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Title: L'allegoria dell'autunno - Omaggio offerto a Venezia da Gabriele D'Annunzio
Author: D'Annunzio, Gabriele
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "L'allegoria dell'autunno - Omaggio offerto a Venezia da Gabriele D'Annunzio" ***


  L'ALLEGORIA DELL'AUTUNNO

  OMAGGIO
  OFFERTO A VENEZIA DA GABRIELE
  D'ANNUNZIO



  IN FIRENZE — PRESSO ROBERTO
  PAGGI — M.DCCC.LXXXX.V



L'ALLEGORIA DELL'AUTUNNO

FRAMMENTO D'UN POEMA OBLIATO


    Il munifico sire Autunno, il dio
    cui non più la matura uva compone
    intorno il nero crin cerchio d'oblío
    né come al fauno del selvaggio Edone
    alto in man brilla il cembalo giulío
    (ben, cingon la sua fronte ardua corone
    di gemme e l'occhio cerulo gli langue
    profondamente quasi che del sangue
    ei nudrisca una lenta passione)

    riverso in nube per i vitrei seni
    lucida al sole come un rogo ardente,
    quali d'árbori forme in rii sereni
    vede pender ne l'aria agilemente
    i fastigi de' templi, e sciolti ai leni
    spirti de l'aria dà la chioma aulente
    che il ciel solca, celeste fiume d'oro,
    dietro lasciando un fremito sonoro
    a cui guardan le turbe umane intente.

    Lui seguon pe 'l viaggio, in un corteo
    lungo e composto, cento giovinetti.
    Han l'arco più che quello d'Odisseo
    grande e lunato, in fascio han dardi eletti;
    anche han palvesi; e portan su 'l febeo
    capo una sorta di vermigli elmetti
    ricoprenti la gota, a mo' de' Frigi,
    a mo' del biondo cavalier Parigi.
    Nudi e in tutte le membra ei son perfetti.

    Perfetti come se dal fior de' parii
    marmi avesseli tratti Prassitèle,
    muovono insieme i cento Sagittarii,
    al magnifico iddio coro fedele.
    Brandiscono i gravi archi in gesti varii,
    però che frema ne la man crudele
    il disío de la strage e de la gloria
    e risuonino ancor ne la memoria
    le gran selve terrestri, di querele.

    Argábalo n'è il buono imperadore
    che tiene in pugno il gonfalon levato,
    Argábalo che molto dal signore
    teneramente è sopra gli altri amato.
    Aureo porta l'elmetto e un giustacuore
    nitido, di finissimo broccato.
    Adergesi com'aquila in ardire,
    su 'l capo udendo il gonfalon garrire.
    Brilla di gemme il piede coturnato.

    Così va la milizia, al suo comando,
    raccolta presso il dio; ma se in cortesi
    ludi per l'aria s'apre a quando a quando
    come s'apre un'aurora, a voi sospesi
    guizzano i corpi snelli balenando
    e co' i dardi e co' li archi e co' i palvesi
    fingon nuove a la vista meraviglie.
    Alto ridono, simili a vermiglie
    fiamme, gli elmetti dal gran sole accesi.

    Il dio, poggiato in su la palma il mento
    imberbe, a torno gli occhi umidi gira.
    — Non più — mormora — i giuochi de' miei Cento,
    cui par che guidi il suono d'una lira
    così nobile è il lor componimento
    e armoniosa la lor flórea spira,
    non più recan diletto al cuor profondo!
    Qual male ignoto dentro me nascondo,
    che sì forte mi crucia? — il dio sospira.

    Sospira ei dietro a la sua disianza
    ignota; e chiama il buono imperadore.
    — Fa che cessi d'in torno ogni esultanza,
    o Argábalo, però che del mio cuore
    il Dolore fatto abbia la sua stanza! —
    Pronti, al comando, frenano l'ardore
    i Sagittarii; e seguon tristamente.
    Suonano ancor ne la memoria ardente
    le gran selve terrestri, di clamore.

    Di clamore e de l'armi e de' gran corni
    risonavan le selve al lor passare.
    Vedeansi lungi per i bui soggiorni
    i meandri de' fiumi balenare.
    Se i nudi cacciatori in su' ritorni
    venìa la ninfa pavida a spiare,
    scorgeano quelli in tra la fronda il molle
    velo, ed un foco in tutte le midolle
    correva. — Oh non mai van perseguitare!

    Oh dolce cosa ancor di sangue tinti
    premere l'orme de la fuggitiva
    giovine, a gara per que' laberinti
    ove i culmini il vespero feriva;
    lei ghermir; tra la chioma di giacinti
    cogliere il fior de la sua bocca viva! —
    Seguono in van la desiata effigie.
    Tal fino al labro era ne l'onde stigie
    Tantalo, e il bel giardin vicin fioriva.

