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Title: Annali d'Italia, vol. 8 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 Author: Coppi, Antonio, Muratori, Lodovico Antonio Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Annali d'Italia, vol. 8 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750" *** ANNALI D'ITALIA DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE SINO ALL'ANNO 1750 _COMPILATI_ DA L. ANTONIO MURATORI E CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI _Quinta Edizione Veneta_ VOLUME OTTAVO VENEZIA DALL'I. R. PRIVILEGIATO STAB. NAZIONALE DI GIUSEPPE ANTONELLI ED. 1847 CONTINUAZIONE AGLI ANNALI D'ITALIA DI LOD. ANT. MURATORI Chiunque abbia letto sin qui gli Annali d'Italia compilati da Lodovico Antonio Muratori avrà veduto quale immensa tela sia venuto intessendo l'illustre autore per discorrere l'italiana istoria di questi dieciotto secoli, senza che dalla necessità di balzare ogni anno da un punto all'altro della penisola sia derivato al suo lavoro interrompimento o disordine; ed avrà insieme ammirato in che giudizioso modo sia egli riuscito a mettere in tutto il loro lume i veri motivi che preparato hanno i più notabili cambiamenti e le conseguenze che gli accompagnarono; a fissare i luoghi e i tempi precisi che sono stati il teatro, o l'epoca degli innumerevoli avvenimenti narrati; a disgombrare ogni incertezza dall'ignoranza, dalla malizia, dalla inavvertenza o precipitazione degli antichi scrittori passata negli scrittori susseguenti; a sceverare dalle favole la verità; a rendere la dovuta giustizia a quei personaggi che le passioni aveano indebitamente o encomiati o biasimati, e, se dato non era raggiugnere la certezza, ad accennarne almeno ciò che più alla probabilità ed alla verisimiglianza si atteneva; ad interessare infine i lettori con un quadro svariatissimo in cui i trionfi o i danni della virtù contrastano colle alternate vicende del vizio, talvolta fortunato, ma quasi sempre punito o almeno smascherato e fatto segno al dispregio ed all'odio universale. Spesa la maggior parte della vita a scorrere il vasto campo della erudizione, indagando, discutendo ed illustrando le antichità dell'Italia, il Bibliotecario modonese, divenuto per tal guisa possessore d'immensi tesori, o sconosciuti o generalmente poco noti, si aprì la strada alla grande impresa, cui il fino suo discernimento giovò ad appianare e ad imprimere di quella profonda ragione storica che spicca in tutti gli altri suoi scritti. Esattezza somma e precisione riguardo ai luoghi, ai tempi ed alle cose accadute principalmente dal cominciare del quinto secolo sino al principio del decimosesto; sagacità e gran fondo di sana critica per determinare la vera cronologia, nè ammettere ciecamente il maraviglioso d'una fantasia riscaldata, nè i pravi giudizii della malignità o i delirii d'una puerile superstizione; esposizione sincera delle più strepitose rivoluzioni, se pur non abbia a dirsi delle calamità dell'Italia, purificata da quella tinta bugiarda che il genio, il partito, il timore o la speranza, la disperazione o il dolore aveano consigliato agli scrittori contemporanei; ecco il frutto delle estesissime cognizioni in fatto di storia acquistate coi diuturni suoi studii dal nostro Muratori, il quale, non taciuti i vizii ed i difetti, ma nè anche per avventura le virtù degli Attila, degli Alarico, degli Odoacre, degli Alboino, de' due Pippino, dei Carlo Magno, narra poi con ordine, con chiarezza e con tutta la imparzialità le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, i travagli dei romani pontefici, le intestine discordie delle città, le mutazioni dei reggimenti, le rivalità delle provincie ed il contendere dei varii popoli, i fasti e le sciagure di questa, bella e troppo sventurata parte dell'Europa. Se non che, ad esercitare le precipue virtù dello storico, il proprio giudizio e la sincerità, grandemente libero campo gli lasciava la lontananza dei tempi dei quali tenea parola; laonde potea rendere omaggio al merito, al valore ed alla virtù senza che nissuna gelosia si accendesse, e giustamente notare d'infamia il demerito, la viltà ed il vizio senza tema di dispiacere ad alcuno. Imperocchè, estinti interamente o in molto gl'interessi del momento, raffreddato lo spirito di parte, cessate le nemicizie e le rivalità, ed in tutto o parzialmente sanate le piaghe ad una nazione cagionate da disgrazie e da politici o guerrieri flagelli, può lo scrittore farsi sicuro di non incorrere sì di leggieri la taccia di maligno, di bugiardo, di adulatore, d'entusiasta, e sottrarre si può al pericolo di essere male interpretato, come se la sua fantasia preoccupata gli avesse fatto invadere il dominio della fredda ragione, o se il preteso suo zelo animato si fosse con danno di qualche altra passione. Ma ben altramente procede la bisogna per chi imprenda a parlare di cose correnti e vicine: non v'ha cautela che basti. Sia pure e debba pur essere la verità l'anima dello storico, debba pur tutto subordinarsi alla sua legge, ognuno però conviene che grande riservatezza è mestieri nel maneggiare questa verità della storia che ignuda non può sempre comparire mentre ancor durano e sono in fermento gl'interessi ed i partiti, gli odii e gli affetti degli uomini, le cui azioni formano il tema della narrazione, e, peggio ancora, mentre questi uomini vivono non solo, ma eziandio tengono in mano la forza ed il potere. Così il Muratori, allorchè, proseguendo la continuazione de' suoi Annali dopo il secolo XV, giunse a descrivere le cose d'Italia avvenute dopo il XVII secolo, tenne quel giusto mezzo che a saggio scrittore conviensi, per non sagrificare la verità nè sè stesso; riferendo esattamente i fatti de' quali era stato in qualche modo il testimonio e spettatore, ma rado pronunziando suo giudizio assoluto e positivo, se pur non faceasi interprete ed araldo del sentimento universale. E così dovrà adoperare chi prende ad annodare le ultime fila del suo lavoro, protraendole fino a' giorni nostri, tempi quant'altri mai, spezialmente per un periodo intermedio di circa vent'anni, pieni di maravigliose vicissitudini, pur troppo funeste all'Italia, e tali che qualunque sia il nostro proponimento, qualunque la pacatezza dell'animo nostro, forse non sarà sempre possibile non uscire in piuttosto concitate che gravi parole. Ad ogni modo, narreremo ogni cosa, e narreremo senza amore e senz'ira, procacciandoci di mantenere quel coraggioso sangue freddo che non ci farà mai sagrificare la verità alle preoccupazioni, l'imparzialità ai lamenti ed ai motteggi degli appassionati e dei malevoli. Niuno però voglia istituir un confronto tra il classico autore, al cui lavoro apponiamo queste continuazioni, e noi. Senza l'ingegno, altissimo in lui, in noi molto modesto, differentissime sono le condizioni ed i tempi. Mancava, o almeno scarseggiava il Muratori di memorie e documenti, e dovea trar fuori il suo racconto per la maggior parte dalla polvere delle biblioteche e degli archivii; abbonda adesso strabocchevolmente la suppellettile, ed eccede le forze dell'uomo il tutte librarne le parti sopra giusta lance, per discernere, nella frequentissima loro contraddizione, nel vario atteggiamento, nel diverso procedere, il vero dal falso, e far capitale di quello, questo rigettando. I tempi remoti si lasciavano esaminare, ponderare quetamente; i vicini tempi non consentono tutta calma; strascinano seco impetuosi chi si pone a descriverli, nè lasciano quella libertà di esporre, di giudicare, di sentenziare che avrebbe chi i fatti raccontasse dell'antica Grecia o di Roma, ai quali ciascheduno presta quella parte di compassione che alle vicende de' suoi simili generalmente concede, non quell'altra intimamente sentita, profonda, prepotente, che nelle cose proprie forzatamente, necessariamente, avvien che riponga. Per le quali considerazioni tutte, bandito il paragone che dicevamo, ne conforta la coscienza di aver fatto il meglio che per noi si potesse, nei ristretti limiti che pur ci vengono prefissi. ANNALI D'ITALIA DALL'ANNO 1750 FINO AI GIORNI NOSTRI Anno di CRISTO MDCCL. Indiz. XIII. BENEDETTO XIV papa 11. FRANCESCO I imperadore 6. Narrata dall'illustre Muratori, alla fine dell'immortale opera sua, la pace anche all'Italia donata col famoso trattato d'Aquisgrana del 1748, posto in esecuzione nell'anno susseguente in una colle condizioni convenute nel congresso di Nizza nello stesso anno concluso; ed esposto dal lodato autore la situazione in cui, al cadere del 1749, veniva per ciò a trovarsi l'Italia; si può da questo punto incominciare la nuova carriera per vedere le varie perturbazioni, benchè minime e quasi innocenti, che ne avvennero in appresso, finchè poi verso la fine del secolo scorso ed al principio del presente fu tutta sconvolta e trasformata. Ripigliando pertanto il filo della narrazione, ci faremo da Roma e dalle circostanze del presente anno 1750, ch'era l'anno santo. Aperta con le consuete cerimonie auguste nel tempio di San Pietro quella porta che per venticinque anni era stata chiusa, esultavano i fedeli come se si fosse ad essi in certo modo spalancata quella del cielo. In ogni ora di qualunque giorno vedevasi lo spettacolo d'un popolo infinito che, od unito in compagnie, o separatamente, procedeva alla visita delle aperte basiliche; ma lo spettacolo che più d'ogni altro edificava era appunto Benedetto XIV. Quei pellegrini e quei forastieri quasi innumerabili che a Roma concorsero in tale occasione, verificate cogli occhi proprii le mirabili cose che nei loro paesi aveano udito a raccontare della sua pietà, della virtù sua e dell'immensa sua dottrina, tenevano quello stesso linguaggio che in lontanissimi tempi tenne di Salomone la regina Saba. Il pontefice, in età più che settuagenaria, in mezzo alle infinite bisogna e cure dello Stato e della religione, attendeva a tutte le solenni funzioni ordinarie e alle altre colle quali bramava di dare maggiore risalto al suo giubileo. Ma tanta sua ed altrui compiacenza fu in gran parte amareggiata da un'inaspettata disgrazia, accaduta in Roma nel termine dell'anno stesso. Per le dirotte pioggie continuate ingrossato il Tevere, uscì dal letto con furore eguale a quello onde avea traripato ai tempi d'Augusto, cagionando un'orribile innondazione non solo nelle vicine campagne, dove in alcuni punti coverse fino le cime degli alberi, ma in molte principali contrade della città, nelle quali non si potea praticare se non con barchette. Nell'universale spavento e nella terribile calamità non mancò il governo di apprestare le più opportune provvidenze, e di far eseguire tutto ciò che potea ridondare in vantaggio del pubblico; e Benedetto, con tenerissimo paterno affetto, gemendo per quelli che le acque impedivano di uscire a procacciarsi il vitto, ordinò che per mezzo di barche fosse ad essi gratuitamente somministrato il bisognevole. Ed a viemmaggiormente funestare l'animo del pontefice, altre disgrazie amare si aggiunsero. Una pretesa di violazione dei privilegii e diritti della chiesa e del seminario di San Giacomo degli Spagnuoli avea messo in aperto disgusto la corte di Spagna con quella di Roma. Volea il re di Sardegna che nella promozione de' cardinali fosse inchiuso monsignor Merlini, nunzio alla sua corte, e che colla vendita delle più ricche badie del Piemonte fosse formato un appannaggio al duca di Savoia, a similitudine dell'infante don Luigi di Spagna. Faceva grande rumore nell'imperio, tra' principi della casa di Hohenlohe, il ristabilimento di certi consistori e ministri luterani nelle incumbenze dalle quali avea il conte cattolico di Hohenlohe trovato il modo di spogliarsi; e tutti i nunzii pontifizii nelle corti di Germania, considerando questo dissidio di gran rilievo per la religione e per la corte di Roma, ne aveano dato parte al papa. Una fiera persecuzione dei cristiani alla China, rinovando contro i medesimi i più rigorosi editti di sangue, e della quale rimasti erano vittime generose quattro Domenicani, oltre al vescovo di Mauricastro, facea giustamente temere non in quelle contrade si risvegliasse contro i fedeli un odio simile a quello che un secolo prima gli avea percossi al Giapone. Ma tra tutte le perturbazioni che toccavano l'animo del pontefice, quella che diede maggiormente allora a parlare fu la disputa insorta tra la repubblica di Venezia e la casa d'Austria pel patriarcato d'Aquileia. Aquileia rispettata e famosa al tempo di Augusto e degli altri imperadori romani; Aquileia considerata, dopo Roma, la prima città d'Italia, barbaramente disfatta da Attila, distruttore di tante altre città e provincie d'Europa, seppellendo sotto le sue rovine l'antica sua magnificenza, trovossi in quella catastrofe al punto di vedervi sepolto anche il nome. Se non soggiacque, ne andò debitrice al per altro funesto scisma dell'Istria, pel quale, sospesa i vescovi di quella provincia ogni comunicazione colle quattro antiche sedi patriarcali, conferirono essi diritto e nome di patriarca al loro metropolitano, ch'era appunto il vescovo di Aquileia, ed il quale, estinto lo scisma, pur ritenne il conferitogli titolo, e fu da Leone VIII, Giovanni XX ed Alessandro II considerato primo metropolitano di tutta l'Italia, come tenutone universalmente per il prelato più ricco. Divenuti poscia i patriarchi d'Aquileia anche principi temporali per donazioni lor fatte dai re longobardi, da Carlo Magno, dagl'imperadori franzesi e tedeschi, pensarono a ristabilire l'antico splendore dell'abbattuta città. Ma tutte le cure loro non andarono piene di effetto; imperocchè Aquileia, già distrutta dalla forza dell'armi d'Attila, soggiacere dovette ad una forza ancor più assoluta ed una forza ancor più assoluta ed imperiosa, al mare. Abbandonando le acque a poco a poco gli antichi termini all'estremità occidentale del golfo Adriatico, dove prima approdavano le triremi di Roma, lento lento formossi un paludoso terreno, sì che Aquileia, la quale per tanti secoli avea, come Ravenna, sentito a romoreggiare sotto le sue mura i marosi, si vide circondata da povere capanne peschereccie, alla purità d'un aere sano e delizioso succedute esalazioni pestifere e mortali. Tanta rivoluzione di clima sforzò i patriarchi a tramutare la sede loro quando in Gemona, quando in Cormons, ora in Cividal del Friuli, ora in Udine stessa; ed il principe prelato, che pensò di surrogare quest'ultima città all'antica, costituendola siede del suo dominio e metropoli della provincia friulana, si fu il patriarca Bertoldo, nel 1251. Passato per altro due secoli dopo, per la forza delle armi, il Friuli in mano de' Veneziani, e spogliato il patriarca del dominio temporale, per una transazione conchiusa tra il prelato medesimo e la repubblica, confermata dal papa Nicolò V e dall'imperadore Federigo III, assegnaronsi al patriarca di Aquileia le terre di San Vito e San Daniele, colla costituzione d'una dote ecclesiastica corrispondente. Da quel tempo i patriarchi furono sempre veneziani; e continuando a risiedere in Udine, esercitarono, dopo la lega di Cambrai, la giurisdizione ecclesiastica non solo sopra Aquileia, ch'era passata nel Friuli austriaco, ma eziandio nella parte della diocesi compresa ne' dominii della casa d'Austria, giurisdizione che mai sempre dispiacque ai principi di quella casa. Si convenne pertanto tra gli arciduchi d'Austria ed i Veneziani che le due potenze godessero alternativamente del diritto di nominare a questo patriarcato. Ma la convenzione si ridusse alle parole; poichè gli Austriaci non giunsero mai a godere del diritto, per l'attenzione sempre posta da' patriarchi d'Aquileia, veneziani, a scegliersi veneziani coadiutori, loro concessi dal senato, e muniti di bolle pontificie per la futura successione. Richiamossi l'imperadrice Maria Teresa contro questa usurpazione de' Veneziani, pretendendo che la tolleranza de' suoi predecessori non avesse valso a prescrivere il diritto che anch'essi avevano alla elezione del patriarca; ed i Veneziani, fondando la loro pretensione sopra il non essersi mai fatto da' principi della casa d'Austria uso del combattuto diritto. Da gran tempo e alla corte di Vienna e nel senato di Venezia agitavasi la controversia; e alle proposizioni e proferte da una parte surgendo dall'altra difficoltà e rifiuti, le cose tiravano in lungo senza speranza di componimento. Finalmente concordarono le due potenze in questo, di prendere il papa ad arbitro di una vertenza che in gran parte era ecclesiastica e religiosa, facendo, più della dottrina e della sapienza di Benedetto XIV, sperare giusta la pontificia decisione il suo carattere equo e moderato. I Veneziani poi tanto più erano concorsi di buon grado a sottomettersi al giudizio di lui, perchè, oltre ad un breve di Giulio III, che ad essi confermava il diritto di nominare il patriarca, non aveva la santa Sede nel progresso del tempo tenuto in alcun conto l'alternativa, e perchè, generalmente parlando, un lungo possesso non interrotto equivale ad un incontrastabile diritto. Ed in fatti Benedetto XIV conservò ai Veneziani il diritto di eleggere soli il patriarca; ma, affine di togliere i sudditi dell'imperatore dalla suggezione ad un vescovo straniero, nella parte austriaca di quella diocesi stabilì un vicario apostolico. Spiacque oltremodo al senato cotale decisione, e richiamò egli tosto i suoi ambasciatori tanto da Roma quanto da Vienna. Al tempo stesso la repubblica accrebbe di molto le sue armate di terra e di mare e si dispose alla guerra. Il papa dichiarò che, qualunque potessero essere le conseguenze di quella lotta, non credevasi egli mallevadore di quegli avvenimenti; che stabilito aveva un vicario apostolico, le regole seguendo della giustizia, e che alcun interesse non pigliando alle operazioni del veneto senato, rimettevasi alla saviezza dell'imperadrice regina. Il senato, all'incontro, manifestò a tutte le corti avere il papa stabilito quel vicario in una parte del patriarcato di Aquileia, ed a quella dignità inalzato il conte di Atimis, canonico di Basilea; grave pregiudizio quindi venirne al diritto di padronato dalla repubblica esercitato costantemente; essere perciò la repubblica stata costretta a richiamare il suo ministro da Roma dopo le proteste fatte contra quel breve; professare tuttavia, mentre gelosa era di conservare un diritto col lasso di più secoli acquistato, alla santa Sede in tutt'altro rispetto sentimenti di venerazione e di filiale obbedienza. Il re di Sardegna si proferì mediatore nella contesa, ma dal senato veneto non ottenne se non un rendimento di grazie. Fu proposto di smembrare il patriarcato, e di formarne due vescovadi, da stabilirsi l'uno ad Udine, l'altro a Gorizia; ma anche siffatta proposizione fu dal senato rigettata; ed il nuovo vicario apostolico, recatosi ad Aquileia, il possesso pigliò di quella dignità, malgrado le opposizioni de' Veneziani. Vollero questi ancora qualche tempo resistere; ma, troppo deboli forse per opporsi alle forze dell'Austria, acconsentirono finalmente alla proposta divisione: fu però stabilito che abolito sarebbe il titolo di patriarca d'Aquileia, e ripartita la diocesi in due vescovadi, dei quali la nomina apparterrebbe per l'uno al senato, per l'altro ai sovrani dell'Austria. Il chiudimento della santa porta segnò in Roma il termine dell'anno 1750, nel quale furono celebrate nella corte di Torino le nozze tra il duca di Savoia Vittorio Amedeo, figlio del re Carlo Emmanuele III, e l'infante Maria Antonia, sorella di Ferdinando VI re di Spagna. Manifestossi intanto in Parma un mal umore, perchè quel novello sovrano, Spagnuolo di nazione, avesse conferito le principali cariche del ducato, e particolarmente quelle della pubblica economia, agli Spagnuoli; e furon pubblicati viglietti, co' quali avvertivasi quel principe di ricordarsi delle istruzioni avute dal re suo padre Filippo V, cioè di reggere con dolce freno i suoi popoli. Tentando d'infrenare l'umor sedizioso col rigore, l'espediente non giovò; sicchè bisognò cambiare i ministri e scemare le tasse. Delle quali benefiche disposizioni contento il popolo, dimostrò la sincera sua riconoscenza verso il principe quando giunse di Francia in quello Stato la reale sua sposa, figlia di Luigi XV. Anno di CRISTO MDCCLI. Indiz. XIV. BENEDETTO XIV papa 12. FRANCESCO I imperadore 7. A mantenere il benefizio della pace, di cui già da un anno erasi incominciato a godere in Italia, aveano il massimo interesse le due corti di Vienna e di Madrid; avvegnachè, se l'imperadore Francesco I possedeva i dominii della casa de Medici, due principi della casa regnante di Spagna teneano il regno delle Due Sicilie, e l'eredità della casa Farnese. Il conte Esterazi adunque, ministro cesareo alla corte di Madrid, in varie conferenze avute col signor di Carvaial e Lancastro, e col marchese dell'Ensenada, principali ministri del gabinetto spagnuolo, propose che, per allontanare il pericolo di nuove turbolenze, e stabilire la pace sulla base degli antichi trattati, il re Cattolico s'impegnasse di non prendere parte, nè direttamente nè indirettamente, in qualunque guerra che insorger potesse in Italia, nel caso che, contra ogni aspettativa, se ne accendesse alcuna che fosse prodotta da una causa straniera agli interessi di Sua Maestà Cattolica e della sua famiglia; che l'imperadrice regina, dal canto suo, per cooperare al medesimo fine, guarentisse nella più solenne forma gli Stati de' quali era in possesso il re delle Due Sicilie, non meno che quelli posseduti dall'infante don Filippo in vigore del trattato di Aquisgrana; che la stessa malleveria si facesse dall'imperadore nella sua qualità di granduca di Toscana; che finalmente, in forza di tale accordo, rimanesse estinta e diffinita ogni scambievole pretesa, oppure, se alcuna ne restasse, sopra la quale le due corti non si fossero acconciate, si avesse diffinire amichevolmente. Intanto che il conte Esterazi adoperava in tal modo alla corte di Madrid, un altro abile ministro della corte di Vienna, il conte Beltrame Cristiani, gran cancelliere di Milano, prevaleasi del suo soggiorno a Torino, dove erasi trasferito per regolare i punti di commercio tra gli Stati del re di Sardegna e la Lombardia austriaca, onde disporre l'animo di quel sovrano ad entrare nella convenzione meditata e stabilita tra l'imperadrice regina Maria Teresa e Ferdinando VI re di Spagna. Riusciti felicemente ne' loro maneggi ambedue i detti ministri, in brevissimo tempo venne fra le corti di Vienna, Madrid e Torino stipulato un trattato, di cui questa era la sostanza. Nel caso che le truppe nemiche invadessero gli Stati del re di Sardegna, dovesse l'imperadrice regina somministrargli un aiuto di sei mila uomini; fornisse ella lo stesso numero di gente per difesa del re delle Due Sicilie, dell'infante duca di Parma e del duca di Modena, allorchè gli Stati di questi principi si trovassero nello stesso caso; ad uguale sussidio fosse tenuto il re di Sardegna, nel caso che fossero attaccati i dominii posseduti in Italia dalla imperadrice regina, e ad egual impegno verso di essa fosse vincolato anche il re di Spagna; facesse Sua Maestà Cattolica il medesimo riguardo al re di Sardegna, e questi verso la Maestà Sua; in ognuno di questi casi il re delle Due Sicilie somministrasse cinque mila uomini di truppe ausiliarie, e tre mila per ciascheduno l'infante duca di Parma ed il duca di Modena; dovesse finalmente ciascuna delle parti stare mallevadrice pei dominii dalle altre rispettivamente posseduti in Italia, nello stato medesimo in cui allora si trovavano. In questa convenzione, intesa a mantenere la quiete d'Italia, non erano, come si vede, compresi gli altri principati italiani, cioè il papa, e le tre repubbliche, di Venezia, di Genova e di Lucca, nè poteano esserlo. I sommi pontefici, e specialmente Benedetto XIV, sicuri di conservare quegli Stati che dalla pietà e munificenza de' principi avea la santa Sede ottenuti, non poteva pensare mai a dilatarli per ambizione o per avidità d'imperio nè temere poteva di esserne, se non dalla violenza e dalla ingiustizia spogliato. Contenta la repubblica di Venezia de' suoi possessi nel continente e fuori, già da più d'un secolo avea rinunziato all'idea di meschiarsi nelle dissensioni dei principi in Italia, e faceva professione d'una rigida neutralità. Quella di Lucca, limitata alla ristrettezza del suo pacifico dominio, compreso e quasi incastrato nella Toscana, attendeva al commercio ed alle arti della pace, e stimavasi felice di non entrare per nulla in bilancia a fissare l'equilibrio della penisola. Quanto alla repubblica di Genova, che tanta parte aveva avuta nell'ultima guerra, non era stata nominata, perchè le direzioni da essa tenute a suo riguardo aveano disgustato la corte di Vienna; perchè le altre potenze, allora belligeranti e rivali della casa di Austria, non aveano trovato vantaggio nissuno dall'amicizia di lei; e perchè finalmente tutte le repubbliche, se non sieno potenti, interessare non possono nella loro sorte i sovrani assoluti, mancando quei vincoli di sangue o di affinità che devono o almeno possono talora stringere i principi fra loro. Ma la genovese repubblica, che da venti anni teneva a sè conversi gli sguardi dell'Europa per quella ribellione della Corsica, che, dopo la tanto decantata dei Paesi Bassi al tempo di Filippo II, non avea avuta ne' secoli moderni l'eguale o per l'energia de' suoi sforzi, o per la costanza nelle disgrazie o per l'accorgimento, trovossi nel presente anno in non troppo felici contingenze. Si è veduto a suo luogo (all'anno 1745) come la città di Bastia, capitale dell'isola, già smantellata pel furibondo fulminare di bombe e cannoni d'una squadra inglese, fosse dal suo governatore genovese abbandonata in mano del colonnello Rivarola, che con tre mila Corsi sollevati se le faceva sotto. Non vogliamo qui lasciar di notare, perchè da nessuno storico riferito, ma pure consegnato nelle memorie d'un insigne naturalista franzese, che un ministro della corte di Francia, vedendo lo spirito sempre inquieto e tumultuante di quelle popolazioni, propose di far tagliare tutti gli alberi de' castagni di quell'isola, che il nutrimento per alcuni mesi fornivano agli abitanti, affinchè costretti fossero a coltivare nelle lor montagne i grani e per ciò distratti dalle guerriere imprese; senza avvedersi che in quelle selve montane mai non si sarebbero seminate le biade, e che il popolo, privo d'un mezzo ad esso fornito dalla natura, ne sarebbe più feroce divenuto ed indomabile. Poichè pertanto il congresso d'Aquisgrana non avea fatto nessun conto della supplica colla quale i Corsi in commoventi termini esponevano le cagioni della loro insurrezione, ed imploravano l'assistenza delle corti europee onde non rimanere più oltre sottoposti alla oppressione de' Genovesi, quegl'isolani continuarono a coraggiosamente combattere per la loro indipendenza. Già la Francia, che, per tornare i ribelli all'ubbidienza del senato genovese avea, dopo il conte di Boisseux, spedito in Corsica il marchese di Maillebois, il quale disse ai Corsi come Sua Maestà Cristianissima prendesse la loro isola sotto la sua tutela e protezione, venuta era in determinazione di sostituire a questo comandante generale il marchese di Cursay. Ora, comandando questi da vicerè, contribuì molto a rendere sempre più odioso il governo antico ed attuale della repubblica di Genova; e la grande autorità che arrogavasi fece insiememente nascere puntigli e serie contese tra lui ed i comandanti generali, che volevano sostenere il decoro ed i diritti della genovese repubblica. Cotali disordini presero gran piede nei primi mesi di quest'anno in molte occasioni, e principalmente per certa paglia niegata da alcuni luoghi al marchese di Cursay, che volea pagarla, ed a lui invece fornita da' Corsi sollevati senza verun pagamento. Da ciò insorte nuove questioni tra le truppe franzesi e le genovesi, unite a' Corsi fedeli, sì che vennero più volte alle mani, quel comandante dovette appigliarsi al partito di vietare a' suoi di approssimarsi ai presidii genovesi. D'uopo è notare che mentre i Corsi sostenevano una lotta accanita coi Genovesi, le diverse corti, e quelle specialmente di Francia e di Spagna, gelose erano a vicenda, e timorose sempre che l'isola cadesse in dominio dell'una o dell'altra; dal che derivava che mentre si ostentava talvolta di prestare aiuto ai Genovesi, e di voler ricondurre la pace, non si lasciava di fomentare in qualche modo la sollevazione e di favoreggiare l'indipendenza di quella nazione. Intanto la discordia, che regnava tra' Franzesi e Genovesi, riaccese quella delle comunità del regno, senza che il generale franzese, il quale procurava di sopirla, o almen frenarla con la dolcezza e con l'autorità, prevalesse a ristabilire la quiete, spesso interrotta da vie di fatto funeste e sanguinose. Informata la repubblica di Genova di quanto era accaduto ed accadeva in Corsica tra il marchese di Cursay ed il suo comandante, tra le milizie di ambedue le parti e tra le comunità del regno, elesse subito il marchese Giacomo Grimaldi, uomo di gran merito e di molta estimazione, per mandarlo nuovo commissario in Corsica a trattare col comandante franzese un aggiustamento di tutte quelle vertenze; inviando al suo ministro a Parigi ampie istruzioni onde giustificare presso quella corte il modo di operare suo e de' suoi. Ma anche il marchese di Cursay avea già di tempo in tempo portate alla sua corte le proprie doglianze, e da ultimo l'aveva ragguagliata delle recenti contese; senza nel frattempo tralasciar l'esecuzione degli ordini ricevuti dal cavaliere di Chauvelin, plenipotenziario del re a Genova, di convocare pei 10 del mese di giugno un'assemblea generale del regno, onde farvi l'elezione di cinque deputati, che, unitamente con lui, col plenipotenziario suddetto e coi commissarii del senato di Genova, dovevano trasferirsi a Tolone, per regolarvi diffinitivamente in una specie di congresso tutte le bisogna della Corsica. L'adunanza non ebbe luogo, perchè la Francia, disgustata grandemente, per le relazioni del Cursay, e de' Genovesi e de' Corsi, venne in determinazione di richiamare dalla Corsica le sue genti, lasciando in balia di sè stessi non meno quegli abitanti che la repubblica di Genova; e già tutto era apparecchiato per la partenza. Sensibilissima riuscì alla repubblica e del pari ai capi de' Corsi l'imminente partenza delle truppe franzesi dall'isola, perciò che lasciavanla esse in un abisso di disordini, de' quali non poteasi sperare allora nè rimedio nè fine. Fecero dunque lor pruove ambe le parti per sospendere l'effetto della presa risoluzione, il senato di Genova dando ordine a' suoi deputati in Parigi di sottomettersi a qualunque soddisfazione che il gabinetto di Versaglies esigesse, e promettendo i Corsi di ricevere con intera sommissione quei regolamenti che al re piacesse di fare intorno agli affari loro. Corse allora voce che qualche bella soddisfazione venisse data da' Genovesi a Luigi XV, ma niuno poi seppe dire in che consistesse. Si seppe bensì tosto che, calmato quel monarca, avea dato ordine al suo ministro Chauvelin di proporre ai Corsi il chiesto regolamento, facendo loro intendere che Sua Maestà, mossa dalla idea delle calamità che per la partenza delle sue truppe sarebbero toccate ai Corsi, era discesa a sospendere l'esecuzione de' suoi ordini, onde terminare un'opera ad essi favorevole, come era quella di restituir loro la pace e far che godessero d'un dolce reggimento e permanente. In conseguenza de' quali ordini, passato nell'isola lo stesso de Chauvelin, il marchese di Cursay intimò di bel nuovo una generale adunanza; alla quale essendosi portati i deputati corsi, dopo comunicate ad essi le condizioni dal re di Francia procurate per assicurar loro uno stato felice e tranquillo, furono anche chiamati a conoscere che felicità e tranquillità, mediante un moderato e giusto governo, non poteano ottenere se non se da quella potenza che avesse sopra di essi una legittima e sovrana autorità, come appunto era la repubblica di Genova; nello stesso tempo dichiarando che Sua Maestà Cristianissima, per un effetto della sua naturale bontà, addossavasi la malleveria di tutto ciò che fosse loro concesso, e di cooperare all'esecuzione. Tutti i deputati ad una voce fecero sapere che si sottomettevano rispettosamente a quanto Luigi XV richiedeva, ed anzi sottoscrissero un atto, col quale giurarono sopra l'Evangelio di volere da allora in poi riconoscere la repubblica di Genova per sola legittima loro sovrana, tornando sotto la sua obbedienza, e rinunziando ad ogni passo od atto in contrario. Laonde fu letto e dato loro a sottoscrivere il regolamento, contenente le condizioni che il re di Francia aveva per essi conseguite dalla repubblica, e comprese in otto articoli, tutti risguardanti al generale governo dell'isola, senza parola da cui argomentare che seguire ne dovesse essenziale mutazione di reggimento. A questi passi, un altro i Corsi ne mandarono dietro. Quattro fra i deputati recaronsi a Bastia, e a nome di tutta la nazione rinnovarono al già detto commissario Grimaldi le sicurezze della loro sommissione e del sincero loro ritorno sotto il dominio dell'antico legittimo Sovrano, presentandogli in pari tempo, ed alla presenza del cavaliere de Chauvelin, una lettera, nella quale, riconoscendo la repubblica per loro sola e legittima sovrana, protestavano che la principal cura dei padri di famiglia e de' capi delle comunità sarebbe stata quella di avvezzare i popoli al dovere ed alla subordinazione, e nel tempo stesso imploravano dal commissario che volesse presso la Repubblica interporsi, affinchè ottenesse dal re di Francia che tuttavia in Corsica restassero le sue truppe, mezzo valevole, forse e unico per assodare quella tranquillità che per esse si era veduta a rinascere. A simile domanda furono i Corsi indotti per un fine politico: sudditi, essi non potevano chiedere al re l'ulteriore soggiorno delle sue milizie; sembrava inconveniente che lo facesse la repubblica riguardo ad un paese pacificato e messo sotto la sua obbedienza; il re di Francia di suo moto proprio nol dovea. Dall'altro canto a tutti conveniva, o per interesse o per decoro, che quegli armati si rimanessero. Fu dunque trovato l'espediente della lettera, che togliea di mezzo tutti gli scrupoli e delicatezze. Se non che non tardò molto a manifestarsi la necessità di quelle truppe. I deputati che aveano firmata la pacificazione della Corsica furono disapprovati da' loro committenti di là dai monti, che si sollevarono, e se di qua il fuoco non iscoppiò nè così presto nè con tanto impeto, covava sotto la cenere, ed anzi si credette che di qui partissero le scintille che appiccarono l'incendio dall'altra parte. Gli abitanti di Niolo, considerati sempre come i meno trattabili dell'isola tutta, furono i primi a tumultuare contro il regolamento, perchè non procacciasse i vantaggi ch'eransi fatti sperare, non parlando esso punto de' privilegii della nazione, che pur erano l'argomento principale della gran lite co' Genovesi, e per tal modo rimanevano, come per l'addietro, soggetti all'autorità dispotica della Repubblica e de' suoi uffiziali. Nè a persuadere i Niolesi e gli altri abitanti di parecchie pievi della parte oltramontana, che ne avevano seguito l'esempio, valsero le parole dell'abbate Olivetto, ecclesiastico molto stimato da quelle genti, ed il medesimo che per esse avea scritto alla corte di Francia promettendo a loro nome tutta la sommessione, perchè si lasciassero nell'isola le truppe che il re ne avea richiamate: prese di bel nuovo l'armi, posero ogni cosa in disordine tale, che forse potea dirsi peggiore di quel di prima. Se non che, recatosi sui luoghi il marchese di Cursay con buona mano di soldati, giunse a calmare gli animi ed i ribelli, deposte l'armi, gli diedero anche statici per sicurezza della loro fede: vedremo in appresso che calma e che sommissione fossero quelle. I corsari africani, che in quest'anno ricomparvero baldanzosi sulle acque della Corsica, ed ogni dì faceano udire il suono di qualche novella preda, e minacciavano di sbarco le coste dell'Italia, senza che a reprimerne l'insolenza valessero una squadra napolitana e le galee di Malta e del pontefice, furono cagione di grave querela tra la corte di Napoli e quella di Vienna. Avendo le galee pontificie e napoletane data la caccia a due galeotte tunisine, ne catturarono una; ma l'altra riuscì a ripararsi sotto il cannone della torre del Giglio, situata all'altura degli Stati de' presidii, sulle terre all'imperadore spettanti nella sua qualità di granduca di Toscana. Allora le galee pontifizie, cessando l'impresa, diedero di volta; ma le napoletane, niente curando i segnali del comandante della torre, che avvisava trovarsi la galeotta in paese sicuro, l'incalzarono sì, che costrinsero i Turchi a salvarsi in terra, dove pure sbarcati, gli attaccarono più volte, finchè li videro in luogo di sicurezza, e quindi condussero seco il legno nemico ed una barca napolitana poc'anzi da quello predata, in tutta questa fazione lavorando col cannone gagliardamente con qualche danno eziandio della torre, che continuava a protestare ed a far fuoco per far rispettare i suoi diritti. Informata la corte imperiale, allora residente a Presburgo, dell'accaduto, lo imperadore, come granduca di Toscana, considerandosi altamente offeso per la violenza praticata a quel corsaro sotto la sua protezione, chiese alla corte di Napoli pronta e solenne soddisfazione colla restituzione immediata del bastimento predato. Alle quali rimostranze re Carlo rispose, aver lui fatto più volte rappresentare alla reggenza di Firenze non potersi avere riguardo alcuno alla pretesa neutralità della corte di Toscana, però che di questa i Barbareschi prevalevansi per impunemente e come da sicuro asilo assaltare le navi napoletane con incredibile danno de' suoi sudditi e del loro commercio; nè dovere quindi parere strano se il duca di San Martino, comandante delle galee napoletane, non avea avuto difficoltà di assalire il legno tunisino, trovatosi appunto nel caso per cui state erano mosse quelle doglianze e proteste. O sia che cotale risposta fosse riconosciuta concludente, o che altri motivi a ciò consigliassero, l'affare rimase allora sopito. Tuttavia, a mettere qualche rimedio al sommo pregiudizio che generalmente recava al commercio d'Italia, quel ricovero che ne' porti di Toscana trovavano i Barbareschi, per la pace da Francesco I imperadore, quale granduca, colle reggenze africane conchiusa; mosse calde lagnanze alla corte di Vienna dal papa, dal re di Sardegna e dalle repubbliche di Genova e di Lucca; l'imperadore stesso, sul cui animo avere doveano maggior forza le ragioni giustissime di quattro italiane potenze che non qualunque trattato o impegno in cui fosse entrato coi governi di Barbaria, s'indusse finalmente a permettere alla reggenza di Firenze di servirsi delle due navi da guerra recentemente a Porto Ferraio tornate dal Levante, per tener lontani dalle coste di Toscana i corsari, non permettendo loro di accostarsi, se non ne' casi di disgrazia, che furono specificati. Alla quale permissione imperiale fu allora creduto che maggiormente avessero contribuito i lamenti de' negozianti di Livorno per le ingiustizie ed avanie che le loro navi pativano da coloro, a' quali la fede de' trattati era lieve freno per trattenerli dal commettere mille estorsioni ed iniquità. A questa provvidenza giusta e salutare, diretta ad assicurare possibilmente il commercio italiano dalla rapacità e malafede degli Africani, un'altra ne mandò dietro Benedetto XIV, e come capo della religione e come principe temporale, molto più dilicata di sua natura, ed assai più importante nelle sue conseguenze, riguardo ai così detti Liberi Muratori. Già da circa venti anni diffusa e clandestinamente dilatata ne' paesi cattolici, e più ancora in quelli che fuor del cattolicismo viveano, teneva questa società in continuo sospetto i principi ed i governi. Chi le ha dato per progenitori coloro che edificarono la torre di Babele, chi quelli del tempio di Salomone; altri, più sistematici, vollero riconoscerne padri i cavalieri Templari. Amava le tenebre, ed in seno dell'oscurità andava ampliando il numero de' suoi confratelli. Sulla porta di quelle stanze che le serviano di notturno ricetto non vedevi impressi caratteri materiali; eppure era scritto: _Lungi, o profani; è questo il regno della luce ed il tempio della verità._ Riti misteriosi ne accompagnavano le iniziazioni. Non diversità di patria, non differenza di governo, non disparità di culto era di ostacolo o ragion di ripulsa a chi chiedea d'entrare. Nel regno della luce, nel tempio della verità ammetteansi egualmente, e come cittadini e come adoratori, i fedeli di Cristo, i discendenti di Abramo, i seguaci di Calvino o di Lutero, di Maometto e di Confucio. La differenza stessa della nascita, del grado, delle fortune quivi spariva; chè l'opulento ed il misero, il dignitario e l'artigiano, principi e sudditi, dotti ed indotti trovavansi indistintamente registrati sulla lista dei Liberi Muratori, e non rado un uomo, cui per le vene scorreva un sangue per trenta o quaranta generazioni purificato, siedeva fra due compagni lordi ancora di quel fango ond'erano usciti nascendo. Soave giocondità presiedeva alle notturne loro adunanze, e parea un'innocente allegria fosse il nume geniale de' loro banchetti. Uno spirito di fratellanza, di benevolenza generale, mentre congiungeva le destre, ne annodava i cuori. I soccorsi, che una mano benefattrice porgea a chi avea bisogno, erano sempre tanto spontanei quanto copiosi; ed il fratello beneficato, lungi dal vedere nel suo benefattore, come suole troppo di sovente, chi della sua superiorità approfitta per farsi dipendente e schiavo un infelice, vedevasi appena obbligato al tacito tributo dell'intima riconoscenza. Come dunque una congregazione di uomini, sì innocente nel suo vantato istituto, sì benefica ne' pretesi suoi effetti, che proponeasi di mettere in pratica quelle sante massime che, proposte dal Vangelo colla promessa di non terminature ricompense, trovano nondimeno tra i cristiani sì scarso numero di cultori, come mai farsi potè sospetta ai governi, tirarsene addosso lo sdegno, e meritar in fine d'esser punita? Facile a conciliarsi è l'apparente contraddizione. La società dei Liberi Muratori è tutta fondata sul più rigoroso secreto. Coloro che vi sono ammessi non entrano a parte del mistero, e nulladimeno si esige da essi sotto i più terribili giuramenti di starne fedeli al silenzio. Se la società ha per oggetto del suo istituto la virtù, a che tanta precauzione per tenere celata la sostanza delle sue massime e delle sue dottrine? Perchè non far vedere agl'iniziati il codice della loro associazione? A che tanta diffidenza, a che tanta gelosia? Tutti questi segreti, tutti questi misteri, che all'illustre Annalista d'Italia sembrarono _inezie_, e ad altri parve che contenessero l'_enigma e non l'arcano_, divennero sospetti non solo alla podestà ecclesiastica, per credere che si macchinassero insidie alla religione, ma eziandio alla stessa secolare podestà, prevedendo che potesse turbarsene la quiete civile. Quindi in poco tempo si videro a circolar per tutta l'Europa editti sopra editti contro i Liberi Muratori. Prima a comparire nella lista delle potenze che proscrissero la società fu la Francia, nel 1727. L'Olanda nello stesso anno, e molto più rigorosamente nel 1755, manifestò il suo sdegno contro i supposti discendenti dei Templari. Tre anni dopo lo stesso fecero la Fiandra e la Svezia. La Polonia nel 1739, la Spagna ed il Portogallo nel 1740, il governo di Malta nel 1741, e la regina d'Ungheria nel 1743 fulminarono gli apostoli della verità e gli angeli della luce, come furono poi proscritti, nel 1748, negli Svizzeri, dal cantone di Berna. Tredici anni erano scorsi da che Clemente XII, stato informato che il mostro, varcate le Alpi, avea posto in Italia il piede, gli scagliò contro gli anatemi del Vaticano. (Ved. sopra all'anno 1736; tomo VII, col. 429 e seg.) Se non che alcuni divulgavano che le censure fulminate della Chiesa, per non essere la bolla di Clemente stata dall'attuale pontefice confermata, non aveano più vigore alcuno. Si volse adunque Benedetto XIV a distruggere sì pernizioso errore, e nel giorno 18 maggio del presente anno comunicò a tutto il mondo cattolico i suoi sentimenti e le risolute sue determinazioni in tale proposito con una bolla, nella quale sei motivi adduceva, pei quali aveasi la società a riguardare come direttamente contraria al bene della religione e dello Stato. Unirsi, diceva, in siffatte adunanze persone di ogni religione e di tutte le sette; occultarsi con istretto costante impegno di segretezza le cose che in dette conventicole si fanno: asserendo essere colpevole il giuramento con cui si obbligano ad inviolabilmente osservare il segreto, come se fosse lecito ad alcuno di premunirsi del pretesto di qualche promessa o giuramento per esimersi dal manifestare le cose tutte, intorno alle quali fosse dalla legittima podestà interrogato; opporsi società simili alle leggi civili non meno che alle ecclesiastiche, essendo dal gius civile vietati tutti i collegi e corporazioni tutte formate senza pubblica autorità; essere in molti paesi state proscritte dalle leggi di principi cotali società ed aggregazioni; cadere esse mai sempre in sospetto degli uomini saggi, riputati perversi coloro che vi si aggregavano. Quantunque in Napoli più che altrove si guardasse con sospetto qualunque adunanza od unione di genti, per le ripetute rivoluzioni alle quali andò quel regno suggetto, così teneasi che colà e nelle altre napoletane provincie si fossero assai moltiplicate le logge di Muratori. Appena dunque venuta in luce la costituzione di Benedetto XIV, il zelo di molti ecclesiastici fece sì che tuonassero, sul fondamento delle voci che correano, contro la setta dei Liberi Muratori; e quindi il popolo a credere di veder sempre chi portasse in fronte i contrassegni del fulmine pontificale; a mormorare che la corte in sì delicato argomento si tenesse in silenzio. Intanto i settatori, benchè con tutta giustizia perseguitati, e quantunque conoscer dovessero il proprio torto, osservavano gelosamente quel segreto ch'era l'anima della loro istituzione, guardavano un rigoroso silenzio sulla sostanza delle loro massime e sulla natura dei dogmi loro, non meno che intorno al nome dei consocii, e continuavano a radunarsi clandestinamente. Ma, per quanto occultamente adoperassero, non valeano a sottrarsi affatto alle suspizioni. Potea il disordine crescere da una parte, crescer dall'altra lo scandalo. Laonde il re, risoluto d'andare alla radice del male, condiscendendo ancora alle istanze del sommo pontefice, elesse cinque giudici particolari, uno per ciascun ordine di persone, onde fossero processati e puniti tutti coloro che alla setta de' Muratori si trovassero aggregati. Ma perchè tali regie disposizioni forse non bastavano, se anche la nazione tutta non fosse senza equivoco e perfettamente istrutta della sovrana volontà, il re Carlo emanò un severo editto, in cui proibì assolutamente ne' suoi dominii i Liberi Muratori, da dover essere puniti come perturbatori della pubblica tranquillità e rei di crimenlese. Anno di CRISTO MDCCLII. Indiz. XV. BENEDETTO XIV papa 13. FRANCESCO I imperadore 8. La convenzione nell'anno scorso da noi mentovata, tra le corti di Vienna, Madrid e Torino, fu nell'anno presente ridotta a solenne trattato, reso poi celebre sotto il nome di trattato di Madrid, o di Aranjuez, dal luogo in cui fu stipulato, ed il quale in sostanza non era che una pura rinnovazione della convenzione sopraccennata, le sole mutazioni fatte consistendo negli aiuti scambievoli promessi da' tre sovrani in caso di aggressione ai loro Stati in Italia, e nell'alternativa di dare in vece di soldati uno stabilito sussidio in denaro contante. Alla diffinitiva conclusione di siffatto accordo molto cooperò il re d'Inghilterra, siccome quegli a cui stava molto a cuore la perfetta esecuzione del trattato di Aquisgrana e della convenzione di Nizza, che ne furono come la base ed il principal fondamento. Ed al totale ristabilimento della pubblica tranquillità concorsero quasi tutte le italiane potenze, con sì buona intelligenza e concordia, che in brevissimo tempo, per mezzi del tutto amichevoli e pacifici, congressi, maneggi, concordati, furono accomodate tutte le questioni e vertenze insorte necessariamente per le perturbazioni delle guerre, intorno ai confini ed alle giurisdizioni tra il regno di Napoli e lo Stato pontificio, tra questo e la Toscana, tra esso granducato ed il duca di Modena, tra il Milanese e gli Stati del re di Sardegna, tra questi e la repubblica di Genova, tra il Mantovano ed il Tirolo colla repubblica di Venezia. Le sollecitudini de' principi contraenti nel detto trattato ebbero per quaranta e più anni un effetto salutare. E forse anche più durato avrebbe il suo beneficio, senza quel turbine che dalla Francia proruppe a disordinare ogni meglio connesso edifizio, verso la fine del secolo, come a suo luogo verremo a mano a mano descrivendo. Ma intanto ci è d'uopo ripigliare il filo delle cose di Corsica, che tenevano allora desta l'attenzione generale dell'Italia non solo, ma di tutta l'Europa. Guardavansi di mal occhio i due primarii personaggi che allora reggevano la isola, il commissario genovese marchese Grimaldi ed il marchese di Corsay comandante franzese, e tanto innanzi procedute erano le cose, che quel primo dalla Bastia erasi ritirato in Aiaccio, per isfuggire le contese quotidianamente insorgenti per l'autorità che questi arrogavasi, in gran parte contraria alla sovranità della repubblica. Ora ad accrescere le discordie accadde che una squadra franzese, tornando da' lidi dell'Africa, dov'erasi portata a minacciare i Tripolini, bombardandone il porto, comparve sulle coste della Corsica e diede fondo nel porto d'Aiaccio, senza che i Genovesi sapessero che pensarsi di quella comparsa, e con grave scontentezza de' Corsi, tra' quali corse come sicura la voce che fosse venuta per opporsi ad altra squadra inglese, che dovea liberar l'isola dalla schiavitù e dall'oppressione. Come il senato di Genova avea già significato al suo commissario che gli chiedea il modo del contenersi, la squadra, dopo rinfrescato, veleggiò per Tolone; ma in quell'occasione il senato stesso avea pur fatto intendere al Grimaldi come stata fosse ottima cosa che se la passasse con miglior accordo col comandante franzese, in pari tempo lagnandosi alla corte di Francia delle costui procedure. E a tali insinuazioni del senato il Grimaldi replicò con sentimenti di buono e zelante repubblicano, lui chiedere piuttosto di essere richiamato, di quello che rimanere in un impiego in cui fosse obbligato a riconoscere autorità altra qualunque fuor di quella della repubblica. Ma l'impossibilità di trovare suggetto capace da sostituire al Grimaldi nel posto di commissario generale in Corsica, il non poterglisi rimproverare altro che un troppo vivo zelo nel sostenere il decoro e gl'interessi della sua patria, determinarono il senato a non aderire alle domande del suo cittadino. Nè solamente le gelosie e le reciproche diffidenze de' due generali in Corsica tenevano molto occupati i Genovesi ed inquietavano la corte di Francia; ma il regolamento stesso comunicato l'anno scorso ai capi dei sollevati dal marchese di Cursay per parte del re di Francia, di cui quei popoli non eransi mostrati troppo contenti, non appagava neppure interamente i Genovesi; sì che si rese necessario concertare col cavaliere di Chauvelin, ministro franzese, che di Francia venisse una riforma, la quale e questi e quelli appagasse. Ma nè anche giovò la riforma creduta opportuna dal gabinetto di Versaglies, poichè, per lo contrario, non appena fu comunicata ai capi delle pievi, che destò uno straordinario ed universale impeto di furore, tutti protestando di non accettare quel regolamento, benchè modificato, nè sottomettervisi in verun modo, altro scopo esso non avendo che rimettere loro sul collo l'abborrito giogo della repubblica. Indarno furono chiamati a nuovo congresso. Ripigliate l'armi, obbligaronsi con fortissimo giuramento di trattare da nemico chiunque ardisse di parlare d'accomodarvisi. Scriveva il marchese di Cursay al cavaliere Chauvelin, non esservi in quello stato di cose che due soli partiti da prendere: o abbandonare la Corsica al suo destino, o far uso della forza contro la medesima. Ma, invece di risposta, si vide il marchese posto in arresto, guardato a vista, indi trasportato in Antibo, e colà custodito come prigioniero di Stato. Tra le accuse che allora si sparsero contro il detto comandante, la principal era quella di un'eccessiva ambizione, per appagare la quale avea voluto rendersi come necessario ad ambe le parti. In fatti un'autorità quasi illimitata erasi egli acquistata, specialmente facendo con una saggia amministrazione godere a quei popoli una vera felicità; temperato per lui il furore dei partiti, le leggi erano rispettate, divenuti rarissimi i delitti, e tutta la nazione tornata per un pezzo in dolce concordia. Fondata egli aveva perfino un'accademia in Bastia, la quale, sebbene lungo tempo non durasse, aveva tuttavia risvegliato tra' Corsi il gusto delle lettere. Arrestato il Cursay, le truppe franzesi rimasero sotto il comando d'un signor di Curci, il quale, facendo suo pro dell'esempio del predecessore, fu dal Grimaldi, e tutto si proferse a' suoi desiderii. Ma intanto le fazioni, le risse, le discordie, le diffidenze continuavano, accompagnate da incendii, violenze e spargimento di sangue; ed i Corsi di là dai monti, a segnalare di bel nuovo l'odio loro contro la repubblica, si elessero de' capi, e questi pubblicarono un editto rigorosissimo contro chiunque avesse avuto l'ardimento di fare qualsiasi proposizione a nome di Genova, e facevano inoltre arrestare ed impiccare senza formalità di processi coloro che erano, o si parea, sospetti di segrete intelligenze co' Genovesi. In mezzo alla universal pace, ogni lieve commovimento diventava osservabile, e tal fu l'attentato sedizioso di quei di Subiaco, grossa terra della Campagna di Roma, che tanto nel temporale come nello spirituale dipendeva dall'abbate commendatario di Santa Scolastica. Questi pastori, che tali sono per la maggior parte, irritati per aver perduto nella Rota di Roma una lite co' Benedettini di quella badia circa i pascoli di certa montagna, invece di rispettare il giudizio, o prevalersi contro d'esso de' rimedii legali, dato di mano all'armi, investirono il convento, costrinsero priore e frati a fuggirsene per le finestre, fugarono quanti accorsero in aiuto de' monaci, ed ucciso uno sbirro, trassero dalle carceri dell'abbadia diversi loro compagni. Giunto l'avviso del caso a Roma, furono mandate truppe, il cui solo aspetto sedò immantinenti il tumulto; parte dei principali autori fuggiti, parte arrestati, e tornati i Benedettini al loro convento. Ma, per non lasciare impunito un fatto di tanta conseguenza, fu comandato a quella popolazione di portare l'armi a Roma, il che fu subito eseguito. Formato intanto il processo ai capi della sedizione, dieci, che erano stati trasferiti nelle carceri di Roma, furono esiliati per sempre dalle terre dello Stato ecclesiastico; ed altri undici, già fuggiti, si sentirono fulminati in contumacia dalla condanna di morte. Quindi in poi il pontefice colse ogni occasione, per isfuggire simili disordini, di separare dalla spirituale la giurisdizione temporale in tutte quelle badie e governi, nei quali erano prima congiunte, assoggettandoli tutti all'immediata direzione della sacra consulta. Accadde in quest'anno in Piacenza la morte del celeberrimo cardinale Giulio Alberoni, che tanta parte ebbe nelle bisogna della Spagna e dell'Europa tutta. Ne era stata la vita in forse qualche tempo prima; ma colto avendolo, nel 24 giugno, fieri dolori seguiti da deliquio, tornarono vani tutti i soccorsi dell'arte, e due giorni dopo spirò, conservando sino all'ultimo una somma presenza di spirito; potendosi dire che fu tanto singolare in quest'uomo la morte, come disse Benedetto XIV, quanto erano state la fortuna, l'ingegno, l'età e la fama. Di tutti i suoi beni, che faceansi ascendere ad un milione di scudi romani, lasciò erede il seminario di San Lazzaro, da lui eretto e fondato con ispesa gravissima fuori di Piacenza; fondazione che sola avrebbe bastato ad immortalare un altro nome. Di quest'uomo molto e variamente fu parlato e scritto, e nel corso della rapida sua elevazione e poi della sua caduta, dopo la quale, quantunque paresse interamente staccato dogli affari politici, pur non lasciava di avere molta influenza in quelli che trattavansi in Europa. Tenendo corrispondenze in tutte le corti ed in tutti gli Stati, i più celebrati ministri lo hanno consultato; e siccome possedeva in grado eminente l'arte delle combinazioni politiche unita a penetrazione profonda ed a sano giudizio, così prevedeva quasi sempre l'esito de' grandi affari, e raro fu che il successo non corrispondesse alle sue conghietture. Tre mesi circa prima dell'Alberoni, passò di questa vita il doge di Venezia Pietro Grimani. Già ambasciatore della patria a Londra ed a Vienna, se colà guadagnossi la stima dell'inglese nazione e fu ascritto alla reale società, legato ancora d'amicizia col primo uomo che allora fosse al mondo, con Isacco Newton, quivi destramente maneggiò gl'interessi del veneto senato, concertando coll'imperadore Carlo VI la sacra lega a danni del comun nemico del nome cristiano. Tornato da sì splendide legazioni in patria, fu insignito della dignità di procuratore di San Marco, e poi, nel 1741, collocato sul trono ducale. Culto letterato e filosofo sublime, gloriosamente regnò dieci anni ed otto mesi, ferma tenendo la repubblica nella saggezza del suo divisamento di starne lontana da straniere guerre. Ma se di grave cordoglio fu per questo conto la sua perdita a tutta la città, che conosceva il pregio d'un tal principe, gli uomini di lettere rimasero altamente contristati, in lui perdendo, più che il mecenate, un amico ed un compagno. Gli fu sostituito Francesco Loredano, cittadino di rara pietà e fornito di virtù morali e civili, tra le quali risplendeano egregie la liberalità e la beneficenza; consumato sino dalla gioventù ne' politici maneggi, ed occupato lungo tempo nel posto di savio grande, che val come chi dicesse nella carica di ministro di Stato. Nel mezzo tempo i corsari africani tenevano, secondo il solito, in apprensione le potenze europee colle continue loro scorrerie sul Mediterraneo, danneggiandone principalmente il commercio. Mentre pertanto alcune con esorbitanti tributi, sotto lo specioso titolo di regali, compravano la mal sicura amicizia delle africane reggenze, due squadre, di Napoli una, l'altra di Malta, segnalaronsi in due diversi incontri. In quella prima, i prodi capitani di due sciabecchi, Martinez e Gratto, andando in traccia di quattro sciabecchi algerini che infestavano le coste della Calabria presso il mare Adriatico, ne trovarono uno, chiamato il Gran Leone, tra l'isole di Zante e di Cefalonia. Era il maggiore di tutti, e montato dal comandante. Lo investirono con sommo coraggio; si difese l'algerino con non minore intrepidezza per due interi giorni, ma vedendosi oltramodo maltrattato dal cannone degli assalitori, fece forza di vele per salvarsi. Il capitano Martinez, temendo non forse potesse ripararsi in qualche spiaggia o porto del dominio ottomano, ove non gli fosse dato d'assalirlo, determinossi ad andarne all'arrambaggio, ed eseguì con tanta energia il suo disegno, pur secondato dal capitano Gratto, che gli riuscì d'impadronirsene e di fare cento ventiquattro prigioni, dalle catene liberando molti cristiani. Era intenzione de' comandanti napoletani di togliere quanto in quella nave era; ma scorgendola tutta forata dalle cannonate, e sì che faceva acqua da ogni lato, si appigliarono al partito di affondarla, senza che si prevalesse a salvarne se non le ancore e qualche sartiame. I regi sciabecchi non ebbero che dodici uomini uccisi e da venticinque feriti, tra' quali i due capitani Martinez e Grotto, che furono, come gli altri uffiziali, proporzionatamente ai meriti, rimunerati. Giusta le deposizioni degli Algerini presi, il numero loro era di ducento e trenta, ed il loro bastimento bene armato portava sedici cannoni e dodici petriere, allestito a spese del re d'Algeri, che ne avea dato il comando al rais Ismachid Nalif, nativo di Candia. Ma più fiero e sanguinoso fu il combattimento tra le galee di Malta ed altri due sciabecchi algerini; conflitto seguito alle alture di Gallizia, dov'è una torre difesa da cannoni e da presidio tunisino, a poca distanza dal capo Bon, tra Tunisi e Maometta. Affinchè non potesse loro fuggire di mano, le galee maltesi si posero tra la torre e i due bastimenti nemici. Menando quindi le mani, se fu straordinario il valore de' cristiani nel combattere, non minore si rimase la resistenza degl'infedeli nel difendersi. Nel famoso combattimento segnalossi il coraggio di tre soldati maltesi, i quali, nell'atto che una galea tentò d'impadronirsi d'uno dei legni turchi, e andolle fallito il colpo, v'erano saltati dentro. Tagliato a pezzi il primo, l'altro, quantunque ferito, troncò il capo all'Algerino che gli stava a fronte, ed indi, gettandosi in mare, ebbe la ventura di salvarsi ad una delle galee; ed il terzo, parimente slanciatosi in acqua, in mezzo al fuoco ed a' remi dei barbari, ebbe una sorte eguale. Due ore durò la pugna, ma infine ambi i sciabecchi rimasero presi, ad onta della disperata foga del rais comandante del più grosso, che, coperto di sangue che uscivagli da diciotto ferite, tra le quali quattro gravissime, non apparia modo di costringerlo. Tra i cavalieri di Malta che spiegarono in queste pruove estremo valore, contaronsi il cavaliere di Valenza, colonnello del reggimento di Bearn al servigio della Francia, il cavaliere Aldobrandini, il cavaliere di Pennes, il cavaliere di Elvemont; ma ben direbbe chi nominasse per tal conto tutti gli uffiziali e soldati maltesi, la perdita de' quali fu di tredici morti e quarantasette feriti, compresi i sopraddetti cavalieri Pennes ed Elvemont. Il ritorno de' vincitori coi vinti legni e coi prigionieri a Malta fu una specie di trionfo. Nè il solo gran maestro ed i cavalieri, ma tutti in Italia fecer plauso al valor loro, ed il giubilo fu tanto maggiore, in quanto che quei due sciabecchi erano i primi bastimenti algerini che fossero caduti in potere dell'ordine gerosolimitano da che i Turchi aveano incominciato a far uso di legni di tal sorta. In uno si trovarono mille ottocento zecchini, prezzo d'una tartana da quei corsari pochi giorni prima venduta. Anno di CRISTO MDCCLIII. Indizione I. BENEDETTO XIV papa 14. FRANCESCO I imperadore 9. Per la stabilità e felice esito del trattato di Madrid, o d'Aranjuez che vogliam dirlo, stipulato nell'anno precedente, occuparonsi seriamente nel principio di quest'anno i ministri delle potenze contraenti onde comporre e terminare le differenze che sussistevano tuttavia intorno alla successione de' beni della famiglia de Medici, de' quali era attualmente in possesso l'imperadore Francesco, come granduca di Toscana. Venne perciò proposto che la Spagna rinunziasse alle sue pretese su questo punto, purchè l'imperadrice regina facesse anch'essa dal canto suo eguale rinunzia per tutte le ragioni che pretendeva di avere sopra i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, dei quali erasi quella sovrana riservato il regresso nel trattato d'Aquisgrana. Due difficoltà però rimanevano a superarsi, l'una col re di Sardegna, con quello di Napoli l'altra; non potendo quel primo, che nel trattato d'Aquisgrana erasi riservato il regresso sulla città e territorio di Piacenza, risolversi a farne la cessione, prima che si fosse trovato il modo di compensarnelo; ed il re di Napoli, facendo tuttavia valere i suoi diritti sui beni allodiali della famiglia de Medici, ai quali non intendeva di avere in alcun modo rinunziato a favore del duca di Lorena, allora imperadore e granduca di Toscana. Non sembrava difficile trovar qualche temperamento onde appianare le difficoltà promosse dal re di Sardegna; ma così non era riguardo a don Carlo re di Napoli, che spedì a Parigi il marchese Caraccioli per impegnare quel gabinetto a sostenere le sue ragioni. Teneva allora quel gabinetto gli occhi aperti sopra un oggetto di maggiore importanza riguardo alle sorti dell'Italia, cioè sui maneggi alla corte di Vienna impresi dai ministri del duca di Modena. Il conte Beltrame Cristiani, gran cancelliere del ducato di Milano, vedeva, e forse da gran tempo aveva tra sè e sè meditato, un gran colpo, moltissimo vantaggioso all'imperadrice regina sua sovrana ed alla casa d'Austria, se fosse riuscito a legarla a quella d'Este con vincoli tali, che gli Stati di questa si fossero uniti al milanese ducato. Sortendo buon fine il divisamento del conte Cristiani, la casa d'Austria avrebbe in Italia dominato all'incirca sovra la maggior parte de' paesi che formavano un tempo lo Stato degli antichi re d'Italia, cioè la Toscana, il ducato di Milano, il Modenese, il Mantovano ed una porzione del Monferrato. E la fortuna secondò i disegni del gran cancelliere. Era, ne' primi giorni dell'anno, nato al principe ereditario di Modena un figlio, il quale, assicurando la posterità mascolina dell'estense famiglia, potea, se vissuto fosse, far prendere misure ben diverse da quelle cui miravano gl'impresi maneggi; ma quel figlio, pochi mesi dopo il suo nascimento, morì, e colpo tale conchiuse alla corte di Vienna il negozio giusta l'intendimento de' ministri modenesi. Fatto pubblico il trattato in cui stipulossi il matrimonio dell'arciduca Leopoldo, allora terzogenito, colla figlia del principe ereditario di Modena, e si dichiararono lo stesso arciduca governatore dello Stato di Milano, ed il duca di Modena amministratore e capitano generale del medesimo Stato, insieme stabilendo che i presidii delle piazze modenesi dovessero essere formati di truppe austriache, e vicendevolmente le milizie del duca di Modena prendessero posto nelle piazze milanesi; non solo i gabinetti di Francia e di Spagna, ma tutti universalmente rimasero oltremodo maravigliati. Non si lasciò quindi di pubblicare, che il duca di Modena, in questo fatto, oltre all'allontanarsi dai noti principii de' suoi maggiori, unendosi all'Austria in confronto della Francia, aveva operato contro le massime della buona politica, dando mano ad un tanto ragguardevole ingrandimento di Stati e di potenza in Italia alla detta casa d'Austria, il che avrebbe col tempo potuto recare gravissimi pregiudizii alla quiete della penisola. Procurò il duca di Modena di giustificare il nuovo partito da lui preso, facendo da' suoi ministri dichiarare alle corti straniere, averlo gl'interessi del suo ducale casato costretto a trattare colla corte di Vienna; essere scopo principale cui proponevasi quello di provvedere alla tranquillità de' suoi Stati, in caso che venisse ad estinguersi la sua linea mascolina; aver parimente in mira il mantenimento della pace d'Italia, e la necessità di prevenire le turbolenze che potessero insorgere in proposito della successione agli Stati della casa d'Este; lusingarsi lui finalmente che siccome gl'impegni per esso incontrati non recavano danno ad alcuno, nissuna potenza volesse adombrarne, e quelle che considerassero la cosa imparzialmente, convenissero nulla esservi che conforme non fosse all'interesse d'Italia in generale e alle ragioni di convenienza che tenere doveano i principi di questa parte dell'Europa svegliati per allontanare dagli Stati loro ogni occasione di turbolenze. Qualunque interpretazione dar si volesse a cotali dichiarazioni del duca di Modena, il colpo era fatto con somma soddisfazione delle due corti; e furono in conseguenza mandati ordini da Vienna a tutti i comandanti e governatori delle piazze di Toscana e Lombardia, di trattare i sudditi di Modena e Massa-Carrara con ogni sorta di riguardi e di prestar loro tutta l'assistenza possibile sì riguardo al commercio, sì in tutte le altre vertenze od atti giuridici che aver potessero da regolare co' sudditi imperiali d'Italia. Ad onta del trattato d'Aranjuez conchiuso col laudevol motivo di conservare la tranquillità nell'Italia, ad onta delle proteste del duca di Modena di non aver avuto in mira che questo prezioso oggetto nella parentela ed unione contratte con la casa d'Austria, da molti credevasi che totalmente contrarii alle parole potessero seguire gli effetti; le quali speculazioni derivavano originariamente dalla condizione attuale della Spagna e da un avvenimento semplicissimo seguito in Napoli ed in Roma. È noto che dopo la pace di Aquisgrana, la corte di Spagna, a principal cura del marchese dell'Ensenada, andava incarnando alcuni suoi disegni: gli arsenali tutti in continuo movimento poneano la marineria spagnuola in grado di mandar navi in America, altre tenerne in corso contro i barbareschi, ed unire a un bisogno una flotta capace di misurarsi colle potenze d'Europa; cominciavano a prosperare le fabbriche e manifatture nazionali, malgrado i rigori in Olanda ed in Inghilterra usati per vietare ai sudditi loro che, allettati da privilegii e vantaggi singolari, in Ispagna non passassero coll'industria loro e cogl'istrumenti relativi; la nazione, naturalmente proclive all'inerzia ed all'infingardaggine, già destavasi; terre, che da secoli non aveano sentito zappa nè aratro, aprivano il seno alle benefiche ferite, e largamente premiavano gl'insoliti sudori dell'agricoltore novello: si fortificavano le piazze frontiere, ingrandivansi i porti principali, dentro e fuori d'Europa moltiplicavansi i cantieri; introdotti nelle truppe gli esercizii all'uso franzese o al prussiano; impiegata buona parte de' tesori, dopo la pace del nuovo mondo, a comprar merci da rimandarvi; istituiti grossi banchi nelle principali città commercianti del regno, e sino in Italia, a nome e profitto del regio erario. Cotali vigorose e non mai interrotte operazioni e sollecitudini della corte di Madrid facevano universalmente conghietturare che nudrisse l'idea di turbare la calma d'Europa e dell'Italia in particolare; conghiettura che prese maggior piede quando si seppe che, partita da Cadice una nave, era approdata a Napoli scaricandovi un milione e mezzo di scudi, non mancando chi affermasse, essere la somma destinata a porre il re delle Due Sicilie in istato di aumentare le proprie truppe secondo il disegno tra le due corti fermato. Però gli autori di queste novelle guerriere trovaronsi non poco sconcertati; chè il picciol tesoro americano sbarcato a Napoli, quivi non si fermò, ma sopra cinquanta muli, coperti coll'arme e cogli stemmi della corona di Spagna entrò in Roma, e, depositato nel palazzo Farnese, pochi giorni dopo da quella casa, appartenente al re di Napoli, fu trasportato nel castel Sant'Angelo. Tuttavia non perciò vollero i politici del giorno mutar opinione o linguaggio; pretendevano che fosse destinato a circolare nel commercio sul nuovo banco eretto dal monarca Cattolico in Roma stessa, ed ostinaronsi a sostenere che si avesse poscia ad impiegarlo in acquisti ed usi militari, collocato intanto in sì cospicua fortezza per maggior cautela. Ma la destinazione vera del denaro fu poco stante saputa: passato dal Messico a Cadice, da Cadice a Napoli, e di colà a Roma, apparteneva alla santa Sede, e le fu spedito in forza di un trattato conchiuso tra le due corti, ampliativo del giuspadronato regio sopra i benefizii ecclesiastici della Spagna, e segretissimamente maneggiato. Importava il trattato, diviso in otto articoli: che il re di Spagna ed i suoi successori, oltre la nomina agli arcivescovadi, vescovadi, monasteri e benefizii concistoriali tanto in Europa come nelle Indie, avessero perpetuo il diritto universale di nominare e di presentare indistintamente in tutte le chiese metropolitane, cattedrali, collegiate e diocesi alle dignità maggiori _post pontificalem_; che i sommi pontefici avessero in perpetuo la libera collazione di cinquantadue benefizii, acciò non mancassero del modo di provvedere e premiare quegli ecclesiastici spagnuoli che meritevoli se ne rendessero per probità e illibatezza di costumi, per letteratura, o per servigii prestati alla santa Sede. E siccome pel padronato e pei diritti ai re di Spagna dalla santa Sede ceduti, e per l'abolizione delle pensioni, la dateria e la cancelleria apostolica restavano prive degli utili provenienti dalle annate, con grave danno dell'erario pontificio, così il re di Spagna fece depositare in Roma un capitale di un milione cento trentatrè mille trecento trenta scudi a libera disposizione del papa, e nel tempo stesso assegnaronsi in Madrid, pur a disposizione di lui e sopra il prodotto della crociata, scudi cinque mila annui per mantenimento e sussistenza de' nunzii apostolici. Con tali esborsi il re di Spagna assodava molto più la sua autorità sopra il clero rendendolo dependente da lui solo nel conseguimento dei benefizii, e poteva quindi sopra i beni ecclesiastici, liberati dalle pensioni e dalle annate, imporre quei pesi che le circostanze dalla sua saviezza esigessero. E la camera apostolica, coi frutti della sopraddetta somma in Roma depositata e coi cinque mila scudi assegnati a Madrid, veniva ad essere risarcita dalle perdite, cui per le fatte concessioni soggiaceva. Altro accidente di quest'anno merita di essere notato. L'infante di Spagna don Luigi, ultimo figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, era stato, in età di 8 anni, creato da Clemente XII cardinale, e poscia fatto anche amministratore delle chiese di Toledo e Siviglia. Ora, giunto ch'ei fu all'età virile, sentì una assoluta ripugnanza a rimanere nello stato ecclesiastico, fattogli abbracciare mentre non era in istato di esaminare e di conoscere la sua vocazione, e comunicata al re Ferdinando VI suo fratello la risoluta sua determinazione di abbandonare cotale istituto di vita, ed approvò questi la risoluzione dell'infante, e spedironsi al cardinale Portocarrero, incaricato degli affari di Spagna alla corte di Roma, istruzioni e plenipotenza per trattarsi la rinuncia di don Luigi al cappello cardinalizio, con una lettera di lui, nella quale spiegava i motivi che a tornarne allo stato secolare lo determinavano. Impreso dal cardinale Portocarrero il maneggio, fu l'affare discusso in una congregazione particolare, tenuta in presenza del pontefice, e si conchiuse che le domande del cardinale infante poteano essere esaudite quanto sia alla rinunzia, ma non riguardo alla pensione di cento cinquanta mila scudi che volea riservarsi sopra le rendite delle due chiese di Toledo e di Siviglia, all'amministrazione delle quali rinunziava. Nullaostante, avendo fatto tacere le ragioni in contrario le fortissime ragioni di Stato e di convenienza nella condizione corrente delle cose che vennero allegate, appoggiato eziandio da esempli precedenti di concessioni consimili, fu risoluto di compiacere in tutto e per tutto la corte di Madrid, ed, unita alla favorevole risposta, le fu spedita la formola, secondo la quale seguir doveva la rinunzia del cardinalato, praticando ciò che stato era osservato nel 1709 col cardinale de Medici. Un concistoro segreto, intimato dal pontefice, approvò poi, lui esponente, quanto era stato fatto, ed il cappello cardinalizio così rinunziato venne, ad istanza del re di Spagna, concesso a don Luigi Ferdinando di Cordova, decano della metropolitana di Toledo, indi arcivescovo. Tutta l'Europa parve allora disposta a considerare questo passaggio dell'infante dallo stato ecclesiastico al secolare, come prodotto da motivo politico. Alle quali supposizioni aggiugneva gran peso il vedere che il re aveva assegnato al principe suo fratello, oltre i cento mila scudi come infante di Spagna ed i cento cinquanta mila di riserva sopra le chiese di Toledo e di Siviglia, altri cinquecento mila come grande ammiraglio di Castiglia. Parlavasi adunque da per tutto, e da per tutto davasi per conchiuso un trattato di matrimonio tra il principe secolarizzato e la principessa Marianna infanta di Portogallo. Ma tale matrimonio, ancorchè allora stato maneggiato, non ebbe effetto, e l'infante più di venti anni dopo sposossi con una dama privata, da cui ebbe prole di ambi i sessi. Altro serio affare, però di natura diversa, ebbe subito dopo a trattare il papa col re delle Due Sicilie, fratello dell'infante sopraddetto. Insorta rissa nel porto di Civitavecchia tra i marinari di un bastimento genovese e le ciurme di alcune tartane di Gaeta, si accesero per tal modo gli animi, che, dalle parole venendo ai fatti, rimasero da ambe le parti uccisi alcuni e moltissimi feriti, nonostante che accorso fosse immantinente il presidio della città a fermare il disordine, che potea divenir generale per la parte che mostrava di prendere la plebe a favore dei Genovesi. Ma avendo la piccola artiglieria ceduto il luogo alla più grossa, fecero le tartane di Gaeta così bene giuocare i cannoni che, presto affondarono il genovese bastimento, e poi, salpate l'ancore, uscirono in alto mare, sebbene, costrette dal tempo burrascoso a tornarne in porto, non ne partissero poi che alquanti giorni dopo. Furono immediatamente chiamati a Roma il governatore della città ed il comandante dell'armi a render conto del fatto e delle direzioni da essi tenute. Niuno domandi però se la repubblica di Genova tardasse molto a chieder giustizia e soddisfazione del torto e dell'insulto fatto alla sua bandiera in un porto amico, ed in pregiudizio della pubblica fede e sicurezza. Quantunque sospesi dalle loro funzioni i due uffiziali superiori di Civitavecchia ed aspramente ripresi in Roma, dov'erano stati richiamati; avendo la repubblica insistito sopra le sue prime rimostranze, fu da Roma stessa espressamente comandato al luogotenente di quella marittima piazza di far levare il timone a qualunque bastimento napolitano entrasse nel suo porto. Ed infatti, essendone comparsi tre da lì a non molto, il luogotenente eseguì appuntino gli ordini che avea dal suo principe ricevuti. Ma la corte di Napoli, la quale al primo avviso dell'accaduto a Civitavecchia avea fatto arrestare i padroni delle tartane rissose, ed ordinatone il processo, sentendo adesso che, per dare soddisfazione a' Genovesi, quella di Roma avea sospeso dall'impiego il governatore della città e fatti pure arrestare i tre navigli napolitani che si è detto, diede suoi ordini perchè si fermassero tutti i bastimenti di bandiera pontifizia nei porti delle Due Sicilie, facendo dal suo ministro in Roma chieder soddisfazione del torto fatto ai legni de' suoi sudditi. Se non che, postosi in trattative l'affare, rimase amichevolmente composto, e dopo reciproche spiegazioni delle tre corti, rimesso, con comune soddisfazione delle medesime, il governatore di Civitavecchia nel suo uffizio. Benedetto XIV fu un pontefice che, mostrando sempre animo veramente sacerdotale, conosceva però egregiamente le differenze dei tempi, e come fosse da concedere alle domande o alle preghiere dei principi tutto ciò che al dogma ed alla sostanza della religione non si appartenesse. Così accomodò egli amichevolmente la vertenza in quest'anno insorta col re di Napoli per la pensione di sei mila scudi concessa al terzogenito di lui sopra il vacante ricchissimo arcivescovato di Montereale in Sicilia; così con fermezza diè termine all'altra sopravvenuta col re stesso, e con quelli di Sardegna e di Polonia riguardo alla promozione al cardinalato dei nunzii pontifizii appo quelle tre corti. Altra occasione ebbe il Lambertini in questo anno di esercitare l'animo suo conciliativo calmando le differenze insorte fra il gran maestro di Malta ed il re delle Due Sicilie. La discordia avea già sparso il suo veleno: i due principi erano in piena rottura, ed il più debole de' due contendenti già ne sentiva i funesti effetti. Ma per ben intendere le cagioni della contesa è giuoco forza farsi dall'origine. Quando l'imperadore Carlo V donò l'isola di Malta a' cavalieri gerosolimitani, da Solimano re de' Turchi stati nel 1323 scacciati dall'isola di Rodi, che aveano per più di due secoli posseduta, vi pose egli la condizione che la tenessero in qualità di feudo dipendente da lui come sovrano delle Due Sicilie; che dovessero pagargli annualmente il giorno di tutti i Santi un falcone; che il vescovato di Malta restasse, qual era, giuspadronato suo e de' suoi successori, sì che, in caso di vacanza della sedia vescovile, il gran maestro avesse a presentargli tre soggetti idonei, tra' quali scegliere il nuovo vescovo. Trascorsi più di due secoli, ne' quali il regno delle Due Sicilie era stato provincia della Spagna, e per un tratto parimente provincia della casa d'Austria, senza che si fosse pensato a far valere quest'ultimo diritto principalmente, stimò il re don Carlo di avere ragioni sufficienti per esercitarlo; quindi ordinando al vescovo di Siracusa, come metropolitano, di passare a Malta e farvi una visita pastorale. Ubbidì il vescovo e mandò innanzi i suoi visitatori; i quali presentatisi sopra un bastimento napolitano a vista dell'isola, non osarono poi di mettervi il piede, per l'opposizione che ragionevolmente previdero di dover incontrare per parte degli abitanti, che, avvisati del motivo della loro comparsa, eransi affollati alla spiaggia, dichiarando sè non soffrire in verun modo che si facesse mai tra di loro una simile visita. Appigliaronsi dunque i visitatori al prudente partito di abbandonar l'isola e tornarne in Sicilia. Il gran maestro della religione stimò bene di dar parte dell'attentato al pontefice non meno che a tutte le altre potenze d'Europa, e nel tempo stesso spedì a Napoli il balì Duegos per esporre a quella corte non contrastarsele il diritto nella sua origine, ma doversi assolutamente riputare, se non estinto e nullo, almeno inefficace e invalido per lungo tratto di tempo in cui rimase disusato. Il pontefice, al primo avviso di cotale differenza, tenne una congregazione di cardinali e prelati, e scrisse al re di Napoli per persuaderlo a desistere da un'impresa ch'egli giudicava inopportuna e senza fondamento. Ma il re, non avendo creduto di condiscendere all'opinione del papa, fece sapere che se continuavasi a ricusare i visitatori che sarebbero mandati a Malta, farebbe sequestrare le rendite delle commende che i cavalieri Gerosolimitani ne' suoi Stati possedevano. Ed il gran maestro dal canto suo dichiarò che, qualora le cose giungessero a tale estremo, egli terrebbesi giustificato di far sequestrare le rendite che godevano in altri Stati i commendatori nati sudditi del re delle Due Sicilie, e richiamò da Napoli il balì Duegos. Sciolto per tal modo ogni trattato, la corte di Napoli, in conseguenza della risoluzione presa di mantenere il vescovo di Siracusa nel gius di far la visita nel vescovato di Malta, colà mandò lo stesso prelato in persona: ma nè il suo viaggio fu più felice di quello dei suoi deputati, avendo dovuto tornarsene addietro senza aver posto piede in terra. Presentatovisi poi una seconda volta, il gran maestro mandogli incontro una barca per avvisarlo, che, persistendo nell'intenzione di scendere a Malta, si sarebbe fatto fuoco sopra il suo vascello per costringerlo ad allontanarsi; laonde il vescovo, voltato bordo, tornò alla sua chiesa. Avvisata la corte di Napoli del nuovo rifiuto, mandò ad effetto le sue minaccie: interdisse ogni commercio fra i porti delle Due Sicilie e l'isola di Malta; proibì a' suoi sudditi di colà trasportare derrate o provvisioni di qualunque altro genere; e sequestrò tutte le commende dell'ordine che trovavansi ne' suoi dominii. Il gran maestro, in rappresaglia, dopo ordinato a' sudditi suoi di rivolgersi alla Sardegna ed alle reggenze di Barbaria per le provvisioni che prima traevano dalle Due Sicilie, sequestrò anch'egli le commende che i cavalieri napolitani godevano in altri paesi. Inasprivano gli animi; il commercio s'interrompeva: ed i popoli, vittime innocenti di una discordia che non potea interessarli, ne gemevano al peso. Il Mediterraneo coperto di legni barbareschi; le coste meridionali dell'Italia e le pontifizie in ispezialità, esposte alle piraterie africane, più non vedevano in loro difesa le galee maltesi, ridotte a convertire l'oggetto primario della loro istituzione in quello di procacciar alimenti agli abitatori dell'isola loro. Vero è che il gran maestro erasi rivolto alle corti di Vienna, di Francia, di Spagna e di Portogallo, pregandole d'interporre i loro buoni ufficii in questo affare; ma preoccupate da alcuni riguardi, e specialmente da quello di non pregiudicare alla gloria del re Carlo, intaccando i diritti e le prerogative della sua corona, ristrinsero le sollecitazioni principalmente a far rivocare da Sua Maestà siciliana ii suo decreto, lasciando le cose nello stato in cui erano precedentemente. Non condiscese la corte di Napoli al proposto temperamento; ma, insistendo il pontefice nelle paterne sue istanze presso la medesima, ambe le parti accordaronsi in questo, di rimettere ogni cosa nelle mani del Lambertini. Il quale, come vicario di Gesù Cristo, scrisse di proprio pugno una lettera al re don Carlo, in cui con l'eloquenza che gli era propria, lo pregava di ridonare la sua buona grazia alla sacra religione di Malta, ed a non negargli il contento di una favorevole risposta. Don Carlo, che sul trono delle Due Sicilie, come poi su quello di Madrid, presentò alle genti nella sua persona il modello di tutte le virtù, che fu sul soglio reale quale, se nato suddito, avrebbe bramato il proprio sovrano; pieno di umanità e di religione; avverso alle guerre e persuaso che la felicità de' popoli al suo governo affidati non dall'arte dipendesse di sterminare i suoi simili, ma dalla probità, dalla buona fede e dalla purità dei costumi in chi governa; affezionato in particolar modo a Benedetto XIV; don Carlo, ricevuta ch'ebbe la lettera, gli rispose, essersi commosso dalle vivissime istanze di Sua Santità in proposito delle differenze con l'ordine di Malta, sentito disposto ad avere ogni riguardo ad una intercessione cui doveva per tanti titoli riverire; avere perciò dato ordine perchè fosse riaperto il commercio dei suoi Stati coll'isola di Malta, e levato il sequestro de' beni della stessa religione; confidarsi però che, come Sua Santità nella sua lettera lo assicurava, la risoluzione così presa non produrrebbe la benchè minima ombra di pregiudizio a' suoi diritti, ma anzi, all'incontro, quelli che possedea nell'isola e sopra la chiesa di Malta, qualunque fossero, rimarrebbero in tutta la loro forza e in pieno vigore. Anno di CRISTO MDCCLIV. Indizione II. BENEDETTO XIV papa 15. FRANCESCO I imperadore 10. All'inaspettata alleanza, anzi alla futura parentela nell'anno precedente convenuta tra la casa d'Este e quella d'Austria, che invece di consolidare parea ad alcuni che metter dovesse in pericolo la quiete dell'Italia; al pacifico concordato della corte di Spagna con quella di Roma; alle moleste sì, ma non sanguinose differenze insorte tra Roma, Genova e Napoli, e tra questa corte e la religione di Malta, che peraltro avrebbero potuto turbare l'italiana tranquillità appena nata; successe quest'anno sulla riviera occidentale di Genova un caso che parea dover produrre un grave incendio. Sollevaronsi i popoli di S. Remo e di Campofreddo. O sia che la piccola comunità di Cola, dipendente da S. Remo, si fosse richiamata alla repubblica di Genova per la gravezza delle taglie che le si faceano portare, o sia che insorgesse la discordia per qualche novità intorno a' confini voluti stabilire, oppure per entrambi cotali motivi; fatto è che il popolo di S. Remo, facendo risuonare voci di libertà, di cui credeva di dover godere a fronte del sovrano dominio della repubblica, dato di piglio alle armi, si mostrò disposto a scuoterne intieramente il giogo. Informato il governo di Genova che quegli abitanti eransi assicurati della persona del commissario Doria e delle truppe state colà spedite per metter fine alle dissensioni tra S. Remo e la comunità di Cola, mandò tre galee, una bombarda e vari bastimenti da trasporto carichi di truppe sotto il comando del generale Agostino Pinelli. Ora, avendo il generale fatto incontanente avanzare una scialuppa con tamburo che intimasse agli abitanti di consegnare fra due ore la persona del commissario Doria e la sua famiglia alle truppe della repubblica, in pena del ferro e del fuoco e di essere passati a fil di spada; la scialuppa stette due ore alla spiaggia, e poscia condusse due deputati, i quali dissero al generale che, dipendendo quanto egli domandava dalla volontà del popolo, non era possibile dargli soddisfazione dentro il poco tempo prescritto. A tale dichiarazione il generale ordinò le ostilità contro i ribelli; quindi le galee e la bombarda fecero un fuoco che durò tutta la notte; i ribelli dal canto loro rispondendo con alcuni cannoni da campagna che trovavansi a loro disposizione. Sul far del giorno le truppe sbarcarono in una spiaggia distante due miglia dalla città, senza incontrare opposizione di sorta; ma di mano in mano che i granatieri verso la città avanzavano, i contadini, dalle case, dalle muraglie, dagli ulivi, facevan loro fuoco addosso, sostenuti da altri che eransi in varii siti appostati. A fronte di tale resistenza, i granatieri, fatti forti da alcuni corpi di milizia alamanni, procedettero arditamente contro i ribelli e si impadronirono de' posti più importanti delle vicinanze di S. Remo. Mentre il generale Pinelli dava le disposizioni necessarie per compire l'impresa, vennero a lui da parte del popolo due nuovi deputati per sottomettersi a patto d'aver salva la vita, l'onore ed i beni. Rispose il generale che bisognava subito consegnargli il commissario Doria, come avea precedentemente domandato, e ritenendo i messi, permise loro di far sapere in iscritto le sue intenzioni ai ribelli. Si prevalsero questi adunque della accordata permissione, ed in fatti poco stante capitò il commissario Doria, e con esso altri quattro deputati per supplicare il generale di annuire alla grazia già prima implorata. Rimandolli egli con isdegno, soggiungendo che dovessero consegnare tutte le armi, ed appartener poi alla repubblica, alla cui clemenza si avevano a rimettere, il conceder quello di che pregavano; nè valsero preghi o lagrime dei deputati a commuovere quel capitano dell'armi genovesi. Ebbesi però un armistizio, ed il giorno appresso la città si arrese a discrezione. La prima notte ed il giorno appresso stettero le cose in calma; ma la seconda notte il generale fece arrestare nel proprio letto molte persone, e chiamati il consiglio di reggenza ed il parlamento, ingiunse loro di pagare in termine di due ore ottanta mila lire; e come nel prefinito spazio non avea potuto essere consegnato il denaro, fece arrestare e il parlamento e la reggenza, guardandoli i soldati colla baionetta in canna. Pagata poi la somma, ciascun credette di tornare a casa sua; ma il capitano, prima di lasciar libero il parlamento, esigette lo sborso di una somma eguale; e contata anche questa due giorni dopo, intimò che dentro otto giorni si dovessero pagare altre cento mila lire. E procedette più innanzi: fatti imprigionare molti ecclesiastici e secolari, fu il priore di consiglio di reggenza, con altri personaggi graduati, rinchiuso nel palazzo del generale, il cui proprietario non potè trattenersi dal dirgli: _V. E. non mantiene la parola data ai deputati, che i cittadini avrebbero salve la vita e la roba; _rimprovero che il punse tanto nel vivo che minacciò delle forche chi glielo faceva. Siffatte asprezze e molte altre ancora spaventarono ed irritarono talmente i Sanremani, che la maggior parte ritiraronsi nelle vicine montagne dette delle Langhe, feudi imperiali sotto il dominio del re di Sardegna, quivi, in numero di due mille cinquecento, campeggiando alla meglio sotto tende e baracche, non rimasti quasi in città se non i vecchi, le femmine ed i fanciulli. Corse allora opinione che un pugno di gente ridotta a tanto estremo, non avrebbe tardato molto a sottomettersi a qualunque legge volesse imporgli la repubblica di Genova; ma assai male conosceva gli uomini e le storie chi in tal modo pensava. I Sanremani spedirono lor deputati a Vienna a chieder contro la repubblica giustizia dall'imperadore Francesco, qual da signore diretto di quel feudo, e segretamente implorarono la protezione del re di Sardegna. O che la repubblica ignorasse quei maneggi, oppure, cosa più verisimile, fingesse d'ignorarli, per finire le cose senza ulteriori strepiti e disturbi, fece pubblicare un editto nel quale, dopo avere esposto con tutta l'enfasi il peso e l'enormità del delitto, di cui erasi resa colpevole quella popolazione, tuttavia, per effetto di somma clemenza, prometteva un perdono generale a tutti, prefiggendo un termine discreto al ritorno di coloro ch'eransene fuggiti, soli eccettuati quattordici dei principali sediziosi. Ma i fuorusciti delusero le aspettative comuni, che, invece di tornarne alle case loro sottomessi ed umiliati, cercarono ricovero in Oneglia, terra del re di Sardegna, e l'ottennero da quel principe, che senza punto ingerirsi nelle querele loro colla repubblica, credette di non poter negare ad essi un asilo che il diritto di natura e quel delle genti non consentono che a verun rifugiato si nieghi. Genova si scosse alla novella, ma viemmaggiormente fu commossa allorchè intese che i deputati di San Remo avevano a Vienna ottenuto che fossero ricevuti dal consiglio aulico i loro ricorsi e fattane poi la relazione all'imperadore. Nè basta; venne altresì la repubblica assicurata che l'imperadore aveva fatto spedire un rescritto, in cui ordinava alla medesima di dovere intorno a fatti esposti dai Sanremani informare nel termine di due mesi; rescritto di cui si sparsero molte copie negli Stati della repubblica, in S. Remo e nella stessa Genova. Quanto moto si desse la repubblica contro queste imperiali disposizioni, ciascuno se l'immagina, e basterà dire che per altro tornarono tutti i suoi passi infruttuosi. Ma non si poteva che lo stabilimento dei Sanremani sulle terre del re di Sardegna, e molto più il favore da essi trovato presso la corte di Vienna, non accrescessero le male disposizioni d'animo dei Genovesi contro di loro. Laonde il commissario che a San Remo per la repubblica dimorava, si credette giustificato di trattarli con modi poco cortesi, spingendo anche le parole e le vie di fatto contro il vescovo di Albenga, il quale in questi commovimenti si trovò troppo propenso ai sollevati, e fu poi costretto a ritirarsi cogli altri ad Oneglia. Nel mezzo tempo molto più gravi erano le cure e più decisive le operazioni della repubblica di Genova per la ribellione della Corsica, ch'era già presso il terzo lustro. Abbiamo già veduto a svanire i bei disegni e le lusinghiere speranze del marchese di Cursay, che di tanti pensieri e tanti maneggi si ebbe a guiderdone la prigionia in Antibo, benchè poi si purgasse dalle accuse che la repubblica gli avea poste addosso, e così fosse liberato. Il colonnello di Curcì, che gli succedette nel comando dell'armi franzesi nell'isola, scorgendo l'insuperabile avversione dei Corsi al già divisato regolamento, formava nuovi progetti; ma, ignaro della mente del suo sovrano riguardo i Corsi, si affaticava indarno. I Corsi bensì che non solo prevedevano, ma erano quasi certi della vicina partenza delle milizie franzesi, dimentichi affatto di tutta quella buona armonia ch'era con esse passata, e non riguardandole se non come gli strumenti de' quali erasi la repubblica servita per soggiogarli, non ebbero ribrezzo ad attaccarle in modi crudelissimi, giungendo a spogliar nudi affatto quelli che cadevano loro in mano e in quello stato rimandandoli ai loro compagni, fra gli orrori del verno, per mezzo alle nevi; crudeltà che crebbero a dismisura allorchè nel mese di febbraio giunse in Corsica un uffiziale franzese cogli ordini della corte di far tosto ritirare dall'isola le truppe. Gravi furono i pensieri del comandante per preservarsi dagl'insulti e dal danno nella ritirata, e sagge le misure da lui prese all'importantissimo fine; ma tutte le sue precauzioni non riuscivano felicemente. I Corsi vegliavano sopra tutti i movimenti ed accorrevano da per tutto. Divisi in piccioli manipoli, bloccavano i Franzesi nelle torri e negli altri posti, impedivano loro le munizioni da guerra e da bocca, finalmente protestavano che avrebbero strozzati tutti i Franzesi, se nell'abbandonare le piazze ed i luoghi da essi occupati, a loro non li consegnassero; ed erano tali da tener la parola. Nè le attenzioni vere o simulate del principale capo Gian Pietro Gaffori avevan forza di trattenere i Corsi, sì che da ogni parte continuassero ad attaccare i Franzesi che erano in cammino per unirsi al loro capo: e guai a quelli che per istanchezza o cagione altra qualunque rimanevano indietro o si scostavano alcun poco dai compagni! Soli i distaccamenti di là dei monti furono meno inquietati, e si ridussero tutti sani e salvi in Aiaccio. Intanto ogni cosa era ormai disposta per la partenza, nè altro mancava che di ottenere da Gaffori e dagli altri Corsi la restituzione de' soldati da essi tenuti prigionieri. Ma fu impossibile indurgli a tanto, finchè con una specie di capitolazione il comandante franzese non si obbligò di consegnar loro la piazza di San Fiorenzo; promessa che però ei non fu in poter di mantenere per la costante opposizione che vi fece la repubblica. Nel qual fatto delusi i Corsi, tennero immediatamente un congresso nel convento di Oletta, in cui unanimi determinarono di non voler più sentire a parlare di soggezione verso qualsiasi potenza, ma sì bene governarsi da sè medesimi coi magistrati proprii e colle proprie leggi. Sul principio di primavera, giunte le navi che trasportare doveano le truppe franzesi, abbandonarono esse finalmente, dopo cinque anni di soggiorno la Corsica, seco non portando altro frutto delle loro fatiche, fuorchè un'idea giusta del valore e dell'entusiasmo de' Corsi, i quali, pratici dei siti, fieri per carattere, ostinati per impegno, avrebbero disputato a chiunque il possesso della loro isola, e se si fossero formata di sè la giusta idea che la Francia in quella occasione e la maggior parte de' sovrani ne avevano concepita, forse si sarebbero formata una sorte migliore; ma allora badavano più alle private passioni che al ben comune. Appena partiti i Franzesi, si vide una manifesta prova di questo loro modo di pensare. Imperciocchè, essendosi di bel nuovo adunati per consultare intorno al modo del governarsi ed ai mezzi di mettersi del tutto in libertà, insorsero fiere dissensioni fra loro, e dalla discordia dei capi provennero amarissime conseguenze. Gaffori, capo principale de' malcontenti, di severità eccessiva, non avea difficoltà alcuna, per lievi motivi, o per sospetti, di far arrestare le persone più cospicue e qualificate, come appunto, fece in questo tempo di un Giuliano, il primo certo fra i Corsi dopo di lui; ed a quattro pievi ch'erano entrate in negoziazioni col commissario Grimaldi per sottomettersi di bel nuovo alla repubblica, fece patire una esecuzione militare, che, invece di atterrire, irritò gli animi di tutti. Il Grimaldi era a giorno di tutto, e d'ogni cosa cercava destramente d'approfittare. Dopo di avere accolto favorevolmente i deputati delle dette quattro pievi, e fatto ad essi sperare sommi favori, per invogliare così altre comunità ad imitarne l'esempio, e dopo fomentate le discordie dei malcontenti, di tutto informò la repubblica. Allora non differì essa di far pubblicare un editto di perdono generale e di obblio del passato per quelli che, deponendo l'armi, fossero ritornati all'antica ubbidienza; ed a questo passo ne tenne dietro un altro dello stesso commissario, in cui dimostrava ai Corsi non rimaner loro altro partito che di attendere gli effetti della clemenza di Genova; poichè e un grosso rinforzo militare che dovea fra poco essergli spedito, e gli ordini dati dai re di Spagna, Francia, Inghilterra, Napoli e Sardegna per vietare rigorosamente alle navi de' loro sudditi di poter trasportare nell'isola nessuna sorte di munizioni, da guerra specialmente, e il cattivo stato della Corsica, ed il vicino cambiamento di sentimenti nella repubblica verso di essi, gli avrebbe poi ridotti a pentirsi invano di non aver saputo approfittare di circostanze sì favorevoli per essi. Convien dire che qualche impressione facessero sull'animo de' Corsi le parole del Grimaldi, poichè essendosi i capi radunati insieme più volte, fu stesa una scrittura in ventidue articoli, ne' quali stavano le condizioni, colle quali si sarebbero rimessi nella soggezione della repubblica; e sebbene non fosse espressa in termini convenienti, come lo stesso Grimaldi, cui fu presentata, fece ai deputati vedere, la spedì egli a Genova, e si trattò fra' Corsi di eleggere persona saggia e prudente, cui affidare la cura di quel dilicato maneggio. I voti comuni raccoglievansi nella persona del cavaliere Gian Francesco Brerio, illustre Corso, degno per le sue qualità della confidenza della sua nazione, e abilissimo all'uopo, per l'esperienza acquistata nel trattar gli affari di molte potenze, presso le quali era estimato e lodato; quando, giunti da Balagna due deputati del canonico Orticoni, famoso raggiratore, di fresco ripatriato dopo luogo esilio, chiedendo in nome di lui che gli fosse affidata l'importante commissione, mandarono a vuoto il partito presso a conchiudersi. Se non che un avvenimento molto più grave terminò di rovinare ogni cosa: l'assassinio di Gaffori. Lasciate dall'un de' lati le molte cose immaginate e dette intorno ai motivi ed a' segreti autori del misfatto, basterà dire che quel capo erasi fra' suoi fatti molti nemici, e che il commissario genovese vedeva in lui il più potente ostacolo ai desiderii della repubblica. Uscito per tanto un giorno il Gaffori a passeggiare o in un giardino alla campagna o sulla pubblica strada, fu d'improvviso colto da più colpi di moschetto sparati contro di lui, e che lo stesero morto a terra con un suo parente che stavagli a lato e che spirò pochi momenti dopo di lui. Tal fine ebbe questo capo de' Corsi, che ne avea titolo di governatore e capitano generale. Uomo pieno di coraggio e di zelo per la patria, ma violento e vendicativo, e forse dominato troppo dalla passione di comandare. Ma quello che destar deve maggior orrore si è che un suo fratello medesimo venia fra' congiurati alla sua morte. Arrestato costui con molti altri complici, fu con trentasette voti contro tredici condannato ad esser rotto vivo in prigione, e prima di morire confessò tutta la congiura. Altri complici furono giustiziati, altri alla pena si sottrassero colla fuga. Fatti all'estinto Gaffori solenni funerali, ne' quali offiziò il canonico Orticoni, gli fu pur recitata funebre orazione. Terminate le quali lugubri funzioni, si radunò di bel nuovo la nazione, e quivi pronunziò la pena della morte, dell'infamia e della devastazione dei beni contro qualunque Corso avesse osato parlare di riconciliazione con Genova. Quasi universale intanto prevaleva in Corsica la persuasione che l'assassinio di Gaffori fosse seguito per seduzione e ad istigazione della medesima e del suo commissario Grimaldi, tanto più che fu divulgato come cosa certa essersi all'arrestato fratello trovate due lettere, nelle quali se gli prometteva il premio di due mila lire per l'esecrabile fratricidio. Anno di CRISTO MDCCLV. Indizione III. BENEDETTO XIV papa 16. FRANCESCO I imperadore 11. Mentre la guerra continuava a travagliarsi con varii ma deboli accidenti, in Corsica, venne surrogato dalla signoria genovese al commissario Grimaldi il marchese Giuseppe Doria, il quale, come giunse in Bastia, mise innanzi ragionamenti di concordia, e procurò di indurre i popoli all'obbedienza colla dolcezza; ma la dolcezza del Doria non valse più dell'acerbità del Grimaldi. La sperienza ammoniva i Corsi che dopo la morte del Gaffori niuno restava a cui con animi concordi la nazione concorresse, e che potesse stagliare quei gruppi di tante fazioni. Pure sapevano che la discordia mena a servitù. Di Matra poco si fidavano, che anzi un fiero sospetto era venuto loro in cuore, ed era, che avesse partecipato nella congiura per dar morte a Gaffori. Degli altri capi, nessuno avea tanto credito che riunire potesse in un sol volere ed in un solo sforzo e chi dissentiva e chi tiepido se ne stava. Volsero gli occhi in Corsica, li volsero fuori, per iscoprire se uomo al mondo vivesse, il quale fosse e sicuro per desiderio di libertà, e capace per ingegno, ed ammaestrato per esperienza di cose militari, onde di lui tanto promettere si potessero che divenisse liberatore e salvatore della patria. Sovvenne loro che vivea in Napoli, ai servigi militari di quella corona col grado di colonnello, Giacinto Paoli, antico loro capitano, che, disperate le cose dell'isola nel 1739 pei successi guerrieri di Maillebois, si era in quel regno ritirato. Aveva con sè allora il suo figliuolo Pasquale, che nella milizia napolitana occupava il grado di tenente, e nel quale, sebbene ancora nella giovane età di ventidue anni, risplendevano segni di animo libero ed invitto. Qual fosse questo Pasquale, lo dice un autore anonimo, che scrisse con verità e senza adulazione ed odio per nissuna delle parti le cose di Corsica. Avuta il padre di lui favorevole accoglienza alla corte di Napoli, si pose in grado di dare al figlio la migliore educazione di cui potesse far copia quella città. Quivi fatti adunque Pasquale i suoi studii, tra' quali quelli di etica sotto Antonio Genovesi, senza dubbio uno de' principali ornamenti d'Italia, a ciò non si stette; ma risoluto di portare più oltre i passi nel sapere, quantunque entrasse al servizio militare assai per tempo, la sua grande ambizione fu d'informarsi a fondo degli antichi Stati di Grecia e Roma. Così ei si pose perfettamente in possesso Tucidide, Polibio, Livio e Tacito; nè per ostentazione, ma per uso, imperciocchè si studiasse di far sue proprie le loro cognizioni, ed ei medesimo confessasse essere sua speranza di formare sè stesso sui modelli d'uomini tali quali furono Cimone ed Epaminonda. E, a vero dire, egli si era loro avvicinato quant'è mai possibile nell'eleganza della condotta e nell'amore delle lettere, egualmente che in un appassionato desiderio di servire la sua patria. Trovossi in procinto di avere un reggimento, e lo tenne sempre come la più grande sventura che gli potesse accadere, come quella che gli dovea impedire di andar a liberare la sua patria dai Genovesi, come ebbe sempre in pensiero. Ad una nazione incolta stava apprestando la provvidenza un uomo colto, ad uomini furibondi un uomo di pacato ingegno, a guerrieri, che meglio sapevano combattere le battaglie che non prepararle, un guerriero, in cui l'arte eguagliava il valore. E per frenare un'incomposta e disordinata furia, Paoli era molto accomodato; poichè, sebbene da Corso odiasse i Genovesi, d'indole sedata era, ed in lui l'operare procedeva piuttosto da fortezza abituale che da impeto passeggiero e facile a svanire. In somma, vero e sincero parto del secolo decimottavo fu Paoli, ma però prima che il secolo dagli abbaiatori e dagli ambiziosi si guastasse. A Pasquale Paoli pertanto pensarono i Corsi, e lui delle necessità della patria ammonirono, e a lei il pregarono che soccorresse. Il dabbene e forte giovane vide qual difficile impresa gli si apprestava. La ferocia e l'ostinazione delle parti erano malagevoli, e forse impossibili, a domarsi; Genova ricca e forte in paragone della Corsica, per peggiore sua sorte notata di ribelle; le ambizioni degli antichi capi, massimamente quella del giovane Mario Matra, più ambizioso di tutti; nè ignorava che i capi de' Corsi, se infelici nell'amministrare la guerra, perdeano con essi la causa; se felici, erano a tradimento ammazzati: i casi di Sampiero e di Gaffori erano tali da spaventare qualunque più intrepido amatore della sua patria. Ma vinse in Paoli il desiderio della gloria, vinse il desiderio della libertà: rispose adunque essere parato, accingersi volentieri all'alto proposito, tutto dare sè stesso alla salute della patria. Navigato felicemente, prese Pasquale Paoli terra a foce di Golo a dì 29 aprile; e soffermatosi alquanto d'ora al vescovato, volse poi i passi a Rostino, dove era nato. Come prima si sparse il grido essere arrivato il figliuolo di Giacinto, figliuolo degno di degno padre, concorsero i popoli bramosamente a vederlo, sperando che, se la somma delle cose loro reggesse, conservare potrebbero il nome e la libertà corsa. Nel mese di luglio fecesi, per mezzo de' capi eletti, un parlamento di tutta la nazione a Sant'Antonio di Casabianca, paese della pieve d'Ampugnani. Paoli, trovato ne' cittadini riscontro ai suoi desiderii, v'intervenne. Fu con consentimento unanime chiamato generale delle armi e capo della parte economica e politica del regno, con autorità piena e libera, fuorchè nei casi ne' quali si trattasse di materie di Stato, sopra cui deliberare non potesse senza l'intervento di due consiglieri di Stato e dei rispettivi rappresentanti di ciascuna provincia. Legossi per fede, e giurò, in cospetto della nazione a parlamento adunata, che fedelmente ed in benefizio della libertà le potestà userebbe che la patria gli dava. In sul limitare stesso del preso magistrato poco mancò che Paoli non perisse. L'invidia degli emuli gli fu subito addosso. Mario Matra, sopra tutti, giovane, siccome si è osservato più sopra, ambizioso e feroce, e per nascita nobile e per sostanze dovizioso, con grave sdegno aveva sentita l'esaltazione del capitano generale, ed ogni mezzo andava macchinando ed ogni via cercando per torgli quella superiorità, cui cotanto egli odiava. Immenso odio in sè medesimo annidando, dovunque vedeva un uomo odiatore di Paoli; od in qualunque modo amatore di risse e di scandali, tosto a lui ricorreva, il tentava, e contro l'emulo lo spingeva. E pretesseva anche parole di libertà, accusando il capitano generale del volersi servirò dell'autorità datagli per istabilire la tirannide. Sommovitrici parole sono sempre queste pe' popoli, più sospettosi di perdere la libertà, che savii per conservarla. Ma i popoli corrono dietro, come pecore, agli ambiziosi che gridano tirannide, quando c'è libertà. Matra gridava e chiamava Paoli tiranno; non pochi si lasciavano sollevare dagli umori torbidi di questo commovitore, intorno a cui si faceva concorso. Ai sospetti, alle maldicenze si aggiunsero alcuni privati sdegni. Il vecchio vizio, vogliam dire l'amore della vendetta, tuttavia predominava, e per quanto avessero fatto i governi precedenti per estirpare questa velenosa pianta, nuovi rampolli ella sempre mandava fuori, se non peggiori, almeno altrettanto maligni dei primi. Solo aveva tregua il feroce talento quando i popoli andavano alle battaglie contro i Genovesi; ma finite le battaglie, i Corsi si ammazzavano partigianamente fra loro. Paoli, che intendeva non solamente a libertà, ma ancora a civiltà, applicò tosto l'animo a sanare questa peste. Cominciò colle persuasioni, cui davano peso il suo nome, l'amore dei popoli, la fresca autorità; che non mai dal collo si leverebbero Genova, se con le proprie mani continuassero a distruggersi; fare loro, insanguinandosi nel sangue corso, ciò appunto che i loro nemici desideravano; non le mani raffreddate dalla morte, ma le vive alcuna cosa potere contro gli oppressori, nè mai esservi di mani vive troppa copia contro di chi tanto può. Quindi, dalle parole venendo ai fatti, stabilì in ciascuna provincia, ed in altri luoghi che gli parvero opportuni, certi magistrati con facoltà di giustizia pronta e sommaria a terrore de' feritori e degli omicidi. La giustizia sempre è più rispettata quando ella è più imparziale, e si esercita egualmente senza eccezione di persone, quali esse sieno e di qual nome si chiamino. Ora accadde che un parente di Paoli, trovato reo di omicidio, fu sentenziato a morte; i parenti pregavano per la grazia; i popoli stavano a vedere che si facesse. Comandò che si facesse giustizia, il reo fu passato per l'armi: fruttifero esempio. Da allora in poi divennero rari gli omicidii, benefizio immenso del giovane capitano chiamato a sanazione della Corsica, il quale maggiormente poscia il confermò con andar esso stesso girando per l'isola, principalmente col fine di vedere se si ministrasse buona e retta giustizia. Ma un altro caso avvenne che fu cagione di atroci sdegni, e, destando molti a nemici pensieri, accrebbe forza alla fazione del Matra. Trovandosi Paoli a Campoloro, bandì dell'isola e castigò colla confisca de' beni un Ferdinando Agostini, reo di tentato omicidio. Era parente di costui Tommaso Santucci di Alessani, stato poc'anzi uno de' quattro membri del consiglio segreto di Stato. Sendo personaggio d'importanza, credettesi di ottenere facilmente la remissione della pena, ed a tal fine pregò il capitano generale. Ma Paoli, che al pro di tutti non di alcuno solamente mirava, e che già un suo parente stesso aveva lasciato al corso della giustizia, la preghiera inflessibilmente sostenne, e per quanta pressa gli si facesse intorno, non volle consentire. Santucci sdegnato, e segnatasi altamente nell'animo l'ingiuria che si credeva di avere ricevuto, andò ad unirsi a Matra, a cui già erano venuti, per odii occulti o palesi o per mera ambizione, altri principali Corsi, per modo che già formavano un'intera intelligenza considerabile. Vi vennero un secondo Santucci, un Angelo Colombani, un Cotani, un Paganelli con molti seguaci, ed adunatisi nel convento dei Francescani, chiamarono loro capo contro Paoli il Matra. Questo moto si andava ingrossando per la giunta di nuovi settarii e di ogni facinoroso avido di fare il suo pro nelle turbate cose. Non sì tosto Paoli, che stava in orecchi e vegliava questi moti, ebbe avviso della sollevazione di questi uomini scandalosi e ribelli alle voglie della patria, prevedendo quanto fatale potesse essere quell'incendio sul principio del suo magistrato, chiamò gente delle pievi meglio affette; e divenuto grosso e potente sui campi, avviossi verso Alessani, per porre il piede su quelle prime faville. Ma l'emulo suo, che s'era imboscato in quella pieve con duemila de' suoi, l'assalì così all'improvviso, mentre passava, che fu rotto e quasi del tutto abbandonato da' compagni, ed alle maggiori fatiche del mondo potè salvarsi nel convento di Campoloro. Se Matra fosse stato presto a seguitare l'impeto della fortuna favorevole, avrebbe ottenuto piena vittoria dell'avversario. Ma stimando di avere vinto quando l'altro poteva ancora risorgere, temporeggiò, se ne stette a bada, ed, in cambio di correre a Campoloro, s'incamminò verso Corte, vincitore sè medesimo predicando. In questo mezzo tempo Paoli non mancò a sè stesso, e non che il suo coraggio si abbattesse, più vivido anzi risorse. Fece quivi veramente grande sperimento della sua virtù, discorse bene le condizioni del tempo, chiamò di nuovo i suoi Rostinchi, levò a rumore tutte le terre del comune, che sono appunto Rostino con le pievi di Orezza, Ampugnani, Casacconi e Vallerustie. Le novelle genti di Paoli arrivarono in suo aiuto unite in una schiera di tre mila furiosi paesani, che assaltati i Matreschi, li misero in fuga per Alessani. Il fugato Mario Matra ritirossi primieramente in Serra, poi in Aleria, dove aveva le sue possessioni; ma tornò in campo con nuovi seguaci raccolti nelle pievi di Castello, Rogna ed Aleria. Novellamente restò vinto e costretto a rifuggirsi in quel suo nido di Aleria, dove girava gli abitanti in ogni sua voglia; ma accortosi che con le proprie forze non poteva ostare all'avversario, si diede in braccio a Genova, non abborrendo dal vincere quello con la servitù de' suoi, purchè vincesse. Tali sono gli ambiziosi. Andò a Bastia, corse a Genova, tornò con promesse ed aiuti; il commissario Doria molto il favoriva. Fece un'intelligenza ed un ristretto de' suoi confidenti, per servirsene al caso che meditava. Era questo il sesto anno che la bella quanto sfortunata Italia godeasi la pace procuratale dal trattato d'Aquisgrana; ma poco mancò che uno strano accidente non venisse a turbarla. Un Luigi Mandrin, capo di contrabbandieri, annidatosi da qualche anno tra i confini della Francia, verso gli Svizzeri e la Savoia, rese la sua squadra talmente celebre e terribile insieme, mettendo a contribuzione e spavento città e provincie, che il governo franzese, volendo tor di dosso a' suoi sudditi questa peste, avea spedito due grossi corpi di milizie con ordine di farne ad ogni costo l'arresto. Madrin, che trovavasi in Savoia, dove pure il tenevano di vista, ritirossi con quattro compagni nel castello di Roccafort, dove non poteva dalle milizie franzesi esser preso senza violazione del diritto delle genti. Ma lo uffiziale che quelle milizie comandava, senza tante considerazioni, ed avanzandosi con gran segretezza sino alla torre di San Genis d'Aosta, dove uccise dieci o dodici contadini, altri ferì, e misse tutti in fuga quelli che, sorpresi dalla novità della fazione, gli si erano voluti opporre, inoltrò quindi prestamente sino a Roccafort, sorprese il famoso contrabbandiere e lo tradusse a Grenoble, poi a Valenza, in cui finì sulla ruota i suoi giorni. Intanto il re di Sardegna, informato dell'accaduto, si fece a chiedere al re di Francia pronta e solenne soddisfazione dell'ingiuria recatagli con un'insigne violenza che ne offendeva la sovranità. E la corte di Francia volea dargliela; ma non convenendosi ne' modi, il re di Sardegna ordinò al suo ambasciatore di lasciar Parigi senza prendere comiato, e distribuì in proposito una ragionata memoria a tutti i ministri stranieri residenti a Torino. Non cessarono intanto i maneggi, i quali condussero al felice risultato d'un accomodamento, che, con reciproca soddisfazione di quelle due potenze, spiantò quel seme che la discordia aveva apprestato a distruggere la buona armonia con tanta difficoltà ristabilita. Anno di CRISTO MDCCLVI. Indizione IV. BENEDETTO XIV papa 17. FRANCESCO I imperadore 12. Nell'anno nuovo Matra corse per la seconda volta le campagne di Corsica, piuttosto nemico di Paoli che amico della patria, contuttochè mostrasse sempre un gran zelo per la libertà. Veniva con armi e munizioni e denaro genovese; la fama portava grandi cose di lui, e magnificava gli aiuti concedutigli. Quei della sua parte ed ogni torbido fante accozzavasi con esso lui per guisa che facevano un alto rumore per quelle montagne. Con tutti questi ordigni del gridare e del promettere e del vantarsi e del sonare i zecchini aveva congregato una seguenza di molti giovani, sì che pareva vicino il sobbisso di Paoli. Il novello Mario uscì in campo, sperando di sorprendere il nemico alloggiato nella pieve di Verde; ma non potè asseguire l'intento, perchè il capitano tanto odiato da lui, avuto presto avviso del fatto, aveva dato indietro, in sembianza di fugato più che di ritirantesi, sino al convento di Bozio, dove si fermò ed attese a fortificarsi. Mandò intanto ordinando a Clemente suo fratello ed al presidente Venturini che prestamente accorressero, se amavano la sua salvezza. Matra in questo mentre passò a quella volta, credendosi al certo di avere la guerra vinta, anzi l'avversario stesso in mano. Giunse, e cinto il convento d'armati, male si poteva Paoli difendere, non avendo con sè che sessanta compagni. Già Mario squassava la porta del convento, già la bruciava, già l'atterrava, già pareva giunto l'estremo termine della vita di Paoli, quando a corsa ed a furia arrivarono Venturini ed altri capi accompagnati da molta gente desiderosissima di salvare colui cui la Corsica aveva chiamato salvatore e padre. Successe fra le due parti una molto accanita zuffa, in cui i matreschi, non sostenendo l'impressione del nemico, rimasero vinti e sbaragliati, ed il loro condottiere ferito in un ginocchio. Ridotto in grande povertà di consiglio, pensò di ritirarsi ma nol potè, perchè, sopraggiunto dai paolisti infuriati, restò crudelmente trucidato, quantunque Paoli ad alta voce gridasse, che dall'atroce pensiero si ritraessero e in vita il serbassero. Tutti i partigiani del vinto rimasero preda del vincitore, eccetto pochi, che si ricoverarono fra i Genovesi a Paludella e San Pellegrino. Fra i prigioni, tre furono passati per l'armi, gli altri obbligati a spianare il forte d'Aleria con gettarne i sassi in mare, affinchè nissun vestigio restasse di quel nido, donde a danno comune s'era partito il ribelle Matra. A tale andò la bisogna, che a tutti furono tolte l'armi, di più di cinquecento si arsero le case, dagli altri si ricercarono ostaggi per sicurezza di obbedienza. Oltre modo lacerarono e dannificarono il paese dei disubbidienti. Mentre Paoli comprimeva il nemico, e, lieto d'una vittoria che tanto gli cresceva credito presso la nazione, castigava i partigiani di Genova, fece pensiero di premiare, affinchè senza il debito onore non rimanessero, coloro che secondo l'animo suo procedevano e fedelmente si conformavano agli ordini suoi. A questo fine istituì un ordine di cavalieri, che chiamò _compagnia volontaria_. Costoro portavano una sottogiubba di panno corso rotonda e senza alcun ornamento, con berretta verde e mostre di velluto pur verde; sulle maniche e sul petto una croce coll'imagine della immacolata Concezione, i semplici compagni d'argento, i graduati d'oro, coperta prima d'alcun fatto illustre, e scoperta dopo. Obbligavansi ai servigi della patria a proprie spese, andavano alle fazioni a piedi, solo a cavallo il gran maestro, che eleggevano per sei mesi; ed il primo fu Giovanni Rocca, segretario di Stato. In questo tempo (per certe risse sanguinose accadute tra Franzesi ed Inglesi nell'America settentrionale, e per contenzione di confini, sulle frontiere del Canadà, o piuttosto per superbia e cupidigia dell'Inghilterra da una parte, per debolezza del governo della Francia dall'altra, poichè immerso il re nei piaceri, pareva che all'emulo impero volesse comportare ogni cosa) s'era accesa fra le due potenze una crudel guerra, sul principio della quale, ed in fin già prima che fosse dichiarata, l'Inghilterra aveva tolto sui mari i vascelli e le sostanze di Francia. Ora, correndo gli Inglesi il Mediterraneo, la Francia concepì timore, ch'essi dei casi della Corsica volessero tramettersi, e, levandola dall'obbedienza di Genova, s'impadronissero di qualche sua parte, e vi facessero una stanza ferma con danno manifesto de' proprii interessi. Della qual cosa tanto più sospettò ch'erano andate attorno voci che Paoli avesse con l'Inghilterra qualche segreta corrispondenza, e con esso lei seguitasse qualche domestichezza d'amicizia e di fede. A ciò pensando, le parve che non fosse più da differire di stringersi maggiormente co' Genovesi; perlochè fece con Genova sue pratiche col fine di conseguire da lei l'intento suo, che era di introdurre soldati franzesi nelle piazze di presidio. La signoria, cui il medesimo sospetto angustiava, massime nel caso che gl'Inglesi perduto avessero Porto Maone per l'espugnazione del forte di San Filippo a quei dì fortemente battuto dai Franzesi, s'inclinò facilmente alla volontà della Francia; laonde nei primi giorni di novembre, condotti dal marchese di Castries, al quale era stato dal re dato il grado di comandarli, sbarcarono in Corsica tre mila Franzesi, prendendo le stanze in Aiaccio, Calvi e San Fiorenzo. Non venivano come nemici ai Corsi sollevati, nè a favore di nessuno, come pubblicavano, nè i Corsi gli trattarono da nemici; solamente si appostavano gli uni e gli altri con somma diligenza, e con grande gelosia osservavano ciò che l'altro facesse. Se la repubblica di Genova era rimasta contenta d'aver ottenuto l'intento suo di vedere in Corsica un corpo di truppe franzesi, ebbe pur motivo d'esserlo pel buon avviamento che presero le di lei vertenze colle comunità di San Remo e di Campofreddo. Nel mese di gennaio l'imperadore diede ordine al consiglio aulico di riassumere la causa di quelle comunità a lui ricorse come feudi imperiali. Appena ne giunse a Genova la notizia, la signoria, che avea già posto a San Remo il morso d'una specie di cittadella, fece immantinente presentare al detto consiglio aulico due scritture valevoli a far sospendere un procedimento, di cui ad ogni modo poteasi temere l'esito incerto. Era l'una di queste scritture una supplica presentata al senato genovese da tre deputati delle comunità di San Remo residenti a Genova, con cui la comunità stessa si metteva a' piedi della signoria, e riponea la sua fiducia nella sovrana clemenza del senato per essere tornata in grazia del suo principe; e l'altro un atto passato a Vienna dal procuratore della comunità di Campofreddo, con cui ampiamente rinunziava ai ricorsi sino a quel giorno fatti all'imperadore presentare. Altissimi commovimenti produsse ne' popoli di quelle due comunità la notizia di tali fatti de' loro commessi; si pubblicarono e divulgarono da per tutto le loro solenni proteste, pregando e richiedendo i ministri de' sovrani e delle potenze d'Europa a voler considerare quelle scritture come estorte, nulle e riprovate dalle comunità. Le quali proteste, pur presentate al consiglio aulico, fecero sì che per quell'anno rimanesse l'affare sospeso, nè se ne udisse parola. La guerra dei sette anni, in questo anno dal re di Prussia rotta all'imperadrice regina, condusse l'Italia a vedere nudarne per la Germania, e quindi per la Boemia, alcuni reggimenti de' suoi figli, bella e fiorita gente, che dal granducato di Toscana l'imperadore chiamò a far parte degli eserciti imperiali. Nè maggior peso le recò l'altra guerra insorta nel nuovo mondo tra Spagna e Portogallo da una parte, e gl'Indiani del Brasile dall'altra, che volevano mantenersi indipendenti; ma vinti e disfatti, dovettero porre giù le pretese, e sottomettersi. Se non che merita forse d'esser ricordato che gli oziosi novellisti avevano fatto alla Italia gratuitamente il dono d'un Nicolò Rubini del Friuli, che sotto il nome di Nicolao I menasse alle pugne gli abitanti del Paraguai, da lui mossi e suscitati nella sua qualità di gesuita; ma presto venne sopra la verità, e l'Italia perdette quel non ambito onore d'aver dato un suo figlio per sovrano del nuovo mondo. Ma mentre svaniva dalla mente dei creduli e dalle pagine della storia questo re immaginario, la Corsica perdeva quello che aveva realmente sopra di lei regnato. Partito Teodoro tre volte da quel regnò che avealo nel 1736 solennemente riconosciuto per suo signore; divenuto in seguito vero trastullo della fortuna, oppresso continuamente da debiti, lottando col bisogno, perseguitato da' creditori, chiuso in una prigione di Londra, come era stato prima in quelle di Amsterdam, trovò in Orazio Valpole chi prese cura di lui, e raccolti sussidii volontarii da uomini benevoli, col provento li cavò del carcere. Teodoro staggì il suo regno di Corsica pel pagamento a favore dei prestatori. «Non so come l'intendessero, dice uno storico esimio, ma in somma il fatto è certo: vi sono di queste ubbie in Inghilterra, quando la vena dà.» Morì poi in quest'anno a Londra, e fu sepolto nella chiesa di Santa Anna di Westminster con la seguente iscrizione in lingua inglese, che vien a dire in italiano: «Qui giace Teodoro, re di Corsica, morto in questa parrocchia a dì 11 dicembre del 1756 subito dopo d'essere uscito, pel benefizio dell'atto sui falliti, dalle carceri del banco del re: lasciò il suo regno di Corsica per sicurtà ai creditori.» Crederei che la chiusa dell'iscrizione fosse scherzo, se si scherzasse sulle tombe, riflette il poc'anzi citato storico illustre. Anno di CRISTO MDCCLVII. Indizione V. BENEDETTO XIV papa 18. FRANCESCO I imperadore 13. La compagnia volontaria da Pasquale Paoli novellamente istituita in Corsica a premio de' più meritevoli non ebbe ad aspettare molto per mettere alla prova il suo valore, e, giustificando la scelta fatta dei membri, accrescere la speranza del capitan generale; imperocchè si pose egli tantosto con essa all'impresa di espugnare la torre di San Pellegrino custodita da' Genovesi, posto d'importanza e vantaggioso a chi ne fosse signore. Un ingegnere svizzero diresse le operazioni dell'assedio, le quali riducevansi a far salire chetamente un soldato alla porta della torre per farvi un'apertura tale che vi potesse passare un uomo armato, e quindi sorprendere d'improvviso il custode dell'armi e della munizione. La cosa o male intesa o male eseguita non riuscì, quantunque i Corsi con tanto silenzio e precauzione si fossero appropinquati alla torre che i difensori non se ne erano accorti per niente. Il soldato, che dovea far l'apertura nella porta, cadde. I Corsi, invece di rifarsi da capo allo esperimento, o di dare un improvviso assalto, perdettero inutilmente molto tempo, che diede campo al presidio di dare all'armi e far piovere sopra gli assalitori le palle. Costretti quelli a ritirarsi, determinaronsi ad un assedio formale e ad obbligare i difensori ad arrendersi almeno per la fame. Nè tardando questa molto a farsi sentire, fu proposta la resa mediante un'onesta capitolazione. Ma Venturini, un capo corso, si fece a gridare non voler capitolazioni, ma o che il presidio si rendesse a discrezione, o altrimenti sarebbe presa per assalto e colla forza dell'armi. Questa ostinazione fu salute degli assediati. Concorse in questi momenti due galee genovesi con altri legni minori, obbligarono i Corsi alla ritirata, colla perdita di molti di loro, tra i quali uno de' nuovi cavalieri. Intanto il marchese Doria, commissario alla Bastia, ordinò in nome della repubblica che nissun paesano si avvicinasse a quella città, ordine che fece ripetere dagli altri commissarii e comandanti genovesi che si trovavano nell'isola, e ad esecuzione del quale formò un campo volante, che dovea arrestare tutti i Corsi trasgressori. Ed all'opposto, Paoli ed il supremo consiglio di Stato corso proibirono a tutti i nazionali di avere alcuna corrispondenza colle città e coi luoghi governati dai Genovesi, e molto più di trasportarvi vettovaglie di qualunque sorta, al campo volante del commissario, contrapponendo un altro campo consimile, per tener in dovere chiunque avesse ardito d'infrangere le loro prescrizioni. La quale rigorosa misura sortì l'inevitabile suo effetto; cominciò a farsi sentire la carestia così vivamente alla Bastia, che il marchese Doria alle calde istanze degli abitanti dovette rivocare i suoi divieti, e lasciar che la città si provvedesse di viveri come meglio potesse. Siccome la fama così altamente parlò di Pasquale Paoli, uomo che tanto fece per la libertà della sua patria e che, se una forza sopravanzante non si opponeva, avrebbe fondato nella natia isola una repubblica a guisa di quella d'Olanda, pensiero che girava a quei tempi nella mente degli uomini, non sarebbe fatica perduta lo spaziare alquanto sulla sua vita, costumi, desiderii ed opere. In picciole scene, sono non di rado grandi esempii. Se non cito ci stringono i limiti a queste carte imposti e ne fanno la legge di toccare sol di volo e per sommi capi l'alto subbietto. Oppressi gli emuli e date di sè medesimo felici speranze, Paoli, se avuto avesse la smania di tanti che abusano della confidenza che in loro collocano i popoli, avrebbe potuto fare i Corsi servi e porre sè in cima di tutti. Ma prevalse in lui un pio desiderio e si diè a battere altra strada. A' tempi del generoso uomo, i Corsi distinsero per suo consiglio l'autorità pubblica in tre potestà; la legislativa, la esecutiva e la giudiziale. Sedeva la prima nel parlamento, o, come la chiamavano, la _consulta generale_, che rappresentava l'intero corpo della nazione, e la componevano circa cinquecento membri, denominati _procuratori_, ed eletti parte dal popolo, parte dal clero sì secolare che regolare. I procuratori in consulta adunati avevano la facoltà di fare e di annullare leggi e di stanziare la somma annua da potersi spendere per lo Stato. Ed oltre alle leggi facevano certi magistrati, di due ordini, uno giudiziale, l'altro esecutivo, cioè un ministro di giustizia per ciascuna delle nove provincie della Corsica, e nove membri del supremo governo esecutivo, uno pure per ciascuna provincia. Il supremo governo esecutivo, cui chiamavano eziandio supremo magistrato, o supremo consiglio, composto, come abbiam veduto, di nove membri o consiglieri, aveva per presidente il generale Paoli, dalla consulta a quella maggioranza eletto. Avevano questi consiglieri diritto d'intervenire alla consulta, e di proporre per bocca del presidente di lei quanto loro paresse giusto, o necessario, o conveniente. Paoli aveva titolo di _generale del regno e capo del magistrato supremo di Corsica_. Nelle sessioni, sedeva sotto un baldacchino coi consiglieri in qualche distanza da lui. La sua tavola ed il mantenimento dalla casa erano a spese della nazione, senza limitazione alcuna di somma, lasciandosi interamente, perchè potesse tener grado, lo spendere a sua discrezione. Poteva disporre del denaro pubblico come gli pareva più spediente, purchè non oltrepassasse la somma fissata dalla consulta. Grande era la sua autorità, e forse eccessiva, se le contingenze del tempo, e le turbate e incerte cose della Corsica non la scusassero; imperciocchè per la milizia e pel mare godeva di una potestà assoluta, e per tali faccende non era nemmeno obbligato di domandar il parere dei consiglieri; e quando spontaneamente il domandava, la loro voce si aveva solamente per consultiva, non per giudicativa. Poteva trattare con qualunque potenza di pace, di guerra, o di alleanza, ma non concludere senza l'assenso dei consiglieri, avendo in tutti questi casi un solo voto come gli altri, con questa eccezione però che nei casi di vita o di morte, se si trattasse di condannare, avesse un voto solo, se di assolvere, due. Aveva intorno per la guardia del suo corpo circa ottanta soldati, i quali per ordine espresso della consulta il dovevano accompagnare ogni qualvolta che in cospetto del pubblico o per ufficio o per altra causa comparisse. I funesti casi di Sampiero e Giampiero, ed altri tentativi di assassinio fatti contro di Paoli stesso, a tale deliberazione avevano sforzato la consulta. Ma ciò egli detestava come segno di tirannide, affermando e protestando volerne veder la fine tosto che la Corsica un volto genovese più non vedesse. Nella sua anticamera, nè nella camera, nemmeno di notte, nessuna guardia di uomo voleva; ma era meglio e più fedelmente custodito che da uomini. Sei grossi cani corsi stavano sempre, terribili custodi, alla porta dell'anticamera, e nella camera stessa. Con lui dormivano, con lui vegliavano, e se alcuno di notte a lui accostato si fosse, in mal punto venuto vi sarebbe; perciocchè sarebbe stato incontanente da quelle orrende bocche lacerato a pezzi. Molto Paoli gli accarezzava, ed essi il conoscevano e l'amavano, e ad ogni suo cenno pronti l'obbedivano: dolcezza e ferità in loro si accoppiavano. Trovo scritto, seguita a dire uno storico famoso, che per tal costume Paoli ritraesse dell'antico; così, al dir d'Omero e di Virgilio, Patroclo, Telemaco ed Evandro avevano i loro cani; al dire degli storici, Siface i suoi. Era stabilito per legge della consulta sotto pene gravissime che nessuno parlasse o scrivesse contro il supremo consiglio, meno ancora contro il generale, credendo quegli uomini gelosissimi la libertà delle lingue e delle penne un veleno pestifero. Quanto alla potestà giudiziale, abbiamo veduto come i procuratori delle province eleggessero un ministro per provincia, al quale si dovea ricorrere nei casi di maggiore importanza, quelli di poco momento essendo giudicati da' giudici o podestà di ciascuna città o aggregazione di villaggi. Questi ministri potevano condannare a multe ed anche a pene corporali; e fu loro eziandio data autorità sopra il sangue; ma quando ne usavano, erano in obbligo di mandare il processo al supremo governo che confermava o annullava la sentenza. Crearono poi pei giudizii delle cause civili, il cui importare oltrepassasse cinquanta lire, imperciocchè sotto di questa somma le sentenze de' ministri sopraddetti erano terminative, una ruota composta di tre legisti, la quale sempre doveva fare la sua residenza nella città di Corte. Da questa ruota vi era appellazione al supremo consiglio, ma solamente quando constava che alcuno fosse stato molto aggravato. Questi ordini giudiziali non erano certamente perfetti, ed ancora li bruttava l'infame uso della tortura. Ma intenzione del generale era di perfezionarli col tempo. I comuni si regolavano per gli uffiziali municipali, e li chiamavano padri del comune. Erano eletti dai padri o capi di famiglia. Le cause ecclesiastiche si agitavano nel tribunale del vicario apostolico mandato dal papa, con autorità universale, e dalle sue sentenze si appellava alla corte di Roma. Paoli sentiva dell'ignoranza de' suoi compatrioti dolore acerbissimo: nissun mezzo più acconcio vedeva per dirozzare, ingentilire ed appiacevolire la nazione, di quello d'illuminare gl'intelletti ed informare gli animi co' buoni esempii. In ciò non concordava con Rousseau, cui aveva chiamato per dar leggi all'isola; imperocchè, come ad ognuno è noto, il filosofo di Ginevra credeva che il ben essere non potesse consistere che con una certa ruvidezza di costumi, e di ciò in Corsica ne era dovizia. Perciò giva predicando che fra tutti i popoli Europei i soli Corsi erano capaci di buone leggi. «Ma qui cade in acconcio, dice il più volte lodato storico, l'antico proverbio, che se l'ignoranza è vizio, il troppo sapere è parimente vizio, ed in questo, come in ogni altra cosa, ogni bene sta nel mezzo. Non dico già che il gran sapere sia vizio, in un individuo, poichè anzi è un pregio eccelso e sommamente da lodarsi, ma solamente dico, che il sapere più che al popolo si appartiene, sparso generalmente in una nazione, è vizio e cosa da fuggirsi, perchè non può essere compiuto in ognuno, e il ciel liberi gli Stati dall'essere in mano dei semidotti! Il perfetto sapere dà la modestia e la ritiratezza, l'imperfetto la superbia, l'impertinenza e l'ambizione.» Paoli mosse, ed i supremi magistrati consentirono, che nella città di Corte si fondasse una università degli studii, a cui concorrendo i giovani Corsi, s'imbevessero di quanto più dirozza ed imbuonisce l'uomo. Ciò successe nel 1764. Ottima disciplina ordinossi pel nascente studio, esami settimanali, esami annuali; lodi e premi e corone, forti stimoli a giovani intelletti. I professori, stipendiati dalla nazione, insegnavano gratuitamente. La novità del caso, quel cibo tanto gradito, quanto per la prima volta offerto e gustato, la naturale attitudine per le scienze e per le lettere degl'ingegni corsi, i conforti e gl'incoraggiamenti del Paoli, uomo tenuto in tanta venerazione dalla gioventù, partorivano effetti mirabili. Queste cose faceva il benevolo reggitore della Corsica fra mezzo i furori della guerra e l'incertezza del destino futuro della sua patria. Importava massimamente a Paoli la cura della guerra e degli esercizii militari. Contuttociò egli andava pensando come avvezzar potesse i suoi compatriotti alle opere di agricoltura, cui per lungo uso ripugnavano. Gli andava dunque invitando alle rurali fatiche, accarezzava chi vi si dava, premiava chi vi profittava, a poco a poco altro aspetto vestiva la Corsica infelice, la smossa terra rendeva l'odore delle fortunate radici, vedevasi sui campi, cosa insolita per lo innanzi, le marre mescolatamente colle spade. Giovine e, per così dire, fanciulla era a quei dì la Corsica per la capacità del governare le faccende dello Stato: bisogno ancora aveva di tutela. Ad ogni ora domandavano a Paoli consiglio di quanto avessero a farsi e per le cose e per le persone: rispondeva: _Fate voi altri, nominate voi altri_. Così gli avvezzava. Squallida l'isola per la guerra, squallida per la povertà. «La patria, il generale diceva, è il corpo della Sunamitide, noi e i magistrati il profeta Eliseo, che, occhi ad occhi, bocca a bocca sopra di lui distesi, opera facciamo di rianimarlo: già comincia a muoversi, già riprende calore e vita, e se il tempo e Iddio ci aiutano, presto vedremo non solo la quiete e l'ordine, ma ancora le scienze e le arti. La Corsica accomodatamente consuonerà colla civile Sicilia, nè indarno la natura ci avrà sotto di questo propizio cielo posti.» Fiera e grande anima aveva; l'indipendenza della patria svisceratamente amava. La più gradita lettura che avesse era quella del libro de' Maccabei: Antioco ed i Romani gli passavano per la mente. Niuna parola più odiava che quella di ribelli applicata ai Corsi. Paoli aveva il volto per l'ordinario assai placido e dolce, e così pure il costume, ma quando udiva dar del ribello ai Corsi, di tali feroci forme le sue fattezze si vestivano, che la corsa natura pienamente in lui si disvelava. Più amava Temistocle che Demostene, perchè questi parlava, quegli faceva. Di gran lunga anteponeva Penn, legislatore della Pensilvania, ad Alessandro Magno, conquistatore dell'Asia, quello per aver fondato uno stato felice e tranquillo, questo per aver martirizzato mezzo un mondo. La voce di Paoli era potentissima sui cuori di Corsica, nè di altro egli aveva bisogno che di lei per disporgli a seguitare la sua volontà e a spingergli ai più pericolosi fatti. Alla guerra, da lui chiamati, andavano spontaneamente. Servivano senza paga, salvo le guardie del generale e quei che erano di presidio nelle fortezze. Paoli poteva congregare ad un bisogno trenta mila armati, vale a dire, quasi la quinta parte di tutta la popolazione. E non avea bisogno di far magazzini per somministrare le vettovaglie all'esercito, posciachè in ogni luogo erano preste o portate dai guerrieri andati in campo. Ogni cosa portava all'entusiasmo: l'odio, l'amore; gli usi antichi, il rispetto verso il generale. «L'esser ferito, scrive un anonimo, è stimato onor grande, onor maggiore perdere i propri figli al servigio del pubblico.... il pensiere dello arrendersi è peggiore della morte. Pochi anni fa, un Corso stava guardando dalla sua finestra e vide alcuni suoi paesani arrendersi ai Genovesi. Questo fece in lui una impressione tale, che risolvette di non uscire mai più di casa; ed alla sua morte che succedette quattro anni dopo, lasciò ordini positivi, che il suo cadavere fosse sepolto fuori della vista della città.» Tali erano gli uomini di Corsica. Molto opportunamente il fervore degli spiriti suppliva alle esigenze dello Stato. In paese per sè non ricco, e fatto povero dai tumulti e dalla guerra, le rendite pubbliche erano di poca importanza. Tutte le gravezze insieme fra tasse e dazii non gettavano un mezzo milione di lire. Le donne di Corsica somigliavano gli uomini; oltre la dura e faticosa vita, a cui erano da mariti astrette, la patria amavano; gli ornamenti loro, i figliuoli; i lor passatempi, le fatiche. Nel rimanente d'Italia tutto in questo anno fu pace; ma se la guerra non ne devastò le belle provincie, non andò per altro esente da altre disgrazie e calamità, che appunto in questi giorni funestarono una gran parte della superficie del globo. Senza dire di quelle due bocche infernali che, a vomitare torrenti di fuoco, spalancaronsi nell'estremità orientale d'Italia; un elemento affatto contrario portò le sue devastazioni in un'altra parte quasi diametralmente opposta. La città di Verona contò in ogni tempo l'Adige come il padre delle sue ricchezze ed insieme quale istrumento delle sue miserie, per le terribili innondazioni che glie ne derivarono. Paolo Diacono ne descrive una, da lui creduta la maggiore di quante avvennero dopo il diluvio. Dice che l'Adige crebbe cotanto che l'acque toccarono sino alle finestre superiori della chiesa di San Zenone situata fuori delle mura, e che queste restarono in gran parte dall'impeto delle acque atterrate. Comunque sia di tale inondazione dell'ottavo secolo, e di altre due avvenute nel 1567 e nel 1719, quella del primo dì di settembre del corrente anno superò tutte le precedenti, poichè le acque si alzarono sino a diciotto piedi e mezzo. In tale disastro, il ponte detto delle Navi perdette i due archi di mezzo, e scuotendosi nel tempo stesso la contigua torre, oltre al rimanere isolata in mezzo a quel pelago nato improvvisamente, videsi vicina a sfasciarsi interamente. Nel quale pericolo è da notarsi la magnanimità ed intrepidezza del contadino Bartolommeo Rubele, detto Leon, che con eroico ardire, toltosi dalla folla tremebonda che sconfortata stava osservando il terribile spettacolo senza osar di cimentarsi, osò salire in quella torre a prendere e salvare due infelici donne che con due teneri fanciulli vi albergavano, ricusando poi l'oro che a ricompensa del generoso fatto ciascuno gli proferiva. Anno di CRISTO MDCCLVIII. Indizione VI. CLEMENTE XIII papa 1. FRANCESCO I imperadore 14. La notte del secondo giorno di maggio dell'anno presente, vide l'ultima sua ora Benedetto XIV. Dotto amico dei dotti, visse, e li protesse e li sollevò, e sotto l'ombra sua li raccolse. Il seppero Cristoforo Maire e Ruggiero Giuseppe Boscovich, matematici celebratissimi, cui chiamò ed a cui diede carico di misurare l'arco del meridiano in tutto lo Stato ecclesiastico, e il fecero. Lo seppe Giovanni Poleni, professore di matematica nell'università di Padova, cui chiamò per consigliarsi con esso lui sul ristauro della basilica Vaticana, la cui volta minacciava ruina. Lo seppe il Quadrio, cui col consiglio e con generose opere soccorse. Lo seppero finalmente Muratori e Maffei, a cui per lettere fece testimonio quanto le persone loro e gli studii onorasse. Nè alcun celebre personaggio era dentro o fuori d'Italia, che da Benedetto estimazione, onore e favore non ottenesse. Al mondo è nota la lettera scrittagli da Voltaire quando gli mandò il suo Maometto. Il poeta, che malizioso era, forse intendeva, secondo il suo costume, a malizia: ma il papa gli rispose con tanta disinvoltura e spirito che il poeta non ne rimase in capitale. Nè solo ai particolari uomini aveva cura il generoso pontefice per sollevarli o per onorarli, ma spandeva ancora i frutti della sua munificenza sopra le scientifiche e letterarie compagnie. Fomentò, accrebbe, arricchì l'istituto di Bologna, e l'accademia Benedettina fondò, in cui gli allievi con accomodati premii si stimolavano ai buoni studii. Le opere sue Roma ancora con gratitudine rammenta. Riedificò di marmo, ornò di statue, crebbe d'un doppio portico e di colonne la facciata della basilica Liberiana, così chiamata per essere stata edificata nel quarto secolo da san Liberio papa, nominata anche volgarmente Santa Maria della Neve, a cagione di una neve caduta miracolosamente ai 5 d'agosto sul monte Esquilino, o Santa Maria _ad Praesepe_, a motivo della culla di Gesù Cristo, che in lei, come dicono, si conserva, o finalmente Santa Maria Maggiore, perchè tiene il primo luogo fra le dedicate alla Vergine, ed è una delle quattro patriarcali, e delle più belle di Roma. Per queste cagioni Benedetto vi aveva volto il pensiero per instaurarla ed abbellirla. Instaurò il triclinio presso san Giovanni in Laterano, rovinato sotto il pontificato di Clemente XII, e vi ripose l'antico mosaico di papa Leone III. Per averla goduta essendo cardinale, ornò di facciata, ne fece dipingere la volta, corredò di tribuna e ridusse allo stato presente la basilica Sessoriana, ossia chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, una delle sette basiliche, fondata da Costantino in memoria del ritrovamento della Santa Croce fatto da sant'Elena madre in Gerusalemme. Abbellì di pitture e di mosaico la magnifica basilica di San Paolo, e vi terminò sino a' suoi tempi la serie de' ritratti dei papi che, incominciata da san Leone il Grande insin da san Pietro, fu poi continuata da san Simmaco sino al 498. Queste cose Benedetto faceva per pietà e munificenza, queste altre a munificenza pure, ma eziandio ad utilità indirizzava: ampliò l'ospedale di Santo Spirito e creò la scuola del disegno con investir denaro pel mantenimento e pei premii. In somma tutto in Roma ancora rammenta ed accenna i benefizii di Benedetto. Nè il mondo taceva o tace delle virtù d'un tanto papa. Sommo pregio è la tolleranza fra gli uomini, che tanto deboli sono, e questa intiera e perfetta possedè il buon Lambertini. La sapeva in oltre condire con ilari e cortesi modi, per forma che ad ognuno era manifesto che in lui da natura procedeva, non da arte, e quantunque arte non fosse, nè studiato pensiero, era finissimo sussidio, poichè niuna cosa più alletta e vince chi dissente, che la sopportazione, niuna più li rende contumaci ed ostinati che la rigidezza e la superbia altrui. Il migliore mezzo di propagare il bene era il suo dolce procedere: Benedetto era atto a conquistare il mondo, perchè colle sue rare virtù conquistava i cuori. Era allora in Francia un incomposto miscuglio di cose in materia di religione, in conseguenza delle diverse sentenze e delle parti che vi regnavano, e che dalle cattedre e cogli scritti, gli uni contro gli altri contendevano e menavano un grandissimo romore; casisti, filosofi, teologi morali e speculativi, increduli e credenti. Se un papa di minore mansuetudine e prudenza avesse occupato la sede di san Pietro, al certo sarebbe nata in quel discorde paese la guerra civile. La tolleranza di Benedetto tolse legna al fuoco. Delle pazzie franzesi di quel tempo ei non sapeva darsi pace e si stringeva nelle spalle, e pregava Dio che facesse sano di spirito chi n'era infermo. A questo proposito egli, che arguto e trattoso era nel favellare, disse quel famoso motto: _La Francia è il regno meglio governato che vi sia, posciachè è la Provvidenza che lo governa_. Con ciò toccava principalmente la debolezza della corte, che maggiore impeto pareva avere per precipitarsi nel vizio, che forza per reggere lo Stato. Brevemente, tali erano le condizioni di quel regno, che si può con verità affermare, andare i Franzesi obbligati a Benedetto di molto sangue loro risparmiato. Certo è anzi che i protestanti della Linguadoca, contro i quali prelati troppo fervidi volevano ricominciare le persecuzioni coi roghi e colle forche, come ai tempi di Luigi XIV, dalla benigna intercessione del pontefice riconobbero il quieto vivere. Grande agevolezza ancor trovò in lui il re di Prussia pe' suoi cattolici della Slesia, ed il papa nel re; si scrissero frequenti lettere l'un l'altro: fra due sovrani d'alto ingegno tosto nacque la concordia, nè niuna lode v'era, che Federico non desse a Benedetto. I protestanti di Germania in somma venerazione il buon pontefice avevano, e come pontefice venuto al mondo per cessare i loro risentimenti contro la santa Sede. Gli Inglesi medesimamente con non minor rispetto il riguardavano, non come i Tedeschi pacatamente, ma mescolandovi, secondo il solito, l'entusiasmo e il lasciarsi guidare dall'umore. Ed ecco il ministro Walpole alzare, nel suo palazzo di Londra, una statua a Lambertini, scolpitovi sotto il seguente elogio, composto dal figliuol suo: «A Lambertini innocente nel principato, restitutore della tiara pontificia, sommamente amato dai cattolici, sommamente stimato da' protestanti, ecclesiastico non insolente, da ogni cupidità ed ambizione alieno, principe senza studio di parte, pontefice senza nipote, autore senza vanità, modesto uomo in tanta potenza, con tanto ingegno: Il figliuol del ministro, che non mai alcun principe adulò, non mai alcun ecclesiastico venerò, in libero protestante paese questo tributo di laude all'ottimo pontefice de' Romani innalzò.» La quale scappata inglese come fu raccontata a Lambertini, disse: «E mi par di essere come le statue della piazza di San Pietro, che vedute di lontano appariscono con acconcio e mirabile artificio fatte, ma da vicino brutte e deformi le diresti.» Ma le lodi erano vere ed il gran papa le meritava. Tale fu Lambertini e tale al mondo si mostrò, nè mai altro papa diede quanto egli così grande avviamento alla riunione delle religioni cristiane dissidenti colla cattolica. Ciò col costume e col procedere savio, prudente, e dolce piuttosto che coi sillogismi faceva. Sapeva che i buoni costumi allettano e convertiscono gli uomini, le sottili argomentazioni li fanno renitenti e caparbi. Il costume non offende, perchè non comanda; il vincere per logica o per forza sì, perchè fra due contendenti indica superiorità in chi vince, inferiorità in chi perde, superbia da una parte, umiliazione dall'altra. È qui da notare che poco tempo prima della sua morte, questo lodato pontefice aveva dato, alle ripetute istanze del Portogallo contro i Gesuiti, un breve diretto al cardinale Francesco Saldagna, a questo oggetto da quel re destinato, nel quale gli commetteva di visitare le case di detta compagnia per riconoscerne (se sussistessero) gli abusi e le mancanze, e quindi riferire del risultamento delle sue pratiche, non senza proporre le misure di riforma che stimasse necessarie per ridur que' religiosi alla lor santa e primitiva osservanza, passando anche alla riforma stessa ogni qual volta il bisogno lo richiedesse, giusta la lettera istruttiva che in un col breve gli veniva trasmessa. Dodici giorni dopo la morte di Benedetto XIV si raccolsero in conclave i cardinali, e nel dì 6 di luglio gli elessero a successore il cardinale Carlo Rezzonico, Veneziano, che assunse il nome di Clemente XIII. In meno di due giorni la nuova dell'elezione giunse in Venezia, dove risvegliò generale esultanza, e fu festeggiata colla suntuosità a quella repubblica consueta; scrivendo pure il nuovo papa direttamente alla veneta signoria, e ricevendone risposta, nella quale veniagli attestato il giubilo universale per la sua esaltazione. La notte del 3 settembre, tornando il re di Portogallo da una visita fatta alla marchesa di Tavera, fu assalito da tre uomini a cavallo, due de' quali, sparando contro il calesse per di dietro, ferirono il re malamente sì che per tre mesi dovette starne ritirato. Un tetro silenzio per tutto quel tempo regnava alla corte, ed ognuno era ansioso di vedere l'esito di un affare cotanto serio. Finalmente la mattina del dì 13 dicembre, si videro circondati i palazzi di diversi dei principali signori, e condotti pubblicamente nelle nuove carceri di Belem il marchese Francesco di Tavora con due suoi figli, due fratelli, due generi ed alcuni domestici; nel giorno seguente fu pure arrestato il duca d'Aveiro nella sua casa di campagna: ed, oltre i suddetti arrestati, anche la marchesa di Tavora, già stata vice-regina di Goa, fu condotta in un convento di monache, come in altri conventi furono trasportate la nuora, marchesa di Aveiro, della suddetta marchesa di Tavora, e le due sue figliuole, contessa d'Atouguia, e marchesa d'Alorna. Nello stesso giorno in cui si vide lo imprigionamento di quelle persone, furono da' soldati accerchiate tutte le case che i Gesuiti tenevano in Lisbona, e successivamente le altre che nel resto del regno possedevano, ed in tutte un regio ministro visitò minutamente le stanze e le persone; vietata intanto qualunque comunicazione all'esterno. Anno di CRISTO MDCCLIX. Indizione VII. CLEMENTE XIII papa 2. FRANCESCO I imperadore 15. Alla mezza notte del dì 12 gennaio dell'anno presente furono condotti nelle carceri della _inconfidenza_, tribunale per l'occasione eretto per giudicare i delitti di fellonia e d'alto tradimento, dieci Gesuiti, a cui in appresso unironsene altri due, tutti imputati di complicità nel tentato regicidio. Eseguitasi solennemente nella mattina del giorno 13 la sentenza di morte contro i regicidi, il re chiedeva da Roma un breve, in virtù del quale potessero in quel regno processarsi e meritamente castigarsi le persone ecclesiastiche che fossero state complici di quell'attentato contro il re non solo, ma ancora che in un modo o nell'altro potessero immischiarsi in altro nequizie consimili per l'avvenire; e Clemente XIII, dopo grandi difficoltà e varie lunghe consultazioni, il concedeva. Se non che, giunto frattanto il giorno 3 di settembre, anniversario del triste fatto, non volendo la corte di Lisbona più oltre differire le misure che aveva stimate convenienti al caso, il re sottoscrisse il decreto, col quale, dichiarandosi avere i religiosi della compagnia di Gesù degenerato affatto dal santo loro istituto e commesso scandalosi ed atrocissimi delitti (che non forse furono giammai provati secondo le regole giudiziarie), per indispensabile regia risoluzione, venivano _snaturalizzati_ ed esiliati per sempre dal regno del Portogallo. Adunque nel giorno 16 settembre imbarcaronsi sul Tago, sopra nave ragusea, in numero di 133, i primi gesuiti condannati a quel perpetuo esilio, e dentro il giro di non molti mesi furono seguitati da cinque altri convogli, così venendo in numero d'oltre a mille e cento sotto il cielo d'Italia, e propriamente negli Stati pontificii, sbarcando in Civitavecchia. Del che avuto avviso il santo padre, comandò che fossero alloggiati decentemente, e finchè vi si trattenessero, mantenuti a spese della camera apostolica. Morto era intanto nel dì 10 agosto il re di Spagna, Ferdinando VI, nè lasciato avendo prole nissuna, era stato il re di Napoli dichiarato suo successore sotto il nome di Carlo III. Tre figliuoli maschi aveva egli giù ottenuti a quel tempo; ma il primo, per le conseguenze di grave malattia, fu dichiarato giuridicamente imbecille avanti la partenza del padre dalla Italia, e quindi riconosciuto re delle Due Sicilie il terzo di lui figliuolo Ferdinando, poichè il secondo destinato era a succedergli nel trono di Spagna, e doveva quindi con esso trasportarsi a Madrid, vietato essendo negli ultimi trattati che alcun principe di quella famiglia potesse sul suo capo riunire le due corone della Spagna e di Napoli. Poco mancò che da tale avvenimento turbata non fosse la tranquillità dell'Italia, perchè pattuito essendosi nel trattato d'Aquisgrana che giugnendo l'infante don Filippo al trono delle Due Sicilie, il ducato di Piacenza tornasse al re di Sardegna, e quelli di Parma e di Guastalla si riunissero al ducato di Milano, giunto sembrava il momento in cui, passando Ferdinando VI al trono della Spagna, l'infante duca di Parma passar dovesse, coll'aiuto anche de' sovrani che attendevano la reversione, ad occupare il regno delle Due Sicilie dal fratello abbandonato. Erasi di fatto inserita una clausula che questa disposizione portava nel trattato di Versaglies del dì 30 dicembre dell'anno precedente ad istanza tanto del re di Francia quanto dell'imperadrice regina; ma all'epoca della morte del re di Spagna, la guerra ardeva nella Germania, sì che le operazioni di quella non permisero alla corte di Vienna di muovere alcuna pretensione sugli altri Stati d'Italia, tanto più che il re Carlo disposto era a fermamente guarentire ai figliuoli suoi il possedimento delle Due Sicilie. La corte cesarea rimase adunque tranquilla; il re di Sardegna troppo debole era per reclamare egli solo l'esecuzione del patto di reversione, ed il duca di Parma conservò pacificamente il possesso dei suoi Stati. Anno di CRISTO MDCCLX. Indizione VIII. CLEMENTE XIII papa 3. FRANCESCO I imperadore 16. Erano in Corsica molto turbate le cose della religione. I vescovi, siccome quelli che per la maggior parte erano Genovesi, e si trovavano nella necessità, se nelle loro sedi fossero rimasti, di obbedire all'autorità di coloro, cui il proprio principe riputava ribelli, e forse non credendosi esenti da insulti personali in mezzo a tanta concitazione, si erano assentati dall'isola cercando più quieto asilo o nel Genovesato loro patria, o in altri paesi non ancora sconvolti dal furor delle parti. Avevano bensì, partendo, delegata la loro autorità; ma il rimedio era poco, perchè i delegati, pel timore dei casi presenti, non osavano adempire l'intero mandato, o i Corsi, avendogli per sospetti, non si conformavano agli ordinamenti loro, e Paoli, prima che arrivasse il vicario apostolico, deputava di propria autorità i pastori dell'anime secondo che stimava convenirsi a' suoi fini. Quindi nasceva che si turbavano le giurisdizioni e toglievasi alle coscienze timorate la quiete. Siccome poi la maggior parte degli ecclesiastici corsi concordavano coi sollevati, e che anzi molti di loro, massime fra i regolari, avevano come principali istigatori dato fomento al fuoco che allora consumava l'isola; in molte parti era l'esercizio della podestà ecclesiastica ridotto in loro mano; cosa che per la giurisdizione era manchevole, stante il non aver essi mandato legittimo, e dannosa per lo Stato dei Genovesi, attesochè la voce ed i consigli d'uomini a loro nemici non potevano non confermare i popoli nel proposito della disubbidienza. Genova vegliava sopra questi interessi. Parecchie volte aveva ricorso alla santa Sede per trovar modo di conciliare il benefizio della religione coi diritti della sovranità, ma non si era potuto venire a conclusione. I vescovi stessi della Corsica, che avevano col medesimo fine supplicato al pontefice, non avevano nemmeno potuto ottenere una sola lettera pontificia, che disapprovasse gli attentati dei Corsi sulle rendite e giurisdizioni del clero così secolare come regolare. Pareva alla repubblica di scorgere nel procedere della corte di Roma non poca parzialità in favore de' suoi ribelli. Gelosa quindi, s'era messa al fermo di non permettere cosa che alla conservazione dei suoi diritti importasse. Da un'altra parte Roma argomentava ch'ella non era stata per niun conto autrice delle sollevazioni di Corsica, nè in esse in modo alcuno aveva posto le mani; che sapeva che un gran disordine regnava nelle cose ecclesiastiche dell'isola e che tutti i buoni ordini vi erano pervertiti; che le pecore si nutrivano di male erbe, ed i legittimi pastori sospiravano; ch'ella avea aspettato sì lungo tempo per venire alle provvisioni necessarie, sperando sempre che la repubblica colle sue forze avrebbe finalmente sottoposto i ricalcitranti, e ritornato l'isola alla quiete; ma se la repubblica era stata inabile a ciò fare dopo una guerra di trent'anni, che colpa ci aveva Roma? Dovere ella pur pensare al benefizio dell'ovile, nè poter abbandonare al caso ed al furore i sussidii spirituali ed i celesti interessi; essere oggimai tempo di offerire un porto di salute a chi in un mare burrascoso pericolava; rispettare ella i diritti sovrani della repubblica nè avere alcuna volontà di offenderli, ma pur dover soddisfare al suo dovere di madre universale; quanto alle preferenze, nissuna averne Roma, Roma giusta e pietosa con tutti; non pretendere ella di scrutare i motivi dei principi nelle loro deliberazioni, ma esigere che ciò stesso si pratichi in riguardo ai suoi nelle sue, nè poter permettere che si mescolino le cose temporali con le spirituali. Travagliandosi le cose a questo modo tra Roma e Genova, le prime cagioni d'un aperto risentimento nacquero dai Cappuccini. Paoli non poteva tollerare che i conventi di questi religiosi situati nei paesi che a lui ed al suo governo obbedivano, fossero sotto la dipendenza del provinciale, il quale abitava in Bastia sotto il dominio della repubblica. Da un'altra parte, non essendovi altro superiore delegato, la disciplina dei conventi ne pativa e seguivano disordini con iscandalo di tutti i buoni. Oltre a ciò, Paoli desiderava che fosse posto alla loro direzione un uomo, il quale, essendo favorevole al suo intento, al medesimo fine indirizzasse le parole e gli atti dei religiosi, ma principalmente la predicazione. Di ciò pensando, scrisse al padre Serafino da Capricolle, provinciale dei Cappuccini nel Genovesato, esortandolo a deputar persona conforme a' suoi desiderii pel governo dei conventi. Il padre Serafino diede la facoltà domandata al padre Paolo d'Altiani, definitore poco avanti uscito dalla carica di provinciale. Nelle risposte scritte lodò Paoli del suo zelo per la gloria di Dio e pel bene della regolare osservanza. La lettera venne alle mani dei governatori della repubblica; onde pieni di sdegno decretarono che tutta la religione dei Cappuccini restasse espulsa dai suoi territorii; con iraconde parole lamentandosi che il padre Serafino tenesse carteggio col capo dei ribelli, ed attribuendo il suo procedere a perfidia per avere comodità d'infiammare vieppiù gli spiriti contro il legittimo sovrano e dare nuovo alimento alla ribellione. Il Cappuccino rescrisse per iscusarsi e per supplicare alla signoria per la rivocazione dell'amaro editto; ma il suo scusarsi non che addolcisse le amarezze, diè novello sprone agli sdegni, perciocchè rivocò bensì il mandato conferito al d'Altiani, ma nel medesimo tempo protestò che vivea contento per avere tentato dal canto suo tutti i mezzi per provvedere al vantaggio ed alla quiete di coscienza dei suoi religiosi. I collegi della repubblica decretarono adunque, che non avendo il provinciale dato segno di rimorso o di pentimento, volevano ed ordinavano di nuovo che tutti i Cappuccini fossero dagli Stati della repubblica espulsi. Alla quale amara intimazione, il padre Serafino si raumiliò, e trasmise alla signoria lettere ubbidienziali, con cui rivocava le facoltà date all'Altiani e sottometteva di nuovo i conventi di Corsica all'autorità del provinciale residente in Bastia. Per la qual cosa i collegi, posta in disamina nuovamente la materia, levarono il divieto, restituendo ai Cappuccini la facoltà di dimorare nelle terre di Genova. Ma molto più grave discordia non tardò a suscitarsi tra la repubblica e la santa Sede a cagione degli affari di Corsica. Il papa, considerato che per l'assenza dei legittimi pastori nelle diocesi di Aleria, di Mariana, d'Acci e di Nebbio, le potestà ecclesiastiche si esercitavano senza mandato legittimo; mancanza per la quale succedevano non pochi scandali, ed il servigio divino ne pativa; aveva preso risoluzione di mandarvi un visitatore apostolico, affinchè avesse cura che si rimediasse ai disordini ed il retto culto si riordinasse. Di tale missione investì adunque Cesare Crescenzio de Angelis, vescovo di Segni, e gli comandò che nelle cose spirituali e nelle rendite ecclesiastiche unicamente si occupasse, nè in verun modo s'ingerisse nelle temporali. Quantunque fin dall'anno 1733, il doge, i procuratori ed i governatori di Genova, sotto la protezione e garanzia dell'imperadore Carlo VI, avessero coi Corsi conchiuso, che affine di promuovere in quel regno i buoni costumi e la religione, non lascierebbero di «cooperare perchè fossero da Sua Santità esaudite le suppliche dei popoli che richiedessero un visitatore apostolico per togliere gli abusi e rimettere nelle diocesi l'ecclesiastica disciplina;» la presente deliberazione del pontefice dispiacque sommamente alla repubblica, essendo stata presa, non solamente senza il suo consenso, ma eziandio senza sua saputa; e giudicando incomportabile che alla coperta e nascosamente si mandasse ne' suoi Stati un mandatario di tanta importanza. Prevedeva che i ribelli se ne sarebbero prevalsi, che di quell'andata avrebbero levato rumore, e che vieppiù si sarebbero confermati nel malvagio proposito loro. E veramente Paoli ed i suoi compagni con grandissima allegrezza ricevettero le novelle della delegazione fatta da Clemente XIII, ed incredibile fu l'ardimento che ne presero assai, più certamente pel fine politico che pel religioso. Come prima pervennero alla signoria di Genova le novelle, sdegnosamente procedendo, decretò, nel dì 13 d'aprile, che il vescovo di Segni, Cesare Crescenzio de Angelis, quando in terra genovese capitasse, fosse tosto arrestato e consegnato in alcuna delle piazze, luoghi, presidi o torri tenuti dai soldati della repubblica, per essere quindi decentemente trasportato nella metropoli, decretando inoltre, cosa che parve di maggior ingiuria ancora, che chiunque in tal modo lo arrestasse e consegnasse, avesse un premio di tre mila scudi romani, e finalmente proibendo a qualunque persona di qualsivoglia grado, stato o condizione di eseguire qualunque decreto, insinuazione, ordine, provvedimento od altro atto si fosse che il vescovo sopraddetto si attentasse di fare. Vane furono le diligenti cautele usate per arrestare in viaggio il commissario apostolico. Essendosi resi liberi i mari per una grossa perturbazione di venti e d'acque che aveva sparpagliati i legni genovesi, egli giunse felicemente e prese terra, ai 23 d'aprile, alla torre della Prunetta, dove fu lietamente accolto dal popolo in gran numero a quella spiaggia concorso. Si condusse quindi, in mezzo ad una folla immensa ed accompagnato per onoranza da trecento uomini d'arme, a Campoloro, per ivi dar principio all'esercizio dell'autorità che per volere del pontefice con sè portava. Ai 3 di maggio, mandati dal generale Paoli, il vennero a visitare ed a fargli riverenza due rappresentanti del regno, Giuseppe Barbagio ed un Baldassari, uomini di gran caldo ed autorità nell'isola. Gli pronunziarono graziose parole, alle quali egli rispose accomodatamente e da farli contenti; imperocchè persona destra era, ingegnosa e delle faccende del mondo politico esperta. Poscia venendo all'esecuzione del mandato, pubblicò un editto per cui, deputati sacerdoti esattori nelle quattro diocesi d'Aleria, Mariana, Acci e Nebbio, ordinò che in mano loro si consegnassero tutti i proventi e le rendite che spettavano alle mense vescovili delle anzidette diocesi ed ai benefizii tanto residenziali che non residenziali, che o al presente fossero in litigio, o dai provvisti non si possedessero in effetto. Per gratificare al pontefice, che così grande benefizio avea largito col mandare il visitatore apostolico, il consiglio di Corsica, con solenne manifesto, ordinò che nessuno stesse più ad ingerirsi nell'amministrazione de' proventi ecclesiastici nelle quattro diocesi sottoposte all'autorità del visitatore, lasciandogli intiera la facoltà di disporne in conformità ai sacri canoni. In ordine poi ai proventi delle altre diocesi, comandò, affinchè non andassero in benefizio di chi non serviva l'altare e ne farebbe uso contro la nazione, che si depositassero sino a che il sommo pontefice avesse spiegato la sua volontà del come ed in benefizio di chi si dovessero adoperare. Dalle condiscendenze verso il papa si venne agli sdegni contro Genova. Il consiglio di Corsica, dichiarato primamente che il bando del senato portante la taglia contro il visitatore apostolico era distruttivo della religione e dell'autorità apostolica, offensivo alla maestà del vicario di Cristo, sedizioso e contrario alla sicurezza e tranquillità del loro Stato, corruttivo delle leggi e dei buoni costumi, lo dannò e condannò ad essere lacerato, stracciato, calpestato e gettato nelle fiamme dal pubblico ministro di giustizia; sentenza che restò eseguita nella piazza di Campoloro sotto le forche piantate nel fondo della casa di un sicario e parricida, denominato il Piscaino. Nè il papa tacque all'atto della repubblica di Genova contro il visitatore apostolico, e pubblicò un editto gravissimo, nel quale per la pienezza dell'apostolica podestà, lo dichiarò «nullo, irrito, invalido, ingiusto, iniquo, riprovato, dannato, vano e temerariamente e dannabilmente da chi non ha potestà emanato.» Nè la signoria di Genova, avuto notizia dell'editto del papa, lasciò di dargli pubblicamente risposta per far capace il mondo della giustizia del suo procedere; sì che del gravissimo litigio tra la santa Sede e la repubblica di Genova chiarissima fama s'innalzò per tutta l'Europa, e, come quello di Venezia, esercitò le penne dei più celebri ingegni, dei quali chi opinava per Genova e chi per Roma. Roma pubblicò la sua apologia, la pubblicò Genova, ed in mezzo a tanta contenzione, si vedeva che il nodo in ciò consisteva, che la sovranità di nome in quelle parti della Corsica apparteneva alla repubblica, e quella di fatto ai Corsi; onde la repubblica si offendeva di ciò che non poteva impedire e che il papa reputava necessario, ed il santo padre, pei provvedimenti da darsi, non poteva non riconoscere quel governo di fatto che la forza aveva stabilito già da parecchi anni senza che Genova l'avesse potuto vietare, e che anzi poca speranza si vedeva che ella in futuro il potesse. Così tra il diritto e la forza nasceva il contrasto; i Corsi si approfittarono della deliberazione del papa, che in loro aggiugneva animo ed in Europa favore e riputazione. Genova si diede special pensiero di notificare quanto accadeva alla repubblica di Venezia, siccome quella che e per similitudine di forme politiche e per comunanza di massime con sè medesima conveniva. Il console di Genova in Venezia, Biffi, espose al collegio de' savi che la missione del visitatore apostolico tendeva a raffermare que' popoli nella ribellione ed a volgere l'armi contro il loro legittimo principe; che la signoria aveva stimato bene di opporsi ad una tale missione per conservare illesi i diritti del principato; che Roma aveva proceduto ingannevolmente, stante che nel tempo stesso, in cui si trattava un accordo per mezzo del cardinale Delci, decano del sacro collegio, e da monsignore Lazzaro Pallavicino, mentre per Genova passava andando alla sua nunziatura di Spagna, il preteso visitatore era partito di nottetempo da Roma per Civitavecchia, dove si era imbarcato per condursi in Corsica, sur una fregata pontificia; sperare Genova, aggiunse, che la savia Venezia la sua condotta approverebbe. Il senato veneto, secondo l'antico uso di quella repubblica, fece risposta ne' seguenti termini; «Che sia permesso ai savi del collegio di far chiamar alle porte del medesimo il console di Genova, e per un segretario di questo consiglio significargli quanto segue: dal memoriale che per ordine della vostra repubblica ci avete fatto tenere, rileva il senato, che alle molte inquietudini promosse alla medesima da' Corsi ribelli, aggiungesi in ora quella della dimanda fatta alla Santa Sede per la missione in quel regno di un visitatore apostolico. Nell'atto però, in cui contempla il senato in questa partecipazione un contrassegno di buona amicizia e corrispondenza della vostra repubblica verso di noi, siamo chiamati a palesarne vero rincrescimento, non dissimulando poi anche l'amaro senso, che proviamo pei molesti e dispiacevoli avvenimenti, che turbano la tranquillità d'un governo, cui professando vera amicizia e perfetto attaccamento, manifesteremo sempre il costante desiderio nostro nel mantenere simili sentimenti, dichiarando a voi la nostra considerazione.» Se mai fu studio per parlare senza dire, nissuno, che si sappia, ha quest'arte imparato ed usato meglio della repubblica di Venezia. La Corsica, che menava le mani armate di ferro, non istette a badare nemmeno colla penna. Pubblicò ancor essa il suo manifesto per adonestare le cose successe il quale conteneva ragioni, conformi a quelle di Roma, ma con ingiurie contro Genova. Genova faceva bruciare per mano del boia in faccia a Banchi i manifesti de' Corsi, e la Corsica faceva per la stessa mano bruciare i manifesti di Genova. Il re di Napoli s'interpose per trovar il modo di comporre quella velenosa discordia; ma trovò il governo pontificio meno arrendevole della signoria di Genova. Il re primamente proponeva, che rivocando l'editto de' 13 aprile, il papa si compiacesse di richiamare dalla Corsica il vescovo di Segni; in secondo luogo, che la rivocazione dell'editto fosse di data anteriore a quella del vescovo; terzo, che le due rivocazioni comparissero al pubblico tutte insieme, e perciò prima di pubblicarsi si rimettessero in mano del re. Cotali proposizioni il re faceva con intesa e consentimento della repubblica. Il senato genovese bramosamente aspirava al vedere sopita una discordia, da cui riceveva non piccola molestia, conciossiachè i popoli cattolici, o ragione o torto che si avesse col papa, sempre sopportavano mal volontieri che i loro governi tenessero lite col supremo pastore. Ma il pontefice stava alla dura, e vane tornarono tutte le ragioni che il re seppe mettere in campo, non volendo lasciarsi persuadere, e sempre pretendendo che prima di tutto la repubblica desse la soddisfazione, e che quindi spiegasse a Sua Santità i suoi desiderii, perciocchè poteva essere sicura, lasciava intendere, di ottenere dalla non mai manchevole affezione del padre comune tutto ciò che fosse dalle pastorali sue obbligazioni permesso. Così la discordia che aveva assalito il papa e la repubblica di Genova, non fu potuta comporre, nè smorzare l'acceso fuoco. Andando le cose a seconda e per quel verso che desideravano, i Corsi presero maggior ardimento e fecero risoluzione di usare tutti gli attributi della sovranità. Il consiglio supremo di Corsica ai 20 di maggio ordinò la guerra di mare contro i Genovesi. Fecero grandissime prede, mutati in bastimenti di corso i legni che prendevano, per forma che col desiderio della preda si moltiplicavano i mezzi di farla. I presidii di Bastia, San Fiorenzo e Calvi, a cui da Genova e da Livorno non potevano più pervenire se non con estrema difficoltà le provvisioni, grandemente ne pativano. Si rendeva un giorno più che l'altro manifesto che invano Genova si affaticava per ristabilire nella sommossa isola il suo imperio. Anno di CRISTO MDCCLXI. Indizione IX. CLEMENTE XIII papa 4. FRANCESCO I imperadore 17. Insorta nel cadere dell'anno scorso nuova differenza tra la corte di Roma e quella del Portogallo, per certi riguardi che il nunzio pontifizio intendeva gli dovessero essere usati e usati non gli furono, in occasione del matrimonio tra l'infante Don Pietro, fratello del re, e la principessa del Brasile, figlia dello stesso sovrano, differenza portata tanto innanzi che il nunzio stesso fu cacciato da Lisbona, ed il ministro portoghese, commendatore d'Almada, abbandonò Roma senza prendere congedo; pareva che tra per questo, e per l'espulsione de' gesuiti da tutti i dominii portoghesi, fosse la discordia per terminare con un'intera rottura. Ma la corte di Lisbona conservava sempre una tenera e rispettosa osservanza verso il successore del principe degli apostoli, e la prima occasione che se ne offerse, fu avidamente accolta per darne solenne dimostrazione. Nato dal connubio di sopra accennato un successore alla corona del Portogallo, il re, trasportato dalla gioia pel felice avvenimento, scrisse di proprio pugno una lettera particolare al sommo pontefice Clemente XIII, nella quale pregava Sua Santità di voler dare al neonato la santa sua benedizione, affinchè, crescendo in virtù, si mostrasse poi degno figlio della Chiesa, ed imitasse lo zelo dei progenitori nel promuovere mai sempre l'ingrandimento della fede e della religione cattolica romana. Riuscì gratissimo al papa cotale uffizio. Rispose adunque ne' termini più obbliganti ed affettuosi, come potea promettersi da chi sospirava il momento di una piena riconciliazione. Ma le speranze per questa così concepite, svanirono senza frutto, e le cose rimasero nello stato di prima. Anno di CRISTO MDCCLXII. Indizione X. CLEMENTE XIII papa 5. FRANCESCO I imperadore 18. Esperimentato i Genovesi quanto inutili fossero stati tutti i loro sforzi per sottomettere colla forza dell'armi i fieri abitatori della Corsica, aveano sino dallo scorso anno pensato di tentare le vie della dolcezza; non che dall'affetto verso i Corsi fossero mossi, ma per pur vedere di ridurli a qualunque costo in lor suggezione. Ma prima di tutto Francesco Matra, fratello maggiore dell'estinto Mario, essendosi sciolto dai servigi del re di Spagna, ed accordatosi ai soldi di Genova con uno stipendio di dodici mila lire all'anno, venne in Bastia, e come prima giunto vi fu, mandò circolari ai Corsi, per cui gli esortava con dolci parole a ritornare sotto il dominio della repubblica e chiamava dispotico e tirannico il governo sotto di cui viveano. Nè risparmiando alcuna ingiuria contro Paoli, gli ammoniva a non fidarsene, avvertendoli che sotto colore di libertà ei voleva farsi padrone e tiranno della patria. Ma le esortazioni del Matra non sortirono effetto d'importanza. Allora fu pubblicato un decreto, con cui il doge, i procuratori e governatori della repubblica si esprimevano, che avendo determinato di dare alla Corsica i contrassegni più sicuri della paterna amorevolezza con cui la riguardavano, e del sincero desiderio che nudrivano di vederla una volta tranquilla e felice, erano entrati in deliberazione di spedire in quel regno una deputazione con tutte le più ampie facoltà onde promuovere e fermare i mezzi d'una stabile pacificazione. Facevano quindi sapere a tutti gli abitanti, che senza distinzione od eccezione alcuna sarebbero tutti restituiti nella grazia della repubblica loro sovrana per mezzo di un generale indulto su tutto ciò che per l'addietro era accaduto. Gli assicuravano ancora della mente della repubblica di contribuir ad assodare la loro tranquillità e felicità col mezzo di tutte quelle grazie e concessioni che avessero potuto valere, non solamente a spiegare e confermare le antiche, ma ancora a stabilire una retta ed inviolabile amministrazione della giustizia civile e criminale ed a proteggere il commercio. Finalmente, dopo avere invitato tutti i soggetti più ragguardevoli del regno, non meno che tutte le altre persone a cooperare a fine sì giusto, proibivano (ed era questo il più riflessibile dell'editto) a chiunque premesse la grazia loro, di recare il menomo danno o disturbo tanto alle persone quanto ai beni dei Corsi. Non migliore successo del Matra ebbero i sei senatori che in Corsica si trasferirono deputati per tale comandamento della repubblica, ed affinchè trovassero modo con offerte e con lusinghe di mansuefare quella gente furibonda, e di fare che un lume di pace finalmente rallegrasse quelle travagliate sponde. Insuperabile impedimento alla concordia vi era ed in ciò consisteva, che i Corsi a niuna condizione volevano consentire che di assoluta libertà e franchezza non fosse, cioè di compiuta sovranità, condizione da cui Genova costantemente abborriva, quantunque più desiderio che possanza avesse per eseguire ciò a che i suoi pensieri innalzava. O fosse sciocchezza di qualche Corso, o artifizio de' senatori e del Matra, desiderosi di seminar sospetto, una partita di Corsi offerse a Paoli la dignità di doge. Ma egli con grandissimo sdegno udì la proposta e col rifiuto dimostrò come fosse alieno dall'ambire il principato sopra la patria. Perdette in quest'anno la repubblica di Venezia il suo doge Francesco Loredano, ma risarcì la perdita nel mese di maggio coll'elezione di Marco Foscarini. Eccellente natura, studii profondi, assidue meditazioni lo posero assai per tempo in istato d'incamminarsi alla gloria per vie diverse. Giovinetto, approfittò della scuola del padre, seguendolo nelle varie legazioni in cui impiegollo la repubblica, e dopo che fu tornato in patria, divise il tempo ed i pensieri fra' più onorifici impieghi e le scienze e le arti, eloquentissimamente poi scrivendo la Storia della Letteratura Veneziana. La incorrotta giustizia nel reggimento dei patrii magistrati, la saggia prudenza nell'amministrazione dei pubblici affari, la grandezza della mente, la vastità delle cognizioni e la dirittura dell'animo non solo furono in lui ammirate ed applaudite da' suoi concittadini, ma riscossero ancora l'ammirazione e l'applauso nelle corti di Savoia, di Vienna e di Roma, dove con superbo e quasi regio apparato fu ambasciatore. Fatto poscia savio del consiglio, cavaliere e procuratore di San Marco, poco prima di essere innalzato al ducal trono, diè chiarissime prove del suo attaccamento alla repubblica e del suo retto e saggio modo di pensare. Erasi fin dall'anno precedente manifestata in Venezia fra patrizii una forte scontentezza per la soverchia autorità che voleasi su di lor usurpata dai tre inquisitori di Stato; scontentezza appalesata col non lasciare che fosse eletto alcuno per formare l'anno susseguente il supremo tribunale detto consiglio dei dieci. Cotale ritardo d'elezione d'un magistrato sì alle forme della repubblica necessario, e nel quale comprendeansi due, e alle volte tutti e tre i detti inquisitori, fece che si proponesse quella di cinque correttori per riformare e modificare le leggi e l'autorità dello stesso consiglio de' dieci; ed uno di tali correttori fu appunto il procuratore Foscarini. Tra i quattro suoi colleghi era disparità d'opinione, duo volendo che fossero aboliti gli inquisitori, due volendoli continuati. Le sessioni del maggior consiglio, che dovea esser giudice assoluto dell'alta quistione, erano state pel corso di più mesi d'esito sempre incerto e non senza concitazione degli animi e studio di parti. Finalmente nel mese di marzo, vedendosi che il maggior numero inchinava all'abolizione, il Foscarini, nemico d'ogni novità nella costituzione della patria, e prevedendo che simile abolizione cagionerebbe o almeno accelerare potrebbe la rovina della medesima, salito in bigoncia là dov'era accolto il maggior consiglio: «Aprite, esclamò, aprite, o cittadini, queste finestre, guardate dalle medesime il popolo che ansioso sta aspettando l'esito delle vostre deliberazioni. Non crediate già ch'egli si trovi raccolto nel cortile di questo palagio per aspettar con una placida indolenza il risultato di questo giudizio; ma stassene colà palpitando ed angoscioso per intendere qual esser debba il suo destino e quello della sua posterità. Egli aspetta se deve ritornare dalla moglie e dai figliuoli per consolarli con la nuova della loro sicurezza e tranquillità, o pure col doloroso avviso di dover abbandonare questo terreno dove son nati, e portar altrove le loro sostanze e le loro vite; giacchè in Venezia nè le une, nè le altre sono più sicure. Aprite, cittadini, aprite queste finestre, e se potete, restate indifferenti a questo spettacolo.» Il successo nel veneto comizio corrispose pienamente all'energico e sentimentoso slancio dell'oratore. Fu limitata entro men lati confini l'autorità degl'inquisitori, ma solennemente confermata, e due mesi dopo, l'eloquentissimo suo sostenitore si vide eletto e coronato doge di Venezia. Anno di CRISTO MDCCLXIII. Indizione XI. CLEMENTE XIII papa 6. FRANCESCO I imperadore 19. Nella scarsezza di materia che all'annalista offre il presente anno, sarà da riferirsi la transazione seguita tra i re di Francia e di Spagna e quello di Sardegna, perchè questo fosse compensato del non asseguito regresso nel ducato di Piacenza. Il quarto articolo preliminare del trattato d'Aquisgrana portava che gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla fossero ceduti, come in fatti furono, all'infante don Filippo, riservato però il diritto di regresso agli attuali possessori, che in quel tempo erano l'imperadrice regina degli Stati di Parma e Guastalla, ed il re di Sardegna per quello di Piacenza; titolo di reversione principalmente fissato pel caso in cui l'infante don Filippo fosse passato al trono di Napoli, o morto fosse senza successione mascolina. Verificatosi il primo caso, per essere il re di Napoli passato alla corona di Spagna, e quindi don Filippo a quella delle Due Sicilie, il re sardo a questo si rivolse, per ottenere ciò che considerava come suo. Don Filippo diresse cotali istanze prima al fratello suo, re di Spagna, indi al re di Francia suo suocero; e quest'ultimo, per distornare i torbidi che potessero insorgere, scrisse di suo pugno al re di Sardegna, che se non si fosse trovato in possesso della città di Piacenza e del suo territorio sino alla Nura nella maniera divisata nel trattato d'Aquisgrana, avrebbe ottenuto un equivalente. Tale impegno fu dal re di Francia partecipato alla corte di Spagna per concertare d'accordo le misure capaci di conservare all'infante don Filippo tutti i suoi Stati e render paghe le giuste domande del re sardo; ma possibil non essendo trovare un territorio che a questo ultimo servisse di compenso senza pregiudizio d'altre potenze, si obbligavano i re di Francia e di Spagna di far godere al re di Sardegna quella stessa rendita annuale, di cui goduto avrebbe se fosse stato attual possessore della città e del territorio di Piacenza. La rendita netta fu per tanto di comune consenso ridotta a trecento ventotto mila lire di Francia, ed il capitale relativo, in somma di otto milioni duecento mila lire della stessa moneta, venne assentato sul palazzo della città di Torino al quattro per cento. E volendo finalmente il re Cristianissimo risarcire il re di Sardegna della privazione delle rendite di quella parte del Piacentino che giace di qua della Nura, dalla morte del re di Spagna Ferdinando VI sino ai 10 di marzo del presente anno, si obbligò di far pagare al re sardo altre cento settantantasei mila trecento trentatrè lire nello spazio di due anni; così rimanendo definitivamente composta l'insorta vertenza. Dopo la breve ducea di dieci mesi terminò di vivere a Venezia Marco Foscarini; e di lì a pochi giorni gli fu dato a successore Alvise Mocenigo, personaggio di somma dignità e prudenza, stato ambasciatore a Parigi, a Roma ed a Napoli, intimo amico del cardinale Fleury, e carissimo a Benedetto XIV. Anno di CRISTO MDCCLXIV. Indiz. XII. CLEMENTE XIII papa 7. FRANCESCO I imperadore 20. Continuavano sempre a travagliarsi in Corsica le cose a piccole fazioni. In quasi tutte le parti dell'isola si guerreggiava, ma principalmente in Furiani, assaltato da Matra e validamente difeso da' Paolisti. Finalmente Matra, conoscendo di non potere far frutto, tornò a Genova col commissario Sauli, che aveva ceduto il luogo al vicereggente Speroni. La repubblica ormai disperava della sottomessione de' Corsi. Nè le forze, nè le lusinghe, nè i maneggi erano valsi. Paoli sormontava d'ardire e di potenza, e quello che Genova non aveva potuto ottenere su' principii del prode e provvido tenente corso, da Napoli venuto con non altro che col suo nome e coll'ardente desiderio di servire la patria, assai meno poteva sperar di conseguire presentemente che il capitano generale dei sollevati aveva assuefatto al suo freno i suoi paesani insofferenti di ogni altro, che aveva dato tante prove di perizia di guerra e di prudenza di Stato, e che già per parecchi anni aveva resistito contro le insidie de' partigiani e contro le forze dell'antica signoria. Alla sua voce, la Corsica quasi tutta concorde ed unanime si muoveva, e le armi minacciosa e fiera contro Genova brandiva: di bocche da fuoco, di ferree punte erano tutti quei lidi orridi ed ispidi. Non potendo da sè, Genova pensò di usare soldati forastieri. Sperava con tale mezzo di venire ad un aggiustamento che discreto e ragionevole fosse. Questo era un ultimo sperimento ch'essa voleva fare, il quale, se, secondo l'aspettazione, non succedesse, aveva in animo poi di abbracciare un partito, per cui i Corsi, se non sarebbero più stati di lei, di loro medesimi non sarebbero nemmeno. Amava meglio vedere la Corsica in balia altrui, che signora di sè medesima. A dì 7 di agosto fu sottoscritto in Compiegne tra la Francia e la repubblica un trattato per cui si concluse che approderebbero in Corsica sette battaglioni franzesi, e prenderebbero le stanze loro in Bastia, Aiaccio, Calvi e San Fiorenzo. Non già verrebbero per far guerra ai Corsi, che anzi da amici li tratterebbero, ma solamente per difendere quelle piazze, ed impedire che di esse non s'insignorissero. Verrebbero anche come portatori di pace, avendo il conte di Marbeuf, che guidare li doveva, ordine di persuadere un accomodamento, e facoltà di concluderlo. Arrivarono in fatti, e nelle destinate piazze si posarono. Da quel momento in poi la Corsica non fu più di Genova che di nome. Gravissima carestia percosse in questo anno la parte meridionale dell'Italia. Napoli si trovò più volte in necessità di combattere sedizioni popolari dal caro del pane prodotte; Roma, più povvidente, mandò suoi commessi in più parti, e quindi fe' sì che il popolo se non abbondantemente, almeno sufficientemente fosse provveduto. Anno di CRISTO MDCCLXV. Indizione XIII. CLEMENTE XIII papa 8. FRANCESCO I imperadore 21. GIUSEPPE II imperadore 1. Genova, che sola per molti anni sentiva in Italia il peso della guerra, mentre il rimanente della penisola godeva d'una calma invidiabile, Genova fu debitrice alla geografica sua situazione di vedersi scelta ad accogliere nel suo seno due gran principesse, cioè la infante Maria Luigia figliuola del re di Spagna, destinata sposa all'arciduca Leopoldo d'Austria e l'infante Luigia di Parma, contemporaneamente destinata al talamo del reale principe d'Austria, figlio dello stesso re di Spagna. Ma la gioia di queste accoglienze fu presto conversa in lutto per la morte in quel mentre accaduta in Alessandria dell'infante don Filippo di Parma, padre dell'una e zio dell'altra delle dette principesse, rapito dal vaiuolo nel suo quarantacinquesimo anno. A lui succedette l'infante don Ferdinando, suo figliuolo, allora in età di quattordici anni. Dopo il tristo caso, la principessa spagnuola procedette ad Innspruck, dove fu accolta dall'imperial corte, e quindi congiunta al suo sposo colla nuzial benedizione loro impartita dal principe di Sassonia, vescovo di Frisinga e Ratisbona. Ma anche colà la attendeva nuova scena di dolore. In mezzo alle feste, agli spettacoli, alle luminarie, ai plausi popolari, che per ogni canto annunziavano il giubilo comune per sì lieto avvenimento, morte rapì nel suo cinquantesimosettimo anno l'imperatore Francesco I. Era il 18 di agosto. Tutti i paesi da Francesco governati piansero la sua morte, perchè dotato di bontà, di affabilità, di clemenza, ebbe sempre in vista come oggetto primario la felicità degli Stati suoi, la tranquillità de' suoi popoli, la prosperità delle scienze, delle lettere, delle arti e del traffico, ed a sua lode si disse altresì che in mezzo alle gravissime cure dell'impero in tempi sovente turbati ed in mezzo alle politiche agitazioni, degnossi talvolta egli stesso di occuparsi delle scienze più utili, e particolarmente d'incoraggiare i progressi delle scienze fisiche. Già nel giorno 27 di marzo del precedente anno era stato eletto re dei Romani il suo primogenito Giuseppe; questi adunque succedette al padre nel trono germanico e negli Stati austriaci ereditarii, e nominato fu tosto dalla madre correggente degli Stati austriaci. Di là a pochi giorni, granduca di Toscana fu dichiarato il di lui fratello, il quale dalla funesta Innspruck si pose, colla gran duchessa sua novella consorte, in viaggio per Firenze, accompagnato sino a Sterginau dal fratello, nuovo imperadore. Così ambe le perdite sofferte dall'Italia venivano ad essere riparate; ma Clemente XIII non trovava compenso alle sue, che specialmente riguardavano ai Gesuiti. Non appartiensi a questi Annali un minuto ragguaglio delle querele e delle contestazioni che verso l'anno 1760 suscitaronsi in Francia relativamente ai religiosi di questa compagnia. Promosse si erano varie lagnanze contra que' regolari, che determinato avevano il parlamento ad esaminare le loro costituzioni, non meno che i titoli del loro stabilimento in Francia, disamina che il re stesso erasi riserbata. Proposta s'era intanto da que' magistrati l'appellazione, detta _come di abuso_, da molte bolle, molti brevi e molte costituzioni riguardanti i Gesuiti, e condannati eransi ad essere abbruciati: vietato erasi parimente all'ordine di ricevere alcun membro, ed anche di continuare nel pubblico insegnamento. Il clero di Francia, chiamato ad esporre il suo sentimento sull'utilità relativa di detti regolari, sul loro insegnamento, sulla loro interna condotta, suggerito aveva di modificare i suoi regolamenti. Il re Luigi XV, che amante mostravasi della concordia, aveva quindi proposto un modello di riforma, che presentato erasi al pontefice ed al generale de' Gesuiti medesimi. Ma questi rispose che esistere doveano essi quali erano, o piuttosto non esistere, _aut sint ut sunt, aut non sint_. Il pontefice prestossi alle viste medesime di quel superiore; ed il re lasciò il corso libero alle contestazioni, e cominciò egli stesso dall'ordinare che chiuse fossero le scuole gesuitiche. Il parlamento quindi, rinnovando l'appellazione dalle bolle, da' brevi e da qualunque regolamento concernente quella società, vietò da prima ai Gesuiti di portare l'abito dell'ordine e di vivere sotto l'obbedienza de' loro superiori, e poscia, nel 1764, ordinò che dentro otto giorni i Gesuiti uscissero del regno, qualora non giurassero di rinunziare all'istituto loro. Sulla fine di quell'anno stesso, il re, aderendo al voto di tutti i parlamenti del regno, pronunciò l'abolizione totale de' Gesuiti in Francia. A tal colpo Clemente XIII, che aveva a sè medesimo persuaso la conservazione de' Gesuiti toccare la coscienza, perchè li teneva utili alla religione ed alla Chiesa, rotto il silenzio, pubblicò, il 7 gennaio di quest'anno, la bolla _Apostolicum_, che confermava i Gesuiti in tutti i loro privilegii, giustificandoli su tutte le accuse, e per capacità, zelo e servigio con somme lodi innalzandoli. Se mai altra bolla si sparse rapidamente nel mondo, questa fu presto in mano di tutti, specialmente in Francia, dove levò altissimo rumore. Denunziata quindi al parlamento, verso la metà di febbraio, il parlamento stesso emanò un decreto, con cui rimase la bolla soppressa e proibita, con espressa inibizione di accettarne per l'avvenire verun'altra, se non fosse accompagnata del regio beneplacito. Ed in Portogallo, fatta la bolla soggetto di molte discussioni, uscì finalmente fuori un rescritto o decreto del re, col quale veniva dichiarata di niun effetto rispetto a' suoi dominii e regni, proibendone qualunque esemplare non solo riguardo al non poterne fare uso alcuno, ma ordinando eziandio che tutte le copie si dovessero consegnare al così detto tribunale dell'inconfidenza. Dichiarò inoltre il re eguale intenzione e volontà riguardo a tutti gli altri brevi e scritture della medesima natura che non avessero ottenuto prima la reale approvazione; ordine sovrano che fu registrato in forma di legge nella segreteria, indi pubblicato nella gran cancelleria della corte e del regno. In Corsica, Marbeuf cominciò ad usare il ministero di pace, promettendo da parte del re Luigi fermezza e sicurtà ai patti di concordia che con Genova fossero stipulati. Varii negoziati s'intavolarono tanto in Corsica con Paoli e col colonnello Buttafuoco da parte del Marbeuf, e dal conte della Tour du Pin, che per la Francia e per Genova trattavano, quanto a Versaglies, dove per questo fine della Tour du Pin e Buttafuoco si condussero. L'affare si maneggiò, come già altre volte, senza effetto, perchè si diede in quel perpetuo intoppo, che i Corsi volevano la loro independenza, e Genova non la voleva consentire. In fatti gl'isolani domandavano lo Stato libero e sovrano, e la possessione di tutte le piazze, che i Genovesi ancora tenevano. Chiedevano inoltre che la Capraia e Bonifazio fossero loro dati in feudo, obbligandosi di pagare a Genova, per ricognizione della feudalità, un tributo annuale di quaranta mila lire, che era quanto i Genovesi, siccome essi stessi affermavano, ricavavano ogni anno dalla Corsica. Per maggior dimostrazione della dipendenza feudataria di que' due luoghi, i Corsi offerivano di mandare ogni dieci anni uno de' loro primarii personaggi a chiedere l'investitura. Promettevano altresì di consentire ai Genovesi il libero commercio e senza pagamento di dazii in tutte le terre e mari di Corsica. Anno di CRISTO MDCCLXVI. Indiz. XIV. CLEMENTE XIII papa 9. GIUSEPPE II imperadore 2. L'Italia, fatta dalla natura delizia dell'Europa, godea pur essa delle delizie della pace, nè il rimbombo de' suoi bronzi guerrieri interruppe in quest'anno i giulivi spettacoli che ne contrassegnarono quasi tutti i giorni, se non fosse in sul mare presso le lontane coste dell'antica Libia. In questo silenzio di avvenimenti maggiori, crediamo di dover consegnare in queste carte la memoria delle circostanze che accompagnavano il pagamento dell'annuo tributo solito a contribuirsi alla santa Sede dai sovrani delle Due Sicilie, e consistente in un cavallo bardato, detto chinea, ed in sette mila ducati del regno. Ogni anno, la vigilia de' Santi Apostoli, portavasi il ministro plenipotenziario del re al portico della basilica vaticana, e colà, presentando al pontefice la chinea, e pagando il denaro al tesoriere della camera apostolica, proferiva in latino una formola già stabilita, e che in lingua italiana così sonava: «N. (il nome del re), mio clementissimo signore, manda a vostra santità questo cavallo decentemente ornato, ch'io presento in nome di lui, e sette mila ducati, per solito tributo del regno di Napoli, pregando Dio Ottimo Massimo che vostra santità possa per molti anni riceverlo pel bene e vantaggio della cristianità e per l'accrescimento della santa nostra cattolica fede. Sono questi i voti di sua maestà ed i miei proprii umili e ferventissimi.» Al che il papa rispondeva: «Riceviamo e volontieri accettiamo questo censo dovuto a noi ed alla Sede apostolica pel diretto dominio del nostro regno delle Due Sicilie di qua e di là del Faro. Al nostro carissimo figlio nel Signore N. preghiamo da Dio salute, ed a lui, ai popoli e vassalli diamo l'apostolica benedizione, in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.» La Toscana, che per quasi trenta anni era stata governata da un privato delegatovi dal granduca Francesco, che faceva la sua residenza a Vienna come imperator di Germania, prestò questo anno, nel dì ultimo di marzo, con vera espansione d'animo, il giuramento di fedeltà ad un sovrano proprio, all'arciduca Leopoldo, di cui presagiva il beato reggimento. Ed in fatti il novello granduca tutte volse le sue cure a render florido il proprio Stato, e fin da questi primordii die' opera al miglioramento delle maremme di Siena, a quello della moneta, a far prosperare la marineria, a sistemare le regole della giustizia. A Livorno, dove fu splendidamente e giulivamente accolto, visitò tutto, animò tutto, e pose la prima pietra alla fabbrica d'un gran quartiere per la marineria. Finalmente fece aprire una strada che da Pistoia arrivasse sino a' confini del Modonese, strada tante volte indarno disegnata e che tornava a reciproco vantaggio degli abitanti de' due Stati. Nè men sollecito del nuovo sovrano di Toscana nel promuovere la circolazione e libertà del commercio fu il giovinetto monarca delle Due Sicilie. L'audacia dei corsari barbareschi infestava continuamente le spiaggie della Calabria e delta Sicilia, non che il rimanente dell'Italia. Per porre una volta freno alla loro insolenza, e provvedere ad un tempo e tutelare la tranquillità del commercio, stimò il re opportuno di conchiudere sull'importante oggetto un trattato con la Francia, e fare che intanto rimanessero interrotte e sospese ne' porti di quel regno le visite de' bastimenti napoletani e siciliani, e lo stesso si osservasse nei porti delle Due Sicilie riguardo alle navi franzesi. E scopo essendo della negoziazione il francare ed assicurare il commercio in quelle parti principalmente dove sarebbe stato più esposto agl'insulti dei Barbareschi, così, attendendo che si concludesse, fece il re di Napoli gettare in acqua sei nuovi sciabecchi, due galere e quattro galeotte, affinchè, mettendosi a corseggiare, coprissero, e difendessero le costiere dei proprii Stati, ed inseguissero i legni dei pirati, ordinando nel tempo stesso che nel porto di Napoli stessero sempre parate una galera ed una galeotta, quella a difesa del porto stesso, questa per recarsi ovunque la chiamasse il bisogno. Già la Francia aveva anch'essa nel Mediterraneo una squadra di vascelli comandati dal principe Beauffremont. Con questa fece egli una visita alle piazze di Barbaria, e prima a quella d'Algeri, che da alquanti mesi avea perduto il vecchio suo beì, ed il cui successore, Mahomet Effendi, ostinatissimamente ricusava qualsiasi componimento colla Spagna e coi Napoletani. Ma ben lo persuase la comparsa della squadra franzese, come si persuasero ancora gli altri beì di Tunisi e di Tripoli; a tal che il principe Beauffremont ottenne quanto desiderava ed avuta promessa solenne che sarebbero rispettati i legni delle due nazioni, oltre a quelli che spiegavano bandiera franzese, se ne tornò a Tolone, lieto della sua corsa e della felice riuscita. Dopo la vista della squadra franzese, il beì di Tripoli n'ebbe un'altra per parte de' Veneziani. Erano seguiti a danno di varii legni mercantili di questa repubblica gravi e frequenti insulti in onta alla fede dei trattati da circa due anni fermati tra la repubblica stessa e le reggenze africane. Ora, risoluto il senato a non più sofferirne la mala fede, ed a trarne solenne vendetta, fu messa alla vela una squadra sotto gli ordini del cavaliere Giacomo Nani, il quale, non sì tosto schierò nel porto di Tripoli le sue navi e fece sonare i cannoni, vide a bordo della propria nave il beì, presto a dargli tutte le convenevoli soddisfazioni ed a pattuirvi quelle condizioni che fossero state di aggradimento del veneziano senato. Furono dunque dalla reggenza sborsate rilevanti somme per salvarsi dal giusto risentimento della repubblica, e, restituiti tutti i bastimenti stati predati, volle in oltre il beì che fossero severamente gastigati i rais o capitani che aveano insultata la bandiera di Venezia; e se non era il console della repubblica che caldamente s'interpose per mitigare l'asprezza ed il rigore dei minacciati gastighi, avrebbero avuta mozza la testa. Fra' patti convenuti fu principalmente questo: che i limiti oltre i quali passare non potessero i legni corsari si dovessero estendere per l'avvenire dal capo di Santa Maria sino a quello della Sapienza; dal che ne derivò un doppio vantaggio, perchè, rimovendosi dalle foci dell'Adriatico le corse di que' Barbari, rimanevano nel tempo stesso difese le coste del regno di Napoli, e meglio protetto il commercio delle altre nazioni. Anno di CRISTO MDCCLXVII. Indiz. XV. CLEMENTE XIII papa 10. GIUSEPPE II imperadore 3. Essendosi rotte le pratiche a ragione di quello scoglio insuperabile dell'indipendenza, i Corsi, condotti da Achille Murati, fecero una fazione improvvisa sopra l'isola Capraia, antico membro del loro regno, e se ne impadronirono, successo, che siccome molto afflisse i Genovesi, così diede non poca allegrezza ai Corsi, che concepirono migliore speranza, e più sicuramente augurarono dello stabilimento della loro libertà. L'incomoda ed oggimai troppo lunga tenzone ora pende al suo fine. Era manifesto ad ognuno che Genova si trovava inabile a ritornare i suoi antichi sudditi all'obbedienza. Quarant'anni di sforzi inutili, oltre le antiche perturbazioni, che tanto travaglio le avevano dato, bene dimostravano che la ribellante isola ero per lei perduta. Non erano valse le tregue, non le paci, non le armi; Genovesi e Corsi non potevano vivere insieme se non come esteri gli uni verso gli altri e non più come nel medesimo ordine misti ed associati. Il valor guerriero dei Corsi, il valore e la prudenza di Paoli si dimostravano insuperabili ed invincibili dalla potenza