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Title: La vita intima e la vita nomade in Oriente Author: Belgioioso, Cristina Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "La vita intima e la vita nomade in Oriente" *** produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) PRINCIPESSA DI BELGIOJOSO LA VITA INTIMA E LA VITA NOMADE IN ORIENTE FACCHI — EDITORE — MILANO 18 — VIA DURINI — 18 PROPRIETÀ LETTERARIA DELL'EDITORE FACCHI Stab. Tipo-Lit. FED. SACCHETTI & C. — Milano, Via Zecca Vecchia, 7 ALLA CARA MEMORIA DELLA MARCHESA MARIA TROTTI-BENTIVOGLIO BARBIANO DI BELGIOJOSO COMPAGNA ALLA MADRE IN QUESTO VIAGGIO D'ORIENTE TESTIMONE E PARTECIPE DEI SUOI PATRIOTTICI ARDIMENTI PREFAZIONE _Chiuso nella sua maschera impassibile e sibillina, l'emiro Feisal risaltava come il più esotico nella folla multicolore dei delegati convenuti da ogni parte del mondo alla Conferenza parigina per la pace. Lo spettatore riflessivo non poteva trattenersi dal considerare con inquietudine quella figura enigmatica che simboleggiava, non solo le tradizioni dell'Oriente, ma le speranze rinate del mondo arabo. Gli auspici non sono stati fallaci e le interrogazioni che venivano alle labbra affannose dei migliori conoscitori del Levante non hanno avuto ancora risposta, o piuttosto si sono moltiplicate e fatte più incalzanti. È così poco noto l'animo dei Mussulmani, che pur vivono sulle sponde del nostro stesso mare! Pellegrini, commercianti, navigatori che dall'Europa si sono recati durante secoli nei luoghi abitati o dominati dagli arabi sono rimasti quasi sempre fuor della soglia della casa retta dalle leggi del Corano. Ma l'uomo che ci è ignoto nella sua vita intima ci rimarrà straniero pur nel moltiplicarsi delle nostre relazioni esteriori con lui. Se gli italiani si propongono giustamente in quest'ora torbida di ritornare nel Levante in atteggiamento amichevole, offrendo a quelle popolazioni il mezzo di collaborare con loro nelle arti della pace, occorre che si sforzino di conoscere i sentimenti e le abitudini mentali, il tenore di vita di questi ambiti cooperatori. Frughino dunque tra i lor vecchi libri per cavar dalla polvere le relazioni dei loro avi veneziani e genovesi che pur seppero farsi comprendere dagli infedeli dell'altra sponda. Oggi intanto possono prendere in mano queste semplici e schiette narrazioni di un viaggio, anzi di un soggiorno che fece nell'Asia Minore e nella Siria una gentildonna milanese, fuggita laggiù nel 1849 all'indomani della caduta della Repubblica romana._ _Nel Levante la principessa Cristina di Belgiojoso recava un viso non meno pallido ed uno sguardo non meno fermo di quelli che turbano l'osservatore occidentale nel considerare lo sceriffo arabo. Nella Parigi fastosa ed intelligente del primo romanticismo, la bella milanese passò bene spesso come una sfinge, irritante nel suo mistero. Un passato storico gravava sulle sue esili spalle, che sapevano reggerlo colla maggiore saldezza. Nata a Milano il 28 giugno 1808 dal marchese Gerolamo Trivulzio e dalla marchesa Vittoria Gherardini, respirò fin dall'infanzia, nonostante le scosse recenti della rivoluzione e dell'invasione francese, quell'aura di grandezza e di opulenza che dominava in parecchie case patrizie della Lombardia. Il rapidissimo mutamento sopravvenuto nelle condizioni politiche ed economiche rende ormai difficile alle presenti generazioni di valutare l'importanza che poteva avere, nell'educazione della discendente di una di quelle grandi casate, la consapevolezza delle gloriose tradizioni famigliari. Conviene nondimeno di tentare di darne un'idea al lettore perchè quest'elemento è così essenziale nella formazione ed in tutta la vita della principessa di Belgiojoso che ogni ritratto non può prescinderne a rischio di diventare una caricatura. Un Trivulzio, un Litta, un Belgiojoso, uno insomma dei rappresentanti di quella decina di case magnatizie lombarde che sempre più si straniavano dalla vita stentata della crescente plebe nobiliare, vivacchiante negli uffici o colle scarse rendite, si riteneva praticamente indipendente dal potere centrale di Madrid o di Vienna, e ne faceva pochissimo conto. Quando l'amministrazione della casa avesse sistemato col fisco le vertenze necessarie a stabilire il tributo imposto dalla Corona come riscatto da ogni ulteriore limitazione, il marchese Trivulzio, non meno de' suoi parenti del ramo primogenito, che avevano avuto titolo principesco, non si sentiva ostacolato, in pieno settecento, dall'autorità dello Stato, in veruna delle sue iniziative o manifestazioni. Se in gioventù avesse senza alcun obbligo provato il desiderio di qualche avventura guerresca, gli eserciti imperiali gli avrebbero offerto facile occasione di segnalare l'istintivo coraggio e di rientrare carico di onori da una breve campagna. Parimenti un alto ufficio in Corte od una missione diplomatica gli sarebbero stati assicurati solo che ne avesse mostrato la menoma brama. Per solito la sua attività politica si svolgeva nell'ambito più ristretto ma più libero delle cariche civiche, garantite da una secolare autonomia municipale simboleggiata perfino dalla pratica della Cancelleria sovrana che si indirizzava al Senato di Milano chiamandolo «Re Potentissimo». Nel suo seggio fra i sessanta patrizi del Consiglio Generale di Milano, nel palazzo vastissimo e ricco di libri e di quadri, nella residenza rurale opulentissima, nel viaggiare, nel fabbricare, nell'abbattere boschi o nello scavare canali, un gran signore siffatto poteva agire assolutamente come gli piacesse, senza alcun sentore di tutti quei vincoli che in poco più di cento anni l'amministrazione moderna ha moltiplicato intorno alla libera espansione dell'attività o del capriccio individuale. Quando il Verri, gentiluomo riformatore, si recò a Parigi nella seconda metà del settecento ed ammirò il re Luigi XVº nel bel mezzo della sua Corte, sintetizzò nello scrivere a casa le sue impressioni affermando che la marchesa Litta nella sua villa di Lainate viveva con maggior agio che il re di Francia a Versailles. Si può ben comprendere come non fossero stati sufficienti quei brevi giorni della tumultuosa repubblica Cisalpina e nemmeno l'opera eguagliatrice dell'amministrazione francese, così riguardosa per maggiorenti del suo partito quali furono agevolmente i Trivulzio, ad illanguidire un senso così spontaneo d'indipendenza come quello che doveva venire ad un rampollo di simili schiatte dall'esercizio incontrastato di tanto potere. Valsero bensì i tempi nuovi, e sovratutto la partecipazione calorosa del marchese Visconti d'Aragona, patrigno di donna Cristina, ai moti del 1821, per indirizzare le resistenze dell'orgoglio patrizio alla nuova monarchia accentratrice stabilitasi a Milano col ritorno degli austriaci nel 1814 verso una schietta collaborazione di tutte le classi alte e colte del paese per costruire sulle rovine di quel governo straniero un regime più illuminato e prettamente nazionale. Così fu educata Cristina Trivulzio, anzitutto dagli esempi dei famigliari, ma anche dalle lezioni accurate di due filologi, il Prefetto della Biblioteca Braidense Robustiano Gironi e lo storico della letteratura italiana Francesco Ambrosoli. A questi si aggiunse un giovane di fervidissimo amor patrio che lasciava allora il seminario di Pavia e la scuola austera del vescovo Tosi, per fare le prime prove nell'insegnamento, palestra alla nobile attività politica alla quale era chiamato, e che, sebbene non avesse mai preso gli ordini sacri, era tuttora detto l'abate Achille Mauri. Le nozze, che si offersero a donna Cristina Trivulzio e che furono celebrate l'11 settembre del 1824, la condussero in una casa quasi altrettanto illustre e certo non meno magnatizia, ma più gaja ed aperta._ _Il principe di Belgiojoso, che non aveva ancora venticinque anni, bel giovane, dotato di una voce da far invidia a cento cantanti, viveva fra gli artisti, senza resistere alle seduzioni femminili che si addensavano sul suo passaggio dacchè la morte del padre lo aveva posto a capo di una gran casa ed al possesso di cospicue rendite. Pur facendo la parte dell'esagerazione nelle memorie del suo amico e compagno di eleganti capestrerie, conte d'Alton-Shée, Emilio di Belgiojoso, che ci è descritto a così vivi colori in quelle pagine appunto al momento delle sue nozze, appariva alla società parigina quasi nel tempo stesso in cui vi regnavano un Lamartine, un Balzac, come il leggendario «prince charmant» al quale nessuna resiste. Malgrado gli auspici, breve dovette essere la felicità coniugale per donna Cristina, più intelligente, più colta, si potrebbe anche dire più raccolta e più fiera del marito. Poco più di cinque anni bastarono a rendere necessaria la divisione della principessa dal marito che riprese, o meglio continuò, la sua vita di giovinotto gaudente. Ciò avvenne nel 1830, che è il medesimo anno nel quale la principessa Cristina cominciò a dare un gran lavoro alla polizia austriaca con viaggi, più o meno clandestini, a Ginevra, Berna, Genova, Livorno e Marsiglia, che furono illustrati da Raffaello Barbiera sulle traccie dei rapporti delle spie conservati nell'archivio di stato di Milano. Fra quelle carte lo stesso biografo diede maggior rilievo alle denuncie di un tal Raimondo Doria sedicente marchese, che cercherà più tardi di coinvolgere la principessa nelle indagini aperte contro Felice Argenti per un supposto attentato contro il Metternich, accuse che del resto non sembra abbiano trovato credito nelle alte sfere viennesi. Non può che destar meraviglia la parte eminente fatta ad una dama di poco più che vent'anni nella preparazione dei primi tentativi compiuti dalla Giovane Italia. La situazione sociale, la generosità ed il fascino della donna si erano imposte anche al Mazzini che le lasciò maneggiare a suo talento le centomila lire che essa aveva offerto nel 1831 per il malaugurato colpo di mano sulla Savoja. Il governo austriaco intervenne inceppando con sequestri la libera amministrazione del patrimonio della principessa che vi contrappose subito il magnifico gesto della vendita de' suoi giojelli. Essa fornì allo scrittore e propagandista Enrico Misley il denaro necessario alle pubblicazioni che denunciarono lo sgoverno che l'Austria ed i suoi sostenitori facevano del disgraziato popolo italiano. Non si potrebbe negare qualche fondamento al sospetto di esagerazione, anzi di affettazione, che accompagnò il tenore di vita della principessa nei primi tempi della sua «povertà». Questa fu sempre molto relativa, almeno prima del 1848, e certo non obbligava la discendente dei Trivulzio a dimorare in quell'appartamentino sotto i tetti nel quale essa si fece aiutare dal Thiers a cuocere le uova colle sue bianche mani affusolate. Accanto al sorriso scettico di qualche ironista, quell'innocente ostentazione della dama non ancora trentenne produsse un largo interessamento del gran mondo parigino alle strettezze dell'esule e si risolse in un effettivo discredito della politica vessatoria seguita dall'Austria in Italia. Del resto la principessa Cristina scese ben presto dal suo quarto piano per prendere in affitto un bell'appartamento nella Rue d'Anjou, ove aperse un salotto emulo degli altri celebri che ebbero tanta fama in quel quartiere di Sant'Onorato._ _A voler parlare di quel soggiorno parigino della principessa di Belgiojoso durante la Monarchia di luglio, un italiano della presente generazione si trova ormai in quella situazione imbarazzante, così ben tratteggiata dal Sainte-Beuve quando tenta di ritrarre madame Récamier nella sua età mitica, cioè durante il suo reame mondano anteriore al primo impero. Il rimpianto appassionato che quell'epoca d'intensissima attività politica e letteraria, di una sorta di libertinaggio intellettuale ha lasciato nei superstiti, dopo il crollo del regime nella fornace del 1848, appanna il quadro agli occhi dello storico. Comprendiamo che una società nella quale ancora regnava il Chateaubriand, mentre si affermavano il Lamartine, il Musset, Victor Hugo, Enrico Heine, il Balzac, il Thiers, il Mignet, il Vigny e cento altri, si disfrenavano le passioni di una Sand e di una Ortensia Allart, al tempo stesso in cui si estendevano le applicazioni delle scoperte scientifiche alla vita pratica e si diffondevano le ricchezze, una tale parentesi di rapide realizzazioni e di piaceri dello spirito posta fra le guerre dell'impero e l'inasprirsi delle rivendicazioni sociali fosse atta a suscitare l'entusiasmo di cenacoli raffinati. Noi ora vediamo peraltro la ristrettezza della base di un tal regime troppo assorto nel godimento del presente senza che i moniti del passato lo incuriosissero e lo preoccupassero per l'avvenire, e sentiamo come fosse necessaria una preoccupazione più alta, meno dilettantistica, si potrebbe anzi dire meno bizantineggiante, per riscattare tanti agi e tante feste._ _Non si potrebbe negare tale vanto alla principessa di Belgiojoso che, fra tante esperienze psicologiche e mondane, recava l'ardore della sua fede patriottica ed a quel suo apostolato in difesa dell'Italia perseguitata riconduceva spesso anche inaspettatamente le divagazioni ed i trionfi femminili. Le fu imputata una mancanza di coerenza nel frequente oscillare dal metodo riformatore al rivoluzionario e dal programma repubblicano al monarchico; ma le accuse che le furono mosse dal più autorevole storico del Risorgimento, Alessandro Luzio, per qualche condiscendenza formale alle imposizioni dei governanti austriaci, non possono diminuire l'ammirazione per una lunga vita avventurosa che ritrova appunto la sua unità nell'efficace amor di patria. Meno sicura è la linea di condotta di questa dama con pretese teologiche nei dibattiti filosofico-religiosi. È noto che si arrischiò a scrivere un «Essai sur la formation du dogme catholique» pubblicato nel 1842. Vi tratta con qualche disinvoltura i Padri della Chiesa ed affronta i più spinosi problemi con tanta spigliatezza da aver subito legittimato il dubbio che la collaborazione dell'abate Coeur vi avesse una parte preponderante. La principessa aveva in cuore un profondo attaccamento alla Chiesa Cattolica, che si paleserà anche nelle sue impressioni di viaggio in Oriente, e temette poi per quasi tutta la vita che i consigli di quell'eloquente sacerdote francese non bastassero a preservare il volume dalle censure ecclesiastiche. Con tutto ciò il solo pensiero di redigere un tal libro attesta nobilissime preoccupazioni ed una preparazione filosofica veramente eccezionale in una donna. Si consacrò pure a dilatare i confini della fama di Giambattista Vico e pubblicò un saggio sul filosofo napoletano, seguito da una traduzione della «Scienza nuova». Chi mai si sarebbe aspettato di rintracciare un tal merito nella vita di una regina dei salotti, arbitra della moda, centro di rivalità e di cupidigie? La scelta è difficile fra le numerose testimonianze che ci sono rimaste del soggiorno di Cristina di Belgiojoso in Parigi, variato dalle villeggiature a Versailles, a Marly, alla Jonchère presso Rueil. Il lettore esperimentato riconosce spesso in quei racconti gli echi di risentimenti, d'invidie, di gelosie e di delusioni, sovratutto di queste ultime, implacabili negli uomini vanitosi. Vi è tutta una letteratura, in gran parte fantastica, sulle relazioni fra la principessa ed Alfredo de Musset. I magnifici versi del poeta «per una morta» pubblicati nella _Revue des Deux Mondes_, e le caricature schizzate a penna e riprodotte nel volumetto della viscontessa de Janzé (poi divenuta la principessa di Faucigny Lucinge) sono gli elementi positivi per risalire con un'indagine non ancor fatta spassionatamente all'origine di quella clamorosa rottura che turbò nei suoi vertici la società parigina intorno al 1840. Non vi è quasi esempio di altre signore straniere che avesser conquistato tanta rinomanza in un mondo chiuso e spesso impassibile verso i nuovi venuti come è l'alta società francese. Alla principessa di Belgiojoso furono intimamente devoti uomini come Claudio Fauriel, scopritore del Medio Evo neo-latino e maestro di Alessandro Manzoni, gli storici Mignet e Agostino Thierry, ospite questi per lunghi anni di cecità in un padiglione eretto nel giardino Belgiojoso della Rue Montparnasse, perfino l'amarissimo Enrico Heine. Il giudizio di testimoni così acuti e liberi dovrebbe pur bilanciare le insinuazioni maliziose dei Don Giovanni respinti o giocati. Leggete in ogni modo, se volete farvi un'opinione personale di questa bella sfinge, le pagine di Madame Jaubert, sorella del conte d'Alton-Shée, della contessa d'Agoult, donne esperte del cuore umano e delle competizioni femminili e concluderete certo che la riputazione di crudele freddezza fabbricata ai danni di Cristina di Belgiojoso è una triste favola. «Pallida, sed quamvis pallida pulchra tamen» fu definita in un momento di irritazione da Alfredo de Musset e, se l'aspetto suo fu cereo e a volte spettrale, la sua bellezza seppe pure animarsi quando sentimenti affettuosi od emozioni patriottiche facevano affluire il sangue nelle vene di quel corpo diafano. Alta, magra, con occhi e capelli nerissimi, collo allungato, la principessa di Belgiojoso, maestra di tutte le eleganze che potessero accentuare il significato della sua personalità estetica, eserciterebbe certo un gran fascino anche nella nostra società contemporanea. Apparsa, fuggiasca e perseguitata, nella capitale del Romanticismo, vi fu da troppi considerata un simbolo vivente di quel mondo d'eccezione e pagò il prezzo di tanti successi cogli strali avvelenati che i contemporanei le lanciaron dietro talvolta additandola alla posterità. L'interesse destato da tutto questo battagliare intorno all'Elena romantica non può che riverberarsi in una maggiore attrattiva offerta dagli scritti svariati nei quali essa ha pur lasciato traccie de' suoi sentimenti e de' suoi sogni._ _A Parigi la principessa di Belgiojoso non visse solo tra i salotti e le biblioteche, scese fra il popolo spingendosi perfino in quelle conventicole dei visionari Sansimoniani che preludevano alla propaganda dei socialisti. Il suo istinto patrizio l'aveva sempre portata a tender la mano ai reietti da un ordine costituito col quale non si sentiva solidale. Non appena, profittando dell'amnistia promulgata dal nuovo imperatore d'Austria Ferdinando, le fu concesso di rimpatriare, irradiò dal suo possesso di Locate, nel basso Milanese, una serie d'iniziative filantropiche. Ci appare dunque in veste di un autentico precursore, promovendo un orfanotrofio rurale, aprendo un pubblico scaldatoio, una cucina economica, una scuola infantile, un'altra di lavori femminili. Le preoccupazioni risvegliate dall'agitarsi della questione sociale e dei problemi economici tengono un gran posto nell'infaticabile attività giornalistica che improntò la vita della principessa negli anni precedenti il 1848, quando si lusingò di poter accelerare il moto riformatore promovendo una diffusione delle teorie del Gioberti sulla preminenza del popolo italiano e le sue particolari attitudini ad una rapida elevazione delle proprie condizioni politiche. Con tali tendenze fondò nel 1845 la _Gazzetta italiana__ alla quale seguì l'_Ausonio_, sostituito a sua volta da una _Rivista Italiana_. Nel medesimo periodo di speranze diffuse in una soluzione pacifica e graduale dei problemi italiani, la principessa di Belgiojoso pubblicò in Parigi un notevole libro di storia politica, quegli _Etudes sur l'histoire de la Lombardie dans les trente dernières années ou des causes du défaut d'énergie chez les lombards_, che avrebbero, secondo si narra, tanto commosso il conte Federico Confalonieri da indurlo ad affrontare in pieno inverno il valico delle Alpi. Il glorioso superstite delle cospirazioni del 1821 era verosimilmente impaziente di contrapporre alla narrazione della Belgiojoso qualche scritto che ponesse in miglior luce l'azione dei federati lombardi e del loro capo, ma trovò la morte ad Hospenthal sul San Gottardo e fu così evitata una polemica che avrebbe potuto essere incresciosa per entrambi i contendenti._ _Le grandi scene delle insurrezioni popolari propagatesi in tutta Italia nel 1848 dovevano naturalmente richiamare nella penisola la principessa, predestinata a quelle lotte dalla sua indole e dai suoi precedenti tentativi. Non appena udì narrare l'ammirabile epopea delle cinque giornate, accorse a Milano da Napoli recando sulla nave _Virgilio_ duecento volontari napoletani equipaggiati e mantenuti a sue spese. Il barone di Hübner, diplomatico austriaco cresciuto alla scuola del Metternich, e trattenuto come ostaggio dal governo provvisorio di Milano, ha voluto gettare il ridicolo su questa parentesi guerresca nella carriera della dama milanese. Le apparenze forse non militavano in suo favore se già il Caccianiga se ne burlava dalle colonne dello _Spirito Folletto_, pubblicato allora a Milano. Ma l'oggettività dello storico non può fermarsi al lato un poco ridicolo e che finì nel tragi-comico di quella parata rivoluzionaria e deve riconoscere anche in quell'atteggiamento da regina delle Amazzoni l'impulso generoso al quale la principessa obbedì assumendosi le spese di tutta la spedizione. Per un'indole come quella di Cristina di Belgiojoso le cinque giornate ed i mesi che seguirono con tutto quel tumulto di battaglie, di contese civili, di processioni, di comizi dovevano rappresentare qualcosa d'intermedio e di non ben definito tra il sogno e la realtà. Tesi i nervi sensibilissimi, il cervello in perpetuo lavorio, essa visse tutto quel tempo come in una febbre, ciò che prova ancor una volta la sincerità de' suoi gesti più discussi. Naturalmente fondò subito altri giornali che si pubblicarono in Milano tra l'aprile e l'agosto, intitolati: _Il Crociato_ e _La Croce di Savoja_; redigeva pure opuscoli e fogli volanti ed inviava corrispondenze ai giornali francesi. Fin dal 13 aprile si era rivolta con una lettera eloquente al re Carlo Alberto e, per il tramite del conte di Castagneto, segretario del re, gli moltiplicava gli incoraggiamenti che potevano anche sembrare dei moniti, per una azione più energica e meno municipale. Agli uomini pacati che sedevano nei consigli della Corona o al Governo provvisorio la principessa appariva evidentemente come un'esaltata, sì che non seppero trarre profitto della sua esuberante attività. Delusa ed impressionabile essa sentì rinascere in cuore le antiche simpatie per il Mazzini col cui temperamento acceso si trovava in una facile comunione di emozioni e di propositi. La versione che pubblicò nella _Revue des deux Mondes_ dei dolorosi fatti dell'agosto 1848 parrebbe formulata sotto la dettatura del Mazzini. Ormai il fascino del grande cospiratore era ridiventato invincibile in lei. Lo seguì a Roma organizzata in una effimera repubblica e cinta d'assedio dalle truppe francesi. Vi divenne facile bersaglio della reazione clericale che calunniò la donna volendo colpire la rivoluzionaria. Si comprende che la sua missione di infermiera dei volontari non potesse svolgersi senza suscitare entusiasmi e recriminazioni, quelli forse più pericolosi di queste. Le testimonianze imparziali di stranieri come gli americani Story sono sostanzialmente favorevoli alla principessa e pongono in cattiva luce la partigianeria dei medici militari francesi che la cacciarono violentemente dalla direzione degli ospedali romani. Il 31 luglio 1849 Cristina di Belgiojoso doveva fuggire da Roma accompagnata dalla figliola imbarcandosi per Malta con un passaporto inglese. Volgeva le spalle all'Italia ottenebrata dalla reazione trionfante ed anche alla Francia che si era collegata, quasi senz'avvedersene, coi nemici di quel vano tentativo di ricostituzione nazionale abbozzato dagli italiani nel solco fecondo della Rivoluzione francese. Andò in Grecia ed in Turchia sforzandosi di placare gli sdegni dell'animo turbato e di medicare le ferite profonde inferte al suo spirito ed al suo corpo. Vedrete in queste pagine che contengono la relazione dei viaggi dell'esule nel Levante come questa vi si fosse recata in una disposizione d'animo ospitale verso le genti a lei sconosciute fra le quali si proponeva di vivere più pacificamente che non avesse potuto farlo nella sua vecchia Europa. La vena nascosta di rimpianto nostalgico che certo le rimaneva in fondo all'animo non affiorava quasi mai. Così questa signora occidentale, ricca di tante esperienze accumulate in una vita ancor breve ma eccezionalmente avventurosa, tendeva l'orecchio a tutte le voci dell'Oriente, desiderosa di penetrarne i misteri._ _Presentata ormai al lettore la donna veramente non comune che dal fondo dell'Asia Minore mandava alla _Revue des deux Mondes_ le pagine così fresche e spontanee, che, per la prima volta, sono qui pubblicate in veste italiana, converrà che io accenni di volo agli ultimi anni dell'autrice, per rendere più compiuto il ritratto disegnato di scorcio come introduzione a questo volume._ _Gli ultimi tempi del soggiorno in Asia furono poco propizi alla principessa per la difficoltà delle comunicazioni coll'Occidente, donde non le pervenivano i necessari invii di denaro, per l'esito incerto delle sue iniziative agricole e sopratutto per il pericoloso attentato di cui arrischiò di rimaner vittima da parte di un domestico congedato. Anche per diminuire le strettezze dalla sua situazione finanziaria, essa consacrò una larga parte delle sue giornate alla redazione di scritti inspiratile dalle sue vicende e cioè, oltre queste scene della vita orientale, altri articoli inviati alla _Revue des deux Mondes_ e al _National_. La vendetta austriaca non cessava dal perseguitarla nemmeno laggiù e, quando l'imperatore Francesco Giuseppe raccolse la sfida gettatagli dalla temeraria insurrezione del 6 febbraio 1853 e sequestrò i beni dei principali esuli, non scordò di porre nelle liste di proscrizione il nome di Cristina di Belgiojoso. Cedendo all'imperioso appello delle circostanze ed alle insistenze della sua famiglia, la principessa si decise a ritornare in Europa, dapprima in un castello che aveva nella Provenza la marchesa d'Aragon, sua sorella consanguinea, indi nel 1854 a Parigi. Non tardò a comprendere i sintomi annunciatori della riscossa apparecchiata dai patriotti italiani sotto la guida del conte di Cavour e, piena di fiducia, diede la definitiva sua adesione al programma monarchico-costituzionale ed unitario del grande ministro piemontese. Collaborò coll'antica foga all'attuazione di tali disegni e scrisse, in previsione della guerra che scoppiò poi effettivamente nel 1859, un'opera divulgativa, _Histoire de la Maison de Savoie_. All'indomani della vittoria, nel 1860 fondò il giornale _l'Italie_, che superando molte trasformazioni vive tuttora. La collaborazione frequente a questo foglio ed alla _Nuova Antologia_ non assorbiva però l'intera operosità letteraria della Belgiojoso che pubblicò, nel 1866, lo scritto: _Delle presenti condizioni della donna e del suo avvenire_, nel 1868 le _Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire_, infine nel 1869 l'opuscolo _Sulla moderna politica internazionale_. L'orizzonte delle indagini e delle polemiche dell'autrice di questi notevoli scritti d'avanguardia era per altro venuto restringendosi nei limiti dello stato italiano, a scapito di quel cosmopolitismo che aveva contrassegnato la sua giovinezza. La principessa non valicava più le Alpi e non solcava più le acque del Mediterraneo. Aveva comprato a Blevio sul lago di Como un villino che aveva appartenuto al conte Sciuvaloff, gentiluomo russo convertito al cattolicesimo ed entrato nella congregazione dei Barnabiti. Invecchiata rapidamente dopo tante avventure, ma paga di veder l'Italia unita ed augurandole fiduciosa i maggiori destini, Cristina di Belgiojoso alternava coi soggiorni sul lago di Como ed a Locate quelli a Milano nella casa del genero, l'insigne patriotta marchese Lodovico Trotti Bentivoglio. Quivi la raggiunse la morte il 5 luglio 1871._ _Tale avevano foggiata il sangue, le tradizioni, l'educazione, i viaggi, la vita multiforme questa che è senza dubbio la scrittrice di maggior levatura che abbia dato Milano alle lettere italiane nella prima metà del secolo XIX. Adoperò, è vero, la lingua francese con frequenza forse ancora maggiore della favella nativa e la maneggiò con facilità per lo meno uguale. Ma anche le sue prose francesi, come queste pagine inviate dalle sponde del Mar Nero ai lettori della _Revue des deux Mondes_, furono concepite ed, aggiungerei, architettate in italiano. Il periodare più ampio, il colorito più vivo, l'immediata rispondenza della forma agli sviluppi di un pensiero assai spesso nuovo e personale, differenziano a prima vista lo stile della Belgiojoso da quello delle contemporanee francesi sue amiche o rivali. Parimenti, quando ella entrava con passo sicuro nei salotti parigini, fosse pure il cenacolo dell'Abbaye aux bois, spiccava senza possibile abbaglio fra le dame convenute da ogni angolo del nobile sobborgo anche se intinte di pece letteraria come la contessa d'Agoult o madame Jaubert. Parlo sempre di donne perchè, se alla sua generazione l'inatteso riserbo in tanta gara di passioni, l'indipendenza negli atteggiamenti della vita e la vocazione alla politica militante, fecero designare di preferenza Cristina di Belgiojoso coll'aggettivo un po' irritante di «maschia», _foemina-vir_, a noi che la riguardiamo da una certa ragionevole distanza le stigmate del sesso appaiono chiarissime nella sua carriera e nei suoi scritti. Le ritroverete evidenti leggendo un libro come quello che s'inizia ormai, al voltar di quest'ultima pagina introduttiva. Solo una donna avrebbe potuto esporvi una materia così nuova come i misteri degli harems, chiusi ai viaggiatori dell'altro sesso: ma meglio ancora converrete che era privilegio femminile il cogliere tra gli aspetti della vita orientale quelli più rivelatori dello spirito e del sentimento, fermati e tradotti da una sensibilità particolare che a volte sembra quella di una rabdomante._ GIUSEPPE GALLAVRESI SCENE E RICORDI DI VIAGGIO IN ASIA I. GLI HAREM, I PATRIARCHI E I DERVISCI, LE ARMENE DI CESAREA. Fra i giorni che ho passato in Oriente, me ne ricordo alcuni di un incanto singolare, nonostante le fatiche e le emozioni che li riempirono: sono i giorni di marcie penose, interrotte da soste ancor più penose, che si succedettero dalla mia partenza dall'Anatolia nel gennaio 1852 fino al mio arrivo a Gerusalemme nella stessa primavera. Nel corso di qualche mese mi fu dato osservare, in ciò che ha di triste e al tempo stesso di attraente, la vita orientale, di cui il mio lungo soggiorno in una pacifica valle dell'Asia Minore non mi aveva rivelato che gli aspetti più calmi. Pertanto, quando cerco di raccogliere, di fissare le mie idee sul mondo strano nel quale fui trasportata per un istante, non saprei interrogare più volontieri altri ricordi, fra tutti quelli che mi son portata venendo dall'Oriente. Alcuni episodi staccati di quest'epoca della mia vita potranno forse bastare a giustificare la preferenza con cui il mio pensiero vi si riconduce oggi ancora. Mostreranno, nei tratti essenziali, la fisionomia delle popolazioni che questo viaggio mi ha permesso di osservare, mentre i racconti, sin qui pubblicati, non avevano potuto darmene che un'idea molto inesatta. Ad esempio, la Siria, come io l'ho visitata, non assomiglia affatto alla Siria che avevo potuto scorgere traverso ai libri. È ben vero che io ero in condizioni assai più favorevoli della gran maggioranza dei viaggiatori per conoscere tutto un lato importantissimo della società mussulmana, il lato domestico dominato dalla donna. L'harem, santuario dei Maomettani, ermeticamente chiuso a tutti gli uomini, mi era aperto. Io potevo penetrarvi liberamente, potevo discorrere con quegli esseri misteriosi, che i «Franchi» non scorgono se non velati, interrogare alcune di quelle anime di cui non si conoscono confidenze e provocarne di preziose su tutto un mondo ignoto di passioni e di dolori. I racconti dei viaggiatori, così incompleti per ciò che riguarda la civiltà mussulmana, lo sono troppo spesso anche in ciò che concerne la natura e l'aspetto materiale dei luoghi. Essi adoperano molte parole senza spiegarle, di quelle che, in ciò che si potrebbe chiamare la «lingua europea», hanno un significato assai differente dalla loro portata effettiva in relazione agli usi dell'Oriente. Non voglio per altro insistere sulle difficoltà di dare conto di un viaggio in Oriente: non so infatti neppure io se riescirò a superarle tutte quante. Mi par meglio di affrontarle senz'altri preamboli, lasciando al racconto stesso l'incarico di giustificare il narratore. I DERE-BEYS — IL MUFTÌ DI SCERKESS Una parola anzitutto sul paese nel quale io abito. La valle d'Eiaq-Maq-Oglu (valle del «Figlio della pietra da fucile») si trova ad alcune giornate di cammino dalla città rilevante che ha per nome Angora. Ho fissato la mia dimora in quest'angolo pittoresco e fertile dell'Oriente; da questa valle sono partita per lanciarmi nella vita nomade. Su questa terra, solcata durante tanti secoli da tutti gli eserciti del mondo, dai soldati di Mitridate e di Pompeo, come da quelli di Bajazet e di Tamerlano, non v'è regione, per quanto romita, che non abbia un passato tragico e sanguinoso, e non evochi ricordi funebri e dolenti. Si sono tentati ai nostri giorni sforzi diretti a risvegliare in Oriente la dolce influenza del benessere e della civiltà, ma i benefici della pace non sembrano sul punto di giunger così presto a cancellare quassù le traccie della guerra. Permangono le rovine, ma non appajono ancora gli edifici nuovi. La valle d'Eiaq-Maq-Oglu è uno dei luoghi in cui l'impronta del passato è rimasta profonda e l'azione del presente non si rivela che con conati incompleti. La borgata più vicina a casa mia si chiama Veranceir[1], nome che significa città distrutta e ricorda sinistre avventure. Al posto di quel borgo, non sono ancora trent'anni, sorgeva una città fiorente, con una popolazione di circa 40,000 anime. Veranceir, munita di buone fortificazioni, era la residenza favorita di un pascià potente, il cui governo, ormai smembrato, ha formato due o tre provincie. Comandava alle città di Bolo, di Angora, di Scerkess, d'Eraclea, ecc.; ma il signore di quelle grandi città le lasciava volontieri per venire a cercare il riposo nella vallata verde, in mezzo alla quale sorge Veranceir, in riva al fiume che ne bagna i ridenti giardini. A questa predilezione del pascià Osman, Veranceir andò debitrice della sua prosperità, ahimè quanto effimera! Mentre Veranceir così prosperava la Turchia obbediva al Sultano Mahmud[2], che proseguiva la sua opera di rinnovamento fra lotte sanguinose. La dominazione dei Dere-beys, feudatari militari in perpetua rivolta contro il gran signore e non rifuggenti dal fargli la guerra colle truppe reclutate nel loro feudo, era una di quelle vestigia dell'antico sistema turco che Mahmud riteneva necessario distruggere. Quasi tutta l'Asia Minore era divisa fra alcuni pochi di questi beys, buoni principi in fondo, per quanto male intendessero i loro doveri verso il sultano. Essi incoraggiavano fino ad un certo punto l'agricoltura e il commercio ed i loro interessi non erano sempre contrari a quelli dei loro popoli. La guerra sostenuta dai Dere-beys contro il sultano imponeva certo agli abitanti onerose gravezze; ma i capi ribelli non trascuravano nulla per circoscrivere le ostilità in un territorio assai limitato, e ad ogni campagna seguivano lunghe tregue acciocchè il lavoro dei campi, fonte della prosperità delle famiglie, non fosse completamente abbandonato. Osman pascià aveva molte mogli e molti figli. Disgrazia volle che uno di questi figli, chiamato Mussa, fosse sedotto dall'esempio di uno dei suoi cugini, che aveva fama d'essere uno dei più turbolenti fra i Dere-beys. Mussa prese a percorrere il paese sottoposto a suo padre, s'impadronì dei tributi, adunò delle truppe, spiegò la bandiera dei Dere-beys e ne indossò l'abito. Il vecchio Osman, rimasto fedele suddito del sultano e desolato del colpo di testa di suo figlio, mandava un messaggio dopo l'altro a Costantinopoli per attestare la sua innocenza ed il suo rammarico. Commosso da queste proteste, Mahmud volle allontanare il padre dai luoghi ove il suo esercito poteva esser condotto ad incrudelire contro il figlio ribelle e affidò ad Osman pascià un comando nella Rumelia. Avviandosi alla sua nuova sede, Osman si scontrò col corpo d'esercito mandato a combattere contro suo figlio. Il padre rassegnato, rivolgendosi al capo delle truppe del sultano, esclamò: Dio ti doni la vittoria! Il generale del sultano aveva cercato inutilmente di ottenere da Osman qualche indicazione sullo stato del paese e dei popoli insorti, ma non riescì a strappargli che lagrime e singhiozzi. Qualche giorno più tardi Osman non avrebbe marciato a sua volta contro Mahmud? Il sultano l'aveva mandato a tempo in Rumelia. Ed ecco il giovane bey, liberato dal peso dell'autorità paterna, impegnarsi decisamente in una guerra lunga e terribile. Le sue reclute si battevano bene perchè combattevano sui loro campi, sulla soglia delle loro case, e quei montanari dell'Asia Minore avevano la sensazione di difendere la causa dell'indipendenza nazionale contro un esercito straniero. I Turchi di Costantinopoli con uniformi ed armi europee apparivano loro come degli stranieri. Mussa aveva una cavalleria leggera che si faceva ammontare a 20 o 30,000 uomini; con essa, sopratutto, il giovine bey faceva prodigi. Ogni anno, nuovi corpi d'esercito erano gettati da Costantinopoli sulle truppe del figlio di Osman; ogni anno, se ne ritornavano dopo aver lottato invano contro i rozzi soldati del capo insorto. Erede delle ricchezze e dell'influenza di suo padre, Mussa bey lo imitava nella sua predilezione per Veranceir. Vi si trovava meglio che nelle grandi città come Angora, ove una popolazione mista rende la difesa più difficile. Stabilito nella sua residenza favorita e circondato da' suoi valorosi e fedeli cavalieri, Mussa bey si credeva invincibile; e lo sarebbe forse stato se il sultano non avesse fatto intervenire nella contesa un elemento nuovo contro il quale nulla eravi di pronto. Alludo all'artiglieria che in Asia Minore non era nota che per fama; ma, sotto il comando di alcuni europei rinnegati, parecchi pezzi da campagna e d'assedio partirono da Costantinopoli e vennero ad assediare la città di Veranceir le cui fortificazioni non eran state costruite per resistere a tal sorta d'attacchi. L'ignoranza del bey in materia è provata dal suo errore di lasciarsi rinchiudere da un corpo d'artiglieria in una città inetta alla difesa; essa fu bombardata, le mura abbattute e la vittoria toccò al più abile, non al più intrepido. Forse il bey avrebbe avuto un'ultima via di scampo con una vigorosa sortita alla testa della sua cavalleria; ma la guerra durava da 10 anni, la stanchezza si era impadronita del cuore dei più valorosi ed i nuovi nemici, le cui armi insospettate compivano così orribili devastazioni, inspiravano una sorta di terror panico più fatale che i pericoli più reali. D'altronde i successori dei Solimani, dei Selim e dei Bajazet non avevano ancora abiurato le massime odiose della loro antica politica e a quei tempi i mussulmani non avevano rossore d'ingannare e di tradire. Il comandante dell'esercito imperiale fece sapere al bey ch'era munito d'ordini speciali a suo riguardo, che il sultano, ammiratore della sua valentia coraggiosa, voleva prenderlo al suo servizio, non avendo dimenticato i meriti del padre e volendo rimunerarne il figlio. Il generale ottomano aveva incarico di promettere a Mussa un completo perdono ed anche, per più tardi, i maggiori onori, purchè deponesse le armi e si recasse solo a Costantinopoli per farvi atto di sottomissione e vivervi poi tranquillamente, in attesa che piacesse al sultano di ricompensarne l'obbedienza. Mussa bey diede ascolto a queste proteste e forse non gli restava in realtà altra via da seguire. Pattuite non pertanto alcune condizioni per il suo paese, per i suoi fedeli e per la sua famiglia, il bey partì per Costantinopoli accompagnato da una scorta d'onore datagli dal pascià trionfante, e, tutto essendo stato sistemato con generale soddisfazione, lo stendardo del bey fu abbassato e sostituito dalla bandiera imperiale e le truppe del sultano presero possesso di ciò che restava della città. Non vi fu a Veranceir nè saccheggio, nè massacro, nè esecuzioni militari: fu il bey che pagò per tutti. Appena fu arrivato a Costantinopoli vide i soldati della scorta d'onore tramutarsi in guardie ed in carcerieri; Mussa fu chiuso in una prigione e vi fu decapitato dopo tre giorni di captività. Non basta: le sue mogli, i suoi giovani fratelli e i suoi figli furono arrestati nei dintorni di Veranceir, nella loro proprietà d'Eiaq-Maq-oglu, dove la sua famiglia si era ritirata alla partenza del bey. Furono inviati alla lor volta a Costantinopoli e venduti come schiavi. I loro beni furono confiscati e di tutta quella casa, testè così potente, non rimase che il vecchio Osman che non si permise il menomo mormorio e ricevette, in cambio delle sue perdute ricchezze, una pensione sufficiente a sostenere il rango che gli era lasciato. Il vecchio morì pochi mesi dopo suo figlio, triste ma silenzioso, senza lamentarsi e senza parlare delle sue sventure, attestando al suo sovrano quell'amore e quella gratitudine che riscaldano il cuore del pio e vero cristiano quando loda e glorifica il Signore d'aver gravato la mano su di lui e sui suoi. Ma cos'era dunque quest'Osman pascià? Un'anima stoica, un cuore devoto, un fanatico, un imbecille od un furbo compare? Non mi assumo di rispondere a queste domande. Il sultano Mahmud non sopravvisse lungamente al suo fedele servitore Osman e il suo giovane figlio Abdul-Megid[3] gli succedette. Che un tale figlio sia nato da un tal padre, che un principe di tal fatta abbia regnato su un popolo simile, che un mussulmano siasi rivelato così dissimile dai mussulmani di tutti i tempi sono ben strane anomalie. Tosto dopo la sua assunzione al trono, Abdul-Megid attese a scoprire quali fossero state le sorti delle famiglie di tutte quelle vittime illustri che avevano insanguinato il regno di suo padre. Sulla lista di quelle famiglie sventurate non mancava quella di Osman pascià. Si rintracciarono alcuni discendenti del padre di Mussa che dalla sua rivolta in poi eran tenuti schiavi. Restituita loro la libertà ed alcune delle loro antiche terre, tutti, uomini, donne e bimbi vi ritornarono abbandonando Costantinopoli. Il fratello maggiore di Mussa, uno degli amnistiati, sposò la più cospicua vedova del Dere-bey. I beni resi a questa famiglia non prosperarono nelle mani di questi beneficati dalla clemenza di Abdul-Megid. I degeneri figli di Osman, invece di sfruttare le loro terre, preferirono darsi all'usura, al commercio e vi furon anche quelli che vissero di rapine. Ben presto il territorio della valle d'Eiaq-Maq-Oglu fu trascurato, i mulini vi si fermarono, i canali d'irrigazione furono ostruiti, e il paese, un tempo abitato da Osman, si trovava in così triste stato allorchè io vi giunsi. Vedete con quali uomini io doveva aver a che fare. La fama pubblica mi annunciava ai proprietari fondiari dei paesi vicini a Costantinopoli come una dama «franca» che la guerra cacciava dalla propria patria e che veniva a trascorrere l'esilio in Turchia. I discendenti di Osman sopratutto si ripromisero di far buoni affari con una straniera sbarcata in Turchia in tali condizioni, e non avevano interamente torto. Venni da Costantinopoli per visitare la vallata così cara al vecchio pascià; la situazione, la bellezza del paese, la calma di quel ritiro incantato vinsero tosto le mie esitazioni. Comprai per cinque mila franchi la valle d'Eiaq-maq-Oglu, cioè una pianura di circa due leghe di lunghezza, per un terzo di lega di larghezza, traversata da un corso d'acqua e incorniciata da montagne boscose, con una casa, un mulino e una segheria. I fratelli del Dere-bey avevano fatto una magnifica retata e quando nel paese si seppe qual somma avevano riscossa si andò dicendo che la fortuna favorisce gli inetti. In ogni caso non ebbi troppo da lagnarmi degli antichi possessori della mia piccola tenuta, ed, allorchè disegnai di allontanarmene per qualche mese per recarmi a Gerusalemme, mi decisi a cominciare il viaggio in compagnia del più giovine dei fratelli di Mussa-bey. Ho fatto il racconto particolareggiato della storia di questa famiglia di cui avevo in parte riscattato l'eredità, perchè essa riassume assai bene le condizioni nelle quali languivano talune provincie della Turchia trent'anni or sono. I miei ricordi faranno forse apparire gli stessi paesi sotto un altro aspetto e si potrà così confrontare l'epoca di Abdul-Megid a quella di Mahmud. In una fredda giornata di gennaio io lasciai dunque il mio tranquillo rifugio, colla scorta di uomini a cavallo senza la quale è impossibile viaggiare in Oriente. Un fratello minore di Mussa, come ho detto, mi accompagnava. Dovevamo traversare, per raggiungere la piccola città di Bajandur[4], termine della nostra prima tappa, la contrada un tempo governata dal figlio di Osman. Il mio compagno mi mostrava i luoghi dove il derebey aveva battuto le truppe imperiali, il boschetto in cui una spia del nemico era stata impiccata sotto gli occhi e per ordine del capo dei ribelli, il posto già occupato dalle fortificazioni di Veranceir, il lato che aveva maggiormente sofferto dall'artiglieria del Sultano. La mia guida ravvisava spesso nei vecchi contadini che incontravamo lungo la strada dei compagni di Mussa bey; egli mi parlava della propria captività, delle sofferenze da lui sopportate, dello stato misero al quale era ridotto. Infine al nostro arrivo a Bajandur, ove presi alloggio in casa del Direttore delle poste, che era a sua volta un cognato di Mussa, il mio giovine compagno si accomiatò da me: ritornava al suo piccolo villaggio appollajato in cima ad un'alta montagna come il nido di un uccello di rapina. Seguii a lungo cogli occhi quel giovine, nato alla lotta e ristretto precocemente in una vita di ozio senza gloria. Triste spettacolo quello del fiero montanaro che su una cavalla curda, magra e gracile, seguiva faticosamente le svolte della strada. Gli abiti del giovine cavaliere contradicevano del resto a ciò ch'egli mi aveva detto della sua povertà: il suo turbante verde, il suo ricco mantello d'Aleppo, in lana bianca intessuta d'oro e d'argento, annunciavano in lui il discendente di una nobile schiatta. Per un istante mi dolsi di non avere il pennello di Decamps[5] per fissare sulla tela quella figura fiera e selvaggia. Non saprei dir nulla di Bajandur; ma a Scerkess[6] ove mi fermai la mattina seguente, incontrai un tipo della società orientale che contrastava in modo caratteristico con quello del mio compagno del giorno innanzi. È per mezzo de' miei ospiti che vorrei far conoscere l'Oriente. La vita domestica è uno degli aspetti meno conosciuti della civiltà mussulmana, uno di quelli che ho potuto meglio studiare. A Scerkess scesi da un muftì[7] che avevo guarito qualche mese prima d'una febbre intermittente, e che m'aspettava a braccia aperte. Si è tanto parlato dell'ospitalità orientale, che m'asterrei volontieri d'intavolare questo discorso, se parlandone molto non se ne fosse parlato assai male. Ho letto, per esempio, dei racconti di viaggio in cui gli autori cantavano le lodi dell'ospitalità dei Turcomani[8], mentre io ho sempre riconosciuta l'origine turcomana della popolazione d'un villaggio dal miserando ricevimento che mi si faceva. Del resto si accetta come seria offerta d'ospitalità qualunque complimento indirizzato da un indigeno ad un forestiero senza pensare agli strani equivoci che produrrebbe da noi un'interpretazione troppo letterale di certe formule della cortesia europea. Il fatto è che, di tutte le virtù tenute in conto nella società cristiana, l'ospitalità è la sola che i mussulmani si credano in obbligo di praticare. Là dove i doveri sono poco numerosi, essi sono maggiormente rispettati, cosa del resto perfettamente naturale. Gli orientali hanno dunque preso sul serio questa sola ed unica virtù, questo vincolo isolato ch'essi hanno consentito ad imporsi. Sventuratamente