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Title: La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III - Quarta serie - Lettere e arti
Author: Various
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III - Quarta serie - Lettere e arti" ***


                                   LA
                             VITA ITALIANA
                                  NEL
                              RISORGIMENTO

                              (1849-1861)

                              QUARTA SERIE


                                  III.

                            LETTERE E ARTI.


      Autori e Attori drammatici                    GUIDO MAZZONI.
      La sincerità nell'Arte.
        (_L'Arte dal '48 ai '61_)                   UGO OJETTI.
      Le prime glorie di Giuseppe Verdi             PIETRO MASCAGNI.
      Il risveglio degli studi dell'antichità
        classica                                    GIROLAMO VITELLI.



                                FIRENZE
                          R. BEMPORAD & FIGLIO
                            _LIBRAI-EDITORI_
                                  1901



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                       RISERVATI TUTTI I DIRITTI.

      _Gli editori_ R. BEMPORAD & FIGLIO _dichiarano contraffatte
            tutte le copie non munite della seguente firma:_

     [Illustrazione: firma manoscritta]

       Firenze, 1901. — Società Tip. Fiorentina, Via S. Gallo, 33



AUTORI E ATTORI DRAMMATICI tra il 1849 e il 1861.

CONFERENZA DI GUIDO MAZZONI.


  _Signore e Signori,_

Il Voltaire, con una delle sue arguzie felici, definì il pubblico de'
teatri un animale contemperato di quattro nature diverse: un asino,
una scimmia, un pappagallo, un serpente. Non è difficile intenderne
la ragione. L'asino, perchè il pubblico ha troppo spesso le orecchie
lunghe; la scimmia, perchè un applauso di gente stipendiata ad
applaudire basta non di rado per far battere le mani a tutti quanti gli
spettatori; il pappagallo, perchè il giudizio di pochi diviene subito
il giudizio o il pregiudizio dei più, che forse non avranno pensato
mai nè sentito a quel modo; il serpente poi.... perchè il Voltaire era
stato qualche volta fischiato anche lui!

Le quattro nature mi sarebbe facile rintracciarle e dimostrarle a una,
a una anche nel pubblico italiano dal 1849 al 1861, a proposito degli
attori che si presentarono e delle opere che si rappresentarono allora
su' nostri teatri: mi sarebbe facile dimostrarvele se la strettezza del
tempo mi concedesse di abbondare in aneddoti. Ma almeno un'osservazione
credo di dovere aggiungere qui, prima di mettere da parte la maliziosa
definizione del Voltaire; ed è che per tali anni ci fu in esso pubblico
anche un po' della volpe e anche un po' del leone: della volpe per
la sottigliezza furbesca del deludere e mettere nel sacco, come
nell'antica epopea animalesca, i lupi delle imperiali, regie, ducali e
pontificie censure; del leone per certi generosi impulsi che facevano
di tanto in tanto sobbalzare gli uditori, mentre, dopo le sciagure
del '49, si preparava, quasi nel silenzio d'un forte raccoglimento, la
riscossa d'Italia.

Un asino, una scimmia, un pappagallo, un serpente, una volpe, un leone,
vi sembrano forse troppi? Ma riflettete che alla bestiale nomenclatura
manca almeno un altro animale, cui mi sarebbe forza accennare
quando non avessi a discorrere de' nostri padri e de' nonni che si
sollazzavano ridendo delle farse gioconde, e mi trovassi invece a far
da cronista de' pubblici più moderni che se la godono sghignazzando
dinanzi a certi spettacoli pruriginosi.


I.

Quanto meglio aver della volpe e del leone! E di qualità magnanime e
astute c'era davvero bisogno, in quell'ultimo decennio in cui l'Austria
e i governi restaurati oppressero la patria e cercarono quasi da per
tutto di rinfiacchirne l'anima, o distoglierla dalle alte visioni
sognate innanzi; le alte visioni dell'indipendenza e della libertà. La
censura non adoprò mai tanto le forbici quanto allora.

Una _Bianca Capello_ (sic) di Giovanni Sabbatini, nel 1844, era
stata proibita negli stati di Sua Maestà imperiale apostolica, e poi
in quelli del duca di Modena, e sequestrata a Modena nelle stampe,
perchè.... Ve lo dirà questo dialogo che par di commedia, ed è,
a proposito di un dramma storico, un racconto di storia vera. Il
Sabbatini si presenta al conte Riccini, Ministro di Buon governo, come
lo chiamavano, del Rogantino di Modena, Francesco IV, a ottenere che
sia tolto il sequestro; e ne è accolto così:

— Ah, lei dunque scrive di queste porcherie?

— Ma.... come, Eccellenza? un dramma storico, approvato (per la stampa)
dalla Censura di Milano?

— Storico, storico! Ce n'è tanta della storia senza andare a pescar
fuori queste sozzure! E poi la storia!... Chi è che fa la storia dei
principi? I nemici dei principi, i ribelli! Figuriamoci che belle
storie possono fare! —

E siccome l'autore insisteva sulle approvazioni già regolarmente
ottenute, il conte concluse:

— Io intanto le dico ch'ella non è niente affatto in regola. Non so
com'ella osi insistere. La è una porcheria! Mi pare che quando il
Ministro di Buon governo le canta chiaro e tondo questo giudizio, basti
perchè ella non abbia più da insistere d'essere in regola. —

Bisognò che il povero Sabbatini si desse per vinto. E voi forse
crederete ch'egli fosse un riscaldato, un acceso, e che la sua _Bianca
Capello_ fosse Dio sa qual covo di viperine allusioni liberalesche?
Nemmeno per sogno; tanto ch'egli stesso diventò poi, a Torino, un
censore drammatico! Ma nel fatto della fuga della Cappello da Venezia
col Bonaventuri, e de' suoi successivi amori a Firenze con Francesco
II granduca, e della morte del Bonaventuri, e di quella di Francesco II
e di lei, quale allora da tutti era stimato vero e certo storicamente,
il conte Riccini vedeva solo una seduzione, un rapimento, un omicidio,
commessi da un regnante; roba da Carbonari, roba da Mazziniani, ne
fosse o no colpevole il Sabbatini.

— Caro signor Sabbatini, — concluse il conte, — la badi a un vecchio;
qui non è più il Ministro che le parla, ma il suo buon amico Riccini,
che le dà un consiglio. Tratti altri argomenti.... Non si lasci guidare
dalla moda e dai guastamestieri che col pretesto della letteratura
pescano nel torbido.... —

L'autore ebbe anche a ringraziare de' paterni consigli; e stava per
andarsene, quando Sua Eccellenza lo richiamò, e porgendogli la penna
intinta nell'inchiostro, e la copia a stampa del dramma incriminato,
che si era fin allora tenuta lì innanzi sullo scrittoio, gli chiese un
piacere: — Desidero, caro signor Sabbatini, di avere il suo autografo.
Favorisca scriverci su, ch'ella mi fa dono del suo bel lavoro. —

E come l'altro lo guardava stupefatto e titubante:

— Sì, un bel lavoro letterario; il Ministro, governativamente parlando,
lo deve biasimare, ma il Riccini deve felicitarsene coll'autore.
Favorisca scrivere.

— Ubbidisco! — fu costretto a rispondere il Sabbatini, e scrisse sul
libro: «A S. E. il signor Conte Gerolamo Riccini l'autore in segno di
ossequiosa stima.» Non ci fu mai dedica men veritiera (e voi sapete
che soltanto le epigrafi mortuarie son più bugiarde delle dediche).
Racconta infatti il Sabbatini medesimo, che se n'andò crollando la
testa ed esclamando tra sè: — E a gente tale si dà il governo dei
popoli! — Tanto sentiva quella ossequiosa stima che aveva dovuto
affermare e firmare in una dichiarazione autografa.

_Nazione_ era parola da doversi sopprimere (diceva un censore) perchè
non poteva riferirsi ad altro che ad una vera utopia, e offendeva
i legittimi governi: la frase _ogni libera voce_ era una pericolosa
affermazione: _quella pazienza, virtù grande degli Italiani_ sembrava
che sonasse male, e che neppure essa, in un certo senso, fosse frase
innocente. Che più? Paolo Ferrari racconta (e ormai siam dopo il
1848-49) che due personaggi di commedia, il principe Leopoldo Roccalba
e il duca di Monteforte, divennero, per la censura di Modena, quegli
marchese, e questi conte; perchè là erano proibiti nelle commedie i
titoli di imperatore, re, principe, duca. Ma nella Toscana non piaceva
in bocca di attori il nome di Leopoldo, che era quel del granduca, e
la censura vi mutò Leopoldo in Arturo. Poi a Roma Arturo e il conte,
nelle loro esclamazioni amichevoli, doverono schivare di nominare Dio:
racconta la Ristori che là non si poteva dire _curato_ nemmeno come
participio del verbo _curare_: e Arturo fu per ciò costretto a dire
al conte, non più — Mio Dio! sei diventato grasso! — Ma — Oh ciel! sei
diventato grasso! — Per ultimo, siccome quella fiorente salute il conte
la doveva alla buona aria di Napoli, e l'autore gli aveva fatto dire:

      . . . È naturale. Di Napoli son stato
    A ber l'aure vulcaniche: sotto quel cielo ardente
    L'alma di caldi sensi ringiovanir si sente . . .

la censura napoletana, insospettita di quel _vulcaniche_, di
quell'_ardente_, di quel _caldi_, cancellò tutto, e volle invece:

    ART. Oh ciel! Sei diventato
            Ben grasso!
    CONTE È naturale! A Napoli son stato!

Come se a Napoli fosse necessario l'ingrassare!

Tutta la scena meriterebbe di essere così raffrontata; e da più altre
correzioni simili potrei agevolmente trarre il riso vostro, o signori.
Una almeno valga a confermare i ridicoli abusi in che l'officio del
censore quasi inevitabilmente doveva, di tanto in tanto, cadere. A
Venezia era impiegato nella censura un certo Pino Marzio: quando il
Ferrari introdusse nel _Goldoni e le sue sedici commedie_ il Marzio
famoso per la commedia goldoniana, il signor Pino Marzio non volle che
il suo casato fosse vituperato così; e cambiò Marzio in Ser Taddeo.
Come fare allora per la promessa delle sedici commedie nuove, là dove
il Ferrari rappresenta il Goldoni nell'atto di annunziarle alla platea
che poco innanzi fischiava e ora lo acclama? — _Don Marzio alla bottega
del caffè_, osservava il Ferrari al censore, è un titolo storico; quivi
almeno bisognerà lasciare Marzio, se no il pubblico si accorgerà del
mutamento! — Non ci fu verso, e i Veneziani si sentirono annunziare,
non _Don Marzio_, ma _Don Marco alla bottega del caffè_.

Volpi fini bisognava essere per cogliere, traverso queste smozzicature
e questi veli, l'intenzione dell'autore; per ridere a tempo della
goffaggine dei governanti; per applaudire a tempo ogni accenno, fosse
pur incerto e remoto, dell'idealità segreta in ogni petto italiano. Le
cronache teatrali son piene di documenti per sì fatta corrispondenza
tra gli autori e gli spettatori. Dopo aver ben bene tagliato e
rimpastato, le polizie si trovavano innanzi, ad ogni momento, uno
scartafaccio più incendiario che mai: tra le righe del copione
approvato lo scriveva via via, quasi con inchiostro clandestino, il
sentimento nazionale; e il caldo della ribalta lo faceva colorirsi e
apparir fuori, tra le risa o gli applausi, sotto gli occhi stupiti de'
revisori, che prima non ci avevano letto niente.

Quanto poi a quelli che dianzi chiamavo gli impulsi generosi del leone,
basta ripensare agli effetti ottenuti da Gustavo Modena, nel recitare
la _Divina Commedia_. Che più innocente di un canto di Dante? non
scrisse egli nel secolo XIV? che pericolo ci poteva essere ormai in una
pagina del teologico _Paradiso_?

La massima difficoltà che ha da superare un lettore di Dante a me
par che sia questa: il poema è autobiografico, e nel tempo stesso
rappresenta le cose e le anime in modo tale che il lettore mal può
guardarsi dal cadere nella declamazione drammatica. Ernesto Rossi, per
esempio, che tanto valeva per altre parti, a me non riusciva quale lo
avrei voluto io, perchè faceva dell'episodio dei ladri non tanto un
racconto quanto un'oggettiva raffigurazione. Il Modena, no. Veniva in
iscena nelle sembianze di Dante, e aveva quivi accanto, seduto a un
leggìo, un giovinetto vestito anch'esso secondo le fogge del Trecento.
Dante aveva già composto il canto; era allora nel correggerlo,
compierlo, dettarlo; e in fare ciò si riaccendeva, rivedeva con la
fantasia i luoghi già immaginati, riudiva le voci, si moveva come un
veggente che fosse insieme consapevole dell'arte e di sè. E consapevole
altresì era il Modena della patria; e scriveva che: «I nostri
odierni dolori spiegano assai meglio la _Divina Commedia_ che non la
parola morta delle glosse. Ogni esule scenda in sè, e vi troverà la
rivelazione del movente e dello scopo di Dante. Se oggi non è inteso il
poema, ci rimarrà in eterno un indovinello.» Oh nel gesto, nella parola
del Modena, tutti sentivano non pur Dante, ma anche la patria!

Trovo, in un numero della _Nazione_ del 1860, ciò che vi scriveva un
cronista per una serata nel teatro Niccolini: e, rileggendo, come un
alito caldo ci venterà sulla faccia: «Nel canto XXVII del _Paradiso_
accadde una mezza rivoluzione; e alle terzine dove San Pietro esclama:

    Non fu nostra intenzion ch'a destra mano
      De' nostri successor parte sedesse.
      Parte dall'altra, del popol cristiano;
    Nè che le chiavi, che mi fur concesse,
      Divenisser segnacolo in vessillo
      Che contra i battezzati combattesse;

a queste terribili parole, declamate con un accento _scrutans cordia et
renes_, tutta la platea si levò in piedi urlando con frenesia, quasi
intendesse simultaneamente applaudire al grande artista e protestare
di nuovo contro le stragi ancora invendicate di Perugia e contro i
massacri che sta pertinacemente meditando la corte di Roma!»

Il contrasto aperto o dissimulato tra le censure e gli autori, tra le
polizie e gli attori e i pubblici, è dunque una delle caratteristiche
del teatro italiano negli anni tra il 1849 e il '61. Gli attori erano
quasi tutti liberali, e molti attestarono i sentimenti loro, con più
certa prova che non fossero le declamazioni, e anche le multe e le
brevi prigionie, militando volontarii contro l'Austria. A rinfocolarli
valeva il fervore del pubblico. E quando alcun d'essi riusciva
sospetto, spesso a punirlo di pena giusta o ingiusta provvedevano le
platee. Troppo ebbe a soffrire nel 1860, a Genova, Ernesto Rossi,
crudelmente fischiato e costretto a partirsene, perchè era stato
a Vienna, e dicevano che là si fosse tanto inebriato dell'oro e
dell'incenso da non volere ormai nemmeno aver parte in un dramma,
la _Teresa Mazzanti_ d'Ippolito D'Aste, pieno d'allusioni ai nostri
nemici. Se volle riconquistarsi il favore dei Genovesi, dovè il Rossi,
quattro anni dopo, fare in pieno teatro aperte dichiarazioni; e le
fece, sia lode al vero, con accortezza e con dignità.


II.

Il Manzoni, da vecchio, diceva a Vittorio Bersezio che la forma
drammatica antica era finita; il pensiero nuovo l'aveva trovata troppo
angusta e l'aveva fatta scoppiare; non ve n'erano ormai più che i
frantumi, che invano alcuni tentavano di raccozzare insieme per dar
loro apparenza di cosa consistente: la forma nuova, intanto, quella
che doveva corrispondere ai bisogni nuovi, non c'era stato ancora barba
d'uomo a trovarla. Per conto suo, sperando che i tentativi irrequieti
precedessero forse di lontano l'ignoto riformatore che ammirerebbero
i figli o i nepoti, si compiaceva solo della commedia dialettale.
Infatti, quando _Le miserie 'd monssú Travet_, da Torino, dove prima
comparvero nel marzo 1863, passarono a Milano, egli, che da trent'anni
non aveva messo piede in un teatro, andò a sentire e applaudire. Il
pubblico, a vederlo, applaudì lui, ed egli, finchè potè, battè le mani
sforzandosi a credere e a far credere agli altri che il Bersezio solo
era il festeggiato così.

Fatto sta che la tragedia classica, colpita nel cuore dal Romanticismo,
morì; e una caratteristica dell'età di cui vi discorro è appunto
nel suo scomparire, nell'affievolirsi della commedia goldoniana, nel
trasformarsi insomma del repertorio.

Fin dagli ultimi del secolo XVIII si erano alternate sul palcoscenico
molte più forme e varietà di spettacoli che non abbiamo oggi. A
scorrere i diarii teatrali di quel secolo declinante e del XIX
sorgente, è impossibile non meravigliarsi della sovrabbondanza.
La tragedia classica con le unità di tempo e di luogo era la forma
officiale; ma accanto le sorgeva vigorosa la tragedia di argomento
moderno, che chiamavano urbana, e che non di rado già delle unità
non si curava; e all'una e all'altra toglieva un po' di favore la
concorrenza del dramma storico e romanzesco, macchinoso, farraginoso,
commisto di riso e di pianto. Del pari la commedia ridanciana con
le maschere e senza le maschere, durava ancora, mentre la commedia
sentimentale faceva spargere tante dolci lacrime. E vi erano inoltre
allegorie e fiabe; e perfino libretti di melodramma recitati senza
la musica. Più, le così dette commedie dell'arte, e le caricature
regionali impersonate in Stenterello, Pulcinella, Arlecchino,
Brighella, Pantalone, Cassandrino, Rogantino, e altre sì fatte argute
o scurrili figure.

Venne la questione tra Classicisti e Romantici: e quella che era stata
una confusa e polverosa baruffa di avventurieri si mutò in un'ordinata
battaglia di belle e ben capitanate milizie. Dopo gli esempii del
Goethe e dello Schiller, ebbe allora l'Italia col Manzoni il dramma
storico meditato e dotto, senza le regole accademiche, sebbene quasi
imbevuto di classicità, innanzi che la Francia prepotesse e in un certo
senso snaturasse il romanticismo nel teatro: ma la Francia, comunque
sia, non tardò ad esportare e a diffondere anche fra noi quelle sue
nuove merci teatrali. Vani erano riusciti da un lato i tentativi del De
Cristoforis e del Tedaldi Fores per mantenersi più o meno nella strada
aperta dal Manzoni; vani anche, dall'altro, quelli di Giovan Battista
Niccolini, d'iniziare lui una scuola che fosse possente di effetti
lirici e drammatici insieme, con viva e diretta azione patriottica.
Questa, non è dubbio, egli ottenne; ma l'_Arnaldo da Brescia_ che nel
1843 suggellò l'arte sua, stampato a Marsiglia, non potè venire in
Toscana che di nascosto, dentro alcune botti da caffè; e anche quando
fu letto liberamente, non potè salire sul palcoscenico, perchè poema in
dialogo anzi che dramma.

Molti tra voi rammentano, certo, il vivace racconto che Ferdinando
Martini fece del suo arresto e della partaccia che a lui sedicenne
toccò dal prefetto granducale, quando, nel luglio del '58, in una
dimostrazione sorta nel Teatro Nuovo dopo una recita della _Medea_,
sentendo crescere gli applausi da — Viva Niccolini! a — Viva il poeta
italiano! — Viva la gloria d'Italia! — Viva l'Italia! — gridò per conto
suo — Viva l'autore dell'_Arnaldo_! — ch'ei non sapeva, del resto, che
cosa si fosse. Questi stessi evviva palesano la principale ragione
di certi entusiasmi suscitati dal Niccolini; ed è indubitabile che
egli nè iniziò nè poteva lasciare una scuola, sebbene alcune delle
sue tragedie, come la _Medea_, l'_Antonio Foscarini_, il _Giovanni da
Procida,_ durassero a lungo sulle scene. Dopo il 1849 ormai il vecchio
poeta viveva appartato, più studiando le storie che fantasticando
poesia: ma sempre fisso col pensiero alla redenzione della patria,
le dette nel 1858 ancora una tragedia, _Mario e i Cimbri_, di cui
dicono l'intento così il tema come l'epigrafe petrarchesca apposta sul
frontespizio: «Ben provvide natura al nostro stato — Quando dell'Alpi
schermo — Pose tra noi e la tedesca rabbia.» A Tommaso Salvini, unico
interprete degno, ne affidava la rappresentazione.

Premii condegni non gli mancarono. La sera del 3 febbraio 1860, il
teatro di via del Cocomero fu solennemente consacrato al nome di lui,
recitandovi Ernesto e Cesare Rossi la grande scena dell'_Arnaldo
da Brescia_ tra il frate e papa Adriano, e il monologo di Arnaldo
nell'ultimo atto. E mosse il Niccolini indi a poco a salutare tra
noi il re possente che egli aveva invocato trent'anni prima, Vittorio
Emanuele: e lieto così della mèsse di cui egli medesimo aveva cooperato
a gettare il seme, morì nel 1861, il 20 settembre. Di un fulgido
sorriso si sarebbe illuminato il volto al poeta dell'_Arnaldo_, se
l'Angelo della morte gli avesse negli estremi momenti sussurrata
all'orecchio la profezia, che essa data del 20 settembre sarebbe di
lì a pochi anni divenuta sacra all'Italia per la liberazione di quella
Roma dove era stato perseguitato ed arso il suo magnanimo Arnaldo.

Nel 1847 era morto Carlo Marenco, che, dopo l'Arnaldo del Niccolini,
aveva osato dare in luce quello suo, sebbene non meglio adatto alle
scene. Più degno di nota egli è per alcuni esperimenti di conciliare,
seguendo in parte gli esempii del Delavigne, il classico col romantico.
Prima la Carlotta Marchionni, che nel '37 incarnò in sè la _Pia
de' Tolomei_, poi Adelaide Ristori, fecero applaudire questo che fu
il più popolare de' lavori suoi, e che si rannoda in un certo modo
alla popolarissima _Francesca_ di Silvio Pellico, durata dal 1815 a
commuovere con le lagrime sue e col disperato amore di Paolo.

E fin dal 1839 era uscito il _Lorenzino de' Medici_ di Giuseppe Revere,
dramma storico in prosa; che, afferrato dalle larghe e destre mani
del Dumas, e imitato da lui, fu tradotto in italiano dal francese,
e piacque allora a molti che dell'originale non sapevano o non si
curavano. Dramma storico in prosa è anche il _Fornaretto_ di Francesco
Dall'Ongaro, che dal 1844 faceva fremere e inorridire, specialmente per
l'arte di Gustavo Modena, sulle sorti pietose di quella vittima d'un
errore giudiziario. Se non che nel Revere e nel Dall'Ongaro e, abbiamo
visto, nel Marenco, un po' di infiltrazione francese non è difficile
avvertire; e convien rammentare che il _Moro di Venezia_ del De Vigny,
e _Marin Faliero_ del Delavigne sono del 1829; del '30 è l'_Hernani_
di Victor Hugo; del '32 il _Luigi XI_ del Delavigne; del '34 il
_Lorenzaccio_ del De Musset; del '35 il _Chatterton_ del De Vigny;
letti, tradotti, ammirati, rappresentati, discussi, via via, anche in
Italia.

