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Title: La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III - Quarta serie - Lettere e arti Author: Various Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III - Quarta serie - Lettere e arti" *** LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO (1849-1861) QUARTA SERIE III. LETTERE E ARTI. Autori e Attori drammatici GUIDO MAZZONI. La sincerità nell'Arte. (_L'Arte dal '48 ai '61_) UGO OJETTI. Le prime glorie di Giuseppe Verdi PIETRO MASCAGNI. Il risveglio degli studi dell'antichità classica GIROLAMO VITELLI. FIRENZE R. BEMPORAD & FIGLIO _LIBRAI-EDITORI_ 1901 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATI TUTTI I DIRITTI. _Gli editori_ R. BEMPORAD & FIGLIO _dichiarano contraffatte tutte le copie non munite della seguente firma:_ [Illustrazione: firma manoscritta] Firenze, 1901. — Società Tip. Fiorentina, Via S. Gallo, 33 AUTORI E ATTORI DRAMMATICI tra il 1849 e il 1861. CONFERENZA DI GUIDO MAZZONI. _Signore e Signori,_ Il Voltaire, con una delle sue arguzie felici, definì il pubblico de' teatri un animale contemperato di quattro nature diverse: un asino, una scimmia, un pappagallo, un serpente. Non è difficile intenderne la ragione. L'asino, perchè il pubblico ha troppo spesso le orecchie lunghe; la scimmia, perchè un applauso di gente stipendiata ad applaudire basta non di rado per far battere le mani a tutti quanti gli spettatori; il pappagallo, perchè il giudizio di pochi diviene subito il giudizio o il pregiudizio dei più, che forse non avranno pensato mai nè sentito a quel modo; il serpente poi.... perchè il Voltaire era stato qualche volta fischiato anche lui! Le quattro nature mi sarebbe facile rintracciarle e dimostrarle a una, a una anche nel pubblico italiano dal 1849 al 1861, a proposito degli attori che si presentarono e delle opere che si rappresentarono allora su' nostri teatri: mi sarebbe facile dimostrarvele se la strettezza del tempo mi concedesse di abbondare in aneddoti. Ma almeno un'osservazione credo di dovere aggiungere qui, prima di mettere da parte la maliziosa definizione del Voltaire; ed è che per tali anni ci fu in esso pubblico anche un po' della volpe e anche un po' del leone: della volpe per la sottigliezza furbesca del deludere e mettere nel sacco, come nell'antica epopea animalesca, i lupi delle imperiali, regie, ducali e pontificie censure; del leone per certi generosi impulsi che facevano di tanto in tanto sobbalzare gli uditori, mentre, dopo le sciagure del '49, si preparava, quasi nel silenzio d'un forte raccoglimento, la riscossa d'Italia. Un asino, una scimmia, un pappagallo, un serpente, una volpe, un leone, vi sembrano forse troppi? Ma riflettete che alla bestiale nomenclatura manca almeno un altro animale, cui mi sarebbe forza accennare quando non avessi a discorrere de' nostri padri e de' nonni che si sollazzavano ridendo delle farse gioconde, e mi trovassi invece a far da cronista de' pubblici più moderni che se la godono sghignazzando dinanzi a certi spettacoli pruriginosi. I. Quanto meglio aver della volpe e del leone! E di qualità magnanime e astute c'era davvero bisogno, in quell'ultimo decennio in cui l'Austria e i governi restaurati oppressero la patria e cercarono quasi da per tutto di rinfiacchirne l'anima, o distoglierla dalle alte visioni sognate innanzi; le alte visioni dell'indipendenza e della libertà. La censura non adoprò mai tanto le forbici quanto allora. Una _Bianca Capello_ (sic) di Giovanni Sabbatini, nel 1844, era stata proibita negli stati di Sua Maestà imperiale apostolica, e poi in quelli del duca di Modena, e sequestrata a Modena nelle stampe, perchè.... Ve lo dirà questo dialogo che par di commedia, ed è, a proposito di un dramma storico, un racconto di storia vera. Il Sabbatini si presenta al conte Riccini, Ministro di Buon governo, come lo chiamavano, del Rogantino di Modena, Francesco IV, a ottenere che sia tolto il sequestro; e ne è accolto così: — Ah, lei dunque scrive di queste porcherie? — Ma.... come, Eccellenza? un dramma storico, approvato (per la stampa) dalla Censura di Milano? — Storico, storico! Ce n'è tanta della storia senza andare a pescar fuori queste sozzure! E poi la storia!... Chi è che fa la storia dei principi? I nemici dei principi, i ribelli! Figuriamoci che belle storie possono fare! — E siccome l'autore insisteva sulle approvazioni già regolarmente ottenute, il conte concluse: — Io intanto le dico ch'ella non è niente affatto in regola. Non so com'ella osi insistere. La è una porcheria! Mi pare che quando il Ministro di Buon governo le canta chiaro e tondo questo giudizio, basti perchè ella non abbia più da insistere d'essere in regola. — Bisognò che il povero Sabbatini si desse per vinto. E voi forse crederete ch'egli fosse un riscaldato, un acceso, e che la sua _Bianca Capello_ fosse Dio sa qual covo di viperine allusioni liberalesche? Nemmeno per sogno; tanto ch'egli stesso diventò poi, a Torino, un censore drammatico! Ma nel fatto della fuga della Cappello da Venezia col Bonaventuri, e de' suoi successivi amori a Firenze con Francesco II granduca, e della morte del Bonaventuri, e di quella di Francesco II e di lei, quale allora da tutti era stimato vero e certo storicamente, il conte Riccini vedeva solo una seduzione, un rapimento, un omicidio, commessi da un regnante; roba da Carbonari, roba da Mazziniani, ne fosse o no colpevole il Sabbatini. — Caro signor Sabbatini, — concluse il conte, — la badi a un vecchio; qui non è più il Ministro che le parla, ma il suo buon amico Riccini, che le dà un consiglio. Tratti altri argomenti.... Non si lasci guidare dalla moda e dai guastamestieri che col pretesto della letteratura pescano nel torbido.... — L'autore ebbe anche a ringraziare de' paterni consigli; e stava per andarsene, quando Sua Eccellenza lo richiamò, e porgendogli la penna intinta nell'inchiostro, e la copia a stampa del dramma incriminato, che si era fin allora tenuta lì innanzi sullo scrittoio, gli chiese un piacere: — Desidero, caro signor Sabbatini, di avere il suo autografo. Favorisca scriverci su, ch'ella mi fa dono del suo bel lavoro. — E come l'altro lo guardava stupefatto e titubante: — Sì, un bel lavoro letterario; il Ministro, governativamente parlando, lo deve biasimare, ma il Riccini deve felicitarsene coll'autore. Favorisca scrivere. — Ubbidisco! — fu costretto a rispondere il Sabbatini, e scrisse sul libro: «A S. E. il signor Conte Gerolamo Riccini l'autore in segno di ossequiosa stima.» Non ci fu mai dedica men veritiera (e voi sapete che soltanto le epigrafi mortuarie son più bugiarde delle dediche). Racconta infatti il Sabbatini medesimo, che se n'andò crollando la testa ed esclamando tra sè: — E a gente tale si dà il governo dei popoli! — Tanto sentiva quella ossequiosa stima che aveva dovuto affermare e firmare in una dichiarazione autografa. _Nazione_ era parola da doversi sopprimere (diceva un censore) perchè non poteva riferirsi ad altro che ad una vera utopia, e offendeva i legittimi governi: la frase _ogni libera voce_ era una pericolosa affermazione: _quella pazienza, virtù grande degli Italiani_ sembrava che sonasse male, e che neppure essa, in un certo senso, fosse frase innocente. Che più? Paolo Ferrari racconta (e ormai siam dopo il 1848-49) che due personaggi di commedia, il principe Leopoldo Roccalba e il duca di Monteforte, divennero, per la censura di Modena, quegli marchese, e questi conte; perchè là erano proibiti nelle commedie i titoli di imperatore, re, principe, duca. Ma nella Toscana non piaceva in bocca di attori il nome di Leopoldo, che era quel del granduca, e la censura vi mutò Leopoldo in Arturo. Poi a Roma Arturo e il conte, nelle loro esclamazioni amichevoli, doverono schivare di nominare Dio: racconta la Ristori che là non si poteva dire _curato_ nemmeno come participio del verbo _curare_: e Arturo fu per ciò costretto a dire al conte, non più — Mio Dio! sei diventato grasso! — Ma — Oh ciel! sei diventato grasso! — Per ultimo, siccome quella fiorente salute il conte la doveva alla buona aria di Napoli, e l'autore gli aveva fatto dire: . . . È naturale. Di Napoli son stato A ber l'aure vulcaniche: sotto quel cielo ardente L'alma di caldi sensi ringiovanir si sente . . . la censura napoletana, insospettita di quel _vulcaniche_, di quell'_ardente_, di quel _caldi_, cancellò tutto, e volle invece: ART. Oh ciel! Sei diventato Ben grasso! CONTE È naturale! A Napoli son stato! Come se a Napoli fosse necessario l'ingrassare! Tutta la scena meriterebbe di essere così raffrontata; e da più altre correzioni simili potrei agevolmente trarre il riso vostro, o signori. Una almeno valga a confermare i ridicoli abusi in che l'officio del censore quasi inevitabilmente doveva, di tanto in tanto, cadere. A Venezia era impiegato nella censura un certo Pino Marzio: quando il Ferrari introdusse nel _Goldoni e le sue sedici commedie_ il Marzio famoso per la commedia goldoniana, il signor Pino Marzio non volle che il suo casato fosse vituperato così; e cambiò Marzio in Ser Taddeo. Come fare allora per la promessa delle sedici commedie nuove, là dove il Ferrari rappresenta il Goldoni nell'atto di annunziarle alla platea che poco innanzi fischiava e ora lo acclama? — _Don Marzio alla bottega del caffè_, osservava il Ferrari al censore, è un titolo storico; quivi almeno bisognerà lasciare Marzio, se no il pubblico si accorgerà del mutamento! — Non ci fu verso, e i Veneziani si sentirono annunziare, non _Don Marzio_, ma _Don Marco alla bottega del caffè_. Volpi fini bisognava essere per cogliere, traverso queste smozzicature e questi veli, l'intenzione dell'autore; per ridere a tempo della goffaggine dei governanti; per applaudire a tempo ogni accenno, fosse pur incerto e remoto, dell'idealità segreta in ogni petto italiano. Le cronache teatrali son piene di documenti per sì fatta corrispondenza tra gli autori e gli spettatori. Dopo aver ben bene tagliato e rimpastato, le polizie si trovavano innanzi, ad ogni momento, uno scartafaccio più incendiario che mai: tra le righe del copione approvato lo scriveva via via, quasi con inchiostro clandestino, il sentimento nazionale; e il caldo della ribalta lo faceva colorirsi e apparir fuori, tra le risa o gli applausi, sotto gli occhi stupiti de' revisori, che prima non ci avevano letto niente. Quanto poi a quelli che dianzi chiamavo gli impulsi generosi del leone, basta ripensare agli effetti ottenuti da Gustavo Modena, nel recitare la _Divina Commedia_. Che più innocente di un canto di Dante? non scrisse egli nel secolo XIV? che pericolo ci poteva essere ormai in una pagina del teologico _Paradiso_? La massima difficoltà che ha da superare un lettore di Dante a me par che sia questa: il poema è autobiografico, e nel tempo stesso rappresenta le cose e le anime in modo tale che il lettore mal può guardarsi dal cadere nella declamazione drammatica. Ernesto Rossi, per esempio, che tanto valeva per altre parti, a me non riusciva quale lo avrei voluto io, perchè faceva dell'episodio dei ladri non tanto un racconto quanto un'oggettiva raffigurazione. Il Modena, no. Veniva in iscena nelle sembianze di Dante, e aveva quivi accanto, seduto a un leggìo, un giovinetto vestito anch'esso secondo le fogge del Trecento. Dante aveva già composto il canto; era allora nel correggerlo, compierlo, dettarlo; e in fare ciò si riaccendeva, rivedeva con la fantasia i luoghi già immaginati, riudiva le voci, si moveva come un veggente che fosse insieme consapevole dell'arte e di sè. E consapevole altresì era il Modena della patria; e scriveva che: «I nostri odierni dolori spiegano assai meglio la _Divina Commedia_ che non la parola morta delle glosse. Ogni esule scenda in sè, e vi troverà la rivelazione del movente e dello scopo di Dante. Se oggi non è inteso il poema, ci rimarrà in eterno un indovinello.» Oh nel gesto, nella parola del Modena, tutti sentivano non pur Dante, ma anche la patria! Trovo, in un numero della _Nazione_ del 1860, ciò che vi scriveva un cronista per una serata nel teatro Niccolini: e, rileggendo, come un alito caldo ci venterà sulla faccia: «Nel canto XXVII del _Paradiso_ accadde una mezza rivoluzione; e alle terzine dove San Pietro esclama: Non fu nostra intenzion ch'a destra mano De' nostri successor parte sedesse. Parte dall'altra, del popol cristiano; Nè che le chiavi, che mi fur concesse, Divenisser segnacolo in vessillo Che contra i battezzati combattesse; a queste terribili parole, declamate con un accento _scrutans cordia et renes_, tutta la platea si levò in piedi urlando con frenesia, quasi intendesse simultaneamente applaudire al grande artista e protestare di nuovo contro le stragi ancora invendicate di Perugia e contro i massacri che sta pertinacemente meditando la corte di Roma!» Il contrasto aperto o dissimulato tra le censure e gli autori, tra le polizie e gli attori e i pubblici, è dunque una delle caratteristiche del teatro italiano negli anni tra il 1849 e il '61. Gli attori erano quasi tutti liberali, e molti attestarono i sentimenti loro, con più certa prova che non fossero le declamazioni, e anche le multe e le brevi prigionie, militando volontarii contro l'Austria. A rinfocolarli valeva il fervore del pubblico. E quando alcun d'essi riusciva sospetto, spesso a punirlo di pena giusta o ingiusta provvedevano le platee. Troppo ebbe a soffrire nel 1860, a Genova, Ernesto Rossi, crudelmente fischiato e costretto a partirsene, perchè era stato a Vienna, e dicevano che là si fosse tanto inebriato dell'oro e dell'incenso da non volere ormai nemmeno aver parte in un dramma, la _Teresa Mazzanti_ d'Ippolito D'Aste, pieno d'allusioni ai nostri nemici. Se volle riconquistarsi il favore dei Genovesi, dovè il Rossi, quattro anni dopo, fare in pieno teatro aperte dichiarazioni; e le fece, sia lode al vero, con accortezza e con dignità. II. Il Manzoni, da vecchio, diceva a Vittorio Bersezio che la forma drammatica antica era finita; il pensiero nuovo l'aveva trovata troppo angusta e l'aveva fatta scoppiare; non ve n'erano ormai più che i frantumi, che invano alcuni tentavano di raccozzare insieme per dar loro apparenza di cosa consistente: la forma nuova, intanto, quella che doveva corrispondere ai bisogni nuovi, non c'era stato ancora barba d'uomo a trovarla. Per conto suo, sperando che i tentativi irrequieti precedessero forse di lontano l'ignoto riformatore che ammirerebbero i figli o i nepoti, si compiaceva solo della commedia dialettale. Infatti, quando _Le miserie 'd monssú Travet_, da Torino, dove prima comparvero nel marzo 1863, passarono a Milano, egli, che da trent'anni non aveva messo piede in un teatro, andò a sentire e applaudire. Il pubblico, a vederlo, applaudì lui, ed egli, finchè potè, battè le mani sforzandosi a credere e a far credere agli altri che il Bersezio solo era il festeggiato così. Fatto sta che la tragedia classica, colpita nel cuore dal Romanticismo, morì; e una caratteristica dell'età di cui vi discorro è appunto nel suo scomparire, nell'affievolirsi della commedia goldoniana, nel trasformarsi insomma del repertorio. Fin dagli ultimi del secolo XVIII si erano alternate sul palcoscenico molte più forme e varietà di spettacoli che non abbiamo oggi. A scorrere i diarii teatrali di quel secolo declinante e del XIX sorgente, è impossibile non meravigliarsi della sovrabbondanza. La tragedia classica con le unità di tempo e di luogo era la forma officiale; ma accanto le sorgeva vigorosa la tragedia di argomento moderno, che chiamavano urbana, e che non di rado già delle unità non si curava; e all'una e all'altra toglieva un po' di favore la concorrenza del dramma storico e romanzesco, macchinoso, farraginoso, commisto di riso e di pianto. Del pari la commedia ridanciana con le maschere e senza le maschere, durava ancora, mentre la commedia sentimentale faceva spargere tante dolci lacrime. E vi erano inoltre allegorie e fiabe; e perfino libretti di melodramma recitati senza la musica. Più, le così dette commedie dell'arte, e le caricature regionali impersonate in Stenterello, Pulcinella, Arlecchino, Brighella, Pantalone, Cassandrino, Rogantino, e altre sì fatte argute o scurrili figure. Venne la questione tra Classicisti e Romantici: e quella che era stata una confusa e polverosa baruffa di avventurieri si mutò in un'ordinata battaglia di belle e ben capitanate milizie. Dopo gli esempii del Goethe e dello Schiller, ebbe allora l'Italia col Manzoni il dramma storico meditato e dotto, senza le regole accademiche, sebbene quasi imbevuto di classicità, innanzi che la Francia prepotesse e in un certo senso snaturasse il romanticismo nel teatro: ma la Francia, comunque sia, non tardò ad esportare e a diffondere anche fra noi quelle sue nuove merci teatrali. Vani erano riusciti da un lato i tentativi del De Cristoforis e del Tedaldi Fores per mantenersi più o meno nella strada aperta dal Manzoni; vani anche, dall'altro, quelli di Giovan Battista Niccolini, d'iniziare lui una scuola che fosse possente di effetti lirici e drammatici insieme, con viva e diretta azione patriottica. Questa, non è dubbio, egli ottenne; ma l'_Arnaldo da Brescia_ che nel 1843 suggellò l'arte sua, stampato a Marsiglia, non potè venire in Toscana che di nascosto, dentro alcune botti da caffè; e anche quando fu letto liberamente, non potè salire sul palcoscenico, perchè poema in dialogo anzi che dramma. Molti tra voi rammentano, certo, il vivace racconto che Ferdinando Martini fece del suo arresto e della partaccia che a lui sedicenne toccò dal prefetto granducale, quando, nel luglio del '58, in una dimostrazione sorta nel Teatro Nuovo dopo una recita della _Medea_, sentendo crescere gli applausi da — Viva Niccolini! a — Viva il poeta italiano! — Viva la gloria d'Italia! — Viva l'Italia! — gridò per conto suo — Viva l'autore dell'_Arnaldo_! — ch'ei non sapeva, del resto, che cosa si fosse. Questi stessi evviva palesano la principale ragione di certi entusiasmi suscitati dal Niccolini; ed è indubitabile che egli nè iniziò nè poteva lasciare una scuola, sebbene alcune delle sue tragedie, come la _Medea_, l'_Antonio Foscarini_, il _Giovanni da Procida,_ durassero a lungo sulle scene. Dopo il 1849 ormai il vecchio poeta viveva appartato, più studiando le storie che fantasticando poesia: ma sempre fisso col pensiero alla redenzione della patria, le dette nel 1858 ancora una tragedia, _Mario e i Cimbri_, di cui dicono l'intento così il tema come l'epigrafe petrarchesca apposta sul frontespizio: «Ben provvide natura al nostro stato — Quando dell'Alpi schermo — Pose tra noi e la tedesca rabbia.» A Tommaso Salvini, unico interprete degno, ne affidava la rappresentazione. Premii condegni non gli mancarono. La sera del 3 febbraio 1860, il teatro di via del Cocomero fu solennemente consacrato al nome di lui, recitandovi Ernesto e Cesare Rossi la grande scena dell'_Arnaldo da Brescia_ tra il frate e papa Adriano, e il monologo di Arnaldo nell'ultimo atto. E mosse il Niccolini indi a poco a salutare tra noi il re possente che egli aveva invocato trent'anni prima, Vittorio Emanuele: e lieto così della mèsse di cui egli medesimo aveva cooperato a gettare il seme, morì nel 1861, il 20 settembre. Di un fulgido sorriso si sarebbe illuminato il volto al poeta dell'_Arnaldo_, se l'Angelo della morte gli avesse negli estremi momenti sussurrata all'orecchio la profezia, che essa data del 20 settembre sarebbe di lì a pochi anni divenuta sacra all'Italia per la liberazione di quella Roma dove era stato perseguitato ed arso il suo magnanimo Arnaldo. Nel 1847 era morto Carlo Marenco, che, dopo l'Arnaldo del Niccolini, aveva osato dare in luce quello suo, sebbene non meglio adatto alle scene. Più degno di nota egli è per alcuni esperimenti di conciliare, seguendo in parte gli esempii del Delavigne, il classico col romantico. Prima la Carlotta Marchionni, che nel '37 incarnò in sè la _Pia de' Tolomei_, poi Adelaide Ristori, fecero applaudire questo che fu il più popolare de' lavori suoi, e che si rannoda in un certo modo alla popolarissima _Francesca_ di Silvio Pellico, durata dal 1815 a commuovere con le lagrime sue e col disperato amore di Paolo. E fin dal 1839 era uscito il _Lorenzino de' Medici_ di Giuseppe Revere, dramma storico in prosa; che, afferrato dalle larghe e destre mani del Dumas, e imitato da lui, fu tradotto in italiano dal francese, e piacque allora a molti che dell'originale non sapevano o non si curavano. Dramma storico in prosa è anche il _Fornaretto_ di Francesco Dall'Ongaro, che dal 1844 faceva fremere e inorridire, specialmente per l'arte di Gustavo Modena, sulle sorti pietose di quella vittima d'un errore giudiziario. Se non che nel Revere e nel Dall'Ongaro e, abbiamo visto, nel Marenco, un po' di infiltrazione francese non è difficile avvertire; e convien rammentare che il _Moro di Venezia_ del De Vigny, e _Marin Faliero_ del Delavigne sono del 1829; del '30 è l'_Hernani_ di Victor Hugo; del '32 il _Luigi XI_ del Delavigne; del '34 il _Lorenzaccio_ del De Musset; del '35 il _Chatterton_ del De Vigny; letti, tradotti, ammirati, rappresentati, discussi, via via, anche in Italia. Ciò per la tragedia e pel dramma. La commedia, dopo le risate di buona lega suscitate sui primi del secolo dal Giraud con L'_Aio nell'imbarazzo_, con _Don Desiderio disperato per eccesso di buon cuore_, con _L'apparecchio del pranzo alla fiera ossia Don Desiderio direttore del Pique Nique_, e dopo i sorrisi annacquati delle commedie un po' pedantesche del Nota, si può dire non avesse altro, nella tradizione goldoniana, che i lavori di Francesco Augusto Bon. Non ridiamo noi ancora, e come di cuore, a _Ludro e la sua gran giornata_? Ma dopo la trilogia di Ludro e altre vispe commedie, il fortunato attore si volle provare malamente nientemeno che al dramma storico; e indispettito della gelida accoglienza fatta dai Milanesi al suo _Pietro Paolo Rubens_, non scrisse più, invecchiando nel dirigere compagnie di comici, e, da ultimo, di filodrammatici. Ed ecco in Francia nel 1840 _Il bicchier d'acqua_ dello Scribe e nel '45 