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Title: Leopardi Author: De Roberto, Federico Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Leopardi" *** F. DE ROBERTO LEOPARDI NUOVA EDIZIONE con un avvertimento dell'autore e il fac-simile di una lettera di GIOSUE CARDUCCI MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1921. PROPRIETÀ LETTERARIA. _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda,_ Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera che non porti il timbro a secco della Società Italiana degli Autori. Milano, Tip. Treves. AVVERTIMENTO. _Il presente libriccino fu composto prima della ricorrenza del Centenario leopardiano e vide la luce durante quella memorabile celebrazione, cioè mentre l'immensa miniera dello _Zibaldone_, per mezzo secolo rimasta ignorata o inaccessibile, si veniva appena schiudendo. Dopo che fu tutta aperta ed in ogni senso percorsa, l'autore di questo breve studio credette suo debito tener conto dei nuovi preziosissimi materiali per una futura nuova edizione del suo lavoretto, e si accinse infatti all'opera; sennonchè fu ben presto costretto a riconoscere che per giovarsi quanto era necessario dei sette volumi dei _Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura_ non bastava ritoccare le pagine che egli aveva scritte, ma bisognava rifarsi dal primo principio e comporre un altro libro, se non di diverso disegno, certamente di più largo respiro._ _Poichè non gli è finora riuscito di portarlo a compimento, e propriamente dispera che gli riesca mai più, egli non ha saputo che cosa fare del suo primo saggio: se lasciarlo, cioè, esaurito, come è da tanto tempo, o ripubblicarlo tale e quale. A questo secondo consiglio si apprende oggi, confortato dal giudizio del quale volle onorarlo, ventitrè anni addietro, il Maestro dei maestri. La lettera di Giosue Carducci qui riprodotta sarà la migliore giustificazione della presente ristampa, come fu ed è il massimo premio che l'autore potesse mai ripromettersi._ 28 giugno 1921. [Illustrazione: Lettera di Giosue Carducci.] Bol. 18 f. 1898 Caro signore, Grazie del libro. Mi pare una enciclopedia del pensiero e del sentimento leopardiano di fonte, condotta con metodo esatto e fedele, molto buona e utile. Può addomesticare, e lo spero e l'auguro, la gente, sempre e per lo più grossolana e pregiudicata e declamatrice, alla cognizione della imagine del poeta e pensatore. La saluto. Giosue Carducci L'INDOLE I. IL SENTIMENTO POETICO. Fanciullo di otto anni, per divertire i suoi fratellini, Giacomo Leopardi inventava fiabe e novelle, alcune delle quali duravano più giorni come romanzi; una specialmente, piena di strane e fantastiche avventure improvvisate secondo che l'azione si veniva svolgendo, durò più settimane. I personaggi erano però tolti dal vero: il conte Monaldo suo padre si chiamava Asmodante, Lelio il fratello Carlo, il brillante eroe Filzero era lo stesso narratore. Egli sapeva trasfondere tanta vita in questi tipi, che tre quarti di secolo più tardi il conte Carlo, udendo qualche tratto di spirito, esclamava: “Questa è _filzerica!_....„ A dieci anni, Giacomo cominciò a comporre i suoi primi libri. Nel 1810, a dodici anni, scrisse al padre scusandosi di non potergli nulla offrire in occasione delle feste: “Crescendo l'età crebbe l'audacia, ma non crebbe il tempo dell'applicazione. Ardii intraprendere opere più vaste, ma il breve spazio, che mi è dato di occupare nello studio, fece che laddove altra volta compiva i miei libercoli nella estensione di un mese, ora per condurli a termine ho d'uopo di anni.„ Le sue composizioni di quel tempo sono tragedie, poemetti, cantiche sacre e profane: il _Pompeo in Egitto_, il _Catone in Africa_, le _Notti puniche_, il _Balaamo_. Questo ingegno straordinariamente precoce comincia dunque a dar prova di fervida immaginazione. Il giovanetto ben presto si dà tutto agli studi severi delle lingue e delle letterature antiche; sembra allora che questa sua dote debba restare inutile, che questo lume interiore debba spegnersi: in luogo d'inventare egli traduce; in luogo d'esprimere idee proprie, ricerca, raccoglie, discute quelle degli altri. Tuttavia, quando pare che la sua facoltà immaginativa sia isterilita sotto la polvere dei vecchi libri, fra le grammatiche, fra i dizionarii greci ed ebraici, dà ancora prova di forza. Il Creuzer trova nel suo lavoro sul Porfirio “plus d'effervescence juvénile et d'imagination que de maturité d'esprit.„ Studiando filologia, trattando di ingrate quistioni etimologiche, egli segue una “ispirazione indovinatoria„ e “quella certezza intima che per quanto non si possa trasfondere facilmente in altri, con tutto questo è fortissima e nasce da una gagliarda apprensione di certe probabilità, la quale ci farebbe giurare che la cosa sta così, nonostante che non se ne possa portare alcuna prova irrepugnabile.„ Nell'immenso cimitero dell'antichità egli rimescola le ceneri dei grandi morti, interroga le lapidi, decifra i nomi; ma quante volte lo stesso nome è cancellato! Tra il cielo della gloria e le profondità dell'oblio sembra che vi sia un luogo dubbio come il limbo cristiano: chi furono Elio Aristide, Dione, Crisostomo, Cornelio, Frontone? Nulla, quasi nulla si conosce della loro vita; il loro pensiero è perito, è disperso. Ed ecco l'erudito adolescente attendere, con le poche e incerte notizie che i suoi libri glie ne danno, a ricostruire la loro vita, a rifare le loro opere. La sola idea d'un simile lavoro non prova il fervore d'una immaginazione che, per poco costretta nell'aridità degli studi filologici e storici, troverà più tardi altri campi dove spaziare? Fantasia ed erudizione si danno ancora meglio la mano quando, “innamorato della poesia greca„, egli tenta un'impresa simile a quella di Michelangelo, “che sotterrò il suo Cupido, e a chi dissotterrato lo credeva d'antico portò il braccio mancante„: grazie alla sua scienza dell'antichità ellenica compone un _Inno a Nettuno_ che finge d'aver tradotto dal greco, e che greco fu veramente stimato; ma l'opera sua è originale, è dovuta alla nativa facoltà creatrice, ravvivatrice, animatrice. Simonide celebrò il successo delle Termopili, e il suo canto andò perduto: il Leopardi, commiserando il destino di quegli Italiani che morivano in guerra per una causa non propria, ricorda i Trecento caduti sul colle d'Antelo e procura “rappresentarsi alla mente le disposizioni dell'animo del loro poeta in quel tempo„, e così rifarne il canto. Dalle sue stesse parole noi vediamo di che specie sia la facoltà immaginativa dello scrittore. Essa non si esercita tanto sulle cose quanto intorno ai sentimenti, non gli suggerisce tanto forme quanto idee. Per questo suo speciale carattere si può antivedere che l'immaginazione del Leopardi sarà associata con la facoltà di pensare e di riflettere; ma essa naturalmente dipende da quella di sentire e di commuoversi. Come mai il fanciullo sarebbe capace di creare tanti tipi e d'inventare così belle favole, se le figure e gli atti delle persone reali non avessero lasciato profonde impressioni dentro di lui? Come mai il giovanetto darebbe vita a tanti eroi, a tanti fantasmi, se egli stesso non vivesse intensamente? La sensibilità del Leopardi è infatti grande e precoce quanto la sua immaginazione: bambino di quattro anni e mezzo, dinanzi al cadavere di un fratellino scoppia in un pianto così dirotto che il padre ne è maravigliato ed esprime questa maraviglia in un suo Diario. Misurare la capacità degli organi dei sensi di un morto, sulla fede dei suoi scritti, contando gli aggettivi da lui adoperati, interpretando il valore delle sue espressioni, è malagevole tanto, che gli scienziati i quali hanno tentato questo lavoro intorno al Leopardi non sono venuti a conclusioni concordi. Certo è che lo sviluppo fisico e morale del Recanatese fu anticipato di quattro o cinque anni e che la sua salute si rovinò irreparabilmente. Narreremo più tardi la storia dei suoi mali; questo è il luogo di notarne il principale: un disordine nervoso, una irritabilità sensoria, una disposizione a risentire intensamente, fino allo spasimo, tutte le impressioni del mondo esterno. Le impressioni grate sono in lui più forti che negli altri uomini; ma le dolorose sono più forti e più frequenti: sono continue. I suoi occhi non possono sostenere la luce del sole e spesso neppur quella delle candele; il suo udito è letteralmente ferito dai rumori; la sua cute non resiste nè al freddo nè al caldo. Moralmente noi troviamo in lui la stessa esagerazione. Egli si commuove al sorriso dei campi, al canto degli uccelli, al raggio della luna; una sera “prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un'aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato....„ Nel commercio degli uomini le cerimonie sono per lui “sciagurate„ perchè “ci tolgono e difficultano una delle massime consolazioni che ci sieno concesse in questa misera vita, voglio dire quella del manifestarsi e diffondersi i cuori sensitivi gli uni negli altri.„ Tutto quello che impedisce l'espressione vera del cuore gli riesce odioso: egli ha sempre avuto ed avrà sempre bisogno “della comunicazione del cuore e dei sentimenti.„ Nulla al mondo è per lui desiderabile “se non i diletti del cuore e la contemplazione della bellezza.„ Alla bellezza poetica è sensibile in modo che i parenti, per richiamare la sua attenzione quando lo vedono assorto, usano citare ad alta voce qualche verso di Virgilio, d'Orazio, del Petrarca: allora egli si scuote e si desta. La viva ed animata bellezza è a lui fonte “inenarrabile„ di pensieri e sentimenti “eccelsi ed immensi„, e segno e sicura speranza “di fati sovrumani, di fortunati regni ed aurei mondi.„ La bellezza di Aspasia gli appare qual “raggio divino„: simile effetto Fan la bellezza e i musicali accordi Ch'alto mistero d'ignorati Elisi Paion sovente rivelar. E se i rumori lo feriscono, la musica è una delle sue grandi passioni, “e dev'esserlo di tutte le anime capaci d'entusiasmo.„ Egli grida al fratello: “Ho bisogno d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita.„ E quando la sorella gli scrive con la sua “consueta sensibilità„, egli ne resta consolato in più modi: “perchè mostri di volermi tanto bene, perchè mi persuadi che la sensibilità si trova al mondo, perchè risvegli la mia non verso te in particolare, ma verso tutto l'universo„. L'amor fraterno è in lui un “amor di sogno„; pensando al fratello suo spesso egli piange di tenerezza. Vedremo più tardi altre prove della forza di questo suo sentimento; vedremo ancora sino a qual grado saliranno in lui i sentimenti dell'amore e dell'amor proprio e dell'amor patrio: osserviamo per ora qualche altro segno della sua acuta sensibilità morale. La sua corrispondenza epistolare col Giordani pare quella d'un innamorato. Aspettando la visita dell'amico, egli crede che resterà qualche giorno senza dirgli niente, “per non sapere da che cominciare. Non sarà poco se vi darò spazio di mangiare e di dormire.„ E visto che l'avrà, potrà dire “che non tutti quei desideri più focosi ch'io ho sentito in mia vita sono stati vani.„ Dovendo immaginare qualche cosa di sua grande allegrezza, non crede che ne proverebbe una maggiore di quella che il diletto amico gli reca dandogli buone notizie della sua salute. E se manca di sue notizie cade in una “ansietà spaventosa„ e scrive al Mai una lettera piena d'angoscia. Rivolgendosi direttamente al pigro corrispondente, gli dice: “Ho pensato di voi quelle più acerbe cose che si possono pensare di persona più cara che la vita propria. Ho provato strette di cuore così dolorose, che altre tali non mi ricordo di aver mai provato in vita mia.„ Nè si lagna tanto del silenzio dell'amico quanto della propria esagerazione: “di questo amor mio che le cose più ordinarie e naturali se le figura stranissime e miracolose„: dove noi possiamo vedere come gli eccessi della sensibilità determinano gli eccessi dell'immaginazione. Questo medesimo rapporto fra i sentimenti e le immagini troviamo espresso in un altro luogo dove egli parla del fratello Carlo: lasciando Recanati nel 1822 egli sa che Carlo resta in angustie; da Roma gli scrive: “Questo pensiero mi pungeva infinitamente quel primo giorno ch'io ti lasciai e che io mi dipingeva alla fantasia tutto il nero, tutto il freddo, tutto il morto dell'abbandono in cui ti trovavi.„ Sin da questo momento è da prevedere che un uomo così fatto non sarà felice. Con tanta esasperazione della sensibilità fisica e morale, con tanta esorbitanza dell'immaginazione, i suoi spasimi saranno ineffabili. Certo, anche le sue gioie saranno più intense che non quelle degli uomini comuni; ma i dolori saranno più copiosi, e le stesse gioie gli riusciranno spesso intollerabili. Guardate, per esempio: agli uomini medii la speranza suol essere una grata consolatrice: in lui diventa “passione turbolentissima.„ Egli non si maraviglia che la speranza travagli “assai più della disperazione e del dolore„ la sorella Paolina, tanto simile a lui moralmente. Sperando con tutte le sue forze, temendo che la cosa tanto sperata non succeda, egli giudica che la disperazione e lo stesso dolore sono “più sopportabili della speranza.„ Quando gli accade qualche cosa che non ha previsto, egli l'apprezza esattamente; ma che cosa non prevede un'immaginazione fervida come la sua? Essa gli anticipa le impressioni della vita, le eccita in lui prima che gli avvenimenti reali si producano; e la sua sensibilità smodata si mette a vibrare dinanzi a questi fantasmi, dinanzi a queste vanità, come dinanzi alle cose. Quando sopraggiungono le impressioni reali, esse gli sembrano scialbe ed insipide. Pertanto egli giudica scarsi il piacere e la bellezza nel mondo, e la fantasia gli pare preferibile alla realtà. Allora egli non trova altro porto “che quello dei fantasmi e delle immaginazioni„, e non solo disprezza la realtà, ma la nega, la considera “un nulla„, ed afferma che solo le “care illusioni„ sono cose consistenti. Così egli ragiona al rovescio degli uomini comuni, ed all'invertito ragionamento corrisponde un sentimento d'orgoglio: perchè l'anima sua, capace di creare le sole cose belle e vere, sarà diversa dalle altre, anzi migliore di tutte: “alta, gentile e pura„. Basterà per il momento avere accennato a questi danni: quantunque essi non siano lievi, vediamo ora come altri se ne producano per un'altra, per una nuova ragione. Poichè egli antepone le illusioni alla realtà, non le tiene “per mere vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, giacchè non sono capricci particolari di questo e di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno.„ Dall'osservazione di ciò che accade in lui trae così un'affermazione generale: e certo l'identità dell'umana natura deve consentirci di estendere a tutti gli uomini ciò che è proprio ad uno di loro; ma questi uomini tanto simili sono pure tanto diversi che non se ne trovano due del tutto eguali; e il Leopardi non sarebbe singolarissimo se tutti attribuissero, come egli fa, tanta importanza alle illusioni. La capacità di considerare il mondo reale “un nulla„ e di preferirgli il mondo suscitato dalla fervida fantasia ed apprezzato dall'acuta sensibilità, è propria dei poeti: il sentimento poetico è appunto fatto di sensibilità e di fantasia. Tali doti portate dalla nascita fanno poeta il Leopardi; la loro esagerazione spiega la sua parentela con tutti gli altri poeti dolenti; ma l'indole sua si specifica perchè egli possiede un'altra dote eminente che col sentimento poetico d'ordinario non s'accorda, che anzi lo contrasta. II. LO SPIRITO FILOSOFICO. Tra la scienza e la poesia, tra la forza dello spirito e l'intensità del sentimento c'è d'ordinario opposizione e contrasto: gli uomini maggiormente impressionabili non sogliono essere i più riflessivi. Le due capacità si trovano tuttavia insieme unite in alcune anime che da questa unione riconoscono la loro potenza. La facoltà che agguaglia i poeti e gli artisti agli uomini di scienza è l'immaginazione. Il Leopardi, componendo l'inno a Nettuno, ricomponendo il canto di Simonide, eccitando il Missirini a “render corpo e vita alle ossature e agli scheletri dell'antico teatro greco e romano„, fa opera simile a quella del naturalista che da alcuni frammenti fossili ricostruisce tutto l'ignoto essere vivente al quale questi appartennero. La concezione dell'ipotesi della quale lo scienziato si serve per ispiegare i fatti osservati è simile alla concezione poetica e romanzesca. La scienza delle scienze, la filosofia, è ancora più vicina alla poesia che non tutte le altre. L'importanza dell'ipotesi è senza fine maggiore in filosofia che non nelle scienze esatte: anzi, considerando i problemi massimi ed insolubili — l'origine, la natura, il fine della vita e del mondo — la filosofia riposa tutta quanta sopra ipotesi. E poichè l'ipotesi è opera di quella potenza immaginativa alla quale il poeta deve i suoi concepimenti, la parentela tra il poeta ed il filosofo è manifesta. “Abbi per cosa certa,„ dice lo stesso Leopardi, buon giudice, “che a far progressi notabili nella filosofia non bastano sottilità d'ingegno e facoltà grande di ragionare, ma si cerca eziandio molta forza immaginativa; e che il Descartes, Galileo, il Leibniz, il Newton, il Vico, in quanto all'innata disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti, e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi.„ Filosofia e poesia sono ancora affini per questo: che molto spesso, anzi quasi sempre si esercitano intorno allo stesso oggetto: l'anima umana: “E ben sai che egli è comune al poeta e al filosofo l'internarsi nel profondo degli animi umani, e trarre in luce le loro intime qualità e varietà, gli andamenti, i moti e i successi occulti, le cause e gli effetti dell'une e degli altri„. Ma questa affinità, sia grande quanto si voglia, non arriva all'identità; al contrario. Un poeta può rassomigliare molto ad uno scienziato e moltissimo ad un filosofo; ciascuno ha tuttavia i suoi particolari e indelebili segni. Per la potenza dell'immaginazione essi si somigliano; ma l'immaginazione è unita con la sensibilità nel poeta, con la ragione nello scienziato e nel filosofo. Facoltà propria del filosofo è, secondo lo stesso Leopardi, quella di “penetrare coi pensieri nell'intimo delle cose„; di “sciorre e dividere le proprie idee nelle loro minime parti„; di “ragunare e stringere insieme un buon numero di esse idee„; di “contemplare con la mente in un tratto molti particolari in modo da poterne trarre uno generale„; di “seguire indefessamente coll'occhio dell'intelletto un lungo ordine di verità connesse tra loro a mano a mano„; di “scoprire le sottili e recondite congiunture che ha ciascuna verità con cento altre.„ Più brevemente: il filosofo non considera i fatti nelle loro apparenze, ma ne misura il valore, ne esprime il significato e ne discopre le leggi. Abbiamo visto che il Leopardi, a otto anni, è novellatore e poeta; ancora adolescente, quando gli altri non hanno finito di apprendere le lingue egli è maestro di filologia. L'opera sua è di vero scienziato: le sue emendazioni dei testi, le sue illustrazioni, i suoi commentarii, tutto il suo minuto ed acuto lavoro di critica, se è aiutato dall'intuito, dal “tatto quasi divinatorio„ del quale parla suo fratello Carlo, è pur dovuto principalmente alla potenza riflessiva della sua mente. Ma egli non si può contentare di questo esercizio; mira a più vasti orizzonti: dalle regole grammaticali passa alle leggi dell'anima. Già vedemmo come, osservata in sè stesso la preminenza delle illusioni e considerato che la natura umana è essenzialmente una, egli estende a tutti gli uomini quel che gli è proprio. Vediamo qualche altro esempio di questa sua attitudine ad astrarre e generalizzare. Un giorno, rivolgendosi ad un maestro perchè riveda l'opera sua, egli prova un senso di rimorso nel distoglierlo da altre occupazioni: il bisogno dei consigli e la paura di essere indiscreto vengono in contrasto; l'interesse proprio trionfa; dall'osservazione di questo fatto egli ricava una sentenza: “Veggo bene che io usurpo momenti che dovrebbero essere sacri a tutta la repubblica delle lettere „, scrive al Mai, “svolgendola da occupazioni utili all'universale letteratura, e ne ho rimorso; ma che debbo dirle? L'amor proprio è assai potente, e fa che si desideri per sè solo quello che si dovrebbe impiegare per il bene di tutti....„ Quando noi ci troviamo soli in un'opinione anche vera sprezziamo l'altrui opposizione; pure il dubbio di essere in inganno può tormentarci e una secreta voce dirci che l'ostinazione ci fuorvia; se noi non siamo filosofi ci ostiniamo o dubitiamo senz'altro; un pensatore come il Leopardi formula una legge della quale misura l'estensione: “Certo quel trovarsi solo in una sentenza vera fa paura, e a noi medesimi spesso la costanza pare caponaggine, la noncuranza degli sciocchi giudizi, superbia, il credere d'intenderla meglio degli altri, presunzione.„ Ancora: ripensando ad un nostro piacere passato, noi possiamo sentire che esso non fu tanto grande quanto poteva essere, e rammaricarcene; il Leopardi, in una condizione simile, esprime una verità: il pentimento di non aver goduto appieno, dice, ci grava l'anima e il piacer che passò cangia in veleno. Non occorre moltiplicare gli esempii. Il risultato è che in età quasi fanciullesca egli ha già “certezza e squisitezza di giudizio sopra le grandi verità non insegnate agli altri se non dall'esperienza, cognizione quasi intera del mondo e di sè stesso.„ Ma quest'abito filosofico così presto contratto grazie alla capacità indagatrice della mente, ostacola gli slanci del poeta. Guidati dalla comune potenza immaginativa, poeta e filosofo procedono per vie parallele; essi divergono obbedendo all'impulso particolare della loro natura. Il poeta vuol sentire: il filosofo vuol ragionare. La singolare capacità del poeta è di apprezzare le cose che l'immaginazione gli pone dinanzi: di vibrare, di fremere, di gioire, di spasimare; la singolare capacità del filosofo è quella di spiegare le cose che l'immaginazione gli rappresenta: di paragonare, di dedurre, di astrarre, di intendere. Certo, non è possibile al poeta sentire senza giudicare; nè al filosofo giudicare senza sentire; ciò spiega ancora la loro affinità; ma come il giudizio del poeta, se pure è esatto, si altera perchè egli obbedisce troppo alle simpatie, alle antipatie, e in generale alle passioni; così il sentimento del filosofo, se pure è schietto, si altera perchè egli troppo lo indaga ed esamina. Immaginate che il cielo a un tratto si oscuri, che il vento, la pioggia, la folgore muovano guerra alla terra ed alle sue creature. La tempesta le rende fredde, tacite, smorte. Torni la quiete, si sgombri il cielo, riapparisca chiaro il fiume giù nella valle: ogni cuore si rallegra, da ogni parte la vita riprende con nuovo ardore il suo corso. Il poeta che si è sentito opprimere come tutti gli altri durante la bufera, dovrebbe come tutti gli altri gustare la letizia del sereno; ma se questo poeta si chiama Giacomo Leopardi, il filosofo che c'è in lui non si abbandona al piacere del momento: come il chimico che saggia e scompone i corpi per conoscerne la natura, così il filosofo saggia e scompone i sentimenti. Egli ragiona così: “Prima che scoppiasse la tempesta il cielo era chiaro, l'aria era quieta, il sole splendeva; ma chi godeva di queste cose? Non solamente pochi ne godevano, ma quasi passavano inosservate dai più. Ora, sì, ne godiamo tutti; perchè? Che cosa è avvenuto? È avvenuto questo: che le perdemmo per un momento. Dallo stato d'indifferenza nel quale eravamo prima, passammo a uno stato di paura e d'angoscia. Il nostro piacere d'ora che cosa è dunque? È una cosa negativa, è la fine del dolore sopravvenuto.„ Ed egli scrive la _Quiete dopo la tempesta_, che è tutt'insieme una poesia squisita ed una pagina di filosofia; ma dove se ne è andata la sua sensazione piacevole? È finita; è stata dispersa dal ragionamento che l'ha trovata tutta relativa e fallace. L'esempio è significante. Il Leopardi è un poeta sensibilissimo, ma c'è anche in lui un freddo speculatore; e appunto per questa complessità della sua mente egli è molto più infelice che non sarebbe se fosse soltanto poeta troppo vibrante. Naturalmente la capacità di pensare viene dopo quella di sentire. Noi tutti cominciamo a sentire appena dischiusi gli occhi alla luce; l'intelletto lavora più tardi. Il Leopardi vive pertanto, nei primissimi tempi, al modo poetico, sentendo, vibrando, illudendosi; se questa sua capacità non fosse grandissima, il pensiero, la ragione, cominciando ad operare più tardi, forse ne trionferebbe; e se la capacità di pensare non fosse in lui massima, forse trionferebbe il sentimento: il suo strazio per questo è ineffabile: perchè dentro di lui si urtano e lottano due anime diverse di tempra, ma egualmente gagliarde. Uditelo lagnarsi col Giordani dei danni che ha prodotti in lui la ragione: “Vi vedo molto malinconico e potete credere che non so come consolarvi, se non pregandovi a concedere qualche cosa alle illusioni che vengono, sostanzialmente dalla natura benefattrice universale, dove la ragione è la carnefice del genere umano, e una fiaccola che deve illuminare, ma non incendiare, come pur troppo fa....„ Come pur troppo ha fatto in lui e nei suoi pari, sarebbe più giusto dire. Ma il suo spirito non è così fatto da cercare nei casi particolari ciò che è generale, da estendere a tutta la natura umana ciò che è proprio di alcuni uomini? E tutta la storia della sua vita morale è piena dei dolori prodotti dal dissidio tra il sentimento e lo spirito, tra la fantasia e la ragione. A noi ti vieta Il vero appena è giunto, O caro immaginar.... Il pensiero lo fa soffrire, la verità nuda gli incute paura, la visione poetica dell'esistenza gli è parsa solo amabile; più tardi “ogni cosa che sa di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro fuorchè il vero, che ho già tanto odiato e detestato.„ E se la verità alla quale egli perviene non gli è grata, tuttavia la soddisfazione di trovarla è dilettosa; ma perchè questo diletto sia possibile bisogna che “l'ultima scintilla„ si spenga nel suo cuore; finchè il cuore ardeva egli non la poteva comprendere; la ragione e la fantasia erano incompatibili. Questa incompatibilità è l'origine delle sue contraddizioni. Giudicato, per la sua natura troppo poeticamente immaginosa, che le illusioni e le speranze sono le cose più amabili, egli asserisce che la fantasia è la sola fonte di felicità in questa vita; ma l'asserzione è dovuta al filosofo, la legge è formulata dal filosofo; e questo filosofo non può assegnare una parte secondaria alla ragione sulla quale è poggiata la sua filosofia; quindi un urto continuo. Ed egli sa qual danno derivi “dal voler troppo far uso della ragione„ — della ragione che gli fa riconoscere “tutta la verità„ intorno ai funesti effetti della fantasia.... In tanto contrasto, che cosa accade di un'altra facoltà dell'anima, d'una facoltà necessaria a vivere in mezzo agli uomini: della volontà? Sentire, immaginare, ragionare, sono cose belle e buone; ma bisogna anche volere ed agire. Nelle crisi continue prodotte dall'intimo dissidio dell'imperiosa ragione e della fantasia smodata, Giacomo Leopardi perde la capacità di operare. Per un tempo troppo breve, prima che egli immagini e quando ancora non indaga, è attivo e prepotente: fanciullo, nelle finte battaglie romane, a lui debbono toccare le più belle parti; dietro al suo carro di trionfatore si debbono trascinare i fratellini in atteggiamento di schiavi. La volontà dà ancora prova di tenacia quando egli studia per lunghi anni, eroicamente, da mattina a sera, finchè la lucerna dà gli ultimi guizzi; quando apprende senza maestro il greco e l'ebraico; quando non resta in ozio neppure per aspettare che l'inchiostro della fresca scrittura si asciughi, ed impiega questi minuti a leggere grammatiche spagnuole ed inglesi; ma già la volontà sua non è più quella che rende capaci di agire. Studiare è un altro modo di pensare, è la condizione necessaria per avere di che ragionare: l'energia, la forza di muoversi, di lottare, scema a poco a poco e si disperde. Egli è andato troppo dietro alle finzioni; ha troppo disperso la sua capacità vitale vivendo in un mondo immaginario. Se vuole operare, se vuole esercitare la sua sensibilità avida e ingorda nel mondo reale, la forza stessa dell'attività interiore gli è d'impaccio. Egli non sa come fare, da qual parte cominciare. “Il embrasse tout, il voudrait toujours être rempli; cependant tous les objets lui échappent, précisément parce qu'ils sont plus petits que sa capacité. Il exige même de ses moindres actions, de ses paroles, de ses gestes, de ses mouvements, plus de grâce et de perfection qu'il n'est possible à l'homme d'atteindre. Ainsi, ne pouvant jamais être content de soi-même, ni cesser de s'examiner, et se défiant toujours de ses propres forces, il ne sait pas faire ce que font tous les autres.„ Egli descrive con mano maestra questa impotenza per averla studiata direttamente in sè stesso. Quando si lamenta del pensiero, quando dice che il pensiero lo cruccia e lo martora, che è il suo carnefice e il suo distruttore “per questo solo che m'ha avuto sempre e m'ha interamente in sua balìa„, egli significa l'impotenza dolorosa alla quale è condannato, contro sua voglia, “senza alcun desiderio„, anzi col desiderio opposto, di muoversi, di operare, di vivere attivamente. Questa impotenza gli è tanto propria che più e più volte egli la significa nelle sue composizioni artistiche. Egli loda l'amore perchè, mercè sua, Sapïente in opre Non in pensiero invan, siccome suole, Divien l'umana prole. Egli invidia gli uccelli perchè “cangiano luogo ad ogni tratto; passano da paese a paese quanto tu vuoi lontano, e dall'infima alla somma parte dell'aria, in poco spazio di tempo, e con facilità mirabile; veggono e provano nella vita loro cose infinite e diversissime; esercitano continuamente il loro corpo; abbondano soprammodo della vita estrinseca.„ E il suo Filippo Ottonieri narra che Socrate “inchinando naturalmente alle azioni molto più che alle speculazioni, non si volgeva al discorrere, se non per le difficoltà che gl'impedivano l'operare.„ Questo impedimento fu il suo; tanto più doloroso quanto che egli ne ebbe nitida coscienza. Di tutti i mali derivanti dalla sua costituzione psichica noi abbiamo visto che egli ebbe coscienza; i quali, riassumendo, furono: l'esagerazione del sentimento poetico, cioè della sensibilità e della fantasia; il contrasto fra questo squisito sentimento poetico con un altissimo spirito filosofico, e per conseguenza la depressione e la dispersione della volontà. L'EDUCAZIONE CLASSICISMO E ROMANTICISMO. Un terreno arido s'irriga, un albero che pende si raddrizza: l'arte corregge la natura. Quali mezzi furono posti in opera per modificare la pericolosa disposizione di Giacomo Leopardi? Parleremo a suo luogo dell'azione della famiglia: questo è il momento di narrare la sua educazione intellettuale. Con tanta smania d'azione, con tanta e tanto precoce capacità di vivere, il giovanetto recanatese passa i migliori anni dell'adolescenza sui libri. “Io sono andato un pezzo in traccia della erudizione più pellegrina e recondita, e dai 13 anni ai 17 ho dato dentro a questo studio profondamente, tanto che ho scritto da sei a sette tomi non piccoli sopra cose erudite (la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato).„ Non soltanto la salute del corpo è rovinata; ma quella dello spirito è peggiorata. Il lavoro della mente diviene, a scapito dell'attività dei muscoli, il suo bisogno, il suo amore. Infermo, egli lavora ancora sei ore il giorno; e dice d'essersi così moderato “assaissimo.„ E oltre che l'eccesso, il genere stesso del suo lavoro mentale gli è pernicioso. Lo studio d'una disciplina esatta, di una scienza sperimentale, sviluppando il senso dell'osservazione reale, fomentando la nativa facoltà del raziocinio, avrebbe, se non soffocato, moderato almeno la fantasia; e se non aiutato, almeno non repressa la capacità d'azione. Egli studia invece quella filologia, quelle “spente lingue dei prischi eroi„ che lo segregano dal mondo moderno, che lo fanno vivere nel passato, che popolano il suo cervello di figure antiche e favolose. La sua fantasia è capace di dar corpo alle ombre, il suo sentimento s'infiamma per esse. Quando egli legge un classico, la sua mente “tumulta e si confonde„; quando legge Virgilio “m'innamoro „, confessa, “di lui.„ Abbiamo visto che rifà i canti ed eccita dentro di sè i sentimenti di Simonide, dei fedeli al nume del mare; reciprocamente: attribuisce i sentimenti suoi proprii a Saffo, a Bruto minore. Leggete le sue lettere: egli non parla d'altro che di scrittori greci e latini: di Omero, di Virgilio, di Callimaco, di Orazio: chiede notizie ai suoi corrispondenti di Giulio Africano, ne dà intorno a Dionigi e all'Eusebio del Mai; quando il dotto abate ritrova i libri di Cicerone della Repubblica si commuove sino a scrivere una canzone. E traduce la _Batracomiomachia_, due volte; la _Titanomachia_, gl'_Idillii_ di Mosco, un canto dell'_Odissea_, un altro dell'_Eneide_; e ragiona delle Arpie, e compone tutto un libro sugli errori popolari degli antichi. Non si contenta di studiare e tradurre: se pensa di scrivere un romanzo storico, intende che debba essere “sul gusto della _Ciropedia_.„ Un simile proposito dimostra sino a che segno egli è lontano dal suo tempo. Quando egli porge l'orecchio alle voci che vengono di fuori, ode gli echi d'una lotta vivace: classici e romantici si accapigliano. Naturalmente egli è coi classici; lo farebbe ridere chi pensasse di ascriverlo all'altro partito. E nondimeno s'inganna. Classicismo e romanticismo non sono soltanto due scuole letterarie, ma due stati della coscienza e quasi due diverse qualità di anime. L'indole di chi ha seguito le tradizioni è calma ed equilibrata, o capace di frenarsi e di obbedire a certi consigli di moderazione e di prudenza, a certi precetti di ordine e di misura. Nature ribelli hanno sempre tentato di esprimersi liberamente; ma tanto forte è stata l'efficacia dell'insegnamento, che o si sono ultimamente piegate, oppure il loro esempio è rimasto senza imitatori. Altrettanto è avvenuto in politica: i tentativi di affermare i diritti dell'individuo contro le potestà consecrate dalle leggi secolari sono rimasti lungamente sterili. E la rivoluzione politica coincide con la rivoluzione letteraria. L'autorità dei maestri vien meno per quella stessa causa che distrugge ogni altra autorità nel consorzio sociale: la filosofia del secolo XVIII, tutto esaminando e tutto ponendo in forse, prepara una nuova era nel mondo; il primo romantico è il primo rivoluzionario: Gian Giacomo Rousseau. Ma le origini del romanticismo sono ancora più remote. La signora de Staël ha ragione di dire che la divisione della letteratura in classica e romantica si riferisce alle due grandi età del mondo: a quella che precedette e a quella che seguì lo stabilimento del cristianesimo. L'anima pagana, idealizzando la natura, aveva estrinsecato un certo tipo di perfezione e se n'era appagata; ma lo spirito umano, irrequieto indagatore, non poteva trovar sempre nella natura un pascolo adeguato; doveva anzi presto o tardi riconoscere che il mondo della coscienza è senza fine più vasto e ricco che non il mondo delle cose. Questo scontento della realtà, quest'ansia di novità, questa specie di ripiegamento dell'anima in sè stessa, furono in grandissima parte opera della predicazione cristiana. Se l'ideale classico, cioè pagano, continuò ad essere onorato lungo tempo dopo che la dottrina di Cristo mutò la faccia del mondo, ciò dipese in gran parte dalla prevalenza della razza latina, nella quale il paganesimo, come serenità di sentimento, come ludicità di visione, era quasi connaturato. Quel che c'è di triste e di dolente nella fede cristiana era quasi inaccessibile a una gente vissuta sotto cieli chiari, in riva ai mari tranquilli, sopra terre feconde quasi sempre sorrise dal sole. Inconsapevolmente essa professava il nuovo culto con le forme antiche; i vecchi riti e i vecchi miti sopravvivevano: un giorno, quando la rinnovazione dell'ideale pareva compita, il paganesimo rifiorì e il classicismo trionfò con la Rinascenza. Ma la nuova fede, intanto, penetrava più a dentro fra la gente del Nord. Gli uomini vissuti sotto cieli foschi, sulle rive di mari lividi, su terre ingrate, erano meglio preparati al nuovo verbo che insegna a disamare la terra, che dice la vita terrena un doloroso viaggio. Questi uomini non potevano vivere all'aperto, dissipando la loro attività in giuochi e feste; il raccoglimento dell'anima, l'esame della coscienza riusciva loro più facile; alla mortificazione della carne erano meglio preparati. Quando essi videro che cosa i Latini avevano fatto del cristianesimo, protestarono e fecero valere la loro protesta. Lungo tempo ignorati o mal noti, questi Nordici cominciarono a prender parte alla storia del mondo, produssero ingegni che ne espressero gl'ideali: a poco a poco il loro genio esercitò come un fascino sui Latini, disposti dalla stanchezza ad apprezzare la novità. Se pertanto la filosofia del secolo decimottavo, con i suoi dubbii e con le sue negazioni, fa impeto contro la scuola classica, l'invasione delle letterature nordiche accresce la vigoria dell'assalto. E la rivoluzione francese scuote la società dalle fondamenta, e Napoleone sconvolge il mondo: il sangue scorre a fiumi, dalle ghigliottine, sui campi di battaglia; gli Stati si trasformano, i confini si slargano, gli eserciti corrono dall'uno all'altro capo dell'Europa, i popoli si avvicinano: nuove visioni di cose tragiche o insolite passano dinanzi agli occhi della nuova progenie: i consigli di chi vorrebbe tornare alla compostezza, alla semplicità, alla serenità del passato non sono più uditi; ma gli ansiosi che hanno iniziato il mutamento non vi trovano la quiete, sibbene un'ansia nuova, più acuta. In questo tempo nasce Giacomo Leopardi. Egli può ben credersi classico, può bene appartarsi dal mondo moderno, può bene suscitare dentro di sè l'antico: non potrà far mai che questo antico torni realmente, non può distruggere in sè o d'intorno a sè gli effetti dei secolari o dei nuovi rivolgimenti. Chi più vuol essere classico, chi è animato da un più vivo sdegno contro i moderni, partecipa nondimeno a questa modernità e, senza volerlo, lo dimostra. Il Leopardi confessa apertamente d'essere stato durante un certo tempo con i moderni. Questo tempo è lo stesso durante il quale egli è ancora vivace, capace di muoversi, di operare. “Io da principio aveva il capo pieno delle massime moderne, disprezzava, anzi calpestava lo studio della lingua nostra; tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal francese.„ Rammentiamoci di Chateaubriand il quale disse di sè: “J'étais Anglais, de manières, de goût et jusqu'à un certain point de pensées.„ Come il Francese cerca il nuovo in Inghilterra, così l'Italiano lo cerca in Francia: l'indirizzo è diverso, ma identica è la spinta interiore per la quale le cose note e vicine sono sdegnate, e ricercate le insolite e nuove. Così mentre in Germania le menti si nutriscono di Young e di Ossian, e Schiller e Goethe si appassionano per Shakespeare; in Francia la signora de Staël introduce il romanticismo tedesco; e Alfredo de Musset a diciassette anni preferisce non esser nulla se non potrà essere Schiller o Shakespeare, e Chateaubriand legge _Werther_ prima di scrivere _Renato_ — Ugo Foscolo lo ha letto in Italia prima di scrivere _Jacopo Ortis_ — e Sainte-Beuve parla con tenerezza di Klopstock, e Carlo Nodier trae l'ispirazione da “cette merveilleuse Allemagne, la dernière patrie des poésies et des croyances de l'Occident.„ L'ardente e immaginoso fanciullo recanatese cerca anch'egli ed ama gli stranieri; e tale è la foga che egli mette in questa come in ogni altra sua passione, che arriva a disprezzare Omero, Dante, tutti i classici; ma il giovanetto riflessivo tosto comprende che la disciplina della vecchia scuola è la più adatta a formare lo spirito, che questi classici, seguendo i principii ora disprezzati hanno espresso cose d'una imperitura bellezza. Allora egli si converte, s'immerge “sino alla gola„ nei “suoi„ classici; gli scrittori che cercano ispirazioni oltre l'Alpi eccitano il suo sdegno; lo _Spettatore italiano_, foglio romantico, gli pare “un mucchio di letame„; la _Biblioteca italiana_, giornale dei classici, ha le sue preferenze. Allora egli è considerato come uno dei campioni del classicismo; Pietro Giordani lo stima classico non soltanto di studii, ma anche di animo: “Più volte m'è venuto in mente che se ci fosse ancora lecito di ripetere i sogni platonici.... io vorrei dire ch'egli fosse una di quelle anime preparate da natura per incarnarsi in Grecia sotto i tempi di Pericle e di Anassagora; e da non so qual errore tardata sino a questi miseri giorni ultimi d'Italia; per mezzo i quali, parlando con voce italiana pensieri greci, come straniera passò.„ Ma il Giordani s'inganna anch'egli; l'anima che pareva greca era nondimeno del suo tempo; per quanto grande fosse la seduzione del mondo antico, il suo proprio mondo dal quale voleva fuggire la tratteneva con mille sottilissimi fili ed esercitava un'influenza costante su lei. Consideriamo ad uno ad uno i caratteri del romanticismo come metodo letterario e come stato psicologico: vedremo quanti se ne trovano nel Leopardi. Letterariamente, i romantici insorgono contro l'imitazione. Per lungo tempo i grandi antichi sono stati considerati insuperabili; studio e dovere degli scrittori è stato quello imitarli. E il Leopardi, con tutta la sua infatuazione per gli antichi, quantunque anch'egli li abbia non poco imitati, pure critica il Monti perchè questo poeta “va con una ributtante freddezza ed aridità in traccia di luoghi di classici greci e latini, di espressioni, di concetti, di movimenti classici, per esprimerli elegantemente; lasciando con ciò freddissimo l'uditore„; e giudica che la coltura classica, così adoperata “più quasi nuoce di quello che giovi.„ Un altro punto intorno al quale romantici e classici battagliano è questo: l'arte deve figurare il brutto? o attenersi soltanto al bello? I classici sono per questo secondo partito, escludendo il primo rigorosamente; gli altri invece vogliono che il campo dell'arte si slarghi, che comprenda tutta quanta la natura. E intorno a questo argomento il Leopardi discorda dal Giordani. “Ella ricorda in generale ai giovani pittori che senza stringente necessità della storia (e anche allora con buon giudizio e garbo) non si dee mai figurare il brutto. Poichè, soggiugne, l'ufficio delle belle arti è di moltiplicare e perpetuare le immagini di quelle cose o di quelle azioni cui la natura o gli uomini producono più vaghi e desiderabili: e quale consiglio o qual diletto crescere il numero o la durata delle cose moleste di che già troppo abbonda la terra?„ Rispettosamente egli espone al maestro il suo concetto tutto diverso. “A me parrebbe che l'ufficio delle belle arti sia d'imitare il bello nel verisimile„. È vero che si appoggia all'autorità dei classici, di Omero, di Virgilio, di Dante, dei tragici; ma non è detto che i classici sieno tali in tutto e che i precetti dei romantici siano senza esempio di sorta. Nuova è la forza con la quale essi li affermano; e il Leopardi non si contenta dell'esempio, ricorre alla dimostrazione: “Certamente le arti hanno da dilettare, ma chi può negare che il piangere, il palpitare, l'inorridire alla lettura di un poeta non sia dilettoso? Perchè il diletto nasce appunto dalla maraviglia di veder così bene imitata la natura, che ci paia vivo e presente quello che è o nulla, o morto, o lontano. Ond'è che il bello, il quale veduto nella natura, vale a dire nella realtà, non ci diletta più che tanto, veduto in poesia o in pittura, vale a dire in immagine, ci reca piacere infinito. E così il brutto imitato dall'arte, da questa imitazione piglia facoltà di dilettare. Se un uomo è di deformità incredibile, ritrar questa non sarebbe sano consiglio, benchè vera, perchè le arti debbono persuadere e far credere che il finto sia reale, e l'incredibile non si può far credere. Ma se la deformità è nel verisimile, a me pare che il vederla ritratta al naturale debba dilettare non poco....„ Non si sente già venire Vittor Hugo il quale estenderà quest'idea e le darà forza di domma, protestando contro i pedanti che vogliono escludere il difforme, il brutto e il grottesco dalla riproduzione artistica, ed affermando superbamente: “Tout ce qui est dans la nature est dans l'art„? Ancora: l'antica mitologia, della quale i poeti hanno fatto un secolare abuso, fuor della quale non si è trovata bellezza artistica, è sdegnata e derisa dai novatori: la fede cristiana torna invece ad essere onorata, le credenze religiose si ridestano e si affermano: l'arte narra i _Martiri_, celebra il _Genio del Cristianesimo_. Con tutto il suo paganesimo letterario, il Leopardi è pure nato nella fede di Cristo, ne sente pure la rinnovata seduzione; egli pensa pertanto di comporre ed abbozza gl'_Inni Cristiani_. I romantici non cantano solamente Dio, ma anche il diavolo; perchè essi credono che l'arte non debba escludere nulla, neppure l'orrido; e che dai contrasti nascono effetti nuovi, più potenti: essi dicono: “Nous vous donnerons de l'incroyable, de l'affreux, du terrible, de l'extravagant, et s'il le faut, le diable lui-même remplacera votre vieux Apollon....„ E il Leopardi abbozza anche un'invocazione ad Arimane, al genio del male. I classici si rivoltano contro questa novità, vorrebbero attenersi esclusivamente alle letterature antiche, e bandire i moderni, gli stranieri, i nordici, dai quali vengono i maggiori ardimenti. Pietro Giordani divulga il consiglio che dà agli scrittori nostri la signora de Staël: “Dovrebbero, a mio avviso, gl'Italiani, tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche, onde mostrare qualche novità a' loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti all'antica mitologia; nè pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate; anzi il resto d'Europa le ha già abbandonate e dimenticate.„ Ma il Piacentino, che pare abbia fatto sue queste parole, traducendole, si schiera tosto dall'altra parte; e come il Monti si lagna che Audace scuola boreal, dannando Tutti a morte gli dèi che di leggiadre Fantasie già fiorîr le carte argive E le latine, di spaventi ha pieno Delle Muse il bel regno; così egli si duole che le nostre assonnate immaginazioni domandino, per risvegliarsi, “il fracasso, e quanto hanno di più frenetico e tempestoso le fantasie settentrionali„, e si ferma a dimostrare come siano diversi e discordi i genii delle due contrade. E il Leopardi si è doluto, come abbiamo visto, d'aver disprezzato Omero, Dante e tutti i classici e d'aver ammirato gli stranieri; nondimeno, se egli passa dal disprezzo all'ammirazione per i primi, e viceversa, non è già che segua da ultimo rigorosamente il nuovo indirizzo. Mentre il Giordani lo giudica classico d'animo e di letture, il Belloni, romantico, può dargli lode e cantare di lui, tanto moderato è l'uso che egli fa della mitologia. E, quanto agli stranieri, per comporre un trattato sulla _Condizione presente delle lettere italiane_, egli sente il bisogno di “infinite letture anche di libri stranieri.