Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Lirica
Author: Vivanti, Annie
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Lirica" ***


                                 LIRICA


                                   DI

                             ANNIE VIVANTI


                 _con prefazione e nota di G. CARDUCCI_



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                           Settimo migliaio.



                        _Proprietà letteraria._

                      _Riservati tutti i diritti._

             Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di
           quest'opera, dal 7.º migliaio in su, che non porti
         il timbro a secco della Società Italiana degli Autori.

                          Tip. Treves — 1915.



  _Signorina_,

_Nel mio codice poetico c'è questo articolo: — Ai preti e alle donne è
vietato far versi. — Per i preti no, ma per Lei l'ho abrogato._

_La sua poesia, Signorina, è ciò che è (io non prendo dai critici la
pretesa di imporre gli argomenti e il modo di trattarli), ma poesia
è; quale dee quasi fatalmente prorompere da un temperamento di femmina
lirico (caso rarissimo). E per la immediatezza della rappresentazione e
per la verginità dell'espressione mi piace molto. Ciò che nel mestiere
del verseggiare italiano dicesi con neologismo pedantesco _la forma_ —
un che di postumo al concetto, per lo più, un che di appiccicato, tra
la posa e la smorfia, — a Lei manca. A Lei, la fisonomia dell'immagine,
la tempera del colorito, la qualità della frase e l'andamento del verso
vengono e spirano col movimento del fantasma e della passione che Le
dan la poesia. Tutto ciò è sempre bene? Io so e Le dico che molte volte
mi rapisce._

_E Le bacio la mano._

  Bologna, 19 febbraio 1890.

                                                     GIOSUÈ CARDUCCI.



    Die Engel, die nennen es Himmelsfreud',
    Die Teufel, die nennen es Höllenleid,
    Die Menschen, die nennen es Liebe.

                         H. HEINE.



EGO.


    O Mondo, vecchia guardia doganale,
    Farai l'obbligo tuo da buon cristiano:
    Giusta e severa sia la tua condanna,
    Chè non ti voglio dar la buona mano!

    Sono in contravvenzione, o Mondo astuto.
    Volea truffarti con la merce mia:
    Non è tabacco, sigari o liquori,
    Nulla di spiritoso: è poesia!

    Il Mondo ha spalancato i suoi mille occhi,
    E “Chi sei tu?„ mi grida: e “cosa fai?
    Dimmi la fede tua, l'età, la patria,
    Che cerchi, donde vieni e dove vai!„

    Del mio paese chiedi? Io ti rispondo:
    Non ho paese: è mia tutta la terra!
    La patria mia qual'è? Mamma è tedesca,
    Babbo italiano, io nacqui in Inghilterra.

    E quale la mia fede? Io vado a messa;
    La musica mi edifica e ricrea;
    Ma sono battezzata protestante,
    Di nome e di profilo sono ebrea.

    Chiedi dell'età mia? quasi ho vent'anni.
    E quale la mia meta? Ancor l'ignoro.
    Che cerco? Nulla. Attendo il mio destino,
    E rido e canto e piango e m'innamoro.

    E cielo e terra, paradiso e inferno
    Sfioro coll'ali della fantasia!
    Non chieder altro. — Impetuosa e strana
    Per nuove vie fugge la vita mia.

    Fugge nel buio e crede nella luce.
    L'anima fiduciosa e calma e forte
    Ispirata mi guida. A che? — Si vive.
    Quel gran problema scioglierà la morte.



NUOVA.


    Non voglio più cantare i vecchi amori,
    L'eterno aprile ed il chiaror di luna.
    Ho in uggia il cielo azzurro e gli astri e i fiori,
    La brezza, le barchette e la laguna!

    Odio le serenate, i mandolini,
    Le dame bionde e i pallidi garzoni,
    Quella folla di tristi fantoccini,
    Popolo da sonetti e da canzoni.

    Io voglio un nuovo canto audace e forte,
    Disdegnoso di regole e di rime,
    Voglio l'amor che rida della morte,
    Voglio del genio la pazzìa sublime!

    E se tu m'ami dell'amor ch'io voglio
    Baciami sulla bocca in faccia al sole,
    Fatti dell'amor tuo scudo ed orgoglio
    E la pugna sottentri alle parole!

    Col nuovo inno d'amor che vibra e freme
    E schiude il cielo all'anima rapita,
    Tenendoci per mano, andiamo insieme
    A vincer la battaglia della vita!



DESTINO.


    Egli mi disse: “Quanto sei mutata!
    Come hai gracile il corpo e il viso gramo!
    Dimmi che fai, fatale e sventurata?
            Io gli risposi: — T'amo! —

    Egli rise e mi disse: “Ti rammenti
    Come fu intenso e breve il nostro ardore?
    Come fur fuggitivi e risplendenti
            Giorni e notti d'amore?„

    Egli rise e mi disse: “Ti rammenti
    La nuova amante mia? l'altro tuo damo?
    Le tue menzogne ed i miei tradimenti?
            Io gli risposi: — T'amo! —

    Egli mi disse: “Addio. Oggi e in eterno
    Si disgiungon le vie che noi seguiamo.
    S'io ti rivegga mai, sia nell'inferno!„
            Ed io gli dissi: — T'amo! —

    Egli mi disse: “Demone morente
    E maledetto, lévati e va via!
    Vada in oblìo sepolta eternamente
            La tua viltade e mia!

    “O grigio, o sonnolento, o grave Oblìo,
    A ottenebrar la mente oggi ti chiamo:
    Strappa costei dal desiderio mio!„
            Ed io gli dissi: — T'amo! —

    Egli guardommi: un brivido lo scosse.
    Lento levò la mano, e sulla faccia
    Sulla pallida faccia mi percosse! —
             — T'amo! — E gli aprii le braccia.

            * * *

    Stretti ora l'uno all'altro e silenziosi
    Seguiam la via che mena a perdizione,
    E ci brucia negli occhi desïosi
            La struggente passione.

    Egli talor mi guarda spaventato:
    — “Come hai gracile il corpo e il viso gramo!„
    Io lo fisso nel volto appassionato
            E gli sospiro: — T'amo.



VIRGO.


    Crebbe fra le bestemmie e le percosse
    Quella gracile bimba spaventata!
    Morì a vent'anni, mite ed innocente,
    Quella piccola martire affamata.

    Or van per le stellate vie del cielo
    I poveri piedini ignudi e stanchi,
    E la tremula man coglie beata
    — Gigli d'argento! — i fulgidi astri bianchi.

    E gli angeli, stupiti e riverenti,
    Chinan gli alteri luminosi rai,
    Mirando in quel pallido viso stanco
    La bocca che non fu baciata mai!



VATICINIO.


    Quattro enormi carrozze: Ecco in viaggio
    I miei compatrioti di Boemia!
    Fan sosta nella piazza del villaggio.

          Sono zingari neri e barbuti
          E fanciulli ricciuti
          E zingarelle
          Snelle.

    — Qui da una giovin profetessa cieca
    Io voglio farmi dire la ventura,
    Per sapere qual gioia o che sciagura
                L'avvenire m'arreca.

    Le diedi la mia mano ed il mio nome:
    “Anny?„ ella dimandò, “ti dicono Anny?„
    Poi lenta scosse le sue folte chiome:
    “Rechi malanni, danni, affanni, inganni.„ —

    Disse “Tu piangi poco e ridi assai.
      Tu fino ad oggi non amasti mai.
              Ebben: oggi amerai.„
    Ed io risposi: — L'amo! —

    Disse: “Egli è forte e nobile e severo,
      Ed ha bruna la faccia e l'occhio nero.
              Ed egli t'ama. Vero?„
    Ed io risposi: — M'ama.

    Disse: “Egli t'ama, t'ama follemente,
      Teneramente, disperatamente,
              E, bada: eternamente.„
    Io non risposi, risi.

    “E quanto l'ami tu, tu sola il sai.
      E tu domani l'abbandonerai.
              Bada: non sbaglio mai.„
    Io non risposi, piansi.



MADDALENA.


    In bionde anella il folto crin piovente
    Sovra gli omeri ignudi, insino a terra
    Ne sparge la dovizia rilucente
    Inginocchiata innanzi al suo Signore.

    Sovra il grand'occhio cupo e fiammeggiante
    Miti s'abbassan le pesanti ciglia,
    E la vermiglia bocca supplicante
    Pietosamente trema e si fa muta.

    Le piccolette mani profumate
    Raccolte in croce sovra il sen, le invade
    Il volto, dalle tempia delicate
    Al bianco collo, in rosee ondate, il sangue.

    E il gran Maestro la contempla e tace.
    In fondo a' suoi divini occhi riposa
    L'infinita d'amor serena pace
    E la gran calma di perfetta fede.

    Una mano sottile or lievemente
    Su quella bionda testa reclinata
    Ei posa: sussultar, fremer la sente.
    E la chiama per nome: “Maddalena!„ —

    Oh! quale allor ne' grandi occhi raggianti
    Levati su di lui luce balena
    In sconfinato abisso di rimpianti!
    E Cristo dice: “Sorgi, Maddalena.„ —

    “Signor! È il mio cammin duro a tal segno
    Che lacerato ho il piè, la veste, il core!
    Qual rifugio mi date? qual sostegno?„ —
    — “Abbiam la nostra croce, Maddalena.„ —

    “Signor! La fronte e l'anima umiliata
    Quando rileverete col perdono?
    Quando darete pace all'affannata?„ —
    — “Al di là della croce, Maddalena.„ —

    “Signore, o mio Signor! Quando, giacente
    Sul vostro core la mia bionda testa,
    Affonderò la mia pupilla ardente
    Nel glauco mar di vostre luci calme?

    Onde la vampa, che per fibra e vena
    Precipita, calmar? Quando, o Signore?„
    E Cristo disse: — “Taci, Maddalena!
                   O Maddalena, taci!„ —



O MIA BAMBINA....