una virtù che si appaga di apparenze è esposta ad alterarsi ben presto. E questo è appunto ciò che è accaduto, è ciò che accade giornalmente nell'ospitalità orientale. Un mussulmano non si consolerà mai d'aver mancato alle leggi dell'ospitalità. Entrate in casa sua, pregatelo d'uscirne, lasciatelo esposto alla pioggia, al sole alla porta del suo stesso alloggio, devastate la sua dispensa, esaurite pure le sue provviste di caffè e d'acquavite, rovesciate in ogni senso i suoi tappeti, i suoi materassi, i suoi cuscini, spezzate il suo vasellame, inforcate i suoi cavalli e rendeteli esausti, se tale è il vostro capriccio. Il mussulmano non vi indirizzerà un solo rimprovero perchè voi siete «un muzafir» un ospite: è Dio stesso che vi ha inviato e qualunque cosa voi facciate siete e sarete sempre il benvenuto. Tutto ciò è ammirevole; ma, se un mussulmano trova modo di sembrare altrettanto ospitale quanto è richiesto dalle leggi e dai costumi, senza sacrificare un centesimo od anche guadagnando una grossa somma di denaro, al diavolo la virtù, evviva l'ipocrisia! È ciò che accade novantanove volte su cento. L'ospite vi ricolma di cortesie mentre soggiornate in casa sua; poi, se alla vostra partenza non gli pagate venti volte il valore di ciò che vi ha dato, aspetterà bensì che siate uscito dalla sua casa, che abbiate deposto quindi il vostro sacro carattere di «muzafir», ma poi vi getterà delle pietre. Naturalmente voglio parlare della moltitudine volgare, e non dei cuori semplici e buoni che amano il bene perchè lo trovano amabile e che nella pratica della virtù procurano a sè stessi un'intima gioja. Il mio vecchio mufti di Scerkess può entrare in questo numero. La sua casa è costituita, come quella di tutte le buone famiglie del Levante, da un corpo di fabbrica riservato alle donne e ai bambini, di un padiglione esterno, con un salone d'estate ed uno d'inverno e finalmente di qualche camera per i domestici. Il salotto d'inverno è una bella camera riscaldata da un buon camino, coperta da grossi tappeti ed abbastanza ben mobiliata da divani ricoperti in stoffe di seta e lana e distribuiti tutt'intorno. L'arredamento della sala d'estate consiste in una fontana che sorge nel mezzo della stanza, alla quale si accostano, occorrendo, cuscini e materassi per sedersi e sdrajarsi. Del resto non si vedono nè finestre, nè porte e l'esterno non è separato dall'interno dalla menoma barriera. Il mio vecchio mufti, che ha novant'anni, possiede parecchie mogli, la più vecchia di soli trent'anni ed ha figli di tutte le età, da un marmocchio di sei mesi ad un uomo di sessant'anni. Egli professa una ripugnanza di buon gusto per il frastuono, il disordine e la sudiceria dell'harem. Vi si reca durante la giornata, come va a vedere ed ammirare i suoi cavalli in scuderia; ma abita e dorme, secondo la stagione, nell'uno o nell'altro de' suoi salotti. Quell'uomo eccellente comprese che, se non aveva potuto adattarsi con una lunga abitudine agli inconvenienti dell'harem, ben peggio doveva essere per me, recentemente sbarcata da quella terra di raffinatezze incantevoli che qui si chiama il «Franguistan». Mi dichiarò dunque subito che non mi confinerebbe in quel luogo oscuro e confuso, male odorante e fumoso che si chiama l'harem, e mi offerse il suo appartamento che accettai con gratitudine. Dal canto suo si insediò nella sua sala d'estate, preferendo, anche alla fine di gennaio e mentre la neve ricopriva città e campagne, la sua fontana ghiacciata, col pavimento umido e tutte le correnti d'aria, all'atmosfera calda ma fetida dell'harem. Temo di distruggere qualche illusione quando parlo degli harem con così scarso rispetto. Avendo letto le descrizioni che ce ne danno le «Mille e una notte» ed altri racconti orientali, udendo che quei luoghi sono il soggiorno della bellezza e degli amori, siamo autorizzati a credere che le descrizioni letterarie, sieno pure esagerate, abbiano un fondamento nella realtà e che in quei misteriosi rifugi debbano trovarsi riunite tutte le meraviglie del lusso, dell'arte e della più sontuosa voluttà. Quanto siamo lontani dal vero! Immaginatevi dei muri anneriti e screpolati, dei soffitti in legno con fenditure, polvere e ragnatele, dei divani stracciati ed unti, delle portiere strappate, macchie di cera e di olio in ogni angolo. Tale spettacolo era urtante per me, poichè entravo per la prima volta in luoghi simili, ma le padrone di casa non se ne accorgevano. Sono vestite come Dio vuole e, poichè gli specchi sono rarissimi in quei paesi, le donne si mettono intorno a caso ornamenti di cui non possono valutare esattamente le strane ripercussioni. Arrotolano intorno al capo dei fazzoletti di cotone stampato e vi puntan sopra spilloni di diamanti e di pietre preziose. I loro capelli sono trascuratissimi ed i pettini sono solo conosciuti dalle gran signore che abbiano abitato alla capitale. Fanno un uso smodato di belletti di tutti i colori: ma non possono regolarne la distribuzione che ajutandosi l'un l'altra coi reciproci suggerimenti e, rivali come sono tutte queste donne che convivono nella stessa casa, non trovano di meglio che d'incoraggiarsi mutualmente alle dipinture più grottesche. Esse pongono del carmino sulle labbra, del rossetto sulle guancie, sul naso, sulla fronte, sul mento, del bianchetto arbitrariamente e come sfondo, del bleu intorno agli occhi e sotto il naso. Quello che è ancora più strano è il modo con cui si tingono le sopraciglia. Devono aver udito dire che le sopraciglia acquistano bellezza col formare un grande arco, e ne concludono di potersi far tanto più ammirare quanto più grande sarà questa curva, senza domandarsi se essa non abbia il suo posto delimitato irrevocabilmente dalla natura. Attribuiscono quindi alle loro sopraciglia tutto lo spazio tra una tempia e l'altra e si dipingono sulla fronte due archi immensi che partono dal culmine del naso e se ne vanno, ciascuno per conto suo, fino alle tempia. Non mancano, per quanto sieno casi rari, delle giovani beltà bizzarre che preferiscono la linea retta alla curva e che disegnano una grande riga nera traverso la fronte. Il risultato più certo e più deplorevole di tutto ciò è il sovrapporsi di tutta questa pittura alla pigrizia ed alla sudiceria che riescono così naturali alle donne dell'Oriente. Ogni viso di donna diventa un'opera d'arte molto complessa e non si potrebbe rifarla tutte le mattine. Perfino le mani ed i piedi tinteggiati in color arancione sfuggono all'azione dell'acqua che può compromettere queste bellezze. La massa di bambini e di schiave, specialmente nere, che affolla gli harem, congiunta all'uguaglianza del tenor di vita fra serve e padrone, costituisce un aggravante della mancanza generale di pulizia. Non è necessario di spiegare come vivano ovunque i bambini piccoli; ma immaginiamoci inoltre quale sarebbe il destino dei nostri mobili fini d'Europa, se le nostre cuoche, le donne di fatica, venissero a riposarsi sulle nostre poltrone, appoggiando i piedi sui nostri tappeti e la schiena alle nostre tende. Per di più, i vetri sono tuttora per l'Asia un oggetto di curiosità, le finestre sono di solito chiuse con carta oliata, e, dove scarseggia anche la carta, si sopprimono senz'altro le finestre e ci si contenta di quel po' di luce che penetra dal camino e che è più che bastante per fumare, per bere e per battere i bambini troppo riottosi, sole occupazioni alle quali si dedicano durante il giorno le spose dei fedeli mussulmani. Non crediate per questo che in tali camere senza finestre regni una vera oscurità. Le case non hanno mai più di un piano, le cappe dei camini non sorgono mai più alte del tetto e sono molto ampie, sì che accada, piegando un poco il capo davanti al camino, di scorgere facilmente il cielo dall'apertura. È l'aria che manca completamente in quegli alloggi. Ma quelle signore non se ne lagnano affatto perchè soffrono naturalmente il freddo e non sanno cacciarlo col moto: rimangono durante ore intere accoccolate per terra dinanzi al fuoco e non riescono a comprendere che talora altri vi si senta soffocare. Mi pare di venir meno solo che ripensi a quelle caverne artificiali, ingombre di donne in istracci e di bimbi maleducati e benedico con tutto il cuore l'eccellente mufti di Scerkess e la sua singolare delicatezza che mi risparmiò un soggiorno di ventiquattr'ore nel suo harem, tanto più che non è dei meglio tenuti. È un personaggio ben straordinario il mio vecchio amico, il mufti di Scerkess, a giudicarlo almeno dal nostro punto di vista europeo, perchè armonizza perfettamente colla società mussulmana. Non gli avrei dato più di sessant'anni, è alto di statura e leggermente incurvato, ma sembra piegarsi piuttosto per condiscendenza che per debolezza; porta con grazia congiunta a nobiltà la lunga toga e la pelliccia rossa dei dottori in legge. I suoi lineamenti regolari, il suo colorito chiaro e quasi trasparente, il suo occhio limpido ed azzurro, la sua lunga barba bianca che scende ondulata sul suo petto, la sua bella fronte alla quale sovrasta un turbante bianco o verde rigonfio alla moda antica, tutto ciò potrebbe servire degnamente come modello per un ritratto di Giacobbe o di Abramo. Quando si vede un così bel vecchio, circondato da una famiglia tanto numerosa ed onorato da' suoi concittadini come il simbolo vivente di tutte le virtù, è difficile trattenersi da un sentimento profondo di venerazione. Io non abitavo, mi venivo dicendo, la casa di un semplice mortale, ero ammessa in un santuario. Le vicinanze ne erano affollate ad ogni ora da devoti di ogni età e di ogni condizione accorsi a baciare il lembo dell'abito del Santone, a chiedergli consigli, preghiere ed elemosine. Tutti ripartivano contenti cantando le lodi del loro benefattore. Egli stesso sembrava corazzato contro tutte le debolezze umane: la noia, l'impazienza, il disprezzo, il motteggio, il malumore, l'egoismo. Quale spettacolo incantevole lo scorgere il vecchio coi più giovini de' suoi figli che gli si arrampicavano sulle ginocchia, nascondevano il loro viso giovine nella sua lunga barba e si addormentavano nelle sue braccia, mentr'egli sorrideva loro con tenerezza, ascoltava attentamente i loro lagni e le loro apologie, li consolava de' loro crucci con dolci parole, li esortava allo studio rifacendo con essi e per essi il pesante cammino dell'alfabeto. Io mi smarriva nella contemplazione di quel giusto dicendo fra me: felice il popolo che tuttora possiede e sa apprezzare tali uomini! Ma una conversazione, che ebbi col mufti e con uno de' suoi confidenti, gettò qualche ombra sulla mia ingenua ammirazione. Il vecchio stava seduto con uno de' suoi bimbi su ciascun ginocchio. Ebbi l'idea di chiedergli se avesse molte mogli. Mi rispose: «Non ne ho che due in questo momento (ed era un po' vergognoso di mostrarsi così sprovvisto), le vedrete domani e non vi piaceranno — poi fece una smorfia di disprezzo: — quelle vecchie donne, proseguì, sono state abbastanza belle, ma è passato molto tempo». — Che età hanno? — domandai. — Non ve lo potrei dire esattamente, sono sulla trentina. — Oh! — esclamò allora uno dei servitori del mufti, — il nostro signore non può contentarsi di mogli simili e non tarderà a riempire i vuoti che la morte ha lasciato nel suo harem. Se voi foste venuta un anno fa, avreste veduto una donna degna di sua Eccellenza; ora che è morta ne troverà delle altre, non dubitatene. — Ma — chiesi a mia volta — sua Eccellenza non è giovane, ha sempre avuto, a quanto pare, parecchie mogli giovani e non le considera tali che al dissotto dei trent'anni. Calcolo quindi che nel corso della sua lunga vita deve averne ricevute nel suo harem un numero molto notevole. — Probabilmente — fece il sant'uomo impassibile. — E vostra Eccellenza ha senza dubbio molti figli? Il patriarca ed il suo domestico si guardarono scoppiando in una risata: poi, quando l'accesso d'ilarità fu passato, il padrone rispose: — Se ho molti figli? lo credo bene, ma non saprei dirvene il numero. — Dimmi, Hassan — soggiunse rivolto al suo confidente — mi potresti dire quanti figli io abbia e dove si trovino? — In verità, no. Sua Eccellenza ne ha in tutte le provincie dell'impero ed in tutti i distretti di ogni provincia; ed è tutto quello che io so e scommetterei che egli stesso non ne sa più di me a questo proposito. — Come potrei saperlo? — disse il vecchio. Io volli insistere, perchè il mio patriarca perdeva a vista d'occhio nella mia estimazione e volevo mettermi il cuore in pace; perciò ripresi: — Come sono allevati questi figlioli, chi ne ha cura? A quale età lasciano il padre? Ove sono stati mandati? e confidati a chi? A quale carriera sono indirizzati e quali sono i mezzi di sussistenza? E come li riconoscete? — Oh Dio mio! Posso sbagliarmi come qualunque altro, ma poco importa. Del resto li ho tutti allevati, come vedete che faccio con questi fino all'età in cui hanno potuto bastare a loro stessi. Le ragazze sono state sposate o regalate a 10 o 12 anni e non ne ho più sentito parlare; i maschi non sono così precoci e non possono trarsi soli d'impiccio prima dei 14 anni. Io dò allora a ciascuno una lettera di raccomandazione per qualche amico che diriga una grande casa od occupi una carica; egli li colloca in casa sua od altrove, ma tocca ai giovani stessi di far fortuna, io me ne lavo le mani. Io domandai ancora: — E non li vedete più? — Che ne so io? Io ricevo, abbastanza spesso, la visita di persone che si dicono miei figli e che possono anche esserlo; faccio loro buon'accoglienze e li ospito per qualche giorno senza chieder loro nulla. Finiscono bene per comprendere che qui non vi è posto per essi e che non vi hanno assolutamente nulla da fare. Le loro madri sono morte, essi sono degli stranieri per me. Per cui se ne vanno spontaneamente e, dopo essere venuti una volta, non ricompaiono più. Sta bene, perchè altri arrivano al posto loro e fanno poi come quelli che li hanno preceduti. Meglio così. Io non era ancora soddisfatta e continuai: — Ma questi bei bambini che accarezzate e che vi abbracciano così teneramente sono destinati a subire la stessa sorte? — Senza dubbio. — Ve ne separerete quando avranno raggiunto l'età di 10 o 14 anni? Non vi preoccuperete cosa diverranno? Non li rivedrete forse più? E, se ritorneranno un giorno per sedersi ancora una volta alla tavola famigliare, li tratterete come degli stranieri e li vedrete ripartire, questa volta per sempre, senza dar loro un solo di quei baci che prodigate loro adesso? Che accadrà di voi un giorno nella vostra casa deserta quando la voce dei vostri bimbi non vi risuonerà più? Io cominciavo ad animarmi ed i miei uditori non mi capivano più. Il domestico riuscì ad afferrare il senso delle mie ultime parole e si affrettò a rassicurarmi circa l'isolamento futuro del suo venerato padrone. — Oh, — disse — quando questi bimbi saranno grandi, sua Eccellenza ne avrà altri piccolini, potete rimettervi a lui su questo punto, non se ne lascerà mancare. Padrone e servitore scoppiarono in una nuova risata, ma il vecchio aveva osservato che l'effetto prodotto in me da questa conversazione non aveva aumentato la mia stima per lui che teneva a conservare. Affrontò quindi una dissertazione con una certa pretesa di serietà a proposito delle famiglie troppo numerose e dei loro inconvenienti, dell'impossibilità di nutrire e di allevare fino in fondo tutti i propri figlioli, specialmente in una vita così lunga come la sua. Quest'apologia era svolta in un tono solenne, ma le argomentazioni sulle quali si fondava non erano per questo meno assurde ed odiose, tanto che fui ripetutamente sul punto d'interrompere il patriarca. Mi limitai a compiangere in silenzio il popolo che onora uomini di tal fatta come modelli di virtù. L'indomani ricevetti la visita della principale sposa del patriarca; era un bel donnone, ma orribilmente impiastricciata di rosso e di nero; vi sarà stato anche del bianco, ma non lo si vedeva. Quando le restituii la visita, la trovai circondata da tutte le signore della città che le rendevano onore come alla moglie del personaggio più importante del paese. Essa sembrava comprendere tutta la dignità della sua posizione e ne godeva senza scrupoli. Poichè mi piaceva poco non feci con essa una conoscenza più intima e profittai del permesso del mufti per tenermi ad una certa distanza dalla porta dell'harem. Se devo poi darvi un'idea della città di Scerkess, l'antica Antoniopolis, vi additerò tante piccole case in legno ed in fango più o meno in rovina, distribuite a caso sul terreno, abbandonando alle immondizie lo spazio rimasto libero fra l'una e l'altra. Le funzioni di spazzino sono affidate ai cani quasi selvatici, agli sciacalli ed agli uccelli di rapina. Nessuno si preoccupa di assicurare agli abitanti il transito da una casa all'altra. I solchi, le buche, i detriti dei muri crollati, tutto ciò si accumula, si sfascia, aggravando uno stato di cose al quale nessuno rimedia. In alcune città, nell'interno dell'Asia Minore, per traversare le strade si ricorre a dei pattini, che potrebbero anche esser chiamati dei trampoli, tanto sono alti. Altrove le suole delle scarpe devono essere rimpiazzate da sandali in pelle di capra o in pelle di bufalo non conciata e non spogliata del suo pelo. Non ultimo inconveniente è quello che una persona di statura appena superiore alla media arrischia di urtare negli spigoli dei tetti delle case, se non sta in mezzo alla strada. Ecco un quadro fedele di Scerkess che può applicarsi a tutte le città dell'Asia Minore. ANGORA E IL CONVENTO DEI DERVISCI Due giorni di marcia separano Scerkess da Angora[9], viaggio faticoso. Traversiamo a cavallo montagne nevose e, caso singolare, splende un sole molto caldo, ma il suolo che scricchiola sotto i nostri passi è tutto ghiacciato. La prima tappa mi riservò un incidente che poteva emozionarmi. Eravamo arrivati verso sera ai piedi di una montagna dai fianchi tappezzati da fitti boschi di pini. Era il tramonto quando arrivai sulla nuda spianata di quel monte, e il vento del nord che vi turbinava per poco non mi gettò dal cavallo. Dovevo ancora salire un'erta nell'oscurità, aggravata da incessanti raffiche di neve. D'un tratto il cavallo si ferma avendo perduto la traccia del sentiero che serpeggiava dinanzi a noi come le strade che valicano le Alpi e gli Appennini. Tutta la mia scorta era immobilizzata e, per aumentare l'imbarazzo, una mandra di mucche e di asini, guidata da qualche ragazzo, ostruiva il passaggio nel quale ci sforzavamo invano di avviare le nostre cavalcature. Era per altro necessario di uscire da quell'immobilità che ci minacciava di un congelamento, dato il freddo intensissimo che regna su quelle alture. Il nostro cavass prese una decisione eroica e lanciò il suo cavallo a caso fendendo gli strati di neve che avevamo d'intorno. Seguii il suo esempio affidandomi alla Provvidenza ed il mio cavallo traversò con impeto la distesa di neve nella quale l'avevo lanciato: perdette piede due volte e due volte ritrovò un punto d'appoggio, finchè raggiungemmo un terreno più solido al di là di quel passo pericoloso. Eravamo sulla cima della montagna non lungi da una casa di rifugio di cui potevamo già scorgere il fumo ospitale; pochi minuti dopo la nostra scorta ci raggiungeva ed una mano mezzo gelata, della quale fu difficile riattivare la circolazione, fu il solo strascico che ebbe per me un incidente come può aspettarsene qualsiasi viaggiatore che si rechi nell'inverno dall'Anatolia alla Palestina. Ormai siamo ad Angora, l'antica Ancira. Mi trattenni in questa città una quindicina di giorni nel febbraio del 1852. L'archeologo non trova che poveri avanzi dell'antica capitale della Galazia, ma un viaggiatore incuriosito dalla vita attuale dell'Oriente può raccogliervi materia d'osservazioni interessanti. Gli europei, poco esperti di usanze amministrative del paesi mussulmani, devono aspettarsi purtroppo ogni sorta di noie. Io avevo dimenticato, al momento della mia partenza, di far rettificare un errore che era sfuggito nella redazione del mio passaporto. Contavo porvi rimedio ad Angora, ove risiede un Caimacan[10], ma egli si rifiutò di prestarvisi senza una mancia di 15,000 piastre. Non fu possibile di piegare quell'avido funzionario nè con osservazioni, nè con rimproveri, nè con preghiere, e mi riescì appena di ottenere una riduzione nel prezzo. Messa così alle strette e decisissima a non dare un centesimo a quel mascalzone, gli dichiarai che non avevo su di me che il denaro indispensabile per arrivare fino a Cesarea e che non potevo quindi pagarlo che con una tratta su Costantinopoli. L'accettò ed io gli consegnai la cambiale, ma scrissi al mio banchiere di non pagarla. Il blocco fu levato non appena consegnai la cambiale e mi affrettai ad uscire da Angora e dalla giurisdizione di quello sciagurato Caimacan. Mentre questa faccenda s'era imbrogliata e risolta dovetti far passare il tempo e pazientare. Il mufti di Scerkess mi aveva indirizzata al suo amico, il mufti di Angora, personaggio ancora più vecchio e non meno rispettabile del suo collega. Egli aveva varcato i cent'anni e possedeva anch'egli delle mogli giovani e dei bambini piccolissimi. Questo valentuomo aveva perduto la vista da qualche anno e i dervisci, che aveva consultato, avevano parlato di una cataratta. Volle sapere ciò che io ne pensassi, perchè la mia reputazione nella scienza medica è così ben stabilita in Asia come può essere a Parigi quella del Dottor Andral[11]. Gli potevo dare qualche speranza perchè non scorgevo una vera cataratta e gli consigliai una cura che intraprese senza esitazione e che, sin dall'inizio, gli procurò qualche sollievo. Bastò perchè il buon vecchio concepisse una grande amicizia per me. Mandava tutte le mattine i suoi coadiutori a prendere le mie notizie, ed a mettersi a mia disposizione per tutte le spedizioni e le ricerche che volessi fare. Quei bravi mufti mi offersero, fra le altre distrazioni, la visita di un celebre convento di dervisci situato nella città stessa ed io accettai con premura la loro proposta. Questo nome di dervisci compare spesso in tutti i racconti orientali ed in tutti gli scritti che trattano dell'Oriente e de' suoi costumi, ma, se io vedo bene, l'idea che ci si dà di tali personaggi è inesatta ed incompleta. Dal canto mio m'ero sempre rappresentato il derviscio come un frate mendicante mussulmano, un sant'uomo a modo suo, sottoposto ad una regola più o meno austera, subordinato a capi appartenenti ad una gerarchia sacerdotale, e costretti ad adempiere compiti di beneficenza e di sacrificio. Un personaggio così foggiato dalla fantasia non assomiglia affatto al vero derviscio. Derviscio può diventare istantaneamente qualsiasi mussulmano purchè si leghi al collo od infili nella sua cintura un talismano qualsiasi, una pietra raccolta sul territorio della Mecca, una foglia secca caduta da un albero che dia ombra al sepolcro di un santo o qualunque altra cosa di suo gusto. In mancanza di reliquie può scegliere semplicemente un corno nel quale soffia a date ore del giorno od anche un semicerchio in ferro innastato su di un bastone destinato a reggere il suo capo nei brevi momenti nei quali è supposto abbandonarsi al riposo, ciò che vuol dire che il santone si è condannato alla veglia perpetua. Difatti il bastone che porta all'estremità questo semicerchio che deve servire da cuscino, non rimane fermo che per un miracolo d'equilibrio e, non appena l'asceta ha chiuso gli occhi, il bastone oscilla, cade e sveglia il dormiente. Vi sono poi dervisci che si accontentano di portare in testa una pelle di capra a foggia di berretto in punta e questa strana decorazione basta ad assodare, in favore di chi la porta, il diritto al titolo di derviscio ed alla venerazione dei fedeli. I dervisci hanno raramente un domicilio stabile; quasi tutti viaggiatori, vivono, cammin facendo, di elemosina, salvo a trasformarsi in ladri quando non basti loro la beneficenza nazionale. Sono chiamati talora a guarire gli infermi, uomini o bestie, a far cessare la sterilità delle donne, delle cavalle e delle mucche, a scoprire i tesori nascosti nel seno della terra, a cacciar gli spiriti maligni che abbiano stregato le greggi o le ragazze, insomma ad intervenire in tutto ciò che ha del maraviglioso. Come ogni buon mussulmano essi hanno delle mogli, ma le lasciano nel villaggio dove sono nate, mentre proseguono i loro eterni pellegrinaggi scegliendosi una nuova sposa quando si sentono troppo soli, e abbandonandola quando siano ripresi dalle attrattive del vagabondaggio. Accade talora che un derviscio ritorni dopo qualche anno per ritrovare quella delle sue mogli che gli abbia lasciato i più teneri ricordi. Se la donna lo ha atteso riannoda il matrimonio per qualche tempo; se quella ha trovato di meglio od ha perduto la pazienza si scusa come può e non ha nulla da temere dalle vendette del suo primo sposo. Bisogna riconoscere che questi costumi sono assai facili e non hanno nulla di crudele. Tale è nella realtà il derviscio, spoglio delle virtù che gli hanno attribuito novellieri e viaggiatori. In sostanza non è che un fannullone, un impostore che diventa talora brigante colla complicità delle circostanze. Qua e là vi sono però delle associazioni di dervisci che vivono in comune ed obbediscono a dei superiori. Esse sono molto più rispettabili dei loro confratelli erranti e si consacrano particolarmente a talune opere buone, espressione che nei riguardi dei dervisci esigerebbe un commento, perchè si vedrà fra breve a qual genere di opere buone si dedichino i dervisci regolari di Angora. Non dimentichiamo poi che l'ortodossia dei dervisci è molto problematica e che uno dei loro ordini in ispecial modo, quello della «Pietra della salvezza», è molto sospetto di indifferentismo riguardo al Profeta ed a' suoi precetti. Me ne andai dunque, scortata da due de' coadiutori principali del mufti, a visitare il convento dei dervisci, o per dir meglio, la loro residenza d'estate, giacchè, durante l'inverno, quasi tutti si ritirano nella città, ove vivono come gli altri mussulmani in mezzo alle loro famiglie ed estranei alla comunità. In uno dei sobborghi di Angora si trova un giardino, non più grande di cinquanta pertiche quadrate, chiuso da tutti i lati da dei corpi di fabbrica staccati gli uni dagli altri e talmente ingombro di chioschi che rimane appena lo spazio necessario per passare da uno all'altro. Questo strano giardino, che può avere qualche attrattiva durante la bella stagione quando i chioschi e le case che li circondano sono tappezzate di arrampicanti, presentava allora un aspetto deplorevole. Mi sedetti tristemente in uno di quei chioschi privi delle loro verdi ghirlande, ad ascoltare distratta ed incredula le descrizioni che i dervisci mi facevano senza posa degli incanti del loro soggiorno estivo. Ripetevano sopratutto che l'acqua vi è sempre fresca. È uno dei vantaggi ai quali gli orientali danno maggior importanza. Quando vi hanno detto che in un paese l'aria è buona e l'acqua è fredda, si meravigliano che non vi affrettiate a farne la vostra dimora. Quante volte mi hanno domandato se a Parigi ed a Londra l'aria sia buona e l'acqua fresca, e alla mia risposta di non saperne nulla rimanevano tutti sorpresi! Una buona merenda, consistente in uva ed in pere squisite, miele, marmellate ed acqua freschissima, mi era stata servita senza poter vincere la mia crescente inclinazione alla malinconia, tanto che le mie guide credettero giunto il momento di variarmi i piaceri. Fui fatta passare in una delle case che circondano il giardino, ove le mogli dei dervisci stavano riunite per ricevermi e farmi gli onori della dimora. Ve ne saranno state trenta, pigiate in una stanzetta ermeticamente chiusa, abbastanza ben mobiliata, ma riscaldata a tal punto da una stufa in ghisa che avrei avuto uno svenimento se una di quelle signore non avesse avuto l'estrema bontà di stracciare uno dei telaj di carta delle finestre per darmi un poco d'aria. In un clima così caldo nulla è tanto temuto quanto il freddo, e si prendono cure infinite per ripararsene anche nei momenti in cui i poveri europei come noi non pensano ad altro che al pericolo di morire soffocati. Così nei mesi più torridi d'estate potete scorgere degli asiatici avviluppati in mantelli di panno foderati di pelliccia e tutti attorno ad un fuoco fiammeggiante, mentre le donne esauriscono la fertilità del loro ingegno nel trovare il mezzo d'impedire all'aria libera di penetrare nelle loro case. Durante tutto il tempo del mio soggiorno ad Angora non riescii a liberarmi un momento solo da un violento mal di capo prodottomi dalle esalazioni della stufa a carbone. Nelle case armene si sta ancor peggio: le donne e, qualche volta anche gli uomini, adoperano per scaldarsi il così detto «tandur», mobile che sembra un tavolo ricoperto da una lana che si strascina fino per terra. Sotto questo tavolo si colloca un braciere coi carboni accesi e molta brace. Tutta la famiglia si pone intorno al tavolo ed ognuno tira a sè la coperta di lana, ponendovi sotto le sue mani e le sue braccia, così da arrostirsi alla mite temperatura di 38-40 gradi Reaumur per lo meno. I più sgraziati accidenti derivano da questi usi, e mi ricordo ancora di essere stata svegliata la notte precedente alla mia partenza da Angora perchè una famiglia in pianti mi recava un povero bambino che s'era bruciato nel domestico «tandur». Il fuoco s'era appiccato a' suoi abiti di lana e non se n'erano accorti che quando il corpicino era annerito come il carbone. Nonostante simili disgrazie, che si rinnovano abbastanza spesso, gli asiatici hanno un grande attaccamento per il loro «tandur» col quale si abbrustoliscono a buon mercato. Le mogli dei dervisci mi soffocarono d'amabilità e di testimonianze d'amicizia, forzandomi ad accettare un fagotto di calze e di guanti di pelo di capra d'Angora, oltre ad un magnifico gattone della specie conosciuta fra noi col nome di «gatti d'Angora». Discorremmo naturalmente delle qualità specialissime degli animali di una tale regione dell'Asia Minore. È infatti notevole, e meriterebbe di richiamare l'attenzione degli scienziati europei, la superiorità della lana delle bestie nate nella provincia d'Angora, in confronto di quella degli animali di tutto il resto dell'Asia ed anzi del mondo intero. Le capre d'Angora sono le più graziose bestiole che si possano vedere; la loro seta, giacchè non si può neppure chiamarla lana, è di solito bianca, talora rossiccia, grigia od anche nera, ma qualunque ne sia il colore è sempre altrettanto fina, morbida e lucente. Si potrebbe scambiarla colla seta più fina che fosse stata ondulata od arricciata mediante qualche processo recentemente scoperto. Con questo pelo si fabbrica ad Angora un tessuto molto stimato e si lavorano a maglia calze e mezzi guanti d'ogni specie. I gatti sono meno utili, ma non possono sprezzarsi per lo meno da parte di chi ama la bellezza ovunque si trovi. Questi gatti sono enormi ed hanno il corpo ricoperto da una densa lanuggine abbastanza simile a quella dei cigni. La loro testa è molto larga, hanno una coda lunga e folta. La maggiore attrattiva di questi animaletti consiste nella grazia delle loro movenze, nella leggerezza dei loro salti, nella rapidità della loro corsa e nel coraggio col quale picchiano i cani più grossi, che di solito si guardano dal replicare. Basta che vi allontaniate da Angora di qualche lega e le capre ridivengono brutte, i gatti comuni ricompaiono col loro piglio volgare ed il loro carattere sornione. A Conia soltanto capre e gatti si accostano a quelli di Angora senza raggiungerne la bellezza incomparabile. In genere gli animali dell'Asia sono molto superiori a quelli dell'Europa ed ogni distretto si vanta di possedere il tipo più perfetto dell'una o dell'altra specie. Se Angora ha le sue capre e i suoi gatti, i Turcomani, che abitano i vasti deserti della Cappadocia, hanno i loro montoni colla coda larga, i loro levrieri colle orecchie spioventi come i «king-Charles» inglesi, i loro cavalli più grandi e più robusti di quelli arabi. I montoni turcomani, che si trovano anche fra i curdi, hanno forme assai più graziose dei nostri: il collo lungo, il muso affilato, lunghe orecchie che scendono parallelamente al muso e ne seguono il contorno, come i ricci all'inglese accompagnano il viso di una giovinetta. Il carattere principale di queste bestie è una coda tanto grossa che pesa talvolta fino a 10-12 oche, misura turca che equivale a circa 44 once. Questo peso oscillante al di fuori del centro di gravità imbarazza alquanto la bestiola che è talvolta nell'impossibilità assoluta di trascinare la sua coda, sì che si cerca di sollevarla attaccandola a carrettine che reggono l'incomoda appendice. Mentre le mogli dei dervisci di Angora mi vantavano le razze privilegiate della loro provincia, non potevo trattenermi dall'esprimere a un altro punto di vista la mia ammirazione per i nobili animali di quei paesi. Ciò che sopratutto mi aveva colpito era la loro estrema dolcezza, la loro mansuetudine singolare. Il bufalo che ovunque ha la riputazione d'una bestia selvaggia quasi del tutto ribelle ai tentativi di addomesticarla non è qui più bellicoso di un bue. Gli sciacalli, che riempiono queste valli e queste foreste, non fanno altro che urlare come dei dannati e si tengon paghi di venirvi a rubare il burro fresco ed il latte fin nella vostra tenda, se l'avete. Il cavallo, che noi conosciamo così fiero ed indocile, non manifesta qui nè ribellione, nè collera, nè ostinazione. Anzi le fiere stesse sembrano partecipi di questa bonarietà universale. Le montagne sono abitate da pantere e da leopardi, ma non v'ha esempio che queste belve abbiano attaccato pacifici viaggiatori, nemmeno se andavano a caccia. Anche il cinghiale non fa la guerra che ai giardini ed alle risaie. Tutto ciò dipende, almeno per alcuni animali, dall'atteggiamento usato a loro riguardo. Un Turco, od anche un Arabo, non maltratterà mai un suo cavallo neppure per correggerlo. Gli parlerà, cercherà di ricondurlo sulla retta via, ma non riescendo si rassegnerà: «Allah Kerim!» Mi rammento d'aver molto scandalizzato la mia scorta mussulmana un giorno in cui, dopo che il mio bel cavallo aveva voluto adagiarsi in un fiume durante il guado, mi permisi, appena uscita dal mio bagno inatteso, di infliggergli un salutare castigo. «Oh, non colpitelo!» mi si gridava da ogni parte. «Che peccato! È così buono e così bello!» Tutti gli si accostavano per lusingarlo ed accarezzarlo facendogli dimenticare la mia ruvidezza. Lo stesso accade cogli animali destinati a lavorare la terra. I bufali non lavorano che finchè lo vogliono e nel modo che preferiscono. Il pastore non guida mai il suo gregge, ma lo segue e, occorrendo, lo protegge; così le sue bestie gli vogliono un gran bene. Ci pare strano udire tutta questa gente discorrere cogli animali e ciascuno nella propria lingua, cioè indirizzandosi ad ogni specie di animali con un certo numero di parole, prive di un senso preciso per gli uomini, ma che le bestie capiscono benissimo. Vi è una parola ed una cadenza speciale che avverte le capre dell'avvicinarsi del lupo ed il medesimo monito è dato al cane con altre parole ed altri suoni. «Voltate a sinistra, voltate a destra, fermatevi, andate avanti»; tutto ciò si dice in modo diverso ad un montone o ad un cavallo, a un mulo o ad un bufalo. E sempre bene! Ognuno sa ciò che questo voglia dire. Tali diversi linguaggi non possono avere suoni molto delicati nelle sfumature; occorre procedere a grandi linee, o per meglio dire a grandi strida. Infatti nulla è più curioso delle rumorose melodie dei contadini, dei cacciatori, dei mulattieri e dei pastori dell'Asia proseguite da un monte all'altro ed alle quali gli animali rispondono a modo loro. Si potrebbe comporre uno strano dizionario colla lingua che gli animali di quassù capiscono, se anche non la parlano. Ritorno, come devo ormai, ai miei dervisci. Questa brava gente voleva assolutamente divertirmi facendomi passare nel modo più gradevole che fosse possibile il tempo del mio soggiorno forzato nella città di Angora. Si erano accorti che la visita al convento aveva avuto un successo mediocre: immaginarono dunque qualcos'altro, e una bella mattina che, sdraiata sul mio sofà, mi sforzavo invano di scuotere il torpore e l'emicrania prodotti dal fumo di carbone della stufa di ghisa che infestava la mia camera chiusa, vidi entrare un vecchietto col mantello bianco, la barba grigia, un berretto appuntito di feltro grigio circondato da un turbante verde. Il suo occhio era vivace e la sua fisionomia benevola quanto ingenua. Questo vecchio si annunciava come il capo di certi dervisci autori di miracoli che il gran mufti mi mandava perchè potessi assistere alle loro operazioni. Mi profusi in ringraziamenti dicendomi pronta ad assistere allo spettacolo che mi si offriva. Il vecchietto allora socchiuse la porta e, fatto un segnale, ricomparve subito con un seguito di discepoli. Erano otto e di certo se li avessi incontrati durante il mio viaggio al limitare di un bosco non mi sarei rallegrata di vederli apparire. I loro abiti in brandelli, le loro lunghe barbe irsute, i visi pallidi, le figure emaciate, un non so che di feroce e di stralunato che balenava nei loro occhi, costituivano un contrasto impressionante col viso rotondo e fresco del loro capo, che aveva una fisionomia aperta, sorridente ed era vestito con qualche pretesa. All'entrata i discepoli si prosternarono davanti al loro capo, gli fecero un saluto d'etichetta e si sedettero ad una certa distanza aspettando gli ordini del vecchietto che, dal canto suo, attendeva i miei comandi. Provavo un certo imbarazzo che sarebbe stato assai più penoso, se la seduta che si annunciava fosse stata da me richiesta. Per fortuna io non ne aveva nessuna responsabilità, pensiero che mi rimetteva un poco in sesto: con tutto ciò io non osava far segno che si cominciasse... non sapevo neppur cosa. Mi aspettavo una scena d'impostura grossolana che sarei stata costretta a lodare per cortesia e che avrei dovuto fingere di prendere seriamente, non fosse che per educazione. Il mio amor proprio non era in gioco, ma temevo di non saper bene recitare la mia parte e del resto, lo confesso, la mia coscienza di persona incivilita stava alquanto in allarme. Feci servire il caffè per guadagnar tempo, ma solo il capo accettò; i discepoli si scusarono, allegando la gravità delle prove che dovevano superare. Io li guardavo; erano serii e impassibili come uomini che aspettassero la visita di un ospite, anzi di un padrone venerato. Dopo un breve silenzio, il vecchietto mi domandò se i suoi figlioli potessero cominciare; ed io risposi che non dipendeva che da essi, risposta che fu interpretata come un incoraggiamento, sicchè il vecchio fece un segno ed uno dei dervisci si alzò. Anzitutto andò ad inginocchiarsi dinanzi al capo e baciò la terra; il capo gl'impose le mani in atto di benedirlo e gli disse a voce bassa alcune parole che non afferrai. Alzatosi il derviscio lasciò cadere il suo mantello, la sua pelliccia di pelo di capra, tolse di mano ad uno de' suoi confratelli un lungo pugnale che aveva l'impugnatura guernita di campanelli e si pose in piedi nel mezzo della stanza. Da principio era calmo e raccolto, ma gradatamente si animava sotto l'azione di una forza interna: il suo petto si sollevava, gli si gonfiavano le narici e roteava gli occhi nelle orbite con una velocità straordinaria. La trasformazione era accompagnata e certamente agevolata dalla musica e dai canti degli altri dervisci che, avendo preso le mosse dal monotono recitativo, trascorsero tosto a grida, ad urli in cadenza, seguendo un certo ritmo misurato dai colpi regolari ed affrettati di un tamburino. Quando la febbre musicale raggiunse il suo parossismo il primo derviscio prese ad alzare e ad abbassare successivamente il braccio che stringeva il pugnale senza sembrare d'aver coscienza de' suoi movimenti e quasi obbedisse ad una forza estranea. Un brivido convulso percorreva tutte le sue membra; egli univa la sua voce a quella de' suoi confratelli, ma presto li ridusse all'umile ufficio di accompagnatori, tanto le loro grida erano soverchiate e dominate dalle sue. Il ballo s'aggiunse alla musica ed il protagonista eseguì salti così prodigiosi, pur seguitando ad inneggiare come un energumeno, che il suo torso nudo era madido di sudore. Era il momento dell'ispirazione. Il derviscio protese il braccio, brandendo il pugnale che aveva sempre nelle mani, facendone risuonare i campanelli alla menoma scossa, poi d'un tratto ripiegò con forza il braccio, infisse il ferro nella guancia fino a farne escire la punta nell'interno della bocca. Il sangue sgorgava dalle due aperture della piaga e non potei trattenere un gesto per far cessare quell'orribile scena. «La signora vuol vedere più da vicino» disse allora il vecchio che non mi perdeva di vista. Fece avvicinare il paziente e, per farmi constatare che la punta del pugnale aveva realmente traversato le carni, non fu soddisfatto finchè non mi ebbe costretta a toccare col dito quella punta. — Siete convinta che la ferita di quest'uomo è reale? — soggiunse il vecchio. — Non ne dubito menomamente — risposi con ogni premura. — Basta figliol mio — riprese egli allora indirizzandosi al derviscio che era rimasto durante l'esame colla bocca aperta piena di sangue e col ferro nella piaga, — andate a guarirvi. Il derviscio inchinatosi tolse il ferro dalla piaga, s'accostò a uno de' suoi colleghi e inginocchiatoglisi dinanzi gli offerse la guancia perchè gliela lavasse di fuori e di dentro colla propria saliva. L'operazione non si prolungò più di qualche secondo, ma, quando il ferito si rialzò e si volse verso di noi, ogni traccia di ferita era scomparsa. Un altro derviscio, colla medesima messa in scena, si inferse una ferita al braccio, che collo stesso metodo fu medicata e guarita. Un terzo mi riempì di spavento: era armato di una grande sciabola ricurva che prese colle due mani per le due estremità e dopo essersi applicata la lama dal lato concavo sopra il ventre ve la fece penetrare con un leggero movimento bilanciato. Tosto una linea porporina si disegnò sulla pelle lucida e bruna, ed io supplicai il vecchio di non spinger più oltre quelle prove. Egli sorrise e mi assicurò che non avevo ancor visto nulla, che quello non era che un prologo, e che i suoi figli si tagliavano impunemente tutte le membra ed occorrendo anche la testa, senza che ne derivasse loro il menomo inconveniente. Io credo ch'egli era stato contento di me, e mi riteneva degna di apprezzare i loro miracoli, ma ne ero mediocremente soddisfatta. Fatto sta che io rimaneva meditabonda ed imbarazzata. Di che si trattava? I miei occhi avevano ben veduto? Non avevo toccato colle mie mani? Il sangue non aveva forse sprizzato? Avevo un bel rammentarmi i giochi dei nostri più celebri prestidigitatori, non ritrovavo ne' miei ricordi nulla che potesse avvicinarsi a quello che avevo visto testè. Avevo dinnanzi uomini ignoranti e della massima semplicità, come semplicissimi erano gli atti loro che non lasciavano alcun campo all'artificio. Non pretendo d'aver assistito ad un miracolo, narro fedelmente una scena che da parte mia non saprei spiegare. Ero molto commossa, lo confesso, e l'indomani ascoltai senza sorridere il racconto di altri fatti meravigliosi di cui mi parlò il dottor Petranchi stabilito da molti anni ad Angora con funzioni di Agente Consolare inglese. Il signor Petranchi crede che questi dervisci possiedano secreti naturali, o per dir meglio soprannaturali, coi quali compiono prodigi simili a quelli degli antichi sacerdoti egiziani. Non enuncio la mia opinione; mi contento di non averne alcuna, è l'unico modo di non sbagliarsi in certi casi. Giunse finalmente il giorno fissato per la mia partenza da Angora. Durante il mio soggiorno in quella città ero stata piuttosto ammalata e quando mi ritrovai sul mio cavallo non in piena campagna, ma in pieno deserto (come è l'intervallo che separa qui le grandi città), esposta a tutte le brine, senz'altra difesa che le mie pelliccie, senz'altro riparo che un misero tetto e alla peggio la mia tenda, mi sentii stringere il cuore in segreto. Occorre maggior forza d'animo di quanto si potrebbe credere a prima vista per intraprendere simili viaggi. Non è la fatica che spaventa, giacchè non si cammina più di sette od otto ore al giorno, al passo od ambando, su dei cavalli facilissimi; i pericoli sono piuttosto immaginari che reali, le privazioni tollerabili, perchè, oltre le provviste che il viaggiatore reca con sè, può esser quasi sicuro di trovare ovunque galline, ova, burro, riso, orzo, miele, caffè e dei materassi. Ma quando ci si pone a riflettere che non sarebbe possibile procurarsi altro, che quand'anche le forze venisser meno, dopo sei ore di marcia, bisognerà nondimeno terminare la tappa, che la malattia ci troverà senza risorse, che la strada si svolgerà senza rifugio e che la neve e l'uragano possono sorprenderci nel corso della marcia, una specie di debolezza angosciosa ci assale involontariamente, sentimento che occorre respingere, perchè guai al viaggiatore che vi indulgesse! CESAREA E LE CITTÀ DEL TAURO Mi si permetta di mutare ancor qui di colpo la scena. Avendo lasciato la Galazia per venire in Cappadocia, siamo fra le popolazioni turcomane. Da quattro giorni abbiamo lasciato Angora alle spalle. Dobbiamo raggiungere la città di Adana, traversando Kirsceir, Cesarea e qualche altra località notevole per i suoi ricordi o per l'importanza che ha tuttora. Uno degli incidenti caratteristici di questo viaggio si svolse nel villaggio chiamato Cuprin. Io dovevo cambiare la scorta in quel villaggio e vi ebbi campo di adempiere all'ufficio di medico presso una giovinetta malata da un anno, e che suo padre, superando la propria avversione pei Cristiani, mi aveva pregato di visitare. I miei compagni di viaggio si erano allontanati quando vidi apparire la giovane accompagnata dalla madre. Era una magnifica creatura alta e di proporzioni grandi, ma perfette: un bel viso ovale, occhi tagliati a mandorla e di un nero vellutato, un naso piuttosto aquilino che greco, un colorito che doveva esser stato stupendo e che risplendeva tuttora, ma ormai di quell'ardore malsano che la febbre sostituisce alla freschezza. Questa bella giovane aveva l'aria profondamente triste ed era impossibile di guardarla senza prendervi interesse. Sua madre, ancor bella dello stesso genere di bellezza della figliola, sembrava molto inquieta ed afflitta dello stato dell'ammalata, e quelle due donne si rivolgevano a me, manifestandomi una benevola fiducia che contrastava col riserbo arcigno del padrone di casa. Non faticai a convincermi che la giovine soffriva di malattia di cuore e, sebbene rifugga dalle ipotesi romantiche, fui presa dal sospetto che la malattia avesse cause morali. I privilegi del medico sono quasi illimitati in questi paesi ove i medici sono così rari, ed io non temetti di commettere una indiscrezione informandomi se qualche dolore, qualche scossa accidentale non avesse preceduto i sintomi della malattia. — Ahimè, sì, — mi rispose la madre — fra otto giorni compirà l'anno dal dì che la mia povera figliola provò un terribile spavento ed è da allora che langue così. — E posso conoscere la ragione di questo spavento?. La madre guardò sua figlia che arrossì, abbassò gli occhi, e vidi il suo seno sollevarsi in fretta come se il suo respiro divenisse sempre più difficile e faticoso. — Ma perchè ti turbi a questo modo? — riprese la madre. — Sai bene che bisogna dir tutto al medico. — Si voltò poi verso di me: — La poveretta non può ascoltare la menoma allusione a quella notte funesta senza sentirne ancora il contraccolpo; ma si allontanerà per qualche momento ed io vi racconterò ogni cosa. Infatti la giovinetta si alzò e si avvicinò alla finestra, mentre sua madre, chinandosi verso di me si preparava alla confidenza: ed io pensava fra di me: ci siamo; che si tratti di un amante scoperto da quel padre snaturato? — Ebbene, signora, voi dovete sapere che la mia figliola, dopo esser stata a passare la giornata presso un'amica, rincasava allo scendere della notte; nel salire la scala senza lume accompagnata da una delle sue donne, un essere esce da una delle camere disopra, scende qualche