome del novello Pontefice era salutato con un fremito di
gratitudine e di speranza, con clamori d'entusiasmo.

Nell'ora novissima Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, che ad incarnare
il pensiero patrio tentavano tutte le vie e tutte le forme, con
gli scritti e con la parola arditamente chiedevano agli oppressori
il risarcimento del diritto troppe volte violato. I due generosi
cittadini, rammentando all'Austria le non mai adempite promesse, erano
affratellati da un solo ardentissimo affetto, uniti in uno stesso
pensiero.

Eppure quanta diversità d'indole fra essi!

Daniele Manin, austero di coscienza come di vita, animo incapace d'odi,
ma sensibilissimo agli affetti, aveva mente lucida e comprensiva.
Conoscitore profondo degli uomini e delle cose, energico e prudente,
riflessivo ed entusiasta, umano e giusto, le più disparate doti
trovavano in lui un mirabile contemperamento. Il Tommaseo se imponeva
come il Manin il rispetto, non si conciliava come l'amico suo la
simpatia. C'era del crudo e dell'eccessivo in quella sua ispida
modestia, in quella sua ritrosia diffidente e scontrosa. Egli stesso
si dichiarava non d'altro ambizioso che di solitudine, cupido che di
povertà, superbo che di voler nulla potere. Ma in entrambi uguali la
probità, la lealtà, il disinteresse, il sacrifizio di sè stessi alla
patria.

Crescevano insieme con le ire degli oppressi, le vendette del
dispotismo. Il Manin e il Tommaseo furono tratti in carcere; ma la
ingiusta prigionia, inaspriva non domava il popolo, nelle cui vene
fluiva nuovo sangue.

I fati eran pieni, e la rampogna dei forti era finalmente udita
dall'orecchio dei neghittosi. Gli uomini insensibili e inerti si
mutavano a un tratto in una gente fervida, animosa, concorde. Uomini
donne, vecchi e fanciulli s'infervoravano nell'odio alla mala signoria.
Non c'era più casa in cui si ricevessero austriaci; molte signore
vestivano a lutto, gli uomini portavano cappelli alla Ernani come
segno di riconoscimento, e si astenevano dal fumare per non pagare allo
straniero una tassa involontaria, mentre la umile musa popolare cantava
scriveva su pei canti:

    Chi fuma per la via
    Xe un tedesco o xe una spia.

La rivoluzione era nell'aria e si sentiva nei nervi; si leggeva in
tutti i volti l'odio allo straniero. Dalle vicine città giungevano
notizie di risse sanguinose tra cittadini e soldati. Per quietare a
suo modo le agitazioni, l'i. e r. governo annunziava ai sudditi che
Sua Maestà s'era degnata (la parola è testuale) di mettere le province
italiane sotto l'imperio della spada.

Ma gli avvenimenti doveano svolgersi nella loro solenne pienezza.

La Francia s'ordina a forma democratica; sulle vie di Berlino sorgono
le barricate; a Vienna dirompe l'ira popolare e vince; e alcuni
principi, o per amore o per paura, temperano gli ordini dello stato.

In particolar modo la sommossa di Vienna cresce baldanza alle
dimostrazioni patriottiche e a determinare i propositi più risoluti.

Il popolo veneziano che vuol rivendicare patria, esistenza, libertà,
come una larga onda furiosa corre alle carceri, ne rompe le sbarre,
libera il Manin e il Tommaseo e li porta in trionfo.

Sulle antenne della Piazza s'inalza la bandiera dei tre colori, e come
a promessa di vita novella tutti le si stringono intorno; i nobili
quasi sentissero più solenne l'orgoglio della gloria vetusta, il
ceto mezzano che alla patria dava affidamento di un felice presente e
segnava le vie per l'avvenire, il popolo che obliava gli antichi e i
recenti servaggi brandendo le armi nel nome della libertà.

E i raggi del sole, riflettendosi sulle ampie vetrate di San Marco, si
spargevano intorno come un'aureola gloriosa; e il palazzo dogale pareva
irradiarsi di quella luce, che dovea risplendere un istante sulla
meravigliosa epifania italiana.

Donde venne, mi ridomando, a quel fiacco popolo veneziano l'audacia
della ribellione?

Chi avrebbe potuto sospettare che nel silenzio della laguna si celasse
tanta gagliardia?

Gli è, signori, che nelle rivoluzioni del popolo come nelle
manifestazioni del genio, vi sono forme ed aspetti diversi. Come
v'è la mente che svolge ciò che altri prepararono e v'è il genio che
appare solitario e improvviso, così v'è la insurrezione apparecchiata
con ordinamento preconcetto e voluto, e v'è la ribellione repentina e
impulsiva, che nulla continua, che rifà tutto.

Sono queste, di solito, le rivoluzioni dei popoli miti, tanto più
terribili quanto più lunga e pecorile fu la pazienza; come più tremenda
scoppia a un dato momento la collera nelle indoli tranquille, riposate,
serene, che nelle nature per abito risentite, violenti, subitanee.

Sono queste le rivoluzioni che, anche se vinte e domate, preparano e
maturano l'avvenire e rigenerano i popoli neghittosi, togliendoli a una
torpida pace. Così il navigante fra le bonacce insidiose dell'Oceano
invoca qualche volta la bufera che potrà sospingerlo ad un porto.

La palude morta avea infuso nelle vene di Venezia la febbre violenta
della libertà, e al popolo insorto i dominatori sgomenti non seppero
rifiutare la istituzione della milizia cittadina.

Era la fiamma antica che riaccendeva il popolo di Lepanto e di Candia?
O il soffio del disinganno non avrebbe tardato a sterilire le vive
speranze? A chi manifestava il dubbio che il popolo veneziano fosse
incapace d'ogni nuova grandezza, il Manin rispondeva:

— Voi no 'l conoscete: io lo conosco; è il mio solo merito:
vedrete. —

Ne s'ingannò.

II Manin diede impulso e direzione al movimento disordinato dapprima,
come in tutte le insurrezioni.

Contrastare alle rivolte di popolo è temerario e vano, ma ad un'anima
gagliarda spetta di solito provvedere, affinchè procedano ordinate ed
utili e non sieno macchiate da delitti e da vergogne.

Anche gl'inizi della veneta rivolta furono contaminati da un delitto,
ma le passioni popolari trascorrenti agli eccessi, furono subito
contenute e frenate da un uomo, che avea tutte le doti per reggere
onestamente ed utilmente il potere.

Il mattino del 22 marzo giunge a casa del Manin la notizia che
gli operai dell'Arsenale avevano ucciso un colonnello ai servigi
dell'Austria, detestato per l'acerbità dei modi e per la eccessiva
durezza.

L'energia del concepire era nel Manin vinta dalla speditezza
dell'esecuzione. Nel politico lampeggiava l'eroe.

S'alza egli impetuoso, e rivolto a suo figlio Giorgio quasi fanciullo:

— Vieni con me all'Arsenale — gli dice.

— A farvi ammazzare — ribatte inquieta la moglie.

— Anche, se occorresse — risponde freddamente il Manin.

E senza indugio corre all'Arsenale, seguito dalle guardie civiche;
intima al contrammiraglio austriaco di rimettergli le chiavi, e al
rifiuto, traendosi l'orologio di tasca, dice con energica calma:

— Vi accordo sette minuti di tempo a consegnarmi quelle chiavi. —

Il contrammiraglio cede, e l'Arsenale, potente arnese di guerra, dove
si custodivano armi e munizioni in gran copia, e dove l'Austria avea
tutto disposto e ordinato per bombardare la città, cade in potere del
Manin.

Mentre questo avvocato creatore di rivoluzioni usciva dall'Arsenale,
e con la spada sguainata salutava il gran leone scolpito sulla porta,
gridando _Viva San Marco_, i governatori austriaci cedevano i loro
poteri al Municipio.

Proclamata la Repubblica, il Manin fu eletto presidente. Il sogno
superbo diveniva realtà, e dalle acque tranquille della laguna saliva
la speranza, la visione, l'amore, il pensiero di poeti e di martiri, la
nobile, la bella, la grande Italia.

Le città venete erano poco dopo sgombrate dagli austriaci, che,
protetti dal terribile quadrilatero, chiuso dalle fortezze di
Verona, Mantova, Peschiera e Legnago, si ritirarono nella regione
compresa tra l'Adige e il Mincio, ove rimessi dalle prime sorprese
stettero aspettando l'esercito di Nugent, che adunavasi sull'Isonzo
e si apprestava ad invadere il Veneto. Italiani d'ogni parte della
sacra penisola correvano intanto alle lagune. Drappellando bandiere,
vestiti teatralmente, con divise dai colori sfoggiati, con cappelli
piumati ed elmi dalla lunga criniera, con molti uffiziali che il grado
eransi conferito da sè, inebriati da sonore ed enfatiche parole e dai
canti patriottici sciatti di forma, ma esuberanti di colorito, quei
volontari, senza disciplina militare, novissimi al combattere, si
mostravano pronti ad affrontare con slancio ardimentoso la morte.

Di memorabili prove di valore parlano i campi di Montebello, di Sorio,
di Solagna, i piani di Curtatone e Montanara, innaffiati dal più gentil
sangue toscano, i colli di Vicenza, gli spalti di Treviso e di Osoppo,
le Alpi cadorine, non meno valide a presidiare la patria delle giovani
milizie guidate dal Calvi.

Le armi levate a cacciar lo straniero si credeano veramente benedette
da Dio. In quei mattutini crepuscoli della redenzione nazionale,
l'amor della patria vampeggiante di purissimo fuoco s'accompagnava a
quel sentimento che fa divina l'anima così nelle grandi esultanze come
nei grandi dolori. Allora, in quell'Italia così diversa dall'Italia
presente, le due grandi forze, religione e patria, andavano unite, le
due grandi forze senza le quali è vano sperare che la patria nostra
ascenda a' suoi alti destini per le vie della sua ideal perfezione.
Allora, nella penombra dorata del bel San Marco, il popolo veneziano
accorreva a ringraziare e a pregar Iddio, dal quale solo viene il
supremo conforto della speranza. Il vecchio tempio repubblicano
significava in que' dì qualche cosa più che un simbolo religioso: esso
non rappresentava soltanto la fede, ma la patria, e non pure la patria,
ma la dignità di uomini liberi.

Un dì — il ricordo fiammeggiava a traverso l'ombra dei secoli morti
— i guerrieri francesi crocesegnati s'erano raccolti sotto le navate
della Basilica, _la plus belle que soit_, e Goffredo de Villehardouin,
eroe e storico della santa impresa, implorando pietà per Gerusalemme,
_faite esclave des Turcs_, chiedeva ai veneziani _de venger la honte de
Jésus-Christ_. E i crociati si inginocchiarono, e da più di diecimila
petti escì un grido di entusiasmo, e il doge Enrico Dandolo e i baroni
francesi giurarono sulle loro spade di combattere per il trionfo della
fede.

Dopo sei secoli lo stesso commovente spettacolo si rinnovava nella
Basilica d'oro. Aveano anch'essi, i volontari italiani destinati a
combattere gl'infedeli della libertà nelle pianure del Friuli, la
tunica segnata della croce vermiglia, s'erano anch'essi, i nuovi
crociati, raccolti in San Marco per veder benedette dal Patriarca le
loro armi e le loro bandiere, prima di lasciare Venezia. E ad essi,
il Tommaseo, apostolo e poeta della rivoluzione, rivolgeva il saluto
entusiastico: «Sia sereno il valor vostro e tranquillo come stromento
degno della imperturbata giustizia di Dio.»

Dio e la patria! E appaiono nella memoria sante figure di preti e di
frati, ora angeli di carità presso i feriti e i morenti, ora incitanti
alla pugna nel folto della mischia, ove più terribile minaccia la
morte, sulle mura dei fortilizî lacere per gli assalti.

Tutto in quella sacra primavera di libertà, risplende come tra un
baglior di leggenda. Così circonfusa da una luce vermiglia, che sembrò
annunziatrice del dì del trionfo, appare dapprima la figura di Carlo
Alberto.

Animo indeciso, che non trovava l'energia della risoluzione se non
nel cimentare la vita al fuoco delle battaglie, coscienza squisita ma
incompiuta, a lui si rivolgevano gl'italiani. L'amor della patria vinse
le esitanze, e il carbonaro del '20, il reazionario del '21, raccolse
gli sdegni e le speranze italiane.

    E un re, a la morte nel pallor del viso
                            Sacro e nel cuore
      Trasse la spada....

Palpitarono i cuori allora che quella spada scintillò al libero sole
d'Italia. Accorrevano in aiuto delle province venete e lombarde,
Durando coi pontifici, Guglielmo Pepe coi napoletani. E quando
quest'ultimo era richiamato da re Ferdinando, traditore e spergiuro,
Pepe negò obbedienza a quel re fraudolento. Tragittò, senza dimora, il
Po, e toccata la opposta sponda, mostrando l'altra ai pochi che con lui
aveano serbata fede alla patria, sclamò sdegnoso:

— Di qua l'onore, di là vergogna! —

E corse a Venezia, ove ebbe il comando supremo dell'esercito. Pareva in
sulle prime che sui campi di battaglia esultasse la vendetta italiana.
I volontari toscani due volte presso Mantova respingevano le sortite
nemiche: i piemontesi vincevano a Goito e a Pastrengo: Vicenza si
difendeva e ributtava gli assalti eroicamente: i lombardi ricacciavano
gli austriaci fino al Trentino. E molte delle province lombarde e
venete univano i propri destini a quelli del Piemonte.

Anche l'Assemblea di Venezia fu chiamata a decidere sulle sorti della
metropoli.

Il Manin, ripudiante da ogni aiuto di re, era fidente nelle sole forze
del popolo. Non era ancora in lui chiaro il concetto unitario, che alla
sua vigorosa mente balzò luminoso nella solitudine dell'esilio. Era
soprattutto veneziano, con l'anima tutta assorta nel bel sogno glorioso
della vecchia repubblica. Ma s'egli rifuggiva dall'omaggio cortigiano,
non sentiva ira di settario. Si mostrò irresoluto, e fu la sola volta
nel suo breve ma gagliardo governo.

Ma come giudicare con i criteri dell'oggi le idee d'allora? Chi,
anche fra le intuite idealità lontane, avrebbe mai potuto sognare un
istante, che dopo pochi anni sarebbe incominciata l'età dei prodigi,
e che un gran Re, bene innestato sull'arbore italico, raccolta la
infranta corona a Novara, avrebbe fatto passare incolumi, a traverso la
bufera della rivoluzione, le libere istituzioni; avrebbe fatto uscire
il magnanimo concetto del Mazzini dai recessi delle congiure ai campi
di battaglia, e con l'aiuto di un eroe popolare, la cui figura sembra
rapita al poema d'Omero, di un uomo di Stato, che sembra modellato
nella creta onde Tacito plasmò le sue figure immortali, avrebbe riunita
la penisola tutta da un estremo all'altro sotto una sola bandiera?

Non opponendosi all'unione col Piemonte, il Manin confessò di fare
un sacrifizio. Si mise il partito dell'annessione e fu vinto con voto
quasi universale. Il Manin rieletto ministro, rifiutò.

Gli austriaci intanto ridivenuti padroni di quasi tutto il Veneto,
s'erano accampati sui margini della laguna per costringere Venezia a
darsi per fame.

Pepe conduceva tratto tratto i suoi soldati al paragone delle armi con
gente usa alla guerra.

In tali combattimenti di lieve momento si addestravano le armi
inesperte dei volontari, quando giungevano infauste notizie.

Carlo Alberto, sconfitto a Custoza, abbandonava senza difesa Milano,
dove il Radetzky, il 6 agosto, rientrava con 30,000 uomini. Dopo tre
giorni si firmava l'armistizio Salasco, per cui l'esercito e l'armata
sarda abbandonavano al nemico anche Venezia.

Il popolo veneziano, guidato dal Sirtori e dal Mordini, scese allora
tumultuante sulla piazza, al grido di _Abbasso il governo regio_, e
ricorse al Manin, che parve ancora il genio custode della città.

A reggere il paese fu eletto un triumvirato dittatoriale: preside
il Manin, il colonnello Cavedalis per provvedere all'esercito, il
contrammiraglio Oraziani alla marina.