„ Egli legge, studia e cita l'iniziatore del romanticismo: il Rousseau, e si rallegra caldamente col Brighenti “della conoscenza ch'ella avrà fatta con Lord Byron, uomo certamente segnalato„; e giudica questo romantico, questo settentrionale, questo gran ribelle nell'arte e nella vita “uno dei pochi poeti degni del secolo, e delle anime sensitive e calde.„ E dà lode al Goethe perchè ha preso dalla realtà i casi di _Werther_; e se più circospetto è il suo giudizio sulle Memorie del grande poeta tedesco, noi vedremo che lo modifica. Queste Memorie, dice “hanno molte cose nuove e proprie, come tutte le cose di quell'autore, e gran parte delle scritture tedesche; ma sono scritte con una così salvatica oscurità e confusione, e mostrano certi sentimenti e certi principii così bizzarri, mistici e da visionario, che, se ho da dirne il mio parere, non mi piacciono molto.„ Ma più tardi al fratello Carlo, romantico deciso, più di lui ammiratore degli stranieri, scrive: “È vero che le tue lettere sono triste, ma son care e belle, ed io amo meglio di sentirti lamentare, che di lasciarti tacere. Il tuo stile si rassomiglia a quello del Goethe nelle Memorie della sua vita che ha pubblicato ultimamente. Io comprendo benissimo tutta la pena del tuo stato....„ Egli comprende anche lo stile del poeta di _Faust_ dopo aver compreso lo stato d'animo che lo ha dettato. Perchè, infatti, lo stile dei romantici e dei classici non è diverso per la diversità dei precetti retorici delle due scuole; ma perchè diversa è la condizione e l'indole dell'animo loro. Lo stesso Goethe spiega bene che i moderni non sono romantici perchè moderni, ma perchè deboli, malaticci, infermi; l'antico non è classico perchè antico, ma perchè vigoroso, forte, sereno. E se Giacomo Leopardi propende, quasi contro sua voglia, verso i romantici, ciò avviene perchè la sensibilità estrema e l'immaginazione esorbitante che abbiamo trovato in lui, sono i segni particolari di tutta la nuova fazione. “Noi Leopardi siam pieni di fuoco„, diceva Paolina, la sorella del poeta; due anni prima che Giacomo nascesse, l'autore delle _Lettres Westphaliennes_ scriveva: “Toutes les imaginations sont en feu.... Jamais cette affection de l'âme qu'on nomme sensibilité ne fut exaltée autant que dans nôtre siècle; jamais le sentiment ne fut aussi analysé, aussi délicat, cela peut se remarquer même dans ses influences physiques, dans la prodigieuse quantité de maladies nerveuses qui se voit tous les jours. Les gens qui sont organisées d'une manière si irritable ont les passions plus vives.... On pourrait les nommer la secte des sentimentaux....„ E per il Recanatese il cuore è tutto, la sensibilità è tutto; egli si duole che tutti non sieno sensibili, “car je ne fais aucune différence de la sensibilité à ce qu'on appelle vertu.„ L'artista romantico, sdegnando l'imitazione dei vecchi scrittori, lasciando da parte le favole antiche, cupido di esprimere cose viste e sentite, capace di sentimenti che stima nuovi, squisiti, straordinarii, studia direttamente le sue passioni e la natura. Il Leopardi, discutendo col Giordani intorno alla prosa ed alla poesia afferma: “Da che ho cominciato a conoscere un poco il bello, a me quel calore e quel desiderio ardentissimo di tradurre e di far mio quello che leggo, non hanno dato altri che i poeti, e quella smania violentissima di comporre altri che la natura e le passioni; ma in modo forte ed elevato, facendomi quasi ingigantire l'anima in tutte le sue parti, e dire fra me: questa è poesia; e per esprimere quello che io sento ci voglion versi e non prosa, e darmi a far versi.„ Se quindi legge assiduamente i suoi classici latini e greci, e quanto più li legge tanto più gli s'impiccoliscono i nostri anche degli ottimi secoli, egli preferisce tuttavia i poeti ai prosatori; Cicerone, “una volta che la mia mente si trovava, come accade, in certa disposizione da bramare impressioni vive e gagliarde, mi parve (e fu in un trattato filosofico) più lento e grave che non si conveniva al mio desiderio di quel momento....„ Prosa e poesia non sono soltanto modi diversi d'espressione, ma anche diversi atteggiamenti dell'animo: la poesia è più sentimento, la prosa è più riflessione. Tra i più classici scrittori, in tempi che del romanticismo non esiste neppure il nome, i poeti sono naturalmente sensibili e immaginosi, hanno parte di quelle qualità che saranno proprie dei romantici e li distingueranno. Del pari i romantici sono naturalmente poeti per il calore degli affetti, per la vivacità dei fantasmi, anche quando non compongono versi. E la loro prosa è poetica, e il Leopardi che giudica il suo secolo poco o niente poetico e alle volte consiglia di porre da parte i versi e loda la prosa, linguaggio della riflessione e della filosofia; stima pure altra volta, perchè così vuole la duplicità dell'animo suo, che la prosa, per essere veramente bella, debba avere “sempre qualche cosa del poetico, non già qualche cosa particolare, ma una mezza tinta generale.„ C'è in lui un filosofo che si compiace nella lettura della classica prosa ciceroniana; ma c'è anche un poeta che, quando vede la natura dei luoghi ameni, nella bella stagione, si sente così trasportare fuori di sè stesso, “che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmene, e a lasciar passare questo ardore di gioventù e a voler divenire buon prosatore, e aspettare una ventina d'anni per darmi alla poesia.„ Non solamente egli preferisce la poesia, ma adora la musica: come tutte le anime sensibili del suo tempo, è deliziato da quest'arte che più e meglio della poesia parla al sentimento e all'immaginazione. Se la poesia è più romantica della prosa, la musica è l'arte romantica per eccellenza, l'arte nuova, l'ambiguo linguaggio delle nuove passioni perplesse, indefinite, inappagabili. Desiderii infiniti E visïoni altere Crea nel vago pensiere, Per natural virtù, dotto concento; Onde per mar delizïoso, arcano Erra lo spirto umano, Quasi come a diporto Ardito notator per l'Oceàno.... Mentre il poeta romantico attribuisce tanta potenza alla melodia, mentre chiama “mirabili„ le commozioni suscitate dalla musica, il filologo classico torna agli studii pazienti, all'esame dei testi antichi. L'uomo che risente alla lettura della _Storia Romana_ del Niebuhr un piacere indicibile e che annovera fra le pochissime felicità della sua vita l'averne conosciuto l'autore, è lo stesso che sente le lacrime salirgli agli occhi udendo all'Argentina _la Donna del lago_. Così l'intimo contrasto che abbiamo trovato fra le due potenti facoltà del suo spirito è accresciuto dall'educazione, dal dissidio delle influenze che ora lo spingono in un senso ora nell'altro. Ma, in verità, il contagio romantico gli si apprende ogni giorno più gravemente. Noi abbiamo considerato alcuni dei caratteri letterarii, rettorici, formali, del romanticismo; e abbiamo visto che, nonostante la sua fedeltà ai grandi antichi, il Leopardi pur s'accosta per questo rispetto ai moderni; ma se consideriamo il romanticismo non come forma ma come contenuto, non come metodo di scrivere ma come modo di sentire, troviamo nel Recanatese tutti i caratteri dei romantici veri. L'immaginazione eccedente e la smodata sensibilità anticipano, tra costoro, la vita; prima e più che alle cose vere essi si affezionano alle figurazioni della loro fantasia. L'_Harold_ di quel Byron che Giacomo amava tanto già prova il disgusto della sazietà quando ancora il primo tempo della sua vita non è trascorso. E la malinconia di Chateaubriand nasce quando “nos facultés jeunes et actives, mais renfermées, ne se sont exercées que sur elles-mêmes sans but et sans objet.„ E la fantasia dipinge ad _Ortis_ “così realmente la felicità ch'io desidero, e me la pone davanti agli occhi, e sto lì lì per toccarla con mano, e mi mancano ancora pochi passi — e poi? il tristo mio cuore se la vede svanire e piange quasi perdesse un bene posseduto da lungo tempo.„ E il Lamartine, nel giorno che compie vent'anni è stanco come se ne avesse vissuti cento. Il Leopardi dice che in lui “l'attività interna si è consumata assai presto da sè medesima per il suo proprio eccesso.„ Le anime avvezze a spaziare nel mondo dei sogni, che non ha confini nè obbligazioni, potranno mai essere appagate dalla realtà precisamente circoscritta e severamente governata? “Quand tous mes rêves se seraient tournés en réalité,„ dice il Rousseau, “ils ne m'auraient pas suffi; j'aurais imaginé, rêvé, désiré encore. Je trouvais en moi un vide inexplicable que rien n'aurait pu remplir, un certain élancement du coeur vers une autre sorte de jouissance dont je n'avais pas l'idée et dont pourtant j'avais le besoin.„ E Chateaubriand: “On m'accuse de passer toujours le but que je puis atteindre; hélas! je cherche seulement un bien inconnu dont l'instinct me poursuit. Est-ce ma faute si je trouve partout des bornes, si ce qui est fini n'a pour moi aucune valeur?„ E il Leopardi vorrebbe “toujours sentir, toujours aimer, toujours espérer„ ma “le bonheur de l'homme ne peut consister dans ce qui est réel. Il n'appartient qu'à l'imagination de procurer à l'homme la seule espèce de bonheur positif dont il soit capable. C'est la véritable sagesse que de chercher le bonheur dans l'ideal....„ L'identità di queste disposizioni intime è manifesta. Ancora: Gian Giacomo preferisce le immagini agli oggetti che le hanno suscitate e, alle Charmettes, ama meglio la signora de Warens quando le è lontano che non quando le sta da presso. “Plusieurs fois j'ai évité pendant quelques jours l'objet qui m'avait charmé dans un songe délicieux. Je savais que ce charme aurait été détruit en s'approchant de la réalité. Cependant je pensais toujours à cet objet, mais je ne le considérais pas d'après ce qu'il était: je le contemplais dans mon imagination, tel qu'il m'avait paru dans mon songe.„ Sono parole del Ginevrino? E il Recanatese quello che le scrive. Egli chiede: “Suis-je romanesque?„ Sì, o, per meglio dire, egli è romantico. Romanzeschi chiama ancora, invece che romantici, i sentimenti idilliaci dell'amico Brighenti; ma poi, come la parola _romantico_ è stata la prima volta adoperata per qualificare un paesaggio, così anch'egli l'adopera per qualificare un paese: a Pisa trova “un certo misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto veramente romantico.„ Nel sentire diversamente e maggiormente che gli altri, nel fuggire il mondo reale, nel concepirne uno idealmente migliore, i romantici si credono singolari, ottimi, unici. Il Rousseau scrive: “J'étais fait pour être le meilleur ami qui fut jamais; mais celui qui devait me répondre est encore à venir.„ Il Lamartine loda “ces âmes concentrées, quoique errantes, qui désespèrent de trouver dans les autres âmes ce qu'elles rêvent de perfection en elles-mêmes.„ E il Leopardi loda “quei pochissimi che sortirono le facoltà del cuore, i quali possono avere dalla loro parte alcuni di questo numero„, e crede che nell'amore nessuno lo eguagli: “non nasce un altrettale amor„ dice di sè stesso il suo Consalvo. Egli crede ancora che nell'amicizia nessuno senta come lui: “Chiamo voi medesimo in testimonio che un'altra persona che vi amasse ardentemente e immutabilmente come fo io, non l'avete ancora trovata nè sperate di trovarla: ed io come bramerei che ci fosse, non altrimenti, considerando me stesso, mi persuado affatto che non si trova.„ E il suo dolore e quello del fratello Carlo, che è un altro sè stesso, per la morte del fratello Luigi, non ha il simile: “Scrivimi come vuoi; scrivimi due sole parole come fo anch'io, perchè le cose che noi sentiamo non si possono esprimere, ed è ben naturale che le nostre lettere sieno come le grandi passioni, cioè mute.„ Per questo sentimento orgoglioso combinato con lo sdegno della realtà nascono nei romantici la misantropia e l'amore della solitudine. L'anima è sola, il mondo è un deserto, la civiltà un tradimento fatto alla natura; il ritorno allo stato patriarcale il solo saggio partito. Il Leopardi scioglie un inno ai Patriarchi; detesta i raffinamenti, i pervertimenti della società; ama di caldo amore la semplice natura. “Senza fallo„ scrive al Giordani, “io spero che vi sentiate meglio anche voi, contemplando questa natura innocente, fra la malvagità degli uomini.„ Il _Renato_ dello Chateaubriand ha chiamato la folla “vasto deserto di uomini„; il Leopardi dice: “veramente per me non c'è maggior solitudine della gran compagnia.„ Il suo carattere “è di chiudere nel profondo di me stesso tutti gli affanni e le affezioni vere„; naturalmente è inclinato alla vita solitaria, e la canta, e canta il passero solitario, il costume del quale tanto somiglia al suo. Questo raccoglimento dà luogo più tardi a una smania, a un bisogno di dissipazione; allora egli dice che non è “nato alla pazienza„, che la solitudine “non è fatta per quelli che si bruciano e si consumano da loro stessi„; e insomma, come tutti i romantici, egli è inquieto, incontentabile, non sa quel che vuole: “A me piace moltissimo la compagnia quando son solo, e la solitudine quando sono in compagnia....„ Dopo aver educato sentimenti idilliaci, si compiace, come i suoi maestri, degli spettacoli tragici, delle convulsioni della natura: la sua Saffo classicamente esprime un pensiero romantico: Noi l'insueto allor gaudio ravviva Quando per l'etra liquido si volve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de' Noti, e quando il carro, Grave carro di Giove a noi sul capo Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra' nembi, e noi la vasta Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell'onda. Ma il suo stato abituale è il tedio, il fastidio, la noia; come quello dei romantici che, non contenti di annoiarsi all'italiana, alla francese o alla tedesca, hanno preso ad imprestito lo _spleen_ inglese. Il tedio lo affoga, la noia non solamente lo “opprime e stanca„ ma lo “affanna e lacera„; e tanto gli è abituale, tanto è connaturata in lui, che gli pare naturale, lodevole e grata: “la noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa.„ Noi dovremo tornare più tardi su questi punti: notiamo per ora come altri sintomi del male romantico si riscontrino nel Leopardi. Sdegnando il mondo e i loro simili, che faranno gli annoiati? Niente nella vita gli attira; essi soli sono perfetti: passeranno pertanto il loro tempo osservando sè stessi; l'analisi psicologica viene in grande onore. L'abito filosofico di studiare nella propria la natura di tutti gli uomini è afforzato nel Recanatese da questa mania del suo tempo; egli pensa che nessuno scritto è più eloquente di quello dove altri parla di sè stesso. E mentre una forma d'arte, il romanzo, già cronaca degli avvenimenti, diventa ora lo specchio dell'anima; mentre Stendhal compone i suoi primi romanzi psicologici; Giacomo Leopardi, quello stesso classico Leopardi il quale voleva scrivere un romanzo storico “sul gusto della _Ciropedia_„, pensa di comporre la _Storia d'un'anima_: “romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche, ma racconterebbe le vicende interne di un'anima nata nobile e tenera, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte„; pensa anche di comporre i _Colloquii_ “dell'io antico e dell'io nuovo, cioè di quello che io fui, con quello ch'io sono; dell'uomo anteriore all'esperienza della vita e dell'uomo esperimentato.„ Se pure i romantici non fossero sdegnosi della realtà, se pure stimassero i loro simili e volessero frequentarli ed imitarli, vivendo come essi, ne sarebbero capaci? Le assidue analisi intime, l'intensità del pensiero, prima che nel Leopardi, in tutti gli altri romantici e nell'iniziatore della scuola attenuano l'energia volitiva e rendono incapaci di vivere: lo stesso Leopardi nota questa sua parentela col Ginevrino quando, enumerato nel _Filippo Ottonieri_ i diversi generi di uomini, ragiona di quelli nella cui natura “è congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e di timidità: in modo che essa natura combatte seco medesima. Perocchè gli uomini di questa seconda specie.... non vengono a capo, nonostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addentrarsi all'uso pratico della vita, nè di rendersi nella conversazione tollerabili a sè non che altrui. Tali essere stati negli ultimi tempi, ed essere nell'età nostra, se bene l'uno più, l'altro meno, non pochi degl'ingegni maggiori e più delicati. E per un esempio insigne, recava Gian Giacomo Rousseau.„ L'incapacità di vivere come gli altri, l'assiduità delle meditazioni, la noia, l'inquietudine, la solitudine, producono la malattia del secolo: la malinconia, la disperazione, l'amor della morte. Se l'anima immaginosa e sensibile ha esaurito prima di vivere la sua forza vitale, se l'esperienza la scontenta, se il mondo la disgusta, se la solitudine la snerva, se gli altri la offendono, se la propria compagnia la stanca, dove resterà un rifugio? Nella morte, unicamente. A questa conclusione arrivano tutti i romantici. Werther si uccide, Ortis si uccide; i loro imitatori non sono soltanto legione nell'arte, ma anche nella vita. Una donna, la Staël, fa l'elogio del suicidio; un'altra donna, Elisa Mercoeur, tenta di asfissiarsi col profumo dei fiori. Vittorio Escousse a 19 anni e Augusto Lebras a 16, si asfissiano insieme perchè non si sentono al loro posto quaggiù, perchè manca loro la forza a ogni passo fatto avanti o indietro. Alfredo de Vigny riconosce che il suicidio è un delitto per la religione e per la morale, ma la disperazione può più che la ragione; e, se la vince, sarà da chiamar colpevole il suicida, il poeta, o non piuttosto il mondo?... Non occorre citare altri esempi. Miglior partito sarà dimostrare la forza di questo contagio. Giacomo Leopardi forse anche senza l'epidemia romantica avrebbe disperato; ma, senza le cause della sua disperazione che indagheremo fra poco ad una ad una, i germi del male diffusi nell'aria del suo tempo avrebbero attecchito e prodotto una grande rovina dentro di lui. Questi germi erano così virulenti che attaccarono e minacciarono per un momento la salute morale d'un uomo d'azione, dell'uomo destinato ad operare cose grandissime, dell'uomo che ebbe la massima energia e il massimo impero sopra sè stesso, sopra i suoi simili e sul mondo: Napoleone Bonaparte. “Je suis ennuyé de la nature humaine,„ scrive egli un giorno al fratello Giuseppe: “Les grandeurs m'ennuyent, le sentiment est desséché, la gloire est fade.„ Ed anch'egli si duole: “Un jour, au milieu des hommes, je rentre pour rêver en moi-même, et me livrer à toute la vivacité de ma mélancolie. De quel côté est elle tournée aujourd'hui?„ Ed anch'egli pensa alla morte: “Du côté de la mort. Dans l'aurore de mes jours, je puis encore espérer de vivre longtemps, et quelle fureur me porte à vouloir ma destruction?... Que faire dans ce monde?... Puisque je dois mourir, ne vaut-il pas autant se tuer? Si j'avais passé soixante ans, je respecterais les préjugés de mes contemporains et j'attendrais patiemment que la nature eût achevé son cours; mais puisque je commence à éprouver des malheurs, que rien n'est plaisir pour moi, pourquoi supporterais-je des jours on rien ne me prospère?...„ Se Bonaparte non sfuggì al contagio nei primi tempi dell'epidemia, con quanta violenza non deve essa comunicarsi più tardi, nell'infuriare del romanticismo, ad un'anima sensitiva e fantasiosa come quella del Recanatese?... Abbiamo visto che la potenza del sentimento poetico e dello spirito filosofico è in lui causa di un intimo disagio; questo disagio potrebbe essere, ma non è curato dall'educazione; tutt'altro. Una disciplina uniforme avrebbe potuto essergli salutare; ma egli nasce in un tempo travagliato, in mezzo a un campo di battaglia. Senza l'avvelenamento romantico, non è da credere che le sue facoltà poetiche, l'immaginazione e la sensibilità, sarebbero state represse a vantaggio delle altre; ma non sarebbero state esasperate come furono. E se pure il poeta avesse potuto sentire come i romantici, senz'altro, certo non sarebbe stato contento, come non furono contenti i suoi predecessori e compagni e seguaci; ma non avrebbe sofferto, come soffrì, per avere nello stesso tempo tanto assiduamente ripensato il pensiero antico. Mentre intorno a lui ciascuno scrittore lotta contro un altro, egli lotta con sè stesso: è classico e romantico a un tempo, è attratto dall'una all'opposta parte. Fra le due retoriche cerca un accomodamento: la letteratura s'indirizzi “verso il classico e l'antico„ col soccorso della filosofia, trattando soggetti “del tempo„, riconoscendo “la necessità di adattarsi al gusto corrente„; ma i sentimenti, gli atteggiamenti morali, grazie ai quali ogni altro scrittore si mette piuttosto con l'una che con l'altra fazione, non si conciliano dentro di lui o si conciliano per farlo soffrire; perchè, mentre il romanticismo lo disgusta del reale, il classicismo lo rende incapace di adattarsi al mondo moderno. Leggete il suo canto _Alla primavera_, che porta anche un secondo titolo: _Delle favole antiche_: vedrete che egli loda i tempi quando tutta la natura era animata, quando le candide ninfe e gli agresti Pani popolavano i fonti ed i campi, quando i fiori e l'erbe ed i boschi vivevano, quando Eco non era un “vano error di venti„ ma il dolente spirito di una ninfa infelice. Il sentimento che glie lo detta non potrebbe essere più classico; consideratelo più attentamente: troverete che non è tanto classico quanto pare; c'è dentro quella stessa scontentezza del presente e del vicino che spinge i romantici verso il passato e l'esotico. I romantici puri si rifugiano col pensiero nel medio-evo cavalleresco e cristiano; il Leopardi lo evoca una volta: O torri, o celle, O donne, o cavalieri, O giardini, o palagi!... ma gl'immensi studii fatti intorno all'antichità lo rivolgono di preferenza a quel mondo pagano dal quale dovrebbe rifuggire interamente per essere romantico del tutto; nel quale dovrebbe serenamente rifugiarsi per essere del tutto classico. Nato più presto o più tardi, il suo spirito avrebbe forse seguito una sola corrente e nella nettezza delle visioni e nella saldezza dei convincimenti avrebbe trovato forza e sostegno: l'età perplessa nel quale vive accresce il suo disagio. Se egli possedesse una nativa capacità d'equilibrio, a lui si potrebbe riferire ciò che il Giordani dice del Canova, e “pietosa„ sarebbe stata la provvidenza ponendolo “sul doppio confine della memoria e dell'immaginazione umana a congiungere due spazii infiniti, richiamando a noi i passati secoli, e de' nostri tempi facendo ritratto agli avvenire„; ma questa congiunzione, alla quale il Leopardi artista deve la sua grandezza, è anche un'altra causa del dolore dell'uomo. L'ESPERIENZA I. LA SALUTE. Quantunque, per la nativa sua tempra e per effetto dell'educazione, Giacomo Leopardi sia un'anima in pena, mal preparata a trovare e ad apprezzare la felicità, che è il bisogno di ogni uomo; nondimeno, se la fortuna gli sorridesse, se i beni gli si offrissero ed egli non li sapesse apprezzare, non avrebbe ragione di negarli. Ma che cosa gli prepara la vita? Il primo, il più necessario, il più urgente dei beni è la salute, la pienezza, l'interezza delle facoltà organiche; senza di che nessun altro piacere, nessun'altra gioia è possibile, e lo stesso sentimento dell'essere è leso e menomato. “Il corpo è l'uomo„ fa dire lo stesso Leopardi al suo Tristano: “perchè (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perchè la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui.„ Questo vigore corporale, la salute, il sommo bene, a pochi è negato: tanto esso è frequente e necessario, che il primo posto si dà ordinariamente ad altri, perchè “la vita è principalmente dei sani, i quali, come sempre accade, o disprezzano o non credono di poter perdere ciò che posseggono.„ Il Leopardi ne è privo. Noi lo abbiamo visto scontento perchè, mentre la fantasia vivacissima gli dipinge arcani mondi ed arcana felicità, la ragione lo contrasta; e perchè mentre sente troppo, è poco capace di volere; ma insomma, con tutta la straordinaria sua precocità, egli è ancora un fanciullo, un adolescente, che impiega il suo tempo nello studio, che ha una gran febbre di sapere, che non si stanca di leggere, di annotare, di commentare, di trasportare sulle esili braccia i pesanti volumi dai palchetti della biblioteca alla scrivania. Supponiamo che in gioventù, nella maturità, egli goda d'una buona salute: il mondo, nonostante che egli lo sdegni, tosto o tardi, debolmente o fortemente, pure lo allaccerà. Invece, a diciassette anni, egli esce dagli studii portentosi con la schiena curva, i muscoli emaciati, la vista rovinata: il fanciullo vivace, l'eroe Filzero che le dava a tutti e non ne toccava da nessuno, Giacomo “il prepotente„ è un povero gobbo minacciato di cecità, oggetto di riso e di compassione. Senza dubbio non la sola enormità dello sforzo lo ha così ridotto; egli porta dalla nascita, nelle vene, un principio maligno. Le morti precoci, le malattie nervose e la pazzia sono state frequenti tra i suoi antenati; il sangue della vecchia stirpe si è impoverito e corrotto nei molteplici matrimonii tra consanguinei: troppe volte i Leopardi s'imparentano con gli Antici, ai quali appartiene anche la madre di Giacomo. Ella lo concepisce giovanissima, in tempi di spavento, quando il marito di lei è perseguitato dai Francesi invasori. L'eredità morbosa e il formidabile sforzo mentale spiegano la rovina della sua salute: la rachitide e quella che oggi si chiama neurastenia. Nel primo fiore della gioventù egli si sente morire, crede che non gli restino più di due o tre anni da vivere. Non ne ha ancora venti, e già la sua vita consiste nell'alzarsi tardi, nel mettersi a passeggiare sino all'ora del desinare, nel riprendere poi la passeggiata sino alla sera: non può scrivere un rigo e appena riesce a leggere per un'ora. Così dura sette mesi. Si rimette alla peggio, e allora capisce qual è la sua condanna: “ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, nè ingannandomi, che il lusingarmi e l'ingannarmi pur troppo è impossibile, che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purchè m'abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi, o mi uccida.„ A ventun anno, nella primavera del 1819 comincia a soffrire d'una debolezza dei nervi oculari che gl'impedisce di poter leggere anche una sola riga; trascorre allora i suoi giorni sedendo con le braccia in croce, o passeggiando per le stanze, in modo che gli fa spavento. “Nell'età che le complessioni ordinariamente si rassodano, io vo scemando ogni giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano ad una ad una.„ Ripiglia un po' di forza al rinfrescarsi della stagione, “ma l'imbecillità degli occhi, e però la miseria della mia vita, è sempre la stessa e maggiore.„ Il primo d'ottobre comincia una lettera al Giordani, ma un'oftalmia sopravvenuta alla debolezza non gli consente di finirla se non in sul finire del mese. L'amico lo sollecita a studiare; “gli studi,„ risponde il poveretto, “non so da otto mesi che cosa sieno, trovandomi i nervi degli occhi e della testa indeboliti in maniera, che non posso non solamente leggere nè prestare attenzione a checchessivoglia, ma fissar la mente in nessun pensiero di molto o poco rilievo.„ Egli si duole “di avere un cervello nel cranio„, perchè non può pensare minimi e fugacissimi pensieri “senza contrazione e dolore de' nervi„; il male degli occhi lo riduce “alla natura dei gufi, odiando e fuggendo il giorno.„ Ha una tregua di quasi un anno; ma nell'autunno del '20 “o che la fatica mi ha pregiudicato, se bene è stata moderatissima, o per qualunque altra ragione, sento che la mia povera testa ricade nella debolezza passata.„ Così va avanti, “come Dio vuole: quando peggio, quando meglio, sempre inetto a lunghe applicazioni.... Io studio la notte e il dì fino a tanto che la salute me lo comporta. Quando ella non mi sostiene, io passeggio per la camera qualche mese; e poi torno agli studi, e così vivo.„ In ogni inverno i suoi mali s'incrudiscono, il freddo è per lui “una malattia grave„, un “carnefice e nemico mortale„; nè la primavera gli è del tutto propizia, perchè gli produce ogni anno una penosa “inquietezza di nervi.„ Nel marzo del '25 è ridotto a tale, che non può “fissar la mente in una menoma applicazione, neppure per un istante, senza che lo stomaco vada sossopra immediatamente, come m'accade appunto adesso, per la sola applicazione di scrivere questa lettera.„ A Bologna, poco dopo, si sente un altro, quasi guarito della testa e degli occhi; ma il caldo patito in viaggio gli produce una grave e penosa infiammazione d'intestini che si prolunga sino all'anno seguente; e il primo freddo lo avvilisce, e il rigido inverno lo tormenta in modo straordinario, “perchè la mia ostinata riscaldazione d'intestini e di reni m'impedisce l'uso del fuoco, il camminare e lo stare in letto.„ Soffre pertanto pene indescrivibili, “quanto forse in tutto il rimanente della mia vita insieme.„ Con la primavera si sente tornare in vita “da una vera morte„; ma se appena appena in aprile il tempo si guasta, egli deve ritirarsi dal mondo e chiudersi in casa. Finalmente con l'estate migliora; ma ricade appena fa una gita a Ravenna. Si propone di fuggire da Bologna, tanto lo spaventa l'idea di passarvi un altro inverno; ma prima che ne fugga gli sopravviene un reuma di capo, di gola e di petto con febbre e sordità. Nel cuore dell'inverno del '27 guarisce, a casa sua, dopo quattordici mesi, del male degli intestini; ma ricominciano a patire gli occhi “miserabilmente.„ Tornato a Bologna, gli danno un fastidio sempre più grave; a Firenze la flussione e l'enfiagione delle palpebre peggiorano: non può vedere la città, non può sostenere la luce. Guarita la flussione, gli resta la consueta debolezza dei nervi ottici e della testa, complicata dal male dei denti; e quantunque l'inverno lo atterrisca, è ridotto a sperare che sopravvenga tosto, perchè il freddo, pregiudicandolo in tutto il resto, gli giova per gli occhi. Intanto non può “nè leggere, nè scrivere, nè pensare„; ricomincia a starsene giorni interi seduto, con le braccia in croce, in un ozio “più tristo assai della morte. Certo è che un morto passa la sua giornata meglio di me.„ L'8 di settembre scrive: “La mia debolezza degli occhi è la più grave ed ostinata che io abbia sofferto da otto anni in qua. Sto bene, eccetto incomodi leggieri di flussioni e di stomaco.„ Vedete: è ridotto a tale che, con la vista rovinata, con altri incomodi di flussioni e di stomaco, pure dice che sta bene! Spera la guarigione “provvisoria e non radicale„ della vista con l'inverno, ma il primo freddo lo disturba; poi, se migliorano gli occhi e i denti, torna a soffrire con lo stomaco, “perchè, per paura di farmi male, non mangiavo più quasi nulla.„ Lo hanno accusato di vagabondaggio, mentre il disgraziato è costretto a mutar di luogo per tentar di alleviare le sue pene. Va a Pisa nell'autunno del '27, e lì si sente assai meglio, quantunque gli occhi non guariscano interamente; e se il freddo gli fa bene, egli trema dalla mattina alla sera non potendo far uso del fuoco: “l'uso del camminetto mi è impossibile assolutamente e totalmente; giacchè anche lo scaldino, il quale adopero con moderazione infinita, m'incomoda assaissimo.„ Il 31 di gennaio così descrive il suo stato: “Questi miei nervi non mi lasciano più speranza; nè il mangiar poco, nè il mangiar molto, nè il vino, nè l'acqua, nè il passeggiare le mezze giornate, nè lo star sempre in riposo, insomma nessuna dieta e nessun metodo mi giova. Non posso fissar la mente in un pensiero serio per un solo minuto, senza sentirmi muovere una convulsione interna, e senza che lo stomaco mi si turbi, la bocca mi divenga amara e cose simili.„ La sua vita “è noia e pena: pochissimo posso studiare.... La mia salute è tale da farmi impossibile ogni godimento: ogni menomo piacere mi ammazzerebbe„; e l'infelice trova un'espressione terribilmente efficace per dipingere la sua miseria: “Se non voglio morire, bisogna ch'io non viva....„ Dovendo tornare a Firenze viaggia di notte: nondimeno sta male più giorni con gl'intestini e si persuade che non è più fatto per muoversi. “_Tutti_ i miei organi, dicono i medici, son sani: ma _nessuno_ può essere adoperato senza gran pena, a causa di un'estrema, inaudita _sensibilità_ che da tre anni ostinatissimamente cresce _ogni_ giorno: quasi ogni azione e quasi ogni sensazione mi dà dolore.„ Per stare tollerabilmente, deve aversi una gran cura, evitare di riscaldarsi e vivere senza far nulla. Con la nuova stagione ricominciano i mali di ventre: non può mangiare, si riduce talvolta a patire la fame perchè lo stomaco non tollera cibo senza dolori, “i quali sono tanto più gravi, quanto è maggiore la quantità del cibo, benchè questa non sia mai superiore, anzi appena uguale, al bisogno.„ Si rimette, ma gli ritorna la flussione degli occhi, ed è ancora costretto a tralasciare le occupazioni della mente. “La mia salute è passabile,„ scrive il 18 settembre del '28 al padre, “eccetto la solita estrema sensibilità ed irritabilità d'ogni sorta, la quale non posso vincere con l'esercizio (benchè questo per il momento mi sia sempre giovevolissimo), e m'obbliga ad avermi una cura eccessiva, minuta e penosa.„ Per comporre una letterina entra “in convulsione e in una specie di febbre.„ In autunno: “i dolori e le difficoltà smaniose del digerire mi travagliano molto.„ Di ritorno a Recanati, non può “nè leggere, nè scrivere, nè pensare, nè digerire il mio pranzo, che è pur piccino.„ Nell'estate del '29 “lo sfiancamento e la _risoluzione_ dei nervi„ va sempre crescendo. In luglio scrive alla Maestri: “Non solo non posso far nulla, digerir nulla, ma non ho più requie nè giorno nè notte.„ E in agosto allo Stella: “La mia salute è in misero stato e la mia vita è un purgatorio.„ E in settembre al Bunsen: “Non solo i miei occhi, ma tutto il mio fisico sono in istato peggiore che non fossero mai. Non posso nè scrivere, nè leggere, nè dettare, nè pensare. Questa lettera finchè non l'avrò terminata sarà la mia sola occupazione, e con tutto ciò non potrò finirla se non fra tre o quattro giorni.„ A Firenze, nel '30, ha sputi sanguigni ad ogni più piccolo raffreddore, e passa mesi interi in letto; torna anche a smaniare per lo stomaco: “Se non vedrete mie lettere,„ scrive alla sorella, “non vi meravigliate mai: assolutamente non posso, non posso scrivere.„ Ogni riga gli costa “sudor di sangue.„ È ridotto “un tronco che sente e pena.„ E la crudele vicenda ricomincia col nuovo anno: in primavera si sente rinascere, “ma nè occhi nè testa non hanno ricuperato un solo menomissimo atomo delle loro facoltà, perdute certamente per sempre.„ S'illude ancora, crede d'esser guarito nell'autunno; ma già lo turba il solo pensiero dell'inverno, che dovrà passare in casa, “secondo il mio antico e poco ameno costume.„ A Roma, dove va col Ranieri, è inchiodato a letto dal mal di petto, che continua sino alla primavera del '32, con miglioramenti e ricadute successive. Nell'estate, a Firenze, il caldo gli fa soffrire “molta debolezza e malessere, poichè tutta la mia salute e il mio vigore dipende dalla moderazione della temperatura, la quale mancando, sto sempre male.„ E nell'autunno torna ad allettarsi per un altro reuma di petto: il terzo in dieci mesi. Arriva in fin di vita, si ristabilisce a primavera; ma gli occhi sono nuovamente, più seriamente minacciati dall'erpete, e quasi perduti. Nell'estate ritornano a riammalarsi: uno è semichiuso. Tale è la sua rovina, che, deliberato di tentare il clima di Napoli, non può dare direttamente notizia al padre della partenza; si deve servire della mano altrui, “perchè quelle poche ore della mattina, nelle quali con grandissimo stento potrei pure scrivere qualche riga, le passo necessariamente a medicarmi gli occhi.„ E a Napoli la via della croce ricomincia ancora una volta: dapprima gli occhi sembrano guariti, poi egli deve tornare alla cura del sublimato corrosivo; quando l'erpete migliora, resta ancora il male interno, insanabile. Nell'autunno del '35 paga il suo tributo alla stagione con una costipazione accompagnata da copiose emorragie del naso. Le condizioni generali si sollevano, nell'inverno dal '35 al '36 può tornare un poco a pensare, a leggere, a scrivere; passa oltre un anno mediocremente: ma è l'ultimo guizzo della lampada vicina ad estinguersi. Già le gambe cominciano a gonfiarsi, già il respiro diventa affannoso. Il primo freddo del '36 lo fa spasimare più che quello sofferto a Bologna dieci anni prima, e sul principio del dicembre il ginocchio e la gamba diritta gli si gonfiano e diventano d'un colore spaventevole. Si porta questo male sino alla metà di febbraio, quand'ecco un nuovo attacco di petto. L'occhio diritto è minacciato da amaurosi; gli sopravviene un attacco d'asma per il quale non può nè camminare, nè giacere, nè dormire. Il 14 di giugno, a trentanove anni, muore improvvisamente, durante il desinare. Tale fu la vita dell'infelice: mai forse tanta grandezza d'ingegno fu pagata con tanta miseria del corpo. Negli altri, nelle creature sensitive del suo tempo, i dolori si alternano con i piaceri, alle contrazioni incresciose seguono pure i fremiti di godimento; il suo supplizio è per questo inaudito: che non solo egli soffre fino allo spasimo, ma _non può godere_. Gli occhi che dovrebbero aprirsi agli spettacoli della natura, della bellezza, sono costretti a fuggire la luce; il sangue che dovrebbe scorrergli impetuoso nelle vene ed avvivargli le membra ed imporporargli le guance, gli spunta sulle pallide labbra: le ossa gli si rammolliscono, le carni gli si avvizziscono: la tisi, l'idropisia, la cardiopatia se lo contendono. E questi mali non gl'impediscono soltanto di soddisfare il naturale appetito del piacere, di cercare le grate impressioni; ma anche di appagare l'altro suo bisogno: il bisogno di studiare, di meditare, di comunicare con i grandi spiriti dei poeti e dei filosofi, di raccogliersi in sè stesso, di scrivere il suo pensiero, e anche di pensare soltanto. Qualcuno gli consiglia di disprezzare i piccoli incomodi; ma potrà mai essere piccolo incomodo per lui l'impossibilità di studiare? Egli non può lasciare gli studi, e questi non hanno fatto e non fanno altro che male, e male grave, alla sua salute. “Ma come passar la vita senza di loro?„ Vivere senza pensare non gli è possibile; ed egli non può pensare, ma deve vivere; allora si duole che, dovendo pur essere al mondo, non sia “pianta o sasso o qualunque altra cosa non ha compagna dell'esistenza il pensiero.„ Così, mentre egli è per la sua costituzione morale poco capace di volontà, la sua costituzione fisica gli vieta quasi ogni azione diretta a contentare le prepotenti sue facoltà naturali. La sensibilità, che naturalmente cerca le impressioni grate, deve fuggirle e non ne prova alcuna; la stessa riflessione, la stessa meditazione, che sul principio lo ha consolato sino ad un certo segno dei mancati piaceri, è anch'essa continuamente impedita. II. L'AMORE. Quando la salute, prima condizione della felicità, è assicurata, gli uomini considerano come massimo pregio della vita l'amore. Tanto valore è attribuito a questa passione per la difficoltà del suo appagamento. Ciascuna creatura bastando a sè stessa quando vuol soddisfare qualunque suo bisogno, ha bisogno d'un'altra creatura simile e diversa ad un tempo per soddisfare l'istinto della riproduzione. Questa dipendenza, la necessità dell'accordo, non riguardano soltanto l'amore come fatto organico, ma anche e più l'amore come sentimento. I due appetiti del maschio e della femmina, se bene non si destano a un punto e con forza e caratteri eguali, quasi sempre finalmente coincidono; molto più difficile è che le aspirazioni, i sentimenti e le idee d'un uomo e d'una donna concordino. La difficoltà dell'accordo, dal quale dipende l'appagamento del bisogno, si rivela e si misura nella scelta sessuale. Non ad un qualunque individuo dell'altro sesso ciascun individuo chiede l'amore, ma determinatamente ad un tale: se ogni donna può essere amata da ogni uomo, e reciprocamente, ciascuno di noi, uomo o donna, crede che il proprio piacere dipenda da alcune creature singolarissime. E la nostra scelta è naturalmente determinata dalle qualità esteriori e visibili delle creature da amare: noi scegliamo quelle che ci sembrano più belle e, per ciò stesso, migliori. Giacomo Leopardi, sensibile e immaginoso come lo conosciamo, capace d'apprezzare come abbiamo visto la bellezza muliebre, crederà, sulla fede di questa bellezza, a una maggiore, a un'infinita bellezza intima; l'amor suo sarà un fuoco divoratore. Infermo e deforme, egli non sarà riamato da nessuna donna. Mai i poeti dell'amore immaginarono situazione più sciagurata: un cuor nobile e uno spirito altissimo in un corpo egro e contraffatto. Se l'esperienza sentimentale è tanto spesso triste per quegli uomini grandi la cui grandezza non potè essere misurata dalle donne, ma che pure, poco o molto, bene o male, furono riamati; che cosa dovette essere per un uomo come il Leopardi a cui nessuna donna mai rispose, di cui più d'una donna rise? Il primo amore lo infiamma a diciotto anni: egli s'invaghisce della cugina Geltrude Cassi venuta per qualche giorno a Recanati e scesa in casa di lui. Che struggimento sia questa passione egli stesso ha descritto: Tornami a mente il dì che la battaglia D'amor sentii la prima volta, e dissi: Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia! . . . . . . . . . . . . . . . Ahi come mal mi governasti, amore! Perchè seco dovea sì dolce affetto Recar tanto desìo, tanto dolore? E non sereno, e non intero e schietto, Anzi pien di travaglio e di lamento Al cor mi discendea tanto diletto? Dimmi, tenero core, or che spavento, Che angoscia era la tua fra quel pensiero Presso al qual t'era noia ogni contento? Delizia somma ed unica, la passione è anche spasimo ineffabile: questo contrasto noto ad ognuno si acuisce soprammodo in una natura sensibile come quella del Leopardi. Il suo cuore “inquieto e felice e miserando„, gli affatica il fianco dal tanto forte palpitare, e il sonno gli vien meno come per febbre; ma intanto la dolce immagine sorge viva in mezzo alle tenebre: Oh come soavissimi diffusi Moti per l'ossa mi serpeano! Oh come Mille nell'alma instabili, confusi Pensieri si volgean! Ma di questa donna che suscita in lui tanto desiderio egli può appena ammirare le sembianze e udire la voce: e già ella parte, e invano Io qui vagando al limitare intorno Invan la pioggia invoco e la tempesta Acciò che la ritenga al mio soggiorno. Pure il vento muggia nella foresta E muggìa tra le nubi il tuono errante Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta. O care nubi, o cielo, o terra, o piante; Parte la donna mia: pietà, se trova Pietà nel mondo un infelice amante. O turbine, or ti sveglia, or fate prova Di sommergermi, o nembi, insino a tanto Che il sole ad altre terre il dì rinnova. S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia Le luci il crudo sol pregne di pianto.... E se egli, al buio, protendendo l'orecchio avido per cogliere l'ultima voce di lei che parte, ne ode in cambio un'altra, una voce plebea, pure un gelo lo prende e il cuore gli si rompe nel petto. E quando ella se ne va, e s'ode il romorio dei cavalli e delle ruote: Orbo rimasi allor, mi rannicchiai Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, Strinsi il cor con la mano e sospirai. Poscia traendo i tremuli ginocchi Stupidamente per la muta stanza, Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi? Amarissima allor la ricordanza Locommisi nel petto, e mi serrava Ad ogni voce il cor, a ogni speranza. E lunga doglia il sen mi ricercava, Com'è quando a distesa Olimpo piove Malinconicamente e i campi lava. Non è esagerazione poetica, retorica. Già non sarebbe da dubitarne perchè lo scrittore, — e particolarmente uno scrittore come lui — risente, componendo, le sue impressioni passate; e se trova immagini gagliarde per dipingere lo stato dell'anima sua, vuol dire che gagliardamente ha sentito o è capace di sentire; ma noi abbiamo altre testimonianze le quali dicono molto più che non dica egli stesso. La notte della partenza della Cassi, riferisce la contessa Teresa Leopardi, fu una notte “spaventevole. Egli era in preda a un delirio che lo faceva gridare e ruggire.„ Il fratello Carlo dovette vegliarlo. Calmatosi, egli non scrisse soltanto questi versi, compose anche una _Storia_ del suo amore, in prosa; un giorno ne lesse alcuni frammenti al fratello: “gli si spezzava il cuore nel leggerli, e a Carlo mancava il coraggio d'insistere, e lo pregava che cessasse d'intrattenersi su quelle strazianti memorie.„ Quest'analisi intima accresce naturalmente la forza delle impressioni che già si sono scritte profondamente nelle sensibilissime fibre. Null'altro compiacimento egli trova fuorchè in questa indagine: Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto, Alla guardia seder del mio dolore. Perchè, non solamente nulla ottenne egli da quella donna, ma nulla le chiese, nulla le disse; e quantunque assicuri che Vive quel foco ancor, vive l'affetto, Spira nel pensier mio la bella imago Da cui, se non celeste, altro diletto Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago; pure, col tempo, la memoria della sua passione a poco a poco, naturalmente, si disperde. Un'altra tosto ne nasce. Una fanciulla di umile condizione, Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, lo innamora. Che cosa dovrà essere questo sentimento noi possiamo prevedere da quel che egli dice intorno alla seduzione esercitata dalle giovanette, dalle vergini. Se una donna, come era la Cassi, “è più atta a inspirare e maggiormente mantenere una passione,„ egli giudica che una fanciulla dai sedici anni ai diciotto anni “ha nel suo viso, nei suoi moti, nelle sue voci un non so che di divino che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto, allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta, quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume, che si legge sul viso e negli atti, e che voi nel guardarla concepite in lei e per lei, quell'aria d'innocenza e d'ignoranza completa del male, delle sventure, dei patimenti; quel fiore insomma, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un'impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardare quel viso; ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, io ripeto, senza innamorarci, senza muoverci desiderio di posseder quell'oggetto. La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in certo modo alieni, ce la fa riguardare come di una sfera divina e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare....„ La gentile Teresa, se da principio gl'ispira questo senso di umile e trepida ammirazione, presto lo infiamma d'amore prepotente. Quando, di maggio, ella siede intenta alle opere femminili e fa risonare tutt'intorno il suo perpetuo canto; ed egli, lasciate le sue carte, ascolta quei suoni, il volto gli si discolora; e se volge lo sguardo alle vie dorate, agli orti, al mare, al monte, la sua felicità è infinita: Lingua mortal non dice Quel ch'io sentivo in seno. Che pensieri soavi. Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia La vita umana e il fato! Ma egli non le ha detto una sola parola dell'amor suo; nè sa che cosa veramente ella provi per lui. Non può parlare, non sa risolversi: è timido, indeciso, senza volontà: noi sappiamo che tutta la sua forza vitale è impiegata all'interno, a sentire, a pensare: non glie ne avanza per operare. E mentre la passione lo strugge e la debolezza lo avvilisce, la povera ragazza se ne muore, di tisi, a ventun anno, quando egli ne ha appena venti. Egli vede venire la morte della diletta, e si studia invano di non credere a chi gli dà notizie disperate dell'inferma, e presente lo strazio della dipartita; e, morta, la rivede in sogno: Morta non mi parea, ma trista, e quale Degl'infelici è la sembianza. Al capo Appressommi la destra, e sospirando, Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna Serbi di noi? Egli non può credere che sia morta; e quando ne è certo, non sa come ancora sia vivo egli stesso; e all'ombra — solo alla vana ombra — che lo visita nel sogno, osa chiedere: Or se di pianto il ciglio, ........ e di pallor velato il viso Per la tua dipartita, e se d'angoscia Porto gravido il cor; dimmi: d'amore Favilla alcuna, o di pietà, giammai Verso il misero amante il cor t'assalse Mentre vivesti? Io disperando allora E sperando traea le notti e i giorni; Oggi nel vano dubitar si stanca La mente mia. Che se una volta sola Dolor ti strinse di mia negra vita Non mel celar, ti prego, e mi soccorra La rimembranza or che il futuro è tolto Al nostri giorni.... E quando ella gli dice che sì, allora: Per le sventure nostre, e per l'amore Che mi strugge, esclamai; per lo diletto Nome di giovinezza e la perduta Speme de' nostri dì, concedi, o cara, Che la tua destra io tocchi. Torna a scordarsi che è morta nel ricoprirne di baci ardenti la mano; ma il fantasma sparisce: Allor d'angoscia Gridar volendo, e spasimando, e pregne Di sconsolato pianto le pupille, Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi Pur mi restava, e nell'incerto raggio Del sol vederla io mi credeva ancora. La dolorosa memoria non lo lascia più. Ahi Nerina! In cor mi regna L'antico amor. Se a feste anco talvolta, Se a radunanze io movo, in fra me stesso Dico: Nerina, a radunanze, a feste Tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni Van gli amanti recando alle fanciulle, Dico: Nerina mia, per te non torna Primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento, Dico: Nerina or più non gode; i campi, L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno Sospiro mio: passasti: e fia compagna D'ogni mio vago immaginar, di tutti I miei teneri sensi, i tristi e cari Moti del cor, la rimembranza acerba. Dubitano che questa Nerina sia la stessa Silvia, la stessa Teresa Fattorini; dicono che possa essere un'altra umile giovanetta, la tessitrice Maria Belardinelli, della quale il poeta si era più tardi invaghito. Sia pure. Ma quest'altro amore è stato forse più fortunato dell'altro? Quest'altro amore somiglia quanto più non sarebbe possibile al primo. Come non ha rivelato l'animo suo alla Fattorini, il Leopardi non l'ha rivelato alla Belardinelli; come la Fattorini è morta giovane, giovane è morta la Belardinelli: la prima a ventun anno, la seconda a ventisette. Entrambe le passioni furono tacite, inappagate, infelici. E l'esperienza della sua incapacità a farsi amare prostra il giovane, lo attrista, lo riduce a una sconsolata e cupa rassegnazione. Se incontra una bella fanciulla, se ne ode soltanto da lontano qualcuna cantare, A palpitar si move Questo mio cor di sasso; ahi, ma ritorna Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estraneo Ogni moto soave al petto mio. Nessuna simpatia dell'infelice è stata corrisposta, nessuna ne ha saputa o potuta esprimere; nessun'altra ne esprimerà, di nessun'altra otterrà il ricambio. Egli stesso ha riconosciuto che così dev'essere, che così è giusto che sia. Egli sa d'avere “l'aspetto miserabile e dispregevolissima tutta quella gran parte dell'uomo, che è la sola a cui guardino i più: e coi più bisogna conversare in questo mondo; e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s'attrista, e per forza di natura, che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d'amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorchè l'anima.„ Così la sua Saffo, dispregiata amante, riconosce che alle sembianze il Padre Alle amene sembianze eterno regno Diè nelle genti; e per virili imprese, Per dotta lira o canto, Virtù non luce in disadorno ammanto. Che vale nondimeno questa persuasione filosofica contro le leggi della vita, contro le voci dell'istinto? La ragione ha un bel dimostrargli sino all'evidenza che egli non può essere amato: che importa, se dell'amore ha bisogno? E allora, non che rassegnarsi, egli fa un ragionamento tutto inverso. L'amore degli uomini non si distingue per la parte che vi ha l'anima? I godimenti bassi e volgari valgono forse il piacere “que donne un seul instant de ravissement et d'émotion profonde?„ L'anima sua non è capace di risentire e di procurare altrui queste commozioni ineffabili? Le donne non dicono che è inutile parlare ai loro sensi; che solo il sentimento le infiamma? Non vi sarà una donna che, ansiosa di essere amata con l'anima, da un'anima grande, comprenderà la sua grandezza e compatirà la sua sciagura e gli stenderà la mano? Se egli ancora non l'ha trovata, non può, non deve sperare di trovarla? Nulla vale l'esperienza contraria per uno avvezzo come lui a dar tanto credito alle illusioni. Egli deve necessariamente illudersi che se nessuna donna lo ha ancora compreso, qualcuna lo comprenderà. E il tempo passa, e non una si accorge di lui. Allora egli si rivolta contro tutte: tanto più violentemente, quanto più è persuaso che l'amor suo è senza pari, per quel sentimento orgoglioso del quale altrove notammo l'origine. Allora egli scrive: “L'ambizione, l'interesse, la perfidia, l'insensibilità delle donne che io definisco un _animale senza cuore_, sono cose che mi spaventano.... La scelleraggine delle donne mi spaventa, non già per me, ma perchè vedo la miseria del mondo.„ Egli vede che, se uomini e donne sono destinati ad amarsi, sono anche fatti diversamente; e che, naturalmente più fredde, le donne possono speculare sull'ardenza del desiderio che ispirano: quindi la prostituzione. Egli non può accostare le sciagurate che si vendono perchè gli fanno troppo ribrezzo e troppa paura, perchè vuole amare nobilmente, con tutte le più alte potestà dell'esser suo; ma crede che, se altra fosse la sua condizione nel mondo, non sarebbe deriso: “S'io divenissi ricco e potente, ch'è impossibile, perchè ho troppo pochi vizi, le donne senza fallo cercherebbero d'allacciami. Ma in questa mia condizione, disprezzato e schernito da tutti, non ho nessun merito per attirarmi le loro lusinghe.„ E il maggiore, l'unico suo merito, la capacità sentimentale, si perde a poco a poco: egli sente di non poter essere amato anche “perchè ho l'animo così agghiacciato e appassito dalla continua infelicità, ed anche dalla misera cognizione del vero, che prima di avere amato ho perduto la facoltà di amare; e un angelo di bellezza e di grazia non basterebbe ad accendermi.„ Ma come s'inganna! A ventidue anni può egli esser sicuro di non ricadere nell'eterna illusione? Non confessa che la sua esperienza è tutta immaginaria, che non ha amato realmente, come tutti gli altri uomini i quali manifestano i loro sentimenti e cercano di ottenerne il ricambio; ma soltanto tra sè, tacitamente, nella solitudine? Allora chi lo difenderà contro nuove lusinghe? Bisognerebbe che il suo cuore mutasse di tempra perchè perdesse la capacità d'infiammarsi così. Se l'amor suo è un chiuso fuoco che la sola vista d'una donna accende, nè la mancata corrispondenza, nè l'impossibilità d'esser compreso, nè lo sdegno contro le creature giudicate insensibili gl'impediranno di accendersi ancora. Noi lo abbiamo udito gridare da Roma al fratello: “Amami, per Dio. Ho bisogno d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita....„ Subito dopo soggiunge: “Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e compassione.„ Nella gran città, se “non per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza„, le donne non alzano gli occhi sui giovani molto belli ed eleganti in compagnia dei quali egli gira spesso per le vie; come sarà guardato e notato un povero contraffatto suo pari? Quindi il suo sdegno cresce, lo fa uscire in nuovi insulti: “Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e il divertirsi non si sa come....„ Ma quanto gli debba costare questo giudizio, quanto debba cuocergli la rinunzia alle gioie dell'amore nella quale vuol dare a intendere che quasi si compiace, appare da altre sue impressioni. Il povero rachitico intende squisitamente la seduzione delle forme muliebri, dà ragione dell'incanto che esercita lo spettacolo del ballo: “Una donna nè col canto nè con altro qualunque mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo; il quale pare che comunichi alle sue forme un non so che di divino, ed al suo corpo una forza, una facoltà più che umana.„ Se egli ha dichiarato di sprezzare tutto il genere femminino, se annunzia che non tratta a Roma con donne, confessa pure che “senza queste nessuna occupazione o circostanza della nostra vita ha diritto di affezionarci o di compiacerci. Io me n'assicuro per esperienza, e posso giurarti che la conversazione spiritosa o senza spirito mi è venuta in odio mortale. Tutto è secco fuori del nostro cuore; e questo non si esercita mai....„ E quando il fratello Carlo gli annunzia che è innamorato, egli se ne felicita: “Veramente non so qual migliore occupazione si possa trovare al mondo che quella di fare all'amore, sia di primavera o d'autunno; e certo che il parlare a una bella ragazza vale dieci volte più che girare, come io fo, attorno all'Apollo del Belvedere o alla Venere Capitolina.„ Se, dunque, poco tempo dopo, di ritorno a Recanati, egli scrive al Melchiorri che è “ben sicuro di morire e di soffrire per tutt'altro che per una donna„, noi non lo potremo credere. Rallegratosi col fratello per la sua nuova fiamma, otto mesi dopo egli ammonisce il cugino: “Io sono troppo persuaso, non dico della vostra filosofia, perchè la filosofia in questi casi non serve, ma della vostra accortezza e cognizione del mondo, per credervi capace d'innamorarvi in modo che la passione vi possa inquietare. Caro Peppino, non siamo più a quei tempi. Nella primissima gioventù, questo ci può accadere; ma dopo fatta esperienza delle cose, è impossibile, o è troppo fuor di ragione. Un tempo addietro io era capacissimo di una passione furiosa: ne ho provate anch'io e per confessarvi la mia sciocchezza, vi dico che sono stato più volte vicinissimo ad ammazzarmi per ismania d'amore, ancorchè in verità non avessi altra cagione di disperarmi, che la mia immaginazione. Ma dopo l'esperienza, sono ben sicuro di morire e di soffrire per tutt'altro che per una donna. Farei torto al vostro buon giudizio se vi ricordassi che le donne non vagliono la pena di amarle e di patire per loro. Non posso credere che mi rispondiate che la vostra è diversa dall'altre. Questa è la risposta di tutti gl'innamorati, e non sarebbe degna di voi. Voi ed io dobbiamo tenere per assioma matematico che non v'è nè vi può esser donna degna di essere amata da vero.„ La contraddizione è tutta apparente: se egli parla ora da credente ora da scettico, ciò avviene perchè, con un bisogno prepotente d'amore, si sente condannato a non ottenerne mai. Non lo amano, ed egli accusa tutto il sesso muliebre; ma se è ingiusto con le donne, è anche ingiusto con sè stesso, dichiarandosi impotente ad amare quando invece è condannato a struggersi invano. “Sono molto contento,„ riscrive all'amico, “di vedervi questa volta un poco più quieto sopra la vostra passione. Di questa io non sarei capace, perchè il cuore, di cui voi mi parlate, è andato a spasso dopo tante esperienze d'uomini e di donne: ma non biasimo però chi è capace ancora di provarla e di amare da vero, anzi lo invidio e lo felicito, perchè l'amore, quantunque sia una pura illusione, ed abbia molti dolori, ha però un maggior numero di piaceri; e se fa molti danni, questi servono per pagare moltissimi diletti che ci procura. Sotto questo aspetto io approvo l'amore se bene non lo provo; ma quando poi esso ci dovesse fare infelici, non concederò mai che la ragione in un par vostro, e in qualunque uomo, sia filosofo, sia mondano, non debba potere, se non altro, indebolirlo.... A' tempi nostri, in questi costumi, con questo carattere di donne, coi disinganni che ci hanno procurati tante cognizioni d'ogni genere intorno al cuore umano, non è possibile che un uomo di senno sia per lungo tempo la vittima di una passione ispirata da oggetti pieni di vanità e d'ogni sorta di tristizie.„ Ma tanto egli arde, tale è la sua sete d'amore, che non trovando una donna di carne e d'ossa alla quale poter degnamente consacrare il suo culto, se ne foggia una con la fantasia. Viva mirarti omai Nulla speme m'avanza.... .... Già sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in questo arido suolo Io mi pensai. Ma non è cosa in terra Che ti somigli; e s'anco pari alcuna Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella. Egli dimentica che, essendo tanto poco amabile, non dovrebbe essere tanto esigente; la sua immaginazione è così fervida che vince la coscienza della sua miseria fisica: infermo, contraffatto, sogna una perfezione fuori dell'umano: egli è ancora quel romantico che, innamorato di una donna viva, la evita per contemplarla idealmente, temendo che la realtà ne distrugga l'incanto. Ma romanticismo, idealismo, delirii della fantasia: tutto cede all'istinto vitale. L'amore è un bisogno; egli deve amare, ed ama: e l'amor suo non è ricambiato; non dalla Basvecchi, non dalla Brighenti, non dalla Malvezzi. Udite che cosa desta costei in questo dispregiatore di tutto il genere femminile: “Sono entrato con una donna (Fiorentina di nascita) maritata in una delle principali famiglie di qui, in una relazione, che forma ora gran parte della mia vita. Non è giovane, ma è di una grazia e di uno spirito che (credilo a me, che finora l'avevo creduto impossibile) supplisce alla gioventù e crea un'illusione maravigliosa. Nei primi giorni che la conobbi, vissi in una specie di delirio e di febbre. Non abbiamo mai parlato di amore se non per ischerzo, ma viviamo insieme in un'amicizia tenera e sensibile, con un interesse scambievole, e un abbandono, che è come un amore senza inquietudine. Ha per me una stima altissima: se le leggo qualche mia cosa, spesso piange di cuore senz'affettazione; le lodi degli altri non hanno per me nessuna sostanza: le sue mi si convertono tutte in sangue, e mi restano nell'anima. Ama e intende molto le lettere e la filosofia; non ci manca mai materia di discorso, e quasi ogni sera io sono con lei dall'avemaria alla mezzanotte passata, e mi pare un momento. Ci confidiamo tutti i nostri secreti, ci riprendiamo, ci avvisiamo dei nostri difetti. In somma questa conoscenza forma e formerà un'epoca ben marcata della mia vita, perchè mi ha disingannato del disinganno, mi ha convinto che ci sono veramente al mondo dei piaceri che io credeva impossibili, e che io sono ancor capace d'illusioni stabili, malgrado la cognizione e l'assuefazione contraria così radicata, ed ha risuscitato il mio cuore dopo un sonno anzi una morte completa.„ Teresa Carniani Malvezzi non è giovanetta, ignara della vita e dell'arte; è donna fatta, scrittrice, poetessa: dovrebbe sapere chi è l'uomo da cui è amata; se non gradisce l'amor suo perchè non glie lo fa intendere subito? Prima lo alletta; poi un bel giorno gli dichiara che le sue visite la seccano. “L'ultima volta che ebbi il piacere di vedervi,„ egli le scrive, “voi mi diceste così chiaramente che la mia conversazione da solo a sola vi annoiava, che non mi lasciaste luogo a nessun pretesto per ardire di continuarvi la frequenza delle mie visite. Non crediate ch'io mi chiami offeso; se volessi dolermi di qualche cosa, mi dorrei che i vostri atti, e le vostre parole, benchè chiare abbastanza, non fossero anche più chiare ed aperte....„ Questo egli chiede almeno: che non lo lusinghino, che gli dicano tosto di non volere, di non potere mai rispondere all'amor suo. E neppur questo può ottenere, mai. Nella stessa Bologna dove ha conosciuto la Malvezzi, nello stesso anno, incontra eguale fortuna con la Padovani, cantante giovane, bella e graziosa. Egli non va più da lei quando s'accorge che l'amor suo è sdegnato, e resiste alle dimostrazioni d'interesse con le quali quest'altra mal consigliata tenta di riparare alle repulse; poichè gli amici di lui temono che non sia guarito del tutto, egli dimostra — o tenta dimostrare — che non hanno ragione: “Non so perchè vogliate dubitare della mia costanza in tenermi lontano da quella donna. Quasi mi vergogno a dirti che essa, vedendo che io non andavo più da lei, mandò a domandarmi delle mie nuove, ed io non ci andai; che dopo alcuni giorni mandò ad invitarmi a pranzo, ed io non ci andai; che sono partito per Firenze senza vederla; che non l'ho mai veduta dopo la tua partenza da Bologna. Dico che mi vergogno a raccontarti questo, perchè par ch'io ti voglia provare una cosa di cui mi fai torto a dubitare. Certo che la gioventù, la bellezza, le grazie di quella strega sono tanto grandi, che ci vuol molta forza a resistere....„ Egli trova questa forza; e glie ne va data tanto maggior lode, quanto più degne di biasimo sono coteste allettatrici, che vorrebbero tenerselo accosto non solo senza accordargli nulla, ma ridendo anche di lui. E voi, pupille tremule, Voi raggio sovrumano, So che splendete invano, Che in voi non brilla amor. Nessun ignoto ed intimo Affetto in voi non brilla: Non chiude una favilla Quel bianco petto in sè. Anzi d'altrui le tenere Cure suol porre in giuoco, E d'un celeste foco Disprezzo è la mercè. Allora egli si rivolge al passato, rievoca la figura della povera fanciulla morta sul fiore degli anni, della gentile che, se non l'amò, almeno non rise di lui: e questo è tutto il suo conforto: un mortuario ricordo: Rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi? Ella è morta; egli è inaridito, non aspetta se non la morte: Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano.... E s'inganna ancora! Egli non è giunto al termine delle sue prove. Se l'immaginazione lo ha troppo illuso, se l'esperienza lo ha troppo deluso, la triste vicenda non è ancora finita. Egli ha trent'anni. Quantunque la sua salute sia rovinata per sempre, pure la fiamma vitale non è ancora spenta. Ed è nato ad amare, come il suo Eleandro: “Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai capire in anima umana.„ Eleandro, come lui, ha un bel dire: “Oggi, benchè non ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, nè forse anco tepida, non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorchè me stesso, per necessità di natura, e il meno possibile.„ Giacomo Leopardi, per suo proprio conto, in prima persona, griderà ancora: “Io non ho bisogno nè di stima, nè di gloria, nè d'altre cose simili; ma ho bisogno d'amore....„ La sua speranza che una donna finalmente lo intenda non può morire. Se non è mai stato amato, se non ha saputo, se non ha potuto esprimere i proprii sentimenti, gli basta, come a Consalvo, un lieto sguardo, una buona parola, perchè, ripetendoli mille e mille volte nel costante pensiero, egli viva e speri. Ed ecco la nuova allettatrice: Fanny Targioni-Tozzetti, che egli incontra a Firenze, nel 1830. In un salotto elegante tutto odoroso dei nuovi fiori primaverili, vestita del colore della bruna viola, ella lo accoglie amabilmente, e quasi ad eccitare i suoi desiderii scocca baci sulle labbra delle figliuoline stringendole al seno. Apparve Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio Divino al pensier mio. La fiamma che repentinamente lo investe è alta e gagliarda. Dal momento che l'ha veduta il pensiero di lei governa il suo cuore: Dolcissimo, possente, Dominator di mia profonda mente: Terribile, ma caro Dono del ciel; consorte Ai lugubri miei giorni, Pensier che innanzi a me sì spesso torni.... Da questo momento, come per virtù d'incantesimo, tutte le altre sue cure, i tanti dolori, i ricordi, le aspettazioni, tutto svanisce: Ratti d'intorno intorno al par del lampo Gli altri pensieri miei Tutti si dileguâr. Siccome torre In solitario campo Tu stai solo, gigante.... Che divenute son, fuor di te solo, Tutte l'opre terrene, Tutta intera la vita al guardo mio! Che intollerabil noia Gli ozi, i commerci usati, E di vano piacer la vana spene, Allato a quella gioia, Gioia celeste che da te mi viene! E se prima egli non temeva la morte, ora quasi la sfida e ne ride; e se il volgo gli parve spregevole, ora ogni atto indegno lo ferisce; e se la sua vita è stata un lungo martirio, è lieto d'averlo sopportato, ora che ottiene tal premio: Ed ancor tornerei, Così qual son de' nostri mali esperto, Verso un tal segno a incominciare il corso: Che tra le sabbie e tra il vipereo morso, Giammai finor sì stanco Per lo mortal deserto Non venni a te, che queste nostre pene Vincer non mi paresse un tanto bene. E amando egli solo, senza sapere ancora qual sorte è serbata all'amor suo, che slancio d'immaginazione, che superbe speranze: Che mondo mai, che nova Immensità, che paradiso è quello Là dove spesso il tuo stupendo incanto Parmi innalzar! dov'io Sott'altra luce che l'usata errando, Il mio terreno stato E tutto quanto il ver pongo in obblìo! Egli presente pure che anche questo è un sogno: ma sogno di natura divina; e se un tempo, amando la prima volta, fu stupito vedendo come per amore fosse tutt'in una volta “felice e miserando„, ora, con gli anni, coi disinganni, con le difficoltà di accogliere, dopo questa, nuove lusinghe, sente che il nuovo pensiero, “cagion diletta d'infinito affanno„, non sarà più sostituito. Manifesterà egli questa volta con parole, proverà questa volta coi fatti la passione sua? Egli sa che dovrebbe fare così; ma tutte le sue disgrazie sono aggravate: moralmente, la fiacchezza della volontà, la timidezza, la paura sono cresciute, sono diventate vera impotenza; fisicamente, dopo quindici anni di malattie, egli è l'ombra di sè stesso. Non sa far altro pertanto che pensare a lei; si studia di veder lei in quelli che le somigliano; per esserle gradito importuna tutti i suoi amici chiedendo loro autografi, giacchè ella ne fa raccolta. Ed ella, accogliendolo benignamente, godendo i vantaggi d'un'amicizia così grande, ride poi insieme con gli amici del “suo gobbetto....„ L'infelice ignora le risa di lei. Seguìto a Roma l'amico Ranieri, si sente come in esilio; scrive alla donna del suo cuore una lettera dove la passione, nonostante la timidità, pure traspare: “Cara Fanny, Non vi ho scritto fin qui per non darvi noia, sapendo quanto siete occupata. Ma infine non vorrei che il silenzio vi paresse dimenticanza, benchè forse sappiate che il dimenticar voi non è facile. Mi pare che mi diceste un giorno, che spesso ai vostri amici migliori non rispondevate, agli altri sì, perchè di quelli eravate sicura che non si offenderebbero, come gli altri, del vostro silenzio. Fatemi tanto onore di trattarmi come uno de' vostri migliori amici, e se siete molto occupata, e se lo scrivere vi affatica, non mi rispondete....„ E lasciatosi andare a parlare della sua misantropia, si pente, s'incolpa: “Ma io ho torto di scrivere queste cose a voi, che siete bella, e privilegiata dalla natura a risplendere nella vita, e trionfare del destino umano. So che anche voi siete inclinata alla malinconia, come sono state sempre e come saranno in eterno, tutte le anime gentili e d'ingegno. Ma con tutta sincerità, e nonostante la mia filosofia vera e disperata, io credo che a voi la malinconia non convenga; cioè che quantunque naturale, non sia del tutto ragionevole. Almeno così vorrei che fosse.... Addio, cara Fanny; salutatemi le bambine. Se vi degnate di comandarmi, sapete che a me, come agli altri che vi conoscono, è una gioia e una gloria il servirvi.„ Tornato a Firenze, divampando la sua passione con nuova forza, egli comincia ad accorgersi che la donna lo tratta con insolita freddezza. Tante volte sì è ribellato: ora no, ora s'umilia; dinanzi a lei prima e sola piega l'altero capo, si mostra timido e tremante; e spia sommessamente ogni sua voglia, ogni parola, ogni atto; impallidisce ai suoi superbi fastidii; brilla in volto a un segno suo cortese; muta forma e colore ad ogni suo sguardo. Questa tenacia della speranza misurerà la forza della seguente disperazione. Già nell'agosto del '32, quando ella va a Livorno per i bagni, rimasto solo a Firenze, senza lei, senza l'amico, tormentato dalla passione impotente, costretto a fuggire la luce per il male degli occhi, le scrive: “Ranieri è sempre a Bologna, sempre occupato in quel suo amore che lo fa per più lati infelice. E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono nè belle nè degne dell'uomo....„ I suoi malanni crescono con la brutta stagione: ha il petto rotto dalla tosse, gli occhi quasi spenti: è un moribondo. Ella gli accorda ancora un poco di carità; e il disgraziato se ne contenta; quando il Ranieri, tornato a Firenze, gli rivela, forse per indurlo a lasciare questa città e a venirsene a Napoli con lui, che anche questa donna lo schernisce come tutte le altre.... Allora perisce l'estremo inganno; la speranza e lo stesso desiderio di nuovi amori, dì nuovi inganni, si spegne; nessuna cosa gli pare che valga più i moti del suo cuore. Cotesta donna non ha saputo Che smisurato amor, che affanni intensi, Che indicibili moti e che deliri Movesti in me; nè verrà tempo alcuno Che tu l'intenda. In simil guisa ignora Esecutor di musici concenti Quel ch'ei con mano e con la voce adopra In chi l'ascolta. La donna amata è come morta per lui. Quantunque realmente ella viva, Bella non solo ancor, ma bella tanto, Al parer mio, che tutte l'altre avanzi, la creatura viva non gli è più nulla; egli sente, ultimo disinganno, ultimo dolore, d'avere amato non la persona reale di lei, ma l'immagine che l'innamorata fantasia glie ne dipinse: Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque Sua celeste beltà, ch'io, per insino Già dal principio conoscente e chiaro Dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi. Pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi, Cúpido ti seguii finch'ella visse, Ingannato non già, ma dal piacere Di quella dolce somiglianza un lungo Servaggio ed aspro a tollerar condotto. Uscendo pertanto dall'ultima passione della sua vita, egli s'accorge che l'amor suo è stato “un lungo vaneggiare„; come quando, fanciullo ancora, pensando che il primo suo vano amore gli aveva fatto giudicar vani gli studii aveva concluso: Deh quanto in verità vani siam nui! Ma oramai egli è giunto sulle soglie della morte. E quando muore portando con sè sotterra, dopo aver tanto spasimato, la sua verginità; se pure Marianna Brighenti, che non lo ha allettato, ricusa pudicamente di far vedere ai curiosi la sola lettera d'amore che egli le scrisse; costei, la Targioni, la donna più ardentemente idoleggiata, il cui nome vero vive nella memoria degli uomini per l'amore di lui che l'ha cantata col nome di Aspasia; questa donna che ha avuto pochi scrupoli nella vita, che ha molto e liberamente amato, scrive al Ranieri dopo che il poeta è morto: “Molti ammiratori del povero Leopardi dimoranti in Parma mi hanno più volte chiesto e richiesto chi sia l'Aspasia su cui quell'insigne poeta scrisse canzone. Per carità, ditemelo voi se lo sapete, per togliermi da una filastrocca di lettere inutili e noiose....„ III. LA FAMIGLIA. Se in tutto tranne che nell'amore ciascuno basta a sè stesso, l'uomo non è già solo nel mondo, la sua felicità dipende in gran parte da chi gli sta intorno. Tutto il genere umano può essere ed è considerato da alcuni filosofi come un essere vivente del quale ogni individuo è una cellula e i gruppi d'individui sono gli organi. La solidarietà tra gli uomini, tra le cellule umane, è tanto più salda, quanto più essi sono vicini: il gruppo più stretto è la famiglia. Da essa dipende l'educazione del cuore; la condizione dei parenti nel mondo è anche quella del giovane sino al giorno che egli può provvedere a sè stesso. Come è educato Giacomo Leopardi? In che stato sociale si trova? Sua madre fu giudicata — e nessuno ha interposto appello al giudizio — donna di propositi virili più che di tenerezze materne. Un che di virile era nel suo aspetto, come maschile era qualche parte del suo vestito, gli stivali, il berretto. Ella fece pesare la dura sua autorità, prima che sui figli, sul marito. “Si dette il caso,„ narra Paolina Leopardi, “quand'io era piccina piccina, o anche forse quando non ero nemmeno nata, che la gonna di mia madre s'intrecciò fra le gambe di mio padre, non so come. Ebbene, non è stato più possibile ch'egli abbia potuto distrigarsene.„ Entrata in casa Leopardi, ella ne trova il patrimonio quasi sommerso nei debiti; saggiamente, ma anche tirannicamente, impone un'economia severissima. A nessuno consente di disporre di nulla; a nessuno manifesta quei sentimenti di calda e vivace affezione che sono la gioia della casa. Se i suoi bambini si lagnano di qualche dolore, le sole parole di consolazione che sappia dir loro sono queste: “Offritelo a Gesù.„ Quando sono grandi, apre e trattiene le loro lettere. Non una volta li stringe al cuore; “lo sguardo„ scrive Carlo Leopardi, “era la sola sua carezza.„ E Paolina: “Fra gli altri motivi che hanno renduto così trista la mia vita e che hanno disseccato in me le sorgenti dell'allegria e della vivacità.... uno è l'avere in mammà una persona ultrarigorista, un vero eccesso di perfezione cristiana, la quale non potete immaginare quanta dose di severità metta in tutti i dettagli della vita domestica.„ Tale è la madre, la creatura che dovrebbe prima d'ogni altra sorridere al frutto delle proprie viscere, che ne dovrebbe cullare i sogni e lenire i dolori. Giacomo, come è rimasto dinanzi a lei timido e quasi pauroso, così lontano da lei non ardisce scriverle, sicuro di annoiarla; nelle sue rarissime e brevissime letterine, ella non pensa se non a rammentargli di tenere una buona condotta; e una volta lo chiama anche “figlio d'oro„; ma quando? Quando crede che la professione letteraria abbia dischiuso al giovane una miniera d'oro, rendendo inutile l'assegno della famiglia. E lo eccita a continuarle il suo affetto “_sincero_„, sottolineando la parola certo perchè dubita della sincerità dell'amore del figlio e se ne duole; ma di chi è la colpa, se non sua propria? Come vorrebbe che il figlio si lasciasse trasportare dall'amore, se ella stessa non l'ha amato, o l'ha amato a suo modo, moderando, reprimendo i moti del suo cuore materno? Il padre, Monaldo Leopardi, è uomo d'ingegno fuor del comune e di cuore amorevole; ma, oltrechè non dispone della propria volontà, obbedendo sempre ed in tutto alla moglie, egli intende anche la vita al modo antico: non sa, non vuol sapere, non vuol sentire nulla di quel che accade nel mondo rinnovato. Come Giacomo, egli vede due secoli armati l'uno contro l'altro; ma se soffre di questa lotta, la sua sofferenza non deriva, come quella di Giacomo, dal contrasto delle opposte sollecitazioni: egli non prova altro che ira e sdegno contro tutte le novità. Al figliuolo somiglia per metà: gli ha dato l'amore dell'antico, la severità del pensiero indagatore, la pazienza delle ricerche lunghe e minute, il senso dell'ordine e della disciplina. Il gusto delle contraffazioni di vecchie scritture è comune a Monaldo e a Giacomo. Il padre trasmette non soltanto a lui, ma anche all'altro suo figlio Carlo la sua disposizione al riso: come egli profonde le celie nei suoi scritti, e motteggia nella conversazione di tutti i giorni, e muore scherzando col sacerdote nell'agonia; così Carlo è celebre per le sue arguzie e lascia un libro di epigrammi molto pungenti; così Giacomo, che esce spesso nel discorso e nelle lettere in motti felici, si servirà come più tardi vedremo di questa sua nativa attitudine. Ancora: nel deridere il troppo vantato progresso delle scienze e delle arti padre e figlio si rassomigliano; il giudizio che danno intorno alla Roma dei loro tempi è identico. Con tanti tratti comuni non dovrebbero essi accordarsi? L'influenza di ogni uomo sopra il proprio simile si può esercitare in due modi: o per conformità, quando noi siamo persuasi ad imitare gli esempii che ci sono proposti; o per opposizione, quando siamo spinti a fare il contrario. Nell'adolescenza, nel tempo che Giacomo s'immerge negli studii filologici, severissimamente, da vecchio, egli si uniforma agli esempii paterni; perchè questo accordo durasse che cosa sarebbe necessario? Che il padre, secondasse a sua volta il figlio nel sentimento poetico della vita nel generoso ardor giovanile, che comprendesse le sue inquietudini, che lenisse la sua malinconia. Lo ha procreato a ventidue anni; non potrebbe esserne il fratello maggiore, non dovrebbe esserne l'amico? Ciò gli è impossibile. Se gli somiglia tanto da una parte, non gli somiglia niente dall'altra. La sua sensibilità morale è molto più ottusa, la sua fantasia è molto più sterile; la musica non gli dice nulla; i sentimenti nuovi, indeterminati, dei quali soffre e gode la nuova generazione, gli sono sconosciuti: alle idee nuove è inaccessibile. Non solo cattolico, ma suddito fedele del Papa, il cui governo chiama “dolcissimo„, è un vero “guelfo del diciannovesimo secolo.„ Va con la spada al fianco, come i cavalieri antichi. “Il prestigio della novità non mi ha sedotto, le lusinghe della rivoluzione mi hanno lasciato inconcusso, non ho sieduto nel concistoro degli empii, e non ho alzato la voce dalla cattedra della pestilenza.„ Tanto ogni novità lo sdegna, tanto è fedele alle opinioni dei tempi passati, che nega il sistema copernicano: se Galileo ha riso di Ticone, egli si augura che venga qualcuno il quale rida di Galileo e restituisca alla terra “l'antico onore„ considerandola ancora come centro dell'universo, “liberandola dal fastidio di tanti moti.„ Udite le sue argomentazioni: “Imperciocchè, alle fine dei conti il Galilei non ha potuto viaggiare in persona nei tropici e nell'equatore, ma ha dovuto contentarsi di considerare le cose da lontano alquanti milioni di miglia; e quel sistema secondo il quale per dividere i giorni e le notti vogliamo che la terra si rivolti ogni 24 ore intorno al suo asse come l'arrosto intorno allo spiedo, per compiere il corso dell'anno le facciamo fare un giro immenso in 365 giorni all'incirca e per accomodare le stagioni la costringiamo a starsene sempre giocando all'altalena, con alzare e abbassare i suoi poli.... questo sistema non toglie il desiderio di rinvenire una teoria meno lambiccata.„ Con queste disposizioni della mente, egli non è capace d'indulgenza, di sopportazione: confessa ingenuamente che le sue buone qualità “sono bilanciate da un orgoglio smisurato che le troppe lodi datemi nell'adolescenza avevano fomentato e che mi rendeva ambizioso di superare tutti in tutto.„ Riconosce che “l'abitudine di sovrastare m'è sempre rimasta e mi adatto malissimo, anzi non mi adatto in modo veruno alle seconde parti. Voglio piegarmi, voglio esser docile, rimettermi e tacere; ma in sostanza tutto quello che mi ha avvicinato ha fatto a modo mio, e quello che non si è fatto a modo mio mi è sembrato mal fatto.„ Che cosa può egli dunque intendere delle ansie, dei desiderii, dei bisogni del figlio? Può il figlio, ardente, vivace, inquieto, adattarsi sempre alla freddezza, alla calma, alla rigidità del padre? Se tanta parte dello spirito del padre è nel figlio; se questi per le facoltà più serie della mente, per la profondità della cultura classica, per la capacità di disciplina, può essere sollecitato a seguire gli esempii del padre; la cieca intransigenza di Monaldo non deve poi ottenere l'effetto contrario, di spingerlo per la via opposta? Tra queste due anime la lotta non deve fatalmente impegnarsi? La lotta si accese, e fu grave e scandalosa; e se molti diedero tutta la colpa al padre, non pochi anche oggi vedono nella ribellione di Giacomo il sintomo dell'ingratitudine, dell'aridità del suo cuore. Prima di esaminare i rapporti del padre e del figlio, notiamo come uno scandalo simile a quello avvenuto in casa Leopardi non fosse senza esempio, a quel tempo. Se, quantunque rassomigliandosi e amandosi sommamente, un germe di discordia ha potuto sempre insinuarsi tra i genitori ed i figli, perchè altri sono i sentimenti e le opinioni dei giovani, altri quelli dei vecchi; questo contrasto è più sensibile al principio dell'êra contemporanea. Quando tutti i poteri e tutti i principii cominciano ad essere oggetto di esame, anche la potestà paterna è posta in forse; come i popoli si ribellano ai re, così i figli si ribellano ai padri. “I consigli della vecchiezza„ scrive Vauvenargues, “rischiarano senza riscaldare, come il sole d'inverno„; immagine che Stendhal doveva far sua: quello Stendhal che, odiando il padre ed essendone odiato, doveva anche scrivere per proprio conto: “I genitori e i maestri sono i nostri primi nemici quando entriamo nel mondo.„ E il più mite Vauvenargues così precisa il proprio pensiero: “I giovani soffrono non tanto dei proprii errori quanto della prudenza dei vecchi.... L'ordinario pretesto di coloro che fanno l'infelicità degli altri è che vogliono il loro bene....„ Beniamino Constant, educato da un padre che reprime i moti del cuore per mostrarsi severo, fugge dalla casa paterna; il suo _Adolfo_ attribuisce la propria malinconia all'educazione ricevuta dal padre, uomo generoso ma rigido, presso al quale egli non prova altro che soggezione. Senancour scappa in Isvizzera per sottrarsi allo stato ecclesiastico al quale è destinato dalla famiglia; Lamartine evade dalla casa di educazione, dove è sul punto di uccidersi. Pères, de vos enfants ne forcez point les voeux: Le ciel vous les donna, mais pour les rendre heureux, aveva ammonito il dolente Chénier, invano. Molti filosofi hanno affermato che l'unico sentimento naturale, fondato sopra un istinto prepotente, è l'amor proprio; e che tutti gli altri, anche quelli che sembrano più disinteressati, sono forme più o meno larvate di egoismo; questa sentenza è confermata più spesso che non dovrebbe nel caso dell'amor paterno. Dai figli che debbono loro la vita, che sono come una viva parte della loro persona, e che perciò essi amano sopra ogni altra cosa al mondo, i genitori pretendono un affetto cieco che rinunzii ad ogni volontà e ad ogni velleità e incondizionatamente si sottoponga. Di questa qualità fu l'amor paterno di Monaldo, con l'aggravante della resistenza da lui opposta alle innovazioni. Il fondamento dei vincoli sociali che egli vede minacciato è la famiglia; nella famiglia, nella potestà paterna, è l'origine di tutte quelle altre potestà contro le quali egli vede far impeto: quindi, se anche per indole non fosse portato a comandare, terrebbe sempre alta la sua autorità per convinzione. Il suo concetto dell'autorità paterna è quello biblico: _Filii tibi sunt; erudi illos, et curva illos a pueritia illorum._ Egli esegue letteralmente il precetto: stabilito di avviar Giacomo per la carriera ecclesiastica, a dodici anni gli fa dare il primo degli ordini minori. _Ne des illi potestatem in iuventute, et ne despicias cogitatus illius:_ mai, “_letteralmente mai_„, egli lo lascia solo. Amandolo teneramente, teme che le vivaci manifestazioni dell'amor suo scemino il suo prestigio di padre; quindi le contiene e le reprime. Quando è riuscito troppo bene in quest'opera, anch'egli si duole, come la moglie, anzi con più cordiale sincerità, di ciò che ne è l'effetto naturalissimo; perchè vorrebbe, ma non può essere trattato con piena confidenza da Giacomo. “Mi pare che le lettere mie siano di molestia a voi, e che voi diate ad esse un riscontro stirato stirato come i versi latini dei ragazzi; quasi che il vostro cuore trovasse un qualche inciampo per accostarsi al mio, il quale vorrebbe esser veduto da voi una volta sola e per un solo lampo, e questo gli basterebbe.„ E al padre amante il figlio devoto tosto risponde: “Le dico e le protesto con tutta la possibile verità, innanzi a Dio, che io l'amo teneramente quanto è o fu mai possibile a figlio alcuno di amare suo padre; che io conosco chiarissimamente l'amore che ella mi porta, e che a' suoi benefizi e alla sua tenerezza io sento una gratitudine tanto intima e viva quanto può mai essere gratitudine umana.... Se poi ella desidera qualche volta in me più di confidenza e più dimostrazioni d'intimità verso lei, la mancanza di queste cose non procede da altro che dall'abitudine contratta sino dall'infanzia, abitudine imperiosa e invincibile perchè troppo antica e cominciata troppo per tempo.„ È triste, dolorosa e quasi tragica per queste due anime l'impossibilità di confondersi nell'impeto dell'affetto che pure entrambe le spinge. Ma non ha il padre volontariamente contenuto l'affetto suo? Come si può dolere se ha impedite le ingenue manifestazioni di quello del figlio? Egli vuole che il figlio lo tratti con intimità quando gli dà del _voi_, quando lo ha educato a dargli del _lei_; quando per rispetto ai principii, alla tradizione, non gli ha dato mai nessun esempio di confidente abbandono! Gli effetti di questa educazione sono molto più gravi che Monaldo non sospetti. L'anima sensitiva che avrebbe bisogno di espandersi, si chiude invece in sè stessa: l'apparente severità del padre e la reale soggezione nella quale è tenuto producono questo effetto: che il giovanetto si sente quasi estraneo nella famiglia, e alteramente ricusa di ricorrere ad essa quando ne ha bisogno. “Io tra il non avere e il domandare scelgo il non avere, eccetto se la necessità de' miei studi o la voglia troppo ardente di leggere qualche libro non mi sforza.... Circa a mio padre, io mi son fatto durissimo al domandare, e non mi ci so risolvere a nessun patto.„ Tanto più egli si afferma in questo proponimento, quanto più vede inutili le sue richieste e le sue preghiere. Il Giordani gli consiglia, per salute, di cavalcare; e questo è uno dei pochissimi esercizii ai quali sarebbe adatto e che egli farebbe volentieri, perchè gli altri, più energici, lo ammazzerebbero; ma non gli è dato. I parenti, ai quali sarebbe spettato di moderare gli enormi suoi studii, non intendono metter opera a correggerne gli effetti funesti. Egli non cessa di lagnarsi con l'amico: “Avrei sommo bisogno di distrazioni, ma non ne ho: oimè! mi ridarebbero la salute e la vita.„ E ancora: “Con quel medesimo studio che m'ha voluto uccidere, con quello tenermi chiuso a solo a solo, vedete come sia prudenza! e lasciarmi alla malinconia, e lasciarmi a me stesso che sono il mio spietatissimo carnefice....„ Egli non ha “un baiocco da spendere„, e il padre non gli concede se non quelle cose che la sua sapienza paterna, e quella della moglie, giudicano convenienti. Compiacendosi del genio del figlio, lo tratta poi da bambino e ride tranquillamente di lui se questo genio, sentendosi a disagio nel paesuccio natale, chiede di andarne via. Non è un capriccio quello che spinge Giacomo fuori di Recanati, ma una precisa necessità. Vedremo più tardi di che disagio morale vi soffrisse; ma alle sue sofferenze fisiche, alle sue malattie nervose la distrazione dei viaggi, la novità dei climi sarebbe il solo rimedio efficace. E la madre, arbitra dell'impiego delle sostanze, non vuol dargli un assegno. Senza dispendio della casa, mettendo in opera le influenze della nobile parentela, il giovanetto erudito sa che potrebbe ottenere uno stato a Roma o altrove: il padre vuol tenerselo accanto. “Il mio sentimento,„ scrive al cognato che intercede per il nipote, “è che egli sia men dotto, _ma sia di suo padre_.„ Sottolinea egli stesso. Egli pretende che Giacomo viva “tranquillo e lieto dove lo ha collocato la Provvidenza.„ La Provvidenza non può sbagliare; egli è infallibile. E il figlio sfoga l'animo suo col Giordani: “Solamente che avesse voluto chi dovrebbe volere, e non volendo dice agli altri ed a se stesso di non potere, è cosa palpabile che da gran tempo avremmo ottenuto il nostro desiderio. Ma non vogliono nè vorranno mai se non quando noi gli sforzeremo; sono contenti di vederci in questo stato; in questo vorrebbero di tutto cuore che morissimo: si pentono di averci lasciato studiare, dicono formalmente in presenza nostra che hanno conosciuto i danni del sapere, al nostro fratello minore danno appostatamente e palesemente educazione e genio e strumenti da falegname, e i nostri desiderii paiono stravaganze, e voglie pazze e intollerabili, a chi? non parlo degli altri che son vissuti e vivono essi come vorrebbero che vivessimo noi, dico a quel nostro zio che di dodici anni andò paggio alla corte di Baviera, tornato di diciotto visse per lo più in Roma finattanto che deputato della provincia a Napoleone e proposto per senatore, fatto cavaliere poi barone poi ciamberlano, andò due volte a Parigi e alla corte, ora ha stabilito il suo domicilio a Roma, trasferitaci tutta la sua famiglia, e persuasi a trasferircisi tutti i suoi fratelli e tutta la famiglia di una sorella assai meno comoda della nostra, ed ha avuto la sfacciataggine di dirmi più volte spontaneamente che sapeva di non potere educar bene i suoi figli se non fuori di qui, e poi scrivermi una lunga lettera per provarmi che io la fo da ignorante e da stolto pensando solamente d'uscire di Recanati.„ Se le sue parole sono dure, non è duro il suo cuore. Di che amore ripagherebbe i genitori se questi fossero altri, si può argomentare dalla forza del suo affetto fraterno. L'amore del fratello e della sorella è la sua grande consolazione. Carlo, minore di lui di un solo anno, con lui allevato sin dalle fasce, è “un altro me stesso„, è il suo “confidente universale„, gli è “sinonimo di vita„; insieme fanno “una stessa persona ipostatica.„ Tuttavia non mancano i motivi di discordia, “non per l'inclinazione, amando lui gli stessi studi che io, ma per le opinioni.... Questi è il solo solissimo con cui apro bocca per parlare degli studi; il che spesso si fa, e più spesso si farebbe se si potesse senza dispute, le quali sono fratellevoli ma calde.