gradino dinanzi a mia figlia, la raggiunge, inciampa nelle sue vesti e la fa cadere; essa getta un grido, si rialza.... la luna appariva in quel punto e la mia povera figliola credette di scorgere un gatto nero che fuggiva a gambe levate. Forse non era vero, forse era semplicemente un gatto grigio; è quello ch'io mi sforzai invano di farle capire; ma non fu possibile di torle dal capo che il gatto dal quale era stata rovesciata fosse un gatto nero. Io aspettava sempre la fine della storia; ma non vi era più nulla e la storia era finita. Cercai di scoprire, senza peraltro tradire la mia ignoranza in una simile materia, ciò che vi fosse di particolarmente spaventoso in tale incontro. Tutto ciò che potei comprendere fu che i gatti neri sono degli spiriti malefici il di cui incontro è del più cattivo augurio. Per quanto assurda ne fosse la causa tuttavia il male esisteva per davvero. Raccomandai la distrazione, il moto; ma quali distrazioni è possibile procurarsi, che moto si può fare nel recinto di un harem, e sopratutto d'un harem di campagna? Mi ripromisi di non passar più da Cuprin nel mio viaggio di ritorno perchè mi sarebbe costato di vedere quali danni altri mesi di malattia avrebbero potuto arrecare alla graziosa figliuola del mio burbero ospite. Durante i tre giorni che seguirono la nostra sosta a Cuprin, la pioggia cadde quasi ininterrottamente e non ci abbandonò che a Kirsceir. Di tutte quelle lunghe ore di marcia non mi è rimasto che il ricordo di una serata trascorsa in un villaggio turcomano chiamato Merdecè. Eravamo arrivati poco prima del cader del sole e, mentre il nostro cuoco ci preparava la cena, io escii dal villaggio dirigendomi verso la fontana, che ne era poco discosta. Appena vi era giunta quando una processione di giovinette escita dall'abitato venne per attingervi l'acqua. Esse portavano pantaloni larghi di colore azzurro legati alla caviglia, una sottanella stretta di color rosso aperta sulle anche e con una coda dietro che era rialzata e trattenuta da cordicelle multicolori. Una sciarpa arrotolata più volte intorno alla vita separava la sottana rossa da una giacca dello stesso colore colle maniche strette e lunghe solo fino al gomito, aperta sul seno che solo copriva una finissima camicia di stoffa bianca. Recavano in capo semplicemente un fez con un lungo fiocco adorno e quasi interamente ricoperto di monetine. I capelli legati in treccie giungevano quasi sino a terra ed ogni treccia era terminata da un pacchetto di altre monete che erano come seminate su tutte le parti dell'acconciatura, sul giubbetto, sulle maniche, sulla camicia. Ognuna di quelle giovini portava in testa l'anfora appena riempita e la riportava a casa nello stesso modo. Quando esse giunsero alla fontana risonò tutto un grazioso concerto di chiacchiere, di risate e di canzoni. La mia presenza che prima sembrava imbarazzare le loro espansioni finì per eccitarle. Alcune mi si avvicinavano timidamente per esaminare il modo in cui i miei capelli erano rialzati e gettavano delle esclamazioni di meraviglia allo scorgere il mio pettine; altre, più audaci, si arrischiavano a toccare la stoffa del mio mantello, poi scappavano via correndo e ridendo come se avessero compiuto un atto di straordinario coraggio. Intanto il sole era scomparso dietro le montagne, le greggi traversavano il fondo della vallata per avvicinarsi alle case; i cani, guardiani fedeli della proprietà dei loro padroni, si accoccolavano dinanzi alle porte; veloci si stendevano le ombre e qua e là si accendevano dei fuochi. Fu forza lasciare il gaio sciame delle ragazze, la limpida fontana, la verde vallata per rincasare. Che simpatica serata! A Kirsceir[12] potemmo comprendere come l'ospitalità orientale aumenti di valore in seguito alle traversie che spesso ne sono in pratica il preludio. Un uomo ci aspettava alle porte della città per condurci sino al nostro alloggio; lungo il tragitto un sospetto ingiurioso sulla fedeltà della guida ci tormentava. Erravamo in un labirinto di stradette e di angiporti affondando nella mota fino al petto dei cavalli, inciampando in grosse pietre mal celate nei pantani, dando di cozzo nei tetti spioventi delle botteghe, incrociando lunghe file di camelli che spaventavano i nostri cavalli d'Anatolia. Disperavamo quasi di raggiungere ormai un tetto ospitale quando la nostra guida entrò con gran premura in un portone che dalla strada si apriva su una vasta corte selciata; vi erano riuniti il nostro dragomanno, la nostra scorta, il padron di casa con parenti, amici e conoscenti, tutti convocati per farci festa. Fummo ben alloggiati, salvo la completa mancanza di finestre; ma chi ci pensava più? Nel camino la legna scoppiettava accesa, sorgente di infinito diletto per chi da tanti giorni aveva dovuto ricorrere, come noi, al combustibile dei Turcomani, cioè alle dejezioni disseccate degli animali, mucche, buoi, cavalli e camelli e che si bruciano in quei paesi privi di alberi. Non c'è male per scaldarsi e, checchè se ne pensi, dal focolare non esce alcun cattivo odore; ma ci si perde d'animo riflettendo che simili carboni servono a cuocere i cibi: e che dire quando vi è recato un narghilè acceso con tal metodo e che dovreste aspirarne il fumo? Confesso che la mia filosofia non ha mai avuto la forza di vincere questa prova e ho preferito di bruciare i piuoli di tutte le mie tende piuttosto che piegarmi a respirare un fumo prodotto da quel carbone animale. Il nostro ospite di Kirsceir volle presentarci uno de' suoi amici, trasformato per l'occasione in mastro di cerimonie. Era un arabo d'Algeria che voleva farsi passare per un francese e pretendeva di conoscere bene gli usi occidentali. Aveva infatti abbandonato tutto il riserbo e la serietà che vigono in Oriente e poteva gabellarsi di fronte a' suoi compatriotti asiatici come un saggio delle buone maniere europee. Entrò ridendo clamorosamente fregandosi le mani, dondolando la testa e dimenandosi più che poteva. Parlava però in arabo: — Sono francese, signora — si indirizzava a mia figlia: — Signorina — e questa era per me. — Sono francese, servitor vostro, — poi alzò una bottiglia che teneva sotto il braccio: «Volete acquavite? Ordinate, disponete di me e di tutto quello che mi appartiene». Proseguiva su questo tono, portando ad ogni tratto alla bocca la bottiglia, facendo schioccare la lingua dopo ogni bevuta, rovesciandosi sul divano, alzando le gambe in aria, abbandonandosi a tutte le pazzie naturali in un uomo ubbriaco che si crede tutto lecito, col pretesto di essere un francese in mezzo ai Turchi. I miei compagni di viaggio finirono per metterlo alla porta senza offenderlo menomamente, a quanto pare, ma sorprendendo un poco il nostro ospite, suo amico, che credeva di averci offerto uno de' nostri simili e aveva attribuito tutte quelle stravaganze agli usi dell'Occidente. Non saprei veramente qual motivo abbia potuto determinare tanti personaggi illustri a venir a morire in una città così poco importante come Kirsceir, il cui nome è sconosciuto a tutte le carte. Per una ragione o per l'altra, certo è che la città è popolata, ricinta di tombe. La maggior parte sono moschee, costituite da una specie di cappella o di cupola, alla quale si giunge per una scala esterna, e sotto la quale giacciono le ceneri del morto. Uno di questi monumenti è, a dir il vero, un lavoro mirabile, sia per la vastità delle sue proporzioni, che per la grandiosità del disegno, la ricchezza e l'eleganza dei particolari. Forma una gran sala con dodici pareti, ciascuna aperta su una stanza in ismalto azzurro, riservata un tempo come abitazione di un derviscio. Questi dodici dervisci avevano la mansione di vegliare e pregare sulla tomba. Accanto a questo edificio sorge un minareto benissimo conservato, in terra cotta, di una tinta più pallida di quella dei nostri mattoni, intramezzata di smalto bleu che risalta gradevolmente su quel fondo grigio rossastro. I muri del monumento sono ricoperti, nella loro parte superiore, da iscrizioni che non si possono esaminare nè copiare senza l'aiuto di una scala, tanto sono collocate in alto. Non mi sembravano scritte in caratteri turchi e, avendo domandato agli abitanti in quale lingua fossero redatte: in arabo mi fu risposto da taluni, in turcomano, da altri. Questa seconda versione mi parrebbe più plausibile, perchè i caratteri arabi non sono diversi dai turchi. In tal caso non potremo mai tradurre queste iscrizioni, perchè i caratteri turcomani non sono più in uso, e non credo che esista, nemmeno nel collegio di Francia o a quello della Propaganda a Roma, un professore che conosca il turcomano antico o letterario. Quel popolo ora non parla che il turco, anzi, a sentirlo, dovrebbe essere il turco più puro. Rimanemmo un giorno a Kirsceir per fare qualche provvista ed il secondo giorno dopo il nostro arrivo ci rimettemmo in cammino. Da che avevamo lasciato Angora, il paesaggio aveva preso un aspetto sempre più cupo, pioveva, i villaggi divenivano sempre più rari e la popolazione malevola. Si continuò a peggiorare da Kirsceir a Cesarea. Camminavamo delle giornate intiere nel fango, quando non era nella neve, fra montagne tagliate a picco, o arrotondate come delle zolle, senza poter posare lo sguardo su una linea gradevole o per lo meno nuova. Nei miseri villaggi ove passavamo la notte, non scorgevamo che dei visi torvi, talora anzi minacciosi e non udivamo che insulti. La nostra scorta di regola non ci serviva a nulla e talvolta poteva anche esserci di danno, rappresentando agli occhi di quel popolo scontento l'autorità di cui gli pesa il giogo. Ci avvicinavamo per altro a Cesarea. Sbucando fuor da una gola stretta e fosca che si apriva fra montagne nude, di una roccia grigia, ci ritrovammo in una immensa pianura, limitata ad occidente ed a mezzogiorno da catene di montagne. Questa pianura è tagliata da tanti corsi d'acqua che nella maggior parte non consiste che in paludi, dimora di una moltitudine di anitre selvatiche. All'imperatrice Elena[13] è attribuita, come tutte le opere analoghe di origine antica, la strada selciata che si inoltra fra quelle acque stagnanti; il menomo scarto dei nostri cavalli ci avrebbe precipitato in un mare di fango. Lontano, dal lato di mezzogiorno, e quasi al piede delle montagne, una linea incerta e rossastra ci indicava Cesarea[14]. Ci eravamo fermati a far colazione in un paesino perduto in mezzo alle paludi, ove ci avevano offerto in abbondanza un latte buonissimo. Stavamo per risalire sui cavalli, quando vedemmo accorrere a briglia sciolta un cavaliere vestito press'a poco all'europea che mise piede a terra e, presentandomi una lettera, ci rivolse un saluto in italiano. Era la prima volta dopo la nostra partenza dalla vallata d'Eiaq-Maq-Oglu che una voce umana ci rivolgeva la parola in una lingua famigliare e cara. Il messaggero non era però che un greco, ma aveva vissuto per lunghi anni in mezzo agli europei ed aveva acquistato i modi e le abitudini dell'Occidente. Il suono di quegli accenti, così ben noti e da tanto tempo stranieri a' miei orecchi, mi aveva tanto scossa che non apersi subito la lettera e restai per qualche istante pensierosa. Chi mi scriveva era il console inglese di Cesarea, il signor Sutter, che è il solo ad esercitare un compito di ospitalità a favore di tutti gli europei di passaggio. Egli mi annunciava che una casa da lui approntata era a mia disposizione e che il suo cavass era incaricato da lui di accompagnarmi fino a quella dimora. Stavamo dunque per partire quando una cavalcata, questa volta molto numerosa, comparve nelle vicinanze del villaggio e vi si fermò, mentre due cavalieri venivano a congratularsi, in nome del pascià e dei principali cittadini, del nostro arrivo nella loro città. Il pascià mi mandava inoltre un cavallo con una ricca bardatura sul quale mi invitava a fare il mio ingresso in Cesarea, cortesia un poco imbarazzante, giacchè non mi sorrideva di cambiare il mio cavallo al quale era tanto avvezza, con uno che non conoscevo. Il nostro ingresso nella città di Cesarea si effettuò colla maggior pompa. La nostra cavalcata era composta di più di trenta persone, parecchie delle quali vestite con tutto il lusso che implica tuttora l'Oriente. A dir il vero noi non facevamo troppo buona figura, colle nostre vesti sdruscite e maltrattate dalla polvere e dal fango, in mezzo a quei colori smaglianti ed a quei sfarzosi ricami di oro e di seta. Nondimeno tutti gli sguardi si fermavano sopra di noi, nello stato in cui eravamo o meglio in cui ci aveva ridotto il viaggio. Eravamo ospiti di un ricco negoziante armeno, padre di una numerosa famiglia. La sua figlia maggiore, già sposa e madre, era ritornata ad abitare nella casa paterna mentre suo marito viaggiava per commercio. Alcuni parenti, che dimoravano nella provincia, si erano riuniti presso il ricco negoziante per godere degli ultimi giorni del Carnevale e dei suoi divertimenti. Le tre o quattro camere che compongono una casa in quella parte del mondo erano ricolme di una quantità di donne, di giovinette, di ragazzi e di bimbi, in abito di gala come se dovessero andare ad una festa e ciò dall'alba al tramonto e dal cader della notte al mattino, giacchè in Oriente non si usa svestirsi per andare a riposare. Potete rivedere il mattino, tanto presto quanto volete, quelle stesse acconciature che avete scorto la sera prima, naturalmente un po' spiegazzate. È un uso generale che non presenta grandi inconvenienti per i ricchi i quali possono cambiar d'abito nel corso della giornata come noi facciamo nell'andare a letto e nell'alzarci; ma gli effetti sono disastrosi nei poveri che tengono sul loro corpo gli stessi stracci durante un mese ad anche più. Ho detto testè che eravamo alla fine del Carnevale ed i miei ospiti mi ritenevano ben fortunata di esser giunta in tempo per godere di questi divertimenti più semplici che numerosi. Tutte le feste avevano per teatro i tetti delle case che, comunicando con scalette od anche con scale a mano, costituiscono una specie di pubblica piazza, ove gli abitanti di uno stesso quartiere circolano liberamente pur restando al riparo da un'invasione di estranei. La popolazione armena di Cesarea (il numero dei greci vi è assai ristretto) se ne stava dunque tutta quanta in cima alle sue case, dal principio alla fine del giorno, nelle più ricche vesti. Per gli uomini il maggior lusso consiste nella bellezza delle loro pelliccie; ma le donne non sono contenute in fatto di acconciatura in limiti così rigidi. Portano, come tutte le donne in oriente, pantaloni larghi, lunghe vesti che formano come delle guaine aperte sui fianchi per dar adito al rigonfiamento dei pantaloni, vari corpetti, messi l'uno sopra l'altro, di stoffe e colori diversi, una sciarpa attorcigliata alla vita, un fez, capelli a treccie pendenti e sovra tutto ciò monili formati di monete. I modi di combinare le varie parti di quest'abbigliamento possono variare come anche la disposizione degli accessori e degli ornamenti. Le armene di Cesarea si segnalano, fra le donne delle altre città dell'Asia Minore, per la delicata armonia dei colori delle loro stoffe, per la ricchezza ed il buon gusto dei ricami che adornano le loro bustine ed anche per l'acconciatura del capo. Queste donne eleganti non si avvolgono il capo con quelli orribili fazzoletti di cotone stampato che ogni anno dalla Svizzera sono spediti in Asia a migliaia. Il fondo del fez ed il fiocco che ne pende sono ricamati in oro ed anche, talvolta, in perle. I capelli formano dodici o quindici treccine di uguale lunghezza che scendono più in basso che sia possibile; ma qui le monete, che sono d'oro, non sono relegate all'estremità delle treccie, sono cucite su un piccolo nastro nero che si applica poi sulle treccie a mezza strada fra la nuca e le reni, così da formare un quarto di circolo rilucente che spicca, in modo caratteristico, sulla tinta scura dei capelli. Una profusione di questi stessi zecchini copre la parte anteriore del fez, pende sulla fronte e dalle orecchie, cinge d'una corazza il collo, il seno e le braccia. Fra tante monete si trovano pure altre gemme; così fiori in diamanti sono collocati in giro al fez o sui capelli che incorniciano la fronte; fermagli in pietre preziose, collane o catene di perle servono ad abbottonare la bustina sotto il seno, o passano sotto il mento andando da uno all'altro orecchio. Le figlie da marito di genitori ricchi sono le più sontuosamente adorne perchè portano indosso, a guisa di giojelli, tutta la loro dote che sale talora a somme molto forti; è vero che, dopo qualche anno di matrimonio, gli zecchini e le pietre tendono a diminuire, ciò che mi indurrebbe a credere che la dote delle giovani armene di Cesarea non è così garantita come quella delle nostre signorine europee dalle usurpazioni maritali. Era effettivamente uno spettacolo curioso quello di tutte queste signore che si pavoneggiavano all'aria aperta coi loro diamanti, a una altezza che nei nostri paesi non è aggiunta che dai gatti e dagli spazzacamini. Esse passeggiavano, si facevano delle visite, sempre sui tetti e si dedicavano lietamente ai giochi ed ai balli. Musicanti girovaghi andavano e venivano ed appena apparivano su una terrazza, quelle vicine riversavano su di essa tutti i loro abitatori più giovani, poi il ballo cominciava intorno ai suonatori. Non vi è che un ballo in tutto l'impero ottomano ed è lo stesso per i turchi, gli arabi e tutte le nazioni mussulmane sparse sul territorio dell'impero; è lo stesso per i greci e gli armeni sudditi della Sublime Porta, ed a dire il vero quest'esercizio così diffuso merita a stento il nome di ballo. Due persone dello stesso sesso, ma sempre vestite da donna, si collocano l'una in faccia all'altra, recando in mano delle castagnette se le hanno, e se non le hanno, due cucchiai di legno che ne fanno le veci od anche con nulla in mano; ciò che è di rigore è il moto delle dita e la pantomima delle castagnette. I due ballerini piegano e stendono, o per essere più esatti, stirano le braccia, scuotono rapidamente le anche, mentre fanno ondeggiare più adagio la parte più alta del corpo e scuotono leggermente i piedi senza per altro staccarli dal suolo. Mentre proseguono queste varie contorsioni, si avanzano, arretrano, girano su sè stessi ed intorno a chi sta loro dirimpetto, mentre la musica, che consiste, di solito, in un tamburo a sonagli, in una gran cassa ed in un piffero da pastore, segna il tempo vieppiù concitato. Non so cosa questa danza possa avere di grazioso; ma gli occhi meno esperti sono subito colpiti dalla sua indecenza. A Cesarea avevo potuto osservare i turchi nell'abbandono di una festa popolare. Uno di quei contrasti che riserba spesso l'Oriente, mi doveva colpire a breve distanza da quell'antica capitale, a Giudiesu[15], città ove trovai una popolazione greca rinomata per la sua attività commerciale. Di lì vengono i principali droghieri di Costantinopoli. Scesi nella casa di uno dei maggiorenti che era stata posta a mia disposizione e mi fu servita una colazione abbondante preparata secondo gli usi locali, tanto diversi dai nostri che non ho mai potuto acconciarmivi. Il riso cotto, che per noi è una minestra, è sempre servito alla fine del pasto, del pari che il piatto forte, che può consistere anche in un capretto od in un agnello tutto intero. È vero che indipendentemente dal riso è talora servita una zuppa, ma fatta col sugo di limone e quindi insopportabile per dei palati europei. Il resto del pasto è costituito da quindici o venti piattini: palline di carne tritata, legumi d'ogni specie cotti nell'acqua o nel grasso, zucchette condite coll'aglio e col latte agro cagliato, paste di riso o di avena pestata avvolte in foglie di vite crude, «purée» di zucca, pasticceria e marmellate servite in mezzo a tutto il resto; frutta secca e candita, frutta fresca o maturata nella paglia, miele, farina d'avena cotta nel latte e nel miele, infine tutto ciò che può soddisfare l'appetito più vigoroso ed il gusto meno difficile. Siete condannati a non bere durante tutto un pasto così mostruoso perchè l'uso vuole in Oriente che non si mescolino i cibi solidi ai liquidi. Finito il pranzo vien portata una compostiera od una grande coppa piena di «Scerbett» cioè di acqua e siroppo, con intorno una fila di cucchiai di legno; ognuno dei commensali ne prende uno e l'immerge alternatamente nel «Scerbett» e nella sua bocca quante volte gli garba. Mi ero alzata da tavola quando mi fu annunciata la visita delle autorità e degli ottimati locali e del clero greco. Questi si compone di un vescovo o patriarca, de' suoi coadiutori, e di un giovane prete stabilito da poco nella città come capo di una nuova scuola fondata pe' ragazzi greci. Questo sacerdote che aveva una fisionomia intelligente, dolce e triste, insegnava a leggere e a scrivere il turco ed il greco nonchè l'aritmetica, la geografia, il catechismo, un po' di storia e di francese. Aveva circa 300 scolari di cui un po' meno di un terzo erano fanciulle. Mi aveva invitato a visitare la sua scuola: glielo promisi ed egli, tutto contento, se ne andò per prepararsi a ricevermi, faccenda di maggior conto ch'io non potessi pensare. Ritornò un'ora dopo ad annunciarmi che tutto era pronto e che i suoi allievi mi aspettavano. Partiamo, traversiamo una parte della città e, tirandoci dietro quasi tutta la popolazione, arriviamo all'edificio della scuola che parrebbe molto bello anche in Europa. Costrutto in cima alla montagna, accanto alla cinta murata, esso domina in tutta la sua ampiezza la conca occupata dalle case di Giudiesu. Un portico sostenuto da colonne serve da vestibolo ad una sala vasta, ben illuminata e ben arieggiata, arredata con banchi e leggii ed in fondo una cattedra per l'insegnante. Tutto, dai banchi ai leggii, dai quaderni ai libri era di una nettezza scrupolosa ed avrei proprio potuto credermi trasportata in una cittadina della Germania o della Svizzera. Ammiravo l'influenza salutare che un uomo illuminato ed attivo può esercitare su tutta una popolazione e non volevo tardare ad esprimere tutta la mia soddisfazione al degno ecclesiastico autore di quei prodigi, senonchè il valent'uomo pensava allora a ben altro che a ricevere delle congratulazioni. Egli ci aveva preceduto per correre alla scuola e lo vedemmo tosto dirigersi verso di noi in abiti pontificali e guidando i suoi allievi che dietro a lui cantavano inni greci. Si allinearono nel vestibolo per lasciarci passare, e al nostro seguito entrarono nella sala; dovetti salire sulla cattedra e prendervi posto mentre il professore disponeva gli scolari in due file in faccia a me. Cessati i canti greci furono sostituiti purtroppo con altri in francese composti sul momento in mio onore e di cui ebbi una copia scritta di propria mano di uno degli allievi. Da quella strana poesia fui condotta alla conclusione che gli allievi avevano ben poco da perdere se la lezione di francese dovesse cessare di far parte del programma dei loro studii; nondimeno è un gran passo nell'incivilimento di quella popolazione orientale il propagarvi in tal guisa la conoscenza, sia pure superficiale, di una lingua europea. I più ricchi abitanti di Giudiesu avevano eretto la scuola a spese loro e, fatto venire il professore dall'isola di Candia, gli pagavano seimila piastre (all'incirca mille cinquecento franchi) all'anno. È un esempio che i greci del resto dell'impero hanno veramente torto di non imitare ed incoraggiare. Informatami dell'appoggio che i greci di Giudiesu avessero potuto trovare nel concorso a tale iniziativa dei loro compatrioti di Costantinopoli, venni a sapere con mio rammarico che questi ultimi avevano assistito quasi indifferenti ad un simile saggio di rivoluzione pacifica, come può ben definirsi l'apertura di una tale scuola in una povera cittaduzza dell'Asia Minore. Ma temo assai che il prete, consacratosi con tanto zelo e con tanta abnegazione a quest'opera di incivilimento, non abbia a soccombere fra breve ad una fatica così grande. Come potrebbe infatti bastare un sol uomo ad educare ed istruire centocinquanta fanciulli e settanta fanciulle? Devo soggiungere purtroppo che, in tutto il mio viaggio in Asia Minore ed in Siria, non ho mai visto nulla che, nemmeno alla lontana, mi potesse rammentare la scuola ed il professore di Giudiesu. Qualche giorno più tardi camminavamo in mezzo a montagne sempre più alte che preannunciavano la catena del Tauro. Mi ricordo di una notte passata ai piedi di una di quelle montagne che porta il nome di Allah-Daghda[16]. Sostammo per la notte in un piccolo villaggio: il caldo era eccessivo quando smontammo di cavallo in pieno mezzogiorno; ma non appena il sole era scomparso dietro le cime dell'Allah-Daghda, la neve cominciò a cadere ed il freddo divenne intollerabile. Ci chiudemmo nella parte della stalla che ci era stata destinata e là, avvolti nelle pelliccie, ascoltavamo il fragoroso soffiare della tramontana che, dapprima impetuosa, finiva per cadere alla base delle roccie. Da qualche momento la tempesta era stata seguita dal silenzio ed io sentivo che il sonno a poco a poco gravava sulle mie palpebre, sulle mie membra e sui miei pensieri quando fui riscossa di soprassalto da un colpo battuto alla porta. Un uomo della scorta mi mandava a chiamare in gran fretta perchè stava male e si credeva in pericolo di morte. Alzatami mi copersi alla meglio con tutti i mantelli che trovai a portata di mano ed escii con colui ch'era venuto a cercarmi. Ma mi fermai appena posto il piede sulla soglia rimanendo estatica ad ammirare. Era notte alta da gran tempo; là dove prima fosche nubi serravano tutto l'orizzonte precipitandosi come masse d'ombra nelle strette gole delle montagne, io non scorgeva sopra il mio capo che un cielo turchino come lo zaffiro, sparso di stelle così scintillanti che l'occhio ne era abbagliato. La luna raggiava sopra l'Allah-Daghda, diffondendo sul villaggio e sul tappeto di neve circonvicino la sua luce dolce. Nemmeno un soffio d'aria moveva i rami degli alberi che sorgevano qua e là intorno alle case. Era una delle più belle notti che avessi ammirato in vita mia ed il suo fascino era accresciuto dalla serata tempestosa alla quale succedeva quasi senza transizione. Attraversai il villaggio addormentato e le strade deserte per giungere alla capanna occupata dal malato che si trovava all'altra estremità di quel gruppo di case. Il poveretto era semplicemente in preda ad un delirio manifestatosi in lui come in un accesso. Gli feci prendere un calmante, lo tranquillai come mi fu possibile e rientrai nel mio antro. Di buon'ora giungemmo l'indomani a Medem[17], che è città ben nota nell'impero turco in grazia delle sue miniere di piombo. Fui alloggiata dal Direttore delle miniere che ne aveva pure l'appalto e che mi accompagnò a visitare i forni, primitivi quant'altri mai. Il minerale veniva gettato in grandi buche in mezzo alla fornace, donde il piombo liquefatto esciva traverso piccoli canali scavati nella terra e veniva a cadere ed a raffreddarsi in una cavità aperta sotto alla fornace. Qua e là nella montagna vi sono parecchie di queste miniere, in maggioranza non ancora sfruttate. Se osservavo la quantità di piombo che esciva continuamente dai forni, il numero ristretto degli uomini che accudivano all'estrazione e l'estrema semplicità dei mezzi adoperati dovevo concludere che la speculazione fosse propizia all'intraprenditore. Lo pregai di darmi qualche indicazione sulle spese ed i profitti dell'impresa. Egli non domandava di meglio, ma sgraziatamente mi accorsi subito che si era cacciato in un'iniziativa per lui temeraria non essendosi mai posto i quesiti intorno ai quali io l'interrogavo. Mi chiese allora il permesso di far venire il suo amministratore che sarebbe stato meglio in grado di illustrarmi i particolari, come egli li voleva chiamare; ma padrone e collaboratore erano allo stesso punto. Rinnovando le mie domande in varie forme, ottenni che i due «Effendi» cominciassero a darmi qualche risposta colla quale provavano per altro che non mi capivano, sicchè era ancora peggio di prima. Medem è alle porte del Tauro, e appena si è perduta di vista la città ci si ritrova in mezzo alle montagne note sotto questo nome. Per Tauro, Anti-Tauro, Libano, Anti-Libano non sono designati monti come il San Bernardo, il Sempione, il Monte Bianco, bensì grandi catene di montagne come le Alpi, gli Appennini, i Pirenei, racchiudenti vasti territori ed una molteplicità di cime e di vallate. Ci occorsero cinque giorni per traversare il Tauro, cioè per andare da Medem ad Adana[18]. Consacrammo quei giorni ad errare di valle in valle, percorrendo un paese magnifico, ma completamente deserto, senza un villaggio e solo qualche rovina in cui gli armeni od anche qualche turco intraprendente hanno stabilito delle locande per i viaggiatori. Inutile descrivere quei cinque giorni, insistere sui soliti incidenti che derivano sempre in certe parti dell'Oriente dal cattivo stato delle strade e degli ospizii. Più di una tappa faticosa mi separava tuttora dal termine di questo primo periodo di viaggio di cui mi preme di affrettare il racconto. La società turca, quale può essere osservata in regioni che gli europei non visitano quasi mai, è tratteggiata in questi primi quadri della mia vita nomade. Ad Adana si entra in una contrada che è la parte dell'Oriente meglio nota ai viaggiatori od almeno creduta tale, ed ove l'azione della civiltà dell'Occidente si fa sentire in modo più diffuso. Avrei potuto ormai osservare i Franchi accanto agli Orientali ed ero abbastanza iniziata alla vita intima di questi ultimi per poter paragonare a mio agio le due società così avvicinate in ciò che esse hanno di essenziale e di caratteristico. II. LE MONTAGNE DEL GIAURRO — L'HAREM DI MUSTUK BEY — LE DONNE TURCHE IL GIAUR DAGHDA — UN VILLAGGIO FELLAH — IL PASCIÀ D'ADANA Dal giorno in cui avevo lasciato la tranquilla mia vallata nell'Asia Minore avevo avuto, come si è potuto vedere, non poche occasioni di avvezzarmi agli stenti ed ai pericoli della vita dei viaggiatori nel Levante. Da Angora ad Adana mi ero fermata poco e di rado, mentre le marcie erano state faticose e quasi continue. Pertanto i pochi giorni che passai ad Adana, giorni di riposo e di festa rallegrati dalla presenza di europei ed anche di italiani, mi hanno lasciato un ricordo gradevole. Debbo dire che il fascino di quel mio soggiorno mi era aumentato dall'idea che avrei dovuto affrontare altri pericoli appena lasciata la città. Sul punto d'intraprendere una spedizione abbastanza pericolosa attraverso il Giaur-Daghda (montagne del Giaurro), mi sentivo meglio disposta ad apprezzare qualche momento di calma trascorso in mezzo ad amici devoti. Vi è in ogni vita attiva qualcuna di queste tregue, quasi sempre troppo brevi e che hanno un incanto tanto maggiore quando devono esser seguite da un domani avventuroso. Ma cos'era dunque questo Giaur-Daghda, che mi si descriveva ad Adana con colori così poco rassicuranti? È una catena di montagne tre volte più vasta dell'Alvernia e con una popolazione di 500 mila anime. Io ripeto quanto mi è stato detto senza garantire nulla. Questa popolazione è divisa in due gruppi che potrebbero essere chiamati dei deboli o sedentari e dei forti o nomadi: i primi abitano i villaggi, i secondi errano lungo le strade. Converrà parlare degli uni e degli altri. La parte sedentaria e pacifica di questa popolazione consiste in vecchi, in donne e in bambini; numerosi villaggi sparsi sul fianco delle montagne o celati in fondo alle valli sono il loro rifugio. Il mussulmano, bisogna riconoscerlo, ha un gusto istintivo per le bellezze della natura. Fabbrica sempre i suoi villaggi all'ombra di begli alberi, nel mezzo di verdi aiuole od in riva a limpidi ruscelli. Se gli domandate le ragioni che gli hanno fatto scegliere un posto più di un altro per dimorarvi, sarà imbarazzatissimo a rispondervi, perchè non saprebbe spiegare a sè stesso le sue preferenze. Quand'egli cerca le posture pittoresche obbedisce al medesimo istinto che guida l'aquila fra le roccie, che spinge la rondine ad annidarsi sotto ai tetti, il passero a rifugiarsi nei giunchi, la quaglia a nascondersi nel grano. Egli ha udito ai piedi di un albero, sulla vetta di quella collina il gorgoglio dell'acqua fra le erbe alte od il fruscio del vento nel bosco vicino: l'ombra gli è parsa gradevole e l'aria imbalsamata e si è fermato. A qual pro andar più innanzi? Così sorge un villaggio turco laddove la vita è parsa facile e la natura aveva l'aspetto ricco ed attraente. I greci, ben diversi dai turchi, non vedono che il lato positivo nella collocazione dei villaggi. Nella scelta di una dimora si preoccupano, a ragione, che il terreno sia solido, le pietre per costruire abbondino e non manchino le comunicazioni coi mercati periodici. I greci non disdegnano la vicinanza degli alberi, ma allo scopo di fare assi dei tronchi e fascina dei rami. Così a prima vista e da lungi un villaggio greco si può distinguere da uno turco. Il primo è triste e repugnante, attraente il secondo; ma purtroppo la differenza cessa quando si penetra nelle strade. Vedute da vicino le case greche e le case turche si rivelano tutte egualmente brutte, tetre ed inabitabili. Gli abitanti validi del Giaur-Daghda non s'incontrano, come ho detto, che lungo le strade e quei rozzi montanari non sono vicini molto comodi. Guai alle carovane che essi sorprendono ed alle tribù che vivono nel raggio delle loro incursioni! Ogni popolazione che abita in case di legno facili a bruciare o che non ha granaio per ricoverare i suoi cereali è trattata da nemico dagli abitanti del Giaur-Daghda dediti alle avventure. Perciò le strade che attraversano il loro paese sono le meno frequentate che esistano al mondo. Un bey, dipendente dal pascià di Adana, delegato del potere imperiale, dovrebbe, è vero, governare nelle montagne del Giaurro, ma non si può negare che il potere centrale qui non esiste che in apparenza. Per quanto gli ordini di Costantinopoli possano essere promulgati nel Giaur-Daghda, imponendo leve e tasse, non troverete un montanaro che indossi l'uniforme o che versi un centesimo al fisco. Agiscono così, non per vigliaccheria, ma per amore della vita indipendente. Il Levante novera molte popolazioni nello stesso caso e dalla Siria all'Egitto potrete incontrare i Drusi, gli Ansariani, i Mettuali, ecc. Tanti popoli ad un tempo non potrebbero esser fronteggiati che da eserciti così numerosi come quelli di Senacheribbo e per ottenere qualcosa da schiatte così indomite è preferibile ricorrere ai mezzi pacifici. Nondimeno talvolta scoppiano delle crisi ed un pascià si risolve a mandare alcune compagnie di fantaccini contro le tribù ribelli. Queste allora hanno due vie da seguire: o si ritirano in massa in rifugi sicuri e lasciano le truppe regolari in balìa dei rischi di marcie mal sicure, in paesi deserti, oppure sdegnose della tattica di Fabio prendono l'offensiva, dopo essersi assicurate una grande superiorità numerica. Per esempio 25,000 montanari affrontano un migliaio di soldati, gesto che di regola basta a terminare le ostilità. Le truppe rientrano nelle loro caserme; i montanari riprendono le loro faccende e si ristabilisce la buona armonia fra governo e popolo fino alla prossima leva od alla scadenza delle imposte. Ecco il popolo di cui dovevo traversare il territorio dopo aver lasciato Adana. Aspettando il giorno della partenza vivevo come ho detto, molto piacevolmente. Ero lieta di dimorare finalmente in quella vecchia terra delle palme e dei cedri, fra genti arabe che nel tipo e nei costumi evocavano ai miei sguardi le splendide scene della Bibbia. È sotto il cielo d'Oriente che dovreste leggere le pagine dell'antico Testamento. I casi del vecchio Giobbe, fra gli altri, si rinnovano qui ogni giorno. La ricchezza di un abitante della campagna non consiste che nelle sue greggi; l'orientale non tiene capitali in deposito in una banca o presso un notaio. Il ricco non ha denaro in maggiore abbondanza del povero; ma ha i suoi granai, grandi buche scavate nella terra e riempite di grano avuto in cambio dei prodotti del bestiame, ha il bestiame stesso, dal quale ricava tutto ciò che gli occorre. Con questi cespiti, i granai e le greggi, il ricco deve pure mantenere una famiglia e un gran numero di servi, ha una tenda sempre aperta al viaggiatore o all'amico che presentandosi trova una tavola sempre servita, se si può dare questo nome al vassojo di stagno che piega sotto il peso di agnelli e di capretti arrostiti intieri e ripieni d'uva secca e di fichi. Ecco ciò che nel Levante si chiama un ricco proprietario, un gran signore; ma che accadrà di lui se un'eruzione infetta le greggi di questo potente? Se un fiume inonda i suoi granai? Esattamente quello che è accaduto al vecchio Giobbe, giacchè non gli rimane che la terra che qui non ha alcun valore venale. Io non dubito che vi sia a quest'ora più di un Giobbe in Oriente, e, se molti secoli ci separano dai tempi biblici, si può dire che le grandi famiglie arabe, dalle quali furon tratti quei tipi, hanno serbata intatta in fondo la loro fisionomia e che, a differenza degli altri popoli, non hanno subito profonde metamorfosi. Io osservava con un'attenta simpatia i costumi orientali quali mi si presentavano dal mio arrivo ad Adana, quando un medico piemontese, il signor Orta, stabilito da parecchi anni in Oriente e possessore di una bellissima collezione di antichità, mi propose di andare a visitare un villaggio fellah non lontano dalle porte di Adana. Rimasi male, perchè io credeva che i fellah non vivessero che in Africa, sulle rive del Nilo. Il dottor Orta, vedendomi disorientata, venne in ajuto della mia erudizione presa in fallo e mi assicurò che questi fellah derivavano realmente da quelli d'Egitto ed erano stati qui trapiantati da Jbrahim Pascià. La mia sorpresa doveva però crescere ancora. Non appena avevo coordinato l'esistenza alle falde del Tauro dei fellah del buon medico, colle nozioni attinte sul loro conto in una quantità di libri eccellenti, ecco un altro abitante di Adana affermarmi che alquanti milioni di fellah indigeni della Siria vivono lungo tutto il litorale, da Tarso fino ai dintorni di Beyrut ed anche nelle montagne che dal litorale si protendono verso l'interno. Cosa potevano essere i pochi fellah del dottore dirimpetto a queste schiere di fellah disseminate in una gran parte della Siria, malgrado tutte le affermazioni dei viaggiatori che danno loro l'Egitto per culla? In realtà i fellah venuti dall'Egitto e quelli della Siria non si assomigliano affatto: i primi sono veri negri che alloggiano in grandi ceste di vimini ove trascorrono giorno e notte, obbedendo al capo della loro razza che onorano col titolo di re e che si distingue dagli altri per la sua lunga veste rossa e per un parasole rosso anch'esso, che uno schiavo tiene sempre aperto sul suo capo. — Quali sono le attribuzioni di questo monarca? — Nessuna. — E le sue rendite? — Non ne ha. — Qual'è il suo potere? — È nullo. — Che fanno i suoi sudditi? — Niente. — Ma come e di cosa vivono? — Dei legumi e dei frutti che crescono quasi spontaneamente accanto alle loro capanne di vimini. Ecco le dimande che rivolsi alla mia guida e le risposte che ne ottenni. Che aveva dunque pel capo Ibrahim Pascià quando condusse seco questa popolazione fino sulle frontiere della Siria e ve la lasciò perchè crescesse e si moltiplicasse? Crescere e moltiplicarsi costituisce un programma molto semplice e poco ambizioso; nondimeno i fellah di Adana non hanno saputo eseguirlo, poichè il loro numero diminuisce tutti i giorni. Non si adattano al clima e ne soffrono. Per uomini avvezzi sin dall'infanzia alle cocenti carezze del sole africano, un leggero vento di levante è una calamità. Quanto agli altri fellah della Siria, che ho poi visto in buon numero, nulla li distingue dagli indigeni salvo le loro vesti ed i loro turbanti completamente bianchi. La loro origine è ignota; ma si sono stabiliti lungo le coste della Siria probabilmente da lungo tempo. Non è il caso di domandarsi perchè il tempo non abbia attenuato la diffidenza che isola questa razza dagli altri popoli dell'Oriente. La tenacia di sentimenti e di pregiudizi che regna fra gli orientali supera ogni immaginazione; io suppongo che i fellah ignorino perchè essi detestino e disprezzino i turchi e gli arabi allo stesso modo che questi non conoscono il motivo della loro esecrazione per i fellah, ciò che non impedisce nè agli uni nè agli altri di augurarsi scambievolmente i maggiori mali e di danneggiarsi tutte le volte che lo possono fare impunemente. I fellah possiedono od hanno in affitto quasi tutti i terreni coltivati di quelle contrade della Siria che essi abitano, mentre gli indigeni cacciano lungo le strade ed inseguono le carovane. Come accade nelle società semi-barbare, il lavoro non è punto onorato in Asia e gli oziosi, per non dire i briganti, guardano gli artigiani ed i coltivatori dall'alto della loro nobiltà. Arti e mestieri sono l'appannaggio dei greci e degli armeni e l'agricoltura è riservata ai fellah. Sebbene poveri ed ignoranti, disprezzati ed odiati, essi hanno un'aria seria, dolce e melanconica e fatico a crederli così crudeli e perfidi come vogliono dipingerli. La loro religione è un mistero, e, a dir il vero, l'intolleranza dei mussulmani ha costretto tutte le genti non maomettane a compiere i loro riti in segreto. Solo i cristiani hanno osato proclamare a testa alta la loro fede di fronte ai mussulmani e perciò hanno sofferto persecuzioni e martirio. Quanto ai fellah, sono accusati a volte di adorare il fuoco oppure un animale favoloso o un idolo di legno, altre volte di non aver religione. Dopo aver visitato quel villaggio in vimini volli far visita al pascià di Adana, premendomi di assicurarmene la protezione prima di penetrare fra i monti del Giaurro. Quando entrai nella corte che ha in fondo una torre quadrata di legno, che ospita l'alto funzionario, constatai ancor meglio il trapasso che avevo compiuto dal mondo turco all'arabo. L'Oriente turco non assomiglia affatto, ahimè, all'Europa; ma le si accosta assai più che non l'Oriente arabo, il quale reca l'impronta sua propria sia nelle sue ricchezze, sia nelle sue miserie. Molte cose vi sono sgradevoli, assurde, incomode, repulsive; noi vi ci troviamo via via a disagio, scontenti, inquieti, indignati; ma lo siamo in modo diverso che in qualunque altro luogo e indubbiamente, finchè questo stato di cose è per noi nuovo, tanta novità vale a compensarci di molti inconvenienti. È difficile vedere qualche cosa di più brutto, sudicio ed irregolare dell'esterno del palazzo abitato dal pascià di Adana. La corte nella quale ero entrata è chiusa da un lato dalla torre quadrata di sua Eccellenza, e dagli altri tre lati con edifici ad un solo piano, le cui linee pesanti e disadorne corrispondono esattamente alla loro destinazione, a scuderie, prigioni e cucine. Un pajo di palmizi, colla corteccia in brandelli, ombreggiano qualche poco un angolo della corte. Questo recinto così mal decorato brulicava, quando vi entrai, di tante persone singolari nelle forme, nelle fisionomie, nei costumi, nella lingua, nelle movenze, che avrei voluto rimanervi un giorno intiero a contemplarle. Qua stavano degli arnauti albanesi colla loro veste bianca floscia e corta, le loro ghette rosse ricamate a lame metalliche, la loro casacca colle maniche spioventi ed il corpetto carico d'oro e di argento, giocando ai dadi sul pavimento lastricato della corte, ben decisi tutti ad un modo a non perdere la partita. Un poco più in là un beduino del deserto ritto accanto al suo cavallo nella cui briglia aveva passato il braccio, tutto avvolto in un immenso mantello bianco, salvo la testa coperta da un fazzoletto di seta gialla e rossa che ricadeva come un velo sul suo viso scuro e fiero, guardava con sdegnosa indifferenza i giocatori avidi ed impazienti reggendo colla mano la sua lunga picca di dodici piedi. Lungo i muri di destra splendidi cavalli arabi, attaccati da catene agli anelli di ferro infissi nella parete, ricevevano nitrendo e scalpitando le cure attente di palafrenieri egizi vestiti di tela turchina, piccoli, magri, di colorito quasi nero, ma vigorosi ed intelligenti. Infine, sporgendo un poco dal muro di sinistra, un piccolo spazio riservato fra la muraglia ed una palizzata di legno custodiva una decina di uomini seminudi, incatenati alle mani ed ai piedi, che tendevano le braccia chiedendo l'elemosina. Fra quei banditi rilevai dei visi espressivi e delle movenze che sarebber piaciute a Salvator Rosa; tutta la loro bellezza era nei tratti e nell'espressione viva, prepotente della brutalità delle passioni. Non potrei dire che quei visi sembrassero dimessi; non basta di avere un'anima, occorre sentire la presenza di quel divino ospite per soffrire, nella vergogna e nel turbamento, della sua decadenza. La Dio mercè, quasi tutti i delinquenti del nostro mondo occidentale recano in fronte le traccie di una lotta più o meno recente contro la loro perversa natura. Quella stessa aria di trionfo che risplende così spesso in viso al colpevole recidivo non rende anch'essa testimonianza della realtà di un interno combattimento? Qui si tratta di ben altro e purtroppo il delinquente non è un uomo profondamente diverso dal buon cittadino. Talune azioni sono riprovate dalle leggi umane, ma devo supporre che questa legge religiosa le ignori, perchè, se i colpevoli sono qualche volta puniti nel loro corpo, non perdono affatto la loro riputazione. In nessun paese io vidi mai un così gran numero di uomini entrare ed uscire di prigione con tanta naturalezza ed indifferenza. Poichè parliamo dei prigionieri incarcerati dietro la staccionata della corte del pascià, debbo dire che il loro sguardo era così sicuro, forse anche più sicuro che il nostro mentre li stavamo guardando. Mi era impossibile di riconoscere in essi uomini che non avessero una natura diversa dalla nostra, effettivamente ignari del senso delle parole vizio e virtù. Anche in Europa mi furono additati più volte autori di grandi delitti come incapaci di comprendere il senso di quelle due parole; ma devono esser stati giudicati male, giacchè nessuno nella società cristiana può essere estraneo alla distinzione tra il vizio e la virtù. Solo all'infuori del Cristianesimo, anzi della natura primitiva, solo in seno ad una civiltà quasi altrettanto antica che la cristiana, ma basata su tutt'altri principii, si deve cercare questo fenomeno: un uomo senza coscienza! Scorsi un altro gruppo poco numeroso nascosto in un angolo della corte, sotto una specie di tetto che sporgeva sopra una finestra. Questi uomini che contrastavano negli abiti e negli atteggiamenti col resto della folla variopinta erano ricchi negozianti armeni di Adana che forse per la ventesima volta venivano a chiedere un'udienza che il pascià si dimenticava sempre di accordare loro. I sudditi cristiani del Sultano ormai non hanno nulla da temere nè per le loro persone, nè per i loro averi; ma la timidezza è naturale nei figli delle vittime. Guardando i loro turbanti neri, le loro lunghe vesti sbiadite e lacere, l'espressione umile e timorosa del loro viso, la linea sempre curva della loro spina dorsale, potreste credervi ancora al tempo delle confische, delle spogliazioni, dei ratti e delle impiccagioni. Chiedendo loro di che temono, il loro spavento si accresce; se poi cercate di far loro comprendere che la crudeltà, la violenza, la cupidigia sono così estranee all'anima del giovane sultano come lo sarebbero a quella di un bimbo appena nato, rischiereste di farli svenire. Tutto fa loro l'effetto di uno spauracchio ed il meglio che vi resta a fare è di lasciarli rabbrividire quanto vogliono, per la paura che cercando di rassicurarli non abbiate a gettarli in un parossismo di terrore. Avrei ben voluto fermarmi qualche momento in questa corte, ma gli amici che mi accompagnavano mi andavano ripetendo che la mia visita era già stata annunciata al pascià, che questi mi attendeva e che bisognava che ci affrettassimo. Quando fui giunta all'ingresso del vestibolo della torre quadrata, le loro esortazioni divennero superflue. Mi venne incontro una fiumana di segretari, sottosegretari, accenditori di pipe, tostatori di caffè, camerieri ed altri simili dignitari vestiti mezzo