Il 27 ottobre 1848, con un impeto di prodezza eroica, le schiere
guidate dal generale Pepe, rompevano dal lato di terraferma il cerchio
di ferro serrato intorno alla sventurata città, e fugavano i nemici
in quel fatto d'armi che s'intitola la Sortita di Mestre. In quella
giornata Venezia aggiunse una solenne pagina di valore alla sua storia.

A Mestre si fecero oltre 500 prigionieri, si lasciarono sul campo
200 austriaci, si conquistarono 6 cannoni. Dei nostri 119 tra morti e
feriti, ma nessun prigioniero.

Cadde ferito a morte Alessandro Poerio napoletano, poeta e soldato, una
delle più nobili figure del risorgimento italiano. Gli amputarono una
gamba e fu trasportato a Venezia a continuare la sua angosciosa agonia.
Prima di spirare la grande anima, rivolto a coloro che il circondavano:

— Fine al pianto: celebrate i miei funerali con una vittoria sugli
austriaci — disse, e reclinato il capo si addormentò in quel sogno di
gloria.

La vittoria di Mestre fu veramente l'ultimo sogno di gloria per
Venezia. Intorno alla infelice città si strinse più fiera la cintura di
ferro e di fuoco.

Incominciava la penuria dei viveri: dileguava ogni speranza d'aiuto.
Dalla Francia vaghe promesse: dall'Inghilterra consigli di desistere.

Nel febbraio del '49 prendeva la direzione del blocco il maresciallo
Haynau, ferocissimo, che rinnovava a Venezia la leggendaria apostrofe
di Attila.

Il Manin in quei terribili giorni provvedeva a tutto con la prudenza
non mai scompagnata dall'energia, operava ratto e molteplice. Pensava
alla difesa, tutelava l'ordine interno; con lettere piene di senno
politico sollecitava l'aiuto delle nazioni amiche, e con la calda
parola, col coraggio personale, con la mite franchezza imperava sulle
intemperanze, sulle gelosie, sulle agitazioni.

Quella rivoluzione, non fu soltanto agitamento febbrile di popolo,
ma rivendicazione di sacri diritti, ordinata da uomini, che non
soltanto sapeano scrivere e parlare, ma dirigere onestamente e
virilmente le cose politiche. Così che se io considero i creatori e
i reggitori severi di sì forte governo, mi si presenta allo spirito
la significazione che r antichità diede alla statua scolpita in
Argo di Telesilla, poetessa, guerriera e salvatrice della patria.
La quale statua, a dimostrare che valgono più le cose delle parole,
rappresentavala con un elmo in mano, intenta a mirarlo con compiacenza;
e a' piedi alcuni volumi quasi negletti da lei, come piccola parte
della sua gloria.[1]

Quando il Piemonte rompeva di nuovo la guerra all'Austria, rifiorirono
ancora le speranze, presto troncate dalla sconfitta di Novara, che
parve il presagio della ruina di Venezia.

Il 2 aprile 1849, la veneta assemblea si riuniva nella sala del Maggior
Consiglio. Le figure colossali dei vecchi dogi e dei guerrieri della
Repubblica, dipinte sulle pareti, parevano pronte a trar la spada per
difenderla ancora.

I rappresentanti del popolo, sparsi a crocchi per la sala, parlavano a
voce concitata, sommessa, quando entrava Daniele Manin.

Ei procedeva non baldanzoso, ma sicuro; grave ma pacato. Un ardore
melanconico brillava negli occhi suoi fissi. La sua voce avea strane
virtù, che comunicavano alla sua eloquenza una commozione profonda.
Dopo aver detto della disfatta e dell'abdicazione di Carlo Alberto,
parlò così:

— L'Assemblea vuol resistere al nemico? —

Tutti acclamando s'alzarono in piedi.

— Ad ogni costo?

— Sì, ad ogni costo.

— Badate, io vi imporrò sacrifizi immensi — replicava il Manin.

— Li faremo — gridarono tutti. Dopo ciò si votava la seguente parte:

«L'Assemblea dei rappresentanti dello stato di Venezia, in nome di Dio
e del Popolo, unanimemente decreta: Venezia resisterà all'austriaco ad
ogni costo.»

L'onta di mezzo secolo prima, con cui un altro Manin aveva macchiata
Venezia, era veramente cancellata. Splendeva anco una volta glorioso
il retaggio de' secoli, e dagli antichi dipinti della sala del
Maggior Consiglio l'immensa moltitudine di valorosi pareva rispondesse
orgogliosa ai nuovi accenti d'inclito ardimento.

Anche il popolo parve inebriato d'epico orgoglio. I ricchi portarono
sull'altare della misera patria il loro oro: il popolo il suo obolo: le
donne i loro gioielli.

Frattanto volendo gli austriaci porre fine alla impresa, riassunsero
più gagliardamente le offese, e la squadra imperiale si portò nelle
acque di Venezia, chiudendo le vie del mare, mal protette dalla debole
e disordinata marineria veneta.

Dalla parte di terra si raccoglievano 30,000 uomini, che fecero
piombare la terribile grandine del ferro e del fuoco sul fortilizio di
Marghera, sentinella avanzata nella solitudine delle acque.

Venezia non era però preda esposta nè facile, e non le mancavano e
petti e braccia e ostinata virtù di resistere.

Pochi soldati d'ogni parte d'Italia, forti di una costanza che avrebbe
stupito in uomini per lunga disciplina esercitati nelle fatiche
militari, comandati da prodi ufficiali, quali Ulloa, Cosenz, Mezzacapo,
Sirtori, Rossaroll, Galateo, difesero Marghera per ventinove giorni
continui di trincea aperta, fino a che il più valido propugnacolo di
Venezia, ridotto ad un mucchio di rovine, grondanti sangue, fu dovuto
sgombrare. La difesa feroce si ritirò sul ponte della strada ferrata,
che unisce la città alla terraferma. Qui l'artiglieria continuò a
fulminare di fronte con incredibile celerità il nemico.

Mentre lo strenuissimo Cesare Rossaroll, l'Argante della laguna,
puntava i suoi cannoni, fu colpito da una granata. Sorretto fra le
braccia del generale Pepe, nella convulsione dell'agonia, con la
voce semispenta incitava i suoi a combattere senza posa per l'onore
d'Italia.

Ma ogni dì più non l'anima, la speranza scemava.

Dopo la defezione scellerata del re di Napoli, dopo gl'irresoluti
consigli del Granduca e le riluttanze del Papa, dopo Novara, dopo il
riacquisto di Milano e la mostruosa repressione, di Brescia, anche
Roma cadeva, e sulla misera Italia si stendeano nuovamente le ombre del
servaggio.

Separata dal mondo, ultima e sacra cittadella della indipendenza
italiana, resisteva ancora la città creduta la più mite, la più
tranquilla, la più molle di tutta la penisola, la città degli amori e
dei diletti.

L'amor della patria compie di siffatti prodigi!

Ma già a Venezia si faceva sentire acerba la penuria dei viveri,
quando, il 29 luglio, cominciava furiosissimo il fuoco contro la città.

Strisce di fuoco solcavano la notte serena: le palle fioccavano.

Il bombardamento continuò senza tregua.

Si dovettero estinguere quaranta incendi: luoghi sacri per religione
di memorie e per miracoli d'arte furono offesi. Gli abitanti di alcuni
quartieri dovettero cercar rifugio nelle contrade più lontane, verso
San Marco. Fra tanto scompiglio non un mormorio d'impazienza, non un
lamento, non una protesta iraconda, non una rissa, non un furto, non un
delitto. Ma in tutti una temperanza, una bontà, una nobiltà di pensieri
e di forme. Anzi, tra gli orrori della tragedia, scintillava alle
volte l'arguto sorriso della commedia goldoniana. Fra cento scelgo un
aneddoto.

Una notte le bombe cadevano frequenti nella contrada di San Felice.
Giovani vigorosi, vecchi infermi, donne semivestite, con bambini per la
mano ed in collo, fuggivano senza litigare, senza piangere, senza darsi
arie eroiche.

Una donna attempata correva trafelante sotto un enorme carico di
fagotti e di arredi. Una delle fuggiasche la apostrofò:

— _Ohe! comare, saveu che sè un bel tomo a cambiar de casa a sta
ora!_ —

Per donne e sotto un pieno bombardamento (osservava uno dei gagliardi
difensori di Venezia, il povero Fambri, che mi raccontò l'aneddoto) non
c'è male davvero; però che fra tutte le specie di valore il coraggio
allegro sia senza dubbio il più bello e il più utile.

Il calore della stagione s'era fatto intensissimo e un terribile morbo,
il cholèra, era penetrato a Venezia.

Ma nessuno parlava di resa, in nessuno scemava il coraggio.

E non era il coraggio del soldato, che muore tra le grida e
l'esaltazione delle battaglie, tra l'ebbrezza della polvere e il
fulgore degli acciari; ma il coraggio tranquillo, perseverante,
paziente, di lunghi giorni, di lunghi mesi, il coraggio di un popolo
che passava a traverso gli scoramenti silenziosi, le delusioni
profonde, la fame, la pestilenza, senza ormai la più lontana speranza
di aiuti, con la sicurezza di veder morire la patria e la libertà, con
la certezza che la fiera perduranza renderebbe più crudele il nemico,
più inumani i patti della resa, ma sorretto da un'idea alta, radiosa,
divina, la salvezza dell'onore italiano.

Quando la pietà comandava di por fine al sacrifizio del popolo, quando
la resistenza più oltre protratta non avrebbe messo capo che a sperpero
lacrimabile di sangue, Manin, convocata in piazza la guardia civica,
con parole piene di pianto chiese se tutti avevano ancora fiducia in
lui.

Tutti risposero — Sì, sì. — Tutti piangevano. La esistenza di Venezia
s'immedesimava ancora al palpito del cuore di Manin.

Poi, con voce fioca, il Dittatore soggiunse:

— Checchè arrivi, dite: quest'uomo si è ingannato; non dite mai:
quest'uomo ci ha ingannati. —

Tacque e sentì il mancar della vita del naufrago, vinto dall'onda
procellosa. Ritiratosi in palazzo, proruppe in pianto disperato e cadde
a terra svenuto....

La città era ridotta ai suoi termini estremi.

In un sol giorno i casi di cholèra salirono a 402; cadevano in città
circa mille proiettili al giorno, se si consideri che 23,000 ne caddero
dal 29 luglio al 22 agosto.

E Venezia, vuota di sangue e di denaro, avea fame.

Quando più non eravi nutrimento per un giorno solo, il Manin cedè alla
fortuna del nemico, e trasmise la podestà dittatoria al Municipio.
S'è trovata fra le carte del Manin questa nota, che esprime nella
sua brevità tutta la grande angoscia di quel momento: _Finito
contemporaneamente viveri, polvere, denaro, speranze._

Venezia moriva nelle sue verdi acque. Il canto del poeta le suonava
intorno:

      Venezia! l'ultima
    Ora è venuta;
    Illustre martire
    Tu sei perduta.
    Il morbo infuria,
    Il pan ci manca
    Sul ponte sventola
    Bandiera bianca.

Il sole che tramontava tra vapori di fuoco nella laguna muta, infondeva
nella bellezza di Venezia quella intensa melanconia, quella lacrimante
soavità che hanno le cose moribonde.

Il 24 agosto, il Municipio conchiuse con l'Austria la capitolazione.
Duri patti ai vinti: sottomissione assoluta; occupazione immediata
della città, degli edifici pubblici, delle armi, dei materiali;
uscita di tutti gli ufficiali e di tutti i soldati: quaranta cittadini
condannati all'esilio.

Dopo tre giorni il Manin e il Tommaseo con gli altri proscritti
lasciarono la città eroica che per diciassette mesi avea nella sua
anima raccolta tutta la maestà dell'anima latina.

                                   *
                                  * *

  Signori!

Sono passati giusto cinquant'anni da quel tragico giorno. Oggi con
la santa curiosità del passato interroghiamo quei tempi, che ahimè!
sembrano così lontani, quegli uomini ancora viventi o morti da ieri.

Furono troppo idealisti gli uomini e non maturi i tempi e perciò
inutili e folli i sacrifizî, e vano il sangue profuso?

Chi della vita ha un nobile ed alto e onesto concetto non deve pensare
così.

Rievocando nelle penombre crepuscolari di questa nostra età quelle
audacie magnanime, quale rampogna alla nuova Italia esce dai grandi
cuori dei padri che nulla chiedevano alla patria, e come santo
appare anche ciò che dagli uomini positivi si usa chiamar rettorica
quarantottesca!

Sì, rettorica quarantottesca, ma a questa rettorica s'infiammano i
difensori di Venezia, i combattenti delle giornate di Milano e di
Brescia; per essa gli stranieri ripassano le Alpi, con essa Garibaldi
approda a Marsala e l'Italia si unisce tutta al Re, che il popolo amava
e voleva.

Oggi ogni senso di patria poesia è distrutto dall'anarchia della
cupidigia e della cosa pubblica fatta bottega di vanità, e i rètori
eroici han dato luogo a un'altra specie di ignobili retori, quelli
della pratica utilità, abili ricercatori del successo materiale,
operosi di quel lavoro che converte l'anima in denaro.

Questa Italia che, secondo il concetto ideale del Mazzini, era
destinata ad armonizzar cielo e terra, ahimè! troppo guarda
agl'interessi terreni. _Respublica negotiosa_ come ai tempi della
decadenza romana. E l'assenza di virtù generose nella nostra
generazione, credono alcuni che in molta parte dipenda da ciò che la
libertà non abbia avuto una preparazione di sacrificio e di dolore.
Certamente le rivoluzioni che, come il cristianesimo, non hanno per
origine il martirio, non vincono e vincendo non si avvalorano nella
purezza del sentimento e nella santa efficacia della virtù. Ma non
è vero che siano mancati l'angoscioso patire e il sacrificio acerbo
a questa nostra patria. L'idea del nostro risorgimento balenò sulla
cima dei patiboli, sui campi di battaglia, sulle carceri, sugli esilî.
Da queste dure prove, da questi aspri dolori, sorge vivida ancora la
speranza nel futuro e nel genio occulto d'Italia.

L'Italia non può morire, nè può morir quella fede, che pur non
rivelando i misteri dell'avvenire, ne avvalora le speranze. La luce
dello spirito non ha occaso.

Signori! Sull'estrema vetta delle cose, vicino all'etere luminoso
e inaccessibile si fa udire con nuovi accenti l'assioma eterno
dell'ideale.

Ed è dappertutto diffuso uno spirito di vita, fatto di aspettazione
ansiosa che si rivela alle anime con una voce, la quale dice che non
basta solo pensare, ma sentire; non basta osservare soltanto, ma amare,
e che la civiltà per essere veramente perfetta deve essere illuminata
dalla luce e riscaldata dal fuoco purificatore dell'ideale.



VOLONTARI E REGOLARI ALLA PRIMA GUERRA DELL'INDIPENDENZA ITALIANA

CONFERENZA DI FORTUNATO MARAZZI


I.

ESORDIO.

Per isvolgere il tema, che mi fu esibito da questa chiarissima Società
di pubbliche letture, io ho dovuto consultare libri e riprendere studi
quasi messi da parte nell'affrettato viver dell'oggi.

Ma voi — toscani — avete una speciale ragione di illustrare il periodo
storico del 1846-49, perchè siete gli Ateniesi d'Italia, ed anche
allora insegnaste come la gentilezza del vivere, l'arte, gli studi,
mirabilmente si accoppiano alle armi, quando lo vuole la mente, quando
l'esige la Patria.

Seguendo dappresso la vita de' nostri padri, nell'immortale periodo
ora ricordato, si impara a comprenderli, ad amarli, anche nelle loro
utopie, anche nei loro traviamenti.

Dicesi che un felice errore di calcolo abbia indotto Cristoforo Colombo
ad affrontare il «_Mar tenebroso_», e così a scoprire l'America, e fu
per certo una moltitudine di sante illusioni, fu l'ingenua ignoranza
delle forze austriache, la fede, che intrecciava in un serto patria e
religione, che indusse a considerar conciliabili tendenze forzatamente
opposte, che spinse le genti italiane sui campi di Peschiera, di
Pastrengo, di Santa Lucia, del Cadore, di Vicenza, di Governolo, di
Curtatone, di Montanara, di Goito, di Custoza, di Milano, di Novara,
e che insieme le fuse — maravigliando, scuotendo l'egoismo degli
stranieri — nei memorabili assedi di Roma e di Venezia.