genovese. E in ciò recava eziandio un gran momento l'avere Paoli riunito in concordia tanti animi discordi, cosa che sin allora non si era veduta. Oltre a questo, quell'uomo aveva saputo ordinare una libertà più ancora fondata sulle leggi che sulle forti inclinazioni d'una gente rozza e quasi ancora selvaggia; e colla libertà introduceva la civiltà. Le quali cose tutte, mentre somministravano più efficaci mezzi di resistenza, rendevano agli uomini più cara la causa corsa. Il secolo stesso la favoriva, e Genova vinta diveniva anche odiosa. Già i popoli cominciavano a maravigliarsi che quella Genova stessa che nel 1746 con sì generoso e forte animo si era rivendicata in libertà, ora tanto odio esercitasse contro una nazione del pari forte e generosa, ed ostinatissimamente affettasse l'assoluto dominio. L'opinione dava favore alla Corsica; ciò non era nascosto a coloro che reggevano la repubblica, e già entravano nei supremi magistrati nuovi pensieri. Col medesimo passo nascevano le voglie forestiere. Vi era chi voltava a suo profitto I'impotenza di Genova. La Corsica, piena di abitatori forti e guerrieri, situata in opportuno luogo tra la Francia e l'Italia, copiosa di generi preziosi, felice per foreste stupende, sicura per porti spaziosi e comodi, molto piaceva a chi coll'Inghilterra gareggiava di possanza marittima nel Mediterraneo. Vecchio pensiero era questo: i soldati a parecchie fiate mandati nell'isola, tante diligenze, tanti amorevoli consigli, il tante volte interporsi a dolcezza tra i Corsi vinti e gli sdegnati signori, ciò era per allettare i popoli, per assuefarli ai volti, alla favella, all'imperio di Francia. Brevemente, la Francia agognava la Corsica. Ciò non ostante, pareva poco generoso procedere il divenire da ausiliario padrone, ma confidava nella necessità, che avrebbe sforzato i Genovesi ad offerirsi. E un accidente impensato, mettendoli in maggiore travaglio ed in qualche disgusto colla Francia, fece piegare il contrasto a quel segno dov'ella mirava. Il re di Spagna aveva in aprile di quest'anno espulsi i gesuiti da' suoi regni: e il papa, a cui parevano in troppo grande numero, perciocchè sommavano a parecchie migliaia, non avea permesso che si ricovrassero nello Stato pontificio. La Spagna ricercò ed ottenne da Genova che avessero ricetto in Corsica, e quivi furono destinate per loro seggio le piazze dove i Franzesi tenevano presidii. I Genovesi, in ciò compiacendo alla Spagna, avevano dispiaciuto alla Francia, che anch'essa aveva pochi anni innanzi espulsi gl'Ignaziani da' suoi dominii, sì che poco mancò che per questa cagione non si partisse dall'amicizia di Genova. Con acerbissime parole se ne lagnò col senato, protestando che ne avrebbe fatto giusti risentimenti; ed in fatti il re mandò ordine a Marbeuf che tosto sgombrasse dalle piazze dove entrati fossero i Gesuiti. Non così tosto vide Marbeuf a comparire in Algaiola, Calvi ed Aiaccio gli ospiti che la Spagna espelleva, che, uniformandosi alla volontà del re, le lasciò, ritirando i passi verso Bastia e San Fiorenzo. Subitamente Algaiola venne in potere dei nazionali; per poco anzi stette che Calvi non vi venisse, come vennevi la città di Aiaccio, e la cittadella stessa, la quale, battuta aspramente dai Corsi e ridotta in grandissima necessità di viveri, già stava in sul punto di darsi. Così i Genovesi, per aver dato ricovero agli esuli di Spagna, sdegnarono la Francia, e perdettero parecchi forti ed importanti luoghi; chè i soldati franzesi cessero il luogo ai monaci spagnuoli. Esuli erano questi religiosi, e per tale titolo meritavano che alcuno cura ne prendesse; ma quivi portavano un fatale pregiudizio. Veramente i Corsi se ne prevalevano, nè mai furono così vicini al conseguimento totale dei loro pensieri e di arrivare a quella franchigia che, fin allora stata sanguinosa e torbida, speravano finalmente di vedere felice, lieta e sicura. Mentre la fortezza di Aiaccio stava in grave pericolo, e nelle altre terre ancor tenute da' Genovesi si trepidava, pervenne avviso che tra Marbeuf e Paoli era stata conchiusa una sospensione di offese da durare insino a che, compiti i quattro anni di soggiorno stati stipulati, i Franzesi dovessero fare la loro partenza dall'isola, il qual termine era di pochi mesi lontano. La Francia minacciosamente affermava di non voler acconsentire ad alcuna prolungazione: assai, diceva, essersi travagliata per quella disordinata Corsica; facessero i Genovesi da sè, e come potevano e come l'intendevano colle loro proprie forze terminassero l'antica lite. I Gesuiti intanto instavano perchè fosse loro permesso d'introdursi nell'interno del regno per fabbricarvi a loro spese chiese e collegi e adoperarsi allo ammaestramento della gioventù. Paoli ed il supremo consiglio inclinavano a contentarli; ma i professori dell'università con molta costanza si opposero, onde furono loro proibite non solamente le fabbriche, ma ancora l'internarsi nella isola senza un passaporto di Paoli. Se non che, acconciatesi frattanto le cose tra Spagna e Roma, i Gesuiti tornarono nello Stato pontificio, dove ebbero pur ricetto quelli del regno delle Due Sicilie e dell'isola di Malta, in questo medesimo anno espulsi, quivi alimentati della pensione dai rispettivi sovrani loro assicurata. Anno di CRISTO MDCCLXVIII. Indizione I. CLEMENTE XIII papa 11. GIUSEPPE II imperadore 4. Genova si accorse finalmente che bisognava veder la fine di un tormento che la teneva impedita e dolorosa già quasi da un mezzo secolo: soggiogare quei forti e pertinaci isolani da sè non poteva, e colla Francia più non lo sperava. Il mondo aspettava di vedere un'Olanda nel mezzo del Mediterraneo; sorse in quella vece una nuova provincia di Francia. Ai 15 di maggio, dopo di essersi agitate molte pratiche, si fermò finalmente a Versaglies tra la Francia e Genova un accordo appartato da' Corsi, per cui si stipulò che la repubblica cedeva alla Francia il regno di Corsica comprese le fortezze, le artiglierie ed ogni attrezzo militare, con patto però che per le artiglierie e gli attrezzi militari, secondo la stima che se ne farebbe dai periti, il re corrispondesse in denaro l'equivalenza; Che la sovranità del regno apparterrebbe sempre alla repubblica; Che agli antichi proprietarii, mostratene le identità, si restituissero tutti i beni confiscati; Che i Corsi fossero veri sudditi della Francia tutto il tempo che l'isola possederebbe; Che la Francia fosse obbligata a mantenere in Corsica sedici battaglioni; Che guarentirebbe la repubblica dai corsari turchi e corsi, acciocchè la bandiera genovese potesse liberamente trafficare ne' suoi mari. Che il re desse libero possesso della Capraia a Genova. Si sparse prima un certo rumore; poi si ebbe certo avviso del trattato. Quindi si udirono novelle che nei porti della Provenza si allestiva un armamento per portare i nuovi battaglioni nell'isola, cui doveva condurre e governare il marchese di Chauvelin, tenente generale. Arrivarono finalmente avvisi, siccome già nel porto d'Aiaccio erano sbarcati due battaglioni del reggimento di Bretagna. A tal annunzio gl'isolani si commossero a gravissimo sdegno; la padronanza di loro medesimi vedevano in grandissimo pericolo, la libertà parimente, tanto sangue inutilmente sparso, spenti i lunghi desiderii, gli antichi costumi, la nativa lingua stessa andava in dileguo. Bene non isfuggiva loro che la potente mano della Francia avrebbe procacciato la quiete nelle loro città e campagne, e protetto le navigazioni per l'esercizio del commercio: ma i popoli che mirano alla franchigia, non misurano la felicità dalla quiete nè dalla ricchezza; ma stimano pazzamente felicità suprema il travagliarsi nelle faccende pubbliche, il maneggiarsi come pare e piace. Chiamata Paoli in fretta la nazione a parlamento, fecesi la consulta in Corte a dì 22 di maggio; e quivi il generale favellò con temperatissime parole non disgiunte da dignità e fermezza. Sdegno destossi nelle anime feroci che altamente deliberarono. Fu quindi decretato che si crescesse numero ai soldati regolari, che in ogni luogo uniformemente si ordinasse la milizia, che in ogni pieve si annotassero le armi da fuoco, e chi fosse atto a portarle, le pigliasse, e difendesse la patria; che i beni sì mobili che stabili e le mercanzie ed ogni altro fondo fruttifero pagassero una nuova tassa del quattro per migliaio, e quanto la tassa gettasse, tutto s'impiegasse nella bisogna della guerra; che il clero secolare la decima pagasse di tutti i benefizii, ed i regolari cento lire per convento; che fossero vietate le tratte delle biade; che si ordinassero più severe forme di giustizia; che tutte le persone civili non impiegate in servizii pubblici dovessero uscirne a campo per guardia del generale. E chiamavano sacro quel denaro, sacri quei battaglioni, quell'impeto sacro. Quindi parlarono alla gioventù di Corsica, e le infiammative parole trovarono in tutti un'ottima volontà verso la patria. Udivansi pei piani e pei monti grida commiste, un fracasso d'armi, un suonar di corni: tutta la silvestre Corsica si moveva, e nel periglioso cimento si avventava. In questo aspetto ed in mezzo a tanta concitazione, i Franzesi, portati sulle navi dalla Provenza pervennero sui lidi corsi, e sbarcarono a Bastia, Calvi, Aiaccio, Bonifazio e San Fiorenzo. Consegnate loro dai Genovesi le piazze, le artiglierie e le munizioni, fu levato da Bastia lo stendardo della repubblica, e postolo sulle navi, non senza solennità, il trasportarono col commissario generale a Genova. Fu inalberata su tutte le cime la bandiera franzese. Ora, prima dei lutti, vengono le feste. I Bastiesi, come se temessero che gli altri Corsi abbastanza già non gli odiassero, ne fecero delle belle e grandi, sì che al loro dire e fare parve che già svisceratamente amassero il re di Francia. Cantossi con molta pompa nella franzese Bastia l'inno delle grazie la mattina; la sera poi rallegrò la città una splendida luminaria; il palazzo pretorio tutto risplendette di doppieri all'uso veneziano; sul finestrone di mezzo si leggeva la seguente iscrizione: LVDOVICO XV FRANCORVM, NAVARRAE ET CVRSORVM REGI CHRISTIANISSIMO AVCTIS IMPERII FINIBVS, TRANQVILLITATE PVBLICA ASSERTA, AVGVSTO, PACIFICO, FELICI MAGISTRATVS POPVLVSQVE BASTIENSIS FAVSTIS AVSPICIIS PLAVDEBANT. Poi sulla destra dello stemma reale, anch'esso circondato di lumi, si vedeva un sole risplendente col motto: _Imbres et nubila vincit_. Sulla sinistra, la Bastia col rimanente della Corsica e tre gigli col motto: _Et Cyrno crescite flores_. Che cosa pensassero i Corsi di queste dimostrazioni, non è punto necessario che con parole si scriva. Fermi poi questi primi bollori, dalle feste si fece passo alle finzioni, dalle finzioni poscia alle battaglie. Il duca di Choiseul, ministro del re, scrisse a Paoli, notificandogli che i soldati di Francia non avrebbero dato veruna molestia allo nazione, che il marchese di Chauvelin, tosto che fosse in Corsica pervenuto, si sarebbe con esso lui accordato, affinchè con buona armonia passassero le cose, che il re accoglieva l'isola sotto l'ombra sua, e prendeva cura della sua felicità. Poi si mandò fuori voce che per certi rispetti si farebbe un po' di guerra, ma senza danno della nazione, perchè le soldatesche regie adoprerebbero di concerto con le corse. I Corsi, che tenevano l'armi in mano, non sapevano che dirsi, ed erano da varii pensieri agitati. Li tolse finalmente dal dubbio un'intimazione fatta da Marbeuf a Paoli: tenere lui ordine dal re di fare che tra Bastia e San Fiorenzo fossero e restassero liberi i passi. Nello stesso tempo si lasciò intendere che voleva che gli fossero cedute le scale dell'isola Rossa, Algaiola, Macinaio e Gornali. Il Corso, che vedeva essere perciò fatto incominciamento di guerra, rispose col sangue avere acquistato que' luoghi, col sangue volerli conservare: bene accorgersi che si voleva privare la nazione della libertà, frutto di tanta guerra. Ora doveva il mondo giudicare se i Corsi, poichè al ferro si veniva, nell'imprender guerra contro la potente Francia, più imprudenti o più prudenti fossero, più temerarii o più coraggiosi. Ripromettevansi i Franzesi di soggiogarli; i Corsi si ripromettevano di poter sostenere quella libertà per cui combattevano fin già da otto lustri: Paoli e Corsica uniti insieme si credevano invincibili. Non così tosto Paoli si avvide, per l'intimazione fatta da Marbeuf e da altri segni che la Francia alle cagioni di Genova e per suo pro veniva a trovare la Corsica coll'armi, e sopra di sè pigliava la guerra, fu reso capace ch'era venuto il tempo di fare gli ultimi sperimenti; laonde applicò il pensiero a prender modo alle difese e ad ordinare quanto per la conservazione della libertà in così estremo caso abbisognasse. Pose in arme tutte le milizie, aggiunse nuovi soldati ai reggimenti d'ordinanza; formò campi mobili, mise in forte tutti i luoghi capaci di munizione, e stabilì in somma ogni cosa a valida propugnazione e conservazione dello Stato. E la nazione tutta consentiva con lui: correvano i Corsi ad offrirsi con volontà prontissima. Quelli che militavano ai servigi di Francia, chiesta licenza, si acconciarono volonterosamente a quelli della loro nazione. Narrano che per tanta concitazione, Paoli avesse cinquanta mila uomini tra pagati dallo Stato, o dalle provincie, o dalle pievi, o dai comuni, o da sè medesimi. Paoli aveva sua stanza a Murato con la sua eletta schiera dei mille, aggiuntevi alcune altre: il suo fratello Clemente alloggiava ad Oletta con cinque mila. Stando le cose in questi termini, si venne al paragone dell'armi. Correndo il dì 30 di luglio, i Franzesi andarono alla fazione dello strigarsi le strade tra Bastia e San Fiorenzo. A questo fine, per incontrarsi sul mezzo, partirono Marbeuf dalla prima di dette piazze, ed il maresciallo di campo Grandmaison dalla seconda. Grandmaison spinse i Corsi con molto sangue, poi fu respinto con molto sangue anch'esso. Ingrossò i soldati, vinse in una trincea quarantadue Corsi, che si lasciarono tagliare tutti a pezzi piuttosto che arrendersi, e marciò verso le vie più strette. Combattuto e combattendo si avanzava, volendo passare alla conquista di Olmetta e di Nonza. Marbeuf nel medesimo tempo, partendo da Bastia, s'era avvicinato alle montagne, cacciatosi davanti con uccisione e presura di molti tutte le piccole squadre del nemico, che fecero pruova di contrastargli il passo. Già era pervenuto verso Barbaggio, e già a Patrimonio s'accostava: assalse le due terre, e da ambe fu ribattuto con molto sangue. Volle impadronirsi della sommità di Montebello, e fu lo sforzo indarno. Così successero i fatti di guerra all'ultimo di luglio ed al primo di agosto. Ai 2, Marbeuf si avventò con più poderose forze contro Barbaggio e Patrimonio. Fuvvi un caldissimo combattere alla seconda di queste terre, che presa e ripresa più volte, dimostrò quanto valorosi fossero ed assalitori e difenditori, ma finalmente cesse in potestà di Francia. E i Franzesi ottennero più facilmente Barbaggio, loro restando da superarsi la forte terra di Furiani, dove reggevano le milizie Nicodemo Pasqualini e Gian Carlo Saliceti, e la torre di Biguglia. Intanto, per la perdita di Patrimonio e di Barbaggio, quasi tutta la provincia del Capo Corso venne in potere dei Franzesi, i quali, possedendo anche la pieve di Sisco, s'impadronirono di Nonza, di Brando e di Erbalunga. Solo ostavano Furiani e Biguglia, onde sicuramente non possedessero il Capo Corso. Giunse in questo mentre in Corsica il marchese di Chauvelin soprattenuto fino allora in viaggio per infermità; nè giunse solo, ma con nuovi soldati, specialmente colla legione reale. Volendo usare l'impressione che credeva avere fatto nella nazione i primi conflitti sull'istmo per cui si va nell'interno del Capo Corso, pubblicò patenti regie, nelle quali parlava il re Luigi: avergli la repubblica di Genova trasmesso la sovranità dell'isola; tanto più volentieri averla accettata, quanto più bramava di procurare felicità a' suoi nuovi sudditi, ai suoi cari popoli di Corsica: volere che si posassero i tumulti che da tanti anni gli agitavano; voler mantenere le promesse per la forma del governo della nazione; sperare che la nazione, godendo i vantaggi della protezione sua, sarebbe per sottomettersi, e non lo ridurrebbe alla necessità di trattarla come ribella; ammonirla che se nell'isola continuassero qualche confusione torbida e mista o la pertinace disobbedienza, ne risulterebbe la distruzione d'un popolo da lui con tanta compiacenza nel numero de' suoi sudditi adottato. Così parlò il re Luigi, nuovo sovrano, ai Corsi; e quindi parlò Chauvelin, che siccome i Corsi Franzesi erano, così comandava che nissun Corso con altra bandiera stesse a navigare fuorchè colla Franzese, ed ogni comandante, padrone, capitano o maestro di nave venisse a levare da lui le nuove patenti e la bandiera bianca. Come ebbero parlato il re e Chauvelin, parlarono i Corsi; cioè per loro il generale ed il consiglio supremo. S'assembrarono a Casinca, s'accordarono, scrissero le loro ragioni e querimonie; ma vane furono le querele, vani i preghi, vane le rimostranze: ai loro instanti desiderii si opponeva una lunga e ben considerata e bene ponderata risoluzione. In settembre si venne novellamente in sul menar le mani ed al combattere le ostinate battaglie. I Franzesi combatterono col solito valore, ma i soldati soli; i Corsi pugnarono con eguale valentia, ma le donne ed i fanciulli con essi. La disciplina prevalse al numero, i Franzesi conquistarono la provincia del Nebbio, ritiratisi i due Paoli, non isbandati, ma congregati, ai luoghi più sicuri verso le montagne di Tenda e di Lento, per non mettere a cimento tutta la somma delle cose in una giornata campale e giudicativa. Sottomesso il Nebbio, i soldati di Chauvelin si scagliarono contro Furiani e Biguglia, e prima questa, poi quella, più sopraffatte che vinte, cedettero. Infrattanto sbarcato era in Calvi il colonnello Buttafuoco, che venia di Francia desideroso che l'isola a buone condizioni si acconciasse con chi più poteva. Gridava pace, la resistenza vana stimava, predicava la sommessione per forza più acerba che per voglia. Ne scrisse a Paoli che allora era in alloggiamento a Rostino; avvertendo che quelli che vogliono sopravvincere perdono, e pregandolo che impiegasse ogni suo uffizio, usasse l'autorità ed il credito per fare che i popoli di queto alla Francia si assoggettassero. Ebbe risposta, ma non quale la desiderava, imperocchè Paoli gli diceva: avere i Corsi fatta una giusta presa d'armi, volere la libertà, averla a note indelebili ne' loro animi scolpita, lui volergliela conservare; per sè non combattere, ma per tutti; tal essere il dover suo; volgesse poi la fortuna le sorti della Corsica come volesse, o che a libertà la destinasse od a servitù. In questo mezzo tempo arrivarono nuovi soldati di Francia, sforzo pur troppo grande per una Corsica, ma da cui si vedeva manifestamente che il re Luigi aveva ad ogni modo fisso il pensiero nella conquista. Paoli temè de' deboli, chiamò in sussidio la religione, e fe' replicare ai capi il giuramento del 1764, che qui sotto si trascrive, quantunque in esso si leggano alcune espressioni che più non si appropriano al caso presente. «Noi giuriamo, e prendiamo Dio per testimonio, che vogliamo piuttosto morire che fare alcun trattato colla repubblica di Genova, e di nuovo sottometterci al suo dominio. Se le potenze dell'Europa, e soprattutto la Francia, non hanno pietà di noi, e vogliono contro di noi armarsi e tentare di abbatterci, rispingeremo la forza colla forza. Combatteremo come disperati, che hanno risoluto di vincere o di morire, sino a che siano affatto abbattute le nostre forze, e l'armi ci cadano di mano. Allora la nostra disperazione c'incoraggerà ad imitare i Sagontini, vale a dire, ci getteremo piuttosto nelle fiamme che sottometterci al giogo insopportabile dei Genovesi.» Tale giuramento, fatto quattro anni innanzi contro Genova, ora il voltavano contro la Francia. Alle raccontate fazioni ed esortazioni s'infiammavano vieppiù da ambe le parti gli spiriti, e con maggior calore si ricominciarono le battaglie. I Franzesi, condotti dal marchese d'Arcambal, passato il Golo ed entrati in Casinca, occupato avevano il Vescovato, Venzolasca, Oreto e la Penta, passo di grande importanza, perchè apre l'adito ai monti; ai quali progressi, cedendo alla forza sopravanzante, s'erano sottomessi la pieve di Tavagna, alcuni paesi d'Orezza ed una parte della Casinca. Non mai ebbero i Franzesi più fondata speranza di terminare felicemente la loro impresa, come dopo l'acquisto della Casinca e di Tavagna, paesi di gran momento, perchè da essi sono solite a prendere esempio le altre popolazioni marittime delle parti orientali dell'isola; e, ciò che più favoriva il loro proposito, era che i popoli di quelle terre, spaventati dall'aspetto sinistro delle cose, da sè medesimi si davano e correvano all'obbedienza. I capi di Corsica videro il pericolo, e non se ne sgomentarono. Per isturbare quegli acquisti a' Franzesi, adunaronsi in Rostino, rassegnarono tutti gli uomini abili all'armi tanto delle pievi vicine quanto di quelle prossime a Corte, e ragunatili, deliberarono di scendere alla riconquista de' luoghi perduti. Uomini erano fortissimi di cuore, infiammatissimi ne' desiderii; e per vieppiù accenderli, Paoli loro parlò, conchiudendo il caldissimo discorso con queste parole: «Di Sampiero ricordatevi, e me seguite; vittoria vi prometto, ed avrete vittoria.» Così detto, Paoli trasse una pistola, e, sguainata la spada, si mosse il primo, verso la sottoposta Casinca avventandosi. Il seguitarono avidissimi del nemico sangue, e: «Moriamo, moriamo per la Corsica (gridavano), moriamo pel duce nostro, moriamo per la libertà.» E così gridando e fremendo, calavano con le robuste piante da quegli aspri gioghi. Si fecero avanti per due strade, l'una più su per piombare sopra Orezza, l'altra sotto, per a Sant'Antonio, onde accennare contro il Vescovato. Mescolaronsi ferocemente Franzesi con Corsi; cedevano ora questi ora quelli alternamente vincitori o vinti. Il fine fu che i Corsi riacquistarono Penta superiormente, Venzolasca inferiormente. L'acquisto della Penta diede loro più grande ardimento. Perciò, passato il Golo, guadagnarono paese sulla sinistra del fiume, presero Murato e ricuperarono buona parte del Nebbio superiore. Fecero in Murato una ricca preda, togliendo a Grandmaison, posto in fuga, i bagagli, le tende e due pezzi di cannone. Di tal maniera furono compressi i Franzesi nel Nebbio, che già i loro nemici si approssimavano a San Fiorenzo; tornati alla Corsica Barbaggio, Patrimonio e Furinole. I Franzesi s'erano fatti forti a Loreto con animo di allargarsi vieppiù. I Corsi, per turbar loro i disegni, andarono a sloggiarli, a fine di spazzare tutta la Casinca. Per ben sette ore durò l'assalto della terra, cui finalmente più non potendo i difensori sostenere, perchè continuamente arrivava a Paoli nuova gente delle montagne, cessero e fecer opera di ritirarsi, lasciando, non solamente Loreto ma ancora Vescovato ed altri luoghi di quella provincia, per cercar ricovero oltre il Golo contro la furia corsa, che li perseguitava. Fuggivano i Franzesi inseguiti ed incalzati da' Corsi, i quali, siccome abili imberciatori, ne facevano grande scempio. Molto anzi maggiore danno avrebbero patito, se i loro persecutori, irritati contro di que' popoli che di volontà si erano dati, non si fossero messi in sul saccheggiare il paese, di maniera che la ruina de' Corsi che s'erano sottomessi fu al tutto la loro salute; però lasciando in potere de' vincitori quattro cannoni. L'avveduto Clemente Paoli, prevedendo che i fuggitivi sarebbero concorsi al ponte del lago Benedetto, per ivi passare il fiume, corse avanti, e l'occupò; il che pose in quasi totale disperazione i vinti. Arrivati al fiume, e vedutolo gonfio ed alto, si arrestarono. Sopraggiungevano a torme i Corsi animati dal furore, dal numero, dalla vittoria: fecero i Franzesi qualche testa, ma ormai vedevano l'ultimo loro eccidio, se non passavano. Misersi all'acqua, le onde furiose li trasportavano, i Corsi furibondi li saettavano con le archibugiate giuste, molti perirono affogati, molti coi corpi trafitti dalle palle, mescolando il loro sangue colle acque del fiume, e fiume funesto fu il Golo pei Franzesi in quel terribile punto: seicento soli si ridussero a salvamento sulla sinistra sponda, e drizzarono i passi verso il borgo di Mariana. Desideravano i Franzesi di conservare in loro potestà quel borgo come terra che poteva facilitare di nuovo il passo del Golo, e per essere quasi antibaluardo di Bastia. Ondechè non così tosto vi pervennero, che si diedero a fortificarlo, cingendolo d'ogni intorno di terrapieni e fossi, e chiamando da Bastia nuove provvisioni di artiglierie e di munizioni così da guerra che da bocca. Ma i Corsi quella terra ad ogni costo occupare volevano, sì perchè credevano necessario, a maggiore fracassamento del nemico, di seguitare l'impeto della vittoria, e sì ancora perchè la possessione di Mariana dava loro facoltà di andar a romoreggiare sin sotto le mura di Furiani e di far accorti i Bastiesi che ancora a loro spavento ondeggiavano in aria le insegne del Moro. Paoli s'infiammò, incalzò, corse; i compagni le sue pedate seguitavano sonando. Quindi, per far maggiore l'oste sua vincitrice, comandò a Mario Cottoni che venisse da Aleria, a Giannantonio Arrighi da Corte, a Giulio Serpentini da terra del Comune; e in fatti giunsero sull'imbrunire, verso notte, a Mariana, e ne occuparono le pendici esteriori; poi fecero una circondazione, e scavarono ed ammontarono la terra d'ogni intorno. L'assaltarono da presso, da lontano l'assediarono; Saliceti, Grimaldi, Raffaelli, Agostini da Ponente, Gafforio, Gavini da Levante si posarono vicini alla terra e senza tregua l'infestavano colle artiglierie. Gli altri si alloggiarono più alla larga, per impedire le vettovaglie e gli aiuti; Clemente Paoli alla strada che porta al Nebbio, Serpentini alla Serra, Pasqualini presso a Luciana per guardare quelle alture, il generalissimo poi in Luciana per essere in pronto di sopravvedere ogni cosa da quella eminenza, e di soccorrere ove abbisognasse. Chauvelin, avuto avviso del pericolo de' suoi che se ne stavano serrati in Mariana, si deliberò immantinente di accorrere in aiuto, movendosi da Bastia con tre mila uomini bene armati. Siccome poi era pratico capitano, volendo dar favore al suo movimento anche da un'altra parte, mandò comandando a Grandmaison che, da Oletta scendendo, venisse a battere le strade verso Mariana, sperando per tal modo di mettere i Corsi in mezzo. Mosse in fatti Grandmaison e affrettava verso Mariana i passi; ma i nazionali, che avevano avuto avviso dell'intenzione e del movimento, s'interposero di mezzo tra San Fiorenzo e il Borgo, alloggiandosi alle strette delle alture di Rutali in così grosso numero, che il Franzese stimò che non fosse bene di venire ad un cimento di troppo eccessivo pericolo. Per la qual cosa, non che tentasse di sloggiarli, se ne ritornò e rimase in Oletta, senza che perciò Chauvelin, non ostante che perduto avesse la speranza della sua cooperazione, volesse deporre il pensiero di dar l'assalto a chi assaltava Mariana, credendosi da sè solo bastante a compir l'impresa, e nel suo disegno secondato da Marbeuf, ch'era con lui. Si aperse il dì 9 d'ottobre, che dovea vedere una grave contesa fra due forti nazioni. Distribuite le vicende, i Franzesi andarono alla fazione divisi in tre parti: Marbeuf assalì con un impeto incredibile le trincee dei Corsi; il conte di Narbona si scagliò con non minor valore contro la terra; e quelli stessi che la terra custodivano, saltando fuori dal loro ripostiglio, urtarono dalla loro banda chi gli assediava. In questi sanguinosi fatti e Franzesi e Corsi fecero cose degne di guerrieri impavidi e valentissimi, bene gli uni e gli altri sostenendo il nome che portavano, sì che l'asprissimo conflitto durò per ben dieci ore. Marbeuf, contuttochè con tutte le forze si travagliasse, non potè ottenere l'intento di cacciare l'inimico dalle trincee; imperciocchè con quanto vigore urtava, con altrettanto era riurtato, nè il corso volle cedere al valore franzese. Dal suo lato Narbona avea giù fatto qualche progresso, perchè, assalite furiosamente le sei case fortificate dai Corsi, tre ne avea recato in suo potere e tempestava tuttavia contro le tre altre che restavano a superarsi. Ma in quel fatale momento essendo stato obbligato a soprastare alquanto, perchè gli mancavano le scuri per ispaccare ed i petardi per rompere, si trovò esposto a così grave e fitto bersaglio, che, disperando del fine, e ribattuto violentamente indietro da quei di dentro, lasciò l'impresa e retrocesse verso il Marbeuf, il quale ancor esso si era ritirato indietro dall'assalto. Quanto a quella colonna degli assediati uscita del suo ricinto, con tanto furore e tale tempesta fu dai Corsi investita che restò tagliata a pezzi tutta, salvo dodici o quindici, che ebbero per bella fortuna il poter rinserrarsi nelle mura. Ultimamente Chauvelin, veduto l'esito infelice de' suoi tentativi, chiamò a raccolta, e viaggiando fra le tenebre della notte, in quel mentre sopraggiunta, si ritirò al campo di Santa Maria dell'Orto ed a Bastia. L'ebbero i nazionali seguitato, e come gli avevano ucciso molta gente nella battaglia, così molta glie ne trafissero a morte nella ritirata. Sommò il numero de' suoi morti intorno a cinquecento, e in assai maggior numero furono i feriti. Lo stesso Marbeuf toccò una ferita nella spalla, il colonnello del reggimento di Rouergue in una gamba, il colonnello del reggimento sassone nel ventre. Gli assediati in Mariana, ch'erano in numero più di cinquecento, perduta ogni speranza di soccorso, si arresero, e furono condotti a Corte. A questo modo Paoli vinse Chauvelin. Ricevettero i Franzesi in questo fatto una gran percossa. In balìa dei vincitori rimasero intorno a due mila archibusi, tre cannoni di bronzo, dodici casse di polvere, diciassette mila cartocci ed altri militari stromenti ed attrezzi. La vittoria di Mariana diede maggior animo ai Corsi per modo che vieppiù a loro medesimi persuasero che Paoli fosse il guerriero nato per fondare la loro libertà. E veramente nei preparamenti e nella condotta della battaglia il generale corso dimostrò un'arte squisitissima; nè i suoi Corsi gli mancarono di assistenza, perchè con un valore, anzi con una ostinazione estrema combatterono. La stagione diveniva ormai sinistra, nè più si poteva campeggiare all'aperto, condizione favorevole ai Corsi, contraria ai Franzesi, per esser quelli avezzi a quel cielo e contentarsi di poco per vivere, mentre l'insolito clima domava questi, nè potevano le provvisioni abbondare alle squadre isolate, posciachè i Corsi, attentissimi ad ogni mossa, velocissimi di natura e per esercizio, e conoscitori perfettissimi d'ogni strada più nascosta, sopravvenivano agevolmente ed improvvisamente e arraffavano le vettovaglie o le tenevano impedite. Il generale di Francia, vedendo la necessità di cessare dalla guerra pei tempi avversi, e desiderando di distribuire in istanze invernali più comode i soldati, s'ingegnava di allargarsi; nell'esecuzione del quale proposito succedevano spesse ed aspre zuffe fra i due popoli nemici, cotanto l'uno contro l'altro instizziti. E fra le altre una ve ne fu tra i Franzesi comandati dal conte di Coigny, che voleva impadronirsi di Murato, ed i Corsi che impedire ne lo volevano, nella quale, colto il giovane Franzese in un'imboscata, benchè forte fosse e valorosamente si difendesse, rimase morto per una palla d'archibuso che lo colpì. Morto Coigny, i suoi compagni ritrassero i passi a tutta fretta, seguitati senza posa dai Paolisti, che gl'incalzavano colle sciabole, cogli stiletti e colle baionette, sì che in questa piuttosto battaglia giusta, che piccola scaramuccia, perì la metà di loro, diciassette uffiziali parte morti, parte feriti, e con essi moltissimi gregarii. In quest'anno furono i Gesuiti espulsi dallo Stato di Parma, tra il quale e la corte di Roma allora più grave contestazione si accese, che, per aver avuto termine nel seguente anno, a quello differiamo il tenerne parola, anche per non interromperne il filo incominciato che abbiasi una volta a tesserne l'istoria. Se non che gioverà fin d'ora notare che, presa parte in quella contesa dalle case di Borbone, il re di Francia fece, a danno della santa Sede, occupare il contado avignonese, e quello di Napoli mandò le sue truppe ad impossessarsi, in pregiudizio della medesima, dei ducati di Benevento e Pontecorvo. Anno di CRISTO MDCCLXIX. Indizione II. CLEMENTE XIV papa 1. GIUSEPPE II imperadore 5. In Corsica, la guerra dell'anno precedente con quel fatto che abbiam riferito quasi finì, riposandosi i guerrieri ne' loro alloggiamenti d'inverno. La prospera fortuna de' Corsi contro una Francia, e lo estremo valore da loro mostrato in tanti bellicosi incontri tenevano maravigliate le nazioni, le quali generalmente a quel forte popolo fortunato destino desideravano. Paoli soprattutto era sulle lingue e sulle penne di tutti, e il chiamavano forte, felice e generoso; lui gli antichi esempi di Grecia e di Roma rinovellare predicavano, ed i moderni d'Inghilterra e d'Olanda, e quegli stessi della recente Genova; la Corsica appellavano bene avventurosa per averlo prodotto, bene avventurosa per averlo a guida; ammiravano quelle inclite rocche in mezzo alle acque del Mediterraneo sorgenti, e pubblicavano dare la combattente isola felice augurio, felice esempio all'Italia e al mondo tutto quanto. Nuovi rumori, che da Tolone si udivano, tenevano i Corsi in qualche ansietà delle cose future, e gli avvertivano che non erano ancora pervenuti al fine delle loro fatiche. In fatti, già si sentiva che in quel porto si travagliavano grandi apparati di guerra, si allestivano e mettevano all'ordine buon numero di bastimenti, si raccoglievano soldati destinati alla conquista, fanti per la maggior parte, non essendo i campi dell'isola atti a ricevere cavalli ed a maneggiarvisi guerra di cavalleria. Non isfuggiva a nissuno che la Francia, avendo assunto l'impresa di sottomettere quell'isola ed al reame aggiugnerla, non era per restare al di sotto, nè per tirarsi indietro per nissuna difficoltà che sorgesse, poichè troppo abbietta cosa le sarebbe paruta, a lei così grande, così forte e di tanto grido in guerra, di essere sgarata e fatta stare da quattro isolani. Le pareva incomportabile, che la piccola Corsica osasse d'alzarle la fronte contro, e quasi a freno tenere la volesse. Perciò soldati a soldati aggiungeva, armi ad armi; Tolone gli accoglieva, e da quel porto già stavano minacciosi per partire e per rinforzare la guerra nella renitente isola. Chauvelin aveva scritto che se non erano trenta mila di quella gioventù franzese, sarebbero indarno, ed in pari tempo, per salute inferma, e forse per l'infelicità de' suoi tentativi, aveva chiesto licenza. Gli venne surrogato il conte di Vaux, del quale pel buon nome di cui godeva, si sperava che avrebbe governata la guerra più virtuosamente e più felicemente dei suoi antecessori. A così potente apparecchio, che indicava l'estrema volontà di Francia, l'estremo cimento della fortuna, molto si sollevarono gli animi in Corsica. Alcuni temevano, credendo l'impresa loro perduta; altri, più oltre procedendo, accusavano Paoli d'ambizione e dello scellerato pensiero di voler vedere la ruina della sua patria, piuttosto che scendere dal grado a cui era stato esaltato; altri finalmente cominciavano in cuor loro ad interporre una servitù quieta ad una libertà turbolenta e tempestosa. Tali erano le opinioni, tali i dissidii: questi pensieri nascevano, quando pel silenzio dell'armi si trovarono i sangui raffreddi nell'inverno. Ma i più di gran lunga pertinacemente perseveravano nel loro proposito: gli sviscerati per la libertà, per lei morire volevano, e in Paoli, come in suo sincero e forte sostenitore, confidavano. Videro il pericolo, e cercando con salute d'incontrarlo, tennero nel mese di aprile nel convento di Casinca una generale consulta, e quell'assemblea di guerrieri, di pastori, di pecorai, di cacciatori, di religiosi ancora decretò: Ognuno dai sedici ai sessant'anni si armasse in guerra, e chiamato, vi andasse con quaranta cariche da schioppo; Un terzo stesse sui campi a fronte del nemico, sinchè gli venisse la muta di un altro terzo; potendo però, se ne scadesse bisogno, gli altri due terzi avviarsi insieme, e col primo andare alla guerra; I bestiami si ritirassero da' piani ai monti alti e sicuri, col privilegio di nissun pagamento pel pascolo; Che i poveri ma valorosi, i quali colle loro famiglie dovessero per cagion del nemico ritirarsi nell'interno del regno, avessero le spese dal pubblico; Che tutti gli ecclesiastici, non in cura d'anime, dovessero concorrere alla comune difesa colle loro persone, e si ordinassero in corpo per tenere certi posti, onde le schiere de' secolari potessero meglio ed in maggior numero travagliarsi nelle fazioni alla campagna. Viveva ancora nella nazione corsa, se non in tutti, certamente ne' più, quando il suo supremo magistrato ordinò queste cose, quell'acceso spirito, per cui per tanti anni aveva a Genova contrastato ed ora la spingeva a resistere alla Francia. I fatti forse le divenivano contrarii, ma con estremo ardore all'estremo cimento si andava preparando. Per la qual cosa di buon grado accettò le sovrane deliberazioni; nissuno si ristette; chi per l'età poteva, chi per l'esempio, tutti davano l'opera loro prontissimamente. I guerrieri, nel corso abito involti e dal corso valore spinti, calpestavano il suolo verso le terre sopra di cui il nemico insisteva, e ferocemente le armi brandivano. I vecchi, i decrepiti stessi, in quell'estremo pericolo della Corsica, parevano rinvigorirsi, e le membra, che ormai abbisognavano più di riposo che di travaglio, esercitavano alle opere faticose da lungo tempo dismesse. Le donne ancora non isgomentatesi, anzi incoraggitesi a quello aspetto terribile delle cose, quai novelle Amazzoni, alcune in femminili vesti avvolte, altre accinte in abito virile, qua e là armate correvano, e cogli uomini gareggiavano di coraggio e di furore. I fanciulli stessi, che fin dalla culla aveano succiato rabbia contro Genova, ora, voltandola contro la Francia, davano a conoscere, negli esercizii militari travagliandosi coll'armi, che i germi, non che le piante adulte, erano di quel vitale succo imbevuti e pregni. Mentre così la Corsica tutta si commoveva e si avventava coll'armi, e in sè medesima forte strepitava in ogni parte di grida, giunsero nuove che il conte di Vaux, generalissimo di Francia, era ai 2 di aprile arrivato in San Fiorenzo, e che genti sopra genti, armi sopra armi, nel medesimo porto ed in Bastia ed in Calvi, sbarcava sulla terra corsa, sbarcava grandissimo apparecchio d'uomini valorosi e bene ordinati contro uomini infiammati e cui muoveva piuttosto la volontà propria che la regolata disciplina. La causa della famosa isola era urtata da urto possente, e se non la salvavano le montagne, gli stretti passi e la longanimità di gente povera e al poco contenta, sembrava impossibile che a così grande sforzo reggere potesse. Ai gravissimi avvisi che i Franzesi cotanto ingrossavano la guerra, Paoli insorse, ed a quella estrema pruova gli animi dispose e le armi. Già si vedeva che se una forza soprabbondante il chiamava a ruina, non da vile, ma da forte perire voleva, e volta la mente alla posterità, nella posterità si consolava. Trasse Paoli fuori il terzo della nazione, ed ordinò che gli altri due stessero pronti al muoversi; i volonterosi compagni schierando e ponendo in ordine a Casinca ed in altri luoghi di frontiera, donde sboccando i Franzesi potevano far impeto. Li raccolse alle insegne; ne fece rassegna e mostra, ed aveano sembianza di soldati provati, non fatti tumultuariamente. In quel momento istesso gli attillati e odorosi vagheggioni delle famose città di Francia e d'Italia marciavano in femminili e molli tresche, e forse dei pecorai di Corsica si burlavano; ma i buoni europei guerrieri ammiravano quelle alte anime, e molti, allettati dal portentoso grido, fra gli altri lord Pembroke, furono presenti alla mostra solenne, ed a quei devoti uomini auguravano sorte felice. Dall'altra parte il capitano franzese che voleva essere mutatore di quello stato, uscito ancor esso a campo fuori di Bastia, aveva raccolto i suoi sulla spiaggia di San Nicola, e gli andava ordinando alle vicine battaglie. Stupivano che rozzi paesani si fossero posto in animo di resistere ad una Francia. Grande arte, grande perizia mostrò de Vaux. Allievo di Maillebois, e, come egli, esercitato nelle guerre di Corsica, i luoghi sapeva, e conosceva le forti e le deboli parti del nemico. Reggeva meglio di ventidue mila soldati, ben provveduti d'ogni cosa alle militari fazioni confacente, e più ancora di coraggio. Accampossi col grosso dell'esercito ad Oletta, colla sinistra appoggiata alla bassa Tuda, e colla destra, distendendosi verso la regione più piana, accennando a San Fiorenzo. Le due ali erano, l'una sotto il governo del marchese di Arcambal, che teneva la destra, l'altra dal conte di Marbeuf, che stava sulla sinistra, quella per ispazzare il paese verso le parti superiori del Nebbio, questa per sottometterlo dalla parte di Borgo e Mariana verso la costa marittima. Una schiera appartata, retta dal signor di Narbona, aveva posto l'alloggiamento a Monte Nebbio, vicino a Borgognano, per tenere in freno i Corsi dell'Oltremonte. Col medesimo intento un altro corpo col marchese di Luker stava a sopraccapo di Montemaggiore, Calenzano e Rapalle per fare che i Corsi della Balagna accorrere non potessero in aiuto di Paoli. I Corsi, disposti a mettersi alla stretta dei fatti d'armi, s'erano ordinati a fronte dell'esercito franzese di maniera che sulla sinistra loro, partendo da San Pietro, San Gavino e Sorio, terre del Nebbio, e procedendo verso la destra, si distendevano, passando per Olmetta, fino a Borgo in poca distanza da Mariana. Il principale loro sforzo era in Olmetta, ed era creduta il più stabile fondamento della loro resistenza una catena di monti, le cui sommità avevano con trincee ed artiglierie fortificate, e che corrono da Val di Bervinco al monte Tenda. Paoli ed il suo fratello Clemente alloggiavano in Murato, punto medio di tutta la circonferenza, e che avevano voluto fortemente presidiare, perchè di là potevano vedere, sopravvedere e provvedere subitamente quanto occorresse. Saliceti, Cottoni, Serpentini ed altri valorosi capi li secondavano chi sull'ala destra e chi sulla sinistra. E a questo modo i due campi nemici stavano a petto l'uno dell'altro. De Vaux conosceva che, per meglio dispensare l'ordine della guerra, e più facilmente rompere il renitente nemico, fosse maggior profitto salire sino a Corte, perchè essendo quella città metropoli del regno, e situata verso i sommi gioghi, fra il Cismonti e l'Oltramonti, l'acquistarla avrebbe dato, siccome giudicava, spavento ai Corsi, e nel medesimo tempo procurato facilità per iscendere nell'Oltramonti sopra Aiaccio. A questo aveva fermo l'animo ed indirizzava i suoi pensieri; ma per condurgli ad effetto, aveva a fare con Corsi, con fiumi e con montagne, se non che il confortavano l'animo suo forte, l'uso di guerra che aveva ed il valore de' suoi soldati. Andando il dì 5 di maggio, si moveva alla fazione, ed in cotal modo il fece. Principale suo intendimento era di guadagnare le alture di San Nicolao, donde, si accenna sulla sinistra a Bigorno, e quindi al basso Golo sulla destra al monte Tenda, superato il quale acquistava l'adito a Ponte Nuovo sul Golo, e più lungi, passato il fiume, a Corte. Credeva che per questa via il nemico fosse più agevole ad essere fracassato. Ordinò primieramente, per tenerlo in inganno di quanto ei volesse fare, che Arcambal e Marbeuf, colla parte delle genti che avevano in custodia, facessero un gran tempestare sulle due estremità. Stimando poi che i Corsi accampati a Sorio, San Gavino e San Pietro potessero, infestando l'ala destra, turbare i movimenti ed interrompere le strade per San Fiorenzo, aveva dato ordine che sui luoghi più opportuni si assettassero fortificazioni estemporanee e si munissero d'artiglierie. Così fatto come pensato, De Vaux, parendogli ormai che il tempo fosse da spenderlo in operare, ed esplorato bene l'inimico, andava all'esecuzione del suo disegno. Ognuno fece il debito suo virilmente e combattessi con molta gara. I Corsi, dato mano alla difesa, contrastarono con sommo valore: i Franzesi con non minor valore gli assaltarono. Stette alcun tempo dubbia la fortuna; ma finalmente prevalse la disciplina al combattere incomposto, e l'onore delle insegne all'amore della patria. De Vaux percosse finalmente con tal impeto nel nemico che lo cacciò da Olmeta, lo cacciò ancora da Vallecalde, ed in fine accostassi a Murato. Mentre le cose in tal fortuna si governavano da Vaux, Marbeuf combatteva felicemente anch'esso. Impadronitosi di Borgo e d'Ortale, e passato co' suoi cavalli il fiume, quasi tutta occupava la Casinca. Murato stesso non resse alla forza franzese, e i due Paoli, quantunque con costanza quasi sovrumana contrastato avessero, erano rimasti perdenti, e furono stretti a ritirarsi, pervenendo a Rostino non senza disegno e speranza di poter ristaurare la fortuna cadente, poichè i Corsi più dispersi che distrutti tendevano a raccozzarsi, ed i luoghi erano ardui a passarsi pei Franzesi. I vincitori riuscirono, secondo il desiderio loro, a San Nicolao, tutto il Nebbio e tutto il paese sino al campo di San Nicolao restando sottomesso alle armi della Francia. Non vi fu nè indugio nè quiete, volendo il Franzese usare l'impressione prodotta dalla vittoria. Marciò sopra Leuto velocemente, e il prese non ostante che i Paolisti acremente gliene contrastassero l'acquisto. I soldati spediti e presti di de Vaux pervennero fino a Pontenuovo. Non era compita la prosperità, se non isloggiava il nemico dalla foce di san Giacomo, perciocchè questo passo situato fra mezzo le cime del monte Tenda signoreggia dall'alto la Pietralba e la valle d'Ostriconi, ed è stimato la chiave della provincia di Balagna. I Corsi, che conoscevano l'importanza di quel sito, con ogni estremo sforzo il difesero, nè cessero se non quando, ingrossati oltre misura i Franzesi sopravanzarono talmente di forze, che non più coraggio, ma temerità, anzi follia sarebbe stato il più lungamente contrapporsi. I vincitori già si scagliavano correndo contro Sorio e San Pietro, quando uno scoppiar d'archibusi ed un fischiar di palle, che d'ogni intorno dalle rocce e dai boschi uscivano, li fece accorti che i Corsi avevano ripreso animo e voleano ricuperare quella fatale bocca di San Giacomo. Ma i Franzesi con tanta forza si spinsero innanzi, che, rendendo vano lo sforzo del nemico, se la conservarono. Non erano ancora al fine delle loro fatiche in questa parte, perchè i tenaci isolani si raccozzarono novellamente in numero di tre mila, e assaltarono, sempre a quell'importante sito accennando, con incredibile vigoria i Franzesi, cui in quel luogo reggeva il signore Durand d'Ogny. I fieri seguaci della testa di Moro si vedevano con mirabile intrepidezza salire le ripide balze esposti al furioso bersaglio del nemico, e noiati massimaniente dalle artiglierie che gl'imberciavano, e ad ogni momento squarciavano e straziavano le membra loro. Non timore, non esitazione mostrarono: superate le più ardue ripe, s'aggrappavano alle radici delle trincee franzesi, e si affaticavano di salirvi sopra: la rabbia loro era immensa; appiè delle trincee sorgevano monti dei loro corpi estinti. D'Ogny ostava tuttavolta con tutto il valore e tutta l'arte d'un ottimo guerriero, ma sarebbe in fine dalla furia corsa rimasto sforzato, se Arcambal, e Viomenil, e Boufflers, e Campenne non fossero accorsi a prestissimi passi da San Nicolao e da altri luoghi circostanti per aiutarlo. Tanti rinforzi ed un furioso urto dettero perduta la speranza ai Corsi di poter espugnare quel sito, e gli sforzarono finalmente a dare indietro non senza maraviglia da' Franzesi stessi concetta dell'estrema bravura degl'isolani. Fu questo uno dei più grossi cimenti a cui vennero nimichevolmente fra di loro l'armi franzesi e corse. Ma uno più feroce ancora si apprestava da cui pendeva la terminazione del litigio ed il destino dell'isola. Paoli, che ancora era potente in sui campi, s'era ritirato in Bostino, dove col vivido pensiero andava immaginando modo di far risorgere la fortuna che inclinava. Vennero chiamati di suo ordine sotto la condotta del Saliceti ad unirsi con lui mille buoni soldati di quelli che, non avendo potuto ostare in Casinca a Marbeuf, s'erano tirati indietro verso il monte Sant'Angelo e Sant'Antonio della Casabianca; e stimando che fosse meglio assalire che l'essere assalito, sboccò per Ponte Nuovo, varcando alla sinistra del Golo, e con quante genti aveva potuto congregare s'ingegnava di allargarsi a destra ed a sinistra. Suo divisamento era di arrampicarsi su per le balze che ivi costeggiano il fiume, e guadagnare le cime dei monti che, continuandosi ed innalzandosi verso Lento, aggiungono più su a Costa ed a Canavaggia, e sono attinenti al monte Tenda ed alla bocca di San Giacomo. Pericoloso riusciva il pensiero pei Franzesi, attesochè, se Paoli avesse ottenuto l'intento, gli avrebbe da quella bocca cacciati, ed acquistato facoltà di tagliar fuori la loro ala destra, e, per conseguenza, di ferirli per fianco. Già era sulle alture pervenuto, già arditissimamente combattendo aveva superato Lento, e battendo s'incamminava alla volta di San Nicolao e di Murato superiore. Se altra colonna da lui mandata ad assalire Canavaggia avesse incontrato il medesimo successo, il suo accorto pensiero avrebbe avuto effetto; ma essendosi il nemico fatto forte in Canavaggia, i Corsi da questa parte si sforzarono indarno. Questo fatto di Canavaggia diede la guerra perduta ai Corsi. Là cadde la fortuna di Corsica, là tutte le fatiche di Paoli diventarono vane, e là franzese la Corsica divenne. I Franzesi l'aura che spirava favorevole a piene vele ricevendo, si calarono precipitosamente da Canavaggia, e occuparono Pontenuovo, insigne scaltrimento di guerra. Caso fatale ai miseri Corsi fu questo, perciocchè gli scesi da Canavaggia investirono sul sinistro fianco coloro che con Paoli s'erano condotti a Lento, ed intieramente gli sbaragliarono e sbarattarono. Tanto più grave fu lo scompiglio e la fuga, che sparse fra di loro la spaventosa voce, ed era vera, che Pontenuovo era in poter del nemico, e che più niuno scampo restava a chi combatteva sulla sinistra del male avventuroso fiume. Paoli, che aveva munito di qualche fortificazione la testa del ponte sulla destra, arrivato fra mille e varii pericoli sul luogo, tentò bene di racquistarlo, ma fu sbattuto da quel suo sforzo, e gli venne fallito il pensiero. I Corsi assaliti inaspettatamente sul fianco ed alle spalle, non sostenuta la impressione del nemico si precipitarono verso il ponte per ripassarlo; ma, invece del varco aperto, il trovarono chiuso, ed i Franzesi che con le baionette in canna li trafiggevano. Miserabile fu quell'orrendo mescolamento, miserabile lo scempio fatto degli scompigliati: i più furono morti, non pochi si annegarono nel fiume, avendo tentato di scampare per questa via dall'empito della Francia vincitrice; alcuni tra sani e feriti si nascosero fuggendo nei boschi, fra le roccie e per le folte macchie. Quattro mesi dopo il ferale evento si vedevano ancora le gocce del sangue rappreso sul funesto ponte; scoprivansi qua e là per le campagne Corsi morti di ferite, e che meglio avevano amato perire abbandonati dagli uomini e dalla fortuna che ricorrere per salute ad un nemico che tanto detestavano. Quattro specialmente di questi miseri e forti guerrieri furono sopra una deserta roccia trovati tutti sanguinosi e morti in atto di tenersi strettamente abbracciati, atto certamente preso a posta per dare insieme l'ultimo sospiro e l'ultimo respiro alla perduta patria. Nel tempo stesso che queste cose succedevano nel mezzo, Marbeuf, varcato coll'ala sinistra il Golo, sottometteva tutta la Casinca, ed Arcambal sulla destra conquistava la Balagna. In mezzo a tanta ruina, Paoli, lasciato il fratello Clemente a Morosaglia, perchè quanto potesse ritardasse l'impeto, si ridusse vicino a Corte, dove tentava di raccorre e riordinare i pochi avanzi delle sue sconfitte genti; nuovi aiuti eziandio per sua possa convocando. Ma de Vaux, che non voleva temporeggiare quella fortuna, ma piuttosto colla celerità del tutto domarla, venne avanti precipitoso, ed, appressatosi a Clemente, il cacciò di Morosaglia, e cacciò eziandio Pasquale da Corte; laonde questa famosa metropoli venuta in mano altrui, il castello solo resistette, ma per pochi giorni, e quegli aspri monti tutto all'intorno di forestieri suoni echeggiavano. Paoli, più ancora doloroso che scoraggiato, si ritirò di Vivario. De Vaux, che aveva saputo vincere, seppe ancora usare bene la vittoria. Per tirare a sua voglia i renitenti, usò bene le parole, usò bene i fatti. Con quelle, mandate fuora per un bando pubblico, minacciò con castighi, allettò coi perdoni col fine di rompere qualche testa di resistenti, se ancora alcuna ve ne rimanesse. Queste minacce contro chi ancora alla fortuna di Francia resistere volesse, le lusinghe a chi si arrendesse, giunte alla fatale rotta di Pontenuovo, operarono sì che i popoli cominciarono a mancare della prima caldezza; e vedendo di non poter più fare alcuna cosa buona, si misero a fare tumultuazioni in ogni luogo, protestando di volere conformarsi ai desiderii di chi più poteva, e di cercar ricovero nel grembo della Francia. Molti correvano alle stanze dei generali franzesi, certificandoli della loro sommissione ed obbedienza; altri, più oltre procedendo, e combattendo coll'armi in mano i loro cittadini, crescevano potenza a chi già tanta ne aveva e per sè medesimo e per la vittoria acquistata. Così gli odii domestici si aggiungevano agli esterni, e la civil guerra alla forestiera. In mezzo a tanta desolazione, e ricevuta una così spaventevole ruina, i Corsi fecero ancora qualche resistenza nell'Oltramonti, principalmente nella provincia di Vico e nella Conarca; ma il conte di Narbona, accorrendo con sufficienti forze, dissolvette quel gruppo, e le provincie soprannominate, come anche quella di Aiaccio, ridusse a devozione. Nel Cismonti de Vaux stesso personalmente si avanzava vincendo. Fece sua la provincia d'Alesin, e già s'incamminava a Portovecchio, non solamente per sottomettere il paese, ma ancora, e principalmente, per intraprendere Paoli e gli altri Corsi fuggitivi, essendogli pervenuto avviso, che fossero per imbarcarsi in quel porto per far vela verso la Toscana. Desiderava Paoli di far prova di sostenere la fortuna cadente con mostrare il viso, facendosi forte nelle due streme provincie d'Istria e della Rocca. Ma non trovando nelle popolazioni volontà conforme a' suoi desiderii, e giunta essendo la piena franzese sino a Bonifazio, ultima parte dell'isola che di poco spazio dalla Sardegna si disgiunge; la Corsica fu di Luigi. Paoli ed i suoi compagni, poichè si videro perduti e la patria sommessa, nè sperando nè volendo i perdoni e le grazie, presero consiglio di concorrere tutti a Portovecchio, dov'erano due navi inglesi, una per disegno offerta a Paoli ad ogni futuro accidente da un virtuoso inglese per nome Smith, l'altra a caso, che portato aveva molti ufficiali corsi, i quali erano venuti offrendo ingegno e mano in quell'ultimo bisogno alla patria cadente. Queste due navi furono opportuno sussidio ai Corsi che all'esilio andavano. Ma non era senza pericolo l'impresa dello scampare. Due sciabecchi franzesi stanziavano alla bocca del porto, facendo le viste di voler trattenere ogni nave o navicella che uscisse. Tutti principalmente gelosi di salvare Paoli, l'Inglese generoso non aveva pace se prima non lo salvava. La necessità ed i pii desiderii aguzzano l'intelletto: gli amici dell'andantesi capitano trovarono modo di adattarlo in una cassa, che collocarono in fondo della sentina, come se merci contenesse. Paoli in sentina e in cassa fu un tremendo caso. La mattina del 15 giugno questa nave salpò da Portovecchio, lo strano e prezioso carico con sè portando, e quelle luttuose terre abbandonando. Riconobbero i Franzesi il legno, e in ogni canto il frugarono. Qual cuore fosse allora di Paoli e dell'Inglese che a sua salute intendeva, ognuno il comprenderà; ma, non avendo avverato che vi fosse il cercato Corso, nè trovatasi alcuna cosa sospetta, nol molestarono e lo lasciarono andare. L'altra nave, che non fu da' Franzesi investigata, portò via Clemente Paoli, Giulio Serpentini, Giancarlo Saliceti, Nicodemo Pasqualini, conte Gentili, Carlofrancesco Giafferri, Carlo Raffaelli, Francesco Petrignani, con molti altri uffiziali, preti, religiosi e pochi soldati; in tutti sommavano al numero di trecento quaranta. Esuli arrivarono a Livorno, ma ve gli accolse la pietà e l'ammirazione. Guardavano principalmente Paoli, e vedutolo e trattatolo così benigno, si maravigliavano come in lui annidasse così prode guerriero; e bene ora comprendevano come egli avesse voluto e quasi potuto dirozzare una nazione ancora rozza, e addottrinarla ignara. Mancando per avverso destino a Paoli gli applausi de' suoi concittadini in patria, gli abbondavano in Italia quelli dei Toscani, degl'Inglesi, anzi de' Franzesi stessi. Andò dal cavaliere Dick, console d'Inghilterra a Livorno, il quale a grande onore l'accolse, e l'aiutò d'ogni più lieto ed utile servigio. Partitosi quindi e pervenuto a Firenze, fece riverenza al granduca Pietro Leopoldo, da cui molto fu ed accarezzato ed onorato, e gli promise ed accertollo, che la sua Toscana gli sarebbe sempre amico e sicuro ricovero tanto a lui quanto a tutti coloro che sopravvivendo all'eccidio della patria, sarebbero venuti a cercarvi pace, riposo e sicurezza. Paoli partissi, e se ne andò a Londra, non senza però aver prima lasciato, sugli avanzi dell'andata fortuna e su altre rimesse che aspettava da Inghilterra, un assegnamento sufficiente a favore dei suoi compagni che in Toscana aveano fermato le stanze, facendone soprantendente suo fratello Clemente. Terminata la conquista, e ricomposta tutta l'isola all'obbedienza di Francia, il generale de Vaux ne partì, lasciandovi Marbeuf, a cui il re Luigi, dandogli il titolo di commissario regio, aveva commesso la cura di quietare gli umori, comporre le faccende civili ed ordinare il governo in quella nuova possessione. La Francia, divenuta arbitra della isola, per conciliarsi gli animi e tenere in fede quella nazione volubile, guerriera, e che malissimo volentieri pativa la servitù, die' principio ad accarezzarla. Sapeva che una delle principali cagioni per cui gli uomini di maggiori qualità, che poi tirarono con sè i popoli, avevano concetto tanto mal umore contro Genova, si era, ch'essa non aveva mai voluto riconoscere in Corsica una nobiltà, se non al modo ch'essa l'intendeva, e non come i magnati corsi la desideravano, essendo a questi paruto che la repubblica volesse una nobiltà di grado troppo inferiore alla sua. Per la qual cosa uno de' primi pensieri di Marbeuf, affinchè i Corsi ricevessero più volentieri l'imperio di Francia, fu quello di pubblicare un editto del re, per cui si statuiva che sarebbe in Corsica una nobiltà, e si numeravano le pruove che occorreva di fare a ciascuno che di lei voleva essere parte, e vago si dimostrava di essere donato della gentilizia. Presentarono i titoli, e le principali famiglie furono ascritte a nobiltà; soli esclusi i discendenti di Michelangelo, Gianantonio e Francesco Ornano, che avevano a tradimento ucciso il tanto amato Sampiero; esclusione richiesta da tutti gli altri che alla nobiltà aspiravano, e che lor fece altissimo onore. Murbeuf, a termini delle lettere regie, convocò in Bastia pel 25 settembre 1770 l'assemblea della nazione. Volle il re che tanto in questa, quanto in quelle assemblee che in avvenire convocherebbe o permetterebbe, intervenissero i deputati divisi in tre ordini o stati, quello della Chiesa colla prima preminenza, quello della nobiltà colla seconda, e quello del terzo stato nell'ultimo luogo. Volle eziandio ed ordinò che i deputati ecclesiastici, oltre i vescovi, gli eletti de' capitoli ed i provinciali degli ordini religiosi de' serviti, degli osservanti, de' riformati, dei cappuccini, de' domenicani, de' missionarii, fossero eletti da pievani raccolti in assemblea di ciascuna provincia; que' della nobiltà in simili assemblee da' nobili, e que' del terzo stato pure in simili assemblee da' podestà e padri de' comuni. Diremo qui, per non dirlo altrove, che i deputati congregati in parlamento il giorno predestinato udirono primieramente gratissime parole da Marbeuf, enumerando i benefizii che intendeva di fare, sì che i Corsi, solo che il volessero, pervenire potevano a qualunque maggiore grado di felicità e di dignità, di cui le più nobili nazioni si vantano, e pregando ed ammonendo adunque che cessassero gli odi e le divisioni, e pensassero e considerassero che non più piccoli isolani da tutto il mondo segregati, ma erano parte d'un tutto, grande, possente, glorioso: e terminava che assai si rallegrerebbe e nel cuor suo godrebbe, se innanzi al re Luigi dire potesse: «I Corsi la corona di Francia amano, ed al benigno loro signore grati e riconoscenti sono.» Quando Marbeuf ebbe posto fine al suo discorso, i Corsi giurarono in nome del re. Toccando gli Evangeli, giurarono di essere bene e fedelmente sottomessi al re di Francia, di riconoscersi per suoi veri e legittimi sudditi, di non mai portar l'armi contro il suo servizio, di non ricevere nè doni nè pensioni di alcun altro principe e potenza nemica del re, di rivelare quanto a cognizione loro venisse contro del servizio regio, di obbedire a chi mandasse per reggere ed amministrare l'isola. Seguitarono gli statuti, regolaronsi prudentemente le faccende economiche, giudiziali, militari, ecclesiastiche, queste ultime per quanto riguardava la giurisdizione rispetto alla potestà temporale. Nè fu posta in dimenticanza l'università di Corte, fondata da Paoli, di cui la consulta domandò la conservazione. Si udirono poscia le domande delle province, delle pievi, de' comuni, savie per la maggior parte e tutte amorevolmente udite. Addomandarono specialmente che fosse permesso di stendere gli atti in italiano, e di procedere avanti i tribunali nella medesima lingua materna e naturale dell'isola. Fu risposto che quanto al presente il facessero pure, ma desiderare il re che la lingua franzese divenisse famigliare ai Corsi, com'era agli altri sudditi, e la consulta ne prescrivesse il termine. Intanto i nuovi signori munirono di nuove fortificazioni Calvi e Bastia, acciocchè i Corsi, avendole come un freno in bocca, non si rimutassero d'animo, e non potessero più ravvolgersi, come pel passato, fra i tumulti e le rivoluzioni. Le cose si avviarono in ogni luogo alla franzese; e in questa guisa finì la iliade della Corsica. In quest'anno, la notte tra il 2 e il 3 febbraio, passò da questa vita agli eterni riposi Clemente XIII. Era questo pontefice fornito delle doti più degne della tiara; intenzioni pure, una pietà sincera, una carità ardente, i primi anni del suo pontificato non sono soggetti a rimproveri nè indegni d'encomio; e se a questi non corrisposero pienamente gli ultimi suoi anni, coloro che si fecero a biasimarlo attribuiscono la variazione della sua condotta a' consiglieri differenti che lo diressero. Trattavasi di eleggere il successore di Rezzonico; il che non era di facile esecuzione. Gli Spagnuoli davano l'esclusiva a tutti i cardinali che avevano avuto parte nel breve contro Parma, di cui diremo in appresso, ed erano sedici. Di più, la Spagna non voleva consentire a nissun papa che non fosse per sopprimere la società de' Gesuiti. Choiseul, ministro di Francia, appoggiava con tutta l'autorità del re Luigi la volontà degli Spagnuoli, la qual cosa riduceva la scelta tra cinque o sei, nel numero de' quali erano i cardinali Stopani e Fantuzzi. Ma la partita de' cardinali zelanti, come li chiamavano, che volevano la conservazione di quella società, non consentivamo all'esaltazione nè di Stopani nè di Fantuzzi, perciocchè troppo apertamente s'erano spiegati di volere l'estinzione dei Gesuiti. Il cardinale Ganganelli, quantunque fosse stimato di setta giansenistica, s'era però meno fervidamente dimostrato alieno di que' religiosi, ed alcuni anzi credevano che gli avrebbe conservati. Dall'altra parte i Borboni, che intieramente Ganganelli conoscevano, il portavano come capace di venire alla risoluzione ch'essi tanto desideravano: fu anzi affermato da alcuni, ch'egli avesse dato promessa formale, se papa divenisse, di estinguere la compagnia. Adunque tra per queste cose e pel timore che la noia di star serrati in conclave troppo si prolungasse, cosa che si vedeva virisimile pe' grandi contrasti che vi erano dentro, e perchè la chiusura già da più di due mesi durava, aderendo i cardinali avversi a' Gesuiti, non ripugnando la maggior parte de' zelanti, Ganganelli fu eletto papa il 18 maggio. Dalla quale elezione tutta la cristianità fu eretta a nuova speranza. Amò chiamarsi Clemente, XIV di questo nome. Ma prima di narrare le condizioni della Chiesa, al momento dell'esaltazioe del nuovo pontefice, n'è d'uopo riferire le cose di Parma, delle quali abbiam toccato al chiudersi del precedente anno. Filippo, duca di Parma, Piacenza e Guastalla, a cui consigliava Guglielmo Dutillot, sendosi accorto che per gli acquisti fatti dalle mani morte per quelli che ogni giorno andavano facendo, e per quelli finalmente che, quantunque ancora pendenti, fossero in possessione altrui, dovevano col tempo necessariamente in loro ricadere una prodigiosa quantità dei migliori e più fertili terreni de' suoi Stati era e sarebbe sempre più venuta in potestà di simili persone di mano morta, aveva pubblicato, ai 25 d'ottobre del 1764, per provvedere a così grave sconcerto, una prammatica: Che fosse proibito, statuì egli, a qualunque persona di qualsivoglia stato, grado e condizione il vendere, donare, cedere, o in qualsivoglia altro modo trasferire o alienare, nè in proprietà, nè in usufrutto, sia per atto fra vivi o per disposizione di ultima volontà, compresa altra successione intestata, in mani morte beni sì mobili che stabili, luoghi di monte, censi attivi, azioni e ragioni di qualunque somma o valore; Che dal superiore decreto fossero però eccettuati i lasciti limitati alla sola vigesima parte del patrimonio di chi donasse o testasse, con ciò però che il lascito per una sola volta si facesse, e sorpassare non dovesse il valore di scudi trecento di Parma, e fosse in denaro contante, e non altrimenti. Che i crediti appartenenti alle mani morte ed ipotecati su stabili in nissuna altra maniera soddisfare si potessero che coll'obbligare il creditore alla vendita degli effetti ipotecati, ed il ritratto per la somma del credito, se il creditore impiegare lo volesse, si dovesse investire in luoghi di monte delle comunità suddite del ducato; Che fossero vietate le locazioni perpetue od a lungo tempo a favore delle mani morte; Che parimente fossero vietati alle mani morte tutti gli acquisti che ad esse si devolvessero in virtù di livelli, enfiteusi, reversioni, e simili altre cause, e quando ad esse devoluti fossero per antiche disposizioni, si fossero obbligate ad investirgli in persona laica con giusto prezzo di vendita, ed il prezzo investir si potesse in luoghi di monte, restando il possesso del fondo totalmente devoluto presso l'erede dell'ultimo investito col solo obbligo di corrispondere l'antico canone; Che tale legge reggesse non solo le disposizioni da farsi, ma eziandio le già fatte, se non ancora verificate; Che mani morte non fossero riputati gli ospedali degl'infermi e degli esposti; Che le rinunzie da farsi da qualunque persona che volesse professare in qualunque religione, convento, monastero, conservatorio, ritiro o congregazione, o fossero esplicitamente, o quando no, s'intendessero per legge abdicative ed estintive, cosicchè la successione, come se la persona rinunziante non esistesse più fra i viventi, potesse e dovesse passare in chi di ragione si doveva; Che, oltre a ciò, i residui dei livelli o vitalizii riservatisi dai professi non si potessero esigere, e per virtù della legge si riputassero condonati; Che ogni qualunque atto contrario alle disposizioni precedenti fosse irrito, nullo ed in niun modo da attendersi dai tribunali e giudici, e proibito fosse ai notai di rogarlo; riservata però alla suprema autorità del principe la facoltà di concedere esenzioni a chi ricorresse, quando per circostanze particolari il giudicasse conveniente. La raccontata legge dispiacque grandemente alle comunità religiose, e sorto un grave bisbiglio ne' conventi, mandarono le loro lagnanze e ricorsi a Roma. Anche gli ecclesiastici secolari se ne rammaricarono, parendo loro che siccome nel secolo fra i parenti viveano, e fra di loro ed i laici non v'era altra differenza, se non quella ch'essi esercitavano il ministero divino, così ingiusta troppo e dura cosa fosse, ch'ei fossero privati di quei benefizii che la società procura a chi vive nella società. Il duca Ferdinando, che era a Filippo succeduto, pubblicò, rispetto a questi ultimi, cioè agli ecclesiastici secolari, ai 15 di giugno del 1767, una sua volontà, per cui essi furono abilitati a succedere alle eredità dei loro ascendenti e collaterali sino al quarto grado, ed a fare acquisti di beni stabili, di censi, di fitti perpetui e di altri annui redditi, sì veramente che si obbligassero, pei beni di nuovo acquisto, di soddisfare a tutti i carichi pubblici, di non farne alienazione a favore di alcuna mano morta, e di non declinare pei detti beni il foro laicale. Il principe volle altresì che le successioni devolute ai detti ecclesiastici, per disposizione di qualche persona estranea o ad essi congiunta oltre il quarto grado, fossero irrite, e si avessero per nulle e di nessun effetto. La quale irritazione e nullità si intendesse anche estesa agli atti meramente lucrativi ed alle cessioni e donazioni, ancorchè rimuneratorie e corrispettive. Un grave abuso s'era introdotto nell'assetto delle contribuzioni di certi beni ecclesiastici nel ducato di Parma. Certi beni, i quali al tempo della formazione del catasto, per appartenersi a persone laiche, erano stati allibrati e gravati, essendo in progresso di tempo passati in mano di persone e corpi che pretendevano esenzione od immunità, avevano la detta esenzione ed immunità ottenuta. Dal che, fra gli altri inconvenienti, era succeduto quello che la rata delle pubbliche gravezze spettante a tali beni, era andata tutta a cadere sopra i restanti beni accatastati con doppio ed intollerabile aggravio dei possessori; abuso non solamente lesivo dell'equità e giustizia naturale, ma anche contrario alle leggi fondamentali del ducato, secondo le quali trovavasi espressamente prescritto che i beni una volta accatastati passar dovessero col loro carico e colla qualità di tributarii in qualunque persona o corpo, ancorchè immune ed esente per qualsivoglia causa o titolo fosse; legge stata eziandio riconosciuta e confermata dai sommi pontefici Adriano VI, Clemente VII e Paolo III, quando furono signori di Parma e Piacenza. Per ovviare ad un tanto disordine, il duca Filippo, a ciò movendolo sempre il Dutillot, già aveva ordinato, per legge promulgata espressamente ai 13 di gennaio 1765, che quei beni che nei citati catasti, per essere descritti ed allibrati in testa di laici o di persone o corpi sottoposti alla giurisdizione laicale, erano stati obbligati ai carichi pubblici, e che, per passaggi di successione, di donazione o d'altro titolo si ritrovavano allora o per l'avvenire si troverebbero in mano di persone o corpi che pretendessero privilegii, immunità ed esenzioni, dovessero aversi e si avessero per tributarii ed alle gravezze pubbliche così ordinarie come straordinarie sottoposti, come se tuttora si appartenessero ai rispettivi loro autori, in testa dei quali stati erano descritti ed allibrati. Nel medesimo tempo però il principe volle che restassero immuni ed esenti i beni che negli ultimi catasti erano stati descritti ed allibrati con privilegio di esenzione ed immunità in favore delle chiese o di altre opere pie ecclesiastiche. Dichiarò inoltre immuni ed esenti tutti i patrimonii semplici, non solo già costituiti, ma anche da costituirsi in avvenire a favore degli ecclesiastici secolari promossi e da promuoversi agli ordini sacri, purchè non eccedessero i limiti della tassa sinodale da verificarsi innanzi i tribunali. Perchè poi quanto aveva ordinato con maggiore esattezza sortisse il suo effetto, il duca creò un'intendenza sovrana, sopra i luoghi pii e sopra tutti i corpi cadenti sotto il nome di mani morte; uffizio del qual magistrato era di sopravvedere e provvedere che la volontà del principe fosse eseguita. Nè alle narrate deliberazioni si rimasero i pensieri del Dutillot e del duca di Parma. Avevano i popoli supplicato al duca, e pregatolo di far considerazione quanto restassero offesi dalla soverchia libertà per cui si traevano fuor del dominio, e specialmente nelle curie di Roma, i litigii così dei secolari come degli ecclesiastici. Lamentavansi i popoli parimenti, ed al duca supplicarono, perchè vi rimediasse, che i benefizii e le pensioni ecclesiastiche dai diplomi romani si dessero a persone straniere con esclusione degl'indigeni; dal qual abuso segnatamente venivano a sentir danno moltissime chiese parrocchiali, anche quelle che rendite sufficienti per sè medesime non avendo pel decente esercizio del culto divino, erano sovvenute dalle liberalità dell'erario pubblico. Le quali cose e supplicazioni bene considerato dal duca Ferdinando, ed avutovi riguardo, pubblicò, ai 13 di gennaio 1768, un editto, per cui comandò che, senza averne prima ottenuto il sovrano beneplacito, nissun suo suddito, o mediato o immediato, o secolare o ecclesiastico, o collegio od università, compresi i conventi e le famiglie religiose dell'uno e dell'altro sesso, senza la menoma eccettuazione, si ardisse di trarre o di esser tratto a contestare e sostenere, in qualunque grado d'istanza, liti giudiziali in alcun tribunale estero, compresi anche quelli di Roma, per qual si fosse causa, anche ecclesiastica e relativa a beni, ragioni, diritti e preminenze di qualunque sorte; Che nissuno nemmeno si ardisse, senza il mentovato beneplacito, di ricorrere a principi, governi e tribunali esteri, nè per ragione di beni, azioni, preminenze e diritti di qualunque sorta, nè per conseguire ne' suoi Stati benefizii, pensioni ecclesiastiche, commende, dignità o cariche con annessa giurisdizione di qualunque grado o prerogativa; Che i benefizii ecclesiastici curati e non curati, compresi anche i concistoriali, le pensioni, abbazie, commende, dignità e cariche di annessa giurisdizione, qualunque fossero, non potessero conseguirsi che da sudditi nazionali, e ciò ancora nemmeno senza il previo beneplacito dell'autorità sovrana; Che senza la regia permissione dell'esecuzione nissun giudice o tribunale, tanto laico quanto ecclesiastico, s'ardisse di eseguire qual si volessero scritti, ordini lettere, sentenze, decreti, bolle, brevi e provvisioni di Roma, e di qual si fosse podestà o curia estera; Che qualunque atto contrario alla presente sovrana disposizione che da qualche disubbidiente venisse fatto, fosse irrito e nullo e da aversi in nissuna considerazione, con ciò eziandio che i disubbidienti fossero severamente puniti anche in via economica, per la loro disubbidienza verso le principali massime di buon governo e le più rilevanti leggi dello Stato. Un complesso di tali leggi e provvisioni in un breve corso d'anni accettate e promulgate nel ducato di Parma e Piacenza dimostravano evidentemente quanto quel governo fosse risoluto a sradicare gli abusi che in materie giurisdizionali e nelle disposizioni regolatrici dei beni e delle persone ecclesiastiche erano trascorsi. Ma queste erano percosse fatali all'autorità romana, e di tanto maggior rammarico quanto che le medesime deliberazioni andavano prendendo piede, e già l'avevano preso in altri Stati, non che dell'estero, dell'Italia, e pareva che fosse una tempesta che si volesse allargare in ogni luogo. In termini difficili il pontificato si trovava; la resistenza lo metteva in necessità di usare mezzi che l'opinione di molti riprovava, e niuna cosa reca più grande pregiudizio ad una podestà, qualunque ella sia, che fare deliberazioni non obbedite. Dall'altro lato, il non fare risentimento accennava che esso abbandonasse quelle massime che per tanti secoli aveva seguitato. A tale estremo passo gli era mestieri di fare scelta tra il procedere pieghevole e prudente di Benedetto ed il fare rigido ed inflessibile di alcuni altri papi. Clemente XIII non era di natura intrattabile, e sarebbesi forse inclinato od a qualche concessione od almeno a qualche mezzo termine di conciliazione; ma troppo fu e consigliato e sollecitato ad opporre il pontificale petto, ed a farsi forte contro di questa nuova tempesta. Adunque, ai 20 di gennaio dell'anno scorso, il papa pubblicò la sua sentenza, e contro i commettitori di quanto era contrario alla immunità ecclesiastica ed ai diritti legittimi della sedia apostolica usò l'armi pontificali. Toccate primieramente tutte le disposizioni del duca che giudicava contro i diritti e le immunità della Chiesa, e reso conto dei mezzi di pacificazione da lui inutilmente usati; investendosi della sua pontificale autorità, scriveva che poichè speranza più non v'era di stornare con la pazienza e la dolcezza i colpi terribili intentati all'autorità della santa Sede e della Chiesa, credeva essere giunto alla fine quel tempo, in cui egli vendicar doveva le libertà ecclesiastiche così violentemente offese affinchè nissuno potesse dargli la taccia d'aver tradito il suo dovere. Dichiarava pertanto nulli, di niun valore, temerarii ed abusivi i sopraddetti atti, decreti, editti, prammatiche, come usciti da mano di persone che non avevano nissuna autorità di formarli. Dichiarava egualmente nulli e di niun valore tutti quelli che dalle medesime persone in avvenire uscire potessero; proibiva finalmente a' suoi venerabili fratelli ai vescovi di quei ducati, ed a qualunque altro di conformarvisi. Oltre a tutto questo, posciachè ad ognuno era notorio che tutti quelli i quali avevano partecipato nella formazione, pubblicazione o esecuzione delle ordinanze medesime, erano incorsi in tutte le censure ecclesiastiche, così dichiarava che da queste censure non potessero essere liberati, nè riceverne l'assoluzione, eccettuati i casi di pericolo di morte, se non da lui stesso, o dal pontefice che dopo di lui sedesse. Dichiarava altresì che, a volere che l'assoluzione data in pericolo di morte fosse salutare e valida, era condizione indispensabile che, passato il pericolo, gli assolti ritrattassero e disfacessero quanto avevano fatto di attentatorio alle immunità ecclesiastiche; le quali cose non facendo, rimarrebbero alle medesime pene sottoposti. Voleva finalmente che, siccome era notorio che le sue presenti pontificali lettere incontrerebbero pur troppo delle difficoltà, per essere pubblicate ed affisse con sicurezza negli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla, le pubblicazioni fatte nei luoghi soliti di Roma annodassero quelli ai quali appartenevano, come se fossero loro state nominatamente e personalmente intimate. Parlossi altamente e fecesi un rumore grande pel mondo cattolico, così delle risoluzioni del duca di Parma, come del monitorio del papa; ed in mezzo ai molti discorsi, il duca Ferdinando, confortato dal Dutillot, primieramente con suo editto del 13 di marzo 1768 proibì severamente il monitorio in tutti i suoi Stati. Poi a dì 6 del seguente aprile presentò, per mezzo dei ministri delle tre corone di Francia, Spagna e Due Sicilie, al papa una rimostranza de' suoi ministri, in cui e contro la pontificia decisione protestava, e, le sue ragioni adducendo, dimostrava che le prammatiche e gli editti, di cui si trattava, avevano fondamento nel diritto sovrano e nella incontrastabile utilità dello Stato. S'infiammarono dall'una parte e dall'altra gli spiriti. Uscirono alla luce scritti moltiplici, alcuni in favore di Roma, molti in favore di Parma. E siccome il papa, nel principio del suo monitorio, aveva chiamato col nome di _suoi_ i ducati di Parma e Piacenza, si riandarono le antiche cose, per conoscere quale fosse o non fosse la sovranità della Sedia apostolica su di quella bella e doviziosa parte d'Italia. Questi sostenevano che Parma e Piacenza fossero anticamente parte dell'esarcato, e, per conseguenza, devolute con le altre città di quell'antico Stato alla santa Sede; che i pontefici le avevano senza contrasto possedute come vere e legittime possessioni della Sede medesima; che i trattati posteriori, per cui s'erano variate le sorti delle due città e date in mano di altri lignaggi principeschi non avevano potuto cambiare la natura delle cose, nè aver la Sede apostolica mai consentito alle mutazioni di signoria, ma anzi sempre protestato contro le medesime. E venendo alle disposizioni del duca Ferdinando contenute nelle prammatiche ed editti, dei quali si contentava il merito, dicevano essere evidente ch'essi avevano posto la falce nella messe altrui, ed intaccato enormemente i diritti della potestà ecclesiastica. Se v'era abuso, esclamavano, non avere mai Roma ricusato di darvi riparo coi principi secolari intendendosi, nè esser ella per ricusare; ma essere nel tempo medesimo evidente che l'utilità e nemmeno la necessità non danno il diritto, e che quando il mandato non c'è, tutto quello che si fa è irrito, invalido e nullo, nè fare si può senza ingiuria di colui al quale il fare si aspetta; se la contraria dottrina prevalesse, si turberebbero tutte le giurisdizioni e il mondo ritornerebbe nel caos, e la umana società si dissolverebbe. I difensori di Parma non se ne stettero oziosi, e pubblicarono parecchi scritti, fra i quali si notarono principalmente quelli di Giambattista Riga, Piacentino, avvocato fiscale del duca. Del supremo dominio parlando, asserirono che non mai la santa Sede l'aveva posseduto, e che era favola di menti o non sane o ignoranti o bugiarde il pretendere che Parma e Piacenza fossero anticamente membri dell'esercato di Ravenna, perciocchè era notorio che furono sempre città soggette ai Lombardi, o libere colle proprie leggi, o appartenenti al ducato di Milano. Quanto alla immunità ecclesiastica, i difensori del duca allegavano che quanto è vero che il governo della Chiesa in ciò che riguarda le cose meramente spirituali è ed esser deve libero e independente dall'autorità temporale; tanto da un'altra parte è certo che la potestà che la Chiesa esercita sopra alcune cose temporali, come sono appunto i beni della terra e le eredità e le successioni, è una concessione de' principi, che essi possono o modificare o regolare, od anche sopprimere, quando ciò per l'utilità dello Stato fosse richiesto; e citando a sostegno dello loro opinioni santo Agostino, san Girolamo, santo Ambrogio, continuavano a dire che nuova non era nella Chiesa la prammatica del duca, e che esso non aveva fatto altro che imitare altri principi, e queglino stessi dei quali la Chiesa sommamente si lodava. A questo modo gareggiavano fra di loro e si davano l'un l'altro molte brighe la corte Romana ed il duca di Parma; ma nissun di loro si dipartì dalle prese risoluzioni, e tanta fu la prudenza del governo del principe secolare, che nissun grave inconveniente nacque nel ducato per l'interdetto messo sopra gli esecutori della sua volontà, nè pure originandosi quelle turbazioni di alcuni ordini religiosi che parte contristarono, parte sdegnarono Venezia ai tempi del suo interdetto. Con tanta maggior franchezza il duca procedeva in questa bisogna che le altre corti borboniche, le quali per un trattato del 1761, che chiamarono il patto di famiglia, s'erano fra di loro collegate ad ogni bene e ad ogni male, ed a conformità, anzi unità di consigli, avevano preso focosamente a favorirlo. In fatti, non così tosto il monitorio del papa era pervenuto a loro notizia, non si contentarono di sopprimerlo ne' loro Stati, ma richiesero fortemente il papa della sua rivocazione, la quale non avendo potuto ottenere, vennero finalmente a determinazioni più rigorose e più efficaci. Il re di Francia, come si è già detto al finire dell'anno precedente, fece occupare da' suoi soldati, condotti dal marchese di Rochechouart, la città di Avignone ed il contado Venosino; poi mandò commissarii del parlamento di Provenza a prenderne possessione in suo nome, e ricevere il giuramento di fedeltà, come di paese già annesso alla sua corona, dai consoli, sindaci ed abitanti. Dal canto suo il re di Napoli pose le mani addosso nel medesimo modo a Benevento, mandandovi soldatesche e commissarii, e diceva che Benevento era suo, come il re Luigi d'Avignone e del contado affermava. Siccome poi ai Borboni non isfuggiva che la durezza del pontefice procedeva principalmente dai consigli de' Gesuiti, che già avevano cacciati da' loro Stati, e da quelli del cardinale Torrigiani, suo ministro di Stato, prelato tutto dedito a que' padri, addomandarono con molto calore ch'egli la compagnia di Gesù interamente sopprimesse. Ma Clemente, che prestava molta fede alle loro parole, ed a cui rincresceva di privare anche in Italia di quel sussidio la santa Sede, giacchè negli altri regni della cristianità l'aveva perduto, fermò l'animo e resse alle istanze, nè si lasciò volgere ai desiderii de' principi. Dalla quale sua fermezza procedette che le cose non si addomesticarono nè col duca di Parma, nè coi principi suoi consanguinei, finchè Clemente XIII visse. Ei conservò il suo monitorio, Parma i suoi ministri, Francia Avignone, Napoli Benevento, Spagna i suoi risentimenti. Oltre a questi disturbi di Parma, gravi e veramente pericolose erano per altre parti le condizioni della Chiesa al momento dell'esaltazione già detta del Ganganelli. Non poco sdegno nudriva Giuseppe re di Portogallo contro di Roma, per vedere ancora in piè gl'Ignaziani che tanto egli odiava. Vi era anche in quel reame pericolo di scisma, cioè di separazione dalia santa Sede, minacciando il re di creare un patriarca in Lisbona per l'esercizio della suprema autorità pontificale, e di non avere più altra comunicazione col pontefice romano che quella delle preghiere. Non minori minaccie faceva la Spagna, la quale continuamente fulminava contra i Gesuiti e con sinistre voci protestava che se di loro come desiderava sentenziato non fosse, verrebbe a qualche risoluzione funesta a Roma. La Francia riteneva Avignone, come si disse di sopra, e grandi risentimenti faceva sì per l'oltraggio fatto al duca di Parma colla scomunica, e sì per le lunghezze che il papa andava framettendo per conformarsi ai desiderii di Spagna ed a' suoi proprii per la domandata soppressione. Per le narrate cose il duca di Parma irritatissimo anch'egli si dimostrava, e consigliato da ministri savii e fermi, faceva le viste di non temere i fulmini del Vaticano. Non riceveva la Sedia apostolica minori molestie dal re di Napoli, il quale, oltrechè perseverava nello appropriarsi Benevento e Pontecorvo, si spiegava eziandio di volere più avanti nello Stato ecclesiastico allargarsi; e da riforma in riforma procedendo, dava a divedere che, poichè il papa non voleva fare avrebbe fatto egli. In somma le immunità ecclesiastiche continuavano ad andare in ruina nel regno. Il re, considerati gli abusi che nascevano dalla riscossione delle decime ecclesiastiche, le abolì intieramente, ordinando che l'erario regio supplirebbe con una conveniente pensione in favore di que' curati, ai quali, per la soppressione delle decime, restasse una congrua minore di centotrenta ducati. Andava anche un giorno più che l'altro tarpando l'ali alla nunziatura, con ridurre molte cause miste all'autorità ordinaria dei tribunali regi. Queste mosse principalmente davano Tanucci e Carlo di Marco. Venezia, senza ricorrere all'autorità pontificia, di propria volontà riformava le comunità religiose: lo spirito del Sarpi in lei sempre viveva; nè valse a Clemente XIII che da Venezia sortito i natali avesse per poter la novella tempesta schivare. Benchè in grazia di lui avesse cassato il decreto, emanato già per risentimento delle decisioni intorno ad Aquileia, che proibiva gli abusi di certe dispense e delle indulgenze che per denaro si concedevano, non si rimase però che qualche secreto rancore gli animi dei padri ancora non alterasse, e non si manifestasse con rigori di dazii e di gabelle sui confini contro i sudditi dello stato ecclesiastico. Ma più specialmente nell'anno addietro il senato avvertì che le ricchezze del clero erano divenute tanto esorbitanti che di grave scandalo riuscivano ai privati e di molto danno al pubblico, però che le mani morte possedevano una rendita quasi eguale a quella dello Stato. Quindi prese rigorose e valide misure tanto sui beni de' cherici che sopra le persone loro; ma noi potè fare senza che il papa gravemente se ne risentisse. Ed in fatti con un suo breve dell'8 ottobre di quell'anno si lamentò colla repubblica ch'ella avesse, oltrepassando i termini dei proprii campi, posto i piedi in su quelli d'altrui, e sotto specie di regolare interessi attinenti allo Stato, si fosse fatto lecito d'intaccare la giurisdizione ecclesiastica; e dopo noverate ad una ad una le cose che teneva illecite, «alzava la paternale voce, e la repubblica ammoniva che da tali perniziose e scandalose determinazioni recedesse.» Rispose il senato, e stette fermo nelle sue risoluzioni: il papa nuovamente esclamava con altro suo breve del 17 dicembre sempre dello stesso anno, ed, al senato le parole indrizzando, l'avvertiva che, recate dalle di lui lettere nuove ferite al suo paterno cuore, dovea di nuovo parlare, di nuovo ammonire, pregare, lamentarsi, biasimare. Ricevuto il breve del papa, il senato non si rattenne in silenzio; ma non si rimosse da quanto ordinato aveva, nè il pontefice venne al passo estremo di pronunziare l'interdetto contro la repubblica; e come tal era la condizione sua che il consentire gli pareva impossibile, il contrastare senza frutto, le cose in quello stato si rimasero. La Polonia stessa, che sempre era stata devotissima alla santa Sede, mossa dall'universale consentimento e da quell'influsso contrario che contro Roma si spandeva, cominciava a vacillare ed i privilegii della nunziatura diminuiva, e poneva un freno alla volontà della curia romana. Alle quali cose se vogliamo aggiungere quello spirito filosofico che d'ogni intorno spirava, e che metteva in dubbio non solamente le prerogative della Sedia apostolica, ma ancora le verità stesse della fede, si verrà conoscere a quale e quanta tempesta avesse ad ostare il nuovo pontefice, ed in qual pericoloso frangente si avvolgesse. Stava il mondo in grandissima aspettazione di vedere a quali consigli si atterrebbe, e quali mezzi userebbe Clemente XIV per rivolgere in meglio le disposizioni dei principi. Il cedere e il non cedere in tali congiunture può essere ugualmente di danno, quello, perchè mette le cose domandate per perdute, questo, perchè mette pericolo che se ne perdano delle maggiori. Nè si ha nemmeno certezza che il concedere faccia moderazione in chi domanda; imperciocchè il più delle volte succede che più si dà e più si domanda. Contuttociò Ganganelli vedeva evidente la necessità di contentare i principi, perchè, se di soverchio si contrastasse loro, era da temersi che dessero della scure sulla radice stessa dell'autorità pontificia, cosa alla quale gli scritti dei filosofi e dei giansenisti stessi gagliardamente spingevano. Il che ottimamente considerato, principiò a dare segni di quanto voleva fare. Nominò suo segretario di Stato il cardinale Pallavicino, personaggio grato alle potenze; scrisse ai monarchi lettere pacifiche ed amorevoli. Lieti augurii eran questi, che già una causa speciale e viva aveva fomentati, il viaggio, cioè, in Italia in quest'anno fatto dall'imperatore Giuseppe. Vide Napoli, Roma e Firenze, vide la sua Milano. Padre de' popoli più che re in ogni luogo si dimostrava, il povero, più che il ricco in cale aveva, non abborriva dalle tortuose scale ed anguste, nè aveva a schifo gli umili tugurii; il più bell'ornamento di cui un possessore di regni possa far mostra, portava seco; imperciocchè l'accompagnavano la semplicità del costume, l'affabilità del discorso, la bontà dell'animo, e meglio amava sentirsi chiamare benefico che augusto. La sua vivida mente in ogni occorrenza appariva; figliuolo buono ed ingegnoso d'ingegnosa e buona madre. Amava i dotti, e viaggiando gli accarezzava come stelle, fra la volgare oscurità onorandoli. Pio ancora lo vedevano i popoli e religioso, dal che argomentavano che non per tiepidezza di fede, ma per ardore del ben fare richiamava a nuovi ordini le cose giurisdizionali e la vita de' chierici. Le accoglienze che generalmente i popoli gli facevano, e particolarmente gli ecclesiastici, erano segno manifesto del quanto fossero cambiati i tempi da quelli di _Barbarossa_. Quando visitò Roma, l'accompagnava il suo fratello Leopoldo, granduca di Toscana. Nè l'uno nè l'altro si fecero, come il Medici, canonici di San Pietro. Correva il tempo dell'interregno per la morte di Rezzonico, ed avanti l'esaltazione del Ganganelli, il sacro collegio, che allora governava la città, l'accolse con ogni più lieta e festevole dimostrazione, deputando per complimentarlo ed accompagnarlo entro quelle festose mura i principi Conti, Borghese, Aldobrandini, Doria, Barberini, di Bracciano, di Piombino. Come prima in cospetto della città era comparso, i principi deputati, avendo con esso loro il governatore di Roma, con graziose parole l'avevano onorato; offrirongli la guardia svizzera, che ricusò. Gli si diedero festini magnifici nelle case di Bracciano, Corsini, Santacroce e Salviati: tutto era magnifico e bello, ma il più magnifico e più bello era la semplicità del fare e del favellare. Maravigliosa fra le altre fu la festa datagli dall'ambasciatore di Venezia; ad onoranza e a disegno, imperocchè a quel tempo Giuseppe vivesse con qualche amarezza verso la repubblica. I due fratelli visitarono con divozione e maraviglia il famoso tempio ben degno del principe degli apostoli, tempio d'una monarchia che pensiero fu di un repubblicano. Desiderarono di vedere il conclave, che a que' dì si teneva per l'elezione del nuovo papa; si apersero loro le porte. Giuseppe domandò quando la elezione si farebbe, ed i cardinali risposero aspettarsi i cardinali dall'estero; ed interrogando poscia qual fosse il conclave che aveva durato più lungo tempo, gli venne risposto, quello di Benedetto XIV, che più di sei mesi soprastette a far l'elezione; al che soggiunse: «Or bene poco importa che il conclave duri anche un anno, purchè nominiate un pontefice simile al Lambertini che fu amico a tutti.» «Mi vien voglia, dice uno storico illustre, di raccontare i presenti che il sacro collegio ed il governatore di Roma fecero a Leopoldo, simili a quelli di Giulio II, che mandò un carico di presciutti e buoni vini al parlamento d'Inghilterra per renderselo benevolo; tre piatti di vitella mongana adorni di fiori e nastri; di vini del paese otto casse; di vini forastieri fruttati dalle Canarie, da Malaga, da Cipro, sedici barili; di rosolii due; di pesci delicati, come storioni, ombrine, tre; di zucchero, di zuccherini, di caffè, di cioccolata, buona quantità, con frutti, confetti di ogni sorta prugnole, cedrati, poponi, olive; e v'erano anche due statue di butirro alte ciascuna un palmo: poi pavoni, fagiani, galline rare acconce in gabbia, presciutti, mortadelle ed altri salumi preziosi. Questi pel gusto, i seguenti per l'intelletto: dodici tomi in foglio di viste e prospettive di Roma con parecchi quadri di mosaico e di tappeti istoriati oltremodo belli. Vennero quindi i presenti più speciali di Roma, reliquie incassate in oro del peso di sedici libbre con grande numero di pietre preziose incastonatevi. Anche Giuseppe ebbe i suoi doni, e furono reliquie.» Ai 17 di marzo i tre prelati deputati scrissero lettere all'imperatrice madre, in nome del conclave, notificandole, avere il sacro collegio esultato di tutta allegrezza, vedendo fra le mura di Roma e nel grembo degli elettori del pontefice i suoi due figliuoli augusti. Narrarono quanta fosse stata la pietà loro e la venerazione verso le cose sante; dimostrarono quanto il sacro consesso desiderasse e quanto sperasse ch'ella degnasse proteggere e crescere lo splendore e le prerogative degli ordini religiosi, e conservare i diritti, le possessioni e dominii della Chiesa. Testimoniarono infine, niuna cosa più ardentemente desiderare che una pace inviolabile ed una perfetta unione tra il clero ed i principi cattolici. Partissi Giuseppe da Roma, poi dall'Italia, lodato e venerato anche da coloro che di lui e delle sue intenzioni sospettavano. Ma i suoi detti e fatti restarono nella memoria degli uomini, come segni e pegni di un più felice avvenire. Nello Stato di Milano regolaronsi le cose delle mani morte a foggia di quanto erasi fatto in Parma ed a Venezia, ed istessamente quanto riguardava agli ordini religiosi. Levata poi l'imperatrice Maria Teresa di mano all'inquisizione ogni facoltà sui libri, avvocò a sè le cause a questa materia relative, e statuì che la censura dei libri si appartenesse ai magistrati da lei deputati. Anche in Parma, oltre alle cose più sopra discorse, il duca, lamentandosi, in sul limitare stesso d'un decreto, che una potestà straniera esercitata da' claustrali sotto titolo d'Inquisizione del santo Officio, si fosse ne' suoi Stati introdotta, volle ed ordinò che, come morto fosse lo inquisitore di Parma, le cause dovessero giudicarsi da' vescovi, e nissuno più si ardisse, altro che essi, ingerirvisi. Poco appresso mori l'inquisitore, i vescovi assunsero il carico; promessa loro dal principe, ove abbisognasse, l'assistenza del braccio secolare. I detenuti nelle carceri del santo Officio furono dichiarati tenersi prigioni a nome del duca sin che fossero le loro cause spedite, dato anche ai vescovi il comandamento d'informare la potestà secolare delle loro sentenze. E nel medesimo tempo il duca regolò i conventi, espulse i religiosi forestieri, salvo chi per età o per merito o per dottrina si meritasse di dimorare. Delle confraternite e luoghi pii ordinò che, secondo l'utilità, fossero o soppressi o riformati o incorporati. Il marchese Tanucci e Carlo di Marco, ministri del re di Napoli, lo movevano a statuire, come statuì, che i conventi che non potevano mantenere dodici frati fossero soppressi, e i frati distribuiti in altri conventi, con obbedienza di tutti verso gli ordinarii; che nissuno prendesse l'abito claustrale prima di ventun anni, nissuno professasse prima dei venticinque; che le rendite dei conventi fossero depositate nel banco di Napoli a benefizio ed uso dei conventi per quella rata che sarebbe creduta necessaria; che le cause loro in prima istanza si giudicassero dui vescovi, e in appello da un tribunale supremo instituito dal re; che i conventuali forastieri tornassero nei loro paesi; che i benefizii e le dispense di affinità si conferissero dai vescovi; delle rendite delle confraternite, cappelle, congregazioni, una parte restasse assegnata al culto divino, e dell'altra il re disponesse per opere pie; soprantendesse un magistrato apposta creato dal re alle rendite dei vescovati, e se dei più ricchi qualche cosa soprabbondasse, si ripartisse tra le chiese povere ed i vescovi meno facoltosi. In Toscana, in cui, sino dal 1751, per opera del reggente Richecourt, del senatore Rucellai e di Pompeo Neri, si erano fatte varie ordinazioni nella materia delle mani morte ed in quella dell'inquisizione, specialmente intorno alle carcerazioni, ai castighi e alla censura dei libri, in quest'anno, per un ordine del granduca Pietro Leopoldo, i soldati andarono per le città, e tutti i rifuggiti dalle chiese levarono, e li portarono nelle carceri della giustizia civile; in pari tempo il granduca stesso scrivendo a Roma, gli uomini nefarii non contaminare più col loro feroce aspetto le sedi di Dio, essere nelle carceri ordinarie condotti, ma stare e vivere per loro l'immunità, sospendersi contro d'essi, per rispetto dell'antico asilo, la mano regia, nè la giustizia ricercarli dei commessi delitti. E i rei per verità puniti non erano, ma per la sua deliberazione ciò almeno aveva il buon principe conseguito che, chiusi in carceri sicure, quei tormenti della società non potevano più uscire a spaventarla. Poscia pel futuro Leopoldo decretò che i rifuggiti, in qualunque luogo si fossero ricovrati o di qualsivoglia delitto colpevoli, salvo i falliti di buona fede, ne venissero levati dai soldati della mano regia, per essere condotti innanzi ai tribunali ordinarii, e castigati secondo che avessero meritato. Solo per rispetto dei sacri luoghi, e per conciliare quanto dalla giustizia era richiesto colla deferenza verso la Chiesa, statuì che si moderassero le pene, e chi fosse incorso in quella di morte si avesse solamente dieci anni di carcere, e chi avesse meritato dieci anni di carcere, fosse punito con cinque, e così in proporzione fossero tutte le altre pene dimezzate. Quindi proibì il flagellarsi in pubblico, il castrare i fanciulli; soppresse la bolla _In Coena Domini_; vietò ai conventi d'avere carceri senza la approvazione del principe, e che le permesse si visitassero da deputati laici. E (per non tornare più su questo argomento) ordinò negli anni appresso che nissun forestiero più abitasse ne' chiostri toscani; che i voti religiosi non si pronunziassero prima di ventiquattro anni; che gli ordini mendicanti non ricevessero più novizii innanzi che pervenuti fossero all'età di sedici, od anche di diciotto anni; che si sopprimessero i conventi di minor numero di dodici religiosi; che i preti secolari soli, massimamente i curati, e non più i religiosi addetti ai conventi, potessero predicare per le campagne; che gli ordinarii soli regolassero e sopravvegghiassero i conventi delle monache, ed a niun modo potessero intromettersene i religiosi dei conventi; che i conventuali aiutassero nel ministerio divino i parrochi ed a loro fossero soggetti; che le congreghe ricche sopperissero alle povere; che nuove parrocchie sorgessero là dove ne fosse bisogno. Al terminare di quest'anno, rendutosi fatalmente celebre in Francia, in Olanda, in Germania, in Inghilterra per le inondazioni di fiumi e di torrenti, pur la Italia ebbe a patirne di straordinarie e gravissime per le insolite colmate del Tevere, del Panaro, del Tagliamento ed altri che, ingrossati a dismisura, con furia sterminatrice dai letti traboccarono. Le acque del mare due volte inondarono Venezia, e contaminarono con gravissimo danno quelle che ivi si conservano nelle cisterne o venute dalle pioggie o portate dal continente ad uso de' suoi abitatori. E nella seconda di tali allagazioni, spirando impetuosissimo un vento lungo le spiaggie dell'Istria, il mare sconvolto sgominò un lungo tratto del lito, e trasportando altrove sabbia, cespugli e quanto altro ivi era, lasciò scoperti gli avanzi e le rovine di un'intera antica città che conserva ancora la disposizione delle strade interne, le fondamenta e le muraglie delle abitazioni, portici, colonne, pavimenti di musaico e cento altri vestigii di un'ampia e ricca popolazione che stendevasi per due miglia incirca fra Umago e certo vecchio e sfasciato castello già chiamato Sipar. Mentre dissotterravansi rovine morte, seppellivansi i vivi. In una parte dei bellunesi monti, sfasciatasi un'alta montagna detta Piz d'improvviso, andò a piombare sopra la soggetta popolazione, schiacciandone le capanne, i bestiami ed oltre a cinquanta persone, rimaste prima sepolte che morte. Anno di CRISTO MDCCLXX. Indizione III. CLEMENTE XIV papa 2. GIUSEPPE II imperadore 6. Giunto in quest'anno il solito momento di promulgare la bolla _In Coena Domini_, tanto dispiacente ai sovrani, Clemente XIV se ne astenne, omissione, la quale, quanto più insolita era, tanto maggiore argomento ne prendevano gli uomini per giudicare delle future operazioni del pontefice. Già s'era riconciliato col Portogallo che accettò un nunzio, accettazione che il re non aveva mai voluto consentire finchè durarono le differenze. Quanto a Venezia, col suo costume di andare a seconda, e bene persuaso che in quell'età male con gli anatemi si conseguivano i fini della Chiesa, lasciò portare la cosa al tempo. Quindi avvenne che i conventi si andarono negli Stati della repubblica spopolando, per modo che vicina se ne vedeva l'ultima fine. Passati tre lustri, il senato permise le vestizioni a sedici anni e le professioni a ventuno. Per prima risoluzione nelle cose di Parma, Ganganelli sospese l'effetto del monitorio, e ribenedì il duca. Della quale benigna sentenza diede subito notizia al re di Francia, con isperanza che Luigi il ritornasse in possesso d'Avignone. Ma così questo sovrano come gli altri della famiglia borbonica persistevano nel loro proposito, ancorchè il duca di Parma si sforzasse con ogni buon uffizio e diligenza di muoverli ad una intiera riconciliazione colla santa Sede. La cagione della loro renitenza era, ch'essi volevano la soppressione dei Gesuiti. Finalmente il papa avendo fatta nel 1773 questa gravissima deliberazione, Roma restò del tutto riconciliata coi principi; onde accadde (il che tutto vuol dirsi a compimento dell'incominciata narrazione) che nel mese di marzo dell'anno susseguente 1774, a ciò sempre confortando il duca di Parma, ella fu rimessa nella possessione di Benevento e d'Avignone. Le quali cose avvenute, si fecero grandi feste in Roma; cantossi solennemente l'inno delle grazie in presenza di tutti i cardinali, e la sera vi si ordinò una luminaria assai bella e magnifica, come sono tutte quelle che sogliono rallegrare una città quale Roma è, che così nell'alta come nell'umile fortuna seppe sempre tener grado e ritrarre di grandezza. Cotal fine ebbe il molesto litigio tra Roma e Parma, il quale, incominciato da deboli principii, portò poi con sè assai più gran soma che uomo credere avesse potuto. Non un altro litigio, ma un trattato tra la santa Sede ed il re di Sardegna, il cui fine era di tor via certi abusi, che avevano la loro origine nell'asilo dato ai malfattori ne' luoghi sacri, fu pur questa un'opera del buono e prudente Ganganelli, il quale era solito dire, nè senza contentezza, che alla perfine la Chiesa conserverebbe ciò che per diritto divino era suo, e perderebbe ciò che i potentati della terra le avevano dato, e che cagione per lei era di tante querele, di tanti risentimenti, di tante molestie, e così ancora di tanti scandali e discordie tra i fedeli: memorande parole, memoranda la sentenza! Benevola fu la volontà di Ganganelli verso il re Carlo Emmanuele, o piuttosto verso i suoi popoli; ma da quanto ancora restò degli abusi in materia di asilo, si potrà argomentare dell'enormità di quanto esisteva e dell'assurdità del principio sul quale la facoltà dell'asilo era fondata; imperocchè non solamente dannoso alla società, ma ancora empio e ridicolo sia il dire, che sia rispetto e venerazione verso la casa di Dio, ch'essa procuri sicurezza a chi meriti la galera o la forca, e divenga tana, donde i malfattori, come da luogo d'insidia, si avventino a rubare ed ammazzare gli onesti cittadini, ai quali lo Stato è debitore di sicurezza e di salute. Già sin dai tempi di Benedetto XIV si era aperta una pratica intorno agli asili tra il pontefice e il re, desiderando il principe di moderarne gli abusi, donde procedevano grandissimi sconcerti nel paese nè essendo meno desideroso il capo della Chiesa di rimediarvi. In fatti, Benedetto aveva già con sua istruzione mandata al cardinale Merlini, arcivescovo d'Atene, nunzio e ministro apostolico a Torino, moderato molte cose che all'uso di cui si tratta s'aspettavano. Ma, malgrado di tale moderamento, nascendo ancora inconvenienti di non poca importanza, di nuovo il re aveva richiesto la santa Sede, che a più efficaci risoluzioni devenisse. Questa pratica maneggiava in Roma il conte di Rivera quando, già morto essendo Benedetto, era Clemente XIII in sua vece stato al seggio pontificale assunto. Andava Clemente in questa faccenda assai più a rilento che il benevolo e facile suo predecessore; perocchè delle cose di questo mondo più colla pietà che colla prudenza giudicava. Ciò non ostante, il Rivera già l'aveva indotto ad utili concessioni, e si speravano maggiori moderazioni per viemmaggiormente facilitare il corso della giustizia, quando Clemente da questa vita n'andò ad abitare fra i più. Ripresersi i negoziati sotto Clemente XIV, i quali finalmente vennero a conclusione sul principiare dell'anno presente. Clemente decretò e pregò il re che fosse contento delle seguenti risoluzioni: Conciossiacosachè si veda che la principale cagione donde nascono gli abusi sia quella che gli uomini di mala vita si ardiscono di rizzare sulle antiporte, atrii e porticali delle chiese, tugurii, frascati, capannucce, baracche ed altre simili casucce ad uso non solamente di ricovero sicuro e stabile, ma ancora per serrarvi e nascondere armi d'ogni sorte, riporvi i frutti dei loro latrocinii, introdurvi femmine scandalose, uscirne ad assaltare i viandanti, ed impunemente commettere altri eccessi, donde risultano, e un grave pregiudizio della tranquillità pubblica, e la profanazione manifesta dei luoghi santi; resta comandato ai vescovi ed ai rettori delle chiese di far sgombrare incontanente dai detti antiporti e simili luoghi le baracche e casucce, tanto nocive al ben pubblico, quanto indecenti per la maestà dei templi; restando loro anche ingiunto d'impedire che nuove non vi s'innalzino; e se nuove si innalzassero, tosto abbiano cura che si demoliscano. Per maggiormente facilitare la necessaria purgazione di quest'infame genia, o diminuire almeno il numero delle loro nefandità, ordinò anche il pontefice che fosse facoltà ai vescovi di trasferire i rifuggiti da un asilo all'altro, e se i trasferiti abusassero una seconda volta dell'asilo, perdessero la protezione della Chiesa, e fossero arrestati dovunque si trovassero. E perchè i vescovi ciò fare potessero con maggior facilità, volle che non fosse necessario un regolare processo, ma solamente un atto di coscienza informata per trasferire un rifuggito da un asilo all'altro, stando però sempre fermo che per privarlo, in caso di recidiva, del beneficio dell'asilo, fosse richiesto il regolare processo. Dichiarò altresì che le cause di privazione di asilo per abuso fossero il rubar di nuovo, il nascondere i furti, il ricettare femmine di mala vita, l'insultare ed offendere i viandanti, il celare chiavi false, grimaldelli ed altri simili stromenti di ladri. Stante poi che alcuni delitti sono cotanto gravi che in niun caso debba chi commessi gli ha trovare ricovero e scampo ne' luoghi sacri, resta decretato, scrisse il pontefice, che, oltre i commettitori di delitti atroci già esclusi dall'asilo pei decreti dei precedenti pontefici, del beneficio dell'asilo in niuna maniera godere potesse chi pei principi forastieri soldati arrolasse, chi avesse falsificato il sigillo e le lettere apostoliche o regie, chi a mano armata rubasse cosa che per la somma, secondo le leggi comuni o municipali, meritasse la pena di morte, chi l'onore delle donne violasse, rapisse le oneste e non consenzienti. Atteso poi eziandio che per bolla di Clemente XII era stato assicurato l'asilo ai minori di vent'anni, allorchè commesso avessero omicidii atroci, e che da qualche tempo negli Stati del re si moltiplicavano per mano dei detti minori di età delitti di simil fatta, così il pontefice espresse la sua volontà che a tali giovani ricovero niuno fosse dato nei sacri luoghi, e se dentro vi si rifuggissero, tosto si consegnassero al braccio secolare, volendo e prescrivendo che per omicidii atroci s'intendessero il parricidio, il fratricidio, l'ussoricidio, l'assassinio per tradimento, l'assassinio a ghiado, o che insidia vi fosse o che non vi fosse, l'omicidio per rissa quando dopo la rissa trascorse fossero sei ore, o fosse brutale, e senza ragione suscitata si fosse dalla parte del delinquente la rissa. Finalmente abbiano i vescovi, Clemente statuì, facoltà di estrarre dall'asilo, e consegnare al braccio regio chi alcuno con pericolosa e mortale ferita offeso avesse, anche innanzi che ne fosse seguita la morte del percosso, con ciò però che se le ferite fossero state date per necessità di difesa o per caso fortuito, o se ancora il ferito non morisse nel termine prefinito dalle leggi, il reo dovesse venir restituito alla chiesa. Le quali lettere e disposizioni pontificie avendo il re ricevute, molto con lettere regie ringraziò il pontefice del suo volere condiscendente. Rimedio valido fu, ma non sufficiente. Quanto ancor rimase di queste franchigie della Chiesa per procurare asilo ai malfattori, recava ancora gravissimo danno, poscia che la mano della giustizia era in molti casi impedita dal ghermire chi lo meritava, ed in altri casi la prontezza del procedere, cotanto necessaria per reprimere e frenare i facinorosi, si cambiava in indugiamenti perniciosissimi. Oltracciò, gli ordini religiosi, pretendendo di non essere soggetti alla giurisdizione degli ordinarii, ed essendo l'esecuzione delle volontà del papa commessa ai vescovi, avvenne che i ribaldi si ricoveravano negli atrii delle chiese o nei chiostri dei conventi, dove, per non poter esser giunti dall'autorità vescovile, sicuri vivevano, e donde uscivano per rubare e per bruttarsi le mani di sangue. Così distrutta od almeno moderata una immunità, un'altra più forte e più pertinace sorgeva. Anno di CRISTO MDCCLXXI. Indizione IV. CLEMENTE XIV papa 3. GIUSEPPE II imperadore 7. Povero di avvenimenti si presenta quest'anno, e poche cose e di non grave importanza ne porge da ricordare. Giunto, alla metà d'ottobre, in Italia l'arciduca Ferdinando, sposossi nella metropolitana di Milano a Maria Ricciarda Beatrice d'Este: maritaggio che diede motivo a molte gioconde e liete feste. Ma quella che vogliam notare si è il matrimonio di trecento garzoni con altrettante donzelle per munificenza de' regi sposi celebrato nella basilica di Santo Stefano maggiore della detta città, con doti proporzionate al grado di chi le dava, e convitati tutti quanti a lauto banchetto, rallegrato dal suono di musici strumenti, ed illustrato dalla presenza de' benevoli arciduchi. A Parma, alcuni moti popolari richiamarono la vigilanza del duca. Arrestate molte persone di grado, ed anche ecclesiastiche, furono esiliate; in pari tempo un ducal editto comandava un raddoppiamento di forza armata a quiete della città, la dispersione de' gruppi d'oltre a sei persone, la ricerca e la punizione degli autori d'atti o discorsi sediziosi od insolenti. Intanto giunto in Parma, col titolo di consigliere di Stato del re di Spagna, il marchese di Liano, l'ottimo Dutillot, che da quasi vent'anni con altissimo senno regolava le bisogna del ducato, partì per Madrid prima che il presente anno cadesse, e di là poi recandosi in Francia, dov'era nato, poco tempo dopo terminò la gloriosa vita. Avviatesi in Corsica le cose alla franzese, non per questo sedaronsi gli animi, e travolto il primo intendimento, criminose rendevansi le fazioni, tanto contro i Franzesi occupatori del paese quanto contro gli stessi compatriotti, cui i facinorosi percuotevano con omicidii, saccheggi e disordini d'ogni fatta. Il governo franzese, che vedeva la somma difficoltà di guadagnare a sè una nazione non punto concorsa a prendersi in collo il giogo del suo dominio, nulla pretermise per rendere men gravi le catene, e tutte le vie cercava di ridurre l'isola ad uno stato di qualche calma. Trasportato in Corsica non picciol numero di famiglie franzesi, principalmente ne' luoghi che per le vicissitudini e pel lungo durar della guerra aveano ad un tempo perduto gli abitatori ed i coltivatori delle terre; eretti nuovi villaggi; accomodate le strade principali; aggiunte nuove fortificazioni a Corte, all'isola Rossa, e migliorate quelle d'Aiaccio e di altre piazze forti, sempre munendole di buoni e numerosi presidii; tra queste e altre simili provvidenze, e più di tutto per mezzo di quella efficacissima insinuazione che deriva dall'assoluta ed invincibile necessità, cominciò a vedersi nell'isola quella quiete che da molti anni n'era sbandita. Anno di CRISTO MDCCLXXII. Indizione V. CLEMENTE XIV papa 4. GIUSEPPE II imperadore 8. Si sono precedentemente vedute le diverse mosse che Clemente XIV dava per corrispondere con opportuna condiscendenza ai desiderii d'una gran parte de' principi cattolici. Ma il più duro scoglio che superare si dovesse per metter pace tra il sacerdozio e il principato e far tornare amici i rappresentanti della potestà secolare era severamente la controversia intorno a' Gesuiti. Instavano acerbamente i principi per la soppressione; e siccome diffidavano della corte romana, così sospettavano, non già che Ganganelli li favorisse, che anzi sapevano che li disfavoriva, ma che per qualche fine più nascosto amasse di tirare il negozio in lungo, e forse di farlo dileguare per istanchezza. Quando Monino di Spagna, Almada di Portogallo, Bernis di Francia, Orsini di Napoli incalzavano, soleva rispondere che il lasciassero pur fare; che il negozio era grave, e il volea considerare maturamente; ch'egli era il padre comune de' fedeli, soprattutto dei religiosi; che non poteva distruggere un ordine di tanta fama nel mondo senza avere ragioni che appresso a tutti i fedeli, e massimamente appresso a Dio, il giustificassero. Debole conforto aveva la combattuta compagnia nel patrocinio del re di Sardegna, già per mortale infermità vicino a lasciare questo mondo; poichè intanto nello Stato romano a molti segni si conosceva che il pontefice aveva la mente avversa da' Gesuiti, e come si approssimasse la loro ultima fine. Ganganelli non amava di vederli, nemmeno di salutarli, quando incontrati gli facevano riverenza. Erano loro negate le udienze, e le decisioni favorevoli s'indugiavano, le contrarie si affrettavano. Il seminario romano retto da' Gesuiti a Frascati, conservatorio magnifico, ma allora indebitato, fatto prima esplorare da tre visitatori, che aspramente ed alla traversa fecero l'ufficio, restò poscia soppresso, tempo un mese per ritirarsene ai padri, e data licenza ai pensionarii ed agli studenti di andarsene. Presesi anche possesso a nome del papa del sontuoso palazzo ch'essi avevano a Tivoli, e che si apparteneva al medesimo seminario. L'argenteria e gli altri mobili preziosi dati in custodia ai monti di pietà, vendute intanto le provvisioni. Oltre il seminario, i Gesuiti possedevano in Frascati un collegio, al quale, perseverando Clemente nel medesimo rigore, toccò la medesima sorte che al seminario. Già presaghi di quanto doveva avvenire, non accettavano più novizii, e non vestivano gli accettati. Si trattava di tor loro a Loreto l'uffizio di penitenzieri che esercitavano; perchè s'erano conceputi sospetti, e si temeva che volessero far sorgere umori torbidi contra ciò che si andava preparando. Rigide commissioni furono date al cardinale Malvezzi arcivescovo di Bologna, e rigido esecutore trovarono. Visitò per ordine supremo del papa i collegi della compagnia in tutta la diocesi; non ne fu contento e non voleva essere. Biasimò gli studii, biasimò la disciplina, molte cose trovò in disordine. Sospettò delle confessioni, sospettò degli ammaestramenti, prese risoluzioni conformi ai sospetti. Sospese gli esercizii de' Gesuiti nelle feste di Pasqua, chiuse le scuole, serrò, portandone le chiavi, tutte le congregazioni che da loro prendevano regola e norma. Nè ciò bastando, vennero da Roma nuovi ordini: che il rettore della casa di Bologna mandasse incontanente alle loro famiglie tutti i Gesuiti della diocesi, eccettuati solamente quelli che avevano fatto il quarto voto, e che nissun convento li potesse ricevere sotto pena di scomunica; che fosse proibito a' Gesuiti d'insegnare il catechismo in pubblico, proibito d'addottrinare nelle chiese, proibita l'assistenza ai prigionieri, proibiti il ministerio dell'ordine di San Gabriele e gli esercizii di Sant'Ignazio. Nè qui ancora si terminarono le tribolazioni di Bologna. I Gesuiti novizii, cacciati dalla città, eransi riparati alla campagna nel seminario vescovile. Fu intimato a quelli dello Stato veneto che svestissero l'abito gesuitico; la qual cosa ricusando essi di fare, arrivarono soldati che gli sforzarono. Gli altri, o maestri o allievi, mandati chi a Modena, chi altrove. Compiti i rigori, vennero le angherie. Ciò con dannabile consiglio, perchè vestiva la sembianza di persecuzione e di cupidità. Male in queste cose si mescola la gola del fisco; ma la camera apostolica era inesorabile quando di denaro si trattava. Malvezzi domandò al collegio gesuitico di Santa Lucia mille scudi per le spese della visita. I Gesuiti supplicarono al papa perchè giustizia facesse e temperasse i rigori dell'arcivescovo. Ne venne aspra e minacciosa risposta. A Ferrara le medesime cose successero per ordine di Roma e per opera del Cardinal Borghese. La tempesta soffiava contro gl'Ignaziani in tutto lo Stato romano. A Roma stessa continuavano a precipitare, rigidezza vi si usava contro i pericolanti padri. Si vietò loro l'accesso al monastero di Santa Maria dei Funari, a cui si trovava annesso un ospizio di zitelle fondato da Sant'Ignazio: ne avevano la direzione spirituale; il papa sospettoso ebbe per bene che fosse loro tolta. Quantunque Clemente da lungo tempo si fosse prefisso nell'animo di far fine alla compagnia, tuttavia, acciò non si credesse ch'egli facesse un giudizio precipitoso, o venisse per filo e per timore dei principi ad un atto tanto solenne, aveva ormai tre anni temporeggiato. Creò anzi, per dimostrare di voler considerare la cosa con maggiore diligenza, una congregazione di cinque cardinali, Zelada, Casali, Caraffa, Corsini e Marefoschi, con ordine di bene pesare le cose e a lui fedelmente riferirle. Anno di CRISTO MDCCLXXIII. Indiz. VI. CLEMENTE XIV papa 5. GIUSEPPE II imperadore 9. Finalmente il Vaticano fulminò. Il dì 21 di luglio del presente anno vide distrutta l'opera di Paolo III, le radici di più di due secoli svelte; tante magnifiche fonti d'istruzione e di educazione nei due mondi chiuse; tante ricchezze in mani aliene mandate; la più forte milizia di Roma annientata e dispersa; ma vide ancora, e il disse un papa, la cui sentenza ognuno doveva e deve credere ed avere per irrefragabile ed inappellabile, vide, si dicea, la cessazione di non pochi disordini, e la pace del sacerdozio coll'impero. In quel dì, 21 luglio, fatale pei figliuoli d'Ignazio, papa Clemente XIV dalla suprema cattedra l'atta sentenza pronunziò, con acconce parole al mondo favellando. Molte cose essendogli state addotte ed avendo discusse, il santo padre, per aiuto, come disse, e per ispirazione del divino Spirito, e spinto così dalla necessità del proprio uffizio, come dal rispetto che aver dovea alla tranquillità e quiete dalla cristiana repubblica, persuaso inoltre che, la società di Gesù non poteva più partorire quei copiosi frutti pei quali era instituita, convinto eziandio che finchè ella esistesse, pace nella Chiesa nè vera nè lunga essere potrebbe, mosso finalmente ed incalzato da cagioni che le leggi della prudenza all'ottimo governo della Chiesa universale somministravano, e cui nel cuor sepolte profondamente serbava, pronunziò che fosse estinta e soppressa la sopraddetta società di Gesù; che fosse soppresso ed abrogato ogni suo ufficio, ministerio ed amministrazione, ogni casa, ogni scuola, ogni collegio, ogni ospizio e luogo qualunque, in qualunque provincia, reame o dominio si trovassero; che fossero abrogati ed annullati i suoi statuti, regole, pratiche, decreti, costituzioni, anche quelli che per giuramento, autorità apostolica o altrimenti confermati fossero; che fossero egualmente annullati e cassi tutti e ciascun privilegio e indulto sì generale che speciale, e cassi ed annullati s'intendessero, e come se nel presente suo breve a parola per parola fossero inseriti, e qualunque fossero d'altronde le formole, la clausole, i decreti, in cui si contenessero o come fossero concepiti. Per la qual cosa, seguitò ordinando, volle e decretò che fosse estinta per sempre ogni autorità del generale dei Gesuiti, dei provinciali, dei visitatori e di qualsivoglia altro così nello spirituale come nel temporale; che ogni loro giurisdizione ed autorità fosse intieramente negli ordinarii trasmessa; che fosse alla società proibito il ricevere novizii e il dare l'abito; che quelli che fossero accettati, ai voti nè semplici nè solenni essere non potessero ammessi; che i presenti novizii fossero incontanente e senza alcun indugio licenziati; che per nissun titolo o privilegio o ragione coloro che già con voti semplici fossero astretti, ed a niun sacro ordine iniziati, esser non potessero agli ordini maggiori promossi. Decretando la soppressione della compagnia, il santo padre non omise di statuire quanto agl'individui riguardasse: che coloro, sentenziò adunque, i quali fossero solamente vincolati dai voti semplici, e non entrati negli ordini sacri, si intendessero pienamente liberati dal vincolo dei voti, e rientrassero nel secolo per fare quella vita che alla loro vocazione, forze e cognizioni di sè medesimi meglio convenisse; ma quelli che già fossero stati promossi agii ordini sacri, o entrassero in qualche ordine approvato dalla santa Sede, o nel secolo vivessero come semplici preti o cherici, ben inteso però che tenuti fossero all'obbedienza e sottomessione intera e totale verso gli ordinarii de' luoghi; quando poi alcuno di costoro non fosse provveduto d'alcun benefizio, se gli assegnasse, sulle rendite della casa o collegio che abitava, un onesto sostentamento. Quanto a quelli fra i professi e promossi agli ordini sacri, i quali d'onesto sostentamento non fossero provveduti, o niun luogo avessero che potessero eleggere per domicilio, o per età, o per salute inferma, o per qualche altra giusta e grave scusa, opportuno non istimassero lasciare la casa o collegio della società, potessero restarvi, con ciò per altro che in nissuna maniera potessero ingerirsi nell'amministrazione della casa o collegio, vestissero l'abito dei cherici secolari, ed intieramente si sottomettessero all'ordinario del luogo; con ciò però eziandio che non mai in nissun caso confessare potessero e predicare a quei di fuori. In ordine poi a quelli che come preti secolari vivessero nel mondo, i vescovi, conosciuta la loro capacità e bontà di costumi, potessero o investirli o privarli della facoltà di confessare e predicare. Se poi alcuno fra i soppressi padri imprendesse ad insegnare la gioventù, o di qualche collegio divenisse maestro o di qualche scuola, sì il potesse fare purchè non s'ingerisse del governo ed amministrazione della casa, ed alieno di dimostrasse da quelle dispute e dottrine, da cui solevano nascere gli odii, le discordie e le turbazioni. Annullati e cassi nel modo sopraddetto gli stati e privilegii della società, Clemente dichiarò volere che quelli fra i socii che come preti eletto avessero il vivere nel mondo, godessero di tutti i benefizii e prerogative che appartenevano ai loro consimili, non mai stati astretti a vita claustrale fra la società. Comandò poscia a tutti ed a ciascuno dei Gesuiti soppressi, e così a' cherici tanto regolari quanto secolari, che non mai senza licenza del pontefice romano si ardissero parlare o scrivere nè della soppressione nè delle forme, regole, costituzioni e governo dell'annullata società, e nei medesimo tempo proibì a tutti ed a ciascuno di offendere, per occasione della soppressione, sotto pena di scomunica o in voce o in scritto, o nascostamente o palesemente, con ingiurie, soprusi, villanie, beffe, scherni, o qualunque altra maniera di disprezzo qual si volesse persona, molto meno gli antichi membri della compagnia. Raccomandata in ultimo luogo la pace a tutti, e domandato a' principi cristiani il braccio forte per l'esecuzione della sua volontà nella bolla della soppressione espressa, il pontefice protestò volere che essa sortisse il suo pieno ed intero effetto, non ostante tutte le costituzioni ed ordinazioni apostoliche, anche quelle che dai concilii generali emanate fossero, non ostante ancora la regola dell'irrevocabilità del diritto acquistato e qualunque altro statuto, pratica, privilegio e concessione fatta o data, alle quali tutte egli derogava, e voleva che si avessero per nulle e di niun valore, e se come mai state non fossero date o fatte. Per maggior cautela poi e sicurezza che quel che ordinato avea puntualmente si eseguisse, diede l'autorità dell'esecuzione alla congregazione dei cinque cardinali e dei due prelati antecedentemente già nominati, volendo che in via sommaria e senza contestazione o forma o giudizio, anche per mezzo dell'inquisizione, procedessero contro le persone di qualsivoglia stato, grado, qualità e dignità fossero, le quali ritenessero, serbassero o celassero libri, scritture, mobili o suppellettili qualunque che alla soppressa società si fossero appartenute. E potessero anche obbligarle a svelare le nascoste cose colle censure ecclesiastiche, e con tutt'altra pena, con cui piacesse alla congregazione di castigarle. Per tal modo l'edifizio innalzato da Paolo III fu demolito da Clemente XIV. A queste deliberazioni seguitarono ferme esecuzioni. Ai 16 d'agosto, in sul far della notte, i prelati Macedonio e Alfani, membri della congregazione più sopra accennata, andarono alla casa professa del Gesù; il prelato Sersale al collegio romano di Sant'Ignazio; il medesimo prelato Alfani al noviziato di Sant'Andrea; l'avvocato Zacheri, prosegretario della congregazione dei vescovi e regolari, alla penitenzieria di San Pietro; l'avvocato Dionigi, auditore del cardinale Caraffa, all'ospizio dei Portoghesi in Trastevere; il prelato Archetti, al Collegio germanico; il prelato Riganti al collegio greco; il prelato Passionei al collegio scozzese; l'abbate Foggini, teologo del cardinal Corsini, al collegio degl'Inglesi; finalmente il prelato Della Porta al collegio maronita: gli accompagnavano compagnie di soldati corsi. Occupatisi dai soldati tutti gli aditi, e postisi tanto dentro quanto fuori delle nominate case, ciascun prelato deputato, assembrati e chiamati in cospetto loro i religiosi della comunità, lessero loro per bocca di notari, che seco loro avevano condotto per questa bisogna, le lettere del mandato, di cui erano dal pontefice investiti, poscia la bolla che l'istituto sopprimeva. Quindi procedettero a mettere i sigilli su gli archivii, sulla ragioneria ed altri depositi o d'argenterie o di provvisioni. Le quali cose fatte ed eseguite, i deputati se ne andarono, lasciando sul luogo i soldati, affinchè i sigilli si conservassero intatti e fermi, ed i religiosi guardassero. Il giorno seguente i religiosi soppressi cessarono le loro scuole ed ogni altra funzione. Le loro chiese furono chiuse, eccetto quelle del Gesù, di Santo Apollinare, in cui furono posti ad ufficiare cappuccini, minori osservanti e preti secolari, con proibizione di farlo essi Gesuiti pubblicamente, e nemmeno di farsi vedere nelle sagrestie. Il medesimo giorno essendosi adunata la congregazione dei cinque cardinali negli appartamenti della Rota al Quirinale, mandò ordine che il padre Ricci, superiore generale dei Gesuiti, fosse trasferito dalla casa professa al collegio inglese: il quale ordine fu messo ad esecuzione la sera, condotto e scortato il Ricci dai soldati al luogo destinato in una carrozza del cardinale Corsini, il quale, siccome persona di bontà, nè troppo avversa ai Gesuiti, il dimane gli mandò offerendo cioccolato, caffè ed altri simili delicature di cibi. A tale umile stato era ridotto un uomo che poc'anzi reggeva una compagnia ricchissima e potentissima in tutte le provincie cristiane dei due mondi, e che nato egli medesimo in una famiglia per antichità, per dignità e per beni di fortuna risplendente, ogni altra cosa piuttosto doveva augurarsi, che questa di dovere cibarsi dei cibi altrui. Dopo tre mesi poi venne, per le imprudenze di alcun suo amico servato in castel Santo Angelo. Gli assistenti del generale furono anch'essi dalla forza soldatesca sostenuti chi in una casa, chi un'altra. Ancorchè la bolla della soppressione de' Gesuiti fosse da tutti aspettata, poichè non s'ignoravano nè le istanze de' principi, nè che il papa già da lungo tempo biecamente li guardava, nè gli atti rigorosi che erano stati usati contro di loro nelle principali città dello Stato ecclesiastico, fu ciò, non ostante, con molta maraviglia e quasi stupore in Roma ricevuta. Alcuni avevano creduto che il papa non si sarebbe osato di dare un così gran passo, e di venire ad una tanta deliberazione, che stimavano poter riuscire di grave pregiudizio alla santa Sede. Altri si erano persuasi che si sarebbe trovato per ripiego, siccome n'era corso voce, di riformare solamente la società, non di estinguerla. Non si sa per quale proposito, ma certo è bene che il ministro di Spagna aveva in ultimo scritto alla sua corte pregando che della riformazione si contentasse. Ma era venuta risoluta risposta, che attendesse pure alla soppressione, e d'altro non gli calesse, perchè sapeva bene il re quel che si faceva. Ora in quella Roma solita a fare ed udire tanti discorsi sulle operazioni dei papi, si parlava diversamente, e secondo i diversi umori della deliberazione di Ganganelli. Chi le era contrario e per amore de' Gesuiti parlava, andava facendo varii commenti, ed aspre parole a pensieri aspri annestava. Dall'altra parte i difensori del papa non tacevano, nè i loro discorsi erano meno acerbi di quelli degli avversarii. Lungo sarebbe il riportare il molto che fu detto, ridetto e contraddetto in Roma, poi negli altri paesi intorno alla soppressione dei Gesuiti. Intanto per ogni luogo si andava sfasciando l'edifizio da papa Paolo eretto. I principi cattolici accettarono la bolla di Clemente quanto alla soppressione; ma rispetto ai beni della compagnia, che il papa aveva desiderato che si applicassero ad opere pie ecclesiastiche, i sovrani dichiararono che vi mettevano su la mano regia, e ne avrebbero fatto quell'uso che più vantaggioso avrebbero stimato allo Stato ed alla religione. Fecero anche qualche riserva in ordine a quelle clausole della bolla che contrarie fossero ai diritti della sovranità ed alle leggi ed usi del paese. Nominatamente la repubblica di Venezia aveva bensì accettato la bolla, ma colla condizione che fosse salva in tutto la condizione dei vescovi, salvi i diritti sovrani, le leggi ed il costume della repubblica, ed esclusa intieramente la comminatoria della scomunica. Il decreto del senato investì il patriarca della facoltà di eseguire il breve, quanto alla parte spirituale, con ciò però che nulla facesse senza l'assistenza di un senatore delegato. Volle altresì che il senatore prendesse possesso dei beni gesuitici a nome della repubblica, che si usasse ogni dolcezza coi religiosi soppressi, e che agli altri ecclesiastici si anteponessero così per le messe quotidiane come per gli altri esercizii spirituali. Parimente i serenissimi collegi di Genova s'impadronirono per decreto espresso di tutti i latifondi, di tutti i mobili ed immobili, di tutte le rendite, di tutti i capitali in oro ed argento, vasellame, libri, vasi sacri ed ornamenti che ai Gesuiti appartenevano, o di cui godevano, e così pure delle loro case, collegi e chiese che esistevano o fossero per esistere negli Stati della repubblica, ordinando ad una deputazione composta di tre senatori e quattro nobili di prenderne reale ed effettivo possesso, e di usare a questo fine tutti i mezzi che sarebbero necessarii. Allo stesso modo adoperarono gli altri sovrani d'Italia; il re di Napoli specialmente con molta condiscendenza verso la volontà del pontefice, il re di Sardegna con qualche amaro motto verso il breve, non perchè della soppressione non si soddisfacesse, ma per la disposizione del papa di voler dare una destinazione determinata ai beni dei religiosi soppressi, parendogli, come a Venezia ed a Genova era paruto, che ciò toccasse le prerogative della sovranità temporale. Già regnava in quel momento sul Piemonte, in luogo di Carlo Emmanuele III, morto ai 20 di febbraio del corrente anno, il suo successore e figliuolo Amedeo III. In ogni parte ebbe luogo l'umanità verso i vietati padri, nè soggiacquero ad altri rigori, se non quelli che derivavano dal tenore stesso della bolla. Solamente nella Valtellina, come prima vi si ebbe notizia della bolla di soppressione, il popolo si sollevò a furore, e li cacciò via con grida e minacce, mettendo anche a sacco i loro beni, case, chiese e collegi. Nella Germania cattolica il breve ebbe facile esecuzione, se si eccettui la città di Augusta, di cui il principe vescovo scrisse a Clemente, esservi i Gesuiti giudicati necessarii per utilità della religione, e però il pregava di contentarsi che seguitassero a vivere in comunità. Il papa non se ne soddisfece, e, maneggiando il negozio con prudenza, ottenne finalmente quel che desiderava, ed Augusta uniformossi al breve. Ma la volontà del pontefice diede in intoppo nella Slesia per l'opposizione del re di Prussia. Eranvi in quella provincia Gesuiti, a cui era commessa l'educazione della gioventù cattolica. Il re non volle che il breve vi fosse mandato ad effetto, e conservò que' padri nella direzione delle scuole con salvezza de' loro beni, case e collegi. Tra le ricerche fatte con estrema diligenza tanto da' commissarii apostolici in Roma quanto da' deputati de' principi nelle varie provincie d'Europa, e la minaccia della scomunica contro chi ritenesse le proprietà de' Gesuiti, non poche ricchezze si rinvenirono in arnesi, gioie, vasi così sacri come ad uso mondano, ed altre masserizie di gran valore. Rinvennesi eziandio una certa quantità di denaro contante; ma questa parte non riuscì all'aspettazione universale, essendosi ritrovata di gran lunga minore delle enormi somme che nelle riposte gesuitiche od in conservo presso i loro banchieri gli uomini si erano dati a credere essere accumulati; conciossiacosachè fosse voce che occultato avessero e messo in salvo più di ducentocinquanta milioni di franchi. Noi abbiamo di sopra accennato siccome al 20 di febbraio del presente anno il re Carlo Emmanuele III di Sardegna aveva abbandonato la vita, correndo l'anno settuagesimo secondo della sua età. Guerriero abile, amministratore diligente, principe d'ottimo costume, sarebbe per ogni parte da lodarsi, se in certe cose anche buone il volere far troppo non si voltasse in vizio. Lasciò del suo regno memorie notabili. Oltre ad altri benefizii, la Sardegna riconosce da lui la fondazione delle due università di Cagliari e di Sassari; e se da lodarsi era il pensiero di aprire que' fonti di utili sussidii in una contrada che molto abbisognava, ugualmente da lodarsi fu il modo con cui fu mandato ad effetto. Assegnaronsi ai professori emolumenti ragguardevoli per que' tempi, e sotto un principe piuttosto scarso che assegnato nello spendere, non furono certamente di poco momento. Fecesi diligente ricerca de' migliori e più dotti uomini, tanto nazionali quanto esteri per condurli ad insegnare nelle due novelle università. Si ordinò una buona disciplina per gli studenti, un acconcio metodo d'insegnamento per le scuole, una conveniente norma pegli studii. La Sardegna a nuova vita scientifica e letteraria sorgeva, e si rendeva manifesto che quell'antica terra era anch'essa feconda di felici ingegni. Giambattista Simon arcivescovo Turriano, Giannantonio Cossù, Giuseppe Cossù, Francesco Carboni, Francesco Maria Corongiù, Salvatore Mameli, Giuseppe Valentino, ed i Cetti ed il Gemelli, con molti altri, le scienze e le lettere nella famosa e per troppo lungo tempo dagli Spagnuoli negletta isola nobilitarono. Nè devesi defraudare della meritata lode il re per aver dato un migliore ordinamento ai monti frumentarii, o granatici, come si chiamavano in Sardegna, che per opera delle antiche corti, cioè assemblee generali degli Stati, avevano avuto principio. Erano questi monti frumentarii depositi destinati a sovvenire, accomodandoli per via di prestanze gratuite o di modico interesse di denari, gli agricoltori che da per sè non potevano, per mancanza di fondi, sementare le terre. Ma siccome avviene nelle umane istituzioni, anche le migliori, o per difettive ordinazioni sul principio o per abusi nel progresso, questi repositorii non corrispondevano più alle intenzioni de' fondatori, e si erano deviati dall'uso e dall'utile per cui stati erano istituiti. Per ritirare verso il suo principio una instituzione utilissima in un paese dov'erano ancora molte terre incolte, ordinò il re, cui erano ministri o consiglieri un Bogino, un Lodovico Costa della Trinità, un Vittorio Lodovico des Hayes, ordinò, a ciò movendolo principalmente la sentenza del Costa, che in ciascun luogo, per ristringere le cose sotto uniforme regola, vi fosse un magistrato d'uomini eletti così fra gli ecclesiastici come fra i laici (pensiero accomodato, perchè gli uni e gli altri avevano antichi diritti), i quali il locale monte avessero in governo; e perchè l'amministrazione con norma certa ed ordine stabile procedere potesse, per la ordinazione medesima furono statuiti i doveri di ciascuno, e le forme del governare, ed il modo dello spartimento de' frumenti, della riscossione de' crediti, del rendimento delle ragioni. Di grado in grado, affinchè più occhi la medesima cosa guardassero, salivano gli ufficii; in ogni diocesi fu creato un magistrato diocesano, al medesimo modo composto di ecclesiastici e di laici, ma dal vescovo presieduto, datagli la cura d'invigilare sui magistrati locali. Si fece poi provvisione che gli uni e gli altri, cioè ed i magistrati locali ed i diocesani, sopravvegliasse un magistrato supremo, che in Cagliari sedeva, ed a cui furono chiamati i principali uffiziali della corona, le prime voci d'ogni stamento ed altre persone che per zelo dimostrassero avere graziosa volontà verso i monti, e per pratica sapessero giovarli. Al buon pro loro usaronsi eziandio le servitudini, e ad opportuni ordini corrisposero conformi effetti. Diedesi con molto zelo opera ai lavori gratuiti comandati da chi per feudalità di chiesa o di spada ne aveva il diritto, i magistrati sopra i monti con ardore ed intelligenza li disponevano, accrebbersi i capitali, diminuissi il merito delle prestanze, con maggiore agiatezza vissero i coloni, molte terre, per lo innanzi sterili ed infeconde, divennero fertili e fruttifere, e produssero in pro della meglio amministrata isola copia d'ogni buona sostanza. Tanto potè una buona volontà regolata da buon giudizio! Moltiplicossene la popolazione della Sardegna, onde si può affermare che Carlo Emmanuele sia stato il più provvido e benefico sovrano che da molti secoli indietro ella avuto avesse. Carlo Emanuele non era uomo da lasciarsi trasportare dal secolo, posciachè i pensieri proprii non con istraniere forme, ma da sè formava; e nemico era di qualunque novità che non gli fosse paruta utile e buona per ogni parte. Ingegno molto riflessivo aveva, tanto forse eccessivo nella prudenza, quanto lontano dalla temerità. Tardo era nel determinare, tenacissimo nella cosa deliberata. Giusto era, e delle feudali cose sanamente pensava; ma, lento nel toccarle per timore di scrollare l'edifizio sociale di cui erano parte; pure si mosse. Erano in Savoia le mani morte a guisa dell'antico reame di Borgogna, di cui il primitivo dominio della casa di Savoia fu membro. Queste mani morte, ch'erano di due sorti, o delle terre o delle persone, ei regolò primieramente nel 1762, senza troppo conseguire il fine che desiderava, e poi definitivamente nel 1771, con grandissimo utile degli uomini e delle cose. Lodano alcuni Carlo Emanuele per aver dato miglior sesto alle costituzioni de' suoi Stati, opera già incominciata da suo padre. Certamente egli è in ciò da lodarsi, perchè ne risultò maggiore uniformità nell'amministrazione e nella giustizia, ma è da biasimarsi di non aver cancellato da que' codici i vestigii dei tempi barbari che non in picciol numero li contaminavano, massime circa lo stato delle persone ed i processi e giudizii criminali. Per essi si vedeva che le dolci dottrine che accennavano a miglioramenti nel governo dei principi verso i popoli, principalmente negli ordini giudiziali, poco o nulla avevano ancora penetrato, nè udite erano in piazza Castello della nobile e generosa Torino. Crudo non era punto Carlo Emmanuele, ma la tenacità della sua natura il teneva ch'egli quelle riforme, anche salva l'autorità regia, nelle leggi operasse che non che l'umanità, ma ricercavano ancora la giustizia e la religione. Già nei vicini regni e nei lontani un più benigno influsso andava consolando gli uomini, ed a migliori speranze chiamandoli; il Piemonte, a guisa delle rocche che il circondano, immobile durava, nè mostrava d'inchinarsi ai piacevoli venti. Già un Luigi, due Ferdinandi, un Giuseppe, un Leopoldo le condizioni degli uomini da loro governati ammollivano, ed a benefiche voci prestavano le orecchie; ma Carlo Emmanuele ai generosi esempi poco si moveva, quasi unicamente contento al travagliarsi intorno all'amministrazione, nella quale certamente molto valeva. Gli studii si fomentavano, purchè non uscissero da un disegnato e stretto cerchio. Nissuna vita nuova, nissun impulso, nissuna scintilla d'estro fecondatore; un aere grave pesava sul Piemonte, e i respiri impediva. Lo stesso vivere tanto assegnato del principe faceva che la consuetudine prevalesse sul miglioramento, e che nissuno dall'usato sentiero uscisse, ancorchè più facili, più utili e più dilettevoli strade di sè medesime facessero mostra in luoghi vicini. Dai duri lidi fuggivano Lagrange, Alfieri, Denina, Bethollet, Bodoni, e fuggendo dimostravano che se quella era per natura una feconda terra, aveva un gretto agricoltore. Carlo Emmanuele e Bogino si martorizzavano sui conti, e le generose aquile, sdegnose di quel palustre limo, a più alti e propizii luoghi s'innalzavano. Francia, Italia, Inghilterra, Prussia i nobili rampolli accoglievano, ed essi sopra alieni campi fruttificavano: Luigi Federico, Ferdinando, Leopoldo pagavano il debito di Carlo Emmanuele e del suo successore. Tuttavia è da terminarsi quanto di Carlo Emmanuele fu detto colle parole che un valente scrittor franzese, il signor Mimaut, antico console generale di Francia in Sardegna, lasciò in una Storia che ai giorni nostri pubblicò di quell'isola, riportandole quali le ha, nelle sue storie, tradotte il chiarissimo Botta: «Se mai tempo felice e prospero fuvvi per la Sardegna, certo fu quello del regno di Carlo Emmanuele III. Fu questo principe, succeduto a suo padre nel 1730, il migliore ed il più grande re che la casa di Savoia illustrato abbia. Ei godrà nella memoria degli uomini di una gloria tanto più pura, quanto che per benefizii e per virtù se l'acquistò, e per le sue fatiche a niun'altra cosa mirò che alla felicità de' suoi popoli. Non isfuggì a quest'eccellente principe, cui guidavano i savii consigli del conte Bogino, suo primo ministro, uno dei più abili statisti del tempo, suo Sully e suo Colbert, di quanta importanza per lui fosse la possessione di un'isola pur troppo dai suoi antichi signori avuta in non cale; perciò egli con più particolare amore amolla e coltivò.» Non così tosto il re Carlo Emmanuele era passato da questa vita all'altra, che il re Vittorio Amedeo, suo successore, si era con tutta la famiglia condotto alla Veneria, donde non ritornò a Torino se non dopo alcuni giorni; ma prima che vi giungesse, aveva mandato pel cavaliere di Morozzo, ministro degli affari interni, domandando al Bogino che dismettesse la carica di ministro della guerra e di Sardegna, conservatogli però lo stipendio e le pensioni di riposo; della quale carica fu investito il conte Chiavarina, segretario del gabinetto del re. Il marchese di Aigleblanche, della casa di san Tommaso, fu chiamato ministro degli affari esteri con soprantendenza degli archivii. Gli fu, dopo alcun tempo, surrogato il conte di Perone, e il conte Corte fu chiamato ministro degli affari interni in cambio del Morozzo. Il cardinale delle Lance, uomo di un fare generoso e grande, ma delle prerogative di Roma zelantissimo, il quale grande elemosiniere della corona era, domandò licenza, e l'ebbe, ed in suo luogo fu sostituito il Rovà, arcivescovo di Torino. Anno di CRISTO MDCCLXXIV. Indiz. VII. CLEMENTE XIV papa 6. GIUSEPPE II imperadore 10. Godeva il papa anzi prospera salute che no; poichè e di complessione robusta era, e le sue naturali forze non erano state consumate da vita intemperante e licenziosa; che anzi era sempre vissuto assegnato e parco, siccome a' suoi moderati desiderii si confaceva. Per tal modo si andava avanzando verso la più vecchia età, quando in uno di quei giorni della settimana santa del corrente anno, dopo di aver pranzato, si sentì in un subito una commozione nel petto, nello stomaco e nel ventre, come se compreso fosse da un freddo interno. Ne restò con istupore, essendo cosa insolita; ma pure, siccome quello che d'animo forte e costante era, attribuendo quell'insulto di male a caso fortuito, si riebbe, e a poco a poco si rasserenò. Tuttavia fu principio di un'infermità che era per rompere il filo della sua vita; imperciocchè gli si cominciò ad arrocar la voce, e per questa ragione, stimandosi che fosse afflitto di catarro, fu deliberato che per la cappella che dovevasi tenere nella basilica di San Pietro il giorno di Pasqua se gli mettesse un capannone o bussola per ricovero nel sito della cappella. Precauzione inutile, perchè gli si vide dopo alcuni giorni infiammata la bocca e la gola, quindi seguitare vomiti interrotti, ed eccessivi dolori nel ventre; le orine gli si impedirono, gli s'infievolirono le gambe, perdeva le forze, ed ogni giorno più si rendeva manifesto che il suo mortale corpo si andava disfacendo. Mormoravasi che di veleno si morisse. Forse egli stesso sel credeva, tanto era stato subito il male, e tanti erano i sospetti che regnavano. Certa contadina del paese di Valentano, Bernardina Beruzzi, che altri chiamavano Peronchini, famosa profetessa, aveva predetto la morte del Ganganelli ad insistito sulla predizione, come se esser dovesse effetto d'una trama. Ganganelli non era uomo da lasciarsi spaventare da simili baie fatte per dar pasto agli sfaccendati su per i trivii e su per le piazze, e Bernardina teneva in quel concetto che meritava, cioè di una sciocca o d'una furba. Ma da un'altra parte, conoscendo quanto sotto dolci spoglie certa gente nascondesse d'odio e di vendetta, provvedeva a sè medesimo, e la propria salute con tutti i mezzi più prudenti procacciava. Scrissero che furongli trovate pillole contro i veleni. La vitale forza interna mancava, stante che un umore litigginoso, ch'era solito sfiorirgli alla pelle, quell'anno non uscì. Già la morte si avvicinava. Successe un po' di calma, come suole avvenire poco innanzi che l'uomo sia venuto all'ultimo confine della vita, come se Dio avvertire volesse i mortali di pensare ai fatti loro in quell'estremo momento. Già i famigliari si rallegravano, come se il loro signore a sanità tornasse. Ma la calma era preceditrice della morte. Ricomparirono in un subito i funesti segni, e la mattina de' 22 settembre Ganganelli esalò la forte anima, rendendola a colui che gliel'aveva data. Fu sparato il cadavere. Trovaronsegli lividori nelle intestina, la pelle ancor essa illividita ed in alcuni luoghi nera; tutta la salma rendeva un fetore insopportabile. Crebbero i romori che il santo padre fosse stato avvelenato, non già perchè le apparenze dell'esplorato cadavere ciò dimostrassero, perciocchè si osservano anche nei morti senza veleno e da morti naturali tolti da questa vita, ma perchè gli uomini si erano mattamente dati a credere che colui che aveva soppresso i Gesuiti non di morte naturale, ma di tossico dovesse morire. Gli uni affermarono l'attossicamento per certo, gli altri con eguale asseveranza il negarono. Del resto, è da credere che dal detto al fatto ci sia una gran distanza, nè si vede che i medici che il cadavere hanno tagliato abbiano dichiarato avervi trovato sostanza velenosa, cosa che sola avrebbe potuto levar via ogni dubbio. La morte di Clemente increbbe a tutti coloro che amavano di vedere la sincera religione unita alla paterna sopportazione. Papa unico il chiamavano, papa quale ad un secolo scrutatore ed inquieto si conveniva. Sono parecchie cose al mondo che più colla bontà si acquistano che colla ragione; perocchè niuno è che la bontà non ami, ma la ragione ha spesso per nemico chi ella convince. Tutti i sovrani avevano in venerazione Clemente; nè solo i cattolici, ma ancora quelli di religione diversa. Federigo di Prussia, fra gli altri, assai del buono e spiritoso papa si soddisfaceva, ed amava di contentarlo. Da lui impetrò che il vescovo di Breslavia potesse visitare una parte de' suoi diocesani, agevolezza che non aveva mai potuto ottenere da' predecessori. «Che buon papa, che buon papa ha Roma,» diceva Federigo, e il diceva da vero, non per malizia, quantunque malizioso fosse. Il nome di Clemente era in onore in Inghilterra. Vedevansi a Londra frequenti, così ne' luoghi pubblici come nelle case dei privati, i busti di questo pontefice. Le quali cose quando gli venivano riferite, ei rispondeva: «Volesse pur Dio che ciò che fanno per la persona, il facessero per la religione!» In somma in quel paese, tanto abbondante d'uomini sensati, tanto era nominare Ganganelli quanto Lambertini, due papi simili per dottrina, per saviezza, per bontà, per ingegno. Nè minori sentimenti di rispetto e d'affetto nodriva per Ganganelli l'imperadrice di Russia, la quale gli scrisse lettere molto onorevoli per impetrare un vescovo cattolico a regola e consolazione de' prelati e religiosi del rito romano che abitavano ne' suoi Stati. Dicono che l'egregia fama di Clemente fosse anche penetrata sino a Costantinopoli, e che il soldano molto l'onorasse. Fu anzi tramandato alla memoria che il sovrano de' Turchi abbia detto un giorno parlando, all'ambasciatore di Venezia: «Se tutti i vostri papi fossero come quello che presentemente avete, i nostri patriarchi greci non si mostrerebbero tanto dalla corte di Roma alieni. Egli è un saggio che molto sa e rettamente procede, e non fia che ai più lo somiglino le età future.» I Turchi, i protestanti, i Russi, gli Inglesi stessi, tanto odiatori del papato, lodavano quel papa che altri con malediche penne lacerava. Le lodi stesse dei dissidenti gli erano imputate a delitto, come se la durezza e la cupidigia de' due papi della famiglia de Medici e di alcuni altri non avessero partorito abbastanza amari frutti per la Chiesa cattolica, e specialmente per la sede di Roma. Clemente, assunto al pontificato, aveva seguito il suo consueto costume quanto alla vita privata, da umile fraticello vivendosi qual era stato, ma nelle udienze e funzioni pubbliche non mancava in lui la magnificenza. Molto ancora si studiava di abbellire la sua Roma. Promosse ed ingrandì l'opera già cominciata da Lambertini, di adunare in un museo che ancora oggidì del suo nome di Clemente si chiama, preziosi residui dell'antichità. Raccolse i già noti, trovonne in quel fecondo suolo degl'ignoti, e tutti collocava in luogo appropriato, a maraviglia dei curiosi, ad istruzione degli studiosi delle belle arti. Parve che l'antica terra alle generose intenzioni del pontefice sorridesse; imperciocchè, tentata, versava fuori in copia le opere preziose degli scarpelli de' secoli passati. Le reliquie della nostra religione, i residui della pagana ad un tempo adunava. Gli uomini di gentilezza informati o di studio desiderosi di ciò il commendavano molto; ma divenne argomento di nuova accusa dall'altro lato, biasimandolo i suoi nemici dello aver mescolato le cose sacre colle profane, come se un museo d'antichità fosse una chiesa. Piacevagli visitare sovente quelle onorande depositerie de' nostri antichi padri; piacevagli mostrarle egli stesso in persona ai forestieri che la sempre gloriosa Roma visitavano, e fra le maraviglie che vi si vedevano, il buon pontefice stesso non era la minore. Ebbe particolare cura della libreria del Vaticano, cui in singolar modo adornò di stampe, di testi a penna, di medaglie: crebbe a' suoi tempi per gli sforzi suoi, crebbe per generosità del cardinal Passionei, suo amico, ed a lui molto somigliante, il quale l'arricchì della sua. Gentili spiriti nudriva allora Roma, come sempre; ma questa volta erano dati loro liberi e fecondi cambi da chi reggeva. Anche all'utilità Ganganelli mirava. Non omise il pensiero de' porti d'Ancona e Civitavecchia, pei quali ordinò utili riparazioni. Provvide alla comodità delle strade, in ogni parte dell'amministrazione de' pubblici invigilava, più da padre di famiglia procedendo che conosceva le necessità dal mondo. Ma che dirassi di quella sua deliberazione per cui proibì la castratura de' fanciulli, infame usanza, che disonorava la Italia e cambiava un piacere divino, voglio dire quello del canto, in un dolore angoscioso per chi aveva ancora viscere d'umanità. Così comandò, così ottenne; ma tante erano le radici dell'orribile costume, che ripullulò; e se il cielo non aiuta la nobile provincia, temo che lungo tempo ancora sia per durare. Quei che dovrebbero non lo biasimano, i padri dei miseri fanciulli non l'abborriscono, e vi è ancora chi si diletta di sì crudele snaturato scempio. Ganganelli fu papa in tutto assai diverso da' più. Ebbe in dispregio il nepotismo, nè alcuno de' suoi trasse a dignità, e meno al cardinalato. A quelli che gli raccomandavano i parenti, rispondeva che tutti li portava in cuore, gli amava, ma che se ricchi non erano, neppure non erano poveri, ed abbastanza ricco stimava chi con moderate sostanze, moderati desiderii aveva. Non volle empire l'ambizione di nissuno. I suoi parenti prediletti erano i poveri, tirando sempre mai sopra di sè i loro affanni, e a loro con giudizio e discrezione soccorrendo per non farli viziosi. In somma, ei sarebbe stato papa di perfetta fama appresso a tutti, se non avesse soppresso i Gesuiti. Questo solo gli procurò amarezze in vita, riprensione dopo morte. Languiva intanto nel suo carcere il Ricci. Nè dalle lettere intercette nè dalle risposte da lui date ne' costituti del processo che gli fu fatto negli ultimi mesi dell'anno 1773 e ne' primi del presente nè da altro suo andamento risultò che egli si fosse stimato ancora investito, dopo la soppressione pronunziata dal papa, di quell'autorità che aveva, essendo generale della compagnia, esercitato, nè che avesse nascosto grosse somme di denaro, siccome il mondo aveva creduto. Non venne in luce alcun suo reato particolare, nè fu interrogato sulle massime ed artifizii che imputavansi alla compagnia e da' quali si fece derivare la sua soppressione. Gli esami s'indrizzarono piuttosto sui fatti personali del carcerato che sulla natura e sugli atti della società. Invecchiava intanto ed all'ultima sua fine si avvicinava. Volle prima di morire fare una protesta tanto sulla innocenza propria, quanto su quella della compagnia: «L'incertezza del tempo, scrisse di proprio pugno, in cui a Dio piaccia chiamarmi a sè, e la certezza che un tal tempo sia vicino, attesa l'età avanzata, e la moltitudine, la lunga durata e la gravità de' travagli troppo superiori alla mia debolezza, mi avvertono di adempire preventivamente i miei doveri, potendo facilmente accadere che la qualità dell'ultima malattia m'impedisca di adempirli nell'articolo di morte. Pertanto, considerandomi sul punto di presentarmi al tribunale d'infallibile verità e giustizia, qual è il solo tribunale divino, dopo lunga e matura considerazione, dopo avere pregato umilmente il mio misericordiosissimo Redentore e terribile giudice a non permettere ch'io mi lasci condurre da passione, specialmente in una delle ultime azioni della mia vita, non per veruna amarezza d'animo, nè per verun altro affetto o fine vizioso, ma solo perchè giudico esser mio dovere di rendere giustizia alla verità ed all'innocenza, faccio le due seguenti dichiarazioni e proteste: Prima. Dichiaro e protesto che l'estinta compagnia di Gesù non ha dato motivo alcuno alla sua oppressione. Lo dichiaro e protesto con quella certezza che può moralmente aversi da un superiore bene informato della sua religione. Seconda. Dichiaro e protesto ch'io non ho dato motivo alcuno, neppure leggierissimo, alla mia carcerazione. Lo dichiaro e protesto con quella somma certezza ed evidenza, che ha ciascuno delle proprie azioni. Faccio questa seconda protesta solo perchè necessaria alla riputazione dell'estinta compagnia di Gesù, della quale ero preposito generale.» Esposto poi che non intendeva che, in vigore di queste sue proteste, potesse giudicarsi colpevole avanti Dio veruno di quelli che avevano recato danno alla compagnia di Gesù o a lui, continuò dicendo: «E per soddisfare al dovere di cristiano, protesto di avere sempre col divino aiuto perdonato e di perdonare sinceramente a tutti quelli che mi hanno travagliato e danneggiato, prima cogli aggravii fatti alla compagnia di Gesù e con le aspre maniere usate coi religiosi che la componevano: poi colla estinzione della medesima e circostanze che accompagnarono l'estinzione; e finalmente colla mia prigionia e con le durezze che vi sono state aggiunte, e col pregiudizio annesso della riputazione; fatti che sono pubblici e notorii a tutto il mondo. Prego il Signore di perdonare prima a me per sua mera pietà e misericordia e per i meriti di Gesù Cristo i miei moltissimi peccati, e poi di perdonare agli autori e cooperatori dei sopraddetti mali e danni; ed intendo di morire con questo sentimento e preghiera in cuore.» Le quali cose scritte, Ricci terminò la sua scrittura pregando, e scongiurando qualunque la vedrebbe, di renderla pubblica a tutto il mondo per quanto potesse. Di ciò pregò e scongiurò per tutti i titoli di umanità, di giustizia e di carità cristiana che possono a ciascheduno persuadere l'adempimento di questo suo desiderio e volontà. Anno di CRISTO MDCCLXXV. Indiz. VIII. PIO VI papa 1. GIUSEPPE II imperadore 11. Geloso e importante negozio era il dare a Clemente un successore che a Roma ed al mondo cattolico si convenisse. I sovrani stavano attenti, acciò non fosse promosso alla cattedra pontificale un cardinale, di cui si potesse sospettare che fosse per rimettere in vita l'estinta compagnia. Ognuno prevedeva che, stante lo spirito del secolo, un papa che sentisse del severo, non sarebbe piaciuto; e bene avea detto il grande Lambertini, quando delle contingenze dei tempi parlando, si lasciò uscir di bocca le seguenti parole: «Questo è tempo da appiattarsi e da dar del buono. Fortunati noi, se, dopo di avere tanto gridato contro i quattro articoli del clero di Francia del 1682, vedremo che i popoli se ne contentano e si ristanno e non vanno più oltre.» Da' un altra parte la parsimonia del fraticello di Sant'Arcangelo pareva fuori di proposito in un secolo in cui la vita interiore era quasi ridotta al niente, e tutta esteriormente si mostrava. Parve ad ognuno che nel cardinale Angelo Braschi si accoppiassero le qualità che si desideravano. Molto splendore nella persona e nel procedere aveva, e sebbene fosse debitore della sua esaltazione alla porpora cardinalizia ai Gesuiti, essendovisi molto adoperato ai giorni della sua potenza il generale Ricci, la natura sua ne l'allontanava. Aveva eziandio voce di persona dabbene, avendo maneggiato parecchi anni con rettitudine le faccende dalla camera, e siccome voce aveva, così era veramente persona dabbene. Queste considerazioni, oltre i voti fermi a sua voglia che aveva per l'aderenza dei principi, gli procuravano tanto favore, che quasi con tutti i voti fu in un non lungo conclave chiamato papa, il dì 14 del mese di febbraio del presente anno. Poche assunzioni di pontefici cagionarono tanta allegrezza nei popoli, massime nel romano, di quella d'Angelo Braschi, il quale, come è noto, elesse il nome di Pio VI. Auguravano, considerando l'indole sua generosa, che pace per la religione, larghezza ed abbondanza per Roma vi sarebbe. Felicissimi principii che ebbero funestissimo fine, non già per colpa sua, ma dei tempi. Dopo la creazione di Pio si parlava tuttavia con molto calore dei Gesuiti. Erano gli uomini particolarmente attenti al vedere che fosse per avvenire del generale Ricci, che sempre stava rinchiuso in castel Sant'Angelo con molta diligenza. Il nuovo papa, piuttosto per timore che i principi si lamentassero se Ricci liberasse, che per inclinazione o sentenza propria, seguì a tenerlo in cattività, procurandogli però tutte quelle agevolezze e comodi che in una prigione l'uomo carcerato può sperare. I principi avevano gelosia che se l'antico capo della società proscritta divenisse libero, la raggroppasse e integrasse, se non in forma aperta, almeno in segreta. Ma Ricci il 19 novembre riceveva il santo viatico in occasione della sua ultima malattia, e, nell'atto di riceverlo, le medesime proteste e dichiarazioni ripeteva che avea fatte l'anno innanzi, e che furono a lor luogo riportate. Preso il santo viatico, Ricci dopo due giorni passò da questa all'altra vita. Pio VI volle onorare morto colui che non aveva potuto liberare vivo. Per ordine suo gli furono fatte, il dì 26 di novembre, solenni esequie, non già nella parrocchia del castello dove solitamente si uffiziava pei morti in quelle carceri, ma nella chiesa di San Giovanni de' Fiorentini, chiesa della sua patria. Il vescovo di Comacchio celebrò le esequie e predicò Ricci come martire. Il cadavere fu portato la sera alla casa professa, dove venne sepolto fra le ossa dei suoi predecessori. Un singolar ragionamento si è fatto intorno al Ricci dagli avversi agl'Ignaziani che porta il pregio di qui riportare. «Chi attentamente, dicevano, le proteste e dichiarazioni del Ricci, scritte del resto con tanto maggiore forza quanto più spirano semplicità e mansuetudine, considererà, giudicherà certamente, che siccome i fatti sui quali i principi fondarono le loro querele contro la compagnia di Gesù ed il papa la sentenza dell'estinzione, erano notorii a tutto il mondo, e però a nissun modo si potevano o si possono recare in dubbio, così o Ricci non gli stimava riprensibili o dannabili, il che dimostrerebbe una larghezza di coscienza veramente maravigliosa e oltre ogni misura temeraria; o, volendo farli tenere per falsi, mentiva agli uomini e a Dio in quel momento stesso in cui era vicino di comparire alla presenza di colui che non si lascia dalle bugie e dagl'inorpellamenti ingannare.» Anno di CRISTO MDCCLXXVI. Indiz. IX. PIO VI papa 2. GIUSEPPE II imperadore 12. I lieti augurii del nuovo pontificato cominciarono in principio di quest'anno a smentirsi per una contesa insorta colla corte di Napoli, che presagire in vece fece a molti la procellosa condizione del pontificato medesimo. Con suo speciale decreto fu dal re Ferdinando IV abrogato il costume antico di quella corte di presentare ogni anno con grande solennità una chinea al papa, il che come un omaggio riguardavasi dovuto in ricognizione della corona di Sicilia. E colla chinea presentavasi una cedola di dodici mila ducati, che parimenti come tributo ricevevasi, e da quel re fu collo stesso decreto ordinato che tale somma si offrirebbe come semplice limosina. Si ristabilì tuttavia la concordia tra le due corti, e la ceremonia della presentazione della chinea continuò ad adempirsi nella vigilia di San Pietro dal contestabile Colonna, che nominato era ambasciatore straordinario di Napoli per quella solennità. Se non che la presentazione facevasi in un modo consentaneo soltanto agli artifizii politici consueti, perchè, mentre l'ambasciatore offeriva il donativo come limosina ai santi Apostoli Pietro e Paolo, il papa la riceveva come tributo di vassallaggio per la corona di Sicilia. Un'illustre cerimonia fu in quest'anno rinnovata sul Campidoglio romano. Fin dall'anno 1341, Francesco Petrarca, pieno di meriti, era stato dal favore del principe Stefano Colonna portato a vedersi fregiata la fronte della poetica corona nel luogo stesso ove un tempo incoronavansi colla stessa fronda gli sterminatori degli uomini. Nel 1595, eguale onore, per mezzo e colla cooperazione del cardinale Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, apparecchiavasi all'immortale Torquato quando invida la morte il tolse al meritato trionfo. Il cavaliere Bernardino Perfetti, celebre verseggiatore sanese, che con impareggiabile facilità improvvisava versi italiani, e versi pieni di sugo, e non di sole frasche, come si esprime il sommo Muratori (tom. VII, col. 521), fu nel 1725 incoronato di alloro, per protezione di Violante di Baviera, vedova gran principessa di Toscana. Quest'anno, una donna di Pistoia, Maddalena Morelli Fernandez, in Italia conosciuta sotto il nome di Corilla Olimpica, divenuta famosa pel dono dei versi estemporanei, era stata coronata nel serbatorio dell'Accademia di Roma con grande applauso di quei dotti accademici. Ma o che di ciò non paga fosse la Toscana Saffo, o che i suoi ammiratori nol fossero, alle istanti sollecitazioni del custode dell'Arcadia presso il governo romano, ed ai maneggi del principe Gonzaga di Castiglione, conseguì ella l'ambito onore di essere coronata solennemente nelle sale stesse del Campidoglio. Dal che una grande scissura sorse tra i letterati, ed in seno della stessa accademia, gli avversi alla donna, o i più severi, o i più invidiosi, quell'atto chiamando una profanazione dell'alloro al Petrarca ed al Perfetti donato, al Tasso destinato. Le satire e le ingiurie fioccarono da varie parti, e produssero processi e rovine dei meno prudenti; in mezzo al quale trambusto, la coronata poetessa, uscendo del Campidoglio al suono dei fischi degli avversarii più sonori degli applausi de' benevoli, dovette allontanarsi da Roma, scortata da gente armata, per non trovarsi esposta a maggiori dileggi e ad oltraggi ancora. Altra mercede intanto dava la Superba Genova ad un suo cittadino. Il doge Giambatista Cambiaso, decesso nel 1773, aveva a proprie spese, che sommavano ad alcuni milioni di quella moneta, costrutta la pubblica magnifica e spaziosa strada che al commercio apriva libera la comunicazione tra quella capitale e la Lombardia austriaca. Fece dunque la repubblica collocare nel salone del gran palazzo della signoria una statua di marmo rappresentante questo suo cittadino e principe, che fosse ad un tempo gloria di lui e monumento della civica riconoscenza. Anno di CRISTO MDCCLXXVII. Indiz. X. PIO VI papa 3. GIUSEPPE II imperadore 13. Già da circa quattro anni regnava sul Piemonte il re Carlo Emmanuele. Dalle mutazioni al suo avvenimento succedute, e già al proprio luogo riferite, i Piemontesi si auguravano miglior condizione, non tanto perchè così suole avvenire in ogni cambiamento di signore, quanto perchè il nuovo re aveva voce d'uomo generoso e molto lontano dal procedere stretto e scarso del padre. Diede anche alcuna contentezza ai popoli il vedere allontanato dai consigli della corte il cardinale delle Lance di cui si conosceva l'eccessiva dipendenza da Roma; onde sperarono che le ragioni della potestà laica sarebbero meglio preservate, e si fosse per vivere con qualche maggiore larghezza rispetto alle pratiche della esterior disciplina, le quali, quando con soverchio rigore ristrette sono, fanno gli uomini più ipocriti che religiosi. Solamente dava noia il conoscersi l'umore guerreggevole, di cui Vittorio era dominato, e l'usare prodigalità, come ei faceva, principalmente verso i suoi soldati; prodigalità che ogni termine di larghezza oltrapassava. Onde accadde che per lo spendio eccessivo si fusero e scialacquarono le sostanze pubbliche, ed in breve tempo restò esausto il tesoro lasciato pieno dal padre, che la fama affermava sommare a dodici milioni di lire piemontesi. Il debito pubblico s'accrebbe di tal maniera, che, quando vennero i tempi grossi, la monarchia ne restò sobbissata ed oppressa. Ma nel corso del suo vivere ed usare prodigalmente Vittorio, siccome generoso era, molte opere degne di memoria lasciò, e di utilità non poca; imperciocchè e l'accademia delle scienze, che per lo innanzi era semplice e privata società fondata da quei tre sommi uomini Lagrange, Saluzzo e Cigna, con decreto reale approvò; e fondò la specola e l'accademia di pittura e di scoltura. Fra le opere utilissime da lui promosse debbesi annoverare quella d'avere, acciocchè i cadaveri più non si seppellissero nelle chiese, eretto fuori della città, in riva il Po, il cenotafio. Da lui deve eziandio Torino riconoscere il beneficio d'essere illuminata la notte. Nè è da tacersi che, dando ascolto ad uomini chiari per dottrina e gelosi della prosperità del paese, ei creò l'accademia agraria, da cui non poco pro sorse per la coltivazione dei campi, principale fonte di ricchezza per quella subalpina regione. Agli uomini dotti e zelanti della buona coltivazione de' campi aggiunse mezzi insoliti di fertilità, con condurre canali d'acque irrigatrici ne' luoghi che più ne abbisognavano. Fra gli altri è da ricordare quello che da rimpetto a Cuorgnè conduce l'acque limpidissime dell'Orco a Chivasso; per la qual bisogna ei fu d'uopo cavare in molta lunghezza due monti, opera che non senza maraviglia si vede in essere anche a' dì nostri nel territorio di San Giorgio Cavanese. Quindi poscia, entrando in ciò che più gli andava a genio, con nuovo modo ordinò le soldatesche, modo che, come troppo complicato, non ebbe l'approvazione degli uomini periti di milizia. Alzò la fortezza di Tortona, cavò il porto di Nizza, la strada dalla capitale a quella marittima città a maggiore comodo ridusse, alle fortificazioni di Villafranca migliore forma procacciò, sussidio inutile, poichè un urto tremendo venne di fuora, e le radici di dentro erano difettose. Mancò il denaro, principale nervo della guerra, e soprabbondarono smoderatamente le soldatesche, da cui, contuttochè buone fossero e valorose, non potè salvarsi lo Stato; che anzi in certo modo l'oppressero, pel numero stesso nocquero e la macchina sfondarono. Del rimanente, Vittorio Amedeo fu principe di buono ed alto animo, nè gli dispiacevano i generosi pensieri. Lasciò che nella università di Torino da professori egregi s'insegnassero le dottrine che la potestà temporale dagli abusi della spirituale preservavano, ancorchè il cardinale delle Lance alcuna volta lo sgridasse; e taluno ricorda che, volendo un famoso libero muratore fondare in Torino una di quelle sue congreghe, e domandatane la permissione al re Vittorio gli rispose: «Lasciatemi stare, che il cardinale mi sgrida; non voglio brighe coi preti. Oh, va, ed abbi pazienza, che anch'io l'ho.» Dilettavasi della conversazione de' letterati, e si faceva spesso venire avanti l'abbate Morando, prete acerbo, ma che scriveva libri a dilungo con qualche novità, e fra quegli ori il faceva sedere, e parlava con lui di lettere, e tratto tratto apriva il forzierino, e dava doppie d'oro all'abbate, che poi sen andava molto ben contento. Tal era Vittorio. Per la sua natura benigna e generosa, questo principe era fatto per ordinare utili riforme e cambiare il male in bene. Forse le avrebbe fatte in un tempo massimamente in cui suonava tanta fama di quelle che Giuseppe e Leopoldo andavano facendo in Lombardia ed in Toscana, se non fosse stato ritenuto da una nobiltà superba ed imperiosa, nè tanto disposta all'obbedienza delle inclinazioni soldatesche. Il buon uomo non capiva in sè dal piacere, quando vedeva i suoi soldati schierati, e più ancora quando li faceva vedere ai principi che il venivano visitando, a Paolo di Russia, a Gustavo di Svezia e Ferdinando di Napoli. Nè poca noia sentì, quando Paolo gli disse che i fucili de' suoi soldati erano, non so se troppo lunghi o troppo grevi, o per sè stessi o per le baionette, onde i colpi, per la stanchezza delle braccia troppo abbassandosi, andavano verso terra, e non potevano bene ammazzare la gente. Non poteva sopportare che i suoi soldati fossero criticati. In somma soldato era ed amava i soldati, e portava il collo piegato a guisa di Federigo di Prussia. Infelice, che non prevedeva che oltr'Alpi un tale sobbisso di guerra si andava preparando che, i proprii soldati soperchiando, avrebbe condotto lui, il suo Stato e la sua casa in perdizione! Erasi bensì Clemente XIV riconciliato destramente colla corte di Portogallo, ma ricuperato non aveva tuttavia il potere di cui la romana corte godeva in Lisbona al cominciare nel pontificato di Clemente XIII. Si sospettava da alcuni che la controversia fosse ravvivata dal marchese di Pombal, da altri, che opera fosse del partito de' Gesuiti, il quale ancora si agitava dopo la soppressione loro. Tornato era bensì un ambasciatore portoghese in Roma, e un nunzio apostolico era egualmente passato a Lisbona; ma eretto erasi in quella città un tribunale che ristringeva ne' più angustissimi limiti la giurisdizione della corte di Roma, e que' diritti che i papi in quel regno per lungo tempo conservati avevano con grandissima gelosia. In quest'anno morto essendo il re Giuseppe I, la regina Maria esiliato aveva il Pombal, e abolito il tribunale destinato a frenare la pontificia autorità, al quale dovevano presentarsi tutti gli atti alla nunziatura relativi. Non fu dunque se non sotto il pontificato di Pio VI, e precisamente in questo tempo, che tutti i diritti della nunziatura furono ristabiliti, e che con una specie di trattato si venne ad un'aperta concordia tra le due corti. Dopo le cose maggiori, non farà dispiacere il trovare in questi Annali registrate alcune altre glorie dell'Italia nostra. Padova e Bologna in due differenti secoli avevano veduto un singolare spettacolo. Lucrezia Elena Cornaro Piscopia nel 1678 era stata decorata della laurea dottorale di filosofia nell'università di Padova alla presenza di un numero grande di dotti, di nobili veneziani e di altri gran signori ivi concorsi da tutta Italia per sì estraordinaria funzione. Lo stesso onore del dottorato ebbesi in Bologna nel 1732 pel suo gran sapere e pe' talenti suoi sommi Laura Bassi, alla presenza de' cardinali Lambertini e Polignac. Ora anche Pavia vide in quest'anno premiarsi il merito d'una valorosa giovanetta. Maria Pellegrina Amoretti d'Oneglia, sostenuti rigorosi esami in quella università, ricevette la dottoral corona in legge, vera ed estrema ammirazione destando in ognuno colla profonda sua dottrina in tutti i rami della giurisprudenza. Anno di CRISTO MDCCLXXVIII. Indiz. XI. PIO VI papa 4. GIUSEPPE II imperadore 14. Tutti i principi, tutti gli Stati d'Italia studiavansi a gara di aumentare, in seno alla pace, la ricchezza territoriale de' loro sudditi, promuovendo regolarmente la agricoltura ed il traffico. Regnava, come ognun sa, sulla Lombardia l'imperatrice Maria Teresa, e colle più savie leggi, coi più opportuni regolamenti promoveva essa pure la prosperità di quella provincia. Nè deve omettersi, tra le più gloriose imprese del suo regno, il compimento dato allora alla grande opera del censimento della Lombardia medesima. Il papa sembrava che emular volesse a quegli sforzi generosi, e studiavasi a trarre le provincie della Chiesa dallo stato di languore nel quale da più secoli giacevano relativamente al traffico ed all'agricoltura. Il desiderio ardente di rendere alla coltivazione un gran numero di terreni incolti e deserti l'idea gli suggerì di asciugare con immenso spendio le paludi Pontine. Il disegno n'era già stato conceputo più volte, le operazioni relative erano state proposte dal celebre Eustachio Zanotti; ma, morto questi senza poterle eseguire, Pio adottati ne aveva con calore i suggerimenti. Credettero alcuni che la brama egli nudrisse di segnalarsi e rendersi immortale con una impresa, nella quale riusciti non erano Martino V, Sisto V e molti altri pontefici, senza dire de' Romani e de' Goti che nel difficile esperimento gli avevano preceduti; furono altri d'avviso che, riducendo a coltivamento quella immensa pianura, disegnasse già di formarne un bellissimo principato pe' nipoti. È d'uopo però notare, dice il ch. Bossi, contro il parere di varii storici, massime oltramontani, ingannati sovente da false relazioni, che per più anni dopo il suo innalzamento non volle mai il pontefice usare di alcuna compiacenza, nè, molto meno, di alcuna distinzione verso i nipoti suoi, e solo per le replicate istanze del cardinale Giraud s'indusse a chiamarli in Roma da Cesena, dove per lungo tempo lasciati gli aveva. Il disegno dell'asciugamento delle paludi Pontine di qualche tempo prevenne adunque il supposto nepotismo di questo papa. Non potè egli però ne' primi anni del suo regno attendere a quel grande lavoro, nè gli fu tampoco dato, di compierlo interamente benchè dopo il 1780 già fosse aperto un grandioso canale per condurre al Mediterraneo le acque che da prima impaludavano, e formata fosse già a canto a quel canale una strada magnifica, che framezzo alle paludi medesime guida i viaggiatori a Terracina. Non è di questo luogo l'investigare le cagioni per cui quell'opera grandiosa non fu condotta al suo termine, o almeno ad un risultamento che proporzionato fosse alle immense somme in essa profuse; ma la storica verità domanda che si annunzii quello come uno de' tentativi più nobili, più grandiosi e più profittevoli allo Stato pontificio, e come un'impresa che, sebbene non compiuta, renderà tuttavia immortale il nome di quel pontefice. Di tutte le cose che dette si sono da scrittori imprudenti, e sovente ignoranti o parziali, intorno all'opera soprammentovata, opera degna dei secoli dell'antica Roma, da notarsi è come la più giusta, la riflessione fatta da alcuni che, per ridonare alla coltivazione ed alla prosperità lo Stato ecclesiastico, cominciare dovevasi dal render salubre e dal popolare la campagna di Roma, la quale, forse senza lo sborso di somme eccessive, si sarebbe potuta rendere uno dei paesi più ricchi e più fertili dell'Italia, se ai coltivatori soltanto si fosse accordata piena libertà di comperare e di vendere; principio, senza del quale non si risveglia la operosità e l'industria d'una nazione, ma che direttamente si opponeva al modo di accivimento della moderna Roma, ed ai politici regolamenti che concernevano al commercio de' grani. Cosa ella è assai facile da comprendere che con questi politici impedimenti formata non si sarebbe, anche colla perfezione delle opere, una fertile provincia nelle paludi Pontine. E poichè si parla delle imprese di Pio riferibili a questi tempi, non voglionsi tacere nè la sagrestia di San Pietro in Vaticano, nè il museo Pio-Clementino, grandiosi monumenti al suo genio dovuti. Il più gran tempio che sulla terra sia mancava di quest'accessorio che gli fosse corrispondente; e se neppur questo corrispose al concetto desiderio, restandone infinitamente inferiore per la proporzione, non fu colpa della magnificenza di Pio, ma sì bene dello scarso ingegno dell'architetto, il quale, avendo sopraccaricato l'edifizio di decorazioni, scolture, pitture, dorature, attirossi quel detto di Apelle: «Non valendo a farlo bello, il fece ricco.» Il museo era stato principiato da Clemente XIV e compiuto con pari magnificenza che squisitezza. Pio VI vi aggiunse due bracci che, andando a terminare in un atrio di forma circolare, per esso aprivano un passaggio alla celebre libreria Vaticana. Stupende per numero e per qualità le cose quivi dal pontefice in questo preziosissimo museo adunate, troppo in lungo ne trarrebbe il solo annoverarne le principali, sicchè meglio stimiamo il tacerne, che il dirne meno che si convenga. In quest'anno Leopoldo di Toscana manda sue navi a trafficare al Malabar ed alla China; riceve un ambasciatore dell'imperador di Marocco, e con esso stringe con un trattato la pace; un altro trattato col papa determina i confini dei rispettivi Stati, sempre perturbati dall'incerto corso del torrente Chiana. In quest'anno mancò a vivi quella Laura Bassi, del cui dottorato in Bologna dicemmo nell'anno precedente: avea dettato filosofia dalla cattedra nella patria università; l'era stata coniata una medaglia; e lasciava inedito un poema epico sulle ultime guerre d'Italia. Mancò eziandio Giambatista Piranesi, intagliatore ad acqua forte ed a bulino esimio, gloria e splendore dell'arte in Italia. Anno di CRISTO MDCCLXXIX. Indiz. XII. PIO VI papa 5. GIUSEPPE II imperadore 15. Nissuna transazione politica d'importanza abbiamo ad annoverare in quest'anno, se non fosse la neutralità stretta dalle potenze marittime d'Italia e della rimanente Europa nell'occasione che i Franzesi e gli Spagnuoli moveansi a sostenere gli sforzi delle colonie inglesi di America contro la madre patria. Prevedeasi che questa guerra avrebbe prodotti molti inconvenienti, ed arrecato non picciol disturbo all'italiano commercio. Abbracciarono dunque, principalmente il granduca di Toscana, il re di Napoli e la repubblica di Venezia, una rigorosa neutralità, ed emanarono editti che, manifestandola ai rispettivi sudditi, prescriveano le regole alle quali quell'atto gli obbligava. Venne poi Caterina II, e propose ai popoli dell'Europa che non erano in guerra una neutralità armata, a fine di proteggere il commercio delle nazioni neutre da ogni attacco od insulto per parte delle potenze belligeranti. Secondo tale proposizione, le navi neutre devono godere di navigazione libera, anche da un porto all'altro, sulle coste delle potenze in guerra; tutti gli effetti appartenenti ai sudditi di queste hanno a considerarsi come liberi, tosto che sieno sur un bordo neutro, eccetto le merci stipulate contrabbando: conservando in mezzo al rumore dell'armi la neutralità più esatta, le nazioni neutre trattano come pirati tutti i bastimenti delle nazioni in guerra che tentassero qualche violenza contro le navi mercantili sotto la loro bandiera. Senza l'ire degli elementi, che nell'anno precedente travagliarono molte parti della Toscana; senza i danni per le eccessive acque patiti da Parma e da Genova pur percossa da grave incendio; senza Bologna che in quest'anno fu spaventata, pel corso di ben otto mesi, da frequente terribile tremuoto che la minacciava dell'ultima rovina; senza lo scoppio della polveriera di Civitavecchia, accesa da un fulmine, la quale in gran parte guastò la città e la fortezza: il Vesuvio presentossi a' Napoletani in uno aspetto che, a memoria d'uomini, non s'era veduto l'eguale. Per tre bocche ne' primi giorni d'agosto l'ignivoma montagna sfogava le viscere ardenti mandando fuori tre torrenti di lave infuocate e vampe di fiamme guizzanti e sanguigne. Ad un'ora della notte dell'8 di quel mese, dietro un tremendo scoppio, ecco che squarciatosi il monte, dei tre spiragli si forma una spaventosa voragine. Mai ad occhio umano non si offerse spettacolo più infernale. Vedevasi dall'ampia apertura l'interno del monte, ma non vedevasi in esso che un'ardentissima massa di vorticoso fuoco. Salivano le fiamme più alto del monte più d'un miglio, e giù quindi scorreva la lava, che pareva dover tutto incendiare e distruggere. Resina e Portici si credettero sepolti ed inceneriti. Quale a pien meriggio illuminate Napoli e tutta la costa. La cenere ed i sassi, che con orribile impeto e fracasso gettava l'enorme cratere, molto lungi andarono e sino a Nola pervennero. Guai ad Ottaiano, dal cratere del Vesuvio lontano tre miglia! rischiava di essere seppellito co' suoi dodici mila abitanti sotto le pietre, come furono in altri tempi Ercolano, Stabia, Pompei, solo un'ora di più che l'eruzione durasse. Allentava il furore; cessava. Con tutto ciò immensi furono i danni che soffersero tutte le terre e ville d'intorno. Napoli si vide piena di spaventati contadini che correvano in folla a cercare in essa un asilo. Denso il fuoco e caliginoso giunse a coprire tutto il Largo del castello di Napoli; ma le pietre infuocate incendiarono interi boschi, sprofondarono i tetti, la campagna fino ad un palmo di altezza coprirono. Tra queste pietre se ne trovarono sino di novecento libbre, e di spumosa materia essendo, immensa superficie presentavano. Le ceneri, quai gruppi di nubi dal vento agitate, oltre a Benevento e sino in Puglia a scaricarsi andarono. I danni in questa trista occasione risentiti furono calcolati a trecento mila ducati. Da un'altra parte, la grossa terra di Bagolino poco distante da Brescia, terra di tre mila anime, frequente di fucine e fornaci, arse tutta in men di poche ore, con morte d'oltre a cinquecento persone, quali dal fuoco consunte, quali dal fumo soffocate. Fu in quest'anno abolito in Modena il santo uffizio dell'inquisizione. Accaduta, dopo sedici anni di ducea, la morte del doge di Venezia Luigi Mocenigo, gli fu sostituito il cavaliere Paolo Renier. Dotto nella lingua greca e latina, istrutto a fondo nella storia antica e moderna, di memoria straordinaria fornito, animato parlatore ed energico, a queste qualità univa una somma perizia nel maneggio degli affari. Con tutti cotali vantaggi o dalla natura avuti o coll'arte acquistati e coll'applicazione, non godette per qualche tempo della stima universale de' suoi concittadini; imperciocchè, sospettato di favorire sottomano il malcontentamento de' patrizii, manifestatosi principalmente nel 1762, e di cui abbiamo a suo luogo fatto parola, perdette gran parte di quella considerazione, di cui precedentemente godeva. Se non che, da quel sagace ed accorto uomo ch'egli era, tenne fermo nella burrasca, e seppe rivolgere per modo a suo pro le condizioni del tempo, che, eletto ambasciatore alla corte di Vienna, passò poi a quella di Costantinopoli, che gli tornò vantaggiosissima per molti riguardi. Tornato in patria, ed eletto doge, pervenne a riguadagnare l'opinione pubblica interamente, quei medesimi avversando che pareva avesse un tempo favoreggiati. Anno di CRISTO MDCCLXXX. Indiz. XIII. PIO VI papa 6. GIUSEPPE II imperadore 16. Contrassegna quest'anno la morte di una gran donna. L'imperatrice Maria Teresa, dopo la morte del suo consorte Francesco I e la elevazione del figliuol suo Giuseppe, dimesso non aveva mai il lutto; e sebbene una parte attiva pigliato avesse nello smembramento della Polonia, e col trattato del Teschen dell'anno precedente avesse accresciuto gli Stati suoi con porzione della Baviera, gran parte tuttavia delle pubbliche cure aveva all'imperatore Giuseppe lasciato. Data agli esercizii della più solida pietà, vide ella tranquillamente avvicinarsi il supremo giorno, e morì in Vienna il 29 di novembre di quest'anno. Come ad alcuni Romani imperatori dato si era il nome glorioso di padre della patria, così madre della patria taluno la chiamò: certa cosa è che essa, massime negli ultimi anni del suo regno, non fu sollecita che di spargere i benefizii sui poveri, sulle vedove e sugli orfani, e dichiarò perfin, morendo, che se alcuna cosa fatta aveva degna di riprensione, certamente consapevole non n'era, imperocchè sempre avesse avuto in vista il bene e la prosperità de' suoi sudditi. Regnato per lo spazio di quarant'anni, e amato sempre la verità e la giustizia, Maria Teresa talvolta lagnata erasi che nelle elezioni ingannata si fosse e che male intese o peggio ancora eseguite le sue intenzioni state fossero. Ad essa si attribuisce la massima, espressa fino dal tempo in cui regnava il padre suo Carlo VI, non esservi che il piacere di compartire grazie e far del bene ai sudditi che render possa sopportabile il peso di una corona. Gli Stati d'Italia ad essa appartenenti non mai furono tanto felici e tranquilli quanto sotto il suo reggimento; tra le lodi tribuite a quella sovrana, l'ultima non fu certo quella che esattamente voleva essere di tutto informata; che ai piccioli come ai grandi aperto voleva l'accesso alla sua persona, e tutti ascoltava con clemenza, le grazie concedendo o il motivo allegando del rifiuto, senza promesse illusorie, senza mendicati ripieghi, e senza alcuna di quelle vaghe frasi ed incerte che lo stile alcuna volta adornano, ovveramente sfregiano dei potenti. Fu detto da un autor franzese che vivendo seguiti avesse gl'insegnamenti da Marc'Aurelio lasciati intorno ai doveri dei regnanti. Morendo, i figli Giuseppe e Leopoldo sul trono lasciava. Nè a caso si è nominato Leopoldo di Toscana; aveva egli l'animo a ridurre a migliore stato le leggi; gli accidenti anche lo sforzavano. I conventi dei frati, sottratti, in vigore degli ordini ecclesiastici che prima delle riformazioni da lui fatte erano ancora in osservanza, dalla giurisdizione degli ordinarii, da Roma unicamente per mezzo dei loro generali dipendevano. I conventi poi delle monache dai frati ricevevano la direzione spirituale. Queste condizioni riuscivano di non poca molestia a chi sui luoghi la Chiesa governava e lo Stato. I frati come indipendenti erano, così divenivano anche sbrigliati ed il quieto vivere delle famiglie e del pubblico turbavano. Sorgevano poi gravi inconvenienti nei conventi delle monache, conciossiachè, introdottavisi la corruttela dei costumi, non vi era disordine che non vi si commettesse. Il lezzo di dentro rendeva odore fuori, i buoni si scandalizzavano, gli inclinati al male si corrompevano. Maligni esempi uscivano da quei luoghi, che santi dovrebbero essere e santi stimarsi. I vescovi non avevano autorità di porvi rimedio. Da Roma venivano ripari lenti e si mandavano le cose in lungo, domandandosi processi, informazioni, interrogatorii sopra ciò che ognuno pur troppo per vero conosceva. Accusava esagerazioni da parte di chi si lamentava, e supponeva mala volontà e calunnie. La curia poi portava, specialmente ai tempi di Rezzonico, e poi morto Ganganelli, mal animo a chi reggeva la Toscana per le riformazioni che vi erano state fatte in certi ordini toccanti la disciplina ecclesiastica. Le cose andavano di male in peggio, sicchè giunsero ad un estremo tale che la pazienza e l'ulteriore sopportazione in chi governava sarebbero state colpa: anzi erano in tale disposizione che si dubitava che non fossero più atte a ricevere alcuna medicina. Erano in Pistoia due conventi di monache domenicane retti dai religiosi del medesimo ordine; quelli di Santa Caterina e di Santa Lucia. Tristo nome avevano già da qualche tempo; il popolo ragionava di certe brutture che vi si commettevano: incerte voci erano, ma che pure, per la perseveranza, indicavano esservi alcuna radice di verità. Lo dice Scipione Ricci vescovo di Pistoia, nei suoi scritti. Pervennero a notizia di Leopoldo, il quale ordinò all'Alamanni, vescovo in quei giorni, di Pistoia, che si recasse subito in mano la direzione spirituale di tutti i conventi delle domenicane di quella città. Nel tempo stesso proibì, sotto pena di carcere, ai domenicani di entrarvi. Ma le donne non vollero obbedire. Incominciarono a dire che non volevano riconoscere nè il vescovo per loro superiore, nè i confessori. Poi, levando sempre più il viso, allegavano che papa Pio V il santo aveva pronunciato la scomunica contro chi fra i claustrali ad altro superiore obbedisse che a quello dato per autorità della santa Sede. Tanta era la loro contumacia, che quelle, le quali in articolo di morte si trovavano, amavano meglio morire senza confessione che confessarsi al confessore mandato dal vescovo. Se ne scrisse a Pio VI pontefice: rispose essere calunnie, e che non voleva approvare la violazione delle legislazioni dei due conventi. Si lamentò anzi che quello fosse un addentellato di Leopoldo per usurpare in altri conventi e generalmente in tutti l'autorità della santa Sede. Allora il granduca scrisse lettere circolari ai vescovi della Toscana, ordinando che ciascuno di loro e tutti con unanime consentimento addomandassero al papa, che i conventi, nissuno eccettuato, dalla direzione dei frati si sottraessero ed alla dipendenza spirituale degli ordinarii si sottomettessero. I prelati condiscesero ai desiderii di Leopoldo; le episcopali domande arrivarono al Vaticano; Leopoldo stesso mandò le sue istanze, e Pio pregò che quella deliberazione abbracciasse dalla quale sola si poteva sperare la riforma degli abusi ed il ritiramento delle cose religiose verso il loro principio e verso la buona ed esemplare disciplina. Il pontefice, per quel sospetto che aveva che ci covasse sotto e calunnia e disegni a pregiudizio della santa Sede, udì poco favorevolmente le petizioni di Toscana. Rispose a ciascun vescovo attendessero pure a mandargli i processi e le informazioni, poi vedrebbe ciò che convenisse farsi. Ma siccome il granduca insisteva con pressa, così il papa trovò il mezzo termine di dare facoltà ad alcuni vescovi toscani di governare, come delegati apostolici, col freno spirituale i conventi che in deformi consuetudini fossero trascorsi, e che i frati avessero o turbato o corrotto. Quanto alle religiose sregolate di Santa Caterina di Pistoia, Ippoliti, che in quei dì sedeva vescovo di quella città, le fece trasferire nel convento di San Clemente di Prato, che pure al governo dei domenicani soggiaceva. Quelle di Santa Lucia, prive del fomento delle consorti di Santa Caterina, si assoggettarono, e diventarono, se non migliori, almeno più caute. In quest'anno il Ricci successe all'Ippoliti nel governo della diocesi di Pistoia, di cui la città di Prato era membro. Colla medicina di Pistoia credevasi di aver rimediato a tutte le piaghe, e che l'intero ovile fosse a sanità ricondotto. Ma vana fu l'aspettazione, posciachè in Prato maggiore contaminazione si scoperse. Due monache di Santa Caterina di questa città, una nobile pratese di anni cinquanta, l'altra di altra nobile famiglia pur di Prato, di anni trentotto, viveano già da molti anni immerse ne' più gravi disordini. Gli empi dogmi e le perverse consuetudini non avevano però tanto potuto celarsi, non già dalle ree femmine, che non se ne infingevano, ma dai superiori ecclesiastici che desideravano sopire senza scandalo una cosa cotanto detestabile, che fuora le lingue non ne favellassero, e quel luogo che santo ed intemerato doveva essere, empio e sacrilego non chiamassero. Il vescovo Ricci ed il granduca Leopoldo, ai quali queste cose infinitamente dispiacevano, avevano preso risoluzione, correndo gli anni 1778, 1779 e 1780, di osservar bene quegli andamenti, e di accertarsi anche per processi informativi, affinchè, mandate a Roma le informazioni, la congregazione dei cardinali sopra i regolari ed il pontefice stesso non potessero aver cagione di sopportare e non provvedere. Intanto, per allontanare da Santa Caterina ogni occasione di corruttela e di scandalo, le due monache, per ordine sovrano, furono trasferite a Firenze, per esservi chiuse nel conservatorio di San Bonifacio, dove occupate in opere manuali avessero altro che pensare. Tuttavia non vi diventarono migliori; però dagli ordini del conservatorio era impedito ch'elleno con le parole e con l'esempio le innocenti creature che colà entro convivendo contaminassero. In questo mentre si andava fra i consiglieri del papa considerando ciò che fosse a farsi per ravviare le cose di Toscana. Trattavasi se convenisse, inchinandosi alle domande di Leopoldo e di Ricci, dare al vescovo ogni necessaria facoltà, perchè potesse ritornare all'ordine, alla purità ed alla pace Santa Caterina con tutti gli altri monasteri di domenicane che nella sua diocesi si trovavano. Roma aveva gravi risentimenti contro il granduca e il suo vescovo prediletto, a cagione delle riforme che già avevano fatte e quelle che annunziavano di voler fare. Specialmente poi acerbo animo portavano a Ricci per avere pubblicato un monitorio contro la divozione del cuore di Gesù. In questo mezzo il cardinal Palavicino, segretario di Stato di papa Pio, cagionevole di salute essendo, si era condotto a cambiar aria, lasciando il carico delle faccende al cardinale Rezzonico. Quest'ultimo cardinale, più simile allo zio, che fu papa, che prudente ad accomodarsi ai tempi che correvano, benaffetto ai gesuiti, ostava al Ricci. Pio VI, che pur i gesuiti, autori della divozione del cuore di Gesù, non amava, e che quanto Ricci quella divozione dannava, siccome d'animo alto e risentito era, e gelosissimo dell'autorità e dignità della Sede pontificia, si dimostrava anche alieno così dal vescovo di Pistoia, come dal granduca, anzi da tutta la casa austriaca, da cui allora riconosceva la diminuzione delle romane prerogative. I domenicani, grandemente avversi in altri tempi ai gesuiti, nella congiuntura presente ai medesimi si unirono, perchè vedevano che una cattiva nominanza si solleverebbe contro il loro ordine, se il papa con un solenne atto facesse vedere al mondo che le colpe d'alcune domenicane e di alcuni dei domenicani erano conformi alla verità. Tra gesuiti e domenicani fecero un così forte agitare alla corte, che il papa, non che consentisse a dare le facoltà domandate al vescovo di Pistoia, gli scrisse lettere acerbissime, tassandolo d'imprudenza per aver sollevato questi romori in tempi tanto calamitosi per la Chiesa. In quanto poi alle due religiose, prescrisse che fossero innanzi al tribunale dell'inquisizione tradotte, per essere da lui, secondo che meritavano, castigate. Il granduca, a cui stava a cuore l'onor del vescovo pistoiese ed il suo, e che non voleva che la potestà secolare fosse dichiarata incompetente per provvedere ai disordini che succedevano nei conventi, e di cui la fama, uscendo fuori, scandalizzava i popoli, scrisse in termini molto risentiti a Roma, facendo intendere che non mai avrebbe consentito che le due monache fossero date in potestà del santo uffizio. Minacciò poi apertamente che se il governo pontificio si fosse ancora peritato al sommettere i conventi delle monache di Toscana all'autorità spirituale dei loro ordinarii, avrebbe provveduto egli di propria autorità alle corruttele che vi erano pullulate. Ad un tratto così risoluto il papa, rispondendo al granduca, gli fece sapere che delle due monache deliberasse pure ciò che più conveniente stimasse. Nello stesso tempo conferì ai vescovi del granducato, e particolarmente a quel di Pistoia, le facoltà che gli erano state domandate. Che anzi il pontefice, il quale le buone cose amava, quando gli adulatori nol tentavano in proposito della grandezza e della dignità della Sede pontificia, scrisse lettere di amara riprensione al generale dei domenicani, per non avergli fatto conoscere la verità sugli accidenti scandalosi di Prato. In quest'anno Modena abolì nelle procedure criminali la tortura. Anno di CRISTO MDCCLXXXI. Indiz. XIV. PIO VI papa 7. GIUSEPPE II imperadore 17. Giuseppe II, erede di tutti gli Stati della casa d'Austria per la morte della madre, come per quella del padre, era, quindici anni prima, salito sul soglio imperiale, dalla natura dotato d'un capitale straordinarissimo di penetrazione, e ricco di molte e molte cognizioni ne' diuturni suoi viaggi acquistate, tutti i suoi pensieri, tutte le cure al bene ed alla prosperità dei sudditi rivolse. Nuove forme ai giudizii, con nuovo codice civile e criminale; generosa protezione alle scienze ed alle lettere; nuove manifatture e nuove arti introdotte; aperti nuovi canali al commercio, ed ingrandite e ristaurate a comodo dei viandanti le pubbliche vie; sistemata infine ed ordinata ne' suoi stati la pubblica economia. Ardeva però l'imperadore di vivissimo desiderio d'incarnare prontamente coll'esecuzione quelle vaste idee di riforme ecclesiastiche che da gran tempo aveva concette e gustate. Già da più di venti anni, in tutti i governi, e principalmente in quelli d'Italia, lo spirito di riforma in questa parte di esterior disciplina erasi con non poca solennità manifestato. Venezia, Genova, Parma, Modena e Napoli aveano posta la falce nel campo. Ora, scorsi appena diciotto giorni da che mancata era l'imperadrice Maria Teresa, pubblicò Giuseppe la prima sua provvisione intorno alle persone che si davano allo stato claustrale. Essergli, diceva, noto per esperienza che quelli che abbracciano la vita religiosa, dispongono sovente de' loro beni a favore delle case e comunità in cui entrano; or comandare lui che nissun novizio o religioso che testare o stipulare qualunque atto di ultima volontà prima della professione dei voti volesse, non potesse, sotto qualunque pretesto, disporre di più di mille ducento fiorini in favore di dette case e comunità. Tre mesi dopo questo, diede fuori l'editto che concerneva a tutti gli ordini frateschi: che tutte le case religiose negli Stati austriaci sussistenti dovessero, comandava, rinunziare totalmente e per sempre ad ogni unione, dipendenza o connessione con altre cose religiose estere o con esteri superiori; al contrario, tutti i regolari austriaci essere governati e diretti dai provinciali rispettivi, sotto l'ispezione ed autorità de' vescovi, dovessero: le medesime disposizioni altresì alle comunità delle femmine si estendessero, e sotto pena della deposizione, avessero le superiore per l'avvenire a dipendere soltanto ed esclusivamente dal clero degli Stati dell'imperadore, tanto in affari ecclesiastici come nelle temporali bisogna. Immediatamente a questo editto ne seguitò un altro, col quale ordinavasi che quanti religiosi di qualunque sesso chiedessero di essere dispensati da' fatti voti, ai rispettivi ordinarii, per riportarne la bramata dispensa, le istanze loro rivolgessero: vietati, in pari tempo, tutti i voti tanto temporanei come condizionati, se fatti prima dell'età permessa per la vestizione, cioè ventun anni per le donne, venticinque pegli uomini. Intimato a tutti gli eremiti di deporre il lor abito romitico, venne Giuseppe contemporaneamente in sull'abolire diversi monasteri d'ambi i sessi. Tutte le case religiose, tutti i monasteri ed ospizii sotto qualsivoglia nome di certosini e camaldolesi, come pure di monache carmelitane, francescane, cappuccine o di Santa Chiara, rimasero soppressi ed aboliti generalmente in tutta l'estensione degli Stati austriaci. Allora fu che non poche monache, o non persuase di passare in altri istituti dal sovrano approvati, o di trasferirsi fuori degli Stati austriaci, fecero ritorno, in Italia, nelle paterne case. Avendo esso principe giudicato necessario che le bolle, i brevi, i decreti emanati da Roma, per l'influenza che avevano sugli affari dello Stato, prima della pubblicazione, a lui ogni volta e senza eccezione nissuna fossero presentati per ottenere il beneplacito, pratica già in uso in moltissimi altri Stati cattolici, prescrisse a tutti i vescovi ed arcivescovi de' suoi Stati che tutti gli ordini pontificii sì in forma di breve, decreto, costituzione, o in forma altra qualunque si fosse, indirizzati al