all'europea secondo l'uso di Costantinopoli. Facevano un gran baccano: e chi mi prendeva per il braccio, per l'orlo della mia veste o per un lembo del mio mantello, chi si slanciava innanzi per annunciarmi al padrone, chi infine chiudeva il corteo, sì che fui sollevata, come in un vortice, fino all'alto della scala. Ho una vaga idea d'aver camminato sui piedi, sulle ginocchia ed anche sulle mani di tutta una serie di sollecitatori che aspettavano l'udienza accoccolati sui gradini; ma in ogni caso quei disgraziati devono aver compreso che ubbidivo ad una spinta altrui, giacchè non udii levarsi dietro a me alcuna di quelle imprecazioni così naturali in circostanze simili e dalle quali forse neppur io avrei saputo trattenermi. Trovammo il pascià nella sua sala d'udienza di cui tutto il lato sul quale si aprivano le finestre era accompagnato nell'intera sua lunghezza da un divano, secondo l'uso ottomano. Tutto il mobilio consisteva in tale sedile, una tavola rotonda posta in mezzo alla sala, un lampadario appeso sopra la tavola ed inoltre un piccolo scrittojo collocato sullo stesso divano accanto al pascià. Bisogna dire che tale divano non è un mobile che possa rimpiazzare i nostri sofà, ma una serie di assi che sono considerati un semplice rialzo del pavimento, tanto che la gente vi si siede sui tacchi come farebbe in mezzo alla stanza, giacchè qui non si crede possibile di sedersi dove non si è camminato o non si è rimasti in piedi. A casa mia, cioè nella mia fattoria d'Asia Minore, ho alcune seggioline intrecciate in isparto che mi sono state mandate da Milano; nei primi tempi del mio soggiorno in Turchia ebbi l'imprudenza di offrirle, come sedile, ad un bey, piuttosto corpulento, che veniva a farmi visita. Quale non fu il mio spavento allorchè lo vidi rialzare il suo abito come per eseguire un movimento difficile e porre il suo piede largo sulla mia seggiolina! La disgraziata fece udire uno scricchiolio di cattivo augurio ed il bey terrorizzato ritirò il suo piede e si sedette per terra. Da quel momento si radicò l'opinione nel paese che i Franchi sono incomparabilmente più leggeri che i Turchi poichè usano sedersi sui mobili che si sfasciano sotto il peso dei Turchi. A nessuno venne in mente che il modo di sedersi potesse influire su tale fenomeno. Il pascià di Adana è cortesissimo, sembra intelligente ed abbastanza istruito. Credo abbia viaggiato, parla il francese e discorre volontieri cogli stranieri. Non avrebbe potuto essere più amabile con me; ma v'è sempre qualcosa che ci sorprende nel tratto di chi differisce così completamente dalla nostra educazione e dai nostri costumi. Il loro modo d'interrogare non può che imbarazzare l'interlocutore. M'era appena seduta al posto d'onore che il pascià mi aveva forzato ad accettare, ed avevo risposto ai complimenti di rito sul mio arrivo, il mio soggiorno e la mia partenza, quando il pascià mi indirizzò a bruciapelo domande simili: — Cosa pensate che la Russia potrà fare in Oriente? Quanto credete che durerà in Francia la forma attuale di governo? Credete il movimento rivoluzionario represso per sempre in Europa? Cercai invano di tergiversare e di declinare il compito di oracolo che mi si offriva, insinuando inutilmente che problemi così gravi e complessi non potevano essere risolti con poche parole ed in pochi minuti. Ma il pascià, senza badare alle mie scappatoje, ripeteva imperturbabilmente le sue domande. Finii per rassegnarmi e con tutta la mia presunzione risposi in tono serio qualche banalità, ciò che non impedì al pascià di sembrare incantato della profondità e della precisione delle mie idee. Dopo ciò parlammo di cose meno gravi, fra l'altro del tempo che avrei impiegato per arrivare a Gerusalemme ed il pascià venne a sapere che intendevo viaggiare per terra. Il mio proposito lo allarmò visibilmente, come la maggiore delle imprudenze, «giacchè senza parlare degli arabi che infestano tutti i valichi del Libano» egli diceva «avrei dovuto attraversare, tra Adana ed Alessandretta, una parte dei monti del Giaurro che, a buon diritto, spaventano non meno delle regioni più mal famate del deserto». — Ma perchè non andreste per mare? — mi ripeteva continuamente. Ebbi allora l'idea di chiedergli se, rinunciando al mio progetto per imbarcarmi, avrei potuto trovare un battello a vapore che mi trasportasse da Tarso a Giaffa. La domanda era opportuna, giacchè il pascià guardò in viso i suoi segretari, confidenti e domestici che scossero il capo. Dopo qualche minuto di consulti e di discussioni in arabo, S. Ecc. finì per confessare che il passaggio del vapore aveva luogo molto irregolarmente, che Tarso non era uno scalo cioè uno dei porti toccati dal servizio di navigazione, che vi sarebbe forse un'occasione nel corso del seguente mese, ma che essa avrebbe potuto tardare tre mesi. Mi propose anche d'imbarcarmi su una nave a vela, ma quando gli ebbero obbiettato che nel golfo i venti soffiavano in tutte le direzioni e gli ricordarono tutti i naufragi dell'ultimo inverno, il buon pascià fini là dove avrebbe dovuto cominciare e concluse che, se volevo essere a Gerusalemme per le feste di Pasqua, dovevo prendere la via di terra. Mi rimaneva da affrontare un ultimo argomento. Poichè stavo per attraversare questo terribile Giaur-Daghda ed il dado era tratto, sì che non vi era più luogo a smentirsi, si trattava di superare il pericolo. Il pascià mi aveva parlato del bey della montagna come di un uomo che conoscesse e stimasse in modo particolare e credetti di potergli chiedere senza indiscrezione qualche riga di raccomandazione. L'ottenni, anzi dovetti accettare una scorta di venti uomini; inoltre uno de' miei amici di Adana mi procurò un'altra lettera di un negoziante che aveva reso molti servizi al bey, sì che ormai mi consideravo al riparo dei pericoli. Preso congedo da quel gentile pascià, ritornai al mio alloggio per prepararmi alla partenza che ebbe luogo l'indomani mattina. In una città del Levante la partenza, come l'arrivo, è una faccenda importante: tutta la città è in subbuglio. Anzitutto la curiosità, poi quel sentimento d'ospitalità di cui nessuno oserebbe mostrarsi privo, da ultimo la consuetudine fanno sì che per il momento qualsiasi viaggiatore, fosse pure insignificante per sè stesso, diventa una specie di idolo che non si saprebbe onorare abbastanza. Tutte le case gli si aprono, si scaldano per lui tutte le caffettiere e tutti i vasi di marmellate hanno la loro parte in queste cerimonie del saluto. Non voglio svelare la parte che vi hanno l'ostentazione, l'abitudine od i sentimenti davvero benevoli; tale ricerca sarebbe tanto più difficile in quanto che le proporzioni varierebbero da un luogo all'altro. Ciò che è certo si è che il viaggiatore non si sente straniero in una città che visita per la prima volta e dove non conosce nessuno. Come ho detto tutte le porte gli sono aperte, anzi si potrebbe dire altrettanto dei cuori; quanto alle borse lo sono di certo. Più di una volta mi accadde di esaurire la somma, colla quale avevo contato di raggiungere la residenza di un banchiere, quando non ero ancora a mezza strada. In un caso simile in Europa avrei interrotto il mio viaggio, e scritto al banchiere, presso il quale ero accreditata, di mandarmi il denaro là dove rimanevo ad attenderlo. Ma in Oriente, grazie all'irregolarità ed alla lentezza delle comunicazioni postali, il ritardo avrebbe potuto prolungarsi parecchi mesi. Non dovetti mai sottostare ad una così lunga attesa, giacchè fra tante domande che ovunque mi rivolgevano i miei ospiti ed i numerosi miei amici non mancava quasi mai questa: — Avreste bisogno di denaro? — E se rispondevo di sì, non vedevo dei visi lunghi, perchè le offerte de' miei bravi ospiti non erano vane formule di cortesia. Mi avevano offerto il denaro e me lo recavano colla stessa intonazione e collo stesso viso. Naturalmente non ho bisogno di dire che queste somme erano restituite puntualmente; ma chi lo garantiva a' miei ospiti? Una volta in un villaggio in pieno Libano, ove avevo dovuto fermarmi oltre 15 giorni, dopo una serie di incidenti, un monaco carmelitano sopraggiunse e mi chiese perchè io non continuassi il mio viaggio. Gli risposi che avevo speso, con quella forzata interruzione, il denaro col quale avrei dovuto raggiungere Homs, ove avevo dei fondi e che vi avevo scritto di mandarmi del denaro. Il frate ritornava da Tripoli, dove si era recato per riscuotere alcune centinaia di piastre. Trattele dalla bisaccia che era attaccata alla sella del suo cavallo, me le consegnò dicendo: «Il mio convento è a pochi passi di distanza, io ed i miei confratelli potremo aspettare nelle nostre celle più facilmente che voi sotto le vostre tende. Arrivando ad Homs rimettete la somma al tale.» Mi diede le istruzioni sul modo di fargliele pervenire e riprese la sua strada. Altre volte ricevetti la stessa prova di fiducia, da un negoziante, da un turco, da un latino, e anche da un armeno! Questa fiducia era concessa non a me personalmente, ma al viaggiatore, all'ospite, giacchè ogni abitante di una città considera suo ospite lo straniero che vi si trova. Quando lasciai Adana, la guida che camminava in testa alla carovana aveva già oltrepassato le ultime case del sobborgo e l'ultimo cavaliere della mia scorta non era ancor escito dalla porta di casa mia. Come si vede, formavamo una processione di aspetto molto imponente e la popolazione della città, assiepata sul nostro passaggio, poteva esser soddisfatta dello spettacolo che le offrivamo. Tutte le persone che avevo conosciute, durante il mio soggiorno ad Adana, tutte quelle che erano venute da Tarso per vedermi, avevano voluto accompagnarmi fino ad una certa distanza dalla città. Aggiungete al corteo la scorta del pascià e la nostra vera e propria carovana, bagagli, domestici e viaggiatori e comprenderete che potevamo ben occupare una metà di Adana. Confesso che mi allontanavo con rammarico da quel piccolo mondo di cui ero stata il centro durante una settimana, da quegli uomini che avevano tralasciato i loro affari per non occuparsi che di rendermi la vita dolce e gradevole, per quanto il mio soggiorno ad Adana fosse stato breve e quei nuovi amici di data recente. La partenza non è mai cosa lieta e del resto non ero la sola a provare questi rimpianti e coloro che li inspiravano non ne erano immuni. Non vi era solo della tristezza sul volto de' miei amici; vi notai qualche ansietà, specie se accadeva ad uno di essi di trattenersi qualche momento a parte cogli uomini della scorta. Questi non avrebbero avuto un'aria più cupa e grave se avessero accompagnato al patibolo una schiera di condannati. Devo ammettere che cominciavo ad aver paura. Tutti tremavano per me e giungevo a rimproverarmi l'ostinazione che poteva compromettere non solo la mia vita, ma quella di una cara fanciulla che non aveva che me per proteggerla e difenderla. Se a quel momento qualcuno della carovana mi avesse proposto di ritornare indietro credo che avrei accettato l'invito con trasporto; ma chi sa mai che avviene nel cuore del suo vicino? Mentre io formavo i voti più timidi, forse i miei compagni deploravano la mia temerità. Gli abitanti di Adana che mi avevano scortato finirono per fermarsi presso un vecchio albero disseccato che segna il limite oltre il quale non si accompagnano mai i partenti. Grandi strette di mano, le formule commoventi di augurio delle quali tutti sono così prodighi in Oriente e che si imparano facilmente da loro furono scambiate e ripetute da ognuno: «Dio vi benedica e vi riconduca! Dio vi conceda la salute e la pace! Voglia farvi felici in quelli che voi amate! Possano i miei occhi rivedervi! Possa la vostra voce rallegrare il mio cuore!» Voltarono poi i loro cavalli verso la città ed il settentrione; noi indirizzammo i nostri verso il deserto ed il mezzogiorno. Da ambo i lati la nebbia copriva il paese a breve distanza e ci nascondeva la vista dei luoghi ove ci dirigevamo; ma quelli che ci lasciavano sapevano bene che vi fosse dietro quella nebbia, la città, il focolare, la famiglia. Noi invece andavamo verso l'ignoto: a che gli valeva quel velo? IL BEY DEL MONTE DEL GIAURRO ED IL SUO HAREM La vita di viaggio non tardò a vincere, colla varietà delle sue impressioni, il rimpianto che mi lasciava il soggiorno di Adana. Appena varcata la frontiera del Giaur-Daghda, salivamo le ultime colline che ci separavano dal golfo di Alessandretta, quando un gruppo di donne e di fanciulli apparve all'estremo limite del nostro orizzonte, ristretto in quel punto dall'aprirsi di una valle di cui stavamo per raggiungere i primi pendii senza poterne ancora misurare l'ampiezza. Ben presto conoscemmo la causa di quell'affollamento, che non aveva nulla di terrificante: le famiglie di una tribù di montanari accampate, colle loro greggi, nella valle vicina venivano a presentarci i loro omaggi, mentre i loro padri e mariti vagavano altrove. Ci mostrammo sensibilissimi a quest'atto di riguardo, e dopo avere gettato qualche piastra a quelle brave matrone, proseguimmo il cammino, lasciando molto delusa una di quelle signore che aveva avuto la speranza di farsi regalare della biancheria vecchia. Da buona occidentale io credeva che il denaro potesse tener luogo, se non di tutti i beni di questa terra, per lo meno di quelli che si comprano e vendono, ma quella buona donna, alla quale cercavo di comunicare la mia convinzione, mi rispose che, per quanto le dessi del denaro, non ne avrebbe mai abbastanza per comprarsi del pane e che le mancherebbe sempre il modo di soddisfare i suoi gusti in fatto di corredo. Qualche passo più in là incontrammo una ventina di cavalieri, piuttosto bene in arcioni, ed abbastanza ben armati, ai quali comandava un uomo d'alta statura coperto da uno di quegli ampi mantelli di panno rosso che hanno il medesimo taglio dei nostri scialli e che sono indossati dai Curdi meridionali. Il capo della nostra scorta ed il personaggio vestito alla curda si accostarono come veri fratelli d'arme. Il nostro capitano mi presentò il cavaliere dal mantello rosso, facendomi conoscere il suo nome ed il suo titolo: era Dedè bey, luogotenente di Mustuk-bey, principe della montagna. Il luogotenente era venuto a conoscenza del mio passaggio negli stati del suo signore e veniva ad offrirmi i suoi servigi e quelli de' suoi uomini promettendomi di condurmi, senza ostacoli nè impicci, alla residenza del principe Mustuk. Non mi rimaneva che di ringraziare quel luogotenente, e lo feci nel miglior modo possibile. Dedè per altro era un personaggio troppo importante per porsi egli stesso alla testa della scorta che mi recava. Rivolse ai suoi soldati un bel discorso per rammentar loro i riguardi che dovevano avere per me, per la mia qualità di viaggiatrice, e per l'onore stesso di quelle popolazioni della montagna, impegnato ad assicurarmi la traversata di quel territorio pericoloso. Soggiunse che aveva motivo di credere che essi adempirebbero puntualmente il loro dovere di condurmi al gran bey Mustuk. Dopo avere così istruito il suo drappello armato, Dedè ne affidò il comando ad uno de' suoi ufficiali, poi risalì a cavallo e disparve in un labirinto di roccie. Il luogo dove si svolgeva questa scena mi colpì col suo aspetto pittoresco. È chiamato la porta delle tenebre, da un antico arco di trionfo le cui rovine fanno una bellissima figura nel paesaggio, giacchè l'arco sorge in fondo ad un dirupo che ha una ricca vegetazione contrastante colla china arida che conduce laggiù. Gli alberi che circondano la porta delle tenebre sono tanto frondosi da spegnere, per così dire, la luce del sole, non lasciandone giungere, sino a quelle venerande arcate, che qualche pallido raggio. Dall'alto delle colline che incorniciano quella gola, la vista si stende sul mare di Siria, di cui si ascoltano muggire le onde a poca distanza, e sulla linea azzurra delle sue coste. Lo spettacolo è splendido sovratutto per occhi attristati fino allora dalle ombre sinistre dei primi gioghi del Giaur-Daghda. Non ci rimanevano che alcuni scaglioni da scendere per toccare la spiaggia del mare, e ben presto i sentieri rocciosi cedettero all'arena fine e morbida della riva. L'aria era vibrata, il cielo di un turchino senza venature, solo leggermente dorato verso il levante. Neppure il mare aveva una sola increspatura, al punto da lasciar distinguere i pesci che si dibattevano in quelle acque limpide e tranquille. I nostri cavalli erano felici di correre su un terreno uguale, di immergere i loro piedi nelle onde spumose. I nostri cavalli europei sembrano muti, confrontati al cavallo arabo. Questi ha tutto un linguaggio, capace delle più varie sfumature, sia che saluti con mille dolci fremiti la presenza di un padrone amato, sia che chiami con grida reiterate la cavalla che s'indugia nel prato vicino, sia che provochi un rivale alla lotta con urla selvaggie. Per il momento i nostri cavalli manifestavano ingenuamente le impressioni che destava in essi una così bella natura. Che gioia vederli scalpitare, soffiare, aspirare l'aria colle loro narici rosate, scuotere le loro lunghe criniere, frementi di soddisfazione, accarezzati dal vento del mare! Devo dire che noi partecipavamo interamente alla letizia di quei nobili animali e le fatiche di sei settimane di viaggio erano quasi dimenticate in pochi minuti, quando fummo distolte da quelle dolci sensazioni dai suoni di una musica barbara che si faceva udire a qualche distanza. L'acuto sibilo di qualche piffero e di qualche zampogna si mescolava al rullo dei tamburi ed ai colpi sordi delle gran casse. Ed ecco comparire i musicanti che precedevano una banda di montanari in campagna, cioè nel corso di una delle loro spedizioni lungo le carovaniere. Il nostro passaggio era stato annunziato a quei guerrieri nomadi che accorrevano ad augurarci buon viaggio, anzi ad invitarci a prendere con loro qualche rinfresco. Sarebbe stato inurbano il rifiutare. In un attimo saltammo a terra e, affidati i nostri cavalli alla custodia di quegli ospiti premurosi, ci sedemmo sull'erba, mescolando le nostre provviste a quelle dei montanari. Un pasto in comune con una banda di simili avventurieri è una di quelle occasioni che chi ricerca le emozioni non può incontrare che nel Levante. A dir il vero i montanari resistettero a tutte le nostre insistenze per deciderli a prendere la loro parte delle nostre provviste. I doveri dell'ospitalità non permettevano loro di consentire alle nostre richieste: se essi ci avevano offerto il loro latte, il loro formaggio, la loro galletta d'orzo ed i loro aranci era perchè ci riconoscevano come loro ospiti e per ciò stesso non potevano accettare nulla da noi. Dopo il pasto venne la siesta, nella giornata calda, mentre il sole, al colmo della sua corsa, ci dardeggiava co' suoi raggi cocenti. I montanari si ritirarono in un canto per lasciarci riposare; ognuno si stese per terra all'ombra di un boschetto. Sdraiata accanto a mia figlia cercai dapprima di resistere al sonno, ma la stanchezza non tardò a gettarmi in una sorte di sopore. Quando riapersi gli occhi potei constatare con grande soddisfazione che quei montanari erano stati fedeli al loro compito di guardiani ospitali. D'accordo colla nostra scorta essi vegliarono sui nostri cavalli e sui nostri bagagli. Mi sembrava però che fosse tempo di partire separandomi da quei curiosi amici. Dopo aver distribuito un po' di denaro a tutta la banda, e seguiti dalle sue benedizioni ci allontanammo. Era ormai sera quando giungemmo in vista del monte che ha dato il nome di Giaur-Daghda al gruppo al quale sovrasta. L'aspetto del paese che percorrevamo allora, richiamava taluni angoli verdeggianti e ricchi dell'Inghilterra. Avevamo alla nostra destra la distesa del mare, illuminata sulla spiaggia dagli ultimi raggi del sole, velata nello sfondo azzurrigno dalle prime ombre della notte. A sinistra e dinanzi a noi si ergeva la cima verdeggiante del Giaur-Daghda sui cui fianchi arrotondati sorgevano molti villaggi. È raro che in Siria la costa si levi a picco dal mare. Qui, come in tutto il paese, graziose ondulazioni separano i pendii dalle onde che ne lambono la base. Lo spazio fra il mare ed il monte assomigliava ad una fresca vallata della Svizzera. Il borgo di Bajaz[19], residenza del bey, era nascosto ai nostri occhi da gruppi di alberi giganteschi e collegati fra loro dalle ghirlande che vi intrecciava capricciosa la vite selvatica. Tutto intorno a noi era calmo, ridente e sereno; le campanelle che risuonavano qua e là nella campagna annunziavano il ritorno delle greggi all'ovile; qualche merlo in ritardo svolazzava di ramo in ramo a guisa di un gaio compare che, reduce da un banchetto troppo prolungato, incespichi nel cercare la porta di casa. Le tortore tubavano tristemente sugli alberi, e tratto tratto si udivano i primi lagni dell'usignuolo che salutavano il cader della notte. Allo svolto di un sentiero cinto di siepi vive ci trovammo ad un tratto all'entrata di una corte irregolare. In fondo sorgeva un edificio di poca apparenza. Era la casa del bey, ed egli stesso ci attendeva sulla soglia della sua residenza. L'accoglienza che ci fece non lasciava nulla a desiderare ed io fui personalmente abbastanza fortunata di ottenere il permesso di ritirarmi nella mia tenda. Il tempo cospirava contro di me; piovve così dirottamente durante tutta la notte che, non volendo incorrere nella taccia di stravagante, dovetti decidermi a riparare sotto un tetto. Io temeva di essere condannata ad abitare l'harem; ma il bey, uomo di spirito, indovinò i miei segreti pensieri, mise a mia disposizione un vasto locale del suo appartamento, avvertendomi nel tempo stesso che le sue mogli riceverebbero le mie visite e me le renderebbero tutte le volte che ne avessi piacere. Una volta rassicurata sulla libertà de' miei movimenti, cominciai col prender possesso del mio domicilio, ma subito dopo profittai dell'occasione che mi si offriva, per studiare, a volontà, e sotto un nuovo aspetto, quella vita dell'harem di cui il mio soggiorno presso il mufti di Scerkess mi aveva già dato una ben triste idea. Poichè l'harem è una delle istituzioni più misteriose della società turca non si troverà forse male che ancor una volta io m'indugi a parlarne. Col nome di harem si designa qualcosa di complesso e di molteplice. V'è l'harem del povero, quello delle classi medie e del gran signore, l'harem della provincia e quello della capitale, l'harem della campagna e quello della città, quello del giovinotto e quello del vecchio, del pio mussulmano che rimpiange i tempi andati e del maomettano spirito forte, scettico, riformatore, che veste la redingote. Ognuno di questi harem ha il suo carattere speciale, il suo grado d'importanza, i suoi costumi, le sue abitudini. Il meno strano di tutti, quello che più si accosta ad un'onesta famiglia cristiana, è l'harem del povero abitante della campagna. La moglie del contadino, costretta a lavorare nei campi e nell'orto, a condurre le greggi al pascolo, a recarsi nei villaggi per farvi o vendere le provviste, non è prigioniera nelle mura del suo harem. Quand'anche, ed è raro, la casa coniugale abbia due stanze, di cui una teoricamente riservata alle donne, gli uomini non ne sono banditi rigorosamente. È raro che il contadino abbia parecchie mogli. Ciò non accade che in casi straordinari, per esempio quando un giornaliero, cioè un servo, un inferiore, sposi la vedova del suo padrone, fatto che non si verifica che se la signora non è più in età da poter aspirare a miglior partito. Con questo matrimonio il servo viene ad essere un poco più ricco di prima e, dopo qualche anno di fedeltà coniugale, quando vede che gli anni hanno camminato più presto per sua moglie che per lui, profitta della sua agiatezza per aggiungersi una compagna più di suo gusto. Non conosco altri contadini poligami che quelli che abbiano sposato, nella loro prima gioventù, una vecchia possidente. Salvo quest'eccezione la famiglia del contadino turco è simile a quella del contadino cristiano e, lo dico con rammarico, il primo potrebbe spesso servire d'esempio al secondo. Con pari fedeltà, il vantaggio sarebbe del turco, perchè tale virtù non gli è imposta nè dalla legge religiosa, nè dalla civile, nè dagli usi, nè dai costumi, nè dall'opinione pubblica, e non può esservi indotto che dalla bontà della sua natura, alla quale ripugna il pensiero di affliggere la sua compagna. E non le fa mai pagare il privilegio, di cui non osa privarla, di esser sola padrona di casa, con cattivi trattamenti o malumori; non si compensa mai col tormentarla del freno che si impone per riguardo ad essa. La sua anima semplice e generosa sarebbe incapace delle piccole vigliaccherie. La tradizione della debolezza della donna in Oriente non è relegata nel dominio della favola, ed i riguardi cui ha diritto il debole da parte del più forte sono ancora considerati cosa seria. Tutto o quasi è concesso alla donna dacchè è ritenuta debole. Ha il privilegio di arrabbiarsi senza motivo, di mancare di senso comune, di parlare per diritto e per traverso, di agire a rovescio di ciò che le si domanda e sovratutto di ciò che le si ordina, di lavorare quando le pare e piace, di spendere come crede il denaro guadagnato da suo marito, di pretendersi malata, di lamentarsi senza alcuna ragione. In forza di quale legge o di quale istituzione, per effetto diretto od indiretto di quale usanza o di qual principio, gode essa di tale privilegio? La legge l'abbandona senza difesa al capriccio del suo signore e padrone, l'uso la condanna; ma la bontà d'animo, la tenerezza, la generosità naturale dell'uomo garantiscono alla donna un'impunità quasi assoluta. Il contadino turco ama la sua compagna come un padre e come un amante; non la contraria mai di proposito e scientemente e non v'è noia ch'egli non affronti di buon grado per amor di sua moglie. La donna invecchia presto in questi climi, sotto l'influenza di un nutrimento grossolano e malsano, e di continui parti, di cui nè la scienza nè l'arte attenuano i pericoli. L'uomo invece, che ha una costituzione più adatta a sopportare le fatiche e le privazioni, rimane quasi eternamente vegeto. È frequentissimo qui il caso di vecchi di più di ottant'anni che abbiano intorno bimbi che sono la loro progenitura diretta. Nonostante questa disparità fra l'uomo e la donna, l'unione stretta sulle soglie dell'infanzia è di regola spezzata solo dalla morte. Ho veduto donne decrepite, inferme, orribili, condotte per mano, curate ed adorate da bei vecchi ritti come i pini dei monti, colla barba d'argento, ma lunga e folta, coll'occhio vivace e limpido. Un giorno uno di questi splendidi vecchi di cui ho parlato mi aveva condotto la sua vecchia moglie, cieca e paralitica, colla speranza ch'io potessi renderle il moto e la vista. La vecchia era arrivata a cavalcioni su un asino che suo marito teneva per la briglia, camminando allato. L'aveva poi presa nelle braccia e, depostala su un banco vicino alla mia porta, vi aveva installato la sua povera compagna su un ammasso di cuscini, con tutta la sollecitudine di una madre per il suo figliolo. Dissi alla cieca: — Dovete voler molto bene a vostro marito? — Vorrei bene vederci — mi rispose. Io guardavo il marito che sorrideva melanconicamente, ma senza l'ombra di un rancore. Si passò il rovescio della mano sugli occhi e disse: — Povera donna! la sua cecità la rende molto infelice e non sa abituarvisi. Ma voi le renderete la vista, non è vero, _Bessadea_? Io scuotevo la testa e stavo per protestare la mia impotenza, ma egli mi tirò il lembo della veste e mi fece segno di tacere. Gli chiesi allora: — Avete dei figli? — Ahimè! ne ho avuto uno; ma è morto da tanto tempo. — E come mai non avete preso un'altra moglie, più robusta e che avesse miglior salute, sì da potervi dare dei figli? — È presto detto; ma questa povera creatura ne avrebbe avuto dispiacere, e ciò mi avrebbe impedito di esser felice con un'altra anche se feconda. Vedete, _Bessadea_, non si può aver tutto a questo mondo. Io ho una moglie alla quale voglio bene da quasi quarant'anni, non ne sceglierei un'altra. L'uomo che mi parlava in questa guisa era un turco. Sua moglie gli apparteneva come un mobile; nessuno l'avrebbe biasimato, nessuna legge l'avrebbe punito se si fosse sbarazzato di quel peso inutile con qualche atto violento. In tal caso gli avrebbero semplicemente domandato quali fossero stati i suoi motivi per agire a quel modo. Fortunatamente il carattere del popolo turco corregge ciò che tali costumi hanno di odioso. Vi ha in lui un fondo prezioso di bontà, di dolcezza, di semplicità, un notevole istinto di rispetto per ciò che è bello, di pietà per ciò che è debole. Quest'istinto ha resistito, e speriamo resista ancora per molto tempo, all'azione di istituti deleterii, basati unicamente sul diritto della forza e sull'egoismo. Per comprendere quanto vi abbia di dolcezza e di serenità innate nel turco, bisogna osservare i contadini di origine ottomana, sia nel loro campo, sia al mercato o sulla soglia d'un caffè. Il raccolto, le seminagioni, il prezzo dell'orzo, la loro famiglia, ecco l'argomento invariabile delle loro conversazioni. Nessuno di essi alza la voce, nessuno spinge lo scherzo fino a ferire od annoiare i suoi compagni; niuno mescola a' suoi discorsi delle bestemmie o quelle parole grossolane che il popolo predilige in altri paesi. Questo squisito riserbo, questi modi al tempo stesso così nobili e così semplici gli vengono dall'educazione? No, dalla natura, che è stata prodiga pel popolo turco; ma tutti i doni ch'essa gli ha dato tendono ad essere alterati dalle istituzioni. Man mano che ci si allontana dalle classi nelle quali si conserva il carattere primitivo, man mano che si penetra nella borghesia, od in istrati ancora più alti, ecco apparire il vizio che giganteggia, prevale e finisce per regnare solo. Abbiamo visto testè i sani istinti del popolo turco quali si rivelano nel contadino; bisogna ora studiare l'influenza esercitata sulle classi superiori dalla deplorevole costituzione della famiglia mussulmana. Questa funesta influenza può sovratutto essere constatata ne' suoi effetti, negli strati medi della società turca, nelle imitazioni servili provocate dagli esempi della nobiltà. Entriamo in un harem borghese o di un piccolo gentiluomo di campagna. È necessario anzitutto che la viaggiatrice privilegiata che vuol visitare un così triste luogo non si faccia alcuna illusione e si prepari a superare molte ripugnanze. Imaginatevi un corpo di fabbrica, separato dalla casa propriamente detta, ove il padrone riceve i suoi ospiti, ove i domestici maschi hanno soli il diritto di abitare. L'ingresso di questo fabbricato si apre di solito su una larga tettoia ove le galline vivono in mezzo ad ogni sorta di detriti e di immondizie. Una scala in legno, coi gradini guasti e disgiunti, conduce alle stanze superiori che consistono in un grande vestibolo dal quale si ha accesso a quattro camere. Una di queste è riservata al padrone di casa che vi abita colla favorita del momento. Le altre stanze sono occupate dal rimanente di ciò che qui si chiama la famiglia. Donne, ragazze, ospiti di sesso femminile, schiave del padrone o della padrona compongono la popolazione dell'harem. In Oriente non esistono veri letti, nè camere specialmente destinate al riposo. Grandi armadi racchiudono, durante il giorno, mucchi di materassi, coperte e guanciali. Venuta la sera, ognuna delle abitanti dell'harem leva dall'armadio ciò che le è necessario, fa il suo letto dove Dio vuole e si sdraia vestita. Quando una camera è piena, quelli che sopraggiungono si collocano altrove, e, se le camere sono ricolme, le ultime venute vanno nel vestibolo o sulla scala. Nulla di più sgradevole per occhi europei che l'aspetto di quelle signore quando si alzano il mattino nelle loro acconciature della sera precedente, cincischiate e sfiorite per la pressione delle materassa ed i moti impulsivi del sonno. Lo scopo principale di un padre di famiglia turco è di avere il maggior numero possibile di figli e tutto, nella vita domestica, è subordinato a questa considerazione. Se una donna rimane due o tre anni sterile è subito allontanata, suo marito la sostituisce con una compagna più feconda. Nessuno si impiccia dei rimpianti e della gelosia della povera reietta; ma bisogna aggiungere che, se invece di gemere e di piangere questa trova modo di disfarsi in un modo qualsiasi della sua rivale, nessuno si cura del destino di quest'ultima. Perciò io non credo che vi siano in nessun luogo creature più degradate delle donne turche della classe media; la loro abbiezione si legge sul loro viso. È difficile di pronunciarsi sulla loro bellezza per gli spessi strati di belletto che, applicati senza gusto nè misura, sfigurano le loro guancie, le loro labbra, le sopracciglia e i contorni degli occhi. La loro figura è resa difforme dal taglio ridicolo delle loro vesti ed al posto dei capelli mettono dei peli di capra tinti in arancio acceso; il loro viso non esprime che stupidaggine, volgare sensualità, durezza ed ipocrisia. Non hanno la menoma traccia di principi morali o religiosi. I bimbi le occupano e le annoiano al tempo stesso, ne prendono cura come di uno scalino di cui si possono servire per ottenere il favore del marito; ma qualsiasi idea di dovere materno è loro straniera, come si vede dalla frequenza degli aborti che queste donne si procurano sfacciatamente ogni volta che la nascita di un figlio non entra nei loro piani. Circa quindici giorni prima della mia partenza per Angora, il capo di una confraternita di dervisci, stabilita in una cittaduzza poco lontana dalla mia dimora, venne a chiedermi un rimedio per sua figlia che soffriva di vari disturbi che riconobbi come altrettanti sintomi di gravidanza. Quando espressi il mio parere al venerando personaggio, mi rispose sorridendo che sua figlia non voleva trovarsi in tale stato: «Lo voglia o non lo voglia» replicai «se lo è effettivamente, bisognerà che vi si rassegni». Il vecchio rispose: «Cara signora, non è possibile, suo marito è partito per l'esercito e mia figlia è ben decisa a non avere altri bimbi prima ch'egli ritorni.» Lasciai capire al derviscio che io non lo comprendevo più affatto. Il vecchio sembrava imbarazzato, e grattandosi l'orecchio, entrava in nuove spiegazioni, quando uno de' miei famigli che lo aveva seguito per facilitare la conversazione, si rivolse al vecchio gridandogli, con aria seccata: «Non te lo avevo detto di non parlare di queste cose alla mia padrona? I Cristiani d'Occidente non ammettono questi compromessi e non otterrete niente.» Queste parole mi illuminarono ed io dichiarai all'uomo venerando che perdeva il suo tempo, come se mi avesse domandato del veleno; ma dovetti faticar molto a sbarazzarmene. Ritornava sempre al suo grande argomento della partenza del genero per l'esercito ed assicurava del resto che il marito conosceva ed approvava la decisione di sua figlia. Per fortuna sua, e forse anche mia, quel modello di padre non comprese una parola del mio piccolo discorso, anzi se ne partì dandomi la sua benedizione, attestandomi la sua tenera amicizia e pregandomi di riflettere alla domanda che mi aveva rivolto. Sono transazioni che accadono tutti i giorni e non urtano la coscienza di nessuno. Se le madri non provano vera tenerezza per i loro figli, questi se ne curano ben poco. I ragazzi considerano le loro madri come serve, dando loro ordini, le rimproverano per la loro pigrizia o per la loro trascuratezza e non so se si limitano sempre a delle parole. Il pudore, questo ornamento virgineo della prima età, non esiste nè per i ragazzi, nè per quelli che li circondano. Tutte queste donne si vestono, si svestono davanti ai loro figli ed i discorsi più liberi si fanno in loro presenza. I fanciulli disprezzano le loro madri e questa vita in comune, che fa loro perdere il rispetto per i genitori, comunica loro spesso le tristi passioni dalle quali essi sono dominati. La rivalità del potere che agita le madri è per i figli una sorgente di animosità, d'invidia, di dispetto, d'orgoglio e di ira. «Mia madre è più bella, più ricca, più giovane! è nata a Costantinopoli!» Ecco di cosa si vantano questi ragazzi quando vogliono umiliare quelli che essi chiamano _fratelli_. Chi avesse le idee e gli affetti di un Cristiano in seno ad una simile famiglia, dovrebbe esser molto compianto; ma non sarebbe esposto a trovarvisi. Il turco, che non è mai escito dalla sua provincia, che non conosce altra società all'infuori di quella basata sulle istituzioni mussulmane, che considera come articolo di fede che nulla havvi di bello e di buono al mondo oltre il suo paese, le sue leggi, le sue usanze, che ritiene animali immondi tutti gli uomini di un'altra religione che la sua, questo turco della classe media si compiace della corruzione in mezzo a cui vive. Egli non ama nessuno intensamente; non è del resto violento e crudele che in un modo negativo. Purchè i suoi pasti siano pronti all'ora voluta, egli non chiede nulla di più alla Divinità. I suoi figli gli sono cari, ma se muoiono egli non pensa che a colmare i vuoti causati dalla loro perdita. Le sue mogli soffrono per caso nell'anima o nel corpo, forse egli ne riderà, forse vi rimarrà perfettamente indifferente. Ignorantissimo, non sapendo neppure che esistano paesi nei quali il culto delle arti e delle lettere occupano e deliziano la vita dell'uomo, egli non conosce che i piaceri sensuali ed il riposo che prolunga e varia finchè può coll'uso dell'oppio, dell'hascisch, dell'acquavite e del tabacco. Le attrattive della conversazione sono per lui lettera morta; parla per domandare o per ordinare quello che gli occorre; poi tace e, siccome tutti stanno in silenzio intorno a lui, non gli rimane neppure di stare ad ascoltare ciò che si racconta. Allorchè una delle sue mogli ha perduto la freschezza della gioventù o, per un motivo qualsiasi, ha cessato di piacergli, egli si astiene dal chiamarla a sè e presto dimentica che esista. Se ha veduto al bazar una schiava che gli piaccia, la compera, la porta a casa sua e la proclama sua favorita. Può essere idiota, golosa, ladra: lo sa, ma che gliene importa? Non ha illusioni, e come potrebbe averne? E perchè? Egli sa benissimo che la giovane donna, ch'egli stringe nelle sue braccia, non prova per lui che odio e disgusto, sa che essa gli caccierebbe volontieri un pugnale nel cuore pur di guadagnare dieci piastre, sa pure che il suo amore non è che una febbre effimera. Ma potrebbe esserne altrimenti? Sonvi altrove donne, amori, febbri, risvegli diversi dai suoi? Se ne esistono, non si cura di conoscerli. Egli ignora le gioie intime, ineffabili del sacrificarsi. Non ha mai confessato nulla che possa nuocergli, dicendo a sè stesso: Sono stato fedele alla verità! Non ha mai preferito la soddisfazione di un altro alla sua propria e non si è mai detto: Sono stato fedele alle mie affezioni! Non ha mai considerato la morte un'aurora, l'aurora di un giorno eterno, senza nubi. Pure quell'uomo si crede felice; ma può egli esserlo più dell'ultimo mendicante al quale è stato concesso nella vita di sapere che significhi amare, consacrarsi a qualcosa, credere ed attendere? La famiglia del ricco, del nobile, del turco di Costantinopoli, che ha frequentato la società Franca, o che ha viaggiato in Europa, non presenta lo stesso spettacolo d'immoralità o d'ingenua turpitudine, ma, ohimè, salvo qualche rara eccezione, la seta ed il broccato non ricoprono ancora che uno scheletro abbietto. Le dame di quegli harem di primo ordine non indossano, per una settimana o per un mese, la stessa veste sudicia e spiegazzata. Ogni mattina, levandosi dai loro letti sontuosi, esse lasciano gli abiti del dì innanzi, cambiandoli con nuove acconciature. I loro vestiti, i loro pantaloni e le loro sciarpe escono dalle fabbriche di Lione, e sebbene le manifatture europee non spediscano in Oriente che gli avanzi della loro fabbricazione, questi rifiuti fanno ancora un effetto quando avvolgono le forme splendide di una di quelle Georgiane o di quelle Circasse che popolano gli harem. Ma che vale l'apparenza, se la realtà, così impiastricciata, non è per questo meno ripugnante? Voglio dire una parola a proposito delle due razze che per la nostra immaginazione inesperta rappresentano il prototipo della bellezza femminile. Alta, formosa, colla persona ben modellata, uno splendido colorito, masse di capelli neri e lucenti, la fronte spaziosa e completa, il naso aquilino, gli occhi neri enormi e spalancati, labbra vermiglie modellate come quelle delle statue greche di buona epoca, denti di perla, il mento rotondo, l'ovale del viso perfetto, tale è la Georgiana. Ammiro di tutto cuore le donne di quella razza; poi, quando le ho bene ammirate, volgo il capo e non le guardo più, perchè sono certa di ritrovarle, quando mi piacerà, tali e quali le ho lasciate, senza un sorriso di più nè di meno, senza la menoma variante nella fisionomia. Un bimbo può nascerle e morirle, il suo signore adorarla o detestarla, la sua rivale trionfare od essere inviata in esilio, nulla ce ne rivela il viso della Georgiana. Non so neppure se gli anni rechino qualche mutamento a quella bellezza marmorea di cui m'impazienta l'immobile splendore. La Circassa non ha nè gli stessi pregi, nè le stesse lacune. È una bellezza nordica, che mi ricorda le bionde e sentimentali figlie d'Allemagna; ma la somiglianza non va al di là delle forme esterne. Le circasse sono in maggioranza bionde; il loro colorito è di una freschezza incantevole; i loro occhi sono azzurri, grigi o verdi ed i loro tratti, per quanto fini e graziosi, sono irregolari. Quanto la Georgiana è sciocca ed altera, altrettanto la Circassa è falsa ed astuta. Una è capace di tradire il suo signore, l'altra di farlo morire di noia. Il farsi belle è la grande occupazione di queste signore. A qualunque ora voi le trovate vestite di crespo rosso o di raso celeste, la testa coperta di diamanti, con collane al collo, pendenti agli orecchi, spille sui loro abiti, braccialetti alle loro braccia ed alle loro gambe, anelli alle dita. Talora piedi nudi appaiono fuor dal vestito di crespo rosso ed i capelli sono tagliati quadri sulla fronte, come usano gli uomini dei nostri paesi, ma sono questi particolari dell'acconciatura che hanno poca importanza. Gli atteggiamenti del bel mondo femmineo devono esprimere il più profondo rispetto misto d'un timore reverenziale per il signore dell'harem. Non appena egli entra, subito si fa silenzio, una delle sue mogli gli leva gli stivali, l'altra gli mette le pantofole, quest'altra gli offre la sua veste da camera, una quarta gli reca la sua pipa, il suo caffè od i dolci. Egli solo ha il diritto d'indirizzarle la parola e, quando degna di rivolgersi ad una delle sue compagne, questa china gli occhi, sorride e risponde a voce bassa, quasi temesse di far cessare l'illusione e di svegliarsi da un sogno troppo dolce perchè possa durare a lungo. Tutto ciò non è che una commedia che non inganna nessuno, come non prendiamo alla lettera le pose d'innocenza e di timidezza delle nostre educande. In realtà, tutte quelle donne nutrono scarsa simpatia per il loro signore e padrone. Esse, che sembrano così facili ad una dolce commozione, che non parlano se non con un debole sussurro, si rimandano l'un l'altra delle ingiurie grossolane su di un tono acuto e rumoroso e non vi è eccesso a cui non possano giungere contro quella delle loro compagne che gode il favore del Sultano. Le schiave favorite sarebbero molto da compiangere, se non si permettessero delle rappresaglie, ma si guardano bene dal non concedersele. Ciò che mi ha rivoltato più d'ogni altra cosa, e non è dir poco, è l'harem in miniatura dei giovinetti di grandi famiglie. Questi ragazzi, da nove a dodici anni, possiedono delle schiavette della loro età presso a poco, colle quali fanno la parodia delle gesta dei loro padri. Queste giovani, vittime di una costituzione sociale davvero mostruosa, fanno così un orrendo tirocinio della vita che le attende, giacchè non v'ha nulla di più crudele d'un ragazzo scostumato e la barbara depravazione del vecchio licenzioso si ritrova all'altra estremità della vita. Ho veduto di questi ragazzi, embrioni di pascià, picchiare a calci ed a pugni, graffiare, ferire tutta una schiera di ragazzine che ardivano appena piangere, mentre la giovane tigre si leccava la lingua con un sorriso singolare che mi rammentava certe pagine di Petronio. Con tutto ciò, voglio ancora ripeterlo, niuno sarebbe più lontano da sentimenti così odiosi che il turco, quale l'ha fatto la natura. Dirò di più, quel ragazzo crudele diventerà probabilmente un uomo abbastanza buono quando avrà l'età per eseguire senza troppo sforzo il compito sotto il quale, per il momento, soccombe. Le grandi dame di Costantinopoli non si tengono paghe di vedere il mondo attraverso alle griglie delle loro finestre; vanno a passeggio nella città, nel bazar, ovunque loro garba e senz'essere sottomesse ad alcuna sorveglianza incomoda. Un tempo la maschera procurava alle veneziane un'estrema libertà; il velo delle donne turche rende loro il medesimo servizio. Il marito più geloso passerebbe accanto alla sua sposa mentre questa segue un'avventura, senza poter avere il menomo sentore di ciò che gli accade, poichè, non solo il velo copre il viso, non solo il mantello, detto _ferragiah_, copre tutta la persona e le dà l'aspetto di un involto, ma veli e _ferragiah_ sono tutti della stessa stoffa, della stessa forma e quasi dello stesso colore; è un domino che assomiglia a tutti gli altri domino. Le signore turche possono quindi star sicure di salvaguardare il loro incognito finchè lo desiderano e l'infedeltà non fa loro correre alcun rischio. Perchè mai sarebbero allora fedeli? Non per amore dei loro mariti, che detestano cordialmente, non per rispetto ai loro doveri, giacchè anche la parola dovere non significa nulla per esse. Profittano dunque, come loro piace, della libertà che accordano loro le usanze. Invocate la testimonianza degli europei che hanno abitato a Costantinopoli: vi confesseranno, se vogliono esser sinceri, che hanno annodato più di un intrigo amoroso nella strada o nei bazar. La morale che si può trarre da tutto ciò è che le maggiori precauzioni non valgono nulla, quando è scomparsa l'idea del dovere. Dopo tutto ciò che ho detto dell'atteggiamento del mariti orientali verso le loro mogli, si potrebbe credere che la brutalità sia l'essenza del loro carattere. La conclusione sarebbe falsa, giacchè il turco, di ogni età e di qualunque classe della società, ha ricevuto dalla natura una cortesia, una delicatezza ed una dolcezza di modi che gli occidentali non acquistano che dopo lunghi studii, sforzi faticosi e dominandosi continuamente. Un turco non si renderà mai colpevole nè di una parola, nè di un gesto che possa offendere una donna, e, se tratta sua moglie presso a poco come un essere irragionevole, in realtà essa non fa nulla per elevarsi ad una condizione superiore. Vorrei che vedeste l'attitudine imbarazzata e scandalizzata di un turco che si trovi collocato fra una signora europea e la sua mandra di odalische. Si badi che odalisca può esser tradotto letteralmente «cameriera» o meglio ancora «donna per la camera»! Bisogna imparare il turco per perdere così le ultime illusioni! Un turco dunque in un caso simile si mostra più ruvido del solito colle sue mogli, e le riduce al silenzio appena socchiudono le labbra, le allontana con un pretesto o coll'altro, ed intanto lancia all'europea delle occhiate di traverso che rivelano il suo timore e la sua diffidenza e le ripete ad ogni momento: «Non badate a quello che dicono, sono turche!» od ancora: «Voi mi trovate ben grossolano con queste donne, non è vero? che volete, sono turche!» Ah Dio mio! Sì, sono delle turche, nel senso che voi date a tale parola, vale a dire delle creature sciocche e degradate; ma chi le ha rese tali? E perchè il nome che date alle vostre compagne è divenuto il sinonimo di tutto ciò che vi ha di basso e di incolto nel sesso femminile? Gli è che voi avete costituito la famiglia coll'unico intento di moltiplicare i vostri piaceri sensuali. Avete voluto che la donna vi fosse sottomessa come una schiava; che può dunque essere se non una schiava? Ma forse io ho già troppo prolungato queste riflessioni generali. Ormai