la sua _Catena_; nel '48 l'_Avventuriera_ dell'Augier, e l'anno dopo la sua _Gabriella_; nel '52 la _Signora delle camelie_ del Dumas figlio; nel '54 _Il genero del signor Poirier_ dell'Augier; nel '55 il _Demi-monde_ del Dumas; nel '61 _I nostri intimi_ del Sardou; e _Il cappello di paglia d'Italia_ del Labiche è del '51. Le quali date mi era necessario rammentarvi perchè, trattandosi di drammi e commedie rimaste sino ad oggi, o sino a poco fa, nel repertorio de' nostri teatri, bastano di per sè sole a chiarire quanta e quale fu la invasione francese nelle scene italiane poco innanzi il 1848-49, e poi sempre più, sino a ciò che vediamo noi. Io non sono di quelli che per l'arte s'indignano, subito che alcun che ci venga da oltre le Alpi: tanto meglio per tutti quando ce ne venga del buono: noi già demmo, un tempo, assai agli altri, e gli altri ora dieno pure a noi, in uno scambio inevitabile e proficuo. Ma vero si è che nocque allora allo svolgimento dell'arte tra noi la soverchia voga conseguìta dal teatro francese: i fiori che davano speranza del frutto non allegarono e caddero appassiti o imbozzacchirono. Fino allora si era, meglio o peggio, conservata in onore la tragedia; oltre la _Pia_ del Marenco e la _Francesca_ del Pellico, anche il _Filippo_, il _Saul_, la _Mirra_, varie altre tragedie dell'Alfieri e di altri rialzavano all'alta poesia, quasi per turno settimanale, il gusto del pubblico. E si era conservata in onore, meglio o peggio, la commedia goldoniana: si applaudivano molto più spesso che oggi non accada _I Rusteghi_, _Le Baruffe_, _Don Marzio_, _Il Bugiardo_, del maestro, e _Don Desiderio_, _La Fiera_, _I gelosi fortunati_, _Ludro_, _Niente di male_, parecchi altri lavori, dei discepoli suoi. Che si rappresentassero insieme gli enormi drammi romanzeschi e spettacolosi, triste eredità del Willi, dell'Avelloni, del Federici, cresciuta di raffazzonamenti dal tedesco e dal Francese, non era insomma un male diffuso e che degenerasse in pustole maligne; e tutti sentivano la differenza sostanziale, quanto all'arte, tra la commozione estetica e la perturbazione nervosa: conseguìta quella, la commozione che nobilita, con l'analisi delle passioni e con la parola corretta e sobria, anche nella ricerca dell'efficacia teatrale; conseguìta questa, la perturbazione che abbassa, con l'azione violenta e con l'enfasi spesso sgrammaticata in caccia dell'applauso. Dopo il 1848-49 si ebbe il tracollo della bilancia: restarono i drammi sanguinosi o pietosi come _I due sergenti_; piovvero e dilagarono i drammi romanzeschi della nuova imitazione francese. Ernesto Rossi nel 1850, a Trieste, corse rischio di esser fucilato davvero dai Croati che dovevano fucilarlo per chiasso nel finale del _Generale Ramorino_; buon per lui che, innanzi di andare a morte, volle si riscontrassero le cartucce! Ma se questo fu uno spettacolo d'occasione, _Il vetturale del Moncenisio_ fu dato a Milano, in quel torno di tempo, ventiquattro sere di seguito. E allora un capitano dei bersaglieri a Torino, Andrea Codebò, mosse le baionette aguzze del suo rapido ingegno, contro _I drammi francesi_, in una parodia che appunto così da loro ebbe il titolo. Luogo dell'azione (narra il Costetti che bene tratteggiò la figura di lui e di altri scrittori e attori di quel tempo) un camposanto; quivi, in un solo atto, duelli, delirii, riconoscimenti, suicidii: figuratevi che un tale riconosce chi sia un colonnello che egli sta per uccidere, e gli grida: — Ah, tu sei dunque il figlio del carnefice di mio padre! — Grande fu il successo di codesta satira; ma, come era naturale, non valse contro la moda. Del resto, col male venne il bene; coi drammacci vennero di Francia buone e belle commedie. Era il 1857; e _La vecchia pazza alla Torre del Sangue_, _La tremenda sfida dei cavalieri della morte al Colle del Terrore_, e consimili robe che un capocomico disperato imbandiva al popolino bolognese nell'Arena del Sole, doverono da lui medesimo esser messi da parte (copio anche questo dal Costetti) per dare al pubblico, in un teatro, di gente pulita, come egli diceva, una commedia di Dumas figlio che salvò lui e i suoi dalla fame. Senza estendere l'osservazione di un caso singolo a legge generale, può servire esso caso a indizio di ciò che allora accadeva: lo Scribe, l'Augier, il Dumas, con l'arte abilissima di tutt'e tre, moralmente eletta nel secondo, acutamente filosofica nel terzo, relegavano ne' teatri di terzo e di quart'ordine le reliquie di un teatro spettacoloso che risaliva a' primi del secolo XIX, e conquistavano i teatri migliori pel nuovo repertorio francese, cacciandone via la tragedia classica, ormai anch'essa decrepita, e la tragedia neoclassica e romantica che pur avrebbero potuto, con qualche accorgimento, restarvi utilmente. Guglielmo Shakespeare, per opera di Ernesto Rossi, della Ristori, del Salvini, ottenne finalmente udienza e favore; ma fornì piuttosto pietre di paragone al raffronto di un artista con l'altro, che fiamma viva a infiammare, come era degno, le fantasie. III. Vi tedierei inutilmente enumerandovi ora anche soltanto i principali dei drammi in versi che furono applauditi negli anni di cui sto parlando: nulla, dopo quegli applausi, dovuti per massima parte ad attori eccellenti, ha retto a lungo sulle scene, nulla ne è letto oggi da chi non faccia professione di logorarsi gli occhi sulle stampe dimenticate. Che importa, per esempio, a voi di _Aroldo il Sassone_ di Napoleone Giotti? Era il suo primo lavoro, nel 1846, e lo dedicava al Niccolini: piacque, e tre sere fu dato nel teatro del Cocomero, che ancora non si onorava del nome di lui. E che v'importa della sua _Monaldesca_? Al Guerrazzi la dedicò il Giotti nel 1853, e furoreggiò: Adelaide Ristori, che ne resse la parte principale, non è difficile credere che ne dovè trarre effetti mirabili; ma cosa più pazza (sia detto col debito rispetto alla memoria di quel pover uomo, morto di recente) non credo facile immaginarla, nè verseggiarla con peggiore rettorica romantica in più rimbombanti endecasillabi. Un po' dell'_Hernani_ e un po' della _Beatrice Cenci_ vi si mischiano nell'azione di un Leonello che, per vendicare un fratello ucciso da un marito geloso, si fa amare dalla moglie di lui, la fa complice dell'assassinio col quale lo toglie di mezzo, e poi le sghignazza in faccia che non l'ha amata mai e non l'ama. Tutto questo con balli mascherati, usci segreti, temporali, e canzonette sulla mandòla. E meno v'importa, credo, dei drammi di Giuseppe Pieri, e del _Francesco Guicciardini_, del _Dante Alighieri_, della _Beatrice Cenci_, di Pompeo di Campello. Neppure il _Nerone_ del Cossa valse a far rammentare dai critici il _Nerone Cesare_ di lui: mentre invece richiamò l'attenzione di qualcuno al _Paolo_ di Antonio Gazzoletti, gentil poeta ma un poco sbiancato e freddo, come lo definì il Tenca a ragione. Il Gazzoletti e Antonio Somma (di cui la _Parisina_, del resto, era uscita nel 1835), e Giulio Carcano ed Ermolao Rubieri, meriterebbero, nella storia di questi tempi, almeno qualche parola. Un _Arduino_ del Carcano sarebbe, per esempio, da raffrontare con l'_Arduino d'Ivrea_ di Stanislao Morelli, che Tommaso Salvini improntò della sua gagliardia e fece tanto applaudire, costringendo (gli scriveva l'autore riconoscente) il pubblico a inchinarsi ad un ragazzo come innanzi ad un gigante. Ma si tratta, insomma, di opere morte da un pezzo e sepolte; gli ultimi guizzi furono esse di un genere destinato a spengersi, in quelle forme, per sempre. Veniamo a ciò che fiorì, o almeno era degno di annunziare una primavera nuova. Vincenzo Martini, padre di Ferdinando, fu dei primi a tentare una forma che la necessità del presente e i modelli francesi concordasse con la tradizione italiana. Nel carnevale del '53 Adelaide Ristori ne diè _La donna di quarant'anni_; cioè la marchesa Malvina; che fin dai cenni dell'autore sui personaggi suoi ci è presentata con «tutta la squisita ricercatezza di vesti e di modi cui si affida una donna elegante sul declinar dell'età.» In quell'anno stesso _Il misantropo in società_, dove il cavalier Maurizio, a soli ventisette anni, si veste e si atteggia elegantemente, ma ha modi riservati e severi, in curioso contrasto con quelli dello zio marchese Riccardo, che, verso la settantina, mantiene una fresca giovialità. L'anno dopo, _Il cavalier d'industria_, un tipo d'avventuriero vivamente raffigurato in mezzo al moto d'una società viva di gentiluomini e di speculatori. «Io avrò torto (scriveva il Martini) ma ho per articolo di fede in arte drammatica che la commedia debb'essere il quadro della società e dei costumi: quindi abborro dai grandi colpi di scena, dalle commedie _a grande interesse_. Chi vuole di questa roba avrà ragione, ma non vada al teatro quando si recita una commedia mia. Il tempo deciderà chi sia sulla vera strada. Io sono convinto (lo dico senza falsa modestia) di essere nel buon cammino, e se casco, come casco pur troppo, egli è per debolezza delle mie gambe, non per avere sbagliata la via.» Suo figlio Ferdinando, cui la carità filiale non offuscò l'occhio acuto del critico, riconoscendo che Vincenzo talvolta si fermò alla superficie senza approfondire l'osservazione nell'intimo dei costumi e degli animi, ebbe piena ragione a lodare, specie nel _Cavalier d'industria_, la larghezza almeno di quella osservazione, e ben potè compiacersi di rammentare che Paolo Ferrari già ormai celebre scriveva all'autore di quella commedia: «Voi siete l'ultimo a cui ho detto che vi riguardo come maestro; e perchè l'ho detto a tanti altri che neppur vi conoscono fuor che per fama, mi dovete pur permettere di ripeterlo anche a Voi.» Peccato che poco egli desse al teatro; e peccato che altre cure ne abbiano via via distratto il figlio suo, così pronto e destro osservatore e analizzatore, e così elegante ed arguto maestro del dialogo. Non mi fermo su David Chiossone che fe' piangere molto; e trascuro, affrettandomi, anche Giuseppe Vollo, veneto, cui, dopo un tremendo dramma in versi _La famiglia Foscari_, del 1844, nel '55 una certa opportunità dell'argomento e la bravura della Ristori fecero applaudire a Torino _I giornali_, amarissimo dramma in prosa più tragico che satirico. Li metto da parte perchè, dopo il garbo del Martini, quando insistessi sul Chiossone e sul Vollo, al quale del resto non mancò la forza d'un alto concetto, troppo parrei disposto alla censura e: Che serve, direste, incrudelir coi morti? Alla Toscana ci richiamano le prime prove di Luigi Alberti, che nel '58 raccolse i suoi _Studi drammatici_, dove nulla è più che mediocre, ma il mediocre non è almeno di cattiva lega. Val troppo meglio di lui, Tommaso Gherardi del Testa. Poco ormai, e assai di rado, se ne rappresenta; e _Il vero blasone_, _Oro e orpello_, _Moglie e buoi dei paesi tuoi_, _La vita nuova_, che sono le migliori commedie di lui, escono dal limite cronologico di questa lettura: oggi (m'insegna Piero Barbèra, amico suo ed editore postumo) si vendono alcune di quelle tenue azioni, schiettamente dialogate, solo come libri su cui in Inghilterra s'insegna la buona conversazione italiana: il che, per lo meno, conferma una stima nobilmente meritata e saldamente fermata. Cominciò a mettersi innanzi nel '46; nel '48 combatte, fu prigioniero; tornato, si pose a rappresentare, non di ardite linee nè di colori vivaci, ma di paziente e corretta matita, la società toscana che si vedeva intorno, cioè la borghesia quieta e un po' gretta. Non è risata la sua, è appena un sorriso; ma non vi stanca ne nausea mai. È una verità piccina la sua; ma è verità. Se il bravo Luigi Suñer avesse, dopo le prime prove felici, seguitato l'esercizio del fare, in cambio di restringersi a quello del consigliare gli altri, con drittura e con sagacia, quanto volentieri vi parlerei, a questo punto, di lui, che tanto prometteva! Ma mi conviene tacerne anche perchè l'opera sua si svolse da _Spinte o sponte_ a _Ogni lasciata è persa_, dal 1860 in poi. Due sovrastano: Paolo Giacometti e Paolo Ferrari. Il Giacometti ebbe dalla natura una forza drammatica come pochi; e lavorò indefessamente come pochi. Nato nel 1816, si diè giovanissimo al teatro, seguendo le compagnie e scrivendo durante più anni, per centoventi svanziche al mese, cinque sei lavori ogni anno; onde ottanta fra commedie, tragedie, drammi! Quando nell'82 morì, poteva vantarsi non tanto di avere scritto così in fretta, quanto di avere, anche in quella corsa, rispettato sè stesso e l'arte. Nel 1841, per esempio, diede _Un poema e una cambiale_, _Cristoforo Colombo_, _Il poeta e la ballerina_, _Quattro donne in una casa!_ cioè del cattivo, del mediocre, del buono, non del pessimo. _La morte civile_, che anche oggi, rappresentata dal Novelli, ci commuove, è del 1861; la pose in scena, a Fermo, Cesare Dondini. Successore di Alberto Nota come scrittore nella Compagnia Reale Sarda, gli fa perfetto contrapposto; quegli un grave impiegato, questi un artista vagabondo: e, del pari, quegli compassato e monotono, questi multiforme e diseguale. Quanto a potenza di fare, non è possibile tra i due neppure il parallelo; ma per la felicità dell'esecuzione, come al Nota avrebbe giovato la mano rapida e audace del Giacometti, così al Giacometti un poco almeno della correttezza e agghindatura del Nota. Nondimeno, abbia pure parecchi difetti e sieno gravi, _La morte civile_ offre scene mirabili. E nella storia del nostro teatro al Giacometti non potrà non spettare un luogo notevole anche perchè, prima di Paolo Ferrari, per due o tre decennii fu egli l'unico che avesse sortito dalla natura tutte quante le doti precipue che fanno il drammaturgo intiero; il senso del comico e del tragico insieme, il movimento dell'azione e del dialogo, la virtù del riconnettere le parziali osservazioni a un concetto superiore. Di questo ultimo pregio Ferdinando Martini gli fece un'accusa; perchè a lui, nel teatro, non sembra un pregio. Discorrere di ciò con lui è attribuire a lui la vittoria e a sè la sconfitta, perchè pochi sono così destri dialettici e così arguti ragionatori: se non che, dentro me, rimango dell'opinione mia, e concedendo che una tesi, per eccellente che sembri agli occhi del moralista o del sociologo, non rese mai nè sia mai per rendere buono un dramma male ideato per l'arte, sempre più con gli anni son venuto nell'opinione che si onora del Manzoni e del Mazzini, quanto all'essenza etica che deve costituire quasi direi l'anima onde le membra del dramma si agitano vitali. Poco importa, pel giudizio dell'esecuzione, se la tesi sia o no giusta in sè; basta che giusta la creda chi la sostiene: in tale sua fede è il calore che dalla mente dell'artista passa nell'opera sua e la fa sorgere e muovere. L'amore delle tesi nocque, non è dubbio, a Paolo Ferrari nell'ultimo svolgimento del suo teatro: ma la colpa non fu di esso amore, fu della maniera di costrurre il dramma sopra una tesi prestabilita, in cambio d'incarnare un concetto morale nei personaggi organicamente. Nè dir concetto morale è lo stesso come dire tesi; e la vita rappresentata con onesta schiettezza porge sempre da sè medesima un insegnamento, tanto meno volgare quanto più acuta e profonda sia stata l'osservazione. Del Ferrari, al quale spetterà, io credo, un'intiera lettura nella serie che la benemerita Società vorrà forse darci l'anno venturo, non ho tempo di parlarvi come egli si meriterebbe; tanto già nei primi anni del suo lavoro drammatico fece di bello e di buono. Non è molto che Giovanni Sforza ha edito e, come egli sa, illustrato _Baltroméo calzolaro_, una commedia in dialetto di Massa che il Ferrari compose in quella cara città nell'inverno del 1847-48, padroneggiando non pur quel dialetto, ma altresì, di primo impeto (come accade solo alle nature generose), il palcoscenico. Il Goldoni riviveva in quel giovane venticinquenne; il Goldoni delle _Baruffe_ e del _Campielo_, stupendo fotografo della vita popolare. In alcune scene _Baltroméo calzolaro_ è cosa perfetta. Ma curiosità singolare gli viene dall'esservi già dentro il nucleo anche di quel marchese Colombi, di gioiosa memoria, che avrà poi tanta parte in _La Satira e Parini_. Perchè il Ferrari tendeva intorno a sè l'occhio e l'orecchio; e non altrimenti notava gl'ingenui costumi ed affetti del calzolaio ubriacone, che gli spropositi del violinista Filippo Chelussi, marito d'una marchesa, e fattosi mecenate di bande cittadine. Bartolommeo, ne' fumi del vino, esclama, come aveva fatto più d'una volta costui, e come farà il marchese Colombi: — Oh! Tasso! oh! Tasso! io resto attonito e non posso attribuire. — Innanzi di lasciargli rappresentare il suo grande emulo nella pittura de' costumi, Giuseppe Parini, volle il Goldoni dal suo discepolo Ferrari l'omaggio d'una commedia: e nel 1851 gli fece suggerire da un amico di leggere le _Memorie_ sue. Queste inspirarono la commedia famosa in cui rivissero e il Goldoni e la sua Nicoletta e i gentiluomini e i critici veneziani del 1749 in una tale snellezza di scene e di dialogo, in una tale intima ed esterna comicità, che poche commedie nostre possono certo starle a pari. Donde scappassero fuori questa, esuberante di vita e di forza comica, e due o tre altre commedie del Ferrari rigogliose e promettenti, si chiese il Carducci, e rispose che non si saprebbe ben dire. E se il Carducci non lo seppe, davvero non posso dirvelo io. Fatto sta che doverono cooperarvi e infondervisi, alcun che dell'anima stessa del Goldoni assorbita dal Ferrari su dai volumi delle _Memorie_, l'indole nativamente comica di lui, alcun che degli esempii recenti francesi e italiani che ho accennati sopra. Resta a ogni modo dinanzi anche a me, non solo quell'«irreducibile» che gli estetici confessano a malincuore nell'analisi di qualsiasi opera d'arte, ma altresì un piccolo problema di critica storica che metterebbe il conto di tentare quando, non foss'altro, ne avessimo oggi il tempo e fosse questo il luogo più adatto. _Una poltrona storica_ è del 1853, _La satira e Parini_ è del 1857, _La medseina d'onna ragazza amalèda_, in modenese, è del 1859. E come del _Baltroméo calzolaro_ si ebbe poi la riduzione in lingua letteraria (troppo letteraria) nel _Codicillo dello zio Venanzio_, così la vispa commediola modenese dovè adattarsi all'italiano nella _Medicina d'una ragazza malata_. L'aver maneggiato i dialetti giovò, comunque sia, al Ferrari, per la realtà dell'azione, per la vivezza del dialogo: chè il raccostarsi al popolo, come dà forza per tanta parte della vita sociale e morale, così anche per la vita artistica porge utili consigli e una vigoria schietta e fresca. _La satira e Parini_, se non vale forse quanto _Goldoni e le sue sedici commedie_, restò bell'esempio di commedia storica in versi, e ha gettato nella memoria di tutti un personaggio, il marchese Colombi, co' suoi proverbiali spropositi. Il resto dell'opera del Ferrari non tocca a me accennarlo; e lascio ben volentieri che altri, dopo queste sue prime e bellissime prove, lo studii, come si conviene, l'anno venturo, mostrandocelo nei pregi e nei difetti: principe, per anni parecchi, della scena italiana. IV. Se non tutto buona, dunque, ma curiosa e promettente, e nel Ferrari più di una volta quasi perfetta, fu la produzione drammatica dal 1848-49 al 1861, già ci è qua e là apparso che gli attori valsero allora quasi sempre più degli autori: onde, mentre le nostre tragedie e commedie non varcarono le Alpi, li varcarono essi con la fama e con la persona loro, e seppero vincervi aspre battaglie, con vittorie onorevoli alla patria oppressa. Dopo il De Marini, Gustavo Modena; dopo Francesco Augusto Bon, Cesare Dondini e Cesare Rossi; dopo la Internari e la Pelzet, Adelaide Ristori; e con la Ristori, Ernesto Rossi e Tommaso Salvini. Senza porre odiosi e impossibili raffronti, tutti convengono nella eccellenza e preminenza del Modena. Una mente come egli ebbe, e la dimostrano anche oggi le lettere sue; un animo quale egli ebbe, di patriotta, e lo dimostrano i casi della sua vita; un cuore, quale egli ebbe, di uomo, e lo dimostra l'indomabile amore della giovinetta svizzera che, lasciando gli agi della vita paterna, volle seguirlo su' palcoscenici e nelle campagne di guerra, e fu compagna sua sempre innamorata, e fu per lui innamorata dell'Italia, non mai stanca nel servire i feriti delle nostre battaglie; mente, animo, cuore, cioè un tutto indivisibile di singolare altezza, erano troppo più di quel che occorresse a un attore drammatico. E il Modena fu apostolo e milite di libertà non meno che attore. A lui attore scriveva reverente il Manzoni; a lui oratore eloquente nella Assemblea toscana, cui Firenze lo aveva eletto con oltre diecimila voti, non so se applaudì, ma certo consentì trepidante di commozione, la maggior parte di quel consesso. Il racconto del come egli rappresentava il _Saul_ non è un aiuto critico, come pochi ne abbiamo, per intendere meglio quella nobile figura dell'Alfieri? E a leggere come declamava dell'_Adelchi_ la narrazione del diacono Martino traverso le Alpi, facendo sentire la solitudine enorme delle valli, e aprirsi al sole sorgente con un crepitìo i coni silvestri de' pini; a leggere come declamava Dante, traendo dal verso possente gli effetti che noi vi rintracciamo, ohimè, con la critica paziente; ci riempie anche oggi di stupore. Ma egli era nato nel 1803, e la sua figura, voi lo vedete, esce quasi dal quadro commessomi. Vi rientrano gli altri, il Rossi, il Salvini, la Ristori. Del Rossi solo, perchè morto, mi è lecito parlarvi un po' a lungo; ed anche perchè egli fu ed è il più discusso dei tre. Nè Tommaso Salvini nè la marchesa Capranica Del Grillo hanno davvero bisogno delle mie lodi, e basterà loro, se leggeranno queste pagine, che sappiano come anch'io, con molti di voi, o signore e signori, ho ringraziata la sorte dell'avermi concesso il piacere di ammirare almeno nel tramonto quegli astri che raggiarono fin dal sorgere di tanta luce, e che splenderono così possenti nel pieno meriggio. Il Rossi, io credo, valse meno di loro: ma forse ebbe più merito a levarsi là dove si levò, perchè mosse di