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Title: Nuovi studii sul genio vol. I (da Colombo a Manzoni)
Author: Lombroso, Cesare
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Nuovi studii sul genio vol. I (da Colombo a Manzoni)" ***


generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense
- Milano)



                            CESARE LOMBROSO


                         NUOVI STUDII SUL GENIO

                                   I

                          DA COLOMBO A MANZONI

             con incisioni intercalate nel testo e 4 tavole



                                  1902
                              REMO SANDRON
              Editore. Brevettato da S. M. il Re d'Italia
                         MILANO-PALERMO-NAPOLI



                    Tip. F. ANDO' — Via Celso N. 61.



ALLA MIA GINA

LA MIGLIORE DELLE MIE OPERE



ERRATA CORRIGE.

  ERRATO                                  CORRETTO

  Pag  67  destasse                       dettasse
   "   68  psichiatria                    psichiatrica
   "  125  seguendolo letteralmente per   seguendolo letteralmente
             dimostrarlo.                   dimostrarlo.
   "  139  Cesare                         Cesareo
   "  201  Felicista                      Feticisti
   "   "   ripugnava                      ripagava
   "  208  il cranio                      con il
   "  216  E si apposta persino contro    e ci si oppone, appunto,
             la teoria                      contro la teoria
   "  223  aspetto l'anomalo              l'aspetto anomalo
   "  238  conquisti                      conquistò
   "  243  vere follie                    vere fobie
   "  xii  canto                          l'incanto
   "   vi  attrazione                     alterazione.

RETTIFICA a pag. 217. — "In un viaggio recente al museo di Göethe a
Francoforte ho potuto notare che la assimetria non era congenita, ma
acquisita per paresi certo sopraggiunta in età matura".



PREFAZIONE


Non ho mai nelle mie lunghe e dure battaglie sul delitto e sul genio,
risposto agli attacchi dei metafisici, non perchè non senta tutto
il rispetto che si deve a quei forti pensatori che credono dominare
dall'alto il mondo scientifico; ma perchè uso ad altre armi, più umili,
se non meno sicure, a quelle dell'osservazione e dell'esperienza, mi
sento in faccia a loro troppo o troppo poco armato per combattere senza
meritare la taccia di spavaldo o di ingeneroso.

Se non che, innanzi ad un avversario che porta il nome di Bovio,
al facondo filosofo, all'intemerato tribuno, sarebbe colpevole ogni
esitanza; anche se per rispondergli non mi riescisse a disporre di
altri argomenti che di quelli.... dei fatti.

Egli trova che la mia teoria sul genio fallisce in gran parte perchè
molti dei geni da me studiati son genialoidi, non veri geni. E sarà
vero.

Più certo, però, è che egli ha considerato solo le ricerche da me
esposte nel _Genio e Degenerazione_, che sono appena un'appendice
del mio _Uomo di Genio_, nel quale certamente egli avrebbe trovato
tentativi di studio che rispondono anche alla sua idea preconcetta
del Genio, come quelli su Darwin, Michelangelo, Kant, Fusinieri. Ciò
malgrado, volendo per quella deferenza di cui egli è così meritevole,
seguirlo passo per passo anche in codeste obbiezioni, e vedendo che
nei veri geni e non nei genialoidi, così rudemente maltrattati da
lui benchè pure ne siano un'attenuazione, egli contempla Colombo e
Manzoni, gli rispondo subito studiando accuratamente quest'ultimi e
dimostrandogli come a questi s'attagli completamente la combattuta
teoria della nevrosi geniale; vi aggiungo, poi, altri geni certo
altrettanto incontestati, come Goethe, Cardano, Schopenhauer secondo
gli studi di Möbius.

E questo in risposta ad un altro egregio scienziato, il Tamburini, che
non ricordando come nel mio _Uomo di Genio_ abbia pur tentato ricerche
e studi su Kant, Darwin, Galileo, e accenni sulla vita di Dante cavati
dalle sue parole e dal suo poema, che sono i soli documenti più intimi
e più sicuri della sua biografia, i soli ad ogni modo che ci restino,
mi obbietta (Illustrazione Emiliana, Aprile 1900), e con lui Adolfo
Padovan (I figli della Gloria, 1900), che per sostenere la tesi della
nevrosi degenerativa del genio, io vada a cercare quei geni unilaterali
(e sarebbero ad ogni modo geni), che furono realmente nevrotici, come
Tasso, Poe, Rousseau, Lenau, ma non mi attenti di affrontare l'analisi
di Leonardo da Vinci, di Darwin, di Galileo, di Kant e di Goethe, che
offrono insieme il più saldo equilibrio congiunto alla più alta potenza
intellettuale.

Perciò di costoro cercai di tracciare la psicopatologia; non di tutti,
essendovene pure alcuni della cui vita psicologica manca completamente
ogni dato, o perchè trascorsa ignorata da sè e dagli altri, o perchè
invasati dell'arte non si preoccuparono un solo momento di sè stessi;
tali furono certo, malgrado i numerosissimi lor lavori, Aristotile
e Leonardo da Vinci, del quale anche la recente ed eruditissima
memoria del Solmi, pur spilluzzicando nei numerosi manoscritti ogni
minimo accenno, non riesce che a confermare il mancinismo e forse
l'omosessualità: e a dimostrare una eccessiva curiosità nell'arte e
nella scienza, un amore così morboso, così, direi, impulsivo del vero
e del bello, da non lasciargli finire quasi alcuna opera grande per il
piacere di studiarne sempre una nuova.

Ma l'ignorare i pochi non impedisce il concludere sui molti.

E bisogna anche avere in mente l'acuta osservazione di Sergi, che
anche quando sono noti i caratteri inferiori di un genio, il prestigio
esagerato nella vita, il processo psicologico incosciente che esalta
e divinizza ogni persona cara dopo morte, con quell'adorazione dei
defunti, con quell'apoteosi che fu un uso primitivo dei popoli; (N.
Antolog. 1900) e continua però sotto forme diverse incosciente fra noi
e v'esagera pel genio, provoca la dissimulazione, mentre ne ricorda ed
esalta solo i caratteri nobili, giungendo perfino ad alterarne le linee
fisionomiche, come per Alessandro e Napoleone; sicchè molte volte anche
quando se ne son faticosamente racimolate le notizie, non rispondono
alla vera loro psicologia e meno ancora alla loro patologia.

Giova anche aggiungere: che quando da nuove ricerche, come con gli
epistolari del Manzoni, di Michelangelo, di Galileo, si colmaron
le lacune che questi grandi lasciarono sopra sè stessi, si potè
subito sorprendere quella nevrosi, cui, dapprima, quando mancavano o
scarseggiavano i documenti, nessuno pur sospettava.

Quanto all'obbiezione che mi eleva di nuovo sotto altre forme il mio
carissimo Morselli (Rivista critica di filosofia scientif., gennaio
1899) doversi trovare l'anomalia del genio nel senso di un maggior
differenziamento, di una più avanzata specificazione del tipo umano
e non in quello di una diminuzione o perdita dei suoi caratteri
specifici, anche se si debba astrarre dalla grossolana morfologia e
rimanere nelle sfere del sentimento, dell'intelletto e della volontà,
rispondo: Voi, mio poderoso quanto caro avversario, non avete voluto
vedere che non tanto nelle anomalie morfologiche, quanto appunto in
queste sfere psichiche spicca la massima alterazione; che alterazione
maggiore, p. es. volete nelle sfere della volontà, dell'abulia, che
pure è così frequente nei grandi (Renan, Amiel); quale alterazione
maggiore del sentimento — della perdita completa dell'affettività e
del senso morale, come in Galileo, come in Sallustio, Seneca, Cremani,
Foscolo, Byron, Villon, Musset, Napoleone, Fontenelle, Donizetti,
Federico II, Schopenhauer?

Che più, se ne abbiamo dimostrato l'alterazione non di raro anche nel
regno dell'intelligenza? poichè mentre in alcuni si mostrano sviluppate
in modo straordinario la memoria musicale o la visiva, o la fantasia,
od il calcolo, vi si nota mancare quasi sempre il senso comune, il
buon senso, tanto che è ciò appunto che facilita, come in Colombo (vedi
testo) scoperte, a cui con maggior talento ma minor genio niuno sarebbe
riescito.

E posto ciò, — non si capisce come possa egli sostenere manifestarsi
il genio non per causa della degenerazione, ma suo malgrado; mentre ne
è precisamente la degenerazione la prima e la principalissima causa
— fungendo, spesso, appunto essa da fermento, da fulcro ad una mente
volgare per farla divenire geniale.

Nè è vero che l'epilessia (come mi obbietta il mio Sergi nella
Nuova Antologia, febbraio 1900), giovi solo ad esplicare l'estro del
genio; essa ne spiega ben più: vale a dire la doppia personalità, la
impulsività, la mancanza d'affetti e di senso morale, la frequente
nevrosi, specialmente le cefalee, le vertigini, la forma propulsiva
del vagabondaggio, l'ottusità sensoria, tattile in ispecie, gli scotomi
periferici del campo visivo, e gli speciali caratteri grafologici[1],
proprio quelle forme più inferiori, che s'innestano sulla superiorità
psichica del genio, quasi a compenso di questa; s'aggiunga: che
l'anomalia epilettica è la sola, salvo solo alcune paranoie, delle
affezioni mentali in cui agli eccessi delle manifestazioni dell'ingegno
s'innestino, s'associno e s'alternino i difetti della psiche.

Sergi, invece, mi obbietta assai giustamente come l'incosciente abbia
una buona parte del lavoro dell'uomo mediocre; egli ed Hamilton hanno
il merito d'averne dato la completa dimostrazione, ma come mostrerò
nel 2º volume, è nella parte enorme, leonina, che ha nel genio la
incoscienza che sta la differenza di questo dall'uomo normale.

E giusta è pure la sua obbiezione che io abbia lasciata inesplicata
l'origine delle varietà geniale; e perciò gli rispondo con un intero
volume, il 2º, in cui credo esser riuscito a spiegare il nuovo quesito.

Quanto all'accusa che mi scaraventano tanti, sicchè la è divenuta uno
dei luoghi più comuni dei più mediocri e più miopi nostri critici,
quella che si diminuisca il prestigio e l'ammirazione del genio con
codeste analisi, essa avrebbe qualche somiglianza con chi pretendesse
diminuire la forza del sole con l'affermare come tutta la sua energia
derivi da miliardi di corpi allo stato gazoso.

È proprio allo stesso modo come i giuristi delle vecchie
scuole giuridiche si scandalizzavano delle applicazioni
antropologiche-criminali nei casi in cui il delitto era più orrendo,
più bestiale, e si rifiutavano ad ammettere che allora appunto
più mostrasse doverne esser anomalo l'autore, e più giustificarne
l'indagine antropologica; e così io sento ripetermi: Oh! con che
coraggio volete trovare anomalo un genio che vi ha disegnato le logge
del Vaticano, o vi ha scolpito il Mosè, o vi ha rivelato il nuovo
mondo?

E non capiscono che non è l'indagine critica dell'opera che ci
preoccupa, sì quella del loro autore, in rapporto con essa: che anzi,
quanto più quella è sovrumana, più è probabile sia anomalo questo.

Se non che: in risposta a costoro basterà riportare queste righe di un
vero genio — di Rapisardi[2]:

"Le infermità che accompagnano il genio derivano in lui dalla razza,
dal clima, dall'ambiente sociale, dall'esercizio straordinario degli
organi del pensiero e del sentimento, e in parte anche per avventura
da quella avara legge di compenso onde la Natura accorda lo sviluppo
straordinario di certe facoltà a scapito di certe altre, che rimangono
imperfette e rudimentali. L'opera del genio è personale ed originale
per eccellenza. Perchè un'opera sia tale, bisogna ch'essa, e per il
concetto che l'informa e per la maniera onde tal concetto si esprime,
esca dalle vie comuni, ora annunziando verità nuove o guardando da
un aspetto nuovo le già conosciute, ora rappresentando in maniera
tutta sua le proprie e le altrui passioni, calpestando le regole fino
allora credute sacre, e variando senza scrupoli quei termini entro a
cui la critica ufficiale, cioè il pregiudizio scolastico imperante,
pretendeva circoscrivere le manifestazioni dell'umano pensiero.
Originalità importa ribellione; e il genio è naturalmente ribelle.
Voi gli tessete intorno una rete vulcanica di precetti, di assiomi, di
leggi; ma egli agevolmente li spezza o li sprezza, manda all'aria le
forme sacramentali e i canali privilegiati in cui si vorrebbe gettare
e far correre il pensiero creatore, e ne crea altre, che la critica
nuova si scalmanerà di classificare, di ridurre alle vecchie misure
legali per allogarle finalmente nei casellari, nei musei e negl'ipogei
della presuntuosa imbecillità. Questa ribellione, che manda a gambe
levate tanti bacalari autorevoli e bollati, che caccia dal tempio i
mestieranti e i merciaiuoli della scienza e dell'arte, che si ride di
tanti stagionati pregiudizi, è la prima caratteristica di quelle opere
geniali, che saranno poi considerate e ammirate quali pietre miliari
nella storia della civiltà.

"E siccome nella ribellione e nella battaglia i colpi non vanno
misurati a fil di ragione, il genio riesce quasi sempre eccessivo. "Al
par nell'odio e nell'amor sublime", come l'Achille cesarottiano."

Ecco un vero genio che sa intuire ed ammettere la debolezza del genio!

Meglio ancora si esprime il più moderno e il più geniale dgli scrittori
di Francia. "Chi di noi, scrive Renan (Vie de Jesus, p. 452, 1863)
potrà fare quanto lo stravagante Francesco d'Assisi e l'isterica S.
Teresa? Poco importa che la medicina abbia dei nomi speciali per queste
grandi stranezze della natura umana; che essa sostenga essere il genio
una malattia del cervello: i nomi di sano e di malato sono relativi;
tutti preferirebbero essere ammalati come Pascal all'esser sani come il
volgo. Le idee rette diffusesi nei nostri tempi sulla pazzia forviano
il giudizio in tali questioni. Uno stato in cui si dicono cose di
cui non si ha coscienza, ove il pensiero appare senza le norme o il
richiamo della volontà, espone ora un uomo ad essere sequestrato come
allucinato; tempo fa ciò chiamavasi profezia e ispirazione. Le più
belle cose del mondo si sono eseguite sotto la febbre. Ogni creazione
eminente suppone una rottura di equilibrio, uno stato violento a chi ne
sia autore."

E Diderot scrisse: "Gli uomini di un temperamento pensoso e melanconico
devono ad uno squilibrio della loro macchina quella penetrazione divina
che sorge in essi ad intervalli, portandoli ad idee ora sublimi ora
pazze." (Dictionnaire Enciclopedique).

Voltaire anche scrive: "Volete acquistare un gran nome, essere
fondatore di religione, ecc.? siate completamente pazzo, ma d'una
pazzia, che convenga al vostro secolo; ed in cui abbiate un fondo
di ragione che possa dirigere le vostre stravaganze, e persistetevi
tenacemente: potreste, è vero, esser arso od appiccato — ma se no,
salirete ali altari."

Finalmente, a troncare ogni dubbio in proposito, ne giova citare le
osservazioni di due fortissimi ingegni, alienista l'uno e letterato
l'altro.

Noi alienisti, scrive Roncoroni[3], abbiamo uno scopo ben differente da
quello che si crede generalmente che abbia lo psicologo quando studia
un genio: con gli studi analitici di uomini di genio vogliamo dare un
quadro psicologico, obbiettivo, completo, per quanto è possibile, del
soggetto; studiarlo senza partito preso, sebbene guidati e sorretti
da un metodo: ci serviamo degli strumenti d'indagine che offrono la
Psicologia e la Psichiatria (il che i critici del nuovo indirizzo
scientifico trascurano generalmente) non per scovar fuori il pazzo, ma
per mettere nella sua vera luce il genio, sia nei suoi voli sublimi che
nelle sue miserie. È l'uomo nelle sue complesse manifestazioni che ci
appassiona. Non abbiamo quindi alcun desiderio di diminuire il valore
dell'artista, di mostrare che le sue opere d'arte sieno patologiche,
quasi volessimo metterci in guardia contro il pericolo delle deduzioni.
Quello che è sano, forte, ideale, desideriamo resti ammirato come
tale; soltanto non vogliamo fermarci a questo solo. Noi riteniamo lo
studio completo della mente umana, come la sintesi più alta dell'opera
scientifica; e quando quella mente è geniale, quando è stata la causa
delle più forti emozioni che l'arte ci abbia fatto provare, quando
riconosciamo che essa ci ha resa ora più bella la vita, non chiudiamo
gli occhi accecati dall'entusiasmo; ma allora risorge il nostro spirito
scientifico, per un istante dominato dal sentimento, e vogliamo vedere
come il meraviglioso fenomeno avvenga, così come il meteorologo studia
come si formi l'aurora boreale, non credendo per questo di offuscarne
l'incanto.

Se lo scienziato è, in questi studi, dominato dal sentimento,
quando studia l'opera e quando indaga i dolori dell'artista, e se
una commozione dolce e grave insieme lo pervade quando compone in
una sintesi l'opera e la vita, le gioie e i tormenti, le idealità e
le miserie, nei suoi giudizi non è mosso da alcuna passione, salvo
dall'amore della ricerca del vero, e dall'ardente desiderio di spiegare
come i fenomeni si producano.

Il Prof. E. Carrara il letterato mite ma fine ed arguto (_Iride_, v.
26, 1899; ed _Archivio di Psichiatria_, v. XIX), si esprime ancor più
chiaramente.

"La lotta, scrive egli, dei critici antropologi e degli esteti è
fondata sopra un equivoco reciproco.

"In realtà gli è un grande chiasso per nulla; perchè al mondo c'è
posto per tutti: così per gli esteti come per gli antropologi, per le
farfallette come per le aquile.

"A pensarci bene, queste due sorta di critici non si urtano che per
errore: come due treni che vanno in direzione inversa fra due stazioni
medesime, che si incontrano perchè lo scambio fu fatto male, laddove
non dovrebbero che incrociarsi.

"La critica d'arte, appunto perchè tale, ha per ultimo ed unico
oggetto d'analisi l'opera d'arte; e lo studio dell'autore, dei tempi,
degli antecedenti, dei seguenti, della genesi, degli elementi, della
efficacia di essa opera, non è che una gran messe d'elementi sussidiari
all'esatto apprezzamento della produzione d'arte. Quindi la critica
estetica procede, in certa guisa, dall'autore all'opera.

"La scuola antropologica torinese ha forse il torto di essere un po'
sdegnosa, un po' rigida; ma se i suoi oppositori si fossero presi la
briga di cercare quel che dice il nome stesso, avrebbero capito che
oggetto de' suoi studi è l'uomo-autore, cioè la conoscenza di quel
dato organo-uomo che è capace di produrre l'opera d'arte. Quindi un
procedimento analitico inverso: da questa e da ogni altro dato che è
fornito dalla critica storica, essa trae gli elementi per ricostruire,
studiare, classificare l'autore, al quale — e solo al quale — ha
rivolta la sua attenzione.

"Davanti ad una bella e grossa perla l'orefice ed il naturalista non
si comporterebbero lo stesso: per il primo essa ha caratteri, valore,
significato assai diversi che per il secondo.

"Fra queste due critiche c'è poi un'altra grande calunniata: la
storica, la quale non fa che fornire i materiali alle altre due;
utile quindi doppiamente e — come accade delle cose davvero utili —
disprezzata.

".... La parola _degenerazione_, che fisiologicamente indica certo
un'inferiorità, un'imperfezione, un male, è male trasportata nello
stesso significato all'apprezzamento sociale del fatto stesso.

"Ci sono prodotti patologici di vegetali e di animali utili e preziosi
all'uomo; ci sono anomalie, degenerazioni organiche di uomini, che sono
utili alla società; come tali noi possiamo continuare ad ammirarlo,
a facilitarcene, senza bisogno di ostinarci a credere perfezione e
superiorità laddove — scientificamente e propriamente parlando — vi è
proprio un'imperfezione e un'inferiorità generale.

"Ma ciò non entra punto nell'apprezzamento estetico dell'opera d'arte,
e gli esteti possono continuare a sfarfallar sui fiori dei giardini
poetici, senza pigliarsela con il botanico, che con la lente e la
pinzetta conta gli stami ed i pistilli.

"Studiate, leggete, ammirate e fate ammirare ai giovani il bello ove
si trova; ma lasciate agli altri di indagare e affermare un altro gran
bello: il vero."



LA PAZZIA ED IL GENIO DI CRISTOFORO COLOMBO[4]

(_Con una tavola_)


È cosa notissima che i contemporanei di Colombo (ripeto le parole del
miglior suo storiografo, il De Lollis), tanto i dotti che gl'ignoranti,
non s'erano potuto rendere una chiara ragione del modo con cui egli
era giunto alla grande scoperta. Né meglio vi approdarono i posteri
per quante indagini vi accumulassero; sicché giustamente Correnti
(_Discorso su Colombo_, Milano 1863) sentenziava: che né la storia né
la filosofia valsero finora a risolvere degnamente quel quesito.

Né anche ora vi si riuscirebbe, senza l'aiuto della psichiatria; — il
che credo poter qui dimostrare. Vediamola in opera:


Cristoforo Colombo nacque da un lanaiuolo, non solo povero, ma inquieto
e intrigante che, a quanto pare da documenti ora usciti alla luce
(_Vita di Cristoforo Colombo_, di Cesare De Lollis, 1895), era una
specie d'affarista, se non un completo imbroglione.

Contro il costume dei buoni operai d'ogni tempo e paese, specialmente
della Liguria, tenaci nel lavoro ed amanti della quiete e della
stabilità, egli girava continuamente, vendendo e comprando terreni,
locando talvolta al venditore il podere comprato, e terminando qualche
volta con non pagare i creditori e lasciarsi strappare a pezzi e
bocconi la dote che doveva alla propria moglie.

Il figlio suo, il grande Colombo, da giovane non dimostrò nulla di
geniale: era, anch'egli, lanaiuolo, anch'egli commerciante in piccolo,
e poco fortunato, di vini e formaggi.

Nel 1470, a 24 anni circa, si fece capitano di una nave mercantile che
trasportava vini; più tardi, pare, pirata; né potè attendere (checché
si pretenda da male informati biografi) ad altri studi che a quelli
a cui poteva accedere un povero operaio di quei tempi nelle scuole
popolari di Genova o di Savona, certo inferiori alle moderne, che pure
valgono sì poco. Navigò molto; ed apprese mirabilmente la tecnica
marinaresca; sbarcato in Portogallo, dopo un naufragio, v'intese
discorrere, con molta precisione di dati, da un Fiorentino, del
progetto del Toscanelli, già noto alla Corte portoghese, di raggiungere
per la via di mare, e movendo da ponente, quelle terre d'Asia alle
quali i Portoghesi ostinatamente cercavano un passaggio lungo la costa
occidentale d'Africa; si entusiasmò del progetto, scartato da quel
Governo per gli errori di cui era infarcito e si mise in comunicazione
(dandosi, si badi bene, per Portoghese) col suo autore, Paolo
Toscanelli, fiorentino.


_Caratteri antropologici_. — Si possiedono più di 20 ritratti di lui,
ma nessuno sicuro; però i lineamenti, di cui ci tramandarono notizia
abbastanza esatta, scrittori che lo conobbero da vicino, attestano
riccamente i caratteri più propri agli psicopatici: Las Casas,
infatti, che appunto lo conobbe personalmente, lo descrive: "con la
statura lunga, naso aquilino, occhi azzurri, capelli rossicci, presto
incanutiti"; e il figliuolo, don Fernando, la cui descrizione il Las
Casas ebbe presente e parafrasò, gli attribuisce in più "guance un poco
alte", che vogliono significare zigomi molto pronunziati.

Nel ritratto di Giovio (_Raccolta di documenti Colombiani_, III. vol.
I), poi che si vuole il più autentico, troviamo: "Mandibola grande,
assenza di barba, fronte sfuggente".

In quello, pur pregiato, di Capriolo, vediamo: "Rughe anormali e arcate
sopracigliari grandi" (Id. pag. 108). In complesso predominerebbero i
caratteri frequenti nei degenerati e nei nevropatici.


_Grafologia_. — Spiccati caratteri psicopatici ci presenta la sua
scrittura (Vedi Tav. 1, 2, 3 e 4 coi facsimili dei suoi autografi
tolti dal vol. III, e supplementi, della parte I della _Raccolta
Colombiana_): Notiamo p. es., nella 2ª e 4ª uno strano cambiamento,
presentando due tipi assolutamente diversi fra loro e differenti
dallo stile dell'epoca, che era simile alla calligrafia dei num. 1
e 3, questo ultimo però sospetto nell'autenticità, e per la sigla
incompleta, e perché troppo differente dalla scrittura solita di
Colombo quale si vede p. es. nel numero 2, e specie del n. 4. Questa
poi ha: caratteri di una mente molto conturbata; la direzione infatti
della scrittura è contraddittoria, ora curva a destra, ora curva a
sinistra; ora raddrizzata, con quelle vocali ora chiuse ora aperte in
alto che usano i mistici, e con ricchezza strana di quelle parentesi
che sono frequenti nei paranoici. Quella del numero 2, invece,
è tutta curva a sinistra, ma tutta piena di sgraffe, di lettere
aggrovigliate, come nei truffatori e monomani ambiziosi, con delle
aste e degli occhielli enormi, tanto più significativi, in quanto
lo stile calligrafico dell'epoca era in ciò eccessivamente sobrio,
senza punti né virgole. In tutte mancano le forme caratteristiche
della forte volontà, che pure emergerebbe nella sua vita, segno che le
manifestazioni di questa dipendevano più dalle convinzioni deliranti
che da vera energia. Non vi troviamo infatti nessun taglio energico nel
_t_, nelle finali nessuna lettera finisce netta e recisa, e, meno nella
3ª, tanto sospetta, nessuna verticale vi è tracciata diritta e con
energia[5].


_Stile pazzesco_. — È stato notato l'uso della continua ripetizione
delle stesse lettere, delle stesse frasi (De Lollis, _Raccolta_,
vol. II). Harrisse nota che nel _Libro delle Profezie_ settantacinque
linee sono rimate; ed è notorio l'abuso della rima negli scritti dei
paranoici (Vedi _Uomo di genio_, 6. ed., Torino, 1896). Ma il fenomeno
più caratteristico del paranoico si raccoglie dalla firma, che egli usò
dal 1494 in poi, come si vede nei numeri 2 e 4:

                                 . S .
                             . S . A . S .
                                 .XMY.
                            ----
                            : Xro FERENS//.

Quella sigla è così strana, che invano, vi si sbizzarrirono attorno
i biografi e i paleografi; eppur si ripete sempre con tale identità
di particolari, che la mancanza d'uno di quelli che si ritrovano,
sempre, negli originali come nel n. 3 che noi anche (v. s.) per
altre ragioni grafologiche crediamo sospetto, è stata dai competenti
ritenuta indizio sufficiente per sospettare trattarsi di falsificazioni
come in tanti altri pretesi autografi colombiani, pullulati da ogni
parte, specialmente in occasione del IV centenario della scoperta
dell'America.

Ceradini (_Due globi_ "MERCATORES", p. 299) pretende spiegarla così:
"Savonensis Suarum Altitudinum Servus — dec. mil. insula — Cristo
ferens", alludendo così ad essere savonese, il che non era vero; e ad
avere scoperte 10,000 isole, che avrebbe portate a Cristo, mentre egli
stesso, che non peccava certo di modestia, dopo il secondo viaggio
diceva di averne scoperte solo 700; anche pretende che egli intendesse
dire: "Porto al Cristo le genti", mentre è noto, e don Fernando e
il Las Casas v'insistono, che Colombo, così poco colto nella lingua
latina, traduceva, sbagliando, il suo nome per: "Portatore del Cristo":
"Certo cominciò, — egli dice, — a firmare con questa sigla dopo la
scoperta"; ed infatti cominciò ad adoperarla solo dopo il 1494.

Reille (_Columbus und seine vier Reisen_, 1892) con altrettanta
verosimiglianza spiega la sigla: "Servidor de sus altezas sacras Iesus
Maria Joseph, — Portatore di Cristo".

Marguerite (_Navigation Francaise_, 1892) la spiega così: "Supplex
servus Altissimus servatoris Christus Maria Joseph — Christum Ferens".

Ruge opina che la sigla sia l'effetto d'una inutile... pedanteria.

Non sarà ardito l'alienista, che, invece di lambiccarsi il cervello in
istrambe interpretazioni, pretenda che fosse invece una di quelle grafe
simboliche così speciali ai paranoici, sopratutto quando si preoccupano
del proprio nome, da cui cavano i più strani auguri o promesse; e che
sono per questi esseri stranamente egocentrici, il punto di partenza di
tutta una complicata impalcatura delirante.

Così io vidi una stiratrice pretendere di esser figlia di Maria Luisa,
perchè si chiamava... Maria Luigia; e un povero ferroviere pretendere
di essere promosso al trono d'Italia; e sparare sui compagni d'ufficio
poco di lui adeguatamente rispettosi, perchè si chiamava Savoia.

Ricorderò, anche Cola di Rienzo che usava firmarsi: "Umile creatura,
candidato dello Spirito Santo, Nicola Severo, Clemente liberatore
della città, zelante d'Italia, amante del mondo, che baciò i piedi dei
beati".[6]

Fra i miei malati di Pesaro eravi un prete, paranoico-ambizioso,
che si credeva papa, ed intestava l'arma papale nelle sue lettere,
e le firmava: "Sono Sisto I, unico creatore e signore e padrone e
commendatore e Spirito Santo e grande Iddio, che sono in questo mondo,
vivo Imperatore d'Italia, romano e vero nativo Senigagliese. Nicola
Palota".

Un altro firmava: "Ambasciatore, direttore delle strade ferrate
mondane, direttore commendatore dei tranvai d'Italia, tenente generale
delle Potenze mondane, commendatore del Consiglio dei falegnami".

Uno, forse il più strano di tutti, firmavasi con un'aquila.

Un povero portiere, ventenne, megalomane, che si crede scopritore di un
nuovo mondo filosofico, si firma così:

   [Illustrazione]

in alcune anzi N. A. son sostituiti nientemeno che da _Nuovo
Aristotele_. Sigla proprio similissima a quella del grande scopritore
dell'America.

Un operaio ch'era stato semplice caporale, divenuto paranoico
ambizioso, vagabondava per tutti i confini d'Italia, facendosi
arrestare e condannare una ventina di volte per fare gli schizzi
assolutamente grotteschi dei luoghi fortificati d'Austria e di Francia,
onde preparare, a suo credere, l'Italia per la futura guerra, — e
firmava: _Generale G. Godi generalissimo di Cristo, di Crispi e del Re
di Italia_.

E nell'Atlante dell'Uomo Delinquente ho portato delle firme o sigle
ripiene fra le graffe di centinaia di parole, sigle che occupavan delle
intere pagine, — e ne ho fatto un carattere speciale dell'epilettico e
del paranoico.

In Colombo, a tutto ciò si aggiungeva, come in Tasso[7] l'ubbia
religiosa, comune in quei tempi, ma esageratissima in lui, che si sa
essere stato fervente Terziario, sicchè non cominciava a far nulla
d'importante, se prima non aveva invocata la Santa Trinità, e ogni
lettera intestava colla formola: "_Jesus cun Maria sit vobis in via_",
e volle morire in abito da francescano.


_Ignoranza_. — Gli ultimi studi su Colombo, specialmente l'esame dei
suoi autografi maggiori e minori, hanno rivelato in lui una enorme
ignoranza ed incoltura: certo egli non si mise a leggere libri
scientifici che a 31 anno circa. I libri che solo studiò, se non
possedette, si riducevano alla _Historia di papa Pio II_, 1475; a
un _Tolomeo_, 1478; ai _Trattati di Pietro d'Ailly_, 1480-83; alla
_Historia_ di Plinio, trad. in italiano, 1489; alla _Vite_ di Plutarco,
tradotte in castigliano, 1491; al _Marco Polo_, in latino, 1485. (Il
Marco Polo, nota il De Lollis, è costellato di note così primitive per
forma e sostanza, da mostrare essere di un novellino che apriva per
la prima volta un libro. Par certo ch'egli non si dié alla lettura che
dopo il 1485).

Scriveva un latino quasi maccheronico, pieno di errori, nel quale
la declinazione latina era ricalcata su quella spagnola, sicché,
cosa incredibile, _os_ e _as_ sono normalmente le terminazioni dei
nominativi plurali (_Ebreos dicunt_, p. es.)[8]. E ciò in pieno
Rinascimento, e sotto la penna d'un italiano del Rinascimento!![9]

Anche di cosmografia sapeva assai meno di qualunque colto
contemporaneo, come vedremo dagli errori dei gradi; benché qualche
coltura avesse in cartografia, se si vuol credere a don Ferdinando ed
al Las Casas; il primo dei quali ne fa, del resto senza provarlo, anche
un geometra e un astronomo! — Infatti, pretendeva di essere stato in
Islanda, all'ultima Tule, e aver osservato distare la parte australe
dalla equatoriale di 73° e non di 63°; e qui commetteva un errore di
9° e ½, poichè la costa meridionale dell'isola cade sotto il parallelo
boreale di 63° e ½. Ma probabilmente raccontava una fola, perocché
quando poi nel suo _Giornale di bordo_ precisò (V. De Lollis, op. cit.)
gli estremi a nord e a sud da lui toccati, accenna all'Inghilterra e
alla Guinea e non mai all'Islanda; e il Goodrich (_A history of the
character and achievements of the so called Christofer Columbus_) nega
la possibilità di questa navigazione al nord, allegando che Colombo,
nella sua qualità di pirata, non avrebbe avuto ragione per affrontare
l'Atlantico, tanto meno ricco di bottino del Mediterraneo; e osserva
che egli mai fa menzione della nave che lo portò, né del porto da cui
salpò, ecc., ecc., il che prova che, anche nelle menzogne buttate
là senza neppure curare la parvenza della verosimiglianza, era uno
squilibrato; e di lui ben si può dire che avesse l'abito della menzogna
scientifica. Così scrive: "India est in estrema terra, in Oriente, in
Hispania, cum Etiopia in Occidente; intermedio est mare!": credeva che
la distanza fra le isole del Capo Verde e l'Estremo Oriente (per lui
l'America) fosse al più, di otto giorni; errore questo che fu la prima,
forse l'unica causa della sua recisa risoluzione di giungervi e quindi
della sua gloria!

E non bisogna dimenticare che Colombo, allorché ebbe qualche momento
di completa sincerità (effetto invero delle catene del Bobadilla)
pur rinnovando le vanterie di aver studiato "e istorie, cosmografia,
croniche e filosofia e altre arti", riconosce poi, come a lungo
vedremo, che "tutte quelle scienze a nulla gli giovarono" e che la sua
scoperta fu mera ispirazione dello Spirito Santo! (Nella lettera p. es.
ai Re cattolici unita al _Libro de las Profecias_, di cui parleremo).

L'applicazione letterale, come era la sua, del progetto Toscanelliano,
includeva la possibilità, in quell'epoca, praticamente almeno
inammessibile, o solo con spese e pericoli troppo grandi, che una nave
staccatasi dalle coste di Spagna potesse scivolare sulla superficie
del mare fino a trovarsi in posizione opposta al punto di partenza,
fatto spiegabilissimo ora che si conoscono le leggi della gravità,
impossibile a spiegarsi allora che quelle non si conoscevano.

La sua immaginazione, dice il De Lollis, lo trascinò a considerare
vero il verosimile e sicure le conclusioni del Toscanelli, che egli
si era procurate, notisi, in Portogallo, scrivendogli _in portoghese
e fingendosi tale_, e che egli non fece che copiare, decalcare
letteralmente, senza coglierne la parte erronea, che giustamente aveva
destato la incredulità dei veri cosmografi d'allora; compresi quelli
della Corte portoghese, cui Colombo stesso ricorda con un'ammirazione
che non può essere adulatrice, poichè era riposta nelle note intime che
apponeva sui margini dei libri; eppure egli ne era convinto con una
evidenza tale, _che gli pareva_, dice il Las Casas, _di aver dentro,
nella propria camera, quelle terre sognate dal Toscanelli_.

Nel tratto di mare che separava la costa occidentale dell'Europa e le
orientali asiatiche, Toscanelli, infatti, non sospettava intercedesse
un Continente; e perciò Colombo, credette esser approdato all'estremità
dell'India quando era giunto invece a... Cuba.

Toscanelli pose a base della sua teoria un calcolo sbagliato, per cui
la circonferenza della Terra veniva ad essere di molto impicciolita, e
veniva quindi ad essere pochissima la distanza da percorrere partendo
da ponente, per venire a levante: aveva ridotto di un grado le coste
della China, che figurano come una linea che tagliasse il meridiano
dell'attuale Terranuova: e così credette Colombo (De Lollis, op. cit.).

Ma nemmeno (indizio assai più sicuro della sua grande ignoranza),
nemmeno dopo il 1º e il 2º viaggio comprese di avere sbagliato: fedele
alla falsariga di Toscanelli, non vede nell'isola Cubana, poverissima
allora di oro e droghe, che oro, spezie, cotone, aloe e fiumi in
cui scorresse oro; e fu solo nel 1498 che cominciò a dire che l'oro
bisognava cercarlo nelle miniere come le spezie negli alberi: egli,
infatti, giunse a chiamare il fiume Iachi "_fiume dell'oro_" per
pochi grani che vi aveva veduto o, meglio, creduto vedervi; e fondò
nell'isola Isabella, nella seconda sua spedizione, un forte, che che
denominò San Tommaso, per satireggiare coloro che si ostinavano a non
credere all'esistenza dell'oro, di cui (come diceva Michele da Cuneo,
che prese parte alla spedizione) _non fu mai trovato nemmeno un grano_.

E ancora nella seconda spedizione, malgrado che la circumnavigazione
avesse chiaramente dimostrato essere Cuba un'isola, sicché un
cosmografo, e buon pilota (Juan de la Cosa) che era al suo seguito,
ritraevala come isola, malgrado che gli indigeni dichiarassero Cuba una
grande isola, non solo egli seguitò a credere e dire che essa fosse
un continente, ma, davanti a notaio, fece giurare ai suoi marinai e
ufficiali, _sotto pena di perdere una mano_ (strano modo questo per
una dimostrazione geografica) che quella era terraferma e che mai lo
smentirebbero.

Impose agli indigeni, malgrado le numerose prove del non esservi oro,
di fornirgliene una data quantità ogni mese; e quando uno dei capi,
il Guarionex, sensatissimamente, proposegli di coltivare a grano
una estensione di 45 leghe, purchè non gli si chiedesse ciò che non
potevagli dare, l'oro, non accettò; mentre economicamente era quello
un eccellente equivalente; né smise dalle pretese neppure quando
vide quegli infelici indigeni lasciare, disperati, ogni coltura nella
speranza che così la fame cacciasse lui e gli invasori dall'isola.

Peggio: quando nella terza spedizione si trovò poi, davvero, in
terraferma in vicinanza della punta di Ikakos, egli pretese di essere
in un'isola che chiamò "Isla de Gracia"; e neppure cambiò idea quando
vi scoprì lo sbocco di un immenso fiume, l'Orenoco, il quale certo
non poteva venire che da un gran continente. Solo notava: _Sono tante
terre, che sono altro mondo_. Due volte, spinto dal vento propizio
verso il Messico, invitato dalla fortuna a precedere Cortes, vi si
rifiutò, ostinandosi dieci mesi, fino al disfacimento del naviglio,
in mezzo a correnti pericolosissime, mentre era a due passi da un
Continente che ostinavasi a non vedere, o almeno a credere fosse
ancora... Asia.

Nell'ultimo viaggio a Costarica e Veragua, egli non solo non presentiva
la vicinanza dei due grandi Imperi, ma raffiguravasi l'America
centrale come una penisola del Continente Asiatico, protendetesi a sud
nell'Oceano Indiano e paralello, simmetrico a quella di Cuba.

Si è voluto sostenere, è vero, da molti: che nella quarta spedizione
Colombo presentisse l'esistenza del Pacifico, allorchè egli cercava
ostinatamente un passaggio lungo l'istmo di Panama. Ma questo non fu;
a meno di volergli riconoscere uno spirito fatidico: in realtà egli si
lasciava anche allora guidare dai dati falsi o incerti, che lo avevano
condotto alla scoperta dell'America; ché, se veramente egli cercava
uno stretto là dove ai nostri giorni si tentò di scavare un canale,
egli aveva probabilmente in mira quello stretto del Catai, di cui
fa menzione Marco Polo! (Cfr. De Lollis nella _Revue des Revues_, 15
gennaio 1898).

Del resto egli trovò sempre modo di persuadere a sè stesso di non avere
scoperto un nuovo grande Continente. Le grandi masse d'acqua dolce
che trovava, egli se le spiegò col passo del libro (che è apocrifo)
d'Esdra, dove si legge che "sei parti del mondo sono asciutte e la
settima è d'acqua". E non basta: ma vi aggiunge poi del suo una altra
ipotesi spropositata; per spiegare cioè la gran massa d'acqua dolce che
si trovava colà, pretende che essa procedesse dal Paradiso terrestre,
donde, secondo la Bibbia, derivano il Tigri, il Nilo, ecc.; e che il
mondo, invece di essere sferico fosse conico, _col Paradiso in cima al
cono_: e che la conicità cominciasse colà... dove egli era.

E propriamente nella relazione ai Re del suo terzo viaggio, egli
afferma che il mondo non era rotondo, ma della forma di una pera, che
si prolungava molto là dove si trova il picciuolo; o di una palla a cui
si sia sovrapposta una mammella "intendendosi (son sue parole) che la
parte del mondo corrispondente alla parte della pera verso il picciuolo
sia la più alta e la più vicina al cielo e si trovi al disotto della
linea equinoziale e in questo mare l'Oceano, in fine dell'Oriente".

Così spiegava la deviazione che notò ivi dell'ago magnetico, e perchè
la stella polare descrivesse un più largo giro nel cielo, e perchè
l'aria vi fosse più temperata.

Giustamente osservava Humboldt, che pure abbiam visto ammirarne
erroneamente la coltura letteraria: queste false ipotesi dedotte da
sbagliate misure, indicare in Colombo una deficienza di conoscenze
matematiche e uno strano imbizzarrimento di fantasia; noi diremo:
provarne la pazzia.

Ma nulla meglio prova l'incoscienza di Colombo, rispetto ai risultati
dell'opera propria, che le parole sue stesse.