Ciò per la tragedia e pel dramma. La commedia, dopo le risate di
buona lega suscitate sui primi del secolo dal Giraud con L'_Aio
nell'imbarazzo_, con _Don Desiderio disperato per eccesso di buon
cuore_, con _L'apparecchio del pranzo alla fiera ossia Don Desiderio
direttore del Pique Nique_, e dopo i sorrisi annacquati delle commedie
un po' pedantesche del Nota, si può dire non avesse altro, nella
tradizione goldoniana, che i lavori di Francesco Augusto Bon. Non
ridiamo noi ancora, e come di cuore, a _Ludro e la sua gran giornata_?
Ma dopo la trilogia di Ludro e altre vispe commedie, il fortunato
attore si volle provare malamente nientemeno che al dramma storico; e
indispettito della gelida accoglienza fatta dai Milanesi al suo _Pietro
Paolo Rubens_, non scrisse più, invecchiando nel dirigere compagnie di
comici, e, da ultimo, di filodrammatici.

Ed ecco in Francia nel 1840 _Il bicchier d'acqua_ dello Scribe e nel
'45 la sua _Catena_; nel '48 l'_Avventuriera_ dell'Augier, e l'anno
dopo la sua _Gabriella_; nel '52 la _Signora delle camelie_ del Dumas
figlio; nel '54 _Il genero del signor Poirier_ dell'Augier; nel '55
il _Demi-monde_ del Dumas; nel '61 _I nostri intimi_ del Sardou;
e _Il cappello di paglia d'Italia_ del Labiche è del '51. Le quali
date mi era necessario rammentarvi perchè, trattandosi di drammi e
commedie rimaste sino ad oggi, o sino a poco fa, nel repertorio de'
nostri teatri, bastano di per sè sole a chiarire quanta e quale fu la
invasione francese nelle scene italiane poco innanzi il 1848-49, e poi
sempre più, sino a ciò che vediamo noi.

Io non sono di quelli che per l'arte s'indignano, subito che alcun che
ci venga da oltre le Alpi: tanto meglio per tutti quando ce ne venga
del buono: noi già demmo, un tempo, assai agli altri, e gli altri ora
dieno pure a noi, in uno scambio inevitabile e proficuo. Ma vero si
è che nocque allora allo svolgimento dell'arte tra noi la soverchia
voga conseguìta dal teatro francese: i fiori che davano speranza del
frutto non allegarono e caddero appassiti o imbozzacchirono. Fino
allora si era, meglio o peggio, conservata in onore la tragedia;
oltre la _Pia_ del Marenco e la _Francesca_ del Pellico, anche il
_Filippo_, il _Saul_, la _Mirra_, varie altre tragedie dell'Alfieri
e di altri rialzavano all'alta poesia, quasi per turno settimanale,
il gusto del pubblico. E si era conservata in onore, meglio o peggio,
la commedia goldoniana: si applaudivano molto più spesso che oggi non
accada _I Rusteghi_, _Le Baruffe_, _Don Marzio_, _Il Bugiardo_, del
maestro, e _Don Desiderio_, _La Fiera_, _I gelosi fortunati_, _Ludro_,
_Niente di male_, parecchi altri lavori, dei discepoli suoi. Che si
rappresentassero insieme gli enormi drammi romanzeschi e spettacolosi,
triste eredità del Willi, dell'Avelloni, del Federici, cresciuta di
raffazzonamenti dal tedesco e dal Francese, non era insomma un male
diffuso e che degenerasse in pustole maligne; e tutti sentivano la
differenza sostanziale, quanto all'arte, tra la commozione estetica
e la perturbazione nervosa: conseguìta quella, la commozione che
nobilita, con l'analisi delle passioni e con la parola corretta e
sobria, anche nella ricerca dell'efficacia teatrale; conseguìta questa,
la perturbazione che abbassa, con l'azione violenta e con l'enfasi
spesso sgrammaticata in caccia dell'applauso. Dopo il 1848-49 si ebbe
il tracollo della bilancia: restarono i drammi sanguinosi o pietosi
come _I due sergenti_; piovvero e dilagarono i drammi romanzeschi della
nuova imitazione francese.

Ernesto Rossi nel 1850, a Trieste, corse rischio di esser fucilato
davvero dai Croati che dovevano fucilarlo per chiasso nel finale del
_Generale Ramorino_; buon per lui che, innanzi di andare a morte,
volle si riscontrassero le cartucce! Ma se questo fu uno spettacolo
d'occasione, _Il vetturale del Moncenisio_ fu dato a Milano, in quel
torno di tempo, ventiquattro sere di seguito. E allora un capitano
dei bersaglieri a Torino, Andrea Codebò, mosse le baionette aguzze
del suo rapido ingegno, contro _I drammi francesi_, in una parodia
che appunto così da loro ebbe il titolo. Luogo dell'azione (narra il
Costetti che bene tratteggiò la figura di lui e di altri scrittori e
attori di quel tempo) un camposanto; quivi, in un solo atto, duelli,
delirii, riconoscimenti, suicidii: figuratevi che un tale riconosce chi
sia un colonnello che egli sta per uccidere, e gli grida: — Ah, tu sei
dunque il figlio del carnefice di mio padre! — Grande fu il successo di
codesta satira; ma, come era naturale, non valse contro la moda.

Del resto, col male venne il bene; coi drammacci vennero di Francia
buone e belle commedie. Era il 1857; e _La vecchia pazza alla Torre
del Sangue_, _La tremenda sfida dei cavalieri della morte al Colle
del Terrore_, e consimili robe che un capocomico disperato imbandiva
al popolino bolognese nell'Arena del Sole, doverono da lui medesimo
esser messi da parte (copio anche questo dal Costetti) per dare al
pubblico, in un teatro, di gente pulita, come egli diceva, una commedia
di Dumas figlio che salvò lui e i suoi dalla fame. Senza estendere
l'osservazione di un caso singolo a legge generale, può servire esso
caso a indizio di ciò che allora accadeva: lo Scribe, l'Augier, il
Dumas, con l'arte abilissima di tutt'e tre, moralmente eletta nel
secondo, acutamente filosofica nel terzo, relegavano ne' teatri di
terzo e di quart'ordine le reliquie di un teatro spettacoloso che
risaliva a' primi del secolo XIX, e conquistavano i teatri migliori
pel nuovo repertorio francese, cacciandone via la tragedia classica,
ormai anch'essa decrepita, e la tragedia neoclassica e romantica che
pur avrebbero potuto, con qualche accorgimento, restarvi utilmente.

Guglielmo Shakespeare, per opera di Ernesto Rossi, della Ristori, del
Salvini, ottenne finalmente udienza e favore; ma fornì piuttosto pietre
di paragone al raffronto di un artista con l'altro, che fiamma viva a
infiammare, come era degno, le fantasie.


III.

Vi tedierei inutilmente enumerandovi ora anche soltanto i principali
dei drammi in versi che furono applauditi negli anni di cui sto
parlando: nulla, dopo quegli applausi, dovuti per massima parte ad
attori eccellenti, ha retto a lungo sulle scene, nulla ne è letto
oggi da chi non faccia professione di logorarsi gli occhi sulle stampe
dimenticate.

Che importa, per esempio, a voi di _Aroldo il Sassone_ di Napoleone
Giotti? Era il suo primo lavoro, nel 1846, e lo dedicava al Niccolini:
piacque, e tre sere fu dato nel teatro del Cocomero, che ancora non
si onorava del nome di lui. E che v'importa della sua _Monaldesca_?
Al Guerrazzi la dedicò il Giotti nel 1853, e furoreggiò: Adelaide
Ristori, che ne resse la parte principale, non è difficile credere
che ne dovè trarre effetti mirabili; ma cosa più pazza (sia detto col
debito rispetto alla memoria di quel pover uomo, morto di recente)
non credo facile immaginarla, nè verseggiarla con peggiore rettorica
romantica in più rimbombanti endecasillabi. Un po' dell'_Hernani_ e un
po' della _Beatrice Cenci_ vi si mischiano nell'azione di un Leonello
che, per vendicare un fratello ucciso da un marito geloso, si fa amare
dalla moglie di lui, la fa complice dell'assassinio col quale lo toglie
di mezzo, e poi le sghignazza in faccia che non l'ha amata mai e non
l'ama. Tutto questo con balli mascherati, usci segreti, temporali, e
canzonette sulla mandòla.

E meno v'importa, credo, dei drammi di Giuseppe Pieri, e del _Francesco
Guicciardini_, del _Dante Alighieri_, della _Beatrice Cenci_, di Pompeo
di Campello. Neppure il _Nerone_ del Cossa valse a far rammentare dai
critici il _Nerone Cesare_ di lui: mentre invece richiamò l'attenzione
di qualcuno al _Paolo_ di Antonio Gazzoletti, gentil poeta ma un poco
sbiancato e freddo, come lo definì il Tenca a ragione.

Il Gazzoletti e Antonio Somma (di cui la _Parisina_, del resto, era
uscita nel 1835), e Giulio Carcano ed Ermolao Rubieri, meriterebbero,
nella storia di questi tempi, almeno qualche parola. Un _Arduino_
del Carcano sarebbe, per esempio, da raffrontare con l'_Arduino
d'Ivrea_ di Stanislao Morelli, che Tommaso Salvini improntò della sua
gagliardia e fece tanto applaudire, costringendo (gli scriveva l'autore
riconoscente) il pubblico a inchinarsi ad un ragazzo come innanzi ad un
gigante. Ma si tratta, insomma, di opere morte da un pezzo e sepolte;
gli ultimi guizzi furono esse di un genere destinato a spengersi, in
quelle forme, per sempre.

Veniamo a ciò che fiorì, o almeno era degno di annunziare una primavera
nuova.

Vincenzo Martini, padre di Ferdinando, fu dei primi a tentare una
forma che la necessità del presente e i modelli francesi concordasse
con la tradizione italiana. Nel carnevale del '53 Adelaide Ristori
ne diè _La donna di quarant'anni_; cioè la marchesa Malvina; che fin
dai cenni dell'autore sui personaggi suoi ci è presentata con «tutta
la squisita ricercatezza di vesti e di modi cui si affida una donna
elegante sul declinar dell'età.» In quell'anno stesso _Il misantropo
in società_, dove il cavalier Maurizio, a soli ventisette anni, si
veste e si atteggia elegantemente, ma ha modi riservati e severi,
in curioso contrasto con quelli dello zio marchese Riccardo, che,
verso la settantina, mantiene una fresca giovialità. L'anno dopo, _Il
cavalier d'industria_, un tipo d'avventuriero vivamente raffigurato in
mezzo al moto d'una società viva di gentiluomini e di speculatori. «Io
avrò torto (scriveva il Martini) ma ho per articolo di fede in arte
drammatica che la commedia debb'essere il quadro della società e dei
costumi: quindi abborro dai grandi colpi di scena, dalle commedie _a
grande interesse_. Chi vuole di questa roba avrà ragione, ma non vada
al teatro quando si recita una commedia mia. Il tempo deciderà chi sia
sulla vera strada. Io sono convinto (lo dico senza falsa modestia) di
essere nel buon cammino, e se casco, come casco pur troppo, egli è per
debolezza delle mie gambe, non per avere sbagliata la via.»

Suo figlio Ferdinando, cui la carità filiale non offuscò l'occhio
acuto del critico, riconoscendo che Vincenzo talvolta si fermò alla
superficie senza approfondire l'osservazione nell'intimo dei costumi
e degli animi, ebbe piena ragione a lodare, specie nel _Cavalier
d'industria_, la larghezza almeno di quella osservazione, e ben potè
compiacersi di rammentare che Paolo Ferrari già ormai celebre scriveva
all'autore di quella commedia: «Voi siete l'ultimo a cui ho detto che
vi riguardo come maestro; e perchè l'ho detto a tanti altri che neppur
vi conoscono fuor che per fama, mi dovete pur permettere di ripeterlo
anche a Voi.» Peccato che poco egli desse al teatro; e peccato che
altre cure ne abbiano via via distratto il figlio suo, così pronto e
destro osservatore e analizzatore, e così elegante ed arguto maestro
del dialogo.

Non mi fermo su David Chiossone che fe' piangere molto; e trascuro,
affrettandomi, anche Giuseppe Vollo, veneto, cui, dopo un tremendo
dramma in versi _La famiglia Foscari_, del 1844, nel '55 una certa
opportunità dell'argomento e la bravura della Ristori fecero applaudire
a Torino _I giornali_, amarissimo dramma in prosa più tragico che
satirico. Li metto da parte perchè, dopo il garbo del Martini, quando
insistessi sul Chiossone e sul Vollo, al quale del resto non mancò la
forza d'un alto concetto, troppo parrei disposto alla censura e: Che
serve, direste, incrudelir coi morti?

Alla Toscana ci richiamano le prime prove di Luigi Alberti, che nel
'58 raccolse i suoi _Studi drammatici_, dove nulla è più che mediocre,
ma il mediocre non è almeno di cattiva lega. Val troppo meglio di
lui, Tommaso Gherardi del Testa. Poco ormai, e assai di rado, se ne
rappresenta; e _Il vero blasone_, _Oro e orpello_, _Moglie e buoi
dei paesi tuoi_, _La vita nuova_, che sono le migliori commedie di
lui, escono dal limite cronologico di questa lettura: oggi (m'insegna
Piero Barbèra, amico suo ed editore postumo) si vendono alcune di
quelle tenue azioni, schiettamente dialogate, solo come libri su cui
in Inghilterra s'insegna la buona conversazione italiana: il che, per
lo meno, conferma una stima nobilmente meritata e saldamente fermata.
Cominciò a mettersi innanzi nel '46; nel '48 combatte, fu prigioniero;
tornato, si pose a rappresentare, non di ardite linee nè di colori
vivaci, ma di paziente e corretta matita, la società toscana che si
vedeva intorno, cioè la borghesia quieta e un po' gretta. Non è risata
la sua, è appena un sorriso; ma non vi stanca ne nausea mai. È una
verità piccina la sua; ma è verità.

Se il bravo Luigi Suñer avesse, dopo le prime prove felici, seguitato
l'esercizio del fare, in cambio di restringersi a quello del
consigliare gli altri, con drittura e con sagacia, quanto volentieri vi
parlerei, a questo punto, di lui, che tanto prometteva! Ma mi conviene
tacerne anche perchè l'opera sua si svolse da _Spinte o sponte_ a _Ogni
lasciata è persa_, dal 1860 in poi.

Due sovrastano: Paolo Giacometti e Paolo Ferrari. Il Giacometti ebbe
dalla natura una forza drammatica come pochi; e lavorò indefessamente
come pochi. Nato nel 1816, si diè giovanissimo al teatro, seguendo le
compagnie e scrivendo durante più anni, per centoventi svanziche al
mese, cinque sei lavori ogni anno; onde ottanta fra commedie, tragedie,
drammi! Quando nell'82 morì, poteva vantarsi non tanto di avere scritto
così in fretta, quanto di avere, anche in quella corsa, rispettato
sè stesso e l'arte. Nel 1841, per esempio, diede _Un poema e una
cambiale_, _Cristoforo Colombo_, _Il poeta e la ballerina_, _Quattro
donne in una casa!_ cioè del cattivo, del mediocre, del buono, non del
pessimo. _La morte civile_, che anche oggi, rappresentata dal Novelli,
ci commuove, è del 1861; la pose in scena, a Fermo, Cesare Dondini.
Successore di Alberto Nota come scrittore nella Compagnia Reale Sarda,
gli fa perfetto contrapposto; quegli un grave impiegato, questi un
artista vagabondo: e, del pari, quegli compassato e monotono, questi
multiforme e diseguale. Quanto a potenza di fare, non è possibile tra
i due neppure il parallelo; ma per la felicità dell'esecuzione, come
al Nota avrebbe giovato la mano rapida e audace del Giacometti, così
al Giacometti un poco almeno della correttezza e agghindatura del Nota.
Nondimeno, abbia pure parecchi difetti e sieno gravi, _La morte civile_
offre scene mirabili. E nella storia del nostro teatro al Giacometti
non potrà non spettare un luogo notevole anche perchè, prima di Paolo
Ferrari, per due o tre decennii fu egli l'unico che avesse sortito
dalla natura tutte quante le doti precipue che fanno il drammaturgo
intiero; il senso del comico e del tragico insieme, il movimento
dell'azione e del dialogo, la virtù del riconnettere le parziali
osservazioni a un concetto superiore.

Di questo ultimo pregio Ferdinando Martini gli fece un'accusa; perchè
a lui, nel teatro, non sembra un pregio. Discorrere di ciò con lui
è attribuire a lui la vittoria e a sè la sconfitta, perchè pochi
sono così destri dialettici e così arguti ragionatori: se non che,
dentro me, rimango dell'opinione mia, e concedendo che una tesi, per
eccellente che sembri agli occhi del moralista o del sociologo, non
rese mai nè sia mai per rendere buono un dramma male ideato per l'arte,
sempre più con gli anni son venuto nell'opinione che si onora del
Manzoni e del Mazzini, quanto all'essenza etica che deve costituire
quasi direi l'anima onde le membra del dramma si agitano vitali. Poco
importa, pel giudizio dell'esecuzione, se la tesi sia o no giusta
in sè; basta che giusta la creda chi la sostiene: in tale sua fede è
il calore che dalla mente dell'artista passa nell'opera sua e la fa
sorgere e muovere.

L'amore delle tesi nocque, non è dubbio, a Paolo Ferrari nell'ultimo
svolgimento del suo teatro: ma la colpa non fu di esso amore, fu della
maniera di costrurre il dramma sopra una tesi prestabilita, in cambio
d'incarnare un concetto morale nei personaggi organicamente. Nè dir
concetto morale è lo stesso come dire tesi; e la vita rappresentata con
onesta schiettezza porge sempre da sè medesima un insegnamento, tanto
meno volgare quanto più acuta e profonda sia stata l'osservazione.

Del Ferrari, al quale spetterà, io credo, un'intiera lettura nella
serie che la benemerita Società vorrà forse darci l'anno venturo, non
ho tempo di parlarvi come egli si meriterebbe; tanto già nei primi
anni del suo lavoro drammatico fece di bello e di buono. Non è molto
che Giovanni Sforza ha edito e, come egli sa, illustrato _Baltroméo
calzolaro_, una commedia in dialetto di Massa che il Ferrari compose
in quella cara città nell'inverno del 1847-48, padroneggiando non
pur quel dialetto, ma altresì, di primo impeto (come accade solo alle
nature generose), il palcoscenico. Il Goldoni riviveva in quel giovane
venticinquenne; il Goldoni delle _Baruffe_ e del _Campielo_, stupendo
fotografo della vita popolare. In alcune scene _Baltroméo calzolaro_ è
cosa perfetta. Ma curiosità singolare gli viene dall'esservi già dentro
il nucleo anche di quel marchese Colombi, di gioiosa memoria, che avrà
poi tanta parte in _La Satira e Parini_. Perchè il Ferrari tendeva
intorno a sè l'occhio e l'orecchio; e non altrimenti notava gl'ingenui
costumi ed affetti del calzolaio ubriacone, che gli spropositi del
violinista Filippo Chelussi, marito d'una marchesa, e fattosi mecenate
di bande cittadine. Bartolommeo, ne' fumi del vino, esclama, come aveva
fatto più d'una volta costui, e come farà il marchese Colombi: — Oh!
Tasso! oh! Tasso! io resto attonito e non posso attribuire. —

Innanzi di lasciargli rappresentare il suo grande emulo nella pittura
de' costumi, Giuseppe Parini, volle il Goldoni dal suo discepolo
Ferrari l'omaggio d'una commedia: e nel 1851 gli fece suggerire
da un amico di leggere le _Memorie_ sue. Queste inspirarono la
commedia famosa in cui rivissero e il Goldoni e la sua Nicoletta e
i gentiluomini e i critici veneziani del 1749 in una tale snellezza
di scene e di dialogo, in una tale intima ed esterna comicità, che
poche commedie nostre possono certo starle a pari. Donde scappassero
fuori questa, esuberante di vita e di forza comica, e due o tre altre
commedie del Ferrari rigogliose e promettenti, si chiese il Carducci,
e rispose che non si saprebbe ben dire. E se il Carducci non lo seppe,
davvero non posso dirvelo io. Fatto sta che doverono cooperarvi e
infondervisi, alcun che dell'anima stessa del Goldoni assorbita
dal Ferrari su dai volumi delle _Memorie_, l'indole nativamente
comica di lui, alcun che degli esempii recenti francesi e italiani
che ho accennati sopra. Resta a ogni modo dinanzi anche a me, non
solo quell'«irreducibile» che gli estetici confessano a malincuore
nell'analisi di qualsiasi opera d'arte, ma altresì un piccolo problema
di critica storica che metterebbe il conto di tentare quando, non
foss'altro, ne avessimo oggi il tempo e fosse questo il luogo più
adatto.

_Una poltrona storica_ è del 1853, _La satira e Parini_ è del 1857,
_La medseina d'onna ragazza amalèda_, in modenese, è del 1859. E come
del _Baltroméo calzolaro_ si ebbe poi la riduzione in lingua letteraria
(troppo letteraria) nel _Codicillo dello zio Venanzio_, così la vispa
commediola modenese dovè adattarsi all'italiano nella _Medicina d'una
ragazza malata_. L'aver maneggiato i dialetti giovò, comunque sia, al
Ferrari, per la realtà dell'azione, per la vivezza del dialogo: chè
il raccostarsi al popolo, come dà forza per tanta parte della vita
sociale e morale, così anche per la vita artistica porge utili consigli
e una vigoria schietta e fresca. _La satira e Parini_, se non vale
forse quanto _Goldoni e le sue sedici commedie_, restò bell'esempio
di commedia storica in versi, e ha gettato nella memoria di tutti un
personaggio, il marchese Colombi, co' suoi proverbiali spropositi.

Il resto dell'opera del Ferrari non tocca a me accennarlo; e lascio
ben volentieri che altri, dopo queste sue prime e bellissime prove, lo
studii, come si conviene, l'anno venturo, mostrandocelo nei pregi e nei
difetti: principe, per anni parecchi, della scena italiana.


IV.

Se non tutto buona, dunque, ma curiosa e promettente, e nel Ferrari più
di una volta quasi perfetta, fu la produzione drammatica dal 1848-49
al 1861, già ci è qua e là apparso che gli attori valsero allora quasi
sempre più degli autori: onde, mentre le nostre tragedie e commedie non
varcarono le Alpi, li varcarono essi con la fama e con la persona loro,
e seppero vincervi aspre battaglie, con vittorie onorevoli alla patria
oppressa. Dopo il De Marini, Gustavo Modena; dopo Francesco Augusto
Bon, Cesare Dondini e Cesare Rossi; dopo la Internari e la Pelzet,
Adelaide Ristori; e con la Ristori, Ernesto Rossi e Tommaso Salvini.

Senza porre odiosi e impossibili raffronti, tutti convengono nella
eccellenza e preminenza del Modena. Una mente come egli ebbe, e la
dimostrano anche oggi le lettere sue; un animo quale egli ebbe, di
patriotta, e lo dimostrano i casi della sua vita; un cuore, quale
egli ebbe, di uomo, e lo dimostra l'indomabile amore della giovinetta
svizzera che, lasciando gli agi della vita paterna, volle seguirlo
su' palcoscenici e nelle campagne di guerra, e fu compagna sua sempre
innamorata, e fu per lui innamorata dell'Italia, non mai stanca nel
servire i feriti delle nostre battaglie; mente, animo, cuore, cioè un
tutto indivisibile di singolare altezza, erano troppo più di quel che
occorresse a un attore drammatico. E il Modena fu apostolo e milite
di libertà non meno che attore. A lui attore scriveva reverente il
Manzoni; a lui oratore eloquente nella Assemblea toscana, cui Firenze
lo aveva eletto con oltre diecimila voti, non so se applaudì, ma certo
consentì trepidante di commozione, la maggior parte di quel consesso.