più basso, e si fece con ardore e costanza la via tra ostacoli che essi non ebbero a superare. Basta leggere le memorie nelle quali egli, narrando i suoi _Quarant'anni di vita artistica_, si rappresentò così al vivo come avrebbe potuto farlo in uno de' drammi che gli piacevano tanto, per sentire la verità di tale mia affermazione. La miseria, la vanagloria infantile, gli studii frettolosi, talvolta le stesse qualità sue gli nocquero; eppure fu e si mantenne a lungo un attore grande. Guardatelo nei principii, quando a Foiano nel 1846 deve fare da Paolo nella _Francesca da Rimini_, e non ha neppure un po' di vestito: «Aprii il mio bauletto, e dissi a me stesso: — Su, signor abate, pensi, immagini, e trovi qualche cosa per vestire il signor Paolo da Rimini! — fruga, fruga, esamina, trovo un paro di mutande di lana rosse: benissimo! ecco le maglie! un paio di _brodequins_, ecco le scarpe; ma erano scarpe moderne, e bisognava dar loro una foggia antica: trovo due pezzi di cartone, li taglio a forma di barchette, li cucio e impasto insieme, con della tinta da scarpe li lucido: ed ecco fatto la sopra scarpa! — ma il vestito? — Aveva una giacchetta di velluto nero! ecco il sottabito. — Con uno scialle di falso Cachemir, che la mia povera mamma mi aveva dato per coprirmi dal freddo nel viaggio, faccio una specie di pianeta, tale e quale i preti portano in chiesa per dire la messa: ecco la pazienza. — Alla mia berretta da viaggio, che era di panno nero, levo il tettino, ci metto una penna d'oca: ecco fatto il berretto. — Così vestito, Paolo se ne venne da Bisanzio e dalle guerre sante, disse la bella apostrofe all'Italia, ed il pubblico andò in visibilio.» Così fece poi sempre: andò innanzi senza mai timori; baldanzoso, mise il piede, occupò. Ciò che meno in lui mi piacque, un certo tal quale istrionismo, le Memorie mostrano che fu una parte così integrante dell'indole sua, che, senza di esso, non avrebbe potuto mai fare quanto fece. — Faccia franca! — è uno de' suoi motti preferiti; e sarebbe cattivo motto per la vita; ma sul teatro riesce opportuna la prontezza dello spirito. La Ristori lo ebbe compagno nel 1855, e nelle Memorie dell'uno e dell'altra è compiacenza leggere le lodi reciproche per quelle vittorie contro le gelosie della Rachel, su cui l'attrice nostra ottenne gli onori tanto come attrice quanto come gentildonna: e il Rossi sentiva un po' di onesta gelosia pel trionfo di lei che la aveva seguita contro il consiglio del suo maestro, il Modena. Ma a questo punto del suo racconto rompe in parole che gli sgorgano dal cuore, e fan bene a rileggerle: «Io stimai sempre la Ristori, l'ammirai sin da giovinetto... più volte mi presi a dispute e battibecchi con critici e pubblico, per difenderla imparzialmente dagli attacchi ingiusti, severi o avventati: l'amai anche come donna, senza mire o scopi indiretti: le fui sempre devoto, e non voglio neanche oggi dirle con la mia penna quanto mi fece soffrire. Ella dimenticò, che io era giovine più di lei: che, entrato nell'arte con tutte le illusioni di una anima non corrotta (che per me tutto era color di rosa e poesia), me ne era fatto un ideale di perfezione: che l'invidia, la maldicenza, l'orpello, l'ipocrisia, erano per me cose ignorate: che la verità, quella verità che non offende, ma che stabilisce i fatti e chiarisce le posizioni, fu sempre la mia guida: che amava io pure di farmi strada, di progredire, di diventare un grande artista come lei; e come era pronto a stenderla, io pure desideravo una mano che mi sollevasse, un braccio che mi sostenesse. Ella nell'ebbrezza della sua felicità non scese nel suo cuore, e glielo perdono per la sua grande arte, che ammirai e ammiro sempre in lei anche oggi, benchè sia _vecchia_ e _finita_ come taluni dicono: ma è tal fine, che potrebbe essere principio a molte e molte attrici, le quali si vollero chiamare di lei maggiori. Povere stolte! e più che stolte, impertinenti!» La Rachel, andata a sentire la rivale, non ci resse, e al terzo atto della _Mirra_, afferrando per un braccio il suo cavaliere, se lo trascinò via fuor del palco e del teatro: la Ristori, quando la Rachel, il giorno dopo, aprendo una pericolosa gara, annunziò il suo ritorno sulle scene con la _Fedra_, prese un palco, ascoltò attenta, tranquilla applaudì. Aveva ragione dunque il ministro di Sardegna nel fare un brindisi a quegli attori italiani che allora a Parigi così avevan fatto, diceva egli, più assai che una bella rappresentazione d'una bella tragedia. _Signore e Signori_, Nel 1855-56 i due fratelli De Goncourt percorrevano l'Italia pigliando qua e là curiosi appunti con la penna e con la matita. L'impressione conclusiva del loro libro fu questa: «Finale. Pulcinelleria universale di tutto quanto il popolo napoletano, mascherato da Pulcinella, in atto di brandire fantocci di pasta da maccheroni, e che con l'altra chiede la _buona mano_ ai _forestieri_.» Mentre il Piemonte si preparava a combattere insieme con la Francia, virilmente trattando le armi per l'Italia; mentre l'Italia tutta, a chi l'avesse osservata con occhio più acuto, sarebbe apparsa un enorme focolare dove le ceneri mal nascondevano la brace ardente; quegli attori a Parigi ci vendicavano dall'oltraggio immeritato: e lode sia e gratitudine a loro. LA SINCERITÀ NELL'ARTE. (l'arte dal '48 al '61) CONFERENZA DI UGO OJETTI. Un anno fa, Signori, io vi descrissi la vita dell'arte italiana fino al '48. Il '48, lo ripeto, è per noi una pietra miliare donde non solo una nuova politica si parte, ma anche una nuova arte più libera e più franca sotto il sole. Nel 1843 Gioberti aveva pubblicato il _Primato_. nel 1844 Balbo le _Speranze d'Italia_, e d'Azeglio — il romanziere e il pittore d'Ettore e di Ginevra — aveva lanciato l'opuscolo sui _Casi di Romagna_ subito dopo i moti di Rimini e di Bagnacavallo, il quale opuscolo è ancora mite e quasi dottrinario rispetto al famoso libro sui _Lutti di Lombardia_. Egli è ferito a Vicenza. Succedono le cinque giornate di Milano, la difesa di Venezia, la difesa di Roma; Guerrazzi e Montanelli vogliono stabilire la Repubblica a Firenze; Mazzini, a Roma. Dopo Novara, il d'Azeglio accetta d'essere il Ministro per la pace, e da quel giorno è ecclissato dal genio lentamente audace di Camillo Cavour. La scuola liberale lombardo-piemontese, cui egli e Pellico e Manzoni appartenevano, e di cui, come fissa il De Sanctis, Balbo era il dottrinario, Gioberti l'oratore, Rosmini il pensatore, è sconfitta a Novara dalla scuola mazziniana democratica che col Campanella a Genova, col Farini in Romagna, col La Farina in Sicilia, col Guerrazzi in Toscana, con Carlo Poerio a Napoli aveva direttamente e indirettamente fatto il '48 e lanciate le insurrezioni. Quella, volendo lasciare la società alle sue forze naturali perchè riescisse al progresso, respingendo ogni idea di violenza sia che la violenza scendesse dall'alto, sia che salisse dal basso, non aveva agitato che idee generali e larghe astrazioni, e, sopra tutto, era stata misurata e composta. Misurate e composte erano state le classi dominanti, finchè essa le aveva dominate. Misurate e composte, come abbiam visto insieme l'altr'anno, erano stati gli artisti, che solo da quelle classi traevano danaro ed onori. I più franchi sostenitori di quella scuola, come il d'Azeglio, dichiaravano che la tirannide interna premeva poco, che l'importante era fare l'Italia, con la libertà se era possibile e, se no, anche col dispotismo. La scuola democratica, invece, proclamò con voce sì alta che ne tremarono i troni dei principi italiani in apparenza più amati, che se gl'individui non sono liberi, è inutile che sia libera la patria. La libertà degli individui! Questa era stata la vera rivoluzione del romanticismo di Francia e di Germania, del romanticismo che i federalisti e i pietisti d'Italia erano riesciti, sul vecchio esempio dello Chateaubriand, a mascherare da guelfo fino al 1848. La libertà degli individui, il diritto alla emancipazione assoluta dell'io, il diritto alla passione e alla originalità! Questa era nelle arti la vera essenza del romanticismo, che Rousseau aveva sognato senza dargli un nome, che Goethe aveva dichiarato nel _Werther_, che Byron, Shelley, Hugo, Vigny, Musset, Lamartine e il primo Heine avevano gridato e cantato in tutte le loro opere sfrenatamente liriche, recando pel mondo sulla mano i loro cuori rossi e fumanti come fiamme. Non posso qui mostrare come la contraddizione fra l'idealismo lirico individuale e romantico del Mazzini letterato e la collettività dell'arte predicata dal Mazzini uomo politico, nascosta da lui con grandi sottigliezze logiche e con qualche onda retorica e considerata dai suoi critici insanabile oggi, invece alla luce dell'esperienza e sotto l'esame dell'estetica psicologica possa dirsi sono apparente. Oggi a me basta indicare che nel 1848 soltanto — nell'anno taumaturgo, — come disse il dall'Ongaro, vien per la prima volta in Italia dichiarata la necessità della libertà politica degl'individui dentro una patria indipendente, e vien perciò per la prima volta instaurato nell'arte il diritto alla sincerità. Fino allora i nostri romantici avevano avuto la frenesia di piacere, di piacer subito e di piacer molto, rendendo attraenti le pene umane col respingerle verso il passato, rendendo attraente la figura umana col correggerne i difetti e svisando così nella spontaneità d'emozione, quella violenta istantaneità di visione che avevano già dato alla vera poesia romantica nel 1829 le _Méditations_ di Lamartine e alla vera pittura romantica nel 1822 la _Barca di Dante_ di Delacroix. Non aveva lo stesso Manzoni nel 1823 confessato nella famosa lettera al marchese Cesare Taparelli d'Azeglio che «bisogna scegliere argomenti pei quali la massa dei lettori ha una disposizione di curiosità e d'affezione»? La nuova libertà non comanderà agli artisti e agli scrittori questa premeditata servilissima scelta: ma essi vedranno che solo in quanto saranno sinceri, anzi quanto più riesciranno a esser sinceri, tanto più ritroveranno nel loro pubblico ossia nel pubblico simile a loro, un consenso d'applausi. E così, mentre in quell'altra arte fatta deliberatamente per piacere, la mortalità delle opere sarà grande e veloce, in questa nuova arte sarà in ragione inversa della sincerità dell'artista. Un artista solo in Italia aveva prima d'allora, ostinato, austero e sdegnoso, posto a norma della sua vita e delle sue opere questa sincerità: il vostro Lorenzo Bartolini che nel mio discorso dell'altr'anno abbiamo con entusiasmo glorificato insieme. Dopo lui, nel periodo che descrivo adesso, due altri scultori difendono la nostra gloria artistica nel terribile schiacciante paragone con gli stranieri: ancora un toscano, il Duprè, e un ticinese, il Vela. Basta confrontar i ritratti di questi due grandi, per intendere tutta la differenza dell'animo loro: Giovanni Duprè scarno, pallido, nella tarda età quasi diafano in volto, con la barba morbida precocemente canuta, coi capelli lisci pettinati all'indietro e un po' lunghi alla Mamiani, col naso prominente tagliente, cogli occhi a mandorla gentili, bonarii e sorridenti sotto le sopracciglie morbide e lunghe, con le labbra sbianche e sottili sotto i baffi più rari, — Vincenzo Vela rosso, valido, olivastro, col volto largo allungato dalla folta barba fulva, col naso piatto donde dalle due pinne partono verso le labbra due solchi profondi, con la gran fronte convessa e l'arcata ciliare come gonfia sopra gli occhi neri, lucidi, severi e meditabondi; quegli fatto per sorridere e per accogliere con affabilità, questi fatto per tacere e per soffrire anche al culmine dell'attività della gloria; quegli dolce e sereno come un bambino, ansioso e nervoso davanti a ogni ostacolo, questi austero e violento e muscoloso, precocemente virile e pronto all'azione come il suo _Spartaco_; l'uno come il suo _Abele_ più degli altri pensoso che di sè stesso, l'altro raccolto nei suoi vasti pensieri e nei suoi sentimenti profondi come istinti; l'uno timido nel lavoro del marmo e prudente, l'altro leonino nell'assaltar la pietra per cavarne i suoi sogni nascosti, impetuoso come un amante che strappa i veli e misura il tempo dal battere del suo cuore gonfio di passione come una marèa sotto la luna. Sì, Giovanni Duprè fu un mite. Basta leggere i suoi _Ricordi_, delicati, patetici, toscanamente arguti. Nel folto della famosa disputa bartoliniana se un gobbo fosse o no degno soggetto d'arte, egli ancor giovane restò in disparte per modestia; capì che pel gran Bartolini lo studio del vero anche brutto era — son sue parole — «un puro esercizio di copia, che è quanto dire il mezzo per giungere all'arte, o, com'egli diceva, tenere le redini dell'arte, e che il male si era, che molti, scambiando il mezzo col fine, correvano al precipizio.» Acuta e limpida osservazione in cui nessun critico sereno ha poi trovato una virgola da mutare. Ma egli era un sensibile e non aveva la ferrea dirittezza del caposcuola, quella costanza e quell'unità di mente che ci fanno apparire tutte le opere del Bartolini o del Vela come tante sillabe d'una parola sola. Egli nel '42 aveva finito di modellare quel suo dolce _Abele_ morente col perdono negli occhi e con l'agonia per tutto il leggiadrissimo corpo, fin nelle chiome femminee che sembrano madide di sudore mortale. Ma già l'anno seguente, quella disputa dall'Accademia fiorentina diffusasi per tutti i circoli dell'Italia centrale e su tutti gli album artistici — come ancora per lo più si chiamavano i pochi periodici d'arte — tanto gli aveva occupato la mente e affannato il cuore, che egli finiva celeremente il suo _Caino_ opera così voluta, così innaturale all'anima sua, che l'insuccesso palese ne fu da qualche maligno fissato nel motto che questa volta Abele avea ucciso Caino, non Caino Abele. Della quale affermazione è persuaso chiunque nella sala della Stufa a Palazzo Pitti confronti i bronzi delle due Statue. E lo stesso errore fu dallo scultore ripetuto, quando volle eseguire il monumento a Cavour per Torino, egli che non aveva muscoli per la lotta all'aria aperta, e quando scolpì la statua di San Francesco così inutile e inespressiva nel suo piccolo candore lì su la piazza d'Assisi di contro all'alta austera facciata romanica della cattedrale colore del ferro, — perchè altra febbre d'ardore fu veramente in Francesco, un ardore tanto più attivo e più combattivo di quella reclina rassegnata umiltà di rinuncia! Ma per la sua gloria un'altr'opera fin dal 1863 il Duprè aveva compiuta: un'opera che è forse la sua maggiore, perchè in essa egli ha potuto concentrare tutta la sua tenerezza composta e un po' mistica, tutta la sua passione mai violenta e teatrale, ma forse perciò tanto più sincera e profonda e potente, come un timoroso amore che non riesce a trovar la voce per confessarsi: parlo della _Pietà_ che è al cimitero della Misericordia a Siena, poco oltre quella chiesa di Sant'Agostino, che contiene il suo gelido _Pio secondo_. La Vergine è genuflessa sulla gamba sinistra; sul suo ginocchio destro rialzato e drappeggiato da pieghe molli stanche cadenti si appoggia con tutto il dorso il Cristo morto che ha la testa reclina e le due gambe distese sul piano del marmo. Aperte le braccia, smunte le gote, schiusa nello spasimo silenzioso la bocca, di sotto il manto che la schiaccia e l'adombra, come un dolore visibile, ella si china verso la faccia della morte, verso la fredda faccia. Tutto il figliuolo diletto sulle cui mani e sul cui costato si schiudono le cicatrici delle stimmate donde sprizzò col sangue una luce di sole sul mondo, ella accoglie così nel suo grembo, ella ripara sotto il suo manto; e le braccia di lei, che accompagnano più in alto la linea delle braccia di lui abbandonate dalla vita, non osano toccarlo, sebbene le due mani si pieghino già alla carezza materna. Par che la madre aspetti da quel suo figlio che è Dio il prodigio, il prodigio di un'ultima parola, d'un ultimo sguardo, d'un bacio. E il bianco dramma si profila sul marmo grigio del fondo, e ogni muscolo e ogni piega commentano con una parola precisa l'elegia ansiosa dei due volti: uno morto d'amore, l'altro vivo di pena. Oh non si dica che questo patetico, solo perchè mai volgare, non abbia studiato e compreso il vero quanto i più frenetici e pettegoli veristi! Egli che quando prima espose l'_Abele_ fu accusato di averlo formato sul vivo, egli che anche in un lavoro ornamentale come il piede alla famosa tavola delle Muse di Palazzo Pitti riescì nelle figure e nelle allegorie delle stagioni a vivacità fresche come quelle d'un quattrocentista, egli che a Roma osò chiamare il Tenerani trionfante un «timido amico del vero,» egli che dolorosamente si stupiva di udir dall'Overbeck nazareno l'eresia che i modelli, ossia il vero, uccidono l'idea! Il Vela, l'ho detto, fu al paragone un impetuoso. Venir a parlar di lui dopo il Duprè può quasi sembrar artificio di contrasto retorico, par di passare da un fresco giardino odoroso dentro una cupa selva che stormisce con un romore d'oceano. Da Ligornetto nel Ticino ansioso di novità e di lavoro a Milano, dove il '36 la _Fiducia in Dio_ del Bartolini mandata alla galleria Poldi Pezzoli gli rivela l'avvenire; da Milano a Roma, povero e solo, a modellare in una soffitta lo _Spartaco_ mentre il Minardi pittore squallido e il Tenerani scultore prudente tengono tutti gli onori; da Roma nel '47 nuovamente nel Ticino per la guerra del Sonderbund e poi dal Ticino giù in Piemonte tra i volontari italiani a sognare il gran sogno e a guardar in faccia la morte: dopo Novara a Milano a finire pel Litta lo _Spartaco_, a Lugano ad erigere un altro simulacro di libertà, il Guglielmo Tell, da Milano, rifiutata fieramente agli Austriaci la nomina di professore all'Accademia di Brera, a Torino accettando quella di professore all'Albertina; superbo di modellare per piazza Castello l'_Alfiere_ colossale che Milano dava, come un giuramento, al Piemonte; poi scultore del _Carlo Alberto_, del _Dante_ e del _Giotto_ e di quel _Cavour_ che in mezzo al tumulto frenetico della Borsa di Genova pare col nobile volto e il calmo gesto rammentar a tutti gli energumeni attorno la felicità della patria non esser fatta solo dall'oro; ancora più epico del Manzoni col _Napoleone morente_, infine egli chiude la sua vita agitata ed indomita modellando l'alto rilievo delle _Vittime del lavoro_, rude e tragico monito dell'avvenire! Avete voi nella memoria il _Napoleone morente_? Quella ancor salda figura seduta sulla larga sedia col cuscino che fa da sfondo fino a metà della testa, con quella grave coperta sulle gambe che facendo una massa sola della parte inferiore della statua concentra lo sguardo dello spettatore nella fissa faccia, nella mano contratta sulla carta d'Europa, nel petto che s'intravvede sotto la camicia semiaperta quasi che il respiro mancasse alla bocca imperiosa? Il solco profondo a mezzo il mento, i due segni netti ed ombrati più agli angoli delle labbra sottili serrate, il naso aquilino, i due ponti dell'arcata ciliare diritti a sostenere la gran fronte, e in mezzo alla fronte quella ruga che forse è di pena ma sembra di minaccia, tutto contribuisce a dare a quel volto terribilmente imperioso più che il solenne segno della morte vicina la luce divina dell'immortalità, tanto che — al dire d'un contemporaneo — «il fitto cerchio di persone d'ogni ceto, d'ogni età, d'ogni lingua che gli stava dattorno, faceva come avrebbe fatto dinanzi all'imperatore ancor vivo, dinanzi all'uomo dalle cui mani fosse sfuggito, sì, l'impero del mondo, ma potesse ancora riprenderlo.» Lo so: da critico diligente io devo rammentarvi che il Vela, al verismo del Bartolini, aggiunse la sincerità nel ritrarre sui corpi le vesti spesso goffe dei suoi contemporanei, tanto che sul suo esempio, e massime per opera d'un suo ammiratore, Santo Varni, da venti o trent'anni il cimitero di Staglieno va divenendo una collezione di orribili ineleganze, una storia volgare di tutte le più stupide mode di vestiti maschili e femminili dal '60 in giù. Devo anche dirvi che molti dei suoi somigliantissimi ritratti — da quello del Carloni a Lugano, da quelli del Gallo e del Balbo e delle due Regine a Torino fino a quelli del Grossi e del Piola nel cortile di Brera a Milano — sono stati accusati di essere poco espressivi, sebbene a me paia che nessun moderno lo abbia raggiunto nel trattar con diversa mano le diverse materie, e le carni e i capelli e le vesti e il cuoio e i lini. Ma qualunque critica vi proponga, un solo e massimo vanto io vorrei che voi deste al gran Vela se mai, oltre il lago di Lugano, tra i monti verdi vi inoltriate fino a Ligornetto ed entriate nel bianco museo della sua villa, nel giardino odoroso piantato dalle sue mani, seguìto dal gran mastino nero che le sue mani hanno accarezzato: il vanto di essere stato più di ogni altro scultore della sua epoca sincero, quello, cioè, di aver in ogni suo marmo espresso un po' dell'animo suo, una speranza o un entusiasmo con un vigore che la modernità non aveva ancor visto. La scultura italiana di cui pare che i critici odierni parlino con qualche disdegno in poche righe dopo pagine e pagine in onor della pittura e di cui le esposizioni fino a poco tempo fa si servivano solo per addobbare le sale o per riempire i corridoi; la scultura italiana, invece, ha tenuta alta la nostra gloria artistica quando, al confronto cogli stranieri, la nostra pittura, se pure in Italia con un po' di retorica patriottica era detta viva, all'estero faceva pietà. Quando nel '55 con una crudele cortesia Gauthier diceva «che l'Italia aveva largamente pagato il suo debito d'arte al genere umano, e che egli non avrebbe certo commesso l'iniquità di burlarsi della nostra miseria,» quali scultori poteva opporre al Duprè, al Vela, al Tenerani, poichè il Bartolini era morto nel '50 e a tanti altri minori rispetto soltanto a quei grandi? Fino al '67 a Parigi col _Napoleone_ e con la _Driade_ del Vela, con la _Pietà_ del Duprè, con l'_Amor pitocco_ del Cambi, col _Socrate_ del Magni, fino al '73 a Vienna col _Jenner_ di