In una lettera scritta ai Re cattolici nell'ottobre del 1498, egli
afferma che la terra ferma scoperta da lui era stata benissimo
conosciuta dagli antichi, e non ignorata "come vogliono sostenere gli
invidiosi o gli ignoranti" (De Lollis, _Revue des Revues_, 15 gennaio
1898). Egli, dunque, non si riconosceva, non sapeva riconoscersi altro
merito che di aver raggiunto per altra via i paesi dell'Asia Orientale,
già scoperti da Marco Polo!


_Senso morale. — Crudeltà_. — Come accade ai psicopatici, egli
difettava più assai dell'uomo medio anche dei suoi tempi, nel senso
morale; ed una causa, non ingiusta, delle sue persecuzioni fu che, non
avendo trovato oro e volendone ricavare dalla vendita degli indigeni,
sia pure col pretesto che fossero idolatri, impediva si desse loro
il battesimo; certo egli, fin da quando mise il piede a San Salvador,
contò il mercato delle vite umane come uno degli introiti più sicuri
delle sue nuove conquiste.

E la prima volta che scrive alle loro Altezze accenna: "Vi è aloe
quanto ne vorranno, e _schiavi pure scelti_ fra gli idolatri" e 500
infatti ne mandava sul mercato di Spagna, fin dal 1495.

Né si dica che queste erano abitudini medioevali; perchè dal medio-evo
s'era già fuori, e il Las Casas, contemporaneo di Colombo, che, come
religioso, delle superstizioni medioevali avrebbe dovuto essere
imbevuto, propugnò strenuamente l'abolizione dei mercati di carne
umana; né il Las Casas, né la regina Isabella, né i molti altri che si
erano ribellati alla triste sua speculazione erano superiori ai loro
tempi. Ricordiamo pure che Colombo nel suo secondo viaggio giunto ad
Haiti, dà ordine (V. _Istruzioni di Colombo a Pedro Margarite_) che
se fosse stato trovato alcun indiano in atto di rubare, gli fosse
tagliato il naso e le orecchie; _perchè sono membri che non potranno
nascondere_; il che prova quale carità avesse per costoro: ricordiamo
che quando egli aveva meditato di render schiavi gli indigeni, essi
ch'erano di carattere mitissimo, non solo non gli si erano ancor
ribellati, ma non avevangli manifestato che una incondizionata
adorazione; ed erano pronti a cambiare di fede; e quindi prima di
liberare, a indefinita scadenza, il Santo Sepolcro, avrebbe potuto
convertire subito costoro, il che dal lato religioso sarebbe stata la
più sicura e la più utile impresa.

E dopo che, conosciuto ch'ebbe la Corte di Spagna le tristizie dei suoi
seguaci, usi a maltrattare gli indigeni, a tenerne concubine le donne,
schiavi i giovani, e dei vecchi servirsi a bersaglio, scoppiò in una
giusta reazione, Colombo non solo non vi si associava; ma apertamente
chiedeva ai Re la continuazione di quello stato di cose: "Supplico
le Altezze Vostre di voler permettere che questa gente faccia il suo
vantaggio per un anno, fino a che tutto si accomodi per il meglio".

Come a chiaro indizio della sua impulsività, sarà bene, pure, ricordare
che durante i preparativi del terzo viaggio, davanti a molta gente
di mare e ad uomini di Corte, egli malmenò, gittandolo in terra, e
calpestandolo, Ximene de Briviesca, un personaggio autorevole, il cui
giusto risentimento per l'affronto fu poi una delle principali cause
per cui Colombo cadde in disgrazia dei Sovrani.

Ed anche fu poco delicato verso la sua concubina Beatrice Enriquez,
da cui ebbe Fernando, poichè lasciolla vivacchiare miseramente
con 296 lire di pensione, del che si pentiva troppo tardi, nel
testamento, scrivendo al figlio che la mettesse in posizione di vivere
onoratamente, e aggiungendo: "Per alleggerire così la mia coscienza,
perchè ciò pesa gravemente sulla mia anima". Evidentemente egli aveva
dunque mancato alla morale e alla religione anche di quei tempi,
trascurandola. E così quando si tenne il premio di 10,000 maravedis
per chi prima segnalava la terra in America, mentre pare che Rodrigo
de Triana l'avesse prevenuto. E certo è poi che egli non segnalava mai
in alcun modo, in alcuna delle sue lettere, come tutto il merito della
scoperta dell'America rimontasse a Toscanelli.


_Menzogne_. — Giova pur ricordare l'impressione che Colombo fece su
Giovanni II di Portogallo, quando gli presentò il suo progetto: Quella
d'un "chiacchierone ampolloso", secondo ne scrisse il Barros, il Tito
Livio portoghese. Né invero a torto; infatti egli affermò, sia pure
facendo una di quelle transazioni di coscienza, non rare nel medio-evo,
di non essere il _primo ammiraglio_ della sua famiglia, mentre così
fresche nella sua memoria dovevano essere le sue origini più che
modeste.

Nelle sue corrispondenze ufficiali continuò sempre a mentire, dicendo
d'aver trovato abbondanza di spezie e fiumi da cui si traeva l'oro;
e mentì quando affermò aver navigato tutto il Ponente ed il Levante:
mentiva quando affermava che per 7 anni tutto il mondo l'aveva
respinto, che fu l'oggetto delle risa di tutti, che solo un povero
monaco ebbe pietà di lui, mentre il Duca di Medina aveva disposto
di fornirgli 4000 ducati e 2 navi, ma sospese la spedizione per far
piacere alla Regina che voleva esserne l'iniziatrice, come prova una
lettera del Duca al Re[10]; anche Diego de Deza, vescovo di Zamora,
precettore dell'erede del Re, lo protesse continuamente, e così
Faraveggia Quintane, Talavera, come dimostrò assai bene l'Harrisse
(_Cristophe Colomb devant l'histoire_).

E questo suo abito della menzogna spavalda ed ignorante era
diventato proverbiale nel Portogallo; tantochè, quando egli approdava
dall'America la prima volta, non vi credettero affatto; e il Re stesso
di Portogallo, diffidandone, volle, con un ingegnoso espediente, sapere
dagli stessi indigeni la verità.


_Delirio_. — La nettezza, dice giustamente il De Lollis, con la
quale egli aveva formulato il suo progetto, la costanza più che
decennale, nel sostenerlo, la cura minuziosa nel redigere i capitolati
dell'impresa col Principe, la ostinazione con la quale egli ricusò
sempre di modificare, pur leggermente, le condizioni da lui poste,
tutto ciò dimostra più che la convinzione dell'uomo medio, la visione
materiale della meta, come solo, aggiungo io, il _paranoico_ può
averla.

Del resto, il delirio alla prima occasione grave si manifestò
chiaramente. Tornato dall'ultimo viaggio, i mali trattamenti del
Bobadilla e le disgrazie enormi della traversata e della dimora alla
Giamaica, dove si trovò su due magre caravelle quasi abbandonato ed
in pericolo di morire di fame, acutizzarono la paranoia persecutiva
e insieme anche religiosa. E l'acutizzarsi del delirio provocò una
allucinazione in cui, come nei sogni dei paranoici, alle immagini di
dolore presente ed urgente subentrano altre, rosee e lusinghiere. Egli
racconta che mentre tanto soffriva, quando stava ancorato presso al
fiume Betlen, sulla costa di Veragua, ebbe una visione che lo mise in
comunicazione con Dio e lo sollevò all'altezza di Mosè e di Davide, i
prediletti servi del Signore d'Israele.

Una voce divina gli gridò: "O stolto e tardo a credere e a servire
il tuo Dio, Dio di tutti, che cosa fece egli di più per Mosè o per
Davide, suo servo? dacchè nascesti, sempre egli ebbe gran cura di
te. Quando egli ti vide giunto all'età che gli apparve conveniente,
meravigliosamente fece risuonare il tuo nome pel mondo. Non temere,
tutte queste tribolazioni rimangono scritte sul marmo e non senza
causa". Questa voce non poteva, a suo credere, esser che quella
di Dio: quantunque egli non osi confessarlo troppo chiaramente: e
misteriosamente scrivesse: "_Così finì egli di parlare chiunque, poi si
fosse_".

Meglio ciò si vede nelle lettere a donna Giovanna della Torre, quando
sbarcò a Cadice incatenato: "Del nuovo cielo e terra che prefetizzarono
Isaia prima e poi S. Giovanni nell'Apocalisse, _nostro Signore_ mi fece
messaggero additandomi la loro postura".

Ma dello acutizzarsi di quella convenzione psicopatica lasciò un più
completo documento nel _Libro de las Profecias_, compilato nel 1501,
dove, certo trascinato come tanti paranoici, dal bisticcio col suo
nome, (v. s.) riavvicina la propria sorte a quella di Cristo, che
sofferse la croce per l'umanità redenta, così come egli subì l'onta
delle catene per avere reintegrato l'umanità nel possesso del nuovo
mondo.

Nella prima parte del _Libro de las Profecias_, si trovano riuniti
i passi delle Sacre Scritture nei quali è profetizzato il trionfo
universale del Dio d'Israele: e son raccolti tutti i passi della Bibbia
dove si parla di isole che in remote plaghe dell'oceano attendono la
voce del Signore.

Nella seconda: trovi tutti i passi che descrivono le tragiche
vicende di Gerusalemme; nella terza i vaticini della fine del mondo e
dell'avvento dell'Anticristo; nella quarta le sfolgoranti allusioni ai
tesori dell'Oriente, ai blocchi d'oro e d'argento di Tarsi o di Ofir.

"Con la medesima cura (scrive il De Lollis) che durante le sue
navigazioni egli poneva a rivelare ogni minimo fatto, ogni minimo
indizio che giovasse a regolarle, con la medesima cura Colombo trae
dalle pagine della Bibbia tutte le vaghe allusioni alle lontane isole
che aspettano la voce del Signore.

"_In omnem terram exivit sonus eorum, et in fines orbis terrae verba
eorum_. Questo passo del salmo XVIII, nel quale i cieli si tramandano
gli echi della gloria del Signore, ricorre più e più volte sotto la
penna di Colombo: _Deus Deorum dominus locutus est et vocavit terram
a solis ortu usque ad occasum..... Sit nomen Domini benedictum ex hoc
nunc, et usque in saeculum, a solis ortu usque ad occasum laudabile
nomen Dei_".

Da queste ultime frasi Colombo, che cercò il Levante per la via di
Ponente, pretende essere i termini del suo itinerario già fissati
nei passi della Bibbia. Accanto a quella di Isaia e di Geremia sta
l'autorità di S. Agostino, di Pietro d'Ailly; ma tutto l'insieme è
coordinato a provare che la voce del Cristo dovrà correre attraverso a
tutto l'Oceano ed echeggiare nelle più remote isole del mare prima che
la fine del mondo abbia luogo.

È un libro come tanti se ne vedono nei manicomi.

"Le vedute mistiche", nota il De Lollis, "soppiantavano così quelle
cosmografiche nella mente e nell'animo di Colombo; e mentre, in
origine, sull'autorità di Aristotile e di Strabone, la Spagna gli
era apparsa, per la sua posizione geografica, come il punto di
partenza naturale per una navigazione alle terre transatlantiche, egli
preferiva oggi considerarla come la Nazione che la volontà Divina
aveva specialmente predestinata ad agevolare il trionfo completo
del Cristianesimo, con la cacciata degli Ebrei e dei Mori dal suo
seno e con la riconquista della Santa Casa. Anche l'anima profetica
dell'abate Gioacchino (che pure influì, aggiungo io, su Cola di Rienzo
e su Lazzaretti), s'era espressa in questo senso". L'abate Gioacchino
Calabrese, notava Colombo aver profetato che "doveva uscire di Spagna
colui che avrebbe riedificata la casa del Monte Sion".

Egli vedendo in sè l'uomo vaticinato da Dio per... _portare_ (ed
ecco di nuovo l'esagerata importanza del bisticcio col suo nome
_Christo-ferens-Cristoforo_) il _nome_ e la gloria _di Dio_ agli
estremi del mondo, raccolse dai profeti e dalla Bibbia tutte le pretese
allusioni alle sue scoperte.

Egli è fiero di dimostrare che ha operato sotto l'influenza dello
Spirito Santo; e si gode a mettere in evidente contrasto la propria
ignoranza col sapere di quelli che risero del suo progetto.

"Per l'esecuzione dell'impresa, non mi valse né ragione, né mate
matica, né mappamondi, ma semplicemente si compie quel che predisse
Isaia".

Egli fu prescelto, non per attitudini speciali, ma perchè grande era
sempre stata la sua fede. S. Pietro, saltando in mare, si resse sopra
l'onda, perchè fu ferma la fede sua. "E non sapete" ripete con Cristo:
"che dalla bocca dei fanciulli e degli innocenti (e noi aggiungeremo
dei pazzi) esce la verità?".

In una lettera che accompagna al Re il _Libro de las Profecias_,
egli stesso dichiara d'averla scritta per dimostrare come egli fosse
predestinato a compiere la restituzione della Santa Casa alla Santa
Chiesa militante; ribadisce questi argomenti con le ricchezze che egli
avrebbe scoperto; e questo diventa lo scopo esclusivo dei suoi viaggi;
anzi pretende che Iddio gli avesse inspirato l'impresa delle Indie solo
per questa nobile meta.

Il tutto è completato con un ragionamento perfettamente... paranoico: I
santi padri della Chiesa affermarono che la durata del mondo non poteva
andare oltre ai 7000 anni; ora siccome, stando alle Tavole Alfonsine
erano decorsi 6845 anni; in breve, in 155 anni, l'ombra nefasta
dell'Anticristo avrebbe velata la luce del sole e l'Eterno avrebbe
disperso negli abissi del suolo il mondo.

Dunque il nuovo mondo sarebbe perito fra un secolo e mezzo; ma siccome
è scritto nelle sacre carte che prima che il mondo finisse, la voce del
Cristo sarebbe pervenuta ai più lontani confini, era chiaro che egli,
Cristoforo, era scelto ad esserne il banditore.

Solo un secolo e mezzo di vita egli assegna al Nuovo Mondo da lui
tratto alla luce della civiltà; né per questo la sua opera gli par
caduca: Non era forse scritto: che prima della fine del mondo la voce
di Dio avrebbe raggiunti gli estremi confini?

Così Cristoforo Colombo, che con l'opera propria aveva definitivamente
chiuso il medio evo, rievoca in una forma concreta, pressoché
matematica, le più umilianti superstizioni del più tenebroso medio evo.

Egli scriveva questa lettera nel 1501, quando aveva già subita —
conseguenza diretta delle sue crudeltà e delle esagerazioni e menzogne
con cui aveva eccitato l'avidità di Re Ferdinando, — l'onta delle
catene, gli insulti del Bobadilla; pure non ne appare scoraggiato: e
torna a ripetere ai Sovrani, che egli, vecchio cadente, non altri che
egli, provvederà alla ristaurazione della Santa Casa: "Geruselemme e il
Monte Sion han da essere riedificati per mano di un grande Cristiano.
Chi debba essere costui lo predissero i profeti, e più precisamente
ancora l'abate Gioacchino", il quale asserì che tale uomo doveva uscire
di Spagna... reticenza facile a supplire.

Non si sa poi se attribuire al suo abito della menzogna o al delirio,
l'iperbolica rappresentazione ch'egli fa nella lettera alla nutrice
del Principe Don Giovanni (fine del 1500), dei poveri Indiani quasi
"popoli innumerevoli e bellicosi" da lui soggiogati (De Lollis, _Nuova
Antologia_, 16 agosto 1892).

La compilazione del _Libro de las Profecias_ cade nel periodo di
intervallo fra il terzo e il quarto viaggio: e lo scopo di quest'ultimo
era appunto quello di ammassare i tesori giacenti sin dai tempi più
remoti di Salomone nelle isole dell'Oriente, e impiegarli nella impresa
santa di Gerusalemme.

Nella Relazione che di quella disastrosa spedizione scrisse ai Re, il
7 luglio 1503 da Giamaica, Colombo è animato sempre dalla stessa fede
e dalle medesime intenzioni. Egli non aveva trovato lo stretto che
doveva condurlo sulla costa occidentale dell'istmo di Panama; dove si
immaginava accumulati i tesori delle leggende bibliche; ma questo non
gli impedisce di serbare la convinzione che dall'interno del Veragua,
da lui solo in parte esplorato, Davide aveva tratti i tre mila quintali
d'oro lasciati a Salomone per l'edificazione del Tempio, e che di lì
pure provenivano gli altri seicento sessanta quintali, che allo stesso
Salomone recarono i suoi messi.

Egli continua a sentire in sé qualche cosa di più che umano, e nel
descrivere la tempesta che lo colse sulla costa meridionale di Haïti,
e inghiottì il suo mortale nemico Bobadilla, ravvicina con vantaggio
proprio i suoi patimenti a quelli che misero a prova la pazienza di
Giobbe. "Qual uomo nato di donna" esclama egli con una formola che
poi rinnovava Lazzaretti, "non escluso Giobbe, non sarebbe morto di
disperazione?"

Ora chi fra gli alienisti potrebbe dubitare che non si tratti qui di un
paranoico religioso, ambizioso e allucinato?

Che egli in quel momento fosse in un accesso di melanconia religiosa è
molto chiaro: e che questo fosse l'esagerazione di tendenze esistenti
in lui fino dall'infanzia è anche certo, perchè sappiamo che a nessuna
azione egli si risolveva già fin da giovane senza rivolgere prima una
speciale preghiera alla Madonna, e perchè quell'opera, _Las Profecias_,
non è che la continuazione, ed insieme la caricatura delle idee che lo
dominarono in gran parte della sua vita.

Egli stesso, come vedemmo, afferma che non fu l'ingegno a condurlo
alla grande scoperta, nè la cognizione, benchè avesse pratica marina,
ma l'aiuto divino; e il De Lollis conferma che non fu il genio, ma la
fede che ve lo condusse. Noi sostituiremo alla fede e all'aiuto divino
l'autosuggestione paranoica, che lo acceca su tutte le difficoltà
vere, che gli fa credere di essere uno strumento di Dio, che sopra
fragilissime basi, come era l'ipotesi toscanelliana, gli fa abbracciare
e sostenere fin alla meta l'immenso problema che avrebbe spaventato
qualunque altro uomo d'ingegno normale.

La paranoia ambiziosa e religiosa, già in germe prima in lui fin da
giovanotto, giganteggiante poi sotto agli strazi della Giamaica, come
gli fa sopportare fatiche e dolori, che avrebbero abbattuto qualunque
uomo sano, così ispira nella maturità quell'uomo, che per coltura
di poco passava la media, e lo fa giungere lì dove appena una grande
genialità od una profonda dottrina sarebbero pervenute.

Nè si dica, col solito banale _clichè_ dei critici volgari, essere
stata così la ispirazione religiosa che tanto lo ingrandì, come molti
dei caratteri che egli offerse, scrittura, firma, un effetto dei tempi.
Prima di tutto i geni sono sempre superiori, sono i padroni, non gli
schiavi dei loro tempi, specie nelle cose che già appaiono a questi
assurde: d'altronde poi ogni paranoico assume il punto di partenza
dei suoi deliri alle condizioni ambienti; così ora si preoccupa dello
spiritismo e del magnetismo, della quadratura del circolo, come allora
dei diavoli, delle streghe, della fine del mondo e della liberazione
del S. Sepolcro. — D'altra parte quando l'interesse o la vanità, base
del delirio, erano in causa, Colombo passava sopra alle più precise
norme della religione, a quelle cui nessun uomo di media devozione
anche allor avrebbe trasandato; come quando mentiva, anzi spergiurava,
sulla ricchezza in oro dei nuovi paesi; e peggio quando impediva il
battesimo degli Indi. Era una religione dunque morbosa, la sua, quella
da cui fu invaso, almeno, negli ultimi tempi.

L'ambiente influiva sulla impalcatura delle sue fantasticherie
paranoiche anche per quell'altro lato che più qui importa: la scoperta
di nuove terre; in quell'epoca, infatti, se era viva la devozione per
Gerusalemme, l'era ancor più la passione per le scoperte geografiche,
le quali da ogni parte pullulavano. Anzi le stesse ipotesi di
Toscanelli, che ispirarono Colombo, erano state formulate dal Munzer,
che presentava a questo scopo Martin Behaim a Juan II di Portogallo,
proponendogli, con lettera, notisi, quasi contemporanea all'impresa
colombiana, del 15 luglio 1493, d'equipaggiar navi per andare al paese
delle sete e delle spezie, cogli stessi argomenti di Colombo, o meglio
del suo copiato Toscanelli: fondandosi cioè:

I. Sul detto di Aristotele, che l'estremo Oriente è più vicino
all'Ovest;

II. Sul non essere vero che il mare sia più esteso che la terra;

III. Sull'esservi molte prove che in pochi giorni di navigazione si può
andare al Katai;

IV. Sull'essere la Terra rotonda;

V. Sull'essersi trovati piedi di _bambou_ alle Azzorre, cacciativi
dalle tempeste (Harrisse, op. cit.).

La paranoia di Colombo, dunque, pure attingendo i materiali del delirio
dall'ambiente, ne acutizzava l'ingegno e specialmente la neofilia;
sopprimeva il misoneismo, facendo, sotto l'eccitamento cerebrale
esagerato, tacere i calcoli della prudenza, le obbiezioni della
critica, le incertezze e le pigrizie dell'inerzia; ne acuiva l'ingegno
al grado del genio, almeno per tutto quanto riferivasi alla grande
scoperta: trascinandosi perciò ad operare più oltre e di molto di
quanto avrebbe potuto un uomo medio. Così ho mostrato, nel mio _Uomo
di Genio_, come un venditore di spugne, d'ingegno medio, giungesse
nel delirio a presentire, dopo aver visto crescere rapido un albero
dove aveva seppellito un asino, il circolo della vita; così Cola di
Rienzo previene, sotto l'impulso paranoico, le conclusioni di Cavour,
e abbatte, quasi inerme, il governo dei nobili armati. Lazzaretti,
un ignorantissimo carrettiere, spinge sotto l'ispirazione paranoica
un'intera popolazione, quella del Monte Amiata, ad una vera rivolta
religiosa, abortita solo perchè nelle altre regioni i tempi non eranvi
adatti nè propensi.


Nè con ciò intendo negare in Colombo l'impronta del genio: un'immensa
pratica di mare, e di cartografia, una straordinaria intuizione gli
teneano luogo di cultura: gli permisero così di cogliere dai menomi
indizi la certezza dell'avvicinarsi della terra.

Ed anche al di fuori della scoperta del nuovo mondo, che era sua come
vedemmo, solo in parte, egli ebbe vere intuizioni scientifiche. Così,
osservando prima a 260 leghe dall'Isola del Ferro e poi a Somana gli
immensi ammassi di Fucus galleggianti, intuì che il mare di Sargassi
doveva segnare una linea quasi stabile nel bacino dell'Oceano, e che le
piante terrestri staccate dagli scogli si accumulavano con una certa
regolarità determinata da una corrente diretta da est ad ovest: era
una divinazione della corrente equatoriale, le cui ragioni fisiche egli
riuscì poi a spiegare nei suoi primi viaggi in modo affatto conforme al
vero. (Lolli o. c.).

Nè fu questa la sola osservazione originale che sorgesse nella mente
di Colombo lungo il percorso di quella navigazione affatto nuova.
Difatti, già fra il 13 e il 17 settembre del 1492 egli aveva compiute,
ricollegandole con mirabile perspicacia, le sue osservazioni sulle
declinazioni dell'ago magnetico: l'uso della bussola rimontava
ad epoche remote, alla civiltà cinese: forse, durante le audaci
navigazioni del secolo XV attraverso l'Atlantico, s'era anche
osservato che la punta dell'ago calamitato non mirava diritto al
polo, ma inclinava verso nord-est; ma fu egli indubbiamente il primo
che, per dirla colle parole dell'Humboldt, constatò che questa stessa
_variazione variava_; vale a dire che la bussola, a una certa distanza
a ponente delle Azorre, declinava verso nord-ovest. Combinando le
sue osservazioni sulla declinazione magnetica con quelle sulla linea
stabile del mar di Sargassi e il cambiamento di temperatura notato a
100 leghe dalle Azorre, egli doveva poi più tardi giungere a stabilire
una linea senza variazione nell'Atlantico, che fissava le grandi
divisioni climatiche dell'Oceano e potè riuscire utilissima per la
determinazione della longitudine.

La sua tenacia infine fu meravigliosa, geniale; scrivemi in proposito
il geografo Prof. Errera, "la genialità sua massima sta nell'aver
_attuato_ il progetto di Toscanelli, che a tutti i dotti del tempo
doveva parere _tecnicamente_ possibile, _praticamente_ inutile o
pazzesco: — inutile, perchè un'altra via oceanica alle Indie era già
stata trovata (giro del capo di Buona Speranza); — pazzesca, perchè un
viaggio che lasciasse dietro a sè ogni terra gettandosi a capofitto nei
deserti dell'Oceano sulla sola fede dei calcoli d'un solo cosmografo,
doveva parere idea da matti e non da savi, per quanto si temperasse con
l'erroneo calcolo del potersi compiere in pochi giorni."

"Taluno, è vero, aveva già tentato dei viaggi verso ponente alla
scoperta d'isole supposte; ma tra questi e Colombo v'è la stessa
differenza, che tra un nuotatore che s'allontana dalla sponda tanto da
esser sicuro di potervi ritornare prima che gli manchino le forze, e il
nuotatore che lasci la sponda senza voler più tornare indietro, diretto
ad una meta che egli suppone esista al di là."

"Ora di un progetto che i savi praticamente e giustamente
sconsigliavano, egli volle e seppe esser attuatore. Forse fu il morbo
che nascose alla sua mente gl'inconvenienti dell'impresa; ma certo esso
gl'instillò la tenacia e l'energia dell'uomo che è spinto da una idea
fissa."

Ma quando una idea fissa è la scoperta di un nuovo mondo, abbiamo
innanzi una meta così gigantesca, da non poterla assimilare alle quasi
sempre sterili, sempre incomplete, concezioni dei pazzi.


TAV. I.

AUTOGRAFI DI COLOMBO

N. 1.

   [Illustrazione: _Autografi di Colombo._ (Raccolta Colombiana,
   Parte 1.)]

N. 2.

   [Illustrazione: _Autografi di Colombo._ (Raccolta Colombiana,
   Parte 2.)]

N. 3.

   [Illustrazione: _Autografi di Colombo._ (Raccolta Colombiana,
   Parte 3.)]

N. 4.

   [Illustrazione: _Autografi di Colombo._ (Raccolta Colombiana,
   Parte 4.)]



MANZONI[11]

(_Con 3 tavole_)



L'UOMO



CAPITOLO I.

Esame somatico e biologico.


Alessandro Manzoni era di alta statura, m. 1. 67, con apertura delle
braccia (carattere questo degenerativo) molto maggiore della statura
1.75; circonferenza del capo molto vasta — 580mm.; — fronte larga
alla base 110, ma sfuggente. Ebbe acutezza visiva grande fino a tarda
età, che contrastava coll'ottusità notevole del gusto e dell'odorato,
che non lo lasciava accorgere dei cibi che sapessero di fumo; la
poca sensibilità musicale contrastava ad una strana iperacusia,
specie, notturna. — Moderato nel cibo, salvo quando avesse dei grandi
dispiaceri; occasioni queste, in cui, all'inverso dei più, mangiava
assai. Come i nevropatici aveva grande sensibilità meteorica. "_È
tranquillo, è buono, salvo quando vuol mutare il tempo e quando non
ha emozioni_", scriveva di lui, giovane, la madre Giulia a Fauriel,
(Cantù, o. c., II, 160).

Soffriva di balbuzie iniziale specialmente davanti agli estranei ed
in alcuni giorni più che in altri; fu in preda a continui disturbi
nervosi, — mali di stomaco, lombaggini, mali di denti, di testa,
un'impossibilità di lavorare più di 5 giorni in un mese, inquietudini,
angosce, — che provocavano in lui strani scoraggiamenti.

Era insieme claustrofobo ed agorafobo, sicchè una strada grande gli
dava una sensazione penosa, e doveva camminarvi sempre rasente il
muro, appoggiandosi dall'altra parte ad un amico; e mentre gli era
fisicamente e moralmente impossibile di rimanere da solo in una camera
chiusa a chiave e di rimanere nella folla, dichiarava star bene solo
camminando; e camminava così rapido, che meglio poteva dirsi corresse.
"Ieri mattina, — scriveva egli, per es., a Fauriel, — sentendomi bene,
andai a piedi a Brusuglio, e dopo avere corso nelle vie e nel giardino
quasi quattro ore, ne sono rivenuto a piedi". Però era incapace di fare
un solo passo fuori di casa da solo; per cui, pochi potendolo seguire
nel suo passo stranamente affrettato, dovette anche da giovinetto, come
ne informa sua madre, passare molti giorni in angoscia, per non poter
uscire.

E tutti questi mali partivano o si riflettevano su e dai centri
nervosi: così evidentemente nevrotico era il suo mal di stomaco che
non gli lascia _forza d'intendere ciò che scrive_, e talvolta non gli
lascia pigliar la penna in mano.


_Doppia personalità_, — Presentò in tutta la vita, non che passando
dalla giovinezza all'età adulta, una vera doppia personalità: ora
timida, ora audace, ora bigotta, ora Voltairiana, ora affettuosa, ora
muta d'affetto.

Avea una vera forma di follia circolare: giorni nefasti, come egli
li chiamava, di angosce, inquietudine, di singolari scoraggiamenti,
durante i quali non poteva nemmeno passeggiare, e giorni tranquilli.


_Scrittura_. — La doppia personalità di Manzoni si riflette nella
scrittura ora nitida e calma ora procellosa, come aveva già intraveduto
Bonghi. Se noi esaminiamo, per es., l'autografo di quel frammento sul
Corpus Domini pubblicato nel _Carteggio fra Rosmini e Manzoni_ (vedi
n. 1), e la dichiarazione premessa in età adulta al giovanile _Trionfo
della libertà_; ed il ms. del _Trionfo della Libertà_, (Bonghi. Opera
inedita di Manzoni, Vol. I, p. 30, Fig. 2-3, e le note al Canto I.,
idem, Fig. 4), vediamo nelle ultime, ma più specialmente nella prima,
che crederei scritta nel 53, un tipo comune agli ecclesiastici,
che risulta da un'eguaglianza monotona di tutte le lettere, curve e
filetti, senza risalto alcuno di filetti, nè di hampe allungate nè
di curve personali, nè di volute, nè di tagli del _t_, senza pendenze
spiccate a destra nè a sinistra.

Invece l'autoritratto (Fig. 5) ha un tipo artistico spiccato, che
ricorda quello di Raffaello e anche Mantegazza, Calderini, Mazzini,
Bistolfi con belle maiuscole, con curve artistiche, col taglio del
_t_ qualche volta al di sopra, qualche volta all'indietro o al davanti
della lettera, con accentuati filetti e i grassetti.

Tutti questi caratteri differiscono stranamente dalla scrittura del
5 maggio (Fig. 6 e 7) e così anche dall'_Inno delle Pentecoste_ che
parrebbero assolutamente vergati da un altro. Qui la scrittura è ora
diritta, ora assolutamente pendente a sinistra, appuntata invece che
curva, legata invece che giusta-posta, colle lettere piccole e le hampe
in confronto molto grandi, colle linee serpeggianti e spaziate, con
qualche voluta, con macchie e scarabocchi, e correzioni a masse e in
cui si accentua la nota appassionata e la grande irrequietudine dello
spirito in contrasto colla impassibile eleganza ed apatia delle altre,
per cui al minimo possiamo trovare nel Manzoni tre caratteri speciali
che covavano già nella sua giovinezza e divennero spiccatissimi
nell'età matura.

Questi mutamenti grafologici si possono trovare anche nel ms. di una
stessa ode; p. es. nel 5 maggio (fig. 6 e 7) è curioso il notare in
B il carattere calmo e quasi apata della correzione della 2ª. strofa,
che è ben più poetica della prima gettata[12] e che assomiglia molto
a un'altra scrittura che qualche volta usa il Manzoni, quale si
trova nella lettera a Federico Gonfalonieri n. 8 e che, se frequente,
costituirebbe quasi un quarto tipo grafologico.


_Balbuzie_. — La sua balbuzie era, come la chiama Stricker una balbuzie
psichica, _Gedanken-Stottern_, che s'arrestava ad un tratto davanti ad
una parola difficile a pronunciare; e davanti a cause che aumentassero
la sua naturale timidezza, sicchè egli come già Cartesio, Newton,
Cornelio, era incapace di pronunciare davanti a molti fosse anche
una sillaba sola. Questo arresto psichico emotivo pare si estendesse
qualche volta anche alla scrittura, se con Bellezza si interpretano
alcune frasi della figlia, e della madre, che p. es. dicono,
"_Strappiamo la penna_ ad Alessandro che pensa _troppo_ per dirvi in
due parole quanto potrebbe dirvi." "Scrivo invece del padre perché
l'occasione instessa e precipitosa _non gli dà il tempo di scrivere da
sè_," prova bellissima che il fenomeno è completamente corticale.


_Assenze epilettoidi_. — Soffriva fieri mali di capo, con senso
di congestione, per cui si sentiva invadere la testa da un gran
caldo[13] e insieme assenze _epilettoidi_. Queste erano segnalate dal
camminare e leggere senza accorgersi di quanto accadesse e si dicesse
intorno a lui: e dalle vertigini epilettoidi; le quali solo posson
spiegare gli svenimenti o l'apprensione continua degli svenimenti;
espressione questa, o meglio eufemismo, con cui spesso gli epilettici
designano i loro accessi; tanto più che l'esame medico accurato
fatto eseguire dalla madre, escluse ogni altra affezione cardiaca o
cerebrale o gastrica, che potesse spiegarli: e che, persino un giorno,
bizzarramente attribuiva al clima di Parigi[14] dove, viceversa, era
andato appositamente per guarirne[15].

Portava con sé del forte aceto, per scongiurare questi accessi o
deliqui; ed un giorno sentendoseli venire, mentre era lontano da casa,
se ne gittò addosso con tanta precipitazione, da guastarsi per qualche
tempo la vista. — Ed era questa del deliquio o accesso che fosse altra
causa per cui non ardiva uscire da solo.

Lo Stampa racconta come una volta parve al Manzoni che il suo maestro
di tedesco, certo Ekerlin, fosse caduto in deliquio durante la lezione;
e che donna Giulia pregò quest'ultimo di astenersi dal frequentare il
figlio, perché quello spettacolo ne aveva peggiorato lo stato nervoso.
E a proposito del timore ond'era sempre assediato di svenire lontano di
casa, lo Stampa, op. cit., osserva: "Il risvegliarsi da uno svenimento,
col sentimento di _esser stato fuor di sè_, circondato da persone
straniere che lo guardavano con un curioso interesse, era un accidente
che sopra un temperamento veramente _nervoso_ e _convulso_, dovea fare
una brutta e profonda impressione."

Tutto questo non può spiegarsi[16], soprattutto a chi sappia che
la vertigine quando non sia effetto di complicazioni gastriche
o cardiache, è il fenomeno più costante dell'epilessia, specie
dell'epilessia psichica[17], ch'è come una forma di accessi
istero-epilettici. Aggiungasi che la più ispirata delle sue liriche, —
il 5 maggio, — fu composta in un vero accesso di epilessia psichica.
La notizia della morte di Napoleone I gli giunse il 17 Luglio a
Brusuglio, mentre era nel giardino; si chiuse nel suo studio e scrisse
in 2 giorni l'inno (V. Op. ined. e rare di A. Manzoni, Vol. I. —
Avvert. p. 14 — edite dal Brambilla) mentre tutti i precedenti altri
inni furono stentati per 6 od 8 mesi di seguito; "i famigliari dissero
che in quel giorno pareva impazzito.., che dettò l'inno in soli 2
giorni di _straordinaria irrequietudine_, durante i quali faceva
suonare continuamente al piano la sua signora qualunque aria, pur che
non s'interrompesse"[18]. E lo stato spasmodico in cui era quando lo
dettava è provato anche grafologicamente (v. s).



CAPITOLO II.

Esame psicologico.


_Amnesie_. — A meglio fissare tale diagnosi, si aggiungono le
singolari amnesie (altro fenomeno speciale all'epilessia) che in lui
s'alternavano ad una meravigliosa memoria, sì da saper a mente quasi
tutto Virgilio ed Orazio; e perciò erano assolutamente morbose. E qui
le prove son numerose.

In mezzo ad una disputa di materia storica, gli viene in mente di
guardare che cosa dice in proposito il Gibbon, e trova il volume...
postillato da lui stesso. "_Ecco cos'è la mia memoria_!" esclama poi
ridendo.

Un'altra volta, spedisce un libro ad un amico "per la posta a foggia
di lettera", cagionando una spesa inutile e relativamente grave al
destinatario, a cui deve poi chiederne perdono[19].

Scrivendo al Fauriel gli accenna a un lavoro che egli avrebbe tra le
mani sopra gli stoici; l'amico, il quale pensa agli stoici come al Gran
Turco, casca, dalle nuvole ed egli se ne scusa in questo modo:

"_Je ne sais pourquoi je vous ai parlé des stoiciens, quand je savais
très bien que c'est à ce discours que vous travaillez. Mais c'est que
je parle quelquefois comme un oison_".

Dimenticanze e distrazioni gli avveniva di commettere persino in ciò
che più dappresso riguardava i suoi studi: nelle note storiche premesse
all'Adelchi, dopo il cenno del matrimonio di Desiderata o Ermengarda,
figlia di Desiderio, con Carlo Magno, aveva scritto che: "le cronache
di quei tempi variano perfin nei nomi, quando però li dànno". Federico
Odorici lo avvertì che ambedue i nomi in tedesco significavano "figlia
di Desiderio" e che perciò erano identici. Il Manzoni ringraziò e
promise di sopprimere nella nuova edizione l'immeritato rimprovero
a' cronisti; ma poi se ne dimenticò, ed ebbe a scusarsi della sua
"scapatagine" presso l'Odorici". (Bellezza o. c.)

Una volta, conversando con un amico, gli citò una sentenza che gli
pareva bella, ma non si rammentava più dove l'avesse trovata. _Sfido!_
gli disse l'amico: _è vostra!_ (_Dialogo dell'invenzione_); egli
restò confuso, corse al volume delle sue Opere Varie, e rispose un po'
balbettando: "_Quand'è così, la citazione non ha alcun valore._" E mutò
discorso. Nè questo è il solo né il più sorprendente esempio della sua
davvero "portentosa" dimenticanza di ciò ch'egli stesso aveva scritto.
Una sera, narra il Fabris, a chi gli citava due o tre versi del coro:
"_Dagli atri muscosi_", ecc. egli disse non ricordare punto quei versi.
Un'altra sera una signora, che aveva recitato stupendamente a Napoli
la parte d'Ermengarda, gli diede il proprio ritratto; con sotto scritti
alcuni versi di questo personaggio; invano i famigliari gli ricordavano
che eran suoi; egli sostenne risolutamente di non averli mai scritti;
finché dovette cedere alla evidenza: "quando gli additai (scrive
Fabris) il luogo preciso della tragedia dove si trovavano. Un'altra
volta lo trovai circondato da un mucchio di libri, e tutt'intento a
cercare un passo di un autore, ch'egli aveva in mente; e richiesto da
lui se lo sapessi trovare, gl'indicai una delle sue opere, al che egli
stentando a prestar fede, andò a cercare il volume, né si acquetò fino
a che non gli ebbi mostrata la pagina". (Bellezza, o. c.)

Era così misoneico, che non andò a vedere lo zio Beccaria morente, in
ferrovia, perchè quella allora era una novità. Già a 22 anni scriveva
(Epist. I, 72) del ribrezzo che gli metteva addosso il vedere nuove
facce; anche Stampa afferma, che il solo vedere una persona nuova
lo metteva sempre di malumore; e che estendeva il misoneismo ai
bicchieri, alle scatole del tabacco, alle cravatte, le cui forme non
mutò mai, come la madre sua non mutò mai le mode che avea portate nella
giovinezza.


_Paure_. — Egli, poi, fondeva il misoneismo alla panofobia: aveva paura
di tutto, delle strade ferrate, del colera, del dentista; provava _vero
spavento a visitare_ un paese straniero.


_Paradossi_. — È strano ch'egli, così equilibrato in ogni suo
lavoro, si piacesse così spesso (Cantù, op. cit.) di quei paradossi,
_ove_ (le son frasi Manzoniane): _la salsa è tutto_; e non solo in
letteratura, anzi più spesso ancora che in letteratura, in politica,
e in economia, come quando voleva che si lodasse l'architetto Mengoni
per le difficoltà vinte nel costrurre la Biblioteca Ambrosiana sopra
area limitata e disuguale, e poi suggeriva di... demolirla. Alcuni
eran geniali come: quando proponeva smetter gli ambasciadori, essendo
divenuti ora inutili: e come quando affermava — "esservi mancanze, le
quali, lungi dal far perdere a un autore il titolo di galantuomo, gli
acquistano spesso quello di benemerito" — e che: — "l'accusa di plagio
è stata fatta sempre agli scrittori che hanno detto il più di cose
nuove" — e che: — "la rappresentazione delle passioni che non eccitano
simpatia, ma riflessione sentita, è più poetica d'ogni altra".

E nel parlare e nello scrivere in Italia constata che, "per non dare
nello strano, bisogna tenersi lontano dal naturale"; e ciò per "non
saper come fare per dire una cosa che si dice ogni momento".

Son queste tutte, in vero, delle trovate più paradossali in apparenza
che non in realtà, e che possono parere tali solo all'uomo volgare. Ma
però egli si piaceva troppo in altre sentenze, peggio che paradossali,
solo basate sulla forma, sul suono, sul contrasto dell'espressione —
come quando pretendeva _la moda una libertà portata dal Cristianesimo_,
che, viceversa, perpetua, perfino nelle cocolle del frate, la veste
delle plebi Romane; e quando parla del vezzo del pubblico, il quale
s'ostina "a demander des explications sur ce qui n'avait que le défaut
d'être trop clair", e che "l'osservar poco è.... il mezzo più sicuro
per concludere molto": e come quando trovava la seconda Gerusalemme
di Tasso "indubbiamente migliore della prima, sia riguardo ai versi,
sia riguardo alle altre correzioni", e quando in una lettera al
Bonghi sostiene che il Baretti "quell'Aristarco, che ebbe e ha ancora
la riputazione di critico incontentabile, peccò piuttosto di troppa
indulgenza"!!