popolo, a comunità tanto ecclesiastiche che secolari, oppure a private persone, relativi a collazioni di benefizii, pensioni, onori, potestà, diritti, od anche in materie dogmatiche o di disciplina, dovessero, avanti la pubblicazione, presentati essere alla reggenza civile d'ogni provincia con una copia autentica stesa da pubblico notaio del paese, ed accompagnata da suppliche, affine di essere poi della sovrana approvazione muniti. Convinto Giuseppe II, come egli si esprimeva, de' perniciosi effetti della violenza alle coscienze fatta, e de' vantaggi essenziali che una vera tolleranza cristiana procura alla religione ed allo Stato, credette bene di determinare, riguardo a questo punto, alcune regole. Fosse permesso l'esercizio privato della loro religione a tutti i sudditi protestanti, sia della confessione elvetica, sia di quella di Augusta, in qualunque luogo degl'imperiali Stati. Sapessero eglino che, nelle elezioni e collazioni di cariche civili, il principe riguardo alcuno non avrebbe alla differenza della religione, ma unicamente, come s'era sin allora fatto senza sinistro effetto nel militare, la probità; la capacità, la buona condotta degli aspiranti valuterebbe. Ne' matrimonii contratti tra persone di religione diversa, se il marito cattolico fosse e la moglie protestante, i figli e maschi e femmine la religione del padre seguissero; se il marito protestante e la moglie cattolica fosse, i figli maschi seguissero la religione del padre, le femmine quella della madre. Purchè osservasse le leggi municipali e le sovrane ordinazioni, e la quiete pubblica non disturbasse, nissuno, Giuseppe comandava, fosse mai assoggettato per motivo di religione a pene pecuniarie o corporali qualunque; prescritto a tutti i magistrati e giudici di ricordare a' cattolici la carità e l'amor fraterno, di astenersi dalle parole ingiuriose, dalle offese, da' pungenti rimproveri contro coloro che la ventura non ebbero di nascere in grembo della cattolica Chiesa. Aveva già l'imperatore con altro editto annunziato a' suoi sudditi che, trovandosi eglino nel caso di dover chiedere per oggetto di matrimonio una dispensa sopra uno od altro impedimento canonico, non a Roma domandar la dovessero, ma bensì al rispettivo arcivescovo, da cui, mediante il pagamento di modica tassa di cancelleria, concessa sarebbe; ingiunto ai parochi, tanto delle campagne come delle città, di non congiungere in matrimonio coppia veruna di sposi, se dispensa altra qualunque fuor di quella del rispettivo ordinario gli presentasse. Qualche tempo dopo, oltre alcune condizioni prescritte ai vescovi intorno alle dette dispense, ordinò, che chi bisogno ne avesse, prima di cercarle ai vescovi, la permissione dal sovrano impetrarne dovesse. Contenendo il pontificale romano un giuramento che i vescovi, all'atto della loro consacrazione, al papa fanno, l'imperatore emanò un suo decreto, con cui intendeva di non ricusare il placito alle bolle spedite da Roma agli arcivescovi e vescovi nuovamente eletti, ma vi aggiungeva la condizione espressa che nè il prelato consacratore nè il prelato consacrato non venissero autorizzati nè a ricevere nè a prestare il detto giuramento se non nel senso dell'ubbidienza cattolica, e non altrimenti. Ordinò quindi che i nuovi eletti, prima di essere consacrati e prima di quel giuramento ordinario al papa immediatamente dopo la nomina od elezione altro prestarne dovessero tutto speciale di fedeltà all'imperadore, in presenza del governatore e de' due più anziani assessori del luogo; giuramento che, sottoscritto dal nuovo o vescovo o arcivescovo, dai tre testimoni suddetti, e spedito originalmente al sovrano, conteneva una promessa assoluta dell'eletto di comportarsi verso l'imperadore, suo solo legittimo sovrano, principe e signore, da fedel suddito e vassallo, non facendo e non permettendo scientemente che fatta fosse direttamente o indirettamente cosa alcuna che pregiudiciale essere potesse e contraria alla persona di Sua Maestà, alla sua augusta casa, allo Stato o ai diritti della sovranità; con inoltre la promessa di ubbidire senza tergiversazione a tutti i decreti, leggi ed ordini dell'imperadore, di fargli osservare da' suoi inferiori col dovuto rispetto, e di cercare e procurare in ogni occasione la gloria ed il vantaggio del sovrano e de' suoi Stati. Alcuni vescovi eletti e non consecrati, questo decreto come ad essi ingiurioso e tendente a renderne sospetta la fede riguardando, supplicarono all'imperadore di dispensarli dal nuovo giuramento di fedeltà ad essi prescritto, proferendo in quella vece di più non prestare al papa nè l'antico nel pontificale riportato e nelle bolle inserito, nè verun altro; e lo imperadore volentieri la proposizione accettò. Ed altre leggi ed altre provvidenze il saggio principe impartì nelle materie ecclesiastiche, le quali non si poteva che nella novità non cagionassero scrupoli e dubbiezze; il perchè non giorno forse passava che al trono alcuno non si presentasse a chiedere spiegazioni. Ma nel corso di tali riforme e novazioni un avvenimento di natura diversa disgustò l'imperadore. Per uso antico nella romana corte stabilito, alla morte di ciascuno de' principali monarchi cattolici d'Europa, Austria, Francia, Spagna e Portogallo, rendevansi dai papi nella pontificia cappella con grande solennità gli ultimi onori all'estinto, di cui il santo padre stesso tesseva il funebre elogio. Non era però esempio che onore siffatto stato fosse reso alle regine o alle imperadrici che regnato non avevano se non congiuntamente ai mariti; ma l'imperatrice Maria Teresa, regina di Boemia, d'Ungheria e di tanti altri regni e Stati, era caso nuovo e meritava speciale riguardo. Il papa consultò i suoi maestri di ceremonie, e questi gli esposero di non aver trovato, per diligentissimi esami, che a donne solenni funerali nella pontificia cappella stati mai fatti fossero. E non consideravano che, dopo introdotto quell'uso, nissuna sovrana cattolica era in Europa stata nel caso di reggere da sè i popoli, come retti gli aveva Maria Teresa. Corse allora voce che il cardinale Herczam, ministro cesareo a Roma, ne facesse formale istanza, e sotto gli occhi del papa gl'inconvenienti mettesse che dal non fare insorgere potevano; eppure si sentisse dal pontefice rispondere ch'ei derogare dall'usato ceremoniale non poteva. E così fu. Se questo rifiuto non influì ad accelerare i disegni di riforma, ed a farli rapidissimamente gli uni agli altri succedere, questo però fu il tempo in cui l'imperadore ordinò la soppressione del collegio ungarico di Bologna, e la partenza da quella città di tutti quei nazionali suoi sudditi obbligati ad andarne a studiare nelle università di Buda o di Pavia. Non bisogna chiudere la narrazione degli avvenimenti di quest'anno senza registrare la morte, il dì 27 di maggio accaduta, di Giambatista Beccaria, fisico egregio, a cui la scienza va debitrice di molti progressi, specialmente nel ramo della elettricità. Anno di CRISTO MDCCLXXXII. Indiz. XV. PIO VI papa 8. GIUSEPPE II imperadore 18. Le amarezze tra il papa e i due principi austriaci Giuseppe e Leopoldo, non tanto che si raddolcissero, tendevano un giorno più che l'altro a maggiore disgusto per le riformazioni ch'essi tuttavia andavano nelle materie ecclesiastiche tanto nei Paesi Bassi e nel Milanese, quanto nella Toscana facendo. Le cose battevano massimamente, come si è veduto, nel volere che i conventi, riguardati inutili, si sopprimessero; che i sussistenti non avessero più nessuna dipendenza dai loro generali di Roma, ma fossero al vescovo della diocesi sottomessi; che per certo dispense per matrimonio a Roma più non si ricorresse, ma dagli ordinarii fossero concedute; che certe pratiche pompose di culto esteriore si annullassero; che, per quanto fare si potesse, nissuno ecclesiastico ozioso se ne stesse, ma o per sè medesimo od in sussidio dei parrochi nel divino ministero si esercitasse; che le dottrine della giurisdizione suprema del papa sui principi temporali più non s'insegnassero; che nelle università fosse vietato di dare i giuramenti, secondo la forma prescritta da Alessandro VII, e che le bolle _Vineam_ ed _Unigenitus_ dovessero aversi per nulle e di niun effetto; che niun'altra professione di fede fosse permessa se non quella di Pio IV; che silenzio perpetuo vi fosse sulla costituzione contro i giansenisti, tanto nelle scuole private, quanto nelle pubbliche. Tutte queste ed altre provvisioni, aggiunte alle risoluzioni già prese intorno alle mani morte mettevano in grande apprensione il pontefice e chi lo consigliava. Pio adunque, a cui romoreggiava d'ogni intorno così fiera tempesta, essendo disposto a tentare ogni fortuna per tornare la santa Sede nella sua dignità e prerogativa, ancorchè di Leopoldo maggiormente temesse, fece risoluzione di indirizzarsi a Giuseppe, presumendo che, ove il fratello maggiore si fosse piegato a più amorevoli pensieri, il minore non si sarebbe indugiato a seguirne l'esempio. Oltre a ciò, che un papa viaggiasse per andar a visitare un imperatore, era accidente più conforme alla dignità che se si fosse mosso alla volta di un principe di minore grado e potenza. Il pontefice persuadeva a sè medesimo che non invano veduto avrebbe nella sua Vienna Giuseppe, che non in vano sarebbe stata la gita del capo supremo della Chiesa, che non invano avrebbe in età già avanzata corso paesi a lui tanto insoliti e lontani. Deliberossi pertanto a voler vedere l'imperatore nella capitale stessa del suo vasto impero. Grande attenzione, pari aspettazione era sorta nel mondo per le recenti deliberazioni dei due fratelli austriaci, ma più grandi ancora furono e l'attenzione e l'aspettazione quando udissi un caso già da più secoli inudito, che ad un così lungo viaggio si accingesse un romano pontefice. Ovunque egli passava, concorrevano i popoli divoti per venerarlo; i principi dal canto loro gli rendevano i dovuti onori. Alta cagione il moveva. Chi maggiore pietà che congnizione delle storie aveva, augurava lieto fine dell'insolita andata. Ma chi più dentro sentiva nelle umane cose, queste consolatorie speranze non accettava, credendo che il papa nulla potrebbe appuntare coll'imperadore. Costoro ragionavano che Giuseppe, non per capriccio, ma molto pensatamente e di proposito deliberato venuto era alle sue deliberazioni, e che per ciò da esse per nissuna dimostrazione romana si dipartirebbe. Pio fu accolto a Vienna con ogni maggiore segno di riverenza. Se gli diede stanza nel palazzo imperiale, spesse volte l'imperatore il visitava, i popoli se gli presentavano riverentemente avanti per onorarlo, i soldati stessi, così comandando il principe, al sommo sacerdote con le loro militari maniere s'inclinavano. Onde si vedeva che la maestà religiosa vinceva la forza. Se in chiesa con la sua pontificale pompa ufficiava, pieni erano i sacri luoghi di fedeli che dal pontefice romano le spirituali grazie attendevano. Se dalla imperial magione si affacciava, o andava per le vie della sovrana città, ognuno alla venerabile sua persona o nel segreto suo pensiero od anche colle aperte voci applaudiva. Nella più intima parte della Germania trionfava Pio per l'aspetto della persona, per la riverenza della religione, per portare in fronte quel nome di Roma, già prima sede del mondo per l'armi, ora prima sede della cristianità per la religione. Quanto più l'imperadore stava fermo nel non volere cambiar proposito e nel ricusare i desiderii del papa, tanto più si mostrava fervente nella religione. Pio stesso con gravissime parole in un concistoro pubblico tenuto nel palazzo imperiale a dì 19 di aprile il lodò; con somma contentezza, disse, avere veduto da vicino l'imperiale maestà, con somma contentezza avere abbracciato l'imperatore stesso, quell'imperadore ch'egli cotanto stimava, cortese e facile averlo sempre trovato ogni volta che pel debito del suo pastorale ufficio di alcuna cosa il richiedeva; essere stato da lui nell'augusto suo domicilio accolto, con ogni maniera di generoso servimento trattato; maraviglia e consolazione avere sentito nel vedere la sua somma divozione verso Dio, l'altezza del suo spirito, l'attenzione indefessa ai negozii del principato; ciò consolare la sua paterna affezione, ciò ricompensarlo della fatica presa per così lungo viaggio; consolarsi ancora e dolce compenso trovare nel vedere quella magnifica città, nel vedere i popoli concorsi, mentre ancora per via veniva, per onorarlo, onde bene argomentato aveva che ancora intatte ed incorrotte erano la pietà e la religione; non essere pertanto per cessare mai di lodare un così religioso imperadore, non mai cessare di ricordarlo nelle preci sue, non mai cessare d'implorare dal grande Iddio (che chi da lui non si scosta, sempre sostenta e regge), acciocchè ed imperadore e popoli nel santo proposito in cui erano, aiutasse sempre e confermasse. Pio aveva vinto colla presenza e colla dignità i popoli, ma non potè vincere l'imperadore. Nè le sue lodi, nè le istanze ebbero valeggio di svolgere l'austriaco principe dal suo proponimento, e il pontefice fu pur troppo chiaro della di lui mente volta a continuare nelle riforme. Crescendo le molestie della santa Sede, manifestavansi per ogni dove acerbi segni. La Toscana, Milano, l'alta Germania insorgevano; che anzi Giuseppe avendo in questo tempo appunto messo la mano sui beni ecclesiastici, così dei regolari come dei secolari, e lamentandosene il pontefice, l'imperadore rispose risentitamente, che sapeva ben egli ciò che si faceva, e che una divina voce in sè medesimo sentiva, la quale i suoi imperiali decreti gl'inspirava e dettava. Un mese erasi Pio soffermato a Vienna, donde partendo e prendendo via per Augusta, Innspruck, Bressanone, Bolzano e Roveredo, giunse ai confini del veneto dominio, dove, incontrato dai deputati della repubblica, l'accompagnarono in Verona al convento dei domenicani di Santa Anastasia, in cui albergò. Veduta l'arena, veduti gli altri veronesi monumenti, avviavasi per Vicenza e per Padova a Venezia, accolto sopra un ricco bucentoro, accompagnato dal patriarca e da' prelati, incontrato dal doge e dalla signoria, da per tutto onorato, da per tutto festeggiato, e padre comune salutato. Nel convento dei domenicani, superbamente addobbato a spese del pubblico, prese la stanza; pontificò nell'aggiacente chiesa de' Santi Giovanni e Paolo, all'immenso devoto popolo accorso da superba tribuna la papale benedizione impartì. Da questa magnifica Venezia partitosi, giungeva il dì 13 del mese di giugno nella sua Roma. Paolo, figliuolo di Caterina II imperadrice di Russia, dall'augusta madre mandato, in compagnia della granduchessa sua consorte, a restituire a Giuseppe II la visita che questi fatta le aveva nella sua residenza di Pietroburgo, da Vienna passò a vedere l'Italia, sotto il nome di conti del Nord, che aveano gl'imperiali coniugi per questo viaggio assunto. Gli accolsero Roma e Napoli, Firenze, Modena e Milano, e la nostra Venezia gli accolse in isplendida e regia ospitalità, nel che non solea restare a niun altro potentato seconda. Magnifiche feste in teatro, caccia di tori al chiaror delle faci nella gran piazza di San Marco, e lo spettacolo singolare di queste adriache spiaggie, la regata, con altri non meno brillanti che graditi trattenimenti segnalarono i dieci giorni che gli ospiti illustri qui fermarono il piede. Ma mentre i principi veniano in Napoli accolti e festeggiati, la città di Ortona, parte di quel regno, situata in riva al mare Adriatico, nell'Abbruzzo Citeriore, si subissò. Posta sopra un monte assai alpestre, formando una specie di penisola, in un terreno di tufo più volte già smotato, venne a scoscendersi una parte del poggio, sì che un buon terzo della città piombò tutto in un tratto in mare, nel rovinio ammazzando più di due mila persone. Nel dì 25 di febbraio, un'ora prima di sera, quasi in tutta l'estensione della città, incominciò a distaccarsi dalle fabbriche la terra; alle tre della notte tutto ciò che prima era colle apparve una voragine spaventevole. Il terreno coperto dalla neve a quei giorni caduta precipitò velocissimo in mare. Nessun riparo fermar poteva gli ulteriori danni. Gli abitanti, rimasti attoniti a tanto inaspettato disastro, si diedero tutti alla fuga. In quest'anno l'imperadore Giuseppe II abolì in tutti i suoi Stati, quelli di Italia compresi, la pena di morte. Contemporaneamente in Toscana abolivasi l'inquisizione. Due figli di Apollo in quest'anno morte rapiva all'Italia; Metastasio e Farinelli; famoso poeta quello, questo cantore famoso. Anno di CRISTO MDCCLXXXIII. Indiz. I. PIO VI papa 9. GIUSEPPE II imperadore 19. Nissuna regione del mondo fu mai tanto tormentata quanto l'estrema parte d'Italia, che ora il regno delle Due Sicilie comprende. Gli uomini in ogni tempo l'afflissero, ora con guerre intestine, ed ora con guerre esterne, e spesso ancora con mutazioni di stirpi regie, a cui pareva che quel bel paese non fosse cosa da lasciarsi ad altri. La natura poi lo straziò ora con incendii spaventevoli di monti, ed ora con terremoti più spaventevoli ancora. Sonvi sul globo terracqueo alcuni luoghi, dove da tempi antichissimi la natura è già sfogata, che è quanto dire, che le forze sue, superati tutti gli ostacoli, hanno indotto quello Stato che a loro più consentaneo è: questi luoghi, quanto ai fenomeni naturali, godono di maggiore tranquillità. In altri paesi poi la natura, per così dire, sforzantesi e rabbiosa ancora si travaglia, e tra mezzo a perturbazioni ed a ruine tende a sormontare quanto le si oppone per arrivare al suo stato di quiete. Ora l'estrema parte d'Italia che al mezzodì si volge è una di quelle che non hanno ancora ottenuta quella quiete, e la van cercando. Quindi è che nelle sue viscere interne regna tuttavia una gran discordia, che fuori a noi si scopre con fiamme spaventose, con eruttamenti maravigliosi, con macigni liquefatti, con terremoti, con marimoti, con aeremoti, che danno a temere che sia venuta la fine dell'esistenza, non che del riposo, e pure altro non sono che avviamento alla quiete. La natura non conosce tempo; per lei nè anni nè secoli vi sono, e di noi si ride, a cui incresce il morire. Noi non vedremo la quiete della Magna Grecia nè delle siciliane sponde, ma tempo verrà ch'esse l'avranno, e la stessa condizione acquisteranno, che già nelle più parti di questo nostro globo si osserva. Non so però perchè così tardi ella vi sia per arrivare, scrive un famoso storico che trascriviamo, e perchè contrada così magnifica e così bella, forse la più magnifica e la più bella di tutte, e perchè uomini così sensitivi e così immaginosi abbiano a soffrire un così luogo travaglio. Se castigo di Dio è, non vedo ch'essi abbiano peccato più degli altri; se necessità di fortuna, bisognerà confessare, che siccome sempre cieca ella è, così ella è sovente ingiusta. Racconterò, seguita il lodato storico, cose stupende, e tali, che dubito che da nessuna penna degnamente raccontare non si possano; una provincia intera sconvolta, molte migliaia d'uomini in un sol momento estinti, i sopravviventi più infelici dei morti; la terra, il cielo, il mare sdegnati; ciò che la natura ha fatto di più sodo, in ruina; ciò che per la sua sottigliezza toccare non si può tanto impeto acquistare, che, le toccabili cose furiosamente urtando, rovesciò; ciò che mobile e grave è, fuori del consueto nido sboccando, guastare ed abbattere quanto per resistere a più leggeri elemento solamente stato era construtto; i fati d'Ercolano, i fati di Pompei, e forse peggiori perchè più subiti, a molte città apprestarsi, non soffocate ed oppresse, ma stritolate e peste; una faccia di terre le più amene e ridenti del mondo cambiata subitamente in ultima squallidezza ed orrore; orribili fetori di cadaveri putrefatti non riscattabili fra l'immense ruine, orribili effluvii di acque stagnanti nel loro corso d'accidenti straordinarii interrotte, orribili malattie da spaventi, da stenti, da moltiplici infezioni prodotte, abissi aperti, città subbissate od inabissate, monti scoscesi, valli colmate, fiumi e fonti scomparsi, nuovi comparsi, polle di mota da aperte voragini scaturienti; un istinto d'animali bruti il futuro male preveggenti, una sicurezza d'uomini, cui la ragione è meno provvida dell'istinto; un salvar di fanciulli con morte delle madri, un preservar di padroni per fedeltà di servi, un aiutar d'infelici per bontà di governo, per umanità di signori, per carità di preti; vittime per casi strani o quasi non credibili dall'ultimo eccidio scampate; una cieca fortuna, un impeto ineluttabile, un grido di morte uscito dalla terra per sotto, dal cielo per sopra, dal mare per lato, spaziare dappertutto, ed ogni cosa rompere, ogni cosa spaventare, ogni cosa in ruina ed in isconquasso precipitare; gl'incendii uniti alle ruine, e le fiamme consumare ciò che al furore degli altri elementi era avanzato. — A ciò tutte le superstizioni più stravaganti che caggiono in menti smosse, tutte le furberie di chi delle sciocche superstizioni e dei solenni terrori si pasce ed in suo pro gli converte; a ciò ancora pentimenti fugaci di uomini malvagi, rapine contro miseri, insulti contro benefattori, abbandoni di chi soccorso chiedeva e pietà; il mondo morale, come il mondo fisico in disordine; ciò che doveva intenerire i cuori, e farli dell'umana miseria conoscenti, vieppiù indurarli ed aspri ed inesorabili farli; gente scelleratissima con opere nefande dimostrare che la cupidigia del rubare e l'infame sfogamento della libidine sopravanzavano, e soffocavano la compassione e lo spavento. Maravigliosa terra di Napoli che sempre dimostrasti essere in te estremo il bene, estremo il male, nè dal consueto stile poterti ritrarre nemmeno la natura orrida e sconvolta: quello dinota eroismo, questo una spaventevole ostinazione. È impossibile seguire più innanzi nella sua stupenda narrazione del fatto lo storico illustre che a parte a parte lo descrisse; ma verrem da lui traendo ciò che i tratti principali della tremenda catastrofe possa mettere dinanzi alla mente. Alla state fervidissima dell'anno 1782 era succeduto nelle Calabrie un autunno piovosissimo, nè cessò lo smisurato acquazzone nel susseguente gennaio; che anzi vieppiù per questo conto imperversando il cielo, caddero nell'anzidetto mese pioggie così disoneste e dirotte e precipitose, che la terra calabra, massime quella così detta della Piana, restò altamente danneggiata, non solamente pegli allagamenti dei fiumi, ma ancora per essere stati i terreni viemmaggiormente ammelmati e fatti capaci di dissoluzione. Cotale perturbazione della natura presagiva calamità ancor maggiori, ma niuno si dava a temere che esse fossero per arrivare al totale discioglimento della contrada. Avevano altre volte quei popoli simili pioggie e simili innondazioni vedute, ma, dal guasto dei superficiali terreni e dal danno delle ricolte in fuori, da altri maggiori disastri non restarono afflitti. Intanto era il nuovo anno giunto al principio di febbraio, mese per fatal destino funesto alla Magna Grecia, e specialmente alla Calabria; perciocchè in esso piombò la fatale ruina sopra i distretti Ercolanense e Pompeiano sotto il consolato di Regolo e di Virginio; in esso fu conturbata, alcuni secoli avanti, la Sicilia e distrutta Catania; in esso nel duodecimo secolo sommosse dai tremuoti non solamente la Sicilia, ma eziandio le Calabrie. Il principio più fatale che la fine, poichè al quarto od al quinto giorno di lui accaddero quegli scroscii della natura. Correva appunto il quinto giorno di febbraio di quest'anno, ed il giorno era giunto alle diecinove ore italiane, vale a dire, in quella stagione, un poco più oltre del mezzodì. Nell'aria non appariva alcun segno straordinario. Rare e quiete nubi a luogo a luogo il cielo velavano. Nè il Vesuvio nè l'Etna buttavano; Stromboli non più del solito. Sentivasi il freddo, ma non oltre l'usato; il consueto aspetto stava sopra le calabresi cose. Eppure la terra in sè medesima chiudeva un insolito furore. O fossero fuochi, o fossero vapori potentissimi che scarcerare si volessero, quella ordinaria calma dovea fra brevi momenti turbarsi per dar luogo ad un rumore e ad uno scompiglio orrendo. Gli uomini nol presentivano, e senza tema le ore fra i soliti diletti o fra le solite fatiche andavano passando. Ma non gli animali bruti, che inquieti, fastidiosi, spaventati, col correre, col tremare, col gridare, mostravano che alcuna terribil cosa si andava avvicinando, ed aspettavano. Così un'arcana natura con ispaventosi presentimenti avvertiva del pericolo chi poco o nulla evitare il poteva, mentre di lui conscii non faceva quelli che pel lume della ragione fuggirlo, se non in tutto, almeno in parte saputo avrebbero. Trascorso era il giorno 5 di febbraio di pochi minuti oltre il mezzodì quando udissi improvvisamente nelle più profonde viscere della terra un orrendo fragore; un momento dopo la terra stessa orribilmente si scosse e tremò. In quel momento medesimo cento città, o non furono più, o dalla primiera forma svolte, quasi informi ammassi di spaventevoli ruine giacquero. In quel sempre orribile e sempre lagrimevole e sempre di funesta rimembranza momento, più di trenta mila umane creature rimasero ad un tratto morte e sepolte. Quale passo da tanta quiete a tanto spavento! Quale conversione da tanta allegrezza a tanto pianto! Quale differenza da tante vite a tante morti! Non fu breve la cagione dell'orrenda catastrofe: perciocchè scossesi e tremò la terra colla medesima veemenza e fremito ai 7 febbraio, ai 26 ed ai 28, e finalmente ai 18 di marzo una violentissima scossa avvertì i Calabresi che i loro spaventi e dolori non erano ancora giunti al fine, e che, per iscampare dalla morte, su quel suolo infido altro rimedio non vi era che quello di fuggire; ed assai lontano fuggire, posciachè l'ira del cielo sopra di loro non era ancora esausta. Il gravissimo urto di marzo scompigliò, ruppe e rovesciò quanto ancora era rimasto intiero ed in piè, se pure ancora alcuna cosa intiera e sulle fondamenta rimasta era. Giunsesi la disperazione al terrore: ad ogni momento credevano quei miserandi popoli che la terra, spaccandosi in abisso, gl'inghiottisse tutti. Quelli di febbraio esercitarono principalmente il loro furore sopra le città più vicine al Faro; l'ultimo su quelle che verso lo strangolamento d'Italia tra i golfi di Sant'Eufemia e di Squillace sono poste. Le raccontate scosse squassarono con violentissime urtate la terra, ma fra di quelle non vi fu mai quiete perfetta. Di quando in quando alcune scosse minori si sentivano, e fra di loro un perpetuo ondeggiamento, un andare e venire più o meno manifesto della terra, come se ella divenuta fosse fiottosa, e per cui non pochi travagliavano di quel molesto male che affligge ne' viaggi marittimi coloro che non vi sono avvezzi. Fatale fu questo terremoto non solamente per la violenza delle concussioni, ma ancora, e forse più, per la diversità e moltiplicità de' moti impressi alla terra. Fuvvi il moto subsultorio, cioè dal basso all'alto, come se qualche orrendo fomite battesse o picchiasse o punzecchiasse l'esterna crosta per farsi via da uscir fuora, in quella guisa stessa che un colpo dato con un grosso martello sotto una tavola orizzontale farebbe. Fuvvi il moto di sbalzo, come se una porzione della terra a modo di fionda i soprapposti corpi in alto scagliasse. Fuvvi il moto vertiginoso, come se la terra in sè medesima si rivoltasse ed una vertigine imprimesse a ciò che toccava, moto che fu il più pericoloso di tutti, e che atterrò molti edifizii che retto avevano ad altri moti, e le superficie de' corpi converse, mettendo le superiori sotto, le inferiori sopra. Fuvvi il moto ondulatorio, il più solito ne' terremoti, e per lo più da Oriente verso Occidente andava. Fuvvi finalmente un moto di compressione dell'alto al basso, per cui i terreni si abbassavano, e, come a dire, si insaccavano, e più fortemente compressi si assodavano. Dal disordine de' moti si argomentava che disordinata fosse la cagione, e che guerra vi fosse sotto, come vi era sopra. Non è da tacersi punto che più sonoro era il fragore, che chiamavano _rombo_, spaventevole nunzio di estreme sciagure, e più forti erano le scosse che susseguitavano, onde maggiore danno seguitava un maggiore spavento. Or chi potrebbe ridire la varietà degli accidenti in tanto sconquasso? Monteleone, nobile ed antica città, che mostra qualche residuo di muri ciclopei, restò altamente offeso dalla percossa, sì che i più suntuosi templi, i più vasti edifizii, come le più umili case, furono rotti e scomposti, ed ancora che i più atterrati non fossero, diventarono nondimeno inabitabili. Maggiore fu la desolazione di Mileto, dove, oltre le case, che tutte patirono infiniti danni, restò da cima a fondo irreparabilmente infranto e inabissato il magnifico tempio della Trinità; tetto, mura, campanile, altari, andarono tutti in un monte di rottami. Tropea fu percossa dal terremoto, ma in grado minore. Meno ancora restò offeso il poco lontano villaggio di Parghelia, villaggio singolare non per grandezza nè per ricchezza di edifizii, ma per industria dei terrazzani, troppo diversa dalla rilassatezza che in non poche parti della Calabria regnava. Soriano, andato esente dal terremoto del 5 febbraio, restò desolato da quello del 7; nè vi rimase orma degli edifizii di terra pigiata, che nel paese chiamano terraloto, e da cui la massima parte della città si formava. Lieta, anzi lietissima era la strada da Soriano a Jerocarne, siccome quella che ombreggiata era e vagamente sparsa di ulivi, di castagni, di quercie e di viti, ed ora divenne un miscuglio commisto di ruine. Tanto sovvertimento patirono i terreni! Si screpolarono, aprironvisi di profonde fessure. Ma le fessure immobili non erano; ora si serravano impetuosamente, combaciandosi di nuovo gli orli, ora si riaprivano, disgiungendosi quelli novellamente. Le fenditure, e così in questo luogo come in ogni altro, pigliavano diverse forme, ma le più in cotale modo s'informavano, che parecchie da un solo centro aperto anch'esso partendo, a guisa di raggi se ne allontanavano. Talvolta usciva da queste spaccature una fanghiglia cretacea spremuta a forza, come pare, dai più interni ripostigli della terra. E di questa fanghiglia altri ed altri eziandio erano i modi. Dalle grandi e vaste spaccature usciva copiosissima, e le vicine campagne allagava. Ne restavano intrisi i rottami, intrise le ruine, intrisi gli alberi e i sassi. Sovente accadea che non da fenditure saltava fuori, ma da certe conche circolari; che sul terreno cavo si formavano; e dal centro delle medesime, piuttosto che da altre parti, scaturiva. Tale fu la natura degli accidenti di questo terremoto, che piuttosto acqua o creta nell'acqua disciolta sorsero dalle profonde viscere del travagliato globo che fuoco od altre sostanze che la presenza dall'igneo elemento manifestare sogliono; cosa che riuscì contraria alla opinione di molti che credono da fuochi sotterranei ingenerarsi i terremoti. Successe poco lungi da Soriano nei terreni del fra Ramondo, del Covolo e del fiume Caridi una gran rovina ed una inondazione di fango: giardini, due case rurali, un oliveto, due monticelli sdrucciolarono, il Caridi scomparve, si aprirono voragini, sgorgò acqua in copia, giacquero gli alberi in varie guise fra quell'incomposta congerie, sfortunatamente sepolte dall'orrendo scoscendimento alcune umane creature. Alcuni giorni appresso ricomparve il Caridi, ma in altro letto, nè puro o limpido come prima, ma limaccioso e torbido. Il più atroce tormento di chi restava sepolto vivo, ed in molti uomini e donne ciò si osservò, sempre fu la sete. Usciti dal carcere rovinoso non altro domandavano, non altro agognavano che bere, e sull'acqua per dissetarsene cupidissimamente si gettavano. Tant'era il rovello che li tormentava, che, perchè dall'improvviso e troppo copioso uso della bevanda non ricevessero mortale danno, uopo era ministrarla loro con regola e misura. Tra le disgrazie di molti illustri luoghi, di molte nobili città che raccontare non possiamo, però che il tempo e lo spazio ne sospingono, non possiamo tacere di Polistena, vaga città sulle sponde del Jerocarne, che non fu più, demolita di maniera, che i tetti rimasero innabissati e le fondamenta cacciate fuora dal loro sotterraneo cavo: tutta sotto sopra fu messa, nè mai più informe ammassamento di rottami si presentò agli occhi degli uomini spaventati che quello della distrutta Polistena. «Quando da sopra una eminenza, scrive il Dolomieu nella versione del Botta, io vidi le ruine di Polistena, quando io contemplai i mucchi di pietre che non hanno più alcuna forma, nè posson dare più idea di ciò che era quel luogo, quando io vidi che nissuna casa era sfuggita dalla distruzione, e che tutto era stato livellato al suolo, io pruovai un sentimento di terrore, di pietà, di raccapriccio, e per alcuni momenti le mie facoltà restarono sospese.» Le case precipitarono nel fiume, i grossi muri del convento dei domenicani si sfasciarono ed in grandi massi rovinarono. Dalla parte de' cappuccini si avvallò il terreno, in varii luoghi largamente si sfesse, tutto il paese all'intorno sino a piè del monte tre miglia distante si screpolò. Un momento solo del 5 febbraio precipitò e soffocò negli abissi più di due mila Polistenesi, fra sei mila che erano. I sopravviventi, erranti e miseri, non solo case più non avevano, ma nemmeno fra quella informe ruina le riconoscevano: a stento il luogo dell'antica e distrutta sede accertavano. Terranuova divenne in pochi istanti un vano nome; il suolo stesso ove posava, non solo cangiò forma, ma non fu più. «Un gemito indistinto, così scrivono gli accademici di Napoli, un gemito indistinto, un terribile fragore, e una densa nube di polve ascose tra la più compiuta annichilazione l'enorme strage che indistintamente si fece degli uomini e dei bruti.» Aveva la terra nel suo fiorito stato due mila abitatori; solo quattrocento dalla catastrofe scamparono. Trapasseremo senza arrestarci le ruine, gli sconvolgimenti, l'annichilamento di Molochiello, di Casalnuovo, di Oppido, di Santa Cristina, di Scilla, di Reggio, di cent'altri e villaggi e casali e città; trapasseremo eziandio gl'infiniti casi compassionevoli e i molti singolari casi e venture e disavventure dell'orrendo disastro non per la prima volta avvenuto in paesi che bugiardi ed insidiosi si potrebbero chiamare, posciachè per la bellezza ed amenità loro allettano a spiagge infide e piene di mortali pericoli: un sole benefico, chiari rivi scendenti dai poco lontani Apennini, freschezza di siti all'ombra degli aranci, dei gelsi, dei limoni, dei fichi, dei cedri, dei granati e della pampinosissima vite, fanno che quivi sieno i luoghi forse i più dilettevoli della terra. Ma sono giardini d'Alcina; la natura vi fu ad un tempo madre e matrigna. Ma fra le quasi infinite avventure e disavventure che dobbiam tralasciare, non possiamo astenerci dai trascrivere dallo storico più volte lodato alcuni casi che più degli altri potranno interessare il lettore. «La compassione ch'io sento, scrive egli adunque, m'invoglia di raccontare il caso di due madri infelici all'ultima ora sotto le ruine codotte, ma non sole. Rovinò sopra di loro un tetto, rovinò la povera casa. L'una aveva seco un figliuolo di tre anni, l'altra stringeva al petto un bambino di sette mesi. Nella estrema sciagura, in quel fondo di morte, la materna tenerezza non le abbandonò, anzi si accrebbe. Curvaronsi contro i cadenti sassi, e fecero del dosso arco sopra le innocenti creature. Istinto era, amore di madre era, ma frutto altresì di compassionevole illusione; perciocchè incontro ai rovinanti massi qual corpo di donna resistere potea? Morirono, e con esse i non salvati fanciulli. Chi fu mai più infelice al mondo di quelle misere e desolate madri? Furono trovate nell'attitudine descritta; e con le braccia avvinte ai figli l'una accanto all'altra, esse coi corpi pieni di lividori e di putrida gonfiagione, essi seccati e smunti. Or chi potrà dire quanto dolore regnato abbia in quell'oscuro speco? «Delle raccontate donne un'altra meno infelice, quantunque infelicissima sia stato, tutta la Calabria in ammirazione converse. Sette giorni intieri stette fra le ruine sepolta, nè alcun cibo o bevanda ebbe. Funne estratta esanime e moribonda. Come prima racquistò l'imperio dei sensi, _acqua_, gridò, _acqua, acqua io voglio_. Tant'era la sete che la straziava. Disse che nella tenebrosa caverna prima una infernale sete la struggeva, poscia perdè ogni sentimento di sè stessa. La da così vicina morte scampata donna visse ancora alcun tempo sovvenuta dalla pietà del pubblico. «Simile caso avvenne ad una donna di Cinquefrondi, villaggio poco distante te da Polistena, e dal sommo all'imo distrutto. Fu tratta viva dopo sette giorni di sepoltura, ma con due figliuolini, che seco aveva, morti. «Quanto sopportar possa in casi straordinarii l'animale natura, ancora più ne diede testimonianza un gatto, che, appiattatosi per asilo in un caldaio, il quale il peso dei rottami sostenne, vi stette quaranta giorni senza cibo di sorte alcuna. Il trovarono come giacente in placido sonno. Appoco appoco si riebbe, ed alcuni anni ancora visse, delizia del padrone. «Quale fosse lo spaventevole capriccio del terremoto, egli scrive in altro luogo, seppeselo il padre maestro Agazio, priore del carmine di Jerocarne, il quale per questi luoghi viaggiava, quando più il flagello v'infuriava. Spaventato volle fuggire; ma ecco un piede incepparsi in un crepaccio che subito si serrò. S'affaticò di ritirarlo, ma spese la fatica indarno. Mise grandi stridori, chiamò aiuto con alte grida, in quella desolata solitudine nissuno comparve, e tuttavia il piè stava stretto da quella straordinaria tanaglia. Credeasi morto, attaccato com'era a quel fatale e strano ceppo. Ma ecco in un subito per un nuovo urto di terremoto aprirsi il ceppo, spalancarsi la fauce e dargli libertà e vita. Il povero religioso arrivò al convento tutto sganganato, e più morto che vivo. Ognuno si maravigliava della stupenda ventura, ed egli a stento la poteva raccontare; tanto era oppresso dall'anelito e dalla paura!» E altrove: «Era una casa ad uso d'osteria lontana forse a trecento passi dal Solì. L'abitavano l'oste per nome Giovanni Aquilino, la sua moglie ed una nipote di tenera età. Eranvi per accidente quattro avventori. Giovanni se ne stava russando sul letto, siccome quello che avvinazzato era e cotto bene, le due donne attendevano agli uffizii di casa, gli avventori giuocavano alle carte. Ed ecco la casa intera prender viaggio verso il Solì, nè fermarsi se non quando al suo letto pervenne. Quivi l'urto fece ch'ella si disfece ed in frantumi andò. L'ostessa rimase, come trovavasi, seduta, e dalla paura in fuori non ebbe male alcuno. L'oste a maladetta forza si svegliò, e smaltito il vino, pianse la perduta fortuna; la misera fanciulla schiacciata morì. Morirono pure gli avventori venuti a giuocare sulle sponde dell'ameno, ma infedele Solì. «Uno sbalzo di terremoto aveva sepolto fra le ruine della sua casa l'abbate Taverna, medico di Terranuova. La polvere lo soffocava, la grandine dei piombanti sassi lo martellava, si credeva morto, quando un'altra urtata di terremoto lo scarcerò, fuora il trasse e dal pericolo lo scampò, per lo strano caso restò allibbito e intronato lungo tempo; finalmente tornò del tutto in sè, e dilettavasi nel raccontare come il terremoto l'avesse condotto vicino a morte, e come l'avesse salvato. La famiglia dei Zappia ebbe un caso comune col Taverna; sepolti da una spinta di terremoto, dissepolti da una altra. «Anche nella desolata Terranuova successe una mirabile sopportazione di un animale bruto. Nella casa dei Tutini, che rimase tutta infranta e distrutta, una cagna fra le ruine incarcerata visse per tredici dì senza alimento alcuno, e senza avere mai potuto lambire nè pure una stilla d'acqua. Uscì, toltigli i rottami d'intorno, viva e magra, e soprammodo sitibonda. I terreni rimasero tutti lacerati da crepacci e da fenditure. Alcune di queste fenditure avevano otto palmi di profondità, altre tredici, altre venti, ed anche di più; varia era la larghezza, ma nissuna maggiore di quattro palmi. Parevano quasi tutte fatte a taglio netto e successivo, ma con direzione confusa, varia e indistinta a segno che non ammettevano ordine alcuno, nè dove fosse il loro principio e dove la fine non si poteva accertare. Sopra un alto monte rimpetto a Terranuova, ma sulla opposta sponda del Solì, s'ergeva un villaggio per nome Molochiello. Questo infelice paesetto fu devastato in modo che pochi ed informi vestigii rimasero della sua esistenza. Una parte di lui precipitossi a destra, l'altra a sinistra, nè più altro suolo vi rimase del sito su cui giaceva che una fettolina a schiena d'asino, così acuta, che non vi si poteva su camminare. Videsi in questo luogo un orrido e non più udito spettacolo; che nel fianco del monte reciso come a perpendicolo pendevano ammassate le reliquie dei cadaveri riposti nei sepolcri, i quali, per lo squarcio avvenuto nei fianchi delle rupe, rimasero scantonati e per metà divisi. Un Antonio Avati contadino stava sur un castagno recidendone i rami, quando arrivò la devastazione. Il castagno si mosse, e con placido corso scese verso il fiume Marro per più di trecento passi. Fermossi finalmente intoppandosi giù nel vallone. Scuotessi Arati, e salvo sulla ripa saltò. La rustica casa di Grazia Albanesi, moglie di Giuseppe Zema, viaggiava anch'essa giù per lo monte. Aveva Grazia un bambino di poca età, che giaceva forse placidamente dormendo in una rozza culla fra meschine fasce avvolto. L'infelice madre restò affogata ed oppressa sotto le smisurate moli e della propria casa e delle altre fabbriche e del terreno e della creta che giù rovinavano dalla rupe di Molochiello. Credessi che con lei fosse morto il bambino. Già erano trascorsi tre giorni dal fatale avvenimento, quando da coloro che andavano fra le ruine raccogliendo gli avanzi della loro sepolta e scarsa suppellettile, furono uditi alcuni oscuri vagiti. Alzarono a speranza i pietosi animi, smossero, scavarono, trovarono la misera ed innocente creatura nella sua culla cinta di fango e fra orrendi frantumi involta. Rea era la stagione, il freddo aspro assai, la pioggia dirotta. Estrassero il bambino vivo da quell'informe spelonca così com'era, rauco dal pianto, conquiso dalla fame e dalla sete, assiderato dal freddo, dimagrato al sommo; così usci vivo dal sepolcro inusitato della madre. Il presero, il fomentarono, con prudenza il dissetarono, con prudenza ancora lo sfamarono. Salvo in somma il resero, ma non tanto che non portasse nello smunto viso e nel debole corpicino, finchè visse, i segni dell'andato patimento. Siccome morta era la madre, una zia materna prese cura dell'orfano così stranamente preservato da una stranissima ventura. Gli accademici di Napoli non senza maraviglia il videro.» Sino a questo passo furono raccontate le disgrazie di molti illustri luoghi, di molte nobili città; or si diranno quelle di colei che tutte e per antichità e per grandezza e per altezza di fama le avanza. La magnificenza non più che l'amenità non preservò dalla cagione inesorabile e furibonda. Siede Messina sulla terra sicula, alto elevandosi quale regina del famoso stretto che da lei il suo nome prende. Celebre ai tempi antichi, celebre nel medio evo, e celebre ancora nelle moderne età, fa testimonio, che quivi all'industria degli abitanti, alla fertilità del suolo, alla benignità del cielo si aggiunge un quieto e necessario rifugio a chi sen va navigando sur un mare sopra misura tempestoso, e troppo spesso da furie disordinate perturbato. La natura rabbiosa qui pose Scilla e Cariddi, scoglio e voragine infami per tanti naufragii, e quivi la provvida natura pose il porto di Messina al pari di qualunque altro più famoso che al mondo sia, ampio, profondo, sicuro, atto a ricettare come le più piccole ed umili barche, così le più grosse e magnifiche navi. Fu città cara a' Normanni, cara agli Svevi, cara agli Aragonesi, onde sorse piena di sontuosi edifizii e corredata di tutti quei comodi della vita che alle città principali di un reame si appartengono. A così alto grado salì una volta la sua potenza, che e grossissimo commercio faceva, e numerose armate sui mari spingeva, e del primato dell'isola con la stessa popolosa Palermo contendeva, ed alcun tempo il tenne. Per le guerre civili poi e pei rivolgimenti politici e per le ribellioni, ed ancora pel crescere progressivo dell'emula città, cadde in più basso stato, ma non però tale che illustri segni non serbi, e per popolazione e per magnificenza di edifizii, della grandezza antica. La natura e gli uomini l'avevano fatta grande e graziosa; gli uomini poscia per le discordie, la natura pei terremoti la mandarono in declinazione; e da sè medesima diversa la fecero. Tremarono e rovinarono le Calabrie, Scilla e Reggio a rincontro di Messina poste, parte fracassate, parte sommerse giacquero. Il profondo mare non interruppe la mortale causa. Tanto essa era entro le più cupe e più profonde viscere della terra nascosta! Successero nell'infelice Messina cose tali che Scilla e Cariddi non ne starebbono al paragone. Sino dai primi giorni di febbraio vi comparvero, ancorchè fuor di stagione fosse, quei _cicirelli_, pesci del genere delle sfirene, che sono a quelle spiaggie tristo annunzio di tremuoto. La veduta di questi allora insoliti pesci cominciò a turbare i Messinesi, i quali qualche grave caso ne augurarono, ma però non sospettavano di così spaventosa ruina della loro città. Altri segni sorgevano dell'imminente tempesta e di funesto avvenire. Il mare in quello stretto, che dal Peloro trascorre lungo l'aspetto di Messina, è commosso da un flusso quotidiano, cui gli abitanti chiamano marea, e con vocabolo corrotto rema. Due volte al giorno le acque sono solite a gonfiarsi ed a correre verso settentrione nel Faro, e due volte ricorrono nel mare Siculo verso Ostro. Fremono sì quando vanno e vengono, ma non tanto che nei tempi ordinarii diventino tempestose. Tal era ed è il consueto tenore con cui nello stretto di Messina procede quel vorticoso mare. Ma quando l'anno giunse ai primi di febbraio, principiò ad alterarsene l'usato andamento: «Le maree, narrano gli accademici di Napoli, non erano esattamente regolari da sei in sei ore; torbida, fremente e oltre il costume feroce divenne la vorticosa Cariddi, e spesso anche allorquando parea meno agitato il volume delle acque, si osservò crescere repente il tortuoso giro di quel vortice, che quei naturali appellano _carofalo_, e la rema, quasi confusa e interrotta nella sua direzione, o arrestarsi per poco o sull'onda seguace rialzarsi, o aprirsi in mormorante e rapidissima concentrica voragine. A ciò si univa un insolito oscuro fremito, che quasi si approssimava a un profondo e lontano muggito; e ciò o precedeva alla repentina conturbazione delle correnti, o vi si accompagnava o la susseguiva. E per ultimo, siccome al ritorno della rema dal Peloro l'onda escrescendo si alzava oltre all'ordinario livello, e talvolta attentava di risalire su i segni terminali della sponda selciata, così all'uscir del porto e nel rientrare le anguste gole del Faro, lo sbassamento sovente n'era fuor dell'usato tumultuario, vorticoso ed eccessivo.» La sponda selciata di cui qui si parla, altro non era che una petraia o seguenza di sassi ordinatamente posti che per difesa contro gl'impeti del mare e per termine tra il mare medesimo e la susseguente pianura, scorre per tutto il circuito del porto, e ne forma l'orlo estremo o sia il margine internamente. Questo orlo selciato, ornato vagamente di fontane e di statue, i Messinesi chiamano panchetta, dietro la quale succede un ampio stradone, e in fondo di esso si ergeva un eminente e maestoso casamento, o continuazione di graziosi e nobili edifizii che facevano di sè bellissima mostra a chi veniva dal porto l'inclita città visitando. Dal mare venivano gli augurii, venivano anche dal cielo. Il sole tinto di pallida luce in pieno meriggio, un aere ora quieto, ora repente turbato, ora di nuovo quieto con un'afa noiosa che rendeva i corpi gravi ed affannosi; cupi suoni che di lungi venivano, ma non bene si sapeva donde; un volare incerto degli uccelli, un tremar degli animali, uno schiamazzar di galline, e massimamente di oche, un urlar di cani straordinario alcuna cosa fuor dell'usato protendevano, la natura trovarsi in qualche penoso travaglio significavano, e gli animi riempivano di stupore e di terrore. Fra tutto questo apparato di luttuosi segnali nei primi giorni di febbraio principiò la terra a tremolare, come di sè medesima più sicura non fosse, e, come il mare, farsi ondeggiante volesse. Ma il tremolio non cresceva in iscosse, muoveasi la terra, ma stavano gli edifizii. I Messinesi, usi ai tremuoti, per così dire, volgari, non credevano, quantunque spaventati fossero, che la leggiere trepidazione avesse a cambiarsi in furor tale, che la città ne dovesse andar in sobbisso. Implorarono l'aiuto divino, le sacre pissidi esponevano, inni sacri cantavano, facevano processioni, i luoghi aspergevano coll'acqua benedetta, ed accendevano i lumi all'adorato seggio dove si conserva la lettera autografa che la Vergine scrisse ai Messinesi: reliquia da essi tenuta preziosissima, e con grandissima divozione onorata. Ma la natura, che aveva accesa nei profondi recessi di quelle terre qualche immensa fornace, od ammassata qualche sterminata quantità di acque, le quali in quei monti tendevano a squilibrarsi, non patì che la potentissima cagione fosse defraudata de' suoi terribili effetti. Ai 5 di febbraio, poco appresso l'infausta ora del mezzodì, la piccola ondulazione degenerò subitamente in un orribile e generale rivolgimento del mare, dell'aria e della terra. Udironsi frequenti sotterranei muggiti; pruovaronsi ad ora ad ora ed a precipizio confusi e forti scuotimenti del suolo. Ora in su si spingeva, come se di sotto all'insù fosse percosso da potentissime spuntonate; ora s'avvallava come se una voragine se gli fosse aperta sotto; orizzontalmente oscillava, ora dava sbalzi di traverso, ora, quel che fu il moto pessimo di tutti, si rivolgeva in giro, come se fosse portato da vertigine. Brevemente, una tempesta per tanti lati e talmente succussoria infuriò, che non fu maraviglia che così gravi e così numerosi guasti siano accaduti; bensì è maraviglioso che tutta la città, almeno nella sua parte inferiore, dove maggiormente la sofferente natura travagliò, non sia stata messa a soqquadro intieramente ed in ruina. Moltissime porzioni del teatro marittimo, cioè del casamento sovraddescritto, che il porto orna e nobilita, diroccarono, questa a brani a brani, quella a sfasciumi più grossi, quest'altra per un muro giù e un altro su, onde come spaccate dall'alto al basso apparivano. Non si udivano in quelle ferali ore che muggiti della terra convulsa, invocazioni di supplicanti, lamenti di moribondi, scroscii e rimbombi di case e palazzi che si discioglievano in ruine. «A dì così tremendo, scrivono gli accademici, a dì così tremendo sopravvenne notte più infausta. Verso le ore sette e mezzo la terra fu presa da tale e sì profondo scuotimento, che parve tutta intesa a fendersi o a rovesciarsi e nabissare; e quindi la pallida e tremante popolazione, tra il muggito della terra, il fremito de' venti e il fragore del mare, sentì percuotersi dal rimbombo prodotto dalla orrenda e quasi universale ruina de' tempii, de' casamenti volgari e degli edifizii più vasti e più vistosi, ed ecco in qual modo fu portato a più compiuto termine quel danno che s'era tra essi nel giorno e nella sera cominciato a produrre.» Non uno, ma tutti gli elementi congiurarono a ruina della città dominatrice del Faro. Rovinate le case e rotti i focolari, il fuoco non trovando più nè pascolo regolare, nè uscite consuete, s'appiccò alle materie diroccate, e divampando con orribile incendio andava serpendo e bruciando quanto era rimasto intero, sia che in piè ancora si sostenesse, sia che a terra già sbalzato giacesse. La fiamma divoratrice si estese con rapido corso da uno in altro luogo, e tale spazio guadagnò, e tale acquistò irreparabile forza, che per sette giorni ogni opera fu vana per estinguerla. Molto prezioso mobile arso, molte sostanze o di ricchi negozianti o di nobili famiglie incenerite. «Quindi a molti infelici, seguono a scrivere gli accademici, a' quali riuscì facile lo scampare dal precipizio de' sassi, toccò la disperata sorte di rimanere vittime delle fiamme. Orribile cosa a mirarsi! Chi cercava di guadagnare l'altura de' tetti, chi si affaticava per arrampicarsi alle travi; chi, ora ad una e ora ad un'altra finestra affacciandosi, misurava col guardo l'altezza delle mura, per gettarvisi, e ne rifuggiva spaventato dall'evidente pericolo della caduta. Ma finalmente tutti videro approssimarsi la morte, invocando invano, coll'errare di qua o di là, il desiderato soccorso, impossibilitati a fuggire per le scale già dirute, ed ugualmente privi di coraggio e di modo onde o gettarsi dall'alto o ricevere da' cittadini, dagli amici o da' parenti un aiuto qualunque in mezzo alla medesima loro situazione.» L'incendio infuriava. Oltre allo scompiglio delle cadenti mura e il terrore e la fuga de' cittadini, che impedivano le azioni dello spegnere, un irresistibile alimento aveva la fiamma nella furiosa bufera, che chiamarono aeremoto, la quale, quando più la terra si scrollava ed il fuoco imperversava, soffiava terribilmente con direzione incerta, anzi con buffi vorticosi e disordinati. Una casa de' Ceraselli, già percossa e conquassata dal terremoto, fu dal vento svelta, di lancio gettata, e sparsa in frantumi sopra il suolo. Pareva veramente che quivi ed in que' momenti il mondo, sottosopra andando, fosse arrivato alla sua fine. Col fuoco, coll'aria, colla terra i Messinesi avevano a fare. Ma il mare non s'indugiò a concorrere colla sua vasta mole a loro distruzione e morte. Sollevossi quella mortifera e devastante inondazione, frutto del marimoto di cui abbiamo, favellato e che ai Scillitani diede tanto spavento ed arrecò gli ultimi danni. Lo smisurato e furiosissimo fiotto con incredibile violenza entrò a turbare il tranquillo letto del porto, superò la panchetta, traboccò fra di essa ed i grandi edifizii del teatro marittimo, e tutto quello spazio allagando, di arena e di marino fango il coverse. Aprissi in tale modo ed in que' funesti momenti una scena di mostruosa e multiforme rivoluzione di natura, e si trovò chiuso ogni passo alla fuga ed allo scampo. Troppo lunga e noiosa narrazione sarebbe il numerare tutti i luoghi o nabissati o infranti. Basterà il dire che i tempii più ragguardevoli furono o sconquassati o altamente lesi o lievemente percossi. Oltre la ruina de' begli edifizii del teatro marittimo, moltissimi casamenti nobili, graziose stanze di magnati, abbellite da tutte le arti più industri, furono o posti a soqquadro intieramente o gravemente maltrattati. Le fabbriche delle opere pubbliche non incontrarono sorte migliore. Una parte del grande spedale fu ridotta in pessimo stato. Il palazzo reale rotto e diroccato in più parti, il seminario una congerie informe di sassi, la parte maggiore del convitto di educazione un ammasso di ruine, l'archivio della regia udienza sepolto sotto i rottami, la porta dell'Assunzione quasi disfatta, il palazzo senatorio screpolato tutto ed in parte diroccato, e di quasi tutte le case, che più o meno offese restarono, tetti di peso divelti da' loro appoggi e sbalzati in aria, poi caduti a sfasciarsi e stritolarsi del tutto in terra; il convento de' teresiani, uno de' più danneggiati. La cupola della chiesa del Purgatorio arrandellata di piombo sui tetti d'una casa vicina. Mirabile fu il vedere il campanile del duomo tagliato, per così dire, per filo d'altezza, e una metà rimasta in piè, l'altra diroccata a terra, come se spaccato dalla cima alla base da una potente scure stato fosse. Tra mezzo a così rovinoso tumulto e scroscio poco più di settecento persone in così popolosa città perirono; imperocchè, ai primi insulti del terremoto, i cittadini fuggirono precipitosamente e al disteso sui campi liberi alla campagna, dove, alzato avendo tende e baracche, attendevano a dimorarvi sino a tanto che quell'insolito furore si fosse estinto. Così l'immagine della vita s'era trasportata fuori; morte, silenzio e solitudine regnavano in Messina. L'uomo sentiva raccapriccio ed orrore per le desolate contrade della vasta città trascorrendo, dove nè anima vivente vedeva che movesse, nè suono sorgere che le orecchie gli percuotesse, udiva, se non quello d'alcune porte o finestre ancora attaccate ai muri e dal vento sbattute come in abbandonato e deserto edifizio. Avresti detto una città percossa e devastata dalla peste. Ai 5 di febbraio non vi fu mai riposo compito dal terremoto, scuotendosi continuamente ora con maggiore scrollo ora con minore il suolo. Bene successe ai Messinesi la prudenza in appresso; imperocchè ai 28 di marzo, come in Calabria, così ancora in Messina, preceduta da molte scossette, venne una scossa violenta che parve che quello fosse l'ultimo giorno per la città già cotanto desolata e deserta. Novelle grida di stupore e di terrore si alzarono allora di sotto le tende e le baracche, grida commiste di uomini e di donne, di vecchi e di fanciulli cui pietà prendeva degli antichi abituri. Non poche spaccature di terra si aprirono in Messina, ma non però di quella lunghezza e profondità che si osservarono nella Piana di Monteleone. Alcuni narrano che da queste aperte bocche usciti fossero aliti ferventi e di fetore sulfureo; ma con migliore osservazione fu accertato che piuttosto chimere d'immaginazioni percosse deggiono stimarsi, che testimonianze d'uomini prudenti ed amatori della verità. La prossimità dell'Etna spirava queste fole, sembrando al volgo che un terremoto ed un così estremo conquasso avvenire non potessero senza che quel colossale e rabbioso monte vi avesse parte e cagione ne desse. Ma fatto sta, che, se egli operò di sotto, non operò di sopra, nè con fuochi o con aliti o con fumi la sua immensa forza manifestò. Fuvvi altresì chi s'immaginò avere sentito impresse di calore le acque accavallate sui lidi nel momento del terribile marimoto; ma anche questa fu una chimera di mente inferma. Bene è vero che le fontane e i pozzi per alcuni giorni si disseccarono; il che aggiunse miseria all'estremo travaglio prodotto dalle altre cagioni. Il terreno sotto la panchetta e del contiguo stradone parve infangarsi e divenir molliccio, ma però non eruttò melma. Forse la cagione che dalle profondissime interiora della terra procedeva, quivi fu meno attiva che nella Calabria, e non ebbe sufficiente forza per ispingere sino alla superficie le fanghiglie, e produrre quei vomiti di materia cretacea. Le spaventevoli catastrofi accaddero fra popoli di fantasia vivissima e molto dediti alla religione, la quale nelle menti rozze e poco illuminate degenera facilmente in superstizione. Onde non è a maravigliare se nei paesi percossi si osservarono cose singolari: apparizioni straordinarie, predizioni portentose, e cerimonie e riti stupendi. Tre giorni dopo il fine del disastro, fatta una processione, cantarono l'inno delle grazie: ringraziavano, abbenchè fossero senza pane, senza roba e senza tetto; lodevole radice di pietà anche nella miseria. I costumi, ciò nondimeno, non erano nè diventarono migliori; che anzi, come a segni non menzogneri apparve, peggiorarono e nel pessimo diedero. Fra tanti dolori, una sfrenata cupidigia del far suo quello d'altrui i feri animi di quei popoli dominava. Come ogni cosa era in confusione, così adoperarono come se credessero che ogni cosa fosse comune, e ciascuna di tutti; nè la compassione per altri nè il proprio pericolo valevano per ritenergli che in abbominevoli latrocinii non si precipitassero. Userem le parole del Dolomieu, siccome quelle che pingono al vivo la condizione di quel tempo, e dimostrano quale creatura sia l'uomo quando è sciolto dal freno delle leggi, quantunque Dio minacci e colla sua terribil voce faccia sentire che pronto e presto è il castigo. «Mentre una madre scapigliata, scrive l'egregio Franzese quale nelle sue Storie il traduce il Botta, e coperta di sangue andava domandando alle ruine stesso ancora fumanti il figliuolo, cui, mentre nel grembo il portava fuggendo, le aveva tolto la caduta di una rovinosa trave; mentre un marito affrontava una morte quasi certa per ritrovare una diletta sposa, si vedevano mostri con faccie d'uomini precipitarsi in mezzo a muri traballanti, bravare il pericolo più orrendo, calpestar uomini mezzo sepolti che di pietà e di aiuto gli richiedevano, per andar a saccheggiare la casa del ricco e soddisfare ad una cieca cupidigia. Costoro spogliavano vivi tanti infelici, i quali avrebbero loro date le più generose ricompense, se al lagrimevole caso loro avessero prestato una mano soccorritrice. Io ho alloggiato a Polistena nella baracca d'un galantuomo che fu seppellito nelle ruine della sua casa, le sole gambe scoperte per aria: il suo domestico gli tolse le fibbie d'argento, e se ne andò via senza volergli dare aiuto per disseppellirlo. Generalmente il popolo della Calabria ha mostrata una depravazione incredibile di costumi nel mezzo agli orrori de' tremuoti. La maggior parte degli agricoltori era all'aperto nelle campagne quando successe la scossa dei 5 febbraio, e accorsero subito nei paesi ingombri di polvere, non per prestare soccorso, ma per saccheggiare.» Sin qui il veridico Dolomieu; ma direm cosa ancora più orrenda e pur anco vera, ed è che questi uomini spietati, se soli erano ed in deserti luoghi, rubavano e lasciavano in vita i miserabili sepolti senza punto nè delle loro grida, nè delle loro strida curarsi; ma quando temevano che alcuno li vedesse o gente sopraggiungesse, ammazzavano o calpestavano, soppozzando o con rottami acciaccando coloro, cui rubato avevano, più crudi in ciò che l'orrido flagello che allora la patria sobbissava. Nè età, nè sesso, nè memoria di benefizii valevano per fare che quelle spietate tigri s'impietosissero. Tutti soffocavano, purchè chi soffocato era, avesse cosa che utilmente pel rubatore gli potesse venir tolta. Fieri esempi massimamente d'ingratitudine sorsero. I servitori i padroni, i coloni i proprietarii spogliarono. Ciò facevano per istinto, ciò facevano per un barbaro raziocinio. Credevano che la fortuna avendo tutto sconvolto, e tutti nella medesima sciagura involti, e la condizione del ricco uguagliata a quella del povero, avesse lasciato i beni in preda alla forza ed a benefizio del primo occupante. Quindi è facile a comprendersi qual barbaro governo si facesse, nei primi dì dell'orribile percossa, delle leggi, delle sostanze, della santa religione, della sacra umanità. Orride cose faceva la natura, ancor più orride ne facevano gli uomini. Nè vuol tacersi che la sporca lussuria trovò anche luogo fra tante angosce, fra tante ruine. Fu una peste peggiore del rubare, perchè quella era mescolata colla speranza, questa accompagnata dalla disperazione. Nè tacere pur devesi che chi doveva meno partecipare in queste sporcizie, non meno degli altri dentro vi s'immerse, e nell'universale dissoluzione fu provato che sventura non rompe libidine. Pronta e di breve tempo fu la distruzione, ma il ristaurare tante ruine e l'emergere da tanto conquasso, il ricuperare quanto s'era perduto fu opera di più lunga fatica e di maggiore momento. Ond'è che si videro le popolazioni fuggite alla rabbia del terremoto in punto di perire per la mancanza dei sussidii al vivere necessarii. La stagione era in quel mentre d'assai e oltre l'usato inclemente, regnando sempre pioggie molestissime e un freddo anzi rigido che no. Le ingiurie del tempo tormentavano i miseri scampati, li tormentava ancora più la fame. Tutti i generi, che al vestire dell'uomo ed a cibarlo servono, erano stati o distrutti o sotto le rovinate fabbriche sepolti. L'olio quasi tutto miseramente a terra sparso: sparsesi o perdessi la più gran parte del vino o per la rottura delle botti o per lo sprofondarsi delle volte. Quel vino poi che potè essere preservato, nelle sue più intime parti corrotto, non acquistò mai più nè la sua vigoria nè la sua purità. L'aceto stesso fiacco e privato del suo spirito e del suo gusto divenne. La medesima tempesta annientò le biade che nei granai erano riposte. Dissotterrossi in progresso di tempo il grano che nelle fosse all'uso del paese si conservava; ma di niuna utilità fu, perchè fracido si estrasse e d'ingrato odore o ciò fosse per l'acqua che per le insolite fessure in quei penetrali aveva trovato la via, o per altri influssi sorti dalle parti più interne e più basse, da cui la naturale economia dei grani fosse stata contaminata e guasta. Nè solo mancarono i generi, ma ancora le officine e gli artifizii, per cui si ammorbidavano ed all'uso degli uomini atti e confacenti si rendevano. La pallida fame incrudelì per ogni parte, e fu la prima e la più terribile seguace del terremoto. Nè modo v'era in quel punto di rimediarvi. Le strade giacevano così altamente ingombre di rottami e di ruine, che il portare le vitali derrate dai paesi ove abbondavano a quelli a cui mancavano, era opera difficile, anzi in quei primi momenti d'impossibile esecuzione. Arrogevasi all'universale disgrazia che essendosi o guasti i fonti per la corruzione delle acque o disseccati per avere le polle interne preso altre vie, negavano all'afflitta popolazione il solito refrigerio; e quando non pioveva più, chi presso ai fiumi non abitava, sperimentava quanto fosse crudo il tormento della sete. Da tanti stenti, da tanti strazii, da tanti dolori, da tanti terrori si generarono con una marcigione orribile malattie mortali, massimamente di febbri di mal costume, per cui era tolto di vita chi da tanti rischi di morte già era scampato. La fame, la sete, i perpetui lamenti di chi era rimasto storpio o ferito, o di chi da ferale febbre era consumato ed arso, il tetro aspetto dei cadaveri insepolti o chiusi sotto le rovine, donde altro segno di sè non davano che un incomportabile fetore, o gettati sui roghi ad incenerirsi, formavano un misto tale, che da lui altro non poteva nascere che l'ultima desolazione e la totale dissoluzione della società. Che leggi, quai magistrati, o qual lume di ragione, o qual impulso di sentimento potevano resistere a cruciamenti che piuttosto erano quelli, per così dire, delle anime dannate, che di creature nella luce di questo mondo ancora viventi? Umanità e religione si scossero in così fatale momento; non mancarono gli umani provvedimenti. Sorse alla voce di tanti miseri il governo del re Ferdinando, e prontamente con animo da beneficenza compreso, e con mezzi quanto potè più efficaci a quegli estremi bisogni accorse. Elesse al pio ufficio uomini che sapevano e volevano secondarlo, un Pignatelli in Calabria, un Caracciolo in Sicilia. La fame, la mala consigliatrice fame più d'ogni altra necessità pressava; alla fame adunque per le prime provvidero. Nè fredda o lenta, ma accesa e spronata fu la benignità di chi comandava e di chi obbediva. Soccorsero con mandar generi di vitto prestamente nei luoghi più danneggiati, innumerabili braccia al racconcio delle terre lavorando. Si fecero incontanente assettare molini e forni, ed, antivedendo qualche nuovo conquasso, ordinarono, là dove l'opportunità era maggiore, conserve di grani, di farine, di biscotto, onde, ad ogni tristo accidente che sopravvenisse, potesse essere in pronto il compenso. Non solamente nei primi dì della fatale sventura, ma per molto tempo ancora una moltitudine quasi innumerabile d'uomini affamati e per fame languenti furono sostentati dai soccorsi che dalla mano regia provenivano. Provvidesi eziandio, poichè malizia umana è così grande che fa negozio della miseria altrui, con ordini adatti e severissimi, che siccome i commestibili si somministravano, così ancora il loro trasporto da un luogo all'altro, e l'acquisto sul luogo fosse agevole, retto e non incomodo nè al venditore nè al compratore. L'annona regia largiva il vitto, la supellettile, le vesti; l'erario il denaro. Per ogni lato, per ogni canale scorreva il fiume della beneficenza sopra gl'infelici percossi. Il governo faceva da sè e per sè, ma non tralasciò il pensiero di raccomandare ai baroni che pronta ed amorosa cura avessero dei loro vassalli. Quanto alle città regie, cioè quelle che, esenti da baronaggio essendo, alla sola autorità del re soggiacevano, furono loro dall'erario pubblico, per quel medesimo fine di soccorrere chi pativa, distribuiti larghi sussidii. L'immensa forza che aveva conquassato la terra, aveva eziandio la sopraffaccia sua sconvolta tutta e coperta di ruine. Ondechè la maggiore difficoltà che s'incontrava nel condurre a compimento il pietoso ufficio era appunto la malagevolezza delle strade, come già più sopra abbiamo osservato. Quasi isolate erano le città, isolati i villaggi. Ad un male così grave sopperire non potevano le languenti braccia dei Calabresi superstiti, nè l'animo afflitto, nè il numero scemato. Misersi in opera le compagnie provinciali che nuovamente, non a questi usi di sciagura, erano state ordinate. Fu loro comandato che nella ulteriore Calabria gissero ed in pro degl'infelici abitatori a sgombrar terre, a sollevar rottami, a racconciare strade, ad inalveare fiumi, a prosciugar paludi, a dar corso a stagni si adoperassero. Le soldatesche mani quivi non a micidiale, ma a conservatrice opera con provvidissimo consiglio mandate, molto volentieri vi attesero. Deposti i fucili e le sciabole, presero in mano vanghe, uncini, picconi, zappe, funi, e racconciarono coll'arte ciò che la natura aveva stravolto e scomposto. Quanti cadaveri trassero dai muti abissi, quanto prezioso mobile dai rovinati edifizii, quanto oro, quanto argento, quanti nobili arredi tra il fango, i sassi ed ogni lordura giacenti! «Dicasi senza sospetto, scrivono i lodati accademici di Napoli, dicasi senza sospetto di adulazione; fu mirabile cosa a vedere i tardi nipoti de' valorosi Bruzii e degl'industri abitatori di tal parte della Magna Grecia comportarsi con tale e sì costante intrepidezza e fedeltà, che non può abbastanza lodarsene il coraggio, con cui si esposero a sì difficile impresa, la rassegnazione colla quale si prestarono ai comandi di que' prodi uffiziali che in tanto penoso impegno ne diressero le operazioni, e l'ottima fede colla quale religiosamente custodirono tutto ciò che essi dalle ruine disotterrarono. Si videro in brevi giorni sgombrate le più vaste ruine, riaperte le strade e facilitati i modi, onde potersi la sbandata gente riunire e sovvenirsi a vicenda. Ritornarono al bene e al comodo della popolazione gli ori, gli argenti, le suppellettili, i commestibili e que' generi di prima necessità che non erano stati o guasti o distrutti.» Speciale ordine dal principe e da chi la benefica sua volontà eseguiva, ebbero questi pietosi e forti soldati di avere cura principalmente di rinvenire e conservare le scritture, onde si regolavano gl'interessi e lo stato delle famiglie. Come a loro fu comandato, così fecero. Impedissi a questo modo uno scompiglio, una crudele confusione che sarebbe stata d'infiniti danni e di acerbi sdegni troppo feconda cagione. Fra di queste benefiche operazioni che un paese vasto ed una numerosa popolazione a novella vita chiamavano, una tristissima vista rendeva funesti gli animi. Disotterravansi a luogo a luogo, a ora a ora dai diroccamenti e dai dirupamenti gli ammaccati cadaveri. Sorgevano pianti di chi riconosceva i suoi più cari, compassione e smarrimento era in tutti. Vedendoli, contemplandoli, ognuno comprendeva quanto fosse grande il calabrese ed il siciliano infortunio. Rotti erano i corpi estinti in varie ed orribili guise, molti sformati talmente e dall'antico aspetto tanto diversi, che più non si riconoscevano. Putivano per putredine: un infame odore anticorriero e seme di mortali malattie per le città e per le campagne si diffondeva. Al quale fomite d'aere pestilenzioso maggiore forza era aggiunta dalla puzza che usciva dai sepolcri stati sommossi, aperti e scoperti dalla violenza del terremoto. Vedevansi per gli spaccamenti e scosci dei monti scendere i cadaveri per lo innanzi chiusi nei loro avelli, o sul suolo stesso sconvolto apparire in sembianze orrende. Il pericolo era grave che i morti ammazzassero i vivi. Ebbesi dai magistrati regii nel miserabile frangente, cura della salute pubblica. Per provvidenza generale ordinarono ciò che per provvidenze particolari già si era fatto in alcuni luoghi. Vollero che si accendessero i roghi per dovunque abbisognasse, e che i cadaveri vi si incenerissero. Abborriva sulle prime il volgo da un ufficio che siccome insolito era, così ancora crudele ed inumano gli pareva. Ma tra per promesse, persuasioni e comandamenti si venne a termine che il salutare editto si mettesse ad esecuzione. All'odore putredinoso si mescolava l'odore delle carni e delle ossa arse: il che cagione era di sommo ribrezzo ed abbominazione. Per andare all'incontro di così molesto senso, e per resistere ai fatali effetti del fetore, si bruciavano nel medesimo tempo materie odorose in grandissima copia, onde una densa e perpetua nube di profumi la tristissima scena avviluppava, e meno orribile la rendeva. Rivolsero anche il pensiero a chiudere le squarciate fauci dei sepolcri con ampie e ferme masse di materiali atti ad impedire il velenoso fiato che dalla putrescenza ne usciva. Questi consigli e provvedimenti sortirono l'effetto desiderato nelle Calabrie, ma non sì però che un influsso mortifero non le desolasse, e molti fra i più non mandasse. Ma la salutare efficacia se ne conobbe in que' luoghi, dove con maggiore diligenza furono mandati ad esecuzione; imperocchè o le popolazioni ne furono preservate del tutto, o il morbo con minore veemenza v'incrudelì, o più breve durata ebbe. Per le prudenti e forti deliberazioni del vicerè di Sicilia Domenico Caracciolo, Messina ne restò intieramente esenzionata. Vi si piansero morti pel furore della terra e del mare, ma non per la forza delle malattie. Terminati i fieri e crudi disastri, rimase lungo tempo nei popoli stupore, terrore ed orrore. Chi per gl'infelici luoghi viaggiava, vedeva uomini che a manifesti segni dimostravano essere stati tocchi da uno straordinario furore d'elementi e da un immenso infortunio. Oltracciò, ad ogni tratto si temeva che la potente e rabbiosa natura delle Due Sicilie di nuovo si mettesse in travaglio, e quanto aveva lasciato intero o non intieramente distrutto rompesse e disciogliesse. Una densa e fetente nebbia ingombrò per parecchi mesi, non solamente il teatro di tante tragedie, ma ancora tutta l'Italia con parte della Francia e della Germania. A dì 29 d'aprile del presente anno cessò di vivere Bernardo Tanucci, ministro napoletano. Da qualunque lato si guardi il lungo politico aringo corso da Tanucci, indarno si cerca quale cosa potuto abbia servire di fondamento all'alta riputazione in cui levossi da vivo e che nol lasciò dopo morte. La setta popolare e l'uso di recare le cose a maggior vantaggio dei più prevalevano. Il secolo si volgeva principalmente contro i residui degli ordini feudali, contro gli abusi, se mai ce ne fossero, e le esenzioni del clero, contro i privilegii, di cui la nobiltà ed il clero stesso godevano. A migliore egualità si volevano le cose tirare; a maggiore dignità si andava la natura umana riducendo. Vivo esempio del secolo era l'imperadore Giuseppe. Ora il vediamo visitare di nuovo l'Italia con quel solo apparato che la virtù ed il ben volere gli davano. Partito dall'imperiale residenza di Vienna nel dì 6 dicembre, passato per Mantova, Parma e Modena, e tre giorni a Firenze col fratello granduca trattenutosi, a Roma sull'ora del mezzodì del dì 23 di tale mese inaspettatamente arrivò. Vide Roma e Pio, a cui disse restituirgli la visita. Per soddisfare ai curiosi di queste cose, si dica, ch'ei portava l'abito schietto dei suoi ufficiali, bianco con mostre di velluto rosso; per abitazione aveva la casa del cardinale Herezam, suo ministro; per tavola, quella d'un albergo vicino a piazza di Spagna. La vigilia di Natale assistette ai primi vespri in San Pietro, poi vi udì il mattutino e la messa di mezza notte. Erasegli apparecchiato un magnifico inginocchiatoio con cuscini e tappeti di velluto e d'oro; ma in quel luogo ed avanti il cospetto di colui che il più alto adegua agl'imi, il ricco seggio ricusando, inginocchiossi a terra, come se uno del popolo fosse, ed a terra prostrato pace al mondo e felicità pe' suoi popoli pregò. In mezzo alle romane grandezze umile e modesto si mostrò, grandezza più grande di tutte. Il dì seguente poi recossi alla messa solenne cantata dal papa con tanta maestà, con tanta pompa e con tale concorso di popolo, che vincitrice in quel giorno veramente appariva la cattolica religione. Gustavo di Svezia stesso, che con Giuseppe d'Austria a que' dì ai sublimi riti assisteva, maravigliato restonne e tocco. Non era già uomo da convertirsi, ma da considerare, come fece, con quanta maggiore efficacia delle protestanti la religione cattolica possa con le sue pompe esteriori operare a pietà e riverenza verso Dio, ed amore e beneficio verso gli uomini. Giuseppe visitava Roma, e salutato di nuovo il pontefice, partì per Napoli, onde vedervi quell'ameno e grande paese, il re Ferdinando, la regina Carolina e la duchessa di Parma, sua sorella, alla quale portava particolare affezione. Spezialmente poi desiderava di conversare coi sommi filosofi che allora Napoli abitavano ed illustravano. Grandi balli, grandi festini, e soprattutto grandi cacce vi si facevano. Di ciò Giuseppe si dilettava, ma non vi aveva capriccio. Per sollievo di spirito, non per tenore di vita que' piaceri prendeva. Meglio si dilettava di vedere Filangeri, meglio di visitare gli ospedali e gli ospizii, meglio di ammirare quel dilettoso clima, quella potente natura che indicano dover pure chi vi regge fare per chi vi abita quanto essi hanno fatto; e che certo gli abitatori vi sarebbero felicissimi. Grande disparità era in tutti i paesi tra la bontà della natura ed il rigore delle instituzioni, ma in nessun luogo più grande che in Napoli. Anno di CRISTO MDCCLXXXIV. Indiz. II. PIO VI papa 10. GIUSEPPE II imperadore 20. Continuando a trattenersi in Napoli, il principe austriaco vide ancora molto volontieri Carlo di Marco, come veduto avrebbe Tanucci, morto l'anno precedente[1], per opera de' quali principalmente a migliore condizione s'incamminavano ogni giorno le cose del regno. Vide anche volontieri Acton, che delle cose marineresche principalmente aveva cura, e che allora, non essendo ancora nati tremendi furori in esteri paesi, non era ancora acceso di que' furori egli stesso che il resero, alcuni anni dopo, cotanto diverso ed acerbo. Già s'erano fatte in Napoli, e si andavano preparando deliberazioni che di non poco contentamento riuscivano al sovrano di Vienna. Abolivansi i privilegii baronali, i comuni si proteggevano, gli ordini giudiziali si miglioravano, si voleva che i giudici motivassero le sentenze. Molto si faceva, eppure molto ancora restava da farsi. Ciò quanto al civile e lo economico; quanto alle cose di giurisdizione mista, si procedeva anche, ma con lodevole prudenza, a riforme. Le appellazioni a Roma furono tolte, e soppresso il tribunale della nunziatura, soppresso del tutto il tribunale dell'inquisizione. Già si parlava di sopprimere i conventi stimati inutili; già si pensava di far dipendenti dagli ordinarii e troncar loro ogni dipendenza da' generali di Roma: già un Michele Torcia aveva presentato alla suprema giunta della Calabria uno scritto, per cui provava che i claustrali costavano alla nazione più di nove milioni di ducati all'anno, onde molti, tra per la condotta, l'inscienza, le maniere e l'enorme prezzo, erano ormai venuti a noia a tutti. Quelli che fra di loro di buoni studii erano nudriti e di retti costumi informati, i quali non erano pochi, non bastavano per lavare le note che sulle spalle di quegli altri erano state impresse. Grati suoni venivano anche a Giuseppe dalla Sicilia. Domenico Caraccioli, marchese di Villamarina, uomo di alto spirito e d'animo volto a benefizio dei popoli, governava col grado di vicerè quell'isola sino dal 1781. Personaggio era che molte regioni avendo peragrate, e molte cose vedute in Francia e in Inghilterra, e di purgato intelletto essendo, di suo proposito si moveva, e da sè medesimo sanamente deliberava. Ma, oltre la capacità e volontà propria, si consigliava col Napolitano Saverio Simonetti uomo di non mediocre valore, e che, stato prima luogotenente della sommarìa in Napoli, era poi stato eletto segretario di Stato per la grazia e per la giustizia. Quanto di bene in Sicilia si fece a que' tempi, da questi due uomini riconoscere si debbe, ma forse ancora più dal Simonetti che dal Caracciolo; imperocchè il primo, siccome più prudente, più consigliatamente procedeva; mentre il secondo, siccome più focoso, dava qualche volta negli scogli che non sapeva nè voleva evitare. Erasi già stabilito da' ministri di Napoli che il tribunale dell'inquisizione anche in Sicilia con un modo pacifico, e senza che il papa molto se ne risentisse, si sopprimesse; quest'era il non provvedere le cariche degli inquisitori a misura che venivano vacando. In fatti, vacato uno degli inquisitori, non aveva avuto surrogazione, e vacato anche il secondo, non si pensava a dargli un successore. Il supremo inquisitore Ventimiglia acerbamente si lamentava, rappresentando che fosse meglio annullare del tutto il tribunale che lasciarlo sprovveduto d'inquisitori; perciocchè, se dannoso era stimato, la soppressione faceva l'effetto che si desiderava, e nissun bisogno vi era di aggiungervi lo scherno, col lasciare le cariche vacanti. Caraccioli, presa occasione da questa rappresentanza, instò presso il governo supremo di Napoli, affinchè il tribunale finalmente fosse tolto. In fatti, vi fece passare una provvisione, per cui fu espedita l'abolizione del tribunale. Imperfetti erano certamente gli ordini del parlamento di Sicilia, ma pure servivano, massimamente per le tasse, di salutare freno al governo. Il Caracciolo applicò l'animo a migliorarli. Grande vizio era nel modo con cui si formava la deputazione del regno, la quale, fra una tornata e l'altra del parlamento sedendo, alla perfetta esecuzione delle leggi sancite vegliare doveva; conciossiachè accadesse che essendo i baroni di grande potenza, risultava per l'ordinario ch'ella fosse quasi tutta composta di baroni, o di qualche cadetto nobile. Dal che procedeva che piuttosto agl'interessi di chi più poteva che a quelli di chi poteva meno si avesse riguardo. Il buon vicerè, per andare all'incontro di un così grave disordine, e ridurre quella forma politica al suo primiero e più utile instituto, ordinò che sempre alla deputazione fossero eletti quattro ecclesiastici pel braccio ecclesiastico, quattro baroni pel braccio baronale, e quattro deputati delle città libere pel braccio demaniale. Per tale ordinamento si videro assunti alla deputazione ed ecclesiastici e gentiluomini in compagnia de' baroni; cosa che fu di grande contento ed utilità ai Siciliani. Il parlamento in ciò giovava, che la Sicilia non venisse molto aggravata dalle contribuzioni, ma portava con sè l'inconveniente che i pesi fossero a rovescio ripartiti; perchè i baroni, pretendendo certe ragioni di esenzione, alleggerivano i feudi ed aggravavano gli allodii. Per la qual cosa il vicerè ed il suo savio consigliere Simonetti proposero che i beni si allibrassero, e tutti, nissuno eccettuato, a proporzione del loro valore, ai pubblici pesi soggiacessero. Ma i baroni, che si sentivano percuotere nell'interesse, fecero in Napoli un tale contrasto, che per lungo tempo all'utile e giusto pensiero si soprassedette. Il loro principale argomento in ciò consisteva, che le esenzioni e privilegii, di cui ora si trattava di privarli, non erano punto a titolo gratuito, ma bensì un contraccambio ed un compenso di certi obblighi speciali ch'essi soli avevano verso la corona, massimamente ai tempi di guerra contratti. Protestavano essere ingiusto giudizio il venire accomunati da una parte e restare gravati dall'altra. Tutto l'andamento di Caraccioli fu quello di abbattere i privilegi baronali e la feudalità. Quindi aveva sempre caro di proteggere i vassalli contro i baroni, e quelli fra i magistrati, che in pro dei primi e contra i secondi giudicavano le cause, accarezzava. Per lo che suscitati i popoli a quel favorevole vento, generalmente si muovevano contro i diritti dei rispettivi baroni, e innanzi a' tribunali quasi ogni giorno risuonavano querele contro i diritti proibitivi di caccia, di forni, di fattoi, di pedaggi, di dogane interne, dei pagamenti detti di terraggio e terraggiuolo, e di simili altre angherie odiose per l'origine, pregiudiziali per gli effetti. Il commercio in fatti e l'agricoltura per essi sommamente pativano, e la libertà dell'operare nelle cose necessarie alla vita ne restava grandemente offesa. Non disformi alle querele erano le sentenze, per le quali quasi sempre i signori ne andavano con la peggio, onde appoco appoco un nuovo diritto pubblico più conforme alla egualità si andava creando, e le gravezze dei popolani si allentavano. Caraccioli, uno dei primi baroni del regno, seguitava il suo genio, e l'umor suo contro i baroni sfogava; non però per amarezza, ma per l'utilità comune il faceva. Stabilì che il mero e misto imperio da nissuno potesse esercitarsi, se non da chi ne mostrasse il titolo, e parimente volle che nissuno dei baroni potesse partecipare nella elezione dei giurati, cioè ufficiali del comune, se il titolo autentico di poter ciò fare non esibisse. Abolì anche in amendue i casi ogni forza di consuetudine; e siccome i più per consuetudine piuttosto che per titoli scritti mostrabili quelle potestà esercitavano, ne seguitò che furono obbligati di cessarle, non senza grave risentimento degli antichi signori, a' quali pareva strano di non essere più delle antiche ragioni e consuetudini investiti. Così i popolani divennero meno gravati, ed i comuni più liberi; imperciocchè il principale nemico della libertà dei comuni fu sempre, non già l'autorità regia, ma la feudalità. I vicerè di Sicilia erano soliti a fare delle circolari, monumenti durabili del loro governo. Celebri furono a' suoi tempi quelle del Caracciolo. Molte utili riforme vi si leggevano. Ai 15 di settembre restrinse la così detta mano baronale, che valeva a fare l'esenzione dei proventi territoriali e dei livelli, e prescrisse che i baroni non potessero procedere a carcerazioni od altri atti simili nè di per sè, nè per via di fatto. Ai 10 di gennaio poi dell'anno seguente, diciamolo qui, giacchè siamo a questa, ordinò che i baroni non si potessero ingerire nell'amministrazione delle università baronali, nè nel peculio che amministravasi dai giurati. Un pensiero utilissimo ebbe nel mese di ottobre del medesimo anno 1785, e fu che stabilì che i vassalli non fossero più obbligati a lavorare i terreni dei loro baroni: il che distruggeva i comandati, ossia certe servitudini di persone e di gleba. Dalle narrate riformazioni ciascuno può conoscere quanto il male fosse grave in Sicilia a cagione di quegli sconcii ordini feudali. Piacquero all'universale dei popoli, il nome di Caraccioli fu celebrato dai Siciliani, come di proprio ed alto benefattore; chi più poteva per l'opinione, chi più poteva per le braccia, con somme lodi l'esaltavano. I magistrati, i forensi, le persone di lettere l'egregio vicerè favorivano, e dai risentimenti dei baroni il difendevano. Il popolo poi, massimamente i contadini, e generalmente tutti i vassalli, si dimostravano pronti a tener lieto e sicuro colui che le fatiche più profittevoli e la vita più dolce aveva lor procurato. Quindi era nato che i Siciliani si erano divisi in due parti, e venuto l'uso di chiamarsi vicendevolmente col nome o di caracciolesco o di baronale. Tutta la Sicilia co' suoi pensieri Caraccioli abbracciava, ma speciale cura si dava di Palermo. Al dì primo di aprile vi pose la prima pietra del camposanto; lodevole risoluzione. Ma spiacque dove fu stabilito, per esser quello stesso presso la chiesa di Santo Spirito, là dove appunto ebbero principio i vesperi contro i Franzesi. Adornò e rese più regolare la piazza pubblica del mercato. Volle, ma non potè condurre a termine il suo intento di aprire due giorni per settimana un mercato pubblico per l'annona. Tali erano le virtù di Caraccioli, le quali chiaramente splendevano dentro e lontano da Palermo, ma non senza qualche ombra dentro. Quelli che da vicino il vedevano, ed ogni giorno a fare con lui avevano, non si soddisfacevano dell'impeto e dell'imprudenza con cui trattava le faccende, ancorchè, come già abbiamo accennato, Simonetti in qualche modo il ritenesse. Disgustò anche il popolo di Palermo, perchè aveva voluto riformare le feste di Santa Rosalia, e perchè ostentava una certa miscredenza e disprezzo delle cose sacre. Non volle fare il voto solenne per l'immacolata Concezione della Vergine, e motteggiava sovente sopra le cose riputate più rispettabili. Queste erano imprudenze ed errori, le seguenti scandali e sconcezze indegne dell'uomo e del grado. Invitava alla sua mensa le ballerine e le cantatrici, e con esse conversava più famigliarmente che si convenisse. Accadde ancora che, fatta venire una compagnia di comici franzesi, invitò al teatro i vescovi. Non minore dispiacere arrecava nè minore molestia dava ad ognuno la protezione, con cui favoreggiava i delatori ed i fiscali, onde e le calunnie e le avare investigazioni turbavano le famiglie, e le proprietà incerte o gravate mantenevano. Questa fu una brutta peste che contaminò l'amministrazione di quel famoso vicerè, e lo rese meno commendabile ai contemporanei ed ai posteri. Nè vuolsi tacere che assai subito e sensitivo era verso chi il riprendeva, ed è noto in Sicilia ch'egli perseguitò acerbamente coloro che avevano fatto una satira contro di lui, uomo grande per umanità, non grande per sopportazione; virtù che ricerca maggior signoria di sè medesimo, e che Caraccioli non aveva. L'imperadore Giuseppe sentì, essendo ancora in Napoli, farsi o prepararsi dal vicerè tante generose riformazioni in Sicilia; ne riceveva non poca allegrezza. Poscia, lasciato Napoli, verso la sua Milano s'incamminava. Ebbe a Roma nuove e prolungate conferenze col pontefice, da solo a solo, nissun cardinale, nissun prelato, nissun domestico ammesso ai segretissimi colloqui. Ai 20 di febbraio l'austriaco principe arrivava a Milano. In Torino ora si riscaldava ora si raffreddava il grido della sua venuta. Vittorio Amedeo di Sardegna desiderava che la sua città visitasse. Mandò il marchese Balbis, pregando acciò venisse. Furono tra l'inviato del re e lo imperatore molte cose parlate, ma nissuna conclusa. Per non vedere quelle sponde del Po, l'Austriaco si scusò colla brevità del tempo: il duca del Chiablese, fratello di Vittorio, fu mandato a Milano per onorarlo. Giuseppe fu nella capitale della Lombardia ciò che era stato altrove, ma essendo fra i suoi popoli, con le mani ancor più piene di grazie per dar riparo alla vita dei miseri. Visitò quindi Pavia e la sua famosa università, a cui egli e la sua madre augusta tanto lustro, tanti nobili professori, tanti utili sussidii di scienze avevano procacciato. Era a quei tempi Pavia una vera italica Atene. Ognuno, crediamo, di questo parere sarà, quando dirassi che Scarpa, Spallanzani, Gregorio Fontana, Volta, Scopoli, Franck, Presciani, Tamburini, Mascheroni e tanti altri illustri uomini la studiosa gioventù alle fonti del sapere abbeveravano. Quivi l'imperatore, come in gratissimo seggio, si rallegrava. Tutti quei virtuosi sacerdoti delle muse amorevolmente accolse, e tutti quei preziosi repositorii di libri, dei parti dei tre regni, curiosamente esaminò ed accrebbe, tutti quei ticinesi popoli coi detti ed ancora più coi fatti rallegrò e consolò. Veduta al suo cospetto la facoltà di teologia, così le disse: «Attendete pure ad insegnare i dogmi semplicemente, e non istate a mescolarvi questioni inutili, commenti oscuri, sofisticherie scolastiche. Le superflue parole non ad altro servono che a suscitare gli odii ed a soffocare i principii del vero cristianesimo. Sia chiara e schietta la fede, benigna e tollerante la carità: sia Cristo la nostra face, Cristo il nostro amore; le oziose ed acerbe disputazioni lasciamo a chi mal vede, a chi mal sente, a chi mal ama.» Così parlato, e poco ancora dimoratosi nell'antica sede del regno lombardo, sede recente di più fortunati influssi, quell'amorevole padre dei popoli a Milano tornò; poscia, valicate le Alpi, sulle sponde del Danubio si ricondusse. Lasciò in Italia immortale memoria de' suoi benefizii, ed un fratello condegno imitatore delle sue virtù. Tutto il tempo che Giuseppe, di Napoli partito fermossi in Italia, Gustavo di Svezia si trattenne a Napoli. Parea che i due sovrani non avessero gran piacere di trovarsi insieme in alcun luogo. Per tanto, restituitosi il re di Svezia a Roma il dì 10 di marzo, vi rimase sino al 19 di aprile, i maggiori riguardi al capo della Chiesa cattolica dimostrando, e colle maniere cortesi ed affabili la benivoglienza dei Romani conciliandosi. Andato una mattina a vedere il museo, vi trovò come a caso il pontefice, e, trattenendosi seco in conversazione presso a due ore, formò il soggetto d'un bellissimo quadro del celebre pittore franzese Gagneraux. Assistendo alle funzioni della settimana santa, veramente magnifiche nella principal chiesa dell'universo, non si potè, che pieno di ammirazione non si manifestasse avere i protestanti il torto nel criticare la pompa delle cattoliche funzioni; poichè, essendo ai popoli la religione necessaria, era ben fatto circondarla con tutto ciò che può renderla agli occhi umani rispettabile ed augusta. Non per tanto, temendo quel monarca che i suoi popoli, della setta di Lutero seguaci, nol credessero disposto rinnovellar l'esempio dato un secolo prima dalla regina Cristina, e assicurarli volendo del suo attaccamento al culto del proprio paese anche in mezzo alla cattolica Italia, pose la romana tolleranza ad uno stranio cimento. Ordinò che fosse alla meglio preparata una cappella nella sala del palazzo che abitava, ed ivi assistette divotamente ad un discorso assai lungo del barone di Taube, vescovo svedese, suo primo predicante e cappellano di corte, accorso da Stoccolma a Roma per adempire ai doveri del suo ministero, e alla celebrazione delle cerimonie pasquali secondo la confessione di Augusta, e con i cavalieri, con tutta la gente della sua comitiva e con altri luterani forestieri che trovavansi a Roma, la cena conforme ai riti di detta confessione ricevette, alla funzione ammettendo quante d'ogni classe persone vollero concorrervi. Mandò in dono Gustavo al papa le medaglie dei sovrani e degli uomini più insigni in diversi tempi dalla Svezia prodotti; ed essendo andato a visitare il collegio di Propaganda, fu a lui offerto un omaggio che indarno sarebbesi cercato ed ottenuto in qualunque altro paese: il suo elogio in versi, stampato in quarantasei diversi linguaggi antichi e moderni. La sorpresa del re fu viva, e soprattutto vivamente espressa. Congedatosi Gustavo da Pio, per la via di Firenze e Parma giunse a Venezia il giorno 3 di maggio, e Venezia con la solita sua splendidezza delizioso e grato rese al monarca il suo soggiorno, con regate e balli i più sontuosi. Di qui partito, passando per Milano e Torino in Francia, al suo regno affrettatamente il richiamarono le vicissitudini della Danimarca. Già da quindici anni il granduca Leopoldo felicitava la Toscana. Non solo la Italia, ma l'Europa tutta ammirava la saviezza delle sue leggi, e applaudiva all'affetto dei sudditi pel sovrano. Ne abbiam fatto più d'un cenno negli anni precedenti, non meno che delle riforme tanto nel civile quanto nell'ecclesiastico da lui fatte. Ma ciò non ostante, e quantunque delle cose ecclesiastiche sia per presentarsi altrove l'occasione di parlare, non può tacersi delle forme politiche, le quali, secondo che alcuni scrivono, egli voleva dare alla felice provincia. Narrano adunque ch'egli avesse in animo di statuire, per suprema legislazione dello Stato, quanto segue: Che alla creazione della legge dovesse intervenire il voto del granduca e quello della nazione; Che la legge dovesse consegnarsi al granduca per l'esecuzione; perciò fosse investito dell'autorità e del comando della forza, siccome per la legge constituita veniva ordinato; Che la nazione rappresentata fosse dalle assemblee comunitative, dalle provinciali e dalla generale; Che la petizione fosse libera ad ogni individuo maschio sopra ai venticinque anni davanti alle assemblee comunitative del luogo di suo domicilio, ma per oggetti meramente locali e compresi nelle facoltà dei magistrati delle medesime comunità; Dall'aggregato di varie comunità si formasse il distretto o circondario provinciale, e che quivi tener si dovessero le assemblee provinciali; Che le assemblee provinciali composte fossero dai deputati delle rispettive comunità, e che appresso loro fosse libera la petizione, ma soltanto per oggetti risguardanti l'intera provincia; Come nelle assemblee comunitative si dovevano sentire le petizioni delle rispettive comunità e quelle dei particolari comunisti, così si dovessero anco discutere e passare al partito dei voti, e poi le ammesse consegnare ai deputati, perchè le presentassero alle assemblee provinciali, per quindi discutersi e mandarsi a partito partitamente; Che dalle assemblee provinciali si eleggessero deputati per intervenire all'assemblea generale, e ad essi si consegnassero tutte le petizioni che vi erano state ammesse o decretate come voto provinciale, e così venissero abbracciate tanto le petizioni comunitative quanto le provinciali; Che i deputati provinciali formassero l'assemblea generale, che dovesse adunarsi senza intimazione o invito in determinato tempo ogni anno, e risedere prima in Pisa, poi in Siena, poi in Pistoia, e finalmente in Firenze, incominciando la volta ogni quattro anni; Che per Livorno si stabilisse una norma particolare; Che le assemblee in tutte tre i gradi fossero pubbliche; Che la legge si potesse promuovere dalle assemblee generali, e dovesse ricevere la sanzione del granduca, come egli la poteva proporre all'assemblea, e col voto di quella la legge venisse creata; Che il conto generale delle finanze si dovesse esaminare in pubblico nell'assemblea generale, ed il ministro delle finanze dovesse produrlo e dare tutte le notizie o spiegazioni occorrenti; Che al medesimo modo esaminare si dovessero i conti comunitativi e provinciali; Che gli aumenti di stipendio agl'impiegati dello Stato dovessero passare per due voti concordi, e così parimente le pensioni e gratificazioni per titoli degni di straordinaria ricompensa; Che qualunque impiegato di qualunque grado al servizio dello Stato che fosse dichiarato di non avere la soddisfazione del pubblico, si dovesse dimettere, e non si potesse altrimenti impiegare; ma che per tale atto dovesse concorrere il voto unanime della piena assemblea generale senza bisogno del voto regio; Che tutte le nomine degl'impiegati appartenessero alla prerogativa regia, e però tutte dal granduca si facessero; Che parimenti di prerogativa regia fossero le nomine ai vescovati e la collazione dei benefizii ecclesiastici di padronato regio o comunitativo; Che medesimamente i gradi e gli onori da darsi agli uffiziali della milizia fossero parte della prerogativa regia; Che finalmente la medesima prerogativa regia abbracciasse tutto ciò che non era contrario alla legge fondamentale della costituzione; Che gl'impiegati al servizio della corte o dello Stato non potessero essere ammessi a sedere nelle assemblee nazionali, e neppure i pensionarii, ma che ai medesimi non venisse interdetto il diritto di petizione; fu anche spiegato che non cadessero sotto questa censura gl'impiegati al servizio della comunità. Giova andare avanti in queste disposizioni di Leopoldo siccome sono da alcuni raccontate. Voleva bensì che la prerogativa di far grazia fosse riservata al granduca, ma solamente per diminuire o commutare le pene afflittive corporali ai delinquenti già condannati, ma non già le pecuniarie. Intendeva e voleva che fosse intieramente nel granduca soppressa la facoltà di rompere le sentenze dei tribunali nelle cause civili, e per tale modo veniva estirpato quell'enorme abuso, che ancora viveva e vive in certe monarchie, di violare a favore o pregiudizio di questo o di quello le decisioni della giustizia. Non sono da trasandarsi le parole veramente auree, se vere sono, che Leopoldo scrisse nel preambolo di questa sua legge constitutiva: «Che solo un despota imbecille o malvagio può credersi superiore alla legge; ch'ella è fatta per regolare i diritti tra privati, e che il far nascere la legge in grazia di una parte non è altro che un abuso di potere, o l'effetto d'imprudenza di volubilità o di ignoranza di quei giudici che introdussero questa nuova specie di grazia, che non può aver luogo senza un torto o un'ingiuria verso dell'altra parte, a cui la legge in quel momento sta in favore.» Seguono alcune sicurtà, perchè in ogni tempo la costituzione salva ed intatta conservare si potesse; Che i successori al trono dovessero accettare e promettere l'osservanza della costituzione prima di assumere l'autorità e la corona; Che i principi della famiglia regnante non potessero essere investiti di benefizii ecclesiastici di padronato regio, nè ammessi ad impieghi a servizio dello Stato, o civili fossero o militari; Che lo stesso interdetto abbracciasse espressamente anche i principi di famiglie regnanti estere; Che la truppa fosse tutta civica, nè che si potessero fabbricare fortezze, e quelle che già esistevano non potessero contenere artiglierie, nemmeno in forma di conserva. Che le assemblee non solo potessero, ma dovessero esser guardiane della costituzione, ed obbligate fossero a denunziare le infrazioni ed a contrastarle, regolando in quali modi ed in quali forme speciali per tali casi essi dovessero procedere. La pretesa suprema legge continuava dicendo: che non si potessero creare feudi, e quelli che venissero a decedere, non si potessero più conferire; Che la libertà del commercio fosse un articolo di legge costitutiva, e che ad essa in nissuna maniera si potesse derogare, nè che limitare si potesse, nemmeno a tempo, nè direttamente nè indirettamente, nè con imposizioni o tasse, od altro qual si volesse vincolo o restrizione; Che non si potesse creare debito pubblico nè per lo Stato, nè provinciale, nè comunitativo oltre di quello che già vi fosse; Che neppure alcun debito creare si potesse sul patrimonio della corona, che si dichiarava inalienabile, indivisibile e incapace d'ipoteca. Che, oltre i beni attribuiti a questo patrimonio, fosse instituito un supplemento sull'erario pubblico pel decorso mantenimento del granduca e della famiglia; ma che tale supplemento fisso fosse, nè mai aumentare si potesse; Che lo Stato non potesse mai essere obbligato a supplire nè alle doti, nè alle spese pel mantenimento delle principesse, nè per lo stabilimento e promozioni dei principi della famiglia; Che fosse proibito dalla costituzione il vendere o il dare in appalto le tasse, gabelle od imposizioni quali fossero o quali si volessero, e che parimente fosse dalla costituzione vietato il concedere in privativa alcun mercimonio o manifattura, neppure col profitto dell'erario. Quanto poi alla legge politica rispetto agli altri Stati, non era fuggito dall'animo a Leopoldo il desiderio che la Toscana fosse in perpetua neutralità con le nazioni anche barbaresche così per mare come per terra, qualunque i tempi fossero, o quali le contingenze. Per la qual cosa stabilì: Che non si potessero stipulare alleanze offensive nè difensive, o ricevere protezione o assistenza da potenze estere, e, molto meno, somministrare oltre i termini, della neutralità, che dal granduca erano stati chiaramente prescritti; Che il territorio non si potesse ingrandire con l'acquisto di nuovi Stati; nè cederne o cambiarne parte alcuna. Parve a Leopoldo, seguono a narrare, che per Livorno, porto di mare, scala di tanta mercatura, stanza e passaggio di tanti forastieri, in un particolare modo statuire si dovesse. Vogliono pertanto che ordinasse che la comunità di Livorno fosse esclusa dalle assemblee provinciali; dal che conseguitava, che esclusa anche fosse dall'assemblea generale; ma perchè le restasse qualche politico vincolo col rimanente della Toscana, e i suoi bisogni fossero conosciuti, ed ai medesimi provvedere si potesse, le furono lasciate le assemblee comunitative ed il diritto di petizione. Le domande mandate e vinte per partito delle assemblee comunitative di quella città dovevano mandarsi per mezzo di un oratore espresso, ma senza voce deliberativa, all'assemblea generale per esservi discusse e poste a partito. Leopoldo decretò eziandio che, affinchè la pacifica Toscana, come pacifica era, così ancora paresse, si sopprimesse ogni vestigio di apparato di guerra marittima, salve soltanto le barche armate di sanità e di esplorazione ed altri servigi fra le isole e la costa. Dal quale decreto venne interamente annullata quella pazzia del correre armata mano dei cavalieri di Santo Stefano contro i seguaci di Maometto, che i detti cavalieri potevano bensì irritare, ma non ispegnere. Contuttociò, per sicurezza di quell'emporio di Livorno e delle terre di marina, pensò che utile e necessaria cosa fosse di farvi stanziare qualche soldatesca stabile, massime di bombardieri e, come adesso si dice, di artiglieri o cannonieri, e conservarvi o innalzarvi alcuna fortezza. Tali erano, siccome narrano, i pensieri di Leopoldo circa il modo con cui egli intendeva di costituire la Toscana. Anno di CRISTO MDCCLXXXV. Indiz. III. PIO VI papa 11. GIUSEPPE II imperadore 21. Intesa a questi giorni più di mezza Italia alle riformazioni d'ogni genere nella pubblica cosa, ebbe Venezia a mettere per qualche tempo in esercizio la sua saviezza, per divertire possibilmente le conseguenze d'un avvenimento che alla fine costrinse la repubblica ad impugnare le armi sul mare. Nel marzo 1781 alcuni negozianti tunisini noleggiarono nel porto d'Alessandria un bastimento veneziano per trasportare a Tunisi le loro merci. Or pretendeano costoro che il legno dovesse dare tantosto alla vela, non ostante una malattia sopraggiunta al capitano che impedivagli assolutamente di partire, e, senza voler udir ragione, tanto quei Tunisini insistettero che il console veneziano residente in Alessandria dovette obbligare il figliuolo del capitano a mettersi in mare in vece del padre. Coll'equipaggio adunque di otto marinai veneziani e diciotto Tunisini proprietarii del carico, imbarcossi il giovane pel suo destino; ma, fatto ch'ebbe circa un sessanta miglia, si avvide che nel bastimento era la peste. Volle tornarsene indietro ad Alessandria; ma i Tunisini a viva forza l'astrinsero a progredire nel viaggio sino al porto di Sfax, ove pel contratto doveva approdare. Se non che erano in tragitto periti dieci Tunisini e tre marinai, e gli abitanti di Sfax, del male accortisi, coll'armi in mano respinsero il capitano col suo legno infetto, il solo favore accordandogli di due marinai, a prezzo smisuratissimo, quantunque poco nel mestiere valenti. Rigettato così dalla forza, e costretto a rimettersi in mare, il capitano approdò a Malta. Quivi ancora, informata la deputazione di sanità che il bastimento era attaccato dal contagio, mandò proibendogli il porto, ed intimandogli che, se non fosse immantinenti partito, avrebbesi senza remissione abbruciato il naviglio con tutto l'equipaggio. Indarno furono le protestazioni e le proferte del capitano di far lunga e rigorosa contumacia; indarno chiese il soccorso d'alcuni marinai, senza i quali impossibile gli tornava ogni movimento, quantunque esibisse di pagargli sino a dugento scudi per ciascuno: le leggi inesorabili della pubblica salute gli stavano contro, ed ei vide ardere sotto i proprii occhi il bastimento, salvo l'equipaggio, cui peraltro non fu permesso di toccar terra che affatto ignudo, e sommergendosi prima nell'acqua. Circostanza da notarsi in questo luogo si è, che malgrado tutte le precauzioni dai Maltesi prese, i Tunisini, sbarcando, seco portarono sopra bacili di rame tutto il denaro che si trovavano, ed in appresso diedero ad intendere al loro dey, non essersi il capitano preso alcun pensiero di loro, nè aver adoperato lui mezzo di sorta per impedire l'arsione del bastimento. La quale relazione fece che il dey pretendesse obbligata la repubblica di Venezia a pagare i danni da' suoi sudditi patiti, mentre, per lo contrario, aveva ella il diritto che indennizzati fossero i sudditi suoi del danno che lor proveniva dalle mosse cui fu il capitano dai Tunisini forzato nelle narrate circostanze. Il dey che allora in Tunisi regnava fece sopra di ciò pressanti rimostranze al console veneziano; ma ossia che sentisse la debolezza delle sue ragioni e gli imponesse la forza della repubblica, oppure che qualche altro motivo il consigliasse, si tacque, nè finchè visse parlò di tali sue pretensioni. Ma, morto lui, il figliuolo che gli succedette le mise di nuovo in campo, e dichiarò al console che si sarebbe rotta la pace, se a lui ed a' suoi sudditi data non fosse intiera soddisfazione. Ed insistendo il dey con tutta la tenacità nel suo proposito, determinò la repubblica d'inviargli, per farla finita, il suo capitano delle navi con proposizioni ragionevolissime e coll'aggiunta di regali per la sua esaltazione. Ma questi sentimenti di moderazione per parte della repubblica non fecero effetto; che anzi il dey, invece di prestarsi ai termini di giustizia ed equità, produsse nuove pretensioni, fra le quali una era quella che altri Tunisini domandavano risarcimento di certi effetti che trovavansi sopra un bastimento veneziano saltato in aria nel porto di Tunisi, avendovisi appreso fortuitamente il fuoco. Per quanto incompetenti, irragionevoli ed ingiuste cotali pretensioni fossero, non uscivano dal circolo dell'insaziabile avidità della barbara nazione che le metteva in mezzo, nè dai principii da essa professati, che la forza sia la suprema ragione e giustizia in ogni cosa. Intanto eccessi di un'altra natura ferirono direttamente la dignità della repubblica. Non solo rovesciarono coi modi più insultanti gli stemmi del veneziano consolato, ma e il suo capitano delle navi spedito a Tunisi e la sua comitiva durarono molta fatica a sottrarsi al tumulto della plebe, che furibonda gl'inseguiva nel momento che tornavano alle navi. Abbattere lo stemma, insultare il pubblico messo ed intimarsi solennemente dal dey alla repubblica la guerra fu tutt'uno. Sdegnato il senato all'iniquo modo di procedere, elesse a capitano straordinario delle navi il cavaliere Angelo Emo. Quest'uomo sommo, ben a ragione chiamato l'ultimo de' Veneziani, ricreatore della veneziana marineria, salpò con breve flotta dalla patria nel precedente anno, a Cattaro ed a Corfù rinforzandosi di legni da guerra, di soldati e di gente di mare. Giunto colla sua squadra a Tunisi, s'impadronì subito d'una tartana armata e riccamente carica ai Tunisini appartenente; e quindi, esaminati i luoghi della costa, lasciò l'almirante a bloccare l'ingresso principale del porto, ed ei coi rimanenti legni si volse a bombardare Susa, città sessanta miglia da Tunisi discosta. Il vivissimo bombardamento, per diciassette giorni e diciassette notti continuato, atterrò molti e i più notabili edifizii della città, molti pure spegnendo dei suoi difensori ed abitanti, sagrificati alle ostinate barbarie del dey, che non volle la rinovazion della pace. Avendo la veneziana squadra svernato a Trapani, tornò in quest'anno dopo la metà di luglio sulle coste d'Africa, ripigliò il bombardamento di Susa che durò sino al 4 di agosto, non permettendo il mare sempre agitato di spingere più innanzi le guerriere operazioni, ed i bassi fondi anzi consigliando a portare altrove lo sforzo. Giace sulla costa di Barbaria, entro il golfo di Zerbi, la città di Sfax, dipendente dal regno di Tunisi. Benchè circondata da bassi fondi che non permettono di accostarvisi ai vascelli da guerra, benchè alcune isole sorgan fra quelli che più pericolosa ne rendono la navigazione, benchè sino allora avessero cotali ostacoli impedito ai legni delle altre potenze di penetrare in quel ricinto, Emo tentò di conquiderla, ancorandosi in distanza, e di quivi slanciandole contro più di cinquanta bombe, che, cadendo per la maggior parte entro le mura, insegnarono per la prima volta a que' barbari a temere pur essi que' globi fulminanti da' quali si credeano sicuri. Ma non corrispondendo l'effetto pienamente alle mire del comandante, pensò altra via di tornar loro del tutto vano lo schermo di quella sirti, da' proprii navigli, congiungendone le vuote botti, traendo, novella sua invenzione, un navile atto a dar sui _querquenci_ e sulle secche il saggio e l'esempio di quel modo di marittima offesa contro le rocche in terra, che, imitato poi e tratto a termini di grandezza per mezzi infinitamente maggiori dal lord Exmouth sotto Gibilterra, riuscì nondimeno a quella stessa fine, con immenso apparato di forze, a cui Emo con forze tanto rimesse e parche il condusse, di vincere no o distruggere que' corsali, ma di rintuzzarli. Impietositosi però l'Emo ai casi di una popolazione tanto, per l'ostinatezza del capo, sofferente, volle generosamente fare al dey grave rappresentanza in una sua lettera, significandogli eziandio come la repubblica fosse disposta a dargli quelle dimostrazioni di affetto che in varie occasioni avea date al dey di lui genitore e predecessore, qualora si determinasse ad approfittare della clemenza del veneto senato. Commosso il dey alla generosa dichiarazione, fece sapere all'Emo che intavolato avrebbe proposizioni di pace, qualora avesse a trattare con lui solo, rimanendo con due soli legni, e licenziando il rimanente. Rispose il Veneziano che poteva bensì far ritirare la squadra, ma che delle condizioni della pace era del senato il decidere. A questo pertanto inviò per espresso le proposizioni del dey, e mandata la squadra parte a Trapani e parte a Corfù, passò egli a Malta, per attendervi le risposte di Venezia, concessa frattanto ai Tunisini una tregua di quaranta giorni. Lasciò il senato al suo capitano la libertà di conchiuder la pace, escluso però qualunque esborso o patto di denaro, e fissato che per le gabelle i bastimenti veneziani non avessero a pagare se non il tre per cento come i Franzesi pagavano, e non il cinque dal dey imposto; che se a questi tali condizioni non aggradissero, rinnovasse Emo, il senato comandava, le ostilità al più tardi nell'anno nuovo. Fu allora mormorato che questa guerra, la quale durò sei anni ancora, avrebbe potuto, appena sorta, terminarsi col sagrifizio di qualche denaro per saziare l'avidità di quel principe africano, sacrifizio infinitamente minore a quello d'una guerra di mare sì dispendiosa e tanto lunga. E taluni ancora, sospettosi o maligni, vollero colpare della continuazione d'essa lo stesso Emo, che non poteva, dicevano, vedersi ozioso in patria, amava l'agitazione ed il movimento, e godea l'animo in comandare, padrone assoluto, una flotta sul mare. Meschini di loro! che non sapeano, o di sapere dispettavano, quanta mente, qual cuore in Angelo Emo fosse, e qual giudizio di lui era per dare la storia che i giudizii del volgo non imita. «Angelo Emo visse esemplare di costumi e di repubblicana temperanza. Che aspirasse a farsi il Pisistrato della sua patria altro indizio addurre non saprebbe la calunnia che quell'arte in lui somma di rendere idolatre di sè le genti commessegli, di far che i timori e le speranze tutte nel duce loro riponessero, ed in sè rivelato loro, quasi diremmo, presente, rimuneratore, all'unità ridotto venerassero l'aristocratico reggimento da cui gli uomini più ripugnano. Comunque sia, la caligine di congetture non offusca lo specchio della storia. Emo visse e morì terso di macchia; ma certamente palese e quasi vocazione fu in esso la brama di ringiovanire la vecchia patria: e di fatto, quella parte di cui sembra che prima uopo era ravvivare in città sedente sul mare, la naval possa, con tanta saldezza di vita rinnovò, che quando la patria omai più non era, opima spoglia la rinvenne e tutta vita per anche chi ad usurparla mandò quel guerriero che usando fin d'allora del diritto ferreo della fortuna e dell'armi, nel 1796, Venezia rimeritava dell'ospitalità dandole morte.» (_Castelli._) Anno di CRISTO MDCCLXXXVI. Indiz. IV. PIO VI papa 12. GIUSEPPE II imperadore 22. Abbiam detto di quello che Leopoldo granduca di Toscana volea fare; ora è d'uopo toccare quello ch'ei fece. Questo principe, il quale, al dire d'uno storico esimio, non si potrà mai tanto lodare che non meriti molto più, mostrò quanto possa per la felicità de' popoli una mente sana congiunta con un animo buono e tutto volto a gratificare all'umanità. Solone fece un governo popolare e torbido, Licurgo un governo popolare e ruvido, Romolo un governo soldatesco e conquistatore; fece Leopoldo un governo quieto, dolce e pacifico, tanto più da lodarsi dell'aver concesso molto quanto più poteva serbar tutto. Erano prima di Leopoldo le leggi di Toscana parziali, intricate, incomode, improvvide, siccome quelle che in parte erano state fatte ai tempi della repubblica di Firenze, tumultuaria sempre e piena di umori di parti, e parte fatte dopo, ma non consonanti con le antiche, le quali tuttavia sussistevano. Altre ancora erano per Firenze, altre pel contado, queste per Pisa, quelle per Siena, poche o nissune generali. Sorgevano incertezze di foro, contese di giurisdizione, lunghezze di affari, un tacersi per istracchezza dei poveri, un procrastinare a posta de' ricchi, ingiustizie facili, ruine di famiglie, rancori inevitabili. Erano altresì leggi criminali crudeli o insufficienti, un commercio male favorito, un'agricoltura non curata, un suolo pestilenziale, possessioni mal sicure, debito pubblico grave, dazii onerosissimi. A tutto pose rimedio il buon Leopoldo. Annullò i magistrati o superflui, o poco proficui, o privilegiati, e tra questi quello delle regalie, togliendo in tal modo qualunque prerogativa che sottraesse ai tribunali ordinarii quelle cause che percuotevano l'interesse della corona. Esentò i comuni dai fori privilegiati; li rendè liberi nel governo dei loro beni, diede loro facoltà non solamente di esaminare, ma ancora di giudicare dell'opportunità delle pubbliche gravezze per modo che il corpo loro venne a formare nel granducato a certi determinati effetti una rappresentanza nazionale. Condonati, oltre a ciò, dei debiti verso l'erario, e soddisfatti dei crediti, sorsero a grande prosperità; crebbela ancor più il miglioramento del catasto. Soppressi adunque i privilegii individui e i fori privilegiati, corpi e persone acquistarono equalità di diritti quanto alla giustizia. Tali furono gli ordini civili introdotti da Leopoldo. Circa i criminali annullò altresì ogni immunità e parzialità di foro; abolì la pena di morte, abolì la tortura, il crimenlese, la confisca dei beni, il giuramento de' rei; statuì, le querele doversi dare per formale istanza, e dovere stare il querelante per la verità dell'accusa; restituirssersi i contumaci alla intregrità delle difese; del ritratto delle multe e pene pecuniarie, cosa degna di grandissima lode, si formasse un deposito separato a beneficio di quegli innocenti che il necessario e libero corso della giustizia sottopone talvolta alle molestie di un processo, ed anche del carcere, non meno che per soccorrere i danneggiati per delitti altrui; il che fondò, cosa maravigliosa, un fisco che dava invece di togliere; le pene stabili proporzionate al delitto. Nè contento a questo, diè carico di scrivere un novello codice toscano all'auditor di ruota Vernaccini ed al consigliere Ciani, uomini l'uno e l'altro, i quali non solo volevano e sapevano, ma ancora credevano potersi far bene e utilmente in queste faccende delle leggi, il che non si dice senza ragione a questi nostri dì, in cui da alcuni vorrebbesi insegnare che la miglior legislazione che sia è quella dei tempi barbari. Fu l'effetto conforme alle pie intenzioni; poichè fu in Toscana una vita felicissima dopo le novità di Leopoldo: i costumi non solo buoni, ma gentili; i delitti rarissimi, nè sì tosto commessi che puniti; le prigioni vuote, ogni cosa in fiore. Così questa provincia, che già aveva dato al mondo tanti buoni esempi, venuta in podestà d'un principe umanissimo, diè ancor quello di un corpo di leggi temperato di modo che nè il governo maggiore sicurezza, nè i popoli potevano maggior felicità desiderare. A questo medesimo fine contribuirono non poco i nuovi ordini di Leopoldo rispetto all'agricoltura ed al commercio. Rendè i coloni liberi dalle vessazioni, le terre dalle servitù, moderò la facoltà di instituir fidecommissi, riunì la facoltà del pascolo al dominio, onde fu distrutta l'antica legge del pascolo pubblico, per cui veniva impedito ai possessori ed ai coloni di cingere di stabili difese i terreni, e costretti erano a lasciarli in preda al bestiame inselvatichito, con grandissimo guasto delle ricolte. Nacquero da questa provvisione effetti notabilissimi, che e le ricolte si migliorarono, ed i bestiami si addomesticarono. Considerato poi quanto gli appalti generali dei dazii fossero molesti ai popoli e gravi ai governi buoni, Leopoldo gli abolì. Molte privative ancora furono tolte, quella della vendita dei tabacchi, dell'acquavite e del ferro; a tutti si diè facoltà di cavar miniere; le gabelle sui contratti, e la regalia della carta bollata si moderarono. Sapevasi Leopoldo che tutte queste riforme avrebbero diminuito le entrate dell'erario. Pure non se ne rimase, movendolo il ben pubblico più che il vantaggio del fisco. Ciò non ostante, assai meno diminuirono che s'era creduto; perchè la prosperità del paese e la più attiva circolazione dei generi, che ne risultarono, supplirono in gran parte quello che si perdeva. Mirabile argomento che la prosperità dei popoli prodotta dallo svincolo, non la gravezza delle imposte, è la maggior fonte che sia della ricchezza dell'erario. Si aggiunsero le dogane interne soppresse, nuove strade aperte, canali scavati, porti e lazzaretti o nuovi o ristorati, fatto sicuro a Livorno agli esteri lo esercizio della religione, aboliti i corpi delle arti e le matricole, surrogati agli impedimenti premii, facilità ed esenzioni, massime in benefizio delle arti della seteria e del lanificio, parti essenzialissime del commercio di Toscana. La libertà delle tratte, mediante un modico dazio rispetto alle sete, tanto operò che se il provento loro in Toscana montò, nel 1780, solamente a libbre cento sessantatre mila cento settantotto; montò nel 1789, diciamlo in questo luogo, a ben trecento mila. Ma, per parlar di nuovo del governo delle terre, non solo Leopoldo lo migliorò d'assai migliorando la condizione dei coloni, ma rendè ancora coltivabili quelle che per infelicità di suolo si trovavano incolte. Così la val di Chiana, così quella di Nievole, ricche ed ubertose terre; così in gran parte il capitanato di Pietrasanta, e le frontiere del litorale livornese e pisano, usando, secondo i luoghi, appositamente tagli, colmate, argini, canali, furono per opera sua liberate dall'acque, ridotte a sanità e restituite alla coltivazione. Ma opera di molto maggior momento e di quasi insuperabile difficoltà fu il prosciugamento delle maremme sanesi a tal termine condotto che si aveva speranza di totale perfezione. Sono le maremme sanesi un vastissimo padule che dai confini della provincia di Pisa sino a quelli dello Stato ecclesiastico si distende, lungo il mare, lo spazio di circa settanta miglia, e per larghezza dentro le terre da cinque o sei fino a quindici o diciotto. La pianura di Grosseto è la parte più considerabile di queste maremme. Sono in questi luoghi i terreni non sommersi tanto fecondi, quanto l'aria vi è infame e pestilenziale. Sotto Ferdinando I de Medici erasi già in parte conseguito l'intento, e parecchi paduli a stato coltivabile ridotti. Trascurate poi le opere da' suoi successori, ritornarono le terre e l'aria a peggior condizione di prima. Ma non così tosto fu assunto Leopoldo, che pensò alle maremme. Mandovvi il padre Ximenes, mandovvi Ferroni e Fantoni, matematici di chiaro nome e dell'idraulica intendentissimi. Già la pianura di Grosseto o, per meglio dire, la palude di Castiglione, ambedue parti principalissime delle maremme, eransi ridotte a stato tollerabile. Speravasi meglio, anzi il finale intento: usavansi le colmate per le acque dell'Ombrone e della Bruna, introdotte ai tempi delle torbe; usavansi canali e cateratte in più opportuni siti trasportate. Oltre a ciò, Leopoldo, mosso dal pensiero che le popolazioni scarse fanno l'aria insalubre, le abbondanti sana, allettò con premii ed esenzioni tanto i paesani quanto i forestieri, principalmente gli abitatori dell'agro romano, a fermare la sede loro nella maremma. Pagassesi dell'erario il quarto del prezzo delle nuove case ai fondatori, dessersi terre o gratuitamente od a basso prezzo od a carico di livelli od in enfiteusi; dessesi anco denaro a prestito, e sicuro asilo a chi vi si venisse a ricoverare. Per questo crebbe la popolazione, ed i terreni si coltivarono, e l'aria risanò. Peggiorarono poi le opere per le difficoltà dei tempi; pure rimangono, e forse ancora lungo tempo rimarranno nelle maremme sanesi i vestigii della generosità di Leopoldo. Nè minor lode meritano gli ordinamenti di questo giusto e magnanimo principe circa il debito dello Stato. Più di tre mila luoghi di monte furono cancellati, restituiti i capitali ai creditori col ritratto dei beni venduti spettanti a regie e pubbliche aziende, impiegando a questo uso anche i capitali provenienti dalla dote e contraddote della regina sua moglie, ed altri costituenti parte del patrimonio suo privato. In tal modo si spense in gran parte il debito che tanto gravava l'erario: così, mentre in altri luoghi d'Italia il debito dello Stato montava continuamente non per altro fine che per crear soldatesche, in Toscana, per opera di Leopoldo, il debito medesimo si estingueva per fondarvi un governo dolce, quieto per sè, sicuro pei vicini. Nè per questo tralasciavansi provvedimenti di utilità o di ornamento; perciocchè nel tempo medesimo sorgevano scuole per ogni ceto, conservatorii, case di rifugio e di ricovero, ospizii ed ospedali, e gli studii di Pisa e di Siena meglio si ordinavano; nuovi palazzi fondavansi, gli antichi si abbellivano, nuovi passeggi si aprivano, le librerie si arricchivano, il gabinetto di fisica s'accresceva, ed un orto botanico si piantava. Tra mezzo a tutto questo il principe, siccome quello che giusto era e sincero, non volle starsene oscuro. E però fe' pubblicare la dimostrazione per entrata e per uscita delle rendite dello Stato: in questo quasi specchio dell'economia di Toscana vedonsi ed i risparmii fatti e le imposizioni moderate ed il denaro convertito in cause pietose di sollievo o d'ornamento pubblico. E qui sarebbe da continuare il discorso intorno alle cose ecclesiastiche; ma siccome ebbero compimento nell'anno seguente, così a quello differiremo il tenerne parola. Anno di CRISTO MDCCLXXXVII. Indiz. V. PIO VI papa 13. GIUSEPPE II imperadore 23. Le riforme fatte in Toscana da Leopoldo nelle ecclesiastiche discipline furono materia di molta gravità, e che destò molto grido e molta aspettazione di uomini sì in Italia che fuori di essa. Gli antichi Toscani, più propensi a dar ricchezze ai conventi che alle parrocchie, lasciarono quelli ricchi, queste povere. Leopoldo convocò in quest'anno un'assemblea dei vescovi di Toscana, proponendo loro cinquantasette punti; tutti relativi alla riforma dell'ecclesiastica disciplina. Molti si accordarono, altri si modificarono, altri si serbarono a tempi migliori. Il principe, avuto il parere di alcuni ecclesiastici di non poco nome, stabilì le parrocchie dessersi a concorso, s'aumentassero i redditi loro; veruna tassa più non pagassero ai vescovi forestieri, annullassersi le pensioni di qualunque sorte sopra i benefizii curati, permutassesi la destinazione dei fondi vincolati ad usi religiosi e indifferenti, o poco utili, ed il provento di tali capitali in aumento delle scarse congreghe dei parochi più bisognosi s'impiegasse; con questo ed in compenso di tali concessioni i rettori delle cure dall'esazione delle decime e da altri emolumenti di stola desistessero; i parrochi alla residenza obbligati fossero; niuno più di un benefizio godere potesse, ancorchè semplice, massimamente se residenziale fosse; tutti i sacerdoti che benefizio residenziale avessero, fossero alla chiesa, ove era fondato, incardinati, e tutti i sacerdoti semplici, alla chiesa parrocchiale dove abitassero, e ciò con dipendenza dal paroco, ed obbligo di aiutarlo nel pio suo ufficio; i benefizii tanto di collazione ecclesiastica, quanto di nomina regia, a chi servito avesse od attualmente servisse la chiesa, solo ed unicamente si conferissero; i regolari ed i canonici dal paroco dipendessero, e ad aiutarlo in tutto che abbisognasse obbligati fossero; alla sussistenza degli ecclesiastici o poveri od infermi provvedessesi; i romiti, salvo quelli che utili fossero, abolissersi; tutte le compagnie, congregazioni e confraternite sopprimessersi: a tutte sostituissersi le sole compagnie di carità; le chiese, oratorii, refettorii e stanze delle compagnie soppresse ai parrochi gratuitamente si consegnassero; i religiosi regolari dal vescovo dipendessero; l'abito non vestissero prima dei diciotto anni, non professassero prima dei ventiquattro; le religiose non prima dei venti vestissero, non prima dei trenta professassero; il tribunale del santo ufficio s'annullasse; gli ordini di Roma tutti si assoggettassero al regio consenso, prima che pubblicarsi ed eseguirsi potessero; s'intendesse abolito il privilegio degli ecclesiastici di tirar i laici al foro loro, e nelle cause criminali in tutto e per tutto ai laici parificati fossero; le cure ecclesiastiche e delle cause meramente spirituali conoscessero, e pene puramente spirituali definissero; gli ordinarii ogni due anni il sinodo diocesano, per conservare la purità della dottrina e la santità della disciplina, convocassero. Queste deliberazioni del principe Toscano, ancorchè molestissime alla santa Sede, pareva che non toccassero la sostanza stessa di quell'autorità spirituale pontificia, che già da più secoli i papi avevano piena ed intiera. Ma a quelle deliberazioni non si rimase Scipione Ricci, vescovo di Pistoia, che aveva già opinato nell'assemblea dei vescovi di Toscana acciò si ampliassero le facoltà, non che de' vescovi, de' parochi, volendo che gli uni e gli altri avessero voce deliberativa ne' sinodi diocesani. Statuì poi nel suo sinodo, avere il vescovo ricevuto da Cristo immediatamente tutte le facoltà necessarie al buon governo della sua diocesi, nè potersi le facoltà medesime od alterare od impedire, e poter sempre e dovere un vescovo nei suoi diritti originarii ritornare quando lo esercizio loro fu per qualsivoglia cagione interrotto, se il maggior bene della sua chiesa il richiegga. Le quali proposizioni ed altre ancora diedero assai mal suono, per guisa che Pio VI come erronee ed anche come scismatiche alcuni anni dopo le condannò. Aggiunse il Ricci alcune altre dottrine che parvero e temerarie ed alla santa Sede ingiuriose: essere una favola pelagiana il limbo de' fanciulli; un solo altare dover esser in chiesa secondo il costume antico; la liturgia ed esporsi in lingua volgare e ad alta voce recitarsi; il tesoro delle indulgenze essere trovato scolastico, chimerica invenzione lo averlo voluto applicare ai defunti; la convocazione del concilio nazionale esser una delle vie canoniche per terminar le controversie circa la fede ed i costumi. In fine sommamente dolse a Roma quella proposizione del sinodo pistoiese, per la quale i quattro articoli statuiti dal clero gallicano nell'assemblea del 1682 si approvarono, e questa particolarmente Pio VI con una sua bolla cassò e dannò come temeraria, scandalosa ed alla santa Sede ingiuriosa. Le dottrine del sinodo pistoiese levarono un gran rumore in Italia, massimamente quando furono condannate a Roma. Scritti senza numero vi si pubblicarono, quali in favor di Roma, quali in favor di Pistoia. Allegavasi da' Romani incominciare a por piede in Italia le eresie di Lutero; da' difensori del Ricci, un salutar freno incominciarsi e porre agli abusi. Gli ultimi, tra perchè pretendevano ai discorsi loro parole di semplicità e di parsimonia, e perchè inclinavano a favore de' più, molto s'avvantaggiavano sugli avversarii loro ed andavano ogni dì maggior favore acquistando. Queste ferite tanto più addentro andavano a penetrare nel cuor del pontefice, quanto più nel regno stesso di Napoli le medesime o poco dissomiglianti dottrine si professavano. Pareva, ed ai principi massimamente, che le dottrine che in Toscana prevalevano, non solo la disciplina ristorassero, ma ancora la potenza temporale alla libertà ed alla indipendenza da' romani pontefici restituissero. Perlochè con piacere si abbracciavano, con celerità si propagavano, con calore si difendevano. Ma nel regno delle Due Sicilie erano alcuni particolari motivi per cui le medesime dottrine, che suonavano parole tanto gradite di libertà e d'indipendenza, fossero dal governo medesimo più volonterosamente ed accettate e difese. Da quanto si è venuto ne' precedenti anni discorrendo si vede che colà pure i medesimi tentativi si facevano che nella Lombardia austriaca ed in Toscana circa alla disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore, come si disse, a cagione delle controversie politiche con Roma. Composte aveva Pio VI, al cominciamento del suo regno, o almeno acchetate le controversie che sussistevano colla corte di Napoli; ma ben tosto si rinnovarono più ardenti, e forse contribuì ad accenderle l'intolleranza del nunzio pontificio, il quale ancora in quest'anno in Napoli trovavasi. Perdette Roma il tributo della chinea, nè giovarono a ristabilirlo le erudite allegazioni del cardinale Borgia ed altri scritti d'ordine della romana corte pubblicati; ed il cardinale Buoncompagni, a Napoli spedito per rivendicare almeno in parte il diritto di nomina ai vescovadi del regno che quel sovrano erasi arrogato, nulla potè ottenere. Sembrava che la corte volesse liberarsi da quella specie di tutela sotto la quale i precedenti pontefici aveanla tenuta: scritti giurisdizionali fortissimi pubblicavansi in quel regno, ed apertamente attaccavasi la pontificia autorità; nè quelle contese cessarono se non allorchè un più importante avvenimento, il cominciare, cioè, della rivoluzione di Francia, tutta attrasse ed assorbì l'attenzione dell'Europa; vorticoso nembo che già ci si vien facendo sopra. Anno di CRISTO MDCCLXXXVIII. Indiz. VI. PIO VI papa 14. GIUSEPPE II imperadore 24. Comincia quest'anno colle convulsioni della natura che desolarono gli Stati del pontefice. Rimini varie scosse ne sentì successivamente, a brevi intervalli, una più forte dell'altra. Scrollarono molti edifizii, e quelli che in piedi rimasero davano nelle soffitte e nelle pareti segni della potenza del terremoto; chiese e palagi, oggetti spaventevoli di compassione. Gli abitanti atterriti e dal terrore inseguiti, fuggiano per le piazze, uscian dalla città all'aperta campagna, asilo cercando anche dove men sicuro asilo era. Molti caddero vittima del disastro. Lungo tempo i tremebondi Riminesi soggiornavano sotto le tende, anche nelle crude notti dell'invernal stagione. E Pio VI, padre e signore, ad accorrere in sollievo de' suoi sudditi, de' suoi figli, inviando loro non meno pronti che generosi soccorsi. I due vulcani di Napoli e di Sicilia, se colle eruzioni straordinarie non cagionarono grandi danni, sommo spavento destarono. Nell'Etna fu maggiore che non nel 1779: l'arena e le pietre caddero sino sulla città di Messina, sulle campagne adiacenti, su quelle dell'opposta Calabria, sopra tutte le isole circostanti, e sino in Malta. Nè il Vesuvio volle esser da meno: nel tempo stesso cominciò a gettar fiamme, e scorrendo la lava lateralmente nel vallone che divide quella montagna dall'altra di Somma, portò il terrore nell'anima degli abitatori della più deliziosa parte dell'Italia. Volle il re di Napoli mettere in piedi una rispettabile marineria: trentadue legni da guerra, tra navi, fregate, corvette, brigantini e galeotte, senza contare gli sciabecchi, gli ebbe costruiti ne' due arsenali di Napoli e Castellamare, trovandosi egli continuamente presente ad affrettare ai lavori. Con queste forze gli venne fatto di reprimere le piraterie dei Barbareschi che pareva avessero preso di mira particolarmente i legni mercantili napoletani. Erano coloro in quest'anno usciti a corseggiare più forti e più numerosi del solito, sotto pretesto di doversi, come tributarii, unire alla flotta ottomana contro i Russi. A maggior sicurezza, il re conchiuse un trattato di commercio e di navigazione coll'imperatrice Caterina II, soprattutto pei porti russi sul mar Nero, co' quali erasi stabilito un traffico proficuo ad ambe le nazioni. Nè soli i Barbareschi abusavano dell'occasione della guerra tra i Turchi ed i Russi, onde insultare persino quelle nazioni colle quali erano in pace le loro reggenze; meno non ne abusavano alcuni altri Europei, dandosi alla pirateria con bandiera russa. Se non che, a porvi un argine, sorse Caterina con provvidenze opportune; e la repubblica di Venezia, però che non erasi ancor potuta conchiudere coi Tunisini la pace, faceva dal suo capitano delle navi Angelo Emo, di cui abbiam detto, battere colla poderosa sua squadra di ottanta legni armati le acque del Mediterraneo, perchè rispettata fosse la veneziana neutralità, protetto il commercio, tolto di mezzo qualunque disordine. A dì 31 di gennaio passò di questa vita in Roma, nell'età di sessantasette anni, Carlo Odoardo della regal casa Stuarda, figliuolo di Giacomo III e nipote di Giacomo II, re d'Inghilterra, della cui impresa, a ricovrare il regno intesa, il sommo Muratori espose le vicende nell'anno 1745. Anno di CRISTO MDCCLXXXIX. Indiz. VII. PIO VI papa 15. GIUSEPPE II imperadore 25. Nuova era apresi in quest'anno alla storia. Prima però di chiudere con adequato discorso quella che sin qui trascorremmo, e di apparecchiarci, colla esposizione dello stato d'Italia nel punto dal quale partiremo per percorrere la novella, vogliamo notare in questo luogo alcun fatto di minore importanza, ma che tuttavia merita d'essere ricordato in questi Annali. Fece molto parlare di sè sul finire di quest'anno un uomo singolare; vogliam dire il conte Alessandro Cagliostro. Sotto di questo nome un avventuriere si è acquistata non tenue celebrità. Non è noto particolarmente che per alcuni libelli, sempre sospetti di parzialità, e pel processo fattogli a Roma. Ma l'ignoranza e le contraddizioni de' compilatori non permette di credere ad essi gran fatto maggiormente. Comunque sia, riferiremo succintamente i principali fatti narrati nel processo. Cagliostro nacque, dicono, a Palermo, il dì 8 di luglio 1743, da genitori di mezzana condizione, ed il suo vero nome era Giuseppe Balsamo. Dopo una gioventù burrascosa non poco, e dopo molte gherminelle, come quella che fece ad un orefice nominato Marano, al quale cavò sessanta oncie di oro colla promessa di dargli un tesoro sotterrato in una grotta, custodita dagli spiriti infernali, lasciò la sua città natia, e cominciò a viaggiare. Visitò successivamente la Grecia, l'Egitto, l'Arabia, la Persia, Rodi, l'isola di Malta, ed in quei viaggi strinse amicizia col dotto Althotas, ch'egli ci ha dipinto come il più saggio degli uomini; ma lo perdè a Malta, dove fu bene accolto dal gran maestro che gli diede commendatizie per Napoli. Di Napoli andò a Roma. In questa città conobbe la bella Lorenza Feliciani, colla quale si unì in matrimonio. Da Roma gl'inquisitori della sua vita gli fanno scorrere pressochè tutte le città d'Europa sotto i nomi diversi di Tischio, di Melissa, di Belmonte, di Pellegrini, d'Anna, di Fenice, di Harat e di Cagliostro, vivendo ora del prodotto delle sue composizioni chimiche, ora di giunterie, più sovente del vergognoso traffico che faceva delle bellezze della sua sposa. L'apparizione più brillante di questo personaggio singolare fu quella che fece a Strasburgo ai 19 di settembre 1780. Sarebbe difficile l'esprimere lo entusiasmo ch'egli destò in quella città e di far conoscere i moltiplicati atti di beneficenza onde parve che lo giustificasse. La Borde non conosce termini abbastanza forti per dipingere il conte Cagliostro. Nelle sue Lettere sulla Svezia, ei lo qualifica come uomo ammirabile per la sua condotta e per le sue vaste cognizioni. «La sua fisonomia, dice, annunzia lo spirito, esprime l'ingegno; i suoi occhi di fuoco leggono nel fondo degli animi. Sa pressochè tutte le lingue dell'Europa e dell'Asia, la sua eloquenza sorprende e rapisce, anche in quelle cui parla men bene.» «Ho veduto, prosegue dicendo, questo degno mortale in mezzo ad una sala immensa, correre di povero in povero, medicare le schifose piaghe di tutti, mitigarne i mali, consolarli colla speranza, dispensar loro i suoi rimedii, colmarli di benefizii, alla fine caricarli de' suoi doni, senz'altro scopo fuor quello di soccorrere l'umanità sofferente. Tale spettacolo incantatore si rinuova tre volte ogni settimana; più di quindici mila infermi gli devono l'esistenza.» A sì fatte testimonianze di La Borde si possono aggiungere le lettere scritte al pretore di Strasburgo nel 1783 da Miromesnil, da Vergennes, dal marchese di Segar, colle quali si chiede l'appoggio dei magistrati in favore del nobile straniero, ne' termini più favorevoli per esso. Tali tratti, è d'uopo confessarlo, non si confanno colla orrida pittura che di Cagliostro ha fatto l'autore della sua Vita, il quale lo mostra come l'infimo de' mariuoli ed il più abbietto degli uomini. Ai 30 di gennaio 1785 il conte di Cagliostro, che aveva già fatto un viaggio a Parigi, ritornò in essa capitale ed alloggiò nella via San Claudio presso il baloardo. In quell'epoca si tramava, o piuttosto, come dice egli medesimo, era già nata la famosa baratteria della collana. Gl'intimi vincoli del conte col principe Luigi di Roano, fortemente implicato in tale faccenda, dovevano fargli temere per la sua propria libertà; ma fatto forte della sua innocenza, s'oppose alle istanze de' suoi amici, i quali lo stimolavano a lasciar Parigi. In fatti venne arrestato il dì 22 di agosto e chiuso nella Bastiglia. La contessa di La Motte l'accusò «d'aver ricevuto la collana dalle mani del cardinale, e di averla fatta in pezzi onde ingrossarne l'occulto tesoro d'una facoltà inudita.» La accusa era un assurdo. Cagliostro rispose con una memoria che fu dai Parigini ricevuta con la sollecitudine che inspirava il personaggio. In tale memoria, di cui si attribuisce la compilazione ad un magistrato celebre, Cagliostro, senza appagare pienamente la curiosità del lettore, esce in alcuni tratti del romanzo della sua vita, e dà ad intendere che la sua nascita, quantunque sconosciuta, è illustre. Cita, affermando di averli frequentati, i personaggi più eminenti dell'Europa, ed invoca la loro testimonianza: nomina i banchieri che in tutte le città gli somministrarono denaro, ma senza far conoscere la sorgente delle sue ricchezze. La sentenza del parlamento del 31 di maggio 1786 assolse il principe Luigi e Cagliostro dalle accuse contro di essi intentate; ma entrambi furono esiliati. Cagliostro si ritirò in Inghilterra ivi soggiornò circa due anni; passò da Londra a Basilea, indi a Bienne, ad Aix, in Savoia, a Torino, a Genova, a Verona, e da ultimo andò a Roma, dove fu arrestato il 27 di dicembre del presente anno e trasferito nel castello Sant'Angelo, in un con sua moglie. Volendo qui dire quant'è da dirsi di costui: gli fu fatto il processo e venne condannato a dì 7 del mese di aprile 1791, siccome in esercizio di libero muratore. La pena di morte, a cui era motivo siffatto delitto, fu commutata in una prigione perpetua. Dicesi che sia morto l'anno 1795 nel castello di San Leo. Sua moglie era stata anch'essa condannata a perpetua clausura nel convento di Sant'Apollinare. Furono spacciate sul conte Cagliostro parecchie favole, le quali altro fondamento non hanno che la preoccupazione o le opinioni particolari di chi le ha divulgate, gli uni lo tengono per uomo estraordinario, per un vero facitor di prodigii; altri non veggono in lui che un accorto ciarlatano. Gli si attribuiscono cure maravigliose e senza numero; sembra nulladimeno evidente che il suo sapere in medicina fosse estremamente limitato. Ugualmente che tutti i partigiani delle dottrine ermetica e paracelsica, faceva grand'uso d'aromi e di oro. Fu Cagliostro, caduto sotto le investigazioni della inquisizione, fu tenuto per membro dei muratori templarii, ed attribuita la continua sua opulenza ai moltiplici soccorsi che dalle diverse logge dell'ordine gli provenivano. L'autore già citato della sua vita gli dà il vanto dell'instituzione d'una società di muratori che si dicono egiziani, la quale, s'egli fedelmente la avesse descritta, non sarebbe stata che una meschina ciarlataneria, inetta a trappolare un istante l'uomo meno assennato. Una pupilla o colomba, cioè una fanciulla nello stato d'innocenza, messa dinanzi una caraffa, ma riparata da un paravento, otteneva per la imposizione delle mani del gran cofto, la facoltà di comunicare cogli angeli, e in quella caraffa vedeva qualunque cosa volevi che vedesse. Finalmente uno scrittore de' nostri giorni, l'abate Fiard, non dubitò di far Cagliostro uno spirito del tenebroso impero e di associarlo con Mesmer, Pinetti, ed altri, all'infernale coorte. Il cavalier Bossi, nella sua Istoria d'Italia, dopo esposte e confutate le opinioni che intorno a Cagliostro correvano, conchiude: «Certo è che giudicato fu egli secondo le massime del santo ufficio, e reo supposto di avere sparso erronee opinioni e praticati gl'insegnamenti delle scienze occulte, fu condannato a morte...... sebbene osservassero alcuni che commesso non avea delitti, nè sparse tampoco le opinioni condannate, nel territorio di coloro che costituiti si erano suoi giudici.» Morto in quest'anno il doge di Venezia Paolo Renier, gli fu dato a successore Lodovico Manin, cavaliere e procurator di san Marco, stato podestà di Vicenza, di Verona, di Brescia, e mostratosi nelle magistrature interne d'indefessa attività e di vivo zelo pel pubblico interesse fornito. Se nel suo particolare gli venne data nota di tanta parsimonia che mal si addiceva alla sua opulenza, però che fosse il più ricco uomo di Venezia, nelle pubbliche rappresentanze spiegò l'apparato più nobile e più pomposo della magnificenza e della grandezza. Notarono gli oziosi che de' cento venti dogi che a Venezia furono, il primo e l'ultimo portarono lo stesso nome di Paolo, non volendosi nella serie contare il Manin, che nella dignità in fatti non morì, avendo veduta la caduta dell'insigne repubblica, e mancato poi a' vivi privato e da parecchi negletto. Ed eccoci alla nuova era storica, della quale abbiam detto in principio del presente anno. Se non che, prima d'entrare nel difficile arringo ne pare di dover chiudere il tratto sinora percorso con opportuno discorso sulle scienze e sulle lettere, non che sulle arti, che sì gran parte sono della gloria d'Italia nostra. Un celebrato storico diede di queste parti un suo giudizio, nel quale, sebbene in tutto non consentiamo, crediamo però pregio dell'opera il presentarlo tale e quale ai nostri lettori, i quali, se in qualche luogo il troveranno disforme dalle sentenze che in proposito sono corse, bel campo avranno a quei raffronti, a quelle disposizioni, a que' paralleli da' quali l'istruzione risulta. Dice egli adunque: «Nessuna età mai promise tanta felicità agli uomini quanto il secolo decimottavo, prima che una feroce tempesta lo turbasse. Quanto fra gli uomini di utile, di grazioso, di grande si trovava, tutto allora era o si travedeva. Le volontà benevole, gl'intelletti illuminati, le lettere in onore, le scienze in progresso. Dirò brevemente di ognuno di questi fonti di beneficenza e di gloria. I nostri figliuoli, conoscendo l'aria prima che respirammo e quali fummo e ciò che volemmo, non saranno, credo, verso i loro padri di gratitudine avari. L'Italia per le scienze naturali a nissuna delle nazioni che più le coltivavano era inferiore, ad alcune superiore. E per parlare della Francia specialmente che allora per questa parte dell'umano sapere più d'ogni altra aveva onorata nominanza, sotto certi rispetti l'Italia le cedeva, sotto altri la superava. Cedevale per lo splendore e per l'eloquenza; il grande Buffon in questa parte chi eguagliare potrebbe? Superavala per l'indagine scrupolosa, per l'esattezza delle ricerche, contenti gl'Italiani di dire agli altri ciò che la natura diceva loro, e temperandosi dai commenti; sistemi ed ipotesi, della cui fugace indole già insin dai tempi suoi quel famoso italiano, a cui niuno fu eguale, parlò, dico il buono, dotto ed eloquente Cicerone. Ciò che io qui affermo, ad ognuno sarà manifesto che vorrà considerare, quale Buffon e quale Spallanzani fossero. Dottissimi ambedue e diligentissimi scrutatori della natura, venerandi ambedue sacerdoti della scienza, ma uno dedito più all'immaginazione che all'osservazione, l'altro più a questa che a quella, onde il tempo che sa bene scerner la realtà dalle chimere, non poche cose riformò nelle opinioni del naturalista franzese, poche o nissuna in quelle del naturalista italiano. Ma sebbene non mediocri pregi d'eloquenza Spallanzani avesse, a niun modo il suo fare si potrebbe paragonare con quel largo fiume che spandeva con la sua inimitabil penna colui, cui tutte le nazioni onoravano, cui la morte si pianse con universale cordoglio, cui la memoria tanto valse nei cuori irritati dei nemici della Francia, nel 1814, che Swartzemberg, che gli guidava, mandò spontaneamente salvaguardia al piccolo Monbard, solo perchè stato era seggio di colui, cui, benchè morto fosse, credeva degno di arrestare armi ed armati. Potenti ossa di Buffon, pacifica vittoria, memorando temperamento dai furori guerreschi, ugualmente onorevole e per chi l'inspirava e per chi l'ordinava! I cannoni di Napoleone perdevano, le ossa di Buffon vincevano. «Buffon abbelliva, Spallanzani diceva semplicemente: _La cosa sta così_: ma l'uno certamente e l'altro onore delle loro patrie, ornamento del mondo. Io veramente ammiro nel naturalista, cui Scandiano produsse e Pavia albergò, il genio italiano che, ancorchè abbondi di fantasia, di verità pure e di realtà si pasce. «Il lume della fisica primieramente in Italia tanto splendeva quanto presso ad alcun'altra nazione, e forse per certe parti di lei, come, per cagion d'esempio, l'idraulica e la meccanica, era ita più avanti. Forse ancora per la elettricità, massimamente per le fatiche del padre Beccaria, professore in Torino, ebbe più profonde e più sane nozioni di qualunque altra, ricevuti ciò non per tanto i primi semi dall'estero. «Ciò sulle prime, ma poscia tanto si innalzò che le altre nazioni a' suoi fonti vennero abbeverandosi. Il caso fece trovare a Galvani un fecondo pensiero; egli stesso colle sue sollecite investigazioni il fecondò. Levossene un alto grido nel mondo. L'inventore credè che fosse una legge animale e che perciò più a fisiologia che a fisica si appartenesse. Ma era uscito da Como un sublime ingegno che a fisica lo rivocò, dimostrando che gli effetti prodotti sugli animali altro non erano che una parte, una derivazione della generale fisica legge. Dire quanto pensasse e quanto scrivesse Volta impossibile sarebbe alla mia stanca e tarpata penna; ma mi consolo pensando che bisogno non è ch'io lo dica. Qual parte della terra v'ha che nol sappia e nol dica e maraviglia non ne senta? Per Volta l'Italia andava nell'impero delle scienze ogni giorno alcuna conquista facendo: il suo nome stesso nel possente stromento impresso farà memoria nelle future età, quanti miracoli un modesto uomo, imperocchè tanto modesto fu Volta quanto ingegnoso e dotto, scoprisse nel chiuso seno dell'arcana natura, ed ai maravigliati ed attenti uomini gli rivelasse. «Se delle scienze matematiche vogliamo parlare, si vedrà che, tacendo anche di tanti altri che a Pavia, a Firenze, a Roma, a Napoli ed a Palermo fiorivano, il solo Lagrange dimostrava, che per la scienza delle quantità astratte l'Italia non era sfruttata e degna ancora appariva di quella regione di cui erano usciti Galileo e Sarpi. Nè di Gugliemini tacerò, il quale trovò modo di pruovare con fisico sperimento che la terra si muove. «Quanto alle scienze chimiche, il cui imperio tanto incominciava a dilatarsi innanzi che sorgesse il sole dell'ottantanove, gl'Italiani più dagli altri impararono che agli altri insegnassero, quantunque valenti chimici fra di loro a Torino, Pavia, Venezia e Napoli sorgessero. La Francia in questa parte splendeva di un lume, senza pari, e i nomi di Lavoisier, Berthollet, Fourcroy, Guyton-Morveau saranno immortali. «Ma non è senza opportunità il notare in questo luogo che se uomini sommi allora la feconda Francia illustravano, veri e santi oracoli del mondo, nella scienza che....... compone, scompone e ricompone le sostanze, il volgo correva dietro cupidamente alle pazzie ed alle chimere di un Cagliostro, di un San Martino e di un Mesmer. Questi credeva con le boccette del primo di poter vivere almeno trecento anni; quest'altro teneva per fermo di poter leggere, come si diceva di San Martino, a trapasso di muro; un terzo finalmente, di Mesmer seguace, con un poco di sale rotto in una bigoncia, e con certi alti smorfiosi fatti da un impostore, si persuadeva di poter guarire da tutte le malattie. Ed ecco un altro sicofanta, o sicofantessa che si fosse, che conosceva e guariva tutti i mali solo con guardare le orine e far dal suo tripode ricettacce, dopo di averle guardate. Ciò succedeva in Parigi, e sì che si vedevano concorrere alla porta della sicofantessa ogni mattina uomini e donne, cocchi e barelle con le ampolluzze e con gli utelli pieni di orina per farla vedere alla pitonessa e portarne poscia a casa i precetti. Queste materie poco si videro in Italia e non vi fecero frutto, e la cagione si è che i Parigini sono tutto Ateniesi, graziosi uomini in verità, mentre negl'Italiani, sebbene anch'essi sappiano dell'Ateniese, c'è mescolato un po' di Spartano, voglio dire che amano ragguardare dentro la midolla delle cose. Poi sono più maliziosi, e sanno bene squadrare e guardare in viso gl'impostori. «Le scienze morali seguitavano in Italia l'inclinazione comune, con più felici augurii a miglior stato avviandosi. Una gran differenza ciò non per tanto si osserva tra quanto vi succedeva in questo proposito e ciò che in altri paesi si vedeva; questa era che quegl'Italiani stessi che ardentissimi erano nel risecare dalla pianta religiosa ciò che d'eccessivo e d'illegittimo vi aveva......... aggiunto, persistevano però nelle credenze cattoliche lontani dagli scherni e dall'incredulità che altrove regnavano. Volevano un'emendazione, non una distruzione. «Le scienze economiche spiegavano pure anche esse i loro fiori nella bene generativa penisola. Della quale cosa ognuno sarà persuaso, se vorrà avvertire agli utili scritti di Genovesi e Galiani di Napoli e di Fabbroni di Firenze. Questi alti ingegni, del bene comune aumentatori, eziandio si differenziavano da certi economisti forestieri; perciocchè non a chimere impossibili a ridursi in pratica nè ad astruse teorie andavano dietro, ma cose palpabili trattavano e che, se vere erano in ragione, utili erano anche in esperienza. Oltre a questi maestri per iscritto, era allora in Italia un economista pratico che quanto essi nelle loro benefiche lucubrazioni pensavano riduceva all'atto, e questi fu Leopoldo di Toscana. Seppelo la Toscana stessa, che a più fiorente stato pervenne. «Sommo, anzi singolar pregio della Italia a que' tempi fu la scienza della penalità, merce di quel........ mandato fuori da Beccaria. Chi la umanità ama, chi ama la giustizia, debbe con perpetue lodi innalzare quest'uomo immortale. La Italia l'onorò, l'onorarono le nazioni forestiere, e da lui tutte riconobbero un bene immenso fatto nella parte più cruda e terribile dell'umana legislazione. Orrende piaghe sanò. Quattro grandi lumi, oltre i minori, splendevano allora in Italia, uno in Napoli, uno in Firenze, un terzo in Milano e Pavia, un quarto in Parma. Quelle erano veramente scuole patrie, quelli sodi beneficii, che tutto l'edificio sociale con amica luce rischiaravano, fecondavano, miglioravano. Così voleva allora il cielo che seguisse. «Se poi vogliam voltare il discorso alle lettere, vedremo che, se poche parti se ne eccettuano, la letteratura italiana era spenta, nè altro più non era che una servile e sconcia imitazione della letteratura francese. La storia, la maggior parte delle opere teatrali, le novelle, i romanzi i poemi stessi rendevano un odore franzese, e tanta distanza passava dallo scrivere che a que' tempi era prevalso in Italia, a quello che vi si usava due secoli innanzi, quanta veramente si scorgeva tra le cose scritte nell'ignorante medio evo a quelle, cui mandarono alla luce gli autori del decimo quarto e decimosesto secolo. Parlo solamente della distanza che tra l'un modo e l'altro s'interponeva, non già dell'effetto, perchè allora si andò dal male al bene, adesso si andava dal bene al male. Nei bassi tempi vi era speranza, perchè non vi era corruzione di età decrepita, e solamente si vedeva che l'arte era bambina; ma nella seconda metà del secolo decimottavo, quasi ogni speranza si trovava estinta; perciocchè la medesima legge governa le cose morali che le fisiche, cioè che si può andare dall'infanzia alla virilità, non già dalla decrepitezza all'adolescenza, ed il pomo acerbo può diventar maturo, il fracido non torna più a sanità, ma si disfà. Tal era, generalmente parlando, l'italiana letteratura a' tempi che videro fanciulla l'età presentemente canuta. A stento e se non con molto stomaco si possono leggere oggidì le cose che vi si scrivevano. Servilità ne' pensieri, servilità nella lingua. Come le scarpette delle donne, così ancora i concetti e le frasi dei letterati venivano bell'e formati da Parigi. «In mezzo alla foresteria si era introdotto un altro nauseoso vizio, e quest'era una certa leziosaggine, una certa delicatura, e quasi direi smanceria, che faceva credere che la letteratura italiana fosse divenuta imbelle e non più da uomini, ma da donne. Concettuzzi fioriti, frasi leccate, nissuna forza, nissuna naturalezza, nissun maschio, nissun sincero pensiero; ogni cosa scritta come se fosse alla presenza della donnetta che si acconciava. La _toaletta_, come dicevano, e il _sofà_, ed è miracolo che non abbiano detto il _budorio_ per dire il _boudoir_, e le braccia ben _tornite_, pure come dicevano, della innamorata, e i suoi pedini e le dituzze, e le descrizioni al minuto del prendere il cioccolate, senza nemmeno dimenticare il colore de' confetti che vi s'immergevano, od altre simili inezie andavano per gli scritti de' più. Chi avrà letto il Roberti, e l'Algarotti, e Pietro Chiari e le commedie del principe di Sangro, e quelle del Villis, saprà da sè stesso ciò che voglio dire. «Il male si accrebbe per l'autorità di un uomo cui la natura aveva dato un ingegno smisurato, e che poteva essere il ristauro, e pure fu quasi del tutto la ruina dell'italiana letteratura. Parlo del famoso poeta padovano, del Cesarotti. Dio mi guardi dal proferire la bestemmia che costui fosse imbelle; che anzi ingegno più virile e più vivido del suo da lungo tempo la natura non aveva in Italia procreato. Ma volle farsi singolare con una poesia parte gonfia, parte leccata, traducendo il vero o finto Ossian. Le leziosaggini per la sua Bragela, ed il suo lanciare pel suo Fingallo, ed altri eroi così tremendi pel nome come pei fatti, corruppero talmente la poesia italiana, che più forma alcuna non conservava di sè medesima. Quanto poi alle sue prose, egli era un molinista tale in lingua, che ogni franzese parola o frase per lui era buona, purchè una desinenza italiana le applicasse. Egli fu un gran Busembaum per la lingua. Questi scandali dava Cesarotti, egli che per la sublimità dell'ingegno avrebbe potuto a sublimi e sincere opere italiane dare origine. E veramente si vede, che là dove puro voleva ed italiano essere, il che non di rado ancora gli succedeva, tali lumi mandava fuori che non uscirono mai maggiori dalla penna dei più rinomati scrittori del bel secolo. Ma il consueto suo andare era corrotto, e fu questo il tracollo. «Le cose parevano doversi tenere per perdute, e nulla si poteva più sperare da chi si tagliava i nervi da sè. Fortunatamente, mentre Cesarotti ed altri, che di lui il vizio non l'ingegno avevano, gettavano, come se a contanti pagati fossero, feccioso limo nelle pure e limpide acque dell'Arno, il cielo, che non voleva che il fiore italico si spegnesse, mandò quattro uomini a vivificarlo; questi furono Parini, Metastasio, Goldoni ed Alfieri. «Parini fu il primo a ritirare la trascorsa letteratura italiana verso il suo principio, ed a ritirarla, nel tenero, al fare petrarchesco, nel forte, al dantesco; ma più veramente ancora per la natura sua sapeva di Dante che del Petrarca. Sublimi e pretti pensieri aveva, sublime e pura lingua usava, un terribile staffile maneggiava. Le _toalette_, e i _sofà_, e i ventagli, ed i letticciuoli morbidi rammentava non per lodarli, ma per fulminarli. Grande e robusto uomo fu costui, nella satira il primo, nella lirica ancora il primo. Ei fe' vedere e dimostrò che senza le nebbie caledoniche, senza le smancerie galliche, e consistendo nella vera lingua e nel vero stile italiano si potevan creare opere in cui colla purità si trovava congiunta l'energia. Più che poeta, più che sacerdote d'Apolline fu, posciachè fu maestro di virtù, ed i molli costumi ad una virile robustezza ridusse: l'eunuca età a più maschi spiriti eresse. Tanto potenti furono i suoi detti, tanto potenti i suoi scritti!............... ..... Forse, chi sa, un giorno verrà quando gl'Italiani avran dimesso il mestiere del voler fare i pedissequi dei forestieri........... in cui maggiormente il suo esempio ed i suoi altissimi versi frutteranno. Eglino intanto debbono aver cara ed onorata sempre la memoria del Parini, di quel Parini che dal lezzo li sollevò, e dalle insipide erbe purgò il sentiero che mena all'eletto monte, dove la virtù e le divine suore albergano. Parini, poscia Alfieri, spensero la letteratura delle inezie; ed i descrittori delle scene di taverna, e di qualche monasteruzzo, mercè le illustri fatiche di quel grande Milanese, peneranno ad allignare. «In nissun autore osservasi un così puro fiore, una così perfetta fragranza delle tre letterature madri, quanto in Metastasio, e niuna traccia, quantunque in mezzo alla corruttela che già cominciava ad ammorbare, vivesse, in Lui si ravvisa di moderna foresteria. L'anima sua nitida e dolce a ciò il portava, l'essere Romano forse vi contribuiva; conciossiacosachè o che i letterati romani siano vissuti divisi dai forestieri più che gli altri Italiani, o che la natura romana più fortemente resista al piegarsi alle influenze altrui, o che quella lingua tanto scolpita che parlano, italiani pensieri e italiane immagini e forme più profondamente nelle menti loro imprima, o che finalmente quel ravvolgersi continuamente fra le romane antichità, che i concetti e la grandezza antica ad ogni momento loro ricordano, sel facciano, certo è bene ch'essi più di ogni altro si tennero lontani così dalle gonfiezze del secolo decimosettimo, come dal loglio forestiero che veniva mescolandosi col grano d'Italia. La quale cosa tanto è più da osservarsi quanto che Roma si trova fra Toscana e Napoli, dove, dopo la metà del secolo ultimo, quel loglio aveva messo più profonde barbe, ed erasi in isconcia guisa moltiplicato. Chi Metastasio legge, beve a pieno vaso senza alcuna mescolanza di stranezza la grazia greca, la maestà latina, la eleganza italiana. Col chiaro, amabile ed armonioso suo stile, colla naturalezza dei pensieri e dei sentimenti, col contrasto nitidissimo delle passioni, non feroci e barbare, ma alte e generose, e tali quali a popoli civili, non a Caraibi, o ad Uroni, o a quelle bestie del medio evo si convengono, diede a divedere che stando nei confini delle letterature madri della meridionale Europa, si può e muovere fortemente gli affetti e, mantenendo la sincerità del gusto italiano, innalzare gli animi. Certamente, mai nissun autore fu tanto Italiano quanto Metastasio. Possente argine fu contro il contagio forestiero, possente rimedio per risanare i corrotti. La quale salutare operazione con tanto maggior efficacia fece, che pel genere delle sue composizioni e per la chiarezza del suo stile egli andava per le mani di tutto il mondo. Che anzi non solamente su i regi teatri i suoi drammi si cantavano, ma eziandio sulle scene innalzate dai comuni o dai particolari si recitavano, e pochi erano i villaggi, non che le città che ogni anno, massime nell'autunno, non udissero alcuna opera del poeta romano recitata da uomini colti, e talvolta ancora da uomini di villa, a cui poco altro sapere era venuto che quello di saper leggere e scrivere. Il concorso a queste rappresentazioni era grande, ed il piacere che gli astanti provavano, maraviglioso. Attori e spettatori si immedesimavano, e degli eroici costumi dell'antichità si dilettavano, e per essi di migliori sentimenti s'informavano............... Ciò pruova che il Metastasio era veramente autore italiano, poichè tanto agli italiani andava a sangue. Ciò pruova ancora che il vero fine delle rappresentazioni teatrali è d'invaghire l'uomo del bello ideale ed eroico onde ritrarlo dal pensare e dal sentire abietto e plebeo, e più avvicinarlo a quell'alto scopo per cui Dio l'ha creato. Il quale effetto se alcune moderne composizioni facciano, lascio al lettore il giudicare. Ma, seguitando a parlare del Metastasio, per giudicar bene che cosa ei fosse e quel che far si volesse, e' non bisogna supporre, come alcuni fanno, che intenzione sua fosse di scrivere tragedie, dando al nome di tragedia la significazione che volgarmente gli si dà. Imperocchè ei non volle già comporre tragedie da recitarsi, ma drammi da cantarsi, quantunque assai acconciamente ancora recitare si possano, ed in essi non di rado si trovino scene che nella più vera e sublime tragedia si confarebbero. Ma resta sempre che, scrivendo per la musica, egli soggiaceva a parecchie necessità che la sua libertà impacciavano, e che dalle esigenze o del compositore della musica, o de' cantanti, o dalle consuetudini teatrali stesse di que' tempi derivavano. Maravigliosa cosa è come fra tanti lacci produrre potesse scene da cui nasceva una così potente mossa d'affetti. Di questo poeta parlando, pel quale principalmente si fa manifesto che la sublimità dei pensieri e dello stile possono stare con la semplicità e con la chiarezza, cade in acconcio il discorrere dello stato in cui si trovava la musica al tempo in cui viene a terminarsi la nostra presente storia. Pare a me, ed anzi certo sono, ch'ella pervenuta fosse a quel grado di perfezione, sopra il quale nulla più resta nè da desiderare nè da aggiungere, ed al quale qualche cosa aggiungendo, si va verso la corruzione. Ciò dal conservatorio di Napoli e dagli ammaestramenti di Durante principalmente riconoscere si dovea. Era quel conservatorio, come quasi il cavallo troiano, da cui uscivano, non già uomini armati per incendere e distruggere le città, ma divini ingegni da eccellenti maestri informati, che per l'Italia, loro felice patria, poi per estere regioni portando andavano ciò che più l'anima molce ed innalza, e dalle tristi cure che l'umanità tanto spesso affliggono la solleva ed allontana. Non romorosi o abbaruffati componimenti erano, ma per ciascun pezzo un'idea madre, un'idea architettonica, alle quali le altre, come ancelle ad una regina, per darle maggiore risalto e farla campeggiare, servivano. La stessa armonica simmetria ed acconcia corrispondenza di tutte le parti si scorgeva nella totalità del componimento, di maniera che non solamente si vedeva che era una creazione dello stesso spirito, ma eziandio che al medesimo soggetto si apparteneva. La semplicità e la unità cotanto raccomandate da Orazio, e in ciascuna parte e nel tutto si osservavano, e con loro congiunta una tale leggiadria, una tale grazia, una tale eleganza che a sentirgli era un vero incanto, e l'uomo provava una dolcezza inestimabile. Pareva che egli da queste terrene cose disciolto, ed in migliore mondo trasportato, di angelica natura si vestisse. Nè complicati o meccanicamente laboriosi erano i mezzi, di cui quei divini ingegni si servivano per produrre così maravigliosi effetti. Semplicissimi erano e, quasi direi, invisibili questi mezzi. Al mirare que' loro spartiti, assai poche note vi si vedevano, onde quasi pareva che vi fossero effetti senza causa. Ma la causa appunto più forte ed operosa era, perchè più semplice era e sapeva batter bene in quella parte del cuore che abbisognava. Ed io mi ricordo di avere letto nel dizionario di musica del Rousseau un fatto mirabile, ed è dove racconta il terribile effetto che sempre faceva su gli ascoltanti (credo, se ben mi ricordo, nel teatro di Ancona) un recitativo solamente accompagnato da poche note del violoncello; irresistibile era quest'effetto, onde ognuno al solo suo approssimarsi, già si sentiva commosso e subitamente impallidiva come se da una incognita e possente causa compreso e domato fosse. Quella era veramente musica italiana, possente per semplicità, per grazia, per verità; la melodia padrona, l'armonia serva, l'armonia che non fa effetto se non quando imita la melodia, i mezzi meccanici lasciati a chi callose orecchie ed insensibile cuore ha. Chi sa che siano Omero, Virgilio, Raffaello d'Urbino, facilmente intenderà ciò ch'io voglio dire. Ed Omero, Virgilio, Raffaello si erano trasfusi in Paisiello e in Cimarosa ed in tanti altri compositori di quel tempo, che veramente si può e dee chiamare l'età dell'oro per la musica. La maestria e la vera arte non consistono nel far monti di note e di strani e ricercati accordi, ma nell'inventare motivi nuovi, graziosi, adatti all'effetto che si vuole esprimere, e questi accompagnare con accompagnamenti che gli aiutino, non gli soffochino. Il quale modo di comporre, siccome di maggior effetto, così ancora di maggiore difficoltà è; conciossiacosachè assai più difficile bisogna sia l'inventar cose ideali, cioè i motivi (dono dato dal cielo a pochi) che il raccappezzare cose corporee, cioè gli accordi. Di gran lunga maggior numero di motivi nuovi, cui i maestri chiamano di prima intenzione, e perciò maggiore difficoltà superata ed assai maggiore e più eccelsa facoltà creatrice havvi nella sola Nina di Paisiello o nel solo Matrimonio segreto di Cimarosa che in tutte le opere insieme anche del più fecondo compositore de' giorni nostri. È vero che non vi è tanto fracasso, cioè tanti mezzi meccanici; ma i divini dove sono? Questa è una età pessimamente corrotta: nel morale vuole la forza, nella musica il fracasso. I compositori sono diventati servi delle orchestre, le quali sempre vogliono sbracciarsi per fare un gran romore e far vedere che sanno sonare le difficoltà, ed eseguire il concerto, i cantanti sono soffocati ed obbligati di strillare, ed il pubblico, che ha perduto il cuore ed è divenuto tutto orecchie, applaude;..... Altra è la musica istromentale, altra la vocale. La voce umana è la vera e naturale espressione delle passioni; gli istrumenti sono mezzi artificiali li quali possenti non sono se non in quanto imitano la voce umana, e più o meno possenti sono, secondochè più o meno a lei si avvicinano o da lei si discostano. Questa è la ragione per cui quel gemere di violino ne fa uno strumento potentissimo. Onde non solamente contro l'effetto fa, ma ancora contro natura chi con gl'istrumenti soffoca la voce invece di secondarla ed aiutarla. Io fui amico, ed egli a me, e molto me ne pregio, di un gentilissimo maestro italiano. Compostasi da lui alcun tempo vera musica italiana, piena di verità, di soavità, di grazia, come, per esempio, i suoi bellissimi notturni sulle parole di Metastasio, una delle più dolci cose che siano uscite da un cuore dolcissimo, si diede poi a ingarbugliarsi con mescolare con eccessiva proporzione, musica istromentale colla vocale. E Paisiello per Milano passando per andar a Parigi ai cenni di Napoleone, sentita quella sua musica nodosa e strepitosa, e, postagli la mano sulla spalla, gli disse: «Bonifazio, lascia stare la musica tedesca.» (Il tarantino Anfione parlava della musica vocale[2].) Il grazioso uomo mi disse con quella sua giovenil voce che sempre ebbe: «Me la sono attaccata all'orecchio;» ma non se la attaccò. Veramente il buon Bonifazio, oltre ad altre sue composizioni alla tedesca, aveva composto la musica per un dramma a Torino, la quale, malgrado di un gran miagolare di bassi che vi aveva fatto, non ebbe alcun buon successo; felicissima vena, se mai una fu al mondo, e veramente correggiesca, da un poco sano metodo di comporre guastata. «La poesia e la prosa erano parecchie volte degenerate in Italia, e da quasi cinque secoli avevano a più maniere di degenerazioni soggiaciuto. La musica sola, da' suoi principii al suo apice gradatamente ascendendo, sempre simile a sè medesima era proceduta, vero e sincero frutto italico dimostrandosi. Tanto crebbe, che finalmente al punto di perfezione pervenne, allor quando Cimarosa e Paisiello colle loro mirabili melodie incantavano il mondo. Il secolo decimottavo dopo il cinquanta fu per la musica ciò che il decimosesto fu per la pittura, quando con le loro divine rappresentazioni Raffaello e Michelagnolo pruovavano che la Grecia s'era in Italia trasportata. A ciò contribuì Metastasio co' suoi dolcissimi versi, e, secondochè gli affetti portavano, qualche volta ancora tremendi, ma pur sempre dolci. Vincendevolmente i musici coi loro soavi o tremendi accenti al fare di Metastasio ed all'imperio ch'egli sulle anime acquistato aveva, contribuirono. Musica era la poesia di Metastasio, poesia la musica dei napolitani maestri. Gli orfeiani miracoli si rinnovavano a quel tempo; persino i sassi si muovevano, se per essi intendiamo i duri e silvestri cuori. «Quando io dico che la musica era a' quei dì alla sua perfezione giunta, non intendo già che, rotte alcune consuetudini teatrali, non si potessero impinguare le musiche delle opere drammatiche con maggiore numero di pezzi di nervo; che ciò si poteva acconciamente ed utilmente fare; ma solamente voglio dire che il metodo del comporre i pezzi, che si usava allora, era il vero ed il più perfetto che si possa immaginare, e che il dipartirsene è un andare verso la corruzione. Ciò è così vero che nelle musiche meccaniche, che si odono e si ostentano oggidì, e che sono veramente come il pesce pastinaca, che non ha nè capo nè coda, o come quella testa d'uomo con collo di cavallo da Orazio sul principio della sua poetica descritta, i pezzi che fanno maggiore effetto e più nel cuore s'imprimono e più nella memoria si serbano, sono appunto quelli che al fare dell'antica musica da noi rammentata si ravvicinano ed in quello stile si ravvolgono. Il muovere i cuori è il vero ufficio della musica, non quello di assordare le orecchie, e perchè appunto il primo effetto può fare, fra le divine arti fu collocata, ed i poeti le loro più alte composizioni incominciavano cantando. I filosofi stessi immaginarono che le celesti sfere muovendosi, suoni rendevano e concenti facevano. «Il principal fine delle arti è veramente il muovere gli affetti, e nissuna più gli muove e forse nemmeno altrettanto della musica. Per me, oltre la dolcezza che ne pruovo, giudico della bontà di un pezzo dal sentirmi mosso ad accompagnarlo col gesto, perchè allora veramente espressione d'affetto è; che se a quel gestire invitato non sono, subito concludo che quella non è musica, ma solamente rumore di corde o fischio di legno. Io detesto coloro che vogliono disonorare la musica col ridurla da un'arte liberale che ella è, ad un'arte meccanica. I maestri sterili, cioè incapaci di trovar motivi nuovi, sono appunto quelli che danno nel fracasso: manca in loro la divina favilla, e per ciò fanno ciò che i venti sanno fare nelle elci cave. «Tornando adunque al Metastasio, dico ed affermo ch'egli fu un principale sostegno del gusto italiano, e che per lui stette che l'italiana letteratura il suo naturale aspetto del tutto non perdesse ed al basso ed allo straniero non scendesse e trascorresse. «I soggetti che trattava, cavati i più dalla veneranda antichità, facevano che la Grecia e l'antica Roma nella novella Roma risorgessero. Al quale effetto eziandio con non poca efficacia conferivano gli studii dell'archeologia che nella città regina sempre avevano fiorito e tuttavia fiorivano. Chi non conosce le opere dell'immortale Visconti, di quell'uomo singolarissimo che univa un giudizio sano con una erudizione immensa, due cose che negli eruditi non sovente congiunte si vedono, stante che questo genere di letterati sono per l'ordinario creduli nella fantasia che gli tocca? «Oltre i vestigii dell'antica Roma, che la nuova ancora adornano, e lo zelo con cui il Visconti ed i suoi compagni ed allievi questa parte della scienza coltivavano, a maggior ardore sollecitavano gli studiosi di lei le scoperte che in Ercolano si andavano facendo. Risuonava in ogni luogo il grido della città sepolta e dissepolta, ed a quella parte con somma avidità s'indirizzavano gli animi, studii certamente innocenti ed utili, poichè a pacatezza ed a grandezza tendevano ed invitavano. Napoli, il cui suolo tante ritrovate ricchezze in questo genere versava, non pretermise di coltivare la scoperta vena, anzi con tutte le forze l'esplorò e l'avanzò. Oltre le munificenze regio che alle spese dei lavori sopperivano, il re, a ciò muovendolo il Caracciolo, il quale, nel 1786, era stato richiamato dalla Sicilia per reggere in Napoli la segreteria degli affari esteri, aveva nel 1787 ordinato che fosse ritornata in pristino l'antica accademia d'Erodano, chiamandovi uomini egregi per zelo e per dottrina, l'abbate Galiani, Niccolò Ignarra, Mattia Zarillo, Giambatista Basso Bassi, Francesco Lavega, Francesco Daniello, Emmanuele Campolongo, Domenico Diodati, Saverio Gualtieri, Michele Arditi, Andrea Federici, Gaetano Carcani, Saverio Mattei, Carlo Rosini, e quel Pasquale Baffi, che, dodici anni dopo, tratto da questi studi pacifici a più tempestose cure, fu poi specchio di tanta virtù e segno di così estrema disavventura. Il re dolcemente parlò nel preambolo del suo decreto: desiderare, disse, procurare ai suoi popoli ogni sorta di beni e di vantaggi, nè in altro migliore modo saper ciò fare che col dar favore alle scienze ed alle belle arti. Con queste dolcezze si preambolava in quelle volcaniche terre ai crudi ed orrendi spettacoli che poscia le spaventarono ed insanguinarono. «Terza colonna del buon gusto italiano fu Carlo Goldoni. Quest'uomo insigne parlava al popolo colle sue commedie scritte in istile semplice e chiaro, il quale, abbenchè non sia notabile per eleganza toscana, è nondimeno generalmente scevro dalla infezione forestiera. Grande energia non aveva, nè di sali abbondava, o piuttosto i suoi sali erano senza punte; perciocchè i motti ed i frizzi non possono sorgere da quella lingua generale italiana ch'egli usava, ma solamente da un dialetto. Ma molto maestrevolmente sapeva ei condurre le passioni, e stringere e sciorre i nodi delle sue commedie. Siccome tutto è naturalezza in lui, così venne in fastidio altrui quando le esagerazioni dei grandi lanciatori di sentimenti e le caricature flebili dei romanzieri inondarono il teatro. Ma stante che questa era una malattia fuori di natura, fugace fu l'invasamento, ed odo con somma contentezza che le commedie del Goldoni sono novellamente divenute care al popolo italiano; il che veramente è segno di guarigione. «Portato dal suo genio, costretto dalle sue condizioni, ei troppe cose scrisse, e pel troppo scrivere diede talvolta nello slombato. Pure si può con verità asserire, che fra tante sue commedie, dieci almeno ve ne sono che toccano la perfezione e possono stare a paragone di qualunque altra scenica composizione di questo genere di cui si vantano le altre nazioni. Alcune poi da lui scritte in dialetto veneziano sono da commendarsi non solamente per gli altri comuni pregi, ma ancora pel brio, pei motti, per le arguzie, per le lepidezze, per le piacevolezze e generalmente per lo stile festevole e gaio con cui le seppe condire. Chi le legge sente un sollucheramento tale che non può essere maggiore, ed uguaglia quello che l'uom pruova leggendo la Mandragora del Macchiavello, o la Trinuzia del Firenzuola. Dal che si dimostra, che se uguale vivacità non si rinviene nelle altre sue commedie, ciò non da inettitudine d'ingegno, ma bensì dalla lingua che usava, proviene. Tanto è vero che i dialetti soli possono dare il vero stile della commedia! e se la Madragora e la Trinunzia tanto diletto ci danno, ciò è perchè sono scritte nel dialetto toscano; che se colla pretesa lingua generale d'Italia si vestissero, o in lei si traducessero, insulse e noiose diventerebbono. Da ciò si vede che bel guadagno abbiano fatto gl'Italiani coll'aver ricusato il dialetto toscano, anzi gridatogli la croce addosso, come se ridicolo e degno di scherno fosse. Bene con migliore senno si sono adoperati i Francezi, che hanno dato la cittadinanza nella loro lingua generale al dialetto parigino per modo che parte indivisibile di lei è divenuto; ond'è che i Franzesi possono facilmente aver la buona commedia. Le piacevolezze parigine sono tali in tutta la Francia mentre le piacevolezze toscane non sono intese o sono schernite nelle altre parti d'Italia che Toscana non sono. Questo è un male gravissimo, e che non è più atto a ricevere medicina, donde nasce che gl'Italiani difficilmente possono avere la vera e buona commedia che da tutta l'Italia sia intesa, prezzata e gustata. S'era cercato un rimedio nei Zanni o bergamaschi o bresciani o veneziani o bolognesi o piemontesi o milanesi o toscani o napolitani; rimedio insufficiente, per verità, ma pure in certo modo rimedio. Ma anche questo i moderni dottori nel loro alto sussiego, come se il ridere fosse delitto, hanno sbandito. «Goldoni fu autore, se altro mai, popolare; e lo scuotere che faceva, non da acerba ed indecente satira o da sentimenti eccessivi in alcun genere, imperò che ei fu castigatissimo, derivava, ma dal toccare quella parte dell'animo che nella natura tranquilla e nobile si ritrova. Ei fu principal cagione per cui il popolo italiano non s'invaghì di certi scrittori di Italia che non erano contenti se con pensieri forestieri non pensavano, se con lingua servile non scrivevano. Ei fu principale operatore, onde la corruzione dai sommi non scendesse agl'imi, e che il popolo si contenne nei confini del vero, sincero e pretto italianismo. Ei fece maggior benefizio che il mondo non crede. «Dopo le malattie viene per l'ordinario il medico che le guarisce. La leziosaggine che era prevalsa negli scritti, e la effeminatezza che era entrata nei costumi fra gli alti e mezzani gradi della società italiana, non ebbero più acerbo nè più forte nemico d'Alfieri. I tre primi che abbiamo nominati, persuadevano gli animi e coll'esempio allettavano affinchè al buon sentiero si riparassero; ma l'astigiano poeta con una terribile sferza gli sforzava. Le debolezze e le gonfiezze non avevano posa con esso lui, che d'animo gagliardo era, e che se al sublime facilmente andava, il procedere più oltre e precipitare nelle gonfiezze impossibile gli era. Vena sufficiente, anzi abbondante aveva, ma non soprabbondante, onde in superflui rivi non si spandeva. Ciò procedeva dalla gran forza per cui l'oggetto stringeva e che padrone del tutto nel rendeva. Le foresterie poi aveva in odio così per qualche avversione contro le persone che il rese sempre acerbo, e non di rado ingiusto, come per amore verso le lettere italiane. Ma siccome, usando fra i nobili piemontesi, egli era stato cresciuto ed allevato negli usi, pensieri e fogge franzesi, e che poco innanzi che a scrivere nell'italiana lingua si accingesse, più di franzese sapeva che d'italiano, così è manifesto che, massime nei suoi primi scritti, a stento dallo scrivere francescamente si allontanava; ed a gran fatica al gusto italiano si avvicinava. Della quale pendenza pochi segni per verità restarono nelle sue composizioni in versi, ma non pochi in quelle di prosa, in cui si veggono mescolati spesse volte eleganti fiorentinismi con isconci gallicismi. «Ora questo grande Alfieri in tre modi giovò all'Italia, primamente collo aver ritratto dai costumi femmenili, in ciò compagno di Parini, chi n'era magagnato; secondamente coll'aver composto vere tragedie e creato lo stile tragico italiano che prima di lui non si aveva; terzamente coll'aver innamorata la nazione di sentimenti più alti e più forti. La lunga pace di cui ella aveva goduto, poichè di lungi aveva solamente sentito romoreggiare le armi, l'uso dei sonettuzzi e delle novellette del sofà, la privazione in questo intervallo di tempo di una forte apostolica voce che gli stimolasse, aveano talmente anneghittito coloro che più per l'esempio potevano fra gl'Italiani, che nè Metastasio, nè Goldoni, nè Parini, quantunque molto avessero operato, erano stati bastanti a destargli onde più sonnacchiosi non fossero e mogi. Uno sdegno acerbo, un'ira feroce, una ferrea ed indomabile natura era richiesta alla grande redenzione. Sorse allora, come per sovrumana provvidenza, la possente voce d'Alfieri che intuonò dicendo: Italiani, Italiani:............................... lasciate i giardini, correte alle zolle; lasciate l'ombra, andate al sole; vigili le notti passate, le donne come compagne, non come signore accettate, i fanciulli non nelle acque odorose, ma nei freddi e puri laghi, ma nell'onde stesse del terribile Stige tuffate; indurate i corpi al dolore, indurategli alla fatica.... «Così andava per gl'italiani campi Vittorio Alfieri, moderno Dante, Petrarca redivivo gridando. Furono i suoi detti come il lucente specchio a Rinaldo. Visto i molli abiti e gl'imbelli costumi, sorse vergogna, vergogna senso di risorgente natura, vergogna segno di rinascente virtù................................... .......................... A tale sacerdozio fu chiamato Alfieri, e bene il compì. «Bene il compì ancora colle sue tragedie; per mezzo loro, non con le brache del medio evo, ma colla romana toga volle vestire gl'Italiani. Tal è il loro fine ed effetto. Quanto all'arte, io trovo che elle sono sempre energiche e profonde, come son nei passi più patetici le tragedie inglesi, altrettanto regolari quanto sono sempre le franzesi, ma che nel medesimo tempo fuggono le cose plebee che troppo spesso contaminano le prime, nè mai danno nelle insulsaggini cortigiane che di soverchio snervano le seconde. Beltà greca, beltà romana, e quanto vi è di più alto nell'uomo, sempre e puramente splendono nelle alfieriane tragedie, nè altro di moderno hanno se non la lingua in cui sono scritte. «Quanto alle passioni che dall'autore sono poste in opera, io non le chiamerò nè antiche nè moderne, perciocchè elle sono di tutti i tempi, nè credo che gli antichi altrimenti amassero od odiassero, sperassero o temessero di quello che noi altri moderni facciamo. Quando io vedrò nascere gli uomini senza occhi e senza naso, crederò che sono cambiate le passioni. Voglio dire che siccome la natura esteriore ha le sue leggi immutabili, così le ha ancora l'interiore. Ciò dimostra eziandio il grande effetto che le tragedie, di cui trattiamo, producono in Italia quando bene recitate sono. La quale cosa succedere non può se non quando le passioni rappresentate fanno correlazione e consentono con quelle degli spettatori. «Dal medesimo fatto nasce anche questo corollario, che non è punto bisogno per iscuotere le anime di dare nel famigliare e nel plebeo; nè io posso consentire con coloro i quali vorrebbono sbandire il bello ideale. Non solo non posso accettare la loro opinione, ma me n'incresce e sommamente me ne dolgo; perchè l'uomo solo è capace di creare colla sua fantasia il bello ideale, e questa è la più magnifica prerogativa ch'egli abbia e che dagli altri animali bruti principalmente lo distingue. Parte anzi di questo bello ideale, ideale non è, nè tanto è trista la umana natura che in alcuni tempi non abbia prodotto uomini e fatti eroici e del tutto sopra l'uso volgare. Adunque questo bello ideale veramente esiste e il rappresentarlo non è vizio. Quando però egli in fatto eziandio non esistesse, bisognerebbe ancora crearlo coll'immaginazione per rendere gli uomini migliori; posciachè niuna cosa è che tanto sublimi l'uomo e dalla mondana feccia il ritragga quanto la viva rappresentazione della natura eroica. Se il diventar migliore è vizio, concorderò con gli avversarii che il bello ideale ed eroico si cancelli e da ogni umano parto si rimuova, e che prosa e poesia si ravvolgano nel lezzo di quanto il mondo ha di più sciocco, di più goffo, di più vile, di più basso. «Dicono alcuni che le scene plebee, siccome naturali, allettano e divertono, e dal solo effetto che producono, qualunque ei sia, giudicano del merito delle composizioni teatrali. Sì certamente, le scene plebee e quelle della dimessa natura allettano e divertono; anche Pulcinella in piazza alletta e diverte, e se uom uscisse per le vie con le brache a rovescio, anch'egli alletterrebbe e divertirebbe. Per questo s'han a proscrivere i maestri dell'alta virtù? per questo da bandire i dimostratori d'una natura più sublime, più dignitosa, più bella? Il teatro non ha da essere solamente divertimento, ma debb'essere scuola, scuola da informar gli uomini alla virtù, da accendergli di sdegno contro il vizio, da sollevargli dal terreno lezzo alla celeste purità, da nodrire l'angelica favilla ch'è in lui, da rompere la indegna scorza che la soffoca e comprime. Se alcune moderne composizioni o piuttosto slavature facciano questi effetti, lascio che giudichi il lettore. L'andar terra terra non può riuscir ad altro che al lasciarci terra terra. «Ora chi mai meglio dell'Alfieri seppe pingere al vivo queste allettatrici scene di un mondo migliore? Chi mai diede maggiormente questi stimoli ad innalzarsi come aquile in un puro firmamento? Certamente nissuno. Chi mai meglio di lui seppe fare la ipotiposi delle miserie che nascono per fato contro gli innocenti, o di quelle che materialmente caggiono su gli uomini malvagi? Certamente nissuno. Chi mai meglio di lui trovò le vie per muovere od a compassione od a terrore? Certamente nissuno. Nè ciò fece con mezzi plebei o meccanici, mezzi usati da chi sterile l'immaginazione ed il cuore secco ha, ed oltre le consuetudini del volgo non sa innalzarsi, ma colla rappresentazione vera delle alte umane passioni, nè mai volle trasportare le bettole sulle tragiche scene. Brevemente, e coi soggetti che sceglieva e col modo col quale li trattava, chiamava continuamente gl'Italiani a più sublimi regioni. Il tenergli rasenti le paludi ripugnava al suo generoso e forte animo, ripugnava alla virtuosa missione cui s'era addossata. Se animi forti più nella seconda metà del secolo decimottavo che nella prima sorsero in Italia, da Alfieri massimamente debbesi riconoscere il beneficio. Ciò non fecero pe' tempi loro e per le loro nazioni nè Shakspeare, nè Racine, nè Schiller, che semplici autori tragici furono, certamente sommi, ma non maestri di alto pensare e di alto fare, non caldi sacerdoti della loro patria per sollevarla e farla amare, come il poeta italiano fu. Solo ad Alfieri ed a Sofocle ciò fu dato, ma maggiore merito acquistò l'Italiano che il Greco............................ ..................................... Tali sono le obbligazioni che gl'italiani hanno ad Alfieri, e bene in Santa Croce di Firenze l'Italia piange sulla sua tomba. «Evvi chi pretende che i caratteri de' personaggi d'Alfieri sono tirati ed esagerati. Certo sì sono per chi va e vuole andar terra terra; e chi smaccato, e snervatello, e sdolcinato, e molle..... è, non vada dove si rappresentano. Chi grida contro le alferiane tragedie, e dell'alto fare di questo sommo tragico si dinoccola, e delle slavature moderne si diletta, non è degno............, imperocchè nel suo freddo cuore nissuna scintilla di generoso italiano fuoco v'è. La nobile Italia, quanto alla letteratura.... è, per opera di alcuni spiriti, non so se mi debba dire più ambiziosi o più servili, immersa in chimere stillate da sottilissimi lambicchi ed in un mare di foresterie..... Costoro corrompono la sanazione fatta dai quattro sommi uomini di cui trattiamo. La sola differenza che passa tra i servi d'oggidì ed i servi della seconda metà del secolo decimottavo in ciò consiste, che questi desumevano lingua, stile e pensieri da una sola fonte di foresteria, quelli gli desumono da due o tre..... ......................... Oh, quando mi porterà la fama il desiato suono che gli Italiani, deposta l'ennucheria, creano da sè e non vanno più in cerca d'idee d'oltremare ed oltremonti! Oh Alfieri, Alfieri dove sei? Per me io credo, anzi certo sono, che finchè si va pel sentier delle scimie, non vi può essere.... nè letteratura, nè lingua italiana. «Dello stile d'Alfieri quindi favellando, diremo che in esso due qualità si ravvisano, la novità e, con pochissime eccettuazioni, la purezza; la quale purezza non di rado va sino all'eleganza. Prima dell'Alfieri non aveasi stile tragico. Le tragedie scritte nel decimosesto secolo sono, per rispetto dello stile, così deboli ed imperfette che senza noia non si possono nè leggere nè sentire. Questa parte fu la meno lodevole di quel secolo, che in tutte le altre a così grande altezza si sollevò. Maffei diede un passo più avanti verso l'eletta maniera, ma restò a mezza strada, contento allo avere piuttosto indicato che fatto; poco o nulla si fece dopo il Maffei che una nuova vena aprisse. L'Italia giaceva, quanto alla tragedia, in grado inferiore a comparazione delle altre nazioni. Alcuni anzi affermavano, non essere la lingua capace di stile tragico. «Queste bestemmie andavano pel mondo quando levossi dal Piemonte subitamente un grido, esservi nato un grande poeta. Ad alcun debole sperimento successero compiute vittorie. A nobili pensieri vidersi congiunte nobili parole, e la pietà e il terrore eccitarsi con voci ora compassionevoli, ora terribili, ma tutte italiane, non cavate dai romanzi francezi o dal vocabolario della plebe. Brevità vi si scorge, e più ancora fa pensare che non dice, onde nasce che le alfieriane tragedie ricercano abili attori. Sublime è lo stile, ma molto diversamente dal lirico e dall'epico procede; essa è una sublimità tutta sua e di novità perfetta. Certamente nissuno scrittore ebbe mai, se Dante si eccettua, uno stile tutto suo proprio e di suo genere quanto Alfieri. Nissun prima di lui avrebbe potuto sospettare che la italiana lingua potesse in quel suono parlare. L'esempio d'Alfieri pruova ch'ella è capace di rendere tutti i suoni senza che sia necessario andare accattando vocaboli e frasi da lingue forestiere. Grande era in questo la servilità degli scrittori italiani; profondo il male; una forte scossa era richiesta per iscuoternegli e guarirgli. Alfieri questa scossa diede, ed ei solo forse era capace di darla. Diedela col tenace volere, diedela coll'ostinato studio, diedela con quell'alta capacità del fare che dal cielo aveva sortito. Da lui impararono gl'Italiani quanto possa una volontà forte e l'amore di una lingua che per esprimere qualunque affetto a nissuna è seconda. La purificazione della lingua non potè Alfieri intieramente effettuare, perchè all'inondazione dei libri forestieri successe poscia l'inondazione delle persone forestiere che la principiata guarigione interruppe, ed anzi la dannosa consuetudine raffermò. Ma pure i semi da lui gettati fruttificarono, e, mercè sua, resta ancor acceso l'amore della bella lingua, e gl'Italiani dalle caligini levandosi, ai puri ed intemerati antichi candori s'innalzeranno.» Ora in quella innondazione delle persone forestiere dall'illustre qui sopra indicata, accennata si trova la novella era d'Italia della quale al principio del presente anno abbiamo toccato e la causa donde ebbe a derivare. Noi la percorreremo quest'era, con quelle che vi furono inondazioni di eserciti forestieri, arsioni di città, rapine di popoli, devastazioni di provincie, sovvertimenti di Stati, e fazioni, e sette, e congiure, ed ambizioni crudeli, ed avarizie ladre, e debolezze di governi effeminati, e fraudi di reggimenti iniqui; e sfrenatezze di popoli scatenati, con eguale sincerità raccontando le cose liete, utili e grandi che fra tanti lagrimevoli casi si operarono. Ma perchè possa essere appieno apprezzata la compassionevol trama di tanti accidenti di cui la memoria sola ancora ci sgomenta, forza è segnare il punto donde si parte, e bene chiarire le cagioni donde la spinta ne venne. L'Europa conquistata dai re barbari fu data in preda ai capitani loro, uomini e terre cadendo in potestà di questi. Così se ai tempi romani le generazioni erano partite in uomini liberi e schiavi, ai tempi barbari furono divise in conquistatori e servi: tale è l'origine degli ordini feudali. Teodorico, re dei Goti, moderò una tal condizione coll'avere instituito i municipii; poi gli ecclesiastici diventati ricchi fecero ordine e mitigarono, dividendola o contrastandola, l'autorità feudale; così sorsero gli ordini, o stati, o bracci, che si voglian nominare della nobiltà, del clero e dei comuni. Carlo V gli spense nella Spagna, ma non potè nelle isole d'Italia; i Borboni li conservarono in Francia, servendosene più o meno, secondo i tempi. Nell'Italia, divisa in tanti Stati e sì spesso preda di principi forastieri che, a fine di tenerla, accarezzavano pochi potenti per assicurarsi dei più, l'autorità municipale, se si eccettuano alcune antiche repubbliche, si mantenne più ristretta, la feudale più larga. Ciò quanto allo Stato; rispetto poi ai particolari, restavano ancora non pochi vestigii dell'antico servaggio, tanto circa le cose, quanto circa le persone. Di questi, alcuni andarono in disuso per opinione de' popoli o per benignità de' feudatarii; altri furono aboliti dai principi; dei superstiti, il secolo di cui abbiamo veduto il fine, volea l'annullazione. Nè in questo si contenevano i desiderii dei popoli. Volevasi una egualità quanto alla giustizia e quanto ai carichi dello Stato; nella quale inclinazione concorrevano non solamente coloro ai quali questa equalità era profittevole, ma eziandio la maggior parte di quelli che si godevano i privilegii. Dire poi, come alcuni hanno scritto e probabilmente non creduto, che si volesse una equalità di tutto ed anche di beni, fu improntitudine d'uomini addetti a sette, soliti sempre a non guardar quel che dicono, purchè dicano cose che possano infiammare i popoli e farli correre alle armi civili. Queste erano le quistioni dei diritti; e sarà da quinc'innanzi cosa luttuosa al pensarci e degna di eterne lagrime che col progresso di tempo siansi alle quistioni medesime mescolate certe altre astrattezze e sofisterie che insegnarono alla moltitudine il voler fare da sè, quantunque si sapesse che la moltitudine commette il male volentieri e si ficca anche spesso il coltello nel petto da sè: tanto i moti suoi sono incomposti, i voleri discordi, le fantasie accendibili, e tanto ancora sopra di lei possono più gli ambiziosi che i modesti cittadini. L'ordine ecclesiastico era già trascorso, non già nel dogma che sempre rimase inconcusso, ma bensì nella disciplina. Dolevansi che gli utili operai della vigna del Signore fossero poveri, mentre gli altri, se vivevano nella ricchezza, della quale talora anche abusavano, dolevansi essere i primi insufficienti per numero o per mala distribuzione delle cariche, i secondi troppi; dolevansi di certe pratiche religiose che si parevano più utili a chi le promoveva che decorose pel divin culto, mentre per queste era pur troppo scemato maestà e frequenza alle più gravi e necessarie solennità della Chiesa: con che davasi a dire agli empi ed agli accattolici. Ma ben altri discorsi si facevano, massimamente in Italia, i quali tutti nascevano da quella inclinazione del secolo favorevole ai più. Era stata soppressa la società di Gesù. Vedeva il sommo pontefice Clemente XIV che lo spegnere i Gesuiti era un privare la evangelica vigna della più efficace cooperazione che si avesse; con tutto ciò non potè resistere alle esortazioni ed alle minaccie di tanti principi potenti di forze, e più formidabili per concordia. Pure stette lungo tempo in forse; finalmente consentì, poi fra breve si pentì. Ma seguitonne maggior effetto che il papa ed i principi non avevano creduto; poichè ne sorse più viva nel corpo della Chiesa la parte popolare. Parlossi di doversi ridurre alla semplicità antica la Chiesa di Cristo; allargare l'autorità dei vescovi e dei parrochi; scemar quella del pontefice sommo. Le querele che risuonarono già fin dai tempi antichissimi contro Roma, rinnovellavansi ed andavano al colmo. Le dottrine di Porto-Reale si diffondevano; coloro che lo mantenevano erano in molta autorità presso il popolo, perchè risplendevano, non per oro nè per corredi, ma per dottrina, per austerità di costumi e per una certa semplicità di vita che ai non accetti altamente imponevano. Inclinazioni di tal sorte piacevano a più principi; e queste massime trovavano disposizioni favorevoli nell'opinione dei popoli, e però più profonde radici mettevano. Così uno spirito stesso e circa le cose civili e circa le ecclesiastiche andava insinuandosi a poco a poco in tutte le parti del corpo sociale. Ciò non ostante, se molti pensavano a riforme, niuno pensava a sovvertimenti; nè alcuno ambiva di far da sè, ma ognuno aspettava dal tempo e dalla sapienza dei principi temperamento alle cose e compimento a' desiderii. Venendo a' particolari, in proposito di riforme sarebbe da cominciare da un nome imperiale, da Giuseppe II. Ma e di lui, e delle sue virtù, e delle azioni sue abbiano già detto quanto può forse bastare negli anni precedenti; il perchè basterà qui il riepilogare in brevi parole il già detto. Molto viaggiò Giuseppe, non per pompa, ma per conoscere le istituzioni utili e i bisogni dei popoli; i casolari dei poveri più aveva in cale che gli edifizii dei ricchi; nè mai visitava il bisognoso, che nol consolasse di parole ed ancor più di fatti. Protesse con provvide leggi i contadini dalle molestie dei feudatarii, opera già incominciata dalla sua madre augusta Maria Teresa; gli ordini feudali stessi voleva estirpare, e fecelo. Volle che si ministrasse giustizia indifferente a tutti; là creava spedali, ospizii, conservatorii ed altre opere pie; qua fondava università di studii; i giovani ricchi d'ingegno e poveri di fortuna in singolar modo aiutava. Ai tempi suoi e per opera sua lo studio di Pavia sorse in tanto grido che forse alcun altro non fu mai sì famoso in Europa. Lo studio medesimo empiè di professori eccellenti in ogni genere di dottrina, cui favoriva con premii, e non avviliva colla necessità dell'adulazione. Nè contento a questo, fondò premii per gli agricoltori diligenti, ed aprì novelle vie al commercio per nuove strade, per nuovi porti, per abolizione delle dogane interne; non mai in alcun altro paese o tempo furono in così grande onore tenuti, come in Italia sotto Giuseppe, gli scienziati che sollevano ed i letterati che abbelliscono la vita incresciosa e trista. Mandovvi altresì, qual degno esecutore de' suoi consigli, il conte di Firmian, sotto la tutela del quale la Lombardia Austriaca venne a tanto fiore che stiam per dire che in lei verificossi la favolosa età dell'oro. Quanto alle instituzioni ecclesiastiche, dichiarò Giuseppe la religione cattolica dominante, ma volle che si tollerassero tutte; comandò ai vescovi che niuna bolla pontificia avessero per valida, se non fosse loro dal governo trasmessa; statuì che gli ordini dei religiosi regolari non dai loro generali residenti a Roma, ma bensì dal superiore ordinario, cioè dal vescovo, dipendessero; abolì i conventi che gli parvero inutili, lasciando sussistere fra le monache solamente quelle che facevano professione di ammaestrar le fanciulle; eresse nuovi vescovati, accoppionne altri; fondò poi un numero assai considerabile di parrocchie, sollecito della instruzione di tutti i fedeli. Anco di Leopoldo di Toscana abbiamo narrato quanto bisognava e sì di recente che il tenerne nuovamente discorso sarebbe oziosa replica. Ma non così degli altri italiani Stati, intorno a' quali, ben che qua e colà siasi all'evenienza parlato, rendesi di tutta necessità divisare a parte a parte la loro attuale condizione, senza che, niuna concatenazione avrebbero i fatti che verranno in appresso. Essendo il re Carlo di Borbone salito sul trono di Spagna nel 1750, cedè il regno delle Due Sicilie a Ferdinando IV, suo figliuolo secondogenito, costituito allora nella tenera età di nove anni. Creata prima di partire la reggenza, pose per moderatore della giovinezza del nuovo re il principe di San Nicandro, il quale, privo di ogni sorte di lettere, non potendo insegnare altrui quello che non sapeva egli medesimo, insegnò al regio alunno la pesca, la caccia ed altri cotali esercizii del corpo. Di questi si invaghì Ferdinando che ne prese poi in tutti i tempi di sua vita grandissimo diletto. Ma crebbe poco instrutto di ciò che importa alla vita civile ed al governo degli Stati; pure amava chi sapeva e di consigliarsi con loro. Piacque alla fortuna, qualche volta pure favorevole ai buoni, che a quei tempi avesse grandissima introduzione e principal parte nei consigli napolitani il marchese Tanucci, uomo dotto, di libera sentenza, mantenitor zelante delle prerogative reali ed avverso alle immunità, massime in materie criminali. Dava il re facile orecchio alle parole sue; però il governo del regno procedeva con prudenza e con dolcezza. Speravasi qualche moderazione al dispotismo feudale, che in nissuna parte d'Italia erasi conservato più gravoso che in quel regno, principalmente nelle Calabrie. I baroni, possessori dei feudi, nemici egualmente dell'autorità regia e del popolo, quella disprezzavano, questo aggravavano. Oltre i soliti bandi della caccia, della pesca, dei forni, dei mulini, essi nominavano i giudici delle terre, essi i governatori delle città; per loro erano le prime messi, per loro le prime vendemmie, per loro le prime ricolte degli olii, delle sete e delle lane; per loro ancora i dazii d'entrata nelle terre, i pedaggi, le gabelle, le decime ed i servigi feudali. In somma erano i popoli vessati, l'erario povero, l'autorità regia manca. Sì fatte enormità, tanto discordanti dal secolo, non potevano nè sfuggire a Tanucci, nè piacere ad un re di facile e buona natura. Però con apposite leggi furono moderate. Inoltre Tanucci chiamò i baroni alla corte; il che fu cagione che, raddolciti i costumi loro, diventarono più benigni verso i popoli. Quanto agli Stati esteri, questo ministro, amico a tutti, pendeva per la Francia: ciò spiacque a Carolina d'Austria, fresca sposa di Ferdinando. Fu dimesso Tanucci, e surrogati in suo luogo, prima il marchese della Sambuca, poi Acton. Pure le salutari riforme si continuarono; parecchi privilegi baronali furono aboliti, i pedaggi soppressi, migliori speranze nascevano dell'avvenire. Gli animi si mostravano disposti. Aveva Filangeri filosofo pubblicato i suoi scritti, nei quali non sapresti dire se sia maggiore la forza dell'ingegno o l'amore dell'umanità. Erano con incredibile avidità letti e con grandissime lodi celebrati da tutti. Sorse allora universalmente un più acceso desiderio di veder lo Stato ridotto a miglior forma. Volevasi una libertà civile più sicura, una libertà politica maggiore, una tolleranza religiosa più fondata. Nè a questa inclinazione dei popoli contrastava il governo non ancora insospettito della rivoluzione di Francia. Nel regno di Napoli specialmente più si desideravano le riforme, perchè maggiori radici avevano messe le generose dottrine, massime fra i legisti. Gran confusione ancora era nelle leggi: vivevano tuttavia quelle degli antichi Normanni, viveano quelle dei Lombardi, nè le leggi dei due Federici, nè le aragonesi, nè le angioine, nè le spagnuole, nè le austriache erano del tutto dimesse. Quindi niun diritto in palese, nè niuna lite terminabile. La gravità del male faceva più desiderare il rimedio, principalmente negli ordini giudiziali, per le dette ragioni imperfettissimi. Ma queste cose meglio si conoscevano per dottrina che per esperienza; desideravasi qualche saggio pratico della utilità loro. Aveva il re, mentre viaggiava in Lombardia, visitato le cascine, per cui tanto sono celebrate le pianure del Parmigiano e del Lodigiano. Piaciutegli opere tali, ne fondò una a San Leucio, luogo poco distante da Caserta. La colonia cresceva. Gli amatori delle riforme tentarono Ferdinando, dicendo che poichè era stato il fondator di San Leucio, fossene anche il legislatore; e l'ottennero facilmente. Statuì il re delle leggi della colonia, per cui venne a crearsi nel regno uno Stato indipendente, di cui solo capo era il re. Dichiarossi la colonia indipendente dalla giurisdizione ordinaria, e solo soggetta ai capi di famiglia ed agli anziani di età; gli atti appartenenti alla vita civile, massime al matrimonio, reggevansi con forme e regole speciali, ogni cosa in conformità delle dottrine di Filangeri. Con queste leggi particolari prosperava dall'un canto continuamente la colonia, dall'altro il re vieppiù se n'invaghiva, e vedutone il frutto in pratica, diventava ogni dì meno alieno da quei pensieri che gli si volevano insinuare. Appoco appoco si distendevano nel popolo, ed il desiderio di nuovi ordini andava crescendo, parendo ad ognuno che quello che per l'angustia del luogo era fino allora utile a pochi, sarebbe a tutti, se con la debita moderazione a tutti si estendesse. Questi consigli tanto più volentieri udiva Ferdinando, quanto più coloro che glieli porgevano erano i più zelanti difensori contro chiunque dell'autorità e dignità sua. Già s'era Tanucci dimostrato molto operativo intorno alle controversie romane. Già, per consiglio suo, erasi soppresso il tribunale della nunziatura in Napoli, a cui erano chiamate in appello avanti il nunzio del papa tutte le cause nelle quali qualche ecclesiastico avesse interesse; fu anche troncato ogni appello a Roma. Era Tanucci stato anche autore che la corona di Napoli, e non la santa Sede, nelle vacanze dei benefizii nominasse i vescovi, gli abbati e gli altri beneficiati, che la presentazione della chinea il giorno di san Pietro in un'offerta di elemosina si cangiasse, che il nuovo re non s'incoronasse per evitar certe formalità che si usavano fin dai tempi dei re Normanni, e che la sovranità romana sul regno indicavano. Per consiglio suo medesimamente s'era diminuito il numero dei religiosi mendicanti, e soppressa la società di Gesù. Parlossi inoltre di rendere i regolari indipendenti dai generali loro residenti a Roma, e d'impiegar una parte dei beni della Chiesa per allestire un navilio sufficiente di vascelli da guerra. Tutte queste novità non si potevano mandar in esecuzione senza querele dalla parte di Roma; infatti elle furono molte. Così sorsero nel regno molti scrittori a difesa della libertà e della indipendenza della corona. I fratelli Cestari risplendevano fra i primi: si accostò a loro il vescovo di Taranto; ma vivi soprattutto si dimostrarono coloro che desideravano un governo più largo, proponendosi in tal modo e ad un tempo medesimo di difendere la dignità della corona, e di combattere le prerogative feudali. Ciò andava a' versi a Ferdinando non in pace con Roma; però ogni giorno più si addomesticava con loro, e li vedeva e gli udiva più volentieri. S'aggiunse che Carlo di Marco, uno dei ministri del re, uomo di non poca dottrina, dava lor favore, per quanto spetta alle controversie con Roma. Tale era lo Stato del regno di Napoli, in cui si vede, come abbiamo già altrove notato, che i medesimi tentativi si facevano che nella Lombardia Austriaca ed in Toscana circa la disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore, a cagione delle controversie politiche con Roma. Rispetto poi alle riforme nelle leggi civili, vi s'era anche incominciato a por mano, ma con minor efficacia, perchè Acton non se n'intendeva e ripugnava; ed il re, occupato ne' suoi geniali diporti, amava meglio che altri facesse, che far da sè. Da ciò nasceva che gli umori non si sfogavano, ed il negato si appetiva più avidamente. La Sicilia, parte tanto essenziale del regno di Napoli, si reggeva con leggi particolari. Da tempi antichissimi ebbe un parlamento di tre camere dette bracci, ch'erano gli ordini dello Stato. Una chiamavasi braccio militare, o baronale; in questo sedevano i signori che avevano in proprietà loro popolazioni almeno di trecento fuochi. L'altra intitolavasi braccio ecclesiastico; entravano in questo tre arcivescovi, sei vescovi e tutti gli abbati, ai quali il re conceduto avesse abbazie. La terza aveva nome camera demaniale; era composta dai rappresentanti di quelle città che non appartenevano ai baroni, e che demaniali si chiamavano, cioè del dominio del re. Perciocchè due sorte di città avea la Sicilia, baronali e libere; le prime erano quelle che stavano soggette ad un barone, le seconde quelle che dipendevano immediatamente dal re, e si reggevano con le proprie leggi municipali. Accadeva spesso che un solo barone avesse più voti in parlamento, per essere feudatario di più terre. Lo stesso accadeva, e per la medesima ragione, degli ecclesiastici; lo stesso ancora dei deputati delle città, dando più città il mandato ad una persona medesima. Capo del braccio baronale tenevasi il barone più antico di titolo, dell'ecclesiastico l'arcivescovo di Palermo, del demaniale il pretore della medesima città: adunavasi anticamente il parlamento ogni anno. Prima di Carlo V faceva le leggi, dopo venne ridotto a concedere i donativi. Da questo si vede che il nervo principale del parlamento siciliano consisteva ne' baroni, perchè più ricchi erano e più numerosi. Ma ben maggiore era la potenza loro nelle terre, a cagione de' privilegi feudali. Rimediovvi in parte Caraccioli, vicerè; pure i vestigii feudatarii v'erano ancora gravi. Del resto, le opinioni del secolo poco avevano penetrato in quella isola; ma quello che non dava l'opinione il potevano dare facilmente gli ordini dello Stato. Questa che abbiamo raccontata era la condizione del regno delle Due Sicilie verso l'anno 1789; ma poco diversa appariva quella del ducato di Parma e Piacenza, dove, come a Napoli, regnava la famiglia de' Borboni di Spagna. Anche in questi luoghi vedevasi sorta una maggior perfezione del vivere civile, e le contese con la Sedia apostolica pel medesimo fine delle investiture avevano aperto il campo ad investigazioni del solito effetto. Quando l'infante don Filippo governava il ducato, era in lui grande l'autorità del Franzese Dutillot, il quale, nato di poveri parenti in Baiona, era salito per la virtù sua al grado di primo ministro. Era stato appunto mandato Dutillot dalla corte di Francia al duca Filippo, acciocchè lo consigliasse intorno agli affari che correvano con la corte di Roma, temendosi che, in quella nuova possessione del ducato, ella volesse dare qualche sturbo in virtù de' diritti di superiorità sovrana che pretendeva in quello Stato. Per verità, se grande fu la fede che la Francia ed il duca Filippo ebbero in Dutillot, non furono minori la sua destrezza e la prudenza. Chiamò a sè i più famosi ingegni d'Italia, tra i quali non è da tacersi il teologo Contini, uomo dottissimo nelle scienze canoniche, ed il Turchi, cappuccino di molte lettere, di notabile eloquenza; e tanto per opera di Dutillot si dirozzarono i costumi di quella bella parte di Italia, e tanto vi prosperarono le buone arti, che il regno di don Filippo ebbe fama del secolo d'oro di Parma. Certo, città nè più colta nè più dotta di Parma non era a que' tempi, nè in Italia nè forse anche altrove. Crearonsi, per consiglio del Paciaudi, a questo fine chiamato da Roma, più perfetti ordini nell'università degli studii, un'accademia di belle arti, una magnifica libreria; e perchè con gli ordini buoni concorressero i buoni insegnamenti ed i buoni esempi, vennervi, chiamati da diversi paesi, oltre Paciaudi e Contini, anche Venini, Derossi, Bodoni, Condillac, Millot, Pageol. Fra i buoni esempi Dutillot medesimo non era degli ultimi, scoprendosi in lui decoro, facondia, cortesia, e tutte quelle parti che a perfetto gentiluomo si appartengono: arricchivasi al tempo stesso ed abbellivasi il ducato per manifatture o fondate o ristorate, per edifizii, per istrade, per pubblici passeggi. Così passò il regno di don Filippo assai facilmente sotto la moderazione di Dutillot. Morto poi nel 1765 il duca Filippo, e devoluto li ducato nel duca Ferdinando, ancor minore d'età, Dutillot continuò a governare lo Stato con la medesima sapienza. A questo tempo sorse una grave controversia tra il governo del duca e la corte di Roma; imperciocchè, avendo il duca mandato fuori una sua prammatica intorno alle mani morte, ed un editto che le obbligava al pagamento delle gravezze pubbliche, il papa Clemente XIII pubblicò in Roma un breve monitorio, con cui dichiarò nulle quelle ordinazioni sovrane di Parma, come provenienti da autorità non idonea a farle, e lesive deil'immunità ecclesiastica, ammonendo eziandio che tutti coloro che cooperato vi avevano erano incorsi nelle censure ecclesiastiche, da cui non potessero essere assolti in nissun caso, eccettuato in punto di morte, se non da lui stesso o dal pontefice che dopo di lui sulla cattedra di san Pietro sedesse. Dutillot difese con non ordinaria franchezza e prudenza il diritto sovrano del duca, alla quale difesa diedero non poco favore molti scritti pubblicati da uomini dotti in tale proposito. Questi accidenti concitarono contro Dutillot l'odio e le arti della parte avversaria già entrata molto addentro nella buona grazia del giovinetto principe. Ciò non ostante, in tutto il tempo in cui questo fu minore di età, non perdè il ministro dell'autorità sua. Quando poi, giunto all'età di diciotto anni, assunse il governo, s'indrizzarono i suoi pensieri ad altro fine. Perchè, congedato Dutillot, il principe si governò intieramente al contrario di prima. Il tribunale dell'inquisizione fu istituito in Parma, ma mostrò mansuetudine; nè aspro fu il reggimento del duca; le tasse assai moderate. Era molesto a molti il rigore eccessivo che si usava per far osservare certe pratiche di esterior disciplina: in questo i popoli non potevano dire del principe che altro suono avessero le sue parole ed altro i fatti; poichè ei dava le udienze in sagrestia, ei cantava coi frati in coro, egli addobbava gli altari, ei suonava le campane, egli ordinava i santi nel calendario dell'anno. Mentre il duca pregava, il popolo si erudiva, nè Parma perdette il nome che si era acquistato di città dotta e gentile. Sedeva a questi tempi, come già sappiamo, sulla cattedra di san Pietro il sommo pontefice Pio VI, destinato dai cieli a sostenere il colmo della prospera e dell'avversa fortuna. Il suo antecessore Clemente XIV, da povero fraticello salito, per le virtù sue, alla grandezza del papato, aveva in tanta sublimità conservato quella semplicità di costumi e quella modestia di vita, alle quali nella solitudine dei chiostri s'era avvezzato. Ciò parve a molti, in una Roma, nel primo seggio della cristianità, cosa altrettanto intempestiva e pericolosa quanto era in sè lodevole e virtuosa. Il perchè i cardinali, morto Clemente, elessero papa il cardinal Braschi, che già fin quando era tesoriere della camera apostolica aveva mostrato in tutte le azioni non ordinario splendore. Veramente erano in lui, forse più che in altr'uomo de' suoi tempi, molto notabili l'eccellenza delle forme, la facondia del discorso, la finezza del gusto, la grandezza delle maniere, procedendo in ogni affare con tanta grazia giunta a tanta maestà, che e la venerazione verso la persona sua, ed il rispetto verso la Sede ne venivano facilmente conciliati. Queste erano le qualità di papa Pio. Circa i costumi, e' furono, non che non meritevoli di riprensione, degni di lode; e certe voci corse in questo proposito, piuttosto alla malvagità de' tempi che seguirono, che a verità debbonsi attribuire. Ognuno crederà facilmente che un pontefice di tal natura doveva altamente sentire dell'autorità sua e delle prerogative della Sedia apostolica. Nè mancavano incentivi a queste inclinazioni. Covava allora fra' cardinali più dotti, più operativi, più esperti, un disegno d'una suprema importanza per l'Italia, e quest'era di ridurla unita sotto un governo confederato, di cui fossero parte tutti i principi italiani, e capo il sommo pontefice. Principal autore di questo consiglio era il cardinal Orsini, uomo di natura piuttosto strana che no, ma dottissimo in materia canonica, ed assai caldo zelatore delle prerogative romane; se ad altri pareva che Gregorio VII avesse troppo detto e troppo fatto, pareva all'Orsini ch'ei non avesse nè detto nè fatto abbastanza. Pure, siccome da cosa nasce cosa, se il pensiero dell'Orsini circa la lega italica fosse stato ridotto in atto, avrebbe partorito effetti importanti, e dai papi potuto nascere la salute d'Italia. Ma non potendo Pio allargare, come avrebbe voluto, nè il dominio nè l'autorità, perchè l'opinione era contraria, cercò di acquistar fama di splendido sovrano. Debbesi per prima e principal opera mentovare il prosciugamento delle paludi Pontine, se non a final termine condotto, certamente per la maggior parte eseguito con ispesa tanto enorme rispetto a Stato sì angusto, con costanza tanto mirabile che pochi esempii si leggono nelle storie degni di egual commendazione. Quattro fiumi, l'Amazeno, l'Uffente, la Ninfa e la Teppia non trovando sfogo al mare verso Terracina, sono principalmente cagione dell'impaludamento. Rapini, ingegnere di grido, preposto da Pio alle opere, cavata la linea Pia, condusse le acque al mare pel portatore di Badino, cavò l'antico fiume Sisto, alveò l'Uffente e l'Amazeno. S'abbassarono le acque, si scoversero i terreni, i colti si mostrarono dov'erano le paludi, la via Appia restituita ai viandanti. Tale fu l'opera egregia di Pio VI. Non dismostrossi minore l'animo del pontefice negli ornamenti aggiunti all'antica Roma. Edificò la famosa sagrestia a lato alla chiesa di San Pietro, opera certamente di molta magnificenza, ma forse di troppo minuta e troppo vaga architettura, se si paragona al grandioso stile della basilica di Michelangelo. Dolsersi anche non pochi, che, per fondare questo suo edifizio, abbia il papa ordinato che si atterrasse l'antico tempio di Venere, al quale Michelangelo aveva avuto tanto rispetto, che solo il toccarlo gli era paruto sacrilegio. Bellissimo pensiero di Pio altresì fu quello di persuadere come aveva fatto già, fin quando esercitava l'ufficio di uditore del camarlingo, a papa Clemente, di ornar il Vaticano con un sontuoso museo, il quale poi condotto a maggior grandezza da lui dopo la sua esaltazione, fu chiamato Pio-Clementino. Lo arricchì con gran numero di statue, busti, bassorilievi ed altre anticaglie di gran pregio. Come nobile fu l'intento suo nel fondar il museo, così nobile del pari fu il suo consiglio di volerne tramandare con eccellente rappresentazione di scritture e di figure la memoria ai posteri. Nè fu meno commendabile l'esecuzione; imperciocchè, affidatane la cura, quanto alle figure, a Lodovico Mirri, e quanto ai commenti, ad Ennio Quirino Visconti, ne sorse quella bella descrizione del Museo Pio-Clementino, una delle opere più perfette che in questo genere sieno. Così cresceva Roma sotto Pio in bellezza ed in isplendore ogni giorno; così, visitata dai più potenti principi d'Europa, lasciava in loro riverenza e maraviglia; i popoli mossi da sì sontuosi apparati non rimettevano di quella venerazione che avevano sempre avuto verso la Sedia apostolica. Quanto alle nuove dottrine filosofiche, che parlavano tanta umanità, poche radici avevano messe in Roma; non che i gentili pensieri non vi fossero graditi, ma perchè gli autori loro, mescolando, come facevano, tempi dissomigliantissimi, ed attribuendo a certi effetti cagioni non vere, troppo in sè stessi si compiacquero di condannar le romane cose. Tal era Roma, tanto sempre a sè medesima conforme, ritraendo sempre in ogni fortuna di quella grandezza che per ispecial privilegio del cielo pare in lei congenita e naturale. Mentre così in varie parti d'Italia più o meno si cancellavano per benefizio dei principi o per ammaestramento dei buoni scrittori, la vestigia che i tempi barbari avevano lasciato nelle instituzioni dei popoli e che evidentemente vi si procedeva verso un vivere sociale più generoso e più mite, poco o nissun cambiamento si osservava in altre parti della medesima provincia. La monarchia piemontese era la più ferma di tutte le monarchie, poichè in lei non si videro mai, come in tutte le altre, o rovine nella casa regnante o rivoluzioni di popoli. Del quale privilegio, se si vorrà ben dentro considerare, apparirà prima e principal cagione, essere la potestà assoluta del principe giunta con un uso moderato della medesima. Poi mancavano le occasioni della ambizione dei potenti; perciocchè trovandosi il Piemonte posto tra la Francia e l'Austria, altro non avrebbe partorito l'ambizione di un potente, anche fortunata, che render sè ed il paese suddito o dell'una o dell'altra; nè mai chi avesse voluto imitare un duca di Braganza avrebbe potuto venir a capo della sua impresa. S'aggiunse che i principi di Savoia governarono sempre gli eserciti loro da loro medesimi, nè potevano sorgere capitani di gran nome che potessero, non che distruggere, emulare la potenza dei principi. Da questo e dagli eserciti molto grossi nacque la maravigliosa stabilità della monarchia piemontese. Ne procedette, oltre a ciò, in quello Stato un'opinione generale stabile, che, da generazione in generazione propagandosi, rendè questa monarchia somigliante, alle repubbliche, nelle quali se cangiano gli uomini, non cangiano le massime nè le opinioni. Adunque gli ordini antichi si erano conservati intieri; le opinioni nuove poco vi allignavano. Ciò non ostante, alcuni segni, sebben deboli, di cambiamento si ravvisavano negli Stati del re di Sardegna, massimo circa la ecclesiastica disciplina. Imperciocchè, tolte dal re Vittorio Amedeo II le pubbliche scuole ai gesuiti, e fornita l'università degli studii di ottimi professori, incominciarono le dottrine dell'antichità cristiana a diffondersi. I tre bibliotecarii dell'università, Pasini, Berta e Pavesio, uomini di molto sapere e pietà, promossero lo studio delle opere scritte dai difensori di quelle dottrine, e Vaselli ne arricchì la libreria del re. Regnava Vittorio Amedeo, terzo di questo nome, principe di animo generoso, di vivo ingegno e di non ordinaria perizia nelle faccende di stato. Contaminava la sua buona natura un amore eccessivo della gloria militare: quindi ordinò e mantenne in piè un esercito grosso fuor di misura; il che rovinò le finanze che tanto fiorivano a tempi di Carlo Emmanuele suo padre, sparse largamente nella nazione la voglia delle battaglie, e diè favor eccessivo e potenza ai nobili soli ammessi a capitanar le soldatesche. Ognuno voleva essere, ognuno imitar Federigo re di Prussia. Certamente, se immortali lodi si debbono a Federigo per aver difeso il suo reame contra tutta la Europa, gran danno ancora le fece per avervi introdotto coll'esempio suo un eccessivo umor soldatesco, ed aver messo su eserciti. Gli altri potentati, o per fantastica imitazione, o per dura necessità, furono costretti a far lo stesso; poi venne la rivoluzione di Francia che dilatò questa peste ancor di vantaggio, poi sorse Buonaparte che la portò agli estremi, ed altro non mancherebbe alla misera Europa, per aver la compita barbarie, se non che ella facesse marciare, a guisa degli antichi Galli e Goti, coi combattenti anche i vecchi, le donne ed i fanciulli. Ma, tornando a Vittorio, tanto era in questa bisogna infatuato che soleva dire ch'ei faceva più stima d'un tamburino che d'un letterato, benchè poi riuscisse miglior che di parole; perciocchè i letterati accarezzava e premiava, ed usava anche con loro molto famigliarmente. Ma le armi prevalevano; quindi non solamente fu dissipato il tesoro lasciato da Carlo, ma i debiti dello Stato, non ostante che le imposizioni si aggravassero, tanto s'ammontarono che sommavano in questo anno a meglio di cento milioni di lire piemontesi, che sono più di cento milioni di franchi. Le cariche civili ed ecclesiastiche conferivansi solo ai nobili ed agli abbati di corte. Ad una generazione di magistrati integerrimi e capaci, e di vescovi santi e dotti, successero qualche volta magistrati e vescovi poco atti a ben reggere gli uffizii loro. Pure fiorivano le scienze; fiorivano anche, ma non tanto, le lettere. Quanto alle contese circa l'ecclesiastica disciplina fra il romano pontefice ed i principi di casa austriaca, il re Vittorio avea, per amor di quiete, ordinato che mai non si parlasse o scrivesse nè pro nè contro la bolla _Unigenitus_, nè mai si trattasse dei quattro capitoli della Chiesa gallicana; che anzi, siccome questi articoli erano apertamente insegnati e costantemente difesi nell'università di Pavia dopo le riforme fattevi da Giuseppe II, aveva, a petizione del cardinale Gerdil, proibito che i sudditi suoi andassero a studiare in questa università. Ma tali opinioni più pullulavano quanto più si volevano frenare. Se la monarchia piemontese era la più ferma delle monarchie, la repubblica di Venezia era la più ferma delle repubbliche. Coloro, i quali, credono essere le repubbliche varie e turbolente, potran vedere nella veneziana una repubblica più quieta di quante monarchie sieno state al mondo, eccetto solo quella del Piemonte. Passò gran corso di secoli senza turbazioni; fu percossa da potentissime nazioni, da Turchi, da Germani, da Franzesi; trovossi fra guerre atroci, fra conquiste di popoli barbari, fra rivoluzioni orribili di genti; Roma stessa fulminava contro di lei. Pure conservossi non solo salva in mezzo a tante tempeste, ma nemmeno ebbe bisogno di alterar gli ordini antichi. Tanto perfetti erano i medesimi, e tanto s'erano radicati per antichità! Pare che più sapiente governo di quel di Venezia non sia stato mai, o che si riguardi la conservazione propria, o che si miri alla felicità di chi obbediva. Per questo non vi sorsero mai parti pericolose; per questo certe nuove opinioni non vi si temevano. Solo pareva meritevole di biasimo quel tribunale degl'inquisitori di Stato, per la segretezza e per la crudeltà dei giudizii; pure era volto piuttosto a frenare l'ambizione dei patrizii che a tiranneggiare i popoli. Nè sola Venezia ebbe inquisitori di tal sorte, perchè i governi che non gli hanno per legge stabile, se li procurano per abuso; e non sapresti se muovano più al riso o allo sdegno certuni che tanto rumore hanno levato contro il tribunale suddetto, e che anche presero pretesto da lui di distruggere quell'antica repubblica. Del resto la provvidenza di lei era tale che e l'umanità vi trovava luogo, e le gentili discipline vi si proteggevano. Ma la lunga pace vi aveva ammollito gli animi, e se vi rimanevano gli ordini buoni, mancavano uomini forti per sostenerli. Diminuita la potenza turchesca, e composte a quiete le cose d'Italia, perchè accordate, rispetto al ducato di Milano ed al regno di Napoli, tra Francia, Austria e Spagna, posò intieramente le armi la repubblica, e credette colla sola sapienza civile potersi preservar salva ne' pericoli, che radi ancora si rappresentavano. Ma vennero certi tempi strani, in cui la sapienza civile non poteva più bastare senza la forza, troppo rotti e troppo enormi dovevano essere i moti; la sapienza civile stessa era venuta in derisione. Così Venezia verso l'anno presente stimata da tutti, temuta da nissuno, se era capace di risoluzioni prudenti, non era di risoluzioni gagliarde; l'edilizio politico vi stava senza puntello: una prima scossa il doveva far rovinare. Assai diversa da questa mostravasi, quanto al vigore degli animi, la condizione della repubblica di Genova. Nissun popolo si è veduto meno da' suoi maggiori degenerato del genovese. Fortezza d'animo, prontezza di mente, amore di libertà, attività mirabile, civiltà ancor mista con qualche rozzezza, ma da mollezza esente; un osare con prudenza, un perseverare senza ostinazione, ogni cosa insomma ritragge ancora in lui quel popolo che resistè ai Romani, battè i Saracini, pose agli estremi Venezia, distrusse Pisa, conquistò Sardegna, produsse Colombo e Doria, cacciò dalla sua città capitale i soldati forastieri; e se i destini in questi ultimi tempi non fossero stati tanto contrarii alla misera Italia, forse i Liguri avrebbero lasciato al mondo qualche bel saggio di valore e di virtù. Ma parlossi d'indipendenza colla oppressione e di libertà colla servitù, e gli animi distratti fra dolci parole e tristi fatti, non poterono nè accendersi al bene, nè vendicarsi del male. Era in Venezia un acquetarsi abituale alla sovranità dei patrizii, perchè era non solamente non tirannica, ma dolce, e perchè era da principio presa e non data. Era in Genova un vegliare continuo, una gelosia senza posa nell'universale verso la sovranità de' nobili, non perchè tirannica fosse, ma perchè era stata non presa da chi comandava, ma data da chi obbediva. La lunga quiete aveva fatto posar gli animi in Venezia: le sette, la fazioni e le parti, ora rompendo in manifesta guerra civile, ora sottomettendo la patria ai forestieri, avevano mantenuto in Genova gli animi forti e le menti attente. Era nel paese veneziano gran ricchezza con ampio territorio e fertile; era nel Genovesato gran ricchezza con angusto territorio e sterile; perciò là si poteva conservare l'acquistato posando, qua bisognava conservarlo operando. Era in Venezia chiuso ai plebei il libro d'oro; era in Genova aperto, possente stimolo a chi aveva avuto più amica la natura che la fortuna. Sicchè non dee far maraviglia, se risplendeva Venezia più per delicatezza di costumi che per forza, e se, pel contrario, era più cospicua in Genova la forza che la delicatezza. Quanto alle opinioni, quelle relative allo Stato poco sapevano di cambiamento, quelle relative alle ecclesiastiche discipline, assai. Quindi Porto Reale era in favore e molto largamente si pensava. Tal era Genova, non cambiata dai secoli, e le antiche querele sulla natura de' suoi abitatori al molto amor patrio suo non gradito ai forastieri piuttosto che a verità debbonsi attribuire. Se Venezia dimostrava quanto possa per la felicità de' popoli e per la stabilità degli Stati l'aristocrazia temperata dal costume; se Genova c'insegnava quanto possa pel medesimo fine la maniera stessa di governo temperata dal costume e dalla gelosia del popolo; dimostravalo Lucca con l'uno e con l'altro, e di più col freno di una sottile investigazione sul procedere tanto dei nobili quanto dei popolari. Era in Lucca quest'ordine, che chiamavano _discolato_, e rappresentava l'antico ostracismo d'Atene e la censura di Roma, che quando alcuno, o nobile o popolano si fosse, trascorreva i limiti della modestia civile o de' costumi buoni, tosto tenevasi discolato, scrivendo ciascun senatore il suo nome in sur una polizza; e se venticinque polizze il dannavano in tre discolati successivi, ei s'intendeva mandato a confine o in esilio. Tenevasi il discolato ogni due mesi: il che era gran freno agli uomini ambiziosi e scorretti. Pure, siccome sempre il male è vicino al bene, quella continua e minuta inquisizione, col timore che ne nasceva, rendeva di soverchio gli uomini sospettosi e guardinghi; perfino l'onesta piacevolezza era sbandita dal conversare lucchese, ed una terra oltre ogni creder dolce e gioconda era abitata da gente grave e contegnosa. Nè minor gelosia era verso i giudici; quindi si chiamavano dall'estero; poi, deposto il magistrato, si sottomettevano a sindacato o, vogliam dire, ad esame: seduti in luogo pubblico, poteva ognuno accusarli di gravame; commissarii espressi tenevano registro, e facevano rapporto al senato, che giudicando assolveva o condannava. Così erano in Lucca giudizii integerrimi, primo e principal fondamento alla contentezza de' popoli. Ma se vi si dava ad ognuno il suo, vi si largiva il necessario al bisognoso; perchè a chi voleva aprir traffichi, o era stato danneggiato dalle stagioni, si fornivano o danari dall'erario o generi dai magazzini del comune. Così mite provvido e largo era il reggimento di Lucca. Così ancora facilmente si vede che nei paesi d'Italia non soggetti agli ordini feudali, erano state ordinate la giustizia e la franchezza, non impronte e superbe favellatici come in altri paesi, ma fondate su buoni statuti, sull'assenza di eserciti esorbitanti, sulla modestia di chi reggeva, sulla natura sottile ad un tempo ed assennata degl'Italiani. Che poi questi ordini fossero perfetti per fondare una compita franchigia, nissuno s'ardirà di dire. Ma dove sia questo genere di perfezione, niuno il sa; poichè nè anche vuol credersi che sia dove le soldatesche sterminate possono conquistare e recare a servaggio, non che la patria, una ed anche più parti dei mondo. Che se poi solo ed unicamente si volesse giudicare della bontà de' governi, argomentando dall'infrequenza de' delitti, certamente si affermerebbe i governi di Venezia, di Genova, di Lucca e di Toscana, essere stati i migliori. Va con questi, se però non è superiore per bontà, quello della repubblica di San Marino. Vive da dodici secoli la repubblica di questo nome appena nota al mondo per fama. Quivi virtù senza fasto, quiete senza tirannide, felicità senza invidia; quivi nobiltà solo per chiarezza di natali, non per diritti oltraggiosi, nè per privilegii, nè per desiderio di dominazione; quivi popolo occupato ed industrioso, e come fra i nobili temperati, così nè irrequieto nè tirannico. Fortunate sorti, per cui, tolta l'ambizione dalle due parti, solo rimasero gli effetti conservatori della società. Rovinavano per lunghi anni intorno a San Marino i regni, rovinavano le repubbliche, si straziavano gli uomini per civili e per esterne guerre: sul Titano monte perseverarono i Sammariniani in tranquillo stato ed amici di tutti: dall'alto e dal sereno miravano le tempeste. Volle l'ambizione moderna introdursi in quei placidi recessi, ma fu l'opera indarno, come sarà a suo luogo raccontato: l'inveterato e dolce aere resistette al pestilenziale soffio. Un consiglio di sessanta nominato primitivamente da' capi di tutte le famiglie adunati in generale congresso, o, vogliam dire, a parlamento, e che chiamavano aringo, poi rinnovellato da sè stesso a misura delle vacanze, e due consoli semestrali col titolo di capitani del comune reggono lo Stato. Hanno i capitani la facoltà esecutiva; avevano anche anticamente, a norma degli antichi consoli di Roma, parte della giudiziale, ma questa poi cesse ad uomini chiamati dall'estero dal consiglio sotto nome di podestà; rimase ai capitani l'ufficio di paciali. Sono i capitani, e così ancora i podestà, per gli atti del loro uffizio soggetti al sindacato, che è il modo della legge delle obbligazioni, o, come dicono i Franzesi, della risponsabilità, trovato dagl'Italiani per la guarentigia dei dritti. L'equalità civile consola San Marino, i costumi il conservano, la povertà sicuro scudo contro i forastieri. Nulla ei desidera negli altri, nulla gli altri desiderano in lui, perchè i buoni hanno a schifo i vizii, la quiete non piace ai turbolenti, nè la libertà ai corrotti. Regnava in Modena il duca Ercole Rinaldo d'Este, ultimo rampollo d'una casa da cui l'Italia riconosce tanti benefizii di gentilezza, di dottrina e di lettere, come se fosse ordinato dai cieli che non solo ogni reggimento italiano, ma ancora ogni sangue sovrano, eccetto quel di Piemonte, dovessero andare spenti nei calamitosi tempi che vedemmo. Era il duca Ercole principe degno de' suoi maggiori, se non che forse la sua strettezza nello spendere era tale che sapeva di miseria. Pure dubitar si potrebbe se tale qualità in lui si debba a vizio od a virtù attribuire; perchè se dagli eventi giudicar si dovesse e dalla natura sua, ch'era previdentissima, sarebbe degno anzi di lode che di biasimo. Certo era in lui maravigliosa la previdenza, e non saprebbesi se i posteri crederanno, perchè ciò solo a rinomati filosofi fu attribuito, quando si dirà che il duca Ercole con chiaro ed evidente discorso predisse, parecchi anni prima del presente anno il sovvertimento di Francia e la rovina d'Europa. Aggiunse con voce ugualmente profetica che la Francia perderebbe la sua preponderanza, che tutte le potenze si sarebbono collegate contro di lei, e che nissuna l'avrebbe aiutata. Principe buono ed avverso agli ordini feudali, affermava ch'essi erano più funesto flagello all'umana generazione, che la guerra e la peste, nè mai comportò ai nobili le insolenze. Principe religioso, seppe tener in freno anche il clero, perchè e voleva intiero il dominio de' suoi, e si ricordava di Ferrara. Fiorirono meravigliosamente a tempo suo le lettere in quella parte di Italia: finì la casa d'Este simile a lei, nell'antico costume perseverando. Ora, per raccogliere in poco discorso quello che siamo andati finora largamente divisando, si vede che se apparivano in Italia desiderii di riforma, non apparivano semi di rivoluzione; che questi desiderii risguardavano parte lo Stato politico, parte la disciplina ecclesiastica; principalmente un'evidente impazienza vi era sorta di quanto rimaneva degli ordini feudali. Più principi mostrarono di volere, e mandarono ad effetto non poche riforme; il che fece nascere generalmente desiderio e speranza di veder condotta a compimento la macchina delle istituzioni sociali. Tutte queste cose assecondava la filosofia tanto squisita di que' tempi, non quella turbolenta e sfrenata che non si intende come alcuni chiamino filosofia, ma quella che desiderava maggior moderazione ne' potenti e maggior felicità nei deboli. In ciò volle supplire la filosofia, e fecelo, finchè uomini senza freno, di lei troppo enormemente abusando, empierono il mondo di sterminii e di sangue. A questo, erano in alcuni luoghi della penisola uomini rozzi, ma forti, in altri uomini gentili, ma deboli; di nuovo, in alcuni armi deboli, ma opinioni tenaci, in altri armi forti, ma eccessive, e, per questo medesimo che eccessive erano, non sufficienti. Del resto, se erano in Italia desiderii buoni, non erano ambizioni cattive; non solo non vi si aveva speranza, ma nè anco sospetto di rivoluzione, e gli italiani hanno natura tale, che, se van con impeto, maturano con giudizio. Tale era Italia quando, giunto il secolo verso l'anno 1789 che andiam discorrendo, si manifestarono in Francia, provincia solita a muovere co' suoi moti tutta l'Europa, inclinazioni e cambiamenti di grandissimo momento. Destarono queste novità diverse speranze e diversi timori in Italia, secondo la diversità degli ingegni e delle passioni. In questi crebbero le speranze, in quelli i timori; in alcuni cominciarono a sorgere le ambizioni: i principi si ristettero dalle riforme per sospetto, i popoli più le desideravano per esempio: tutti credettero che per la vicinanza de' luoghi, per la frequenza del commercio, per la comunanza delle opinioni, novità di una suprema importanza avverrebbero di qua, come già erano avvenute di là de' monti. Ma è d'uopo entrare in qualche particolarità sulle rivoluzioni in Francia, loro cagioni ed effetti, per comprendere quello che ne derivò pegli altri paesi. Le mutazioni fatte in Italia da principi eccellenti non partorirono che bene; quelle fatte da un principe giusto e buono in Francia non solo non fruttificarono quel giovamento ch'ei s'era proposto, ma originarono ancora orribili disgrazie. Della qual differenza chi voglia investigar le cagioni, avrà a considerar in primo luogo le opinioni ed i costumi che prevalevano a quei tempi in quel regno, poi le leggi che il governavano, e finalmente lo stato dell'erario. Quello spirito di benevolenza verso l'umana generazione, il quale era prevalso in Europa a questi tempi, aveva messo più profonde e più larghe radici in Francia che in qualsivoglia altra provincia, sì perchè dalla Francia medesima, quasi da fonte principale, derivava, sì perchè la civiltà degli uomini in questo paese era molt'oltre proceduta, e sì finalmente perchè, essendo essi d'indole volubile, fan nascere spesso le mode ed i tempi, ed i tempi poscia li governano. Così era allora tempo d'umanità; e siccome questa è una nazione che, per la prontezza della mente e per la grandezza dei concetti, dà facilmente negli estremi così nel bene come nel male, e sempre si governa coi superlativi, così questa universale benevolenza era diventata eccessiva, estendendosi anche a certi fini che toccano la radice del governo, e ciò non senza pericolo dello Stato; poichè, se è necessario allettar gli uomini con l'amore, è anche necessario frenarli col timore, più potendo in loro l'ambizione e le altre male pesti, che non la gratitudine. In tale disposizione d'animi non solo erano divenuti più che non fossero mai stati odiosi i residui degli ordini feudali, ma ogni leggier freno che dal governo venisse era riputato duro e tirannico. Da questo procedeva che con riforme utili si desideravano anche riforme disutili o pericolose. Queste opinioni recavano possente incentivo da quelle che s'erano formate e sparse ai tempi della ultima guerra d'America, sì opportunamente intrapresa e sì generosamente condotta dalla Francia: esser doni volontarii le contribuzioni dei popoli; dover essi e della necessità loro e della quantità giudicare; esser la nobiltà non necessaria, anzi pericolosa allo Stato; il re capo, non sovrano; il clero consiglio, non ordine, e richiamavanlo alla semplicità antica; la religione dover esser libera. A questo aggiungevasi una tale tenerezza per gli oppressi, che, se mancavano i veri, si cercavano i supposti, per isfogar la piena di tanto amore, poichè ogni punito ed ogni imposto riputavansi oppressi, ed un gran di sale che si pagasse, faceva sì che si gridava tirannide. Le ambizioni si mescolavano alle dolci affezioni, ed alcuni fra i popolani, vedendosi favoriti dall'opinione; volevano diventar potenti, con salire alle dignità ed alle cariche dello Stato. Queste erano le improntitudini popolari; ma la ferita era ancor più grave, e più dentro penetrava nelle viscere dello Stato; conciossiachè coloro fra i nobili che avevano militato in America, eransi lasciati ridurre sì per l'esempio, e sì ancora sospinti da un'illusione benevola, credendo che un'americana pianta potesse portar buoni frutti in un terreno europeo non adatto ad opinioni più favorevoli ai popoli che non alla corona; ed, oltre alla egualità dei diritti, desideravano l'introduzione di qualche ordine popolare nell'antica costituzione del regno. Piacevano loro le forme della costituzione d'Inghilterra. Ciò mise discordia fra la nobiltà, poichè alcuni fra i nobili opinavano per la novità, alcuni per le antiche cose, e così s'indeboliva questo propugnacolo della corona in un tempo in cui ella ne aveva più bisogno. Ma i più fra quelli dei nobili che o per coscienza o per interesse perseveravano nelle massime antiche, e rimanevano fedeli alla corona, tale quale era durata tanti secoli, davano novella forza, certo per orgoglio mal misurato, alla potenza popolare che sorgeva; imperciocchè e più insolenti si mostravano nelle ville e castelli loro, e più duramente esigevano gli abborriti diritti feudali, credendo con maggior forza doversi tener quello che si temeva di perdere. Ciò tanto maggiormente si osservava, e tanto maggior odio creava, che quella parte dei nobili che inclinavano a novità, avevano i medesimi ordini o intieramente dismessi o grandemente moderati, ed i restanti con molta mansuetudine riscuotevano. L'odio saliva alla corona, perchè questi nobili arroganti erano appunto quelli che facevano maggior dimostrazione in favor delle prerogative e della potenza regia. Nè queste erano le sole cagioni di novità. Certo è che i vizii maggiormente allignano fra i grandi che fra il popolo, tale essendo la natura umana, che tanto più si corrompe, quanto ha più modi di corrompere e di corrompersi, nè bastano le gentili dottrine a raffrenar questo impeto, poichè esse meglio servono di scusa che di freno. Quindi era in Francia sorta fra i ricchi una tale dissolutezza di costumi, che ne fu tolto alle persone loro quel rispetto che già avea tolto ai loro diritti l'opinione. L'ozio, il lusso, i piaceri lascivi, i piaceri infami erano giunti al colmo; nè alcuno era contento alla condizione sua, che, nata l'ambizione, niuno voleva stare, ognuno voleva salire, ed ogni modo era riputato buono, o di pecunia accattata e di meretrice compra, o di bugia o di calunnia. Tanta era stata la mala efficacia dei tempi della reggenza! Il vizio s'era introdotto nella corte stessa, nè bastava, non dirò a sanar gli animi, ma a contenerli, l'esempio del re, per verità di costumi integerrimi. Ma siccome i popoli credono che le corti s'informino sul modello dei re, così i Franzesi, vedendo una corte scostumata, rimettevano ogni giorno più di quell'amore che in tutti i secoli hanno portato ai re loro. Il perverso influsso era tale che ne furono contaminati anche coloro che dovrebbero avere in sè più di sacro e di venerando; il perchè scemava fra i popoli il rispetto verso la religione. In tal modo la potenza, separatasi prima dalla virtù, separossi anche dal rispetto, suo principal fondamento; la virtù medesima, sbandita dalla città e dalle curie, ricoverossi fra i modesti presbiterii dei parrochi e fra gli umili casolari dei contadini. Dal che ne nacque più forza alla potenza popolare; perciocchè credessi là esser la buona causa dov'era la virtù, e la cattiva dov'era il vizio. A questo si aggiungeva che a gran pezza l'entrata non pareggiava l'uscita dello Stato, deplorabile frutto dei concetti smisurati di Luigi XIV, del voluttuoso vivere di Luigi XV, e del profuso spendere della corte di Luigi XVI, ancorchè questo principe se ne vivesse per sè molto parcamente. Questo difetto nell'entrata era giunto a tale sul finire del 1786, ch'era per nascere una gran rovina, se presto non vi si rimediava. In cotal modo scomposte le cose, passata la forza dell'opinione dai nobili ai popolari, dai ricchi ai poveri, dai prelati ai curati, e mancato il denaro, principal nervo dello Stato, si vedeva, che ove nascesse un primo incitamento, un grande sovvertimento sarebbe accaduto. Nè la natura del re, dolce e buona, era tale che potesse dare speranza di potere o allontanare o indirizzare con norma certa ed a posta sua gli accidenti che si temevano. Qui nacque un caso degno veramente di eterne lagrime, e pur non raro nelle memorie tramandate dagli storici. Tanto è la natura umana sempre più consentanea a sè stessa nel male che nel bene, e tanto sono cupe le ambizioni degli uomini. Volevasi da tutti, come opinione portata dai tempi, e come cosa utile e giusta, un'equalità civile, un'equalità d'imposte, una sicurezza delle persone, una riforma negli ordini giudiziali, una maggior larghezza nello scrivere. Era il re inclinato ad accomodar le cose ai tempi, per quanto la prudenza e le prerogative della corona, tanto salutari in un reame vasto ed in una nazione vivace e mobile, il comportassero. Ma una setta composta principalmente dai parlamenti, dai pari del regno, dai prelati più ragguardevoli, dai nobili più principali, e secondata da un principe del sangue, del quale se fu biasimevole la vita, fu ancor più lagrimevole il fine, preoccuparono il passo, e vollero farsi capi e guidatori, dell'impresa. In questo il pensier loro era di cattivarsi con allettattive parole la benevolenza del popolo, e diminuire, con l'aumento della propria, l'autorità della corona. Forse i primi e i principali autori di questo disegno miravano più oltre, velando con parole denotanti amore di popolo pensieri colpevoli di mutazioni nella famiglia regnante. Quale di questo sia la verità, i capi di questa setta si prevalsero molto opportunamente per arrivare ai fini loro, di un errore commesso dal governo, il quale diede occasione alla resistenza loro e fu primo principio di quel fatale incendio che arse prima il reame di Francia, poi propagatosi per tutta Europa, vi trasse tutto a scompiglio ed a rovina. Il re, in vece di cominciar l'opera dalle riforme tanto desiderate del popolo, poi ordinar le tasse, volle principiare a por le tasse, poi le riforme. Quindi l'amore cominciò a convertirsi in odio; la setta nemica alla corona se ne prevalse. Adunque, avendo egli pubblicato due editti, uno perchè si ponesse un'imposta sopra le terre, l'altro perchè si ponesse una tassa sulla carta bollata, il parlamento di Parigi, non solo fortemente protestò, ma, ancora più oltre procedendo, ordinò che chiunque recasse ad effetto i due editti fosse riputato reo di tradimento e nemico della patria. Questo era il momento d'insorgere da parte del governo, e di dar forza alla legge, e di aggiungere al tempo stesso qualche editto contenente riforme e giuste per sè e desiderate dal popolo: ciò avrebbe preoccupato il passo. Ma egli, rimettendo dall'opera sua, lasciò andar non eseguiti i suoi editti. Quindi crebbe l'ardire del parlamento, che, volendo usar l'occasione di guadagnarsi la grazia del popolo a diminuzione dell'autorità regia, passò ad abbominare con pubbliche scritture e con parole infiammative le incarcerazioni arbitrarie; poi statuì, annuendo ad una convocazione degli Stati generali, non essere in facoltà sua, nè della corona, nè di tutti due uniti insieme trar denaro dal popolo per via di tasse; la sola volontà del re non bastare a far la legge, nè la semplice espressione di questa volontà poter costituire l'atto formale della nazione; essere necessario, a volere che la volontà del re debba trarsi ad effetto, ch'essa sia pubblicata secondo le forme prestabilite dalla legge; tali essere i principii, tali i fondamenti della costituzione franzese; sapere il parlamento che si volevano sovvertire i diritti pubblicati, per istabilire il dispotismo; la libertà comune essere in pericolo; ma non volere nè poter a tali rei disegni dar la mano, anzi volere opporsi, nè mai permettere che gli essenziali diritti dei sudditi fossero conculcati e messi al fondo; poi, rivoltosi al re, gl'intimò non isperasse di poter annullare la costituzione, concentrando il parlamento nella sola sua persona. Rispose risentitamente il re, che quello che s'era fatto, s'era fatto secondo gli ordini fondamentali dello Stato; non s'intromettessero in affari di governo, perchè di ciò non avevano autorità di sorte alcuna; ch'erano i parlamenti del regno di Francia corti di giustizia abili solo a giudicare in materie civili e criminali, ma non avere autorità nè legislativa nè amministrativa; la volontà del re non potersi senza pericolo nè senza un nuovo e funesto cambiamento nella constituzione del regno soggettare a quella dei magistrati; se ciò fosse, cambierebbesi la monarchia in aristocrazia di magistrati; badassero a far il debito loro come giudici, e lasciassero il governo delle cose pubbliche a chi per antica consuetudine e per costituzione l'aveva in mano; considerassero quante leggi erano state fatte in ogni tempo dai re di Francia, non solo senza il consenso, ma ancora contro la volontà dei parlamenti; la registrazione non essere approvazione, ma solo autenticazione, nè altro in questo fare i parlamenti, che le veci di notai del regno; che quest'erano le forme, questi i precetti, ai quali e' si dovevano conformare, e se nol facessero, si li costringerebbe. Tal era la contesa nata in Francia fra il re ed i parlamenti circa le prerogative e l'autorità della corona. Intanto ogni pubblico affare era soprattenuto, perchè i parlamenti di provincia, come quello di Parigi, o avevano cessato di per sè stessi l'ufficio, o erano dall'autorità regia sospesi. Volle il re rimediare colla creazione della corte plenaria, ma proruppe il parlamento in un'asprissima protesta; protestarono i pari del regno; il clero stesso titubava. Intanto uomini faziosi d'ogni genere, o stimolati espressamente dei capi della parte dei parlamenti, o valendosi acconciamente dell'occasione offerta dalla resistenza loro per macchinar novità, andavano spargendo in ogni luogo semi di discordia e di anarchia. Tumultuavasi a Grenoble, a Rennes, a Tolosa e in altre sedi di parlamenti; orribili scritture uscite in Parigi chiamavano tiranno il re, distruttore dei diritti del popolo, oppressore crudelissimo, esortavansi le genti a levarsi, a disvelare e punir gli oppressori. Avendo il re trovato, invece d'appoggio, opposizione e resistenza nei parlamenti, nella nobiltà e in una parte del clero, dovette necessariamente voltarsi verso il popolo, e fondar l'autorità sua sulla potenza dei più, giacchè i pochi lo abbandonavano. Così era fatale che le prime occasioni delle enormità che seguirono siano state date da coloro ai quali più importava di evitarle, e che ne furono alla fine le miserabili vittime. Adunque fu chiamato ministro il Ginevrino Necker, e con lui altri personaggi consentanei al tempo. Si sperava bene, il popolo esultava. Convocaronsi i notabili del regno, convocaronsi gli stati generali. Prevalse in sul bel principio la parte popolare, siccome quella, in favor della quale operavano i tempi. Decretossi da prima, del qual consiglio fu autore Necker, fosse doppio il numero dei deputati del terzo stato; poi sedessero i tre ordini, non separatamente, ma in comune, poi si deliberasse, non per ordini, ma per capi, il che diede del tutto la causa vinta ai popolari. Gli ordini uniti presero il titolo di assemblea nazionale. Erano portati al cielo: non si parlò più dei parlamenti, quantunque eglino con opportune scritture si fossero sforzati di riguadagnarsi quel favore che per un nuovo empito popolare s'era voltato all'assemblea. L'assemblea nazionale, ottenuta la superiorità del terzo stato, abolì l'inequalità delle imposte, poi i privilegii della nobiltà, poi quelli del clero, poi la nobiltà ed il clero; ed aboliti la nobiltà ed il clero, s'incamminava ad indebolire talmente l'autorità regia, ch'ella non fosse più che un'ombra vana. Il benefizio della equalità era solamente apprezzato dai buoni; i tristi usavano l'occasione dello indebolimento del governo. I faziosi dominavano: l'autorità regia non li poteva frenare, perchè scema di potenza e d'opinione; l'autorità popolare non ardiva perchè parlavano in nome ed in favor del popolo. In ogni luogo, sedizioni, incendii e rapine, morti funeste e modi di morte più funesti ancora, uomini mansueti divenuti crudeli; uomini innocenti cacciati dai colpevoli; uomini benefici uccisi dai beneficiati. Virtù in parole, malvagità in fatti. Novelle strane si spargevano ogni giorno, e quanto più strane, tanto più credute, e tosto si poneva mano nel sangue o ad ardere i palazzi; nè il sesso nè le età si risparmiavano; ad ogni voce che si spargesse, il popolo traeva, massime in Parigi. In mezzo a tutto questo, atti sublimi di virtù patria e di virtù privata, ma insufficienti pel torrente insuperabile e contrario. Nè si vedeva fine agli scandali, perchè l'argine era rotto, e fin dove avesse a trascorrere questo fiume senza freno, nissuno prevedeva. In fine, dopo molti e varii eventi, l'assemblea con una cotal costituzione che teneva poco del regio, meno ancora dell'aristocratico, molto del democratico, rendè il re un nome senza forza; poi venne l'assemblea legislativa, che il depose; poi il consesso nazionale che l'uccise. Intanto uccisi o intimoriti i buoni, impadronitisi della somma delle cose i tristi, la nazione franzese, non trovando più riposo in sè stessa, minacciava, qual mare ingrossato dalla tempesta, di uscir da' proprii confini, e di allagare con rovina universale l'Europa. Anno di CRISTO MDCCXC. Indizione VIII. PIO VI papa 16. LEOPOLDO II imperadore 1. A dì 20 del mese di febbraio del presente anno cessò di vivere in Vienna, nell'età di quarantanove anni, l'imperatore Giuseppe II, dopo che i suoi eserciti impadroniti eransi di Belgrado, ed ebbe a successore il fratel suo granduca di Toscana, sotto il nome di Leopoldo II, principe filosofo e pacifico, che, sollecitato da una parte dalla corte di Prussia, dall'altra dal bisogno de' suoi popoli, non tardò a staccarsi dalla Russia ed a conchiudere una pace parziale coi Turchi. In più luoghi di questi Annali si è accennato qual fosse il carattere, quale l'indole, quale la condotta di Giuseppe. Tuttavia porta il pregio di riferire un brano della Storia d'Italia del cavalier Bossi che in questo modo riassume l'argomento: «Abbiamo già notato come in mezzo ad uno zelo ardentissimo per lo bene e la prosperità de' suoi popoli, non fosse stato dalla opinione pubblica secondato ne' suoi vasti disegni d'innovazione e di riforma, tanto nel sistema civile, quanto nell'ecclesiastico. Si dissero talvolta troppo minuti i suoi regolamenti, troppo precipitose le sue risoluzioni, soventi volte revocate o modificate, si dissero troppo gigantesche le sue idee, le quali forse tendevano, al pari di quelle di Caterina II, a cacciare i Turchi dall'Europa; ma sebbene la riconoscenza de' popoli pari forse non si mostrasse alla sollecitudine da esso impiegata nel procurare i loro vantaggi, glorioso nome lasciò egli per la saviezza di molte leggi e di molti interni regolamenti, per le sue grandiose istituzioni, per i suoi tentativi medesimi, sempre diretti alla pubblica utilità ed allo stabilimento dell'ordine, e grandissima lode ottenne per le sue virtù domestiche, per la sua affabilità mantenuta costantemente anche col più minuto popolo, per il disprezzo da esso mostrato verso il lusso e la vana ostentazione, per il suo allontanamento dai pubblici omaggi, per la sua vita frugale e laboriosa, per un infaticabile ardore di veder tutto egli stesso e di informarsi di tutto, per la sua beneficenza verso i più miseri e per l'attenzione sua continua nello indagare e nel ricompensare il merito anche nascosto. Gli stranieri, forse più giusti dei di lui sudditi medesimi, pubblicarono a gara i tratti segreti, o gli aneddoti più gloriosi della sua vita, i quali provano l'elevatezza della di lui mente e la professione continua delle massime filantropiche più virtuose. Un problema politico assai curioso e singolare potrebbe proporsi: quale andamento, cioè, pigliato avrebbe la rivoluzione franzese, e quali ne sarebbero stati i risultamenti pegli altri Stati, e specialmente per l'Italia, se Giuseppe II non fosse stato da immatura morte colpito.» Intanto, agli accidenti di Francia, cadevano nelle menti degli uomini degli altri paesi di Europa varii pensieri. Da principio, quando solo si trattava della opposizione nata fra il re ed i parlamenti, era sorta un'aspettazione tuttavia scevra da timore. Ma quando vi si aggiunsero le insolenze popolari, le rapine e le uccisioni continue, quando si distrussero, e più ancora quando si schernirono i diritti sopra i quali erano fondati gli ordini delle monarchie d'Europa, quando s'insultò il re, quando mani scellerate cercarono la regina per ucciderla, cominciò alla maraviglia a mescolarsi il timore. Finalmente quando alle incredibili enormità si aggiunsero quelle compagnie raunate in Parigi ed affratellate in tutta la Francia, le quali apertamente dichiaravano volere, con portar la libertà, come dicevano, fra gli altri popoli, distruggere i tiranni (che con tal nome chiamavano tutti i re), il timore diventò spavento. Veramente uomini a posta scorrevano la Germania, massime i Paesi Bassi, e pretendendo magnifiche parole a rei disegni, insidiavano ai governi, ed incitavano i popoli a cose nuove: si temeva che, per le sfrenate dottrine tutte le provincie s'empissero di ribellione. Si aveva anche in Italia avuto odore di tali mandatarii; i sospetti crescevano ogni giorno. Dava ancora maggior fondamento di temere il sapersi che si trovavano in tutti i paesi non solo uomini perversi, i quali pei malvagi fini loro desideravano far novità nello Stato, ma ancora uomini eccellenti, che levati a grandi speranze dalle riforme già fatte in que' tempi dai principi, e credendo potersi dare una maggior perfezione al vivere civile, non erano alieni dal prestar orecchie alle lusinghevoli parole. Il pericolo si mostrava maggiore in Germania ed in Italia per la vicinanza de' territorii, per la facilità e la frequenza del commercio con la Francia, e per la comunanza delle opinioni. Tal era la condizione de' tempi. In Italia, il re di Sardegna, trovandosi il primo esposto, per la prossimità de' luoghi, a tanta tempesta, aveva più che ogni altro principe cagione di pensare a provvedere al suo Stato. Del che tanto maggiore necessità il premeva, che non gli era nascosto che nella parte de' suoi dominii posta oltre l'Alpi le nuove opinioni si erano largamente sparse, e ch'ella poco attamente si poteva difendere dagli assalti franzesi, quando si venisse a rottura di guerra con la Francia. Sapeva di più che i suoi Stati erano principalmente presi di mira da quella compagnia di propagatori di scandali che s'era unita in Parigi, secondochè sfacciatamente uno di loro, favellando in pubblico, aveva predicato. Per la qual cosa, veduto il pericolo imminente, coloro i quali reggevano i consigli della corte di Torino, ristrettisi con gli ambasciatori e ministri degli altri principi d'Italia, rappresentarono loro che i casi avvenuti nel desolato reame di Francia davano giusta cagione di timore per la quiete d'Italia; che l'assemblea nazionale, acciocchè i principi europei non potessero voltare i pensieri loro agli affari di Francia, pensava, per mezzo di seminatori di scandali e di ribellione, a turbar la quiete altrui; che già i mali semi incominciavano a sorgere, stantechè, sebbene fosse stato continuo il vigilare del governo e continue le provvidenze date, non s'erano potute evitare le compagnie segrete, ed anche alcuni, quantunque leggieri, moti nel popolo; che tali ingratissimi effetti si dimostravano più o meno nelle altre parti d'Italia; che, per verità, attentamente si affaticavano in ogni luogo i principi per estirpare queste occulte radici, per chiudere i passi ai malvagi mandatarii, per iscoprir le congreghe segrete, per allontanar le turbazioni; ma non ravvisarsi quale de' due alfine avesse a restar superiore, o la vigilanza de' governi o la pertinacia de' novatori, se non si prendevano nuove e più accomodate risoluzioni; che la necessità dei tempi richiedeva che i principi d'Italia si stringessero in una lega comune a quiete e difesa comune; poichè quello che spartitamente non avrebbero potuto conseguire, lo avrebbero ottenuto per l'efficacia e pei soccorsi comuni. Aggiunsero, che, per verità, questo disegno era già loro venuto in mente da un pezzo, di tanta opportunità egli era; ma che gli aveva ritratti dal proporlo il sapere, che Giuseppe, imperador d'Alemagna, pareva volersi condurre ad assaltar con l'armi nel proprio loro covile que' nemici della umanità e della religione; che ora, cambiate le circostanze per la morte di Giuseppe, e volti i pensieri di Leopoldo, suo successore, piuttosto a preservare e conservare il proprio che ad assalire l'alieno, avvisavano esser tempo opportuno di ordinare e di stringere i vincoli di una comune difesa; che già il fuoco era vicino a consumare la Savoia; che il Piemonte era in procinto di ardere; e chi avrebbe potuto prevedere le calamità d'Italia, se non si spegnevano queste prime faville? che però, visti i pericoli sì gravi e sì imminenti, il re giudicava doversi, più presto il meglio, stringere una lega fra tutti i potentati d'Italia, non già diretta a danno altrui, ma solo a preservazione propria, a tenersi guardati l'un l'altro dalle insidie dei mandatarii franzesi, a mantener la quiete negli Stati, a parteciparsi vicendevolmente le notizie sulle faccende presenti, e ad aiutarsi con l'armi e coi denari, ove nascesse in questo luogo od in quello qualche turbazione. Nè pretermisero i ministri sardi di spiegar meglio quali dovessero essere i membri della lega, nominando particolarmente il re loro signore, l'imperadore d'Alemagna, la repubblica di Venezia, il papa, il re di Napoli ed il re di Spagna, per la parte di Parma. Il re di Sardegna s'era chiarito per alcune pratiche segrete della mente de' re di Napoli e di Spagna che acconsentivano ad entrare nella lega; il papa vi si accostava ancor esso, come quello che ardeva di sdegno a cagione delle innovazioni effettuate in Francia circa gli interessi spirituali e temporali della religione. Solo la repubblica di Venezia se ne stava sospesa, considerando quanto questa lega, ancorchè apparisse pacifica e veramente difensiva, avrebbe fatto ingrossar l'armi in Italia, e chiamato forti eserciti di Alemagna, se le cose venute all'estremo avessero necessitato l'esecuzione: cosa sempre, e non senza cagione, detestata da quella repubblica. S'aggiungeva, che non avendo essa pur testè voluto collegarsi con Giuseppe contro il Turco, naturale ed eterno nemico dello Stato suo, del qual rifiuto ne aveva anche avuto le male parole da quell'imperatore in Trieste, pareva enorme al senato lo stringersi ora in alleanza con Leopoldo suo successore in un'impresa evidentemente dirizzata, quantunque sotto parole velate, contro la Francia, amica vera e necessaria della repubblica. Nè grande era il timore del senato delle nuove massime franzesi; poichè la natura italiana molto eminente negli Stati veneti efficacemente si opponeva alla loro propagazione; poi le consuetudini da tempi antichissimi radicate nell'animo de' popoli, e l'amore che portavano al loro governo, non consentivano; ma erano continue e forti le istanze del re di Sardegna e degli altri alleati, acciocchè il senato si risolvesse, perchè, se non avevano molta fede nell'armi venete, avevano gran bisogno del nome e de' denari della repubblica. Miravano tutte queste pratiche ad introdurre in Italia le medesime deliberazioni ch'erano state prese in Germania dall'Austria e dalla Prussia dopo la morte di Giuseppe e l'assunzione di Leopoldo. Erasi Leopoldo collegato con Federico Guglielmo di Prussia a sicurezza comune contro gli appetiti immoderati di Caterina di Russia e contro le vertigini della Francia. Ma questa congiunzione tendeva a difendersi, non ad offendere; i trattati di Pavia e di Pilnitz, in cui si suppose essere poi stata stipulata la guerra e lo smembramento della Francia, furono trovati e menzogne politiche per apporre a Leopoldo risoluzioni guerriere ed ostili che non lece, e per istimolare a maggior empito i Franzesi, che già con tanto empito correvano. Primo a risentire in Italia i danni della rivoluzione franzese fu il papa. Una commozione in Avignone accaduta, e cui tornarono indarno tutte le pratiche del vicelegato pontificio per sedare, non meno che quelle d'uno special commissario colà dal papa spedito, terminò colla dichiarazione della propria indipendenza che gli Avignonesi fecero, in pari tempo a grandi istanze, chiedendo d'essere incorporati alla repubbica franzese. Così cessò dopo quattro secoli e mezzo la dominazione pontificia in Avignone. Anno di CRISTO MDCCXCI. Indizione IX. PIO VI papa 17. LEOPOLDO II imperadore 2. Nel mese di marzo di quest'anno divenne Venezia albergo di molti principi, che vi si trovarono uniti tutti ad un tempo stesso, cioè l'imperatore Leopoldo II, sotto il nome di conte di Burgau, il re e la regina di Napoli, il nuovo granduca e la nuova granduchessa di Toscana, gli arciduchi Carlo e Leopoldo, palatino d'Ungheria, preceduti dall'arciduca Ferdinando e dall'arciduchessa sua moglie. Se durante la loro dimora festeggiati fossero gl'illustri personaggi, non è da domandarsi a chi già sa con che magnificenza, con che splendidezza la veneziana repubblica accogliesse nella sua capitale, ospiti graditi, i principi ed i sovrani esteri. Balli, accademie, luminarie, regate, e cent'altri passatempi, tutti sontuosi e ogni giorno svariati, si succedevano l'uno all'altro, quasi direbbesi, senza interruzione. Al che se aggiungasi lo spettacolo veramente imponente della città, regina del mare, in sè medesima, colle cospicue sue fabbriche, colla sua singolare configurazione, non dubitare si può che gli augusti ospiti non avessero dal soggiorno loro avuto sommo piacere. Partiti da Venezia essi principi, si avviarono verso la Toscana. Già a nome del nuovo granduca Ferdinando III era stato dal consiglio di reggenza preso il possesso del granducato. Leopoldo si trattenne per alcuni giorni a Firenze, ed allora fu veduta a pubblicare l'opera, che già altrove accennammo, intitolata: _Il governo della Toscana sotto il regno di Leopoldo_. Con irrefragabili documenti da tale opera risultava che nell'anno 1765, epoca dell'avvenimento al trono del granduca Leopoldo, l'entrate pubbliche del granducato montavano ad otto milioni novecento cinquantotto mila seicento ottantacinque lire di Firenze, e nell'anno 1789, ultimo del suo regno, ascesero a dieci milioni cento novantasette mila seicento cinquantaquattro lire: aumento tanto più ragguardevole e degno di maggior encomio, che Leopoldo, come abbiam veduto, avea scemato le pubbliche contribuzioni e tolto via non pochi aggravii, sì che tutto fu effetto della maggior industria, della popolazione maggiore e del più esteso commercio della Toscana. Tanto accrescimento di rendite, tranne quattro milioni che si trovarono in essere nel 1789, fu dal buon principe speso tutto a sollievo dei proprii sudditi o per ristorarli da calamità, o per proteggere le arti e promuovere l'industria ed ogni ramo di pubblica utilità. Il vescovo di Pistoia Scipione Ricci, contro il quale erano nell'anno precedente scoppiate sommosse, prima in Pistoia stessa, poi a Prato e nel rimanente della diocesi, dovette fuggire, e gli stessi capitoli delle due cattedrali si dichiararono contro di lui. Si presentò egli a Leopoldo; partito lui, presentossi al successore Ferdinando; ma le sue riforme furono abbandonate; e Ricci, non potendo rientrare nella diocesi, dove tutti gli animi erano esacerbati, rinunziò al vescovato, tale risoluzione partecipando al papa con una lettera, in cui protestava della sua devozione e sommissione, ed alla quale Pio VI si piacque rispondere in modo affettuoso. Il re e la regina di Napoli da Firenze passarono a Roma. In tre abboccamenti dal re avuti col papa, gettaronsi i primi fondamenti della concordia, che non potuta conchiudersi nel congresso a Castellone, tenuto tra il cardinale Campanelli e l'Acton, primo ministro del re, ebbe effetto nei maneggi di Napoli, in resultato dei quali fu convenuto: ogni nuovo re, salendo al trono, pagasse cinquecento mila ducati in forma di pia offerta a San Pietro; godesse egli la nomina a tutti i vescovati; nominasse il papa a tutti i benefizii subalterni, purchè l'elezione sopra sudditi regnicoli cadesse; in quanto alle sedi episcopali, il papa eleggesse fra i tre candidati che la corte proponesse; in avvenire alla corte di Roma per le cause matrimoniali si ricorresse; per questa volta il pontefice tutte le dispense, concesse dai vescovi napolitani, confermasse; con questo, la cerimonia della chinea per sempre cessasse. Anno di CRISTO MDCCXCII. Indizione X. PIO VI papa 18. FRANCESCO II imperadore 1. Quella inesorabil morte che la temuta falce ruota a cerchio ciecamente, mietendo le vite dei monarchi non meno che quelle de' più meschini mortali, tolse del mondo un gran principe; Leopoldo imperadore morì il dì 10 di marzo del presente anno in età di soli quarantaquattro anni. L'immatura perdita, che in Europa diede luogo alle più strane conghietture, fu dai più saggi attribuita ad una dissenteria che da lungo tempo lo travagliava, all'uso troppo frequente di aromati irritanti, ed all'indebolimento che le continue e gravissime occupazioni portato avevano al di lui temperamento. Giunto al trono imperiale dalla Toscana, questo principe vi aveva portato i medesimi principii, le medesime viste, il medesimo zelo per l'avantaggio dei sudditi, e dato aveva al suo regno uno splendore che tanto più singolare riusciva quanto più difficili erano i tempi, angosciose le circostanze. Collegato erasi egli destramente coll'Inghilterra, affine di frenare l'ardore delle conquiste di Caterina II ed accelerare la pace tra quella sovrana e la Porta; ricuperata aveva in parte la autorità sua sovra i Paesi Bassi, contratta un'alleanza colla Prussia, e assicurati tutti i rami dell'amministrazione della vastissima monarchia, e tutto questo in due soli anni. Tra le sue doti più singolari fu commendata la sua affabilità; nel di lui palazzo ammesso era il povero ugualmente che il ricco; nella Toscana, destinati aveva tre giorni della settimana, solo per ascoltare le domande degl'infelici, e passato alle sede dell'impero, ancora lasciava libero l'accesso a chiunque alla di lui persona, e pochi giorni perfino avanti la sua morte dato aveva pubblica udienza. Il dolore, che provato aveva la Toscana alla sua partenza, divenne, alla epoca della morte di lui, comune a tutta la monarchia, e pochi principi lasciarono al pari di lui vivo il desiderio ne' sudditi e gloriosa dovunque la rimembranza. Morto Leopoldo, ed assunto al trono il suo figliuolo Francesco, principe giovane ed ancora nuovo nelle faccende, i negozii pubblici si piegarono a diverso fine. Caterina di Russia, la quale, visto il procedere temperato di Leopoldo e di Federigo Guglielmo, si era costituita pubblicamente, volendo pur muovere qualche cosa in Europa, la protettrice dell'antico governo di Francia, dimostrava con molte protestazioni volerlo ristaurare. Molte cose diceva continuamente Caterina ed insinuava destramente nell'animo dei principi, massime di Francesco II e di Federigo Guglielmo. Nè mancarono a sè medesimi in tale auguroso frangente i fuorusciti franzesi, e più i più famosi ed i più eloquenti, i quali erano indefessi nell'andar di corte in corte, di ministro in ministro, per raccomandar la causa del re, la causa stessa, come affermavano, dell'umanità e della religione. A queste instigazioni l'imperatore Francesco, che giovane d'età avea già assaggiato la guerra all'assedio di Belgrado, deposti i pensieri pacifici di Leopoldo, e non dando ascolto ai ministri, nei quali aveva suo padre avuto più fede, accostossi ai consigli di quelli che, consentendo colla Russia, lo esortavano ad assumere l'impresa ed a cominciar la guerra. Dal canto suo, Federigo Guglielmo, principe di poca mente, ma d'indole generosa, impietositosi alle disgrazie della casa reale di Francia, e ricordandosi della gloria acquistata da Federigo II, si lasciò persuadere, e postosi in arbitrio della fortuna, corse anche egli all'armi contro la Francia. Noi non descriveremo nè la lega che seguì tra la Russia, l'Austria e la Prussia, nè il congresso di Magonza, nè la guerra felicemente cominciata e più felicemente terminata nelle pianure della Sciampagna: quest'incidenza troppo ci allontanerebbe dall'Italia. Incredibile era l'aspettazione degli uomini in questa provincia, e ciascuno formava in sè varii pensieri secondo la varietà dei desiderii e delle opinioni. Il re di Sardegna, spinto sempre dalla brama di far chiaro il suo nome per le imprese d'armi, stimolato continuamente dai fuorusciti franzesi, che in grandissimo numero s'erano ricoverati ne' suoi Stati, e lasciandosi tirare alle loro speranze, aveva meglio bisogno di freno che di sprone. Intanto non cessava di avviar soldati, armi e munizioni verso la Savoia e nella contea di Nizza, parti del suo reame solite a sentir le prime percosse dell'armi franzesi, e donde, se la guerra dal canto suo fosse amministrata con prospero successo, poteva penetrar facilmente nelle viscere delle province più popolose e più opime della Francia. Nè contento alle dimostrazioni, ardeva di desiderio di venirne prestamente alle mani, persuadendosi che le soldatesche franzesi, come nuove e indisciplinate, non avrebbero osato, non che altro, mostrar il viso a' suoi prediletti soldati. Ma o che l'Austria e la Prussia abbiano creduto di terminar da sè la bisogna, marciando sollecitamente contro Parigi, o che credessero pericoloso pel re di Sardegna lo scoprirsi troppo presto, lo avevano persuaso a temporeggiare fino a tanto che si fosse veduto a che termine inclinasse la guerra sulle sponde della Marna e della Senna. La subitezza di Vittorio Amedeo e la lega dei re contro la Francia diedero non poco a pensare al senato veneziano, e lo confermarono vieppiù nella risoluzione presa di non pendere da nissun lato, quantunque la corte di Napoli gli facesse frequenti e vivissime istanze, affinchè aderisse alla lega italica. Ma prevedendo le ostilità vicine anche dalla parte d'Italia, il che gli dava sospetto che navi armate di potenze belligeranti potessero entrare nel golfo e turbar i mari, e forse ancora che altri potentati d'Italia, non forti sull'armi navali, gli domandassero aiuti per preservar i lidi dagl'insulti nemici, ordinò che le sue armate, che, ritornate dalla spedizione contro Tunisi, stanziavano nelle acque di Malta e nelle isole del mar Ionico, se ne venissero nell'Adriatico. E veramente essendo stato richiesto poco dopo dai ministri cesareo e di Toscana che mandasse navi per proteggere Livorno ed il litorale pontificio, rispose di aver deliberato di osservar la neutralità molto scrupolosamente: la qual deliberazione convenirsegli e per massima di Stato e per interesse dei popoli. Il re di Napoli, stimolato continuamente dalla regina e dal debito del sangue verso i reali di Francia, andava affortificandosi coll'armi navali e terrestri; ma non si confidava di scoprirsi apertamente, perchè sapeva che una forte armata franzese era pronta a salpare dal porto di Tolone; nè era bastante da sè a difendersi dagli assalti di lei, nè appariva alcun vicino soccorso d'Inghilterra, non essendosi ancora il re Giorgio chiarito del tutto, se dovesse continuar nella neutralità o congiunger le sue armi con quelle dei confederati. Perciò se ne giva temporeggiando con gli accidenti. Solo si apparecchiava a poter prorompere con frutto in aperta guerra quando fosse venuto il tempo, e teneva più che poteva le sue pratiche segrete. Il granduca di Toscana, principe savio, stava in non poca apprensione pei traffici di Livorno; però schivava con molta gelosia di dar occasione di tirare a sè la tempesta, che già desolava i paesi lontani e minacciava i vicini. Il papa non poteva soffrire indifferentemente le novità di Francia in materia religiosa. Ma l'assemblea costituente, astutamente procedendo, ed andando a versi alla natura di lui alta e generosa, protestava volersene star sempre unita col sommo pontefice, come capo della Chiesa cattolica, in quanto spetta alle materie spirituali. Chiamavanlo padre comune, lo salutavano vicario di Dio in terra. Queste scaltre lusinghe venute da un'assemblea di cui parlava e per cui temeva tutto il mondo, avevano molta efficacia sulla mente del pontefice, e già si lasciava mitigare. Ma succedette all'assemblea costituente, la quale, benchè proceduta più oltre che non si conveniva, aveva nondimeno mostrato qualche temperanza, l'assemblea legislativa ed il consesso nazionale, che, disordinatamente usando la potestà loro, diedero senza freno in ogni sorta di enormità. Pio VI, risentitosi di nuovo gravissimamente, fulminò interdetti contro gli autori delle innovazioni, e condannò sdegnosamente le dottrine dei novatori circa le materie religiose. Allora fu tentato dallo imperadore d'Alemagna e dai principi d'Italia che seguitavano le sue parti. Nè fu vana l'opera loro; perchè il pontefice, parendogli che alla verità impugnata della religione, alla necessità contraddetta delle discipline, ed alla dignità offesa della Sedia apostolica fosse congiunta la sicurezza dei principi e la protezione degli afflitti, ministerio vero e prediletto del successore di Cristo, prestò orecchio alle nuove insinuazioni, ed entrò volentieri nella lega offensiva contro la Francia. La repubblica di Genova fu poco tentata dagli alleati o per disegni che si facevano sopra di lei, o perchè la credevano troppo dipendente o troppo vicina della Francia. Dimostrossi neutrale con un gran benefizio dei sudditi, che, tutti intenti al commercio di mare con la Francia, navigavano sicuramente nelle acque della riviera di ponente. Così erano in Italia nel corso del presente anno timori universali; armi potenti ed aperte con un'accesa voglia di combattere in Piemonte; preparamenti occulti in Napoli; desiderio di neutralità in Toscana; armi poche ed animo guerriero in Roma; neutralità dichiarata nelle due repubbliche. Queste erano le disposizioni dei governi; ma varii si dimostravano gli umori dei popoli. In Piemonte per la vicinanza le nuove dottrine si erano introdotte, e quantunque non pochi per le enormezze di Francia si fossero ritirati, alcuni ancora vi perseveravano. In Milano le novità avevano posto radice, ma molto rimessamente, siccome in terreno molle e dilettoso. In Venezia, per l'indole molto ingentilita dei popoli, gli atroci fatti avevano destato uno sdegno grandissimo, e poco si temevano gli effetti dell'esempio, massime con quel tribunale degl'inquisitori di Stato, quantunque fosse divenuto più terribile di nome che di fatto. Gli Schiavoni ancora servivano di scudo, siccome gente aliena dalle nuove opinioni, e fedelissima alla repubblica. In Napoli covava gran fuoco sotto poca cenere, perchè le opinioni nuove vi si erano molto distese e il cielo vi fa gli uomini eccessivi. In Roma, fra preti che intendevano alle faccende ecclesiastiche, ed un numero esorbitante di servitori che a tutt'altro pensavano che a quello che gli altri temevano, si poteva vivere a sicurtà. In Toscana, provincia dove sono i cervelli sottili e gli animi ingentiliti, poco si stimavano i nuovi aforismi, e la felicità del vivere vi faceva odiar le mutazioni. In Genova poi erano molti e fortemente risentiti gli umori; ma siccome vi si lasciavano sfogare poco erano da temersi, ed i rivolgimenti non fanno per chi vive sul commercio. La Francia intanto venuta in preda ad uomini senza freno e senza consiglio, vedendo la piena che le veniva addosso, volle accoppiare all'armi le lusinghevoli promesse e le disordinate opinioni. Però i suoi agenti sì pubblici che segreti riempivano l'Italia della fedeltà del governo loro e delle beatitudini della libertà. Affermavano non voler la Francia ingerirsi nei governi altrui; voler esser fedele coi fedeli, rispettare chi rispettava. Queste erano le parole, ma i fatti avevano altro suono; imperciocchè e cercavano di stillare le nuove massime nell'animo dei sudditi con rigiri segreti, mostravano loro il modo di unirsi, loro promettevano aiuti di consiglio, di denaro e di potenza, e, tentando ogni modo ed ogni via, si sforzavano di scemar la forza dei governi, con torre loro il fondamento della fedeltà dei sudditi. Chi raccontasse ciò che allegavano le due contrarie parti, quantunque dicesse cose enormi, ma non tali che di più enormi ancora non se ne facessero, farebbe vedere quanto sieno intemperanti gli uomini quando sono mossi da passioni politiche; imperciocchè l'una parte errava per aver portato troppo oltre le riforme, l'altra per averle fatte degenerare in eccessi enormi pel contrasto da loro fatto anche alle più utili e giuste; gli uni per aver posto le mani nel sangue, gli altri per volervele porre. In mezzo a tutto, le parole dei novatori avevano più forza sull'animo dei popoli che quelle dei loro avversarii, perchè i popoli sono sempre cupidi di novità; poi coloro che si cuoprono col velame del ben comune, hanno più efficacia di quelli che pretendono i privilegii. Laonde l'Europa era piena di spaventi, e si temevano funesti incendii per ogni parte. Intanto, essendo accesa la guerra fra l'Austria e la Francia, l'una e l'altra di queste potenze applicavano l'animo alle cose d'Italia; la prima per conservare quello che vi possedeva, la seconda per acquistarsi quello che non possedeva, od almeno per potervi sicuramente avere il passo, col fine di andar a ferire sul fianco il suo nemico. Dall'altro lato, il governo di Francia aveva spedito agenti segreti e palesi per domandare, parte con minaccie, parte con preghiere, ai governi d'Italia o lega o passo o neutralità. Fra gli altri Ugo di Semonville fu destinato ad andare a specular lo cose in Piemonte ed a tentar l'animo del re, affinchè negli accidenti gravi che si preparavano si dimostrasse favorevole alla Francia. Aveva carico di proporre a Vittorio Amedeo di collegarsi con la Francia e di dare il passo agli eserciti franzesi perchè andassero ad assaltare la Lombardia Austriaca; con ciò la Francia gli guarentirebbe i suoi Stati, raffrenerebbe gli spiriti turbolenti in Piemonte ed in Savoia, cederebbe in potestà di lui quanto si sarebbe conquistato con l'armi comuni in Italia contro l'imperadore. Il re si era risoluto a non udire le proposte, sì perchè temeva, nè senza ragione, d'insidie, sì perchè la sua congiunzione con l'Austria già era troppo oltre trascorsa. Infatti già calavano Tedeschi dal Tirolo, e s'incamminavano a gran passo verso il Piemonte. Il perchè, giunto essendo Semonville ad Alessandria, fu spedito ordine al conte Solaro governatore che nol lasciasse procedere più oltre, anzi gl'intimasse di tornarsene fuori degli Stati del re, usando però col ministro franzese tutti quei termini di complimento che meglio sapesse immaginare. Solaro, uomo assai cortese ed atto a tutte le cose onorate, eseguì prudentemente gli ordini avuti. Tornossene Semonville a Genova. Il fatto fu gravissimamente sentito a Parigi. Il giorno 15 settembre di questo anno, Dumourier, ministro degli affari esteri, favellando molto risentitamente al consesso nazionale del governo di Piemonte, e lamentandosi con apposito discorso dell'affronto fatto alla Francia nella persona del suo ambasciatore in Alessandria, concluse doversi dichiarar la guerra al re di Sardegna. Quivi levossi un rumore grandissimo; chè le parole di despota, di tiranno, di nemico del genere umano andarono al colmo. In somma fu chiarita solennemente la guerra tra la Francia e la Sardegna. Di già il giorno 10 dello stesso mese il consiglio esecutivo provvisorio aveva spedito ordine al generale Montesquiou, cupo dell'esercito, che raccolto nell'alto Delfinato minacciava la Savoia, di assaltar questa provincia, e cacciate l'armi piemontesi oltremonti, di usare quelle maggiori occasioni che gli si offrirebbero. Questo fu il primo principio di tutti quei mali che patì Italia per tanti anni, e che empierono tutto il corpo suo di ferite che non si potranno così facilmente sanare. Il re di Sardegna, come prima fu incominciata la guerra tra la Francia e le potenze confederate di Germania, aveva con grandi speranze fatto notabili apparecchi in Savoia e nella contea di Nizza. Ma le vittorie dei Franzesi nella Sciampagna cambiarono le condizioni della guerra, ed il re, invece di conquistare i paesi d'altri, dovette pensare a difendere i proprii. Erano le sue condizioni assai peggiori di quelle dei Franzesi; poichè nei due paesi contigui in cui si doveva far la guerra, la Savoia parteggiava pei Franzesi, il Delfinato non solo non parteggiava pei Piemontesi, ma loro era anche nimicissimo; che anzi questa provincia si era mostrata molto propensa alle mutazioni che si erano fatte e si facevano; sicchè i Franzesi avevano favore andando avanti, sicurezza andando indietro; il contrario accadeva ai Piemontesi. Non ostante tutto questo, i capi che governavano le cose del re di Savoia, se ne vivevano con molta sicurezza. Soli coi fuorusciti franzesi che loro stavano continuamente intorno, non vedevano ciò che era chiaro a tutto il mondo: improvvidi, che non conobbero che male con le ire e con la imprudenza si reggono i casi umani. Il cavaliere di Colegno, comandante di Ciamberì, oltre la sua credulità verso i fuorusciti e verso un generale di Francia che, per ispiare, il veniva a trovare in abito e sotto nome di prete irlandese, con duro governo asperava i popoli, soffio imprudente sur un fuoco che già si accendeva. Assai miglior animo aveva il conte Perrone, governator generale della Savoia, ma in mezzo a tanti sfrenati non aveva quell'autorità e quel credito che in sì pericoloso accidente si richiedevano; ed anch'egli dava fede alle novelle del prete irlandese. Il cavaliere di Lazari governava l'esercito; capitano certamente poco atto a sostenere le guerre vive dei Franzesi. Adunque, tali essendo le condizioni della Savoia, nel mese di settembre si aperse la via alle future calamità. I capi dell'esercito, vivendo sempre nella solita sicurezza, nè potendo credere sì vicino un assalto, invece di allogar le truppe in pochi luoghi, ma forti, ed ai passi, le avevano sparse qua e là senza alcun utile disegno, talmente che ed erano inabili al resistere al nemico ovunque si appresentasse, ed incapaci a rannodarsi subitamente dove gli assaltasse. Il prete irlandese stava loro a' fianchi, e raccontava loro le più gran novelle dei mondo, ed ei se le credevano. I fuorusciti franzesi, che pure incominciavano a temere, dimandarono se vi fosse pericolo; risposero del no; e mordevano il conte Bottone di Castellamonte, il quale, essendo intendente generale della Savoia, da quell'uomo fine e perspicace ch'egli era, avendo bene penetrate le cose, aveva domandato soldati al governatore per iscorta al tesoro che voleva far partire alla volta del Piemonte. Certo impossibil cosa era il difendere la Savoia, massime dopo le disgrazie de' confederati; non istanziavano in questa provincia più di nove in dieci mila soldati; ma siccome erano buoni, così, se fossero stati retti da capitani pratici, e posti ai passi opportuni, avrebbero almeno fatto una difesa onorata e ritardato l'impeto del nemico. Ma agli sparsi mancò l'ordine; il riunirli fu impossibile in accidente tanto improvviso. Intanto il generale Montesquiou, avuto comandamento d'incominciar la guerra, dal campo di Cessieux, dove alloggiava con l'esercito raccolto, in cui si noveravano circa quindici mila combattenti, gente se non molto disciplinata, certo molto ardente, andò a porsi agli Abresti, donde spedì ordine al generale Anselmo, che, passato il Varo, assaltasse nel tempo medesimo la contea di Nizza, presidiata da genti poco numerose, che obbedivano al conte Pinto. Queste mosse doveva anche aiutare dalla parte del mare il contrammiraglio Truguet, il quale, partito da Tolone con un'armata di undici legni de' più grossi ed alcuni più sottili, e due mila soldati di sopraccollo, se ne giva correndo le acque di Villafranca sino al golfo di Juan, pronto a sbarcar le genti ovunque l'opportunità si fosse scoperta. Montesquiou, lasciati prestamente gli Abresti, se ne venne con tutto l'esercito a posarsi al forte di Barraux vicino a due miglia dalle frontiere della Savoia, donde disegnava di dar principio alla guerra. Era suo pensiero di assaltare col grosso dell'esercito Chapareillan, o Sanparelliano, che si voglia dire, ed il castello delle Marcie, per poscia camminar velocemente alla volta di Ciamberì. Nel medesimo tempo, per tagliar il ritorno al nemico, spediva due grosse bande, delle quali una, radendo la riva sinistra del fiume Isero, doveva chiudere il passo di Monmeliano, e l'altra dal Borgo d'Oisans, valicando gli aspri monti che dividono la valle della Romanza da quella dell'Arco, serrare al tutto la strada della Morienna; nel qual caso tutto l'esercito piemontese sarebbe stato o preso ai passi, o poca parte se ne sarebbe potuta salvare per le strade aspre e difficili della Tarantasia. Se non che, una piena improvvisa dell'Isero, che, rotti i ponti, non permise il passo, e la quantità delle nevi cadute molto per tempo sugli altissimi monti del Galibiero, resero senza effetto queste due ultime fazioni. I Piemontesi, svegliati finalmente dal suono dell'armi franzesi, tentarono di fortificarsi con artiglierie presso Sanparelliono agli abissi di Mians, donde tempestare pensavano di traverso con palle sul passo per mezzo d'artiglierie poste sul castello delle Marcie. Ma a questo non ebbero tempo; le artiglierie non erano ancora ai luoghi loro, quando la notte del 21 settembre, tirando venti orribili, e cadendo una grossissima pioggia, il generale Laroque, a ciò destinato dal generale Rossi, partito con grandissimo silenzio dal campo di Barraux, se ne marciò contro Sanparelliano con una forte schiera. E come disegnava, così gli riuscì di fare; s'impadronì in mezzo a quella oscurità improvvisamente della terra, e, se non fosse stato il tempo sinistro, avrebbe anco presa quella mano di Piemontesi che la difendevano. Ma, avuto a tempo sentore dell'approssimarsi del nemico, si ritirarono a salvamento. Perduto Sanparelliano con gli abissi di Mians, i capi Piemontesi, privi di consiglio, abbandonarono frettolosamente i castelli delle Marcie, di Bellosguardo, di Aspromonte e la Madonna di Mians. Così le fauci dalla Savoia vennero da quel lato in poter de' Franzesi. Ma Montesquiou, usando celeremente la vittoria, e prevalendosi della rotta del nemico, si spinse avanti dal castello delle Marcie con due brigate di fanteria, una di dragoni e venti bocche da fuoco, alle quali fece tener dietro come retroguardo da due altre brigate di fanteria, una di cavalleria, parimente con molti cannoni. Così tagliò e divise in due l'esercito piemontese; una parte fu costretta a ritirarsi verso Anecì, l'altra verso Monmeliano: gli rimase la strada per Ciamberì, capitale della provincia. Ma già il terrore ne aveva cacciato i regi; e sì grande fu la subitezza dello spavento loro, che i Franzesi, temendo d'insidie, non s'ardirono di entrar incontanente nella città che se ne stette posta in propria balìa alcuni giorni. In sì pericoloso passo non vi fu tumulto, non insulto, non saccheggio di sorte alcuna, tanta è la bontà e la civiltà di quel popolo: vi arrivarono i Franzesi; furonvi accolti con tutte quelle dimostrazioni di allegrezza che portavano le opinioni. Montesquiou andava molto cauto nello spignersi avanti, perchè non avendo ancora avuto notizia dell'assalto che doveva dare Anselmo a Nizza, e vedendo la celerità incredibile delle genti sarde nel ritirarsi, dubitava ch'elleno marciassero velocemente a quella banda per opprimere l'esercito che militava sotto quel generale. Si spargeva ancor voce che i Piemontesi, forti di sito e provveduti di munizioni da guerra e da bocca, si erano fermati alle montagne delle Boge o Bauge, che separano Ciamberì dall'Isero, per ivi fare una testa grossa, e passarvi l'inverno. Però deliberossi di sostare alquanto per ispiar meglio le cose e per aspettare che portassero i tempi dal canto delle Alpi marittime. La rotta de' soldati reali fece cadere in mano de' Franzesi dieci cannoni, quantità grande di polvere, di palle, di casse e d'altri arnesi da guerra, con magazzini pienissimi di foraggi e di vettovaglia. Dalla parte di Nizza non dimostrarono i capi piemontesi miglior consiglio nè miglior animo che in Savoia. Conciossiachè non così tosto ebbero avviso che Anselmo aveva passato il Varo, fiume che divide i due Stati, la notte del 23 settembre, dandosi precipitosamente alla fuga, abbandonarono la città di Nizza, e già davano mano a votare con grandissima celerità quanto si trovava nel porto di Villafranca. I Franzesi, usando prestamente il favore della fortuna, corsero a Villafranca; e minacciato di dare la scalata, il comandante si diede a discrezione con ducento granatieri, ottimi soldati, ed alcune bande di milizie, lasciando in preda al nemico cento pezzi d'artiglieria grossa, una fregata, una corvetta e tutti i magazzini reali. Così la parte bassa della contea di Nizza venne in poter dei Franzesi con incredibile celerità e facilità. Solo si teneva ancora pel re il forte di Montalbano, ma poco stante si arrese ancora esso a patti. A queste vittorie contribuì non poco l'ammiraglio Truguet con la sua armata, che, dando diversi riguardi ai Piemontesi, gli teneva in sospetto d'assalti da ogni banda, e loro fece precipitar il consiglio di ritirarsi dal littorale. Anselmo, avuta Nizza, Villafranca e Montalbano, si spinse avanti per la valle di Roia, e non fece fine al perseguitare se non quando arrivò a fronte di Saorgio, fortissimo castello che chiude il passo da quelle parti, ed è come un antemurale del colle di Tenda. Ma, alcuni giorni dopo, le genti piemontesi, avuto un rinforzo d'un grosso corpo di Austriaci, ed assaltato con molto impeto il posto di Sospello, se ne impadronirono. Nè molto tempo vi dimorarono, perchè, ritornato Anselmo col grosso di tutto l'esercito, se lo riprese, e di nuovo Saorgio divenne l'estremo confine dei combattenti. Queste spedizioni dei Franzesi nella provincia di Nizza costarono poco sangue; perchè la ritirata dell'esercito sardo fu tanto presta, che non successero che poche e leggieri avvisaglie; nè i conquistatori si scostarono dai termini della umanità e della moderazione. Assai diverso da questo fu il destino dell'infelice Oneglia; poichè, accostatasi l'armata del Truguet a quel lido, e mandato avanti un palischermo per negoziare, gli furon tirate le schioppettate, per le quali furono uccisi o feriti parecchi, caso veramente deplorabile, e non mai abbastanza da biasimarsi. Però l'armata franzese, accostatasi vieppiù, e schieratasi più opportunamente che potè; cominciò a trarre furiosamente contro la città. Quando poi, per il fracasso, per la rovina, per le ferite e per le morti, l'ammiraglio credè che lo spavento avesse fatto fuggire i difensori, sbarcò le genti che aveva a bordo, le quali, unite ai marinai, s'impadronirono della città, e la posero miserabilmente a sangue, a sacco ed a fuoco. Questa fu mera vendetta dei violati messaggieri di pace: Oneglia, luogo di poco profitto, fu dai Franzesi abbandonata, e l'armata loro, toccata Savona, e posatasi alquanto nel porto di Genova, se ne tornò poco tempo dopo a Tolone. Essendosi oramai tanto avanzata la stagione che non si potea guerreggiare se non con molto disagio, si posarono dalle due parti l'armi tutto l'inverno, attendendo a far apparecchi più che potevano gagliardi per tornar sulla guerra con frutto tosto che il tempo s'intiepidisse. In mezzo a questo silenzio dell'armi nulla decorse che sia degno di memoria, se non la differenza del procedere dei Savoiardi e de' Nizzardi verso i Franzesi, avendo i primi mostrato molta inclinazione per loro e desiderio di accomodarsi alle foggie del nuovo governo: al contrario, i secondi fecero pruova di molta avversione e di volersene rimanere nei termini del governo antico. Pervenuta a notizia di Montesquiou la conquista di Nizza, si mise in sul voler cacciar del tutto le genti sarde dalla Savoia. A questo fine ordinò a Rossi che, cacciandosi avanti le truppe del re, le spingesse fino al Cenisio per la Morienna, ed a Casabianca fino al piccolo San Bernardo per la Tarantasia: il che eseguirono con grandissima celerità, e quasi senza contrasto da parte del nemico. Anzi è da credere che se Montesquiou, invece di soprastarsi, come fece, per aspettar le nuove di Nizza, fosse dopo la conquista di Ciamberì camminato con la medesima celerità, si sarebbe facilmente impadronito di queste due sommità delle Alpi con grande suo vantaggio, e con maggiore speranza di andar a ferire, alla stagione prossima, il cuore stesso del Piemonte, tanta era la confusione delle genti regie. Aix, Annecì, Rumillì, Carouge, Bonneville, Tonon e le altre terre della Savoia settentrionale, abbandonate dai vinti, riconobbero l'imperio dei vincitori. Così questa provincia venne tutta in potestà dei Francesi. La quale possessione per quell'inverno fu loro assicurata dalle nevi strabocchevolmente cadute sui monti, le quali indussero da questa banda la medesima cessazione dall'armi, ed anche più compiuta, che era prevalsa nelle Alpi marittime. In cotal modo un paese pieno di siti forti, di passi difficili, di torrenti precipitosi, fu perduto pel re di Sardegna, senza che nella difesa del medesimo si sia mostrato consiglio o valore. Del qual doloroso caso si deve imputar in parte il re medesimo, per aversi voluto scoprire, a cagione de' suoi pensieri tanto accesi alla guerra, molto innanzi che gli aiuti austriaci arrivassero in forza sufficiente e per aver dato il più delle volte i gradi militari a coloro che più miravano a comparire, che ad informarsi dell'arte difficile della guerra. Certamente error grande fu quel di Vittorio di metter l'abito militare ad ogni giovane cadetto che si appresentasse, e di mandarli sulle prime alla guerra, come se l'arte della guerra ed il rumor dei cannoni non fossero cose da far sudare e tremare anche i soldati vecchi. I nobili poi ci ebbero più colpa del re, pel disprezzo, non saprebbesi se dire ridicolo od assurdo, in cui tenevano i Franzesi. Pure fra di loro non pochi erano che, modesti e valorosi uomini essendo, detestavano i male avvisati consigli, e sentivano sdegno grandissimo della vergogna presente. La rotta di Savoia, già sì grave in sè stessa, fu anche accompagnata da accidenti parte terribili, parte lagrimevoli. Pioggie smisurate, strade sprofondate, carri rotti, soldati alla sfilata parte armati, parte no, gente fuggiasca di ogni grado, di ogni sesso e di ogni età, terribili apparenze e di cielo e di uomini e di terra. Ma fra tutti movevano compassione grandissima i fuorusciti franzesi, i quali, confidandosi nelle parole dei capitani regi, eransi soprastati a Ciamberì fino agli estremi, ed ora cacciati dalla veloce furia che loro veniva dietro, non potevano nè stare senza pericolo; nè fuggire con frutto, imperciocchè a chi mancava il danaro per povertà, a chi la forza per infermità, a chi le bestie ed i carri per trasferirsi, perchè non se ne trovavano per prestatura nè amichevole nè mercenaria, ed in tanto scompiglio era venuto meno il consiglio di prevedere e di provvedere. Spettacolo miserando era quello che si vedeva per le strade che portano a Ginevra ed a Torino, tutte ingombre di gente caduta da alti gradi in un abisso di miseria. Erano misti i padri coi figliuoli, le madri con le figliuole, i vecchi con i giovani, e fanciulle tenerissime ridotte fra i sassi e il fango a seguitar i parenti loro caduti in sì bassa fortuna. Vi erano vecchi infermi, donne gravide, madri lattanti e portanti al petto le creature loro certamente non nate a tal destino. Nè si desiderò la virtù o la carità umana in sì estremo caso perchè furono viste spose, figliuoli, fratelli, servidori non proscritti voler seguitare nelle terre strane, anche a malgrado dei parenti e padroni loro, gli sposi, i padri, i fratelli ed i padroni, posponendo così la dolcezza dell'aere natìo alla dolcezza del ben amare e del ben servire: secolo veramente singolare, che mostrò quanto possono fra l'umana generazione la virtù ed il vizio, l'una e l'altro estremi. Ma se era il viaggiar crudele, non era miglior lo starsi; alberghi pieni o niuni in quelle rocche, bisognava pernottar al cielo, e il cielo era sdegnato, e mandava diluvii di pioggie. A questo, soldati commisti che fuggivano sbanditi, armi sparse qua e là, un tramestio d'uomini sconsigliati, un calpestio di bestie, un rumor di carrette, un furore, un dolore, una confusione, un fremito, aggiungevano grandissimo terrore e grandissima miseria. Quanti si sono visti cresciuti ed allevati in tutte le dolcezze di Parigi, ora non trovar manco quel ristoro che a gente nata in umil luogo abbonda nel corso ordinario della vita! Quanti gravi magistrati, dopo avere ministrato la giustizia nei primi tribunali del nobilissimo reame di Francia e vissuto una vita integerrima, ora travagliosamente incamminarsi ad un esiglio, di cui non potevano prevedere nè il modo nè il fine! Quante nobili donne, che pochi mesi prima speravano di dar eredi a ricchissimi casati nei palazzi dei maggiori loro, ora vicine a partorire, fra lo squallore di tetti abbietti ed alieni, a padri venuti in povertà figli più poveri ancora! Quante fanciulle, richieste prima da principi, non sapere ora nè a qual rifiuto andassero nè a qual consenso! Quanti capitani valorosi ed invecchiati nella milizia, ora che per la fralezza dei corpi loro avevano più bisogno del riposo e dello stato, mancati il riposo e lo stato, raminghi sotto cielo straniero, cacciati correr da quei soldati medesimi, ai quali avevano e l'onore ed il valore insegnato! Erano le strade, per donde passavano, piene di gente instupidita a sì miserabile caso, ed intenerita a tanta disgrazia. E spesso trovarono sotto gli umili tugurii più ristoro e più consolazione che non s'aspettavano. Così per molti dì e molte notti su per le vie di Ginevra e di Torino la tristissima comitiva mostrò quanto possa questa cieca fortuna nel precipitare in fondo chi più se ne stava in cima. Eppure in mezzo a tanto lutto la natura franzese era tuttavia consentanea a sè medesima. Imperciocchè uscivano dagli esuli non di rado e canti e risi e piacevolezze tali, che pareva piuttosto che a festa andassero, che a più lontano esiglio. Vedevansi altresì uomini gravissimi o galoppanti sulla fangosa terra, o dentro o dietro le carrozze stanti, recarsi con le cappellature acconce, e con croci e con nastri, e con altri segni dell'andata fortuna: tanto è tenace ciò che la natura dà che la sciagura non lo toglie! Ma giunti i miseri fuorusciti in Ginevra ed in Torino, non si può spiegare quanto fosse il dire, il guardare ed il pensare degli uomini. Grandi cose aveva rapportato la fama di Francia; ma ora ai più pareva che il fatto fosse maggior del detto; chi andava considerando quel che potesse fare una nazione furibonda che usciva dai proprii confini; che il valore de' suoi soldati, e chi la contagione delle sue dottrine sostenute da tanta forza. Chi pensava alla vanità di coloro che l'avevano predicata vinta, e chi all'imprudenza di coloro che l'avevano provocata potente. Meglio sclamavano fora stato il lasciarla lacerare da sè stessa, che il riunirla con le minaccie; meglio ammansarla, che irritarla: tutti poi affermavano esser venuti tempi pericolosissimi, essere minacciata Elvezia; essere minacciata Italia; già già titubare la società umana in Europa. A Torino tutti questi discorsi si facevano, ed altri ancor più gravi. Intanto gli esuli facevano pietà, e con la pietà nasceva il terrore. Tutta la città era contristata e piena di pensieri funesti. Ma tanta era la fermezza della fede dei Piemontesi nel loro re, che pochi pensavano a novità; alcuni desideravano qualche riforma nel reggimento civile e politico dello Stato; tutti volevano la conservazione della monarchia, ed i peggiori tratti che si udivano contro il governo, più miravano ad ammenda che a satira. Il governo mosso da accidente tanto improvviso e tanto pericoloso, poichè cominciaronsi a sgombrare i primi timori, andava maturamente pensando a quello che fosse a farsi. Il cantone di Berna fu richiesto d'aiuto, ma senza frutto; l'Austria fu richiesta ancor essa, e con frutto. Laonde reggimenti tedeschi arrivarono a gran giornate dalla Lombardia in Piemonte, e s'inviavano prestamente alle frontiere, massime verso il colle di Tenda. Addomandossi denaro in presto a Venezia, che ricusò, fondandosi sulla neutralità. Si spedirono corrieri per rappresentare il caso in Inghilterra, in Prussia ed in Russia. Allegavasi essere il re solo guardiano d'Italia: se si rompesse quell'argine, non sapersi dove avesse a distendersi quell'enorme piena; starsi di buon animo il re, ma ove mancavano le forze proprie, abbisognar gli aiuti altrui. Cercavasi anche di scusare le rotte di Nizza e di Savoia, con dire che quei passi non erano difendevoli se non con grossi eserciti; le forze che s'erano inviate essere state sufficienti non solo per difendere, ma ancora per offendere, senza le disgrazie di Sciampagna; dopo queste non poter più bastare nè anco a difendere; per verità: essere stata troppo presta, ed anche disordinata, la ritirata; ma doversi attribuire alla imprudenza di chi comandava; essere i soldati buoni e fedeli, parato Vittorio a non mancare a sè medesimo nè alla lega; solo richiedere che, come egli era l'antiguardo, così non fosse lasciato senza retroguardo; e siccome egli era esposto il primo alle percosse del nemico comune, così lo potesse fronteggiare con gli aiuti comuni. Tutte queste cose rappresentate con parole appropriate avevano gran peso. Ma la Prussia, quantunque perseverasse nell'alleanza, cominciava a pensare a' casi suoi, siccome quella che, essendo lontana dalla voragine, aveva minori cagioni di temere. Bensì l'Austria, che già ardeva ne' suoi proprii Stati, per preservare il resto, procedeva con sincerità, e si risolveva a mandar soccorsi gagliardi in Piemonte. L'Inghilterra, che aveva serbato certa sembianza di neutralità sino alla morte di Luigi XVI (21 gennaio 1793), dopo questa orrenda catastrofe s'era scoperta del tutto, e licenziato da Londra Chauvelin, ministro plenipotenziario di Francia, si preparava alla guerra. Però diede buone speranze al re promettendo denari ed efficace cooperazione con le sue armate sulle coste del Mediterraneo. Intanto in Piemonte si compivano i numeri delle compagnie, si ordinava la milizia, si creavano nuovi luoghi di monti, si gettavano nuovi biglietti di credito, si coniavano monete che scapitavano più della metà del valor loro edittale, pessimo, ma non sempre evitabile rimedio dei mali. Nel punto medesimo si provvedevano le fortezze poste ai passi dell'Alpi con ogni genere di munizioni, e si affortificavano le cime del Cenisio e del piccolo San Bernardo. Con questo, usando dell'opportunità della stagione, che andò freddissima, e fatti tutti i preparamenti necessarii, si aspettava con incredibile ansietà da tutti qual fosse per essere al tempo nuovo l'esito delle battaglie, dalle quali dipendeva il destino d'Italia e del mondo. Anno di CRISTO MDCCXCIII. Indiz. XI. PIO VI papa 19. FRANCESCO II imperadore 2. La ritirata così subita delle genti regie dalla Savoia e dal contado di Nizza, e la cacciata a forza degli eserciti tedeschi dalle terre franzesi verso il Reno, diedero molto a pensare agli alleati. Tra per questo e l'andar sempre più crescendo a cagione delle vittorie e di più feroci istigamenti l'appetito delle cose nuove e la furia delle menti in Francia, eglino s'accorsero che assai più dura impresa si avevano per le mani di quanto avevano a sè medesimi persuaso. Bande tumultuarie ed indisciplinate, come le chiamavano, avevano vinto eserciti floridissimi; capitani di poco o nissun nome avevano superato per arte militare generali che erano in voce de' primi per tutte le contrade dell'Europa. Coloro ancora, i quali si erano concetto nell'animo di piantar facilmente le insegne della lega sulle mura di Parigi e di Lione, a mala pena potevano difendere i dominii proprii dagli assalti di un nemico poco prima disprezzato ed ora vittorioso ed insultante. Ciò nondimeno i confederati non vollero ristarsi, sperando che, coll'andar più cauto, poichè si era conosciuto di quanto fosse capace quella furia franzese, e coll'accrescer le proprie forze e con l'unione di aliene, si potesse mutar la fortuna e compensar le perdite passate coi guadagni avvenire. Tal è la costanza delle menti tedesche che più e meglio ancora che l'impeto le fa riuscire ad onorate imprese. L'Austria ed il Piemonte, siccome più vicini al pericolo, procedevano con animo più sincero della Prussia, la cui congiunzione con la lega già forse incominciava a vacillare. L'Austria massimamente applicava i pensieri alla preservazione de' suoi Stati in Italia, ai quali già si era avvicinata la tempesta, e che sono parte tanto principale della sua potenza. Perlochè si preparavano con molta diligenza tutte le provvisioni necessarie alla guerra, tanto negli Stati austriaci quanto nel Piemonte, e si tentava ogni rimedio per impedire la passata de' Franzesi. Perchè poi i popoli provocati da quelle lusinghevoli parole di libertà e di uguaglianza, non solamente non si congiungessero con coloro che procuravano la turbazione d'Italia, e non facessero novità, ma ancora sopportassero di buona voglia tutto quell'apparato guerriero, e non si ristessero a tanto romor d'armi, usavansi i mezzi di persuasione. Il più potente era la religione: spargevansi sinistre voci: essere i Franzesi nimici di Dio e degli uomini, conculcare la religione, profanare i templi, perseguitare i sacerdoti, schernire i santi riti, contaminare i sacri arredi, e, facendo d'ogni erba fascio, proteggere gl'increduli ed uccidere i credenti. I vescovi, i preti, i frati intendevano accesamente a queste persuasioni; se ne accendevano mirabilmente gli animi del volgo. Parte essenziale de' disegni della lega erano le deliberazioni del senato veneto. L'imperadore, conghietturando che il terrore cagionato dall'invasione di Savoia e di Nizza, e quell'insistere così vicino sulle frontiere del Piemonte d'un nemico audace, e che mostrava tanta inclinazione alle cose d'Italia, avessero mosso e disposto il senato a piegarsi alla sua volontà, aveva con efficacissime parole dimostrato che era oramai tempo di non più provvedere con consigli separati, e di pensare di comune accordo alla salute comune. Rappresentavagli, non isperasse preservare lo Stato, se quel diluvio di gente sfrenata, valicati i monti, inondasse Italia; voler fare, e per sè e per gli sforzi contemporanei del suo generoso alleato il re di Sardegna, quanto fosse in potestà sua per allontanare da quel felice paese tanta calamità; ma esser feroci i Franzesi, e gli eventi di guerra incerti; vano pensiero essere il credere che chi fa spregio dell'umanità e conculca ogni legge divina ed umana rispetti la neutralità; disprezzare i Franzesi la neutralità, ed amar meglio un nemico aperto che un amico dubbioso; avere egualmente in odio le aristocrazie che le monarchie, ed il prestar fede alle protestazioni amichevoli loro essere un volersi ingannare da per sè stesso. E dopo molte e molte convincentissime ragioni e dimostrazioni: Questo è, aggiunse l'imperadore, l'estremo de' tempi; il sorger di tutti solo poter essere la salute di tutti; il mancar di un solo, la rovina di tutti. Pensasse adunque il senato e maturamente considerasse la necessità de' tempi, l'infedeltà della Francia, la fede della Germania, la lega proposta, gli aiuti offerti, e l'avvenire, che già già incalzava e premeva, o felice o funestissimo per sempre. Il senato veneto, che per la sua prudenza sempre seppe bene conoscere i tempi, ora male misurandoli, e volendo applicare ad un male nuovo rimedii antichi, rispose che la repubblica, sempre moderata e temperante, voleva esser amica a tutti, nemica a nissuno; che tale mansueto procedere era sempre stato a grado di tutti i principi, e sperava dover essere per l'avvenire, massime nella presente controversia tanto piena di difficoltà e d'incertezza; che, quanto a' sudditi, non aveva timore alcuno di novità, stante che conosceva e la fede loro e la vigilanza de' magistrati; che ammirava bene la costanza dello imperadore e de' suoi alleati in un affare di tanto pericolo, ma che finalmente si persuadeva che Sua maestà imperiale, considerando bene, secondo la prudenza sua la natura del governo veneto, avrebbe conosciuto non dovere lui allontanarsi da quella moderazione che l'aveva preservato salvo per tanti secoli; ricever somma molestia di non poter deliberare altrimenti; esser parata la repubblica a dar il passo alle genti tedesche, a sovvenir i confederati di quanto potesse consistere con la neutralità; ma procedere più oltre, e soprattutto implicarsi in guerre con altri, non comportar la fede, la costanza e la consuetudine della repubblica. Ma, moltiplicando sempre più gli avvisi de' progressi fatti da' Franzesi nel ducato di Savoia e nel contado di Nizza, fu ben necessario il pensare a provveder quello che la stagione richiedeva; e se non si voleva impugnar l'armi per fare una guerra estrema, bisognava bene considerare quanto fosse a farsi per preservare la repubblica dagli assalti forestieri e da' tumulti cittadini. Per la qual cosa, convocato straordinariamente il senato, vi si pose in consulta quali fossero i provvedimenti da farsi per conservare salva la repubblica nell'imminente pericolo dell'invasione dei Franzesi in Italia. Francesco Pesaro, procurator di San Marco, uomo, il quale, e per sè e pel seguito della sua famiglia, era in grandissima fede appresso ai Veneziani, e di cui sarà spesso fatta menzione in questi Annali, dal suo seggio levatosi e stando, ognuno attentissimo a udirlo, parlò con gravissimo discorso in favore della neutralità armata, conchiudendo ..... «io opino che si fornisca l'erario, che si allestisca il navilio, che si levino le cerne, e che alcun polso di Schiavoni sia chiamato a tutelare le cose di terra ferma. A questo io penso che si debba dichiarare alle potenze belligeranti che il senato, costante sempre nel suo procedere pacifico, vuol conservarsi fedele ed amico a tutti, e che i moderati apparecchi d'armi mirano piuttosto e solamente a conservazione di pace che a dimostrazione di guerra.» Grande impressione fecero nella mente del senato le parole gravemente dette dal Pesaro, nelle quali concorrevano amplissimamente tutti i fondamenti che nel deliberare le imprese principalmente considerare si devono. Al contrario, parlò con singolare eloquenza il savio del consiglio Zaccaria Vallaresso per la neutralità disarmata, e la sua orazione fu udita con grande inclinazione dalla più parte dei senatori, soliti a godersi da lungo tempo le dolcezze della pace. Lo stesso Pesaro, quantunque fosse uomo di molta virtù e di svegliati pensieri, si lasciò svolgere dalla eloquenza dell'avversario e venne nella opinione della neutralità disarmata. Però ne fu presa con unanime consenso la deliberazione, solo contraddicendo, come dicesi, il savio di terra ferma Francesco Calbo. Da questa prima cagione sorse la rovina della repubblica, e se per l'oscurità e l'incertezza degli eventi umani non si potrebbe affermare che il consiglio contrario l'avrebbe condotta a salvamento, e se veramente era destinato dai cieli ch'ella perisse, certo è almeno che sarebbe perita onoratamente e con fine degno del suo principio. Le medesime deliberazioni fece la repubblica di Genova per la vicinanza di Francia, per l'integrità de' traffici e pel timore del re di Sardegna. Avevano gli alleati qualche più fondata speranza in Corsica. Erasi ridotto in questa sua antica patria il generale Paoli, richiamatovi dall'assemblea costituente: godevasi quietamente il restituito seggio, quando uomini feroci misero, sotto nome di libertà, ogni cosa a soqquadro in Corsica come l'avevano messa in Francia. Sdegnossene Paoli; sepperlo i confederati. Con lettere e con parole esortatorie lo stimolarono non permettesse che la sua patria fosse preda di uomini sfrenati; si ricordasse del nome suo, avvertisse essere i Franzesi queglino stessi nemici contro i quali aveva sì generosamente combattuto; considerasse avere allora i medesimi voluto opprimere la libertà del suo paese con introdurre uno Stato civile, ora volervi introdurre uno stato disordinato e barbaro; pensare quanto fosse pietoso il liberare da gente crudele popoli che adoravano il glorioso suo nome; desse mano di nuovo a quelle armi generose, esortasse, levassesi, combattesse; essere in pronto nuova gloria, nuova libertà, nuove benedizioni di popoli. Queste insinuazioni già da lungo tempo tentavano l'animo di Paoli, il quale veramente non poteva sopportare lo stato nuovo, ma l'importanza del fatto prima di muoversi era che l'Inghilterra si chiarisse delle sue intenzioni; e di comune consentimento fu deliberato che si aspettasse la guerra dell'Inghilterra, solo intanto si tenessero gli animi disposti. Il re di Sardegna più speciale conforto riceveva, oltre il denaro che gli veniva dalla Gran Bretagna, dall'accessione della Spagna; era evidente che quante forze la Francia avesse mandato alla volta de' monti Pirenei, di tante avrebbe scemato quelle che mandava per le Alpi; sicchè Spagna e Piemonte, quantunque lontani, concorrevano, combattendo, ad un medesimo fine. A tutte queste speranze se ne aggiungeva un'altra assai viva, e quest'era che, presentandosi grossi gli alleati sulle province meridionali della Francia, vi sarebbero nati a favor loro, e contro l'autorità del governo parigino, movimenti d'importanza. L'aspettare che sorgessero novità favorevoli alla lega nelle provincie più vicine alla Spagna ed all'Italia, non era certamente senza fondamento. La soppressione dei traffici, nata a cagion della guerra, vi aveva dato occasione a non poca mala contentezza, e l'enormità commesse a Parigi, operando nelle menti più sane, vi avevano un grandissimo odio concitato contro i commettitori di tanti scandali; ai più feroci poi pareva oggimai troppo lungo che non si desse mano a far sacco e sangue. Questi nuovi pensieri buoni e cattivi massimamente pullulavano in Marsiglia ed in Lione, città grosse, emule a Parigi, ricche per commercio in pace, ed ora povere in guerra, e se il nome del re di Sardegna era molto mal gradito nella prima, era udito con più benigne orecchie nella seconda. Tutte queste disposizioni non s'ignoravano dagli alleati massime per mezzo della corte di Torino che usava un'arte grandissima nello spiare e nello accordarsi segretamente in Savoia ed in Nizza sì coi magistrati che coi capi dell'esercito. Queste trame parte si sapevano, parte si presumevano dai giacobini. Quindi le mutazioni dei capi dell'esercito erano frequenti, e siccome era rotta ed improvvida la natura loro, così spesso punivano gl'innocenti od esultavano i rei. I supplizii poscia e le confische, producendo abbominazione nei popoli, operavano che sempre più quell'avversione che hanno naturalmente i Franzesi contro i forastieri, che vogliono metter mano e piede nelle cose e nelle case loro, si diminuisse, e con essa gli ostacoli alla disegnata invasione; poichè tal era il terror delle mannaie, che i più preponevano la servitù forastiera alla tirannide cittadina. Ordinavano l'imperatore ed il re di Sardegna in tal modo i pensieri della guerra; nuovi reggimenti tedeschi arrivavano in Piemonte; quelli che appartenevano all'armatura leggiera, come Croati, Panduri e simili, s'avviavano alle montagne. Gli squadroni più gravi e la cavalleria stanziavano nelle pianure più vicine. Erano poi siffattamente ordinati, che le truppe piemontesi, come più pratiche dei luoghi, e più snelle di natura, guernivano le Alpi; alle quali, come abbiam detto, s'accostavano le genti leggieri dell'imperatore; mentre le genti grosse austriache, stanziando nei luoghi bassi, contenevano i popoli e si tenevano pronte a marciare ovunque il nemico fosse riuscito a sboccare. Mandò l'imperatore a reggere l'esercito confederato in Piemonte il generale Devins. Era Devins uomo di buona mente, e salito pel valor suo dagl'infimi gradi della milizia fino ai supremi, aveva in ogni occasione mostrato la sua eccellenza nell'arte della guerra. Devesi qui interrompere il filo della narrazione di questi preparamenti e di questi maneggi per raccontare un fatto enorme accaduto in Roma in sull'entrare del presente anno, il dì 13 di gennaio, e che in appresso aggiunse gravezza ai fati papali. Un Basseville, segretario della legazione di Francia, o per imprudenza propria, come alcuni stimano, nel voler promuovere troppo vivamente le opinioni del tempo, di cui era infatuato, o per un sorgere spontaneo dei Romani a cagione dell'odio che portavano ai repubblicani, come altri credono, fu crudelmente ammazzato a furia di popolo, con alcuni altri individui della medesima nazione. Fu incesa anche nel medesimo fatto parte dei palazzi dell'Accademia di Francia e del console franzese. Quantunque il governo pontificio non vi avesse colpa, e che anzi avesse fatto in quel subito accidente quanto per lui s'era potuto per frenare la rabbia di chi voleva contaminar Roma con un sì grave misfatto, venne tempo in appresso che importava ai repubblicani che glielo imputassero, e da lui alla ferocia del romano governo argomentando, protestavano di volerne fare condegna vendetta. Intanto alcune pratiche segrete s'erano appiccate fra la corte di Torino e gli aderenti al nome regio in Lione ed in Provenza, il cui fine era di accordare i modi che si dovevano usare, perchè i disegni che si macchinavano a benefizio comune avessero la loro esecuzione. E siccome si faceva maggior fondamento sui Lionesi, più centrali di sito, più vicini alla Germania, fonte e nervo principale della guerra, e più tenaci di proposito che i Provenziali, così coi primi massimamente si tenevano questi trattati. Quando i negozii si avvicinavano alla conclusione, il signor di Precy, mandato dai Lionesi, andò egli medesimo nascostamente a Torino per quivi accordarsi su quanto si trattava: l'imperatore ed il re si offerivano parati a secondare i suoi disegni con le forze loro. Intervenne Precy a molte consulte, ed egli e Devins non tardarono d'entrare nella medesima opinione, cioè, che, lasciata una parte dello esercito sulle Alpi marittime, per tener a bada il nemico da quelle parti, il principale sforzo sì di Tedeschi che di Piemontesi si dirizzasse contro la Savoia per quindi marciare a Lione. Certamente disegno nè più conforme agli accidenti nè di più probabile esecuzione non s'era mai concetto di questo; ma il re Vittorio, mosso da un desiderio più generoso che considerato, non vi volle acconsentire. Era egli gravissimamente sdegnato contro i Savoiardi, siccome quelli che avevano accettato con amore i Franzesi, e lui, con quella legione degli Allobrogi ordinata dal medico Doppet, asperavano coi fatti, e più ancora l'asperavano con gli scherni e per l'eccessive cose che dicevano contro di lui; mentre assai diverso era il procedere dei Nizzardi, i quali, più alieni di natura, di mala voglia sopportavano il nuovo imperio, e continuamente infestavano i Franzesi, facendo loro, con bande sparse, tutto quel maggior male che potevano. Queste inclinazioni considerate dal re Vittorio, non volle mai udire con pacato animo che si desse mano a liberare dalla tirannide franzese prima i secondi che i primi. Ogni ora gli pareva mille anni che i suoi fedeli di Nizza non tornassero al grembo suo, mentre per castigo sopportava più volontieri che i popoli di Savoia continuassero a gustare di quanto sapessero i Franzesi, non considerando ch'ei li castigava di quanto essi più desideravano. Devins e Precy interposero grandissima diligenza per persuadere il loro desiderio al re, ma non avendo potuto vincere la sua ostinazione, si fermarono in questo pensiero, che, munite le frontiere della Savoia con truppe sufficienti per frenare il nemico, ed anche per ispingersi più oltre, secondo le occasioni, si assaltasse la contea di Nizza col grosso dell'esercito, come prima il tempo avesse condotto la opportunità di tentar l'impresa. Questa fu la prima origine, questo il seme delle calamità innumerabili e della variazione di quasi tutte le cose che poco dopo seguirono. Devins continuamente si lamentava che il re di Sardegna gli avesse tolta l'occasione di far chiaro il suo nome con una onorata e grande vittoria. Mentre tutte queste cose si sollecitavano per gli alleati, i Franzesi pensavano ai modi di resistere alla piena che veniva loro addosso, e le deliberazioni loro parte miravano la guerra, parte i negoziati, parte le corruttele. Quanto alla guerra, si consigliarono di preporre ai due eserciti, dell'Alpi e d'Italia, un solo generale, acciocchè, per l'unità dei pensieri potesse più efficacemente conseguire il medesimo fine; ed a ciò scelsero un uomo non solo di provato valore, ma ancora di provata fede, Kellerman, che aveva testè combattuto i Prussiani con molta gloria sulle sponde della Marna. All'aprirsi della stagione, componeano l'esercito cinquanta mila soldati, buoni per la disciplina, ottimi per valore, terribili per la rabbia. Kellerman, recatosene in mano il governo, siccome il nemico principalmente minacciava di prorompere sulle ali estreme della troppo larga frontiera, così sulla Savoia e su Nizza, determinossi a porre il campo grosso in un sito mezzano, a Tornus, posto nella valle di Queiras, per essere ad un di presso ugualmente discosto da Nizza e da Ciamberì, e vi mandava le genti, l'armi e le vettovaglie. Ma la difesa era difficile, perchè gli alleati occupavano tuttavia la sommità delle Alpi su tutta la frontiera, e potevano con facilità e vantaggio calare nelle parti più basse, e cacciarne i Franzesi, combattendoli dall'alto. Per ovviare a questo pericolo, il generale franzese dispose con lodevol arte le sue genti nelle valli della Savoia superiore che accennano per istrade più facili all'Italia. Così munì Termignone e San Giovanni nella Morienna; Moutiers nella Tarantasia, e per maggior sicurezza allogò un grosso corpo a Conflans. Nelle Alpi marittime, ove i Piemontesi e gli Austriaci insistevano con grandissimo vantaggio, Kellerman, distendendo l'esercito dalla Roia sino ai fonti della Nembia, aveva munito tutte le cime accessibili delle montagne, e posto il campo in mezzo, sul monte Fogasso. Quanto all'ala sua sinistra, dove il pericolo era maggiore per la facilità dei varchi e per la vicinanza della città di Nizza, alla quale principalmente miravano gli alleati, oltre le stanze solite, aveva collocato un grosso squadrone, come squadra di riscossa, sul monte Boletto. Questi erano i preparamenti guerrieri di Francia; le arti politiche furono le seguenti. Tentarono la Porta Ottomana, affinchè si aderisse alla repubblica contro l'Austria e contro Venezia, ma fu senza frutto. Tentarono Venezia, promettendole grossi e pronti aiuti, ed ingrandimento di Stato a pregiudizio dell'imperadore; ma il senato perseverò nella neutralità, offerendo a' Franzesi quelle medesime agevolezze negli Stati veneti che erano state concedute alle potenze confederate. Parte principalissima della lega, tra per forza de' suoi eserciti e per la situazione del suo dominio, era certamente il re di Sardegna. Adunque i capi del governo franzese assai volentieri piegarono l'animo a provare se potessero con promesse guadagnarsi la sua amicizia. A questo fine furono introdotti alcuni negoziati segreti tra un agente di Robespierre, per parte della Francia, ed il conte Viretti, per parte del re. Ma il re, che animoso era, e sapeva anche del cavalleresco, non volle mai udire pazientemente le proposte di fare collegazione con Francia, nè accettare le speranze che gli si proponevano, aggiungendo parole, certo molto prudenti, che non si voleva fidar de' giacobini. Così, rifiutati del tutto i consigli quieti, sorse più ardente l'inclinazione alla guerra. Mentre così andavano i repubblicani di Francia lusingando i potentati d'Italia per conciliarsi l'amicizia loro, non cessavano per uomini a posta e per mezzo de' loro giornali, che pure, malgrado della vigilanza de' governi ad interromperli, si insinuavano nascostamente in ogni luogo, a spargere mali semi ne' popoli, con invasarli dell'amore della libertà ed imitarli a levarsi dal collo il giogo degli antichi signori. Queste instigazioni non restavano senza effetto, perchè di quella libertà nella lontana Italia si vedevano soltanto le parole, e non bene se ne conoscevano i fatti. Le parti nascevano, le sette macchinavano accordi, le fazioni tumulti. Ma non fia senza utilità il particolarizzare gli umori che correvano a que' tempi in Italia, acciocchè i posteri possano distinguere i buoni da' tristi, conoscere i grandi inganni e deplorare le debolezze fatali. Adunque in primo luogo gli uomini si erano generalmente divisi in due parti, quelli che parteggiavano pei governi vecchi, detestando le novità, e quelli che, parteggiando pe' Franzesi, desideravano mutazioni nello Stato. Fra i primi alcuni così opinavano per fedeltà, alcuni per superbia, alcuni per interesse. Erano i fedeli i più numerosi, fra i quali chi per tenerezza verso le famiglie regnanti, e questi erano pochi, chi per bontà di giudizio o per esperienza delle azioni umane, il numero de' quali era più largo, e chi finalmente per consuetudine, e questi erano i più. Fra i superbi osservavansi principalmente i nobili che temevano di perdere in uno stato popolare l'autorità ed il credito loro. Tra questi, oltre i nobili, mescolavansi anche non pochi popolani che volevano diventar nobili od almeno tenere i magistrati. Per interesse poi abborrivano lo stato nuovo tutti coloro che vivevano del vecchio, e questi erano numerosissimi; a costoro poco importava la equalità o la non equalità, la libertà o la tirannide, solo che si godessero o sperassero gli stipendii. Si aggiungevano alcuni prelati ricchi ed oziosi, per interesse, i preti popolari e buoni, per amor della religione. In tutti poi operava un'avversione antica contro i Franzesi, nata per opera de' governi italiani sempre sospettosi della potenza di quella nazione e del suo appetito di aver signoria in Italia. Di tutti quelli che fino a qui siamo andati descrivendo, alcuni erano utili ai governi, alcuni disutili, alcuni dannosi, ned è mestieri che si vengano individuando, che ognun se li vede. Ma i dannosi erano gli ambiziosi, i quali credevano di render più sicuro lo Stato loro coll'esagerarlo, e si proponevano di far argomento di gran fiducia con mostrar maggiore insolenza. Il frenarli non pareva buono ai governi, perchè temevano e di alienar coloro di cui avevano bisogno, e di mostrar debolezza ai popoli. L'odio di costoro principalmente mirava contro gli uomini della condizione mezzana, nei quali supponevano dottrine per lettura, orgoglio per dottrine, autorità col popolo per contatto. Gli uni chiamavano gli altri ignoranti, insolenti, tiranni, gli altri chiamavano gli uni ambiziosi, novatori, giacobini, e tra mezzo ad ire sì sfrenate, non trovando gli animi moderazione, ed introdotta la discordia nello Stato, si preparava l'adito ai forastieri. Ora, per dire di coloro che inclinavano a' Franzesi, od almeno desideravano che per opera loro si facessero mutazioni nello Stato, diremo che per la lettura de' libri de' filosofi di Francia era sorta una setta di utopisti, i quali, siccome benevolenti ed inesperti di queste passioni umane, credevano esser nata un'era novella, e prepararsi un secol d'oro. Costoro, misurando gli antichi governi solamente dal male che avevano in sè, e non dal bene, desideravano le riforme. Questa esca aveva colto i migliori, i più generosi uomini, e siccome le speculazioni filosofiche, che son vere in astratto, allettavano gli animi, così portavano opinione che a procurar l'utopia fra gli uomini non si richiedesse altro che recare ad atto quelle speculazioni, persuadendosi, certo con molta semplicità, che la felicità umana potesse solo e dovesse consistere nella verità applicata. Queste radici tanto più facilmente e più profondamente allignavano quanto più trovavano un terreno bene preparato a riceverle ed a farle prosperare, massime in Italia, a cagione della memoria delle cose antiche. Chi voleva essere Pericle, chi Aristide, chi Scipione, e di Bruti non v'era penuria; siccome poi un famoso filosofo franzese aveva scritto che la virtù era la base delle repubbliche, così era anche nata la moda della virtù. Certamente non si può negare, ed i posteri devonlo sapere, che gli utopisti di que' tempi per amicizia, per sincerità, per fede, per costanza d'animo e per tutte quelle virtù che alla vita privata si appartengono non siano stati piuttosto singolari che rari. Solo errarono perchè credettero che le utopie potessero essere, perchè si fidarono di uomini infedeli e perchè supposero virtù in uomini che erano la sentina de' vizii. Costoro, così affascinati com'erano, offerivano fondamento a' disegni de' Franzesi, perchè avevano molto seguito in Italia; ma fra di loro non tutti pensavano allo stesso modo. I più temperati, ed erano il maggior numero, avvisavano non doversi muovere cosa alcuna, ed aspettavano quietamente quello che portassero i tempi. Altri più audaci opinavano doversi aiutar l'impresa co' fatti, e però si allegavano, tenevano congreghe segrete, ed avevano intelligenze in Francia, procedendo a fine di un bene immaginario con modi degni di biasimo. A tutti questi, come suol avvenire, s'accostavano uomini perversi, i quali celavano rei disegni sotto magnifiche parole di virtù, di repubblica, di libertà, di uguaglianza. Di questi alcuni volevano signoreggiare, altri arricchire; gli avidi, gli ambiziosi eran diventati amici della libertà, e nissun creda che altri mai abbia maggiori dimostrazioni fatto d'amor di patria, che costoro facevano. Essi soli erano i zelatori, essi i virtuosi, i patriotti, ed i poveri utopisti eran chiamati aristocrati; accidenti tutti pieni di un orribile avvenire; imperciocchè non solamente pronosticavano mutazioni nello Stato vecchio, ma ancora molto disordine nel nuovo. A tutte queste sette, all'una o all'altra delle quali s'erano accostati anche per lo più gli ecclesiastici, si aggiungeva quella degli ottimati, la quale, avida anche essa del dominare, e nemica ugualmente all'autorità reale ed all'autorità popolare, sperava che in mezzo alle turbazioni potesse sorgere la sua potenza. Costoro nè aiutavano nè disaiutavano la potenza reale che pericolava, ed aspettavano la loro esaltazione dalla potenza popolare che loro era nemica. Tal era la condizione d'Italia; i buoni esperti volevano la conservazione per previdenza di male, i buoni inesperti volevano la novità per isperanza di bene, i malvagi desideravano rivoluzioni per dominare e per succiarsi lo Stato; il clero stesso ondeggiava; dei nobili alcuni erano fedeli e temperati, altri fedeli ed insolenti, e per l'insolenze loro operatori che nascessero male inclinazioni nel popolo: altri finalmente poco fedeli, ma prudenti, aspettavano quietamente le occasioni: in mezzo a tutte queste inclinazioni s'indebolivano continuamente i fondamenti dello Stato; pure la massa dei popoli perseverava sana, ed avrebbe potuto essere di grande appoggio a chi avesse saputo usarla prudentemente e fortemente. Narrati i preparamenti, le trame e le speranze di ambe le parti, ora si descriveranno gli accidenti che portò seco la fortuna dell'armi: nel che si dovrà sempre tenere a mente che in quest'anno intenzione dei Franzesi non era di farsi strada in Italia per forza se non nel caso in cui la fortuna avesse loro scoperto occasioni molto favorevoli; perciò disegnavano di starsene sulla guerra difensiva, mentre dall'altro canto gli alleati volevano ad ogni modo, usando l'offensiva, penetrare nell'interno della Francia. I Franzesi, prevedendo una guerra vicina coll'Inghilterra e la Spagna, e volendo usare la breve signoria che restava loro nel Mediterraneo, avevano ordinato una spedizione contro l'isola di Sardegna. Posta in ordine un'armata nel porto di Tolone, composta di ventidue navi da guerra, fra le quali se ne noveravano diecinove grosse di fila; per combattere in terra ed usar le occasioni che si appresentassero, vi aveva il governo di Francia imbarcato sei mila soldati atti a combattere nelle battaglie stabili di terra. Questa mole guerriera dovevano seguitare molte navi da carico, per imbarcarvi i frumenti e trasportargli in Francia. Il governo di sì fiorita spedizione fu dato all'ammiraglio Truguet; laonde, trovandosi ogni cosa in pronto, ed appena giunto il presente anno, l'armata franzese, salpando da Tolone se ne veleggiava con vento prospero verso Sardegna; vi giunse prima del finir di gennaio, ed il dì 24 del medesimo mese pose l'ancora, mostrando un terribile apparato, nel porto di Cagliari; nè ponendo tempo in mezzo, l'ammiraglio mandò un uffiziale con venti soldati a far la chiamata alla città. Qui nacque il medesimo caso già deplorato di Oneglia, cioè che i Sardi, veduto avvicinarsi il palischermo sul quale era inalberata la nuova insegna dei tre colori, trassero sì, che l'uffiziale e quattordici soldati restarono morti, e la più parte degli altri feriti. L'ammiraglio pose mano a fulminare ed a bombardare la piazza con tutto il pondo delle sue artiglierie. Nè i difensori se ne stettero oziosi; spesseggiando coi colpi e traendo con palle di fuoco contro le navi franzesi, sostenevano una ferocissima battaglia. Questo assalto durò tre giorni con poco danno de' Sardi, ma con gravissimo dell'armata franzese, della quale una nave grossa arse, e due andarono a traverso. Le altre, o rotte sconciamente nel corpo, o lacerate negli arredi, a stento potevano mareggiare. In questo mentre, oltre il presidio che combattè egregiamente, massime i cannonieri, arrivarono i montanari, che si erano mossi quando dall'alto avevano veduto avvicinarsi l'armata nemica; ed ora essendo stati distribuiti ai luoghi più opportuni, minacciavano di rincacciare e di uccidere chiunque si attentasse di sbarcare; memorabile esempio di fedeltà civile e di virtù militare. E in fatti, quanti sbarcarono, o restarono uccisi, o, costretti dai montanari, si ricoverarono precipitosamente alle navi. Così restò vana la fatica ed il desiderio dell'ammiraglio di Francia. Perderono i Franzesi in questo conflitto circa seicento buoni soldati. Dal canto dei Sardi, cinque solamente furono uccisi, pochi feriti. Nè Cagliari ricevè danno proporzionato a tanto bersaglio; solo i sobborghi situati di sotto e più vicini al mare patirono. L'ammiraglio, veduto che gl'isolani, ne' quali aveva posto la principale speranza, non solamente non avevano fatto movimento in suo favore, ma ancora avevano validamente combattuto contro di lui, disperato dell'evento, si allargò nel mare lontano dalla portata delle batterie, quantunque tuttavia stanziasse ancora con le sue navi, così lacere com'erano, per qualche tempo nelle acque del golfo di Cagliari. Ma poco stante non essendo senza sospetto di ammutinamento nei suoi soldati, come suole avvenire nelle disgrazie, e levatasi una furiosa tempesta, se ne andò di nuovo a porre nel porto di Tolone, dove l'attendevano casi ancor più tremendi. Mentre in tal modo una guerra viva s'era accesa e presto spenta sulle coste di Sardegna, le cose della Corsica non passavano quietamente: la perdita medesima dell'impresa di Cagliari diede fomento a coloro che, scontenti del governo di Francia, macchinavano di rivolgere lo Stato. Mosso dall'odio antico e dalle ingiurie recenti, andava Paoli sollevando ed armando le popolazioni, massimamente ne' luoghi montuosi ed inaccessi. Al qual disegno gli preparavano la strada la chiarezza del suo nome, la venerazione in cui lo avevano i Corsi, le esorbitanze dei repubblicani. E le sue esortazioni producevano un effetto incredibile. I montanari, mossi alle voce del mantenitore della libertà corsa, calavano in folla, pronti a combattere sotto le sue insegne contro gl'intemperanti repubblicani. Le stesse città principali di Corte e di Aiaccio, mutato l'ordine pubblico, accettavano il nuovo governo, rivocavano dal consesso nazionale di Francia i loro deputati, chiamavan o Paoli generalissimo delle genti, ribandivano i fuorusciti, restituivano il clero nella pristina condizione, e, fatto un grosso di mille dugento soldati bene armati, s'impadronivano delle riposte pubbliche, ed assaltavano le genti della repubblica. I soldati repubblicani, sorpresi da tanto tumulto e ad impeto tanto improvviso, fatto prima un poco di testa nei luoghi più forti, si ritirarono nelle fortezze di Bastia e di San Fiorenzo. Era sorta intanto la guerra tra la Gran Bretagna e la Francia, accidente di sì supremo momento per ambe le parti. Ne pigliavano nuovi spiriti quei Corsi che aderivano a Paoli e detestavano il nome di Francia. Intanto, per dar forma al governo nuovo e ricompor quello che il disordine dei popoli tumultuanti aveva scomposto, Paoli aveva adunato una consulta che, procedendo secondo i tempi, gli conferiva potestà di fare quanto credesse necessario alla conservazione della libertà ed alla salute del popolo. Nel tempo medesimo bandiva, sotto pena di morte, i commissarii di Francia, Casabianca, Saliceti ed Arena. Il consesso nazionale, udite queste novità, risentitamente deliberando decretava, essere cassa la consulta di Corsica, si arrestasse Paoli e si conducesse alla sbarra dell'assemblea, fossero Casabianca, Saliceti ed Arena investiti di qualunque suprema facoltà per rinstaurar lo Stato e castigar i ribelli; il general Lacombe Saint-Michel contro i ribelli marciasse. Obbediva Lacombe; nel medesimo tempo i commissarii del consesso fulminavano con gli scritti e con le parole contro Paoli e contro coloro che a lui si aderivano. Aggiungevano alle esortazioni, che ai Corsi dirigevano, parole terribili e gonfie, secondo il solito, minacciando castigo inevitabile, e confische, e morti a chi contrastasse. Raggranellati quei Corsi che per un motivo o per l'altro tenevano per Francia, ed adunati, come meglio potè, i suoi soldati, Lacombe era uscito dai forti; dall'altra parte, insisteva Paoli colle genti collettizie. Ne sorgeva tra quelle rupi una guerra minuta e feroce; ne' giusti incontri prevalendo le genti disciplinate di Lacombe, nella guerra sparsa vantaggiando le genti di Paoli; e se non pareva che fosse possibile che i Franzesi sforzassero i Corsi nei luoghi alpestri, non si vedeva dall'altro canto come i Corsi potessero sforzare i Franzesi, forti per disciplina e per artiglierie, nelle pianure e nelle terre che occupavano sul lido. Mentre in cotal modo le sorti della Corsica pendevano incerte, si scopersero improvvisamente sulle sue coste più di venti navi inglesi da guerra, le quali faceveno opera per intraprendere quelle che si avviavano all'isola. Poscia, appoco appoco accostatesi al lido, infestavano con bombe e con palle i luoghi che Paoli assaltava dalla parte di terra; poste anche sul lido alcune genti, ed unite con le schiere di Paoli, rendevano molto difficile la difesa a' Franzesi. Per la qual cosa Lacombe, abbandonata l'isola, si ritirava a Genova sul principiare di maggio. Rimanevano in mano dei Franzesi, Bastia, Calvi e San Fiorenzo, ma non soprastettero ad entrare sotto le devozione del vincitore. Così tutta la Corsica, dopo di aver obbedito al freno di Francia per lo spazio di venticinque anni, venne, non saprebbesi dire se in potestà propria o in potestà dell'Inghilterra. Cacciati i Franzesi dall'isola, vi fu creato un governo per mezzo di provvisione che intieramente dipendeva da Paoli e dalla parte contraria alla Francia; l'autorità dei municipii fu ordinata secondo le forme antiche. Paoli si accorgeva che questa condizione, siccome transitoria, poteva terminarsi in molte maniere; però desiderava di stringere, sì per fare un destino certo alla sua patria, e sì ancora per metterla in grado di resistere ai tentativi della Francia sì vicina e sì potente. Da un altro lato era pensiero dell'Inghilterra, per le medesime ragioni, e per avere un piè fermo nell'isola, tanto opportuna a' suoi traffici, a' suoi arsenali ed alla sua potenza, che si venisse ad un partito determinativo. A questo fine Paoli applicò l'animo a sollecitare il re della Gran Bretagna, acciocchè, ordinato un governo libero in Corsica, ne pigliasse protezione, e il difendesse dagli assalti della Francia: gratissimo suono all'Inghilterra. Da questo seguitarono gli accidenti che si vedranno nell'anno seguente. La guerra sorta coll'Inghilterra e colla Spagna e le armate loro che erano giunte, o frappoco si attendevano nel Mediterraneo, erano occasione di molesti pensieri ai Franzesi che occupavano la contea di Nizza; laonde Brunet, che a quel tempo l'esercito in questi luoghi governava, si risolvette a tentare qualche impresa di momento prima che i confederati si fossero fatti forti nei mari vicini. Il fine di questo moto era di cacciare i Piemontesi, dalle sommità e prender per sè quei vantaggio che allora si trovava in mano del nemico. Partitosi adunque sul principiar di maggio dalla Scarena, si dirizzava verso i monti. E, siccome l'esercito piemontese era padrone di tutte le creste, così gli fu d'uopo dividere le sue genti in moltiplici assalti. Erano i Piemontesi sotto la condotta dei generali Colli e Dellera; siccome avevano avuto intesa della mossa del nemico, così se ne stavano apparecchiati per ributtarlo. Adunque, preparati gli uomini e le armi dall'una parte e dall'altra, andavano, il dì 8 giugno, i Franzesi all'assalto con un valore e con una furia incredibile; nè la difficoltà dei luoghi, nè il calore della stagione, che era smisurato, nè la tempesta di palle che fioccavano loro addosso, non li poterono rattenere che non giungessero fin sotto le trincee, colle quali sul sommo dei gioghi si erano i Piemontesi fortificati. Tanto fu l'impeto loro, che tutti i posti furono sforzati, salvo quello di Raus, sotto il quale si combatteva ostinatissimamente. Arrivarono i repubblicani con un'audacia inestimabile fin sotto le bocche delle artiglierie italiane; ma quanti arrivavano, tanti erano uccisi. Continuò la battaglia con molto valore da ambe le parti con poco danno dei Piemontesi e con gravissimo danno dei Franzesi, i quali rinfrescando continuamente con nuovi rinforzi i combattenti, sostenevano quel duro scontro; ma in questo punto i capi regii, veduta l'ostinazione del nemico, mandarono al capitano Zin piantasse le artiglierie in un giogo vicino, e di là lo fulminasse sul fianco. Il quale consiglio, opportuno per sè, fu con tanta arte e con sì gran valore eseguito da Zin, che percossi i repubblicani di costa, e raffrenata la temerità loro, abbandonarono precipitosamente l'impresa, ritirandosi e lasciando i fianchi di quelle montagne miseramente cospersi dei cadaveri de' compagni loro. In questo fatto mostrarono i Franzesi il solito valore impetuoso e sconsiderato; i Piemontesi, massimamente gli artiglieri ed il reggimento provinciale di Acqui, che difendea le trincee di Raus, arte e costanza. Perdettero i primi in questo fatto meglio di quattrocento buoni soldati tra morti, feriti e prigionieri; negli altri assalti dati in questo medesimo giorno circa trecento. Ne perdettero i secondi in tutta la giornata circa trecento con due cannoni e molti arnesi da guerra. Ma tale era l'importanza del colle di Raus, che i repubblicani, non isbigottiti all'infelice successo della battaglia dell'8, lo assaltarono di nuovo il dì 12 dello stesso mese con ben dodici mila soldati risolutissimi a voler vincere. Ma nè il numero, nè il valor loro poterono operar tanto che non fossero una seconda volta con gravissima perdita risospinti. Così fu conservato in poter dei Piemontesi il forte posto di Raus, dal quale intieramente pendevano gli accidenti della guerra in quelle parti. La fazione tanto sanguinosa di Raus aveva singolarmente raffrenato l'audacia de' repubblicani e dato occasione agli alleati di sollevar l'animo a più alte imprese. Se ne fecero allegrezze in Piemonte, e si argomentava che la fuga di Savoia e di Nizza dalla mala condotta de' capi, non da mancanza di valore ne' soldati si doveva riconoscere. Da un altro lato i repubblicani accusarono i capi loro di tradimento. Kellerman, avute le novelle de' fatti avversi accaduti nell'Alpi marittime, si era condotto a Nizza per sopravveder le cose, e per mettere in opera que' rimedii che i tempi richiedessero. Il pericolo maggiore era quello che l'esercito alleato, facendo punta verso il Varo, si ficcasse in mezzo, nel qual caso sarebbe stato forza evacuare prestamente tutta la contea. Considerato bene il tutto, fe' munire accuratamente i posti che accennavano sulla estremità dell'ala sinistra dell'esercito dell'Alpi marittime; e ciò col fine di tener aperte le strade a poter comunicare con le genti che tenevano il campo di Tornus, per mezzo delle alture della Tinea, e nel tempo medesimo di stare all'erta ed in buona guardia di quanto potesse sopraggiungere dalla valle di Stura, per qualche passo de' gioghi sommi che coronano le Alpi da quelle parti, e soprattutto dal colle delle Finestre, pel quale il varco è molto più agevole. A riscontro Colli e Dellera avevano fortificato di vantaggio e munito di genti fresche il colle di Raus, sul quale insisteva l'ala dritta dell'esercito loro, e distendendosi su per quelle cime fino al forte di Saorgio, avevano speranza non solamente di resistere, ma ancora di conseguire qualche onorata vittoria. L'arrivo delle armate inglesi nel Mediterraneo, dando maggior animo agli Stati d'Italia che già si erano dichiarati, diede anche occasione di manifestarsi a coloro che, più per timore che per desiderio di neutralità, se n'erano stati fino allora ad osservare. Per la qual cosa il re di Napoli, scoprendosi intieramente, chiudeva i porti a' Franzesi, e si obbligava a fornire alla lega di sei mila soldati, con grosse navi da guerra e molte minori. Il papa medesimamente, che aveva causa particolare di temere de' Franzesi, armava e prometteva di dar gente; ma Venezia, Genova e Toscana persistevano nella neutralità. Però gl'Inglesi, per farle venire ad una deliberazione terminativa, aggiunsero alla presenza delle navi i negoziati politici; mostrarono in questi trattati, massimamente con Genova e Toscana, tanta arroganza, che già fin d'allora ebbe l'Italia un saggio, e potè prendere augurio di quello che i forastieri le preparavano. Un Harvey, ministro d'Inghilterra a Firenze, scriveva a Seristori, ministro del granduca, dopo un superbo preambolo: sapesse il granduca che l'ammiraglio Hood avea comandato che un'armata inglese con una parte della spagnuola sarebbero venute a Livorno per vedere quello che sua altezza volesse farsi; sapesse inoltre sua altezza, e ciò l'Harvey dichiarare per bocca dell'ammiraglio Hood e in nome del re suo signore, che se in termine di dodici ore ella non aveva cacciato da' suoi Stati De La Flotte, ministro di Francia, e gli altri suoi aderenti, l'armata avrebbe assaltato Livorno. Badasse bene sua altezza a quello che si facesse, poichè solo mezzo di prevenire l'inimicizia d'Inghilterra era di eseguire puntualmente e subito quanto ora le si domandava, cioè cacciasse La Flotte, e con quel governo regicida di Francia rompesse; facesse causa cogli alleati. Con tanta insolenza Harvey favellava ad un sovrano indipendente, ad un principe di casa austriaca; con altrettanta rimproverava ad altrui un Inglese di aver ucciso un re. Rispose assai rimessamente Seristori che il granduca aveva dato ordine che De La Flotte ed i suoi aderenti, fra cui Chauvelin e Fougère, se ne partissero di Toscana il più presto che fosse possibile; ma non si scoprì quanto allo accostarsi alla lega ed al romper guerra alla Francia. Le stesse minacce furono fatte e nel medesimo tempo dal ministro inglese Drake ai Genovesi; ed alle minacciose ed inconvenienti parole si aggiunsero fatti più minacciosi e più inconvenienti ancora. Imperciocchè, trovandosi la fregata franzese la Modesta a stanziare nel porto di Genova, fu improvvisamente assalita da due navi inglesi, che le si erano a questo fine poste a lato, e presa con uccisione di non pochi marineri che vi si trovarono a bordo. Parve a tutti questo fatto, com'era veramente, di pessimo esempio; e se prima si temevano le insolenze franzesi in uno stato così vicino, ora più si temevano per la violata neutralità. In fatti non così tosto si ebbe a Nizza notizia di questo attentato che i rappresentanti del popolo, Robespierre giovane e Ricard, pubblicarono uno sdegnosissimo scritto che conchiudeva che Genova si risolvesse incontanente a voler essere o amica degli amici o nemica de' nemici della società oltraggiata nelle persone de' repubblicani franzesi; protestavano poscia al popolo genovese che se il senato tardasse a risolversi ed a punire con giusto ed esemplare castigo gli autori di un delitto commesso nel suo porto e sotto le bocche delle sue artiglierie, sarebbe stimato ostilità, e la repubblica avrebbe di per sè fatto quanto crederebbe necessario per vendicarsi di una sì orribile violenza. Le medesime acerbe parole fece poco tempo dopo Robespierre maggiore contro Genova, favellando alla tribuna del consesso nazionale; e così il governo di Genova, stretto da due necessità, non sapeva a qual partito appigliarsi. Pure, siccome il non risolversi era peggio che risolversi, tutto bene ponderato, il senato deliberò di starsene neutrale, aggiungendo in risposta, che molto gl'incresceva di non poter deliberare altrimenti, ma che la necessità dei tempi non ammetteva altra risoluzione. Quanto poi al fatto della Modesta, se ne stette sui generali. Il senato veneziano fu nuovamente tentato a questi tempi. Era residente in Venezia per parte dell'Inghilterra il cavaliere Worsley, personaggio non tanto rotto quanto Hervey e Drake, ma pure intentissimo a procurare gl'interessi dei confederati. Questi, o fosse la natura sua più temperata, o comando del re, che portasse maggior rispetto a Venezia più potente, che a Toscana ed a Genova più deboli, fece modestamente le sue rappresentanze al senato, favellando piuttosto per modo di consiglio che di richiesta. Pregava pertanto ed esortava caldamente il senato che fosse contento di allontanare da Venezia quella occasione di scandali, quella sentina di mali, quella radice di corruttele dell'ambasceria franzese. Concludeva che se il senato consentisse a licenziare l'ambasceria, e se vietasse ai Franzesi le tratte d'armi e di vettovaglie dagli Stati della repubblica, sarebbero gli alleati contenti, che nel resto conservasse la sua neutralità, e che, in caso di guerra dalla parte di Francia, se gli assicurerebbero gli Stati con tutte le forze della lega; che già fin d'allora gli si offerivano le armate d'Inghilterra e di Spagna, ordinate di modo che ne fossero preservati da ogni insulto. Queste parole terminò dicendo, porgere lui alla repubblica da parte del re suo signore, che glielo comandò di bocca propria; porgerle per mandato del ministro Pitt; porgerle ancora per mandato espresso dell'imperatrice di tutte le Russie, dell'imperatore d'Austria e del re di Prussia. Si riscuotesse adunque e prendesse quelle deliberazioni che a tempi tanto pericolosi, a richieste tanto efficaci, ad offerte tanto generose ed alla salute stessa della repubblica si convenivano. Il senato veneziano, non mai solito ad appigliarsi a partiti precipitosi, e credendo che la forza della Francia, quantunque disordinata per la discordia, fosse formidabile per la rabbia, e capace di fare qualche sbocco in Italia, volendo altresì conservare salvi i traffichi di mare, rispose gravemente, voler serbare intera la neutralità, non poter risolversi a licenziare lo incaricato d'affari di Francia Jacob, ma che solamente il chiamerebbe incaricato della nazione franzese, non della repubblica. Worsley non fece altra dimostrazione e continuò a starsene a Venezia, dove continuamente biasimava i discorsi superbi di Harvey e di Drake al granduca ed a Genova. La cupidità del gran mastro dell'ordine di Malta alla guerra non essendo più raffrenata dal timore dei Franzesi a cagione dell'intervento degl'Inglesi nel Mediterraneo, prese animo di manifestare più apertamente quello che già da lungo tempo sentiva rispetto agli affari di Francia; imperciocchè, recandosi in ciò esortatore il re di Napoli, aveva comandato, che tutti gli agenti franzesi se ne uscissero dall'isola e che i porti fossero chiusi a qualunque nave franzese sì pubblica che privata, finchè durasse la presente guerra: pubblicato inoltre che non sarebbe mai per accettare ad incaricato d'affari chiunque a lui si mandasse da quella repubblica, ch'ei non doveva, nè poteva, nè voleva conoscere. In cotal modo, essendo sorta la guerra tra la Francia e l'Inghilterra e, comparse le armate inglesi nel Mediterraneo, si ravvivavano le speranze dell'Austria e della Sardegna in Italia, furono serrati ai Franzesi tutti i porti del Mediterraneo e dell'Adriatico, salvo i Veneziani ed i Genovesi, si aggiunsero alle forze della lega quelle della Chiesa e di Napoli, e l'aspettazione degli uomini divenne tanto maggiore quanto più vedevano che se dall'un dei lati si era cresciuta nuova forza ai confederati, dall'altro cresceva a proporzione la concitazione ed il furore in Francia. Oggimai si aprivano le occasioni agli accidenti importanti, ai quali da lungo tempo tendevano i consigli dei confederati rispetto alle provincie meridionali della Francia. La cacciata fatta dal consesso nazionale e la proscrizione della setta girondina, come la chiamavano, diè cagione a coloro che la seguitavano ed a coloro che od amavano la libertà, conculcata dagli sfrenati giacobini, o s'intendevano con gli alleati per rinstaurare il governo regio, di collegarsi, di correre all'armi, e di far tumulti e sollevazioni. Già le città di Bordò, di Mompellieri e di Nimes tumultuando mostravano con quanto sdegno avessero ricevuto le novelle del cacciamento dei deputati loro: ma l'importanza del fatto consisteva nella grossa città di Lione, che era stata la mira di tutte le pratiche segrete tenute già da qualche tempo tra i capi della lega a Torino ed i capi degli scontenti. Congiuntisi nelle sue mura Biroteau ed alcuni altri capi dei girondini di minor nome con Precy, commossero alle armi tutta la città e pubblicarono manifesti contro la tirannide del consesso nazionale. Non è di questi Annali il narrare particolarmente l'oppugnazione di Lione, che poco tempo dopo seguì, e che fu uno dei fatti più memorabili di quest'anno, sì pel valore e la ostinazione d'ambe le parti, e sì per l'immanità dei vincitori. Ma come prima i Lionesi erano insorti contro l'autorità di chi reggeva, i Marsigliesi si erano levati ancor essi a rumore. Impazienti di starsene chiusi fra le mura, e raccolti sotto le insegne in numero assai notabile, si dirizzarono al soccorso di Lione. Non avevano i Lionesi trovato nei popoli circonvicini quell'aderenza che avevano sperato; e i Marsigliesi vantavansi di esser capaci da sè soli di vincer la impresa e di salvar Lione. In fatti già avevano varcato il fiume Duranza, e con ischiamazzo infinito erano entrati in Avignone; e quivi commesso ogni male, già si avviavano verso le regioni superiori del Rodano. Nel tempo medesimo s'incominciavano a colorire i disegni degli alleati. I Piemontesi congiunti con qualche nervo di Austriaci, erano calati grossi dal monte Cenisio e dal piccolo San Bernardo a fine d'invadere la Morienna e la Tarantasia; anzi una parte di quelli che scendevano dall'ultimo dei detti monti, avuto il passo per le terre del Vallese, si drizzavano ad occupare il Faussigny col pensiero di fare spalla all'impresa di Tarantasia e di rannodarsi verso la terra di Conflans, per quindi marciare, se la fortuna si mostrasse a tale segno favorevole, sino a Lione. Tutte queste genti militavano sotto il governo del duca di Monferrato, figliuolo del re, principe ottimo per mente e per costume e molto amato dai popoli per la natura sua facile e mansueta. Dall'altra parte il re di Sardegna si era condotto col grosso dell'esercito nella contea di Nizza, molto confidente di avere a conseguir presto, con ricuperar un paese amato sopra tutti e che gli era stato occupato da un nemico odiatissimo, una piena e gloriosa vittoria. Era suo intendimento di calarsi per le sponde del Varo a fine di obbligare i Franzesi ad evacuar la contea, o di tagliarli fuori dalla Provenza se non l'evacuassero. Aveva il re compagno a questa impresa il duca d'Aosta, suo figliuolo secondogenito, principe molto ardente in questo bisogno contro chi allora signoreggiava la Francia e che sempre aveva dimostrato pensieri alieni dalla pace. Questo era il principale sforzo che i confederati volevano fare; e così quel nembo che poco innanzi pareva dovesse tutto scagliarsi contro la Italia dalla Francia, ora si rivoltava contra la Francia dall'Italia. Udite tutte queste cose, Kellerman accorreva prestamente in Savoia, dove venuto al campo dei suoi, posto all'ospedale presso Conflans, alloggio principalissimo in quelle circostanze, ebbe con la sua presenza e con le sue esortazioni tanto inanimato i soldati che si mostrarono prontissimi a mettersi a qualunque pericolo anzichè abbandonare il luogo commesso alla fede loro. Nel tempo stesso fe' venire dal campo di Tornus una grossa schiera, in gran parte di buona ed audace gente; e stantechè il pericolo era oltre ogni dire grave, aveva, costretto dall'estrema necessità, chiamato dal campo di Lione un'altra squadra e mandata nel Faussigny, che si trovava del tutto privo di difensori. A questo si aggiunse ch'ei fece la chiamata alle guardie nazionali della Savoia e del dipartimento vicino dell'Isero, acciocchè facendo un po' di retroguardo agli stanziali, dessero loro coraggio e potessero, in caso d'infortunio, ristorar la fortuna della guerra. Per maggior sicurezza ordinava che si facessero trincee al passo di Barreaux, molto importante alla sicurtà del Delfinato, e che si munissero di artiglierie, avvisando che con quel sospetto da fianco, gl'Italiani non si sarebbero arditi di correre fino a Lione. Egli poi, a motivo di poter sopravvedere bene le cose, si venne a porre al castello delle Marcie, luogo centrale a cui accennavano le tre divisioni delle sue genti. Dall'altro lato e più sotto Kellerman avea spedito con tutta celerità il generale Carteau con un buon nervo di gente, ordinandogli riacquistasse il passo di Santo Spirito, cacciasse i Marsigliesi da Avignone, gli rincacciasse sulla riva sinistra della Durunza, non passasse il fiume, solo attendesse a proibire al nemico lo scorrazzare sulla destra. Ma Carteau varcava, e fu salute mentre doveasene attendere la rovina; imperciocchè i Marsigliesi, invece di assaltarlo e buttarlo nel fiume, cosa agevole, si diedero disordinatamente alla fuga. Carteau, usando l'occasione, voltossi con tutte le sue forze contro Aix, di cui s'impadronì; poi, senza frappor tempo in mezzo, marciò contro Marsiglia, capo e fomite principale di quella guerra; o tanto fu il terrore concetto dai Marsigliesi, che, fatta niuna difesa della città loro, la diedero in mano del vincitore. L'infelice Marsiglia, pagando troppo fiero scotto della sua imprudenza, fu posta miserabilmente a sacco, e vi furono commesse opere al tutto degne di quei tempi ferocissimi. La presa di Marsiglia nocque ai Lionesi che per questa cagione si trovarono soli esposti a tutto lo sforzo dei repubblicani; ma le immanità commessevi giovarono ai disegni della lega in Provenza; poichè per iscamparne, Tolone udì con maggiore inclinazione le proposte degli alleati, e diede sè ed il porto in mano dell'ammiraglio d'Inghilterra Hood, desiderando che l'autorità del re Luigi si restituisse e la costituzione dell'89 si accettasse. I repubblicani già tanto feroci vieppiù s'inferocirono all'accidente di Tolone. Esortazioni ardenti, minacce precipitose posero in opera per far correre i popoli al riscatto. Nè fu l'effetto minore dell'intento; perchè, tra soldati bene ordinati e gente tumultuaria, s'adunò tosto intorno alle mura di Tolone un esercito giusto di circa quaranta mila soldati. Dalla parte loro gli alleati vollero confermar con la forza quello che la fortuna aveva loro conceduto. Spagnuoli, Napolitani e Piemontesi furono portati a presidiare i forti di Tolone; gli altri potentati d'Italia li fornivano di vettovaglie; il papa stesso somministrava armi e munizioni. Così con grandissimo ardore si combatteva sotto le mura di Lione e di Tolone, nelle montagne della Savoia e di Nizza. Non indugiò molto spazio la fortuna a mostrare a qual parte volesse inclinare. I Piemontesi calati dal Cenisio e dal San Bernardo vincevano, e se si fossero spinti avanti con quella celerità che i tempi richiedevano, avrebbero acquistato una compiuta vittoria. Ma se ne stettero a soprastare; l'indugio diè comodità agli avversarii di rannodarsi ed ai popoli di aiutarli. Kellerman li ricacciò di posto in posto, sì che in fine si ritirarono al San Bernardo, da dove un mese prima erano discesi con tanta speranza di vittoria. Rimaneva pei repubblicani che i regi si cacciassero dalla Morienna, e Kellerman colle sue disposizioni vinse anche questo punto, perchè l'esercito del re, pressato da ogni banda, si ritirò ordinatamente al Cenisio. Tale fu l'esito dell'assalto dato alla Savoia dalle genti del re di Sardegna nell'autunno di quest'anno, e per tale modo fu esclusa la lega dalle sue speranze in queste parti; che se il disegno dei confederati fosse riuscito, e Lione liberato, totale sarebbe stata la mutazione delle cose d'Europa. Ma intanto i miseri Lionesi, udita la ritirata dell'esercito e, privi di quest'ultima speranza, furono costretti a rimettersi in potere dei repubblicani. Il mondo sa con quale immanità sia stata trattata quella città sì nobile e sì generosa. Dall'altra parte e nel medesimo tempo in cui i Piemontesi assaltavano la Savoia, s'erano mossi con forte apparato contro Nizza. Da principio la fortuna si mostrava loro favorevole; ma, arrivati a Giletta, e assaltato il dì 18 ottobre con grande impeto il ponte, furono duramente risospinti, e con perdita sì grave che questo fatto, giunto alle sinistre novelle che si ebbero in quel punto di Savoia e di Lione, terminò la guerra di quest'anno in quelle parti. Intanto sempre più si stringeva l'oppugnazione di Tolone, alla quale era concorso l'esercito vincitore di Lione e la guernigione di Valenciennes, piazza forte in Fiandra che gli alleati avevano espugnato. Già parecchie onorate fazioni si erano combattute con varia fortuna nelle quali mostrarono ambe le parti quanto potesse il valore congiunto con l'odio, e quanto a ciascuna premesse il conservare o l'acquistare una piazza di tanto rilievo. Eransi posti gl'Inglesi a presidiare i forti rizzati sulla stanca, i Piemontesi stavano a guardia sulla dritta. Gli oppugnatori s'erano accampati per modo che Dugommier, generalissimo, avesse carico di far forza verso occidente, Lapoype assaltasse verso levante, e parte di queste genti, stanziando principalmente alla Valletta, si distendesse sì verso mezzo giorno che una corona di schiere armate e di cannoni cingeva Tolone tutto all'intorno. L'importanza della difesa dal canto degli alleati consisteva nel forte Malbousquet fidato alla guardia degl'Inglesi e nel ridotto da questi fatto vicino al forte. Ma i Franzesi già s'erano impadroniti delle eminenze opposte al forte ed al ridotto; e preso anche per assalto il forte dei Pommets, da tutti tali punti con numerose artiglierie continuamente infestavano gl'Inglesi. Ohara, generalissimo d'Inghilterra, veduto che il nemico dal suo posto sopraeminente al Malbousquet non solo infestava il forte, ma, poste le artiglierie in luogo molto opportuno, per opera massimamente del luogotenente colonnello d'artiglieria Bonaparte, giovane di virile spirito, arrivava coi tiri insino all'arsenale; e prevedendo che se non si cacciavano da quel nido i Franzesi, bisognava pensar ad altro che a stare a Tolone, sì deliberò di dar loro l'assalto. Ed, uscito il 3 di novembre con sei mila soldati, la fortuna fu loro sul primo incominciare seconda. Ma all'avviso di tanto sinistro accorso Dugommier con un grosso di soldati agguerritissimi, cacciò gl'Inglesi in fuga manifesta e con tanta foga, che i vincitori non si arrestarono se non se alle palizzate del forte Malbousquet, e stette per poco che non vi entrassero alla mescolata coi vinti. Fu in questo incontro gravemente ferito e fatto prigioniero Ohara ch'era accorso per rannodare i suoi. Questa fazione tanto sanguinosa diede molto a pensare agli alleati, non li lasciando senza timore sull'esito della guerra accesa sotto le mura di Tolone; e i repubblicani, mostrandosi pronti a mettersi ad ogni più grave pericolo per conquistar quella città: si risolveva Dugommier a dar l'assalto da tutte le bande. Adunque, posta essendo ogni cosa in pronto, il dì 14 dicembre i Franzesi si avviavano all'assalto. Gli alleati, che sapevano che da quel fatto doveva risultare non solo la conservazione o la perdita di Tolone, ma ancora la riputazione delle armi e l'acquisto d'Italia, con grandissimo ardire gli aspettavano. Feroce fu l'assalto, feroce la difesa; la fortuna si mescolò spesso col valore; ora prevaleva la furia al coraggio, ora il coraggio alla furia; ora la sicurità dei luoghi faceva inclinare le sorti a favore degli assaltatori, ora l'audacia, per verità non credibile se non fosse vera, le voltava a favor degli assaltatori: stette un pezzo dubbia la battaglia; già le difese erano lacere dall'un canto, già dall'altro i gioghi dei monti ed i parapetti delle batterie inglesi apparivano cospersi di cadaveri franzesi, e nonostante non cessava l'ostinazione delle parti; che anzi i sangui che ribollivano rendevano gli uomini più accaniti e continuamente si dava mano al tuonare, al ributtare, al ferire da presso e da lontano. Prevalse la fortuna di Francia; i forti tutti caddero in mano dei repubblicani. L'espugnazione de' forti rendeva impossibile agli alleati il tenere più lungamente Tolone: conciossiachè i repubblicani potevano fulminarvi dentro, e spazzando i due seni sperperare all'estremo le flotte confederate. Deliberaronsi a vuotare; ma prima vollero fare tutto quel maggior male che poterono. Posto mano adunque alle faci, appiccarono il fuoco alle navi che non potevano trasportare con loro ed a tutte le opere preziose di marineria di cui Tolone abbondava. In questo Sidney Smith, uomo più atto alle imprese rischievoli che alle grandi, con molta industria ed attività si adoperava. Ardevano le navi, ardevano le armerie, ardevano gli arsenali; nella città medesima le case ardevano. Breve ora distruggeva opere, cui l'industria umana aveva penato lungo tempo a compire. Ma compassionevole spettacolo era quello de' Tolonesi, i quali costretti ad abbandonare la patria loro per non cader nelle mani di gente sdegnata, accorrevano in tutta fretta alle navi, conducendo con esso loro le donne, i fanciulli, e le suppellettili più preziose che in tanto precipizio avevano potuto raccorre. Tra questi alcuni annegavano per la fretta, altri erano straziati dalle artiglierie de' loro compatriotti o da quelle degl'Inglesi. Così tra il fuoco, il fumo, il tuonare, lo scompiglio delle navi che andavano e venivano, le minaccie de' soldati da terra che fuggivano, lo strepito de' soldati da mare che volevano metter ordine e regola dov'era disordine e confusione, le grida disperate di coloro che si spatriavano, era un dolore, un terrore, una miseria che si possono meglio con la mente immaginare che con le parole descrivere. Dieci mila Tolonesi, disperando della pietà del vincitore, accettato l'esilio, si ricoveravano alle navi, non sapendo nè dove nè quando avessero a terminarsi le miserie loro. Tre giorni e tre notti durò la lagrimevole tragedia. Finalmente le flotte confederate, tirandosi dietro le navi rapite di Francia, i giorni 18 e 19 dicembre si ricoverarono nelle vicine isole Iere, che sono le antiche Stecadi. Il giorno 20 poi, e poichè tutti si erano ridotti a salvamento, vuotato il forte Lamalgue che ne avea protetto la ritirata, lasciarono la misera terra intieramente a discrezione de' repubblicani: entraronvi fieri e minacciosi. Arsero nell'incendio tolonese acceso dagl'Inglesi quindici navi grosse di fila; arsero sei fregate, con molti altri legni minori. Rapirono e s'appropriarono gli Inglesi la grossissima nave di cento venti cannoni chiamata il Commercio di Marsiglia, col Pompeo ed il Potente, l'uno e l'altro di settantaquattro, e con le fregate la Perla, l'Aretusa, l'Aurora, il Topazzo e non pochi altri legni minori. I Sardi se ne portarono la fregata l'Alceste; i Napolitani il brigantino l'Imbroglio, gli Spagnuoli la piccola Aurora, esile preda a comparazione di quella d'Inghilterra. Queste furono le spoglie di Tolone rapite dagli alleati. E non era poco per l'Inghilterra l'aver distrutto il navilio di una nazione emula, che ai tempi floridi aveva combattuto con lei dell'imperio dei mari, e che tuttavia avrebbe potuto tener in pendente la fortuna del Mediterraneo. Così perì Tolone, città nobile e ricca, e sede principale della marineria franzese. I rappresentanti del popolo, Barras, Freron, Robespierre giovane e Saliceti scrissero il dì 21 dicembre al consesso nazionale, essere Tolone in potestà della repubblica. Anno di CRISTO MDCCXCIV. Indiz. XII. PIO VI papa 20. FRANCESCO II imperadore 3. L'infelice riuscita delle due imprese di Lione e di Tolone, la cattiva prova fatta dai Marsigliesi, e la poca dipendenza che trovavano nelle regioni del Rodano superiore i seguaci del re, dimostrarono ai confederati quanto fosse fallace l'opinione di aver nella popolazione e nella efficacia del nome reale un principale appoggio ai disegni che si avevano posto in mente di voler mandare ad esecuzione. Però si persuasero facilmente che non nelle parole ma nei fatti, non nelle armi altrui ma nelle proprie dovevano fondare le loro speranze. Tal era diventato l'ardore degli animi in Francia, e tanto vi erano le menti stravolte, che il parlar loro in nome del re, il che era cagione una volta che obbedissero volonterosamente, ora a maggior disubbidienza li concitasse. E siccome era divenuto necessario che si cambiassero i mezzi di far loro guerra, così ancora si vedeva che si dovevano cambiar i fini della medesima: poichè se gridare il nome del re, in vece di giovare, nuoceva, era vano il conquistar le terre in nome di lui. Ciò diè maggior ragionevolezza al conquistare per sè. Pareva necessario torre per la risecazione di territorii forza ad una nazione potente per sè stessa, potentissima per concitazione. Questi pensieri si rivolgevano per la mente de' confederati, i quali finalmente vennero in questa risoluzione, che quello che in Francia si conquistasse, con certe condizioni si serbasse. Così la guerra, che prima era solamente politica, cambiava di natura diventando guerra politica e territoriale. Per tali condizioni dopo molti e lunghi negoziati fu concluso in Valenciennes il dì 21 di maggio del presente anno tra l'Austria e la Sardegna un trattato, nel quale inoltre prometteva il re di fare ogni maggiore sforzo e dal canto suo prometteva l'imperatore di mandar in Italia il più gran numero di genti potesse, oltre le ausiliarie che fin dal principio della guerra aveva mandato a congiungersi con l'esercito reale in Piemonte; che i due eserciti unitamente e coi medesimi consigli combattessero; che quello del re intendesse specialmente alla difesa dei monti e dei passi tanto verso la Savoia, quanto verso il contado di Nizza; che le genti imperiali non si spartissero in piccole schiere, ma stessero congiunte in grosso corpo, sempre pronto ad operare fortemente e ad assaltare, congiuntosi con l'esercito regio, il nemico ove questi arrivasse ad aprirsi il varco in Piemonte; e che finalmente il medesimo esercito imperiale mettesse mano per prima cosa e innanzi che si conducesse in Piemonte, ad arrestar il nemico sulla riviera di Genova, affine di guarentire ed assicurare il Milanese; fosse il barone Devins generalissimo tanto di questo corpo di truppe imperiali, quanto di quello che già militava in Piemonte; avesse l'arciduca governator generale della Lombardia austriaca facoltà di trattare ed accordare immediatamente tutto quanto all'esecuzione del presente trattato si appartenesse, e di spiegare ogni cosa e di rimuovere gli ostacoli che fossero per difficoltare la impresa. I Franzesi i quali per la propagazione delle opinioni loro avevano entrature segrete nelle pratiche più recondite dei principi, avevano subodorato quello di che si trattava, e però si deliberarono di prevenire con la solita celerità ed impeto le risoluzioni degli alleati. Adunque prima che la stagione diventasse più benigna, e che il nemico si fosse svegliato alle difese, i generali repubblicani, tanto quelli che reggevano le genti adunate nella Savoia e nel Delfinato, quanto quelli che custodivano la contea di Nizza, si deliberarono di fare uno sforzo contemporaneo contro i luoghi occupati dai regii su tutta la fronte, principiando dal piccolo San Bernardo insino alla costiera del Mediterraneo. Ma siccome era d'uopo dall'un dei lati assalire i posti occupati dal nemico, dall'altro entrare nel territorio d'una potenza neutrale, così là usarono le armi e qua le persuasioni; le une e le altre mezzi ugualmente efficaci per arrivare ai fini loro. Abbiamo già raccontato con quanto sdegno fossero state ricevute dal governo franzese le novelle dell'attentato commesso dagl'Inglesi contro i Franzesi nel porto di Genova, e le minacce con le quali ei proruppe non solamente contro gl'Inglesi per aver fatto, ma ancora contro il governo genovese per aver lasciato fare. La repubblica di Genova si era composta per questo fatto in quattro milioni di tornesi. Così sedate le ire e restituita la buona amicizia fra le due repubbliche, volendo i Franzesi usare le opportunità del territorio genovese per assaltare gli Stati del re, cercarono di coonestare il disegno loro con un adeguato manifesto, scritto da Nizza, il dì 30 marzo, dai rappresentanti del popolo Robespierre giovane, Ricard e Saliceti. Alle benigne parole succedevano ben tosto apparati terribili. Erano i Franzesi ragunati in numero di ben sedici mila, sotto la condotta del generale Dumorbion, verso il principio di aprile, nel territorio di Mentone, città del principato di Monaco, vicina all'estremo confine del genovesato; e non volendo più porre tempo in mezzo a colorire i disegni loro, mandarono la notte del 6 dello stesso mese il generale Arena a Ventimiglia, dicendo al governatore che la Francia chiedeva che le si consentisse il passo, che l'esercito della repubblica già si avvicinava, che presto comparirebbe sotto le mura di Ventimiglia. A queste intimazioni rispondeva il governatore Spinola, protestando della violata neutralità; ma vano era il protestare contro una risoluzione irrevocabile presa da chi più poteva. Compariva per la prima volta il dì 6 aprile sul territorio italiano l'esercito repubblicano di Francia in aspetto squallido e misero, ma con sembiante magnanimo e quale si conviene ai vincitori. Precedeva Arena con la vanguardia, a cui teneva dietro col retroguardo il generale Massena, destinato a sollevarsi da' più bassi gradi della milizia ai più sublimi, ed a divenir uno dei più periti e famosi capitani che abbiano acquistato nome nelle storie. Occupata la città di Ventimiglia, i repubblicani, per viemmeglio assicurarsi, posero un presidio nel castello; al quale atto, essendo piuttosto da nemico che da amico, ed oltrepassando i limiti del passo, caldamente, ma invano, s'era opposto il governatore genovese; ma avendone poscia fatto forti querele coi rappresentanti Robespierre e Salicetti, ritirossene il presidio franzese, lasciando di nuovo il castello in potere dei Genovesi. Intanto, proseguendo i Franzesi l'impresa loro, una parte, voltatasi alla sinistra, s'impossessava del marchesato di Dolceacqua, cacciatone un picciol presidio piemontese che vi stava a guardia, l'altra, marciando sul litorale, s'incamminava alla volta di San Remo col pensiero di andar ad occupare Oneglia; il che era il principal fine di questa fazione. Al tempo medesimo un'altra grossa schiera, salendo per quei monti alti e dirupati, aveva cacciato i Piemontesi dal colle delle Forche, ed anche occupato le vicine alture di Dolceacqua, per le quali si apre una strada, quantunque molto stretta ed alpestre, verso Saorgio. Nè contenti a questo i Franzesi, muovendosi sulla stanca di Nizza, si erano fatti padroni di tutti i posti fin oltre Breglio, i quali erano come i primi propugnacoli a guarentire la importante fortezza di Saorgio. Lo stesso colle di Raus, dove le genti regie avevano, non era ancora scorso un anno, combattendo con molto valore, acquistato una gloriosa vittoria, veniva in poter dei vincitori, per modo che Saorgio, perdute tutte le difese esteriori, si trovava esposto ad essere assalito da vicino. Nonostante, essendo forte per natura e per arte, assai ardua fatica sarebbe riuscita ai repubblicani quella d'impadronirsene per oppugnazione, con assaltarlo da fronte. Mentre in tale guisa stava Saorgio in grave pericolo, marciavano i repubblicani sul lido verso Oneglia. Era Oneglia un posto di non poca importanza; annidavano in quel porto corsari arditissimi che interrompevano i traffichi di mare con grave danno dei Franzesi alloggiati in Nizza, che niun altro mezzo avevano di vettovagliarsi se non per le navi genovesi che loro portavano i frumenti. Oltre a questo, la strada non era nè lunga nè difficile per andar ad assaltare Ormea e Garessio, terre grosse, per le quali si apre l'adito alle pianure del Piemonte. Finalmente era Oneglia il solo spiraglio che fosse rimasto al re di Sardegna a poter comunicare prontamente e sicuramente coll'Inghilterra, massimamente con le flotte inglesi, che già erano, o fra breve si aspettavano nelle acque del Mediterraneo. Sapevano queste cose coloro che reggevano le armi regie, e perciò avevano risoluto di fare una testa grossa sulle alture di Sant'Agata. Radunato tutto quel maggior numero di genti che per loro si poteva in tanta pressa, e poste le artiglierie nei luoghi più opportuni, aspettavano con animo costante l'affronto. Ma nè il numero dei soldati, nè i provvedimenti militari erano tali, che potessero arrestare il corso ad un nemico che sopravanzava per la moltitudine ed era fatto più audace per le vittorie. La battaglia fu aspra. I Franzesi, partiti da San Remo, ed occupato Porto Maurizio, salivano all'erta di Sant'Agata con ardore inestimabile; non meno forte fu la resistenza dei Piemontesi, massime delle artiglierie, le quali, traendo a punto fermo, facevano una strage incredibile nelle file dei Franzesi. Questi, veduto il danno, e stimando che nissun altro modo avevano di espugnare quel forte posto, che la celerità, spintisi avanti prontissimamente, e condotti alcuni pezzi di artiglierie minute in luoghi prima creduti inaccessibili, e traendo a scheggie contro i Piemontesi, che ancor essi fulminavano nella stessa forma, tanto fecero che questi, soppressati dal numero, e sorpresi all'ardire del nemico, si ritirarono non senza qualche disordine da quel sito eminente, che con molto valore avevano difeso. Poscia, squadronatisi di nuovo, si ridussero al ponte di Nava, lasciando Oneglia, che più non si poteva difendere, aperta all'impeto del vincitore. Gli abitatori, mossi dal romore delle armi, e nei quali la ricordanza delle uccisioni e dei saccheggi fatti ai tempi di Truguet aveva messo un grandissimo spavento, lasciata la città abbandonata e deserta, si erano ritirati ai luoghi alpestri e chiusi. Vi entrarono i repubblicani; e qui, per fare testimonianza al vero, è debito raccontare come, modestamente governandosi, e' si astennero dal por mano nelle sostanze altrui, portarono rispetto alle cose sacre, e nissun segno dando nè della petulanza repubblicana, nè dell'insolenza militare, acquistarono nome d'uomini moderati e civili. La qual cosa tanto è più da notarsi, quanti a quei tempi in Francia correvano esempi degni di ogni più truculenta barbarie, ed essi medesimi si trovarono all'estremo di ogni fornimento al vivere umano necessario. Trovarono in Oneglia dodici bocche da fuoco, magazzini pieni di vettovaglia, bestie da soma a poter servire ai bisogni loro in quelle guerre alpestri. Pubblicarono che i fuggitivi si ripatriassero sotto pena di confisca, promettendo a tutti che tornassero intiera sicurezza nelle persone e nelle proprietà. Nè contenti alla possessione di Oneglia, spedivano una squadriglia di soldati ad impossessarsi di Loano, terra anch'essa con piccolo porto situata in su quella marina ed appartenente al re di Sardegna. Quantunque questa fazione fosse di importanza per le bisogna loro verso il mare, non bastava però a compire l'altro disegno d'impadronirsi dei sommi gioghi dei monti: s'accorgevano che insino a tanto che quelle altissime cime fossero in mano dei regi, e massime il ponte di Nava, passo forte, al quale si erano attestati con munirlo di trincee e di artiglierie, e cui erano accorsi a difendere quindici centinaia di Austriaci, la vittoria conseguita non avrebbe avuto il suo compimento. Massena, già vincitore di Santa Agata e di Oneglia, fu destinato a questa fazione. Andò all'assalto del ponte di Nava con otto mila soldati scelti, e tanto e così subito fu l'impeto loro, che nè i luoghi oltre ogni dire difficili, nè le trincee fatte dai regi, nè le artiglierie loro governate con molta maestria poterono operare che i repubblicani non riuscissero vincitori. Massena, per non dar respitto, e per far parere la cosa più grave ancora che non era, mandò fuori un bando coi soliti blandimenti e minaccie. Superato il ponte di Nava, corsero i repubblicani contro il borgo di Ormea, che, abbandonato dai difensori, venne in potere degli assalitori, colle artiglierie grosse e minute e colle munizioni da guerra e da bocca; gran quantità di panni singolarmente utili al vestire dei soldati; undici centinaia di prigionieri resero più cospicua questa vittoria. Seguitarono Garessio e Bagnasco la fortuna del vincitore, sicchè altro impedimento non restava a superarsi dai repubblicani, ormai penetrati nella valle del Tanaro, perchè non si spandessero nel Piemonte, che la fortezza di Ceva, alla quale fecero la intimazione. Il generale Argenteau, che la governava, rispose volerla difendere sino all'estremo. I Franzesi, conquistata Oneglia ed i luoghi importanti pe' quali potevano andar a ferire il cuore del Piemonte, pensarono ad assicurarsi di altri posti di uguale momento, sì per dar timore da diverse parti al nemico, e sì per assicurarsi la possessione di quello che già avevano conquistato. Nel che mostrarono tanta perizia nelle cose militari e tanto ardimento, che l'Europa ne restò piena di maraviglia e di terrore. Imperciocchè non solo fu loro d'uopo combattere con soldati valorosi, ma ancora con le nevi, coi ghiacci, con le rupi, coi precipizii, in tempi asprissimi per la stagione. Opera non solo ardua, ma impossibile, si credeva quella di superare il piccolo San Bernardo, non che ai tempi invernali, nella stagione propizia. Ma non si ristettero gli audaci repubblicani: prima del terminar d'aprile, il generale Bagdelone, dopo di avere serenato due giorni sulle nevi delle più alte cime de' monti, con soldati disposti a morire di disagio, non che di ferite, piuttosto che non arrivare ai fini loro, assaltò improvvisamente tre forti ridotti che i Piemontesi avevano costrutto sul monte Valesano a difesa del sommo giogo del San Bernardo, e dopo breve contrasto se ne impadroniva; quindi, voltate le artiglierie, ond'erano muniti, contro la cappella del San Bernardo, dove i regii avevano il campo più grosso, facevano le viste di fulminarla. Fu forza allora ai Piemontesi di ritirarsi, lasciando in mano de' nemici un sito che fu prima perduto che si pensasse di poterlo perdere. Nè i Franzesi arrestarono il corso loro; anzi, spingendosi avanti, cacciarono a furia i Piemontesi all'ingiù di quelle rupi fin più là della Tuile, della quale si impadronirono. Per questo moto fu messa in sentore tutta la valle d'Aosta, e già si temeva della capitale della provincia. In quel mentre accorse prontamente il duca di Monferrato, che, dopo di avere raccolte con sè tutte le milizie e tutte le genti regolari che in sì grave tumulto potè, e spintosi avanti, frenò il corso delle cose che precipitavano. Tentarono nel medesimo tempo e pei medesimi motivi i repubblicani parecchie altre fazioni nelle Alpi. Varcavano, non arrestati nè da' turbini nè dalle nevi altissime, il monte della Croce, e riuscendo all'improvviso sopra il forte di Mirabacco, difeso da pochi invalidi, se ne impadronirono facilmente. Poscia, scendendo per la valle di Lucerna, occuparono Bobbio ed altre terre superiori della medesima valle, minacciando Pinerolo di prossimo assalto. Ma anche qui si fecero dal governo le convenevoli provvisioni per modo che, assaliti valorosamente i Franzesi dai regii nella terra del Villars, furono costretti a ritirarsi ai sommi gioghi. Passato altresì il monte Ginevra, si calarono sino a Cesana, e s'insignorirono della grossa terra d'Oulx, dove posero una taglia enorme; ma dopo di avere presentito la fortezza d'Icilia, che si trovava munitissima, si ritirarono di nuovo ai luoghi alti e scoscesi, contenti all'aver romoreggiato con l'armi loro per quelle valli alpestri, ed all'aver fatto diversione efficace alla guerra di Oneglia. Colla medesima fortuna sforzarono il colle dell'Argentiera ed il passo delle Barricate, pel quale si apre l'adito nella valle della Stura. Fu questa fazione di non poca utilità alle genti di Francia, perchè per lei spianò la strada all'esercito d'Italia a potersi comunicare con quello delle Alpi. Il fatto d'armi di maggior rilievo, e per la sua grandezza e pel valore mostrato da ambe le parti, successe sulle altissime cime del monte Cenisio. Ne avevano i Piemontesi munito la eminenza con molte e grosse artiglierie e con trincee e con ridotti. Tre principalissimi massimamente parevano rendere sicuro quel passo, de' quali uno chiamato de' Rivetti guardava il borro a destra dell'eminenza; il secondo detto della Ramassa, e che stava in mezzo, s'affacciava alla salita della Ramassa, che è la strada solita a farsi dai viaggiatori; finalmente il terzo posto alla destra de' regii, il quale, avuto il nome di un valente generale italiano che militava ai soldi dell'Austria, chiamavasi ridotto di Strasoldo, aveva le bocche delle sue artiglierie volte verso una selva di spessi e folti virgulti che poteva da quella parte facilitare la salita agli assalitori. Erano tutti questi posti presidiati da soldati agguerriti e da cannonieri abilissimi. Tutti avevano gran fede nel barone Quinto, soldato di molto valore e di provata esperienza, che li comandava: così il luogo, l'arte ed il valore promettevano la vittoria. Ma i Franzesi, soliti a que' tempi a tentare piuttosto l'impossibile che il difficile, erano confidenti di riuscirne con vantaggio. Il generale Dumas, fatto convenire a Laneburgo una schiera di soldati pronti a mettersi a qualunque più pericoloso cimento, gli aveva provveduti di quanto era richiesto a far riuscire vittoriosa la repubblica da quel terribile incontro. Era corsa la stagione fin verso la metà di maggio: in sul finir del giorno, perciocchè splendeva la luna, givano i repubblicani all'assalto divisi in tre parti: Dumas medesimo per la strada maestra contro il ridotto della Ramassa; il capitano Cherbin addosso al ridotto de' Rivetti; Bagdelone per al ridotto Strasoldo. Non così tosto i regii si accorsero dell'approssimarsi del nemico, che diedero mano a trarre con l'artiglieria e con l'archibuseria. Ne nacque in mezzo a que' dirupi una battaglia orribile, resa ancor più spaventosa per l'ombre della notte che oscuravano le forre più basse, pel lume sinistro che spandevano ad ora ad ora le artiglierie, e per l'eco che in quelle cave montagne rispondeva orribilmente da vicino e da lontano al rimbombar loro così spesso e così strepitoso. I quali spavento e fracasso sempre più crescevano quanto più si avvicinavano i Franzesi ai ridotti regii; poichè, non isbigottiti punto dalla feroce difesa nè dal numero dei loro morti e feriti, sempre più s'accostavano, posponendo il non vincere al morire. Già si combatteva da vicino ai due ridotti de' Rivetti e della Ramassa, e pendeva dubbia la vittoria; con pari evento e valore si combatteva al ridotto di Strasoldo, nè si sapeva ancora a chi dovesse rimanere il dominio delle Alpi, quando Bagdelone con la sua squadra, uscito felicemente fuori da tutti gl'impedimenti, massime da alcuni luoghi precipitosi che gli si pararono davanti, strada facendo, si scoperse alle spalle del ridotto medesimo, e diè con questa ardentissima mossa principio alla vittoria de' suoi. Superato il ridotto Strasoldo, non vi era più speranza di poter conservare i Rivetti e la Ramassa. Furono pertanto abbandonati con molta fretta da' difensori, pressati impetuosamente da Cherbin e da Dumas, che già, prima della rotta de' regii a stanca, erano in procinto di entrare, superato ogni ostacolo, in que' forti. In cotal modo le difese rizzate sull'estremo confine d'Italia vennero in poter dei Franzesi, non senza però che il valore italiano avesse fatto di sè fierissima mostra. Questa vittoria riuscì ai repubblicani tanto utile e preziosa quanto era stata difficile e pericolosa. Per la subita ritirata dei regii, acquistarono i Franzesi tutte le artiglierie dei ridotti che erano fioritissime, con alcune altre che vicine stanziavano per gli scambii, molta moschetteria, e munizioni sì da guerra che da bocca in quantità considerabile. Morirono pochi, rispetto alle gravità del fatto, dall'una parte e dall'altra; circa otto cento prigionieri ornarono la vittoria dei repubblicani. Non fecero i Franzesi fine al perseguitare se non quando il nemico si fu ridotto a Susa. In tal modo la Ferriera e la Novalesa vennero a divozione dei repubblicani. Perduto il Cenisio, tutta la difesa del Piemonte per quella strada era ridotta nel forte della Brunetta, che fondato sul vivo macigno, e provveduto d'armi e di munizioni, era impossibile ad essere superato. Nè i Franzesi si attentarono di combatterlo; poichè, contenti all'essere divenuti signori del passo alpestre del Cenisio ed all'aver messo spavento coll'armi loro sulle rive della Dora riparia, nè essendo in numero sufficiente a poter tentare cosa di importanza più oltre la Novalesa, se ne stettero quieti aspettando quel che la fortuna si recasse avanti nelle altre parti dove ardeva la guerra. Dalla parte della Liguria non era compiuta la vittoria dei Franzesi, nè potevano impadronirsi della sommità delle Alpi, finchè restava sotto l'imperio del re la fortezza importante di Saorgio. Ma tal era il sito di lei, e così sicuro per arte e per natura il luogo dov'era fondata, che non potevano avere speranza di conquistarla per oppugnazione. Voltarono dunque il pensiero ad insignorirsene per assedio: al che per togliere ogni facilità, i capitani del re, e fra i primi Colli, avevano diligentemente fortificato le cime dei monti che dividono il Genovesato dalla valle della Roia, massime il passo principale di colle Ardente. Ivi si aspettava una sanguinosa battaglia. Infatti i Franzesi, dopo di essere stati respinti con molto valore in un primo incontro, si appresentarono alla batteria il dì 27 aprile, ed incominciarono un furiosissimo combattimento. Durò molte ore il conflitto; finalmente i Franzesi, spintisi avanti grossi ed impetuosi contro il ridotto di Felta, se ne impadronirono; la qual cosa fu occasione che tutti quei passi, e principalmente quello del colle Ardente, fossero ridotti in potestà loro. Morirono in questo fatto parecchi soldati di nome e di valore d'ambe le parte, e fra essi il capitano Maulandi, italiano, nel quale non saprebbe dirsi se fosse maggiore il valor militare, o la modestia civile, o l'amore dell'umanità, o l'ingegno, o la letteratura. La vittoria del colle Ardente diè campo ai Franzesi di calarsi per la via della Briga alle spalle di Saorgio sulla strada maestra che porta al colle di Tenda. Certamente essendo quel forte munitissimo, avrebbe potuto agevolmente difendersi insino a che la fame non costringesse il presidio a far quello a che la forza non l'avrebbe necessitato. Aveva Colli, ritirandosi più frettolosamente che poteva verso il colle di Tenda, ordinato al cavaliere di Sant'Amore, comandante della fortezza, resistesse più lungamente che potesse, e non cedesse la piazza se non quando se ne avesse avuto il comandamento da lui; perchè l'intento suo era di ritornare con maggior nervo di forze a soccorrerla. Ma il cavaliere, o che credesse nella occorrenza presente, e per lo effetto dell'essere i Franzesi calati sulla strada maestra tra Saorgio ed il colle di Tenda, fosse impossibile al Colli di mandargli avviso, o per altra meno nota cagione, la dette, con patto che fossero salve le sostanze e la vita, e sotto fede di restar prigioniero di guerra con tutti i suoi soldati. Condotto a Torino, e quivi processato in un con Mesmer comandante di Mirabocco, furono entrambi condannati a morte da un consiglio militare, e passati per l'armi sulla spianata della cittadella; col quale giudizio, se giusto, certamente anche rigoroso, volle il governo dar terrore ai novatori e credenza ai popoli, che il tradimento avea procurato la vittoria al nemico. Rimaneva ai Franzesi per compir l'opera che si impadronissero del colle di Tenda, sommo apice delle Alpi marittime; nè s'indugiarono a questa impresa, volendo prevalersi dello scompiglio dei regii e del favor della vittoria. Per la qual cosa, seguitando con celerità, assaltarono i Piemontesi che facevano le viste di voler difendere il colle; e con molta audacia e perizia occupando i Franzesi l'uno dopo l'altro i posti eminenti sulla faccia del monte, i Piemontesi, abbandonata dopo debole difesa la cresta in balia del nemico, si ritirarono a Limone, terra posta alle radici del colle dalla parte del Piemonte. Tutte queste fazioni, molto perniziose allo Stato del re, tanto maggior terrore creavano, quanto incominciavano a pullularvi in qualche parte le male erbe nate dai semi di Francia. Fecersi congiure contro lo Stato da uomini condotti da illusioni funeste, ma che niun mezzo avevano di arrivare ai fini loro. Presesi dei capi l'ultimo supplizio; degli altri si giudicò più rimessamente; moderazione degna di grandissima lode in mezzo a tanti sdegni ed a tanti terrori. Vittorio, perduta la metà degli Stati e le principali difese dell'Alpi, faceva continui provvedimenti per preservarsi dall'estrema rovina. Avendo fede nei sudditi, ordinò che tutti, di qualunque grado o condizione si fossero, purchè abili all'armi, avessero a procurarsi armi e munizioni sì da guerra che da bocca per giorni quattro, e si tenessero pronti a marciare al primo tocco di campana a martello; fossero retti e divisi in isquadroni da ufficiali di sperimentata capacità; se la spedizione più di quattro giorni durasse, somministrassersi munizioni dalle armerie, e viveri dai magazzini del regno; i nobili ed i facoltosi ne fornissero a chi ne mancasse; sostentasse il pubblico le famiglie degli accorsi, ove ne abbisognassero; gli ufficiali civili stessi, se il caso della mossa arrivasse, si unissero allo stormo; premierebbersi coloro che meglio avessero combattuto pel re e per la patria. Questo stormo non poteva esser di molto momento alla vittoria; che anzi avrebbe piuttosto potuto nuocere che giovare, se non fosse stato secondato da forti squadre di gente stanziale usa alle guerre ed ai pericoli. Per la qual cosa si provvedevano di nuove reclute i reggimenti sì stabili che provinciali; ma questi rimedii non bastando alla salute del regno, instantemente si ricercarono i generali austriaci che, fatti uscire dalle stanze invernali i soldati loro, prontamente verso il Piemonte che pericolava gl'indirizzassero. Il conte Oliviero Wallis, tenente maresciallo, preposto dall'imperatore a tutte le genti che avevano le stanze nel ducato di Milano, conformandosi alle richieste, mandò in Piemonte sollecitamente nell'aprile tutte quelle che avea disponibili, e che unite componevano un esercito di venti mila soldati. Si sperava di poter rintuzzare con queste l'audacia dei repubblicani, e di frenar l'impeto loro insino a tanto che un esercito ancor più forte accorresse di Germania in Piemonte, a norma del trattato di Valenciennes. Inoltre muniva il re di genti e di provvisioni fresche la Brunetta, Fenestrelle, Demonte, Ceva, Cuneo ed Alessandria. Perchè poi in tanto e sì straordinario bisogno non mancassero l'armi e le munizioni, nè potendo i mezzi ordinarii supplire, ordinava che si raccogliesse il salnitro in tutte le case di Torino, e si portassero alla zecca ed all'arsenale le campane non necessarie al culto. Pure il terrore era grande. I ricchi, massime i nobili, non quelli che militando seguivano le insegne reali, ma gli oziosi ed i cortigiani, si apparecchiavano, certo con poco generoso consiglio verso la patria loro, ad andarsene in paesi stranieri, con sè le cose più preziose trasportando. Per andar all'incontro delle ignominiose fughe, mandava fuori il re una legge che sotto pena di confiscazione di beni le proibiva, con questo altresì che i beni confiscati si incorporassero alla corona. Fu anche giudicato che, per prevenir le congiure, fosse necessario di soffocarne i semi e sbarbarne le radici. Perlochè si ordinava che fossero proibite tutte le adunanze segrete, anche le letterarie, ed anche i casini. Così in quell'estremo frangente si preparavano le armi, si spartivano i cittadini perchè non congiurassero, si univano perchè combattessero. Le fazioni tanto favorevoli ai Franzesi diedero molto a pensare ai governi italiani. Laonde il re di Napoli si risolveva a fare maggiori sforzi in favore dei confederati: indirizzava alla volta della Lombardia, parte per terra, parte per mare, dieciotto mila soldati tra fanti e cavalli, acciocchè fossero presti ai bisogni della lega. Per bastar poi al dispendio che sì considerabili apparecchiamenti richiedevano, aveva comandato pagassero i baroni, i nobili ed i ricchi cento venti mila ducati il mese; il restante, per non aggravare i popoli dell'inferior condizione, fornirebbe l'erario; pagassero i beni ecclesiastici una tassa del sette per centinaio; portassersi alla zecca gli ori e gli argenti delle chiese che non fossero necessarii al culto, obbligandosi il re a corrispondere un merito del tre e mezzo per centinaio del valore; alcuni ordini di frati si sopprimessero, e il patrimonio loro si assegnasse all'ospedale degl'incurabili. Erano pronte le genti a marciare verso l'Italia superiore, quando si scoperse la congiura di Napoli, che tendeva, siccome portò la fama, a cambiare il governo regio ed a fare una rivoluzione nel regno. Questo fatto grave in sè stesso, e reso ancor più grave dalle menti accendibili e tanto magnificatrici dei Napolitani, trattenne le truppe, proponendo il governo la salute propria a quella altrui. Si aggiunse che i corsari sì franzesi che algerini infestavano i litorali del regno, con rapire i bastimenti mercantili sul mare; gli ultimi a volta a volta sbarcavano anche sulle coste delle Calabrie per rubare, e per far peggio eziandio che rubare. Anche il pontefice che fra tutti i principi era forse quello che procedeva con più sincerità, faceva guerrieri provvedimenti. Presidiò con navi armate i porti del Mediterraneo, armò le fortezze, pose su' luoghi più sospetti del littorale sufficienti guardie, ordinò magazzini, ospedali e nuove regole per la milizia. In questi suoi pensieri dell'armare tanto più volentieri s'infiammava, quanto più sapeva essere i repubblicani molto sdegnati contro di lui per quel fatto enorme di Basseville, accaduto in Roma sull'entrare dell'anno precedente, e che abbiamo a suo luogo raccontato. Non così tosto pervennero in Venezia le novelle delle prime vittorie dei repubblicani sulle Alpi, e del loro ingresso nel territorio genovese, i capi del governo, veduto avvicinarsi il pericolo, tennero fra di loro molte consulte per deliberare quello che fosse a farsi in una occorrenza di tanta importanza, contendendo aspramente tra di loro le due parti contrarie, e quella, sostenuta dal procurator Pesaro, al quale si aggiunse il suo fratello Pietro, uomo anch'egli di molta autorità, che insisteva perchè la repubblica si armasse, e quella che credeva più pericoloso l'armarsi che il fidarsi. Sorse in senato un'aspra contesa, discrepando con parole veementi dalla volontà del Pesaro la parte contraria, nella quale mostravano maggior ardore Girolamo Giuliani, Antonio Ruzzini, Antonio Zeno, Zaccaria Valaresso, Francesco Battaglia, Alessandro Marcello primo, sclamando tutti che l'armarsi non era possibile, non a tempo, inutile. Dopo molte contese fu vinto il partito posto dal Pesaro con centodiciannove voti favorevoli e sessantasette contrarii. Decretossi, chiamassersi le truppe, sì a piedi che a cavallo, dalla Dalmazia, perchè venissero ad assicurare la terra ferma; le reclute degli Schiavoni si ordinassero, le cerne in Istria si levassero, le leve in terra ferma per riempiere i reggimenti italiani si facessero, le compagnie dalle quarantotto alle cento teste, quelle degli Schiavoni alle ottanta si accrescessero; finalmente l'erario con le tasse si riempisse. Volle inoltre il senato che si rendessero sicure con le navi della repubblica le navigazioni sul golfo infestato da corsari africani e franzesi. A questo modo aveva il senato prudentemente e fortemente deliberato. Ma i savii del consiglio, ai quali apparteneva l'esecuzione del partito vinto dal Pesaro, essendo la maggior parte di contraria sentenza, tanto fecero, scusandosi con la penuria delle finanze, che, eccettuata una massa di sette mila soldati, nissun effetto ebbe la deliberazione del senato, sclamando sempre in contrario il procurator Pesaro, e continuamente accusando in pubblico come in privato l'improvvidenza degli uomini ed il destino che perseguitava, senza che vi fosse speranza di salute, la sua diletta ed infelice patria. Intanto, come se le spie senza le armi valessero, aveva la repubblica mandato a Basilea il conte Rocco Sanfermo, acciò spiasse e mandasse quello che gli venisse fatto di scoprire in quella città finitima di Francia, ed in cui concorrevano, siccome in terra neutrale, amici e nemici di ogni sorta. Sanfermo, o che fosse spaventato egli, o che volesse spaventare gli altri, scriveva continui terrori a Venezia: d'un Gorani destinato dal governo di Francia ad essere stromento a far rivoluzione in Italia; poi certe ciance d'un Bacher, segretario della legazione franzese in Basilea; poi d'un Guistendoerffer, che da Parigi gli riferiva