    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


  _Venezia, ottobre 1887._



GLOSA


Io pensava in un pomeriggio recente — tornando dai Giardini per quella
tiepida riva degli Schiavoni che all'anima dei poeti vaganti poté
sembrar talvolta non so qual magico ponte d'oro prolungato su un mare
di luce e di silenzio verso un sogno di Bellezza infinito — io pensava,
anzi assisteva nel mio pensiero come a un intimo spettacolo, alla
nuziale alleanza dell'Autunno e di Venezia sotto i cieli.

Era per ovunque diffuso uno spirito di vita, fatto d'aspettazione
appassionata e di contenuto ardore; che mi stupiva per la sua veemenza
ma che pur non mi sembrava nuovo poiché io l'aveva già trovato raccolto
in qualche zona d'ombra, sotto l'immobilità quasi mortale dell'Estate,
e l'aveva anche sentito fra lo strano odor febrile dell'acqua vibrar
quivi a quando a quando come un polso misterioso. «Così, veramente,»
io pensava «questa pura Città d'arte aspira a una suprema condizione
di bellezza, che è per lei un annuale ritorno come per la selva il dar
fiori. Ella tende a rivelar sé medesima in una piena armonia quasi
che sempre ella porti in sé possente e consapevole quella volontà
di perfezione da cui nacque e si formò nei secoli come una creatura
divina. Sotto l'immobile fuoco dei cieli estivi, ella pareva senza
palpito e senza respiro, morta nelle sue verdi acque; ma non m'ingannò
il mio sentimento quando io la indovinai travagliata in segreto da
uno spirito di vita bastevole a rinnovare il più alto degli antichi
prodigi.»

Questo io pensava, assistendo allo spettacolo incomparabile che per un
dono di amore e di poesia io poteva contemplare con occhi attentissimi
la cui vista mi si mutava in visione profonda e continua... Ma con
qual virtù potrò io mai comunicare a chi m'ascolta questa mia visione
di bellezza e di gioia? Non v'è aurora e non v'è tramonto che valgano
una simile ora di luce su le pietre e su le acque. Né sùbito apparire
di donna amata in foresta di primavera è inebriante così come quella
impreveduta rivelazione diurna della Città eroica e voluttuosa
che portò e soffocò nelle sue braccia di marmo il più ricco sogno
dell'anima latina.

Io sono certo che in tale aspetto ella apparve a Paolo mentre colui
cercava dentro di sé l'imagine della Regina trionfale. Ah io sono certo
ch'egli ne tremò nell'intime vene e piegò i ginocchi, in atto di chi
adora percosso e abbacinato dal miracolo. E quando volle dipingerla nel
Palazzo del Doge per manifestare agli uomini la sua meraviglia, egli —
il prodigo artefice che parve aver raccolto in sé tutte le imaginazioni
dei satrapi più sfrenate, il poeta magnifico ch'ebbe l'anima simile a
quel fiume lidio dagli Elleni armoniosi nomato Crisorroa, fuor de' cui
gorghi auriferi era sorta una dinastia di re carichi d'una opulenza
inaudita — egli, il Veronese, profuse l'oro, le gemme, lo sciamito, la
porpora, l'ermellino, tutte le sontuosità, ma non poté rappresentare il
volto glorioso se non in un nimbo di ombra.

Sol per quell'ombra, bisogna levare al cielo il Veronese!

Tutto il mistero e tutto il fascino di Venezia sono in quell'ombra
palpitante e fluida, breve e pure infinita, composta di cose viventi
ma inconoscibili, dotata di virtù portentose come quella degli antri
favoleggiati, dove le gemme hanno uno sguardo; e dove taluno poté
trovare nel tempo medesimo, in una sensazione indicibilmente ambigua,
la freschezza e l'ardore. Bisogna esaltare il Veronese per questo.
Raffigurando in sembianze umane la Città dominatrice, egli seppe
esprimerne lo spirito essenziale: che non è — in simbolo — se non una
fiamma inestinguibile a traverso un velo d'acqua. E io so di taluno
che, avendo lungamente immerso la sua anima in quella zona sublime,
la ritrasse accresciuta d'una nova potenza e trattò indi con mani più
ardenti la sua arte e la sua vita.