Monteverde, col _Nerone Travestito_ del Gallori, col _Canaris_ di Civiletti, la scultura ci ha difesi da quell'accusa di morte. A Torino, poichè nel 1878 il Marocchetti era emigrato definitivamente in Francia, accanto a Vincenzo Vela che il marchese di Breme chiamava nel '55 a insegnar nell'Accademia allora allora rinnovata da un apposito decreto, erano il Dini ancora classicheggiante ma nei ritratti vivissimo, l'Albertoni di fare grandioso e monumentale ma poco espressivo meno forse che nel monumento a Vincenzo Gioberti, e due fratelli — pur troppo dimenticati — Francesco e Giuseppe Pierotti, che modellavano con sicurezza gruppi d'animali. A Milano, al vecchio Cacciatori succedevano due o tre giovani come il Bayer, lo Strazza, il veronese Fraccaroli che allievo del Zandomeneghi era venuto da Venezia verso il '35, il Pandiani la cui figliuola Adelaide avrebbe poco dopo il '60 creato la _Saffo_ mirabile immagine della desolazione amorosa, il Tantardini che col _Geremia_ mostrò che cosa potessero anche in un ingegno non sommo gl'insegnamenti del Vela, infine il Magni che col _Socrate_ e con la fontana Nabresina a Trieste già provava l'amorosa diligenza — non altro! — con cui nel '72 avrebbe eretto in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci. Qui a Firenze, intorno al vecchio Romanelli, al Fantacchiotti, al Cambi, nessuno ancora sorgeva a eguagliare il Duprè o a prendere il posto del Bartolini. Nel mezzogiorno, poichè il fiorentino Emilio Franceschi non era ancora andato a Napoli e il palermitano Civiletti non era ancora venuto a Firenze, Tommaso Solari, che nella statua di _Carlo Poerio_ al Largo della Carità in Napoli mostra un verismo degno quasi delle statue minori del Vela, e Raffaelle Belliazzi nelle terre cotte dipinte e anche nel marmo fanno appena sperare un Amendola, un Gemito o un d'Orsi. Ho detto poco fa che la massima lode del Duprè e del Vela è d'essere stati i due più sinceri scultori del loro tempo, tra il '48 e il '61. Ma in pittura, chi restaurò la sincerità? Chi trasse di sotto il pondo dei gessosi eroi del Camuccini e dell'Appiani la vita fatta di nervi e di sangue, espressiva e luminosa, magnificamente bella anche quando appare spaventosa come un incubo di Breughel o di Goya? Per veder la verità, guardiamo uno spazio più grande della sola Italia. Nella Francia i veri liberatori dell'arte, i veri instauratori della libertà contro la schiavitù della tradizione, i veri vindici dell'originalità erano stati poco dopo il '20 i pittori romantici, e noi eravamo in ritardo di quasi trent'anni. Dal fondo grigio e gesuitico della restaurazione, ormai da parecchi anni l'arte del colore e della passione era balzata fuori libera, feroce, agile, urlante e fulva come una bella belva. Il sangue, il bel sangue porporino e la luce e il movimento più convulso essa bramava e otteneva. Che il colore fosse così ardente da consumare i contorni, che la passione fosse così esternata e visibile da gareggiare con la febbre delle _Notti_ di Musset o delle apocalittiche visioni di Hugo. Il rosso, il rosso! Il rosso scarlatto del panciotto di Théophile Gautier, il rosso cupo dei nastri sui cappelli, tra i capelli, intorno alle vite delle belle donne che volevano esser tutte appassionate. Già nel 1819 era apparsa la _Zattera della Medusa_ dipinta con foga da Géricault ma ancora buia e ancora qua e là nelle figure legnosa. La michelangiolesca _Barca di Dante_ sognata e dipinta da Delacroix è del 1822, il _Massacro di Scio_ che dai vecchi fu detto il massacro della pittura è del 1824. Nel 1834 Delacroix parte pel Marocco e inaugura la pittura orientalista nella quale poi Decamps, Marilhat, Fromentin, Guillaumet sul suolo senz'ombra, sotto i cieli senza nuvole, faranno veramente tremar l'aria alla luce, in quei silenzii meridiani nei quali, come dice lo stesso Fromentin, la vita sembra scomparire assorbita dal sole. E già il _Salon_ del 1822 avendo rivelato i paesisti romantici inglesi e Turner e Bonington e Constable e avendo dato una medaglia d'oro a quest'ultimo, aveva spinto all'emigrazione verso Barbizon tutti quei pittori «detti del '30» e Rousseau e Corot e Daubigny e Duprè e Troyon che crearono il _paysage intime_ e trent'anni dopo dettero diritto di vita al paesaggio italiano. Tutti costoro si dichiarano e sono tanti romantici. Da noi, invece, ogni insulto fra il '50 e il '70 va ai romantici: anzi, talvolta il senso dileggiativo dell'aggettivo «romantico» persiste ancora nelle lettere, se non nelle arti. E intorno al '60 i così detti veristi insorgevano contro i romantici, e Palizzi loro capo a Napoli imitava senza saperlo quando poteva Troyon e Daubigny che erano due romantici. Donde la contraddizione, o meglio l'equivoco? Ho in principio accennato alle cause politiche che nel 1848 resero invisi agli Italiani i maggiori scrittori romantici, tanto che col sostantivo fu condannato l'aggettivo, senza darsi la pena di distinguere l'innocente dal reo: del qual fatto il più chiaro esempio è nella storia dell'Accademia napoletana di prima e dopo il 1860, di prima e dopo la caduta dei Borboni, perchè là d'un colpo furono cacciati per ragioni politiche i romantici cioè i borbonici, e sostituiti i nuovi cioè i liberali. Ma un'altra ragione dell'equivoco è nel fatto che i nostri pittori detti romantici — primo l'Hayez, come credo di aver provato l'altr'anno — accettarono i soggetti romantici e i sentimenti romantici e la lagrimosità romantica, ma il colore e il chiaroscuro restarono degni dei neoclassici, opaco quello e saponoso, arbitrario questo e così negletto, che le figure sembravano più fantasmi senza rilievo al lume di luna che solidi corpi vivi alla luce del sole. Così che quando i nostri veristi e i nostri coloristi insorsero contro i romantici d'Italia insorgevano in realtà contro i neoclassici e infatti imitavano i romantici di Francia: cioè erano dei romantici essi stessi. Quando con Morelli, Celentano, Faruffini il quadro storico cominciò ad acquistar l'unità della luce e la giustezza dei toni, questi facevano trenta o quarant'anni dopo quella rivoluzione che in Francia aveva fatto pure col quadro storico il Delacroix romantico. Ma a dar loro dei romantici, anche oggi quei che son vivi griderebbero offesi. Questo inganno nominale ho voluto subito chiarire per potervi mostrare la pittura italiana nel posto, non ottimo, che le spetta, a metà del secolo decimonono nella pittura europea. Considerate infatti, per avere un'altra prova di quest'inganno, il quadro storico che gl'Italiani, guasti dal fanatismo delle gerarchie accademiche cortigianesche e jeratiche, ponevano sommo nella scala della bellezza onorevole. Poichè la conquista del colore o la conquista del movimento che son le due glorie della pittura del secolo decimonono, non erano nemmeno state tentate dai nostri, e poichè — come abbiam veduto a parte a parte l'altr'anno — nè l'Hayez, nè il Palagi, nè l'Arienti, nè il Malatesta, nè il Guardassoni, nè i due Benvenuti, nè i due Mussini, nè il Bezzuoli, nè il Pollastrini, nè il Gazzotto, nè lo Zona, nè il Molmenti, nè il Cavalleri, nè l'Ayres, nè l'Angero, nè il Mancinelli, nè il Podesti, nè il Gagliardi — per nominar solo quelli che allora furon creduti ottimi — riescirono ad abbandonare il lividore del colore classico per quanto lagrimassero in tutte le Imelde, in tutte le Giuliette, in tutte le Clorinde, in tutte le Francesche da Rimini, in tutte le Marie Stuarde, in tutte le Congiure e in tutte le Crociate care ai poeti romantici, perchè dovremmo noi dar loro lo stesso appellativo di Delacroix e dire che la loro pittura è romantica mentre in realtà son romantici solo i temi dei loro quadri, ma la loro pittura è in ritardo di quarant'anni? E nei più giovani, prima di Morelli, di Celentano e di Faruffini, chi è che si ribella e dipinge anche quei modelli mascherati da paggi e da cavalieri antichi al sole e col movimento con cui dipingerebbe il signor X o il signor Z suoi contemporanei in tuba e scarpini verniciati? I migliori di questi più giovani sono piuttosto paragonabili a quei prudenti pittori francesi che contentarono la borghesia spaurita tra la rossa ardente esaltazione della rivoluzione di luglio e le barricate della rivoluzione di febbraio, e che ebbero per sommi e antipatici capi Paul Delaroche e Robert Fleury e ammirarono in poesia Casimir Delavigne e in musica Auber, in una parola che rappresentarono con serietà lo smascolinato _juste milieu_ di Luigi Filippo. Essi dipingono con sapienza i siparii per teatro ed è naturale, — dal Bertini che col Casnedi dipinse a Milano quello della Scala fino al Fracassini che dipingerà a Roma quelli dell'Apollo e dell'Argentina, — e per lo più scambiano quel che è pittoresco con quel che è dipinto bene, restando sempre stilisti oggettivi, mai artisti appassionati. Guardate Enrico Gamba che apprese in Germania la correzione del disegno e l'abilità della composizione, e, fecondissimo, ebbe in Piemonte anzi in Italia grande fama fino all'83 quando morì. _I funerali di Tiziano_ che sono del '56, disegnati così bene, disposti così bene, pennellati così bene, contengono veramente dei pezzi di pittura liscia forse ma spontanea: però nell'insieme tutte quelle figure viste ad una a una, quasi che ognuna avesse il suo raggetto di sole e non ne spartisse nemmeno un riflesso coi suoi vicini, odoran di accademia, di modello, di posa un miglio distante. E lo stesso è di Andrea Castaldi, torinese come il Gamba, ma più di lui fresco in certi studii di nudo femminile e più di lui tragico e nervoso nell'espressione dei volti, come provano il suo popolarissimo _Pietro Micca_ che è del '60 o il _Savonarola_ che è del '56, ambedue nella bella pinacoteca moderna di Torino. Ma senza andarli a cercare qua e là per l'Italia col rischio di dimenticarne parecchi, è bene vederli raccolti alla prima Esposizione nazionale italiana che su proposta di Quintino Sella fu con una speciale legge decretata il 25 giugno 1860 e aperta nella primavera del 1861 qui a Firenze, nell'antica stazione delle ferrovie livornesi a Porta al Prato. Se mancavano il Podesti, l'Arienti, il Bertini, il Gamba e il Gastaldi, v'erano però tutti gli altri vecchi pittori di storie e di storielle, morti e vivi: il Benvenuti col _Conte Ugolino_ e più col _Giuramento dei Sassoni_, il Bezzuoli con tre quadri fra i quali l'_Ingresso di Carlo VIII_, Cesare Mussini con la _Congiura de' Pazzi_ e la _Fornarina_, il Guardassoni con l'_Innominato_, il Pollastrini con l'_Esilio de' Sanesi_, il Coghetti con la morte di _Santa Caterina_, l'Hayez col _Ratto d'Ila_, lo Smargiassi col _Buonconte da Montefeltro_, il Maldarelli con la _Gliceria che battezza il suo carceriere_. Ed era bene che vi fossero tutti, perchè accanto a loro vedendo gl'_Iconoclasti_ del Morelli, _I Dieci_ del Celentano, la _Cacciata del duca d'Atene_ di Stefano Ussi e anche la _Congiura degli Amidei_ di Eleuterio Pagliano, il pubblico e i giovani artisti finalmente comprendessero che nessuna bellezza sentimentale o patriottica di tema, poteva far bello un quadro visto male e dipinto male. Io parlo adesso, o Signori, di persone, meno il Celentano, vive, ammirate e gloriose, e voi dovete perdonarmi se sarò coi vivi sincero tanto quanto è purtroppo facile esserlo coi morti. Io in Stefano Ussi ho sempre ammirato più del pittore storico l'orientalista luminoso, spontaneo e caldo di passione come quel suo oriente lo è di sole. _La Cacciata del duca d'Atene_ che, quando nel 1867 andò a Parigi fu su la _Revue de Deux mondes_ così violentemente biasimata da Maxime du Camp, è certo il più bel quadro storico che sia stato dipinto prima degl'_Iconoclasti_; intendo con ciò che il suo valore è relativo al momento in cui apparve. Pensate che questo discepolo di Giuseppe Bezzuoli, dipinse il gran quadro a Roma tra il '58 e il '59, nel colmo della tirannia del Podesti e del Minardi! Certo oggi in quella folla urlante e minacciante che ha invaso il Palazzo Vecchio, la gentile freschezza di ogni veste e l'ostentata abilità della composizione scenicamente equilibrata intorno al fiammeggiante abito del Duca e la differenza tra le due luci, quella pallida oltre le finestre, quella violenza dei personaggi del primo piano dispiacciono a chi voglia ammirare. Ma che sagacia di psicologia a esprimere sui volti e nel gesto le passioni di ognuno e che cura meticolosa dei particolari, cura così rara in un tempo in cui l'approssimativo quasi sempre sinonimo del falso era la sola guida dei costruttori di tali coreografie! «Io non vidi mai quadro moderno che agguagli questo» disse allora il relatore governativo Manfredini. Se Stefano Ussi così impose per primo l'obbligo della verità al quadro storico e ne fu subito compensato da una rinomanza sicura e duratura, il Morelli negli _Iconoclasti_ stupì per la forza di rilievo e l'esattezza veduta del chiaroscuro, e il Celentano nei _Dieci di Venezia_ stupì per l'unità della luce. Domenico Morelli è un impulsivo, disuguale e violento; e forse per questo è l'unico dei suoi contemporanei in cui allora sembrasse trasfuso un po' dell'ardor febbrile del Delacroix. Il Celentano invece è un tenace, sicuro della mèta, dubbioso spesso nei mezzi fino a spasimar per l'angoscia, per capire come da quell'orribile _Agguato_, che è nella sua sala alla Galleria romana d'arte moderna, egli possa essere giunto ai _Dieci_ e al _Tasso_, bisogna leggere le sue lettere al fratello Luigi, e vedervi l'amor dello studio attraverso alle pinacoteche di tutta Italia e l'ansia religiosa quando è vicino al paradiso del colore, — a Venezia. Il Morelli invece ottenne presto, e senza tentennare, quella personalità artistica cui il povero Celentano anelava, quella palpabilità delle figure nei quadri, come egli diceva, quella semplicità della composizione che fu al confronto cogli altri la vera meraviglia del _Consiglio dei Dieci_, quando fu esposto qui a Firenze. Quel tono basso d'avorio, con qualche fiato verdino, delle pietre della Scala dei giganti nel fondo, quei robboni neri dei Membri del Gran Consiglio, quei volti scarni ed assorti, quell'aria che fluisce nella scena aperta tra i quattro o cinque gruppi andanti, quella verità di movimento, lo stesso taglio basso e lungo del quadro e la scena che pareva vuota al confronto delle folle accumulate nei macchinosi quadri attorno, — tutto a noi che guardiamo dopo trent'anni permette di dire che come sincerità d'arte il _Consiglio dei Dieci_ di Bernardo Celentano avrebbe dovuto nel 1861 ricevere molti degli omaggi che andarono agl'_Iconoclasti_ di Domenico Morelli. E voi sapete, signori, che Bernardo Celentano morì a ventinov'anni! Sugl'_Iconoclasti_ un vecchio amico del Morelli mi narrava pochi giorni fa un aneddoto tipico. Egli lavorava con furia, malcontento della figura di Lazzaro Monaco quando il Palizzi entrò nel suo studio. — Ti piace? — No. — Che devo fare? abbandonar tutto? — Niente affatto. Guarda. Io mi metto davanti alla tua tela. Allontanati. Quando vedrai le tue figure dipinte spiccar su la tela come fa il mio corpo, allora potrai dire d'aver vinto la prova. — In verità, la gloria di Domenico Morelli è di aver trattato le figure dei suoi quadri non come copie di modelli mascherati o atteggiati, ma come uomini vivi. Troppo egli stesso è esuberante di vita e di passione, per tollerare davanti ai suoi occhi su le sue tele dei fantocci piatti. Non credo di fargli una critica dicendo che questo più che volontà fu istinto in lui. Nei romani, nei greci, negli uomini del cinquecento, nello stesso Cristo egli tornò ad infondere il sangue rosso e palpitante, il suo buon sangue di meridionale beato di sole, e col sangue la passione tutta dinamica, non più statica e di posa, come in quasi tutti i suoi antecessori. Questo romantico, al pari dei grandi romantici d'oltralpe sorti trent'anni prima di lui, ha sentito che il colore è in pittura l'espressione della passione, l'indice della potenza lirica ed emotiva dell'artista. Sebbene talvolta non abbia reso l'intensità della luce solare per aver troppo creduto all'efficacia dei colori puri invece che all'efficacia dei rapporti, pure pochi seguirono col suo amore, con la sua prontezza in un quadro tutti i riflessi e i rimbalzi d'ogni minimo raggio. Dei romantici francesi ha avuto i gusti letterarii e l'amore pel Byron e pel Tasso, in quasi tutti i temi dei suoi primi quadri; e ha avuto la foga nel creare, tanto che fu detto gl'_Iconoclasti_ essere stati dipinti in quaranta giorni; e l'amor per l'oriente che egli ebbe il torto di dipingere sempre di maniera guardando alla Spagna e al Fortuny invece che alla Terrasanta. Venuto poi a maturità in un'epoca di critica religiosa, egli potè con grande successo fondere questo romantico amor dell'oriente alle interpretazioni umane del Cristo, e acquistar nella storia della moderna pittura sacra un posto accanto a Holman Hunt, al Rossetti, al von Uhde, pure tecnicamente così dissimili da lui. Ma io non posso indugiarmi nella descrizione del suo ingegno per mostrarvi l'importanza dei suoi viaggi tra il '55 e il '62 e la fama sua che saliva con tanta sonorità, che forse nessun altro artista contemporaneo ha tra i giovani del suo tempo ottenuta almeno nell'Italia media una simile suggestione di rispetto devoto. Quando accanto al Celentano e al Morelli vi avrò rammentato il colore del Faruffini, più nella _Vergine al Nilo_ che nel _Sordello_ della Brera, l'appassionato brio dell'Altamura che venuto dalla sua Napoli divenne così popolare qui a Firenze, la franca pennellata del Pagliano, il quale prenderà al Cogniet l'idea della _Figlia del Tintoretto_, la forza tragica del Fracassini nei _Martiri Gorgomiensi_ alla Vaticana e negli affreschi non finiti a San Lorenzo fuori le mura, v'avrò indicato tutti i maggiori pittori storici fino al 1861 — se pur non vogliate pensare che già cominciavano a tenere il pennello Barabino e Maccari, un geniale imitatore d'Alma-Tadema come Giovanni Muzzioli e un irrequieto innovatore come Tranquillo Cremona, e che nel 1864 a Parigi con l'ariosa lussuosa riscintillante _Passeggiata nei portici del Palazzo Ducale_ Scipione Vannutelli otterrà in premio un sonetto di Théophile Gautier. * * * Dispensatemi dall'enumerarvi tutti i quadri militari che dopo il '48 o dopo il '59 glorificarono i mille episodii di Custoza, di Novara, di Montebello, di Palestro, di Solferino, di San Martino, e i volontari Garibaldini e le truppe Piemontesi, e con Gerolamo Induno perfino i pallidi orizzonti della lontana Crimea e le glorie della Cernaja. Perfino Mussini finirà a fare — purtroppo! — il ritratto di Vittorio Emanuele, perfino Hayez finirà col dipingere la _Battaglia di Magenta_. Qualunque critica fatta oggi da noi giovani a quei pittori di battaglie i quali quasi tutti le avevano combattute prima di dipingerle, e al carminio della loro tavolozza potevano paragonare il buon sangue delle loro ferite, sarebbe irriverente. Ma un fatto posso osservare ed è che, anche quando la loro pittura sembrerà un po' squallida e il loro pennello poco pronto a rendere l'uragano d'un assalto, il lampo delle artiglierie, le contorsioni d'un'agonia, pure la necessità dello studio del vero, l'intensità della passione presente ed urgente, negl'individui centuplicata dall'eco di tutt'un popolo, furono in Italia i maggiori coefficienti della nuova sincerità artistica e della mutazione del gusto. Qui a Firenze fra tutti costoro, io voglio ricordare un veterano sempre valido e giovanile, Giovanni Fattori, che oggi è rimasto il maggior pittore militarista d'Europa, e che nella sua austera gamma di colori ha per primo veduto i soldati e i cavalli _dentro_ un paesaggio, non, come gli altri teatrali, _sopra_ un paesaggio, e li ha avvolti d'aria e di luce cioè li ha fatti vivi in mezzo alla vita, vivi e degni di vivere nell'avvenire. I fratelli Girolamo e Domenico Induno, dei quali un anno fa descrissi l'opera, col loro stile gustoso facile e simpatico unirono questa gloriosa pittura militare all'ingloriosa pittura di genere, nella quale però Domenico più sentimentale e più mesto riportò maggior vanto «porgendo,» come dice con frase tipica il Caimi che è lo storico degli artisti lombardi di questo periodo, «l'edificante esempio di quelle abnegazioni che nobilitano il tugurio del proletario.» E intorno agl'Induno col Trezzini, cognato di Domenico, col Castoldi, col Giacomelli, col Clerici, e in Piemonte con lo stesso Gamba, col Beccaria, col Balbiano e massime con Federigo Pastoris fu per vent'anni un diluvio di emozioni graziose ora ridenti ora meste, anzi per lo più meste che stancarono talvolta anche i contemporanei, tanto che nelle _Tre Arti_ quel bizzarro ingegno del Rovani ne parla francamente così: «La pittura di genere è l'arte sorella di quella letteratura pallida ed esile che credette di ingenerare il gusto imbandendoci quei cari romanzuoli cotti nell'acqua di mele cotogne che non passano l'epidermide nemmeno alle maestrine degli asili d'infanzia.» Ma l'ironia non giovò, perchè in Italia la pittura di genere durò anche più a lungo che in Francia dove, per verità, essa era nata solo dall'imitazione degli inglesi, del Wilkie, del Leslie, del Mulready che tra il fanatismo dei compratori smollicavano al pubblico la grande eredità di Hogarth, — e dove il suo cicaleccio pettegolo fu presto sopraffatto dall'ampia sonora voce della pittura paesana di Millet. Forse in Italia una lode le si può dare, — che, cioè, servì ad abituare definitivamente gli spettatori alle pitture dei costumi moderni visto che ancora nel 1857 il buon Pietro Selvatico credeva d'essere audace, dissertando della _opportunità di trattare in pittura oggetti tolti dalla vita contemporanea_. Ma i veri ribelli, i veri fondatori della modernità, i veri apostoli della sincerità, furono in Italia i paesisti. Da Nino Costa a Telemaco Signorini, dal Palizzi al Vertunni, dal de Nittis al Rossano, dal Fontanesi al Pasini, — noi intorno al '60 già vediamo raccolta una falange di artisti tali, che per cento modi, attraverso a cento temperamenti appaiono tutti concordi a proclamare la libertà d'essere originali purchè si