Chiamava i ladri i più gran partigiani del diritto di proprietà,
perchè... arrischiano la vita per ottenerla. Discorrendo col Torti del
vino e dei suoi componenti conchiudeva: "IN FINE DEI CONTI, LA BASE DEL
VINO È L'ACQUA".

La frequenza di questi paradossi o meglio dei bisticci che come vedremo
formano non scarsa parte del suo contenuto letterario in prosa, è tanto
più strana in lui che in alcune severe sentenze ne riprovava l'uso come
perniciosissimo al giusto ragionamento (v. sotto).


_Abulia_. — Come accade in molti geni, la profondità del pensiero,
che malgrado tante mende era in lui mirabile, ne aveva depressa
la robustezza della volontà e il senso pratico, il che chiaramente
confessò in questa lettera a Briano giustificando con ciò il rifiuto
dell'offertagli deputazione (V. _Epistolario_, Vol. II — Milano, 1883 —
pag. 176).

"Il senso pratico dell'opportunità, del saper discernere il punto o
un punto dove il desiderabile si incontri col riescibile; e attenersi
sacrificando il primo con rassegnazione non solo, ma con fermezza
fin dove è necessario, salvo il diritto si intende, è un dono che
mi manca a un segno singolare: e per una singolarità opposta, ma che
non è nemmeno un rimedio, perchè riesce non a temperare ma a impedire
ciò che mi pare desiderabile, mi guarderei bene dal saperlo non che
dal sostenerlo. Ardito nel mettere in campo proposizioni, che paiono
e saran paradossi, e tenace non meno nel difenderle, tutto mi si fa
dubbioso, oscuro e complicato, quando le parole possono condurre a una
deliberazione.

"Un utopista e un irresoluto son due soggetti inutili, per lo meno, in
una riunione in cui si tratti di conchiudere; io sarei l'uno e l'altro
nello stesso tempo.

"Il fattibile più volte non mi piace e dirò anzi mi ripugna; ciò che mi
piace non solo parrebbe fuor di proposito e fuor di tempo agli altri,
ma sgomenterebbe me medesimo, quando si trattasse non di vagheggiarlo
o lodarlo semplicemente, ma di promuoverlo in effetto; e d'averne poi
sulla coscienza una parte qualunque delle conseguenze."

Son le parole stesse con cui espressero la loro abulia Cardano, Newton
e Rousseau, e recentemente Renan ed Amiel[20].

L'abulia lo lasciava preda del suo ambiente, favoriva la sua
suggestionabilità, il che spiega perché fino a che fu sotto l'influenza
della madre vedesse dei geni nei suoi amanti e non s'accorgesse
dell'indelicatezza nel farne egli l'elogio; appena caduto nel dominio
dei preti passa ad un fanatismo bigotto così esagerato come era
forse esagerato l'anticristianesimo e l'odio dei preti quando era
sotto l'influsso degli enciclopedisti. Vedremo presto come alla sua
conversione abbia contribuito molto la suggestione della moglie, della
madre, di due preti e d'una... vicina di casa.

Questa abulia ed insieme la poca affettività che fra poco dimostrerò,
spiegano la sua ripugnanza a scrivere agli amici, a rispondere loro
anche in cose importantissime.

Se il prendere la penna era per lui sempre una "_azione eroica_" — così
confidava egli al Grossi, — quando poi si trattava "di scrivere una
lettera di cerimonia", allora "l'_impresa_" (è ancor egli che parla),
_si facea addirittura "erculea"_. Questa lettera diventava per lui una
vera calamità! Vi pensava delle settimane senza mai sapersi risolvere
a mettersi alla scrivania; oppure vi si metteva varie volte... per non
scrivere poi altro che qualche linea (Bellezza o. c.).

Finalmente, dopo esitanze, meditazioni e perdite di tempo deplorabili,
finiva a scriverla e a spedirla; e allora ridiventava di buon umore,
non senza rimpiangere tutto il tempo che vi aveva perduto; però non di
raro dopo scrittala era oppresso dal tormento dei pentimenti; sicchè
molte volte mandava il servo a ritirarla dalla Posta per paura gli
fosse sfuggito qualche errore. — Quando ristampò la sua lettera famosa
a Cesare D'Azeglio intorno al Romanticismo, ne volle rivedere le bozze,
chi dice quattro, chi dice tredici volte...; e si trattava di una
ristampa (V. Barbiera, op. cit., pag. 364).


_Senso pratico_. — Questa abulia era in lui peggiorata dall'assenza
di ogni senso pratico della vita o _senso comune_. Quindi, erede d'un
forte patrimonio, venutogli inaspettato — quello dell'Imbonati, — non
sa valersene per migliorare il proprio censo, sicchè finisce a dover
vendere tutti i poderi aviti, ai quali era affezionatissimo: autore
d'un'opera coronata da un immenso successo come i _Promessi Sposi_,
venduta in poco tempo a due mila copie, — cosa straordinaria in quei
tempi — riesce invece a rimettervi 80 mila lire quando se ne fa egli
l'editore per non volersi adattare a dare alcuno sconto ai librai, che
è la condizione _sine qua non_ d'ogni smercio librario. Finalmente,
proprietario agricolo, manca della previdenza più semplice — quella di
prendere un'assicurazione sugl'incendi.


_Affettività_. — Aveva, come accennai, comune coi folli morali la
poca affettività; fu ingrato col Foscolo (Lettera al Trechi), col
Torti; amico intimo del Grossi, non volle pronunciare due sole parole
che avrebbero potuto salvarlo da gravissime noie nelle polemiche coi
critici pei suoi _Lombardi alla prima Crociata_; amico antico del
Fauriel, ne divenne dopo qualche anno quasi un estraneo; poco e male
si preoccupò dei figli, non dandosi il menomo pensiero della loro
educazione e collocazione. Come Beccaria, dopo aver amato caldamente la
prima moglie, ne sposa dopo 3 anni un'altra; al figlio Pietro che gli
domanda una raccomandazione per riavere un impiego, risponde con una
lettera che parrebbe diretta ad un ignoto, in cui protesta non avere
relazione con alcuna persona influente, il che non era vero perchè lo
vediamo — quasi contemporaneamente (Epist. II) — raccomandare persona
affatto a lui estranea nè gran che più meritevole.


_Precoce_. — Fu (De Gubernatis, op. cit.), precoce come sono tutti i
degenerati; a 15 anni aveva scritto il _Trionfo della libertà_, a 18
le _Armonie giovanili_, e non mancava nei suoi primi anni di quella
megalomania così frequente nei giovani ma che contrasta stranamente
coll'eccessiva umiltà e modestia della età matura, in cui avea tanto
più ragioni d'insuperbire: come provano questi versi nel _Trionfo della
Libertà_, dettato a 15 anni:

    Ed io pur anco ed io vate _trilustre_
    Forse ahi! che spero la seconda vita
    Vivrò se alle mie forze inferme e frali....

E più sotto...

    È forse a somma gloria ogni via chiusa
    Che ancor non sia d'altre vestigia folta?
    Dante ha la tromba e il cigno di Val Chiusa
    La dolce lira....

mettendosi, come si vede, in troppo buona compagnia.


_Contraddizione. Bigottismo_. — Nel 1810, a 26 anni circa, colui che
era stato fino allora, non solo Voltairiano convinto, come mostrò in
quei due poemi e nelle corrispondenze, ma fin eccessivo odiatore del
prete, colui che si lagnava che al letto del moribondo suo Arese,
appena allontanati gli amici, si fosse fatta affacciare l'_orribile
figura del prete_, che andò nel 1806 precisamente per questo, a Parigi,
comechè, diceva: "in Italia uno non potere vivere nè morire come vuole,
mentre in Francia almeno sono indifferenti", passò all'improvviso al
cattolicismo più esagerato. La causa predisponente pare ne fosse in
parte l'equivalente psichico di uno dei suoi accessi epilettoidi.

Secondo il Barbiera (_Il Salotto della contessa Maffei e Camillo
Cavour_ — 6. Edizione, Baldini e Castoldi, Milano, p. 359), in un
momento di delirio il Manzoni che avea smarrito per le vie di Parigi
la moglie, sarebbe entrato angoscioso e tremante nella chiesa di S.
Rocco esclamando: — "Dio mio, se esisti, rivèlati a me; e fammi trovare
Enrichetta". Secondo Stampa, che forse ne ebbe informazioni più esatte
e dirette dalla seconda moglie, egli, nel 1810, mentre passava vicino
alla chiesa di S. Rocco, fu colpito dal solito deliquio o paura che
fosse di deliquio, e mal reggendosi in piede potè ripararsi in quella
chiesa; vi si sentì subito meglio e trovò un immenso conforto nel
trovarsi in un luogo sacro. E da allora comincia la sua conversione.

Chi conosce il colorito terrifico religioso[21] frequente
nell'epilessia, la sua facilità a polarizzare gli animi di chi ne sia
colpito nelle direzioni più contradditorie, trova invece più naturale
che questa malattia in lui da anni radicata, benché come vedemmo in
forma frusta[22] riuscisse a polarizzarne completamente la personalità
psichica nel senso contrario al proprio passato positivista, anzi
antireligioso; come in S. Paolo, e come vedemmo in molti altri
epilettici e geni, Swedenborg, p. e., Pascal, Rousseau, Cardano (Uomo
di Genio Parte II e III).

E ciò tanto più facilmente, perchè in quegli anni era, come scrive
la madre, assai più del solito in preda ai suoi disturbi nervosi, in
seguito alla paura incontrata assistendo all'incoronazione di Napoleone
(siamo di nuovo a manifestazioni panofobiche) nelle vie di Parigi, ove
credè di essere soffocato dalla folla.

Un più recente studio (E. Degola: per De Gubernatis) spiega meglio
questa sua strana condotta o meglio forse aggiunge un altro più potente
a questi moventi. — Secondo il carteggio dell'Ab. Degola, un santo
uomo sempre in cerca di proseliti, avendo costui convertito una certa
Geymüller e poi sua figlia, protestanti, amici, correligionari e quasi
coinquilini della Blondel in quell'epoca (1810) a Parigi — questa
ultima ne fu così impressionata da decidersi subitamente ad imitarla e
si convertì il 22 Maggio; — Manzoni prima la lasciò fare senza molto
esserne scosso, ne disputò anzi un poco con Degola, — poi cominciò
a subirne l'azione suggestiva, come è prova l'aver consentito il 15
Febbraio 1810 a rinnovare il rito nuziale; poi a quella di Degola si
aggiunse l'opera di Monsig. Tosi — ma pure al 28 Agosto 1810 non era
convertito che a metà. — "Il già sì fiero Alessandro (scrive il suo 2º.
domatore Tosi a Degola) quantunque _mostri molta docilità_ non è ancor
conquistato alla fede." — Ma i preti convertono anche la madre Donna
Giulia, che s'accosta alla mensa della B. V.; e la suggestione quindi
aumenta sempre più; — benché il 22 Febb. 1811, Tosi volesse vederlo
_più docile all'insinuazione dolcissima della moglie e della madre_.
Ma sotto quattro suggestionatori di quella forza finiva per cader, non
solo ma andar al polo opposto dell'ascetismo morboso. — Il 7 Marzo
1811, ossia 15 giorni dopo, Manzoni ne era già preda completa, era
secondo la mite formula di Lojola _perinde ac cadaver_ e scriveva di
sè: Soffrire giusto questo castigo per chi non solo dimenticava Iddio,
ma ebbe la _disgrazia, l'ardire_ di negarlo.

Nel 1817 ancor però tremavano i due convertitori e le due loro
alunne che tornando a Parigi potesse venir meno la loro potente
azione suggestiva — da cui solo evidentemente credevano dipendesse
la conversione e deploravano ch'egli — un grande egoista nel fondo
anche con tutta la sua religione — "_non si consigliasse se non con
le sue convulsioni contro cui credea unico rimedio il viaggio_". (De
Gubernatis, S. E. Degola).

Ma checchè affermino Magenta che ne tentò un'apposita dimostrazione per
Tosi, e De Gubernatis che sotto altra forma e con maggiori documenti la
riconformò a quasi esclusivo vantaggio di Degola, se giovinetto Manzoni
non avesse fatto ricerche filosofiche elevatissime e osservazioni fin
troppo dal vero, delle scuole pretesche, di cui si dichiarò vittima per
parecchi anni[23], e se non avesse avuto per maestri ed amici, Cabanis
e Tracy, al cui confronto Tosi e Degola erano troppo poca cosa, il
fatto potrebbe parere strano, ma non istraordinario.

Tanto più che ad ogni modo non giungerebbe mai un pensatore, sia
pure convertito, fino all'esagerazione di cacciare di casa le opere
più pregiate del Voltaire ornate di autografi suoi; e giustificarsi
dell'amore che vi aveva sempre posto, col dire che non ne aveva
prima letto le confutazioni d'un volgarissimo critico (Guenèe); nè
giungerebbe mai alle morbose effusioni ascetiche, simili a quelle
in cui si abbandona Manzoni quando scrive al Tosi: "Col Padre della
Misericordia si ricordi di questo _povero uomo, la cui miseria le è
nota_". E più tardi: "Si ricordi innanzi a Colui che ascolta; tribolati
di chi ha _tanto bisogno di essere perdonato_"; o quando scrive nelle
lettere al Tosi pubblicate dal Magenta: "Ringrazio vivamente il Signore
che ci ha offerto questo fortunato mezzo di propiziazione per noi
peccatori" (_sic_!) e "ringrazio pure di cuore la bontà di lei del cui
santo ministero si vale per tutto ciò che io possa fare. Dico e senza
esitare questa parola, se malgrado la mia profonda indegnità (_ecco
la linea che segna il delirio di indegnità e di peccato dalla comune
umiltà_), sento quanto possa in me operare la Onnipotenza della Divina
Grazia, (_D_ e _G_ grandi). Si compiaccia di pregare il buon Gesù che
non si stanchi di farne risplendere i miracoli in un cuore che ne ha
tanto bisogno. Mi tenga sempre suo umilissimo e affezionatissimo figlio
in Gesù Cristo. — Alessandro Manzoni".

Notisi che la lettera, riguardava non un atto ignobile od equivoco, od
almeno indifferente che abbisognasse di scusa; ma una buon'azione, una
opera di carità commessa in segreto!!

Oh! non ti par di vedere un vecchio instupidito dall'età, accasciato e
curvo ai piedi del prete?! — Eppure qui si tratta di un giovane baldo
ch'era pochi anni prima audace pensatore, e perfino _schernitore_ di
preti.

Giustamente avvertiva il De Gubernatis, che non è certo alienista
nè amico degli alienisti, ed in un'epoca in cui tali questioni non
si toccavano ancora, anzi non si sognava nemmeno dai letterati che
esistessero, tanto erano digiuni d'ogni scienza psicologica non che
psichiatrica; non potersi spiegare tutto ciò se non per un delirio: ed
io aggiungerò per il delirio così detto d'indegnità, o di _peccato_ che
è una nota varietà della lipemania.

E ciò è ribadito dalla lettura di questi suoi _pensieri_ mandati al
Tosi: "Felici noi se sappiamo comprendere che l'unica vera gioia e
l'unico sapere viene dallo spirito che il Padre ci manda nel nome di
Gesù Cristo." — E poi: "Gesù Cristo, nostro esemplare, (_sic_) ha
proferito parole che noi dobbiamo ripetere; e quante volte quelle
parole sono per noi terribili da proferirsi, perchè racchiudono la
nostra condanna e svelano la funesta parola, contraddizione, tra il
nostro esemplare e la nostra condotta". (Magenta o. c.)

Ora un simile delirio di peccato può passare anche per naturale effetto
dell'età in un uomo disfatto dagli anni, ma in un giovane geniale, già
Voltairiano per giunta, è evidentemente morboso.

Il Tosi suo confessore si era completamente impadronito di lui; secondo
lui, per redimere il suo passato peccaminoso (eppure a dire il vero,
peccato non aveva egli che di idee), non sarebbe bastato dettasse
dodici inni sacri, tanti cioè quanti erano i mesi dell'anno, ma doveva
scrivere _La Morale cattolica_ in difesa della religione. E il Magenta
pretende (non è però ben provato, e Cantù e Stampa lo negherebbero)
che più volte il Tosi chiudesse il Manzoni nel suo studio, come uno
scolaretto, dichiarando che non lo avrebbe lasciato uscire da lì
fino che non avesse scritto un certo numero di pagine; certo è che
pretendeva che il Manzoni mettesse in versi oltre che quella collana di
Inni mensili "la storia di Mosè, e tracciasse un lavoro ascetico in cui
si dovea dimostrare che l'uomo abbandonato a sè cerca la soddisfazione
in una scienza vana, felice viceversa se sappia comprendere che l'unica
vera gioia e l'unica scienza vengono dallo Spirito che il Padre ci
manda in nome di Gesù Cristo".

Infine per comprendere fino a qual punto giungesse il fanatismo suo e
del suo convertitore, Tosi, basti dire che trovò peccaminoso fino quel
brano bellissimo dei Promessi Sposi in cui il Padre Cristoforo assolve
Lucia dal voto, brano che fu salvato per miracolo più tardi dalla
scancellatura al cessare dell'acuzie della crisi psichiatrica.

Secondo De Gubernatis, che però qui vuolsi da alcuni esageri un fatto
vero, da quell'anno 1810, l'anno della conversione, fino al 1818; e,
lasciando la cronologia che potrebbe esser inesatta, certo nei migliori
e più fecondi anni della vita, egli fu completamente sterile;[24]
men che qualche piantagione agricola, qualche disegno di villa e gli
stentati e sterili primi inni sacri, e due canti patriottici classici,
egli non avrebbe fatto nulla di grande; e ciò perchè il bigottismo più
gretto invase e guastò quella nobile anima (come persino il clericale
Cantù dovette confessare), sostituendosi, non che al positivismo, al
vero sentimento religioso. E il bigottismo che ha abbattuto due grandi
nazioni, la Spagna e la Francia, ha forza che basti per annichilire
anche il più grande dei geni.

Vero è che lo Stampa pretende confutare in proposito ambedue quei
biografi: ma la sua invece che una confutazione ne è una riconferma;
perchè deve ammettere che il Manzoni pregava tre volte al giorno,
che recitava i _paternoster_ alla sera con quelli della sua famiglia,
che suggeriva a un malato un santone che guariva con benedizioni, che
avrebbe voluto baciare i piedi al Papa, infine, che ne sosteneva la
completa infallibilità in questioni religiose, il che si vede del resto
nell'Epistolario (vol. 4), egli, che non foss'altro dalla condotta
del Vaticano col suo grande Rosmini, torturato moralmente in vita, e
forse spento dal noto a Sarpi _stylum Romanae Ecclesiae_ avrebbe dovuto
almeno per ragione di sentimento, per ragion d'amicizia, comprendere la
terribile fallibilità della Chiesa.

Certo che: se il delirio religioso sorto a poco a poco — prima in
grazia ad un accesso epilettoide e poi mercè la suggestione della
moglie, della madre e del Tosi, e Degola in un organismo debole e
predisposto a passare agli eccessi opposti dalla nevrosi dominante
e dagli incidenti che questa ingrandiva, — se quel delirio avesse
continuato ad imperversare a questo modo sull'anima di quel grande, noi
del Manzoni non avremmo più avuto, toltone i bei versi giovanili, che
quei poco felici primi inni e l'importazione di qualche pianta esotica
d'alto fusto.

Ma nel 1818, a rompere la prepotente suggestione altrui e la propria
— gli sorse contro una di quelle grandi sventure che omeopaticamente
spesso servono di rimedio alle più gravi psicopatie: in causa della
pessima amministrazione sua, se egli, malgrado la lauta eredità
Imbonati, quasi 300,000 lire, (secondo Petrocchi o. c.,) volle
conservare Brusuglio, dovette vendere la casa e villa paterna, cui era
affezionatissimo e nel cui villaggio, come è confermato dai colloqui
del Manzoni con la Maffei (v. Barbiera, p. 362) egli impostò la scena
principale dei Promessi Sposi. Il dolore dovette essere acerbo, "il
più grande dispiacere", disse[25] egli, "della mia vita": Egli ne ebbe,
perciò, come appare dalle lettere della madre e di lui stesso al Tosi,
un aggravamento nella nevrosi, e nelle vertigini. — Ma sotto quella
grande scossa morale riacquistò completamente la sua attività poetica,
nuova prova del legame di questa colla nevrosi. E fu appunto allora
che stese con novo stile l'inno della Pentecoste, l'unico veramente
perfetto fra i suoi inni religiosi; ed in breve tempo; fu allora che
concepì il Carmagnola e poi l'Adelchi; e si noti che nel _Carmagnola_
anche a sfogo della sua melanconia introduce i cori per poter parlare
(come confessò) in persona propria e senza prestare ai veri personaggi
i propri sentimenti; e infatti egli sfogò molti dei suoi segreti
rimpianti nel dipingere quest'eroe d'animo grande e desideroso di
grandi imprese, che si dibatte con la piccolezza dei suoi tempi.

    Un altro campo...
    Correr degg'io, dove in periglio sono
    Di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
    Nome d'ingrato, l'insoffribil nome
    Di traditor.



CAPITOLO III.

Eredità morbosa.


Nè a completare il quadro patologico di Manzoni manca l'influenza
ereditaria.

L'eredità pazzesca e geniale in Manzoni è veramente molteplice, specie
dalla parte della madre. Già Cesare Beccarla, da cui discende Giulia,
la madre del Manzoni, apparteneva a una famiglia nobiliare dove molti
erano i pazzi, da una famiglia di cui diceva Verri: "non conoscere nè
passato nè futuro, e operare quasi per istinto sulle sensazioni del
momento attuale, e padre e madre mostrarsi tanto deboli e inconsequenti
quanto i loro figli. Il padre, anzi, avendo per sè la borsa e le leggi,
ha operato sì che nessuno dei figli ha alcun riguardo per lui, sino a
non lasciargli una porzione di piatto a tavola." Quanto a lui Beccaria,
era abulico, molti giorni restava inerte senza pensare, senza leggere,
stanco, annojato, fin le lettere intime faceva scrivere dagli amici.
Lasciò incomplete quasi tutte le sue opere, a 32 anni abbandonò ogni
studio, come più tardi Manzoni che in 88 anni di vita non ne occupò
che 35 come scrittore; fu dimostrato che aveva allucinazioni, e idee
megalomaniache persecutive, e strane fobie; tremava, anche giunto in
età matura, per paura dei folletti e delle streghe; dormiva in un'amaca
appesa al soffitto per sottrarsi agli spiriti. Avea paura del bujo, dei
birri del S. Uffizio, egli che con audacia sì grande avea proclamati
nuovi veri; e dopo aver combattuto la tortura nei libri, ad un primo
sospetto di furto la fece applicare ad un suo servitore; risoltosi dopo
molta esitanza ad andar a Parigi, dopo 30 miglia vuol ritornare a casa;
— giustamente nota Villari in proposito "tal timidezza in un uomo così
ardito nell'idea essere assai strana". — S'aggiunga: che egli, grande
filantropo nei libri, è senza cuore col padre, col fratello, coi figli,
coi poveri, cogli amici, e colla stessa moglie di cui era gelosissimo
e che pure, pochi mesi dopo morta, sostituì;[26] proclive ai più strani
paradossi, scrive, per esempio, che egli dà dei consigli per _riescire,
scrivendo, saggiamente pazzo_.


_Manzoni_. — È curioso qui[27] e colpì Graf, come Cantù, come
Bellezza, la strana somiglianza tra il Beccaria e il Manzoni; ambidue
appassionati del nuovo, ammirarono da giovani gli enciclopedisti,
ambedue dopo aver amata pazzamente la moglie, passano rapidamente
alle seconde nozze, e ambidue abbandonano l'amico più intimo senza una
causa chiara; ambidue combattono il classicismo nello stile; e l'uno da
scienziato divien letterato, l'altro da letterato diviene scienziato.
Ambidue lasciano incomplete quasi tutte le opere; a mezzo il cammin
della vita, ed anzi prima abbandonano ogni studio; ed ambidue mostrano
molto scarsa affettività, mancanza di senso comune, di volontà e quindi
incapacità di amministrare, e lentezza nell'elaborare; e in tutti e due
predominò la paura senza causa, e la timidezza nella vita pratica, in
contrasto all'audacia del pensiero e all'amore del paradosso.

Strano effetto dell'eredità e anche insieme dell'analogia nelle
condizioni della vita.


_Giulia_. — Quanto alla madre di Manzoni, Giulia Beccaria, già
accennava Foscolo nelle sue lettere esser essa considerata pazza
da molti degli amici di casa; certo nata da madre corrottissima,
calunniatrice del fratello e bisbetica[28], Giulia sposata, pare
contro sua inclinazione, giovane, a un marito frigido e vecchio, se
ne stancava subito, né lo rivide nemmeno al momento della morte; si
innamorava dell'Imbonati che accompagnò a Parigi e da cui ebbe poi
una pingue eredità; pure a lui ancor vivente diede per successore o
meglio per associato il Fauriel, che ella soleva chiamare _Divino_;
poco curante, nei giovanissimi anni, del figlio lo abbandonò prima in
mani mercenarie; e poi per nove anni in pessimi collegi: univa alla
scorrettezza dei costumi il bigottismo, specialmente per una certa
Madonna di S. Carlo, di cui, sul serio, credeva aver sperimentata
la protezione; aveva morbose paure di mali e pericoli immaginari;
per tema di ammalarsi lontana da un medico non istava a Brusuglio, e
conservò nella vecchiaia le vesti e le mode della gioventù. Orgogliosa
del nome paterno, sottaceva il cognome coniugale e lo dissimulò fino
nell'epitaffio; ove volle si incidesse: "_A Giulia Beccaria — figlia
di Cesare — madre di Alessandro Manzoni_"; fino nel testamento (sì poco
era previdente) fece legati che assorbivano tutti i suoi beni.

Questi sono caratteri, nota giustamente il Cappelli (o. c.), più comuni
agli alienati che ai sani.

Da questi fatti notori, dal testamento rogato in suo favore da Carlo
Imbonati, e dalla coincidenza dell'amicizia intimissima sua con
la gravidanza del figlio, dalla somiglianza poi della fisionomia
dell'Imbonati (Petrocchi o. c.) e di molti Carcano (imparentati cogli
Imbonati) col Manzoni stesso, dall'ammirazione eccessiva che essa
seppe destare per lui nel suggestionabile figliuolo e dal ribrezzo
suscitato in questi, più tardi, quando seppe completo il vero, sicchè
distrusse il monumento erettogli in Brusuglio, mandò alla fossa comune
le sue ossa prima preziosamente raccoltevi; e più tardi ne distrusse
e sperperò fino i libri tutti, fin le lettere (Petrocchi) e tentò far
scomparire fin la celebre epistola a lui dedicata, si hanno indizi non
lievi a sospettar vera la voce pubblica, secondo cui non dal marito
legittimo, ma dall'Imbonati sarebbe nato il grande poeta.

E giova notare: che in questo caso si avrebbe una doppia eredità
intellettuale e morale, poichè da uno studio del Buzzetti (_I conti
Imbonati_, Como 1898) si viene a sapere come il nonno di questo suo
probabile padre fosse Giuseppe Imbonati, geniale poeta, fondatore di
un'accademia letteraria celebre in Milano; il quale, a sua volta,
sarebbe stato (come appunto Manzoni) figlio naturale di un Carlo
Antonio, ricco banchiere di grandissimo ingegno; sicchè da costui si
inizierebbe pel Manzoni l'eredità atavica-geniale... ed erotica (Vedi
albero genealogico, 79ª pagina). Quanto al Carlo, il suo presunto
padre, secondo alcuni era buon poeta e forte pensatore, e degno
allievo di Parini; secondo altri non aveva il genio nè il cuore del
padre, faceva pessimi versi e, quel che è peggio, giocava d'azzardo e
un giorno arrischiovvi tutta la sua tenuta di Cavallasca; impulsivo,
gettò, fra gli insulti più ignobili, un grappolo d'uva in faccia al
Baretti.

Ma l'eredità poetica di Manzoni si spiegherebbe meglio, dati questi
fatti, con un'altra radice, avendo il presunto suo nonno Giuseppe
Imbonati sposato una Francesca Bicetti, celebre poetessa dei suoi
tempi, sorella ad un Bicetti dei Buttinoni, notissimo per poemi e per
opere mediche, e per avere primo fra noi introdotto la cura del vaiuolo
cogl'innesti.


ALBERO GENEALOGICO

                  =Bicetti=                      =C. Carlo Antonio
                                                     Imbonati=
                                                     banchiere
          ________________________________
         |                                |              |
  Giovanni Maria Bicetti   Francesca Bicetti             |
      dei Buttinoni         dei Buttinoni                |
      medico e poeta        poetessa sposa il    C. Giuseppe Imbonati
          |                                          figlio naturale
          |                                            poeta
          |                                              |
          |______________________________________________|
                                    |
         ___________________________|_____________________
        |                                                 |
      Marianna                                     Conte Carlo Imbonati
   Sposata al nobile                                 lasciò... erede
   Francesco Carcano                                 Giulia Beccaria
  Fanatico per le muse                              madre di A. Manzoni
             |                                             |
         ____|_______________            Beccaria semi-imbecille padre di
        |                    |                             |
  Giuseppe Carcano    Vincenzo Carcano                     |
     eresse                  |                     Cesare Beccaria
  il Teatro Carcano          |                     geniale e pazzo
  sciupando un patrimonio    |                ammogliato a donna inumana
                             |                             |
                       Giulio Carcano            Giulia Beccaria bizzarra
                         poeta                          madre di
                                                           |
                                                      A. Manzoni


La eredità poetica mista ad una pazzesca, in linea non diretta ma
parallela, si trasfonde ancora in un altro ramo, perchè una sorella
Marianna del Conte Carlo Imbonati, si sposò ad un Francesco Carcano,
bizzarro nobile milanese, messo in canzone come _fanatico per le muse_
dal Goldoni; da cui nacquero Giuseppe Carcano, che pure bizzarro sciupò
un patrimonio ad erigere un teatro, e Vincenzo padre all'illustre poeta
Giulio. Notisi che in molti altri affini ai Carcano, ch'io conobbi,
si son notate spesso genialità insieme e bizzarrie e quelle fobie
del dubbio, così spiccate in Manzoni: una, per esempio, di cui ebbi
speciale conoscenza, rupofoba all'estremo grado, si bagnava cento volte
al giorno; un'altra vedeva veleno dappertutto; un terzo, amico mio,
coltissimo del resto, non può accostarsi alle vetrine per paura di
romperle ed ha la singolarissima fobia d'esitare a ricevere il denaro
dovutogli.

Queste singolari fobie che arieggiano tanto a quelle del Manzoni,
e la grande somiglianza nella fisonomia dei Carcano al Manzoni,
confermerebbero, parmi assai bene, sebben indirettamente, la ipotesi
della consanguineità degl'Imbonati col grande poeta.



CAPITOLO IV.

Applicazioni letterarie.


Chi credesse un inutile passatempo erudito questa ricerca dell'anomalie
psichiche del Manzoni, se ne dissuaderà subito quando pensi che
essa illumina molta parte della sua opera letteraria e filosofica:
la improvvisa e temporanea decadenza all'epoca degl'inni sacri e la
loro origine, la contraddizione filosofica di metà della sua vita,
i frequenti bisticci, i paradossi così discordanti col fine buon
senso che domina in tutti i suoi libri; essa ci dà anche la chiave di
certe note che vi predominano: la strana frequenza, in ispecie, delle
allusioni a quella che fu uno dei sentimenti più intensi in lui — la
paura.

Il Puccini (_Il romanzo psicologico_, 1856) ed il Graf nel mirabile
studio _Foscolo, Manzoni, e Leopardi_, 1898, ebbero a dire che un
esempio delle sue smanie paurose "lo lasciò egli stesso nei Promessi
Sposi, quando descrisse lo spavento di Renzo, solo, nel bosco...,
le ansie di Lucia..., il terrore dello stesso Innominato e di Don
Abbondio." E l'eruditissimo Bellezza, che nella citata opera ne dà
sette pagine intere di prove, ricorda non esservi vizio o virtù,
passione o sentimento che abbia parte più larga o più importante
nell'opera manzoniana, della paura: non essere quasi personaggio nel
romanzo, che non ne sia preso, un momento o l'altro (op. cit.).

Sfuggito all'unghie della giustizia, Renzo si sente addosso "quella
paura di dar sospetto cresciuta allora oltremodo, e fatta tiranna di
tutti i suoi pensieri". S'inoltra poi nel bosco "pieno di fantasie, di
brutte apprensioni", che diventano ben presto "terrore"; e nell'altra
sua gita a Milano un monatto gli grida: "hai avuto una bella paura"
(Bellezza).

Lucia teme ad ogni istante le ire dello sposo all'avventura notturna;
"il terrore, l'angoscia di lei", accorata, affannata, atterrita,
quando è condotta al castello dell'Innominato, durano per quasi tutta
"la notte della paura". E "costernazione" e "terrore" la prendono al
ricordo del voto fatto e al momento d'infrangerlo; per "varî timori"
non fa parola di esso alla madre; la storia di Geltrude la riempì di
"paurosa meraviglia" (Bellezza).

E poi abbiamo la paura: di Ambrogio, desto di sopprassalto dello
sgangherato grido di don Abbondio; di Menico, acciuffato dai bravi;
quella dei bravi stessi ai rintocchi della campana a martello del
vicario di provvisione; dei bravi dell'Innominato, i quali in fatto
di religione, eran stati soliti a prevenir con le beffe la paura che
gliene sarebbe venuta, "ma che al vedere l'effetto che una tal paura
aveva prodotto nel loro padrone, chi più, chi meno, non ce n'era uno
che non gli se n'attaccasse". L'Innominato medesimo prova "quasi un
terrore" nel mettere le mani su Lucia, e i terrori della notte per poco
non lo portano alla disperazione. Persino "quel bestione di Rodrigo"
non ne esce netto d'"apprensione" che la profezia di fra Cristoforo gli
ha messo in corpo, e si risveglia la notte nel sogno finchè lo invade
"il terror della morte".

Don Abbondio è "la personificazione della paura": ha paura di ogni
cosa, a ogni momento; anzi, gli avviene d'averne addosso due nello
stesso tempo, come durante il colloquio con Renzo: di provocare questo,
tacendogli le cose, o di mancare alla ingiunzione fattagli (PETROCCHI,
_Dell'opera e della vita di A. Manzoni_). Nella spedizione al castello
dell'Innominato è in preda ad una "paura ecc.". Un'altra di diverso
genere, gli viene dalla paternale di Federico.

Alla calata dell'esercito alemanno, ha una paura classica; rifugiatosi
presso l'Innominato, circa la conversione del quale ha ancora i suoi
timori, il pensiero d'esser colto in una battaglia gli mette addosso
"uno spavento indistinto, generale, continuo", così da farsi dire da
Perpetua che ha "paura anche di essere difeso ed aiutato".

Si direbbe insomma che il Manzoni si sentisse attratto in modo speciale
da quelli tra i fatti umani in cui predomina questo sentimento. La
storia della Colonna Infame è una serie d'atrocità e di terrori che
si alternano e si collegano l'un l'altro. "Bisogna dire che il furore
soffocasse la paura, che pure era una delle sue cagioni." I motivi che
condussero i giudici a procedere così iniquamente, egli osserva, furono
appunto "la rabbia resa spietata da una lunga paura... il timore di
mancare _a un'aspettativa generale... di parer meno abili se scoprivano
degl'innocenti, di voltar contro di sè le grida della moltitudine... il
timore fors'anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire_".

Le cause e gli effetti molteplici della paura, le varie forme e
manifestazioni, nonchè la natura specifica di essa, trovano la massima
illustrazione nell'opera manzoniana. È magistralmente descritto il
combinarsi di essa con altri sentimenti; così don Abbondio s'accorge
della gran collera che aveva in corpo, e che era stata fin allora
"nascosta e involta nella paura"; il conflitto di perplessità e di
terrori nell'animo di Don Abbondio; lo stato d'animo nell'intervallo;
l'irragionevolezza e il carattere paradossale del sentimento stesso.
"_Il timore opera... sulla evidenza, portando talvolta a negar fede
alle cose minacciate, e talvolta a prestargliene più di quella che
si meritino". — "Il sentimento che porta il timoroso a ingrandire o a
immaginarsi il pericolo, è quello stesso che lo fa fuggire dal pericolo
reale... e leva la tranquillità della mente_"; la conseguenza ch'esso
di frequente produce, di suscitare in chi ne è preso l'impazienza, o un
sentimento affatto contrario, l'ardire.

"_Mi struggo e temo di vederti". — Don Abbondio aspetta Renzo "con
timore e, ad un tempo, con impazienza". — Menico... comandava "con la
forza d'uno spaventato". — Lucia "rinvigorita dallo spavento". — Agli
occhi del padre, Gertrude quantunque ne avesse paura, o... risoluta per
paura, con la stessa prontezza con cui avrebbe preso la fuga dinanzi un
oggetto terribile_".

"_Ora temeva il giorno... ora lo sospirava_." — Renzo "_era ansioso
insieme e timoroso di veder qualcheduno_".

Anche nella Tragedia e negli Inni del Manzoni Bellezza troverebbe una
varietà infinita di "paure": dal "terrore" onde son presi i tiranni, a
quello dell'"anima" impaurita d'Ermengarda; dai signori romani, _Irsuti
per tema le folte criniere_, e dai Franchi tenuti sotto le Chiuse "ad
una scola di terror", a Marco senatore, _Il rio timor che a goccia a
goccia ei fea — Scender sull'alma mia_. E il "turbamento leggero... che
si mostra di quando in quando sul volto delle spose"; e la "paura del
fanciullo, che trema nelle tenebre, senza sapere di che".

    Nelle paure della veglia bruna
    Te noma il fanciulletto.

"Il terror della caccia" che traluce negli occhi del lupo; "il timore
che nasce anche negli animi più determinati e li rende crudeli"; "il
timor santo e nobile per gli altri"; il "timor veramente nobile e
veramente sapiente, di commetter un'ingiustizia"; il "terror che ispira
il coraggio, avvezzando chi lo sente a nulla temere degli uomini"...
(Bellezza).

Vero è che testè il Bertani[29] pur confermando che tutte le opere
poetiche e romantiche di Manzoni sono zeppe di paura, pretende
spiegarlo con ciò, che di paura è piena la natura umana, di cui Manzoni
era fedel dipintore; ma E. Carrara giustamente gli risponde: che la
scienza moderna dimostra profondo il legame indissolubile fra la psiche
dell'artista e l'opera sua: ora l'esistenza di un profondo e profuso
senso di paura, di timidezza anormale in Manzoni è confermata da tutti
i suoi biografi. A chi obbiettasse che egli deride nel suo romanzo
questo sentimento, si può rispondere che un critico come Manzoni sa
analizzare sè stesso e sa scherzare sui propri difetti; anzi, solo a
questo patto poteva trasfonderli nei suoi personaggi. (E. Carrara).

E poi, aggiungeremo noi, anche la vanità, anche la vendetta, sono
sentimenti e passioni diffusissime agli uomini: eppure egli non ne
abusa negli scritti, quasi anzi non ne usa, come invece fa della paura.

Si notò dal Bellezza, op. c. pag. 234, e dal Graf che anche la
frequenza dei caratteri deboli, abulici, come di Lucia, di Renzo, del
grande Romanzo ha una prima fonte nella sua stessa debolezza d'animo.

E così l'eccessiva incertezza e pigrizia di don Ferrante
_schivafatiche_, riprodurrebbe, secondo Graf, le analoghe sue tendenze
(v. s.) e così si spiegano pure le frequenti incertezze e i dubbi dei
suoi personaggi, di Renzo, p. es., se troverebbe Lucia o no, se Lucia
rinunzierebbe o no al voto; — fino l'Innominato e fin Federico, fin
don Rodrigo son sospesi per più giorni tra il sì e il no, l'uno più
dell'altro; e così si spiega la perplessità di Geltrude, e fin quella
dei bravi dell'Innominato.


_Bisticci_. — E la psicosi spiega l'insorgere ogni tratto in una mente
così quadra, che fu giustamente detta da Graf peccante in rapporto
alla poesia d'eccesso nel ragionare, di quegli strani paradossi, che
molte volte basansi sui contrasti dei termini, qualche volta, come nei
ragionamenti dei pazzi, in quelli dei suoni.

Così "una guerra difensiva di chi ha ragione è buona; ma non può
esistere se non con la condizione d'una guerra ingiusta". Che fa l'arte
della guerra? — seguita ad argomentare; — "insegna a uno il mezzo di
fare una cosa, all'altro il mezzo di impedirla". "E però ha un intento
dubbio, anzi contraddittorio: aiutare e dirigere chi vuole una cosa e
chi vuole che la cosa non sia".

E dopo aver constatato che "le verità matematiche si contrappongono
sovente alle verità morali, come aventi una certezza di un genere che
non si può trovare in queste", sostiene e dimostra come la cosa stia
per l'appunto alla rovescia; e come, cioè, le verità morali abbiano,
nell'applicazione, il vantaggio d'una minore incertezza!! — E fa le
meraviglie del fatto che "v'ha uomini i quali negano le verità morali
astratte, mentre non ve n'ha che neghino le matematiche."

Ecco alcuna delle sentenze o bisticci che ci trasmise di lui il
Bonghi: "Gli _animali sono, eppure non son loro_"; _Noi siamo tra due
lacci scorsoi, o ci affoga l'uno o ci affoga l'altro_; e, che è più
strano, per non lasciarsi affogare nè dall'uno nè dall'altro, dobbiamo
stringerli _tutti e due_. — "Sovente si mette più presso, e più dentro
alla cosa medesima, chi se ne fa più lontano". (Stresiane).

Egli trova che "lo spirito storico del dramma è in molti punti
affatto opposto a quello che esce dalle più riputate storie moderne";
e che, mentre la tragedia antica si fondava sulla cognizione che lo
spettatore dovea avere dei soggetti, la moderna è costretta a fare
assegnamento sulla dimenticanza; che "le mutazioni nella lingua sono
un inconveniente, anche quando sono un vantaggio"; che "per essere
creatore in fatto di lingue, non c'è niente come il saper poco quella
in cui si parla o si scrive".