    “O mia bambina, io voglio idolatrarti
    E passare la vita a' tuoi ginocchi,
    E passare la vita a contemplarti,
    Pago d'un raggio de' tuoi splendidi occhi!„ —

    E riverente ei mi guardava in viso,
    Poscia s'inginocchiava: “O mio tesoro,
    Tu mi sei fede e patria e paradiso;
    Tu se' la mia Madonna: ecco — io t'adoro!„

    — Madre di Dio! fui come Te indulgente
    Per que' grand'occhi nel mio volto fissi:
    Sorrisi, e mi chinai timidamente:
    “Non adorarmi, baciami!„ gli dissi.



AVE, ALBION!


    Tetra, nebbiosa, gelida Inghilterra,
    Aborrito paese ov'io son nata,
    Colla tua buona gente addormentata,
    Che Iddio ti danni, maledetta terra.

    O tristi inglesi dai capelli gialli,
    O magri inglesi rosei e scipiti,
    È forse il freddo che v'ha istupiditi?
    Lunghi fagotti di paracqua e scialli!

    O savia gente dai sereni affetti,
    Dal sommesso parlar, dal riso fioco,
    Datemi un po' di sole, un po' di fuoco,
    O inglesi freddi, inglesi maledetti!

    Datemi il folle amor, l'odio furente
    E le vendette de' meridionali!
    Lo sfolgorar di sguardi e di pugnali,
    L'impeto d'ira, e il perdonar repente.

    Datemi il facil riso e il pianger forte
    E la favella dell'Italia mia!
    Nei vostri _plaids_ portatevele via
    Le vostre idee convenzionali e storte.

    Via, nazïon di raffreddati! Ed ora
    Che il tuo fangoso suol più non m'alloggia,
    Popolo secco sotto eterna pioggia,
    Va co' tuoi grandi piedi alla malora!



RITORNO.


    Oh, come t'ha baciato in viso il sole!
    Come sei bruno e forte e grande e bello!
    Come hai teneri gli occhi e le parole,
                O mio fratello!

    L'assenza tua mi rese lungo il giorno.
    Come fu desolante il nostro addio!
    E come benedico il tuo ritorno.
                Amico mio!

    Guarda: mi vengo a mettere in ginocchi:
    Vorrei posar la testa sul tuo petto,
    Così, senza parlar, e chiuder gli occhi,
                O mio diletto!

    Son sola al mondo, tutta sola ormai.
    Ed io non voglio che tu vada via!
    Senti.... non mi baciasti ancora mai,
                Anima mia! —



LASCIAMI ANDARE.


    Lasciami andare ove il fato mi vuole,
    Lasciami andare!
    Sono assetata di gloria e di sole!
    Lasciami andare!

    Non mi sgomenta il periglio remoto,
    La meta oscura —
    Sfido le tenebre, sfido l'ignoto!
    Non ho paura.

    Ozio codardo, ti sprezzo e detesto,
    Lasciami andare!
    Ferree catene, v'infrango e calpesto,
    Voglio lottare.

    Schiava, o fantocci, del vostro comando
    Io non sarò.
    Viver dormendo, morir sbadigliando
    Non voglio, no!

    Voglio combattere, voglio soffrire!
    Vita, se cedi,
    Voglio combattere, voglio morire
    Su ritta in piedi!

    Lasciami andare ove il fato mi vuole,
    Lasciami andare!
    Sono assetata di gloria e di sole!
    Lasciami andare!



AUT-AUT.


    Io voglio il sole, io voglio il sole ardente
    Che l'ebbrezza mi dia del suo splendore,
    O pur la buia notte ed il fragore
    Forte della tempesta alta e furente.
            La grigia nebbia il core la detesta:
            Datemi il cielo azzurro o la tempesta.

    Voglio la libertà! la sconfinata
    Intera libertà la voglio mia!
    O pur la tetra e stretta prigionia
    Di quattro travi e la cassa inchiodata.
            Oh, se non m'è concesso l'infinito,
            Frante sian l'ale, e il core seppellito.

    E voglio l'amor tuo; l'intero, ardente,
    Illimitato amore, o l'odio intenso.
    Ma sia l'odio o l'amor, lo voglio immenso!
    Io non sopporto un guardo indifferente.
            L'amor che tutto soffre e tutto dona
            O l'odio che non piega e non perdona.

    O tutto o nulla io voglio: il riso o il pianto,
    Il sole d'oro o l'uragano nero,
    La stretta bara o l'universo intero,
    E dallo sguardo tuo martirio o incanto!
            Tutti i tuoi baci dammi e tutto il core,
            O la croce sublime del dolore!



VITA BREVE.


I.

UNA LETTERA.

    Sto bene, proprio bene! Ho un po di tosse
    Che passerà quando vien primavera.
    Vedessi poi che belle guance rosse!
    Fanno invidia alle bambole di cera.

    Ora la mamma non mi sgrida mai,
    E babbo poi! Mi bacia ogni momento.
    Mi guarda in faccia e dice: Come stai?
    E s'io non rido non è mai contento.

    Sono felice! Vivere è un incanto.
    Sai che domani compio i diciott'anni? —
    — Poveri morti! È triste il camposanto.
    Nevica!... Addio. Salutami Giovanni.


II.

COMMIATO.

    Oggi sta meglio. Trepidante e lenta
    Par le torni la vita; il viso bianco
    A noi rivolge, e la pupilla spenta
    Rifulge di chiarore incerto e stanco.

    Il suo passato le ritorna in mente.
    Ella si leva, frale e delicata,
    E s'asside fra noi tacitamente,
    Col suo blando sorriso d'ammalata.

    Noi carezziamo trepidi, rapiti,
    Il sottil viso e le dorate chiome;
    E la curiamo con parole miti
    E tenerezze che non hanno nome.

    E noi sappiamo che non c'è speranza,
    Che nulla al mondo la potrà salvare!
    Ma quando torna alla sua cheta stanza,
    L'andiam con un sorriso a accompagnare.

    Chiusa la porta, ci guardiamo in faccia
    Senza parlare!... — E ancor ci sta sul viso
    — Spettro di gioia che il terrore agghiaccia —
    La tragica menzogna del sorriso!



NELL'ALBUM.


    Bel canarino dalle penne d'oro,
    Dammi l'addio: riprendo il mio viaggio:
    Al volo anela impazïente l'ala:
    Patria non ha l'uccello di passaggio.

    Sono uccel di passaggio, ed ha il mio nido
    Per suo solo confine il firmamento.
    M'è tetto l'uragano e culla il mare.
    La ninna-nanna me la canta il vento.

    Sono uccel di passaggio e non ho amici:
    Nuvole ed onde le compagne mie!
    Ma capricciose, infide e passaggere,
    Noi c'intendiamo senza ipocrisie.

    Onde furenti e nuvoloni neri,
    Seguiam la stessa strada burrascosa.
    Spinti dalla bufera della sorte,
    Abbiam la stessa fede dolorosa.

    Chi non ha patria non conosce esilio,
    Chi non ha amici non sarà tradito.
    Onde furenti e nuvoloni neri
    Abbiam la stessa meta: l'Infinito.

    — Bel canarino nella gabbia d'oro,
    Dalla finestra mi richiami? — Addio.
    Bel prigioniero dalle penne d'oro,
    Ho l'ali e il canto: l'universo è mio!



SULL'ATLANTICO.


    Urla in tempesta il mar; lo sferza il vento
    E ne solleva l'onde furïose,
    Bianche dall'ira, torbide, spumose;
    Ed attraverso il ciel per lo spavento
    Fuggono turbe di nerastre nubi.

    Invan lo sguardo in affannoso intento
    Cerca sicuro asilo ove posarsi:
    Sol mira l'acqua in turbini levarsi
    Su.... su.... poi ruinar, il bastimento
    Seco nel furibondo avel traendo!

    A destra, a manca, e intorno, intorno, intorno
    L'acqua che si dibatte, e s'alza, e piomba,
    Che si spalanca in sconfinata tomba,
    Che stride ed urla! Intorno, intorno, intorno
    L'acqua furente in vortici travolta!

    Ritta, co' pugni stretti e il guardo fisso,
    Sto sulla poppa, e penso a casa mia.
    A te penso! Ed il core in agonia
    Dell'amor suo mi scopre il tetro abisso.
    In quella vastità piombo e rovino.

    O mare, mare! quanto sei piccino!



LIED.


                                                        (Da H. HEINE)

    La mano tua mi posa, angelo bello,
    Qui sovra il cor: lo senti, che rumore?
    Entro dimora un falegname: — Amore!
    Che batte e batte a colpi di martello. —

    E notte e giorno a colpi di martello
    Mi sta la bara fabbricando in core.
    — Su via, fa presto! Sono stanco, Amore! —
    Lo senti che s'affanna, angelo bello? —



AD UN GIOVANE MEDICO.


    Sei bello, è vero! Stranamente bello,
    Come un giovane dio superbo e forte!
    Hai la fronte ispirata e gli occhi ardenti;
    Fra l'altre tue virtù mi fai la corte.

    Ma va, ti leva. Chino a' miei ginocchi
    Non ti voglio veder: tu sei soldato!
    O campion della vita, ti rileva,
    E afferra il tuo stendardo insanguinato.

    Combatti, va! T'attende con le squadre
    Tetre e feroci l'inimica Morte.
    Combatti, va! Ti slancia nella mischia,
    Come un giovane dio superbo e forte!

    Ti stendono le braccia ischeletrite
    L'infamia, la miseria, il morbo e l'onta;
    Ti chiaman gli urli e i rantoli selvaggi
    Del corpo che alla corruzion s'appronta.

    Dovrai lottar contr'odio ed ingiustizia,
    Contro l'insulto e la vigliaccheria:
    T'accoglieranno imprecazioni ed ire
    E testarda ignoranza e villania.

    Ma va, ti dico, va! Dona a chi muore
    La vita, il sangue tuo, la tua bellezza;
    Ai vecchi, ai deboli, agli agonizzanti
    Consacra la gagliarda giovinezza.