il lettore sa cosa voglia dire il nome di harem in Oriente e lo posso ricondurre alla residenza che mi aveva suggerito queste divagazioni, all'abitazione del nobile mio ospite Mustuk bey. Il principe del Giaur-Daghda ha ormai varcato i limiti della prima gioventù. È un uomo d'una quarantina d'anni, alto e ben fatto, con una fisionomia che sarebbe un po' volgare, se non fosse illuminata da due begli occhi azzurri, limpidi, sorridenti e penetranti come due spade. Nulla rivela in lui il feudatario ambizioso ed astuto che resiste senza posa agli ordini del suo sovrano, pur conservando le apparenze del rispetto e della sottomissione. In Mustuk bey, o per lo meno ne' suoi modi e nel suo linguaggio, vi è una certa bonomia. Egli non ostenta il lusso orientale dei pascià e dei capi della sua tribù; il suo abito, il suo contegno, la sua casa, la sua tavola, tutto in lui respira la massima semplicità. Dietro la casa del bey vi è una piccola corte quadrata, cinta di fabbricati bassi ad un solo piano. Poichè la corte è rettangolare, i due edifici che formano i lati occupano una superficie doppia all'incirca di quella che coprono le costruzioni collocate alle estremità. Una di queste non è che il muro divisorio fra l'harem e la casa del bey e vi è praticata la porta d'ingresso. Due porticine, fiancheggiate entrambe da due finestre, comunicano con ciascuno degli edifici laterali della corte selciata. Il fabbricato in fondo non ha che una porta e due finestre, ed è impossibile di entrare in quel chiostro silenzioso senza ripensare all'interno di un convento di certosini. Si accede anzitutto ad una stanza piuttosto grande, mobiliata con materassa e cuscini e che si apre a sua volta su un'altra camera adoperata come magazzeno e granajo. In ognuna delle celle disposte intorno alla camera principale, regna e governa una delle spose del bey. Si sussurra nel villaggio, ed anche nelle città vicine, che l'universo non è concentrato per il bey in quelle quattro mura e che altri stabilimenti, analoghi a questo, sono scaglionati ad una certa distanza sui pendii del monte del Giaurro. A dir il vero, sarebbe quello un lusso un po' dispendioso. La gerarchia è sempre rispettata negli harem e, per Sardanapalo che possa essere, e per innamorato che sia di una o dell'altra delle sue giovani spose, Mustuk bey terrà sempre circolo presso la prima sua moglie in ordine di data. Infatti mi condusse da lei, quando, dopo aver visto che la grande sala fuori dalla cinta sacra era stata apparecchiata perchè io vi potessi dormire, mi dichiarai pronta a fare il dover mio con quelle signore. La «signora in capo» mi sembrò stranissima nell'aspetto e, guardandola, pensavo involontariamente ad una acrobata pensionata. Questa sultana era stata bellissima e la sua bellezza non era ancor tutta scomparsa; il suo colorito presentava una strana mescolanza della secchezza recatavi dal sole e di una serie di strati di pittura sotto la quale la pelle originaria non era più visibile. I suoi grandi occhi verde-mare erano straordinariamente cerchiati: si sarebbero detti serbatoi posti sotto la glandola lacrimale per raccogliere i torrenti che ne potessero escire. La sua bocca grande, ma ben modellata, lasciava vedere dei denti ancora bianchissimi, ma troppo staccati gli uni dagli altri e che sembravano oscillare nelle gengive, il cui rosso troppo vivo e la malsana enfiagione evocavano cattivi pensieri. Evidentemente essa sdegnava le parrucche di pelo di capra, ma aveva tinto in rosso fulvo i suoi propri capelli. Tutta la sua acconciatura era, non solo accurata, ma ricercata e colpiva col contrasto offerto dallo spettacolo de' suoi bimbi vestiti come piccoli mendicanti. Finchè suo marito fu presente essa si mostrò timida e spaventata come una giovanissima sposa il giorno del matrimonio, coprendosi il viso col velo, colle mani, con tutto ciò che era alla sua portata, e non rispondendo che a monosillabi. Voltato il naso contro il muro, essa tratteneva lo scoppiettare di un riso nervoso, sembrava sul punto di piangere alla prima occasione favorevole, ripeteva insomma le piccole manovre che avevo veduto eseguire così spesso da donne nella stessa posizione e che lusingano sempre visibilmente i mariti orientali. Essi si dicono che tale turbamento deriva, nelle donne, dal senso della loro inferiorità e, poichè l'inferiorità di chi ci circonda suppone necessariamente la nostra propria superiorità, il padrone di un harem interpreta come un omaggio l'imbarazzo prodotto dalla sua presenza. È questo un sentimento che non spetta, del resto, esclusivamente, nè ad un popolo nè all'uno dei due sessi: fa parte degli elementi che costituiscono la natura umana. Dopo aver goduto per qualche tempo il simpatico turbamento che egli produceva ed avermi supplicata più volte di non fare attenzione a sua moglie che era una semplice turca, il bey ci lasciò soggiungendo che io non avrei potuto cavare una parola da lei, finchè egli fosse stato presente. Quand'ebbe varcato la soglia, io mi voltai verso sua moglie ed al primo momento credetti che fosse scomparsa in una botola, lasciando dietro di sè a rappresentarla i suoi vestiti accomodati in un pacco. Una leggera ondulazione in quell'informe ammasso mi convinse del mio errore e tosto il viso dipinto della mia bella ospite ne emerse come da una nuvola. L'addio del suo caro sposo l'aveva piombata in una così grande emozione che aveva provato la necessità di nascondere la sua testa fra le sue gambe. Quelli che conoscono il modo di sedersi degli orientali capiranno che le evoluzioni della moglie di Mustuk non offrivano grandi difficoltà. Quando fummo sole, essa depose la sua maschera di fosca timidezza e chiacchierò per qualche tempo a suo agio. Mi fece domande sulle nostre usanze che le sembravano altrettanto strane quanto divertenti, se devo giudicare dalle risate che si ripetevano così spesso come i ritornelli di una canzone ed altrettanto a proposito. Rimasi nondimeno convinta che quella bella signora era assai più intelligente di quello che volesse ammettere suo marito, giacchè vedevo l'interesse che essa prendeva ad una quantità di cose che non la riguardavano e la costanza con cui essa mi domandava il perchè di ogni cosa. Mi sarebbe stato difficilissimo di rispondere categoricamente a tutte le sue domande in modo da farmi comprendere; ma io conoscevo già la parola magica, il talismano che addormenta e paralizza subito ogni curiosità degli orientali. Supponete il vostro interlocutore meravigliato al massimo grado ed intento a chiedervi la ragione di ciò che a lui sembra inesplicabile, mostruoso, pazzesco: vi basterà di rispondere: «Così si usa nel nostro paese» e la sorpresa si dissiperà, non udrete più ripetere la domanda ed il curioso si dichiarerà interamente soddisfatto. Non vi accadrà mai che vi risponda: «Ma perchè si usa così?» e neppure: «Chi vi impedisce di cambiare?» No, gli orientali sono così bene avvezzi dalla più tenera infanzia a vedere, fare e tollerare un numero infinito di assurdità consacrate dall'uso, che giungono a considerare quest'ultimo come gli antichi consideravano il destino, come una divinità immutabile, inesorabile, superiore a tutte le altre, e contro la quale è inutile irrigidirsi. Quando mi accada di trovarmi in mezzo di un popolo che si contenti di venire a sapere che una cosa è in uso in un dato posto, per credersi dispensato dall'esaminarla meglio e dal giudicarla, saprò cosa pensare del valore delle sue istituzioni. La striscia di luce che entrando dalla porta aperta, disegnava un grande rettangolo sul pavimento, apparve d'un tratto intercettata; un rumore di ciarle sussurrate e di pantofole strascicate sulle pietre umide si fece udire dal di fuori e le tre altre mogli del bey, che si trovavano per il momento a casa, vennero a fare la mia conoscenza ed a darmi il benvenuto. La seconda e la terza si assomigliavano a tal punto che le credetti sorelle: erano due grassoccie, la cui salsedine precoce poteva essere scambiata per freschezza in un paese di gusti poco raffinati. Entrambe trascinavano al loro seguito la schiera di bimbi che la Provvidenza aveva loro regalato. Dietro queste due donne, stava umilmente nell'ombra una figura che attrasse subito i miei sguardi e li tenne avvinti a sè, malgrado tutte le manovre compiute dalle altre sultane per farmi voltare dalla loro parte. Io non ricordo d'aver mai visto nulla di più bello. Questa donna indossava una lunga veste a strascico di raso rosso, aperta sul seno che era appena velato da una camiciola di garza di seta, le cui larghe maniche giungevano fin sotto il gomito. L'acconciatura del suo capo era quella delle Turcomane e, per farsene un'idea, occorre imaginare una complicazione, una molteplicità infinita di turbanti, messi gli uni sugli altri o gli uni attorno agli altri, fino a raggiungere altezze inaccessibili. Eranvi sciarpe rosse arrotolate, sei o sette volte a spirale e formanti una torre nel genere della dea Cibele; fazzoletti di tutti i colori intrecciati colle sciarpe che salivano o scendevano senza un disegno prestabilito e componendo dei fantastici arabeschi; metri e metri di mussola fina che coprivano col loro candore una parte dell'impalcatura, incorniciavano con cura la fronte e ricadevano in drappeggi lunghi e leggeri lungo le guancie, intorno al collo, fino sul petto. Catenelle d'oro o piccoli zecchini, infilati gli uni negli altri, spille in pietre preziose od in diamanti puntate nella mussola, ondeggiavano graziosamente fra le pieghe, dando loro una certa stabilità che non sarebbe stato ragionevole di attendersi da un tessuto così vaporoso. I piccolissimi piedi di bambina, che sembravano scolpiti nel marmo, apparivano e scomparivano tratto tratto sotto la lunga veste scarlatta, mentre braccia e mani, come non ne vidi giammai, scuotevano un numero infinito di braccialetti e di anelli che non dovevano pesar poco e scintillavano come veri diamanti. Tutto ciò costituiva un insieme bizzarro e grazioso al tempo istesso, ma si cessava dal vederlo appena si avesse guardato il viso cinto da quei drappeggi ondeggianti e che una così grande toeletta mirava ad abbellire. La bellezza di quel viso era così singolare che io rinuncio a descriverla perchè non è possibile dare, a chi non ha potuto contemplarla, un'idea di un capolavoro così incantevole della natura, di un misto tanto delizioso di grazia e di timidezza. Come ho detto, ciascuna delle due nuove venute trascinava con sè, aggrappati alla sua veste, i frutti delle sue viscere, assolutamente come la madre dei Gracchi. Invece la bella donna che prediligevo camminava sola dietro alle sue «metà», come è chiamato in Oriente il grado di parentela che consiste nell'avere un marito comune. Essa teneva la testa bassa e sembrava piuttosto umiliata che umile. Feci in fretta i miei convenevoli colle due prime, perchè ero impaziente di arrivare all'ultima e di vedere quel bel viso animarsi nella conversazione. La saluto e non mi risponde. Le domando perchè non ha condotto con sè i suoi bimbi, sempre silenzio. Allora le tre altre metà, parlando tutte insieme, m'informano colla maggiore soddisfazione che essa non ne ha, mentre la bella china il capo ed arrossisce esageratamente. Mi dolsi di aver toccato un tasto così delicato; ma non si indovinerebbe mai ciò che soggiunsi per attenuare l'effetto della mia imprudenza. Avrei dato prova della più odiosa brutalità, se avessi parlato a qualsiasi altra donna che non fosse stata un'abitante dell'harem; ma vivevo da tre anni in Asia, e conoscevo abbastanza bene il terreno sul quale mi inoltravo. Prendendo dunque un'aria di confidenza elogiosa, come se dovessi dire qualcosa che potesse metter certo un termine all'imbarazzo della bella Turcomana e restituirle l'onore, replicai: «Certo i figli della signora son morti?» — Non ne ha mai avuti, — urlarono le tre arpie ridendo a crepapelle. Questa volta due lagrime scesero lungo le gote infiammate della poveretta. Nulla è più spregiato, vilipeso, rejetto in Oriente di una donna sterile. Avere dei figli e perderli è certo un dolore, ma è possibile consolarsene, dimenticarli, sostituirli. Dopo tutto, se anche mancassero i conforti, l'oblio, ed i nuovi rampolli, la madre che ha perduto i suoi figli non resta per questo meno una signora e la sua posizione sociale e domestica rimane la medesima; è rispettata, ammirata, fors'anche amata e non ha nulla da arrossire. Ma non mettere al mondo figliuoli, quella è una disgrazia vera, immensa, irreparabile, che vi getta nel fango e nella polvere e che autorizza l'ultima delle schiave, pur che sia incinta, a calpestarvi. Siate pur bella, graziosa, adorata, abbiate pur recato a vostro marito la sostanza di cui vive, corra nelle vostre vene sangue imperiale, mentre vostro marito non è che un facchino, dal momento che la vostra sterilità è accertata, non avete più da sperare salvezza. Sarebbe meglio per voi finirla colla vita, perchè ognuno dei vostri giorni sarà riempito di dolorose umiliazioni e d'insulti. Durante tutto il tempo che passai con quelle signore, non mi riescì di strappare alla più bella una sola parola. Abbassava le sue lunghe ciglia con un gesto ammirabile, i più incantevoli colori andavano e venivano sulle sue guancie di velluto, i sorrisi più amabili gareggiavano sulle sue labbra, ma se fosse stata muta non avrebbe potuto rimanere più ostinatamente silenziosa. Non fu che alla fine della mia visita, quando prendevo congedo dalle mie ospiti, ed avevo fatto osservare alla bella taciturna, che la lasciavo senz'aver udito il suono della sua voce, allora soltanto, fatto un passo verso di me e, assunto un atteggiamento deciso, come se stesse per salire su una breccia, essa disse tutto d'un fiato, con una voce dolcissima e molto pura, ma priva della menoma modulazione nel suono: — Signora, rimani ancora, perchè ti voglio molto bene. Ciò detto, la bocca si richiuse, gli occhi ricominciarono a guardare il pavimento, l'ardore della risoluzione si spense su quel magnifico viso; l'impresa era stato coronata da successo, il complimento era giunto al suo indirizzo e la bella fra le belle poteva riposare sugli allori. Non so perchè, ma a partire da quel momento fui perseguitata dall'idea che la mia regina di bellezza potesse essere idiota e che mi avesse servito una delle frasi, forse l'unica, colla quale salutava il signore suo sposo. Quando lo rividi gli feci, secondo l'uso, molte lodi delle sue donne, ma insistetti sopratutto sulla rara bellezza della mia favorita. — La trovate dunque così bella? — disse egli con una certa sorpresa. — Mirabilmente bella! — gli risposi. Parve che riflettesse un momento, poi rialzò le sopraciglia, disegnando, con questo movimento una quantità di rughe orizzontali sulla sua fronte; spinse innanzi il labbro inferiore ed il mento, abbassò la testa allungando il collo, alzò leggermente le spalle ed un poco le braccia per lasciarle poi ricadere sulle coscie; finalmente mi disse in tono semi-confidenziale: — Non ha figli. Era giudicata! Avevo fretta di rimettermi in cammino. Dopo aver passato alcuni giorni presso il principe del Giaur-Daghda, dovevo raggiungere Alessandretta per dirigermi di là a Beirut. Sgraziatamente il tempo piovoso venne a contrariare i miei progetti di partenza e dovetti, molto a malincuore, prolungare il mio soggiorno nella residenza di Mustuk, senz'altri mezzi di distrazione che conversazioni molto monotone, un poco col bey ed un poco colle sue mogli. Finalmente il sole ricomparve, ed io abbandonai il monte del Giaurro, con un senso vivissimo di soddisfazione, cioè in una disposizione d'animo ben diversa da quella in cui mi trovavo alla mia partenza da Adana. III. IL VIAGGIATORE EUROPEO NELL'ORIENTE ARABO LA VALLE D'ANTIOCHIA — LATAKIÈ — LE DONNE DI SIRIA Quattro ore di marcia separano il palazzo del principe Mustuk dalla cittadina di Alessandretta[20]. Il viaggiatore che da Alessandretta si reca a Beirut comincia a percorrere le montagne fino ai dintorni di Latakiè: di là segue le coste del Mediterraneo fino a Beirut. La regione che quest'itinerario mi fece attraversare è una delle più pittoresche della Siria, ed il tratto da Alessandretta a Beirut segna un periodo distinto nel viaggio di cui vado raccogliendo i ricordi. Non ebbi mai un'occasione migliore per constatare come siano esagerate le apprensioni che sembrano inseparabili da una marcia in talune parti del Levante. Si temono le fatiche e le privazioni quando ci si avvia verso solitudini di apparenza molto inospite. Se tali timori sono a volte giustificati, non bisogna dimenticare che i nostri viaggi in Europa hanno pure le loro noie e le loro fatiche, e che le gioie di una corsa avventurosa, come quella di cui voglio rievocare le vicissitudini, non vengono sempre a riscattarne i pesi. Per non prolungare troppo questo saggio di riabilitazione della vita alquanto laboriosa che s'impone nel Levante ad ogni viaggiatore, mi contenterò di dire: Non visitate la Siria nel mese di luglio, nè l'Asia Minore in inverno; dovreste temere l'apoplessia o la congelazione. Scegliete un'epoca favorevole, prendete un buon cavallo di cui regolerete il passo a modo vostro, buttatevi attraverso le montagne o sulle spiaggie bagnate dal Mediterraneo, e venite poi a dirmi se la corsa di otto ore al giorno, fatta in simili condizioni, non valga mille volte le lunghe giornate del viaggiatore trascinato da una comoda berlina, sulle migliori strade d'Europa. Certo il pericolo, accanto alla stanchezza, deve esser calcolato nelle previsioni di chiunque voglia visitare l'Oriente, ma il miglior modo di affrontarlo consiste nel liberarsi dai timori puerili, alimentati da vecchi pregiudizii, e di cui si vantano volontieri le donne. Lasciando che altri collochi una sorta di pusillanimità pretenziosa e finta fra le grazie femminili, per conto mio faticherò sempre a comprenderla, e non riuscirò mai a scusarla. La paura, più o meno sincera, è uno dei nemici più temibili nel viaggiatore e, sovratutto nel Levante, chi non sa trionfare di un così triste sentimento, deve condannarsi alla vita sedentaria. Veniamo alla città di Alessandretta ed alle avventure del mio pellegrinaggio verso Beirut. A dispetto dei geografi, devo negare che Alessandretta sia una città. Potrò ammettere, se si vuole, che lo sia stata parecchi secoli or sono, sebbene non vi siano rovine ad attestarlo; ma non vado più in là; e non potrò mai considerare Alessandretta che come un punto di partenza. Il paesaggio è bello; il littorale poi magnifico. Il vasto anfiteatro di montagne colleganti il monte del Giaurro col Libano è meraviglioso. Nulla di più ridente della verde pianura limitata per tre lati da queste montagne, e per l'altro lato dal mare, la pianura sulla quale sorge Alessandretta. Ma che si può dire delle case che rappresentano la città, case in pessimo stato, anche se sono nuove, costruite senz'ordine nè disegno e che lasciano fra di esse, invece di strade, piccoli spazi tagliati in tutti i sensi? Di Alessandretta si può solo dire che la temperatura vi è eccessiva sia in estate che in inverno, che il caldo vi è intollerabile ed il freddo rigorosissimo, che le infiltrazioni del mare vi provocano febbri periodiche, che il bazar vi è poverissimo e la maggior parte delle mercanzie spedite da Aleppo scompaiono quasi immediatamente nelle mani di otto o dieci abitanti privilegiati. La città di Alessandretta, lo ripeto, non vale che quando la si abbandona. Vi passai nondimeno circa 48 ore. Pochi momenti dopo la nostra partenza dal palazzo di Mustuk bey, eravamo stati sorpresi da un orribile temporale che ci forzò a rifugiarci in una capanna di doganieri, posta in riva al mare. Lo spazio troppo stretto non ci aveva permesso di ricoverare le nostre cavalcature e, quando arrivammo ad Alessandretta, ci accorgemmo che uno dei nostri cavalli, un bel turcomano color isabella, col muso e la criniera neri, era come reumatizzato in tutta la faccia. Non si poteva pensare a condurlo più lontano, e ci piangeva il cuore all'idea di abbandonarlo così al suo triste destino. Decidemmo dunque di consacrargli un'intera giornata, durante la quale avremmo potuto prendere disposizioni necessarie per farlo ben curare. Non si trattava più che di allogarci per un giorno e per due notti ad Alessandretta. Eravamo scesi in casa del console di Sardegna, che ci aveva ricevuti con tutta la cordialità alla quale i viaggiatori sono così sensibili, ma egli viveva da celibe nella sua triste residenza, e la sua casa, sebbene abbastanza grande, non era adatta per ricevere la nostra numerosa carovana. Il console comunicò il suo imbarazzo ad un collega, agente consolare della Gran Bretagna, ed il risultato della conferenza fu di mettere a nostra disposizione la dimora del console inglese, allora in congedo, e tutto ciò che essa conteneva. Accolsi questa decisione con una gioia quasi infantile. Avevo osservato, nella casa del console d'Inghilterra, certi particolari di griglie verdi, di balconi coperti che mi riportavano come d'incanto in mezzo alle simpatiche dimore di Cheltenham e di Brighton. Passare un giorno e due notti in uno di quegli eden in miniatura, che mi appariva inaspettatamente, sulle rive del mare di Siria, dopo esser rimasta digiuna, durante degli anni, di ogni lusso e di ogni eleganza, ciò somigliava ad un sogno, ad un sogno d'Europa. _Ma nulla è al mondo in c'uom s'affida_ ha detto il Petrarca e mi ricordavo questo verso entrando nel mio piccolo eden; il sogno si era dileguato lasciando solo rammarichi dietro di sè. Il console era assente da parecchi mesi ed una squadra di servitori arabi si era insediata in tutte le stanze e le traccie del loro soggiorno erano troppo evidenti. Dovetti strapparmi alle belle visioni che mi avevano un momento arriso, poi ordinare e sorvegliare le purificazioni senza le quali non è possibile abitare in una casa araba. Scelsi una stanza esposta al nord, per non disturbare gli esseri microscopici che preferiscono le camere esposte a mezzogiorno. Misi in azione durante il resto della giornata parecchie scope ed altrettante spazzole; feci del mio meglio per moltiplicare le correnti d'aria favorite dagli assiti mal connessi e dalle mura screpolate; m'impadronii d'un letto in ferro verniciato che mi parve d'aspetto rassicurante, e terminati questi preparativi potei prendere un po' di riposo. Si capisce nondimeno che cercai tutti i modi per star lontana da un simile alloggio e le ore della mia sosta ad Alessandretta furono sovratutto occupate da passeggiate in riva al mare. Come dovetti rimpiangere allora la mia ignoranza in storia naturale! Camminavo su un mosaico di marmi preziosi e di pietre rilucenti. Il mare, che li aveva gettati sulla spiaggia con una quantità di graziose conchiglie, dava pure ad essi il riflesso del suo umido scintillio su cui i raggi del sole di Siria si rifrangevano in colori mutevoli ed indefinibili, splendendo come diamanti. Mi chinai a raccogliere manciate di quelle pietre e di quelle conchiglie andando e venendo dalla riva alla mia camera per deporvi la mia raccolta, ma finii per gettarla tutta dalla finestra dopo aver riflesso che quelle pietre che mi erano parse così preziose non potevano avere alcun valore per uno scienziato. Un altro spettacolo destò la mia sorpresa ad Alessandretta, quello di una piccola mandra di maiali domestici che annusavano dibattendosi a loro agio in un recinto accanto al consolato, giacchè quelle bestie appartenevano al console. Non ho potuto dimenticare quest'incontro perchè un armeno di Diarbekir, che avevo al mio servizio, scambiò quegli animali per cani di una razza di gran pregio e non riescii a convincerlo del suo errore. Se ben compresi, egli si era imaginato che i maiali fossero degli elefanti con una tromba più piccola. All'escire da Alessandretta, la strada penetra quasi subito nelle montagne che sono a sud-est e si aggira per ben quattro ore in un labirinto di lauri e di mirti. La cittadina di Beinam[21], ove pernottammo appunto a quattro ore di distanza da Alessandretta, ha sparpagliato le sue case tra il fondo del vallone e l'alto del pendio, in modo da occupare uno spazio più ampio di quello che convenga alle sue piccole dimensioni. La casa di campagna del console inglese, ove dovevamo scendere, era una delle ultime della città. Da quell'altura si scopre un bellissimo panorama. Le montagne, o meglio le colline, in mezzo alle quali avevamo camminato a partire da Alessandretta giacevano ai nostri piedi, ed i nostri sguardi si fermavano al di là, sul mare scuro e turchino che dal lato della Siria incorniciavano capricciosamente le cime ritagliate a festoni dei monti e le masse verdi delle foreste. Quanto al nostro alloggio dirò solo che lo raggiungemmo inerpicandoci su per la montagna come le mosche si arrampicano sui muri e che, dopo aver ben considerato il locale offertomi, feci un interrogatorio al mio cavass per scoprire quali reconditi motivi lo avessero determinato a condurmi in quel Purgatorio e perchè non avesse subito cercato di collocarmi altrove. Egli mi squadrò tutto sorpreso ed attribuì la stranezza delle mie domande e delle mie valutazioni dei beni di questa terra ad un'imperfetta conoscenza delle usanze turche. Finì per giurarmi, su quanto può avere di più sacro un buon mussulmano, che la casa in cui mi trovavo era senza confronto la più bella di Beinam. Senza insistere più oltre avrei desiderato sapere, non foss'altro per mia istruzione, come fosse fatta la più brutta. Da Beinam ad Antiochia la tappa è molto lunga, qualcosa come dieci o dodici ore secondo le previsioni. A tale riguardo devo dire che è difficilissimo stabilire nella Siria un calcolo esatto delle ore e delle distanze. Siccome non si è ancor pensato a misurare il terreno ed a suddividerlo in leghe, miglia o metri, non si valutano le distanze che dal tempo impiegato a percorrerle. Non basta, v'è di peggio; perchè non tutti camminano collo stesso passo e non è stato scelto un passo qualsiasi che serva come unità di misura. Se per esempio vi dicono che occorrono dieci ore da Beinam ad Antiochia e vi appagate di tale indicazione potreste pentirvene, perchè può darsi che voi superiate la distanza in cinque ore e fors'anche in quindici, senza poterlo rinfacciare a chi vi ha dato l'informazione. La colpa sarà tutta vostra per non aver soggiunto: quali ore? di pedone, di cammello, di mulo? Di cavallo d'affitto o di cavallo di posta? In alcuni cantoni si conta sempre ad ore di cammello, in altre ad ore di mulo e così via. Quando sbucammo dalle montagne eravamo circa a mezza strada e scendemmo in una valle che ha nel centro un lago ed il lato verso occidente limitato da una catena di montagne basse lungo le quali serpeggia la strada. A breve distanza dal lago una vecchia locanda quasi interamente diroccata faceva ancora una certa figura. La grandezza e la magnificenza con cui furono costruiti quei monumenti dell'ospitalità orientale sono proprio straordinarie. A prima vista si direbbero palazzi reali o templi consacrati a qualche Dio ignoto. Porte simili ad archi di trionfo, enormi pilastri che sostengono volte alte cento piedi, vastissime corti aperte su altre ancor più immense e selciate a pietroni, tutto ciò non contiene che scuderie e tettoie per le merci. Per ciò che concerne i viaggiatori, non vi è ostacolo a che si stabiliscano per la notte fra le gambe dei cavalli, oppure sotto la loro testa, cioè su un rialzo che fiancheggia le mangiatoie. I dintorni di Antiochia armonizzano coll'antica grandezza di quella città in decadenza[22]. Sul vertice di una delle montagne che chiudono la valle in mezzo alla quale sorge l'antica capitale della Siria, si possono ancora scorgere rovine di fortificazioni. L'Oronte bagna la valle e, prima di entrare nella città, si suddivide in parecchie braccia che formano degli isolotti sui quali sono stati eretti dei mulini. Le conche, scaglionate di tratto in tratto, regolano il corso delle acque che servono ad irrigare deliziosi giardini. Il riposo ci era offerto ad Antiochia dall'agente consolare d'Inghilterra, ricco mercante armeno, che con una cordialità perfetta aveva messo a mia disposizione tutta la sua casa. Mi sarebbe stato pur dolce di fermarmi ad Antiochia! Tutto mi vi invitava, le rovine ed i giardini, i boschetti dei lauri rosa e le fontane sacre; ma bisognava proseguire senza guardare oppure rinunciare a raggiungere Gerusalemme prima delle feste di Pasqua. Non tardai a decidermi ed allorchè, dopo la prima notte passata ad Antiochia, il mio ospite venne a domandarmi qual monumento doveva farmi visitare, rimase male all'udire come avessi rinunciato a vedere le rarità di Antiochia e contassi partire il giorno stesso. Lasciavamo dunque Antiochia senza aver nulla veduto di quanto essa racchiude; ma la Provvidenza dei viaggiatori che doveva conoscere ed apprezzare i motivi della mia condotta ci riservava un compenso, conducendoci verso uno dei luoghi più celebri e, ciò che vale assai meglio, più belli dei dintorni della città. Era la fontana di Dafne[23], ove si ergeva una volta, a pochi passi da una sorgente limpida e copiosa, un tempio che credo fosse dedicato a Venere. Il sole già alto sull'orizzonte bruciava il nostro capo e cercavamo cogli occhi fin da lungi un poco di ombra, quando scorgemmo un boschetto di gelsi che coronava il vertice di una collina. Attraverso a quel fogliame scuro si indovinavano masse biancastre di varie forme e misure. Erano colonne di marmo bianco; talune giacevano al suolo, altre, sebbene tronche, si reggevano tuttora in piedi; il suolo era ingombro di moltissimi frammenti. In mezzo sorgevano alberi di ogni età, dal lauro e dall'olivo il cui tronco nodoso era annerito dal tempo al gelso giovane e flessibile che levava al cielo i suoi rami snelli come le dita di una mano supplichevole. Le mura del tempio erano crollate, le colonne rovesciate, e quelle che rimanevano in piedi non reggevano più nè volte nè frontoni. Ma gli alberi portavano tuttora le loro foglie, i fiori ed i frutti. E, se i succhi di alcuni si erano disseccati, ciò non era accaduto prima d'aver affidato alla terra, custode e tutrice fedele, i germi fecondi destinati alla riproduzione. La vanità umana non ha ancor imparato la lezione che la natura le ripete sin dall'inizio della creazione. L'uomo crede innalzare edifici che dureranno quanto il marmo e gli stessi metalli. Ahimè! Quei fragili steli, quei fiori e quelle foglie così delicati, che proiettavano un tempo la loro ombra sui gradini del santuario decantato come perenne, non ombreggiano oggi che le sue rovine. Anche la più gracile creazione della natura è immortale ed il lavoro più solido dell'uomo non dura al di là di un certo tempo. Non avrebbe dipeso che da noi di partire da Antiochia in una carovana numerosa. Il Giaur-Daghda non è la sola montagna dell'impero ottomano che ripari fra le sue roccie sudditi ribelli. La grande tribù araba degli Ansariati, che occupa una parte notevole del Libano e dell'Antilibano, da Latakiè fino ai dintorni di Damasco, si era appena rivoltata ed il pascià d'Aleppo mandava truppe contro quegli indomiti montanari che pretendevano di sottrarsi alla coscrizione. Vi fu chi ci consigliò di accompagnarci ai soldati per porci al riparo dai briganti. Ritenni invece che il viaggiare colle truppe voleva dire affrontare il nemico; preferii dunque di viaggiare per conto mio e di non pormi sotto la protezione di alcuno. Durante tutta la mia lunga spedizione non mi sono allontanata una sol volta da questa regola di condotta e, quando mi è stato impossibile di rifiutare una scorta, ho avuto cura di non ammettervi che dei «basci-bozuk» (ciò che si potrebbe tradurre: capi scarichi), specie di guardia urbana o comunale che deve avere un gran potere di seduzione poichè è così ben vista dai briganti come dai suoi propri capi. Non so quali sarebbero state le conseguenze del sistema opposto, ma non devo preoccuparmene se il mio non ha dato cattivi risultati. Ho attraversato paesi assai pericolosi, a giudicare da quanto mi si diceva, e non ho mai subito gravi noie. La mia decisione di non unirmi alle truppe del pascià era più facile da prendere che da eseguire. Quando si parte dallo stesso posto, si cammina nella stessa direzione e presso a poco collo stesso passo, non si può rimanere distanti uno dall'altro. Potevamo rimanere indietro di una o due giornate, ma sarebbe stato tempo perso e non ne avevamo da gettar via. Ci esponevamo inoltre, in tal guisa, a non trovare nei villaggi che magazzeni vuoti ed alloggi infestati d'insetti. Ci rassegnammo dunque ad oltrepassare i soldati ed a lasciarci oltrepassare ad ogni tratto, talora fino dieci volte in un giorno, ripromettendoci bene di non trascurar nulla per convincere gli indigeni che i nostri incontri colle truppe non erano che fortuiti e passaggeri. Ogni volta che noi eravamo raggiunti dai soldati questi ci inviavano una salva di maledizioni turche che mettevano a dura prova la mia pazienza. Un corpo d'armata che insulta una ventina di viaggiatori! Converrà ammettere che è spingere un po' lontano l'abuso della forza; solo a gran fatica mi rassegnai a non rendere a quegli insolenti armati anatema per anatema. Il mio cavallo diede prova il primo giorno di quella marcia da Antiochia a Latakiè di un grado di intelligenza e di sensibilità che mi sorprese. La tappa era lunga, il tempo piovoso e la strada, scavata dalla pioggia, serpeggiava attraverso alla vallata o sul fianco dei monti. La giornata era sul finire e la stanchezza aveva rotte le nostre fila: i cavalli più deboli si erano lasciati distanziare dai più forti e coraggiosi e, quando le curve della strada nascondevano alcuni cavalieri agli sguardi dei loro compagni, quelli che erano in testa si fermavano e chiamavano ad alte grida i ritardatarii, non rimettendosi in cammino che dopo aver udito la voce o scorto la figura di ciascuno dei viaggiatori. «Kur», che non conosce nè pigrizia nè stanchezza, era come sempre il primo della fila. «Kur» è il nome del mio cavallo bianco perchè kur significa bianco in turco e quel cavallo non ha un pelo che non sia del più puro candore. Osservo di passaggio che nè turchi nè arabi fanno grandi sforzi d'imaginazione per dar nome ai loro cavalli ed ai loro cani. Quasi sempre il nome della bestia è dato dal colore del manto. Possiedo per altro un bel stallone arabo il cui nome vale: «Cavallo verde» per quanto sia grigio pomellato. È del resto un nome di razza, di famiglia e non un nome proprio. Eravamo giunti ai piedi di una montagna ripida su cui la strada tracciata colla più primitiva semplicità si lanciava verticalmente dalla base alla cima. Kur fece esattamente come la strada, per quanto lo invitassi colla voce e colla briglia a temperare i suoi ardori. Egli non mi ascoltava: ritto il capo e le orecchie, le narici dilatate, sembrava ch'egli aspirasse avidamente l'emanazione inebbriante recatagli dall'aria dei monti; ai miei richiami rispondeva con un nitrito sordo, a sbalzi, fremente, ed accelerava maggiormente il passo. Quasi sulla vetta la strada aveva una piccola svolta che Kur nella sua impazienza si guardò bene dal seguire. Mirando dritto dinanzi a sè, egli raggiunse la cresta che dominava a picco l'opposto versante o piuttosto una specie di voragine incorniciata dalle grandi roccie strapiombanti all'ingiro. Con un movimento naturale ed involontario tirai la briglia, ma prima che avessi l'agio di riflettere che forse io faceva in quel momento l'ultima galoppata della mia vita, eravamo ai piedi di quelle roccie precipitando dal monte con altrettanta foga quanta ne avevamo messa a salire. Soddisfatta di questo esito scorgevo con gioia sullo stesso pendio pel quale scendevamo a precipizio il villaggio dove dovevamo pernottare ed ammiravo la forza e l'elasticità dei garretti del mio cavallo preoccupandomi solo del suo stato morale, giacchè non è necessario d'essere arabo per affezionarsi a quelle bestie così eroiche quanto miti e così miti quanto belle. Il mio povero Kur, dicevo fra di me, è divenuto pazzo; quand'ecco scorsi in mezzo alla strada che conduceva al villaggio un arabo su un bel cavallo riccamente equipaggiato, che aveva l'aria di aspettarci. Mi affrettai a balzare a terra avendo constatato che non vi era più alcuna speranza di far partire Kur in qualsiasi direzione. I due cavalli uniti da una misteriosa amicizia, che dava la spiegazione della corsa sfrenata di Kur, nitrivano, scalpitavano, facevano i salti più straordinari e si rizzavano sulle gambe posteriori agitando le anteriori come se avessero accarezzato l'ambizioso disegno di stringersi la mano. Il cavaliere arabo, che era stato mandato dal capo di quella località per offrirmi la sua casa, pose termine al mio stupore narrandomi che i nostri due cavalli erano compatriotti e, fors'anche un po' consanguinei, che un pascià li aveva comprati entrambi nello stesso villaggio, ch'egli stesso aveva acquistato il suo da quel pascià e che i due amici, riconosciutisi da lontano, esprimevano a modo loro il piacere che provavano a rivedersi. Aggiunse che nulla era più normale dell'attaccamento che i cavalli arabi sentono per esseri della loro specie e che i loro sensi sono così raffinati da rivelar loro a grande distanza l'avvicinarsi di un essere amato od anche di un luogo famigliare. Pregai l'arabo di far chiudere i due cavalli nella stessa scuderia per procurare loro qualche ora di gradevole convivenza, ed egli mi promise di esaudire la mia domanda. La riunione dei due amici si prolungò più che non avessi supposto dapprima, giacchè il cattivo tempo ci obbligò a passare il giorno seguente nel villaggio e le truppe giunte qualche ora dopo di noi imitarono in ciò il nostro esempio. Passai la giornata a visitare malati. Il governatore locale, bellissimo uomo, molto ricco ed affarista poco scrupoloso, mi confessò bonariamente che riscoteva le imposte, ma non le versava al fisco. Ed alzava le spalle dicendo: «Come potrei pagarle? Non mi rimarrebbe abbastanza denaro per la mia famiglia e per me». Egli era inquieto per la sua salute soffrendo di attacchi di nervi, di una vista molto indebolita e talora anche di un tremito alle gambe. Mi condusse nel suo harem e mi presentò alle sue due spose, che mi parvero due delle più belle persone ch'io avessi veduto in Asia. Erano però spudorate quanto belle e le manifestazioni erotiche che esse prodigavano al loro signore e padrone in mia presenza erano sorprendenti. Egli stesso ne parve sconcertato; ma le due signore dal viso di bronzo non erano di quelle che si turbino così facilmente. In un altro harem dello stesso villaggio potei assistere ad una scena intima molto più di mio gusto. Due giovani donne sposate da qualche anno ad un vecchio Effendi non avevano mai avuto figli, ma la terza sposa dell'Effendi era morta mettendo al mondo un piccolo infermo che passava la sua triste vita a gemere ed a piangere. Nulla di più commovente delle tenere cure colle quali le due giovani madri addottive circondavano il gracile orfanello figlio della loro rivale. Rimasi con esse qualche tempo studiando quel quadretto interessante di vita famigliare mussulmana. Il bimbo mancava di grazia e di bellezza, la sua testa troppo pesante per il suo corpo ricadeva talora sul petto e tal'altra si rigettava indietro come se dovesse scivolare lungo la sua schiena; le sue gambette gracili ed arcuate non sembravano destinate a poterlo mai reggere; eppure vi era nella sollecitudine di quelle due giovani donne per il povero orfano un misto di ingenuo e di grazioso, di pietà, d'ammirazione e di rispetto; un certo imbarazzo nel loro modo di curare quel malatino mostrava esaurientemente che esse non avevano mai dedicato tali cure ad un figlio delle proprie viscere. Così, assorte in un compito nuovo e delicato, quelle donne erano certo felici, più felici che molte gran signore di Costantinopoli. Partimmo all'indomani, sfidando le minaccie del tempo e le truppe turche fecero altrettanto. La strada si allontanava sempre più dalla riva del mare ed errava traverso a valli, gole e montagne. Il paese era magnifico, tutto fresco e verde e scorgevo ad ogni tratto deliziosi rifugi sotto i folti pergolati formati dagli arrampicanti. Come erano pure le acque che zampillavano a quelle ombre, e scorrevano con un dolce mormorio in mezzo ai prati in fiore! Come si disegnavano armoniose le linee delle montagne che si profilavano da lungi su un azzurro immacolato! Suppongo che durante l'estate infuocata della Siria questi luoghi perdono molto del loro fascino, mi figuro che questo spettacolo incantevole di freschezza, di forza e di opulenza, che questa calma serenità della natura scompaia presto e duri appena qualche tempo; ma fu appunto durante quei giorni privilegiati che attraversammo il paese e non potrò mai dimenticare le impressioni che suscitò in me. La scena non aveva mutato l'indomani. Ci avvicinavamo a Latakiè ed al mare, che scorgevamo talora da lungi, dall'alto dei monti. Il tempo era capriccioso; a delle pioggie torrenziali di breve durata, succedevano intervalli di pace luminosa nei quali si potevano vedere le goccioline d'acqua sospese alle foglie riflettere i raggi del sole. L'arcobaleno si lanciava spesso da un monte all'altro quasi fosse un ponte gettato dagli spiriti dell'aria. Durante una di quelle brevi burrasche ci dirigevamo verso un villaggetto che sembrava invitante e dove speravamo di potere asciugare le nostre vesti e prendere un po' di cibo. Si può giudicare quale fu la nostra sorpresa quando, avvicinatici al villaggio, ci scontrammo nelle donne, nei bimbi, negli stessi uomini che escivano dalle case carichi di tutto ciò che potevano trasportare, sacchi di grano e di farina, provviste di ogni genere, materassa, coperte, spingendo pure innanzi a sè mucche, capre, galline e tacchini. Quella popolazione terrorizzata correva verso il monte con tutti i sintomi dello spavento e del dolore. Accelerammo il passo colla speranza di raggiungerli, ma man mano che noi ci affrettavamo essi facevano altrettanto sicchè presto li ebbimo perduti di vista. Al nostro arrivo nel villaggio abbandonato, non trovammo che una vecchia donna e due ragazzetti che, non so per qual motivo, non avevano seguito gli altri. Domandammo loro latte e uova offrendo di pagare ciò che avremmo consumato ed essi ne parvero stupitissimi. Si guardavano in faccia e talora parevano pronti a concederci fiduciosi i viveri richiesti; ma poi si voltavano a guardare dal lato donde eravamo giunti e riprendevano a gemere e tremare. Uno dei due fanciulli si fece coraggio sino a chiederci se gli «altri» fossero ancora lontani ed incoraggiato dalla nostra risposta ci additò la causa di quel misterioso spavento. Eravamo stati scambiati per l'avanguardia del corpo d'esercito che seguiva la medesima nostra strada e gli abitanti si erano affrettati a porre ciò che possedessero al riparo dal saccheggio. Ecco qual simpatia esiste in certe provincie turche fra le truppe nazionali, cioè i difensori armati dello stato e della legge, e le popolazioni delle campagne! Ne fui tanto più confermata nel mio proposito di rimanere durante tutta la durata del mio viaggio all'infuori dalle autorità regolari e dai loro rappresentanti armati. Cominciai già quel giorno a raccogliere i frutti della mia saggezza. Quella buona gente era così contenta di non aver a che fare se non con stranieri col denaro alla mano che frugò nei nascondigli e ci offerse tutto quello che i fuggiaschi non avevano potuto portar via... Poi, mentre uno dei ragazzi andava ad avvertire i suoi amici che non dovevano temer nulla dai loro ospiti, l'altro giovanetto e la vecchia ci raccontarono la triste storia di tutti i saccheggi di cui erano stati vittime quegli abitanti. Questa parte della Siria è stata il teatro di molte battaglie fra turchi ed egiziani, e dopo che è ritornata in potere della Porta perdura la guerra civile fra i turchi e le tribù bellicose delle montagne. I poveri contadini che lavorano i campi, senza parteggiare nè per gli uni nè per gli altri, sono malmenati da tutti. Nessuno li teme nè ha interesse a risparmiarli, o per lo meno quest'interesse che non è diretto ed immediato non potrebbe essere valutato in Asia. La stessa loro povertà non li mette al riparo dal saccheggio perchè fin che uno vive evidentemente possiede qualche cosa che può essergli tolta. La schiera dei fuggiaschi rientrava nel villaggio quando noi ne uscivamo e tutti ci salutarono augurandoci buon viaggio con cordialità e buon umore. Se ci fossimo imbrancati colle truppe turche, quel giorno non avremmo fatto colazione. Era destino per altro che dovessimo finire tristemente la giornata. I nostri bagagli ed una parte della nostra gente, la cui marcia era meno rapida della nostra, ci avevano preceduti, dandoci convegno per la notte in un piccolo villaggio turcomano a quattro ore da Latakiè. Il nome di questo villaggio mi sfugge; ma il guajo fu che non ce ne ricordammo più appunto quel giorno. La strada si stendeva allora lungo la linea delle colline sabbiose che fiancheggiano il mare, e noi scorgevamo da tutte le parti villaggi ed accampamenti fra i quali dovevamo scegliere. Cadeva la sera e, nella nostra incertezza, continuavamo a camminare. Finimmo per renderci conto che avevamo oltrepassato la nostra meta. Ci convenne di ritornare sui nostri passi e, avendo scorto a breve distanza un accampamento di turcomani, lo raggiungemmo per cercare di scoprire che fosse accaduto dei nostri bagagli e della loro scorta. Un bimbo che rincasava col suo gregge ci assicurò di aver inteso dire che in un dato villaggio si erano alloggiati mulattieri spettanti ad una carovana di viaggiatori. A stento consentì con una mancia anticipata a farci da guida. Lo seguimmo per più di un'ora, ormai in piena notte, mentre la stanchezza mi opprimeva. D'un tratto il fanciullo fuggì dopo averci additato alcuni fuochi lontani che annunciavano un villaggio ove, asseriva, avremmo trovato quanto cercavamo. Sebbene questi presagi non fossero favorevoli, ad un'ora così avanzata della notte non ci rimaneva altro da fare che di recarci là ove ci aveva indirizzato il ragazzo e doveva evidentemente sorgere un villaggio, per aspettarvi l'alba anche senza bagagli. Ci toccò infatti di trascorrere in tali condizioni quelle ore notturne. Le notti passate così sono orribili. Viaggiando in Oriente, non si porta con sè nulla di superfluo, un materasso, qualche oggetto per ripulirsi, un po' di zucchero, di riso e di caffè, non altro; ci si riduce allo stretto necessario e si riesce a contentarsi. Ma più sono semplici questi preparativi tanto più gravoso è il rinunciare anche ad essi. E cosa vi si offre in aggiunta, supponendo che i vostri ospiti sieno buona gente disposta ad offrirvi qualcosa? Come materassa avete una coperta imbottita che si piega in due e nell'interno della quale siete invitata a stendervi come tra i fogli di un libro. Il pasto consiste di solito in un piatto di riso cotto nell'acqua e condito con un burro Dio sa di quale data. Nelle case ben montate vi servono dei cucchiaj di legno utilissimi per mangiare; nelle piccole case vi si lascia la scelta o di prendere il riso colle dita o di fabbricarvi voi stessi sul posto dei piccoli recipienti con un pezzo di pane. E bisogna ancora spiegare che il pane d'Asia non assomiglia affatto a quello d'Europa. Si mescola della farina d'orzo coll'acqua senza impastarla, poi con un cilindro la si stende su di un asse lasciandole lo spessore di un grosso quaderno di carta; si posa quindi la miscela su un largo coperchio di casseruola o di marmitta che si avvicina al fuoco. Quando vi è rimasta due o tre minuti, il pane è fatto. Questo pane che è molle come il cotone deve servirvi da tovaglia, anzi da piatto, da tovagliolo per asciugarvi le dita e per involgervi le provviste dell'indomani; infine ne fate dei cornetti per riempirli di riso o di qualche altra miscela poco solida e portarti alla bocca nel modo più pulito possibile. Talora vi è servito anche un po' di latte agro e cagliato. Ormai mi ci sono avvezza, ma a quell'epoca del mio soggiorno nel Levante non lo potevo tollerare. Quanto al caffè, non solo è servito senza zucchero, ma è di regola che metà della tazza sia occupata dal fondo. Al momento di porgerlo è scosso in modo che il fondo sale alla superficie e si mescola a tutto il liquido. Un'altra causa d'imbarazzo per il