E questa tendenza paradossale si infiltra nelle frasi; e basti
ricordare solo alcune delle molte annotate dal Bellezza (v. c.), come
queste:

"Nemico mio carissimo, — indotto e sapiente contadino, — inconveniente
prezioso, — felice prepotenza, — irrisolutezza arrogante, — ammirazione
ingiuriosa, — umilmente altera, — dolce in vista ed umano, e insiem
feroce, — devoto suicida, — gentili masnadieri, — amabil terror, —
gaudio amaro, — vil trionfo, — tristo conforto, — tristo vincitore,
— squisiti digiuni, — lieto error, — lieto ribrezzo, — dolci ferite,
— povero signore, — giorno tanto temuto e bramato, — età sucida e
sfarzosa, — (sentimento), imperioso insieme e soave, — cenci sfarzosi,
— nome illustre e infame, — ignoranza coraggiosa e guardinga, — trista
allegrezza. — Pensò o piuttosto non ci pensò, — voglio andare avanti
o piuttosto tornare indietro, — l'effetto o piuttosto la mancanza
dell'effetto, — solo un bene di quel genere, o piuttosto quel bene
fuori d'ogni genere, — non badiamo alle parole, o, per dir meglio,
badiamoci bene, perchè proprio qui non ci abbiano a menar fuori di
strada." —

Ora questi bisticci, queste — come li chiamava egli stesso, — _trappole
di parole_ che si basano su contrasti di suoni, non si possono spiegare
senza lo influsso morboso in uno che le stigmatizzava così fieramente
nel _Dialogo dell'invenzione_, in uno che spesso ripeteva essere i
_traslati traditori_, e che le parole, "se non ci si bada bene, menan
fuor di strada". (Opere varie, pag. 829-1870).

Ora è noto che gli ammalati di ossessione hanno spesso tendenza a frasi
ed idee in contrasto col loro pensiero e fra di loro a dire p. e.,
"_Vi ho in c_.... invece: _Vi ho in cuore_" che pur pensano (Krafft,
Ebb. Trad. de Psych. 543). _Maledetto_ per _benedetto_ (Raggi, Archivio
Italiano per le Mal. Nevrose 1887) e Seglas — altrettanto vedremo qui
confessarci di Cardano (pag. 106).

TAV. II.

AUTOGRAFI DI MANZONI

Fig. 1.

   [Illustrazione: _Autografi di Manzoni._ (Bonghi. — Opere
   inedite di Manzoni).]

Fig. 2.

   [Illustrazione: _Autografi di Manzoni._ (Dal Bonghi. — Opere
   inedite di Manzoni).]

Fig. 3.

   [Illustrazione: _Autografi di Manzoni._ (Bonghi. — Opere
   inedite di Manzoni).]

Fig. 4.

   [Illustrazione: _Autografi di Manzoni._ (Dal Bonghi. — Opere
   inedite di Manzoni).]

TAV. III.

AUTOGRAFI DI MANZONI

Fig. 5.

   [Illustrazione: _Autografi di Manzoni._ (Dal Bonghi. — Opere
   inedite di Manzoni).]

Fig. 6.

   [Illustrazione: _Autografi di Manzoni._ (Dal Bonghi. — Opere
   inedite di Manzoni).]

TAV. IV.

AUTOGRAFI DI MANZONI

Fig. 8.

   [Illustrazione: _Autografi di Manzoni._ (Dal Bonghi. — Opere
   inedite di Manzoni).]

Fig. 9.

   [Illustrazione: _Autografi di Manzoni._ (Bonghi. — Opere
   inedite di Manzoni).]



Swedenborg[30]


Nato nel gennaio del 1688 in Stoccolma da una famiglia tra
ecclesiastica e burocratica, fu dal quarto al decimo anno sempre
preoccupato di Dio e della felicità eterna; e dal sesto al dodicesimo,
considerava come il suo più grande piacere l'intrattenersi coi preti
sulla fede; studiò ad Upsala letteratura, matematica, fisica, teologia
con grande fervore, e nel 1700, andando a Londra, cominciò quella serie
di viaggi, descritti poi nell'_Itinerarium Swedenborgii_, a Londra,
a Oxford, in Olanda, a Parigi; e ritornò in Svezia quando Carlo XII,
liberatosi dai Turchi, assediava e occupava Stralsunda, così che potè
pronunziare davanti al Re un ampolloso panegirico della vittoria.

Stabilitosi a Upsala, dove pubblicava un grande annuario delle
invenzioni e delle scoperte scientifiche sotto il nome di Daedalus
Hyperboreus, fu eletto a ventott'anni ingegnere del Re; costrusse moli,
aprì porti, fondò chiese, scavò canali, inventò il modo di trasportare
per monti e per valli all'assedio di Friederichshall scialuppe e galèe,
dettò lavori di meccanica, d'algebra, d'astronomia, di meteorologia,
nonchè di matematica, con una fecondità e un'originalità straordinaria,
tanto che la regina Ulrica Eleonora lo fece nobile.

Dedicatosi, poi, allo studio dell'industrie minerarie, ne scrisse altri
dieci volumi; e tornò a viaggiare per questo scopo mezza Europa fino al
1722, tornandone nel 1733.

A quel punto egli è all'apice degli onori. Affabile, semplice, forte,
sobrio, dottissimo, dovea sembrare il primo, se non l'unico, esempio
di un genio completamente equilibrato. Dopo aver nel 1734 assistito a
Stoccolma all'Assemblea degli Stati, ripartì per l'Olanda, la Francia e
l'Italia, dove, a Firenze, scrisse una memoria su l'arte del mosaico e
a Roma un'altra sulle febbri.

Ma durante un altro viaggio a Londra, nel 1745, a cinquantasei anni,
avviene in lui una strana metamorfosi. Egli era là tutto occupato a
scrivere a pubblicare i tre volumi del _Regnum animale_; l'anatomia e
la fisiologia parevan occupare la sua mente.

Quando egli che avea scritto: il problema dell'anima _dipendere dallo
studio del corpo_ (Non licet scandere ad animam nisi per anatomiam) ed
ancora che: "L'anima è rappresentata nel corpo come in uno specchio;
esaminando l'anatomia di tutte le parti del corpo, in specie del
cervello, e svolgendone a uno a uno gl'involucri che ci nascondono
l'anima, noi dovremo finire con scoprirla" — tutto ad un tratto da
questa serenità positivista, da questa severità di logica aristotelica,
spicca un _salto_ oltre i limiti dello spazio e del tempo, e scompare,
o, per adoperare una giusta frase del De Roberto, cade nell'abisso
metafisico che non ha principio nè fine; e le cose del mondo non gli
appaiono più positive e reali, ma pure corrispondenze di esseri e di
idee celesti e oltrumane (De Roberto o. c.).

Il modo in cui avvenne questa metamorfosi potrebbe, a chi non ricorda
quella di Manzoni, Cardano, S. Paolo — a chi non pensa al così
frequente sdoppiamento della personalità del Genio, — sembrare, nei
particolari, puerile e... anche peggio. —

Una sera dell'inverno del 1745, a Londra, egli stava in un albergo
mangiando con vivo appetito. "Alla fine del pranzo, sentii (ci confida)
come una nebbia scendere sui miei occhi, e travidi mille serpenti
invadere la stanza. A un tratto l'oscurità si rischiarò, un uomo dentro
un gran fulgore mi apparve seduto all'angolo opposto a me, e mi disse
con severità: "_Non mangiar tanto_!" — Turbato, corre a casa e si pone
a meditarvi su, quando "l'uomo raggiante mi riapparve e mi disse: "Io
sono Dio, Signore, Creatore e Redentore, t'ho eletto per svelare agli
uomini il senso intimo spirituale delle Sante Scritture, e ti detterò
quel che dovrai scrivere". — Era un'allucinazione religiosa!

E da quel giorno diviene il più fanatico spiritualista e non vuole più
attendere che a cose teologiche. Crede di conversare con cento, con
mille spiriti dei morti, alcuni dei quali gli parlano per giorni, per
mesi e perfino per anni di seguito; egli non viaggia, scrive il suo
amico Bruno, più con servitori, affermando di non aver bisogno di alcun
aiuto, avendo un angelo per compagno. Dimentica tutta la famiglia, fa
vita casta, vive di solo caffè, cioccolata e biscotti; si riserva il
matrimonio... per l'altro mondo, ove l'aspetta la contessa Syllenborg.

Da quel giorno egli può vedere quel che avviene negli altri mondi,
nei cieli e negl'inferni; conversa con gli angeli; sale e scende dai
pianeti (_sic_) più lontani. E narra in cinquanta volumi tutte queste
visioni; fonda una nuova religione con la _Doctrina nova Hierosolymae
de scriptura sacra_, cui obbedisce ancora, secondo il dottor Ballet,
in Inghilterra, in America, in Germania, qualche migliaio di fedeli;
infine redige per vent'anni un _Diarium spirituale_, che è veramente
completamente pazzesco, visto che nel solo anno 1748 egli avrebbe
esplorato sei volte Mercurio, ventitrè volte Giove, sei Marte, tre
Saturno, due Venere, una volta la Luna e ventiquattro volte altre terre
del Cielo Australe!!!

Tutte queste rivelazioni non sono che nuove allucinazioni
psico-motorie; così gli spiriti di Mercurio non comunicano con lui col
linguaggio, ma col pensiero attivo, noi diremmo ora per telepatia.

Anche quelli di Marte soffiavangli le parole verso la tempia destra,
donde il soffio s'avanzava verso l'occhio; di là verso le labbra,
da cui entrava per la bocca nel cervello; e notava che quando essi
parlavano, le sue labbra erano in movimento e anche la lingua. Il che
mostra che mentre egli parlava e pensava date parole, egli credeva
che altri le pronunziasse — fatto psicologico non raro nei pazzi,
che credono dettate ed eseguite da altri quello che pensano e fanno,
inconsci, essi stessi.

E in tutte queste visioni "ex auditis et visis", come egli afferma
nei frontispizi di tutti i suoi libri, la sua parola resta limpida,
come quando doveva descrivere le trasformazioni dei minerali o la
costruzione anatomica del nostro corpo. Solo la grande gioia d'essere
per aiuto divino giunto alla sintesi e alla verità, dà alle sue pagine
un'intonazione profetica nuova, quale si conviene a chi "divenendo
talvolta simile agli angeli, poteva intrattenersi con loro e sapere
tutto". E gli angeli e i demoni e tutti gli spiriti hanno volti, mani,
orecchie, occhi come noi abbiamo, salvo piccole variazioni nei vari
pianeti; e i cieli e gl'inferni hanno valli, monti, selve, grotte,
sabbie, come la nostra Terra.

Oltre a queste allucinazioni _astrali_, egli ebbe delle vere
premonizioni e delle vere visioni a distansza; che si spiegano colle
attuale cognizioni ipnotiche e mediameniche; così egli, essendo a
Gottemburgo, vide un incendio in una data via di Stoccolma, che ne
distava due giorni, e fissò il momento in cui cessò il fuoco; fatto
questo appurato con una inchiesta da Kant.

Un altro giorno sollecita un fabbricante, Bollander, che con lui
tranquillamente mangiava, di ritornare subito alla sua officina, ch'era
in pericolo — e dove in fatto era cominciato un incendio. — Riporta
alla regina Ulrica Eleonora alcuni discorsi intimi e segretissimi che
gli aveva tenuto il fratello Guglielmo di Prussia anni prima.

Tutto ciò gli avveniva in uno stato di _trance_, di cui però egli
conservava chiara la memoria.

Ed era insieme megalomane; grazie a lui, scrive egli, "l'aurora si
leva sulle nazioni pagane, perfino sulle africane; gli angeli dettano
agli uomini le cose che egli ha pubblicato nella dottrina della nuova
Gerusalemme".

Qui egli tentò ricrear l'unità del Cosmo con la teoria dell'identità,
o meglio della corrispondenza del mondo spirituale col mondo fisico;
tanto che questo è per lui un puro simbolo di quello, l'impronta di
quel suggello. Così i suoi angeli, dei quali egli poeticamente narra
che vanno sempre verso la primavera della vita, e i più vecchi sembrano
i più giovani. Ed egli con loro, quando vedono cose terrestri, non
pensano a quel che esse sono pei sensi, ma a quel che significano, cioè
allo spirito divino che contengono e pel quale convergono in un sol
punto, — Dio.

Ma nel medesimo foglio in cui traccia quei sogni divini, egli ti
annunzia che il Signore deve venire a fondare una nuova Chiesa;
e siccome ora nol può fare, ha scelto lui in sua vece; e detta
l'_Anania celeste_ e la teoria dei rappresentanti, in cui espone le
sue allucinazioni visive di globi infocati, di fiamme e nubi, fra
cui quello di uno spirito, che con voce rauca gli espone delle teorie
sensatissime; offrendoci un evidente caso di megalomania, religiosa,
allucinatoria, che evidentemente dovea rimontare alla prima giovinezza,
non essendovi alcuna causa che ne spieghi la tarda comparsa.


_Genialità_. — Eppure fu un vero Genio. — Nelle sue "Opera philosophica
et mineralia" e nel primo volume dei _Principia rerum naturalium_,
egli è il creatore della cristallografia, il precursore di Dalton nelle
leggi dell'ottica, di Herschel nel determinare la posizione del sistema
solare, di Lagrange nel definire le deviazioni periodiche delle orbite
planetarie.

I suoi trattati metallurgici sono degni di essere posti vicino ai più
moderni; molto prima di Faraday egli intravide le leggi del magnetismo
terrestre, e che il polo magnetico sud ha un asse più distante
dall'equatore magnetico del polo nord, e che ha un'attrazione maggiore;
prima di Lavoisier intravide che l'acqua è un composto di due elementi
e vide l'analogia fra la luce e il magnetismo.

Delle imprese da lui eseguite, come idraulico, mineralogista,
ingegnere, astronomo, scrittore, dicemmo nelle prime pagine (p. 93-94).



CARDANO



CAPITOLO I.

Eredità morbosa.


La pazzia di Cardano è più che precoce, ereditaria, e infatti l'eredità
morbosa è spiccatissima in tutta la sua famiglia.

Suo padre, matematico, balbuziente, con occhi da albino; ferito nel
capo più volte da giovine; era di una strana vanità ed incoerenza,
che manifestava anche in pubblico con bizzarro andazzo, con vestimenta
scarlatte, con discorsi fuor di luogo, ecc.; egli credeva all'esistenza
d'un genio a lui solo proprio, e precisamente della stessa natura di
quello che pretese avere il figlio fino al 59° anno, il quale poi gli
rivelava i rimedi nel sonno, come nell'epoca terribile della peste,
e dai cui consigli si allontanava solo per comporre quei mistici
farmachi, di cui sembra non essersi trovato scontento nemmeno il nostro
Cardano.

In fatto, nel libro _De subtilitate_, parlando delle rivelazioni
ipnotiche, Cardano aggiunge: "_Sed haec nostrae gentis propria sunt
atque ab utroque parente haereditario jure accepta_".

Quando il nostro Cardano era moribondo di dissenteria, il padre "_B.
Hyeronimi vim experiri potius voluit, quam a Daemone, quem palam
familiarem habere profitebatur" (De Vita)._

Nè qui finisce l'eredità morbosa. Cardano stesso ebbe un figliolo,
che somigliava in ogni tratto l'avolo suo: ugual portamento, uguale
temperamento, uguale fisonomia ed ingegno; nottiveggente, sordo d'un
orecchio com'egli, per di più rachitico, coi _piedi sindattili_, che è
uno dei segni più spiccati della degenerazione; orbene, la sua pazzia
lo condusse al veneficio della moglie, al patibolo. Nè gli altri figli
di Cardano furono molto dissimili, per tristizia, da questi — ingrati e
crudeli col padre, ecc.

La madre sua, dice lui, era proclive agli sdegni, gozzuta; ambidue, e
più il padre, incostanti nell'amore del figlio, che spesso battevano.

Finalmente, perchè nulla mancasse, nell'opera "_De rerum varietate_,
87" egli ci parla di un Michele, di un Aldo, di uno Stefano Cardano,
cugini suoi o consanguinei, tutti soggetti a rivelazioni, cioè ad
allucinazioni ipnotiche.



CAPITOLO II.

Cardano.


Quanto a lui, il grande scienziato, aveva testa abnorme, scafocefala,
gozzo, ernia; più patì di gotta, di erpete, diabete tra i 7 e i 12
anni, sonnambulismo; e come il padre sofferse due volte gravi traumi
nel capo.


_Pazzia morale_. — Egli descrive sè stesso, iracondo, lascivo,
imprudente, desideroso di vendette, quando anche non lo consentissero
le forze, prono ad ogni vizio, giocatore sfrenato, tenace
nell'ambizione e nell'ira, litigioso, sicchè durò alle liti dalla
morte del padre fino a 46 anni, e diceva di sè stesso, che egli troppo
giustificava il proverbio: La nostra natura esser incline al male.

Era infatti impulsivo fino al delitto; si sa che maltrattò il grande
suo maestro Tartaglia; strappò un orecchio al figlio minore. "Non vi
è (confessa egli) cosa che più mi piacesse, quanto il dire cose che
tornassero spiacevoli a chi mi ascoltasse: Portavo vitupero a chi
avrei voluto lodare". Passione strana aveva per gli animali, sicchè
riempivangli la casa lepri, conigli, capre e cicogne. E noi sappiamo
che è questo un carattere dei degenerati (Vedi: L'Uomo Delinquente, VI
ed. Vol. 1.).

Della grande sua surrecitazione sono prova le veglie quasi continue che
sofferse dai sette ai dodici anni, l'algore delle estremità, quando si
poneva a letto, l'impotenza che durò fino a 34 anni, e quell'eccessiva
sensibilità che unita alle sue cognizioni mediche (sì dannose agli
ipocondriaci), faceva in guisa, che non vi era morbo ch'ei non avesse
sofferto, nè istante in cui non credesse soffrirne. _Tunc maxime
sanum me existimo cum raucedine laboro; nam cum ad ventriculum defluit
fluxus ventris, abominationem cibi efficit, nec semel credidi veneno me
tentatum, e postridie salvus eram._

Ne è una bellissima prova quel singolare piacere che ei dichiarava
di provare nel comprimersi i muscoli brachiali e mordersi le labbra
fino alle lagrime, nè tanto per la voluttà leggerissima del contrasto
lasciato dal dolore, a tutti comune, quanto per il bisogno non mai
saziato di energiche sensazioni. "Cause di dolore, — ei dice nella
propria vita, — se non ne aveva, ne cercava, per godere del piacere
della cessazione del duolo, e perchè io esperimentai che non posso far
senza di dolore, e se mai mi capitasse (_modo contingat_) mi assalta
l'animo un impeto sì molesto e sì grave, che molto meno è il dolore che
la cagione di dolore". Non può dare questo brano curioso la spiegazione
di quel fenomeno, che appare anche in alienati non stupidi o idioti,
del ricercar essi più che fuggire le abbruciature, i geli, le ferite,
le contusioni, quasi che nello stato patologico particolare del sistema
nervoso sieno quelle sensazioni dilettose piuttosto che atroci?


_Paranoia persecutiva ed ambiziosa_. — Si disse dai contemporanei,
ch'egli era più saggio di tutti gli uomini e meno savio di un bimbo.
Certo, presentò molti sintomi di paranoia persecutiva ed ambiziosa.
Come Byron, Alfieri, Wagner ecc., protesta che non è ambizioso; ma
viceversa; ammette che trova sempre fallaci le scoperte altrui e sempre
migliori le sue; e disse di sè nell'arte medica, non comparire che ogni
10 secoli un grand'uomo, ed essere egli il settimo (Capitolo VIII);
ed afferma nella sua _De Vita_ d'aver fatto 40,000 scoperte e 200.000
(_sic_) piccole pubblicazioni; tra i suoi schemi genetliaci comprende
quello di Gesù Cristo; più volte dichiarò essere protetto dalla Beata
Vergine e da S. Martino, che lo avvertivano coi sogni dell'avvenire
della vita, dei rimedi da somministrare ecc. Tutto il mondo gli sembra
ora congiurato contro di lui, ora genuflesso estimatore dei suoi
talenti; ei si crede invulnerabile agli strumenti umani. La megalomania
si rivelò certo nelle opere _De Vita, De libris propriis, De Somniis_,
che lungi dell'essere, come vorrebbero Baillarger e Burdach, una
mirabile prova dell'attenzione analitica di sè stesso, non sembrano
altro che sintomi ed effetti di quell'impulso morboso, colorati
dall'eloquenza del genio, quali si vedono nei numerosi scartafacci dei
paranoici.

Si faceva trascinare in Bologna da un cocchio a cui aveva... fatto
togliere una ruota: credeva a continui complotti contro lui dai
colleghi che l'aveano eletto membro dell'Accademia degli Affiliati....
per farlo morire; infatti il dì dopo che vi entrava, inciampò in una
trave e per poco non ne morì; sicchè il furbo per prevenire l'opera
dei sicari, andava all'Accademia o prima o a mezzo della seduta. —
Nessuno dei cospiratori gli sopravvisse, tanto ne lo proteggeva il suo
santo. Più volte pretendeva avere lo spirito profetico (_De Vita_, Cap.
XXXXII), avere una luce speciale nell'anima (XXXVI), avere appreso per
forza d'incanto le lingue (cap. XLIII), aver guarito malati di lebbra e
di tisi; aver perduto un solo malato fra 300 curati dalle malattie più
gravi; avere avuto la premonizione della morte di persone sanissime,
che all'epoca preveduta morivano.

Pare intervenissero veramente intorno a lui dei fenomeni medianici e
spiritici; certo in questo: Una mattina sente battere forte un colpo
al muro, che si ripete una seconda volta; egli apprende che allo stesso
momento moriva un Galeazzo suo cliente.

Pretendeva aver avuto premonizioni della morte del figlio. Nell'estate
del 1557 sogna che il figlio suo minore stia male; in quel momento
accorre la serva per chiamarlo, poichè veramente quello stava per
morire.

Allucinazioni soffrì dai quattro ai sette anni; vedeva in aria
anelli, cavalli, trombe, campi, soldati, fiori. Subì dai sette fino
ai dodici anni l'allucinazione costante di un gallo che gli parlava
e lo spaventava con voce d'uomo, e della vista tremendamente animata
del Tartaro ripieno d'ossa. "Svanite queste allucinazioni, mi successe
sempre da poi, — scrive egli stesso, — che alzando il capo dopo una
lieve meditazione vedeva la Luna. A diciotto anni ove fosse chi di me
ragionasse a qualunque distanza, sentiva nell'orecchio uno strepito
particolare dal lato onde si parlava; se si ragionava in favore,
nell'orecchio destro, e viceversa, nel sinistro."

Dal 1532, cioè a 26 anni, fino al 1567, ebbe la prerogativa non poco
singolare della rivelazione del futuro o per mezzo di sogni simbolici,
o per la voce diretta di un genio.

Tutti i suoi meriti e le sue scoperte deve ad uno spirito, che gli
si rivelava per sogni e strepiti e gli mostrava 3 soli e 3 lune a
mezzogiorno.

Passò nel 1567 ogni soccorso soprannaturale (_destitutus numine a quo
impellebar_), restandogli una crescente lucidezza di mente; ma non
è men vero che nel 1572 ebbe un'allucinazione d'un contadino che gli
disse "_Te sin casa_"; di un altro che gli passeggiava a fianco nella
strada, e poi svanì alla soglia dell'abitazione; che più? nel 1570 una
ricetta per il cardinale Morone salì dalla terra al suo leggio, senza
spirare di vento, dimenticandosi delle leggi di gravità, per avvertirlo
del pericolo che ei correva commettendola all'illustre cliente, lui che
fu sì felice indagatore delle leggi del moto!

Quanto alla varietà dell'allucinazione, noi lo vediamo ora credere che
le sue carni putano di zolfo, che sieno i vasi ed i piatti pieni di
vermini, che la stanza e l'aria senta odore di ceri spenti; ora udire
il grugnito dei porci, ora essere balzato da violenti terremoti, ora
vedere fiamme e fantasmi, mentre di nulla s'accorgono i suoi familiari,
privi, come erano, del suo genio benefico; ora, ipocondriaco, si crede
avvelenato, cinto di nemici e di congiurati, affetto da uresi, da
ernia, da podagra, che dispaiono meravigliosamente senza cura, e spesso
con qualche prece al B. Girolamo od alla Vergine.

Ma nel sonno principalmente sembra che la pazzia di questo grande
prendesse una forma precisa e degna di grave attenzione. Abbiamo veduto
come credesse poter provocar l'estasi a volontà; ma solo nel letto,
poco prima o poco dopo del sonno, egli possedeva questa nuova virtù, o
piuttosto ei ne era posseduto. Una volta, p. es., essendo colto verso
il mattino, in letto, dall'estasi, ed egli destato e postosi eretto,
l'estasi sparve; tornato a giacere, riapparve; e fu allora che ei
si credè precisarne la sensazione, e la disse un lieve spiro che non
proprio nel cuore, ma più sotto gli palpitava, ecc. Anzi sembra che
alcuni sogni eccitanti gli lasciassero una specie di estasi.

In sogno ei dichiarava avere ideato e composto alcune delle sue
opere, p. es. quella sì voluminosa _De varietale rerum_ e quella _De
subtilitate_. Un dì nel 1557, narra egli nei _Sommiis Synesiis_, c. IV,
parvemi udire delle armonie più soavi; destatomi tosto, mi trovai in
capo risolto un mio problema su le febbri (perchè ad alcuni letali, ad
altri no), a cui invano aveva pensato per venticinque anni. È notevole
qui l'associarsi ed il precedere dell'eccitazione del senso a quella
dell'intelletto.

Impotente fino a 34 anni, un sogno gli restituisce la maschile virtù,
e gli addita, nè troppo felicemente, l'oggetto delle sue cure, la sua
futura moglie, una figlia di scherano, che prima del sogno ei non ebbe
"dice" non che ricordata, nemmeno veduta! Che più, se spingeva la sua
sciagurata follia a tanto, da regolare dietro i sogni suoi i consulti
medici, come si vanta egli stesso di aver usato per il figlio di
Borromeo?

Noi potremmo ancora citare degli esempi ora ridevoli, ora strani, ed
ora tristi della sua fede nei sogni; ma per dirne uno che insieme ne
raccolga tutti i caratteri, diremo del suo sogno della gemma.

Era il maggio 1560, cinquantaduesimo della sua vita. Il figlio gli
era stato dannato pubblicamente per veneficio; niun'altra sventura
poteva colpire più al vivo l'anima, già sì poco temperata di Cardano;
egli che l'amava per tenerezza paterna, come ne sono prova quei versi
sublimi _De morte filii_, in cui il gelido lutto della vera passione
ha un'imagine sì tristamente, perfetta, l'amava anche per ambizione,
perchè ne sperava un nipote che lo somigliasse, in fine in quella
condanna vie più acceso dalla sventura nelle sue idee lipemaniache,
credeva vedere il dito di quelli che si erano congiurati contro di lui
(_De Vita_).

"Balestrato in tal guisa, invano io cercava distrarmi, — vi narra
egli stesso, — con lo studio, col giuoco, e con morsi e battiture
alle braccia ed alle gambe, (era questo uno strano ed antico suo
divertimento); era la terza notte ch'io non potea prendere sonno; e due
ore appena mancavano all'alba; e vedendo ch'io avrei dovuto morire od
impazzire, pregava Dio che volesse togliermi affatto da questa vita.

"Ed ecco improvviso mi prende il sonno, e ad un tempo sento
ravvicinarsi persona di cui le tenebre nascondeanmi le forme, che mi
dicea: "Che ti duole del figlio....? La pietra che tieni appesa al
collo, portala alla bocca, e fin che ve la terrai, non ti sovverrà
più di lui". Desto dal sogno, pensava qual mai rapporto potesse
esservi tra lo smeraldo e l'oblivione; ma poichè null'altra via mi
restava, io ricordandomi le parole sacre: _Credidit et reputatum ei
est ad justitiam_, abboccai lo smeraldo. Ed ecco che, fuori d'ogni mia
aspettazione (_et ecce quod supra fidem omnem est_), ogni cosa che
spettava al figlio svaniva dalla memoria; così allora che di nuovo
ricaddi nel sonno, come per tutto un anno e mezzo da poi; e solo
quando, mangiando, o professando in pubblico, non poteva tenere la
gemma alla bocca, io ritornava in braccio al primo dolore."

Questo sogno accenna ad alcune leggi non poco notevoli per la storia
psichiatrica.

È evidente in questo racconto quella legge che, facendo del sogno
l'espressione più esagerata del desiderio, serve come di valvola di
sicurezza, per cui passioni troppo eccitate possano rimettere della
loro violenza fatale, e porre, direi, per qualche tempo in equilibrio
la macchina scomposta. Che se la causa impellente perduri, e le forze
dell'individuo non bastino alla reazione, allora la valvola non si
chiude più; ed abbiamo quelle forme di pazzia sì comuni, che sono al
sogno nel rapporto di un morbo cronico ad un morbo acutissimo.

Ma è curioso il processo d'autosuggestione che segue qui la natura per
conseguire codesto scopo. Si direbbe che i fenomeni vengano eseguiti
dall'individuo a sua insaputa, come per altrui comando. Sembra che la
volontà, tesa dal desiderio e dalla passione ad un dominio violento,
acceleri tanto in questi casi la serie dei movimenti della memoria, da
non lasciare campo all'attenzione, di esaminarne li edotti e l'origine,
per cui l'uomo non s'accorge che il sogno e l'allucinazione non furono
che una fattura rapidissima della memoria sua per opera di una volontà,
che quasi precedeva il desiderio.

Così il nostro Cardano sapeva già prima del sogno quello che con tanto
mistero ei sentì rivelarsi dal Genio.

Eccone le prove. Nel libro _De Subtilitate_, scritto quasi dieci anni
prima del sogno: _In annulo gemma vel collo appensa aut etiam sub
linguam retenta confirmat rei venturae opinionem_. Nel libro _De Gemmis
et coloribus_: "Lo smeraldo (che è precisamente la gemma di Cardano)
seda li affetti dell'animo ed è utilissimo a divinare".

Nel libro _De Somniis_: "Le gemme del sogno sono simboliche di figli,
di libri, di cosa insperata, delizia, jocondità. Significano allegria
non solo per la natura, ma per il nome italiano _giojre gioia_, che si
accorda con gioia."

Il che è bene una strana ragione, ma come lui la pensava tutta la dotta
plebaglia del medio evo; eppure in quel momento egli assicura non aver
mai compreso qual rapporto vi fosse tra lo smeraldo e l'oblio, e lo
pose solo alla bocca per le parole: "_Credidit et reputatum ei est ad
justitiam_"; e vedutone l'effetto, ne trasse alta meraviglia. Questo
fenomeno del dualismo è comunissimo nel sogno come in molte frenopatie;
ma nel sogno assume una doppia importanza e gravità; senza questo
apparente dualismo, per cui l'uomo cela sè a sè medesimo, ei ricadrebbe
nel dubbio ed il sogno non avrebbe raggiunto lo scopo; così succede
comunemente che chi richiede un consiglio circa un proprio progetto,
non cerca altro che di veder riprodotta e pòrtagli di nuovo per mano
altrui la sua opinione, onde meglio trovare modo di riconfermarvisi;
qui il dualismo è vero in apparenza, falso nel fondo; nel caso del
sogno manca e fondo ed apparenza, ma sono simili in ogni punto e la
causa e l'effetto.

La durata dell'influenza di questo sogno accenna la sua origine e
natura patologica, senza la quale niun sogno può lasciare tracce sì
lunghe e sì forti.

Ma più chiaramente che in tutti gli altri scritti ed atti della vita
di Cardano, nel libro _De Somniis_ si palesa quella singolare fusione
di genio e di pazzia, come pure l'influenza ipnotica su questa. È un
libro che parla al psichiatra come una pseudo-membrana parlerebbe al
patologo. Ivi da prima egli espone le più giuste e curiose osservazioni
su i fenomeni del sogno, per es. che i grandi dolori fisici vi agiscono
con minor energia e con maggiore i leggieri, fatto recentemente
confermato da M. De Sanctis (Dei sogni); che agli idioti non appaiono
mai sogni complessi, ma _idola_; che i pazzi sognano moltissimo; che
nel sogno come nella scena, in brevissimo spazio si percorrono serie
lunghissime d'idee; finalmente (e l'osservazione è piena di verità),
che li uomini tengono sogni o analoghi affatto, o affatto contrari alle
proprie abitudini, tornando ciò uguale nell'effetto. Ebbene, dopo sì
lucidi intervalli e tratti di genio egli rinnova una delle più meschine
e più assurde teorie dell'antiche età, secondo le quali il più breve
accidente del sogno deve essere rivelatore d'un futuro più o meno
lontano. Ei detta quindi con la convinzione più sincera e con esempi
di propria esperienza un infelice dizionario, identico nella forma
come nell'origine veramente patologica, a quei libriccioli di _Cabala
del Lotto_, che si gettano, unica e calcolata pastura, alla povera
plebe. Ogni oggetto, ogni parola, che può cadere nel sogno, vi è legato
ad una serie di allusioni che devono servire nell'interpretazione
l'una per l'altra. Il _Pater_ p. es. può significare autore, marito,
figlio, comandante; _Pedes_, fondamenta della casa, arti, operai, ecc.;
_Cavallo_, apparendo in sogno, può significare fuga, ricchezza, moglie;
_Calzolaio_ e _Medico_ valgono l'uno per l'altro: come se la natura
potesse non solo pensare, ma parlare con la lingua dell'uomo (ed anzi
in latino e raramente in italiano); sicchè non è già la concatenazione
e analogia dei fatti che vi prevale, ma quella delle parole, dei
suoni, che più....! delle rime. _Orior_ e _morior_ hanno un pronostico
uguale, perchè "_una tantum litera cum defferantur, vicissim unum in
alium transit_. Oh! ti prende proprio compassione della natura umana e
di te stesso, quando tu lo senti commentare il fatto che un cavaliere
calcoloso se sognava di cibi era preso al dì dopo dal male, e se di
materie indigeribili, pietre, ecc., il morbo gli durava più a lungo,
coll'osservazione "_Cibos enim ac dolore degustare dicimus_", come
se la natura bisticciasse in latino, proprio per la bocca di lui che
aveva divinato quelle stupende teorie che accennammo su le sensazioni
dolorifiche nel sogno.



CAPITOLO III.

Genialità.


_Genialità_. — Eppure la pazzia non escludeva in lui una straordinaria
genialità nei rami più svariati dello scibile; così egli scoperse
la misura delle curve e delle superficie irregolari, e sospettò
l'influenza degl'infusorì nelle malattie. Prevenne i moderni liberali
nel definire il governo una cospirazione di pochi tiranni allo scopo di
opprimere i paurosi, gl'innocui e i deboli.

Egli giustificò la possibilità dei fenomeni medianici, che anche nella
nostra epoca trovano tanti increduli, coll'asserto che potrebbe ora
disperdersi che il non conoscere le cause dei fenomeni naturali non è
una ragione per negarli.

Creò il piroforo e intravide l'ossigeno come causa della combustione.

Precedette il nostro De Sanctis nello studio scientifico dei Sogni.

Egli pel primo in medicina osò abbattere il Galenismo, onorare e
criticare Ippocrate; in teologia meritò da Scaligero il titolo di
empio: egli che, mentre adottava tante idee magiche, fu pure però il
precursore di Wiero, di Bayle, di Muraton e di Zimmermann nel credere
allucinati gli ossessi e le streghe, e pare anche i santi. Infatti,
dopo avere esposte alcune illusioni che sofferse Andrea Osiander
durante una quartana, aggiunge: "_Similia haec prorsus existimo his qua
videbantur eremum incolentibus magna ex parte; solitudo ipsa, mensque
aegra laboribus ac jejuniis, tum temperatura mutata quod umor poterai
in illos melancholicus representabat_."

Ed è per questo appunto che molti dei suoi strampalati asserti non sono
errori di logica, ma sintomi di pazzia.

Tutte le nazioni, fin quelle che non seppero crearsi Enti o Elisi,
credettero alle rivelazioni dei sogni. Iamblico, Sinesio, Artemidoro,
scrissero libri analoghi e confratelli di questo; p. e., l'ultimo
asserisce che sognare d'essere tosato è buon segno, perchè Charites è
parente di Carine, allegrezza; facendo così bisticciare la natura in
greco ed egizio, come il nostro in latino e in italiano. Il selvaggio,
non potendo con i propri sensi nè con le sensazioni abituali spiegarsi
i fenomeni naturali e quelli dell'anima umana, li attribuisce ad
enti esteriori, a Genj; darà un Dio alla pioggia, allo starnuto,
come al fascino delle grazie, e alle strette della paura, modellando
alla meglio nella sua meschina relatività le nuove sulle vecchie
impressioni; ei commette così un errore simile a quello del dotto che
crea l'archeo, il fluido nerveo e la forza vitale.

Ma quando un uomo studia sè stesso in epoca in cui la credenza ai Geni
è scomparsa, non solo attribuisce ad un Genio quell'eretismo nervoso
che gli precipita il formarsi de' suoi concetti, ma perfino il muoversi
del letto, lo scrosciare del tavolo, il tremolìo della penna, non può
essere che un allucinato.

Ed una prova egli stesso singolarissima ne fornisce nel libro _De
Varietate_, scrivendo, certo in un momento lucido: "_Ego certe nullum
demonem aut Genium habeo, sed mihi pro bono Genio data ratio_", pochi
capitoli dopo aver descritto e particolarmente la natura del Genio
addetto a lui e a suo padre.

Così pure la credenza al pronostico dei sogni nata dall'ignoranza
completa dei rapporti della natura con l'uomo, dal desiderio
d'allargare il limitato presente, è una delle più radicate ed
universali delle tante che deturparono fino dalla culla la specie
nostra; essa era in voga certamente anche nella plebe del secolo di
Cardano; troppo lo confermano i suoi biografi contemporanei, che lo
chiamano pazzo perciò solo "_nec video quam aliud existimetur_, (dice),
p. e. Naudeo Praef. "_existimetur qui somniis, ostensis fidem habens ex
vetularum delirantium observationibus pendeat_".

Già sorgevano Telesio, Cartesio, Bacone, Scaligero, Campanella; e
Cardano stesso s'era spesso elevato sopra i pregiudizi anche dei
più grandi coetanei. Quando, adunque, Cardano, non solo abbracciava
quell'assurda credenza popolare dei sogni, ma ne faceva scopo di
lunghi lavori e bussola d'ogni sua azione, dovette certo sottostare ad
una metamorfosi regrediente, ad una qualche modificazione cerebrale,
che ridestasse su la compressa logica e su le cancellate impressioni
anteriori, istinti ed idee d'uomo primitivo. E noi, senza vagare nelle
ipotesi, ne abbiamo già le tracce nell'influenza ereditaria di morbo e
nella paranoia di cui adducemmo prove sì numerose.



PETRARCA[31]


Quanto gravi fossero le anomalie nervose e psichiche in Petrarca avevo
tentato di mostrare nell'_Uomo de Genio_ p. 22, 60, 142, 157, 180, 194,
218, 244, 414.

Godo di vederlo confermato con ben maggiore precisione e saldezza
dal Cesareo[32] e più accuratamente dal Finzi, che, come E. Carrara e
Squillace s'accosta non solo alla combattuta teoria della nevrosi del
genio, ma vi apporta nuove e importanti dimostrazioni[33].

"A me pare, scrive Finzi, che in molte anomalie psichiche del Petrarca
possa offrirsi qualche piccola materia di studio ai maestri della nuova
dottrina." — E noi possiamo, seguendolo letteralmente dimostrarlo.


_Melanconia_. Infatti, secondo la sua erudita monografia, se anche
lasciamo stare l'eccentricità e il misticismo intermittente, troviamo
quella costante condizione patologica del suo spirito, che egli stesso
confessò nel _Secreto_, quando a Sant'Agostino che lo apostrofa: "Tu
sei tormentato da una funesta pestilenza, detta _acedia_ dai moderni e
_malinconia_ degli antichi", — egli risponde: "Lo confesso: dominato da
siffatta tristezza, io vedo tutto aspro, tutto misero, tutto orrendo;
mi sembra di essere sempre sulla via della disperazione". E continua
affermando che questo travaglio lo opprime per interi giorni e per
intere notti; e che nondimeno si trova spesso condotto al termine
di pascersi delle proprie angosce, assaporandole con una specie di
acuta voluttà. Certamente poi quand'egli si fa ad indagare le cagioni
di questa sua malinconia, esse appaiono molto sproporzionate a così
triste effetto. Ma gli è che a lui medesimo non si mostrava ben chiara
l'indole del suo male, ch'era tutto interiore; e ne cercava le cause
fuori di sè, nell'opinione pubblica, che pure lo accarezzava con
tanta parzialità, che sarebbe stata bastevole ad appagare qualunque
più superba ambizione; nella fortuna, che in effetto non gli fu mai
matrigna; nella sentina Avignonese, dove in sostanza egli stava perchè
gli piaceva e gli conveniva di starvi.


_Abulia_. — ... "Da ciò infine gli abbattimenti, spesso confessati
fin dalla sua giovinezza, e la mancanza d'energia nel mantenere i
propositi, anzi la perpetua irresolutezza fin nel concepirli. Tante
volte si mette in cammino per un lungo viaggio, non senza aver
preparato gran bagaglio e fatti tutti gli allestimenti necessari a
non breve assenza; nullameno per il più piccolo accidente, o torna
indietro, o muta direzione, o scappa via appena giunto.

"E confessa egli stesso di soffrire assai per questo suo perpetuo
dibattersi nell'incertezza, alla quale talora gli riesce di sottrarsi,
non tanto perchè con un atto energico della volontà abbia saputo
prendere coscientemente una ferma deliberazione, quanto perchè sì
grande è in lui l'angoscia dello stare un pezzo in fra due, che si
risolve una buona volta, non per altro che per uscirne e provare il
sollievo proprio di chi non ha più il rovello di pensarci su. Ma non
sempre l'espediente gli giova, perchè continua ad essere posseduto
da un'agitazione, da un'irrequietezza indomabile, per la quale
rassomiglia sè stesso ad "un malato che si rivolta per il letto senza
trovare riposo", e confessa di essere sempre in lotta con sè medesimo
"come se la sua volontà fosse divisa in due parti contrastanti l'una
all'altra", e si compiange come sopraffatto dalla difficoltà di tutte
le cose e spesso costretto a "porre tutto da banda e possibilmente
nel dimenticatoio", appunto, e soltanto, per non aver l'energia
di appigliarsi ad un partito". — È proprio completa l'abulia del
melancolico.