„ L'origine delle controversie che egli non può numerare “perchè sono infinite„, è ancora nel conflitto generale delle menti. Carlo è romantico senz'altro; dinanzi a lui, udendo le sue esagerazioni, Giacomo si afferma ancora più nel suo sdegno contro i principii moderni dei quali crede di essersi liberato interamente; e si duole che il fratello ami poco gli antichi, e molto gli stranieri e moltissimo i Francesi; egli si accosta pertanto alle opinioni del padre; ma rispettoso del passato dinanzi all'iconoclasta fratello, è nel tempo stesso rivoluzionario dinanzi al padre codino. Questa contraddizione si spiega ancora con l'intimo dissidio che trovammo in lui: egli pensa differentemente dal fratello e dal padre non già perchè rifugge dai loro opposti eccessi ed ama un ragionevole temperamento; ma perchè, simile al fratello nell'ansia giovanile e poetica del nuovo, c'è anche in lui un filosofo, un vecchio, che protesta; e perchè, simile al padre in una certa rigidezza di principii, c'è in lui un giovane ardente che si ribella. L'affetto familiare avrebbe potuto rendere sopportabile e conciliare i suoi contrasti; l'affetto realmente sempre concilia i fratelli e rende esemplare il loro legame. Lontano da Carlo, Giacomo gli scrive: “Nessuna amicizia sarà mai e poi mai eguale alla nostra, ch'è fondata in tante rimembranze, che è antica quanto la nostra nascita.... Tu, l'amor tuo, il pensiero di te, siete come la colonna e l'ancora della mia vita. Ogni parte di questa si riferisce là come a un centro.... Se quella fede teologica, anzi quella coesistenza che noi abbiamo insieme, fosse mai sospesa; io non sarei più quello di adesso; la mia esistenza non avrebbe più il suo fondamento; e tutto il mondo cambierebbe faccia per me in un colpo....„ Che cosa sarebbe occorso perchè questa capacità d'affezione familiare si volgesse anche al padre? Nient'altro che questi avesse trattato il figlio con quella confidenza, con quella cordialità, che pretendeva da lui. Egli avrebbe potuto giovargli moralmente. L'intima resistenza che Giacomo opponeva alla moda romantica, il suo culto dell'antichità, l'istintivo rispetto delle tradizioni avrebbero potuto essere fortificati per opera di un altro padre; Monaldo, con la sua severità, con le sue continue opposizioni, fa tutto il contrario. Egli non ha riguardo alla situazione morale di nessuno dei figli. Dell'ansia di Carlo, della forza con la quale il contagio romantico gli si è comunicato, già sappiamo qualche cosa. A quindici anni scrive: “Non mi è possibile esprimere il trasporto, l'affetto, l'ammirazione, la compiacenza, l'entusiasmo che io provai nel leggere il _Genio del Cristianesimo_ del signor Chateaubriand. Chi mai, dicevo fra me stesso, è giunto a questa penetrazione sì grande del cuore umano, e del cuore più delicato e sensibile, a questa pittura sì viva e sì naturale dei suoi più piccoli movimenti?... Son rimasto per più giorni in un'estasi di meraviglia e di commozione, d'invidia.... No, non si cancellerà giammai dal mio animo la profonda impressione cagionatami dalla lettura di quest'opera che mi ha fatto passare i più bei momenti della mia vita, e rimaner lungo tempo in una situazione qual mai più ho provata di stupore, di elevazione, di turbamento per me nuovo affatto e sconosciuto, e che sarebbe tuttora egualmente vivo, se il tempo e le distrazioni e gli oggetti e le occupazioni diverse non ne raffreddassero la sensazione, non però mai la memoria, la quale resterà perpetuamente ad eternare le traccie di ammirazione, di rispetto ed anche di utilità e di profitto....„ Egli si crede “soldato agguerrito contro tutte le disgrazie umane„, pensa che la morte del piacere e la nascita della noia, “mostro orribile„, sia dovuta al vivere antinaturale, “senza azione, senza meta, senza educazione fisica, senza sviluppo di azioni gigantesche.„ Paolina è vera sorella di Carlo e di Giacomo: ella non ha riso “_mai_ appunto perchè non mi sono contentata di ridere solamente: io voglio ridere e piangere insieme: amare e disperarmi, ma amare sempre, ed essere amata egualmente, salire al terzo cielo, poi precipitare....„ Chiamiamoli infermi, e folli se pur si vuole: non per questo sarà meno necessario trattare questi straordinarii fanciulli con illuminata tenerezza, con gelosa bontà, con indulgente premura. Ma la madre, quella che più di ogni altro sarebbe in grado di consolarli, non sa dire una buona parola; e il padre, quantunque tanto migliore di lei, pure li disconosce e li sottomette. Sarà da stupire se essi esprimeranno il loro scontento con parole roventi? Carlo dirà di sè stesso che non è niente, non ha niente, non fa niente e non ama niente. “Pensando a' miei casi, io rido di quel riso che usava Democrito, e che è il solo pianto che gli uomini del mio temperamento possono accordare a sè stessi. Costoro non sarebbero ora lontani dall'ammogliarmi....„ _Costoro_ sono i genitori; egli significa in modo anche più duro lo scontento suo e dei suoi fratelli quando esclama: “Siamo veri animali domestici, mantenuti a tanto per giorno; e perchè ci nutrite?...„ Non meno triste e sdegnata è Paolina: nel '23, a ventitrè anni, dice di non avere altro desiderio se non quello di non arrivare alla fine dell'anno, “ed è questo desiderio concepito con il più intimo sentimento del cuore, e voi lo crederete bene conoscendo me e quelli che mi governano. Dei quali io sono così annoiata, e di questo modo di vita, che non ne posso più; ed il peggio è il non avere alcuna speranza, neppur lontana, di miglioramento; no, non vedere per fine a questo stato altro che la morte, e venga anzi prestissimo, che sempre sarà troppo tarda ai miei voti; e se mi assicurassero di morire domani forse dalla consolazione non ci arriverei.„ L'anno passa, ne passano molti altri, e la sua condizione peggiora. Nel '31 scrive che “non se ne può più affatto affatto. Io vorrei che tu potessi stare un giorno solo in casa mia, per prendere un'idea del come si possa vivere senza vita, senza anima, senza corpo. Io conto di essere morta da lungo tempo; quando perdei ogni speranza, dopo aver sperato tanto tempo inutilmente, allora morii — ora mi pare di esser divenuta cadavere, e che mi rimanga solo l'anima, anch'essa mezzo morta poichè priva di sensazioni di qualunque sorta.„ Tale è la condizione dei figli. Nulla modifica la volontà e l'animo dei loro genitori. Giacomo, il più travagliato di tutti, vede che nè l'eloquenza “di Pericle, di Demostene, di Cicerone, di qualunque massimo oratore, nè della stessa Persuasione„ rimuoverebbe il padre dall'ostinato proposito di non dargli “un mezzo baiocco„ fuori di casa. Se egli vuole uscire da Recanati, deve mendicare.... a meno che non aspetti la morte del padre. L'empio pensiero lo spaventa: allora egli delibera di fuggire. La sua volontà infiacchita e repressa per cause intrinseche ed estrinseche dà un ultimo lampo. Egli matura il piano della fuga: scrive al conte Broglio d'Ajano perchè gli mandi un passaporto per Milano; comunica la sua risoluzione al fratello per lettera, senza chiedergli consiglio, “perchè il consiglio giova all'uomo irresoluto, ma al risoluto non può altro che nuocere: ed io sapeva che tu avresti disapprovata la mia risoluzione. Sono stanco della prudenza, che non ci poteva condurre se non a perdere la nostra gioventù, ch'è un bene che più non si riacquista.... Se m'ami, ti devi rallegrare: e quando io non guadagnassi altro che d'esser pienamente infelice, sarei soddisfatto, perchè sai che la mediocrità non è per noi.... Addio. Abbraccia questo sventurato. Non dubitare, non sarai tu così. Oh quanto meriti più di me! Che sono io? Un uomo proprio da nulla. Lo vedo e lo sento vivissimamente, e questo pure m'ha determinato a far quello che son per fare, affine di fuggire la considerazione di me stesso, che mi fa nausea. Finattantochè mi sono stimato, sono stato più cauto; ora che mi disprezzo, non trovo altro conforto che di gittarmi alla ventura, e cercar pericoli, come cosa di niun valore. Consegna l'inclusa a mio padre. Domanda perdono a lui, domanda perdono a mia madre in mio nome. Fallo di cuore, che te ne prego, e così fo io collo spirito. Era meglio (umanamente parlando) per loro e per me, ch'io non fossi nato, o fossi morto assai prima d'ora. Così ha voluto la nostra disgrazia....„ Al padre comincia col dire: “Sebbene dopo aver saputo quello ch'io avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno d'esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà ricusare di sentir le prime e ultime voci di un figlio che l'ha sempre amato e l'ama, e si duole infinitamente di doverle dispiacere....„ In quest'attitudine umile persevera finchè ricorda la prudenza, l'astinenza da ogni piacere giovanile, l'ubbidienza e la sommessione ai genitori che egli ha sempre usate, e il giudizio che del suo ingegno hanno portato uomini stimabili e famosi. Ma a poco a poco la coscienza di sè, lo sdegno per non essere stato compreso si esprimono vivacemente. “Ella non ignora che quanti hanno avuto notizia di me, ancor quelli che combinano perfettamente con le sue massime, hanno giudicato ch'io dovessi riuscir qualche cosa non affatto ordinaria, se si fossero dati quei mezzi che nella presente costituzione del mondo, e in tutti gli altri tempi, sono stati indispensabili per far riuscire un giovane che desse anche mediocri speranze di sè.... Certamente non l'è ignoto che non solo in qualunque città alquanto viva, ma in questa medesima, non è quasi giovane di 17 anni che dai suoi genitori non sia preso di mira, affine di collocarlo in quel modo che più gli conviene: e taccio poi della libertà ch'essi _tutti_ hanno in quell'età, nella mia condizione, libertà di cui non era appena un terzo quella che mi s'accordava a 21 anno.... Contuttochè si credesse da molti che il mio intelletto spargesse alquanto più che un barlume, ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, nè le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia.„ E a poco a poco il suo sdegno prorompe con espressioni tanto più forti, quanto più misurate: “Io vedeva i miei parenti scherzare cogl'impieghi che ottenevano dal Sovrano, e sperando che avrebbero potuto impegnarsi con affetto anche per me, domandai che per lo meno mi si procacciasse qualche mezzo di vivere in maniera adattata alle mie circostanze, senza che per ciò fossi a carico della mia famiglia. Fui accolto colle risa, ed ella non credè che le sue relazioni, in somma le sue cure si dovessero neppur esse impiegare per uno stabilimento competente di questo suo figlio. Io sapeva bene i progetti ch'ella formava su di noi, e come per assicurare la felicità di una cosa ch'io non conosco, ma sento chiamare casa e famiglia, ella esigeva da noi due il sacrifizio, non di roba nè di cure, ma delle nostre inclinazioni, della nostra gioventù, e di tutta la nostra vita. Il quale essendo io certo ch'ella nè da Carlo nè da me avrebbe mai potuto ottenere, non mi restava nessuna considerazione a fare su questi progetti, e non potea prenderli per mia norma in verun modo. Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch'io menava per le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi procurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch'era più ch'evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilmente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa misera complessione, non v'era assolutamente altro rimedio che distrazioni potenti, e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare.... Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal suo proposito, e che la fermezza straordinaria del suo carattere, coperta da una costantissima dissimulazione e apparenza di cedere, era tale da non lasciar la minima ombra di speranza. Tutto questo, e le riflessioni fatte sulla natura degli uomini mi persuasero, ch'io benchè sprovveduto di tutto, non dovea confidare se non in me stesso. Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone di me, non ho voluto più tardare a incaricarmi della mia sorte.... Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi; tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo. I padri sogliono giudicare i loro figli più favorevolmente degli altri, ma ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente di ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche.... Avendole reso quelle ragioni che ho saputo della mia risoluzione, resta ch'io le domandi perdono del disturbo che le vengo a recare con questa medesima e con quello ch'io porto meco. Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo. Ma essendo così debole come io sono, e non potendo sperar più nulla da lei, per l'espressione ch'ella si è lasciato a bella posta più volte uscire disinvoltamente di bocca in questo proposito, mi son veduto obbligato, per non espormi alla certezza di morire di disagio in mezzo al sentiero il secondo giorno, di portarmi nel modo che ho fatto. Me ne duole sovranamente, e questa è la sola cosa che mi turba nella mia deliberazione, pensando di far dispiacere a lei, di cui conosco la somma bontà di cuore, e le premure datesi per farci viver soddisfatti nella nostra situazione.„ Sul punto di chiudere, egli è più giusto, riconosce il malinteso morale, la vera causa della discordia: “La sola differenza di principii, che non era in verun modo appianabile, e che dovea necessariamente condurmi o a morir qui di disperazione, o a questo passo ch'io fo, è stata cagione della mia disavventura.... Mio caro signor padre, se mi permette di chiamarla con questo nome, io m'inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità fosse stata tutta mia, e nessuno avesse dovuto risentirsene, e così spero che sarà d'ora innanzi.„ Ma tanto poco questo figlio si è sentito partecipe della sostanza del padre, che ancora, nel punto del commiato, lo punge l'idea del debito che contrarrà portando via un poco di denaro: “Se la fortuna mi farà mai padrone di nulla, il mio primo pensiero sarà di rendere quello di cui ora la necessità mi costringe a servirmi.„ Poi non resta luogo se non al dolore e all'umiltà: “L'ultimo favore ch'io le domando, è che se mai le si desterà la ricordanza di questo figlio che l'ha sempre venerata ed amata, non la rigetti come odiosa, nè la maledica; e se la sorte non ha voluto ch'ella si possa lodare di lui, non ricusi di concedergli quella compassione che non si nega neanche ai malfattori.„ Il tentativo della fuga fallisce, perchè Monaldo, avutane indirettamente notizia, si fa mandare il passaporto e dice al figlio che è libero di prenderselo e andarsene; ma gli stessi amici, gli stessi estranei che si sono trovati mescolati in questa avventura, hanno parole di biasimo per il modo col quale Giacomo è stato trattato. “Sono ben contento,„ scrive il marchese Solari a Monaldo, “che il tutto sia finito, e senza l'intesa della contessa, che se ne sarebbe rammaricata al sommo grado, e che d'altronde, mi sia permesso il dirlo con franchezza, per la sua eccessiva severità potrebbe aver dato luogo a risoluzioni così sconsigliate.„ Ma Giacomo non è “nè pentito nè cangiato.„ Egli desiste per il momento dal suo proposito, “non forzato nè persuaso, ma commosso e ingannato. Persuaso non poteva essere, come nè anche persuadere, perchè le nostre massime sono opposte, e perciò fuggo ogni discorso su questa materia.... Se mi opporranno la forza, io vincerò, perchè chi è risoluto di ritrovare o la morte o una vita migliore, ha la vittoria nelle sue mani. Le mie risoluzioni non sono passeggere come quelle degli altri, e come mio padre stimo che si persuada, per dormire i suoi sonni in pace, come suol dire.... Mio padre crede ch'io da giovinastro inesperto non conosca gli uomini. Vorrei non conoscerli, così scellerati come sono. Ma forse sono più avanti ch'egli non s'immagina. Non creda d'ingannarmi, che la sua dissimulazione è profonda ed eterna; sappia però ch'io non mi fido di lui, più di quello ch'egli si fidi di me.... Crede mio padre che con un carattere ardente, con un cuore estremamente sensibile come il mio, non mi sia mai accaduto di provare quei desiderii e quegli affetti che provano e seguono tutti i giovani della terra? crede che non mi sia accaduto molto più spesso e più violentemente degli altri? crede che non fossero capaci di spingermi alle più formidabili risoluzioni? crede che s'io ho menato fin qui quella vita che non si ricercherebbe da un cappuccino di 70 anni in tutto il rigore della espressione (e me ne appello a tutta Recanati che se ne maraviglia, e allo stesso mio padre), ciò sia provenuto dalla freddezza della mia natura?... Io so di certo ch'egli ha protestato che noi non usciremo di qui finch'egli viva. Ora io che voglio ch'ei viva, e voglio vivere anch'io, e questo da giovane, e non da vecchio quando sarò inutile a tutti e a me stesso, mi getterò disperatamente nelle mani della fortuna.... Io sono stato sempre spasimato della virtù: quello ch'io voleva eseguire non era un delitto: ma io son capace anche della colpa. Si vergognino ch'io possa dire che la virtù m'è stata sempre inutile. Il calore e la forza dei miei sentimenti si poteano dirigere a bene, ma se vorranno rivolgergli a male, l'otterranno....„ Minaccie che nella convulsione dell'impotenza il dolore gli strappa dalle labbra: non solamente ciò non potrà accadere, ma egli si prepara a sopportare un nuovo colpo. Se non vuole lasciarlo andar via, libero, nel vasto e ignoto mondo, il padre potrebbe almeno consentirgli di pensare, di scrivere liberamente. Neanche questo gli concede; intende anzi che non abbia idee diverse dalle sue; attende a difenderlo dallo “sconvolgimento fatale della ragione umana che ha disonorata la nostra età.„ Quando s'accorge dei sentimenti di Giacomo, dopo il tentativo di fuga, non potendo spiegarsi come tanta vigilanza, tante predicazioni e tanti esempii siano stati invano, getta tutta la colpa dell'accaduto sull'amicizia del Giordani, col quale ha consentito che il figlio avesse carteggio e restasse da solo a solo durante la visita del Piacentino a Recanati. Si spaventa perchè, con l'occasione della letteratura, costui ha suggerita e favorita la corrispondenza di Giacomo con molti letterati d'Italia, fra i quali vi sono “spiriti pericolosi o inquieti, che non hanno mentito sè stessi, e manifestandosi al figlio mio nelle loro lettere, lo hanno scopertamente invitato a partecipare delle loro massime, e a coadiuvare, anzi a farsi primario sostenitore dei loro disegni.„ La canzone _All'Italia_ e quella _Sul monumento di Dante_ hanno valso infatti all'autore una lettera del Montani, il quale saluta in lui il più degno futuro poeta dei Carbonari. Monaldo “si pela dalla paura„, per adoperare l'espressione di Carlo. Un giorno, frugando tra le carte di Giacomo, come è suo uso, non che della moglie, trova una lettera che il figlio è sul punto di spedire al Brighenti intorno alla stampa di tre nuove canzoni: _Ad Angelo Mai_, _Per donna malata_ e _Sullo strazio d'una giovane_; alle quali l'editore ha proposto e Giacomo ha consentito che si uniscano le due già prima stampate per farne un libretto più consistente. Tanto basta perchè Monaldo tosto scriva al Brighenti significandogli il suo dispiacere, e la volontà che la canzone _All'Italia_ non si ristampi. Lo stesso Brighenti, pur lodando le paterne inquietudini, timidamente rappresenta a Monaldo: “Veramente le confesso che anche dalla niuna difficoltà della revisione, io deduco che quella canzone non è punto sediziosa, e soltanto libera e poeticamente ardita.„ Pure, obbedendo, sospende la stampa, e per non dire a Giacomo il vero motivo, gli chiede denaro per lo stampatore. Già l'effetto di questa prima lettera è grave nell'animo del giovane altero, che non avendo la somma e non volendo chiederla, si vede costretto di rinunziare alla disegnata pubblicazione: “Ho conosciuto di essermi ingannato, non avendo in nessun modo potuto riuscire ad accumulare la somma intiera. Abbassarmi non voglio, e non è stato mio costume mai da quando la disgrazia volle mettermi a questo mondo. E potrà anche far la fortuna che mi manchi il vitto e il vestire, ma non costringermi a domandarlo neppure alla mia famiglia. Perciò rinunzio interamente a qualunque progetto così relativamente a questa come a qualunque altra edizione; e perchè il mio ingegno è scarsissimo, e, per grande che sia qualunque ingegno, non giova mai nulla in questo mondo, son risoluto di sacrificarlo totalmente all'immutabile ed eterna scelleratezza della fortuna, col seppellirmi sempre più nell'orribile nulla nel quale son vissuto fino ad ora. Prego V. S. che non pensi più a me se non come all'uomo il più disperato che si trovi in questa terra, e che non è lontano altro che un punto dal sottrarsi per sempre alla perpetua infelicità di questa mia maledetta vita....„ Il padre si duole vedendo la malinconia e la tristezza di Giacomo, che Carlo condivide; si lagna perchè “con un cuore troppo pieno d'amore per tutti, sono dipinto nella loro immaginazione corrotta come un tiranno inesorabile.„ Nell'impeto del dolore invidia “la sorte d'un padre mendico che riportando a casa un pane nero e bagnato di sudore, lo vede accolto dall'amore e dalla riconoscenza dei figli.„ Ma se l'amor suo è grande e sincero, non meno ferma è la sua volontà di disciplinare a suo modo l'ingegno del figlio. Egli lo ammira, ma quanto maggiore è l'ammirazione, tanto maggiore è il dolore di vederlo avviato per una strada che giudica falsa. Le canzoni che Giacomo non si rassegna a metter da parte sono per lui inezie: “Ma perchè questo mio figlio vuole perdersi dietro queste inezie che non portano nè a conseguenze nè a fama? Perchè amando la Letteratura e il nome di Letterato, come lo ama e lo agogna con fervore giovanile, perchè non si dedica a qualche opera utile e grande di cui è capace maggiormente possedendo la lingua ebraica e greca? Egli sicuramente è consigliato male e peggio lo è nel suo sistema di confidarsi con me scarsamente. Io stimo poco la Letteratura nuda e la vorrei sempre seguace di qualche scienza, stimando che un Letterato, il quale non professi alcuna facoltà sia una cornice magnifica senza quadro....„ E sentendo che la propria autorità è poca, che il suo credito sul figlio è scarso, si affida all'editore per ottenere che glie lo converta: “Le faccia conoscere che le canzoni ed altri piccoli pezzi staccati producono gloria momentanea e caduca, e che un uomo grande deve lasciare un'opera grande.... Insomma lo elettrizzi, lo infiammi a qualche occupazione degna d'un Cavaliere Cristiano, e mi avrà reso un favore inapprezzabile, e forse mi avrà reso il cuore di un figlio. I giovani sentono più l'amico che il padre, e molto più quando hanno sospettato che i principii del padre perchè troppo antichi, e troppo severi, non ottengono il plauso di tutti.„ Egli s'accosta così alla verità; dovrebbe fare solo un passo per concedere che Giacomo segua il proprio genio; ma di questa concessione è incapace. Egli è persino incapace d'intendere in qual modo bisognerebbe trattare il giovane per non ferirlo: l'editore, l'estraneo gli dà una lezione d'amor paterno: “Permetta, o Signore, ad una persona che sente profondamente l'amor paterno, e che ha presentissimi i dettagli della propria giovinezza.... che La supplichi a cedere quanto mai può a quei moti amorosi, che leggo nella di Lei lettera, e che mi hanno veramente intenerito. Io le accerto che il signor conte Giacomo è afflitto oltremodo, e ben mi accorgo che questo giovane è dotato di una sensibilità delicatissima, onde le cose che ad altri sono lievi, sono a quell'anima gentilissima acutissime spine.... Ella troppo sente l'amarezza delle nebbie che offuscano la tenerezza tra padre e figlio. Il signor conte Giacomo è tale da portare nuovi pregi alla illustre di Lei casa: facciamo adunque che lo possa, e rispettiamo questa soverchia elasticità di fibre che è poi in fondo il patrimonio di chi ha un ingegno superiore. Le torno a ripetere: qui in Bologna posso accertarla che le canzoni del signor Leopardi non hanno destato la minima idea di partito, e, sì, furono conosciute da gente di ogni massima.... Certo le opinioni di quegli scritti sono liberali anzi che no, frutto dello studio del greco e del latino, ma ai tempi attuali sono tanti i lavori di questo genere, sono sì divulgate quelle massime, che non può sentirne alcuno del rincrescimento, e, come le dissi, quei revisori, che sono preti, e severissimi, non ci badarono nemmeno, e le approvarono senza dire parola.„ E il brav'uomo narra la sua propria storia, in lunghissime pagine, per dimostrare che è una persona onesta, incapace di mentire; e poi torna ancora ai consigli di prudenza, dice esser persuaso che Giacomo è soggetto a forti assalti di malinconia, fa osservare ancora che “ai giovani di un carattere ipocondriaco è mestieri (com'Ella m'insegnerebbe) di opporre le sole vie della dolcezza, e della persuasione, e di evitare possibilmente gli urti e le contrarietà.„ E per ultimo argomento assicura di avere udito qualcuno a lamentarsi che le opinioni politiche di Giacomo, non che liberali, siano anche troppo retrive “e a parlare con qualche censura della sua canzone sul monumento di Dante, avendolo per uomo contrario ai principii liberali, per quella sua dipintura delle sciagure del regno italico e dei macelli di Russia. Ritenga che questo fatto è verissimo.„ Ma tanto poco egli stesso è sicuro di essere riuscito a piegarlo, che comunica delicatamente a Giacomo i dubbii e gli ostacoli paterni. Allora lo sdegno del giovane prorompe; allora dall'accasciata rassegnazione alla quale era stato ridotto per gli ostacoli finanziarii, passa, con una reazione violenta, alla superba affermazione della sua volontà. Egli non vede come suo padre abbia potuto sapere “quello di cui non ho mai parlato nè a lui nè a verun altro.... eccetto il caso che abbia rimescolato le mie carte; del che non mi meraviglio nè mi lagno, perchè ciascuno segue i suoi principii. Quanto ai dubbi di mio padre, rispondo che io come sarò sempre quello che mi piacerà, così voglio parere a tutti quello che sono; e di non essere costretto a fare altrimenti, sono sicuro per lo stesso motivo, a un dipresso, per cui Catone era sicuro in Utica della sua libertà. Ma io ho la fortuna di parere un coglione a tutti quelli che mi trattano giornalmente, e credono ch'io del mondo e degli uomini non conosca altro che il colore, e non sappia quello che fo, ma mi lasci condurre dalle persone che essi dicono, senza capire dove mi menano. Perciò stimano di dovermi illuminare e sorvegliare. E quanto all'_illuminazione_, li ringrazio cordialmente: quanto alla sorveglianza, li posso accertare che cavano l'acqua col crivello.„ Ma se egli sente che nessuno potrà mai sforzare la propria coscienza, comprende pure che la volontà del padre dovrà trionfare dei suoi disegni; allora torna ad accasciarsi, prorompendo in uno sdegnoso lamento: “Circa le mie canzoni, io le metto nel gran fascio di tutti i miei detti o fatti o scritti dalla mia nascita in poi, che il mio esecrando destino ha improntato di perpetua inutilità. Io ho rinunziato a tutti i piaceri de' giovani. Dai 10 ai 21 anno io mi sono ristretto meco stesso a meditare e scrivere e studiare i libri e le cose. Non solamente non ho mai chiesto un'ora di sollievo, ma gli stessi studi miei non ho domandato nè ottenuto mai che avessero altro aiuto che la mia pazienza e il mio travaglio. Il frutto delle mie fatiche è l'essere disprezzato in maniera straordinaria alla mia condizione, massimamente in un piccolo paese. Dopo che tutti mi hanno abbandonato, anche la salute ha preso piacere di seguirli. In 21 anno, avendo cominciato a pensare e soffrire da fanciullo, ho compito il corso delle disgrazie d'una lunga vita, e sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perchè fino il sentimento e l'entusiasmo, ch'era il compagno e l'alimento della mia vita, è dileguato per me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di morire. È tempo di cedere alla fortuna; la più orrenda cosa che possa fare il giovane, ordinariamente pieno di belle speranze, ma il solo piacere che rimanga a chi dopo lunghi sforzi finalmente s'accorga d'esser nato colla sacra e indelebile maledizione del destino.„ E quando sa che può stampare le canzoni inedite, esclusane la prima, ed esclusa la ristampa delle già pubblicate, il suo sdegno prende altre forme: quelle dell'ironia. “Io ringrazio mio padre del permesso che mi concede di stampare le _mie_ canzoni. Ma le due di Roma non vuole che si ristampino. Dice benissimo. Ha voluto saper da lei i titoli delle inedite. Ha fatto benissimo. Non vuole che si stampi la prima. Parimenti benissimo; non già secondo me: ma è ben giusto che _negli scritti miei_ prevalga la sua opinione, perch'io sono e sarò sempre fanciullo, e incapace di regolarmi. Restano due canzoni. Per queste, per cui finalmente e a caso tocca a parlare a me, dico che non occorre incomodare gli stampatori; e così finisca questo affare....„ Tanto è più dolorosa per il giovane questa ingerenza nelle cose sue, quanto che Monaldo rivela la povertà del suo giudizio, l'angustia del suo spirito. “Mio padre non ha veduto se non il titolo della prima inedita.... e s'immaginò subito mille sozzure nell'esecuzione, e mille sconvenienze del soggetto che possono venire in mente a chi, non mancando di molto ingegno e sufficiente lettura, non ha nessuna idea del mondo letterario. Il titolo della seconda inedita si è trovato fortunatamente innocentissimo. Si tratta di un Monsignore. Ma mio padre non s'immagina che vi sia qualcuno che da tutti i soggetti sa trarre occasione di parlare di quello che più gl'importa, e non sospetta punto che sotto questo titolo si nasconde una canzone piena di orribile fanatismo.„ E poichè Monaldo, non potendo addurre le ragioni della prudenza politica contro la canzone _Sullo strazio di una donna_, biasima che tratti di un fatto accaduto troppo di fresco, Giacomo dimostra ancora all'editore la povertà dello spirito paterno: “Alle ragioni di mio padre contro la mia prima canzone inedita, rispondo con un solo esempio fra i milioni che se ne trovano, e che avrei anche in mente. Il _Werther_ di Goethe versa sopra un fatto ch'era conosciutissimo in Germania, e la Carolina e il marito erano vivi e verdi quando quell'opera famosa fu pubblicata. Ebbene? Ma se volessimo seguire i gran principii prudenziali e marchegiani di mio padre, il quale, come ho detto, non ha niente di mondo letterario, scriveremmo sempre sopra gli argomenti del secolo di Aronne, e i nostri scritti reggerebbero anche alla censura della quondam inquisizione di Spagna. Il mio intelletto è stanco delle catene domestiche ed estranee.„ Niente vale: egli deve rinunziare alla ristampa, si deve contentare di pubblicare la sola canzone al Mai; e Monaldo poi si lagna che il figlio si sia “ostinato nel più rigoroso silenzio„; se ne lagna egli che scrive ancora all'editore: “Il giudizio e gli ordini miei dovevano rispettarsi da lui e li suoi tentativi furono un delitto.„ Perdona di cuore il _delitto_, ma vuole che Giacomo stesso lo condanni in cuor suo: “Ella e qualunque saggio condannerebbero sempre un figlio il quale esponga al pubblico il proprio nome senza intesa del Padre, e condannerebbero un Padre che spontaneamente offrisse i mezzi con cui venire disobbedito.„ Il dissidio è inconciliabile: Monaldo ha un troppo severo concetto della sua autorità; egli non intende l'effetto che le sue pretese producono nell'anima del giovane. E se torna a lagnarsi perchè il figlio non si confida a lui, le sue parole cocenti dimostrano ancora una volta che lo ama, ma che all'amore non intende sacrificare una sola delle sue prerogative. Non solo l'editore, l'estraneo, lo avverte dell'errore; ma anche una persona della famiglia, la sua propria sorella, quella “zia Ferdinanda„ alla quale il nipote Giacomo tanto rassomigliava fisicamente, e che moralmente tanto rassomigliava a lui. Ella sola intende l'animo del giovane: consolandosi all'idea che egli possa aprirle il proprio cuore “perchè non tanto dissimile troverà da' suoi sentimenti il cuor della zia„, dice di sè stessa che non ha studiato, “ma che ha sortito dalla natura una sensibilità che, anzichè indebolire cogli anni, sembra acquistar da essi maggior fondamento.„ Anch'ella vive sola, “e non già sola di persona.... ma sola perchè quasi mai m'incontro con persone che possano compiacere il mio animo; e se qualche volta nel corso della mia vita mi sono incontrata di trovarne qualcuna, caro nepote, ho dovuto porvi un argine, perchè il cuor nostro è troppo debole per potersi contenere, e non rendere veleno quello che sarebbe in sua natura stato un antidoto.„ La nobile e buona creatura ha subito compreso che cuore sia quello di Giacomo, e conoscendo a prova i tormenti che gli si preparano accortamente lo consiglia. Se Giacomo le scrive che è da savio porre un argine alla ragione, “supplizio della nostra vita„, ella lo ammonisce con indulgenza veramente materna: “No, caro Giacomo, io non mi accordo con voi in questo.... A poco a poco ci assuefacciamo a scordarci de' nostri mali col trascurarli, o con il lasciare di coltivarne continuamente l'immagine; è la ragione poi quella che deve a ciò persuaderci, e di essa ci dobbiamo prevalere per felicitarci, non per il contrario. Sono però persuasa che voi medesimo convenite meco non doverci per sistema rendere infelici, ma sopportar con coraggio i mali della vita, sperandone sempre il fine. Il vostro bell'animo vi darà pur troppo dei motivi di dolore, se estenderete la vostra sensibilità senza freno; ma questa, trattenuta nei limiti, vi darà motivo di compiacervene bene spesso. Spero che il Cielo pietoso vorrà addolcire la vostra sorte, e che vi renderà più quieto, cambiando le circostanze, e ponendovi in un sistema meno coartato....„ Ella si fa filosofo e teologo, discute di cose che non sono da lei per alleviare i mali del nipote, al quale dà anche il dolce nome di amico. “Caro amico, credetemi: siamo infelici molte volte perchè non sappiamo risolverci ad abbandonare qualche sentimento, che ci rende infelici....„ Della propria sincerità gli dà assicurazioni vivaci: “Allorchè trattasi di far palese il cuor mio ad un cuor sensibile e ben fatto, e del quale fo assolutamente stima, non duro alcuna fatica, e i miei sentimenti escono dal cuore, vanno alla penna, alla carta, come un vaso d'acqua posto in pendenza verso ciò che contiene entro sè stesso. Voi potrete rilevarlo senza stento, giacchè sembrami possediate lo stesso dono di natura.„ E lo eccita a scuotersi, se non altro per compiacerla; e si duole che egli voglia essere il proprio nemico: “Capisco che non trovate cosa che vi sollevi; ma, caro Giacomo, tante volte questa nostra fantasia ci dipinge delle immagini tanto nere, che poi non lo sono in sostanza; e se volessimo aprire gli occhi, vedremmo che non è effetto della cosa in sè, ma de' nostri sguardi già ottenebrati.„ Come definisce bene il male morale del giovane! Ma ella sa pure che non tutte sono ingigantite dalla mente le sue cagioni di dolore: ella sa che la salute del poveretto è distrutta, che la sua volontà in famiglia è troppo violentata; e tanto riconosce che egli ha ragione di dolersi, che contro il suo sistema “di non impacciarmi mai ne' fatti altrui,„ prega Monaldo di lasciarlo venire a Roma in casa di lei per qualche tempo. Il padre non si oppone apertamente, “anzi mi dice che non si offenderà, se i suoi figli cercheranno qualche loro vantaggio (sebbene esso non ne veda in questo proposito) e nè tampoco se a farlo conseguire impiegheranno gli amici. Poco però si persuade che possiate trovarvi contento fuori di casa, ove non vi manca cosa alcuna; e teme che vi pentirete, se giungete a escire dalla casa paterna....„ Neanche questa volta Monaldo accorda il suo consenso, e poi anche una volta vede con dispiacere che il figlio non gli parli! E Ferdinanda esorta il nipote: “Perchè non procurar da voi medesimo di ottenere questo permesso?... Ottenete di venire in Roma, e spero che non ne resterete malcontento. Infine non potrà dispiacervi di cambiare per qualche tempo il soggiorno di Recanati con quello di Roma....„ parole che dovrebbero sonargli come un'irrisione, se non venissero da questa buona creatura che lo ha trattato come un figlio e che si adopera invano per ottenergli un posto di professore alla Biblioteca vaticana. Nulla egli ottiene per suo mezzo; ella muore lasciandogli un insegnamento che è la conferma d'un'antica persuasione di lui: “perchè troppo sensibili saremo sempre infelici....„ Lo ha pure esortato alla rassegnazione, alla pazienza; ma naturalmente egli crederà più alle parole di approvazione dettate dalla calda simpatia che non ai consigli di prudenza suggeriti dalla fredda ragione; e penserà che egli ed i fratelli non sono soli della loro specie, che a cuori sensitivi come i loro il trattamento del padre è iniquo; e non si piegherà a sopportarlo. Noi lo vediamo pertanto esprimere ai suoi corrispondenti le stesse lagnanze e le stesse accuse. Se Monaldo addebita al Giordani la ribellione dei figli, Giacomo sdegnosamente protesta: “L'uomo di cui mio padre si lagna, è tale, che neppure io ardisco nominarlo pel rispetto e l'amore ch'io gli debbo. Ma mio padre se voleva dei figli contenti in questo stato, doveva generarli d'altra natura, ed ora non dovrebbe imputare a persone venerabili e rinomate in tutta l'Italia quello ch'è necessità delle cose evidentissima a tutti, fuorchè a lui solo.„ E se gli propongono una cattedra a Bologna, e lo sollecitano a ottenere l'assenso paterno, egli scrive: “Vi dico che non avete idea di mio padre. Non c'è affare che lo interessi così poco, quanto quelli che mi riguardano. Non vuol mantenermi fuori di qua a sue sole spese; ma non muoverebbe una paglia per procurarmi altrove un mezzo di sussistenza che mi togliesse da questa disperazione....„ Per accettare una dedica dal Brighenti egli dovrebbe sottoporla all'approvazione del padre; e non vuole: “Sapete che mio padre è di principii differentissimi dai miei; e che d'altra parte, s'io non gli domanderei neppure il pan da mangiare, molto meno cose non necessarie.„ Una tregua è il viaggio di Roma. Nell'autunno del '22 i genitori finalmente consentono che egli vada alla capitale in casa dello zio Antici: allora, da lontano, tolte le occasioni di dissapori, l'affetto paterno e filiale si manifesta con espressioni sincere e commoventi: “Bacio la mano alla cara mamma. A lei professerò eternamente la più viva gratitudine e il più caldo e filiale affetto. Mi ami, caro signor padre, ch'io l'amo di tutto cuore, e desidero di servirla e di compiacerla e di ubbidirla in ogni cosa. E per quasi niun altro rispetto mi rallegro di aver sortito un cuore sensibile e pieno d'amore, se non perchè io posso rivolgere la mia sensibilità verso di lei.„ Quando il padre, per il Natale, gli manda con dolci e cordiali espressioni, una strenna di dieci scudi, egli risponde: “Sarebbe quasi inutile ch'io provassi di ringraziarla della liberalità che mi usa e dell'affetto che mi dimostra. Ella sa, carissimo signor padre, quali sono i miei sentimenti ancorchè io non li sappia esprimere. E per tanto mi basterà dirle che la ringrazio con tutto il cuore del dono, e che lo riconosco dall'antico e tenero e forse pur troppo non meritato amore che ella mi porta; il quale amore però, quando anche non meritato, certamente è corrisposto, e corrisposto con tutte le forze possibili dell'animo mio.„ Tuttavia l'esagerazione della vigilanza che il padre vuole esercitare sul figlio anche da lontano, e le sue paure grottesche si rivelano ancora quando gli scrive: “Abbiatevi ogni cura, e non dimenticate di evitare accuratamente il pericolo delle carrozze....„ Egli che non ha voluto forzar la mano alla moglie per provvedere alla sorte del giovane, trova poi di che ridire quando questi pensa a procacciarsi denaro col proprio lavoro, con una traduzione di Platone: “La vostra fatica verrà pagata circa baiocchi 60 al giorno, e voi lavorando un mese ogni dì senza riposo festivo, guadagnerete scudi 18, un poco più di quanto diamo al nostro cuoco e un poco meno di quanto si dà nelle amministrazioni allo scrittore dei soprascritti....„ Così pure, quando Giacomo dà lezioni per vivere, il padre giudica che gli emolumenti mensili siano “alquanto umilianti.„ Questo è il nuovo danno che viene al Leopardi dalla famiglia: non solamente non ne riceve il benefizio degli affetti, non solamente vi trova opposizioni e contrasti, non solamente vi è tenuto in una soggezione penosa; ma essa non gli dà e quasi gl'impedisce di procacciarsi quel denaro che, dopo la salute e l'amore — e anche prima dell'amore a giudizio di molti, — è pur necessario a render gli uomini contenti. Adelaide Leopardi, nel tempo delle peggiori strettezze, non vuole smettere la carrozza: ella trova i quattrini per mantenere questo segno di grandezza, non ne trova per salvare suo figlio. Col titolo di conte questi non ha un soldo da spendere; se fosse nato da un borghesuccio o da un operaio si caverebbe d'impiccio senza difficoltà; la sua condizione sociale fa che non soltanto il padre si dolga di vederlo lavorare per vivere, ma che ne soffra egli stesso. Perchè, infatti, tornato a Recanati e ricaduto nella soggezione antica, e costretto a farsi mandare ad altri indirizzi lettere e stampe se vuole evitare che glie le leggano, e disperato al punto di pensare a gettarsi alla ventura pur di ritrovarsi libero; egli accetta la proposta del libraio Stella che lo chiama a Milano e gli paga il viaggio e lo alloggia in casa propria. Il giovane vi si sente incatenato e “in certa maniera ridotto all'obbligazione di servirlo„; tosto si propone di fare “ogni sforzo per trarre dalla mia debole e sciocca natura il vigor necessario a svilupparmi da questi lacci.„ Da lontano l'anima pacificata ripensa le dolcezze pur tanto grandi del tetto domestico: ricevendo lettere del padre gli pare di trovarsi in mezzo alla sua famiglia, “l'amore verso la quale è anche accresciuto in me dalla lontananza„; ed al fratello Carlo scrive da Bologna, dove dà lezioni per non esser di peso alla famiglia, che è per lui “un giubilo e un palpito„ l'aprire lettere di casa; e alla sorella Paolina, che la consolazione provata vedendo i caratteri della madre “è stata tanta che quasi dubitava di travedere„; e al fratello Pierfrancesco, che baci la mano al babbo e alla mamma per lui “tante volte, finattanto che non vi diranno, basta.„ Ma, come l'altra volta, anche ora Monaldo trova modo di pesare sul figlio lontano. Già egli comincia col rendere lode “grandissima„ a Dio, perchè Milano non è piaciuta al giovane quanto egli “temeva.„ Se Giacomo, per godere di un Benefizio, vorrebbe esser dispensato dall'obbligo dell'abito talare e della tonsura, il padre che gli ha voluto “gettar sul muso„ la prelatura, che ha rinunziato a malincuore all'idea di vederlo abbracciare lo stato ecclesiastico, gli sta addietro per dimostrargli il suo torto. “Non vedo quale ripugnanza possa aversi ad un abito, clericale o prelatizio, poco importa, il quale fu l'abito di tanti Santi, e lo fu pure di tanti uomini grandissimi in ogni genere di grandezza. Conosco che in addietro per i vostri rapporti letterarii avrete dovuto capitolare coi pregiudizii, o piuttosto colla malvagità del tempo; ma attualmente la vostra età, la vostra esperienza e il vostro nome vi mettono al disopra di queste umiltà, e siete in grado di dare il tuono nella repubblica delle lettere, piuttosto che di riceverlo. Qual trionfo, figlio mio, per la causa dei Santi e dei saggi, e qual gloria per la Chiesa e per lo Stato, se l'uomo il più erudito forse dello Stato spiegasse arditamente la bandiera della Chiesa, e con ciò proclamasse altamente che gli studi, le lettere e le meditazioni dei saggi conducono a conoscere e a venerare la Chiesa, e a disprezzare e a combattere i suoi palesi e nascosti inimici?„ Ma questo paladino della religione, questo nuovo banditor di crociate, è poi partigiano del Turco, e pone in ridicolo la simpatia del figlio per la causa greca, considerando i Greci non tanto come cristiani che combattono per la fede, quanto come sudditi ribelli che vogliono una libera patria. “Avrete letto nei fogli, come le grandi Potenze vogliono prendere una parte decisiva negli affari dell'Oriente. Così avranno pace i vostri Greci, e ne godo perchè sono uomini; ma mi pare che siano birbanti assai, ed è un avvenimento singolare che la somma legge dell'umanità imponga di soverchiare il Turco, quando forse ha più ragione di noi....„ E se un Recanatese va a combattere e a morire per la croce contro la mezzaluna, così egli ne dà conto al figlio: “Anche Recanati ha pagato il suo tributo di follia alla demenza del secolo, e ha tinta col suo sangue la terra classica della Grecia. Alcuni mesi addietro il conte Andrea Broglio, lasciati i genitori e la moglie, dichiarò la guerra alla Mezzaluna e andò a fare il _ciccobimbo_ in qualità di brigante volontario. Ebbe in guiderdone un titolo di Maggiore e una razione quotidiana di polenta; ma alli 23 di maggio, assalendo Anatolico, una palla di cannone lo uccise sul campo.„ Il figlio gli dà ragione quanto al fatto, adducendo un argomento che ha già manifestato nei suoi versi, cioè disapprovando che Italiani vadano a morire per causa non propria; ma che effetto gli devono aver prodotto le derisioni dell'amor patrio che infiamma gli Elleni, se egli aveva già abbozzato un inno alla Grecia, se aveva già detto di riguardare i poveri Greci come fratelli, se si era quasi scusato di non aver parlato abbastanza a favor loro in un suo articolo, “considerata la impossibilità in cui siamo di parlare liberamente?„ Per reverenza al padre egli non replica alle parole irriverenti; ma che credito può ora accordare alla fede cristiana della quale il padre fa sfoggio? Come può udirne le esortazioni? Egli vede ancora questo padre, quest'uomo, questo derisore di eroi, tremar poi dinanzi alle gonne della moglie. Quando pensa con la sua testa, Monaldo dispiace al figlio per l'ostinata e l'ostentata predicazione di idee che questi non può far sue, anche perchè le vede discordi; quando poi il padre vorrebbe accontentarlo, allora la paura della moglie lo impaccia. Non volendo Giacomo vestir l'abito clericale, si potrebbe pure ottenere il godimento temporaneo del Benefizio; ma il padre gli scrive: “Bisogna maneggiar bene la cosa per i miei riguardi domestici. Scrivetemi ostensibilmente nei termini suddetti, come avendo avuto questo lume da altri, e pregatemi di farvi ottenere questa piccola temporanea provvista, toccando che voi niente costate alla casa. Io sono inimico giurato di questi giri, ma mi conviene patteggiare fra il mio cuore e il molto giudizio di mamma vostra; la quale vi ama tenerissimamente, ma crede che le vostre lettere siano una miniera d'oro, la quale vi rende inutile qualunque altro sussidio.