sia sinceri, ad indicare quanta può essere la gioia dell'anima di chi con sereni occhi contempla i suoi sogni riflettersi in un mattino aprilino raggiante di speranza, in un meriggio estivo ardente di letizia, in una sera autunnale fosca di pena. Lungi le mascherature classiche e medievali, lungi le lagrimucce pettegole, anche lungi l'inferno delle battaglie! Un mandorlo fiorito sopra un cielo turchino; un cespuglio di ginestra oro e verde contro un mare color del cielo; un gregge giallastro sopra un tenero prato di marzo; una casetta rosea lungo una strada candida di polvere sotto il sollione; una luna che di dietro un monte violaceo sorge a spegner le stelle nei pallidi sereni: tutte le gentilezze e le grandezze, le profondità dei firmamenti e le tenuità dei fiori parvero allora per la prima volta dopo quasi tre secoli riapparire all'anima degli artisti che tornava ingenua. Non vi parlo dei piemontesi che dal più facile commercio intellettuale con l'estero oltralpe avrebbero dovuto più prontamente degli altri udire la soavità di quest'invito alla sincerità, e, se non giungere a intendere la bellezza dei creatori inglesi del _Paysage intime_ come Turner, de Wint, Constable, John Crome o Bonington, almeno imitare i loro imitatori francesi, — invece di fermarsi a Ginevra a vedere i _Souvenirs de Suisse_ grandi e piccoli che dipingeva pei forestieri quel monotono arido calligrafico e scenografico Alessandro Calame. Nè Francesco Gamba, nè il Beccaria, nè il Piacenza, nè il Perotti, nè l'Allason, nè il Bennison e tanto meno il Camino si liberarono da questa teatralità che raramente, e quasi a loro insaputa. «Un Calame, deux Calames, trois Calames, que des calamités!» disse allora un critico arguto. Bisogna aspettare che Alberto Pasini parta per la Persia con la missione francese del Bourrée, per vedere il colore; e anche in lui tanta fu, a volte, l'arte, che divenne artificio, e fece preferire ai rutilanti quadri compositi la fresca sincerità delle sue tavolette. Bisogna aspettare che Rayper, d'Andrade, Issel e Giordano raccogliendosi nella solitudine di Rivara fra gialle rupi e verdi vigne tentino di dimenticare il malo esempio degli antenati. Bisogna aspettare che nel '55 Antonio Fontanesi dopo essere a Ginevra caduto anche lui nel suo Calame, vada all'Esposizione di Parigi a entusiasmarsi di Decamps, di Rousseau e poi a Londra a entusiasmarsi di Turner, e ottenga così una sapienza di tecnica cromatica ancora nuova in Italia e crei quei suoi paesi solidi meditati preparati con abilità ed eseguiti con spontaneità, quei paesi di cui dieci o quindici anni dopo doveva innamorarsi Giovanni Segantini. A Napoli prima del Vertunni ampio e solenne, prima che il poetico verde nebbioso Rossano e il pallido nervoso de Nittis e Adriano Cecioni da Giosuè Carducci chiamato «dell'arte operatore e giudicatore superbo» fondassero la cosiddetta scuola di Resina, era e regnava Filippo Palizzi senza il quale tutta la moderna arte napoletana, compresa quella di Morelli non sarebbe stata com'è. Quando nel 1832 egli era venuto a Napoli da Vasto d'Abruzzo era ancora vivo l'olandese Antonio Pitloo che il Borbone aveva al suo ritorno, per consiglio del Camuccini, nominato professor di paesaggio nella riordinata Accademia, e che aveva tra grandi entusiasmi fondata la scuola detta «di Mergellina e di Posillipo» lodatissima allora per una trasparenza d'aria e una larghezza di cieli per verità poco visibili ora nelle sue tele. Fra costoro, Filippo rimase al riparo dall'imperversar delle lagrime romantiche e la _Vacca_ che nel 1839 a ventun anno egli dipinse pel primo concorso biennale fu come la serena voce d'un poeta fra un clamoroso sermocinar di rètori. Da allora non mutò mai di pensiero dando un esempio d'unità di vita estetica ignota a tutti gli altri artisti italiani di questo secolo fino allora. Voi pensate, senza sorridere, all'audacia che occorreva a dipingere a Napoli nel 1839, invece degli Ajaci, delle Lucrezie, delle Virginie, degli Ezzelini e dei Crociati, una pura e semplice testa di vacca! Senza alcuna destrezza di composizione, senza alcuna scienza della faccia umana, egli doveva essere e fu un limitato maestro di tecnica. La fermezza sempre maggiore del suo disegno, la pennellata più e più brava, la nitidezza dei particolari, la vivezza e la varietà d'espressione negli occhi e nelle attitudini degli animali — dai pulcini intorno alla chioccia fino alla famosa _testa di leone_ che eseguì a Parigi nel '65 al _Jardin des plantes_, — o nei fiori o nelle foglie dei vegetali che paiono veramente empir di una vita umana certe sue minuscole tele, tutta la crescente profondità del suo occhio non ebbero, in realtà, sull'indirizzo della pittura tra il '40 e il '70 l'importanza morale che ebbe la sua persistenza nello studio degli animali e dei fiori e dell'erba. Questa rude franchezza, questo bel bagno d'animalità — odor di fieno e di timo — era necessario alla pittura italiana che quando egli apparve poteva davvero ripetere quel che poi egli scrisse nella sua sala alla Galleria nazionale d'arte moderna: — Vorrei rinascere per ricominciare. — Il movimento dei _macchiaioli_ qui a Firenze fu davvero una rinascita. Spenti oramai gli odii, i biasimi violenti, gli antagonismi feroci di venti o di trent'anni e caduta sul bollor dei superstiti la neve della canizie, tolto ormai ogni significato bernesco a quell'appellativo dato loro dall'arguzia fiorentina, riappare oggi tutta la vivace sincerità di quelli ostinati nemici dei «raschiatori delle tele vecchie,» come essi chiamavano tutti gli accademici classici puristi e romantici, senza rispetto per nessuno, anzi aumentando di ferocia in proporzione di quanto quelli aumentavano di disdegno. Nel '55 l'Altamura e il Tivoli tornando dall'Esposizione di Parigi si fermarono a Firenze a predicar con tanta fede ai giovani frequentatori del Caffè Michelangelo la libertà artistica ormai da più che trent'anni concessa al popolo di Francia da Delacroix, re del chiaroscuro e dalla sua corte, — che quando quei giovani entusiasti poterono andar a godere nella Villa di San Donato la galleria del principe Demidoff e i Daubigny, i Decamps, i Troyon, i Delacroix, i Marilhat, i Meissonnier che essa conteneva, la rivelazione giunse ai loro occhi come un fulmine e appiccò il fuoco a tutti gli animi. Al Caffè Michelangelo, come narra Telemaco Signorini in un libro che ogni giorno va acquistando rarità di documento e valore di storia, la guerra di idee si sarebbe fatta grave anche tra gli amici più fraterni se la guerra per la patria non avesse chiamati tutti i generosi a combattere l'Austria. Tutti i reduci — dal Signorini al Fattori — non dipinsero per mesi che bivacchi e accampamenti, scaramucce e battaglie, ipnotizzati dal fuoco e dal sangue come gli innamorati dall'amore. L'Esposizione nazionale fatta, come ho detto, il '61 qui a Firenze e l'apparizione di paesisti come Palizzi, Fontanesi, Costa e Pasini, ridettero fiamma alle critiche e alle lodi e i congiurati così detti della _Macchia_ scesero per le vie e fecero la loro rivoluzione. Purtroppo le rivoluzioni quando corrono in piazza sono già compiute negli animi. Il dogma che gli avversari a momenti volevano ardere con tutti i suoi apostoli in piazza della Signoria non appariva, in realtà, già applicato in quell'Esposizione del '61 con quello che i critici più codini e più miopi, chiamarono allora il «colorire a spizzico,» dal Morelli, dal Celentano, dal Fontanesi? E in realtà questi giovani che si dicevano veristi e insultavano i romantici d'Italia e perciò sembravano audaci, non erano con qualche ritardo imitatori dei più romantici paesisti di Francia, dal Rousseau al Corot? E la tecnica della macchia che dieci anni dopo Manet spingeva agli effetti estremi con l'«impressionismo,» non era stata inventata appunto dai romantici d'oltre alpe? E la fiera massima dei macchiaioli, «senza maestri e senza discepoli,» non era la più sincera affermazione di quel diritto all'originalità più sfrenatamente spontanea che il romanticismo aveva sancito pel bene degli artisti? Ahimè! quanti presunti nemici ai critici del duemila sembreranno fratelli appassionati! Ma la colpa dell'equivoco fu dei pretesi romantici d'Italia vecchi, legnosi e incolori quanto i neoclassici camucciniani, non dei nostri veristi la cui lotta era benedetta da Dio. Adriano Cecioni, Diego Martelli e Telemaco Signorini diffondevano con limpidezza le nuove teorie: «il colore non mutar mai, divenir soltanto per la luce più chiaro e più scuro, l'affare più importante nel dipingere esser dunque di vedere e di rendere bene le macchie di chiaro e di scuro, non facendo mai nemmeno le figure più grandi di quindici centimetri, vale a dir di quella dimensione che assume il vero guardato a tale distanza da non esser possibile di percepirlo altro che per masse, cioè per macchie, di chiaro e di scuro....» Con questa frenetica passione per problemi di pura tecnica si può davvero dire che il Banti, il Cabianca, il Borrani, il Lega, l'Abati, il Moradei, il Signorini, perdessero sul pubblico ogni forza di commozione così che, non essendo essi più che mani, il pubblico avesse il diritto di non esser più che occhi? No. Basterebbe considerare l'opera di tre superstiti: Nino Costa che veramente non fu tra i macchiaioli ma venendo a Firenze nel '59 fu maestro di sincerità a molti di loro, Vincenzo Cabianca e Telemaco Signorini. Quale paesista anche tra i più giovani e i più deliberatamente patetici — come Fragiacomo o Sartorio — raggiunge la profondità di passione delle vedute dipinte verso il '55 sotto Albano, all'Ariccia, da Nino Costa quando come un eremita visse là per cinque anni con lo svizzero David — delle _Donne che cavano il lino dal macero, delle Donne che in una sera di pioggia vanno alla fonte_ e infine di quella sua _Veduta della spiaggia di Porto d'Anzio_ dove il cielo opalino, il mare grigio nella distanza e l'arena giallastra dappresso formano una musica così piana e pure così solenne? E in quali acquerelli più che in quelli del Cabianca, perduta col largo pennellare tutta la minuzia calligrafica e femminile dell'acquerello, si è mai veduto, direttamente dal colore più che dal soggetto o dal gesto, venire per gli occhi al cuore dello spettatore tanta gentilezza d'affetto quanta dalle _Monachine_ fatte nel '61, dalla _Neve a Venezia_ dipinta nel '55, o dalla _Chiesetta in riva al mare_ dipinta tre anni fa? E infine prima di Telemaco Signorini il paesaggio italiano ebbe mai tanta chiarità di sole e di azzurri quanta se ne vede sulle sue vedute delle coste e della marina di Spezia, tanta sicurezza di carattere quanta nei suoi quadri del _Ghetto fiorentino_, che restano nella memoria netti come ritratti d'un volto umano? Signori, questo fanatico amor per la natura, questa passione per le solitudini verdi, per gli animali dai placidi occhi, per gli alberi da gli occhi di fiori non definiscono quale sia stata veramente l'anima del nostro gran secolo? L'arte del paesaggio nell'avvenire lo redimerà dalla fama di avaro, di scettico ed egoista, che gli storici superficiali gli hanno già tribuita. Quest'arte, tornando ad immerger la figura umana nella luce, tornando a considerarla sotto l'ampiezza dei cieli simile agli alberi e alle rupi e alle acque nella gioia dei meriggi e nella melanconia delle sere, ha ridato agli uomini la nozione serena e sincera del loro destino, ha ricostruito una specie di religione naturale placida e limpida da ogni paura e da ogni vana superbia. Veramente, educato dai grandi paesisti, oggi l'uomo quando al tramonto col cader della luce nel silenzio sale l'oscurità della morte e filtra per gli occhi nel cuore e il cielo impallidito è più profondo e più ampio e gli umani fatti ciechi sono più sperduti e più piccoli, pronti a confondersi con l'ombre vane, — veramente, dico, allora l'uomo si sente sulla sua minuscola terra come in esilio, e nella coscienza gli salgono come un ricordo istintivo e un rimpianto d'un tempo immemorabile di fraternità, d'un tempo in cui tutto il mondo — cose che sembrano vive e cose che sembrano morte — era un sol fatto, una sola entità, un sol divenire sotto gli occhi, forse, di Dio. A questa unità del destino di tutto, a questa tristezza solenne e quasi divina, i grandi paesisti, da Turner a Segantini, da Constable a Corot, da Fontanesi a Signorini, hanno educato l'anima moderna. Quali filosofi hanno dato tanto ai loro discepoli? LE PRIME GLORIE DI GIUSEPPE VERDI CONFERENZA DI PIETRO MASCAGNI _tenuta a Firenze il giorno 14 aprile 1900._ Tutte le volte che entro nel Teatro «alla Scala» di Milano, mi fermo all'atrio a guardare le quattro statue di marmo che rappresentano i nostri sommi maestri melodrammatici: Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi. E tutte le volte provo una medesima, stranissima sensazione, che mi forza ad ammirare le figure di Rossini, di Bellini, e di Donizetti, mentre, nello stesso tempo, mi rende uggiosa, quasi antipatica, l'effige di Verdi. Ho tentato di giustificare la mia sensazione invocando l'estetica. — Infatti: quell'abito a coda di rondine, quel rotoletto di musica fra le mani e quel paltoncino ripiegato sul braccio sinistro possono dar campo a qualsiasi ribellione del gusto artistico. Ma non sono riuscito a capacitarmi, perchè, volgendo appena lo sguardo, ho veduto la statua di Rossini colla mazza nella destra, l'enorme cappello a staio nella sinistra, ed il portamusica attaccato ai polpacci. La ragione del mio strano sentimento non deriva dalla espressione artistica degli scultori. Ammiro profondamente le figure di Rossini, di Bellini e di Donizetti, perchè sono il simbolo rappresentativo di tre genii che io non posso conoscere di persona; mentre detesto un Verdi di marmo quando lo posso venerare in carne ed ossa, bello e florido come il destino benedetto lo conserva all'amore dell'Italia nostra. Forse però, quella statua è di buon augurio. Rammento un tipo originalissimo della mia Livorno che, per avere lunga vita, si fece preparare la tomba e ci fece mettere sopra il suo busto in marmo, opera pregevole e rassomigliantissima. Tutti i giorni, prima di colazione, quel bel tipo se n'andava fino al Camposanto, fissava a lungo la sua effigie, ed esclamava: «Per oggi mangio io.» E vinse tanto bene la scaramanzìa, che, quando morì, dovettero cambiargli il busto perchè.... non gli somigliava più. E speriamo che così sia della statua di Verdi; per quanto io credo che si potrebbe di già cambiare, perchè fu inaugurata nel 1881. Per lo meno, non si potrà dire che Verdi, nella sua vita, abbia avuto un quarto d'ora di statua. Ma, nel dire tutto questo, non intendo menomamente di diminuire l'importanza che ha e che merita il fatto, nuovo nella storia dell'arte, di un onore così grande reso ad un vivo. Anzi, aggiungo che non si poteva con nessuno, meglio che con Verdi, che è la più grande gloria vivente, rompere il pregiudizio e distruggere alla fine i due noti versi di Orazio, parafrasati troppe volte dai poeti di tutti i tempi e di tutti i paesi: _Virtutem incolumem odimus_ _Sublatam ex oculis quaerimus invidi._ Però, a me ora pare di essere qui a fare la figura della statua di marmo dell'atrio della «_Scala_.» Qualunque cosa io possa dire di Verdi, sia pure (magari per combinazione) superiore nel concetto ed elevata nella forma, apparirà sempre povera o piccina alla mente delle gentili signore e di tutti gli egregi qui convenuti, se ciascuno richiami appena nel pensiero la nobile fisionomia del nostro grande maestro. Ed io non tenterò nemmeno di riuscire eloquente nel mio discorso. Sarebbe vana fatica. Già, prima di tutto, non ne sarei capace; eppoi, a che cosa mi servirebbe? Quale eloquenza può sussistere di fronte all'opera immensa di Giuseppe Verdi? Quale eloquenza può sostenersi al cospetto della sua persona, sintesi vivente delle sue creazioni, che ha portato superbamente fino ai giorni nostri i ricordi più belli dell'entusiasmo dell'arte e del patriottismo? La vita, la storia artistica di Verdi parrebbe una leggenda, se ancora non fosse fra noi Lui, maraviglioso documento di quelle vicende che saranno credute favolose dalle future generazioni. Ne ho letto di libri su Verdi! Ne ho letto di storie, di episodii, di aneddoti! Ma tutto mi è apparso infinitamente scialbo e meschino, quando mi sono trovato alla sua presenza. Il suo solo sguardo mi ha detto delle cose, mi ha suscitato nel cuore dei pensieri che non ho mai trovato, che non troverò mai in nessun libro. Ed in questo momento l'animo mio è tutto pieno di quelle memorie, ma rimane paralizzato dalla coscienza della propria inettitudine ad esprimere i sentimenti troppo alti. Chiedo, dunque, venia al cortese uditorio per tutto quello che nel mio dire apparirà disadorno ed anche non conveniente al soggetto ed all'uomo di cui si tratta. Resti nella mente di tutti soltanto l'idea dell'omaggio reverente che ho voluto tributare, accettando, forse con leggerezza, ma certo con tutto il cuore, l'incarico di questa conferenza. A Verdi ho già domandato anticipatamente il perdono per l'atto che sto per compiere. Perchè sono sicuro di dargli un dispiacere. Ei non vorrebbe che si parlasse mai di Lui. Quale è la persona che non ha sentito parlare della modestia di Verdi?... Ma, a questo proposito, debbo fare una osservazione. Sono già parecchi anni che io studio la modestia degli uomini (colla modestia delle donne non ho mai scherzato!), e potrei raccontare molti aneddoti che mi hanno sempre confermato le diverse qualità di modestia. Ma mi fermerò ad uno solo, che mi serve precisamente alla dimostrazione che voglio fare. Un giorno del 1882 (anch'io comincio a citare epoche remote!) mi trovavo a Milano in casa del mio illustre maestro Amilcare Ponchielli, quando si presentò un giovane musicista che voleva sottoporre al giudizio del Maestro una sua composizione. Ponchielli non era punto di buon umore: afferrò sgarbatamente il fascicoletto che il giovane gli porgeva, e si mise a scorrerne le pagine, mugolando e borbottando. Il giovane musicista attese ansioso qualche minuto; e poi timidamente disse al Maestro: «Si tratta di un pezzetto senza importanza; una cosetta buttata giù alla meglio.» Ponchielli alzò la testa e, maltrattandosi terribilmente il pizzo caratteristico, si mise a gridare: «Ah, sì?... Si tratta di una cosetta?... Vuol fare il modesto forse?... E perchè è venuto a mostrarmi questo nonnulla?... I compositori debbono sempre aver fede nell'opera propria, e debbono sempre stimare capolavori le loro composizioni.... Io non amo la falsa modestia.» E riprese a sfogliare le pagine, mugolando e borbottando. Il giovane era rimasto stecchito. Dopo poco, Ponchielli rialzò la testa e parve rabbonito. Restituì il fascicolo all'autore, e gli disse quasi dolcemente: «Lei è modesto; ma il suo lavoro è più modesto di lei.» Il giovane se n'andò subito, profondendosi in inchini ed in ringraziamenti; e mi parve che avesse preso per un complimento l'ultima frase di Ponchielli. Per parte mia, da quel giorno, ho cercato tutti i modi per non essere modesto.... Ma, intanto, avevo potuto studiare questo caso di modestia che credo sia il più diffuso: un imbecille che fa il modesto davanti ad un uomo superiore, col solo fine di ottenere un elogio da lui, e di credersi, nella stupida vanità, a lui ed a tutti superiore. Guardiamo invece, per sommo contrasto, la modestia degli uomini veramente grandi, quella modestia che è il solo raggio che si possa aggiungere alla gloria! Verdi, togliendo anche di mezzo l'indole naturale, deve essere modesto per forza: perchè nessun inno di lode potrà destare in Lui il più piccolo sentimento di orgoglio: anche l'inno più grandioso sarà meschino agli occhi suoi. Come potrà mai sentire ricordata la sua vita gloriosa, come potrà mai sentire raccontati tutti i suoi trionfi, senza che la sua mente non veda impallidita dal ricordo quella vita da lui stesso vissuta, senza che il suo cuore non trovi rimpiccioliti dal racconto quei trionfi da lui stesso riportati? È facile, dunque, comprendere lo stato di inquietudine dell'animo mio in questo momento: al dubbio di riuscire gradito al colto pubblico va aggiunta la certezza di dispiacere a Verdi. A buon conto, gli ho chiesto perdono anticipatamente; ma non oso sperare di passarmela liscia. Me la potessi almeno cavare con una lavata di testa!... Oggi io non devo parlare genericamente di Giuseppe Verdi e di tutta la sua luminosa produzione: l'attuale conferenza è limitata da due date, che nell'arte del nostro Grande e nella storia della nostra Nazione rappresentano due epoche. Dal 1849 al 1861: quale stupendo periodo di arte e di patriottismo! E quale mirabile fusione di nobili sentimenti nella espressione dell'anima e del genio di Giuseppe Verdi! Nella visione subitanea dello svolgimento di tutto il periodo storico ed artistico, la mia mente, forse per effetto di costante ammirazione o forse per effetto di spontanea ispirazione, vedo tre punti capitali sui quali deve soffermarsi per la dimostrazione della sua idea. E questi tre punti si trovano: al principio, alla metà ed al termine del periodo, che ne resta interamente abbracciato e diviso con simmetria: per quanto, rispetto alla produzione di Verdi, il periodo abbia fine nel 1859. Primo punto, la _Battaglia di Legnano_ (27 gennaio 1849); secondo punto, i _Vespri Siciliani_ (18 giugno 1855); terzo punto, _Un Ballo in Maschera_ (17 febbraio 1859). Se l'idea di parlare primieramente e specialmente di queste tre opere può sembrare a prima vista strana o non giustificata, si pensi che devo occuparmi di un periodo della vita italiana tutto pieno di santo amor di patria: e si pensi all'influsso potente che la musica di Verdi seppe esercitare sopra ogni cuore italiano. Ho scelto i tre punti capitali perchè: il primo rappresenta tutta la trepidazione, tutta la commozione, tutto l'ardore di un popolo oppresso ed anelante alla redenzione; il secondo rappresenta il trionfo dell'arte italiana all'estero, anche esplicata in un soggetto glorioso per l'Italia e nefasto per il paese che lo domanda; il terzo