II.

ARMI E POLITICA.

Le istituzioni militari si adagiano sulle istituzioni politiche, ed
allorchè queste subitamente cambiano natura ed obbiettivi, quelle non
hanno l'elasticità necessaria per corrispondere alle nuove esigenze.

Questa ragione risponde da sè sola al perchè tutti gli eserciti
regolari dei vari stati d'Italia esistenti nel '48, non corrisposero
in modo perfetto alle nuovissime necessità della guerra, in un attimo
apparsa inevitabile.

Come nebulosa subitamente radiante, la massa popolare capì che dovevasi
fondare una Patria: in qual modo? per qual via? ciò era confuso.
L'armi, ovunque reclamate, a che tendevano? Alla sola cacciata dello
straniero? Alla sola difesa locale? A porre in freno i regnanti, e le
loro milizie assoldate?

L'Italia sarebbe stata federale, od unitaria? Nel consesso europeo
chi l'avrebbe rappresentata? Quali rapporti si sarebbero fra stato e
stato, fra il Piemonte, la Lombardia, ed il Veneto; fra queste regioni
e tutte le altre terre italiane? Nessuno soffermavasi a queste domande;
appariva l'armarsi un bisogno istintivo, e la guerra, che era nel
sangue, indicava la via per tutto risolvere.

Questa era la coscienza delle moltitudini ma la disparità fra statuto
e statuto, fra repubblica e monarchia, il contrasto fra gli intenti
segreti ed i palesi, dovevano fatalmente influire sulla condotta dei
singoli eserciti in guerra, e rendere dubbiosa l'azione del comando.

Guai se un generale è travolto nel gorgo di opposte correnti, se lo
tormentano tendenze, che si possono creder doveri inconciliabili,
proprio quando uno solo dovrebbe essere il suo pensiero: vincere!

In tali contingenze, la storia di tutti i popoli registra sempre una
disfatta.

Ove, nel '48 il più semplice concetto militare avesse potuto prevalere
sulla politica, noi avremmo avuto un solo esercito italiano, reclutato
per regioni di nascita, e distinto in tanti corpi quanti erano gli
Stati d'allora. Tale esercito sarebbesi dato un capo effettivo unico,
avrebbe seguito un piano concertato in tempo ed imposto a tutti i
comandanti: la sua prima linea sarebbesi costituita con tutti i soldati
regolari; i volontari, accorsi ai depositi de' reggimenti ed ivi
ordinati, ammaestrati, armati, avrebbero poi composto la seconda, da
inviarsi a suo tempo in rinforzo della primiera.

Si sarebbe così raccolto, verso i 10 di maggio un esercito razionale
di 100,000 soldati, riuniti nella più conveniente delle località, ed in
condizione di ricevere potenti rinforzi, contro il quale gli austriaci
non avrebbero potuto opporre che 44,000 uomini nel quadrilatero, e 14
o 15,000 nel Friuli.

In queste condizioni come non vincere?

Ma poichè all'unità d'Italia volevasi giungere per vie diverse e per
diversi fini politici, così noi vediamo gli eserciti di uno stesso
paese agire semplicemente come alleati momentanei, e non scevri
di mutui sospetti; vediamo, sotto uno scopo reso dalla sua stessa
grandiosità quasi romantico, agitarsi la politica minuscola degli
staterelli, de' potentati, in diffidenza fra di loro.

Mentre le _milizie regolari_ sembrano la rappresentanza del passato,
o per lo meno del principio conservatore, le _milizie volontarie_,
abbandonate al proprio impulso, si credono l'unica emanazione armata
del popolo e mirano all'avvenire, che per loro suona repubblica!

Ed a guisa di cuneo, fra questi due organismi, si sviluppa la Civica,
controaltare al primo, freno al secondo.

Così tre forze, che dovrebbero essere concomitanti diventano
divergenti, ed agli immani sacrifici d'energia e di sangue, non
corrispondono i risultati guerreschi.

Tempo è però che le forze in parola sieno rapidamente passate in
rassegna.


III.

FORZE DEL PIEMONTE.

L'esercito piemontese avrebbe dovuto avere in pace 53,000 soldati,
con 6000 cavalli, ed in guerra 170,000 soldati con 12,000 cavalli; ma
è noto come in ogni tempo la logismografia cartacea sia una cosa e la
realtà dei fatti un'altra.

Il suo reclutamento era regionale, le ferme sotto le armi brevissime,
e da queste due istituzioni era uscita una truppa ottima, e quale io mi
augurerei di dover comandare in guerra.

Le uniformi, e starei per dire, il pensiero de' soldati piemontesi
traluce mirabilmente da quelle quattro statue, che attorniano il
monumento di Carlo Alberto in Torino.

Erano uomini a forti tratti, di ferrea disciplina, devoti al re,
schiavi del dovere: un Napoleone li avrebbe condotti in colonne serrate
alla conquista d'Europa. Emergevano per la precisione de' movimenti:
già popolari erano i bersaglieri, famosa l'artiglieria, buona la
cavalleria, ed audace, ma non sempre adatta alle ricognizioni ed al
combattere nelle rotte campagne del Veronese.

La scienza concentravasi nelle armi dotte, la carriera degli ufficiali
era costretta nelle rigide parallele dell'anzianità, lo che distoglieva
i giovani dagli studî militari.

Era vanto ed orgoglio delle famiglie aristocratiche dedicare i figli
all'esercito, che era l'idolo del paese.

I capi esigevano, imponevano, quell'assoluta obbedienza che si piega
e non discute: quasi tutti avevano idee ultraconservatrici, e miravano
con sospetto i tempi nuovi.

La guerra li trovò impreparati alle grandi concezioni, ad avvalersi di
molte truppe e dei Corpi di volontari.

Faceva difetto il servizio logistico, l'arte cioè di far muovere tutto
l'esercito, di mantenerlo in buon assetto, di nutrirlo, di condurlo
in favorevoli condizioni fisiche e morali sul campo della lotta. I
grossi appalti coi fornitori fecero pessima prova: alla vigilia del
combattimento di Goito una divisione non mangiò, ai primi rovesci gli
impiegati delle sussistenze disertarono.

I piani di guerra non potevano, per quanto abbiam detto, erompere dalla
mente dei generali, e maturavano con lentezza, più per imposizione
degli eventi, che per volontà del comando. — Ciò spiega perchè nel
Quadrilatero si ebbero tante battaglie sanguinose e nessuna decisiva,
essendo solo attributo de' grandi capitani riconoscere il nemico con
numerose scaramuccie ed annientarlo in pochi urti risolutivi.

In complesso, nel magnifico esercito piemontese del 1848-49, si
riscontrano quelle virtù guerresche che rendono i battaglioni caparbi
nel volere, resistenti alla sventura, tetragoni sotto le raffiche della
mitraglia: ma in esso non iscocca quella scintilla del genio avida di
iniziativa, di responsabilità personale, che attraverso alle tempeste
di sangue crea non solo gli eroi, ma altresì i vincitori.

Comunque, esso fu il più possente argomento dell'indipendenza italiana,
e noi alla sua memoria ci inchiniamo riverenti; se ebbe difetti, questi
più che essere intrinseci furono attribuibili ai tempi, all'indirizzo
educativo, alla secolare politica piemontese, per cui fu credenza che
in qualsiasi evento l'esercito avrebbe combattuto al fianco di un altro
più numeroso e più forte, ed al quale sarebbe naturalmente spettata la
condotta strategica della guerra.


IV.

FORZE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.

Quanto faceva difetto nelle sfere del comando delle truppe piemontesi
non sarebbe forse stato impossibile ritrovarlo nell'esercito
napoletano, se, pari all'ingegno, alla spigliatezza naturale, fossero
state in esso tutte le altre virtù militari.

La parte migliore dell'esercito napoletano (che per numero avrebbe
dovuto essere il più ragguardevole della Penisola) era costituita
dagli ufficiali uscenti dalla Scuola dell'Annunziatella. Ivi in un col
sapere vi avevano assorbite le idee liberali, in contrasto colle idee
egoistiche e ristrette del Principe.

La truppa usciva in gran parte da famiglie facenti un sol tutto
coll'esercito, abituate ai favori, ai sussidi governativi: vivevano
tali famiglie appartate dalla nazione, e solitamente in locali prossimi
alle caserme.

I soldati erano adunque come accampati in mezzo ad una popolazione
buona, ma facilmente infiammabile, erano ligi al padrone, ed
insolenti coi liberali. Il Principe se ne serviva, ma tenevali in poca
considerazione, e prediligeva i quattro reggimenti svizzeri, assoldati
a guisa di pretoriani.

Malgrado tutto ciò, è fuor di dubbio che le forze stanziali del
napoletano avrebbero potuto esercitare un'influenza decisiva sui campi
del Lombardo-Veneto: nella marcia attraverso l'Italia si comportarono
bene, ed i capi, valorosi ed intelligenti, le avrebbero ben presto
agguerrite ove gli eventi si fossero svolti a seconda.

Le reclute del mezzogiorno assorbono con facilità l'ambiente che
le circonda, son facili all'entusiasmo, e noi dobbiamo certamente
concludere che più funesto dell'enciclica papale fu, per la causa
italiana, il richiamo nel Regno di Napoli delle truppe del generale
Pepe, sebbene una cosa sia stata conseguenza dell'altra.

La nobile condotta del Pepe e di moltissimi ufficiali suoi, la bella
difesa di Venezia, rafforzano a tal riguardo i nostri convincimenti.


V.

FORZE DELLO STATO ROMANO.

Gli Stati della Chiesa avevano una forza militare di 17,000 uomini, di
cui ¾ indigeni (così almeno si chiamavano) ed il resto svizzeri.

Era una truppa screditata più che non lo meritasse: buoni i reggimenti
svizzeri, privilegiati di paga e di vestimenta, buoni alcuni ufficiali
provenienti da eserciti forestieri.

Il contrasto fra preti e guerrieri faceva sì che dir _soldato del papa_
suonasse ingiuria, e che alcune circostanze tipiche contribuissero a
menomare il prestigio dell'esercito pontificio.

Qual concetto potevasi, ad esempio, avere di certe batterie di cannoni
entranti in Bologna ricche più di trombettieri che di artiglieri,
quasichè non le mura di Verona, ma quelle di Gerico, si fosser dovute
espugnare?

Come aver fiducia in colonnelli che preferivano e vollero il fucile a
pietra focaia, anzichè quello a percussione, con tante difficoltà fatto
arrivare dalla Francia?

Le forze romane furono ripartite in due schiere divisioni. Il generale
Durando avoca le truppe regolari, il Ferrari le volontarie: così
perpetuavasi l'errore di non fondere insieme elementi dei quali l'uno
avrebbe servito di correttivo all'altro.

Il Durando ed il Ferrari avevano buone qualità come soldati, ma questi,
sottoposto a quello, mal ne soffriva la dipendenza; e la politica,
che già impediva un razionale ordinamento disciplinare, non tardò a
perturbare ogni concetto di tattica e di strategia.


VI.

FORZE DELLA TOSCANA E DEGLI STATI MINORI.

Usa a blando governo, la Toscana sino dal 1790 scioglieva il proprio
esercito.

Parve in Firenze che il sapere, le lettere, l'opulenza, i commerci,
bastassero alla sicurezza dello Stato, e che, avuta una gendarmeria,
ogni altra forza armata fosse superflua.

Sì; fu l'Austria (oh degli eventi antiveder bugiardo!) che impose
alla Casa di Lorena di tenere 6000 ausiliari, perchè non fosse turbato
l'equilibrio italico.

L'Austria mirava con ciò a costituirsi una specie di avanguardia nella
Penisola, avanguardia che la Toscana seppe ridurre a 4000 nomini,
tratti da clementi spuri e dal discolato.

Avevansi armi a pietra focaia ed a percussione. Eppure, da così misera
matrice, il soffio d'una potente idealità trasse parte di quei soldati,
che dovevano nobilmente morire per la patria.

Ai primi sintomi della guerra, mentre il Granduca vi scorgeva una
buona occasione per arrotondare i suoi domini a spese del Parmigiano e
del Modenese, ed adunava a tale intento le sue truppe, nella gioventù
toscana facevasi manifesta la necessità di ricorrere alle armi, per uno
scopo ben più vasto e più degno.

Da ciò la costituzione di quei battaglioni volontari che immortalarono
i campi di Curtatone e Montanara, malgrado tutte le moine fatte dal
Governo per indurre i giovani a più miti consigli, e a non abbandonare
gli studi e le comodità della vita cittadina.

Il primo duce delle schiere toscane fu il generale D'Arco Ferrari,
opportunamente sostituito in seguito dal De Laugier. Sul principio
del '48 l'esercito Estense, era in ragione dei tempi e dell'ampiezza
del modenese, molto forte: componevasi di 2400 uomini, soldati di
professione, privilegiati e sostegno principale del Duca.

Cambiato governo, sciolto l'esercito, il modenese inviò un battaglione
di volontari sul Po, sotto il comando del maggior Ludovico Fontana, che
si diportò assai bene a Governolo.

Da Parma e Piacenza partì un battaglione di circa 1000 uomini,
comandato da Francesco Pettinati, che in unione all'esercito piemontese
combattè con molta lode verso Verona.


VII.

LA GUARDIA CIVICA.

La guardia civica, portato dell'epoca, rispondeva all'eco lontana della
rivoluzione francese: parea in essa rivivesse l'antico comune italiano
uso a sorgere in armi, coronando di guerrieri gli spalti cittadini, al
primo apparire dell'oste nemica.

Cosicchè gli statuti la reclamarono come il palladio delle libertà
cittadine, come un contrapposto delle truppe stanziali che, devote al
principe, poco affidavano in caso di meditati conflitti.

Ma il medio evo era passato, l'assetto abituale dei popoli non era
più la guerra, nè l'odio perenne pel vicino. Le battaglie non erano
più lotte fra città e città, ma fra nazione e nazione, ed una milizia
legata al patrio focolare, usa alle lusinghe cittadine, non poteva
essere truppa da grossa guerra.

Ne di ciò fu tardo ad avvedersi il popolo, che nelle satire lepide e
pungenti, nelle umoristiche illustrazioni dell'epoca, lasciò traccia
del suo pensiero e della sua limitata fiducia nella guardia civica: gli
stessi poeti ne trassero argomento di facezie rimate.

Vi furono episodi onorevolissimi e pugne nelle quali la Civica lasciò
bella fama, ma nel complesso mancò la proporzione tra l'enorme suo
sviluppo ed 1 risultati che se ne ottennero, e sarebbe stato ottimo
provvedimento concentrare le armi ed il denaro, per essa prodigato,
nelle schiere realmente combattenti e di prima linea.


VIII.

I VOLONTARI.

Il volontariato personifica il movimento civico-guerresco del 48-49.

In esso si rispecchiano tutte le idee dell'epoca, tutta la poesia
popolare: in esso si concentrano ed armonizzano le più disparate
esigenze. Si giunge così ad una istituzione militare, che risponde
perfettamente al novo ambiente politico, ma che è manchevole di quelle
doti che formano il soldato delle battaglie formali e di pianura. Se
si fossero fuse le schiere _volontarie_ colle _regolari_, sarebbesi
ottenuto quanto occorreva nel '48.

Il volontario di quel tempo ha una fiducia illimitata nella bontà
della propria causa, nella potenza de' suoi mezzi, ne' suoi principi
infallibili, ed ai quali non intende minimamente di rinunziare.

E poichè le masse uniformemente pensanti si fanno colle oneste
transazioni e non col puntiglio; poichè la desiderata fusione non
potevasi ottenere, invece di una sola schiera compatta si hanno le
_legioni_, i _corpi franchi_, le _guerriglie_, le _crociate_, le
_compagnie_, le _colonne mobili_, distinte per nomi, per tendenze
politiche e religiose, per regioni, per studi, per armi. Si vuole
persino che la foggia del vestire appalesi il movente di chi l'adotta:
i repubblicani, i federali, hanno cappelli a larghe falde, e pellegrine
a pieghe esuberanti; i più temperati imitano le uniformi delle truppe
regolari, i neo-guelfi hanno per segno esteriore la croce.