_Epilessia ambulatoria_. — E si può sorprendere in lui il germe della
epilessia propulsiva. "Questa condizione abituale, scrive Finzi o.
c., dell'animo, che dappertutto gli faceva parere insormontabili le
difficoltà della vita, dappertutto spaventosi e fatali anche i più
piccoli contrattempi e inconvenienti, fu lo sprone che del continuo
lo incalzò a mutar di sede. Il fuggire i luoghi delle sue simpatie
e debolezze erotiche, il cercar libri, il veder paesi nuovi e nuove
cose, il visitare amici, l'adempiere incarichi, saranno stati a volta a
volta cause occasionali dei suoi viaggi; ma la ragione vera, la ragione
generale è da cercare proprio nell'anima sua irrequieta, indocile, che
non sapeva trovar posa in un luogo e fuggiva, o almeno avrebbe voluto
continuamente fuggire se stessa, non sentendosi capace di niuno sforzo
di adattamento. Cominciato per singolari circostanze fin dall'infanzia
e durato sino agli ultimi anni, proprio fino a che le forze mancanti
non lo cacciarono giù di sella negandogli di più risalirvi, questo
perpetuo vagabondaggio è una delle più significanti espressioni di
quello stato quasi patologico dell'animo che nel Petrarca si manifesta
per così numerosi e diversi aspetti.

"Curioso che, sempre in moto com'egli è, e confessando molto spesso la
sua irrequietudine e instabilità, ogni tanto ammonisce sè medesimo a
mutar registro. "_Abbiamo girato abbastanza di qua e di là: è tempo di
riposare_", sentenzia ancora nel '52; eppure "seguiterà altri vent'anni
a rincorrere la sua quiete per tanti luoghi, senza trovarla mai".


_Bugia_. — E peggio, egli era un classico bugiardo, nota Cesaro;
mentiva ai superiori la causa del suo viaggio in Germania (Epistola
_ad posteros_); e appunto in questa lettera egli dissimulò ai figli la
propria paternità; dichiarava di aver abbandonato ogni oscenità, a 40
anni, e poi ne troviamo il catalogo fin passati i 46; scrive sonetti
per Laura viva, quand'era morta; giura che quell'amore era purissimo e
nel _Secretum_, III, confessa che l'amore per Laura sua non era onesto.
_Turpe igitur aliquid interdum voluisti_. Pretendeva con Boccaccio di
non aver mai letto Dante, mentre invece l'aveva studiato profondamente
ed anzi imitato. (Giornale Dantesco — Anno VIII)


_Contraddizione_. — "... La contraddizone è anch'essa abituale in lui;
anzi è un altro carattere singolare del suo stato psicologico. In tutta
la gran mole delle sue opere egli affetta sempre un austero stoicismo;
ma non gli riesce mai di metterlo in pratica, e con ingenuo candore
se ne confessa. Esorta gli amici a sostenere serenamente la sventura,
ma de' suoi propri e men gravi fastidi mena scalpore infinito; predica
la vanità dell'orgoglio e dell'ambizione, ma guai a chi lo punga o gli
attraversi la via; biasima il lusso nei costumi e perfin negli arredi
sacri, ma dal lusso egli stesso non sa difendersi mai, così nel culto
della persona come nelle abitudini della vita; condanna l'avarizia
ed usa liberalità, ma pur si mostra avido di prebende. Scrive parole
infocate contro i rei costumi del tempo, e chiama i principi tanti
Dionigi e Demetri Falerei; ma vive nelle loro corti la maggior parte
dei suoi anni migliori. Si professa adoratore della verità e afferma
ad essa sola dovuto tutto il culto dell'anima e della mente; ma si
lascia andare volentieri all'adulazione; e si direbbe persino che gli
piaccia adulare sè medesimo, presentandosi ai posteri interessante,
reverendo ed ammirabile per la magnificata nobiltà degli affetti e per
l'ostentazione dell'austera virtù. Disprezza le donne e inveisce contro
di loro sul tenore dei più arcigni misogini del medio-evo; ma, giovine,
ne cerca le grazie; vecchio, ne gradisce la compagnia, e giovine e
vecchio le canta con insuperata squisitezza di sentimentalità. Si
dà gran faccenda per ottenere la laurea poetica e poi la predica una
_vanità_; condanna l'amore della gloria e se ne strugge per tutta la
vita. (Finzi, o. c.).

"Dopo che ha lavorato a martello con lungo amore d'artista le sue
liriche più belle, egli le condanna come opera risibile e riprovevole,
e apparentemente se ne vergogna; ma non per questo le distrugge; anzi
con carezzevole e pertinace sollecitudine fin presso ai sessant'anni
seguita a pur correggerle e perfezionarle. Innalza al cielo i suoi
Colonnesi e poi, come appare Cola di Rienzo, piglia tale una caldana
patriottica, da gridar quasi il _crucifige_ contro i magnificati
benefattori d'un tempo. In prosa e in verso si lasciò andare a facili
rampogne contro i tiranni; ma alle prime blandizie mutava tono e si
profondeva in adulazioni, che oltrepassavano certamente i termini di
quella relativa necessità che le circostanze potevano portare.

"Certamente anche la sua professione d'infelicità sente dell'esagerato.
Il dire che fin dall'infanzia la sua vita fu un ordito di travagli,
di lagrime, di gemiti, com'egli fa in un'epistola poetica; il dire
che quand'egli è posseduto dalla sua indefinibile _acedia_ si trova
come piombato nelle tenebre dell'inferno e soffre la più crudele delle
morti, come fa nel _Secreto_, parrebbe soverchio anche per uno che non
avesse avuto tanta prosperità di fortuna come il Petrarca.

"Si direbbe che la contraddizione è la forma perpetua del suo sentire
e del suo operare. Quando si procura un'agiatezza, un piccolo piacere,
sia pur l'innocente soddisfazione di una comoda casetta o di un modesto
giardinetto, un'ombra lugubre gli attraversa la mente: è il pensiero
della brevità e inanità delle cose umane. Quando si trova a deliziarsi
dei più magnifici spettacoli della natura, gli sorge nell'animo una
dolorosa tetraggine di asceta. Se il calore del temperamento gli fa
scordare nell'ebrezza del senso l'austerità canonicale, a sterile
ammonimento di sè stesso ne tiene misterioso e lamentoso ricordo nelle
pagine d'un libro appassionato".


_Erotismo eccessivo_. — "Nè è da passare sotto silenzio una serie di
memorie registrate sopra una pergamena contenente le lettere d'Abelardo
ed Eloisa, a cui il poeta fece delle "note assai curiose". Eccone
un saggio, senza però le sigle convenzionali, che non si possono
riprodurre a stampa:

  1344 Aprilis 21 mer.
  nocte proxima.
  Jouis, prox. nocte.
  Junii 8º... nocte.
  Mercurii, prox. nocte.
  Jouis, prox. nocte.
  Domini. prox. nocte, 13 Junii.
  Martis, prox. nocte.
  Domini. 20 Junii. nocte.
  Martis, 22 nocte.
  Veneris, 25 nocte.
  Junii 7° Mercurii, nocte.
  Jouis proxima nocte.
  Heu. 1348 Hon. pu... plurima, sed que in
  ca... exci... patuerint h.
  Maii 30. Veneris. die (heu, heu
  Junii 8. Domini. Penthecoste. die.
  Martis. prox. Junii 10. die.
  Jouis. prox. 12 Junii. die.
  Domini. prox. 15 Junii. die.
  Domini. prox. 22 Junii. die.
  Mercurii. prox. 25 Junii. nocte.
  Veneris. prox. 27 Junii. nocte
  Lune. prox. 30 Junii nocte.
  Domini. prox. 6 Julii. die
  Domini. Prox. 13 Julii. die, ecc.".

Il Finzi non può spiegare queste note che come registrazioni di
imprese... erotiche evidentemente poco sentimentali.


_Influenza meteorica_. — Quanta fosse l'influenza meteorica sopra
i movimenti del suo spirito "s'intravvede, scrive Finzi, sol che ci
riduciamo alla memoria quante volte nell'epistolario egli si fermi a
descrivere uragani ed acquazzoni."

"Così è anche della primavera, e particolarmente dell'aprile, rispetto
alle circostanze più interessanti della sua vita di poeta. Non dirò
nulla di quel che si connette col _Canzoniere_, per ricordare soltanto
quel _venerdì santo_ che girovagando per i colli di Valchiusa,
concepisce l'idea dell'_Affrica_, e quell'altro giorno _d'aprile_ che
girovagando per i colli di Selvapiana si sente inspirato a riprendere
il poema interrotto. Laura veduta e perduta nel medesimo giorno;
l'_Affrica_ incominciata e ripresa quasi nelle medesime circostanze
di natura e di tempo! Sarà stata proprio una combinazione di fatti
reali, o piuttosto una particolare simpatia di date e di stagioni? Par
difficile credere che in ciò non sia un che di suggestivo; comunque, il
fatto sta che da quando egli lascia Bologna nel 1326 a quando riceve
nel 51 la visita del Boccaccio (ed egli dice che fu _il 6 aprile_) a
quando fa nel '73 il suo testamento, il mese d'aprile è quello che
ritorna più frequentemente nel complesso delle sue memorie"; come
insieme al Maggio, Giugno e Luglio vedemmo il mese che corrisponde al
maggiore numero delle creazioni geniali (V. mio Uomo di Genio, VI ed.).


_Vanità_. — "Senza dubbio la debolezza francamente confessata di
volersi dare a credere più giovane che non fosse, di guastarsi la
fronte a furia di scottature per arricciarsi i capelli, di storpiarsi
i piedi per portare calzari stretti, di nascondere, aggiungo io, il
difetto del piede zoppo rivelatoci dal Canestrini dopo 500 anni, ci
mostrerebbe un animo assai pieghevole alla vanità, anzi alle piccole
vanità. Quando poi si leggono nell'epistolario gli accenni ch'egli
fa, tra il modesto ed il pretensioso, agli elogi ed onori che gii
vengono tributati; quando esprime talvolta con ingenuità e talvolta con
sicumera il desiderio di essere conosciuto e lodato, e il sentimento
del proprio merito, anzi della propria grandezza, si direbbe che anche
la vanità, la grande vanità, entri per qualche poco nell'indole sua.
Nè si dette pensiero di dissimularla. Fu ingenuità o inconsapevolezza?
Quando si ricorda quella curiosa letterina da lui indirizzata a
Francesco dei Santi Apostoli circa il tardato arrivo del vescovo
Acciaiuoli, c'è da pensare all'inconsapevole vanità dell'orgoglio
esagerato.

"Con che sprezzatura egli affetta di non invidiare a Dante il plauso
dei tavernieri e dei lanaiuoli, egli corteggiato ed ammirato dai
principi e dalle dame! In quell'espressione è tutta la vanità, tutto
il piccolo orgoglio dell'anima sua, troppo debole, troppo malata perchè
potesse concepire un forte odio. Non è anomalia psichica ancor questa?"
si chiede l'egregio biografo.


_Poca affettività_. — "Era affezionato agli estranei, ma assai poco
ai suoi. Che facesse del figliuol suo Giovanni, richiamato da Verona,
non si sa; ma contento di lui non era, giacchè appunto in quell'anno
'57 al suo Guido Settimo scriveva amare parole sulla riluttanza del
giovane alle fatiche dello studio; lo mandò poi ad Avignone, e di là
il suo Lelio gli riscriveva lodandosene di molto "per il pudore, la
modestia e la promettente indole giovanile". Egli poi lo richiamò; e
nel '59 Giovanni doveva essere a Milano, se del furto che patì in sua
casa mentre villeggiava a Linterno, il padre suo potè incolpare lui
appunto, scacciandolo di casa e lasciandone poco edificante ricordo
alla posterità. Anche nei momenti che lo rimpiange morto, non mostra
alcun affetto, così:

"Il mio Giovanni, nato a mio _peso e dolore_, e che vivendo mi diede
gravi e continui fastidi, e morendo mi recò aspro cordoglio, dopo aver
veduti in sua vita pochi giorni felici, morì nell'età di anni 24".
Così registrò il suo lutto il poeta. Con l'amico Simonide si lagnò
poi ch'egli morisse proprio quando "accennava a diventar migliore",
e scrivendo a Guglielmo da Pastrengo, lodava Iddio d'essere stato
"_liberato da un lungo travaglio, non senza grave dolore_".

"Forse neanche alla figliuola Francesca, che almeno dal 1353 in poi
egli tenne a convivere seco e che poi accasò con un amico, fu benevolo,
se il marito, affettuoso, nell'epitaffio che le fece scolpire sulla
tomba, e che tuttavia si legge nei chiostri inferiori del duomo di
Treviso, dove essa morì, potè alludere, con un riserbo che pur non
dissimula interamente l'amarezza, all'equivoca sua nascita e alle poche
consolazioni della sua esistenza. "Non so, vi dichiara ella stessa,
se io fui più fedele al marito, o _sottomessa al padre_, o ignara di
esterna felicità. In vario modo la mia sorte mi perseguitò negli anni
giovanili; qui è per me quiete duratura, qui _certa domus_...".


_Epilessia psichica_. — Il Finzi non trova prova chiara dell'epilessia
psichica, ma io ne vedo nella sua stessa monografia. Cacciatosi dentro
alla storia romana, che designava di scrivere, almeno da Romolo a
Tito, gli si ravvivò nell'animo l'antica predilezione per Scipione
Africano, a tale che narra egli stesso come il venerdì santo del
'39, passeggiando a sollazzo per i monti, concepisse l'idea di un
poema per celebrarne le gesta. E ci si mise con tanto ardore e con sì
ostinata intensità d'applicazione _da trovarsi presto rifinito dalla
fatica_; la qual cosa vedendo il suo amico vescovo di Cavaillon, si
fece promettere da lui che avrebbe aderito a un suo desiderio. Egli
promise, e l'altro: "Dammi le chiavi del tuo armadio". Il Petrarca, un
po' sorpreso, le dette, e il vescovo, raccattati libri e carte e quanto
serviva a scrivere, rinchiuse tutto nell'armadio, dicendo: "Ti do dieci
giorni di vacanza, durante i quali mi devi promettere di non leggere nè
scrivere". E se n'andò. Il poeta da quell'ozio forzato ebbe men riposo
che pena. _Quel giorno gli parve un anno_; la mattina seguente si destò
con un gran _mal di capo_, che l'oppresse tutto il dì; _il giorno dipoi
s'alzò coi brividi_ della febbre; onde l'amico, saputa la cosa, vedendo
che il rimedio era peggiore del male, gli riportò le chiavi, ed egli
risanò, e si rimise al lavoro con "_tanto impeto e sì fervido estro_",
che in pochi mesi condusse molto innanzi il poema.

Ma più la vedo da queste pagine in cui è chiaro lo _status epilepticus_
prolungato più giorni.

"... Intorno alla metà d'aprile si mise finalmente in viaggio per
Roma; ma giunto a Ferrara fu colpito da una _sincope, che lo tenne per
trent'ore_ come morto. Gli furono intorno _i medici con energici rimedi
per farlo riavere, ed egli non se n'accorse_, e come riprese i sensi,
si trovò ospitato dai signori di quella città, che lo circondarono di
cure sollecite. Corse novamente la fama della sua morte; e gli amici
di Padova e Venezia se ne commossero; onde lo risalutarono poi con
assai gioia mista a grande stupore quando, giacente sopra una barca,
lo videro ritornare dopo che, per la prostrazione delle forze, egli
dovette comprendere che non era più in grado di proseguire il viaggio
per Roma." Poiché se fosse stato quello un colpo apoplettico, avrebbe
lasciato dietro se la paralisi ecc.


_Genialità_. — Eppure con tante anomalie era un vero genio, od almeno
uno di quegli ingegni sommi che raggiungono il _maximum_ del livello
dei loro contemporanei, e qualche volta lo sùperano. "Con molta
indipendenza di spirito, egli, uomo di chiesa, seguì una direzione
intellettuale e si formò una cultura essenzialmente laica, in un tempo
che anche i laici ricevevano dalla Chiesa gli elementi del sapere e
l'indirizzo del pensiero.

"Con larghezza di vedute e forza d'intuizione nuove e mirabili egli
abbracciò, il primo, l'antichità classica in tutto il suo insieme,
e volle rifarsene l'anima. Dall'alto della sua dottrina classica
egli sentì un acre dispregio per tutto quello che costituiva il
fondo del pensiero medioevale, mortificato in tanta ristrettezza di
nozioni e fallacia di postulati. Tradizioni e leggende, pregiudizi
e superstizioni si trovano, fin dalla sua giovinezza, fuori del
circolo delle sue idee. Quel che era il fondamento della cultura e le
condizioni del sapere al suo tempo egli ebbe in aborrimento, cosicchè,
filosofo, sdegnò la scolastica; asceta, la teologia; uomo di mondo e
spirito utilitario, la giurisprudenza. Con la mente libera dal rigido
convenzionalismo proprio degli studi dell'età sua, egli esplorò con
baldanza d'uomo nuovo tutte le regioni del sapere antico, e in presso
che tutte s'industriò di esercitare o di provare almeno le proprie
forze. Epico e lirico, bucolico e drammaturgo, storico e geografo,
moralista e politico, polemista ed oratore, disegnatore e musico,
adoratore della sapienza e dell'arte, egli preluse a quell'università
di intelletto ed a quella signorile genialità, che poi furono un
privilegio del secolo di Leonardo e dell'Alberti.

"Mentre i contemporanei esalavano il nativo sentimento dell'arte
innalzando con trepido entusiasmo le volte aeree delle loro cattedrali,
il Petrarca, con un gusto che doveva parere barbaro, cercava e ammirava
i monumenti dell'antichità. Dilettante di musica, altra nota di
modernità, ne raccomandava lo studio ai giovani e i principi esortava a
diffonderne il culto, mostrandone la civile efficacia" (Finzi).


Ho tracciato questa monografia sulla falsariga di un egregio letterato
estraneo, se non avverso alla mia scola — perchè sia più sicuro il
lettore sull'imparzialità della conclusione, che è completamente
conforme a quella che essa darebbe.



PASCAL[34]



CAPITOLO I.

Eredità.


Della famiglia di Pascal si conoscono solo: il padre, un po'
superstizioso, e credente nelle streghe; una sorella, Gilberta,
impressionabile, suggestionabile, che divenne devota a 26 anni, e morì
di morte subitanea a 67; un'altra sorella, la Jacqueline, che ebbe un
certo ritardo di sviluppo fisico, sicchè dimostrava sette anni a nove,
ed otto a tredici, ed a quindici anni giocava ancora con la bambola;
in essa il Binet-Sanglé[35] riscontra ragionamenti falsi, emotività
eccessiva, grandissima suggestionabilità. "Sotto all'influenza
famigliare, anch'essa divenne bigotta"; verso i ventiquattro anni si
sottomise ad una tale astinenza, da perdere le forze e da giungere
al punto di non poter più digerire la razione normale di cibo; sì
grande era la sua emotività che le persecuzioni contro Port-Royal e il
consenso accordato dai Giansenisti alla firma d'un formolario contrario
alla sua fede, la immersero in una tristezza "alla quale" scriveva
"io sento bene che dovrò soccombere, se io non avrò la _consolazione_
di vedere _almeno_ qualcuno rendersi volontariamente vittima della
verità".

V. Cousin, che nota l'analogia della sua con la vita di Pascal,
racconta pure che a tredici anni ella benediceva al vaiuolo, il quale,
deturpandole il volto, la rendeva più degna di Dio. E sì che, — come
nota argutamente la Gilberta, — essa aveva lo spirito abbastanza
sviluppato per amare la bellezza, ed essere dolente d'averla perduta!

Ma anche in lei la mania religiosa predominava, non solo a danno
dell'arte a cui si era così precocemente dedicata, ma anche degli
affetti. Tanto che — scrive il Cousin, — "essa, giovane, spiritosa,
ricercatissima, abbandonò tutto, _anche il suo vecchio padre e il suo
fratello ammalato, per darsi a Dio_".

E con tutto ciò il vigore della sua intelligenza, ben altro che
femminile, non si mostrò punto diminuito, come dimostra la sua
attitudine nelle lotte religiose del suo tempo.


_Rami collaterali_. — La base ereditaria della religiosità morbosa
dei Pascal è anche confermata dallo studio dei rami collaterali e
discendenti. Oltre alla Jacqueline Pascal, tutta la famiglia Périer (da
Gilberta Pascal maritata Périer) vi fu singolarmente predisposta.

Infatti, Margherita Périer, figlia della Gilberte, scriveva: "Tutti
i miei parenti ed i miei fratelli sono morti nel servizio di Dio...
e il mio terzo fratello, Blaise, era diacono; la sua vita e la sua
morte furono delle più edificanti.... La mia sorella Jacqueline...
voleva farsi monaca; ma fu obbligata ad uscire da Port-Royal per ordine
del Re.... Ella visse sempre molto distaccata dal mondo... era d'un
carattere molto serio ed anche strano, comechè non volesse vedere
alcuno e passasse tutto il suo tempo nelle preghiere."



CAPITOLO II.

Pascal.


Con tanti sprazzi ereditari, Pascal, già fino dal primo anno di vita
presentò numerose forme psicopatiche, specie, fobie; non poteva, p.
es., veder l'acqua nè parecchie persone riunite dinnanzi a sè, senza
gridare e dibattersi violentemente; ebbe, a due anni, un accesso "di
morte apparente, in cui non aveva più nè voce, nè polso, nè conoscenza,
e durante il quale la sua temperatura era molto bassa". E quattro
settimane dopo, quelle fobie erano scomparse. Si constatò in lui una
persistenza prolungata della fontanella anteriore fino ai tardi anni.
Verso i dodici anni diede segno della sua straordinaria intelligenza,
e a quindici era d'un'attività intellettuale straordinaria; ma
appunto pel troppo lavoro, pel _surmenage_, incomincia allora in lui
a manifestarsi un deterioramento nella salute fisica e psichica. —
E d'allora, scrive il Binet-Sanglé, ci possiamo immaginare Blaise
Pascal come lo ritroveremo sei anni più tardi, debole, insonne e
triste. A 23 anni, sotto l'influenza di due Giansenisti, incomincia
a diventar bigotto; a 24, in seguito ad eccessive fatiche, ha una
grande prostrazione, una paraplegia incompleta, una cefalgia continua,
esofagismo, sudori notturni ed insonnia. Fra alternative di lavoro e di
ossessioni religiose, tocca i 30 anni. A quest'epoca, non riceve più
che gente religiosa, passa tutto il suo tempo nella preghiera e nella
lettura della Sacra Scrittura, di cui impara a memoria intere pagine,
si dà alle mortificazioni della carne; si fissa, p. es., una razione di
cibo, che non sorpasserà mai, per quanto abbia appetito, e che mangia
anche quando ne prova disgusto; porta addosso una cintura di ferro
guernita di punte, che si fa penetrare nella pelle a colpi di gomito
quando prova qualche piacere.

A 31 anno, dopochè, passando un ponte, fu per cadere nell'acqua,
restando la vettura sospesa sull'abisso, fu preso da un'allucinazione
terrifica per cui vedeva al lato destro un abisso, sicchè faceva
mettere una sedia da quel lato per rassicurarsi; allucinazione a cui
alludeva in una strana pergamena od amuleto che faceva ricucire nei
suoi abiti, e che riproduciamo, per dimostrare come portasse e nella
forma e nel contenuto l'incoerenza del pazzo.

                                   ✠

                         _"L'an de grace 1654,
        Lundi, 23 novembre, pour de saint Clèment pape et Martyr
                                         etacches au martyrologe.
             Veille de Saint Crysostome, martyr et autres,
          Depuis environ dix heures et demi eudu soir, jusques
                        Environ minuit, et demi_

                                  FEU

             _Dieu d'Abraham, Dieu d'Isaac, Dieu de Jacobe,
                  Non des Philosophes et des savants,
               Certitude Certitude, sentiment, Joie, Pàix
                          Dieu de Jèsus-Crist
                       Deum meum et Deum vestrum,
                        "Ton Dieu sera mon Dieu
                 Oubli du monde et de tout hormis Dieu.
     Il ne se trouve que par les voies enseignèes dans l'Evangile,
                       Grandeur des l'ame humaine
      "Pere juste, le monde ne l'a pas connu, mais je, l'ai connu,
                    Joie, Joie, Joie pleurs de joie.
                          Je m'en suis séparè.
                   Deliquerunt me fontem aquae vivae
                      Mon Dieu, me quitterez-vous?
               Que je n'en sois pa séparè éternellement,
   "Cette sol la vie, vie eternelle, qu'ils le connaissens seul vrai
              Dieu, et celui que tu as envoyè Jesus Crist
                              Jesus-Crist
                              Jesus-Crist
         Je m'en suis sèparè, je l'ai fui, renoncè, crucifiè._

                                  FEU

                    _Que je n'en sois jamais separè.
    Il ne se conserve que par les voies enseignèes dans l'Evangile.
                      Renonciation totale et douce
           Soumission totale à Jesus-Crist et a mon Directeur
      Eternellement en Joie pour un jour d'exsercice sur la terre
                 Non obliviscar sermones tuos. Amen."_

                                   ✠

L'amuleto ha del paranoico la ripetizione continua delle stesse
frasi: Feu; _Joie, Joie, Joie, pleurs de joie. Certitude, Certitude,
Sentiment, Joie, Paix_; le rime; le due croci che sono in capo ed
in fondo all'amuleto; le maiuscole fuor di posto, e il contenuto
assolutamente delirante, in cui predominano il rimorso, l'autoaccusa,
il delirio di indegnità e la dissociazione del demente.

L'affettività è diventata in lui così ottusa, — come il Binet Sangle ci
nota, — che, apprendendo la morte della sorella Jacqueline, che prima
era la persona da lui più amata, disse semplicemente: "Dio ci faccia
la grazia di morire altrettanto bene", e "Beati coloro che muoiono nel
Signore". Del resto già un po' prima la sorella Gilberta aveva notato
il raffreddarsi in lui degli affetti famigliari, fino a respingere le
cure delle sorelle e a sdegnarsi o scandalezzarsi per le carezze che
i bimbi facevano a queste e fin all'odio di sè medesimi; infatti il
Pascal giunge a scrivere: "La vera ed unica virtù è quella di odiar sè
stessi". E insieme anche l'odio vero per gli scettici, gli eretici, e
gli atei. Anche la sua carità verso i poveri è più una manifestazione
delle sue idee religiose, che di sentimenti altruistici. Il sentimento
che domina in lui è la paura. I suoi _Pensées_, quando hanno per
oggetto le cose scientifiche, sono semplici e chiari, penetranti;
quando hanno per oggetto cose religiose, sono oscuri, contorti,
superficiali ed anche stravaganti[36]. Alcuni sono assolutamente
_vesanici_, come: "La grazia non è che la rappresentazione della
gloria, perchè essa non è l'ultimo fine. Ella fu raffigurata dalla
legge e rappresenta essa stessa la gloria, ma essa ne è la figura, o il
principio o la causa". Finalmente, un frammento dei Pensèes, porta come
l'amuleto, gli stupidi disegni simbolici dei paranoici.

                                  J.C.
                                   |
                                   |
                          Paiens — O — Mahomet

Anche le sue manifestazioni geniali sono prettamente morbose. A
35 anni, per esempio, in una notte in cui soffriva d'insonnia e di
odontalgia, risolve il problema della cicloide e subito l'odontalgia
cessa bruscamente per non ritornare.

E notiamo che il modo con cui questa risoluzione avvenne, descritto
mirabilmente dalla Gilberta Pascal, è assolutamente quello di un
accesso d'epilessia psichica. Il Pascal non pensava allora alla
scienza, che odiava in omaggio alle sue ossessioni religiose; ma quella
notte, d'un tratto, gli passano alla mente l'una dopo l'altra le idee,
si associano tumultuariamente e "gli discoprono _suo malgrado_" —
osserva la Gilberta, — la risoluzione del problema della cicloide, ed
egli non vuol fermarcisi sopra e soltanto per le pressioni dei suoi pii
consiglieri si decide a scriverlo e a pubblicarlo.

Coll'esame grafologico dei suoi _Pensieri_ si vedono parole
dimenticate, linee montanti e poi discendenti, scrittura irregolare,
senza punteggiatura.

A 39 anni, morì fra vive sofferenze di colica, insonnia, vertigine
seguite di un male di capo straordinario e da convulsioni.

All'autopsia si trovò sangue coagulato nei ventricoli cerebrali; sutura
frontale metopica ricoperta da una callosità od ostefita che fosse.



FRANC. DOMENICO GUERRAZZI[37]



CAPITOLO I.

Eredità.


In Donato, nonno di Francesco Domenico, cominciano a intravvedersi
alcuni dei caratteri degenerativi che troveremo esagerati nel grande
scrittore: il nipote nota in lui _indole inquieta_, delirio di
grandezza e delirio melanconico, accompagnato da abulia e aggravato
dall'erpete e dall'alcoolismo; tutti caratteri che si ritrovano poi,
tranne quest'ultimo, largamente svolti nei suoi discendenti; la sua
famiglia abitava in campagna, ma Donato non seppe sopportare la vita
troppo quieta; lasciò la famiglia e il paese ed andò soldato con gli
spagnuoli, spintovi anche da una grande ambizione e orgoglio; egli
credeva, — scrive il Guerrazzi, — di ritornare almeno maresciallo;
tornò invece povero e ferito a Livorno. Vergognandosi di mostrarsi
in quello stato là donde erasi dipartito con tanta iattanza, qui si
stanziò. Roso dal tedio, condusse _tardi_ in moglie una del popolo. Le
nozze furono a lungo sterili; ma quando egli, _già vecchio_, "dopo una
vita a sè e ad altrui fastidiosa morì d'erpete, di vino e di cruccio",
lasciava incinta la moglie.

Così il padre di Francesco Domenico nasceva da un uomo vecchio e,
verosimilmente di età affatto sproporzionata a quella della moglie
che lo aveva inoltre generato in condizioni fisiche e psichiche
tutt'altro che buone, il che, come dimostra Marro, doveva favorirne
la degenerazione e la tendenza alla follia. Dal padre, inoltre,
egli ereditava la melanconia (_infermità di famiglia_, la chiama
più volte il Guerrazzi), accompagnata anche in lui, almeno negli
ultimi anni, da gravissima abulia, e dall'orgoglio (_malattia che
si è resa fidecommissaria in famiglia_) e l'erpete che, coadiuvato
dai dolori morali, contribuì a rendere sempre più acuto il delirio
melanconico. Se questo si manifestasse fin dai primi anni, o solo
in età matura, non possiamo sapere con certezza: le notizie delle
Note autobiografiche sono in ciò alquanto discordi da quelle delle
Memorie al Mazzini. Nelle prime scrive il Guerrazzi: "Da giovane,
sostenuto dalla naturale gagliardia dell'età, si accostò agli esempi
materni, _la quale_ (sic) fu donna buona, operosa e d'animo oltre il
suo stato gentile; avanzando negli anni prevalse in lui la indolenza,
il cruccio, la misantropia del padre; io mi ricordo che una volta
durò bene otto mesi senza parlare.... La moglie e i dolori sofferti a
cagione dei figli gl'incrudirono il sangue per modo, che l'erpete gli
guastò tutto il corpo; le infermità fisiche tornando, come sogliono,
ad agir sopra lo spirito, terminarono di guastare una delle più belle
indoli che uscirono di mano alla natura. Io lo conobbi liberalissimo
del suo, poi diventò avaro; l'ho veduto animoso, e in processo di
tempo tutto sconfortato; operoso, gagliardo, quindi languido, inerte
passare giorni e giorni in letto senza voglia di nulla". Nella memoria
al Mazzini, invece, quella che qui è data come malattia dell'età
avanzata, si riferisce anche agli anni più giovani, prima che cause
esterne intervenissero a determinarne lo sviluppo. "Fin dai primi anni
mio padre si mostrò taciturno e mesto, malinconia che di mano in mano
crebbe in cupezza; costumò tenere stanza appartata dalla famiglia e
quivi stette solo intere giornate; silenzioso durò con noi perfino un
mese, e i nostri pranzi spesso si assomigliavano a quelli dei cenobiti.
Solo che il padre mio sollevasse le ciglia, ogni giovanile gaiezza
vedevi andare in bando". Per altro, sia che si accolga la versione
delle memorie, sia quella delle note autobiografiche, l'eredità paterna
si manifesta chiaramente per questo riguardo in Francesco Donato.

In lui inoltre si dimostra una grande tendenza p. es. al classicismo
e a quella impulsività che nel figlio poi chiaramente sale all'accesso
epilettico.

Ai figli "quasi ad ogni istante rampognava: Pompeo avrebbe fatto in
tale e in tale altra maniera". Della virtù romanamente severa era
così fervido seguace, che non volle per il figlio accettare l'eredità
di una ricca zia, per quanto pregatone insistentemente: "perchè,
disse, ho letto una volta che ricchezza fa ignoranza, ignoranza fa
prosunzione, prosunzione ozio, ozio miseria". Quando accompagnò il
figlio all'Università, se ne partì senza baci e senza lacrime, chè
siffatte cose non sapeva neppure dove stessero di casa. La mania della
virtus romana e l'impulsività si rivelano del pari nel fatto, narrato
così nelle note come nelle memorie, delle percosse al figlio ferito;
colpito da un grosso sasso sul capo in una rissa, Francesco Domenico,
che era allora ragazzo, sbigottito dal colpo e dal sangue che in
copia si versava su per la faccia, corse a casa lamentandosi: Il padre
vedutolo e senza punto informarsi della ferita, invece di soccorrerlo,
lo percosse sulla parte della testa rimasta sana, dicendogli: _Quando
si temono ferite, non si va alla guerra_.

Ma contemporaneamente a questi caratteri patologici si sviluppa in lui
una genialità che, a tenersi alle affermazioni del figlio, parrebbe
non comune. La madre non potè fargli insegnar altro che il leggere e
lo scrivere; ma egli, _dotato naturalmente d'ingegno_, e aiutato dallo
scultore Corneille e dal pittore Fabre, studiò disegno e divenne nella
scultura in legno "assai valente e senza dubbio il primo artista di
Livorno", secondo dice il figlio.

Intorno alla madre nulla aveva scritto Francesco Domenico nelle memorie
al Mazzini. Ma già nelle Memorie del Giusti ella era detta "una madre
indiavolata, che accarezzava i figliuoli cogli urli e con le percosse.
Una volta a lui (Francesco Domenico) che le era scappato di tra le
mani, scaraventò dalla finestra un ferro da stirare del quale serba
tutt'ora la cicatrice". Il Giusti è, per le cose guerrazziane, un
testimone un po' sospetto; ma che questo giudizio non fosse punto
esagerato vengono ora a dimostrare le note autobiografiche, ricche di
indicazioni sul carattere della Teresa Ramponi.

"A me duole, — dice il Guerrazzi, — di non potere scrivere di mia
madre quel bene che avrei desiderato; certo carità sarebbe che per me
s'imitasse Jafet piuttosto che Cam, e lo farei _se il carattere di lei
non avesse troppo influito sulla mia vita_". Egli dice di non averla
potuta amare, solo aver potuto impedirsi di odiarla. "Ella nacque di
sangue siciliano: d'imaginazione caldissima, furiosa, feroce, ardita,
qualche volta sublime; non so se abbia fatto più male ai suoi figliuoli
nei suoi furori, o nei suoi amori, ma certo ne ha recato moltissimo
in ambi due i casi". Nelle sue ire si mostrava in lei una mania
bestemmiatrice, che si rinnoverà poi in uno dei figli, Temistocle:
— "_Prenderei Cristo per la barba_!" era la sua frase prediletta,
allorchè l'agitava la rabbia". Furiosa in tutto, anche nelle faccende
domestiche impiegava la stessa furia: "alzata col giorno, smuoveva
e riponeva ogni cosa; si moltiplicava nell'opera; non tenne serve
mai, prima perchè nessuna la contentava, poi perchè nessuna voleva
rimanere con lei; lavare, stirare, cucinare, insomma fare tutto quanto
abbisogna ad una numerosa famiglia; attingere ogni tre giorni l'acqua
per i bagni, ogni cosa eseguiva con una specie di rabbia, tempestando,
urlando, irritandosi contro le cose inanimate quando alcuna le si
parava dinnanzi, e perfino mordendole.... Fu vendicativa oltre misura:
usava sempre dire: _Cane non mi morse mai che che io non volli del
suo pelo_. Proterva, contumeliosa, più pronta di mani, che di parole:
persecutrice insistente, all'improvviso amorevole; forse in casa aveva
in quel punto o maledetto o percosso un suo figliuolo, se uscendo ne
udiva parlarne meno che bene, era donna da strozzare nè più nè meno il
maldicente: nella contrada la temevano tutti e la chiamavano il gallo".

Queste parole, — osserva il Guastalla, — che il Guerrazzi scrive contro
sua madre, sono gravi, gravissime, ma sono ugualmente meritate? Ed
egli qui riferisce un'affettuosa lettera da lei diretta a Francesco
Domenico, per mostrare come questa donna non fu in tutto e per tutto
quale viene descritta. Ora si osservi: Anzi tutto il Guerrazzi non dice
che sua madre non amasse i figli; ma li amava in un modo suo speciale,
che non poteva riuscire se non ad alienarsene l'animo: "non so se abbia
fatto più male ai suoi figliuoli coi suoi furori o nei suoi amori, ma
certo ne ha recato moltissimo in ambedue i casi". Da questa lettera,
che il Guastalla riporta, non traspare la solita furia che, al dir
del figlio, in ogni cosa la dominava; ma è naturale che in una persona
poco meno che analfabeta, costretta a scrivere con estrema lentezza,
senza per ciò salvarsi dai più grossolani errori, l'impeto della
passione animatrice non possa trasfondersi nelle espressioni scritte.
L'indole impetuosa, impulsiva, apparrà piena ed intera nelle lettere
di chi, come Francesco Domenico o suo fratello Temistocle, scrive così
velocemente quasi come pensa, non in quelle di chi, con grande stento,
riesce a metter insieme le lettere per compor le sillabe e le sillabe
per compor le parole; nelle prime si ha la rapida e pronta espressione
del pensiero spontaneo, nelle seconde il frutto faticato del pensiero
riflesso. D'altra parte, se pure nelle parole di Francesco Domenico
fossevi qualche esagerazione, non per ciò potremmo con minor sicurezza
conchiudere che la violenza e l'impulsività furono il carattere
fondamentale dell'indole sua sino a produrre vere manifestazioni di
epilessia psichica. Lo prova ad esuberanza un fatto in queste note
raccontato: "Circa questo tempo (quando il figlio era sui 14 anni)
accadde che, possedendo io un bello stile, ella lo prese per nettare
certe erbe; increscendomi vederlo guastare in un uso pel quale ella
aveva in pronto i coltelli a ciò destinati, dolcemente le dissi di
posarlo: sia che male intendesse, o qualche cruccio a me ignoto la
turbasse, tolta fuori di sè da cieca ira me lo scagliò contro; io
balzai da terra con un salto, sicchè il ferro mi aggiunse la coscia
sinistra e squarciando le carni vi rimase confitto; dove non avessi
spiccato quel salto mi percuoteva nel fianco e certo con quella forza
con la quale venne lanciato mi traforava le viscere. Il sangue sgorgò
copioso dalla ferita, ed io senza aprir bocca guardava il sangue, e
poi.... Ella si spaventò, e subito mutata mi si fece addosso piangendo,
ed estrasse lo stile, e siccome continuava a piangere, e mi lasciava
perdere il sangue, la pregai con fermo sembiante a portarmi acqua
tepida etc..."


Da questa unione di un lipemaniaco con una impulsiva epilettoide
nascevano cinque figli: Riccarda, Giovanni Gualberto, Francesco
Domenico, Temistocle e Giorgio. Sulla prima ha il Guerrazzi queste
parole di colore oscuro: "la sorella era oppressa dalla sciagura
e meritata; parola dura ma giusta", dalle quali non è difficile il
dedurre che non dovette essere d'indole onesta. Giovanni Gualberto
fu "uomo buono, però di sensi poco alti: nelle cose meccaniche
valentissimo, nelle intellettuali anzi grosso che no"; da lui nasce
Francesco Michele, di cui il Guerrazzi fu poi tutore e nel quale, come
l'epistolario del Guerrazzi attesta, torna a manifestarsi in grado
acuto l'_indole inquieta_ (morbosa tendenza ambulatoria) del nonno
Donato. Questa è pure caratteristica di Giorgio: "Io mi chiudo gli
occhi sul futuro di questo giovane (dice il Guerrazzi); in così poca
età egli ha sviluppato inclinazioni perniciosissime: ozioso, inquieto,
a quanti mestieri si applicava di subito gli riuscivano fastidiosi; ha
già viaggiato per l'Egitto, poi lo prese talento di navigare e se ne
andò fino al Brasile; quivi mercè le cure di un mio amico ottenne certo
impiego nella marina dello Stato, ma quando stava per dirigersi alla
volta del mare del Sud, non gli andò a grado il travaglioso mestiere;
e se ne tornò a casa". È a dolersi che, per essere rimaste incompiute
le note, il Guerrazzi non abbia potuto tenere la promessa di dire più a
lungo di questi fratelli: solo di Temistocle, il quarto, egli parla un
poco più distesamente, ed altre notizie intorno a lui il Mandolfo potè
ricavare da sue lettere inedite e dall'incartamento di un suo processo.

L'indole di Temistocle si presenta per molti riguardi simile a
quella di Francesco Domenico, il quale già osservava che la causa dei
frequenti loro bisticci era non già differenza, ma piuttosto soverchia
uguaglianza di carattere: ambedue impetuosi, ambedue ostinati, ambedue
orgogliosi, ambedue tormentati dalla melanconia. "Giovane d'ingegno
quasi smisurato" lo dice il fratello; e sebbene dalle opere che di lui
si conservano questo genio straordinario non appaia, conviene tener
conto dell'asserzione del fratello che la scultura mal si confaceva
con il suo animo orgoglioso e i suoi scarsi mezzi. "Quella sua indole
energica inasprita dalle vicende contrarie si esala in continuo
ruggito; diventa increscioso a sè e ad altrui; vivergli appresso
è cosa piena di gravezza.... Di mani pronte, gagliardo e di cuore
generosissimo. Una volta è tornato a casa senza calzoni per averne
coperto un miserabile assiderato".