    Lavora e soffri. Soffri e lotta e vinci.
    L'immenso amor della virtù ti sproni
    A far della tua vita un gran poema,
    Un'epopea di glorïose azioni!

    Compi la tua missione, e poi ritorna.
    Io sorridendo t'aprirò le braccia.
    Torna co' segni del vaiuolo nero
    E la superbia del coraggio in faccia!

    Allora i baci miei saluteranno
    Te sull'onesta fronte sfigurata,
    E lietamente affiderò la destra
    Alla tua mano ruvida e abbronzata.

    Verrò a posare il mio visetto acceso
    Contro le guance tue, infossate e smorte.
    E sarai bello sempre, sarai bello
    Come un giovane dio, superbo e forte!



CHI SA!...


    La lunga notte mi negò ristoro,
    Alfin l'alba è risorta.
    Nell'orïente il ciel si tinge d'oro,
    Ed ogni stella è morta.

    Chi sa se è vero ch'avvi un Dio lassù!
    Un Dio ch'ama e conforta!
    — Io penso a voi che non m'amate più,
    Ed a mia mamma morta.



VALZER.


      Fra le tue braccia
      Che mi circondano,
      Che m'incatenano,
      Reggono, stringono,
      M'afferra il vortice
      Vertiginoso
      Del valzer rapido.
      Senza riposo
      Leggere volano
      Coppie danzanti,
      La terra sfiorano
      Pallide, ansanti....
      Portami, involami,
      Più presto ancora;
      Stringimi, reggimi;
      Danziamo ognora!

    Fra le tue braccia
    Trepida palpito,
    Leggero fremito
    Le membra scote.
    Ora che importami
    D'odio e d'amore
    Il van delirio?
    Sto sul tuo core!
    Ne ascolto il battito
    Rapido e forte....
    E ognora passano
    Leggere e smorte
    Le coppie rapide
    Danzanti ancora. —
    Stringimi, involami,
    Danziamo ognora!

        Fra le tue braccia
        Che mi circondano,
        Che m'incatenano,
        Reggono, portano,
        Mentre si sfiorano
        I volti intenti
        E si confondono
        Gli aliti ardenti,
        Le mani stringonsi
        Calde, infocate,
        Le labbra tremano,
        Le innamorate
        Anime baciansi. —
        Ohimè! Vacillo....
        Cessa la musica:
    Mi ringrazii, t'inchini e vai tranquillo.



INCONTRO.


    Io l'ho incontrato e mi son fatta smorta
    — Oh! come mi son fatta smorta in viso! —
    L'ho salutato allegra, ed ho sorriso,
    E gridava il mio core: Oh, fossi morta!

    Rivederlo così, freddo e insolente
    Passarmi accanto e salutarmi a pena!
    Ed io dover mostrar fronte serena,
    Dover mostrar che non m'importa niente!

    M'ha invaso l'alma e scolorato il viso
    Un'onda d'amarezza e di dolore;
    Ma calma e altera, con la morte in core,
    L'ho guardato negli occhi ed ho sorriso!



RITRATTO.


    Egli era per lo più timido e muto,
    Ma pur talvolta stranamente audace;
    Ora seguendo d'un'idea fugace
    L'impulso, ed ora a lungo irresoluto.

    La fronte di poeta, alta e pensosa,
    Le labbra strette e raro il bel sorriso,
    Ed i capelli bruni e smorto il viso
    E bruna la pupilla luminosa.

    Era capace in una volta sola
    Di parlar molto senza dir nïente,
    E di dir molto senza far parola!

    Era distratto, languido, indolente.
    — Un giorno darà vita, anima e Dio
    Per l'amor suo — se quell'amor son io!



VIA!...


    Il treno fischia e me lo porta via;
    Io resto sola col mio gran dolore,
    Tepida ancor la bocca de' suoi baci,
    Dalla sua stretta ancor fremente il core,

    Non piango. Muta, lenta, trasognata
    Ritorno a casa; alla mia casa vuota!
    Ed all'entrarvi un brivido mi coglie.
    Sembrami quasi una dimora ignota.

    Sembrami di vagar, sognando, al buio,
    D'aver paura e non poter gridare,
    D'esser cacciata e non poter fuggire,
    D'essere stanca e non poter sostare.

    Sono rimasta co' suoi baci in viso
    E in cor lo strazio e la tristezza mia,
    Con lo sconforto e con lo struggimento. —
    Il treno fugge e me lo porta via.



ASSENZA.


    Come un nido di rondine caduto
    D'inverno e nella neve abbandonato
    È la stanzuccia tua ch'ora hai lasciato.
       — V'andai stamane. V'era una fragranza
    Ambrata di lavanda e sigaretta.
    Piena di libri, tepida e ristretta,
    Or non t'alberga più, povera stanza!
    Come un nido di rondine caduto,
    Deserta e triste da che t'ha perduto!

    Come un nido d'allodole al mattino,
    Allor che tutte incontro al sol bramose
    Fuggon, scotendo l'ali rugiadose,
      Tale è il mio cor. — Vêr la dimora ignota
    Ch'oggi ti cela stendonsi le braccia,
    E gli occhi in pianto cercan la tua faccia.
    Povero cor! Povera stanza vuota.
    O assenza! O lungo inverno! o sconsolato
    Nido di rondinelle abbandonato!



L'HO RIVEDUTO!


            L'ho riveduto!
    Gli volarono incontro giubilanti
    A stormo i sogni e i desideri miei!
    Allodole dall'ali palpitanti,
    Rondini irrequiete ed usignoli,
    Sbattendo l'ali e prorompendo in canti,
    Gli volarono incontro i sogni miei!
            L'ho riveduto!
    Io non gli seppi dare il benvenuto.
    Rigida e bianca l'ho guardato in faccia,
    Con gli occhi estasïati e il labbro muto.
    Forse la luce d'una gioia immensa
    Sul mio pallido volto egli ha veduto,
    Poichè, senza parlar, stese le braccia.

            L'ho riveduto!



PRESENTIMENTO.


    Sì; mi ha sorriso e m'ha baciata ancora,
    Ma un freddo m'è rimasto in fondo al core,
    Un buio, un vago senso di terrore!
    — E l'anima m'ha detto a voce bassa:
                — L'amore passa! —

    Sì; come sempre m'ha serrato al core,
    Ma son rimasta smorta smorta in viso.
    Facea male a me stessa il mio sorriso.
    Tanto me lo sentìa languido e stanco
                Sul viso bianco!

    Mi sfugge l'amor suo, come la sabbia
    Serrata entro le dita fugge, fugge....
    E nella febbre e l'ansia che lo strugge
    Richiama a grida disperate il core:
                Amore! Amore!

    Io con ambe le mani copro il viso,
    Per non veder la notte che s'avanza.
    Ritta nel core, eterna, la Speranza
    Guarda nel buio. Cerca nel lontano
                Un raggio. Invano!



_MÉNAGE._


    Oggi sposati. Ei la conduce a casa,
    Del vago regno timida regina.
    Ella a lui tien la mano stretta stretta,
    Ed il bel volto trepida reclina.

    Egli orgoglioso e lieto se la trae
    Di stanza in stanza. — Ella così ritrosa
    Tutta arrossendo rassomiglia un fiore
    Che in un sarebbe e sensitiva e rosa!

    Giunti sul limitar del vago nido
    Ove a quest'uccelletto spaventato
    L'ali frementi legherà Cupìdo,
    Egli dinnanzi a lei s'è inginocchiato:

    E: “A te fo voto consacrare intero
    L'avvenire e la vita! Al mio desìo
    Basti tu sola: e gioia e luce e gloria
    Cercherò nel tuo sguardo, angelo mio!„ —

    Sposi da un mese. Egli ritorna a casa
    Allegro, frettoloso, impazïente:
    Sale i gradini a tre per volta, e pensa
    Che sopra attende un viso sorridente,

    E porta, e braccia aperte ad incontrarlo:
    Ella dalla finestra l'ha veduto.
    E sempre corre ad aspettarlo fuori
    Per dargli sulla soglia il benvenuto.

    Linda, tutta freschezza e leggiadrìa,
    D'un nastro azzurro i bei capelli adorni....
    Egli la bacia, e poi: “Sposina mia,
    Sai che diventi bella tutti i giorni?„ —

    Sposi da quattro mesi. Ei torna a casa.
    “Addio, Nina. Stai bene? È pronto il pranzo?„
    Ella, le mani nere e il viso acceso,
    Torna in cucina a far bollire il manzo. —

    Sposi da un anno. Egli ritorna a casa
    Stanco, di mal umore, impolverato:
    Ella gli va ad aprire, ed è in ciabatte
    E in abito da camera slacciato.

    — “Eh! ci vuol altro! Non s'ha tempo o voglia
    Di starsene allo specchio a far toletta:
    Quel bimbo strilla tutto il santo giorno.
    Che vita è questa, Vergin benedetta.„

    Egli dalla poltrona la contempla
    Così mal messa, spettinata tutta,
    Intenta a spolverar tavola e sedie.
    È dimagrita. Egli la trova brutta.

    E la sua mente torna a un quartierino
    Di poche stanze chiare ed eleganti,
    Dal lucido mobiglio, dai tappeti
    Morbidi, da' cristalli scintillanti.

    E la sua mente fermasi e riposa
    Sulla figura bella ed indolente
    Di donna inciprïata e bionda e bianca
    In lunga veste serica movente.

    Ancora ne ricorda l'indirizzo.
    Sicuro. — È un anno o più da che la vide....
    — Intanto la sposina scarmigliata
    Allatta il suo piccino e gli sorride.



TUTTI I SANTI.


    È il dì dei Santi. — Ogni donnina pia
    Oggi prega più a lungo dell'usato,
    All'Angelo Custode od a Maria,
    O al Santo protettor che le fu dato.

    Io pure al Santo mio fo' voti e preci,
    Mi prostro innanzi al mio buon Santo anch'io.
    Ridete? Ma ne val de' vostri dieci
              Il Santo mio!