Ben tale fiamma io sentiva, in un pomeriggio recente, assorgere alla
veemenza estrema e infondere nella bellezza di Venezia una forza
d'espressione non mai veduta prima. Tutta la Città ai miei occhi si
accendeva di desiderio e palpitava di ansia nelle sue mille cinture
verdi, come l'amante che aspetta la sua ora di gioia. Ella tendeva
le sue braccia marmoree verso il selvaggio Autunno di cui giungevale
l'umido alito profumato dalla morte deliziosa delle campagne lontane.
Ella spiava i vapori leggeri che sorgevano dal limite della laguna muta
e parevano avvicinarlesi in aspetto di messaggi furtivi. Ella ascoltava
intentissima nel silenzio da lei medesima generato i più tenui romori;
e il soffio del vento fuggevole nei suoi orti rari aveva per lei un
prolungamento musicale fuor delle chiostre. Una specie di stupore si
raccoglieva intorno ai solinghi alberi prigionieri che trascolorivano
splendendo come se conflagrassero. La foglia arida caduta su la pietra
consunta della proda brillava come una cosa preziosa; in cima al muro
ornato dai licheni biondi il frutto del melograno gonfio di maturità
si fendeva subitamente come una bella bocca sforzata dall'impeto di un
riso cordiale; una barca passava lenta e grande, colma di grappoli come
il tino che sta per essere premuto, diffondendo su l'acqua ingombra
d'alghe morte l'ebrietà aerea della vendemmia e la visione delle
vigne solatie frequenti di giovinezze canore. Tutte le cose avevano
una eloquenza profonda, come se un segno invisibile aderisse al loro
aspetto visibile e per un divino privilegio élleno vivessero nella
superiore verità dell'arte.

«Sicuramente dunque» io pensava «sicuramente è nella Città di pietra
e d'acqua, come nello spirito di un artefice puro, una aspirazione
spontanea e costante verso ideali armonie. Una specie di intelligenza
ritmica e fittiva sembra elaborarne studiosamente le rappresentazioni,
come per renderle conformi a un'idea e convergerle a un fine meditato.
Sembra ch'ella possegga mani meravigliose per comporre le sue luci e le
sue ombre in una continua opera di bellezza; e ch'ella sogni fornendo
il suo lavoro e dal suo sogno medesimo — ove il molteplice retaggio
dei secoli splende trasfigurato — ella tragga il tessuto d'allegorie
inimitabile che la ricopre. E, poiché sola nel mondo la poesia è
verità, quegli che sa contemplarla e attrarla in sé con le virtù del
pensiero, quegli è presso a conoscere il segreto della vittoria su la
vita.»

E l'ora s'approssimava: già quasi era imminente l'ora della Festa
suprema. Uno straordinario lume propagavasi nei cieli dall'ultimo
orizzonte, come se il selvaggio Sposo vi trascorresse con un carro di
fuoco agitando il suo gonfalone purpureo. Generato dalla sua corsa il
vento spirava carico di tutti gli odori terrestri; e all'aspettante,
su l'acqua ove qua e là vaghe capellature marine fluttuavano,
recava l'imagine dei rosai bianchi e compatti che si distruggevano
a poco a poco come ammassi di neve contro i balaustri dei giardini
inclinati verso la Brenta. L'imagine intera del paese lontano parevami
rispecchiarsi nel cristallo dell'aria come per la meteora fallace dei
deserti; e quell'aspetto di natura valeva a magnificare la rarità
di quel sogno d'arte, poiché nessun fasto autunnale di verzieri e
di boschi — nella memoria — era comparabile alle divine animazioni e
trasfigurazioni dell'antica pietra.

«Veramente, non è per giungere un dio su la Città che gli si offre?»
io chiedeva a me medesimo, sopraffatto dall'ansia e dal desiderio e
dalla volontà di gioire che tutte le cose intorno a me esprimevano come
invase da una febbre di passione infinita. Ed evocai l'artefice più
possente perchè con le forme più fiere e con i colori più fulgidi mi
raffigurasse quel giovine dio aspettato.

Era per giungere! La coppa invertita del cielo versava su tutte le cose
un flutto di splendore che sembrò da prima ai miei occhi incredibile,
tanto la sua qualità superava di ricchezza pur le più ricche
illuminazioni interiori del pensiero esaltato o del sogno involontario.
Come una materia siderale, di natura sconosciuta e mutevole, in cui
fossero figurate a miriadi imagini d'un fluido mondo indistinte, dalle
quali un perpetuo fremito con una vicenda di distruzioni e di creazioni
stupendamente facili traesse un'armonia sempre novella, così appariva
l'acqua. Tra le due meraviglie la pietra multiforme e multanime come
una selva e come un popolo, — quella smisurata congerie muta da cui
il genio dell'Arte estrasse i concetti occulti della Natura, su cui il
tempo accumulò i suoi misteri e la gloria incise i suoi segni, per le
cui vene ascese l'umano spirito verso l'Ideale come la linfa ascende
verso il fiore per le fibre degli alberi — la pietra multanime e
multiforme assumeva d'attimo in attimo espressioni di vita così intense
e nuove che veramente parve distrutta per lei la legge e la sua inerzia
originale irradiarsi d'una miracolosa sensibilità.