L'indole impetuosa, che si intuisce dal ritratto che il Guastalla
ne pubblica, con l'aria inspirata e i capelli al vento, si rivela
anche nelle sue lettere, nelle quali torna a mostrarsi quella mania
bestemmiatrice che già vedemmo propria di sua madre. Queste lettere
provano anche all'evidenza come sian giuste le parole, che su lui
scrive il fratello: "Quella sua indole inasprita dalle vicende si esala
in continuo ruggito". "Io pensava, scrisse in una lettera al fratello,
Giovedì essere in viaggio per Livorno; se tu vuoi mi tratterrò...
ma non per andare dal Sovrano, perchè promessi a me nell'ora della
disperazione che non sarei andato mai da un Sovrano, altro che a
ricever degli onori. Caro fratello, compatiscimi; di' pure che faccio
il mio danno; ma promessi a me e, vedi bene, che passerei da uomo
debole con me stesso. È inutile, non vi anderò; _lo giuro urlando
ancora adesso_".[38] La rigidità nell'osservare le promesse fatte a
se stesso è un insegnamento paterno, il cui effetto si vedrà anche
in Francesco Domenico, per il quale ogni proponimento fatto, sia pure
il più assurdo, diventa decreto fatale. Ciò almeno in teoria, perchè
nella pratica non sempre riesce loro di salvarsi dalle contraddizioni,
nè a Temistocle vale giurarvi — _urlando_ — che la promessa fatta a sè
stesso va mantenuta. In una lettera posteriore infatti egli consente
anche a recarsi dal Sovrano; ma l'ira scoppia ed erompe dalla sua
lettera, sfogandosi in bestemmie per la costrizione che sopra sè
stesso deve esercitare. "Io spero di finire il mio san Giovanni fra
breve tempo; consigliami se lo debbo presentare al Sovrano. Un senso
segreto e voce di potente natura mi fa arrossire al pensarne; pure il
bisogno e la speranza mi strascinerebbero, Dio infame! a chiedere a
un uomo.... Pure chiederei; ma credimi, l'evento non sarà che il mio
avvilimento." La lotta contro le avversità, il contrasto fra l'orgoglio
intimo che pretenderebbe gl'inchini dei sovrani, e la realtà della
vita che ai sovrani lo costringe ad inchinarsi, induce in lui l'odio
della vita e l'amore al suicidio, che pare comune all'intera famiglia,
sia nel ramo degli ascendenti diretti (padre e nonno lipemaniaci)
sia nei rami collaterali dei consanguinei, in uno dei quali, Pietro,
assume le forme di una vera e propria monomania suicida. Al fratello,
che gli aveva narrato di un suicidio, egli scrive: "Non mi accenni il
nome di quel giovane che si è ucciso; sebbene non meni a nulla amerei
saperlo: io amo il suicida, lo stimo e piango a calde lacrime alla
memoria di quello che seppe liberarsi da tutto. Io non spero nulla,
e quando il mio sperare conseguir si dovesse per disperar di te e
di altri pochi a me cari, ci rinunzio, per il core di Dio. Speriamo,
forse nel corso della nostra vita avremo un momento che ci consolerà;
ma quale... la morte!...". Non so se per usarli eventualmente contro
sè stesso o contro altri egli chiedeva in altra lettera al fratello
che gli portasse "quei certi pugnali, che ritiene tuttora il vecchio
Guerrazzi". Nell'interrogatorio subito il 31 luglio 1832, chiestagli
spiegazione di questa frase, egli mostra un'amnesia completa, simulata
certamente, e attribuisce quelle espressioni, che dice non sapersi
neppur egli spiegare, a mente smarrita ed alterata. "Se dovessi dirgli
il perchè rammentassi quei pugnali che diceva ritenere il vecchio
Guerrazzi, io non potrei davvero, perchè non so che nessun della mia
famiglia abbia mai ritenuto armi di nessuna specie, e sicuramente poi
non mi son pervenute nè per parte di mio fratello nè di altri armi
di sorta, per cui ne deduco che quelle espressioni fossero l'effetto
di mente smarrita ed alterata...". In questo medesimo interrogatorio
gli chiedono conto di altre gravi alterazioni del senso morale,
che dalle sue lettere appaiono: la mania bestemmiatrice, l'amore al
suicidio, il consiglio che dà al fratello di rubare se ne ha bisogno;
e di tutte egli si giustifica coll'attribuirle a mente alterata:
"Dettogli che l'empie espressioni contro la divinità le quali passo
passo s'incontrano nelle citate di lui lettere, le ripetute proteste
di amare il suicida e di essere pronto a togliersi la vita quando non
potesse altrimenti soffrirne le avversità, ed il consiglio che dà
al fratello di rubare liberamente qualora ingenti strettezze ve lo
richiamino, provare chiaramente le sue massime corrotte, ed il suo
carattere immorale affatto e irreligioso — R.: Le massime che io ho
emesse in queste lettere non sono al certo quelle che ho, e ben si
conosce dal contesto delle lettere stesse che sono scritte da un uomo
di mente alterata." — Ora questa alterazione di mente che egli recava
a sua discolpa, senza probabilmente crederla realmente esistente, non
può essere messa in dubbio da chi ne studi oggettivamente il carattere
e le manifestazioni. Con la differenza che dove egli invocava a sua
difesa un'alterazione mentale momentanea, e prodotta dalle avversità
del momento, noi ritroviamo anomalie permanenti prodotte da cause solo
in parte esterne, ma sopratutto congenite, ereditarie. Temistocle è,
tra i fratelli del Guerrazzi, quello che più a lui si avvicina nello
eccesso così della genialità come della degenerazione; e la somiglianza
dell'indole loro meglio apparrà quando, esposti i caratteri personali
più notevoli di Francesco Domenico, sarà più agevole ed evidente
il confronto. Chiude la rassegna dei congiunti del Guerrazzi — il
Pietro, tipico esempio di lipemaniaco, con delirio ipocondriaco, —
di disperazione — fors'anche di persecuzione, con forme larvate di
epilessia, impulsività, assenze e allucinazioni, e con acuta mania
suicida. Di lui parla il Guerrazzi nelle Memorie al Mazzini: "Pietro
Guerrazzi mio congiunto, nelle scienze fisiche peritissimo, roso
dalla domestica malinconia, preso dal tedio degli uomini, venne in
pensiero di uccidersi. Ruggiva vedendo la codardia, la inerzia, e
la bassezza dell'uomo degradato dalla diuturna servitù...; da prima
l'anima sua si dispose allo scherno, poi al disprezzo, e finalmente al
tedio invincibile della vita...; prese a curare poco la persona, ad
assottigliare il cibo onde ne apparve squallido e macilento; sempre
solo, iracondo, e spesso avviluppato in cupo silenzio, talvolta
prorompente in focosissime filippiche contro il genere umano. Allora
gli occhi suoi mandavano faville, e il labbro, tumido e acceso,
gli tremolava convulso. Alle gravi ammonizioni del padre mio non
rispondeva; si empiva la bocca di carta e la masticava come un cavallo
impaziente rode il freno." Se il vecchio Guerrazzi gli parlava del
dolore che avrebbe recato alla famiglia, si commoveva, ma senza
recedere dal fatale proponimento ed esclamava affannosamente: Dio mio
che cosa ho da fare? La mia esistenza mi pesa.... Spesso io lo sorpresi
seduto col mento giù declinato sul petto, le gambe stese, le braccia
penzoloni; le tempie e le guance incavate e con gli occhi più lustri
del vetro guardare intensissimo qualche cosa che certamente non era
in questo mondo. Se battendogli leggermente sopra la spalla taluno si
avvisava domandargli come stesse, sorgeva dispettoso e quinci partivasi
senza profferire parola". Saputo che aveva comprato due pistole e
le teneva cariche in tasca, il padre di Francesco Domenico cercò
d'indurlo a desistere dai suoi pensieri di suicidio; non riuscendogli,
gli chiese che volesse restar in vita ancora un anno. All'altro parve
troppo e offerse un mese; allora, quasi si trattasse della scadenza di
una cambiale, cominciarono a contrattare e alla fine si concordarono
per due mesi. Allo spirar di questi, chiamato in disparte il vecchio
Guerrazzi, gli disse: "Domani sono libero." A gran fatica potè
strappargli un altro mese.

Quando si uccise, Francesco Domenico era a confino; Carlo Bini
nell'annunziargli il fatto così gli scriveva: "Tre giorni prima che
morisse io lo trovai lungo una strada così tramutato nel sembiante
e negli atti, che provai fatica a conoscerlo, e passava ratto e
sospettoso come l'uomo perseguitato. Gli dimandai come stesse, ed egli
mi strinse la mano e mi guardò di traverso, e quasi fuggì fremendo come
una belva. La più parte del mondo, che non può comprendere il sublime,
e la necessità di un'azione che non sa, o non deve fare, diè nome di
pazzo al povero giovane." In una lettera del marzo '59 al Carletti, il
Guerrazzi racconta come suo cugino Pietro, "sdegnato della viltà del
tempo, si fracassava la testa di una pistolettata, sollecitava lui con
lettera scritta poco prima di morire, a imitarlo."



CAPITOLO II.

F. D. Guerrazzi.


Da tutto ci risulta evidente quanto l'eredità morbosa predomina nella
famiglia del Guerrazzi: lipemania, alterazioni del tono sentimentale,
della volontà, del senso morale, delirio orgoglioso, e in genere,
tendenza alle monomanie, indole inquieta, violenza e impulsività,
epilessia psichica etc. sono tutti caratteri patologici che in
Francesco Domenico si ripetono e si svolgono contemporaneamente alla
genialità.

Ma prima di cominciare a parlare di Francesco Domenico, conviene
avvertire non doversi accettare a occhi chiusi le testimonianze di lui:
preoccupato sempre di ingigantire la propria figura (come vedremo poi,
parlando della sua mania di grandezza), egli esagera, in tutto ciò
che a lui si riferiva, le proporzioni e le tinte, giungendo spesso a
falsare del tutto la verità. Premesso ciò, e riservandoci di vagliare
caso per caso le sue affermazioni, quando alla realtà delle cose ci
risultino non conformi, passiamo a considerare in lui lo svolgimento
dei caratteri patologici.


_Precocità_. — La precocità nel Guerrazzi si manifesta così per
riguardo all'ingegno come per riguardo alla melanconia, alla
misantropia, al misticismo, all'impulsività, all'orgoglio. Le Note
autobiografiche contengono per questo lato attestazioni interessanti,
per quanto, secondo il solito, non del tutto accettabili.

Le anomalie psichiche sono nel loro svolgersi favorite, oltre che dalla
naturale predisposizione, dall'orgoglio. Nel Guerrazzi fanciullo noi
abbiamo un impasto di un fondo sdegnoso e superbo che dalla compagnia
dei coetanei rifugge, desideroso e orgoglioso quasi della solitudine,
e di un'alternarsi di impulsi generosi che lo spingono a soccorrer
gli altri, e di impulsi criminali che l'aizzano ad associarsi, nel
vagabondaggio, nelle sassaiole e perfino nelle coltellate, a quella
ragazzaglia che la forzata incuria dei genitori e la condizione
sociale caccian per le vie a impararvi il vizio e il delitto[39]. E
là asserisce di esser sempre stato pronto a battersi in difesa dei
compagni e a far loro i compiti di scuola (e in ciò forse aveva parte
anche il bisogno della rissa e l'orgoglio), ma confessa d'altra parte
di essersi sempre allontanato dai comuni ritrovi perchè _nessuno lo
aveva invitato, nessuno lo cercava_; così restava solo, "e questo,
dice, talora mi piaceva, talora mi angustiava; la superbia m'impediva
di accostarmi a loro, e non pertanto mi travagliava nel trovarmi
così solo." Quindi dal naturale orgoglio è favorito lo sviluppo della
misantropia e della melanconia; "il mio carattere si fece concentrato,
cupo, e a undici anni il dolore mi aveva svelato cose, che altri non
pensa a venti." Allontanandosi dai lieti giochi fanciulleschi se ne
andava solo a passeggiare per i boschi, e al cimitero, dandosi in balìa
alle meditazioni più tetre e più contrarie alla sua età, immaginando
orrendi assassinî nel cupo del bosco, che poi riprodurrà nei suoi
romanzi (v. s.) o meditando sulle miserie della vita e sulla morte; e
da queste meditazioni, che in lui dimostrano una morbosa precocità e
uno straordinario sviluppo del misticismo, usciva poi fuori un poema,
_La Società_, scritto pur esso in età giovanissima[40].

Certamente la melanconia, che egli chiama malattia di famiglia,
cominciò a manifestarsi di per sè stessa e indipendentemente da ogni
circostanza esteriore, essendo in lui congenita. Ma il suo aggravarsi
fu favorito dall'orgoglio, che più tardi degenera in vero delirio di
grandezza, e dal quale, come poi vedremo, si sviluppa anche, vero o
finto che sia, il delirio di persecuzione, per un procedimento affatto
inverso a quello descritto dal Roncoroni a proposito del Tasso (v. o.
c.).

La precoce misantropia e melanconia del Guerrazzi è attestata anche
dal Giusti: "Svegliato di ingegno, profittò nelle scuole tanto che
andò a Pisa non so come, e là si distinse per una certa cupezza di
vita, aliena dalle gaiezze che portano quell'età e quel tempo. Della
precocità dell'ingegno, qui pure attestata dal Giusti, e confermataci
da quanto sopra si è detto intorno alle meditazioni della sua
fanciullezza, e dal poema _La Società_, un'altra prova troviamo nelle
Note autobiografiche: "A 14 anni il padre si determinava inviarmi alla
Università di Pisa; a ciò lo mossero i conforti di D. Bartolomeo e di
altri familiari di casa, i quali non cessavano dal ripetergli ch'io era
un mostro, un portento d'ingegno."


_Cause: debolezza congenita, malattie, dolori morali, soverchio lavoro
intellettuale_. — Le cause della nevrosi nel Guerrazzi si possono
distinguere in congenite ed acquisite, fisiologiche e parafisiologiche.
Esse sono: l'eredità e la debolezza congenita, le malattie, i dolori
morali e il soverchio lavoro intellettuale (Mondolfo o. c.).

La debolezza si manifesta con anomalie delle funzioni sessuali,
digestive e vasomotorie (intolleranza agli alcoolici): "io, di stomaco
debole, non ebbi mai vaghezza di cibi diversi da quelli imbanditi
su la mensa domestica, e se talora me ne venne talento, il dolore mi
costringeva a tornare alla solita sobrietà; io, di sangue acre, non
potei senza danno usare liquori; io, debole creatura, dovei rinunziare
e tuttavia devo a buona parte dei piaceri sensuali". "Anche me vinse il
reo costume (del piacere sensuale), non però tanto che mi danneggiasse
il corpo, imperciocchè la immaginazione prostrava le mie forze già per
natura fievoli, sicchè mi convenne stare più temperato di quello che
non volessi."

Su questo terreno, già predisposto alla nevrosi, vengono a fecondare
il mal seme, le malattie, i dolori morali e il soverchio lavoro. Va
qui notata un'intima connessione tra le malattie, da cui il Guerrazzi
fu afflitto, e i dolori morali, che sempre in lui ne provocarono la
ricaduta[41].

I dolori morali cominciarono ad esercitare la loro azione depressiva
sul Guerrazzi fin dalla tenera età: "Quali sono le dolcezze dello
infante? — egli scrive nel 1844 al Capponi: — Quelle che derivano
dalla madre.... Ah io non le ho avute; io porto nella coscia sinistra
una profonda cicatrice di ferita fattami da.... Mi trema la mano a
scriverlo. — Dello adolescente? Gli amici io li ho sepolti tutti e
qualcheduno prima di morire ferì questo mio cuore superbo, geloso,
amante, ma irritabilissimo; — insomma fa' conto di vedere in me
un fiore annacquato con l'acqua forte. Poi le ingratitudini dei
beneficati, e le disoneste persecuzioni degli invidiosi e le delusioni
politiche, la guerra del Governo, gli astii del foro etc.".

Molti, e forse la maggior parte, di questi dolori ritrovavano in lui
stesso, nella sua indole, la loro causa; ma non perciò meno fortemente
cooperarono ad inasprirgli l'anima e il corpo.

Anche il soverchio lavoro intellettuale contribuì di buon'ora allo
sviluppo delle sue anomalie psichiche. Nelle Memorie al Mazzini egli
racconta come, avendogli il padre donata una cassa di libri (romanzi,
poemi, opere storiche e filosofiche), egli tutto avidamente si diede
alla lettura, alzandosi perfino la notte per leggere, tanto che infine
"si posero a molinarmi in testa un ballo infernale: Bacone, il gran
cancelliere, teneva per la mano messer Ludovico Ariosto, il Frate
Passavanti veniva dietro a Voltaire: nei moti veloci la gonnella
bianca della Radcliffe si mescolava con la toga rossa del presidente
di Montesquieu: _stetti_, aggiunge, _per acquistarne una infiammazione
cerebrale_".

E più oltre: a Pisa "leggeva da mattina a sera; mi chiusi fino quindici
interi giorni in casa fingendomi ammalato per istudiare." Questa
medesima foga con la quale si era rivolto alla lettura, impiega negli
scritti, il cui numero veramente grande (romanzi, lettere, opere
letterarie, politiche etc., alcune anche voluminose, scritte in pochi
giorni — si cfr. ad es. la lettera del luglio 59 al Mangini) attesta
della sua straordinaria attività, che tanto più appar maggiore, quando
si pensi che gran parte delle sue lettere è ancora inedita, e che al
tempo stesso che rivolgeva le sue cure alla letteratura, si occupava
anche febbrilmente delle faccende forensi.


_Esaurimento_. — Ora questo soverchio lavoro mentale, efficacemente
aiutato nella sua opera devastatrice dalle afflizioni morali, dalle
lunghe prigionie e dalle malattie (sopra tutto dall'epilessia), doveva
finire per produrre in lui l'esaurimento. La fatica della imaginazione
era in lui così intensa, che riusciva a prostrare tutte le sue forze:
"Per me non conosco fatica, che tanto vaglia a prostrarmi quanto la
imaginazione di un qualche concetto; mi riesce di osservare una intera
giornata; immaginare nè anche un'ora senza che il capo mi dolga, e
le pulsazioni accelerate delle arterie mi scompiglian tutto.... La
immaginazione si assomiglia alla febbre e spesso ne assume tutti i
caratteri." (Note autobiogr.). L'esaurimento cresce coll'avanzar negli
anni: A Niccolò Puccini (febb. 47 da Livorno): "Io ho scritto, scrivo e
scriverò, come la cicala canta e canterà finchè non iscoppi; ma a che
pro'? A nulla. Basta: _Ardendo mi consumo_, e questo è il meglio. Io,
come Dio vuole, sento aver poco più tempo di vita, perchè intemperante
e ingordo mi sono mangiato a un pasto il viatico d'intelligenza e di
cuore che la natura dà all'uomo perchè gli basti per tutta la vita.
Meglio così."

Al Bertani da Firenze (dic. 49): "Ti ripeto che ho cessato di scrivere:
così doveva essere: la mente e la mano stanche cadono sopra le pagine."

Alla Colonna (genn. 52): "A scrivere duro immensa fatica."

Al Bertagni (febbr. 53): "Le scrivo senza saper che sono per dirle:
non sono afflitto; questo verrà più tardi: ora mi sento stupidito, mi
pare aver ricevuto una percossa sul capo, che m'abbia tolto perfino la
facoltà di pensare."

Al Cadetti nel dic. 55: "Mi sento men destro"; — e nel maggio 56: "la
mente comincia a infiacchire, poca messe può trarsi da un cervello
spossato."

Al Mancini nel dic. 57: "Mi affatico, mi stordisco... mi sento stracco,
rifinito"; — e nel luglio 59: "Mi sono affaticato troppo, ed ora tra
fatica e dolore giaccio infermo in letto".


_Delirio melanconico_. — Ma assai prima dell'esaurimento si infervorava
in lui il delirio melanconico ereditario; tolgo dalle Memorie al
Mazzini: "Rimasto solo (all'Università di Pisa), m'invase l'umor nero,
infermità di famiglia...;" e più oltre: "Somma dell'Università di
Pisa: fastidio degli uomini e della vita, tristezza crescente". Da una
lettera, ivi riportata, direttagli dal Rini: "Come vivi, Francesco? Ti
rode sempre quell'ansia misteriosa di cui non seppi, e non osai mai
penetrare la causa? E ti cavalca sempre lo spirito un diavolo nero,
onde così per tempo s'inaridisce la giovanezza dell'anima tua?" E
ancora: "A me il destino disse: soffri, combatti e muori.... ormai già
in questa vita io non aspetto più".

Di questo delirio melanconico e di disperazione, attestato
anche dal Giusti, prove ed espressioni continue ritroviamo anche
nell'epistolario: Al Puccini da Montecatini (1844): "Valgami presso
voi di scusa il sentirmi io di pessima voglia. Io sono venuto ai Bagni
irrugginito dall'umore nero..."; — e in altra lettera: "Quest'anno
io non voleva movermi, presago di sinistri che ho la disgrazia di
indovinare."

Da Livorno (aprile 48): "Mi canzonate della predica: non mi canzonate.
_Cave canem_; scherzo ed ho la morte nel cuore."

Nel gennaio 49: "Anima mea contristata est valde (questa frase ricorre
in numerosissime lettere con notevole frequenza)."

Al Bertani (marzo 50): "Non mi dilungo più, perchè mi domina l'umore
nero, e non vorrei trasmettertelo..."; — e in altra lettera: "io sono
accostumato a nutrirmi di veleno a guisa di Mitridate."

Al Mangini (50-51): "Io anzichè lagnarmi desidero che questi segni di
distruzione spesseggiassero e portassero il loro fine."

Al Puccini (agosto 51): "So che questo stroppio ti è caduto addosso
per farmi servizio.... la disgrazia non mi si concentra dentro, ma si
spande su le persone che mi amano."

Al Chiarini: "Mi sfogo arrampicandomi per pendici, per vedere, non
fosse altro, se sdrucciolando mi fiaccassi il collo."


_Misticismo_. — In alcuni dei passi sopra riferiti si nota, oltre
al delirio melanconico, anche un certo misticismo, che lo spinge a
credere sè stesso preso di mira da maligni influssi emananti quasi
da un occulto potere. Mondolfo (o. c.) crede troppo sincera questa
fede; ma certo al misticismo egli era naturalmente inclinato e fin
dall'infanzia amava darglisi in balìa; credeva ai cattivi augurî,
alle predestinazioni, alle iettature etc., e se ne credeva a sua volta
colpito.

Ricordisi il fatto, narrato nelle Note, di quel suo amico che volle
entrare in una bara, e pregato da lui ad uscirne, perchè era cosa di
cattivo augurio, lo derise: un mese dopo era morto. E meditinsi questi
passi delle lettere: Al Puccini (febb. 46): "Voi mi mandate un mazzo
di fiori. I fiori vengono guasti, sfrondati e fracidi; e va bene. E
non sapete voi che una benedizione diretta a me a mezza via diventa
una maledizione? Che cosa m'importa? Quasi ho piacere di provare sopra
di me fin dove possa giungere il caso o la intelligenza maligna per
contristare un'anima o un corpo sensitivo."

Al Bertani (maggio 50): "Domani ti narrerò una cosa sorprendente che
mi è stata fissa tutta la notte nel capo." E il 3 giugno: "Ecco quanto
voleva dirti... Tutti i popoli hanno creduto alle apparizioni e per
conseguenza ai presagi.... Se ti dovessi annoverare gli uomini illustri
che pur vi crederono, io non così per tempo verrei alla fine del
novero.... Ogni famiglia in Lamagna ha un genio particolare."

"Poesie! Fole da romanzi! No.... Dicono che una larva governa i destini
degli Hohenzollern. Nella notte del 10 aprile la larva comparve...
l'avventura fu narrata nel 17 maggio nel Dèbats.... E nel 22 maggio
ecco l'assassino Stofflege tirare una pistolettata al re di Prussia.
Non ti pare evento da fare impressione? E a Mozart non fu in pari modo
presagito il suo fine? Questo voleva dirti, niente più, e aggiungerti
che, tradotto in questo albergo di facinorosi, ladri, assassini (le
Murate di Firenze), quando volgendo da ogni parte lo sguardo mirai
le cime dei cipressi disegnarsi nel cielo, sentii il presagio e lo
accolsi. E la bara dei ladri avrà pure il mio corpo, e a Trespiano
ignorata sepoltura. E fisso, lo sento qui."


_Allucinazioni_. — Non sono infrequenti, in chi è dominato dai deliri
e dal misticismo, le allucinazioni: ora ne ebbe il Guerrazzi? Se si sta
alle sue parole, parrebbe di sì almeno le ipnagogiche.

Dopo il suicidio del cugino Pietro "quel volto, egli narra, mi dura
fitto nella mente così che spesso io lo _veggo_; nelle vigili notti mi
si asside a _pie' del letto_, e seco lui mi trattengo e ragiono."


_Delirio di grandezza e di persecuzione_. — Guerrazzi è sempre
preoccupato dalla mania di apparire un uomo straordinario, così nel
bene come nel male, così nella potenza come nell'infelicità, così
nell'ingegno come nell'odio degli uomini. Il delirio di grandezza lo
domina in tutto e per tutto, lo spinge a ingigantire nei suoi scritti
la propria figura fino a falsarla in certi lati completamente: la
magniloquenza nelle espressioni, la esagerazione nelle similitudini,
la falsità spesso nella esposizione dei fatti sono caratteristiche ogni
qualvolta egli parla di sè o dei suoi (Mondolfo o. c.).

Già nelle note autobiografiche egli confessava "una certa ostentazione
al magnifico alla quale con molta compiacenza propenderebbe la mia
natura"; e riguardo alle stesse note vedemmo com'egli esageri la sua
precocità, dando a credere, con una frase ambigua, di aver composto a
12 anni quel poema che non potè scrivere prima dei 16-18. Questa stessa
tendenza lo spingeva, nelle Memorie al Mazzini, a far di suo padre un
romano antico, o, quel che è più strano, in un democratico, a vantare
continuamente e illustrare nelle note e nelle memorie i suoi quarti di
nobiltà.

Ma dove sopra tutto spicca il delirio di grandezza è nella smania di
apparire un grande perseguitato dalla sorte e dagli uomini. Certamente
la sua vita non fu seminata di rose, e lungo il cammino più di una
volta i suoi piedi ebbero a sentire la puntura avvelenata dell'odio: ma
egli di queste sventure, di questi dolori quasi si compiace, perchè gli
giovano a esaltare la sua figura, e per meglio riuscire nel suo intento
cerca esagerare le sue ammarezze, cerca farle apparire inaudite,
superiori a quanto l'esperienza universale possa attestare, a quanto
mente possa immaginare. La persecuzione della sorte e l'odio degli
uomini si appunta e si accanisce su di lui per il suo ingegno, che
d'ogni intorno gli procura l'isolamento e l'invidia feroce.

Al Poli da Portoferraio scrive nel nov. 33: "Tra tutte le superiorità
quella che gli uomini perdonano meno è l'ingegno....

    Non vo' perciò che ai tuoi nemici invidie
    posciachè s'infutura la tua vita
    via più là che il punir di lor perfidie....

cantava Dante sventurato e ramingo; ma datemi la speranza di un
sepolcro in S. Croce, e soffrirò volentieri infortuni un milione di
volte più miserabili dei suoi."

Al fratello Temistocle (apr. 43): "I miei amici! Io non ho amici; io ho
gente che mi odia, ho gente che ha bisogno di me, ma nessuno mi ama."

Al Guigoni nel 48: "Ho la vita minacciata di minuto in minuto da due
giorni a questa parte."

Al Mangini nel 50:... "Lasciare ai miei persecutori il legato che si
meritano, _sanguine sitisti, et hic est sanguis_."

Al Massei (luglio 53): "Il corpo già scosso da urti nuovi e perigliosi,
a tanta dimostrazione di odio (la condanna) temo non regga. Sia fatta
la volontà di Dio, e se devo essere il martire della restaurazione,
anche a questo sono preparato. Già poco più rimane ai miei nemici per
conseguire lo intento."

La persecuzione scorgeva, o fingeva scorgere anche nei fatti nei
quali, evidentemente, non entrava affatto. Una volta, nel cimitero
di Livorno, trovò sfregiata la lapide del padre: che sia disgrazia o
altro egli non pensa; devono essere i suoi nemici. "Ma che cosa ho mai
fatto di scellerato onde mi abbiano a turbare le ossa dei miei morti
per arrecarmi oltraggio? A tanto d'indegnità arriva l'astio brutale
che calpesta ogni senso di religione sopra i morti, e co' morti hanno
voluto i miei nemici trafiggermi il cuore!"

Ed ecco un esempio della magniloquenza con cui parla delle sue sventure.

Nella Apologia si paragona a Focione; ma pretende superarlo d'assai
nei patimenti, perchè Focione con la morte li terminò ed egli sente
da due anni il sepolcro e nonostante vive. Con peggiore esagerazione
nelle Note autobiografiche: "Questa è la terza volta che tutti gli
affanni della morte mi assalgono; se ciò mi viene dalla fama d'ingegno,
oh! come caro comprata!... Cristo ebbe un'ora di passione, Cristo
bevve un solo calice d'amarezza, per me i calici e le ore sommano a
mille.... E Cristo, il quale era pur Dio, supplicava che la bevanda
fosse allontanata, ed io devo trangugiarne più di lui.... Contemplo il
destino... e mi consolo con quella antica sentenza: che l'uomo giusto
indegnamente oppresso, è spettacolo degno degli Dei."

E dopo ciò parmi inutile spender parole a dimostrare come la origine
del delirio di persecuzione nel Guerrazzi debba principalmente
ricercarsi nel delirio di grandezza.


_Bizzarrie_. — Né solo di questi deliri troviamo tracce chiare; ma,
come già in suo padre, anche una grande tendenza alle idee fisse, come
egli confessa. "Che cosa significarono gli antichi" scrive nel gennaio
50 "con lo avvoltoio di Prometeo? Il pensiero molesto"; e nell'ottobbre
49: "il Tasso se non era pazzo quando fu messo in S. Anna, diventò tale
col tempo. Guai al pensiero non divertito! diventa una lama che taglia
il fodero"; e nello stesso tempo al Bertani: "_I miei pensieri in me
dormir non ponno_."

Ricordo, come esempio curioso, tra le sue bizzarrie quella di non voler
essere chiamato avvocato nè chiarissimo (come l'olio di Lucca, egli
dice): se dovessi qui riferire tutti i passi delle sue lettere, nei
quali prega i suoi amici di risparmiargli questi titoli, occorrerebbe
più che una pagina.

Un'altra nota bizzarra, dovuta in gran parte alla sua qualità di
livornese, era l'odio per gli ebrei, contro i quali da ragazzo andava
a far sassaiole e lotte a coltello. Una volta un ebreo gli tagliò la
corda di un aquilone, facendoglielo andar a male. Ond'egli: "Ebreo,
giudeo, da quel giorno scorsero molti anni, di fanciulli siamo
diventati uomini. Ma io ti ho notato, ti ho sempre tenuto dietro, e
guardati, ch'io non ti aggiunga, perchè le tue orecchie devono farmi
ragione dell'offesa." Quest'odio giunge fino al ridicolo, tanto che
da Bastia, avendo ricevuto campioni di penne, scrive addolorandosi per
avere trovate buone quelle fabbricate dall'ebreo Corcos.

L'ostinazione nelle proprie idee egli attribuisce parte all'eredità,
parte all'educazione paterna: "Di famiglia tiro al cocciuto, scrive
al Mongini, e credo sia utile trovarmi così." E nelle Memorie al
Mazzini narra che avendolo il padre abituato rigido osservatore dei
proponimenti fatti, che son parole date a se stesso, imaginato un
disegno "dichiaro a me stesso: così ho fermo e così farò. Allora il
fine diventa fatale, _aut Caesar aut nihil_; o toccare il fondo o
restare per la strada; indietro mai". E a conferma, racconta che una
volta, d'inverno, gli venne in testa d'andar a vedere un convento
in fondo a una valle. Cominciò la neve, il cavallo sdrucciolava, e
scendeva la sera buia e fredda. "Una voce dentro mi sussurrava: È me'
che tu ritorni, — quando hai deliberato andare, nessuno ti ha udito,
e la tua parola non ti lega con anima viva. All'opposto un'altra voce
rispondeva: oh! tu sei nessuno? Tu v'eri e basta". Lasciò il cavallo
da un contadino; e a piedi, tremando pel freddo, aiutandosi con mani e
piedi, giunse infine al convento, ove si pose a leggere le iscrizioni.
"Il guardiano penso mi giudicasse alienato di mente". Poi a gran fatica
tornò a notte fatta dal contadino e rimontò in sella. Il cavallo avendo
il freno male acconciato, si imbizzarriva; era buio pesto e la strada
pericolosissima; non ostante volle proseguire e infine giunse a casa
dove nessuno l'aspettava.


_Impulsività e contraddizioni_. — Se non che, per un contrasto che
può parere, ma non è, strano, accanto a questa ostinazione nelle
proprie idee, ritroviamo in lui quella mobilità ed esplosività del
carattere così frequente negli epilettici[42] e che lo trascina alle
contraddizioni più strane. Basti ricordare le pagine che nelle _Note
autobiografiche_ dedica al Mayer e ai suoi istituti d'infanzia, non di
un uomo in cui sembra vi parli, ma di un santo, di un angelo: "angelo
di pazienza, nuovo Pietro Eremita della sua santa missione, tesoro
inesauribile di affetti, etc." sono espressioni che tolgo qua e là a
caso. E conchiude: "Onore al Mayer! i tuoi amici ti salutano angelo di
amore, e pregano Dio a voler sopportare che per lunghi anni ne rimanga
vedovo il cielo".

Più tardi invece, in note mss. alla Apologia e nei Nuovi Tartufi,
il Mayer diventa un vile, un ipocrita, che egli si vanta di avere
svergognato arringando il popolo, quando, sulla piazza di Pisa,
volevano rappattumarli; la sua santa missione degli asili d'infanzia
"istituti manchevoli, in parte crudeli, in parte cagione di mali che
volevansi evitare etc.", e perfino _postriboli_!

A questa mobilità del carattere, forse, e non unicamente a slealtà
o peggio, vanno imputati alcuni "dei fatti di cui il Giusti gli
muove acerba accusa[43], e in taluni dovette anche aver parte non
indifferente l'impulsività, grande in lui non meno che in sua madre".

Nelle Memorie al Mazzini racconta come, vedendo una volta un uomo
percuotere un ragazzo, "io, senza informarmi se fosse suo figlio, mi
avvento contro il percotitore e lo batto nel capo; costui ristette
alquanto, attonito per la meraviglia; ma di breve imbestiando nella
rabbia, mi avrebbe con un solo colpo infranto le ossa, se alcuni
dabbene cittadini non mi salvavano dal pericolo. Ho quattro ferite
sul corpo.... fra queste una profondissima.... e tutte rilevate per
la difesa delle persone, che vedeva ingiuriate e _mi sembrava_ a
torto". Questa impulsività, di cui varî esempi ci sono raccontati
anche dal Giusti, non l'abbandonò neppure nell'età avanzata: "Giorni
sono, scrive al Mangini nel luglio 59, stando a banco in un crocchio
e parlando delle cose toscane, uno che non mi conosceva disse: — E
che cosa volevate aspettarvi da cotesto paese di Stenterelli?... — Mi
sentii punto, e tanto più quanto il rimprovero capiva meritato: che
rispondessi non so, so che mi sfidarono a duello ed io accettai: poi
amici s'interposero e quietarono la cosa. Ora ho risoluto non uscire
più di casa, perchè _frenare non mi posso_, e questi garbugli alla età
e gravità mie disdicono".


_Delirio_. — A questo medesimo periodo di tempo si riferiscono i patiti
deliri — come dalla lettera alla contessa Cotenna, del luglio 54:
"Delirio continuo manifestato talora con iscrosci di riso, tal altra
con ruggiti, e qualche volta ancora con gemiti di agonia".

Anche il sonno non era più regolare in lui, e più che una volta nelle
lettere lamenta le sue insonnie. (Cfr. lettere al Puccini del 44, al
Bertani del dec. 50 etc.).


_Nevrosi. — Epilessia_. — Tutte queste manifestazioni anormali che
siamo venuti enumerando ed altre ancora, meno gravi ed importanti,
sulle quali credo inutile insistere, derivano in lui, per gran parte,
da un'unica origine: la epilessia. (Mondolfo).

Le cause della sua predisposizione ereditaria risultano evidenti:
secondo la osservazione del Krafft-Ebing, se entrambi i genitori sono
affetti da psicosi, l'eredità morbosa è più intensa: Ora qui abbiamo
oltre al nonno alcoolista, forme di epilessia larvata nella famiglia
del padre, epilessia psichica nella madre. Altre cause probabili,
non più congenite, ma acquisite: i reumi al capo, i dolori morali
di cui uno, come vedremo, fu occasione al principio degli accessi
etc. Anche i sintomi di questa predisposizione comincian presto
a manifestarsi: la precoce impulsività e criminalità (sassaiole e
coltellate con gli ebrei), la fuga a 14 anni da la casa paterna per
futile disputa, la debolezza irritabile, le frequenti cefalee, e, sopra
tutto, le fortissime emicranie oftalmiche (le quali, secondo osserva
il Roncoroni, han grande somiglianza con gli accessi epilettici, e
più tardi infatti costituiscono nel Guerrazzi i prodromi dell'aura),
l'intolleranza all'alcool, l'umore lunatico, tetro, violento,
l'ostinazione nelle proprie idee, la slealtà etc. Vertigini e assenze
si manifestano pure in età molto giovane: ricordo quelle da cui fu
colto nel Teatro anatomico di Pisa, che egli era solito frequentare,
quando una fanciulla, che stavano operando, nello spasimo del dolore
volse a caso un momento gli occhi verso lui; il deliquio in cui cadde
alla notizia, datagli dalla madre, della morte di una sua compagna
d'infanzia che dopo molti anni avea riveduta un'unica volta; le
vertigini, seguite da un sussulto nervoso che durò parecchi mesi, che
lo presero quando tra la folla vide un uomo che somigliava al cugino
Pietro suicida. (Mondolfo).

Forme più determinate di epilessia cominciano, al dir di lui, quando
muore la donna da lui amata: alla notizia cade in deliquio, cui seguono
vertigini; va a vederla, e quando la portan via, nuove vertigini e
nuovo deliquio. Tornato a casa è colto da accessi epilettici che
gli durano per tre anni: l'aura cominciava con una violentissima
emicrania oftalmica; perdeva la conoscenza, stracciando a morsi,
nella convulsione, lenzuola, camice, e mordendo perfino sè stesso.
Negl'intervalli delle convulsioni era colto, a quel ch'egli dice, da
desiderî di suicidio; anche questo evidentemente ereditario. Divenne
magro e sfinito, gli imbiancarono precocemente, poi caddero tutti i
capelli[44].

L'accesso tipico comincia durante la prigionia, nel 52: "Poche notti
sono, — scrive nell'agosto al nipote, — non so che diavolo si fosse, ma
sentii percuotermi come un gran picchio nel cervello, rimasi privo di
sensi, con la lingua stretta fra i denti e la bocca piena di sangue.
Mi trassi sangue, e ieri volli presentarmi al dibattimento; oggi non
ho potuto proseguire a cagione della lingua orribilmente lacerata".
Altri attacchi seguono pure durante la prigionia, nel 53 (cfr. lettere
al Mangini del 5 e 8 maggio, alla Cotenna del 13 giugno, all'Adami,
al Roberti, al Montanelli da Bastia, nell'ottobre); altri ancora
in Corsica (cfr. lettere all'Orsini, al Menichetti, al Giannini, al
Mangini, al Montanelli etc. del nov.) etc.


_Riflessi del carattere nello stile e nelle opere_. — Di questa sua
indole, il cui fondo patologico si basa nella epilessia, un riflesso
chiaro, evidente sono le sue opere, concepite, secondo egli stesso
dice, "sotto il flagello dell'estro che conturba le viscere e fa
tremare i nervi come fronde sbattute alla foresta; quando le arterie
delle tempie percuotono forte come se volessero rompere il cranio".

Vi è un passo nelle Memorie al Mazzini, nel quale egli, descrivendo la
sua tempra morale ed intelletuale, fa in poche parole una descrizione
e un'analisi del suo stile e delle sue opere, quale difficilmente
potrebbe darsi, così in breve, più esatta e completa: "uno impasto di
appassionato e di sarcastico, di fidente e di scettico, di dommatico e
di analitico, di pauroso e di intrepido, di lusso orientale d'imagini,
e di formole severe, di raziocinio, di esitanza e d'impeto, di
scoraggiamento e di forza convulsa, e di altre moltissime qualità non
contrarianti ma in antitesi fra loro, che hanno colorato i fantasmi
usciti dal mio cervello".

Mi si permettano ancora alcune brevi citazioni: il giudizio del Giusti
sull'_Assedio di Firenze_: "Il sarcasmo amaro e feroce, il dolore
disperato e convulso d'uno che ha perduto la fede di tutti e di tutto,
hanno dettato quel libro; va a sbalzi come il polso d'un febbricitante
e finisce per bottate rotte e scomposte. Quel libro ti dice l'uomo".
Egli stesso scrive a proposito della _Beatrice Cenci_: Al Massei da
Bastia (giugno 54): "La Cenci fu scritta in carcere tra la rabbia,
l'ira, l'ansietà, il tedio, con la febbre continua addosso, in mezzo
a tale commozione di nervi, che finì con tre colpi di epilessia". E
nel luglio: "La Cenci fu composta fra inenarrabili passioni e angosce
mortali, e, fuori di figura rettorica, qualche volta scritta con mano
agonizzante: _la mente delirava e la mia intelligenza era sbattuta fra
quel mare di affanno come un annegato_".

Del resto a chi legge qualsiasi scritto del Guerrazzi appare, pur senza
nulla sapere della sua vita, opera di uomo tutt'altro che normale,
comechè poche pagine trova in cui non si alluda ad ossa, a sangue, a
stupri, ad uccisioni, vendetta, ferocia.

Ed egli stesso ne conveniva. Nelle sue Memorie, il Giusti riferisce il
racconto fattogli una volta dal Guerrazzi, di una orrenda e selvaggia
scena di rissa a coltello fra delinquenti, suoi compagni di detenzione:
A quegli urli feroci, a quelle atroci bestemmie, fra il cozzar
dei corpi e dei ferri, il Guerrazzi diceva di aver teso avidamente
l'orecchio, ed essersene sentito inspirar l'estro. "Io, diceva, mi sono
sempre inspirato a cose terribili e orrende".



VERLAINE[45]


Come Leopardi, Manzoni e Byron, Verlaine (Verlaine intime, 1898)
discende da una famiglia patrizia; e com'essi, anch'egli ebbe una
strana precocità. A cinque anni era innamorato di una bimba di
quattro: però restando il penultimo della scuola, fino all'università.
La tendenza poetica nacque in lui alla pubertà e gli fece dettare
a imitazione del Baudelaire i _Poemes saturniens_, ma a 20 anni si
diede all'ubbriachezza comechè, diceva egli, "il vino tendeva le fibre
del suo cervello come corde di violino, sicchè le minime impressioni
sensorie facevano da archetto e ne spiccavano note fine, delicate,
pungenti"; ma più in ragione del valore fonetico che del morale,
cadendo già nell'osceno.