    Non se ne parla nella Sacra Storia:
    Non per la fede torturato e ucciso,
    Non lo circonda un'iride di gloria,
    Nè siede tra gli eletti in paradiso.

    Mai non fu chiesa eretta a suo onore;
    Ma tempio gli è l'eterna anima mia,
    Ed un altar gli ho fatto del mio core
    Ove regni in eterno! — E così sia.

    I miei pensieri, alati cherubini,
    Gli stanno attorno e cantan l'orazioni.
    Cantan per messa i versi miei divini:
    E Cupido dirige le fazioni!

    Cupido veste l'abito talare,
    Cupido fa da Padre confessore,
    Accende le candele sull'altare
    E con la face sua m'incendia il core!

    Il Santo mio dall'alto altar sorride.
    E cessan preci, penitenze e affanni;
    Chè ogni altra cosa oblìa chi mai lo vide
    Nell'altera beltà de' suoi vent'anni!

    E quanto a la sua _Santità_, vorrei
    Che rimanesse un punto incontrastato:
    L'hanno martirizzato gli occhi miei,
    E il mio amore l'ha santificato!



POVERI MORTI!


                                                           2 novembre

    In lugubre cadenza le campane
    Vogliono ricordarci i nostri morti;
    E noi, che pure vi crediam risorti,
    In vesti nere andiamo al Camposanto,
    A rammentarvi che v'amammo tanto,
            Poveri morti!

    Vedeste quanti fiori vi rechiamo!
    D'ogni foggia e color, croci e corone!
    De' fiori freschi non è la stagione
    (Che vivon tutt'al più una settimana),
    Ma quelle di perline o porcellana
              Son di durata!

    Se gli occhi aveste ancor, poveri morti,
    Sui vostri marmi leggereste tutto
    L'amor che vi portammo e il nostro lutto.
    Ed anche un grande elenco di virtù
    Che forse voi non ricordate più
              D'aver avute.

    Ma si fa tardi. Al caso un altro _Requiem_
    In carrozza al ritorno è presto detto,
    O guai! con questo freddo maledetto
    Si corre il rischio di pigliar malanno.
    Che autunno indiavolato abbiam quest'anno!
              — Cocchiere, a casa. —



ERA D'APRILE.


    Era d'Aprile e si faceva sera,
    Ma il del portava ancor la chiara veste
    Di vivo arancio e pallido celeste,
    Su cui passava rapida una schiera
            Di brune rondinelle.

    Chiamandosi tra loro mestamente
    Le tortorelle si facean sentire;
    La glicine che stava per fiorire
    L'olezzo univa al balsamo languente
            Di narcisi e vïole.

    L'un presso all'altro correvamo in traccia
    D'anemoni e di rose pallidette.
    Ci tenevam le mani strette strette,
    Non osavamo più guardarci in faccia,
            Non osavam parlare.

    D'un tratto egli s'arresta, al cor mi serra
    Col viso smorto e le pupille accese....
    Non saprei dire i baci che mi prese!
    Ma tutti i fiori son caduti in terra,
            Nè li abbiamo raccolti.



TRA POCO.


    Tra poco, quando cesserò d'amarti,
    Ritroverò il mio riso impertinente,
    Ritroverò le mie perfidie e l'arti
    Di torturare e innamorar la gente.

    Tra poco, quando cesserò d'amarti,
    Serena, smemorata e senza addio,
    Contenta di fuggire e di scordarti
    Riprenderò il vagabondaggio mio.

    Tra poco, quando cesserò d'amarti,
    Scontrandoti per via smorto e severo,
    Passerò accanto senza salutarti
    Cogli occhi rilucenti e il cor leggero.

    Amar stasera ed obliar domani,
    Ecco il mio fato. Oh, tu cogli in quest'ora
    Il fior de' baci miei, gl'incanti strani
    Della mia fantasia che t'innamora.

    No, non impallidir! baciami ancora.



VIENI, AMOR MIO!


    Vieni, amor mio! Vieni, è levato il sole
    E la fiorita via ride, e ci attende.
    Quanta luce nel cielo! E quanto azzurro
    Negli occhi nostri fluttua e risplende!
      Oh vieni, andrem di nuova sorte in traccia,
      Tu del tuo genio, ed io di te sarò.
      Tu mi sorreggerai fra le tue braccia,
      Io col sorriso ti conforterò!

    Se avremo fame, correremo in cerca
    Di selvatici frutti per la via.
    Si dormirà sotto alle stelle blande
    Colla tua bocca sulla bocca mia.
      Ed al meriggio farem sosta all'ombra.
      Di misteriosi giganteschi fior;
      Tu colla testa sulle mie ginocchia
      Sognerai l'avvenire ed io l'amor!

    Colla mia man sfiorandoti i capelli
    D'antichi eroi ti ridirò la storia.
    Vedrò destarsi nella tua pupilla
    L'ardor della battaglia e della gloria.
      La tua pupilla azzurra ed indolente
      Vedrò di glauche fiamme sfolgorar,
      E forte e battagliero e prepotente
      Lo spirto sorgerà pronto a pugnar!

    Vieni, amor mio! Vieni, è levato il sole,
    E di zaffiri e d'oro il ciel cosperso.
    Andiam col nostro giubilo d'amore
    A mettere a soqquadro l'universo!

    Andiam col gaudio nostro, andiam col riso
    Audace della nostra gioventù
    A sfondare le porte al paradiso
    E riportarne l'estasi quaggiù!



C'ERA UNA VOLTA.


    C'era una volta un cavaliere audace.
    Ogni giorno, ogni notte
    A mille belle egli rapìa la pace.

    Languivano per lui fiere duchesse
    E timide fanciulle,
    Vergini bianche e bionde principesse.

    Ma un giorno egli scontrò strana e ridente
    Una zingara bruna
    Che lo fissò col grande occhio insolente.

    “Vuoi tu amarmi?„ diss'egli; e lei rispose:
      — Io non ti voglio amar. —
    Un bacio allor sulla sua bocca ei pose.

    Ella rabbrividì. Ma il capo scosse:
      “Io non ti voglio amar.„ —
    Egli a lei ribaciò le labbra rosse.

    Le brillava nel riso e nell'oscura
      Pupilla un cupo ardore.
    Le brillava un pugnale alla cintura.

    Essa l'amò. — L'amò! — Poscia la forte
      E piccoletta mano
    Legollo a lei per sempre con la morte.



MENTRE CANTO.


    Due accordi di cembalo o chitarra. —
    Chiudo gli occhi un istante
    E poi schiudo le labbra alla bizzarra
    Mia canzon prediletta.
    Affascinante
    N'è la cadenza languida, variante
    Col ritmo audace e l'impaziente stretta,
    Col molle ritornello e appassionato
    Accordo inaspettato che lo termina
    Canto la primavera, il sole tepido,
    L'erba fragrante di vïole mammole,
    L'azzurra vastità del cielo limpido,
    I nuovi nidi d'usignoli e allodole.
    Canto il superbo gaudio, il folle giubilo
    De' miei vent'anni e della mia bellezza,
    L'amor, l'incanto, l'estasi, l'ebbrezza
    Dell'esistenza e della gioventù!

      Canto, e le note limpide
      Prorompono vibranti,
      Acute, gaie, libere,
      Giulive, palpitanti.
      Canto, e rapita l'anima
      Segue la melodìa,
      Grido, singulto, fremito
      Diviene l'armonìa;
      Strana, potente, altissima
      Nell'aria si diffonde,
      La terra il mar ne echeggiano,
      L'empireo risponde;
      Il cupo mondo invadono
      Onde di suono — e oblìo; —
      E in cielo ascoltan gli angeli
      Estasïati, e Iddio!

    Canto la primavera, il sole tepido,
    L'erba fragrante di vïole mammole,
    L'azzurra vastità del cielo limpido,
    I nuovi nidi d'usignoli e allodole.
    Canto il superbo gaudio, il folle giubilo
    De' miei vent'anni e della mia bellezza.
    L'amor, l'incanto, l'estasi, l'ebbrezza
    Dell'esistenza e della gioventù!

    Pallida taccio. E intorno a me si leva
    D'approvazione un blando mormorìo;
    E mamme di garbate signorine
    Chiedono il nome del maestro mio.

    A lor rispondo: Egli non fa per voi,
    Mamme cortesi, il mio maestro è Dio!

    O buone mamme, vi farìa paura
    Il direttor d'orchestra che ho nel cuore:
    Ei batte il tempo fuor d'ogni misura,
    È maestro Cupìdo, dio d'Amore!

    Che batte e batte e lacera a brandelli
    La viva e palpitante anima mia,
    Per farne delle rime e dei stornelli,
    Per farne un canto ed una melodia.

    O mamme cui la musica è gradita,
    Ve ne son tanti di maestri buoni!
    La scuola mia si paga colla vita.
    Andate da Lamperti e da Leoni!



MA NON RAMMENTI.


    Ma non rammenti più, di', non rammenti
    Che s'usciva a braccetto per la via,
    L'un contro all'altro stretti e sorridenti?

    Ma non ricordi che s'andava fuori
    Come sposini di provincia? alteri
    Di portar per il mondo i nostri amori?

    Ma non ricordi come s'esultava
    Sfrontati e lieti, quando per la via
    Si fermava la gente e ci guardava?

    Ma non rammenti più come la sera
    Si ritornava a casa frettolosi?
    Ed io per te scordava la preghiera.

    Ma non rammenti, non rammenti tu
    Che s'usciva a braccetto per la via? —
    Ed ora non ci salutiamo più.



RANCORE.


    Forte, superbo e biondo come il sole,
    Io l'adoro in ginocchi!
    Tremante al suono delle sue parole,
    Vinta dal glauco riso de' suoi occhi.

    Ciò che a noi serbi l'avvenire, ignoro;
    Quali nuove dolcezze,
    Quale follìa di baci e qual tesoro
    D'estasi strane e non sognate ebbrezze

    Noi strapperemo al minaccioso fato,
    D'indovinar non tento.
    Ma un rancore profondo ed implacato
    Serbo nel core, e irosa lo rammento.