Ogni attimo, allora, vibrò nelle cose come un baleno insostenibile.
Dalle croci erette in sommo delle cupole gonfie di preghiera ai tenui
cristalli salini penduli sotto l'arco dei ponti, tutto brillò in un
supremo giubilo di luce. Come la vedetta gitta dai precordii l'acuto
grido all'ansia che sotto di lui freme in guisa di procella, così
l'angelo d'oro dal vertice della massima torre diede alfine l'annunzio
fiammeggiando.

Ed Egli apparve. Apparve su una nuvola assiso come su un carro di
fuoco, traendo dietro di sé i lembi delle sue porpore, imperioso
e dolce, e con socchiuse le labbra piene di murmuri e di silenzii
silvani, e con diffusi i capelli sul collo arduo come un collo equino,
e con nudo il torace titanico misurato al respiro delle foreste.
Inclinò verso la Città bella il suo giovenile volto donde emanava
un indicibile fascino inumano, non so qual bestialità delicata e
crudele cui contrastavano gli sguardi profondi di conoscimento sotto
le palpebre gravi. Ed era palese che per tutto il suo corpo il sangue
pulsava e balzava con violenza fino ai pollici dei piedi agili, fino
all'estreme falangi delle mani forti; e cose occulte erano per tutto il
suo essere, che parevano celare la gioia e la tristezza come i grappoli
in fiore celano il vino; e tutto il fulvo oro e tutta la porpora
ch'egli portava seco erano come il vestimento dei suoi sensi...

Con che passione palpitando nelle sue mille cinture verdi e sotto i
suoi immensi monili la Città bella si abbandonò al dio magnifico!


In tal figura — evidente e reale per me in quell'ora, tanto che quasi
mi parve tangibile — chi m'ascolta non vede le analogie che la rendono
significativa di cose singolari?

La mutua passione di Venezia e dell'Autunno, che esalta l'una e l'altro
al sommo grado di lor bellezza sensibile, ha origine in una affinità
profonda; poiché l'anima di Venezia, l'anima che foggiarono alla Città
bella gli antichi artefici, è autunnale.

Avendo io scoperta la rispondenza tra l'esterno spettacolo e
l'interiore, il mio gaudio ne fu moltiplicato indicibilmente. L'immensa
moltitudine di forme imperiture, che popola le chiese e i palazzi,
rispondeva dalle sue sedi alle armonie della luce diurna con un accordo
così pieno e così possente che in breve divenne dominatore. E — poiché
la luce del cielo s'avvicenda con l'ombra ma la luce dell'arte dura
inestinguibile nell'anima umana — quando cessò nelle cose il prodigio
dell'ora, il mio spirito si trovò solo ed estatico tra le magnificenze
di un Autunno ideale.

Tal sembra veramente a me la creazione d'arte compresa tra la
giovinezza di Giorgione e la vecchiezza del Tintoretto. Essa è
purpurea, dorata, opulenta ed espressiva come la pompa della terra
sotto l'ultima fiamma del sole. Se io considero i creatori impetuosi
di sì forte bellezza, mi si presenta allo spirito l'imagine che sorge
da quel frammento pindarico: «Quando i Centauri conobbero la virtù
del vino soave come il miele, che vince gli uomini, sùbito respinsero
dalle lor mense il bianco latte; e s'affrettarono a bere il vino in
corni d'argento...» Nessuno al mondo conobbe e assaporò meglio di loro
il vino della vita. Essi ne traggono una lucida ebrietà che moltiplica
il lor potere e comunica alla loro eloquenza una energia fecondatrice.
E nelle loro creature più belle il battito violento dei loro polsi
sembra persistere a traverso i secoli come il ritmo stesso dell'arte
veneziana.