che la Francia faceva grandissimi disegni sulla Italia, che già vi aveva per oro intelligenze da per tutto, anche a Venezia, per modo che già erano a quei della salute pubblica obbligati personaggi di eminente condizione, e fra di loro alcuni de' destinati dal governo a sopravvedere ed a scoprire le trame di Francia; che Venezia non si assalirebbe, ma s'insidierebbe, perchè stimata nemica per queste e per queste altre ragioni. Le quali novelle, che avrebbero incoraggito per un generoso risentimento animi valorosi, intimorirono i molti, e furono cagione che le deliberazioni della repubblica in que' tempi difficili sentissero meglio di debolezza che di prudenza. Accrebbe le difficoltà una causa generosa. Erasi il conte di Provenza, fratello di Luigi XVI re di Francia, fuggendo il furore de' nemici della sua casa, riparato in Torino. Ma essendo i repubblicani, tanto avidi del suo sangue, comparsi prima sulle cime delle Alpi, poscia sull'aprirsi delle valli, e già insistendo sulle pianure del Piemonte in atto minaccievole, stimò bene di allontanarsi da quella tempesta, e di andarsene, fidandosi nella integrità del senato, a cercar asilo sulle terre della repubblica veneta. Seguitavano il principe, che sotto nome incognito si chiamava il conte di Lilla, parecchi fuorusciti di Francia, tra' quali principalmente si notavano il duca d'Avaray ed il conte d'Entraigues. Il senato veneto, pietosamente risguardando ad un tanto infortunio, sebbene presentisse le molestie che glie ne sarebbero venute da chi aveva la somma delle cose in Francia, accolse umanamente ne' suoi Stati il conte, solo desiderando ch'ei se ne vivesse privatamente, nè desse luogo di sospettare al governo di Francia con pratiche ch'ei poteva tentare se fosse stato in propria balìa posto, ma non doveva, trovandosi in grado di ospite in casa altrui. Ai desiderii del senato veneto si conformarono le intenzioni del conte di Provenza, il quale, in tanta depressione di fortuna, non solo serbò la costanza di uomo generoso, ma ancora si propose di non commettere atti, da' quali potessero seguir danno o pericolo agl'interessi altrui. Volle egli far la sua dimora in Verona; del quale desiderio essendo stato fatto consapevole il senato, mandava al suo rappresentante, trattasse il conte a quella guisa che ricercavano le sue virtù e la sventura da cui era combattuto: riconoscesse anche in lui ne' colloqui privati la altezza del grado; ma pubblicamente si astenesse dall'usare verso di lui di quegli atti, co' quali si sogliono riconoscere i principi. Nella quale emergenza il rappresentante con tanta destrezza si maneggiò, che ed il conte ne restò soddisfatto, e non diede fondati motivi al governo di Francia di querelarsi: il che però, siccome suole avvenire che i forti usano la vessazione come i deboli il sospetto, non impedì punto le querele nè in Francia, nè in Basilea, nè in Venezia da parte del robespierrano governo e de' suoi agenti; che se mai i Veneziani ebbero bisogno di destreggiarsi, che certo n'ebbero bisogno in ogni tempo, e sepperlo anche fare, certamente si fu nell'occorrenza presente. In somma usarono un atto molto pietoso, del quale con tanto maggior lode debbonsi riconoscere i popoli, quanto esso era anche pericoloso. Qual frutto ne abbiano conseguito, vedremo a suo tempo. La veneta repubblica non era ancora giunta agli affanni estremi. Era stato destinato dalla congregrazione della salute pubblica, con titolo d'inviato a Venezia, Lallemand, per lo innanzi console di Francia a Napoli. Scrivendo Giovanni Jacob, incaricato d'affari, uomo buono e molto dissimile da' tempi, al serenissimo principe il dì 13 novembre, manifestava che, per l'elezione del Lallemand, cessava il suo mandato. Furono in questo proposito molti e varii i dispareri nelle consulte venete, opinando alcuni che il nuovo ministro si accettasse, mantenendo altri la contraria sentenza. Instavano i ministri delle potenze estere acciocchè non si accettasse, allegando l'esempio del Noel, che poco tempo innanzi era stato rifiutato dalla repubblica. Prevalse l'opinione favorevole all'accettazione. Di tutti i governi d'Italia, nissuno, eccetto il piemontese, riceveva maggiori molestie del genovese, e nissuno ancora in mezzo a così estrema difficoltà dimostrò maggiore o dignità o costanza. Già abbiamo narrato il fatto della Modesta. Non omise la signoria di fare gravi risentimenti al governo inglese: fu risposto per i generali. Intanto ne successe un altro, che offese anche più direttamente la dignità e l'independenza dello Stato. Appresentavansi in cospetto della signoria Francesco Drake, ministro d'Inghilterra, e Don Giovacchino Moreno, almirante del re Cattolico, che con parte della sua flotta stanziava nel porlo di Genova, e con parole superbe e in termini eccessivi dettavano alla repubblica leggi contro la Francia, intimando in fine che, se non consentisse, chiuderebbero i suoi porti, impedirebbero ogni suo commercio con Francia e co' paesi da Francia occupati. Questa prepotenza inglese, dicesi inglese, perchè lo Spagnuolo, udite le rimostranze de' Genovesi, se n'era ritirato, tanto era più odiosa quanto Drake non aveva mandato di farla, ed obbediva meglio ad un furioso talento che ai comandamenti del suo governo. La signoria di Genova, serbata la dignità e non omesse le rimostranze, fece opera di mostrare al ministro del re Giorgio quanto lontane dal diritto fossero le sue deliberazioni, replicatamente e della libertà dell'onesto traffico e dell'indipendenza della nazione richiedendolo. Ma Drake, che meglio mirava all'utile o allo sdegno, che al giusto o alla temperanza, non volle punto piegarsi alle domande della repubblica, ed, abbandonando Genova, si ritrasse a Livorno, con aver prima dichiarato, essere i porti genovesi, massimamente quel di Genova, chiusi per entrata e per uscita, e che le navi che vi entrassero, o ne uscissero, sarebbero predate dagl'Inglesi e poste al fisco. Il fatto della Modesta, l'insolenza dell'assedio, il perseguitare le navi genovesi che entravano nel porto fin sotto il tiro delle artiglierie del molo avevano concitato a gravissimo sdegno quel popolo vivace ed animoso per modo che il nome inglese vi era divenuto odiosissimo, e quando gli uffiziali delle navi venivano in Genova per le bisogne loro, erano a furia di popolo insultati con parole e minacciati con fatti peggiori delle parole. Anzi usando i Genovesi di quei tempi di portare sui cappelli la nappa nera, che è pure l'insegna degl'Inglesi, uomini di ogni età e di ogni condizione sdegnosamente a chi la portava la laceravano, con ogni maniera di disprezzo e di furore calpestandola e vilipendendola. Le donne stesse, per l'ordinario lontane da queste improntitudini politiche, mosse dall'esempio comune, stracciavano le nappe e le schernivano con ogni strazio. Queste cose accadevano in Genova. Quando poi i Franzesi, passati i confini, erano venuti con l'esercito sulle terre della repubblica, crebbero a dismisura le molestie; perchè e Tilly, ministro di Francia, vieppiù imperversava, ed i zelatori dello stato nuovo s'accendevano. I consigli pensarono a' rimedii. Mandarono dicendo ai potentati d'Europa, essere seguita l'invasione non solo senza alcuna partecipazione loro, ma ancora contro la volontà espressa; e non mettessero punto in dubitazione, stessero pur confidenti che la repubblica, sempre consentanea a sè medesima ed al retto ed all'onesto, non sarebbe mai per dipartirsi da quanto la sincera neutralità e l'animo non inclinato nè a questa parte nè a quella richiedevano. Circa lo stato interno e la sicurezza della città, ordinavano le milizie cittadine, e chiamavano più grossi corpi di gente assoldata a stanziare nella capitale; munivano più acconciamente la fortezza di Savona, serravano la bottega di Morando speziale ch'era ritrovo consueto dei novatori più ardenti e più arditi. Tali erano le tribolazioni di Genova. S'aggiunsero altre non minori. Era, siccome si è narrato, venuta la Corsica in potestà degl'Inglesi. Hood ammiraglio, Elliot ministro plenipotenziario d'Inghilterra, Paoli generale di Corsica vollero temperare il dominio forastiero con qualche moderazione di leggi; modellarono una costituzione; mancava il consenso dei popoli; adunossi una dieta o congresso generale nella città di Corte; approvò la costituzione. L'ordinamento della Corsica disordinava Genova. Non così tosto Hood e Drake si rendettero sicuri della possessione dell'isola, che Paoli mandava fuori un manifesto di guerra in nome del governo e della nazione corsa contro la repubblica di Genova. Pubblicava, rammentate prima le ingiurie fatte ai Corsi dai Genovesi, che la Corsica intimava la guerra a Genova. Esortava quindi i Corsi, armassero navi in guerra, corressero contro i bastimenti genovesi; avessero gli armatori facoltà di appropriarsi non solo le navi genovesi, ma ancora, cosa certamente enorme, le merci genovesi che si trovassero a bordo di bastimenti neutrali; i Genovesi presi fossero condotti nell'isola come schiavi, e si condannassero a lavorar la terra; finalmente si pagassero cento scudi di premio per ogni capo di tali schiavi che fosse condotto a Bastia. Non è certo da maravigliare che Paoli, nemicissimo per natura ai Genovesi, e mosso dai risentimenti antichi, abbia dato in questi eccessi; ma che gl'Inglesi, signori allora di Corsica, che potevano in Paoli quel che volevano, e che erano, o si vantavano di essere civili ed umani uomini, gli abbiano tollerati, e forse instillati, con lasciar anche scrivere in fronte di un manifesto europeo le parole di schiavo e di schiavitù, niuno sarà che non condanni. Intanto arditissimi corsari corsi correvano il mare, e portando per insegna la testa di Moro coi quarti d'Inghilterra e con patenti spedite da Elliot, facevano danni incredibili al commercio genovese, e peggio ancora che il manifesto non portava. Finalmente udì l'Inghilterra le querele dell'innocente repubblica; ma insidiosa e non piena fu la riparazione. Ordinava che l'assedio di Genova si levasse; ma nel tempo stesso statuiva che i corsari corsi avessero facoltà di predare i bastimenti genovesi, o di qualunque nazione, che andassero o venissero dai porti di Francia, e le merci loro ponessero al fisco, e gli uomini non più come schiavi, ma come prigionieri di guerra si arrestassero, secondo l'uso delle nazioni civili. Pareva che la condizione di Genova con la Gran Bretagna fosse divenuta più tollerabile; al tempo stesso i termini in cui viveva colla Francia si miglioravano; perchè, morto Robespierre, era stato richiamato Tilly, mandandosi in iscambio un Villard, che più moderatamente procedeva. Ma la guerra non lasciava quietare la malarrivata Genova. L'accidente seguito della occupazione d'una parte della riviera di Ponente ed i progressi dei Franzesi insino a Finale, davano timore che potessero, per la via del Dego e del Cairo, sboccare in Piemonte. Per preservare questa provincia finchè giungessero le genti tedesche stipulate nel trattato di Valenciennes, tutte le truppe austriache, già chiamate, si adunavano nei contorni di Alessandria e di Acqui. Poscia, veduto che i Franzesi s'ingrossavano verso Loano e Finale, si riducevano più vicino. Sommavano a dodici mila combattenti tra fanti e cavalli: queste erano le squadre della vanguardia e del grosso dell'esercito; il retroguardo stanziava al Dego. Ivi avevano le artiglierie grosse, i magazzini ed i forni ad uso di spianar pane per tutto l'esercito. In questi posti attendevano ad affortificarsi con trincee e ridotti, massimamente al monte di Santa Lucia ed a levante di Vermezzano sopra la strada del Cairo, e finalmente su certe eminenze che dominavano la Bormida sopra la pescaia del Mulino. Oltre di ciò, alcuni reggimenti piemontesi che alloggiavano in un campo a Morozzo marciavano verso Millesimo col fine di congiungersi cogli Austriaci che difendevano il paese del Cairo. Dall'altra parte i Franzesi, udito di questo moto, ed avendo anche presentito che l'esercito imperiale si volesse impadronire improvvisamente di Savona, deliberarono di prevenire l'uno e l'altro con assaltare gli Austriaci nel loro campo di Dego. Perlochè l'esercito loro grosso di quindici mila combattenti, fatto uno sforzo, avea sloggiato la vanguardia austriaca da varii posti, seguitandola sino sulle alture che stanno a sopraccapo del Cairo, le quali occuparono, la notte del 20 settembre, principalmente quelle che signoreggiavano il castello. La quale cosa vedutasi dai generali austriaci Turcheim e Colloredo, prevalendosi dell'oscurità della notte, ritirarono le genti loro verso il campo di Dego. Avviarono altresì più dietro a Spigno l'artiglieria grossa, serbando con loro la leggiera ch'era fiorita e numerosa. Era il dì 21 settembre imminente una battaglia. La mattina molto per tempo avevano i generali austriaci ordinato le genti loro, partendole in due parti, delle quali una, ch'era l'antiguardo, occupava le alture del Colletto fino alla Bormida, seguitando pel Pianale sino a Montebrile sopra la valle di Carpezzo. Avanti al passo di Colletto, per cui si va a Rocchetta del Cairo, stavano, come guardia avanzata, una quadriglia di Ulani: il passo medesimo munivano due bocche da fuoco governate dai volontari. Al piano e verso il mezzo dell'antiguardo, trentasei pezzi di artiglieria guardavano il passo, sei sul monte Lucia, gli altri sulla ripa del fiume sopra il mulino. Il grosso della battaglia si distendeva dal monte del Bosco sopra Pollovero e le alture di Brovida. Un battaglione di Croati schierato sul monte Cerreto dava sicurezza all'ala sinistra; uno di cacciatori posto sul monte Vallaro alla destra. Wallis, supremo generale austriaco, arrivato al campo poco innanzi che incominciasse la battaglia, operò che alcuni battaglioni dell'antiguardo venissero a rinforzare il grosso dell'esercito, il quale finchè fosse intero, non avrebbe potuto il nemico avere vittoria. Stando le cose in questi termini dal canto degli Austriaci, ivano i Franzesi all'assalto condotti dal generalissimo Dumorbion, dai generali Massena e Laharpe, e dal generale di artiglieria Buonaparte. Erano le genti loro divise in tre schiere: la prima, seguitata da cinquecento soldati a cavallo, e passando per la strada alla Rocchetta del Cairo, andava ad assaltare gli Austriaci posti al Colletto. La seconda, passando pel convento di San Francesco del Cairo, assaltava i cacciatori che difendevano il monte Vailaro; poi, fatto un branco di sè, composto di valentissimi soldati, lo mandava contro il colle di Vignarolo, il quale superato, diveniva la strada più facile per superare anche quello del monte Vallaro. Era l'intento della terza, radendo i poggi che dominano la strada del Cairo e della Rocchetta, riuscire alla cresta sinistra del Colletto. Già la prima schiera, che era quella di mezzo, venuta per la Rocchetta, aveva costretto la guardia avanzata a cedere il passo, e bersagliava di fronte con grandissimo furore il posto del Colletto. A tanto assalto ad ora ad ora gli ordini degl'imperiali si rompevano, ma pel valore loro tosto si rannodavano: i due cannoni facevano grande strazio dei Franzesi. La seconda colonna, sforzato, non senza una valida resistenza degli Austriaci accorsi in aiuto del Pinale, il passo del Vignarolo, gli assaltava al monte Vallaro e sulle alture della Bormida, ed al primo tratto li disordinava; ma essendo venute in soccorso loro altre due squadre mandate dal Wallis, gli Austriaci, con nuova vigoria combattendo, fin oltre Vignarolo la ributtavano. La terza schiera, che costeggiava a sinistra i monti, trovato un corpo d'Austriaci che s'era posto in agguato nel castello rovinato della Rocchetta, e che ricevette in quel punto un rinforzo di genti fresche, fu anch'essa costretta a dare indietro. Così la vittoria sulle due ali inclinava a favor degl'imperiali; ma l'importanza del fatto consisteva nel posto del Colletto assaltato e difeso con mirabile costanza. Le fanterie dei Franzesi non avendo potuto sforzare questo passo, la cavalleria si fece avanti e diè per modo la carica alla cavalleria austriaca, ch'essa, non fatta lunga resistenza, si ritirava ordinatamente di là del Colletto, proteggendo anche la ritirata dei fanti, e conducendo seco i due cannoni; e ciò forse per allettare tanto la cavalleria dei repubblicani, che, condottasi nella valle di Pollovero, potesse essere bersagliata, con evidente vantaggio, di fianco e di fronte dalle batterie di Santa Lucia e del Pinale. Ma i Franzesi accortisi dell'insidia, non si avventurarono. Intanto gli Austriaci, o perduto per forza o abbandonato per arte il sito del Colletto, si ritirarono grossi e minacciosi ai loro sicuri ripari del monte di Santa Lucia e dell'argine del Mulino. Scesero i Franzesi dal Colletto nella pianura, e già si erano inoltrati, accostandosi il sole al suo tramontare, sin presso ai Zingani, sopra la foce del Pollovero, quando le batterie di Santa Lucia e del Pinale cominciarono a fulminarli con orribile fracasso. Dalla parte loro, anch'essi facevano ogni sforzo per superar quei passi: nel tempo medesimo si combatteva sulle due ali estreme dell'uno e dell'altro esercito. Nè fu fatto fine a tanta battaglia e strage se non quando, sopraggiunta la notte, i Franzesi furono forzati a ritornarsene oltre il Colletto, dond'erano venuti, per iscostarsi dall'impeto delle artiglierie d'Austria, che non cessavano di trarre. Perdettero in questo fatto i Franzesi meglio di seicento buoni soldati, gli Austriaci meglio di settecento, fra i quali alcuni uffiziali di nome. Sforzossi ciascuna delle parti di tirare a sè la fama della vittoria e dell'onore di questo giorno difficile ed importante; non ostante gli Austriaci, o che temessero che per le piene autunnali la Bormida interrompesse loro le strade a poter comunicare con Acqui, dov'erano le riposte dell'esercito, ovvero che avessero avuto avviso, come fu scritto, che un corpo franzese partito di Savona fosse per riuscir loro alle spalle, e per tal guisa mozzar loro la strada, la notte del 22, abbandonate lor forti posizioni, si ritirarono con tutte le bagaglie e con tutte le artiglierie in Acqui. Nel che si dee notare la falsità degli avvisi che ricevevano gli Austriaci; perchè e nissun corpo franzese era a quei giorni in Savona, e tutti i Franzesi eransi adunati per fare un grosso sforzo a Dego, e nissuna altra schiera notabile di loro si trovava da Nizza sino a Savona. Questa falsità di avvisi, quale ne fosse la cagione, operò molto efficacemente in tutti i fatti della presente guerra, e fece rovinare molte imprese dell'armi imperiali. Frattanto i Franzesi, temendo di qualche insidia, nè potendo recarsi a credere che gli avversarii si fossero ritirati, dubitando anzi di essere assaliti in sul far del giorno, molto posatamente e con ogni cautela entrarono nel Dego. Ma quando si accorsero che quello che non potevano sospettare era vero, vi si confermarono, e diedero mano a vuotare e trasportare ai luoghi sicuri della Liguria i magazzini dell'esercito tedesco, pieni di farine, avena, pane e strame. Nè contenti i repubblicani all'aver fatte proprie le sostanze del pubblico, diversamente da quello che in Oneglia avevano operato, infestarono quelle dei privati, saccheggiando le case di coloro che per timore le avevano abbandonate, consumando o disperdendo i vini ed ogni altra grascia o vettovaglia, ardendo la casa del feudatario, guastando le vigne portanti uve delicatissime, distruggendo una quantità di bestiame sì grosso che minuto, dimostrando in somma con ogni proceder loro quanto fossero dissomiglianti i fatti dalle parole, tristo presagio dei mali ancor più gravi che si preparavano all'infelice Italia. L'esercito di Francia, dimoratosi tre giorni sul territorio del Dego, si ritrasse poscia pel sospetto che gli davano le genti accorse dal campo di Morozzo, e pei tempi sinistri, nel Genovesato, dove si fortificava, principalmente a Vado, aspettando che la stagione nuova gli facesse facoltà di tentare fazioni di maggior momento. In mezzo a queste battaglie degli uomini, non vuolsi lasciare di far menzione della trentesima eruzione del Vesuvio, accaduta la sera del 15 giugno, violentissima e spaventosa, che colla lava rovinò quasi tutta la torre del Greco, e non poco danno recò a Resina, in tutto il paese sollevandosi all'altezza di venti in trenta piedi. Poche case rimasero intatte, e molte persone perirono. Anno di CRISTO MDCCXCV. Indiz. XIII. PIO VI papa 21. FRANCESCO II imperadore 4. Erasi la fortuna, sul finire del precedente anno, mostrata favorevole alle armi dei repubblicani non solamente dalla parte d'Italia, ma eziandio, e molto più, verso la Spagna, i Paesi Bassi e quella parte della Germania che si distende sulla riva sinistra del Reno: che anzi in questi ultimi paesi tanta era stata la prosperità loro, che, cacciati al tutto gli eserciti inglesi, olandesi, prussiani ed austriaci, si erano fatti padroni del Brabante, dell'Olanda e di tutta la Germania di là dal Reno, sì fattamente che, minacciando di varcar questo fiume, niuna cosa lasciavano sicura sulla destra sponda. Tante e così subite vittorie davano timore che la confederazione si potesse scompigliare, e che alcuno degli alleati pensasse ad inclinar l'animo ai Franzesi, anteponendo una pace qualunque ad una contesa molto incerta nell'esito. A questo si aggiungeva che il reggimento introdottosi in Francia dopo la morte di Robespierre mostrava e più moderazione verso i cittadini e maggior temperanza verso i forastieri; dannando le immanità dei governo precedente; protestando di non consentire a turbar la pace altrui se non quando altri turbasse la sua. Ogni cosa anzi inclinava ad un quieto e regolato vivere: solo dava fastidio quel nome di repubblica, che potea, col linguaggio che tenevano i Franzesi negli scritti e nelle parole, partorir col tempo variazioni d'importanza. Non ostante, essendosi le cose ridotte in Francia a maggior moderazione, si era il pericolo di presenti turbazioni allontanato, e si dubitava che cresciuto dall'un de' lati il terrore dell'armi franzesi, diminuito dall'altro il pericolo delle forsennate suggestioni, prevalesse in alcun membro della lega la volontà di procurar i proprii vantaggi con danno di tutti o di alcuno dei confederati. Massimamente non si stava senza apprensione che la Prussia facesse pensieri diversi dai comuni, e già se ne aveano alcuni segni, e quanto peso un tal caso fosse per arrecare nelle cose d'Europa, è facile vedersi da chi conosce e la sua potenza e la sede de' suoi reami. Si temeva pertanto che l'inverno, il quale, acquetando l'operare, risveglia il deliberare, potesse condurre qualche negoziato col fine di porre discordia nella lega, e che, ove la stagione propizia al guerreggiare fosse tornata, le armi dei Franzesi avessero a fare qualche grande impeto, con insinuarsi nelle viscere di uno o di più dei rimanenti alleati. Ma già aveano i Franzesi verso Germania acquistato quanto desideravano; perchè signori dell'Olanda, signori delle provincie germaniche poste di là dal Reno, a loro non rimaneva altra cagione di condursi a far guerra sulla sponda destra di quel fiume, se non quella di sforzare con continuate vittorie l'imperator d'Alemagna a conoscere la repubblica loro ed a concluder la pace con lei. Ma sarebbe stato il cammino lungo, e forse non sicuro; poichè l'Austria era sempre formidabile, massime se si venissero a toccare gli Stati ereditarii. Perlochè avvisavano potersi assaltare con minor pericolo e col medesimo frutto da un'altra parte. Quanto alla Spagna, i Franzesi non ponevano l'animo a volervi fare un'invasione d'importanza, sebbene se ne fossero aperta la strada; ed anzi credevano che, per costringerla alla pace, un romoreggiare sui confini bastasse. Inoltre, salito pel favor della regina ad immoderata potenza il duca d'Acudia, avvisavano i Franzesi, accortissimi nel pesare le condizioni delle corti straniere, che il duca pensasse piuttosto a solidare la sua autorità, allontanando, con un accordo, un pericolo gravissimo, che a mantenere la integrità della fama del nome spagnuolo e quanto richiedeva in quella occorrenza tristissima di tempi la dignità della corona di Spagna. Restava l'Italia, alla quale si prevedeva che si sarebbe, piuttosto che in altro luogo, voltato il corso delle armi franzesi: per questo avevano i repubblicani con infinito sforzo superate le cime delle Alpi e degli Apennini; per questo ordinato ai passi l'esercito vincitore di Tolone; per questo allettato con promesse e lusinghe il re di Sardegna; per questo adulato Genova, addormentato Venezia, convinto Toscana e turbato Napoli; per questo risarcivano a gran fretta i danni di Tolone, con crearvi un navilio capace ad operare con forza sulle acque del Mediterraneo; per questo stillavano continuamente nei consigli loro, come, quando, per quale via e con quali mezzi dovessero assaltar l'Italia. Era la penisola in quest'anno la principal mira dei disegni loro, perchè speravano, per la debolezza e disunione de' suoi principi, poterla correre a posta loro, perchè, malgrado delle funeste pruove fatte in ogni età, il correre questa provincia è sempre stato appetito principalissimo dei Franzesi. Conculcate poi l'armi austriache in lei, precorrendo la fama della conquista di una sì nobile regione, speravano che l'Austria spaventata calerebbe presto agli accordi. Sì fatti disegni, non solamente non celati, ma ancora manifestati espressamente, perchè meglio nascesse il timore, operavano in differenti guise nella mente de' principi italiani. Il re di Sardegna, ridotto in estremo pericolo, perduti oggimai i baloardi delle Alpi; e trovandosi con l'erario consumato da quell'abisso di guerra, aveva grandissima difficoltà del deliberare sì della pace che della guerra, se però non è più vero il dire che altro scampo più non avesse che aperto gli fosse, se non di pruovare se forse l'armi, che sempre sono soggette alla fortuna, avessero a portare nel prossimo anno accidenti per lui più favorevoli. Per la qual cosa deliberassi di non separare i suoi consigli da quelli de' confederati, e di continuare piuttosto nella amicizia austriaca già pruovata e consenziente alla natura del suo governo, che di darsi in braccio ad un'amicizia non pruovata e contraria ai principii della monarchia. Gli pareva anche odioso ed indegno del suo nome il rompere gli accordi di Valenciennes così freschi, e prima che si fosse sperimentato che valessero o non valessero alla salute del regno. Per verità, l'Austria, commossa dal pericolo imminente che i Franzesi, superate le Alpi ed annientata la potenza sarda, inondassero l'Italia, non differiva le provvisioni per procurar l'esecuzione de' patti di Valenciennes; perchè oramai non si trattava soltanto della salute d'un alleato, ma bensì della propria; laonde si dimostravano dalla parte della Germania ogni di più efficaci movimenti, le genti tedesche ingrossavano in Piemonte, e già componevano un esercito giusto e capace di tentare, unito al piemontese, fazioni di importanza. Adunque il re, posto dall'un de' lati ogni pensiero d'accordo con un nemico che più odiava ancora che temesse, allestiva con ogni diligenza l'armi, i soldati e le munizioni. Nè potendo lo Stato, e scemato di territorio e conculcato dalla guerra, sopperire al dispendio straordinario co' mezzi ordinarii, e trovandosi oppressato dalla necessità di danari, si diede opera a vendere, in virtù di una bolla pontificia, trenta milioni di beni della Chiesa; venderonsi i beni degli ospedali con dar in iscambio luoghi di monte; ponessi con accatto sforzato sulle professioni liberali; accrebbersi le gabelle del sale, del tabacco e della polvere da schioppo, ed ordinossi un balzello per capi. Le quali imposte, che dimostravano l'estremità del frangente, rendevano i popoli scontenti; ma però, gettando somme considerabili, aiutavano l'erario a pagar soldati, esploratori e il resto. Così tra le gravi tasse, le provvisioni straordinarie, le leve sforzate e il romore delle armi sì patrie che straniere, sospesi i popoli tra la speranza ed il timore, aspettavano con grandissima ansietà i casi avvenire. Le vittorie de' repubblicani sui monti, che davano probabilità ch'eglino avessero presto ad invadere l'Italia, confermando il consiglio de' savii in Venezia nella risoluzione presa di mantenere la repubblica neutrale e poco armata, avevano indotto al tempo medesimo il granduca di Toscana a far nuove deliberazioni, con trattar accordo con la repubblica franzese, e con tornarsene a quella condizione di neutralità, dalla quale sforzatamente, e solo coll'aver licenziato il ministro di Francia, s'era allontanato. Aveva sempre il granduca, in mezzo a tutti que' bollori, conservato l'animo pacato e lontano da quegli sdegni che oscuravano le menti rispetto alle cose di Francia; non già che egli approvasse le esorbitanze commesse in quel paese, che anzi le abborriva, ma avvisava che infino a tanto che i repubblicani si lacerassero fra di loro con le parole e coi fatti, avrebbero lasciato quietare altrui, e che il combatterli sarebbe stato cagione che si riunissero a danni di chi voleva essere più padrone in casa loro che essi medesimi. Ma poichè senza colpa sua, e pei cattivi consigli d'altri, i Franzesi, non che fossero vinti, avevano vinto altrui per modo che oramai questa sede d'Italia da tanti anni immune dagli strazii di guerra era vicina a sentire le sue percosse, pareva ragionevole che il granduca s'accostasse a quelle deliberazioni che i tempi richiedevano, e che erano conformi sì alla natura sua quieta e dolce, e si agl'interessi della Toscana. Oltre a ciò, il porto di Livorno era divenuto, poichè erano chiusi dalla guerra quei di Francia, di Genova e di Napoli, il principale emporio del commercio del Mediterraneo. Quivi gl'Inglesi concorrevano col loro numeroso navilio sì da guerra che da traffico; quivi i Franzesi ed i Genovesi, o sotto nome proprio o sotto nome di neutri, a fare i traffici loro, massimamente di frumenti, che trasportavano nelle provincie meridionali della Francia. Levavano gl'Inglesi grandissimi rumori per cagione di questi aiuti procurati dalla neutralità di Livorno; ma il granduca, preferendo gli interessi proprii a quelli d'altrui, non si lasciava svolgere, e sempre si dimostrava costante nel non voler serrare i porti ai repubblicani. Nè contento a questo, con molta temperanza procedendo, ordinava che fossero aperti i tribunali a' Franzesi, e venisse fatta loro buona e sincera giustizia, secondo il diritto e l'onesto. Avendo poi anche udito che alcuni falsavano la carta monetata di Francia, diede ordine acciò sì infame fraude cessasse, e ne fossero castigati gli autori; cosa tanto più laudabile che appunto nel medesimo tempo uomini perversi in paesi ricchissimi e potentissimi, per l'infame sete dell'oro, e forse per una sete ancor peggiore, compivano opera sì vituperosa, non nascostamente, ma apertamente. Così le mannaie uccidevano gli uomini a folla in Francia, così la guerra infuriava in Piemonte, così lo Stato incrudeliva in Napoli, così i falsari contaminavano la Inghilterra, mentre l'innocente Toscana ministrava giustizia a tutti, nè si piegava più da una parte che dall'altra. Ma, divenendo ogni ora più imminente il pericolo d'Italia, pensò il granduca che fosse oramai venuto il tempo di confessare apertamente quello che già eseguiva con tacita moderazione, sperando di meglio stabilire in tal modo la quiete e la sicurtà di Toscana. Per la qual cosa deliberossi al mandare un uomo apposta a Parigi, affinchè fra i due Stati si rinnovasse quella pace che più per forza che per deliberazione volontaria era stata interrotta. Molte furono le querele che si fecero in que' tempi di questa risoluzione, e della scelta del conte Carletti ad eseguirla destinato; ma il tempo non tardò a scoprire che quello che il granduca ebbe fatto per solo amore de' sudditi, il fecero altri principi assai più potenti di lui. Ma era fatale che in quella volubilità di governi franzesi quest'atto del granduca non preservasse la Toscana dalle calamità comuni, perchè vennero i tempi in cui la forza e la mala fede ebbero il predominio: l'innocenza divenne allettamento non scudo. Fecero i repubblicani al conte Carletti gratissime accoglienze sì per acquistar miglior fama e sì per allettar altri principi a negoziare con quel governo insolito e terribile. Debole era il granduca a comparazione di Francia; ma era pei Franzesi di non poco momento che un principe d'Europa riconoscesse quel loro nuovo reggimento, e concludesse un accordo con lui; perchè, superata quella prima ripugnanza, si doveva credere che altre potenze, seguitando l'esempio di Toscana, si sarebbero più facilmente condotte a fare accordo ancor esse. Perlochè fu udito con facili orecchie il conte a Parigi, ed appena introdotti i primi negoziati, fu concluso, il dì 9 febbraio, tra Francia e Toscana un trattato di pace e di amicizia, pel quale il granduca rivocava ogni atto di adesione, consenso od accessione che avesse potuto fare con la lega armata contro la repubblica franzese, e la neutralità della Toscana fu restituita a quelle condizioni in cui era il dì 8 ottobre del 1793. Giunte in Toscana le novelle della conclusione del trattato, si rallegrarono grandemente i popoli, massime i Livornesi, per l'abbondanza dei traffichi, e con somme lodi celebrarono la sapienza del granduca Ferdinando. Bandissi la pace con le solite forme, ma a suon di cannoni in Livorno in cospetto dell'armata inglese, che quivi aveva le sue stanze. Pubblicò Ferdinando un suo manifesto, conchiudendo volere ed ordinare che il trattato con Francia si eseguisse, e l'editto di neutralità, pubblicato nel 1778 dalla sapienza di Leopoldo, si osservasse. Perchè poi quello che la sapienza aveva accordato i buoni ufficii conservassero, chiamò Ferdinando il conte Carletti suo ministro plenipotenziario in Francia. Introdotto al cospetto del consesso nazionale, acconciamente orava; rispondeva il presidente con magnifico discorso; infine, perchè non mancasse alle lusinghevoli parole quel condimento dell'abbracciata fraterna, come la chiamavano, gridossi romorosamente l'abbracciata, e l'abbracciata fu fatta, plaudendo i circostanti. Andossene Carletti molto ben lodato ed accarezzato. Così verificossi con nuovo esempio l'indole dei tempi, che portava gioie corte e vane, dolori lunghi e veri. E poichè si hanno a raccontare dolci parole e tristi fatti, non è da passar sotto silenzio le dimostrazioni non dissimili con le quali si procedette col nobile Querini, destinato dalla repubblica veneziana ad inviato appresso al consesso nazionale di Francia. Avevano coloro che nei consigli di Venezia prevalevano sperato di solidar veppiù lo stato della repubblica col mandar a Parigi un personaggio d'importanza, acciocchè con la presenza e con la destrezza dimostrasse esser vera e sincera la determinazione del senato di volersene star neutrale. Perlochè, adunatosi il senato sul principiar di marzo, trasse inviato straordinario in Francia Alvise Querini, in cui non sapresti se stato sia maggiore o l'ingegno, o la pratica del mondo politico, o l'amore verso la sua patria; che certo tutte queste cose erano in lui grandissime. Adunque, arrivato Querini a Parigi, ed introdotto onoratamente al consesso nazionale, e vicino al seggio del presidente postosi, con bellissimo favellare disse, cittadino di una repubblica dai tempi antichissimi fondata per la necessità di fuggire i barbari e pel desiderio di vivere tranquilla, avere ora nuova cagione di gratitudine verso la sua patria per averlo destinato ministro appresso ad una repubblica che appena nata già riempiva il mondo colla fama delle sue vittorie. Qual cosa, in fatti, poter essere a lui più lusinghiera, quale più gioconda, di quella di comparire in cospetto del nazionale consesso di Francia a fine di confermar la amicizia che il senato e la repubblica di Venezia alla repubblica franzese portavano? Sperare la conservazione di questa antica amicizia: sperarla, desiderarla, volerla con tutto l'animo e con tutte le forze sue procurare, e stimarsene fortunatissimo; recarsi ancora a felicità sua, se, al mandato della sua cara patria adempiendo, meritasse che in lui avesse il consesso fede, e se conceduto gli fosse di vedere che il consesso medesimo, fatto maggiore di sè, e benignamente agli strazii dell'umanità risguardando, con generoso consiglio dimostrasse aver più cura della pace che della guerra, ed il frutto di tante vittorie aver ad essere il riposo di tutti. Orava in risposta il presidente dicendo, felicissimo essere alla repubblica franzese quel giorno in cui compariva avanti a sè l'inviato della illustre repubblica di Venezia; poter vedere il nobile Querini in volto ai circostanti i segni della contentezza comune; antica essere l'amicizia tra Francia e Venezia, ma anticamente aver vissuto la prima sotto la tirannide dei re, ora dover l'accordo esser più dolce, perchè libera dal giogo; avere avuto pari principio le due repubbliche: sorta la veneziana fra le tempeste del mare, fra le persecuzioni dei barbari; pure fra tanti pericoli avere acquistato onorato nome al mondo per la sua sapienza e pei suoi illustri fatti; avere spesso le querele dei re giudicato, spesso l'Occidente dai Barbari preservato: similmente sorta la Franzese fra le tempeste del mondo in soqquadro; gente più barbara dei Goti avere voluto distruggerla, usato fuori le armi, dentro le insidie, chiamato in aiuto la civile discordia, ma tutto stato essere indarno: la libertà avere vinto: non dubitasse pertanto Venezia, che siccome pari era il principio e pari l'effetto, così sarebbe pari l'amicizia; avere la generosa Venezia, allora quando ancora stava la gran lite in pendente, accolto l'inviato della franzese repubblica onorevolmente; volere la Francia grata riconoscere con procedere generoso un procedere generoso, e siccome la sua alleata non aveva dubitato di commettersi ad una fortuna ancor dubbia, così godrebbe sicuramente i frutti d'una fortuna certa: avere potuto la Francia, quando aveva il collo gravato dal giogo di un re, ingrata essere ed ingannatrice, ma la Francia libera, la Francia repubblicana riconoscente essere e leale, e con tanto miglior animo riconoscere l'obbligo, quanto il benefizio non era senza pericolo: andasse pur sicura Venezia e si confortasse che la nazione franzese nel numero de' suoi più puri, de' suoi più zelanti alleati sarebbe: quanto a lui, nobile Querini, se ne gisse pur contento che la franzese repubblica contentissima si reputava di averlo per ministro di una repubblica amica, e che di pari estimazione in Francia goderebbe di quella che già si era in Venezia acquistata; i desiderii di pace essere alle due repubbliche comuni; confidare, sarebbero presto con la quiete universale d'Europa adempiti. Per tal modo si vede che per testimonio del presidente Lareveillere-Lepaux, che orava, Venezia era generosa, libera, amica di Francia. Pure poco tempo dopo coloro che sottentrarono al governo ed un soldato la distrussero, chiamandola vile, schiava e perfida. Giunte a Venezia le novelle della cortese accoglienza fatta al Querini, si rallegrarono vieppiù coloro che avevano voluto fondar lo Stato piuttosto sulla fede di Francia che sull'armi domestiche, e si credettero di aver in tutto confermato lo impero della loro antica patria. Dalla parte d'Italia, dov'era accesa la guerra, incominciavano a manifestarsi i disegni dei Franzesi. Doleva loro l'acquisto fatto della Corsica dagl'Inglesi, e desideravano racquistarla. Oltre a ciò le genti accampate sulla riviera di Ponente travagliavano per una estrema carestia di vettovaglia; importava finalmente che il nome e la bandiera di Francia si mantenessero vivi nel Mediterraneo. Fu allestita con incredibile celerità a Tolone una armata di quindici grosse navi di fila con la solita accompagnatura delle fregate e di altri legni più sottili. Genti da sbarco e viveri in copia vi si ammassarono; usciva nei primi giorni di marzo, e postasi nelle acque delle isole Iere, aspettava che il vento spirasse favorevole all'esecuzione dei suoi pensieri. Il vice-ammiraglio inglese Hotham, che stava in sentore a Livorno con una armata in cui si noveravano quattordici grosse navi di fila, tutte inglesi, ed una napolitana, con tre fregate inglesi e due napolitane, avuto subitamente avviso dell'uscita dei Franzesi, pose tosto in alto per andar ad incontrare il nemico, e combatterlo ovunque il trovasse. Dall'altra parte, uditosi dall'ammiraglio franzese Martin, al quale obbediva l'armata, che gl'Inglesi solcavano il mare per combattere con lui, lasciate le onerarie all'isole Iere, sciolse animosamente le ancore ancor egli, risolutosi al commettere alla fortuna delle battaglie l'imperio del Mediterraneo. Incominciò a dimostrarsegli con lieto augurio la benignità della fortuna, perchè avendo l'Hotham, tosto che ebbe le novelle del salpar dei Franzesi, spedito ordine alla nave il Berwick, che stanziava a San Fiorenzo di Corsica, acciò con tutta celerità venisse a congiugnersi con lui verso il capo Corso, essa, abbattutasi per viaggio nell'armata franzese, fu fatta seguitare dal vascello ammiraglio il Sanculotto (con questi pazzi nomi chiamavano i Franzesi di quell'età le navi loro) e da tre fregate, per modo che, combattuta gagliardamente, fu costretta ad arrendersi in cospetto di tutta l'armata repubblicana, che veniva via a vele gonfie per secondare i suoi che già combattevano; sì mal concio però uscendo dal feroce contrasto il Sanculotto che ritirossi per forza nel porto di Genova e poco poscia in quello di Tolone. Intanto arrivarono le due armate l'una al cospetto dell'altra nel giorno 13 marzo. Quivi incominciò la fortuna a voltarsi contro i Franzesi, perchè separata da una forte buffa di vento dalla restante armata la nave il Mercurio, per questi accidenti si trovarono i Franzesi al maggior bisogno loro con due navi di manco, delle quali il Sanculotto, essendo a tre palchi, era la principale speranza della vittoria. Godevano gl'Inglesi il vantaggio del vento, sicchè fu spinta l'armata della repubblica verso il capo di Noli, seguitandola gl'Inglesi per modo di caccia generale. In questo, tra pel mareggiare, ch'era forte a cagione del vento assai fresco, e per la forza dell'artiglierie inglesi che già si erano approssimate, perdè il vascello il Caira gli alberi di gabbia, e perseguitato dalla fregata l'Incostante e dal vascello l'Agamennone, si difese bensì gagliardamente, soccorso da' suoi sino a notte, ma per la difficoltà del muoversi continuando tuttavia a rimanere troppo più vicino agli Inglesi che la salute sua non richiedesse, come anche la nave il Censore che l'aveva aiutato. Questi accidenti, parte inevitabili, parte fortuiti, furono cagione che la mattina del 14 fossero queste due navi nuovamente assaltate. Contrastarono esse con tanto valore, che gl'Inglesi non poterono venire così tosto a capo del disegno loro di rapirle. Chiamarono in soccorso l'Illustre ed il Coraggioso, ma furono anche queste tanto lacerate dalla furia delle cannonate repubblicane, che la prima, non più abile a governarsi, fu arsa, la seconda andò per forza a ritirarsi nel porto di Livorno. Ma finalmente le due navi della repubblica, non potendo pel silenzio dei venti essere aiutate dal grosso dell'armata, calata la tenda, si arrenderono. Continuava agl'Inglesi il benefizio del vento; alla fine, essendosi messa una brezza leggiera anche pei Franzesi, se ne prevalsero, solo per altro per ritirarsi con minor danno che possibil fosse da quel campo di battaglia oramai più pericoloso che glorioso. La quale mossa riuscì poco ordinata nè conforme alla volontà dell'ammiraglio; ma un cattivo consiglio fu compensato da un valore inestimabile, sì che gl'Inglesi medesimi ne restarono maravigliati. Assicurò per allora questa vittoria le cose di Corsica a favor degl'Inglesi. Questa fu la battaglia del capo di Noli, nella quale fu pari da ambe le parti il valore, ma maggiore dalla parte degli Inglesi la perizia e l'ubbidienza dei capitani minori. Così fu sturbata ai Franzesi l'impresa di Corsica, diventarono i nemici loro padroni del Mediterraneo, le provincie meridionali di Francia penuriarono vieppiù di vettovaglie, i repubblicani sulla riviera di Ponente furono a tali strette ridotti, che se si mostrarono mirabili nel vincere i pericoli della guerra, più ancora diedero maraviglia nel superare gli stimoli della fame. In questo mentre si ebbero le novelle della pace conclusa tra la repubblica franzese e il re di Prussia, accidente gravissimo e che diede molta alterazione agli alleati, sì per l'opinione come per la diminuzione di forze che a loro ne veniva. Non potè però fare che l'imperator d'Alemagna ed il re di Sardegna non rimanessero in costanza; anzi cominciando a manifestarsi in Piemonte gli effetti del trattato di Valenciennes, pel grosso numero di Tedeschi che vi erano arrivati, malgrado l'alienazione della Prussia, alzarono la mente a più importanti pensieri, colla speranza di cacciar del tutto i repubblicani dalla riviera di Genova. Per la qual cosa avviate le genti loro verso il Cairo, dal quale i Franzesi si erano ritirati, ed occupata la sommità dei monti, già inclinavano a qualche fatto memorabile. Erano in tal modo ordinati i confederati, che l'ala loro sinistra guidata dal generale Wallis faceva sembiante di volersi impadronire di Savona, e di assaltare i Franzesi che si erano fortificati al ponte di Vado: il mezzo, dov'era presente il generalissimo Devins, e che era il nervo principale, minacciava di voltarsi al cammino dei siti molto importanti di San Giacomo e di Melogno; la destra, che obbediva al generale Argenteau, dava a dubitare che, con impeto improvviso avanzandosi, andasse a riuscire a Finale. Una grossa squadra di cavalleria piemontese stanziava presso a Cuneo, pronta a passar le Alpi o gli Apennini ove la fortuna aprisse qualche adito alla vittoria. Corpi sufficienti di truppe, massime piemontesi, munivano le valli di Stura, di Susa e d'Aosta sotto la condotta dei duchi d'Aosta e di Monferrato. Davano gran forza a tutte queste genti i Barbetti, come li chiamavano, i quali, gente piuttosto da strada che da milizia, nascondendosi spediti e leggieri nei luoghi più ermi e precipitosi delle nizzarde montagne, erano assai pronti a spiare le mosse dell'inimico, a sorprendere le vettovaglie, e ad uccidere, spesso anche crudelmente, gli spicciolati. Usavano somma barbarie nel difendere la regia causa; nè i comandamenti del re, che desiderava di metter ordine e moderazione fra di loro, bastavano per frenar appetiti così smoderati e disumani. Dall'altra parte i Franzesi governati dal Kellerman erano molto intenti alle provvisioni per resistere ai confederati, quantunque l'esercito loro non pareggiasse di numero quel della lega. La loro ala dritta, sotto l'imperio di Massena, stanziava colla estremità sua a Vado, e distendendosi pei monti arrivava insino alla valle del Tanaro. Quivi incominciava la parte mezzana, che pel colle di Tenda andava a congiungersi sul Gabbione con la sinistra che muniva i colli di Raus e delle Finestre, e le valli della Vesubia e della Tinea. Era Savona sito di molta importanza sì per l'opportunità del porto, sì pel suo castello munitissimo. L'una parte e l'altra, non portando rispetto alla neutralità di Genova, desideravano d'impadronirsene o per insidia o per una battaglia di mano. Fuvvi sotto le sue mura un'abbaruffata fra i repubblicani, che vi erano venuti, e i confederati, che li volevano pigliare: rifulse in questo fatto la virtù del governatore Spinola, che serbò la neutralità e la piazza, costringendo le due parti a levarsene. A questa incomposta avvisaglia successero assai tosto battaglie grossissime. Vedevano i confederati essere loro di somma importanza lo scacciare i repubblicani dalla riviera di Genova, perchè, se a ciò non riuscissero, la Lombardia austriaca sarebbe sempre stata in grave pericolo, e la difesa del re di Sardegna, non che difficile, quasi impossibile. Assai lunga era la fronte dell'esercito franzese: il romperlo in mezzo era un vincerla tutta. Si risolvettero adunque a fare impeto principalmente contro i monti di San Giacomo e di Melogno, onde riuscisse loro di tagliar fuori l'ala dritta dei Franzesi dalle due altre parti. Pensarono altresì ad assaltare fortemente il luogo di Vado, dove i repubblicani s'erano molto fortificati, perchè, se la fortuna fosse stata per loro anche qui propizia, si sarebbe allargato subitamente lo spazio dove gl'Inglesi potevano approdare. Pertanto gli Austriaci assalirono con grandissimo valore il posto di Vado, già inclinando verso il suo fine il mese di giugno; risposero con eguale virtù i Franzesi guidati da Laharpe, e tanto fecero che non si piegarono punto, anzi ributtarono valorosamente il nemico, più valoroso ed impetuosissimo. Questo fu uno dei fatti della presente guerra per cui si devono accrescere le laudi dei Franzesi pel valor dimostrato e per la perizia del saper prendere i luoghi e dell'usar le occasioni; ma non con pari fortuna combatterono sui monti di San Giacomo e di Melogno; perchè una grossa schiera di Austriaci condotti da Devins assaltava impetuosissimamente tutti i posti che munivano le alture del primo: varii furono gli assalti, varie le difese, molti i morti, molti i feriti da ambe le parti; durò ben sette ore la battaglia, nè ben si poteva prevedere quale avesse a prevalere, o la costanza austriaca o la vivacità franzese, avvegnachè quegli alpestri gioghi già fossero contaminati di cadaveri e di sangue. Finalmente declinò la fortuna dei Franzesi; gli Austriaci, che prevedevano che da quella fazione dipendeva tutto l'evento della ligustica guerra, fatto un estremo sforzo, riuscirono, cacciatone di viva forza gli avversati, sulla sommità del monte. Con pari disavvantaggio procedevano le cose dei Franzesi a Melogno, custodito solamente da due battaglioni. Lo attaccava Argenteau con cinque mila soldati fioritissimi, e dopo breve contrasto facilmente se lo recava in mano. Come prima ebbe Kellerman avviso della perdita di Melogno, mandava Massena con un grosso di quattro battaglioni valentissimi a far opera di ricuperarlo; il che era non di somma, ma di estrema importanza. Usarono i soldati di Massena molto opportunamente d'una nebbia assai folta; ma furono rigettati con le artiglierie e con le baionette, non senza aver perduto buon numero di valenti soldati. Questo rincalzo non tolse loro tanto di speranza, che non tentassero un secondo assalto: Massena medesimo, al solito rischievole guidatore di qualunque più difficile impresa, reggeva i passi loro, ed avendoli divisi in tre colonne, comandava alle due estreme ferissero l'inimico sui due fianchi; alla mezzana percuotesse di fronte l'altura pericolosa. Marciavano molto confidenti della vittoria; ma la nebbia fece sì che le colonne laterali si accozzassero alla mezzana per modo che in vece di tre assalti si ridussero a darne un solo sulla fronte. Questo cangiò del tutto la condizione della battaglia, perchè gl'imperiali, combattendo per diritto da quei ripari sicuri con tutte le artiglierie loro, obbligarono prestamente i repubblicani a ritirarsi, non senza strage, ai luoghi d'ond'erano venuti. S'aggiunse a questo che gli Austriaci s'impadronirono del passo dello Spinardo, altro sito importante che dava loro maggior facoltà di rompere e spartire in due l'esercito di Francia. Occupato San Giacomo e Melogno, salirono gl'imperiali facilmente sui monti che stanno imminenti a Vado, donde poterono bersagliare i Franzesi, che tuttavia vi avevano le stanze. Perlochè questi, disperati pei sinistri occorsi di poter conservare questo luogo, chiodati ventidue cannoni e due obici che non potevano trasportare, si ritirarono. Entrarono tosto in Vado gli Austriaci, e poservi di presidio il reggimento Alvinzi. Mentre tutte queste cose si facevano sulla riviera di Genova, succedevano parecchie battaglie su tutte le creste degli Apennini e dell'Alpi con vario evento; volendo e Franzesi e Piemontesi aiutare con questi assalti lontani le maggiori battaglie del Genovesato. Kellerman, vedendo che per l'occupazione fatta dagli alleati de' siti più importanti verso Savona, le sue stanze in que' luoghi non erano più sicure, e che la sua ala dritta correva pericolo d'essere tagliata fuori dalle altre, tirò con molta prudenza e singolare arte indietro la troppo lunga fronte de' suoi. Per tal modo Finale e Loano, abbandonati dai repubblicani, vennero in potere degl'imperiali. La ritirata de' Franzesi da Vado era necessaria per la salute loro, ma fu loro da un altro canto di grandissimo incomodo a cagione della mancanza delle vettovaglie, perchè i corsari vadesi e savonesi con bandiera austriaca correvano continuamente il mare, tanto che a mala pena alcune navi più sottili d'Idriotti, sguizzando la notte o pel favor di venti prosperi, riuscivano ad approdare, sussidio insufficiente a sollevare tanta carestia. Per privare viemmaggiormente le navi neutre della comodità di farsi strada ai lidi di Francia ed alla parte della riviera occupata dai Franzesi, aveva il generale austriaco armato nel porto di Savona certe grosse fuste che portavano venti cannoni; e v'erano giunte due mezze galere e quattro fuste napolitane, ed a tutti questi legni minori faceano ala le fregate inglesi. Per tutto questo nacque una penuria incredibile nel campo franzese, e già si ripromettevano i confederati che i repubblicani, indeboliti dalla fame, pensassero oramai a ritirarsi da tutta la riviera. Ma i Franzesi, non mostrandosi meno costanti nel sopportare l'estremità del vivere, di quanto fossero stati valorosi ne' fatti d'arme, continuavano ad insistere dal Borghetto e dal Ceriale, in atto minaccioso e fiero. Il che vedutosi da' capi della lega, estimando che, ove la fame non bastava, bisognava usar la forza, assalirono con numero e con valore le posizioni nuove alle quali i repubblicani si erano riparati. Sanguinose battaglie ne seguitavano, in cui ora gli uni ed ora gli altri restavano superiori: la somma fu, che, non essendo venuto fatto agli alleati di sloggiar i Franzesi, perdettero il frutto di tutta l'opera, perchè il non superare que' luoghi era un perdere tutto il frutto del trattato di Valenciennes. Così le sorti d'Italia si arrestarono ed ebbero il tracollo sul piccolo ed ignobile scoglio del Borghetto. Intanto le cose vieppiù s'allontanavano dalla temperanza in Napoli. Eranvi nate sì pel famoso grido della rivoluzione di Francia, sì per le istigazioni segrete di alcuni agenti di quel paese, sì per l'esempio e le esortazioni degli uomini venuti sull'armata dell'ammiraglio Truguet, che aveva visitato il porto di Napoli nel 1793, e sì finalmente per le inclinazioni de' tempi, opinioni favorevoli alla repubblica. Alcuni giovani con molta imprudenza la professavano; altri meno imprudenti, ma più inescusabili, si adunavano e facevano congreghe segrete a rovina del governo. Notarono i discorsi, seppersi le trame: il governo insorgeva a freno de' novatori. Il ministro Acton, conosciuti gli umori, si studiava, come i favoriti fanno, di andare a seconda, con rappresentare continuamente all'animo della regina, già tanto alterato, congiure e tentativi di ribellioni pericolose. Creossi una giunta sopra le congiure. Furonvi eletti il principe Castelcicala, il marchese Vanni ed un Guidobaldi, antico procurator di Teramo, uomini disposti, non solo a far giustizia, ma ancora ad usar rigore. Emmanuele de Deo ed alcuni altri rei furono puniti coll'ultimo supplizio; alcuni carcerati, alcuni confinati. Ciò era non solo diritto, ma ancora debito dello Stato; ma si crearono gli uomini sospetti, parte per indizii più o meno fondati, parte anche senza indizii, mescolandosi le emulazioni e gli odii particolari là dove non era nè reità nè indizio di reità. Le carceri si empierono. Era un terrore universale; il familiare consorzio era contaminato dalla paura de' delatori. Diceva Vanni, già confinata in carcere una gran moltitudine, pullulare tuttavia nel regno i giacobini; abbisognare arrestarsene ancora venti mila; nè si ristava: i carcerati si moltiplicavano. Fu imprigionato Medici, e se nol salvava l'integrità del giudice Chinigò, sarebbe caduto sotto la macchina orditagli da Acton per gelosia, e privato il regno di un uomo di non ordinaria perizia negli affari di Stato. Duravano già da molto tempo le pene insolite, nè rimetteva il rigore. I popoli prima si spaventavano, poi s'impietosivano, finalmente si sdegnavano, e ne facevano anche qualche dimostrazione. Pensossi al rimedio. Siccome Vanni principalmente era venuto in odio all'universale, così fu dimesso ed esiliato da Napoli; gratitudine degna del benefizio. Ciò non ostante, la asprezza non cessò del tutto, se non quando Napoli venne a patti con Francia. Frattanto non si confermava l'imperio inglese in Corsica, parte per l'inquietudine naturale di quella nazione, parte perchè i partigiani franzesi vi erano numerosi, parte finalmente perchè i popoli, scaduti dalle speranze, si erano sdegnati, e gridavano aver solo cambiato padrone, non peso. Oltre a ciò, grande era tuttavia il nome di Paoli in Corsica, e coloro che più amavano l'indipendenza che l'unione con gl'Inglesi, voltavano volentieri gli animi a lui, come a quello che avendo contrastato l'acquisto della Corsica ai Franzesi, poteva anche turbarlo agl'Inglesi. Erano pertanto sorti parecchi rumori in alcune pievi di qua da' monti, massimamente ne' contorni d'Aiaccio; ed il male già grave in sè induceva ogni giorno maggior timore; alcuni già gridavano apertamente il nome di Francia: si temeva una turbazione universale, se prontamente non vi si provvedesse. Per la qual cosa il vicerè Elliot, avvisato prima diligentemente in Inghilterra quanto occorreva, mandò fuori un bando esortatorio. Nè le sue esortazioni restarono senza effetto, non già sulle popolazioni mosse, perchè a popolo mosso bisogna parlar co' fatti, e non con le parole, ma bensì su quelle d'oltremonti, che eleggevano volentieri di stare sotto l'imperio d'Inghilterra. Laonde, ordinate alcune squadre, furono mandate ad aiutare nelle pievi licenziose le esortazioni del vicerè. Oltre a tutto questo, Paoli, o cagione o pretesto che fosse di questi rumori, fu chiamato in Inghilterra dal re, il quale, perchè la chiamata fosse più onesta, gli aveva scritto, la presenza sua in Corsica fare i suoi amici troppo animosi; se ne venisse pertanto a respirare aere più tranquillo in Londra; rimunererebbe la fede sua, metterebbelo a parte della propria famiglia. Paoli, obbedendo all'invitazione, se ne giva a Londra, trattenutovi con due mila lire di sterlini all'anno. Visse fino all'ultimo più accarezzato che onorato. Così finì Pasquale Paoli, nome riverito nella storia, e che sarebbe molto più, se non fosse nata la rivoluzione franzese. Gli avvertimenti del vicerè, le mosse dei soldati corsi ai soldi d'Inghilterra, la partenza di Paoli, ed insieme i benigni ordini venuti da Londra furono di tanta efficacia, che i comuni sollevati, deposte le armi, tornarono all'ubbidienza. Così fu ristorata, se non la concordia, almeno la pace in Corsica, non sì però che, per l'infezione delle parti, non vi fossero molti mali semi, che avevano a partorire fra breve effetti notabili a pregiudizio degl'Inglesi in quell'isola. Qualche moto anche accadde in questi tempi in Sardegna, principalmente in Sassari, città vicina alla Corsica. Il popolo sollevato domandava gli stamenti, che non sono altro che gli stati generali di Sardegna; domandava i privilegii conceduti dai re d'Aragona; domandava i patti giurati nel 1720. Sassari mandò i suoi deputati a Torino, perchè, moderatamente procedendo, i diritti ed i desiderii dei Sardi al re rappresentassero. Dieronsi ai deputati buone parole, e forse qualche cosa più che buone parole. La missione loro non partorì frutto e se ne partirono disconclusi. Intanto furono i tumulti di leggieri sedati, componendosi di nuovo il vivere nella solita quiete, con grande contentezza del re, che molto mal volontieri aveva veduto contaminarsi la difesa di Cagliari dalle sollevazioni di Sassari. Fadda, Mundula ed Angioi, capi e guidatori di quei moli, si posero con la fuga in salvo. In questo mezzo tempo si udirono importantissime novelle da Basilea, essere la Spagna, partendosi dalla confederazione, condiscesa, il dì 22 luglio, alla pace con la repubblica franzese; il quale accidente tanta efficacia doveva avere in Italia, principalmente negli Stati del re di Sardegna, quanta ne aveva avuto negli affari di Germania, e principalmente in quei dell'Austria, la pace conchiusa tra la Francia e la Prussia; i repubblicani vincitori dei Pirenei potevano facilmente voltarsi contro l'Italia per farvi preponderare le forze franzesi. Mossi poi anche i parigini reggitori da quel loro perpetuo appetito d'invadere l'Italia, col diventar padroni del Piemonte per la pace, del Milanese per la guerra, erano stati operatori che s'inserisse nel trattato con la Spagna il capitolo, che la repubblica franzese, in segno di amicizia verso il re Cattolico, accetterebbe la sua mediazione a favore del regno di Portogallo, del re di Napoli, del re di Sardegna, dell'infante duca di Parma e degli altri Stati d'Italia, a fine di concordia tra la repubblica e questi principi. Ulloa, ministro di Spagna a Torino, fece l'ufficio, proferendosi a mediatore tra la repubblica ed il re Vittorio. Offeriva la conservazione e la guarentigia dei proprii Stati, se consentisse a starsene neutrale e a dar il passo ai Franzesi verso l'Italia. Offeriva la possessione del Milanese, se si risolvesse a collegarsi con la repubblica. Mescolaronsi al solito speranze di acquisti di territorii più contigui, se cedesse l'isola di Sardegna alla Francia. Udiva il re Vittorio molto sdegnosamente le proposizioni della Spagna, e sulle prime dichiarò di voler continuare nell'alleanza con l'Austria. Ma perchè fu più pacatamente considerata la cosa, o che s'inclinasse ai patti o che solo si volesse aver sembianze d'inclinarvi, si convocò il consiglio, al quale furono chiamati molti uomini prudenti ed altri assai pratici delle militari faccende. Erano per deliberare intorno ad un soggetto gravissimo e da cui dipendeva questo punto: se il Piemonte avesse a conservare la signoria di sè medesimo o da cadere in servitù dei forestieri. Era presente a questo consiglio il marchese Silva, figlio d'uno Spagnuolo, console di Spagna a Livorno. Pratico delle cose del mondo per molti viaggi in Europa, massimamente in Russia, dov'era stato veduto amorevolmente dall'imperatrice Elisabetta, pratico delle cose militari per lungo studio ed esperienza, avendo anche scritto trattatti sull'arte della guerra, condottosi finalmente agli stipendii della Sardegna, era il marchese da tutti stimato e riverito. Chiesto del suo parere in sì pericoloso caso, parlò con singolare franchezza, e, discorse tutte le presenti sorti delle cose, conchiuse.... «Io porto opinione che la pace sia assai più sicura della guerra, ed alla pace vi conforto, e la chiamo, e la bramo, ora che le forze che ancor vi restano ve la possono dare onorevole e sicura; che se aspettate l'ultima necessità, fia la pace infame, fia distruttiva, fia congiunta con servitù intiera ed insopportabile. Se altro partito miglior di questo vi sovviene, avrei caro udirlo; ma qualunque ei sia, non istate più indugiando, che il tempo pressa, l'occasione fugge, e il pericolo sovrasta. Or vi spiri benigno il cielo, e vi faccia deliberar sanamente a salvazione del generoso Piemonte ed a preservazione della nobile Italia.» Questo discorso, porto da un uomo pratico di guerra, di natura molto veridica, congiunto di amicizia col generale austriaco Strasoldo, fece non poco effetto negli animi dei circostanti, dei quali una parte inclinava agli accordi, quantunque tutti avessero la volontà aliena dai Franzesi. Ma sorse a contrastar questa inclinazione il marchese d'Albarey, il quale, sebbene fosse di indole pacifica e d'animo temperato, essendo stato operatore del trattato di Valenciennes, e fondandosi sulle considerazioni politiche, opinava doversi nella guerra e nella fede data all'Austria perseverare. E le parole sue, che furono gravi ed abbondanti, vere in sè stesse, non restarono senza effetto, meno perchè vere erano che perchè gli animi non avevano per una anticipata risoluzione alcuna inclinazione alla concordia. Per la qual cosa, posta in non cale la mediazione di Spagna, e tagliata ogni pratica, deliberossi di continuar nella guerra contro la Francia, e non si partire dall'alleanza con l'Austria. Certamente il partito era pieno di molta dubbietà; perchè non vi era minor pericolo nelle suggestioni che nelle armi repubblicane, e si temevano con molta ragione gli effetti che avesse a portar con sè la presenza de' Franzesi in Piemonte. Laonde la risoluzione fatta non è se non da lodarsi, non perchè più sicura fosse, ma perchè, in pari pericolo da ambe le parti, ella era più onorevole. Giungeva intanto il tempo che doveva mostrare se quell'armi che non senza grave fatica e stento avevano potuto contrastare ai Franzesi divisi tra Spagna ed Italia, potessero resistere all'impeto loro unito, ed indirizzato a voler fare la conquista delle italiane contrade. Già fin dal principio di quest'anno si era deliberato nei consigli di Francia di voler passare con l'armi in Italia. Uno dei principali confortatori a quest'impresa era Scherer, riputato fra i buoni generali di Francia per le pruove fatte recentemente da lui nelle guerre di Germania e di Spagna. Si rinfrescavano vieppiù questi pensieri dopo la pace di Spagna, e parendo che quegli che ne aveva fatto il disegno più accomodato capitano fosse per mandarlo ad esecuzione, fu egli preposto all'esercito d'Italia, restando Kellerman a governare solamente le genti alloggiate nelle Alpi superiori. Concorrevano intanto i soldati repubblicani dai Pirenei agli Apennini, e con loro parecchi guerrieri di nome. Inchinava omai la stagione all'inverno, e trovandosi gli alleati riparati a luoghi forti per natura e per arte, a tutt'altro pensavano fuori che a questo, che i repubblicani, massime privi, com'erano di cavallerie, con poche e piccole artiglierie, e ridotti in una insopportabile stretta di vettovaglie, avessero animo di assaltarli. Ma i soldati della repubblica, usi a vincere le difficoltà che più insuperabili si riputavano, ed astretti anche dall'ultimo bisogno ad aprirsi la via per mare e per terra verso Genova, dalla qual sola potevano sperare di trarre di che pascersi, non si ristettero, ed opponendo un coraggio indomabile all'asprezza del tempo, alla mancanza dell'armi, alla carestia del vivere, ad un nemico più numeroso di loro, abbondante d'armi e di munizioni, fortificato in luoghi già per sè stessi malagevoli, si deliberarono di voler pruovare se veramente il valore vince la forza, e se l'audacia è padrona della fortuna. Così si preparava la battaglia di Loano, assai famosa pel valore mostrato dai soldati repubblicani e per la perizia dei generali loro, specialmente di Massena, che ebbe la principal gloria di questo fatto. Era la fronte dei Franzesi in tal modo ordinata, che, posando con l'ala dritta sulla rocca del Borghetto bagnata dal mare, e passando per Zuccarello e per Castelvecchio, dov'era la battaglia, andava con la sinistra a terminarsi sui monti che sono in prospetto di quelli della Pianeta e del San Bernardo per alla via verso Garessio. Reggevano la destra Scherer ed Augereau, la mezza Massena, la sinistra Serrurier. I confederati stavano schierati di modo che l'ala loro da mano manca, governata, da Wallis, occupava Loano, la battaglia, condotta da Argenteau, Roccabarbena, e la destra, composta in gran parte di Piemontesi e retta da Colli, si stendeva sui monti della Pianeta e del San Bernardo. Parendo a Devins che tutti questi siti forti non bastassero ad assicurarlo, aveva, come guardie avanzate, fatto tre campi forti, due innanzi Loano, un terzo, per sicurezza della mezzana, più in su, a Campo di Pietra. Ma come prudente capitano, prevedendo gli accidenti sinistri, aveva munito di gente e d'artiglierie, non solamente Bardinetto e Montecalvo, ma ancora più dietro, qual ultimo presidio e schiera soccorrevole, i monti di Melogno e di Settepani. Per tal modo si vede che Devins aveva ottimamente preveduto donde doveva venire il pericolo, e provvedutovi ancora efficacemente. Separava i due eserciti una valle profonda, il cui fondo bagna il piccolo fiumicello che corre tra Loano ed Albenga. Il giorno 17 novembre, per riconoscere i luoghi e per assaggiar l'inimico, Massena commise al generale Charlet che assaltasse il posto di Campo di Pietra, il quale, sostenuto un furioso urto, si arrese. Questa fazione, terribile presagio di battaglie più gravi, ed indizio probabile di quanto i Franzesi avevano in animo di fare, non tenne tanto avvertito Arganteau, che pensasse a starsene avvisatamente. Era la notte del 22 novembre quando Massena, raunati i suoi, così lor disse: «Soldati, il ricordare valore a voi, fora piuttosto ingiusta diffidenza che giusto incoraggiamento; bastò sempre per animarvi a vincere il mostrarvi dove fosse il nemico. Ora, quantunque più numeroso di voi, si è riparato alle rupi, confessando in tal modo coi fatti più che con le parole, che ei non può stare a petto vostro. Ma che rupi o quali precipizii possono trattenere i soldati della repubblica? Voi vinceste le Alpi, voi gli Apennini già più volte, e costoro, nuovi compagni vostri, vinsero i Pirenei: vinsero essi i soldati di Spagna, voi vinceste quei di Sardegna e dell'Imperio; ma Sardegna ed Imperio continuavano ad affrontarvi; però voi un'altra volta vinceteli, voi fugateli, voi dissipateli, e fia la vittoria vostra pace con l'Italia, come fu la vittoria loro pace con la Spagna. Questi ultimi re, non ancora fatti accorti dalle sconfitte, osano, con l'armi impugnate, stare a fronte della repubblica; ma voi pruovate loro con le opere, che nissun re può stare armato contro di noi; e poichè aspettano lo estremo cimento, fate che esso sia l'estremo per loro.» Era Massena piccolo di corpo, ma di animo e di volto vivacissimo, e perciò abile ad inspirar impeto nel soldato franzese, già per sè stesso tanto impetuoso. Perciò, alle sue parole maravigliosamente incitati, givano con grandissimo ardimento per quei dirupi, essendo la notte oscurissima e fatta più oscura da un tempo tempestoso. Era intento di Massena, così accordatosi con Scherer, di urtare nel mezzo dei confederati, di romperlo, e, separando gli Austriaci dai Piemontesi, di farsi strada ad un tempo a calarsi alle spalle dell'ala sinistra, che avrebbe dovuto od arrendersi o fuggire alla dirotta. Dovevano secondare questa fazione a diritta Scherer con un assalto forte contro Loano; Serrurier con un assalto più molle contro il San Bernardo. Appariva appena il giorno dei 23 novembre che Massena assaliva da due bande con una foga incredibile il campo di Roccabarbena. Accorrevano a questo accidente impensato gli uffiziali tedeschi ai luoghi loro, e già trovavano qualche titubazione e scompiglio nella loro ordinanza. La qual cosa dimostra l'inconsiderazione d'Argenteau, che, non avendo presentito, com'era facile, quella tempesta, aveva permesso che gli uffiziali si allontanassero dai loro soldati. S'aggiunse un altro infortunio, e fu che Devins, afflitto da grave malattia, e reso inabile al comandare, si era condotto, instando la battaglia, da Finale a Novi, con lasciare la direzione suprema dell'esercito a Wallis. Intanto ardeva la zuffa a Roccabarbena. Laharpe e Charlet, che davano la batteria, con molto valore insistendo tanto fecero, che, superata ogni resistenza, cacciarono il nemico che si ritirava, andando a farsi forte a Bardinetto. Qui nacque un nuovo e terribile combattimento; perchè i confederati, riavutisi da quel primo terrore, vi si difendevano gagliardamente, e dal canto suo fulminava con tutte le sue forze Massena, giudicando che dalla prestezza del combattere dipendesse del tutto la vittoria. Finalmente, dopo molte ferite e molte morti da ambe le parti, prevalsero i repubblicani; entrati forzatamente in Bardinetto, uccisero quanti resistevano, presero quanti non poterono fuggire, e s'impadronirono di tutte le artiglierie. Ritiraronsi sconcertate e sconnesse le reliquie dei confederati per luoghi erti e scoscesi verso Bagnasco sulla sinistra sponda del Tanaro. Nè bastando all'intento ed all'impeto smisurato di Massena l'acquisto di Bardinetto, mandava a Cervoni s'impadronisse di Melogno, ed al colonnello Suchet pigliasse Montecalvo, luogo arido e quasi inaccessibile. Ebbero queste due fazioni il fine che Massena si era proposto; in tal modo non solo fu prostrata tutta la mezzana dei confederati, ma fu fatto abilità ai Franzesi di calarsi verso il mare alle spalle dell'ala sinistra. Il quale fatto coi precedenti fece del tutto piegar le sorti in favor dei repubblicani. Ma perchè la sinistra dei confederati non ricuperasse quello che la mezzana avea perduto, Scherer, fatto dar dentro fortemente ai tre monticelli fortificati avanti Loano ed alla forte terra di Toirano, li superava. Nei quali fatti, aiutati anche da tiri di alcune navi franzesi che si erano accostate al lido tra Loano e Finale, acquistarono buon nome i generali Augereau e Victor. Allora, tra per questo e per essersi Suchet, ricevuto un rinforzo di tre grossi battaglioni mandati da Scherer, calato correndo alle spalle loro, si ritirarono i confederati verso Finale, seguitati dai repubblicani a pressa a pressa. Serrurier, vedute le vittorie della mezzana e della destra parte de' suoi, insisteva più vivamente contro il fianco destro del nemico, e cacciatolo da tutti siti, lo costringeva a ripararsi nel campo trincierato di Ceva, dove giungevano altresì lacerati e sbaragliati i residui della squadra d'Argenteau, generale che fu cagione principale di questa rotta, per imprevidenza prima del fatto, e per la nissuna avvedutezza nè costanza nel combattimento. Così l'ala sinistra dei confederati si ritirava non senza scompiglio, e seguitata dai Franzesi, sul litorale verso Savona, la mezzana del tutto rotta se n'era fuggita, la destra più intera si era accostata al forte di Ceva. Scese intanto la notte e conchiuse l'affannoso giorno. Sorse con lei un temporale orribile misto di pioggia dirotta e di grandine impetuosa: serenarono i Franzesi nei luoghi conquistati. Ma non così tosto appariva l'alba del giorno seguente, che, condotti da Augereau, si misero di nuovo a seguitare velocemente quella parte dei confederati che si ritirava pel litorale, e già la giungevano, con far molti prigionieri. Nè qui si contenne l'infortunio dei vinti; perchè Massena, che stava continuamente alla vista di tutto, avvisando quello che era, cioè che il nemico, dopo di essere passato per Finale, volesse ritirarsi pel monte San Giacomo, era comparso improvvisamente a Gora sul ciglione della valle del Finale, e da una parte mandava una prima squadra ad assaltare il cadente nemico, dall'altra ne spediva una seconda, affinchè occupasse celeremente San Giacomo. In questo modo la sinistra degli alleati, per la rotta improvvisa della mezzana, pressata da fronte, sul fianco ed alle spalle, non aveva altro rimedio che la sollecita fuga; alla quale quei luoghi montagnosi, pieni di tragetti e di sentieri reconditi davano molto favore. Chi si potè salvare andò a formar la massa in Acqui, dove i capi attendevano a raccorre e riordinare le compagnie dissipate; chi non potè, cadde in balia del vincitore. Tutte le artiglierie, gran parte delle bagaglie e delle munizioni, il carreggio quasi tutto, rendettero più lieta la fortuna dei repubblicani. Andavano a svernare in Vado ed in Savona, padroni del tutto della riviera di Ponente, e minacciando con la presenza vicine calamità all'Italia. Oscurarono lo splendore di questa vittoria le ruberie, i saccheggi, e perfino i violamenti delle miserande donne commessisi dai repubblicani sul genovese territorio. Levossene un grido per tutta Italia che aspettava gli estremi danni. Volle Scherer frenare tanto furore; pubblicava che farebbe morire chi continuasse; prese anche l'ultimo supplizio de' più rei; ma non udivano l'impero dei capitani, e nè le minacce nè i supplizii spegnevano la scellerata rabbia. Non gli scusava, perciocchè nissuna cosa può scusare sì eccessive enormità, ch'eran stremi d'ogni vettovaglia e d'ogni fornimento, come l'esser forniti abbondantemente d'ogni cosa necessaria al vivere di soldato aggravava la colpa dei loro avversarii, che non si stettero immuni da sì fatte colpe. Così l'Italia, lacerata dagli amici, lacerata dai nemici, in preda al furore degli uni, in preda al furore degli altri, «mostrava quale sia la condizione di chi alletta con la bellezza e non può difendersi con la forza.» Anno di CRISTO MDCCXCVI. Indiz. XIV. PIO VI papa 22. FRANCESCO II imperadore 5. A questo tempo avendo i collegati provato con molto danno loro qual dura impresa fosse l'affrontarsi con quegli audaci repubblicani di Francia, si consigliarono di voler dimostrare inclinazione alla concordia e porre avanti alcune proposizioni d'accordo, sì per avere più giustificata cagione di continuar a combattere, se i repubblicani ricusassero, e sì per aver comodità di respirare e di aspettare il benefizio del tempo, se accettassero. Per la qual cosa pensarono a tentare la disposizione del direttorio di Francia, con introdurre qualche negoziato a Basilea, città neutrale, e già famosa per le due paci di Prussia e di Spagna. Siccome poi l'Inghilterra era l'anima di tutta la mole, così da questa ed a nome di tutti procedettero le proferte. Scriveva il dì 8 marzo del presente anno Wickam, ministro d'Inghilterra appresso ai cantoni Svizzeri, a Barthelemi, ministro di Francia, ch'egli aveva comandamento di fargli a sapere che la sua corte desiderava di restare informata se la Francia aveva inclinazione a negoziare con sua maestà e co' suoi alleati, a fine di venirne ad una pace generale stipulata con giusti e convenienti termini; se a ciò si risolvesse la Francia, mandasse ministri ad un congresso in quel luogo che più sarebbe stimato conveniente da ambe le parti. Desiderava altresì sapere quali fossero i generali fondamenti della concordia che piacesse al direttorio di proporre, affinchè si potesse esaminare se fossero accettabili, finalmente, se i mezzi proposti, non fossero accettati, quali altri avesse a proporre per trovare qualche modo d'onesta composizione. Questa proposta, la qual era del tutto conforme ai modi soliti a usarsi fra i principi, nè avea in sè cosa che potesse offendere l'animo del direttorio, fu molto risentitamente udita da lui, e diede principio a quel costume dottorale e loquace di quei governi repubblicani ed imperiali di Francia di voler insegnare in casa altrui, come se meglio non conoscesse i fatti proprii chi li governa di chi non li governa; ed altresì a quell'uso affatto insolito e veramente enorme di dar consigli o ad un amico o ad un nemico, e di convertire in cagion di guerra il rifiuto di seguitarli. Il direttorio comandava a Barthelemi che rispondesse, desiderare lui la pace, ma desiderarla giusta, onorevole e ferma; avrebbe udito volontieri le proposte, se quel dire di Wickam, di non aver autorità di negoziare, non desse sospetto intorno alla sincerità inglese. E qui veniano le parole dottorali all'Inghilterra, dopo cui terminava; convenirsi alla sincerità del direttorio il palesare apertamente a quali patti ei potrebbe consentire agli accordi; vietare la costituzione della repubblica che niun paese di quelli che erano stati incorporati al suo territorio da lui si scorporasse; delle altre conquiste si negozierebbe. Qui parimente ebbe principio quel metodo veramente incomportabile, usato dai governi che per venti anni l'uno all'altro succedettero in Francia, di volere che una legge politica interna diventasse legge politica esterna, ed obbligatoria pei forestieri. Rispose l'Inghilterra, anche a nome di tutti i confederati, non poter consentire ad una condizione tanto insolita, nè altro mezzo restare se non quello di continuare in una giusta e necessaria guerra. Così non si seguitò più questo ragionamento, e svanirono le speranze di pace concette dalle proferte di Basilea. Ognuno aveva gli occhi volti al re di Sardegna, il quale, già perduto mezzo lo Stato e prostrate le difese del restante, si vedeva vicino ad essere prima condotto all'ultima rovina che la guerra incominciasse pure a romoreggiare sui confini de' suoi alleati. Conoscevano questi la costanza del re, ma dubitavano che nel prossimo urto dell'armi, se le battaglie fossero riuscite infelicemente ed i repubblicani si facessero strada nel cuor del Piemonte, si sarebbe forse alienato da loro. Tentarono dunque il re, ammonendolo che si dichiarasse pel caso d'un sinistro di guerra. Ridotto a queste strette, rispose animosamente Vittorio che correrebbe con loro la medesima fortuna, che persisterebbe nella fede, che non sarebbe per abbandonar la sua congiunzione; non dubitassero che i fatti non fossero per corrispondere alla prontezza dell'animo. L'Austria intanto, veduto che i tempi estremi erano giunti per lei in Italia, mandava a governare le genti, invece del Devins, più prudente che ardito capitano, il generale Beaulieu, il quale, quantunque già molt'oltre con gli anni, era animoso, vivace, ed abile per questo di stare a fronte di quella furia franzese che meglio si può vincere col prevenirla che coll'aspettarla. Ma quantunque fossero in Beaulieu le qualità più necessarie in un buon capitano, mancava in lui la cognizione dei luoghi, non avendo mai guerreggiato in Italia, nè portò con sè tante forze quante sarebbero state necessarie. Oltre a ciò, sebbene quando fu chiamato generalissimo in Italia, gli fosse stato promesso che sarebbe rivocato Argenteau, che, per difetto o d'animo o di mente, era stato cagione d'infelici eventi nella riviera di Genova, nondimeno l'aveva trovato ancora, non senza sdegno, non solo presente all'esercito, ma ancora rettore d'una forte divisione di soldati: il che a lui, che era consideratore delle cose future, diede sinistro presagio. Nè Beaulieu medesimo era tale che potesse convenientemente governare capitani e genti di diverse lingue e di diverse nazioni, tenendo più del guerriero che del cortigiano, per guisa che, più temuto che amato dai suoi e dai forastieri, era piuttosto obbedito per forza che per volontà. Nè i nobili piemontesi, che sentivano molto altamente di loro medesimi, lo avevano a grado. E Colli, che reggeva sovranamente l'esercito regio ed al quale non mancava nè perizia nè virtù militare, non vivea concorde col capitano austriaco. Questo fu cagione che, contuttochè i due generali operassero di concerto, nei partiti dubbii però, dove aveva gran parte la propria opinione, l'uno non secondava l'altro, nè l'altro l'uno, quanto la gravità del caso avrebbe richiesto. Erano per tale guisa ordinati i confederati, che la loro ala sinistra, partendo dalla vicinanza di Serravalle, si distendeva fino alla destra sponda della Bormida; quivi incominciava il corno sinistro de' Piemontesi, che si prolungava fino alla Stura, appoggiandosi coll'estremità del corno destro alla forte città di Cuneo. Ma siccome quello di cui stavano in maggior gelosia gli Austriaci, erano le possessioni loro in Lombardia, così si erano molto ingrossati nei contorni di Alessandria e di Tortona; ed avrebbero desiderato, per maggior sicurezza delle cose aver in mano la fortezza di Tortona stessa; e ne fecero anche richiesta; ma ciò fu loro con la solita costanza dinegato dal re, il quale, ancorchè posto nell'ultima necessità, volle non ostante, quanto potè, in propria balìa conservarsi. Tal era adunque la condizione de' tempi, che il re di Sardegna combatteva per la salute sua, e ne andava tutto lo Stato, l'imperador di Alemagna per le sue possessioni del Milanese e del Mantovano, il re di Napoli per la preservazione d'Italia, il papa per l'autorità della santa Sede e per l'incolumità della religione; Venezia sperava nella neutralità con armi, Toscana nella consanguinità coll'Austria e nell'amicizia colla Francia; Parma e Modena, nè in pace nè in guerra, dipendevano in tutto dagli accidenti. Risoluzione principalissima de' reggitori franzesi era di far potente impresa per invadere l'Italia, ed a questo fine indirizzavano tutti i pensieri loro. A questo si muovevano non solo per desiderio di pascere l'esercito in un paese ricco ed ancora intatto, ma eziandio per la speranza che alla fama di un tanto fatto, e per lo scompiglio che ne sarebbe nato tanto in Italia quanto in Germania, si sarebbero manifestati a favor loro in tutte od in alcune corti d'Europa cambiamenti di importanza. Più special fine loro in tutto questo era di costringere l'imperatore alla pace, per facilitar la quale, speravano di trovar in Italia per la forza delle armi compensi ad offerire a quel principe in iscambio de' Paesi Bassi, che ad ogni modo voleano conservare incorporati alla Francia; imperciocchè si avvedevano che ove fosse la casa d'Austria, tanto nobile e tanto potente, sforzata alla pace con la repubblica, non solo i potentati minori, ma anche i più grossi sarebbero facilmente venuti ancor essi agli accordi. Al qual primario disegno subordinavano tutti i pensieri e tutte le risoluzioni loro: del modo, o fosse di forza o fosse di fraude, non si curavano. Siccome quando si vuol perdere qualcheduno, ei s'incomincia a fargli proposte disonorevoli, per la speranza di rifiuto, pretesto di ostilità, così i Franzesi uscirono con richiedere Venezia che scacciasse da' suoi Stati il conte di Lilla, il quale sotto tutela del diritto delle genti, e sotto quella ancor più sacra dello infortunio, se ne riposava solitariamente a Verona. Poco importava al governo repubblicano di Francia che il conte se ne stesse negli Stati veneziani, che anzi gl'importava che vi stesse piuttosto che altrove; perchè, se era pericoloso per quel governo che dimorasse in paese non solamente neutrale, ma ancora alieno dal tentar novità in favore di lui, assai più pericoloso sarebbe stato, se si fosse condotto od all'esercito del principe di Condè o negli Stati delle potenze in guerra con la Francia. Ma la domanda di farlo uscire era appicco di querela, non testimonio di timore. Quantunque il conte di Lilla, dopo la morte di Luigi XVII, avesse assunto la dignità reale, e fosse in grado di re tenuto da' fuorusciti franzesi, dal ministro di Spagna Lascasas, dal ministro di Russia Mardinof e dal ministro d'Inghilterra Macarteney, che appresso di lui era stato mandato appositamente dal re Giorgio, il senato veneto non l'aveva mai riconosciuto pubblicamente nè trattato da re; che anzi interpose ogni diligenza, perchè, mentre sul territorio della repubblica dimorasse, non usasse apertamente atti che l'autorità sovrana dinotassero. Al che il conte rispose con nobile condiscendenza, vivendosene assai ritirato in una villa del conte di Gazola; nel quale contegno tanto egli abbondava, che nè pubblicò con le stampe della veneta repubblica, nè datò di Verona il manifesto che fece, nella sua esaltazione, alla nazione franzese; che se poi nelle sue azioni segrete ed in privato teneva pratiche, che certo teneva, per ricuperare l'antico seggio de' suoi maggiori, non si vede come ciò si potesse imputare alla repubblica di Venezia. Gran maraviglia farebbe in questo caso, se non si sapessero le cagioni, lo sdegno del direttorio di Francia; perchè, mentre superbamente comandava al senato veneto che allontanasse da' suoi dominii il conte di Lilla, sopportava molto pazientemente che l'ambasciador di Spagna Lascasas riconoscesse il conte come re di Francia, e con lui, come col re di Francia, di affari pubblici trattasse: il che era di ben altra importanza che il dare ricovero ad un principe infelice e perseguitato. Ma la Spagna era più potente di Venezia. Scriveva dunque, il primo marzo del presente anno, in nome e per ordine del direttorio, il ministro degli affari esteri Carlo Delacroix al nobile Querini in Parigi, che poichè Luigi Stanislo Saverio non aveva dubitato di operare in qualità di re di Francia sul territorio della repubblica di Venezia, si era reso indegno all'asilo concedutogli dalla umanità del senato: richiedeva pertanto e domandava fossene privato, e gli si desse bando da tutti i territorii veneziani. Posto in senato il partito se dovesse la repubblica adempiere la richiesta del governo franzese, ancorchè il procurator Pesaro generosamente contrastasse, ricordando con parole gravissime alla repubblica la bruttezza del fatto e l'antica generosità di Venezia, fu vinto con cento cinquanta sei voti favorevoli e quaranta sette contrarii. Orarono in questo fatto contro l'opinione del Pesaro i savii del consiglio Alessandro Marcello, Nicolò Foscarini e Pietro Zeno, rappresentando che la pietà verso un principe forestiero non doveva più operare negli animi dei padri che la carità verso la patria. Brutta certamente e vituperosa deliberazione del senato fu questa, nè ad alcun modo scusabile e tanto meno quanto si vedeva chiaramente che il vituperio non avrebbe bastato a partorir salute. Si commise al tribunale degl'inquisitori di stato l'esecuzione del partito dal senato preso. Delegossi a far l'ufficio il segretario Giuseppe Gradenigo ed il marchese Carlotto. Introdotti nelle stanze del conte, che per uomo a posta era stato avvisato da Venezia dal conte d'Entraigues del successo delle cose, ed al cospetto suo venuti, eseguirono quello che dalla signoria era stato loro comandato. A tale annunzio rispose gravemente: partirebbe, ma per forza; gli si portasse intanto il libro d'oro, che ne cancellerebbe di sua mano il nome dei Borboni; se gli restituisse l'armatura di Enrico IV, suo glorioso avolo, data in dono alla repubblica. Nè parendogli più dignità il dimorar più lungamente in un dominio che per debolezza obbediva ai comandamenti degli uccisori del suo fratello, se ne partiva senza dilazione, e sotto nome di conte di Grosbois si condusse all'esercito dei Franzesi fuorusciti a Friburgo in Brisgovia. Innanzi però che partisse, fece mandato al ministro di Russia appresso al senato, acciocchè in vece sua cancellasse sul libro d'oro il nome dei Borboni, e l'armatura di Enrico in deposito ricevesse. Al tempo medesimo gli rammentava, che per l'affezione e la fede che aveva posta in lui, gli affidava quanto di più caro e di più prezioso aveva, e quest'era il ritratto del re suo fratello. Gli ricordava infine e gli raccomandava i suoi sudditi fedeli, particolarmente il conte di Entraigues, che nel dominio dei Veneziani rimanevano. Intanto per gli uffizii fatti per ordine del senato dai ministri veneziani presso le corti d'Europa, massimamente presso l'imperatrice delle Russie, che con più caldezza degli altri procedeva in favore del conte, si acquetò il negozio del libro d'oro e dell'armatura di Enrico. Oggimai si avvicinano le calamità d'Italia. «La tirannide sotto nome di libertà, la rapina sotto nome di generosità, un concitare i poveri ed uno spogliare i ricchi, un gridare contro la nobiltà pubblicamente ed un adularla privatamente, un far uso degli amatori della libertà e disprezzarli, un incitarli contro i re ed un perseguitarli per piacere ai re, il nome di libertà usato come mezzo di potenza, non come mezzo di felicità, un lodarla con parole ed un vituperarla coi fatti, le più sante cose antiche stuprate per derisione o per ladroneccio, le più sante cose moderne fatte vili da un'orribile accompagnatura, un rubar di monti di pietà, uno spogliar di chiese, un guastar palazzi di ricchi, un incendere casolari di poveri, ciò che la licenza militare ha di più atroce, ciò che l'inganno ha di più perfido, ciò che la prepotenza ha di più insolente.... conculcata hanno e desolata in fondo la miseranda Italia. Nè più si vanti ella dell'esser bella, o il giardino dell'Europa, o, come la chiamavano, la terra classica delle arti; poichè tali doti, se pur vere sono, che pur troppo sono, non la fecero segno di rispetto, ma sì di preda e di derisione.» Era risoluzione irrevocabile del governo franzese in quest'anno di tentare le cose d'Italia, di aprirvisi l'adito forzatamente, e di correrla con eserciti vittoriosi. Erano i pensieri maturi, le vie spianate, le armi pronte, gli animi de' soldati accesi, la fame stessa che li tormentava sugli sterili Apennini, gli stimolava a far impeto in un paese abbondante in fatto, abbondantissimo per fama. A reggere tanta mole, poichè, giusta l'opinione di quel governo, dall'esito dell'armi usate in Italia dipendeva in tutto la fortuna dell'europea guerra, mancava un generale capace di mente, invitto d'animo e d'audacia pari alle difficoltà che si prevedevano. Fecero adunque avviso di mandare la magnifica impresa al generale Buonaparte, giovane già in nome di buon guerriero per le cose fatte a Tolone e nella riviera. Presentendo egli, per la vastità e la forze dell'animo suo, quello che fosse capace di fare, quantunque di natura superbissima ed insofferente fosse, non cessava di sollecitare e d'infestare con tenacissima perseveranza e con preghiere continue il direttorio, affinchè gli commettesse la condotta dell'italiana guerra. Militavano anche a suo favore alcuni motivi segreti che si spiegheranno in progresso, i quali, se non sarebbero piaciuti a Carnot ed a Lareveillère Lepeaux, quinqueviri, che gl'ignoravano, piacevano a Barras, altro quinqueviro, che sotto specie di repubblicano forte nutriva pensieri del tutto diversi. A questo si aggiunse un matrimonio ch'ei fece grato a Barras, sposandosi con Giuseppina, d'età maggiore di lui, e moglie che era stata di Alessandro Beauharnais. Adunque a Buonaparte, giovane d'ingegno smisurato e di cupidità ardentissima di dominio fu commessa da chi reggeva la Francia, in iscambio di Scherer, del cui ingegno frutto era il primo disegno d'invadere l'Italia, l'opera di conquistare l'Italia. Nè così tosto ei giunse al governo dell'esercito, che mostrò quanto fosse nato per comandare; imperciocchè, quantunque più giovine di tutti i suoi predecessori, si compose in maggior dignità, e, non dimesticandosi con nissuno, pareva non più il primo fra gli uguali, ma bensì il superiore fra gl'inferiori. A questo si acconciarono facilmente Massena, Augereau e gli altri capitani di maggior grido. Quindi nacque che i nodi dell'esercito viemmaggiormente si ristrinsero, furono i soldati più pazienti all'ubbidire, l'ordine più stabile, il concerto più perfetto. Era l'esercito finito di ben cinquanta mila combattenti, poveri sì di arnesi e penuriosi di vettovaglie, ma abbondanti di coraggio e forti di volontà: quel lusinghevole pensiero di correre come signori d'Italia li rendeva ancor maggiori di loro medesimi, e già abbracciavano colle speranze la possessione di lei. Mandava il direttorio al nuovo capitano franzese quanto volesse, purchè battesse l'Austriaco, il separasse dal Piemontese, sforzasse Genova a dar denaro e la fortezza di Gavi; se Genova non desse Gavi per amore, lo prendesse per forza; instigasse i malevoli del Piemonte, acciocchè o generalmente o particolarmente insorgessero contro l'autorità regia: ciò per forza o per arte subdola; quel che segue per sete di rapina, conciossiacchè mandavagli facesse una subita correria contro la casa di Loreto, onde ne fosse Italia atterrita, rapite le ricchezze ed involati i voti appesi da' fedeli in tanti secoli: tanto era smisurata in quel governo la cupidità del rapire e del fare di ogni erba fascio. Reggevano l'ala dritta, che si distendeva insino a Voltri, Laharpe con Cervoni, la battaglia Buonaparte con a dritta Massena ed a sinistra Augereau, finalmente l'ala sinistra, che stava a fronte de' Piemontesi, Serrurier, congiunto con Rusca, uomo di smisurato valore. Disegnava il generale repubblicano di far impeto contro la mezzana schiera de' confederati, acciocchè, rotta che ella fosse, potesse entrar di mezzo fra gli Austriaci ed i Piemontesi: conseguito questo intento, i primi si sarebbero ritirati nell'Oltre-Po, i secondi, rincacciati nell'angusta pianura loro, avrebbero, come credeva, facilmente accettato gli accordi, separandosi dalla confederazione dell'imperadore. A questo fine, e sapendo che grandissima gelosia avevano gli Austriaci della loro sinistra, perchè la larga e comoda strada della Bocchetta accennava Milano, aveva ordinato a Cervoni occupasse con un corpo grosso Voltri. Oltre a questo, fece marciare da Savona un'altra forte squadra verso la montagna di Nostra Signora dell'Acquasanta, strada che mette direttamente alla Bocchetta; e questa squadra conduceva con sè molti pezzi di artiglierie sì grosse che minute. Adunque erano giunti i tempi fatali per l'Italia. Beaulieu, precipitoso ed audace capitano, presentendo il disegno del nemico, poichè non si raffreddava, anzi cresceva ogni giorno il romore delle preparazioni franzesi, si era deliberato a prevenirlo. Aveva egli assembrato in Sassello una grossa schiera composta di dieci mila Austriaci e quattro mila Piemontesi, bella e fiorita gente, col pensiero di dar dentro nel mezzo della fronte francese, e, dopo di averlo fracassato, riuscire a Savona, con che egli avrebbe separato il nemico in due parti, e presa tutta quella che stanziava a Voltri e nei luoghi circostanti. Non pertanto, per interrompere alle genti di Voltri la facoltà di accostarsi a tempo del conflitto in aiuto della mezzana, si era risoluto ad assaltar questa terra. Il dì 10 aprile, circa le tre pomeridiane, givano i Tedeschi all'assalto di Voltri con sei mila fanti e quattro bocche da fuoco. Alcune navi da guerra inglesi secondavano lo sforzo loro con ispessi tiri dal mare vicino. Non potendo i Franzesi rispondere a tanti assalti, furono rotti, diventarono i Tedeschi padroni dei posti sopraeminenti a Voltri, e se avessero incominciato la battaglia più per tempo, tutta la forza franzese di Voltri sarebbe stata o morta o presa; ma sopraggiunse la notte, dell'oscurità della quale opportunamente valendosi i repubblicani, si ritiravano a Varaggio ed alla Madonna di Savona. In questo mezzo tempo Argenteau e Roccavina non erano stati a bada; anzi, mossisi da Sassello, assaltarono grossi ed impetuosi le trincee estemporanee fatte dai Franzesi a Montenotte. Difendeva i Franzesi la fortezza del luogo, favoriva i Tedeschi il maggior numero; gli uni e gli altri infiammava un incredibile valore: stava in mezzo, qual premio al vincitore, l'innocente l'Italia. Si combattè coi cannoni, coi fucili, con le spade, con le mani. Maravigliavansi i Franzesi a sì feroce assalto; maravigliavansi i Tedeschi a sì lunga resistenza. Finalmente, dopo molto sangue, riuscirono questi ad entrare per bella forza dentro le due trincee più basse, e se ne impadronirono. Rimaneva a conquistarsi la terza; contro di lei voltarono i Tedeschi tutto l'impeto dell'armi loro vittoriose. Qui sorse una battaglia tale che poche di simil fatta, per la virtù dimostrata dagli assalitori e dagli assaliti, sono tramandate dalle storie. Incominciavano a sormontare gl'imperiali, trovandosi assai più grossi, e già sul ciglione medesimo della trincea si combatteva asprissimamente da vicino. Ma in questo forte punto il collonnello Rampon, sotto la custodia del quale era la trincea, a patto nessuno sbigottitosi a quell'orribile fracasso, che anzi tanto più infiammandosi nel suo coraggio quanto più era grave il pericolo, animosissimamente rivoltosi a' suoi soldati, fece lor prestare quel bel giuramento che fia eterno nelle storie, di non cedere se non morti. Il valor dei Franzesi diventò più che sprezzo di morte, e con tanta pertinacia, con tanta ostinazione, con un menar di mani tanto tremendo combatterono, che ributtati, furiosamente da ogni assalto i Tedeschi, sopravvenne la notte, senza che eglino potessero conquistare la trincea tanto contrastata e tanto importante. Gli uni e gli altri, sull'armi loro posando, aspettavano la luce del seguente giorno, che doveva in un nuovo conflitto definire la spaventevole contesa. Ma il generalissimo Buonaparte, nella notte stessa, con pari celerità ed arte mandò a tutta fretta un rinforzo da Savona a Montenotte, il quale non solamente rinfrancò gli spiriti dei difensori della trincea, ma diede agio a Rampon di empiere di soldati a destra ed a sinistra le boscaglie. Al tempo stesso comandò a Laharpe, andasse avanti con tutta l'ala diritta, e snodasse minutamente l'ala sinistra dalla mezzana degli alleati. E per rendere vieppiù la vittoria certa, ed arrivare al fine principale di tutto il disegno, marciava egli medesimo con due forti colonne, sperando di sgiungere la mezzana governata da Argenteau e da Roccavina dalla destra retta da Colli. Spuntava appena l'aurora del giorno 11, che Argenteau, senza prima aver fatto esplorare le boscaglie, iva baldanzoso all'assalto; ma non era ancora il suo antiguardo arrivato vicino alla trincea, che venne assalito ai fianchi da una tempesta di moschetti, che procedeva dai soldati imboscati, e da un'impetuosa scaglia lanciata dal ridotto. A tale sanguinoso intoppo s'arrestarono, titubarono, si disordinarono, diedero indietro le sue genti: Roccavina ferito gravemente, lasciato il campo di battaglia, andava a ricoverarsi in Acqui. Pure v'era speranza, con qualche rinforzo e dopo respiro, di ricominciar la batteria; ma ecco arrivare infuriando dall'un canto Buonaparte, dall'altro Laharpe. Fu allora forza ai confederati di ritirarsi piucchè di passo per non essere posti negli estremi, ed il forzato loro movimento fece riuscir ad effetto il pensiero di Buonaparte dell'aver voluto separare i Piemontesi dai Tedeschi. Morirono nella battaglia di Montenotte meglio di due migliaia di buoni soldati dalla parte dei confederati; circa tre mila tra feriti e sani vennero come prigionieri in poter del vincitore. Dalla parte dei repubblicani pochi furono i prigionieri, molti i feriti, più di un migliaio incontrarono la morte. Ma perchè quello che avevano i repubblicani conseguito, cioè la separazione degl'imperiali dai regii, non venisse loro guasto per una nuova riunione, il che poteva venir fatto finchè i confederati stavano più su nella valle della sinistra Bormida a Millesimo che nella valle della Bormida destra, dove stanziavano a Dego ed a Magliani, era necessario cacciarli più sotto nella prima. Quindi nacque pei Franzesi la necessità di dar l'assalto al posto di Magliani e d'impadronirsi di Millesimo. Il secondo di questi fini fu conseguito da Augereau, il quale per viva forza superò i passi dei monti che dividono le due valli. Era alla guardia della sinistra Bormida il vecchio, ma prode generale Provera con un corpo franco austriaco e quindici centinaia di granatieri piemontesi. Posto egli in molto pericolosa condizione, volle con sano consiglio ritirarsi a mano manca verso gli Austriaci; ma gli venne impedito il viaggio dalla Bormida che, cresciuta per pioggie abbondanti, correva torbida ed impetuosa. Fece allora l'animosa risoluzione di salirsene in cima al monte, dove siede il vecchio castello di Cosseria, ed ivi senza artiglierie, senza munizioni, senza sussidio alcuno di cibo o di acqua attendeva a difendersi. Augereau che conosceva ottimamente che fin tanto che quel freno del castello di Cosseria fosse in mano del nemico, non era possibile di consuonare co' suoi verso il centro e la destra, si accinse a fare ogni sforzo per superarlo. Tre volte andarono i repubblicani all'assalto, altrettante furono risospinti con immenso valore dagli assaltati. Pernottarono i Franzesi a mezzo monte. Ma era sitibonda all'estremo la guernigione; chiedeva Provera quant'acqua bastasse ai feriti; la negava Augereau. Arrivava il giorno 14 aprile: la fame e la sete operarono ciò che la forza non aveva potuto; diessi la piazza ai vincitori. Ai medesimo tempo Rusca cacciava i Piemontesi da San Giovanni di Murialto, e la vittoria di Cosseria abilitava Augereau a superare Montezemo; il che diè facoltà ai Franzesi di spiegar la bandiera loro nella valle del Tanaro, ed indusse Colli alla necessità di correre a difender Ceva e Mondovì. Queste cose succedevano a sinistra dei repubblicani; ma altre di maggiore importanza preparava la fortuna in mezzo e a destra. Quantunque gli alleati avessero toccato una grave sconfitta a Montenotte, le sorti loro avrebbero potuto facilmente risorgere, perchè nè erano perduti d'animo, nè mancavano di passi forti a cui potessero ripararsi: massimamente insino a tanto che la strada del Dego non era libera al nemico, non temevano ch'ei potesse fare un'impressione d'importanza in Piemonte. Laonde applicarono l'animo a farsi forti per quella strada; dall'altra parte i Franzesi pensavano a sforzarla. Gli Austriaci in numero di circa quattro mila soldati, ai quali si erano accostati i due reggimenti piemontesi della Marina e di Monferrato, si fortificarono a questo fine sui monti di Magliani ed altri, facendovi un ridotto munito d'artiglieria e grande abbattuta d'alberi. Diedero loro tempo due giorni i Franzesi a fornire le loro fortificazioni in quei luoghi eminenti e difficili. La principal difesa degli alleati consisteva nel ridotto di Maglioni, che stava a ridosso del castello del medesimo nome. I repubblicani, per aprir quella strada che i confederati avevano serrata, comparivano alle due meridiane del dì 13, minacciosi e grossi di quindici mila combattenti, facendosi avanti sino alla Rocchetta del Cairo, ad un miglio distante di Dego. Quivi si spartirono in tre colonne che si accostarono ai siti occupati dai confederati. Ma non furono questi fatti che minaccie, tentativi per iscoprir bene il sito e la forza del nemico. A questo fine appunto Buonaparte, giunto che fu al Colletto, fece trarre d'una forte cannonata, per prender notizia del nemico, sperando che gli alleati, credendosi assaliti, e rispondendo, lo avvisassero dei luoghi dove si trovavano, il che gli riuscì come aveva sperato. Ma l'urto dei due forti nemici doveva succedere nel dì 14, nel quale i repubblicani, risoluti di venire al cimento, si spartirono, come innanzi, in tre parti. Le molte mosse loro erano con molta maestria di guerra pensate, e furono altresì con molto valore eseguite. Riuscì terribile l'urto al Poggio ed alla Sella; vi morirono molti buoni corpi da ambe le parti. Saliva di fronte la mezzana, ma posatamente per aspettare l'effetto dell'assalto dato sui due fianchi. I Franzesi, dopo un combattimento sostenuto quinci e quindi con molta ostinazione, riuscirono finalmente ad aver vittoria sui due lati, cacciando i nemici loro dal Poggio e da Monterosso. Si fece allora avanti la mezzana ed entrò forzatamente, nel castello di Magliani dove uccise i soldati di Giulay, che tutti vollero piuttosto morire che cessar di combattere. Restava il ridotto di Magliani, principale propugnacolo degli alleati, dal quale tempestavano con una furia incredibile di palle e di scaglie. Fu quivi assai dura l'impresa pei repubblicani, perchè i confederati, maravigliosamente inferociti, traevano spessissimamente a punto fermo, e solo a cento passi di distanza. Finalmente dopo tre ore di sanguinosissima battaglia, e solamente verso la sera, venne fatto ai Franzesi, che accorrevano contro il ridotto da tutte le bande, d'impadronirsi di quel forte sito, cacciatine a forza i difensori. Si precipitarono allora gli alleati nella valle delle Cassinelle per guadagnar prestamente la strada per a Pareto; ma i Franzesi li seguitarono a corsa, e quella colonna che s'era spartita al principio del fatto dalla destra schiera, che se ne stava ai Pini, scagliossi ancor essa siffattamente contro i fuggiaschi, che ne furono quasi tutti o morti o presi: tutti anzi sarebbero stati sterminati, se i due reggimenti piemontesi della Marina e di Monferrato, fatto un po' di testa al monte Scazzone, non avessero fatto ala a coloro che fuggivano, cacciati dalla furia franzese che gl'incalzava. Perdettero gli alleati in questa battaglia meglio di due mila soldati tra morti, feriti e prigionieri; i repubblicani poco più di duecento. Ma grave perdita pei primi fu quella che susseguitò, del castello di Cosseria, perchè stretto già Provera, come abbiam detto, dalla sete e della fame, perduta la speranza d'ogni aiuto poichè vide dall'alto la sconfitta de' suoi, non indugiò più ad arrendersi. Argenteau, invece di soccorrere i difensori di Magliani coi cinque o sei mila soldati che avea seco a Pareta, il che avrebbe potuto facilmente cambiare la fortuna della giornata, li mandò a far massa ad Acqui. Questa fu la battaglia che meglio di Magliano, che di Millesimo, si chiamerebbe, perchè a Magliano concorsero le principali forze delle due parti, e nel luogo medesimo succedette il più forte conflitto. La notte che seguì il giorno della battaglia, il tempo stato nuvoloso, diventò piovoso; piovve a rotta verso l'alba. Tra per questo e per pensare i Franzesi a tutt'altro, fuorchè il nemico vinto avesse a prendere così tosto nuovo rigoglio ad assaltarli, si guardavano negligentemente, e solo cinque a seicento vegliavano alla difesa delle trincee. Ed ecco appunto che in sul far del giorno il colonnello Wukassovich, accompagnato dal luogotenente Lezzeni, con un corpo di circa cinque mila soldati compariva improvvisamente alla vista di Magliani. Aveva Argenteau, perduta la battaglia di Montenotte, ordinato a Wukassovich venisse tosto a raggiugnerlo al Dego ed a Magliani; ma per poca mente, che anche la sventura gliela faceva girare, gli aveva indicato per la mossa un giorno più tardi di quello che avesse in animo, dimodochè il colonnello, invece di arrivare al dì 14, che forse avrebbe vinto la battaglia, arrivava il 15. Non ostante che con sua gran maraviglia avesse veduto, strada facendo, la fuga de' suoi, e che il nemico aveva occupato Magliani, si risolveva a dar dentro risolutamente, e già urtava il castello ed il ridotto. Risentitisi a sì improvviso accidente i Franzesi, muovevansi a corsa verso il ridotto per difenderlo; ma nè ebbero tempo di schierarsi, nè di apparecchiare le artiglierie, e quel forte sito, che con tanta fatica e sangue avevano conquistato, ritornava, quasi senza contrasto, in potestà dei confederati, in un con le artiglierie che munivano i luoghi, e con molta strage dei Franzesi, che si diedero alla fuga. Massena, a così fortunoso caso riscossosi e gettatosi al piano, frenava primieramente l'impeto dei suoi che fuggivano verso il Colletto; poi ordinatili di nuovo in tre colonne, come nella battaglia del dì 14, li conduceva all'assalto. Ma se Massena non era capace di timore, non era nemmeno Wukassovich: qui la battaglia divenne orrenda. La sinistra era alle mani con le guardie avanzate austriache, che si difendevano con singolare ardimento; la mezzana pativa assai, perchè i Tedeschi fulminavano dal ridotto, e già i soldati stanchi e impauriti si nascondevano per le case. La destra medesimamente trovava un feroce rincalzo. Massena, veduto titubare i suoi, mandò avanti la squadra di ricuperazione, e postata dietro alla mezzana, impediva che coloro che davano indietro passassero il Grillero. La colonna di mezzo, da lui incoraggita e dagli altri generali, già arrivava fin sotto al ridotto; ma uscitine impetuosamente gli Austriaci, la urtarono e rincacciarono sino al castello. La sinistra ancor essa era stata risospinta con grave perdita; la destra non faceva frutto; già il quarto assalto era riuscito vano. Arrivava in questo punto con sei mila soldati Laharpe. Novellamente si raccozzavano, si riordinavano, si muovevano, si serravano contro il nemico; nè ciò ancor bastava a piegare la costanza austriaca. Dopo tanti rincalzi e tante stragi, incominciavano i Franzesi a dubitare della battaglia. Buonaparte, che vedeva l'importanza del fatto, accorreva coi soldati vincitori di Cosseria, e con impeto unito menava i suoi ad un ultimo assalto. Puntarono acremente la destra e la sinistra sui fianchi; la mezzana, ingrossata e rinfrescata, assaliva di fronte. Urtati da tante parti, continuavano gli Austriaci a combattere; cacciati dal ridotto, combattevano dalle case; cacciati dalle case, combattevano dalle boscaglie; finalmente cacciati anche da queste e pressati da ogni banda, minacciosi e rannodati si ritiravano. Perdettero gli Austriaci in questa battaglia, tra morti, feriti e prigionieri, sedici centinaia di buoni soldati con tutte le artiglierie loro; ma non fu nemmeno senza sangue pei Franzesi la vittoria. Tra morti feriti e prigionieri, mancarono più di ottocento soldati. Argenteau errò in molti modi, e nella battaglia di Montenotte e dopo di lei, e massimamente in quella di Magliani, per modo che ei fu costretto di combattere con una parte delle sue forze contro la maggior parte di quelle del nemico. Sollevossi fra l'austriaca gente un romore ed uno sdegno grandissimo contro di lui; accusandolo tutti dell'infelice successo delle battaglie di Loano, di Montenotte e di Magliani, delle quali la prima preparò la strada, le altre l'apersero alla conquista d'Italia. Beaulieu il fece arrestare e condurre a Mantova, poi a Vienna, perchè fossevi preso dell'error suo da un consiglio di guerra debito giudizio. Ma il nome di Wukassovich rimarrà nella memoria dei posteri a giusto titolo glorioso, come di uno de' migliori guerrieri de' nostri tempi. Lo splendore della vittoria franzese fu oscurato dal furore del sacco. Molti fra i repubblicani, non perdonando nè a cosa sacra, nè a profana, riempivano i paesi di terrori e di fughe. Queste enormità, che tanto contaminavano il nome di Francia, abbominavano molti generali, abbominavano i soldati buoni; ma quelli non potevano impedirle coi comandamenti, nè questi con l'esempio. Serrurier, Chambarlac, Maugras, Laharpe ne mossero gravissime lagnanze, e tanto si concitarono, che, per non più vedere e dover comportare sì abbominevoli eccessi, chiedean licenza a Buonaparte generale di potersene ire; soprattutto esclamavano contro gli scellerati amministratori, che ridotti avevano i soldati dell'italica oste od a farsi ladri ed assassini od a morir di fame. Seguitando la narrazione dei fatti, dopo la vittoria di Magliano, insistendo velocemente Buonaparte nei prosperi successi, era venuto a capo del suo pensiero di separare gli Austriaci dai Piemontesi; nel che tanto più facilmente riuscì, che nè Beaulieu si curò molto di starsene unito a Colli, nè Colli a Beaulieu, perchè alcuni semi di discordia già erano prima dei raccontati fatti tra di lor sorti, e, come suole accadere nelle disgrazie, gli Austriaci accusavano i Piemontesi di non avergli aiutati, i Piemontesi davano il medesimo carico agli Austriaci. Finalmente premeva più a Beaulieu l'accorrere alla difesa del Milanese, a Colli a quella del Piemonte. Di questa dissidenza dei capi accortosi Buonaparte, quantunque gli fosse stato ingiunto di perseguitar piuttosto gli Austriaci che i Piemontesi, si risolveva serrarsi addosso agli ultimi, sperando di costringere fra breve il re di Sardegna alla pace, per voltarsi poscia, assicuratosi alle spalle, con maggiore speranza di vittoria alla conquista della Lombardia. Voltò adunque il capitano di Francia del tutto i pensieri a voler vedere quello che fosse per partorire in Piemonte la presenza dei repubblicani. Due erano i modi che voleva usare; la forza, con perseguitar da vicino co' suoi soldati vittoriosi le reliquie delle truppe reali; l'astuzia, col tentar di far muovere i popoli con le parole di libertà contra l'autorità del re. A questo era disposto per sè e comandato dal direttorio, che tentasse per ogni mezzo di dare spirito ai novatori, e tanto più ciò facesse quanto più si ostinasse il Piemonte a voler perseverare nella sua congiunzione con la lega e nella guerra. Adunque ordinato ogni cosa, e collocato un grosso corpo nei contorni del Dego per appostar gli Austriaci, acciocchè non tentassero nulla a suo pregiudizio, si avviava verso Ceva, contro cui aveva già mandato con molte forze Augereau e Serrurier. Erasi Colli, dopo l'infelice successo della giornata di Maglioni, e dopo che pel fatto di Cosseria era stato obbligato di lasciar al nemico la possessione di Montezemo, ridotto coi Piemontesi nel campo trincerato che per difesa della fortezza di Ceva era stato ordinato alla Pedagiera ed alla Testa-nera, sito che signoreggia la fortezza. Assaltò Buonaparte impetuosamente questo campo; gli fu anche virilmente risposto; durò la battaglia molte ore con molto sangue da ambe le parti, nè vi fu modo di far piegare i regii che, con valore difendendosi, respingevano costantemente il nemico. Succedeva questa fazione il 16 aprile. Pernottarono repubblicani e regii ai luoghi loro; ma il giorno seguente, ingrossatisi molto i primi, rinfrescarono l'assalto più forte di prima, nel quale, sebbene animosamente si difendessero i regii, temendo Colli di essere spuntato da' lati, lasciato un grosso presidio nella fortezza, ritraeva le genti, con andar ad alloggiarle in sito molto opportuno là dove la Cursaglia mette nel Tanaro. Occuparono, fatta questa ritirata, i repubblicani subitamente la città di Ceva, nè così tosto l'occuparono che vi fecero grosse tolte di pane, e posero taglie di denaro. Attaccarono i repubblicani superiori di numero l'esercito regio ne' campi della Niella e di San Michele, ma non poterono sloggiarlo, pel duro contrasto che vi fece. Al 20 massimamente si combattè con molto sangue: pure stettero fermi alla pruova i Piemontesi per modo che Serrurier si ritirava assai malconcio e disordinato. In fine quel valoroso Massena, il quale, nato suddito del re, più di tutti operò per abbattere la sua potenza, passato, la notte del 21, il Tanaro a guado presso Ceva, aveva occupato Lesegno. Dall'altra parte Guyeu e Fiorella, essendosi fatti padroni del ponte della Torre, mettevano Colli in pericolo di essere circondato da' repubblicani alle spalle: il che avrebbe condotto quell'esercito, ultima speranza della monarchia piemontese, ad una estrema rovina. Per lo che, levato il campo occultamente alle due della notte, e conducendo seco tutte le artiglierie e le bagaglie, si incamminava frettolosamente, ma ordinatamente, alla volta di Mondovì. Il seguitarono velocemente i repubblicani, ed il raggiunsero a Vico, dove allo spuntar del giorno seguì la battaglia che i Franzesi chiamano di Mondovì. Ma non fu battaglia giusta, che intento di Colli non era di darla, ma solo di ritardar tanto il perseguitante nemico che potesse condur in salvo le artiglierie ed il bagaglio, come potè conseguire, mettendo ne' luoghi sicuri dietro l'Ellero ed il Pesio le armi grosse e tutti gl'impedimenti. Ritirossi poscia in un forte alloggiamento oltre la Stura, con Cuneo alla destra e Cherasco alla stanca. In tale modo un umile fiume, un esercito valoroso, ma vinto, e due piazze, una forte, l'altra debole, restavano soli impedimenti a' Franzesi, onde non inondassero tutto il Piemonte, e non sventolassero le insegne repubblicane sotto le mura della città capitale di Torino. L'audace Buonaparte, non contento se prima non avesse rotto ogni resistenza, usava l'estrema forza e l'estrema astuzia. Minacciava dall'un canto di varcar la Stura, dall'altro impadronitosi d'Alba per mezzo di Laharpe, città posta sulla riva del Tanaro sotto la foce della Stura, era in grado di passare il primo di questi fiumi e di correre alle spalle de' Piemontesi. Oltre di questo, per rizzare a spavento del governo una prima bandiera di ribellione, aveva operato, e l'ottenne anche facilmente, che alcuni abitatori di Alba, instigati principalmente da Bonafons, fuoruscito piemontese venuto coi repubblicani, ed a cui erasi accostato un Ranza, uomo dabbene, nè senza lettere, ma cervello disordinato, facessero un movimento contro l'autorità regia, mandando fuori bandi di volersi costituire in repubblica. Nè contenti a questo Bonafons e Ranza, procedendo immoderatamente, mandavano altri bandi repubblicani al clero del Piemonte e della Lombardia, siccome pure ai soldati Napolitani e Piemontesi. Adunque, e per questi romori, e per esser padrone il nemico del passo del Tanaro in Alba, e per essere Cherasco in sè stesso poco difendevole, temendo Colli di essere assaltato alle spalle, lasciato Cherasco, si ritraeva, per sicurezza di Torino, alle stanze di Carignano. Ora era giunto il re di Sardegna a quell'estremo punto, in cui o far doveva una risoluzione magnanima, o sottoporre il collo ad un nemico insolente e ad un governo disordinato e del tutto diverso dal suo. Adunossi in tanto precipizio di cose il consiglio, al quale assistettero il re ed i principi reali, con tutti i ministri dello Stato. Drake, ministro d'Inghilterra a Genova, trasferitosi a Torino, ed il marchese Gherardini, ministro d'Austria, temendo che in agitazione sì grave il re fosse per separare i suoi consigli da quei della lega, e desiderando sommamente di interrompere questa cosa, non avevano mancato all'uffizio loro, con tenerlo continuamente sollecitato, perchè voltasse il viso alla fortuna e stesse in fede, molte e molte cose rappresentandogli, e conchiudendo, considerasse bene quanto da lui richiedessero Italia ed Europa, nè consentisse che in lui più potesse un romor repentino che i veri interessi del suo reame. Dimostravasi Vittorio Amedeo costantissimo a voler continuare nella fede data: difenderebbe Torino sino all'ultimo, o andrebbe ramingo, se così fortuna volesse, non consentirebbe a pace con un nemico odiosissimo. Il secondava nella medesima sentenza il principe di Piemonte, nel quale, come primogenito regio, doveva pervenire il regno, non per motivi di Stato soltanto, ma sì ancora di religione, parendogli, come a principe religiosissimo, troppo abbominevole aver per amici coloro che stimava eretici e nemici di Dio; temeva la propagazione de' principii loro anche in Piemonte, ed abborriva una pace ancor più rea verso gli uomini. Ma dal cardinale Costa, arcivescovo di Torino, personaggio, nel quale risplendevano ingegno, dottrina ed amor singolare di lettere e di letterati, fu ragionato in contrario, «essere il pericolo della ribellione imminente, la necessità più forte della fede; il cacciare i Franzesi dal Piemonte del tutto impossibile; meglio avergli amici che nemici; ponendo anche l'Austria di eguale potenza della Francia, esser questa vicina, quella lontana; riuscir più facile ai Franzesi l'invadere il Piemonte, che agli Austriaci il preservarlo; potere l'Austria, come lontana, perseverare nella guerra; dovere il Piemonte pensare ai casi suoi; nella supposizione favorevole diventerebbe il Piemonte campo di guerra, pieno di ruberie, di devastazioni e di uccisioni; e se già a mala pena si poteva resistere a' Franzesi, come si sarebbe potuto resistere ai Franzesi stessi ed ai sudditi tumultuanti a perdizione del regno?.... Sperar la guerra tanto felice ch'ella reintegrasse il re delle perdute Savoia e Nizza per la forza dell'armi, esser piuttosto fola da infermi che argomento d'uomini ragionevoli; all'incontro potere i Franzesi, dal canto de' quali allora stava la probabilità della vittoria, e volere ed offerire nel conquistato Milanese grassi ed adequati compensi: sì certamente essere infido quel franzese governo, ma poter tendere maggiori insidie in guerra che in pace, perchè la guerra fa le insidie lecite, la pace le fa infami; variare consiglio il savio al variare degli eventi, e poichè la fortuna aveva addotto un accidente, non che straordinario, maraviglioso, doversi anche fare una risoluzione straordinaria. Loderebbonla gli uomini prudenti, benedirebbonla i sudditi fatti immuni dalle esorbitanze incomportevoli della guerra; assai e pur troppo essersi fatto per mantenere la fede promessa; dimostrarlo il sangue sparso, dimostrarlo le innumerevoli morti, dimostrarlo le desolate campagne assai essersi soddisfatto all'onore, ora doversi soddisfare all'esistenza.» A questa sentenza del consigliar la pace era stato tirato l'arcivescovo per lume proprio e per un conforto dell'avvocato Prina, Navarese, quel medesimo che, d'ingegno acutissimo, d'animo duro, e bel parlatore e maestro singolare del comandare, piacque poi tanto per infelice suo destino a Buonaparte. Il favellare di un uomo tanto grave e tanto pratico delle cose del mondo, qual era il cardinale Costa, commosse tanto e sì maravigliosamente gli animi degli ascoltanti, che fu fatta quella risoluzione che, sottraendo la monarchia piemontese da una dipendenza verso l'Austria, la fece vera e reale serva della Francia. Allora veramente, e non più tardi, perì il reame di Sardegna, allora, e non più tardi, perì la monarchia piemontese. Spedironsi pertanto a fretta verso Genova il conte Revello ed il cavaliere Tonso, con mandato di negoziar della pace con Faipoult, ministro della repubblica franzese. Al tempo medesimo fu fatto mandato a Colli di domandare, ed al conte Delatour e marchese della Costa di accordare una sospensione di offese col generale repubblicano; ma non avendo Faipoult facoltà di negoziare, i commissarii s'incamminarono tostamente alla volta di Parigi, affine di stabilire la pace e l'amicizia con la repubblica. Intanto scrittosi da Colli a Buonaparte si sospendessero le offese, rispose nè potere nè volere, se prima non gli si davano due delle tre fortezze di Cuneo, di Alessandria e di Tortona. Consentiva il re per la prima e per l'ultima, e di più per Ceva, che, oppugnata gagliardamente, con ugual gagliarda si difendeva. Adunque l'estremo momento essendo giunto, in cui l'antichissima monarchia de' Piemontesi doveva, cessando d'esser padrona di sè medesima, cadere in servaggio altrui, fu accordata in Cherasco la tregua tra Buonaparte dall'un lato, Latour e della Costa dall'altro, con questo che i repubblicani occupassero Cuneo il dì 28 aprile, Tortona non più tardi del 30, la fortezza di Ceva subito dopo gli accordi; restassero i Franzesi in possesso dei paesi conquistati oltre la Stura ed il Tanaro; fosse fatto facoltà ai corrieri di passare pel Cenisio per a Parigi; comprendessersi nella tregua i soldati dell'imperadore che erano ai soldi del Piemonte; durasse sino a cinque giorni dopo la conclusione dei negoziati di Parigi. Siccome poi Buonaparte tesseva un grande inganno a Beaulieu per farsi comodo il passo del Po, così stipulava che l'esercito di Francia potesse passare il fiume sopra Valenza. Queste furono le tristi condizioni della tregua, alle quali succedettero poco stante le condizioni più tristi ancor della pace. A tale accordo si rallegrarono i novatori, s'avvilirono i ligii, si scoraggiano i leali, si spaventarono i popoli, si sdegnarono i soldati; spaventossene l'Italia, maravigliaronsene i potentati d'Europa. Volle anzi in questo la fortuna, solita ad addurre casi strani, che le novelle della debolezza del governo regio, che tanto disordinava le cose comuni, spedite con grandissima celerità a Pietroburgo, vi arrivassero prima della circolare scritta dal re, per cui affermava la sua costanza di voler perseverare nella guerra essere inconcussa; delle quali novelle non sapendo l'agente di Sardegna, visitava il conte Ostermann, ministro degli affari esteri dell'imperatrice Caterina, la circolare rappresentandogli, la quale leggendo Ostermann, dava segni di maraviglia, di dispetto e di sdegno, servendosi anche, parlando del re, di parole che non voglionsi riportare. La somma fu, che squadernò in viso all'agente lo spaccio che conteneva le novelle della tregua, sdegnosamente dicendo che i confederati sapevano ottimamente che la fortuna della guerra avrebbe potuto portare che i Franzesi penetrassero in Piemonte; che non ostante avevano confidato che il re, ad imitazione dei gloriosi suoi antenati, serbando la medesima costanza, avrebbe loro osservato le cose promesse; che la lega non avrebbe pretermesso di soccorrerlo; che finalmente, se avessero i confederati potuto credere che a un primo impeto ei fosse per mancar d'animo e per posar le armi, avrebbero fatto altri pensieri, e provveduto in altra guisa alla sicurezza ed agl'interessi degli Stati loro. Infatti non si vede quale sì inevitabile necessità dovesse condurre il governo regio ad una risoluzione tanto pregiudizievole e tanto inonorata. Di quello poi che fosse a farsi in così grave frangente testimonio irrefregabile è Buonaparte medesimo, che soleva dire che se il re di Sardegna gli avesse tenuto il fermo solamente quindici giorni, ei sarebbe stato costretto a rivarcar i monti per ritornarsene là dond'era venuto. Mancò adunque il governo regio a sè medesimo, non mancarono i popoli, e manco i soldati al governo; e se Vittorio Amedeo II, già signori i Franzesi di quasi tutto il Piemonte, e già oppugnanti con ottanta mila soldati, fornitissimi di cavalleria e di grosse artiglierie, la capitale del regno, non disperò delle sue sorti; anzi finalmente con una subita e gloriosa vittoria ricuperò lo Stato; stupiranno i posteri che Vittorio Amedeo III, intero ancora lo Stato suo in Italia, intere le fortezze, intero l'esercito al primo romoreggiare d'un quaranta mila Franzesi, difettosi di artiglierie, massime grosse, difettosi di cavalleria, senza denaro per pagare, nè magazzini per pascere i soldati, si sia sbigottito nell'animo e dato subitamente in preda a coloro che con una pace a lui pregiudizievole non altro fine avevano se non di costringere l'Austria ad una pace utile a loro. Avendo adunque fermate le armi col re, acconce le condizioni del Piemonte e posto in sua balia quel primo Stato d'Italia, il che gli alleggeriva il bisogno di tenersi truppe alle spalle, innalzava Buonaparte l'animo ad imprese più grandi; e perchè l'esercito non gli mancasse sotto, mandava fuori un bando che merita di essere attentamente considerato per rilevar l'indole del nuovo capitano di Francia: «Ecco, diceva, o soldati, che in quindici giorni avete vinto sei battaglie, preso trenta stendardi, cinquantacinque cannoni, parecchie fortezze, quindici mila prigioni; avete ucciso dieci mila nemici, conquistato la parte più ricca del Piemonte, vinto battaglie senza cannoni, varcato fiumi senza ponti, marciato viaggi senza scarpe, passato notti senza tetti, sostenuto giorni senza pane. Le falangi repubblicane, i soldati soli della libertà capaci sono di sì virili sopportazioni; rendevi la patria grazie dell'acquistata prosperità; vincitori di Tolone, le vittorie del 93 presagiste; vincitori delle Alpi, più fortunate guerre presagiste; non più fra sterili rupi, non più fra monti inaccessibili, ma nella ricca Italia avrete a far guerra; ecco che gli eserciti, che testè vi assalivano con audacia, fuggono con terrore al cospetto vostro; ecco trepidar coloro che si facevano beffe della miseria vostra; ma se avete operato cose grandi, restanvene maggiori a compire. Non ancor sono Roma e Milano in poter vostro, ancora insultano alle ceneri dei vincitori dei Tarquinii gli assassini di Basseville; altre battaglie avete a vincere, altre città ad espugnare, altri fiumi a varcare; forse alcuno di voi si ritragge? Forse sulle cime dei superati monti ama tornarsene per esser quivi di nuovo segno delle ingiurie di una soldatesca di schiavi? No, i vincitori di Montenotte, di Millesimo, di Digo e di Mondovì bramano tutti di portar più oltre la gloria del nome franzese; tutti vogliono una pace utile alla patria; tutti desiderano alle paterne mura tornarsene, tutti quivi con militare vanto dire: _Ancor io mi fui dell'esercito conquistatore d'Italia. _Promettovi, amici, ed a voi per ciò mi lego, che dell'Italia vittoria avrete; ma frenate, per mia fè, gli orribili saccheggi, sovvengavi che siete liberatori del popolo, non flagello; non contaminate con la licenza le vittorie nè il nome vostro; non contaminate la fama dei fratelli morti nelle battaglie. Io sarò freno a tanto vituperio; vergognereimi al reggere un esercito indisciplinato; ogni scellerato soldato, che con gli oltraggi e col ladroneccio oscurerà lo splendore dei vostri fatti, fia da me, senza remissione alcuna, dato a morte.» Questo favellare di un capitano vittorioso a soldati vittoriosi, a Franzesi massimamente tanto avidi di gloria d'armi, partoriva un effetto incredibile: coll'immaginare, già facevano loro la Germania lontana, non che l'Italia vicina. Quel mostrar poi di voler frenare il sacco, era molto astuto consiglio per dare sicurtà ai popoli, spaventati da una fama terribile e da fatti più terribili ancora. Rivoltosi poscia ai popoli d'Italia, mandava lusinghieramente, venire il franzese esercito per rompere i ceppi loro; essere il popolo franzese amico a tutti i popoli; accorressero a lui confidentemente, lealmente, securamente; serberebbe intatte le proprietà; la religione, i costumi, fare i Franzesi la guerra da nemici generosi; solo averla coi re. Quali sentimenti producessero siffatti incentivi, coloro sel pensino che sanno quanto operi la forza congiunta a magnifiche parole: nè è da far maraviglia se queste guerre vive dei Franzesi di tanto abbiano prevalso ad ogni altro genere di guerra. Possente aiuto a far la guerra da fronte era la quiete alle spalle. Arrivarono le novelle desideratissime essersi conclusa la pace il dì 15 maggio fra la repubblica e il re. Furono le condizioni principali: cedesse il re alla repubblica la possessione del ducato di Savoia e della contea di Nizza; oltre le fortezze di Cuneo, Ceva e Tortona, mettesse in potestà dei repubblicani Icilia, l'Assietta, Susa, la Brunetta, Castel-Delfino ed Alessandria, od in luogo suo, ed a piacere del generale di Francia, Valenza; smantellassersi a spese del re Susa e la Brunetta, nè alcuna nuova fortezza potesse rizzare per quella frontiera; non desse passo ai nemici della repubblica; non sofferisse ne' suoi Stati alcun fuoruscito o bandito franzese; restituissersi da ambe le parti i prigionieri fatti in guerra; abolissersi ed in perpetua dimenticanza mandassersi i processi fatti ai querelati per opinioni politiche; a libertà si restituissero e dei beni loro posti al fisco si redintegrassero; avessero facoltà, durante il loro quieto vivere, o di starsene senza molestia negli Stati regii o di trasferirsi là dove più loro piacesse; dei paesi occupati dai Franzesi conservasse il re il governo civile, ma si obbligasse a pagare le taglie militari, ed a fornir viveri e strame allo esercito repubblicano; disdicesse l'ingiuria fatta al ministro di Francia in Alessandria. Fatta la pace e domate le forze regie, aveva Buonaparte diminuito considerabilmente la potenza della lega in Italia. L'esercito austriaco, congiunto coi soldati di Napoli e con qualche parte di Tedeschi testè arrivata dal Tirolo, si trovava solo esposto a tutto l'impeto dei repubblicani, ai quali veniva a congiungersi gente fresca, che dall'Alpi e dagli Apennini a gran passi calava, allettata dalla fama di tante vittorie. La mira principale e tutta l'importanza dell'impresa del generale della repubblica erano d'impadronirsi di Milano: al qual fine due strade se gli appresentavano, di passare il Po a Valenza, o di varcarlo sotto la foce del Ticino. Appigliossi al secondo partito, il quale, oltre la maggior sicurezza che aveva in sè, dava opportunità di metter taglie al duca di Parma, il quale, sebbene subito dopo la tregua di Cherasco fosse stato esortato ad accordarsi con Francia da Ulloa ministro di Spagna a Torino, non vi aveva voluto consentire. Adunque, risolutosi del tutto Buonaparte a voler varcare il Po tra le foci del Ticino e dell'Adda, il che dovea anche dar timore a Beaulieu di vedersi tagliar fuori dal Tirolo, con arte veramente mirabile, oltre la condizione del passo di Valenza inserita nella tregua fatta a Cherasco, dava voce che voleva passare a Valenza, e richiedeva continuamente il governo sardo di barche pel valenziano passo, là mandando carri, là artiglierie, là soldati, e facendovi intorno una continua tempesta. Beaulieu, udita la tregua, tentate per una soprammano inutilmente le fortezze di Alessandria e di Tortona, perchè vi fu ributtato da' presidii piemontesi che vi stavano vigilanti, aveva passato il Po a Valenza, ardendo tutte le barche che nelle vicine rive si ritrovavano. Condottosi sulla sinistra sponda con tutto l'esercito e proprio e napolitano, stava attento ad osservare quello che fosse per partorire l'astuzia e l'ardire dell'avversario. Ma, quantunque sperimentato ed accorto capitano fosse, si lasciò prendere agl'inganni del giovane generale della repubblica; perciocchè fece concetto che veramente questi avesse lo intento di varcare a Valenza. Per la qual cosa si era alloggiato tra la Sesia ed il Ticino, affortificandosi per fare due prime teste grosse sulle rive dell'Agogna e del Terdappio, e rendendosi forte massimamente su quelle del Ticino. Siccome poi la città di Pavia, posta sul Ticino, vicino al luogo dove si mette nel Po e dov'è un ponte, gli dava sospetto, l'aveva munita sulle rive del fiume di trincee e di artiglierie. Per questi medesimi motivi aveva lasciato con poche guardie la sinistra del Po, non solo fra il Ticino e l'Adda, ma ancora fra la Sesia ed il Ticino. Ecco intanto che Buonaparte, sicuro oggimai di conseguire il fine che si era proposto, mandava una mano di veloci soldati, comandando facesse due alloggiamenti per giorno, verso Castelsangiovanni. Seguitava egli medesimo più che di passo con tutte le genti, mentre le sue artiglierie continuavano a fulminare, per non lasciar cader l'inganno, dalle rive di Valenza. Il colonnello Andreossi e lo aiutante generale Frontin spazzavano con cento soldati di cavalleria tutta la riva destra del Po insino a Piacenza, recando anche in poter loro alcune barche, le quali navigavano alla sicura sul fiume, portando riso, ufficiali e medicamenti destinati agl'Imperiali. Usando adunque celeremente l'occasione favorevole aperta dall'arte del generale loro, i Franzesi colla vanguardia composta di cinque mila granatieri e quindici centinaia di cavalli, varcavano felicemente, il dì 7 maggio, su quelle barche medesime e sopra alcune altre che loro si offersero preste a Piacenza, il fiume, e con allegrezza indicibile afferravano la sinistra sponda. Seguitava a veloci passi Buonaparte, per tale guisa che il dì 8 quasi tutto l'esercito aveva posto piede sulle milanesi sponde. Non così tosto ebbe udito Beaulieu le novelle del precipitarsi i Franzesi verso il basso Po, che spediva una grossa banda a Fombio, terra posta rimpetto a Piacenza sulla sinistra del fiume, per impedire, se ancora fosse a tempo, il passo ai repubblicani. Egli intanto ritirava le genti sull'Adda, sì per serbarsi aperte le strade al Tirolo, e sì per munire Mantova di gagliardo presidio. Avvisava ancora che finchè il grosso de' suoi, che, malgrado delle sconfitte, era tuttavia formidabile, si conservasse intiero sulle rive di questo fiume, pericolosa impresa sarebbe pei Franzesi il correre a Milano. Perlochè si avviava colla maggior parte delle genti a Lodi per guardar il ponte, che ivi apre il varco dalla destra alla sinistra del fiume. Mandava altresì una forte squadra, principalmente di cavalleria, a Casal Pusterlengo, affinchè, passando per Codogno, fosse in grado di servire come retroguardo alla schiera di Fombio, e di soccorrerla, ove bisogno ne fosse. Pavia intanto, abbandonata da' suoi difensori, non si reggeva più che con la guardia urbana. Bene erano considerati i disegni di Beaulieu, ma la prestezza franzese gli ebbe guasti; i soldati mandati a Fombio, benchè con veloce viaggio fossero accorsi, arrivarono non più per contrastare il passo al nemico, ma solo per combattere il medesimo, che già era passato. Buonaparte, che con la solita sagacità prevedeva che quella testa grossa di Austriaci, se le desse tempo di essere soccorsa poteva disordinare i suoi pensieri, si deliberava ad assaltarla senza dilazione. Occupavano gli Austriaci la terra di Fombio, in cui avevano fatto in fretta e munito di venti pezzi d'artiglieria alcune trincee; i cavalli, la maggior parte napolitani, che in questa fazione si portarono egregiamente, battevano la campagna. La moltitudine delle sue genti permetteva a Buonaparte di allargarsi e di assaltar da diversa parte la terra, solo mezzo perchè il combattere fosse breve e felice. Adunque spartiva i suoi in tre bande; la prima col generale Dallemagne doveva assaltar Fombio sulla sinistra, la seconda, condotta dal colonnello Lannes, dar dentro sulla destra, e finalmente il generale Lanusse con la mezzana aveva carico di attaccar la battaglia sulla mezza fronte della piazza per la strada maestra. Fu forte l'incontro, forte ancora la difesa. Gli Austriaci combattevano valorosamente e per natura propria e per la speranza del soccorso vicino. Finalmente prevalsero, non prima però che non fosse stato fatto molto sangue, l'impeto, la moltitudine e l'audacia de' Franzesi. Andavano gl'imperiali in rotta, ed abbandonato Fombio, si ritiravano a gran fretta a Codogno, con lasciar ai vincitori non poca parte delle bagaglie, trecento cavalli, circa cinquecento tra morti e prigionieri; e sarebbe stata più grave la perdita, se la cavalleria napolitana, condotta massimamente dal colonnello Federici, uffiziale di gran valore, serrandosi grossa ed intera alla coda, ed urtando di quando in quando gagliardamente il nemico, non avesse ritardato l'impeto suo, e fatto abilità ai disordinati Austriaci di ritirarsi. Usando i repubblicani la fortuna propizia, seguitavano i confederati ed occupavano Codogno. In questo mentre sopraggiunse la notte. Aveva Beaulieu avuto le novelle del passo de' Franzesi e del pericolo de' suoi assaltati in Fombio. Comandava pertanto a cinque mila eletti soldati corressero da Casal Pusterlengo per la strada di Codogno in soccorso di Fombio, credendo che i suoi tuttavia in quest'ultima terra si sostenessero. Fu questo un molto audace comandamento, e che poteva rompere i disegni al generale della repubblica, se fosse stato secondato dalla fortuna. In fatti arrivavano i Tedeschi nel buio della notte sopra i Franzesi all'improvviso, e sbaragliate le prime guardie, seminarono terrore e disordine in Codogno; anzi, spingendosi oltre, s'impadronirono di parte della terra. Accorreva al subitaneo rumore Laharpe, e, postosi a guida d'un reggimento fresco, marciava per rinfrancare la fortuna vacillante. L'avrebbe anche fatto, se nel bel principio di quella mischia, colto nel petto da una palla mortale, non fosse stato tolto subitamente di vita. Soldato di compito valore, ma ancora più di compita virtù, amato da tutti in vita, pianto da tutti in morte. L'accidente sinistro di Laharpe sgomentò di modo i repubblicani, che le sorti loro avevano del tutto il tracollo, se non arrivava frettolosamente il generale Berthier, che con la sua presenza tanto fece che rinfrancò gli spiriti e riordinò le schiere sbigottite e disordinate. Spuntava intanto il giorno: i Tedeschi, nell'ardir loro moltiplicando, perchè già si credevano in possessione della vittoria, si allargavano sulle ali per circondare il nemico. Ma già si erano riavuti i Franzesi; i Tedeschi medesimi, veduto al lume del giorno che i nemici, superiori assai di numero, facevano le viste di assaltarli, pensarono al ritirarsi: il che fecero, prima in buon ordine e regolatamente, poscia disordinati e rotti, instando acremente i Franzesi, oramai consapevoli dei loro vantaggi. La schiera tutta sarebbe stata condotta all'ultimo termine, se per la seconda volta la cavalleria napolitana non le faceva scudo alla ritirata. Perdettero in questo fatto i Tedeschi quasi tutto il bagaglio, non poche artiglierie lasciate nei fossi della terra, molti prigionieri fra i dispersi. Tenevano loro dietro a gran passo i repubblicani, e s'impadronivano di Casale, mentre i residui degl'imperiali si ricoveravano a Lodi, dov'era giunto con tutte le sue forze Beaulieu, e dove voleva pruovare per l'ultima volta, se, obbligando il fortunato emulo suo a fare un moto eccentrico verso destra per venirlo ad assaltare a Lodi, gli venisse fatto di rompere quell'ascendente che aveva, e trasportare in sè il favore della volubile fortuna. A Lodi adunque in un ultimo cimento si doveva combattere della salute di Milano, della conservazione della Lombardia, del destino delle reliquie ancora potenti delle genti imperiali. Aveva ottimamente il capitano austriaco collocato la sua retroguardia, sotto guida del colonnello Melcalm, suo parente, in Lodi, comandandogli che resistesse quanto potesse, ed, in caso di sinistro, si ritirasse sulla sinistra del fiume. Intanto, per assicurare il passo del ponte, molte bocche da fuoco situava all'estremità di lui presso la sinistra sponda, per modo che direttamente l'imboccavano e spazzare potevano. Nè parendogli che questo bastasse alla sicurezza di quel varco importante, munì la riva sinistra con venti pezzi d'artiglierie grosse, dieci sopra, dieci sotto al ponte, le quali coi tiri loro battendo in crociera, parevano rendere il passo piuttosto impossibile che difficile. Gli Austriaci, cui nè tante rotte nè una ritirata di sì lungo spazio non avevano ancora disanimato, se ne stavano schierati sulla sinistra riva, pronti a risospingere l'inimico disordinato dal passo del ponte, se mai contro ogni credere l'avesse effettuato. Ed ecco arrivare Buonaparte impaziente delle guerre tarde, che, veduti i preparamenti del nemico, e sloggiatolo da Lodi con un assalto presto, si risolveva, correndo il dì 10 di maggio, a far battaglia sul ponte, quantunque tutti i suoi non fossero ancora quivi raccolti. I generali suoi compagni, che vedevano l'impresa molto pericolosa, fecero opera di sconfortarnelo, rappresentandogli la fortezza del luogo, la stanchezza dei soldati, le genti menomate dalle battaglie e minorate dalla lontananza di molte schiere valorose. Ma egli, che ne sapeva più di tutti, che voleva quel che voleva, e che era, nonchè liberale, prodigo del sangue dei soldati purchè vincesse, persisteva a voler dar dentro, e tosto si accingeva alla pericolosissima fazione. Fatto adunque venire a sè un nodo di quattro mila granatieri e carabine, gente rischievole, usa al sangue, pronta a mettersi ad ogni sbarraglio, diceva loro con quel suo piglio alla soldatesca: «Vittoria chiamar vittoria; esser loro quei bravi uomini che già avevano vinto tante battaglie, fugato tanti eserciti, espugnato tante città; già temere il nemico, poichè già dietro ai fiumi si ritirava: credersi quel Beaulieu, già tante volte vinto, che il breve passo di un ponte arrestar potesse i repubblicani di Francia; vana presunzione, vana credenza; aver loro passato il Po, re dei fiumi, arresterebbeli l'umile Adda? Pensassero essere questo l'ultimo pericolo; superatolo, in mano avrebbero la ricca Milano; dessero adunque dentro francamente, sostenessero il nome di soldati invitti; guardarli la repubblica grata alle fatiche loro, guardarli il mondo maravigliato ed atterrito alla fama di tante vittorie: qui conquistarsi Italia, qui rendersi il nome di Francia immortale.» Schieraronsi, serraronsi, animaronsi, contro il ponte marciarono. Non così tosto erano giunti, che li fulminavano un tuonare d'artiglierie d'Austria orrendo, una grandine spessissima di palle, un nembo tempestoso di schegge. A sì terribile urlo, a sì duro rincalzo, alle ferite, alle morti, esitavano, titubavano, si arrestavano. Se durava un momento più l'incertezza, si scompigliavano. Pure il valor proprio ed i conforti dei capitani tanto gli animarono, che tornavano una seconda volta all'assalto: una seconda volta sfolgorati cedevano. Vistosi dai generali repubblicani il pericolo, ed accorgendosi che quello non era tempo di starsene dietro le file, correvano, a fronte Berthier il primo, poi Massena, poi Cervoni, poi Dallemagne, e con loro Lannes e Dupas, e si facevano guidatori intrepidi dei soldati loro in un mortalissimo conflitto. Le scariche delle artiglierie tedesche avevano prodotto un gran fumo che avviluppava il ponte; del quale accidente valendosi i repubblicani, e velocissimamente il ponte attraversando, riuscirono, coperti di fumo, di polvere, di sudore e di sangue, sulla sinistra sponda. Spingeva oltre Buonaparte subitamente i restanti battaglioni; ma le fatiche loro non erano ancora giunte al fine, nè la vittoria compita, perchè gl'imperiali ordinati sulla riva, facevano tuttavia una ostinatissima resistenza. Tuonavano le artiglierie, calpestavano i cavalli, la battaglia, siccome combattuta da vicino, più sanguinosa. Già correvano pericolo i Franzesi di essere rituffati nel fiume, ed obbligati a rivarcare con infinito pericolo il ponte con sì estremo valore conquistato, quando opportunamente giunse con la sua eletta squadra Augereau, che, udito l'avviso della battaglia orribile, a gran passi dal Borghetto in aiuto de' suoi compagni pericolanti accorreva. Questa giunta di forze in momento tanto dubbio fece del tutto sormontare la fortuna franzese. Beaulieu, abbandonato il bene contrastato ponte, si ritirava prestamente con animo di andarsi a porre sul Mincio per serbare le strade aperte al Tirolo e per assicurar Mantova con un grosso presidio. Di pochi prigionieri nella ritirata loro furono gl'Imperiali scemi; bensì perdettero nel fatto due mila cinquecento soldati tra morti e feriti, quattrocento cavalli, gran parte delle artiglierie. Grave fu anche la perdita dei Franzesi, i morti, i feriti, i prigionieri passando i due mila. La ritirata dei confederati assicurò i repubblicani delle cose di Lombardia, e pose in mano loro Pavia, Pizzighettone e Cremona: la imperial Milano, priva ormai di difesa, tanto solamente indugiava a venir sollo l'imperio repubblicano, quanto tempo abbisognava ai repubblicani per arrivarvi. Mescolaronsi a questi gloriosi fatti i saccheggi e le devastazioni. Giunte a Milano le novelle del passo del Po, e dell'abbandonarsi da Beaulieu la frontiera del Ticino, vi sorse un grande sbigottimento, poichè vi si prevedeva che poca speranza restava di conservare la città sotto la devozione dell'Austria. Erano gli animi di tutti, come in una popolazione ricca allo approssimarsi di soldatesche nuove non conosciute, e forse anche troppo conosciute. Mancavano nel Milanese le cagioni di mala soddisfazione, e quindi nasceva che, sebbene i popoli siano generalmente amatori di novità, e non conoscano il bene se non quando lo hanno perduto, non si manifestavano nella felice Lombardia segni di future e spontanee rivoluzioni. Ognuno anzi temeva per sè, per le famiglie, per le sostanze. Sapevano i Milanesi che pochi erano fra loro i zelatori di novità, e questi pochi ancora quieti e rimessi secondo la natura del paese; ma apprendevano che ove i repubblicani vi avessero posto sede, da tutta Italia vi concorressero o gli scontenti dei governi regii o gli amatori della repubblica, e con mezzi nuovi ed insoliti vi partorissero accidenti ignoti e forze terribili. Per la qual cosa vi si viveva in grande spavento. L'arciduca Ferdinando si risolveva a lasciar quella sede per andarsene nella sicura Mantova, o, quando i tempi pressassero di vantaggio, nella lontana Germania. Desiderando però, prima di partire, provvedere alla quiete dei popoli, ordinava, con editto del 7 maggio, che i cittadini abili all'armi si descrivessero ed in milizia urbana si ordinassero. A dì 9, creava una giunta con autorità di fare quanto al governo si appartenesse, ed a questa giunta, come a capo supremo dello Stato, voleva che i magistrati minori obbedissero. L'ordine giudiziale a far l'ufficio suo continuasse. Avendo per tal guisa l'arciduca provveduto alle faccende, se ne partiva il medesimo dì 9 di maggio alla volta di Mantova, avviandosi dove già era arrivata la sua famiglia. L'accompagnavano personaggi di nome, fra' quali il principe Albani ed il marchese Litta. Una moltitudine di persone di ogni grado, di ogni età e di ogni sesso, fuggendo la furia dei repubblicani, abbandonate agli strani le case loro, correvano a ricoverarsi sulle terre veneziane, destinate ancor esse, e molto prossimamente, alla medesima ruina. Seguitava in Milano un interregno di tre giorni. Buonaparte intanto, espeditosi per la vittoria di Lodi di quanto più pressava nella guerra, e già stimando Milano in sua potestà, mandava Massena a farsene signore. In questo mentre mandavano i magistrati municipali i loro delegati ad offerire la città a Buonaparte che si trovava alle stanze di Lodi, pregandolo di usare mansuetudine verso un popolo in ogni tempo quieto, nemico a nissuno, confidente nella generosità dei Franzesi. Rispose benignamente, porterebbe rispetto alla religione, alle proprietà, alle persone. Il giorno 14 di maggio entrava Massena con una schiera di dieci mila soldati valorosissimi. L'incontravano al Dazio di porta Romana i municipali. Disse, per mescolare qualche temperamento alla fierezza dell'armi, che sarebbero salve la religione, le proprietà. Arrivarono il giorno dopo nuovi corpi di truppa; ogni parte piena di soldati. Incominciossi l'opera d'oppugnar il castello, a cui si erano riparati gli Austriaci. Arrivavano intanto i repubblicani, sì finti come sinceri, i quali, o allettati dalla fama o costretti dalla necessità, fuggendo lo sdegno dei signori loro, correvano, come in sede propria e di salute nella città conquistata. A costoro si univano i repubblicani milanesi, ed intendevano a far novità. Fra tutti questi gli utopisti, servi di un'opinione anticipata e di un dolce delirio andavano sognando una perpetua felicità. Di costoro si faceva beffe Buonaparte, stimandogli uomini da poco, scemi e, come sarebbe a dire, pazzi. V'erano poi quei patriotti che amavano lo stato libero per ambizione: di questi il generalissimo facevane maggiore stima, perchè, come diceva, erano gente che aveva polso, e, per poco che si stimolassero, avrebbero servito mirabilmente a' suo disegni. Finalmente quei patriotti, i quali amavano le novità per le ricchezze, e, sperando di pescar nel torbido, gridavano ad alte e spesse voci libertà, non frequentavano mai le stanze di Buonaparte, ma amavano molto aggirarsi fra i commissarii e gli abbondanzieri dell'esercito, dei quali diventavano sensali e mezzani. Fecero grandi allegrezze tutti questi generi di patriotti, in sull'entrar dei Franzesi, di luminarie, di balli, di festini; ma per quella servile imitazione di cui erano invasati verso le cose franzesi, e che fu la principal cagione della servitù d'Italia, piantarono altresì alberi di libertà, vi facevano intorno canti, balli, discorsi, ed altre simili tresche. Poscia, acciocchè non mancasse quel condimento delle congreghe pubbliche per aringarvi intorno a cose appartenenti allo Stato, le fecero a modo di Francia, ed in loro chi aringava con maggior veemenza, più era applaudito. Entrava in Milano il vincitor Buonaparte, non già con semplicità repubblicana, ma con fasto regale, come se re fosse: l'accolsero con grida smoderate i patriotti e parte del popolo, solito a fare come gli altri fanno. Innumerabili scritti si pubblicarono, in cui sempre più si lodava Buonaparte che la libertà: mostrossi, per dir il vero, in questo molto schifosa l'adulazione italiana. Fra i patriotti, chi lo chiamava Scipione, chi Annibale; il repubblicano Ranza il chiamava Giove. I buoni utopisti, quando lo vedevano, piangevano di tenerezza. Queste dimostrazioni egli si godeva tanto in pubblico quanto in privato; ma augurava male degl'Italiani. Intanto vedeva il mondo una cosa maravigliosa. Un soldato di ventott'anni, un mese innanzi conosciuto da pochi, avere con un esercito sprovveduto e non grosso superato monti difficilissimi, varcato grossi e profondi fiumi, vinto sei battaglie campali, disperso eserciti più potenti del suo, soggiogato un re, cacciato un principe, acquistato il dominio di una parte d'Italia, apertasi la strada alla conquista dell'altra, convertiti in sè stesso gli occhi di tutti gli uomini di quell'età. Sapevaselo Buonaparte; l'anima sua ambiziosa maravigliosamente se ne compiaceva. Ma perchè l'aspettativa che aveva desta di lui non si raffreddasse, e per farsi scala a cose maggiori, mandava fuori, il 20 maggio, un discorso molto infiammativo a' suoi soldati: «Soldati valorosi, diceva, voi piombaste, come torrente precipitoso, dalle Alpi e dagli Apennini; voi urtaste, voi rompeste nel corso vostro ogni ritegno. Il Piemonte, oggimai libero dell'austriaca dipendenza, spiega i naturali suoi sentimenti di pace e d'amicizia verso la Francia. Vostro è lo Stato di Milano: sventolano all'aura su tutte le alte cime della Lombardia le repubblicane insegne: i duchi di Parma e di Modena alla generosità vostra sono del dominio che ancora lor resta obbligati. Dov'è l'esercito che testè con tanta superbia v'insultava? Ei non ha più riparo contro al coraggio vostro. Nè il Po, nè il Ticino, nè l'Adda poterono un sol giorno arrestarvi. Vani furono i vantati baluardi d'Italia, vani i gioghi inaccessibili degli Apennini. Sentì la patria infinita allegrezza delle vostre vittorie; vuole che ogni comune le celebri: i padri, le madri, le spose, le sorelle, le amanti, de' fausti eventi vostri si rallegrano e si stimano dell'avervi per congiunti fortunatissime. Sì per certo, o soldati, assai faceste; ma forse altro a fare non vi resta? Diranno di voi i contemporanei, diranno i posteri, che abbiam saputo vincere, non usare la vittoria? Accuseranci dell'aver trovato Capua in Lombardia? No, per Dio no, che già vi veggo correre alle vincitrici armi, già veggo sdegnarvi ad un vil riposo, già sento i giorni passati senza gloria esser giorni perduti per voi. Orsù, partiamne; restanci viaggi frettolosi a fare, nemici ostinati a vincere, allori gloriosi a cingere, crudeli ingiurie a vendicare. Tremi chi accese le faci della civil guerra, tremi chi uccise i ministri della repubblica, tremi chi arse Tolone, tremi chi rapì le navi; già suona contro a loro in aria una terribile vendetta. Pure stiansi senza timore i popoli: siamo noi di tutte le nazioni amici, specialmente siamo dei discendenti di Bruto, degli Scipioni, di tutti gli uomini grandi che impreso abbiamo ad imitare. Ristorare il Campidoglio, riporvi in onore le statue degli eroi, per cui tanto è famoso al mondo, destar dal lungo sonno il romano popolo, torlo alla schiavitù di tanti secoli, fia frutto delle vittorie: acquisteretevi una gloria immortale, cangiando in meglio la più bella parte d'Europa. Il popolo franzese libero, rispettato dai popoli, darà all'Europa una pace gloriosa, che di tanti sofferti danni, di tante tollerate fatiche ristorerallo. Ritornerete allora fra le paterne mura; i concittadini, a dito mostrandovi, diranno: _Fu soldato costui dell'esercito d'Italia_.» Questo tremendo parlare empiva di spavento Italia; ognuno aspettava accidenti terribili. Conquistato il Piemonte, conculcato il re di Sardegna, e posto il piede nella città capitale degli Stati austriaci in Italia, si apparecchiava Buonaparte a più alte imprese. Suo principal desiderio era di passar il Mincio, e, cacciando le genti tedesche oltre i passi del Tirolo, vietare all'imperatore che non mandasse nuovi aiuti per ricuperare le provincie perdute. Intanto le sue vittorie avevano aperta l'occasione al governo di manifestare il suo intento circa il modo di procedere verso alle potenze italiane, e congiunte d'amicizia con la Francia, e neutrali, e nemiche. La somma era, che facendo traffico del Milanese, con darlo in preda, secondochè per le occorrenze dei tempi meglio si convenisse, o al re di Sardegna o all'imperatore, si taglieggiassero i principi d'Italia, e da loro quel maggiore spoglio di denaro e di altre ricchezze che possibil fosse si ricavasse. Nè in questo mostrava il direttorio maggior rispetto agli amici che ai nemici. Nella quale risoluzione egli allegava per pretesto e la guerra fatta e l'amicizia finta e la necessità di assicurare l'esercito. Voleva prima di tutto che si conquidesse ogni reliquia dell'esercito alemanno, e che intanto si consumasse il Milanese, sì per pascere i soldati e sì per farlo meno utile a chi si dovesse o dare o restituire; se ne cavasse denaro, e sino i canali e le opere pubbliche fossero un po' tocche dalla guerra. Poi si corresse contro il granduca di Toscana, e si occupasse Livorno, confiscandovi le navi e le proprietà inglesi, napolitane, portoghesi e di altri Stati nemici della repubblica, sequestrandovi le proprietà dei sudditi loro; e se il granduca si opponesse, si dicesse perfidia, e sì allora si trattasse la Toscana come se fosse alleata dell'Inghilterra e dell'Austria. Grande rapacità fu questa veramente, ed incomportevole e barbara, poichè, se erano in Livorno proprietà d'Inghilterra o d'Inglesi e di altri nemici della repubblica, eranvi in vigore della neutralità di Toscana, che la Francia stessa aveva e riconosciuta ed accordata col granduca. Questa fu la ricompensa che ebbe Ferdinando di Toscana da quei repubblicani di Parigi, che pure pretendevano sempre alle parole loro la sincerità e la grandezza, dello avere, primo fra tutti i potentati d'Italia, e riconosciuta la repubblica e fatta la pace con lei, e dato lo scambio, per istanza del Direttorio, al suo ministro conte Cartelli, cui sostituì il principe don Neri Corsini. Era Genova stata straziata dalle armi franzesi e dalle avversarie, e poteva avere speranza, ora che la sede della guerra si era allontanata da' suoi confini, di vivere più quietamente. Ma i tempi erano tali che dove mancavano le cagioni s'inventavano i pretesti, ed il fine era non di rispettare i neutri deboli, ma di molestargli e di mettergli in preda. Adunque per quella cupidità di voler trarre denaro da Genova, si cominciò ad insorgere contro il governo genovese. Scriveva con una insolenza incredibile Buonaparte al senato, ch'era Genova il luogo donde partivano gli uomini scellerati, che, datisi alle strade, intraprendevano i carriaggi ed assassinavano i soldati franzesi; che da Genova un Girola mandava ai feudi imperiali ribellanti armi e munizioni da guerra pubblicamente, ed ogni giorno i capi degli assassini accoglieva ancor bruttati di sangue franzese; che parte di questi orribili fatti succedevano sul territorio della repubblica; che pareva che essa col tacere e col tollerare approvasse opere tanto scellerate; che il governator di Novi proteggeva i commettitori di tanti alti barbari; perciò arderebbe i comuni dove fosse ucciso un Franzese; voleva che il governatore di Novi si cacciasse, come Girola da Genova: arderebbe infine le case tutte in cui gli assassini trovassero asilo; punirebbe i magistrati trasgressori della neutralità che egli osserverebbe bene e puntualmente, ma volere che la repubblica di Genova non fosse rifugio di gente malandrina; e di egual tuono, e vieppiù soldatescamente accendendosi, scriveva al governatore di Novi. Rispondevano il senato ed il governatore stando in sui generali, perchè lo attribuire a sè medesimi opere tanto nefande non era nè verità nè dignità, ed il non soddisfare ad un soldato vittorioso e sdegnato, era pericolo. Certo è bene che per quelle strade si commisero contro i Franzesi opere di molta barbarie; ma questi omicidii ed assassinamenti, di cui con tanta ragione Buonaparte si querelava, non già solamente sul territorio genovese accadevano, ma ancora, e molto più, sul territorio piemontese. Eppure non fece il generale di Francia che un leggier risentimento e nissuna minaccia contro il re di Sardegna, poichè contro di lui non aveva quel fine che contro Genova aveva. A queste minaccie soldatesche succedevano le prepotenze parigine. Comandava il direttorio a Buonaparte s'impadronisse o di queto o per forza di Gavi, a fine di assicurare l'esercito alle spalle, e di conservarsi la strada della Bocchetta aperta da Genova a Tortona; col qual medesimo pensiero già s'era impadronito della fortezza di Vado: il che quale rispetto sia per la neutralità, ciascuno potrà giudicare. Poscia voleva che come prima l'esercito repubblicano occupato avesse il porto di Livorno, occupasse anche la Spezia, ed ivi quanti bastimenti appartenessero a potentati nemici alla Francia mettesse in preda. Nè contento a questo, dimenticando tutto l'accaduto, comandava a Buonaparte che domandasse nuovamente vendetta e nuovi milioni di contanti per la straziata Modesta, ed operasse che coloro che si erano mescolati in tale fatto fossero come traditori della patria dannati; oltre a ciò, voleva e comandava che si confiscassero e si dessero in mano della repubblica tutte le proprietà pubbliche appartenenti ai nemici, e sotto sicurtà di Genova si sequestrassero tutte quelle che a sudditi di potentati nemici spettassero; cacciasse Genova da' suoi territorii tutti i fuorusciti franzesi; fornisse bestie da tiro e da soma, carriaggi e viveri, e si dessero in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace generale. Passando ora da Genova a quella primogenita, come la chiamavano, repubblica di Venezia, siccome cresceva nei vincitori con le vittorie la cupidigia dell'oro e del dominare, incominciarono a dire che volevano che fosse trattata non da amica, ma solamente da neutrale, sotto colore di certi pretesti vecchi che già sussistevano, poichè non era cambiata la condizione delle cose fra le due repubbliche, quando nell'ingresso del nobile Querini se gli fecero tante carezze. Tra questi pretesti il primo e principale era il passo dato ai Tedeschi pei territorii veneziani. Poi, prosperando vieppiù la fortuna dell'armi repubblicane in Italia, insorse il direttorio, con volere che Verona desse grossa somma di denaro a prestito, a motivo ch'ella aveva accolto nelle sue mura Luigi XVIII. Finalmente, cacciato del tutto Beaulieu oltre Mincio, voleva ed imperiosamente comandava che Venezia prestasse dodici milioni, e si voltasse in ricompensa questo debito alla repubblica batava, che era debitrice di questa somma, a norma de' freschi trattati, alla Francia. Voleva, oltre a ciò, e comandava che si consegnassero alla repubblica tutti i fondi de' potentati nemici che fossero in Venezia, principalmente quelli che spettavano personalmente al re d'Inghilterra, ed inoltre si dessero alla Francia tutte le navi sì grosse che sottili, ed altre proprietà di nemici che stanziassero nei porti veneziani. Quanto al papa, se volesse trattar di accordo, si esigesse da lui, imponeva il direttorio, per primo patto che ordinasse subito preci pubbliche per la prosperità e la felicità della repubblica; nel che faceva il direttorio gran fondamento, per l'autorità che aveva la Sedia apostolica sulla opinione dei popoli sì franzesi che italiani. Si venne quindi in sul toccar il solito tasto del danaro, intimando che desse venticinque milioni. Si comandasse al tempo medesimo al re di Napoli, che se pace volesse, badasse a cacciar dai suoi Stati gl'Inglesi e gli altri nemici della repubblica, mettesse in poter suo tutte le navi loro che nei napolitani porti fossero sorte, e loro vietasse d'entrarvi nemmeno con bandiera neutrale. Pei potentati minori, correndo la fama che avessero ricchezze, voleva il repubblicano governo che si scuotessero bene i duchi di Parma e di Modena, ma il primo meno rigidamente del secondo, per rispetto del re di Spagna, col quale era congiunto di sangue. Lallemand, ministro di Francia a Venezia, esortava che si conculcasse, si pugnesse, si travagliasse per ogni guisa il modenese duca a fargli dar denaro, perchè ne aveva molto, ed era avaro; e più si scuoterebbe, e più contanti darebbe. Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva all'Italia dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto la principal sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse a quelle dolci parole di umanità e di libertà che dai repubblicani di quei tempi si andavano sino a sazietà spargendo, ordinava il direttorio, a petizione di Buonaparte, che si comandasse nei patti d'accordo a principi vinti, dessero in potere dei vincitori, perchè nel museo di Parigi fossero condotti, quadri, statue, testi a penna, ed altri capi dell'esimie arti, usciti di mano ai più famosi artisti del mondo, affermando esser venuto il tempo in cui la sede loro doveva passare da Italia a Francia e servire d'ornamento alla libertà. Brutta certamente ed odiosa opera fu questa dell'avere spogliato l'Italia di preziosi ornamenti; ma lo spoglio piaceva ad alcuni per l'amor della gloria, ad altri perchè potessero essere sotto gli occhi modelli tanto perfetti di natura abbellita dall'arte; imperciocchè in quei tempi erano sortiti in Francia, massimamente in pittura, artisti di gran valore, i quali ed ammiravano e sapevano imitare lodevolmente gli esempi italiani: e con questo ancora Buonaparte, pe' suoi fini, lusingava la Francia. In Italia poi i repubblicani, non i buoni, ma i malvagi, indicavano le opere preziose da rapirsi; i più dolci andavansi confortando con la speranza che l'Italia, siccome quella che ancora era feconda, ne avrebbe prodotto delle altre ugualmente preziose; i più severi poi, trasportando nelle moderne repubbliche l'austerità delle antiche, se ne rallegravano, predicando che la libertà non aveva bisogno di queste preziosità, e che pane e ferro dovevano bastare a chi repubblicano fosse. Ma il direttorio, a suggestione sempre di Buonaparte, che sapeva quel che si faceva, voleva che se le opere più insigni delle arti servivano d'ornamento ai trionfi della repubblica, gl'ingegni celebri li lodassero, avvisandosi che non sarebbe accagionato di barbarie, se coloro che da lei per costume, per ingegno e per sapere erano i più lontani, si facessero lodatori delle imprese dei repubblicani, a danno ed a spoglio dell'Italia. Voleva conseguentemente ed imponeva al suo generale che ricercasse e con ogni modo di migliore dimostrazione accarezzasse gli scienziati ed i letterati d'Italia; ed il generale recava ad effetto l'intento del direttorio, parte per vanagloria, parte per astuzia, come mezzo e scala alle future ambizioni. Or ecco in qual modo i raccontati comandamenti, che finora erano solamente intenzioni, siano stati ridotti in atto. Non così tosto ebbe Buonaparte passato il Po a Piacenza, che sorse una trepidazione nella corte di Parma tanto maggiore quanto il duca aveva rifiutato l'accordo con Francia, che il ministro di Spagna in Torino gli era venuto offerendo con qualche intesa del generalissimo, come prima i Franzesi erano comparsi nella pianura del Piemonte. Non solamente una parte del ducato era venuta sotto la devozione dei repubblicani, ma ancora il restante, non avendo difesa, era vicino, e solo che il volessero, a venire in poter loro; nè si stava senza timore che seguisse anche qualche turbazione. In tanta e sì improvvisa ruina prese il duca quel partito che solo gli restava aperto, del tentare di assicurar gli Stati con un accordo, che, quantunque grave e duro dovesse riuscire, sarebbe, ciò nonostante men grave che la perdita di tutto il dominio. Domandava il vincitore superbamente l'accordo che ponesse fine alla guerra, e con l'accordo denari, vettovaglie e tavole dipinte di estremo valore. Adunque in primo luogo fu consentita una tregua con mediazione del ministro di Spagna il dì 9 maggio in Piacenza. Non aveva il duca armi nè fortezze da dare, ma si obbligava di pagare in pochi giorni sei milioni di lire parmigiane, che sono a un di presso un milione e mezzo di franchi, e di più a fornire quantità esorbitanti di viveri e di vestimenta pei soldati. Si obbligava, oltre a ciò ad allestire due ospedali in Piacenza, provveduti di tutto punto, ad uso dei repubblicani. Consegnerebbe finalmente venti quadri dei più preziosi, fra i quali il San Girolamo del Correggio. Mandava pertanto Buonaparte Cervoni a Parma, perchè ricevesse i denari ed i quadri, e vigilasse onde le condizioni della tregua si eseguissero puntualmente. Stretto il duca da tanta necessità, mandava le ducali argenterie alla zecca, perchè vi si coniassero, ed il vescovo le sue. Così, usato ogni estremo rimedio, e raggranellato denaro da ogni parte, satisfaceva Ferdinando alle condizioni della tregua. Intanto i fuorusciti parmigiani e piacentini, ritiratisi a Milano, laceravano il duca con incessanti scritture, dal che riceveva grandissima molestia. Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte dei suoi tesori, il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza che disposto per la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta il vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano le instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto dì nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse, oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente di altri due milioni: di più, fra quarantotto ore rispondessero del sì o del no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero dal ducale governo la diminuzione di un milione nei generi da somministrarsi e dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano quindici quadri dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa di pagare a contanti quanto abbisognasse loro, passando per gli Stati del duca. Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima che partisse, con surrogar loro magistrati ed uomini o partigiani o dipendenti da Francia; e di procacciar denaro e fornimenti che l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual cosa, in luogo della giunta di Stato, creava la congregazione generale di Lombardia, ed al consiglio dei decurioni surrogava un magistrato municipale in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di grande stato, Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini, Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato ed a lui si riferivano gli affari più gelosi e più segreti. Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte sulla conquistata Lombardia una gravezza di venti milioni di franchi, e faceva abilità ai commissarii e capi di soldati di torre per forza i generi necessarii, con ciò però che dessero polizze del ricevuto accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni. Intenzione sua era che cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati e sui corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa dall'intenzione l'esecuzione; ma i ricchi, sì perchè si sentivano gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti e licenziavano i servitori, chè poco bene disposti in sè per natura vecchia, ed avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel popolo, massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle il magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni dovessero continuar a pagare i salarii ai servitori. Ma fu il rimedio insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo, perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate di generi d'ogni specie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi ai generali, ai commissarii, ai comandanti, agli uffiziali, talmente il costringevano, che non era più padrone di sè medesimo, stanziava un'imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi milanesi. Non parlasi dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare, consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè a grandi e replicate vittorie era congiunta un'opinione politica ardentissima e molto diversa da quella dei popoli, fra' quali egli viveva. Il che sia detto generalmente, perchè molti uffiziali, o per gentile educazione o per bontà di natura, si portavano e dentro e fuori delle case del popolo conquistato in tale guisa che si conciliavano la benevolenza d'ognuno. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli erano le tolte sforzate di generi che per uso dei soldati o proprio alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villerecci luoghi, liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva e a chi non aveva, e così agli amici come ai nemici del nome franzese. Aggiungevansi le minaccie e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire l'uomo che i cattivi fatti. Ciò rendeva i Franzesi odiosi, ma più ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi o per le opinioni parteggiavano pei Franzesi. Nè il popolo discerneva i buoni dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che tutti aiutavano l'impresa di una gente che, venuta per forza nel loro paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Adunque lo sdegno era grande; la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli. A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca e gli ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il dominio franzese in Italia; che questa terra era pur tomba ai Franzesi, che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le loro cacciate o gli eccidii; quindi eccitavano all'armi, quindi dicean calar dalle tirolesi rupi nuovi eserciti imperiali, quindi spargevano voler i Franzesi fare per forza una leva di gioventù lombarda per mandarla, con le genti franzesi incorporandola, alla guerra contro l'imperatore; e per quanto si sforzassero i magistrati di persuadere ai popoli il contrario, vieppiù nella concetta opinione si confermavano. In mezzo a tutti questi mali umori successe a Milano un fatto veramente enorme che li fece traboccare e crescere in grandissima inondazione. Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano, o gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti e gioie di grandissimo valore. Si aggiungevano, come si usa, capi di minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano a doti di fanciulle povere. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà non solo perchè era segno di fede pubblica, ma ancora perchè le cose depositate la maggior parte appartenevano a persone o per condizione o per accidente bisognose. Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel monte e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio che là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo. Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire che non si fosse portato più rispetto alle proprietà de' poveri che a quelle de' ricchi, il che in parte era anche vero. Le quali cose, giunte all'insolenza militare, allo strazio che si faceva nelle campagne, alle improntitudine dei patriotti, partorirono una indegnazione tale che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di far un moto contro i Franzesi. Nè fu la città stessa di Milano esente da questa turbazione; perciocchè, facendo i repubblicani non so quale allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il quale, frenato l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio. Ma le cose non passarono sì di queto ne' contorni di Milano, massimamente verso la porta Ticinese, perchè viaggiando e Franzesi e patriotti italiani, o soli o con poca compagnia, per quelle campagne, e non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservarli, furono da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano uccisioni ancor maggiori ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In Binasco principalmente l'ardore contro i Franzesi e contro i giacobini, come li chiamavano, era giunto agli estremi; e credendosi i Binaschesi ogni più crudele fatto lecito, ammazzavano quanti Franzesi o Italiani partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso, molti, anzi una squadra non piccola di Franzesi, furono barbaramente trucidati da quella gente. A questo molo di Binasco, terra posta a mezzo cammino fra Milano e Pavia, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi de' Tedeschi, che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia. Chi poi non accorreva per la speranza de' soccorsi tedeschi, che non pochi sapevano esser vana, il facevano per la voce che s'era levata fra la gente tumultuaria che i Franzesi si avvicinassero per mettere a sacco Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero della libertà, si erano sollevati la mattina del 23 maggio, e correvano la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza. Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le truppe sollevate: suonavano precipitosamente in Pavia le campane a martello; rispondevano, con grandissimo terrore di tutti, quelle della campagna. Nascondevansi i patriotti, perchè il popolo li chiamava a morte: pure, più temperato in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini quieti serravano a furia le porte. I soldati di Francia segregati erano presi; i rimanenti, non più di quattrocento fanti, male in arnese, la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoverarono nel castello, dove, per mancanza di vitto, era certamente impossibile che si potessero difendere lungo tempo. Arrivarono in questo punto i contadini, e, congiuntisi coi cittadini, aggiungevano furore a furore. Alcuni fra i più ricchi, o che temessero per sè o che volessero aiutare quel moto, mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri mangiari in quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi, i tristi trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di pesar con giusta lance le cose, non vedendo a comparire da parte alcuna soccorsi in favore degli avversarii, davansi in preda all'allegrezza, e concependo speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro, non solo la liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardia e di tutta l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale franzese Haquin; nè così tosto ebbe messo il piede dentro le mura, che, minacciato nella persona, fu condotto per forza al palazzo del comune, dove già era una banda grossa di soldati franzesi, che disarmati ed incerti della vita e della morte, se ne stavano del tutto in balìa di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto da' municipali, che ogni sforzo facevano per sedare quel cieco impeto. Ma finalmente il popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e, trovato Haquin, lo volevano ammazzare; i municipali, facendogli scudo de' corpi loro, il preservavano, benchè ferito di baionetta in mezzo alle spalle. Mentre alcuni si adoperavano per la salute del generale, altri si ingegnavano di salvar la vita de' Franzesi; nè riuscì vano il benigno intento loro. Bene fece poi Haquin ufficio di gratitudine a Buonaparte, che, ritornata Pavia a sua devozione, gli voleva far ammazzare come autori della ribellione, raccomandandogli e con istanti parole pregandolo perdonasse a uomini già vecchi, a uomini più abili a pregare il popolo concitato che a concitar il quieto. Intanto si viveva con grandissimo spavento in Pavia non già perchè vi si temessero dai più i Franzesi, avendo la rabbia tolto il lume dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano che quella furia, per trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio della misera città. Così passarono le due notti dai 23 ai 25; ma già si avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata impresa, quando più la moltitudine, per la dedizione del presidio ricoverato in castello, si credeva sicura della vittoria. Era giunto il 25 maggio, quando udissi improvvisamente un rimbombar di cannoni, prima di lontano, poi più da presso; e via via più spesseggiando il romore, dava segno che qualche gran tempesta si avvicinasse dalle parti di Binasco. Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto a Lodi, con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto Beaulieu, quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco e di Pavia. Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza, perchè questi incendii più presto si spandono che non si estinguono, tornossene subitamente indietro, conducendo con sè una squadra eletta di cavalli ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in Milano, considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato ostinazione uguale alla rabbia, o forse, volendo risparmiare il sangue, si deliberava a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo di Milano, affinchè con l'autorità del suo grado e delle sue parole procurasse di ridurre a sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto, applicando l'animo a far sicuro colla forza quello che le esortazioni non avrebbero per avventura potuto operare, rannodava soldati e li teneva pronti a marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già incontrati per via i Binaschesi, facilmente li rompevano, facendone una grande uccisione. Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da diverse bande il fuoco, l'arsero tutto. Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e, fattosi al balcone del municipale palazzo, orava istantemente alle genti che si erano affollate per ascoltarlo. Con grande ardore parlava, desiderosissimo di salvar la città; ma più poteva in chi lo ascoltava un feroce inganno che le persuasive parole. Gridarono non doversi dar orecchio all'arcivescovo, esser dedito ai Franzesi, esser giacobino; e così su questo andare con altre ingiurie offendevano la maestà del dabben prelato. Adunque non rimaneva più speranza alcuna alla desolata terra; le matte ed inferocite turbe, accortesi oggimai che lo sperare aiuti estranei era vano, e che i Franzesi giù stavano loro addosso, chiusero ed abbarrarono le porte, ed empierono tutto all'intorno le mura d'armi e di armati. Ma ecco arrivare a precipizio il vincitor Buonaparte ed atterrare a suon di cannoni le mal sicure porte. Fessi in sulle prime una tal qual difesa; ma superando fra breve le armi buone e le genti disciplinate, abbandonavano frettolosamente i difensori le mura, e ad una disordinata fuga si davano. Fuggirono per diverse uscite i contadini alla campagna; si nascondevano i cittadini per le case. Restava a vedersi quello che il vincitor disponesse; aspettava Pavia l'ultimo eccidio. Entrava la cavalleria della repubblica, correva precipitosamente, trucidava quanti ne incontrava: cento sollevati in questo primo abbattimento perirono. Entrava per la milanese porta Buonaparte, e postovisi accanto con le artiglierie volte contro la contrada principale, traeva a furia dentro la città. Quivi fra il romore dei cannoni, fra le grida dei fuggenti e dei moribondi, fra il calpestio dei cavalli, fra lo strepito delle case diroccanti, tra il fremere dei soldati infiammatissimi alla ruina della terra, era uno spettacolo spaventevole e miserando; ma se periva chi andava per le vie, non era salvo chi si nascondeva per le case. Ordinava Buonaparte il sacco; dava Pavia in preda ai soldati. Non ci fermeremo a narrare il tenore di questa tremenda esecuzione. Nel giorno 23, nella susseguente notte, nel dì 24, le soldatesche, avventate di natura ed irritate alla morte dei compagni, non si ristavano, e vi commisero opere non solo nefande in pace, ma ancora nefande in guerra. Erano in pericolo le masserizie, erano le persone; e le persone quanto più dilicate ed intemerate, tanto più appetite ed oltraggiate dagli sfrenati saccheggiatori. Tal era l'universale dei soldati; ma non sono da dimenticare i pietosi ufficii fatti da molti soldati franzesi in mezzo alla confusione sì fiera e sì orribile. Non pochi furono visti che, abborrendo dalla licenza data da Buonaparte, serbarono le mani immuni dall'avaro saccheggiare, altri, più oltre procedendo, fecero scudo delle persone loro ai miserandi uomini ed alle miserande donne, chiamati a preda od a vituperio dai compagni loro; sì che sorsero risse sanguinose fra gli uni e gli altri in sì strana contesa, pietosa ad un tempo e scellerata. Quali si affaticavano per rinsensare le donne svenute, e riconfortarle; quali anche, vinti dalla compassione, tornavano indietro a far la restituzione delle rapite suppellettili. Nè si dee passare sotto silenzio che se si fece ingiuria alle robe ed alla continenza, non si pose però mano al sangue. Parte anche essenziale di questo fatto fu l'immunità data alle case dell'università, che pur avevano molti capi di pregio anche per soldati. Questo benigno riguardo si ebbe per comandamento dei capi. Più mirabile fu ancora la temperanza de' capitani subalterni, ed anche dei gregarii medesimi, che portando rispetto al nome di Spallanzani e di altri professori di grido, si astennero, o pregati leggiermente od anche non pregati, dal por mano nelle robe loro. Tanto è potente il nome di scienza e di virtù anche negli uomini dati all'armi ed al sangue. Finalmente il mezzodì del giorno 26, siccome era stato ordinato da Buonaparte, pose fine al sacco. Contento il vincitore a quel che aveva fatto, non incrudelì di soverchio contro i presi colle armi in mano ancora grondanti di sangue franzese: uno solo fu fatto passare per l'armi in sul primo fervore in Pavia; poi altri tre, che, portati all'ospedale, già vi stavano, per le ferite avute, col mal di morte. Calaronsi dai campanili le campane, disarmaronsi le popolazioni, ordinossi che la prima terra che strepitasse, sacco, ferro e fuoco avrebbe. Buonaparte, passato il moto di Pavia, che aveva interrotto i suoi pensieri, s'indirizzava di nuovo a colorire gli ultimi suoi disegni sulla riva sinistra del Mincio, per guisa che, essendo padrone dei ponti di Rivalta, di Goito e di Borghetto, aveva facilmente accesso sulla destra. Ora si avvicinavano gli estremi tempi della repubblica veneziana. La tempesta di guerra, stata finora lontana da' suoi territorii, doveva tra breve scagliarvisi, e due nemici adiratissimi l'uno contro l'altro erano pronti a combattervi battaglie, che ogni cosa presagiva aver a riuscir ostinate e micidiali. Vedeva il senato che la terra ferma, quieta allora da ogni perturbazione, sarebbe presto divenuta sedia di guerra, perchè sapeva che i Franzesi si erano risoluti d'andar ad assalire il loro nemico dovunque il trovassero, e che ambe le parti avendo a combattere fra di loro, avrebbero l'una e l'altra per primo pensiero di procacciarsi i proprii vantaggi anche a pregiudizio della neutralità veneziana. Non avevano pretermesso i pubblici rappresentanti di Brescia e di Bergamo d'informare diligentemente il governo di quanto accadeva sui confini, e del pericolo che ogni giorno si faceva più grave; ma le instanze loro restarono senza frutto, perchè ed il tempo mancava ed i partigiani della neutralità disarmata tuttavia prevalevano nelle consulte della repubblica. Ma stringendo ora il tempo, e desiderando il senato che in un caso di tanta, anzi di totale importanza le cose di terraferma fossero rette con unità di consigli, aveva tratto a provveditor generale in essa Nicolò Foscarini, stato ambasciadore a Costantinopoli, uomo amatore della sua patria e di sana mente, ma di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso; del che diè tosto segno, perchè nell'ingresso medesimo della sua carica già si mostrava pieno di spaventi e di pensieri sinistri. Diessi, come moderatore a Foscarini, il conte Rocco Sanfermo, con quale prudenza non si vede, perchè Sanfermo parteggiava piuttosto pei Franzesi, ed era in cattivo concetto presso i Tedeschi per essere stata la sua casa in Basilea il ritrovo comune dei ministri di Prussia, di Spagna e di Francia, quando negoziavano fra di loro la pace. Avuto così grave mandato, se ne veniva il provveditor generale a fermar le sue stanze in Verona vicina ai luoghi dove aveva primieramente a scoppiare quel nembo di guerra. L'accoglievano i Veronesi molto volentieri, e gli fecero allegrezze, considerando che la sua presenza avesse pure ad operar qualche frutto a salute loro. Ma non conoscevano i tempi; il senato medesimo non li conosceva; perchè l'operare in tanta sfrenatezza di principii politici, ed in un affare in cui dalle due parti vi andava tutta la fortuna dello Stato, che si sarebbe portato rispetto al retto ed all'onesto, e che un magistrato privo d'armi potesse fare alcun frutto, era fondamento del tutto vano. Ripigliando ora il filo delle imprese di Buonaparte, era suo pensiero, per rompere le difese del Mincio, di dar sospetto a Beaulieu ch'egli volesse, correndo per la sponda occidentale del lago di Garda, occupare Riva, e quindi gettarsi a Roveredo, terra posta sulla strada che dall'Italia porta al Tirolo. Perlochè, passato l'Olio ed il Mela, poneva gli alloggiamenti in Brescia, donde ad arte faceva correre le sue genti più leggieri verso Desenzano; anzi, procedendo più oltre, mandava una grossa banda, condotta da Rusca, fino a Salò, terra a mezzo lago sulla sua destra sponda. Per nutrire vieppiù nel nemico la falsa credenza che sua sola intenzione fosse di sprolungarsi sulla sinistra per correre verso le parti superiori del lago col fine suddetto di mozzar la strada agli Austriaci per al Tirolo, aveva tirato sul centro e sulla destra le sue genti indietro per guisa che, invece di star minacciose sulla destra del Mincio, si erano fermate alcune miglia lontano dal fiume nelle terre di Montechiaro, Solfarino, Gafoldo e Mariana, e le teneva quiete negli alloggiamenti loro. Era Brescia possessione dei Veneziani. Però volendo Buonaparte giustificare questo atto del tutto ostile verso la repubblica, perchè gli Austriaci avevano passato pei territorii veneti, ma non occupato le terre grosse e murate, mandava fuori da Brescia, il dì 29 maggio, un bando, promettitore, secondo il solito, di quello che non aveva in animo di attenere; tra le altre cose dicendo: passare i Franzesi per le terre della veneziana repubblica, ma non essere per dimenticare l'antica amicizia da cui erano le due repubbliche congiunte; non dovere il popolo avere timore alcuno; rispetterebbesi la religione, il governo, i costumi, le proprietà; pagherebbesi in contanti quanto fosse richiesto; pregare i magistrati ed i preti informassero di questi suoi sentimenti i popoli, affinchè una confidenza reciproca confermasse quell'amicizia che da sì lungo tempo aveva congiunto due nazioni fedeli nell'onore, fedeli nella vittoria. Come Beaulieu ebbe avviso avere i repubblicani occupato Brescia, pose presidio in Peschiera, fortezza veneziana situata all'origine dell'emissario del lago di Garda; poichè temeva che Buonaparte non portasse più rispetto a Peschiera che a Brescia, ed era la prima, se fosse stata bene munita, principale difesa del passo del Mincio. Bene aveva il colonnello Carrera, comandante, rappresentato al provveditor generale la condizione della piazza, domandato soldati, armi e munizioni, avvertito il pericolo dell'indifesa fortezza in tanta vicinanza di soldati nemici. Ma Foscarini, che aveva più paura del difendersi che del non difendersi, aveva trasandato le domande del comandante. La quale eccessiva continenza gli fu poi acerbamente rimproverata da Buonaparte, il quale affermava che se il provveditor generale avesse mandato solamente due mila soldati da Verona a Peschiera, sarebbe stata la piazza preservata. Occupatasi Peschiera dagli Alemanni, vi fecero a molta fretta quelle fortificazioni che per la brevità del tempo poterono. Intanto Buonaparte, sicuro di aver ingannato il nemico, si apparecchiava a mettere ad esecuzione il suo disegno, ch'era di sforzare il passo del Mincio a Borghetto. Non era stato il generale austriaco senza sospetto di ciò, quantunque, per le dimostrazioni del suo avversario, avesse ritirato parte dello sue genti ai luoghi superiori. Però aveva munito il ponte con le opportune difese, avendo ordinato che quattro mila soldati eletti si trincerassero sulla destra alla bocca del ponte, e che sulla sponda medesima diciotto centinaia di cavalli stessero pronti a spazzare all'intorno la campagna ed a calpestare chi s'accostasse. Il resto delle genti alloggiava sulla sinistra accosto al ponte per accorrere in aiuto della vanguardia, ove pericolasse. Muovevansi improvvisamente, la mattina del 29 maggio, i repubblicani da Castiglione, Capriana, Volta, e s'indirizzavano al ponte di Borghetto. Successe una battaglia forte, perchè gli Austriaci, già tante volte vinti, non si erano perduti d'animo, anzi, valorosamente combattendo, sostenevano l'impeto dei Franzesi. Restavano superiori sulla prima giunta, perchè, non essendo ancora arrivate tutte le genti di Francia, la vanguardia, che prima aveva ingaggiato la battaglia, cominciava a crollare e ritirarsi. Ma sopraggiungendo squadroni freschi, massimamente cavalli ed artiglierie, furono gli Austriaci risospinti, nè, potendo più resistere alla moltitudine che gli assaltava virilmente da tutte le parti, abbandonata del tutto la destra del fiume, si ricoveraron sulla sinistra, guastato un arco del ponte, perchè il nemico non li potesse seguitare. Ma erano le battaglie dei Franzesi di quei tempi più che d'uomini. Ed ecco veramente che il generale Gardanne, postosi a guida d'una mano di soldati coraggiosissimi, si metteva in fiume, non curando nè la profondità di esso, perciocchè l'acqua gli arrivava infino a mezzo petto, nè la tempesta delle palle che dall'opposta riva si scagliavano: già varcava ed alla sinistra sponda si avvicinava. A tanta audacia, il timore occupava gli Austriaci; si ricordarono del fatto di Lodi, rallentarono le difese, e fu fatto abilità ai repubblicani non solo di passare a guado, ma ancora di racconciare il ponte. La qual cosa diede la vittoria compiuta ai Franzesi; e, come l'ebbero, così l'usarono; perchè, avendo passato, si davano a perseguitar l'inimico, sì per romperlo intieramente e sì per impedire, se possibil fosse, che gittasse un presidio dentro Mantova, fortezza di tanta importanza. Ma Buonaparte, che sapeva bene e compiutamente far le cose sue, per tagliar la strada al nemico verso il Tirolo, aveva celeremente spedito Augereau contro Peschiera, comandandogli che s'impadronisse a qualunque costo della fortezza, e corresse a Caslelnuovo ed a Verona. Così, impossibilitati a ricoverarsi in Mantova ed a ritirarsi in Tirolo, gl'imperiali sarebbero stati in gravissimo pericolo. Beaulieu, che aveva pe' suoi corridori avuto avviso dell'intenzione del nemico, conoscendo che, poichè i repubblicani avevano passato il Mincio, non poteva più avere speranza di resistere, aveva del tutto applicato l'animo al ritirarsi ai passi forti del Tirolo; nè per lui si poteva indugiare, perchè il tempo stringeva. Laonde, introdotto in Mantova un presidio di dodici mila soldati con molte munizioni sì da bocca che da guerra, s'incamminava con presti passi alla volta di Verona. Gli convenne ancor fare, per dar tempo a' suoi di raccorsi, una testa grossa e sostenere una stretta battaglia tra Villeggio e Villafranca, sulla sponda di un canale largo e profondo che congiunge le acque del Mincio con quelle del Tartaro. Infatti, mentre si combatteva a riva del canale, Beaulieu faceva spacciare prestamente Peschiera e Castelnuovo, e, per tal modo, raccolto in uno tutto l'esercito, si difilava velocemente, avendo la notte interrotto la battaglia del canale, verso l'Adige: quindi, passato questo fiume a Verona, guadagnava i luoghi sicuri del Tirolo. Augereau trionfante e minaccioso entrava nell'abbandonata Peschiera. Questa fu la conclusione della guerra fatta da Beaulieu in Italia, da cui si rende manifesto, che se le armi franzesi di tanto riuscirono superiori alle sue, debbesi, non a mancanza di valore ne' soldati dell'imperatore attribuire, ma bensì all'arte ed all'astuzia militare, per cui il giovine generale di Francia di sì gran lunga superò il vecchio generale d'Alemagna. S'incominciavano intanto a manifestare i maligni segni di quel veleno che il direttorio e Buonaparte nutriano contro la repubblica di Venezia, meno forse per odio che per utile: il che per altro è più odioso. Due erano i principali fini a cui si tendeva: il primo che l'esercito acquistasse per sè tutti i mezzi di perseguitar l'inimico e d'impedire il suo ritorno; era il secondo di turbare lo stato quieto della repubblica veneziana, perchè pel presente si aprissero le occasioni di vivervi a discrezione, e per l'avvenire sorgessero pretesti di disporne a lor grado. All'uno e all'altro fine conduceva acconciamente l'occupazione di Verona, perchè il suo sito, dove sono tre ponti, è padrone del passo dell'Adige, ed è, a chi scende dall'Alpi Rezie, principale impedimento a superarsi. Da un'altra parte l'acquisto di una piazza tanto principale non poteva farsi da' Franzesi senza un grande sollevamento d'animi in quelle provincie. Adunque al fine d'impossessarsi di Verona indrizzò Buonaparte, dopo la vittoria di Borghetto e la presa di Peschiera, i suoi pensieri; e però incominciò a levare un rumore grandissimo e ad imperversare, sclamando che Venezia, per aver dato ricovero nei suoi Stati al conte di Lilla, si era scoperta nemica alla Francia, e che l'aver lasciato occupare Peschiera dagl'imperiali dimostrava la parzialità del governo veneziano verso di loro. E così, tempestando e moltiplicando ognora più nello sdegno e nelle minacce, affermava volersene vendicare. Di tratto in tratto prorompeva anzi con dire che non sapeva quello che il tenesse che non ardesse da capo in fondo Verona, città, soggiungeva, tanto temeraria che si era creduta capitale dell'impero franzese. Nel che intemperantemente ed assurdamente alludeva al soggiorno fattovi dal già detto conte di Lilla, pretendente alla corona di Francia; soggiorno pel quale soltanto credettero i Veronesi aver fatto opera pia, dando dentro le loro mura ricovero ad un principe perseguitato ed infelice. Quanto al fatto di Peschiera, dal già detto intorno al suo stato non difendevole, si vede se potessero i Veneziani in un caso tanto improvviso impedire che i Tedeschi vi entrassero. Bene sapeva egli cosa vi fosse in fondo di tutto questo, stantechè scriveva al direttorio, il dì 7 giugno, che Beaulieu aveva vituperosamente ingannato i Veneziani, avendo solamente domandato il passo per cinquanta soldati, e che con questo pretesto si era impadronito della terra. Ma queste querele faceva in primo luogo per accennare, come abbiamo detto, a Verona, nella quale, per esser munita di tre fortezze ed assicurata da una grossa banda di Schiavoni, non poteva entrar di queto senza il consenso de' Veneziani; in secondo luogo per fare dar denaro a Venezia, conciossiachè scriveva egli al direttorio il dì suddetto in proposito di questo medesimo fatto di Peschiera, a bella posta avere aperto questa rottura, perchè, se volessero cavar cinque a sei milioni da Venezia, sì il potessero fare. Gl'imperversamenti e le minacce di Buonaparte pervennero alle orecchie del provveditor generale Foscarini, che le udì con grandissimo terrore. E però, per dare al generale repubblicano le convenienti giustificazioni che dalla sua bocca propria e non da quella di altrui voleva udire, si mise in viaggio col segretario Sanfermo per andarlo a visitare a Peschiera. Giunto al cospetto del giovane vincitore, e ristrettosi con esso lui e con Berthier, protestava ed asseverava, avere sempre la repubblica veneta ed in ogni accidente seguitato i principii della più illibata neutralità. Rispondeva minacciosamente Buonaparte, il quale non voleva esser convinto, ma bensì intimorire, che male aveva corrisposto Venezia all'amicizia della Francia, che i fatti erano diversi assai dalle parole, che per tradimento avevano i Veneziani lasciato occupar da' Tedeschi Peschiera, il che era stato cagione che egli avesse perduto mille e cinquecento soldati, il cui sangue chiamava vendetta; che la neutralità voleva che si resistesse agli Austriaci; che se i Veneziani non bastassero, sarebbe egli accorso; che doveva la repubblica con le sue galere vietar loro il passo pel mare e pei fiumi; che in somma erano i Veneziani amici stretti degli Austriaci. Quindi, trascorrendo dalle minacce alla barbarie, rimproverava con asprissime parole ai Veneziani l'aver dato asilo negli Stati loro ai fuorusciti franzesi ed al conte di Lilla, nemico principale della repubblica di Francia; procedendo finalmente dalla crudeltà alle menzogne, sclamava che prima del suo partire aveva avuto comandamento dal direttorio di abbruciar Verona, e che l'abbrucierebbe; che già contro di lei marciava con cannoni e mortai Massena; che già forse le artiglierie di Francia la fulminavano, e che già forse ardeva; che tal era il castigo che i repubblicani davano pel ricoverato conte di Lilla; che aspettava fra sette giorni risposta da Parigi per dichiarar la guerra formalmente al senato; che Peschiera era sua, perchè conquistata contro gli Austriaci; che di tutte queste cose aveva informato il ministro di Francia in Venezia, quantunque, aggiungeva, queste comunicazioni diplomatiche tenesse in poco conto, acciocchè il senato ne ragguagliasse. Spaventato in tal modo l'animo del provveditore, stette Buonaparte un poco sopra di sè; poscia, come se alquanto si fosse mitigato, soggiunse che della guerra e di Peschiera aspetterebbe nuovi comandamenti dal direttorio; sospenderebbe per un giorno il corso a Massena, ma il seguente si appresenterebbe alle mura di Verona; che se quietamente vi fosse accettato e lasciato occupar i posti da' suoi soldati, manterrebbe salva la città ed avrebbero i Veneziani la custodia delle porte; i magistrati il governo dello Stato; ma che se gli fosse contrastato l'ingresso, sarebbe Verona inesorabilmente arsa e distrutta. Queste arti usava Buonaparte, il dì 31 maggio, per ottenere pacificamente il possesso di Verona; dal che si vede qual fede prestar si debba al suo manifesto dato da Brescia il dì 29 del mese medesimo, e quale fosse la sincerità delle sue promesse. Da queste insidie e da queste minacce si rendeva chiaro quali dovessero essere le deliberazioni del provveditor veneziano; posciachè, prescindendo anche dagli oltraggi, quel dire di voler arder sul fatto una città nobilissima del veneziano territorio, quell'affermare che fra sette giorni poteva venir caso ch'ei dichiarasse formalmente la guerra a Venezia, della verità o falsità della quale affermazione non poteva a niun modo il provveditore giudicare, non solo rendevano giusta, ma ancora necessaria una subita presa d'armi dal canto de' Veneziani. Quello era il momento fatale della veneziana repubblica, quello il momento fatale d'Italia e del mondo; e se Foscarini avesse avuto l'animo e la virtù di Piero Capponi, non piangerebbe Venezia il suo perduto dominio, non piangerebbe Italia il principale suo ornamento, non piangerebbe il mondo tante vite infelicemente spente per fondare il dispotismo di un capitano. Ma Nicolò Foscarini, invece di gridar campane, come Pietro Capponi, corse, pieno di paura, a Verona, e diede opera che gli Schiavoni, nei quali consisteva la principal difesa, l'abbandonassero, e che così i magistrati come i cittadini ricevessero pacificamente i soldati di Buonaparte. Come prima si sparse in Verona che i Franzesi vi sarebbero entrati per alloggiarvi, vi nacque nelle persone di ogni condizione e grado uno spavento tale che pareva che la città avesse ad andare a rovina. Più temevano i nobili che i popolani, perchè sapevano che i repubblicani li perseguitavano. Il popolo, raccolto in gran moltitudine sulle piazze e per le contrade, pieno di afflizione e di terrore, accusava la debolezza di Foscarini e le perdute sorti della repubblica. Lo stare pareva loro pericoloso, l'andarsene misero. Pure il pericolo presente prevaleva, e la maggior parte fuggivano. Fu veduta in un subito la strada da Verona a Venezia impedita da lungo ingombro di carrozze, di carri e di carrette che le atterrite famiglie trasportavano con quelle suppellettili che in tanta affoltata avevano a molta fretta potuto raccorre. Nè minor confusione era sull'Adige fiume; perchè insistevano i fuggiaschi occupati nel caricare sulle navi a tutta pressa le masserizie più preziose dei ricchi, e gli arnesi più necessarii dei poveri: navigavano intanto a seconda per andar a cercare in lidi più bassi, od oltre le acque del mare, terre non ancora percosse dalla furia della guerra. Entrarono il dì primo giugno i Franzesi in Verona. Quivi Buonaparte lodava l'aspetto nobile della città, i magnifici palazzi, le spaziose piazze, i templi, le pitture, insomma ogni cosa, e più di tutto l'arena, opera veramente mirabile dei Romani antichi. Si rendevano anche padroni di Legnago e della Chiusa. A Verona non solo occuparono i ponti, ma ancora le porte e le fortificazioni. Nè così soltanto mancavasi al convenuto; ma contro alle promissioni fatte nel manifesto di Brescia, di voler pagare in contanti tutto che si richiedesse in servigio dei soldati, si facevano, nelle campagne testè felici del Bergamasco, del Bresciano, del Cremasco e del Veronese, tolte incredibili che, non che si pagassero, non si registravano; seguivano mali tratti e scherni ancor peggiori; nè le cose rapite bastavano od erano d'alcun frutto, perchè si dissipavano con quella prestezza medesima con cui si rapivano. Quindi era desolato il paese, nè abbondante l'esercito, nè mai si fece un dissipare di quanto all'umana generazione è necessario così grave e così stolto come in questa terribil guerra si fece. I popoli intanto, vessati in molte forme, e cadendo da una tanta agiatezza in improvvisa miseria, entravano in grandissimo sdegno e si preparavano le occasioni a futuri mali ancor più gravi. A questo tempo si udirono le novelle della dedizione del castello di Milano; il comandante austriaco Lamy, perduta per le vittorie di Buonaparte ogni speranza di soccorso, si arrese a patti il dì 29 giugno, salve le robe e le persone, eccettuati solo i fuorusciti franzesi, che dovevano essere consegnati ai repubblicani. Fu questo acquisto di grande importanza ai Franzesi, perchè era il castello come un freno ai Milanesi, e molto assicurava le spalle ai repubblicani. La ruina sotto dolci parole si propagava in altre parti d'Italia; perchè, trovandosi Buonaparte, per le vittorie di Lodi e di Borghetto, e così per la ritirata di Beaulieu alle fauci del Tirolo, sicuro alle spalle e sul sinistro fianco, voltò l'animo ad allargarsi sul destro, chè quivi ricche e fertili terre l'allettavano. Restavano, oltre a ciò, a domarsi il papa ed il re di Napoli e ad espilare il porto di Livorno. Per la qual cosa, spingendo avanti le sue genti, dopo l'occupazione di Modena, s'incamminava alla volta di Bologna, città forte più d'ogni altra d'Italia, piena d'uomini forti e generosi, e che, conoscendo bene la libertà, non la misurava nè dalla licenza nè dal servaggio forastiero. Aveva il senato di Bologna anticonosciuto che per la vittoria di Lodi diveniva il generale franzese signore di tutta la Lombardia. Però, desiderando di preservare il Bolognese dalle calamità che accompagnano la guerra, aveva a molta fretta, dopo di aver creata un'arrota d'uomini eletti con autorità straordinaria, mandato a Milano i senatori Caprara e Malvasia coll'avvocato Pistorini, acciò, veduto il generalissimo, il pregassero d'aver per raccomandata la patria loro. Al tempo medesimo il sommo pontefice, spaventato dall'aspetto delle cose, siccome quegli che nell'approssimarsi dei repubblicani vedeva non solo la ruina del suo Stato temporale, ma ancora novità perniciose alla religione, specialmente se come nemici allo Stato pontificio si accostassero, aveva commesso al cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, che già era intervenuto alla composizione con Parma, andasse a Milano e procacciasse di trovar modo d'accordo con quel capitano terribile della repubblica di Francia. Era Azara molto benignamente trattato da Buonaparte, e perciò personaggio atto a far quello che dal pontefice gli era raccomandato. Furono dal generale umanamente uditi i senatori di Bologna: parlaronsi nei colloqui segreti di molti gravi discorsi, il fine dei quali tendeva a slegare i Bolognesi dalla superiorità pontificia, a restituire quel popolo alla sua libertà statuita, già com'è noto da ognuno, fin dai tempi della lega lombarda, e ad impetrare che i soldati repubblicani, passando pel Bolognese, vi si comportassero modestamente. Questi erano suoni molto graditi ai popoli di quel territorio: Buonaparte, che sel sapeva, promise ogni cosa e più di quanto i deputati avevano domandato; sì che partironsi molto bene edificati di lui, e se ne tornarono a Bologna. Intanto le sue genti marciarono. Comparivano il 18 giugno in bella mostra e con aria molto militare poco distante da Bologna dalla parte di Crevalcuore. Nel giorno medesimo una banda di cavalli condotta da Verdier entrava, come antiguardo, in Bologna, e, schieratasi avanti il palazzo pubblico, faceva sembiante d'uomini amici e liberali. Il cardinal Vincenti legato, non prevedendo che fosse giunta al fine in quella legazione l'autorità di Roma, avvisava il pubblico dell'arrivo dei Franzesi e della buona volontà mostrata dai capi. Esortava che attendesse quietamente ai negozii; comandava che rispettassero i soldati; minacciava pene gravi, anche la morte, secondo i casi, a chi con parole o con fatti gli offendesse. Entrava poi il seguente giorno la retroguardia; arrivavano alla notte Saliceti e Buonaparte. Era Bologna stata spogliata del dominio di Castelbolognese, terra grossa situata oltre Imola, e fondata anticamente dai Bolognesi desiderosissimi di ricuperare quell'antica colonia; nè alla ricongiunzione ripugnavano i castellani medesimi. Buonaparte, informato dai deputati di questi umori, come prima arrivava a Bologna, restituiva il possesso di Castelbolognese, ed aboliva ogni autorità del papa, reintegrando i Bolognesi nei loro antichi diritti di popolo libero ed indipendente. Nè ponendo tempo in mezzo, comandava al cardinal Vincenti legato se ne partisse immantinente da Bologna. Indi, chiamato a sè il senato, a cui era devoluta l'autorità sovrana, gli significava che, essendo informato delle antiche prerogative e privilegii della città e della provincia, quando vennero in potere dei pontefici, e come erano stati violati e lesi, voleva che Bologna fosse reintegrata della sostanza del suo antico governo. Ordinava pertanto che l'autorità sovrana al senato intiera e piena ritornasse; darebbe poi a Bologna, dopo più matura deliberazione, quella forma di reggimento che più al popolo piacesse, e più all'antica si rassomigliasse: prestasse intanto il senato in cospetto di lui giuramento di fedeltà alla repubblica di Francia, ed in nome e sotto la dipendenza di lei la sua autorità esercesse: i deputati dei comuni e dei corpi civili il medesimo giuramento in cospetto del senato giurassero. Preparata adunque con grande sontuosità la sala Farnese, e salito sur un particolare seggio, riceveva Buonaparte il giuramento de' senatori; quindi si accostarono a prestarlo, presente sempre il generale di Francia, i magistrati sì civili che ecclesiastici: il che fece in tutta Bologna una gran festa, grata al popolo, perchè nuova e con qualche speranza, grata al senato, perchè da servo si persuadeva d'esser divenuto padrone, non badando che se era grave la servitù verso il papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi signori. Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro. Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano i popoli, pure se ne acquetavano, perchè sapevano che bisogna bene che i soldati vivano del paese che hanno; solo si sdegnavano dello scialacquo, nè potevano tollerare di dar materia ai depredatori, chè i soldati e gl'Italiani ugualmente rubavano. Poco stante successe, come a Milano, un fatto enorme, che dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto che si portava alle proprietà. Imperciocchè, poste violentemente le mani nel monte di pietà, lo espilavano per far provvisione, come affermavano, allo esercito. Solo restituirono i pegni che non eccedevano la somma di lire ducento. Ma, temendo gli autori di tanto scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da tante schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si togliessero l'armi ai cittadini. I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni, il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio, finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli ambasciadore di Bologna. Creato dà vincitori a Ferrara un municipio d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione di scudi romani in contanti e di trecento mila in generi. Queste angherie sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara; ma non le potè tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza da Imola; perchè, concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro i conquistatori, si sollevarono gridando guerra contro i Franzesi. Concorsero nel medesimo moto coi Lughesi altre terre circonvicine, e fecero una massa di popolo molto concitata e risoluta al combattere. Augereau, come ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa squadra di cavalli e di fanti. Comandava intanto pubblicamente avessero i Lughesi a deporre l'armi e ad arrendersi fra tre ore, e chi nol facesse fosse ucciso. Aveva in questo mezzo il barone Cappelletti, ministro di Spagna, interposta sua mediazione; ma fu sdegnosamente rifiutata da que' popoli più confidenti di quanto fosse il dovere in armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi venire per la ostinazione loro al cimento dell'armi, i Franzesi si avvicinavano a Lugo partiti in due bande, delle quali una doveva far impeto dalla parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La vanguardia, che marciava con troppa sicurezza, diede in un'imboscata, in cui restarono morti alcuni soldati. Nonostante, volendo il capitano franzese lasciar l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a Lugo per trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta; narra anzi Buonaparte che i sollevati, fatto prima segno all'uffiziale che si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione de' messaggi di pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i Franzesi ed i sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le parti con molto valore. Finalmente i Lughesi, rotti e dispersi, furono tagliati a pezzi, con morte d'un migliaio di loro, avendo anche perduto la vita in questa fazione ducento Franzesi. Fu quindi Lugo dato al sacco; condotte in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni cosa fu posta a sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato. Furono terribili le pene date dai repubblicani ai sollevati, ma non furono più moderate le minacce che seguitarono. Comandava Augereau che tutti i comuni si disarmassero e le armi a Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore fosse ucciso; ogni città o villaggio dove restasse ucciso un Franzese fosse arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Franzese fosse ucciso, e la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso; chi facesse adunanze di gente armata o disarmata fosse ucciso. Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto ne' feudi imperiali prossimi al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Franzesi. Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale Lannes con un buon nerbo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce e pel terrore de' supplizii. Le vittorie de' repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia, l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo spavento Roma. Ognuno vedeva che resistere era impossibile, e l'accordare pareva contrario non solo allo Stato, ma ancora alla religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni che un vincitore acerbo per sè, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe dal pontefice richiesto. Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore de' suoi consiglieri e del popolo serbava tuttavia la solita costanza, avea commesso al cavaliere Azara ed al marchese Gnudi andassero a rappresentarsi a Buonaparte e procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte, in nome e per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà perchè non gli era nascosto che l'imperadore, finchè teneva Mantova, non avrebbe omesso di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi Stati in Italia, e che però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo verso l'Italia inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni, a frenar l'impeto delle sue armi contro lo Stato pontificio. Laonde concludeva il dì 23 giugno una tregua coi due plenipotenziarii del papa, in cui fu stipulato che il generalissimo di Francia e i due commissarii del direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio che il governo franzese aveva verso sua maestà il re di Spagna, concedevano a sua santità una tregua da durare infino a cinque giorni dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in Parigi fra i due Stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse, a nome del pontefice, gli oltraggi e i danni fatti a' Franzesi negli Stati della Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i debiti compensi alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione di opinioni politiche si liberassero; i porti del papa a tutti i nemici della repubblica si chiudessero, ai Franzesi si aprissero; l'esercito di Francia continuasse in possessione delle legazioni di Bologna e Ferrara, sgombrasse quella di Faenza; la cittadella d'Ancona con tutte le artiglierie, munizioni e vettovaglie si consegnasse a' Franzesi; la città continuasse ad esser retta dal papa; desse il papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi, statue, ad elezione de' commissarii che sarebbero mandati a Roma; specialmente i busti di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si dessero; oltre a questo, cinquecento manoscritti, ad elezione pure de' commissarii medesimi, cedessero in podestà della repubblica; pagasse il papa ventun milioni di lire tornesi, de' quali quindici milioni e cinque cento mila in oro od argento coniato o vergato, e cinque milioni e cinque cento mila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno milioni suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle tre legazioni; il papa desse il passo ai Franzesi ogni qual volta che ne fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero. Questi furono gli articoli patenti del trattato di tregua concluso tra Pio VI ed i capi dei repubblicani in Italia. Quantunque fossero molto gravi, parve nondimeno un gran fatto che si fosse potuto distornar da Roma un sì imminente pericolo: fecersi preci pubbliche per la conservata città. Intanto non lieve difficoltà si incontrava per mandar ad effetto il capitolo delle contribuzioni. Non potendo l'erario già tanto consumato dalla guerra, sopperire, faceva il papa richiesta degli ori e degli argenti sì delle chiese come dei particolari, e quanto si potè raccorre a questo modo, e di più il denaro effettivo che infino dai tempi di papa Sisto V si trovava depositato in Castel Santangelo, fu dato per riscatto in mano dei vincitori. S'aggiunse che il re di Napoli, vedendo avvicinarsi quel nembo a' suoi Stati, aveva ritirato sette mila scudi di camera che erano depositati nel tesoro pontificio, come rapresentanti il tributo della chinea, e che la camera apostolica non aveva voluto incassare, perchè il re aveva indugiato a presentare al tempo debito la chinea. Una così grossa raccolta di denaro coniato produsse un pessimo effetto a pregiudizio della camera apostolica e dei privati, il quale, fu che le cedole, che già molto scapitavano, perdettero viemmaggiormente di riputazione. Così solamente ad un primo romore di guerra e sul bel principio d'una speranza di pace, le cose pubbliche tanto precipitarono in Roma, che già vi si provavano gli estremi d'una guerra lunga e disastrosa. La presenza dei Franzesi negli Stati pontificii aveva bensì atterrito i sudditi, ma non gli aveva fatti posare, e si temevano ad ogni tratto nuove turbazioni. Per la qual cosa il papa, esortato dal generale repubblicano, e mosso anche dall'interesse dei popoli, raccomandava con pubblico manifesto e comandava ai sudditi, trattassero con tutta benignità i Franzesi, come richiedevano i precetti della religione, le leggi delle nazioni, gl'interessi dei popoli e la volontà espressa del sovrano. Tutte queste cose faceva il pontefice in confermazione dello Stato. Intanto o perchè la cessazione delle armi si convertisse in pace definitiva, o perchè con una dimostrazione efficace di desiderar di conchiuderla, si pensasse di aspettare con minori molestie occasione di risorgere, si inviava dal pontefice a Parigi l'abate Pieracchi con mandato di negoziare e di stipulare la pace. Eransi udite con grandissima ansietà a Napoli le novelle delle vittorie dei repubblicani sul Po e sull'Adda, ma alla ansietà succedeva il terrore quando vi si intese la rotta totale dei Tedeschi e la loro ritirata verso il Tirolo. L'impressione diveniva più grave quando i soldati di Buonaparte, occupato Reggio e Modena, nè, nulla più ostando che entrassero nell'indifesa Romagna, si vedeva il regno esposto all'invasione. Laonde il re, volendo provvedere con estremi sforzi ad estremi pericoli, perchè, o fosse solo o dovesse secondare le armi imperiali, gli era necessità di usare tutte le forze, ordinava che trenta mila soldati andassero ad alloggiar ai confini verso lo Stato ecclesiastico; ma perchè si facesse spalla e retroguardo a tanta gente con altre squadre d'uomini armati, comandava che si tenessero pronte a marciare e di tutto punto si allestissero, ed in corpi regolati si ordinassero tutte le persone abili alle armi, la qual massa avrebbe aggiunto quaranta mila combattenti. Perchè poi si usassero coloro che consentissero di buona voglia ad accorrere alla difesa del regno, dava loro privilegii e speranza di ricompense onorevoli. Volendo poi favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali le forze temporali, scriveva ai vescovi ed ai potentati del regno lettere circolari, con cui gli ammoniva e con parole patetiche gli esortava dicendo, che la guerra, che già da tanto tempo desolava l'Europa, e nella quale già tanto sangue e tante lagrime si erano sparse, era non solamente guerra di Stato, ma di religione; che i nemici di Napoli erano nemici del cristianesimo; e, così proseguendo, esortassero adunque, conchiudeva, i popoli ad impugnar le armi contro un nemico a cui niuna legge era sacra, niuna proprietà sicura, niuna vita rispettata, niuna religione santa; contro un nemico che, dovunque arrivava, saccheggiava, insultava, opprimeva, profanava i tempi, atterrava gli altari, perseguitava i sacerdoti, calpestava quanto di più sacro e più reverendo ha ne' suoi dogmi, ne' suoi precetti e ne' suoi sacramenti divini lasciato alla Chiesa sua Cristo Salvatore. Così parlava il re ai vescovi ed ai prelati del regno. Rivolgendosi poscia ai sudditi, con espressioni molto instanti gli ammoniva, dicendo, sarebbero vincitori di questa guerra se a loro stesse a cuore difendere sè stessi, il re, i tempi, i ministri del Signore, le mogli, i figliuoli, le sostanze. Dio è con voi, esclamava, Dio vi proteggerà contro le armi barbare. Ma perchè in tempi di tanta costernazione vieppiù per l'amore della religione s'infiammassero i popoli alla difesa, in un giorno prestabilito si conduceva il re, accompagnandolo una gran moltitudine di popolo, alla basilica, dove, toccando gli altari e stando tutti tra la riverenza e lo spavento, intentissimi ad ascoltarlo, con fervorose parole orando, depose sulla sacra mensa le reali divise, come in custodia del sommo Iddio. Queste dimostrazioni producevano effetti incredibili in quel popolo. Certamente, se le mani fossero state tanto pronte all'operare quanto erano le menti ad immaginare, si sarebbero veduti da Napoli effetti notabilissimi a salute di tutta Italia. Partiva Ferdinando da Napoli, indirizzando il viaggio agli alloggiamenti di Castel di Sangro, di San Germano, di Sora e di Gaeta; fuvvi accolto con segni di grandissima allegrezza dai soldati. Intanto il rumore delle occupate legazioni e le ultime strette in cui era caduto il pontefice avevano indotto nei consiglieri del re la credenza che l'accordare fosse più sicuro del combattere. Perlocchè non aspettando pure che il papa patteggiasse in definitiva pace, nè consentendo a trattar degli accordi coi repubblicani di concerto con lui, mandavano al campo di Buonaparte il principe Belmonte Pignatelli, affinchè negoziasse una sospensione di offese, proponendosi d'inviarlo poscia a Parigi a concluder la pace col Direttorio. Buonaparte, fatte sue considerazioni su Mantova che ancor si teneva, e sulla stagione calda che oggimai si avvicinava, udiva con benigne orecchie le proposte del principe. Il 5 di giugno si concluse tra il generale e lui un trattato di tregua, con cui si stipulava che cessassero le ostilità tra la repubblica ed il re delle Due Sicilie; le truppe Napolitane, che si trovavano unite a quelle dell'imperatore, se ne separassero e gissero alle stanze nei territorii di Brescia, Crema e Bergamo; si sospendessero le offese anche per mare, ed i vascelli del re al più presto dalle armate inglesi si segregassero; si desse libero passo ai corrieri respettivi tanto per le terre proprie e conquistate dalla repubblica quanto su quelle di Napoli. Fatto l'accordo, andarono i Napolitani, lasciati gl'imperiali, alle destinate stanze. Così il papa fu solo lasciato nel pericolo dal governo di Napoli, che pure testè aveva mostrato tanto ardore per la difesa della religione, convenendo, senza che prima la necessità ultima fosse addotta, con coloro che poco innanzi aveva chiamati nemici degli uomini e di Dio. In questo mezzo tempo si spogliavano dall'accorto vincitore di statue, di quadri, di manoscritti preziosi, di oggetti appartenenti a storia naturale Parma, Pavia, Milano, Bologna e Roma. A questo fine aveva mandato il Direttorio in Italia per commissarii Tinette, Barthelemi, Moitte, così Thouin, Monge e Berthollet, acciocchè procedessero alla stima ed allo spoglio; dal quale ufficio, così poco onorevole per la patria loro, non si sa come, benchè l'abbiano temperato con molta moderazione, non rifugisse al tutto l'animo loro. Si avvicinavano intanto i tempi dei rei disegni del Direttorio contro l'innocente Toscana. Intendevasi, col comparire armati in questa provincia, spaventare maggiormente il pontefice ed il re di Napoli. Ma i principali fini loro in ciò consistevano che si cacciassero gl'Inglesi da Livorno, vi si rapissero le sostanze dei neutri, vi si ponessero il segno ed il modo di far muovere la vicina Corsica contro gl'Inglesi che la possedevano; ingegnandosi poi d'onestare il fatto col pretesto che gl'Inglesi tanto potessero in Livorno, che il granduca più non avesse forza bastante per frenargli, e dovere la repubblica con le sue forze andare a liberarlo da tale tirannide. Per la qual cosa, come prima ebbe il generalissimo posto piede in Bologna e confermatovi il suo dominio, metteva ad effetto la risoluzione di correre contro la Toscana per andarsene ad occupare Livorno. Era suo intento di fare la strada di Firenze per mettere maggiore spavento nel papa; del che avendo avuto avviso il granduca, mandava a Bologna il marchese Manfredini ed il principe Tommaso Corsini, perchè facessero di dissuaderlo dall'impresa, od almeno da lui questo impetrassero, che piuttosto per la via di Pisa e di Pistoia che per quella di Firenze si conducesse. Negava il generale repubblicano la prima richiesta, consentiva alla seconda. Perlochè non indugiandosi punto, e con la solita celerità procedendo, perchè il sorprendere improvvisamente Livorno era l'importanza del fatto, già era arrivato con parte dell'esercito a Pistoia. Dal qual suo alloggiamento manifestava, il 26 di giugno, le querele della repubblica contro il granduca e la sua risoluzione di correre contro Livorno. Rispondeva gravemente il principe, non soccorrergli alla mente offesa alcuna contro la repubblica di Francia o contro i Franzesi: l'amicizia sua essere stata sincera, maravigliarsi del partito preso dal Direttorio; non opporrebbe la forza, ma sperare che, avute più vere informazioni, sarebbe per rivocare questa sua risoluzione; avere dato facoltà al governatore di Livorno per accordare le condizioni dell'ingresso. Marciavano intanto i Franzesi celeremente verso Livorno condotti dal generale Murat, comparivano, passato l'Arno presso a Fucecchio, con una banda di cavalli alla Port'a Pisa. Come prima gl'Inglesi ebbero avviso del fatto, massimamente i più ricchi, lasciato con prestezza Livorno, trasportavano sulle navi, che a cotal fine erano state trattenute nel porto, tutte le proprietà loro: poi, quando i repubblicani arrivavano sotto le mura di Livorno, una numerosa conserva di sessanta bastimenti tra piccoli e grossi e sotto scorta di alcune fregate, salpava da Livorno verso la Corsica indirizzandosi. Entravano col solito brio ed aspetto militare i Franzesi. Poco dopo entrava Buonaparte medesimo, contento all'avere scacciato da quel porto tanto opportuno gli odiati Inglesi, e confidente che fra breve gli scaccerebbe eziandio dalla Corsica, sua patria. Furonvi teatri, applausi, luminarie, non per voglia, ma per ordine e per paura. Incominciavano le opere incomportabili. Si staggivano le napolitane sostanze, si confiscavano le inglesi, le austriache, le russe: s'investigavano i livornesi conti per iscoprirle: si disarmavano i popoli, si occupavano le fortezze, e, per far colme le insolenze, si arrestava Spanocchi, governatore pel granduca. Si scuotevano al tempo stesso fortemente i negozianti affinchè svelassero le proprietà dei nemici, ed eglino, per lo men reo partito, offerirono cinque milioni di riscatto. Le conquistate merci si vendevano con molte fraudi e da coloro che stavano sopra alla vendita con grande discapito della repubblica conquistatrice che vinceva i soldati altrui e non poteva vincere i ladri propri. Questi furono i rubamenti di Livorno; accidenti più gravi sovrastavano al granduca. Era intenzione di Buonaparte, siccome scrisse al Direttorio, di torgli lo Stato, a cagione ch'egli era principe di casa austriaca; e perchè il tradimento avesse in sè tutte le parti di un atto vituperoso, mandava pur al Direttorio, che conveniva starsene quietamente nè dir parola che potesse dar sospetto della cosa sino a che il momento fosse giunto di cacciar Ferdinando. Mentre in tal modo si espilavano dai repubblicani le proprietà dei nemici loro in Livorno, gl'Inglesi, signori del mare, serravano il porto ed impedivano il libero commercio. Livorno fiorente e ricco, divenne in poco tempo povero e servo. Nè a questo si rimasero i repubblicani: perchè, usando l'opportunità, invasero i ducati di Massa e Carrara ed occuparono tutta la Lunigiana, chiamando i popoli a libertà e sforzandogli a grosse contribuzioni di denaro. Erano questi paesi caduti per eredità dalla casa Cibo, che li possedeva anticamente, nella figliuola del duca di Modena sposata all'arciduca Ferdinando, governatore di Milano. Non si era dal conte di San Romano, quando concluse la tregua per Modena, patteggiato per Massa e Carrara; per questo il generale della repubblica li trattò da nemico. Il terrore delle armi repubblicane aveva spaventato tutta Italia; ma, parendo a chi le reggeva che ciò non bastasse a perfetto servaggio, stavano attenti i ministri del Direttorio presso i diversi potentati italiani nello spiare e nel rapportare il vero ed il falso a Buonaparte, continuamente rappresentandogli i principi della penisola non solamente come avversi alla Francia, ma ancora come macchinatori indefessi di cose nuove contro i Franzesi; nel che avevano per aiutatori, non che i pessimi fra gl'Italiani, anche personaggi di nome, offuscati il lume della ragione dalla gloria guerriera del generalissimo della repubblica. Intanto agli occhi degli agenti di Francia le chimere diventavano corpi, le visite congiure, i gemiti stimoli a ribellione, i desiderii delitti, ed era l'Italiano ridotto a tale che se non amava il suo male, era riputato nemico. Il papa, secondochè scrivevano questi spaventati o spaventatori, Venezia, il re di Sardegna, il granduca di Toscana, la repubblica di Genova, tutti conspiravano contro la Francia, tutti s'intendevano coll'Austria, tutti prezzolavano gli assassini per uccidere i Franzesi. Buonaparte, che non era uomo da lasciarsi spaventare da questi rapporti, fatti o per adulazione o per paura, era uomo da valersene come di pretesto per peggiorar le condizioni dei principi vinti e per giustificare contro di loro i suoi disegni. Gl'Italiani intanto, in preda a mali presenti e segno a calunnie facili, perchè venivano da chi più poteva, non avevano più speranza. Ma già le cose di Lombardia non mediocremente travagliavano, e la condizione dei repubblicani in Italia diveniva di nuovo pericolosa. Aveva l'imperatore ardente disposizione di ricuperare le belle e ricche sue provincie, non potendo tollerare che fossero scorporate da' suoi dominii. Aveva egli adunque applicato l'animo a voler ricuperare il Milanese; nè indugiandosi punto affinchè l'imperio de' suoi nemici non si solidasse, la rea stagione non sopravvenisse, Mantova non cedesse, aveva voltato con grande celerità al Tirolo tutte le genti che stanziavano nella Carintia e nella Stiria. I Tirolesi medesimi, gente armigera e devota al nome austriaco, fatta una subita presa d'armi, si ordinavano in reggimenti armati alla leggiera; nè questo bastando alla difficile impresa, si ricorreva ad un più forte sussidio: conciossiachè l'imperatore ordinava che trenta mila soldati, gente eletta e veterana che militavano in Alemagna, se ne marciassero velocemente verso il Tirolo per quivi congiungersi con le reliquie delle genti d'Italia e le altre sopraddette; erano circa cinquanta mila. Perchè poi ad un'oste tanto grossa e destinata a compire una sì alta impresa non mancasse un capitano valoroso, pratico e di gran nome, mandava a governarla il maresciallo Wurmser, guerriero di provato valore nelle guerre germaniche. Stavano gli uomini in grande aspettazione di quello che fosse per avvenire, essendo vicini a cimentarsi due capitani di guerra, dei quali uno era forte, astuto ed attivo, l'altro forte, astuto e prudente. Nè gli eserciti rispettivi discordavano; perchè nè la costanza tedesca era scemata per le sconfitte, nè il coraggio franzese aveva fatto variazione pel tempo. Oltre a questo se erano ingrossati gl'imperiali, anche i repubblicani avevano avuto rinforzi notabili dall'Alpi. Era il maresciallo Wurmser giunto, sul finire di luglio, in Tirolo, e tosto dava opera al compire l'impresa alla virtù sua stata commessa, scendendo in Italia per la strada più agevole che da Bolzano per Trento e Roveredo porta a Verona; ma il principal suo fine era di liberar Mantova dall'assedio, donde, fatto un capo grosso, potesse o starsene aspettando o correre subitamente contro il Milanese. E sapendo che i Franzesi erano segregati in diversi corpi, gli uni separati dagli altri per molto spazio, per modo che in breve tempo non avrebbero potuto rannodarsi, si deliberava a spartire i suoi in tre schiere: la prima sotto guida del generale Quosnadowich, doveva assaltare Riva e Salò, dove stava a guardia il generale Sauret coi generali Rusca e Guyeux, ma che però non aveva forze sufficienti per resistere. La mezza schiera o la battaglia, condotta dal maresciallo, s'incamminava alla volta di Montebaldo per potere, scendendo vieppiù, assaltare il nervo dei repubblicani tra Peschiera e Mantova. La sinistra, confidata al generale Davidowich, scendeva per Ala e Peri a Dolcè, dove, fatto un ponte, varcava l'Adige con intento di concorrere più da vicino all'opera della schiera Wurmseriana. Ma una parte di quest'ala sinistra, guidata dal generale Mezaros, continuando a scendere per la sinistra sponda del fiume, s'indrizzava verso Verona, donde potea, secondo le occorrenze, o condursi per Villafranca a Mantova o, non discostandosi dall'Adige, marciare a Portolegnago. Di tutte le parti dell'esercito franzese, quella di Massena, che aveva i suoi alloggiamenti a Verona, a Castelnuovo e luoghi adiacenti, si trovava in maggior pericolo, perchè là appunto si dovevano accozzare tutte le forze austriache sulla sinistra del lago. Era giunto al suo fine il mese di luglio, quando in tale modo ordinati marciavano gl'imperiali all'impresa loro. Già erano vicini alle prime scolte dei Franzesi, che questi, dispersi tuttavia nei diversi campi loro, principalmente in quello che cingeva Mantova, non avevano ancora fatto moto alcuno per mettersi all'ordine di resistere a quella nuova innondazione del nemico. Ma per verità Buonaparte poco poscia con mirabile maestria si riscosse dal pericolo in cui si trovava. Assaltavano gli Austriaci ferocemente l'antiguardo di Massena, governato dal generoso e buon Joubert, che era ai passi di Brentino e della Corona. Fu fortissima e lunga la difesa contro un nemico, che molto superava di numero. Finalmente furono quei forti passi sforzati dagli Austriaci, che, ritirandosi Joubert e Massena verso Castelnuovo, marciavano contro la Chiusa e Verona. Da un'altra parte Quosnadowich, urtato Sauret, che custodiva Salò, l'aveva vinto non però senza una valorosa resistenza, quantunque i Franzesi in questo luogo fossero deboli e non pari a tanto peso. S'impadronivano gli Austriaci di Salò dopo la fazione, e quivi risplendeva chiaramente la virtù di Guyeux, il quale, circondato da ogni banda dal nemico, elesse, piuttosto che arrendersi, di gittarsi dentro una casa, dove, sebbene già gli mancassero le munizioni sì da guerra che da bocca, si difendè con incredibile fortezza due giorni. Occupato Salò, correvano i Tedeschi a Brescia, e se ne impadronivano. I vinti si ritiravano a Lonato e a Desenzano. Avanzavasi intanto minacciosamente Wurmser medesimo e già si avvicinava alle cercate rive del Mincio. Così avevano le cose franzesi fatto una grandissima variazione, ed erano cadute in grave pericolo prima che Buonaparte avesse mosso un soldato per opporsi a tanta ruina. Gli giunsero al tempo medesimo le novelle della rotta di Sauret e della ritirata di Massena. Ordinava incontanente ad Augereau, che già marciava verso Verona per frenar l'impeto, se ancor fosse in tempo, di Mezaros, tornasse indietro prestamente, venisse a Roverbella, rompesse i ponti di Portolegnago, ardesse i carrelli dei cannoni più grossi, trasportasse dai magazzini quanto in sì subito tumulto potesse. Arrivava Augereau a Roverbella; scoverse in tutti una grande confusione mista ad un gran terrore. Vi giungeva ancora Buonaparte al quale Augereau rivoltosi, con parole animosissime il confortava; ed egli con un'arte e con un vigore non comune ordinava quanto alla difficoltà del tempo si convenisse. Avvisandosi che non poteva combattere con vantaggio se non unito, e che anche unito non era abbastanza forte per cimentarsi con l'esercito tedesco intero, se gli desse tempo di rannodarsi, come evidentemente Wurmser aveva in pensiero di fare, si risolveva a raccorre le sue genti in uno, per correre così grosso contro una parte sola del nemico, innanzi che questa avesse potuto congiungersi con le compagne, perchè la speranza, che non aveva di vincerle unite, l'aveva di vincerle separate. Nè poteva stare lungamente in dubbio, quale delle due parti de' Tedeschi, della mezzana o della destra, ei dovesse assaltare; e fatte, le sue considerazioni, si risolveva Buonaparte a far impeto contro di Quosnadowich, che, vincitore di Salò e di Brescia, turbava ogni cosa a Desenzano, a Lonato, a Ponte-San-Marco, a Montechiaro, e già si accostava per congiungersi con Wurmser; il che se gli fosse venuto fatto, sarebbe stato la ruina de' repubblicani. Perlochè chiamava a sè tutte le sue genti, anche quelle che stavano a campo sotto Mantova, anteponendo con mirabile consiglio il perdere le artiglierie che servivano all'oppugnazione della piazza al perdere l'esercito. Ordinate ed eseguite in men che non si potrebbe credere tutte queste mosse, mandava a corsa considerabili rinforzi a Sauret, perchè ricuperasse Salò e liberasse Guyeux, che tuttavia si difendeva valorosamente. Comandava a Dallemagne assaltasse il nemico a Lonato e cacciasselo; imponeva ad Augereau lo rompesse a Ponte-San-Marco ed a Brescia, e, verso Salò voltandosi, ajutasse Sauret, e facesse opera di tagliare il ritorno a Quosnadowich. Faceva anche attaccare con una grossa banda un corpo forte di Austriaci che custodiva Desenzano a riva il lago. Ebbero tutti questi assalti, ancorchè fossero molto sanguinosi, quel fine che Buonaparte si era proposto: entrarono vincitori Sauret in Salò, Dallemagne in Lonato ed in Desenzano, Augereau in Montechiaro ed in Brescia. Quosnadowich, veduto che era alle mani con la maggior parte degli avversari, che non aveva nuove che Wurmser accorresse in suo aiuto e che temeva che il nemico, correndo a Riva, gli tagliasse il ritorno verso il Tirolo, si ritirava con passi frettolosi a Gavardo. Per tal modo Buonaparte coi suoi movimenti celeri ed ottimamente ordinati, sbaragliava in poco tempo un'ala intiera di Wurmser, che gli aveva già fatto molto male ed avrebbe potuto fargliene un maggiore, se si fosse allargata, come aveva intenzione, nelle pianure verso il Milanese. Intanto, per assicurare i luoghi abbandonati da Augereau, vi surrogava Massena con tutto il suo corpo di truppe. Mentre tutte queste cose si preparavano e si facevano sulla destra loro, gli Austriaci s'impossessavano di Verona, Wurmser entrava con un grosso corpo ed in sembianza di vincitore in Mantova. Il presidio a gran festa guastava le trincee fatte da' Franzesi e tirava dentro le mura meglio di centoquaranta pezzi di grosse artiglierie, che dalla cittadella di Ancona, dal forte Urbano, dal castello di Ferrara vi avevano condotto per battere la piazza. Wurmser, avuta questa vittoria, sapendo i primi prosperi successi di Quosnadowich ed ignorando i sinistri, dava opera securamente a raccorre vettovaglie e bestiami per provvedere del fodero necessario quella importante fortezza. Ma gli fu breve la sicurezza; conciossiachè gli sopravvennero bentosto le novelle de' disastri accaduti a Quasnodowich. Considerato adunque che quello non era tempo da starsene, usciva da Mantova e se ne giva alle stanze di Goito, correndo la campagna co' suoi corridori fino a Castiglione. Era stato preposto alla guardia di questa terra da Buonaparte il generale Valette, che, veduto comparire il nemico, sbigottitosi con pochezza d'animo inescusabile, abbandonava il posto ed andava con la sua guardia fuggiasca a seminar paura fra i repubblicani, che erano in possesso di Montechiaro. Questo accidente improvviso fece cader l'animo a Buonaparte, che quasi volea ritirarsi sul Po; ma appresentatosi ad una mostra di soldati, quando questi videro il capitano loro, con atti di vivezza, di giubilo e d'estro franzese, con lietissime grida il confortavano a star di buon animo, a fidarsi in loro: li conducesse pure alla battaglia; ed esclamando: Viva Buonaparte, viva la repubblica, facevano eccheggiare i colli di Castiglione di quel rumore festivo. _Or bene sia_, disse Buonaparte, _accetto il felice augurio; domani vedrete in viso il nemico._ In questo mezzo Quosnadowich, conoscendo di quanta importanza fosse il fare ogni sforzo per congiungersi con Wurmser ad un impeto comune, od almeno di consuonarvi per una diversione, usciva di nuovo in campagna, e, prostrato Sauret, che gli stava a fronte, e fattosi signore di Salò, velocemente scendeva con forze poderose verso Lonato; ed essendosi già il suo antiguardo, condotto dal generale Ocksay, impossessato di questo luogo, le cose divenivano pericolosissime pei repubblicani. In questo forte punto Massena arrivava col suo antiguardo vicino a Lonato, e volendo ricuperare quel sito, in cui consisteva la somma della fortuna, perchè se gli Alemanni vi si mantenevano, si difficoltava molto l'impedire la unione di Quosnadowich con Wurmser, mandava il generale Pigeon, ma non con gente a sufficienza, ad assaltare Ocksay. Fu durissimo l'incontro: Pigeon non solamente rotto e vinto, ma perdè tre pezzi di artiglierie leggeri, e venne prigioniero in mano degli Austriaci. Udito il caso, accorrevano Massena e Buonaparte per rimediare alla fortuna vacillante. Ordinava il generalissimo un grosso squadrone assai fitto e mandava a serrarsi addosso al centro del nemico, il quale insuperbito per la prima vittoria e credendo non solo di vincere, ma ancora di prendere tutto il corpo repubblicano, distendeva le sue ali con pensiero di cingere i soldati di Buonaparte. Questa mossa, debilitando il mezzo della fronte, diè del tutto la vittoria ai Franzesi; imperciocchè mentre Massena raffrenava l'impeto dell'ali estreme degli imperiali con mandar loro incontro quanti feritori alla leggera potè raccorre, Buonaparte con quel fitto squadrone dava dentro alla mezza schiera. Faceva ella una viril difesa non senza grave uccisione de' repubblicani; ma finalmente, non potendo più reggere a sì impetuoso assalto, sbaragliata cedeva il campo, ritirandosi verso il lago, principalmente a Desenzano. Fu liberato Pigeon; si riacquistarono le perdute artiglierie. I Franzesi seguitavano gli Austriaci a Desenzano, e gli avrebbero condotti all'ultimo fine, se non era che, sopravvenendo con aiuti mandati da Quosnadowich il principe di Reuss, li metteva in salvo col condurgli a luoghi sicuri verso Salò. Mentre queste fazioni succedevano sulla sinistra dei Franzesi, Augereau, che non voleva che Castiglione fosse perduto, perchè quel sito era il principal impedimento alla unione delle diverse parti dell'esercito tedesco, indirizzava le sue genti al riacquistarlo; ma già i Tedeschi l'avevano munito con un forte presidio, conoscendo l'importanza della terra, con farvi alloggiare una grossa banda di soldati ch'era l'antiguardo di Wurmser governato dal general Liptay. Il castello, i colli vicini ed il ponte erano guerniti di molti e buoni soldati tanto più confidenti in sè medesimi, quanto Wurmser, spuntando da Guidizzolo si avvicinava con tutte le sue genti. Ordinava Augereau per modo i suoi, che il generale Beyrand assalisse il corno sinistro degli Austriaci, e per assicurare vieppiù questa parte, comandava al generale Robert facesse un'imboscata per riuscire alle spalle degli Alemanni. Verdier con un grosso nervo di granatieri era per assaltare nel mezzo il castello di Castiglione, e nella parte superiore il generale Pelletier si apparecchiava ad urtare la destra del nemico. Ma, per provvedere meglio ad ogni caso fortuito, ordinava Buonaparte che la schiera di ultima salute, condotta dal generale Kilmaine, andasse ad unirsi ad Augereau, perchè fosse più fortemente sostenuta la battaglia. Si incominciava a menar le mani molto virilmente da ambe le parti, era il dì 3 di agosto. Dopo un'ostinata difesa, Liptay, non potendo più reggere, si ritirava; ma qualunque fosse la cagione, ripreso animo, ritornava alla battaglia più animoso di prima. Già, con incredibile valore combattendo, rendeva dubbia la vittoria, quando Robert uscendo fuori dall'imboscata, a gran furia l'assaliva. Questo urto improvviso disordinò tanto gli Alemanni, che si ritiravano, lasciando la terra di Castiglione in potestà dei Franzesi. Ebbe in questo punto Liptay qualche rinforzo delle prime truppe di Wurmser che arrivavano. Per la qual cosa si fece forte al ponte e continuava tempestare con singolar costanza. Il contrasto diveniva più sanguinoso di prima, si combatteva fortemente su tutta la fronte. Finalmente i Franzesi, spintisi avanti con la solita concitazione, e non essendo ritardati nè dagli urti che ricevevano sul ponte, nè dalla fama che già tutta l'oste tedesca fosse arrivata, conquistarono il ponte: il che sforzò gl'imperiali a ritirarsi. Ma già i Franzesi, seguitando il favor della fortuna, rompevano, tant'era la pressa che quivi facevano Beyrand e Robert, l'ala sinistra degli Austriaci, e l'avrebbero anche conculcata del tutto se una batteria posta opportunamente sopra di un poggio vicino non avesse raffrenato l'impeto loro. Ciò fu cagione che tenendo ancora gli Austriaci la posizione loro dietro Castiglione, impedirono ai Franzesi d'inoltrarsi nella pianura che separava l'ala destra dalla sinistra degl'imperiali, e si crearono abilità di sostenere nel medesimo luogo, due giorni dopo, un'altra ostinata battaglia. Nondimeno le sorti d'Italia stavano ancora in pendente. Wurmser aveva raccolto tutte le sue genti e si apparecchiava ad ingaggiare una nuova battaglia. Aveva venticinque mila soldati di pruovato valore; gli schierava per forma che la sinistra si appoggiasse all'eminenza di Medolano, la destra si distendesse fino a Solfarino. Buonaparte ancor egli aveva fatto opera che tutti i suoi venissero a congiungersi insieme per sostenere un cimento tanto pericoloso. Già la più gran parte era raccolta fra la terra di Castiglione e la fronte dei Tedeschi, e per tal modo l'ordinava che l'ala sinistra guidata da Massena potesse assaltare la destra del nemico, Augereau con la mezzana desse dentro al mezzo, e finalmente Verdier con le fanterie e Beaumont coi cavalli urtassero la sinistra. Aveva poi comandato alle schiere di Serrurier, che era sotto la cura di Fiorella e stava alle stanze sulle rive del Po a Bozzolo e Marcaria, camminasse celeremente verso Castiglione e ferisse di fianco la punta sinistra degl'imperiali; consiglio molto a proposito. Nè parendo per la sagacità sua a Buonaparte che questi preparamenti bastassero, s'indirizzava a Lonato per vedere se fosse possibile di far venire altre genti da quella terra al tempo principale. Quivi successe un caso molto mirabile, secondochè narrò Buonaparte e ripeterono tutti gli storici di quei tempi e dei tempi posteriori, e questi fu, che il generale di Francia, andando a Lonato con persuasione di trovarvi i suoi, ed avendo con esso lui solamente una squadra di dodici centinaia di soldati, vi trovasse invece un corpo tedesco grosso di quattro mila combattenti tra fanti e cavalli con non pochi pezzi di artiglieria. Era Buonaparte in gravissimo pericolo, e già il comandante alemanno gl'intimava si arrendesse. Ma egli, accorgendosi che in accidente tanto improvviso, dove non valeva la forza, l'audacia doveva supplire, al Tedesco con sicuro volto rivoltosi, gli disse, maravigliarsi bene ch'ei tanto presumesse di sè medesimo, che si ardisse di chiamar a resa Buonaparte vittorioso nel suo principal campo stesso e cinto da tutto il suo esercito: andasse e da parte sua al suo generale recasse, che se subito non si arrendesse ed in poter suo disarmato non si desse, pagherebbe con la morte il fio di tanta temerità. Erasi, come narrano gli storici, accorto Buonaparte, raccogliendo nella sua mente tutti i fatti di quei giorni, che quella squadra fosse la gente fuggiasca di Desenzano, che avendo trovato i passi di Salò chiusi da Guyeux, o andasse errando a caso o si sforzasse di raggiungere il corpo principale di Wurmser. Vogliono che i Tedeschi intimoriti, deposte le armi, si arrendessero a discrezione. Comunque fosse di questo fatto, che il Botta contro tanti storici degni di fede si sforza di mettere in dubbio; tutte queste fazioni, quantunque di gran momento non avevano ancora intieramente giudicato la fortuna delle armi fra i due potenti emoli, e restava ancora a determinarsi in una battaglia campale se le speranze dall'imperatore d'Alemagna poste nella virtù di Wurmser e tutto quello sforzo per la ricuperazione d'Italia, avessero a riuscire o fruttuosi o vani. Erasi, come abbiam narrato, il maresciallo austriaco accampato tra Medolano e Castel Venzago a fronte di Castiglione, tra la qual terra e le sue genti se ne stavano schierati i Franzesi. Erano i soldati delle due parti stanchi dai lunghi viaggi e dalle frequenti battaglie, e però, sebbene a fronte gli uni agli altri si trovassero, il giorno 4 agosto, nissun motivo fecero per affrontarsi. Piaceva l'indugio a Buonaparte, perchè attendeva alcune genti fresche e perchè principalmente sperava che Fiorella, in cui era posta la più forte speranza della vittoria, arrivasse in luogo donde potesse partecipare al combattimento. La mattina del giorno seguente, appena aggiornava, essendo giunto il tempo che Buonaparte si era prefisso come conveniente alla sua impresa, e non movendosi gli imperiali, disposti piuttosto ad aspettare che a dar la carica, comandava ad Augereau ed a Massena, che assaltassero il nemico; ma essendo suo intento che solo s'ingaggiasse la battaglia, ma non si tentasse per ancora di sforzare l'inimico, ordinava loro che, dato il primo urto, e tosto che gli Austriaci uscissero dal campo per seguitarli, si ritirassero. La cosa successe come il capitano franzese l'aveva ordinata; perchè, non sì tosto si era incominciato a menar le mani, gli Alemanni, che si sentivano forti, saltando fuori degli alloggiamenti, urtavano gagliardamente i Franzesi, che fatto un po' di resistenza, si tiravano indietro. Dalla qual mossa, molto a proposito fatta, prendendo animo Wurmser, andava distendendo l'ala sua destra verso Castel Venzago con intenzione di circuire la sinistra dei Franzesi retta da Massena e di dar la mano a Quosnadowich, di cui non sapeva la rotta. Quest'era appunto il desiderio di Buonaparte; la fortezza di Peschiera, ch'era in suo potere, l'assicurava sul suo fianco sinistro, e Fiorella stava in procinto di arrivare sul campo di battaglia contro la punta sinistra dei Tedeschi. Or mentre Massena ed Augereau sostenevano l'urto degli Austriaci a stanca ed in mezzo, mandava Buonaparte Verdier ad assaltare le trincee erette sul colle di Medolano. Ma perchè questo assalto riuscisse meno sanguinoso nel fatto e più felice nel fine, ordinava che il colonnello Marmont, soldato molto pratico a governar le artiglierie, posti venti pezzi grossi nella pianura di Medole, fulminasse quel ridotto nemico. Rispondevano furiosamente dal colle di Medolano le artiglierie austriache e ne seguitava un sanguinoso combattimento. In mezzo a tanto rimbombo si faceva avanti con singolar valore Verdier, a cui era compagno Beaumont. Perveniva Verdier al ridotto, e dopo un'asprissima contesa e molto sangue se ne impadroniva. Al tempo medesimo Beaumont, precipitandosi a corsa verso il villaggio di San Canziano dietro la estremità sinistra degl'imperiali, che già vacillava trovandosi spogliata di quel principale fondamento del ridotto, accresceva terrore ai fuggiaschi e lo dava ai contrastanti. Nè questo bastando a dare l'ultima stretta, arrivava, tanto bene aveva Buonaparte disposte le cose, in questo punto stesso Fiorella coi soldati di Serrurier, che dando dentro incontanente ai nemici, che non se l'aspettavano, gli sforzava a rotta manifesta. Wurmser, per ristorare la battaglia, vi mandava in fretta la cavalleria che urtando Beaumont e Fiorella, frenava per qualche tempo l'impeto loro. Ma Buonaparte, veduto che era giunto il momento di vincere, fè caricare con tutto lo sforzo di Massena e di Augereau l'ala destra e la mezzana dei Tedeschi. Spediva altresì in fretta alcuni rinforzi a Fiorella, il quale anche acquistava nuove forze per l'accostamento successivo delle sue genti. Diventava allora la battaglia generale su tutta la fronte. Fuvvi che fare assai pegli Austriaci alla torre di Solfarino, che virilmente assalita, fu anche virilmente difesa. Prevalse infine del tutto la fortuna repubblicana, perchè Massena pressava con vantaggio dal canto suo il nemico, Augereau lo vinceva a Solfarino, Verdier, Marmont, Beaumont e Fiorella lo perseguitavano rotto e disordinato a Cavriana. Così tutto l'esercito alemanno, parte rotto, parte intiero si ritirava al Mincio; il quale fiume, prestamente varcato a Veleggio, e la stanchezza dei perseguitatori li preservarono da maggior danno. Questa vittoria di Castiglione poneva di nuovo l'Italia in mano di Buonaparte; perchè Wurmser, quantunque non fosse scoraggiato dalla fortuna contraria, ridotto a poche genti, non poteva più contendere col fortunato suo emolo dell'imperio di questa contrada, destinata ormai ad essere preda dei combattenti o serva dei vincitori. Buonaparte, conseguita con tant'arte e con tanta fortuna sì gloriosa vittoria, si risolveva a perseguitar celeramente le reliquie del suo avversario, sì perchè non voleva dargli tempo di rifarsi, e sì perchè in aura sì favorevole gli tornavano in mente i vasti pensieri, già molto tempo da lui spiegati al Direttorio, di voler andar ad assaltare, valicando i monti del Tirolo, il cuore della Germania, per conculcarvi del tutto, congiunto che fosse con Moreau e Jourdan che guerreggiavano sul Reno, la potenza avversaria. Le fresche vittorie, ed il terrore per esse concetto dai popoli e dai soldati nemici, era occasione favorevole a così gran disegno. Perlochè si accingeva a voler tosto passare il Mincio, per veder quello che preparasse la fortuna sulla sinistra sponda contro il capitano dell'Austria. A questo fine faceva trarre furiosamente da Augereau con le artiglierie contro Valeggio per dare in questo luogo riguardo al nemico, mentre Massena sbaragliava, secondandolo Victor virilmente, Liptay, che fu costretto a ritirarsi a Rivoli. Wurmser, veduto da questo fatto che non era più tempo d'aspettare a ritirarsi in Tirolo, rinfrescata di nuove genti Mantova, si metteva in viaggio per salire per la valle dell'Adige. Il seguitavano Massena, Augereau e Fiorella. Si appresentava quest'ultimo alle porte di Verona con animo di entrarvi per perseguitare gli Austriaci. Chiedeva Fiorella le si aprissero. Il provveditore veneto che temeva che se due nemici, tanto sdegnati l'uno contro l'altro e nel bollor del sangue dei fatti recenti, si azzuffassero dentro le mura, ne sarebbe sorto qualche grande sterminio, rispondeva, che le aprirebbe, passate due ore. L'intento suo era di dar tempo agli Austriaci di sgombrare, acciocchè Verona non diventasse campo di battaglia. Buonaparte sopraggiunto fulminava le porte coi cannoni ed entrava vincitore. Successero alcune sparse zuffe coi Tedeschi, non senza terrore dei Veronesi. Ma i repubblicani, mostrando moderazione, eccettuate alcune ingiurie fatte nell'oscurità della notte, conservarono la terra intatta. Entrato per tal modo in Verona il generalissimo di Francia, ed animati di nuovo i suoi con un manifesto, li conduceva alle fazioni del Tirolo. Salendo egli contro Wurmser, Sauret contro Quosnadowich e il principe Reuss, dovevano entrambi raccozzarsi in su quel di Roveredo per andarsene poscia ad occupar Trento, metropoli del Tirolo italiano. Furono da Sauret cacciati gli Austriaci da tutti i posti sul lago; dal canto suo Buonaparte, superati, mentre Vaubrissi alloggiava in Torbole, tutti i siti forti, compariva in mostra vittoriosa in cospetto di Roveredo. I Tedeschi, già rotti a Mori, e spaventati da un furioso assalto di Rampon in Roveredo, abbandonarono frettolosamente la terra con andare a posarsi nel sito fortissimo che chiamano il Castello della Pietra o di Caliano. Speravano, se non di arrestare l'impeto del nemico in questo luogo, almeno di starvi forti tanto che potessero ogni cosa mettere in sicuro alle spalle. Ma quei presti repubblicani ebbero assai presto superati tutti gli ostacoli che e la natura del sito e l'arte del nemico aveva loro opposto. Imperciocchè il generale Dammartin, allogate con incredibile fatica alcune artiglierie in un luogo creduto per lo innanzi inaccessibile, donde feriva di fianco, ed i feritori alla leggiera, destrissimi ed animosissimi, arrampicatisi per luoghi dirupati e precipitosi, togliendo sicurezza a quel forte passo, tempestavano contro i difensori molto furiosamente. Vedutosi da Buonaparte il successo di queste cose, comandava a tre battaglioni di disperato valore, dessero dentro a precipizio senza trarre alla forra che conduce al castello, e questo assaltassero. Nè fu meno pronta l'esecuzione di quanto fosse risoluto il comandamento; perchè, messisi i battaglioni a quello sbaraglio, in meno tempo che uomo concitato a presti passi farebbe, passarono la forra, menando grande strage degli Alemanni, che cedendo allo audacissimo nemico si ritirarono a gran fretta in Trento. Nè credendosi sicuri, ritiraronsi più oltre sulla destra del Lavisio su la strada per a Bolzano. Tale fu l'esito della battaglia di Roveredo, combattuta il dì 4 settembre. Vi perdettero gli Austriaci con venticinque cannoni, tre in quattro mila soldati morti, feriti o prigionieri. Dei Franzesi pochi mancarono per la speditezza del fatto. Perduto il forte sito di Calliano, restava Trento senza difesa. Infatti il 5 settembre entravano i Franzesi vittoriosi, prima Massena, poi Vaubois, di fresco venuto dalla Toscana al campo. Divenuto Buonaparte signore di Trento, veniva tosto in sulle lusinghevoli parole, dichiarando volere che la città e principato di Trento fossero per sempre liberati dalla superiorità tedesca e posti in libertà. Del rimanente poco importava al generale della repubblica lo stato de' popoli trentini; bensì gli premeva di sollevare con dolci discorsi i popoli della vicina Germania, affinchè tumultuando contro i principi loro, gli rendessero facile l'impresa di congiungersi coi soldati di Ferino mandati avanti da Moreau con questo intento. Gli rompeva questi disegni l'antico Wurmser, il quale, invece di difendere per que' luoghi alpestri del Tirolo con le reliquie de' suoi i passi della Germania, deliberassi, con animoso e ben ponderato consiglio, di voltarsi di nuovo all'Italia, sperando che per la sua presenza inopinata in queste provincie, aggiuntovi qualche rinforzo che testè gli era giunto dal Norico, avrebbe potuto farvi qualche variazione, od almeno ritirarsi al sicuro nido di Mantova. Qualunque avesse ad essere, o prospero od avverso l'esito di questa fazione, bene era certo l'effetto di tirare nuovamente Buonaparte in Italia e di stornare per questo mezzo quella terribile tempesta dalla nativa Germania. Adunque il maresciallo, già fin quando si combatteva a Roveredo ed a Calliano, s'incamminava, scendendo a gran passi, per la valle Brentana, intento suo essendo di congiungersi a Bassano con gli aiuti che, venuti dal Norico, si erano ridotti ad aspettarlo in quella città. Si era persuaso che il suo avversario, udita la strada presa da lui, non solamente deporrebbe il pensiero di assaltar la Germania, ma ancora scenderebbe a gran passi a seconda dell'Adige per andar a far argine a quel nuovo impeto nelle vicinanze di Verona. Effettivamente Buonaparte, abbandonata l'impresa di Germania, si rivoltava verso l'Italia, ma bene non prese la via dell'Adige, anzi sprolungata per la valle medesima della Brenta la destra de' suoi, seguitava frettolosamente le genti Alemanne. Erano guidatori principali di questi soldati, secondo il solito, que' due folgori di guerra Massena ed Augereau. Marciarono tanto speditamente che giunsero gl'imperiali a Primolano e li vinsero con presa di molti soldati. Si combattè poscia a Cismone, si combattè a Selagno, e sempre felicemente pe' Franzesi. Già quel nembo era vicino a scoccare contro Bassano dov'era il corpo principale di Wurmser. L'assaltarono correndo Augereau a sinistra, Massena a destra, e tosto il ruppero, con grande ammirazione e sconforto di Wurmser, che si era confidato nella fortezza di quel passo posto alla sboccatura della valle della Brenta. Ora nissun altro partito restava al maresciallo d'Austria, poichè sì presti l'avevano sopraggiunto i Franzesi, se non quello di ritirarsi per far pruova di guadagnare le sicure muraglie di Mantova. Adunque, velocemente marciando e velocemente ancora seguitato da' repubblicani, passava l'Adige a Porto Legnago, batteva Massena a Cerea, Buonaparte a Sanguineto, entrava coi soldati tutti sanguinosi, ma con aver fatto sanguinosa la vittoria anche al nemico, dentro i ripari della forte Mantova. Questo fu il fine dell'impresa di Wurmser in Italia e del poderoso esercito che vi condusse. Ne fu afflitta la Germania, ne fu lieta la Francia, e pendè di nuovo incerta l'Italia del destino che la aspettasse; perchè nè Mantova era piazza che si potesse facilmente espugnare, nè l'imperador d'Alemagna era tale che non fosse per fare un nuovo sforzo per riconquistare le rive tanto infelicemente feconde dell'Adda, del Ticino e del Po. Siede Mantova, città antica e nobile, in mezzo ad un lago che il fiume Mincio forma, ed in tre parti si divide, separate una dall'altra da due ponti. Ma non tutta la città è circondata da acque libere e correnti; conciossiachè il Mincio, a stanca verso la cittadella precipitandosi, lascia i terreni a dritta o del tutto scoperti o di poche acque velati, ma limacciosi tutti ed ingombri di erbe e di canne palustri. Questa è la palude che si dilata e circuisce in gran parte le mura. Oltre poi le acque e la palude, le principali difese di Mantova consistono nella cittadella, nel forte San Giorgio, ne' bastioni di porta Pradella e di porta Ceresa, ed in altri propugnacoli, che da luogo a luogo sorgono tutti all'intorno nel recinto delle mura, e finalmente nelle trincee del Te del Migliaretto. Tutte queste difese fanno la fortezza di Mantova, ma più ancora l'aria pestilente, che, massimamente a' tempi caldi, rende quei luoghi infami per le febbri e per le molte morti, e fa le stanze pericolosissime, principalmente ai forastieri non assuefatti alla natura di quel cielo. Non è però che nel complesso delle dette fortificazioni non vi sia una parte di debolezza, perchè nè la cittadella nè il forte San Giorgio sono tali che possano resistere lungo tempo ad una valida e regolata oppugnazione; ed a porta Pradella, non meno che nelle mura a mano manca di porta Ceresa sono altri tratti difettosi. Sapevanselo i Franzesi quanto a questo ultimo tratto, che prima dell'arrivo di Wurmser avevano assaltato questa parte, e già tanto si erano condotti avanti, che, aperta la breccia, stavano in punto di entrarvi. A tutto questo pensando Buonaparte, era venuto nell'opinione, che in venti giorni di trincea aperta si potesse prender Mantova; ed era pur solito a dire, ed ei se n'intendeva, che con sette mila soldati, stante la difficoltà delle sortite per la strettezza degli argini, e la facilità di tenerli dagli assedianti guardati, se ne possono bloccar dentro Mantova venti mila. Era giunto, come abbiam narrato, il maresciallo Wurmser in Mantova con un grosso corpo di genti avanzate alle stragi di Castiglione e di Bassano. Questo sussidio, mentre dava maggior forza alla guernigione già stanca da molte battaglie e da troppo frequenti vigilie, induceva nondimeno una più grande necessità di vettovaglia. Difettava particolarmente di erba e di strame per pascere i cavalli, che erano, rispetto ai fanti, in numero assai considerabile. Adunque il capitano austriaco, vedendosi potente per la moltitudine dei soldati, massime di cavalleria, sortiva spesso con grosse cavalcate a foraggiare alla campagna, il che tanto più facilmente poteva fare quanto più, essendo tuttavia padrone della cittadella e di San Giorgio, avea le uscite spedite, senza essere obbligato a restringere le genti in lunghe file per passare i ponti o gli argini. Queste cose infinitamente nuocevano a Buonaparte, il quale sapendo che l'Austria non avrebbe omesso di mandare nuovi soldati in Italia, desiderava di venirne presto alle strette per aver Mantova in mano sua anzichè gli aiuti arrivassero. A questo fine, essendo giunto alla metà del suo corso il mese di settembre, comandava a' suoi andassero all'assalto di San Giorgio, perchè quello era il principale sbocco degli Austriaci alla campagna. Nel tempo medesimo il generale Sahuguet dava l'assalto alla Favorita, sito fortificato dagli Austriaci e posto a tramontana tra San Giorgio e la cittadella. Attraversò questi disegni il vivido e sagace Wurmser; perchè, cacciatosi di mezzo con la cavalleria, e represso l'impeto dei repubblicani, gli sbaragliava. Ma l'audace Buonaparte non era uomo da interrompere i suoi pensieri per un piccolo tratto di fortuna contraria. E però avvisandosi che il suo avversario, fatto confidente dalla prosperità della fazione, cercherebbe ad allargarsi viemmaggiormente nella campagna, volendo nutrire in lui questa baldanza nuova, ritirava i suoi più lontano dalla piazza. Eransi gli Austriaci ingrossati, coll'intenzione di conservarsi libera la campagna, a San Giorgio ed alla Favorita; avevano anzi spinto molto avanti le loro guardie fuori degli alloggiamenti. Ordinate le cose sue con opportuni comandamenti ad Augereau, a Sahuguet, a Pigeon, ed a quel pronto e valoroso Massena, fu l'industria e la virtù del generale di Francia aiutata dal benefizio della fortuna; perchè Wurmser essendosi di soverchio allargato nella campagna, come Buonaparte prevedeva, non fu difficile a Pigeon di congiungersi con Sahuguet ad interrompere le strade fra San Giorgio e la Favorita, ed Augereau arrivava tempestando a rompere l'ala dritta degl'imperiali. Il maggior danno fu quello recato da Massena; poichè fu tanto forte l'impeto suo, che prostrando ogni difesa, entrava per viva forza in San Giorgio, e se ne faceva padrone. Nè in alcun modo soprastando, per non corrompere colla tardanza il corso della fortuna favorevole, metteva anche in suo potere il capo del ponte che dal sobborgo porta alla città. A questo modo gli Austriaci rotti e dispersi, parte furono presi o morti in numero di circa tre mila, e parte si ritirarono fuggendo alla cittadella: perdettero venti bocche da fuoco. Questa fazione, avendo posto in poter dei Franzesi i luoghi più opportuni all'ossidione e fiaccando l'ardire degli Austriaci, restrinse molto la piazza; e sebbene di quando in quando il generale dell'imperio, condotto dal proprio coraggio e tirato anche dalla necessità, per fuggire la molestia della fame, facesse, per andar a saccomano, sue sortite, non si affidava però più di correre così liberamente la campagna, il che rendè in breve tempo le sue condizioni peggiori; perciocchè cominciava a patire maravigliosamente di vettovaglia. Già sorgevano segni di mala contentezza che obbligavano Wurmser a star vigilante così dentro come fuori. Munivano i Franzesi con fossi e con trincee il conquistato San Giorgio, e dimostravano grandissima confidenza d'entrar presto in Mantova. Eransi nell'isola di Corsica maravigliosamente sollevati gli animi a cagione delle vittorie dei Franzesi in Italia: il quale moto tanto si mostrava più grande, quanto più alla contentezza dei prosperi successi dell'armi si aggiungeva quella che principalissimo operatore fosse quel Buonaparte, che, quantunque mandato in tenera età a crearsi in Francia, era peraltro nato e cresciuto fra di loro. Questi umori erano anche ingrossati dalle insolenze degl'Inglesi e dalle taglie che avevano poste. Queste erano le cagioni, per cui la parte franzese in Corsica andava ogni dì acquistando nuove forze e nuovo ardire, mentre la inglese perdeva continuamente di forza e di riputazione: già il dominio d'Inghilterra vi titubava. Queste cose si sapevano da Buonaparte; e siccome quegli che era sempre pronto ad usare le occasioni, aveva posto piede in Livorno, non solamente col fine di serrare questo porto agl'Inglesi, ma ancora per muovere la Corsica a danno loro. Laonde indotto in isperanza di poter tosto farvi rivoltar lo Stato a favore della Francia, aveva mandato a Livorno, aspettando tempo di insorgere più vivamente, un colonnello Bonelli, Corso, con alcuni altri soldati del medesimo paese, e, provvedutolo di denari, d'armi e di munizioni, gli comandava andasse in Corsica, e con la presenza e con le esortazioni desse speranza di maggiori sussidii. Era il passaggio di mare assai pericoloso per le navi inglesi che continuamente il correvano; ma Buonaparte, confidando nell'opera di Sapey, un Delfinate molto sagace ed attivo, che aveva il carico di quel passo, gliene commetteva l'impresa. A questi primi principii, crescendo vieppiù le speranze del felice fine, mandava a Livorno, perchè fossero pronti a salpare, i generali Gentili, Casalta e Cervoni, nativi dell'isola, e che potevano pel credito e dipendenza loro aiutare l'impresa. Preponeva ad essa, come capo, Gentili, uomo d'intera fama e savio per natura e per età. I Corsi fuorusciti per intenzione di Buonaparte concorrevano a Livorno e si ordinavano in compagnie. Una compagnia di ducento, più attivi e più animosi degli altri, doveva essere il principal nervo dei conquistatori di Corsica. S'aggiungevano alcuni pezzi d'artiglierie di montagna e cannonieri pratichi per governarli. Erano vicine a mutarsi in pro della Francia le sorti della patria di Buonaparte. Avevano molto per tempo gl'Inglesi avuto avviso di tutti questi preparamenti, e stavano vigilanti nell'impedire il passo del mare. Nè parendo loro che ciò bastasse alla sicurezza dell'isola dopo il perduto Livorno, applicarono l'animo al farsi signori di Porto-Ferraio, terra forte e principale dell'isola d'Elba. Pervenuto sentore di questo tentativo a Miot, ministro di Francia a Firenze, richiedeva con viva instanza dal gran duca, desse lo scambio al governatore di Porto-Ferraio, sospetto, secondo l'opinione sua, di essere aderente agl'Inglesi; ricercandolo altresì mettesse in quel forte un presidio sufficiente ad assicuravelo; e voleva finalmente che si aggiungessero ducento soldati franzesi. Soddisfece alla prima domanda il principe, scambiando il governatore; ma fondandosi sulla neutralità, legge fondamentale della Toscana, accettata dalla repubblica di Francia, e confermata da tutte le potenze amiche e nemiche, non consentì al rimanente. Intanto non portarono gl'Inglesi maggior rispetto a Porto-Ferraio, che i Franzesi a Livorno portato avessero. S'appresentavano il dì 9 di luglio in cospetto di Porto-Ferraio, con diciassette bastimenti che portavano due mila soldati; richiesero la piazza. Scriveva il vicerè di Corsica al governatore, volere occupare Porto-Ferraio, perchè i Franzesi avevano occupato Livorno, e macchinavano di occupare anche Porto-Ferraio; ma non volere, negando con le parole quello che faceva coi fatti, solito costume di quella perversa età, offendere la neutralità. I capi della flotta poi minacciavano, se non fossero lasciati entrar di queto, entrerebbero per forza. Avute il granduca queste moleste novelle, comandava al governatore, protestasse della rotta neutralità, negasse la dimanda, solo cedesse alla forza. Ma già gl'Inglesi, procedendo dalle minaccie ai fatti, erano sbarcati sulle spiaggie d'Acquaviva, e, per sentieri montuosi marciando, erano giunti in cima al monte che sta a ridosso del forte di Porto-Ferraio; quivi piantarono una batteria di cannoni e di obici con le bocche volte verso la città. I soldati scendendo da quei siti erti e scoscesi nella strada che dà l'adito alla lerce, stavano pronti ad osservare quello che vi nascesse dentro, per le intimazioni e presenza loro. Mandava Orazio Nelson da parte del vicerè di Corsica intimando al governatore, volere gl'Inglesi Porto-Ferraio e i forti per preservarli dai Franzesi; porterebbe rispetto alle proprietà, alle persone, alla religione; se ne andrebbero, fatta la pace o cessato il pericolo dell'invasione; se il governatore consentisse, entrerebbero pacificamente; se negasse, per forza. Adunava il governatore gli ufficiali, i magistrati, i consoli delle potenze, i capi di casa più principali, acciocchè quello che far si dovesse deliberassero. Risolvettero di consentimento concorde, che si desse luogo alla forza, protestando di alcune condizioni; le quali accettate, entrarono nella toscana isola gl'inglesi. Poco dopo s'impadronirono anche dell'isola Capraia, di Stato Genovese. In questo mezzo tempo bollivano le cose nella partigiana Corsica perturbata da grandissimi accidenti, ed andavano a versi di Buonaparte. Bonelli, condottosi nell'isola e spargendo voci di prossimi aiuti e detestando la superiorità inglese, e spargendo ogni dove faville d'incendio e turbando ogni villa, ogni villaggio, massime sui monti vicino a Bastia ed a San Fiorenzo, aveva adunato gente che apertamente resisteva al dominio del vicerè. A Bastia, sendovi ancora presenti gl'Inglesi, una congregazione di patriotti, o piuttosto di partigiani di Buonaparte e di Saliceti, nemicissimi del nome di Paoli e d'Inghilterra, avevano preso tanto ardire, che addomandarono al vicerè la libertà dei carcerati, e scrissero a Saliceti, già avesse Bastia in luogo di città franzese. Vedutosi da Saliceti e da Gentili che quello era il tempo propizio per restituire la patria loro alla Francia, mandarono innanzi Casalta, con una banda di fuorusciti corsi, affinchè, arrivando a Bastia, aiutasse quel moto, cagione probabile di cambiamento. Fu opportuno il disegno, non fu infelice il successo; perchè giungeva sul finire di ottobre Casalta e sbarcava le sue genti, alle quali vennero a congiungersi i partigiani in grosso numero. Occuparono i poggi che dominano Bastia. Intimava Casalta agl'Inglesi, che tuttavia tenevano il forte, si arrendessero; quando no, li fulminerebbe. Sopravvennero intanto le novelle che gran tumulti nascevano in tutta l'isola contro il nome britannico. Gl'Inglesi pertanto si risolvevano ad abbandonare quello che più non potevano conservare; e precipitando gli indugi dal forte di Bastia, lo spacciarono prestamente, e si ricondussero alle navi; ma perdendo, scontratisi con Casalta, cinquecento prigionieri, e i magazzini; dei cannoni parte trasportarono, altri chiodarono. A tale fatto i tumulti crescevano, gli alberi della libertà si piantavano. Intanto guadagnava Casalta, non però senza difficoltà, le fauci di San Germano, per cui si apre la strada da Bastia a San Fiorenzo, ed arrivava improvvisamente sopra quest'ultimo luogo cacciandosi avanti gl'Inglesi fuggiti da San Germano. Diedero tostamente opera a vuotare la piazza; vi entrarono con segni d'incredibile allegrezza i Corsi repubblicani. Tuttavia l'armata inglese stava sorta sull'ancore poco distante da San Fiorenzo in prospetto di Mortella; i soldati avevano fatto un forte alloggiamento sui monti a ridosso di Mortella medesima, non che volessero continuare nell'intenzione di conservare la Corsica, ma solamente per acquare, vettovagliarsi, e raccorre gli sbrancati sì magistrati del regno che soldati, che per luoghi incogniti e per tragetti arrivavano ad ogni ora, fuggendo il furore corso che li cacciava. Partiva frattanto da Livorno Gentili, conducendo con sè nuove armi e munizioni, ducento soldati spigliatissimi, trecento fuorusciti di Corsica. Arrivato a Bastia, dato riposo alla truppa, squadronati nuovi Corsi che accorrevano, si metteva in viaggio per a San Fiorenzo con animo di cacciar gl'Inglesi da quell'ultimo nido di Mortella. Urtava l'oste britannica, ne seguitava una mischia mortalissima: fuggirono finalmente gl'Inglesi, ricevendo per viaggio molti danni, e si ridussero, prestamente camminando e tutti sanguinosi, alle navi. Conseguito quest'intento, saliva Gentili sopra certi monti, donde speculando vedeva l'armata inglese che continuava a starsene con l'ancore aggrappate in poca distanza: preparava una forte batteria per fulminarla. Non aspettarono l'ultimo momento; che anzi, date le vele ai venti, si allargarono in alto mare alla volta di Gibilterra, lasciando tutta l'isola in potestà di coloro che la vollero restituire all'antica madre di Francia. Al tempo stesso abbandonarono gl'Inglesi le testè conquistate isole d'Elba e Capraia brevissimo frutto di violata neutralità. Fatte tutte queste cose, arrivava Saliceti in Corsica con facoltà di perdonare. Parlava ai Corsi con benigne e incitate parole, conchiudendo: «giurate sull'are vostre, e per l'ombre dei compagni morti nelle battaglie a difesa della repubblica, giurate odio eterno alla monarchia.» I quali violenti parlari, che producevano frutti conformi, dimostravano quanto gli uomini si soddisfacciano meglio delle esagerazioni che della temperanza. Fertilissimo di avvenimenti, e tutti di sommissima importanza, è quest'anno e chi volesse registrarli giorno per giorno come apparvero sulla scena, produrrebbe una confusione da non potersi così agevolmente strigare. Miglior consiglio sarà dunque il tendere più fila e venirle seguendo di mano in mano, ripigliando i tempi secondo l'opportunità, come si è fatto finora, perchè da ciò la narrazione acquisterà quella chiarezza e quella connessione che altrimenti le mancherebbero all'in tutto. Le vittorie dei repubblicani in Italia erano splendidissime; l'avere ridotto a condizione servile il re di Sardegna, ad accordi poco onorevoli quel di Napoli ed il papa, l'avere non solo vinto, ma anche spento due eserciti nemici, l'essere disarmata la repubblica di Venezia, l'aver cacciato dalla Corsica gl'Inglesi col solo sventolar di una bandiera, davano argomento che la potenza franzese metterebbe radici in Italia e che questa provincia sarebbe per cambiare e di signori e di reggimento. Queste condizioni erano cagione che sorgessero ogni dì nuovi partigiani a favore del nuovo stato contro il vecchio. E, vedute tante vittorie, si accostavano a voler secondare le mutazioni molti uomini savii e prudenti, i quali opinavano che, poichè la forza aveva partorito movimenti di tanta, anzi di totale importanza, era oramai venuto il tempo del non dover lasciare portar al caso sì gravi accidenti; che anzi era debito di ogni amatore della patria italiana di mostrarsi e di dar norma con l'intervento loro, per quanto fra l'operare disordinato dell'armi possibil fosse, a quei moti che scuotevano fin dal fondo la tormentata Italia. Si persuadevano che se era scemato il pericolo delle armi avversarie, era cresciuta la necessità di soccorrere alla patria coi buoni consigli; credevano male accetti essere ai popoli gl'Italiani intemperanti che avevano prevenuto o troppo ardentemente o troppo servilmente secondato i primi moti dei Franzesi, e però non doversi a loro abbandonare la somma delle cose. Questa fu un'epoca seconda nelle rivoluzioni di Italia, in cui uomini prudenti per la necessità dei tempi vennero partecipando delle faccende pubbliche. In questo concorsero e nobili e popolani, e dotti ed indotti, e laici ed ecclesiastici, desiderando tutti di cavare da quelle acque tanto torbide fonti puri e salutari per la patria loro. Tra costoro non tutti pensavano alla stessa maniera; perciocchè alcuni amavano i governi spezzati, altri desideravano l'unità d'Italia: fra i primi si osservavano i più attempati, fra i secondi i più giovani; i primi moderavano, i secondi incitavano; i primi più manifestamente operavano, i secondi più nascostamente, ed i Franzesi chiamavanli la lega nera, e di essa i capi dell'esercito avevano più paura che del nemico. Quanto al reggimento interno di ciascuna parte o di tutta Italia, amavano i più, fra coloro di cui parliamo, la repubblica, ma la volevano ridurre al patriziato, instituito con la moderazione della potenza popolare prudentemente ordinata, governo antico all'Italia. A questo consiglio si opponevano le operazioni disordinate dell'armi, l'assurdo capriccio de' Franzesi di quei tempi di voler applicare il modo del loro governo a tutti i paesi che conquistavano, la volontà di Buonaparte, finalmente gl'Italiani servili imitatori delle cose d'oltremonti ed incapricciti ancor essi de' governi geometrici. Ma quegli altri confidavano che la società si sarebbe fermata al governo patrizio misto di democrazia. Questi sentimenti principalmente sorgevano nell'Emilia, e più particolarmente in Bologna, ma non potevano impedire che la fazione democratica, pazza e servile imitatrice di quanto si era fatto in Francia, non vi producesse una grande inondazione. Nè essa operava da sè, quantunque ne avesse voglia, ma suscitata a bella posta dagli agenti di Buonaparte e dal direttorio. Il duca di Modena solo e senza amici, e, quel che era peggio, ricco o in voce di essere, si trovava esposto ai tentativi di questi uomini fanatici e sfrenati; nè rimaneva, per la forza delle opinioni e degli esempi che correvano, fedele disposizione ne' popoli. Furono le prime mosse date da Reggio, città scontenta, per le emulazioni con Modena, del governo del duca. La notte del 25 agosto vi si levarono improvvisamente a romore i partigiani della democrazia. Era il presidio debole, i magistrati timidi, l'infezione grande. Laonde, senza resistenza alcuna crescendo il tumulto, in poco d'ora fu piena la città di lumi, di canti repubblicani, di voci festive del popolo, di un gridar continuo di guerra al duca. Piantarono il solito albero, inalberarono le tricolorite insegne. La mattina nissun segno era in piede del ducale governo: i soldati del duca, impotenti al resistere, se ne tornarono di queto a Modena. Si accostarono ai primi motori uomini riputati per ricchezze e per dottrina per dar norma a quell'impeto disordinato. Condotto a fine il moto, crearono un reggimento temporaneo con torma repubblicana, moderarono l'autorità del senato, instituirono magistrati popolari, descrissero cittadini per la milizia. Questi erano i disegni interni. Ma, desiderando di rendere partecipi i vicini di quanto avevano fatto, mandavano uomini a posta nel contado, in Lunigiana ed in Garfagnana, acciocchè, parlando e predicando, muovessero a novità. Inviarono Paradisi e Re ad affratellarsi, come dicevano, coi Milanesi. L'importanza era di far muovere Modena. Nè in questo mancarono a sè stessi i Reggiani, perchè spacciarono gente attiva a sollevare con segrete insinuazioni e con incentivi palesi quella città. Tanto operarono, che già una banda di novatori, portando con sè non so che albero, il volevano piantare in piazza; gridavano accorruomo e libertà. Ma fu presto il governo ad insorgere contro quel moto, e fatta andare innanzi la soldatesca con le armi, risospingeva i libertini non senza qualche uccisione. Rendè Ercole Rinaldo da Venezia solenni grazie a' Modenesi per la conservata fedeltà. Pagherebbe, aggiunse, del suo gran parte delle contribuzioni, scemerebbe le gravezze de' comuni. Questo intoppo interruppe i pensieri di Buonaparte. Ma egli, che non voleva che gli fossero interrotti, fece con la forza propria quello che le reggiane non avevano potuto. Per la qual cosa mandava fuori un manifesto da Milano, pieno di querele contro il duca: non avere pagato ai tempi debiti le contribuzioni di guerra; starsene tuttavia lontano dagli Stati; lasciare interi gli aggravii di guerra ai sudditi, nè volervi partecipar del suo; avere somministrato denari ai nemici della repubblica; incitare i sudditi con perniciose arti e per mezzo di genti contro Francia; avere vettovagliato Mantova a pro degli Austriaci. Dichiarava pertanto non meritare il duca più alcun favore dalla Francia; essere annullati i patti della tregua; l'esercito italico ricoverare sotto l'ombra sua, e ricevere in protezione i popoli di Modena e di Reggio; chiunque offendesse le proprietà ed i diritti de' Modenesi e de' Reggiani sarebbe riputato nemico di Francia. Buonaparte non era uomo da minacciare con le parole prima che eseguisse coi fatti. E però, non ancora comparso il manifesto, già i suoi soldati s'impadronivano del ducato. Due mila entravano in Modena, prendevano la fortezza, sconficcavano le case, cacciavano i soldati, afferravano le insegne, chiamavano i popoli a libertà. Al medesimo tempo occupavano Sassuolo, Magnano ed altre terre del dominio ducale, facendo variare lo Stato e ponendo mano in tutto che al pubblico si appartenesse. Pure le allegrezze furono molte; piantossi l'albero, cantossi, ballossi; furonvi conviti, teatri, luminarie. Fatte le allegrezze, si venne alle riforme: annullaronsi i magistrati vecchi, crearonsi i nuovi, giurossi alla repubblica di Francia; dello stato politico si aspettavano i comandamenti di Buonaparte. Or si torni alle cose di Bologna, che non era vacua nè di sospetti nè di fatiche. Aveva il senato fatto, per conservarsi lo stato, quanto pei tempi abbisognava, cattivatosi il generale repubblicano, fatto restituir Castelbolognese, promesso riforme. Ma l'aristocrazia era odiosa ai più ardenti instigatori, la democrazia trionfava. Perlochè voci subdole si spargevano contro gli aristocratici; li chiamavano tirannelli; il popolo sempre era di mezzo, e lo dicevano sovrano. Imperversavano gridando che, scacciato quel tiranno del papa, così lo chiamavano, era mestiero scacciare anche que' tiranni de' senatori, e tutto dare in balìa del popolo sovrano; il popolo adombrava, perchè non sapeva che cosa tutto questo si volesse significare; i capi repubblicani volevano consuonare con Modena e con Reggio. Vide il senato il tempo tempestoso per le condizioni tanto perturbate del paese, e volle rimediarvi con dare speranze di riforme, non accorgendosi che se il resistere alla piena era impossibile, il secondarla era insufficiente. Pubblicava si creasse una congregazione d'uomini dotti e probi, affinchè proponessero un modello di costituzione consentanea ai tempi, ma conforme a quel modo di reggimento che sussisteva in Bologna prima della signoria de' pontefici. Non parve compito il disegno, perchè quell'antica forma non piaceva, ed i nominati della congregazione si tacciavano d'aristocrazia. La verità era, che niuna forma buona, se non la democratica, pareva a coloro che menavano più romore. Compariva intanto il modello della costituzione tutto democratico e, secondo il solito, levato di peso dalla costituzione franzese, ma contenente altre parti: si abolisse la tortura, si moderassero le pene, si abbreviassero i processi. Adunaronsi i comizii nella chiesa di San Petronio; il fine era di accettare o rifiutare la costituzione. Per voti concordi nominarono presidente Aldini avvocato raccolto il partito, trovossi avere squittinato quattro cento ottantaquattro; quattro cento trentaquattro pel sì, cinquanta pel no. Bandì il presidente, il popolo bolognese avere accettata la costituzione. Intuonossi l'ambrosiano canto, al tempo stesso udissi un suonar di campane, un dar nei tamburi, una musica guerriera, un cantar repubblicano per tutta Bologna. Godeva il popolo; la notte fuochi artificiali, luminarie, teatri, e quanto si usa fare dai popoli nelle grandi allegrezze. Nè con minore caldezza procedevano le faccende in Ferrara. Vi si creavano i magistrati popolari; vi si bandiva la repubblica. Mandavano deputati a Buonaparte per ringraziarlo, ai Milanesi per affratellarsi; tutta l'Emilia commossa. In questo mentre arrivava Buonaparte a Modena. Concorrevano in folla i popoli per vederlo, Ferraresi, Bolognesi, massime Reggiani, che in questi moti con maggiore ardenza camminavano. La sua presenza in Modena fruttava altro che parole. Chiamati a sè i primi, fece loro intendere, con un'arte esortatoria che era in lui molto efficace, si unisse tutta l'Emilia in una sola repubblica, e si facesse forte sull'armi. Questi consigli trovavano disposizioni conformi in popoli esaltati. Però si adunavano, il dì 16 ottobre, in Modena ventiquattro deputati per parte di Ferrara, venti per Modena, venti per Reggio. Decretava il consesso, tutta l'Emilia in una sola repubblica sotto protezione della Francia si unisse; la nobiltà feudataria si abolisse; fossero salve e sicure a tutti i pacifici uomini le proprietà; un magistrato si creasse che avesse carico di levare, ordinare, armare quattro mila soldati a difesa comune; un altro congresso di tutta l'Emilia si tenesse il dì 27 dicembre; questo secondo congresso statuisse la costituzione che avesse a reggere la nuova repubblica. Questo muoversi dei Cispadani all'armi molto piaceva a Buonaparte, perchè serviva di esempio ai Milanesi, che la medesima volontà non dimostravano. In fatti questi ultimi, per non parer da meno, offerirono dodici mila soldati. Già si dava opera a Milano ad ordinare la legione lombarda, in cui entrarono Italiani di ogni provincia, e la legione polacca, in cui si scrissero molti Polacchi, o disertori o fuorusciti, e parte anche uomini raccolti in tutta Germania. I Reggiani più infiammati non si contentarono nè delle parole nè delle mostre. Dato dentro ad una squadra d'Austriaci usciti per fazione militare da Mantova, e tagliati fuori dai Franzesi, li facevano prigioni a Montechiarugolo, non senza fatica e sangue da ambe le parti. Presentarongli in una modenese festa trionfalmente a Buonaparte, gratissimo dono, perchè ed agguerriva gl'Italiani e li faceva intingere contro lo imperatore. Tutte queste cose affliggevano e spaventavano il pontefice, che si vedeva restar solo esposto alle percosse delle armi repubblicane. Aveva fatto quanto per lui si era potuto per adempire le condizioni, ancorchè gravissime fossero, della tregua. La pace che si trattava a Parigi non veniva a conclusione. Voleva il direttorio che il papa recedesse da qualunque lega contro Francia; negasse il passo ai nemici, il desse ai Franzesi; serrasse i porti agl'Inglesi; rinunziasse a Ferrara, a Bologna, a Castro, a Benevento, a Ronciglione, a Pontecorvo; proibisse l'evirazione dei fanciulli. Quanto alla religione, il direttorio richiedeva che il papa rivocasse qualunque scritto od atto emanato dalla santa Sede rispetto alle faccende ecclesiastiche di Francia dall'89 in poi. Posto il partito dal pontefice, opinò con consentimento unanime il collegio dei cardinali, doversi rifiutare tutte le pratiche, non potersi accettare i patti, alla forza si resistesse colla forza. Quando così deliberarono, già sapevano essere in ordine una terza mossa austriaca per l'Italia, e per questa cagione speravano di aver seco congiunte le armi imperiali. Sapeva Pio VI a quale pericolo sottoponesse sè medesimo e tutto lo Stato ecclesiastico col rifiutar la pace. Perciò non ometteva alcuno di quegli aiuti che pei tempi confermare lo potessero. Scriveva un breve a tutti i principi cattolici, col quale, gravissimamente favellando, gli esortava a non abbandonare dei sussidii loro la santa Sede in così imminente pericolo; corressero, ammoniva, in soccorso di quella religione che con tanta pietà professavano, e che era cagione che i sudditi con tanto amore e soggezione a loro obbedissero; dimostrando quindi di quanto danno fosse minacciata, sorgessero adunque, esortava, accorressero, pruovassero aver cura di quanto ha posto il cielo quaggiù di più sociale, di più salutevole, di più sacro; darebbe egli, tanto vicino al pericolo, l'esempio della costanza, nè potere o il romore di sì perniziosa guerra o l'età sua oramai cadente, o le instigazioni dei mali affezionati tanto operare, ch'egli non sorgesse con animo invitto a difesa di quella religione che, scesa da Cristo Dio pel ministero dei santi Apostoli sino a questi miseri tempi incorrotta e pura, doveva parimente ai posteri pura ed incorrotta tramandarsi. Queste voci mandava ai principi cattolici il pontefice ottuagenario, primo sostenitore, e con le parole e con l'esempio, dell'autorità e della dignità dei principi. Non aveva il re di Napoli intermesso per mezzo del principe di Belmonte Pignatelli i suoi negoziati a Parigi, ora con più vivezza procedendo, ora allungando il dichiararsi, secondochè gli accidenti d'Italia succedevano o più prosperi o più avversi alle armi franzesi. Lo stimolavano dall'un de' lati l'Austria e l'Inghilterra a mantenersi in fede; dall'altro il ritraeva il timore dei Franzesi saliti in tanta potenza. Il direttorio, che si accorse dell'arte, volle stringere; ma in tal fatto meritossi riprensione dell'aver tacciato, accennando alle tergiversazioni del principe di Belmonte, d'infame nota la fede italica, come la chiamò; perchè niun vede come si possa accusare una nazione dell'infedeltà de' suoi governi, e nemmeno vede come le arti usate dal principe napolitano, ora di stringere, ora di allargarsi, possano chiamarsi arti fedifraghe e da chiamarsi con nome odioso; perciocchè di simili arti usarono tutti i governi in tutti i loro negoziati politici, e la Francia stessa le usò in ogni tempo, e più ancora a quei del direttorio. L'udire poi accusarsi la fede italica come infedele da coloro che a bella posta cercavano lite ai principi italiani per cavarne denaro e per distruggerli, non si potrà certamente senza sdegno comportare da chi, libero da ogni anticipata opinione essendo, è solo amatore del giusto e dell'onesto. Intanto, tra per la mediazione di Spagna e per le nuove che ogni dì più si moltiplicavano del venire i Tedeschi verso l'Italia, fu concluso fra la Francia e Napoli un trattato di pace il dì 10 ottobre, molto onorevole, secondo i tempi, al re; perchè nè gli si comandava di serrare del tutto i porti alle potenze nemiche della repubblica, nè gli s'imponeva l'obbligo di scarcerare i mescolati in congiure. Le principali condizioni furono: che il re rinunziasse a qualunque lega coi nemici della Francia; si mantenesse puntualmente in neutralità con le potenze belligeranti; vietasse l'entrata nelle sue marine alle navi armate in guerra di esse potenze, così franzesi, come di altre nazioni, se più di quattro fossero; si restituissero tutti i beni sì mobili che stabili sequestrati e confiscati, tanto in Francia, quanto nel regno, a motivo della presente guerra; si stipulasse un trattato di commercio; avesse luogo nella pace la repubblica batava. Anche la tregua tra la Francia e Parma si convertiva in accordo, per verità non troppo superbo pel duca, per la protezione in cui l'aveva la Spagna, sicchè la pace gli recò minor danno che la tregua: accidente insolito, perchè le paci del direttorio erano per l'ordinario peggiori delle tregue. Udissi a questi giorni la morte (16 ottobre) di Vittorio Amedeo III, re di Sardegna, principe che avrebbe avuto in sè tutte le parti che in un reggitore di popoli si possono desiderare, se non fosse stata quella smania di guerra che notte e dì il tormentava. Quindi consumò l'erario per mantenere i soldati, ed i soldati consumarono il paese: lo soggettarono anche alla forza, che sarebbe stata intollerabile, se la natura buona del principe e le vecchie abitudini di governo regolato non l'avessero temperata. Restano e sempre resteranno le memorie delle onorate cose fatte da lui in pace e nel riposo de' suoi popoli; ma fatalmente Vittorio Amedeo lasciò morendo un regno servo che avea ricevuto intero, un erario povero che aveva ereditato ricchissimo, un esercito vinto che gli era stato tramandato vittorioso. Così le sue virtù, che furono molte e grandi, non partorirono pe' suoi sudditi tutto quel benefizio che promettevano. Successe nel regno a Vittorio Amedeo III Carlo Emmanuele IV di questo nome, principe ammaestrato in molte belle discipline, ornato di tutte le virtù che in uomo capir possono, e devotissimo alla religione. Ma con l'animo ottimo aveva il corpo infermo; perciocchè pativa straordinariamente di nervi, e questo male, al quale non era rimedio, gli rappresentava spesso di strane fantasie, che il facevano parere assai diverso da quello ch'egli era veramente. Essendo gli Stati del re frapposti tra Francia ed Italia, e provveduti tuttavia di buone armi, sebbene infelicemente usate, molto importava alla prima di averlo per amico; perciò il direttorio nissuna cosa lasciava intentata per congiungerselo in amicizia stabile per un trattato di alleanza. Si aggiungeva la tenerezza di Buonaparte pel re, cui fu sempre primario intendimento di trasportare il dominio del re dal Piemonte nello Stato di Milano, e d'incorporare alla Francia il Piemonte e l'isola di Sardegna. Questo pensiero stesso ei si volgeva in mente, quando più con le istigazioni tentava di accalorare lo spirito repubblicano in Milano. Ma non andava a grado del direttorio, o fosse che non avesse ancor deposto il pensiero di restituire, se bisognasse, il Milanese allo imperatore, o fosse che per una tal quale ambizione di repubblica credesse che con tante vittorie potesse alzar l'animo a maggiori cose, con fondare una nuova repubblica negli Stati dell'imperatore in Lombardia. Amava meglio di compensare il re a spese di Genova. Ambidue cercavano con queste speranze di adescar tanto Carlo Emmanuele, ch'ei venisse a concludere con la repubblica la confederazione. E siccome queste pratiche non si potevano tenere tanto segrete che le altre potenze non le subodorassero, confidavano che l'imperatore intimorito si sarebbe più facilmente inclinato a fare la volontà della repubblica. Ma il re non volle a questo tempo consentire al trattato, perchè gli pareva che, se congiunto fosse in lega difensiva ed offensiva con Francia, sarebbe stato costretto a volgere le sue armi contro il papa, al quale sapeva che i repubblicani macchinavano allora di far guerra, nè gli poteva sofferir l'animo di offendere il capo della Chiesa che non gli aveva fatto alcuna ingiuria. In questo mentre Carlo Emmanuele aveva chiamato ai consigli dello Stato, invece del conte d'Hauteville, il cavaliere di San Damiano di Priocca. Inoltre, avendo il direttorio ripudiato il conte di Revel, come fuoruscito franzese, dall'ambasciata di Parigi, il re gli aveva surrogato il conte Balbo, uomo di alto lignaggio, di molte lettere e di non poca dottrina. Del rimanente, quanto al politico, era il conte piuttosto amatore di mettere l'Italia in Piemonte, che il Piemonte in Italia, ed aveva ottimamente conosciuto di che qualità fosse la libertà di quei tempi. Arrivato come ambasciatore di Sardegna a Parigi, gli furono date gratissime parole; ed egli, siccome quello che era accorto e buon conoscitore degli uomini, si mise tosto in sul negoziare, non disperando di trovar modo di far servigi importanti al re fra quei repubblicani amatori di denaro e di nomi illustri. Intromesso al cospetto del direttorio, disse non essere mai stato il re suo signore nemico a Francia nè al governo di lei; tempi fatali avergli posto in mano l'armi.... non aver mai cessato di desiderare la pace.... consigliarlo il rispetto dell'interesse suo, che era quello stesso del suo popolo, che restasse affezionato alla Francia: naturale adunque essere, soggiungeva, l'amicizia dei due Stati; avere lui carico di nudrirla; e perchè nissuna cattiva impressione restasse, avere carico di disdire i fatti accaduti in Piemonte contro l'ultimo ambasciatore di Francia; presentare le sue credenziali; vedrebbero per loro quanta fede avesse il re posta in lui; stimerebbe meritarla, se quella del direttorio meritasse. Rispose magnificamente il presidente, la moderazione del principe del Piemonte (quest'era la qualità di Carlo Emmanuele prima della sua assunzione) avere preparato la strada alla stima del popolo franzese verso il re; accrescersi la contentezza del direttorio alle nuove protestazioni; renderebbe il governo di Francia amicizia per amicizia; desiderare che l'esempio di un re amatore della pace piegasse tutti i nemici della repubblica ad accettarla; rallegrarsi il popolo franzese per le vittorie acquistate ad assicurazione della sua libertà, ma vieppiù essere per rallegrarsi, quando tutte le nazioni vivessero in amicizia con lui; non conoscere la repubblica l'astuzia politica; stipulare i trattati con lealtà, osservarli con fede, difenderli con coraggio; soddisfarsi il direttorio al vedere che il re l'avesse eletto a nutritore di concordia, sperare si sforzerebbe in adempir bene il quieto mandato. Tali furono i vicendevoli parlari tra Francia e Sardegna. Quantunque il re non potesse amare un governo che l'opprimeva, la sua amicizia politica verso di lui era nondimeno sincera, perchè credeva che ciò importasse alla salute ed agl'interessi del suo reame. Dall'altro lato il direttorio mostrava il viso benigno al re, per aver seco congiunte le sue armi, sebbene avesse disegni di distruzione del governo regio in Piemonte. Ma quel che faceva ricercare il re della sua amicizia in questo momento cagionava il pericolo della repubblica di Genova. Vennesi pertanto in sui cavilli e sulle superbe parole. Ricominciaronsi le querele pel fatto della Modesta già composto tante volte. Esortava Faipoult Buonaparte a venire armato a Genova per cacciare dai magistrati gli avversi a Francia, a bandirli, a cambiare le forme delle deliberazioni del governo. Mandava la signoria all'alloggiamento di Buonaparte Francesco Cattaneo, uno dei più gravi e più riputati cittadini della repubblica, affinchè s'ingegnasse di mitigare quella superbia; ma si tirava più su colle richieste: serrassero, imponeva, tutti i porti agli Inglesi, sei mila Franzesi il golfo della Spezia occupassero, apprestasse la repubblica quanto abbisognasse alla Francia; venti milioni pagasse a compenso dei danni inferiti dagl'Inglesi e dagli Austriaci sui mari; per impedire l'entrata agl'Inglesi nel porto di Genova, un presidio franzese la lanterna munisse, gli abitatori della Polcevera si disarmassero. Il senato, siccome quello, a cui le condizioni parevano intollerabili, mandava con autorità d'inviato straordinario a Parigi Vincenzo Spinola patrizio veduto volontieri dagli agenti franzesi. Si faceva lo Spinola avanti, parte con le parole, parte con fatti più efficaci delle parole. Intanto il dì 11 settembre venivano gl'Inglesi ad un fatto che fece precipitar Genova alla parte franzese. Nelson, viceammiraglio d'Inghilterra, rapì sulla spiaggia di San Pier d'Arena una nave franzese: fu il caso tanto improvviso, che nè le artiglierie della Lanterna furono a tempo di romperne il disegno. Faipoult, usando l'occasione, ed acceso in gravissima indegnazione, domandava che Genova, dal cui porto era uscito Nelson per quella prepotente fazione, intercludesse i porti agl'Inglesi e desse, in compenso della nave rapita, in mano di Francia tutte le navi loro sorte ne' suoi porti: quando no, sarebbe tenuta del fatto verso la repubblica. Le insolenze d'Inghilterra e le minaccie di Francia fecero facilmente andar innanzi la mutazione nelle deliberazioni di Genova. Per la qual cosa, tacendo o poco contrastando nelle consulte coloro che inclinavano alla parte inglese, sorse più potente la parte franzese. Però fu risoluto nel consiglio grande, ed approvato nel piccolo, che si chiudessero tutti i porti ai bastimenti inglesi sì da guerra che da commercio; si ritenessero quelli che nei porti stanziassero. Il serenissimo governo, datosi tutto alla parte del nome franzese, pubblicava, per giustificare la sua deliberazione, un manifesto, in cui, raccontate tutte le ingiurie ricevute, da poi che aveva incominciato la guerra, dagl'Inglesi, concludeva che poichè la lunga pazienza ed i frequenti ricorsi erano stati indarno, nè alcuna speranza si aveva che gl'Inglesi fossero per venirne a termini più temperati, si era risoluto ad escludere infino a nuova deliberazione dai porti genovesi le navi britanniche, la presenza delle quali, sotto colore di non adempita neutralità per gli altrui fatti violenti, aveva dato occasione a tanti incomodi ed a tanti pericoli. Intanto si stipulava, il dì 9 ottobre, a Parigi tra il direttorio ed il plenipotenziario Spinola una convenzione, con la quale si fermarono le condizioni, a norma delle quali i due Stati dovevano vivere tra di loro. L'accettarono i Genovesi, sperando che con lei sarebbe confermato lo Stato. L'accettarono il direttorio e Buonaparte, perchè procurava loro denaro. Fu convenuto fra i due Stati che il decreto del governo di Genova, per cui si serravano i porti agl'Inglesi, avesse la sua esecuzione fino alla pace; proibisse Genova il soccorrere di viveri e di munizioni gl'Inglesi; presidiasse sufficientemente i porti; se non potesse, la Francia la servirebbe di presidii; se la Gran Bretagna intimasse la guerra a Genova, la difenderebbe la Francia; annullasse Genova i processi fatti ai sudditi per opinioni, discorsi o scritti politici; i nobili processati nel grande e nel piccolo consiglio si redintegrassero; la Francia promettesse di conservar intero il territorio della repubblica, di agevolarle la pace con le potenze barbaresche, di far libere e franche le terre vincolate per dritti di feudo all'impero germanico; i Genovesi accettassero la mediazione della Francia per comporre le loro differenze colla Sardegna; pagassero alla Francia, per prezzo dell'amicizia e della conservazione dei territorii, due milioni di franchi, e le facessero un prestito di altri due milioni. Furono i due milioni di taglia estratti dal banco di San Giorgio, i due del prestito pagati dai più ricchi. Genova debole e lacerata da due nemici potenti fu obbligata a comporsi con uno di loro: il che non fu la sua salute. Venezia anch'essa tra due nemici potentissimi, ma più forte, più padrona di sè medesima, più tenace nella neutralità, non volle comporsi, nè ciò fu la sua salvezza. Bisogna premettere che principal mira del governo di Francia, alla quale tutte le altre subordinavansi, era sempre la pace con l'imperatore non solamente per la sua potenza, ma ancora per la dignità e pel grado. Parevagli che, ove Francesco avesse accettato le condizioni, la repubblica riconosciuta da un tanto principe sarebbesi bene radicata e, per così dire, naturata in Europa. Sola l'Inghilterra sarebbe rimasta nemica; ma non avendo più speranza di muovere l'Europa contro la Francia, si conghietturava che anch'essa sarebbe sforzata di venire agli accordi. Chiaro appariva che dalle condizioni dell'Italia, essendo già i Paesi-Bassi austriaci posti in possessione della Francia, pendeva principalmente la pace con l'imperatore. A questo principal fine dirizzando i suoi pensieri il direttorio, aveva mandato in Italia il generale Clarke, personaggio molto dipendente da Carnot, col mandato di veder vicino le cose e di fare convenienti proposte all'Austria. Era Clarke uomo molto atto a questo atto, non solo per la sua destrezza, ma ancora perchè detestava, e sapevasi, le esagerazioni dei tempi. Inoltre egli pare che il direttorio, od almeno qualche membro di lui, avesse concepito sospetto di pensieri ambiziosi in Buonaparte, e però si era risoluto a mandare in Italia un uomo, quale gli sembrava Clarke, molto fidato, affinchè investigasse ed accuratamente rapportasse gli andari del generale italico. Del che o accortosi o sospettando Buonaparte, quando se lo vide comparire innanzi, siccome quegli che non amava gl'imperii dimezzati, gli disse a viso scoperto che se veniva ad accordarsi con lui, il vedrebbe volentieri, e l'accetterebbe; quando no, se ne poteva tornare. Questa insolenza o non seppe il direttorio, o saputa, per lo meno male, la passò. Clarke, che uomo accorto era, avvisò facilmente dov'era e dove aveva a rimanere la potenza; si piegava perciò facilmente, e da inviato del governo divenne fidato di Buonaparte. Da quel punto nacque fra ambidue quella benevolenza e quella intrinsichezza che si mantennero in tanti e sì diversi tempi ed in tante rivoluzioni d'uomini e di cose. Ma venendo al mandato politico di Clarke, quantunque ei dovesse principalmente indrizzarsi all'imperatore, fece opera per viaggio di racconciar le faccende colla Sardegna. Offeriva, in nome della repubblica, di dare al re Genova co' suoi territorii con patto ch'egli cedesse alla Francia l'isola di Sardegna e si unisse in lega con la repubblica, obbligandosi a congiungere all'esercito italico un numero determinato di soldati. Disordinò anche questo pensiero il rifiuto di Carlo Emmanuele del voler entrare in questa lega; perchè, come già rapportammo, detestava grandemente di voltar le sue armi contro il papa. Allora fu fatto il trattato con Genova, col quale il direttorio, non potendo più farla cosa del re, la fece cosa sua. A questo succedeva ne' consigli dei reggitori della Francia un altro disegno per opera principalmente di Buonaparte; ma alle loro proposizioni se ne stava dubbiosa l'Austria, perchè non aveva ancora perduto la speranza di ricuperare per forza d'armi gli Stati d'Italia; questi negoziati correndo prima delle ultime rotte di Wurmser. Però Clarke e Buonaparte, non ostante le vittorie contro Wurmser, insistevano sempre maggiormente. Conoscendo il direttorio la renitenza dell'Austria, aveva mosso, per vincerla, altre pratiche lontane, per le quali sperava di operare che il timore superasse a Vienna ogni ostacolo. Dipendeva intieramente la Spagna, pei consigli e per la autorità del principe della Pace, dalla Francia. Dipendeva anche da lei per la necessità delle cose la Porta Ottomana. Venne adunque il direttorio in pensiero, condotto da quel suo fine principalissimo di aver amicizia con l'imperadore, di far proposizioni di lega difensiva tra la Spagna, la Porta Ottomana, la Francia e la repubblica di Venezia contro l'Austria: presumeva il direttorio, oltre il timore da darsi all'imperadore, che Venezia, stante la costanza del senato a volersene star neutrale, avrebbe ricusato d'entrar nella lega, e però che se gli sarebbe porta più colorita cagione di pigliarsi la repubblica. Il Reis Effendi, favellando a Costantinopoli col dragomanno di Venezia, si era lasciato intendere che in quel totale sovvertimento d'Europa il senato veneziano non poteva e non doveva più starsene isolato e da sè, ma sì consentire a quelle congiunzioni che per la sicurtà dei suoi Stati fossero necessarie, e che nissuna congiunzione migliore poteva essere che un'alleanza con la Porta, la Francia e la Spagna. Poco dopo Verninac, ministro di Francia a Costantinopoli, avuto un segreto colloquio con Ferigo Foscari, bailo della repubblica, gli aveva significato le medesime cose, protestando della amicizia della sua repubblica verso quella di Venezia, e non solamente promettendo sicurtà per tutto il territorio veneto, ma ancora dando speranza di considerabile ingrandimento. Infine, in qualità di persona pubblica procedendo, l'ambasciatore dava al bailo uno scritto, acciocchè lo tramandasse al senato, in cui veniva ragionando che la repubblica franzese, oltremodo tenera della quiete generale e della preservazione degli Stati contro gli altrui disegni ambiziosi, si era risoluta a non istarsene da sè, in mezzo all'Europa commossa; che a questo fine desiderava congiungere a quella d'altrui tutta la forza sua; che confidava che i governi interessati sarebbero disposti a secondarla; che sperava che specialmente il senato veneto si mostrerebbe pronto a concorrere a questo fine; che perciò proponeva al senato per mezzo del bailo e per comandamento espresso del direttorio un'alleanza fra le due repubbliche. Quindi, più apertamente spiegandosi, dicea sue ragioni, perchè si avesse ad accettare la lega che il direttorio veniva proponendo. Non avendo il bailo mandato per trattare una sì importante materia, rispondeva pe' generali, offrendosi solamente di trasmettere lo scritto di Verninac al senato. Le medesime mosse diedero a Madrid il principe della Pace ai nobili Bartolammeo Gradenigo e Almorò Pisani, a Parigi il ministro degli affari esteri Lacroix al nobile Alvise Querini, finalmente a Brescia Buonaparte al provveditor generale Francesco Battaglia. Quest'era un concerto per maggiormente muovere la repubblica. Ma il senato non avendo ancora deliberato, perchè i savi non gli avevano participato affare di tanta importanza, il 27 settembre, quando appunto più vive bollivano le pratiche di Clarke, si appresentava in Venezia al serenissimo principe con un memoriale il ministro di Francia Lallemand, col quale, annunziando che la repubblica franzese, desiderosa di stringersi vieppiù in amicizia con l'antica sua amica la repubblica di Venezia, le proponeva di nuovo per mezzo suo quello che già le era stato proposto e da lui medesimo e da altri ministri di Francia, cioè un'alleanza a difesa ed assicurazione de' suoi Stati; e caldamente ragionando in acconcio della proposta, seguitava: offerirle il direttorio la alleanza del popolo franzese; essere questo popolo, fatto potentissimo per le sue vittorie in grado di dare al mondo, e per quiete sua, quell'aspetto che gli piacerebbe, stipulerebbe patti proficui e nobili per una nazione alleata; obbligherebbe tutte le sue forze a difenderla, se i suoi vicini si attentassero di molestarla; le mandasse il senato un negoziatore a Parigi, si concluderebbe un trattato ad unione de' due popoli fondato sulla sincerità e sulla buona fede, sole basi della politica franzese; già prepararsi la pace del continente, già esser vicine a definirsi le sorti d'Italia; ogni cosa dovere sperar Venezia congiunta in alleanza con Francia. In tale modo instava con molta pressa Lallemand in cospetto del serenissimo principe, e per aprir l'adito alle future cose, aggiungeva altri discorsi ancora ed altri motivi, cui aiutava presso al senato il provveditore Battaglia, il quale, non si sa bene perchè, si era discostato, accettando le nuove, dalle antiche consuetudini del governo veneziano. Grave al certo deliberazione era questa e che importava alla somma tutta della repubblica; perchè se da una parte si vedeva, che il collegarsi con la Francia in mezzo a tanta vertigine di cose avrebbe necessariamente condotto Venezia per sentieri insoliti, non mai battuti da lei, e pieni d'un dubbioso avvenire, dall'altra il non collegarsi poteva portare con sè una immediata pernicie; ed in questo non si era infinto il ministro di Francia, avendo accennato a quale pericolo si esporrebbe Venezia se a starsene scollegata e da sè continuasse. Questa materia fu maturamente esaminata in una consulta di tutti i savi di collegio, e, sebbene la sentenza in cui entrarono sia stata da molti biasimata e da alcuni allegata come pretesto valevole di fare a Venezia quello che le fu fatto; come se uno Stato independente fosse obbligato, sotto pena di eccidio, di opinare come uno Stato forastiero vorrebbe che opinasse, non si dubita di affermare che fu giusta, onorevole e conveniente ai tempi. Concludevano adunque che se la fortuna franzese preponderante non permetteva che si pendesse di più verso l'Austria, la maggior fede dell'Austria non permetteva che si pendesse di più verso la Francia. Pensarono finalmente, che se era destinato da' cieli che la repubblica perisse, doveva ella perire piuttosto innocente che rea, piuttosto per violenza altrui che per colpa propria, piuttosto con compassione che con biasimo del mondo, e senza che ne fosse diminuita la maestà del suo nome. Serbando l'antica consuetudine di Venezia, come opinarono i Savi così fu approvato dal senato, che signora di sè medesima, e da ogni vincolo libera, si serbasse la repubblica. Rispondeva il senato gravemente a Lallemand, che grate ed accette gli erano le dimostrazioni amichevoli fatte dal governo della repubblica franzese, che appunto per queste stesse disposizioni amichevoli sperava il senato che il direttorio non avrebbe voluto condurlo a deliberazioni che verrebbero a produrre effetti contrari all'intento; che per antico instituto la repubblica di Venezia, lontana dall'ambizione e solita a temperare sè medesima, aveva riposto il fondamento dell'esser suo politico nella felicità e nell'affezione de' sudditi e nella sincera amicizia verso tutti i potentati di Europa; del quale giusto ed immacolato procedere si erano sempre, malgrado degl'inviti e delle sollecitazioni contrarie in vari tempi fatte, essi potentati mostrati contenti; che per esso ancora era stata la quiete conservata ai veneti dominii con utile costante e contentezza inestimabile dei sudditi; che questa condotta del senato, confermata dal corso di tanti secoli felici, non poteva abbandonarsi senza incontrare inevitabilmente il pericolo di guerra; che erano le guerre calamitose a tutte le nazioni, ma assolutamente insopportabili al senato pel suo amore paterno verso i sudditi, per la costituzione fisica e politica de' suoi Stati e per la sicurezza delle nazionali navigazioni. Alle quali cose s'aggiungeva il pericolo funesto di sconvolgere le basi del proprio governo, senzachè derivar ne potesse alcun rilevante appoggio alle grandi nazioni alle quali egli strettamente si unisse. Terminava il suo grave ragionamento con dire, sperare che il direttorio, conosciuta la ingenuità e la verità di queste considerazioni, le avrebbe per accette e non sarebbe per alienare l'animo, nè in qualunque evento, dalla innocente Venezia, da Venezia risoluta a conservare con ogni studio l'amicizia con Francia. Rifiutata dal senato l'alleanza, con la Francia, restava a considerarsi se non sarebbe stato utile e sicuro alla repubblica il collegarsi con l'Austria. Ma a tutte le considerazioni prevalsero i consigli quieti, perchè il senato non voleva pendere più da questa parte che da quella e non voleva soverchiamente irritare contro di sè i repubblicani già padroni di buona porzione de' suoi territorii. Nondimeno, poichè non era da credere che l'Austria si tirasse indietro, potendo in mezzo alla fortuna avversa l'accessione di Venezia aver recato peso nella somma delle facende militari, se i Veneziani avessero congiunto le loro armi con quelle dell'imperatore, massimamente quando erano queste cose ancora minacciose e forti, avrebbero i Franzesi potuto ricevere grave danno. Ma patti pieni di molta sicurtà venne offerendo a questo tempo medesimo a Venezia una potenza forte per proteggerla, lontana per non darle ombra; la Prussia. Il barone di Sandoz-Rollin, ministro plenipotenziario di Prussia a Parigi, in un abboccamento avuto col nobile Querini, si fece avanti dicendo che con dolore infinito vedeva la condizione del senato e delle venete provincie divenute campo e bersaglio di una crudele guerra; lodò il consiglio del senato dello aver saputo conservare in mezzo a tanto turbine e con tanto costo la sincera neutralità; che migliore contegno non poteva nè immaginare nè tenere il senato: soggiunse poi però che non doveva il senato aspettare i tempi sprovveduto d'amici e collegato con nissuno, nè abbandonare gl'interessi dello Stato ad un avvenire certamente molto incerto e probabilmente tempestoso; che il governo che facevano i Franzesi delle terre veneziane, con aver violato le leggi le più sante della neutralità, poteva facilmente dar pretesto agli altri di turbare l'attuale quiete e sicurezza della repubblica; che perciò gli pareva, che la prudenza del senato il dovesse indurre a premunirsi di qualche sostegno valevole a guarentire le sue possessioni contro qualunque tentativo. Detto tutto questo, passava Sandoz-Rollin a dire che ei credeva che la sola potenza con la quale la repubblica avrebbe utilmente e sicuramente potuto stringersi in alleanza, fosse la Prussia, perchè gl'interessi politici del re tanto erano lontani da quei di Venezia, che il senato non poteva a modo nissuno sospettare ch'ei volesse una tale alleanza procurarsi per qualche sua mira particolare; che anzi era la Prussia la sola potenza che potesse conservare l'incolumità e l'integrità dei dominii veneti; che a lui pareva, tale essere l'opportunità e la necessità di questa alleanza, che non fosse nemmeno da tenersi segreta; perchè la casa d'Austria non poteva recarsi a male che la repubblica cercasse di guarentirsi dai sinistri effetti delle correnti cose. Insistè finalmente il prussiano ministro affermando, che doveva il senato con la sapienza e prudenza sua internar la vista in un avvenire che non si poteva ben prevedere qual fosse per essere, poichè fatalmente la presente guerra poteva aver dato motivo a più d'uno di chiamarsi scontento dei Veneziani e di recar loro col tempo qualche grave molestia. Questo parlare e questa proferta tanto secondo il bisogno potevano essere la salvazione di Venezia, ed ogni motivo di Stato concorreva a far deliberare che si accettasse. Ben si era fino allora consigliato il senato, seguitando il suo antico costume, di non congiungersi nè con questa nè con quella parte; ma certamente fu pur troppo timorosa risoluzione quella di non aver voluto accettare la lega tanto necessaria e tanto opportunamente esibita dalla Prussia; abbenchè, come trovasi scritto, questo rifiuto non sia stato colpa del senato, ma sì piuttosto degl'inquisitori di Stato, checchè a ciò fare li movesse, e dei savii, che avuto il dispaccio del Querini, nol rappresentarono, avendo da loro medesimi deliberato di scrivergli che non entrasse in questo trattato. Intanto si laceravano dai belligeranti i sudditi veneziani con ogni maniera di più immoderata barbarie. Pretendendo parole soavi di amicizia, rapivano nei miserandi territorii veneti, non solo per necessità, ma anche per capriccio, non solo per forza, ma anche con violenze, non solo con comando ma anche con ischerno, le vite, l'onore e le sostanze di coloro che amici chiamavano. Quello poi che era involato per forza era profuso per iscialacquo; il paese desolato, i soldati sì vincitori che vinti si consumavano per mancamento di ogni genere necessario; chi per ufficio o per grado aveva debito di provvedere ai soldati e di ritirarli dalia barbarie, si arricchiva; il perchè si vedevano capi ricchi, soldati squallidi. Le case s'incendevano, gli alberi fruttiferi si atterravano, le ricolte preziose si sperdevano da questi sfrenati. Pubblicavansi dai generali ordini e regole per frenare tanta rabbia; ma vano era il proposito, perchè quando si veniva alla esecuzione, si andava molto rimessamente, essendo i capi intinti. A questo tempo medesimo gli eserciti di Francia governati sul Reno da Moreau e da Jourdan, assai diversi erano dal buonapartiano per moderazione e per rispetto ai vinti. In fatti venne in Italia dal Reno la schiera di Bernadotte, che temperatamente portandosi, e con maggior disciplina delle altre procedendo, era cagione che a gara le città italiche in presidio la chiamassero. Per questo le compagne la chiamavano la schiera aristocratica, e vi furono delle male parole e dei peggiori fatti in questo proposito. Di tante enormità si lamentava il veneziano senato con tutti e da per tutto; le giustissime querele non facevano frutto. Nè meglio erano rispettate da coloro che accusavano Venezia di non esser neutrale, le sostanze pubbliche che le private. Verona massimamente era segno della repubblicana furia. Vi rompeva a capriccio suo Buonaparte le porte delle fortificazioni, toglieva per forza le chiavi della porta di San Giorgio all'ufficiale veneto, portava via dalle mura le artiglierie di San Marco, poneva le sue là dove voleva, prendeva l'armi, prendeva le munizioni ammassate nell'armeria e nelle riposte veneziane, demoliva i molini, ardeva le ville della campagna quando credeva che a' suoi bisogni importasse; occupava finalmente i forti, vi ordinava mutazioni e lavori e vi piantava le insegne franzesi. Chiodava poi a Porto-Legnago le artiglierie veneziane, tagliava i ponti levatoi, rompeva i ponti del fiume; occupava forzatamente il castello di Brescia, e postovi presidio, a grado suo il fortificava. Quindi, mandato innanzi a Bergamo Cervoni per ispiare e per sopravvedere i luoghi, quantunque nessuna strada fosse aperta per quelle valli a calate di Tedeschi, occupava improvvisamente con sei mila soldati la città ed il castello di Bergamo, dove attese, come a Brescia, a fortificarsi. Involava, armata mano, una cassa dell'arciduca di Milano depositata in casa del marchese Terzi sul territorio bergamasco; e finalmente levava le lettere dalle poste veneziane, aprendole per vedere che cosa portassero. Considerando l'aspro governo fatto degli Stati veneziani, non si sa con qual nome chiamare l'enormità di quel Rewbel, uno dei quinqueviri di Parigi, il quale si lamentava che i Veneziani non amassero i Franzesi. Trattati a questo modo gli Stati della repubblica di Venezia, apparivano interamente mutati da quello che erano prima che quella feroce illuvie li sobbissasse. Intanto gli atroci fatti inasprivano gli animi e gli riempivano di sdegno parte contro il senato, come se senza difesa desse in preda i popoli a nemici crudeli, porle contro i commettitori di tanti scandali. Da tutto questo ne nacque, che le popolazioni della terra ferma, tocche da quel turbine insopportabile, domandavano al senato ordini, armi e munizioni per difendersi con la forza da coloro, presso ai quali l'amicizia era mezzo, non impedimento, al danneggiare. Il senato piuttosto rispettivo che prudente cercava di mitigar gli animi, e quanto all'armi, andava temporeggiando, sperava che qualche caso di fortuna libererebbe i dominii da ospiti tanto importuni, e perchè temeva che chiamati i popoli all'armi, non fosse più padrone di regolare e frenare i moti incominciati, con grave pregiudizio e pericolo della repubblica. Peraltro non così tosto il senato ebbe avviso delle minacce fatte da Buonaparte il di 31 maggio in Peschiera al provveditor generale Foscarini, si accorse che non vi era più tempo da perdere per apprestar le difese, non già per la terra ferma quasi tutta disarmata ed occupata dai repubblicani, ma almeno pel cuore stesso della repubblica, con assicurare tutte le parti dell'estuario con armi sì terrestri che marittime. Si è narrato, come il generale repubblicano avesse affermato, con modi peggio che amichevoli, che aveva ordine dal direttorio di ardere Verona e d'intimare la guerra ai Veneziani. A tale gravissimo annunzio, pervenuto celerissimamente per messo apposta spedito da Foscarini, si adunava il senato a tutta fretta e con voti unanimi decretava, si comandasse al capitano del golfo che si riducesse tosto con tutta l'armata della repubblica nelle acque di Venezia; si levassero incontanente in Istria, in Dalmazia ed in Albania in quanto maggior numero si potessero le cerne ed ai veneziani lidi si avviassero; i reggimenti stessi già ordinati, che avevano le stanze in quelle province, senza indugio alla volta di Venezia s'indrizzassero; si chiamassero nelle acque dell'Istria tutte le navi che si trovavano nell'Ionio sotto il governo del provveditor generale da mare e con queste anche le due destinate a portare il nuovo bailo della repubblica a Costantinopoli. Queste deliberazioni furono prese il dì primo di giugno. Siccome poi l'unità dei consigli è il principale fondamento dei casi prosperi, così trasse il senato, il dì 2 dello stesso mese, provveditor delle lagune e lidi Giacomo Nani, dandogli autorità e carico di armare nel modo che più acconcio gli paresse tutto l'estuario. Gli diede per luogotenente Tommaso Condulmer, affinchè avesse cura particolare delle navi sottili allestite per custodia dei lidi e delle bocche dei fiumi. Ebbero queste provvisioni del senato presto effetto; perchè in poco tempo si videro fortificati e presidiati i posti principali di Brondolo, Chiozza, Portosecco, San Pietro in Volta, San Nicolò di Lido, Malamocco. A Brondolo specialmente, dove mettono foce i fiumi Adige, Canalbianco e Brenta, furono fatti stanziare i bastimenti più sottili. Già arrivavano, siccome quelle che erano state mandate con molta sollecitudine, in Venezia e nei circonvicini luoghi le soldatesche del mare Ionio, dell'Albania, e della Dalmazia; piene ne erano le case, pieni i conventi dei lidi, piene le isole vicine alla metropoli. Perchè poi l'erario potesse bastare a questo nuovo stipendio, fu posta una tassa sui beni stabili di Venezia e del dogado a cui diedero il nome di _casatico_. Per cotal modo Venezia, spinta dalla vicina guerra, si apprestava a difendere l'estuario, nel quale consisteva la vita della repubblica. Un famoso storico franzese dei nostri tempi, lasciandosi trasportare ad una parzialità tanto più degna di riprensione quanto è diretta contro il misero, si lasciò uscir dalla penna, troppo incomportabilmente scrivendo, che queste provvisioni del senato veneziano furono fatte prima delle minaccie dei Franzesi. Al che un altro non men famoso storico italiano giustamente si oppone in questo modo: «Eppure è chiaro e manifesto a chi vorrà solamente riscontrare le date che le provvisioni medesime furono fatte dopo ed a cagione delle minaccie intimate da Buonaparte al provveditor generale Foscarini: imperciocchè minacciò Buonaparte il dì 31 maggio, deliberò il senato il dì primo e secondo di giugno. Il perchè l'allegazione dello storico è contraria alla verità, e crudele a Venezia; che se poi egli pretendesse che Venezia, sentite le mortali minaccie di Buonaparte, non doveva armarsi, staremo a vedere s'ei dirà che la Francia non doveva armarsi sentite le minaccie di Brunswick e di Suwarow. Quanto poi ai sommi geografi così franzesi come italiani, i quali sostengono l'opinione del citato storico, saria bene che ci dicessero quale maggiore distanza vi sia, o qual maggiore difficoltà di strade tra Peschiera e Venezia che tra Parigi e Roano. Saria anche bene che ci dicessero, caso che nascesse oggi in Roano un accidente che minacciasse di totale ruina lo Stato della Francia, se il governo non delibererebbe in proposito il dimane a Parigi. Veramente quando l'uomo vuol impugnare la verità conosciuta, diventa ridicolo........... «Il medesimo storico, a fine di pruovare la parzialità de' Veneziani verso l'Austria, narra come non così tosto dimostrò l'imperatore desiderio che la repubblica non conducesse a' suoi stipendii il principe di Nassau, il governo veneziano se ne rimase. Ma la verità è, che il consiglio di condurre il principe fu dato dal provveditor delle lagune Nani, e che questo consiglio era già stato rifiutato, non già dal senato, al quale non fu mai riferito dai Savi, ma sibbene dai Savi medesimi, molto innanzi che l'imperator d'Austria manifestasse il suo desiderio. Ma volontieri mi sono io indotto a parlare di questo fatto, perchè quando anche fosse vero, che è falso, non si vede come per una condiscendenza di Venezia verso l'imperatore si dovesse venire alla distruzione di lei.» Al tempo stesso in cui il senato ordinava l'apparato militare delle lagune, temendo che la Francia s'insospettisse con credere ch'ei pensasse di portar più oltre di una legittima difesa, in caso di assalto, i suoi provvedimenti, scriveva un dispaccio al governo franzese, col quale andava esponendo che mentre la repubblica di Venezia se ne viveva tranquilla all'ombra della più puntuale neutralità e della sincera e costante sua amicizia verso la repubblica Franzese, erano gli animi del senato rimasti vivamente trafitti dal colloquio avuto dal generale Buonaparte col provveditore generale Foscarini, dal quale si poteva argomentare un'alterazione nell'animo del direttorio contro Venezia; che dal canto suo il senato si persuadeva di non aver dato occasione a tale alterazione: che era conscio specialmente di non meritare alcun rimprovero per l'occupazione di Peschiera contro di cui non era restato alla repubblica disarmata e solo fondantesi sulla buona fede delle nazioni sue amiche, altro rimedio che la più ampia e solenne protesta e la più efficace domanda della restituzione, siccome infatti non aveva omesso nel momento stesso di fare; potere lo stesso generale Buonaparte rendere testimonio dello aver trovato inermi e tranquille le città veneziane, e della prontezza con la quale i governatori veneziani ed i sudditi somministravano, anche in mezzo alle angustie dei viveri, quanto era necessario al suo esercito. Aggiungeva a tutto questo il senato, essere suo costante volere il conservare la più sincera amicizia colla Francia, e pronto a dare quelle spiegazioni ed a fare quelle dimostrazioni dei sentimenti proprii, che fossero in suo potere per confermare quella perfetta armonia che felicemente sussisteva fra le due nazioni. Frattanto il ministro Lallemand, e questa fu una nuova ingiuria fatta a Venezia, domandava al senato perchè ed a qual fine si apprestassero quelle armi, come s'ei non sapesse che il perchè erano le minacce di Buonaparte a Foscarini, e che il fine era il difendersi in una guerra che lo stesso Buonaparte aveva dichiarato dover fare fra pochi giorni a Venezia. Si maravigliava inoltre il ministro che simili apprestamenti guerrieri allora non si fossero fatti quando instavano presenti gli Austriaci sul territorio della repubblica, come se egli non sapesse, che l'Austria non aveva mai minacciato di guerra Venezia come la Francia per mezzo di Buonaparte aveva fatto. Richiedeva finalmente si cessassero quelle armi dimostratici di una diffidenza ingiuriosa e contraria agl'interessi ed alla dignità della repubblica Franzese; il che significava che si voleva far guerra a Venezia, e che non si voleva ch'ella si difendesse. Rispondeva pacificamente il senato, le armi che si apprestavano essere a difesa, non ad offesa; voler solo tutelare l'estuario, non correre la terra ferma; pacifica esser Venezia, volere vivere amicizia con tutti; in mezzo ad opinioni tanto diverse, a discorsi tanto infiammativi, a moltitudine sì grande di forastieri che abbondavano nella città, dovere il governo pensare alla quiete ed alla sicurezza del pubblico: a questo fine essere indrizzati i nuovi presidii ed a fare che, siccome l'intento suo era di non offendere nissuno, così ancora nissuno il potesse offendere: sperare che il governo franzese meglio informato dei veri sensi della repubblica, deporrebbe qualunque pensiero ostile contro di lei e persevererebbe, ora che la Francia tanto era divenuta potente, in quella stessa amicizia che il senato le aveva costantemente ed a malgrado di tutte le suggestioni ed instigazioni contrarie conservata, quando la Francia medesima era pressata da tutte le potenze d'Europa; che finalmente pel senato non istarebbe che un sì desiderato fine si conseguisse: a questo tutti i suoi pensieri, a questo tutti i suoi consigli, a questo tutte le sue operazioni dirizzare. Mostravasi il ministro di Francia appagato della risposta, avendo affermato a Francesco Pesaro, destinato dalla repubblica a conferire con esso lui sulle facende comuni, ch'egli era grato al senato per la gentile e soddisfacente risposta fattagli; ch'ella non poteva essere nè più sincera nè più appagante; che incontanente l'aveva spedita a Buonaparte, e che sperava che una sì solenne manifestazione dei pubblici sentimenti avesse ad essere una pruova irrefragabile di quanto egli aveva sempre rappresentato: insomma egli si chiamava contento intieramente e tranquillo. A questo modo parlava Lallemand il 10 luglio; eppure questo medesimo giorno egli scriveva al ministro degli affari esteri a Parigi, che il senato armava gli stagni col fine di far odiar dal popolo i Franzesi; che il generale Buonaparte, richiesto di rimborsi, aveva con ragione risposto che i Franzesi erano entrati nei diritti dei Ferraresi sopra i paesi della repubblica, e che avevano per cosa propria Peschiera, Brescia e gli altri luoghi occupati. Tanta poi è la forza della verità anche in coloro che vorrebbero servire ad interessi contrarii, che il medesimo Lallemand, scrivendo pochi giorni dopo a Buonaparte, affermava che era verissimo che il governo veneziano si era mostrato molto avverso alla rivoluzione franzese ed aveva nutrito con molta cura nel cuore dei sudditi l'odio contro i Franzesi; ma che in quel momento era vero del pari che sincere erano le sue protestazioni di neutralità e di buona amicizia verso la Francia; che le male impressioni lasciavano poi luogo alla considerazione de' suoi veri interessi; che quanto all'armare, quantunque dubbiosi potessero essere i motivi, pareva a lui che, tale qual era, non potesse far diffidare della fede veneziana; che troppo le armi apprestate erano deboli da dare giustificata cagione di temere; che con gli occhi suoi proprii vedeva, che i preparamenti che si facevano, non avevano altro fine che di custodire le lagune ed i lidi vicini, e che insomma tutto quell'apparato non aveva in sè cosa che fosse ostile contro la Francia. Quest'era il testimonio di Lallemand che ocularmente vedeva. Pure gridossi per questo medesimo fatto dell'armamento delle lagune, guerra e distruzione a Venezia. Così Venezia, segno di tanti inganni, se armava era stimata nemica, se non armava, perfida; i tempi tanto erano perversi che anche in chi conosceva la verità, si annidava la calunnia; la pace non le era più sicura della guerra, nè la guerra della pace; l'estremo fatto già la chiamava. Tali erano i pensieri e le opere di Buonaparte e del direttorio verso la repubblica di Venezia; ma questi insidiosi disegni furono interrotti da una nuova calata d'armi imperiali in Italia. Sempre più si scoprivano i pensieri del vincitore generale della repubblica indiritti a turbare tutta l'Italia. Si è già descritto, come per quel principal fine dell'aver la pace coll'imperadore il direttorio di Parigi e Buonaparte, mandato Clarke, offerivano patti di diversa natura ora all'imperadore medesimo, ora alla repubblica di Venezia, ora a quella di Genova, ed ora al re di Sardegna. L'Austria, inquieta per le calamità a cui era stata sottoposta, non si mostrava aliena se non di conchiudere, almeno di negoziare, e per questo aveva mandato a Vicenza il generale San Giuliano, acciocchè si abboccasse con Clarke. Anche l'Inghilterra, mossa dal pericolo dell'imperadore e dalla forza della repubblica franzese, che ogni di più pareva insuperabile, si era piegata, benchè mal volontieri, a voler trattare, ed aveva mandato a questo fine lord Malmesbury in Francia. Tutti pretendevano voci di voler rimuovere tanto incendio dalla Europa afflitta e di aver a cuore lo stato salutifero dell'umanità. Ruppero questi negoziati le vittorie dell'arciduca Carlo in Germania, che compensarono le sconfitte di Beaulieu e di Wurmser in Italia. Imperò gli alleati si fecero più renitenti, e di nuovo convenne venire al cimento delle armi. Solo la Sardegna, che era ridotta piuttosto in potestà della Francia che nella propria, aveva concluso un trattato di lega difensiva, avendo il re costantemente ripugnato ad una lega offensiva a motivo della guerra imminente col papa; il quale trattato il direttorio non volle ratificare. Adunque il direttorio, trovata tanta fermezza nell'Austria, nell'Inghilterra e nel papa, che continuamente si preparava alla guerra, e dubitando che questo modo potesse estendersi più oltre, perchè non si fidava di Napoli, si consigliava di voler provare se il timore delle rivoluzioni potesse sforzare i potentati a far quello che il timore dell'armi non aveva potuto. A questo fine erano indirizzati i moti dell'Emilia e le instigazioni di Trento. Ma, per parlar de' primi, si voleva da Buonaparte che a quello che da principio aveva potuto parere frutto disordinato della guerra succedesse uno stato regolato ed un assetto più giusto di costituzione. Anche sperava il generalissimo di accendere con questo allettativo d'independenza talmente que' popoli già di per sè stessi tanto accendibili, che un fanatismo politico avesse a pareggiare gli effetti di quell'ardore religioso che per difesa propria il pontefice facea sorgere in Italia contro i conquistatori. Erasi inditto il congresso de' quattro popoli dell'Emilia, Modenesi, Reggiani, Bolognesi, Ferraresi il dì 27 dicembre, malgrado di Buonaparte, che avrebbe desiderato che più presto si adunassero per dar cagione di temere al papa in tempo, in cui bollendo ancora le pratiche, non aveva ancora il pontefice rifiutato la pace. Convennero in Reggio i legati dei quattro cispadani popoli, trentasei Bolognesi, venti Ferraresi, ventidue Modenesi, ventidue Reggiani. Avevano mandato amplissimo di fare quanto alla salute della repubblica si appartenesse; l'unione massimamente de' quattro popoli in un solo stato procurassero. Grande era il calore, grande l'entusiasmo di quegli spiriti repubblicani. Ordinarono, ad alta voce, non a voti segreti si squittinassi. Poi fecero una congregazione d'uomini eletti dalle quattro provincie, affinchè proponessero i capitoli della unione. Fu l'unione accettata con tutti i voti favorevoli. Accrebbero la giubbilazione gli uomini deputati di Lombardia Milanese venuti ad affratellarsi; erano Porro, Sommariva, Vismara da Milano, Visconti da Lodi, Gallinetti da Cremona, Mocchetti da Casalmaggiore, Lena da Como, Beccaria da Pavia. Orarono conforme all'occasione; fu fatto risposta da Facci presidente con gratissime parole. Aprivansi in questo le porte del consesso; il reggiano popolo, bramoso di vedere e di udire, lietamente entrava. Gravemente Fava da Bologna a nome della congregazione degli uomini eletti intorno all'unione de' quattro popoli favellava. Chiamarono di nuovo con segni d'inudita allegrezza la cispadana confederazione, chiamarono la unità della repubblica. Fu piena la città di giubbilo; credevano che quel giorno fosse per essere principio di felici sorti. Ed ecco in mezzo a tanta allegrezza sopraggiungere l'aiutante generale Marmont, mandato da Buonaparte ad incitare ed a sopravvedere. Introdotto al cospetto del congresso, gli applausi, le grida, le esultazioni montarono al colmo. Postergata la dignità, tanta era l'ardenza, avevano i legati piuttosto sembianza di energumeni che di uomini gravi chiamati a far leggi. L'entusiasmo de' Cispadani piaceva a Buonaparte, perchè sperava di cavarne denaro, gente armata, spavento al papa. Infatti aveva il congresso statuito, che una prima legione italica si formasse; nè questa truppa oziosamente si ordinava: correvano gli uomini volentieri sotto le insegne; il generalissimo gli squadronava e faceva reggere da' suoi ufficiali. Ma se dall'un lato egli era contento della disposizione degli animi nella repubblica Cispadana, dall'altro non si soddisfaceva della composizione del congresso; perchè avrebbe voluto vedere in lui, per quel suo intento di far paura al papa, nobili, preti, cardinali ed altri cittadini di maggior condizione, che patriotti fossero stimati; e quantunque alcuni e nobili e preti vi sedessero, non era il numero nè il nome di quella importanza ch'egli desiderava. Per questo, si lamentava che Garreau e Saliceti, commissarii del direttorio, gli guastassero i suoi disegni, procedendo con soverchio calore in queste instigazioni, e chiamando al reggimento dello Stato uomini di poca entità, o troppo risentitamente repubblicani. Spesso ei si querelava con questi commissarii e gli ammoniva con forti riprensioni, ma essi, se non apertamente, almeno nascostamente continuavano ad incitare ogni sorte di persone. Scriveva il congresso il di 30 dicembre a Buonaparte, essersi i cispadani popoli costituiti in repubblica, e ne lo invocava padre, protettore. A queste lettere, ricevute con lieta fronte dal conquistatore, rispondeva egli, aver udito con molto contento l'unione delle quattro repubbliche, ma inculcare loro soprattutto d'ordinarsi alle armi, perchè senza la forza le leggi non valgono. Il congresso annunziava quindi ai popoli la creazione della repubblica, lodando Francia, lodando Marmont, lodando Buonaparte vincitore. L'esempio della Cispadana partoriva mutazioni notabili in Lombardia; perchè i Milanesi, non volendo parer da meno che i popoli dell'Emilia, facevano un moto, correndo sulla piazza ed intorno allo albero della libertà affollandosi, gridavano sovranità e independenza, e volevano costituirsi in repubblica Traspadana. Ma Baruguay d'Hilliers, generale che comandava alla piazza di Milano e che conosceva la mente di Buonaparte, ne faceva carcerare gli autori principali, che erano i patriotti più ardenti. Intanto ogni dì più cresceva lo squallore dei soldati vincitori d'Italia, tanta era la voragine, non diremo della guerra, ma dei depredatori. Per rimediarvi andava Buonaparte immaginando nuovi modi per trar denaro dai popoli già sì grandemente smunti ed impoveriti; scosse l'Emilia, scosse la Lombardia; traeva le intime sostanze dalle viscere delle nazioni: pure il peculato era più forte di queste estreme fonti di denaro. In fatti i rubatori, gente fraudolenta ed avara, erano una peste invincibile. Buonaparte che, per la mancanza delle cose necessarie, vedeva in pericolo le sue operazioni, ne arrabbiava: li chiamava ladri, traditori, spie; ora ne faceva pigliare uno, ora cacciare un altro; ma nulla giovava. L'Italia pativa, i soldati pativano, gli amministratori infedeli trionfavano. «Potè, sclamava dispettosamente Buonaparte, il marasciallo di Berwick far impiccare l'amministratore supremo del suo esercito, perchè vi erano mancati i viveri, ed io non potrò in mezzo all'Italia, paese di tanta abbondanza, quando i miei soldati sono perniciosi e stremi di ogni cosa, spaventar con le opere, perchè le parole non giovano, questo nugolo di ladri?» Così dentro sè stesso si rodeva; ma eran novelle, perchè l'oro d'Italia si dispensava anche a Parigi; perciò i rubatori erano indenni. Riempiva Buonaparte di querele Italia e Francia; intanto andava a ruba l'Italia. Cuocevano infinitamente a lui gli infiniti e in infinite guise diversificati ladronecci, e faceva formare ai rei gravissimi processi dalle diete militari, instando perchè fossero dannati a morte, a motivo, come diceva, che non erano ladri ordinari, ma tali che con le malvagie opere loro interrompevano il corso alle vittorie, od erano almeno cagione che con più sangue si acquistassero. Ma si lamentava che vi fossero in queste diete dei segreti maneggi onde i rei se ne andavano od assoluti o condannati a pene nè proporzionate al delitto nè capaci di spaventare i compagni. Or è da far passaggio dall'avarizia degl'involatori al furore degli armati: incominciarono le armi a suonare più orribilmente che prima sulle italiane terre. Non aveva il direttorio pretermesso alcun ufficio per inclinare l'imperadore alla pace: Buonaparte scriveva all'imperadore Francesco, che s'ei non si risolvesse alla pace, colmerebbe, per ordine del direttorio, il porto di Trieste e guasterebbe tutte le sue possessioni dell'Adriatico. Ma i prosperi successi dell'arciduca Carlo in Germania avevano ridesto nell'Austria la fiducia di sostenere le cose d'Italia, ed anzi di riconquistare gli Stati perduti; però non volle consentire agli accordi. Il fondamento di questo nuovo moto era Mantova. Non era ignoto a Vienna che il presidio era ridotto all'estremo, e che solo si sosteneva per la costanza veramente maravigliosa dell'antico Wurmser. Nè solo il maresciallo vinceva con l'animo invitto l'urto delle armi nemiche, ma ancora la minaccia barbara e vile fattagli dal direttorio, che se non desse la piazza in mano della repubblica, sarebbe, quando si arrendesse, condotto a Parigi e giudicato qual fuoruscito franzese. Vide l'Austria che non era tempo da aspettar tempo, e che il pericolo di Mantova ricercava prestissima espedizione; perciò adunava con celerità ammirabile un nuovo esercito di più di cinquanta mila combattenti, pronto a calare per mettere di nuovo in forse la fortuna franzese che già tanto pareva stabile e sicura. Di tanta mole si mandavano venticinque mila soldati freschi nel Tirolo e nel Friuli, e, tanto era l'ardore loro, che davano speranza di vittoria. Infatti nelle battaglie che poco dopo seguirono, combatterono non solo con valore, ma ancora con furore, siccome quelli che erano cupidi, non solo di ricuperare i paesi perduti, ma ancora di scancellare l'offesa fatta alle armi imperiali dalle precedenti sconfitte. L'emolazione altresì verso i soldati di Germania operava efficacemente nelle menti loro e le vittorie dell'arciduca gli stimolavano. Fu posto al governo di queste fiorite genti il generale d'artiglieria Alvinzi, già pratico delle guerre d'Italia e nel colmo della riputazione; e siccome quegli che era di natura pronta e speditiva, si sperava che fosse per allontanare da sè ogni lentezza. Alvinzi ordinava che una parte guidata da Davidowich scendesse dal Tirolo con venti mila soldati, e conculcati i Franzesi che colà stanziavano alla difesa dei passi, se ne venisse a sboccare per Castelnuovo fra l'Adige e il Mincio. Egli poi con trenta mila combattenti venuti dalla Carniola e dal Cadorino, si proponeva di varcare il Tagliamento, la Piave e la Brenta, combattendo i repubblicani ovunque li trovasse, e quindi varcato, il fiume più grosso dell'Adige, dove l'occasione migliore si appresentasse, di congiungersi con Davidovich e di marciare unitamente alla liberazione di Mantova. Già varcati con fatica incredibile i monti della Carniola e traversati torrenti grossi ed impetuosi, erano, quando il mese di ottobre si avvicinava al suo fine, giunti gl'imperiali sulle sponde della Piave, e si accingevano a dar principio alla terza guerra. Non erano a tanta mole pari pel numero i Franzesi, perchè certamente non passavano i quaranta mila noverati gli assediatori di Mantova. A questi nondimeno debbonsi aggiungere gl'Italiani ed i Polacchi ordinati a Milano e nella Cispadana, che, sebbene Buonaparte non se ne servisse nelle battaglie giuste, erano a lui di grandissima utilità ed accrescevano la sua forza, perchè tenevano i presidii nelle piazze, contenevano il papa, e facevano il paese sicuro infino alla Romagna ed al Veneziano. Trovavansi allora i Franzesi raccolti nelle stanze, perchè Kilmaine con otto mila soldati stava attorno a Mantova, Augereau con altrettanti custodiva le sponde dell'Adige; Massena, sempre il primo ad essere esposto alle percosse del nemico, alloggiava sulla Brenta, Vaubois assicurava il Tirolo con dieci mila soldati. In fine, una schiera di riserbo, in cui si noveravano circa tre mila soldati tra fanti e cavalli, era distribuita negli alloggiamenti di Brescia sotto la condotta dei generali Macquart e Beaumont. Aveva Buonaparte comandato a Vaubois, impedisse ad ogni modo il passo a Davidowich, e volle che, ancorchè inferiore di forze, non aspettasse il nemico, ma lo andasse ad assaltare nei proprii alloggiamenti: soprattutto il cacciasse dei luoghi tra il Lavisio e la Brenta. Egli intanto si apprestava ad arrestare con Massena ed Augereau l'impeto di Alvinzi che, già arrivato sulle rive della Brenta ed avendola passata, faceva le viste di volersi incamminare verso Verona. Guyeux, obbedendo agli ordini di Vaubois, assaltava San Michele, terra posta al Livisio, con intento, se la battaglia riuscisse prospera, di correre contro Newmark. Fu grande la resistenza che incontrava: tre volte andarono alla carica con grandissima animosità i Franzesi, e tre volte erano con grave uccisione risospinti. Era la fazione di grande importanza, perchè dall'esito dipendeva la conservazione o la conquista del Tirolo, e soprattutto la congiunzione o non congiunzione delle due schiere alemanne, capo principalissimo dei disegni fermati a Vienna per la ricuperazione d'Italia. In fine, fattosi dai Franzesi un ultimo sforzo, entravano in S. Michele e se ne impadronivano. Bene auguravano i Franzesi dei fatti loro in Tirolo, ma non fu loro ugualmente favorevole la fortuna a destra verso Segonzano; il che interruppe tutti i pensieri loro, e da vincitori diventarono vinti. Aveva bene Fiorella espugnato il castello di Segonzano; ma, non avendo sloggiato prima l'inimico da Bedole, questi, scendendo improvvisamente, lo assaliva sul fianco destro ed alla coda, talmente che fu commessa non poca strage dei suoi, e fu costretto a ritirarli più che di passo verso Trento. S'aggiunse che Davidowich medesimo, udite le novelle dell'assalto dato ai Franzesi, si era calato col grosso de' suoi a soccorrere la vanguardia; di modo che non fu lasciato altro scampo ai repubblicani, se non volevano essere tagliati tutti fuori ed a pezzi, che quello di ritirarsi più sotto, lasciando, dopo breve contrasto sotto le mura, la città stessa di Trento in balia degli antichi signori. Successe questo fatto a' 2 di novembre; due giorni dopo entrava Davidowich in Trento. Vaubois, dopo di aver combattuto infelicemente a Segonzano, andava a porsi alla bocca delle strette di Calliano, alloggiamento intorno al quale si era persuaso, per la sua fortezza, doversi fermare l'impeto de' vincitori. Tenevano in guardia questo forte luogo quattro mila soldati eletti, che aspettavano confidentemente l'incontro del nemico. Marciava Davidowich, sospinto dalla prosperità della fortuna, grosso e minaccioso, dopo l'occupazione di Trento, all'ingiù dello Adige. Avrebbe potuto, invece di assaltar di fronte quel luogo tanto munito di Calliano, girato prima alla larga per le eminenze, scendere poscia e riuscire per la valle di Leno alle spalle del nemico. Ma qual si fosse la cagione, amò meglio venirne alle mani in una battaglia giusta. Combattessi il giorno 6 di novembre con incredibile audacia e vario evento da ambe le parti, sforzandosi gl'imperiali di superare il passo: restarono i repubblicani superiori, fu l'assalto degli Alemanni infruttuoso. Ricominciavasi il giorno 7 una ferocissima battaglia, in cui, come fu il valore uguale da ambe le parti, così fu varia la fortuna. Venne verso le 5 ore della sera il castello di Bezeno in poter de' Croati; il presidio, parte preso, parte tagliato a pezzi. Poco stante cedeva anche il castello della Pietra; ma di nuovo i Franzesi se ne impadronivano e di nuovo ancora lo perdevano. Con lo stesso furore si combatteva ne' luoghi più bassi verso Calliano, e fu quel forte passo, preso ripreso, perduto riconquistato più volte, ora da questi, ora da quelli. Era tuttavia dubbia la vittoria, quando improvvisamente udissi fra i Franzesi un gridare, salva, salva, per cui ad un tratto si scompigliava tutto il campo e si metteva in rotta. Non si perdeva per questo d'animo Vaubois, e raccolti meglio che potè i suoi, e calatosi vieppiù per le rive dell'Adige, andava ad alloggiare ne' siti forti della Corona e di Rivoli. Roveredo intanto e tutte le terre circostanti tornarono sotto la devozione dell'antico signore. Questa fu la seconda battaglia di Calliano, non inferiore alla prima, nè a nissuna, pel valore e per l'ostinazione mostrata da ambe le parti. Questa vittoria avrebbe potuto partorire la ruina de' repubblicani, se Davidowich tanto fosse stato pronto a seguitare il corso della fortuna prospera, quanto erano stati valorosi i suoi soldati al combattere. Ma per una tardità o negligenza certamente inescusabile, se ne stava più di dieci giorni alle stanze di Roveredo, con lasciare quasi quiete l'armi, e non si moveva per alle fazioni del Mincio se non quando la fortuna, per la perizia e velocità di Buonaparte, aveva già fatto una grandissima variazione tra la Brenta e l'Adige. Erasi il generalissimo Alvinzi fatto signore del passo della Brenta con occupare Bassano, Cittadella e Fontaniva, ed avendo avuto avviso delle prime vittorie di Davidowich nel Tirolo, aveva ordinato che i suoi varcassero il fiume. Buonaparte, confidando di compensare con la celerità quello che gli mancava per la forza, aveva fatto venire a sè, oltre le schiere tanto valorose di Massena e di Augereau, le guarnigioni di Ferrara, Verona, Montebello e Legnago. Era suo pensiero di assaltare Alvinzi, di romperlo, e, camminando quindi con somma celerità per la valle verso le fonti della Brenta, di riuscire alle spalle di Davidowich, e di sgombrare per tal modo e al tempo stesso l'Italia ed il Tirolo dalla presenza degli Austriaci; pensiero certamente molto audace e da non venir in capo che a lui, che tutto era, per la gioventù e pel vigor d'animo, coraggio e prestezza. Urtava Augereau Quosnadowich, Massena Provera: ne nasceva il dì 6 novembre una sanguinosa zuffa. Dure furono le prime italiche battaglie, ma questa è stata molto più: il valore degno della fama austriaca e franzese. Quosnadowich, benchè, dopo perduto e ripreso più volte il villaggio delle Nove, finalmente il perdesse del tutto, seppe tanto acconciamente postarsi che si mantenne unito e rendè vano ogni sforzo del suo animoso avversario. Ma dall'altro lato non si combattè tanto felicemente per Provera contro Massena; perchè, sebbene l'Austriaco non fosse rotto, sentissi nonostante tanto gravemente pressato, che stimò miglior partito il ritirarsi sulla sinistra del fiume, rompendo anche il ponte di Fontaniva, acciocchè il nemico nol potesse seguitare. Fessi notte intanto; l'oscurità e la stanchezza pose fine al combattere che fu mortalissimo; perchè tra morti, feriti e prigionieri desiderò ciascuna delle parti circa quattro mila soldati. Il non aver potuto rompere gl'imperiali in questo fatto, diè a pensare a Buonaparte, il quale in fine, fatte sue considerazioni, si deliberava a levar il campo dalle rive della Brenta per andarlo a porre su quelle dell'Adige nel sito centrale di Verona. Per la qual cosa il dì 7 novembre molto per tempo mosse l'esercito verso Vicenza, e non fece fine al ritirarsi se non quando arrivò sotto le mura di Verona. Il seguitavano il giorno medesimo i Tedeschi; ed Alvinzi, cui erano pervenute le desideratissime novelle della vittoria di Calliano, ordinate varie mosse per dare diversi riguardi al nemico, ed apprestata eziandio quantità grande di scale, come se fosse per dare la scalata a Verona, già aveva mosso la vanguardia, e fatta posare nell'alloggiamento di Caldiero più vicino alla città. Minacciato Buonaparte a stanca ed alle spalle da un generale vittorioso, a fronte da un generale, se non vittorioso, almeno più forte di lui, aveva tutti i partiti difficili. Ma non istette lungo tempo in pendente, perchè sapeva che i consigli timidi fanno i Franzesi meno che femmine, i generosi più che uomini. Si risolveva dunque a voler pruovare la fortuna a Caldiero. Il giorno 12 novembre, non così tosto aggiornava andavano i repubblicani all'assalto. Già Augereau aveva conquistato Caldiero; già Massena si distendeva a sinistra ed aveva circuito la punta dritta degli Alemanni, quando il tempo, che già era freddo e piovoso, si cambiava improvvisamente in minutissima grandine, che spinta da un vento di levante assai gagliardo, percuoteva nel viso i Franzesi e gl'impediva di vedere e di combattere con quell'ordine e con quel valore che si richiedevano. Le cose erano in grave pericolo; già pareva disperata la fortuna franzese; ma Buonaparte spinse innanzi a combattere la sessagesimaquinta, che fin allora aveva tenuto in serbo; rinfrescava ella la battaglia e la teneva sospesa fino alla sera, instando però sempre gl'imperiali grossi ed ordinati. Finalmente, pruovato grave danno, levandosi i repubblicani con tutto l'esercito da Caldiero, si ritraevano di nuovo a Verona. Era a questo tempo caduta in grande declinazione e fatta molto pericolosa la condizione de' repubblicani. Poteva Davidowich prostrare improvvisamente i campi della Corona e di Rivoli e romoreggiare alle spalle di Buonaparte, mentre Alvinzi, grosso e vittorioso, lo assalirebbe di fronte, ed il manco che potesse avvenire era la liberazione di Mantova, scopo principale di tanti pensieri. L'animo stesso di Buonaparte, avvegnachè tanto vigoroso e forte fosse, da tristi pensieri annuvolato ed in gran malinconia venuto, incominciava a diffidar della vittoria. Ma se si era perduto in certo modo d'animo, non aveva perduto la mente e tosto trovava modo di riscuotersi; al che gli aprirono occasione le lentezze avversarie. Ebbe egli in questo ultimo punto un pensiero, si vede come da un solo concetto spesso pendano i destini degl'imperi, dal quale nacque inopinatamente la sua salute e quella de' suoi. Aveva Alvinzi, dopo la giornata del 12, in mano sua tutto il destino della guerra; ma, invece di correre contro il nemico declinante e di non dargli respitto, soprastava inoperoso due giorni nelle stanze di Caldiero a deliberare intorno a quello che fosse a farsi. Ora Buonaparte, usando assai maestrevolmente l'occasione, ordinava una mossa, che convertendo del tutto le sorti, fece che siccome Alvinzi era padrone della guerra, dopo fosse Buonaparte; ed il generale tedesco, che poteva dare l'indirizzo alle fazioni militari, come conveniente gli fosse paruto, fu costretto ad obbedire a quello che fosse per dare il generale franzese. La notte adunque del 13, ordinava Buonaparte, e questo fu il pensiero salutifero, a Massena e ad Augereau, varcassero con tutte le genti loro l'Adige a Verona, corressero frettolosamente la destra del fiume fino a Ronco, quivi il rivarcassero sopra un ponte estemporaneo di piatte, e, passando per Arcole e per San Bonifacio, sovraggiungessero improvvisamente addosso a Villanova, alloggiamento principale degl'imperiali. Riuscirono improvvisi e senza che gl'imperiali sentore ne avessero, a Ronco i repubblicani, e tosto fatto un ponte, varcarono. S'incamminava Massena a Porcile, Augereau s'addirizzava verso Arcole; l'uno e l'altro dovevano ricongiungersi per marciare unitamente contro Villanova. La natura del paese pose impedimento all'esecuzione dell'intiero intento di Buonaparte, ma però non tanto che ei non conseguisse una somma e gloriosa vittoria, e con essa il principal fine del suo proponimento; per giovare al quale erasi deliberato, subito dopo il ributtamento di Caldiero, di far venire al campo principale tre mila soldati di quelli che stavano sopra l'assedio di Mantova. In fatti era il giorno medesimo in cui Massena ed Augereau avevano varcato l'Adige a Ronco, che fu il 15 del mese, arrivato a Verona Kilmaine, con la sua schiera dei tre mila. Utile pensiero nè ultimo fu questo a conseguire la vittoria. Intanto Augereau già era alle prese col nemico al ponte d'Arcole. Avevano gli Austriaci reso l'accostarsi difficile e micidiale. I primi repubblicani che si affacciarono, furono da un'immensa grandine di palle e di scaglia sfragellati. Disordinati e titubanti si allontanavano i Franzesi da un luogo di sì grave tempesta. Ma i capi, che sapevano di qual momento fosse e che l'impeto in tal caso era più sicuro dell'indugio, gli ricondussero allo sbaraglio; e per fargli andare avanti si fecero essi medesimi guidatori delle colonne. Ma nè il nobile coraggio loro potè operare in modo che si superasse quel mortalissimo intoppo: i granatieri stessi, scelta ed invitta gente, cedettero. Ricordavasi in questo punto Augereau del ponte di Lodi, e dato, di mano ad un'insegna, si piantava in mezzo al ponte, invitando i compagni a seguitarlo. Il seguitavano laceri e sanguinosi come erano. Ma i Tedeschi gli sfolgoravano novellamente per tal maniera, che tra morti e feriti l'abbattuta fu in poco d'istante sì grande che i superstiti spaventati, ed Augerau medesimo a tutta fretta si ritiravano. Seguitava un silenzio nelle genti, segno di scoraggiamento; già i capi temevano che succedessero grida assai peggiori del silenzio. Pressava il tempo; la fortuna di Francia inclinava ad una fatale rovina. Nè poteva dubitarsi che Alvinzi, subito che avesse avuto avviso del fatto, non fosse per venire con tutta la sua mole in aiuto de' suoi; e come potevano sperar i repubblicani di superar tutti quando una sola e piccola parte si mostrava insuperabile? Queste cose riandava in mente Buonaparte, nè curando la vita, nè curando la sicurezza dell'esercito in sì estremo frangente, venuto là dove i più animosi lo potevano udire, disse loro ad alta voce: _Or non siete voi più i soldati di Lodi? or dov'è il vostro coraggio?_ Questo parlare di Buonaparte a Franzesi non potava non partorire un grandissimo effetto; si rianimavano anche i più timorosi: tutti gridavano, comandasse pure, li guidasse alla battaglia. Cominciava a sperar bene, si avventava egli il primo, attorniato dai principali verso il formidabil ponte. Ma primachè si muovesse al cimento fatale, comandava a Guyeux, che se ne gisse a varcar l'Adige al passo di Albaredo, ed evitato per tal modo l'Alpone, desse dentro alla impensata al fianco sinistro d'Arcole. Egli intanto, smontato da cavallo, e dato di mano ad un'insegna, e postosi in capo alla stretta fila, che sull'argine insistendo, si avviava al ponte, animava i suoi a seguitarlo. Nè furono lenti, anzi coi corpi loro serrandosi attorno a lui, i granatieri massimamente, coraggiosi per indole, furibondi per la resistenza, già facevano tremare coi tiri e col calpestio numeroso la destra sponda del contrastato ponte. Procedeva avanti quel globo formidabile; già metteva piede sul ponte, quando gli sopraggiunse adosso da fronte e dai fianchi un nugolo sì fitto di tedesche palle, tanto grosse quanto minute, che rotto e trafitto nelle più vitali parti, fu costretto a dare frettolosamente indietro. Sboccavano allora gli Austriaci dal ponte, e seguitando la vittoria, menavano con l'armi corte e bianche, strage di coloro che scampati alla furia delle artiglierie e degli archibusi si ritiravano. In quella feroce mischia era Buonaparte, per esortazione de' suoi rimontato a cavallo, e già cedeva all'impeto del nemico, quando un furioso caricare di scaglia rotti avendo, lacerati ed uccisi tutti coloro che gli stavano intorno, trovossi solo esposto al furore di tutte le armi nemiche. Ma il generale Belliard, accortosi del fatto, coi granatieri amatori del loro capitano supremo, voltato subitamente il viso e dato uo forte rincalzo ai Tedeschi, gli ributtavano di nuovo fino al ponte e impedivano un caso ponderosissimo; ricondotto Buonaparte dai soldati pieni di allegrezza ad un sicuro alloggiamento. Non così tosto aveva Alvinzi avuto le novelle di un fatto tanto straordinario che costretto ad obbedire a quel nuovo corso di guerra, che con tanta audacia e perizia aveva il suo avversario aperto, dirizzava sei battaglioni di fanti sotto la condotta di Provera a Porcile, e quattordici battaglioni di fanti con sedici squadroni di cavalleria fidati a Mitruski a San Bonifacio per alla via di Arcole. Viaggiavano queste nuove schiere con molta prestezza, mentre si combatteva al ponte, e qualunque avesse a riuscire l'effetto della presenza loro sul campo di battaglia, già si comprendeva, che Buonaparte avea conseguito il suo intento di rompere ad Alvinzi il disegno di conquistare Verona e di unirsi con Davidowich. Mentre in tal modo si combatteva ad Arcole ed a Porcile, dove Provera avea incontrato Massena che lo risospinse fin oltre Porcile stesso, erasi Guyeux, passato l'Adige ad Albaredo e comparso improvvisamente sotto le mura d'Arcole nel punto stesso in cui i difensori n'erano usciti per dar addosso alla risospinta schiera di Augereau, reso padrone facilmente della terra. Ma gli Austriaci, che ne conoscevano l'importanza, si muovevano col grosso delle loro forze da San Bonifacio e prestamente la ricuperavano. Già annottava: Buonaparte, perduta ogni speranza di acquistare Arcole in quel giorno, e temendo, giacchè era vicino lo esercito tedesco, di essere condotto a mal partito in mezzo all'oscurità della notte, riduceva tutte le sue genti sulla destra dell'Adige, lasciando solamente la duodecima alla guardia del ponte e la sessagesima quinta alloggiata in un bosco a destra dell'argine per cui si va ad Arcole. Sorgeva appena il giorno 16 novembre, quando e Franzesi e Tedeschi givano di nuovo con animi infestissimi ad incontrarsi. Fu come quello del giorno precedente durissimo l'incontro dell'armi, combattendosi assai virilmente da ambe le parti. Fu il primo Massena a far piegare la fortuna in favore dei repubblicani risospingendo Provera sin dentro Porcile; il generale Robert assaltava i Tedeschi sull'argine di mezzo, e molti ne buttava nel pantano. Nè se ne stava Augereau ozioso; che anzi, opponendo valore a valore, già aveva risospinto gli Alemanni fin dentro ad Arcole e dava nuovo assalto al ponte. Ma quivi accadeva quello che era accaduto prima; che con tal furia menarono le mani gl'imperiali, condotti da Alvinzi medesimo, che i Franzesi se ne tornarono indietro dopo di aver patito un orribile macello. Parecchie volte andava alla carica Augereau, altrettante era costretto a cedere con istrazio maggiore. Finalmente la sorte declinante della battaglia faceva accorto Buonaparte di quel che avesse a fare: si metteva alla opera del far gettare in copia fascine nell'alveo dell'Alpone verso la sua foce, con isperanza che avrebbero fatto un sodo sufficiente, perchè i suoi soldati potessero passare a man salva. Ma riusciva vano l'intento, perchè la corrente dell'acqua diveniva per quell'ostacolo tanto impetuosa, che il passare si trovò più difficile di prima. In questo mentre Alvinzi, volendo usar la occasione della diminuzione d'animo prodotta necessariamente nel nemico da tanti e sì mortali ribadimenti, usciva grosso da San Bonifacio, con intento di pruovare se gli venisse fatto di cacciar i Franzesi nell'Adige, od almeno costringerli a ripassare il ponte di Ronco. Ma fu pronto al riparo Buonaparte, e con alcune artiglierie piantate da lui in un luogo opportuno, faceva stare addietro i Tedeschi. Sopraggiungeva in fine la seconda notte, che faceva sosta al sangue ed alle morti. Si avvicinava il giorno in cui doveva definirsi a chi dei due possenti nemici avesse a rimanere la possessione d'Italia. Non isbigottitosi Buonaparte a tante infelici pruove, usando l'oscurità della notte e la cessazione dell'armi, aveva fatto dar opera all'edificar del ponte con cavalletti ed assi sopra l'Alpone in poca distanza dal luogo dove mette nell'Adige. Si erano accorti i Tedeschi del disegno, e però, la mattina del 17, erano usciti di Arcole con intenzione di rituffare la duodecima nell'Adige. Ma le artiglierie franzesi trassero sì aggiustatamente che fu fatto abilità ai soldati di Buonaparte di racconciar il ponte, di conservare la duodecima e di varcare. Andavasi adunque alla battaglia terminativa. Incominciava a colorirsi il disegno di Buonaparte: le cose succedevano come egli le aveva ordinate; perchè Provera non potè far frutto da Porcile, Augereau varcava l'Alpone, e la sessagesima quinta, condotta da Robert, rincacciava, marciando sull'argine, i Tedeschi sino al ponte d'Arcole. Ma gl'imperiali si scagliavano poi con tanto impeto contro di lei, che non solo fu risospinta fin là donde si era mossa, ma, disordinatamente fuggendo, già aveva dato indietro fino al ponte di Ronco. Seguitavano i Tedeschi questa parte di Franzesi che fuggiva, credendo di possedere la vittoria, mentre ella effettivamente già loro usciva di mano; imperciocchè Massena, che sapeva bene corre i tempi ed usarli con vigore, compariva improvvisamente sulla destra loro, la diciottesima li percuoteva di fronte, Gardanne, uscito dall'agguato in cui se ne stava, gli urtava sul fianco sinistro. Tanti contemporanei assalti disordinava la schiera tedesca, di cui parte si ritirava più che di passo verso Arcole, parte fu spinta nella palude vicina, dove divenne miserabile bersaglio e dell'artiglieria e dell'archibuseria di Francia. Alvinzi manteneva tuttavia la battaglia contro Augereau che, varcato il ponte, si era condotto sulla sinistra dell'Alpone; ned era facile a Buonaparte di sforzarlo, quando gli sovvenne uno stratagemma, e fu di mandare una compagnia di soldati a cavallo, acciocchè girando velocemente dietro il fianco degli austriaci, andasse a romoreggiar loro alle spalle con le trombe e con quel maggiore strepito che potesse. Un luogotenente Ercole, cui fu dato questo carico, lo condusse con quella celerità ed avvedutezza che meglio si potevano desiderare. Certo è intanto che, o che il romore improvviso di quest'Ercole o gli altri casi del conflitto sel facessero, gli Austriaci incominciavano a declinare manifestamente, ed infine a cedere il campo, se non con fuga, almeno con ritirata molto presta. Occupavano con infinita allegrezza i Franzesi il tanto combattuto Arcole e vi pernottavano. Ritirava Alvinzi le sue genti ad Altavilla, poscia a Montebello sul Vicentino. La battaglia d'Arcole pose per allora in sicuro la fortuna franzese in Italia. Aveva bene Davidowich, calatosi da Ala il dì medesimo in cui Buonaparte vinceva ad Arcole, rotto e fugato Vaubois da Corona, poscia da Rivoli; scacciatolo dai monti di Campara con presa di undici cannoni e di due mila prigionieri, fra i quali si noveravano Fiorella e Lavallette; finalmente minacciato di riuscire alle spalle di Verona e di correre al riscatto di Mantova. Ma quello che sarebbe stato fatale ai Franzesi se fosse stato effettuato sei giorni avanti, non poteva partorire se non la ruina di Davidowich, effettuato essendo a questo tempo. E infatti, non così tosto ebbe Buonaparte vinto ad Arcole, che si rivoltava con le sue schiere vincitrici contro Davidowich, e, trovatolo a Campara, lo debellava. Si conduceva l'Austriaco prima a Dolcè, poi ad Ala, seguitato velocemente dai Franzesi che lo danneggiarono nella retroguardia. Essendo diventati novellamente i Franzesi padroni di tutto il Veronese, e la stagione correndo molto sinistra, condussero i due avversarii i soldati loro alle stanze. Fermossi Davidowich in Ala, Alvinzi in Bassano con la vanguardia a Vicenza ed a Padova, ed il grosso sulle rive della Brenta. Stanziò Buonaparte nel Veronese, rimandata però la schiera di Kilmaine al campo di Mantova per istringere viemaggiormente l'assedio, della piazza che, siccome priva dell'aiuto d'Alvinzi, credeva aver tosto a venir in sua possanza. Le armi infelicemente usate dall'Alvinzi non avevano tanto sbigottito l'imperatore, che non confidasse di poter soccorrere con frutto le cose d'Italia. Perocchè le sue genti erano tuttavia quasi intere, e la devozione dei popoli grande, e la somma della guerra consisteva in una vittoria, alla quale la volubile fortuna avrebbe, quando meno si pensava, potuto aprire il varco. Il pontefice che volea piuttosto incontrare una guerra pericolosa che accettare condizioni inonorate e contrarie alla purità delle fede; Napoli che se fortuna voltasse il viso più benigno a coloro ai quali fino allora era stata avversa, non si dubitava che non fosse per mutar fede, confortavano l'Austria a fare un nuovo sforzo anche prima che la stagione si fosse intiepidita. Solo dava timore la piazza di Mantova, che si sapeva essere ridotta agli estremi. Ma Wurmser non indugiava a torre in questo proposito ogni dubbio: assaltava i giorni 19 e 25 novembre con quasi tutto il presidio i repubblicani a Sant'Antonio ed alla Favorita, ed, avendoli fatti piegare, predava ed introduceva dentro la piazza non poca quantità di viveri; ed avendo poi avuto avviso che erano arrivate nel porto alcune barche cariche di munizioni da bocca ad uso dei Franzesi, usciva nuovamente molto grosso l'11 e 14 dicembre, e le predava: prezioso sussidio alla sue affamate genti. L'imperatore, cui era gravemente spiaciuta la tardità di Davidovich, lo richiamava e gli dava lo scambio nel principe di Reuss. Malgrado l'infelice successo della guerra testè terminata con la sconfitta d'Arcole, serbava fede ad Alvinzi, il quale si deliberava a nuovi disegni, e che, per arrivare a' suoi, fini aveva cinquanta mila combattenti, se non tutti sperimentati, almeno tutti ardenti. Maravigliosa cosa è il pensare come l'Austria, dopo tante rotte, abbia potuto raccorre in sì breve tempo un esercito sì grosso. Ma dal Reno erano venuti più di tre mila soldati, quattro mila dall'Ungheria: gli altri Stati ereditarii fornivano a proporzione. Risplendè principalmente la fedeltà e l'ardore dei Viennesi, perchè quattro mila giovani delle prime famiglie, lasciati, in sì grave pericolo della patria, gli agi e le morbidezze, e prese le armi, accorrevano bramosamente fra le nevi del Tirolo, e fra i veterani dell'esercito al voler riconquistare al loro signore la perduta Italia; e benchè i maligni si facessero beffe di questa gente, giovinastri chiamandoli e ciamberlani, si vide alla pruova ch'erano valenti soldati. Anno di CRISTO MDCCXCVII. Indiz. XV. PIO VI papa 23. FRANCESCO II imperatore 6. Erasi il generale repubblicano ingrossato per nuove genti venute di Francia: nonostante non arrivava il suo esercito al novero di quello d'Alvinzi, perchè, passando quarantacinque mila non arrivava ai cinquanta. L'aveva egli spartito in cinque, schiere principali, una delle quali, governata da Serrurier, teneva il campo sotto Mantova; l'altra con Augereau stanziava a Verona, distendendosi verso le regioni inferiori dell'Adige; la terza, retta da Massena, alloggiava pure in Verona, ma spingeva le sue genti innanzi per sopravvedere quello che fosse per annunziare la guerra dalle sponde della Brenta; la quarta, che obbediva a Joubert, surrogato a Vaubois, guardava le fauci del Tirolo, avendo il campo alla Corona, a Rivoli e nei luoghi intermezzi; la quinta finalmente, quale corpo di ricuperazione, e per assicurare la destra del lago, aveva le sue stanze a Brescia, Peschiera, Desenzano, Salò e Lonato. Da tutto questo si può conoscere che Buonaparte si era persuaso che lo sforzo dei Tedeschi avesse a indirizzarsi contro Verona; ma però, siccome astuto e prudente capitano, aveva ordinato i suoi per forma, che, se la tempesta si scagliasse dal Tirolo, fossero in grado di resisterle, perchè e Joubert era grosso di dieci mila soldati, ed Augereau e Massena potevano arrivare prestamente in soccorso di lui a Verona. Il primo a dar le mosse alla sanguinosa guerra che siam per vedere fu Provera, che, partito da Padova il dì 7 gennaio, si dirizzava verso Bevilacqua, terra posta sul rivo che chiamano la Fratta. Era in Bevilacqua il generale Duphot con una squadra che servia come antiguardo al presidio di Porto Legnago. Il dì 8 sul far del giorno il principe Hohenzollern marciava contro Bevilacqua difesa da un picciolo castello; trovato per istrada un grosso corpo repubblicano, che gli voleva far contrasto, dopo un aspro combattimento lo fugava. Al tempo medesimo il colonnello Placseck sulla sinistra s'impadroniva del posto di Caselle, e sulla destra un capitano Giulay occupava i passi di Merlara e di San Salvaro. Frattanto i Franzesi si erano rinforzati a Bevilacqua; ma assaliti in diverse parti dagli Alemanni, fu loro forza di pensare al ritirarsi, e si ridussero a Bonavigo, ed a Porto Legnago, non senza grave danno. Conseguiti questi primi vantaggi, confidava Provera di poter presto passar l'Adige tra Ronco e Porto Legnago. Era, quando seguirono queste prime battaglie, Buonaparte a Bologna, intento ad ordinar la guerra contro il papa, e non così tosto ne ebbe avviso, che, giudicando bene del tempo, comandava a due mila soldati, che già aveva indirizzato contro gli Stati della Chiesa, retrocedessero e gissero a congiungersi con Augereau, che difendeva le rive dell'Adige assaltate da Provera. Buonaparte, poichè tanto stringeva il tempo, e le cose se gli dimostravano pericolose, condottosi celeremente, e soprastato alquanto al campo di Mantova per ordinar quello che fosse a farsi in tanto pericolo, s'avviava a Verona la mattina del 12, dove trovava Massena alle mani coi Tedeschi venuti a Bassano. Trovavasi l'antiguardo di Massena a San Michele, poco distante da Verona, quando, assalito dai Tedeschi, fu costretto a ritirarsi. Ma Massena, uscito fuori con tutti i suoi, attaccava la battaglia che fu molto aspra e sanguinosa; rimasto il campo ai Franzesi. Non insistevano maggiormente gl'imperiali, contenti all'aver fatto credere al nemico che lo volessero assalire fortemente e grossi in questa parte. Si ritraevano per iscaltrimento indietro alle montagne; anzi una parte, guidata da Quosnadowich, si conduceva celeremente e con molta prestezza per la valle della Brenta a rinforzare Alvinzi in Tirolo. Nè qui si arrestavano gli Austriaci, perchè sulle due ali estreme Provera varcava l'Adige il dì 13, non senza molta difficoltà. Alvinzi sforzava le strette della Corona con avere obbligato Joubert a ritirarsi sull'alloggiamento forte e fortificato di Rivoli. Pendeva in tal modo incerto Buonaparte del vero intento dell'avversario; nè sapendo a qual parte volgersi, se ne stava tuttavia a Verona, aspettando che il tempo e più aperte dimostrazioni degli Austriaci gli dessero maggior lume. Nè tardava ad essere appagato del suo desiderio; perchè, in primo luogo, un Veronese, amatore dei Franzesi e congiunto d'antica amicizia con Alvinzi, si era segretamente condotto a Trento per visitarlo, ed ivi soprastato essendo tre giorni, ebbe trovato modo di copiare tutto il disegno di guerra del generale austriaco, il quale disegno, tornatosene a Verona, consegnava ad un Pico, Piemontese, che incontanente lo dava in mano del generalissimo di Francia. Giungevano, in secondo luogo, lettere espresse di Joubert, che portavano quanto grossi fossero comparsi gli Austriaci alla Corona. Buonaparte allora, solito a spingere con incredibile celerità sempre innanzi le occasioni, comandava a Massena corresse con tutta la sua schiera a Rivoli più prestamente che potesse. Lo stesso ordine mandava a Rey, che se ne stava alle stanze di Desenzano e di Lonato. Egli poi, la notte medesima del 15, si incamminava frettolosamente a Rivoli per ivi sostenere la fortuna vacillante. Alvinzi aveva ordinato talmente i suoi, che una parte urtasse contro il forte passo di San Marco occupato dalla vanguardia di Joubert, e che è la chiave di chi scende dal Tirolo verso Verona; l'altra, condotta da Liptay, girasse sui monti per andar a ferir alla schiena il rimanente corpo di Joubert, che alloggiava in Rivoli. Un'altra colonna grossa di quattro mila soldati, e governata dal generale Lusignano, girando più alla larga, doveva riuscire più alle spalle dei Franzesi per la valle del Tasso. Arrivava intanto Quosnadowich e romoreggiava alla sinistra dell'Adige. Aveva infatti Alvinzi con un urto gagliardo acquistato il passo di San Marco. Ma non era ancora spuntato il giorno 14, che Buonaparte già ingrossato dalle genti più leggieri di Massena, aveva dato dentro a San Marco, e dopo un grave conflitto se n'era impossessato. Si accorgeva allora Alvinzi che i suoi pensieri erano stati penetrati, e che, invece di avere a combattere col solo Joubert, gli era forza di sostenere l'impeto della maggior parte dell'esercito repubblicano. Ciò cambiava le sue sorti. Tuttavia, non diminuendo per questa difficoltà della speranza di vincere, ed essendo già presente il nemico, non aveva più comodità di cambiare l'ordine incominciato della battaglia, e dovette far fronte con mosse non acconcie ad un caso inaspettato. Già si combatteva asprissimamente dalle due parti alle cinque della mattina, e siccome gli Austriaci, per ordine del loro generale, puntavano massimamente contro la sinistra dei Franzesi, per secondare le colonne che giravano alle spalle, così quest'ala franzese ed anche la mezzana pativano grandemente, e già, crollandosi, si ritiravano indietro disordinate. Pareva la fortuna inclinare a favore dei Tedeschi; mosso Buonaparte dall'estremo pericolo, comandava a Berthier sostenesse l'inimico in mezzo. Egli poi accorreva alla sinistra, che tuttavia sempre più piegava e pericolava. Sosteneva Berthier un urto ferocissimo. Questo sforzo e la terribile trigesimaseconda, che arrivava, ristoravano in questo luogo la battaglia che inclinava. Ma la sinistra continuava a cedere del campo: era sempre il rischio estremo, quando ecco arrivare a gran tempesta Massena, ed entrare su questa parte nella battaglia. Quivi risvegliatasi in lui la solita caldezza, e combattendo con grandissimo valore, fe' strage orribile del nemico, e ricuperò alcuni dei siti perduti sulle eminenze. Mentre Massena reintegrava la fortuna e guadagnava del campo a sinistra, il mezzo e la destra dei repubblicani acremente incalzati si ritiravano, e già gli Austriaci erano in punto d'impadronirsi dell'eminenza di Rivoli ch'era, a chi l'avesse in poter suo, la vittoria della giornata. In questo momento compariva sulle alture Liptay, e mettendosi alla scesa, già era vicino a ferire l'ala sinistra dei repubblicani. Quest'era il momento determinativo della fortuna. Benchè Alvinzi si trovasse colle schiere divise, perchè le aveva ordinate piuttosto a circondare che a combattere, tuttavia, spingendosi avanti con mirabile coraggio, avevano recato in poter loro il fatal Rivoli; ma Buonaparte, veduto che poteva, per la separazione delle colonne nemiche, riunire i suoi in un grosso corpo senza pericolo, il fece, e ricuperava con breve battaglia Rivoli. Spinsero di nuovo avanti i Tedeschi, e dopo, una mischia spaventevole, se lo pigliavano una seconda volta. Buonaparte, che vedeva stare ad un punto la fama e la fortuna sua, comandato a Berthier che trattenesse con la cavalleria i Tedeschi nel piano che fra le alture a sinistra e Rivoli a destra si apre, acciocchè non potessero aiutare i difensori di Rivoli, adunava in un solo sforzo tutti gli squadroni che potè raccorre in quel momento, ed uniti e grossi li conduceva contro Alvinzi, occupatore per la seconda volta del contrastato passo. Là erano le sorti d'Italia e di tutta la guerra, là di Mantova si definiva. Mai più ostinatamente o più coraggiosamente come in questo fatto si combattè. Ebbero l'uno assalto e l'altro felice fine pei buonapartiani, perchè Berthier frenava il nemico nel piano, e Joubert, cacciato a forza il nemico da Rivoli, se ne impossessava. Intanto già si era per modo accostato Liptay, che incominciava a percuotere l'ala sinistra de' Franzesi non ancor del tutto rimessa in ordine dal precedente scompiglio; e tra per questo e per Lusignano, che già si approssimava, a grande repentaglio eran ridotte le franzesi sorti. Ma le ristorava, secondo il solito, quel Massena, che sforzava Liptay a ritirarsi e ricovrare a Caprino. Prevedendo poi l'arrivo di Lusignano, andava a porre alcune sue genti su certi colli pei quali si poteva riuscire dietro a Rivoli. A questo modo la fortuna, che sul principio e per parecchie ore aveva inclinato a favor degl'imperiali, voltato il viso, guardava propizia i repubblicani, per opera principalmente di Buonaparte. Rimaneva Lusignano, che poteva ancor disordinare la vittoria, se non avesse avuto con la rotta di lui la sua perfezione. Infatti compariva, già erano le nove della mattina, con terribile mostra, dopo di aver varcato i monti, nella terra di Pesena, e già s'incamminava più sotto, verso Affi. Nè il frenava il presidio alloggiato a Rocca di Garda; ma dopo un grosso affronto a Calcina, aveva continuato il suo viaggio, e già pervenuto sul monte Fiffaro a fianco ed alle spalle di Rivoli, rendeva dubbia la vittoria. Mentre così in una battaglia già tante volte vinta e perduta stavano ancora sospese le sorti, arrivava Rey, che, come abbiamo narrato, per ordine di Buonaparte veniva da Desenzano e Lonato in luogo donde già poteva essere di sussidio a' suoi. Velocemente marciando, superati i monti di Cavaglione colla rotta de' Croati, che li guardavano, aveva trovato modo di aprirsi la strada fino a Massena. Si avventavano allora tutti ad un tempo contro Lusignano, Massena da una parte, Mounier dall'altra, Rey alle spalle per forma che, attorniato da tutte le bande, soperchiato dal numero soprabbondante de' nemici, fu costretto a cedere, deponendo l'armi e dandosi con tutti i suoi prigionieri in poter de' repubblicani. Dava questo fatto piena vittoria a Buonaparte, il quale, ritirandosi tutta la restante oste d'Alvinzi rapidamente verso la parte più alta e più aspra del Tirolo, ed avute le novelle dell'accostarsi di Provera a Mantova, con celerità eguale a quella con cui aveva camminato da Verona a Rivoli correva da Rivoli a Mantova, conducendo con sè Massena e la sua schiera, tanto sicuro fondamento alle vittorie. Intanto Joubert, al quale partendo aveva dato il carico di perseguitar l'inimico, mandava sui monti a sinistra Murat coi soldati più veloci, i quali, dato dentro negli Austriaci, li rompevano con grande terrore. Fu generale la sconfitta, e, se si eccettuino dieci battaglioni ed otto squadroni che il giorno innanzi aveva Alvinzi spedito a Bassano per assicurare quel passo, nissun reggimento si ritirava che intero ed ordinato fosse. Entrava poi Joubert in Trento con bella e lieta mostra guerriera. Spente le speranze dell'Austria nei campi di Rivoli, si ravvivavano alcun poco, ma per breve tempo, nelle regioni vicine a Mantova. Erasi Provera accostato all'Adige coll'intento di varcarlo per accorrere prestamente al sussidio di Mantova. Simulava, per ingannare Augereau che stava schierato sull'altra riva, ora accennando a Ronco, ora a Porto Legnago. Ma finalmente, gittatosi improvvisamente ad Anghiari, e fatto star indietro con le artiglierie i Franzesi che dall'opposta riva lo oppugnavano, vi piantava il ponte, e varcava, come abbiam detto, il giorno 13 di gennaio. Non così tosto ebbe Provera effettuato il passo, che, chiamate a sè le bande spartite, marciava velocemente alla volta di Mantova; perciocchè nella celerità era riposta la vittoria. Passava per Cerea, Sanguineto e Nogara: alloggiava in questa ultima terra la notte del 14. Il dì 15, continuando a viaggiare molto per tempo e prestamente, passato Castellara, compariva in cospetto di San Giorgio, sobborgo di Mantova. Il seguitavano più che di passo Guyeux ed Augereau, e sebbene non potessero giungere il corpo principale, davano nondimeno addosso al retroguardo, e tutto lo ridussero, armi, soldati e munizioni, in potestà loro. Tuttavia era ancor Provera grosso di più di cinque mila soldati. Ma Buonaparte, con celerità, unica quasi nelle storie, marciando, arrivava contra di lui la notte del 15, e da ogni parte il circondava. Splendeva il giorno 16: Wurmser e Provera assaltavano la Favorita e Sant'Antonio. Fu tanto impetuoso l'assalto del maresciallo, che Dumas posto alla guardia di Sant'Antonio fu costretto a piegare, lasciando le trincee in mano dei Tedeschi. Mandava Buonaparte un rinforzo di genti fresche a Dumas, con le quali potè raffrenare l'impeto del nemico, ma non tanto che Wurmser non arrivasse sino in cospetto della Favorita; già anzi si accingeva ad assaltar alle terga i repubblicani che guardavano quelle fortificazioni. Ma non era passato con la medesima felicità l'assalto dato alla fronte della Favorita da Provera, perchè, ributtato aspramente da Serrurier, che stava dentro, non potè far frutto. Wurmser, combattuto validamente da Victor venuto con le genti da Rivoli, temendo di esser tagliato fuori da Miollis, che poteva uscire da San Giorgio, ed assalito a mano manca da Massena, si riduceva prontamente in Mantova. I Franzesi, liberati dagli assalti di Wurmser, stringevano viemmaggiormente Provera. Percuotevanlo a fronte Serrurier, a stanca Victor, a destra Miollis, e già tempestando alle spalle Augereau, che arrivava da Castellare, gli faceva segno che l'arrendersi era più sicuro del combattere. Pure perseverava, volendo, se la malvagità della fortuna lo sforzava a depor le armi, averle almeno usate da guerriero franco e valoroso. Finalmente, costretto dalla forza sopravanzante, chiedeva i patti, e gli otteneva. Fecero conspicua la vittoria meglio di cinque mila prigionieri, dei quali non poca parte erano i volontarii di Vienna. Grave ed importante vittoria, perchè Mantova restava senza rimedio; tutta l'Italia in balia dei repubblicani: di una parte erano padroni per la presenza, dell'altra pel terrore. Combatterono gli Austriaci in tutte le fazioni raccontate con molto valore; nè si può negare che i disegni dei capitani loro fossero bene ordinati; ma mancarono di effetto, primieramente perchè penetrati, secondariamente per l'incredibile celerità di Buonaparte e de' suoi soldati. Perdettero gl'imperiali in tutte le descritte battaglie, inclusa quella di Provera, tra morti, feriti e prigionieri circa venti mila soldati, con sessanta bocche da fuoco e ventiquattro bandiere. Tutti i volontarii viennesi furono o morti o presi. Scriveva Buonaparte essere mancati de' suoi, tra morti e feriti, solamente due mila; ma furono assai più, e se si noveravano i prigionieri, che però montavano a poca gente, fu perdita di più di sei mila soldati. In modo tanto misero si terminava il quarto sforzo dell'Austria a difesa e a ricuperazione de' suoi Stati italiani. Ma Buonaparte non era di natura tale che volesse lasciare l'opera imperfetta. Per la qual cosa, risolutosi a non dar posa al nemico, se non quando ei fosse giunto in luoghi del tutto insuperabili, e volendo anche avere un campo più largo a cibare i soldati nelle veneziane pianure, si spingeva oltre, perseguitando le reliquie dei vinti, i quali, incalzati da tutte le parti, più non ebbero altro rimedio che di ritirarsi, come fecero, alle regioni più rotte e quasi del tutto chiuse appresso a Bolzano. I soldati dell'imperatore, abbandonate intieramente le rive della Brenta, e financo le sue sorgenti, si riposarono nelle invernali stanze, avendo la fronte loro distesa dai luoghi più alti della riva destra del Lavisio, passando per le fonti della Piave vicino a Cadore e per la sinistra di questo fiume fino alla sua foce. Quivi stavano aspettando ciò che fossero per portare con sè la stagione migliore e la fortuna fino allora vittoriosa dello arciduca Carlo, che già si vociferava avere ad essere fra breve capo dell'esercito italico. I Franzesi, signori di Bassano e di Treviso, attendevano anch'essi, essendo, pel sopravvenire della vernata, divenuti i tempi sinistri, dall'un de' lati a riposarsi, dall'altro a ridurre in potestà loro Mantova, a soggezione il papa. Buonaparte, conoscendo che dopo la rotta tanto compiuta degli Austriaci, era Mantova divenuta sua certa preda, si voltava incontanente contro il pontefice per condurre a fine con l'armi quello che aveva incominciato col terrore per la rivoluzione di Modena e delle due legazioni di Bologna e di Ferrara. Era entrato in Roma uno spavento grande dopo la sconfitta degl'imperiali; se ne stava dubbio il pontefice del partito che avesse ad abbracciare. Pure si deliberava a mostrar il viso alla fortuna, perchè con un vincitore fantastico forse la pace non sarebbe stata peggiore dopo che prima del combattimento. Colli dava speranza di poter opporsi con qualche frutto, prendendo i luoghi e fortificando gli alloggiamenti. Fors'anche credeva Pio che Buonaparte non si sarebbe ardito di precipitar Roma agli estremi. Oltre a tutto questo, non si ingnorava pel pontefice che, quantunque il governo da Francia fosse divenuto tanto potente per le armi, una debolezza interna il rendeva vacillante, e questa consisteva nelle credenze cattoliche, che per le persecuzioni e per le disgrazie, erano ripullulate in Francia: il che rendeva necessario il venire ad una composizione con Roma. I consiglieri del Vaticano si prevalevano dell'efficacia di queste opinioni, e si mettevano al fermo di non voler accettare le condizioni proposte dal direttorio. Ma a Buonaparte, che ora obbediva al suo governo ed ora no, piaceva la guerra col pontefice, per ampliazione di fama, malgrado le dolci parole che indirizzava ora al cardinal Mattei, ora al pontefice medesimo. E se si considerano le scritture in numero quasi infinito che ogni giorno si pubblicavano nei paesi conquistati contro il papa e contro le romane cose, non si potrà in alcun modo dubitare dei pensieri sinistri che il generale repubblicano nutriva contro Roma. Anzi procedeva tanto oltre in questo la sfrenatezza, che sul gran teatro di Milano, a ciò stimolando i capi franzesi che comandavano in questa città, si dava un ballo in cui erano sconciamente scherniti il papa ed i cardinali. Costoro adunque, che per tutti i modi s'ingegnavano d'ingannare e di distruggere il papa, si recavano poi a male ch'egli tentasse di assicurarsi per mezzo di un'alleanza coll'Austria. Una lettera che il cardinal Busca, segretario di Stato, scriveva al prelato Albani mandato dal papa a Vienna, ed intrapresa da Buonaparte, dava occasione al generalissimo di levar rumore. Buonaparte, usando la occasione della lettera intercetta, e liberato dal timore delle armi austriache, sdegnosamente dichiarava a Bologna: essere rotta la tregua col papa; si apparecchiava a fargli la guerra. Allegava, avere il pontefice ricusato l'esecuzione de' capitoli ottavo e nono della tregua; gridato la crociata contro i Franzesi; mandato le sue genti a minacciar Bologna; intavolato un trattato con l'Austria; condotto generali ed ufficiali austriaci al suo soldo; ricusato di rispondere alle proposizioni di Cacault, ministro di Francia a Roma. Delle quali cose si può dire che se Buonaparte pretendeva che il pontefice fosse in condizione ostile contro i Franzesi, aveva ogni ragione, ed anche aveva ragione di correre alle armi contro il pontefice, giacchè il pontefice se ne stava armato contro Francia. Ma accusarlo di non aver mandato ad esecuzione certi capitoli della tregua, non può esser altro se non una seduzione d'intelletto o un abuso di forza; perchè que' capitoli in ciò consistevano: che il pontefice desse milioni di denari e vettovaglie ai repubblicani. Ora il trattato proposto o, per meglio dire, imposto dal direttorio al pontefice, non essendo stato accettato, non si sa comprendere com'ei dovesse somministrar mezzi al suo nemico di nuocere a sè medesimo. Delle altre accuse date a Pio questo si può affermare, che, poichè l'immoderanza del direttorio avea fatto la pace impossibile, e la guerra inevitabile, non solo poteva, ma doveva usare ogni modo per restare assicurato delle cose contro la prepotenza altrui. Intanto Buonaparte intendeva alle sue preparazioni: circa venti mila soldati stavano pronti a correre contro il papa; e fra i buonapartiani erano molti soldati italiani delle due repubbliche transpadana e cispadana. Buonaparte richiamava da Roma Cacault. Erano nell'oste destinata a far la guerra al papa cinque legioni di fanti franzesi, due di cavalli, tre battaglioni di fanti lombardi, altrettanti di cispadani, con pochi cavalleggieri delle due repubbliche. Comparivano inoltre due compagnie di fanti polacchi, raccolte di disertori e prigionieri austriaci: questo fu il primo principio di quella legione polacca che condotta da Dombrowsky, si acquistò poscia nome nelle guerre italiche. Adunato il generalissimo tutte queste genti in Bologna, le spingeva oltre contro lo Stato ecclesiastico, partite in tre schiere, alle quali aveva preposto Victor, testè fatto chiaro per la vittoria della Favorita. Guidava la prima Lannes, la seconda Fiorella, la terza La-Salcette. Ordinavasi una banda di corridori e feritori alla leggiera, che, composta di Lombardi, aveva, sotto il colonnello Robillard, carico di sopravvedere il paese ed ingaggiare le prime battaglie. Marciavano il dì primo febbraio; occupata facilmente Imola, si avviavano alla volta di Faenza per combattere i pontificii che stavano accampati sulle rive del Senio. Tenevano Lannes e Fiorella la strada maestra per a Castelbolognese, La-Salcette i colli a destra. L'intento loro era d'assaltar di fronte il nemico, e nel tempo medesimo, esplorando i luoghi sul fiume, riuscirgli alle spalle. Ma siccome Buonaparte più temeva i popoli che i soldati, così mandava fuori un bando, parte amichevole, parte minaccioso, col quale dall'un canto annunziava alle terre pacifiche pace ed amicizia, dall'altro alle ostili rigore e vendetta. Intanto a Mantova l'infelice battaglia della Favorita aveva persuaso a Wurmser che, per la carestia de' viveri, la dedizione era inevitabile. Ciò nonostante, quel suo invitto animo non ancora si sgomentava, deliberato a patire qualunque estremità, prima di arrendersi. Eppure le cose sue erano ridotte in angustissimo luogo: il presidio scemato per morti frequenti, infievolito da febbri mortalissime gli ospedali, le case tutte piene di soldati moribondi, chi non inabilitato dalla malattia, inabilitato dalla disperazione; la ultima fame già tormentava, oggimai erano consumati tutti gli alimenti, gl'infermi si moltiplicavano ogni momento, mancavano per loro i rimedii. A tale era giunta la penuria della piazza, che un uovo si vendeva uno scudo, un pollo quattro, e non se ne trovava; solo pane era di saggina, sola carne di cavallo, fresca e poca pei ricchi, salata e poca pei poveri. Si appiccavano i morbi dai soldati ai cittadini: era in ogni luogo uno squallore, un fetore, una miseria, che male si potrebbe con le parole descrivere. Ecco intanto arrivare le acerbe novelle a Wurmser, essere state predate sul lago trentadue barche cariche di vettovaglie, che Alvinzi, quand'era in possessione delle rive, aveva inviato in soccorso della travagliata Mantova. Questo accidente, che toglieva al capitano dell'Austria la speranza con la quale si sostentava nella estremità della fame, il fece accorto che gli era oggimai necessità di mandar a prendere accordo co' Franzesi, poichè certamente il poteva fare senza macchia dell'onor suo. Mandò dunque dicendo a Serrurier che darebbe la piazza con certe condizioni che non volle il generale repubblicano consentire, parendogli troppo alte; pure finalmente si convenne tra Wurmser e Serrurier in questa sentenza: darebbe il maresciallo ai Franzesi la città, la fortezza e la cittadella; uscirebbe il presidio onoratamente secondo gli usi di guerra, deporrebbe le armi fuori della barriera, restasse prigioniero fino agli scambii; uscisse libero Wurmser, e con lui liberi i suoi aiutanti, duecento soldati a cavallo, cinquecento altre persone a sua elezione; solo contro la Francia per tre mesi non militassero; gissene securamente il presidio a Gorizia per Legnago, Padova e Treviso; curassersi umanamente i malati ed i feriti; fosse data venia a ciascuno delle cose fatte, e niun Mantovano potesse esser ricerco, nè molestato per opinioni o per fatti a favor dell'imperadore: condizioni onorate conformi all'onorata difesa. Usciva Wurmser circondato da' suoi liberi soldati: ammiravano in lui la fortezza e la volontà egregia con un corso di fortuna troppo indegnamente contraria. Debbonsi lodare i vincitori che con più cortese dimostrazione il vecchio prode ed infelice guerriero onorarono. Buonaparte stesso non ommise di esaltare il guerriero austriaco, scrivendo al direttorio, con altre cose, avere con intento proprio voluto dimostrare la franzese generosità verso il vecchio Wurmser, generale di settant'anni, segno d'avversa fortuna, d'animo invitto. Così Mantova, combattuta dalla forza e dalla fame, venne in potestà della repubblica. Torniamo ai travagli ch'erano in Roma. L'esercito pontificio si era, come abbiam narrato, accampato sulla destra dei Senio, pronto a difendersi, non ad offendere. Avevano i soldati del pontefice, in numero di sei in sette mila fanti e cinquecento cavalli, munito il ponte del Senio sopra e sotto con buoni ridotti e con quattordici pezzi di artiglieria. Un altro pezzo assicurava il ponte medesimo che guarda quasi per diritto la strada di Faenza. Avevano pur fatto un fosso ed altre fortificazioni ancora. Il generale di Francia, come prima giunse ad un quarto di miglio da Caslelbolognese, arrestava il passo a Lannes ed a Fiorella, e mandava avanti Junot con un buon reggimento di cavalleria ad ordinarsi in battaglia a sinistra della strada vicino al ponte, ma oltre il tiro delle artigliere pontificie. Robillard schierava, non fitti, ma larghi, duecento feritori alla leggiera lungo il fiume sulla riva sinistra. Voleva Victor che costoro facessero opera di passare a qualche agevole guado, poichè pei tempi secchi era il fiume guadoso in molti luoghi. Non così tosto si affacciarono al fiume, che pioveva loro addosso una tempesta di palle; già piegavano: ma incuorati dai capi, erano tutti soldati di Lombardia, tornavano al cimento, e non solamente sostenevano quel duro bersaglio, ma cacciatisi nel fiume, che correva molto rapido, il passarono. Del quale ardimento sbigottiti i soldati del papa, abbandonavano il fosso per ricoverarsi nei ridotti; al che tanto più volontieri ne vennero, quanto più Victor, accortosi del fatto, e non volendo lasciar soli al pericolo i primi feritori, aveva ordinato alla quinta dei leggieri che varcasse ancor essa. Ma i pontificii, siccome il fosso era stato scavato per diritto e perpendicolarmente ai ridotti, nè l'avevano munito con le necessarie traverse, si trovavano esposti a tutto il bersaglio dei feritori nemici; il che li fece disordinare e sbigottire vieppiù. In questo la cavalleria del papa, mossa da uno spavento repentino, si metteva in fuga. Victor, conosciuto che quello era il tempo buono per vincere, mandava a dar la carica al ponte due compagnie di Lombardi, due di Polacchi. Non contrastarono più a lungo le truppe pontificali il passo, e si ritirarono con grave disordine e precipitosamente a Faenza. Non poterono tostamente seguitarle i repubblicani per la difficoltà delle strade. Superato il Senio, s'appresentavano i repubblicani alle porte di Faenza, le quali atterravano coi cannoni, ed entrarono nella terra abbandonata dal presidio pontificio. Fu notabile in Faenza, città nobile e ricca, la moderazione del vincitore; conservò intatte ed inviolate le proprietà e le persone; anzi Buonaparte, fatti venire a sè i preti ed i frati, li confortava a star di buona voglia, dimostrando volere che da tutti la religion si rispettasse ed i suoi ministri si beneficassero. Davansi facilmente, discorrendo i Franzesi per tutto il paese come folgore, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, quantunque il passo di quest'ultima fosse munito di buoni difensori. Si era Colli tirato indietro fino ad Ancona, sperando di poter quivi fare qualche resistenza. Prevedendo intanto il pericolo della Casa di Loreto, intorno alla quale non ignorava i pensieri rapaci manifestati già fin dal principio dell'anno precedente dal direttorio, aveva spacciatamente comandato che, posti sui carri gli arredi e le reliquie più preziose, s'indrizzassero alla volta di Roma. Stava Colli accampato sulla Montagnola con cinquemila soldati e sette pezzi di buone artiglierie. Ordinava Victor agl'Italiani ed ai Polacchi andassero all'assalto: le genti grosse, girando a destra, facevano sembianza di voler riuscire alle spalle dei pontificii. Fu debole la difesa, perchè i soldati di Colli, spaventati dalla rotta precedente, si ritirarono in gran fretta: appena Colli fu a tempo di vuotare Ancona e la cittadella. Se ne impadronirono i repubblicani. Il generale della Chiesa, come prima potè raccorre i soldati disordinati, anduva a porre il campo tra Foligno e Spoleto. La Marca, tutto il ducato di Urbino, eccettuata la metropoli, la più gran parte dell'Umbria venivano sotto l'obbedienza della repubblica. Espilavasi Loreto. La statua della Madonna, con alcuni altri capi più singolari trascelti dai commissari Monge, Villetard e Moscati, si avviavano alla volta di Parigi. Del resto si mostrava assai continente Buonaparte, minacciando morte ai soldati che facessero sacco. Piantava Victor il suo principale alloggiamento a Foligno. Andando tanto impetuosamente in precipizio lo Stato pontificio, un alto terrore assaliva Roma. Già pareva ai Romani che quel primo seggio della cristianità dovesse andare a sacco ed a fuoco. L'erario, le suppellettili preziose, le lauretane ricchezze si avviavano a gran pressa verso Terracina. Nè i ricchi se ne stavano, perchè ancor essi incamminavano le suppellettili più nobili e più care, e così le persone al medesimo viaggio. In mezzo a sì grave precipizio, uscivano ad ora ad ora, come suol accadere in simili casi, voci più spaventose ancora, che già i nemici fossero alle porte, e chi diceva di averli uditi, e chi di averli veduti. Raddoppiavansi il terrore, le grida, la confusione, la fuga: pareva ad ognuno che già spenta fosse ogni salute, che già Roma, l'antica madre, rovinasse. In caso tanto lagrimevole e spaventoso, potendo i Franzesi a volontà loro correre per tutto lo Stato ecclesiastico, non era più luogo ad altra deliberazione se non di piegarsi a quella dura necessità. Si mostrava costante il pontefice nel non voler consentire a quelle condizioni che nel modello del trattato imposto dal direttorio erano a lui parute contrarie alle dottrine della sedia apostolica ed alla consuetudine della Chiesa. Quanto agl'interessi temporali, preponendo il titolo della salvezza di Roma a qualunque altro rispetto, si preservasse con opportune concessioni, sclamava, la città; alla concordia con Buonaparte si provvedesse. Aveva sempre il generale della repubblica veduto molto volontieri il cardinale Mattei: parve mediatore opportuno a piegare lo sdegno del vincitore. Cresceva tuttavia il pericolo, cresceva il terrore. Destinava il pontefice quattro legati al generale; il cardinale Mattei, monsignor Galeppi, il duca Luigi Braschi, il marchese Camillo Massimi; concludessero ad ogni modo la pace, salva però la religione e la sedia apostolica. Incontravano per viaggio il corriere portatore delle lettere di Buonaparte al cardinale: erano molto benigne, recatrici di tregua, promettitrici d'accordo; questa fu la consolazione di Roma. Arrivarono i legati a Tolentino, dove Buonaparte aveva le sue stanze. Accolti con dimostrazioni cortesi dal generale, si restringevano tostamente con lui a negoziare in una faccenda che oggimai non