„ Allora, come i figli hanno convenuto tra loro di scriversi sotto finti nomi per sottrarre le loro lettere agli sguardi del padre, così anche il padre suggerisce a Giacomo di servirsi di indirizzi convenzionali per isfuggire al vigile sguardo della moglie. Ma ben tosto il primo, il costante, l'inflessibile pensiero di Monaldo torna ad angustiare il giovane: bisogna che egli torni a seppellirsi a Recanati. “Io le protesto e giuro,„ risponde Giacomo, “che non ho desiderio maggiore che quello di vivere in compagnia sua, e in seno della mia famiglia; e che quando io possa vivere a Recanati con salute sufficiente, e sufficiente possibilità di occuparmi nello studio per passatempo, io non tarderò neppure un momento a volare costì.... per vivere al suo fianco, e non allontanarmene mai più.„ Se il padre gli scrive dicendogli tutto il bene che gli vuole, egli risponde con proteste d'affetto continue: “Io per la parte mia posso giurarle che, parlando umanamente, non vivo se non per lei e per la mia cara famiglia; non ho mai goduto della vita se non in relazione a loro; ed ora la vita non mi è cara se non in vista del dolore che cagionerei a loro se la perdessi.„ Tornato ancora una volta a Recanati, sente la sua vita finita; ma pure riconosce che, se il padre non vuole, non potrebbe neanche volendo mantenerlo fuori; e per vivere del suo fuori di casa egli dovrebbe lavorar molto; e lavorar molto, nelle condizioni della sua salute, non potrà più mai. Allora il suo amico Tommasini, conoscendo che Recanati è per il poveretto la morte, gli offre la propria casa, a Parma; più tardi lo invita Pietro Colletta, a Livorno; ma l'anima altera non si può piegare a questa specie di servitù. Preferisce soffrire; e poichè gli amici sanno che le sue sofferenze sono veramente insopportabili, tornano a proporgli di venirsene da loro: il Colletta reitera l'invito, la moglie del Tommasini ripete con più premurosa insistenza la preghiera del marito. Tutti si accorgono della necessità di fare qualche cosa per l'infelice, tranne che il padre e la madre. Giacomo è costretto da ultimo ad accettare l'elemosina di ignoti ammiratori toscani, che per iniziativa del Colletta contribuiscono a costituirgli una piccola pensione perchè possa vivere a Firenze e attendere ai lavori letterarii. Ma quando, lontano dal padre, egli pubblica il suo nuovo libro, le _Operette morali_, Monaldo trova ancora nei suoi pregiudizii di che amareggiarlo con critiche, con paure, con scrupoli, con esortazioni a correggersi, quando l'infelice è moribondo, quando non può scrivere una riga senza sudor di sangue. “Io le giuro,„ risponde il giovane difendendo l'opera propria, “che l'intenzione mia fu di far _poesia in prosa_, come s'usa oggi; e però seguire ora una mitologia ed ora un'altra, ad arbitrio; come si fa in versi, senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti, ecc. E l'assicuro che così il libro è stato inteso generalmente, e così coll'approvazione di severissimi censori teologi è passato in tutto lo Stato romano liberamente, e da Roma, da Torino, ecc., mi è stato lodato da dottissimi preti. Quanto al correggere i luoghi ch'ella accenna, e che ora io non ho presenti, le prometto che ci penserò seriamente; ma ora vede Iddio se mi sarebbe _fisicamente_ possibile, non dico di correggere il libro, ma di rileggerlo. Una dichiarazione di protesta che pubblicassi, creda all'esperienza che oramai ho di queste cose, che non farebbe altro che scandalo, e quel che vi fosse di pericoloso nel libro, non ne diverrebbe che più ricercato, più osservato e più nocivo.„ Ed anche non volendo, Monaldo è destinato a fargli male. Quando egli pubblica i suoi _Dialoghetti sulle materie correnti nell'anno 1831_, dove inveisce contro il liberalismo e i liberali, e sostiene che la Francia dev'essere smembrata e che i Turchi hanno ragione contro i Greci, e deride con espressioni triviali le nuove idee politiche e filosofiche; tutti credono che l'autore ne sia Giacomo, e si rallegrano o ridono della sua conversione; tanto generalmente l'opera di Monaldo è attribuita al figlio, che questi è costretto a pubblicare una dichiarazione di semplice protesta, dove non c'è una parola che suoni biasimo all'opera del padre, quantunque egli la detesti; e perchè il padre se ne duole, egli è costretto a giustificarsi, a dire che ha pubblicato la dichiarazione “per non usurpare ciò che è dovuto ad altri, e perchè non voglio nè debbo soffrire di passare per convertito, nè di essere assomigliato al Monti, ecc., ecc. Io non sono stato mai nè irreligioso, ne rivoluzionario di fatto nè di massime. Se i miei principii non sono precisamente quelli che si professano nei _Dialoghetti_, e ch'io rispetto in lei, ed in chiunque li professa di buona fede, non sono stati però mai tali, ch'io dovessi nè debba nè voglia disapprovarli. Il mio onore esigeva ch'io dichiarassi di non aver punto mutato opinioni.„ Monaldo, da canto suo, scrive e stampa articoli contro i giovani che disconoscono l'autorità paterna, e ride dell'_Antologia_ dove il figlio ha stampato un saggio dei suoi proprii _Dialoghi_.... Intanto le difficoltà finanziarie, finita la pensione degli amici di Toscana, tornano ad opprimere il giovane; e il ritorno a Recanati lo impaura più della morte; e il padre non vuole e non può aiutarlo. Come rivolgersi a lui? Pure, mancando ogni altro mezzo, egli lo prega in questi termini: “Io credo ch'ella sia persuasa degli estremi sforzi ch'io ho fatti per sette anni affine di procurarmi i mezzi di sussistere da me stesso. Ella sa che l'ultima distruzione della mia salute venne dalle fatiche sostenute quattro anni fa per lo Stella, al detto fine. Ridotto a non poter più nè leggere nè scrivere nè pensare (e per più di un anno neanche parlare) non mi perdetti di coraggio, e quantunque non potessi più fare, pur solamente col già fatto, aiutandomi gli amici, tentai di continuare a trovar qualche mezzo. E forse l'avrei trovato, parte in Italia, parte fuori, se l'infelicità straordinaria dei tempi non fosse venuta a congiurare colle altre difficoltà, ed a renderle finalmente vincitrici. La letteratura è annientata in Europa: i librai, chi fallito, chi per fallire, chi ridotto ad un solo torchio, chi costretto ad abbandonare le imprese meglio avviate. In Italia sarebbe ridicolo ora il presumere di vender nulla con onore in materie letterarie, e di proporre ai librai delle imprese nuove. Di Francia, Germania, Olanda, dove io aveva mandata una gran quantità di mss. filologici con fondatissime speranze di profitto, non ricevo, invece di danari, che articoli di giornali, biografie e traduzioni. Mi trovo dunque, com'ella può ben pensare, senza i mezzi di andare innanzi. Se mai persona desiderò la morte così sinceramente e vivamente come la desidero io da gran tempo, certamente nessuna in ciò mi fu superiore. Chiamo Iddio in testimonio delle mie parole. Egli sa quante ardentissime preghiere io gli abbia fatte (sino a far tridui e novene) per ottener questa grazia; e come ad ogni leggera speranza di pericolo vicino o lontano, mi brilli il cuore dall'allegrezza. Se la morte fosse in mia mano, chiamo di nuovo Iddio in testimonio ch'io non le avrei mai fatto questo discorso; perchè la vita in _qualunque luogo_ mi è abbominevole e tormentosa. Ma non piacendo ancora a Dio d'esaudirmi, io tornerei costì a finire i miei giorni, se il vivere in Recanati, sopra tutto nella mia attuale impossibilità di occuparmi, non superasse le gigantesche forze ch'io ho di soffrire. Questa verità (della quale io credo persuasa per l'ultima acerba esperienza ancor lei) mi è talmente fissa nell'animo, che malgrado del gran dolore ch'io provo stando lontano da lei, dalla mamma e dai fratelli, io sono invariabilmente risoluto di non tornare stabilmente costà se non morto. Io ho un estremo desiderio di riabbracciarla, e solo la mancanza de' mezzi di viaggiare ha potuto e potrà nelle stagioni propizie impedirmelo; ma tornar costà senza la materiale certezza di avere il modo di riuscirne dopo uno o due mesi, questo è ciò sopra di cui il mio partito è preso, e spero che ella mi perdonerà se le mie forze e il mio coraggio non si estendono fino a tollerare una vita impossibile a tollerarsi. Non so se le circostanze della famiglia permetteranno a lei di farmi un piccolo assegnamento di dodici scudi il mese. Con dodici scudi non si vive umanamente neppure in Firenze, che è la città d'Italia dove il vivere è più economico. Ma io non cerco di vivere umanamente. Farò tali privazioni che, a calcolo fatto, dodici scudi mi basteranno. Meglio varrebbe la morte, ma la morte bisogna aspettarla da Dio.... Se le circostanze, mio caro papà, non le consentiranno di soddisfare a questa mia domanda, la prego con ogni possibile sincerità e calore a non farsi una minima difficoltà di rigettarla. Io mi appiglierò ad un altro partito, e forse a questo avrei dovuto appigliarmi senza altrimenti annoiar lei con questo discorso: ma come il partito ch'io dico, è tale, che stante la mia salute, non è verisimile che in breve tempo non vi soccomba, ho temuto che ella avesse a fare un rimprovero alla mia memoria, dell'averlo abbracciato senza prima confidarmi con lei sopra le cose che le ho esposte. Del rimanente, io da un lato provo tanto dolore nel dar noia a lei, e dall'altro sono così lontano da ogni fine capriccioso, e da ogni lieta speranza nel voler vivere fuori di costà, che ho perfino desiderato, ed ancora desidererei, che mi fosse tolta la possibilità di ogni ricorso alla mia famiglia, acciocchè non potendo io mantenermi da me, e molto meno essendomi possibile il mendicare, io mi trovassi nella materiale, precisa e rigorosa necessità di morir di fame. Scusi, mio caro papà, questo malinconico discorso che mi è convenuto tenerle per la prima e l'ultima volta della mia vita. Si accerti della mia estremissima indifferenza circa il mio avvenire su questa terra, e se la mia domanda le riesce eccessiva, importuna, o non conveniente, non ne faccia alcun caso. In ogni modo, se Dio vorrà ch'io viva ancora, io non cesserò di adoperarmi come per lo passato, con tutte le mie forze, per procurarmi il modo di vivere senza incomodo della casa, e per far cessare le somministrazioni che ora le chiedo. Mi benedica, mio caro papà, e preghi Dio per me....„ L'uomo che supplica in questo modo ha trentaquattro anni, ed è uno dei più grandi del suo tempo; e con un nome illustre, con un ingegno strapotente, come ha dovuto accettare l'elemosina dei Toscani, così vive in parte degli aiuti del Ranieri, quando, ottenuto finalmente il povero soccorso paterno, non è in grado di sopperire con questo ai bisogni della sua vita stremata. E se, per il divisato e non potuto effettuare ritorno in famiglia, è costretto a trarre una cambialetta di 40 ducati, se ne deve scusare in termini di supplicazione; e deve ringraziare il padre e la madre della “carità„ che gli hanno fatta. Se essi non fanno di più perchè non possono, la colpa non è loro; ma la loro colpa inescusabile è di non comprendere ancora, come non hanno compreso mai, la condizione del figlio, la gravità dei suoi mali fisici e morali. “Il tuono delle sue lettere alquanto secco,„ scrive questi al padre sei mesi prima di morire, “è giustissimo in chi fatalmente non può conoscere il vero mio stato, perch'io non ho avuto mai occhi da scrivere una lettera che non si può dettare, e che non può non essere infinita; e perchè certe cose non si debbono scrivere ma dire solo a voce. Ella crede certo ch'io abbia passato fra le rose questi sette anni ch'io ho passato tra i giunchi marini....„ E in mano di questo amico al quale non può dettare tutto l'intimo pensiero suo; del quale sente, nonostante la fratellanza di sette anni, di doversi guardare; in mano di questo amico egli muore diciotto giorni dopo avergli fatto scrivere al padre lontano, che non una volta ha pensato di andarlo a raggiungere: “I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l'età ad un grado tale che non possono più crescere; spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone il moribondo mio corpo, mi condurranno all'eterno riposo, che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo ma per il rigore delle pene che provo. Ringrazio teneramente lei e la mamma del dono dei dieci scudi, bacio le mani ad ambedue loro, abbraccio i fratelli, e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio, acciocchè, dopo ch'io li avrò riveduti, una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti.„ E dopo che il grande infelice è morto, credete voi che il padre s'acqueti? Udite che cosa scrive Paolina all'amica Brighenti: “Di Giacomo poi, della gloria nostra, abbiam dovuto tacere più che mai tutto quello che di lui ne veniva fatto di sapere, come di quello che non combinava punto col pensare di papà e colle sue idee. Pertanto, non abbiam fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle sue opere, e quando le abbiam comprate, le abbiamo tenute nascoste e le teniamo ancora.... Preghiamo Iddio che non vengano quei volumi nelle mani dei miei genitori; essi ne morrebbero di dolore!...„ Monaldo disereda il figlio Carlo perchè ha sposato, contrariamente alla sua volontà, la cugina Mazzagalli; nel suo testamento egli nomina Giacomo, l'eterna gloria della sua casa, solo perchè si celebrino dieci messe per il riposo dell'anima sua; mentre lungamente ricorda l'altro figlio Luigi, “morto con tutti i segni del predestinato.„ E quando, morto anche Monaldo, la vedova riceve un giorno uno dei visitatori che traggono a Recanati come in pellegrinaggio, e l'ode riverire in lei la madre del grande poeta, ella non sa rispondere altro che: “Dio gli perdoni....„ IV. LA PATRIA. La città dove siamo nati e dove viviamo, la terra dove si parla il nostro proprio linguaggio, sono come la continuazione della casa: da esse ci possono venire motivi di somma consolazione come di grave dolore. Se Giacomo Leopardi non fu felice nella famiglia, ebbe almeno ragione di compiacersi della patria? Per colmo di sciagura egli nacque in tempi sciagurati e in un paese infelice. In un borgo, in un villaggio, se mancano troppe cose al vivere civile, i costumi sono semplici, la vita è tranquilla, la libertà grande. Ma Recanati è tanto popolosa ed ha tali tradizioni storiche da non poter essere confusa tra i villaggi. In una città vasta ed animata, se vi è troppo tumulto, vi sono pure spettacoli stupendi; se l'individuo è costretto ad osservare troppe norme perchè troppo estesa è la società circostante, tanto più facilmente egli può trovare in mezzo alla varia moltitudine chi lo comprenda e gli giovi. Ma Recanati non è una grande città. È città piccola; ciò significa il luogo meno adatto a un ingegno avido di vedere e di sapere, cupido di impressioni potenti e nuove: vi mancano egualmente, come il Leopardi stesso dice, “e i diletti della società civile, e i vantaggi della vita solitaria„. Pietro Giordani così ne parla: “Recanati, piccola terra, che il papa chiama città, vicina quattro miglia a Loreto, quel gran mercato d'ignobili superstizioni.... Ivi tutti i mali d'Italia, e niuna consolazione.„ Il pensiero degli uomini è in certo modo proporzionato ai luoghi dove essi vivono: dentro un orizzonte angusto le idee sono piccole; le idee grandi e nobili derivano dalle impressioni suscitate dalle cose nobili e grandi. Le rivoluzioni, i tentativi di migliorare la condizione umana, si compiono nelle metropoli; la provincia è più ligia alle tradizioni, più avversa alle novità. Se i grandi ingegni sono ammirati da chi è capace d'intenderli, sono invece derisi dal volgo, al quale per la loro singolarità non possono uniformarsi: e nella provincia, perchè è più volgare, la singolarità dell'ingegno pare anche maggiore. “Ella non conoscerà Recanati„, scrive il Leopardi al Brighenti, “ma saprà che la Marca è la più ignorante ed incolta provincia dell'Italia. Ora, per confessione anche di tutti i Recanatesi, la mia città è la più incolta e morta di tutta la Marca, e fuor di qui non s'ha idea della vita che vi si mena.„ Lassù “l'ingegno non si conta fra i doni della natura„. Chi comprenderà gli studii linguistici dello straordinario giovanetto? “Quanto agli amatori della buona lingua, se di questa io parlassi ad alcuno qui, crederebbero che s'intendesse di qualche brava lingua di porco.„ Troverà egli qualcuno col quale ragionare delle cose che gli stanno a cuore? “In Recanati non andando d'accordo nelle massime con nessuno, non disputo mai, ed ostinatissimo mi lascio spiattellare in faccia spropositi da stomacare i cani, senza mai aprir bocca.„ Di quale considerazione godrà? Come in famiglia, così in tutta la città lo trattano da “vero e pretto ragazzo, e i più aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, d'eremita e che so io.„ Tanto egli è disconosciuto, che non crede d'incontrare veri odii o inimicizie, “perchè questi si esercitano cogli uguali e nessuno vorrà degnarsi di credermi suo uguale; ma disprezzi e scherni gli aspetto, e li ricevo da tutti quelli che tratto e vedo„. Dice anche: “Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l'intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare.„ Esagera? I suoi nervi troppo tesi gli fanno giudicare così? No; è la verità. I nobili oziosi ed ignoranti lo dileggiano per l'ingegno e la cultura; un giorno, perchè egli tenta di replicare a uno di loro, è da costui percosso sul viso con un frustino. La plebe ride della deformità del suo corpo: talvolta, se egli esce a prendere una boccata d'aria, è costretto a tornarsene in casa dagl'insulti della canaglia; i monelli si divertono a tirar sassi o pallottole di neve sulla schiena al “gobbo de Leopardi„. E i preti lo giudicano empio per le sue massime; perchè, onorando i genitori, non intende esserne schiavo. Che effetto produrrebbero tutte queste cose in uomo qualunque? Non avrebbe ogni uomo ragione di sentirsi fuori del mondo civile, in un misero paesaccio, in un romitaggio, in una sepoltura? Ma il Leopardi non è un uomo come tutti gli altri: noi sappiamo quanto vulnerabili sono i suoi nervi, quanto è inferma la sua sensibilità. Allora non ci stupiremo se egli chiamerà Recanati “tana, caverna, serraglio, porca bicoccaccia, vilissima zolla, capitale dei poveri e dei ladri, luogo pieno e stivato di maledizioni„; se chiamerà i suoi concittadini “animali„ dalla cui vista fugge: “Ogni giorno mi par mill'anni di fuggir via da questa porca città, dove non so se gli uomini sieno più asini o più birbanti; so bene che tutti sono l'uno e l'altro....„ Eppure egli non ha giudicato sempre così. Anche prima di uscire da Recanati, quando l'opposizione dei parenti e gli scherni degli estranei non lo hanno ancora esasperato, egli è stato giusto con la sua città natale. “Ora dico di odiarla perchè vi sono dentro, che finalmente questa povera città non è rea d'altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori.„ Egli è anche così più che giusto con la sua famiglia.... E se la sua sensibilità è tanto offesa a Recanati, l'immaginazione vi opera prodigi, raffigurandogli le bellezze dell'ignoto mondo. “Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo„, scrive al Giordani, “tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere; la terra è piena di meraviglie, ed io di dieciott'anni potrò dire: In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato?...„ Ma tanto egli è esperto degli inganni orditi dalla fantasia, che non appena si rappresenta queste meraviglie già è sicuro di non poterle trovare. “A voi succede,„ riscrive al Giordani sei mesi dopo, “quello che succederà a me se mai vedrò il mondo, di averlo a noia. Allora forse non mi dispiacerà e fors'anche mi piacerà questo eremo che ora aborro.„ Così appunto accade. Appena esce da Recanati, appagato finalmente il lungo desiderio di veder Roma, la metropoli lo scontenta, e il luogo natio quasi gli pare preferibile. “Tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile. S'io vi volessi raccontare tutti i propositi ridicoli che servono di materia ai loro discorsi, e che sono i loro favoriti, non mi basterebbe un in foglio....„ Non lo scontenta solo lo spirito della popolazione, ma anche il materiale della città: “Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero de' gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazii gittati fra gli uomini, invece d'essere spazii che contengono uomini....„ È il consueto disinganno che l'immaginazione prepara quando le cose troppo desiderate ed abbellite sono finalmente ottenute. Egli ha aspettato tanto, ha tanto presentito il piacere, che quando lo consegue non lo apprezza più. “Domandami se, in due settimane da che sono in Roma, io ho mai goduto pure un momento di piacere fuggitivo, di piacere rubato, preveduto o improvviso, esteriore o interiore, turbolento o pacifico, vestito sotto qualunque forma. Io ti risponderò in buona coscienza e ti giurerò, che, da quando io misi piede in questa città, non una goccia di piacere non è caduta nell'animo mio, eccetto in quei momenti ch'io ho letto le tue lettere.... Dirai ch'io non so vivere; che per te, e per altri tuoi simili il caso non andrebbe così....„ Egli stesso riconosce l'origine intima del suo scontento: “In verità, era troppo tardi per cominciare ad assueffarmi alla vita non avendone mai avuto niun sentore„; ma, perchè il disinganno sia così grande, bisogna che altre cause abbiano concorso a produrlo. Se noi dobbiamo credere che, passato alla metropoli da una città meno infelice di Recanati, oppure più presto, prima che la sua salute fosse distrutta e che il suo spirito si ottenebrasse, vi si sarebbe compiaciuto; dobbiamo anche notare che neppure in queste condizioni propizie le cause reali del suo dispiacere non sarebbero mancate. Oh! Se' tu Roma, o d'ogni vizio il seggio? aveva già sdegnosamente cantato Vittorio Alfieri; e le condizioni morali dell'eterna città erano veramente tali da sdegnare un'anima come quella del Leopardi. Principalmente, anzi unicamente attento alle cose letterarie, come trovava egli le condizioni della letteratura a Roma? Se l'alfabeto era tutta la letteratura di Recanati, qual era quella di Roma? “Quanto ai letterati, de' quali ella mi domanda„, scrive al padre, “io n'ho veramente conosciuti pochi, e questi pochi m'hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d'arrivare all'immortalità in carrozza, come i cattivi cristiani al paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell'uomo, è l'Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l'Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e par un giuoco da fanciulli, a paragone del trovar se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco, senza la perfetta cognizione delle quali lingue, ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell'antichità.„ Ed al fratello: “Della letteratura non so che mi vi dire. Orrori, e poi orrori. I più santi nomi profanati, le più insigni sciocchezze levate al cielo, i migliori spiriti di questo secolo calpestati come inferiori al minimo letterato di Roma, la filosofia disprezzata come studio da fanciulli; il genio e l'immaginazione e il sentimento, nomi (non dico cose, ma nomi) incogniti e forestieri ai poeti e alle poetesse di professione; l'antiquaria messa da tutti in cima del sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l'unico vero studio dell'uomo. Non dico esagerazioni. Anzi è impossibile che vi dica abbastanza....„ Il suo disinganno cresce ogni giorno, ogni giorno egli trova un nuovo argomento di noia, finchè arriva a questa conclusione disperata: “Quantunque io sia già incapace affatto di godere, e incapace per sempre, Roma mi ha fatto almeno questo vantaggio, di perfezionare la mia insensibilità sopra me stesso, e di farmi riguardare la mia vita intera, il mio bene, il mio male, come vita, bene, male altrui.„ Non per questo, tornato a Recanati, egli si rassegna alla vita del “natìo borgo selvaggio„, dove la sua vita “est plus uniforme que le mouvement des astres, plus fade et plus insipide que les paroles de notre Opéra„; dove non trova la libertà che ha goduto fuori di casa; dove, se vuol far venire un libro, gli conviene aspettare quattro, sei, otto mesi, talvolta anche di più; dove manca di giornali, dove si trova in un buio veramente spaventevole. Ma, partito un'altra volta per andare in altre città grandi, non vi si trova contento. “Al primo aspetto„, scrive da Milano, “mi pare impossibile di durar qui neppure una settimana.„ E col tempo, se riceve impressioni grate, ne riceve pure di sgradevolissime. “Qui mi trovo malissimo e di pessima voglia. Pochi letterati ho conosciuto, e non mi curo di vederli per la seconda volta....„ Il bello, che trova a Milano in gran copia, gli è guastato “dal magnifico e dal diplomatico anche nei divertimenti.... Gli uomini sono come _partout ailleurs_; e quello che mi fa rabbia è, che tutti ti guardano in viso e ti squadrano da capo a piedi come a Monte Morello....„ A Bologna trova che gli uomini sono “vespe senza pungolo„, e con infinita meraviglia deve convenire “che la bontà di cuore vi si trova effettivamente, anzi vi è comunissima, e che la razza umana vi è differente da quella di cui tu ed io avevamo idea„. Tuttavia egli vive in quella città “molto malinconico, e in certe passeggiate solitarie che vo facendo per queste campagne bellissime, non cerco altro che rimembranze di Recanati.„ Se passa a Firenze, la metropoli toscana “non sarebbe certamente il luogo ch'io sceglierei per consumar questa vita„: e, senza il Giordani, la cui compagnia gli è stata di tanto conforto, il suo malumore si sfoga vivacemente: “Questi viottoli, che si chiamano strade, mi affogano; questo sudiciume universale mi ammorba; queste donne sciocchissime, ignorantissime e superbe, mi fanno ira„, e, come a Roma, la condizione degli spiriti è ancora quella che più lo sdegna: “Io non veggo altri che Vieusseux e la sua compagnia; e quando questa mi manca, come accade spesso, mi trovo come in un deserto. Infine mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica.„ Tornato a Roma, la stessa ira d'una volta lo infiamma: “La letteratura romana, come tu sai benissimo, è così misera, vile, stolta, nulla, ch'io mi pento di averla veduta e vederla, perchè questi miserabili letterati mi disgustano della letteratura, e il disprezzo e la compassione che ho per loro, ridonda nell'animo mio a danno del gran concetto e del grande amore ch'io aveva alle lettere.„ Che dirà egli di Napoli? “Non posso più sopportare questo paese semibarbaro e semiaffricano, nel quale io vivo in un perfetto isolamento da tutti„; egli ha bisogno di fuggire “da questi lazzaroni e pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e b. f. degnissimi di Spagnuoli e di forche.„ Facciamo una larghissima parte al suo nervosismo, all'irritabilità cresciuta per le continue sventure, le malattie, il disagio pecuniario, le opposizioni della famiglia; facciamo una larghissima parte all'ingannatrice fantasia che dipinge troppo belli i luoghi lontani e li rende preferibili ai vicini, talchè anche quando egli si trova contento, come a Pisa, pure vive di rimembranze dell'odiato Recanati; resta ancora, per altre testimonianze, che le condizioni morali delle città italiane non erano, a quei tempi, delle più felici. Basterà per tutte quella di Vittorio Alfieri, uomo sano, operoso e ricco, capace di istituir paragoni grazie ai lunghi viaggi fatti da un capo all'altro d'Europa. Giudicati i Romaneschi maestri nel mal oprare, i Napoletani nello schiamazzare, i Genovesi nel patir la fame, i Veneziani nel lasciar fare, i Milanesi nel banchettare, egli conclude Tale d'Italia è la primaria gente; Smembrata tutta, e d'indole diversa; Sol concludendo appieno in non far niente. Nell'ozio e ne' piacer nojosi immersa Negletta giace, e sua viltà non sente; Fin sopra il capo entro a Lete sommersa. E questo è appunto il nuovo motivo di dolore di Giacomo Leopardi, ammiratore fervidissimo dell'Astigiano: in ogni parte d'Italia ai suoi tempi non solamente l'ignoranza è grande quanto l'ignavia e l'amore delle vanità, ma lo stesso sentimento della patria comune, della nazione, è infimo e nullo. Fanciullo, sotto l'impero del padre guelfo, egli aveva cominciato a parteggiare per le autorità legittime contro i Francesi invasori e i rivoluzionarii di casa. Ritiratosi Gioacchino Murat da Macerata, liberato il Piceno, egli aveva rivolto un'orazione agl'Italiani eccitandoli all'odio degli stranieri. “Ogni francese è degno d'odio, perchè niun francese riconosce i delitti della sua nazione. Quel popolo forsennato con tanto sangue e stragi, con tanti danni a tutta l'Europa, non fece che una parentesi nella cronologia dei regnanti per rientrar poi nello stato primiero.„ E dalla esecrazione dei rivoluzionarii francesi era passato all'esaltazione dei governi indigeni. “Non v'ha popolo,„ giudicava, “più felice dell'italiano nell'amministrazione paterna di sovrani amati e legittimi„; e se l'Italia era divisa in tanti staterelli, se ne compiaceva perchè ella “offre lo spettacolo vario e lusinghiero di numerose capitali, animate da corti floride e brillanti, che rendono il nostro suolo sì bello agli occhi dello straniero„; e aveva dimostrato che l'Italia non è fatta per le armi, bensì per le arti. Ma la sua conversione fu molto rapida: due anni dopo, quando cominciava a lagnarsi di Recanati e diceva che gli era tanto cara da somministrargli le belle idee per un trattato dell'odio della patria, tosto si correggeva: “Ma mia patria è l'Italia; per la quale ardo d'amore, ringraziando il cielo d'avermi fatto italiano.„ Questo sentimento si afforza ogni giorno più: egli non tralascia occasione di significarlo: se gli Accademici di Viterbo lo chiamano a far parte della loro società, si rallegra delle loro cure “con la mia nazione, alla quale resta tanto poco del vero amore, non dirò delle patrie particolari, ma della nostra comune gloriosissima e sovrana patria, che è l'Italia„; e se il Visconti abbandona la terra e la lingua italiana, egli non l'ama “niente affatto, perchè mi pare, che si sia scordato dell'Italia„; e invece chiama “mio„ l'Alfieri, e dedica al Monti le sue prime canzoni patriottiche che per niente al mondo dedicherebbe “a verun potente.„ Noi vediamo quindi che, come gli era accaduto in fatto di letteratura, così anche in politica è variamente sollecitato dalle correnti morali del suo tempo. Ma se tra il classicismo e il romanticismo il temperamento era difficile perchè le tendenze delle due scuole rispondevano a due tendenze del suo spirito, in materia politica la via di mezzo non era possibile. Una volta venuta meno l'ubbidienza al regime tradizionale e il compiacimento nella secolare divisione della patria italiana, egli doveva seguire sino in fondo la nuova via della ribellione; dove lo aspettavano nuove e non meno gravi pene. Qual era infatti la condizione reale di quell'Italia che egli aveva vista grande nelle memorie di tempi troppo remoti? Una delle peggiori che la sua storia rammenti. Cinquant'anni prima gl'Italiani erano immersi in un letargo profondo, dal quale pareva che nulla potesse mai trarli; dei loro mali avevano perduto quasi coscienza, si può dire che non ne soffrissero. Cinquant'anni dopo essi dovevano insorgere, combattere, cadere, ma poi finalmente trionfare. L'età del Leopardi è invece la più travagliata. La rivoluzione e l'invasione francese hanno destato gli spiriti; Napoleone, italiano d'origine, pronunzia in Milano di aver preparato alti destini alla nazione infelice. Ma i fatti non seguono alle promesse. Discacciati i Tedeschi, restano i Francesi; i danni prodotti dai nuovi occupatori in nome della libertà sono infiniti. Se qualcuno si è illuso, se qualcuno ha dato fede alle promesse, il disinganno è amarissimo. Il Leopardi che non ha creduto, che è rimasto per questo riguardo il misogallo dei primi tempi, vede nei nuovi casi l'ultima rovina. Beato egli stima Dante che il fato A viver non dannò fra tanto orrore; Che non vedesti in braccio L'itala moglie a barbaro soldato; Non predar, non guastar cittadi e colti L'asta inimica e il peregrin furore; Non degl'itali ingegni Tratte l'opre divine a miseranda Schiavitude oltre l'Alpi, e non de' folti Carri impedita la dolente via; Non gli aspri cenni ed i superbi regni; Non udisti gli oltraggi e la nefanda Voce di libertà che ne schernia Tra il suon delle catene e de' flagelli. Chi non si duol? che non soffrimmo? intatto Che lasciaron quei felli? Qual tempio, quale altare o qual misfatto? Ed egli soffre d'esser nato in mezzo a questa rovina: Perchè venimmo a sì perversi tempi? Perchè il nascer ne desti o perchè prima Non ne desti il morire, Acerbo fato? onde a stranieri ed empi Nostra patria vedendo ancella e schiava, E da mordace lima Roder la sua virtù, di null'aita E di nullo conforto Lo spietato dolor che la stracciava Ammollir ne fu dato in parte alcuna? Ma il più grave è questo: che il fiore della gioventù italiana sia tratto a combattere e a morire non contro i proprii nemici, ma contro nemici altrui: non per la moribonda Italia, ma per altra gente, per quelli che sono venuti a tiranneggiarla; e a morire lontano, in Ispagna, in Germania, nei deserti nevosi di Russia. Morian per le rutene Squallide spiagge, ahi d'altra morte degni, Gl'itali prodi; e lor fea l'aere e il cielo E gli uomini e le belve immensa guerra. Cadeano a squadre a squadre Semivestiti, maceri e cruenti, Ed era letto agli egri corpi il gelo. Allor, quando traean l'ultime pene, Membrando questa desiata madre, Diceano: oh non le nubi e non i venti, Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene, O patria nostra. Ecco da te rimoti, Quando più bella a noi l'età sorride, A tutto il mondo ignoti, Moriam per quella gente che t'uccide. Di lor querela il boreal deserto E conscie fur le sibilanti selve. Così vennero al passo, E i negletti cadaveri all'aperto Su per quello di neve orrido mare Dilaceràr le belve.... La grandezza dell'affanno è smisurata, non c'è altro conforto se non nella stessa immensità dello sconforto.... Il Leopardi chiede ansiosamente se la miseria della patria sua non cesserà una volta: In eterno perimmo? E il nostro scorno Non ha verun confine? Egli eccita allora gl'italiani a volgersi indietro, a contemplare i vestigi della potenza e della gloria passata; a ricordare i loro grandi, Dante, Petrarca, Colombo, Ariosto, Tasso, Alfieri; e se il Mai discopre antiche celebri scritture e se le sue scoperte commuovono il mondo dei dotti e quasi fanno credere che siano tornati i tempi del Rinascimento, egli lo esorta a perseverare nell'opera, tanto che infine Questo secol di fango o vita agogni E sorga ad atti illustri, o si vergogni. E se la sorella Paolina sta per andare a nozze egli vuole che dia forti esempii ai figli. Mettano opera le donne perchè la patria si redima: esse hanno una grande potenza sugli animi umani; ad esse il giovane chiede ragione della miseria dei tempi: La santa Fiamma di gioventù dunque si spegne Per vostra mano? attenuata e franta Da voi nostra natura? e le assonnate Menti, e le voglie indegne, E di nervi e di polpe Scemo il valor natìo, son vostre colpe?... .... O spose, O verginette, a voi Chi de' perigli è schivo, e quei che indegno È della patria e che sue brame e suoi Volgari affetti in basso loco pose, Odio mova e disdegno; Se nel femmineo core D'uomini ardea, non di fanciulle, amore. E si volge di nuovo al passato, trova nella storia di Roma l'esempio di quanto ha giovato alla patria una donna: Virginia. Ancora: ad un vincitore nel giuoco del pallone ricorda che gli esercizii del corpo sono preparazione necessaria alla guerra; e che vincitori dei giuochi olimpici erano quelli che vincevano poi e fugavano i Medi e i Persiani. Ma le esortazioni sono vane; egli sente che il funesto obblio delle grandi cose non finisce, che nessuno si onora d'esser figlio d'una madre come l'Italia, che la rovina di lei è senza riparo. Nell'alba della sua vita ha visto l'invasione francese e i danni dell'opera napoleonica; giunto alla sera, pochi anni prima di morire, vede i vani conati del Trentuno e l'invasione austriaca. A questa miseria politica del suo paese fa riscontro la miseria sociale. Tutte le classi della nazione hanno vizii e colpe. “Dite benissimo dei nobili,„ scrive al Brighenti, “che sono il corpo morto della società. Ma pur troppo io non vedo quale si possa chiamare il corpo vivo oggidì.... Le Corti, Roma, il Vaticano? Chi non conosce quel covile della superstizione, dell'ignoranza e de' vizi?„ I preti, “in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto„; ma che fanno di questa loro potenza? Quelli che reggono lo Stato tengono su un governo “gotico„; quelli che pensano, che disputano, i teologi, “sono una razza di gente così ostinata come le donne. Prima si caverebbero loro tutti i denti di bocca, che un'opinione dalla testa. Bensì credo che sia meglio avere a fare colle donne, e anche col diavolo, che con loro.„ Egli non ha voluto pertanto mettersi nella carriera ecclesiastica; ma la professione curiale non è meno discreditata: “Quante miserie, quante pazzie, quanti intrighi in questo povero mondo! Come se avessimo felicità d'avanzo, e bisognasse minorarla colla barbarie delle istituzioni sociali.„ Perduta, anzi non mai veramente concepita la speranza di poter aiutare colle azioni la patria; espresso soltanto in un impeto lirico il sogno di combattere solo, di procombere solo per l'Italia; egli attende all'unica opera che gli è consentita: la rigenerazione intellettuale degli Italiani — poichè la loro miseria, a questo riguardo, è altrettanto grande quanto quella sociale e politica. Troppo rari sono gl'ingegni che sostengono “l'ultimo avanzo della gloria italiana„: le lettere: pure egli li cerca e li onora. Del Giordani scrive: “Io penso che se molti de' nostri sapessero scrivere in quella maniera, non dico solamente quanto alle parole, ma quanto alle cose, la letteratura italiana seguiterebbe ad essere la prima d'Europa, come è già poco meno che l'ultima.„ E del Trissino: “Io non mi posso dimenticare d'un giovane signore italiano così amorevole, nè di sentimenti così magnanimi, nè di tanti pregi e virtù d'ogni sorta, che se fossero meno singolari in questa povera terra non sarebbe stoltezza lo sperar della nostra patria.„ E così anche del Papadopoli, della Tommasini, e di tanti altri. Questo pensiero: che le lettere non debbono essere vano esercizio, ma strumento di riforma civile, lo occupa assiduamente. Se il Brighenti disegna di pubblicare un'opera sulla riforma degli spettacoli dei quali si diletta il popolo italiano, caldamente egli lo incuora: “Non posso abbastanza lodarvi del vostro zelo per la riformazione degli spettacoli italiani: spettacoli barbari, e simili oramai a quelli della China. Le vostre osservazioni sono veramente utili, e a questo debbono mirare (e non mirano) gli scrittori: dico a giovare ai loro contemporanei, come cercavano di fare tutti gli antichi e tutti i classici, che non sarebbero classici se non avessero scritto per altro fine che di scrivere. Io non credo che dopo la Spagna, in punto spettacoli barbari, si possa addurre nell'Europa colta verun esempio di maggior corruzione, che l'Italia. Conseguenza pur troppo naturale dell'aver noi perduto il nome e la sostanza di nazione.„ E al Grassi: “Del suo valoroso e benefico assunto d'insegnare un'altra volta la lingua militare all'Italia che l'ha disimparata, che altro posso far io, se non confortarla caldissimamente a proseguire la sua magnanima impresa, che ha sì degnamente cominciata, anzi condotta in buoni termini, col suo dizionario?„ Tanto è ansioso di fare, con le lettere, opera utile alla patria, che, poeta, quasi ripudia la poesia. “Andando dietro ai versi e alle frivolezze (io parlo qui generalmente), noi facciamo espresso servizio ai tiranni: perchè riduciamo a un giuoco o ad un passatempo la letteratura; dalla quale sola potrebbe aver sodo principio la rigenerazione della nostra patria.„ E la rassegnazione cristiana predicata dal Manzoni lo scontenta: “Tale conclusione è ottima per istituire una riforma morale; ma io dubito molto che basti a levar su dal fango una nazione invilita e spirarle ardimento proporzionato alle sue tremende necessità. Coloro, quali i fondatori di religione, che parlarono all'universale degli uomini abbracciando ogni tempo ed ogni contrada, e non ne specificando alcuna, potettero rimanersi nelle astrazioni d'una sconfinata rassegnazione e pazienza. Ma essi non ebbero patria o non la conobbero; dovecchè il Manzoni tiene cara soprammodo la sua.„ E tutti i suoi disegni sono rivolti alla restaurazione delle lettere italiane come strumento della salute nazionale. “Tante cose restano da creare in Italia, ch'io sospiro in vedermi così stretto e incatenato dalla cattiva fortuna, che le mie poche forze non si possano adoperare in nessuna cosa. Ma quanto ai disegni, chi può contarli? La Lirica da creare.... tanti generi della tragedia, perchè dell'Alfieri n'abbiamo uno solo; l'eloquenza poetica, letteraria e politica; la filosofia propria del tempo, la satira, la poesia d'ogni genere accomodata all'età nostra, fino a una lingua e uno stile, ch'essendo classico e antico, paia moderno e sia facile a intendere e dilettevole così al volgo come ai letterati.„ E perchè si faccia bene all'Italia, come fondamento della sua rigenerazione morale vuole che si crei una lingua filosofica, “senza la quale io credo ch'ella non avrà mai letteratura moderna sua propria, e non avendo letteratura moderna propria, non sarà mai più nazione. Dunque l'effetto ch'io vorrei principalmente conseguire, si è che gli scrittori italiani possano essere filosofi inventivi e accomodati al tempo, che insomma è quanto dire scrittori e non copisti.... Anche procurerò con questa scrittura di spianarmi la strada a poter poi trattare le materie filosofiche in questa lingua, che non le ha mai trattate; dico le materie filosofiche quali sono oggidì, non quali erano al tempo delle idee innate.... Quasi innumerabili generi di scrittura mancano o del tutto o quasi del tutto agl'Italiani, ma i principali e più fruttuosi, anzi necessari, sono, secondo me, il filosofico, il drammatico e il satirico. Molte e forse troppe cose ho disegnate nel primo e nell'ultimo; e di questo (trattato in prosa alla maniera di Luciano, e rivolto a soggetti molto più gravi che non sono le bazzecole grammaticali a cui lo adatta il Monti) disponeva di colorirne qualche saggio ben presto. Ma considerando meglio le cose, mi è paruto di aspettare. In ogni modo procureremo di combattere la negligenza degli Italiani con armi di tre maniere, che sono le più gagliarde: ragioni, affetti, riso.„ Non solamente la salute gl'impedisce di eseguire tanti disegni, ma la stessa inutilità della propria opera gli fa cadere le braccia. A Roma impera l'archeologia, a Firenze la statistica, a Milano e da per tutto la pedanteria; la letteratura, in istato d'asfissia, non che scuotere le genti, non dà pane da mangiare a chi la professa. “Con questa razza di giudizio e di critica che si trova oggi in Italia, c... chi si affatica a pensare e a scrivere.„ Gl'Italiani sono da più di un secolo, e vogliono restare tributarii degli stranieri anche nelle lettere. La miseria dei tempi è tale, “che chiunque in Italia vuol bene, profondamente e filosoficamente scrivere e poetare, dee porsi costantemente nell'animo di non dovere nè potere in verun modo essere commendato nè gustato nè anche inteso dagl'Italiani presenti.„ E i governi non badano soltanto a impedire ogni movimento, ma anche a soffocare il pensiero. Quasi tutte le volte che ha pronto un libro, il Leopardi è incerto di poterlo pubblicare. Quando manda al Giordani il manoscritto delle sue prime canzoni, la polizia lo sequestra; quando ne manda un'altra copia a Roma, gli scrivono che sono da prevedersi difficoltà da parte della censura. L'altra canzone al Mai è trattenuta dalla polizia austriaca e proibita per espressa volontà del Vicerè: “Essendo questa poesia scritta nel senso del liberalismo ed avendo la tendenza a rafforzare i malintenzionati nelle loro malevole viste, essa vuolsi per ciò tosto proibire e tagliare la via all'introduzione di contrabbando ed alla diffusione.„ La stessa polizia austriaca proibisce un'edizione fiorentina dei _Canti_, per “irreligiosità e principii antisociali.„ A Bologna la censura vieta la pubblicazione delle canzoni nuove e della _Comparazione_ delle sentenze di Teofrasto e di Bruto: se egli vuole ottenere la revoca del divieto, deve far precedere il libro da un avvertimento nel quale loda i governi ed eccita i popoli all'obbedienza. Stampa a Firenze, sull'_Antologia_, un saggio delle _Operette morali_, per vedere se anche queste saranno trattenute in Lombardia; ma nella stessa Firenze il consiglio dei ministri gli rigetta il manifesto d'un giornale che si propone di pubblicare. A Napoli, pochi mesi prima che egli muoia, un'edizione delle sue intere opere dispiace ai Padri revisori ed è interdetta. La persecuzione continua anche dopo che egli è morto: il pretore di Reggio Calabria, nel 1856, condanna a mille ducati di multa Pietro Merlino, barbiere, “colpevole di detenzione di un libro proibito, intitolato _Canti di Giacomo Leopardi_.„ V. LA GLORIA. In questo paese, del quale le condizioni non gli sono lieve causa di dolore, potrà egli sperare di trovar un compenso alle tante sue sciagure? Poichè quasi ogni azione gli è stata contesa, e il pensiero e lo studio è stato tutta la sua vita, potrà egli ottenere il premio di questa attività: la gloria? Della gloria ha avuto una brama ardente. “Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria.„ A diciotto anni, questa non è in lui presunzione: tali prove ha dato del suo ingegno, che il Giordani gli può scrivere: “Io ho innanzi agli occhi tutta la vostra futura gloria immortale.„ E il proposito del giovane è più che mai di raggiungerla: “Non voglio vivere fra la turba: la mediocrità mi fa una paura mortale; ma io voglio alzarmi e farmi grande ed eterno coll'ingegno e collo studio.„ Gli eruditi lavori dell'adolescenza cominciano a fruttargli le prime pubbliche lodi. Il Cancellieri, nella sua _Dissertazione_ intorno agli uomini dotati di grande memoria, stampa: “Quali progressi non dovranno aspettarsi da un giovine di merito sì straordinario?„ e cita il giudizio dello svedese Akerblad: “Parmi che così erudita Opera di un Giovine ancora in tenera età sia di ottimo augurio per l'Italia, che potrà sperare di veder un giorno a comparire un filologo veramente insigne.„ Ma le prime canzoni levano più alto grido. Vincenzo Monti, a cui sono dedicate, gli scrive: “Il core mi gode nel vedere sorgere nel nostro Parnaso una stella, la quale se manda nel nascere tanta luce, che sarà nella sua maggiore ascensione?„ Il Trissino dice che gli Italiani debbono confortarsi molto di possederlo, Il Cancellieri lo chiama “fenice dell'età nostra„; il Giordani gli riferisce che si parla di lui “come di un Dio.