Innamoratosi precocemente, si ammogliò; ma tre settimane dopo, la sposa
ritenendolo un ubriaco abituale lo abbandonò.

Divenne sotto la Comune direttore dell'ufficio della stampa, e
poco dopo contrasse amicizia oscena col poeta Rimbaud, con cui si
ubbriacava, rissava e vagabondava; e quando questi volle abbandonarlo,
lo colpì con una palla al braccio: sicchè ben comprendesi com'egli
cinicamente definisse nel romanzo _Sodoma_, la sua perversione sessuale
come l'effetto di un'esaltazione intellettuale con intendimento
classico, esagerato dalle disillusioni dell'amore. Incarcerato,
passò d'un tratto alla religione più feticista: voleva confessarsi,
comunicare, ogni momento, dettava versi mistici, interrotti ogni tanto
da immagini ignobili e lubriche, come nel sonetto: _A propos d'un
saint_. E la tendenza religiosa idillica continuò per poco in casa
della madre, che era accorsa a ritirarlo dal carcere. Ma anche con
questa non durò in armonia che per un mese, trascendendo poi perfino a
vie di fatto; e ripresa la vita vagabonda, rimpiangeva come un paradiso
perduto il carcere del Belgio, e perfino l'ospedale dove dopo d'allora
veniva ogni tratto ricoverato un po' per reumi e un po' per paralisi
alcooliche, molto per miseria non avendo altro soccorso che quello
dell'editore Vannier, che male gli pagava i versi, e ch'egli colla sua
mancanza di senso morale, male a sua volta ripagava, vendendo ad altri
editori i manoscritti già cedutigli.

Nè usciva dall'ospedale che per abbandonarsi ad una vilissima
prostituta, con cui amoreggiava in gergo, e che assistè alla sua
agonia ubbriacandosi con una compagna e derubandolo degli ultimi soldi
stentatamente guadagnati come poeta mestierante.

Nè la pazzia morale e l'alcoolismo lo condussero solo alle risse
ed ai pervertimenti sessuali, ma anche alla megalomania; sicchè,
ancora sconosciuto, credeva che i suoi libri dovessero esser letti a
migliaia di copie, oppure credeva di essere un grande agricoltore, un
accademico, un deputato, un senatore.

Quest'ultimo delirio infierì sempre nella sua arte a intermittenza, e
si manifestava nei suoi scritti in cui, com'è uso dei paranoici[46],
si ritrattava tutto coperto di medaglie o con un campanello in mano con
sotto la scritta: "_Presidente del Senato_" ecc. E come nei paranoici,
tutti i suoi quaderni sono pieni a zeppo a sinistra e destra di figure
simboliche che alludono alle sue glorificazioni. E dappertutto vi
spicca quella contraddizione che offrono tutti i suoi versi e tutta
la sua vita. In 22 lettere mandate all'ultima amasia in due settimane
si passa dall'epiteto di _cherie_ a quelli di _sale put_,... nè manca
il caso che il nome dell'amante ultima sia scambiato con quello della
rivale.

A corroborare e completare le dimostrazioni della congenita
degenerazione, giova il suo ritratto, con il cranio idrocefalico,
tutto a rilevatezze e avvallamenti, le orecchie ad ansa, gli zigomi
voluminosi (V. Donos. Verlaine Intime, 1898).



SCHOPENHAUER E GOETHE



Schopenhauer.


Nè qui finisce la lista dei geni malati. Così negli studi recenti di
Möbius su Schopenhauer nuove prove troviamo da aggiungere a quelle da
me addotte nell'Uomo di Genio 13. 21. 33. 36. 93. 122, 213. 222. 253.
393. 535. 547. 615, sulla sua psicosi messa in dubbio da tanti, specie
in Germania.


_Schopenhauer_. — Scrive MÖBIUS (_Uber Schopenhauer_, Leipzig, Barth,
1899): Gli Schopenhauer derivano dall'Olanda; il nonno del filosofo,
Andrea, era un fine intenditore d'arte e si era formato una bella
collezione di quadri; egli sposò l'olandese Anna Renata Soermans, la
quale dopo la morte del marito, fu dichiarata debole di mente e posta
sotto tutela; e finì in età avanzata nella demenza. Andrea contava fra
gli zii paterni, uno imbecille, l'altro quasi pazzo, il terzo tisico;
la madre sua era coltissima scrittrice ma atrofica nel sentimento, la
sorella somigliantissima al padre.

Dei quattro suoi figli, uno, Michele Andrea, fu imbecille dalla
nascita; un altro, Carlo Gottfried, era molto eccentrico; di un terzo,
Giovanni Federico, non si hanno chiare notizie. Enrico, il primogenito
dei figli di Andrea e Anna Renata, il padre del filosofo, fu grande
e forte, con viso corto, gran bocca e mandibole sporgenti; sordastro
in buona età, era considerato da tutti come eccentrico; uomo d'onore,
però, nel miglior senso della parola, si sposò in età avanzata con
Giovanna Enrichetta Trosiener, che pure non lo amava, ma che parlò
sempre di lui con grande stima, quantunque gli riconoscesse non pochi
difetti, come eccessivo amor proprio, pedanteria, durezza nei modi.
Schopenhauer stesso scrisse aver avuto molto a soffrire, da giovane,
per le asprezze del padre.

Il Möbius fa osservare qui la singolare somiglianza tra la famiglia di
Goethe e quella di Schopenhauer; in entrambe: un uomo maturo sposa una
donna giovane piena di spirito, la quale stima suo marito, ma non lo
ama, in entrambe si osservan frutto di questo connubio un uomo di genio
ed una figliuola buona, ma anomala.

Enrico Schopenhauer era molto appassionato pei viaggi, era divenuto
negli ultimi anni irritabile e violento; a 58 anni morì in seguito ad
una caduta in un canale; nè si esclude che la caduta fosse volontaria e
che si sia trattato d'un suicidio.

La sorella del filosofo, Luisa Adele, era come il fratello, di
carattere violento ed orgoglioso, di temperamento melanconico.

La madre del filosofo, mentre ne era incinta, fu quasi continuamente
costretta a viaggi difficili per quei tempi e d'inverno molto incomodi,
per la Germania, il Belgio, la Francia e l'Inghilterra.

Schopenhauer ereditò dal padre la smania del vagabondaggio, sicchè
girava da Berlino a Napoli e viceversa continuamente. Möbius, che pure
tenta mettere in forse la realtà della sua psicosi, conviene poi che
mancava di misura, che diffidava di tutti, prendeva tutto in cattiva
parte, vedeva in tutto il lato triste, era violento, e non già per
difettosa educazione, ma per tendenza congenita, il che l'avvicina
assai al lipemaniaco; ed infatti egli stesso a Stramenstadt che gli
chiedeva, per spiegare il suo pessimismo, se avesse molto sofferto da
bimbo, rispose: essere stato sempre malinconico.

In un viaggio in Italia, nel 1819, parlava continuamente di morire e
di far testamento. Alle volte, e fin dall'età di 6 anni, per minime
cause si vedeva assalito da un'angoscia che confinava colla manìa e che
noi sappiamo ora esser la base delle fobie e delle idee fisse; infatti
spesso l'angoscia si associava ad idee ipocondriache o meglio a vere
ossessioni: a Berlino si credette per lungo tempo spacciato; a Napoli
fu assalito dalla paura del vaiuolo; a Verona credette d'aver preso
tabacco avvelenato.

A 17 anni Schopenhauer era così compreso della vanità della vita,
come se avesse già conosciuto la malattia, la vecchiaia; fin d'allora
era persuaso non aver il mondo alcun valore, e volentieri s'isolava.
L'improvvisa morte del padre, nel 1805, ne aumentò in modo la mestizia
che poco differiva da una vera melanconia; egli sfogava il suo dolore
in lettere desolate alla madre: ma non perdeva la lena dello studio.

A 27 anni (nel 1814) aveva formulato tutti i dogmi del suo sistema, a
30 anni sembra avesse già composto l'opera sua capitale: _Il mondo come
volontà e come rappresentazione_.

Il 21 marzo 1824 scriveva all'amico Osann: "Ho passato tutto l'inverno
in camera ed ho molto sofferto". Egli aveva allora un tremore alla
mano, tanto che solo con gran fatica poteva rispondere alle lettere, e
l'orecchio destro era completamente sordo.

Scorgeva pericoli anche là dove non esistevano. Di notte, ad ogni
piccolo rumore si svegliava ed afferrava la spada o la pistola,
che teneva costantemente caricata; ingrandiva all'infinito le più
piccole contrarietà, così che ogni rapporto colle persone gli riesciva
difficile: scriveva in greco, in latino ed in inglese tutto quanto si
riferiva ai suoi dolori. Faceva passare le sue carte di valore, come
_Arcana medica_, per difendersi dai ladri, e le nascondeva tra le
vecchie carte o documenti, e sotto il calamaio dello scrittoio, finendo
per dimenticarle. Non si fidò mai del rasoio del barbiere.

Temeva sempre di essere corbellato nelle sue relazioni d'affari. Per
timore dell'incendio, abitava dal 1836 al piano terreno. Tutte queste
sono prove dell'esistenza in lui di una follia del dubbio, o di _fobie_
sian pure rudimentali.

Come molti pazzi prestava fede ai sogni: nella notte del 7 settembre
1830 sognò che il padre gli appariva ad annunciargli una grave
malattia, la quale, infatti, si avverò nell'inverno.

Di più, egli ebbe quattro periodi di vera melancolia o come lo vuole
Möbius depressione psichica: nel 1805, dopo la morte del padre; nel
1813, quando scrisse la sua dissertazione; nel 1823, quando abitò
a Monaco; nel 1831-32, a Francoforte; qui però gli si aggiunse
verosimilmente una malattia somatica.

Möbius finisce per ammettere in lui l'esistenza di una forma periodica
di depressione psichica, con intervalli della durata di 7 a 10 a 17
mesi quando toccò i 25, i 35, i 43 anni, il che in lingua povera si
traduce in melomalia intermittente con fobie.

Ma nell'età matura scomparvero questi accessi, divenne allegro e la
salute migliorò molto; non sì che non gli si ridestassero molti ticchi
paranoici persecutivi e molte fobie.

Siccome i suoi libri per lungo tempo non gli fruttarono nulla, egli
opinava che i filosofi ed i critici avessero fatto contro di lui una
vera congiura di silenzio.

Mentre egli credeva di poter vivere ancora venti anni, morì
improvvisamente a 72 anni per paralisi cardiaca. Egli aveva proibito
che gli si facesse l'autopsia, e solo si conosce che l'enorme capacità
cranica — 1676 — faceva sospettare d'idrocefalia, e l'indice quasi di
trococefalia.



Goethe.


_Goethe._ — Goethe è il genio che pareva finora poter sfuggire ad
ogni sospetto di nevrosi: e ci si oppone, appunto, contro la teoria
della psicosi geniale, ma gli ultimi studi, però, vanno modificando le
opinioni in proposito.

E, prima di tutto, in quel fronte olimpico che a tutti parve il modello
più puro dell'Uomo di genio, si scoperse l'assimetria.

Sadgar, nell'articolo _Goethe era egli un fenomeno patologico_?
dimostra che la metà destra del suo frontale presentava una singolare
depressione e l'occhio destro era pure depresso.

"È uno schiaffetto che m'impresse la natura", soleva egli dire in
proposito. Ora è noto che l'assimetria facciale è uno dei caratteri più
frequenti dell'epilessia. ("_Deutsche Revue_", aprile 1899)

L'eredità morbosa si disse mancare in Goethe: però nella recente
monografia di Möbius (_Ueber das Pathologische bei Goethe_, Leipzig,
1898) si nota la poca affinità tra la madre sua, giovine e gaia, ed
il padre, maturo, accigliato; e la eredità morbosa ad ogni modo negli
affini, figli o fratelli: una sorella di Goethe aveva lineamenti
maschili: il fratello soleva dire di lei che era composta di forza e
di debolezza, di caparbietà e di arrendevolezza, che era senza fede,
senz'amore e senza speranza; e il Möbius la considera come una natura
patologica per la nessuna propensione all'amore, per le tendenze
ipocondriache, per l'esagerata sensibilità meteorica; morì in età ancor
giovane; come giovine e semi alcoolizzato, forse suicida, morì l'unico
figlio di Goethe, Augusto, essendo i tre altri figli morti nel nascere.

Nella giovinezza, Goethe ebbe idee ipocondriache, irritabilità nervosa,
stanchezza della vita, tendenza al suicidio, e per poco non divenne
alcoolico.

Una volta, prima di addormentarsi, provò ad immergersi un pugnale acuto
nel seno, ma tosto smise e ne rise..., e scrisse il _Werther_ in istato
quasi incosciente, in 4 settimane: l'alta ispirazione poetica del
_Werther_ deriva quindi dalle sue condizioni patologiche.

Ebbe, infatti, dei veri periodi di eccitamento intellettuale abnorme,
di _Zwangsdichten_ (poesia coatta), di veri _impulsi coatti alla
poesia_, com'egli li chiamava, che duravano da due in due anni, sicchè
appena svegliato, venivagli in mente un canto e correva allo scrittoio
per scriverlo. Una volta lo scricchiolìo della penna lo risvegliò dal
suo sonnambulismo poetico e non potè più scrivere che pochi versi. In
questi periodi aveva anche uno strano eccitamento sessuale; e fu allora
che cadde in amori di donne indegnissime.

Nell'età virile i momenti patologici in Goethe scemano; egli guadagnò
sia in profondità che in grandezza di pensiero e così pure in fermezza
di carattere, sebbene qualche volta soffrisse qualche ritorno alle
nevrosi di gioventù.

Così, per molto tempo non potè sopportare i forti rumori; gli ripugnava
tutto quanto avesse rapporto con malattie, e quando si trovava in alto
soffriva vertigini con ansia; era in continua ebollizione mentale,
dormiva pochissimo, abusava di alcoolici; nei momenti di collera
rompeva le stoviglie e stracciava i libri.

Ebbe gravi malattie, specie polmonari, che lo condussero più d'una
volta all'orlo della tomba; ma fu attivo fino agli ultimi istanti della
vita.

E qui ricordo con Patrizi che Goethe rappresenterebbe "un caso lieve,
ma puro, di criminalità estetico-scientifica".

"L'imperatore di Russia, narra Lewes, aveva favorito a Dobereiner, il
grande chimico, una bacchetta di platino; essa fu consegnata a Goethe,
perchè l'esaminasse, facesse gli esperimenti che più gli piacesse fare,
e la restituisse poi a Dobereiner. Goethe, di cui è nota la passione
pei minerali, la "manìa collezionista", collocò tra i suoi tesori la
sbarra di platino, e tanto si dilettò a contemplarla, che non riuscì
più a privarsene". E per quanto il chimico scrivesse per riaverla, e'
si trovò in posizione molto simile a quella del professor Büttner, che
avendo prestato a Goethe i prismi e altri strumenti d'ottica, invano
spedì lettere, perchè tornassero a casa, finchè fu costretto d'inviare
il servo coll'ingiunzione di portarli via a forza". Goethe non restituì
la sbarra[47]. È anche da sapersi che Goethe asportò dalla collezione
Knebel circa cento incisioni di Alberto Dürer per istudiarle con comodo
in casa; ma quelle incisioni Knebel non le rivide più".



TOLSTOI


Già nell'_Uomo di genio_, aveva notato che Tolstoi avesse l'aspetto
anomalo, che lo scetticismo filosofico l'aveva condotto ad uno stato
vicino alla follia del dubbio; e che a somiglianza di molti altri geni,
mancava in lui il tipo etnico, — una visita di più giorni presso di
lui mi rivelava in lui un genio ancor fresco, malgrado l'età avanzata,
ed una forza muscolare singolarissima, uno spirito di contraddizione
impulsivo e nei discendenti spruzzi di gravi nevrosi.

Ora dal primo volume delle _Memorie_ del Tolstoi recentemente
pubblicate, e che comprende l'infanzia, l'adolescenza e la giovinezza,
per quanto rivestano le spoglie di un altro, il Dr. Mariani sorprese
altri fatti non meno importanti per dimostrare in Tolstoi qualche
cosa di più[48] della semplice nevrosi del genio, ormai da tutti
ammessa, anche dai più restii. Già uno storico russo, il Waliszewski
nell'_Hèritage de Pierre le Grand_ (Paris, Plon, 1901), ci attesta
che un antenato del Tolstoi prese parte al colpo di Stato, che dopo la
morte di Pietro il Grande, portò al trono la vedova di lui Caterina I
ad assicurarsi la continuazione delle ricche prebende di cui era stato
gratificato, insieme agli altri congiurati.

Da varî passi delle _Memorie_ il padre di Tolstoi ci appare, sia nel
lato fisico che nel morale, fornito di tutte le stigmate fisiche e
psichiche che caratterizzano i degenerati, quali il _tic_ ed il difetto
nella pronunzia, l'emotività esagerata, la scarsa moralità, l'egoismo,
la ricerca istintiva e costante del piacere sotto tutte le forme, ecc.

"Le sue due grandi (vi è scritto) passioni erano il giuoco e le donne.
Egli guadagnò o perdette al giuoco, durante la sua vita, parecchi
milioni, ed amò un numero incalcolabile di donne, in tutti i ceti
sociali."

Di moralità dubbia o scarsa: "In morale aveva dei principî? Dio solo
lo sa: ma la vita era sempre stata per lui così piena di attrattive di
ogni genere, che non doveva aver avuto il tempo di formarsene. — "Tutto
ciò che gli procurava piacere e felicità era buono".

Era anche invidioso: "egli serbava rancore ai vecchi suoi compagni,
per essere giunti ad un'alta posizione sociale, mentre egli era
rimasto luogotenente in ritiro". Egoista, era incapace di capire e di
apprezzare quell'angelica creatura che fu sua moglie, ch'egli non seppe
rendere felice; e non molto tempo dopo la morte di lei, passò a seconde
nozze, sposando una signorina ch'era invisa alla sua prima moglie e che
questa non aveva mai voluto frequentare.

La madre di Tolstoi, una santa donna, come si rileva dallo splendido
ritratto morale che ne fa il figlio, era nervosa, frequentemente
estatica, tanto da non accorgersi "benchè avesse lo sguardo fisso
sulla teiera, che questa traboccava e l'acqua scendeva nel vassoio";
credeva fermamente alle predizioni di Gricha, un idiota vagabondo, che
pronunziava parole enigmatiche, che alcuni prendevane per profezie.
Morì prematuramente di malattia polmonare, dopo aver predetto la sua
prossima fine.

La nonna materna di Tolstoi, buona, ma austera e rigida, tanto che
il Tolstoi stesso dice che gli "ispirava terrore e sottomissione
rispettosa", dopo la morte della figlia (madre di Tolstoi) sofferse
frequenti _attacchi di nervi_. Veramente questi che il Tolstoi
chiama "attacchi di nervi", per noi alienisti sono veri accessi
istero-epilettici. Riporterò testualmente i brani delle Memorie che li
descrivono:

"A volte, seduta nella poltrona, sola nella sua camera, aveva a un
tratto un accesso di riso seguito da singhiozzi senza lagrime che
la conducevano a convulsioni, grida forsennate, parole senza senso e
spaventevoli. Aveva bisogno di accusare qualcuno e pronunziava parole
orribili, minacce furibonde. Si alzava a un tratto dalla poltrona,
misurava la camera a lunghi passi e cadeva svenuta.

"Una volta andai da lei: era seduta e pareva calma, ma il suo sguardo
mi colpì, gli occhi spalancati, avevano un che d'indefinito, di ebete
quasi: li fissò su di me e pareva non mi vedesse. Le sue labbra
si socchiusero lentamente, sorrise, e disse con voce affettuosa,
commovente: "Vieni qui, angelo mio, avvicinati". Credetti che parlasse
a me e mi accostai; non era me che vedeva, ma la madre defunta.

"Mi immaginavo che non esistesse nulla, nè nessuno al mondo, che
gli oggetti non erano realtà, ma delle apparenze evocate da me nel
momento in cui fermavo su di loro la mia attenzione e che svanivano
quando appunto cessava di pensarci. C'erano dei momenti nei quali,
sotto l'influenza di questa _idea invadente_, giungeva a un tal
punto di smarrimento che tutto ad un tratto mi voltavo indietro nella
speranza di scorgere all'improvviso il nulla, là ove io non era!" Era
un'ossessione.

Presentò anche fenomeni di paramnesia come si può rilevare dal passo
seguente:

"Provai improvvisamente una strana impressione. Mi parve che tutto
quello che mi capitava in quel momento fosse la ripetizione di
ciò che era avvenuto un'altra volta: allora come oggi, pioveva,
il sole tramontava dietro le betulle, lei leggeva; guardandola, la
magnetizzavo, lei alzava gli occhi...."

Tralascio altre bizzarrie, anomalie del sentimento e della sensibilità,
che si potrebbero spigolare ancora, specie nei capitoli che trattano
dei suoi amori precoci e delle sue amicizie, per venir subito all'esame
di fatti ben più importanti, per la diagnosi della nevrosi di Tolstoi.

I più interessanti in proposito sono i due capitoli: _L'Eclissi e
Delirii_.

Nel primo noi vediamo ritratto un particolare stato d'animo che
entra già nel campo delle alterazioni psichiche gravi, e che non può
spiegarsi altrimenti che ammettendo in Tolstoi uno _stato morboso
epilettico_.

"Quando penso alla mia adolescenza e soprattutto al mio stato d'animo
di quel giorno nefasto, capisco benissimo i più atroci delitti,
commessi senza un fine, senza intenzione di nuocere, semplicemente così
per curiosità, per bisogno incosciente d'azione. In quei momenti in
cui il pensiero non controlla più gl'impulsi della volontà, e in cui
gl'istinti grossolani rimangono i soli padroni dell'essere, io capisco
il ragazzo inesperto, il quale senza ombra di esitazione nè di paura,
con un sorriso di curiosità accende ed alimenta il fuoco nella propria
casa, dove dormono i suoi fratelli, suo padre, sua madre, tutti coloro
ch'egli ama teneramente: Sotto l'influenza di questa eclissi temporanea
del pensiero, direi quasi di questa distrazione, un giovane contadino
di 17 anni contempla un'accetta, arrotata di fresco, vicino alla panca
su cui dorme supino il suo vecchio genitore; ad un tratto la impugna,
poi guarda, con curiosità ebete, come dalla gola tagliata del padre il
sangue cola sotto la panca".

Secondo Mariani (ed io sono in gran parte d'accordo con lui), la
è questa una magistrale descrizione dello stato psichico in cui si
compie il crimine epilettico, di cui sono classiche caratteristiche:
l'incoscienza (_ecclissi temporaneo del pensiero_); la causale futile o
nulla (_per curiosità, per bisogno incosciente d'azione_); la freddezza
e la calma nel colpire (_senza ombra d'esitazione nè di paura_); ne
è persino indagato il meccanismo psicogenetico, cioè l'abolizione od
almeno la diminuzione dell'azione inibitoria e direttrice dei centri
superiori, colla prevalenza ed aumento dell'eccitabilità dei centri
subprimario sottoposti, che tendono a rendersi preponderanti, ed
adombrato sapientemente nelle parole: "il pensiero _non controlla più
gli impulsi della volontà... e gli istinti grossolani rimangono i soli
padroni dell'essere_". (_ibidem_).

Se il Tolstoi, non commise alcun delitto, era certamente in stato
epilettoide quando reagì così sproporzionatamente e così violentemente
ad una punizione meritata e giusta. "Appena sentii la sua stretta
non connettei più; fuori di me dalla rabbia, senza sapere quel che mi
facessi, mi disvincolai e lo buttai con tutte le mie deboli forze".

Nel capitolo seguente: _Delirii_, si può ravvisare agevolmente lo
stato delirante che sussegue ordinariamente ad un accesso di epilessia
psichica; e ne sono caratteristiche le idee vaghe persecutorie ("_ero
convinto che tutti, dalla nonna fino a Filippo il cocchiere, mi
detestavano e godevano nel vedermi soffrire_"); idee melanconiche
con depressione dell'animo: ("provai un sollievo nel pensare che ero
infelice, perchè il destino mio era di essere sfortunato fin dalla
mia nascita"), con allucinazioni terrifiche, ansiose: ("immaginai di
essere vicino alla morte") e quindi espansive, religiose, in cui si
deve salire al cielo, incontrarvi la madre e volare con lei "_in alto,
sempre più in alto_" (_ibidem passim_).

Nè manca l'accesso classico di epilessia motoria a completare il
quadro. Come in un epilettico genuino per la diminuzione di resistenza
dei centri superiori inibitori, e l'aumentata eccitabilità delle zone
motorie, basta una causa qualsiasi (intossicazione, emozione, ecc.)
per produrre una scarica motoria disordinata ed automatica, così nel
giovane Tolstoi, che trovavasi in uno stato di tensione psichica dopo
la notte passata nello stanzino buio, bastò una parola rivoltagli
dal padre in tono compassionevole, per farlo esplodere in nuove
accuse contro il precettore, svolger idee di persecuzione ingiuste ed
illogiche, e finalmente per soccombere ad un accesso convulsivo, con
caduta e sonno consecutivo di dodici ore.

"Con chi l'hai? mi disse il papà con un tono compassionevole,
piegandosi su me.

— "Egli... è il mio tiranno... il mio carnefice... ne morrò; non mi
vuol bene nessuno! Pronunziai queste parole con fatica e fui preso
dalle convulsioni.

"Il papà mi prese in braccio e mi portò in camera mia. Mi addormentai.

"Quando mi svegliai dopo 12 ore era già tardi. Vicino al mio letto era
accesa una sola bugia; e il nostro medico con Mimì e Liubotska erano
seduti poco distanti da me, tutti e tre inquieti per la mia salute,
come apertamente si leggeva sui loro visi".

Questo accesso non ha bisogno di commenti: le convulsioni,
l'incoscienza e la caduta (adombrata nelle parole: il papà mi prese
in braccio), l'attacco di sonno profondo durato 12 ore, sono più che
sufficienti per caratterizzarle un vero accesso epilettico.

E così col più grande dei scrittori viventi si completa la prova della
psicosi epilettoide del genio.



APPENDICE


Alessandro — Cambise — G. Agnesi — Strindberg — Wagner — Goldoni —
Maisonneuve — Rousseau.

Nè con questi la lista dei nuovi casi dei geni malati è chiusa.

Ad ogni sguardo che si getti sulla storia dei grandi uomini ne troviamo
nuove prove, sian pure frammentarie, che giovano però a completare la
dimostrazione della nevrosi del genio.


=Alessandro Magno=. — Troviamo p. e. in una bella monografia di Grasso
Gabriele (_Questioni concernenti la vita di Antipatro_, 1889, Ariano)
molti dati sulla follia morale di Alessandro: accessi di megalomania,
di impulsività, di deliri religiosi, non che certe bizzarie simili a
quelle or notate in Napoleone, la _Gamomania_, per esempio, per cui
obbligò ottanta dei suoi ufficiali e dieci mila soldati ad unirsi in
matrimonio con donne persiane.

Soprattutto spiccata ebbe l'eredità morbosa nella madre dissoluta,
invidiosa, egoista, superstiziosa, altera, impetuosa, e nel fratello
Filippo Avrideo, parzialmente imbecille.


=Cambise=. — _Criminalità e genio con epilessia in Cambise_. Leggo in
Erodoto, III Libro, informazioni sulla pazzia morale, sull'epilessia e
sul genio di Cambise sfuggite finora alle osservazioni degli alienisti.

Cambise, figlio di Ciro, re dei Persiani, trascinato dal genio
della conquista, pensò prima a conquistare l'Egitto, nel che riesci
facilmente; ma subito dopo volle conquistare contemporaneamente gli
Ammoniti, gli Etiopi e i Cartaginesi, e senza le precauzioni e le
alleanze che aveva saputo prendere nella prima conquista, quando si
era alleato cogli Arabi provvedendosi, cioè di otri d'acqua, e fatto
riconoscere il terreno, ecc. — E così dell'armata contro gli Ammoniti
non rimase più uno che tornasse indietro; tutti morirono di sete e
di fame. Anche nelle spedizioni contro gli Etiopi un quinto dei suoi
soldati perì di fame dopo esser ricorsa fino a mangiare i propri
compagni. Trascinato dalla violenza del potere, commise in Egitto
crudeltà bestiali: non potendo più trovare vivo il re Amasi, ne volle
far bastonare la mummia; poi con un'ordinanza che feriva profondamente
il senso religioso dei Persiani insieme degli Egiziani, la fece
abbruciare. Vedendo che i reggitori del Municipio di Memfi facevano
allegrezze per il bue Api, (quando cioè si manifestava un bue con certi
segni simbolici sulla schiena), li fece morire; e di più fece bastonare
a morte i sacerdoti e lo stesso bue Api.

Sposò due sorelle, contro la legge persiana, poi ne uccise una con un
calcio nel ventre.

Aveva un fido ministro, Procaste, a cui domandando che opinione
dominasse nel pubblico su lui, e sentendo dire che lo si biasimava
per gli eccessi alcoolici, gli fece vedere come fosse bene in gamba
collo spaccare con una freccia il cuore di suo figlio; più tardi fece
seppellire dodici Persiani vivi col capo in giù; per un sogno fece
uccidere il fratello Smerti.

Nè debbon destare meraviglia, continua Erodoto, prevenendo la nostra
teoria dell'equivalenza dell'epilessia colla criminalità, questi
eccessi, _perchè fin dagli anni dieci patì il morbo sacro_.

Ora a chi soccorre in mente il grande epilettico del nostri tempi,
Napoleone, vede, salvo il colorito dei tempi, quasi uguali analogie:
— le spedizioni in Russia, gli amori incestuosi, le crudeltà inutili
sotto forma politica[49]; anche soccorre in mente il tipo dei
conquistatori quasi sempre pazzi ed impulsivi che ci dà il Ferrero nel
_Militarismo_.

È singolare che nella storia di Appiano si legga pure come Cesare
per sfogare la sua malattia epilettica che s'aggravava nell'inerzia
conquistasse le Gallie, dandoci fin da quei tempi un equivalente
epilettico nell'anelare continuamente a dietro lontane conquiste!


=Gaetana Agnesi=. — AMATI e Luigia ANZOLETTI[50] ci esumano sulla
famosa matematica Gaetana Agnesi, notizie che ne mostrano la nevrosi.
— Ed anzitutto la grande precocità. A 5 anni era già forte nella
lingua francese, a 9 nel latino, a 11 nel greco, nell'ebraico, nello
spagnuolo, e pochi anni dopo apprendeva la filosofia e la matematica.
Anche da bimba mostrò quelle disposizioni ascetiche che più tardi
crebbero tanto in lei da deciderla a 30 anni ad abbandonar gli studi.
Giova notare pure un altro fatto singolarissimo e che giova anche a
dimostrare l'influenza grande dell'incoscienza nell'opera geniale,
(Vedi Vol. II): che essa trovò molte soluzioni dei problemi matematici
nel sonno, o meglio nei sogni, "Pensando in sogno, dice il Frisi[51],
ad un quesito meditato nel giorno, balzava dal letto, andava allo
studio, annotava la soluzione, poi andava a letto e alla mattina
trovava sul tavolino l'annotazione stesa nella notte incoscientemente."
E a 12 anni all'epoca della pubertà fu presa da accessi isterepilettici
che poi si dissiparono. Si notò in lei anche completa anafrodisia; e
come accennammo, a 30 anni la scienziata si trasformava in filantropa,
anzi in devota.

Sua sorella Maria Teresa emerse nella musica e compose il celebrato
dramma musicale _Sofonisba_. Maritata sui trent'anni compose il _Ciro_,
il _Nitocri_, e fu una delle compositrici di musica più ricche di
fantasia che vanti la storia dell'arte.

La sorella Paolina era d'una mirabile filantropia.

Il padre Don Pietro, egli pure matematico, ebbe da 2 mogli 23 figli;
artritico, era vecchio quando nacque la Agnesi, e passò ai suoi
tempi per un famoso egoista, che non voleva maritare le figliuole per
conservare il vanto del loro nome alla famiglia.


=Strindberg=. — Strindberg fu quello che in tedesco si chiama un
_selbstqualer_, un torturatore del proprio corpo e della propria anima;
e tutto ciò per speciale disposizione ereditaria e per le condizioni
della prima giovinezza; forsanco per la troppa coltura. Volle essere
artista e scienziato, comico, giornalista, pittore, musico e teologo,
e infine terminò per essere bibliotecario, passò dal socialismo
all'anarchia, e dall'anarchia al cattolicismo, come dal monastero al
manicomio. Vuolsi che la monomania di cui era afflitto derivasse da un
colpo di pietra alla fronte ch'ebbe da giovane e che fu seguito subito
da afasia duratagli vario tempo.


=Riccardo Wagner=. — Roncoroni (_La lotta per la vita e per l'arte,
"Rivista moderna di coltura_" anno I, fascicoli 3, 5, 6. — 1898),
ci dimostra la grande sua precocità nell'ingegno e la violenza delle
emozioni nella _megalomania_, nel "_gigantismo monoemozionale_" che lo
caratterizzarono poi sempre. Fin dall'età che per gli altri ragazzi
è destinata ai giuochi dell'infanzia, si rivelarono in Wagner la
passione per l'arte e per la gloria, e il tratto caratteristico della
impossibilità di battere la via comune, di assoggettarsi alle leggi
stabilite. Spirito fantastico, dominato da un misticismo esagerato,
"faceva dei sogni in pieno giorno", scrive egli stesso, "durante i
quali la nota fondamentale, le terze e le quinte mi apparivano in
persona e mi rivelavano la loro significazione importante." A 17 anni
compone un'_ouverture_ a tessuto complicatissimo, e la scrive con tre
inchiostri differenti, pei varî strumenti.

Anche il suo egoismo è dimostrato dalla sua relazione con Meyerbeer, e
con molti amici.

La violenza delle sue emozioni è rivelata dall'importanza che
attribuiva alle critiche altrui: _Mi si lodi, o mi si biasimi_ —
scriveva — _è come mi si pugnalassero le intestina_.

Agilissimo, saliva sugli alberi più alti del giardino, ed era
vanitosissimo della sua agilità. Nei momenti di eccitamento sembrava
in preda alla febbre; tutto pieno di fuoco, incapace di star fermo,
saltava, si dimenava, agitava a destra ed a sinistra le sue braccia
di ragno; le parole uscivano dalla sua bocca a fiotti, disordinate;
sempre furioso, sempre in attitudine, scrive il Tissot, di battersi, di
predicare una crociata.

Incontrato un amico che da gran tempo non avea veduto, si mise per la
gioia col capo in basso ed i piedi in alto.

Vero zoofilomaniaco ebbe amicissimi 13 cani, a molti dei quali elevò
tombe: nè se ne privò anche quando versava nella massima miseria.

Odiava (vere fobie), la barba, gli occhiali, i velluti, i merletti, e
amava i vecchi vestiti che ricomprava dai servi (Kienz, Deutsche Revue,
1900).

Soffrì spesso di cefalea: "I miei nervi", scrive, "sono sempre eccitati
e stanchi, mai in riposo: il mio male è incurabile". Talora invece,
ha periodi di euforia, e gode di un'ebbrezza eterea in confronto alla
quale l'eccitazione del vino gli pare infinitamente grossolana.

Uno dei suoi tratti caratteristici fu l'instabilità delle idee e della
condotta, rivelata specialmente dalle sue opinioni politiche e dai suoi
atti, come pure dai viaggi frequentissimi spesso fatti senza alcuna
necessità. Caratteri dominanti erano pure il bisogno di esteriorità e
l'imprevidenza per la ricerca dei mezzi di sussistenza.

Andò soggetto a vere _assenze_, di cui una descritta in modo tipico
dal Noufflard. Ebbe, secondo il Nisbet, _accessi epilettici_ prima di
morire. Il rapporto tra l'ispirazione generale e l'accesso epilettico
appare alle parole stesse del Wagner sul suo estro: "_I miei occhi
si oscurano, il mondo mortale scompare, e l'ispirazione si espande in
lacrime divine_". Anche, la sua amicizia per Luigi II di Baviera, "il
re psicopatico, lipemaniaco", dimostra l'affinità elettiva.


=Goldoni=. — G. BROGNOLIGO (_Nevrasteria di Goldoni. — "Il Medico
Olandese" di Carlo Goldoni. — "Biblioteca della Scuola Italiana_" n.
12-15 marzo 1899), mostra Goldoni come abbia nel _Medico Olandese_
riprodotto la nevrastenia o meglio lipamania che ebbe in gioventù
dal 1754 al 1756, acutizzata dalla morte di un altro nevrastenico suo
amico, Angeleri, morto mentre recitava.

Questi versi, messi in bocca al curato del _Medico Olandese_, sono
un'immagine spiccatissima di un nevrastenico:

    "Dal cor in pochi istanti parvemi a poco a poco
    Stendersi per le membra e dilatarsi in foco,
    Sentomi il capo acceso, tremo, mancar mi sento,
    Più non mi reggo, e credo morir in quel momento,
    Stendo al polso la mano, parmi più non sentirlo.
    Corro così tremante, fin dove non so dirlo,
    Acqua gridando, andava, chi mi soccorre? Io spiro.
    Recanmi alfin dell'acqua; alfin bevo, e respiro,
    Ma che? quel dì fatale l'epoca è sventurata
    Di tai barbari assalti, ch'io provo alla giornata.
    Ma la notte, la notte è il mio crudel tormento.
    Quando la sera imbruna, s'accresce il mio spavento,
    Parmi, che mi si stacchino le viscere dal petto:
    Sei, sette volte almeno forza è balzar dal letto.
    E se mi prende il sonno, ahi che dormir funesto!
    Veggo leoni, e domani, e con tremor mi desto,
    A tavola, a teatro, in un festino, al gioco,
    Sentomi questa fiamma salire a poco a poco;
    E funestar temendo altrui colla mia morte,
    Mi forza un rio timor fuggir da quella parte.
    Niente mi consola, ogni piacer m'è odioso,
    Son diventato agli altri, a me stesso noioso."

È curioso che dopo ciò suggerisca la cura di cacciar chiodo con chiodo,
cioè di innamorarsi, per cacciare una passione con un'altra.


=Maisonneuve=. — Maissonneuve per mostrare la benignità del suo
terribile uretrotomo davanti al pubblico, ordinava ai malati di
operarsi da se: metteva la lama nelle loro mani, smarginava le guide,
e poi diceva: "Spingete fermo come fosse la bacchetta di un fucile";
quelli eseguivano mezzo rovinandosi; poi li rimandava: e ve n'erano che
morivano per via.

Per impedire la setticemia pretendeva sostituire il bisturi con
macchine spaventevoli, schiacciatoi, garrot, diaclasti, osteoclasti,
caustici solidi e liquidi così orrendi che si dovette pregarlo di
ritirarsi, perchè terrorizzava i malati.

Del resto tagliava tutto: si pretende che un assistente gli abbia
una volta chiesto dopo una di quelle due brutali operazioni o meglio
carnificine quale fosse la parte del malato che doveva riportare nel
letto.

Soleva dire: "Parigi non ha che due chirurghi: Chassagnac e me;
Chassagnac però è un imbecille."


=Rousseau=. — Di Rousseau io avea a lungo dimostrato la neuropatia
nell'_Uomo di Genio_ p. 3, 34, 41, 106, 180, 204, 352, 365 — ma nulla
avevo detto sugli antenati, che ci son rivelati dal Dufour-Vernes[52].

La famiglia di Rousseau discende da Francesi protestanti perseguitati
ed esigliati, e precisamente da un Didier, vinaio e libraio, nel 1550,
che fece fortuna negli affari, e si sposò con una brava savoiarda
e ne ebbe 5 figli, 4 morti da piccini: e uno che fu il Giovanni,
ammogliatosi con una Blouet, protestante francese. La figlia loro
primogenita sposò un orologiaio: e per tre generazioni divenne questa
la professione della famiglia.

Giovanni II Rousseau, 1654, ebbe 19 figli; David, il settimo di questi
figli, fu il nonno del grande Rousseau, e morì quasi centenario; era un
orologiaio attivissimo, sposò a 24 anni una Cartier e ne ebbe 14 figli.

Egli fece carriera molto modesta, anzi avendo mostrato qualche simpatia
per i ribelli del 1707, fu destituito da un piccolo ufficio di giudice
di pace — e rimproverati e sospettati pare ne siano stati i fratelli.

Isacco Rousseau, un altro figlio, si ammogliò con una Bernard. I
Bernard erano dei borghesi modesti ma imparentati con ricchi e con
nobili. Uno fra gli altri che era pastore ebbe a figlio Jacques, il
nonno materno di Rousseau. Fu costui un libertino; dopo aver tradito
molte fanciulle morì a trentatre anni, pare di esaurimento; mentre due
suoi fratelli, uno negoziante ed un altro pastore, erano stati uomini
saggi.

La madre di Rousseau, era intelligente, seducente ma anche poco onesta,
o almeno squilibrata, come l'era certo il marito Isacco Rousseau. Dopo
due mesi di matrimonio aveva costui cominciato a fare cambiali; tre
volte fu minacciato e punito per risse e litigi. Tutto ad un tratto si
mise in mente un anno dopo il matrimonio di partire per Costantinopoli
e stette via sei anni; ammesso a 22 anni nella _Compagnia_ degli
orologiai, un bel giorno lascia il mestiere, prende un violino, e si
mette a dare lezioni di ballo.

Al suo ritorno dalla Turchia nacque Rousseau; morendone dopo il parto
la madre.

Il padre, rimasto vedovo, chiamò una sorella a dirigere la casa; e
la direzione fu ottima, ma il padre la guastava. Leggeva delle notti
intere, col futuro filosofo, dei romanzi leggeri, il che gli preparava
una fantasia sbrigliata; peggio è che malgrado la età matura riprese
le sue vecchie abitudini litigiose. — Un giorno percorrendo un prato
non suo ne fu rimproverato dal proprietario, ed egli lo minacciò
coll'archibuso; pochi giorni dopo incontrandolo, lo apostrofò, lo
minacciò, e sfidò, e ferì sicchè dovette esigliarsi.


=Savonarola=. — Sul Savonarola abbiam nuove ricerche del Dottor Vetrani
di Ferrara (Genio e Pazzia in Savonarola, 1899, Bologna). E prima di
tutto pare che Savonarola avesse strane anomalia craniane.