viaggiatore rimasto senza bagagli consiste in ciò che i pettini e le spazzole sono oggetti completamente sconosciuti nelle campagne dell'Oriente. Fra i piccoli inconvenienti che chiedo scusa di enumerare aggiungo l'impossibilità di versare l'acqua in una catinella per lavarsi il viso e le mani. I catini orientali sono, per solito, in ferro smaltato od in rame ed il fondo ne è composto da un leggero reticolato attraverso al quale l'acqua scorre man mano che è versata, in un secondo sudicissimo bacino dello stesso metallo. Gli orientali tengono le loro mani sopra i fori del primo catino mentre un servo versa loro l'acqua che si raccoglie poi nel catino inferiore. Mentre hanno le mani bagnate in tal guisa se le passano sul viso e sulla barba e le loro abluzioni sono terminate. Imperfette come sono queste abluzioni sono però ripetute parecchie volte in un giorno. Vedete a quali noie si espone il viaggiatore europeo che faccia troppo a fidanza coi mezzi dell'ospitalità orientale; mi basta di averle indicate senza insistere troppo. Aggiungerò solo un particolare. Guai a chi visiti alcune parti del Levante senza aver provvisto all'illuminazione. Nei villaggi ed anche nelle piccole città, candele e candellieri sono sconosciuti. Vi si bruciano scheggie di un legno resinoso che dà una luce molto viva, ma ancor più fumo che luce. Si tengono in mano questi bastoncelli accesi a rischio di spargere la resina infiammata su tutti gli oggetti circonvicini e spesso sulle proprie dita, senza parlare del pericolo che possono correre la casa e gli ospiti. Appena alzato il sole ci rimettemmo in cammino. Dovevamo arrivare prima della fine del giorno a Latakiè[24]. Non era ancora mezzogiorno quando incontrammo, a poca distanza dalla città, una cavalcata composta dei principali abitanti che veniva, secondo l'uso, a darci il benvenuto e ad accompagnarci alla casa del console inglese dal quale eravamo attesi ed ove ritrovammo bagagli e scorta. La casa e la famiglia del console inglese di Latakiè dovrebbero essere additate a tutti gli stranieri come il tipo più attraente delle case e delle famiglie arabe. Ogni cosa vi è assolutamente nazionale, vale a dire propria dell'Oriente, e nondimeno è difficile l'immaginare alcunchè di più elegante che questa casa e di più rispettabile e grazioso della famiglia che vi abita. L'uso di far comunicare gli appartamenti gli uni cogli altri è sconosciuto nell'Oriente arabo; la corte ricollega fra loro tutte le stanze di una casa che bastano a loro stesse. Quante sono le camere del primo piano, altrettante le scale che terminano tutte nella corte. Non si economizza certo così nè lo spazio nè i materiali nè la mano d'opera, tutte cose che non costano care nel Levante, e del resto così si usa. Si entra nella casa del console inglese di Latakiè da una piccola porta bassa che si apre da un lato sulla strada e dall'altro su un andito stretto e scuro che conduce alla corte. Questa ha un pavimento di lastroni di marmo ed è circondata dai vari corpi di fabbrica. Quello in fondo contiene la sala comune, ove si giunge da una scala esterna in due rami come le scalinate d'accesso alle nostre case di campagna. Il salotto è grande, rischiarato da sette finestre che danno sui giardini e mobiliato da un divano che si stende lungo tutte le pareti sotto le finestre; parecchi altri sofà più piccoli sono addossati al muro. Tutti i mobili sono coperti di seta verde, le tende delle finestre sono della stessa stoffa, il pavimento di legno è risplendente di nettezza, un lampadario sospeso in mezzo alla stanza ne completa l'addobbo. In faccia a questo corpo di fabbrica sorge la sala da pranzo, vasto locale a pianterreno che non ha aperture fuor che sulla corte e che ha in giro un rialzo riempito da file di piastrelle e da divani. I due fabbricati laterali contengono le camere da letto, gli uffici, la credenza ecc. La mia camera era collocata in alto d'una scala scoperta che dava sui giardini, trovandosi allo stesso livello delle terrazze che costituiscono i tetti delle case orientali e sulle quali, nella stagione calda, si trasportano i letti. Il console era un giovane arabo di Latakiè che parlava benissimo l'italiano ed aveva tutte le belle maniere di un vero gentiluomo inglese. Mite, intelligente ed attivo, egli esercitava un'influenza abbastanza grande sui Drusi come pure sui Fellah e gli Ansariati dei dintorni e non adoperava questa influenza che per calmare le passioni violente di quelle schiatte, per mantenere o ricondurre la pace fra esse ed il governo. Il giorno stesso del mio arrivo — non precedevo che di alcune ore le truppe ottomane — egli aveva ricevuto una lettera del capo della tribù ribelle, che si diceva pronto a trattare coll'amministrazione imperiale sulla base delle condizioni che il console avesse giudicato opportuno di proporgli. Il giovine mediatore era felice del suo successo nell'interesse del paese e della pace in primo luogo, e poi anche perchè sperava di acquistare un merito a Costantinopoli. Sebbene molto giovane, il console era marito in seconde nozze di una vedova che sembrava escita allora dall'infanzia. Questa bella giovane indossava il grazioso costume delle donne della Siria che fa davvero onore al loro gusto squisito. Una veste di seta di color chiaro, rosa, celeste, viola, verde tenero, all'incirca del taglio d'una veste da camera per uomo, aperta sul davanti ed ai lati, lascia il petto quasi completamente scoperto. Questo abito scende fino alla caviglia ed ha una coda che però quelle signore rialzano generalmente attaccandola con una spilla; poi esse risvoltano i due pezzi anteriori e li attaccano parimenti con spille sulla parte già rialzata. Larghi pantaloni rigonfi stretti alla caviglia mostrano le loro pieghe di seta attraverso l'abito aperto in vari punti. Una larga sciarpa di stoffa indiana o di broccato ricinge la vita al disotto del seno che è appena velato da una camiciola di garza di seta con lunghe maniche pendenti. Una bustina molto attillata ricamata con oro e perle e aperta sul petto come la veste da camera completa l'acconciatura. Le treccie scendono tanto in basso quanto lo consentono la natura o l'arte. La testa è coperta da un fez adorno di perle. Ecco per l'insieme del costume, ma che dire degli accessori? Chi ha mai fatto il conto delle migliaja di bottoncini, dei metri di passamanteria e di cordoncino che ornano la veste da camera, i pantaloni e la camiciola? Delle catene, delle spille, dei fermagli e dei braccialetti accumulati su quelle braccia, sul petto e sul collo di cigno di quelle signore? Anche il fez che serve da copricapo è ornato in cento modi curiosi. Il fazzoletto di seta di Damasco o d'Aleppo annodato intorno al fez ricade senza pretesa sulla spalla sinistra; molti nastri si intrecciano sul fazzoletto frammisti a pizzi. Fez, fazzoletto, nastri e merletti non costituiscono del resto che la simpatica intelaiatura di quell'opera d'arte: su di essa si colloca tutta un'aiuola di fiori naturali, che occorre rinnovare ad ogni momento. Un mazzo di rose ricade sull'orecchio, un ramo di fior d'arancio accarezza la guancia, gelsomini, garofani, fiori di melagrano si stendono come un diadema sulla fronte e ciascuno di questi fiori è fissato sul fazzoletto da spilloni di diamanti di stile orientale che arieggiano pure del fiori e delle farfalle. Le signore Siriane sembrano aver accolto il principio che non si ha mai troppo delle cose buone e che i giojelli sono una cosa ottima. Immaginate ora, sotto una simile acconciatura, delle donne di statura alta e slanciata sebbene di curve perfette, con grandi occhi neri straordinariamente scintillanti, un colorito che avrebbe destato l'ammirazione del Tiziano, lineamenti fini, delicati e regolari e un'espressione sempre atteggiata al più grazioso sorriso: avrete allora un'immagine esatta della bellezza siriaca. Dal canto mio ho veduto tipi di bellezza più notevoli, ma ben raramente di più seducenti. Per dir tutto nondimeno soggiungerò che le usanze europee, così poco note e così mal viste nel Levante, minacciano di farvi breccia colla moda femminile che è forse il solo lato del mondo mussulmano che converrebbe rispettare. Le signore d'Aleppo cominciano ad abbandonare la veste da camera e la coda per adottare la gonna rotonda dell'Occidente, i broccati ed i rasi d'Aleppo e di Damasco per le stoffe di Lione e, ciò è molto peggio, i tessuti dell'India, della Persia e del Thibet per il cachemir imitato in Francia. Latakiè è una cittadina fabbricata meglio delle città dell'Asia Minore; l'architettura esteriore delle abitazioni non ha nulla di degno di nota; ma le case vi hanno l'aria di case e non di capanne rovinate. I marciapiedi sono così alti e le strade così sporche nel mezzo che il solo modo di traversarle senza infangarsi fino al ginocchio, consiste nel saltare da un marciapiede all'altro, ciò che rende il passeggiare nella città di Latakiè alquanto faticoso. Mi recai a visitare un arco di trionfo antico attribuito a Vespasiano; ma questo monumento assai degradato non era forse di una grande bellezza anche quando era intatto. Ne fui poco soddisfatta. Preferivo a quelle rovine insignificanti i boschi di aranci, di ulivi e di fichi che circondano la città ed i palmizi solitari che sorgono qua e là nella campagna impregnandola a distanza del loro profumo. LA LEGGENDA DEL SULTANO IBRAHIM — UNA SOSTA A TRIPOLI — BADUN — I MISSIONARI INGLESI IN SIRIA Non lasciammo Latakiè e gli amabili nostri ospiti che l'indomani piuttosto tardi nel pomeriggio. Poco male, perchè ci aspettava solo una tappa di quattro ore. Dovevamo passare la notte a Gubletta[25], cittaduzza in riva al mare ove, da parecchi giorni, il fratello del console inglese era intento a sorvegliare il ricupero di una nave russa che aveva fatto naufragio in quei paraggi e di cui si sperava di ritrovare il rame. Non so se Gubletta esista perchè non l'ho veduta. Il fratello del console inglese (che era a sua volta console di Russia) doveva aspettarci alle porte della città, ma non trovai nè porte, nè città, nè nulla che meritasse tal nome. Vidi soltanto una moschea ove il console ci aveva fatto preparare un alloggio. Fui ben lieta di venire a sapere pochi momenti più tardi ch'egli non aveva visitato quel locale e che si era accontentato di farne escire i sotto-ufficiali della guarnigione di Gubletta che l'occupavano. Dico che ne fui lieta perchè avevo veduto a Latakiè la giovane moglie di quel console russo e mi sarebbe stato penoso di dovermi formare un'opinione sfavorevole sul suo conto. Ora, solo un selvaggio avrebbe potuto considerare come un alloggio il canile che mi era stato offerto. Il console non ne era colpevole e lo vidi anzi arrossire quando gettò uno sguardo nell'interno del mio appartamento. Non posso dire cosa questo fosse, ma è certo che le tane degli animali più immondi sarebbero ricoveri preferibili alle camere dei sott'ufficiali della guarnigione di Gubletta. Nonostante la fama che ha l'aria di Gubletta dì procurare le febbri, e sebbene la sera fosse fresca e la notte promettesse di essere addirittura fredda, mi stabilii sulla terrazza che copre il tetto della moschea dove neppure l'aria libera valse a farmi dimenticare un istante solo come mi trovassi nelle vicinanze di un appartamento testè occupato dai sotto-ufficiali di Gubletta. Malgrado tutto ciò, che bell'edificio era la vecchia moschea di Gubletta! E come è commovente la leggenda collegata a quel monumento! Seicent'anni or sono un sultano chiamato Ibrahim, stanco delle grandezze, si volle votare alla vita contemplativa. Una notte, dopo essersi procurato un abito da derviscio, escì solo dal suo palazzo e dalla sua capitale, ed errò lungamente a caso, vivendo d'elemosina, ma contento della sua indipendenza e della sua solitudine. Finalmente la sorte lo condusse sulle rive del ruscello che scorre a qualche passo dalla moschea. Se questo luogo era allora come è oggi, non mi meraviglio che il sultano siasi deciso a fissarvisi pel resto de' suoi giorni. A breve distanza dalla spiaggia, dietro una siepe selvatica di arboscelli in fiore, un corso d'acqua abbastanza largo, ricco di acque chiare e limpide, si snoda tortuoso per una prateria di circa centocinquanta metri quadrati ch'esso abbraccia e quasi interamente racchiude. Verso il centro di questa prateria, in cui il fresco ed il verde durano in ogni stagione, grazie all'acqua del ruscello che filtra nel sottosuolo, un albero immenso, di cui non saprei dire il nome, stende i suoi rami ombrosi sopra la terrazza che corona la moschea. Se da un rifugio così calmo e verdeggiante voi levate gli occhi in giro, voi scorgete da un lato una serie interminabile di boschetti e dall'altra il mare, in riva al quale sono ancora ritti gli avanzi di un anfiteatro romano. Il sultano Ibrahim comprese la bellezza di quel luogo, risolse di stabilirvisi e di terminarvi i suoi giorni nella meditazione e nella preghiera. La sua vita fu corta e la leggenda non ci dice quale sia stata la causa della sua morte prematura. Cadde forse vittima sotto i colpi di qualche orda sanguinaria? Gli fecero difetto le cose indispensabili alla vita, anche a quella di un anacoreta? La sua costituzione formatasi fra gli agi ed i piaceri non resistette alle austere aspirazioni della sua anima? Non sappiamo nulla. La leggenda ci mostra soltanto la madre del giovine sovrano che lascia la Corte tosto dopo suo figlio, ne segue da lungi le orme, le perde oggi per ritrovarle domani e giunge finalmente sulle sponde di quel limpido ruscello dove io stavo seduta ad ascoltare questa storia narratami da un vecchio santone arabo. Non trovò di quel figlio così a lungo cercato che il cadavere ancora caldo. La leggenda descrive coll'enfasi dell'Oriente il dolore di quella madre in lagrime. «È giunta dunque troppo tardi? Tanti giorni passati sulle strade deserte, fra i pericoli, tante sofferenze, tante privazioni non avranno nessun risultato? Non può essa più nulla per quel figlio ch'era venuta a cercare e di cui voleva dividere l'esistenza? No, non può esser così; le rimane qualcosa a fare per lui; essa gli innalzerà un monumento che perpetuerà il ricordo delle sue virtù e Dio saprà bene mostrare ai fedeli che il corpo sepolto sotto quelle volte è stato d'uno de' suoi eletti.» Qui finisce la leggenda, ma il santone soggiunse a modo di conclusione: «La _validè_ (sultana madre) eseguì il suo progetto e Dio ricompensò la sua fede. Da seicento anni cioè, dacchè il corpo del sultano Ibrahim riposa in questa moschea, innumerevoli miracoli sono stati compiti sulla sua tomba e tutti i viaggiatori che passano da Gubletta vengono a farvi le loro preghiere ed a deporvi la loro offerta. Tu, che sei cristiana, non rivolgerai le tue preghiere al sultano Ibrahim, ma se vuoi sarai ammessa nell'interno di quel monumento e ricompenserai chi ti avrà procurato questo favore.» Io non domandava di meglio che di ricompensare quel buon santone e lo seguii rispettosamente fino nella sala funeraria che racchiude l'immenso catafalco del sultano Ibrahim. Non vi trovai nulla di più di ciò che aveva visto in tutte le moschee che custodiscono ceneri illustri. Una cappella, o per dir meglio, una camera collocata nella parte più remota dell'edificio e separata dalla moschea propriamente detta contiene un cofano gigantesco posto su un piedestallo di legno che lo rialza ancora e che è coperto da tappeti, scialli indiani e piume. La luce del giorno non penetra che debolmente in quel recinto e vi è sostituita da una moltitudine di lampadine ad olio che diffondono fumo piuttosto che raggi di luce. Tutt'intorno alla stanza sono sospese le offerte, come in alcune delle nostre chiese. I nostri cavalli attendevano insellati ed imbrigliati alla porta della moschea, avevamo la prospettiva di una lunga marcia ed ero impaziente di trovarmi in aperta campagna; ma non fu facile l'escire. Ho detto che ero dispostissima ad esprimere la mia riconoscenza al santone che mi aveva narrato la leggenda; sgraziatamente quella leggenda era unica, i santoni erano parecchi ed i pretendenti alla mia gratitudine si assiepavano in una tal folla all'escita della moschea che arrischiai di rimanerne soffocata. Anche in Europa vi sono molti mendicanti, ma ricevono quello che voi date loro o si ritirano senza far rumore se voi non date loro nulla. I mendicanti arabi sono d'una specie molto diversa. Non havvi differenza fra essi e i briganti, salvo che questi cercano i luoghi solitari a teatro delle loro gesta, mentre quelli esercitano la loro professione in mezzo ad una popolazione che sta a vedere guardandosi bene dall'intervenire. Malgrado la protezione del console di Russia e delle mie guardie non so cosa sarebbe accaduto di me se avessi rifiutato l'elemosina a questi mendicanti. Non vi pensai neppure, ma la mia buona volontà fu inutile. È una massima generalmente ammessa e praticata nel Levante che non bisogna mai accontentarsi di ciò che vi si offre quand'anche vi si offrisse il doppio di ciò che vi proponevate di chiedere. Ho ritrovato traccie di questo sistema, a Venezia, ove certamente è stato introdotto da negozianti levantini. Un bottegaio delle Procuratie mi domandava un prezzo stravagante di non so più quale oggetto. Non piacendomi di mercanteggiare, gli volsi le spalle; ma il mercante mi richiamò e mi disse: — Diavolo! signora mia. Come scappate! Non si domanda il prezzo che si vuole avere! Strano principio di cui non ho ben compreso tutto il valore che dopo il mio soggiorno in Oriente! Fortunatamente i miei cavalli stavano alla porta della moschea. Il console frugò nelle sue tasche, ne trasse tutti i quattrini che aveva e li gettò in aria in modo da farli cadere un po' lontano da' miei persecutori. Appena il suono della moneta, che batteva sulle lastre del tempio, si fece udire, il cerchio che mi chiudeva si spezzò e mi trovai libera. Ne profittai per lanciarmi a cavallo e partire di galoppo, gettando uno sguardo pieno di rimpianto all'anfiteatro diroccato che avevo dovuto rinunciare a visitare. I miei compagni di viaggio, che non erano entrati nel sepolcreto del sultano Ibrahim, avevano percorso, in compenso, le rovine romane e ne ritornavano incantati. A parer loro, l'anfiteatro di Gubletta era un monumento del miglior stile ed in un raro stato di conservazione. Ci seguiva la numerosa scorta di «Basci-bozuk» che dovevano lasciarci quando avessimo oltrepassato un certo posto considerato molto pericoloso. Fu nondimeno in tal punto che ci fermammo a far colazione e vi avrei passato volentieri qualche giorno a dispetto di tutti i briganti dell'universo, tale era il fascino di quel luogo. Le rive del mare sono generalmente molto aride, in Siria più che in qualunque altro luogo; ma non so per quale segreta influenza le leggi fisiche sono talora annullate in questa terra prodigiosa ed i paesaggi più meravigliosi si spiegano d'un tratto ai vostri occhi là dove non credevate di incontrare che sassi, roveti e sabbie. Talune oasi della Siria sfuggono a tutte le spiegazioni, a tutte le ipotesi e per la loro estensione e per la natura degli ostacoli che hanno vinto. L'aria salata del mare non dovrebbe agire allo stesso modo su tutti i terreni che costituiscono la spiaggia? Come accade che, dopo aver camminato intere giornate nel greto sabbioso, fra arbusti nani e rattrappiti, vi troviate d'un tratto alla soglia d'un giardino inglese? La sabbia cede il campo all'aiuola; i cespugli e le boscaglie sono sostituiti da alberi vigorosi di tutte le specie, ricoperti di fiori. Questi fiori smaglianti di colore, con ampie corolle, deliziano gli occhi e rendono balsamica l'aria; gli uccelli cantano a migliaia con un ardore ed un'energia che gli uccelli dei climi più temperati non potrebbero raggiungere. Per esempio, le nostre rondini gettano durante il volo un grido monotono e null'altro; ma quella d'Asia, più piccola delle nostre, con ali lunghe ed una coda allungata a forchetta di un bel turchino metallico, col petto ed il collo di color arancione, canta presso a poco come un usignuolo. Il timbro della voce è più profondo, ma il suo canto si scosta assai poco per ritmo e per melodia da quello del nostro grande concertista boschereccio. La natura orientale rivela qui la sua potenza e non ci era mai apparsa così meravigliosa come nell'oasi ove ci siamo fermati dopo aver lasciato Gubletta. Un vecchio castello, non so di quale epoca, dominava una piccola altura a pochi metri dal mare. Non era facile di distinguere a prima vista le rovine, coperte com'erano da una tunica di edera e di altri arrampicanti. Ogni screpolatura di quei vecchi muri non sembrava aperta che per lasciar passare ciuffi di fiori. Tutt'intorno il paese aveva la medesima colorazione datagli da una ricca vegetazione e, sebbene il sole fosse già abbastanza alto sull'orizzonte, l'ombra di alberi immensi si disegnava sulla prateria con larghe chiazze scure. Impossibile d'imaginarsi in un tale paradiso nulla che non fosse dolce, ridente, soave. Occorre una cornice ad ogni quadro ed una scena di sangue e di violenza avrebbe spezzato in modo criminoso tanta armonia fra quel mare, quel cielo, quelle rovine coperte di fiori, quei prati e quei boschetti. Mi si narrava che quel vecchio castello era spesso riparo di briganti, ma io non lo potevo credere. Nondimeno le guardie che ci dovevano accompagnare fino a Tripoli (Tarabulus) ci facevano premura ricordandoci che mancavano ancora dieci ore di marcia di cammello per arrivare a Tortosa ove dovevamo pernottare. Convenne cedere alle loro insistenze e mi staccai molto di malumore dal vecchio castello, dal suo velario di fogliame e di fiori, dalla verde prateria e dall'ombra opaca. Quando si abbandonano di questi paesaggi siriani si finisce per dire: «Non vedrò mai più qualcosa di così bello!» È triste, perchè vi sono grandi probabilità che sia proprio così. La giornata che seguì quella simpatica sosta fu molto gravosa. Dalle 11 del mattino alle 4 del pomeriggio il caldo divenne intollerabile. Ci fermammo qualche tempo sotto le mura di Baynas[26], città antica le cui fortificazioni rimontano all'epoca delle crociate e sono evidentemente un lavoro europeo. Lambivamo il mare e circa un'ora prima del cader del sole scorgemmo dinanzi a noi, all'estremità di una lingua di terra che si avanza nel mare, una massa nerastra e frastagliata che ci fu detto essere Tortosa[27]. Accanto al promontorio e quasi aderente alla terra è un'isola chiamata l'isola delle donne. Ha ricevuto questo nome perchè è quasi esclusivamente abitata da donne, madri, sorelle o figlie di pescatori e marinaj che trascorrono la loro vita sulle onde. Ci facemmo coraggio allo scorgere Tortosa. Una delle nostre guide osservò: Non vi siamo ancora! Se tale riflessione gettata in viso ad un povero viaggiatore sfinito dalla stanchezza è ben irritante, l'esperienza che avevo ormai acquistato delle delusioni solite dei viaggi nel Levante, mi sforzava purtroppo ad ammettere che la guida poteva aver ragione. La notte scese rapidamente: la luna non compariva, ma le notti in Oriente non sono mai molto nere. Sembrano piuttosto un crepuscolo. Talora il paesaggio è così ben rischiarato verso mezzanotte come poteva esserlo un'ora dopo il tramonto, sebbene voi non scorgiate una stella perchè il cielo è completamente coperto di nubi. Checchè ne sia, la notte era scesa, una di quelle notti dubbie, in cui si è più esposti a perdere la strada che in mezzo alle più folte tenebre. Si scorgono gli oggetti circonvicini, ma se ne vedono anche altri che non sono vicini, anzi non esistono, e quelli reali vi appajono talora sotto forme interamente nuove e quasi irriconoscibili. Avevamo intravisto Tortosa quand'era ancor chiaro, credemmo riconoscerla a notte fatta. Era là, dinanzi a noi, ad una piccolissima distanza. Ecco, dicevamo, le sue antiche mura fortificate, ecco la sua vecchia torre; la città occupa una distesa di terreno molto notevole: dev'essere abbastanza importante. E così commentando, camminavamo sempre verso la nostra città. Una svolta della strada ce la nascose un istante, ma, appena girata la punta che ci stava dinanzi, non potevamo esserne molto discosto. Svoltiamo e non vediamo nulla: il fantasma della città s'era dileguato nell'aria e dovemmo camminare ancora più di due ore prima di raggiungere le mura che avevamo creduto un momento di poter toccare. Non ho visto a Tortosa che le strade che dovetti percorrere per arrivare al mio alloggio; ma ciò che ne ho veduto assomiglia ad una vecchia cittadina europea. Le case, fabbricate in pietra, si aprono sulla strada, mentre ovunque qui le vie consistono in una serie di muri di cinta, e le case sorgono al di là di quei muri, rimanendo nascoste agli sguardi dei passanti. La camera dove passai la notte era costruita a volta come lo sono in genere le case di Gerusalemme e di tutte le città della Siria nelle quali i Crociati hanno dimorato a lungo. Traversando la città, l'indomani, rilevai parecchi edifici costrutti all'europea, che mi ricordavano certi palazzi municipali della Normandia. Hanno un aspetto cupo, in fondo triste; ma havvi nulla di triste per l'esule in ciò che gli ricorda la patria lontana? Da Tortosa a Tripoli vi è la stessa distanza che da Gubletta a Tortosa. La prima giornata ci aveva mal preparato alla seconda; alcuni dei nostri cavalli erano ancor peggio disposti di quello che non fossimo noi, e per completare la serie dei nostri guaj non ci si offriva un solo rifugio lungo la strada. Circa alla metà della giornata scorgemmo per altro in vetta ad un pendio un villaggio arabo, il primo della sua specie che abbia veduto, composto in tutto di una dozzina di tende in stoffa bruna, tessuta in pelo di capra o di cammello. Non so dove fossero gli uomini; ma le donne custodivano le tende e pensammo che fosse possibile trovarvi del latte. Fu una cattiva idea. Avevamo creduto che quelle donne arabe fossero donne come le altre. Fummo sgradevolmente sorprese allo scorgere esseri bizzarri che si precipitavano fuor dalle tende al nostro arrivo: enormi cani le precedevano, abbajando, urlando, mostrando i denti e lanciandosi tra le gambe dei nostri cavalli. Ma quei furibondi mastini erano ancora cortesi in confronto alle donne. Esse erano vestite d'una tunica di tela turchina e uno straccio dello stesso colore avvolgeva la loro testa e ricadeva sulle loro spalle; una cintura in cuojo le stringeva alla vita; la loro pelle nera e grassa era coperta di tatuaggi neri e bleu; e in particolar modo le labbra scomparivano completamente sotto uno strato d'indaco e la punta del loro naso non era che un ricettacolo di girasoli non ancora sbocciati, di anelli d'oro e di rame oppure di fiorellini di filagrana. Fra queste donne ve ne dovevano essere di giovani, ma tutte sembravano avere la stessa età, cioè una molto rispettabile; tutte parevano ugualmente di umore intrattabile. Ci mostravano i pugni facendoci delle orribili smorfie con accompagnamento d'ingiurie e di maledizioni, tutto ciò perchè venivamo a domandar loro qualche tazza di latte. Così edificati sull'ospitalità delle signore dalle labbra turchine, non volevamo prolungare le trattative. Lanciammo i nostri cavalli al galoppo, cosa poco comoda, con tutti i calci che quelle povere bestie tiravano continuamente ai cani che mordevano loro le gambe e non rallentammo il passo che dopo esserci messi fuori del tiro delle loro grida e dei sassi che facevano piovere su di noi. Mi ripromisi, mentre mi allontanavo, di non domandare mai più latte a donne arabe. Quella sera non fu molto più gradevole della precedente. I nostri cavalli ci deposero, dopo una marcia faticosissima, e già a notte fatta, a Tripoli[28], innanzi alla casa del console d'Austria, cognato dei miei ospiti di Latakiè e di Gubletta. I due consoli avevano dovuto scrivere a quell'agente per annunciargli il mio arrivo e mi avevano incaricata di molti messaggi per la loro sorella. Era dunque colla maggiore fiducia che io battevo alla porta del console d'Austria a Tripoli, pregustando il piacere delle buone notizie che recavo alla sua famiglia e della gioja che stavo per procurarle. Mandai il mio dragomanno ad annunciare il mio arrivo, ed attesi il suo ritorno, a cavallo, nella strada, stentando a lottare contro la stanchezza ed il sonno che si erano impadroniti di me. Siccome il ritorno si faceva aspettare al di là del prevedibile, pregai uno de' miei compagni di viaggio di andare a riconoscere lo stato delle cose. Egli ritornò dopo qualche istante col viso acceso per informarmi tutto sconvolto che il console non sembrava affatto disposto a riceverci e faceva valere tutti i pretesti immaginabili per dispensarsi dall'aprirci la sua porta. Ero così bene avvezza all'accoglienza amabile degli orientali, poveri e ricchi, che il modo di agire di quell'agente consolare mi indignò davvero. La mia stanchezza scomparve come d'incanto, ed avrei volontieri passato la notte su un paracarro, se ve ne fossero stati a Tripoli, piuttosto che mettere i piedi in quella casa così poco ospitale. Doveva per altro esservi un mezzo termine fra il paracarro e il palazzo del console d'Austria, e m'informai dai curiosi, che malgrado l'ora avanzata si erano riuniti intorno a noi, per sapere se conoscessero alcuno che potesse riceverci per buon cuore od in cambio di denaro. Vi era, è vero, un convento di Carmelitani, ma situato all'estremità opposta della città; le porte non erano più aperte dopo una certa ora ed era dubbio che le donne vi fossero ammesse. Mi avevano affidato una lettera per il medico della quarantena, ma era assente. L'opinione comune era che non avrei trovato in nessun luogo un alloggio così buono come in quel consolato; ed ognuno sembrava ritenere che la via più spiccia e più savia fosse quella di proseguire le trattative per ottenere di entrarvi. Quanto alla questione della mia dignità offesa, agli occhi dei cittadini di Tripoli era un particolare completamente impercettibile. Ne eravamo a questo punto, e confesso che col nostro discutere non avevamo fatto un passo innanzi, quando il mio dragomanno e quello del consolato comparvero e mi annunciarono, coll'aria di gente che aveva appena terminato una lotta accanita, che il console mi attendeva e che potevo far scaricare i nostri bagagli. Esitavo ancora, ma come fare? Era quasi mezzanotte, non conoscevo nessuno a Tripoli nemmeno di nome; uomini e bestie erano al limite delle loro forze e della loro volontà. Seguii dunque i due dragomanni. Traversai una vasta corte lastricata in marmo, curata colla più squisita nettezza e circondata da vigne. Il primo vestibolo ben illuminato e le cui luci si riflettevano sulla superficie lucida dei marmi e dei rivestimenti in legno come su specchi di Venezia, mi abbagliò al primo mio entrare. Nella camera vicina, quasi altrettanto grande che il vestibolo, ma meno rilucente e più ammobigliata, il terribile console stava steso sul divano con un berretto da notte in testa ed il corpo avviluppato in una veste da camera. Dal primo colpo d'occhio mi avvidi che non si era ancora riconciliato colla necessità alla quale si arrendeva, non so neppure se avrebbe potuto dominarsi abbastanza per negarsi la soddisfazione d'indirizzarmi un complimento di cattiva lega; ma non gliene lasciai il tempo. Egli era molto malcontento e quindi di cattivo umore; io non ero che in collera, ciò che è sempre molto meglio. Pertanto, camminando dritta verso di lui mentre egli si moveva sul suo sedile come per alzarsi, gli dissi con una voce molto chiara e scandendo le parole: «Vi prego di credere, signore, che non mi sarei presentata a casa vostra se la vostra famiglia non me ne avesse insistentemente pregata, ed in questo momento stesso io escirei da questa casa se potessi trovare un altro alloggio. Io non accetto quindi da voi che quello che non potete rifiutarmi, un asilo per questa notte. Il vostro vestibolo mi basterà e domattina all'alba proseguirò il mio viaggio.» Il console d'Austria non era punto un uomo cattivo e non aveva avuto l'intenzione di farmi una scortesia. Era semplicemente un uomo di cattiva salute, nervoso, ipocondriaco; quelli che hanno vissuto lungamente in Oriente hanno perduto l'abitudine di frenarsi, e quelli che non ne sono mai esciti non l'hanno mai imparata. Gli era stato annunciato che una ventina di persone reclamava la sua ospitalità alle undici di sera; ne era rimasto imbarazzato ed aveva mostrato il cattivo umore che gli era derivato dal trovarsi così in impiccio. Quando s'avvide di avere veramente offeso i suoi ospiti, ne ebbe dispiacere e me lo manifestò colla stessa vivacità e la stessa schiettezza colla quale aveva prima dato sfogo al suo malcontento. La mia ira si dileguò subito come per incanto. La mia attenzione si era del resto riportata sopra un oggetto infinitamente più attraente che non fosse il console. Sua moglie, la sorella de' miei ospiti di Latakiè, era seduta nell'ombra quando io entrai. Essa non parlava e non capiva che l'arabo; ma indovinò facilmente che suo marito ed io non stavamo scambiandoci frasi troppo tenere. Si alzò, con grande dolcezza si accostò a me, mi prese la mano e mormorò a bassa voce qualche parola araba che non compresi, ma di cui intuii il significato. La moglie del console d'Austria a Tripoli è forse la più bella donna che abbia veduto in Siria e la sua acconciatura era la più graziosa, la più carina di tutte quelle che avevo ammirato prima di allora. Fece segno al dragomanno del consolato di avvicinarsi e lo incaricò di dirmi tutto quello che il suo bel viso m'aveva già detto. La mia camera era già pronta, essa stessa andava a prepararmi la cena e voleva servirmela; suo marito si era messo di cattivo umore temendo ch'io non trovassi in casa sua tutti gli agi ai quali avevo diritto d'aspettarmi. Era malato e la menoma agitazione lo metteva fuori di sè; ma essa lo aveva rassicurato promettendogli che non mi sarebbe mancato nulla o che almeno essa otterrebbe il mio perdono per ciò che essa non riescirebbe a procurarmi. Mentre parlava così ed accompagnava le sue parole coi più graziosi sorrisi e con uno sguardo in cui una punta d'inquietudine si mescolava alla lieta dolcezza che sembrava essere nella sua natura, io aveva bell'e dimenticata la mia ira e la causa che l'aveva procurata. Guardavo via via quella donna ancor così bella, così giovane ed attraente, un gruppo di bambini che giocavano in un canto serbando un silenzio che rivelava un certo timore, ed il padre di famiglia, il marito, il padrone, avvolto nella sua veste da camera e nel suo malumore. Mi venivano in mente altre coppie europee, viventi sulle stesse basi, offrenti lo stesso contrasto, e dicevo a me stessa che la natura umana è la medesima sotto tutte le latitudini e con tutte le usanze. Bisognò seguire senza cerimonie la bella padrona di casa nella sala da pranzo, e ricevervi dalle sue bianche mani tutto ciò che le piacque offrirmi. Qualche momento più tardi, io gustavo il riposo più assoluto in una camera confortevolmente ammobigliata. L'indomani il nostro console si rivelò d'eccellente umore. Mentre io dormivo ancora, egli aveva ricevuto la lettera de' suoi cognati che annunciava il mio arrivo e che aveva avuta in ritardo per un incidente inatteso. Partii dunque da Tripoli soddisfattissima del breve soggiorno che vi avevo fatto, e perfettamente riconciliata coll'ottimo console che, dopo tutto, era semplicemente un galantuomo, d'umore un po' vario e molto malato. Quattro sole ore di marcia ci separavano da Badun[29]; il tempo era bello e caldo, i nostri bagagli ci avevano preceduto, secondo il solito, ed eravamo liberi da ogni noia; ma è precisamente in mezzo ad una sicurezza completa che quasi sempre ci accadono guai. Ci era impossibile di smarrirci durante la prima parte del nostro viaggio verso Badun, poichè non dovevamo lasciare la spiaggia del mare, ma fatalità volle che noi raggiungessimo un promontorio che segna il punto dal quale la strada si stacca dal mare proprio quando la notte spegneva gli ultimi bagliori del crepuscolo. Un'altra circostanza molto disgraziata, di cui risentii gli effetti durante tutto il tempo del mio viaggio, fu di avere per dragomanno un uomo altrettanto vano quanto sciocco ed ignorante. Piccolo di statura e molto brutto, questo personaggio, alternatamente ossequioso ed arrogante, era di origine europea, perchè era nato a bordo di una nave danese che recava sua madre nel Levante. Questo bastimento era tutto ciò che avesse mai conosciuto dell'Europa, e la sola lingua occidentale che fosse riescito a balbettare era l'italiana. Stabilitosi a Costantinopoli egli era riescito, non so come, ad occupare una discreta posizione. Durante il primo anno del mio soggiorno in Asia, lo avevo impiegato per qualche mese nella fattoria, poi avendolo incontrato al mio passaggio da Angora avevo acconsentito ad ammetterlo di nuovo nella mia scorta. Dacchè ero entrata nella Siria, mi ero però accorta che l'arabo non gli era meno straniero degli altri idiomi orientali ed occidentali e rimpiansi, ma troppo tardi, di avere ingrossato il mio seguito con quell'importuno. Ai suoi occhi, il titolo d'interprete e quello di primo ministro si equivalevano: pertanto egli profittava di ogni occasione per mandare innanzi il grosso della carovana e darsi la soddisfazione di pavoneggiarsi al mio fianco, col fucile in ispalla, sul più alto de' miei cavalli e ostentando un'immensa sciarpa rossa guarnita di pugnali e di pistole. Se questo bizzarro dragomanno non fosse stato che inutile non avrei preso al tragico l'impiccio della sua presenza; sgraziatamente, non meno ignorante in geografia che in linguistica, egli aveva la pretesa di possedere nei menomi particolari la carta dei paesi che percorrevamo. Il giorno della nostra marcia su Badun riconoscemmo a nostre spese quanto questa pretesa fosse infondata. Guidati dal personaggio testè descritto, seguimmo dapprima la costa fino al promontorio che taglia la strada di Badun. A partire da quel promontorio, la via fa una svolta a sinistra, attraversa alcuni avvallamenti e poi ritorna a sboccare sulla riva a breve distanza da Badun. Il nostro dragomanno, giunto al promontorio, ci avviò verso le alture; ma, invece di seguire la strada tracciata, ci gettò dietro a lui nel letto di un torrente che, non solo ci allontanava dalla nostra direzione, ma opponeva ai nostri cavalli numerosi ostacoli. All'escire dal torrente ci trovammo sul declivio di un'alta montagna faccia a faccia con un cumulo di roccie che chiudevano da ogni lato l'orizzonte. Era evidente, dall'aspetto desolato di quel paesaggio, illuminato dalla luna, che la nostra guida si era ingannata e questa volta anche la sua fiducia sembrava scossa. Avremmo dovuto passare la notte all'aria aperta? Dovevamo proseguire, tornare indietro o fermarci? Dibattevamo melanconicamente queste varie soluzioni, quando uno di noi credette di riconoscere un sentiero che doveva condurre ad un villaggio. Non c'era da esitare: non era più Badun, ma un rifugio qualsiasi che avevamo premura di raggiungere. Prendemmo dunque la direzione indicata da alcune traccie, che fortunatamente non ci ingannarono, perchè ci condussero sulla spianata di una montagna donde scoprimmo un villaggio abbastanza vicino. Non fu difficile arrivare alle prime case, ma il penetrarvi, giacchè le strade silenziose in cui eravamo assomigliavano ai viali di una necropoli e le case non avevano all'esterno nè porte nè finestre. Era evidente che i pacifici abitanti di quel villaggio avevano adottato tutto un sistema di precauzioni notturne contro le tribù erranti, di cui avevano certamente dovuto subire più di una volta le incursioni. Due o tre dei nostri erano andati frattanto in una capanna che sorgeva all'ingresso del paese e che sembrava meno barricata e meno inaccessibile delle case vicine. In fatti la porta che seppero scovare cedette ai loro colpi ed essi ricomparvero ben tosto spingendosi innanzi un uomo mezzo svestito, mentre lamenti di donne cominciarono a levarsi da tutte le abitazioni finitime, come un segnale d'allarme. Dovemmo penar molto per convincere il nostro prigioniero che non esigevamo da lui alcun prezzo di riscatto, anzi che eravamo disposti a pagarlo abbondantemente se avesse voluto condurci a Badun. Il mariuolo pretendeva d'essere cieco e gli risposimo che toccava a lui di guidarci seguendo quello de' suoi sensi che l'aiutava per solito a raccapezzarsi. Non eravamo del resto malcontenti di mortificare il nostro dragomanno, col sostituire una guida cieca ad una ignorante. Sgraziatamente il contadino che avevamo catturato era cieco fino ad un certo punto, e, dopo aver camminato un bel pezzo dietro a lui, ci accorgemmo che per scroccarci un po' di denaro si limitava a farci gironzare intorno al suo villaggio. Occorse che uno della nostra scorta accostasse all'orecchio di quell'individuo la canna della sua carabina minacciandolo di tirare se avesse continuato a burlarsi di noi. Da quel momento il sedicente cieco smise d'incespicare e di andare a tastoni, camminò dritto e svelto davanti a noi fino a Badun, che era lontano due ore di marcia dal villaggio in cui eravamo penetrati. Non temo d'insistere su simili avventure. Quei ritardi, quelle delusioni, quelle dispute fra viaggiatori e dragomanni, quel ricorrere alla forza di fronte a popolazioni malevole o perverse, tutto ciò caratterizza un viaggio in Oriente e deve trovar posto nelle narrazioni di chiunque voglia far comprendere costumi così nuovi ad un europeo. Posso ormai raccontare più rapidamente le due giornate di viaggio che mi separavano ancora da Beyrut. Non ho nulla da dire di Badun, salvo che vi trovai con una soddisfazione ben comprensibile una buona camera ed una buona cena. Da Badun a Beyrut la strada costeggia il mare. Camminavamo per un tratto nella rena della spiaggia ed i nostri cavalli bagnavano i piedi nelle onde salse; oppure seguivamo le traccie di antiche strade elevate dall'epoca romana sui pendii rocciosi dei monti che si ergono a picco fuor dalle onde. Passammo davanti alla vetusta città di Biblos, le cui fortificazioni sono opera dei Crociati e che ora ha il nome di Gibel. Durante questo tratto di strada, per la prima volta dopo il mio arrivo nella Siria, incontrammo viaggiatori europei, un ministro della Chiesa Anglicana colla moglie. Il marito era vestito interamente di nero, come fosse sul punto di salire sul pulpito, con una cravatta bianca e stretta, un cappello di feltro candido accompagnato da un crespo nero. La moglie era vestita come per una passeggiata in un parco inglese, salvo che portava sopra il suo cappello una specie di cappuccio molto complicato fabbricato con cartone, tela ed ossi di balena e destinato a garantirla dai raggi del sole. Con tutto ciò l'ombrellino conservava i suoi privilegi ed ondeggiava sopra il cappuccio. Questa coppia così poco orientale nelle sue abitudini e nella sua apparenza era in missione. Non parlava altra lingua che l'inglese e, munita di un certo numero di Bibbie, di una grammatica e di un dizionario arabo, percorreva le città e le campagne, i monti e le pianure, il deserto e i luoghi abitati, convertendo, o cercando di convertire al protestantesimo tutti in un fascio turchi ed arabi, mussulmani, idolatri, ebrei e cattolici. La Siria è invasa, percorsa in tutti i sensi dai missionarii inglesi ed americani, il cui candore e la cui buona fede sono incontestabilmente superiori al tatto ed all'intelligenza. La conversione è divenuta, per gli orientali, una specie di situazione sociale molto remunerativa ed il convertito, che ha rappresentato questa parte due o tre volte, diventa un uomo molto solvibile; possiede beni, si mette nel commercio e fa fortuna. Ecco come le cose vanno in quasi tutte le sette e religioni di quel paese; ma principalmente fra gli ebrei, che sono del resto, non so perchè, i favoriti della propaganda protestante. Uno di questi assiste più o meno a qualche conferenza tenuta dai missionarii, per rispondere alle obbiezioni che gli infedeli potrebbero elevare contro le dottrine di Lutero o di Calvino. Non ho mai assistito ad alcuna di queste conferenze, ma confesso che vi sarei andata colla maggiore premura se avessi potuto farlo in incognito per udire quei curiosi dibattiti fra uomini educati e nutriti in tutte le sottigliezze della dialettica religiosa ed i figli degeneri d'Israele o di Giuda pei quali intelligenza e morale sono parole senza senso. Qualunque sia la presumibile singolarità di queste conferenze, l'ebreo che abbraccia il protestantesimo riceve una gratificazione od una pensione che è però passeggera, cioè gli è pagata solo finchè non ottenga un onesto impiego. Perde allora la pensione e si spegne l'ardore della sua fede: parte, passa in una provincia poco frequentata dagli europei e sovratutto dai missionarii, rientra nella sua comunione, se non trova più proficuo d'abbracciare l'islamismo: ciò dipende da circostanze assolutamente estranee alla fede. I suoi nuovi correligionari, particolarmente se sono stati ben scelti, rivaleggiano in generosità, se non in candore coi missionarii protestanti: non accordano pensioni alla pecorella rintracciata, perchè le pensioni sono un uso occidentale, non gli affidano lavoro da compiere trattandosi di un genere d'incoraggiamento che è ritenuto poco adatto per attirare proseliti; ma tutte le case gli sono aperte ed il penitente va a dormire dall'uno, a mangiare dall'altro e si fa vestire dal terzo. Ciò dura qualche mese, poi il ricordo della sua conversione si perde e la pecorella negletta ritorna allora a mettersi a portata di qualche pio missionario evangelico, badando solo ad evitare il teatro delle sue prime gesta e l'incontro del suo precedente benefattore. Vi sono parecchi mascalzoni che hanno passato così la loro gioventù a vagare di chiesa in chiesa senz'altro scopo che di alimentare una vita di ozio nè altro risultato che di gettare il discredito, e qualche volta anche il ridicolo, sugli sforzi, del resto onorevolissimi, del clero protestante. Beyrut, ove giungemmo un giorno e mezzo dopo aver lasciato Badun, segnava il termine della marcia faticosa che aveva avuto Alessandretta per punto di partenza ed i cui incidenti mi parvero atti a mostrare l'ospitalità orientale in qualcuno de' suoi tratti caratteristici. A Beyrut cominciava per me un'altra serie di spettacoli. Non era più verso l'Oriente mussulmano, ma su quello cristiano che la mia attenzione si sarebbe ormai rivolta. I paesaggi ed i monumenti dovevano ormai avere la loro parte nell'interesse svegliato in me fino allora quasi unicamente dai costumi. Mi attendevano numerose sorprese ed anche qualche delusione. Non era senza fatica che calpestando luoghi celebri dovevo vedermi forzata a scordare i miei sogni per contemplare una realtà meno severa o meno graziosa a mio gusto. Già al mio arrivo a Beyrut, riconobbi che la mia immaginazione stava per essere esposta a qualche disinganno. Scorgevo l'arida catena del Libano e cercavo invano cogli occhi le foreste di cedri di cui parla la Sacra Scrittura. Questi cedri esistono in realtà, ma non occupano più di mille o milleduecento pertiche quadrate, mentre il Libano copre un'intera regione. Da questo genere di sorprese è minacciato ogni viaggiatore che visiti le terre bibliche recandovi il ricordo troppo vivo dei sacri testi. Fui messa così sull'avviso e, tra le impressioni che si collegano per me al soggiorno di Beyrut, questa è la sola che mi abbia lasciato serie traccie. Quanto alla città in se stessa, si può definirla con una parola: fra le città dell'Asia è la meno asiatica; fra le città dell'Oriente è la più europea. IV. GLI EUROPEI A GERUSALEMME — LA TURCHIA ED IL CORANO LE MONTAGNE DI GALILEA E L'ANTICO REGNO DI GIUDA Giunta all'ultimo periodo del mio viaggio, attendevo con qualche impazienza i compensi alle faticose giornate che avevo passato da qualche mese sulle strade dell'Asia Minore. Posso dire che quest'attesa fu soddisfatta? Malgrado i ricordi vivaci e dolci che serbo del mio soggiorno a Gerusalemme, devo confessare che più di un disinganno mi era riservato, e che troppo spesso fu messa alla prova la mia tendenza ad anticipare colla fantasia l'aspetto di luoghi celebri ed a restare quindi fredda dinanzi alla realtà. Fortunatamente io cercavo altro nel Levante che dei paesaggi e dei monumenti. È la vita orientale, ma la vita dell'Oriente cristiano questa