Ah, in che puro e profetico sonno posa la vergine Orsola sul suo letto
immacolato! Il più benigno dei silenzii tiene la stanza solitaria ove
sembra che le pie labbra della dormiente disegnino la consuetudine
della preghiera. Per le porte e per le finestre dischiuse penetra
la timida luce dell'alba, e illustra la parola scritta nell'angolo
dell'origliere. INFANTIA è la parola semplice, che diffonde intorno
al capo della vergine una freschezza simile a quella del mattino:
INFANTIA. Dorme la vergine, già fidanzata al principe pagano e promessa
al martirio. Non è ella forse, casta, ingenua e fervente, non è ella
l'imagine dell'Arte quale la videro i precursori con la sincerità dei
loro occhi puerili? INFANTIA. La parola evoca intorno all'origliere gli
obliati: Lorenzo Veneziano e Simone da Cusighe e Catarino e Jacobello
e Maestro Paolo e il Giambono e il Semitecolo e Antonio e Andrea e
Quirizio da Murano e tutta la famiglia laboriosa per cui il colore,
che doveva poi divenire emulo del fuoco, fu preparato nell'isola
ardente delle fornaci. Ma essi medesimi non avrebber messo un grido
di meraviglia nel vedere il flutto di sangue sgorgante dal petto della
vergine saettata dal bello arciere pagano? Sì vermiglio sangue in una
donzella nutrita di «bianco latte»! È quasi un tripudio la strage: gli
arcieri vi recano le armi più elette, le vesti più ornate, i gesti più
eleganti, come in un festino. Il chiomadoro che con sì fiero atto di
grazia dardeggia la martire non sembra veramente il giovinetto Eros
larvato e senz'ali?

Questo leggiadro uccisore d'innocenze (o forse un fratel suo), deposto
l'arco, si abbandonerà domani all'incanto della musica per sognare un
sogno di voluttà infinito.

Ben è Giorgione quegli che infonde in lui l'anima nuova e glie
l'accende d'un desiderio implacabile. La musica incantatrice non
è la melodia che pur ieri dai liuti angelici si diffondeva per gli
archi incurvati sui troni raggianti o si dileguava pel silenzio delle
lontananze serene, nelle visioni del terzo Bellini. Sorge ancora
al tocco di mani religiose, dall'alveo del clavicordio; ma il mondo
ch'ella risveglia è pieno d'una gioia e d'una tristezza in cui celasi
il peccato.

Chi ha veduto il _Concerto_, con occhi sagaci, conosce un momento
straordinario e irrevocabile dell'anima veneziana. Per un'armonia di
colore — la cui potenza significativa è senza limiti come il mistero
dei suoni — l'artefice ci racconta il primo turbamento di un'anima
cupida a cui la vita appare d'improvviso in aspetto d'un retaggio
opimo.

Il monaco che siede al clavicordio e il suo compagno maggiore non
somigliano quelli che Vettor Carpaccio figurò fuggenti dinnanzi alla
fiera ammansita da Girolamo, in San Giorgio degli Schiavoni. La loro
essenza è più forte e più nobile; l'atmosfera in cui respirano è più
alta e più ricca, propizia alla natività d'una grande gioia o d'una
grande tristezza o d'un sogno superbo. Quali note le mani belle e
sensitive traggono dai tasti su cui s'indugiano? Magiche note, certo,
se valgono a operare nel musico una trasfigurazione così violenta.
Egli è nel mezzo della sua esistenza mortale, già distaccato dalla sua
giovinezza, già in punto di declinare; ed ecco, ora soltanto la vita
gli si rivela ornata di tutti i beni come una foresta carica di pomi
purpurei, dei quali le sue mani intente ad altre opere non conobber
mai il fresco velluto. Poiché la sua sensualità è sopita, egli non
cade sotto il dominio di una sola imagine tentatrice, bensì prova una
confusa angoscia in cui il rammarico vince il desiderio; mentre, su la
trama delle armonie ch'egli ricerca, la visione del suo passato — quale
avrebbe potuto essere e non fu — si compone come un tessuto di chimere.
Indovina l'intima tempesta il compagno che già è su la soglia della
vecchiezza calmo; e dolce e grave tocca la spalla dell'appassionato con
un gesto pacificatore. Ma è pur quivi, emerso fuor della calda ombra
come la espressione stessa del desiderio, il giovinetto dal cappello
piumato e dalla chioma intonsa: l'ardente fiore d'adolescenza, che
Giorgione sembra aver creato sotto un riflesso di quello stupendo
mito ellenico donde sorse la forma ideale d'Ermafrodito. Egli è quivi
presente ma estraneo, separato dagli altri, come colui che non ha cura
se non del suo bene. La musica esalta il suo sogno indicibile e sembra
moltiplicare infinitamente la sua potenza di gioire. Egli sa d'esser
padrone di quella vita che sfugge ad ambo gli altri, e le armonie
ricercate dal sonatore non gli sembrano se non il preludio della sua
propria festa. Il suo sguardo è obliquo e intenso, rivolto a una parte
come per sedurre non so qual cosa che lo seduca; la sua bocca chiusa è
come una bocca che porti la pesantezza d'un bacio non dato ancora; la
sua fronte è spaziosa così che non l'ingombrerebbe la più folta delle
corone; ma, se io penso alle sue mani nascoste, le imagino nell'atto di
frangere le foglie del lauro per profumarsene le dita.