    Soli, di sera. Il fuoco scintillante
    Gl'irradïava il viso;
    Aveva sulla bocca arsa e tremante
    Appassionato e tenero il sorriso.

    Io lo guardava e mi sentìa morire.
    Mi serravan la gola
    I singhiozzi di spasimo e desire:
    Io lo guardava senza dir parola.

    Quand'egli si levò, distolse il viso
    Pallido e risoluto.
    — E il folle desiderio fu conquiso,
    Il nostro primo bacio fu perduto!

    Or quando in braccio a lui giaccio rapita,
    Soavemente stanca,
    Da baci senza fine illanguidita,
    Piegando sul suo cor la faccia bianca

    Io gli susurro: Non perdono mai.
    E ancor palpito e fremo
    Pensando che fra i baci che mi dai
    Quel primo bacio non ritroveremo! —



SINDACO DI VILLAGGIO.


    Presto verrà l'oblìo. —
    Io scorderò il color degli occhi tuoi,
    Tu il suon della mia voce e il nome mio.

    Quando vedrò mandorlo e pesco in fiore,
    Un indistinto sovvenir di te
    Si desterà, cantando, nel mio core.

    E nell'anima tua la rimembranza
    Incerta, trepidante sorgerà
    Come fantasma nella lontananza,

    Se risonare udrai la melodìa
    Tenera e dolce che cantai per te,
    O l'araba fantastica follìa

    Che ieri a sera impallidir ti fè;
    Si desterà, cantando, nel tuo core
    Un indistinto sovvenir di me.

    Segue ciascuno intanto i suoi destini:
    Io torno a battagliar co' sogni miei,
    Tu a viver fra le bestie e i contadini.

    Io torno lieta al mio vagabondaggio
    In cerca di fortuna e cielo bleu,
    Co' zingari e gli uccelli di passaggio.

    E tu badi all'ingrasso dei terreni,
    Al buon mantenimento delle stalle,
    A teste vuote e borsellini pieni.

    E tu ritorni ad allevar bestiame,
    A far l'amore con le contadine —
    Ed io torno a sognar cose divine,

    A scriver versi, ed a morir di fame



VIOLE BIANCHE.


    Vi mando le vïole pallidine
    Che hanno perso il colore e la fragranza,
    Ma serban delle azzurre sorelline
    Il nome e la sembianza.

    Tale un amor da volontà conquiso
    S'erge pallido e triste in mezzo al core;
    Un amor senza baci e senza riso
    Ma ch'è pur sempre amore!



NON SARÀ MAI!


            Non sarà mai! —
    No! sul mio cor, fra' miei capelli sciolti
    Tremante il viso non asconderai;
    Nell'onda lor come da notte avvolti
    Baci di fuoco troverem giammai!
    Nè al mio cantar, mentre sognando ascolti,
    L'anima tutta m'abbandonerai!

    Cupa s'erge fra noi la gran barriera
    Che niuna forza abbattere potrà.
    S'erge crudele, gigantesca, austera,
    S'erge fondata sull'eternità.
    Fra le mie labbra e la tua chioma nera
    Fra l'esistenza e la felicità!

    D'acciaio, di granito o d'adamante
    Fosser le mura, io le rovinerei.
    Dalla mia mano arrovesciate, infrante,
    Dovrebbero piombare a' piedi miei,
    E sulle lor rovine il trionfante
    Arco del nostro amore innalzerei! —

    T'avrei portato de' miei baci il fiore
    E di mia lieta gioventù il tesoro.
    Ma l'estasi mi vietano e l'amore
    Una fragile donna, un cerchio d'oro,
    E quattro scarabocchi d'assessore!
    Non sarà mai ch'io mi ribelli a loro.
            Non sarà mai!



NOTTE.


    Sorride ella e dischiude
    De' suoi occhi l'azzurra meraviglia,
    Chè sulla bocca piccola e vermiglia
    Il suo giovane amante l'ha baciata.

    Raggian le stelle eterne
    Su nel mite fulgor cupo de' cieli.
    Ella ride; e con grandi occhi crudeli
    La Morte, nell'oscurità, la guarda.



QUANDO SARÒ PARTITA.


        Quando sarò partita, piangerai.

    Alta la testa e il viso indifferente,
    Riderai forte, riderai sovente;
    Ma la mia voce non soffocherai,
    Che in fondo al cor ti sonerà fremente.
        No! la mia voce non la scorderai.

    Quando sarò partita, studierai
    Chino sovra i tuoi libri attentamente;
    Ma ti starò dinnanzi sorridente,
    Ed echeggiar nel vuoto core udrai
    Il suon del riso mio, lieto, insistente.
        Il mio sorriso non lo scorderai.

    Quando sarò partita, ingrasserai;
    Mangerai bene; e pacificamente
    La notte dormirai. Ma, in sogno, ardente
    Sul viso il soffio mio ti sentirai,
    E i baci miei ti renderan demente:
        Le mie carezze non le scorderai.

    Quando sarò partita, m'amerai;
    Diverrai meco tenero, indulgente,
    M'amerai capricciosa ed insolente.
    Leggera e senza cuore m'amerai.
    Mi stenderai le braccia avidamente
        E desolato mi richiamerai!

        Quando sarò partita, piangerai.



IDDIO, CHE VUOI DA ME?


    Und ein Narr wartet auf Antwort.
                      H. HEINE.

    Iddio, che vuoi da me? Quale la meta?
    La strada mia qual'è? Chi me la vieta?
    Ove tende quest'alma irrequieta
          E questo cor ribelle?

    A che m'hai fatta, Iddio? Donde mi viene
    La brama immensa d'un ignoto bene?
    E lo spirto restìo chi lo trattiene?
          Chi mi sbarra la via?

    Oh! Sentir l'ali fremere e vibrare,
    E non poterle sbattere, spiegare,
    E non potersi spingere, slanciare
          Nello spazio infinito!

    Oltraggio ed ironia! Dio ne risponda:
    Mentre un mare di luce il cor c'innonda,
    Dobbiamo, al buio, sulla terra immonda
          Brancolando aggirare!



IO SONO STANCA.


    Io sono tanto stanca di lottare:
    Dammi la pace tu, che solo il puoi!
    Io sono tanto stanca di pensare:
    Dammi il sereno de' grand'occhi tuoi!

    Io sono tanto stanca di sognare:
    Or tu mi desta a giorno glorïoso!
    Io sono tanto stanca di vagare:
    Legami l'ale, e chiamami al riposo.



APPUNTAMENTO.


    Io l'attendo convulsa, irrigidita. —
    — Egli verrà, fremente e senza voce,
    Con la superba faccia impallidita
    Ed il sorriso splendido e feroce.

    Verrà. L'attendo. — E penso a mia sorella,
    Mia timida sorella innamorata,
    Che avea sì mite il guardo e la favella
    Ed il pallido viso d'ammalata! —

    Egli rideva. Ella era moribonda,
    Agonizzante in braccio a me giacca;
    Ed io, di sopra a quella testa bionda,
    Il suo riso guardava — e non piangea.

    Ella è morta. Egli m'ama. — E orrendo, orrendo
    A me brucia nel sangue un cupo e strano.
    Desiderio di lui! — Perciò l'attendo.
    Ed ho in tasca un coltello catalano.



APRILE.


    Lascia i tuoi vecchi libri e dammi un bacio,
    Spalanca le finestre: ecco l'April!
            Che odor di vïole!
            Che cinguettìo di rondini!
            Usciamo, usciamo al sole.
    Ho la veste e i pensier color del cielo;
    Vedi, anco gli occhi! — Usciamo. — Ecco l'April!

    La bianca veste della terra ha sciolto
    Impazïente e vincitore il sol:
            Di sue luci focose
            Egli la vede timida,
            E la copre di rose.
    Paion farfalle i fior, tremuli al vento.
    Mette l'ale ogni cosa e scioglie il vol!

    E non vi son rancori a cancellare?
    Torti ed oltraggi a riparar non v'han?
            Non abbiamo nemici?
            Perdoni a dare o chiedere? —
            Noi che siamo felici
    Usciamo, usciamo a salutar la gente,
    Gl'ingrati cui l'April sorride invan!

    E a chi ci vuol del male andremo a offrire
    Un gran mazzo di primole e la man.



ESTETICA.


    Dio, siete buono! — Io lo vorrei gridare
    Alto così che in ciel m'udisse Iddio
    E via pel mondo lo vorrei lanciare,
    Come sfida ai malvagi, il grido mio.

    Per il mondo cattivo e triste e stanco
    Vorrei che la mia fede trïonfante
    Andasse come un grande angelo bianco
    Con l'ali aperte e il viso sfolgorante.

    Vorrei che dietro a lei, folli e rapite,
    Tese le braccia e con la fronte al sole,
    Seguissero le genti sbigottite
    Al gran richiamo delle sue parole.

    Che importa se schernendo a chi gli crede
    Dietro al mistero azzurro Iddio non c'è?
    Resti, grande e fantastica, la Fede
    Come un'illustrazione del Doré!



BAMBINA MORTA.


    Avea celate l'ali, e noi scordammo
    Che potea volar via;
    Avea sì gaio il riso:
    Non si credea sentisse nostalgia
    Del paradiso!

    Angelo già sembrava, e noi scordammo
    Che potesse morire.
    Con que' timori suoi
    Non si credea voless'ella partire
    Senza di noi.

    Noi l'amavamo tanto! Ma ella, sempre
    Così docile e pia,
    Sentendosi chiamare
    Ha scosso l'ali ed è volata via
    Per non tornare.



COCOTTE.


    Col viso inciprïato, ove la bocca
    Tinta di rosso sembra una ferita,
    Un nuvolo di ricci sulla fronte,
    Mi passa accanto sorridente e ardita.

    Passa con un fruscìo di raso e seta,
    Un tintinnìo di vezzi e di monili;
    E l'aria dietro a lei mi soffia in viso
    Carica di profumi acri e sottili.