Vedete, — a riprova del nostro asserto primitivo — divisioni e
suddivisioni politiche che s'infiltrano e corrompono, anche nei più
minuti particolari, l'unità semplice e precisa del concetto militare?

Caratteristica dei Corpi volontari, di questa improvvisazione di
guerra, è la sproporzione fra la grandezza del fine e la povertà del
mezzo.

Ritornavamo ai tempi di Pier l'Eremita e di Giovanna d'Arco! Non
solo i giovani lasciavan la casa nativa, ma quanti uomini, avessero
o no famiglia, e sentissero nel cuore la patria. Si accorreva al
campo uscendo dal teatro, dopo un festino, in seguito ad un convegno
galante, e senza previdenza alcuna; uno stocco, un ferro arrugginito
sembrava arma più che bastevole per la guerra santa, voluta da Dio....
E d'altronde dov'è lo straniero? Esso fugge.... deve fuggire ovunque!
Ogni scontro è naturalmente una vittoria italiana, tuoni il cannone di
Mantova e noi risponderemo: «viva Pio IX!» Questo era il '48.

I sacerdoti si addestrano all'armi sugli spianati, gli studenti formano
i battaglioni, i maestri si fan condottieri, le gentildonne arruolano
armati.

Ovunque è fanatismo e delirio, rullo di tamburo e squillo di campane;
ovunque è una massa proteiforme di colori, di forze, d'intenti, di
voleri; ma se dal tutto erompe il carme della _indipendenza_, manca
il preciso concetto dell'_unità_ manca il genio pensoso, che impugni
una bandiera, che, piuma al vento, trascini la moltitudine serrata,
estasiata, volente, sui campi della morte e della vittoria.... No, —
erriamo — quel genio poteva essere Carlo Alberto: gli eventi non lo
consentirono.

Per la maggior parte de' volontari battersi voleva dire appostarsi
ad un albero e far fuoco contro i croati, necessariamente obbligati
a porsi in salvo: essi accorrendo alla guerra si eran votati più
all'immediato sacrificio della vita, che ai disagi di una lunga
campagna: volevano esser soldati, ma disconoscevano la disciplina, le
afe della pianura veneta, le inerzie forzate del campo li sfibravano
e ne inasprivano il carattere. Ognuno di essi ha un piano proprio,
infallibile, per debellare Verona, per salvare Treviso e Vicenza, per
sorprendere Radetzky, e gridano contro il proprio generale che nulla
sa, nulla comprende di così semplici concetti.

Le truppe volontarie riescono quindi truppe di slancio, non di
resistenza; una mente superiore avrebbe a loro assegnato i più colti
ed arditi ufficiali, i migliori sergenti e caporali, invece furono
abbandonati a loro stessi miseramente od a capi molte volte strambi,
inetti, millantatori, e fu ancora ventura emergessero, fra tante
ragioni di sfacimento, splendide individualità, quali un Calvi ed un
Manara.


IX.

IL NEMICO.

Verso i 15 di marzo '48, erano in Italia 70,000 soldati dell'impero
divisi in due corpi d'armata, il primo col comando a Milano, il secondo
a Padova.

Duce di questo esercito solido, ma disseminato nelle varie città del
Lombardo-Veneto, oltre il Po e sulla frontiera del Ticino, era il
Radetzky, maresciallo energico, buon comandante di truppe, feroce
repressore di rivolte popolari. Aveva 81 anni.

Un terzo de' soldati imperiali erano italiani, e 20,000 di questi, cioè
quasi tutti, si allontanarono a tempo opportuno dalle insegne imperiali
in un con 200 ufficiali de' nostri.

Era questa una massa organica di veri soldati, che avrebbe potuto
inquadrare le nuove reclute nazionali; necessitava perciò rapidità e
mano di ferro, invece le continue incertezze, sia de' governi locali,
sia della repubblica veneta, mutarono quella forza in elemento di
disordine, che fu mestieri sopprimere, sciogliendo d'ogni obbligo
militare gli Italiani, già soldati dell'Austria.

I generali austriaci non avevano una esatta idea della tempesta che
sorda ruggiva. Il moto popolare era già iniziato in tutte le città
italiane, ed essi credevano d'essere ai giorni in cui Silvio Pellico
passeggiava per le vie di Milano, credevano cioè che non fossero se
non pochi congiurati delle classi alte, che tramassero a' danni di
Casa d'Austria. Le forche, e le mude dello Spielberg, avevano invece
compiuta la loro silente propaganda nell'intelletto delle moltitudini.


X.

LE CINQUE GIORNATE DI MILANO.

Nei primi mesi del '48 l'urto fra Milanesi ed Austriaci era latente.

La guerra al lotto, ai sigari, le zuffe che da ciò trassero pretesto,
dettero vampa agli spiriti, e separarono sempre più i cittadini
dall'elemento militare.

La rivoluzione di Vienna — 15 marzo — precipitò gli eventi, ed il 18
marzo fu il primo delle cinque gloriose giornate.

Il comando militare, pessimamente servito dalla polizia, immaginavasi
che la ribellione fosse appena concepita quando era già in armi; teneva
d'occhio certi presunti capi, e non si accorgeva che l'intesa fra
ribelli e ribelli era originata, senza bisogno di intermediari, dalla
comunanza degli intenti, e dall'odio verso lo straniero. La debolezza
del Governatore, il suo disaccordo col Maresciallo, l'eroismo del
popolo, fecero il resto.

L'insorgere di una grande città ha questo di speciale: per esser
terribile non ha bisogno di una complicata direzione centrale, basta
sia contemporaneo. Quando in un dato momento tutte le strade si
sbarrano, tutte le case si chiudono e dalle finestre, dai terrazzi, dai
tetti, precipita ogni oggetto che capita sotto le mani, una truppa o vi
rimane inerte e come prigioniera, od è costretta a ritirarsi.

Milano prestatasi egregiamente alla ribellione nelle circostanze del
'48, e colle armi da fuoco allora in uso. Fra un fucile da soldato ed
un fucile da caccia la differenza, in quanto a micidialità, era in quel
tempo infinitamente minore di quanto oggi non sia.

Le vie anguste e tortuose annullavano il vantaggio delle lunghe
gittate, ed una grandine di sassi e di tegole aveva lo stesso effetto
d'una salva di fucileria. Le artiglierie da campo erano pressochè
impotenti contro i muri delle case: la mitraglia non aveva campo per
istendersi a ventaglio.

I «bastioni» erti una diecina di metri sul piano della città si
riunivano al Castello, vasta e potente costruzione militare.

Interposto, fra i bastioni e la parte centrale della città, correva il
Naviglio, di guisa che per giungere dalla cinta al Duomo, al Broletto,
a Monte Napoleone ecc., occorreva attraversare i ponti, oltre i quali
le vie anguste e tortuose eran proprie ad energiche difese locali.

Radetzky, stabilito al Castello e padrone de' bastioni, era nella
situazione d'un assediante alla sua volta assediato dalle insorte
campagne. Per tenere in rispetto la città aveva 13,000 fanti, 1000
cavalieri, 30 cannoni, ed a mala pena Milano vi poteva opporre un
migliaio di fucili, la maggior parte da caccia. Basta l'accennare a
queste cifre, per capire come la lotta sarebbe stata impossibile senza
le sopra accennate circostanze.

In pochi giorni il popolo eresse 1651 barricate; così il centro della
città fu tosto separato dai bastioni, le caserme e gli edifizi pubblici
circuiti dagl'insorti.

Radetzky suppone che nel Broletto si annidi il Comitato dirigente
de' rivoltosi, e fa bersaglio ai cannoni il Broletto: opera vana, i
congiurati non sono in un punto, sono ovunque, e la rivolta agisce di
proprio impulso, senza direzione.

Le truppe come avanzare? Le barricate otturano tutte le vie, più se ne
atterrano e più ne risorgono; tutto un popolo furente fa arma d'ogni
oggetto, fa proiettili d'ogni materia. I rivoltosi cominciano ad
avvedersi che gli austriaci sono paralizzati, la loro fiducia cresce a
mille doppi, e dopo la bella resistenza ai _Voltoni di Porta Nuova_,
dovuta principalmente al gentile e valoroso Manara, tutti confidano
nella vittoria.

Parte degli austriaci era rimasta bloccata nelle caserme: il
maresciallo la chiamò al Castello colle relative famiglie e cogli
impiegati. Ciò ebbe l'aspetto di una ritirata, e rilevò le sorti della
rivoluzione, le cui forze cominciavano ad avere forme organiche e
capi effettivi, mentre un embrione di governo formavasi nel palazzo
Borromeo.

Una delle ragioni del richiamo delle truppe austriache dal centro della
città alla periferia si era il disegno di bombardarla, disegno sbollito
poi per molte considerazioni, e specie per l'esiguità dei mezzi.

Ormai il popolo di Milano, al quale il Conte Martini di Crema aveva
riportato le parole di Carlo Alberto, passa all'offensiva, attacca la
caserma del Genio, apre le porte ai soccorsi della provincia.

Così il maresciallo, malgrado i tenui soccorsi pervenutigli, si decide
alla ritirata oltre l'Adda. Tal ritirata, che somigliò ad una fuga,
sarebbe forse stata consigliata egualmente da altri eventi esteriori,
quali il sollevamento del Veneto ed i fatti di Vienna, ma essa fu resa
improrogabile, fu imposta dall'invitto popolo di Milano.

Le perdite de' milanesi salirono a 1000 uomini tra morti e feriti;
600 soldati perdettero gli imperiali, che nel frettoloso abbandono del
Castello dovettero rinunziare al trasporto d'armi, di munizioni, e a
parte del tesoro di guerra.


XI.

IL PRIMO ERRORE.

Ed ora dobbiam registrare gli errori nostri. Una città poteva per lo
passato, come Firenze ai tempi di Pier Capponi, come Palermo ai tempi
dei Vespri, come Genova ai tempi del Balilla, e può forse ancora al
presente, in particolarissimi casi, cacciare una truppa fuori delle
proprie mura, ma non può improvvisare gli arti necessari per compiere
coll'inseguimento la rotta del nemico.

A chi spettava questo cómpito? All'esercito piemontese! Perchè non
lo eseguì? Perchè si erano create diffidenze funeste, perchè oltre il
Ticino non si intuì la situazione, e non si poteva intuire: perchè la
politica interna, le elezioni, il cambiamento del ministero assorbivano
le menti.

Il 23 marzo Radetzky versava in critica situazione, fuggito da Milano
procedeva taciturno verso il Veneto in mezzo a soldati, ad impiegati
civili, a feriti stanchi ed esausti; nella sua ira impotente aveva
incendiato Melegnano. — Bergamo, Como, Brescia, Cremona insorgono.

Il 22 marzo Venezia proclamavasi indipendente; Udine, Treviso, tutto il
Veneto orientale comprese le fortezze di Osoppo e Palmanova ne seguono
l'esempio.

Per poco che s'attenda, anche Verona, anche Mantova si scuote, e la
rivoluzione avvolge nel suo turbinío il debole corpo austriaco. E
Carlo Alberto, che ciò prevedeva sino dal 20 marzo, voleva «volare» in
soccorso de' milanesi, proprio quando il nuovo ministro della guerra
chiedeva dieci giorni di tempo per completare gli armamenti.

Era effettuabile il desiderio del Re? Sì! Già dal 3 febbraio stavano
sotto le armi tutti i nati del 1825, 1826 e 1827 ed in parte quelli del
1823 e del 1824: 40,000 soldati erano così ai reggimenti e la forza di
una Divisione di guerra trovavasi in gran parte sul Ticino.

Un ardito capitano avrebbe subito compreso che per assicurare e
compiere la vittoria dei milanesi non bisognava rafforzare l'esercito,
ma muoverlo immediatamente: pochi battaglioni piemontesi congiunti ai
ribelli della Lombardia, ai soldati che avevano abbandonate le insegne
austriache potevano raggiungere e distruggere l'esercito di Radetzky,
il cui nucleo principale sino ai primi di aprile, condusse al di qua
del Mincio vita randagia e perigliosa.


XII.

SITUAZIONE DEGLI ESERCITI NELLA SECONDA QUINDICINA DI APRILE.

Fallita la possibilità di schiacciare l'esercito austriaco scarso di
combattenti ed in piena fuga, innanzi alle popolazioni italiane, noi
troviamo al 20 aprile le forze belligeranti così situate:

Nel quadrilatero sta Radetzky con 44,000 soldati: lungo il Mincio ed
il Po si stendono 68,000 italiani ai quali si possono immediatamente
aggiungere circa 12,000 volontari, ed avere con ciò in linea 80,000
uomini.

Gli austriaci sono nella situazione morale di un esercito battuto, sono
uniti all'Impero per la sola via dei monti, hanno viveri limitati,
a loro d'intorno stanno popolazioni ostili: gli italiani, forti per
numero e per buoni successi, vivono tuttora nel periodo dell'entusiasmo
e della fiducia.

Le forze alleate sono così disposte: 53,000 piemontesi, con pochi
volontari parmensi e napoletani e con 88 cannoni, fra Goito e
Peschiera: 7000 regolari e volontari toscani, con pochi napoletani, tra
Castellucchio, Curtatone e Montanara; 1100 modenesi a Governolo; 6500
pontifici regolari con 12 cannoni ad Ostiglia (generale Durando), 9000
a Bologna.

Dietro questa prima linea stanno 2 o 3000 volontari a Bergamo e a
Brescia, in tutte le città italiane si costituisce la Civica.

In Piemonte si completa l'esercito di prima linea, i quarti ed i quinti
battaglioni: verso Ancona 15,000 napoletani sono in marcia, ma su di
loro si può fare assegnamento soltanto dopo il 20 maggio. Tutte le
città del Veneto, dal bacino del Brenta a quello del Tagliamento, sono
ingombre di _crociati_, di _bande armate_, di _comitati di difesa_,
non aventi fra loro nesso veruno, ma che nel loro complesso non possono
non preoccupare il Nugent, generale austriaco, che dall'Isonzo mira a
congiungersi col Radetzky. Se quindi fosse bastata la forza del numero,
la sorte doveva sorridere all'Italia; sventuratamente mancavano ai
nostri ben altri fattori di vittoria.

Da ogni parte sorgeva chi voleva comandare: dai vecchi avanzi
napoleonici agli imberbi universitari tutti avevano il recipe per
vincere.

I primi successi, aventi del miracoloso, esaltavano le menti, nessuno
credeva possibile una riscossa del nemico, ferito nei suoi stessi
domini dalla rivoluzione, e quindi provvedevasi alla guerra, scontando
tra feste patriottiche le future vittorie.

I servizi amministrativi erano manchevoli e difettosi, le armi scarse
e di vario modello, pessima la impresa dei viveri, nulle le previdenze
in fatto d'ospedali, di rifornimenti ecc., ecc.

Bisognava scegliere fra battere il Radetzky nel quadrilatero ed il
Nugent, che dall'Isonzo muoveva verso l'Adige. Nel primo caso tutti gli
eserciti confederati nostri dovevano concentrarsi fra Goito e Peschiera
e poi puntare sopra Verona; nel secondo tutte le forze italiane
radunate fra Governolo e Ferrara avrebbero «girato il quadrilatero» e
fatto massa verso il Brenta.

In quest'ultima ipotesi Venezia e le marine confederate del Piemonte e
di Napoli avrebbero rifornito l'esercito nazionale, le fortezze venivan
così prese di rovescio, e Radetzky disgiunto dall'esercito di soccorso.

Come spiegare l'essere le forze italiane disseminate su tanta vastità
di territorio e la loro azione slegata, se non collo spettro d'una
politica obliqua che inquinava le operazioni militari? Re Carlo Alberto
era duce di nome e non di fatto, a Milano ed a Venezia si temeva
l'annessione al Piemonte e volevasi la Repubblica; ogni staterello
comprendeva la cacciata dell'Austria, come ora si comprende la cacciata
del Turco, e cioè all'intento di arrotondare i propri domini: ogni
esercito faceva quindi casa a se, non voleva abbandonare il legame
politico ed amministrativo colla propria regione, dalla quale riceveva
ordini diretti. Per far massa bisognava amalgamare i volontari
coi soldati di ferma, i capi rivoluzionari coi generali e questo
assolutamente non volevasi da nessuna parte.