volta, che nell'antica metropoli ebraica richiamava anzitutto la mia attenzione; e avrei potuto farmi un'idea dell'ospitalità monastica. Dopo essermi riposata via via sotto il tetto dei mufti, nei palazzi dei principi della montagna, e nelle ville dei consoli, mi apprestavo a vivere sempre più, da Beyrut a Gerusalemme, in mezzo ai numerosi rappresentanti che il mondo cattolico ha tuttora in Oriente. Era un nuovo argomento di studio che mi si offriva per distrarmi dalle aspre emozioni della vita nomade. Non avevo per altro preso congedo da questa vita ed appena esciti da Beyrut ci ritrovammo alle prese coi mille ostacoli d'un viaggio in Oriente. Non fu che dopo una marcia delle più faticose, iniziata di giorno, proseguita di notte, che raggiungemmo Seida[30], la nostra prima tappa. Una volta arrivate a Seida, ci affrettammo a battere alla porta del «Khan» francese, perchè Seida ne possiede uno ed i viaggiatori europei, che passano per questa città, lo conoscono bene. Il padrone del Khan è al tempo stesso uno dei più simpatici agenti consolari che la Francia conti in Oriente. Munita di una raccomandazione del console di Francia a Tripoli pel suo collega di Seida, vi fui accolta con una cordialità che mi fece rimpiangere vivamente di non poter farvi una sosta più prolungata sotto il tetto di quel Khan francese. Il console che mi riceveva così simpaticamente ha una numerosa famiglia, forse dieci figli. Riscuote uno stipendio scarso, garantito in gran parte dalla rendita dell'ospizio, il cui ammontare diminuisce continuamente. La carovana che veniva a sorprenderlo era composta di circa venti persone, senza contare le guide, i mulattieri e la mia scorta indigena. Non avevamo mangiato da circa ventiquattr'ore, ed avevamo passato una notte senza sonno. Nondimeno ci saremmo fatti uno scrupolo di far colazione a spese di un ospite di cui conoscevamo la situazione difficile e ci proponevamo, dopo una breve visita al console, di andare a far colazione con provviste comperate al bazar sotto i primi alberi che avremmo incontrato all'escire di città. L'estrema cortesia dei console non ci permise di eseguire un piano così ben architettato. Comprendemmo facilmente che le insistenze del nostro ospite non erano vane formole di urbanità. Alle nostre reiterate obbiezioni egli oppose argomenti irresistibili conducendoci in una sala da pranzo ove, su una tavola imbandita all'europea, fumava in nostro onore una splendida colazione. Fu necessario allora di arrendersi ed il console francese venne tanto più facilmente a capo de' miei scrupoli in quanto che l'Asia non era rappresentata in quell'imbandigione che da frutti squisiti e da eccellenti confetture. E mentre noi facevamo una così gradevole colazione il nostro seguito era trattato colla medesima liberalità, sicchè lasciammo il Khan francese con un sentimento di gratitudine che il miglior pasto non basta talora a suscitare. Ci rimaneva da raggiungere Gerusalemme il più presto possibile. Il console di Seida ci diede tutte le indicazioni necessarie e, secondo il suo consiglio, ci avviammo invece che a Giaffa a Nazareth donde un giorno o due di marcia dovevano condurci a Gerusalemme. Il rimanente di questa giornata così ben cominciata passò senza incidenti; terminò, dopo una marcia abbastanza lunga, in una locanda di Sur (l'antica Tiro). Il padrone dello stabilimento era una specie di meticcio, mezzo europeo e mezzo asiatico, il cui aspetto triste ed abbattuto ci prometteva un cibo magro, promessa che fu mantenuta anche troppo. Si deve credere che l'antica Tiro abbia esistito là dove oggi sorgono le umili case di Sur? Se è così, non è mai accaduto che una città grande e potente sia scomparsa più completamente sotto orribili ciarpami. Come? Nemmeno un fusto di colonna! Non un arco, non un pavimento! Palmira, Balbek, Ninive hanno lasciato vestigia di preziose rovine. Ove sono le rovine di Tiro? Il mare ha senza dubbio inghiottito tutta la capitale del re Hiram. Quanto a Sur, è una piccola e brutta città, senza carattere nè originalità, eretta in una pianura ove il sole di Siria non lascia crescere nessuna vegetazione. La giornata seguente fu una delle più tristi del nostro viaggio. Appena il sole era apparso sopra le montagne della Galilea, noi eravamo in cammino lieti di lasciare quella malinconica locanda di Sur. La strada che dovevamo seguire lungo il mare non aveva per altro nulla di attraente; era stata recentemente il teatro di una scena sanguinosa. Un piccolo bastimento, comandato da un capitano arabo e noleggiato da pellegrini greci, spinto sugli scogli dai venti, era venuto a naufragare presso la costa. I disgraziati pellegrini, in maggioranza donne e vecchi, riempirono tosto l'aria delle loro grida di disperazione. Furono trasportati a terra dal capitano e dai marinai arabi della navicella, in vista di una ventina di cavalieri che si erano adunati sulla spiaggia; ma man mano che sbarcavano cadevano sotto i colpi di assassini che li massacravano e si impadronivano delle loro spoglie. Non uno di quei poveretti era scampato alla morte ed il capitano arabo era sospettato d'aver provocato il naufragio per saccheggiare i passaggeri d'accordo coi cavalieri della costa. Il capitano era stato arrestato, ma s'era tratto d'impiccio col pagare una parte del prezzo del sangue. I cadaveri dei naufraghi erano rimasti esposti sulla riva senza che nessuno si desse la pena di seppellirli. Tale era per lo meno la voce pubblica, ma ebbimo la fortuna di non scorgere alcuna traccia di quel recente massacro. Secondo tutte le apparenze gli uccelli di rapina delle vicine montagne avevano già terminato il loro banchetto. L'aspetto dei luoghi che attraversavamo non era punto fatto per distrarmi dalle impressioni destate in me dal racconto del massacro di Sur. Un calore opprimente gravava su di noi. I piedi dei nostri cavalli affondavano, fin sopra la caviglia, in una sabbia cocente. Alla nostra sinistra, al posto del Libano incoronato di villaggi, avevamo le aride montagne di Galilea. Dopo qualche ora di marcia, raggiungemmo una specie di oasi costituita da qualche cespuglio con un tenue filo d'acqua che serpeggiava fra quei pochi arbusti. Ci parve prudente di sostare attendendo con pazienza all'ombra di quella macchia, che il sole cominciasse a declinare, ma dovemmo pentirci amaramente di tale decisione. Quando volemmo rimetterci in cammino ci accorgemmo che una strana malattia aveva colpito i nostri cavalli. La maggior parte delle nostre cavalcature, che sembrava avesse goduto fino allora d'una salute eccellente, non si trascinava più che con un'estrema lentezza. Madide di sudore, l'occhio spento e la pelle gelata, quelle povere bestie sembravano agonizzanti. Ci risolvemmo a mandare innanzi i più malati sotto la sorveglianza di uno dei nostri domestici, buon tedesco del Ducato di Baden, molto pio ed onestissimo, per ciò che ci risultava; poi, pensando che gli altri cavalli avrebbero sempre facilmente raggiunto la nostra avanguardia, demmo loro qualche istante di riposo. Sgraziatamente questa nuova sosta non fu meno fatale della precedente. Ci eravamo appena rimessi in cammino, quando uno dei nostri cavalli, di una buona razza d'Anatolia, si fermò fra i gemiti. L'uomo che lo cavalcava saltò a terra e si rassegnò a seguirci adagio tirandolo per la briglia. Un altro cavallo diede ben presto gli stessi segni d'esaurimento e pochi passi più in là incontrammo il nostro Badese che ci aspettava a fianco di un cavallo turcomano steso al suolo e prossimo a spirare. Egli ci confessò poi d'aver mancato di pazienza e di esser ricorso, per combattere la spossatezza del cavallo, ad un mezzo poco caritatevole, quello di spingerlo dinanzi a lui coprendolo di bastonate. Continuammo alla meglio la nostra marcia fra i lamenti dei cavalli e le imprecazioni dei cavalieri, ma malgrado i nostri sforzi il sole tramontò prima che avessimo potuto raggiungere un villaggio designato per la nostra sosta notturna e di cui credevamo di avere perfettamente ritenuto il nome. Per evitare il ritorno degli incidenti della giornata ero decisa di non fermarmi più prima di essere arrivata alla meta. Proseguivo dunque malgrado l'oscurità fidandomi delle indicazioni del dragomanno e credendo di trovarmi sulla strada del villaggio. D'un tratto m'accorsi che nella mia premura avevo lasciato dietro a me tutta la mia scorta. Non mi vedevo più al fianco che mia figlia Maria, il dragomanno e due domestici. Questi mi tranquillarono sulla sorte de' miei compagni che dicevano seguirci alla meglio rianimando le loro cavalcature. Stimolai allora di nuovo il mio cavallo mentre il nostro dragomanno ci precedeva nell'atteggiamento di un uomo che ha sempre il suo posto segnato dalla natura nelle prime fila. Illusi da una presunzione così sicura di sè, cavalcavamo dietro di lui con una ingenua fiducia che doveva ben presto essere punita. Infatti il dragomanno non sapeva meglio di noi dove andassimo. L'oscurità intanto cresceva, le rocce prendevano intorno a noi forme bizzarre, il menomo cespuglio si trasformava ai nostri occhi in un gruppo di viaggiatori in ritardo, le strida degli uccelli notturni risuonavano alle nostre orecchie come voci umane. Quanto ai nostri compagni, ne avevamo decisamente perduto le traccie. Che brutte ore si passano lottando così contro la stanchezza della marcia aggiunta alle allucinazioni dei sensi! E con qual gioia febbrile sono accolti, dopo momenti simili, i primi indizi di una abitazione umana! Fummo debitori di tal sentimento ad un profumo di aranci che ci avvolse d'un tratto come in una nube. Questo profumo benedetto ci annunciava la vicinanza d'un giardino, d'una casa, forse di un villaggio. Rianimati dalla speranza spingiamo i cavalli nella direzione di quell'olezzo inebriante e penetriamo in un labirinto di freschi boschetti irrorati da acqua corrente! Giunti tosto nel bel mezzo di un orto folto ci troviamo ai piedi di un pendio sormontato da case. Un fuoco di stramaglia al quale si scalda una vecchia donna dal viso tatuato in bianco e nero ci attira su una spianata che costeggia la collina. Domandiamo notizie del resto della scorta. «Sonvi viaggiatori nel villaggio che si scorge da qui?» — «Nessuno» risponde la vecchia. — Nessuno? ma che succederà di noi? Una donna, una bimba, due uomini ed un dragomanno, senza denaro e quasi inermi, a cavallo di bestie malate: c'era di che agitarsi seriamente. Il dragomanno ordinò alla vecchia di condurci dallo Sceicco del vicino villaggio. Essa, dopo qualche momento di esitazione, si mise a correre dinanzi a noi. Risparmio al lettore i particolari di ciò che accadde quando la seguimmo in un villaggio diverso di quello in cui ci aspettava la nostra scorta e, scoperto quest'inganno, raggiungemmo finalmente i nostri compagni accampati come potevano in una casa araba del primo villaggetto che avevamo scorto. Questi incidenti mi ricordarono altre noie di cui già avevo avuto occasione di parlare narrando le mie prime impressioni di viaggio. La notte che seguì una peregrinazione così laboriosa non mi procurò per colmo di sventura alcun riposo. La camera che mi attendeva non era coperta dal tetto che a metà e il vento che vi turbinava a suo agio sollevava le ceneri del focolare in guisa da rendere impossibile il sonno. Malgrado gli inconvenienti di un asilo così misero, ci decidemmo a passarvi la giornata seguente per medicare i nostri cavalli e numerare le nostre perdite. Avevamo in tutto tre cavalli morti e tre altri gravemente ammalati. Ma cos'era questa malattia? Avevano mangiato qualche erba velenosa? Avevano bevuto troppo presto dopo il loro pasto d'orzo? Il cavallo d'Oriente abbeverato prima del tempo è di fatti colpito sovente da una paralisi, che si cura con bagni freddi alternati a moto forzato. Del resto nessuno di noi seppe scoprire la causa del male che ci aveva fatto passare una così triste giornata dalla nostra partenza da Sur. Quelle povere bestie erano state trasportate in una prateria all'ombra di fichi, ove le nostre tende erano state rizzate. Il cadavere di uno de' miei cavalli favoriti, ch'era fra i morti, era stato deposto poco lontano; dovemmo faticar molto a strappare di là, quando giunse l'ora della partenza, un grosso mastino stabilitosi a sentinella per scacciare gli uccelli di rapina e gli sciacalli che ronzavano intorno. Strana cosa queste affezioni che si stabiliscono fra taluni animali e che si possono osservare sopratutto in Oriente! In un paese ove i rapporti degli animali cogli uomini sono rari, essi tendono ad associarsi fra loro e serbano una specie d'indipendenza assai più interessante a parer mio della sottomissione delle razze addomesticate dei nostri paesi. Il martedì della settimana Santa giunse quando camminavamo di buon mattino sulla via di Nazaret con una pioggia dirotta tra i valloncelli ai quali sovrastano le montagne della Galilea. Essi sono deliziosi coi loro lauri, con mirti alti come le nostre quercie e che intrecciano le loro ombre sulle aiuole verdi e fiorite. Salvo una caduta che feci, ma che, per l'abilità del mio buon cavallo Kur, non ebbe alcun seguito pericoloso, la giornata si era svolta normalmente. Non ebbimo altro guajo fuor dell'arrivo a Nazaret a notte fatta, quando poche luci sparse nella campagna ci preannunciarono sole il celebre villaggio. Entrammo nelle sue strade senza poter distinguere nulla intorno a noi, sinchè la nostra carovana si fermò dinanzi alla porta d'una casa d'aspetto europeo. Un frate francescano stava sulla soglia con una fiaccola in mano. Avevamo raggiunto il nostro asilo; e non fu senza una profonda emozione che udii il monaco darmi il benvenuto in italiano e con quell'accento del settentrione della penisola al quale la mia infanzia è stata avvezzata. Provavo una gran gioia a sentir risuonare sotto la volta di un chiostro orientale le pie formule che avevano così spesso eccheggiato alle mie orecchie nelle campagne di Lombardia. E perchè lo nasconderei? I canti dei mufti e la glorificazione del santo nome di Allah cominciavano a stancarmi alquanto. Non avevo nulla a ridire contro il Dio dei mussulmani; ma sapevo ormai che pensare di coloro che lo invocano dal gorgo delle sensualità con labbra corrotte dalla menzogna. Mi sembrava che il Dio dei cristiani era ben differente; così la mia anima, rimasta fredda alle solenni invocazioni dei mufti, si associava con slancio alle umili preghiere del frate di Nazaret indirizzate alla Vergine Maria ed a San Francesco. Con questo arrivo a Nazaret io entrava in un mondo interamente nuovo. Avevo visto la società mussulmana, sapevo quali fossero nell'Asia Minore i risultati del regime creato dal Corano. Quale poteva essere in Oriente l'azione del Cattolicismo? Come mantiene la sua influenza fra sette rivali e di fronte alla religione mussulmana? Mi ponevo questi problemi, mentre ammiravo la bella cameretta ove stavo per passare la notte. La casa dove ero scesa a Nazaret apparteneva al convento dei Cappuccini; è specialmente destinata ai viaggiatori, perchè le donne non sono ammesse nell'interno del convento. La mia camera era a volta, secondo l'uso di tutti gli appartamenti in Palestina ed era scavata in una specie di torre. Un letto di ferro, un mobilio semplice e comodo, tutto mi vi ricordava la buona ospitalità dell'Europa... e nondimeno io mi trovava a Nazaret! Entravo in una regione consacrata dall'adorazione di tutte le epoche. M'ero dapprima rammaricata di dover giungere a notte alta; qualche ora più tardi me ne rallegravo perchè avevo così ritardato una prova penosa e singolare alla quale ho già accennato, vale a dire l'incapacità di trarre dalla vista reale dei luoghi celebri le emozioni che me ne procura in qualche guisa la contemplazione interiore ed anticipata. Avevo già provato una delusione analoga ad Atene ed a Roma. Mi ricordo ancora d'aver invidiato, nella pianura di Maratona, l'emozione che il ricordo di Temistocle suscitò in uno de' miei compagni di viaggio. Quest'uomo intelligente e colto aveva uno spirito più positivo che poetico; ma io vidi una lagrima scorrere sulle sue guancie e per me, lo confesso a mia vergogna, tutto ciò che potei osservare nella mia visita a Maratona fu che in quel giorno vi faceva molto caldo. Finalmente si levò il sole ed io corsi alla mia finestra impaziente di paragonare la realtà collo spettacolo adombrato tante volte in sogno. Ed ecco ciò che potei vedere. La casa dei Francescani, fabbricata nella parte bassa della città, che è scaglionata sul pendio di un monte, dominava da un lato il fondo della valle, mentre dall'altro guardava la città che si svolgeva in anfiteatro sopra la mia testa. Il colpo d'occhio era ammirevole. Casette bianche, intramezzate da fresche ombre, fra le quali spiccavano i fiori purpurei del melograno, risaltavano vigorosamente sulla terra rossiccia. Tutto il paesaggio era una festa per gli occhi; ma, ahimè, invano io cercava fra le donne arabe di Nazaret i tipi che si era foggiata la mia immaginazione, invano invocavo i grandi ricordi della Bibbia e del Vangelo. Nulla valeva ad eccitare in me quell'entusiasmo che tanti spiriti eletti aveano provato messi in presenza di quegli stessi luoghi. Umiliata e scoraggiata andai alla ricerca del Padre Cappuccino che doveva farmi gli onori di Nazaret. Egli mi addusse alla chiesa dell'Annunciazione, poi nei vari santuarii eretti nelle località indicate dalle Scritture. Senza discutere l'autenticità del monumenti di Nazaret, dirò soltanto in cosa consistano. La chiesa dell'Annunciazione, piccola e bizzarramente costrutta avendo la navata centrale meno profonda di quelle laterali, sovrasta ad una cappella sotterranea ove vien mostrata la colonna dinanzi alla quale la Vergine sarebbe stata inginocchiata quando ricevette la visita del Messaggero Celeste. Osserviamo frattanto che i padri di Terrasanta collocano in grotte sotterranee il teatro di tutti i grandi avvenimenti dell'antico e del nuovo Testamento. Questa circostanza si spiega colle abitudini che durano ancora in quella popolazione che scava volentieri le sue dimore nel fianco dei monti. A Nazaret la vita deve esser stata parecchi secoli or sono tal quale è attualmente. Mi fu additata ancora una cappella eretta sul posto ove Gesù Cristo si rifocillò co' suoi discepoli, un'altra destinata a consacrare gli avanzi della casa abitata da Giuseppe. La cappella ha muri imbiancati a calce e finestre adorne di tendine bianche colorate in rosso. Ripugna di collocare in un luogo simile le scene dell'infanzia di Gesù. A dir il vero l'origine delle indicazioni che si danno qui sulle varie località illustrate dalle scene del Vangelo non rimonta al di là dello stabilirsi a Gerusalemme della Custodia di Terrasanta. Quei buoni frati sono stati i grandi raccoglitori delle tradizioni locali. Su tutti i punti che esse segnalavano alla nostra venerazione, hanno eretti santuarii e monasteri. Come si potrebbero biasimare d'un eccesso di credulità che testimonia dopo tutto di una fede ardente? Val meglio accogliere le loro narrazioni colla simpatia che merita ogni slancio d'ingenua religiosità, ma colla riserva eziandio che bisogna recare sempre di fronte a testimonianze trasmesse, e spesso fors'anche alterate, dalla tradizione orale. Il paese che si attraversa da Nazaret a Gerusalemme è l'antico regno di Giuda; la popolazione che l'abita è oggi come un tempo temuta per il suo carattere feroce e per la sua scostumatezza. Sulla strada da Nazaret a Gerusalemme s'incontra anzitutto Naplusa, l'antica Samaria, dopo aver oltrepassato una pianura incolta e deserta, sulla cui sinistra sorge il Monte Tabor. Dinanzi al viaggiatore si svolgono paesaggi votati alla siccità; una atmosfera infuocata vi stanca il petto dell'uomo e denuda il suolo da qualsiasi vegetazione. Le torture della sete divengono insopportabili. Quanto ai buoni samaritani di cui parla il Vangelo, non conviene cercarli in quelle cittaduzze inerpicate sulle vette dei monti vicini e che evita ogni pellegrino prudente. Le nostre guide, due cristiani cattolici di Nazaret, ci raccontavano lungo la strada storie poco rassicuranti che concordano troppo bene coll'aspetto sinistro della contrada. La nostra prima notte trascorse a Gienim, piccola borgata ove fummo ospitati nella casa di un medico che per il momento si trovava a Gerusalemme. L'indomani riprendemmo la nostra marcia attraverso solitudini alpestri in cui non si poteva disconoscere la bellezza dei contorni. Roccie di forme bizzarre si sovrapponevano intorno a noi, macchiate qua e là sui dorsi rossastri da zone scure che vi indicavano abitazioni umane. In riva ai torrenti inariditi crescevano lauri rosati ed ulivi secolari. Avvicinandomi a Naplusa, il carattere fosco di quelle lande desolate, che vieppiù si accentuava, mi ricordava, quasi a mio malgrado, la storia sanguinosa dei re di Giuda. Su quelle vette scoscese erano stati eretti i templi di Baal; in quei selvaggi valloni avevano echeggiato i canti blasfemi. Con qual piacere salutavamo le oasi che recano in mezzo a quelle sabbie ed a quelle pietre la freschezza delle vive sorgenti ed il profumo dei fiori di campo! Ma le oasi sono purtroppo molto rare e non consiglierei mai ai temperamenti melanconici, come una distrazione, un viaggio nell'antico regno di Giuda. Il più intrepido esploratore che fosse condotto cogli occhi bendati da Marsiglia ai dintorni di Naplusa sarebbe colto da un senso di terrore al cadergli della benda che gli scoprisse per la prima volta quella terra sciagurata. Naplusa contrasta coll'orrore dei luoghi circonvicini. Protetta da boschi di ulivi e di fichi, l'antica Samaria mi sembrò un asilo delizioso e sarei stata felice di riposarmi in quella città dalle fosche impressioni che mi avevano accompagnata a partire da Nazaret. Ma eravamo al Venerdì Santo, non ci rimaneva che un giorno per arrivare a Gerusalemme per le feste di Pasqua. Dovevamo passare la notte in un villaggio a due leghe da Naplusa. Forti della nostra decisione, senza entrare in Naplusa proseguimmo verso la nostra meta ancora lontana traversando le montagne sulle quali è tuttora additato il pozzo di Giacobbe, quello stesso accanto al quale il Cristo incontrò la Samaritana. Agli ultimi bagliori del crepuscolo, scorgemmo un ammasso di pietre recinto da un piccolo muro in rovina; era il celebre pozzo. Debbo soggiungere che alcuni de' miei compagni, che ci raggiunsero lì accanto dopo aver seguito un'altra strada, avevano veduto per conto loro un pozzo designato come il teatro del colloquio di Gesù colla donna di Samaria. Qual'è la vera tradizione? Dovetti rinunciare a scoprirla. La giornata seguente doveva terminare a Gerusalemme. Durante la nostra marcia verso la città santa noi incontrammo parecchi arabi che ritornavano da una festa costituente, secondo mi si disse, la Pasqua mussulmana. Per la prima volta potei osservare testimonianze non equivoche dell'odio dei maomettani contro i Cristiani. Gli uomini che si scontravano con noi ci lanciavan dietro ingiurie e maledizioni grossolane. Fui sul punto di perdere la pazienza e di chieder conto a quei burberi pellegrini della loro condotta inurbana. Fortunatamente avevo messo in quel giorno nell'arcione della mia sella un volume di «Don Chisciotte» e mi bastò per riacquistare la calma di gettare gli occhi sul romanzo ironico del Cervantes. Più tardi a Gerusalemme riconobbi che un piglio schietto e qualche frase scherzosa mantengono senza troppa fatica i buoni rapporti fra il cristiano e l'arabo più fanatico. Bisogna fare attenzione di non mostrare a quest'ultimo collera o paura che l'arabo interpreta come sintomi di debolezza e che lo rendono allora spietato. Miss Harriett Martineau attribuisce al suo abito la cattiva accoglienza che riceveva spesso dagli orientali. La malevolenza di cui essa si lagna tocca a tutti i cristiani che non sappiano recare fra le popolazioni mussulmane una forte dose di tatto e di buona volontà. Al momento in cui facevo queste riflessioni, la giornata volgeva al termine. Già da qualche tempo osservavo che i villaggi appollajati sulle montagne divenivano più numerosi, e che i gruppi dei viaggiatori, che andavano e venivano intorno a me, si moltiplicavano. Il sole stava per coricarsi dietro alle montagne prossime al mare, quando scorsi le mie due guide immobili ed a capo scoperto sul vertice del pianoro che sorgeva a pochi passi di distanza, e corsi a raggiungerli. Ciò che le mie guide avevano scorto erano le mura merlate di Gerusalemme che coronavano una collina posta di faccia al pianoro. Dietro a quelle mura una linea azzurrognola che si fondeva nell'orizzonte indicava il mare di Galilea. Mi abbandonai per un tratto alla contemplazione di quel grandioso spettacolo. Uno strano tumulto si rivelava in me; sentivo contrarsi la mia gola ed i miei occhi riempirsi di lagrime, come se avessi ritrovato una patria più antica di quella da cui era esiliata. Cosa strana, questa sensazione di benessere, di gioja intima non mi lasciò mai durante il mio soggiorno a Gerusalemme. L'arrivo in questa città sconosciuta aveva per me tutto il fascino del ritorno. Alcuni minuti di buon galoppo ci condussero sotto le mura di Gerusalemme e davanti alla porta di Damasco. Non lontano da questa sorge la casa che i francescani tengono a disposizione dei viaggiatori, e le ombre della notte scendevano appena sulla città quando smontammo dinanzi all'ospizio che era ingombro di pellegrini. Si trovò per altro per me una camera abbastanza comoda, mobiliata all'europea, ciò che aveva un gran valore ai miei occhi. Ben presto vi fui insediata e vi passai in un raccoglimento pieno di serenità la prima notte del mio soggiorno nella città del Cristo. I MONUMENTI DELLA BIBBIA E DEL VANGELO A GERUSALEMME L'indomani era alzata di buon mattino per recarmi con uno dei Padri alla chiesa del Santo Sepolcro ed al Calvario. Mi ero sempre immaginata il Calvario come una collina dominante la città santa, e non fui poco sorpresa di dover seguire per giungervi una strada in discesa. La Chiesa del Santo Sepolcro è costruita in una depressione: non mi fermerò a descrivere l'interno. Se non avete letto le numerose narrazioni dei pellegrini che l'hanno visitata, potete figurarvi una chiesa cristiana del Medio Evo, non ancora terminata, che offre le linee curve, le vaste arcate che si possono osservare negli antichi monasteri lombardi di Pavia e di Monza. A sinistra della porta si erge una grande torre mezzo diroccata; a destra sporge come un saliente una cappelletta sormontata da una cupola. Chi entra nella basilica si trova dapprima in un ampio vestibolo che contiene nel muro di sinistra una specie di palco riservato al «Cadi» mussulmano ed ai suoi assessori. Questo tribunale permanente sarebbe stato richiesto (mi fu riferito dagli stessi cristiani) come il solo mezzo di porre un termine ai conflitti delle tre comunioni cristiane che si scontrano nella chiesa. Pochi passi più in là si giunge nel corpo principale della basilica, cioè in una rotonda che ha i lati guarniti di cappelle e nel centro un altar maggiore. Presso l'altare una piccola porta bassa conduce nel santuario che racchiude la tomba del Cristo. Una camera quadrata in fondo alla porta d'ingresso è riservata al culto greco. Ecco tutto il monumento. Ciò non vuol dire che ci si debba fermare a quest'aspetto generale poco significativo; l'interesse proviene dall'esame dei particolari e sopratutto delle varie cappelle contenute nel recinto della chiesa. La mia attenzione fu attratta innanzi tutto dalla cappella dei Cristiani d'Abissinia[31]. Essi erano abbastanza numerosi quel giorno dinnanzi all'altare, ed il loro aspetto mi colpì. Uomini d'alta statura, di tratti regolari, non ricordavano la razza africana che coi loro capelli crespi, il colorito bruno e le labbra un po' spesse. Una sorta di sajo in tela bleu, un mantello dello stesso colore, un largo turbante e dei sandali componevano il loro vestiario. Dopo la cappella degli abissini ne visitai parecchie altre; ad ognuno degli episodi della Passione corrisponde un santuario. Come supporre che uno spazio così ristretto come quello della chiesa del santo Sepolcro, costruito sul posto stesso sul quale sorgeva il Calvario, sia stato sufficiente allo svolgimento di tanti diversi episodi del grande mistero? I protestanti criticano questa pretesa dei cattolici di rintracciare e venerare tutti i luoghi citati nel Vangelo. Confesso che su tutta questa topografia sacra io non ho che dei dubbi, per quanto la buona fede dei frati mi sembri evidente, ma ho già detto con qual sentimento mi paja che si debbano accogliere le loro ingenue indicazioni. Esciamo ora dal Santo Sepolcro, cerchiamo i ricordi di Gerusalemme in luoghi un po' meno frequentati dai viaggiatori. Le mura della città santa non sono uno de' suoi monumenti meno curiosi. Se havvi una città al mondo che serbi intatte le fortificazioni delle quali fu dotata dal Medio Evo, è certo Gerusalemme. Le basi di queste fortificazioni dal lato della valle di Giosafat e del monte degli ulivi sono immense pietre levigate di quindici a venti piedi di lunghezza per sette od otto di altezza e che sono fatte risalire fino al re Salomone. Ho veduto a Balbek un pezzo di muro presso a poco simile che è attribuito agli Assiri, ed è certo che tali costruzioni non appartengono ad alcun stile dell'architettura europea. D'altronde quel lato delle fortificazioni di Gerusalemme è appunto quello che si accosta al tempio costruito da Salomone od almeno al posto che esso occupava. Mi sembra dunque che nulla si opponga a che quelle mura gigantesche siano state collocate al tempo e per ordine del grande re degli ebrei. Gerusalemme è situata su una altura che si eleva gradatamente dal lato di settentrione e domina a picco la stretta valle dal lato opposto, mentre all'Oriente ed all'Occidente il suolo che la circonda degrada lentamente fino alle rive del Cedron o piuttosto del suo letto, che è tutto ciò che rimane di quel torrente. Se seguiamo dal di fuori le mura gerosolimitane da settentrione a ponente e da ponente a mezzogiorno, troviamo prima un ciglione poco alto che si stende sulla destra e forma così una spianata quasi al livello della città santa. È il solo posto in cui le mura della cinta fortificata non dominano interamente il paese all'esterno. Questo monticello è la «Città di Davide» di cui gli Armeni hanno fatto il loro cimitero, e che, senza serbare alcuna traccia del suo antico splendore, non è per questo meno visitato da tutti i pellegrini che vi sono attratti da due monumenti celebri. Uno è la sala in cui Gesù Cristo sedette per l'ultima volta a tavola co' suoi discepoli, l'altro una cameretta ove passò la prima notte dopo il suo arresto ed udì il canto del gallo che ricordò a San Pietro la profezia del divino Maestro e la propria debolezza. Il primo di questi monumenti è oggi la residenza di un derviscio o santone mussulmano che l'insudicia con tutta la sporcizia inerente a quella specie miserabile di uomini. È uno spettacolo penoso e ripugnante quello di un tal luogo trasformato in una tana ed occupato da ciò che l'umanità ha di più immondo e spregevole. Giustizia vuole però che io aggiunga come questa profanazione non indichi nè disprezzo nè intenzioni ostili. Se i maomettani disdegnano ed odiano i cristiani, non estendono questi sentimenti nè al Cristo nè al cristianesimo. Anzi è probabilmente con un proposito rispettoso che hanno posto in tale luogo un essere che la loro religione li induce a venerare; ma è colpa delle cose più ancora che degli uomini se la personificazione divina della purezza non può essere convenientemente onorata dagli adoratori dei sensi. Quando si è veduta la dimora di un santone, non è più possibile dubitare dello stretto legame che esiste fra l'impurità dell'anima e quella del corpo. Il secondo di questi monumenti, di cui gli Armeni si sono impadroniti a scapito dei Latini che lo possedevano un tempo, ha un aspetto ben diverso. Una piccola corte lastricata in marmo bianco e circondata da un portico a volta e piuttosto basso racchiude le tombe dei vescovi della Comunione armena. Una cappella forma il lato meridionale della corte e non si potrebbe trovar nulla di più elegante, pulito ed accurato dell'interno dì quel santuario, intarsiato di piastrelle di majolica smaltata, genere di ornamento molto diffuso nel Levante. Una porta alla sinistra dell'altare si chiude su una celletta così piccola che si fatica a credere abbia mai potuto esser destinata a contenere una creatura umana. Sarebbe là che Cristo avrebbe dovuto esser lasciato tosto dopo il suo arresto al monte degli ulivi. Non è infatti una prigione propriamente detta, ma un locale temporaneo di detenzione per deporvi i catturati in attesa del loro interrogatorio. Tal quale è oggi questa celletta assomiglia allo spogliatojo di una cappella di un bel castello di campagna. Continuando a seguire esternamente le mura di Gerusalemme da ponente a mezzogiorno si scopre ben presto la valle di Giosafat che non è altro in realtà che il letto del Cedron prosciugato, chiuso da un lato dal colle che serve di base a Gerusalemme, dall'altro dal monte degli ulivi. Un villaggetto arabo, che è tuttora chiamato Siloe, occupa il fondo del vallone alla sua estremità occidentale là dove comincia un poco ad aprirsi. Quasi in faccia a questo villaggio, ai piedi della collina di Gerusalemme, scorre dolcemente l'acqua della fontana di Siloe. Un muro quadrangolare grossolanamente costruito raccoglie anzitutto le sue acque che vanno poi ad irrigare i giardini del paese. Più lontano, sempre nel fondo della valle, ma dal lato di Siloe, tre piccoli edifici di forma bizzarra racchiuderebbero gli avanzi di Assalonne e di due de' suoi compagni. Subito dopo si scorge quasi ai piedi del monte degli ulivi un muro bianco che serve di chiusura ad un rettangolo di terreno sul quale crescono ulivi secolari e contorti. È il giardino degli ulivi e fu il rifugio prediletto di Colui che ha dimora nei Cieli. Nessuno potrà questa volta contestare che sia quello il giardino degli ulivi. Sebbene il muro di cinta sia moderno e possa racchiudere qualche braccia di più o di meno dell'antico giardino, tutta questa parte della collina è coperta di ulivi vecchi e, se non è sotto uno di essi che si sedette il Cristo per piangere sopra Gerusalemme, alcuni di quelli che vediamo oggi ne derivano di certo. Un frate della Custodia di Terrasanta passa tutta la giornata dall'alba al tramonto, senza escire da questo recinto; vi coltiva qualche fiore e riceve i viaggiatori che la pietà o la curiosità vi attirano. Questi alberi sono immensi e numerosi virgulti circondano le radici mezzo scoperte. Ho invidiato la vita di quel monaco. La solitudine in un bel giardino, all'ombra di alberi che si collegano coi più grandi ricordi dei quali possa essere pervaso lo spirito umano, ha in sè un fascino che forse è senza eguali nel mondo. Un ponte gettato sul fondo della valle ove scorre il Cedron riunisce la città al monte degli ulivi. Questo ponte e la strada che sale il pendio separano il giardino degli ulivi da un gran monumento in cui sono conservati gli avanzi mortali della Madonna. Tale per lo meno è la fede di tutti i cristiani orientali, che si sono contesa e si contendono tuttora la proprietà di quella tomba con un ardore appassionato. La cappella, poichè è tale, ove si scende da una larga scalinata è ampia e bella; ma il clero latino non ha il permesso di celebrarvi i divini uffici. Dietro a questa cappella si trova la grotta ove Gesù Cristo si sarebbe ritirato vedendo avvicinarsi i soldati che venivano ad arrestarlo e dove sarebbe stato infatti preso e legato. Alcuni altari eretti nell'interno di questa grotta sono proprietà del clero latino. Il monte degli ulivi non è che una collinetta vicino alla quale sorge una moschea. La pietra ove il Cristo era in piedi quando fu assunto in cielo e che serberebbe, secondo dicono, la sua impronta, è conservata nel recinto di questa moschea e riceve gli omaggi dei cristiani come dei mussulmani. La distanza da questo luogo a Gerusalemme è poco rilevante ed è dalla finestra di un piccolo belvedere annesso alla moschea, che ho veduto la città santa sotto il suo aspetto, non dirò solo il più bello, ma il più soddisfacente. L'occhio ne abbraccia l'insieme senza perdere alcun particolare. Per noi altri cristiani sopra tutto, che siamo condannati a non vedere il tempio, (attualmente moschea d'Omar) che dal tetto d'una caserma, è una vera fortuna questo belvedere. Gli eruditi affermano che tutto quello che esiste attualmente là dove Salomone aveva innalzato il suo meraviglioso edificio è una costruzione mussulmana[32] ed io mi asterrò, seguendo la mia norma prudente, dall'immischiarmi in una simile discussione. Posso dire però che la moschea di Omar non assomiglia ad alcuna delle numerose moschee che coprono tutta l'Asia. Le moschee sono di solito precedute da una corte, circondata da alte mura, alberata e rallegrata da una fontana. Quella di Omar è invece collocata nel mezzo di un immenso spazio vuoto, la cui forma quadrata è determinata da frazioni di portico poste ad intervalli. Le moschee sono in genere composte di una riunione di costruzioni svariate, come tombe, celle per alloggio dei dervisci, fachiri o santoni, una sala per la danza dei dervisci ecc., oltre lo spazio aperto a tutti i fedeli mussulmani che vanno a farvi le loro preghiere. Ignoro la disposizione interna della moschea d'Omar; può darsi che l'abbiano divisa in tanti appartamenti quanti sono i giorni dell'anno, ma nulla rivela all'esterno un tale adattamento che risulta evidente in tutte le altre moschee. Se apro ora la Bibbia e leggo il capitolo sulla costruzione del Tempio di Salomone, vi ritrovo il grande spazio vuoto, il portico ed il colonnato in giro, infine tutto ciò che rende la moschea d'Omar così diversa dalle altre. Dal canto mio, siccome dopo tutto le opinioni sul Tempio di Salomone e sulla moschea d'Omar sono libere, preferisco pensare che rimanga qualcosa del primo nella seconda. La salvezza del mondo, se si dovesse credere ai mussulmani, è connessa alla rigida applicazione della regola che tien lontani gli infedeli dalla moschea d'Omar, ed ho rischiato di procurarmi un guajo serio quando scorgendo, sotto una volta che conduce alla moschea, delle finestre ogivali che mi ricordavano la vecchia e cara Europa, feci qualche passo per esaminarle meglio. Ero ancora sotto la prima arcata e mi ero fermata a guardare le mie ogive quando un gigante snello, quasi nero e quasi nudo, si accostò non a me, ma agli uomini che si trovavano vicino a me, con una violenza di gesti e d'intonazione che rendevano la sua barbara loquela fin troppo intelligibile. Era evidente che ci minacciava di tutto il suo furore se non ubbidivamo a ritirarci immediatamente. La mia avversione per ciò che noi italiani chiamiamo prepotenza, mi dava una gran voglia di camminare diritto dinanzi a me; ma un ottimo vecchietto che si era fatto per quel giorno il mio cicerone si mostrò tanto allarmato e desolato, parlò all'arabo con tale rapidità e prolissità che credetti di dovermi rimettere, per riparare i miei torti, alla prudenza ed all'eloquenza della mia guida, ed era senza dubbio il miglior partito da prendere. L'arabo non ci lasciò che dopo averci visto retrocedere. Gerusalemme non è solo la città del Cristo, è anche quella dei Re e dei Profeti. Accanto ai ricordi del Vangelo vi si incontrano quelli della Bibbia. A Gerusalemme vi sono anzitutto le grotte d'Isaia ed i sepolcri dei Re; nei dintorni della città i giardini di Salomone, più lontano ancora il Giordano e il Mar Morto. Riassumendo qualche impressione su questi luoghi spesso descritti, completerò la mia peregrinazione attraverso la Gerusalemme storica ed a' suoi dintorni, per passare quindi alla Gerusalemme vivente, in mezzo alla quale ho trascorso i primi giorni della primavera del 1852. Le grotte d'Isaia mi hanno offerto l'occasione di osservare una volta di più il gusto col quale gli Orientali, Turchi od Arabi, sanno scegliere per le loro case i luoghi più pittoreschi. A pochi passi da Gerusalemme, in mezzo a campagne ombreggiate da ulivi magnifici, sorge una collina rossastra ed entro le sue pareti è stato scavato uno stretto passaggio. Questo passaggio conduce alla grotta d'Isaia, ampia cavità tappezzata di arrampicanti. Fra il passaggio e l'ingresso della grotta si osserva una specie di giardinetto all'ombra di un vecchio fico dai rami molto larghi. Vive colà un santone che mi sembrò assai felice. Non so se questi monaci mussulmani facciano voto di povertà, ma sono convinta che non possiedono nulla e che quest'estrema indigenza non pesa loro affatto. Il santone della grotta d'Isaia ha un vantaggio sui suoi confratelli, di condurre cioè quella strana vita di fronte ad una magnifica natura. Dà prova di un gusto squisito nella scelta della sua residenza e questo gusto distingue, lo ripeto, tanto gli arabi che i turchi. Gli uni e gli altri sanno sempre trovare per i loro villaggi la postura più comoda, le ombre più fresche e le acque più limpide. Dalla grotta d'Isaia non occorre camminar molto per giungere al sepolcreto degli antichi re d'Israele. Per poco che ci si inoltri, in mezzo a quel labirinto di boschetti e di roccie, si va presto a battere contro un vecchio muro, che serve da cinta ad una specie di corte. Sulla porta è scolpito un bassorilievo raffigurante una ghirlanda di pampini, che mi sembra difficile di poter attribuire all'epoca dei re d'Israele ed alla nazione ebrea. Si passa ginocchioni sotto questa porta. Si entra ancor meno facilmente nelle sale sotterranee che costituiscono il sepolcreto. Queste sale sono vuote; un tempo comunicavano fra loro mediante porte massiccie in pietra che sono state scardinate e giacciono al suolo. La sola impressione che produce questa necropoli è il desiderio di allontanarsene, di varcarne la soglia il più presto possibile, tanto è stretta che ai visitatori sembra di essere condannati al carcere perpetuo. Allontaniamoci ora un poco; traversiamo Betlemme, bel villaggio quasi intieramente costruito in pietra bianca e posto sul fianco dirupato di un monte: andiamo verso i giardini di Salomone. Ci piace credere che il Cantico dei Cantici sia stato inspirato da quelle fresche ombre. L'impressione prodotta da quell'asilo delizioso è tanto più viva, in quanto che per giungervi occorre affrontare una marcia faticosa attraverso ad una delle regioni più aride della Giudea. Effettivamente i miei occhi non avevano mai veduto lo spettacolo di più ricche aiuole di fiori olezzanti, nè mai canti di uccelli più melodiosi avevano risuonato alle mie orecchie. Stavo forse per veder apparire il Re e la Sunamite in mezzo a quel paesaggio fatato? Ero quasi tentata di crederlo, allorchè uno spettacolo molto inatteso venne a dissipare le visioni che mi sforzavo di evocare, e mi trovai frammista ad una «party» inglese. Una di quelle colonie britanniche che si incontrano su tutti i punti del globo si era impossessata per la stagione estiva dei giardini di Salomone e li aveva presi in affitto, come si può fare di una casa di campagna a Saint Cloud o di una villa a Capo di Monte. Tende di forma e di colore variate formavano l'abitazione della società; ma durante il giorno erano vuote e tutto lo sciame si godeva la prateria ed i boschetti. Vi erano signore in abito da mattina altrettanto corretto che se avessero abitato un castello in piena Inghilterra, poi un'ondata di signorine giovani vestite di bianco che lasciavano scendere le loro treccie sparse di nastri celeste e rosa, sulle loro spalle scoperte. Un poco più in là scorsi un gruppo di «gentlemen» in costume di caccia intenti ai lavori della campagna. Venni a sapere che la colonia era composta di missionari che si erano proposti il compito di additare agli arabi, e specialmente agli ebrei, i risultati salutari delle società bibliche e degli aratri brevettati. Non si può negare che sia un pensiero poetico e gentile quello di valersi dei giardini di Salomone per introdurre in Palestina i benefici della civiltà; ma è un'idea sterile che naufragherà certo contro l'invincibile forza d'inerzia di quelle popolazioni. Volete sapere ora qualcosa di un'escursione al Giordano od al Mar Morto? Per questo complemento di rito di un pellegrinaggio a Gerusalemme è prudente assicurarsi una buona scorta. Il pascià di Gerusalemme, al quale avevo annunciato la mia intenzione di visitare le rive del Giordano, mi aveva posto sotto la protezione di uno sceicco arabo, singolare protettore che era, dovetti presto convincermi, l'agente degli sceicchi del deserto, incaricato di farsi pagare un riscatto dai viaggiatori a casa loro. Lo sceicco arabo, vecchio di una sessantina d'anni, venne infatti a trovarmi due giorni dopo la mia visita al pascià e mi presentò una specie di passaporto che mi avrebbe immunizzata, secondo lui, da qualsiasi cattivo trattamento delle tribù del deserto durante tutto il mio viaggio, ma che non mi dispensava per altro dall'assoldare una scorta e mi obbligava anzi a pagare cento piastre a testa, in parte prima della partenza ed in parte al ritorno. Questo metodo nuovo e pacifico di spillare quattrini ai viaggiatori deve essere estremamente redditizio, perchè la sola nostra gita al Giordano faceva passare nelle mani degli arabi mille duecento piastre. Una volta che ciò fu deciso, ci mettemmo in istrada verso le nove del mattino con alcune persone del consolato di Francia che si erano unite a noi. Io avevo l'animo oppresso e lo spirito inquieto. Temevo per mia figlia i calori deprimenti che regnano sulle rive del Giordano e del Mar Morto. La nostra spedizione, fortunatamente, non ebbe alcuno strascico dannoso per quanto abbia messo più di una volta alla prova il nostro coraggio. Da Gerusalemme al convento di San Saba, meta della nostra prima tappa, la distanza non è lunga, ma possono bastare poche ore per far molto soffrire. Cavalcavamo fra roccie che colla loro bianchezza smagliante e coll'assoluta aridità ci rendevano doppiamente penoso il riverbero della luce e del caldo. Finimmo per dimenticare un momento le nostre sofferenze scorgendo una stretta gola dominata da montagne ed il cui fondo scompariva sotto un'agglomerazione di blocchi giganteschi. Quel dirupo era il letto diseccato del torrente Hebron. Una delle montagne che lo stringono ci appariva scavata da numerosissime grotte nelle quali si asserisce che abbiano vissuto San Saba ed i suoi discepoli; l'altra montagna, che sorge sulla riva sinistra del torrente, è coperta da diversi edifici, case, chiese, fortilizi circondati da un solo muro di cinta. Questo gruppo di fabbricati non è una rocca come si potrebbe credere, ma il convento di San Saba, proprietà della chiesa greca ed abitato da monaci che dovettero sostenere parecchi assedi per difendere i loro ricchi beni dai tentativi degli arabi. Per solito, l'ospitalità dei monaci greci di San Saba è molto fastosa, ma era loro accaduta pochi giorni prima della nostra visita una curiosa avventura. Parecchi giovani inglesi, muniti di lettere di raccomandazione del Patriarca greco per il superiore del convento, avendo avuto da lamentarsi del ricevimento loro fatto dai monaci, non avevano trovato altro di meglio che picchiare di santa ragione i venerandi padri, più avvezzi a valersi della loro artiglieria contro gli arabi che a respingere un assalto di box e di bastone. Da che quei temibili ospiti li avevano lasciati, i frati greci di San Saba, avevano giurato di non aprir più il loro convento a verun straniero, se anche recasse una lettera dello stesso Czar ortodosso. Pertanto quando, esausti di sete e di stanchezza, battemmo alla porta del monastero, non ottenemmo altro esito che di richiamare sul bastione un monaco che brandiva un'enorme pietra minacciando di gettarcela sul capo se ci fossimo fermati più a lungo. Il nostro sceicco arabo intervenne allora e chiese, non di poter entrare nel monastero, ma di poter comprare qualche provvista. Queste trattative fecero accorrere sulle mura altri frati armati di fucili coi quali ci prendevano di mira. Eravamo sul punto di accettare battaglia, quando un nuovo sforzo d'eloquenza dello sceicco ebbe finalmente ragione della resistenza dei monaci che consentirono a calare dall'alto di quel bastione colle corde qualche secchio ricolmo di un'acqua tiepida che ci