Il racconto del come egli rappresentava il _Saul_ non è un aiuto
critico, come pochi ne abbiamo, per intendere meglio quella nobile
figura dell'Alfieri? E a leggere come declamava dell'_Adelchi_ la
narrazione del diacono Martino traverso le Alpi, facendo sentire
la solitudine enorme delle valli, e aprirsi al sole sorgente con un
crepitìo i coni silvestri de' pini; a leggere come declamava Dante,
traendo dal verso possente gli effetti che noi vi rintracciamo, ohimè,
con la critica paziente; ci riempie anche oggi di stupore.

Ma egli era nato nel 1803, e la sua figura, voi lo vedete, esce quasi
dal quadro commessomi.

Vi rientrano gli altri, il Rossi, il Salvini, la Ristori. Del Rossi
solo, perchè morto, mi è lecito parlarvi un po' a lungo; ed anche
perchè egli fu ed è il più discusso dei tre. Nè Tommaso Salvini nè
la marchesa Capranica Del Grillo hanno davvero bisogno delle mie
lodi, e basterà loro, se leggeranno queste pagine, che sappiano come
anch'io, con molti di voi, o signore e signori, ho ringraziata la sorte
dell'avermi concesso il piacere di ammirare almeno nel tramonto quegli
astri che raggiarono fin dal sorgere di tanta luce, e che splenderono
così possenti nel pieno meriggio.

Il Rossi, io credo, valse meno di loro: ma forse ebbe più merito
a levarsi là dove si levò, perchè mosse di più basso, e si fece
con ardore e costanza la via tra ostacoli che essi non ebbero a
superare. Basta leggere le memorie nelle quali egli, narrando i suoi
_Quarant'anni di vita artistica_, si rappresentò così al vivo come
avrebbe potuto farlo in uno de' drammi che gli piacevano tanto, per
sentire la verità di tale mia affermazione. La miseria, la vanagloria
infantile, gli studii frettolosi, talvolta le stesse qualità sue gli
nocquero; eppure fu e si mantenne a lungo un attore grande. Guardatelo
nei principii, quando a Foiano nel 1846 deve fare da Paolo nella
_Francesca da Rimini_, e non ha neppure un po' di vestito: «Aprii il
mio bauletto, e dissi a me stesso: — Su, signor abate, pensi, immagini,
e trovi qualche cosa per vestire il signor Paolo da Rimini! — fruga,
fruga, esamina, trovo un paro di mutande di lana rosse: benissimo! ecco
le maglie! un paio di _brodequins_, ecco le scarpe; ma erano scarpe
moderne, e bisognava dar loro una foggia antica: trovo due pezzi di
cartone, li taglio a forma di barchette, li cucio e impasto insieme,
con della tinta da scarpe li lucido: ed ecco fatto la sopra scarpa!
— ma il vestito? — Aveva una giacchetta di velluto nero! ecco il
sottabito. — Con uno scialle di falso Cachemir, che la mia povera mamma
mi aveva dato per coprirmi dal freddo nel viaggio, faccio una specie di
pianeta, tale e quale i preti portano in chiesa per dire la messa: ecco
la pazienza. — Alla mia berretta da viaggio, che era di panno nero,
levo il tettino, ci metto una penna d'oca: ecco fatto il berretto. —
Così vestito, Paolo se ne venne da Bisanzio e dalle guerre sante, disse
la bella apostrofe all'Italia, ed il pubblico andò in visibilio.»

Così fece poi sempre: andò innanzi senza mai timori; baldanzoso, mise
il piede, occupò. Ciò che meno in lui mi piacque, un certo tal quale
istrionismo, le Memorie mostrano che fu una parte così integrante
dell'indole sua, che, senza di esso, non avrebbe potuto mai fare quanto
fece. — Faccia franca! — è uno de' suoi motti preferiti; e sarebbe
cattivo motto per la vita; ma sul teatro riesce opportuna la prontezza
dello spirito.

La Ristori lo ebbe compagno nel 1855, e nelle Memorie dell'uno e
dell'altra è compiacenza leggere le lodi reciproche per quelle vittorie
contro le gelosie della Rachel, su cui l'attrice nostra ottenne gli
onori tanto come attrice quanto come gentildonna: e il Rossi sentiva
un po' di onesta gelosia pel trionfo di lei che la aveva seguita
contro il consiglio del suo maestro, il Modena. Ma a questo punto del
suo racconto rompe in parole che gli sgorgano dal cuore, e fan bene a
rileggerle:

«Io stimai sempre la Ristori, l'ammirai sin da giovinetto... più
volte mi presi a dispute e battibecchi con critici e pubblico, per
difenderla imparzialmente dagli attacchi ingiusti, severi o avventati:
l'amai anche come donna, senza mire o scopi indiretti: le fui sempre
devoto, e non voglio neanche oggi dirle con la mia penna quanto mi fece
soffrire. Ella dimenticò, che io era giovine più di lei: che, entrato
nell'arte con tutte le illusioni di una anima non corrotta (che per
me tutto era color di rosa e poesia), me ne era fatto un ideale di
perfezione: che l'invidia, la maldicenza, l'orpello, l'ipocrisia, erano
per me cose ignorate: che la verità, quella verità che non offende,
ma che stabilisce i fatti e chiarisce le posizioni, fu sempre la mia
guida: che amava io pure di farmi strada, di progredire, di diventare
un grande artista come lei; e come era pronto a stenderla, io pure
desideravo una mano che mi sollevasse, un braccio che mi sostenesse.
Ella nell'ebbrezza della sua felicità non scese nel suo cuore, e glielo
perdono per la sua grande arte, che ammirai e ammiro sempre in lei
anche oggi, benchè sia _vecchia_ e _finita_ come taluni dicono: ma è
tal fine, che potrebbe essere principio a molte e molte attrici, le
quali si vollero chiamare di lei maggiori. Povere stolte! e più che
stolte, impertinenti!»

La Rachel, andata a sentire la rivale, non ci resse, e al terzo atto
della _Mirra_, afferrando per un braccio il suo cavaliere, se lo
trascinò via fuor del palco e del teatro: la Ristori, quando la Rachel,
il giorno dopo, aprendo una pericolosa gara, annunziò il suo ritorno
sulle scene con la _Fedra_, prese un palco, ascoltò attenta, tranquilla
applaudì.

Aveva ragione dunque il ministro di Sardegna nel fare un brindisi a
quegli attori italiani che allora a Parigi così avevan fatto, diceva
egli, più assai che una bella rappresentazione d'una bella tragedia.


  _Signore e Signori_,

Nel 1855-56 i due fratelli De Goncourt percorrevano l'Italia pigliando
qua e là curiosi appunti con la penna e con la matita. L'impressione
conclusiva del loro libro fu questa: «Finale. Pulcinelleria universale
di tutto quanto il popolo napoletano, mascherato da Pulcinella, in atto
di brandire fantocci di pasta da maccheroni, e che con l'altra chiede
la _buona mano_ ai _forestieri_.»

Mentre il Piemonte si preparava a combattere insieme con la Francia,
virilmente trattando le armi per l'Italia; mentre l'Italia tutta, a
chi l'avesse osservata con occhio più acuto, sarebbe apparsa un enorme
focolare dove le ceneri mal nascondevano la brace ardente; quegli
attori a Parigi ci vendicavano dall'oltraggio immeritato: e lode sia e
gratitudine a loro.



LA SINCERITÀ NELL'ARTE.

(l'arte dal '48 al '61)

CONFERENZA DI UGO OJETTI.


Un anno fa, Signori, io vi descrissi la vita dell'arte italiana fino
al '48. Il '48, lo ripeto, è per noi una pietra miliare donde non solo
una nuova politica si parte, ma anche una nuova arte più libera e più
franca sotto il sole. Nel 1843 Gioberti aveva pubblicato il _Primato_.
nel 1844 Balbo le _Speranze d'Italia_, e d'Azeglio — il romanziere e
il pittore d'Ettore e di Ginevra — aveva lanciato l'opuscolo sui _Casi
di Romagna_ subito dopo i moti di Rimini e di Bagnacavallo, il quale
opuscolo è ancora mite e quasi dottrinario rispetto al famoso libro
sui _Lutti di Lombardia_. Egli è ferito a Vicenza. Succedono le cinque
giornate di Milano, la difesa di Venezia, la difesa di Roma; Guerrazzi
e Montanelli vogliono stabilire la Repubblica a Firenze; Mazzini, a
Roma. Dopo Novara, il d'Azeglio accetta d'essere il Ministro per la
pace, e da quel giorno è ecclissato dal genio lentamente audace di
Camillo Cavour. La scuola liberale lombardo-piemontese, cui egli e
Pellico e Manzoni appartenevano, e di cui, come fissa il De Sanctis,
Balbo era il dottrinario, Gioberti l'oratore, Rosmini il pensatore,
è sconfitta a Novara dalla scuola mazziniana democratica che col
Campanella a Genova, col Farini in Romagna, col La Farina in Sicilia,
col Guerrazzi in Toscana, con Carlo Poerio a Napoli aveva direttamente
e indirettamente fatto il '48 e lanciate le insurrezioni.

Quella, volendo lasciare la società alle sue forze naturali perchè
riescisse al progresso, respingendo ogni idea di violenza sia che la
violenza scendesse dall'alto, sia che salisse dal basso, non aveva
agitato che idee generali e larghe astrazioni, e, sopra tutto, era
stata misurata e composta. Misurate e composte erano state le classi
dominanti, finchè essa le aveva dominate. Misurate e composte, come
abbiam visto insieme l'altr'anno, erano stati gli artisti, che solo da
quelle classi traevano danaro ed onori. I più franchi sostenitori di
quella scuola, come il d'Azeglio, dichiaravano che la tirannide interna
premeva poco, che l'importante era fare l'Italia, con la libertà se
era possibile e, se no, anche col dispotismo. La scuola democratica,
invece, proclamò con voce sì alta che ne tremarono i troni dei principi
italiani in apparenza più amati, che se gl'individui non sono liberi,
è inutile che sia libera la patria.

La libertà degli individui! Questa era stata la vera rivoluzione
del romanticismo di Francia e di Germania, del romanticismo che i
federalisti e i pietisti d'Italia erano riesciti, sul vecchio esempio
dello Chateaubriand, a mascherare da guelfo fino al 1848. La libertà
degli individui, il diritto alla emancipazione assoluta dell'io, il
diritto alla passione e alla originalità! Questa era nelle arti la vera
essenza del romanticismo, che Rousseau aveva sognato senza dargli un
nome, che Goethe aveva dichiarato nel _Werther_, che Byron, Shelley,
Hugo, Vigny, Musset, Lamartine e il primo Heine avevano gridato e
cantato in tutte le loro opere sfrenatamente liriche, recando pel mondo
sulla mano i loro cuori rossi e fumanti come fiamme.

Non posso qui mostrare come la contraddizione fra l'idealismo lirico
individuale e romantico del Mazzini letterato e la collettività
dell'arte predicata dal Mazzini uomo politico, nascosta da lui con
grandi sottigliezze logiche e con qualche onda retorica e considerata
dai suoi critici insanabile oggi, invece alla luce dell'esperienza e
sotto l'esame dell'estetica psicologica possa dirsi sono apparente.
Oggi a me basta indicare che nel 1848 soltanto — nell'anno taumaturgo,
— come disse il dall'Ongaro, vien per la prima volta in Italia
dichiarata la necessità della libertà politica degl'individui dentro
una patria indipendente, e vien perciò per la prima volta instaurato
nell'arte il diritto alla sincerità.

Fino allora i nostri romantici avevano avuto la frenesia di piacere,
di piacer subito e di piacer molto, rendendo attraenti le pene umane
col respingerle verso il passato, rendendo attraente la figura umana
col correggerne i difetti e svisando così nella spontaneità d'emozione,
quella violenta istantaneità di visione che avevano già dato alla vera
poesia romantica nel 1829 le _Méditations_ di Lamartine e alla vera
pittura romantica nel 1822 la _Barca di Dante_ di Delacroix. Non aveva
lo stesso Manzoni nel 1823 confessato nella famosa lettera al marchese
Cesare Taparelli d'Azeglio che «bisogna scegliere argomenti pei quali
la massa dei lettori ha una disposizione di curiosità e d'affezione»?
La nuova libertà non comanderà agli artisti e agli scrittori questa
premeditata servilissima scelta: ma essi vedranno che solo in quanto
saranno sinceri, anzi quanto più riesciranno a esser sinceri, tanto
più ritroveranno nel loro pubblico ossia nel pubblico simile a loro,
un consenso d'applausi. E così, mentre in quell'altra arte fatta
deliberatamente per piacere, la mortalità delle opere sarà grande e
veloce, in questa nuova arte sarà in ragione inversa della sincerità
dell'artista.

Un artista solo in Italia aveva prima d'allora, ostinato, austero
e sdegnoso, posto a norma della sua vita e delle sue opere questa
sincerità: il vostro Lorenzo Bartolini che nel mio discorso
dell'altr'anno abbiamo con entusiasmo glorificato insieme. Dopo lui,
nel periodo che descrivo adesso, due altri scultori difendono la nostra
gloria artistica nel terribile schiacciante paragone con gli stranieri:
ancora un toscano, il Duprè, e un ticinese, il Vela.

Basta confrontar i ritratti di questi due grandi, per intendere tutta
la differenza dell'animo loro: Giovanni Duprè scarno, pallido, nella
tarda età quasi diafano in volto, con la barba morbida precocemente
canuta, coi capelli lisci pettinati all'indietro e un po' lunghi alla
Mamiani, col naso prominente tagliente, cogli occhi a mandorla gentili,
bonarii e sorridenti sotto le sopracciglie morbide e lunghe, con le
labbra sbianche e sottili sotto i baffi più rari, — Vincenzo Vela
rosso, valido, olivastro, col volto largo allungato dalla folta barba
fulva, col naso piatto donde dalle due pinne partono verso le labbra
due solchi profondi, con la gran fronte convessa e l'arcata ciliare
come gonfia sopra gli occhi neri, lucidi, severi e meditabondi; quegli
fatto per sorridere e per accogliere con affabilità, questi fatto per
tacere e per soffrire anche al culmine dell'attività della gloria;
quegli dolce e sereno come un bambino, ansioso e nervoso davanti a ogni
ostacolo, questi austero e violento e muscoloso, precocemente virile e
pronto all'azione come il suo _Spartaco_; l'uno come il suo _Abele_ più
degli altri pensoso che di sè stesso, l'altro raccolto nei suoi vasti
pensieri e nei suoi sentimenti profondi come istinti; l'uno timido nel
lavoro del marmo e prudente, l'altro leonino nell'assaltar la pietra
per cavarne i suoi sogni nascosti, impetuoso come un amante che strappa
i veli e misura il tempo dal battere del suo cuore gonfio di passione
come una marèa sotto la luna.

Sì, Giovanni Duprè fu un mite. Basta leggere i suoi _Ricordi_,
delicati, patetici, toscanamente arguti. Nel folto della famosa disputa
bartoliniana se un gobbo fosse o no degno soggetto d'arte, egli ancor
giovane restò in disparte per modestia; capì che pel gran Bartolini lo
studio del vero anche brutto era — son sue parole — «un puro esercizio
di copia, che è quanto dire il mezzo per giungere all'arte, o, com'egli
diceva, tenere le redini dell'arte, e che il male si era, che molti,
scambiando il mezzo col fine, correvano al precipizio.» Acuta e limpida
osservazione in cui nessun critico sereno ha poi trovato una virgola
da mutare. Ma egli era un sensibile e non aveva la ferrea dirittezza
del caposcuola, quella costanza e quell'unità di mente che ci fanno
apparire tutte le opere del Bartolini o del Vela come tante sillabe
d'una parola sola. Egli nel '42 aveva finito di modellare quel suo
dolce _Abele_ morente col perdono negli occhi e con l'agonia per
tutto il leggiadrissimo corpo, fin nelle chiome femminee che sembrano
madide di sudore mortale. Ma già l'anno seguente, quella disputa
dall'Accademia fiorentina diffusasi per tutti i circoli dell'Italia
centrale e su tutti gli album artistici — come ancora per lo più si
chiamavano i pochi periodici d'arte — tanto gli aveva occupato la
mente e affannato il cuore, che egli finiva celeremente il suo _Caino_
opera così voluta, così innaturale all'anima sua, che l'insuccesso
palese ne fu da qualche maligno fissato nel motto che questa volta
Abele avea ucciso Caino, non Caino Abele. Della quale affermazione è
persuaso chiunque nella sala della Stufa a Palazzo Pitti confronti i
bronzi delle due Statue. E lo stesso errore fu dallo scultore ripetuto,
quando volle eseguire il monumento a Cavour per Torino, egli che non
aveva muscoli per la lotta all'aria aperta, e quando scolpì la statua
di San Francesco così inutile e inespressiva nel suo piccolo candore
lì su la piazza d'Assisi di contro all'alta austera facciata romanica
della cattedrale colore del ferro, — perchè altra febbre d'ardore fu
veramente in Francesco, un ardore tanto più attivo e più combattivo di
quella reclina rassegnata umiltà di rinuncia!

Ma per la sua gloria un'altr'opera fin dal 1863 il Duprè aveva
compiuta: un'opera che è forse la sua maggiore, perchè in essa egli ha
potuto concentrare tutta la sua tenerezza composta e un po' mistica,
tutta la sua passione mai violenta e teatrale, ma forse perciò tanto
più sincera e profonda e potente, come un timoroso amore che non riesce
a trovar la voce per confessarsi: parlo della _Pietà_ che è al cimitero
della Misericordia a Siena, poco oltre quella chiesa di Sant'Agostino,
che contiene il suo gelido _Pio secondo_. La Vergine è genuflessa
sulla gamba sinistra; sul suo ginocchio destro rialzato e drappeggiato
da pieghe molli stanche cadenti si appoggia con tutto il dorso il
Cristo morto che ha la testa reclina e le due gambe distese sul piano
del marmo. Aperte le braccia, smunte le gote, schiusa nello spasimo
silenzioso la bocca, di sotto il manto che la schiaccia e l'adombra,
come un dolore visibile, ella si china verso la faccia della morte,
verso la fredda faccia. Tutto il figliuolo diletto sulle cui mani e sul
cui costato si schiudono le cicatrici delle stimmate donde sprizzò col
sangue una luce di sole sul mondo, ella accoglie così nel suo grembo,
ella ripara sotto il suo manto; e le braccia di lei, che accompagnano
più in alto la linea delle braccia di lui abbandonate dalla vita,
non osano toccarlo, sebbene le due mani si pieghino già alla carezza
materna. Par che la madre aspetti da quel suo figlio che è Dio il
prodigio, il prodigio di un'ultima parola, d'un ultimo sguardo, d'un
bacio. E il bianco dramma si profila sul marmo grigio del fondo, e ogni
muscolo e ogni piega commentano con una parola precisa l'elegia ansiosa
dei due volti: uno morto d'amore, l'altro vivo di pena.

Oh non si dica che questo patetico, solo perchè mai volgare, non
abbia studiato e compreso il vero quanto i più frenetici e pettegoli
veristi! Egli che quando prima espose l'_Abele_ fu accusato di averlo
formato sul vivo, egli che anche in un lavoro ornamentale come il piede
alla famosa tavola delle Muse di Palazzo Pitti riescì nelle figure
e nelle allegorie delle stagioni a vivacità fresche come quelle d'un
quattrocentista, egli che a Roma osò chiamare il Tenerani trionfante
un «timido amico del vero,» egli che dolorosamente si stupiva di udir
dall'Overbeck nazareno l'eresia che i modelli, ossia il vero, uccidono
l'idea!

Il Vela, l'ho detto, fu al paragone un impetuoso. Venir a parlar di
lui dopo il Duprè può quasi sembrar artificio di contrasto retorico,
par di passare da un fresco giardino odoroso dentro una cupa selva che
stormisce con un romore d'oceano.

Da Ligornetto nel Ticino ansioso di novità e di lavoro a Milano,
dove il '36 la _Fiducia in Dio_ del Bartolini mandata alla galleria
Poldi Pezzoli gli rivela l'avvenire; da Milano a Roma, povero e solo,
a modellare in una soffitta lo _Spartaco_ mentre il Minardi pittore
squallido e il Tenerani scultore prudente tengono tutti gli onori; da
Roma nel '47 nuovamente nel Ticino per la guerra del Sonderbund e poi
dal Ticino giù in Piemonte tra i volontari italiani a sognare il gran
sogno e a guardar in faccia la morte: dopo Novara a Milano a finire pel
Litta lo _Spartaco_, a Lugano ad erigere un altro simulacro di libertà,
il Guglielmo Tell, da Milano, rifiutata fieramente agli Austriaci la
nomina di professore all'Accademia di Brera, a Torino accettando quella
di professore all'Albertina; superbo di modellare per piazza Castello
l'_Alfiere_ colossale che Milano dava, come un giuramento, al Piemonte;
poi scultore del _Carlo Alberto_, del _Dante_ e del _Giotto_ e di quel
_Cavour_ che in mezzo al tumulto frenetico della Borsa di Genova pare
col nobile volto e il calmo gesto rammentar a tutti gli energumeni
attorno la felicità della patria non esser fatta solo dall'oro; ancora
più epico del Manzoni col _Napoleone morente_, infine egli chiude la
sua vita agitata ed indomita modellando l'alto rilievo delle _Vittime
del lavoro_, rude e tragico monito dell'avvenire!

Avete voi nella memoria il _Napoleone morente_? Quella ancor salda
figura seduta sulla larga sedia col cuscino che fa da sfondo fino a
metà della testa, con quella grave coperta sulle gambe che facendo
una massa sola della parte inferiore della statua concentra lo sguardo
dello spettatore nella fissa faccia, nella mano contratta sulla carta
d'Europa, nel petto che s'intravvede sotto la camicia semiaperta quasi
che il respiro mancasse alla bocca imperiosa? Il solco profondo a mezzo
il mento, i due segni netti ed ombrati più agli angoli delle labbra
sottili serrate, il naso aquilino, i due ponti dell'arcata ciliare
diritti a sostenere la gran fronte, e in mezzo alla fronte quella ruga
che forse è di pena ma sembra di minaccia, tutto contribuisce a dare
a quel volto terribilmente imperioso più che il solenne segno della
morte vicina la luce divina dell'immortalità, tanto che — al dire d'un
contemporaneo — «il fitto cerchio di persone d'ogni ceto, d'ogni età,
d'ogni lingua che gli stava dattorno, faceva come avrebbe fatto dinanzi
all'imperatore ancor vivo, dinanzi all'uomo dalle cui mani fosse
sfuggito, sì, l'impero del mondo, ma potesse ancora riprenderlo.»

Lo so: da critico diligente io devo rammentarvi che il Vela, al
verismo del Bartolini, aggiunse la sincerità nel ritrarre sui corpi le
vesti spesso goffe dei suoi contemporanei, tanto che sul suo esempio,
e massime per opera d'un suo ammiratore, Santo Varni, da venti o
trent'anni il cimitero di Staglieno va divenendo una collezione di
orribili ineleganze, una storia volgare di tutte le più stupide mode
di vestiti maschili e femminili dal '60 in giù. Devo anche dirvi che
molti dei suoi somigliantissimi ritratti — da quello del Carloni a
Lugano, da quelli del Gallo e del Balbo e delle due Regine a Torino
fino a quelli del Grossi e del Piola nel cortile di Brera a Milano
— sono stati accusati di essere poco espressivi, sebbene a me paia
che nessun moderno lo abbia raggiunto nel trattar con diversa mano le
diverse materie, e le carni e i capelli e le vesti e il cuoio e i lini.
Ma qualunque critica vi proponga, un solo e massimo vanto io vorrei che
voi deste al gran Vela se mai, oltre il lago di Lugano, tra i monti
verdi vi inoltriate fino a Ligornetto ed entriate nel bianco museo
della sua villa, nel giardino odoroso piantato dalle sue mani, seguìto
dal gran mastino nero che le sue mani hanno accarezzato: il vanto
di essere stato più di ogni altro scultore della sua epoca sincero,
quello, cioè, di aver in ogni suo marmo espresso un po' dell'animo suo,
una speranza o un entusiasmo con un vigore che la modernità non aveva
ancor visto.