Sono, come vedete, sempre le stesse cause, sempre le stesse ragioni,
che producono le stesse conseguenze che permettono a Radetzky di
raggiungere il quadrilatero, di soggiornarvi, e di risortirne poi
terribile castigatore delle colpe nostre.


XIII.

AZIONE OFFENSIVA DEL PIEMONTE.

Il Piemonte comprese ben presto che per attrarre a se le forze degli
alleati gli occorreva il prestigio di rapide vittorie, ma tutta la sua
azione militare, splendida nella parte esecutiva, è manchevole nel
concetto. L'avanguardia composta della brigata Bes doveva avere una
sola missione: riunire le forze sparse della Lombardia, raggiungere il
nemico in rotta, completarne la disfatta, ed in ogni evento informare
il grosso dell'esercito sulla situazione del nemico. Non si trattava
che di «_volare_.» secondo il felice intuito del magnanimo Carlo
Alberto, attraverso un paese amico: eppure al 1º aprile il Bes è ancora
a Brescia!

La prima idea strategica attribuita al generale Bava è questa:
_Prendere Mantova e poi Verona_, (4 aprile. Consiglio di guerra tenuto
a Cremona), ma passato il Mincio vien deciso di sorprendere anzitutto
Peschiera, ritenuta opportuna per far cadere Verona: se non che
l'impresa di Peschiera andando per le lunghe si ritorna al concetto
d'impossessarsi di Mantova, e, tal disegno sfumato, vien decisa una
grande azione contro Verona.

È pur troppo vero che a questi rapidi cambiamenti di scena
contribuiscono i clamori delle popolazioni, la politica estera, le
pretese de' vari stati, ma che ne nasce da questo? battaglie senza
scopi, sacrifizi senza ragione.

Gli scontri sotto Mantova (19 aprile), gloriosi per le truppe, non
hanno alcun risultato.

Il brillante assedio di Peschiera restò un episodio isolato, senza
importanza sulla condotta della guerra.

Pastrengo segnò una vittoria splendidissima, nella quale rifulse il
valore personale del Re, ma non fu completata e nulla decise.

La giornata di Santa Lucia (6 maggio) mise in mostra tutto il valore
soldatesco dell'esercito, i battaglioni furon visti marciare allineati
sotto il fuoco nutrito de' nemici militi, colonnelli, generali vi
versarono sangue a fiotti e perchè? Per uno scopo di ricognizione, con
un piano mutato e rimutato, di cui nessuno ebbe la paternità esclusiva,
e per riedere poi ai primitivi accampamenti, per rifocillarsi. Gli
impresari avevan l'obbligo di portare i viveri soltanto sino al Mincio!


XIV.

LA SCONFITTA DEL VENETO.

Se non che, mentre il martello piemontese batteva qua e là l'incudine
del quadrilatero, il Nugent attraversava il Veneto.

Questa regione, che mezzo secolo prima era stata il teatro delle gesta
fulminee di Napoleone, parve ripiombata nel medio evo! Venezia aveva
rialzato il vessillo di San Marco: ogni città, ogni comune pretese
farsi centro della difesa italica, sembrò ritornata in onore la guerra
di campanile. I crociati giuravano di morire sul recinto dell'avito
comune, il popolo chiamava i vescovi a benedire le barricate.

Fra errori, colpe e deliri rifulge isolata e magnifica la difesa
del Cadore, affidata dal Manin al capitano Calvi, e dove i montanari
nostri, imperterriti, con ogni possa si opposero all'invasione. Al
trinceamento di Chiapuzza colle forche, cogli spiedi, coi tridenti,
quei prodi combattono; le donne seguono in battaglia i mariti, i figli,
e vincono. Ad Ospitale la difesa è tenace, al _Passo della morte_
si ruzzolan giù pei dirupi massi di pietre, che pongono in fuga i
nemici, a Rucorvo, a Rivalgo (28 maggio) le resistenze son decisive e
fortunate. Dalle miniere di Auronzo si traeva il piombo, dalle cantine
il salnitro, da ogni ferro un'arma, da ogni essere un combattente.

Fa bene all'anima il ricordare questi fatti, che potrebbero
nell'avvenire ripetersi, e che ci danno un'idea di quanto possiamo
sperare dalle Alpi organizzate a difesa.

Ma il precipitar della valanga era nel '48 fatale. Le discordie e la
gelosia fra i generali _Durando_ e _Ferrari_ dell'esercito pontificio,
la nessuna unità di concetti fra questi, la legione francese del
generale Antonino, la brigata del Guidotti, che disperato corse
incontro a certa morte, le forze del generale Alberto La Marmora
(il quale ultimo agiva in nome del governo Veneto) fecero sì che la
difesa del Brenta, affidata a 18,000 uomini, (corpi franchi, guardie
civiche e volontari) non fosse, malgrado alcuni fatti isolati e di
positivo valore, che una serie di errori militari. Così l'esercito di
soccorso austriaco sotto il nuovo comandante Thurn (stante una malattia
sopravvenuta al Nugent) passato con facilità l'Isonzo, il Tagliamento,
la Piave, e sollecitato dal Radetzky, seguiva la sua marcia verso
Verona, ed il 22 maggio, a San Bonifazio, riunivasi alle forze del
Maresciallo.


XV.

LE SUCCESSIVE OFFESE AUSTRIACHE.

Ottenuta la congiunzione delle proprie forze, il Radetzky eseguisce,
a sua volta, quella _manovra per linee interne_ che avrebbero dovuta
eseguire ai suoi danni gl'italiani, se la loro condotta fosse stata
guidata da una mente unica e militare.

Egli è ora nella possibilità di appoggiar sempre le spalle alle mura
della turrita Verona, e con colpi vigorosi battere separatamente le tre
masse che lo contornano, e cioè i piemontesi, tra Peschiera e Goito;
i toscani sotto Mantova; i pontifici a Vicenza. È la lotta del cignale
che sbuca dalla tana contro i veltri che l'hanno scovato.

Il generale Thurn ha la missione di battere i romani riguardati come la
massa più debole: donde la prima battaglia di Vicenza (24 maggio) nella
quale il generale Durando obbliga alla ritirata 20,000 austriaci.

Fu questa una vittoria insperata, che le solite diffidenze politiche
resero sterile. Il Durando aveva il dovere di inseguire il nemico, e
di penetrare nel quadrilatero, per congiungersi o coi toscani, o coi
piemontesi, oppure, prendere il maresciallo Radetzky fra due fuochi.
Cedette invece alle pressioni municipali, anzichè al volere di Carlo
Alberto, e con ciò malamente provvide a se ed alla città che voleva
difendere.

Ed ora vien la volta dei Toscani. Il 27 maggio Radetzky delude la
vigilanza della cavalleria piemontese, e con 30,000 uomini, e 154
cannoni si dirige sopra Mantova, ove giunge il 28.

Seimila uomini, la maggior parte toscani, con uno squadrone di
cavalleria e 8 pezzi, difendono la linea dell'Osone fra Curtatone e
Montanara, località distanti fra di loro di circa mezz'ora di cammino.

Bastano queste cifre, e queste premesse, per comprendere che il
disastro da parte nostra era inevitabile. La ritirata imponevasi,
l'ordine per essa venne tardivo, quando venne non si volle eseguire, ed
a noi non resta che rendere omaggio a quei forti campioni, che caddero
sul campo di battaglia vinti dal numero, e dopo disperate difese. Di
essi, i più non avevano dell'armi fatta una professione, eransi dati
alla scienza ed all'arti geniali; moltissimi erano studenti, sorti
appena alla vita, e son morti per lasciare a noi una patria libera e
forte. Onoriamo l'altissimo valore! Se il loro sacrificio, nel momento
in cui fu consumato, apparve una fallanza militare, immenso risultò
il suo effetto morale: esso si ripercosse nel cuore della Toscana, e
cementò più che mai il concetto unitario.

Sbranata la facile preda, una sosta inopportuna del Radetzky a Mantova
permette ai piemontesi di riunire a Goito 19,000 uomini e 44 cannoni.
11 maresciallo austriaco muove all'assalto della linea piemontese, ed
è respinto con gravissime perdite! Era il momento dalla parte italiana
di completare colle riserve, ancora in buono stato, la vittoria, ma la
sorte che ci perseguitava non lo permise; permise invece al Radetzky
di attaccare per la seconda volta il Durando a Vicenza, di obbligarlo
a capitolare, e di aprire al saccheggio le porte della città.


XVI.

RITIRATA DE' PIEMONTESI.

Così, frantumate e disperse le truppe degli stati minori, sparpagliati
ai quattro venti i crociati, il maresciallo austriaco riesce a limitare
la lotta fra lui e Carlo Alberto, fra l'Impero Austriaco, ricco d'ogni
sorta di rifornimenti, ed il Piemonte stremato d'uomini e di pecunia.

Questo impari duello si risolve nell'infausta giornata di Custoza, ove
20,000 piemontesi sono sopraffatti da 54,000 austriaci, col sanguinoso
combattimento di Volta, colla disordinata ritirata dei nostri verso
l'Oglio, durante la quale soldati italiani nel paese più ricco ed
ubertoso d'Europa sono privi di rifornimenti e di viveri. Oh, i
meravigliosi contratti con le imprese!

Il Re, credendosi impegnato dall'onore, volle difendere Milano: fu
questo un errore militare, ma le considerazioni per l'avvenire e la
politica glielo imponevano. Militarmente era per certo indicato di
prendere la via del Po e quindi una posizione di fianco rispetto al
nemico invadente. Il Radetzky non era ancora così forte da avventurarsi
nel Piemonte, lasciandosi alle spalle la rivoluzione, non ancora
fiaccata. E poi la Francia avrebbe permesso che l'Austria diventasse
sua confinante?

Ma che poteva aspettare il cavalleresco Re di Sardegna dagli Stati
penisolani? Chi, dopo essere stato impassibile innanzi alle sue
primitive vittorie, lo avrebbe sorretto nella sventura?

Per più di tre mesi tra l'Arno e le Alpi erano rimasti in armi
ben 150,000 italiani e tra l'Isonzo ed il Mincio non più di 70,000
austriaci! Questo sia affermato innanzi alla storia, che terribile
giustiziera tolse poi la corona a tutti quei principi che le sventure
dell'impareggiabile Re di Sardegna, segretamente prepararono, e ne
risero.

Non era la ragione del numero che nel '48 avversava l'Italia, ma una
politica bieca, la quale impedendo agl'italiani di far massa contro
Radetzky permetteva a Radetzky di allontanare i _napoletani_ da
Bologna, di battere i _veneti_ tra l'Isonzo ed il Piave, i _toscani_ a
Curtatone, i _romani_ a Vicenza, i _piemontesi_ a Custoza, e di indurre
Carlo Alberto all'armistizio di Salasco.

Soffermiamoci: a che seguire il Re magnanimo sul mesto cammino di
Novara? La grande idea italiana emigrava con lui nel doloroso esiglio
di Oporto, ma composto il suo primo Eroe nell'avello, risorgeva, armata
ed invitta nel pensiero del figlio per attraversar vincitrice i campi
di San Martino.


XVII.

CONCLUSIONE.

Ed ora, dopo tanti anni trascorsi dalle vicende del '48, possiamo
tranquillamente ripensare all'artefice che ribadì le catene del nostro
servaggio, e dire che sulla tomba del maresciallo Radetzky non cresce
l'albero del nostro rancore.

Il maresciallo eccedette, ma servì il suo imperatore, e poichè i fati
d'Italia dovevano compiersi, egli stesso vi cooperò coi suoi rigori,
colle sue sudate vittorie. Se egli avesse perduto, il trionfo non ci
avrebbe ammaestrati come ci ammaestrò la sventura.

I tempi d'allora non eran maturi: occorreva che dai rivi di sangue
versato in comune sorgesse un comune pensiero, una idea capace di farne
tacere tante altre, cosicchè trascorso appena un decennio, dal _caos_
delle primitive illusioni, sortissero gli eventi del '59.

Non v'è pregio grande, ove non v'è grande sacrificio. Garibaldi
che abbandona le navi regie; ecco lo spirito sorvivente ancora nel
'48, Garibaldi che esclama: «Obbedisco» ecco il frutto d'una forte
esperienza, e la ragione del vincere.

Se il Veneto fosse stato riunito al nuovo Regno di Casa Savoia qualche
lustro più tardi di quando ciò avvenne, se in Roma fossimo entrati in
seguito ad una grande guerra nazionale ed in epoca più prossima alla
presente, l'Italia sarebbe in oggi più forte e più compatta di quanto
effettivamente non sia.

È questa induzione sicura: la storia dell'umanità è la storia del
dolore, ed un popolo senza vittorie, senza ideali che gli sollevino
la mente e l'anima, che lo distraggano dalla miseria cupa del vivere,
contempla inerte le sue piaghe e le inasprisce.

Questo spiega non poca parte de' nostri attuali disagi, e addita una
mèta novella alle giovani generazioni. Quale? Io l'ho nel cuore.... voi
la dovete intuire: gli eventi forse la preparano.



LA DÉMOCRATIE SPIRITUALISTE SELON MAZZINI ET SELON LAMARTINE

CONFÉRENCE DE M. PAUL DESJARDINS


  _Mesdames, Messieurs._

En 1847, le journal _Le Peuple_ fit paraître un écrit doctrinal de
votre fameux compatriote Joseph Mazzini: _Réflexions sur les Systèmes
et la Démocratie_[2]. Ce manifeste avait été médité par Mazzini dans
son long exil d'Angleterre. Or nous savons par sa correspondance
quelles étaient en ce temps-là ses dispositions de cœur. Un climat gris
et froid, qui prolongeait ses tristesses jusqu'au ciel, un dépaysement
absolu, une pauvreté qui le contraignit à mettre en gages ses reliques
de famille, ses bottes, et son habit, une santé minée, une sensibilité
de femme tendre, qui lui faisait recueillir dans une arrière-boutique
les petits Italiens, marchands de plâtres ou joueurs d'orgue, perdus
dans la brume de Londres; des crises de _spleen_, de remords, de doute
sur lui-même, bref, une impression d'universel abandon: voilà le fond
sombre d'événements et de songes sur lequel sa pensée se dessina.
Jamais pourtant cette pensée ne fut plus nette, plus ferme, plus
achevée.

Il avait été, dans son adolescence épris de la théorie de Condorcet et
du XVIII^e siècle français sur l'affranchissement des esprits par la
science et la civilisation; plus tard il était devenu Robespierriste,
sec et tranchant inquisiteur de la vertu démocratique; enfin il
arrivait à manifester ce qu'il était par nature: un bon et grave apôtre
du Christ. L'éloignement des hommes lui était sans doute salutaire;
car, avec le beau manuel des _Devoirs de l'Homme_, écrit en 1844,
pendant ce même séjour désolé en Angleterre, les _Réflexions sur la
Démocratie_ sont le symbole de la doctrine de Mazzini, ce qui restera
de lui. Si l'on me demandait quel est le _Credo_ des républicains
modernes, je renverrais d'abord à ces deux-cents pages où votre
concitoyen a exprimé, avec sa foi, la nôtre aussi.

Le 18 juillet de cette même année 1847, à Mâcon en France, Alphonse
de Lamartine exposa son rêve politique à lui, deux heures durant,
en plein air, devant treize-cents convives attablés et trois mille
auditeurs debout. Comme il parlait, un orage éclata, une bourrasque
enleva la tente immense qui abritait le banquet, et parmi les éclairs
et la foudre, sous un déluge de pluie, le poète continua de parler, la
foule trempée continua d'écouter, ne répondant aux coups du vent et
du tonnerre que par une immense clameur: Vive Lamartine![3]. L'objet
de cette harangue extraordinaire était, comme Lamartine lui-même
l'explique à Madame d'Agoult[4], «l'unité à fonder dans la démocratie.
Si elle se divise, elle est perdue; si elle s'unit et s'ouvre
chrétiennement à tout le monde, elle vaincra.»