    Passa; e nel cuore agli uomini solleva
    Col suo lento sorriso acute brame.
    Le sorgono d'intorno i desideri
    Come incantati fior. — Morrò di fame.



VUOI TU?...


    Vuoi tu venir con me, fanciullo biondo?
    Ti vuole il tuo destino, amor ti chiama.
    Cingi l'arma e l'orgoglio: in faccia al mondo
    Tu mio paggio sarai, sarò tua dama!

    Vieni. Ti condurrò meco lontano.
    La casa è stretta, vieni fuori! fuori!
    Lascia il pigro sognar, lo studio vano,
    E getta i libri in testa ai professori!

    Tu meco studierai: seri ed attenti
    Viaggiando imparerem Geografia.
    Mi guarderai ne' chiari occhi ridenti
    Quando vorrai studiare Astronomia.

    Pel ben del mondo intero scriveremo
    La nostra Storia: e sarà tutta in rime!
    E quanto ad Aritmetica, faremo
    De' nostri baci il Calcolo Sublime!

    Vieni. Di là dal mar ti sarò guida
    Di monti immensi nell'eterno gelo.
    Dalle rocciose vette ove s'annida
    L'aquila, il guardo spingeremo al cielo!

    Poi ce n'andremo incontro al sol nascente:
    Là nascon fra le sabbie de' deserti
    — Languidi fior! — le donne d'Orïente,
    Co' veli chiusi e gli occhi neri aperti.

    Poi volgeremo a mezzogiorno: l'oro
    Del sol pare gravar sui fiori stanchi,
    E glauchi laghi sotto palma e alloro
    Portano nenufar e cigni bianchi.

    Vieni! Al di là d'inverno è primavera,
    Al di là delle nubi è il Paradiso!
    Di là de' monti v'è la terra intera
    Piena di luce, bella di sorriso!

    Oh, vieni! Avrem la gioventù nel sangue,
    Avremo il sol negli occhi e il vento in faccia!
    E se il mio piè vacilla o il corpo langue
    Tu allor mi porterai fra le tue braccia.

    Forte dell'amor mio, grande d'orgoglio
    Oh, vieni dunque, il tuo destin ti chiama:
    Oh mio giovane eroe, vieni — ti voglio!
    Tu mio paggio sarai, sarò tua dama.



ERO UNA BIMBA CREDULA.


    Ero una bimba credula e fantastica,
    Piena di fede azzurra e sogni d'òr!
    Credeva il cielo una dimora d'angeli
    Bianco vestiti e cinti di splendor.

    Credea fosser le stelle innumerevoli
    Buchi nel pavimento di lassù,
    Fatti perchè l'incanto intravedessimo
    Che ognor circonda chi non soffre più.

    Credea che nella notte essi tornassero
    In bianche schiere il mondo a visitar;
    La neve mi parca le piume candide
    Delle grand'ali, scosse nel passar.

    Ma il mondo giudizioso, il mondo ruvido,
    Il mondo amico della verità,
    Mi volle desta da' miei sogni rosei,
    Volle farmi veder l'oscurità!

    Or m'hanno tolto il paradiso e gli angeli,
    Persino Iddio non me lo lascian più!
    Han sotterrato i morti ed inchiodatili
    Sotto l'elenco delle lor virtù.

    Calpestaron la neve; tramutarono
    In fango e sudiciume il suo candor.
    Ad altri mondi, come il nostro miseri,
    Ridusser le fulgenti stelle d'òr!

    E pur la Fantasia, folle ed indocile,
    S'erge con la Ragione a contrastar,
    E ancor s'ostina, cieca, fra le tenebre
    L'orme d'angeli biondi a ricercar.

    Come l'onda a li scogli, batte e frangesi
    Contro la Realtà severa il cor;
    E resto sempre una bambina credula,
    Piena di fede azzurra e sogni d'òr!



FRA CINQUANT'ANNI.


    Vecchia zitella, calma e intelligente,
    Serena, rubiconda e senza affanni,
    Spesso ciarliera e sempre sorridente,
    Ecco ciò che sarò fra cinquant'anni.

    La casa un po' sossopra qualche volta,
    Ma senza preti, gatti o canarini;
    E da per tutto e sempre una raccolta
    Di musica, di fiori e di bambini.

    Molt'aria, molta luce e l'armonia
    Di voci fresche e di visetti cari;
    Insomma un gran rifugio in casa mia
    Di birichini e indocili scolari.

    E una gran calma in cor. Degl'ideali
    Miei sogni d'una volta, allora anch'io
    Sorriderò, aggiustandomi gli occhiali....
    Poi d'ogni cosa giungerà l'oblìo.

    Alfine un giorno limpido ed azzurro
    (Vorrei fosse d'autunno e di mattina!)
    Mi sentirò nell'anima un susurro
    Come un coro del ciel che s'avvicina.

    Nella poltrona, accanto ai vetri aperti
    Mi sentirò tranquilla e un poco stanca;
    Del sole mattutino i miti e incerti
    Raggi cadranmi sulla testa bianca.

    Così, le mani in grembo, e da squisito
    Senso di pace invaso l'esser mio,
    Il corpo a morte e l'alma all'infinito
    Darò, pensando a te, sperando in Dio.



FIORITA DI GUERRA.


                                   _Spezia, per la madonna d'Agosto._

    Remo; la barca dondola
    Sull'acqua scintillante.
    Il mio giovane amante
    Mi guarda, e ride.

        A riva è tutta un'estasi
        Di fiori e di canzoni.
        Lassù dai forti guardano,
        Aspettando, i cannoni.

    Entro le chiese spirano
    Tra gl'incensi le rose,
    E preghiere odorose
    Levano al cielo.

        Ma il mio amante giovane,
        A fasci profumati
        Dentro alla barca mobile
        I suoi fiori ha gettati.

    “Ecco, madonna, adornati
    Di rose e di viole,
    Nella gloria del sole
    Che ti circonda!„

        Ma sovra il remo celere
        Io chino il volto intento,
        Fuggiam sull'onde lucide
        E ci sospinge il vento.

    Remo; la barca dondola
    Sull'acqua scintillante.
    Il mio giovane amante
    Mi guarda, e tace.

        Sotto ai forti impassibili
        Urtiam contro la riva:
        L'ombre dei colli spezzano
        La gaia luce estiva.

    Su, per la strada ripida,
    Piene di fior le braccia,
    Salgo: e col sole in faccia,
    E innanzi il mare,

        Getto le rose pallide
        Di gioia e di spavento,
        Entro la bocca livida
        Del cannone da cento!



MORGANA.


                                                    (A FRANCO LEONI).

    Adolescente e gracile, la Gloria,
    La terribile e bella, lo guardò.
    E via per rupi e balze e precipizi
              Lo trascinò!

    Lo trascinò pallido ed esultante
    Dietro il fruscìo delle sue vesti d'or —
    Gittandogli qual lampo il suo sorriso
              Promettitor.

    E traverso lo scherno e la miseria
    Tra la fame e l'infamia egli passò. —
    — Sentendo l'ali e misurando il cielo,
              S'inabissò.

    E la Morte e l'Oblìo l'han soffocato,
    Mentr'egli ancora all'Immortalità
    Gridava il nome suo! — Povero nome,
              Che niuno sa.



LETTERA D'AMORE.


    Piove. — Sul mare corrono dei brividi
    Sotto il vento stridente e fuggitivo
    Nella penombra del salotto tepido
    Dormon le rose. Sognano il giulivo
              Sole. — Io ti scrivo.

    Anche nell'ombra del mio core è un magico
    Fiorir di sogni, pazzo e prepotente!
    Come fiammanti rose esse inghirlandano
    A te la bella testa indifferente.

    Sogniam, le rose ed io, l'aurore fulgide
    Del sole, della gloria e dell'amore!
    Che importa la stagion triste? Che importano
    Le tue superbie al mio superbo cuore?

    Io t'amo, io t'amo! e a nuove altezze fulgide
    Si lancia ad ala aperta il genio mio!
    Ecco il canto d'amore che risuscita!
    Ecco la rima — musica di Dio!

    Vado ad amarti in settenari. Addio.



_POSSIBILITÀ._


    Non chiedere, amor mio, cose indiscrete.

    Non chiedere al buon Dio vita che duri
    Più de' brevi anni che concessi ne ha,
    Non chieder luce ai fior, profumo agli astri,
    Non alla vita la felicità!

    Non chieder lauri all'arte; ed al poeta
    Non chiedere denari in carità;
    Non chieder perle al mare de' miei occhi,
    Non chiedere al mio core fedeltà.

    E poi che il Fato è caso, e il caso matto
    Toglie a chi prega e a chi non chiede dà —
    Forse la vita tua sarà felice,
    E dopo morte avrai l'eternità.

    Forse nel gran giardino oltre gli spazi
    Dove Gesù tra bianchi angeli va,
    Coglierai stelle profumate; e fiori
    Che mandan luce nell'immensità.

    Forse nel glauco mare de' miei occhi
    Quel palombaro, Amore, desterà
    La perla delle lagrime, dormente
    Del guardo mio nella serenità.

    E forse un dì, che s'ami una sol volta
    E per sempre — il mio cor comprenderà!
    Oggi non lo comprende; abbi pazienza.
    Amami tu! Sarà quel che sarà!



ETISIA.


    M'hanno detto di te, pallido amante,
    Che per fatalità tremenda e oscura,
    Sulla tragica via della sventura
          Ti conducea la sorte.

    M'hanno detto che già l'ombra del nulla
    Avea steso su te mani fatali.
    M'hanno detto che i baci eran mortali
          Delle tue labbra smorte.

    Dammi l'alito tuo, dammi il veleno!
    Acre è il gaudio, terribile il piacere
    Dalla tua triste bocca poter bere
          La voluttà e la morte!



LA MADONNA DEI LADRI.