"Tutti i ritratti (scrive Villari) dipingono il Savonarola col
cappuccio in testa, accettuatone solo quello dell'Accademia di Belle
Arti, _nel quale si vede che il giro del suo cranio mancava verso il
vertice_ (cimbocefalo?), _ragione secondo alcuni che gli faceva portare
sempre il capo coperto_."

La sua adolescenza è tutta oscurata da una sconsolata tristezza. È il
tempo che Ferrara è piena di quelle feste, celebri nelle memorie, nelle
quali i dominatori profondevano una inaudita opulenza? corteggi ducali,
papali, imperiali procedevano per le sue vie tra la gioia del popolo
che gavazzava, ubriaco di sollazzi, in un carnevale perpetuo. E mentre
la sua famiglia si compiace nei favori della corte, egli pervaso dalle
predilette letture ascetiche vi ripugna:

E nella canzone "_De ruina mundi_" scritta a vent'anni, trovò il primo
grido della sua anima offesa dallo spettacolo dell'ingiustizia e della
iniquità degli uomini.

    Fece ormai chi vive di rapina
    E chi dell'altrui sangue più si pasce:
    Chi vede spoglia e i suoi pupilli in fasce
    E chi di povri corre alla ruina
    Quell'anima è gentile e peregrina
    Che per fraude e per forza fa più acquisto

Così egli apriva la sua guerra col mondo.

Ma già egli era in piena neuropatia. Fin d'allora ebbe visioni: lo
confessò più tardi nella predica della Rinnovazione: "Io le ebbi
fin dalla mia prima giovanezza; ma cominciai a manifestarle solo a
Brescia".

Di ventidue anni trovandosi a una predica "_una parola_ sulla quale
tenne sempre un segreto quasi misterioso", tanto gli rimane impressa,
lo decide a farsi frate.

"Ed avendo (racconta il Burlamacchi) consumato più giorni in questo
pensiero, una notte dormendo _sentì spargersi il corpo d'acqua
freddissima_, per il che subito destandosi e narrando quanto gli era
occorso, fermò l'animo a lasciare la gloria del mondo, ecc."

Nell'_Officio del venerabile Savonarola_ scritto nel secolo XVI ed
illustrato dal Carducci, si legge che "l'anima di lui era spesso
rapita, e alla luce divina per guisa accoppiavasi che _il corpo
venendogli meno ai servigi dei sensi ne restava come morto_". Forse di
questi accidenti neuropatici egli intendeva parlare quando diceva "che
accade qualche volta alli profeti che per le visioni li viene qualche
impedimento", perchè quando nelle sue prediche discorre di profeti è
sempre manifesta l'allusione a sè stesso. Della quale sua persuasione
(di essere cioè profeta) io non starò qui a ridire ciò che già ho
espresso nell'_Uomo di genio_. Balenatagli alla mente colla luce di un
lampo un giorno in chiesa, non l'abbandona più: egli la proclama dal
pergamo; la riafferma dopo che la tortura gli ha straziate le misere
carni; la difende in due volumi che sono, evidentemente, per chi sa
leggere, l'opera di un paranoico.

Forse tale sarà stato giudicato da taluno anche a' suoi tempi, se egli
più d'una volta nelle prediche protesta di non esser pazzo, e nel
"_Compendio di rivelazione_" s'immagina che altri gli opponga e gli
dica "che pare ad alcuno questo suo profetare proceda da spirito di
malinconia, il quale ti fa pensare e parlare in questo modo o vero che
proceda da tuoi sogni e forte immaginazione".

Ed ora analizziamo la storia di queste visioni, come è da lui tracciata
nel "Compendio di rivelatione dello inutile servo di Jesu Christo,
Frate Hieronimo da Ferrara".

"Essendochè (così comincia) lungo tempo in molti modi per inspirazione
divina io abbia predetto molte cose future: nientemeno considerando la
sentenzia del nostro salvatore Christo Jesu che dice: _Nolite sanctos
dare canis nec mittatis margaritas vestras ante porcos; ne forte
conculcent eas pedibus_, sono sempre stato scarso nel dire... servando
sempre segreto il modo e la moltitudine delle visioni e molte altre
rivelazioni, le quali non ho mai detto, non essendo io stato inspirato
a dirle e non parendomi necessario alla salute, nè essendo ancora
disposti gli uomini a crederle".

E seguita dicendo più avanti come "vedendo lo onnipotente Dio
multiplicare li peccati nella bella Italia massime nelli Capi così
ecclesiastici come seculari non potendo ciò sostenere determinò purgare
la chiesa sua per un grande flagello". E poichè "vuolsi che questo
flagello fosse prenunziato, avendo tra gli altri suoi servi eletto un
indegno e inutile a questo officio, mi fece venire a Firenze l'anno
1489. Et predicando tutto quell'anno, tre cose continuamente preposi al
popolo: la prima che la Chiesa si aveva a rinnovare in questi tempi; la
seconda che innanzi a questa renovazione Dio darebbe un grande flagello
a tutta l'Italia; la terza che queste cose sarebbero presto.

"E queste tre conclusioni mi sforzai sempre di provarle con ragione
probabile..., non dichiarando che io avessi queste cose per altra via
che per questa ragione.... Da poi vedendo migliore disposizione degli
uomini al credere, produssi fuori qualche volta alcuna visione... Da
poi vedendo la grande contraddizione e derisione che io avevo quasi da
ogni generazione di uomini, molte volte come pusillanime mi proponevo
di predicare altre cose che quelle,... e non lo potevo fare".

Ma poi risolve di non parlarne più: "tutto il giorno e tutta la notte
vigilai infino alla mattina... e non potetti mai volgermi ad altro,
tanto mi fu serrato ogni passo e tolta ogni altra dottrina, eccetta
quella. E sentii la mattina (essendo per la lunga vigilia molto lasso)
dirmi: Stolto, non vedi tu che la voluntà di Dio è che tu predichi in
questo modo? E così quella mattina feci una spaventosa predicazione."

Leggendo questa pagina anche chi non ha conoscenza e pratica di
malattie mentali riconosce senz'altro le allucinazioni, il delirio
di grandezza, la fissità delle idee coatte, la dissimulazione delle
concezioni deliranti; poichè è noto che sul loro delirio molti
paranoici[53] usano custodire gelosamente il segreto: la tempesta
turbina dentro il cranio, ma niente ne apparisce di fuori. O sono
alienati che vivono tra fantasmi di persecuzione che dissimulano a
fine di compiere un proposito di vendetta lungamente accarezzato; o
melanconici, nei quali l'idea del suicidio è avvinta al cervello con
catene di ferro e si propongono tacendo di addormentare l'attenzione
vigile di chi può impedirneli; o sono megalomani, che nascondono il
delirio di grandezza per non esporlo alla derisione. "C'est une affaire
que je garde en moi mème... On n'aime pas à raconter ses secrets",
diceva un megalomane a Briand. (Vetrani o. c.).

L'anno del Signore 1483 cominciò ad essere fatto partecipe delle
divine illuminazioni, come si legge in una sua predica che parla della
_renovazione della Chiesa_ fatta l'anno 1494; e nel principio ebbe
speciale rivelazione del rinnovamento di essa Chiesa... Di più l'anno
medesimo in Brescia disse ad alcune persone private qualche cosa di
flagello futuro..." Così il Burlamacchi.

Ma questi fantasmi di grandezza, i maggiori che potessero attraversare
una coscienza cristiana la quale, tanto più si nobilita e si magnifica,
quanto più si fa umile, non gli apparvero allora per la prima volta.

Il Savonarola, che fin dalle prime allucinazioni, si era persuaso di
esser un profeta mandato da Dio ad annunciare ai popoli la riforma
della Chiesa e i danni imminenti sulla vita d'Italia; aveva trasmesso
quel delirio alla moltitudine. "Al popolo di Firenze, scriveva Nicolò
Machiavelli, non pare essere ignorante nè rozzo; nondimanco da frate
Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio
giudicare s'egli era vero o no, perchè d'un tanto uomo se ne debba
parlare con reverenza: ma io dico bene che infiniti lo credevano, senza
aver visto cosa nessuna straordinaria da farlo loro credere; perchè la
vita sua, la dottrina, il soggetto che prese erano sufficienti a fargli
prestare fede." Spesso il frate avrà visto dipingersi la irrisione
quando gridava con tono profetico: "Firenze, che hai tu fatto? vuoi tu
che te lo dica? Ohimè, egli è pieno il sacco, la tua malizia è venuta
al sommo. Firenze egli è pieno: aspetta, aspetta un grande flagello!"
Allora discendeva col proposito "di non più parlare nè predicare di
queste cose".

Infatti, seguitando la lettura del "_Compendio di rivelazione_"
dov'egli si spoglia di questi pudori, troviamo quanto segue:
"Ritornando al proposito nostro, dico che queste cose future per la
indisposizione del popolo le prenunciavo in quegli primi anni con la
probazione delle scritture e con ragione e diverse similitudini.

"Di poi cominciai a allargarmi et dimostrare che queste cose future io
avevo per altro lume che per sola intelligenza delle scritture. E di
poi ancora cominciai più ad allargarmi e a venire alle parole formali a
me ispirate dal cielo, e tra le altre spesso replicavo queste: _Gladius
domini super terram cito et velociter_, ecc.... Le quali parole non
sono cavate dalle sacre scritture come credevano alcuni, ma sono
nuovamente venute dal cielo. Et poichè in una visione sono molte parole
delle quali parte ne dissi pubblicamente, _benchè la visione celassi
acciò che la non fusse derisa dalli increduli_, mi è parso necessario
questa cosa descrivere....

"Vidi dunque nell'anno 1492 la notte precedente a l'ultima predicazione
che io feci quello avvento in Santa Reparata, una mano in cielo con una
spada sopra la quale era scritto: _Gladius_ ecc.... E di poi venne una
voce grande, ecc." (allucinazioni visive e uditive). Più avanti narrata
un'altra visione, seguita: "E a questo medesimo proposito molte altre
visioni ho avuto molto più chiare di questa così come anche di molte
altre cose che io ho predette, massime della revoluzione della chiesa
e del flagello sono stato confermato per molte visioni e certissime
illuminazioni avute in diversi tempi."

Quando colla mente ancora piena di tali allucinazioni saliva sul
pergamo, allora appunto era più terribile la sua eloquenza.

Quando parlava del reo pontefice e della sua corte, la eloquenza di
lui aveva accensioni improvvise e si illuminava di belli a terribili
lampeggiamenti.

"E fanno tutta questa guerra — egli disse una volta — perchè hanno
in odio la verità, e hanno paura che i loro vizi siano scoperti: sono
come colui che va di notte per far male, e vede venire un lume e non
vorrebbe essere veduto, e grida spegni quel lume. Questa dottrina è un
lume che scopre le loro ribalderie. O sacerdoti, io vi dico che questa
torcia è tanto accesa che voi non la potrete spegnere: soffiate pure
quanto voi volete."

E un'altra volta: "Tu sei stato a Roma, e conosci pure la vita di
questi preti. Dimmi, ti paiono essi sostenitori della Chiesa, o signori
temporali? Hanno cortigiani e scodieri e cavalli e cani; le loro case
sono piene di tappeti, di sete, di profumi, di servi: parti che questa
sia la Chiesa di Dio? La loro superbia empie il mondo e non è minore la
loro avarizia. Ogni cosa fanno per danaro e le campane loro suonano ad
avarizia e non chiamano che pane, danari e candele. Vendono i benefizi,
vendono i sacramenti, vendono le messe dei matrimoni, vendono ogni
cosa...".

E poi vengon le audaci ribellioni e le minacce profetiche che per
le loro ripetizioni e per le forme simboliche — appaion prettamente
paranoiche:

"Serpente, serpente, corpo ecclesiastico, io non voglio amicizia teco;
io metterò inimicizia tra li buoni e te; li cattivi ti vorranno, ma li
buoni non ti vorranno vedere; noi vogliamo essere tuoi inimici".

Savonarola fu dunque un genio, ma fu anche un paranoico.


=Augusto Comte=. — Renda[54] ci dà nuove prove della follia di Comte;
e, quel che è più, la prova del nesso tra quella e le sue opere.

La madre Rosalia Boyer, mistica fino all'esaltazione delirante,
presentava bizzarrie nel suo carattere.

Un carattere notevole del Comte è una passionalità eccessiva, con
esplicazioni a volte strane ed esagerate. Parecchi sono gli eccessi
che troviamo nella sua esistenza; trascinato impulsivamente a scoppi
improvvisi di furore, costrinse spesso la moglie a mettersi in salvo,
dando di piglio a tutto ciò che gli capitava fra le mani, coltelli,
piatti, e lanciandoseli addosso: lo stesso fece con un domestico.
Egli stesso confessa che le sue emozioni per cose inadeguate, come per
l'esame soddisfacente di un giovinetto, "arrivano facilmente sino alle
lagrime, se io non mi contengo attentamente".

Fu singolarmente precoce. Sotto le apparenze di una natura infantile
e malaticcia, all'età di sedici anni, aveva, digià, a quanto dicono i
suoi compagni, la ragione e la maturità di un uomo: a 21 anno diventa
collaboratore del "Saint-Simon" e scrive quei celebri opuscoli, ricchi
di cognizioni e di osservazioni profonde, in cui è il piano di tutte
le sue concezioni posteriori. Se non che la coscienza smodata di sè
si tramuta in delirio di grandezza. "Dalla sua giovinezza alla sua
morte, scrive Dumas, Comte sogna nientemeno che di riformare il mondo;
e difatti egli ebbe l'orgoglio di tutti i riformatori". In questo
sentimento vi è un dettaglio patologico; egli arriva ad assommare in
sè la potenza indagatrice di Aristotile e quella costruttiva di San
Paolo, a credersi papa dell'umanità rigenerata da lui, e come tale
agisce scrivendo brevi, impartendo i suoi nuovi e singolari sacramenti,
decretandosi un trionfo ed un Pantheon. Il suo linguaggio è quello di
cui ridonda la letteratura psichiatrica dei mattoidi e dei deliranti;
egli parla spesso "di una missione affidatagli dal complesso dei
destini umani", oblia la propria personalità normale e trasforma sè
stesso in un simbolo, in un categoria.

E alla megalomania si aggiunge la mania di persecuzione: egli non
manca di esagerare l'importanza delle animosità che egli sollevava:
egli crede troppo facilmente alle cospirazioni del silenzio attorno al
suo nome; ed attribuisce ai suoi avversari lo strano progetto di farlo
ricadere, con le loro persecuzioni, (mentre non ve n'era bisogno) in
una crisi mentale analoga a quella del 1826.

Come avviene in tutti gl'infelici affetti da delirio, il Comte estende
i suoi timori da un individuo a una categoria di individui; così la
polemica con un matematico diventa lotta contro tutta una scuola,
il dissenso con Bazar, guerra dei rivoluzionari utopisti, congiura
per rubargli le idee. A ciò si aggiungono allucinazioni periodiche,
qualche catalessi, di cui il Comte medesimo ci fa cenno, e assalti
intermittenti di gravi crisi nervose. Egli stesso scrive: "Tutti i
passi decisivi dei miei lavori filosofici hanno dato luogo ad una
crisi patologica: il mio nuovo lavoro non fa eccezione". Anche prima
della crisi del 1826, dettando il suo "Corso di filosofia positiva",
si abbandona, come racconta a Clottide, ad accessi di pianti, di
commozioni, stranissimi, se si pensi alla rigida secchezza di quel
lavoro.

Le sue crisi sopravvenivano generalmente in primavera e in estate
(aprile 1826, primavera 1838, giugno 1842, giugno 1845). Quella del
1845 coincide con la concezione del suo sistema politico.

Ed il Renda, coll'analisi minuta dell'opera politica del Comte,
dimostra il nesso tra essa e i caratteri psicologici del suo autore.

Ora il _Sistema di filosofia positiva_, diceva egli, non è affatto
una derivazione logica del _Corso di filosofia positiva_: la genesi
delle costruzioni politiche del Comte è così aliena dagli ordinari
progressi logici del suo sistema fllosofico, che egli medesimo confessa
di aver sostituito l'analisi soggettiva alla ricerca obbiettiva, e,
quel che è più, in una lettera a Clotilde nota che il carattere del
suo lavoro è l'effetto delle riflessioni _fatte nei tre mesi della
sua crisi nervosa_ ed erotica; ed al Mill scrive: Voi vedete quale
è stata naturalmente la tendenza continua delle mie meditazioni _
involontarie_; tendenza che non è divenuta ora in me sistematica
veramente che dopo di essere stata puramente spontanea tutto il
tempo conveniente per assicurarne la realtà e la consistenza". Nella
prefazione al primo volume egli conclude: "Tal fu dunque il risultato
generale di questa crisi decisiva, _subito seguìta da una profonda
tempesta cerebrale_".

Alla sua emotività enorme corrisponde l'origine soggettiva ed emotiva
dell'opera; alle crisi nervose e allo indebolimento della inibizione,
l'elaborazione incosciente quasi sospinta da un impulso incoercibile:
— alla ipertrofia dell'_io_, le induzioni grandiose, non arrestate da
ostacoli logici o da presupposti scientifici; — alla tendenza mistica,
ereditata dalla madre, il carattere religioso dell'opera.


=Leopardi=. — Mentre le fiere polemiche degli avversari non sanno
portare un solo argomento contro le prove della grave nevrosi di
Leopardi, ecco i lavori poderosi di Sergi e di Patrizi accumularci una
vera valanga di fatti che pienamente la riconfermano e completano.

È curiosissimo, sopratutto, e da nessuno mai finora avvertito, il
fatto ricordato dal Patrizi[55] che il Leopardi in quei giorni in cui
dicevasi perseguitato dai suoi concittadini ne era invece onorato,
certo come viventi non furono mai nel nostro paese, così fiero odiatore
degli ingegni ed ammiratore dei mediocri.

Nel 1882, una epigrafe stampata e pubblicata nel Teatro di Recanati,
durante la rappresentazione d'un lavoro del padre, chiamavalo "padre
famoso di celebre figlio"; eppure in una lettera di Giacomo del giugno
1821 al Origlienti, è scritto: _Io sto qui deriso, sputacchiato, preso
a calci da tutti, menando l'intera vita in una stanza, in maniera che,
se ci penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia mi avvezzo a ridere e
ci riesco. E nessuno trionferà di me finchè non potrà spargermi per
la campagna e divertirsi a far volare la mia cenere in aria_. Così
informava un amico, che ogni ora "gli pareva mill'anni di scappar via
da quella porca città, dove non sapeva se gli uomini erano più asini o
birbanti". "Ora il solo documento" osserva il Patrizi, "non fantastico,
non leggendario, delle ingiurie patite in quel tempo da Giacomo, è un
sonetto, che, salutando il ritorno di lui in patria, lo diceva "Genio
sublime". Nell'autunno del 1829 egli flagella i Recanatesi nelle
"Ricordanze....", e nell'ottobre dell'anno avanti; egli avea ricevuto
in casa l'omaggio di vecchi e modesti rappresentanti della coltura
paesana; e per la via, le riverenze in massa dei giovanetti studiosi;
nel marzo del 1831, con unanime acclamazione, veniva prescelto a
Deputato del Distretto per l'Assemblea Nazionale, "atteso il corredo
dei tanti lumi e le già sperimentate prove di eroismo". "Nè, chi ben
rifletta, segue Patrizi, la cosa poteva andare diversamente, anche
per la soggezione e la simpatia che doveva ispirare il figlio del
conte Monaldo-Leopardi-Confalonieri (titolare delle più alte pubbliche
cariche....)" in una piccola città, dove, anche ora, "i più vengono al
mondo, starei per dire, coll'istinto della sudditanza e della paura di
fronte alle Autorità e ai ricchi di vecchio e recente sangue".

Ed aggiunge che "paure di persecuzione da parte dei concittadini
inquietarono anche Carlo e Paolina; e qualche altro della famiglia
non fu salvo da quel segno di nervoso disquilibrio; Leopardi temeva,
a Napoli, di aver che fare a ogni passo coi ladri; ed una volta (per
una "strana allucinazione" dice il Ranieri) sostenne di essere stato
derubato.

È noto che già dall'esame delle liriche fu il Sergi[56] indotto
a concludere di un esagerato predominio dell'elemento subbiettivo
nelle sue opere poetiche e la povertà della rappresentazione della
natura, che è quasi sempre notturna o al tramonto, e la monotonia
dei sentimenti (nullità dell'universo della vita; tedio, giovinezza
perduta, amore insoddisfatto), ne sono le prove.

Volendo poi dimostrare che il dolore del Leopardi è puramente
individuale, non universale, analizza i canti del dolore, concludendo,
che il Leopardi attribuiva agli altri i dolori che egli provava per
le peculiari sue condizioni, mentre l'arte si mantiene uniforme nei
sentimenti e nelle immagini pallide e scure, il che non vuol dire che
sia inefficace, perchè il lettore aggiunge facilmente ciò che manca
alla poesia. Insomma, il carattere della lirica del Leopardi fu un
prodotto della sua degenerazione fisica e psicologica con nessuna
influenza delle idee del secolo, sicchè la infelicità del Leopardi,
come uomo, fu causa della sua gloria come poeta. Ora chi non vede
che così il Sergi ci dimostrava quanto l'analisi antropologica possa
giovare anche all'ermeneutica letteraria?

Ora un sistematico nostro avversario, il PAOLO BELLEZZA (Della forma
superlativa presso il Leopardi, "Giornale storico della Lett. Ital.,
XXXIII, pag. 73-105") scovava un altro carattere letterario, diremo
degenerativo, nelle sue opere: quello di esagerare come il Tasso nella
forma superlativa, sicchè annoveransi 251 superlativi in circa 55
pagine delle Prose, non tenendo calcolo dei frequentissimi superlativi
di significato, come immenso, infinito, usati spesso per grande e
numeroso. Il che proviene dalla sua smania d'esagerare in ogni ordine
di idee e di fatti: e se (scrive il Bellezza) ne volessimo trovare
la prima origine... ricorderemo che fra le stimmate fisiologiche e
psichiche degli uomini di genio e più particolarmente dei pessimisti,
vi è quella d'esagerare.

  FINE.



INDICE


  PREFAZIONE                                            Pag.  III

  La pazzia ed il genio di Cristoforo Colombo,
    con una tavola,                                             1
      Caratteri antropologici                                   5
      Grafologia                                                6
      Stile pazzesco                                            7
      Ignoranza                                                11
      Senso morale. — Crudeltà                                 20
      Menzogne                                                 23
      Delirio                                                  24

  Tavola I. Autografi di Colombo.

  Manzoni, con 3 tavole                                        41
    L'UOMO. — Capitolo I. — Esame somatico e biologico         43
      Doppia personalità                                       45
      Scrittura                                               ivi
      Balbuzie                                                 47
      Assenze epilettoidi                                      48
    Capitolo II. — Esame psicologico                           51
      Amnesie                                                 ivi
      Paure                                                    54
      Paradossi                                               ivi
      Abulia                                                   56
      Senso pratico                                            59
      Affettività                                              60
      Precocità                                               ivi
      Contraddizione. Bigottismo                               61
    Capitolo III. — Eredità morbosa                            73
      Manzoni                                                  75
      Giulia                                                  ivi
    Capitolo IV. — Applicazioni letterarie                     81
      Bisticci                                                 88

  Tav. II. III. e IV. Autografi di Manzoni.

  Swedenborg                                                   91
    Genialità                                                  99

  Cardano                                                     101
    Capitolo I. — Eredità morbosa                             103
    Capitolo II. — Cardano                                    105
      Pazzia morale                                           ivi
      Paranoia persecutiva ed ambiziosa                       107
    Capitolo III. — Genialità                                 119
      Genialità                                               ivi

  Petrarca                                                    123
    Melanconia                                                125
    Epilessia ambulatoria                                     128
    Bugia                                                     129
    Contraddizione                                            ivi
    Erotismo eccessivo                                        132
    Influenza meteorica                                       133
    Vanità                                                    134
    Poca affettività                                          136
    Epilessia psichica                                        137
    Genialità                                                 139

  Pascal                                                      141
    Capitolo I. — Eredità                                     143
       Rami collaterali                                       144
    Capitolo II. — Pascal                                     147

  Franc. Domenico Guerrazzi                                   155
    Capitolo I. — Eredità                                     157
    Capitolo II. — F. D. Guerrazzi                            175
      Precocità                                               176
      Cause: debolezza congenita, malattie, dolori morali,
        soverchio lavoro intellettuale                        179
      Esaurimento                                             182
      Delirio melanconico                                     183
      Misticismo                                              185
      Allucinazioni                                           186
      Delirio di grandezza e di persecuzione                  187
      Bizzarrie                                               190
      Impulsività e contraddizioni                            193
      Delirio                                                 195
      Nevrosi. — Epilessia                                    196
      Riflessi del carattere nello stile e nelle opere        199

  Verlaine                                                    203

  Schopenhauer e Goethe                                       209
    Schopenhauer                                              211
    Goethe                                                    217

  Tolstoi                                                     221

  Appendice                                                   233
    Alessandro — Cambise — G. Agnesi — Strindberg —
      Wagner — Goldoni — Maisonneuve — Rousseau               235
    Alessandro Magno                                          ivi
    Cambise                                                   236
    Gaetana Agnesi                                            238
    Strindberg                                                240
    Riccardo Wagner                                           ivi
    Goldoni                                                   243
    Maisonneuve                                               244
    Rousseau                                                  245
    Savonarola                                                247
    Augusto Comte                                             256
    Leopardi                                                  260



NOTE:


[1] Vedi _Uomo di Genio_, VI ediz., Torino.

[2] Dalla _Palingenesi_, 1900.

[3] _I caposaldi delle teorie artistiche_ di Wagner. — In Rivista
moderna di cultura, 1900.

[4] Per documenti: _Raccolta Colombiana_. Roma 1892-1895. — REILLE,
_Columbus und seine vier Reisen_, 1892. — HARRISSE, _C. Colomb devant
l'histoire_ 1892. — RUGE, _Cristoph. Columbus_. Dresda 1892. — DE
LOLLIS, _La mente e l'opera di C. Colombo nella leggenda e nella
storia_, Milano 1892. — Manuel Sangiuly, _El descubrimento de America_.
Habana 1892. — Don Cesareo F. Duro, _La Nebulosa de Colon_. 1890
Madrid.

[5] _Grafologia_, di C. LOMBROSO. — Milano 1890.

[6] Vedi LOMBROSO. _Tre Tribuni_, Bocca, Torino 1886.

[7] Vedi RONCORONI, _Genio e pazzia in Torquato Tasso_. — Torino, 1896.

[8] _Raccolta Colombiana_ 5, p. LXXXI.

[9] Il Sangiuly giustamente nota — _Colon no podia esse, né era tampoco
un humanista_: — e cita Gomara che avea pur notato: — _No era docto C.
Colon ma era ben intendido_. E Bernaldez (Hist.) _Hombre de muy alto
ingenio sin saber muchas letras_.

Sbagliava Humboldt dunque nell'ammirare l'estensione della sua coltura
letteraria XV. (F. II. pg. 350).

[10] HARRISSE, op. cit.

[11] STAMPA. — _A Manzoni e la sua famiglia_. Milano, 1885.

P. BELLEZZA. — _Genio e follia di A. Manzoni_. Milano, 1898.

CANTÙ. — _A. Manzoni: Reminiscenze_ 1882.

A. MANZONI. — _Lettere inedite pubblicate da Gnecchi_. Milano, 1896.

ID. _Epistolario, raccolto da Sforza_. Milano, 1882-83. Vol. II.

STOPPANI. — _I primi anni di A. Manzoni_, 1874.

DE GUBERNATIS. — _A. Manzoni_. Roma, 1880.

ID. _Il Manzoni ed il Fauriel studiati nel loro carteggio_. Roma, 1880.

ID. _E. Degola_. Firenze, Barbèra, 1889.

BARBIERA. — _Il salotto della Contessa Maffei e Cavour_. VI. ed.
Milano, 1900.

GRAF. — _Foscolo, Manzoni e Leopardi_. Torino, Loescher, 1897.

PETROCCHI. — _Giovinezza di Alessandro Manzoni_ (N. Antologia, 1897);
Id., Milano, 1899.

MAGENTA. — _Monsignor Luigi Tosi e Alessandro Manzoni_. Pavia, 1876.

Non cito le _Stresiane_ del Bonghi, gli _Scritti Postumi_ del Manzoni,
il _Carteggio di Rosmini e A. Manzoni_, perché dalla loro lettura non
cavai alcuna notizia nemmeno di lieve utilità. Ho avuto buoni consigli
ed ajuti e critiche per questo studio, da Graf, da Momigliano, da mia
figlia Gina per la parte grafologica.

[12] Lo stesso carattere calmo è nella correzione

    Muta pensando all'ultima
    Ora dell'uom fatale,

immensamente più poetica dell'altro:

    Che innanzi a lui già tacquesi,
    Che lo nomò fatale...

scritto pure col carattere procelloso.

[13] Manzoni confessa che il verso: _Come sul capo al naufrago_ fu
ispirato dalle congestioni che soffriva improvvise al capo.

[14] _Lettere di Tosi a Lamennais_ 21 sett. 1819. "Manzoni è venuto
a stabilirsi a Parigi per riaversi dei suoi incomodi, e specialmente
delle vertigini chel'affliggono da più di 3 anni. Ma la vertigine
crebbe (28 dic.) anzichè scemare a Parigi."

A sua volta scrive Manzoni a Fauriel: "Àpeine descendu da Mont Cenis et
sorti des ètats du dieu _vertige_."

[15] Cantù, p. 164 (Vol. II.)

[16] Potrebbe essere un'ossessione o fobia del deliquio che non di raro
notasi fra le forme di ossessioni (vedi Pitres. Congres de Moscou 1898)
ma come vedremo nel 2º. volume anche queste entrano, almeno secondo me,
nella cerchia dei fenomeni epilettoidi; e poi le semplici ossessioni di
questo genere non presentano nè deliqui, nè vertigini ma bensì i timori
di questi.

[17] Vedi: Lombroso. L'Uomo delinquente, 2º Vol.

[18] De Gubernatis op. cit.

[19] Bellezza, o. c.

[20] Vedi Uomo di Genio di C. Lombroso, VI ed., Torino.

[21] Toselli — Sulla religiosità degli epilettici. Torino. 1887.

[22] "È un fatto che intorno alla sua conversione tornarono vane le
indagini non solo di scrittori di grido, ma pur di coloro che più avean
avuto dimestichezza con lui" scrive Magenta, che pretende spiegarlo
facilmente coll'influenza di Tosi e Degola e non pensa che la ragione
per cui un'ingegno sì forte preferisse costoro a Tracy e Cabanis cui
praticava allora ogni giorno è appunto quella che deve trovarsi.

[23]

    .. nodrito
    In sozzo ovil di mercenarii armenti
                  _In morte di C. Imbonati_.

[24] Anche Graf.... "Fu tutto un nodo di renitenze e ripugnanze
religiose e morali quello che gli strinse l'animo e lo ridusse innanzi
tempo all'inoperosità od al silenzio." (o. c.)

[25] L'abbandono fu così doloroso che non volle più ridestarne il
ricordo ritornando in quei luoghi e il dolore espresse nella pagina del
Romanzo: — "Addio monti sorgenti dell'acque ed elevati al cielo, cime
ineguali, note a chi è cresciuto fra voi.... Quanto è triste il passo
di chi cresciuto tra voi se ne allontana." (Petrocchi, o. c.).

[26] Cesare e Paola Lombroso. Sulla psicosi di Beccaria. (Archivio di
Psichiatria, 1896).

[27] Vedi Bellezza, o, c., pag. 20 e seg. — Graf, o. c., N. Antologia
1895, p. 417.

[28] Vedi Cappelli. Sa Giulia Beccaria. (Pensiero Italiano, 1883), —
Paola Lombroso. Su Cesare Beccaria. — 1896.

[29] BERTANI. — _La paura nei Promessi Sposi_. Iride, n. 46, 1900. — E.
CARRARA _La paura in Manzoni_, idem. n. 48.

[30] GILBERT BALLET — _Swedenborg. Histoire d'un visionaire au XVIII
siècle_. Paris ed. Masson, 1900.

DI ROBERTO. — _Il colore del tempo_. 1900.

MATTEY. — _Notice Biographique et bibliographique de Swedenborg_, 1888.

[31] FINZI. Petrarca. _Firenze, Barbera_, 1900.

[32] Giornale Dantesco. Anno VIII, 1900.

[33] Petrarca. _Firenze, Barbera,_ 1900.

[34] LEGGIADRI-LAURA. — _Su Pascal_. — Archiv. di Psichiatria ed
Antropologia Criminale. Torino, XXI, 1900.

REINET-SANGLÉ. — _La maladie de Blaise Pascal_ (Annales
medico-psychologiques, 1899, n. 2). COUSIN — Jacqueline Pascal. 1900.

RÉGNARD. — _Gènie et folie_. (Id., id., 1899, n. 1).

[35] Vedi pag. avanti.

[36] Come negli Inni sacri del Manzoni (v. s.)

[37] Attingo la maggior parte di questi dati alla _Nota Autobiografica_
di Guerrazzi ed ad una bellissima monografia del D.r Mondolfo, (edita
nell'Archivio di Psichiatria ed Antrop. crim., 1900, Fasc. V, Anno XX)
ed all'opera del Dott. R. Guastalla: _Su alcuni scritti inediti dei
Guerrazzi_. Firenze, 1899.

[38] Si veggano anche a proposito del carattere di Temistocle e, in
genere, delle sue anomalie psichiche, questi due passi di lettere
direttegli dal fratello nel 1840: "La lena ti basta e lo gambe hai
buone! così tu avessi il cervello!... Non portare dunque, come spesso
fai, la testa sopra il cappello, ma ingegnati a mantenerla nella sua
sede naturale, cioè sotto.... Ma tu ragionando con la tua coscienza
urli: io ho ingegno, e glie lo farò, vedere, per Dio santissimo!" — "Oh
potesse guardarti meno in cagnesco la fortuna. — Ma a te sarà più arduo
che agli altri, perchè non solo altero, ma superbo, e di modi gravi più
spesso e stizzosi che magnanimi".

[39] Di questa precoce criminalità il Guerrazzi si vanta nelle Note,
chiamando queste lotte (dirette contro gli ebrei) in cui adoperavano,
oltre i sassi, anche i coltelli e, talvolta, le armi da fuoco, le sue
guerre, e glorificava la propria strategia. In queste lotte riportò una
ferita al capo e altre, di cui una grave, nella coscia sinistra.

[40] Scrive il Guerrazzi: "Parrà impossibile, ma io di dodici anni a
tutte queste cose pensavo, e immaginai un poema e lo scrissi". La frase
è ambigua ad arte per dar a credere di avere a dodici anni scritto
il poema che invece, se fu allora pensato, non potè, come osserva
il Guastalla, esser scritto e compiuto che tra i 16 e i 18 anni,
accennando in un passo a fatti del 1822.

[41] Il Guerrazzi fu durante la sua vita continuamente (o quasi)
afflitto da mali intestinali, frequentemente da febbri, cefalee e
violentissime emicranie oftalmiche, cardiopatie e, come vedremo in
seguito, anche dalla epilessia. (Mondolfo o. c.)

[42] Si cfr. l'ottimo libro del Roncoroni: Sull'epilessia e le nevrosi
epilettiche.

[43] Le accuse che gli muove il Giusti sono gravissime, così per
riguardo alla vita politica come alla vita privata (sopratutto
forense). Dell'accuse politiche basti ricordare quella di avere
in Livorno aizzato il popolo a la rivolta per esser poi chiamato a
domarlo. Per affari privati, gravi accuse di appropriazione indebita
gli furono anche rivolte dal Sanna nel libro _I due Guerrazzi_ (zio
e nipote) e nella lite Temistocle si pose dalla parte del Sanna,
onde un odio feroce tra i due fratelli, tanto che Temistocle non
andò neppure ai funerali del fratello; dal 1840 al '46, narra il
Martini, il Guerrazzi fu tenuto in Toscana _un orco, un parricida,
un immane divorator di fanciulli_; e anche ora, in quelle province,
per significar brutti tempi, si vuole ripetere "tempi del Guerrazzi".
A guadagnarsi questa bella fama egli stesso pose opera, dicendo
che "viveva di rabbia", che "nessuno poteva amarlo non amando egli
nessuno"; che, se fosse stato Dio, avrebbe "soffiato sul mondo
come sopra una candela di sego". Le contrarietà lo esasperarono;
la professione d'avvocato fu per lui "come la catena alla gamba del
galeotto", la vita "un osso datogli a rodere". I suoi sfoghi erano
violenti, i suoi motti pungenti e caustici. Del sentimento marziale
degli Italiani, poeticamente espresso negli inni patriottici —

    Chi discende da sangue latino
    Nacque, visse e guerriero morì! —

rise, dicendo che "noi siam figli dei Romani come i vermi di un cavallo
di battaglia morto da un mese a questa parte". E quando salì al governo
gli parve di "recitare una tragedia d'Alfieri coi burattini". — E disse
il Governo una _fattoria da sfruttare_. (Mondolfo o. c.)

[44] Se quest'ultima affermazione sia vera non so. Vero è che
l'abbondante capigliatura che si vede nel ritratto era null'altro che
una parrucca parigina; ma d'altra parte al Viesseux, nel 43, scrive
d'avere i capelli bianchi prima del tempo, e la malattia fu anteriore,
essendo ancora in vita il padre (1838). Riferisco qui il passo delle
Memorie al Mazzini, in cui si narra di questa malattia: Avuta la
notizia "quello che avvenisse non so; mi ricordo soltanto essermi
rinvenuto in banco di certi amici.... Mi levai e piuttosto fuggii che
mi accomiatai; mi sentivo affatto diverso da quello di prima, parevami
che dove appoggiavo il piede si sprofondasse la terra".... Andò a
vederla: "non la custodiva persona; _solo con sola_ tutto il giorno: le
ficcai gli occhi nel volto e non li rimossi più. A che pensai? A nulla.
Che feci? Nulla. Passò l'ora del cibo e non me ne accorsi, declinò il
giorno e non me ne accorsi". Venne un uomo con la cassa: Qui cominciò
di nuovo la sensazione del terreno che si sprofonda sotto i piedi, —
ma quando presero con colpi raddoppiati a conficcare i chiodi, — io
giuro che fisicamente sentii quei chiodi trapassarmi il cervello; mi
venne meno il lume degli occhi, e svenni di nuovo. Rinsensato, mi vidi
circondato da donne; senza profferire parola mi levai dispettoso, e mi
ridussi a casa ove mi assalse la tremenda infermità che chiamano _tick_
nervoso. Quanto io per tre anni soffrissi non è a dirsi; diventai
l'ombra di me stesso, curvo della persona e giallo ed estenuato da
mettere spavento; mi caddero tutti i capelli. L'assalto del male
cominciava con certo intorpidimento dei nervi dell'occhio destro,
sicchè cotesta parte del capo pareva mi fosse diventata di metallo;
ad un tratto sentivo come uno stringermi con pinzette infuocate i
nervi del sesto paio in fondo all'occhio e scuoterli violentemente e
celerissimamente: non penso che la inquisizione sapesse inventare mai
così atroce martoro; perdevo ogni conoscenza, non già il sentimento del
male, le lagrime sgorgavano a fonte, mugolava avvolgendomi per terra, a
morsi stracciavo lenzuola, camice, e qualche volta me stesso morsi....
Spesso determinai troncare una vita troppo dolorosa, ma dopo mi pentiva
e al padre raccomandai levasse di casa le armi e facesse badare alle
finestre.... Negli intervalli, — salivo e correvo da disperato: certa
volta privo di sentimento, caddi sul terreno e quivi rimasi fino
al tramonto... L'accesso terminava con informicolamento e trafitte
angosciosissime. (Mondolfo, o. c.).

[45] Verlaine. Oenvores: Paris, 1900. — Donos. Verlaine Intime. 1898.

[46] Lombroso. — Grafologia, Milano 1889.

[47] LEWES. — _Vita di Goethe_, Milano, (Traduz. Pisa).

[48] Archivio di Psichiatria ed Antropologia criminale, 1901, II Tav.

[49] Tolgo dalla N. Antologia 16 Maggio 1901 questa lettera degna di un
brigante dei più feroci diretta da Napoleone a Re Giuseppe a proposito
dei ribelli di Napoli:

"Ho inteso avete promesso non imporre tasse di guerra, e proibito
di esigere la tavola dai vostri ospiti. Piccolezze! Non colle moine
si guadagnano i popoli. Decretate una contribuzione di trenta
milioni. A Vienna dove non c'era un soldo io ne posi una di 100
milioni, e fu trovata ragionevole. Avrei gusto che la canaglia di
Napoli si ammutinasse; in ogni popolo conquistato un'insurrezione è
necessaria.... Non sento abbiate fatto saltare il cervello a un solo
lazzarone.... Ho udito con piacere la fucilazione del marchese di
Radio.... mi fa gusto il sapere che fu incendiato un villaggio insorto:
mi immagino l'avrete lasciato saccheggiare dai soldati.... La giustizia
e la forza sono la bontà dei Re, che non bisogna confondere con la
bontà dei privati. — Aspetto d'udire quanti beni avete conquistati in
Calabria, quanti insorgenti giustiziati. Niente perdono. _Fate passare
per le anni almeno seicento insorgenti_, bruciar le case dei trenta
prìmari di ogni villaggio, e distribuite i loro averi all'esercito.
Mettete a sacco due o tre delle borgate che si condussero peggio:
servirà d'esempio, e restituirà ai soldati l'allegria e la voglia di
operare".

[50] A. AMATI. Di Don Pietro Agnesi e delle sue figlie Maria Gaetana,
Maria Teresa e Paolina (Rendiconti Ist. Lom., Milano 1798). — L.
ANZOLETTI. Maria Gaetana Agnesi. 1900 (Milano, Cogliati),

[51] _Elogio storico di G. Agnesi_, 1899.

[52] _L. Dufour-Vernes_, Los ascendants de Rousseau. 1890. Iden
d. Rousseau et ses parentes 1898. Genev. — _Ritter_. Les nouvelles
recherches suri I. I. Rousseau. — R. des deux Mondes, 1896.

[53] LOMBROSO. — _L'uomo delinquente_. II Vol. — _Medicina Legale_, 2a
ediz., 1890.

[54] L'invenzione geniale — Un esempio: Augusto Comte, Torino 1900.

[55] M. L. PATRIZI. — _Nell'estetica e nella scienza_. — Conferenze e
Polemiche. — Sandron, Milano-Palermo, 1899.

[56] _Leopardi al lume della scienza_. — Sandron, 1899.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a
pag. 2 (Errata Corrige) sono state riportate nel testo.





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