Cette orageuse et belle journée nous apparaît triomphale. Et pourtant,
si acclamé que fût alors l'auteur des _Girondins_, sa conception de
la république n'était pas moins isolée, singulière, inintelligible
au public d'alors, que celle qu'élaborait Mazzini dans son galetas de
Londres. Par intervalles, quand l'ivresse de son verbe était tombée,
Lamartine s'apercevait bien qu'en somme il monologuait au milieu
d'un désert: «J'ai pourtant parlé _politiquement_, dit-il un jour;
il n'y a eu que moi qui s'en soit aperçu. Ils sont convaincus que je
rêvais et débitais des sornettes.... Eh! je marcherai seul, et vive
la Providence!...»[5]. A Mâcon comme à Londres, c'est un prophète qui
songe tout haut, sans pouvoir se faire écouter. Et les deux songes
racontés à la même heure, par le Français, par l'Italien, par le tribun
idolâtré, par le réfugié mélancolique, se ressemblent au point qu'on en
est surpris. Ils en eûssent été, je crois, surpris les premiers.

Cependant quelques mois plus tard une aventure pareille leur échut
à tous deux. Paris vit s'improviser une république; une autre essaya
de s'installer dans Rome; Lamartine fut l'inspirateur de la première,
Mazzini le chef de la seconde. Leurs idées subirent donc l'épreuve du
fait.

Epreuve malheureuse: tous deux tombèrent. Déçus par le peuple dont
ils avaient trop espéré, n'ayant pas su garder à leur action, dans un
cercle élargi, la magique pureté qui en faisait toute la force, ils
furent vite précipités à bas du pouvoir. Ils ne firent qu'y passer,
laissant après eux le souvenir d'un échec, un nom discuté, et, dans des
papiers posthumes longtemps méconnus, des semences éparses de vérité,
pour plus tard. Leur chute a discrédité pendant un demi-siècle la
politique spiritualiste, qui s'appuie sur une théorie de la destination
de l'homme. On a traité de vieux enfants ces théoriciens romantiques,
jusqu'au temps que voici, où la politique d'expérience et d'expédients,
celle des hommes mûrs, s'est montrée, par ses effets, encore plus
inefficace et puérile que la leur. En sorte que, trente ans après leur
mort, il se pourrait qu'on se mît enfin à les écouter.


Essayons donc de fixer l'idée que Lamartine et Mazzini se sont faite
de cette démocratie modèle qu'ils ont échoué à faire vivre il y a
cinquante ans. Pour cela, esquissons d'abord la physionomie de ces
deux esprits, afin de marquer la diversité de leur nature: l'un
nous apparaîtra comme un dieu du jour, l'autre comme un génie de la
nuit. En second lieu, rapprochons les témoignages de ces deux hommes
antithétiques sur le sujet qui nous occupe, pour en faire voir l'accord
surprenant. Et enfin, comme conclusion, dégageons, s'il se peut,
d'après l'expérience acquise depuis, ce qu'il y a d'utilisable encore,
de réel peut-être, dans leurs rêves.


I.

Alphonse de Lamartine n'est pas un étranger pour vous. Il s'est
promené souvent «sous les pins harmonieux des Cascine.» Il a chanté
Florence, Pise, Lucques et Vallombreuse. Il a vécu, écrit, aimé chez
vous, et votre Pétrarque avait modelé sa sensibilité avant même que vos
horizons de cyprès et de collines eussent charmé ses yeux. Toutefois,
comme c'est un poète véritable, je doute que le timbre de sa voix soit
exactement perceptible à d'autres que ses nationaux; je vous demande
donc de croire qu'il y eut en lui plus de divinité que je ne saurais
vous en montrer.

D'abord, remarquez qu'il resta jeune jusqu'à la fin; jeune,
c'est-à-dire capable de se renouveler. Trois passions l'occupèrent
l'une après l'autre, se succédant sans intervalle, sans confusion, de
sorte qu'il paraît avoir eu ses phases régulières, comme un astre. Dans
l'adolescence: un amour exalté, caché, douloureux; — et de là naquirent
des élégies que tous les amoureux ont redites; — puis, dans la première
maturité, une angoisse pieuse et virile des destinées de l'âme et
de sa relation à son Dieu; — ce fut l'origine de belles méditations
platoniciennes, troublées parfois de cris de désespoir; — enfin, vers
quarante ans: un prophétique souci de la justice dans la société, —
d'où procèdent ses œuvres politiques, discours, articles de journaux,
avec quelques poèmes de vieillesse.

La première phase est la plus célèbre. Le nom seul de Lamartine éveille
l'idée d'un chanteur élégiaque.

On sait qu'il n'a rien inventé dans l'instrument lyrique: ses poèmes
ne sont originaux et neufs que parcequ'ils révèlent une âme. On a
retrouvé, de sa vingtième année, de petits vers galants et vieillots,
qui ne lui ressemblent pas encore. «Je n'étais alors que vanité,»
avouait-il lui-même. Il lui fallut l'initiation de l'amour et de la
douleur. Dès lors le génie lui vint; de son cœur brisé montèrent, avec
une étrange pureté, quelques cris modulés, aussi éternels, désormais,
que la mélodie du vent dans les pins solitaires.

Lamartine poète philosophe est moins connu et plus grand. Ce ne fut pas
un philosophe, à proprement parler; il ne rechercha pas la vérité par
dessus tout, — mais le bonheur. Seulement, comme il était bien né, il
mettait à son bonheur des conditions rares et élevées. Il lui fallait,
pour être heureux, obtenir l'harmonie de sa pensée avec elle-même;
il avait le besoin impérieux de l'unité; toute diversité irréductible
lui était une souffrance. Or les résultats des sciences de faits sont
fragmentaires, ou même contradictoires. Lamartine s'en désespère: les
solutions qui ne rendent pas raison de tout l'univers ne le satisfont
point, et, faute qu'on lui donne le dernier mot des choses, il s'écrie,
impatiemment:

    Vérité, tu n'es pas! Tu n'es que dans nos songes![6]

Blasphème touchant et beau, signe d'une profonde sensibilité
philosophique.

Cependant comment surmonter cette disproportion de notre esprit et de
la réalité? Le poète n'a pas la force de le faire comme un Kant, en
l'analysant: il n'est secouru que des intuitions de son cœur. Le voilà
donc aspirant en vain; devant lui s'ouvre l'abîme de l'inconnaissable:
il en sent l'effroi:

    Je meurs de ne pouvoir nommer ce que j'adore![7]

Mais cette reconnaissance de notre impuissance implique en nous l'idée
de la Puissance, cet aveu de nos limites, l'idée de l'infini. Plus
encore que l'idée: l'amour et le besoin. Et c'est par où l'homme se
sauve du désespoir. Il comprend que se plaindre de ne pouvoir embrasser
la vérité totale et une, c'est se plaindre de n'être pas Dieu. Du point
de vue divin seul, l'harmonie, qui ne saurait entrer dans nos esprits
étroits, se dégage et apparaît. Pour Dieu le mal n'est pas; la mort,
non plus que la vie, n'a point de sens pour Dieu; de ce point de vue,
où il faut se mettre par un essor de la volonté, les contradictions
les plus scandalisantes se révèlent comme des illusions de notre pensée
infirme, et boiteuse encore de quelque chute peut-être.

Cet acte par lequel l'esprit se situe _extra humanitatem_ est tantôt
la _prière_, tantôt l'acceptation de la douleur purifiante, qui est
prière encore. A cette acceptation, à cette prière, Dieu répond
par l'apaisement ineffable, passager, fragile de sa grâce. Et la
poésie justement a pour objet de fixer, autant qu'il se peut, ces
illuminations soudaines de la grâce. Ici est son rôle révélateur, son
caractère sacré. Le poète est encore à peu près ce que fut le _nabi_ en
Israël.

Au reste il n'est pas d'autre religion vraie, selon Lamartine, que
cette expérience immédiate de l'action de Dieu en nous. La raison,
que le poète, tout mystique qu'il paraisse, ne récuse point, — qu'au
contraire il voudrait porter à son maximum de clarté, car

    Plus il fait clair, mieux on voit Dieu[8],

la raison des philosophes se trouve d'accord avec cette expérience de
l'adorateur le plus humble; oui, la raison même donne raison à la foi.
Et la tradition immémoriale de l'humanité ne conclut pas dans un autre
sens. Lamartine ne s'agenouille pas devant les livres sacrés; il a
quelque répugnance pour les Églises, qui fragmentent l'unité; mais il
croit en ce qu'il appelle naïvement «la philosophie antédiluvienne»[9],
révélation primitive dont le Livre de Job nous a transmis l'essentiel,
et dont les prophètes, et Jésus-Christ lui-même ne sont que les
porte-parole.

Cependant tout le sens de cette révélation n'est pas exprimé encore;
nous en sommes un déchiffrement de l'A B C; c'est en avant qu'il faut
regarder avec espoir. Le règne de l'Esprit est à venir; l'homme,
«en qui Dieu travaille», progresse lentement, mais sûrement; nous
balbutions l'Evangile, dont nos descendants feront leur règle. Ayons
donc bon courage et patientons. Chaque Révolution nous avance vers
la Religion vraie. C'est pécher contre l'esprit que de douter de la
destination sublime de l'homme:

    Enfants de six mille ans qu'un peu de bruit étonne,
    Ne vous troublez donc pas d'un mot nouveau qui tonne,
    D'un empire éboulé, d'un siècle qui s'en va;
    Que vous font les débris qui jonche la carrière?
    Regardez en avant, et non pas en arrière:
            Le courant roule à Jéhovah![10].

Toutes les idées de Lamartine sur la chose publique découlent de cette
sagesse religieuse dont je viens de parler.

Il entra dans la politique à plus de quarante ans. Il fut élu député
en 1833, par la petite circonscription de Bergues, dans le Nord, alors
qu'il se promenait en Syrie.

Il avait donc médité déjà sur l'orientation de son époque, sur le sens
des révolutions, sur les étapes nécessaires de la «caravane humaine»
qui chemine guidée par Dieu[11]. Il apporta dans le tumulte des
assemblées une ferme assise d'esprit, gain de la solitude. C'est là une
préparation intérieure que les députés ne possèdent pas fort souvent.
Lamartine amusa la Chambre par l'imprévu de ses principes; cela
tranchait sur les ordinaires disputes d'avocats; ses discours étaient
des intermèdes lyriques. D'ailleurs il se sentait lui-même tombé de
quelque planète lointaine au milieu du marais parlementaire. «Je n'y
resterai donc, si Dieu le permet, dit-il, que le temps strictement
nécessaire pour ouvrir le premier sillon, formuler un symbole de
bonne foi, d'indépendance des partis et de progrès moral; après quoi
je rentrerai dans mon nuage»[12]. Vous savez que, s'il était prêt à
quitter la politique, la politique ne le voulut pas quitter.

Il y fut très original. Indépendant de tout, parcequ'il l'était de sa
propre ambition, il signifia d'abord à ses électeurs qu'il entendait
n'obéir qu'à sa conscience: un mandat lui ajoutait trop peu pour
qu'il eût peur, en le perdant, de retomber dans le néant; les grandes
places le tentaient encore moins: «Faire le serviteur pendant quinze
ans pour obtenir de le faire le reste de sa vie en habit un peu plus
brodé, cela me semble vraie folie»[13]. Il ne se souciait pas davantage
de capter la popularité. «Pour parvenir à me faire comprendre, il
me faut un an d'efforts pénibles et d'impopularité systématique. Je
dois, pour chercher mon point d'appui hors des partis existants, dans
la conscience du pays, commencer par blesser tous les partis en leur
échappant»[14]. Ce n'est pas assez d'avoir l'amour de son indépendance,
il en a l'orgueil. «Je prends en haine les partis après les avoir eus
en mépris, et je veux désormais vivre, penser et mourir seul»[15].
Nul doute, Messieurs, qu'un détachement si évident ne soit la vraie
façon d'imposer aux hommes et de les amener à soi. Citons cet exemple.
En juin 1837, quarante-deux fabricants de sucre, gros électeurs de
la circonscription flamande que Lamartine représente, l'invitent à
conjurer l'impôt dont on menace leur industrie. Que va-t-il faire? «Je
leur ai remis mon mandat de député en leur disant: ma conviction et ma
conscience sont contre l'immunité et le privilège dont vous jouissez
aux dépens du Trésor, des malheureux contribuables cultivateurs et des
colonies. On vous doit un impôt.... — Après deux heures de discussion,
ils en sont convenus et m'ont _à l'unanimité_ signé le mandat formel
de voter et de parler pour un impôt»[16]. Voilà un trait assez rare
dans l'histoire du régime représentatif: cette fois ce ne fut pas le
gouvernement des supérieurs par les inférieurs. Lamartine se rend bien
compte que son abnégation est sa force même. «Je n'aurais qu'à dire
_oui_ pour être chef de deux-cents voix; mais je suis en secret chef
de leur conscience»[17]. Et il s'émerveille de cet ascendant: «Tous les
partis viennent à moi comme à une idée qui se lève»[18].

Il y avait une autre raison encore pour que l'on vînt à lui, c'est que
sa politique était toute positive. Ecoutez-le: il affirme toujours, il
ne réfute presque jamais: cela par principe autant que par tempérament.
«J'adore l'indépendance; je déteste l'opposition. _Faire_ est l'œuvre
du génie; _empêcher_ est l'œuvre de l'impuissance»[19]. Étranges
discours que les siens; il néglige de répondre et de discuter; il passe
au travers de la contradiction sans la voir. C'est qu'il ne l'a pas
écoutée, étant occupé ailleurs, à déchiffrer la volonté actuelle de
Dieu sur son peuple. Cela fait penser à cette inscription qu'on lit
sur les navires: _Défense d'adresser la parole au pilote_. Comment les
simples passagers oseraient-ils troubler de leurs avis celui qui domine
et qui sait? N'a-t-il point une boussole? L'avenir prophétisé dans sa
conscience le guide. Qu'il travaille avec les autres, c'est bien; mais
les consulter sur ce qu'il faut vouloir est folie. C'est à lui de le
leur apprendre.

    Ainsi quand le navire aux épaisses murailles
    Qui porte un peuple entier bercé dans ses entrailles
    Sillonne au point du jour l'océan sans chemin.
    L'astronome chargé d'orienter la voile
    Monte au sommet des mâts où palpite la toile,
    Et, promenant ses yeux de la vague à l'étoile,
        Se dit: «Nous serons là demain.»

    Puis, quand il a tracé sa route sur la dune
    Et de ses compagnons présagé la fortune,
    Voyant dans sa pensée un rivage surgir,
    Il descend sur le pont où l'équipage roule,
    Met la main au cordage et lutte avec la houle.
    Il faut se séparer, pour penser, de la foule
        Et s'y confondre pour agir[20].

Il continue donc, imperturbable, se réglant sur son itinéraire secret,
entraînant ses compagnons de traversée. Et ceux-ci lui obéissent.
Quelque chose en lui les subjugue. Quoi donc? La force de sa certitude
intérieure. Une personne unifiée au dedans peut tout sur les autres.
Dans les combats politiques, comme naguère dans la recherche de la
vérité, comme jadis dans les déchirements de l'amour, Lamartine a su
s'élever jusqu'à l'harmonie. Il a triomphé des contradictions internes
qui font que les autres hommes sont faibles. J'ai comparé les périodes
de sa vie aux phases d'un astre: chaque phase est complète; il ne
se voue à la philosophie que quand il est quitte de la passion. Il
n'aborde la politique qu'une fois délivré du doute philosophique,
et sûr de ce qu'il croit. Sa conscience réconciliée, où Dieu règne,
est invulnérable aux coups de la place publique, aux cris, aux
mesquineries; il les traverse en souriant. Il s'avance au milieu des
monstres rampants comme un Apollon libérateur, baigné d'une lumière
dont le foyer est en lui.


Joseph Mazzini, en comparaison, semble une divinité sombre et
souterraine.

Il n'est pas, dans Santa Croce, de monument plus austère, plus funèbre,
que la plaque de bronze noir qui le commémore, près du fastueux
cénotaphe de Dante; et c'est bien ainsi. Mazzini fait donc un parfait
contraste avec la nature heureuse de Lamartine.

Au reste, j'ai observé que presque tous les révolutionnaires, en
Italie, ont deux caractères singuliers; ils sont hantés du passé, et
ils sont tristes.