La scultura italiana di cui pare che i critici odierni parlino con
qualche disdegno in poche righe dopo pagine e pagine in onor della
pittura e di cui le esposizioni fino a poco tempo fa si servivano solo
per addobbare le sale o per riempire i corridoi; la scultura italiana,
invece, ha tenuta alta la nostra gloria artistica quando, al confronto
cogli stranieri, la nostra pittura, se pure in Italia con un po' di
retorica patriottica era detta viva, all'estero faceva pietà. Quando
nel '55 con una crudele cortesia Gauthier diceva «che l'Italia aveva
largamente pagato il suo debito d'arte al genere umano, e che egli non
avrebbe certo commesso l'iniquità di burlarsi della nostra miseria,»
quali scultori poteva opporre al Duprè, al Vela, al Tenerani, poichè il
Bartolini era morto nel '50 e a tanti altri minori rispetto soltanto
a quei grandi? Fino al '67 a Parigi col _Napoleone_ e con la _Driade_
del Vela, con la _Pietà_ del Duprè, con l'_Amor pitocco_ del Cambi, col
_Socrate_ del Magni, fino al '73 a Vienna col _Jenner_ di Monteverde,
col _Nerone Travestito_ del Gallori, col _Canaris_ di Civiletti, la
scultura ci ha difesi da quell'accusa di morte.

A Torino, poichè nel 1878 il Marocchetti era emigrato definitivamente
in Francia, accanto a Vincenzo Vela che il marchese di Breme chiamava
nel '55 a insegnar nell'Accademia allora allora rinnovata da un
apposito decreto, erano il Dini ancora classicheggiante ma nei
ritratti vivissimo, l'Albertoni di fare grandioso e monumentale ma
poco espressivo meno forse che nel monumento a Vincenzo Gioberti, e due
fratelli — pur troppo dimenticati — Francesco e Giuseppe Pierotti, che
modellavano con sicurezza gruppi d'animali.

A Milano, al vecchio Cacciatori succedevano due o tre giovani come il
Bayer, lo Strazza, il veronese Fraccaroli che allievo del Zandomeneghi
era venuto da Venezia verso il '35, il Pandiani la cui figliuola
Adelaide avrebbe poco dopo il '60 creato la _Saffo_ mirabile immagine
della desolazione amorosa, il Tantardini che col _Geremia_ mostrò che
cosa potessero anche in un ingegno non sommo gl'insegnamenti del Vela,
infine il Magni che col _Socrate_ e con la fontana Nabresina a Trieste
già provava l'amorosa diligenza — non altro! — con cui nel '72 avrebbe
eretto in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci.

Qui a Firenze, intorno al vecchio Romanelli, al Fantacchiotti, al
Cambi, nessuno ancora sorgeva a eguagliare il Duprè o a prendere il
posto del Bartolini.

Nel mezzogiorno, poichè il fiorentino Emilio Franceschi non era ancora
andato a Napoli e il palermitano Civiletti non era ancora venuto a
Firenze, Tommaso Solari, che nella statua di _Carlo Poerio_ al Largo
della Carità in Napoli mostra un verismo degno quasi delle statue
minori del Vela, e Raffaelle Belliazzi nelle terre cotte dipinte
e anche nel marmo fanno appena sperare un Amendola, un Gemito o un
d'Orsi.

Ho detto poco fa che la massima lode del Duprè e del Vela è d'essere
stati i due più sinceri scultori del loro tempo, tra il '48 e il '61.
Ma in pittura, chi restaurò la sincerità? Chi trasse di sotto il pondo
dei gessosi eroi del Camuccini e dell'Appiani la vita fatta di nervi
e di sangue, espressiva e luminosa, magnificamente bella anche quando
appare spaventosa come un incubo di Breughel o di Goya?

Per veder la verità, guardiamo uno spazio più grande della sola
Italia. Nella Francia i veri liberatori dell'arte, i veri instauratori
della libertà contro la schiavitù della tradizione, i veri vindici
dell'originalità erano stati poco dopo il '20 i pittori romantici,
e noi eravamo in ritardo di quasi trent'anni. Dal fondo grigio e
gesuitico della restaurazione, ormai da parecchi anni l'arte del colore
e della passione era balzata fuori libera, feroce, agile, urlante e
fulva come una bella belva. Il sangue, il bel sangue porporino e la
luce e il movimento più convulso essa bramava e otteneva. Che il colore
fosse così ardente da consumare i contorni, che la passione fosse
così esternata e visibile da gareggiare con la febbre delle _Notti_
di Musset o delle apocalittiche visioni di Hugo. Il rosso, il rosso!
Il rosso scarlatto del panciotto di Théophile Gautier, il rosso cupo
dei nastri sui cappelli, tra i capelli, intorno alle vite delle belle
donne che volevano esser tutte appassionate. Già nel 1819 era apparsa
la _Zattera della Medusa_ dipinta con foga da Géricault ma ancora buia
e ancora qua e là nelle figure legnosa. La michelangiolesca _Barca
di Dante_ sognata e dipinta da Delacroix è del 1822, il _Massacro di
Scio_ che dai vecchi fu detto il massacro della pittura è del 1824. Nel
1834 Delacroix parte pel Marocco e inaugura la pittura orientalista
nella quale poi Decamps, Marilhat, Fromentin, Guillaumet sul suolo
senz'ombra, sotto i cieli senza nuvole, faranno veramente tremar
l'aria alla luce, in quei silenzii meridiani nei quali, come dice
lo stesso Fromentin, la vita sembra scomparire assorbita dal sole. E
già il _Salon_ del 1822 avendo rivelato i paesisti romantici inglesi
e Turner e Bonington e Constable e avendo dato una medaglia d'oro a
quest'ultimo, aveva spinto all'emigrazione verso Barbizon tutti quei
pittori «detti del '30» e Rousseau e Corot e Daubigny e Duprè e Troyon
che crearono il _paysage intime_ e trent'anni dopo dettero diritto di
vita al paesaggio italiano. Tutti costoro si dichiarano e sono tanti
romantici.

Da noi, invece, ogni insulto fra il '50 e il '70 va ai romantici: anzi,
talvolta il senso dileggiativo dell'aggettivo «romantico» persiste
ancora nelle lettere, se non nelle arti. E intorno al '60 i così detti
veristi insorgevano contro i romantici, e Palizzi loro capo a Napoli
imitava senza saperlo quando poteva Troyon e Daubigny che erano due
romantici. Donde la contraddizione, o meglio l'equivoco?

Ho in principio accennato alle cause politiche che nel 1848 resero
invisi agli Italiani i maggiori scrittori romantici, tanto che
col sostantivo fu condannato l'aggettivo, senza darsi la pena di
distinguere l'innocente dal reo: del qual fatto il più chiaro esempio
è nella storia dell'Accademia napoletana di prima e dopo il 1860,
di prima e dopo la caduta dei Borboni, perchè là d'un colpo furono
cacciati per ragioni politiche i romantici cioè i borbonici, e
sostituiti i nuovi cioè i liberali. Ma un'altra ragione dell'equivoco
è nel fatto che i nostri pittori detti romantici — primo l'Hayez, come
credo di aver provato l'altr'anno — accettarono i soggetti romantici
e i sentimenti romantici e la lagrimosità romantica, ma il colore
e il chiaroscuro restarono degni dei neoclassici, opaco quello e
saponoso, arbitrario questo e così negletto, che le figure sembravano
più fantasmi senza rilievo al lume di luna che solidi corpi vivi alla
luce del sole. Così che quando i nostri veristi e i nostri coloristi
insorsero contro i romantici d'Italia insorgevano in realtà contro
i neoclassici e infatti imitavano i romantici di Francia: cioè erano
dei romantici essi stessi. Quando con Morelli, Celentano, Faruffini il
quadro storico cominciò ad acquistar l'unità della luce e la giustezza
dei toni, questi facevano trenta o quarant'anni dopo quella rivoluzione
che in Francia aveva fatto pure col quadro storico il Delacroix
romantico. Ma a dar loro dei romantici, anche oggi quei che son vivi
griderebbero offesi.

Questo inganno nominale ho voluto subito chiarire per potervi mostrare
la pittura italiana nel posto, non ottimo, che le spetta, a metà del
secolo decimonono nella pittura europea.

Considerate infatti, per avere un'altra prova di quest'inganno, il
quadro storico che gl'Italiani, guasti dal fanatismo delle gerarchie
accademiche cortigianesche e jeratiche, ponevano sommo nella scala
della bellezza onorevole. Poichè la conquista del colore o la
conquista del movimento che son le due glorie della pittura del secolo
decimonono, non erano nemmeno state tentate dai nostri, e poichè — come
abbiam veduto a parte a parte l'altr'anno — nè l'Hayez, nè il Palagi,
nè l'Arienti, nè il Malatesta, nè il Guardassoni, nè i due Benvenuti,
nè i due Mussini, nè il Bezzuoli, nè il Pollastrini, nè il Gazzotto, nè
lo Zona, nè il Molmenti, nè il Cavalleri, nè l'Ayres, nè l'Angero, nè
il Mancinelli, nè il Podesti, nè il Gagliardi — per nominar solo quelli
che allora furon creduti ottimi — riescirono ad abbandonare il lividore
del colore classico per quanto lagrimassero in tutte le Imelde, in
tutte le Giuliette, in tutte le Clorinde, in tutte le Francesche da
Rimini, in tutte le Marie Stuarde, in tutte le Congiure e in tutte
le Crociate care ai poeti romantici, perchè dovremmo noi dar loro lo
stesso appellativo di Delacroix e dire che la loro pittura è romantica
mentre in realtà son romantici solo i temi dei loro quadri, ma la
loro pittura è in ritardo di quarant'anni? E nei più giovani, prima di
Morelli, di Celentano e di Faruffini, chi è che si ribella e dipinge
anche quei modelli mascherati da paggi e da cavalieri antichi al sole
e col movimento con cui dipingerebbe il signor X o il signor Z suoi
contemporanei in tuba e scarpini verniciati?

I migliori di questi più giovani sono piuttosto paragonabili a quei
prudenti pittori francesi che contentarono la borghesia spaurita tra la
rossa ardente esaltazione della rivoluzione di luglio e le barricate
della rivoluzione di febbraio, e che ebbero per sommi e antipatici
capi Paul Delaroche e Robert Fleury e ammirarono in poesia Casimir
Delavigne e in musica Auber, in una parola che rappresentarono con
serietà lo smascolinato _juste milieu_ di Luigi Filippo. Essi dipingono
con sapienza i siparii per teatro ed è naturale, — dal Bertini che
col Casnedi dipinse a Milano quello della Scala fino al Fracassini che
dipingerà a Roma quelli dell'Apollo e dell'Argentina, — e per lo più
scambiano quel che è pittoresco con quel che è dipinto bene, restando
sempre stilisti oggettivi, mai artisti appassionati.

Guardate Enrico Gamba che apprese in Germania la correzione del disegno
e l'abilità della composizione, e, fecondissimo, ebbe in Piemonte anzi
in Italia grande fama fino all'83 quando morì. _I funerali di Tiziano_
che sono del '56, disegnati così bene, disposti così bene, pennellati
così bene, contengono veramente dei pezzi di pittura liscia forse ma
spontanea: però nell'insieme tutte quelle figure viste ad una a una,
quasi che ognuna avesse il suo raggetto di sole e non ne spartisse
nemmeno un riflesso coi suoi vicini, odoran di accademia, di modello,
di posa un miglio distante. E lo stesso è di Andrea Castaldi, torinese
come il Gamba, ma più di lui fresco in certi studii di nudo femminile
e più di lui tragico e nervoso nell'espressione dei volti, come provano
il suo popolarissimo _Pietro Micca_ che è del '60 o il _Savonarola_ che
è del '56, ambedue nella bella pinacoteca moderna di Torino.

Ma senza andarli a cercare qua e là per l'Italia col rischio di
dimenticarne parecchi, è bene vederli raccolti alla prima Esposizione
nazionale italiana che su proposta di Quintino Sella fu con una
speciale legge decretata il 25 giugno 1860 e aperta nella primavera
del 1861 qui a Firenze, nell'antica stazione delle ferrovie livornesi
a Porta al Prato. Se mancavano il Podesti, l'Arienti, il Bertini, il
Gamba e il Gastaldi, v'erano però tutti gli altri vecchi pittori di
storie e di storielle, morti e vivi: il Benvenuti col _Conte Ugolino_
e più col _Giuramento dei Sassoni_, il Bezzuoli con tre quadri fra
i quali l'_Ingresso di Carlo VIII_, Cesare Mussini con la _Congiura
de' Pazzi_ e la _Fornarina_, il Guardassoni con l'_Innominato_,
il Pollastrini con l'_Esilio de' Sanesi_, il Coghetti con la morte
di _Santa Caterina_, l'Hayez col _Ratto d'Ila_, lo Smargiassi col
_Buonconte da Montefeltro_, il Maldarelli con la _Gliceria che
battezza il suo carceriere_. Ed era bene che vi fossero tutti, perchè
accanto a loro vedendo gl'_Iconoclasti_ del Morelli, _I Dieci_ del
Celentano, la _Cacciata del duca d'Atene_ di Stefano Ussi e anche la
_Congiura degli Amidei_ di Eleuterio Pagliano, il pubblico e i giovani
artisti finalmente comprendessero che nessuna bellezza sentimentale o
patriottica di tema, poteva far bello un quadro visto male e dipinto
male.

Io parlo adesso, o Signori, di persone, meno il Celentano, vive,
ammirate e gloriose, e voi dovete perdonarmi se sarò coi vivi sincero
tanto quanto è purtroppo facile esserlo coi morti. Io in Stefano Ussi
ho sempre ammirato più del pittore storico l'orientalista luminoso,
spontaneo e caldo di passione come quel suo oriente lo è di sole. _La
Cacciata del duca d'Atene_ che, quando nel 1867 andò a Parigi fu su
la _Revue de Deux mondes_ così violentemente biasimata da Maxime du
Camp, è certo il più bel quadro storico che sia stato dipinto prima
degl'_Iconoclasti_; intendo con ciò che il suo valore è relativo
al momento in cui apparve. Pensate che questo discepolo di Giuseppe
Bezzuoli, dipinse il gran quadro a Roma tra il '58 e il '59, nel colmo
della tirannia del Podesti e del Minardi! Certo oggi in quella folla
urlante e minacciante che ha invaso il Palazzo Vecchio, la gentile
freschezza di ogni veste e l'ostentata abilità della composizione
scenicamente equilibrata intorno al fiammeggiante abito del Duca e la
differenza tra le due luci, quella pallida oltre le finestre, quella
violenza dei personaggi del primo piano dispiacciono a chi voglia
ammirare. Ma che sagacia di psicologia a esprimere sui volti e nel
gesto le passioni di ognuno e che cura meticolosa dei particolari, cura
così rara in un tempo in cui l'approssimativo quasi sempre sinonimo del
falso era la sola guida dei costruttori di tali coreografie! «Io non
vidi mai quadro moderno che agguagli questo» disse allora il relatore
governativo Manfredini.

Se Stefano Ussi così impose per primo l'obbligo della verità al
quadro storico e ne fu subito compensato da una rinomanza sicura e
duratura, il Morelli negli _Iconoclasti_ stupì per la forza di rilievo
e l'esattezza veduta del chiaroscuro, e il Celentano nei _Dieci di
Venezia_ stupì per l'unità della luce.

Domenico Morelli è un impulsivo, disuguale e violento; e forse per
questo è l'unico dei suoi contemporanei in cui allora sembrasse
trasfuso un po' dell'ardor febbrile del Delacroix. Il Celentano invece
è un tenace, sicuro della mèta, dubbioso spesso nei mezzi fino a
spasimar per l'angoscia, per capire come da quell'orribile _Agguato_,
che è nella sua sala alla Galleria romana d'arte moderna, egli possa
essere giunto ai _Dieci_ e al _Tasso_, bisogna leggere le sue lettere
al fratello Luigi, e vedervi l'amor dello studio attraverso alle
pinacoteche di tutta Italia e l'ansia religiosa quando è vicino al
paradiso del colore, — a Venezia. Il Morelli invece ottenne presto, e
senza tentennare, quella personalità artistica cui il povero Celentano
anelava, quella palpabilità delle figure nei quadri, come egli diceva,
quella semplicità della composizione che fu al confronto cogli altri
la vera meraviglia del _Consiglio dei Dieci_, quando fu esposto
qui a Firenze. Quel tono basso d'avorio, con qualche fiato verdino,
delle pietre della Scala dei giganti nel fondo, quei robboni neri dei
Membri del Gran Consiglio, quei volti scarni ed assorti, quell'aria
che fluisce nella scena aperta tra i quattro o cinque gruppi andanti,
quella verità di movimento, lo stesso taglio basso e lungo del quadro
e la scena che pareva vuota al confronto delle folle accumulate nei
macchinosi quadri attorno, — tutto a noi che guardiamo dopo trent'anni
permette di dire che come sincerità d'arte il _Consiglio dei Dieci_ di
Bernardo Celentano avrebbe dovuto nel 1861 ricevere molti degli omaggi
che andarono agl'_Iconoclasti_ di Domenico Morelli. E voi sapete,
signori, che Bernardo Celentano morì a ventinov'anni!

Sugl'_Iconoclasti_ un vecchio amico del Morelli mi narrava pochi giorni
fa un aneddoto tipico. Egli lavorava con furia, malcontento della
figura di Lazzaro Monaco quando il Palizzi entrò nel suo studio. —
Ti piace? — No. — Che devo fare? abbandonar tutto? — Niente affatto.
Guarda. Io mi metto davanti alla tua tela. Allontanati. Quando vedrai
le tue figure dipinte spiccar su la tela come fa il mio corpo, allora
potrai dire d'aver vinto la prova. —

In verità, la gloria di Domenico Morelli è di aver trattato le figure
dei suoi quadri non come copie di modelli mascherati o atteggiati,
ma come uomini vivi. Troppo egli stesso è esuberante di vita e di
passione, per tollerare davanti ai suoi occhi su le sue tele dei
fantocci piatti. Non credo di fargli una critica dicendo che questo
più che volontà fu istinto in lui. Nei romani, nei greci, negli uomini
del cinquecento, nello stesso Cristo egli tornò ad infondere il sangue
rosso e palpitante, il suo buon sangue di meridionale beato di sole,
e col sangue la passione tutta dinamica, non più statica e di posa,
come in quasi tutti i suoi antecessori. Questo romantico, al pari dei
grandi romantici d'oltralpe sorti trent'anni prima di lui, ha sentito
che il colore è in pittura l'espressione della passione, l'indice della
potenza lirica ed emotiva dell'artista. Sebbene talvolta non abbia reso
l'intensità della luce solare per aver troppo creduto all'efficacia dei
colori puri invece che all'efficacia dei rapporti, pure pochi seguirono
col suo amore, con la sua prontezza in un quadro tutti i riflessi e
i rimbalzi d'ogni minimo raggio. Dei romantici francesi ha avuto i
gusti letterarii e l'amore pel Byron e pel Tasso, in quasi tutti i
temi dei suoi primi quadri; e ha avuto la foga nel creare, tanto che
fu detto gl'_Iconoclasti_ essere stati dipinti in quaranta giorni;
e l'amor per l'oriente che egli ebbe il torto di dipingere sempre di
maniera guardando alla Spagna e al Fortuny invece che alla Terrasanta.
Venuto poi a maturità in un'epoca di critica religiosa, egli potè
con grande successo fondere questo romantico amor dell'oriente alle
interpretazioni umane del Cristo, e acquistar nella storia della
moderna pittura sacra un posto accanto a Holman Hunt, al Rossetti, al
von Uhde, pure tecnicamente così dissimili da lui.

Ma io non posso indugiarmi nella descrizione del suo ingegno per
mostrarvi l'importanza dei suoi viaggi tra il '55 e il '62 e la
fama sua che saliva con tanta sonorità, che forse nessun altro
artista contemporaneo ha tra i giovani del suo tempo ottenuta almeno
nell'Italia media una simile suggestione di rispetto devoto.

Quando accanto al Celentano e al Morelli vi avrò rammentato il colore
del Faruffini, più nella _Vergine al Nilo_ che nel _Sordello_ della
Brera, l'appassionato brio dell'Altamura che venuto dalla sua Napoli
divenne così popolare qui a Firenze, la franca pennellata del Pagliano,
il quale prenderà al Cogniet l'idea della _Figlia del Tintoretto_, la
forza tragica del Fracassini nei _Martiri Gorgomiensi_ alla Vaticana
e negli affreschi non finiti a San Lorenzo fuori le mura, v'avrò
indicato tutti i maggiori pittori storici fino al 1861 — se pur non
vogliate pensare che già cominciavano a tenere il pennello Barabino
e Maccari, un geniale imitatore d'Alma-Tadema come Giovanni Muzzioli
e un irrequieto innovatore come Tranquillo Cremona, e che nel 1864 a
Parigi con l'ariosa lussuosa riscintillante _Passeggiata nei portici
del Palazzo Ducale_ Scipione Vannutelli otterrà in premio un sonetto di
Théophile Gautier.

                                   *
                                  * *

Dispensatemi dall'enumerarvi tutti i quadri militari che dopo il '48 o
dopo il '59 glorificarono i mille episodii di Custoza, di Novara, di
Montebello, di Palestro, di Solferino, di San Martino, e i volontari
Garibaldini e le truppe Piemontesi, e con Gerolamo Induno perfino
i pallidi orizzonti della lontana Crimea e le glorie della Cernaja.
Perfino Mussini finirà a fare — purtroppo! — il ritratto di Vittorio
Emanuele, perfino Hayez finirà col dipingere la _Battaglia di Magenta_.
Qualunque critica fatta oggi da noi giovani a quei pittori di battaglie
i quali quasi tutti le avevano combattute prima di dipingerle, e
al carminio della loro tavolozza potevano paragonare il buon sangue
delle loro ferite, sarebbe irriverente. Ma un fatto posso osservare
ed è che, anche quando la loro pittura sembrerà un po' squallida e il
loro pennello poco pronto a rendere l'uragano d'un assalto, il lampo
delle artiglierie, le contorsioni d'un'agonia, pure la necessità dello
studio del vero, l'intensità della passione presente ed urgente,
negl'individui centuplicata dall'eco di tutt'un popolo, furono in
Italia i maggiori coefficienti della nuova sincerità artistica e
della mutazione del gusto. Qui a Firenze fra tutti costoro, io voglio
ricordare un veterano sempre valido e giovanile, Giovanni Fattori,
che oggi è rimasto il maggior pittore militarista d'Europa, e che
nella sua austera gamma di colori ha per primo veduto i soldati e i
cavalli _dentro_ un paesaggio, non, come gli altri teatrali, _sopra_
un paesaggio, e li ha avvolti d'aria e di luce cioè li ha fatti vivi in
mezzo alla vita, vivi e degni di vivere nell'avvenire.