„ Che moto di legittimo orgoglio non deve sollevarlo sulla mediocre umanità! Quante soddisfazioni, quanti onori, quanti trionfi la sua fantasia non deve promettergli! Questa volta essa non può esagerare: certo, se di tutti gli altri beni non è destinato a conoscere altro che il nome, non gli potrà mancare nessuno di quelli che procura la fama. Noi abbiamo visto qual conto facesse il padre della sua grandezza e come largheggiasse per assicurarla. Finchè il giovane resta a Recanati, da una parte i suoi concittadini lo maltrattano come sappiamo e lo chiamano _poeta_ con intonazione di scherno; dall'altra poco e male egli può sapere che cosa si pensi di lui nel resto del mondo: “Io tra le altre fortune ho quella di fare stampare le cose mie e non saper mai che cosa se ne dica: se piacciano, se non piacciano, se si stimino mediocri, se pessime, in guisa che un mio libro stampato è per me come se fosse manoscritto.„ Pubblica la traduzione del secondo canto dell'_Eneide_, e non gli giova “ad altro che a donarne tre copie in tutto e per tutto, non contando io per niente quel mezzo centinaio che n'ho fatto seminare tra questa vilissima plebe marchegiana e romana.„ E il suo lavoro resta ignorato a Roma, “dove pur vedo che si parla di cento altre traduzioni, che in coscienza non posso dire che sieno migliori.„ Stampa le sue canzoni e non sa come pubblicarle: “Io sono ignorantissimo di queste cose, non ho commercio letterario con nessuno, e con tutte queste copie in poter mio, non volendone un mezzo soldo, non so che diavolo me ne fare.„ S'arrovella aspettando tempi migliori; e intanto, perchè l'amor della gloria non gli sia pericoloso, si propone di obbedire a certe massime prudenti: “Ama la gloria, ma, primo, la sola vera; e però le lodi non meritate, e molto più le finte, non solamente non le accettare, ma le rigetta, non solamente non le amare, ma le abbomina; secondo, abbi per fermo che in questa età, facendo bene, sarai lodato da pochissimi, lasciando che altri piaccia alla moltitudine e sia affogato dalle lodi; terzo, delle critiche, delle maldicenze, delle ingiurie, dei disprezzi, delle persecuzioni ingiuste, fa quel conto che fai delle cose che non sono; delle giuste non ti affliggere più che dell'averle meritate; quarto, gli uomini più grandi e più famosi di te, non che invidiarli, stimali e lodali a tuo potere, e inoltre amali sinceramente e gagliardamente.„ Ottiene infatti qualche amicizia letteraria, sente dirsi cose lusinghiere da quelli che lo ringraziano del dono dei suoi opuscoli; ma già le delusioni cominciano. La difficoltà di stampare a sue spese, l'impossibilità d'inchinarsi a giornalisti ed a critici, gli fanno considerare come la più sicura, anzi la sola approvazione che le sue opere possano ottenere sia quella della propria coscienza. “Ma queste cose perchè ve le scrivo? Eh via che nè la nostra virtù, nè la delicatezza del cuor nostro, nè la sublimità della mente nostra, nè la nostra grandezza non dipendono da queste miserie, nè io sarò meno virtuoso nè meno magnanimo (dove ora sia tale) perchè un asino di libraio non mi voglia stampare un libro, una schiuma di giornalista parlarne. Oramai comincio, o mio caro, anch'io a disprezzare la gloria, comincio a intendere insieme con voi che cosa sia contentarsi di sè medesimo, e mettersi colla mente più in su della fama e della gloria e degli uomini e di tutto il mondo. Ha sentito qualche cosa questo mio cuore per la quale mi par pure ch'egli sia nobile; e mi parete pure una vil cosa voi altri uomini, ai quali se per aver gloria bisogna che m'abbassi a domandarla, non la voglio; chè posso ben io farmi glorioso presso me stesso, avendo ogni cosa in me, e più assai che voi non potete in nessunissimo modo dare.„ Il proposito è di quelli che si chiamano filosofici, come opposti alle idee pratiche. In questa filosofia tanto più è difficile che egli perseveri, quanto maggiori sono le manifestazioni del suo ingegno, quanto più calda è l'espressione della meraviglia dei pochissimi che lo conoscono. Il Giordani s'adopera per lui, per fargli ottenere un posto a Roma; ma il giovane sa di esservi sconosciuto, “e non dico di non meritarlo; dico bene che infiniti altri che lo meritano quanto me, sono senza paragone più noti e stimati e lodati e riveriti che non son io; la qual cosa non mi muove punto nè mi dee muovere per sè stessa, ma mi pregiudica in questo ch'io non avendo nessuna fama, non ne posso cavare quelle utilità reali che ne cavano coloro che n'hanno, comunque se l'abbiano. Sicchè non è dubbio che i vostri uffici non mi possano giovare assaissimo.„ Ma l'amico suo non riesce, nè a Roma nè in Lombardia. Intanto il Pindemonte ingelosisce di lui per il suo saggio di traduzione dell'_Odissea_; il giovane risponde giustificandosi, umiliandosi: “Io non ho mai veduto nessuna parte dell'_Odissea_ del Pindemonte. Non so neppure se l'abbia tradotta e pubblicata tutta; solamente quel saggio che stampò alcuni anni prima del mio. So ben questo, che la sua traduzione si potrebbe paragonare alla mia così bene, come una gemma a un ciottolo.„ Un giorno, stanco delle lunghe aspettazioni senza alcun ottenimento, egli pone da parte il suo orgoglio e s'inchina dinanzi al Mai perchè gli ottenga di farlo uscire da Recanati procurandogli la cattedra di lingua latina vacante nella Biblioteca vaticana, della quale il Monsignore è primo Custode. “Ho vissuto sempre in un piccolo paesuccio, non ho conoscenze, non amicizie, non appoggi di sorta alcuna. Così che dopo avere perduto ogni altro vantaggio della vita, mi vedo ridotto a perdere interamente anche quell'ultimo frutto degli studi, che è la conversazione degli uomini insigni, e quel poco di fama, che ogni piccolo uomo si lusinga e desidera di acquistare. Ma chi vive sepolto in un paese come questo, non può mai sperare di farsi, non dico famoso, ma neppur noto in nessuna parte della terra. Tutte le fatiche, tutti i dolori, tutte le perdite che ho sostenute sono vane per me. Io mi vedo qui disprezzato e calpestato da chicchessia; tutte le speranze della mia fanciullezza sono svanite; ed io piango quasi il tempo consumato negli studi, vedendomi confuso con la feccia più vile degli scioperati e degl'ignoranti.„ Per queste ragioni “implora la misericordia„ di lui; e il Monsignore il cui nome sarà famoso presso i venturi grazie al canto che il giovanetto gli ha intitolato, non vuole o non sa contentarlo; anzi pubblica più tardi un frammento del Libanio “o per fare dispetto a me, o sapendo di certo che col pubblicarlo, lo levava di mano a me che già l'aveva trovato.„ Andato a Roma, egli s'accorge che nella gran città, dove sperava di ottenere quella fama negatagli nel piccolo luogo natale, è ancora più difficile esser conosciuti ed ammirati; e vede la miseria del mondo letterario che da lontano gli sembrava tanto bello: “Quel vedere la gente fanatica della letteratura anche più di quello ch'io fossi in alcun tempo, quel misero traffico di gloria (giacchè qui non si parla di danari, che almeno meriterebbero d'esser cercati con impegno), e di gloria invidiata, combattuta, levata come di bocca dall'uno all'altro; quei continui partiti, de' quali stando lontano non è possibile farsi un'idea; quell'eterno discorrere di letteratura e discorrerne sciocchissimamente, e come di un vero mestiere, progettando tutto giorno, criticando, promettendo, lodandosi da sè stesso, magnificando persone e scritti che fanno misericordia, tutto questo m'avvilisce in modo, che, s'io non avessi il rifugio della posterità e la certezza che col tempo tutto prende il suo giusto luogo (rifugio illusorio, ma unico e necessarissimo al vero letterato), manderei la letteratura al diavolo mille volte....„ I dotti stranieri lo apprezzano molto più che non gl'Italiani; ma non per le qualità delle quali egli è più orgoglioso. “Qui in Roma io non sono letterato (il qual nome, se è vero, è inutile coi Romani, inutile coi forestieri), ma sono un erudito e un grecista. Non potete credere quanto m'abbiano giovato quegli avanzi di dottrina filologica che io ho raccolto e raccapezzato dalla memoria delle mie occupazioni fanciullesche. Senza questi io non sarei nulla cogli stranieri, i quali ordinariamente mi stimano, e mi danno molti segni d'approvazione.„ Ma se egli spera di poter essere portato via, all'estero, da qualcuno di costoro, spera invano, Il ministro di Prussia gli dà gran lode per i suoi studi filologici e gli dimostra molto interesse e gli promette di esercitare tutta la sua influenza presso il governo pontificio per ottenergli un impiego: ma non glie l'ottiene; l'otterrebbe se egli consentisse a farsi prete! A Milano, a Bologna, stipendiato dallo Stella, deve fare per conto di questo libraio studii che abomina, “un librettaccio noioso„, il commento del Petrarca, “calice di passione„ dal quale non aspetta “nè onore nè piacere alcuno, bensì noia ineffabile e riso di molti che mi conoscono, dell'essermi occupato in queste minuzie pedantesche.„ E deve persuadere il libraio a non fargliene compiere un secondo dello stesso genere: “Eccomi a dirle del Cinonio. Trovo che questo lavoro sarà dei lunghi e noiosissimi, altrettanto e più che il Petrarca, senza stimolo alcuno di fama o di lode all'autore. Ciononostante, giudicando ella che esso debba riuscirle utile, eccomi a servirla. Ma avendo io già pubblicata col mio nome un'opera affatto pedantesca, com'è il comento al Petrarca, mi prendo la confidenza di porle in considerazione che il pubblicarne un'altra dello stesso genere, non potrà essere senza che il pubblico mi ponga onninamente, e per viva forza, in quella classe, dalla quale colle mie parole e cogli altri miei scritti ho tanto cercato di separarmi: nella classe di quelli che deprimono e rendono frivola, nulla, ridicola agli occhi degli stranieri la nostra letteratura, e con ciò servono mirabilmente alle intenzioni dell'_oscurantismo_: nella classe dei pedanti. Io la prego però di volere avere al mio nome questa compassione di salvarlo da questo epiteto, nel quale esso incorrerà inevitabilmente se la nuova opera sarà annunziata per mia....„ E quando poi questo libraio si dispone a stampare le sue _Operette morali_, gli vuol mettere questo libro di altissima filosofia nella _Biblioteca per dame_! Nessuno è riuscito a fargli avere un impiego: nessuno glie l'otterrà. Una promessa, il segretariato dell'Accademia di Bologna, sfuma nonostante l'appoggio del Bunsen. Lo stesso Bunsen gli dà come cosa fatta la sua nomina alla cattedra di eloquenza greca e latina; il giovane lo prega di fargli anche ottenere dal cardinale segretario di Stato la somma occorrente al viaggio da Bologna a Roma, non avendo la possibilità di farlo a spese proprie, e il Bunsen stesso mette a sua disposizione il denaro occorrente; ma tutto va a monte: egli non ottiene altro che “una nuova prova del quanto poco, anzi nulla, ci possiamo noi confidare in questo nostro Governo gotico, le cui promesse più solenni vagliono meno che quelle di un amante ubbriaco.„ Ancora il Bunsen gli propone una cattedra in Germania, a Berlino o a Bonn; ma, oltre che la cosa non è sicura, la salute rovinata non gli consente oramai di vivere in climi tanto rigidi. Il Colletta, cercandogli una cattedra in Toscana, non è più fortunato. Non è più fortunato il Maestri cercandogliene un'altra a Parma: glie ne darebbero una, ma di storia naturale!... I suoi concittadini, dopo tanta indifferenza e tanta diffidenza, hanno sentore della sua grandezza; essi pensano un giorno a lui, ma non per giovargli, bensì per giovarsene; lo eleggono ad un posto non letterario, ma politico; lo nominano deputato durante la rivoluzione del Trentuno, quando egli è lontano, tanto lontano che la rivoluzione quasi finisce prima che egli risponda rinunziando ad un ufficio al quale non è nato. Con tutta la sua dottrina, egli deve contentarsi di vivere dei pochi scudi che gli paga ogni mese il libraio Stella e dell'emolumento di lezioni private. Come una “fortuna„ sollecita dal Vieusseux di esser posto in relazione col libraio Antonelli, disponendosi ad accettare, tra per le condizioni del mercato librario, tra per lo stato della sua salute, gli sterili e odiati lavori di compilazione. Se stampa opere originali, deve pregare gli amici di trovargli sottoscrittori. Se concorre con le _Operette morali_ al premio quinquennale di mille scudi che conferirà l'Accademia della Crusca, il Vieusseux gli assicura che, riguardo alla lingua e allo stile, cose che gli Accademici dovrebbero considerare principalmente se volessero esser fedeli al loro primitivo istituto, nessuno potrà competere con lui; ma il valore dell'opera sua non basta: bisogna raccomandarsi, essere raccomandato. “Il Capponi vi conosce„, gli scrive il Colletta, “vi pregia, vi ama; ma egli non ha sullo Zannoni la forza che voi credete; nè lo Zannoni può tutto in quel coro di canonici. Sento in predicamento il Botta; e certamente per mole sta sopra a tutti: ma che storia! che stile! Quanto perderebbero le lettere italiane s'egli avesse imitatori! Se gli accademici hanno in pregio il puro, il gentile e il bisogno d'Italia di bello scrivere, le opere vostre saran preferite, perchè in qualità di stile voi non avete superiore o compagno.„ E il Capponi e il Niccolini difendono la sua causa, ed anche lo Zannoni dicono che si mostri giusto a suo riguardo; ma l'Accademia conferisce il premio proprio al Botta; e neppure dà a lui la prima menzione onorevole; gli concede soltanto la seconda. Per tutta consolazione, due anni dopo lo nomina suo socio corrispondente. Ma le semplici soddisfazioni d'amor proprio che importano oramai all'infelice cui mancano i mezzi di vivere? “Riempirti il naso di fumo„, scrive alla sorella, “non mi dà più l'animo, e mi fa nausea.„ Egli non ottiene quei compensi reali ai quali è anche sul punto di divenire indifferente; se pure li ottenesse, non vi sarebbe un senso di secreto avvilimento nella rinunzia ai sogni di gloria pura e disinteressata? Ed a che cosa si riduce per lui questa gloria? All'amicizia di qualche grande anima, alle liete accoglienze di Bologna e di Firenze, alle lodi in versi del Muzzarelli e del Missirini, alle lodi in prosa e a qualche traduzione che gli vengono dall'estero. E quante miserie, quante invidie, in cambio! All'Accademia degli Arcadi dicono male di lui; egli ne ride, ma sotto alle risa si sente la ferita dell'amor proprio: assicura che prova “un gran piacere quando sono informato del male che si dice di me„; ma che specie di piacere è questo?... Un anonimo scrive al suo editore, e il suo editore gli comunica il seguente giudizio sul commento del Petrarca: “Non posso a meno di dirgli che quella operetta del Petrarca colle note mi par cosa inettissima; e degna d'esser letta da uno scolaretto sgusciato dalla Grammatica.„ Per difendere la forma delle sue prime dieci canzoni, egli deve comporre lunghe annotazioni filologiche; per difenderne il contenuto, lo critica egli stesso in un articolo ironico, senza firma. E il Tommaseo lo vitupera e lo dileggia, e compone epigrammi sulla sua deformità corporale. E del Rosini è amico, ma egli deve aver paura di dare al De Sinner la notizia della caduta del _Tasso_ a Firenze “perchè sapete che gli sdegni letterarii del Rosini non sono sempre inoffensivi. „ E poichè il destino non risparmierà questo grande sciagurato mai, neppure nella morte, egli si spegne a Napoli durante l'epidemia colerica, quando nessuno s'accorge della perdita che ha fatta l'Italia, quando la sua salma a stento è sottratta dal Ranieri alla fossa comune dove tutti i morti, per misura di pubblica salute, sono confusi. E un Cicconi, nella _Gazzetta di Francia_, gli tesse un elogio funebre pieno di vituperii; e il Tommaseo dissuade il libraio parigino Baudry dal pubblicare un'edizione postuma delle sue opere. E lo stesso Ranieri, che pure gli è stato tanto amico, un giorno, dopo molti anni, scrive un libro nel quale avvilisce ed offende la sua memoria. PARTE SECONDA. IL PENSIERO. IL PESSIMISMO I. L'ILLUSIONE. Volgiamo lo sguardo indietro, sommiamo le disgraziate circostanze intime ed esteriori in mezzo alle quali Giacomo Leopardi nasce, cresce e vive sino all'ultimo giorno: gli eccessi della fantasia, gli eccessi del ragionamento, il loro dissidio, la successiva dispersione della volontà, l'esagerazione degli studii del passato, il contagio romantico, il disordine della sensibilità, le malattie incessanti, la deformità che gl'impedisce d'essere amato, la mancanza della protezione materna, i contrasti col padre, la povertà, la lotta con le difficoltà materiali della vita, la meschinità del luogo natale, la miseria politica, sociale e intellettuale della patria, le fallite speranze di gloria: vedremo che la sua vita fu uno spasimo incessante. Potremo noi trovare nell'opera sua le lodi dell'esistenza, l'espressione della gioia, la fede nella bontà dell'universo? Vediamo noi nascere le rose dal mortuario asfodelo? Il nostro pensiero, quando pare più libero di manifestarsi in un modo piuttosto che in un altro, non è rigorosamente determinato, in tutte le sue minime espressioni, dalla nostra natura, dalla nostra educazione, dalla nostra esperienza? E se per questa triplice influenza, che noi minutamente indagammo, Giacomo Leopardi spasimò come abbiamo visto, l'arte sua poteva essere consolatrice? Se voi non conoscete ancora nulla dell'opera sua, dovete, sin da questo momento, antivederne il disperato carattere. Tutto è stato per lui dolore, ogni cosa lo ha disingannato. Quando ha goduto? Nella primissima gioventù, nella fanciullezza, quando i mali non lo avevano avvilito, quando voleva ed agiva come tutti gli altri, quando meglio che tutti gli altri immaginava la felicità avvenire ed aspettava di conseguirla. Egli loda pertanto una cosa sola: la prima età, piena di fede, di illusioni, di speranze, di aspettazioni felici; quel dolce E irrevocabil tempo, allor che s'apre Al guardo giovanil questa infelice Scena del mondo, e gli sorride in vista Di paradiso.... Il caro tempo giovanil; più caro Che la fama e l'allôr, più che la pura Luce del giorno, e lo spirar.... la prima stagione della vita, quando l'acerbo, indegno Mistero delle cose a noi si mostra Pien di dolcezza. Sempre egli ritorna alle speranze, agli “ameni inganni„ della prima età, al “caro immaginar„ suo primo: Chi rimembrar vi può senza sospiri, O primo entrar di giovinezza, o giorni Vezzosi, inenarrabili, allor quando Al rapito mortal primieramente Sorridon le donzelle; a gara intorno Ogni cosa sorride; invidia tace, Non desta ancora ovver benigna; e quasi (Inaudita maraviglia!) il mondo La destra soccorrevole gli porge.... Come la gioventù è la sola stagione felice, così l'alba è il più bel momento del giorno. “Su, mortali„, canta il Gallo silvestre, “destatevi. Il dì rinasce.... Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll'animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è più desideroso che mai di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde e pensieri dolci.„ Così il sabato è al villaggio il giorno migliore, per la giovinetta che ha colto i fiori dei quali si ornerà il domani, per la vecchierella che ricorda il suo buon tempo, le feste passate; per i fanciulli che saltellano in piazza, per lo zappatore che pensa al prossimo riposo, per il legnaiuolo che s'affretta a finire l'opera sua. Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia.... E la gioventù rispetto alla vita è come il sabato rispetto alla festa: Garzoncello scherzoso, Cotesta età fiorita È come un giorno d'allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno, Che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, Stagion lieta è cotesta. Ma quanto dura? Come, tramontando la luna, il mondo si scolora e l'oscurità scende nella valle e sul monte, Tal si dilegua, e tale Lascia l'età mortale La giovinezza. In fuga Van l'ombre e le sembianze Dei dilettosi inganni; e vengon meno Le lontane speranze Ove s'appoggia la mortal natura. Abbandonata, oscura Resta la vita.... Quella stessa forza della speranza, quella stessa consistenza dell'illusione che diedero prezzo alla prima età, sono causa dello scontento, del disgusto che seguono. Chi ha sognato “arcana felicità in arcani modi„, non è possibile che lodi poi molto la vita reale, ancora quando essa sia larga di soddisfazioni. Qualunque diletto si possa godere al mondo, resta scolorito al paragone di quelli sognati, desiderati e aspettati; “e però„ dice Malambruno, “non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell'animo, non sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerò di essere infelice.„ Nel punto dell'ottenimento, mentre il bene ottenuto riesce inferiore a quello aspettato, l'immaginazione e il desiderio ne antivedono uno maggiore nel futuro: “Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorchè desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie indicibili.... state sempre aspettando un goder maggiore e più vero, nel quale consista in somma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl'istanti futuri di quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giungere dell'istante che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio e più veramente in altra occasione, e il conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto....„ Tanto la felicità che si aspetta è superiore a quella che si può ottenere, che uno il quale “si trovasse nel più felice stato della terra, senza che egli si potesse promettere di avanzarlo in nessuna parte e in nessuna guisa, si può quasi dire che questi sarebbe il più misero di tutti gli uomini.„ Per conseguenza le facoltà alle quali sono dovuti effetti tanto funesti, se erano le cose più preziose, sono anche “le più lacrimevoli a chi le riceve.„ Non ultimo tra i danni da esse prodotti è quello che il Leopardi ha notato in sè stesso: l'impaccio della volontà. Dice la Natura, ragionando con un'Anima: “La finezza del tuo proprio intelletto e la vivacità dell'immaginazione ti escluderanno da una grandissima parte della signoria di te stessa. Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dall'immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell'eseguire. I meno atti o meno usati a ponderare e considerare seco medesimi, sono i più pronti a risolversi.„ E se pure, con tanti impedimenti all'acquisto della felicità, i piaceri della vita fossero reali! Ma, al contrario, sono illusorii, semplici interruzioni del dolore: così la quiete, inapprezzata prima della tempesta, è causa di gioia dopo di questa: Piacer figlio d'affanno Gioia vana, ch'è frutto Del passato timore.... Tali sono i doni, i beni che la natura offre agli uomini: Uscir di pena È diletto fra noi. “Il piacere„ dice la Mummia di Federico Ruysch, “non sempre è cosa viva; la cessazione di qualunque dolore o disagio, è piacere per sè medesima.„ E se pure i sensi dell'uomo sono capaci di godere non solo quando cessano di soffrire, ma anche in modo più spontaneo, uscendo dallo stato d'indifferenza, questi piaceri sono poi tutti benefici? Il Leopardi che non li ha potuti godere, a cui le stesse impressioni grate facevano male, si duole perchè la natura, mentre ci ha “infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere, disgiunto dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta„; dall'altra parte ha ordinato “che l'uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita.„ E ancora: chi si astenesse interamente dai piaceri, sarebbe per ciò salvo? Costui incorrerebbe egualmente “in molte e diverse malattie„, sarebbe esposto ai pericoli di morte, alla perdita di qualche membro o facoltà, condurrebbe per tempi più o meno lunghi una misera vita, e avrebbe “oppresso il corpo e l'animo con mille stenti e mille dolori.„ E ancora: “benchè ciascuno di noi sperimenti, nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi e disusati, e infelicità maggiore che egli non suole„; la natura non ha poi dato in compenso all'uomo “alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e grandezza.„ I dolori sono dunque reali, infiniti, e intollerabili; mentre i piaceri sono illusorii, circoscritti, e finalmente anch'essi nocivi. Se tale è la miseria della condizione umana, il Leopardi crede che vi sia un vero, un grande, un infinito bene: l'amore. Pregio non ha, non ha ragion la vita Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto; Sola discolpa al fato. La Verità, che Giove ha mandato sulla terra, fuga tutte le larve e tutte le illusioni, e rende disperata la condizione degli uomini; ma resta per concessione del nume l'amore. “Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che essi chiamano Amore, il quale io sono disposto, rimovendo tutti gli altri, lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato alla Verità, quantunque potentissima e combattendolo di continuo, nè sterminarlo mai dalla terra, nè vincerlo se non di rado.„ E poichè gli effetti della Verità sono spaventevoli, il nume, mosso a pietà delle creature penanti, invita qualcuno dei celesti a scendere in terra per consolare l'infelice progenie. “Al che tacendo tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, conforme di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di virtù e di opere diversissimo; si offerse (come è singolare fra tutti i numi la sua pietà) di fare esso l'ufficio proposto da Giove, e scendere dal cielo....„ Ed egli torna, ma di rado, a visitare i mortali, e poco si ferma tra loro. “Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio: diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine.„ Ma questa felicità vera non è intera; perchè l'amore “rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benchè pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perchè la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina.„ Così Consalvo, presso a morte, si ridesta e delira di gioia solo perchè la donna amata gli concede il primo ed ultimo bacio: Morrò contento Del mio destino omai, nè più mi dolgo Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno, Poscia che quella bocca alla mia bocca Premer fu dato. Anzi felice estimo La sorte mia. Due cose belle ha il mondo: Amore e morte. All'una il ciel mi guida In sul fior dell'età; nell'altro, assai Fortunato mi tengo.... Noi già vediamo, in questo parallelo tra l'amore, forma dell'istinto vitale, e la morte, cessazione di tutta quanta la vita, annebbiarsi la fede del Leopardi. Se egli credesse veramente all'amore, non paragonerebbe le gioie che nascono da lui a quel sollievo tutto negativo che viene dalla fine dell'esistenza; egli non canterebbe: Fratelli, a un tempo istesso, Amore e Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù più belle Altre il mondo non ha, non han le stelle. È vero che ogni uomo, anche non disperando, sicuro anzi di ottenere la soddisfazione degl'istinti della carne e dei bisogni del cuore, prova un intimo senso di tristezza e quasi un desiderio di morire durante il primo invasamento della passione. Questa languidezza mortale, questa prostrazione sono note a tutti i grandi, a tutti i veri amanti; il Leopardi, che è tra i più squisiti, le sente, le descrive, ne cerca le ragioni nella paura che produce il deserto del mondo a chi ha il cuore gonfio d'una speranza divina; nella previsione delle tempeste alle quali va incontro l'amante. È vero che il bisogno di morire ritorna più grave quando tutto avvolge La formidabil possa, E fulmina nel cor l'invitta cura; e che gli umili, le vergini, si uccidono o muoiono distrutti dalla passione. Ma ciò accade quando l'amore è contrastato; per affermare che amore e morte sono fratelli, sempre, bisogna disperare dell'amore. Ed infatti: qual è l'opera dell'Amore, quando, per consiglio di Giove, quel dio scende in terra? È quella di far tornare le larve, le illusioni: “E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di esser tornati alla condizione della puerizia. Perciocchè negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce, per tutto il tempo che egli vi siede, l'infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri.„ In altre parole: il conforto che viene dall'amore è tutto nell'aspettazione, nella speranza. Il Leopardi non si contraddice, affermando, dopo aver negato tutti i piaceri, la benefica potenza dell'amore. L'amore è grato, secondo lui, come è grata la gioventù; perchè il giovane e l'amante s'illudono, aspettano una felicità senza fine. E perchè non la raggiunge il giovane, non la raggiunge l'amante. Il giovane ha troppo sperato dalla vita; l'amante spera troppo dalla donna. Egli non si contenta della creatura reale; se ne foggia un'immagine molto più bella: Vagheggia Il piagato mortal quindi la figlia Della sua mente, l'amorosa idea, Che gran parte d'Olimpo in sè racchiude, Tutta al volto, ai costumi, alla favella Pari alla donna che il rapito amante Vagheggiare ed amar confuso estima. Il poeta non ha avuto esperienza dell'amore reale, ma sa che insino nell'amplesso la creatura che noi stringiamo tra le braccia non è tanto la vera, quella di carne e di sangue, quanto la figlia della nostra mente. Il disinganno è pertanto da attribuire all'immaginazione degli uomini, non già alle donne; ma la colpa è anche della natura che ha fatto gli uomini troppo immaginosi ed ardenti, e le donne troppo fredde e pigre. Le donne reali sono troppo diverse da quelle che gl'innamorati si dipingono: A quella eccelsa imago Sorge di rado il femminile ingegno; E ciò che ispira ai generosi amanti La sua stessa beltà, donna non pensa, Nè comprender potrìa. Non cape in quelle Anguste fronti ugual concetto. E male Al vivo sfolgorar di quegli sguardi Spera l'uomo ingannato, e mal richiede Sensi profondi, sconosciuti, e molto Più che virili, in chi dell'uomo al tutto Da natura è minor. Che se più molli E più tenui le membra, essa la mente Men capace e men forte anco riceve. Egli è anche più giusto quando fa dire al Tasso dal suo Genio familiare che le donne non hanno colpa se, alla prova, riescono troppo diverse da quelle che noi immaginiamo. “Io non so vedere„, gli spiega il Genio, “che colpa s'abbiano in questo, d'esser fatte di carne e sangue, piuttosto che d'ambrosia e nèttare. Qual cosa del mondo ha pure un'ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè a dir creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada, che le donne in fatti non sieno angeli.„ L'immaginazione è dunque ancora causa dell'inganno. Essa, come ha guastato la vita, guasta anche l'amore. Saggio è l'amante che, sognando la donna diletta in un sogno gentile, “per tutto il giorno seguente fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell'immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa....„ Quantunque il Leopardi abbia amato solitariamente, quantunque non abbia neppure significato i suoi sentimenti alle donne che li ispirarono, pure egli ha capito come sia difficile agli amanti riamati il comprendersi. Quando ha fatto dire a Consalvo che il cielo non consente il pieno appagamento dei voti d'amore, gli ha fatto soggiungere che “amar tant'oltre non è dato con gioia„; e il suo Filippo Ottonieri dice una cosa molto profonda, che è il frutto delle lunghe esperienze sentimentali: “Negava che alcuno a questi tempi possa amare senza rivale; e dimandato del perchè, rispondeva: perchè certo l'amato o l'amata è rivale ardentissimo dell'amante.„ Come dir meglio che l'amore, la grande consolazione della vita, non è tutto amore, ma anche una forma di odio? Dove sarà allora la felicità vera, intera, pura? Sarà nella gloria? Anche questa è una forma dell'illusione; ad uno ad uno egli ne distrugge, come li ha visti cadere intorno a sè, tutti i fondamenti, tutte le promesse, tutti i vantaggi. E primieramente: che cosa è la gloria letteraria e artistica, paragonata a quella che dipende dalle grandi azioni? “L'operare è tanto più degno e più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi niun ingegno è creato dalla natura agli studi; nè l'uomo nasce a scrivere, ma solo a fare.„ Ma i tempi non volgono propizii alle imprese magnanime, ed è forza contentarsi della grandezza nell'arte o nella scienza. E questa via, “come quella che non è secondo la natura degli uomini, non si può seguire senza pregiudizio del corpo, nè senza moltiplicare in diversi modi l'infelicità del proprio animo.„ E quante difficoltà! “Le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua riputazione, e gli altri infiniti ostacoli che la malignità degli uomini ti opporrà....„ Il valore è anche contrastato “dalla fortuna propria dello scrittore, ed eziandio dal semplice caso, o da leggerissime cagioni.„ Chi può, del resto, comprender bene lo scrittore? Non la folla, ma gli scrittori suoi pari; non gli stranieri, ma quelli della sua stessa nazione: per tutto il resto dell'umano genere le fatiche letterarie riescono inutili e sparse al vento. “Lascio l'infinita varietà dei giudizi e delle inclinazioni dei letterati, per la quale il numero delle persone atte a sentire le qualità lodevoli di questo o di quel libro, si riduce ancora a molto meno.„ Che è dunque la fama di quei grandi, i cui nomi sono universalmente riveriti? “In vero io mi persuado che l'altezza della stima e della riverenza verso gli scrittori sommi, provenga comunemente, in quelli eziandio che li leggono e trattano, piuttosto da consuetudine ciecamente abbracciata, che da giudizio proprio e dal conoscere in quelli per veruna guisa un merito tale....„ Per comprendere le opere dell'ingegno, bisogna trovarsi in certe particolari condizioni; gli scritti non tanto si giudicano dalle loro qualità in se medesime, quanto dall'effetto prodotto nell'animo di chi legge. Quante volte, per quante cause, il lettore non sì trova mal disposto a comunicare con l'autore? Se dunque un libro nuovo anche ottimo è letto una sola volta da chi temporaneamente è impedito d'intenderlo, l'autore sarà poco o niente stimato. Al contrario, in certi stati dell'animo, una pagina mediocre è capace di produrre eccitazioni gagliarde, e l'autore di ottenere un'ammirazione immeritata. E nella nostra età, tarda, stanca, sovraccarica di troppe memorie, l'eloquenza, la poesia, sono poco intese; ed i giovani, il cui animo è più pronto, non hanno un gusto sicuro; e gli abitatori delle grandi città, i quali incoronano gli oratori e i poeti, sono troppo distratti da troppe altre cose. E se bisogna, per bene apprezzare un'opera, rileggerla più e più volte, “manca oggi il tempo alle prime non che alle seconde letture.„ E se il consenso antico e universale è tanta parte della fama delle opere, oggi un nuovo poema “eguale o superiore di pregio intrinseco all'_Iliade_, letto anche attentissimamente da qualunque più perfetto giudice di cose poetiche, gli riuscirebbe assai men grato e men dilettevole di quella; e per tanto gli resterebbe in molto minore estimazione.„ La dimostrazione continua così, come quella di un teorema, con uno spietato rigore di logica. Miglior fortuna del poeta troverà il filosofo, che non si rivolge all'immaginazione degli uomini, diseguale, mutabile, ma alla loro ragione? Ma, posto anche che l'immaginazione non fosse tanto utile in filosofia come in arte, resta sempre che le verità filosofiche non sono apprezzate da chi non le partecipa, anche lasciando da parte “le varie fazioni, o comunque si voglia chiamarle, in cui sono divisi oggi, come sempre furono, quelli che fanno professione di filosofia: ciascuna delle quali nega ordinariamente la debita lode e stima a quei delle altre; non solo per volontà, ma per aver l'intelletto occupato da altri principii.„ E se a gustare un poema occorre tempo, più ne occorre se si vuole persuadere agli uomini la verità scoperta dal filosofo; e i grandi novatori, invece d'essere lodati e ammirati, troppo spesso sono derisi e vilipesi. E se la verità fa il suo cammino finchè è poi universalmente accettata, il morto suo inventore non ha neppure il premio d'una postuma fama, “parte per essere già mancata la sua memoria, o perchè l'opinione ingiusta avuta di lui mentre visse, confermata dalla lunga consuetudine, prevale a ogni altro rispetto; parte perchè gli uomini non sono venuti a questo grado di cognizioni per opera sua; e parte perchè già nel sapere gli sono eguali, presto lo sormonteranno, e forse gli sono superiori anche al presente, per essersi potute colla lunghezza del tempo dimostrare e chiarire meglio le verità immaginate da lui, ridurre le sue congetture a certezza, dare ordine e forma migliore ai suoi trovati, e quasi maturarli.„ Nulla resiste alla sua critica; par quasi che egli provi un senso di voluttà nel rintracciare e nell'esporre ad uno ad uno tutti i più sottili e riposti argomenti che si possono addurre contro la speranza d'un premio. Ecco: dopo aver tutto negato, dopo aver dimostrato come sia impossibile ottenere la gloria, concede a un tratto che qualcuno l'abbia conseguita. Che frutto ne ritrarrà costui? Se l'uomo famoso vive in una città piccola, egli non è oggetto d'invidia, perchè nessuno l'intende; anzi, perchè tutti lo disconoscono, è trascurato. Nelle città grandi, tanto per l'emulazione dei compagni quanto per le distrazioni della folla, le difficoltà di poter godere della gloria acquistata non sono minori. E la fama di grande poeta e di gran filosofo, come è la più difficile da acquistare, è anche la meno fruttuosa di tutte: “le due sommità, per così dire, dell'arte e della scienza umana; dico la poesia e la filosofia; sono in chi le professa, specialmente oggi, le facoltà più neglette del mondo; posposte ancora alle arti che si esercitano principalmente con la mano.„ Qual è dunque il frutto dell'ingegno, il premio degli studi per il filosofo ed il poeta? Null'altro “se non forse una gloria nata e contenuta fra un piccolissimo numero di persone.„ Ce n'è anche un altro, maggiore, migliore: “Non potendo nella conversazione degli uomini godere quasi alcun beneficio della tua gloria, la maggiore utilità che ne ritrarrai, sarà di rivolgerla nell'animo e di compiacertene teco stesso nel silenzio della tua solitudine, col pigliarne stimolo e conforto a nuove fatiche, e fartene fondamento a nuove speranze.„ Perchè anche qui la natura dell'uomo ordisce il solito inganno, volendo che il bene non ottenuto sia ancora sperato, a dispetto dell'esperienza, nel futuro, altrove, non si sa dove: “La gloria degli scrittori, non solo, come tutti i beni degli uomini, riesce più grata da lungi che da vicino, ma non è mai, si può dire, presente a chi la possiede, e non si ritrova in nessun luogo„; e la speranza sempre disingannata continua sempre ad operare, così che da ultimo, non avendo mai trovato la gloria in vita, o avendola sdegnata, o non avendone goduto tanto quanto si aspettava, l'uomo si pasce della speranza di quella che otterrà — dopo morto, dai posteri.... quasi che i posteri non saranno uomini come i contemporanei, soggetti a quella mutabilità di gusti in arte e di giudizii in filosofia che ha travolto le speranze di gloria durante la vita e che annullerà totalmente quelle riposte nell'avvenire! II. LA MISANTROPIA. Dunque: i piaceri dei sensi, le gioie dell'amore, i premii della gloria: tutto è vano: “La natura medesima è impostura verso l'uomo, nè gli rende la vita amabile e sopportabile, se non per mezzo principalmente d'immaginazione e d'inganno.„ Non vi sarà nessun conforto? Se ne troverà uno nel sentimento della fratellanza umana? Gl'infelici si consoleranno amandosi e sostenendosi reciprocamente? Il primo sostegno e il primo amore sono nella famiglia; e il Leopardi, non avendoli trovati nella sua, li nega. Egli dimostra che l'educazione “è un formale tradimento ordinato dalla debolezza contro la forza, dalla vecchiezza contro la gioventù. I vecchi vengono a dire ai giovani: fuggite i piaceri propri della vostra età, perchè tutti sono pericolosi e contrari ai buoni costumi, e perchè noi che ne abbiamo presi quanti più abbiamo potuto, e che ancora, se potessimo, ne prenderemmo altrettanti, non ci siamo più atti, a causa degli anni. Non vi curate di vivere oggi; ma siate ubbidienti, sofferite, e affaticatevi quanto più sapete, per vivere quando non sarete più a tempo. Saviezza e onestà vogliono che il giovane si astenga quanto è possibile dal far uso della gioventù, eccetto per superare gli altri nelle fatiche. Della vostra sorte e di ogni cosa importante lasciate la cura a noi, che indirizzeremo il tutto all'utile vostro. Tutto il contrario di queste cose ha fatto ognuno di noi alla vostra età, e ritornerebbe a fare se ringiovanisse: ma voi guardate alle nostre parole, e non ai nostri fatti passati, nè alle nostre intenzioni. Così facendo, credete a noi conoscenti ed esperti delle cose umane, che voi sarete felici. Io non so che cosa sia inganno e fraude se non è il promettere felicità agli inesperti sotto tali condizioni.... Mai padre nè madre, non che altro istitutore, non sentì rimordere la coscienza di dare ai figliuoli un'educazione che muove da un principio così maligno.„ L'impedimento dei genitori alla libertà dei figli è tale, che la maggior parte degli uomini veramente grandi debbono la loro grandezza all'aver perduto il padre in tenera età: “La potestà paterna appresso tutte le nazioni che hanno leggi, porta seco una specie di schiavitù de' figliuoli; che per essere domestica, è più stringente e più sensibile della civile; e che, comunque possa essere temperata o dalle leggi stesse, o dai costumi pubblici, o dalle qualità particolari delle persone, un effetto dannosissimo non manca mai di produrre: e questo è un sentimento che l'uomo, finchè ha il padre vivo, porta perpetuamente nell'animo; confermatogli dall'opinione che visibilmente ed inevitabilmente ha di lui la moltitudine. Dico un sentimento di soggezione e di dependenza, e di non essere libero signore di sè medesimo, anzi di non essere, per dir così, una persona intera, ma una parte e un membro solamente, e di appartenere il suo nome ad altrui più che a sè. Il qual sentimento, più profondo in coloro che sarebbero più atti alle cose, perchè avendo lo spirito più svegliato, sono più capaci di sentire, e più oculati ad accorgersi della verità della propria condizione, è quasi impossibile che vada insieme, non dirò col fare, ma col disegnare checchessia di grande. E passata in tal modo la gioventù, l'uomo che in età di quaranta o di cinquant'anni sente per la prima volta di essere nella potestà propria, è soverchio il dire che non prova stimolo, e che, se ne provasse, non avrebbe più impeto nè forze nè tempo sufficienti ad azioni grandi. Così anche in questa parte si verifica che nessun bene si può avere al mondo, che non sia accompagnato da mali della stessa misura: poichè l'utilità inestimabile del trovarsi innanzi nella giovinezza una guida esperta ed amorosa, quale non può essere alcuno così come il proprio padre, è compensata da una sorte di nullità e della giovinezza e generalmente della vita.„ Ma, dall'altra parte, i figli non danno minor causa di dolore ai genitori. “Non sarebbe piccola infelicità degli educatori, e soprattutto dei parenti, se pensassero, quello che è verissimo, che i loro figliuoli, qualunque indole abbiano sortita, e qualunque fatica, diligenza e spesa si ponga in educarli, coll'uso poi del mondo, quasi indubitabilmente, se la morte non li previene, diventeranno malvagi.„ Mancato il conforto nella famiglia, resterebbe ancora quello della solidarietà fra tutti gli uomini. “_Gl'individui sono spariti dinanzi alle masse_„, dicono intorno al Leopardi i pensatori, volendo significare con queste parole che, se pure ciascun uomo ha molti e troppi motivi di dolore, il pensiero del bene comune, della felicità generale, deve consolarlo. Ed egli, dimostrato che tutto è illusione, riconosce che “si cette illusion était commune, si tous les hommes croyaient et voulaient être vertueux, s'ils étaient compatissans, bienfaisans, généreux, magnanimes, pleins d'enthousiasme; en un mot, si tout le monde était sensible.... n'en serait-on pas plus heureux? Chaque individu ne trouverait-il pas mille ressources dans la société? Celle-ci ne devrait-elle s'appliquer à realiser les illusions autant qu'il lui serait possible, puisque le bonheur de l'homme ne peut consister dans ce qui est réel?„ Ma egli nega anche questo compenso. Nessuno ha compreso lui, o troppo pochi; quasi dovunque egli ha trovato ostilità o indifferenza. A che gli è valsa la grandezza della mente e la bontà dell'animo?... Con Bruto pertanto egli chiamerà stolta la virtù e lancerà al cielo il grido della giustizia offesa: Dunque degli empi Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta Per l'aere il nembo, e quando Il tuon rapido spingi, Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi? Gli uomini, come tutti i viventi, non si sostengono, si combattono: “Naturalmente l'animale odia il suo simile, e qualora ciò è richiesto dall'interesse proprio, l'offende.„ Nè altro scopo hanno le lotte umane se non “l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano.„ Poichè la felicità che essi agognano e che tentano di raggiungere in mille modi sfugge continuamente, che nome meriterà il loro vano affaccendarsi? Che cosa distinguerà i grandi lavori dagli inutili trastulli? Filippo Ottonieri non ammette nessuna differenza tra gli uni e gli altri, “e sempre che era stato occupato in qualunque cosa, per grave che ella fosse, diceva d'essersi trastullato.„ Meglio ancora: È tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell'oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all'intento Giugner mai non potria, ben si conviene Ozïoso nomar. La schiera industre Cui franger glebe o curar piante e greggi Vede l'alba tranquilla e vede il vespro, Se oziosa dirai, da che sua vita È per campar la vita, e per sè sola La vita all'uom non ha pregio nessuno, Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni Tragge in ozio il nocchiero; ozio le vegghie Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi; E il mercatante avaro in ozio vive: Che non a sè, non ad altrui, la bella Felicità, cui solo agogna e cerca La natura mortal, veruno acquista Per cura o per sudor, vegghia o periglio. Quanto strana non è dunque la pretesa dì coloro che, non potendo Felice in terra far persona alcuna, L'uomo obbliando, a ricercar si diero Una comun felicitade; e quella Trovata agevolmente, essi di molti, Tristi e miseri tutti, un popol fanno Lieto e felice.... “Lasci fare alle masse„, soggiunge Tristano; “le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d'individui, desidero e spero che me lo spieghino gl'intendenti d'individui e di masse, che oggi illuminano il mondo....„ No, la concordia non regna tra gli uomini; non se ne trovano due che si comprendano; anzi “l'odio verso i propri simili è maggiore verso i più simili.„ Invece che cercarli, converrà piuttosto, per consolarsi, fuggirli e rifugiarsi in seno alla natura. Ma anche la natura ferisce continuamente, in mille modi, i viventi. Da lei vengono tutti gl'innumerevoli dolori fisici. L'Islandese esce dall'isola sua nativa “per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire.„ Cerca; ma non trova. “Io sono stato arso dal caldo dei tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall'incostanza dell'aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove.„ E gli uomini, come già lodano il loro stato, così credono che la natura non abbia altra mira che di procacciare il loro bene; quando invece un'onda Di mar commosso, un fiato D'aura maligna, un sotterraneo crollo distrugge interi popoli in modo che a gran pena ne resta la memoria. Vengano sul Vesuvio i presuntuosi, dinanzi alle secolari rovine delle città sepolte dalla cenere, distrutte dai tremuoti, coperte dalla lava: vedranno che Non ha natura al seme Dell'uom più stima o cura Ch'alla formica: e se più rara in quello Che nell'altra è la strage, Non avvien ciò d'altronde Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde. Infine, se per tante cagioni la condizione umana è tanto sciagurata, sia che gli uomini si considerino ad uno ad uno, sia che si consideri il loro consorzio, non sarà possibile sperare che essa migliori col tempo? Questa speranza di progresso sorride a molti; per il misantropo è vana ancor essa; anzi dà luogo alla certezza che il passato era preferibile al presente e che col tempo il mondo peggiora. Una volta gli uomini lo vedevano popolato di creature leggiadre e divine: Già di candide ninfe i rivi albergo Placido albergo e specchio Furo i liquidi fonti.... Vissero i fiori e l'erbe, Vissero i boschi un dì. I dolorosi eredi dovranno oggi lodare i Patriarchi, molto all'eterno Degli astri agitator più cari, e molto Di noi men lacrimabili nell'alma Luce prodotti; dovranno invidiare i tempi del primo padre, quando la pace regnava sulla terra: Oh fortunata, Di colpe ignara e di lugubri eventi, Erma terrena sede! Perchè dallo scempio fraterno ebbe origine questa tanto vantata civiltà: Trepido, errante il fratricida, e l'ombre Solitarie fuggendo e la secreta Nelle profonde selve ira de' venti, Primo i civili tetti, albergo e regno Alle macere cure, innalza; e primo Il disperato pentimento i ciechi Mortali egro, anelante, aduna e stringe Ne' consorti ricetti: onde negata L'improba mano al curvo aratro, e vili Fur gli agresti sudori; ozio le soglie Scellerato occupò; ne' corpi inerti Domo il vigor natìo, languide, ignave Giacquer le menti; e servitù le imbelli Umane vite, ultimo danno, accolse. Un tempo, sì, la terra fu dilettosa e cara; perchè di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota d'affanno Visse l'umana stirpe; alle secrete Leggi del cielo e di natura indutto Valse l'ameno error, le fraudi, il molle Pristino velo; e di sperar contenta Nostra placida nave in porto ascese. Ma la civiltà non è progresso per il genere umano come l'esperienza non è felicità per il giovane: l'età prima dell'uomo e del mondo è la migliore. Anche oggi una vita simile a quella delle antiche età si vive dai popoli che noi chiamiamo barbari; tra le vergini selve Nasce beata prole, a cui non sugge Pallida cura il petto, a cui le membra Fera tabe non doma. E gli uomini che si stimano progrediti vanno a turbare ed opprimere quei soli felici! Oh contra il nostro Scellerato ardimento inermi regni Della saggia natura! I lidi e gli antri E le quïete selve apre l'invitto Nostro furor; le violate genti Al peregrino affanno, agl'ignorati Desiri educa; e la fugace, ignuda Felicità per l'imo sole incalza, No, questa trasformazione, “questa mutazione di vita, e massimamente d'animo„, non ha fatto raggiungere la felicità; al contrario: è stata accrescimento d'infelicità. Fossero almeno questi uomini inciviliti, che credono il loro costume tanto superiore al primitivo e che aspettano un continuo miglioramento dello stato umano; fossero almeno, dico, stabili nelle loro idee! Sapesse bene il secolo presente che cosa credere, che cosa negare! Ma no: oggetto d'immenso stupore è il vedere con che costanza Quel che ieri schernì, prosteso adora Oggi, e domani abbatterà, per girne Raccozzando i rottami, e per riporlo Tra il fumo degl'incensi il dì vegnente! Quanto estimar si dee, che fede ispira Del secol che si volge, anzi dell'anno, Il concorde sentir! Mentre si dice e si ode dire che la futura umanità sarà migliore della nostra, nello stesso tempo “diciamo e udiamo dire a ogni tratto: _i buoni antichi_, _i nostri buoni antenati_; _e uomo fatto all'antica_, volendo dire uomo dabbene e da potersene fidare.„ Tale è il giudizio degli uomini: “Ciascuna generazione crede dall'una parte, che i passati fossero migliori dei presenti; dall'altra parte che i popoli migliorino allontanandosi dal loro primo stato ogni giorno più.„ Altro sciocco inganno: “In ogni paese i vizi e i mali universali degli uomini e della società umana sono notati come particolari del luogo. Io non sono mai stato in parte dov'io non abbia udito: qui le donne sono vane e incostanti, leggono poco e sono male istruite; qui il pubblico è curioso de' fatti altrui, ciarliero molto e maldicente; qui i danari, il favore e la viltà possono tutto; qui regna l'invidia, e le amicizie sono poco sincere; e così discorrendo; come se altrove le cose procedessero in altro modo. Gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente.„ Essi s'arrogano il vanto dell'eternità e sognano la loro fortuna nel futuro, e non s'accorgono “che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e di distruzione,„ e che la stessa terra e gli stessi soli “dovranno venire in dissoluzione, e le loro fiamme dispergersi nello spazio.„ Altri mondi sorgeranno, altre creature nasceranno delle quali nulla si può predire; ma questa nostra progenie, non che perfezionarsi col tempo, dovrà probabilmente perire dei suoi proprii vizii. La disperata fantasia del Leopardi prevede che gli uomini mancheranno “parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l'un l'altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell'ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.„ Egli non si può pertanto “dilettare e pascere di certe buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo„; e la sua disperazione è “intera, e continua, e fondata in un giudizio fermo e in una certezza.„ III. LO SCETTICISMO. Pure, disperando di tutto, non credendo ai piaceri dei sensi, alle gioie dell'amore, ai premii della gloria, alla consolazione della famiglia, alla bontà dei simili, alla possibilità del progresso; resta ancora un'àncora, la più salda: Dio. Quei beni che il mondo nega possono essere a usura compensati dal cielo; se il corpo umano e la stessa terra che lo sostiene sono condannati a perire, una vita immortale può sorridere all'anima. La fede è l'ultimo rifugio. Ma la fede dev'essere cieca, e lo spirito indagatore la distrugge. Fin dai primi anni della sua vita morale, quando gl'insegnamenti paterni erano ancora da lui ascoltati, quando la pietà cristiana ereditata dalla nascita, succhiata col latte, era in lui fervida, il Leopardi cominciò, se non a dubitare, a discutere. Nel suo studio sugli _Errori popolari degli antichi_ egli esaminò prima degli altri i molti che si riferiscono alla Divinità; ma ciò che al moderno, al cristiano, sembrava errore, fu pure la credenza di quegli antichi Padri dei quali egli doveva più tardi invidiare la sorte! Se gli uomini s'ingannarono una volta, chi assicura che non si possono ingannare ancora? Egli quasi presentiva questa conseguenza della sua critica, quando s'ingegnava di distinguere la superstizione dalla religione e la credulità dalla fede. “La superstizione, dice Teofrasto, è un timore mal regolato della Divinità. Questa definizione non conviene all'uopo nostro. Più opportuna è quella di un moderno: La superstizione è un abuso della Religione nato dall'ignoranza. Avrebbe potuto dire: è un effetto dell'ignoranza di chi pratica la religione.„ Egli così si studia di dimostrare a sè stesso la ragionevolezza dell'esame. “Il volgo è naturalmente religioso. Questa qualità è ottima. Ma quasi nessuna delle buone qualità del volgo si contiene dentro i suoi limiti, e tutto ciò che eccede i suoi limiti è cattivo in quanto li eccede. La sola scienza può fissare il punto preciso, oltre il quale non debbono estendersi gli effetti di una virtù, o di una prevenzione giusta ed opportuna. È impossibile che l'ignoranza conosca questo punto, e per conseguenza è quasi impossibile che le stesse buone qualità del volgo non producano qualche cattivo effetto. La Religione ha prodotta la superstizione; e poichè il male che nasce da un gran bene suol essere grande ancor esso, è evidente che la superstizione deve essere un male considerabilissimo, poichè la Religione è il più grande di tutti i beni, ed essa corrompe la Religione. Il rispetto giustissimo, che si ha per questa augusta madre della umanità, applicato a cose chimeriche, rende difficilissimo al saggio il guarire i popoli dalla superstizione. Massime erronee si venerano come quelle che insegna la più pura delle dottrine, si vuole che esse facciano causa commune colla Religione, e si crederebbe, rigettando quelle, mancare a questa. Il popolo reputa empio chi disprezza l'oggetto delle sue superstizioni: un uomo nemico dei pregiudizii è, secondo lui, un irreligioso.„ Non potrebbe darsi che il popolo avesse ragione? Per creder bene non bisogna credere tutto? Quando il dubbio comincia, chi può dire dove si arresterà? Egli si sdegna perchè “il nome di Filosofo è divenuto odioso alla più sana parte degli uomini. Ormai esso non significa più che infedele.„ Ma quest'effetto non è purtroppo naturale? Non si produrrà, non è sul punto di prodursi anche in lui? Per ora egli se ne sdegna, e tenta rassicurarsi, e scioglie un inno alla fede nella quale è nato: “Sì, dice Bacone, una tintura di filosofia allontana gli uomini dalla Religione. Verità terribile, ma della quale possiamo consolarci con ciò che soggiunge quel gran conoscitore dello spirito umano: una cognizione soda della filosofia li riconduce al suo seno. Religione amabilissima! è pur dolce poter terminare col parlar di te ciò che si è cominciato per far qualche bene a quelli che tu benefichi tutto giorno; è pur dolce poter concludere con animo fermo e sicuro, che non è filosofo chi non ti segue e non ti rispetta, e non v'ha chi ti segua e ti rispetti che non sia filosofo. Oso pur dire che non ha cuore, che non sente i dolci fremiti di un amor tenero, che soddisfa e rapisce; che non conosce le estasi in cui getta una meditazione soave e toccante, chi non ti ama con trasporto, chi non si sente trascinare verso l'oggetto ineffabile del culto che tu c'insegni. Comparendo nella notte dell'ignoranza, tu hai fulminato l'errore, tu hai assicurata alla ragione e alla verità una sede che non perderanno giammai. Tu vivrai sempre, e l'errore non vivrà mai teco. Quando esso ci assalirà, quando coprendoci gli occhi con una mano tenebrosa minaccerà di sprofondarci negli abissi oscuri che l'ignoranza spalanca avanti ai nostri piedi, noi ci volgeremo a te, e troveremo la verità sotto il tuo manto. L'errore fuggirà come il lupo della montagna inseguito dal pastore, e la tua mano ci condurrà alla salvezza.„ Dalla stessa osservazione del dolore umano egli trae, nei primi tempi, la prova di una vita futura: “Tutto è o può essere contento di sè stesso, eccetto l'uomo; il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell'altre cose.„ E della gravezza di questo dolore egli chiama testimonio Dio. “Tu sapevi già tutto ab eterno„ dice al Redentore, “ma permetti alla immaginazione umana che noi ti consideriamo come più intimo testimonio delle nostre miserie. Tu hai provata questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l'infelicità dell'esser nostro.... Pietà di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua, pietà dell'uomo infelicissimo, di quello che hai veduto, pietà del genere tuo, poichè hai voluto aver comune la stirpe con noi, esser uomo ancor tu.... Ora vo' da speme a speme, e mi scordo di te, benchè sempre deluso.... Tempo verrà ch'io, non restandomi altra luce di speranza, altro stato a cui ricorrere, porrò tutta la mia speranza nella morte, e allora ricorrerò a te. Abbi allora misericordia....„ Ed alla Madre di Dio: “È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici! È vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli; ma noi pure siam piccoli, e ci riescono insopportabili. Tu che sei grande e sicura, abbi pietà di tante miserie....„ Nutrito di cultura classica, egli è meglio di tanti altri in grado di conoscere per quali caratteri la predicazione cristiana si distingue dalle credenze pagane. “Gesù Cristo fu il primo che distintamente additò agli uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di tutte le vere; quell'avversario d'ogni grandezza intrinseca e veramente propria dell'uomo; derisore d'ogni sentimento alto, se non lo crede falso, d'ogni affetto dolce, se lo crede intimo; quello schiavo dei forti, tiranno dei deboli, odiatore degl'infelici; il quale esso Gesù Cristo dinotò col nome di mondo.... Negli scrittori pagani la generalità degli uomini civili, che noi chiamiamo società o mondo, non si trova mai considerata nè mostrata risolutamente come nemica della virtù, nè come certa corruttrice d'ogni buona indole, e d'ogni animo bene avviato. Il mondo nemico del bene, è un concetto, per quanto celebre nel Vangelo, e negli scrittori moderni, anche profani, tanto o poco meno sconosciuto dagli antichi.„ Di questo concetto pochi al pari di lui apprezzeranno l'esattezza; la sua propria esperienza non glie l'ha dimostrata, quando invece dell'aiuto e dei premii ai quali aveva diritto, non ha trovato altro che trascuranza e derisione?... Ma il carattere più segnalato del cristianesimo, l'idea fondamentale che lo distingue dall'idea pagana, è una sfiducia del mondo più larga, più profonda; è la disperazione di trovar mai la felicità sulla terra. E se la religione di Gesù dice che questa terra è una valle di lacrime, che i beni di questo mondo sono nulla, chi meglio del Leopardi, la cui vita è tutta una croce, potrà intenderla? Chi più totalmente di lui comprenderà questa sfiducia di poter trovare la felicità nello stato umano?... Ma la stessa enormità del dolore che gli fa intendere la verità predicata dal figlio di Dio, lo distacca ultimamente dalla fede: “S'ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l'infelicità umana dall'iniquità e dalle cose commesse contro gli Dei; ma per lo contrario non d'altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità.„ Il suo spirito indagatore vuol sapere il perchè del dolore. Se la vita è un circolo di creazione e distruzione continue, e se “quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi tu,„ chiede l'Islandese alla Natura, “quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose?...„ L'asiatico Pastore errante canta, rivolto alla luna: Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir della terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. Ma se l'immortale giovanetta conosce il tutto, egli, il semplice pastore, il cantore dolente, dice guardando il cielo, considerando sè stesso: A che tante facelle? Che fa l'aria infinita, e quel profondo Infinito seren? Che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io chi sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell'innumerabile famiglia, Poi di tanto adoprar, di tanti moti D'ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa, Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so.... Egli non sa null'altro fuorchè il suo dolore. E disperatamente Saffo chiede il perchè del dolore suo proprio: Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo Il ciel mi fosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara Di misfatti è la vita, onde poi scemo Di giovinezza, e disfiorato, al fuso Dell'indomita Parca si volvesse Il ferrigno mio stame? Un arcano consiglio muove gli eventi: nessuno risponde all'incauta domanda: Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor. Negletta prole Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo De' celesti si posa. Bruto non conosce questa rassegnazione; egli si sdegna e si ribella: A voi, marmorei numi, (Se numi avete in Flegetonte albergo O su le nubi) a voi ludibrio e scherno È la prole infelice.... Forse i travagli nostri, e forse il cielo I casi acerbi e gl'infelici affetti Giocondo agli ozii suoi spettacol pose? Ma a nulla vale lo sdegno come a nulla vale la rassegnazione: i destini umani si compiono in mezzo al silenzio delle cose, all'indifferenza della natura: la luna versa immutato il suo raggio sui campi delle battaglie che mutano la faccia delle nazioni, e non le tinte glebe, Non gli ululati spechi Turbò nostra sciagura, Nè scolorò le stelle umana cura. “Imaginavi tu forse„, chiede la Natura all'Islandese, “che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro, che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me ne avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, e non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.„ E la ragione riconoscerà anche la giustezza di questo argomento; ma ne sarà forse lenito il dolore, o sarà reso più sopportabile? La ragione risponderà: “Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande istanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poichè spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non potevo sconsentirlo nè ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia?....„ Così egli dibatte il formidabile enimma; ma tutte le domande restano senza risposta, tutti i ragionamenti si spuntano contro il ferrato mistero, tutti i gridi del dolore vanamente si perdono. Aspetti la morte: egli vedrà allora la faccia della verità. Ma perchè ciò avvenga, bisogna che, dopo morto, egli pur viva d'un'altra specie di vita! E non vuole. La morte, sì; purchè sia la fine totale, il nulla. L'aspettazione della morte, dice Porfirio, “sarebbe un conforto dolcissimo nella vita nostra, piena di tanti dolori„; ma egli si duole di Platone che ha tolto da questo pensiero ogni dolcezza, anzi lo ha reso il più amaro di tutti, col dubbio terribile che la vita dell'anima continui oltre tomba. Il dubbio di questa vita avvenire turba, non conforta, la vita presente; “e non sì potendo questo dubbio in alcun modo sciorre, nè le menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre i tuoi simili a questa condizione, che essi avranno la morte piena d'affanno e più misera che la vita.„ Dovunque è mistero e terrore. Se le mummie del Ruysch una notte si destano, se riacquistano tanto di vitalità da pensare e parlare, dicono che hanno paura della vita come, vivendo, ne avevano della morte: Come da morte Vivendo rifuggìa, così rifugge Dalla fiamma vitale Nostra ignuda natura; Lieta no, ma sicura, Però ch'esser beato Nega ai mortali e nega ai morti il fato. Non bisogna dunque destarsi. Il sonno, il sonno profondo, senza sogni, senza coscienza dell'essere, è la sola condizione felice. Quando la Terra e la Luna fanno strepito contendendo, la Terra pietosamente non vuol spaventare i suoi abitatori nè rompere il loro sonno, “che è il maggior bene che abbiano.„ Il sonno continuo di tutte le cose sarebbe preferibile alla vita. “Se il sonno dei mortali fosse perpetuo,„ canta il Gallo silvestre, “ed una cosa medesima colla vita; se sotto l'astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, nè strepito di fiere per le foreste, nè canto di uccelli per l'aria, nè susurro d'api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l'universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova?„ E se il sonno è necessario, esso dimostra la malignità della veglia. “Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, ristorarsi con un gusto e quasi con una particella di morte.„ IV. LA MORTE. La morte sarà pertanto il rimedio radicale e la conclusione ultima. La felicità pareva lo scopo dell'esistenza; ma non fu raggiunta nè dall'individuo nè dal consorzio umano; non fu raggiunta subito, nè sarà raggiunta in avvenire, col progresso; non fu raggiunta in terra, nè sarà raggiunta in un altro mondo. Perchè dunque le creature aprono gli occhi alla luce? Che cosa è questa vita? Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L'ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s'affretta, Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, Ov'ei precipitando, il tutto obblia. Questo è il quadro della vita mortale. Finite le speranze di felicità, spente le illusioni, null'altro resta fuorchè la morte: Ecco di tante Sperate palme e dilettosi errori, Il Tartaro m'avanza, canta l'infelice Lesbiana; e Silvia miseramente cade all'apparir del vero. Quando l'uomo è giovane, quando può sperare, la vita è luminosa; ma dopo, tosto che la verità è conosciuta, Vedova è insino al fine; ed alla notte Che l'altre etadi oscura Segno poser gli Dei la sepoltura. Ma parlare della morte con questo tono dolente, chiamarla abisso “orrido, immenso„, è ancora in certo modo come lodare la vita. Questa morte non è un vero rimedio, non è una cosa veramente lodevole, se egli la loda ironicamente: Umana Prole cara agli eterni! assai felice Se respirar ti lice D'alcun dolor; beata Se te d'ogni dolor morte risana. Per adoperare questo tono, bisogna che l'illusione non sia ancora finita, che una qualche fede sussista. Se morire non è un vero bene, bisogna che il bene consista in qualche altra cosa. Non si trovò in nessun luogo, in nessun tempo, in nessun concetto; ma l'appetito della felicità non è ancora morto; si spera ancora, non si sa come, non si sa in che cosa, irragionevolmente. Perchè la ragione trionfi, bisogna dar torto all'istinto della felicità che si ribella alla morte; e riconoscere che l'istinto è un fenomeno transitorio, e che la morte è il fenomeno permanente, il vero, il solo, l'ultimo fine della vita. Poichè tutti gli altri, tutti insino ad uno, si dimostrarono fallaci, la morte sarà lo scopo reale, l'unica meta, la ragione stessa dell'esistenza. Ed il Leopardi arriva a questa conclusione logica, l'accetta pienamente quando dice che le creature “ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non s'affaticano se non per giungere a questo solo intento della natura„; quando afferma che proprio ed unico obbietto delle cose è il morire: esse anzi sono state create per essere distrutte, perchè la legge della distruzione si potesse mantenere: “non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono.„ Come parrà allora stolto e funesto lo studio di prolungare la vita! “Non solo io non mi curo dell'immortalità„, dice il Metafisico al Fisico, “e sono contento di lasciarla ai pesci; ai quali la dona il Leeuwenhoek, purchè non siano mangiati dagli uomini o dalle balene; ma, in cambio di ritardare o interrompere la vegetazione del nostro corpo per allungare la vita come propone il Maupertuis, io vorrei che la potessimo accelerare in modo, che la vita nostra si riducesse alla misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri, dei quali si dice che i più vecchi non passano l'età di un giorno, e contuttociò muoiono bisavoli e trisavoli„. Per un momento, non solo la vita degli efimeri, ma quella di qualunque animale gli parrà preferibile alla umana; gli animali non raggiungono la felicità, ma passano il tempo meglio di noi, unicamente occupati di ciò che loro occorre: De' bruti La progenie infinita, a cui pur solo, Nè men vano che a noi, vive nel petto Desìo d'esser beati; a quello intenta Che a lor vita è mestier, di noi men tristo Condur si scopre e men gravoso il tempo Nè la lentezza accagionar dell'ore. Anche il Pastore canterà: O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perchè d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perchè giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, Tu se' queta e contenta; E gran parte dell'anno Senza noia consumi in quello stato.... Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Tosto però egli s'accorge che questa sua opinione può dipendere da un inganno: O forse erra dal vero Mirando all'altrui sorte il mio pensiero; Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il dì natale. Certo dell'inganno, il Leopardi ritorna alla verità disperata: Non altro in somma Fuorchè infelice, in qualsivoglia tempo, E non pur ne' civili ordini e modi, Ma della vita in tutte l'altre parti, Per essenza insanabile, e per legge Universal che terra e cielo abbraccia, Ogni nato sarà. Se il vivere è funesto a tutti, il non vivere sarà preferibile: Mai non veder la luce Era, credo, il miglior.... Quindi la morte non sarà temuta, ma preferita e lodata come il “maggior bene dell'uomo„; e desiderata e cercata: In cielo, In terra amico agli infelici alcuno E rifugio non resta altro che il ferro; e se altri, sdegnando gli anni suoi vuoti e odiando la luce, non si uccide, al duro morso Della brama insanabile che invano Felicità richiede, esso da tutti Lati cercando, mille inefficaci Medicine procaccia, onde quell'una Cui natura apprestò, mal si compensa. Ma Saffo si dà la morte: Morremo. Il velo indegno a terra sparto, Rifuggirà l'ignudo animo a Dite, E il crudo fallo emenderà del cieco Dispensator de' casi. Come ella morendo corregge il male del quale fu vittima, così Bruto uccidendosi sfida l'iniqua potenza che lo ha sopraffatto. Egli invidia gli animali non solo perchè arrivano alla morte senza prevederla, cioè senza nè temerla nè desiderarla, ma anche perchè, volendo uccidersi, nessuno lo vieterebbe loro: A voi, fra quante Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte, Figli di Prometeo, la vita increbbe; A voi le morte ripe, Se il fato ignavo pende, Soli, miseri, a voi Giove contende. E come anche Porfirio invidia gli animali perchè, morendo, non hanno paura o speranza di un'altra vita, così Bruto vorrà morire interamente, senza tema di punizioni, senza speranza di gloria postuma, di felicità oltre umana: Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi Regi, o la terra indegna, E non la notte moribondo appello; Non te dell'atra morte ultimo raggio Conscia futura età.... .... A me d'intorno Le penne il bruno augello avido roti; Prema la fera, e il nembo Tratti l'ignota spoglia; E l'aura il nome e la memoria accoglia. Costoro furono disgraziati: a Bruto non valse la virtù, a Saffo non valse l'amore. Noi vediamo pertanto che, dandosi la morte, si dolgono, accusano, non sono sereni. La Lesbiana si lagna che di tante sperate palme e dilettosi errori le avanzi solo la morte; Bruto chiama “misero„ il desìo di morire; e “atra„ la morte. Il Leopardi che ha giudicato essere la morte non una cosa vana come tutte le altre, ma la sola realtà, dovrà dire serenamente che il partito di procurarsela è il migliore, il più ragionevole, il più conforme a natura, ancora quando la vita non è stata sciagurata. Udite infatti Porfirio, deliberato di uccidersi, affermare che questa sua deliberazione “non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga„, ma dal “vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa.„ Nè la morte è legge delle sole creature, ma di tutta quanta la creazione. Morrà la terra, morranno i soli. Altri ne nasceranno, è vero; la ragione dimostra che l'esistenza, non essendo mai cominciata, non avrà mai fine; ma l'anima offesa si compiace di antivedere la fine del Tutto: “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno nè fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato nè inteso, si dileguerà e perderassi.„ L'IRONIA. Resterà egli sempre in questo atteggiamento? Non potrà far altro che querelarsi e disperare? Impotente a mutare il ferreo ordine delle cose che lo soverchiano, si dorrà continuamente perchè altri rida del suo dolore? Non potrà ridere egli stesso degli altri, degli uomini e delle donne, del mondo e della natura? Già del fato mortale a me bastante E conforto e vendetta è che sull'erba Qui neghittoso immobile giacendo, Il mar, la terra e il ciel miro e sorrido. Questo sorriso gli strappa l'ultimo disinganno, l'ultimo dolore patito per causa d'una donna; ma già da molto tempo egli ha fatto suo pro della naturale disposizione all'ironia. A ventidue anni, per consolarsi dell'indegnità della fortuna, “quasi per vendicarmi del mondo e quasi anche della virtù„, imagina le prime satire. Al dolente Giordani scrive: “Non potresti di Eraclito convertirti in Democrito? La qual cosa va pure accadendo a me, che la stimava impossibilissima. Vero è che la disperazione si finge sorridente. Ma il riso intorno agli uomini ed alle mie stesse miserie, al quale io mi vengo accostumando, quantunque non derivi dalla speranza, non viene però dal dolore, ma piuttosto dalla noncuranza, ch'è l'ultimo rifugio degl'infelici soggiogati dalla necessità. Vo' lentamente leggendo, studiando e scrivacchiando. Tutto il resto del tempo lo spendo in pensare e ridere meco stesso....„ Nonostante i dileggi della gente, si avvezza a ridere, “e ci riesco.„ Il suo riso è amaro, sdegnoso, è spesso una sghignazzata violenta: “Amami, caro Brighenti; e ridiamo insieme alle spalle di questi.... che possiedono l'orbe terraqueo. Il mondo è fatto al rovescio, come quei dannati di Dante che avevano il.... dinanzi e il petto di dietro, e le lagrime strisciavano giù per lo fesso. E ben sarebbe più ridicolo il volerlo raddrizzare, che il contentarsi di stare a guardarlo e fischiarlo....„ Questo concetto dell'opportunità del riso si ribadisce in lui; è espresso altre volte più pacatamente. “L'indifferenza e l'allegria sono le uniche passioni proprie, non solamente dei savi, ma di tutti quelli che hanno pratica delle cose umane, e talento per profittare dell'esperienza.„ Meglio: “Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire.„ E ancora: Eleandro riconosce che se sì dolesse piangendo, darebbe noia agli altri ed a sè stesso, senza alcun frutto: “Ridendo dei nostri mali trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso modo. Se questo non mi vien fatto, tengo pure per fermo che il ridere dei nostri mali sia l'unico profitto che se ne possa cavare, e l'unico rimedio che vi si trovi. Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso. Non dovete pensare che io non compatisca all'infelicità umana. Ma non potendovisi riparare con nessuna forza, nessuna arte, nessuna industria, nessun patto; stimo assai più degno dell'uomo e di una disperazione magnanima, il ridere dei mali comuni, che il mettermene a sospirare, lacrimare e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare altrettanto.„ E Giacomo Leopardi si vendica infatti col riso di tutte quelle cose delle quali si è doluto o ha dimostrato la fallacia. Come dell'ultima donna amata, così pure ride di tutte le altre e di se stesso che le aveva deificate. “Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d'attorno e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.„ E se la colpa non è loro, ma dell'immaginazione che va cercando una perfezione fuor dell'umano, egli riderà di questa aspettativa, facendo decretare un premio dall'Accademia dei Sillografi. Tutti non si lodano “_del fortunato secolo in cui siamo_„ per i progressi della scienza, per gli adattamenti dei ritrovati scientifici alla vita pratica? Questa età non si può chiamare l'età delle macchine, “non solo perchè gli uomini di oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate o che si vanno tutto giorno trovando ed accomodando a tanti e così vari esercizi, che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita„? Allora l'Accademia dei Sillografi bandisce un concorso per una macchina “disposta a fare gli uffici di una donna conforme a quella immaginata, parte dal conte Baldassare Castiglione, il quale descrive il suo concetto nel libro del _Cortegiano_, parte da altri, i quali ne ragionarono in vari scritti che si troveranno senza fatica, e si avranno a consultare e seguire, come eziandio quello del Conte. Nè ancora l'invenzione di questa macchina dovrà parere impossibile agli uomini dei nostri tempi, quando pensino che Pigmalione in tempi antichissimi ed alieni dalle scienze, si potè fabbricare la sposa colle proprie mani, la quale si tiene che fosse la miglior donna che sia stata insino al presente. Assegnasi all'autore di questa macchina una medaglia d'oro in peso di cinquecento zecchini, in sulla quale sarà figurata da una parte l'araba fenice del Metastasio posata sopra una pianta di specie europea, dall'altra sarà scritto il nome del premiato col titolo: INVENTORE DELLE DONNE FEDELI E DELLA FELICITà CONIUGALE.„ Più acuto, più stridente è il suo riso contro gli uomini. Il regno delle macchine dev'essere salutato con gioia perchè ci affida che col tempo si troveranno congegni da servire non alle sole cose materiali, ma anche alle spirituali; “onde nella guisa che per virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini, e da molti simili mali e spaventi, così di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo di esempio (e facciasi grazia alla novità dei nomi) qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di salute o altro ingegno che ci scampi dall'egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degl'insensati, de' ribaldi e de' vili, dall'universale noncuranza e dalla miseria dei saggi, de' costumati e de' magnanimi....„ E l'Accademia, con la donna perfetta, mette a concorso una macchina che rappresenti un amico, “il quale non biasimi e non motteggi l'amico assente; non lasci di sostenerlo quando l'oda riprendere o porre in giuoco; non anteponga la fama di acuto e di mordace, e l'ottenere il riso degli uomini, al debito dell'amicizia; non divulghi, o per altro effetto o per aver materia da favellare o da ostentarsi, il segreto commessogli; non si prevalga della familiarità e della confidenza dell'amico a soppiantarlo e soprammontarlo più facilmente; non porti invidia ai vantaggi di quello; abbia cura del suo bene e di ovviare o riparare a' suoi danni, e sia pronto alle sue domande e a' suoi bisogni, altrimenti che in parole....„ PRIMO VERIFICATORE DELLE FAVOLE ANTICHE sarà il motto inciso sopra una faccia della medaglia da conferirsi in premio; e le immagini di Pilade e Oreste saranno ritratte nell'altra. Un simbolo dell'età dell'oro e le parole dell'egloga virgiliana: QUO FERREA PRIMUM DESINET AC TOTO SURGET GENS AUREA MUNDO saranno stampati nella medaglia offerta a chi inventerà “un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime. L'Accademia reputa che i vapori, poichè altro mezzo non pare che vi si trovi, debbano essere di profitto a infervorare un semovente e indirizzarlo agli esercizi della virtù e della gloria....„ Vapori, larve, fantasmi, illusioni, nomi: nient'altro sono le cose alle quali gli uomini credono, per le quali combattono. I beni non si trovano, sono soltanto nell'immaginazione che se li dipinge, che li aspetta nel futuro e non ricorda di averli trovati mai nel passato. Di questo inganno riderà il Passeggiere col venditore di Almanacchi, il quale, promettendo che l'anno nuovo sarà felicissimo, non sa dire a quale vorrebbe che somigliasse dei venti passati da che vende lunarii. “Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?„ — “No in verità, illustrissimo.„ — “E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?„ — “Cotesto si sa.„ — “Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?„ — “Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.„ — “Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta nè più nè meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?„ — “Cotesto non vorrei.„ — “Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, quella del principe, o di chi altro?...„ Udite come ride della gloria, che fu uno dei maggiori suoi struggimenti: “L'anno ottocento trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove, il collegio delle Muse diede fuora in istampa, e fece appiccare nei luoghi pubblici della città e dei borghi d'Ipernéfelo, diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori e minori, e gli altri abitatori della detta città, che recentemente o in antico avessero fatto qualche lodevole invenzione, a proporla, o effettualmente o in figura o per iscritto, ad alcuni giudici deputati da esso collegio. E scusandosi che per la sua nota povertà non si poteva dimostrare così liberale come avrebbe voluto, prometteva in premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato più bello o più fruttuoso, una corona di lauro, con privilegio di poterla portare in capo il dì e la notte, privatamente e pubblicamente, in città e fuori; e poter essere dipinto, scolpito, inciso, gittato, figurato in qualunque modo e materia, col segno di quella corona dintorno al capo....„ Presentate le invenzioni ai giudici, tre sono i premiati: Bacco per l'invenzione del vino, Minerva per quella dell'olio e Vulcano per aver trovato una “pentola di rame, detta economica, che serve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente....„ Dovendosi pertanto dividere in tre parti la corona, resta a ciascuno soltanto un ramoscello di lauro; ma tutti e tre rifiutano sì la parte che il tutto: Vulcano perchè, dovendo stare sempre al fuoco, non vuol mettersi quell'ingombro pericoloso sulla fronte; Minerva perchè le basta l'elmo; Bacco perchè non vuol mutare la sua mitra e la sua corona di pampini per quella di lauro: “l'avrebbe accettata volentieri se gli fosse stato lecito di metterla per insegna fuori della sua taverna; ma le Muse non consentirono di dargliela per questo effetto: di modo che ella si rimase nel loro comune erario....„ Ride della gloria che l'esperienza gli ha dimostrato essere una parola, non una cosa; riderà, se non della patria, dei compatriotti che non hanno saputo restaurare la fortuna d'Italia. I _Paralipomeni della Batracomiomachia_ sono tutta una satira dei moti del Trentuno, delle azioni e dei costumi di quel tempo. Le rane rappresentano i preti, i topi gl'Italiani che bandiscono la guerra ai granchi, ai Tedeschi, e poi scappano appena se li trovano a fronte: Guerra tonar per tutte le concioni Udito avreste tutti gli oratori, Leonidi, Temistocli e Cimoni, Muzi Scevola, Fabi dittatori, Deci, Aristidi, Codri e Scipioni, E somiglianti eroi de' lor maggiori Iterar ne' consigli e tutto il giorno Per le bocche del volgo andare attorno. Guerra sonar canzoni e canzoncine Che il popolo a cantar prendea diletto; Guerra ripeter tutte le officine, Ciascuna al modo suo col proprio effetto. Lampeggiavan per tutte le fucine, Lancioni, armi del corpo, armi del petto, E sonore minacce in tutti i canti S'udiano, e d'amor patrio ardori e vanti. . . . . . . . . . . . . . . Eran le due falangi a fronte a fronte Già dispiegate ed a pugnar vicine, Quando da tutto il pian, da tutto il monte Dièrsi a fuggir le genti soricine. Come non so, ma nè ruscel nè fonte, Balza nè selva al corso lor diè fine. Fuggirian credo ancor, se i fuggitivi Tanto tempo il fuggir serbasse vivi. Fuggiro al par del vento, al par del lampo.... E quando poi sono al sicuro, i millantatori recitano la commedia della Carboneria: Allor nacque fra' topi una follia Degna di riso più che di pietade, Una setta che andava e che venìa Congiurando a grand'agio per le strade, Ragionando con forza e leggiadria D'amor patrio, d'onor, di libertade, Fermo ciascun, se si venisse all'atto, Di fuggir come dianzi avevan fatto.... Il pelame del muso e le basette Nutrian folte e prolisse oltre misura, Sperando, perchè il pelo ardir promette, D'avere, almeno ai topi, a far paura. Pensosi in su i caffè con le gazzette Fra man, parlando della lor congiura, Mostraronsi ogni giorno, e poi le sere Cantando arie sospette ivano a schiere.... Ma che è la miseria degl'Italiani paragonata alla miseria di tutto il mondo? Ecco Ercole presentarsi da parte di Giove al padre Atlante, ed offrirgli di sollevarlo per qualche ora dal peso della terra che il vecchio regge sulle spalle: “Ma il mondo è fatto così leggiero,„ gli risponde Atlante, “che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa di più; e se non fosse che la volontà di Giove mi sforza di stare qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me la porrei sotto l'ascella o in tasca, o me l'attaccherei ciondolone a un pelo della barba, e me n'andrei per le mie faccende.„ Ed Ercole, provato a tenerla un poco in mano, sente che Atlante ha detto il vero, e s'accorge d'un'altra novità: che il mondo è muto, non batte più di “un oriuolo che abbia rotta la molla„; per destarlo, vorrebbe fargli toccare una buona picchiata di clava; ma ha paura di farne una cialda o di romperlo come un uovo. “E anche non mi assicuro che gli uomini che al tempo mio combattevano a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti in un tratto.„ Allora i due numi si mettono a giocare alla palla con la terra; ma essa piglia vento, perchè è leggera: “Cotesta è sua pecca vecchia, di andare a caccia del vento....„ Anche il Folletto e lo Gnomo vedono un giorno che gli uomini sono tutti morti e che, nondimeno, il mondo, creato secondo quei petulanti per loro uso e consumo soltanto, dura ancora. “E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti„, esclama il Folletto; e lo Gnomo: “Eh, buffoncello, va' via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?„ — “Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa è la più bella che si possa udire! Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l'aria, il mare, le campagne?„ — “Che fanno ai folletti le cave d'oro e d'argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?...„ Ma la ridicola contesa finisce, perchè i due presuntuosi interlocutori si accordano nel beffarsi dell'arroganza degli uomini. Non dicevano costoro che la roba degli gnomi, sepolta sotto terra, apparteneva al genere umano? “Che meraviglia? Quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro ufficio che di stare al servizio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagattella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del mondo.... — Le zanzare e le pulci erano anch'esse fatte per benefizio degli uomini? — Sì, per esercitarli nella pazienza!„ Anche i porci, “secondo Crisippo, erano pezzi di carni apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocchè non imputridissero, condite colle anime invece di sale....„ E il più bello è che di tanti generi d'animali o di piante cotesti uomini non avevano notizia, pure credendo che tutto fosse al mondo per loro! “Parimente di tratto in tratto, per via de' loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d'anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito la scrivevano tra le loro masserizie, perchè s'immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell'alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende. — Sicchè in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l'aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini....„ Questo argomento di risa è inesauribile. La Terra, ragionando con la Luna, le chiede se è abitata da uomini, se i suoi abitanti l'hanno conquistata “per ambizione, per cupidigia dell'altrui, colle arti politiche, colle armi„; tutte parole delle quali la Luna sconosce il senso. “Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto....„ E dove lasciamo l'imbarazzo del povero Copernico, quando il Sole, stanco, secondo il sistema tolemaico, “del continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi che vivono in un pugno di fango„, delibera di non muoversi più e ordina all'astronomo di far muovere invece, per amore o per forza, la Terra, che fino a quel giorno ha creduto di sedere come in trono, mentre ognuno degli uomini suoi abitatori, “se ben fosse un vestito di cenci e che non avesse un cantuccio di pan duro da rodere, si è tenuto per certo di essere uno imperatore; non mica di Costantinopoli o di Germania, ovvero della metà della Terra, come erano gli imperatori romani; ma un imperatore dell'universo; un imperatore del sole, dei pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e causa finale delle stelle, dei pianeti, di vostra signoria illustrissima, e di tutte le cose.„ Fare che la Terra lasci il suo posto al centro dell'universo, “ch'ella corra, ch'ella si rotoli, ch'ella si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, nè più ne meno, che si è fatto di qui addietro dagli altri globi; in fine, ch'ella divenga del numero dei pianeti; questo porterà seco che sua maestà terrestre, e le loro maestà umane, dovranno sgomberare il trono, e lasciar l'impero; restandosene però tuttavia co' loro cenci, e colle loro miserie, che non sono poche....„ Il malcapitato astronomo si dispone tuttavia a tentare l'impresa, ma trova ancora una certa difficoltà e la sottopone al Sole: “Che io non vorrei, per questo fatto, essere abbruciato vivo, a uso della fenice: perchè, accadendo questo, io sono sicuro di non avere a risuscitare dalle mie ceneri come fa quell'uccello, e di non vedere mai più, da quell'ora innanzi, la faccia della signoria vostra.„ E il Sole lo rassicura che non patirà nulla, sebbene “forse, dopo te, ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra cosa simile....„ E gli uomini, questi medesimi uomini che hanno torturato chi ha loro insegnato le verità, credono alla propria eccellenza! L'umorista trarrà ancora da questa superba pretesa le sue risa più sonore. Prometeo è malcontento della sentenza del collegio delle Muse: il vino, l'olio e le pentole sono stati preferiti all'invenzione sua: il genere umano, il modello di terra col quale egli formò i primi uomini. E quando Momo dubita che l'uomo sia la miglior opera, la più perfetta creatura del mondo, l'inventore scommette di scendere con lui nelle cinque parti del globo per farlo ricredere. Calati in America, si trovano fra i Cannibali, dove un selvaggio mangia arrostito il corpo del proprio figliuolo; calati in Asia, trovano che una vedova è arsa viva, come vuole la legge, insieme col morto marito. Prometeo non si dà per vinto, considerando che tutti costoro sono barbari, e aspetta di visitare l'Europa civile; ma il suo compagno già gli fa osservare che se gli uomini fossero un genere perfetto, non avrebbero bisogno d'incivilirsi, non dovrebbero essere distinti in barbari e civili; e che la parte incivilita è troppo piccola, paragonatamente a tutta l'altra; e che questa famosa civiltà di Parigi e di Filadelfia non è ancora compiuta; e che, per arrivare a un grado incompiuto di civiltà, gli uomini hanno dovuto penare per un tempo lunghissimo; e che le loro invenzioni più singolari e proficue hanno avuto origine dal semplice caso; e che la civiltà, una volta ottenuta, non è stabile, ma può cadere e disperdersi, come tante volte è successo, secondo insegnano le storie. Per tutte queste ragioni, la sentenza di Prometeo non sarà da modificare dicendo che il genere umano è sommo, sì, ma nell'imperfezione anzichè nella perfezione?.... Prometeo non risponde, e cala con il compagno a Londra; dove vedono una gran folla attorno a una casa: un uomo si è ucciso, ed ha ucciso con sè i figliuoli, non già per esser povero, o disperato, o infelice; ma per tedio della vita, lasciando raccomandato a un amico il suo cane.... “Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e sopra la contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita, e voleva anche rammemorargli che nessun altro animale fuori dell'uomo, si uccide volontariamente esso medesimo, nè spegne per disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo lo prevenne, e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa.„ Così, quantunque il Leopardi abbia voluto assicurare che il suo riso sia noncurante, esso viene dal dolore ed è pieno di dolore. L'ironia si alterna col pessimismo; certe volte, come nella _Palinodia_, si confonde con esso. Se per la sua sfiducia nella vita e nell'umanità vede che ridono di lui, ridendo egli confessa al Capponi d'avere errato e assicura di essersi ricreduto: Aureo secolo omai volgono, o Gino, I fusi delle Parche. Ogni giornale, Gener vario di lingue e di colonne, Da tutti i lidi lo promette al mondo Concordemente. Universale amore, Ferrate vie, molteplici commerci, Vapor, tipi e _cholèra_ i più divisi Popoli e climi stringeranno insieme: Nè meraviglia fia se pino o quercia Suderà latte e mèle, o s'anco al suono D'un _walser_ danzerà. Tanto la possa Infin qui de' lambicchi e delle storte E le macchine al cielo emulatrici Crebbero, e tanto cresceranno al tempo Che seguirà; poichè di meglio in meglio Senza fin vola e volerà mai sempre Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme. Perciò gli uomini non mangeranno più ghiande — se la fame non li costringerà; il danaro sarà disprezzato — ma saranno tenute da conto le cambiali. E la guerra non cesserà, e il vero merito sarà sfortunato, e la frode regnerà sempre, e della forza si farà sempre abuso. Ma se queste “lievi reliquie„ del passato resteranno in mezzo all'età dell'oro, nelle cose Più gravi, intera, e non veduta innanzi, Fia la mortal felicità. Più molli Di giorno in giorno diverran le vesti di lana o di seta. I rozzi panni Lasciando a prova agricoltori e fabbri, Chiuderanno in coton la scabra pelle, E di castoro copriran le schiene. Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri Certamente a veder, tappeti e coltri, Seggiole, canapè, sgabelli e mense. Letti ed ogni altro arnese, adorneranno Di lor menstrua beltà gli appartamenti; E nove forme di paiuoli, e nove Pentole ammirerà l'arsa cucina. Egli continua così a deridere, fingendo d'ammirarlo, il progresso umano; quando a un tratto depone l'ironia e torna alla sfiducia, alla persuasione del dolore: Quale un fanciullo, con assidua cura, Di fogliolini e di fuscelli, in forma O di tempio o di torre o di palazzo, Un edifizio innalza; e come prima, Fornito il mira, ad atterrarlo è volto, Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli Per novo lavorìo son di mestieri; Così natura ogni opra sua, quantunque D'alto artificio a contemplar, non prima Vede perfetta, ch'a disfarla imprende, Le parti sciolte dispensando altrove. E poichè le cose umane sono distrutte da questa natura crudele, varia, infinita una famiglia Di mali immedicabili e di pene Preme il fragil mortale, a perir fatto Irreparabilmente: indi una forza Ostil, distruggitrice, e dentro il fere E di fuor da ogni lato, assidua, intenta, Dal dì che nasce; e l'affatica e stanca, Essa indefatigata; insin ch'ei giace Alfin dall'empia madre oppresso e spento.... L'ironia e il pessimismo tornano ancora a darsi la mano. La Morte, nel concetto disperato del Leopardi, fu sorella dell'Amore; quando egli vuol riderne, ma d'un funebre riso, la considera come sorella della Moda: entrambe non sono figlie della Caducità? “Nemica capitale della memoria„, la Morte non se ne vuole rammentare; ma la Moda se ne ricorda bene: “So che l'una e l'altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benchè tu vada a questo effetto per una strada e io per un'altra.... Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo; ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli con bazzecole che io v'appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v'improntino per bellezza; formare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo d'una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare genti con le calzature snelle, chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi, generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente per l'amore che mi portano. Io non vo' dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani, e il petto con quei di tela, e fare d'ogni cosa a mio modo ancorchè sia con loro danno.„ E la Morte comincia a persuadersi della parentela; e mentre la trista sorella le galoppa al fianco, ella le chiede, come massima prova del legame che le stringe, di aiutarla a compiere l'opera propria. Ma la Moda non l'ha già aiutata? Costei che annulla e stravolge continuamente tutti gli usi, ha mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica del morire?... Se questo non bastasse, non ha ella mandato in disuso l'antico genere di vita che giovava alla prosperità dei corpi, e introdottone altri perniciosissimi alla salute? Non ha ella messo nel mondo moderno tali ordini e costumi “che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell'animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte? E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno co' loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera, ancorchè tu non le abbia mietute, anzi subito che elle nascono.„ Ma l'opera della Moda più proficua alla Morte è questa: che mentre per l'addietro costei era odiata, “oggi per opera mia le cose sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza.„ E mentre prima gli uomini credevano di poter essere immortali, cioè di non morire interamente, la Moda, quantunque sapesse “che queste erano ciance, e che quando costoro vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano della loro fama più che si patissero dell'umidità della sepoltura„, pure, dice alla Morte, “intendendo che questo negozio degl'immortali ti scottava, perchè pareva che ti scemasse l'onore e la riputazione, ho levata via quest'usanza di cercare l'immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta' sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische....„ Così egli torna a ridere di quella gloria della quale altrove ha dimostrata la fallacia. Ma quando vede la vanagloria degli uomini, quantunque dica di non sapere “se il riso o la pietà prevale„, il riso prevale effettivamente. Se egli sorride dell'amore, della fama, della patria, il suo sorriso è o più amaro o più contenuto; nel considerare la superbia del secolo, la boria degli uomini, e nel paragonarle alla loro reale impotenza, alla miseria dei loro risultati, l'umorismo scaturisce naturalmente, più schietto, più efficace. Momo ha fatto un lungo ragionamento per disingannare Prometeo e dimostrargli che il genere umano è sommo nell'imperfezione; Eleandro risponde più brevemente a Timandro quando questi sostiene che l'uomo non è ancora perfetto, ma certo sarà tale col tempo: “Nè io ne dubito. Questi pochi anni che sono corsi dal principio del mondo al presente, non potevano bastare; e non se ne dee far giudizio dell'indole, del destino e delle facoltà dell'uomo: oltre che si sono avute altre faccende per le mani. Ma ora non si attende ad altro che a perfezionare la nostra specie....„ La risata è più sincera, più fresca. Udite la conclusione: “Circa la perfezione dell'uomo, io vi giuro, che se fosse conseguita, avrei scritto almeno un tomo in lode del genere umano. Ma poichè non è toccato a me di vederla, e non aspetto che mi tocchi in vita, sono disposto di assegnare per testamento una buona parte della mia roba ad uso che quando il genere umano sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato un tempietto all'antica, una statua, o quello che sarà creduto a proposito....„ Nondimeno Timandro ha ragione di chiamare maligno il suo interlocutore; e il riso, che doveva essere il conforto di quest'ultimo, non lo salva dalla disperazione. Se egli ride degli uomini, e non li odia, e non si sdegna dei loro vizi e delle loro colpe, ciò accade perchè sente che, posto nelle stesse circostanze dei viziosi e dei colpevoli, sarebbe macchiato o capace degli stessi loro difetti: “Riserbo sempre l'adirarmi a quella volta che io vegga una malvagità che non possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho potuto vedere....„ E ancora egli non capisce “questo continuo presupporre che si fa scrivendo e parlando, certe qualità umane che ciascuno sa che oramai non si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici, adorati già lungo tempo addietro, ma ora tenuti internamente per nulla e da chi gli nomina, e da chi gli ode nominare. Che si usino maschere e travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti; non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una stessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare l'un l'altro, e conoscendosi ottimamente tra loro; mi riesce una fanciullaggine....„ E insomma: “l'ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bisogna filosofare. Dal che s'inferisce che la filosofia, primieramente è inutile, perchè a questo effetto di non filosofare, non fa bisogno esser filosofo; secondariamente è dannosissima,„ perchè insegna “la vanità delle cose.„ Ancora una volta le risa finiscono in lacrime. Sarà da stupire? Non era anzi meraviglioso che, nella profondità del suo dolore, egli trovasse la possibilità di ridere? Egli stesso se ne è stupito. “Cosa certamente mirabile è questa, che nell'uomo, il quale in fra tutte le creature è la più travagliata e misera, si trovi la facoltà del riso.... Mirabile cosa si è l'uso che noi facciamo di questa facoltà: poichè si veggono molti in qualche fierissimo accidente, altri in grande tristezza d'animo, altri che quasi non serbano alcuno amore alla vita, certissimi della vanità di ogni bene umano, presso che incapaci di ogni gioia, nondimeno ridere....„ E il riso sarà per lui “specie di pazzia non durabile, o pure di vaneggiamento o delirio„, perchè “gli uomini, non essendo mai soddisfatti nè mai dilettati veramente da cosa alcuna, non possono aver causa di riso che sia ragionevole e giusta.„ È vero che il riso è ignoto, come agli animali, anche ai popoli che sono nello stato primitivo; e che è cresciuto, si può dire, colla civiltà; ma poichè la civiltà è corruzione, se ne dovrà dedurre che il riso oggi “supplisce per qualche modo alle parti esercitate in altri tempi dalla virtù, dalla giustizia, dall'onore e simili....„ Esso sarà pertanto una cosa triste e disperata più che la stessa imprecazione, porterà agli stessi risultati della riflessione dolorosa. Ragionando, il Leopardi estende il suo pessimismo a tutto l'universo creato; la stessa cosa fa ridendo. La Terra si ostina a interrogare la Luna: “Io vorrei sapere se veramente, secondo che scrive l'Ariosto, tutto quello che ciascun uomo va perdendo; come a dire la gioventù, la bellezza, la sanità, le fatiche e spese che si mettono nei buoni studi per essere onorati dagli altri, nell'indirizzare i fanciulli ai buoni costumi, nel fare o promuovere istituzioni utili; tutto sale e si raguna costà: di modo che vi si trovano tutte le cose umane; fuori della pazzia, che non si parte dagli uomini? In caso che questo sia vero, io fo conto che tu debba essere così piena, che non ti avanzi più luogo; specialmente che, negli ultimi tempi, gli uomini hanno perduto moltissime cose (verbigrazia l'amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine) non già solo in parte, e l'uno o l'altro di loro, come per l'addietro, ma tutti e interamente. E certo che se elle non sono costì, non credo si possano trovare in altro luogo. Però vorrei che noi facessimo una convenzione, per la quale tu mi rendessi di presente, e poi di mano in mano, tutte queste cose; donde io credo che tu medesima abbi caro di essere sgomberata, massime del senno, il quale intendo che occupa costì un grandissimo spazio; ed io ti farei pagare dagli uomini tutti gli anni una buona somma di danari.„ Ma la Luna neppure intende di che cosa il pianeta le chiede notizia; e solo quando la Terra le domanda se sono presso di lei in uso i vizii, i misfatti, gl'infortunii, i dolori, la vecchiezza; allora il satellite capisce tutti questi nomi e le cose da essi significate, perchè ne è pieno, perchè i suoi abitatori sono infelicissimi. “E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno, o da qualche altro pianeta del nostro mondo; e gl'interrogassi se in loro abbia luogo l'infelicità, e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te; come anche ne ho chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno risposto come ho detto. E penso che il Sole medesimo, e ciascuna stella risponderebbero altrettanto.„ Si può dire anche meglio: il riso del Leopardi è più disperato della sua stessa disperazione. Egli ha detto che solo la morte esiste; ma credere alla morte, al nulla, è ancora avere una specie di fede. L'orrore sembra massimo; eppure ce n'è uno ancora più grande. Quando gli amanti non amano più, odiano; ma l'odio è ancora una forma dell'amore. Tanto desiderio della morte cela ancora l'amarezza dei disinganni, misura ancora la forza delle speranze, sia pure perdute. Il vero segno che l'amore è finito non è odiare l'oggetto un tempo caro o l'amarne un altro: è l'indifferenza. A questa indifferenza per la morte e per la vita Giacomo Leopardi arriverà con l'ironia. Il suo Plotino, esauriti tutti gli argomenti per dissuadere Porfirio dall'uccidersi, ricorre a quest'ultimo come al più persuasivo: viva egli — per far piacere all'amico! “E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l'uomo, in quanto a sè, non dovrebbe esser molto sollecito di ritenerla nè di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovrìa ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perchè non avrebbe a compiacergliene?... „ EPILOGO Noi sappiamo chi fu Giacomo Leopardi grazie all'analisi particolareggiata di tutte le sue circostanze intrinseche ed estrinseche, ed alla sintesi del suo pensiero; tra le prime e il secondo abbiamo trovato un nesso intimo, un rigoroso rapporto. Pure questo nesso, questo rapporto è negato, non solo da altri, da molti biografi e critici, ma anche, e prima e più vivacemente di tutti, dallo stesso Leopardi. “Ce n'a été que par l'effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d'être persuadés du mérite de l'existence, que l'on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l'on s'obstine à attribuer à mes circonstances matérielles ce qu'on ne doit qu'à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité et prier mes lecteurs de s'attacher à détruire mes observations plutôt que d'accuser mes maladies.„ Senza violenza, ma con ironia, quando lo Stella gli riferì il giudizio d'un lettore, secondo il quale le sue teorie non erano “_fondate a ragione ma a qualche osservazione parziale_,„ egli rispose al suo editore: “Desidero che sia vero.„ Ed anche Tristano, all'amico che giudica il suo libro sulla vita malinconico, sconsolato e disperato perchè egli, l'autore, è infelice, risponde che tutto si sarebbe aspettato “fuorchè sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità, anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità, o d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi....„ Prima di esaminare il valore delle sue proteste, notiamo che egli non le ripete sempre con tanta violenza ed ironia; che anzi più volte fa molte concessioni ai suoi contraddittori. Questo medesimo Tristano che si è sdegnato ed ha riso, e che propone anche, al colmo del sarcasmo, di bruciare il proprio libro “come un libro di sogni poetici, d'invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un'espressione dell'infelicità dell'autore„; confessa poi, sul serio e non più da burla, la propria infelicità: “perchè in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io, quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tutti i giornali de' due mondi non mi persuaderanno il contrario.„ Ed Eleandro: “Io giudico, quanto a me, di essere infelice; e in questo so che non m'inganno. Se gli altri non sono, me ne congratulo con tutta l'anima. Io sono anche sicuro di non liberarmi dall'infelicità prima che io muoia. Se gli altri hanno diversa speranza di sè, me ne rallegro similmente.„ Con eguale sentimento, aggiuntovi il terrore del mistero, il Pastore asiatico canta: Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors'altri; a me la vita è male. È possibile che questa coscienza della propria sciagura non determini la sua filosofia disperata? Uno dei caratteri salienti ne è, come vedemmo, la misantropia; e di questa, biasimandola in Eleandro, Timandro assegna la causa: “Voi parlate„, gli dice, “al vostro solito malignamente, e in modo che date ad intendere di essere per l'ordinario molto male accolto e trattato dagli altri: perchè questa il più delle volte è la causa del mal animo e del disprezzo che certi fanno professione di avere alla propria specie.„ Si confrontino queste parole con quelle che il Leopardi disse in prima persona: aspro a forza Tra lo stuol de' malevoli divengo, e con queste altre: E sprezzator degli uomini divengo Per la greggia ch'ho intorno: si vedrà che il suo disprezzo dei proprii simili dipende dal disprezzo che egli stesso ha patito da essi. Tanto egli è persuaso di questa verità, che le dà forza di sentenza: “Chi comunica poco cogli uomini, rade volte è misantropo. Veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo: perchè l'uso pratico della vita, e non già la filosofia, è quello che fa odiare gli uomini.„ È sempre difficile, e qualche volta anche risibile, il tentar di immaginare che cosa sarebbe stato un uomo se diverse in tutto o in parte fossero state le sue circostanze. Chi può dire che cosa avrebbe scritto Dante se non fosse stato bandito, o che cosa avrebbe fatto Napoleone se fosse nato un secolo prima? Una logica inesorabile governa tutte le opere umane; se noi possiamo credere di disporre liberamente della nostra vita e del nostro pensiero avvenire, non possiamo negarne, anzi continuamente ne discopriamo la rigorosa determinazione nel passato. Pertanto è impossibile giudicare quel che sarebbe avvenuto di Giacomo Leopardi in circostanze diverse dalle sue; ma questo rigore di determinazione egli stesso dimostra, anche senza volerlo. Non c'è uno solo dei suoi giudizii che non sia suggerito da un'impressione ricevuta; i fatti esercitano una continua influenza sul suo pensiero. A Bologna gli uomini gli parvero “vespe senza pungolo.„ Perchè? Perchè vi fu bene accolto. Milano fu detta da lui “insociale„ perchè non fu contento dell'accoglienza che vi trovò. A Napoli, sul principio, sentendosi soddisfatto, lodò l'indole “amabile e benevola„ degli abitanti; poi, trovatosi male, capovolse il suo giudizio. Egli espressamente confessa quanto gli riuscisse funesto l'essersi visto disprezzato e fuggito a Recanati: “cosa che per altro ha pregiudicato per sempre al mio carattere.„ Confessa ancora che tra le cause della sua malinconia a Roma, gran parte ha la sua “particolare costituzione morale e fisica.„ Se, anche restando a Recanati, le malattie gli danno tregua, queste tregue suscitano “qualche speranza di potermi rifare mutando vita.„ Se appena egli potesse occuparsi a suo agio negli studii, la sua disperazione sarebbe mitigata: “Dici troppo bene ch'io forse non m'accorgerei, certamente non sentirei tutta la nullità umana se potessi ancora trattenermi negli studi.„ Basta talvolta la primavera a consolarlo: “Io sento riaprirsi l'animo al ritorno della primavera, chè certo due mesi addietro ero stupido, insensato in modo, ch'io mi faceva maraviglia a me stesso, e disperava di provar più consolazione in questo mondo....„ Egli definisce anche meglio il mutamento che le mutate sue condizioni producono in lui quando si duole col Giordani perchè questi è caduto nella stessa malattia d'animo che ha afflitto lui: “dalla quale non ch'io sia veramente risorto, ma tuttavia conosco e sento che si può risorgere. E le cagioni erano quelle stesse che producono in te il medesimo effetto: debolezza somma di tutto il corpo e segnatamente de' nervi, e totale uniformità, disoccupazione e solitudine forzata, e nullità di tutta la vita. Le quali cagioni operavano ch'io non credessi ma sentissi la vanità e noia delle cose, e disperassi affatto del mondo e di me stesso. Ma se bene anche oggi io mi sento il cuore come uno stecco o uno spino, contuttociò sono migliorato in questo ch'io giudico risolutamente di poter guarire, e che il mio travaglio deriva più dal sentimento dell'infelicità mia particolare, che dalla certezza dell'infelicità universale e necessaria.„ Basta che la sua salute risenta un poco di giovamento dal clima di Pisa, che egli non tremi più dal freddo, che possa passeggiare lungo l'Arno, che mangi con appetito, che abiti una camera a ponente, sopra un grande orto, tra buona gente; che la vita gli costi quanto la sua misera borsa gli consente di spendere, perchè tosto egli si senta rivivere, e torni a far versi, e canti il suo _Risorgimento_: Credei ch'al tutto fossero In me, sul fior degli anni, Mancati i dolci affanni Della mia prima età: I dolci affanni, i teneri Moti del cor profondo, Qualunque cosa al mondo Grato il sentir ci fa. Quante querele e lacrime Sparsi nel novo stato, Quando al mio cor gelato Prima il dolor mancò! Mancâr gli usati palpiti, L'amor mi venne meno, E irrigidito il seno Di sospirar cessò! Piansi spogliata, esanime Fatta per me la vita; La terra inaridita, Chiusa in eterno gel; Deserto il dì; la tacita Notte più sola e bruna; Spenta per me la luna, Spente le stelle in ciel. . . . . . . . . . . Tale era il suo stato: egli non aveva forza di lamentarsi, non chiedeva conforto, era immerso come in un letargo dal quale nulla riusciva a destarlo; desiderava la morte, ma gli mancava anche la forza di esprimere a sè stesso questo desiderio. A un tratto non si riconosce più: Chi dalla grave, immemore, Quiete or mi ridesta? Che virtù nova è questa, Questa che sento in me? Moti soavi, immagini, Palpiti, error beato, Per sempre a voi negato Questo mio cor non è? Siete pur voi quell'unica Luce de' giorni miei? Gli affetti ch'io perdei Nella novella età? Se al ciel, s'ai verdi margini, Ovunque il guardo mira, Tutto un dolor mi spira, Tutto un piacer mi dà. Meco ritorna a vivere La piaggia, il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte, Meco favella il mar. Chi mi ridona il piangere Dopo cotanto obblio? E come al guardo mio Cangiato il mondo appar? Se ciò non è opera della speranza, se egli ancora si duole perchè non vedrà mai più il viso della speranza; se il suo risorgimento non è totale; se egli continua a credere che la natura sia sorda, che non sia sollecita del bene ma soltanto dell'essere, e non si curi d'altro che di serbare gli uomini al dolore; se non ha fede negli uomini nè nell'amore, bisogna accusarne la gravezza dei suoi mali, il lungo abito del dolore. Venti anni di pene fisiche e morali, di aspettazioni vane, di disinganni continui non si possono scordare perchè il nuovo clima è più dolce, perchè la nuova città è più ospitale: il parziale beneficio determina nel suo pensiero una parziale conversione: ma questo esatto proporzionarsi dell'effetto alla causa dimostra appunto come tutta la sua vita morale sia rigorosamente governata dalla sua vita reale. Il sollievo di Pisa è dipeso dalla migliorata salute; un altro egli ne prova quando il De Sinner gli promette di pubblicare in Germania i suoi scritti filologici. Disperato della gloria, basta che egli creda di poterne gustare i vantaggi perchè tosto ritorni da morte a vita: “Quel forestiero che ha veduto l'Eusebio, è un filologo tedesco al quale.... ho fatto consegna formale di tutti i miei mss. filologici, appunti, note, ecc. cominciando dal _Porphyrius_. Egli, se piacerà a Dio, li redigerà e completerà e li farà pubblicare in Germania, e me ne promette danari e gran nome. Non potete credere quanto mi abbia consolato quest'avvenimento, che per più giorni mi ha richiamato alle idee della mia prima gioventù, e che, piacendo a Dio, darà vita ed utilità a lavori immensi, ch'io già da molti anni considerava come perduti affatto, per l'impossibilità di perfezionare tali lavori in Italia, pel dispregio in cui sono tali studi tra noi e peggio pel mio stato fisico.„ Quindi la sua misantropia si tempera; egli quasi la critica: “Nessuno è sì compiutamente disingannato del mondo, nè lo conosce sì addentro, nè tanto l'ha in ira, che guardato a un tratto da esso con benignità, non se gli senta in parte riconciliato.„ Ancora meglio: “Io conobbi già un bambino il quale ogni volta che dalla madre era contrariato in qualche cosa, diceva: _ah, ho inteso, ho inteso: la mamma è cattiva_. Non con altra logica discorre intorno ai prossimi la maggior parte degli uomini, benchè non esprima il suo discorso con altrettanta semplicità.„ Pertanto, dopo averlo negato, egli stesso riconosce esplicitamente il rapporto tra le sue circostanze e le sue idee. Porfirio, discutendo con Plotino intorno alla vanità universale della quale è troppo persuaso, osserva: “E qui primieramente non mi potrai dire che questa mia proposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale.„ Se queste parole non si riferiscono, come pare evidente, allo stesso Leopardi, noi troviamo che egli confessa a chiare note come la sua filosofia dipenda dalla sua esperienza. Alla sorella infatti scrive: “Direte che io vi sono sempre intorno colla filosofia; ma mi concederete che questa non mi è stata insegnata nè dai libri, ne dagli studi, nè da nessun'altra cosa, se non dall'esperienza: ed io vi esorto a questa filosofia, perchè credo che vi abbiate i miei stessi diritti e la mia stessa disposizione.„ Queste parole sono del 1823: diremo che da giovane egli concedesse quel rapporto da causa ad effetto tra le sue disgrazie e il suo pessimismo che più tardi doveva con tanto sdegno negare? La sua lettera sdegnosa al De Sinner è del '32: leggete che cosa scriveva al Bunsen nel '35, tre anni dopo, e due soli prima di morire: “Voi avete ragione che nelle mie prose la malinconia è forse eccessiva e forse anche qualche volta fa velo al giudizio. Datene la colpa parte al mio carattere, e parte all'età in cui furono scritte....„ Egli quasi vorrebbe correggerle! Il rapporto tra il pensiero e la vita è ancora nitidamente affermato più sotto: “La propria mia esperienza m'insegna che il progresso dell'età, fra i tanti cangiamenti che fa nell'uomo, altera ancora notabilmente il suo sistema di filosofia.„ Che cosa vuol dir questo, se non che la filosofia non è un prodotto puro della ragione astratta, ma il risultato necessario della pratica delle cose? Egli osserva pure come sia erroneo l'attribuire a cause esteriori e reali ciò che dipende soltanto dall'intima nostra natura; i vecchi, per esempio, “riuscendo il freddo all'età loro assai più molesto che in gioventù, credono avvenuto alle cose il cangiamento che provano nello stato proprio, ed immaginano che il calore che va scemando in loro, scemi nell'aria o nella terra.„ Altrettanto non accade in lui, quando, per tutte le sue sciagure, afferma l'infelicità necessaria e universale? Tuttavia, se per tante prove e per sua stessa confessione la dipendenza delle fasi del suo pensiero dai casi della sua vita è innegabile, che cosa faremo delle proteste che egli pure fieramente lanciò? Perchè protestò talvolta? Perchè non riconobbe sempre che tale egli fu quale doveva essere? Perchè negò l'efficacia dell'esperienza e riconobbe soltanto quella della ragione? Il perchè non è difficile da trovare. Ammettendo senz'altro che dall'esperienza, dalle circostanze esteriori ed intime tra le quali la sua vita si svolse nascesse la sua filosofia, che valore avrebbe essa avuto? Si sarebbe ridotta a un giudizio particolare, a un'opinione personale, a un'impressione fortuita: nessuno le avrebbe dato credito. Se egli voleva — e per la legge dell'amor proprio doveva volere — che fosse appresa come una cosa seria, come un'espressione della verità, doveva necessariamente negarne le cause reali ed affermarne soltanto l'origine razionale. Anche concedendo, come fece a proposito di Bruto, che la disperazione può dipendere dalle calamità, egli doveva presumere che l'ispirazione della calamità “ha forza di rivelare all'animo nostro quasi un'altra terra, e persuaderlo vivamente di cose tali, che bisogna poi lungo tempo a fare che la ragione le trovi da sè medesima„; e che l'effetto della calamità “si rassomiglia al furore dei poeti lirici, che d'un'occhiata scuoprono tanto paese quanto non ne sanno scoprire i filosofi nel tratto di molti secoli.„ E poi: non è una cosa sciagurata che il pensiero umano, che questo nostro giudizio del quale siamo tanto superbi, pel quale ci siamo collocati sul vertice della vita, sia così rigorosamente determinato da cause sulle quali nulla possiamo, sia quasi come un frutto a formare il quale hanno contribuito la specie della pianta, la natura del terreno e l'ordine delle meteore? Non è doloroso, non è male che la nostra mente non possa operare libera e sola, che il nostro giudizio non sia indipendente e sovrano? Il Leopardi intende questa necessità, e se talvolta la nega, la negazione non è altro che una forma di ribellione. Nè, da un'altra parte, il suo pensiero fu realmente tutto determinato dai soli casi della sua vita, dalle “circostanze materiali„ dalle “sofferenze particolari„ dalle “malattie.„ Noi possiamo trovare nelle storie esempii di vite più infelici ancora di quella del Recanatese, senza che per questo i disgraziati abbiano tutto negato; ne troveremo molti che si sono contentati, che si sono confortati; qualcuno anche che ha riso d'un riso schietto. Ma l'esperienza del dolore è acquistata, nel Leopardi, da uno spirito inquieto la cui inquietudine è cresciuta per effetto dell'educazione. Già vedemmo che il colore del tempo nel quale egli visse fu grigio. Nel suo dolore e nel suo pessimismo sono pertanto da distinguere due gradi, ed egli stesso li distingue. Quando dice che vive “malinconico, solitario e tristo„, quando scrive: “Non so perchè, ma mi trovo in una malinconia che cresce ogni giorno„; quando loda la noia e i “dolci affanni„, quando narra che aver pianto a Roma sulla tomba del Tasso è l'unico “_piacere_„ che abbia gustato nella città eterna; quando compone il _Passero solitario_, _L'Infinito_, _La sera del dì di festa_, _Alla Luna_, _Consalvo_, le poesie idilliache, elegiache, dove la tristezza è composta, dove il dolore è indefinito, egli è un romantico come tutti gli altri. I disinganni inevitabili ai troppo immaginosi, le ferite inevitabili ai troppo sensibili, l'esperienza di alcuni dolori reali, gli avrebbero fatto esprimere quella malinconia diffusa, quasi grata, quasi soddisfatta di sè stessa, che i poeti e i novellieri e i filosofi del suo tempo espressero concordemente. Egli sa che c'è, ed ha realmente provata la malinconia dolce e grata; ma perchè i suoi dolori non ebbero limite, perchè lo perseguitarono sino alla morte, perchè egli non potè godere, questo sentimento che è come “un crepuscolo„ dà luogo alla malinconia “nera e solida„ che è “notte fittissima e orribile.„ Guardate il dolente Chateaubriand: non ebbe egli i suoi piaceri, le sue fortune, i suoi trionfi? Il suo pessimismo è pertanto temperato. Un giorno egli scrive: “Ne désirons point survivre à nos cendres, mourons tout entiers de peur de souffrir ailleurs. Cette vie-ci doit corriger de la manie d'être.„ Non è la stessa idea che informa tanta parte degli scritti del Leopardi? Ma lo Chateaubriand, se arriva a concepirla, non la svolge, non la estende, non la sostiene, non ne fa un articolo della sua fede; non la mette neppure in un libro, l'annota in un manoscritto pubblicato dopo la sua morte; fate che, dopo averla concepita, le sventure d'ogni sorta lo perseguitino ogni giorno e lo schiaccino: egli vi tornerà sopra, la svilupperà, l'affermerà — come ha fatto Giacomo Leopardi. Noi già notammo che questi non stima sempre bella e buona la morte: perchè dunque la giudica “atra„, perchè la chiama “abisso orrido, immenso?„ Perchè si duole che la vecchiezza e la morte abbiano principio fin da quando il labbro infante Preme il tenero sen che vita instilla, e non si possano emendare dalla Nonadecima età più che potesse La decima o la nona, e non potranno Più di questa giammai l'età future? Se egli fosse costantemente persuaso che la morte è un bene, il solo bene, si dorrebbe così? Se si duole, ciò è perchè non sempre il suo pensiero è tutto ottenebrato: vi sono momenti durante i quali egli pensa che la morte è un male, il peggiore, con la vecchiezza che menoma le potenze vitali delle creature; e pertanto che la vita è un bene vero; che la vita dei giovani, calda, operosa, feconda, dischiusa a tutte le impressioni della natura, confusa nel gran torrente della vita universale, è il bene sommo, il miracolo dell'universo. E non solo il rigore spaventoso del suo destino gli vieta di fermarsi in questi concetti perchè brutalmente interrompe le sue tregue; non solo l'esempio di tanti dolenti lo conferma nella sua tristezza; ma la stessa disposizione della sua mente lo conduce alla negazione assoluta. Forse, attenuate le sue disgrazie, il suo pessimismo non si sarebbe attenuato in proporzione. Avendo cominciato a considerare la miseria del mondo e la vanità delle cose, egli sarebbe arrivato, con minore esperienza del dolore, a conclusioni non molto diverse. Per l'acutezza della sua sensibilità egli doveva naturalmente esprimere un giudizio disperato ad ogni impressione dolorosa; ma egli non era soltanto sensibile, era anche riflessivo. Noi trovammo in lui un potente spirito filosofico, l'attitudine, l'abitudine, il bisogno di procedere dal noto all'ignoto, dal particolare al generale, dal fatto alla legge. Una mente così logica non poteva credere che il dolore del quale egli era vittima fosse un'eccezione, una rarità, una cosa tutta fortuita; se l'uomo, se il poeta gli si ribellavano — come si ribellarono tante volte — il filosofo doveva vedervi un fatto naturale, necessario; e del fatto accertato doveva indagare la cagione, e trovarla in una legge. Il filosofo, vedendo l'uomo penare, doveva guardarsi attorno per considerare se queste pene fossero realmente singolari, se agli altri uomini fossero proprio sconosciute; e osservando la vita e leggendo le storie doveva scoprire che, esacerbato in lui, il dolore è retaggio di ogni uomo. Egli udì i lamenti esalare dagli oppressi petti dei suoi simili, in ogni tempo, in ogni luogo. Intorno a lui egli trovò altrettanti fratelli in tutti i romantici. Classico, seppe che gli antichi erano assuefatti a credere “che le cose fossero cose e non ombre„ e la felicità “possibilissima a conseguire, anzi propria dell'uomo.„ Ma se la visione della vita e del mondo fu un tempo generalmente luminosa e serena, non per questo mancò l'esperienza del dolore. Anche gli antichi sentirono quel che c'è d'incompiuto, di manchevole, d'incerto nel destino umano, e conobbero l'enormità del fato che ci sovrasta, e non furono esenti dalle lacrime; così il Leopardi discoprì nella invidiata serenità dell'ideale pagano le ombre che la velano; e discopertele affermò l'universalità del dolore. Ecco: “il saggio Chirone, che era dio, coll'andar del tempo si annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e morì.... Or pensa, se l'immortalità incresce agli Dei, che farebbe agli uomini.... Gl'Iperborei, popolo incognito, ma famoso; ai quali non si può penetrare, nè per terra nè per acqua; ricchi d'ogni bene; e specialmente di bellissimi asini, dei quali sogliono fare ecatombe; potendo, se io non m'inganno, essere immortali, perchè non hanno infermità nè fatiche nè guerre nè discordie nè carestie nè vizi nè colpe, contuttociò muoion tutti: perchè, in capo a mille anni di vita, o circa, sazi della terra, saltano spontaneamente da una certa rupe in mare, e vi si annegano.„ Ancora: “Bitone e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che non erano in pronto le mule, essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa di Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò la dea che rimunerasse la pietà de' figliuoli col maggior bene che possa cadere negli uomini. Giunone, invece di farli immortali, come avrebbe potuto, e allora si costumava; fece che l'uno e l'altro pian piano se ne morirono in quella medesima ora. Il simile toccò ad Agamede e a Trofonio. Finito il tempio di Delfo, fecero istanza ad Apollo che li pagasse: il quale rispose volerli soddisfare fra sette giorni; in questo mezzo attendessero a far gozzoviglia a loro spese. La settima notte mandò loro un dolce sonno, dal quale ancora s'hanno a svegliare; e avuta questa, non dimandarono altra paga....„ Se favole simili dimostrano che la morte non è un male, ma il premio più insigne; hanno i filosofi antichi espresso molta fede nella vita? Seneca “non trova contro al timore altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere.„ Il consiglio di Senofonte significa che il godimento dei beni è poco grato se manca la speranza di maggiori beni futuri: “consiglia che avendosi a comperare un terreno, si compri di quelli che sono male coltivati; perchè, dice, un terreno che non è per darti più frutto di quello che dà, non ti rallegra tanto, quanto farebbe se tu lo vedessi andare di bene in meglio....„ Ma questa aspettazione dei beni, questa ricerca della felicità, come è oggi causa dei più amari disinganni, così era giudicata anticamente: secondo Bione boristenite “i più travagliati di tutti sono quelli che cercano le maggiori felicità.„ Bruto giudicò la virtù “una parola nuda„, Teofrasto negò la gloria e disse che la morte sopravviene non appena l'uomo comincia a vivere; gli stoici insegnarono che per ottenere la felicità non c'è altra via che rinunziarla; Virgilio “contro l'uso dei Romani antichi, e massimamente di quelli d'ingegno grande, si professa desideroso della vita oscura e solitaria; e questo in una cotal guisa, che si può comprendere che egli vi è sforzato dalla sua natura, anzi che inclinato; e che l'ama più come rimedio o rifugio, che come bene.„ Ma come enumerare tutti gli antichi dolenti? Tristano, vedendo rifiutata da tutti la sua filosofia dolorosa, crederà che sia di sua propria invenzione: “ma poi, ripensando, mi ricordai ch'ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana; e chi di loro dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovinezza; ed altri altre cose infinite su questo andare.„ E se Porfirio pensa di uccidersi, non trova forse antichi esempi di uomini che vollero morire “per tedio solamente, e per sazietà dello stato proprio.... quali erano coloro che udito Egesia, filosofo cirenaico, recitare quelle sue lezioni sulla miseria della vita; uscendo dalla scuola andavano e si uccidevano; onde esso Egesia fu detto per soprannome _il persuasor di morire_?...„ Certamente gli antichi lodarono anche moltissimo la vita; come la lodano anche i moderni: ad ora ad ora il pianto cessa, gli occhi brillano, i canti di gioia riecheggiano; ma che cosa concludere? Che vi sono due leggi, una del dolore, un'altra del piacere? Le leggi particolari sono molte; ma dev'essercene pure una generale, universale, la legge delle leggi, la chiave del mistero. L'appetito di scienza che è in Leopardi filosofo non resta appagato se dalle leggi particolari egli non assorge all'ultima, o alla prima, all'unica certamente dalla quale tutte le altre dipendono. Ma questa verità fondamentale nessun uomo l'ha scoperta, nessun uomo la può scoprire; guardate: se uno s'affanna troppo a cercarla, la scienza moderna lo chiama pazzo, lo giudica affetto da follia metafisica!... Tale è veramente la condizione dell'intelletto umano: che esso, o deve rinunziare a comprendere tutta quanta la verità, o deve appagarsi di una verità non tutta vera. Il Leopardi passa dalla considerazione del proprio dolore a quello degli altri uomini, dei vivi e dei morti; logicamente collega tutti i fatti che lo dimostrano; da filosofo segue “indefessamente con l'occhio dell'intelletto un ordine di verità connesse tra loro a mano a mano„, ed arriva alla legge del dolore universale, necessario, eterno, infinito, inconsolabile. Ma egli pur sente d'avere esagerato. La sua teoria non è equa, come non sono state eque tutte le altre d'invenzione umana; ed egli stesso implicitamente lo riconosce. Filippo Ottonieri “stimava che una buona parte degli uomini, antichi e moderni, che sono riputati grandi o straordinari, conseguirono questa riputazione in virtù principalmente dell'eccesso di qualche loro qualità sopra le altre. E che uno in cui le qualità dello spirito sieno bilanciate e proporzionate fra loro; se bene elle fossero o straordinarie o grandi oltre modo, possa con difficoltà far cose degne dell'uno o dell'altro titolo, ed apparire ai presenti o ai futuri nè grande nè straordinario.„ Un uomo veramente, esattamente equilibrato, che volesse e sapesse tenere conto preciso di tutto, non solo non farebbe cose grandi o straordinarie, ma non ne farebbe neppur piccole, non farebbe niente. Tutti i nostri giudizii sono parziali, partigiani, appassionati, monchi; ma chi si spaventasse di questa necessità dovrebbe continuamente tacere. Poichè il silenzio continuo e la rinunzia totale sono impossibili in qualunque uomo, e più che impossibili, assurdi in un ingegno, in un genio come Giacomo Leopardi, questi formulerà postulati dei quali, mentre l'amor proprio vuole che si riconosca l'esattezza, la ragione denunzia inconsapevolmente l'esagerazione, perciò la falsità. Tutte le volte — e come vedemmo non sono poche — che egli riconosce il nesso tra la sua vita e la sua filosofia, non viene a dire, indirettamente, che la sua filosofia sarebbe diversa se egli avesse avuto un altro destino? E questo nesso che c'è in lui, non c'è in ogni uomo? Quindi tutte le filosofie non sono relative e, per qualche lato, false? Egli che ha fatto tante distinzioni tra uomini ed uomini e che si è tanto lagnato del proprio destino, afferma pure “questa massima riconosciuta da tutti i filosofi, la quale ti potrà consolare in molte occorrenze; ed è che la felicità e l'infelicità di ciascun uomo (esclusi i dolori del corpo) è assolutamente eguale a quella di ciascun altro, in qualunque condizione o situazione si trovi questo o quello. E perciò, esattamente parlando, tanto gode e tanto pena il povero, il vecchio, il debole, il brutto, l'ignorante, quanto il ricco, il giovane, il forte, il bello, il dotto: perchè ciascuno nel suo stato si fabbrica i suoi beni e i suoi mali; e la somma dei beni e dei mali che ciascun uomo si può fabbricare è uguale a quella che si fabbrica qualunque altro.„ Ma, come abbiamo visto che lo Chateaubriand non mette nelle sue opere la sentenza disperatissima sulla necessità della morte totale senza speranza di vita futura, così il Leopardi non sviluppa nei suoi scritti il più equo e consolante giudizio: lo esprime soltanto in una lettera alla sorella. Una critica meschina ed arrogante ardisce cogliere in fallo queste grandi anime, e presume di veder meglio di loro e più a dentro. Esse vedono e sanno tutto; ma naturalmente tutti i concetti non sono e non possono essere concordi; e fra i moltissimi bisogna pure scegliere. Il Leopardi ha visto prima che i suoi censori quel che si può e si deve dire contro la sua filosofia disperata; leggete il suo epistolario: vedrete che egli vi appare meno pessimista che non nelle opere. Certo l'esagerazione è biasimevole; ma non è altrettanto necessaria? Ecco: per il suo bisogno di risolvere i formidabili enimmi della vita e della morte lo hanno giudicato infermo di follia metafisica; se egli avesse temperato il suo pessimismo, se avesse dato forza agli argomenti con i quali sente di poterlo combattere, avrebbero provato che in lui c'è anche la follia del dubbio. Per fortuna questa accusa almeno non gli può esser mossa. Non ostante le contraddizioni inevitabili, egli non dubita. È un appassionato, un operoso ridotto contro sua voglia a discutere, ma inconsolabile per essersi dovuto restringere ai semplici ragionamenti; tutta la forza della sua volontà è concentrata nella sua fede — negativa, ma incrollabile. Nel negare, egli mette lo slancio mistico dei suoi pii antenati. Non che dubitare della sua credenza al rovescio, egli l'afferma vivacemente, e sdegnosamente protesta contro chi ne vuol scemare il valore, riducendola a un effetto dei suoi dolori. E non ha torto: la sua filosofia, se è derivata dall'esperienza, è anche scaturita dalla ragione. Ma un pessimismo soltanto filosofico e speculativo interesserebbe i pensatori, lasciando freddi tutti gli altri. Il pessimismo del Leopardi non è freddo, perchè il filosofo è accompagnato in lui dal poeta; e non è falso, perchè la speculazione è accompagnata dall'esperienza. Il filosofo che nega è anche un uomo che soffre. Perciò egli fu, è e sarà sempre creduto. Egli fu, è e sarà sempre ammirato perchè ha saputo definire tutti gli aspetti del dolore umano con una forma che eccita il più grande, il più puro, il più raro piacere. — Questo pessimismo suo, quantunque sembri totale e insanabile, ammette un temperamento ed offre un conforto. Egli preferisce la morte alla vita; ma la morte non consola la vita, la distrugge: la consolazione è nell'Arte. Per quella stessa ragione che la gioventù e l'amore sono le sole cose delle quali egli si loderebbe, l'arte è la sua consolazione. Amore e gioventù vivono di amene illusioni, che la vita pur troppo distrugge: l'arte crea tutto un mondo ideale contro il quale la realtà non può nulla: in mezzo alle peggiori disgrazie, tra i disinganni più atroci, l'artista può rifugiarvisi. Ed egli vi si rifugia. La sua gioventù è finita prima di cominciare; nessuna donna lo ha amato; i mali lo assediano; ma il suo pensiero vive ed opera ad ora ad ora, e l'arte gli concede tutte le sue grazie. Essa è per lui divina. Giudicata “inevitabile„ l'umana infelicità, egli trova un conforto negli “studi del bello.„ Se la vita degli uomini è tutto un ozio perchè tutto è vanità, l'arte, che pare esercitarsi intorno a cose vane, è invece la sola attività utile, perchè essa sola compensa la tristezza della realtà con la letizia delle fantasie. Questo è un invertimento del giudizio comune: che importa, se l'infelice ottiene per esso un sollievo e si riconcilia con la vita e quasi benedice quella natura che aveva già maledetta? FINE. INDICE PARTE PRIMA. L'UOMO. _L'indole:_ I. Il sentimento poetico Pag. 1 II. Lo spirito filosofico 11 _L'educazione:_ Classicismo e romanticismo 23 _L'esperienza:_ I. La salute 52 II. L'amore 65 III. La famiglia 94 IV. La patria 152 V. La gloria 177 PARTE SECONDA. IL PENSIERO. _Il pessimismo:_ I. L'illusione 193 II. La misantropia 212 III. Lo scetticismo 224 IV. La morte 237 _L'ironia_ 245 EPILOGO 278 OPERE DI FEDERICO DE ROBERTO (Edizioni Treves). _Le donne, i cavalier'_.... Edizione di lusso, in-8, illustrata da 100 incisioni L. 12 — _I Vicerè_, romanzo. 2 vol. 10 — _Una pagina della storia dell'amore_ 3 50 _L'illusione_, romanzo 3 50 _La sorte_, novelle 3 50 _La messa di nozze_, romanzo 5 — _L'albero della scienza_, novelle 4 — _Al rombo del cannone_ 5 — _All'ombra dell'olivo_ 6 — _Ironie_, novelle 4 — _Leopardi_ 7 — Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Leopardi" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.