                                                           _Premeno._

    Sta sulla via maestra una cappella
    Rozzamente dipinta.
    Entro sorride, mitemente bella,
    Una madonna che, di gigli cinta,
    Tiene il suo bimbo al sen.

    Le piogge e il sole l'hanno impallidita,
    E una corona, appesa
    Al suo povero altar, pende avvizzita.
    Apre le braccia sulla via deserta
    Il piccolo Gesù.

    La Madonna dei ladri l'han chiamata,
    Questa Vergine mite,
    Che, bianca e dolce, dietro alla ferrata
    In umile atto scopre le ferite
    Dello squarciato cor.

    Nei villaggi d'intorno corre voce
    Che, a notte, i ladri rei
    Senza pur fare il segno della croce,
    Chiedono audaci il nascondiglio a lei
    E qui trovano asil.

    Come dolce pensar ch'anco pei ladri
    Una madonna prega!
    Io li contemplo i due volti leggiadri,
    E riverente ed umile si piega
    Il mio ginocchio a lor.

    O pallida madonna dei ladroni,
    Piena di tenerezza!
    Han tutti i Santi dalla loro, i buoni!
    Noi, tristi, abbiam bisogno di salvezza:
    Maria, prega per me.


  FINE



NOTA.


  Nella _Nuova Antologia_ del 16 giugno 1890 si leggeva questo
  articolo di GIOSUÈ CARDUCCI che fu pure riprodotto nel volume
  decimo (Studi, Saggi e Discorsi) delle sue Opere complete (edizione
  Zanichelli, 1898):

Le donne non è che abbiano più o meno ingegno degli uomini, l'han
differente; e però nella poesia (protesto che intendo parlare soltanto
delle autrici di poesia in versi), quando intendono fare quello stesso
che gli uomini, non riescono. Nè mi si opponga il manco d'istruzione.
Il Rinascimento e il secolo decimosesto in Italia contò donne educate
ed istruite come e da quanto gli uomini, le quali leggevan greco e
latino pur sapendo di musica e disegno. Bene: scorrete un po', se vi dà
il cuore, le rime di quelle madonne; e le troverete non pure inferiori
di molto a' più mediocri canzonieri maschili del tempo, ma spiranti
dal freddo artifizio un senso di miseria che fa pietà. Sola dié rime
comportevoli Gaspara Stampa, perché rimase donna, debole donna, anche
in poesia.

Donna in tutto apparisce, ma debole non vuol parere, almeno a tratti,
la signorina autrice di queste _Liriche_; che sono, diciamolo subito,
un caso assai singolare nella poesia italiana.

Se non che, la giovane autrice è ella proprio italiana? Di padre e
di sentimenti sí, e nella simpatica espressione artistica; ma nacque
da madre tedesca in Londra. A lei bimba la governante anglicana
faceva mandare a memoria di gran capitoli della Bibbia, ma la madre
le insegnava il _Pescatore_ di Goethe e il _Palombaro_ di Schiller
e le raccontava meravigliose _märchen_ piene di nebbie azzurre. Era
una Lindau, cognome di nominanza letteraria in Germania. Rodolfo,
segretario d'ambasciata a Parigi, ebbe l'amicizia di Thiers e in patria
fu segretario intimo di Bismarck: non gli pregiudicò l'avere scritto
romanzi anche inglesi e francesi. A Parigi visse da giovine, carissimo
alla Sand, Paolo Lindau, che ha molta fama di drammaturgo e di critico,
come scrittore nella _Gartenlaube_ e direttore dell'_Ueber Land und
Meer_ e del _Nord und Sud_. Autrice della _Guerra in tempo di pace_ e
del _Ratto delle Sabine_, che pare divertissero tempo a dietro anche
il pubblico italiano, è una nipote di cotesti Lindau. Dei quali era
sorella la signora che fu madre all'Annie Vivanti; signora culta, e
che scriveva versi, in tedesco e in inglese, soavi e calmi. In Londra
andavano a conversazione da lei poeti e critici della patria tedesca.
Tra questi Ferdinando Freiligrath, che, recatasi su le ginocchia
la piccola Annie, soleva recitarle suoi versi. Alla _cavalcata del
lione_ la bambina, sbarrati i grandi occhi, impallidiva; e il poeta
rivoluzionario l'abbracciava e le dicea _Wunder Kind_. Così l'Annie
naturalmente parlò per prime lingue il tedesco e l'inglese, e anche
quasi naturalmente a otto anni faceva versi nell'una e nell'altra; ma
le rimase sempre poi l'impressione che l'inglese fosse la lingua delle
sgridate e il tedesco quella dei sogni.

Di nove anni la condussero in Italia; e un giornale di Milano la
presenta come alunna della scuola normale superiore. Non esatto.
Agli esami di primo anno ella fu bocciata in tutte le materie. Della
sua geografia si raccontano cose meravigliose, che assegnasse per
confini alla Confederazione Svizzera non so quanti mari. Della storia
e dell'antico le manca ogni sentimento. Passando per certo luogo ove
erano ammucchiati e in parte ritti molti informi pilastri di pietra
grigia e greggia per la costruzione d'un magazzino, osservò: — Pare
quella piazza di Roma.... come si chiama? — Voleva dire il Foro
Traiano. Ma la lingua de' suoi canti come l'imparò? Non lo sa. Papà,
un bravo italiano di Mantova che fece a' suoi giorni il dover suo nelle
cospirazioni e nelle battaglie e fu condannato a morte dall'Austria, le
declamava l'_Aristodemo_, e la faceva — è la propria espressione della
fanciulla — rabbrividir di piacere.

Aveva dodici anni che le morí la madre; e perchè non morisse anche
lei la mandarono via. Fu nella Svizzera tedesca due anni; e lesse per
la prima volta Shakspeare in traduzione tedesca, e scriveva poesie e
fiabe più nebbiose delle tedesche. Poi fu a Londra, poi a New-York;
dove prese l'educazione americana e apprese a cantare come una vera
italiana. E dell'Italia aveva la nostalgia, e con la fantasia del
sangue materno la rivedeva tra le azzurre marine, sotto la letizia
del sole attraente a' suoi palagi e alle ville marmoree, in ciò che ne
cantò e ne scrisse Goethe: la nuova Mignon ricordava Premeno sul Lago
Maggiore. Da tre anni è di nuovo in Italia. Ora pubblica questi versi.

Veniamo dunque al libro. Ma già ci sono. Parlare dell'autore e delle
sue condizioni, disposizioni e predisposizioni è un preparare a leggere
e intendere il libro: che è il vero officio del critico.

Dei grandi autori italiani la signorina Vivanti non ha letto, ella
afferma, una sillaba; se bene un giorno le fu sorpreso un vecchio tomo
della Divina Commedia scompagnato, tra più tomi delle opere di Goethe,
ricordo materno. Dei recenti e vivi non so quali e a qual segno siano
stati più fortunati. D'uno ricorda qualche sonetto che le insegnava
la madre: credo amasse per un mese la Contessa Lara: ma certo ha
sentito la melodia dei rispetti più o meno popolari. D'inglese, legge
i romanzi: di francese certa volta uscì a difendere, non so a che
proposito, Coppée. In tedesco conobbe presto Heine, e ne ha tradotto
(chi non ha peccato in Heine?): dice piacerle il Lenau. Ma tracce di
propria e vera imitazione non sono in questo volumetto di Liriche.
Sentesi, per altro, che la prima impressione della poesia, il battesimo
dell'arte, la signorina Vivanti l'ebbe nel verso tedesco. L'anima,
l'ardenza, l'espressione è meridionale e italiana: ma in quelle
liriche, a strofi e a combinazioni di rime non dirò capricciose ma
insolite, pur sempre d'armonia ricorrente e determinata, come fanno i
veri poeti, per i quali il verso è la pulsazione del cuore e la strofe
la circolazione del sangue; in quelle strofi, dico, parmi di ravvisare
qualcosa del movimento tedesco. Né me ne dolgo. I tedeschi hanno
forse la più vera lirica moderna, almeno nel genere e nell'imitazione
popolare. Come in certi occhi, del colore glauco cilestre d'una specie
di giacinti, quali i poeti amano imaginare fossero gli occhi delle
Nereidi, l'ardore forse del sangue d'oriente va lentamente degradando e
non si spegne nel languore ceruleo della fantasticheria settentrionale,
così nelle strofi della signorina Vivanti, e anche più a dentro che
nelle strofi, il canto italiano alcuna volta vaga, e non si perde, in
non so quale ondeggiamento del _lied_ germanico.

Nella sostanza di queste _Liriche_, le più almeno, spira e vive
tuttavia il romanticismo; non il formale, ma quello che, come press'a
poco del paganesimo diceva Sant'Agostino, è naturale ed immortale,
perchè necessità di certe anime e condizione insieme di certa arte:
alle quali necessità e condizione certi mutamenti d'idee e costumi
nella società a certi tempi dànno non solo il campo, ma la spinta
a manifestarsi con particolar rilievo. La nota più sicura a cui
riconoscere il romanticismo quale prevalse dal Rousseau in poi è,
non la malinconia, non il ravvivamento del misticismo religioso più
o meno cristiano, non l'imitazione del medio evo e generalmente della
poesia settentrionale, ma il predominio della personalità, dell'_io_
indipendente da qualcosa più che le regole e le consuetudini nella
mutevole libertà delle impressioni e delle espressioni, l'esaltazione
dell'_io_, la morbosità dell'_io_.

    Voglio del genio la pazzia sublime,

canta la signorina Vivanti in una poesia che l'editore fece male a
mandare attorno come saggio; essa e due o tre altre che servono per
la presentazione e per il congedo lasciano apparire un po' troppo
d'ostentazione voluta, che non è il difetto delle restanti. Ora così
cantando la signorina Vivanti non sapeva di ripetere il grido dei
romantici del 1830, da' quali il suo fare è del resto tanto diverso.
Ma quell'incoronamento dell'_io_ sopra sé stessa e sopra il mondo —
intendo sempre nella poesia — fu la caricatura barocca di un fatto
necessario al rinnovamento della poesia, e specialmente della lirica,
che è la poesia della poesia. Era un ritorno — chi lo sospettava
allora? — all'antico, all'antico immortale, all'antico eterno. La
lirica eolia fu in questo senso romantica, e Alceo e Saffo poetarono
l'_io_, come di certo non facevano i raciniani, i petrarchisti,
i tassisti, i metastasiani, sciapitamente classici, di Francia e
d'Italia.