Chi m'ascolta non vede qualche analogia fra questi tre simboli
giorgioneschi e le tre generazioni, viventi a un tempo, che illumina
l'aurora del secolo nuovo? Venezia, la città trionfante, si rivela ai
loro occhi come un grande apparato per un convito oltrapiacente ove
tutta la dovizia raccolta da secoli di guerre e di traffichi sta per
essere addótta senza misura. Qual più ricca fonte di voluttà potrebbe
aprire la vita al desiderio insaziabile? È un'ora di turbamento e
quasi di vertigine, che vale per la sua pienitudine un'ora di violenza
eroica. Voci e risa incitatrici sembrano giungere dai colli asolani
ove regna in delizia la figliuola di San Marco, _Domina Aceli_,
che rinvenne in un mirteto di Cipro il cinto di Afrodite. Ed ecco
l'adolescente dalle belle piume bianche avanzarsi verso il convito come
un corifeo seguito dalla sua torma sfrenata, e tutte le forti brame
ardere quivi in guisa di doppieri le cui fiamme ecciti senza tregua un
vento impetuoso.

Comincia così quel divino autunno d'arte al cui splendore gli uomini
si rivolgeranno sempre con un palpito profondo, finché duri nell'anima
umana l'aspirazione a trascendere l'angustia dell'esistenza comune per
vivere una vita più fervida o per morire di più nobile morte.

Io veggo Giorgione imminente su la plaga meravigliosa, pur senza
ravvisare la sua persona mortale; lo cerco nel mistero della nube ignea
che lo circonfonde. Egli appare piuttosto come un mito che come un
uomo. Nessun destino di poeta è comparabile al suo, in terra. Tutto,
o quasi, di lui s'ignora; e taluno giunse a negare la sua esistenza.
Il suo nome non è scritto in alcuna opera; e taluno non gli riconosce
alcuna opera certa. Pure, tutta l'arte veneziana sembra infiammata
dalla sua rivelazione; il gran Vecellio sembra aver ricevuto da lui il
segreto d'infondere nelle vene delle sue creature un sangue luminoso.
In verità, Giorgione rappresenta nell'arte l'Epifania del Fuoco.
Egli merita d'esser chiamato «portatore di fuoco», a simiglianza di
Prometeo.

Quando considero la rapidità con cui il dono sacro passa d'artefice
in artefice e va di colorazione in colorazione rosseggiando, mi sorge
spontanea nello spirito l'imagine d'una di quelle lampadeforíe con cui
gli Elleni vollero appunto perpetuare la memoria del Titano figlio di
Japeto. Nel giorno della festa una torma di giovini cavalieri ateniesi
partivasi a gran galoppo dal Ceramico verso Colono; e il duce agitava
una fiaccola ch'era stata accesa all'ara di un santuario. Spenta
dall'impeto della corsa il portatore la consegnava al compagno che la
riaccendeva sempre correndo; e questi al terzo, e il terzo al quarto,
e così di séguito sempre correndo finché l'ultimo la deponeva rossa
ancora su l'altare del Titano. Questa imagine, per quel che ha di
veemente, mi significa in qualche modo la festa dei maestri coloritori
in Venezia. Ciascun d'essi, anche il men glorioso, ha tenuto in
pugno almeno per un istante il dono sacro. Taluno perfino, come quel
primo Bonifacio che bisogna glorificare, sembra aver colto con mani
incombustibili l'interno fiore del fuoco.


Una città a cui tali creatori composero un'anima di tal possanza non è
oggi considerata, dai più, se non come un grande reliquiario inerte o
come un asilo di pace e d'oblio!

In verità, io non conosco al mondo altro luogo — se non Roma — dove uno
spirito gagliardo e ambizioso possa, meglio che su quest'acqua torpida,
attendere ad esaltare la virtù attiva del suo intelletto e tutte quante
le energie del suo essere verso il grado supremo. Io non conosco palude
capace di provocare in polsi umani una febbre più violenta di quella
che sentimmo talvolta venire verso di noi all'improvviso dall'ombra
di un canale taciturno. Né colui che meriggia profondato nella messe
matura sotto la canicola sente salire alle sue tempie un'onda di
sangue più fiera di quella che talvolta offuscò i nostri occhi quando
c'inchinammo a cercar troppo intentamente nell'acqua se per avventura
vi si scorgesse in fondo qualche antica spada o qualche antico diadema.

Tuttavia come a un rifugio benigno non vengono qui le anime gracili, e
quelle che celano qualche piaga inconfessabile, e quelle che compirono
qualche finale rinunzia, e quelle che effeminò un morbido amore, e
quelle che non cercano il silenzio se non per sentirsi perire? Forse
ai loro pallidi occhi Venezia appare come una clemente città di morte
abbracciata da uno stagno soporifero. In vero, la lor presenza non pesa
più delle alghe vagabonde che fluttuano presso le scale dei palazzi
marmorei. Esse aumentano quel singolare odor di cose malaticce, quello
strano odor febrile su cui è così dolce, talvolta, verso sera, dopo una
giornata laboriosa, cullare il sentimento della propria pienezza, che
talvolta somiglia al languore.