aveva più in sè difficoltà di importanza, perchè nè Buonaparte voleva toccare lo spirituale, nè il papa aveva più, pel terrore e per l'estremità del caso, arbitrio del temporale, essendo già posto in balia del vincitore. Si concludeva il giorno 19 febbraio a Tolentino il trattato di pace fra il papa e la repubblica di Francia. Si obbligava il pontefice a recedere da qualunque lega segreta o palese contro la repubblica; a non dar soccorsi nè d'armi, nè di soldati, nè di viveri, nè di denaro, nè di navi a chi nemico ne fosse; a licenziare i reggimenti nuovi; a serrare i porti ai nemici di Francia, ad aprirgli ai Franzesi; al cedere alla Francia Avignone, il contado e le dipendenze; al cedere ugualmente le legazioni di Bologna e di Ferrara, con ciò però che non vi si facessero novità pregiudiziali alla religione cattolica; al consentire che la città, la cittadella ed il territorio d'Ancona sino alla pace si depositassero in mano della repubblica. Oltre a questo si obbligava il papa a pagare fra un mese ai Franzesi quindici milioni di tornesi, dieci in contanti e cinque in diamanti; fra due mesi altrettanti, parte pure in pecunia numerata, parte in diamanti. Consentiva inoltre a somministrare ottocento cavalli, bestie da tiro altrettante, buoi, bufali ed altri animali dello Stato della Chiesa; a dare i manoscritti, i quadri, le statue pattuite nel trattato di Bologna; a disapprovare la uccisione di Basseville, ed a pagare pel ristoro dei danni alla famiglia dell'ucciso trecento mila tornesi; a liberare i prigionieri per cause di Stato; a restituire ai Franzesi la scuola delle arti in Roma; volle finalmente il vincitore, e consentiva il papa, che il trattato fosse obbligatorio per lui e pei successori nella cattedra di San Pietro per sempre. Così finiva la romana guerra. Il generale fortunato, domati i grandi, volle far mostra di onorare e rispettare i piccoli. Mandò, trovandosi agli alloggiamenti di Pesaro, a dì 7 febbraio, Monge a certificare la repubblica di San Marino della fratellanza ed amicizia della repubblica franzese. Andò Monge sulla cima del monte Titano. Introdotto in cospetto dei padri, disse, enfaticamente parlando, dappoichè Atene, Tebe, Roma e Firenze avevano perduto la libertà, quasi tutta l'Europa essere venuta in servitù; solamente in San Marino essersi ricoverata la libertà; ma pur finalmente il popolo franzese, del proprio servaggio vergognandosi, essersi vendicato in libertà: l'Europa, posti in non cale i proprii interessi, posti in non cale gl'interessi del genere umano, essere corsa all'armi contro di lui; la civil guerra avere aiutato la forestiera; pure essersi avventato lui alle frontiere, avere debellato i suoi nemici: avere trionfato, venuti i suoi eserciti in Italia, avervi vinto quattro eserciti austriaci, recatovi la libertà, acquistatosi gloria immortale quasi fin sotto gli occhi della sanmarinese repubblica; avere la repubblica di Francia, abborrente dal sangue, offerto pace, ma averla anche offerta indarno; perseguitare intanto i suoi nemici, passare presso a San Marino per perseguitarli; ma vivessero sicuri che Francia era amica a San Marino. A questo passo veniva Monge offerendo alla repubblica da parte del generalissimo territorii di stati vicini. Troppo squisito e magnifico parlare e troppo inconveniente offerta era questa a quegli uomini semplici ed ammisurati; nè si sa perchè Monge, che uomo temperato era anch'egli, la facesse. Il torre e l'accettare erano ugualmente brutti e pericolosi per una repubblica che era vissa sì lunga età innocente e pura da quel d'altrui. Buonaparte venne poscia in sull'offerire egli stesso: darebbe quattro cannoni, darebbe fromenti; riceverebbe in sua protezione San Marino, e farebbe portar rispetto ovunque e quandunque a' suoi cittadini. Rispose il consiglio, accetterebbe i cannoni volontieri, accetterebbe anche i fromenti, ma pagandoli; dei territorii contento agli antichi, non volerne nuovi; solo pregare qualche maggior larghezza di commercio, e di ciò richiedere l'eroe invincibile. Il seguito fu che i cannoni non furono dati e che non si parlò più di San Marino. Continuò nella solita quiete e libertà; continuò a rispettare i diritti degli uomini senza vantarli, il che è meglio che il vantarli, senza rispettarli; continuarono dall'altra parte intorno al felice monte gli strepiti e la licenza dei popoli e dei soldati. Rimoveva Buonaparte appoco appoco le sue genti dallo Stato ecclesiastico: poscia si conduceva a Bologna intento a nuove imprese, perchè già l'Austria un'altra volta ingrossava. Due pensieri operavano massimamente a questo tempo nella mente di Buonaparte, sicuro ormai di poter fare, o buon grado o mal grado del suo governo, ciò che più volesse. Siccome la fortuna tanto se gli era dimostrata prospera, così intendimento suo era, posti in non cale i pensieri del re di Sardegna, di creare un nuovo Stato in Lombardia, acciocchè egli fosse della sua potenza e del suo nome testimonio perpetuo. Ma il direttorio, che aveva anche capriccio in questo nuovo Stato, desiderava tuttavia temporeggiarsi pel desiderio che aveva della pace coll'imperadore. Si proponeva oltre a ciò Buonaparte, solito a fabbricare ne' suoi concetti grandissimi disegni, tostochè si diminuisse l'asprezza della stagione, di varcare con tutto l'esercito le Alpi Giulie e di far sentire le sue armi nel cuore della Germania, a fine di obbligare l'imperadore alla pace, pensiero che già aveva concetto fin dai tempi delle sue prime vittorie in Italia, e che solo era stato interrotto dalla meravigliosa costanza dell'Austria nel sostituire nuovi eserciti ad eserciti vecchi. Confortavano massimamente questa sua deliberazione la singolarità e la grandezza dell'impresa, l'avere a cimentarsi con l'arciduca Carlo, fratello dell'imperadore, che aveva di recente combattuto vittoriosamente le armi repubblicane sulle sponde del Meno e del Reno, e che era stato preposto, come ultima speranza, all'esercito italiano. In questo poi era suo intento di affrettarsi, sì perchè, credendo di poter fare da sè, non voleva che Moreau, calandosi per le rive del Danubio, lo aiutasse, e sì perchè aveva a cuore di assaltare l'arciduca innanzi che le genti di nuova leva, che già marciavano, avessero ingrossato le reliquie dei vinti. A condurre a fine queste fazioni abbisognava principalmente di non lasciarsi nissun sospetto alle spalle, e questo fine conseguiva col far rivoluzione nei paesi veneti. Con questi pensieri si accostava Buonaparte alla guerra d'Alemagna. Reggeva cinquanta mila soldati fioritissimi e veterani tutti dell'esercito italico, ed a questi si erano congiunti venti mila venuti dal Reno, sotto la condotta di Bernadotte. Gli aveva per tal modo distribuiti nelle stanze, che l'ala sinistra, governata da Joubert e grossa di più di venti mila soldati molto agguerriti, guardava i passi del Tirolo; la mezza schiera condotta da Massena alloggiava a Bassano; l'ala destra, alla quale presiedeva Buonaparte stesso e che aveva un novero di trenta mila soldati, alloggiava nel Trevigiano sino alle rive della Piave. Così con le tre schiere sovrastava Buonaparte ai tre passi che dall'Italia danno l'adito all'Alemagna. Animava i suoi soldati per fargli star saldi alle nuove prove: badassero, diceva, che già avevano vinto quattordici campali battaglie, settanta minori, preso più di cento mila prigionieri, conquistato cinquecento cannoni leggieri, due mila grossi, piatte per quattro ponti; si ricordassero, avere senza spesa del pubblico vissuto un anno, mandato trenta milioni all'erario; per loro avere il museo di Parigi acquistato quanto di più bello avea penato trenta secoli l'antica e la moderna Italia a produrre; le più belle contrade dell'Europa essere in potestà della repubblica; a loro obbligate della libertà la Lombardia e la Cispadana repubbliche; vedere per la prima volta l'Adriatico le franzesi insegne; là oltre e poco distante mostrarsi la Macedonia antica; i re di Sardegna e di Napoli, il papa, il duca di Parma, abbandonata la lega, avere ricerco l'amicizia della repubblica; gl'Inglesi cacciati da Livorno, da Genova, da Corsica essere testimoni del loro valore; molto essersi per loro fatto, molto ancora restare a farsi; meritassero l'affezione della patria confidente nel loro coraggio; solo tra tanti nemici stare in piè ed in armi l'imperadore; gissero dunque, esortava, la pace cercando nel cuore stesso degli Stati ereditarii d'Austria; vedrebbero popoli valorosi; la religione onorassero, i costumi rispettassero, le proprietà proteggessero..... Voci molto incitatrici erano queste agli animi di soldati valorosi, vincitori, e che, non conoscendo qual fosse in tanta contesa il dritto, il giusto e l'onesto, non altro suono conoscevano che quello delle armi. Dalla parte dell'Austria, che mal volontieri si disponeva a lasciare del tutto le cose d'Italia abbandonate, le faccende passavano con maggior moderazione, ma non con minore coraggio, se si guardano le risoluzioni di chi reggeva lo stato; imperciocchè, oltre le reliquie de' soldati vinti, si mandavano alla volta della Carintia, della Carniola e del Friuli circa trenta mila delle genti del Reno, nuove leve si ordinavano negli Stati ereditarii, la nazione ungara volonterosamente accorreva in aiuto del sovrano pericolante. Una massa di soldati vecchi e nuovi alloggiava a Salisburgo pronta a correre ai passi dell'Alpi; un campo si ordinava a Neustadt come antemurale alla capitale dello impero. Confortava l'oste il pensiero dell'avere a guidatore e capo delle nuove imprese l'arciduca Carlo, principe amatissimo, che recentemente aveva dato segni di non mediocre perizia e di singolare ardimento nelle guerre d'Alemagna. Alloggiavano nel Trentino, nel paese di Feltre e nella Marca Trivigiana, distendendo la fronte loro dai monti di Bormio insino alla foce della Piave. Ritirava sul principio di febbraio l'arciduca il grosso sulla sinistra riva del Tagliamento, e lo alloggiava nel Friuli e nella Carintia, lasciando tre schiere sulla fronte descritta. Trovavasi Liptay con una di esse a guardare lo spazio che corre dalla frontiera de' Grigioni a Salorno, terra posta sulla sinistra dell'Adige sopra al Lavisio, e per tal modo stava a difesa del superiore Tirolo. Spiegava la seconda le sue ordinanze da Salorno a Feltre a traverso i monti che spartono le acque dell'Adige da quelle della Piave. Obbediva questa al freno di Lusignano, ed era pronta a venire al cimento con que' soldati rischievoli di Massena. Finalmente il principe di Hohenzollern con sette mila soldati custodiva il paese da Feltre scendendo per la sinistra della Piave fin dove ella mette in mare. Fermava l'arciduca il suo principal alloggiamento in Udine, capitale del Friuli, perchè sapeva che il più forte sforzo dell'inimico si doveva indirizzare verso Gorizia. Il primo a dare il segnale delle nuove battaglie fu il generale di Francia: il 10 marzo si muoveva con la sua destra e con la mezzana schiera. Era suo primario intendimento di entrar framezzo agli Alemanni per modo che l'ala loro destra restasse separata dalle altre. Perciò aveva ordinato, che il principale sforzo di questa prima mossa fosse fatto dalla mezzana, che raunata sulle rive della Piave obbediva a Massena: nè mancava Massena del debito suo; perchè non così tosto si mosse, che gli Austriaci, abbandonata la fronte del Cordevole ed i luoghi più bassi, andavano a porsi in sito forte oltre Belluno, a fine di propulsare il nemico, se tentasse d'inoltrarsi nella valle di Cadore. Seguitavali tostamente il Franzese, e, quantunque Lusignano con grandissimo valore si difendesse, prevalendo i repubblicani di numero, fu alla fine obbligato, non giovandogli nè l'avere ordinato i suoi in globo per aprirsi il passo alla salute, nè un bravo menar di baionette, a por giù l'armi con tutta la sua schiera, e a darsi in potestà dei vincitore. Per tal modo meglio di seicento soldati, Lusignano con loro, vennero in poter de' Franzesi; ma fu maggiore il numero degli Austriaci uccisi in quell'ostinato conflitto. Al tempo medesimo Serrurier e Guyeux varcavano la Piave a Vidor e ad Ospidaletto, ed occupato Conegliano e Sacile, si avvicinavano al Tagliamento. Aveva l'arciduca munito la sponda sinistra di questo, piuttosto impetuoso torrente che giusto fiume, di trincee con averle afforzate con artiglierie. Stanziava anche numerose torme di cavalleggieri pronte a ributtare l'inimico ove passasse, ma queste erano meglio dimostrazioni per ritardare che per arrestare l'inimico, perchè le acque del Tagliamento, non ancora sciolta le nevi sui monti, si potevano guadare in molti luoghi. Per la qual cosa i Franzesi, schivando i passi muniti, riuscivano facilmente sulla sinistra. Fuvvi qualche incontro di cavalleria assai brava, ma i fanti tedeschi fecero poca resistenza quando la cavalleria dei repubblicani, varcato il fiume, gli ebbe assaltati. Al contrario i primi fanti franzesi che avevano passato, percossi vigorosamente dalla cavalleria tedesca, avevano contrastato con molta forza. Passato il Tagliamento ed assicurato Buonaparte sulla sinistra per la vittoria di Massena, che già da Cadore, valicando dai fonti della Piave a quei del Tagliamento, si accostava con presti alloggiamenti alla Ponteba, si stendeva per tutto il Friuli, cacciandosi avanti verso il Lisonzo le armi austriache che, debolmente combattendo, facilmente gli cedevano del campo. Già le fortezze di Palmanova e di Gradisca, e già Gorizia erano in poter suo venute. Quindi allargandosi a destra s'impadroniva di Trieste abbandonato dai suoi difensori, e fatta una subita correria sopra Idria, faceva sue quelle ricche miniere d'argento vivo, bottino ricchissimo, ma non tanto quanto portò la fama. Verso sinistra, procedendo altresì molto risolutamente, prendeva Cividale e s'incamminava a Chiavoretto, perchè voleva consuonare con Massena nel carico che questi aveva d'impossessarsi dell'importante passo della Ponteba. Grande era questo suo pensiero; conciossiachè se Massena guadagnava il passo della Ponteba, poi quello di Tarvisio, che gli succede, gli sarebbe venuto fatto di spuntare il fianco destro dell'arciduca, di separarlo da Kerpen e da Laudon, d'impedire i rinforzi che dal Reno gli pervenivano, e forse ancora di giungere a Clagenfurt sulla strada per a Vienna innanzi che il generalissimo austriaco vi arrivasse. Ma prima che si raccontino le importanti fazioni che ne seguirono, necessaria cosa è il descrivere come le cose passassero tra Joubert da un canto e Liptay, Kerpen e Laudon dall'altro, nel Tirolo. Come prima ebbe avviso Joubert dei prosperi fatti accaduti nel Friuli, si metteva all'ordine per eseguir le imprese che alla fede ed al valor suo aveva Buonaparte raccomandate. Varcava il Lavisio il dì 20 di marzo, nonostante che i cacciatori tirolesi posti ai passi con ispessi tiri ogni opera facessero per impedirlo: urtava Kerpen che aveva un forte campo sulle alture di Cembra, cercando di accerchiarlo a sinistra per Cavriana. Al tempo stesso per la strada di Bolzano e a destra marciarono Delmas e Baraguey d'Hilliers. Fu valida, ma non lunga la difesa, pel timore che ebbe Kerpen di essere circuito sulla destra della sua fronte, però con celeri passi si ritirava a San Michele, donde gagliardamente anche combattuto dai Franzesi, viemmaggiormente indietreggiando, andava a porsi più sopra a Bolzano. Entravano successivamente, benchè non senza nuove battaglie e molto sangue, i Franzesi in Salorno, in Peza ed in Newmarket. La ritirata tanto presta di Kerpen poneva in grave pericolo Laudon, che alloggiava sulla destra dell'Adige, perciocchè le raccontate fazioni accadevano sulla sinistra. Nè i Franzesi trasandavano la occasione; anzi varcato il fiume ai ponti di Salorno e di Newmarket, assalivano Laudon nel suo campo di Tranen e lo rompevano con uccisione di molti, e con circa novecento prigioni e parecchie artiglierie prese. Dopo questa rotta, che faceva impossibile a Laudon di ricongiungersi con Kerpen, non ebbe altro rimedio che di cercar ricovero nelle parti superiori della valle di Merano. Quivi stette aspettando che la fortuna gli offerisse nuova occasione di risorgere. Seguitavano i Franzesi il corso della fortuna vincitrice, ed urtato Kerpen, che aveva fatto un forte alloggiamento alla Chiusa, lo avevan sloggiato e percosso di modo che, abbandonato anche Brissio, pensava a ritirarsi a Sterzing, luogo molto scosceso, stretto, rotto, difficile e posto nelle montagne del Brenner presso al sommo giogo dell'Alpi, dove si spartono le acque dell'Adige e dell'Inn, ultima difesa d'Alemagna contro chi viene dalle terre d'Italia. I Franzesi lo assaltavano audacemente in quel fortissimo alloggiamento, fu dura e sanguinosa la battaglia; furono costretti a tornarsene indietro. Joubert adunque si fermava a Brissio, dove poteva a suo grado o stare osservando le cose del Tirolo o marciare per Bruneck e Toblach a Linz, e di là fino a Villaco per trovarvi Buonaparte. Ma non tardava a fare la fortuna che quello che era elezione per lui, diventasse necessità. Chiamava Laudon i Tirolesi all'armi, li chiamava Kerpen: secondava con ardenti esortazioni l'opera loro il conte di Lerback, personaggio di grande autorità e molto potente nelle cose del Tirolo. I bellicosi abitatori di quelle montagne al suono di voci tanto gradite correvano all'armi bramosamente contro i conculcatori della patria loro; nè il sesso nè l'età si rimanevano, perchè furono veduti e vecchi e donne e fanciulli, dato di mano alle armi che il caso od il furore parava loro davanti, mettersi in piè per difendere le antiche ed amate sedi loro. Nè la stagione sinistra, nè le alte nevi, nè i grossi ed impetuosi torrenti, nè ogni disagio di guerra o di vettovaglia gli impedivano. Passava tant'oltre questo improvviso tumulto, che sul principiar di aprile, risuonando quelle valli d'ogni intorno d'armi e di grida guerriere, meglio di ventimila combattenti erano in pronto contro quella gente venuta da lontani paesi per conquistarli. Intanto i generali tedeschi, che sapevano che le moltitudini disordinate sono piuttosto preda che danno ad un nemico bene ordinato, avevano distribuito in battaglioni giusti quella massa tumultante, e mescolatovi per dar polso e regola alcuni drappelli di regolari. Principale fondamento facevano nell'opera di costoro, perchè questi popoli accorsi, sapendo il paese, potevano acconciamente ferire alla leggiera, opprimere i traviati, mozzar le strade, riuscire improvvisi alle spalle, bersagliare da lungi e da luoghi erti, soprapprendere le bagaglie, impedire la vettovaglia, insomma fare ogni cosa, avanti, a' fianchi e addietro, sospetta e pericolosa. Kerpen e Laudon, fatti forti da questo accalorato stormo, ed ingrossati anche da qualche battaglione di regolari venuti dall'esercito Renano, si consigliavano di voler cacciare del tutto dal Tirolo i repubblicani. Con questo pensiero Laudon calava minacciosamente da quei luoghi alti e dirupati ed andava a battere a mezza strada fra Brissio e Bolzano, col fine di tagliar il ritorno ai Franzesi, alle parti dissottane dell'Adige. Gli riusciva l'intento, perchè assaltate con impeto le vanguardie franzesi, le faceva piegare e s'impadroniva di Bolzano. Fatto poscia più audace dal fortunato successo, saliva per le rive dell'Adige per congiungersi con Kerpen e per istringere vieppiù Joubert, che tra l'una schiera e l'altra stanziava a Brissio. Occupava la Chiusa, poi Steben, tanto ritirandosi i Franzesi più in su quanto più avvicinava Laudon; già Brissio medesimo pericolava. Nè se ne stava neghittoso in questo mezzo tempo Kerpen, perchè calando con le sue genti miste di Tirolesi e di Tedeschi da Sterzing, rincacciava i repubblicani fin sotto le mura di Brissio. Per questo molto a Joubert accerchiato da tre parti non rimaneva più altro scampo che a levante per la valle del Puster, poscia per quella della Drava fino a Villaco. Partitosi da Brissio il dì 5 aprile, e ritardato l'impeto di Kerpen che lo voleva seguitare, con aver rotto il ponte sull'Eisac, arrivava il giorno 8 a salvamento a Linz, dove trovava alcuni squadroni di cavalleria che il generalissimo, geloso di quel passo mandava ad incontrarlo. Poscia, marciando sollecitamente in giù per la riva della Drava, e rotte alcune squadre collettizie all'Ospedale, che volevano serrargli il passo, conduceva ad effetto a Villaco la congiunzione dei due eserciti. Ma Laudon non si ristava; che anzi cacciando all'ingiù dell'Adige i Franzesi, entrava vittorioso in Trento e Roveredo, s'allargava anche sulle sponde del lago a Torbole ed a Riva. Questa mossa, che già faceva sentir il romore delle armi tedesche nella pianura trapposta tra l'Adige ed il Mincio, partoriva effetti importanti. La guerra si avvicinava sugli estremi confini d'Italia per opera di Massena ad un evento terminativo per quanto spetta alla difesa degli Stati ereditari d'Austria. Già per la molta importanza del passo della Ponteba, aveva comandato l'arciduca a Ocskay che lo custodiva, ostinatamente il difendesse. Confidando nel valore de' suoi, veniva in pensiero di sopraccorrere con forze superiori contro Massena e di conculcarlo prima che Buonaparte avesse tempo di soccorrerlo. Il quale intento se avesse avuto il suo effetto, l'arciduca avrebbe fatto a Buonaparte quello che Buonaparte voleva fare a lui, cioè separare l'ala sua destra dalle genti del Tirolo che erano la sua sinistra. A questo fine ebbe tostamente il generale austriaco adunato alcune truppe già venute dal Reno, e comandava al tempo medesimo ai generali Gontreuil e Bajalitsch, marciassero risolutamente a Tarvisio per a Ponteba; li seguitava di pari passo, conducendo con sè le artiglierie più grosse. L'accidente era importante, il momento fortunoso. Già marciava l'arciduca quasi sicurato della vittoria; ma quando più confidava di un prospero fine, gli sopravvenivano le novelle, certamente ingratissime, che Ocskay, non facendo alla Ponteba contro Massena quella sperienza che si aspettava di lui, si era tirato indietro fino a Tarvisio, che anzi, velocemente seguitato dal nemico, aveva anche abbandonato Tarvisio, ritirandosi più che di passo verso Wurtzen. Quest'accidente tanto impetuoso fece precipitar l'arciduca ai rimedi: comandava ad Ocskay che tornasse incontanente e cacciasse i repubblicani da Tarvisio. Ma il suo intento non ebbe effetto, perchè Ocskay, accelerando il cammino, era già arrivato a Wurtzen, terra troppo più lontana che abbisognasse, perchè ei potesse giungere a tempo alla fazione. Non si perdeva di animo per tanto sinistro l'arciduca, e, non lasciata indietro diligenza od opera alcuna, pensava a ricuperar col valore quello che la timidità aveva perduto. A questo fine ordinava a Gontreuil e Bajalitsch, seguitassero a marciare e restituissero ad ogni modo alle armi austriache il passo di Tarvisio. Tanto velocemente marciò il primo, guidatore dell'antiguardo, che, valicato il colle di Ober-Preth, urtava valorosamente in Tarvisio cacciavane i repubblicani, e perseguitandoli, li respingeva fin oltre al villaggio di Salfnitz, e se fosse stato presto Bajalitsch ad arrivare per fermare i suoi nella battaglia, l'impresa aveva il suo compimento. Ma egli, o fosse ritardato dai luoghi aspri o dagli impedimenti delle artiglierie che voleva condurre con sè, non potè arrivare a tempo alla fazione, per modo che il seguente giorno che fu ai 23 di marzo, Massena, raccolti ed adunati i suoi, e già prevalendo di forze contro Gontreuil, rimasto solo, dava dentro, prima a Salnitz, poscia a Tarvisio, e da ambi i luoghi cacciava gl'imperiali. Nè valsero il valore di Gontreuil, che fu molto notabile, nè quello delle sue genti che combatterono virilmente, nè la presenza dell'arciduca medesimo che era accorso e fece in questa battaglia le veci non meno di esperto capitano che di animoso soldato, ad arrestare il corso della fortuna contraria; perchè non solamente fu rotto e ferito Gontreuil, ma fu cagione che rotto ancora fosse poco dopo Baialitsch che arrivava; conciossiachè Massena vittorioso, rivoltosi contro questa seconda colonna, le dava l'assalto sui confini di Raibel. Al tempo medesimo Guyeux, che si era impossessato per una battaglia di mano del forte passo della Chiusa di Plezzo, accostatosi ancor esso, l'assaliva alla coda. La schiera, urtata da tutte le parti da un nemico vittorioso, ridotta ad un'estrema lassezza pel camminare frettoloso su per quei monti, nè avendo speranza di soccorso, deposte le armi, si arrendeva. Perduta la speranza di offendere, pensava il generale dell'Austria ad ordinar le difese in modo che fosse fermato quel precipizio, e fatto abilità alle genti stanziali del Reno di arrivare, alle leve di Croazia, di Bosnia, d'Austria e di Ungheria d'ordinarsi, ed al campo di Neustadt di fortificarsi. Schierava a questo fine il generale Seckendorf sulla strada di Lubiana, acciocchè intendesse alla difesa della Carniola e delle rive dalla Sava; quest'era l'ala sua sinistra. Alloggiava il generale Mercantin sulle sponde della Drava per sicurezza di Clagenfurt; quest'era la mezza schiera. Finalmente il principe di Reuss, col generale Keim con l'ala destra avevano fermato le loro genti a San Vito e nella valle della Mura. Per tal modo si guardavano i tre principali aditi per cui si va dall'Italia nel cuore delle possessioni austriache in Alemagna. Sperava l'arciduca, abborrendo dal lasciarsi stringere a far giornata, che questi preparamenti di difesa, le genti del Reno che giungevano, i popoli che tumultuavano tutt'intorno, avrebbero dato cagione di pensare a Buonaparte, e frenato la sua audacia del volersi internare negli Stati ereditarii. Ma il capitano di Francia, che voleva pure che le sue armi romoreggiassero in Alemagna, parte per amore di gloria, parte per isperanza che chi parteggiava per la pace a Vienna si mostrerebbe tanto più vivo quanto più ei fosse vicino, non si rimaneva, che anzi spingendosi avanti, e già congiunto con lui Joubert, entrava vittorioso in Villaco, Lubiana e Clagenfurt. Così non restava a superarsi più altro ostacolo di luoghi a Buonaparte, perchè sulle sponde del Danubio vicine a Vienna facesse sentire la impressione delle sue armi, che la falda settentrionale delle Noriche Alpi, che la Drava dalla Mura dividono, debole impedimento per la facilità dei passi. La guerra d'Italia, che prima era picciola parte dei disegni franzesi, era divenuta, per tanto segnalate e tanto efficaci vittorie, parte principalissima; ed inaspettatamente il far forza all'imperadore, che si sperava pel direttorio dall'Alemagna, sorse dall'Italia; opera certamente che il direttorio medesimo, nè nissun governo, nè niuna persona al mondo, se non forse Buonaparte, avrebbe potuto, non che credere, immaginare, quando poco più di un anno avanti si combatteva nella riviera di Ponente sotto l'umile scoglio di Borghetto. Giunto a Clagenfurt, ed, avuto avviso che i partigiani della pace a Vienna facevano efficace opera per venire ai fini loro, pensava di usare il terrore impresso, perchè la parte loro prevalesse nelle consulte dell'imperadore. A questa deliberazione fu anche indotto dal sospetto di quello che potesse accadere alle sue spalle; perchè, sebbene il senato veneziano fosse debole, erano i popoli della terraferma gagliardi per lo sdegno concetto alle conculcazioni fatte dai repubblicani e minacciavano di far novità contro di loro. Al che erano anche incitati dalle rivoluzioni di Bergamo e di Brescia accadute per istigazioni segrete e palesi dei Franzesi e dei loro partigiani. Da un altro lato aveva Buonaparte sentito i primi romori di Kerpen e Laudon nel Tirolo e già la Croazia minacciava Trieste. Nè non gl'importava il simulare il desiderio della pace; perciocchè, se la pace seguiva a modo suo, otteneva l'intento, se non seguiva, sarebbe paruta la guerra opera dell'ostinazione altrui. Scriveva adunque il dì 31 marzo all'arciduca, l'Europa, sanguinosa desiderar la pace, desiderarla ed averne fatto dimostrazione il direttorio: «Voi foste, diceva all'arciduca, il salvatore dell'Alemagna, siate anche il benefattore dell'umanità: anche vincendo non potrete fare che non ne sia lacerata l'Alemagna; se questa mia proposta fosse per divenir cagione che la vita di un uomo solo si salvasse, bene sarei io più contento della meritata corona civica, che della fama acquistata in ulteriori vittorie.» Rispondeva l'arciduca, fare la guerra per debito, desiderare la pace per inclinazione; a nissuno più che a lui star a cuore la felicità dei popoli, ma non aver mandato per trattare intorno ad una faccenda di tanta importanza ed a sè non competente; aspetterebbe i comandamenti del suo signore. Data la risposta, mandava gli avvisi a Vienna, già molto turbata per l'avvicinarsi del nemico. Buonaparte intanto si faceva con prestezza avanti, sperando di far certo con la vittoria quello che tuttavia era incerto. Ma l'arciduca, che si era messo al fermo di voler temporeggiare, fuggendo la necessità del combattere, si tirava indietro, solo ritardando con grosse fazioni del retroguardo il perseguitar del nemico. Ritraevasi da San Vito, da Fraisach, da Newmarket; ritraevasi ancora da Unzmarket sulla Mura e da Judenburgo. Occupava Buonaparte i luoghi abbandonati, e si vedeva avanti le acque che dall'estrema falda dei norici monti se ne corrono per la dritta del Danubio; già le mura dell'antica ed invitta Vienna erano vicine a mostrarsi a' suoi soldati vincitori. Ma già da Vienna, ancorchè la condizione di Buonaparte fosse divenuta pericolosa per la subita comparsa di Laudon nella campagna di Brescia, per l'arrivo d'un colonnello Casimiro a Trieste mandatovi dall'arciduca, e per essere sul mezzo della fronte lo arciduca medesimo grosso e rannodato e con tutte le popolazioni all'intorno che dimostravano animo stabile nella divozione verso l'antico signore; arrivavano, all'alloggiamento di Judenburgo i generali Belegarde e Meerfelt con mandato di sospendere le offese e di comporre le differenze. Uditi benignamente dal generale di Francia, si accordarono, il giorno 7 aprile, che si sospendessero da ambe le parti le offese per sei giorni. Poi, scoprendosi sempre più inclinato Buonaparte a volere condizioni vantaggiose per l'Austria con offerire compensi, fu prolungata la tregua insino a che fossero accordati i preliminari di pace che, secondo il corso di quei negoziati, si vedevano non lontani. Infatti, essendosi dato perfezione a tutte le pratiche, si venne fra i plenipontenziari rispettivi alla conclusione dei preliminari nella terra di Leoben, il dì 18 del medesimo mese. Alcuni dei capitoli furono palesi, altri segreti. Fra i primi contenevasi, cedesse l'imperador alla Francia i Paesi-Bassi, riconoscesse le frontiere della repubblica quali le avevano le leggi franzesi definite, consentisse alla creazione d'una repubblica in Lombardia. Parlavasi nei segreti dei compensi da darsi all'imperadore; ma, essendosi stipulato che Mantova si restituisse all'imperadore medesimo, il direttorio non volle consentire questa condizione, certamente gravissima in sè stessa, e per gli effetti che portava con sè. Il rifiuto del direttorio fe' sorgere nuovi negoziati, pei quali finalmente fu consentita Mantova alla repubblica traspadana o lombarda che la si voglia nominare. Già precedentemente si è veduto che Bergamo era stato occupato da Buonaparte come istrumento potente a volgere a sua devozione l'animo dei popoli della terraferma veneta. Fu del tutto violento il modo e contrario a tutti gli usi della neutralità. Entrarono i repubblicani in Bergamo, Baraguey d'Hilliers li guidava, con cannoni ordinati a modo di guerra, con le micce accese, s'impadronirono delle porte, recaronsi in mano le artiglierie veneziane, intimarono al podestà Ottolini, facesse sgombrar dalla terra tutte le truppe venete; se nol facesse userebbero la forza. In tale guisa s'insignorirono di Bergamo coloro che accusavano Venezia della violata neutralità. Ma questo non era che il principio ed il fondamento delle trame che si ordivano. Erasi per opera di Buonaparte creata in Milano una congregazione segreta, nella quale entravano in gran numero i repubblicani italiani, ed il cui fine era di operare rivoluzioni nel paese veneziano. Alcuni Franzesi vi erano mescolati che intendevano ai medesimi fini. Tra questi, un Landrieux, capo dello stato maggiore di cavalleria, era stato eletto dalla congregazione qual operator principale a turbare le cose venete. Ma Landrieux, o che egli avesse per onestà di natura realmente in odio queste opere pestifere, o che per motivo meno sincero, come ne lo sospettò Buonaparte, avesse occulto intendimento con gl'inquisitori di stato di Venezia, fe' sapere, o per mezzo loro o immediatamente, ad Ottolini, che, ove una persona fidata a Milano mandasse per conferir con lui, le svelerebbe cose che massimamente importavano alla salute della repubblica veneziana. Mandava il segretario Stefani; trovava questi in Milano un avvocato Serpieri, romano, trovava Andrieux, che alloggiavanlo segretamente in casa Albani: affermava Landrieux a Stefani, essere onest'uomo, per questo avere in abbominio le rivoluzioni; già averne impedito una in Ispagna, voler impedire quella dello Stato veneto: avere fra un mese ad esser pace con l'Austria se fosse impedita la rivoluzione degli Stati veneziani, nel caso contrario, non esservi più modo di conciliazione; abbracciare Buonaparte nell'ambizione sua la sovranità d'Italia. Soggiungeva poscia che la rivoluzione dello Stato veneto era opera della congregazione segreta di Milano; dovere aver principio in Brescia, poi dilatarsi in Bergamo e Crema; uomini apposta, seminatori di denaro e di ribellione, essere sparsi fra i contadini delle valli, matura non essere ancora la trama, avere ad essere fra otto o dieci giorni: erano i 9 di marzo. Trattenessesi, esortava, in Milano Stefani, svelasse il tutto per un procaccio fidato a Battaglia, provveditore straordinario di Brescia; perchè, affermava, impedita la rivoluzione in Brescia s'impedirebbe anche negli altri luoghi. Trovava modo Stefani di tornare a Bergamo; ebbe raccontato il fatto ad Ottolini. Scriveva il podestà prestamente al provveditore straordinario Battaglia. Ma i congiurati, forse per avere avuto sentore o lingua degli avvisi dati da Landrieux, furono più presti a fare, che Ottolini e Battaglia ad impedire. Era la mattina del 12 marzo, quando un moto insolito si manifestava in Bergamo; i congiurati chiamavano il popolo a libertà; predicavano, aiutare i Franzesi l'impresa; fermavansi tratto tratto ai capi delle strade, poi di nuovo marciavano; guardie franzesi raddoppiate alle porte, cannoni condotti dal castello in piazza, due rivolti al palazzo; interrogato il comandante franzese dal podestà che cosa volesse significare questo, accusava pattuglie insolite di soldati veneziani e della sbirraglia. Erano in Bergamo due compagnie di cavalleria croata, due di fanti d'oltremare, tre d'Italiani, forse, con tutto questo, trenta sbirri; non montavano fra tutti a quattrocento; i Franzesi quattromila, se non mentivano le polizze, perchè per altrettanti forniva i viveri la provincia. Di quei pochi, col castello in mano, con tutte le artiglierie in suo potere, temeva il comandante. Insomma nasceva il romore, atterriti gli amatori dello Stato vecchio, imbaldanziti gli amatori del nuovo. Lefevre, comandante per Francia, fatti chiamare a sè i deputati alle provvisioni, intimava loro, avessero a sottoscrivere il voto per la libertà ed unione del Bergamasco alla repubblica Cispadana: se nol facessero, andrebbe la vita. In questo mezzo, due uffiziali repubblicani, l'Hermite e Boussion, presiedevano ai voti per la libertà ed unione alla Cispadana. Sottoscrivevano alcuni per amore, molti per forza. Era un andare e venire, una confusione, un trambusto incredibile. Scendeva la notte intanto e rendeva più terribile l'aspetto delle cose. In questo mentre si creava il municipio; toglievano i repubblicani lo stendardo veneto che ancora sventolava sulle mura del castello. Era ancor libero Ottolini; instava presso a Lefevre, comandante, della santità dei neutri ammonendolo. Ma Lefevre, deposta in tutto la visiera, faceva udire questo suono che il popolo di Bergamo era libero, che per questo egli aveva fatto torre lo stendardo veneto; che le intraprese lettere del podestà (queste erano le lettere con le quali Ottolini mandava agl'inquisitori di stato la nota dei congiurati, e che erano state intercette ed aperte da Lefevre) gli servivano di regola; che però egli, Ottolini, avesse a sgombrare tosto da Bergamo; quando no, il manderebbe carcerato a Milano. Mentre il comandante minacciava Ottolini, sopraggiungevano l'Hermite e Boussion, e con loro i conti Pesenti ed Alborghetti, in divisa e nappa franzese. Di bel nuovo intimavano ad Ottolini, partisse subito o sarebbe mandato a Milano. Partiva il podestà alla volta di Brescia, lasciando Bergamo in potere dei novatori; i soldati veneti, prima disarmati poi mandati a Brescia. Il nuovo magistrato municipale mandava fuori un manifesto per informare, come diceva, il popolo sovrano, che i municipali erano entrati in ufficio. Scriveva quindi il giorno medesimo in nome del popolo sovrano di Bergamo alla repubblica Cispadana, avere Bergamo conquistato la libertà, desiderare collegarla con quella della Cispadana; l'accettassero in amicizia, dessergli quella del popolo cispadano. Pubblicavansi frequenti scritti, parte seri, parte faceti, parte schernevoli sul lione di San Marco, sui piombi di Venezia, sugl'inquisitori di Stato, sulla tirannide di Ottolini, sull'aristocrazia, sull'oligarchia e simili altre parole greche: strana occupazione di menti nel condannare in altri ciò che era in sè. Quivi non si rimanevano le disgrazie della repubblica veneziana. Rivoltato Bergamo, volevano far mutazione a Brescia per vieppiù stabilire nella devozione altrui quelle provincie. Non aveva omesso Ottolini, quando era ancora in ufficio, d'informare il provveditore straordinario Battaglia della trama che si macchinava contro di questa città, e gli aveva mandato i nomi dei congiurati, dei quali non si era punto ingannato, consigliandolo ad aspettare che tutti fossero uniti, il che doveva accadere, secondo gli avvisi di Landrieux, il 21 del mese, e ad arrestarli e ad ucciderli. Inoltre, il rappresentante veneto a Milano Vincenti scriveva continuamente al provveditore straordinario, stesse avvertito, perchè la congiura era vicina ad aver effetto: si armasse, non si fidasse del comandante franzese del castello di Brescia perchè s'intendeva coi congiurati. Tutte queste cose turbavano l'animo del provveditore, e lo tenevano sospeso; non sapeva a qual partito appigliarsi; le artiglierie in mano de' Franzesi; il castello poteva fulminare la città. Scriveva Battaglia a Buonaparte, col quale aveva qualche entratura d'amicizia, macchinarsi in Brescia, contro lo Stato, da gente scellerata sotto nome di protezione franzese; e stantechè tutte le artiglierie venete erano in poter suo, richiederlo che lo accomodasse di sei ad otto, perchè si potesse difendere; richiederlo, oltre a ciò, vietasse ai soldati lombardi il passo per la città, frenasse chi si vantava della protezione di Francia. Dei cannoni nulla rispondeva Buonaparte; dei Lombardi e del frenare rescriveva, non doversi perseguitare gli uomini in grazia delle loro opinioni, non essere delitto se uno inclinava più ai Franzesi che ai Tedeschi, come se in questo caso si trattasse tra Franzesi e Tedeschi, e non tra ribelli ed uno stato al quale egli aveva tolto i mezzi di difesa; e come se ancora si trattasse di opinioni e non di fatti e di congiure contro lo Stato. Desiderava finalmente di vedere il provveditore. Accrescevano il pericolo ed il terrore i moti di Bergamo. Le cose si avvicinavano all'estremo fine. Ecco la sera del 17 marzo arrivare improvvisamente le novelle, essere giunti a Cocaglio circa sessanta ufficiali franzesi condotti da un Antonio Nicolini, Bresciano, aiutanti di Kilmaine, ed impedire il passo ad una squadra di cavalleria che da Brescia mandava il provveditore a Chiari. S'aggiungevano poco stante altri perturbatori, perchè una massa di circa cinquecento tra lombardi e bergamaschi, guidati da capi franzesi, si erano congiunti coi primi, ed armati con due cannoni, certamente avuti da' Franzesi, perciocchè portavano lo stemma imperiale d'Austria, viaggiavano verso Brescia. La mattina del 18 già erano vicini: il comandante di Francia faceva in questo punto aprir le cannoniere del castello che miravano ai palazzo. Dei congiurati, quasi tutti nobili, chi si era ritirato in castello, chi andato all'incontro de' lombardi, e chi sparso in vari luoghi eccitava il popolo a ribellarsi. Voleva Mocenigo podestà che si armassero i soldati della repubblica e con la forza si resistesse ai ribelli; Battaglia titubava per paura dei Franzesi, de' nobili e di tutto: certo il minor male che si possa dire di lui è che ebbe paura. La somma fu, che sottomessi gli amatori dell'antica repubblica dal popolo tumultuante, dalla gente armata che veniva di fuori, dalla connivenza manifesta dei repubblicani di Francia, dall'attitudine minacciosa del castello pronto a fulminare; poche, chiuse, ed ordinate a non resistere le soldatesche veneziane, fu in poco d'ora Brescia ridotta in potestà de' novatori. Cercavano Mocenigo per maltrattarlo; ma non fu trovato, ch'era fuggito. Arrestarono Battaglia, e per poco stette che non lo uccidessero. Lo serravano poscia in castello, dov'era custodito da soldati franzesi. Udivansi con grandissimo terrore le novelle di Bergamo e di Brescia a Venezia. Scriveva il senato le sue querele al ministro Lallemand; le scriveva al nobile Querini in Francia. Si rispondeva che non si sapeva capire, che i Franzesi non s'ingerivano, che la Francia era amica a Venezia, che qualche cosa si doveva pur dare alla natura delle soldatesche. Ma la importanza era in Buonaparte, divenuto padrone della somma delle cose in Italia. Però mandava il senato appresso a lui i due savi del collegio, Francesco Pesaro e Giambattista Corner, affinchè gli dimostrassero quanto offendessero la neutralità e la sovranità della repubblica le cose accadute in Bergamo ed in Brescia per opera de' comandanti franzesi, e quanto fossero contrarie alle protestazioni di amicizia che la repubblica di Francia continuamente ed anche recentemente aveva fatte a quella di Venezia. Oltre a ciò di nuovo ed asseverantemente protestassero dell'incorrotta fede e della costante amicizia del senato verso la Francia; stringesserlo a disapprovare pubblicamente la condotta de' comandanti delle due città ribellate ed a restituire i due castelli, fonti evidenti della ribellione; richiedesserlo infine che consentisse che il senato con le armi in mano rimettesse sotto la obbedienza i ribelli. Trovato in Gorizia il generale repubblicano, espostogli il fatto da' legati, rispondeva, non abbastanza ancora essere sicure le sorti della guerra, perchè potesse restituire alla repubblica i castelli occupati: potrebbe il senato fare quanto gli sarebbe a grado per sottomettere i ribelli, purchè le genti franzesi e gl'interessi loro non ne fossero offesi: del comandante di Bergamo, perchè questi più di quel di Brescia si era mescolato nella rivoluzione, ordinerebbe fosse condotto a Milano e processato; sarebbe, se colpevole, castigato: allegava, essere sincera la fede della Francia verso Venezia. Trapassando poscia più oltre, si offeriva ad usare le proprie forze per ridurre i novatori a devozione del senato, e che ove ne fosse richiesto, il farebbe. Toccava finalmente che sarebbe bene che Venezia più strettamente si congiungesse in amicizia colla Francia. Ma mentre affermava Buonaparte, essere in potestà del senato il fare quanto gli parrebbe conveniente per ridurre allo ordine i ribelli, pubblicava Landrieux a Bergamo, forse volendo ricoprire, con mostrar severità i sospetti, che potevano concepirsi di lui dai repubblicani di Francia e d'Italia, che nissuna gente armata sarebbe lasciata entrare nè in Brescia nè in Bergamo, e che se alcuna vi si appresentasse, questa avrebbe assalito, come nemico, con tutte le sue forze. Le cose però da più alta sede pendevano che da Landrieux, perchè visitato a Parigi dal nobile Querini uno dei cinque del direttorio, e dettogli, che poichè i Franzesi protestavano non volersi mescolare nel governo interno delle città venete, doveva riuscire cosa indifferente al direttorio se il senato rimettesse nel dovere i Bergamaschi, rispondeva risolutamente il quinqueviro, non lo sperasse e che finchè fossero in Bergamo truppe franzesi, non l'avrebbe mai il direttorio permesso. E terminava dicendo, che infine non toccava alla repubblica di Venezia a comandare alla Franzese, e che vedeva bene che i discorsi del Querini dimostravano che il governo veneto non si fidava della lealtà del direttorio, ma che se così fosse, avrebbe potuto farlo pentire. Da ciò si vede quale concetto si dovesse fare della condiscendenza di Buonaparte. Alle gravissime proposte del capitano di Francia si scuotevano i legati, parendo loro cosa enorme, pericolosa e di pessimo esempio, che soldati forastieri si adoperassero per tornare a devozione i ribelli della repubblica. Per la qual cosa negavano l'offerta, restringendosi con dire che, poichè i castelli erano in mano dei Franzesi e servivano di appoggio ai turbatori dell'antico Stato, ragion voleva, acciocchè si pareggiassero le partite, ch'ei facesse qualche dimostrazione pubblica per disapprovare i moti che si erano suscitati. Al che non consentendo rispondeva, che in mezzo all'ardore di quelle nuove opinioni che molto avevano aiutato le sue armi, sarebbe certamente incolpato se ora si dimostrasse avverso a coloro che si erano scoperti fautori del nome e delle massime di Francia; che solo a ciò fare si sarebbe piegato, quando il direttorio precisamente comandato glie l'avesse. Tornava poscia sul parlare di più stretti vincoli d'amicizia colla Francia, proponendo per esempio il re di Sardegna, ed affermava esser questo il mezzo migliore per frenar le rivoluzioni. Rispondevano i legati della repubblica, volere il senato l'amicizia di Francia; dell'alleanza risolverebbe quando, ritratta l'Europa da quell'immenso disordine e ricomposta in questo Stato, potrebbe con sicurezza di consiglio deliberare. A queste parole si alterava gravemente il vincitore: poi tornando sulle antiche querele, acerbamente rimproverava ai Veneziani il ricovero dato al conte di Provenza ed al duca di Modena, e l'aver ricettato i tesori di Modena e d'Inghilterra; a questo passo dimostrava voglia di por mano su di questi tesori; il che palesava quanto fosse in lui lo sprezzo della neutralità. Mentre il generalissimo di Francia, parte accarezzava, parte minacciava a Gorizia i legati di Venezia, lusinghiere parole pubblicava Kilmaine, generale che reggeva la Lombardia, biasimando il comandante di Bergamo. Ma come i fatti rispondessero alle parole di Kilmaine, o vere o finte che fossero, perchè la lettera che gli si attribuisce è di data incerta, il dimostrava pochi giorni dopo la rivoluzione di Crema, opera non solo certa, ma anche evidente delle truppe Franzesi. Occupavano violentemente la città, e, distrutta per la forza e per l'inganno l'autorità sovrana di Venezia sopra Crema, se ne givano affermando che i Franzesi erano buoni amici della repubblica di Venezia. Creavasi il municipio, piantavasi l'albero, ballavavisi intorno, appiccavasi una fune al collo del Lione di San Marco come se fosse tempo da ridere; facevasi la luminaria, gridavasi libertà. Il podestà fu lasciato partire senza offesa. Le rivoluzioni di Bergamo, di Brescia e di Crema facevano sorgere nuovi pensieri tanto nei capi franzesi, quanto nel senato veneziano, così come ancora fra i sudditi che si conservavano fedeli. Vedevano i primi che l'accessione di quelle tre principali città d'Oltremincio era di somma importanza ai loro ulteriori disegni. Principale fondamento ad ogni moto era Brescia, città ricca, popolosa, abbondante d'uomini fieri e bellicosi. Quivi pur accorrevano Dombrowski co' suoi Polacchi, Lahoz co' suoi Italiani, e davano incentivi con le parole, animo con le forze, esempio con l'ordinate schiere. Pavesi, Lodigiani, Milanesi, Bergamaschi, Napolitani vi arrivavano continuatamente, chi con lingue pronte per orare, chi con penne per iscrivere, chi con armi per combattere. La sollevazione, l'impeto, la concitazione andavano al colmo; le minacce e gli scherni che facevano contro i patrizi erano incredibili. Già si persuadevano, che alla loro prima giunta dovesse andar sossopra tutta ed a ruina la veneziana repubblica. Lahoz, Gambara, Lecchi ed un Mallet, generale di Francia, anch'egli mescolato in questi moti, trionfavano. Preparata la strada alla rivoluzione delle altre parti della terraferma veneta situate sulla destra del Mincio, per mezzo massimamente della potente Brescia, innalzavano i sollevati l'animo a maggiori cose, proponendosi di turbare anche i paesi posti sulla riva destra dell'Adige, principalmente Verona tanto importante per la sua grandezza e per essere passo del fiume. Mentre ne tramavano gl'inganni, non erano le cose sicure pei Franzesi, che tuttavia si trovavano a fronte dell'arciduca sulle rive del Tagliamento. Il capitano Pico, che aveva anche avuto al medesimo tempo carico da Buonaparte di macchinare in Verona contro i Veneziani, gli rappresentava che il moto di lei sarebbe riuscito pericoloso e di esito molto incerto, stantechè l'arciduca gli stava ancora davanti molto poderoso: esortava pertanto, aspettasse tempo più propizio. Rispondeva, gisse pure e sommuovesse Verona. Nè in Brescia stavano oziosi i novatori rispetto a quella città. Le insidie ordite per ribellar Verona erano venute a notizia del governo veneto, non solamente per le dimostrazioni tanto palesi dei Bresciani sollevati, ma ancora per segreti avvisi di alcuni fra quegli stessi che macchinavano. Pensava pertanto al rimedio contro sì grave pericolo. Vi mandava, con dar voce di cagioni diverse dai sospetti, parecchi reggimenti di Schiavoni; vi mandava due provveditori straordinarii, Giuseppe Giovanelli, giovane animoso e prudente, e Nicolò Erizzo, uomo di natura molto calda ed amantissimo del nome veneziano. Ma perchè le radici della forza erano nel paese, dava facoltà amplissima al conte Francesco degli Emilii, personaggio ricchissimo e di molto seguito, acciocchè armasse la gente del contado, promettesse e desse soldi, ogni e qualunque cosa che in poter suo fosse, facesse per isventare le macchinazioni dei repubblicani. Accettava volentieri il carico il conte Emilii, e tra per l'autorità del suo nome e l'efficacia delle sue ricchezze faceva non poco frutto, soldando gente, provvedendo armi, ammassando munizioni, traendo a sè buoni e cattivi per tenere in piedi la insidiata repubblica. Faceva compagni alla sua impresa il conte Verità ed il conte Malenza co' suoi due figliuoli, uomini anch'essi molto infiammati nel difendere l'antico dominio dei Veneziani. Il secondavano efficacemente i preti ed i frati con le esortazioni loro, alle quali maggior forza accrescevano lo strazio testè fatto del papa, e lo spoglio di Loreto: gli animi, già infieriti per tante ingiurie, di maggior veleno s'imbevevano per l'oltraggiata religione. Accresceva lo sdegno lo orribile governo che facevano delle provincie le truppe repubblicane, sì quelle che stanziavano, come quelle che viaggiavano. Vieppiù inaspriva i popoli una ingiustizia manifesta, perchè i bagagli rapiti dai Tedeschi in guerra erano fatti pagare dai comuni. Dava nuovo animo ai Veronesi il fatto di Salò; perchè andata contro questa terra una grossa squadra di Bresciani, mista di Polacchi e di qualche Franzese, fu rotta con non poca strage dai Salodiani aiutati dagli abitatori della valle di Sabbia. Queste erano le masse ordinate dall'Ottolini ai tempi del suo ufficio in Bergamo. Lodevole esempio di fedeltà e di ardire dava nello fazione di Salò il provveditore Francesco Cicogna. I prigioni fatti a Salò, che arrivarono a più di cento, furono condotti a trionfo per Verona; i sudditi, carcerati come rei di Stato. La vittoria dei Salodiani rinvigoriva gli animi sbigottiti in tutta la terra ferma. Armavansi a gara i popoli e protestavano della fede loro verso il senato. E questo moto fu apposto a delitto ai Veneziani dai Franzesi e da' lor partigiani. Le insidie contro Venezia alle raccontate cose non si rimanevano. I moti della terraferma erano spontanei e solo cagionati dalla rabbia concetta dai popoli infastiditi delle insolenze e sdegnati dalle ingiurie dei forastieri. Perciò il senato li poteva qualificare come opera non sua e sempre protestare, quanto spetta alla direzione dei governo, della perfetta neutralità. Ma i capi delle rivoluzioni in Italia, secondando il talento proprio, e, credendo di far cosa grata al generalissimo, pensarono di fabbricare una menzogna, ed apponendo un atto falso ad uno dei magistrati più principali, far in modo che il governo veneziano egli medesimo paresse colpevole di ree instigazioni contro i Franzesi. Inventarono adunque e pubblicarono un manifesto attribuendolo a Battaglia, provveditore straordinario per la repubblica in terra ferma, col quale si stimolavano i popoli a correre contro i Franzesi e ad ucciderli. Fu questo manifesto composto per opera di un Salvadori, novatore molto operativo di Milano e rapportatore palese e segreto di Buonaparte, poi caduto in miseria tale che, gittatosi in fiume a Parigi, terminò con fine disperato una vita poco onorevole. Tornando al manifesto, fu egli stampato in un giornale che si scriveva in casa del Salvadori da patriotti molto migliori di lui, ma portati ancor essi dalla illusione e dalle vertigini di quell'età. Quantunque astutamente gli sia stata apposta la data del 20 marzo, uscì veramente al 5 aprile, tempo opportuno perchè Buonaparte arrivato a Judenburgo a questo tempo, e già fatto sicuro della pace con l'imperadore, non aveva più timore delle masse veneziane. Non daremo nè il manifesto nè le parole gravissime nelle quali in tale proposito proruppe uno storico famoso; ma dobbiam dire che il manifesto si spargeva in copia dai patriotti e dai capi franzesi, massimamente da Landrieux. Nè credendo i macchinatori di questa fraude, che tutto l'operato fin qui bastasse, perchè i popoli vi prestassero fede, Lahoz, capo e guida di tutte le genti Lombarde e Polacche, gli avvertiva con bando pubblico che la neutralità era stata rotta dai tradimenti di Battaglia, il quale, soggiungeva, si era pazzamente persuaso che «Voi altri contadini, privi in tutto di arte militare, sareste, i vincitori dei Franzesi, la prima nazione dell'universo pel coraggio e la scienza della guerra. Sappiate adunque che il generale Buonaparte ha ordinato che Battaglia sia messo in ferri ed impiccato; che saranno pure impiccati coloro che v'inciteranno alla ribellione; le vostre case saranno arse, le famiglie desolate; uscite d'errore e presto; deponete le armi, portatele al comando di Brescia, mandategli deputati; quando no, perirete tutti.» Queste ingannevoli dimostrazioni si facevano dagli autori stessi del manifesto per far vedere ai popoli ch'ei fosse vero; e que' ferri e quelle forche erano trovati bugiardissimi, perchè Battaglia, trovandosi allora in Venezia, non era in podestà loro nè di farlo arrestare nè di farlo impiccare. Allontanava da sè Battaglia l'infamia del manifesto con ismentirlo; lo smentiva solennemente il senato. Ma nulla giovava; perchè i tempi erano più forti delle protestazioni. Rivoltate le regioni d'oltre Mincio dall'antico dominio de' Veneziani, era spianata la strada alla distruzione di quel nobile ed innocente Stato. Restava che le condizioni divenissero tanto sicure rispetto agli Austriaci, che si potesse senza pericolo mandar fuori quello che già da lungo tempo si era il generalissimo nell'animo concetto. A questo gli dava occasione la tregua sottoscritta coi legali dell'imperadore il dì 7 aprile a Judenburgo. Ed in fatti non così tosto l'ebbe firmata, che incominciò le dimostrazioni ostili contro i Veneziani; il che mandò ad esecuzione in varii modi, ma che tutti tendevamo al meedesimo fine. Primieramente mandò il suo aiutante Junot con amare condizioni a fare un violento ufficio a Venezia non senza grave ferita alla dignità della repubblica. Arrivato Junot, altieramente richiedeva per parte del generalissimo di essere udito incontanente in pien collegio dal serenissimo principe. Correvano allora i giorni santi; era il sabbato, in cui per antico costume non sedevano i magistrati, intenti in quel giorno a celebrar nelle chiese i divini misteri. Ne avvertivano Junot; ma egli, giovane impaziente mandato da un giovane impazientissimo, insisteva dicendo o l'udissero subito o appiccherebbe le cedole della guerra ai muri. Credettero i padri che il derogare all'uso antico fosse minore scandalo di quanto era capace di commettere quel soldato, e consentirono ad udirlo la mattina del sabbato. Introdotto in collegio, dov'erano adunati il doge, i suoi sei consiglieri, i tre capi della quarantia criminale, i sei savi grandi, i cinque di terraferma ed i cinque agli ordini, leggeva una lettera che scriveva Buonaparte al doge il dì 9 aprile da Judenburgo, ed era questa: «Tutta la terraferma della serenissima repubblica di Venezia è in armi: in ogni parte sollevati ed armati gridano i paesani morte ai Franzesi; molte centinaia di soldati dell'esercito Italico già sono stati uccisi, invano voi disapprovate le turbe raccolte pei vostri ordini. Credete voi che nel momento in cui mi trovo nel cuore della Germania, io non possa far rispettare il primo popolo dell'universo? Credete voi che le legioni d'Italia sopporteranno pazientemente le stragi che voi eccitate? Il sangue de' miei compagni sarà vendicato: a sì nobile ufficio sentirà moltiplicarsi a molti doppii il coraggio ogni battaglione, ogni soldato franzese. Con empia perfidia corrispose il senato di Venezia ai generosi modi usati da noi con lui. Il mio aiutante, che vi reca la presente, è portatore o di pace o di guerra. Se voi subito non dissolvete le masse, se non arrestate e non date in mia mano gli autori degli omicidii, la guerra è dichiarata. Non è già il Turco sulle frontiere vostre, nissun nemico vi minaccia, d'animo deliberato voi avete inventato pretesti per giustificar le masse armate contro l'esercito: ma ventiquattr'ore di tempo e non saran più: non siamo più ai tempi di Carlo VIII. Se, contro il chiaro intendimento del governo franzese, voi mi sforzate alla guerra, non pensate per questo che, ad esempio degli assassini che voi avete armati, i soldati franzesi siano per devastar le campagne del popolo innocente e sfortunato della terraferma. Io lo proteggerò, ed egli benedirà un giorno sino i delitti che avranno obbligato l'esercito franzese a liberarlo dal vostro tirannico governo.» Qui non è bisogno d'aggiugner discorsi per giudicare di così fatta intimazione. Solo si debbe avvertire che i paesani, che difendevano il loro sovrano, non si sarebbero mossi e non avrebbero ucciso i soldati franzesi se gl'insidiatori non avessero seminato la ribellione. Del resto alcuni pur troppo furono uccisi, ma non a centinaia come la solita gonfiezza ebbe allegato. Ridotto il principe di sì antica e nobile repubblica a condizione tanto abbietta, rispose pacatamente, delibererebbe il senato; avere sempre nodrito sentimenti di lealtà e di amicizia verso la nazione franzese. Intanto le crudeli calunnie, l'incredibile insulto, le disgrazie imminenti avevano riempito l'animo de' circostanti di orrore e di terrore. Acerbe lettere scriveva il dì medesimo del 9 aprile il generalissimo a Lallemand: non potersi più dubitare che lo armarsi de' Veneziani non avesse per fine di serrare alle spalle l'esercito di Francia; non aver mai potuto restar capace del come Bergamo, città fra tutte le altre degli Stati di Venezia dedita al senato, si fosse armata contro di lui; meno ancora potuto comprendere come per calmare quel piccolo ammutinamento abbisognassero venticinque mila armati, nè perchè quando si era Pesaro abboccato con lui in Gorizia, avesse rifiutato la mediazione di Francia per ridurre ad obbedienza i paesi sollevati; gli atti dei provveditori di Brescia, Bergamo e Crema, in cui si affermava essere la sollevazione opera de' Franzesi, esser bugie inventate a disegno per giustificare in cospetto dell'Europa la perfidia del senato veneziano; avere il senato usato la occasione in cui egli, inoltratosi nelle fauci della Carintia, aveva a fronte il principe Carlo, per mandar ad effetto una fraude che sarebbe priva d'esempio se non fossero quelle ordite contro Carlo VIII ed i Vespri Siciliani; essere stati i Veneziani più accorti di Roma, poichè avevano usato il momento in cui i soldati erano alle mani con gli Austriaci; ma non aver ad essere i Veneziani più fortunati di Roma; la fortuna della repubblica Franzese, stata a fronte di tutta Europa, non si romperebbe nelle lagune veneziane. Dette queste cose, annunziava le accuse contro i Veneziani: avere una nave veneziana, a fine di tutelare una conserva tedesca, combattuto la fregata franzese la Bruna; essere stata arsa la casa del console a Zante, insultato il console stesso; averne mostrato allegrezza il governatore; dieci mila paesani armati e pagati dai senato aver ucciso tra Milano e Bergamo cinquanta Franzesi; piene essere, malgrado delle promesse di Pesaro, di soldati Verona, Padova e Treviso; arrestarsi in ogni luogo gli amici della Francia; gridarsi per ogni parte morte ai Franzesi; furibondi i predicatori pubblicare da ogni cattedra la volontà del senato, stimolare contro la Francia; vera ed effettiva condizione di guerra essere tra Francia e Venezia; saperlo Venezia stessa, che altro modo non trovava di giustificarsi, che il disapprovare con parole quelle masse che coi fatti armava e pagava: domandasse adunque Lallemand, conchiudeva, a Venezia, che risolutamente rispondesse se avesse pace o guerra con Francia: se guerra, partisse incontanente; se pace, domandasse che i carcerati per opinione e di non altro rei che di amare i Franzesi, fossero rimessi in libertà; che tutti i presidii, salvo gli ordinarii quali erano sei mesi prima, uscissero dalle piazze di terraferma; che tutti i paesani si disarmassero e si riducessero alla condizione di un mese prima; provvedesse il senato, che le cose fossero in terraferma tranquille e sicure, e non pensasse solo alle lagune: gl'incenditori della casa del console a Zante si punissero, e la casa si ristorasse a spese della repubblica; il capitano, che aveva combattuto la Bruna, si punisse, ed il costo della conserva nemica, protetta contro i patti della neutralità, si rimborsasse: quanto alle turbazioni di Bergamo e di Brescia, offerisse la mediazione della Francia per ridur di nuovo le cose allo stato quieto. Faceva Lallemand l'ufficio, i comandamenti di Buonaparte al senato rappresentando. Rispondeva per bocca del doge il senato a Buonaparte: «Nella somma amaritudine che ha sentito il senato nel conoscere dalle vostre lettere avere l'animo vostro concetto sinistre impressioni sulla ingenuità della nostra condotta, ci riesce di qualche conforto il vederci aperta la via di poterle pienamente dileguare con le pronte e precise nostre risposte. Vuole il senato ed ha sempre voluto vivere in pace ed amicizia con la repubblica di Francia, e piacergli in questo punto ratificare solennemente questa sua risolutissima volontà. Nè potrebbe certamente una così aperta e così solenne dichiarazione venir oscurata da accidenti, che con lei non hanno correlazione alcuna: poichè, sorta la fatale e del tutto inaspettata rivoluzione nelle città nostre oltre Mincio, la fede e l'amore delle popolazioni le fece correre spontaneamente all'armi col solo intento di frenar la ribellione, e di respingere le violenze dei sollevati. A questo unico fine implorarono esse dal proprio governo assistenza e presidii; che se in tanto turbamento di cose sorsero alcuni accidenti disgustosi, alla confusione inevitabile debbono unicamente non alla volontà del governo attribuirsi. Tanto è alieno da essi il senato che, per allontanare anche il più rimoto pericolo, ha con recente manifesto comandato ai sudditi, che contro i sollevati non istessero ad usar le armi, se non nel caso della propria difesa. Ma essendo noi su tale argomento disposti a secondare con le opportune risoluzioni i vostri desiderii, bene conoscerà l'equità vostra che al tempo medesimo diventa necessario che l'amore volontario delle popolazioni fedeli verso di noi e la comune nostra tranquillità siano guarentite da insulti esterni e da perturbazioni interne. Vuole ed è pronto il senato a soddisfarvi dell'altra richiesta, per castigo e consegna di coloro che han commesso uccisioni sulle persone dei vostri soldati, e sarà per noi diligentemente ordinato che siano conosciuti, arrestati, secondo i meriti loro, castigati. Per conseguire più acconciamente ed a contentezza d'ambe le parti tutti i raccontati effetti, mandiamo due legati a voi, dai quali intenderete la somma compiacenza nostra e quanto grato ci sarebbe, che voi interponeste l'efficace vostra autorità verso il vostro governo per ricondurre all'ordine ed al primiero stato le città d'oltre Mincio che si sono da noi allontanate. Con questo vi confermiamo di nuovo e protestiamo la costanza e la sincerità dei nostri sentimenti verso la vostra repubblica, in un con la molta osservanza in cui abbiamo la vostra illustre e riputata persona.» Deputava il senato per alleggerire i sospetti e per intrattenere Buonaparte dall'estremo fato della patria, Francesco Donato e Leonardo Giustiniani. Intanto funeste novelle, consentanee all'aspetto delle cose presenti ed annunziatrici di ultima ruina, arrivavano da Vienna e da Parigi. Simili cose scriveva il nobile Querini pur da Parigi, ma come se velate da maggior dissimulazione alle orecchie sue pervenissero; perchè ora erano minacciose le parole del direttorio ed ora dolci; ora accusava Venezia ed ora la scusava; e da tante ambagi niuna cosa certa poteva ritrarre l'ambasciatore veneto, se non che si macchinava qualche gran trama contro la repubblica. Ma perchè non mancasse alcuna lagrimevole condizione in così grave e così vicino pericolo, fu provato da gente vendereccia di sottrarle denaro sotto promessa di salute. Un certo Viscovich, di nazione Dalmata, si appresentava al nobile Querini, dicendo che era in mano sua il salvare la repubblica; che in quel punto stava deliberando il direttorio se convenisse spegnere le rivoluzioni della terraferma con dar mano forte al senato, o di condurle a compimento con dare fomento ed aiuto ai ribelli; che due Direttori erano in favore della repubblica, due contro, il quinto in pendente; che quello era il tempo di spendere per la salute comune; che ove il senato volesse dar sette milioni di franchi, Venezia sarebbe preservata; che di presente abbisognavano seicentomila franchi pel direttore titubante con altri centomila pei beveraggi agl'intromettitori. Rispondeva Querini, non avere autorità di obbligare il pubblico per tanta somma. E brevemente, pressato poi dal Viscovich, che la cosa era alle strette, che quello non era tempo da perdere, che se non prometteva, in quel giorno stesso si statuiva la morte della repubblica, si lasciava tirare al dir del sì per somma sua divozione verso la patria e sottoscriveva biglietti per seicentomila franchi sopra Pallavicini di Genova, con patto che stessero in deposito finchè non avesse in sua mano una lettera scritta dal direttorio a Buonaparte, intimatrice del dover frenare i faziosi della terraferma e ridurre le città sotto il dominio. La lettera non potè avere Querini; bensì gli fu consegnata una carta col titolo in fronte e con la marca del direttorio esecutivo e sottoscrizione del segretario di Barras, per cui si affermava, che la lettera del descritto tenore era stata scritta dal direttorio a Buonaparte. Fu il trattato approvato dal governo a Venezia: mandavasi al console di Genova, s'intendesse con Pallavicini perchè obbedisse le cambiali del Querini. Stava in aspettazione l'ambasciadore di quello che avesse a succedere: ma, vedendo le cose della terraferma andar sempre di male in peggio, richiedeva Viscovich della restituzione dei biglietti. Negava il Dalmata la restituzione. Furono presentati a Querini nel mese di luglio in Venezia, dopo il cambiamento dello Stato, acciocchè ne effettuasse il pagamento: li protestava; fu carcerato ed esaminato per ordine del direttorio per querela di aver voluto corrompere il governo franzese. Questa fu veramente un'arte cupa; perchè se vi fu corruzione, e certamente in qualcuno fu, ella non andò già da Querini ad altri, ma da altri a Querini. Intanto un accidente, frutto di una vituperevol fraude da una parte, accompagnato da un'estrema crudeltà dall'altra, famoso al mondo per l'importanza sua e pel paragone di un altro fatto rinomato nelle storie, era vicino a sorgere nella principale città della veneta terraferma. Abbiamo già raccontato come i repubblicani si erano messi in punto di far rivoltare contro il senato lo Stato veneto. Insidiarono principalmente Verona. I suoi agenti non lasciavano alcuna cosa intentata, e la popolazione veronese contaminavano con promesse agli avidi, con istimoli agli ambiziosi, con mostra di libertà, con abbominazione di tirannide agli amatori del vivere libero. Il senato, all'incontro, avendo avuto sentore anzi certezza delle trame di Verona, vi aveva mandato, come già dicemmo, provveditori straordinari, uomini di fede e di virtù, con un forte polso di genti schiavone. Vi arrivavano oltre a ciò i villani dei contorni, ai quali erano state messe in mano le armi: erano una massa considerabile. Stavano anche le parti vigilanti, l'una per impedire gli effetti delle suggestioni e delle sommosse d'oltre Mincio, l'altra per aiutarli. Gli animi infiammati dall'un canto, arrabbiati dall'altro, insospettiti tutti, si mostravano pronti non solo ad usare le prime occasioni gravi, ma ancora a prorompere per le più leggieri, ed una voce, un suono, un segno che uscisse, potevano partorir una generale commozione. In tanta concitazione reciproca le cagioni potevano nascere egualmente dall'una e dall'altra parte. Era debole il presidio franzese in Verona nè atto per sè a tanta mole: ma si sperava nei maneggi segreti e nell'opera de' novatori, ed, oltre a ciò, incominciava a scoprirsi nel Padovano la schiera di Victor. Si accostava inoltre Lahoz coi Lombardi e Polacchi, accostavansi le masse repubblicane di Brescia e di Bergamo ed il forte presidio di Mantova poteva dare da luogo vicino nervo all'impresa. Intanto il capitano Carrere, comandante di Verona, soldato amantissimo della repubblica, ma probo e religioso, vedendo il pericolo, tratteneva ogni Franzese che da Francia venisse o in Francia ritornasse, per modo che riuscì a raccorre circa ottocento soldati. Arrivavano poco stante duecento Cisalpini, valorosa gente capitanata in gran parte da Franzesi ed assai disposta a secondarli. Già segni annunziatori di quanto doveva succedere si spargevano per le campagne; erano in ogni luogo minaccie, mischie ed uccisioni. Incessantemente si predicava, volere i Franzesi fare una rivoluzione per impadronirsi delle sostanze de' popoli, e singolarmente del monte di pietà, dov'erano grandissime ricchezze. Succedevano in Verona stessa ad ogni momento minaccie tra Franzesi e Schiavoni, succedevano altercazioni frequenti tra Franzesi e Veronesi, ed allora gli Schiavoni si allontanavano. Godeva il provveditore nel vedere animi sì pronti e tante difese apprestate; raccomandava l'ordine e la quiete, comandava non offendessero persona; solo stessero armati e pronti. Preparavansi i magistrati a propulsare qualunque assalto; il generale Balland, surrogato a Kilmaine nel governo militare di Verona, sollevato d'animo a tanti romori, scriveva al provveditore, esortandolo a provvedere che i disordini cessassero. Rispondeva il Veneziano che il farebbe, sempre anzi averlo fatto, ma toccava rimproverando i maneggi degl'insidiatori, mandati a posta per sommuovere le provincie. Era il dì 17 aprile, secondo giorno di Pasqua, quando, alle ore quattro meridiane, scoppiava ad un tratto la terribil sollevazione veronese. Incominciava da insulti e da minori fatti da' soldati veneziani e da' Veronesi armati, contro le guardie franzesi sparse in varii luoghi della città. Il comandante Carrere, veduto quanto il tempo fosse minaccioso, ristringeva i suoi sulla piazza d'armi, pronto a correre dove bisogna fosse. In cotal guisa stava armato e raccolto lo spazio di un'ora, quando Balland fece trarre, erano le cinque della sera, qual segno di guerra, cannonate da' castelli. A quel rimbombo si conduceva spacciatamente Carrere con la sua schiera nel Castel-Vecchio, contro il quale già combattevano i Veronesi dalle case vicine. Il rumore inaspettato delle artiglierie franzesi diè cagione di credere ai Veronesi già tanto infiammati che fosse intenzione di Balland di trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono punto; perchè poco dopo traeva furiosamente contro il palazzo pubblico, che ne fu lacero e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le creste del palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento lo aspetto della città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro i Franzesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare di campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla cosa. Dei Franzesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli, massime al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma non fu senza pericolo, perchè rabbiosamente li seguitava il popolo che li voleva ammazzare e bersagliandoli dalle finestre con palle, con sassi, con ogni sorta d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e mortale. Il furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora i vecchi, le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un sangue odiato le ingiurie ed i patimenti. Molti de' Franzesi in tal modo fuggenti restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito. Chi non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza ne' più segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano loro sicure; perciocchè non pochi, rottasi da' padroni la ospitalità, vi restarono miseramente uccisi. Alcuni furono gittati ne' pozzi, altri trafitti da' pugnali, altri risospinti fuori delle porte, perchè fossero segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida orribili, fra il rimbombo delle artiglierie dei castelli, fra i tocchi incessanti del suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori dell'esercito, molte donne, molti fanciulli, molti erano ammalati in Verona, e questi furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte da un popolo che pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le ingiurie, le ruberie, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro di lui contaminato il nome di Francia. Ma la pressa, le minaccie, la crudeltà, che il cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanta infinita barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati alcuni furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere, nè la debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei quali null'altra cosa di uomo restava che il volto. Se per assenza di vittime pareva un poco acquetarsi il furore, tosto si riaccendeva più fiero di prima ove fosse scoperto un Franzese; e di nuovo si dava mano alle stragi. Non in meno pericolosa condizione si ritrovavano i patriotti o veronesi o forastieri: che anzi maggiore contro di loro si mostrava la rabbia del popolo che con più diligenza li cercava, e quanti potè aver nelle mani, tanti uccise. Ma i più si erano ricoverati ne' castelli, altri conficcati ne' nascondigli passarono fra la speranza ed il timore parecchi giorni. Ma non tutto fu barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi Veronesi, ed il conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi degli insorti, conservarono, nascondendoli, a molti Franzesi, la vita, atto tanto più degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui correvano pericolo della propria. Spargevasi intanto per le campagne il grido del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida e le stragi ricominciavano, nè cessarono le uccisioni se non quando non vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli Ebrei, oltre l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già i fondachi del pubblico pericolavano; e non fu poco che i provveditori potessero impedire che coloro i quali sì ferocemente combattevano per Venezia le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Correva il sangue per le case, correva per le contrade, i castelli tuonavano, gli Schiavoni infuriavano: anzi uniti al popolo, volevano dar l'assalto a quei nidi, come dicevano, dove si erano confinati i tiranni d'Italia. Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni, avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli animi veronesi nè il trarre continuo dei castelli il comportavano, ma frenare la barbarie ed introdurre ordine e misura là dov'era solamente confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero, che per poco il popolo non l'aveva per sospetto e si proponeva, posposta l'autorità di lui, di voler fare da sè. Importava intanto l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte che tuttavia si trovavano in possessione dei Franzesi. Il maggior presidio era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilii, che alloggiava nella terra di Castel Nuovo con due pezzi di cannone, seicento Schiavoni, due mila cinquecento contadini, e fronteggiava un grosso corpo di Franzesi e d'Italiani affinchè non corressero contro Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente in suo aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il presidio, recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con tutti i suoi, il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso della porta Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio il conte Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare liberamente e soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli Emilii, assalivano i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente il Vecchio, e più fortemente dentro di essi si difendevano i Franzesi, certi essendo, che in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati morti i non combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la possessione dei luoghi, ma ancora la salute e la vita loro. Il maggior propugnacolo che avessero era il castello montano di San Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto un grosso alloggio a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a battere quel castello; che anzi, più oltre procedendo, avevano piantato due cannoni in San Leonardo, donde per essere il sito sopraeminente al castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Franzesi uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivano stragi, incendii, ruine. I villici avevano di volontà propria spedito corrieri al generale austriaco Laudon; Balland aveva dato avviso a Chabran, a Brescia, ed a Kilmaine, in Mantova; Victor medesimo era stato da lui avvertito del pericolo: anche da Bologna s'accostava una schiera per istringere la città combattente. Giovanelli, considerato il nembo che da ogni parte gli veniva addosso, aveva aperto una pratica d'accordo con Balland, la quale però non ebbe effetto, perchè il generale di Francia richiedeva, per prima ed indispensabile condizione, che i villani deponessero le armi, si riaprissero le strade alle comunicazioni dello esercito, il presidio veneziano alle poche genti di prima si riducesse. Non erano alieni i magistrati della repubblica dallo accettar queste condizioni; ma le turbe di campagna, tuttavia infiammate, non volevano a patto nissuno udire che avessero a deporre le armi: viemmaggiormente s'infuriavano. Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa che rappresentavano essere mescolata con la causa dello Stato la causa della religione. Generavano i discorsi loro effetti incredibili. Stupivano massimamente e s'infiammavano le genti ad uno spettacolo maraviglioso che sorse in mezzo a quella avviluppata tempesta, e questo fu di un frate cappuccino che predicava ogni giorno sulla piazza, stando attentissimo il popolo affollato ad ascoltarlo. Le parole sue, dette e replicate più volte, destavano negli animi già tanto concitati degli ascoltanti uno sdegno incredibile. Provocavansi gli uni gli altri; già i castelli stessi parevano debole ritegno al loro furore. Mentre tanto disperatamente si combatteva in Verona, succedeva in Venezia un caso pieno di insolenza ad un tempo e di crudele risentimento. Aveva il senato comandato, seguendo un antichissimo istituto ed a cagione dei romori presenti, che nissuna nave forestiera, che fosse armata, potesse entrare nell'estuario; il quale divieto era stato significato a tutti i ministri delle potenze estere residenti in Venezia, ed il Franzese ne aveva come tutti gli altri avuto notizia. Eranvisi uniformati gl'Inglesi stessi, parendo a tutti giusta e conveniente cosa, com'era veramente, che non si dovesse turbare con la presenza d'armi forastiere la sede del governo. Ma ecco la sera del 20 aprile avvicinarsi al Lido di san Nicolò un legno armato in forma di corsaro con intenzione evidente di entrar nel porto. Si scoverse legno Franzese condotto dal capitano Laugier. Domenico Pizzamano, deputato alla custodia del Lido, gli mandava significando il divieto del senato e lo esortava a non rompere una legge sovrana, alla quale l'Inghilterra medesima aveva obbedito. Il capitano, o per insolenza propria o altrimenti che fosse, non curando le esortazioni del Pizzamano e seguitando il suo cammino, sforzava la bocca del porto e vi poneva l'ancora con violazione manifesta d'una legge veneziana in Venezia. Mentre passava per la bocca, traeva di nove colpi di cannone, come per salutare, secondo gli usi di mare, la bandiera veneziana; pensiero veramente strano del volere, con pubblica dimostrazione, render onore ad una potenza nel momento stesso in cui sotto gli occhi del suo principe la sua sovranità si oltraggiava, ed una sua principalissima legge apertamente si violava. Il tiro dei cannoni franzesi, giunto alla violenta entrata nel porto, diè motivo di credere al comandante veneziano che si covasse qualche macchinazione o dentro o fuori. Perilchè, allestiti ancor esso i suoi cannoni, traeva rendendo fuoco per fuoco, contro il legno franzese. Era da arrestarsi il legno, ed obbligarlo, senza fargli altro danno, ad uscir del porto. Ma le cose non si rimasero a queste prime dimostrazioni, nè poteva essere che più oltre non procedessero a cagione degl'incredibili sdegni che allora passavano tra una nazione e l'altra; imperciocchè trovatosi Laugier tra legni di Schiavoni, gente avversa al nome di Francia e devota a Venezia, assaltavano con grandissima forza e con arma bianca la nave del capitano franzese, nella quale sfogando, troppo più che all'umanità si converrebbe, l'odio loro, commettevano atti di un'estrema ferocia. Morirono in questa sanguinosa avvisaglia cinque Franzesi, fra i quali il capitano medesimo: otto restarono feriti; che anzi se gli ufficiali degli Schiavoni non avessero frenato il furore dei soldati loro, i marinari del legno sarebbero stati fino all'estremo uccisi. Il legno divenne preda degli assalitori. Lodava il senato con pubblico decreto Pizzamano e gli ufficiali; largiva di un caposoldo i gregari; mandava un sunto del fatto ai legati Donato e Giustiniani acciocchè il rappresentassero a Buonaparte, temendo, non senza cagione, che da altri gli fosse annunziato con esagerati rapportamenti. Il ministro di Francia, mostrandosi sdegnato, ricercava il senato che cercasse Pizzamano, arrestasse i complici, restituisse gli arnesi, risarcisse il legno. Restituissi, risarcissi; delle carcerazioni si soprassedette fino alla risposta di Buonaparte. Terrore era in Venezia e terrore in Verona. Le cose in quest'ultima si avvicinavano da un funesto mezzo ad una funesta conclusione. Combattevano tuttavia i Veronesi col medesimo ardore; ma appunto perchè questo ardore era estremo, si doveva temere che non tardasse a raffreddarsi. Già i Franzesi ingrossavano tutto all'intorno. S'accostava Kilmaine venuto da Mantova. Chabran compariva sotto le mura verso la porta di San Zeno; le prime squadre di Victor arrivavano in luogo donde presto potevano cooperare alla vittoria. La tregua di Judenborgo toglieva ogni speranza di Laudon. Si risolvevano adunque i provveditori a venire a parlamento, prima con Balland per mezzo del colonnello Beaupoil; ma la pratica non ebbe perfezione, perchè il popolo non volle udire che avesse a depor l'armi e non fossero esclusi i Franzesi dai castelli; poi con Chabran, col quale andava ad abboccarsi fuori della porta San Zeno il provveditore Giovanelli. Erano col primo il generale Chevalier e Landrieux, col secondo il conte degli Emilii, il conte Giusti ed un Merighi, personaggio molto amato dai Sanzenati. Pervenivano intanto le novelle che Lahoz con una banda di tre mila soldati tra Italiani e Polacchi, al soldo della repubblica Cisalpina, aveva tra Peschiera e Verona conseguito una vittoria contra le leve campagnuole di quel distretto. Fu l'abboccamento pieno di risentimento da ambe le parti. Rimproverava Chabran a Giovanelli i villani armati per disegno espresso del governo veneto contro i Franzesi, quando stavano a fronte di un nimico potente; che per questo era stato costretto Buonaparte a far la tregua; che i Veneziani se ne pentirebbero. Aggiungeva Landrieux (e qui ognuno pensi da sè), che i rei disegni del senato contro i Franzesi erano pruovati dal manifesto di Battaglia. Rispondeva Giovanelli allegando l'amicizia de' Veneziani dimostrata a tante pruove; solo essersi armati i sudditi per amore verso il principe e per opporsi ai ribelli apertamente incitati e protetti dai Franzesi; l'intervenzione dei Franzesi in tutti questi moti viemmaggiormente dimostrarsi da ciò che i turbatori della pace pubblica si ricoveravano in casa del generale Balland come in luogo di sicurezza; quando la città era quieta, avere contro di lei tratto, prima a polvere, poscia a palla i castelli; per questo aver voluto i Veronesi difendere le sedi loro e vendicare il loro principe in tale violenta guisa oltraggiato. Passavano dai risentimenti ai negoziati; non si trovava modo di concordia. Chabran sdegnato minacciava che entrerebbe per forza, arderebbe e saccheggerebbe Verona. Già s'impadroniva di San Leonardo, con che assicurava il castello San Felice: già batteva fortemente la porta di San Zeno, dove solo il fosso il separava dal corpo della piazza. Instavano al tempo medesimo i castelli contro la porta di San Giorgio; e dal Castel-Vecchio uscivano spesso i Franzesi con gran terrore e ruina dei cittadini. Kilmaine si approssimava da Mantova, sbaragliando le turbe armate che gli contrastavano il passo. Già il rumore della victoriana schiera ormai vicina si udiva nella desolata città. I primi corridori di Lahoz si facevano vedere alle porte esteriori del Castel-Vecchio, e niuna cosa poteva impedire che vi entrassero. Ebbersi in quel momento le novelle dei preliminari di pace; il qual accidente faceva abilità a Buonaparte di correre con tutto il suo esercito contro lo Stato Veneziano. Accresceva il terrore la sconfitta delle genti stanziali governate dal Maffei, e che poste alla Croce Bianca ed a San Massimo vietavano da quella parte il passo al nemico. Da tutto questo si vedeva che era già vinta Verona quando ancora combatteva. Perlocchè i provveditori pensarono ad accordarsi ad ogni modo. Convenivasi nelle seguenti condizioni: deponessero i villani l'armi e sgombrassero da Verona; i Franzesi la occupassero; tutte le armi e munizioni si dessero in mano loro; fossero consegnati in castello, come ostaggi per la sicurtà dei patti, Giovanelli, Erizzo, Giuliari, Emilii, il vescovo Maffei, i quattro fratelli Miniscalchi, Filiberi, i due fratelli Carlotti, San-Fermo e Garavetta: eseguiti i capitoli si rendessero gli ostaggi. Volevano i provveditori aggiugnere il capitolo che fossero salve le vite e le proprietà dei Veronesi, delle truppe e dei capi loro; ma Kilmaine, ch'era sopraggiunto, non volle ratificarlo. E però, sebbene fossero accettati gli altri capitoli, si rendeva Verona quasi a discrezione. La qual cosa vedutasi dai provveditori, si deliberarono di ritirarsi a Padova, lasciando che i magistrati municipali, quanto fosse in poter loro, alla salute di lei provvedessero. Fu grande in questi negozii il dolore e lo spavento dei provveditori; perchè non solamente vedevano una popolazione fedele al nome veneziano abbandonata a discrezione di un nemico offeso, ma udivano anche parole espresse e funeste della vicina distruzione della repubblica; perciocchè Beaupoil, dalle solite ambagi uscendo, ed almeno più sincerità degli altri mostrando, disse apertamente, che la repubblica di Venezia aveva sussistito bastantemente per quattordici secoli, e che conveniva adattarsi ai tempi. Entravano i Franzesi nella sanguinosa Verona. Ci è forza raccontare un fatto orribile, e quest'è che i patriotti italiani, che pretendevano parole di libertà e d'indipendenza alle imprese loro, cercavano diligentemente, secondando il furore dei capi dei repubblicani di Francia, per le case gli autori della resistenza veronese, e trovati, li davano loro in mano perchè fossero percossi coll'ultimo supplizio. Scoprivano fra gli altri il frate cappuccino e lo consegnavano ai percussori. Gli trovavano in casa la predica, la quale, siccome pareva scritta in istile più polito che a cappuccino si appartenesse, veniva attribuita al vescovo di Parma Turchi, che era allora in grido di predicatore eccellente. Creossi un consiglio militare per giudicarlo. Sostenne il frate in cospetto de' suoi giudici la medesima sentenza che aveva sostenuto predicando. Condannato nel capo, incontrò la morte con quella medesima costanza con la quale aveva vissuto. Conservò la storia il nome di questo forte Italiano, quantunque per la malvagità dei tempi sia stata la sua morte piuttosto apposta ad ignominia che ad onore. Si chiamava frate Luigi da Colloredo; e dopo la venuta dei Tedeschi gli fu posta nella sua chiesa dei cappuccini una lapide tramandatrice ai posteri della sua eroica costanza. Furono con lui condotti a morte i conti Francesco degli Emilii, Verità e Malenza, con alcuni altri di minor nome. Tale fu l'esito della veronese sollevazione: la chiamarono le pasque veronesi a confronto dei vespri siciliani; ma se ugualmente crudi ne furono gli effetti, bene le cagioni ne furono peggiori; perchè a Verona si aggiunse la perfidia alla tirannide. Era la città esposta alla vendetta del vincitore. Le si toglievano le armi; seguitavano minaccie crudeli e fatti peggiori; si viveva dai soldati a discrezione; fu espilato il monte di pietà; le più preziose gioie mandate al generalissimo. Gridavano i popoli a fatti tanto sacrileghi; Buonaparte ordinava, si restituissero i pegni di minor prezzo, ma fu indarno, perchè i più erano involati, e chi fu preposto alla bisogna, per render meno, ne accoppiava due in uno; nè si perdonava alle doti delle figliuole povere, perchè anche queste furono preda dei rapitori. Il commissario di guerra Bouquet, eletto commissario sopra il monte, fu carcerato e condotto in Francia per esser processato, ma non si udì mai di pena, o perchè fosse innocente o che altro si fosse. Decretava Buonaparte, pagasse Verona centoventi mila zecchini, e di più cinquanta mila per capo-soldo ai soldati dei castelli, risarcisse i danni dei soldati e degli ospedali, i cavalli dei Veronesi si dessero alle artiglierie ed alla cavalleria; ancora desse Verona nel più breve spazio fornimenti da vestire i soldati in quantità considerabile; gli ori e gli argenti sì delle chiese che del pubblico si confiscasse in pro della repubblica; i quadri, gli erbarii, i musei tanto del pubblico, quanto dei particolari fossero ancor essi posti al fisco della repubblica; i privati che meritassero di esser fatti indenni, si compensassero coi beni dei condannati. Ma già la espilazione, prima che si eseguisse per ordine, era stata mandata ad effetto per disordine. Scriveva Augereau, la confusione dei poteri, l'esercizio abusivo fattone da parecchi uffiziali superiori aver colmo l'anarchia e la dissipazione; infatti il monte di pietà di Verona, in cui erano più di cinquanta milioni di preziose suppellettili, e così ancora quel di Vicenza (Lahoz aveva fatto rivoltar Vicenza) essere stati con tale prestezza vuotati, che gli espilatori impazienti all'indugio dell'aprir le porte, le avevano sforzate; e vero fu, quantunque Augereau non lo scriva, che vi entrarono con le scuri e coi sacchi. Sapere, continuava a scrivere, che Victor aveva fatto arrestare il commissario Bouquet, autore di questo dilapidare; non dubitare che se si venisse a processo contro di lui, non mettesse in compromesso cittadini che erano nei superiori gradi dell'esercito; non essere le campagne in miglior condizione della città; gl'incendii, i furti, le rapine generali e particolari fatte d'arbitrio e senza legale autorità, avere spopolato parecchi villaggi e ridotto famiglie ad errare disperatamente alla ventura; giunta essere a tal colmo questa peste, che uffiziali adescati dall'amor del sacco si erano fatti comandanti di piazza da sè medesimi, ed avevano commesso atti, cui la giustizia, l'onore e la severità della disciplina militare condannavano; gli arbitrii di Verona essere ancora più orribili; tolte sforzate esservi state fatte per iscritto fino a franchi sessanta mila, e negate le ricevute; rubatevi per otto giorni intieri le botteghe; regnarvi il terrore; esservi cessato ogni commercio; essere Verona deserta; alcuni uffiziali essersi impadroniti di merci spettanti a' negozianti sotto colore che calasser per l'Adige; le migliori case saccheggiate attestare il furore dei saccheggiatori. Nissuno più di lui, continuava Augereau, odiare i Veneziani, nissuno più di lui desiderar di vendicare il sangue franzese; ma nissuno più di lui odiare l'ingiustizia e la persecuzione; se i Franzesi erano stati rei di ingiustizia e di persecuzione, a lui toccare il consolar i Veneziani, a lui toccar fare ch'essi dimenticassero ch'erano obbligati d'una parte dei loro mali a' suoi compatriotti. Fatte queste querele, richiedeva Augereau da Buonaparte, moderasse le contribuzioni, ne rendesse il contado partecipe. Giunte a Buonaparte le novelle di Verona e del Lido, dava in un grandissimo sdegno, con acerbissime parole lamentandosi del sangue franzese sparso e protestando volerne aver vendetta. Adunque scriveva al ministro Lallemand queste furiose parole: «S'insultano a Venezia i colori nazionali, e voi vi siete ancora! Pubblicamente vi si assassinano i Franzesi, e voi vi siete ancora! Per me, io dichiaro e protesto non voler udire proposta di conciliazione se prima non sono arrestati i tre inquisitori di stato ed il comandante del Lido: si carcerino, e poi venite a trovarmi.» Faceva Lallemand l'ufficio. La serva Venezia arrestava i tre inquisitori ed il comandante; posersi in fortezza in una delle isole della laguna: gli avvogadori del comune incominciavano a far loro il processo. Liberavansi (perchè anche questo esigeva il generalissimo) i carcerati per opinioni o fatti politici, fra gli altri i ribelli di Salò, Verona, Bergamo, Brescia e Padova. Partivane Lallemand, partivano i Franzesi; solo restava Villetard, segretario della legazione, come agente eletto ad operare la mutazione di governo. Viaggiavano intanto i due legati Francesco Donato e Leonardo Giustiniani alla volta degli alloggiamenti di Buonaparte. Il trovarono in Gradisca: introdotti, escusavano la repubblica: aver voluto Venezia amicizia colla Francia repubblicana già prima che gli eserciti di lei inondassero l'Italia; averla riconosciuta quand'era pericolo il riconoscerla: avere costantemente rifiutato ogni proposta fattale dai confederati a' danni della Francia; avere aperto spontaneamente agli eserciti di lei, e senza che a ciò fosse astretta da alcun trattato com'era con l'imperatore gli Stati suoi; averle fatto copia delle sue fortezze, delle armi, delle munizioni; avere obbligato i sudditi a somministrare per somme grandissime quanto fosse necessario al vivere dei soldati, ed avere in questo anche sopperito l'erario. Come esser probabile, affermavano, che uno Stato illanguidito da danni sì gravosi, consumato da dispendii sì enormi, mutilato per l'alterazione di tante città, volesse far guerra alla Francia tanto potente, ora ch'ella avea obbligato alla pace quasi tutta l'Europa? Volere il veneziano governo la pace, ma bene non volerla i sediziosi ed i ribelli, perchè trovavano nella guerra immensi profitti ed il compimento dei loro fatali disegni: da ciò derivare le tante invenzioni di supposti fatti, le carte false, come quella di Battaglia, le gelosie dei comandanti franzesi, l'alterazione dei popoli. Del rimanente, non venir loro per muover querele, ma bensì per purgarle, e fare tutte quelle opere che si appartenevano all'incorrotta fede: ad ogni sua richiesta pruoverebbero tutti i sospetti dei comandanti essere opera dei raggiri e delle fraudi dei sollevati: rispetto poi all'avvenire, esser pronto il senato a punire i rei d'assassinio, purchè gli fossero dati indizii dei fatti, dei luoghi e delle persone: essere ugualmente pronto ad accettar la mediazione per ridurre le città ribellate all'obbedienza, e a disarmare i sudditi, purchè si disarmassero anche le popolazioni sollevate e si preservassero le fedeli dagl'insulti loro. Non valsero le escusazioni o le profferte a vincere il generalissimo. Rispose che volea che tutti i carcerati si liberassero, anche quei di Verona, perchè erano addetti a Francia; che non voleva più piombi, ed anderebbe egli a romperli; che non voleva più inquisizione, barbarie dei tempi antichi; che le opinioni dovevano esser libere; che i Franzesi erano stati assassinati in Venezia e nella terraferma, e che i Veneziani gli avevano fatti assassinare; che i soldati gridavano vendetta e ch'ei la doveva fare; che bene aveva il senato tante spie che bastassero per potere scoprire i rei; che se il senato non aveva mezzi per frenare i popoli, era imbecille e non doveva più sussistere; che non voleva alleanze con Venezia nè progetti; che voleva comandare; che non temeva gli Schiavoni; che sarebbe andato in Dalmazia; che insomma; se il senato non puniva i rei, non cacciava il ministro d'Inghilterra, non disarmava i popoli, non liberava i prigionieri, non eleggeva tra Francia ed Inghilterra, egli intimerebbe la guerra a Venezia; che al postutto i nobili di provincia dovevano partecipare all'autorità suprema; che il governo veneziano era vecchio e doveva cessare; ch'ei sarebbe un Attila per lo stato veneto; se non avevano altro a dire, se n'andassero. Udivano per soprassoma delle angustie loro in questo tempo i legati le novelle del fatto del Lido e con accomodate parole il rappresentarono a Buonaparte. Rispondeva che non li voleva vedere, che non li voleva udire, bruttati com'erano di sangue franzese, se prima non gli davano in mano l'ammiraglio, il comandante del Lido e gl'inquisitori di Stato. Aggiungeva, che erano mentitori per aver cercato di colorir con menzogne un fatto atroce: se gli togliessero d'avanti, sgombrassero tosto dalla terraferma; quando no, avrebbero a far con lui. Adunque dichiarava il dì 2 maggio la guerra a Venezia. Avere, intimava, il governo veneto usato la occasione della settimana santa, mentre l'esercito franzese era impegnato nelle fauci della Stiria, per mettere in armi e col fine di tagliargli le strade, quaranta mila Schiavoni; mandar Venezia armi e commissarii straordinarii in terraferma, arrestare gli amici di Francia, fomentare i nemici; risuonare la piazza, i caffè, ogni luogo pubblico di male parole, di mali fatti contro i Franzesi; chiamarvisi giacobini, regicidi, atei; avere ordine i popoli di Padova, Vicenza e Verona di armarsi a stormo per rinnovare i Vespri Siciliani; gridare gli ufficiali veneti che si aspettava al Lione veneto di verificare il proverbio, che l'Italia fosse la tomba dei Franzesi; predicare i preti dai pulpiti, gli scrittori con le stampe la crociata; assassinarsi in Castiglione dei Mori; assassinarsi sulle strade postali da Mantova a Legnago, da Cassano a Verona; impedire i soldati Veneti il libero passo alle truppe della Francia; suonarsi campana a martello a Verona; trucidarvisi i convalescenti; assaltare i Veronesi con l'armi in mano i presidii franzesi ritirati ai castelli; ardersi la casa del console a Zante; trarsi da una nave veneziana contro la fregata di Francia la Bruna per salvare una conserva austriaca; fumare il Lido di Venezia del sangue del giovine Laugier: per tutte queste cose voleva ed ordinava, che il ministro di Francia partisse da Venezia; che gli agenti di Venezia sgombrassero dalla Lombardia e dalla terraferma; che i suoi generali trattassero come nemiche le truppe veneziane ed atterrassero il Lione di San Marco da tutte le città della terraferma. La dichiarazione di guerra fatta da Buonaparte non pareva poter bastare per arrivare al fine del cambiar la forma del governo veneziano. Per arrivarvi aveva con tanto veementi parole intimorito i legati veneziani, toccato loro il capitolo del cambiamento di governo: a questo medesimo fine aveva ordinato a Baraguey d'Hilliers che si accostasse coi soldati alle rive dell'estuario e d'ogni intorno tempestasse, come se volesse farsi strada alla sede stessa della repubblica: a questo fine ancora Villetard e gli altri repubblicani rimasti a Venezia menavano un rumore incredibile contro l'aristocrazia, esaltavano la democrazia, accennavano che il solo mezzo di placare lo sdegno di Buonaparte era di ridurre il governo democratico: a questo fine altresì dai medesimi continuamente si animavano e si concitavano contro le antiche forme gli amatori di novità, ed eglino, confortati dall'aspetto delle cose ai disegni loro tanto favorevoli, più apertamente insidiavano e minacciavano lo Stato: al medesimo intento finalmente si spargevano ad arte voci di congreghe segrete, di congiure occulte, d'armi preparate. Il terrore era grande, le fazioni accese, i malvagi trionfavano; dei buoni i più ristavano per timore dell'avvenire, volendo accomodarsi al cambiamento che si vedeva in aria; pochi coraggiosi procuravano la salute della repubblica. Non ostante tutto questo, le trame ordite facevano poco frutto nel senato in cui sedeva la somma dell'autorità, perchè egli era, o per prudenza o per consuetudine o per ostinazione, risoluto a voler perseverare nelle massime dell'antico Stato; già aveva ordinato che diligentemente e fortemente si munisse l'estuario. Prevedevano i novatori che, ove fosse commesso al senato di proporre alterazioni negli antichi ordini della costituzione al consiglio grande, in cui si era investita la sovranità e dal quale solo simili alterazioni dipendevano, non mai il senato vi si sarebbe risoluto. Per la qual cosa coloro che indrizzavano tutti questi consigli segreti, si deliberarono di trovar modo per evitare l'autorità del senato, allegando che ad accidenti straordinarii abbisognavano rimedii straordinarii. I savi attuali, dei quali Pietro Donato aveva qualche entratura con Villetard, operarono in modo che si facesse un'adunanza insolita nelle stanze private del doge, la sera del 30 aprile. Interveniva il doge Manin, i suoi consiglieri, i tre capi delle quarantie, i savii attuali, i savii di terraferma, i savii usciti ed i tre capi del consiglio dei Dieci. Si trattava in questa adunanza di ciò che si convenisse fare in sì luttuosa occorenza per la salute della repubblica. Il principal fine era di rappresentar le cose in maniera che il consiglio grande autorizzasse l'alterazione degli ordini antichi. Il doge, venezianamente favellando, cominciava il suo discorso in questi termini: «La gravità e l'angustia delle presenti circostanze chiama tutte elle a proponer il miglior mezzo possibile per presentar al supremo maggior conseio el stato nel qual se trovemo per le notizie che sta sera ne avanza Alessandro Marcello, savio de settimana. Prima peraltro ch'elle fazza palese la loro opinion, le abbia la bontà de raccoglier brevemente quel che xe per espornerghe el cavalier Dolfin.» Assumendo le parole il cavalier Dolfin, ragionava che fosse molto a proposito alle cose della repubblica l'obbligarsi Haller, col quale egli aveva amicizia ed era, secondo ch'egli opinava, molto innanzi nello animo di Buonaparte, per mitigare il vincitore. La quale proposta dimostra a quanto abbassamento fosse condotta quell'antica e gloriosa repubblica; poichè ero parere di uno de' principali statuali, già ambasciadore in Parigi, che si aspettasse la sua salute in sì ponderoso momento dall'intercessione di un pubblicano. Non erano ancora gli animi de' circostanti tanto abietti che non deridessero la vanità del partito posto dal Dolfin. Seguitavano diversi pareri. Voleva Francesco Pesaro che non si alterasse a modo alcuno la costituzione e si facessero le più efficaci risoluzioni per difender fino all'estremo quell'ultimo ridotto della potenza veneziana. Disputava dall'altra parte Zaccaria Vallaresso, si desse autorità ai legati di trattare con Buonaparte dell'alterazione degli ordini. Mentre si stavano esaminando i partiti posti, ecco per Tommaso Condulmer, soprantendente alle difese dell'estuario, arriva novelle che già i Franzesi dalle rive dell'estuario tentavano di avvicinarsi a Venezia. Parve si udisse il romor de' cannoni. Si suscitava gran terrore fra gli adunati; il serenissimo principe, tutto paventoso, più volte e su e giù per la camera passeggiando, lasciava intendere queste parole: «Sta notte no semo sicuri neanche nel nostro letto». Per poco stava che per suggerimento di Pietro Donato ed Antonio Ruzzini non si cedesse e non si trattasse della dedizione. Vinceva peraltro ancora in questo la fortuna della repubblica; perchè opponendosi gagliardamente al partito Giuseppe Priuli e Nicolò Erizzo, si mandava al Condulmer resistesse alla forza con la forza. Non ostante, operando il timore e le instanze dei novatori, fu preso partito che il doge medesimo esponesse al maggior consiglio la condizione della repubblica; proponesse la facoltà di alterar la costituzione, si convocasse il maggior consiglio il dì seguente, primo di maggio. Fatta questa risoluzione, e mentre ella tuttavia si stava dal segretario Alberti distendendo, il procurator Pesaro lagrimando disse in dialetto veneziano queste parole: «Vedo che per la mia patria la xe finia; mi no posso sicuramente prestarghe verun aiuto; ogni paese per un galantomo xe patria; nei Svizzeri se pol facilmente occuparse.» Poi cesse da Venezia. Era la mattina del primo maggio, quando la repubblica veneta doveva cadere da per sè stessa. Era il palazzo pubblico circondato per ogni parte da genti armate, i cannoni presti, le micce accese, apparato insolito da tanti secoli in quella quieta repubblica. Custodivano, per antico rito gli arsenalotti le interiori stanze del palazzo; i capi di strada pieni di uomini in armi. Si maravigliava il popolo, ignaro della cagione, a quel romor soldatesco; la città tutta occupava un grandissimo terrore; quei luoghi medesimi che per sapienza di governo, per benignità di cielo, per fortezza di sito erano stati sempre pieni di gente, allegrissima per natura, civilissima per costumi, ora risuonava d'armi e d'armati, e quelle armi e quegli armati accennavano, non a salvamento, ma a distruzione della patria. Convocati i padri al suono delle solite campane e adunatisi in maggior consiglio, rappresentava con gravissime parole il doge la funesta condizione a cui era ridotta la repubblica; e dopo ch'ebbe nel patetico suo discorso annoverate le vicissitudini precorse; «Cedessero adunque, cedessero, esortava, ad una necessità ineluttabile, e poichè l'estremo de' tempi era giunto, in quell'estremo tempo pensassero che meglio era recidere qualche ramo, sebbene essenziale, che l'albero tutto; che cosa di poco momento era una modificazione, purchè si conservasse la repubblica; che bisognava, a guisa di provvidi marinari, far getto di una parte del carico per salvare la nave. Li pregava pertanto e scongiurava, per quanto avessero cara la patria, per quanto avessero care le famiglie, per quelle mura stesse tanto magnifiche e tanto dilette, per la nobile Venezia, per la salute di lei, per quanto aveva in sè di dolce, di augusto e di reverendo un'antica congiunzione d'amore e d'interessi, udissero benignamente quello ch'erano per proporre alla sapienza loro i savii, a fine di far abilità ai zelanti legati eletti a trattare col supremo dispositore delle cose franzesi in Italia, di qualche alterazione negli ordini fondamentali della repubblica.» Queste compassionevoli parole del doge ingenerarono terrore, dolore e pianto negli ascoltanti. Favellava nella medesima sentenza Pietro Antonio Bembo, che fu poi uno de' municipali eletti da Villetard. Posto il partito e raccolti i voti, fu approvato con 598 favorevoli e 21 contrarii. Lodava il doge la virtù del maggior consiglio, esortava ad aver costanza, a non disperare della repubblica, a tener credenza del partito deliberato; poscia tra il dolore, la mestizia ed il terribile aspetto dell'avvenire si scioglieva il consiglio. Il capitano in tanto perseguitava Venezia. Calava Buonaparte dalle noriche Alpi e la circuiva d'ogni intorno. Villetard l'insidiava dentro. Ma in tanta depressione di spiriti e viltà d'animi, costanza somma mostrava in Treviso, in cospetto del generalissimo, Angelo Giustiniani, provveditore di quella provincia, mentre sdegnato quegli accusava i Veneziani di perfidie, di tradimenti, di assassinii; minacciava sterminio, domandava il sangue di Pesaro, degl'inquisitori, del comandante del Lido. Intanto i macchinatori non si ristavano in Venezia, non contenti al cambiamento parziale autorizzato dal consiglio grande. Spargevano voci insidiose, non potersi resistere, dovere lo Stato accomodarsi al secolo con un totale cambiamento negli ordini primitivi; potere Venezia vivere ancora gloriosa lungo tempo; antiquate essere le sue forme, alcune inutili, alcune dannose, alcune ridicole; popolo, popolo vuol essere; non patriziato, non aristocrazia; la ragione aver a governare gli Stati; i diritti essere per natura uguali, dover essere uguale l'autorità; nuovi secoli sorgere alla rigenerata umanità; nuova libertà nascere, non di pochi potenti, comandanti a molti schiavi, ma di tutti sovrani comandanti a nessuno schiavo. Quindi la cosa ritraevano a Venezia: detestavano Pietro Gradenigo, lodavano Baiamonte Tiepolo; i piombi, i molinelli, il canale Orfano con frequenti discorsi memoravano, gl'inquisitori di Stato abbominavano. Capi a costoro erano un Giovanni Andrea Spada, di fresco uscito dai piombi, antico daziero, e, come troviamo scritto, antico esploratore e rapportatore degl'inquisitori, ed un Tommaso Pietro Zorzi, di professione droghiere. Seguitavano, ma più celatamente e più con desiderii dimostrati che con opere attive, un Gallino da Padova, un Giuliani da Desenzano, un Sordina da Corfù, finalmente un Dandolo da Venezia, uomo assai chiaro per fama, per dottrina, per eloquenza e per un certo splendore d'animo e di corpo che molto il rendevano osservabile. S'aggiungevano, come suol avvenire, donne amatrici d'una politica libertà che non intendevano; ma siccome elle avevano l'animo volto al bene, così formavano nelle facili fantasie loro una immagine di libertà piena di ogni bene, spoglia di ogni male. Ma trattando di coloro che tenevano lo Stato, alcuni per debolezza non erano capaci di risoluzione generosa ed obbedivano al tempo. Altri per ambizione o per opinione secondavano il moto. S'accostavano ai promotori di novità, parte ingannati, parte ingannatori; non pochi altri che credevano che una mutazione nelle forme politiche avesse a ritrar la repubblica da quell'abisso in cui era precipitata. Aveva contrastato a tutti questi gagliardamente Francesco Pesaro; poi quando cesse dalle faccende della patria, anzi dalla patria stessa, contrastava la maggior parte dei savi di terraferma, fra di loro più animosi mostrandosi e più vivi Giuseppe Priuli e Nicolò Erizzo. Principalissimo fondamento ai disegni dei novatori era Villetard, segretario del ministro di Francia, il quale, sebbene fosse stata dal generalissimo intimata solennemente la guerra ai Veneziani, continuava a starsene come persona pubblica a Venezia; ed anzi teneva alzato alla sua porta lo stemma della repubblica di Francia, testimonianza sensibile della rotta irregolarità di quei tempi e della debolezza del governo veneziano. Era Villetard giovane molto infiammato nelle opinioni di quei tempi, ma d'animo integerrimo: i suoi maneggi in Venezia piuttosto da un grande errore di mente che da perversità di cuore procedevano; le geometrie politiche gli avevano stravolto lo intelletto. Adunati ed ordinati in tal modo tutti gli amminicoli di distruzione, restava ad ordinarsi il modo di usargli, perchè sortissero l'effetto proposto; del che i capi non istavano lungo tempo in forse. Villetard, Donato e Battaglia continuamente istavano presso il governo, acciocchè riformando gli ordini e riducendoli alla forma democratica, pensasse finalmente alla salute sua. Spaventavano rapportando che il numero degli scontenti e dei novatori era incredibile, che cresceva ogni dì più, che già erano sedici mila, che già si congiurava alla rovina dello Stato, e molte altre cose aggiungendo. Tutte queste rapportazioni partorivano effetti maravigliosi in animi ammolliti da lunga pace ed insoliti a sì terribili rimescolamenti. I raggiratori, veduto il tempo propizio e temendo che la riforma si arrestasse a mezza strada, e che solo il governo si allargasse, ma non scendesse fino alla forma democratica, si misero in sul fare maggiori spaventi e in sul volere che del tutto il patriziato si abolisse. Di questo negozio arrivavano cenni da Milano, dove Buonaparte si era condotto coi due legati veneti, ai quali era stato aggiunto per terzo Alvise Mocenigo. Recavano le Milanesi novelle, la salute della repubblica consistere nella abolizione del patriziato e nella creazione della democrazia pura. Di questo scrivevano i veneti legati; di questo quell'Haller che si era fatto da pubblicano uomo di Stato. Perchè poi non mancasse a questa fraude anche la parte del ladroneccio, si dava voce che sei mila zecchini di beveraggio, senza dir per chi, avrebbero fatto gran forza. Adunque tra gli spaventi e le speranze, tra le minaccie e le promesse, si piegava la consulta del doge, e con lei il maggior consiglio, il dì 4 di maggio, ad ampliare il mandato ai legati, acciocchè potessero consentire all'annullamento del patriziato ed alla creazione della democrazia. Fu anche fatto abilità al savio cassiere di rimettere all'ebreo Vivante, perchè li trasmettesse a Milano, i sei mila zecchini in tante paste d'oro e d'argento che ancora si ritrovavano nella zecca. Avendo Venezia ceduto, vieppiù insorgevano i repubblicani. Non si soddisfacevano del tutto del mandato fatto ai legati di consentire al cambiamento totale della forma del governo; desideravano che il maggior consiglio di per sè stesso rinunziasse alla sovranità, abolisse il patriziato e creasse la democrazia. Pareva questa mutazione più solenne e più sicura. Desideravano al tempo stesso di occupare co' soldati franzesi Venezia, e far apparire che l'occupazione di una città tanto nobile e tanto importante in Europa fosse spontaneamente chiamata da dentro, non violentemente prodotta da fuori. In questo si proponevano mille altri fini di non poco momento, ed erano l'entrare di queto, l'avere intiero ed intatto l'arsenale e tutto che fosse del pubblico, il poter volgere tutte le forze del territorio veneto contro l'imperatore, se la pace non si effettuasse, e contro l'Inghilterra, che tuttavia perseverava in condizione ostile. Per la qual cosa, mentre Villetard e chi operava con lui tendevano insidie al governo in Venezia per ispegnerlo, Buonaparte negoziava molto apertamente fra i conviti e le feste un trattato coi legati della repubblica in Milano. All'indurre il gran consiglio a cambiare lui medesimo la forma del governo, ed all'introduzione di un presidio franzese indirizzavano Villetard ed i Veneti che il secondavano, tutti i loro pensieri. Per questo si rendeva necessario il privare Venezia delle sue difese con disarmare i legni e con allontanare gli Schiavoni che vi alloggiavano in numero di circa dodicimila. Per questo Morosini, che aveva il carico di preservare quell'antica sede della sua patria, spargeva che i congiurati crescevano di numero e di forza, che oggimai non si potevano più frenare, che nuovi soldati abbisognavano. Intanto da persone apposta si accusava la fede degli Schiavoni, si affermava, voler loro fare un moto per saccheggiare. Dava favore a questi spaventi Condulmer, affermando non essere le difese apprestate nelle lagune abili ad arrestare i Franzesi, ove si risolvessero a passarle per assaltar Venezia; già esser grossi a Mestre, già da Fusina minacciare, già Brondolo e Chioggia pericolare dalle armi loro. Quando più operava nell'animo dei patrizii il terrore, parendo ai congiurati che fosse il momento propizio, si appresentavano per suggestione di Villetard, alle camere del doge Spada e Zorzi, facendo una gran pressa di essere uditi per cosa che, come dicevano, importava alla salute della repubblica. Furono destinati ad udirli Pietro Donato e Francesco Battaglia, e quindi, sulle loro rapportazioni, ad intendere dal segretario di Francia quello che vero fosse dei detti di Spada e di Zorzi. Tornati riferivano, Villetard, non per modo di richiesta, ma di consiglio, avere dimostrato, importare alla salute della repubblica che si abolisse nel giorno stesso il patriziato, s'instituisse la democrazia e di più le seguenti condizioni si effettuassero: si carcerasse il conte d'Entraigues, agente del re Luigi, e tutti i suoi ricordi si dessero in mano del generalissimo; si liberassero i carcerati per opinione; gli Schiavoni partissero; si surrogasse una guardia nazionale; si pubblicasse un manifesto per voce del governo; si creasse un municipio di trentasei Veneziani di ogni classe; le città di terraferma e delle isole venete s'invitassero a mandar deputati in Venezia a fine di comporvi un consesso generale di governo temporaneo; tutti i delitti politici si condonassero; vi fosse libertà di stampare, sì veramente che del passato nè quanto alle persone nè quanto al governo non si parlasse; si chiamassero i Franzesi a presidiar la città con quattromila soldati, ed occupassero l'arsenale, il castello Sant'Andrea, Chioggia e tutte le isole circonvicine che fossero a grado del generalissimo; con questo l'assedio si togliesse; la guardia nazionale custodisse la camera ed altri posti d'onore. Il doge Manin fosse presidente del municipio, Andrea Spada vicepresidente; Querini si richiamasse da Parigi; si mandassero deputati a Buonaparte per annunziar la nuova forma del governo; si spacciasse col fine medesimo alle repubbliche Batava, Cispadana, Transpadana e Genovese. Accordati tutti questi capitoli fra i deputati della consulta del doge ed il segretario di Francia, che altri ne volea aggiungere, ma fu dissuaso da Battaglia, restava che il maggior consiglio gli approvasse. Per questo Donato e Battaglia avevano persuaso a Villetard, il quale voleva che senza soprastamento si mettesse mano all'opera, aspettasse tre o quattro giorni, affinchè potessero fare le pratiche necessarie per indurre il maggior consiglio alla risoluzione. Incominciavano il maneggio con le solite promesse e coi soliti spaventi; fra le altre insidie si mandava attorno una lettera di Haller, apportatrice delle risoluzioni di Buonaparte, che cessassero i diritti ereditarii, che si creasse la democrazia, che si fondasse il governo rappresentativo: se nol facessero volontariamente, verrebbe egli a farlo per forza. Di notte tempo Spada svegliava all'improvviso Battaglia, e gli mostrava la lettera, la mattina molto per tempo la recava alla signoria. Intanto gli Schiavoni, sola sicurezza contro gli assalti e forastieri ed interni, erano stati fatti imbarcare, e già se ne stavano sulle navi aspettando il vento prospero per alla volta di Zara; le lagune disarmate da Condulmer. Era il giorno 12 di maggio destinato da chi regge queste umane cose alla distruzione della veneta repubblica. Era adunato il maggior consiglio, gli arsenalotti, ma pochi, il custodivano; le navi difenditrici ritirate dall'estuario si accostavano vuote al lido; si vedeva un avviluppamento degli ultimi Schiavoni che s'imbarcavano; il popolo atterrito, nè ben sapendo che significassero que' tristi presagi, si raccoglieva in folla intorno al palazzo: i congiurati di dentro discorrevano per ridurre il maggior consiglio a spegnere l'antico governo; i congiurati di fuori spargevano mali semi. Aiutava le fraudi loro la risoluzione del primo maggio favorevole al modificare le antiche forme. La setta democratica trionfava. Orava il doge pallido e tremante sui pericoli presenti: parlava delle congiure, de' desiderii di Buonaparte, dell'inutile resistenza, e delle promesse date, se si riformasse: proponeva in fine il governo rappresentativo. Mentre si stava deliberando, ecco udirsi improvvisamente alcune scariche d'archibusi fatte per festa e per forma di saluto nell'atto del partire dagli Schiavoni, che nel sottoposto canale s'imbarcavano; rispondevano ugualmente per festa e per forma di saluto coi tiri loro i Bocchesi alloggiati a San Zaccheria. Un subito spavento prendeva gli adunati padri; credettero che fossero i congiurati intenti ad ammazzare il doge e tutto il ceto patrizio, siccome ne era corsa fama per le congiure; si aggiravano per la sala privi d'animo e di consiglio. Gridavano confusamente e con gran pressa, parte, parte, che in lingua veneziana significava, squittinisi, squittinisi. Posto il partito, si vinceva con 512 voti favorevoli, 20 contrari, 5 non sinceri. A fine di preservare incolumi, diceva il decreto, la religione, le vite e le sostanze degli amatissimi sudditi della città di Venezia, e di allontanare l'imminente pericolo di novità violente, ed altresì sulla fede che fossero i giusti riguardi avuti verso il ceto patrizio, e verso tutti i partecipi dello Stato, e con questo che la sicurtà della zecca e del banco fosse guarantita, conforme ai partiti già presi il primo e quarto giorno di maggio; accettava il maggior consiglio il governo rappresentativo, purchè a questo fossero conformi i desiderii del generalissimo di Francia; ed importando che in nissun modo senza tutela la patria comune restasse, si faceva carico ai magistrati di provvedervi. A questo modo i patrizii veneti dell'antichissima loro autorità si dispogliarono, non con dignità in una tanta disgrazia, ma minacciati da due sudditi di oscuro nome ed aggirati da due colleghi infedeli; non per armi perirono nè per assalto di un nemico aperto, ma per fraude di amici disleali. Non mancò il popolo al governo, ma il governo al popolo, e morì una pianta con le radici buone, perchè era la testa guasta; nè ebbero i patrizi il conforto dello aver perduto lo Stato per virtù superchiata, perchè coraggio non mostrarono e la cautela fu vizio. Epperò se i buoni ebbero compassione a Venezia pel destino, la biasimarono per debolezza; i tristi la schernirono. Ma certamente esempio terribile fu; il caso di Venezia turbò allora tutto il gius pubblico d'Europa. Poichè i patrizii ebbero preso il partito di rinunziare all'autorità propria e di rimettere lo Stato nelle mani di Buonaparte, tale un timore gli assalse in quelle stanze piene tuttavia delle immagini de' loro forti antenati e di quanto fu da essi fatto di grande e di glorioso sì in pace che in guerra, che, non sapendo più nè dove restassero nè dove gissero, si abbandonarono, come perduti ad ogni affetto più disperato. Si ritraevano alcuni alle stanze private del doge che, tutto smarrito, aveva dato ordine che di tutti i ducali segni si dispogliassero: altri usciti all'aperto per ritirarsi alle case loro, lagrimando e gridando: Non è più Venezia, non è più San Marco, facevano uno spettacolo miserabile in mezzo alle turbe affollate, che ancora non ben sapevano chè alla patria sovrastasse. I novatori, che pensavano essere avvenuto quello che aspettavano, trepidando dall'allegrezza gridavano: Viva la libertà. Ma il popolo, che prima era stato incerto, nè poteva recarsi nell'animo tanta abbiezione dalla parte de' patrizii, saputo il fatto, si accendeva di una furia incredibile ed incominciava minaccioso a fare una gran tumultuazione, chiamando unitamente il nome di San Marco. Cresceva la folla, a cui si erano fatti compagni pochi Dalmati non ancora imbarcati. Accorrevano le donne, i vecchi ed i fanciulli. Cominciavano le turbe rabbiose a correre gridando e schiamazzando. Ma non può il popolo sollevato star lungo tempo sui generali, anzi tosto dà nei particolari o d'amore o d'odio. Correva alle case d'un pizzicagnolo che aveva fatto certe dimostrazioni a favor di uno uscito dai piombi, ed, in men che non si dice, sperdeva e rompeva ogni mobile: poi trovatagli una nappa di tre colori addosso gliela conficcava in fronte; già uno Schiavone stava in atto di mozzargli il capo, quando il mal arrivato, per iscampo della vita, prometteva di palesare i rei della congiura. Nè così tosto usciva dalla sua bocca il nome di qualcuno, che una mano di popolo partiva per mettere a sacco la casa del nominato. Saccheggiavansi per tale modo Zorzi, Gallino, Spada, Zatta libraio. Fu avuto rispetto ai palazzi de' ministri, anche a quello di Francia. Villetard, non sapendo fino a qual termine potesse trascorrere quel furor popolare, si era nascosto dal ministro di Spagna: là scriveva a quel governo ch'egli medesimo aveva distrutto, che frenasse quell'impeto. Poi egli e Donato, ai quali più d'ogni altro importava il calmar quel furore, facevano opera che si adunassero alcune compagnie di soldati italiani, e ne presidiavano il ponte di Rialto. Vi conduceva Bernardino Renier due cannoni, coi quali tratto ed ucciso tre o quattro popolani, poneva fine a quello incomposto accidente. Usavano Villetard, Donato e Battaglia la occasione, e, preparato e mandato il navilio a Mestre, la notte del 16 al 17 maggio, levavano, sotto il comandamento di Baraguey d'Hilliers, quattro mila soldati franzesi. La mattina molto per tempo si scoprivano schierati sulla piazza di San Marco soldati ed armi forastiere non mai viste in Venezia da quindici secoli. Creossi il municipio, si promisero cose che non si attennero, lusingossi con le parole, gravitossi coi fatti, e tanto si continuò l'inganno che la ricca e potente Venezia rimase spogliata del tutto ed inerme. Avevano Buonaparte ed i legati veneziani, ai quali, come si è narrato, erano state ampliate le commissioni, in Milano le preste novelle degli accidenti di Venezia, specialmente della rinunzia fatta nel giorno 12 dai patrizi e della dissoluzione dell'antico governo aristocratico. Evidente cosa era, che avendo cessato di sussistere chi aveva dato il mandato, non vi era più luogo nè a negoziati nè a conclusione di trattato. Ciò nondimeno le pratiche si continuarono pei loro fini, tanto per parte dei Veneziani come del generalissimo. Adunque si stipulava da ambe le parti il giorno 16 maggio in Milano un trattato di pace e di amicizia tra la repubblica Franzese e la Veneziana: cessassero tra di loro tutte le offese; rinunziasse da parte sua il gran consiglio al suo diritto di sovranità, ordinasse la annullazione dell'aristocrazia ereditaria, riconoscesse la sovranità dello Stato consistere nella universalità dei cittadini: a tutte queste cose consentisse con patto che il nuovo governo guarentisse il debito pubblico, il vivere dei patrizi poveri, le provvisioni a vita: la repubblica Franzese concedesse, siccome n'era stata richiesta, una schiera di soldati a Venezia, acciocchè vi conservasse intero l'ordine e la tranquillità, vi tutelasse le persone e le proprietà, procurasse la esecuzione delle prime risoluzioni del governo nuovo; questi soldati partissero da Venezia tostochè il nuovo governo dichiarasse non averne più bisogno; le altre truppe franzesi sgombrassero gli altri territorii veneti, tostochè la pace del continente fosse conchiusa: si facesse sollecitamente il processo agl'inquisitori di Stato, ed al comandante del Lido; la repubblica Franzese perdonasse ad ogni altro Veneziano. Questi erano i capitoli mostrabili: i segreti contenevano altri effetti importanti: si accorderebbero le due repubbliche pel cambio di territorii, la Veneziana pagasse alla Franzese tre milioni di tornesi, somministrasse una valuta di altrettanti in arnesi di marineria, le desse tre navi di fila con due fregate fornite di tutto punto, consegnasse a' commissarii a ciò destinati venti quadri, e cinquecento manoscritti a scelta del generalissimo: la repubblica Franzese si interponesse a pace comune tra la Veneziana e la reggenza di Algeri. Di tale forma furono i capitoli del trattato concluso in Milano tra Buonaparte e i Veneziani. A loro fu aggiunto quest'altro, che le due parti ratificassero nel più breve spazio il trattato. Il ratificarono in fatti i municipali di Venezia, persuadendosi, non si vede come nè perchè, che tutta l'autorità della repubblica e del maggior consiglio in loro fosse investita. Negava Buonaparte la ratificazione, allegando essere da parte dei mandatarii veneziani cessato il mandato, perchè era estinto il mandatore. La forza aveva insidiato Venezia, le chimere di una libertà fallace le diedero il tracollo. La medesima forza e le chimere medesime usando contro Genova, la si tirava ancor essa all'ultimo eccidio. Laonde, non ancora terminata, ma già prossima a terminarsi la tragedia di Venezia, scriveva Buonaparte, a Faipoult, ministro di Francia a Genova, ed operatore attivo dei disegni franzesi, che la rovina di Venezia doveva partorire necessariamente la rovina di Genova. Sapeva che il governo genovese non avrebbe gagliardamente contrastato, quantunque in lui fosse più vigore che in quello di Venezia, sì perchè alcuni dei senatori erano abbacinati dai fantasmi dei tempi, e sì perchè nel ceto medio era molta opinione contraria, credendo molti che la democrazia fosse da anteporsi all'aristocrazia, come se democratici fossero i modi di reggimento politico indotti in Italia in quei tempi. Aggiungevansi i capitali genovesi investiti in gran parte in Francia, ed i traffichi tra Francia e Genova frequentissimi, cose molto tenere e capaci a far calare i Genovesi ad un primo rumore d'armi. Infine pei passi frequenti delle genti di Francia sulle riviere, erano sorte in esse le opinioni nuove. Savona titubava e per questo e per le antiche emulazioni. Alcune fortezze e molti siti del Genovesato erano in mano dei buonapartiani. Nè a questo contento il direttorio, aveva operato che Rusca e Serrurier appoco appoco e sotto altri colori le schiere loro accostassero a Genova, e che l'ammiraglio Brueys comparisse con navi grosse e sottili nelle acque delle riviere. Genova pericolava; ma molte erano le insidie interne. Spargevansi artifiziosamente voci che la Francia voleva dare la riviera di Ponente al re di Sardegna, e si affermava che una tale calamità sola si poteva allontanare con ridurre il governo a forma più consimile a quella di Francia. Queste voci Faipoult, magnificando la fede della sua repubblica e quasi sdegnandosi, asseverava essere false e calunniose. Buonaparte ed egli richiedevano nuovi prestiti di parecchi milioni alla signoria, consumata ed odiosa ai popoli se li concedesse, accusata d'inimicizia verso Francia se li negasse. Il farla vile fu anche parte dell'insidia: perchè un consiglio militare franzese, adunatosi nella sede stessa della repubblica, processava e condannava al bando da tutti i territorii di Genova il marchese Agostino Spinola, come reo delle turbazioni sorte contro i Franzesi nei feudi imperiali. Non era più sovranità dove un tribunale forestiero dannava un cittadino: mancava col buon concetto la forza dello stato. Nè l'opera dei novatori di dentro si trascurava. A questi erano capi alcuni Genovesi, alcuni forastieri: fra i primi osservabile era massimamente lo speziale Morando, uomo precipitoso e di estremi pensieri; fra' secondi più vivo e più operativo si mostrava un Vitaliani da Napoli. Erano costoro favoriti da Faipoult più nascostamente per la sua qualità pubblica, da Saliceti, a questi fini venuto a Genova, più apertamente. Vociferava Saliceti, doversi, poichè l'aristocrazia in Venezia si era spenta, spegnere anche quella di Genova. I novatori, sicuri omai dello esito, si adunavano, s'indettavano, s'accordavano, s'apprestavano; più il termine si avvicinava e più palesemente operavano. Avvertito il governo, creava inquisitori di Stato con ampia facoltà, e per opera loro carcerava Vitaliani. Se ne risentiva gravemente Faipoult; richiedeva la sua indennità come di Franzese, perchè addetto all'ambasciata. La signoria essendo sforzata, rimetteva il Napolitano in libertà. Vitaliani e Morando con somma attività si adoperavano. A loro si faceva compagno un Filippo Doria, o per ambizione o per opinione. Si pruovava all'estremo caso ad insorgere; gl'inquisitori di Stato facevano carcerare due dei più audaci e temerarii novatori, sperando che il timore potesse frenare quella gente incitatrice. Fu indarno, poichè tanto favore l'aiutava dentro e fuori. Questa fu scintilla a suscitare ad incendio il fuoco che covava. Non così tosto giungeva ai congiurati la novella della carcerazione dei compagni, che furiosamente dato alle armi, e proprie od a questo fine apprestate in casa Morando, ed avendo Morando medesimo con Vitaliani e con Filippo Doria a guida, facevano improvvisamente, era il giorno 21 maggio, un tumulto terribile. Si rallegrava Faipoult che la rivoluzione nascesse in Genova per opera dei Genovesi, perchè in quella rivoluzione ei voleva ben essere, ma non parere. Venuti a lui due legati del senato, Gian Luca Durazzo e Francesco Cataneo, il pregavano che facesse dimostrazione di non secondare i novatori, ed operasse che la frenesia dei giornali milanesi contro Genova cessasse. Dava loro la volta sotto sulla prima richiesta, speranza per la seconda. Si metteva poscia sull'esortargli a riformare essi medesimi lo Stato ed a biasimarli dei tridui e delle novene come di dimostrazioni dirette ad odio dei Franzesi: cercava di temporeggiare, perchè gli accidenti di Venezia finissero. I congiurati con ischiamazzi orribili e con grida spaventose, cantando a tratto la marsigliese, s'incamminavano al palazzo ducale. Aggiungevansi per istrada, come suole avvenire, nuovi congiurati, e fra il popolo i più tristi e chi più ambiva il sangue o il sacco. A tanto rumore si adunava una calca incredibile fra quelle strette vie di Genova; serravansi a furia le botteghe; i buoni fuggivano, od erano tratti dalla tempesta. La folla tumultuosa giunta al palazzo, dov'era raccolto il senato, con minacciose grida addomandava i carcerati. Rispondevano con molta costanza i padri, a buona ragione sostenersi, si farebbe giustizia, fra breve paleserebbero al popolo l'intento loro. I sollevati avrebbero voluto sforzare il palazzo; il vietavano le guardie; si rimanevano perchè in quel primo impeto non avevano nè armi sufficienti, nè accordo, nè numero che bastasse. Riscaldati dal vino e dalle cose fatte, passavano la notte fra l'allegrezza dei piaceri presenti e la cupidigia dei tumulti avvenire. Sorgeva ai 22 l'alba che doveva addurre a Genova un giorno funestissimo. Prorompevano dai ritrovi loro i congiurati, e, ad ogni passo ingrossandosi per l'accostamento di nuovi compagni, facevano una turba assai numerosa, con non pochi Lombardi ed alquanti Franzesi ancora. Il senato senza difese pel caso improvviso, si era perduto d'animo ed aspettava invece di operare. Il popolo fedele al principe non si moveva. Andando loro il moto a seconda, i sollevati ardivano cose maggiori ed orrende. Traevano alle prigioni della Malpaga, sentina infame d'indebitati e di falliti, e rotte le porte non senza qualche violenza sanguinosa, e liberati ed armati i prigionieri, se li facevano compagni ai disegni loro. Cresceva il furore. Impadronitisi della darsena, davano la libertà ai condannati, e poste loro l'armi in mano correvano con l'infame satellizio di ladri e d'assassini a disfare uno dei più illustri governi del mondo. Fatto indi concorso sulla piazza, e preso maggior animo da quei primi successi, bandivano con allegria e romore incredibile, essere spenta l'aristocrazia, Genova libera, i poveri esenti da' tributi, cassi gli antichi magistrati, creati i nuovi. Ma ancora temevano le porte in mano del governo, i popoli di Bisagno e della Polcevera deditissimi al nome del principe ed all'antica repubblica. Però, credendo non esser compiuta l'opera se allo aver acquistato l'interno non aggiungevano l'assicurarsi delle porte e delle mura, spedivano, a ciò consigliati da Morando e da Doria, i più audaci ed i meglio armati ed occupar l'arsenale, il ponte reale, la lanterna, le porte di San Tommaso e di San Benigno. Il che veniva agevolmente fatto, sorpresi essendo e pochi i difensori. Intanto s'era il senato raccolto timoroso e non pari tanto estremo. Consultavano discordi, statuivano spaventati. Mandavano legati a Faipoult, perchè lo pregassero s'interponesse a concordia ed offerissero riforme negli ordini antichi. Piaceva la profferta al Franzese, per essergli aperta l'occasione, e, condottosi al senato, con efficacissime parole esortava i padri, cedessero al tempo, s'accomodassero al secolo, riformassero lo Stato, verso gli ordini democratici l'allargassero, questa sola via di salute restare. Stanziavano, si traessero quattro patrizi, i quali, convenendo con quattro deputati del popolo, fra di loro accordassero come e quanto la forma antica dovesse scendere alla democrazia. S'eleggevano i patrizii, gli eletti del popolo non comparivano; riuscì vano il tentativo. La massa de' novatori infuriata correva al ducale palazzo e contro di lui piantava un cannone, sforzandosi di entrarvi; ma cessava vedutolo ben custodito. Tuttavia pareva che più rimedio non vi fosse per reprimere la ribellione. Ma ciò che non aveva fatto il senato senz'animo e senza forza, il faceva il popolo. Si adunava, correndo da ogni lato, principalmente dal porto, una gran massa di popolo minuto, carbonari, e facchini massimamente, ed opponendo allo improvviso grida a grida, nappe a nappe, armi ad armi, rendevano dubbia una vittoria che già pareva certa. Facevano risuonare per tutta la città voce festose ad un tempo e minacciose. Gli amatori del governo antico, siccome quelli che avevano a combattere coi libertini bene armati, anche di artiglierie a cagione della presa dell'arsenale, avvisavano d'impadronirsi dell'armeria, nella quale essendo entrati, distribuite a ciascuno l'armi, con ardore inestimabile si mettevano a correre contro la parte contraria. A loro si accostavano i soldati regolari rimasti fedeli alla repubblica, e fra questi alcuni che sapevano maneggiar le artiglierie. Si attaccava una battaglia asprissima, dove i padri combattevano contro i figliuoli, i fratelli contro i fratelli, ed il suono delle armi civili, già da lungo tempo insolito, si udiva da lungi ne' più segreti recessi de' liguri Apennini. Durava la battaglia parecchie ore; prevaleva finalmente la parte del senato, ricuperati, non senza molta fatica e sangue, dagli uomini fedeli a lui tutti i posti. Il quale fatto saputosi da' Morandiani, era cagione che precipitosamente abbandonassero l'impresa. La maggior parte fuggirono o nelle private case si nascosero: i più animosi, ristrettisi insieme, si facevano sforzatamente strada al ponte reale, che si teneva ancora per loro mediante il valore di Filippo Doria. Li seguitavano i vincitori, e s'accendeva a questo ponte una battaglia ostinatissima, combattendo dall'un dei lati la disperazione, dall'altro il furore, ed il numero ognor crescente delle genti. Erano finalmente oppressi i Morandiani con ferite e morte di molti: morì Doria medesimo. Usavano i vincitori molta crudeltà come nelle guerre civili: il cadavere di Doria fu lunga pezza ludibrio a quegli uomini infieriti. In mezzo a quella furia perirono parecchi Franzesi, parte mescolati coi sollevati, parte non mescolati. Ciò fu in mal punto, perchè Buonaparte ne prese occasione per disfare il governo. Si vegliava la notte fra il dolore de' morti, il terrore de' vivi: s'accendevano i lumi alle case da chi per gioia, da chi per paura, perchè i carbonari minacciavano. Il senato vincitore per opera altrui, di nuovo si adunava per consultare sulle turbate cose. Mostravasi Giacomo Brignole doge al popolo, da cui era veduto e salutato con grandissimi segni di allegrezza. Faipoult, veduto che la forza de' novatori era stato indarno, tornava sull'esortare e più accesamente di prima insisteva sulla necessità delle riforme. Si stava intanto per la signoria in grandissima apprensione del come l'avrebbe sentita Buonaparte. Gli scriveva il doge in nome del senato lettere molto sommesse di rammarico e di scusa pei Franzesi uccisi. Arrivavano, portate da Lavallette, aiutante del generalissimo, risposte funestissime: non potere, scriveva, la repubblica franzese tollerare gli assassinii e le vie di fatto di ogni sorte commesse contro i Franzesi in Genova da un popolo senza freno, suscitato da coloro che avevano fatto ardere la Modesta e maltrattare i Franzesi cittadini: se fra ventiquattr'ore i carcerati non si liberassero, se coloro che il popolo contro di loro avevano provocato non si carcerassero, se la feccia di quel popolazzo non disarmasse, aver vissuto la genovese aristocrazia e partirsi da Genova il ministro della repubblica: stare la vita de' senatori per quella de' Franzesi in Genova, tutto lo Stato per le proprietà loro. Del resto tale fu la forza della verità che Faipoult attestava ed affermava a Buonaparte, che il governo genovese aveva fatto in quell'accidente quanto per lui si era potuto per evitar i disordini; che in facoltà sua non era di comandare a coloro che, non che gli obbedissero, gli comandavano ed il difendevano; che delle uccisioni de' Franzesi i patriotti erano stati cagione per aver inalberato i tre colori; che senza questa insolenza democratica, nissun Franzese avrebbe perduto la vita; che i democrati soli avevano messo in pericolo i Franzesi; ch'essi avevano fatto oltraggio alla repubblica Franzese per aver usurpato i suoi colori nazionali: ch'essi finalmente avevano operato pazzamente per l'impeto sregolato, infamemente per l'apertura delle carceri e delle galere. Quest'era la condizione di Genova: il senato sbigottito, e servo della moltitudine, e diviso per le opinioni, tra il non poter inveire contro il popolo perchè lo avea salvato, ed il dover inveire perchè gli agenti del direttorio gridavano vendetta. La moltitudine armata, fatta la buona opera di redimere il principe, prorompeva, come suole, in opere ree, oltraggiando e manomettendo gli onesti cittadini, solo perchè gli aveva per sospetti. Già la casa di Morando spogliata da capo a fondo, incomiciavano a spogliar le case con solo degl'innocenti, ma ancora dei benemeriti. Ogni cosa piena di terrore. Insisteva più acerbo che mai Faipoult, perchè si scarcerassero i Franzesi, si arrestassero gli uccisori, si dichiarasse non aver i Franzesi avuto parte nella ribellione. Infuriava Lavallette e secondava Faipoult. Affermava che i carbonari erano stati pagati perchè uccidessero i Franzesi, e che per ordine espresso erano stati assassinati. Orrore, dolore, terrore prendeva i senatori alla richiesta. Resistevano in prima, poi, spinti dall'ultima necessità, arrendendosi facilmente quei della parte franzese, a loro malgrado consentirono. Il fine principale a cui miravano tutte le arti, gli spaventi e le minacce, non era punto la liberazione di pochi carcerati, nè l'incarcerazione di pochi magistrati. Volevasi la mutazione. Perilchè, vintesi dagli agenti repubblicani le prime domande, insorgevano con maggior calore, richiedendo il senato riducesse lo stato a forma più democratica e facesse abilità ai legati che si volevano mandar al generalissimo, di accordar con lui il cambiamento che si desiderava; e alla richiesta aggiungendo rappresentazioni, considerazioni ed esortazioni calorosissime. Cotali esortazioni fortissime in sè stesse, operavano gagliardamente. Pure trovava non poca difficoltà; perchè molti dei senatori vedevano in quei reggimenti democratici, non amore nè gratitudine per la rinunziazione dei privilegii, ma scherni e persecuzione, nè cambiando era andare dall'aristocrazia alla democrazia, ma bensì dal dominio consueto al dominio di una parte prepotente. Atterriva anche l'esempio di Venezia, che già si vedeva non avere, pel cambiamento fatto, trovato nè la libertà nè la concordia. Così si stava in pendente, e come accade nei casi dubbii e pericolosi, si amava lo stare solo perchè lo stare era consueto. Mentre si deliberava nel piccolo consiglio di quanto si dovesse fare in quella occorrenza di suprema anzi di unica importanza per la patria, comparivano le prime squadre di Rusca, le quali, sparsesi prima per la Polcevera, si distendevano poscia insino alle porte di Genova. Si udiva eziandio che Serrurier poco lontano succedeva con le sue, e che da Cremona si muovevano nuovi soldati per dar rinforzo a Rusca ed a Serrurier ove da per sè non bastassero. Erasi alcuni giorni innanzi appresentata alla bocca del porto l'armata di Brueys; ma per la istanza del Senato e per la tempera del popolo, che non l'avrebbe lasciata entrare quietamente, aveva Faipoult operato, che l'ammiraglio se ne tornasse verso Tolone. Sebbene però quell'armata si fosse ritirata, si sapeva che andava volteggiandosi ora a vista ed ora poco lontana dalla riviera di ponente, e poteva dare animo e fare spalla facilmente ai novatori della riviera ed a quei della metropoli. Nè fu l'esito diverso dal prevedere; perchè tra la presenza di Rusca nella Polcevera, alcune squadre di soldati franzesi sparsi nella riviera e la prossimità di Brueys, si tumultuava in vari luoghi, non senza sangue; gli abitanti delle ville e delle montagne combattevano acremente i novatori. Ciò nonostante questi ultimi erano rimasti superiori in Savona, e già in essa e nel Finale e nel porto Maurizio avevano piantato l'albero che chiamavano della libertà. Il senato, minacciato da una setta potente nella sua sede medesima, attorniato da soldati forastieri, lacerato dalla guerra civile, stretto continuamente dagli agenti di Francia, che sempre parlavano dello sdegno del direttorio e di Buonaparte, non aveva più libertà di deliberare. Cedevano i padri, perchè il contrastare era impossibile. Statuivano, si riformerebbe lo Stato; la mutazione, quantunque in termini generali, al popolo si annunzierebbe. Mandavano poi legati a Buonaparte, con facoltà di accordare con lui la forma futura degli ordini politici, i nobili Michiel Angelo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gerolamo Serra. Partivano i deputati per Montebello, alloggiamento di Buonaparte. Partivano anche, conseguito l'intento, per alla volta medesima Faipoult e Lavallette, per informare il generale dell'adempimento delle commissioni loro, e per consigliarlo intorno alle persone che per gl'interessi della Francia si convenisse introdurre nel nuovo reggimento. Il doge, i governatori ed i procuratori della repubblica avvertivano del fatto il pubblico; esortando se ne vivessero intanto quieti e non corrompessero con moti inopportuni un'occasione dalla quale dipendevano il riposo e la felicità di tutti. Spedivano al tempo stesso il nobile Stefano Rivarola a Parigi, comandandogli in una faccenda di tanto momento per la repubblica s'ingegnasse con ogni possibil modo di fare, che la forma antica il meno che fare si potesse si alterasse e la integrità dei territorii in sicuro si ponesse. Il direttorio di Francia era per le cose d'Italia piuttosto servo che padrone di Buonaparte, e però a Montebello piuttosto che a Parigi si doveva definire il destino di Genova. Quivi consuonando i pensieri di Buonaparte, che la somma delle cose si confidasse non a gente fanatica e spaventevole ai re, ma bensì ad uomini temperati e savii, che o per necessità consentivano al cambiamento o volevano la democrazia mista con leggi, non pura e senza leggi, con quelli dei legati, ed anche la volontà del vincitore non essendo contrastabile, non fu lungo il negoziare, e a dì 5 giugno si concludeva un accordo per mezzo loro tra la repubblica di Francia e quella di Genova, pei principali capitoli del quale si statuiva: che il governo rimettesse alla nazione, così richiedendo la felicità della medesima, il deposito della sovranità che gli aveva confidato; ch'ei riconoscesse la sovranità stare nella universalità dei cittadini; che l'autorità legislativa si commettesse a due consigli rappresentativi, uno di trecento, l'altro di cencinquanta consiglieri; che la potestà esecutiva fosse investita in un senato di dodici e a cui presiedesse un doge; il doge ed i senatori dai consigli si eleggessero; ogni comune avesse ad esser retto da ufficiali municipali, ogni distretto da ufficiali distrettuali; le potestà giudiziali e militari, e così pure le divisioni dei territorii secondo il modello da farsi in una congregazione a posta si ordinassero, con ciò però che la religione cattolica salva ed intera si serbasse; i debiti dei pubblico si guarentissero; il porto franco ed il banco di San Giorgio si conservassero; ai nobili poveri, per quanto possibil fosse, si provvedesse; che ogni privilegio per abolito si avesse; che intanto si creasse un reggimento temporaneo di ventidue, ed a cui il doge presiedesse; che questo reggimento prendesse il magistrato il dì 14 di giugno. Statuisse delle indennità dei Franzesi offesi nei giorni 22 e 23 maggio; finalmente la repubblica perdonasse a tutti che l'avessero offesa nei giorni suddetti, e mantenesse l'integrità dei territorii della repubblica genovese. Mandava Buonaparte questi capitoli al doge con lettere portatrici di dolci parole mostrando, molta affezione verso la repubblica e consigliando fossero savi, fossero uniti e non dubitassero della protezione della Francia. Eleggeva al reggimento temporale Giacomo Brignole, doge, ed altri soggetti a lui piacenti, e col pensiero, non solamente di dare autorità ad uomini prudenti e lontani da voglie estreme, ma ancora, mescolando uomini di diverse condizioni, di mostrare che la sovranità non cadeva già in pochi, ma bensì in tutti, cosa che avrebbe dovuto far quietare, contentando le ambizioni, molli mali umori. Ma nelle rivoluzioni le ambizioni sono incontentabili, e come se le faccende pubbliche potessero maneggiarsi continuamente dalla moltitudine, il restringerle in pochi magistrati era riputato aristocrazia; gli esclusi gridavano tirannide, gente pericolosissima perchè pretendeva parole d'amore di patria. Incominciava appena a farsi giorno, che già le piazze e le contrade erano piene di gente, accorrendo da una parte il popolo tratto dalla novità del caso, dall'altra i libertini portati dall'allegrezza e dal desiderio di far certe dimostrazioni che credevano libertà; ed era uno spettacolo mirabile il vedere tutta quella città mossa a gioia, che, ancora non faceva un mese, si era veduta mossa a sangue. «Viva la libertà, muoia l'aristocrazia, viva Francia, viva Buonaparte,» gridavano le genovesi voci; in ogni angolo piantavansi gli alberi della libertà; i balli, i canti ed i discorsi che si facevano loro intorno erano eccessivi. Morando era fuori di sè dalla contentezza, sebbene non del tutto si soddisfacesse dei membri del governo temporaneo, parendogli aristocrati anzi che no. Vitaliani predicava. I nobili o si nascondevano nelle più segrete case o fuggivano dalla città, e ne avevano ben anche il perchè; che ad un primo trarre il popolo mosso e stimolato dai novatori più vivi, gli avrebbe manomessi. La servile imitazione verso la tragicomedia della rivoluzione franzese dominava; ed ecco una calca di gente trarre con grida al ducale palazzo, i patriotti li guidavano, con animo di levarne il libro d'oro, infame catalogo, come dicevano, volume esecrato dell'antica aristocrazia. La plebe, rotte a forza le porte dell'archivio, se lo portava con incredibili scede e giullerie sulla piazza dell'Acquaverde, e quivi, acceso un fuoco, lo ardeva, e le grida e le risa e gli scherni furono molti. Ardevano col libro d'oro anche la bussola del doge e l'urna dove s'imborsavano i nomi dei senatori pegli squittinii. Vi si aggiunsero altri stemmi gentilizii raccolti a furia di popolo da diversi luoghi; poi piantavano sulle ceneri delle reliquie aristocratiche, come dicevano, il solito fusto, e gli applausi e le musiche e i discorsi andavano al colmo. Arso il libro d'oro, trascorreva il popolo, ed anche i carbonari vi si mescolavano, ad un atto assai più biasimevole, e questo fu di rompere ed atterrare la statua di Andrea Doria, che per memoria ed onore delle sue virtù e de' suoi meriti verso la patria, i Genovesi antichi avevano eretto nella corte del palazzo ducale. Dalle ingiurie si trapassava ad insolenze criminose; perchè, sospettando che fossero ancora sostenuti nelle carceri alcuni fra coloro che erano stati arrestati nei giorni 22 e 23 maggio, vi correvano a folla, ed, avendole sforzate, davano comodità di fuggirsi a parecchi malfattori contaminando a questo modo il nuovo governo con lo stesso fatto col quale avevano già assaltato l'antico; tristi principii di libertà e di stato civile. Come prima ebbero i nuovi magistrati preso l'ufficio, mandavano fuori un manifesto, ringraziando Buonaparte della benevolenza mostrata verso la repubblica, lodando i privilegiati della rinunziazione dei privilegii, commendando i preti dello aver usato l'autorità loro a stabilimento della libertà; invitavano i popoli della riviera ad unirsi e ad affratellarsi con Genova; esortavano tutti a vivere quieti e concordi. Venivano a congratularsi ed a parlare encomii dell'acquistata libertà le città principali delle riviere; l'allegrezza si diffondeva; la fratellanza e la concordia fra le varie parti della dizione genovese parevano pigliar radice. Accresceva l'allegrezza il sentire che i feudi imperiali avevano fatto dedizione di sè medesimi a Genova e mandato deputati. Poi, per esser allora odioso quel nome di feudi, li chiamavano Monti Liguri. Erano volontieri accettati nella società genovese, lodati e ringraziati i deputati. Ordinavasi intanto il corpo municipale di Genova, soggetto molto geloso. Prendevano i municipali il magistrato il dì primo luglio con non mediocre apparato, e non mancavano i soliti discorsi. Ma l'affare più importante che si esaminava nelle consulte genovesi, era quello di formar il modello della nuova costituzione. Perlochè, conformandosi ai patti di Montebello, creava il governo la stabilita congregazione, chiamando e dalla città e dalla riviera e d'oltremonti uomini di riputato valore. S'adunavano bene spesso, ma servilmente procedendo, modellavano alla franzese e secondo i comandamenti di Buonaparte. Serra, un di loro, s'intendeva col generalissimo ed aveva più dominio degli altri. N'era imputato dai patriotti che incominciavano a mostrarsi mal soddisfatti di lui, chiamandolo aristocrata. Piacevano a Buonaparte quasi tutti i pensieri di Serra, e, come se fossero suoi, ne scriveva lettere al governo genovese. Incominciavano a prepararsi i semi delle future discordie. Si faceva principio della religione, non che toccassero le opinioni dogmatiche, ma soltanto la disciplina. I popoli confondevano l'una coll'altra; i chierici non che li disingannassero, li mantenevano nel falso concetto. Comandava il governo che non fosse lecito ai vescovi di promuovere, senza sua licenza, alcuno agli ordini sacri, se non coloro, che, già suddiaconi o diaconi essendo, desiderassero ricevere il diaconato o il pretato, e parimente, senza suo beneplacito, nessuno potesse, o uomo o donna si fosse, vestir l'abito di nessuna regola di frati o di monache; ordinamenti presi in mala parte dai più, perchè la setta contraria al nuovo Stato se ne prevaleva. Poi decretava che ogni cherico, o regolare o secolare che si fosse, se forastiero, dovesse fra certo termine e con certe condizioni uscire dai territorii. Parevano questi stanziamenti molto insoliti; ma bene più insolito e più strano appariva quell'altro precetto, col quale si ordinava che uomini deputati dal governo a tempo e dopo i divini uffici predicassero la democrazia alle genti. Fu questo un gran tentativo; non succedeva bene, perchè in molti luoghi i deputati non fecero frutto, in altri furono scherniti, in alcuni scacciati. Si sollevarono universalmente gli animi religiosi contro questa novità: i nemici dello Stato crescevano. Questo quanto alla religione; si moltiplicavano per altre ragioni gli sdegni. Oltrechè con gl'incessabili discorsi e scritti non si lasciavano mai quietare i nobili, fu preso decreto, che si mandasse a Parigi, come ministro della repubblica, l'avvocato Boccardi, e si richiamasse Stefano Rivarola: si richiamasse ancora Cristoforo Spinola, ministro a Londra: se non obbedissero, i beni loro fossero posti al fisco, intanto si sequestrassero. L'atto rigoroso offendeva i nobili; vieppiù gli animi s'inasprivano. Questo era riprensibile; ma bene del tutto intollerabile fu un altro atto, con cui si ordinava che i principali autori della convenzione fatta a Parigi da Vincenzo Spinola, per la quale la repubblica si era obbligata a pagare quattro milioni di tornesi alla Francia, fossero tenuti in solido a restituire la detta somma all'erario, e se non la restituissero, fossero i beni loro posti al fisco. Erano in questa faccenda interessate le principali famiglie, specialmente i Doria, i Pallavicini, i Durazzo, i Fieschi, i Gentili, i Carega, gli Spinola, i Lomellini, i Grimaldi, i Catanei, personaggi che tiravano con loro una dipendenza grandissima. Ciò faceva maggiormente inviperire gli animi degli scontenti, i quali, vedendo di non trovare dopo la mutazione alcun riposo nè per le sostanze nè per le persone, pensavano a vendicarsi; non che si consigliassero di far congiure o moti popolari perchè troppo erano sbigottiti a voler ciò tentare, ma spargevano ad arte voci sinistre nel popolo, ed aspettavano le prime occasioni per insorgere. Mescolavano il falso col vero: vero era che il generalissimo aveva domandato parecchi milioni pel vivere delle sue genti: questo anzi era stato uno dei principali motivi della mutazione. Il governo poi, trovandosi ancor debole in quei principii e non avendo altre radici che i discorsi vani dei democrati e il patrocinio forastiero, andava lento alle tasse, e perciò aveva trovato il rimedio di quell'ingiusto balzello. A tutto questo si aggiungevano le rapine dei Barbareschi tanto più moleste, quanto più si aveva avuto la speranza data espressamente che, cambiato il reggimento, la Francia avrebbe tutelato dagli assalti dei Barbari le navigazioni dei Genovesi. Motivo potente di malumore era altresì quello che due generali franzesi, Casabianca e Duphot, fossero venuti a reggere e ad ordinare i soldati, segno certo essere perita l'indipendenza. Ciò significava inoltre che Buonaparte, o non si fidava dei Genovesi, o gli stimava inabili alle cose militari: dal che nasceva che chi pensava altamente, si teneva mal soddisfatto. Udivasi che si voleva si smantellassero le fortezze di Savona e di San Remo, soli propugnacoli dell'indipendenza verso Francia. Vedevano anche levarsi dalle porte della metropoli i cannoni, il che interpretavano come voglia di aprir l'adito più facile e più sicuro ai forastieri per invadere il cuore stesso della repubblica. Gridavano, doversi insorgere contro reggitori fatti servi dei forastieri. I nobili, i preti e gli aderenti loro, che non erano pochi, fomentavano questi mali umori. Frano allora i reggitorii divisi in due sette, dell'una delle quali compariva capo Serra, dell'altra Corvetto, Ruzza e Carbonara; quello per un reggimento più stretto e pendente all'aristocrazia: questi s'intendevano meglio con Faipoult, alcuni per ambizione, altri a buon fine, credendo che, poichè i cieli avevano destinato che i Franzesi divenissero padroni di Genova, miglior partito era per arrivar a bene il vezzeggiarli che l'aspreggiarli, perchè, volere o non volere, i Franzesi dominavano. Ma la maggior dipendenza di questa parte verso Francia, dall'un canto la faceva odiosa, dall'altro la rendeva dipendente, più che non sarebbe stato necessario, dai democrati più ardenti, i quali non amavano Serra, anzi il chiamavano tiranno e nuovo duca di Orleans. Questi semi pestiferi erano pullulati, ne prendevano animo i nemici della mutazione e si apprestavano a far novità. Già si udivano sinistri suoni dalle valli di Bisagno e di Polcevera. Era la cagione od il pretesto la nuova costituzione, violatrice, come spargevano, della religione, e che, come si era data intenzione, si doveva accettare il dì 14 settembre. Per far posare gli animi, annunziavano essere prorogata l'accettazione, e si torrebbe quanto potesse offendere la coscienza dei fedeli. In questo mezzo tempo Corvetto e Ruzza erano stati mandati a Buonaparte per consultar con lui degli articoli che avevano fatto adombrare i popoli. Ma gli umori popolari più presto si muovono che s'arrestano. Dava loro l'ultima pinta di essersi fatto arrestare tanto in città quanto nel contado alcuni nobili che si credevano pericolosi; cinque Durazzi, due Doria, due Pallavicini, tre Spinola, un Ferrari, uomini per nome e per ricchezza di molta dipendenza. Incominciavano il dì 4 settembre a tumultuare le popolazioni di Bisagno. Suonavano le campane a martello, i curati esortavano e guidavano i sollevati, si facevano adunanze nelle ville dei nobili, poi, crescendo il numero ed il furore, armati di armi diverse ma con animi concordi, fatta una gran massa, s'incamminavano infuriati verso la capitale. Duphot con una squadra di Franzesi e di democrati andava loro all'incontro; il principal nervo consisteva nelle artiglierie, di cui i sollevati mancavano. Seguitava una mischia molto aspra in Albaro. Prevalevano finalmente l'arte e la disciplina, contro il numero ed il furore: andavano in fuga i sollevati; alcuni furono presi, altri in mezzo alla mescolata fuga crudelmente uccisi. Tornavano i soldati di Duphot in Genova vincitori, sanguinosi e non senza preda. Non ancora del tutto spenta la sedizione di Bisagno, un nuovo rumore di guerra già si faceva sentire nella Polcevera. Gli abitatori di questa valle, mossi dall'esempio dei Bisagnani e dalle instigazioni di alcuni ecclesiastici, si levavano ancor essi in gran numero e correvano contro la capitale. Accostatisi a loro non pochi degli avanzati alle stragi di Binasco, la moltitudine armata s'impadroniva per una battaglia di mano del forte della Sperona; poi, più avanti procedendo, occupava tutto il secondo cinto delle mura, restando solo esente la batteria di San Benigno. Una prima squadra di soldati liguri e franzesi mandata in quel primo tumulto contro di loro, vedutigli bene armati e bene fortificati, se ne rimaneva e tornavasene. Poi si negoziava e si fermava un accordo. Ma ecco che dai più ardenti Polceverini si spargeva che i giacobini erano gente infida, e che solo avevano promesso il perdono per meglio far le vendette. Novellamente s'inferocivano, e, prese impetuosamente le armi, assaltavano il posto principalissimo di San Benigno. In questo punto Duphot, vincitore di Albaro, che per l'indugiarsi del trattato, aveva avuto tempo di raccorre e di ordinare tutti i suoi, aiutato fortemente dal colonello Seras, soldato molto animoso, traversava la città e correva contro la turba degli insorti. Seguitava una feroce mischia, come di guerra civile. Combattevano valorosamente Duphot e Seras, vecchi soldati: non resistevano meno valorosamente i paesani, nuovi soldati; durava quattro ore la battaglia; furono non pochi i morti, non pochi i feriti; superava infine la veterana disciplina: i paesani scacciati dai posti, voltavano le spalle e seguitati con molta pressa dai repubblicani, perdevano gran gente. Cinquecento, essendo presi, empievano le carceri di Genova. La fama della doppia vittoria di Albero e di San Benigno, e le forze mandate sedavano i moti, che già erano sorti a Chiavari ed in altre terre della riviera di levante, come altresì nei feudi imperiali, o Monti Liguri che si voglian nominare. Ogni cosa si ricomponeva in quiete, ma per terrore, non per amore; truce e minacciosa, non lieta e consenziente. Avuta la vittoria, si pensava alla vendetta. Creavasi un consiglio militare, perchè nelle forme più pronte e più sommarie avesse a giudicare i ribelli. Sette ad otto, ma di oscuro nome, dannati a morte tingevano col sangue loro il suolo dell'atterrita Genova: non pochi erano mandati al remo. Si apprestava il destino medesimo ad altri. Faipoult avvertiva Buonaparte che si dannavano soltanto gli ignobili: mettevagli in sospetto Serra; chiamavalo uomo pericoloso, dissimulatore, ambizioso: stimava la quiete del pubblico in pericolo, finchè Serra stesse al governo. I due Serra, giuntosi Gerolamo col fratello, dal canto loro accusavano Faipoult e Duphot di essersi fatti protettori di una parte turbatrice e pervertitrice di ogni buon ordine politico, e d'impedire che la quiete tornasse in Genova. Niuno altro mezzo di salute e di riposo esservi, dicevano, che quello di mandar via Duphot, e di contenere nelle funzioni del suo ufficio Faipoult; senza ciò nascerebbero necessariamente la debolezza dello Stato, l'anarchia, i disordini, il sangue. Per tal guisa gli animi si invelenivano; ed era vero che Faipoult addomandava imperiosamente al governo che annullasse il decreto, pel quale aveva ordinato che la commissione militare terminasse al più presto le sue operazioni. Addomandava oltre a ciò che i nobili carcerati, anche innocenti, quali ostaggi si conducessero nel castello di Milano. In questo arrivava a Genova con nuovi soldati mandati da Buonaparte, a cui le turbazioni genovesi davano sospetto, il generale Lannes, il quale, non curandosi nè di governo nè di Faipoult, nè di preti nè di frati, nè di nobili nè di plebei, nè di patriotti nè di aristocrati, e solo alla forza mirando, si alloggiava alla soldatesca nella città e se ne faceva padrone. Intanto i legati, accordatisi con Buonaparte intorno ai cambiamenti della costituzione della repubblica Ligure, la conducevano a compimento e, lui permettente, era pubblicata. Fossevi un consiglio dei giovani, uno degli anziani, e un direttorio; dividessesi la repubblica in quindici dipartimenti; dei magistrati giudiziali, distrettuali e municipali si statuisse a modo di Francia. Fu questo un modello tutto franzese; e insomma la genovese costituzione fu data, non presa. Pure fra le armi serrate ed i soldati apprestati fu sottoposta ai comizii popolari. L'approvavano cento mila voti favorevoli, diciassette mila contrarii. Facevansi feste, cantavansi inni, erano nel teatro allegrie assai. Nominavansi i due consigli e dai consigli il direttorio. Eleggevansi a questo Luigi Corvetto, Agostino Maglione, Niccolò Littardi, Ambrogio Molfino, Paolo Costa; creavano Corvetto presidente. Sul principiare dell'anno seguente prendevano il magistrato tutti i nuovi ordini e s'instituiva la costituzione. Poi, partitosi Faipoult, gli veniva sostituito un Soltin. A questo modo periva l'antica repubblica di Genova, feroce, animosa, sanguinosa ed impaziente. Periva per mano dei vincitori Genova, perchè ricca e con pochi soldati; si conservava il Piemonte, perchè povero e con soldati. Essendo ancora le cose dubbie coll'imperatore, importava alla Francia l'avere in suo favore i soldati del re se di nuovo si dovesse tornare sull'armi. Poi, quantunque il direttorio molto l'avesse in odio, Buonaparte se ne compiaceva, invaghito per indole propria dei governi assoluti ed allettato dalle adulazioni dei nobili piemontesi. Pure non era possibile che le massime che correvano, i rivoltamenti della vicina Genova, i giornali, le predicazioni, le trame di Milano non partorissero in Piemonte effetti pregiudiziali alla quiete dello Stato. Quanto prima fu fermata la tregua di Cherasco tra la Francia ed il Piemonte, i ministri del re ed il re medesimo, anteponendo la salute dello Stato all'inclinazione propria, posero ogni cura nel nodrire l'amicizia con Francia, ed a questo fine indirizzavano tutti i loro pensieri. La principale difficoltà a superarsi però in questo consisteva, che si persuadesse al direttorio che il re per interesse proprio doveva star aderente colla Francia, e che la Francia, anche per interesse proprio, doveva avere per aderente il re. A questo fine, e perchè un trattato di alleanza si stipulasse, aveva, come già si è narrato, Carlo Emmanuele mandato suo ambasciadore a Parigi il conte Balbo. Perchè poi potesse il conte più facilmente entrar di sotto, aveva fra le mani molto denaro. Del che molto sagacemente valendosi, si aveva acquistato molta entratura. Poi facendosi avanti con progetti politici, massimamente di ordinamenti delle cose italiane, insisteva e dimostrava, esser necessario contentare il re di Sardegna, compensargli con nuovi acquisti Savoia e Nizza, farlo insomma polente e grande; ma perchè non fosse scemata autorità alle sue parole, come d'uomo che parlasse per sè, aveva operato che Franzesi de' primi, coi quali si era accordato, queste medesime cose per bocca e come per motivo proprio rappresentassero. Per tal modo si proponeva al direttorio, fra gli altri, per mossa del Balbo, ma per mezzo di Franzesi che avevano parte nello Stato, un ordinamento per l'Italia superiore, pel quale l'Austria sarebbe stata od intieramente esclusa dall'Italia, desiderio principale della Francia, o frenata in quei termini che le si stabilissero per la pace. L'ambasciatore piemontese, avendo trovato la materia tenera, e volendo dimostrare che con la grandezza del re era congiunta la sicurtà e il benefizio di Francia, procedeva più innanzi forse poco prudentemente, perchè in ciò andava a ferire l'edifizio prediletto di Buonaparte. Argomentava, e certamente con verità, che le nuove repubbliche italiane non potevano di per sè stesse sussistere. Necessaria cosa essere adunque che si compensassero al re le perdite fatte, e che se gli assicurassero gli Stati; il che meglio e più fermamente non si poteva fare che col metterlo in possesso della Lombardia. Queste piemontesi insinuazioni erano astutissime, siccome quelle che sempre toccavano quel tasto prediletto alle orecchie de' Franzesi tanto desiderosi della declinazione dell'Austria in Italia e dell'aumento della potenza propria. Perciò erano udite volontieri, non già dal direttorio, sempre invasato dai suoi pensieri di rivoluzione, ma da chi stava allato a lui e molto con lui poteva. Le avvalorava anche con sue lettere Buonaparte. Scriveva egli al ministro degli affari esteri, male conoscersi i popoli Cisalpini a Parigi; non portar la spesa che si facessero ammazzare quaranta mila Franzesi per loro; errare il ministro in pensando che la libertà potesse far fare gran cose ad un popolo, come affermava, molle, superstizioso, commediante e vile; volere il ministro ch'egli, Buonaparte, facesse miracoli, ma non saperne fare; non avere nel suo esercito un solo Italiano, se non forse quindici centinaia di piazzaruoli raggranellati a stento sulle piazze di diverse città d'Italia, ribaldaglia piuttosto atta a rubare che a far guerra; il re di Sardegna solo con un suo reggimento esser più forte di tutta la Cisalpina; non permettesse, che qualche avventuriere, o forse anche qualche ministro, gli desse a credere che ottanta mila italiani fossero in armi; bugiardi essere i giornalisti parigini, bugiarda la opinione in Francia rispetto agl'italiani: se i ministri cisalpini gli dicessero, aggiungeva Buonaparte, ch'egli avesse allo esercito più di quindici centinaia de' loro e più di due mila destinati a mantenere il buon ordine in Milano; rispondesse loro che dicevano bugia, e gli sgridasse, che lo meritavano; certe cose esser buone a dirsi ne' caffè e nei discorsi, ma non ai governi; romanzi esser quelle, che son buone a dirsi ne' manifesti e ne' discorsi stampati; doversi ai governi parlare di un altro suono, perchè le falsità gli sviano, e le male strade li fan rovinare; non l'amore degl'italiani per la libertà e per l'equalità aver aiutato i Franzesi in Italia, ma sì la disciplina dello esercito, il valore de' soldati, il rispetto per la repubblica, il contenere i sospetti, il castigare gli avversi; aver ad essere un abile legislatore quello che potesse invogliar dell'armi i cisalpini; esser loro una nazione snervata e codarda: forse col tempo si ordinerebbe bene la loro repubblica infino a metter su trenta mila soldati di tollerabil gente, massime se conducessero qualche polso di Svizzeri, ma per allora non vi si poter far su fondamento. Nè maggior capitale potersi fare de' patrioti cisalpini e genovesi; doversi aver per certo, che se i Franzesi se ne gissero, il popolo gli ammazzerebbe tutti. Adunque, concludeva, se ausiliarii di niun conto sono e Genovesi e cisalpini, nissun miglior partito restare alla Francia, per avere un ausiliario buono in Italia a diminuzione della potenza austriaca, che stringere amicizia col re di Sardegna e fermare con lui un trattato di alleanza. Infatti un trattato di tal sorte tra Francia e Sardegna già si era negoziato quando ancora l'imperadore combatteva in Italia e tuttavia erano gli eventi della guerra dubbii. Infine era stato concluso il dì 5 aprile da parte della Francia pel generale Clarke, da quella della Sardegna pel ministro Priocca. I primi e principali capitoli erano, fosse l'alleanza offensiva e difensiva prima della pace del continente, solamente difensiva dopo; non obbligasse il re a far guerra ad altro principe che all'imperadore di Germania, ed il re se ne stesse neutrale colla Inghilterra; guarentivansi reciprocamente le due parti i loro Stati d'Europa e si obbligavano a non dar soccorso ai nemici sì esterni che interni; fornisse il re nove mila fanti, mille cavalli, quaranta cannoni; obbedissero questi soldati al generalissimo di Francia, partecipassero nelle taglie poste in sui paesi vinti in proporzione del numero loro; quelle poste sugli Stati del re cessassero; niuna parte potesse fare accordo col nemico comune se non comune: si stipulasse un trattato di commercio; la repubblica di Francia, come più possibil fosse, avvantaggiasse alla pace generale, o del continente, le condizioni del re di Sardegna. Questo trattato conteneva una condizione principalissima e di tutto momento pel re, e quest'era la guarentigia degli Stati contro i nemici sì esterni che interni, gli uni agli altri pericolosi, i primi per la forza, i secondi per quella sequela delle cose milanesi e genovesi. Restava che i consigli di Francia ratificassero il trattato, perchè già il direttorio l'aveva approvato. Qui sorsero parecchie cagioni d'indugio, prima da parte del governo regio, che desiderava che la ratificazione fosse susseguente alla pace con Roma, e che il suo ministro a Vienna ne fosse uscito e condotto in salvo; poi per parte della Francia, perchè a questo tempo stesso erano stati fermati i preliminari di Leoben; e siccome la principal condizione dell'alleanza consisteva nel far guerra di concerto contro l'Austria, pareva che il ratificare ed il pubblicare il trattato potesse sturbare le pratiche di fresco aperte con l'imperadore. Ma il re, sentiti i preliminari di Leoben, insisteva ostinatissimamente per la ratificazione, perchè aveva timore delle turbazioni interne, e sospettava, giacchè lo imperadore era sceso agli accordi, che il direttorio si ritirasse da lui e si stipulassero ne' sorti negoziati cose contrarie ai suoi interessi. Temeva di restar solo esposto ai risentimenti dell'Austria, tanto più formidabili, quanto egli con maggior sincerità e calore si era gettato dalla parte franzese. Per questo Balbo usava ogni opera a Parigi, e con ragioni forti e con mezzi più forti ancora che le ragioni, acciocchè il trattato si appresentasse per la ratificazione dal direttorio ai consigli. Secondava Buonaparte con le lettere i tentativi del conte. Alle cose dette da Buonaparte, rispondeva dal canto suo Carlo Maurizio di Talleyrand, non volere il direttorio ratificare il trattato conchiuso col re di Sardegna, per molte ragioni che venia specificando. Ma o che Balbo avesse trovato modo di ammollire queste durezze, forse mostrate appunto perch'ei trovasse modo di ammollire, o che le cose di guerra pressassero, e prevedesse il direttorio una nuova rottura coll'Austria, il trattato d'alleanza con Sardegna era mandato dal direttorio ai consigli, e questi il ratificarono. Mentre così il governo repubblicano di Francia studiava modo di usare le forze del re di Sardegna durante la guerra e di distruggerlo durante la pace, i semi venuti di Francia e pullulati con tanto vigore in Milano ed in Genova, incominciavano a partorire i frutti loro in Piemonte. Principiavasi dalle congiure segrete, procedevasi alle ribellioni aperte. Davano incentivo a queste mosse, oltre le opinioni de' tempi, le condizioni infelici di quel paese; imposizioni gravissime, quantità esorbitante di carta monetata che scapitava del cinquanta per cento, moneta erosomista anch'essa in copia eccessiva e disavanzante del dieci per cento; a questo i gravami de' soldati repubblicani, o di stanza nel paese, o di passo, le leve di genti, sì pei regolari che per le milizie, molto onerose, l'orgoglioso procedere de' nobili, certamente intempestivo, stantechè da esso principalmente nasceva la mala contentezza de' popoli e contro di loro specialmente si dirizzavano le opinioni. A tutto questo non portava rimedio nè la natura temperata del re, nè la santità della regina, nè i consigli prudenti de' ministri. Era la quiete di Torino raccomandata al conte di Castellengo, uomo tanto deforme di corpo quanto svegliato d'animo. Della nobiltà non si curava, de' re poco, della libertà si rideva, della non libertà parimenti, i patriotti perseguitava piuttosto per vanagloria dell'arte che per opinione. Un Bonino, cameriere del marchese di Cravanzana, ed un Pafio, materassaio, furono sostenuti come di aver voluto assaltare a mano armata il re sulla strada per alla Veneria a fine di fare una rivoluzione. Credevano trovar molta gente; non trovarono nissuno. Intanto l'astio delle due parti vieppiù s'inacerbiva. Insolentivano i soldati regi a Novara con lacerar di forza certe nappe d'oro che i giovani Novaresi portavano sui cappelli: fuvvi qualche tumulto e qualche ferita. Tumultuava il popolo a Fossano, pretendendo il caro de' viveri, faceva oltraggio alle case del conte di San Paolo, uomo dotto e buono, ma lo chiamavano usuraio: poi i sollevati prendevano certi cannoni; il che non era più tumulto per le vettovaglie, ma ribellione: a Torino s'incominciava a gridar il nome di libertà, preso principio dalla bottega d'un panattiere che non voleva vender pane. Questi erano cattivi segni d'un peggior avvenire; ed appunto in Genova era nata la rivoluzione. Accresceva il terrore ed il livore un caso molto lagrimevole: che un medico Boyer con un compagno Berteux si arrestavano come rei di congiure. Era Boyer giovane virtuoso e di famiglia ornata ancor essa di tutte le virtù che possano capire in mortali uomini. Amici e nemici piangevano le sue disgrazie: tanto amore lasciava nell'estremo supplizio. I tumulti intanto si dilatavano. Già Racconigi, Carignano, Chiari e Moretta, terre vicine a Torino, contro il dominio regio si muovevano. In Asti soprattutto succedeva un fatto terribile, perchè fatti prigioni i mille cinquecento soldati regi che vi stanziavano, insignorivansi intieramente non solo della città, ma ancora del castello. Molti altri luoghi vi aderivano. Al tempo medesimo nella già tentata Novara prevalevano i regi, ma più per insidia che per onorevole vittoria. Poi i soldati correndo alla scapestrata, incominciavano a mettere a sacco le case di coloro che erano in voce di desiderar le novità; poi saccheggiavano le case degli aristocrati, e stava per poco che la città non andasse tutta a ruba. Così con varia fortuna ardeva la guerra civile in Piemonte, accesa dal popolo pel timore delle vettovaglie, dai novatori per amore di libertà o per odio dei nobili, dai nobili per fede verso il re o per odio ai novatori. Si trepidava in ogni luogo, perchè in ogni luogo si faceva sangue o si temeva che si facesse. Già si sospettava di Torino; ma otto mila fanti e due mila cavalli, chiamati in fretta per sussidio della regia sede e posti a campo sullo spaldo della cittadella minacciosamente, erano mantenitori di quiete. Ed ecco sulle porte stesse della città regia udirsi un rumor confuso d'armi e d'armati: erano i Moncalieresi, che levatisi a rumore e sovvertita in Moncalieri l'autorità regia, già si mostravano sulle rive del Sangone con animo d'andar più oltre a tentar Torino. Sogliono i popoli sollevati nei primi impeti loro, prima che i tristi abbiano fatto i lor maneggi per tirare le cose a sè, ricorrere e far capo a personaggi autorevoli per dottrina e per virtù. Viveva a questi tempi in Moncalieri un uomo dottissimo e tanto buono quanto dotto, Carlo Tenivelli, autore elegante di storie piemontesi. Questi, alieno dalle opinioni dei tempi, avverso per natura a quanto venia di fuori, ed oltre a ciò di costume molto indolente e non curante, non avendo attività alcuna se non per iscrivere istorie, non aveva a niun modo mente a muover cose nuove, e molto meno quelle che si assomigliassero alle franzesi. Devoto alle casa di Savoia, dedito, anche con singolare compiacenza, ai nobili, non era uomo, non che a fare, sognar rivoluzioni. Suonavano l'armi e le grida tutto all'intorno, e dentro della mossa Moncalieri, che Tenivelli non se ne addava, tutto con la mente immerso nelle solite lucubrazioni. Ma i sollevati lo andavano a levare di casa e per forza il portavano in piazza, senza che egli ancora si avvedesse che cosa volesse significare tanta novità. Insomma condottolo sulla piazza e fattolo montar sulle panche, gli dicevano: «Fa, Tenivelli, un discorso in lode del popolo,» ed egli, che eloquentissimo era, faceva un discorso in lode del popolo: poi gli dicevano: «Tenivelli, tassa le grasce che son troppo care,» ed ei tassava le grasce con tanta bontà, con tanta innocenza, che vien le lagrime in pensando al fine che il fato gli apprestava. Tassate le grasce ed usatosene anche copiosamente dai sollevati, s'incamminavano, come dicemmo, verso il Sangone per alla volta di Torino. In sì pericoloso frangente, in cui quasi tutto il Piemonte romoreggiava per la guerra civile e che il suono dell'armi contrarie si udiva perfin dalle mura della real Torino, il governo non si perdeva d'animo. Il giorno stesso in cui Moncalieri si muoveva contro Torino, creava il re, con un'apposita legge, giunte militari, le quali con l'assistenza dei giudici ordinarii sommariamente e militarmente giudicassero i ribelli. Poi premendo che si mettesse tosto il piede su quelle prime faville di Moncalieri, il che era più facile e più pronto per la vicinanza e pel gagliardo presidio che alloggiava nella capitale, ordinava ai soldati andassero contro i ribelli e li vincessero. Non poterono i sollevati sostenere l'impeto delle compagnie regie ed in poco d'ora si disperdettero; tornava Moncalieri sotto la consueta divozione. Il buon Tenivelli, non solo non pensando, ma nemmeno sospettando che quel che aveva fatto fosse male, non che delitto, se ne veniva quietamente a Torino, e quivi tornava sui soliti studi, come se gli accidenti di Moncalieri fossero cose dell'altro mondo o di un altro secolo. Ma gli amici gli dicevano: «Tenivelli, che hai fatto? o fuggi o ti nascondi, se no tu sei morto.» Non la sapeva capire: tornava nella solita astrazione. In fine il nascondevano in casa di un soldato urbano, che faceva professione di libertà: il soldato, per prezzo di trecento lire, il tradiva. Fu arrestato, condotto a Moncalieri e condannato a morire dalla giunta militare. Lettagli la sentenza, non cambiava nè viso nè parole. Condotto sulla piazza di Moncalieri, gli fu rotto l'intemerato petto dalle palle soldatesche. Continuavano intanto nelle città sommosse gl'insulti al governo regio. Il re, per rimediare ad un male tanto pericoloso e per temperare un furore che ogni ora più andava crescendo, comandava, volendo dar adito al pentimento e forza contro i renitenti, che si perdonassero le offese a chi ritornasse alla quiete ed alla fedeltà, e che i sudditi si armassero contro i ribelli. Riusciva questo rimedio utile per l'effetto, feroce per l'esecuzione. Sanguinosa era per ogni parte la terra del Piemonte. Siccome poi per pretesto principale di tanti movimenti sfrenati si allegava la carestia dei viveri, ed anche era andata la stagione molto sinistra pel grano e per le biade, si facevano provvisioni sull'annona, e, fra le altre, che nissuno potesse negar grano o qualunque biada al pubblico, ove la volesse comprare al prezzo comune. Oltre la scarsezza, principal cagione del caro che si pruovava, era il disavanzo dei biglietti di credito verso le finanze e della cartamoneta, e così ancora quello della moneta erosa ed erosomista, gli uni e le altre cresciute in quantità soprabbondante, vera peste del Piemonte. Si sforzava il governo, premendo i tempi, a rimediare ad un pregiudizio sì grave con obbligare infino alla somma di cento milioni ai possessori dei biglietti i beni degli ordini di Malta, di San Maurizio e Lazzaro, e quei del clero sì secolare che regolare, eccettuati i benefizi vescovili e parrocchiali. Nè questo bastando a tanta pernicie, diminuiva poco dopo il valore della moneta erosa ed erosomista e al tempo medesimo creava, con autorità del papa, una tassa di cinquanta milioni sul clero; ed altre cose ancora ordinava a queste consonanti. Miravano cotali provvedimenti alle rendite dello Stato ed al far tollerabile il vitto del popolo: altri se ne facevano per mansuefar le opinioni, buoni in sè perchè giusti, ma insufficienti perchè i novatori a niuna cosa che venisse dal re, volevano star contenti. Con tali consigli sperava di poter fare appoggio allo Stato che pericolava. Ma due rimedii assai più efficaci di questi gli apprestava il cielo che voleva che la monarchia piemontese non cadesse se non dopo che avesse provato tutte le amarezze di una lunga e penosa agonia. Fu il primo l'aiuto dai propri soldati, l'altro l'amicizia di Buonaparte. Le truppe regie virilmente combattendo e condotte dal conte Frinco, ricuperavano Asti. Già Biella, Alba, Mondovì, Fossano e Racconigi nell'antica obbedienza rimettevano: già Carignano, Moretta ed altri luoghi vicini a Torino ritornavano per forza al consueto dominio, e, già non si aveva più timore che le valli di Pinerolo abitate dai Valdesi, sulle quali non si stava senza qualche sospetto, tumultuassero; solo alcune teste di novatori più ostinati o più coraggiosi facevano qua e là qualche resistenza. Ma toglievano loro intieramente l'animo le lettere di Buonaparte scritte al marchese di San Marsano mandato a Milano ad implorare aiuto alle cose pericolanti, e che a considerato fine furono pubblicate dal governo regio. Il generalissimo scriveva di essere parato a fare quanto sapesse il re, desiderare per assicurarne la quiete, e lo avvertiva che già aveva fatto arrestare quel Ranza, promovitore di scandali in Piemonte co' suoi scritti. Le lettere di Buonaparte partorirono l'effetto che se ne aspettava. I novatori, già rotti dai soldati regi ed ora caduti dalle speranze degli aiuti di Francia, posarono interamente. Domati i democrati, si faceva passo dalle battaglie ai suplizii: erano giusti, perchè contro i ribelli, ma sì frequenti che pareano piuttosto vendetta che giustizia. Di quattordici si prendeva l'estremo supplizio a Biella; di più di trenta in Asti; nè Moncalieri stava senza sangue, oltre quel di Tenivelli. Vidersi più di dieci giustiziati a Racconigi; poi si soprastava per intercessione del principe di Carignano, dolente di veder quella sua terra piena di sangue. Notossi fra i giustiziati un giovine Goveano, di natali onesti ed apparentato con famiglie di buona condizione. A questo tratto fu molto biasimato, anzi lacerato il governo, come di una cosa enorme, e questa fu che il re, avendo ordinato che si perdonassero ed in dimenticanza si mandassero i fatti di Racconigi, fu il supplizio susseguente al perdono. A Chiari le palle soldatesche ammazzarono venti persone in un giorno. Tanti supplizii frenavano pel presente, preparavano rivoluzioni per l'avvenire; avrebbero raffermo uno Stato intatto, indebolivano uno Stato scosso, insidiato e circondato da ogni parte da esempi pestiferi. La moltiplicità dei supplizii non isvoglieva gli animi dall'infelice Boyer, perchè chiaro per la santità dei costumi, chiaro per le dipendenze della famiglia, faceva tutta la generazione intenta a lui. Una giunta mezzana tra militare e civile il processava. S'offerivano testimonii pronti al carcere per le difese. Non furono ammessi, perchè si sospettava che amassero meglio servire alle amicizie ed alle opinioni che alla verità. Pure quello aver negato le difese parve cosa incomportabile. Castellango fra i giudici, Priocca fra i ministri, opinavano per la mansuetudine, il primo perchè gli pareva che il sangue di quel giovane non importasse, il secondo per questo stesso ed anche per compassione. Fu Boyer col suo compagno Berteux sentenziato a morte, e ambedue giustiziati sugli spaldi della cittadella. La morte sua contristava tutta la città e la rendeva attonita e paventosa lungo tempo. Buonaparte vincitore desiderava che un testimonio solenne si fondasse in Italia, il quale, oltre gli scritti, che morti sono, tramandasse ai posteri la memoria viva de' suoi illustri fatti e del suo valore. Questo era, come si è narrato, uno Stato nuovo, che fosse a lui obbligato della sua origine e della sua conservazione. Oltre a ciò, non essendo ancora le cose della pace del tutto ferme, poichè ad ogni momento si poteva prorompere nuovamente all'armi, voleva che sorgesse in mezzo alle monarchie d'Italia e contro l'imperatore medesimo una repubblica che, fondata sui principii nuovi, desse loro cagione continua d'inquietudine. Parevagli ancora che la fondazione della nuova repubblica avesse nella opinione dei popoli a compensare la distruzione di una vecchia, e che la Cisalpina potesse in lui cancellare il biasimo incorso per la Veneziana. Forse in questo, come alcuni pensarono, oltre la gloria e le minacce, covava un pensiero più recondito nel caso in cui, per opera o di altrui o sua, venisse a mutarsi la forma del governo in Francia, riducendosi di nuovo all'antica, cioè alla monarchia; poichè quel nuovo Stato italiano avrebbe potuto divenire per esso lui o asilo o ricompensa. Per le quali cose, come prima ebbe fermato i patti di Leoben e dato ordine a quanto più pressava nel suo esercito, se n'era tornato a Montebello, donde poteva e svegliar le pratiche della pace e dar moto alle faccende cisalpine. Continuavano nella Cisalpina le provocazioni di moti incomposti nei paesi circonvicini, le quali erano o palesi nei giornali, nei ritrovi politici, nelle condotte ai soldi cisalpini di soldati piemontesi, austriaci, polacchi, papali e napolitani, che nelle legioni lombarda e polacca si descrivevano, o segrete per gli uomini mandati a posta, per lettere, per arti di ogni sorta, in cui vivamente si travagliavano i fuorusciti di ogni contrada d'Italia, massimamente i Piemontesi ed i Napolitani, i primi pericolosi, per la natura tenace, i secondi pericolosi per la natura loquace. Le cose che si scrivevano a quei tempi in Milano contro il re e contro il papa, sarebbe lunga faccenda raccontare. Erano esorbitanze pazze e stravaganti, l'esagerazione stessa serviva di rimedio. Ma era in Milano un motivo assai più efficace, e quest'era un ritrovo pubblico, che chiamavano società di pubblica instruzione, dove con appositi discorsi, si ammaestravano i popoli, che concorrevano ad ascoltare, nelle nuove dottrine, e donde scritti innumerevoli partivano al medesimo fine e nella Cisalpina largamente si diffondevano. Apparivano e risplendevano molto principalmente in questo ritrovo politico uomini dotti e leali operatori per fin di bene, ma servi ancor essi delle illusioni dei tempi. In un discorso, e basti dir di questo, di un giovane dotto, che aveva l'animo buono e come buono non sospettava in altrui quel male che non aveva in sè, esposti prima con molto acume i modi con cui gli uomini s'aggregavano primitivamente in società, favellava egli la domenica dei 7 maggio, paragonando le antiche epoche colla presente, descrivendo la libertà siciliana data da Timoleonte ed esortando gl'Italiani a vivere lontani dall'ozio e dalle discordie, con queste voci la sua orazione terminava: «Conosci, o popolo, la tua forza; la lega che dagl'Italiani si organizzò contro Brenno e contro il Barbarossa, te ne darà l'idea vantaggiosa. Vivi alla libertà, a quella libertà che, abbandonate le amene sponde del Ceso e del Peneo e fermatasi per qualche secolo sulle mal sicure rive del Tebro, dopo essere stata sì lungamente ne' boschi, e ne' deserti nascosta, comparve di nuovo per grandeggiar sulla Senna e per brillar con successo intorno al Po, da dove tutto scorrerà un giorno il bel paese, _che Apennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe_.» Quali effetti partorissero questi incentivi in Piemonte e nel Genovesato, si è già raccontato. Il ducato di Parma, a grave stento si manteneva per la protezione di Spagna, alla quale per allora la Francia non voleva pregiudicare. Continuava la Toscana nel suo tranquillo stato, sebbene la presenza dei soldati repubblicani, la pressa insolita per le contribuzioni, e le arti cisalpine vi avessero prodotto qualche impressione. Lucca, corrotti con denari e fattisi benevoli alcuni agenti repubblicani dei primi, si manteneva negli ordini antichi, non senza grandissime querele dei patriotti cisalpini che quella aristocrazia ardentemente detestavano. Del resto si contaminava Roma stessa, dove si scoversero congiure per cambiar lo Stato, ed in cui si mescolarono Franzesi ed Italiani, nobili e plebei, cristiani ed ebrei. Condotti dall'occupamento del secolo, avevano parlato molte cose e nessuna operato, per modo che Giuseppe Buonaparte, che a quei tempi sedeva in Roma, gli ebbe a chiamare Bruti in pensiero, femminelle in atto. Certo non avevano nè seguito sufficiente, nè mezzo di esecuzione. Nondimeno il pontificio governo se ne sbigottiva e gli animi si sollevavano. A Napoli covavano crudi fatti sotto velame quieto; oltre a ciò mandavansi truppe di soldati verso le frontiere romane: il governo macchinava ingrandimento; e voleva per sè e domandava con molta istanza ai Franzesi Fermo ed Ancona in Italia, Corfù, Cefalonia e Zante nella Grecia. Le quali richieste erano non senza riso udite dal direttorio e da Buonaparte, più inchinati a sovvertire gli Stati deboli che ad ingrandirli. Nella Valtellina, provincia suddita ai Grigioni, nascevano più che parole o congiure o desiderii; i popoli vi tumultuavano a mano armata, protestando voler essere uniti alla Cisalpina. Fuvvi qualche sangue: poi dai Grigioni e dai Valtellini fu fatto compromesso nella repubblica Franzese. Pronunziò Buonaparte il lodo, stante che non erano comparsi a dir le loro ragioni i legati dei Grigioni che avessero i popoli della Valtellina a divenir parte della cisalpina. Per tale sentenza Chiavenna, Sondrio, Morbegno, Tirano e Bormio, terre principali di quella valle con tutti i distretti, sottratte dalla divozione di gente tedesca si congiungevano con gente italiana. Così dalla parte d'Italia si apriva ai repubblicani la strada nelle sedi più recondite delle nazioni elvetiche, grande aiuto ai disegni che si avevano. Buonaparte intanto, al quale piacevano le dicerie dei patriotti per sommuovere gli Stati altrui, ma non erano ugualmente a grado per fondare un suo governo, perchè sapeva che con modi di simil forma non si reggono i popoli, aveva applicato l'animo ad ordinare la Cisalpina con una costituzione regolare. Erasi fino allora retta la Lombardia col freno d'una amministrazione generale, potestà non solo serva del generalissimo, ma ancora di qualunque più sottoposto commissario o comandante, ed il raccontare tutte le sue condiscendenze sarebbe lunga bisogna. Non era padrona dei tempi, ma i tempi la dominavano. Quello non era governo nè civile, nè libero, nè comune; ma bensì un reggimento incomposto, difforme ed a volontà di forastieri; perciò era veduto non senza disprezzo e indegnazione dei popoli. Buonaparte, ch'era solito a gettar via gli stromenti, che per servir lui erano divenuti odiosi, si risolveva a far mutazione. Avendo dato vita alla Cisalpina nei patti di Leoben, le volle dar ordine con leggi a Montebello. Primieramente creava una congregazione di dieci personaggi rinomati per sapienza e per costume, a cui commetteva il carico di formare il modello della costituzione cisalpina. Fra essi notavasi il padre Gregorio Fontana, uomo maraviglioso per la profondità e vastità delle dottrine, e certamente fra i dotti dottissimo. Buonaparte interveniva spesso alla congregazione. Pareva che dovesse sorgere qualche gran fatto da un Buonaparte e da un Fontana. Ne usciva una copia della costituzione franzese con poche mutazioni e di niun momento. Restava che quello che si era fatto in nome, si recasse in atto. Eleggeva Buonaparte quattro cisalpini al direttorio; furono quest'essi: Serbelloni, Moscati, Paradisi, Alessandri. Siccome poi non si potevano così presto eleggere i rappresentanti che nei due consigli legislativi dovevano sedere, creava Buonaparte quattro congregazioni, l'una di costituzione, l'altra di giurisprudenza, la terza di finanze, la quarta di guerra, composte d'uomini, se non tutti, certamente la maggior parte, migliori dei tempi. Conservassero, voleva, il mandato infino a che fossero creati ed entrassero in ufficio i consigli legislativi. Finalmente per compir quanto ai supremi ordini politici dello Stato si apparteneva, il capitano di Francia chiamava ministro di polizia Porro, di guerra Birago, di finanza Ricci, di giustizia Luosi, di affari esteri Testi. Al tempo medesimo nominava secretario del direttorio Sommariva. Tessuto con parole di molta superiorità pubblicava un manifesto da servir per principio alla cisalpina repubblica. Destinavasi il dì 9 luglio ed il campo del Lazzaretto fuori di Porta Orientale, vasto e magnifico, al pubblico e solenne ingresso della Cisalpina repubblica. Accorrevano chiamati alla solennità piena di tanti augurii i deputati di tutti i municipii, di tutti i drappelli delle guardie nazionali, di tutti i reggimenti assoldati dalla repubblica. Era, nei giorni che precedevano la festa, in tutta la città una folla ed un andar e venire di popoli contenti; pareva che non solo la nobile Milano, ma ancora tutta l'Italia a nuovo destino andasse. Aprivasi alle ore 9 del destinato giorno il campo della confederazione (che così dal fatto chiamarono il Lazzaretto), e vi accorrevano giulivamente ed a pressa meglio di quattrocento mila cittadini. Suonavano le campane a gloria, tiravano i cannoni a festa; innumerevoli bandiere tricolorite col turchino o col verde sventolavansi all'aria, e le grida e il tumulto e le esultazioni per l'infinita contentezza andavano al colmo. I democrati non capivano in sè dall'allegrezza e dicevano le più strane cose del mondo. Pareva, ed era veramente un gran passo da quella vita morta di una volta a quella viva d'adesso; la magnifica Milano, città di per sè stessa e per naturale indole allegrissima, ora tutta più che fatto non avesse mai, sin dall'intimo fondo suo si commoveva e si rallegrava. Entrava nel campo il direttorio coll'abito verde ricamato d'argento alla cisalpina: il seguitavano i magistrati e gli uomini eletti della città; gli uni e gli altri magnifico spettacolo. Nel punto dell'ingresso spesseggiavano vieppiù con le salve le artiglierie, i popoli applaudivano, le bandiere si sventolavano: celebrava l'arcivescovo sull'altare apposito la messa; in questo mentre a quando a quando rimbombavano le artiglierie. Dopo il santo sacrificio benediva l'arcivescovo ad una ad una le presentate bandiere. Seguitava un concerto strepitosissimo e pure melodioso d'inni, di suoni, di _viva repubblicani_. Sorgeva in mezzo l'altare della patria; aveva sui lati inscrizioni secondo il tempo: sopra, un fuoco acceso simboleggiatore dell'amore della patria; a' piedi urne con motti dimostrativi del desiderio, e della gratitudine verso i soldati franzesi morti nelle cisalpine battaglie per la salute della repubblica. Quest'erano le cisalpine allegrezze e cerimonie. Assisteva Buonaparte seduto in ispecial seggio alla testa, al quale, come a vincitore di tante guerre ed a fondatore della repubblica, riguardavano principalmente i popoli circostanti. Nè piccola parte dello spettacolo erano gli uomini delegati di Ferrara, di Bologna, dell'Emilia, di Mantova stessa, ancorchè non ancora fosse unita alla repubblica, venuti ad esser presenti a quella solennità, non solo inconsueta, ma non vista mai nel corso dei secoli, grande testimonianza d'amore e di concordia italiana. Serbelloni, presidente del direttorio, dal luogo suo levatosi, e sopra un più elevato seggio postosi, fatto silenzio in mezzo agli adunati popoli favellava, e giunto a quel passo: «Accendiamoci di un amor santo di patria, giuriamo concordemente di viver liberi o di morire: il direttorio della Cisalpina repubblica lo giura il primo e ve ne dà l'esempio,» sguainata la spada ed i suoi colleghi levati i cappelli, ad alta voce giuravano. Giuravano al tempo stesso gli uomini deputati, giuravano i capi de' reggimenti, giurava l'adunato popolo intiero: i viva, le grida, i plausi, il batter delle mani, il lanciare i cappelli, lo sventolar delle bandiere facevano uno spettacolo misto, romoroso ed allegro. Ciò detto, continuava orando il presidente, «manterrebbe col sangue e con la vita, se fosse d'uopo, il direttorio la costituzione e le leggi. Sovvengavi, terminava, o cittadini, sovvengavi che questa terra che abitiamo, è la terra de' Curzi, degli Scevola, de' Catoni; imitiamo quelle grandi anime, in ogni umano caso imitiamole e lascino ogni speranza di vincerci i nostri nemici, e insieme la Europa si accorga che qui l'antica Roma rinasce.» Qui ricominciavano i plausi ed i cannoni strepitavano. A questo modo s'instituiva la repubblica Cisalpina, mandata da un principio che pareva eterno ad un dubbio e corto avvenire. Furonvi tutto il giorno corsi di carri e di cavalli, suoni, balli, festini in ogni canto, poi la sera bellissime luminarie sì dentro che fuori del teatro. Insomma fu una grande e solenne allegrezza; e queste feste non in altra città del mondo riescono tanto liete e tanto magnifiche, quanto nella bella e splendida Milano. Perchè poi la memoria di un giorno tanto solenne nella mente de' posteri si conservasse, decretava il direttorio, che si rizzassero nel campo della confederazione ad onore di ciascuna schiera dello esercito franzese otto piramidi quadrangolari; sur un lato di ciascuna piramide si scolpisse un segno eterno della gratitudine e dell'amicizia del popolo cisalpino verso la repubblica Franzese e l'esercito d'Italia; s'inscrivessero su due altri lati i nomi di que' forti uomini che avevano dato la vita per la patria loro e per la libertà cisalpina nelle battaglie; che lo ultimo lato si serbasse intatto per iscolpirvi, ove fosse venuto il tempo, i nomi di quei prodi cittadini, che fortemente combattendo avrebbero procurato col sangue loro salute e libertà alla patria cisalpina. Contaminava l'allegrezza de' patriotti l'essersi fatta serrare dal direttorio la società di pubblica instruzione. Si trovò pretesto dell'essere contraria agli ordini della constituzione. Continuava ad usare Buonaparte la autorità suprema. Nominava i giudici, gli amministratori de' distretti o de' dipartimenti, o que' dei municipii. Si faceva poi più tardi ad eleggere i membri dei due consigli, cioè del consiglio grande o de' giovani, e del consiglio de' seniori o degli anziani. I popoli all'intorno, che se ne vivevano o con governi temporanei e tumultuarii, veduto le forme più regolari e più promettenti della Cisalpina, e quell'affezione particolare che il capitano invitto le portava, si davano a lei l'uno dopo l'altro. Bologna, Imola e Ferrara furono le prime a mostrar desiderio dell'unione, le due ultime più ardentemente per invidia a Bologna, la prima più a rilento per la memoria dell'antica superiorità. La giunta bolognese titubava; ma tanti furono i maneggi de' patriotti più accesi e l'intromettersi de' cisalpini, che ne fu vinta la sua durezza, ed accedeva anche essa alla prediletta repubblica; accostamento di grandissima importanza, perchè era Bologna città grossa e piena d'uomini forti e generosi. Unite le legazioni, pensava Buonaparte a compire il direttorio; vi chiamava per quinto un Costabili Containi di Ferrara. Principalmente accrebbe la grandezza cisalpina la unione della forte Brescia, membro tanto principale della terraferma. Fu tratto presidente del consiglio grande Fenaroli, nativo di questa città, il quale, avuta principal parte nelle precedenti mutazioni, si mostrava molto ardente per la conservazione dello Stato nuovo. Mantova, perchè ancora di destino incerto, se ne stava in pendente di quello che si avesse a fare. Ma poi quando si seppe che pel trattato di Campoformio l'Austria si spogliava della sua sovranità sopra di lei, s'incorporava con animo pronto anch'essa alla Cisalpina. I Cisalpini poi, fatto di per sè stessi impeto nell'Oltre-Po piacentino, consentendo facilmente i popoli, l'aggregavano alla loro società. Ampliata la repubblica per tutte queste aggiunte, Buonaparte le divideva in venti dipartimenti con Milano, città capitale. Per tal modo in men che non faceva cinque mesi dappoichè era stata creata, in questa larghezza si distendeva la Cisalpina che conteneva in sè la Lombardia austriaca, i ducati di Mantova, di Modena e di Reggio, Massa e Carrara, Bergamo, Brescia coi territorii loro, la Valtellina, e le tre legazioni di Bologna, di Ferrara e dell'Emilia, parte del Veronese e l'Oltre-Po piacentino. Poco dopo, Pesaro, città della Romagna, fatta mutazione, si dava alla Cisalpina. L'unione delle legazioni alla Cisalpina aveva in sè non poca malagevolezza, perchè questi popoli, soliti a vivere sotto il dominio della Chiesa, ripugnavano alle innovazioni che loro pareva che fossero state fatte nelle cose attinenti alla religione. Questa mala contentezza si era vieppiù dilatata quando si domandarono i giuramenti ai magistrati. Fu loro imposto di giurare osservanza inviolabile