rappresenta il supremo entusiasmo di una nazione intera, che, eccitata dal genio di Verdi, nel nome di Verdi combatte l'ultima battaglia e vince. Quando scoppiò la rivoluzione italiana del 48, Verdi era a Parigi; alle prime notizie della gloriosa insurrezione di Milano, il suo animo generoso non resse: e partì per l'Italia. Si fermò a Lione dove sapeva di trovare una lettera di un amico che gli doveva dire le ultime vicende della sua patria. Trovò, infatti, la lettera e conobbe il doloroso voltafaccia delle cose. Rattristato dalla delusione della sua fervida speranza di arrivare a Milano e salutare libera la città dei suoi primi successi, restò alcuni giorni a Lione; ed all'amico che gli aveva mandato la sciagurata notizia rispose semplicemente: «Spero che avrete fatto il vostro dovere.» Ma poi proseguì il viaggio; e giunse in patria per assistere al completo rovescio delle armi italiane. Col cuore sanguinante tornò a Parigi, mezzo ammalato e stanco. L'impresario Lumley di Londra venne ad offrirgli una generosissima scrittura che Verdi avrebbe accettato subitamente, se l'editore Lucca non glielo avesse impedito rammentandogli il suo obbligo contratto di scrivere un'altra opera, oltre «_I Masnadieri_» già eseguiti a Londra e con poca fortuna, il che veniva ad aumentare le esigenze dell'editore. (Sempre uguali in ogni tempo i nostri editori!). Allora Verdi, infastidito e stizzito, scrisse di mala voglia il _Corsaro_ sul libretto del Piave, poveramente tratto dall'omonimo poema del Byron; ed abbandonò la sua partitura senza nemmeno curarsi di sorvegliarne le prove. Il _Corsaro_ fu eseguito a Trieste e non piacque; e si accusò Verdi di voluta negligenza: mentre, da altra parte, con più giusto criterio si tenne conto del suo stato d'animo turbato dai dolori cui la patria soggiaceva. Forse c'entrava anche il dispetto verso l'editore; ma certamente il cuore del Maestro era tutto pieno di tristezza e di angoscia per la sventura italiana: e la mente sua non poteva trovare ispirazione in alcun soggetto, che non gli parlasse dello sconforto e della speranza del popolo d'Italia. Il sentimento patriottico, in quel momento, fu troppo più forte del sentimento artistico. Ed in quel momento il genio di Verdi fu pari al sentimento degl'Italiani; e non volle parlare che dell'Italia sua. E scrisse la _Battaglia di Legnano_. Io penso allo slancio infrenabile che avrà guidato Verdi all'inizio della sua nuova creazione; e penso all'ardore ed alla lena nella continuazione del lavoro; e penso alla forte commozione nel compimento dell'opera, che era la spontanea espressione del suo cuore d'italiano e che nei cuori italiani tanto entusiasmo doveva suscitare. Quel godimento che la folla prova davanti all'opera d'arte, quando l'arte è vera e sincera, è già stato provato a mille doppi dall'artista creatore, dall'artista che esprime il suo sentimento, tutto assorto nella interpretazione ideale, precisa e fedele. Ma l'opera d'arte deve essere il prodotto genuino dell'ispirazione, il frutto vergine del genio. Guai se l'artista si lascia vincere dallo scrupolo della teorica! L'opera sua non sarà più sincera. Il caldo paesaggio meridionale si cambierà in nordica e gelata regione. In arte, il genio è sole e la scienza è neve. Al solo ricordo del successo immenso, incredibile, che la _Battaglia di Legnano_ ebbe presso il pubblico di Roma, è facile immaginare con quale foga d'entusiasmo Verdi abbia compiuto l'opera sua. Si sapeva che l'opera aveva un soggetto patrio, d'indole guelfa; ed in quel momento di fermento politico non si domandava di meglio. Gli uomini si recarono al teatro con la coccarda tricolore sul petto, mentre le signore distendevano sui davanzali dei palchetti sciarpe e nastri tricolori. Fu un delirio! Si gridava insieme _Viva Verdi!_ e _Viva l'Italia!_ E tutti i cuori ebbero insieme ed ugualmente il ravvivamento delle speranze, il rigoglio dell'ardore, il presentimento della patria redenta. Verdi esultava già di quei pensieri quando scriveva l'opera. Ma la generazione d'oggi non conosce la _Battaglia di Legnano_; e non la stima, perchè legge nei libri che fu un'opera d'occasione, d'attualità; e che _soltanto il soggetto e la nota politica le diedero unanimità di suffragi ed apparenza di trionfo_, [come dice Anton Giulio Barrili]; e che _il successo del primo momento fu dovuto anzitutto alla sovraeccitazione degli animi_ come stampa il Pougin; e che _simile musica certo ha ben poco o nulla da vedere coll'arte_, come scrive Gino Monaldi. Certo, se oggi si parla d'occasione, si pensa subito all'inno scritto per l'inaugurazione di una qualsiasi esposizione di oggetti di guttaperca, e se si parla di attualità, si corre colla mente alle mazurke dedicate alla polvere dentifricia o al perfetto smacchiatore. Ma allora, nel 1849, l'occasione e l'attualità rappresentavano qualche cosa di ben differente. E Verdi non era stato invitato a scrivere la sua opera da nessuna commissione di futuri cavalieri o commendatori. Aveva spontaneamente dato alla patria l'opera del suo genio e della sua anima. Guardiamo come ne scriveva allora il Basevi: «Al Verdi, che dal 1842 in poi regna solo in Italia, ben s'addice il nome di rappresentante del gusto musicale del suo tempo. Come tale egli doveva scrivere un'opera corrispondente al nuovo stato degli animi nell'anno 1848. E così fece.... Erano i travagli dell'Italia giunti vicino al loro nodo, quando nel gennaio 1849 fu posta sulle scene in Roma la _Battaglia di Legnano_.» E guardiamo quello che ne diceva il _Pallade_, giornale di Roma, il 27 gennaio 1849, poche ore avanti della prima rappresentazione: «La musica, se per lo innanzi, schiava di errati precetti, non valse che a deliziare mollemente gli esterni sentimenti dell'uomo; oggi ne rischiara e ne sublima gl'intelletti; e vestendo più robuste armonie, apprestasi anch'ella ad innestare la sua gemma sulla corona della patria. Non invano dunque il Verdi imprendeva a celebrare la famosa Lega Lombarda, col titolo: _La Battaglia di Legnano_. Lombardo quale egli è, offre con la penna il tributo che non potrebbe colla spada alla sua patria infelicissima, affinchè dalle ricordanze delle glorie passate prenda ella ristoro delle sventure presenti e presagio dei trionfi avvenire.» E lo stesso giornale _Pallade_ aggiungeva dopo la prima rappresentazione, il 29 gennaio: «Il «Verdi in questo suo lavoro ha levato il volo alla sublimità. Lungi dall'obbedire alle antiche leggi convenzionali, egli ha sentito che il suo spirito aveva bisogno di libertà, come l'Italia d'indipendenza.» E più sotto continuava: «Questa Italia oggi ha luogo di attingere dalla severità e robustezza di quest'ultimo patriottico lavoro quell'ardente scintilla che valga a ridestare e spandere il nazionale ordinamento.» Ecco quello che si pensava nel 1849 della _Battaglia di Legnano_! Se oggi, dopo più di cinquant'anni questa musica appare invecchiata agli occhi volubili della critica moderna, non si abbia il facile coraggio di condannarla; ma si pensi che, ai suoi tempi, seppe infondere tanto ardore nei petti degli italiani, e contribuì non poco alla redenzione della patria. Da qui a cinquant'anni non si parlerà nemmeno di tanta musica che ai giorni nostri pare dedicata dall'ebetismo moderno al godimento inesauribile dei sensi superficiali; o se ne parlerà come una delle cause dell'assopimento intellettuale, dell'impoverimento del sangue e dello snervamento della generazione futura. La _Battaglia di Legnano_, in ogni modo, attraverserà il corso dei secoli legata strettamente all'epopea famosa che preparò e compi l'unità d'Italia. E venga pure il critico supino a dirci che quella musica _ha poco o nulla da vedere coll'arte_! Altro che arte! Arte prodigiosa! Arte che ha servito all'interesse comune ed alla gloria della Nazione!... Ma chi m'intende, oggi che l'artista cerca soltanto di curare il proprio interesse.... e quello del suo editore?... Oh, quanto riusciamo meschini dal confronto dei tempi! Ecco: oggi stesso, a Parigi, si inaugura la nuova grande Esposizione Universale! Da oltre un anno, in Italia si è lavorato con grande attività per trovare il modo di far figurare degnamente la musica del nostro paese nella capitale della Francia ed al cospetto di tutte le nazioni del Mondo. Si è pensato a grandiose riproduzioni dei nostri capolavori melodrammatici; ed al proposito il Panzacchi scrisse alcuni articoli nobilissimi; si è tentato di presentare i nostri migliori artisti della scena; si è escogitato ogni mezzo per mandare a Parigi almeno le nostre buone orchestre; ma a nulla sono riusciti Ministri, Sotto Ministri, Commissioni e Sotto Commissioni. Si è detto che il Governo non può spendere, e chi vuole vada a spese sue. E fino a questo punto, logicamente, può andare anche bene; perchè la finanza dello Stato non ha mai fatto, o non ha potuto fare, troppe concessioni all'arte nazionale, ed in special modo alla musica. Ma la Francia non ha domandato nulla alla Nazione sorella?... Nel pensiero di offrire ai visitatori d'ogni paese un magnifico spettacolo musicale, non si è ricordata dell'arte italiana? Sono ingenuo, forse, nelle mie interrogazioni; perchè tutti pensano che la Francia ha compositori, artisti ed orchestre da vendere, e non sente alcun bisogno di noi. Ma è qui appunto il mio grande sconforto. Anche nel 1855 la Francia aveva Auber, Halévy e Berlioz; ma nell'occasione della Esposizione Universale di quell'anno, volendo offrire al mondo la primizia di un'opera nuova sulle scene del suo massimo teatro lirico, si rivolse all'Italia, a Giuseppe Verdi. Oh, il disgraziato confronto come sgomenta il cuore! Ed immagino il dolore grande di Verdi che, alla distanza di quarantacinque anni, ancora vivo e sano, oggi penserà mestamente alla differenza dei tempi e degli uomini. Facciamo anche noi quello che in questo momento farà Verdi colla sua grande mente: abbandoniamo l'istante che ci rattrista, per ritornare al momento solenne nel quale Giuseppe Verdi consacrava il trionfo dell'arte italiana in faccia a tutti i popoli. E sono al secondo punto capitale del periodo storico. Invitato a scrivere un'opera per l'occasione della grande Esposizione Universale del 1855 a Parigi, Verdi accettò l'incarico; e si mise subito d'accordo coi suoi librettisti prestabiliti, per la scelta del soggetto. Al giorno d'oggi chiunque avrebbe approfittato del favorevole contrattempo per rendere il più alto omaggio alla nazione ospitale, scegliendo con ogni cura il più adatto dei soggetti. Ed io conosco qualcuno che, pure in circostanza ben dissimile e punto solenne, sta sobbarcando la propria fantasia all'apoteosi cortigiana dello straniero. Invece Verdi, anche nella maestosità di quel momento, non seppe tradire il suo sentimento e le sue aspirazioni; non seppe dimenticare la Patria Santa a cui l'arte sua pareva interamente dedicata; e scelse il soggetto dei _Vespri Siciliani_. Oggi, più che allora, si può ammirare la temerarietà di Verdi che volle avventurare in estraneo suolo l'opera sua che inneggiava alla gloria del suo paese, addolorando il popolo che l'ospitava. E non so che cosa debba maggiormente ammirarsi in Verdi se l'amore per la patria, immenso ed infrenabile, o la coscienza della forza del proprio genio. Quando nel 1282 Giovanni da Procida intuonò colle armi i _Vespri_ famosi, fu un pianto solo di rabbia e di dolore per tutta la Francia. Ma quando nella stessa Francia Giuseppe Verdi, nel 1855, intuonò coll'arte sua divina i _Vespri_ suoi, fu un grido d'esultanza per tutta la Nazione; fu un inno d'entusiasmo per l'arte italiana. L'arte di Verdi si era superbamente imposta, vincendo tutti gli scrupoli della storia e della politica. Io fremo d'orgoglio e di gioia al pensiero di tanta altezza d'ideale, sognata e raggiunta dalla potenza del genio d'Italia. E guardo disperato al vuoto che oggi ne circonda. L'Esposizione Universale di Parigi del 1855 diede all'arte italiana l'alloro prezioso del suo maggiore trionfo; l'Esposizione Universale di Parigi del 1900 lascia oggi l'arte italiana a divorarsi da sè stessa, accasciata nei suoi confini, intisichita dagli stravizi immondi. E Verdi è ancora vivo.... e vede.... e rammenta.... e soffre più di noi!... Entro nell'ultima fase del periodo storico. _Un ballo in Maschera!_ Qui non abbiamo affatto il soggetto patriottico che incita all'entusiasmo gli animi della folla; non abbiamo affatto l'opera di occasione e di attualità; eppure nessun lavoro di Verdi ha avuto tanta influenza sui destini della patria quanto _Un ballo in Maschera_. La sola creazione intrinseca del genio di Verdi seppe compire il prodigio. Il pubblico, nella grande commozione del successo rimasto memorabile, ebbe la visione di tutto il decennio trascorso fra i dolori e le ansie; rivide la figura del Maestro combattente per la Patria colle armi dell'arte e della gloria; sentì risuonare ancora quei canti popolari che avevano sollevato d'esultanza ogni petto: comprese che la luce, appena intravveduta sull'orizzonte dei sogni, annunziava la vera aurora del sole della libertà. La musica di Verdi parlò ancora una volta al cuore ardente e generoso del popolo d'Italia. Ed il popolo d'Italia intese quella voce; e l'intese sinceramente e grandemente nella pura espressione del suo linguaggio sublime. Nessun concorso di elementi estranei in quella musica appassionata ed affascinante. Il solo genio creatore di Verdi, ritraendo mirabilmente gl'impulsi del suo cuore, fece scattare il pubblico in una esplosione spontanea d'entusiasmo. Ed anche allora mille voci commosse ed esultanti gridarono insieme: _Viva Verdi!_ Ma non era più soltanto il grido di plauso all'autore fortunato e prediletto; non era più la semplice acclamazione all'opera stupenda; non era più la sola esaltazione dell'arte nostra: era il grido del popolo chiamato alla riscossa; era il saluto solenne e vigoroso al precursore della redenzione nazionale; era l'inno vittorioso della folla risvegliata dalla grande luce della libertà! «_Viva Verdi!_» Fu il grido che partì da Roma il 17 febbraio del '59 e che si ripercosse in tutte le parti dell'Italia, ingigantito dall'eco. Ed a quel grido immenso che erompeva dai petti animosi di tutti gli italiani, fu compiuta la unità della Patria. _Viva V. E. R. D. I.! Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia!_ Che sia benedetto il fato! Ma le glorie di Verdi, in quel periodo epico della vita italiana, furono molte al di fuori delle tre che ho tentato di illustrare. Dal 1849 al 1859 Verdi scrisse dieci opere, compreso l'_Aroldo_, che non è che lo _Stiffelio_ riformato su nuovo libretto. E nelle dieci opere figurano quei quattro capolavori ormai consacrati alla storia immortale dell'arte dall'entusiasmo popolare di tutto il mondo: _Rigoletto_, _Trovatore_, _Traviata_ e _Ballo in Maschera_. Nessuna musica al mondo più di quella di Verdi ha mai destato interesse e passione negli animi; e specialmente parlando delle quattro opere famose. Ci sarebbe da scrivere interi volumi, se si volessero raccogliere tutti gli episodii di esagerato entusiasmo provocato dalla musica di Verdi; e si potrebbe cominciare dall'aneddoto di quell'ufficiale che, assistendo da un palco di quint'ordine ad una rappresentazione della _Battaglia di Legnano_, fu invaso da tale strano fanatismo che, urlando come un ossesso, gettò in platea e sul palcoscenico, sciabola, spalline, cappotto e tutte le seggiole del suo palchetto; e stava per buttarsi lui stesso di sotto, quando fu agguantato miracolosamente e fu portato fuori del teatro. Si disse, allora, che l'ufficiale era briaco; ma io non ci ho mai creduto. Parecchi anni fa ero a Firenze; ed una notte, quando tornavo all'albergo, m'imbattei in una comitiva di cinque o sei giovanotti, che si erano fermati in mezzo alla strada e discutevano animatamente ed a gran voce. Sentii subito che parlavano di musica; e mi fermai cercando di afferrare il senso della loro discussione. Ma i giovanotti si mossero per fermarsi di nuovo dopo una trentina di passi: e rinnovarono questa manovra parecchie volte, ad intervalli che mi parvero perfettamente uguali. Io seguivo costantemente tutte le mosse della comitiva, rimanendo sempre ad una discreta distanza, che mi permetteva di non perdere una sillaba della vivace conversazione. La disputa era accesa fra due soli della compagnia, e si dibatteva intorno alle opere di Verdi. L'uno dei due sosteneva a spada tratta il _Rigoletto_ come l'opera più perfetta della produzione verdiana; mentre l'altro urlava che il _Trovatore_ poteva comprare tutte le opere di questo mondo, messe insieme. Il resto della comitiva non prendeva parte alla discussione, ma ascoltava attentamente e con grande interesse. Io, dapprima, cominciai per divertirmi a quella scena nuova e caratteristica: ma poi, a poco a poco, involontariamente mi sentii afferrato anch'io dall'interesse della disputa e dalla foga dei due contendenti; ed anche, se vogliamo, dalla logica delle ragioni addotte per convincersi l'un l'altro da quegli scatenati, che avevano perduto il sangue freddo prima del senso comune. (Cosa che non accade tutti i giorni!) Altro che la convinzione del critico! Altro che l'eloquenza del conferenziere! Non sentirò mai, in vita mia, una cosa simile. Oramai il mio spirito era interamente conquistato. Dimenticai le ore piccine, non badai al frescolino pungente della notte, non pensai più al povero portinaio dell'albergo che mi aspettava; e rimasi ad ascoltare avidamente. La disputa, intanto, si accalorava sempre più; e, ad un certo punto, entrò in una fase impreveduta e singolarissima. I due giovanotti, non potendo convincersi a vicenda a furia di parole, cominciarono a cantare a squarciagola i pezzi più salienti dell'opera rispettivamente preferita. (Si concessero la prova di fatto, direbbe un pretore). Non scorderò mai l'effetto di quel duello in musica. Peccato che non si possa ridire! Gridava l'uno: «Ma dove mi vuoi trovare una melodia più toccante di _tutte le feste al tempio_?» E si metteva a cantare il motivo. E l'altro subito replicava: «E dove metti _ai nostri monti ritorneremo_?» E giù, a cantare anche lui. Ed il primo a riprendere: «Tu parli della popolarità del _Trovatore_, come se nel _Rigoletto_ non ci fosse, _la donna è mobile_.» E l'altro: «La vorresti forse mettere al confronto del _di quella pira_?» E le due voci s'inalzavano accanite nell'aria fredda della notte, volendosi ormai fare ragione colla forza. Dal gruppo della comitiva, ad un tratto, si allontanò per poco uno dei giovanotti che circondavano i due inferociti rivali: era senza dubbio un dissidente, perchè sentii che cantava a mezza voce l'_eri tu che macchiavi_. Ma gli urli dei due eroi della questione si erano già resi insopportabili. Io non capivo più nulla: era una scena infernale, un vero finimondo! Sentivo sbraitare i _Cortigiani vil razza dannata_! per tener testa a _quell'infame l'amore ha venduto_; e stentavo a riconoscere la _bella figlia dell'amore_ confusa e imbrogliata coll'_Ah, sì! ben mio coll'essere!