Pur non sempre l'ambigua indulge all'illusione di coloro che la
implorano pacificatrice. Io so di taluno che a mezzo dei suoi riposi
sussultò sbigottito come quegli che, giacendo con le dita leni
dell'amata su le sue palpebre stanche, udì repentine serpi sibilare nei
capelli di costei...

Ah, se io sapessi dire di che prodigiosa vita ella mi par palpitante
nelle sue mille cinture verdi e sotto i suoi immensi monili! Ogni
giorno ella assorbe la nostra anima: ed ora ce la rende intatta e
fresca e tutta nuova quasi direi d'una novità originale su cui domani
i vestigi delle cose avranno una ineffabile limpidezza; ed ora ce la
rende infinitamente sottile e vorace come un calore che strugge quanto
attinge, per modo che talvolta a sera rinveniamo tra le ceneri e le
scorie qualche straordinaria sublimazione. Ella ci persuade ogni giorno
l'atto che è la genesi stessa di nostra specie: lo sforzo di sorpassar
sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di un dolore
trasmutato nella più efficace essenza stimolatrice; ella c'insegna che
il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura
e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale
molto ha gioito.

In verità, se tutto il popolo emigrasse abbandonando le sue case,
attratto oggi da altri lidi come già la sua eroica giovinezza fu
tentata dall'arco del Bosforo al tempo del doge Pietro Ziani, e
nessuna preghiera più percotesse l'oro sonoro dei mosaici concavi, e
nessun remo più perpetuasse col suo ritmo la meditazione dell'antica
pietra, Venezia rimarrebbe pur sempre una Città di Vita. Le creature
ideali che il suo silenzio custodisce vivono in tutto il passato e
in tutto l'avvenire. Noi discopriamo in loro sempre nuove concordanze
con l'imminente edifizio dell'Universo, riscontri inattesi con l'idea
che nacque ieri, chiari annunzii di ciò che in noi non è se non un
presentimento, aperte risposte a ciò che noi non osiamo chiedere
ancora. Esse sono semplici, e tuttavia cariche di significazioni
innumerevoli; sono ingenue, e tuttavia vestite di tuniche speciose. Se
noi le contemplassimo per un tempo indefinito, esse non resterebbero
mai dal versare nel nostro spirito verità dissimiglianti. Se noi
le visitassimo ogni giorno, esse ogni giorno ci apparirebbero in
un aspetto impreveduto, come i mari, i fiumi, i prati, i boschi, le
rupi. Talvolta le cose ch'esse ci dicono non giungono fino al nostro
intelletto, ma si rivelano a noi per una specie di confusa felicità in
cui la nostra sostanza sembra fremere e dilatarsi dall'imo. In qualche
mattino limpido esse ci indicheranno il cammino che conduce alla
foresta remota ove la Bella ci attende da tempo immemorabile sepolta
nella sua mistica chioma.

Donde a loro viene lo smisurato potere?

Dalla pura inconsapevolezza degli artefici che le crearono.

Questi uomini profondi ignorano l'immensità delle cose ch'essi
esprimono. Immersi nella vita con milioni di radici, non come alberi
soli ma come vastissime selve, essi assorbono infiniti elementi per
trasfonderli e condensarli in specie ideali le cui essenze rimangono
a loro ignote come i sapori del pomo al ramo che lo porta. Essi sono
i misteriosi tramiti per cui si appaga la perpetua aspirazione della
Natura verso i tipi ch'ella non giunge a stampare integri nelle sue
impronte. Per ciò, continuando l'opera della divina Madre, la loro
mente «si trasmuta in una similitudine di mente divina», come dice
Leonardo. E, poiché la forza creatrice affluisce alle loro dita come la
linfa alle gemme degli alberi incessantemente, essi creano con gioia.

Creare con gioia! È l'attributo della Divinità. Non è possibile
imaginare al vertice dello spirito un atto più trionfale. Le parole
stesse che lo significano hanno la splendidezza dell'aurora.

E questi artefici creano con un mezzo che è per sé medesimo un mistero
gioioso: col colore, che è l'ornamento del mondo; col colore, che
sembra esser lo sforzo della materia per divenir luce.

E il novissimo senso musicale ch'essi hanno del colore fa sì che la
lor creazione trascenda i limiti angusti dei simboli figurati e assuma
l'alta virtù rivelatrice di un'infinita armonia.