Ma Saffo mi riconduce alla signorina Vivanti.

Signorina, non fate smorfie, vi prego, co' vostri ventidue anni:
Saffo non è mica una vecchia. Abbandoniamo pure al melodramma la
figura con la lira in mano e i veli al vento su la rupe di Leucade:
ma Saffo “dalle chiome di viola, dal dolce sorriso sublime„ è la
sorella maggiore d'ogni poetessa vera (scarsa famiglia), è anzi il tipo
ideale, in marmo pario illuminato in lontananza dal sole, della poesia
femminile. C'è tanta passione, tutti lo dicono, nel sospiro angoscioso
della fanciulla antica: — Già tramontò la luna e anche le pleiadi, la
notte è al mezzo, l'ora trapassa, ed io giaccio sola! — Ma perchè non
dirò che nella stessissima verità semplice sollevasi appassionatamente
a più largo infinito (mi si perdoni l'improprietà dei termini) questo
sospiro di questa fanciulla viva?

    La lunga notte mi negò ristoro,
    Alfin l'alba è risorta.
    Nell'orïente il ciel si tinge d'oro,
    Ed ogni stella è morta.

    Chi sa s'è vero ch'avvi un Dio lassù?
    Un Dio ch'ama e conforta!
    Io penso a voi che non m'amate più,
    Ed a mia mamma, morta.

Perchè non potrò dire che è perfetta, d'una perfezione serena e
profonda, questa intuizione ideale del vero, tanto greca insieme e
tanto popolare?

    Sorride ella e dischiude
    De' suoi occhi l'azzurra meraviglia,
    Chè sulla bocca piccola e vermiglia
    Il suo giovane amante l'ha baciata.

    Raggian le stelle eterne
    Su nel mite fulgor cupo de' cieli.
    Ella ride: e con grandi occhi crudeli
    La Morte, nell'oscurità, la guata.

Sono due canti (e li ho scelti a punto di manifestazione diversa
soggettiva e oggettiva, e tra i più brevi) che danno la nota
caratteristica e superiore della poesia della signorina Vivanti quando
e dove è più artisticamente determinata e corretta. Non sempre è
cosí: non di rado, o per amor di bizzarria o per esuberanza di vita,
la poetessa si sbriglia a scorrerie che non tutti applaudiranno. Se
non che pur nell'eccesso del sentimento e nell'abbandono dell'arte,
se anche l'elocuzione non è di gusto corretto, c'è la verginità
dell'espressione. Non mai la frase col rossetto, non la polvere di
riso, che tra noi in poesia usano molto anche i maschi.

Di donne, nella lirica moderna europea io ne ammiro due: la Marcellina
Desbordes Valmore, per l'elegia, dirò cosí della devozione nell'amore,
la Elisabetta Browning, per l'inno, dirò cosí, dell'estasi nell'amore.
E ora, francamente, per altre ragioni, sotto altri rispetti, io ammiro
anche questa italiana, per il ditirambo, mi sia lecito dir cosí, della
femminilità artistica. La signorina Vivanti non avrà, anzi non ha
di certo, la purità angelicamente elegante della Browning (sonetti
dal Portoghese); è tutt'altra natura; ma non ha il morbido della
Valmore, che qualche volta risente, poveretta, del suo mestiere di
attrice francese. La signorina Vivanti è quel che è: un temperamento
femminilmente ma potentemente lirico, portato insieme fisiologico del
sangue misto, e morale della tradizione domestica e dell'educazione
americana. Come è arrivata a scrivere cosí francamente e quasi sempre
corretta — i difetti sono di elocuzione e di stile — non avendo
studiato nulla? Meglio cosí. Pur troppo in Italia la preparazione allo
scrivere, sia di prosa sia di versi, è tuttavia di maniera; maniera
antica o moderna, maniera classica o romantica, maniera signorile o
popolare: leopardiani o manzoniani, lombardi o fiorentini o napoletani,
son tutti a un modo. La sincerità dell'alacre ingegno, spiegatasi da
prima nell'esercizio di due lingue, l'una logicamente pratica, l'altra
naturalmente poetica, e la felicità della forte ignoranza di tante cose
false e appiccicaticce, han dato alla signorina Vivanti la possibilità
d'una rappresentazione assolutamente immediata.

Potrei citare più passi; ma preferisco che il lettore cerchi il libro
e si fermi, se crede, ai canti intitolati _Destino_, _Sull'Atlantico_,
_Non sarà mai_: che forza! Seguitando, non si faccia caso di certe
monellerie; volti pagina, e scorgerà tra i versi gli occhi della
poetessa inondati di lacrime vere, come nel canto _Via_: che dolcezza!
Volti altre pagine, e tra le lagrime ancora scorrenti udrà scoppi di
risa argentine, ed esultanza come d'una bambina che sente la gioia
dell'esistere: _Dio, siete buono_.

Specialmente nella rappresentazione oggettiva, questa giovine donna ha
l'arte forte. Quante Maddalene nei colori e nei versi, nel marmo e su
la scena! Ecco una Maddalena nova, e, nell'arditezza castigatissima:

    In bionde anella il folto crin piovente
    Sovra gli omeri ignudi, insino a terra
    Ne sparge la dovizia rilucente
    Inginocchiata innanzi al suo Signore.

  (Leggere il resto a pagine 29, 30 e 31).

E ha il genio buono. Chi tra noi italiani cantò mai la santa miseria,
così teneramente e religiosamente, come l'autrice di questi versi?

    Crebbe tra le bestemmie e le percosse
    Quella gracile bimba spaventata:
    Morì a vent'anni, mite ed innocente,
    Quella piccola martire affamata.

    Or van per le stellate vie del cielo
    I poveri piedini ignudi e stanchi,
    E la tremula man coglie beata
    — Gigli d'argento! — i fulgidi astri bianchi.

    E gli angeli, stupiti e riverenti,
    Chinan gli alteri luminosi rai,
    Mirando in quel pallido viso stanco
    La bocca che non fu baciata mai!

La giovine donna che scrisse tali versi sa e sente che di libri come
questo suo primo non se ne fa che uno, ma bisogna farne altri diversi,
più varii almeno in parte e più alti e più ampi, e non bisogna, come
troppi oramai, seguitare e finire imitando sé stessi. Ma che fare e
come? Io odio la critica de' merli. Cioè: quando leggo certa critica
de' criticanti italiani, m'immagino i merli, in gabbia, che pretendano
rassettare i becchi agli usignoli e insegnar volare alle aquile.

Aspetto, e confido.

                                                     GIOSUÈ CARDUCCI.


  E il poeta, richiesto del consenso di riprodurre in fin di questo
  volume il suo scritto, oltre ad accordarlo gentilmente, ci aggiunge
  queste parole:

_Ciò fu pubblicato nella _Nuova Antologia_ del 16 giugno 1890; e dando
a ristampare oggi dopo nove anni niente ho da mutare, solo aggiungo
che questa è la quinta edizione, segno, rarissimo tra noi, di largo e
costante buon successo in poesia. E non ci si parli francesemente di
arte democratica e aristocratica: è il medesimo buon successo, in alto
e in basso, nella musica dei salotti dorati e tra le vaganti chitarre,
nella memoria cordiale delle signore e nel consenso d'imitazione
dei principianti. Pure difetti formali non mancano in questi piccoli
canti. Ma tant'è, per far certa lirica, più che Voltaire non credesse
o volesse per rappresentare la tragedia, bisogna _avoir le diable au
corps_: il che vuol dire, bisogna avere, senza sforzo di espansioni e
di convulsioni, energia di concezione ed immediatezza di espressione:
la ricerca dello squisito e del prezioso è un inganno. Ora, finirò con
una vecchia frottola,_

    _Guardati da gl'inganni_
    _Di quei che sono ipocri_
    _E dai versi mediocri._

  4 ottobre 1898.

                                                     GIOSUÈ CARDUCCI.



INDICE.


  PREFAZIONE (G. Carducci)             Pag. V

  Ego                                       1
  Nuova                                     7
  Destino                                  11
  Virgo                                    17
  Vaticinio                                21
  Maddalena                                27
  O mia bambina....                        33
  Ave, Albion!                             37
  Ritorno                                  41
  Lasciami andare                          45
  Aut-Aut                                  49
  Vita breve                               53
  Nell'Album                               59
  Sull'Atlantico                           63
  Lied                                     67
  Ad un giovane medico                     71
  Chi sa!                                  77
  Valzer                                   81
  Incontro                                 87
  Ritratto                                 91
  Via!...                                  95
  Assenza                                  99
  L'ho riveduto!                          103
  Presentimento                           107
  Ménage                                  111
  Tutti i Santi                           117
  Poveri morti!                           123
  Era d'Aprile!                           127
  Tra poco                                131
  Vieni, amor mio!                        135
  C'era una volta                         141
  Mentre canto                            145
  Ma non rammenti                         151
  Rancore                                 155
  Sindaco di villaggio                    161
  Viole bianche                           167
  Non sarà mai                            171
  Notte                                   175
  Quando sarò partita                     179
  Iddio, che vuoi da me?                  183
  Io sono stanca                          187
  Appuntamento                            191
  Aprile                                  195
  Estetica                                199
  Bambina morta                           203
  Cocotte                                 207
  Vuoi tu?                                211
  Ero una bimba credula                   217
  Fra cinquant'anni                       223
  Fiorita di guerra                       227
  Morgana                                 233
  Lettera d'amore                         237
  Possibilità                             241
  Etisia                                  245
  La madonna dei ladri                    249

  NOTA di _G. Carducci_                   255



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Lirica" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home