I fratelli Girolamo e Domenico Induno, dei quali un anno fa descrissi
l'opera, col loro stile gustoso facile e simpatico unirono questa
gloriosa pittura militare all'ingloriosa pittura di genere, nella
quale però Domenico più sentimentale e più mesto riportò maggior vanto
«porgendo,» come dice con frase tipica il Caimi che è lo storico
degli artisti lombardi di questo periodo, «l'edificante esempio
di quelle abnegazioni che nobilitano il tugurio del proletario.» E
intorno agl'Induno col Trezzini, cognato di Domenico, col Castoldi,
col Giacomelli, col Clerici, e in Piemonte con lo stesso Gamba, col
Beccaria, col Balbiano e massime con Federigo Pastoris fu per vent'anni
un diluvio di emozioni graziose ora ridenti ora meste, anzi per lo
più meste che stancarono talvolta anche i contemporanei, tanto che
nelle _Tre Arti_ quel bizzarro ingegno del Rovani ne parla francamente
così: «La pittura di genere è l'arte sorella di quella letteratura
pallida ed esile che credette di ingenerare il gusto imbandendoci
quei cari romanzuoli cotti nell'acqua di mele cotogne che non passano
l'epidermide nemmeno alle maestrine degli asili d'infanzia.»

Ma l'ironia non giovò, perchè in Italia la pittura di genere durò
anche più a lungo che in Francia dove, per verità, essa era nata solo
dall'imitazione degli inglesi, del Wilkie, del Leslie, del Mulready
che tra il fanatismo dei compratori smollicavano al pubblico la grande
eredità di Hogarth, — e dove il suo cicaleccio pettegolo fu presto
sopraffatto dall'ampia sonora voce della pittura paesana di Millet.
Forse in Italia una lode le si può dare, — che, cioè, servì ad abituare
definitivamente gli spettatori alle pitture dei costumi moderni visto
che ancora nel 1857 il buon Pietro Selvatico credeva d'essere audace,
dissertando della _opportunità di trattare in pittura oggetti tolti
dalla vita contemporanea_.

Ma i veri ribelli, i veri fondatori della modernità, i veri apostoli
della sincerità, furono in Italia i paesisti. Da Nino Costa a Telemaco
Signorini, dal Palizzi al Vertunni, dal de Nittis al Rossano, dal
Fontanesi al Pasini, — noi intorno al '60 già vediamo raccolta una
falange di artisti tali, che per cento modi, attraverso a cento
temperamenti appaiono tutti concordi a proclamare la libertà d'essere
originali purchè si sia sinceri, ad indicare quanta può essere la gioia
dell'anima di chi con sereni occhi contempla i suoi sogni riflettersi
in un mattino aprilino raggiante di speranza, in un meriggio estivo
ardente di letizia, in una sera autunnale fosca di pena. Lungi le
mascherature classiche e medievali, lungi le lagrimucce pettegole,
anche lungi l'inferno delle battaglie! Un mandorlo fiorito sopra
un cielo turchino; un cespuglio di ginestra oro e verde contro un
mare color del cielo; un gregge giallastro sopra un tenero prato di
marzo; una casetta rosea lungo una strada candida di polvere sotto
il sollione; una luna che di dietro un monte violaceo sorge a spegner
le stelle nei pallidi sereni: tutte le gentilezze e le grandezze, le
profondità dei firmamenti e le tenuità dei fiori parvero allora per la
prima volta dopo quasi tre secoli riapparire all'anima degli artisti
che tornava ingenua.

Non vi parlo dei piemontesi che dal più facile commercio intellettuale
con l'estero oltralpe avrebbero dovuto più prontamente degli altri
udire la soavità di quest'invito alla sincerità, e, se non giungere a
intendere la bellezza dei creatori inglesi del _Paysage intime_ come
Turner, de Wint, Constable, John Crome o Bonington, almeno imitare
i loro imitatori francesi, — invece di fermarsi a Ginevra a vedere i
_Souvenirs de Suisse_ grandi e piccoli che dipingeva pei forestieri
quel monotono arido calligrafico e scenografico Alessandro Calame.
Nè Francesco Gamba, nè il Beccaria, nè il Piacenza, nè il Perotti,
nè l'Allason, nè il Bennison e tanto meno il Camino si liberarono da
questa teatralità che raramente, e quasi a loro insaputa. «Un Calame,
deux Calames, trois Calames, que des calamités!» disse allora un
critico arguto. Bisogna aspettare che Alberto Pasini parta per la
Persia con la missione francese del Bourrée, per vedere il colore;
e anche in lui tanta fu, a volte, l'arte, che divenne artificio,
e fece preferire ai rutilanti quadri compositi la fresca sincerità
delle sue tavolette. Bisogna aspettare che Rayper, d'Andrade, Issel
e Giordano raccogliendosi nella solitudine di Rivara fra gialle rupi
e verdi vigne tentino di dimenticare il malo esempio degli antenati.
Bisogna aspettare che nel '55 Antonio Fontanesi dopo essere a Ginevra
caduto anche lui nel suo Calame, vada all'Esposizione di Parigi a
entusiasmarsi di Decamps, di Rousseau e poi a Londra a entusiasmarsi di
Turner, e ottenga così una sapienza di tecnica cromatica ancora nuova
in Italia e crei quei suoi paesi solidi meditati preparati con abilità
ed eseguiti con spontaneità, quei paesi di cui dieci o quindici anni
dopo doveva innamorarsi Giovanni Segantini.

A Napoli prima del Vertunni ampio e solenne, prima che il poetico verde
nebbioso Rossano e il pallido nervoso de Nittis e Adriano Cecioni da
Giosuè Carducci chiamato «dell'arte operatore e giudicatore superbo»
fondassero la cosiddetta scuola di Resina, era e regnava Filippo
Palizzi senza il quale tutta la moderna arte napoletana, compresa
quella di Morelli non sarebbe stata com'è. Quando nel 1832 egli
era venuto a Napoli da Vasto d'Abruzzo era ancora vivo l'olandese
Antonio Pitloo che il Borbone aveva al suo ritorno, per consiglio
del Camuccini, nominato professor di paesaggio nella riordinata
Accademia, e che aveva tra grandi entusiasmi fondata la scuola detta
«di Mergellina e di Posillipo» lodatissima allora per una trasparenza
d'aria e una larghezza di cieli per verità poco visibili ora nelle
sue tele. Fra costoro, Filippo rimase al riparo dall'imperversar delle
lagrime romantiche e la _Vacca_ che nel 1839 a ventun anno egli dipinse
pel primo concorso biennale fu come la serena voce d'un poeta fra un
clamoroso sermocinar di rètori.

Da allora non mutò mai di pensiero dando un esempio d'unità di vita
estetica ignota a tutti gli altri artisti italiani di questo secolo
fino allora. Voi pensate, senza sorridere, all'audacia che occorreva
a dipingere a Napoli nel 1839, invece degli Ajaci, delle Lucrezie,
delle Virginie, degli Ezzelini e dei Crociati, una pura e semplice
testa di vacca! Senza alcuna destrezza di composizione, senza alcuna
scienza della faccia umana, egli doveva essere e fu un limitato
maestro di tecnica. La fermezza sempre maggiore del suo disegno, la
pennellata più e più brava, la nitidezza dei particolari, la vivezza e
la varietà d'espressione negli occhi e nelle attitudini degli animali
— dai pulcini intorno alla chioccia fino alla famosa _testa di leone_
che eseguì a Parigi nel '65 al _Jardin des plantes_, — o nei fiori
o nelle foglie dei vegetali che paiono veramente empir di una vita
umana certe sue minuscole tele, tutta la crescente profondità del suo
occhio non ebbero, in realtà, sull'indirizzo della pittura tra il '40
e il '70 l'importanza morale che ebbe la sua persistenza nello studio
degli animali e dei fiori e dell'erba. Questa rude franchezza, questo
bel bagno d'animalità — odor di fieno e di timo — era necessario alla
pittura italiana che quando egli apparve poteva davvero ripetere quel
che poi egli scrisse nella sua sala alla Galleria nazionale d'arte
moderna: — Vorrei rinascere per ricominciare. —

Il movimento dei _macchiaioli_ qui a Firenze fu davvero una rinascita.
Spenti oramai gli odii, i biasimi violenti, gli antagonismi feroci di
venti o di trent'anni e caduta sul bollor dei superstiti la neve della
canizie, tolto ormai ogni significato bernesco a quell'appellativo dato
loro dall'arguzia fiorentina, riappare oggi tutta la vivace sincerità
di quelli ostinati nemici dei «raschiatori delle tele vecchie,» come
essi chiamavano tutti gli accademici classici puristi e romantici,
senza rispetto per nessuno, anzi aumentando di ferocia in proporzione
di quanto quelli aumentavano di disdegno.

Nel '55 l'Altamura e il Tivoli tornando dall'Esposizione di Parigi si
fermarono a Firenze a predicar con tanta fede ai giovani frequentatori
del Caffè Michelangelo la libertà artistica ormai da più che trent'anni
concessa al popolo di Francia da Delacroix, re del chiaroscuro e
dalla sua corte, — che quando quei giovani entusiasti poterono andar a
godere nella Villa di San Donato la galleria del principe Demidoff e i
Daubigny, i Decamps, i Troyon, i Delacroix, i Marilhat, i Meissonnier
che essa conteneva, la rivelazione giunse ai loro occhi come un fulmine
e appiccò il fuoco a tutti gli animi.

Al Caffè Michelangelo, come narra Telemaco Signorini in un libro che
ogni giorno va acquistando rarità di documento e valore di storia, la
guerra di idee si sarebbe fatta grave anche tra gli amici più fraterni
se la guerra per la patria non avesse chiamati tutti i generosi a
combattere l'Austria. Tutti i reduci — dal Signorini al Fattori — non
dipinsero per mesi che bivacchi e accampamenti, scaramucce e battaglie,
ipnotizzati dal fuoco e dal sangue come gli innamorati dall'amore.

L'Esposizione nazionale fatta, come ho detto, il '61 qui a Firenze
e l'apparizione di paesisti come Palizzi, Fontanesi, Costa e Pasini,
ridettero fiamma alle critiche e alle lodi e i congiurati così detti
della _Macchia_ scesero per le vie e fecero la loro rivoluzione.
Purtroppo le rivoluzioni quando corrono in piazza sono già compiute
negli animi. Il dogma che gli avversari a momenti volevano ardere con
tutti i suoi apostoli in piazza della Signoria non appariva, in realtà,
già applicato in quell'Esposizione del '61 con quello che i critici
più codini e più miopi, chiamarono allora il «colorire a spizzico,»
dal Morelli, dal Celentano, dal Fontanesi? E in realtà questi giovani
che si dicevano veristi e insultavano i romantici d'Italia e perciò
sembravano audaci, non erano con qualche ritardo imitatori dei più
romantici paesisti di Francia, dal Rousseau al Corot? E la tecnica
della macchia che dieci anni dopo Manet spingeva agli effetti estremi
con l'«impressionismo,» non era stata inventata appunto dai romantici
d'oltre alpe? E la fiera massima dei macchiaioli, «senza maestri e
senza discepoli,» non era la più sincera affermazione di quel diritto
all'originalità più sfrenatamente spontanea che il romanticismo aveva
sancito pel bene degli artisti? Ahimè! quanti presunti nemici ai
critici del duemila sembreranno fratelli appassionati! Ma la colpa
dell'equivoco fu dei pretesi romantici d'Italia vecchi, legnosi e
incolori quanto i neoclassici camucciniani, non dei nostri veristi la
cui lotta era benedetta da Dio.

Adriano Cecioni, Diego Martelli e Telemaco Signorini diffondevano con
limpidezza le nuove teorie: «il colore non mutar mai, divenir soltanto
per la luce più chiaro e più scuro, l'affare più importante nel
dipingere esser dunque di vedere e di rendere bene le macchie di chiaro
e di scuro, non facendo mai nemmeno le figure più grandi di quindici
centimetri, vale a dir di quella dimensione che assume il vero guardato
a tale distanza da non esser possibile di percepirlo altro che per
masse, cioè per macchie, di chiaro e di scuro....»

Con questa frenetica passione per problemi di pura tecnica si può
davvero dire che il Banti, il Cabianca, il Borrani, il Lega, l'Abati,
il Moradei, il Signorini, perdessero sul pubblico ogni forza di
commozione così che, non essendo essi più che mani, il pubblico avesse
il diritto di non esser più che occhi? No. Basterebbe considerare
l'opera di tre superstiti: Nino Costa che veramente non fu tra i
macchiaioli ma venendo a Firenze nel '59 fu maestro di sincerità a
molti di loro, Vincenzo Cabianca e Telemaco Signorini. Quale paesista
anche tra i più giovani e i più deliberatamente patetici — come
Fragiacomo o Sartorio — raggiunge la profondità di passione delle
vedute dipinte verso il '55 sotto Albano, all'Ariccia, da Nino Costa
quando come un eremita visse là per cinque anni con lo svizzero David
— delle _Donne che cavano il lino dal macero, delle Donne che in
una sera di pioggia vanno alla fonte_ e infine di quella sua _Veduta
della spiaggia di Porto d'Anzio_ dove il cielo opalino, il mare grigio
nella distanza e l'arena giallastra dappresso formano una musica così
piana e pure così solenne? E in quali acquerelli più che in quelli del
Cabianca, perduta col largo pennellare tutta la minuzia calligrafica
e femminile dell'acquerello, si è mai veduto, direttamente dal colore
più che dal soggetto o dal gesto, venire per gli occhi al cuore dello
spettatore tanta gentilezza d'affetto quanta dalle _Monachine_ fatte
nel '61, dalla _Neve a Venezia_ dipinta nel '55, o dalla _Chiesetta in
riva al mare_ dipinta tre anni fa? E infine prima di Telemaco Signorini
il paesaggio italiano ebbe mai tanta chiarità di sole e di azzurri
quanta se ne vede sulle sue vedute delle coste e della marina di
Spezia, tanta sicurezza di carattere quanta nei suoi quadri del _Ghetto
fiorentino_, che restano nella memoria netti come ritratti d'un volto
umano?

Signori, questo fanatico amor per la natura, questa passione per le
solitudini verdi, per gli animali dai placidi occhi, per gli alberi
da gli occhi di fiori non definiscono quale sia stata veramente
l'anima del nostro gran secolo? L'arte del paesaggio nell'avvenire lo
redimerà dalla fama di avaro, di scettico ed egoista, che gli storici
superficiali gli hanno già tribuita. Quest'arte, tornando ad immerger
la figura umana nella luce, tornando a considerarla sotto l'ampiezza
dei cieli simile agli alberi e alle rupi e alle acque nella gioia
dei meriggi e nella melanconia delle sere, ha ridato agli uomini la
nozione serena e sincera del loro destino, ha ricostruito una specie
di religione naturale placida e limpida da ogni paura e da ogni vana
superbia. Veramente, educato dai grandi paesisti, oggi l'uomo quando
al tramonto col cader della luce nel silenzio sale l'oscurità della
morte e filtra per gli occhi nel cuore e il cielo impallidito è più
profondo e più ampio e gli umani fatti ciechi sono più sperduti e più
piccoli, pronti a confondersi con l'ombre vane, — veramente, dico,
allora l'uomo si sente sulla sua minuscola terra come in esilio, e
nella coscienza gli salgono come un ricordo istintivo e un rimpianto
d'un tempo immemorabile di fraternità, d'un tempo in cui tutto il mondo
— cose che sembrano vive e cose che sembrano morte — era un sol fatto,
una sola entità, un sol divenire sotto gli occhi, forse, di Dio.

A questa unità del destino di tutto, a questa tristezza solenne e quasi
divina, i grandi paesisti, da Turner a Segantini, da Constable a Corot,
da Fontanesi a Signorini, hanno educato l'anima moderna. Quali filosofi
hanno dato tanto ai loro discepoli?



LE PRIME GLORIE DI GIUSEPPE VERDI

CONFERENZA DI PIETRO MASCAGNI

_tenuta a Firenze il giorno 14 aprile 1900._


Tutte le volte che entro nel Teatro «alla Scala» di Milano, mi fermo
all'atrio a guardare le quattro statue di marmo che rappresentano i
nostri sommi maestri melodrammatici: Rossini, Bellini, Donizetti e
Verdi. E tutte le volte provo una medesima, stranissima sensazione, che
mi forza ad ammirare le figure di Rossini, di Bellini, e di Donizetti,
mentre, nello stesso tempo, mi rende uggiosa, quasi antipatica,
l'effige di Verdi. Ho tentato di giustificare la mia sensazione
invocando l'estetica. — Infatti: quell'abito a coda di rondine,
quel rotoletto di musica fra le mani e quel paltoncino ripiegato sul
braccio sinistro possono dar campo a qualsiasi ribellione del gusto
artistico. Ma non sono riuscito a capacitarmi, perchè, volgendo appena
lo sguardo, ho veduto la statua di Rossini colla mazza nella destra,
l'enorme cappello a staio nella sinistra, ed il portamusica attaccato
ai polpacci.

La ragione del mio strano sentimento non deriva dalla espressione
artistica degli scultori. Ammiro profondamente le figure di Rossini, di
Bellini e di Donizetti, perchè sono il simbolo rappresentativo di tre
genii che io non posso conoscere di persona; mentre detesto un Verdi di
marmo quando lo posso venerare in carne ed ossa, bello e florido come
il destino benedetto lo conserva all'amore dell'Italia nostra.

Forse però, quella statua è di buon augurio. Rammento un tipo
originalissimo della mia Livorno che, per avere lunga vita, si fece
preparare la tomba e ci fece mettere sopra il suo busto in marmo, opera
pregevole e rassomigliantissima. Tutti i giorni, prima di colazione,
quel bel tipo se n'andava fino al Camposanto, fissava a lungo la sua
effigie, ed esclamava: «Per oggi mangio io.»

E vinse tanto bene la scaramanzìa, che, quando morì, dovettero
cambiargli il busto perchè.... non gli somigliava più.

E speriamo che così sia della statua di Verdi; per quanto io credo
che si potrebbe di già cambiare, perchè fu inaugurata nel 1881. Per
lo meno, non si potrà dire che Verdi, nella sua vita, abbia avuto un
quarto d'ora di statua.

Ma, nel dire tutto questo, non intendo menomamente di diminuire
l'importanza che ha e che merita il fatto, nuovo nella storia
dell'arte, di un onore così grande reso ad un vivo. Anzi, aggiungo che
non si poteva con nessuno, meglio che con Verdi, che è la più grande
gloria vivente, rompere il pregiudizio e distruggere alla fine i due
noti versi di Orazio, parafrasati troppe volte dai poeti di tutti i
tempi e di tutti i paesi:

    _Virtutem incolumem odimus_
    _Sublatam ex oculis quaerimus invidi._

Però, a me ora pare di essere qui a fare la figura della statua di
marmo dell'atrio della «_Scala_.» Qualunque cosa io possa dire di
Verdi, sia pure (magari per combinazione) superiore nel concetto
ed elevata nella forma, apparirà sempre povera o piccina alla mente
delle gentili signore e di tutti gli egregi qui convenuti, se ciascuno
richiami appena nel pensiero la nobile fisionomia del nostro grande
maestro.

Ed io non tenterò nemmeno di riuscire eloquente nel mio discorso.
Sarebbe vana fatica. Già, prima di tutto, non ne sarei capace; eppoi,
a che cosa mi servirebbe? Quale eloquenza può sussistere di fronte
all'opera immensa di Giuseppe Verdi? Quale eloquenza può sostenersi
al cospetto della sua persona, sintesi vivente delle sue creazioni,
che ha portato superbamente fino ai giorni nostri i ricordi più belli
dell'entusiasmo dell'arte e del patriottismo?

La vita, la storia artistica di Verdi parrebbe una leggenda, se ancora
non fosse fra noi Lui, maraviglioso documento di quelle vicende che
saranno credute favolose dalle future generazioni.

Ne ho letto di libri su Verdi! Ne ho letto di storie, di episodii,
di aneddoti! Ma tutto mi è apparso infinitamente scialbo e meschino,
quando mi sono trovato alla sua presenza. Il suo solo sguardo mi ha
detto delle cose, mi ha suscitato nel cuore dei pensieri che non ho mai
trovato, che non troverò mai in nessun libro.

Ed in questo momento l'animo mio è tutto pieno di quelle memorie,
ma rimane paralizzato dalla coscienza della propria inettitudine ad
esprimere i sentimenti troppo alti.

Chiedo, dunque, venia al cortese uditorio per tutto quello che nel
mio dire apparirà disadorno ed anche non conveniente al soggetto ed
all'uomo di cui si tratta. Resti nella mente di tutti soltanto l'idea
dell'omaggio reverente che ho voluto tributare, accettando, forse
con leggerezza, ma certo con tutto il cuore, l'incarico di questa
conferenza.

A Verdi ho già domandato anticipatamente il perdono per l'atto che
sto per compiere. Perchè sono sicuro di dargli un dispiacere. Ei non
vorrebbe che si parlasse mai di Lui.

Quale è la persona che non ha sentito parlare della modestia di
Verdi?...

Ma, a questo proposito, debbo fare una osservazione.

Sono già parecchi anni che io studio la modestia degli uomini (colla
modestia delle donne non ho mai scherzato!), e potrei raccontare molti
aneddoti che mi hanno sempre confermato le diverse qualità di modestia.
Ma mi fermerò ad uno solo, che mi serve precisamente alla dimostrazione
che voglio fare.

Un giorno del 1882 (anch'io comincio a citare epoche remote!) mi
trovavo a Milano in casa del mio illustre maestro Amilcare Ponchielli,
quando si presentò un giovane musicista che voleva sottoporre
al giudizio del Maestro una sua composizione. Ponchielli non era
punto di buon umore: afferrò sgarbatamente il fascicoletto che il
giovane gli porgeva, e si mise a scorrerne le pagine, mugolando e
borbottando. Il giovane musicista attese ansioso qualche minuto; e
poi timidamente disse al Maestro: «Si tratta di un pezzetto senza
importanza; una cosetta buttata giù alla meglio.» Ponchielli alzò
la testa e, maltrattandosi terribilmente il pizzo caratteristico, si
mise a gridare: «Ah, sì?... Si tratta di una cosetta?... Vuol fare il
modesto forse?... E perchè è venuto a mostrarmi questo nonnulla?...
I compositori debbono sempre aver fede nell'opera propria, e debbono
sempre stimare capolavori le loro composizioni.... Io non amo la falsa
modestia.» E riprese a sfogliare le pagine, mugolando e borbottando.
Il giovane era rimasto stecchito. Dopo poco, Ponchielli rialzò la
testa e parve rabbonito. Restituì il fascicolo all'autore, e gli disse
quasi dolcemente: «Lei è modesto; ma il suo lavoro è più modesto di
lei.» Il giovane se n'andò subito, profondendosi in inchini ed in
ringraziamenti; e mi parve che avesse preso per un complimento l'ultima
frase di Ponchielli.

Per parte mia, da quel giorno, ho cercato tutti i modi per non essere
modesto....

Ma, intanto, avevo potuto studiare questo caso di modestia che credo
sia il più diffuso: un imbecille che fa il modesto davanti ad un uomo
superiore, col solo fine di ottenere un elogio da lui, e di credersi,
nella stupida vanità, a lui ed a tutti superiore.

Guardiamo invece, per sommo contrasto, la modestia degli uomini
veramente grandi, quella modestia che è il solo raggio che si possa
aggiungere alla gloria!

Verdi, togliendo anche di mezzo l'indole naturale, deve essere modesto
per forza: perchè nessun inno di lode potrà destare in Lui il più
piccolo sentimento di orgoglio: anche l'inno più grandioso sarà
meschino agli occhi suoi.

Come potrà mai sentire ricordata la sua vita gloriosa, come potrà mai
sentire raccontati tutti i suoi trionfi, senza che la sua mente non
veda impallidita dal ricordo quella vita da lui stesso vissuta, senza
che il suo cuore non trovi rimpiccioliti dal racconto quei trionfi
da lui stesso riportati? È facile, dunque, comprendere lo stato di
inquietudine dell'animo mio in questo momento: al dubbio di riuscire
gradito al colto pubblico va aggiunta la certezza di dispiacere a
Verdi.