_ a tale altezza di tonalità da far venire le vertigini. La scena non poteva durare più a lungo. Ed infatti i contendenti vennero presto alle mani; ed alle _cavatine_ e ai _si bemolli_ fecero succedere una vera grandine di schiaffi e di pugni. Gli amici durarono non poca fatica a dividere i focosi pugillatori; e per calmarli del tutto ci volle la voce del saggio della Compagnia che li ammonì con poche parole che, a quell'ora ed in quel luogo, mi parvero una profezia: «Cosa andate a guastarvi il sangue col _Rigoletto_ e il _Trovatore_, quando, come niente, domani Verdi viene fuori con un'opera nuova che si mangia in insalata tutte quelle che esistono?!» Nessuno parlò più; e la comitiva si allontanò lentamente nella notte silenziosa. Ancora attonito per la scena nuovissima a cui avevo assistito, seguii collo sguardo quei bravi giovanotti che si dileguavano nel buio della strada; e posso assicurare che nessuno di loro era briaco.... neppure il dissidente. Ebbene: io sono convinto che, oggi, soltanto dopo un simile spettacolo si può avere un'idea dell'impressione che quella musica di Verdi destava nel pubblico ai suoi tempi. Come si può comprendere oggi il primo entusiasmo della _Battaglia di Legnano_ e l'estrema commozione del _Ballo in Maschera_? Oggi si vuol far credere che l'arte non è più popolare; e si parla di arte aristocratica, di arte coi guanti.... Coi guanti sì! Ma guanti di lana e ben grossi, perchè oggi l'arte è diventata fredda! Nei teatri d'oggi si attaccano ai muri delle striscie di carta colla scritta: _Si prega di non applaudire durante gli atti._ Come se l'applauso fosse una volontaria manifestazione di cortesia. Avrei voluto vedere il resultato pratico di quegli avvisi alla prima rappresentazione del _Rigoletto_! Io intanto ho già ritirato dallo stampatore i cartellini che farò affiggere in teatro la sera della prima rappresentazione della mia nuova opera, e che portano la scritta: _Si prega di non fischiare durante gli atti._ E non potrò essere modesto neppure allora, perchè sarò semplicemente sincero. Voglio sperare che nessuna persona dell'uditorio così gentile si maraviglierà del fatto che nella mia conferenza io non abbia nemmeno accennato ad un tentativo di analisi delle opere di Verdi; ed anzi credo fermamente che tutti avrebbero deplorato un simile proposito da parte mia. La musica di Verdi è troppo superiore a qualunque analisi, perchè tutta insieme sa troppo bene parlare alle fibre del nostro cuore. È musica fatta di genio e di intimo sentimento. Ma, anche volendolo, che cosa avrei potuto dire di Verdi, che non fosse già noto a tutti gli ascoltatori? Si voleva conoscere, forse, il mio giudizio sulle sue opere? E che cosa vale il mio giudizio più di quello di qualunque altra persona?... Domandatelo, dunque, ad altri; domandatelo a voi stessi. Il giudizio su Verdi sarà sempre uguale presso tutte le genti che hanno un po' di cuore nel petto. Si voleva forse che io analizzassi la produzione di Verdi dal lato della struttura, della costruzione, della matematica? A parte l'irriverenza imperdonabile che avrei commesso, sarei stato nel caso di dire solamente che Verdi, fino dalle prime sue opere, fu sempre artefice sommo. E tutti avrebbero riso della mia grande scoperta... e della mia grande ingenuità. E allora? Forse si aspettava da me una conferenza a base di aneddoti? Ma, Dio mio, degli aneddoti della vita di Verdi sono stati empiti giornali, opuscoli e libri interi. Ed io non mi sarei mai sentito il coraggio d'inventarne di nuovi. O mi si chiedeva un saggio di polemica coi detrattori del genio di Verdi?... Ma dove avrei potuto scavare i detrattori?... L'arte di Verdi non può avere che ammiratori. Non si tiri in ballo la critica d'un tempo crudamente ostile alle opere del Maestro; o la si porti ad esempio magnifico di avversari leali, accaniti nel giudicare l'opera del genio alla stregua delle cifre e dei sistemi; e vinti, alla fine, quando dalla loro mente cocciuta la potenza di quella musica potè scendere nel loro cuore. L'arte di Verdi non ha che ammiratori, come il suo nome e la persona sua raccolgono l'affetto e la reverenza di tre generazioni sparse su tutto il mondo civile, dai nonni ai nepoti, dai ricchi ai poveri, dai regnanti ai plebei. Io, qui, non ho voluto che tratteggiare la figura di Verdi in quel periodo della vita italiana che fu così denso di gioie e di dolori, di speranze e di delusioni; ed ho voluto dimostrare quanto spontanea e grande fu l'influenza della sua musica su tutti gli avvenimenti di quegli anni di trepidazione, dalle prime aspirazioni all'ultimo trionfo. Perciò mi sono fermato sopra tre punti, che ho stimato capitali in riguardo alle opere di Verdi ed anche rispetto al periodo storico. Non ho parlato delle altre opere comprese nel periodo, perchè esse, da sè sole, parlano tanto eloquentemente ai nostri cuori. Però, se vi accade d'incontrare in qualche libro alcuna allusione alla lotta del melodramma fra l'Italia e la Germania, pensate subito che Verdi da più di sessant'anni combatte sul teatro italiano, regalando alla patria allori innumeri di gloria e trofei superbi di vittoria; e pensate che nessuna arme dei trofei, nessuna foglia degli allori sarà giammai toccata, fino a quando l'opera di Verdi vivrà nei cuori degli italiani, e fino a quando nel nome di Verdi le nuove generazioni continueranno la marcia trionfale per la strada maestosa tracciata dal genio dell'Italia. E se vi viene fatto di leggere in qualche altro libro che certa musica di Verdi è barocca, ordinaria, forse triviale, pensate semplicemente che a chi giudica in modo simile manca del tutto ogni cognizione morale del sentimento del popolo ed ogni fibra di patriottismo. E ancora: se trovate chi scrive che Verdi non è un vero genio originale e creatore, ma è un grande assimilatore del suo talento alla corrente delle varie epoche vissute; pensate che il critico si è alzato tardi ed ha trovato Verdi già in piedi. Pensate che dal pregio più raro si è voluto trarre fuori il difetto più volgare. Per certa gente corta di vista, ed alla quale restano eternamente occulte le lontananze ardite, tanto nello spazio del passato come in quello dell'avvenire, la musica di Verdi segue i tempi; e certa gente non sa e non potrà mai sapere quale invece sia stato lo sviluppo dato al dramma lirico italiano da tutta la grande produzione di Verdi, seminata con germe fecondo per tutto il lungo cammino di oltre sessant'anni. E crede di potere giudicare tutta quella immensa produzione riunendola oggi in un solo fascio e mettendola sotto una sola luce. No! per giudicarla, bisogna distenderla di nuovo lungo tutta la strada maestra, sulla quale ha lasciato i segni miliari nel suo passaggio glorioso. Abbiamo già veduto se l'arte di Verdi seguiva i tempi nel 1849, nel 1855 e nel 1859. E li seguiva, forse prima coi _Lombardi_ e coll'_Ernani_? E li seguiva col _Rigoletto_ e colla _Traviata_? E li seguiva poi coll'_Aida_, coll'_Otello_, col _Falstaff_?... L'arte di Verdi ha potuto, per una benedetta eccezione della natura, esplicarsi in uno spazio di tempo grandissimo; e, attraverso al rinnovellamento delle generazioni e dei governi, ha potuto, gradatamente e continuamente battere il passo alla imponente evoluzione musicale del secolo decimonono, tracciando quella strada superba dalla quale l'arte nazionale non dovrebbe mai allontanarsi. Verdi è stato l'assiduo precursore d'ogni progresso, d'ogni conquista del melodramma italiano, come fu il precursore vittorioso della redenzione della Patria. E voglia il cielo che Verdi sia ancora il precursore invocato, che ci additi i nuovi ideali da conquistare nel secolo nuovo! È il migliore augurio per l'arte e per l'Italia. IL RISVEGLIO DEGLI STUDI DELL'ANTICHITÀ CLASSICA. CONFERENZA DI GIROLAMO VITELLI. _Signore e Signori,_ Non è mio costume eludere con sottili accorgimenti le difficoltà di quel che imprendo a fare, ovvero liberarmi con disinvoltura dalle responsabilità che mi toccano; e se veramente fossi responsabile della conferenza, che vi toccherà udire, saprei anche addossarmi la responsabilità che me ne verrebbe, e chiedere umilmente perdono di avervi ingannato con un titolo pomposo e di disilludervi ora con un discorso, a dir poco, troppo modesto; ma la mia generosità non arriva a tanto da rispondere di colpe così gravi, quando non sono colpe mie. Sarò generoso soltanto in questo, che non vi mostrerò a dito il colpevole, quantunque io lo veda sorridere maliziosamente fra i miei gentili ascoltatori. Lo conferenze a cui avete assistito finora, e quelle che ascolterete in questa sala in quest'anno, tutte più meno si sono contenute e si conterranno nel limite cronologico del periodo eroico del nostro risorgimento nazionale, suppergiù dal 1848 al 1860. Ora, che cosa dovrei io dirvi del risveglio degli studi classici in così ristretto periodo di tempo, quando ai nostri migliori ben altre cure incombevano che non fossero quelle di interpretare Cicerone od Omero? Dovrei forse ricordarvi e spiegarvi quanta ragione avessero i nostri giovani di lasciare in seconda e terza linea gli studi che immediatamente non avrebbero per nulla giovato alla indipendenza, alla libertà, all'unità della patria nostra? Dovrei dirvi, in somma, che risveglio di studi classici non vi fu allora, nè vi poteva essere, nè vi doveva essere; o forse dovrei mettermi alla faticosa ricerca di quei quattro o cinque solitari illustri che, pure accompagnando col pensiero e coi voti l'èra nuova, ingannavano le ansie delle aspettazioni, investigando alla «fioca lucerna» d'una modesta stanza di lavoro le costituzioni, la lingua, la civiltà dei nostri padri antichi? Altri da codesto vivo contrasto di operosità politica e di studi tranquilli saprebbe trarre eloquentemente partito, lo riuscirei soltanto a dimostrarvi quello che già sapete, che una rondine non fa primavera, che un illustre epigrafista, un valoroso interprete di Tucidide, un geniale investigatore di memorie antiche può lasciare orme indelebili del suo ingegno e della sua dottrina nella storia della scienza, ma non per questo la nazione a cui egli appartiene e il popolo in cui egli vive possono e debbono esser considerati come coefficenti e fattori di progresso scientifico. Voi non ignorate qual tesoro di dottrina e di genialità filologica possedesse il poeta dell'Ultimo canto di Saffo e della Ginestra; sapete anche però che non soltanto nel «natìo borgo selvaggio,» ma neppur nei grandi centri di cultura italiana quell'ingegno e quel sapere trovarono eco. Fu miracolo che alcuni dei nostri migliori, e sia gloria a Pietro Giordani, se ne accorgessero; e vi fu bisogno che dotti stranieri rivelassero all'Italia Leopardi filologo. Sempre nella prima metà di questo secolo che muore, e che alcuni a dispetto di ogni aritmetica hanno già seppellito, un miracolo di dottrina epigrafica e storica, Bartolommeo Borghesi, era noto ai suoi concittadini come colui che religiosamente ascoltava la messa tutte le feste comandate; ma essi non sapevano che il suo libro di devozione erano gli Annali di Tacito! Conoscemmo il Borghesi in tutta la sua grandezza, quando Teodoro Mommsen lo proclamò suo maestro, e Napoleone III ne ordinò a spese della Francia la ripubblicazione delle opere preziose. Ma io corro pericolo che alcuno di Voi mi creda calunniatore del mio paese. Tante e tante volte da persone, o per merito proprio o per dignità raggiunta autorevoli, Voi sentiste dire invece che negli ultimi quarant'anni di vita italiana, era venuta ad affievolirsi miseramente quella scienza e cultura classica che era stata vanto dei padri e degli avi nostri. Non io vorrò ridurre tutte queste affermazioni a vane querimonie di venerandi vegliardi, cui l'età rende inesorabili _laudatores_ del passato. Vi dirò, invece, che c'è qualche cosa di vero in questo lamento, in questo confronto non vantaggioso per l'età nostra, in questo biasimo severo contro la superficialità moderna; ma perchè si possa riconoscere nei giusti limiti questa parte di vero e convincersi nonostante che, se di risveglio di studî classici dovremo parlare, ci converrà appunto cercarne le tracce in questi ultimi decennii, è indispensabile premettere alcune considerazioni generiche un tantino noiose, che ci rendano possibile distinguere tendenze e fatti che generalmente si sogliono confondere. La storia dell'antichità romana è storia della patria nostra, storia dei nostri diretti progenitori; e poichè questi nostri antenati, orgogliosi e fieri conquistatori e reggitori del mondo, non disdegnarono assimilarsi la cultura, la scienza, la poesia del popolo ellenico, creatore di quella civiltà che sarà poi detta europea, anche la storia dell'antichità greca vi si connette indissolubilmente. Non è meraviglia perciò che, diradate appena le tenebre più o meno dense della barbarie medioevale, appunto in Italia cominciasse e splendidamente cominciasse l'ammirazione per la forma e la sostanza della civiltà antica, il desiderio ardente che in quelle forme brillasse anche una volta il genio della nostra razza. Firenze fu il cuore d'Italia in tutto quello splendido periodo di operosa ammirazione ed imitazione dell'antichità. Ai poeti, agli artisti, agli uomini di Stato, agli eruditi, ai banchieri, ai mercanti fiorentini, mette capo in massima parte quel complesso mirabile di fatti, di aspirazioni, di vita nuova, che sogliamo chiamare «rinascimento». Può darsi, è certo anzi, che un così grandioso movimento fosse utopista nelle sue ultime tendenze finali; altrettanto certo è che in quella eccitazione di spiriti, come indubbiamente ebbe a soffrire la compagine morale del nostro carattere, così si ritemprò mirabilmente il nostro carattere artistico, e fummo per secoli i primi artisti del mondo. Ma io non ho nè volontà nè scienza per trattare, e tanto meno per risolvere problemi storici di tal natura. Ho voluto semplicemente indicare quanto natural cosa fosse che in Italia gli studi della antichità classica avessero in origine scopi e tendenze di ritorno anacronistico alla civiltà, alla lingua, alla letteratura, alla vita dei Greci e dei Romani. Basterà, del resto, dare uno sguardo, sia pure fugace, a quello che in fatto di lingua e di letteratura avviene in Grecia sotto i nostri occhi. I discendenti di Temistocle e di Aristide, ridonati dopo lunga servitù a libera vita, vogliono attestare colla lingua e colle lettere la loro discendenza; e noi assistiamo attoniti ad un tentativo, che non possiamo dir sano, di sopprimere una lingua viva e vivace, che ha la sua ragione di essere nella storia dieci volte secolare del popolo che la parla, per sostituirvi artificialmente la lingua di Demostene e di Senofonte, parole, forme e costrutti morti e seppelliti da migliaia di anni. Ebbene, in altri tempi noi abbiamo accarezzata una utopia analoga, in forma, se si vuole, senza confronto più grandiosa, più artistica, più bella; ma per diversità che ci fossero nel resto, il motivo psicologico non differiva gran fatto. Oggi questa tendenza anacronistica della riproduzione artificiale della vita antica è, altrettanto naturalmente, scomparsa quasi del tutto. Innocui esempi, e solo nel campo delle lettere, rimangono le epigrafi latine, i versi greci e latini; questi noi ammiriamo soltanto come attestazione di versatilità d'ingegno, di amoroso studio dei capolavori classici, di squisitezza di gusto, ma nè autori ne ammiratoli pensano o sognano che si arricchisca così il tesoro della nostra lingua, della letteratura nostra. Ora, si pensi quello che si voglia del valore oggettivo della evoluzione umanistica dal trecento al cinquecento, rimarrà in ogni modo gloria imperitura dell'Italia l'aver conservato, trasmesso, arricchito, raccomandato ai posteri il patrimonio intellettuale ed artistico dell'antichità classica, patrimonio che è diventato il fondamento più saldo, direi quasi la chiave di vôlta del grandioso edifizio a cui diamo il nome di civiltà moderna. Ma sarebbe anche falso affermare che l'umanesimo italiano non si liberasse e non sapesse liberarsi dal concetto in apparenza grandioso, e in realtà meschinamente unilaterale, della riproduzione artificiale; poichè dall'Italia stessa partì anche il doppio e fecondo concetto dell'antichità classica come vivificatrice delle nostre lettere, della nostra arte, del nostro vivere civile, e dell'antichità classica come argomento di studio indipendente da ogni determinata tendenza pratica, di studio a sè e per sè, di studio seriamente e scientificamente oggettivo. Dato e non concesso che altri possa non rilevare queste benemerenze dell'Italia nostra, non posso nè debbo non rilevarle io: io ospite grato, e speriamo anche non sgradito, di questa Firenze dove fino dal XVI secolo si ebbe fiorentissima una scuola di filologia classica, maestro sommo e venerato Pier Vettori. Per venticinque anni dalla cattedra, nelle conversazioni, nei privati colloqui ho esortato, sarei per dire con fervore apostolico, i giovani fiorentini a scrivere, dopo pazienti ricerche, un libro geniale che riportasse dinanzi al nostro pensiero viva l'immagine di quell'uomo, di quella scuola, di quei giovani ammiratori non meno della vita integerrima del maestro, che della scienza di lui; un libro geniale che dimostrasse, anche a quelli di noi che non vogliono intenderlo, come in tanto rinnovamento di scienza e di metodi la filologia del nostro tempo è pur sempre quella del celebrato fiorentino; un libro geniale, insomma, che sfatasse una buona volta la vieta leggenda, per cui continuatori dell'opera dei nostri grandi eruditi pretesero, e forse pretendono ancora, chiamarsi i rètori inverniciati di frasi greche e latine, gli arcadi della filologia che fecero sparire il nome italiano dal libro d'oro della scienza dell'antichità classica. Mi duole confessarlo, ma il mio fervido apostolato non ha avuto efficacia se non sulla tranquilla fantasia di un giovane tedesco di Francoforte, che, se non altro, ha raccolto e pubblicato utili materiali di studio sul nostro grande filologo. Non dirò già che ai giovani fiorentini non garbasse scrivere un libro geniale; dirò piuttosto che hanno sdegnato le lunghe, difficili e pazienti ricerche, senza le quali i libri geniali non si scrivono. In Italia, dunque, si ebbe abbastanza presto l'intuizione sicura dell'importanza grandissima degli studî classici, sia come sano e nutritivo elemento dello spirito moderno nella letteratura e nell'arte, nella politica e nella scienza, sia come oggettiva e serena investigazione storica. Porterei vasi a Samo e nottole ad Atene, se credessi necessario dichiarare con esempi la mia affermazione rispetto all'indirizzo che dirò imitativo del classicismo italiano, sebbene la parola imitazione non risponda adeguatamente al concetto. Tutta la nostra letteratura, per non dire altro, ebbe vital nutrimento dell'antichità classica; e se i meno dotati d'ingegno riuscirono spesso gretti imitatori, il genio dei nostri grandi seppe anche derivare dalle fonti classiche, forme d'arte meravigliosamente originali nella grandiosità della composizione, nella plasticità delle immagini, nel colorito smagliante della elocuzione e dello stile. A porre in luce meridiana questo benefico influsso del genio antico sulla poesia e sulla letteratura nostra, molto prima che cominciasse l'affannosa e febbrile investigazione delle memorie classiche, provvide il poeta fiorentino che è gloria del mondo, il poeta di cui aumenta la gloria quanto maggiore è la cura con cui si rintracciano le fonti classiche, non del «bello stile» soltanto «che gli ha fatto onore», ma di ogni sua più mirabile concezione poetica. E se a qualche cosa, Signore e Signori, la storia vale, essa dovrà valere indubbiamente a farvi diffidare di una certa moderna dialettica che si affatica a dimostrare spezzato ogni legame tra lo spirito dei tempi nuovi e la vita antica. Manca a me ingegno e dottrina per sottoporre a serio esame questi aforismi modernissimi nel campo della scienza, della morale, della religione. Ma quale è, di grazia, quale è la forma moderna d'arte che non abbia radice, e radice tuttora vegeta, nella fantasia divina dei Greci? Quale è, di grazia, il gran concetto giuridico moderno che non sia vivace rampollo dell'albero maestoso del giure romano? A qual mai progresso intellettuale o morale la sete del sapere degli Elleni e il senno pratico dei romani furono di ostacolo? Non attribuiamo, per carità, gli errori, la gretteria, la pedanteria di alcuni ammiratori dell'antichità agli spiriti magni della antichità stessa, anzi al genio riformatore di quei due popoli privilegiati. Io auguro, dunque, al mio paese, che ancora per lunga serie di secoli i suoi poeti e i suoi dotti giureconsulti, gli scenziati e gli artisti nel più lato senso della parola, ricorrano incessantemente a ritemprarsi lena e vena nella scienza e nell'arte antica, nella rigogliosa umanità antica; e sappiano farlo non meno bene di quanti da barbari in grazia di essa divennero civili, e la energia nativa correggendo su quei sacri modelli, divennero essi stessi modello di operosità feconda a noi, che beatamente ci adagiammo nella persuasione che i nostri avi avessero già fatto abbastanza per sè e per noi! Col nobile intento di richiamare gli italiani alla cultura classica, ha da pochi anni vita in Firenze una Società che tutte le persone colte dovrebbero desiderare prospera, efficace, nè dovrebbe il desiderio rimanere soltanto platonico. Solo per opera di una grande società siffatta si potrà sottrarre l'indirizzo della educazione e della cultura italiana all'aura mutevole e capricciosa delle assemblee politiche e dei gabinetti dei ministri. E non soggiungo altro, poichè non può essere oggi mio intendimento consumare il tempo, di cui per cortesia vostra dispongo, in argomenti abbastanza estranei a quello che debbo trattare: giacchè io credo di dovervi parlare soprattutto della scienza dell'antichità classica come disciplina a sè, abbia o non abbia stretta attinenza colla cultura generale italiana. Ma, sarebbe vano negarlo, anche questa scienza in tanto può fiorire in qualsivoglia nazione del mondo, in quanto tra quella nazione è larga ed estesa la cultura generale donde la scienza muove. Anche qui la storia viene in nostro aiuto a farci toccare con mano che ogni grande e vero progresso della scienza dell'antichità classica si è verificato appunto dove e quando la cultura generale classica fu più estesa e più intensa; e viceversa dovunque il classicismo non fu largamente in onore come strumento di educazione, colà fu anche meno abbondante e salutifero il frutto della scienza. Nè questo soltanto c'insegna la storia. Essa c'insegna inoltre che tale e tanta è la connessione fra la civiltà, la cultura, la lingua, la scienza greca e romana, che opera vana tenterebbero quelle nazioni o quegl'individui i quali, dimentichi di questa connessione intima, credessero di portare un contributo largo ed importante alla investigazione scientifica o storica di una parte sola dell'antichità classica. Io non conosco nessun grande latinista, italiano o straniero, dell'età nostra o delle precedenti, che non sia o non fosse in grado di trattare filologicamente i monumenti, gli scrittori, le fonti elleniche; e non so neppure di alcun grande ellenista digiuno di erudizione e di scienza latina. So, è vero, di un valentuomo (non italiano!) del nostro tempo, il quale, essendo egli profondo latinista, non dubitò di affermare che latinisti a preferenza erano stati i corifei della nostra scienza. Ma l'affermazione è certamente falsa, perchè io in coscienza non saprei dirvi davvero se, per esempio, Pier Vettori e Riccardo Bentley fossero più latinisti o grecisti, e perchè potrei addurre una bella schiera di grandi grecisti che non dimostrarono egualmente al pubblico la loro scienza di cose latine. Ma non mette conto di perdere del tempo a dimostrar vana un'affermazione che evidentemente ha origine dalla vanità del latinista che la emise, e che era egli stesso, del resto, un grecista valente. Pur troppo, come vedete, neppur la filologia classica è preservativo efficace contro la vanità. In confidenza, vi dirò persino che i filologi classici sono spesso anche più intollerabilmente vani degli altri. Sarebbe, pertanto, oltremodo facile dimostrare, anche teoricamente, quanto impossibil cosa sia tener distinto il lavoro scientifico nell'un campo, greco o romano, dal lavoro scientifico nell'altro. Scienza ed arte romana sono riflessi e svolgimenti di arte e scienza greca: pretendere di capir quella senza capir questa varrebbe presso a poco quanto illudersi d'intendere l'umanesimo del rinascimento senza conoscere quell'antichità che l'umanesimo consapevole o inconsapevole cercava di riprodurre. Si potrebbe forse comprendere adeguatamente la produzione intellettuale dei Greci, in quanto essa è in massima parte indipendente da influssi forestieri, e ad ogni modo procede per vie affatto sue anche quando dal di fuori trae l'origine; si potrebbe forse comprenderla adeguatamente, se completa e in tutte le sue manifestazioni essa ci fosse giunta. Invece c'è giunta in frammenti, grandiosi frammenti se volete, ma frammenti, spesso da rintracciare in fonti romane. Sopprimete