Votre pays, ouvrage des hommes autant que de la nature, est comme
baigné de regrets. Vos paysages sobres et presque intellectuels
semblent se souvenir d'autrefois. Vos arbres mêmes ont une dignité
de monuments. Toute l'Italie est un vaste camposanto; la roue des
voiturins y roule dans l'ornière antique. L'idée même de l'Italie
_une_ est une vieillerie, un legs que vos poètes se transmettent, de
Virgile à Dante, de Pétrarque à Vittorio Alfieri, jusqu'à ce qu'elle
devienne une actualité. Si Mazzini s'émeut jusqu'à défaillir en passant
la _Porta del Popolo_, c'est qu'il entre au sanctuaire même de l'unité
italienne, dans Rome, la capitale promise à l'avenir, qui est aussi
le trésor de tout le passé. Là des fantômes inspirateurs se dressent
de toutes parts: ce sont les tribuns de jadis, en particulier ce Cola
di Rienzo, dont il est le successeur, et qui lui même avait prétendu
relever la république de Brutus. Unité, liberté, voilà le double mot
d'ordre que ces vieux irrédentistes ont imposé à leurs descendants;
après des siècles, l'avocat génois se reconnaît pour leur exécuteur
testamentaire. Pieux envers les ancêtres, il rêve de dresser sur le
Monte Mario une image colossale de Dante, vers laquelle les Romains
lèveront les yeux chaque matin pour faire leurs dévotions filiales.
Ainsi de tout révolutionnaire italien: en même temps que novateur, il
est restaurateur. Et cela nous surprend un peu, nous autres Français,
qui marchons droit à l'avenir sans nous demander de qui nous sommes
fils.

J'ajoute que les révoltés de votre nation paraissent tristes. Comparez,
s'il vous plaît, à la gaillardise de Martin Luther l'âpreté douloureuse
de Savonarole. Vos hérésiarques ont un air prométhéen, tendu et
tourmenté. Mazzini les continue, avec son éloquence chauffée au rouge
sombre, et son visage tel que vous le voyez sur les lithographies,
crispé par l'effort. C'est, je crois, que votre nation étant la plus
sociable de toutes, l'italien isolé se sent arraché à sa nature vraie.
Les visages souriants lui manquent cruellement: il ne se passe pas
volontiers de serrements de mains et d'embrassades.

Les contemporains de Mazzini ont eu de lui l'impression que je viens
de dire. Ils le trouvèrent morose, et avec raison. Mais où ils se
trompèrent, ce fut en le croyant ténébreux par goût, haineux et
démoniaque. Massimo d'Azeglio et Montanelli lui font un autre reproche
encore: ils le regardent comme un déclamateur, un conspirateur d'_opera
seria_, qui se complaît aux intrigues masquées.

Ces deux vues ne sont pas justes. Après sa mort (survenue le 10 mars
1872) on put enfin recueillir sur lui le témoignage décisif, celui de
sa propre correspondance. Cinq recueils en ont été publiés déjà; les
lettres à sa mère, précieuses entre toutes, seront connues bientôt,
j'espère. Eh bien, ces documents sincères dévoilent un autre Mazzini,
aussi grand que celui de la légende, mais déraidi, dont la férocité
recouvre une tendresse franciscaine: un ami des femmes et des enfants,
presque un enfant lui-même, incompris et timide; un bon _frate_
mélancolique sous une cape de brigand.

Il avait authentiquement l'âme grande et pure. Thomas Carlyle,
maître-expert en héroïsme, qui le vit de près à Londres, écrivait dans
le _Times_ du 15 juin 1844: «J'ai eu l'honneur d'être en relations avec
M. Mazzini pendant maintes années, et, quoi qu'il y ait peut-être à
dire à son bon sens pratique et à son jugement dans les choses banales
et de tous les jours, je peux toutefois reconnaître publiquement qu'il
est le seul homme génial et vertueux que j'aie connu, homme vraiment
sincère, noble, humain, comme par malheur il ne s'en trouve guère,
digne enfin d'être appelé âme de martyr.» Ceci est une appréciation
exacte. Mazzini fut un martyr, un héros qui n'a pas donné sa mesure, et
dont la destinée fut constamment étranglée.

Comptez un peu les contradictions qu'il y eut entre sa nature vraie
et le rôle auquel il se condamna, ou fut condamné. J'ai essayé de le
faire, et je me suis senti pris, pour lui, d'une très grande pitié.

D'abord, voici un cœur doux, tendre et enfantin, qui voudrait
sympathiser même avec les passants dans la rue: c'est un excellent
correspondant pour les petites jeunes filles, qui lui brodent des
bourses et à qui il envoie des _vergiss-mein-nicht_; dans ses cadeaux
et ses surprises il met la grâce ingénieuse des Italiens; — et il s'est
dressé comme un dogue de combat; il a l'air de haïr: il prononce du
moins des paroles de haine, et il trempe dans des crimes, par amour.

Deuxième contradiction: il a la fièvre d'agir, il déclare qu'il
donnerait Machiavel, Tacite et tous les livres «pour une ligne
d'action[21],» que l'action seule rend à l'homme son équilibre; il
se donne pour «enseigner le culte déserté de la Sainte Action;» — et
avec cela, il est parfaitement incapable d'agir. (Rappelez-vous la
piteuse expédition Ramorino). Il est en effet doué, à un degré éminent,
du courage de subir, assez commun chez les rêveurs; mais très-peu du
courage d'entreprendre, lequel en est fort différent, au point qu'il
se compose pour une bonne part de l'impuissance de subir. Dès qu'il a
mis la main à quelque entreprise, il se prépare à payer cette audace
en souffrance; on dirait qu'il ne soulève cette croix, de l'action, que
pour rendre son propre calvaire plus méritoire; il n'a ni la confiance,
ni peut-être le très vif désir de réussir,

Autre contradiction: il voudrait conduire les hommes en les aimant et
s'en faisant aimer; or, loin de savoir leur faire épouser sa pensée,
il est dans l'impossibilité de se faire entendre d'eux. Il en gémit:
«_Come poco indovinano gli uomini le condizioni dell'anima altrui!_»
Il faut qu'il renonce à communiquer sa conviction, c'est-à-dire, ou
qu'il doute de lui-même, ou qu'il méprise les autres. Il aime mieux ne
pas voir son isolement; il feint d'être entouré d'un cercle nombreux de
partisans dévoués. Montanelli dit joliment: «Mazzini écrit, au pluriel,
_nous pensons_, _nous croyons_. Qui pense? Qui croit? Mazzini tout
seul.» C'était vrai, et parfois l'apôtre au cœur chaud en était tout
transi. «Mon étoile, dit-il amèrement, c'est Sirius, le grand Chien:
métier d'aboyeur, sans être généralement écouté.»

Vous dirai-je les autres discordances de cette destinée malheureuse?
Il eut, comme nous l'avons noté, l'amour et la dévotion du passé, —
et il dut s'associer avec des révolutionnaires positifs et grossiers,
déracinés de toute tradition; — c'était une âme profondément
religieuse, et il fut conduit à être l'organe d'un parti de complète
négation; il fut accolé même quelque temps avec le grand destructeur
russe Bakounine, dont il avait horreur et qui le raillait comme
un bigot timoré. Enfin il eut le cuisant mécompte que ce défaut de
coïncidence entre l'homme qu'il s'efforçait d'être, et l'homme qu'il
était naturellement, défaut de coïncidence dont il éprouvait un vrai
chagrin, ait été aperçu de ses contemporains, en sorte qu'ils le
soupçonnèrent de jouer un rôle et de viser à l'effet..... Au fond, il
y eut bien quelque chose de cela, vers la fin de sa carrière. Il se
sentait noble et pur, il se voyait méconnu. Il se renferma donc dans
son isolement hautain, ne s'entourant plus que des morts, ou bien
d'enfants qui ne le questionnaient pas. Il renonça sincèrement à tout
bonheur, et, comme il professait d'ailleurs que la vie est une mission
à nous confiée par Dieu, il eut l'orgueil de se répéter qu'il s'en
était acquitté sans salaire, et qu'il le préférait.

Âme candide, âme dolente, dont la très haute vie fut un Purgatoire.
Nous comprenons maintenant combien véridique était son cri: «La
désharmonie entre mon âme et tout ce qui est en dehors m'écrase»[22].
La _désharmonie_; voilà le mot sur lequel il faut rester.

Aucun autre ne marquerait mieux le contraste avec l'esprit de
Lamartine, qui justement, ne pouvant vivre que dans l'harmonie, se
haussa toujours jusqu'à la sphère où elle réside. Cet exemple de
Mazzini montre clairement où en arrive l'homme qui consulte seulement
ce qu'il veut, seulement les ordres de Dieu, et non ce qu'il peut,
selon sa faible et humaine nature.


II.

Cependant nous allons trouver que ces deux esprits opposés se sont fait
une conception identique des devoirs et des vrais intérêts du peuple.

N'essayons pas de présenter cette pensée dans l'ordre où,
historiquement, ils la formèrent, par le double travail de leur
réflexion et de leur expérience. Tâchons plutôt de la construire
logiquement; et d'abord cherchons-en la vraie base.

Cette base n'est point politique. Elle se trouve au fond de la
conscience de tout homme qui s'examine seul dans sa chambre. Ainsi
l'ordre politique repose sur quelque chose qui le dépasse, et qui est
intérieur. Les vérités politiques ne sont que dérivées; ruineuses si
on les prend pour absolues, elles deviennent solides aussitôt qu'on
les appuie à une philosophie de la vie et de l'histoire, établie
d'autre part. Là-dessus Lamartine et Mazzini sont unanimes. «Je pars
d'abord d'un principe religieux, dit le premier; il faut que vous
me le permettiez; car sans cela je ne puis pas et je ne sais pas
raisonner»[23]. — «Mon but dans ce livre, dit à son tour le second,
a été de vous présenter les principes qui doivent vous guider et vous
aider à résoudre vous-mêmes toutes les difficultés politiques.... Je
vous ai conduits à Dieu, comme à la source du devoir et à l'instituteur
de l'égalité entre les hommes; à la loi morale, comme à la source de
toutes les lois civiles....»[24]. Enfin le mot apostolique de Lamartine
à Pelletan: «Venez diriger la république dans le sens de Dieu et du
Peuple»[25] répète exactement la devise de Mazzini: _Dio e Popolo_.

Quelle est donc cette vérité d'un ordre différent et supérieur
d'où toute la politique dépend? C'est celle-ci: que Dieu continue
sa création dans l'homme; nous appelons Providence cette force, à
la fois latente et manifeste pour qui regarde bien, par laquelle
il agit dans chaque homme et dans chaque peuple, en les poussant
à l'affranchissement. La tyrannie vient de la brutalité ancestrale
qui reste encore en nous et qui lentement s'élimine. L'origine de
l'inégalité et de l'iniquité est là, dans notre nature inférieure,
qu'il faut laborieusement dépouiller et nullement dans la civilisation,
quoique Rousseau en ait pensé. La passion de dominer, d'usurper, de
contraindre, est un legs de l'animalité en nous; — et ici la doctrine
de nos grands romantiques s'encadre fort bien dans la théorie générale
de l'évolution, que la biologie de notre temps a popularisée. — Or la
volonté positive de Dieu, sur nous est _que nous devenions saints_,
comme le dit Saint Paul, c'est-à-dire, moralement et politiquement
parlant, que nous devenions libres. Dieu travaille en nous à la façon
d'un ferment, et toujours dans ce même sens. Les révolutions, dont
les gens à courte vue s'effarent, ne sont que les poussées de cette
fermentation dans les peuples. C'est toujours Dieu qui nous veut
obliger à nous rendre libres.

Parmi ces révolutions, il en est de brusques, qui se précipitent
coup sur coup, comme on l'a vu au I^er siècle, au XV^e, à la fin du
XVIII^e; c'est ce que Lamartine appelle superbement des «sommations
de Dieu.» Deux des plus frappantes sont la révolution chrétienne, qui
annonça l'Evangile, et la Révolution française, qui décida que les
hommes n'auraient plus d'autre maître que la loi. Ces révolutions
successives, loin de se contrarier, poussent l'humanité dans une
direction constante: toujours vers la liberté. Ainsi le mouvement qui
produisit l'abolition de l'esclavage, puis du servage, poursuit ses
applications sous nos yeux, en sorte que rejeter, par exemple, l'apport
de la Révolution française, c'est, du même coup, protester dans le
passé contre la libération des esclaves.

Toute réaction est donc impie, puisque Dieu est l'éternel
révolutionnaire et veut sans trêve faire toutes choses nouvelles. «Je
deviens de jour en jour plus intimement et plus consciencieusement
révolutionnaire, écrit Lamartine à son ami Virieu[26]; je médite
sans cesse à genoux et devant Dieu, et je crois qu'il faut que nous
et ce temps-ci, nous servions courageusement la loi de rénovation.»
Mais, en même temps qu'irréligieuses, les réactions sont vaines.
L'erreur se dénonce d'elle-même: la société où elle est introduite
devient invivable, et elle périt violemment. La volonté de Dieu, si
on s'obstine contre elle, se fait orage et torrent. Ainsi jamais on
ne peut remonter le cours des temps; il est même niais de l'essayer.
L'histoire est justement ce qui n'arrive pas deux fois. Elle s'avance
pas à pas, constamment nouvelle.

Mais la plus pernicieuse erreur des idolâtres du passé est de prétendre
retourner en arrière au-delà du Christ. Le Christ est le maître et le
départ des modernes. Ce qui ne veut pas dire que son action se soit
établie déjà, ou qu'elle s'établisse aisément dans la société, ni
dans l'âme. Le paganisme, si mort qu'il semble, doit encore être tué
en nous. Les matérialistes, les nouveaux épicuriens, les utilitaires,
dont Bentham, odieux à Mazzini, est le représentant, ramènent le
paganisme encore; ils prêchent le bien-être individuel et font tourner
tout le reste autour de cette recherche, ce qui fut l'illusion de
l'antiquité. Ils sont les plus aveugles des réactionnaires. Or les
partis prétendus révolutionnaires de notre âge, dirigés par Saint-Simon
ou Fourier, Blanqui ou Louis Blanc, se sont également fourvoyés dans
cette impasse. D'où il suit que leurs revendications n'aboutiront pas;
ils n'obtiendront qu'un déplacement de la tyrannie et du malaise,
un despotisme retourné, comme le Comité de Salut Public pratiqua
exactement, en sens inverse, le même arbitraire que Louis XIV. «On est
sur terre pour jouir le plus possible,» voilà l'erreur fondamentale,
le piétinement dans le paganisme, condamné, non par la conscience
seulement, mais par l'expérience de l'histoire. Jésus a donné à la
vie humaine une autre fin, sa fin vraie, par la parole inoubliable
«Que ton règne arrive!» — Oui, que le règne de Dieu arrive, ou, en
d'autres termes, que la justice et la fraternité deviennent réelles;
c'est à quoi toute la vie doit servir, la vie des peuples comme celle
des individus; là est son sens et sa valeur, là est son bonheur même.
«Nous devons tous et chacun, déclare Mazzini, diriger nos efforts afin
que tout ce qu'il nous est donné de comprendre du _royaume des cieux_
puisse se traduire en réalité sur la terre»[27]. Aussi ne veut-il point
qu'on abandonne le culte de la croix. «La Croix, ajoute-t-il, comme
symbole de la seule vraie, immortelle vertu, — le sacrifice de soi-même
pour le bien d'autrui, — pourra sans contradiction s'élever même sur
le tombeau de tous les croyants de la nouvelle foi»[28]. Entendez
bien: comme symbole du dévouement à tous, et non pas au sens égoïste
encore où l'entend le dévot qui subordonne tout le reste à son salut
personnel, se souciant peu que le monde soit injuste et malheureux,
pourvu que lui échappe à la damnation. L'égoïsme, sous ses formes
grosses et sous ses formes subtiles, est en effet l'ennemi juré de
la démocratie, le seul qui la puisse perdre. Et la seule révolution
effective sera la révolution profonde, encore à faire, celle qui l'aura
déraciné.

Précisément pour cela, la république démocratique, ou gouvernement
mutuel, fraternel, qui ne subsiste point par la contrainte extérieure,
mais par la maîtrise que chacun exerce librement sur soi au bénéfice
des autres, est chérie et voulue de Dieu. Le christianisme traduit
en institutions, cela est la république. Comme celle-ci est le règne
de l'esprit, l'homme religieux est naturellement républicain. Si la
Providence mène en réalité l'histoire, ainsi que Lamartine et Mazzini
le croient, cette république démocratique sera l'aboutissant de toutes
les autres formes de gouvernement.