A buon conto, gli ho chiesto perdono anticipatamente; ma non oso
sperare di passarmela liscia. Me la potessi almeno cavare con una
lavata di testa!...

Oggi io non devo parlare genericamente di Giuseppe Verdi e di tutta la
sua luminosa produzione: l'attuale conferenza è limitata da due date,
che nell'arte del nostro Grande e nella storia della nostra Nazione
rappresentano due epoche. Dal 1849 al 1861: quale stupendo periodo di
arte e di patriottismo! E quale mirabile fusione di nobili sentimenti
nella espressione dell'anima e del genio di Giuseppe Verdi!

Nella visione subitanea dello svolgimento di tutto il periodo storico
ed artistico, la mia mente, forse per effetto di costante ammirazione
o forse per effetto di spontanea ispirazione, vedo tre punti capitali
sui quali deve soffermarsi per la dimostrazione della sua idea.

E questi tre punti si trovano: al principio, alla metà ed al termine
del periodo, che ne resta interamente abbracciato e diviso con
simmetria: per quanto, rispetto alla produzione di Verdi, il periodo
abbia fine nel 1859.

Primo punto, la _Battaglia di Legnano_ (27 gennaio 1849); secondo
punto, i _Vespri Siciliani_ (18 giugno 1855); terzo punto, _Un Ballo in
Maschera_ (17 febbraio 1859).

Se l'idea di parlare primieramente e specialmente di queste tre opere
può sembrare a prima vista strana o non giustificata, si pensi che devo
occuparmi di un periodo della vita italiana tutto pieno di santo amor
di patria: e si pensi all'influsso potente che la musica di Verdi seppe
esercitare sopra ogni cuore italiano.

Ho scelto i tre punti capitali perchè: il primo rappresenta tutta
la trepidazione, tutta la commozione, tutto l'ardore di un popolo
oppresso ed anelante alla redenzione; il secondo rappresenta il
trionfo dell'arte italiana all'estero, anche esplicata in un soggetto
glorioso per l'Italia e nefasto per il paese che lo domanda; il terzo
rappresenta il supremo entusiasmo di una nazione intera, che, eccitata
dal genio di Verdi, nel nome di Verdi combatte l'ultima battaglia e
vince.

Quando scoppiò la rivoluzione italiana del 48, Verdi era a Parigi;
alle prime notizie della gloriosa insurrezione di Milano, il suo animo
generoso non resse: e partì per l'Italia. Si fermò a Lione dove sapeva
di trovare una lettera di un amico che gli doveva dire le ultime
vicende della sua patria. Trovò, infatti, la lettera e conobbe il
doloroso voltafaccia delle cose. Rattristato dalla delusione della sua
fervida speranza di arrivare a Milano e salutare libera la città dei
suoi primi successi, restò alcuni giorni a Lione; ed all'amico che gli
aveva mandato la sciagurata notizia rispose semplicemente: «Spero che
avrete fatto il vostro dovere.»

Ma poi proseguì il viaggio; e giunse in patria per assistere al
completo rovescio delle armi italiane.

Col cuore sanguinante tornò a Parigi, mezzo ammalato e stanco.
L'impresario Lumley di Londra venne ad offrirgli una generosissima
scrittura che Verdi avrebbe accettato subitamente, se l'editore Lucca
non glielo avesse impedito rammentandogli il suo obbligo contratto di
scrivere un'altra opera, oltre «_I Masnadieri_» già eseguiti a Londra e
con poca fortuna, il che veniva ad aumentare le esigenze dell'editore.
(Sempre uguali in ogni tempo i nostri editori!).

Allora Verdi, infastidito e stizzito, scrisse di mala voglia il
_Corsaro_ sul libretto del Piave, poveramente tratto dall'omonimo
poema del Byron; ed abbandonò la sua partitura senza nemmeno curarsi di
sorvegliarne le prove.

Il _Corsaro_ fu eseguito a Trieste e non piacque; e si accusò Verdi
di voluta negligenza: mentre, da altra parte, con più giusto criterio
si tenne conto del suo stato d'animo turbato dai dolori cui la patria
soggiaceva.

Forse c'entrava anche il dispetto verso l'editore; ma certamente il
cuore del Maestro era tutto pieno di tristezza e di angoscia per la
sventura italiana: e la mente sua non poteva trovare ispirazione in
alcun soggetto, che non gli parlasse dello sconforto e della speranza
del popolo d'Italia.

Il sentimento patriottico, in quel momento, fu troppo più forte del
sentimento artistico.

Ed in quel momento il genio di Verdi fu pari al sentimento
degl'Italiani; e non volle parlare che dell'Italia sua.

E scrisse la _Battaglia di Legnano_.

Io penso allo slancio infrenabile che avrà guidato Verdi all'inizio
della sua nuova creazione; e penso all'ardore ed alla lena nella
continuazione del lavoro; e penso alla forte commozione nel compimento
dell'opera, che era la spontanea espressione del suo cuore d'italiano
e che nei cuori italiani tanto entusiasmo doveva suscitare.

Quel godimento che la folla prova davanti all'opera d'arte, quando
l'arte è vera e sincera, è già stato provato a mille doppi dall'artista
creatore, dall'artista che esprime il suo sentimento, tutto assorto
nella interpretazione ideale, precisa e fedele.

Ma l'opera d'arte deve essere il prodotto genuino dell'ispirazione, il
frutto vergine del genio.

Guai se l'artista si lascia vincere dallo scrupolo della teorica!
L'opera sua non sarà più sincera. Il caldo paesaggio meridionale si
cambierà in nordica e gelata regione.

In arte, il genio è sole e la scienza è neve.

Al solo ricordo del successo immenso, incredibile, che la _Battaglia di
Legnano_ ebbe presso il pubblico di Roma, è facile immaginare con quale
foga d'entusiasmo Verdi abbia compiuto l'opera sua.

Si sapeva che l'opera aveva un soggetto patrio, d'indole guelfa; ed
in quel momento di fermento politico non si domandava di meglio. Gli
uomini si recarono al teatro con la coccarda tricolore sul petto,
mentre le signore distendevano sui davanzali dei palchetti sciarpe e
nastri tricolori.

Fu un delirio! Si gridava insieme _Viva Verdi!_ e _Viva l'Italia!_
E tutti i cuori ebbero insieme ed ugualmente il ravvivamento delle
speranze, il rigoglio dell'ardore, il presentimento della patria
redenta.

Verdi esultava già di quei pensieri quando scriveva l'opera.

Ma la generazione d'oggi non conosce la _Battaglia di Legnano_; e
non la stima, perchè legge nei libri che fu un'opera d'occasione,
d'attualità; e che _soltanto il soggetto e la nota politica le diedero
unanimità di suffragi ed apparenza di trionfo_, [come dice Anton Giulio
Barrili]; e che _il successo del primo momento fu dovuto anzitutto
alla sovraeccitazione degli animi_ come stampa il Pougin; e che _simile
musica certo ha ben poco o nulla da vedere coll'arte_, come scrive Gino
Monaldi.

Certo, se oggi si parla d'occasione, si pensa subito all'inno scritto
per l'inaugurazione di una qualsiasi esposizione di oggetti di
guttaperca, e se si parla di attualità, si corre colla mente alle
mazurke dedicate alla polvere dentifricia o al perfetto smacchiatore.

Ma allora, nel 1849, l'occasione e l'attualità rappresentavano qualche
cosa di ben differente. E Verdi non era stato invitato a scrivere la
sua opera da nessuna commissione di futuri cavalieri o commendatori.
Aveva spontaneamente dato alla patria l'opera del suo genio e della sua
anima.

Guardiamo come ne scriveva allora il Basevi:

«Al Verdi, che dal 1842 in poi regna solo in Italia, ben s'addice il
nome di rappresentante del gusto musicale del suo tempo. Come tale egli
doveva scrivere un'opera corrispondente al nuovo stato degli animi
nell'anno 1848. E così fece.... Erano i travagli dell'Italia giunti
vicino al loro nodo, quando nel gennaio 1849 fu posta sulle scene in
Roma la _Battaglia di Legnano_.»

E guardiamo quello che ne diceva il _Pallade_, giornale di Roma, il 27
gennaio 1849, poche ore avanti della prima rappresentazione:

«La musica, se per lo innanzi, schiava di errati precetti, non valse
che a deliziare mollemente gli esterni sentimenti dell'uomo; oggi ne
rischiara e ne sublima gl'intelletti; e vestendo più robuste armonie,
apprestasi anch'ella ad innestare la sua gemma sulla corona della
patria. Non invano dunque il Verdi imprendeva a celebrare la famosa
Lega Lombarda, col titolo: _La Battaglia di Legnano_. Lombardo quale
egli è, offre con la penna il tributo che non potrebbe colla spada
alla sua patria infelicissima, affinchè dalle ricordanze delle glorie
passate prenda ella ristoro delle sventure presenti e presagio dei
trionfi avvenire.»

E lo stesso giornale _Pallade_ aggiungeva dopo la prima
rappresentazione, il 29 gennaio: «Il «Verdi in questo suo lavoro ha
levato il volo alla sublimità. Lungi dall'obbedire alle antiche leggi
convenzionali, egli ha sentito che il suo spirito aveva bisogno di
libertà, come l'Italia d'indipendenza.»

E più sotto continuava: «Questa Italia oggi ha luogo di attingere dalla
severità e robustezza di quest'ultimo patriottico lavoro quell'ardente
scintilla che valga a ridestare e spandere il nazionale ordinamento.»

Ecco quello che si pensava nel 1849 della _Battaglia di Legnano_!

Se oggi, dopo più di cinquant'anni questa musica appare invecchiata
agli occhi volubili della critica moderna, non si abbia il facile
coraggio di condannarla; ma si pensi che, ai suoi tempi, seppe
infondere tanto ardore nei petti degli italiani, e contribuì non poco
alla redenzione della patria.

Da qui a cinquant'anni non si parlerà nemmeno di tanta musica che
ai giorni nostri pare dedicata dall'ebetismo moderno al godimento
inesauribile dei sensi superficiali; o se ne parlerà come una delle
cause dell'assopimento intellettuale, dell'impoverimento del sangue e
dello snervamento della generazione futura.

La _Battaglia di Legnano_, in ogni modo, attraverserà il corso dei
secoli legata strettamente all'epopea famosa che preparò e compi
l'unità d'Italia.

E venga pure il critico supino a dirci che quella musica _ha poco o
nulla da vedere coll'arte_! Altro che arte! Arte prodigiosa! Arte che
ha servito all'interesse comune ed alla gloria della Nazione!...

Ma chi m'intende, oggi che l'artista cerca soltanto di curare il
proprio interesse.... e quello del suo editore?...

Oh, quanto riusciamo meschini dal confronto dei tempi! Ecco: oggi
stesso, a Parigi, si inaugura la nuova grande Esposizione Universale!
Da oltre un anno, in Italia si è lavorato con grande attività per
trovare il modo di far figurare degnamente la musica del nostro paese
nella capitale della Francia ed al cospetto di tutte le nazioni del
Mondo. Si è pensato a grandiose riproduzioni dei nostri capolavori
melodrammatici; ed al proposito il Panzacchi scrisse alcuni articoli
nobilissimi; si è tentato di presentare i nostri migliori artisti della
scena; si è escogitato ogni mezzo per mandare a Parigi almeno le nostre
buone orchestre; ma a nulla sono riusciti Ministri, Sotto Ministri,
Commissioni e Sotto Commissioni. Si è detto che il Governo non può
spendere, e chi vuole vada a spese sue.

E fino a questo punto, logicamente, può andare anche bene; perchè la
finanza dello Stato non ha mai fatto, o non ha potuto fare, troppe
concessioni all'arte nazionale, ed in special modo alla musica. Ma la
Francia non ha domandato nulla alla Nazione sorella?...

Nel pensiero di offrire ai visitatori d'ogni paese un magnifico
spettacolo musicale, non si è ricordata dell'arte italiana?

Sono ingenuo, forse, nelle mie interrogazioni; perchè tutti pensano che
la Francia ha compositori, artisti ed orchestre da vendere, e non sente
alcun bisogno di noi.

Ma è qui appunto il mio grande sconforto.

Anche nel 1855 la Francia aveva Auber, Halévy e Berlioz; ma
nell'occasione della Esposizione Universale di quell'anno, volendo
offrire al mondo la primizia di un'opera nuova sulle scene del suo
massimo teatro lirico, si rivolse all'Italia, a Giuseppe Verdi.

Oh, il disgraziato confronto come sgomenta il cuore!

Ed immagino il dolore grande di Verdi che, alla distanza di
quarantacinque anni, ancora vivo e sano, oggi penserà mestamente alla
differenza dei tempi e degli uomini.

Facciamo anche noi quello che in questo momento farà Verdi colla sua
grande mente: abbandoniamo l'istante che ci rattrista, per ritornare
al momento solenne nel quale Giuseppe Verdi consacrava il trionfo
dell'arte italiana in faccia a tutti i popoli.

E sono al secondo punto capitale del periodo storico.

Invitato a scrivere un'opera per l'occasione della grande Esposizione
Universale del 1855 a Parigi, Verdi accettò l'incarico; e si mise
subito d'accordo coi suoi librettisti prestabiliti, per la scelta del
soggetto.

Al giorno d'oggi chiunque avrebbe approfittato del favorevole
contrattempo per rendere il più alto omaggio alla nazione ospitale,
scegliendo con ogni cura il più adatto dei soggetti.

Ed io conosco qualcuno che, pure in circostanza ben dissimile e punto
solenne, sta sobbarcando la propria fantasia all'apoteosi cortigiana
dello straniero.

Invece Verdi, anche nella maestosità di quel momento, non seppe tradire
il suo sentimento e le sue aspirazioni; non seppe dimenticare la
Patria Santa a cui l'arte sua pareva interamente dedicata; e scelse il
soggetto dei _Vespri Siciliani_.

Oggi, più che allora, si può ammirare la temerarietà di Verdi che volle
avventurare in estraneo suolo l'opera sua che inneggiava alla gloria
del suo paese, addolorando il popolo che l'ospitava.

E non so che cosa debba maggiormente ammirarsi in Verdi se l'amore
per la patria, immenso ed infrenabile, o la coscienza della forza del
proprio genio.

Quando nel 1282 Giovanni da Procida intuonò colle armi i _Vespri_
famosi, fu un pianto solo di rabbia e di dolore per tutta la Francia.
Ma quando nella stessa Francia Giuseppe Verdi, nel 1855, intuonò
coll'arte sua divina i _Vespri_ suoi, fu un grido d'esultanza per tutta
la Nazione; fu un inno d'entusiasmo per l'arte italiana.

L'arte di Verdi si era superbamente imposta, vincendo tutti gli
scrupoli della storia e della politica.

Io fremo d'orgoglio e di gioia al pensiero di tanta altezza d'ideale,
sognata e raggiunta dalla potenza del genio d'Italia. E guardo
disperato al vuoto che oggi ne circonda.

L'Esposizione Universale di Parigi del 1855 diede all'arte italiana
l'alloro prezioso del suo maggiore trionfo; l'Esposizione Universale di
Parigi del 1900 lascia oggi l'arte italiana a divorarsi da sè stessa,
accasciata nei suoi confini, intisichita dagli stravizi immondi.

E Verdi è ancora vivo.... e vede.... e rammenta.... e soffre più di
noi!...

Entro nell'ultima fase del periodo storico.

_Un ballo in Maschera!_

Qui non abbiamo affatto il soggetto patriottico che incita
all'entusiasmo gli animi della folla; non abbiamo affatto l'opera di
occasione e di attualità; eppure nessun lavoro di Verdi ha avuto tanta
influenza sui destini della patria quanto _Un ballo in Maschera_.

La sola creazione intrinseca del genio di Verdi seppe compire il
prodigio.

Il pubblico, nella grande commozione del successo rimasto memorabile,
ebbe la visione di tutto il decennio trascorso fra i dolori e le ansie;
rivide la figura del Maestro combattente per la Patria colle armi
dell'arte e della gloria; sentì risuonare ancora quei canti popolari
che avevano sollevato d'esultanza ogni petto: comprese che la luce,
appena intravveduta sull'orizzonte dei sogni, annunziava la vera aurora
del sole della libertà. La musica di Verdi parlò ancora una volta al
cuore ardente e generoso del popolo d'Italia.

Ed il popolo d'Italia intese quella voce; e l'intese sinceramente e
grandemente nella pura espressione del suo linguaggio sublime.

Nessun concorso di elementi estranei in quella musica appassionata ed
affascinante.

Il solo genio creatore di Verdi, ritraendo mirabilmente gl'impulsi
del suo cuore, fece scattare il pubblico in una esplosione spontanea
d'entusiasmo. Ed anche allora mille voci commosse ed esultanti
gridarono insieme: _Viva Verdi!_ Ma non era più soltanto il grido di
plauso all'autore fortunato e prediletto; non era più la semplice
acclamazione all'opera stupenda; non era più la sola esaltazione
dell'arte nostra: era il grido del popolo chiamato alla riscossa; era
il saluto solenne e vigoroso al precursore della redenzione nazionale;
era l'inno vittorioso della folla risvegliata dalla grande luce della
libertà!

«_Viva Verdi!_» Fu il grido che partì da Roma il 17 febbraio del '59 e
che si ripercosse in tutte le parti dell'Italia, ingigantito dall'eco.

Ed a quel grido immenso che erompeva dai petti animosi di tutti gli
italiani, fu compiuta la unità della Patria. _Viva V. E. R. D. I.! Viva
Vittorio Emanuele Re d'Italia!_

Che sia benedetto il fato!

Ma le glorie di Verdi, in quel periodo epico della vita italiana,
furono molte al di fuori delle tre che ho tentato di illustrare. Dal
1849 al 1859 Verdi scrisse dieci opere, compreso l'_Aroldo_, che non
è che lo _Stiffelio_ riformato su nuovo libretto. E nelle dieci opere
figurano quei quattro capolavori ormai consacrati alla storia immortale
dell'arte dall'entusiasmo popolare di tutto il mondo: _Rigoletto_,
_Trovatore_, _Traviata_ e _Ballo in Maschera_.

Nessuna musica al mondo più di quella di Verdi ha mai destato interesse
e passione negli animi; e specialmente parlando delle quattro opere
famose.

Ci sarebbe da scrivere interi volumi, se si volessero raccogliere tutti
gli episodii di esagerato entusiasmo provocato dalla musica di Verdi; e
si potrebbe cominciare dall'aneddoto di quell'ufficiale che, assistendo
da un palco di quint'ordine ad una rappresentazione della _Battaglia
di Legnano_, fu invaso da tale strano fanatismo che, urlando come
un ossesso, gettò in platea e sul palcoscenico, sciabola, spalline,
cappotto e tutte le seggiole del suo palchetto; e stava per buttarsi
lui stesso di sotto, quando fu agguantato miracolosamente e fu portato
fuori del teatro.

Si disse, allora, che l'ufficiale era briaco; ma io non ci ho mai
creduto.

Parecchi anni fa ero a Firenze; ed una notte, quando tornavo
all'albergo, m'imbattei in una comitiva di cinque o sei giovanotti, che
si erano fermati in mezzo alla strada e discutevano animatamente ed a
gran voce. Sentii subito che parlavano di musica; e mi fermai cercando
di afferrare il senso della loro discussione. Ma i giovanotti si
mossero per fermarsi di nuovo dopo una trentina di passi: e rinnovarono
questa manovra parecchie volte, ad intervalli che mi parvero
perfettamente uguali. Io seguivo costantemente tutte le mosse della
comitiva, rimanendo sempre ad una discreta distanza, che mi permetteva
di non perdere una sillaba della vivace conversazione.

La disputa era accesa fra due soli della compagnia, e si dibatteva
intorno alle opere di Verdi. L'uno dei due sosteneva a spada tratta il
_Rigoletto_ come l'opera più perfetta della produzione verdiana; mentre
l'altro urlava che il _Trovatore_ poteva comprare tutte le opere di
questo mondo, messe insieme.

Il resto della comitiva non prendeva parte alla discussione, ma
ascoltava attentamente e con grande interesse.

Io, dapprima, cominciai per divertirmi a quella scena nuova e
caratteristica: ma poi, a poco a poco, involontariamente mi sentii
afferrato anch'io dall'interesse della disputa e dalla foga dei due
contendenti; ed anche, se vogliamo, dalla logica delle ragioni addotte
per convincersi l'un l'altro da quegli scatenati, che avevano perduto
il sangue freddo prima del senso comune. (Cosa che non accade tutti i
giorni!)

Altro che la convinzione del critico! Altro che l'eloquenza del
conferenziere! Non sentirò mai, in vita mia, una cosa simile.

Oramai il mio spirito era interamente conquistato. Dimenticai le ore
piccine, non badai al frescolino pungente della notte, non pensai
più al povero portinaio dell'albergo che mi aspettava; e rimasi ad
ascoltare avidamente.

La disputa, intanto, si accalorava sempre più; e, ad un certo punto,
entrò in una fase impreveduta e singolarissima. I due giovanotti,
non potendo convincersi a vicenda a furia di parole, cominciarono a
cantare a squarciagola i pezzi più salienti dell'opera rispettivamente
preferita.

(Si concessero la prova di fatto, direbbe un pretore).

Non scorderò mai l'effetto di quel duello in musica. Peccato che non si
possa ridire!

Gridava l'uno: «Ma dove mi vuoi trovare una melodia più toccante
di _tutte le feste al tempio_?» E si metteva a cantare il motivo. E
l'altro subito replicava: «E dove metti _ai nostri monti ritorneremo_?»
E giù, a cantare anche lui. Ed il primo a riprendere: «Tu parli della
popolarità del _Trovatore_, come se nel _Rigoletto_ non ci fosse, _la
donna è mobile_.»

E l'altro: «La vorresti forse mettere al confronto del _di quella
pira_?»

E le due voci s'inalzavano accanite nell'aria fredda della notte,
volendosi ormai fare ragione colla forza.

Dal gruppo della comitiva, ad un tratto, si allontanò per poco uno dei
giovanotti che circondavano i due inferociti rivali: era senza dubbio
un dissidente, perchè sentii che cantava a mezza voce l'_eri tu che
macchiavi_.

Ma gli urli dei due eroi della questione si erano già resi
insopportabili. Io non capivo più nulla: era una scena infernale, un
vero finimondo! Sentivo sbraitare i _Cortigiani vil razza dannata_!
per tener testa a _quell'infame l'amore ha venduto_; e stentavo
a riconoscere la _bella figlia dell'amore_ confusa e imbrogliata
coll'_Ah, sì! ben mio coll'essere!_ a tale altezza di tonalità da far
venire le vertigini.

La scena non poteva durare più a lungo. Ed infatti i contendenti
vennero presto alle mani; ed alle _cavatine_ e ai _si bemolli_ fecero
succedere una vera grandine di schiaffi e di pugni. Gli amici durarono
non poca fatica a dividere i focosi pugillatori; e per calmarli
del tutto ci volle la voce del saggio della Compagnia che li ammonì
con poche parole che, a quell'ora ed in quel luogo, mi parvero una
profezia: «Cosa andate a guastarvi il sangue col _Rigoletto_ e il
_Trovatore_, quando, come niente, domani Verdi viene fuori con un'opera
nuova che si mangia in insalata tutte quelle che esistono?!»

Nessuno parlò più; e la comitiva si allontanò lentamente nella notte
silenziosa.

Ancora attonito per la scena nuovissima a cui avevo assistito, seguii
collo sguardo quei bravi giovanotti che si dileguavano nel buio della
strada; e posso assicurare che nessuno di loro era briaco.... neppure
il dissidente.

Ebbene: io sono convinto che, oggi, soltanto dopo un simile spettacolo
si può avere un'idea dell'impressione che quella musica di Verdi
destava nel pubblico ai suoi tempi. Come si può comprendere oggi il
primo entusiasmo della _Battaglia di Legnano_ e l'estrema commozione
del _Ballo in Maschera_?