Mai come dinnanzi alle loro ampie tele sinfoniali ci appare evidente la
sentenza proferita da quel Vinci a cui la Verità balenò un giorno co'
suoi mille volti segreti: «La musica non ha da essere chiamata altro
che sorella della pittura.» La lor pittura non è soltanto «una poesia
muta» ma è anche una musica muta. Per ciò i più sottili ricercatori di
rari simboli, coloro che più furon curiosi di segnare nella purezza di
fronti meditative gli indizii di un interno Universo, ci sembrano quasi
aridi al paragone di questi grandi musici inconsapevoli.

Quando il Bonifacio, nella Parabola del ricco Epulone, intona su
una nota di fuoco la più potente armonia di colore in cui siasi
mai rivelata l'essenza di un'anima voluttuosa e superba, noi non
interroghiamo il sire biondo che ascolta i suoni assiso tra le due
cortigiane magnifiche i cui volti splendono come lampade di puro
elettro; ma, trapassando il simbolo materiale, ci abbandoniamo con
ansia alla virtù evocatrice dei profondi accordi in cui il nostro
spirito sembra oggi trovare il presentimento di non so qual sera grave
di belle fatalità e d'oro autunnale su un porto quieto come un bacino
d'olio odorifero ove una galera palpitante di orifiamme entrerà con uno
strano silenzio come una farfalla crepuscolare nel calice venato di un
gran fiore.

Non la vedremo noi veramente coi nostri occhi mortali, in qualche sera
di gloria, approdare al Palazzo dei Dogi?

Non ci appare essa da un orizzonte profetico nell'Allegoria
dell'Autunno che il Tintoretto ci offre come una superiore imagine
creata del nostro sogno di ieri?

Seduta su la sponda, in aspetto di deità, Venezia riceve l'anello
dal giovine dio pampinifero disceso nell'acqua, mentre la Bellezza si
libra nell'aria a volo con un serto di stelle per coronare l'alleanza
meravigliosa.

Guardate il naviglio lontano! Sembra che rechi un annunzio. Guardate
i fianchi della Donna simbolica! Sono capaci di portare il germe d'un
mondo.


Bisogna onorare quel cittadino veneziano che, inviando un nobile
messaggio ai nostri maestri d'arte e a quelli d'oltremonte e
d'oltremare, dimostrò d'aver fede in questa forza di fecondità ideale
ond'è dotata Venezia. V'è dunque ancora qualcuno che in mezzo a tanta
miseria e a tanta abiezione serba la fede nel genio occulto della
stirpe, nella virtù ascendente delle idealità trasmesseci dai padri,
nel potere indistruttibile della Bellezza, nella sovrana dignità dello
spirito, nella necessità delle gerarchie intellettuali, in tutti gli
alti valori che oggi dal popolo d'Italia sono tenuti a vile. Bisogna
onorare quel cittadino. Invitando con solennità a convenire in Venezia
maestri d'ogni paese perchè recassero innanzi a questo eterno focolare
d'arte una qualche testimonianza dei loro sogni e dei loro sforzi
nuovi, egli dimostrò di conoscere il significato verace dell'evento
opportuno.

In nessun altro luogo — egli certo pensò — questi ospiti potrebbero
sentire più profondamente il discordo che è oggi tra l'Arte e la Vita.

O uomini solitarii — egli volle dire — i quali vi traeste in disparte
dalla folla ostile per adorare un fantasma che sol vive nello specchio
dei vostri occhi; e voi che vi creaste re d'una reggia senza finestre,
ove in vano aspettate da tempo immemorabile non so qual Visitazione;
e voi che di sotto a una ruina credeste disseppellire il simulacro
della Bellezza, e non era se non una Sfinge corrosa che vi travaglierà
coi suoi enigmi sino alla morte; e voi che ogni sera vi mettete su le
vostre soglie per veder giungere lo Straniero misterioso dal mantello
gonfio di doni, e pallidi ponete l'orecchio contro la terra per udire
il passo che sembra avvicinarsi e poi si dilegua; voi tutti che un
cordoglio rassegnato sterilisce o un orgoglio disperato divora, voi
tutti che indura una pertinacia inutile o rende insonni un'attesa di
continuo delusa, venite a riconoscere i vostri mali sotto lo splendore
di quest'anima antica e pur sempre novella. Essa vi rivelerà il segreto
della sua fiamma inestinguibile quando vi dirà che nacque dal più
appassionato connubio dell'Arte con la Vita.


   _Nell'ottobre del 1895, chiudendosi la prima «Esposizione
   internazionale d'Arte» in Venezia._



           _Stampato in Firenze per i tipi di Salvadore Landi
                            novembre, 1895._



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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