dividemmo avidamente. Solo gli uomini a cavallo della nostra scorta araba rifiutarono di bagnarvi le labbra. Avvezzi alla vita sobria del deserto, essi non provavano alcuna delle sofferenze dei nostri compagni europei: all'ora del mezzogiorno, dopo una mezza giornata di marcia, erano così calmi e freschi come al momento della partenza. Non avendo potuto fermarci a San Saba, non cessammo di camminare fino al termine della giornata. Bivaccammo la notte ai piedi di una torre diroccata, nelle vicinanze di San Saba ove i monaci si degnano di tollerare la presenza dei viaggiatori. L'indomani ci rimettemmo in marcia prima del levar del sole ed eravamo giunti sul culmine delle ultime montagne che delimitano la valle del Giordano, quando il sole cominciò a levarsi. Dapprima non vedemmo che una coltrice di nebbie stesa ai nostri piedi. Poco alla volta quelle nebbie si raggrupparono formando una specie di padiglione sopra le nostre teste, fortunato presagio di una di quelle giornate nuvolose così rare in Oriente a quell'epoca dell'anno. Vasta e spoglia la valle del Giordano si apriva davanti a noi. Alla nostra destra era chiusa da una distesa di acqua nerastra sulla quale ondeggiavano ancora i vapori del mattino. Era quel Mar Morto che batte colle sue onde le rovine di Sodoma. A sinistra la valle si stendeva lontano quanto poteva giungere la vista, sempre arida e sempre sterile. Dov'era dunque il Giordano? Per quale via si gettava nel Mare Morto? Dall'altura su cui mi trovava io non scorgeva nulla che mi annunciasse il corso di un fiume, nulla, salvo ad una grande distanza una linea di un verde cupo quasi impercettibile che risaltava come su un fondo cretaceo. Fatta una breve sosta, prendemmo la via della valle ed impiegammo più di due ore nella discesa, giacchè il Mar Morto è uno dei posti più bassi del globo. Ci fermammo un momento sulle rive. Uno dei nostri compagni pretendeva di trasportare nella valle del Giordano le abitudini parigine e trovava il posto comodo per farvi colazione, sicchè ebbimo molto da penare per mostrargli l'imprudenza di un pasto simile lontano da ogni acqua potabile, quando eravamo ancora separati dal Giordano da una tappa abbastanza lunga. Finalmente riescimmo a convincerlo ed io mi allontanai dal lago Asfaltide pensando invece a' miei bei laghi lombardi. L'idea di un lago si unisce a tal punto in me, lo confesso, ad impressioni di calma e di gioia che mi era difficile, anche in vista del Mar Morto, di pensare alla sua terribile origine. Senza dubbio la regione che circonda questa terra è aspra e triste, ma il limpido specchio delle acque salse riflette in modo mirabile la bellezza del cielo. Si è narrato che i pesci non possono vivere nel Mar Morto, che gli uccelli lo evitano, che niuna vegetazione vi projetta la sua ombra; ebbene posso assicurare che a quel lago maledetto non mancano pesci guizzanti e vivi, arbusti fioriti ove cantano gli uccelli, che nulla gli manca, fuor dell'acqua che si possa bere. Ma, malgrado la mia predilezione per i laghi che rimonta all'infanzia, lasciai il Mar Morto senza troppo rammarico. Due ore di marcia erano trascorse dalla nostra fermata in riva al Mar Morto e non vedevamo ancora nulla. La strada seguiva un pendio ripartito in immensi gradini e che si svolgeva dinanzi a noi come una scala gigantesca di cui non potevamo intravedere il termine. D'un tratto osservai una certa agitazione fra i nostri arabi. Stendevano il braccio verso il sud pronunciando rauchi monosillabi; i nostri cavalli nitrivano rialzando il capo; presero il galoppo, e noi li lasciammo correre sebbene nessun fiume ci apparisse. Nondimeno cominciai ad udire un sordo mormorio, finalmente giunti al basso della strana scalinata di roccie, che ci nascondeva il fiume, scorgemmo uno degli spettacoli più impressionanti che abbia ammirato durante il mio viaggio. Dinanzi a noi il Giordano trascinava fragorosamente le sue acque un poco fangose, ma profonde ed abbondanti, fra due sponde coperte di alberi immensi e, per così dire, ammucchiati gli uni sugli altri. Entrammo in quella foresta, ma non fu senza fatica che ci aprimmo un varco fra le macchie degli arrampicanti tutte ripiene del ronzio di miriadi di insetti alati. Una volta in riva all'acqua corrente mi affrettai a cercare un angolo solitario ove, dopo aver mangiato qualcosa, potessi abbandonarmi alla contemplazione del fiume sacro. Passai così parecchie ore in un raccoglimento che non potè turbare neppure un allarme dato alla nostra scorta dall'apparire di una tribù di predatori, subito dispersi. Spero di conservare tutta la vita il ricordo chiaro e distinto delle ore affascinanti di riposo passate in riva al Giordano, spero che l'immagine di quelle acque, di quelle rive, di quei boschi non si cancellerà mai dalla mia memoria. Il Giordano non è solo un gran fiume storico, è un fiume meraviglioso e che trasforma intorno a sè la natura come per un incantesimo. Ritornammo a Gerusalemme da una strada diversa da quella che ci aveva condotto, con tanta fatica, fino al Giordano. Fra i ricordi di quest'ultima parte della nostra escursione, il solo che abbia presente è quello di un'ora passata presso una torre in rovina, di costruzione araba, in mezzo ad un delizioso boschetto. Questa torre sorge nelle vicinanze della città di Gerico o piuttosto dell'ammasso di capanne informi che si chiama così e che ha preso il posto della fortezza rovesciata dalle trombe di Giosuè. L'ora di riposo che gustai là dove sorgeva l'antica Gerico fu gradevolissima. Avevamo stabilito il nostro accampamento sotto alberi da frutta, in mezzo a fresche aiuole che i più bei parchi dell'Inghilterra avrebbero potuto invidiare alla piana del Giordano. Quelle verdi oasi, gettate qua e là fra le sabbie, sono una delle singolarità di questa terra araba. La fantasia vi evoca involontariamente tipi poetici, e vorrebbe crearvi un popolo che ne fosse degno. Oh, perchè l'umanità non vi deve apparire che sotto le spoglie le più misere al cospetto di quella grande e magnifica natura? Ritornati a Gerusalemme il giorno seguente, non avevamo più nulla da imparare sui luoghi e monumenti di Terrasanta; è sugli abitanti che la nostra attenzione doveva riportarsi. I PROTESTANTI E GLI EBREI A GERUSALEMME — GLI OSPIZI Se anche i luoghi e i monumenti non avessero alimentato la mia curiosità, Gerusalemme mi avrebbe offerto un simpatico argomento di studi, l'ospitalità cristiana in Oriente. Ho passato fra i monaci e le suore di carità alcuni dei migliori momenti del mio pellegrinaggio. Gli uni mi incantavano colla loro ingenua bonarietà, le altre vegliavano con materna cura sulla mia figliola, giovane neofita che la direttrice di quella Comunità, una donna amabile e dolce, giudicò degna di accostarsi ai Sacramenti con grande sorpresa di taluni di quei religiosi che mi credevano dedita al culto ed alla pratica delle dottrine di Voltaire e di Rousseau. Il giorno della prima Comunione era arrivato e la cerimonia fu a parer mio molto commovente. Il Sacramento era conferito a due sole giovinette, a quella che non ho più bisogno di nominare e ad una giovane tedesca che aveva appena abjurato il Protestantesimo e che s'incominciò dal battezzare. Scopo palese di quest'ultima cerimonia era di far credere alle anime semplici che i luterani non fossero cristiani, ma l'atto non era per questo meno contrario alle vere intenzioni della Chiesa che non permette un secondo battesimo condizionale che nei casi in cui è realmente dubbio che il primo sia stato amministrato. La sola scusa che avrebbero potuto invocare i promotori di quella manifestazione ostile ai protestanti consisteva nelle prove di malevolenza che quei medesimi protestanti risparmiavano tanto poco alla minoranza cattolica, in lega coi mussulmani, greci, ebrei e gli armeni scismatici, attualmente così numerosi a Gerusalemme. Bisogna ammettere che tutte le simpatie dei protestanti vanno in Siria agli ebrei. Ma devo anche confessare che gli ebrei sono circondati a Gerusalemme da un certo prestigio poetico. Un giorno della settimana, sopratutto, ed un'ora particolare, richiamano volontieri l'interesse su quello strano popolo: l'ora del mezzogiorno di ogni venerdì. Si vedono allora gli ebrei riunirsi fuor delle mura esterne del loro tempio trasformato in moschea, in un punto in cui le antiche pietre sono ancora ritte: ivi piangono e si lamentano, in conformità alle parole del profeta, sui loro peccati e la loro caduta. Ebbi voglia di ascoltare una volta quei lamenti settimanali e me ne partii profondamente commossa. Vi è in quell'usanza un sentimento vero che non può non commuovere. Dacchè Tito prese Gerusalemme, ogni venerdì le lamentele degli ebrei si rinnovano su quei sacri ruderi. Sembra forse agli eterni proscritti che la vecchia patria risponda una volta la settimana all'appello della loro voce lamentosa? Non so; ma quel punto dell'antico Israele è abbastanza forte per attrarre ogni anno, verso Gerusalemme, schiere di emigranti israeliti dal fondo dei più ridenti villaggi della Germania. Questi strani coloni popolano quasi esclusivamente le città di Safed e di Tiberiade. Non vengono a coltivare la terra, nè a scambiare le merci europee coi prodotti di un paese remoto, no, vengono a chiedere un sepolcro alla terra che ricopre le ossa dei loro antenati; sono convinti che, se muojono entro il recinto di talune città di Palestina, non hanno nulla a temere dai tormenti della vita futura. Tutti gli ebrei del Levante non sono purtroppo, dei coloni di Safed e di Tiberiade; ma come potrebbero i cristiani non mostrare a questi ultimi benevolenza e misericordia? All'epoca del mio soggiorno a Gerusalemme, il consolato d'Inghilterra manifestava agli ebrei di Palestina una vivissima simpatia. Il console era un vero «gentleman» naturalmente benevolo. Sua moglie, ch'era del resto una persona molto per bene, non aveva un carattere del tutto pacifico come quello del marito. Ancor giovanissima, era profondamente versata nelle lingue e nelle letterature orientali. Figlia di uno dei principali agenti dell'Inghilterra nell'estremo Oriente, aveva recato a Gerusalemme abitudini di attività politica che erano senza dubbio una tradizione di famiglia. Era essa che, d'accordo col vescovo protestante, dirigeva vari stabilimenti di beneficenza fondati in favore degli ebrei. Ne ho veduti i due principali, l'ospedale e la scuola. Ho poco a dire di quest'ultima; ma l'ospedale è un simpatico asilo, in una bella postura, ben tenuto e bene ammobiliato ed ove i sani non corrono il rischio di ammalarsi, come può accadere in parecchi ospedali europei. Vi è un'eccellente farmacia e l'amministrazione si regge con mezzi abbondanti. Quest'ospedale protestante, riservato agli ebrei, offre uno stridente contrasto coll'ospedale cattolico, misera istituzione sostenuta a fatica dalle scarse forze dei fedeli, ma ove anche un protestante sarebbe accolto, se si presentasse. Poichè sto parlando d'ospedali, dirò che mi recai a visitare l'asilo dei lebbrosi e soggiungerò di passaggio che è una gran fortuna che il de Maistre[33] non abbia fatto come me, perchè non avremmo avuto il suo mirabile racconto. Nella maggior parte delle città della Siria, i lebbrosi conducono un'esistenza singolare, ma felice. Sono alloggiati a spese del comune o della carità di cittadini che si quotano per ajutarli. L'alloggio non è caro e neppure sontuoso, perchè a Gerusalemme, per esempio, consiste in un piccolo spazio in cui gli stessi lebbrosi si son fabbricati alcune capanne, ove gli ultimi venuti prendono successivamente il posto degli anziani che scompajono. Ognuno di essi impiega il suo tempo come gli garba ed il loro gusto uniforme li induce alla mendicità. Pertanto si trovano nelle strade e nei pubblici passeggi con un bacile in mano ed il viso scoperto, ciò che basta di solito a chiarire la loro situazione ed i loro bisogni. Al tramonto, tutti rientrano nel loro parco, vi fanno la loro cucina, mangiano e si addormentano come giusti che abbiano soddisfatto la loro sete. Quelli che prendono cura dei lebbrosi passano loro una piccola pensione di pochi parà (la metà di un centesimo) al giorno, somma che del resto basta largamente a sostentarli. La lebbra non è considerata da nessuno in Oriente come una malattia contagiosa e neppure come un'infermità vergognosa e ripugnante, tanto più che il senso di disgusto è molto poco diffuso in quei paesi. E sì che l'aspetto di un lebbroso sarebbe proprio fatto per ispirarlo! La sua pelle, sovratutto quella della fronte, si copre dapprima di lenticchie che poi si tagliano per formare sia delle scaglie, sia delle croste. Le sue labbra e le sue palpebre si gonfiano e perdono la loro forma originaria, mentre le cartilagini delle orecchie e del naso si allungano smisuratamente al punto che le orecchie pendono talora fin sulle spalle. La loro testa si denuda e non hanno più nè sopracciglia al disopra degli occhi, nè ciglia alle palpebre. Si aggiunga a tutto ciò un colorito livido e cereo che è loro speciale e si avrà un'immagine abbastanza fedele dei men maltrattati fra i lebbrosi, perchè ve ne sono di coperti da orribili piaghe e di cui le ossa stesse, consumate dalla putrefazione, escono a scheggie da quelle ulceri ripugnanti, mentre in altri casi le ossa si stortano e si dislocano, senza giungere a dissolversi. Vidi per altro piuttosto con soddisfazione che con ripugnanza, come genitori di quei disgraziati si stabilissero presso di essi dividendo con loro l'asilo e prestando loro quelle cure che avrebbero dedicato loro in qualsiasi altra circostanza. Ma ciò che mi fece indietreggiare dall'orrore fu il sapere che le passioni e le debolezze umane non erano spente nè per essi nè per quelli che li circondavano. I matrimoni sono frequenti nel quartiere dei lebbrosi e, siccome la religione mussulmana vi predomina, tali matrimoni non sono che l'unione passeggera di un uomo con parecchie donne. Finchè io viva non potrò dimenticare una giovinetta lebbrosa che, senz'essere ancora escita dall'infanzia, era già completamente sfigurata dalla malattia e che stava tranquillamente seduta sulle ginocchia di una specie di titano senza più forma umana. Egli aveva completamente perduto la voce e per farsi ascoltare da lei accostava le sue labbra tumide alle orecchie pendenti della fanciulla. Osservai che essa sembrava ascoltarlo con piacere, e che lo stiramento dei muscoli del suo viso sarebbe diventato un sorriso se tal cosa fosse stata possibile, e ne conclusi che avevo dinanzi agli occhi uno sgradevole ma onesto spettacolo di amor paterno e di tenerezza figliale. «È vostra figlia?» chiesi al colosso. Egli fece udire un grugnito e niente di più, ma la piccina si affrettò a far valere i suoi titoli alla mia considerazione. — Son sua moglie e da un mese! — esclamò rizzandosi... L'espressione di vanità soddisfatta che riescì a palesarsi su quell'orrendo viso all'idea della lunga durata del suo impero, la specie di fiamma che lampeggiò un istante negli occhi glabri del marito, tutto ciò suscitò in me un orrore misto di pietà e di ripugnanza che pose un termine alla mia visita. Avevo veduto i frati e le suore di Carità, ero penetrata negli ospizi dei protestanti e delle altre confessioni, mi rimaneva da visitare il convento degli armeni[34]. Mi vi recai e vi trovai la più amabile accoglienza. Gli armeni dell'Asia Minore non assomigliano ai greci di quel paese, che, sotto la dominazione dei loro barbari padroni, hanno contratto non so quale ruvidezza estranea alla razza ellenica. Posti sopra i greci dall'ingegno e dalla ricchezza, gli armeni di Siria e di Palestina sovrastano loro anche per una grazia e per una dignità tutte speciali. Nulla è più bello, più ricco e di miglior gusto che i loro edifici, gli ornamenti delle loro chiese e le loro case. In tutte le città dell'impero ottomano, le più belle case appartengono agli armeni ed esse, come le chiese, non sono solo magnifiche, ma pulite, ben tenute, eleganti e comode. I loro modi sono quelli di gran signori e l'interno dei loro palazzi risponde perfettamente all'idea che ci facciamo in Europa di una dimora principesca in Asia. Il convento armeno di Gerusalemme è immenso, composto di parecchi corpi di casa e circondato da deliziosi giardini. Una biblioteca ricca in bei manoscritti ed in miniature su pergamena, il tesoro ricolmo di pietre preziose montate con un gusto squisito, infine i loro arredi sacerdotali intessuti d'oro, d'argento, e delle sete più smaglianti, tutto ciò abbaglia gli occhi e incanta l'immaginazione. Il patriarca armeno circondato da' suoi monaci dalle lunghe barbe accurate, dalla tonaca violacea, con un berretto ed un velo svolazzante dello stesso colore, non assomiglia affatto ad un capo di comunità monastica europea. Dev'essere costato molto ad essi l'umiliarsi come fecero durante tanti secoli di fronte al potere del conquistatore o piuttosto devono aver tratto gran profitto da un'umiliazione sopportata con tanta pazienza, perchè non sono gente capace di prosternarsi nella polvere solo perchè è pericoloso di rimanere in piedi. Frattanto era arrivato il momento della partenza. Io era da un mese a Gerusalemme, avevo raggiunto lo scopo del mio viaggio e non avevo più tempo da perdere se volevo ritrovarmi in climi più temperati prima che la canicola regnasse in Siria. Partii dunque, escii dalla cinta merlata che avevo varcata con tanta emozione e, arrivata in cima alla collina donde un mese innanzi avevo scorto Gerusalemme, mi voltai indietro per dare alla città santa un ultimo sguardo. Ultimo? Che so io se lo sarà davvero? Me lo domandavo lasciando Gerusalemme e me lo chiedo ancor oggi. IL CORANO E LE RIFORME IN TURCHIA I luoghi che visitai dopo aver lasciato Gerusalemme, Damasco, Aleppo, il Libano, mi offersero aspetti della vita nomade e di quella intima poco diversi da quelli che avevo osservato ad Angora, Latakiè o nelle montagne del Giaur-Daghda. Non mi rimane più che da riassumere le impressioni lasciatemi da quella lunga corsa nell'Oriente turco ed arabo. Di ritorno nella mia pacifica vallata d'Anatolia, comprendevo meglio le condizioni fatte alle popolazioni che mi circondavano dalle tradizioni che le dominano e dagli istituti che le regolano. Meglio illuminata sul vero carattere dell'islamismo, mi domandavo quali fossero i suoi destini probabili con una sollecitudine in cui entrava pure della simpatia. Sarebbe tradire un'ospitalità generosa e cordiale l'esporre qui tutto il mio pensiero su un argomento di cui oggi l'Europa si preoccupa a ragione? Non lo credo perchè se devo segnalare piaghe profonde posso pure additare qualità reali e porre meritati elogi accanto a severi rimproveri. È facile del resto spiegare la mia severità giacchè mi pongo al punto di vista cristiano per giudicare i principii e le istituzioni dell'Oriente. Ciò che devo dire della morale e della religione degli ottomani non potrà dunque essere che l'espressione di credenze e di dottrine diametralmente opposte alle loro. Qual'è il principio che regge il governo turco? Quali germi di vitalità rinchiude in sè? Quali elementi offre per una riforma? Che genere di relazione può esistere fra esso e l'Europa cristiana? Sono questioni molto gravi, ma che è impossibile di non porsi dopo parecchi anni di soggiorno in mezzo alle popolazioni mussulmane. Non temete che io inizii qui un lungo dibattito; mi limito ad esporre qualche veduta, a raccogliere qualche osservazione. L'impero ottomano è uno stato teocratico, ha per legislatore il suo profeta, per codice il suo libro sacro, per giuristi i suoi sacerdoti. Quando ci si pone fra i barbari, di fronte a popoli incapaci di dirigersi da soli, non preoccupandosi che di dare al patto fra governanti e governati la maggior solennità possibile, nessun principio di governo, nè quello del diritto divino, nè quello dell'elezione popolare può rivaleggiare col principio teocratico. Quale fonte più diretta, quale origine più nobile che la rivelazione, le profezie, i miracoli? Una volta ammesso il punto di partenza, rapporti immutabili si stabiliscono fra il principe ed i sudditi. I problemi di diritto e di legislazione non dipendono più dall'umano raziocinio; risolti dal dogma, sfuggono come lui ad ogni discussione. Se l'immobilità è una prova di forza, lo stato teocratico può guardare con compassione alle perturbazioni degli altri governi. Il guajo di un tal regime è che alle epoche di barbarie nelle quali prospera, succedono epoche in cui si fa sentire il bisogno del progresso. Perfino le popolazioni allevate sotto la protezione del sistema teocratico giungono a riconoscerne gl'inconvenienti. Esse sentono che è condannato, che non risponde più allo spirito dei tempi nuovi, esse sono allora poste fra due vie, o rassegnarsi al mantenimento di quel sistema colla certezza di dare al mondo lo spettacolo di una penosa agonia, oppure lanciarsi nei rischi di una crisi che può essere funesta se già troppo pronunciata fosse la decadenza prodotta dalla lunga durata delle istituzioni teocratiche. È giunto l'impero ottomano all'epoca critica in cui si pone una tale alternativa? Prima di rispondere esaminiamo bene quale sia il carattere particolare della teocrazia mussulmana. Molti anni mi separano dall'epoca in cui lessi per la prima volta il Corano. Non fui colpita allora che dal lato bizzarro di quel libro ed a stento capivo come dottrine, apparentemente più adatte a sorprendere che a convincere, avessero potuto sedurre tante anime ed imporsi a tante intelligenze. La mia sorpresa è cessata. Ho veduto l'Oriente e, una volta eccettuato il cristianesimo, credo la religione di Maometto superiore a tutte quelle che reggevano prima di lui o che reggono ancor oggi i popoli dell'Asia. I drusi hanno i loro riti misteriosi, i fellah di Siria il loro strano naturalismo, i Metuali del Libano e dell'Antilibano adorano il fuoco; gli Jezibi, tribù curda secondo alcuni, araba secondo altri, fanno oggetto del loro culto lo spirito delle tenebre. Questi, ai numerosi avversarii della loro religione, spiegano con una certa ingegnosità: «Perchè dovremmo inchinarci all'autore d'ogni bene? Non abbiamo nulla da temerne e non sarà mai nostro nemico. Quanto allo spirito del male, non lo amiamo e saremmo felicissimi che scomparisse; ma, poichè esiste e manifesta tutta la sua potenza, siamo bene obbligati a cercare di ottenerne le grazie e la prudenza ci ordina di adorarlo.» Quale distanza separa superstizioni così grossolane dalla dottrina di Maometto! Sarebbe superfluo l'insistervi. Osserviamo ancora che la maggior parte delle usanze mussulmane che feriscono il nostro senso morale di cristiani, come la poligamia, la schiavitù, il disprezzo della vita umana ecc. non potrebbero essere attribuite senza ingiustizia al legislatore arabo che ha piegato la sua dottrina ai costumi dei popoli dei quali voleva farsi uno strumento. Il suo scopo non era nè di creare una società nuova e migliore nè neppure di formare una nazione: egli voleva creare un esercito, una falange di uomini devoti, rotti a tutte le esigenze di un grande compito militare. Interdire ai suoi partigiani le dolcezze della vita sedentaria concedendo loro tutti i godimenti che è possibile procurarsi nel recinto di un accampamento, prometter loro la felicità eterna in cambio di una sottomissione illimitata tale fu il disegno che dominò senza posa il legislatore mussulmano. Gli affetti famigliari legano naturalmente l'uomo al focolare domestico, indeboliscono troppo spesso il suo ardore bellicoso: la famiglia fu, non dico abolita e distrutta, perchè non esisteva fra i popoli che abbracciavano l'islamismo, fu condannata a non aver mai un posto nelle loro istituzioni. La donna, quell'artefice operoso ed infaticabile della mitezza dei costumi e della gentilezza delle nazioni, fu relegata al livello degli strumenti del vizio e della lascivia. Una volta annichilita moralmente la donna, il gran capitano che solo poteva col suo genio rude concepire ed eseguire un atto simile sembrò non aver più da temere alcun rivale. Là ove non esiste l'amore conjugale, l'amore paterno non esercita che una debole influenza. I legami famigliari divennero così illusorii. Vi sono nondimeno altri vincoli che legano gli uomini alla società: lo studio delle scienze, delle arti, il senso dell'eleganza e del benessere materiale hanno anch'essi la loro influenza, incompatibile coi doveri di un popolo organizzato per la guerra e per la conquista. Maometto proscrisse il culto delle arti: la pittura e la scultura furono condannate come invenzioni dello spirito maligno, la musica e la poesia disprezzate come giochi puerili. L'amore delle ricchezze fu collocato fra le tendenze più pericolose dell'umanità, e la politica dei successori di Maometto lo combattè senza tregua. Non sono più di venti anni che è possibile in Asia di essere impunemente ricco. Fino all'assunzione al trono di Abdul-Megid, nè il negoziante armeno nè il pascià turco osavano mettere vetri alle finestre della loro casa, per timore di attirare su di essi la gelosia del potere e di dover perdere la vita coi tesori. Ora il condannare la ricchezza a nascondersi è toglierle ciò che ha di meglio, la sua azione civilizzatrice. Accadeva pertanto che i capitali, forse più abbondanti in Turchia nelle mani dei privati che ovunque altrove, si trasformassero in diamanti ed in piastre sotterrate nei giardini senza mai servire ai miglioramenti così necessari nella vita morale e materiale del paese. Restavano ancora taluni appetiti grossolani che potevano far trattenere gli uomini delle infime classi nelle città piuttosto che sui campi di battaglia. Furon dunque proscritti l'uso del vino ed i piaceri della tavola, ma, proscrivendo il vino, il legislatore mussulmano non proibì nè la cupa ebbrezza dell'oppio, nè l'estasi, cento volte più terribile, prodotta dall'hascisch. Ho seguito in Oriente gli effetti di quelle ubbriacature su vari individui e me ne è rimasto un profondo senso di terrore. Sovratutto gli effetti dell'hascisch sono terribili. Il paziente, poichè non saprei chiamarlo diversamente, prova spasimi al diaframma e nella regione del cuore che coprono le sue guancie di un livido pallore e la sua fronte di un sudore diacciato. Le angosce così provocate assomiglierebbero a quelle dell'agonia se non fossero traversate d'un tratto da scoppi di pazza allegria. Il più strano risultato di tale ebbrezza è una specie di spaventosa e completa confusione del piacere e del dolore. Si trattava infine di proteggere il popolo così foggiato contro l'influenza delle civiltà straniere. Il genio implacabile che aspirava a sottomettere il mondo seppe inspirare a' suoi fedeli il più fosco disprezzo per tutti i popoli che non riconoscessero la sua fede. «Gli Osmanli soli sono degli uomini, diceva loro, sono stati scelti da Dio per conoscere la verità e la prova si è che io mi trovo in mezzo a voi. Disprezzate le altre nazioni, guardatele con orrore e disgusto. Che vale che i vostri abiti siano coperti di polvere, che le vostre case siano aperte a tutti i venti, mentre i popoli dell'Occidente hanno cura delle loro vesti ed adornano le loro case? Essi sono impuri. Ogni purezza è solo in voi.» Testimonianze troppo persistenti ci mostrano abbastanza quale influenza abbia esercitato questo ragionamento sui popoli mussulmani. Non dirò che una parola della dottrina del Corano sulla vita futura, sul Paradiso. Fu detto che le donne ne fossero escluse e che ad esse fosse rifiutato il dono di un'anima immortale. In realtà non si parla di esse nella descrizione di quel luogo di delizie ove «Huri» immortali rendono superflua la presenza di femmine. Io credo sinceramente che il silenzio di Maometto intorno all'ammissione delle donne nel Paradiso equivale, nel pensiero del legislatore, ad una completa esclusione. In compenso di queste promesse e della libertà di condotta quasi assoluta concessa dalle istituzioni, che chiedeva Maometto ai suoi fedeli? Tre cose: Obbedire, combattere e morire. È noto se il patto concluso fra il capo ed il suo popolo sia stato religiosamente adempito. Un momento quel genio rude ed audace potè credere che si compisse il suo sogno; l'eroe orientale aveva voluto creare un popolo di eroi, e risultati portentosi coronarono dapprima l'impresa temeraria. Leggendo le narrazioni della marcia vittoriosa degli arabi e dei turchi attraverso l'Asia Minore, la Grecia e l'Europa orientale da una parte, l'Africa, la Spagna, la Francia Meridionale e l'Italia dall'altra, vien fatto di chiedersi se fossero quelli uomini accessibili alle debolezze ed agli affetti umani, od una razza di esseri superiori creata per inesplicabili trionfi. Pertanto l'Europa fu colpita di stupore ed una serie di strane catastrofi venne ad atterrirla. La città di Davide e quella di Costantino videro librarsi sulle loro mura lo stendardo degli infedeli. La Spagna obbedì ad orde invincibili venute da Tunisi, il Mediterraneo divenne un lago asiatico; poi, quando l'Europa impegnò decisamente la lotta, l'opera delle Crociate non potè compirsi che dopo parecchi secoli di spedizioni sanguinose, ed anche al termine di quella guerra, il Levante quasi intero rimase in balìa della teocrazia mussulmana. Vedete ora quale sia il carattere di questa teocrazia. Essenzialmente collegata ad un'opera militare, essa poteva grandeggiare nella guerra, ma aveva tutto da temere dalla pace. Noi sappiamo ciò che la guerra fece dei mussulmani; poniamoci ora nell'impero ottomano nello stato in cui era prima dell'ultima crisi e vedremo che ne abbia fatto la pace. L'aspetto generale della Turchia, durante gli anni di pace che hanno preceduto la lotta attuale, non attestava affatto, bisogna pur dirlo, quel progresso materiale che si manifesta in altri paesi coll'abbellire le città, lo sfruttare coll'intelligenza il suolo e l'accrescimento della popolazione. Le proscrizioni lanciate dal Corano contro la ricchezza e le arti potevan giudicarsi anche troppo duramente nei loro effetti. Si era forse mantenuta collo stesso vigore l'azione morale del libro sacro? Le scene intime che l'ospitalità orientale mi permise di osservare durante il mio viaggio mi costringono a rispondere affermativamente, ma devo soggiungere che spesso quest'influenza è largamente corretta dall'indole eccellente del popolo turco, e qui ho l'occasione di mescolare qualche simpatico augurio ai giudizi severi che ho dovuto portare sulle istituzioni mussulmane. Mi sono chiesta spesso cosa diventerebbe, non dico una nazione, ma solo una famiglia europea che pretendesse non seguire altra legge che quella dell'Islam ed oso appena formulare una risposta alla mia propria domanda. Ora i risultati deplorevoli che avrebbe fra europei lo stabilirsi della legge maomettana non sono qui visibili. Per quanto autorizzato a disprezzare ed a maltrattare le sue mogli, il turco le circonda di riguardi e di tenerezza. La legge vuole la donna schiava; ma l'uomo che potrebbe comandarle preferisce ingraziarsela. Spesso anzi essa abusa di tale impero, al quale non può pretendere, ma, per quanto essa faccia, non accade che la forza maschile sia adoperata per ridurla al dovere. Vi è qualcosa di commovente nello spettacolo di quell'infinita indulgenza che il tiranno legale concede alla sua schiava legittima, in quel completo abbandono di un diritto che gli sarebbe così facile di far rispettare, in quella dimenticanza voluta di una potenza e di prerogative illimitate. E non solo si accorda alla donna tanta indulgenza, non le è mai rifiutato neppure il rispetto e Dio sa se lo possa meritare. L'indole dolce e nobile del turco si compiace, forse inconsciamente, nella stretta osservanza delle norme del pudore. Ho abitato durante più di tre anni in mezzo alle popolazioni le più grossolane e le più ignoranti dell'Anatolia; eravamo tre donne europee e non ho mai udito una parola, nè scorto un gesto, e neppure un'intenzione che ci facesse arrossire. Mi ricordo che un giorno un contadino turco dei dintorni era venuto, secondo gli usi locali, a recarci la sua offerta di miele e di latte, e ignaro della disposizione interna dell'appartamento era penetrato in una delle nostre camere al momento in cui ci alzavamo. Il turco non fece che socchiudere la porta, perchè un grido d'allarme gettato dall'interno con voce femminile lo ammonì del suo errore, e lo mise tosto in fuga. Fu ritrovato pochi minuti dopo, mentre nascondeva la testa fra le mani e tremava di confusione al pensiero di ricomparire dinanzi a noi. Le virtù istintive del popolo turco non sono racchiuse del resto entro gli stretti confini de' suoi rapporti colle donne. La stessa dolcezza, la stessa delicatezza, direi quasi la stessa grazia sentimentale lo seguono ovunque. Il bimbo non soffre quasi mai del malumore di suo padre, e neppure lo schiavo di quello del suo padrone. Le risse sono rare, anche nelle infime classi del popolo, e quando vengono a scoppiare danno difficilmente occasione a quelle scenate volgari e brutali che insanguinano troppo spesso i luoghi di riunione della plebe nella nostra Europa. Un certo istinto di nobiltà preserva il turco da ogni violenza ignobile. Egli espone i suoi rancori oppure si difende con calma, e se l'accordo non è ristabilito spontaneamente le parti avverse si recano presso un uomo rispettabile per l'età o per il carattere e ne accettano il verdetto come si inchinerebbero alla sentenza di un magistrato. Un sentimento di sincera pietà, una fede cieca, una meravigliosa pazienza, una rassegnazione commovente nelle disgrazie, il gusto del bello, del vero e dell'onesto, l'abnegazione personale, ecco i caratteri principali dell'indole turca. Non parlo qui degli abitanti delle grandi città, nè dei membri delle classi alte che copiano le esteriorità degli stranieri, sebbene affettino di disprezzare e di odiare tutto ciò che non è turco. Il turco elegante, affettato, spirito forte non mi piace. Voglio parlare solo del popolo delle campagne e degli abitanti poveri delle città di provincia. La condotta di questi ultimi non concorda sempre coi loro sentimenti, che però esistono ed hanno radici forti, vigorose e profonde nei cuori. Hanno resistito a dure prove, alla corruzione degli esempi, dei costumi e della legge. Colui che saprà svilupparli, sfruttarli e renderli fecondi, sarà il rigeneratore degli Ottomani. Al punto in cui si trova oggi, che avvenire attende il popolo turco? Subirà fino agli ultimi limiti le funeste conseguenze della teocrazia? Non havvi per lui che questa crudele alternativa di perire oppure di riscattare la sua vita a prezzo della sua indipendenza? Dio lo salvi da un destino così triste! Non voglio atteggiarmi nè a profeta, nè a dottore; ma credo d'aver dimostrato che questo popolo ha in sè gli elementi di una vita morale migliore. Che può farsi per svilupparli, stornando le minacce di sventure? L'Europa si è prefissa ora, come primo scopo, la salvaguardia dell'indipendenza turca; ma può venire l'ora per un altro lavoro, per uno sforzo rigeneratore. Cosa si intenderà di fare allora? Mi limito ad indicare due necessità che dovranno certo rivelarsi, quella di costituire sul territorio turco le forze materiali capaci di svilupparne la ricchezza, ma anche quella di preparare una riforma ormai riconosciuta indispensabile nel regime creato da Maometto con scopi che ora contrastano cogli interessi e coll'incivilimento del mondo. Il territorio ottomano invita, coll'abbondanza e la varietà delle sue risorse, alle più larghe applicazioni dell'agricoltura. Inoltre quel suolo che feconda tutte le sementi da quelle degli immensi alberi a quelle dei fiori dei prati, che nutre greggi innumerevoli e preziose, quello stesso suolo non è meno ricco in giacimenti mineralogici. Ogni valle, ogni montagna possiede vene di rame, di ferro, di piombo ed anche d'argento. Sonvi ruscelli che trascinano polveri d'argento ben note agli abitanti dei villaggi vicini e che nondimeno questi non pensano a raccogliere. Questo paese possiede dunque tutti gli elementi necessari per divenire il più ricco, come è già forse il più bello degli stati del vecchio mondo. Non v'è dubbio che esso sia in grado di offrire alle potenze europee che prendono la sua difesa il compenso dei servizi che riceve da essi. Rimane un'altra opera, che non dipende più solo dall'Europa, ma dagli stessi Ottomani. Se è vero che la costituzione dell'islamismo, creatrice di soldati così intrepidi, sia stata fatale allo sviluppo della vita civile, se è vero inoltre che le teocrazie si ricusano ad ogni idea di progresso e di mutazione, e se, nondimeno, una trasformazione almeno parziale è oggi necessaria alla salvezza nazionale, che se ne potrà concludere? Sarà deciso l'abbandono della forma e delle basi teocratiche del governo? Attualmente ciò sarebbe inattuabile. Se anche i capi del governo avessero il coraggio eroico di rinnegare il dogma che garantisce loro un'autorità illimitata, il popolo, sinceramente ed intimamente attaccato alle sue credenze religiose, non ratificherebbe questo sacrificio. Esiste però un mezzo termine fra l'abbandono completo di un sistema e la sua rigida esecuzione. Questo mezzo termine si chiama riforma, parola odiosa ai membri delle teocrazie, ma che in questo caso speciale è già stata pronunciata molte volte dagli uomini più illustri della Turchia. È vero che il favor popolare non ha circondato questa parola e neppure le cose che essa annuncia ed esprime. Ai miei occhi la ragione ne è evidente. Sebbene le riforme sin qui introdotte nella costituzione dell'Impero Ottomano fossero saggie e tendessero ad abbassare la barriera eretta dall'islamismo fra l'Europa cristiana e l'Asia mussulmana, esse non potevano recare alcun sollievo immediato alle sofferenze degli Osmanli; avevano del resto per scopo la distruzione delle limitazioni imposte nel passato ai sudditi cristiani della Porta e quest'emancipazione, reclamata dalla giustizia del pari che dalla politica, urtava pregiudizi dei maomettani zelanti. L'odio ed il disprezzo verso i cristiani fanno parte del simbolo della loro fede religiosa; intaccarli era ribellarsi contro le prescrizioni del loro libro sacro e ciò per ragioni politiche incomprensibili per la gran maggioranza dei turchi. Una riforma politica non sarà mai accolta da un popolo così profondamente credente, se non è appoggiata ad una riforma religiosa. Resta a sapere come quest'ultima dovrebbe procedere. Il Cristianesimo ha avuto anch'egli al XVI secolo i suoi riformatori. Cosa fecero? Si rivolsero alle coscienze più delicate, agli spiriti più esaltati in fatto di religione; i timidi sarebbero rimasti neutri in quella gran contesa. Gli zelanti se ne preoccuparono militando nell'uno o nell'altro campo. Perchè non accadrebbe la medesima cosa nel Levante? Occorre che i dotti scendano al livello delle menti semplici, che i grandi si facciano piccini e non rifuggano anche dall'impiegare un linguaggio mistico, dal rivendicare una partecipazione all'ispirazione divina, sola capace di procurar loro la fiducia e l'obbedienza. È necessario che in nome di quello stesso potere e di quel medesimo principio che trasformavano un tempo gli ottomani in un popolo di soldati, sappiano farne oggi degli uomini. Si decidano a rovesciare ed a calpestare la fatale muraglia che separa l'Oriente dalla civiltà, insegnino al loro popolo a rivolgersi verso l'Occidente quando pronuncia le sue preghiere, perchè è da questo lato che si leva il sole ed ormai continuerà a levarsi. Gli dischiudano le vie dello studio e dell'azione, gli diano una famiglia coll'abolire la poligamia, perchè, se una moglie costituisce una famiglia, parecchie la distruggono. Inizino i turchi alle dottrine di incivilimento ed alla morale del cristianesimo, pur senza pronunciare il nome del Cristo; atteggiandosi a commentatori del Corano, ne modifichino profondamente le massime ed i precetti. Questi propositi non sono facili a realizzarsi, lo so, e non potrebbero attuarsi in Europa nel secolo in cui viviamo; ma l'Asia non è l'Europa. Del resto le circostanze premono imperiose ed è ora di decidersi. Credo di aver detto abbastanza per mostrare a quali condizioni una trasformazione salutare potrebbe compiersi in Turchia. Mi fermo dinanzi a prospettive nelle quali sarebbe temerario di arrischiarsi troppo a lanciare uno sguardo. Volevo nondimeno lasciarle intravvedere e, dopo aver narrato un viaggio che mi aveva rivelato sotto aspetti così tristi l'applicazione delle dottrine del Corano, volevo combattere queste ultime in nome del carattere stesso e degli interessi del popolo che esse reggono. FINE NOTE [1] Veranceir è situata nel vilayet di Castamuni, che costeggia per lungo tratto il Mar Nero e comprende pure il bacino minerario di Eraclea. [2] Il sultano Mahmud II, che regnò a Costantinopoli dal 1808 al 1839, dovette fronteggiare l'insurrezione della Grecia che finì per collegare ai danni della Porta l'Inghilterra, la Russia e la Francia, ed al tempo stesso vide il suo potere minacciato da mussulmani ribelli come Alì pascià di Gianina e Mehemet Alì pascià d'Egitto. Ma fu sopratutto l'insurrezione dei Gianizzeri nel 1826 che costrinse il sultano ad una frettolosa ricostruzione dell'ordinamento militare ottomano. Mahmud sotto la pressione di eventi così gravi non esitò ad introdurre nella decrepita amministrazione dell'impero metodi imitati dagli esempi occidentali e suscitò pertanto molte resistenze da parte degli ortodossi più zelanti, ciechi fautori dell'antico ordine di cose che ritenevano solo compatibile coi precetti del Corano. Il ribelle vassallo d'Egitto, che fece correre così gravi pericoli al potere del sultano, si giovò abilmente del malcontento che l'attitudine del sultano stesso a cercare dei modelli in Inghilterra ed in Russia aveva destato in larghe sfere del mondo mussulmano. [3] Abdul-Megid salì al trono il 1º luglio 1839 nella giovanissima età di sedici anni mentre Ibrahim pascià alla testa dei rivoltosi egiziani avanzava trionfante nell'Asia Minore. Le influenze contrastanti delle potenze occidentali si fecero sentire col massimo vigore intorno a quel sultano che iniziava il suo governo in così difficili condizioni. Realmente dopo due anni di lotte diplomatiche e militari Abdul-Megid si vide liberato, essenzialmente per opera di quei potenti tutori, dall'incubo della minaccia egiziana che pendeva da tanti anni sul capo di Mahmud. Egli non aveva atteso la soluzione della crisi per iniziare solennemente, col rescritto imperiale del 3 novembre 1839, una serie di riforme costituzionali, rese in gran parte inefficaci dalla resistenza passiva della popolazione mussulmana. Nondimeno il destino dei sudditi delle altre razze e religioni ne fu notevolmente migliorato. [4] Bajandur è anche indicato nelle carte come Baindir, e si trova sul limite meridionale del vilayet di Castamuni. [5] Allude ad Alessandro Gabriele Decamps pittore francese (1803-1860). [6] Scerkess è ancora nel vilayet di Castamuni un poco più ad oriente di Bajandur. [7] Muftì è il capo locale del sacerdozio mussulmano. [8] I turcomani, di origine turanica e solo superficialmente islamizzati, sono nella maggior parte pastori nomadi che vivono nell'interno dell'Asia Minore. [9] Angora, che è tuttora la sede dell'amministrazione di un vilayet turco, era sotto il nome di Ancira la capitale della Galazia, e, come centro molto importante della regione, subì il diretto contracolpo di tante mutazioni di dominio e fu anche conquistata dai Persiani, dai Crociati e da Tamerlano. [10] Il Caimacan è il rappresentante del potere centrale turco nel vilayet. [11] Il dottor Gabriele Andral (1796-1876) era un medico parigino di rinomanza europea. [12] Kirsceir è nella Cappadocia e capoluogo di un sangiaccato, a metà strada fra Angora e Cesarea. [13] l'imperatrice Elena, nata in Bitinia, moglie poi ripudiata di Costanzo Cloro, fu assunta ai massimi onori dell'impero Romano quando suo figlio Costantino ne divenne solo padrone. Partecipò con tutto l'animo all'opera di pacificazione religiosa avviata così felicemente dal figlio e, convertitasi al Cristianesimo, si acquistò la venerazione dei fedeli sovratutto dopo il suo pellegrinaggio ai Luoghi Santi. [14] Cesarea, che come città romana deve il suo nome a Tiberio, è stata rifabbricata dai musulmani un poco ad oriente dell'antica metropoli della Cappadocia, che ha avuto tanta importanza nella storia del Cristianesimo orientale. [15] Giudiesu si trova nel sangiaccato di Cesarea, alquanto a sud-ovest da quest'ultima città. [16] Il gruppo di montagne noto sotto il nome di Allah-Dagda è una propagine settentrionale del Tauro. [17] La principessa Belgiojoso vorrà alludere alla città ora chiamata Maden. [18] Adana, storica metropoli della Cilicia, è uno dei principali centri della civiltà armena. [19] Bajaz o Pajas sorge fra i monti a breve distanza dal golfo di Alessandretta, all'estremo lembo settentrionale della Cilicia. [20] Alessandretta, che gli ottomani chiamano Iscanderun, è la prima città della Siria che si trova seguendo da nord a sud la costa del Mediterraneo. [21] Beinam o Bailan si trova nell'interno a sud di Alessandretta. [22] La città che i turchi chiamano Antakieh e che raggiunge a stento i 30.000 abitanti non può dare che una pallida idea dell'antica capitale della Siria, che ebbe una popolazione di mezzo milione di anime e fu uno dei maggiori emporii dell'Oriente. [23] La fontana di Dafne, col suo sacro boschetto celebre per il diritto di asilo del quale avrebbero profittato anche i Maccabei, ebbe per tutta l'antichità la rinomanza poco invidiabile di un centro di corruzione d'onde venne l'espressione antonomastica «Daphnici mores». [24] Latakiè, l'antica Laodicea, è capoluogo del sangiaccato più settentrionale del vilayet di Beirut. [25] Gubletta è detta Geble dagli ottomani e sorge alquanto a mezzogiorno di Latakiè. [26] Banias è pure detta dagli indigeni la cittadina marittima che la nostra narratrice ortografa Baynas, con frequente metatesi. [27] Tortosa è la prima città a settentrione del sangiaccato di Tripoli. [28] La città di Tripoli, che conobbe tempi di grande splendore sotto i mussulmani della setta dei Sciiti ed al tempo del regno latino di Gerusalemme, consta ora della città propriamente detta e del porto. [29] Badun può essere verosimilmente identificato col Batrun delle carte geografiche. [30] Seida è l'antica Sidone, uno dei porti principali dei Fenici. [31] I Copti Scismatici d'Abissinia hanno tuttora un monastero là dove la tradizione colloca la IX stazione sulla via del Calvario. [32] Secondo la tradizione il Califfo Omar, dopo avere concluso col Patriarca Sofronio la capitolazione colla quale i Cristiani di Gerusalemme si arresero agli arabi nel 636, si sarebbe ritirato a fare le sue preghiere fuori del recinto del Santo Sepolcro, collo scopo di preservare lealmente quest'ultimo dall'occupazione mussulmana. La moschea d'Omar sarebbe stata eretta dove il buon Califfo pregò la prima volta dopo la presa di Gerusalemme. [33] Allude alla fine novella di Saverio de Maistre: «Il lebbroso della città d'Aosta». [34] Il Patriarca armeno di Gerusalemme risiede in un vasto convento intitolato a San Giacomo al lato sud-ovest della città. INDICE DEDICA pag. 5 PREFAZIONE » 7 SCENE E RICORDI DI VIAGGIO IN ASIA I. — _Gli harem, i Patriarchi e i Dervisci, le Armene di Cesarea_ pag. 27 I dere-beys — Il mufti di Scerkess » 28 Angora e il Convento dei dervisci » 48 Cesarea e le città del Tauro » 65 II. — _Le montagne del Giaurro — L'harem di Mustuk bey — Le donne turche_ » 84 Il Giaur Daghda — Un villaggio fellah — Il pascià d'Adana » 84 Il bey del monte del Giaurro ed il suo harem » 103 III. — _Il viaggiatore europeo nell'Oriente arabo_ » 133 La valle d'Antiochia — Latakiè — Le donne di Siria » 133 La leggenda del sultano Ibrahim — Una sosta a Tripoli — Badun — I missionari inglesi in Siria » 158 IV. — _Gli europei a Gerusalemme — La Turchia ed il Corano_ » 181 Le montagne di Galilea e l'antico regno di Giuda » 181 I monumenti della Bibbia e del Vangelo a Gerusalemme » 196 I protestanti e gli ebrei a Gerusalemme — Gli ospizi » 213 Il Corano e le riforme in Turchia » 220 NOTE » 235 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (mufti/muftì e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "La vita intima e la vita nomade in Oriente" *** Copyright 2023 LibraryBlog. 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