tutto quello che dei Greci sappiamo e possiamo investigare a traverso i riflessi, le imitazioni e le ricerche romane, e vi accorgerete subito che quella meravigliosa statua mutila, simbolo dell'antichità ellenica, voi avrete più barbaramente mutilata. Ma poichè nè io nè Voi siamo vandali, possiamo e dobbiamo augurarci che da tale vandalismo l'Italia nostra sia risparmiata; nè è vano l'augurio, perchè in realtà anche gli stolti, dei quali, come dice il poeta, infinita è la schiera, non si farebbero mai tra noi paladini esclusivi di studî greci. Il pericolo è piuttosto nell'altrettanto assurda persuasione della possibilità di un classicismo italiano fecondo e operoso, a base esclusiva di latinità e di romanità. Ho detto persuasione, ma tale io non credo che sia: è piuttosto la solita tendenza a blandire le turbe infinite che vogliono bensì penetrare nell'aristocratica ròcca del classicismo, ma naturalmente vogliono anche che sia più alla portata degli inetti questo titolo di nobiltà. Ebbene, noi non abbiamo bisogno di sperimentare questo classicismo che è stato detto «a scartamento ridotto»; lo abbiamo già sperimentato per secoli. Poco fa io rammentava con entusiastica ammirazione Pier Vettori e la sua scuola, ma è doloroso dovere aggiungere che, estinto quell'uomo e quella scuola, lo studio dell'antichità classica in Italia si aggirò fatalmente in un àmbito sempre più ristretto. Scienza e conoscenza di lingua e di cose greche andò a mano a mano scomparendo; antiquaria romana e retorico umanesimo latino furono sino all'età nostra unico residuo di un movimento scientifico iniziato animosamente, e coronato nel suo inizio da splendido successo. Voi sapete ormai che non voglio nient'affatto parlarvi di persone. Non mi opporrete perciò quella mezza dozzina, e sia pure una dozzina, di valentuomini che dal seicento ad oggi lavorarono felicemente nel campo greco. Non vi abbiate a male se vi dico che li conosco anch'io come li conoscete Voi; ma essi sono quasi addirittura estranei al movimento scientifico del nostro paese, nè fu merito dell'Italia se il resultato delle loro dotte ricerche entrò a far parte del patrimonio della scienza. L'esperienza dunque noi la abbiamo fatta, e ci rimane il rimorso di averla fatta durare troppo a lungo. Quali resultati se ne siano avuti, lo sappiamo. Neppure nella scienza antica latina, l'Italia, per tre secoli, ha rappresentato quella parte a cui la nativa prontezza di ingegno, la conformità grande di sentimento e di attitudini con la vita civile degli antichi, la tradizione infine e la storia la avrebbero chiamata. Col nome di dottrina classica battezzammo una vuota declamazione retorica, demmo nome di storia a compilazioni di aneddoti, a frasi reboanti demmo nome di eloquenza, alle curiosità demmo il nome di erudizione. Volle fortuna che il nostro classico suolo rimettesse incessantemente in luce monumenti, opere d'arte antica, che richiamarono alcuni nostri studiosi a un indirizzo positivo di investigazioni e ricerche; e avemmo così epigrafisti e antiquari di molto maggior valore che per le condizioni delle altre discipline filologiche avremmo avuto diritto di aspettarci. Le cose sono mutate in meglio appunto nella seconda metà del nostro secolo, vale a dire dacchè gli studi classici greci sono tornati in onore, dacchè le lingue e le lettere greche non sono più misterioso patrimonio di pochissimi, dacchè ogni persona colta non dirò che legga Sofocle e Omero, ma almeno ha acquistato la convinzione che leggerli e intenderli non è curiosità oziosa di gente oziosa. Non sono per verità tanto ingenuo da attribuire così meravigliosa efficacia alle declinazioni e alle coniugazioni greche che i nostri ragazzi imparano nelle scuole. Ma non si tratta già ora di farvi vedere quanto di più e di meglio sarebbe possibile nelle scuole; si tratta di riconoscere un fatto innegabile. Noi italiani di punto in bianco abbiamo, dopo lungo abbandono, riconosciuto di nuovo il genio classico greco come elemento indispensabile di alta cultura generale, abbiamo modificato le scuole in questo senso, e secondo questo concetto, abbiamo improvvisato dei maestri che questo concetto attuassero, e in poche diecine di anni ci siamo messi anche in grado di lavorare, di contribuire modestamente, e sia pure modestissimamente, alla scienza della antichità classica. Non ignoro quali e quanti siano gli altri coefficienti di questi risultati, la ridestata coscienza nazionale, l'indirizzo serio e positivo degli studî affini, la scomparsa di quel vano orgoglio che ci faceva ignorare e disprezzare dottrine e scienze forestiere; ma questo vuol dire soltanto che per le progredite condizioni intellettuali del paese ci siamo finalmente avvisti che anche la nostra cultura classica era difettosa, e ci siamo studiati di farla completa con l'ellenismo, e l'ellenismo le ha dato quel vigore e consistenza scientifica che aveva per secoli miseramente perduta. Difficile è fare la cronaca esatta di questa trasformazione, promossa da spiriti illuminati anche prima della metà del secolo, ma sorretta solo più tardi, e non sempre quanto sarebbe stato opportuno, dalla sapienza dei governanti. Anche prima del fatale anno 1848 la Toscana aveva in Pisa una istituzione benefica, i cui benefizi possono oggi dal punto di vista odierno apprezzare poco quegli egregi che, ricchi di entusiasmo e di ingegno, non vi trovarono prima del '59 la larga educazione scientifica di cui erano avidi: e noi, venuti un po' più tardi, ma non troppo più tardi, sappiamo quanta ragione avessero essi di dolersi che il tempo della loro balda gioventù andasse consumato miserevolmente a scuola di inetti o poco meno che inetti: ma è pur vero che da quella scuola, perfino in quegli anni non felici, provennero molti di coloro che senza confronto meglio di tanti altri poterono contribuire utilmente alla trasformazione delle nostre scuole e spianare la via a noi altri allora giovanetti, che, compiuta la unità d'Italia, avemmo in essi i nostri maestri, e non di greco soltanto. Nè perchè ho ricordato espressamente la Toscana, vogliate supporre che io dimentichi la efficacia della legislazione scolastica piemontese, estesa con savio consiglio a tutta l'Italia: per essa avemmo un ordinamento razionale di studî, imperfetto quanto si vuole, ma di gran lunga più razionale e più largo che non usasse nelle scuole multiformi del resto d'Italia. E poichè della oppressione politica austriaca dicemmo sempre e volentieri tutto quel male che essa meritava, è anche giustizia riconoscere che troppo più difficile sarebbe riuscito alla Italia nuova rinnovare e integrare il classicismo vieto e monco delle nostre scuole, se dalla Lombardia e dal Veneto non ci fosse venuta una schiera di valentuomini, cui la tirannia politica non aveva spento in cuore l'amor di patria e la scienza tedesca dall'Università di Vienna aveva messi in grado di sapere per quali vie e con quali mezzi tornerebbero gl'Italiani alla vita scientifica, anche in quel ramo di cultura che era sembrato per secoli più che altro svago innocente degli spiriti, strumento semplicissimo per darsi aria di letterati finamente colti, infiorando di emistichii oraziani e virgiliani il discorso. Resti ad altri l'ufficio gradito di celebrare, come meritano, gli uomini che più direttamente promossero con l'insegnamento e con l'esempio gli studi italiani di antichità classica. A noi, che in tanta parte della nostra vita pubblica troviamo ragioni di sconforto, di scoramento, di dolore, sia dato compiere l'ufficio ben più gradito, di proclamare cioè che, se in complesso il classicismo italiano è ancora meschinello rispetto alla Europa civile, esso è grande rispetto alla vecchia Italia di cinquant'anni fa; e senza ingratitudine possiamo smentire, per questa parte almeno, l'antico poeta: l'età dei padri nostri portò noi non peggiori, ma migliori di essi — senza ingratitudine, perchè è merito dei padri nostri aver create quelle condizioni di vita civile che resero possibile a noi di metterci sulla via abbandonata da secoli e trionfalmente battuta da quei popoli ai quali noi primi l'avevamo additata. Quale è dunque l'augurio nostro per i nostri figli? Che essi continuino a smentire la sentenza pronunciata dal poeta romano, emendino i nostri vizii, colmino le enormi lacune del nostro sapere, siano liberi dai pregiudizi che arrestarono noi a mezza via, facciano dimenticare i nostri timidi tentativi, siano emuli degni degli spiriti nobilissimi cui noi potemmo tener dietro appena faticosamente e «longo intervallo;» sia lecito ad essi non essere equanimi verso di noi, sieno ingrati, ma sieno migliori di noi. All'esperienza nostra, però, vogliano pure ricorrere per amoroso consiglio. Sapremo dir loro quello che non abbiamo saputo far noi; sapremo soprattutto dimostrare i nostri difetti, sapremo porli in grado di non sciupare l'ingegno per vie tortuose o senza uscita, sapremo raccontare con la esperienza, con la vivacità, e, spero, anche con la veridicità del testimone oculare la storia dei nostri studî in questi quarant'anni di vita italiana. Intanto, aspettando che i nostri figli e nipoti vengano a chiederci questi consigli e ad ascoltare questo atto di contrizione nostra e questa storia, io mi confesserò sinceramente con voi — siamo nella settimana di Penitenza: — e poichè mi è dato evitare una incomoda confessione speciale dei peccati miei, esclusivamente miei, e posso presentarvi la confessione generica degli Italiani del mio tempo, molto a buon mercato, come vedete, mi pongo in regola col santo precetto, tanto più che, dopo tutto, la penitenza toccherà non a me, ma a Voi. Se nella età che precedè immediatamente il nostro risorgimento nazionale, l'Italia fosse rimasta miseramente indietro soltanto in fatto di studî classici, e nel resto avesse conservato importanza notevole rispetto alle principali nazioni civili, anche la scienza dell'antichità classica avrebbe rapidamente ripreso sviluppo e vigore, e rapidamente sarebbe passata dallo stadio recettivo allo stadio produttivo; ma a noi mancavano quasi totalmente i mezzi per iniziare un lavoro scientifico, mancava la conoscenza più elementare della letteratura dell'argomento: letteratura enorme, frutto di trecento anni di studi assidui, di ostinate ricerche di Francesi, Inglesi, Olandesi e Tedeschi, soprattutto di Tedeschi, che, ultimi in ordine di tempo, avevano ereditato e da un secolo tenevano lo scettro della scienza della antichità classica, l'avevano meravigliosamente promossa in ogni disciplina, ne avevano disposte le parti, le avevano dato forma e carattere di vera e propria scienza. Che in tali condizioni un italiano di alto ingegno anche senza educazione e senza preparazione metodica potesse prendere parte attiva e contribuire efficacemente alle investigazioni scientifiche, non lo escluderò io, che so come e quante volte la ipotesi sia stata realtà. L'alto ingegno sa prescindere da condizioni anche indispensabili; ma, come ho già detto, non sono singoli e isolati uomini d'ingegno quelli che determinano il movimento scientifico del loro paese. Ai più parve, e non poteva non parere, che dovessimo anzitutto addestrarci a maneggiare gli strumenti del mestiere; e gran parte della attività nostra fu rivolta a impratichirci di lingue straniere, del tedesco principalmente, e a renderci familiari i manuali, le monografie straniere, principalmente tedesche, e lo facemmo in molti; e la generazione mia ebbe meno difficoltà a farlo che non ne avesse la generazione precedente. Gli uni e gli altri ci ridemmo della nomèa di tedescanti, della quale i vecchi, meritamente e immeritamente autorevoli, ci gratificarono. Opera egregia e proficua fece allora chiunque contribuì, sia pure in proporzioni microscopiche, alla diffusione in Italia di libri stranieri, chiunque fece conoscere studi e metodi a cui l'Italia non era più avvezza, e che sarebbe stata cosa ridicola ripristinare in quella forma in cui l'Italia li aveva lasciati tre secoli innanzi. Onore e riconoscenza si deve a tutti quei valentuomini che, traducendo, compilando, compendiando riuscirono a poco a poco a mettere in contatto diretto la gioventù italiana con la filologia tedesca: e credo che per parecchie altre scienze si debba e si possa dire lo stesso. Giovani benemeriti del loro paese furono quelli che secondarono con ardore questo impulso, e ben presto avemmo una schiera di non indotte persone, capaci di fare altrettanto, e lo fecero, magari con più ardore, e continuarono ancora quando forse sarebbe stato possibile e desiderabile qualche altra forma di operosità letteraria. Ho promesso di essere sincero, e lo sarò anche a costo di _sembrare_ esclusivo, perchè ho la coscienza di non _essere_ esclusivo, e delle apparenze non soglio darmi gran pensiero. La scienza della antichità classica è scienza enormemente complessa, è scienza della vita greca e romana in tutte le sue manifestazioni letterarie, scientifiche, civili, religiose, politiche, morali ecc.; mirabilmente varie attitudini esige da chi voglia abbracciarla tutta, e forse non è ancora nato chi nel vero senso della parola tutta la abbia posseduta. Negli individui essa è piuttosto aspirazione che possibilità realizzabile, ma povero quell'individuo che tale aspirazione non abbia, che nelle ricerche speciali e minute perda di vista e disprezzi la scienza del tutto! I tedeschi hanno avuto la fortuna di concentrarvi dalla metà del secolo scorso alla età nostra un'ingente massa di studiosi educati allo stesso modo, preparati con gli stessi metodi, perseveranti e idealisti per qualità di razza; è addirittura miracolosa la tenacia con cui generazioni di dotti si sono succedute in lavori ingrati di minuzie, di analisi, di inventario, di pura statistica, di lessicografia, di grammatica. Onde avviene che oggi il giovinetto tedesco, solo perchè tedesco, in condizioni normali si trova ad avere assorbito, sarei per dire, atavisticamente gran parte di quella preparazione formale che noi siamo ancora costretti ad esigere esclusivamente dalla scuola, da una scuola che forse essa stessa non darà mai tutti i frutti della scuola tedesca. Ma, quantunque per indole il tedesco sia portato alla costruzione sistematica, e debba quindi preferire nelle scienze quelle discipline che della scienza sono piuttosto il coronamento che la base, nonostante è relativamente raro il caso che i giovani trascurino quella preparazione formale, la quale permette loro di affrontare tutte o quasi tutte le difficoltà della speciale disciplina a cui si dedicano; per non dire poi che anche oggi, cioè in un'epoca di reazione contro la filologia formale, anche oggi è sempre e quasi esclusivamente tedesca anche la produzione filologica fondamentale sulla quale edificano lo storico della letteratura e della scienza, l'archeologo e il giurista, il linguista, ecc. Da noi invece sono diverse le tendenze e diversi i resultati. Le indagini storiche, letterarie, filosofiche sembrano più facilmente guidarci alla scienza. Ognuno capisce che se rivolge le sue cure a studiare, poniamo, la Storia naturale di Plinio, a indagarne le fonti libro per libro, capitolo per capitolo, a cercare di determinare nei più minuti particolari i caratteri di lingua e stile dell'autore, a proporsi insomma come principale intento di una intera vita di studioso la critica e la esegesi di Plinio, ognuno capisce che così facendo non gli rimarrà tempo per illuminare del suo genio tanta altra parte della antichità classica; e perciò invece di studiare Plinio, mal si resiste alla tentazione di far ricami dialettici sugli studi altrui: tanto più che non è estremamente difficile a quattro opinioni diverse opporne con qualche verisimiglianza una quinta, ricavata per eliminazione dall'esame delle obiezioni già fatte da altri alle prime quattro. Poniamo anche — ed è temeraria ipotesi — che questa quinta opinione sia la vera, e passi nella scienza col nome italiano: ma Plinio rimane nonostante monopolio della filologia tedesca. Or non è esagerazione dire che buona parte della nostra produzione scientifica prenda le mosse non dallo studio immediato e diretto delle fonti, ma dalle indagini altrui; non penetri nelle viscere dell'argomento, ma si riduca a esercizio dialettico sulla discordia degli altri. Sarà anche vero che i tedeschi abusino della parola _Gründlichkeit_, con la quale indicano appunto la tendenza amorosa e ostinata a sviscerare le questioni; ma non ho il coraggio di dire che essi abbiano sempre torto, quando ci rimproverano appunto difetto di _Gründlichkeit_, difetto tanto più pericoloso in quanto spesso e volentieri si accompagna a una curiosa forma di orgoglio nazionale. Nella scienza dell'antichità, si dice, c'è posto per tutti. Il lavoro minuto e paziente non è per noi, che generalmente abbiamo ingegno e fantasia da vendere e da donare. Fuori d'Italia ci preparano e ci sbozzano la materia greggia, in Italia la metteremo in opera, lavoreremo di fino, daremo l'ultima mano. Naturalmente sciocchezza siffatta neppure gli stolti si arrischiano ad enunziarla così come ho fatto io, senza ambagi e senza circonlocuzioni, ma pur troppo lo stesso concetto traspare talvolta anche dalle parole di persone non stolte che si sono illuse, e forse ancora si illudono, si possa parlare di scuola italiana di filologia classica, quando questa scuola non dia essa l'indirizzo alle discipline fondamentali della scienza. Non temete che io voglia trattenervi a lungo su questo punto, che pure è di vitale interesse e meriterebbe ampia trattazione. Mi basteranno per oggi quattro parole, ma alla buona anche queste, e saranno sufficenti, oso dire, perchè voi vi uniate a me nel combattere tale assurda tendenza. La scienza dell'antichità classica è un complesso di sapere storico, è storia dell'antichità classica: ha quindi base e fondamento in testimonianze storiche, non in concetti della nostra mente. Queste testimonianze storiche sono le fonti della scienza, e si riducono a due categorie principalissime: monumenti scritti e monumenti non scritti. Da una parte dunque le opere superstiti dei poeti, degli storici, dei filosofi, le iscrizioni pubbliche e private, le leggende delle monete ecc., e dall'altra parte i frammenti superstiti delle opere d'architettura, di scultura, di pittura, gli oggetti di uso comune e così via. I monumenti non scritti, che si potrebbero dire monumenti muti, sono spesso di gran lunga più eloquenti di tutti gli altri. Un fregio del Partenone vi dà dell'arte antica un'idea ben più viva ed esatta che non qualsiasi descrizione a parole. Ma la interpretazione, la classificazione, l'uso scientifico dei monumenti muti è impossibile, senza il sussidio costante dei monumenti scritti. Sopprimete, ad esempio, il libro di Pausania, e domandate agli archeologi quanta parte della loro scienza scompare. I documenti scritti sono dunque in primissima linea le fonti della storia dell'antichità classica, ma queste fonti non sono già qualche cosa di fisso, d'immutabile. Esse scorrono abbondanti o scarse, limpide o limacciose, a seconda del lavoro buono o cattivo, che si è fatto, dirò così, nella cava di presa. È lavoro da scavatori, da zappatori, da facchini, tutto quel che volete, ma beverete acqua torbida se il lavoro non sarà fatto a modo. Ora, tutto questo lavoro è nelle mani dei tedeschi da un secolo in qua. In buona parte la materia prima viene distribuita dai tedeschi al mitologo, all'archeologo e così di seguito. E c'è chi crede si possa imprimere la marca di fabbrica italiana alla storia greca e romana, alla storia letteraria, alla mitologia, alla archeologia, finchè questa condizione perdura, finchè è elaborazione tedesca il Livio e il Tacito di cui vi servite, il Virgilio che decantate, il Pausania che vi guida nelle vostre indagini archeologiche. Eppure quelli che tra noi hanno tenacemente combattuto per questo concetto così evidentemente vero, che cioè gl'Italiani stessi debbano sfruttare i tesori delle loro biblioteche, e mirare principalmente a impossessarsi delle fonti e imparare a prepararle per l'uso scientifico; quelli che hanno modestamente dimostrato come si possa e si debba riuscirvi, sono chiamati pedanti, e chi tali li proclama, trova persino appoggio in persone di senno. Signore e Signori, io mi sono messo per una via per cui agevolmente potrei continuare parecchie ore con molta soddisfazione mia, con molto tedio vostro. Preferisco rinunziare alla soddisfazione mia, e concludere anche senza aver poste e senza aver dichiarate tutte le premesse. Gli studi classici in Italia si sono ridestati dal 1860 in qua, abbiamo una legione di filologi classici, e una discreta produzione scientifica. Si può anche aggiungere che abbiamo nei vari rami della scienza dell'antichità un numero notevole di opere di grandissimo valore, e dobbiamo compiacerci che il nome italiano ricompaia degnamente anche in questo ordine di indagini scientifiche. Ma conviene ricordarci che abbiamo dormito tre secoli. Lo stadio del risveglio è un po' in proporzione del lungo periodo di sonno, un po' di torpidezza occupa ancora il nostro spirito, non abbiamo ancora una visione esatta e sicura della via da percorrere: alcuni nuvoloni ministeriali di tanto in tanto ci risospingono nella inerzia, se non addirittura nel sonno. Il caldo sole d'Italia trionferà di questi umidi vapori, e fra cinquant'anni si potrà, magari in questa stessa sala, affermare con verità che nella investigazione della antichità classica il nostro paese tiene gloriosamente il posto d'onore, il posto che merita. Per ora bisognerà contentarsi di affermazioni molto più modeste; e forse non troppo immodesta troverete la speranza mia che, parlando del _risveglio_ degli studî classici, io non abbia risospinti nel sonno i miei gentili uditori. INDICE Autori e Attori drammatici Pag. 5 La sincerità nell'Arte. (_L'Arte dal '48 al '61_) 45 Le prime glorie di Giuseppe Verdi 85 Il risveglio degli studi dell'antichità classica 117 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III - Quarta serie - Lettere e arti" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.