Comment se fera ce passage? Nul homme ne peut le dire. Et c'est
parceque la voie en est mystérieuse qu'il ne faut jamais, à aucun
prix, sacrifier la liberté, qui est la remise à Dieu du choix de ses
moyens. Restreindre les énergies de celui-ci ou de celui-là, supprimer
des possibles, alors que l'esprit _souffle où il veut_, c'est usurper
sur Dieu. Lamartine a très bien formulé cette conception profonde de
la liberté politique: «Je veux la liberté et l'égalité intellectuelles
absolues pour et contre moi. Je ne veux pas mettre mon poids peut-être
faux ou rogné dans la balance. Je ne veux pas mettre une pierre sur
la route libre et sans terme de l'avenir»[29]. Et voilà pourquoi tout
privilège doit être écarté, voilà pourquoi il ne faut nulle entrave
sur la pensée ou sur la parole. Mazzini est d'accord avec Lamartine,
puisqu'il fait consister la révolution essentielle, la révolution
qui est à faire, en la déchéance définitive de la _raison d'Etat_, la
raison d'Etat de Louvois et de Bismarck, mais aussi la raison d'Etat
des Jacobins.

Au reste, il faut se garder que le libéralisme lui-même s'érige
en idole, comme si la liberté politique était une fin; alors elle
tournerait bien vite à l'émiettement, à l'anarchie, à l'écrasement des
faibles. «La liberté est conquise, écrit Lamartine, elle est assurée,
elle est inviolable, quels que soient le nom et la forme du pouvoir;
mais la liberté n'est pas un but, c'est un moyen. Le but, c'est la
restauration de la dignité et de la moralité humaines dans toutes les
classes dont la société se compose; c'est la raison, la justice et
la charité appliquées progressivement dans toutes les institutions
politiques et civiles»[30].

Pour en venir à la pratique, il est deux moyens d'action compatibles
avec la liberté: l'_éducation_ et l'_association_. Mazzini vieux, comme
Lamartine, se contente décidément de ceux-là.

Elever les enfants, autrement dit, les délivrer de leur amour
propre pour y substituer l'amour des autres et de la communauté,
voilà l'œuvre par excellence qui fondera la république. Aussi les
instituteurs sont-ils les ouvriers nécessaires de cette révolution que
Lamartine attend; et il rêve une «association libre, pour la direction
religieuse, morale et politique de l'esprit des instituteurs dans la
République»[31]. Mazzini à son tour s'est fait maître d'école; et j'ai
visité, dans le Transtevere, un établissement populaire d'éducation
où l'on enseigne à des enfants d'ouvriers un catéchisme spiritualiste
tiré de ses livres. L'_association_, pour les adultes, est un moyen
merveilleux: ils s'apprennent par elle à coopérer, à dépasser les fins
individuelles, et à jouir de se sentir peu de chose, au service de
quelque chose de grand.

Je dois le dire; Lamartine était trop improvisateur, il avait
l'imagination trop paradisiaque pour apercevoir les difficultés
extraordinaires de cette tâche; il se contente de la voir en
perspective, comme une allée un peu montante, mais agréable.

En somme il ne s'agit de rien de moins que de faire l'homme à nouveau.
Mazzini, moins heureux et qui a lutté davantage, connaît mieux les
résistances féroces de l'égoïsme. C'est lui qu'il faut écouter ici.
Il sait, et il ne dissimule pas, qu'il faudra déchirer et fouiller la
nature, en son fond; qu'il faudra aller jusqu'à l'ascétisme. A cette
profondeur seulement les germes vivaces de l'égoïsme seront atteints,
la vie pour les autres apparaîtra comme le salut, et la première
substruction de la république sera bien assise.

«Je crois, dit-il[32], que nous ne pourrons jamais rendre l'homme
plus digne, plus aimant, plus noble et plus divin — ce qui est notre
fin et notre but sur la terre — en nous contentant d'entasser autour
de lui des moyens de jouissance, et en lui proposant pour but de la
vie cette ironie qu'on appelle _le bonheur_.... Ouvriers mes frères,
comprenez-moi bien: les améliorations matérielles sont indispensables
et nous lutterons pour les obtenir, non pas parceque la seule chose
nécessaire à l'homme est d'être bien logé et bien nourri, mais parceque
vous ne pouvez pas avoir conscience de votre propre dignité ni vous
développer intellectuellement tant que vous êtes absorbés, comme
aujourd'hui, par la lutte incessante contre le besoin et la pauvreté.
— Vous travaillez dix ou douze heures par jour, comment trouverez-vous
le temps de vous instruire? Le plus grand nombre d'entre vous gagne à
peine de quoi subvenir à ses besoins et à ceux de sa famille, comment
vous procurer les moyens de faire votre éducation?... La pauvreté vous
empêche souvent d'obtenir justice comme les hommes des classes plus
élevées, comment apprendrez-vous à aimer et à respecter la justice? —
Il est donc nécessaire que votre condition matérielle s'améliore pour
que vous puissiez progresser moralement. Il faut que vous receviez un
salaire qui vous permette de faire des économies, de manière à vous
rassurer sur l'avenir et, par dessus tout, il faut purifier vos âmes
de tout sentiment de révolte et de vengeance, de toute pensée injuste
à l'égard de ceux-là même qui ont été injustes envers vous. Vous devez
lutter pour obtenir toutes ces améliorations dans votre situation, et
vous les obtiendrez, mais recherchez-les comme des moyens et non comme
le but; recherchez-les par sentiment du devoir et non pas seulement du
droit.... Si vous n'agissez pas ainsi, quelle différence y aura-t-il
entre vous et ceux qui vous ont opprimés? Ils vous ont opprimés
justement parcequ'ils ne recherchaient que le bonheur, la jouissance et
la puissance.... Un changement d'organisation sociale aura peu d'effet
tant que vous conserverez vos passions et votre égoïsme....»

Jamais, je crois, aucune doctrine politique ne fut empreinte d'une
telle grandeur morale. Celle-ci est vraiment une application de
l'Evangile. La vertu se présente comme la seule chance de réussite dans
les faits, comme la nécessité première dont rien ne dispense. Il faut
que l'humanité s'apprenne à passer par la porte étroite. La république
sera religieuse, ou elle succombera.

De ces principes généraux dérivent des programmes d'institutions ou
de réformes. Je n'entre pas dans le détail, où nos guides quelquefois
se sont fourvoyés. Il me suffit d'avoir exposé leur thèse en ce qui
demeure, et je crois l'avoir fait fidèlement.


III.

Cette politique est _radicale_, au sens étymologique du mot,
c'est-à-dire qu'elle pousse ses racines jusqu'au fond de la pensée,
et s'attache à la réalité suprême. Les personnes qui n'ont absolument
point de besoins religieux ne la comprendront guère. Et, chez nos
politiques d'à présent, en particulier chez nos politiques radicaux,
les besoins religieux semblent faibles. Aussi cette conception des deux
fiers romantiques a-t-elle reculé loin dans le passé.

Je n'ai pas d'autorité pour la juger, ni même pour la louer. J'observe
seulement qu'on ne lui oppose point qu'elle est fausse, mais qu'elle
est chimérique. Lamartine, George Sand, Michelet, Barbès, Mazzini
attendaient trop de l'homme, lui demandaient trop. Ils l'ont cru
capable de se conduire; l'expérience fait voir qu'il en faut rabattre.
Leur morale démocratique est trop escarpée décidément, et bonne pour
des saints vivant en chartreuse.

L'optimisme de ces «vieilles barbes de 48» a donc paru d'une
présomption extrême. Les théoriciens plus récents, qui ont regardé
l'homme du point de vue de la zoologie, les dédaignent. Taine et Sumner
Maine ont traité rudement ces rêves de gouvernement populaire; ils
ont estimé que les principes de la Révolution française ne furent rien
qu'une bravade puérile contre l'irrésistible nature, laquelle asservit
l'animal humain à son estomac, à son appétit de pouvoir et de lucre.

Des partis se sont formés et entrechoqués, divers en apparence,
identiques dans le principe (qui est toujours, ici et là, le
matérialisme politique) d'une part le _collectivisme_ marxiste; d'autre
part le _jacobinisme_ à la façon de Robespierre; puis le _cléricalisme_
qui, psychologiquement, suppose la même structure d'esprit; enfin
le _bismarckisme_, ou politique des résultats, avec l'_opportunisme_
ou politique des expédients, entre lesquels, au fond, il n'est point
d'autre différence que celle du tempérament des hommes, poignet de fer
ou bras de coton. La _raison d'Etat_, odieuse à nos idéalistes de 1848,
n'a pas fini de régner. Il n'est point de gouvernement ni de secte qui
n'ait apporté son encens à ce Baal-Moloch.

Nous voyons de nos yeux où cette orientation nouvelle nous a menés.
Les luttes des classes se sont exaspérées, les ouvriers ont dû arracher
leur pain du jour par la menace ou la violence; l'envie de déposséder
les heureux a ramassé le vieux masque des proscriptions religieuses
du XIV^e siècle contre le Juif; les catastrophes financières se sont
multipliées; les Etats se sont entre-regardés en serrant les poings; un
militarisme exténuant, jusqu'à l'impossibilité matérielle de subsister,
a fondé, dans chaque nation, la prééminence de la caste guerrière
sur la peur même de la guerre; la possession peu sûre du pouvoir est
devenue une sorte de ferme à exploiter hâtivement, et les Parlements
se sont ouverts, comme des foires permanentes, au trafic des faveurs
et des votes; à fréquents intervalles, des scandales irrépressibles
laissent entrevoir une corruption profonde sous la croûte mince des
hypocrisies officielles....

Apparemment, il s'est commis une erreur quelque part, et, comme
chaque parti politique, à tour de rôle, s'est montré infirme autant
que les autres, il faut croire que cette erreur a vicié notre commune
éducation. Je dirais qu'à droite comme à gauche nos politiques ont
tous une même philosophie empirique — opposée à celle de Mazzini
et de Lamartine, — s'il n'était manifeste qu'ils se vantent de n'en
avoir aucune. Ce sont des spécialistes. L'administration des Etats est
devenu un commerce, avec ses risques professionnels et ses bénéfices.
Le gouvernement ne s'inspire d'aucune philosophie. Il ne vise plus à
orienter les hommes dans le sens où Dieu les appelle. Et les hommes ne
lui demandent que de leur garantir leur pain du jour. Voilà, peut-être,
où gît l'erreur.

Peut-être devions-nous, en effet, demander plus, demander trop à
notre infirme nature, pour en obtenir assez. Peut-être faut-il à
présent retourner vers les sommets de la discipline spirituelle. Ces
sommets sont âpres sans doute, _aria peragro loca_: mais c'est là-haut
seulement que l'action a sa source.


J'ai achevé, Mesdames et Messieurs, du mieux que j'ai pu, la tâche
que je m'étais tracée. Tâche un peu lourde pour vous, que ce sujet
austère n'a pas délassés; mais aimable pour moi, car c'est un profit de
ressaisir les conceptions élevées de ces deux politiques démodés; et ce
m'est une douceur de rapprocher fraternellement devant vous la pensée
d'un Italien et celle d'un Français.

Un mot encore. Le 27 mars 1848, Alphonse de Lamartine, qui se
trouvait alors Ministre des Affaires étrangères dans le gouvernement
provisoire de la République française, reçut à l'Hôtel-de-ville de
Paris une députation de volontaires italiens, conduite par Joseph
Mazzini. Dans cette rencontre mémorable, le grandhomme de chez nous
dit au grand homme de chez vous: «Et moi aussi, je suis un enfant, un
enfant d'adoption de votre chère Italie.... Votre soleil a échauffé
ma jeunesse et presque mon enfance. Votre génie a coloré ma pâle
imagination; votre liberté, votre indépendance, ce jour que je vois
enfin surgir aujourd'hui, a été le plus beau rêve de mon âge mûr...
Allez dire à l'Italie qu'elle a des enfants aussi de ce côté des
Alpes! Allez lui dire que si elle était attaquée dans son sol ou dans
son âme, dans ses limites ou dans ses libertés, que si vos bras ne
suffisaient pas à la défendre, ce ne sont plus des vœux seulement,
c'est l'épée de la France que nous lui offririons pour la préserver de
tout envahissement! Et ne vous inquiétez pas, ne vous humiliez pas de
ce mot, citoyens de l'Italie libre!... Nous ne voulons plus de conquête
qu'avec vous et pour vous: les conquêtes pacifiques de l'esprit humain.
Nous n'avons plus d'ambitions que pour les idées. Nous sommes assez
raisonnables et assez généreux sous la république d'aujourd'hui, pour
nous corriger même d'un vain amour de gloire.»[33]

Ce discours n'était pas frivole: l'événement l'a fait voir.
Cinquante-et-un ans après, j'ai voulu le répéter ici, en symbole de
ma reconnaissance pour votre accueil, et de ma foi en la coopération
fraternelle des peuples.



INDICE


  A sedici anni sulle barricate di Milano                  Pag. 5
  Venezia nel 1848-49                                          43
  Volontari e regolari alla prima guerra dell'indipendenza
    italiana                                                   81
  La démocratie spiritualiste selon Mazzini et selon
    Lamartine                                                 125



NOTE:


[1] LEOPARDI in _Parini e la gloria_.

[2] Ecrit qu'on peut lire au vol. VII, pag. 275, de l'édition romaine
des _Œuvres_ de Mazzini. Il en a été donné une traduction française à
la fin de la Biographie de Mazzini, par M.^me Ashurst Venturi (trad.
par M^me E. de Morsier, Paris, Charpentier, 1881), p. 185.

[3] Voy. la _Correspondance de Lamartine_ (éd. en 4 vol. in 12), t. IV,
p. 247, 248. Le discours est reproduit dans la _France parlementaire_,
t. V, p. 27.

[4] Correspondante aussi de Mazzini. Voy. les _Lettres_ de ce dernier
à _Daniel Stern_. Paris, Germer Baillière, 1873.

[5] _Correspondance_, III, p. 384; IV, p. 18; III, p. 325.

[6] _Novissima verba_, dans les _Harmonies_.

[7] _Novissima verba_, dans les _Harmonies_.

[8] _A M. De Genoude, sur son ordination_, dans les _Recueillements_.

[9] _Job lu dans le désert_. — _Cours de littérature_, 1856. Voyez les
_Fragments du livre primitif_ (_Chûte d'un Ange, vision_ VIII).

[10] _Les Révolutions_. L'idée de cette pièce est énoncée déjà
dans deux lettres à Virieu, des 30 janvier et 7 février 1831. —
_Correspondance_, III, p. 229-232.

[11] Dans _Jocelyn_ (1836); huitième époque. Le poème est presque
achevé en février 1834, quand le poète se met à son nouveau métier
d'orateur politique.

[12] _Corresp._, III, p. 320.

[13] _Ibid._, p. 69.

[14] _Ibid._, p. 328.

[15] _Corresp._, III, p. 219.

[16] _Ibid._, p. 423.

[17] _Corresp._, IV, p. 22.

[18] _Ibid._, III, p. 348: «Tout afflue à la _vérité vraie et non
conventionnelle où je me suis placé_.» Voyez IV, pag. 24.

[19] _Ibid._, III, p. 378.

[20] _Utopie, à M. Bouchard_, dans les _Recueillements_.

[21] _Lettres à Daniel Stern_, p. 36. — Cf. p. 27.

[22] Lettre à M.^me I... de Lausanne (1837) publiée par M.^lle D.
Melegari.

[23] _Conseiller du Peuple_, I, p. 227-228.

[24] _Devoirs de l'homme_, X.

[25] Lettre du 21 mars 1848.

[26] Lettre du 1^er octobre 1835. — _Corresp._ III, p. 377

[27] _Aux membres du Concile Œcuménique siégeant à Rome_, VI.

[28] _Ibid._ V.

[29] _Corresp._ III, p. 405. Lettre du 30 octobre 1836.

[30] _Ibid._ p. 402.

[31] _Conseiller du peuple_, I, p. 266, 273.

[32] _Des devoirs de l'homme_; trad. à la fin de la biogr. de Mazzini
(voy. ci-dessus), p. 383 et suiv.

[33] _Trois mois au pouvoir_, par M. DE LAMARTINE, p. 143, 146.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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