Oggi si vuol far credere che l'arte non è più popolare; e si parla di
arte aristocratica, di arte coi guanti.... Coi guanti sì! Ma guanti di
lana e ben grossi, perchè oggi l'arte è diventata fredda!

Nei teatri d'oggi si attaccano ai muri delle striscie di carta colla
scritta: _Si prega di non applaudire durante gli atti._ Come se
l'applauso fosse una volontaria manifestazione di cortesia.

Avrei voluto vedere il resultato pratico di quegli avvisi alla prima
rappresentazione del _Rigoletto_!

Io intanto ho già ritirato dallo stampatore i cartellini che farò
affiggere in teatro la sera della prima rappresentazione della mia
nuova opera, e che portano la scritta: _Si prega di non fischiare
durante gli atti._

E non potrò essere modesto neppure allora, perchè sarò semplicemente
sincero.

Voglio sperare che nessuna persona dell'uditorio così gentile si
maraviglierà del fatto che nella mia conferenza io non abbia nemmeno
accennato ad un tentativo di analisi delle opere di Verdi; ed anzi
credo fermamente che tutti avrebbero deplorato un simile proposito da
parte mia.

La musica di Verdi è troppo superiore a qualunque analisi, perchè tutta
insieme sa troppo bene parlare alle fibre del nostro cuore.

È musica fatta di genio e di intimo sentimento.

Ma, anche volendolo, che cosa avrei potuto dire di Verdi, che non fosse
già noto a tutti gli ascoltatori?

Si voleva conoscere, forse, il mio giudizio sulle sue opere?

E che cosa vale il mio giudizio più di quello di qualunque altra
persona?... Domandatelo, dunque, ad altri; domandatelo a voi stessi. Il
giudizio su Verdi sarà sempre uguale presso tutte le genti che hanno un
po' di cuore nel petto.

Si voleva forse che io analizzassi la produzione di Verdi dal lato
della struttura, della costruzione, della matematica?

A parte l'irriverenza imperdonabile che avrei commesso, sarei stato nel
caso di dire solamente che Verdi, fino dalle prime sue opere, fu sempre
artefice sommo.

E tutti avrebbero riso della mia grande scoperta... e della mia grande
ingenuità.

E allora?

Forse si aspettava da me una conferenza a base di aneddoti?

Ma, Dio mio, degli aneddoti della vita di Verdi sono stati empiti
giornali, opuscoli e libri interi. Ed io non mi sarei mai sentito il
coraggio d'inventarne di nuovi.

O mi si chiedeva un saggio di polemica coi detrattori del genio di
Verdi?... Ma dove avrei potuto scavare i detrattori?... L'arte di Verdi
non può avere che ammiratori.

Non si tiri in ballo la critica d'un tempo crudamente ostile alle opere
del Maestro; o la si porti ad esempio magnifico di avversari leali,
accaniti nel giudicare l'opera del genio alla stregua delle cifre e
dei sistemi; e vinti, alla fine, quando dalla loro mente cocciuta la
potenza di quella musica potè scendere nel loro cuore.

L'arte di Verdi non ha che ammiratori, come il suo nome e la persona
sua raccolgono l'affetto e la reverenza di tre generazioni sparse su
tutto il mondo civile, dai nonni ai nepoti, dai ricchi ai poveri, dai
regnanti ai plebei.

Io, qui, non ho voluto che tratteggiare la figura di Verdi in quel
periodo della vita italiana che fu così denso di gioie e di dolori,
di speranze e di delusioni; ed ho voluto dimostrare quanto spontanea
e grande fu l'influenza della sua musica su tutti gli avvenimenti
di quegli anni di trepidazione, dalle prime aspirazioni all'ultimo
trionfo.

Perciò mi sono fermato sopra tre punti, che ho stimato capitali in
riguardo alle opere di Verdi ed anche rispetto al periodo storico.

Non ho parlato delle altre opere comprese nel periodo, perchè esse, da
sè sole, parlano tanto eloquentemente ai nostri cuori.

Però, se vi accade d'incontrare in qualche libro alcuna allusione alla
lotta del melodramma fra l'Italia e la Germania, pensate subito che
Verdi da più di sessant'anni combatte sul teatro italiano, regalando
alla patria allori innumeri di gloria e trofei superbi di vittoria;
e pensate che nessuna arme dei trofei, nessuna foglia degli allori
sarà giammai toccata, fino a quando l'opera di Verdi vivrà nei cuori
degli italiani, e fino a quando nel nome di Verdi le nuove generazioni
continueranno la marcia trionfale per la strada maestosa tracciata dal
genio dell'Italia.

E se vi viene fatto di leggere in qualche altro libro che certa musica
di Verdi è barocca, ordinaria, forse triviale, pensate semplicemente
che a chi giudica in modo simile manca del tutto ogni cognizione morale
del sentimento del popolo ed ogni fibra di patriottismo.

E ancora: se trovate chi scrive che Verdi non è un vero genio originale
e creatore, ma è un grande assimilatore del suo talento alla corrente
delle varie epoche vissute; pensate che il critico si è alzato tardi
ed ha trovato Verdi già in piedi. Pensate che dal pregio più raro si è
voluto trarre fuori il difetto più volgare.

Per certa gente corta di vista, ed alla quale restano eternamente
occulte le lontananze ardite, tanto nello spazio del passato come in
quello dell'avvenire, la musica di Verdi segue i tempi; e certa gente
non sa e non potrà mai sapere quale invece sia stato lo sviluppo
dato al dramma lirico italiano da tutta la grande produzione di
Verdi, seminata con germe fecondo per tutto il lungo cammino di
oltre sessant'anni. E crede di potere giudicare tutta quella immensa
produzione riunendola oggi in un solo fascio e mettendola sotto una
sola luce.

No! per giudicarla, bisogna distenderla di nuovo lungo tutta la strada
maestra, sulla quale ha lasciato i segni miliari nel suo passaggio
glorioso.

Abbiamo già veduto se l'arte di Verdi seguiva i tempi nel 1849,
nel 1855 e nel 1859. E li seguiva, forse prima coi _Lombardi_ e
coll'_Ernani_? E li seguiva col _Rigoletto_ e colla _Traviata_? E li
seguiva poi coll'_Aida_, coll'_Otello_, col _Falstaff_?...

L'arte di Verdi ha potuto, per una benedetta eccezione della natura,
esplicarsi in uno spazio di tempo grandissimo; e, attraverso
al rinnovellamento delle generazioni e dei governi, ha potuto,
gradatamente e continuamente battere il passo alla imponente evoluzione
musicale del secolo decimonono, tracciando quella strada superba dalla
quale l'arte nazionale non dovrebbe mai allontanarsi.

Verdi è stato l'assiduo precursore d'ogni progresso, d'ogni conquista
del melodramma italiano, come fu il precursore vittorioso della
redenzione della Patria.

E voglia il cielo che Verdi sia ancora il precursore invocato, che ci
additi i nuovi ideali da conquistare nel secolo nuovo!

È il migliore augurio per l'arte e per l'Italia.



IL RISVEGLIO DEGLI STUDI DELL'ANTICHITÀ CLASSICA.

CONFERENZA DI GIROLAMO VITELLI.


  _Signore e Signori,_

Non è mio costume eludere con sottili accorgimenti le difficoltà di
quel che imprendo a fare, ovvero liberarmi con disinvoltura dalle
responsabilità che mi toccano; e se veramente fossi responsabile
della conferenza, che vi toccherà udire, saprei anche addossarmi la
responsabilità che me ne verrebbe, e chiedere umilmente perdono di
avervi ingannato con un titolo pomposo e di disilludervi ora con un
discorso, a dir poco, troppo modesto; ma la mia generosità non arriva
a tanto da rispondere di colpe così gravi, quando non sono colpe
mie. Sarò generoso soltanto in questo, che non vi mostrerò a dito il
colpevole, quantunque io lo veda sorridere maliziosamente fra i miei
gentili ascoltatori.

Lo conferenze a cui avete assistito finora, e quelle che ascolterete
in questa sala in quest'anno, tutte più meno si sono contenute e si
conterranno nel limite cronologico del periodo eroico del nostro
risorgimento nazionale, suppergiù dal 1848 al 1860. Ora, che cosa
dovrei io dirvi del risveglio degli studi classici in così ristretto
periodo di tempo, quando ai nostri migliori ben altre cure incombevano
che non fossero quelle di interpretare Cicerone od Omero? Dovrei forse
ricordarvi e spiegarvi quanta ragione avessero i nostri giovani di
lasciare in seconda e terza linea gli studi che immediatamente non
avrebbero per nulla giovato alla indipendenza, alla libertà, all'unità
della patria nostra? Dovrei dirvi, in somma, che risveglio di studi
classici non vi fu allora, nè vi poteva essere, nè vi doveva essere; o
forse dovrei mettermi alla faticosa ricerca di quei quattro o cinque
solitari illustri che, pure accompagnando col pensiero e coi voti
l'èra nuova, ingannavano le ansie delle aspettazioni, investigando
alla «fioca lucerna» d'una modesta stanza di lavoro le costituzioni,
la lingua, la civiltà dei nostri padri antichi? Altri da codesto
vivo contrasto di operosità politica e di studi tranquilli saprebbe
trarre eloquentemente partito, lo riuscirei soltanto a dimostrarvi
quello che già sapete, che una rondine non fa primavera, che un
illustre epigrafista, un valoroso interprete di Tucidide, un geniale
investigatore di memorie antiche può lasciare orme indelebili del
suo ingegno e della sua dottrina nella storia della scienza, ma non
per questo la nazione a cui egli appartiene e il popolo in cui egli
vive possono e debbono esser considerati come coefficenti e fattori
di progresso scientifico. Voi non ignorate qual tesoro di dottrina
e di genialità filologica possedesse il poeta dell'Ultimo canto di
Saffo e della Ginestra; sapete anche però che non soltanto nel «natìo
borgo selvaggio,» ma neppur nei grandi centri di cultura italiana
quell'ingegno e quel sapere trovarono eco. Fu miracolo che alcuni dei
nostri migliori, e sia gloria a Pietro Giordani, se ne accorgessero;
e vi fu bisogno che dotti stranieri rivelassero all'Italia Leopardi
filologo. Sempre nella prima metà di questo secolo che muore, e che
alcuni a dispetto di ogni aritmetica hanno già seppellito, un miracolo
di dottrina epigrafica e storica, Bartolommeo Borghesi, era noto ai
suoi concittadini come colui che religiosamente ascoltava la messa
tutte le feste comandate; ma essi non sapevano che il suo libro di
devozione erano gli Annali di Tacito! Conoscemmo il Borghesi in tutta
la sua grandezza, quando Teodoro Mommsen lo proclamò suo maestro, e
Napoleone III ne ordinò a spese della Francia la ripubblicazione delle
opere preziose.

Ma io corro pericolo che alcuno di Voi mi creda calunniatore del mio
paese. Tante e tante volte da persone, o per merito proprio o per
dignità raggiunta autorevoli, Voi sentiste dire invece che negli ultimi
quarant'anni di vita italiana, era venuta ad affievolirsi miseramente
quella scienza e cultura classica che era stata vanto dei padri e
degli avi nostri. Non io vorrò ridurre tutte queste affermazioni a
vane querimonie di venerandi vegliardi, cui l'età rende inesorabili
_laudatores_ del passato. Vi dirò, invece, che c'è qualche cosa di
vero in questo lamento, in questo confronto non vantaggioso per l'età
nostra, in questo biasimo severo contro la superficialità moderna; ma
perchè si possa riconoscere nei giusti limiti questa parte di vero e
convincersi nonostante che, se di risveglio di studî classici dovremo
parlare, ci converrà appunto cercarne le tracce in questi ultimi
decennii, è indispensabile premettere alcune considerazioni generiche
un tantino noiose, che ci rendano possibile distinguere tendenze e
fatti che generalmente si sogliono confondere.

La storia dell'antichità romana è storia della patria nostra, storia
dei nostri diretti progenitori; e poichè questi nostri antenati,
orgogliosi e fieri conquistatori e reggitori del mondo, non
disdegnarono assimilarsi la cultura, la scienza, la poesia del popolo
ellenico, creatore di quella civiltà che sarà poi detta europea, anche
la storia dell'antichità greca vi si connette indissolubilmente.
Non è meraviglia perciò che, diradate appena le tenebre più o meno
dense della barbarie medioevale, appunto in Italia cominciasse e
splendidamente cominciasse l'ammirazione per la forma e la sostanza
della civiltà antica, il desiderio ardente che in quelle forme
brillasse anche una volta il genio della nostra razza. Firenze fu il
cuore d'Italia in tutto quello splendido periodo di operosa ammirazione
ed imitazione dell'antichità. Ai poeti, agli artisti, agli uomini di
Stato, agli eruditi, ai banchieri, ai mercanti fiorentini, mette capo
in massima parte quel complesso mirabile di fatti, di aspirazioni, di
vita nuova, che sogliamo chiamare «rinascimento».

Può darsi, è certo anzi, che un così grandioso movimento fosse
utopista nelle sue ultime tendenze finali; altrettanto certo è che in
quella eccitazione di spiriti, come indubbiamente ebbe a soffrire la
compagine morale del nostro carattere, così si ritemprò mirabilmente
il nostro carattere artistico, e fummo per secoli i primi artisti del
mondo. Ma io non ho nè volontà nè scienza per trattare, e tanto meno
per risolvere problemi storici di tal natura. Ho voluto semplicemente
indicare quanto natural cosa fosse che in Italia gli studi della
antichità classica avessero in origine scopi e tendenze di ritorno
anacronistico alla civiltà, alla lingua, alla letteratura, alla vita
dei Greci e dei Romani.

Basterà, del resto, dare uno sguardo, sia pure fugace, a quello che
in fatto di lingua e di letteratura avviene in Grecia sotto i nostri
occhi. I discendenti di Temistocle e di Aristide, ridonati dopo lunga
servitù a libera vita, vogliono attestare colla lingua e colle lettere
la loro discendenza; e noi assistiamo attoniti ad un tentativo, che
non possiamo dir sano, di sopprimere una lingua viva e vivace, che ha
la sua ragione di essere nella storia dieci volte secolare del popolo
che la parla, per sostituirvi artificialmente la lingua di Demostene e
di Senofonte, parole, forme e costrutti morti e seppelliti da migliaia
di anni. Ebbene, in altri tempi noi abbiamo accarezzata una utopia
analoga, in forma, se si vuole, senza confronto più grandiosa, più
artistica, più bella; ma per diversità che ci fossero nel resto, il
motivo psicologico non differiva gran fatto. Oggi questa tendenza
anacronistica della riproduzione artificiale della vita antica è,
altrettanto naturalmente, scomparsa quasi del tutto. Innocui esempi,
e solo nel campo delle lettere, rimangono le epigrafi latine, i versi
greci e latini; questi noi ammiriamo soltanto come attestazione di
versatilità d'ingegno, di amoroso studio dei capolavori classici, di
squisitezza di gusto, ma nè autori ne ammiratoli pensano o sognano che
si arricchisca così il tesoro della nostra lingua, della letteratura
nostra.

Ora, si pensi quello che si voglia del valore oggettivo della
evoluzione umanistica dal trecento al cinquecento, rimarrà in ogni modo
gloria imperitura dell'Italia l'aver conservato, trasmesso, arricchito,
raccomandato ai posteri il patrimonio intellettuale ed artistico
dell'antichità classica, patrimonio che è diventato il fondamento più
saldo, direi quasi la chiave di vôlta del grandioso edifizio a cui
diamo il nome di civiltà moderna.

Ma sarebbe anche falso affermare che l'umanesimo italiano non si
liberasse e non sapesse liberarsi dal concetto in apparenza grandioso,
e in realtà meschinamente unilaterale, della riproduzione artificiale;
poichè dall'Italia stessa partì anche il doppio e fecondo concetto
dell'antichità classica come vivificatrice delle nostre lettere, della
nostra arte, del nostro vivere civile, e dell'antichità classica come
argomento di studio indipendente da ogni determinata tendenza pratica,
di studio a sè e per sè, di studio seriamente e scientificamente
oggettivo. Dato e non concesso che altri possa non rilevare queste
benemerenze dell'Italia nostra, non posso nè debbo non rilevarle io:
io ospite grato, e speriamo anche non sgradito, di questa Firenze
dove fino dal XVI secolo si ebbe fiorentissima una scuola di filologia
classica, maestro sommo e venerato Pier Vettori.

Per venticinque anni dalla cattedra, nelle conversazioni, nei privati
colloqui ho esortato, sarei per dire con fervore apostolico, i giovani
fiorentini a scrivere, dopo pazienti ricerche, un libro geniale che
riportasse dinanzi al nostro pensiero viva l'immagine di quell'uomo,
di quella scuola, di quei giovani ammiratori non meno della vita
integerrima del maestro, che della scienza di lui; un libro geniale
che dimostrasse, anche a quelli di noi che non vogliono intenderlo,
come in tanto rinnovamento di scienza e di metodi la filologia del
nostro tempo è pur sempre quella del celebrato fiorentino; un libro
geniale, insomma, che sfatasse una buona volta la vieta leggenda,
per cui continuatori dell'opera dei nostri grandi eruditi pretesero,
e forse pretendono ancora, chiamarsi i rètori inverniciati di frasi
greche e latine, gli arcadi della filologia che fecero sparire il nome
italiano dal libro d'oro della scienza dell'antichità classica. Mi
duole confessarlo, ma il mio fervido apostolato non ha avuto efficacia
se non sulla tranquilla fantasia di un giovane tedesco di Francoforte,
che, se non altro, ha raccolto e pubblicato utili materiali di studio
sul nostro grande filologo. Non dirò già che ai giovani fiorentini non
garbasse scrivere un libro geniale; dirò piuttosto che hanno sdegnato
le lunghe, difficili e pazienti ricerche, senza le quali i libri
geniali non si scrivono.

In Italia, dunque, si ebbe abbastanza presto l'intuizione sicura
dell'importanza grandissima degli studî classici, sia come sano
e nutritivo elemento dello spirito moderno nella letteratura e
nell'arte, nella politica e nella scienza, sia come oggettiva e serena
investigazione storica. Porterei vasi a Samo e nottole ad Atene, se
credessi necessario dichiarare con esempi la mia affermazione rispetto
all'indirizzo che dirò imitativo del classicismo italiano, sebbene
la parola imitazione non risponda adeguatamente al concetto. Tutta
la nostra letteratura, per non dire altro, ebbe vital nutrimento
dell'antichità classica; e se i meno dotati d'ingegno riuscirono spesso
gretti imitatori, il genio dei nostri grandi seppe anche derivare
dalle fonti classiche, forme d'arte meravigliosamente originali nella
grandiosità della composizione, nella plasticità delle immagini, nel
colorito smagliante della elocuzione e dello stile. A porre in luce
meridiana questo benefico influsso del genio antico sulla poesia e
sulla letteratura nostra, molto prima che cominciasse l'affannosa e
febbrile investigazione delle memorie classiche, provvide il poeta
fiorentino che è gloria del mondo, il poeta di cui aumenta la gloria
quanto maggiore è la cura con cui si rintracciano le fonti classiche,
non del «bello stile» soltanto «che gli ha fatto onore», ma di ogni sua
più mirabile concezione poetica.

E se a qualche cosa, Signore e Signori, la storia vale, essa dovrà
valere indubbiamente a farvi diffidare di una certa moderna dialettica
che si affatica a dimostrare spezzato ogni legame tra lo spirito
dei tempi nuovi e la vita antica. Manca a me ingegno e dottrina per
sottoporre a serio esame questi aforismi modernissimi nel campo della
scienza, della morale, della religione. Ma quale è, di grazia, quale è
la forma moderna d'arte che non abbia radice, e radice tuttora vegeta,
nella fantasia divina dei Greci? Quale è, di grazia, il gran concetto
giuridico moderno che non sia vivace rampollo dell'albero maestoso del
giure romano? A qual mai progresso intellettuale o morale la sete del
sapere degli Elleni e il senno pratico dei romani furono di ostacolo?
Non attribuiamo, per carità, gli errori, la gretteria, la pedanteria
di alcuni ammiratori dell'antichità agli spiriti magni della antichità
stessa, anzi al genio riformatore di quei due popoli privilegiati. Io
auguro, dunque, al mio paese, che ancora per lunga serie di secoli
i suoi poeti e i suoi dotti giureconsulti, gli scenziati e gli
artisti nel più lato senso della parola, ricorrano incessantemente
a ritemprarsi lena e vena nella scienza e nell'arte antica, nella
rigogliosa umanità antica; e sappiano farlo non meno bene di quanti
da barbari in grazia di essa divennero civili, e la energia nativa
correggendo su quei sacri modelli, divennero essi stessi modello di
operosità feconda a noi, che beatamente ci adagiammo nella persuasione
che i nostri avi avessero già fatto abbastanza per sè e per noi!

Col nobile intento di richiamare gli italiani alla cultura classica, ha
da pochi anni vita in Firenze una Società che tutte le persone colte
dovrebbero desiderare prospera, efficace, nè dovrebbe il desiderio
rimanere soltanto platonico. Solo per opera di una grande società
siffatta si potrà sottrarre l'indirizzo della educazione e della
cultura italiana all'aura mutevole e capricciosa delle assemblee
politiche e dei gabinetti dei ministri. E non soggiungo altro, poichè
non può essere oggi mio intendimento consumare il tempo, di cui per
cortesia vostra dispongo, in argomenti abbastanza estranei a quello
che debbo trattare: giacchè io credo di dovervi parlare soprattutto
della scienza dell'antichità classica come disciplina a sè, abbia o non
abbia stretta attinenza colla cultura generale italiana. Ma, sarebbe
vano negarlo, anche questa scienza in tanto può fiorire in qualsivoglia
nazione del mondo, in quanto tra quella nazione è larga ed estesa la
cultura generale donde la scienza muove. Anche qui la storia viene in
nostro aiuto a farci toccare con mano che ogni grande e vero progresso
della scienza dell'antichità classica si è verificato appunto dove
e quando la cultura generale classica fu più estesa e più intensa;
e viceversa dovunque il classicismo non fu largamente in onore come
strumento di educazione, colà fu anche meno abbondante e salutifero
il frutto della scienza. Nè questo soltanto c'insegna la storia. Essa
c'insegna inoltre che tale e tanta è la connessione fra la civiltà,
la cultura, la lingua, la scienza greca e romana, che opera vana
tenterebbero quelle nazioni o quegl'individui i quali, dimentichi di
questa connessione intima, credessero di portare un contributo largo
ed importante alla investigazione scientifica o storica di una parte
sola dell'antichità classica. Io non conosco nessun grande latinista,
italiano o straniero, dell'età nostra o delle precedenti, che non
sia o non fosse in grado di trattare filologicamente i monumenti,
gli scrittori, le fonti elleniche; e non so neppure di alcun grande
ellenista digiuno di erudizione e di scienza latina. So, è vero, di
un valentuomo (non italiano!) del nostro tempo, il quale, essendo egli
profondo latinista, non dubitò di affermare che latinisti a preferenza
erano stati i corifei della nostra scienza. Ma l'affermazione è
certamente falsa, perchè io in coscienza non saprei dirvi davvero se,
per esempio, Pier Vettori e Riccardo Bentley fossero più latinisti o
grecisti, e perchè potrei addurre una bella schiera di grandi grecisti
che non dimostrarono egualmente al pubblico la loro scienza di cose
latine. Ma non mette conto di perdere del tempo a dimostrar vana
un'affermazione che evidentemente ha origine dalla vanità del latinista
che la emise, e che era egli stesso, del resto, un grecista valente.
Pur troppo, come vedete, neppur la filologia classica è preservativo
efficace contro la vanità. In confidenza, vi dirò persino che i
filologi classici sono spesso anche più intollerabilmente vani degli
altri.

Sarebbe, pertanto, oltremodo facile dimostrare, anche teoricamente,
quanto impossibil cosa sia tener distinto il lavoro scientifico
nell'un campo, greco o romano, dal lavoro scientifico nell'altro.
Scienza ed arte romana sono riflessi e svolgimenti di arte e scienza
greca: pretendere di capir quella senza capir questa varrebbe presso
a poco quanto illudersi d'intendere l'umanesimo del rinascimento senza
conoscere quell'antichità che l'umanesimo consapevole o inconsapevole
cercava di riprodurre. Si potrebbe forse comprendere adeguatamente
la produzione intellettuale dei Greci, in quanto essa è in massima
parte indipendente da influssi forestieri, e ad ogni modo procede per
vie affatto sue anche quando dal di fuori trae l'origine; si potrebbe
forse comprenderla adeguatamente, se completa e in tutte le sue
manifestazioni essa ci fosse giunta. Invece c'è giunta in frammenti,
grandiosi frammenti se volete, ma frammenti, spesso da rintracciare in
fonti romane. Sopprimete tutto quello che dei Greci sappiamo e possiamo
investigare a traverso i riflessi, le imitazioni e le ricerche romane,
e vi accorgerete subito che quella meravigliosa statua mutila, simbolo
dell'antichità ellenica, voi avrete più barbaramente mutilata.

Ma poichè nè io nè Voi siamo vandali, possiamo e dobbiamo augurarci
che da tale vandalismo l'Italia nostra sia risparmiata; nè è vano
l'augurio, perchè in realtà anche gli stolti, dei quali, come dice il
poeta, infinita è la schiera, non si farebbero mai tra noi paladini
esclusivi di studî greci. Il pericolo è piuttosto nell'altrettanto
assurda persuasione della possibilità di un classicismo italiano
fecondo e operoso, a base esclusiva di latinità e di romanità. Ho
detto persuasione, ma tale io non credo che sia: è piuttosto la solita
tendenza a blandire le turbe infinite che vogliono bensì penetrare
nell'aristocratica ròcca del classicismo, ma naturalmente vogliono
anche che sia più alla portata degli inetti questo titolo di nobiltà.
Ebbene, noi non abbiamo bisogno di sperimentare questo classicismo che
è stato detto «a scartamento ridotto»; lo abbiamo già sperimentato
per secoli. Poco fa io rammentava con entusiastica ammirazione Pier
Vettori e la sua scuola, ma è doloroso dovere aggiungere che, estinto
quell'uomo e quella scuola, lo studio dell'antichità classica in Italia
si aggirò fatalmente in un àmbito sempre più ristretto. Scienza e
conoscenza di lingua e di cose greche andò a mano a mano scomparendo;
antiquaria romana e retorico umanesimo latino furono sino all'età
nostra unico residuo di un movimento scientifico iniziato animosamente,
e coronato nel suo inizio da splendido successo. Voi sapete ormai che
non voglio nient'affatto parlarvi di persone. Non mi opporrete perciò
quella mezza dozzina, e sia pure una dozzina, di valentuomini che
dal seicento ad oggi lavorarono felicemente nel campo greco. Non vi
abbiate a male se vi dico che li conosco anch'io come li conoscete Voi;
ma essi sono quasi addirittura estranei al movimento scientifico del
nostro paese, nè fu merito dell'Italia se il resultato delle loro dotte
ricerche entrò a far parte del patrimonio della scienza.

L'esperienza dunque noi la abbiamo fatta, e ci rimane il rimorso
di averla fatta durare troppo a lungo. Quali resultati se ne siano
avuti, lo sappiamo. Neppure nella scienza antica latina, l'Italia, per
tre secoli, ha rappresentato quella parte a cui la nativa prontezza
di ingegno, la conformità grande di sentimento e di attitudini con
la vita civile degli antichi, la tradizione infine e la storia la
avrebbero chiamata. Col nome di dottrina classica battezzammo una vuota
declamazione retorica, demmo nome di storia a compilazioni di aneddoti,
a frasi reboanti demmo nome di eloquenza, alle curiosità demmo il nome
di erudizione.

Volle fortuna che il nostro classico suolo rimettesse incessantemente
in luce monumenti, opere d'arte antica, che richiamarono alcuni nostri
studiosi a un indirizzo positivo di investigazioni e ricerche; e
avemmo così epigrafisti e antiquari di molto maggior valore che per le
condizioni delle altre discipline filologiche avremmo avuto diritto di
aspettarci. Le cose sono mutate in meglio appunto nella seconda metà
del nostro secolo, vale a dire dacchè gli studi classici greci sono
tornati in onore, dacchè le lingue e le lettere greche non sono più
misterioso patrimonio di pochissimi, dacchè ogni persona colta non dirò
che legga Sofocle e Omero, ma almeno ha acquistato la convinzione che
leggerli e intenderli non è curiosità oziosa di gente oziosa. Non sono
per verità tanto ingenuo da attribuire così meravigliosa efficacia alle
declinazioni e alle coniugazioni greche che i nostri ragazzi imparano
nelle scuole. Ma non si tratta già ora di farvi vedere quanto di più e
di meglio sarebbe possibile nelle scuole; si tratta di riconoscere un
fatto innegabile. Noi italiani di punto in bianco abbiamo, dopo lungo
abbandono, riconosciuto di nuovo il genio classico greco come elemento
indispensabile di alta cultura generale, abbiamo modificato le scuole
in questo senso, e secondo questo concetto, abbiamo improvvisato dei
maestri che questo concetto attuassero, e in poche diecine di anni ci
siamo messi anche in grado di lavorare, di contribuire modestamente, e
sia pure modestissimamente, alla scienza della antichità classica. Non
ignoro quali e quanti siano gli altri coefficienti di questi risultati,
la ridestata coscienza nazionale, l'indirizzo serio e positivo degli
studî affini, la scomparsa di quel vano orgoglio che ci faceva ignorare
e disprezzare dottrine e scienze forestiere; ma questo vuol dire
soltanto che per le progredite condizioni intellettuali del paese
ci siamo finalmente avvisti che anche la nostra cultura classica era
difettosa, e ci siamo studiati di farla completa con l'ellenismo, e
l'ellenismo le ha dato quel vigore e consistenza scientifica che aveva
per secoli miseramente perduta.

Difficile è fare la cronaca esatta di questa trasformazione, promossa
da spiriti illuminati anche prima della metà del secolo, ma sorretta
solo più tardi, e non sempre quanto sarebbe stato opportuno, dalla
sapienza dei governanti. Anche prima del fatale anno 1848 la Toscana
aveva in Pisa una istituzione benefica, i cui benefizi possono oggi
dal punto di vista odierno apprezzare poco quegli egregi che, ricchi
di entusiasmo e di ingegno, non vi trovarono prima del '59 la larga
educazione scientifica di cui erano avidi: e noi, venuti un po' più
tardi, ma non troppo più tardi, sappiamo quanta ragione avessero essi
di dolersi che il tempo della loro balda gioventù andasse consumato
miserevolmente a scuola di inetti o poco meno che inetti: ma è pur vero
che da quella scuola, perfino in quegli anni non felici, provennero
molti di coloro che senza confronto meglio di tanti altri poterono
contribuire utilmente alla trasformazione delle nostre scuole e
spianare la via a noi altri allora giovanetti, che, compiuta la unità
d'Italia, avemmo in essi i nostri maestri, e non di greco soltanto.

Nè perchè ho ricordato espressamente la Toscana, vogliate supporre che
io dimentichi la efficacia della legislazione scolastica piemontese,
estesa con savio consiglio a tutta l'Italia: per essa avemmo un
ordinamento razionale di studî, imperfetto quanto si vuole, ma di gran
lunga più razionale e più largo che non usasse nelle scuole multiformi
del resto d'Italia. E poichè della oppressione politica austriaca
dicemmo sempre e volentieri tutto quel male che essa meritava, è anche
giustizia riconoscere che troppo più difficile sarebbe riuscito alla
Italia nuova rinnovare e integrare il classicismo vieto e monco delle
nostre scuole, se dalla Lombardia e dal Veneto non ci fosse venuta una
schiera di valentuomini, cui la tirannia politica non aveva spento
in cuore l'amor di patria e la scienza tedesca dall'Università di
Vienna aveva messi in grado di sapere per quali vie e con quali mezzi
tornerebbero gl'Italiani alla vita scientifica, anche in quel ramo
di cultura che era sembrato per secoli più che altro svago innocente
degli spiriti, strumento semplicissimo per darsi aria di letterati
finamente colti, infiorando di emistichii oraziani e virgiliani il
discorso. Resti ad altri l'ufficio gradito di celebrare, come meritano,
gli uomini che più direttamente promossero con l'insegnamento e con
l'esempio gli studi italiani di antichità classica. A noi, che in tanta
parte della nostra vita pubblica troviamo ragioni di sconforto, di
scoramento, di dolore, sia dato compiere l'ufficio ben più gradito,
di proclamare cioè che, se in complesso il classicismo italiano è
ancora meschinello rispetto alla Europa civile, esso è grande rispetto
alla vecchia Italia di cinquant'anni fa; e senza ingratitudine
possiamo smentire, per questa parte almeno, l'antico poeta: l'età
dei padri nostri portò noi non peggiori, ma migliori di essi — senza
ingratitudine, perchè è merito dei padri nostri aver create quelle
condizioni di vita civile che resero possibile a noi di metterci sulla
via abbandonata da secoli e trionfalmente battuta da quei popoli ai
quali noi primi l'avevamo additata. Quale è dunque l'augurio nostro per
i nostri figli? Che essi continuino a smentire la sentenza pronunciata
dal poeta romano, emendino i nostri vizii, colmino le enormi lacune
del nostro sapere, siano liberi dai pregiudizi che arrestarono noi
a mezza via, facciano dimenticare i nostri timidi tentativi, siano
emuli degni degli spiriti nobilissimi cui noi potemmo tener dietro
appena faticosamente e «longo intervallo;» sia lecito ad essi non
essere equanimi verso di noi, sieno ingrati, ma sieno migliori di
noi. All'esperienza nostra, però, vogliano pure ricorrere per amoroso
consiglio. Sapremo dir loro quello che non abbiamo saputo far noi;
sapremo soprattutto dimostrare i nostri difetti, sapremo porli in grado
di non sciupare l'ingegno per vie tortuose o senza uscita, sapremo
raccontare con la esperienza, con la vivacità, e, spero, anche con la
veridicità del testimone oculare la storia dei nostri studî in questi
quarant'anni di vita italiana.

Intanto, aspettando che i nostri figli e nipoti vengano a chiederci
questi consigli e ad ascoltare questo atto di contrizione nostra e
questa storia, io mi confesserò sinceramente con voi — siamo nella
settimana di Penitenza: — e poichè mi è dato evitare una incomoda
confessione speciale dei peccati miei, esclusivamente miei, e posso
presentarvi la confessione generica degli Italiani del mio tempo, molto
a buon mercato, come vedete, mi pongo in regola col santo precetto,
tanto più che, dopo tutto, la penitenza toccherà non a me, ma a
Voi. Se nella età che precedè immediatamente il nostro risorgimento
nazionale, l'Italia fosse rimasta miseramente indietro soltanto in
fatto di studî classici, e nel resto avesse conservato importanza
notevole rispetto alle principali nazioni civili, anche la scienza
dell'antichità classica avrebbe rapidamente ripreso sviluppo e vigore,
e rapidamente sarebbe passata dallo stadio recettivo allo stadio
produttivo; ma a noi mancavano quasi totalmente i mezzi per iniziare
un lavoro scientifico, mancava la conoscenza più elementare della
letteratura dell'argomento: letteratura enorme, frutto di trecento
anni di studi assidui, di ostinate ricerche di Francesi, Inglesi,
Olandesi e Tedeschi, soprattutto di Tedeschi, che, ultimi in ordine
di tempo, avevano ereditato e da un secolo tenevano lo scettro della
scienza della antichità classica, l'avevano meravigliosamente promossa
in ogni disciplina, ne avevano disposte le parti, le avevano dato
forma e carattere di vera e propria scienza. Che in tali condizioni un
italiano di alto ingegno anche senza educazione e senza preparazione
metodica potesse prendere parte attiva e contribuire efficacemente
alle investigazioni scientifiche, non lo escluderò io, che so come e
quante volte la ipotesi sia stata realtà. L'alto ingegno sa prescindere
da condizioni anche indispensabili; ma, come ho già detto, non sono
singoli e isolati uomini d'ingegno quelli che determinano il movimento
scientifico del loro paese. Ai più parve, e non poteva non parere,
che dovessimo anzitutto addestrarci a maneggiare gli strumenti del
mestiere; e gran parte della attività nostra fu rivolta a impratichirci
di lingue straniere, del tedesco principalmente, e a renderci familiari
i manuali, le monografie straniere, principalmente tedesche, e lo
facemmo in molti; e la generazione mia ebbe meno difficoltà a farlo
che non ne avesse la generazione precedente. Gli uni e gli altri ci
ridemmo della nomèa di tedescanti, della quale i vecchi, meritamente
e immeritamente autorevoli, ci gratificarono. Opera egregia e proficua
fece allora chiunque contribuì, sia pure in proporzioni microscopiche,
alla diffusione in Italia di libri stranieri, chiunque fece conoscere
studi e metodi a cui l'Italia non era più avvezza, e che sarebbe stata
cosa ridicola ripristinare in quella forma in cui l'Italia li aveva
lasciati tre secoli innanzi. Onore e riconoscenza si deve a tutti quei
valentuomini che, traducendo, compilando, compendiando riuscirono a
poco a poco a mettere in contatto diretto la gioventù italiana con la
filologia tedesca: e credo che per parecchie altre scienze si debba
e si possa dire lo stesso. Giovani benemeriti del loro paese furono
quelli che secondarono con ardore questo impulso, e ben presto avemmo
una schiera di non indotte persone, capaci di fare altrettanto, e
lo fecero, magari con più ardore, e continuarono ancora quando forse
sarebbe stato possibile e desiderabile qualche altra forma di operosità
letteraria.

Ho promesso di essere sincero, e lo sarò anche a costo di _sembrare_
esclusivo, perchè ho la coscienza di non _essere_ esclusivo, e delle
apparenze non soglio darmi gran pensiero. La scienza della antichità
classica è scienza enormemente complessa, è scienza della vita greca e
romana in tutte le sue manifestazioni letterarie, scientifiche, civili,
religiose, politiche, morali ecc.; mirabilmente varie attitudini esige
da chi voglia abbracciarla tutta, e forse non è ancora nato chi nel
vero senso della parola tutta la abbia posseduta. Negli individui
essa è piuttosto aspirazione che possibilità realizzabile, ma povero
quell'individuo che tale aspirazione non abbia, che nelle ricerche
speciali e minute perda di vista e disprezzi la scienza del tutto! I
tedeschi hanno avuto la fortuna di concentrarvi dalla metà del secolo
scorso alla età nostra un'ingente massa di studiosi educati allo
stesso modo, preparati con gli stessi metodi, perseveranti e idealisti
per qualità di razza; è addirittura miracolosa la tenacia con cui
generazioni di dotti si sono succedute in lavori ingrati di minuzie,
di analisi, di inventario, di pura statistica, di lessicografia, di
grammatica. Onde avviene che oggi il giovinetto tedesco, solo perchè
tedesco, in condizioni normali si trova ad avere assorbito, sarei per
dire, atavisticamente gran parte di quella preparazione formale che
noi siamo ancora costretti ad esigere esclusivamente dalla scuola,
da una scuola che forse essa stessa non darà mai tutti i frutti della
scuola tedesca. Ma, quantunque per indole il tedesco sia portato alla
costruzione sistematica, e debba quindi preferire nelle scienze quelle
discipline che della scienza sono piuttosto il coronamento che la base,
nonostante è relativamente raro il caso che i giovani trascurino quella
preparazione formale, la quale permette loro di affrontare tutte o
quasi tutte le difficoltà della speciale disciplina a cui si dedicano;
per non dire poi che anche oggi, cioè in un'epoca di reazione contro la
filologia formale, anche oggi è sempre e quasi esclusivamente tedesca
anche la produzione filologica fondamentale sulla quale edificano lo
storico della letteratura e della scienza, l'archeologo e il giurista,
il linguista, ecc. Da noi invece sono diverse le tendenze e diversi i
resultati. Le indagini storiche, letterarie, filosofiche sembrano più
facilmente guidarci alla scienza. Ognuno capisce che se rivolge le sue
cure a studiare, poniamo, la Storia naturale di Plinio, a indagarne le
fonti libro per libro, capitolo per capitolo, a cercare di determinare
nei più minuti particolari i caratteri di lingua e stile dell'autore, a
proporsi insomma come principale intento di una intera vita di studioso
la critica e la esegesi di Plinio, ognuno capisce che così facendo non
gli rimarrà tempo per illuminare del suo genio tanta altra parte della
antichità classica; e perciò invece di studiare Plinio, mal si resiste
alla tentazione di far ricami dialettici sugli studi altrui: tanto più
che non è estremamente difficile a quattro opinioni diverse opporne
con qualche verisimiglianza una quinta, ricavata per eliminazione
dall'esame delle obiezioni già fatte da altri alle prime quattro.
Poniamo anche — ed è temeraria ipotesi — che questa quinta opinione
sia la vera, e passi nella scienza col nome italiano: ma Plinio rimane
nonostante monopolio della filologia tedesca.

Or non è esagerazione dire che buona parte della nostra produzione
scientifica prenda le mosse non dallo studio immediato e diretto
delle fonti, ma dalle indagini altrui; non penetri nelle viscere
dell'argomento, ma si riduca a esercizio dialettico sulla discordia
degli altri. Sarà anche vero che i tedeschi abusino della parola
_Gründlichkeit_, con la quale indicano appunto la tendenza amorosa
e ostinata a sviscerare le questioni; ma non ho il coraggio di dire
che essi abbiano sempre torto, quando ci rimproverano appunto difetto
di _Gründlichkeit_, difetto tanto più pericoloso in quanto spesso e
volentieri si accompagna a una curiosa forma di orgoglio nazionale.
Nella scienza dell'antichità, si dice, c'è posto per tutti. Il lavoro
minuto e paziente non è per noi, che generalmente abbiamo ingegno
e fantasia da vendere e da donare. Fuori d'Italia ci preparano e
ci sbozzano la materia greggia, in Italia la metteremo in opera,
lavoreremo di fino, daremo l'ultima mano. Naturalmente sciocchezza
siffatta neppure gli stolti si arrischiano ad enunziarla così come ho
fatto io, senza ambagi e senza circonlocuzioni, ma pur troppo lo stesso
concetto traspare talvolta anche dalle parole di persone non stolte
che si sono illuse, e forse ancora si illudono, si possa parlare di
scuola italiana di filologia classica, quando questa scuola non dia
essa l'indirizzo alle discipline fondamentali della scienza. Non temete
che io voglia trattenervi a lungo su questo punto, che pure è di vitale
interesse e meriterebbe ampia trattazione. Mi basteranno per oggi
quattro parole, ma alla buona anche queste, e saranno sufficenti, oso
dire, perchè voi vi uniate a me nel combattere tale assurda tendenza.

La scienza dell'antichità classica è un complesso di sapere storico,
è storia dell'antichità classica: ha quindi base e fondamento in
testimonianze storiche, non in concetti della nostra mente. Queste
testimonianze storiche sono le fonti della scienza, e si riducono a due
categorie principalissime: monumenti scritti e monumenti non scritti.
Da una parte dunque le opere superstiti dei poeti, degli storici,
dei filosofi, le iscrizioni pubbliche e private, le leggende delle
monete ecc., e dall'altra parte i frammenti superstiti delle opere
d'architettura, di scultura, di pittura, gli oggetti di uso comune e
così via. I monumenti non scritti, che si potrebbero dire monumenti
muti, sono spesso di gran lunga più eloquenti di tutti gli altri. Un
fregio del Partenone vi dà dell'arte antica un'idea ben più viva ed
esatta che non qualsiasi descrizione a parole. Ma la interpretazione,
la classificazione, l'uso scientifico dei monumenti muti è impossibile,
senza il sussidio costante dei monumenti scritti. Sopprimete, ad
esempio, il libro di Pausania, e domandate agli archeologi quanta
parte della loro scienza scompare. I documenti scritti sono dunque
in primissima linea le fonti della storia dell'antichità classica,
ma queste fonti non sono già qualche cosa di fisso, d'immutabile.
Esse scorrono abbondanti o scarse, limpide o limacciose, a seconda
del lavoro buono o cattivo, che si è fatto, dirò così, nella cava di
presa. È lavoro da scavatori, da zappatori, da facchini, tutto quel
che volete, ma beverete acqua torbida se il lavoro non sarà fatto a
modo. Ora, tutto questo lavoro è nelle mani dei tedeschi da un secolo
in qua. In buona parte la materia prima viene distribuita dai tedeschi
al mitologo, all'archeologo e così di seguito. E c'è chi crede si possa
imprimere la marca di fabbrica italiana alla storia greca e romana,
alla storia letteraria, alla mitologia, alla archeologia, finchè
questa condizione perdura, finchè è elaborazione tedesca il Livio e
il Tacito di cui vi servite, il Virgilio che decantate, il Pausania
che vi guida nelle vostre indagini archeologiche. Eppure quelli
che tra noi hanno tenacemente combattuto per questo concetto così
evidentemente vero, che cioè gl'Italiani stessi debbano sfruttare i
tesori delle loro biblioteche, e mirare principalmente a impossessarsi
delle fonti e imparare a prepararle per l'uso scientifico; quelli che
hanno modestamente dimostrato come si possa e si debba riuscirvi, sono
chiamati pedanti, e chi tali li proclama, trova persino appoggio in
persone di senno.

Signore e Signori, io mi sono messo per una via per cui agevolmente
potrei continuare parecchie ore con molta soddisfazione mia, con
molto tedio vostro. Preferisco rinunziare alla soddisfazione mia, e
concludere anche senza aver poste e senza aver dichiarate tutte le
premesse. Gli studi classici in Italia si sono ridestati dal 1860
in qua, abbiamo una legione di filologi classici, e una discreta
produzione scientifica. Si può anche aggiungere che abbiamo nei
vari rami della scienza dell'antichità un numero notevole di opere
di grandissimo valore, e dobbiamo compiacerci che il nome italiano
ricompaia degnamente anche in questo ordine di indagini scientifiche.
Ma conviene ricordarci che abbiamo dormito tre secoli. Lo stadio del
risveglio è un po' in proporzione del lungo periodo di sonno, un po'
di torpidezza occupa ancora il nostro spirito, non abbiamo ancora
una visione esatta e sicura della via da percorrere: alcuni nuvoloni
ministeriali di tanto in tanto ci risospingono nella inerzia, se non
addirittura nel sonno. Il caldo sole d'Italia trionferà di questi
umidi vapori, e fra cinquant'anni si potrà, magari in questa stessa
sala, affermare con verità che nella investigazione della antichità
classica il nostro paese tiene gloriosamente il posto d'onore, il posto
che merita. Per ora bisognerà contentarsi di affermazioni molto più
modeste; e forse non troppo immodesta troverete la speranza mia che,
parlando del _risveglio_ degli studî classici, io non abbia risospinti
nel sonno i miei gentili uditori.



INDICE


  Autori e Attori drammatici                          Pag.   5
  La sincerità nell'Arte. (_L'Arte dal '48 al '61_)         45
  Le prime glorie di Giuseppe Verdi                         85
  Il risveglio degli studi dell'antichità classica         117



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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