alla constituzione, odio eterno al governo dei re, degli aristocrati ed oligarchi, di non soffrire giammai alcun giogo straniero e di contribuire con tutte le forze al sostegno della libertà ed uguaglianza e alla conservazione e prosperità della repubblica. Per mitigare le impressioni contrarie concette dal popolo, intendevano i magistrati alle persuasioni, ma come d'uomini la maggior parte troppo debiti alle nuove opinioni, elle facevano poco frutto. Tentaronsi gli ecclesiastici, e fra gli altri il cardinale Chiaramonti, vescovo d'Imola, che poi fu papa sotto nome di Pio VII. Il suo testimonio e le sue esortazioni, come d'uomo di vita integerrima e religiosa, erano di molto momento. Pubblicò egli adunque il giorno del Natale del presente anno 1797 una omelia, in cui parlava ai fedeli della sua diocesi parole di tanta soavità, che, dette com'erano da un uomo così eminente per dignità e così venerato per la santità dei costumi, calmavano gli spiriti raddolcivano i cuori, e preparavano radici al nuovo Stato. Ordinata la Cisalpina, restava che le potenze amiche alla Francia la riconoscessero in solenne modo come potentato europeo. Vi si adoperava Buonaparte cupidamente, recando a gloria propria che non solo vivesse la creazione sua, ma ancora assumesse la condizione di vero Stato. In questa bisogna il mezzo più facile era anche il più efficace; quest'era che la Francia riconoscesse quella sua figliuola primogenita, come la chiamavano. A questo fine mandava il direttorio cisalpino per suo ambasciatore a Parigi un Visconti. Fu veduto a Parigi molto volentieri ed in pubblica udienza, presenti tutti i ministri di Francia e gli ambasciadori delle potenze amiche, il dì 27 agosto, solennemente udito. Parlava magnificamente de' benefizii della repubblica Franzese, della gratitudine della Cisalpina; esprimeva unico e primo desiderio de' cisalpini essere il farsi degni della illustre nazione franzese; di loro non potere aver ella amici nè più affezionati nè più fedeli; comune avere le due repubbliche la vita, comuni gl'interessi, comune ancora dover avere la felicità, nè senza i Franzesi volere o potere essere i cisalpini felici; le vittorie del trionfatore Buonaparte già aver procurato pace e quiete alla Cisalpina; desiderare che la Francia ancor essa quella pace si godesse e quella felicità gustasse che le sue vittorie e la sublime di lei costituzione le promettevano. Queste cose scritte in franzese, poi tradotte in pessimo italiano ne' giornali dei tempi, diceva Visconti. A cui magnificamente, ed anche tumidamente, secondo i tempi, rispondeva il presidente del direttorio, piacere alla repubblica Franzese la creazione e l'amicizia della Cisalpina; non dubitasse che viverebbe libera e felice lungo tempo. Poi parlava di serpenti che mordevano Buonaparte, quindi di maschere portate prima poi deposte dai ministri delle due repubbliche. Sapere il direttorio che quest'uomini velenosi e perfidi volevano distruggere la libertà sulla terra; ma la Francia esser sana e forte, e fortificarsi ogni giorno più per una corona intorno di popoli liberi e governati da leggi consimili. Appresso parlava il presidente di moderazione e di temperanza, non di quella degli animi vili e timorosi, ma di quella degli animi ben composti e forti. «Stessero pur sicuri i cisalpini, conchiudeva, e confidassero nelle grandezza e nella lealtà della nazione franzese, nel coraggio e nel valore de' suoi soldati, nella rettitudine e nella costanza del direttorio: niuno più acceso, niuno più ardente desiderio avere il direttorio di questo, che i cisalpini vivessero felici e liberi.» Un parlare tanto risoluto sbigottiva le potenze minori che, o già serve all'in tutto della repubblica di Francia, o da lei interamente dipendenti, non avevano altra elezione che quella di obbedire. Per la qual cosa non esitavano i re di Spagna, quei di Napoli e di Sardegna, il granduca di Toscana, la repubblica Ligure ed il duca di Parma a mandar ambasciatori o ministri o simili altri agenti a Milano, acciocchè tenessero bene edificato e bene inclinato quel nuovo Stato tanto prediletto a Buonaparte. In questo ancora ponevano l'animo allo investigare in mezzo a tante gelosie ed a tanti timori quello che succedesse a Milano in pro od in pregiudizio degli stati loro; perchè a Milano si volgevano allora le sorti di tutti gli Stati d'Italia. Perciò i patriotti gridavano che questi ministri erano spie per rapportare, stromenti per subornare. Li laceravano con gli scritti, gli oltraggiavano con le parole, talvolta ancora coi fatti li maltrattavano; esorbitanze insopportabili. Principalmente i fuorusciti delle diverse parti d'Italia raccolti in gran numero in Milano, non si potevano tenere. Buonaparte se ne sdegnava e dava loro spesso sulla voce, e talvolta sulle mani; ma essi ripullulavano e straboccavano più molesti da un altro lato, per forma che non vi era requie con loro. Introdotti al direttorio Cisalpino oravano i ministri esteri con parole di pace e di amicizia, a cui non credeva nè chi le diceva nè chi le udiva. Esitava il papa il mandare un ministro, perchè gli pareva chi i Cisalpini avessero posta la falce nella messe religiosa. Ma dettesi certe parole da Buonaparte, e fattogli un motivo addosso dai Cisalpini che armatamente si erano impadroniti della fortezza di San Leo e minacciavano di andar più avanti con l'armi pericolose e coi manifesti più pericolosi ancora, si piegava ancor egli. L'Austria, secondo la suo dignità, volendo indugiare, non s'inclinava a mandar un ambasciatore a Milano, allegando, ciò che era vero, che la Cisalpina, anche come già si trovata costituita legalmente in repubblica ordinata, non era Stato franco e independente, perchè e le sue fortezze erano in mano dei Franzesi ed i comandanti Franzesi pubblicavano di propria autorità in tutta la Cisalpina e nella sede stessa di Milano ordini e manifesti, ed anzi i magistrati nissun ordine e manifesto pubblicavano se non dopo che fossero veduti ed appruovati dai comandanti franzesi. Accettati i ministri delle potenze estere, aveva il direttorio cisalpino mandato i suoi agenti politici a sedere presso le potenze medesime. Vedevano Torino, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Parma i legati cisalpini. Bene pe' suoi fini avea scelto gli uomini suoi la Cisalpina, perchè erano tutti, o la maggior parte, giovani di spiriti vivi ed accesi nelle opinioni che correvano, ma pure, se non prudenti, almeno astuti e senza intermissione operativi. Solo Marescalchi, di famiglia principalissima di Bologna, che era stato mandato ambasciadore a Vienna, non faceva frutto, perchè l'imperadore non l'aveva voluto riconoscere nella sua qualità pubblica. Soprastava ad arrivare il ministro di Francia a Milano, non perchè non fosse il direttorio franzese amico, ma perchè l'inviato doveva arrivarvi con molta materia apprestata. Chiamava intanto Buonaparte, oramai vicino ad aver compito con gli ordinamenti politici quell'opera che con le armi aveva fondato, i legislatori cisalpini, centosessanta pel consiglio grande, ottanta per quello degli anziani. Onorati uomini vi risplendevano per sapere, per antichità, per ricchezze, per amore di libertà. A questi aggiungeva Francesco Gianni, giovane di singolare spirito poetico dotato e cantor suo favoritissimo. Era il poeta nato in Roma; ma la Cisalpina, considerato, tali furono le parole della legge, che il cittadino Francesco Gianni aveva principalmente applicato i poetici suoi talenti a celebrare il genio della libertà italiana ed encomiare l'invitta armata franzese, con che nelle attuali circostanze si veniva a vieppiù promuovere lo spirito pubblico, gli dava con solenne ed apposita legge la naturalità. I consigli radunati ardentemente procedendo, si accostavano alle opinioni dei democrati più vivi, il che dall'un dei lati dispiaceva a Buonaparte a cagione della natura sua inclinata allo stringere, dall'altro gli piaceva per dar timore alle potenze nemiche. Ordinata al modo che abbiam narrato la Cisalpina, il capitano vincitore scriveva le seguenti parole per ultimo vale a' suoi popoli: «Il dì 21 novembre fia pienamente in atto la vostra costituzione; e saranno altresì organizzati il vostro direttorio, il corpo legislativo, il tribunale di cassazione e le altre amministrazioni subalterne. Voi siete fra tutti i popoli il primo che senza fazioni, senza rivoluzioni, senza stragi, libero divenga. Noi vi demmo la libertà; voi sappiate conservarla. Voi siete, trattone solo la Francia, la più popolata, la più ricca repubblica; vi chiama il destin vostro a gran cose in Europa; secondate le vostre sorti con far leggi savie e moderate, con eseguirle con forza e con vigore; propagate le dottrine, rispettate la religione. Riempite i vostri battaglioni, non già di vagabondi, ma sì di cittadini nudriti nei principii della repubblica ed amatori della sua prosperità. Imbevetevi, che ancor ne avete bisogno, del sentimento della vostra forza e della dignità che ad uomo libero si appartiene. Divisi fra di voi, domi per tanti anni da un'importuna tirannide, voi non avreste mai potuto da voi stessi conquistare la libertà, ma fra pochi anni potrete anche soli difenderla contro ogni nemico qual ch'egli sia; proteggeravvi intanto contro gli assalti dei vostri vicini la gran nazione; col nostro sarà lo Stato vostro congiunto. Se il popolo romano avesse usato la sua forza, come la sua il franzese, ancora sul Campidoglio si anniderebbero le romane aquile, nè diciotto secoli di schiavitù e di tirannia avrebbero fatte vili e disonorate le umane generazioni. Per consolidare la libertà vostra e mosso unicamente dal desiderio della vostra felicità, io feci quello che altri han fatto per ambizione e per la sfrenata voglia del comandare. Io feci la elezione di tutti i magistrati e sonmi messo a pericolo di dimenticare l'uomo probo con posporlo all'ambizioso; ma peggio sarebbe stato, se aveste fatto voi stessi le elezioni, perchè gli ordini vostri non ancora erano compiti. Fra pochi giorni vi lascio. Tornerommene fra di voi, quando un ordine del mio governo od i pericoli vostri mi richiameranno. Ma qualunque sia il luogo a cui siano ora per chiamarmi i comandamenti della mia patria, questo vi potete promettere di me che sono e sempre sarommi ardente amatore della felicità e della gloria della vostra repubblica.» Queste dolci parole del capitano invitto molto riscaldavano gli animi. Quest'erano le operazioni palesi di Buonaparte: altre, uguale anzi di maggiore importanza se ne stava macchinando in segreto. Erano a quei tempi al mondo quattro cose che a tutte le altre sovrastavano, la gloria molto risplendente di Buonaparte, il timore che avevano i re che quella repubblica Franzese non li conducesse tutti a ruina, la repubblica franzese stessa fondata in una nazione che per la natura sua non può vivere in repubblica, e finalmente una casa di Borbone, esule sì, ma con molte radici in Francia, fatte ancor più tenaci e più profonde per le enormità dell'insolita repubblica. Si desiderava pertanto e dentro della Francia da non pochi uomini temperati, e fuori da tutte le potenze, che la repubblica si spegnesse ed il consueto reggimento, per quanto gl'interessi nuovi permettessero, col mezzo dei Borboni si ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire coll'armi civili della Vandea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa, perchè la nazione franzese, che forte ed animosa era, non aveva voluto lasciarsi sforzare, si pensava che i maneggi segreti, le promesse, le corruttele e le adulazioni potessero avere maggior efficacia. Da ciò, di passo in passo e di mena in mena, vennero quelle risoluzioni del direttorio che resero tanto famoso il dì 18 fruttidoro, anno V della repubblica, o il 4 settembre del presente anno. Per esse si carceravano ed in istrane e pestilenziali regioni si mandavano Barthelemi, Pichegru e gli altri capi della congiura. Alcuni, e fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei cercatori, trovarono in forastiere terre scampo contro chi li chiamava a prigione ed a morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale, affortificatosi il direttorio coll'esclusione dei dissidenti e coll'unione dei consenzienti e fattosi padrone dei consigli, recava in sua mano la somma delle cose e pareva che vieppiù avesse confermato la repubblica. Tornato vano questo tentativo, i confederati si gettarono ad un altro cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile repubblica. Volgevansi a Buonaparte, e gli venivano dicendo le cose più incalzanti. Le esortazioni lo muovevano; ma da Borboni a repubblica ei non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in dispregio, ed anche la felicità o le disgrazie umane troppo nol toccavano. Bensì, siccome quegli che sagacissimo era e di prontissimo intelletto, avvisava in un subito che quello che gli si offeriva, poteva aprirgli la strada all'altissime sue mire. Si mostrava pertanto disposto a fare quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo di favorirsi del consentimento e cooperazione altrui per arrivare alla potestà suprema di Francia. Dato in tal modo intenzione ai confederati, aveva procurato la libertà al conte d'Entraigues, ministro molto fidato di Luigi XVIII, fatto già arrestare in Trieste e condurre gelosissimamente custodito nel castello di Milano, e mandato in Russia, dove l'imperadore Paolo, succeduto alla sua madre Caterina, piegavasi con divenire molto meno acerbo verso la Francia. Al tempo stesso i negoziati di Udine e di Montebello si fecero assai più morbidi per modo che non tardarono ad avvicinarsi alla conclusione. Tutti i disegni molto gli arridevano e quantunque fosse uomo di natura molto coperta e di pensieri cupissimi, tuttavia si lasciava di quando in quando uscir di bocca certi moti, che disvelavano la sua intenzione e le fatte macchinazioni. Frattanto la necessità in cui si trovava il direttorio di rammollire con un solenne fatto i risentimenti nati in Francia per la terribile rivoluzione del 4 settembre operava di modo che, rimosse da ambe le parti tutte le difficoltà, si veniva il giorno 17 ottobre alla conclusione nella villa di Campoformio di un trattato di pace in cui fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica Franzese si avesse i Paesi Bassi; che lo imperatore consentisse che le isole venete dell'Arcipelago e dell'Ionio, e così ancora tutte le possessioni della veneta repubblica in Albania, cedessero in potestà della Francia; che la repubblica Franzese consentisse che l'imperadore possedesse con piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la Dalmazia, le isole venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro e tutti i paesi situati fra i suoi stati ereditarii ed il mezzo del lago di Garda, poi la sinistra sponda dell'Adige insino a Porto Legnago, e finalmente la sinistra sponda del Po; che la repubblica Cisalpina comprendesse la Lombardia austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il Cremasco, la città e fortezza di Mantova, Peschiera e tutta la parte degli Stati veneti, che è posta a ponente e ad ostro dei confini sovraddescritti; che si desse nella Brisgovia un conveniente compenso al duca di Modena; che finalmente i potenziarii di Francia e d'Austria convenissero in Rastadt per accordare gl'interessi dell'impero d'Alemagna. A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza pe' quali l'imperadore consentiva che la Francia acquistasse certi territorii germanici infino al Reno, e dalla parte sua prometteva la Francia di adoperarsi acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominii una parte del circolo di Baviera. Fatto il trattato di Campoformio ed ordinata a suo modo la Cisalpina, se ne partiva Buonaparte dell'Italia per andare a Rastadt. Quale e quanto da quella diversa la lasciasse che nel suo primo ingresso la aveva trovata, facilmente concepirà colui che nella mente andrà riandando i compassionevoli casi già raccontati. Le difese delle Alpi prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora servo; una repubblica di Genova, prima independente per istato, ricca per commercio; ora disfatto ed in licenze convertito l'antichissimo governo, fatta provincia e sensale di Francia; un duca di Parma, ingannato dalle speranze di Spagna e taglieggiato da genti oscurissime; un duca di Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa, schernito e spogliato; un regno di Napoli, poco sicuro e per poca sicurezza crudo; un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del mondo e gran parte della civiltà moderna, condotta all'ultimo fine, prima dagl'inganni, poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di Firmian cambiato in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri, tributario di governo forastiero, e là dove una volta addottrinavano le genti con dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria ed i Verri, farla da maestri i Beauvinais ed i Prelli. A questo, le opere di Tiziano e di Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze di soldati strani; una lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti gl'ingegni volti alla adulazione; le ambizioni svegliate, le virtù schernite, i vizi lodati, e, per giunta, il che fu il pessimo de' mali, uomini virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per forza o per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage de' tempi. In tanto male, nissun lume di bene; perchè nè a quali governi avessero a dar luogo si vedeva, perchè i fondamenti privati erano corrotti, i fondamenti pubblici estranei, e, se fosse mancata o la mano franzese o la potenza tedesca, nissuno poteva congetturare che cosa fosse per sorgere, di modo che non si scorgeva se la indipendenza non fosse per diventare condizione peggiore della servitù. Così corrotte le speranze e cambiati i tempi erano succeduti ai benefizii di Giuseppe, di Leopoldo, di Beccaria e di Filangeri una rapina incredibile, una tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un dolore acerbissimo di vedere allontanato quel bene ch'essi avevano tanto vicino e tanto soave alle menti nostre rappresentato. In somma fu la bella Italia contaminata, e peggio, che chi le faceva le membra rotte e sanguinose, le lacerava anche la fama. Ora, tornando alla pace conchiusa, restava che le stipulazioni di Campoformio circa Venezia si recassero ad effetto. Ma prima di raccontare la consegna fatta di quella città, è indispensabile andar brevemente rammemorando quali accidenti, quali umori, quali disegni sorgessero nelle varie parti dell'antico Stato veneto e nella metropoli stessa innanzi che i capitoli di Campoformio si pubblicassero, e dappoichè, spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto il nuovo, al quale non si sa qual nome dare. Non così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi fra di loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano alle parti, chi seguitando i modi dei democrati franzesi più ardenti a' tempi delle rivoluzioni, e chi accostandosi a pensieri più miti e più temperati; quelli si chiamavano da alcuni veri patriotti, da altri giacobini; questi presso alcuni avevano nome di veri amatori della libertà, presso altri, di aristocrati. Seguitavano queste parti i Veneziani, pochi con que' primi consentendo, molti, fra' quali i nobili, per lo minor male si accostavano ai secondi. Sedevano i municipali, pubblicamente nella sala del gran consiglio, dove le discussioni e le contese erano grandi tra l'una parte e l'altra, e trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione. Così Venezia, anche posta al giogo forastiero, parteggiava; tutti però in questo consentivano, ch'ella intiera si conservasse. Perciò, come prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano delegati e lettere a tutte le città del dominio veneto, dando loro parte della felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia, ed invitandole ad accomunarsi ed incorporarsi con esso lei. Ma i patriotti della terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime mire che si attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna e dominatrice, avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Anzi una nimistà generale, piuttostochè desiderio di unione, prevaleva in tutta la terraferma contro Venezia. Poichè poi gli odii già tanto intensi vieppiù si invelenissero, li rinfiammavano, non solo colle parole, ma ancora con gli scritti: Victor generale, che aveva le sue stanze in Padova, esortava con lettere pubbliche e con parole molto veementi i municipali di questa città a far atterrare le insegne di San Marco ed a diffidarsi de' municipali di Venezia. I democrati, facevano quello, e più di quello a che gli aveva esortati Victor. E appoco appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia, si lacerava senza posa il suo nome nelle gazzette cisalpine; anzi i Padovani trascorrevano tant'oltre, che si consigliarono di voler torre ai Veneziani l'uso delle acque dolci dei loro territorii, cosa che solo contro ad un nemico, e forse nemmeno a chi fosse nemico in guerra, non si sarebbe usata. Diminuiva Venezia, ad onta delle orazioni democratiche del Giuliani e del Dandolo, di riputazione, ma ancor più di potenza, essendole occupati o sotto spezie di sicurezza di stati, o sotto spezie di amicizia, i suoi dominii verso levante. Veniva di leggieri fatta l'occupazione, perchè gl'Istriotti a quelle novità democratiche non s'erano potuti accomodare, ed ancorchè fossero affezionati al nome veneziano, si piegavano facilmente all'obbedienza austriaca, perchè l'imperio franzese, sotto il quale era caduta l'antica patria loro, stimavano odioso. Mentre queste cose succedevano nell'Istria, sanguinosi accidenti atterrivano la Dalmazia. Erano i popoli di questa provincia avversi per antica consuetudine al nome franzese, e delle nuove opinioni per lontananza e per poco commercio di lettere molto alieni. Erano anche giunte a loro con veri e forti colori dipinte le espilazioni e le ruine d'Italia, onde all'odio antico si veniva a congiungere uno sdegno recente. A questo si aggiungeva che i soldati della loro nazione, che in Venezia ed in Verona ed in altre piazze venete erano stati di presidio, si ricordavano della poca stima, anzi delle derisioni, che verso di loro avevano usato i repubblicani, troppo intemperanti della vittoria. Udite poi le veneziane cose e come e quanto i municipali di Venezia trascorressero nelle opinioni e nei costumi nuovi, si erano concitati a gravissimo sdegno, dichiarando apertamente che non avrebbero più comportato che s'ingerissero nelle loro faccende. Già minaccie annunziatrici di crudeli fatti sorgevano in ogni luogo contro gli aderenti o veri o supposti dei reggimenti nuovi. I primi a muoversi furono i villani ed i montanari di Traù e di Sebenico, i quali, scesi a furia commettevano atti di estrema barbarie; ucciso il Dalmata che fungeva le veci di console di Francia con tutta la sua famiglia; saccheggiate le case dei deputati eletti dai municipali di Venezia ad ordinare a modo nuovo la Dalmazia, ed i lor parenti perseguitati e parte uccisi. La mala usanza si propagava dal continente nelle isole vicine, ed ogni luogo era pieno di terrore, di ferite, di uccisioni e di sangue. Partivano da Trieste e da Fiume alla volta di Zara quattro mila soldati imperiali e vi giungevano parte sul finire di giugno, parte al cominciar di luglio. Accettavano i Zaratini lietamente gli Austriaci a sicurtà contro l'anarchia: giuravano fede all'imperatore tutti i magistrati e circa due mila soldati veneti che si trovavano in quella fortezza per presidio. Dopo Zara restava che si occupasse il rimanente della provincia. Casimiro, capitano di nome pel fatto della presa di Trieste, occupava Spalatro, Clissa e Singo, per terra; per mare entrava Roccavina in Sebenico, dov'era accolto con molta allegrezza, perchè la ferocia dei villani scesi dalla montagna vi aveva più che altrove infuriato, e ad ogni ora faceva le viste d'infuriare vieppiù. Scendeva quindi dai monti con una mano di Ungari di Transilvani, il conte di Warstensleben, e si univa a Roccavina, e così insieme occupavano i siti importantissimi delle Bocche di Cattaro. La Dalmazia tutta e l'Albania veneta entravano sotto il dominio dell'imperatore. A questo modo si andava sfasciando appoco appoco l'antichissimo imperio dei Veneziani. A novità di tanto momento si risentivano i municipali di Venezia e facevano istanze presso Buonaparte e il direttorio, domandando che la Francia intercedesse, perchè l'antico dominio si restituisse. Querelavasene con Buonaparte Battaglia, imperciocchè è da sapersi che quest'antico provveditore di Brescia era stato chiamato da Buonaparte ai municipali veneziani, acciocchè appresso a lui risiedesse quale ministro loro. Querelavasi anche gravemente Sanfermo mandato dai municipali, anche per opera di Buonaparte, a sedere presso il direttorio di Parigi. Ne ottenevano entrambi buone parole: non dubitassero, o che la Francia sforzerebbe con le armi l'Austria a rilasciare le provincie occupate, o procurerebbe coi trattati che Venezia con nuove possessioni si compensasse, ora dando speranza che i paesi della terraferma, anche quei d'oltre Mincio, le si restituirebbero, ed ora che le sarebbero date in compenso le legazioni. Era necessario che le isole del Levante veneto venissero in potestà dei Franzesi. Per la qual cosa Buonaparte aveva operato che con accordo dei municipali si facesse una spedizione di forze navali e terrestri a Corfù, isola per la grandezza e la fortezza molto principale in quelle spiagge; e perchè una forza preponderante vi fosse, ed anche perchè vi erano fornimenti di marineria di molta importanza, aveva, per mezzo del direttorio, dato ordine che al tempo medesimo da Tolone l'ammiraglio Brueys si avviasse all'isola stessa con la sua armata. Erano a quei tempi le isole del Levante veneto rette con dolce e giusto freno dal nobile Vidiman, fratello del municipale, il quale aveva con tanta efficacia e senza alcuno sforzo, ma solamente pel suo buon naturale operato che quelle immaginazioni greche tanto vivaci e mobili, malgrado delle parole incentive che suonavano da Francia e da Italia, fermamente si conservassero affezionate al nome veneziano. Quando poi incominciavano ad arrivare a Corfù i romori del cambiamento succeduto a Venezia, ancorchè grandissima molestia ne ricevesse, siccome quegli che per opinione e per consuetudine era dedito all'antica repubblica, nondimeno pensando che, se era perduto lo stato vecchio, gli rimaneva, se non una patria, almeno un paese al quale era suo debito servire, s'ingegnava con ogni sforzo di calmare gli spiriti per farli perseverare nella loro fede ed affezione verso Venezia, qualunque avesse ad essere il suo destino. Nel che faceva grandissimo frutto a cagione dell'amore che generalmente gli era portato. Finalmente per la via di Otranto gli pervenivano lettere dei municipali di Venezia, che recavano le novelle della rivoluzione, dell'essersi distrutta l'aristocrazia ed allargato il governo alla democrazia. Aggiungevano, nominerebbe un dì il popolo i suoi rappresentanti; ma che intanto, per impedire la cessazione dei magistrati, si era creato nei municipali un governo a tempo; avrebbero i municipali gli abitatori delle isole e dei luoghi del Levante in luogo di fratelli; manderebbero due commissarii per metter all'ordine il nuovo Stato; Vidiman sarebbe il terzo; verrebbero con una forte armata e con sei mila soldati. Tacevano se i soldati avessero ad essere veneziani o franzesi. Preparasse adunque, esortavano, con la prudenza e destrezza sua gli animi; spiasse bene e raffrenasse coloro che fossero di genio aristocratico; usasse a quiete di tutti l'opera delle persone prudenti e religiose di ogni rito; soprattutto impedisse, che gli uomini inquieti e torbidi prorompessero in qualche discordia o tumulto; in lui riposarsi, terminavano, con animo tranquillo i municipali ed intieramente rimettersi nella fermezza, nell'avvedutezza, nella temperanza e nella esperienza sua. In sì solenne e tanto terminativo accidente di quanto egli aveva di più caro e più onorato su questa terra, adunava Vidiman i primarii magistrati sì civili che militari, e leggeva loro il municipale dispaccio, esortandogli alla sopportazione ed all'obbedienza. Furonvi rammarichi ed alte querele; ma mostrarono rassegnazione, ignari ancora a che cosa li serbassero i fati. Frattanto si facevano a Venezia gli apparecchi necessarii per la spedizione di Levante. Intendeva il direttorio al far uscire da Venezia, col fine d'impadronirsene, quella parte d'armata veneziana, che sull'ancore se ne stava nel porto. Perilchè si appresentava Baraguey d'Hilliers con tutti gli ufficiali franzesi da mare che dovevano governare l'armata, in una solenne adunata, ai municipali, con parole melliflue protestando dell'amicizia del direttorio, chiamando la repubblica col suo nuovo governo sorella, e promettendo che tutte le forze franzesi si adoprerebbe perchè ella fosse restituita alla antica sua grandezza. Si destinava a governar le genti da terra il generale Gentili. Obbediva l'armata al capitano di nave Bourdé. Molte navi atte a trasportar soldati l'accompagnavano, empiute di Franzesi la maggior parte della settuagesimanona. Volle Buonaparte, poichè si trattava di andar in Grecia, che s'imbarcasse Arnauld, letterato di grido, in cui aveva il generalissimo posto molta fede per avere i rapporti sulle antichità dei paesi, sui costumi e sulle leggi dei popoli. Sapevano i municipali a quali angustie fosse ridotto Vidiman a Corfù per la mancanza del denaro, e credendo anche allettare i popoli, se arrivando i primi agenti della mutata Venezia, portassero con sè danaro per dar le paghe già da tanto tempo corse, imbarcavano a governo degli amministratori che mandavano nelle isole, sei mila zecchini. Appariva il dì 28 giugno nel porto de' Corfiotti l'armata apportatrice dei soldati stranieri. Vidiman e gl'isolani molto si maravigliarono al vedere insegne ed uomini franzesi in luogo d'insegne e d'uomini veneziani. Suonavano a festa il dì 29 gli stromenti da guerra; i nuovi repubblicani sbarcavano. Venivano i magistrati a far riverenza agl'insoliti signori. Non così tosto ebbe Gentili sbarcato le sue genti, che le alloggiava nella fortezza, e così recava in sua mano la facoltà di fare a sua volontà qualunque cosa ei volesse. Poi s'impadroniva dei magazzini del pubblico e di tutte le artiglierie ch'erano belle ed in numero considerabile. A Gentili succedeva Bourdé, che poneva le mani addosso ai magazzini di mare ed a sei navi di fila e tre fregate veneziane. Gentili intanto i sei mila zecchini mandati da Venezia recava in suo potere per dar le paghe a' suoi soldati ed agli amministratori venuti con lui. Posto il piede e confermato il dominio franzese nell'isola principale di Corfù, mandavano Gentili e Bourdé forze di terra e da mare a prender possesso di Cefalonia e di Zante, e dell'isola più lontana di Cerigo. Poi Gentili ed Arnauld, fattisi dar liste di candidati dai primarii abitanti, creavano i municipali di Corfù, fra i quali nominavano Vidiman, già spogliato di ogni altra autorità. A Venezia dominava con imperio assoluto Baraguey d'Hilliers, parte da sè, parte in conformità degli ordini di Buonaparte. Alloggiava in casa Pisani con fasto grande e con carico gravissimo di quella famiglia; i municipali non deliberavano se non sentito lui; i posti principali erano custoditi dai Franzesi; i municipali, chi per forza, chi per prudenza, chi per adulazione, servivano a Baraguey. Villetard, siccome giovane e confidente, si travagliava per ordinare il nuovo governo democratico, ed in ciò si trovava posto in difficile condizione; perchè gli spogli scemavano autorità alle sue parole, e pareva a tutti, come era veramente, che cattivo principio di libertà fosse quello che si vedeva. S'incominciava a dar mano alle opere gentili insino a tanto che arrivasse tempo al toccare le più utili. Quanto di più bello e più prezioso avevano prodotto gli scarpelli od i pennelli o le penne greche, latine ed italiane era rapito dagli strani amici. Le gallerie, le librerie, i templi, i musei sì pubblici che privati diligentemente si scrutavano e violentemente si sfioravano. Il palazzo pubblico di Venezia fu dei più preziosi ornamenti espilato. Con pari rabbia fu la galleria privata dei nobili Bevilacqua di Verona da mani violente tocca e spogliata. Le opere di Bassano, di Paolo Veronese, di Tiziano, di Tintoretto, di Pordenone, di Bellini, di Mantegna, tanto care ai Veneziani e per bellezza propria e per essere di mano di artisti paesani, dai luoghi loro deposte se ne andavano ad ornare forestieri e lontani lidi. Molte statue di bassi rilievi antichi, sì di marmo che di bronzo, di grandissimo pregio, e tre vasi etruschi di egregio lavoro erano tolti dalla libreria pubblica di Venezia e dalla galleria Bevilacqua. Nè i camei, opere preziose, si risparmiavano, e fra di loro quello tanto famoso che rappresentava Giove Egioco. Sessantanove medaglie greche o romane erano levate dai privati musei dei Muselli e dei Verità di Verona. Dei manoscritti, con grandissimo dolore degl'Italiani, dalla sola libreria di Venezia più di duecento greci o latini o italiani o arabi, o in carta pergamena, o carta usuale o in carta di seta, saziavano le voglie dei repubblicani d'oltramonti. Sentivano la comune spogliazione le librerie pregiatissime dei monasteri di Venezia, di Treviso e di San Daniele in Friuli, dai quali atti delle mani vincitrici mancarono settantasei testi a penna preziosissimi. Alle medesime espilazioni andavano soggette le stampe tenute tanto care degli Aldi, la Magontina nominatamente, opera del 1459, le quali con somma gelosia si custodivano nelle librerie di Venezia, Treviso, Padova, Verona e san-Daniele. Queste preziosità erano state tolte dalle interiori mura dei templi, dei musei e delle librerie. Restava il più bello e più glorioso segno della grandezza veneziana, che sull'anteriore faccia del principal tempio di Venezia dimostrava quale fosse stato anticamente il valore di questa generosa nazione. I cavalli di bronzo, opera, come si narra, di Lisippo, dati prima in dono a Nerone da Tiridate, re di Armenia, poi trasportati da Costantino a Bisanzio, e conquistati finalmente pel valore dei Veneziani congiunti ai Franzesi, ch'ebbero in sorte altre costantinopolitane spoglie, e mandati a Venezia dal doge Pietro Ziani, accrescevano, involati essendo, il dolore pubblico della gente veneziana. Spiaceva al letterato Arnauld che questi cavalli restassero a Venezia: spiacevagli altresì che i leoni conquistati dal valore del Morosini nel Pireo continuassero a starsene nella sede loro, segni della veneziana gloria. Ne gli spiacque e ne scrisse a Buonaparte. Cavalli e leoni furono per suo comandamento condotti in Francia. Il che venne fatto in cospetto dei Veneziani con tanto dolore loro che, instupidite le menti, parevano piuttosto attonite che dolorose. Alcuni dicevano e tuttavia dicono che questi spogli si eseguivano in virtù del trattato di Milano. Ma Buonaparte non aveva voluto ratificare questo trattato, e perciò la Francia lo doveva aver per nullo. Che se poi ad ogni modo si voleva aver per valido, bel modo di eseguirlo certamente era quello di mandar ad effetto tutte le sue peggiori condizioni contro Venezia e di non osservar quelle che erano in suo favore. Non solo gli ornamenti e le ricchezze veneziane si trasportavano, ma quelle ancora commesse alla fede dei neutri avidamente s'involavano. Erasi il duca di Modena, come si è detto, fuggendo la furia dei repubblicani, ricoverato in Venezia; poi giù romoreggiando le armi loro d'ogn'intorno, e prevedendo la dedizione, s'era per sua sicurezza ritirato sulle terre d'Austria. Ma lasciava un suo tesoro, perchè credeva, in ciò scostandosi dalla sua solita provvidenza, che o non sarebbe scoverto, o se scoverto, sarebbe tenuto inviolato per la neutralità del luogo. Occupata Venezia dai Buonapartiani, gli agenti del direttorio ebbero sentore del deposito, e parendo loro che fosse lor venuto un bel destro, alla fama di quei zecchini nascosti tostamente si calavano e circondato improvvisamente con soldatesche armate il palazzo in San Pontaleone, dove aveva abitato il duca, cercarono il tesoro, in ogni parte diligentemente investigando. Ciò fu indarno; perchè era stato deposto in casa del ministro d'Austria. Perlochè fatto armata mano improvviso insulto contro di essa, e ricercato in ogni canto, trovarono il denaro e via se lo portavano; furono, come portò la fama, circa duecento mila zecchini. I Modenesi erano venuti a Venezia per averselo; ma ei furon novelle. Gli agenti li serbarono, dissero, per la cassa militare. Le espilazioni delle opere d'ingegno si effettuavano con grande apparato di soldati, perchè, sebbene fossero i piè dei Veneziani in ceppi, si temeva che ad un bel levarsi il popolo prorompesse e rivendicasse alla patria, con qualche solenne precipizio degl'involatori, le gloriose spoglie. Accresceva il timore il pensare che le rapine di Venezia rinfrescavano la memoria delle altre rapine d'Italia. Per ogni lato si fremeva nel vedere questi spogli. Pubblicavasi a questi giorni in Italia con le stampe un libro che aveva in titolo: _I Romani in Grecia_, e che fu generalmente creduto opera di un Barzoni. In questo scritto l'autore, sotto spezie dei Romani in Grecia simboleggiando i Franzesi in Italia, eccitava i popoli italiani allo sdegno, alla vendetta, alla rivendicazione. Ne riceveva molta molestia il generalissimo, e ne cercava per ogni dove l'autore e le copie. Ma più il perseguitava e più era letto. Villelard istesso il chiamava pieno pur troppo di allusioni veridiche sui ladronecci commessi da alcuni individui indegni del nome franzese. Girava attorno lo scritto al momento degli spogli, e siccome quello che accusava i municipali del caro del pane, che paragonava l'Italia ad un vasto cimitero tutto squallido e bruttato d'infiniti cadaveri, e che stimolava i popoli a correre armati contro i Franzesi, partoriva un effetto incredibile. Cercavasi intanto di coprire con segni di allegrezza le apparenze tristi e funeste. Correva il dì della Pentecoste, quando la piazza di san Marco si vedeva tutt'addobbata a festa pel piantamento dell'albero della libertà. Avevano eretto a capo della piazza dalla parte opposta a San Marco un'ampia loggia a cui si saliva per due scale laterali ornate di vaghi fiori e di arbusti odoriferi. Da ambi i lati della loggia sorgevano due adorni palchi con colonne, con ghirlande, con insegne repubblicane. Quivi dovevano sedere i musici della cappella ducale. Due altre logge adorne e belle si vedevano in mezzo alla piazza e davanti alle procuratie, con orchestre pure a lato. Gli archi delle procuratie e così ancora la chiesa di San Marco comparivano alla vista dei circostanti carchi ed adorni di festoni tricolorati. Steso a terra in mezzo della piazza giaceva il fusto ancor fronzuto dell'albero. Ed ecco alle diciassette italiane comparire con solenne comitiva di tutti i suoi ufficiali Baraguey d'Hilliers. L'incontravano i municipali. Quindi poscia essendosi congiunti col corteggio del generale, si ordinavano a processione. Le campane tintinnavano, gli strumenti suonavano, i democrati dall'allegrezza gridavano. Intanto giva la processione; soldati italiani precedevano, seguitavano due fanciulli vagamente vestiti, poi una coppia di un giovane e di una giovane che si dovevano sposare, poi un vecchio ed una vecchia con istromenti d'agricoltura. Veniva dietro la guardia nazionale in addobbo; indi Baraguey in addobbo ancor esso; i consoli delle nazioni, e i magistrati sì civili che militari e i capi delle arti coi simboli delle arti loro. Mostravansi alla coda del corteggio, seguitati da musica militare, i municipali. Toccavano i due fanciulli il fusto ed in un batter d'occhio fra le grida ed i suoni festivi era rizzato nelle sue radici in mezzo alla piazza: sopra le radici deponevano i due vecchi i rurali strumenti. Compariva in questo una berretta rossa sulla punta dell'albero, e la moltitudine applaudiva. Le orchestre suonavano, le musiche militari rispondevano, le campane rimbombavano, i cannoni tuonavano, le tricolorite bandiere si sventolavano. Fatto silenzio, orava lo arciprete Valier municipale, con magnifiche parole commendando la generosità franzese e la rigenerazione veneziana. Poscia entrati in San Marco, cantavano l'inno delle grazie e facevano il maritaggio del giovane e della giovane. Uscito il corteggio di San Marco ed in piazza tornatosi, dove promiscuamente e Franzesi e Veneziani intorno all'albero già ballavano, ardevano il libro d'oro e le insegne ducali; in quel mentre orava enfaticamente l'abate Collalto. Continuossi a ballare il giorno, ballossi ancora la notte; si recitava in musica una bella e magnifica opera nel bellissimo teatro della Fenice. Per tal modo si piantava l'albero in Venezia da Baraguey d'Hilliers. Al tempo stesso Bernadotte proibiva con animo sincero che in Udine si piantasse. Guyeux, al contrario, metteva una taglia di centomila lire sur un piccolo comune del Padovano sotto pretesto che l'albero vi fosse stato tagliato; doloroso avviluppamento di accidenti strani in proposito di un medesimo fusto figurativo. Continuava Buonaparte a mostrarsi propenso ai Veneziani. Dimostrava non potere per le molte e gravi faccende che il travagliava, visitare, come desiderava, per sè stesso Venezia; ma mandarvi la donna sua, perchè in lei vedessero i Veneziani, così appunto si spiegava, quanta fosse l'affezione che loro portava. Veniva la moglie in Venezia: le adulazioni dei repubblicani di quei tempi sì veneziani che franzesi furono oltre misura. Traevano per comandamento del generalissimo i cannoni a festa e ad onore di privata donna. Accolta nella sala dei municipali era segno d'applaudisi infiniti: deputavano due di loro ad intrattenerla ed a farle onoranza. Furonvi feste, balli, canti, allegrezze d'ogni sorta: alla Giudecca una gran cena, al canal grande una luminaria; nè mancovvi la regata, spettacolo gradito dei Veneziani. Dandolo e gli altri municipali trionfavano e sempre stavano accanto alla donna e dal suo volto pendevano. Solo Giuliani repubblicano se ne stava bieco ed alla traversa. Infine, dimoratasi quattro giorni, il quinto se ne partiva con assai ricchi presenti. Non ostante tutte le promesse e le dimostrazioni favorevoli, coloro che avevano in mano la somma delle cose in Venezia, trattavano di unirsi strettamente alle città di terraferma, che, come si è narrato, molto ripugnavano al dominio veneziano. Laonde operavano che le principali mandassero deputati a Bassano per trattar dell'unione. Vi mandava Verona un Monga, Padova un Savonarola, Brescia un Beccalozzi: vi mandava Venezia Giuliani, perchè essendo natio di Desenzano, si sperava che potesse più facilmente conciliarsi ed accomunar i dissidenti. Non arrivavano i deputati di Udine, perchè Bernadotte impediva che deputasse. Vi mandava Buonaparte Berthier affinchè presiedesse il congresso. Vi furono molte parole e contenzioni. Verona voleva esser capo della terraferma, Padova andava alla medesima volta, i Bassanesi piuttosto a' Padovani aderivano che ai veronesi, i vicentini piuttosto ai veronesi che ai padovani, Treviso stava in favor de' veneziani, i deputati d'Oltremincio propendevano verso la Cisalpina. Però Berthier, disciogliendo il congresso, pubblicava che circa l'unione i deputati non s'erano potuto accordare. Riuscito vano questo tentativo, pensavano i Veneziani a ricercare il direttorio e Buonaparte della unione loro alla Cisalpina; ne facevano anche inchiesta formale al direttorio cisalpino. In questo mentre si era concluso il trattato di Campoformio, che abbiamo più sopra riferito; Buonaparte se ne tornava a Milano. Di colà egli scriveva a Villetard: pel trattato di pace essere i Franzesi obbligati a vuotare la città di Venezia, e perciò potersene l'imperadore impadronire; ma non doverla vuotare che venti o trenta giorni dopo le ratificazioni; potere tutti i patriotti che volessero spatriarsi, ricoverarsi nella repubblica Cisalpina, in cui godrebbero de' diritti di cittadinatico; avere facoltà per tre anni di vendere i beni loro; essere indispensabile di creare un fondo, il quale potesse alimentare quelli fra i patrioti che si risolvessero a lasciar il paese loro e non avessero facoltà sufficienti per vivere; essere la repubblica Franzese parata a soccorrerli se ne avessero bisogno, con la vendita de' beni d'allodio che possedeva nella Cisalpina; esservi a Venezia molte munizioni navali o di guerra e di commercio che appartenevano al governo veneziano; essere indispensabile che la congregazione di salute pubblica (quest'era una congregazione di municipali), le trasportasse più presto il meglio, a Ferrara, perchè quivi potessero essere vendute in pro dei fuorusciti; quanto fosse per esser utile alle opere navali di Tolone, tosto s'imbarcasse per Corfù e se ne facesse stima, onde del ritratto si soccorressero i fuorusciti; i cannoni e le polveri si vendessero alla Cisalpina; accordassesi Villetard con un Roubault e con un Forfait e con la congregazione di salute pubblica per vedere a qual pro si potessero condurre una nave ed una fregata recentemente disarmate, otto galeotte, sei cannoniere, un argano da inalberare, le piatte, il Bucintoro e le barche dorate, i barconi, i palischermi grossi e sei navi da guerra, sei fregate, sei brigantini, sei cannoniere e tre galere sui cantieri. Aggiungeva Buonaparte a Villetard, badasse bene a tre cose: la prima lasciar nulla che potesse servire all'imperadore per creare un navilio; la seconda, trasportare in Francia quanto fosse utile alla nazione; la terza usare quanto si vendesse nel miglior modo possibile, perchè più fosse profittevole ai fuorusciti: insomma ogni altra opera facesse che il tempo e l'occorrenza richiedessero per assicurare le sorti de' Veneziani che si volessero ricoverare in Cisalpina: finalmente fosse suo obbligo di pensare, di concerto con la congregazione di salute pubblica e co' deputati delle città di terraferma, alla salute de' fuorusciti loro. Avuto Villetard questo mandato, nella sala delle adunanze recatosi, ai municipali favellava, e gli esortava, in nome anche di Buonaparte, che ordinassero quanto era necessario, perchè Venezia sottentrasse intera e salva al nuovo dominio. Serrurier, accettata da Buonaparte la suprema autorità in Venezia ed il mandato di far la consegna, svaligiati prima, secondo i comandamenti avuti, i fondachi pubblici del sale e del biscotto, spogliato avarissimamente l'arsenale, rotte o mutilate le statue bellissime che in lui si miravano, fatto salpare le grosse navi, affondate le minori, rotte a suon di scuri le incominciate, arso in S. Giorgio il Bucintoro per cavarne le dorature, rovinata e deserta ogni cosa che allo stato appartenesse, consegnava agli Alemanni la città di Venezia. Francesco Pesaro riceveva, come commissario imperiale, i giuramenti. Gli eccidii si moltiplicavano, continuavasi a spogliar Roma in virtù del trattato di Tolentino; nella qual bisogna con molta efficacia si travagliavano i commissari del direttorio. E perchè non mancasse in mezzo agli spogli l'adulazione, essendo venuto a notizia loro che la moglie di Buonaparte desiderava per sè alcune belle statue di bronzo, le comperarono, e con le involate, a grado di lei incassarono. Saputisi dal papa il desiderio e la compera, ne pagava tosto il prezzo, perchè la donna se le avesse senza costo. Oltre a ciò apparecchiava una collana di preziosi camei, perchè fosse offerta da sua parte alla signora. Il romano erario era casso pel pagamento delle contribuzioni stipulate nel trattato di Tolentino; le romane cedole scapitavano de' due terzi per centinaio, e non v'era fine al disavanzo che ogni dì cresceva: ogni cosa in iscompiglio, si avvicinava la dissoluzione. Sapevaselo Cacault, ministro del direttorio, e per questo non voleva che si facesse una rivoluzione violenta per ispegnere il governo papale, ma bensì che si lasciasse andare di per sè stesso alla distruzione. I democrati non incitava Cacault, nè aveva partecipazione delle loro macchinazioni, perchè gli stimava gente dappoco e credeva che il popolo non li volesse. Bensì ricercava il papa della libertà dei carcerati; il che veniva in grande diminuzione della reputazione del governo pontificio. Crescevano la penuria ed il caro delle vettovaglie; i popoli male si soddisfacevano. A questo contribuivano non poco le tratte dei grani, che il papa era sforzato a concedere ad alcuni fra gli agenti sì civili che militari della repubblica. Il papa, oltre la sua età cadente, si trovava infermo di paralisia. S'aggiungevano spaventi come se il cielo fosse sdegnato contro Roma. La polveriera del Castel Sant'Angelo s'accendeva la vigilia di San Pietro con orribile fracasso; furonvi molte morti e parecchi edifizii rovinati. S'incominciavano i cavilli, annunziatori di distruzione: in pena di guerra non si volle che il pontefice conducesse a' suoi soldi il generale Provera, su cui aveva fatto disegno. Alle cagioni politiche, le quali operavano contro il papa, se ne aggiungeva una di natura molto singolare, e quest'era il pensiero nato in Francia, del voler fondare la religione naturale che col nome di teofilantropia chiamavano. Era a Cacault succeduto nell'ufficio di ministro di Francia a Roma Giuseppe Buonaparte, fratello maggiore del generale, uomo di natura assai rimessa, ma siccome indolente e debole, così facile a lasciarsi aggirare da chi voleva piuttosto fare che aspettare la rivoluzione. Per la qual cosa era la sua casa piena continuamente di novatori, ai quali dava segrete speranze, però che aveva dal suo governo avuto mandato espresso di mutar lo Stato in Roma, pur facendo le viste di non parervi mescolato. Ma siccome nè era soldato, nè d'indole risoluta, mandarono per dargli spirito ed aiutarlo a perturbar Roma i generali Duphot, e Sherlock. Aveva il governo papale avviso delle trame che si macchinavano; e però faceva correre, principalmente di nottetempo, da spesse pattuglie la città e teneva diligentissime guardie. S'avvicinava quest'anno al suo fine quando nasceva in Roma un caso funestissimo, dal quale scorsero improvvisamente con precipitosa piena quelle acque che già tanto soprabbondando, minacciavano di allagare. La notte del 27 dicembre i soldati urbani, incontrando un'affollata di democrati armati, ne sorse una mischia confusa; un democrato fu morto, due urbani feriti. Il sangue chiama sangue, il terrore già dominava la città. L'ambasciatore Giuseppe di ciò informato, rispondeva, farebbe che i suoi non si mescolassero in quei tumulti; ma non giovava, perchè, o il volesse egli o nol volesse, si adunavano il dì 28 nella villa Medici circa trecento democrati. Era fra di loro Duphot, e con la voce e coi gesti e coll'alzar il cappello gli animava a novità, e le facevano. Bande di fanti e di cavalli li disperdevano. Correvano al palazzo Corsini, dove aveva le sue stanze l'ambasciatore di Francia, d'onde chiamavano ad alta voce la libertà e gridavano di volerne piantar le insegne sul Campidoglio. Roma tutta si spaventava. Mandava il papa contro quella gente fanatica i suoi soldati, i quali, prese le strade per al palazzo Corsini, rincacciavano verso di esso a luogo a luogo i resistenti novatori. Fra quella mischia i ponteficii traendo d'archibuso ferivano alcuni democrati. Il terrore gli occupava: cercavano rifugio nel palazzo dell'ambasciatore, ne empievano il cortile, gli atri, le scale. Si fermavano, così comandati essendo, i soldati del pontefice per rispetto a quell'asilo fatto sicuro dal diritto delle genti. I democrati intanto, prevalendosi della sicurezza del luogo con parole e con gesti agl'irati soldati insultavano. Non si poterono frenare, entrarono con l'armi impugnate nel cortile. Nasceva una mischia, un gridare, un fremere misto che meglio si può immaginare che descrivere. Indarno mostravasi l'ambasciatore. Preso allora Duphot da empito sconsigliato, siccome quegli che giovane subito ed animoso era, sguainata la spada, si precipitava dalle scale e messosi coi democrati, gli animava a voler scacciare i soldati pontificii dal cortile. In tale forte punto i dragoni viemmaggiormente inferociti, traevano. Morivano parecchi furiosi, ne riportava Duphot una ferita mortale, per cui dopo morì. Scriveva risolutamente l'ambasciatore al cardinale segretario di Stato, comandasse ai soldati che si ritirassero dai contorni del palazzo. Rispondeva rappresentando quanto fosse difficile la condizione in cui versava il governo del papa. Fuvvi chi, tentando di mitigare l'animo dell'ambasciatore, voleva indurlo a far uscire dalla sua sede i nemici del governo; alla quale richiesta non solamente non volle acconsentire, cagionando che essi l'avevano preservato contro una nuova tragedia Basvilliana, ma ancora più sdegnato che mai, rescriveva mandando al cardinale una lista coi nomi degli assassini di Basville che dicea abitare in Roma tuttavia, comparire alla luce impunemente. Il governo di Roma rispondeva di nuovo che coloro che l'ambasciatore notava nella sua lista o in Roma non dimoravano o erano stati per esami giuridici e per sentenze solenni conosciuti innocenti. Si turbava fortemente a queste parole l'ambasciatore, e, chiesti i passaporti, protestava di volersene partire, il che era segno di guerra. Quindi, non avuto riguardo alle offerte di satisfazione che gli si facevano, nè alle preghiere del papa, nè deponendo il pensiero di fare una dimostrazione ostile, tutto sdegnato, o che il fosse o che il facesse, se ne partiva pei cavalli delle poste in tutta fretta verso Toscana. Giunto a Parigi, rapportato il fatto nel modo più conforme al suo intento ed a quello del direttorio, stimolava la Francia alla guerra contro Roma. Ordinava il pontefice rimedii spirituali di preghiere, di digiuni, di penitenze, per ovviare alla ruina imminente. Parigi intanto veniva fulminando: il sangue di Basville e di Duphot chiamar vendetta; doversi disfare quel nido di assassini; l'ultima ora esser giunta della romana tirannide; a quest'opera d'umanità esser serbata la Francia; vedrebbe il mondo quanto avesse la repubblica a cura i suoi cittadini che vivi li proteggeva, uccisi li vendicava. Tali erano le amplificazioni dei tempi, e le turbe seguitavano. Il direttorio, imputando a disegno espresso del pontefice ciò che era l'effetto fortuito di provocazioni straordinarie, mandava comandando a Berthier, marciasse incontenente con tutto l'esercito a passi presti contro Roma. Anno di CRISTO MDCCXCVIII. Indiz. I. PIO VI papa 24. FRANCESCO II imperatore 7. Avutosi da Berthier il comandamento di marciare incontanente con tutto lo esercito a passi presti contro Roma, quantunque se ne vivesse molto di mala voglia per essergli venute a noia le rivoluzioni, si metteva in assetto per mandarlo ad esecuzione. Commesso l'antiguardo a Cervoni, gli comandava che si alloggiasse in Macerata: dava il governo della battaglia a Dalemagne per modo che d'un solo alloggiamento si tenesse discosto dall'antiguardo. Alloggiava il retroguardo a Tolentino con Rey, con mandato di osservare le bocche d'Ascoli per le quali si va nel regno di Napoli, e di far sicure le strade degli Appenini fra Tolentino e Foligno. Lasciava finalmente con grosso presidio in Ancona Dessolles, con avvertimento di sopravvedere con bande sparse il paese e tenerlo purgato dai contadini Urbinati che, portando grande affezione alla sedia apostolica, erano sempre inchinati a far moto in suo favore. Metteva alle stanze di Rimini quattro mila Polacchi sotto la condotta di Dombrowski, e con questi anche le legioni cisalpine, le quali nissuna cosa santa ed inviolata avendo, commisero atti di cui quei popoli si erano mossi a grandissimo sdegno: le avrebbero anche condotte all'ultima uccisione se non fosse sopraggiunto Berthier coi soldati di Francia. Così il sacco e la rapina erano usati in Italia non solamente dai forastieri, ma ancora dagli Italiani. Incamminandosi alla distruzione del governo pontificio, mandava fuori Berthier da Ancona, il dì 29 gennaio, un manifesto, in cui tra le altre cose diceva che un esercito franzese movevasi ora contro Roma, ma che solo si muoveva per punire gli assassini del prode Duphot, per punire quegli assassini medesimi ancora rossi del sangue dell'infelice Basville, per castigar coloro che si erano arditi disprezzare il carattere e la persona dell'ambasciatore di Francia; che la Francia sapeva, essere il popolo romano innocente di tanta immanità e perfidia: che l'esercito franzese il terrebbe indenne e sicuro da ogni oltraggio. Poscia, rivoltosi ai soldati, gli ammoniva ed avvertiva che il popolo romano non si era mescolato nelle scelleraggini di chi li riggeva, l'amassero pertanto, il proteggessero; sapessero che la repubblica comandava loro che rispettassero le persone, le proprietà, i riti ed i templi di Roma; darebbesi pene asprissime a chi si dasse al sacco. Ciò detto, moveva le schiere al destino loro. Le genti repubblicane, preso Loreto e commessovi qualche sacco, posto a taglia Osimo che si era levato a favor del papa, varcati prestamente gli Appenini, alla appetita Roma si approssimavano. Era in questo estremo punto l'aspetto della città vario e per ogni parte pericoloso; alcune condizioni riguardavano le passate cose, alcune le presenti; generavansi sette ed umori molto diversi. Il trattato di Tolentino aveva tolto al papa gran parte della riputazione e della riverenza che prima gli portavano. Il vedere poi la magnifica Roma spogliata dei suoi ornamenti più preziosi partoriva sdegno ne' popoli non solamente contro gli spogliatori, ma ancora contro il pontefice; giudicando essi sempre dagli effetti e non dalle cagioni. Trovavasi inoltre il pontefice ridotto alla necessità, per le stipulazioni del trattato, d'aggravare con nuove tasse i sudditi, a fine di poter bastare alle somme esorbitanti ch'era tenuto di sborsare alla repubblica. Quindi, speso tutto il tesoro di San Pietro, si era dovuto por mano negli ori ed argenti dei privati, gittar nuove cedole con maggiore scapito così delle vecchie come delle nuove, ed ordinare una tassa del cinque per centinaio su tutti i beni. Di più si venne alla vendita del quinto dei beni ecclesiastici, il che parve grande attentato contro le immunità ecclesiastiche, e questa rivoluzione fu molto dannosa al pontefice, perchè gli tolse il favore di coloro sui quali principalmente si fondava la sua potenza. Le casse piene di gentilezze antiche, quelle che contenevano i denari estorti con tanta difficoltà dal pubblico e dal privato, da Roma continuamente partendo e la sembianza e il fatto di uno spoglio indefesso ai Romani rappresentando, accrescevano la mala contentezza e rendevano il papa spregiato ed odioso. Nè era nascosto che le gioie stesse per la valuta di parecchi milioni erano state poste in balia del vincitore. Per le angustie dell'erario aveva il papa molto rimesso da quelle pompe e da quella magnificenza con le quali era stato solito vivere. Mancato questo splendore, si cambiava l'affetto in disprezzo. In tanta mutazione d'animi le antiche querele si rinnovavano. I servitori soprattutto, di cui tanto abbonda Roma, diminuiti i salarii, si lamentavano e facevano, sfrenati, un parlare perniziosissimo. Si arrogevano i discorsi dei politici e degli amatori dell'antica disciplina della Chiesa, gridavano quelli contro il governo di preti inesperti, ed affermavano doversi lo Stato commettere al freno di uomini prudenti e conoscitori delle umane cose; se Roma spirituale periva, vociferavano, doversi almeno salvare Roma temporale. I secondi dimostravano dannosa la potenza terrena dei pontefici; esser tempo di ridurre i costumi trascorsi della Chiesa alla semplicità antica, e la potenza dei papi ai limiti primitivi. Le dottrine pistoiesi, mostrandosi più spacciatamente, acquistavano maggior credito ed i fautori loro nutrivano speranza che lo Stato della Chiesa si avesse a ridurre in similitudine ai tempi che furono prossimi a quelli degli Apostoli. Ma i democrati, che non amavano meglio una religione riformata che uno stato regolato, confortati da apparenze tanto nemiche al papa, ed avendo ardente desiderio della vittoria de' Franzesi, pigliavano novelli spiriti, e, più vivamente operando, minacciavano prossima la ruina al reggimento antico. Sentivano e vedevano i raggiratori della turbata Roma queste cose, ma meglio desideravano che potessero porvi rimedio. Pure mandavano fuori provvisioni contro lo sparlare, ma il tempo era più forte di loro e la proibizione accresceva la licenza. Così lo stringere e l'allentare il freno era parimente esiziale al papa, crollavasi lo Stato già prima che Francia gli desse la ultima spinta. Il pontefice, abbandonato da que' primi rumori da quasi tutti i cardinali, trovava un debole conforto di parole nel cardinale Lorenzana, protettore del reame di Spagna, nel principe Belmonte Pignatelli, mandato a lui dal re di Napoli, e finalmente nel cavaliere Azzara, ministro di Spagna. Vedutasi dal papa la ruina inevitabile, ordinava ai capi de' suoi soldati, facessero nissun moto di resistenza, e si ritirassero con quel passo con cui i Franzesi si avvicinavano; pensava alla quiete di Roma, ingrossando il presidio; perchè non voleva che l'anarchia precedesse la conquista. Il dì 10 febbraio molto per tempo si mostravano i repubblicani sui romani colli: ammiravano una tanta città. Tagliavano trincee, piantavano cannoni. Per accordo stipulato per parte del papa da Azzara e da alcuni cardinali, entravano nella magnifica Roma il giorno medesimo e, fatto sloggiare dal Castel Sant'Angelo il presidio pontificio, l'occupavano. Pretendevano anche, condotti da Cervoni, i principali posti della città. Poi, accompagnato da' suoi primi ufficiali e scortato da grosse squadre di cavalleria, entrava il dì 11 trionfando Berthier. Al tempo medesimo i manifesti promettitori di rispetto alle persone, alle sostanze, ai riti, alla religione si affiggevano su per le mura. Alloggiava Berthier nel Quirinale, mandava Cervoni al Vaticano per far riverenza al pontefice, assicurandolo della persona e dell'antica sovranità. Scriveva il dì medesimo del suo ingresso a Buonaparte, che un terrore profondissimo occupava Roma, e che lume nissuno di libertà appariva da nessun canto; che un solo democrata era venuto a trovarlo offrendogli di dar libertà a due mila galeotti. Dava speranze e faceva promesse d'aiuto ai novatori, piuttosto per ordine che per voglia. Queste promesse e questi incitamenti sortivano lo effetto; il giorno 15 di febbraio, correndo l'anniversario della incoronazione del pontefice, che a quel dì medesimo compiva ventitrè anni di regno, si levava subitamente per tutta Roma un moto grandissimo di gente che chiamava la libertà, e, mossa fin su quel primo principio da servile imitazione, traendo seco non so qual fusto di pino, s'incamminava a calca verso Campo Vaccino. La folla, le grida, la veemenza crescevano ad ogni passo. Molti correvano per vedere, alcuni per aiutare, nissuno per contrastare, perchè le pattuglie repubblicane che giravano, impedivano ogni moto contrario. Giunta che fu quella immensa frotta dirimpetto al Campidoglio, crescendo vieppiù le grida e lo schiamazzo, a fronte del famoso colle rizzava l'albero con una berretta in cima, e viemmaggiormente infiammandosi a tale vista, gridava _libertà, libertà_! nè contenti a questo, i capi givano ad alta voce interrogando gli astanti, se volessero viver liberi: risuonava tutto Campo Vaccino del sì. Seguitavano capi a domandare: È _volontà questa del popolo Romano?_ Di nuovo risuonava il Campo Vaccino del sì. Cinque notai richiesti rogavano l'atto, siccome il popolo romano sovrano e libero aveva vendicato i suoi diritti, che libero e franco si dichiarava, che al governo del papa rinunziava, che in repubblica voleva libero vivere e libero morire. Qui le grida, gli strepiti, il gittar dei cappelli, l'abbracciarsi, il confortarsi, il pianger della gioia, il rider per pazzia che sorsero, non son cose che da umana penna si possano agevolmente descrivere. Poi i motti contro i preti, contro i cardinali, e le ipotiposi sui vizii della corte romana andavano all'eccesso. Gli atti e gli scherzi che si fecero, non sono da raccontarsi. Rogato l'atto, si eleggevano dal popolo convocato uomini a posta perchè l'atto medesimo portassero a Berthier e gli raccomandassero la novella repubblica. Eravi solennità: entrava a guisa di trionfatore per la porta del Popolo il generale di Francia, con magnifico corteggio dietro ed intorno di splendidi ufficiali e di cento cavalli eletti da ciascun reggimento. Suonavano con grandissimo strepito gli stromenti della musica militare; l'affollato popolo applaudiva. Non così tosto compariva alla porta del Popolo, che era presentato di una corona dai capi in nome del popolo romano. L'accettava, protestando ch'ella di ragione apparteneva a Buonaparte, le cui magnanime imprese avevano preparato la libertà romana. Salito in Campidoglio bandiva la repubblica Romana solennemente, la riconosceva in nome della Francia, lodava la libertà, chiamava i Romani figliuoli di Bruto e di Scipione. Queste cose si facevano veggendo ed udendo dalle stanze del deserto Vaticano il canuto ed infermo pontefice. Erano tutto il restante giorno e la seguente notte canti, balli e rallegramenti di ogni forma. La Cisalpina repubblica a questi sovvertimenti si rallegrava; scriveva il direttorio nella solita lingua servile, per mezzo del presidente, ai legislatori cisalpini mille esagerazioni. Queste erano le poesie, o, per parlare con Buonaparte, i romanzi dei tempi. Fra mezzo a tanta ruina continuava a starsene nelle sue stanze del Vaticano papa Pio VI con qualche apparato di sovranità. Ma in quello stato di Roma non poteva più un papa sussistere, nè per lui, per la dignità, nè pei repubblicani per la sicurezza. In oltre, l'opera del direttorio doveva consumarsi intiera. S'incominciavano a mandar carcerati in Castel Sant'Angelo, o confinati nelle proprie case, alcuni cardinali ed altri personaggi di nome e d'autorità. Toglievasi quindi dal Vaticano la guardia svizzera con dolore vivissimo del pontefice, che non se ne poteva dar pace; vi surrogavano la guardia franzese. E qui la verità vuol che si dica che il venerando Pio, ridotto in caso di sì estremo abbassamento, non andava esente da parte di alcuni repubblicani di Francia da scherni tali che l'ammazzarlo sarebbe stato poco maggiore mancamento. Agli scherni succedeva l'esilio: Cervoni, avutone comandamento da Berthier, introdottosi nelle stanze del pontefice, in nome della repubblica Franzese gl'intimava che si dispogliasse della sovranità temporale. Rispondeva Pio, avere la sua temporale sovranità ricevuto da Dio e per libera elezione degli uomini; non potere nè volere rinunziarvi; alla età sua di ottant'anni potersi bene fare mali grossi, ma non lunghi; essere parato a qualunque strazio; essere stato creato papa con piena potestà; volere, per quanto in lui fosse, papa morire con piena potestà; usassero la forza, poichè in mano l'avevano, ma avvertissero che se avevano in poter loro il corpo, non avevano parimenti l'animo, il quale, in più libera regione spaziando, di accidenti umani non temeva; esservi un'altra vita per lui oggimai vicina, in lei nulla gli empi, nulla i prepotenti potrebbero. Restava, poichè l'animo non avevano potuto vincere, che vincessero il corpo. Il pubblicano dell'esercito, che al suono delle romane finanze era prestamente accorso, appresentatosi al pontefice, gl'intimava, tempo due giorni, da Roma si partisse. Rispondeva Pio, non potere resistere alla forza; ma volere che il mondo sapesse che sforzato il proprio gregge abbandonava. Il dì 20 febbraio sforzavano i repubblicani il papa a partire. Lasciava Pio l'antica sede, cui non era per rivedere più mai. L'accompagnavano solamente, miserande reliquie di corte tanto sontuosa, oltre alcuni addetti ai servigi domestici, monsignor Incio Caracciolo di Martina, suo maestro di camera, e l'abbate Marotti, professor di retorica del collegio romano, suo segretario eletto. Uscito da porta Angelica s'incamminava verso Toscana. Lo scortavano e guardavano diligentemente soldati repubblicani a cavallo. Accorrevano dai luoghi vicini e dai lontani i popoli riverenti ad inchinare il pontefice cattivo: muovevanli a rispetto ed a compassione la dignità, l'età, la malattia, la sventura. Per tal modo, vecchio, infermo e prigioniero lasciava Pio Roma, caso non più veduto dappoichè Borbone ne cacciava Clemente; lasciava Roma cui aveva abbellito con opere magnifiche e che doveva fra breve essere spogliata di quanto la durezza dei patti Tolentiniani vi aveva lasciato d'intero e d'intatto; lasciava Roma, già padrona per opinione del mondo, ora serva per opinione e per baionette di nuove repubbliche. Singolare città che o padrona o serva, o magnifica o saccheggiata, ebbe sempre per destino di provare i due estremi in cui gli umani casi si concludono. Trovava il pontefice ricovero, contuttochè sempre gelosamente fosse custodito, nel convento degli Agostiniani di Siena, e confortato negli ossequii del granduca e nelle lettere consolatorie scrittegli da tutta la cristianità. Il tentavano spesso i repubblicani perchè rinunziasse alla potestà temporale; il che egli costantissimamente sempre ebbe negato. Per questa cagione si ordinava che strettamente si custodisse, e se gli restringeva la facoltà di veder gente; rigore tanto più da condannare quanto più non era di nessun frutto, ed aveva per fine una rinunzia per forza. Succedeva poscia un caso spaventoso, che tremava per terremoto il convento, come se Dio volesse provare sino all'ultimo la costanza del desolato pontefice. Distrutta parte della casa, gli fu forza sloggiare; raccolto prima nel palazzo Venturi, poi nella villa Sergardi, si riduceva finalmente ad abitare nella Certosa di Firenze. Ma la sua presenza sul continente, particolarmente in paese sì vicino a Roma, dava sospetto ai repubblicani. Perlochè ordinavano che si trasportasse in Cagliari di Sardegna. Ma, tra per le rappresentazioni delle persone benigne che continuavano ad avergli affezione, e per la ritrosia del re di Sardegna che abborriva dal divenir custode di un papa, era infine Pio lasciato stare nella Certosa infinochè, venuti in Italia tempi pericolosi pei repubblicani, lo trasferivano in Francia. Roma, priva del pontefice, perdeva anche per sacco, parte violento, parte frodolento, le sostanze, e gli ornamenti più preziosi dello Stato. Nè in questo gli spogliatori portavano più rispetto alle sacre che alle profane cose, alle private che alle pubbliche, nè le rapine avevano termine che con le stanze dei repubblicani. Cominciava lo spoglio da alcuni capi sì militari che civili; scendeva per l'esempio nei soldati. Solo incorrotti si mantennero la maggior parte degli ufficiali di mezzo, i quali ne fecero un solenne risentimento. Giravano nello Stato romano ventisette milioni di cedole; fu ridotto al quarto il valore loro; ma questa legge savissima in sè stessa, fu crudele perchè promulgata subito dopo che gli agenti del direttorio avevano speso per le loro provvisioni sì pubbliche che private tutta quella copia di cedole che avevano trovato nelle casse papali; e fu anche aggiunto che se ne stampassero in fretta in fretta per altri sei milioni e si gittassero nel pubblico. Oltre le cedole, le romane finanze consistevano in una quantità di beni assai considerabile, che appartenevano allo Stato, e questi in nome della repubblica franzese occupavano i suoi agenti. Poi ponevansi al fisco della repubblica i beni del collegio della Propaganda, quelli del Sant'Officio e dell'Accademia ecclesiastica, le paludi Pontine e le tenute della Camera apostolica. Ciò spettava agli stabili; ma i mobili non si risparmiavano: qui fuvvi non confiscazione, ma sacco. Quanto di più nobile e più prezioso adornava i palagi del Vaticano e del Quirinale fu involato. Fu la cupidigia degli agenti del direttorio veramente barbara. Fu, come il Vaticano, spogliato Montecavallo, fu spogliato Castel Gandolfo, fu spogliata la nobil sede di Terracina. Come gli arnesi più squisiti, così il più misero vasellame di cucina furono involati, nè più risparmiati i sacri che i profani arredi. Passava il sacco dai palazzi dello Stato e del papa a quelli de' suoi parenti, ed anzi a que' di coloro, o principi romani o cardinali che si fossero, che più si erano dimostrati costanti nel far argine alle dottrine che avevano servito di mossa e tuttavia servivano di fondamento alla rivoluzione. Il palazzo della città, quei del principe e del cardinale Braschi, quello del cardinale di York furono con eguale avarizia depredati. Soprattutto miseramente guasto e devastato fu quello della villa Albani, di cui era signore il cardinale e principe di questo nome. Quanto in lui si trovava di più prezioso per materia e per lavoro, fu tocco e rapito dalle avare mani dei forastieri. Il giardino stesso dell'Albani fu guasto e deserto, gli aranci e le altre piante odorose o rare vendute a vil prezzo. La rapacità che si usava in Roma e nei contorni si dilatava in tutto lo Stato romano, ed ogni sostanza sì pubblica che privata era posta a mercato. Nè dal sacco andarono esenti le chiese appartenenti alla nazione spagnuola ed austriaca, sebbene una alleata, l'altra amica della repubblica vivessero a quel tempo. Al sacco succedevano le tasse, le quali qualche volta si convertivano in sacco segreto assai più vile del primo. Erano enormi, ma vi era modi di riscatto nascosti, e qualche volta a bella posta si mettevano perchè i modi del riscatto si usassero. Si tassava la sola famiglia Chigi di più di dugento mila scudi; l'incisore Volpato di più di dodici mila, e fra dodici ore avesse a pagargli. Talvolta si minacciavano le confische per aver denaro; talvolta si addomandava denaro per avere o quadri o statue od altre simili gentilezze preziose. Per tal modo Roma, già consumata dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei repubblicani. Non ostante tanti spogli e tante rapine, se ne viveva l'esercito bisognoso di ogni cosa, e mentre le cassette piene di cose preziose che appartenevano agli agenti del direttorio, s'incamminavano alla volta di Francia, o segretamente od anche apertamente, perchè a tale di sfrontatezza si era venuti, i soldati non avevano le paghe corse da molti mesi, e laceri e scalzi, e privi di ogni bene, accusavano l'ingordigia di coloro che, preposti al vitto ed al vestimento loro, credevano dover convertire in benefizio proprio le ricchezze dei paesi conquistati con le fatiche e col sangue loro. Ciò produsse una gran lite degli uffiziali subalterni, ai quali stava a cuore l'onore di Francia, ed infinitamente cuocevano i raccontati disordini contro Massena, surrogato a Berthier, e cui imputavano di molte estorsioni fatte, come dicevano, in tutti i paesi italiani venuti sotto il di lui governo, massimamente nel Padovano, e contro Huller, cui principalmente accusavano delle italiane espilazioni e della franzese miseria. Massena intanto era uscito di Roma ordinando, lasciato solamente un presidio di tre mila soldati in Castel Santo Angelo ed in altri luoghi forti, che tutto l'esercito il seguitasse, così sperando di scioglier quel nodo degli ufficiali contro di lui. Ma quelli insistevano; scrivevano a Berthier, ripigliasse il freno delle genti; protestavano a Massena, non volergli più obbedire. Pensò dunque a ritirarsi, e, lasciato il governo a Saint-Cyr e a Dallemagne, se ne andava in Ancona. I Romani, osservato lo scompiglio delle genti franzesi ed essendo sdegnati per tante vessazioni, nè potendo più oltre portare sì dura servitù, perchè oramai un popolo di quasi due milioni d'anime era ridotto alla fame, tentavano un movimento più temerario che considerato. I primi a romoreggiare furono i Trasteverini, gridando: _Viva Maria_. Avviatisi verso San Pietro in grosso numero, uccidevano una guardia franzese, s'impadronivano di Ponte Sisto e delle strade che mettono capo in esso. Al tempo medesimo le campagne tumultuavano; Velletri, Albano, Marino, Cività di Castello si muovevano; la mossa era grave. Già i Franzesi erano uccisi alla spicciolata, e già le più grosse squadre si trovavano in pericolo. Ma essendo gente valorosa, usa all'armi ed ai tumulti improvvisi, poste dall'un de' lati le dissensioni loro, muovendoli il pericolo comune si ordinavano tostamente alle battaglie contro quei popoli spinti piuttosto da furore che da disegno bene ordinato. Vial muovevasi contro la gente tumultuaria di Roma, Murat contro quella del contado. Fu fatto in queste battaglie molto sangue, perchè i Franzesi coi loro squadroni agguerriti combattevano virilmente, ed i Romani, mossi da furore e da zelo religioso, menavano ancor essi le mani aspramente. Infine, prevalendo la disciplina e l'opera delle artiglierie bene governate dai repubblicani, di cui mancavano i Romani, acquistarono i primi con molta preponderanza il vantaggio. Dispergevansi gli avversarii e si nascondevano chi per le case e chi per le campagne. Fecero i contadini, ritiratisi ai monti, una testa grossa, ma Murat, penetrando coi soldati armati alla leggiera in quei riposti ricoveri, gli sperperava. Di centocinquanta prigioni, parte furono mandati al remo, parte giustiziati con le palle soldatesche. Roma, piena di terrore, d'orrore e di sangue, lagrimosamente si querelava. Si toglievano con diligente cura le armi ai popoli. Accagionaronsi, come fautori di questo moto, i cardinali ed altri prelati sospetti di affezione verso il papa. S'intimò ai primi, o rinunziassero alla dignità cardinalizia o andassero carcerati. Rinunziarono Antici ed Altieri; ricusarono Antonelli, Giuseppe Doria, Borgia, Rovenella, la Somaglia, Carandini, Archetti, Mauri, Mattei; fu dato bando ai due ultimi dalle terre della repubblica romani. Gli altri, prima posti in carcere, poi condotti a Cività Vecchia ed imbarcati su navi sdruscite, furono mandati a cercar ricovero in paesi stranieri. Il cardinal Rezzonico, come infermo di mal di morte, fu lasciato stare: Albani che più d'ogni altro desideravano di avere in poter loro, fu fatto correre dai cavalli leggieri, che il seguitavano, ma giunse a salvamento nel regno. In questo modo quanto avea la Chiesa cattolica di venerando per età, per dignità, per dottrina, era disperso e calpestato. Gli accidenti romani fin qui narrati sapevano di tumulto e di confusione, siccome quelli che succedevano sulle prime alla militare conquista. Restava che la oppressione e la servitù si ordinassero sotto ingannevole forma di governo regolare, come se fosse intento dei conquistatori di fare scherno alla libertà e di metterla in odio a tutti coloro che l'amavano. A questo fine aveva il direttorio mandato a Roma quattro suoi commissarii, che furono Faipoult, Florent, Daunon e Monge, uomini che facevano professione di amore la libertà. Deliberarono fra di loro di dar una costituzione alla repubblica Romana. Ed ecco pubblicarsi un corpo di costituzione, il quale altro non era che sotto nomi romani la costituzione franzese; imperciocchè sotto nome di consolato, di senato, di tribunato, di tribunale di alta pretura e di alta questura, vi era un direttorio, un consiglio degli anziani, un consiglio dei giovani, un tribunal di cassazione, e commissarii dei conti. A questi si aggiungevano gli altri fastidii servili delle amministrazioni centrali per ciascun dipartimento della repubblica, e di una amministrazione centrale per ogni cantone. Si noveravano otto dipartimenti, del Tevere, del Cimino, del Circeo, del Clitunno, del Metauro, del Musone, del Trasimeno, e del Tronto: avevano per capitali Roma, Anagni, Viterbo, Spoleto, Macerata, Sinigaglia, Perugia e Fermo. Erano questi i magistrati; le leggi come quelle di Francia. Dalle leggi passava l'imitazione insino agli abiti; perchè i magistrati furono ordinati vestirsi alla franzese, mutato solo pei consoli, senatori e tribuni il color rosso in nero; la forma simile a quella dei quinqueviri, degli anziani, dei cinquecento di Francia. Si crearono consoli per la prima volta Liborio Angelucci ed Ennio Quirino Visconti da Roma, Giacomo Dematteis da Frosinone, Panazzi e Reppi da Ancona. Ma variarono molto nella breve vita della repubblica Romana i consoli, perchè si scambiavano ad un primo capriccio del generale o del commissario di Francia. Fu instituito segretario del consolato un Bassal, il quale già mandato da Buonaparte a fomentare la rivoluzione di Venezia, se n'era venuto a fomentar quella di Roma. Chiamaronsi ministri un Torriglioni, un Camillo Corona, un Mariatti, un Bremond franzese. I quattro commissarii inserirono però nella costituzione romana questo capitolo, che si avesse a fare al più presto un trattato d'alleanza tra la repubblica Romana e la Franzese, il quale sino a che fosse ratificato, tutte le leggi fatte dai due corpi legislativi romani non potessero essere nè pubblicate nè eseguite senza l'approvazione del generale franzese che stava al governo di Roma; e che il generale medesimo potesse di sua propria autorità fare tutte quelle leggi che a lui paressero necessarie, conformandosi non ostante alle instruzioni del direttorio. E questa, oltre gli spogli, le tasse violenti, ed il rimanente, era la libertà di Roma. Era nella costituzione un capitolo che ordinava di giurar odio alla monarchia, fedeltà ed attaccamento alla repubblica. Papa Pio aveva udito dal suo ritiro della Certosa di Firenze che il governo della repubblica esigeva questo giuramento da tutto il clero e dai parrochi di Roma. Volendo per regola delle coscienze definire questa materia, e parendogli che non si convenisse ai ministri della religione il giurar odio ad alcuna forma di governo, scrisse un breve a monsignor Passeri, vicegerente di Roma, ammonendolo, non esser lecito prestar puramente e semplicemente il giuramento suddetto, ed ordinandogli di notificare agl'intimati questa sua decisione pontificia e di avvertire che la eseguissero. Ma siccome, continuava a discorrere, interessava anche moltissimo che la repubblica fosse persuasa della rettitudine delle massime del clero di Roma relativamente al repubblicano governo, conformi in tutto agl'insegnamenti della cattolica religione, così statuiva che ciascuno potesse con sicura coscienza giurar fedeltà e soggezione alla repubblica che attualmente comandava, essendo stato unanime insegnamento dei santi Padri e della Chiesa che sia dovuta fedeltà e subordinazione a chi, secondo la varietà dei tempi, ha in mano le redini del governo, o sia a chi attualmente comanda. Definì inoltre che ciascuno potesse giurare di non prendere parte in qualsivoglia congiura, trama o sedizione pel ristabilimento della monarchia e contro la repubblica: e potesse altresì giurare odio all'anarchia, essendo questa uno stato di disordine. Finalmente deliberò che si potesse giurare fedeltà ed attaccamento alta costituzione, salva per altro la cattolica religione. Pensava papa Pio che i magistrati della repubblica non avrebbero rigettato questa formola, giacchè era in tutto conforme, come si esprimeva, all'atto del popolo sovrano del 15 febbraio del presente anno, con cui il popolo riunito innanzi a Dio ed al mondo tutto, con un sol animo ed una sola voce aveva dichiarato, voler salva la religione quale di presente venerava ed osservava, cioè la religione cattolica. Ma partito da Roma monsignor Passeri e succedutogli nella carica di vicegerente l'arcivescovo di Nassanzio, quest'ultimo di propria autorità e contro le intenzioni del papa, diede una seconda instruzione per cui i professori del collegio Romano e della Sapienza si credettero autorizzati a prestare, come fecero, il giuramento tale quale era prescritto dalla costituzione, solo facendo qualche protestazione a voce. Udì gravemente il papa quest'accidente, e rescrivendo all'arcivescovo, lo ammonì di nuovo delle sue intenzioni, gli comandò richiamasse la seconda instruzione, e si lamentò che per essa e per l'esempio dei professori soprannominati sembrasse che Roma, già maestra di verità, si fosse fatta maestra dell'errore. Savie, prudenti e conducenti alla quiete dello Stato erano queste sentenze di Pio. Intanto questa faccenda dei giuramenti, per l'ordinario tanto gelosa, si rammorbidì facilmente, sì per la prudenza del papa come per la sopportazione dei magistrati della repubblica, nè produsse, come si temeva, o movimenti o persecuzioni d'importanza. Creata la repubblica Romana, si spegneva l'Anconitana, la quale non era stata mai altro che un appicco contro il papa. I suoi territorii, salvo San Leo, si incorporarono alla Romana. Il dì 20 marzo, si celebrava nella vastissima piazza del Vaticano la confederazione della repubblica Romana a guisa di quella che fu da noi già descritta della Cisalpina. Furonvi archi trionfali, sinfonie, illuminazioni, canti, balli; magnifica festa, ma con molto schiamazzo e molte satire alla Romanesca. Saliva con grande apparato sul Campidoglio Dallemagne, chiamava i senatori, apriva il senato, spiegava al vento la romana bandiera. Poi instituiva il tribunato, quindi i consoli sulla piazza del Vaticano; bandiva la costituzione, dichiarava Roma libera; i consoli dall'alto della scalea giuravano. Si coniava, poscia, pure romanescamente al solito, la medaglia adulatoria, bella assai e con questi motti: _Berthier restitutor urbis; e Gallia salus generis humani_. Qui sarebbero da descrivere alcune maggiori cose per cui mutossi inopinatamente lo Stato d'Europa, quel d'Africa turbossi, le ottomane spade chiamaronsi ad insanguinar l'Italia, ed il dominio di questa combattuta parte d'Europa passò da Francia a quello che di nuovo lo combatterono: ma non ci è dato che toccar di volo i principali fatti. Concluso il trattato di Campoformio, si riposava la Francia in pace con tutte le potenze del continente, ed, oltre a ciò, aveva per alleate la Spagna, il Piemonte, le Cisalpina, l'Olanda. Le vittorie conseguite, il nome de' suoi generali, il valore e la costanza de' suoi soldati, avevano dato timore a tutti. Per la qual cosa, quantunque tutti vedessero mal volentieri confermarsi in Francia, cioè nel centro dell'Europa, principii contrarii alla natura dei governi loro, contenuti dal timore, nissuno ardiva di muoversi ed aspettavano tempi migliori. Perciò la Francia, non avendo nissun sospetto vicino al continente, poteva voltar tutte le sue forze verso l'Inghilterra. A ciò fare ella si trovava molto ben provveduta d'armi, di navi, di capitani, d'alleanze, e di quanto potea condurre a prospero fine una spedizione. In questa condizione di tempi i ministri d'Inghilterra, Pitt principalmente, guida allora e indirizzatore dei consigli di quel reame, conobbero il pericolo in cui erano, anche perchè non pochi nell'Inghilterra medesima avevano accettato i principii della rivoluzione franzese ed avrebber potuto secondare i Franzesi. Però, avendo potentissima occasione di muoversi, si mettevano all'ordine per ovviare a tanto precipizio, tentando con ogni sforzo di accendere un novello incendio di guerra sul continente con istimolar di nuovo le potenze alle cose di Francia, alle ragioni aggiungendo offerte di denari ed aiuti di genti. A queste istigazioni l'Austria rispondeva, che quantunque debilitata, era per insorgere di nuovo e correre all'armi se la Russia consentisse a voler anche essa venire efficacemente a parte della contesa e la spalleggiasse con pronti aiuti. La Russia tentata rispondeva che si accosterebbe volentieri alla lega, quando l'Inghilterra l'assicurasse della Turchia. Gli Inglesi allora ed a questo fine tentarono il governo Ottomano. Rispondeva il sultano che per l'antica unione della Porta con quel paese non voleva pruovare le armi contra la Francia, nè collegarsi con loro che muovevano. Non potendo adunque i ministri di Inghilterra venire a capo dell'intento loro di seminar nuove discordie, si voltavano ad altre arti, mandando agenti a Parigi con le mani piene d'oro per muover la Francia contro sè medesima. Costoro con discorsi infiniti voleano distogliere il direttorio dall'impresa d'Inghilterra e portarne le viste sopra paesi più lontani, per allontanare gli ambiziosi, Buonaparte specialmente, che poteva al direttorio dar ombra, e indicavano come opportuna conquista l'Egitto. Speravano gli autori di queste insinuazioni che l'assaltare la Francia l'Egitto avesse ad essere per lei cagione di nimicizia col sultano, la qual nimicizia era il fondamento principale di tutte queste nuove macchinazioni. Questi discorsi andavano molto a versi del direttorio. Ma dall'altra parte i medesimi agenti andavano tentando l'animo di Buonaparte, le più seducenti cose del mondo ripetendogli. Piacque la proposta al giovane capitano, il quale, sebbene fosse giusto e sagace estimatore degli uomini e delle cose in ogni altra faccenda, sentiva, ciò non ostante, un poco del romanzesco quando si trattava di guerra e di gloria militare. In tale forma accordate le cose, s'incominciava a disporre gli animi in Francia ad una impresa tanto straordinaria. Vi si parlava dell'Egitto come della terra promessa, della prosperità del commercio, della scoperta delle antichità, dei progressi della civiltà, del cacciamento degl'Inglesi dall'Indie, della padronanza di quelle ricche sponde del Gange. Allignavano facilmente questi pensieri in Francia, perchè la nazione, animosa per indole propria, era a quei tempi talmente accesa, che qualunque più alto e difficoltoso fatto le pareva di facile esecuzione, e la difficoltà stessa le era sprone e speranza. Talleyrand leggeva all'Istituto uno scritto composto con singolare eleganza e maestria, con cui dimostrava e l'importanza dell'Egitto e l'utilità della sua possessione. Si dava voce, ch'egli stesso fosse per essere mandato ambasciadore straordinario presso la Porta Ottomana per ispiegar bene a quel governo i pensieri della Francia rispetto alla spedizione d'Egitto e per mantener tuttavia salva l'antica concordia fra i due Stati. Furono anche spediti dispacci indirizzati a lui a Costantinopoli come se già fosse partito ed avviato a quella volta. Intanto con grandissimo apparato si provvedevano le cose necessarie alla spedizione. Concorrevano sì da Francia che da Italia, uomini, navi, armi e provvisioni di ogni sorta a Tolone, dove si era condotto Buonaparte per sopravvedere e sollecitare. Era egli poco innanzi stato tratto membro dell'Instituto e con tale qualità ne' suoi dispacci s'intitolava, volendo conciliarsi gli animi degli scienziati e dei letterati di Francia che aveano grande autorità nelle faccende e si mostravano molto invidiosi del dominio militare. Voleva altresì che gli uomini si persuadessero che quantunque soldato ed uso alle guerre, era nonostante protettore della civiltà e di chi la fomenta. Ciò importava anche alla spedizione in un paese antico, fonte del sapere. Imbarcaronsi pel medesimo fine alla volta dell'Egitto molti scienziati di chiaro nome in Francia. Ma l'Inghilterra dall'un de' lati favoreggiando Buonaparte e sollecitando le sue passioni più vive, dall'altro nutrendo gli smisurati desiderii ed i sospetti del direttorio, aveva riuscito ad un fine molto utile per lei, quello di metter discordia tra la Francia e la Turchia, d'abilitar la Russia ad unirsi all'Austria, di aprir la occasione all'ultima di levarsi a nuova guerra, di sviare dai proprii lidi una gran tempesta, di privar la Francia de' suoi migliori capitani e soldati, di avventurare in mari lontani il potente naviglio franzese, ed in somma di fare in modo che l'Europa tutta si turbasse di nuovo con grandissimi movimenti. Questa fu una delle opere più memorabili di Guglielmo Pitt. Salpava l'armata franzese che portava con sè tante sorti, avviandosi verso Levante. S'appresentava sul principio di giugno in cospetto della degenerata Malta. Portava forti armi e corruttele ancor più forti. Chiedeva il generale repubblicano l'entrata sotto pretesto di fare acqua: gli fu risposto, entrasse, ma con due navi soltanto. Finse di averla per male, e sbarcato nella cala San-Giorgio, servendogli di guida i fuorusciti Maltesi, antichi cavalieri che Buonaparte aveva condotto seco, assaltava le opere esteriori delle fortificazioni. Fu debolissima la difesa; nè i cannoni entro i luoghi loro, nè le munizioni piene, nè i soldati confidenti. La Valletta poteva ancor tenersi per la fortezza del luogo, ancorchè le difese non fossero apprestate; ma da una parte le corruttele operavano, dall'altra le femmine, i fanciulli, i fuggitivi di ogni grado e di ogni condizione, che dalle campagne si erano ricovrati in città all'apparire del nemico, facevano un gran terrore. Si diede sotto la mediazione di Spagna, con questi patti; rimettessero i cavalieri dell'ordine di San Giovanni Gerosolimitano ai Franzesi la città di Malta, rinunziando in favore della repubblica di Francia alla proprietà ed alla sovranità ch'essi avevano su quella isola e su quelle di Gozo e Camino; usasse la repubblica la sua autorità presso il congresso di Rastadt, perchè il gran maestro, sua vita durante conseguisse un principato almeno uguale a quello ch'ei perdeva; e di più essa repubblica si obbligasse a dargli per sostentazione della sua vita, una pensione di trecento mila franchi annui e due anni anticipati della pensione per compenso del suo mobile; avessero i cavalieri franzesi della repubblica una pensione di settecento franchi, i sessagenari di mille; facesse la repubblica ufficio presso la Ligure, la Cisalpina, la Romana e l'Elvetica, perchè i cavalieri liguri, cisalpini, romani e svizzeri ottenessero la medesima promissione; conservassero i proprii beni in Malta; procurasse la repubblica presso tutti i potentati d'Europa, che i beni dell'ordine fossero conservati ai cavalieri di ciascuna lingua; la religione si serbasse salva ed intatta. Il dì 12 giugno furono posti in poter dei Franzesi alcuni forti, il dì 13 i rimanenti. Venuto Buonaparte in possessione di un'isola tanto importante, ad onta delle proteste contro la dedizione fatte dal gran priorato di Malta ed altri cavalieri dell'ordine adunati a Pietroburgo, vi creava un governo temporaneo, di cui fe' capo Bosredon di Ransijat. Poi veniva agli esilii ed alle espilazioni. Bandiva i cavalieri dall'isola, e fra essi Hompesch, gran maestro, che se ne andò in Germania a vivere una vita ignota, perchè onorata non la poteva più vivere. Quasi al tempo stesso l'isola di Gozo si arrendeva al generale Reyner, mandatovi a posta da Buonaparte. Poscia il generalissimo, partendo dall'espilata isola con tutta l'armata, si avviava a' suoi destini d'Egitto, lasciato Malta al governo di Vaubois, tanto onorato uomo quanto valoroso. La conquista di Malta, tanto conforme alle sorti fino allora continuate della repubblica di Francia e di Buonaparte, empiè di maraviglia l'Europa, di timore la Germania, di spavento Napoli. Solo gl'Inglesi che avevano il navilio intero e d'invitta fama, non se ne sgomentarono; anzi dimostrando animo maggiore, quanto più grave era il pericolo, si preparavano al gran contrasto. Giunto Buonaparte sui lidi d'Egitto e con tutta felicità sbarcatovi, s'impadroniva di Alessandria: poscia con pari felicità procedendo s'insignoriva dei luoghi più importanti e più forti di quella contrada. Troppo lontana è dalle cose d'Italia l'egiziana guerra per esser qui narrata; ma vuolsi ricordare la battaglia navale d'Abukir, poichè per lei si cambiò lo stato d'Italia e fu avvenimento tanto grave per tutta l'Europa. Correva il giorno primo d'agosto; destinato dal cielo ad una delle più aspre e più terminative battaglie che il furore degli uomini abbia mai fatto commettere e di cui vi sia memoria nei ricordi delle storie, pieni, per altro di tanti spaventevoli accidenti. Noveravansi nell'armata inglese tredici navi, ciascuna di settantaquattro cannoni, cui si trovavano congiunti il Leandro di cinquanta cannoni una fregata di trentasei; in somma mille e quarantotto cannoni. Tutto questo navilio governavano meglio di otto mila eletti marinai. Erano nell'armata di Francia una nave grossa, stanza dell'Almirante, tre di ottantaquattro, nove di settantaquattro, una fregata di quarantotto, una di quarantaquattro, due di trentasei: insomma mille e novanta cannoni per armi, circa dieci mila e novecento marinai per governo. Aveva il supremo governo di tutto questo fiorito navilio l'ammiraglio Brueys, capitano delle faccende navali espertissimo e d'animo non minore della sua perizia; ed aveva contro il viceammiraglio Nelson. Azzuffaronsi, combatterono ferocemente, peritissimamente si mossero. Era lo spettacolo orrendo; i Franzesi, che si trovavano in terraferma, ansii del fine, che tanto grave era per la patria loro, ascesi sui luoghi più alti, prospettavano l'augurosa battaglia. Così la specola e le torri d'Alessandria, così i terrazzi e le logge di Rosetta, e la torre di Abul-Maradu, distante un tiro di cannone da questa città erano piene di repubblicani, paventosi a quello che vedevano ed a quello che udivano. Al tempo stesso gli Arabi si erano sparsi sul lido, condutti parte dalla contentezza di vedere i repubblicani, cui molto odiavano in sì grave pericolo, parte dalla speranza di avergli a svaligiare, quando cercassero di ricoverarsi a terra. Pareva che non si potesse aggiungere terrore ad uno spettacolo già tanto spaventevole pel rimbombo di tante e sì grosse artiglierie; ma s'era fatto notte e la scena fu piena di ancor maggiore spavento. Prevalse la fortuna inglese. Dei Franzesi mancarono in questa battaglia tra morti, feriti e prigionieri circa otto mila, fra i quali i morti sommarono a quindici centinaia. Furono i feriti e i prigionieri dall'ammiraglio inglese, sotto fede di non guerreggiare contro l'Inghilterra fino agli scambii, liberati e mandati in Alessandria. Perdettero gl'Inglesi fra feriti ed uccisi circa novecento soldati, fra quali molto desiderarono un Wescott, capitano della nave il Maestoso. Dall'esito di questa battaglia nacquero altre sorti in Europa. La rivoluzione di Roma e la presa di Malta, per cui i repubblicani si erano acquistati grandissima facilità di perturbare il regno di Napoli, avevano dato cagione di temere al re Ferdinando, che il governo di Francia avesse fatto pensieri sinistri anche su quella estrema parte di Italia; nè era certamente verisimile, che la smania d'innovare e di spogliare i paesi, che tanto sfrenatamente aveva turbato Genova, Milano, Venezia, Roma, fosse per arrestarsi ai confini dello Stato romano. Ciò non isfuggiva al direttorio, e per tal motivo avea timore che il re di Napoli facesse qualche risoluzione precipitosa contro di lui. Pertanto, siccome quello che voleva temporeggiare per vedere quale via fosse per pigliare la spedizione d'Egitto e qual effetto partorirebbe sui principi d'Europa e sul governo ottomano, aveva mandato ambasciatore a Napoli Garat, letterato di molto grido in Francia, per rendere il re persuaso che l'amicizia della Francia verso di lui era sincera e cordiale. Ma il patto stesso era contrario alle parole, perchè, sebbene Garat fosse di dolce e pacifica natura, aveva, ciò non ostante, molto capriccio sulle rivoluzioni di quei tempi, parendogli che all'ultimo avessero a produrre qualche gran benefizio all'umanità. Era anche in questo un altro particolare per cui il direttorio, se avesse avuto animo più civile, e Garat mente meno illusa, avrebbero dovuto quello non dare, questo non accettare il carico di Napoli, dove regnava Carolina d'Austria. Certo è bene che il suo arrivo dispiacque grandemente alla regina; e da un altro lato i novatori molto si confortavano nei pensieri loro di mutar lo Stato, perchè egli aveva nome di essersi mescolato nella rivoluzione di Francia. Favellava Garat nel suo ingresso al re parole di pace, di filosofia, di umanità; favellava per verità molto tersamente, siccome accademico. E sì solenne e squisito parlare teneva l'ambasciatore Garat ad un re che, secondochè egli narrava, d'altro non si dilettava che di pesca, di caccia e di lazzaroni. Ferdinando, che non s'intendeva di queste squisitezze accademiche, stava come attonito e non sapeva come uscirgli di sotto. Fatto il complimento al re, se n'andava il giorno seguente, che fu il 9 di maggio, l'ambasciatore a complire e con la regina, favellandole dei desiderii di pace del direttorio, dei pensieri buoni e delle virtù di Giuseppe e di Leopoldo suoi fratelli, come se le riforme fatte nello stato politico da questi due principi eccellenti, ed anzi gli ammaestramenti pieni di umanità e di dolcezza dati alle genti dai filosofi franzesi che l'ambasciatore chiamò maestri di Giuseppe e di Leopoldo, avessero che fare con le sfrenatezze dei repubblicani di Francia a quel tempo. Queste cose sapeva e queste sentiva Garat, poichè niuno più di lui ebbe i desiderii volti a pro degli uomini; ma non s'accorgeva, perchè forse l'ambizione il trasportava, che quando regna la tirannide, migliore e più onorevole partito è per un filosofo di ficcarsi in un deserto, che comparire qual messo di tiranni. Intanto si passava dai complimenti ai negoziati, ingannandosi le due parti a vicenda; perchè contuttochè le dimostrazioni fossero pacifiche da ambi i lati, nissuna voleva pace, ed ambedue aspettavano il tempo propizio per correre all'armi, nè il direttorio voleva lasciare quelle napolitane prede, nè il re di Napoli poteva tollerare che la democrazia sfrenata romoreggiasse a' suoi confini. Sapeva il direttorio che il re si era molto sdegnato, dappoichè Berthier e l'incaricato d'affari a Napoli l'avevano richiesto con insolente imperio che cacciasse da' suoi regni tutti i fuorusciti corsi, licenziasse il ministro Acton, desse il passo ai soldati della repubblica per Benevento e Pontecorvo che volevano occupare a benefizio, come dicevano, di Roma; si confessasse il re feudatario della repubblica Romana, ed a lei pagasse, come al papa, il solito tributo annuale, e soddisfacesse finalmente senz'altra mora dei soldi corsi di detto tributo. Negava il re le superbe proposte, solo consentiva a non più ricettare i fuorusciti. Il direttorio, volendo mitigare la amarezza e lo sdegno concetto da Ferdinando per le insolenze de' suoi agenti, aveva dato carico a Garat di racconciare la cosa. Perlocchè si venne ad un accordo pel quale si stipulò, che i Franzesi ritirerebbero parte delle loro genti dai confini napolitani, che la repubblica Romana desisterebbe dalle sue richieste, che Benevento e Pontecorvo, per amor della pace, si depositerebbero in mano del re; ma il re non si fidando dalle dimostrazioni d'amicizia più sforzate che spontanee di coloro che contro la fede data o conquistavano per forza o sovvertivano per inganno, aveva con ogni più efficace modo armato il suo reame. E le sue provvisioni recate ad effetto non senza qualche calore dal canto dei popoli, accrebbero il numero dell'esercito sino in ottanta mila soldati. E siccome il dispendio per mantenere un'oste sì numerosa era gravissimo, così il governo aveva posto mano nelle rendite ecclesiastiche, accresciuto certi dazii, e perfino raccolto le argenterie delle chiese non del tutto necessarie alla celebrazione dei riti religiosi. Già le truppe si avviavano ai confini, e un gran corredo di artiglierie si era mandato a guernire le fortezze, principalmente quelle dell'Abruzzo. Quantunque poi l'ambasciatore Garat non cessasse d'inculcare al direttorio che i soldati napolitani, per bene armati e bene vestiti che fossero, sembravano piuttosto gabellieri o frodatori che buoni soldati, non se ne stava il direttorio senza apprensione, trovandosi privo in Italia de' suoi migliori soldati e del suo miglior capitano, e non sapendo a qual partito sarebbe per appigliarsi l'Austria, che di nuovo diventava minacciosa e renitente. Garat, o che solo volesse scoprire le vere intenzioni del re o che credesse intimorirlo, gl'intimava, non senza le solite parole superbe, che disarmasse e riducesse l'esercito allo stato di pace. Dispiacquero e la domanda e la forma di lei; se ne dolse il napolitano governo al direttorio addomandandolo del richiamo di Garat. Aggiunse ch'egli si era mescolato coi novatori, dando loro promesse e stimoli troppo poco convenienti alla qualità di ambasciatore. Il direttorio, che non era ancor ben sicuro delle cose di Egitto e d'Europa, richiamava Garat, mandando in iscambio Lacombe Saint-Michel, con mandato che temporeggiasse ed accarezzasse; poi, quando fosse venuto il tempo, fortemente insistesse perchè Napoli cessasse da ogni preparamento ostile e si rimettesse nuovamente nella condizione di pace. Dal canto suo il re che non vedeva fra tante cupidigie e tante fraudi altra salute per lui che l'armi, non solo non cessava da loro, ma ogni giorno vieppiù le aumentava. A questo, dopo avute le novelle di Egitto, tanto più volentieri e più pertinacemente si risolveva, quanto più non gli era ignoto che la Francia era contro di lui molto sdegnata per aver fatto solenni dimostrazioni di allegrezza alla fama della vittoria acquistata dagl'Inglesi ad Abukir. Ferdinando stesso era andato ad incontrar sul mare Nelson vittorioso, quando se ne venne a Napoli per racconciar le navi rotte nella battaglia: ed il condusse al suo palazzo a guisa di trionfatore fra l'accolta moltitudine, che non cessava di gridare: _Viva Nelson! Viva l'Inghilterra!_ Poi gli fece copia, a racconcio delle navi, delle sue armerie ed arsenali. In questo mezzo tempo le macchinazioni inglesi avevano sortito l'effetto loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi avevano avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni delle corti europee presso al Divano avevano per modo operato, che la Porta Ottomana si era scoperta nemica della Francia e le aveva intimato la guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di tutta Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la Francia. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore avea fondato, cessato il terrore si accostava alla sua ruina. Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre a questo che tutte le genti franzesi che allora erano in Italia raccolte insieme non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che i repubblicani già inferiori di numero erano dispersi qua e là ne' presidii della Cisalpina, dello Stato veneto, del Piemonte e della Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter far la guerra da sè con frutto contro la Francia, senza aspettare il tempo in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria e la Russia, avrebbero potuto venire in soccorso. A ciò vieppiù il confortavano e le flotte confederate della Russia e della Turchia, che venivano contro gli occupatori delle isole veneziane, e la presenza di Nelson, incitatore e sperato coadiutore alla guerra, e Malta ribellatasi dai Franzesi, e la cupidigia di aver Fermo con alcune altre terre della Marca, e la speranza d'aversi a liberare dalle pretese della santa Sede pel benefizio della sua ristaurazione in Roma. Il re, risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Franzesi quello a che sapeva ch'ei non potevano consentire, e questo fu sgombrassero da tutti gli Stati pontificii, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente colle principali potenze d'Europa, rispose risolutamente di non poter consentire alle domande, giudicando benissimo che l'inchinarsi a tali condizioni era peggio di perdere tre battaglie campali. Per la qual cosa pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto ai confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi sdegnato per la occupazione dello Stato Romano e di Malta, bandiva al mondo aver preso le armi per allontanare da' suoi dominii ogni danno e pericolo, per restituire il patrimonio della Chiesa al suo vero e legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non volere muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla sicurezza ed all'onore della religione. Dalle parole trapassava tosto ai fatti; partito l'esercito in tre parti, marciava alla volta delle romane terre. Era venuto per consigliare il re nelle faccende di guerra il generale austriaco Mack, mandato a questo fine dall'imperatore Francesco. Aveva egli in tale modo ordinato l'assalto dei nemici, che la più grossa schiera condotta da lui medesimo avendo con sè il principe ereditario di Napoli, per la strada degli Abruzzi se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si mostrasse favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di una cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era stata rimandata a rinforzare Corfù minacciata dalle armi ottomane e russe. Era suo intento che questa schiera tagliasse il ritorno ai Franzesi verso la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata dal re, che aveva con sè per moderatore Colli, aveva carico di far impeto direttamente contro Roma serbata espressamente al trionfo del re Ferdinando. Ma pensiero di colui che aveva ordinata tutta questa macchina militare, era altresì di tagliare la strada ai Franzesi per la Toscana. Fu quest'opera commessa ad una terza schiera sotto i comandamenti del generale Naselli; la parte più grossa di lei posta su navi inglesi e portoghesi governate da Nelson, s'incamminava ad occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo distante dalle genti che accennavano a Roma, si era dato opera che la minor parte che obbediva al conte Ruggero di Damas, fuoruscito franzese, radendo i lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare quei luoghi della Toscana che portano il nome di Presidii. Per tal modo ordinato il disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet, nelle mani del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in quelle parti, aveva con sè poche genti; nè certamente bastevoli a far fronte a tanta moltitudine, se i soldati napolitani fossero stati pari a' suoi per perizia e per valore; conciossiacchè non avesse con lui che cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni, due compagnie artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila soldati. Erano per verità alcuni reggimenti italiani, ma ei aveva sopra di loro poco fondamento. Il dì 23 novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già la schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane che le si pararono avanti, si avvicinava a Terni. Mandava Championnet domandando a Mack qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra contro Francia. Rispondeva questi con troppo maggior alterigia che se gli convenisse. Replicava modestamente Championnet. Intanto non vedendosi, pel picciol numero de' soldati sparsi in luoghi lontani, pari al resistere a tanta piena nè a custodire tanta larghezza di paese, raccoglieva i suoi e li mandava a far capo grosso a Civita Castellana. Ma, udendo che i Napolitani erano stati ricevuti in Livorno, che Viterbo e Civitavecchia si levavano a rumore, che Ruggiero di Damas arrivava sui confini fra lo Stato ecclesiastico e la Toscana, soprattutto sentendo che Mack, sebbene valorosamente e non senza grossa strage de' regi combattuto dal generale Lemoyne, s'era impadronito di Fermo e già accennava ad Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in su per le vie del Tevere, e piantò i suoi alloggiamenti in Perugia, perchè temeva che il generale napolitano gli tagliasse le strade dell'Apennino, per cui poteva avere il suo ricovero sulle terre della Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva tutte le sue sparse genti e vi trasferiva anche il governo romano che aveva abbandonato per la forza di quell'accidente improvviso, la sua sede, lasciando Roma sicura preda de' regi. Trovarono qualche aderenza di popolo nello Stato pontificio, come era accaduto a Viterbo ed a Civitavecchia; ma generalmente poco si muovevano; anzi in alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono virilmente in favor de' Franzesi e diedero loro campo di ridursi a salvamento. Entrava Ferdinando trionfando in Roma il dì 29 di novembre, il seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano i primi capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita rapidamente sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità che dall'amore, gli fece feste e rallegramenti d'ogni sorta: le romane e le napoletane grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Ma non andò gran pezza che si accorsero come avessero cambiato di signore e non di servitù. Si incominciava intanto a trascorrere in vituperii, ed in fatti peggiori de' vituperii, contro coloro che avevano seguitato il governo nuovo, chiamandoli il popolo atei e giacobini. I vituperii poi ed i mali trattamenti trascorrevano, come suol avvenire in simili casi, dai nocenti agl'innocenti, e si manomettevano i giacobini per odio pubblico, i non giacobini per odii privati. S'incominciava a far sangue e a demolir case. S'interpose Ferdinando e fe' cessare i tumulti. Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed autorevoli, che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli, il marchese Massimi ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il romano, non stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il prezzo del pane; il che fece una grande allegrezza. Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i Napolitani che i Franzesi. Portarono le logge del Vaticano dipinte da Raffaello, risparmiate ed anche rispettate dai Franzesi, lungo tempo le vestigia della barbarie delle soldatesche napolitane. Nè i quadri si risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti fuggiti alla rapacità degli agenti del direttorio. Da tale enormità nacque che il popolo cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti dei partigiani del papa diventavano partigiani franzesi. Tali erano le opere napolitane in Roma, ma poco durarono, perchè era fatale che in quella nobile e sventurata Roma un dominio insolente in brevissimo giro di tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti vedremo in progresso. Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo dominato in Liguria ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi dominare per l'alleanza, condizione peggiore della prima, se gli sfrenati modi non si cambiano, perchè quella comporta per sè ogni cosa, questa dovrebbe avere moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì 29 di marzo, per forza dall'ambasciatore ordinario Visconti, volontieri dall'ambasciatore straordinario Serbelloni, un trattato d'alleanza fra le due repubbliche Franzese e Cisalpina, i cui principali capitoli furono i seguenti: che la repubblica Franzese riconosceva come potenza libera ed indipendente la Cisalpina e le guarentiva la sua libertà, la indipendenza e l'abolizione di ogni governo anteriore a quello che attualmente la reggeva; che vi fosse pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi fosse alleanza, e che la Cisalpina stesse così per le difese come per le offese a favore della Francia; che la Cisalpina, avendo domandato alla Franzese un corpo che fosse bastante a conservare la sua libertà, indipendenza e quiete, e così pure a preservarla da ogni insulto da parte de' suoi vicini, si era convenuto fra le due repubbliche, la Francia manterrebbe nella Cisalpina, per tanto tempo per quanto non fosse altrimenti convenuto ventidue mila fanti, due mila cinquecento cavalli, cinquecento artiglieri sì a piè che a cavallo, e che la Cisalpina pagasse alla Franzese ogni anno dieciotto milioni di franchi; che obbedissero queste genti, e così ancora quelle della Cisalpina, ai generali franzesi. L'ambasciatore Visconti, siccome quegli a cui pareva che questo trattato significasse tutt'altra cosa piuttosto che alleanza ed indipendenza, non li voleva consentire. Ma ebbe ad udire dal ministro di Francia il suono di queste parole, che la repubblica Franzese avendo creato la Cisalpina, poteva anche distruggerla se volesse. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e sottoscrisse il trattato. Arrivato questo accordo in Cisalpina vi sorse uno sdegno grandissimo: i consigli legislativi nol volevano ratificare. Tuttavia promesse e minaccie operavano in modo che i consigli ratificarono, non senza però molti discorsi contrarii e molta discordia. Gli amatori dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori nascevano nella repubblica. Si aggiunse che i due quinqueviri Moscati e Paradisi e nove dei consigli legislativi che più degli altri si erano versati al trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal direttorio di Francia. Di più si fe' dire e stampare che fossero fautori dell'Austria e nemici della Francia; delle quali allegazioni si può dire ch'è dubbio se sieno o più ridicole o più false. Ma la persecuzione non si rimase alle parole, perchè alcuni degli oppositori furono anche carcerati. Si conturbavano le menti a questi eccessi; si temevano cose peggiori. In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina, mandato dal direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvè, giovane di spirito e che faceva professione di amare la libertà. Si sollevavano gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta un ministro di Francia presso quello Stato nuovo, ed ognuno si stava ansiosamente aspettando che cosa portasse. Fu l'ingresso di Trouvè al direttorio cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della Francia magnificamente, della Cisalpina amorosamente. Rispondeva all'ambasciatore di Francia con pensieri adulatorii e lingua italiana sucidissima il presidente del direttorio Constabili; il linguaggio stesso disvelava la debolezza degli animi la servitù dello Stato. Scriveva sulle prime, cioè il dì 30 maggio, Trouvè a Birago, ministro degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per modo che il governo cisalpino facesse rivoluzioni rigorose contro i fuorusciti franzesi che si erano ricoverati nel territorio cisalpino; rispose il cisalpino ministro all'ambasciatore di Francia, che il direttorio cisalpino purgherebbe la terra della libertà da quegli uomini immorali, come li qualificava per consuonare alle frasi del ministro franzese, contaminati ed ipocriti. Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciatore nella sua mente e per sè e per comandamento di chi il mandava. Tra per l'opposizione tanto gagliarda che era sorta nei consigli contro il trattato d'alleanza, e per la condotta che tenevano i libertini sinceri, operando che l'odio contro i Franzesi moltiplicasse ogni giorno, divenne certo pel direttorio che se non domava quei partigiani tanto risentiti di libertà e d'indipendenza, la sua superiorità in Cisalpina sarebbe sempre stata incerta e vacillante. Parve adunque che fosse arrivato il tempo per la Francia di aggravar la mano e di porre il freno, perchè per la pace fatta con l'imperadore d'Austria essendo passata la stagione di fomentar le rivoluzioni in Lombardia, pensava che alla sicurezza sua in Italia, così in pace come in guerra, si appartenesse di farsene un appoggio introducendosi un vivere più quieto e che più piacesse ai più ricchi e notabili cittadini. Per la qual cosa Trouvè fece in casa sua un'adunanza segreta in cui si esaminarono i cambiamenti da farsi nella costituzione cisalpina. Era il progetto di ridurla a forma più aristocratica con diminuire il numero dei consigli, e così ancora quello dei dipartimenti e dei magistrati distrettuali. Si voleva altresì accrescer forza al direttorio, perchè si era non senza ragione osservato, che egli si trovava nella costituzione molto impari ai due consigli e quasi schiavo loro. Con questo si voleva frenare la libertà della stampa e serrare i ritrovi politici, per la quale e pei quali i pensieri buoni si facevano cattivi per la esagerazione, i cattivi peggiori per l'impeto. Ebbero i democrati ardenti avviso del disegno da un Montaldi rappresentante, che, chiamato alle congreghe segrete nè approvandole, aveva svelato ogni cosa al consiglio dei giovani. Il rumore fu grande; le parole nei ritrovi non ancora chiusi, gli scritti nelle gazzette non ancora frenate, erano in gran numero. Grande impressione massimamente fece nel pubblico una orazione che sotto il nome supposto di Marco Ferri, fu composta, data segretamente alle stampe e sparsa copiosamente in ogni parte della Cisalpina da un giovane piacentino, che aveva già stampato in Milano molte cose con non poca lode. Grave e forte orazione era questa; sì che sentendo molto gravemente Trouvè il fatto, condottosi in pompa al direttorio, il richiedeva con parole aspre ed imperiose dell'arresto dell'autore dell'orazione, per avere, come diceva, insultato la repubblica di Francia. Gii fu risposto non trovarsi in Milano i caratteri di tale stampa, esser venuta di fuori; cercherebbero, farebbero, non si dubitasse; ma se la passarono con parole, perchè il direttorio non ancora riformato amava il moto dell'oratore. Intanto rimostrarono i consigli legislativi, rimostrò il direttorio, mandando anche un uomo a posta a Parigi. Vi andò eziandio espressamente il generale Brune, che era succeduto a Berthier, per rimostrare, perchè gli piacevano i governi più popolari e faceva professione di amatore ardente di libertà. Tutto fu indarno; Trouvè, al quale il direttorio portava molta affezione, mandava ad effetto le accordate deliberazioni. La notte del 30 agosto chiamava in sua casa centodieci rappresentanti, che non erano la metà di tutti: leggeva la nuova costituzione e le nuove leggi. Le approvarono, chi per amore e chi per forza, perchè aveva intimato loro che tale era risolutamente la volontà del direttorio di Francia, e che se non l'accettasse di buon grado, lo avrebbe eseguita per forza. Non ostante alcuni ricusarono e sdegnati si ritirarono. Il giorno seguente l'opera si recava ad esecuzione. Le soldatesche circondavano la sede dei consigli, ributtavano con le baionette i rappresentanti non eletti dalla riforma, cacciavano dal direttorio Savoldi e Testi; si surrogavano Sopransi e Luosi; i rappresentanti renitenti scacciati dai consigli; Fantoni, Custodi, Borghi, capi degli altri, posti in carcere. La forza predominava. Fece Trouvè la nuova costituzione e finalmente dichiarò, parendogli di aver operato abbastanza e bene solidato l'imperio franzesein Lombardia, rimettere di nuovo l'autorità legislativa nei consigli. In tale guisa venne fatta una riforma negli ordini della Cisalpina, buona in sè, viziosa pel modo. Ed ecco una scena; una gran turba seguitava Ranza gridando: «Che vuol Ranza, che scartafaccio è quello?» Lo scartafaccio era la costituzione disfatta da Touvè, che Ranza vestito a lutto andava a seppellire nel campo del Lazzaretto. Brune, ch'era tornato a Milano, si mostrava scontento. Il direttorio che lo voleva mitigare, richiamava Trouvè, dandogli scambio con Fouchè. Le assemblee popolari che chiamavano i comizii, accettavano la costituzione di Trouvè. I democrati non se ne potevano dar pace, ma tra l'accettare e il non accettare non era differenza; la forza forestiera reggeva lo Stato. Non piacquero al direttorio nè Fouchè ne Brune. Mandava a Milano Jubert, invece di Brune, Rivaud invece di Fouchè, strano inviluppo di uomini e di leggi tante volte mutate in pochi mesi da chi reggeva il mondo con la forza e la forza col capriccio. Non si mescolava Jubert, uomo generoso e magnanimo, nelle riforme. Ricominciava Rivaud l'opera di Trouvè. La notte del 7 dicembre cingeva con soldatesche il corpo legislativo, che stava deliberando sulle macchinazioni che si ordivano. Poi la mattina le baionette straniere cacciavano a forza i legislatori eletti da Brune, rimettevano in carica il direttorio Adelasio, Luosi e Sopranzi cacciati da lui. Fu imprigionato Visconti; frenata la stampa, serrati i ritrovi; minacciaronsi i fuorusciti napolitani di espulsione, i democrati cisalpini di carcere, se non moderassero le lingue e gli scritti. Divenne Rivaud padrone della Cisalpina. I democrati lo volevano ammazzare, e dipingevano nei loro scritti contro di lui non sapresti che coltello di Bruto; ma non fu nulla. In questa guisa la Cisalpina, tra la rabbia dei democrati, le speranze degli aristocrati la prepotenza delle soldatesche forastiere, il timore di tutti, se ne stava aspettando i nuovi assalti dell'Austria. Delle raccontate mutazioni fatte in Cisalpina per modo sì violento levarono un grandissimo romore in Francia coloro che, o sedendo nei consigli legislativi o con le stampe addottrinando il pubblico, contrastavano al direttorio; e i cambiamenti stessi, fatti per forza di soldatesche, diedero molto a pensare ai Cisalpini e generalmente a tutti gl'Italiani. Si persuasero facilmente che la Francia tutt'altra cosa voleva piuttostochè l'indipendenza loro, e che, dalle parole in fuori, ch'erano veramente magnifiche, essi erano destinati a servitù. Allora s'accorsero ch'era per loro diventato necessario, seppure liberi e indipendenti volevano essere, il camminare con le proprie gambe, e por mano essi stessi a quello che per opera dei forastieri non potevano sperar d'acquistare. Sorse in quel punto specialmente una setta, la cui sede principale era in Bologna, e che siccome da Bologna, come da centro, spandeva a guisa di raggi tutto all'intorno negli altri paesi d'Italia le sue macchinazioni, così fu chiamata Società dei Raggi. Voleano costoro la libertà e l'indipendenza d'Italia contro e a dispetto i di tutti, e queste cose vigorosamente tramavano ed i semi ne spargevano; ma vennero poco dopo i tempi grossi e le rotte dei Franzesi per le quali tutti questi intendimenti diventarono vani. Nondimeno le operazioni di Lahoz, che in progresso si leggeranno, furono, come immediato effetto, così piccola parte di questa vasta macchinazione. Passando ora alle cose di Sardegna, il re, serrato da ogni parte dalle armi di Francia, aveva posto l'unica speranza nella sincerità della sua fede verso il direttorio; non che nel più interno dell'animo non desiderasse altre condizioni, perchè impossibile è che l'uomo ami il suo male, ma vedeva che era del tutto in potestà dell'oppressore il sovvertire i suoi Stati prima solo che l'Austria il sapesse. Così la repubblica di Francia voleva la distruzione del re, sebbene s'infingesse del contrario, ed il re voleva serbar fede alla repubblica, quantunque altri desiderii avesse. Reggeva il Piemonte il re Carlo Emmanuele IV, principe religiosissimo e di pacata natura, ma poco atto a destreggiarsi in un secolo tanto rotto e sregolato. In mezzo agli umori che regnavano in Italia per formarne, mutati gli ordini politici in Piemonte, una sola repubblica, come alcuni bramavano, o veramente due, dell'una delle quali fosse capo Milano, dell'altra Roma, era arrivato l'ambasciatore di Francia Ginguenè a Torino. Era Ginguenè uomo di tutte le virtù, ma molto incapriccito in su quelle repubbliche, non vedendo bene alcuno se non negli Stati repubblicani. Di fantasia vivacissima ed essendosi poi molto nodrito degli scrittori italiani, e specialmente di Macchiavelli, si era egli dato a credere che l'Italia fosse piena di Macchiavelli e di Borgia, ed aveva continuamente la mente atterrita da immagini di tradimenti, di fraudi, di congiure, di assassinii, di stiletti e di veleni. Con questi spaventi in capo, veduto prima il ministro Priocca in cui scoverse, come diceva, non so che di perfido al ridere, faceva il suo primo ingresso al re. Solito alle accademie, solito ai discorsi al direttorio e del direttorio, poichè l'età fu ciarliera oltre ogni credere, si aveva Ginguenè apparecchiato un bello e magnifico discorso, non considerando che quello non era uso di corte in Torino, e che se gli apparati di lei sono magnifici, il re se ne vive con molta modestia. Traversate le stanze piene di soldati bene armati e di cortigiani pomposi, entrava Ginguenè in abito solenne e con una sciabola a tracollo nella camera d'udienza dove si trovò solo col principe. Stupì l'ambasciator repubblicano in vedendo tanta semplicità nel sovrano del Piemonte. Avrebbe dovuto, siccome pare, deporre il pensiero di recitare il discorso, perchè e le adulazioni ed i rimproveri erano ugualmente, non chè intempestivi, inconvenienti. Pure, ripreso animo, il recitava al re. Al discorso squisitissimo del repubblicano non rispose il re, non essendo accademico. Bensì venne sull'interrogare del buon viaggio e della buona salute dell'ambasciatore; poi toccò delle infermità proprie, e della consolazione che trovava nella moglie, ch'era sorella di Luigi XVI re di Francia. A questo tratto ripigliando Ginguenè le parole, disse che ella aveva lasciato in Francia memorie di bontà e di virtù. Si allegrava a queste lodi della regina il piemontese principe, e mettendosi anch'egli sul lodarla, molto affettuosamente spaziò nel favellare delle virtù e della bontà di lei. Poi seguitando venia dolendosi del mancar di prole: Non ne ho, diceva, ma mi consolo per la virtuosa donna. Ritiratosi dalla reale udienza l'ambasciator di Francia, e, sebbene fosse molto acceso sulle opinioni repubblicane di quei tempi, si sentì non pertanto assai commosso ed intenerito a tanta bontà, semplicità e modestia del sovrano del Piemonte. Frequentavano la casa dell'ambasciatore di Francia i desiderosi di novità in Piemonte, i quali, standogli continuamente a' fianchi, gli rapportavano le più smoderate cose del mondo, mescolando il vero col falso sulle condizioni del Piemonte e sulla facilità di operarvi la rivoluzione; e siccome questi rapporti andavano a' versi delle sue opinioni, così egli se li credeva molto facilmente. Per la qual cosa sentiva egli sempre sinistramente del governo, e, volendo tagliarvi i nervi, insisteva con istanza presso il direttorio, acciocchè sforzasse il re a licenziare i suoi reggimenti svizzeri, che tuttavia conservava a suoi soldi. Mentre da una parte l'ambasciator di Francia dava animo ai novatori, vedendoli volentieri e dando facile ascolto ai rapportamenti loro, e dall'altra voleva che si disarmasse il re con licenziare gli Svizzeri, i mali semi producevano in Piemonte frutti a sè medesimi conformi. Sorgevano in più parti moti pericolosi suscitati da gente audace con intendimento di rivoltar lo Stato. Il più principale pel numero e pel luogo ed il più pericoloso si mostrava in Carrosio dove erano concorsi oltre un migliaio i fuorusciti piemontesi. Circa due mila soldati liguri, partitisi improvvisamente dai soldi della repubblica, ed usciti da Genova senza ostacolo, andarono ad ingrossare a Carrosio la squadra dei Piemontesi. Capi principali del moto erano uno Spinola, nobile, Pelisseri e Trombetta popolani, gente oltre ogni modo ardita ed intenta a novità. Un Guillaume ed un Colignon franzesi erano con loro. Nissuno pensi che uomini incitatissimi abbiano mai pubblicate cose più immoderate contro i re di quelle che costoro mandarono fuori contro quel di Sardegna. Dalle parole passavano ai fatti e con infinita insolenza procedendo, svaligiavano i corrieri del re con tor loro i dispacci. Fatti poscia più audaci dal numero loro che ogni giorno andava crescendo, marciarono armata mano contro Serravalle, la quale combattuta vanamente ed assaliti gagliardamente dalle genti regie, se ne tornavano con la peggio. Parecchi altri assalti diedero alla medesima fortezza con esito ora prospero ed ora avverso. Così la guerra civile ardeva sulle frontiere del Piemonte. Si moltiplicava continuamente il dispiacere che riceveva il re dalle sommosse democratiche; infatti il prenunzio di romori di verso la Cisalpina non riuscì vano: un corpo assai grosso di repubblicani Piemontesi, non senza intesa del governo cisalpino e del generale Brune, in Pallanza, sul lago Maggiore adunatosi, minacciava d'invasione l'alto Novarese, e faceva le viste di volersi calare, se trovasse l'adito facile e la fortuna propizia, fino a Vercelli. Reggevano come capi principali questo moto Seras, originario del Piemonte, ma ai soldi di Francia ed aiutante di Brune, ed un Lèotaud franzese, con un Lions franzese ancor esso, aiutante di Lèotaud. Si scopriva la fortuna favorevole ai primi loro conati; s'impadronirono della fortezza di Domodossola; vi trovarono alcuni cannoni, opportuno sussidio per loro, e se li menarono per servirsene contro le truppe della parte contraria. Una terza testa di repubblicani armati era discesa da Abriez nelle valli Valdesi, e già aveva occupato Robbio ed il Villard, ed accennava a Pinerolo. Trovavasi il governo regio travagliato da tutte le parti, e temeva che il cuore stesso del Piemonte, che tuttavia perseverava sano, avesse a fare qualche movimento contrario. Amico nissuno aveva se non lontano ed inabile ad aiutarlo; i vicini, cioè la Francia, la Cisalpina e la Liguria, sotto specie di amicizia, ordivano la sua ruina, fomentando i moti. Pure intendeva all'onore se alla salute più non poteva, e faceva elezione, giacchè si vedeva giunto alfine, di perire piuttosto per forza altrui che per viltà propria. Pubblicava il re in mezzo a sì rovinosi accidenti un editto, in cui, mostrando fermezza d'animo uguale al pericolo, diè a vedere che maggior virtù risplende in chi serba costanza a difender sè stesso nelle avversità, che in chi assalta altrui con impeto nelle prosperità. Non ignorava però il re che la rabbia e la ostinazione delle opinioni politiche non lasciano luogo alle persuasioni. Laonde, facendo maggior fondamento sulle armi che sulle parole, aveva mandato sul lago Maggiore parecchi reggimenti di buona e fedele gente, affinchè combattessero i novatori dell'alto Novarese, e, ritogliendo dalle loro mani Domodossola, la restituissero al dominio consueto. Medesimamente mandava truppe sufficienti contro gl'insulti dei Carrosiani. Pinerolo si empiva di soldati per frenare e spegnere l'incendio sorto nelle valli dei Valdesi. Ma il fondamento di tutto consisteva nel modo in cui la repubblica di Francia sentirebbe queste piemontesi sommosse; perchè s'ella le fomentava, era impossibile il resistere. A questo fine insisteva fortemente il ministro Priocca presso a Ginguenè, acciò dichiarasse qual fosse veramente negli accidenti presenti l'animo del governo franzese. Gli estremi lamenti che ei faceva sentire della cadente monarchia piemontese, non erano certo segni di animo doppio e non sincero; che anzi la sincerità era tale, che non solamente induceva persuasione nella mente, ma ancora muoveva vivamente il cuore. Rispose Ginguenè con sincerità e con parole degne, non di lui, ma del direttorio; ed al suo dire aggiungeva rimprocci sul modo con cui il governo piemontese reggeva i suoi popoli, favellando degli abusi che gli scontentavano, dei rigori usati, dell'angustia delle finanze, del caro dei viveri, della insopportabile gravezza delle imposizioni. Concludeva che i moti di sedizione non portavano con sè alcun pericolo, se niuna radice avessero nella propensione dei popoli; ma che bene era da temersi, che i Piemontesi, la nobiltà in fuori, desiderassero esito felice alla impresa dei sollevati: chè però esortava preoccupassero il passo e prevenissero la rivoluzione col dare spontaneamente al popolo tutto che si prometteva dalla rivoluzione. In mezzo a tante angustie del governo regio, Ginguenè, come se desiderasse torgli non solo la forze, ma ancora la mente ed il tempo di deliberare sulle faccende più importanti, non cessava di travagliarlo con importune richieste, muovendolo a ciò fare parte i comandamenti del direttorio, parte i proprii spaventi. Chiedeva perciò ed instantemente ricercava Priocca, operasse che il re cacciasse da' suoi Stati i fuorusciti franzesi, ed ancora proibisse, sotto pena di morte gli stiletti e le coltella. Voleva altresì, e minacciava il re se nol facesse, che disperdesse i Barbetti che infestavano le strade ed assassinavano i Franzesi. Schermivasi Priocca con ottime ragioni, ed affermava che il governo regio, per quanto stava in lui, fosse molto vigilante a render sicuri i Franzesi in Piemonte, e quello che diceva anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno che, secondo gli umori o alla prima favola raccontata all'ambasciator di Francia dai democrati che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a domandare anche con termini molto imperativi, la liberazione degl'incolpati. Tra questi è famoso il fatto di un Ricchini, detto per soprannome Contino, che Ginguenè a nome del direttorio richiese solennemente al re, ed il re lo satisfece dell'effetto, dandogli incontanente e senza difficoltà l'uomo accusato d'assassinio di un Franzese. I terrori di Ginguenè erano anche fomentati dalle esorbitanze dei democrati più ardenti, i quali, veduto che i Franzesi a tutt'altro pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler camminare da sè ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandoli di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, presa occasione d'un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i ministri che si trovavano alle stanze in Torino, si misero a dire le cose più smodate che uomo immaginarsi possa. Nè contenti alle parole mandarono attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguenè. Egli era espresso in questa forma: «Popoli della terra, e voi massimamente patriotti ed amici sinceri della libertà e dell'umanità, ascoltate le mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i diritti degli uomini in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno che a loro voleva opporsi, ella ha rovesciato il suo trono, ella ha disperso tutte le forze dei confederati di Europa, ch'erano accorsi in suo aiuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti perchè ha trovato dappertutto uomini che e conoscerono la giustizia della sua causa, e non esitavano a dichiarirsi per lei contro la tirannide. Si era la Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti i popoli e promettendo di aiutar quelli che com'ella portassero odio ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo ch'ella si è proposto è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna stima i popoli, i tiranni soli le stanno a cuore. Ella se ne sta tranquillamente rimirando le carnificine dei patriotti, e si rallegra del trionfo dei despoti. Gli agenti che manda presso a loro per compiacere al loro orgoglio e per istringere gli empi nodi della loro amicizia, invece di vestirsi a lutto per la morte degli amici della libertà, celebrano feste scandalose e bevono nelle medesime coppe dei tiranni. Il sangue di coloro che amici della libertà si protestano, scorre a rivi e dilaga sovra una terra fatta per esser emola della patria loro. Ciò non ostante e' non si risolvono ad abbandonarli. Gli splendori del trono li rendono spettatori insensibili dell'orribile ecatombe immolata a piè della tirannide. E col nome di amici dei popoli si chiamano! Col nome di amici dei popoli si chiamano essi, cui la guerra civile con tutte le sue orribilità non turba, essi che l'oro dei tiranni corrompe! Popoli della terra ascoltate le voci d'un uomo che è spettatore di tante scelleraggini e che ne pruova un dolore orribile. Ardete le dichiarazioni fraudolente dei diritti dell'uomo ch'eglino vi hanno portato. Chiudete gli occhi alla luce che risplende dal tempio della libertà, fate lega coi vostri tiranni, servite ai capricci loro, abbracciate sinceramente la causa loro, o perirete. La Francia non atterra più troni; essa li difende: essa vuol fare ammenda dell'insulto fatto alla tirannia: con una mano opprime i popoli ai quali per suo proprio interesse dà la libertà, dall'altra tutela i tiranni che divorano i popoli servi. Le spoglie degli uni e degli altri appena bastano a saziare l'immensa sua cupidigia. Popoli, ancora un lustro, e non vedrete più nella deserta Europa, salvo che in Francia, che tiranni e ruine.» Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato e principalmente diretto contro Ginguenè, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto la mente inferma, del cammino a cui si andava con questi amatori della libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse aspettare. Intanto tutta l'ambasceria di Francia ne era mossa a rumore. Ginguenè prese contegno con Cicognara; poi ne scriveva al direttorio, con molta istanza pregandolo operasse efficacemente col direttorio cisalpino affinchè Cigognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in ciò andarvi la salute della Francia. L'ecatombe mentovata nello scritto fu quella della battaglia combattuta tra Gravellona ed Ornavasso, nella quale prevalendo alla fine i regi prima perdenti, i repubblicani assaliti di fronte e da tergo e soprafatti dal numero soprabbondante degli avversarii che su quel punto si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono in rotta, nè fu più possibile ai capi di rannodarli. Centocinquanta repubblicani perirono nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori. Cento furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo la battaglia, in poter dei regi. I superstiti furono condotti nel castello di Casale, dove si fecero loro i processi militarmente; trentadue condannati a morte. In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi. Mancava al cupo ravviluppamento dei tempi che si accagionassero dal governo di Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di essero loro medesimi gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguenè con instanti parole descritto al suo governo i supplizii dei Piemonte. Il direttorio, che poteva veramente intromettersi per umanità, amò meglio mescolarvi le accuse e l'inganno. Scriveva il dì 17 maggio Taleyrand a Ginguenè, che i moti d'Italia, quelli soprattutto ch'erano sorti in Piemonte, mostrandosi con sembianza minacciosa e molto pericolosa, era venuto il direttorio in una risoluzione definitiva; che sapeva il direttorio di certa scienza che si era ordita una congiura col fine di far assassinare tutti i Franzesi in Italia; che sapeva ugualmente che moti sediziosi si fomentavano a questo fine in ogni parte, acciocchè i soccorsi di Franzesi essendo addomandati al tempo medesimo in luoghi diversi, le loro forze per la spartizione si indebolissero e fosse per tal modo fatto abilità agli assassini di ucciderli. Sapeva finalmente che non contenti al dare compimento a sì scellerato proposito, volevano ancora imputarlo a coloro che si credevano amici della Francia, affinchè la morte loro si rendesse più sicura. In tanta complicazione, come diceva, di preparati delitti, faceva Taleyrand sapere a Ginguenè che il direttorio aveva risoluto di salvare e l'Italia e i Franzesi e gli amici della repubblica dai mali che loro sovrastavano; gl'intimava pertanto che si appresentasse al governo del re, della orribile cospirazione favellando tanto evidentemente tramata dalle potenze straniere e nemiche della Francia, e dimostrasse volere il governo franzese risolutamente ch'ella e per cagioni e per pretesti intieramente fosse diradicata; volere che prima di tutto offerisse il governo del re indulto leale ed intiero a tutti i sollevati sì veramente che le armi deponessero, ed alle case loro ritornassero; volere che il re adoperasse le sue forze contro i Barbetti che desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti i mezzi per fare che le strade tra Francia e Italia fossero libere e sicure. A queste condizioni, e per allontanare il timore che le repubbliche Cisalpina e Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe il direttorio la sua autorità, perchè si mantenessero in quiete. Ordinerebbe anzi a Brune che apertamente ed espressamente comandasse ai sediziosi che disolvessero le bande loro e si ricomponessero nel riposo. Caso importante ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro di Francia, le anzidette condizioni, perchè tanti giudizii arbitrarii, tanti supplizii crudeli contro uomini raguardevoli per virtù e per dottrina, e che solo parevano essere stati condotti alla ora estrema, perchè erano amatori della repubblica Franzese, non permettevano che si proponesse indugio. Se il governo sardo non accettasse le condizioni offerte, si renderebbe manifesto esser lui, non più vittima, ma complice delle sedizioni, cui fomenterebbe in segreto fingendo di temerle in palese. Del resto badasse bene Ginguenè a non chiamare mai i sediziosi patriotti, ma sì sempre amici della Francia. Fece Ginguenè molto efficacemente il dì 24 di maggio l'ufficio. Vi aggiunse di per sè parecchie parti. Ma parendo allo ambasciatore che lo sforzare il re a perdonare ai ribelli e di chiamare amici di Francia coloro che macchinavano contro il suo Stato, forse anche contro la sua vita, non bastassero a costituirlo in compiuta servitù, voleva ed instava presso al direttorio che la Francia doveva avere piena ed assoluta autorità in Piemonte, che per propria sicurezza ella doveva forzare il re a cambiare i suoi ministri ed a richiamare il conte Balbo da Parigi affermando essere lui l'agente di tutta la confederazione d'Europa in quella capitale. Il governo piemontese stretto da sì vive istanze e mosso da sì gravi minaccie, ordinava il dì 25 di maggio, che si sospendessero sino a nuovo ordine i processi non dei condannati, e si soprassedesse alle pene dei Franzesi che si fossero mescolati nelle ribellioni. Intanto il dì 26 di maggio alle 4 della mattina i fossi di Casale grondavano sangue. Lèotaud, aiutante del generale Fiorella, e Lions aiutante di Lèotaud, ambedue franzesi di nascita, ma non di servizio, con otto altri, parte forastieri, parte Piemontesi, che, per aver combattuto nella battaglia di Ornavasso erano stati condannati a morte, soggiacquero all'estremo supplizio. Fu accusato il governo piemontese, per questo caso, di studiata barbarie; perciocchè diedero veramente a pensare l'ora insolita dei supplizii e la tardità della staffetta apportatrice a Casale dell'ordinato soprastamento: soffermossi nove ore in Torino. Certamente i condannati erano rei; ma pur troppo atroce fu la deliberazione dello avere a bella posta ritardato le novelle ed accelerato i supplizii affinchè la salute arrivasse quando già morte spaziava. Levò Ginguenè pe' due Franzesi morti gravissime querele, minacciò il governo piemontese, scrisse a Parigi, ch'era oggimai tempo di purgar la Francia dal dire calunnioso che si faceva, ch'ella tollerasse le carnificine dei Franzesi e degli amici loro per forza dell'oro mandato a Parigi al conte Balbo. Disfatto il nido dei repubblicani di Pallanza per la vittoria d'Ornavasso, restavano i Carrosiani, che divenivano ogni giorno più molesti. Non ignorava il governo piemontese che i moti di Carrosio avevano più alte radici che quelle dei repubblicani piemontesi, perchè Brune e Sattin segretamente e palesemente li fomentavano. Tuttavia, non volendo mancare al debito degli Stati, si era deliberato di mostrar il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo estremo delle armi contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio, poichè gli era forza traversare il territorio ligure, aveva rappresentato a quel governo che i suoi nemici non avevano potuto condursi a Carrosio senza passare pel territorio della repubblica; che lo stesso facevano per venir ad invadere il territorio piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di Gavi; che quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica, come neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio i nemici di sua maestà che ne abusavano per offenderla, tanto meno dar loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o dissipargli ella medesima o dare alle genti regie quel passaggio stesso ch'ella dava a' suoi nemici. Rispose la repubblica che non consentirebbe mai a dare il passo; solo prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e di allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due parti. Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani ad ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio ligure per andar ad assaltare i regi ed intraprendevano le vettovaglie, che per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e svaligiavano i corrieri. Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto, il mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo Cacherano d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza qualche perizia militare. Avvertiane il governo ligure, avvertiane l'ambasciatore di Francia, avvisando che solo fine della spedizione era di cacciare i sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo dominio, di dar quiete a' suoi Stati. Sentì sdegnosamente l'ambasciatore questa mossa d'armi, e rescrivendo al ministro Priocca, intimava facesse incontanente, se ancor fosse tempo, fermar le genti che marciavano contro Carrosio, perciocchè non fosse possibile di assaltar quella terra senza violare il territorio ligure, la qual violazione non poteva non portar con sè gravi e pericolosi accidenti. Il re, stretto da tanti nemici ed oppresso da chi doveva aiutarlo, non si perdeva d'animo, volendo che il suo fine fosse se non felice, almeno generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la ragione avesse che fare nel dominio della forza. I soldati regi, attraversato il territorio ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio e si facevano padroni della terra. Poscia per maggior sicurezza, munirono di guardie tutte le alture circostanti. A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano si risentirono gravemente; le cose che scrissero sono piuttosto pazze che stravaganti; ma Sottin non si restava alle parole, anzi, accesamente appresso al direttorio ligure instando, operò di modo che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nimico della repubblica e ad intimargli la guerra. Or mentre Sottin spingeva la repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguenè voleva impedire che egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima instanza Priocca a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo degli effetti di questa discordia. Rispondeva il ministro facendo proposizioni che non dispiacevano all'ambasciatore, il quale mandava il suo secretario a Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo piemontese, non aspettate le intenzioni di Brune, volendo o per amare di concordia, o per timore di Francia gratificare all'ambasciatore, aveva operato che le truppe si ritirassero da Carrosio e ritornassero nei dominii piemontesi oltre i confini liguri. Per la ritirata dei regi non cessavano le ostilità; anzi i Liguri, venuti avanti coi novatori piemontesi sotto la condotta del generale Siri, s'impadronirono, dopo violento contrasto della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti, si erano fatti signori di Loano. Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per fare calare il re a quello che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille spaventi. Già Ginguenè, parlando con Priocca, aveva tentato per ogni modo di spaventarlo. Affermava che in ogni parte appariva segni di una feroce congiura contro i Franzesi in Italia; che già Napoli armava; che già lo imperatore empiva gli Stati veneti di soldati; che in ogni parte il fomentavano sedizioni, che in ogni parte con infiammative predicazioni si stimolavano i popoli contro i Franzesi; che questo fuoco covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica Franzese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato d'affari d'Inghilterra? ch'essi potevano dar denari al re, dei quali che uso egli facesse bensì sapeva; che i fuorusciti franzesi, che le macchinazioni dei preti, che le parzialità dei magistrati, che il parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Franzesi della gente in ufficio, non lasciava luogo a dubitare che qualche gran macchina si ordisse contro la Francia. A così gravi accuse rispondeva il ministro, non per persuadere l'ambasciator di Francia, poichè sapeva che non era persuadevole, ma per purgare il suo signore delle note che gli si opponevano; e conchiudeva, che sarebbe stato meglio e più onorevole per la Francia lo spegnere il governo regio, innocente di tutti i carichi che gli si davano non con altro fine che con quello di perderlo, di quello sia il martirizzarlo. Arrivavano per maggiore spavento lettere del ministro degli affari esteri di Francia a Ginguenè che manifestavano uno sdegno grandissimo pei rigori usati, come pensava, contro i sollevati. In mezzo a tanti terrori erano Priocca e Ginguenè venuti alle strette per negoziare sulle condizioni dell'indulto, che il direttorio per pacificare il Piemonte voleva che concedesse ai sediziosi. Avrebbe l'ambasciator di Francia desiderato maggiore larghezza. Ma Priocca, che aveva avuto avviso dal Balbo da Parigi di quanto il governo franzese esigesse, non volle mai consentire ad allargarsi, e convenne con Ginguenè nelle seguenti condizioni: che il perdono comprendesse solamente i delitti politici anteriori e non gli estranei alla sedizione; non guardasse nel futuro, e in modo alcuno non impedisse il governo di usare la sua potenza a mantenimento della quiete; che in terzo luogo i perdonati si allontanassero dal Piemonte con aver tempo due anni a vendere i loro beni, ed in nissun modo, nè con pretesto alcuno ripigliassero le armi contro il re. Brune, al quale Ginguenè aveva annunziato le condizioni dell'indulto, e che evidentemente mirava più oltre che alle servitù del re verso la Francia, non si mostrò contento; che anzi le medesime aggravando, voleva che si domandasse la consegnazione quale deposito, in mano dei Franzesi, della cittadella di Torino. Voleva inoltre che il re licenziasse i suoi ministri, che si negoziasse per lo scambio di Carrosio e pei compensi dovuti alla repubblica Ligure. Quanto alla cittadella, domandassela Ginguenè, e se la domanda gli ripugnasse, domanderebbela egli. Non abborrì l'animo di Ginguenè da sì insolente proposta, benchè se ne potesse esimere, tanto più che gli era pervenuto comandamento espresso da Parigi di non aggravar le condizioni e di stipularle tali quali il governo glie le aveva mandate. Insistè adunque con apposita scrittura appresso il ministro Priocca, notificando che Brune si era risoluto a non accettar le condizioni; e aggiungendo di proprio capo molte esagerazioni sulle cose correnti, conchiudeva che in tale condizione di tempi, e per sicurezza sì del presente che dell'avvenire una sicurtà era necessaria, e quest'era la cittadella di Torino; che questo gran preliminare desiderava la Francia dal Piemonte, utile per ogni lato, dannoso per nissuno; che questa fede del Piemonte appianerebbe la strada a buona concordia: che i democrati armati deporrebbero le armi, vedendo l'indulto guarentito da tale atto; poserebbero la Cisalpina e la Ligure repubblica, e sarebbe la quiete dello Stato stabilmente confermato. Persistettero Ginguenè e Brune nel volere la cittadella, sebbene il ministro Taleyrand scrivesse di nuovo all'ambasciatore che le condizioni non si dovevano aggravare, che la sana politica, la sicurezza, la gloria e gl'interessi del popolo franzese, stante la disposizione d'animo dei potentati d'Europa verso la repubblica, ciò richiedevano dalla Francia; che per questa cagione e per avere Sottin trasgredito questi ordini l'aveva il direttorio richiamato da Genova e soppresso la carica d'ambasciatore presso la repubblica Ligure. In fatti era stato Sottin richiamato per essersi mostrato troppo acceso nello spingere i Liguri alla guerra contro il re di Sardegna. Alla quale deliberazione del direttorio aveva non poco contribuito con le sue istanze e diligenza il conte Balbo a Parigi. A così strana domanda si commosse il governo piemontese, e, già certo del suo destino, elesse di favellare onoratamente, giacchè combattere felicemente non poteva contro una forza tanto soprabbondante. Mandò primieramente il marchese Colli a Milano affinchè facesse opera con Brune che rivocasse la superba domanda. Poscia Priocca scriveva all'ambasciator di Francia parole che potrebbero servir di esempio ai governi ridotti agli estremi casi da chi fa suo dritto la forza. Brune che fomentava le sollevazioni contro il re per ridurlo agli estremi spaventi perchè rimettesse in sua mano la cittadella di Torino, non voleva a modo niuno udire che ella non gli si consegnasse: ed ora spaventando con minaccie di nuove ribellioni, ed ora allettando con isperanze di quiete, se si acconsentisse alla sua domanda, perseverava tenacissimamente nel suo proposito. Invano rappresentavano instantemente in contrario i ministri che in un caso tanto grave ed in cui il generale non aveva avuto da Parigi comandamento alcuno, si rimetterebbero volentieri in arbitrio del direttorio. Si risolvettero finalmente a consentire, in ciò mostrando una debolezza inescusabile a quella condizione che toglieva al re le ultime reliquie della sua dignità e della sua independenza. Stipulavasi il dì 28 giugno a Milano fra Brune da una parte ed il marchese di San Marsano dall'altra un accordo, i principali capitoli del quale erano i seguenti: che i Franzesi occupassero il 3 di luglio la cittadella di Torino; che il presidio franzese di lei non potesse mai passare armato per la città; che il parroco si rispettasse, e liberamente e quietamente potesse esercitare il suo ufficio, nè fosse lecito ad alcuno insultare o cambiare quanto si appartenesse alla religione; che il governo franzese si obbligasse a cooperare alla quiete interna del Piemonte, nè direttamente, nè indirettamente desse soccorso o protezione a coloro che volessero turbare il governo del re; che Brune con atto pubblico ordinasse e procurasse con ogni mezzo che in suo potere fosse, che le cose quietassero sulle frontiere del Piemonte; che in fine usasse il generale tutta l'autorità e tutti i mezzi suoi, perchè ogni ostilità da parte della repubblica Ligure cessasse, la Cisalpina da ogni aggressione si astenesse; e la buona vicinanza e l'antico assetto di cose si ristaurassero. Per tutto questo si obbligava il re a perdonare agli amici di Francia sollevati, a consentire che ritornassero a vivere sotto le sue leggi; se a ciò non si risolvessero, potessero godere i loro beni, o disporne a loro talento; che farebbero finalmente ogni opera, perchè il viaggiar per le strade del Piemonte fosse a tutti libero e sicuro. Per condurre, ad effetto l'accordo di Milano pubblicava il re patenti d'indulto a favore dei sollevati, Brune da Milano il dì 6 luglio pubblicava altre cose, al fine delle quali esortava ed ammoniva tutti gli amici dei Franzesi, che a ciò condotti dalle ingiurie, dalle minacce e dalle persecuzioni della parte contraria, avevano prese le armi per difendere la vita e l'onore, deponessero queste armi e tornassero alle sedi loro, dove troverebbero sicura e quieta vita. Circa quelli poi, minacciava, che tenute in niun conto queste solenni ed amichevoli esortazioni, si adunassero a far corpi armati, non dipendenti dagli ordini dell'esercito franzese o dalle truppe dei governi d'Italia, gli chiamerebbe nemici della Francia, partigiani dell'Inghilterra, autori di sedizioni e come gente di tal fatta li perseguiterebbe. A dì 3 di luglio entravano i Franzesi condotti da Kister nella cittadella di Torino, essendone uscito al tempo stesso il reggimento di Monferrato che la presidiava. Fuvvi dolore pei fedeli, festa pei novatori, sdegno per chi abbominava le violenze e le fraudi. Le curiose donne ed i galanti giovani concorrevano volentieri, essendo il tempo bellissimo, a vedere quest'ultimo sterminio della patria loro. Così, contro la data fede e contro ogni rispetto sì divino che umano, viveva il re di Sardegna sotto le bocche dei cannoni repubblicani di Francia. Al fatto della cittadella i ministri di Russia e di Portogallo e l'incaricato di affari d'Inghilterra instarono appresso ai sovrani loro per aver licenza di ritirarsi da Torino, allegando essere Carlo Emmanuele non più re di Sardegna, ma servo di Francia e l'ambasciator franzese vero e reale sovrano del Piemonte. Comandava il direttorio ai Liguri, per mezzo di Belleville, incaricato d'affari a Genova, cessassero le ostilità: quando no, gli avrebbe per nemici. Obbedirono molto umilmente. Comandava nel tempo stesso, per mezzo di Ginguenè, al re sotto pena di guerra, cessasse dall'armi. Si uniformava Carlo Emmanuele allo intento, non senza però lamentarsi e protestare con forti e generose parole contro quella insolente imperiosità del direttorio. Cessò intanto la guerra sui confini; solo i regi fecero ancora alcune dimostrazioni per ricuperare Loano ed altri paesi perduti nella contesa precedente; le quali sarebbero troppo minuta e fastidiosa narrazione. Ma è ben d'uopo raccontare un fatto orribile in sè, orribile per le cagioni, e forse ancora più orribile per gli autori. Erano i Piemontesi nemici del nome reale tornati a stanziare ed a far massa a Carrosio da poi che il re, per gratificare alla repubblica, aveva ritirato le sue genti da quella terra. Quivi ebbero, non che sentore, certo avviso da quelli stessi che più intimamente assistevano ai consigli segreti di Brune, dell'accordo che si trattava tra Francia e Sardegna per la rimessa della cittadella e per la quiete del Piemonte. Nè parendo loro che quello fosse tempo da perdere, perchè se seguiva l'accordo ogni speranza di poter turbare il Piemonte diveniva vana per essere obbligati a risolvere le loro masse, si deliberarono di prevenir il divieto col fare un moto, il quale confidavano avesse ad allargare se non tutto almeno parte considerabile del Piemonte. Era il fondamento di questa macchina, che i repubblicani di Carrosio si muovessero improvvisamente verso Alessandria, gli ufficiali del generale Menard, che comandava a tutte le truppe franzesi in Piemonte avevano loro dato speranza che le truppe repubblicane di Francia che stanziavano in quella città si accosterebbero loro ad impresa comune contro il re. Non dubitavano che un moto di tanta importanza, accresciuto dalla fama della congiunzione delle armi di Francia, non voltasse sossopra tutte lo provincie che bevono le acque del Tanaro; il che, giunto all'occupazione della cittadella di Torino, persuadeva ai novatori che anche le provincie del Po si leverebbero a cose nuove: una compiuta vittoria aspettavano in tutto il Piemonte. Era stato l'indulto pubblicato in Torino il lunedì, secondo giorno di luglio, ed il giorno seguente erano i Franzesi entrati nella cittadella. La mattina del 5 molto per tempo uscirono i sollevati, ed in numero di circa mille, e passando vicino a Tortona, senza che i Franzesi che presidiavano la piazza facessero alcun motivo per impedirli, marciavano alla volta di Alessandria, e già comparivano alla Spinetta, alle ore cinque e mezzo della mattina. La fazione sarebbe stata molto pericolosa, se Solaro, governatore di Alessandria, non avesse avuto avviso anticipato di quanto doveva seguire. Ma un prete Castellani, il quale, per essere intervenuto nelle congreghe segrete dei novatori, era consapevole di ogni cosa, l'aveva fatto avvertito. Per la qual cosa, Solaro, che era uomo da saper fare, aveva ordinato un'imboscata alla Spinetta, collocando circa cinquecento buoni e fedeli fanti e cento cavalli tra la Spinetta e Marengo sotto la condotta del conte Alciati di Vercelli, capitano, siccome molto dedito al re, così anche molto avverso ai novatori. Ebbe il disegno del prudente governatore il suo effetto; imperciocchè uscendo i regi all'impensata dall'agguato, e con repentino romore assaltando ai fianchi ed alle spalle i repubblicani, che a tutt'altra cosa pensavano piuttosto che a questa, li ruppero facilmente, togliendo loro due cannoni e bestie da soma cariche di non poche munizioni. I soldati regi, salvo nel primo impeto della battaglia, si portarono lodevolmente, non uccidendo gl'inermi e gli arrendentisi; ma si erano a loro mescolati gli abitatori della Fraschea, gente fiera di natura ed avversa al nome franzese ed a coloro che l'amavano. Costoro, crudelmente procedendo, ammazzavano e spogliavano chiunque veniva loro alle mani. La crudeltà loro era venuta in abbominio agli ufficiali ed ai soldati regi che si sforzavano, sebbene con poco frutto, di moderare il loro furore. Nè la barbarie si ristette alla battaglia: nella sparsa e precipitosa fuga essendosi i vinti repubblicani nascosti chi qua chi là per le selve, pei vigneti e per le campagne feconde di biade, erano spietatamente ed alla spicciolata uccisi dai Frascheruoli. Ad ogni momento si udivano per quei luoghi folti, spari annunziatori della morte dei repubblicani. Durò ben due giorni questa piuttosto caccia che battaglia, e piuttosto carnificina che uccisione. Perirono seicento: morì fra loro uno Scala, giovane di natali onesti e di molta virtù, e che non ebbe altro difetto se non di opinioni false ed esagerate in materia di libertà. Fu accusato a quei tempi Brune dello aver suscitato questo moto per far rivoltare gli Stati del re. Allegossi avere lui indugiato a bella posta sino al 6 del mese a pubblicare i suoi ordini per la risoluzione delle masse dei sollevati, mentre a ciò fare già insin dal giorno dell'accordo fatto con San Marsano si era obbligato. Fu accusato Menard dell'avere incitato con promesse di aiuto delle sue genti i sollevati, poi dell'averli traditi col rivelare al governo regio ciò che macchinavano; cosa troppo enorme e non credibile, neanco in quei tempi, se si considera la natura di Menard. Certo è bene che gli ufficiali che stavano ai fianchi sì di Brune che di Menard spendevano presso i sollevati il nome loro per far credere che questi due generali secondassero il movimento che si voleva fare. Quanto a Brune, egli è certo che con parole forti e sdegnose risolutamente negava ogni partecipazione in questo tentativo. Fu accusato il governo regio dell'avere, dopo consentito per forza all'indulto, in tale modo ordinato gli accidenti, che gli fosse fatto facoltà di versare a suo piacere il sangue a copia, ed affermossi che il governator d'Alessandria Solaro l'abbia secondato in sì orribile proposito. Della qual cosa gli autori di sì perversa opinione pigliavano indizio da questo, che l'indulto pubblicato ai 2 in Torino, non fu pubblicato se non ai 6 in Alessandria, quando già erano seguite le uccisioni. Scrissene molto risentitamente Ginguenè a Priocca. Rispondeva risolutamente il ministro che anche alle orecchie sue erano pervenute certe cose pur troppo dolorose, le quali gli avevano dato a conoscere, perchè il picciol corpo dei sollevati si fosse con tanta confidenza condotto tanto avanti, e che se in questa faccenda vi era perfidia, certamente non era dalla parte del re; parole terribili e pregne di cose molto sinistre. L'occupazione della cittadella di Torino per parte delle genti repubblicane di Francia, che doveva, secondo i trattati, esser cagione di concordia fra le due parti e di sicurtà pel Piemonte, partorì al contrario maggiori sdegni, e per poco stette ch'ella non facesse sorgere una sanguinosa battaglia tra i Franzesi ed i Piemontesi nel grembo stesso della real Torino. Soleano i Franzesi sul battere della diana vespertina suonare, accogliendosi sui bastioni di verso la città, ogni giorno le loro arie repubblicane, e non si astenere nè anco da quelle che tutto il mondo conosceva essere state composte in ischerno e derisione del re ai primi tempi della rivoluzione. Mescolavansi in mezzo a questi suoni, cosa più vera che credibile a chi non conoscesse i tempi, nella cittadella medesima voci o motti ingiuriosi al re. Aveva il governo della fortezza l'aiutante generale Collin, il quale, siccome quello che faceva professione di repubblicano vivo, e teneva pratiche coi novatori che ad ogni ora lo infiammavano, si mostrava molto indulgente nel permettere a' suoi soldati queste intemperanti dimostrazioni. Ne nasceva che ogni sera accorrevano da tutte le parti ad ascoltare quelle musiche strane i curiosi per scioperio, i novatori per disegno e si faceva calca presso alle mura della cittadella. Il governo, sforzato a provvedere alla quiete ed alla salute del regno, mandava soldati per prevenire ogni scandalo, ma essi, udendo il vilipendio che si faceva del loro sovrano, a grandissima rabbia si concitavano ed a mala pena potevano frenar sè stessi che non venissero ai fatti. Così all'ire cittadine si mescolavano l'ire soldatesche, ed un nembo funestissimo era vicino a scoppiare sul Piemonte. L'intemperanza repubblicana non si rimaneva ai suoni ed ai canti: appunto il giorno dopo delle querele di Priocca, cioè il 16 settembre, o che fosse sola imprudenza giovanile o disegno espresso, come si credè con maggiore probabilità, dei novatori, massimamente di quei più arditi che dipendevano dal fomite cisalpino, si venne ad un fatto mostruoso che riempì di terrore tutta la città, e poco mancò che di uccisione ancora la riempisse. Verso le ore quattro meridiane una vergognosa e schifa mascherata usciva dalla cittadella. Era una tratta di tre carrozze, nelle quale si trovavano femmine vivandiere travestite alla foggia delle dame di corte, ed ufficiali mascherati ancor essi alla cortigiana secondo gli usi di Torino, con abiti neri, con grandi parrucche, con borse nere a capelli, con lunghe spade, con else d'acciaio, pure nere, e con piccioli cappelli sotto il braccio, tutto alla foggia della corte; dietro le carrozze lacchè abbigliati parimente all'uso del paese. Perchè poi lo scherno fosse ancor più evidente, precedevano altri uffiziali vestiti in farsetto bianco con bacchette di corrieri: scortavano tutta questa mascherata quattro usseri franzesi, comandati da un ufficiale. Erano fra gli ufficiali mascherati il vicegerente ed il segretario di Collin. Andavano attorno per tutti i canti, poi si aggiravano su tutte le passeggiate: i corrieri con mazzate, gli ussari con piattonate si facevano sgombrar davanti le brigate. Comparve la mascherata avanti alla chiesa di San Salvario sulla passeggiata del Valentino all'ora in cui il popolo stava divotamente intento alla benedizione, essendo giorno di domenica. Gli usseri, crosciando nuove piattonate, sforzavano, non senza romore, i circostanti a scostarsi dalla chiesa: il popolo s'accendeva di sdegno. Posta in tal guisa ogni cosa a romore con uno scherno tanto indecente della corte e dei costumi nazionali del Piemonte, le maschere imprudentissime ritornavano sotto i viali della cittadella, dov'era la solita passeggiata frequentissima di popolo. Quivi i mascherati a guisa di corrieri, da insolenze gravi ad insolenze ancor più gravi trascorrendo, con le mazze loro abbatterono per terra tre vecchie donne, affinchè fosse sgombrata prestamente la strada alle carrozze della mascherata: al tempo medesimo gli usseri menavano piattonate forti a tutti che incontravano. La musica concitatrice nel tempo stesso dalla cittadella suonava e risuonava. Allora non vi fu più modo al furore che dal popolo passò ai soldati. Erano questi in grosso numero in Torino o nelle vicinanze; perciocchè il re, per non essere del tutto a discrezione dei repubblicani, aveva raccolto i suoi intorno alla sua regia sede; il che come disegno gli fu poscia imputato dai repubblicani. Udironsi in questo mentre archibusate, prima rare, poi moltiplicate: il popolo spaventato con una calca incredibile fuggiva; i soldati piemontesi, cui niun comandamento poteva più frenare, accorrevano a furore; alcuni soldati franzesi restarono uccisi. Lo spavento, il furore, la vendetta occupavano le menti d'ognuno. I Franzesi, che alloggiavano nella cittadella, udito il romore delle armi e dai fuggenti il pericolo dei compagni, precipitosamente già uscivano armati e pronti a far battaglia contro i regi. Una estrema ruina sovrastava, presente il re, alla reale Torino. In questo punto il generale Menard, che non per ufficio, ma per accidente si trovava in Torino, veduto che se più si procedesse, vi andava la salute dei Franzesi, la salute dei Piemontesi, correva in mezzo a' suoi, comandava a Collin che non si movesse, e con le sue esortazioni, con le sue minaccie, con l'autorità del suo grado tanto operava, che fece fermare e tornare in cittadella i repubblicani, impedì che traessero, soppresse i suoni concitatori, e frenò un impeto, il cui fine, s'ei non fosse stato presente, sarebbe stato funestissimo. Il governatore non tralasciò uffizio, perchè il furore improvviso dei soldati piemontesi si raffrenasse, e diede ordine perchè se ne tornassero alle loro stanze. Così fu salvata la capitale del Piemonte dalla generosità di Menard e dalla moderazione di Thaon di Sant'Andrea. L'ambasciatore di Francia, che nell'ora del tumulto se ne stava villeggiando sopra la collina di Torino, ebbe subito avviso dell'accidente, e pregato dal ministro Priocca, della sicurtà di lui e di tutta la sua famiglia promettendo, tornava la sera del medesimo giorno. Da quell'uomo diritto e dabbene ch'egli era, quando non isviato dai soldati fanatici, si dimostrò molto sdegnato contro Collin, condannando con forti parole la sua condotta e la schifosa mascherata. Poi per opera di lui fu Collin rimosso dal governo della cittadella e surrogato Menard, non senza grande contentezza del governo piemontese. Queste cose faceva Ginguenè sano; ma aggirato di nuovo dai novatori, tornò nel suo male, ed ingannandosi novellamente, incolpava il governo regio di congiura per ammazzare tutti i Franzesi il giorno stesso che si era fatta la mascherata; e, troppo facilmente condiscendendo ai desiderii di Brune, di nuovo tormentava Priocca: addomandava con insolente istanza che il re licenziasse tutti i suoi ministri e nuovi ne creasse in luogo loro; intorno a che molti furono i contrasti, i quali finalmente però terminarono con la dichiarazione che il re non voleva fare cambiamenti, poichè non li poteva fare con giustizia. Dalle precedenti narrazioni si raccoglie che le cose tra l'ambasciatore di Francia ed il governo del Piemonte erano giunte al punto estremo, nè alcun termine di concordia si vedeva possibile. Continuamente instava Ginguenè presso al direttorio per la rimozione del conte Balbo. Da un'altra parte il conte presso al direttorio medesimo continuamente instava acciocchè chiamasse Ginguenè. Questi chiamava Balbo spargitor d'oro, seminatore di corruttele, agente operosissimo e pericoloso di tutta la lega europea contro la Francia. Balbo chiamava Ginguenè uomo buono e stimabile per le sue qualità private, ma cervello pieno di fantasmi lontani dal vero, corrivo al prestar fede alle follie ed alle calunnie dei novatori, accademico importuno, ambasciatore di penna intemperante e di natura tale che non lasciasse pur respirare un momento quel governo che avesse a fare con lui. Arrivarono in questo mentre le novelle della mascherata e della domanda fatta da Ginguenè della espulsione dei ministri. Si prevalse destramente e con molta istanza Balbo de' due accidenti, come già si era prevalso della domanda della cittadella. Per la qual cosa, giuntovi eziandio che Taleyrand sapeva che la nuova confederazione contro la Francia si preparava, ma non era ancora matura, e però voleva allontanar le cagioni di nuovi scandali, prevalse l'ambasciator piemontese. Fu Ginguenè per decreto del direttorio del 24 settembre richiamato dalla sua carica di ambasciatore. Gli fu sostituito d'Eymar, uomo piuttosto non senza lettere che letterato, amatore dei letterati e di natura dolcissima, ma non d'animo tale che si potesse maneggiare con la fermezza necessaria in tempi tanto tempestosi. Gli altri fatti si apprestavano all'Italia. Mentre con maggiori dimostrazioni di fede e di amicizia era l'ambasciatore Balbo accarezzato da tutti i ministri e massimamente da Taleyrand in Parigi, mandava il direttorio il generale Joubert, surrogato a Brune, in Italia, con ordine di spegnere la potenza della casa di Savoia e di far rivoluzione in Piemonte. Joubert sul suo primo arrivare, vedendo che i tempi stringevano, non frappose indugio a mandar ad effetto ciò che gli era stato commesso. Ma prima di venire ad una deliberazione del tutto ostile, mandava a Torino l'aiutante generale Munier con ordine di richiedere il re che desse incontanente i dieci mila soldati, a' quali era obbligato per trattato d'alleanza, e li mandasse a congiungersi coi Franzesi, ed, oltre a ciò, che rimettesse in mano di lui l'arsenale di Torino, domanda di estremo momento, per essere l'arsenale situato nella città stessa e vicino alla cittadella. Rispose che darebbe incontanente i dieci mila soldati: mandò il giorno stesso della richiesta gli ordini perchè si adunassero; spedì un ufficiale a Milano, perchè consultasse col generalissimo intorno al modo del marciare dell'esercito piemontese verso il franzese, e del servire insieme l'uno con l'altro. Quanto all'arsenale, si espresse non poterlo consegnare, perchè la domanda non era conforme al trattato d'alleanza; avere spacciato a Parigi un uomo apposta affinchè questo emergente si accordasse col direttorio. Non contentandosi Joubert delle risposte, e di quali si sarebbe contentato non si vede, si risolveva a mandar ad esecuzione quello che gli era stato comandato. L'importanza del fatto in ciò consisteva che la possessione della cittadella si rendesse sicura in mano dei repubblicani. Perlochè il generalissimo vi mandava a governarla il dì 27 novembre il generale Grouchy in iscambio di Menard, ch'era stimato od aborrente per natura da sì gravi ingiurie o non alieno dal favorire gl'interessi del re. Mirava il direttorio a far rinunziare il re di per sè stesso senza che si venisse all'esperimento dell'armi. Ma dubitando che l'apparato della forza non bastasse a muover l'animo di Carlo Emmanuele, si usò anche la astuzia. Per la qual cosa non sì tosto era Grouchy giunto a Torino, che con tutte le arti procurava di sapere per mezzo dei democrati del paese e di quanti altri potesse adescare, quali fossero le intenzioni del re e dei ministri, e soprattutto quali mezzi di difesa avessero. Nè abborrirono gli agenti del direttorio sapendo quanto Carlo Emmanuele fosse dedito alla religione, dal tentar mezzi insoliti di sedizione con volersi insinuare presso al suo confessore, affinchè l'esortasse alla rinunzia. Nè solo l'abdicazione procuravano, ma volevano che il re per l'atto stesso della sua rinunzia ordinasse ai Piemontesi ed a' suoi soldati che non si muovessero ed obbedissero al governo temporaneo che sarebbe instituito. Riuscì il generale di Francia, che sul primo giungere si era tenuto nascosto, a procurarsi segrete intelligenze con uomini d'importanza; ma il tentativo della confessione non ebbe effetto per la rettitudine del confessore. Moltiplicavansi intanto le bocche da fuoco contro la città: il terrore cresceva; chiamava il governo i reggimenti sparsi a difendere Torino, ed eglino con presti passi accorrevano: i fati sovrastavano e chiamavano a rovina e la reggia e i popoli e il Piemonte. Già i repubblicani ordinati da Jubert marciavano a distruggere un re tante volte assalito con ingiurie, di cui con fraude avevano occupato la fortezza difenditrice de' suoi tetti e de' suoi penetrali stessi, ed al quale altro fondamento non restava consolativo ma insufficiente, che la fede dei soldati e la devozione dei popoli. Pubblicava Joubert il dì 5 dicembre queste parole. «La corte di Torino ha colmo la misura ed ha mandato giù la visiera: da lungo tempo gran delitti ha commesso; sangue di repubblicani piemontesi fu versato in copia da questa corte perfida: sperava il governo franzese, amatore della pace, con mezzi di conciliazione rappacificarla, sperava ristorar i mali di una lunga guerra, sperava dar quiete al Piemonte con istringere ogni giorno più la sua alleanza con lui: ma fu Francia vilmente ingannata delle sue speranze da una corte infedele ai trattati. Per la qual cosa ella comanda oggi al suo generale di non più prestar fede a gente perfida, di vendicar l'onore della grande nazione, e di portar pace e felicità al Piemonte: per questi motivi l'esercito repubblicano corre ad occupare i dominii piemontesi.» Nel mentre che Joubert così parlava, Victor e Desoles, raunatisi con le schiere loro nelle vicinanze di Pavia, ad Abbiategrasso ed a Buffalora, passato il Ticino, si avviavano a Novara, nella quale entrarono per uno stratagemma militare di soldati nascosti in certe carrette. Presa Novara, spingevano le prime squadre insino a Vercelli. L'aiutante generale Louis s'impadroniva di Susa, Casabianca di Cuneo, Montrichard di Alessandria, sorprendendo in ogni luogo i soldati regi, facendone prigionieri i governatori. Avuta Alessandria, Montrichard s'incamminava ad Asti, donde, spingendosi più avanti, andò a piantare gli alloggiamenti sulla collina di Superga, che da levante signoreggia la capitale del regno. In questo mezzo tempo ordinava Grouchy, che gli ambasciatori di Francia e della Cisalpina si ricovrassero nella cittadella, il che tostamente eseguirono, tolte prima dalle loro case le insegne delle loro repubbliche. Poi penuriando la cittadella di munizioni, massimamente di proietti poichè intenzione dei repubblicani era di voltar sotto sopra e d'incendiar Torino se l'esercito francese fosse obbligato di rendersene padrone per forza, operarono di modo che si trasportasse di nascosto dall'arsenale nella fortezza armi e munizioni d'ogni genere, procurandosi in tale modo le armi del re per combatterlo e distruggerlo. Era di non poca importanza pei repubblicani che in loro potere recassero Chivasso terra munita di un forte presidio e per cui Victor doveva passare per venirsene da Vercelli a Torino. A questo fine e per obbedire al generalissimo mandava Grouchy segretamente una colonna di buoni soldati, i quali arrivati inopinatamente sopra Chivasso ed aiutati dai soldati di nuova leva, che qui per accidente alloggiavano, l'occuparono facilmente. Rovinava tutto ad un tratto e per ogni parte lo stato del re, usando i repubblicani per sorpresa contro di lui gli estremi della guerra, quantunque ancora il governo loro non l'avesse dichiarata. Intanto si continuava nelle dissimulazioni. Scrivevano al governator di Torino assicurandolo che quanto si faceva solo si faceva per modo di cautela e che se per questo si attentasse di por le mani addosso ad un solo amatore di libertà o francese o piemontese che si fosse, incendierebbero la città e farebbero che di lei pietra sopra pietra non rimanesse. Il governo pubblicava un manifesto con cui esortava gli abitatori a restarsene quieti, chiamava i Franzesi gli alleati più fedeli che si avesse, affermava che niuno nissuna cosa aveva a temere da loro. Mentre si appiccava questo manifesto sui muri, ecco giungere le novelle, che già erano prese Novara, Susa, Chivasso, Alessandria, che già Torino era stretto da ogni parte da gente nemica, che già le truppe regie sorprese ed assaltate all'impensato erano state disarmate e poste in condizione di prigioniere. Vide allora il re che ogni speranza era spenta, che i fati repubblicani prevalevano, ch'era perduto il regno, che mille anni di dominio della sua reale casa erano giunti al fine. Restava, poichè perdeva la potenza, che non perdesse l'onore; volle che i posteri sapessero che periva innocente. Pubblicava adunque Priocca il 7 decembre le sue ultime parole; ma anche le sue generose, le giuste sue difese gli vennero poco dopo interdette ed anzi imputate a delitto da chi non solo abusava della forza propria, ma ancora si sdegnava dalle ragioni altrui. Intanto perchè si venisse a conclusione si moltiplicavano le arti e gli spaventi; si parlava che a nissun'altra condizione sarebbero i Franzesi contenti che all'abdicazione. Cedesse al fato, nè v'era modo da ostare, giacchè Carlo Emmanuele era chiamato a distruzione dal suo alleato. L'atto di abdicazione fu accordato e stipulato il dì 9 di dicembre in Torino, per parte della repubblica dal generale Clauzel, e per parte del re da Raimondo di San Germano, personaggio di molta, anzi di unica autorità appresso di lui. Non si soddisfecero i repubblicani di torgli lo stato, ma vollero anche amareggiarlo obbligandolo a ritrattarsi pubblicamente del manifesto del giorno 7, ed a mandar Priocca in mano loro alla cittadella, come sigurtà di non resistenza e come testimonio di ritrattazione. Vollero eziandio, essendosi persuasi che il duca d'Aosta fosse mosso da avversioni eccessive contro di loro e capace di venire a qualche tentativo d'importanza, che anch'esso sottoscrivesse l'abdicazione. Per questa cagione si vede sul fine dell'atto, dopo il nome di Carlo Emmanuele quello di Vittorio Emmanuele con queste parole: _Io prometto di non dare impedimento all'esecuzione di questo trattato._ Fu in buon punto pel re e per tutta la sua famiglia, che Grouchy e Clauzel con tanta pressa lo avessero sforzato alla rinunzia; conciossiacosachè aveva il direttorio comandato che fossero condotti in Francia, compiacendosi nel pensiero di mostrare ai repubblicani, come a guisa di trionfo, un re e molti principi debellati e cattivi. Ma Taleyrand, al quale se piacevano le opere astute non piacevano le giacobiniche, aveva mandato a Joubert, innanzi che spedisse gli ordini del direttorio, che sforzasse presto il re alla rinunzia, non imponendo la condizione della cattività dei reali. Da che ne seguitò che avevano già fatta la rinunzia e già erano arrivati a Parma, quando pervenne a Joubert gli spacci per la cattività loro. Clauzel, che aveva richiesto sui primi negoziati la persona del duca d'Aosta come ostaggio per la osservanza dei patti e qualche timore del suo nome, udite le rimostranze del re e della regina, facilmente se ne rimase: il che fu cagione che il re il presentasse della celebre tavola di Gerardo Dow, in cui è dipinta con tanta maestria la idropica. Accordossi nell'atto dell'abdicazione che il re rinunziava alla sua potestà, e comandava ai Piemontesi che obbedissero al governo temporaneo da instituirsi dal generale di Francia; comandava altresì a' suoi soldati che come parte dell'esercito franzese si sottomettessero al generale medesimo; disdiceva il manifesto del giorno 7 e mandava il suo ministro Damiano di Priocca nella cittadella: che il governatore della città si conformasse alla volontà del comandante della cittadella; che fosse sicura la religione, sicure parimente le persone e le proprietà; che i Piemontesi che desiderassero spatriarsi, il potessero fare liberamente con facoltà di portarsene il loro mobile e di vendere gli stabili, e che i Piemontesi fuorusciti che volessero ripatriarsi, medesimamente il potessero fare e ricuperassero tutti i diritti loro; potesse liberamente il re con tutta la sua famiglia ritirarsi in Sardegna; finchè in Piemonte fosse, si conservassero i suoi palazzi e le sue ville libere; gli si dessero i passaporti e scorta mezza franzese e mezza piemontese; se il principe di Carignano eleggesse di rimanersi in Piemonte o di andarsene, sì liberamente il potesse fare, con godersi e con disporre de' suoi beni; incontanente si suggellassero gli archivii e le casse dell'erario; non si accettassero nei porti della Sardegna le navi delle potenze nemiche di Francia. Creava Joubert un governo che per modo di provvisione ed insino a tanto che i tempi permettessero un assetto definitivo, reggesse il Piemonte. Vi chiamava per un primo decreto Favrat, Botton di Castellamonte, San Martino della Motta, Fasella, Bertolotti, Bossi, Colla, Fava, Bono, Galli, Braida, Cavalli, Bandisone, Rossi, Sartoris; per un secondo, Cerise, Avogadro, Botta, Chiabrera, Bellini. Erano uomini d'onorate qualità ed i più splendevano egregiamente o per dottrina, o per virtù, o per altezza di cariche o per nobiltà di natali, e molti per tutte queste qualità insieme, nè erano certamente degni di governare in tempi sì miseri la patria loro; sì che in breve non per colpa propria, ma dei tempi, perdettero presso i compatriotti loro la confidenza, presso i forastieri l'amicizia. Grouchy, conseguita una tanta mutazione sforzava i soldati Piemontesi a giurare in nome della repubblica Franzese: il che fecero piuttosto sbalorditi dal caso che per volontà deliberata. Damiano di Priocca andava a porsi in cittadella in potestà dei repubblicani; Priocca, esempio d'animo forte, di mente sana, di sincerità singolare e d'una fede inalterabile; uno degli uomini dei quali l'Italia e l'umanità più si debbono pregiare. Abbandonava il re, abbandonavano i reali di Piemonte la gloriosa sede degli antenati loro. Era la notte, fra le 9 e le 10 della sera, oscura e piovosa; occupava la città un alto terrore: scendevano al lume dei doppieri le scale, ed usciti dalla porta che dà nel giardino e quivi in carrozza montati, per l'altra porta ch'è tra le due del palazzo e del Po, alla strada maestra di verso Italia pervenivano. Lasciava il re nelle abbandonate stanze per una continenza che mai non si potrà abbastanza lodare e per debito di religione, come protestava, le gioie preziose della corona, tutte le argenterie e settecento mila lire in doppie d'oro. Alcuni fra i principi piangevano; il re e la regina mostravano una grandissima costanza. Scortavangli ottanta soldati a cavallo franzesi, altrettanti piemontesi; gli accompagnavano fino a Livorno di Piemonte. Condussersi gli esuli principi in Parma, poi in Firenze: quivi furono accolti dal granduca come si conveniva al grado, alla parentela ed alla disgrazia. Fu suggellato il palazzo reale dal commissario del direttorio Amelot, e dall'architetto Piacenza, architetto del re. Ma alcuni giorni dopo, rotti i suggelli da uomini rapacissimi, furono portate via le gioie e le altre suppellettili preziose, alle quali Carlo Emmanuele per la sua illibatezza e sincerità aveva, partendo, portato rispetto. Così ruinò la casa reale di Savoia. Nè sapremmo se si abbia a raccontare l'intimazione di guerra fatta il dì 12 dicembre dal direttorio, quando già la guerra non solo era stata fatta, ma anche terminata con la distruzione dell'autorità regia in Piemonte. Partito il re da Livorno di Toscana in sull'entrare del 1799, arrivava il 3 di marzo, in cospetto di Cagliari. Quivi, vistosi in potestà propria, volle fare manifesto a ciascuno e pubblicò solennemente, come altamente ed in cospetto di tutta Europa ei protestasse contro gli atti, per forza dei quali era stato costretto ad abbandonare i suoi territorii di terraferma, ed a rinunziare per un tempo all'esercizio della sua potenza. Accoglievano i Sardi, come ben si conveniva, con dimostrazioni di rispetto e d'amore l'esule stirpe di Emmanuele Filiberto. Mentre la sede antica dei re di Sardegna diveniva preda dei repubblicani, le sorti della parte meridionale d'Italia, tentate dal re di Napoli, partorivano accidenti insoliti e terribili. Non aveva il generale Mack trovato nello Stato romano quel seguito, che si era concetto con la speranza, poichè l'essersi ritirati, ma interi, non rotti, i Franzesi, e la fama ancor fresca del loro valore, davano timore, che ove fossero ingrossati, si precipitassero di nuovo alle offese con danno estremo di coloro, che troppo vivamente si fossero scoperti contro di loro. Il terrore poi concetto per le infelici pruove fatte contro i medesimi in parecchie parti d'Italia, massimamente il caso spaventoso di Verona, teneva sospeso l'animo d'ognuno, impediva che si movesse cosa alcuna contro i repubblicani, e frenava i popoli desiderosi di prorompere. Si aggiungeva che sebbene i Romani odiassero i Franzesi, non amavano però i Napolitani, e pareva loro di uscire da una servitù abbominata per sottentrare ad un'altra forse non meno odiosa. Tutte queste cose non erano nascoste a Mach, e però argomentando che la guerra era piuttosto incominciata di nome che di fatto, e che se con qualche fazione importante, in cui si venisse al sangue, non dimostrava che le mani fossero tanto forti quanto le lingue pronte, il tempo avrebbe presto condotto una mutazione di fortuna, si deliberava ad andare all'incontro delle armi repubblicane. Del che tanto maggiore necessità gli sovrastava, quanto Championnet raccoglieva genti in fretta e continuamente si ingrossava. Avendo adunque avuto avviso che con felice navigazione era Naselli sbarcato a Livorno e Ruggero di Damas ad Orbitello, si muoveva a tentare la fortuna delle battaglie, eleggendo di far impeto contro l'ala destra dell'esercito franzese che, governata dal generale Macdonald, da Terni si distendeva fin verso Nepi, Cività castellana e Monterosi. Marciava Mack, divisi i suoi in cinque schiere, il dì 5 dicembre, da Baccano contro i repubblicani, mentre al tempo stesso ordinava un moto verso Civitaducale per tener in rispetto i Franzesi da quella banda. Prevaleva di gran lunga di numero, conducendo quaranta mila soldati contro un nemico, che se arrivava agli otto mila, non li passava, poichè in questo numero consisteva l'ala destra dei repubblicani. Sboccava la prima schiera Napolitana verso Nepi, la seconda, insistendo sull'antica via romana, verso Rignano, la terza verso Santa Maria di Falori, schiere destinate tutte a combattere sulla destra sponda del Tevere. La quarta aveva il carico d'impadronirsi di Vignanello per guadagnare la terra d'Osta, e quivi varcare il fiume. Finalmente per fare un po' di spalla a destra a tutte queste genti, la quinta schiera dei regi marciava contro a Magliano, e già aveva traversato il Tevere al passo di Ponzano. I Franzesi, sentita prestamente la venuta del nemico, non si fermarono ad aspettarlo, ma siccome quelli che stimavano sè stessi da quegli uomini valorosi che erano e tenendo in poco conto le genti napolitane, uscirono incontanente ad incontrarle. I capi poco dubitavano della vittoria, perchè oltre il provato valore dei soldati, sapevano che gli assalti dei Franzesi, per la natura pronta dalla nazione, sono sempre più fortunati che le difese. Non fu l'esito diverso dalle speranze. Kellerman, figliuolo del vecchio generale di questo nome, contuttochè sulle prime trovasse un duro incontro, ruppe la prima napolitana schiera, cacciolla infino a Monterosi, e quivi rompendola di nuovo, tagliava a pezzi i valorosi, disperdeva i codardi. Non procedettero con maggior riputazione le cose dei Napolitani dalle altre parti: il colonnello Lahure ruppe la schiera di Rugnano, sebbene sulle prime avesse perduto del campo; perchè Macdonald con pronti aiuti soccorrendolo, lo ebbe tostamente abilitato alla vittoria. S'incontrava la schiera che giva all'assalto di Santa Maria di Falori, in una squadra polacca capitanata dal generale Kniazewitz e che aveva con sè una legione romana, che aveva alzate le bandiere della repubblica. Polacchi e Romani valorosissimamente combatterono: i Napolitani andarono in volta, non senza grave perdita d'uomini, d'armi e di bagaglie. Il generale Maurizio Mathieu affrontava, così avendo ordinato Macdonald, la quarta schiera, la quale cedendo si ricoverava nella terra di Vignanello forte per sito e cinta di buone mura. Si difendevano i Napolitani virilmente, sapendo che questa fazione era di grandissima importanza; erano anche aiutati dai terrazzani, nemicissimi del nome franzese. Ma Mathieu tanto fece con le armi e con le minaccie, che sforzava i Napolitani a lasciar la terra libera al vincitore. Entraronvi i Franzesi trionfando, non senza qualche licenza, come di gente vincitrice ed irritata. Acquistato Vignanello, correva Mathieu ad assicurare il ponte di Borghetto. Restava la quinta schiera che camminava verso Magliano; ma udite le infelici novelle delle compagne, se ne tornava, senza aver combattuto, per Ponzano, al principale alloggiamento dell'esercito regio. Così pel valore delle sue genti e per l'arte egregia con la quale le mosse, venne fatto a Macdonald di variare lo stato della guerra e di riuscir vincitore da un assalto molto pericoloso. Ma, non ostante le battaglie combattute infelicemente dal generale napolitano sulla destra riva del Tevere, la guerra non era ancora vinta; perchè da una parte il conte Ruggiero di Damas venendo da Orbitello si avvicinava, dall'altro rimanevano ancora sulla sponda sinistra del fiume ai Napolitani genti superiori per numero ai loro nemici. Per la qual cosa Mack, non disperando ancora delle sorti, si accingeva a fare un nuovo sforzo sulla sponda medesima, il cui fine era di rompere la schiera di mezzo di Championnet; il che avrebbe disgiunto le due ali franzesi. Ebbe il generale franzese sicuro e pronto avviso dell'intento del suo avversario. Laonde per resistere a quel nuovo impeto e non si commettere se non con vantaggio alla fortuna, ristringeva i suoi ed affortificava con nuove genti i luoghi di Contigliano e di Magliano. Poi fe' ritirare Macdonald da Civitacastellana, solo lasciato un presidio nel forte di Borghetto affinchè quivi validamente difendesse il passo del fiume. Finalmente chiamava il generale Lemoine, che oltre l'Apennino sotto il freno di Duhesme combatteva contro il cavaliere Micheroux, generale del re, ad occupare Civitaducale e Rieti, la prima città del regno, la seconda, dello Stato romano. Le cose succedevano a prima giunta prosperamente ai Napolitani; conciossiachè, sebbene per opera di Mathieu fossero stati scacciati da Magliano, che già avevano conquistato, una loro schiera di gran polso, sotto guida del generale Moesk, si era, cacciatone di forza i Franzesi, impadronita di Otricoli, e già faceva correre da' suoi cavalleggieri la strada per a Narni. La guerra diveniva pericolosa pei Franzesi. Ma non perdutisi punto d'animo si risolvevano al combattere, e provarono tostamente che nelle battaglie più può l'ardire che la prudenza; poichè Mathieu, per comandamento di Macdonald, assaltò furiosamente i Napolitani in Otricoli, e, quantunque valorosamente si difendessero, li vinse con perdita di due mila soldati, di cinquecento cavalli, di otto cannoni e di tre bandiere. Diedero in questo fatto pruove di singolar valore i Polacchi e fu ferito in una gamba un Santacroce, principe romano, che combatteva per la repubblica. Ritirossi Moesk colle reliquie de' suoi a Calvi, dove per la fortezza del sito si poteva sostenere e fare ancor dubbia la vittoria. Ma lo stesso Mathieu, già vincitore di tanti fatti per valore di questa napolitana guerra mandato da Macdonald, vincitore ancor esso dei fatti medesimi per perizia, occupate le eminenze che stanno a sopraccapo alla terra e minacciato aspramente Moesk se non si arrendesse, il costringeva, aiutato anche dalla presenza di Macdonald sopraggiunto in quel frangente, alla dedizione. Questo fatto ruppe ad un punto tutte le speranze cui Mack aveva concetto di poter durare nello Stato romano, e lo fece accorgere che niun altro scampo gli restava che quello di ritirarsi con presti passi nel regno. Già il re, udite le sinistre novelle ed abbandonata Roma, si era avviato prima a Caserta, poscia a Napoli; Mack, raccolti più prestamente che potè tutti i suoi, andava a Capua, in cui sperava di difender Napoli, giacchè non aveva potuto difendere Roma nè a Calvi nè a Cantalupo. Entravano i Franzesi vittoriosi in Roma, donde diciassette giorni prima erano partiti non vinti. Tornaronvi i consoli ad occupare le perdute sedi. Le cose dei Napolitani non avendo fatto sulla destra del Tevere quella resistenza che il conte Ruggiero aveva sperato, gli era divenuto impossibile di congiungersi con la sua schiera sinistra. Rifulse in sì estremo accidente la virtù del conte; poichè, non isgomentatosi punto, se ne continuava a marciare con sette mila soldati da Baccano verso Roma. Championnet attonito a caso tanto improvviso, mandava il suo aiutante Bonami a sapere che cosa volesse dir questo. Gli fu risposto dal conte che voleva passare, o per amore o per forza, per ritornare nel regno; ed ottenuto un indugio dal nemico per trattare un accordo, avvisando che Bonami non aveva dato tempo per altro motivo che per far accorrere nuove genti, levava, più tacitamente che poteva, il campo, incamminandosi più che di passo alla volta di Orbitello. Giunto alla Storta, vi fu il suo retroguardo combattuto dai repubblicani, ma difesosi virilmente, acquistava facoltà del continuare virilmente. Calava intanto a far le sue condizioni più pericolose Kellermann da Borghetto. Incontratisi repubblicani e regi a Toscanella, si travagliavano con un conflitto molto aspro. Il conte, con tuttocchè fosse ferito gravemente da una scheggia in una gamba, continuava a combattere valorosamente; i Napolitani incoraggiti dall'esempio del loro capo, si difendevano anch'essi con molta costanza; nè si spiccarono dalla battaglia se non quando per l'arrivo delle cavallerie di Kellermann, era divenuta disuguale. Intanto non aveva omesso il conte mentre col retroguardo arrestava l'impeto dei repubblicani, di accostarsi vieppiù coll'antiguardo e col grosso della schiera ad Orbitello. Queste due squadre nella cercata terra essendo giunte tostamente, vi s'imbarcarono sulle navi napolitane che quivi le attendevano. Restava che si conducesse a salvamento il retroguardo, che era furiosamente seguitato dai Franzesi; ma non così tosto il conte col retroguardo medesimo vi entrava, che chiuse le porte sul viso al nemico, faceva le viste di volersi difendere. Si appicava intanto una pratica tra di lui e Kellermann, per la conclusione della quale fu fatto abilità al conte d'imbarcarsi con tutte le sue genti solo lasciando in mano ai Franzesi le artiglierie. Viterbo vinta ed occupata dal vincitore, pagò le pene d'aver anteposto lo Stato antico e dispotico allo Stato nuovo e tirannico. Ciò nonostante non vi furono più vendette esorbitanti, ed il giovane Kellermann vi si portò più moderatamente che i tempi non comportassero. Riconquistata Roma ed atterriti i Napolitani, pensava Championnet ad assicurarsi ed ampliare la vittoria; ed ancorchè non avesse un esercito bastante pel numero dei soldati a conquistare il regno, tuttavia considerato il lor valore il terrore dei vincitori e la forza delle opinioni favorevoli, che da lungo tempo e largamente vi si erano sparse e che ora più potentemente operavano per la vicinanza dei Franzesi e per la sconfitta dell'esercito regio, si risolveva a tentar l'impresa. A questo fine era necessario di debellare Capua, ultimo propugnacolo di Napoli per la fortezza della città, per la profondità delle acque del Volturno e per avervi Mack adunato tutte le genti ancora forti se non per valore, almeno per numero. Adunque il generale della repubblica spartiva i suoi in due principali schiere, delle quali la sinistra governata da Macdonald, correndo pei luoghi superiori e più vicini agli Apennini doveva varcare il Garigliano ai passi del Castelluccio e di Coprano, e al tempo stesso dare facoltà alle genti di Duhesme e di Lemoine di congiungersi con lui a sforzo comune contro Capua. La seconda schiera sotto la condotta di Rey, radendo il lido, s'incamminava verso Terracina, con pensiero di acquistare, strada facendo, Gaeta per una battaglia di mano, poi comparire sotto le mura della desiderata Capua. Nè l'esito fu diverso del disegno, perchè Macdonald e Rey, superati tutti gli ostacoli, arrivavano alla designata oppugnazione sulle sponde del Volturno. Precipitavano a gran rovina le cose del regno non essendosi mostrato in sua difesa valore nissuno, se si eccettua il caso del conte Ruggiero. Duhesme e Lemoine, ai quali andava avanti come speculatore ed apritor di strade quell'arrischiato condottiere Rusca, sui sinistri gioghi dell'Apennino insistendo, travagliavano più per gli assalti improvvisi delle popolazioni mosse a rumore ed armate d'ogni sorta d'armi, che per le battaglie delle genti regolari. Tuttavia a poco a poco prevaleva il valore regolato. Lemoine acquistava Aquila, dove trovava munizioni da bocca in abbondanza; poi si conduceva a Sulmona, con intenzione di aspettar quivi Duhesme, che più vicino correva le sponde dell'Adriatico. Grave intoppo ai disegni di Duhesme era Pescara, città che con la sua fortezza situata in luogo eminente dominava tutto il pian paese all'intorno, e la sola strada a riva il mare per la quale possono passare le artiglierie. Due mila soldati la presidiavano, ma non fecero miglior pruova dei difensori di Gaeta; perchè come prima i soldati della repubblica si mostravano sulle alture che stanno a sopraccapo al ponte di Pescara, e le altre truppe a Pianelle ed a Cività di Penna, il comandante pensò alla dedizione dando in mano dai Franzesi quel luogo tanto forte per arte e per natura, e tanto importante alla sicurezza del regno. Vi trovavano i vincitori armi e munizioni in copia. Acquistata Pescara, procedeva Duhesme a congiungersi, per la strada di Popoli, con Lemoine a Sulmona, donde, varcato il sommo giogo dell'Apennino, condussero entrambi tutta l'ala sinistra sotto le muraglie di Capua. Così non solo erano in veemente movimento le cose di Napoli, ma ancora cominciavano a precipitare a manifesta rovina. Naselli, lasciato Livorno, perchè oltre la sconfitta dei regi, aveva udito che Serrurier con una mano di soldati della repubblica già aveva occupato Lucca e si apparecchiava ad andarlo e combattere, imbarcate le genti sulle navi apprestate, veleggiava alla volta del Garigliano. Non erano senza fortezza i nuovi allogiamenti di Mack. Posto il campo col grosso de' suoi nella pianura di Caserta, per modo che fosse abile a difendere il passo del Volturno, aveva fatta Capua sicura con un presidio di dieci mila soldati. Tra per questi e le genti del campo, aveva ancora un novero di combattenti superiore a quello dei Franzesi, e se avesse avuto e migliori soldati o più fedeli capitani o minore capriccio in una certa squisitezza d'arte che gli faceva sempre moltiplicare i casi fortuiti con allargar troppo il campo, poteva ancor tenere la fortuna in pendente. Bene l'evento dimostrò che Capua si poteva difendere e si perdè, non per forza, ma per accordo. Ma già i casi di Napoli diventavano più forti di tutte queste condizioni unite insieme. Il ritorno tanto subito del re, le novelle sinistre che ad ora ad ora pervenivano, l'aver perduto in più breve tempo quello che in breve tempo si era acquistato, le dedizioni tanto importanti d'Aquila, di Pescara e di Gaeta, l'avvicinarsi continuo dei nemico al cuore stesso del regno, i soldati o dispersi o fuggitivi, che per escusazione propria magnificavano le cose, l'arrivo stesso di Mack in Napoli venutovi per consultare sulle ultime speranze, rinnovando la memoria delle vittorie dei Franzesi in Italia e il terrore delle armi loro rinfrescando, avevano prodotto un grande abbattimento di animo in chi sapeva, rabbia e disperazione in chi non sapeva. Titubavano i consiglieri di Ferdinando sul partito che fosse a prendersi, alcuni propendendo ad armare il popolo, altri opinando ch'egli avesse a tostamente ritirarsi oltre il Faro. Intanto il volgo, fattesi alcune istigazioni, anche da parte del governo, si armava da sè: la città fra il terrore ed il furore aveva un aspetto molto sinistro e, come si usa in simili casi, le voci popolari già accusavano di tradimento i ministri. S'incominciava a por mano nel sangue degli avversarii o veri o supposti del governo regio, poi si trascorse in quello degli amici. Un Alessandro Ferreri, corriero per gli spacci, mandato con lettere a Nelson, che con alcuni suoi vascelli stanziava nel porto di Napoli, restò ucciso a furia di popolo sul molo; il suo cadavere sanguinoso tratto a forza sotto le finestre della reggia, fu mostrato al re, gridando orrendamente i feroci uccisori e l'invasata moltitudine che gli accompagnava: _Muoiano i traditori, viva la santa fede, viva il re_. Già non vi era più freno. L'orrore concetto per la fatta uccisione del corriero aveva persuaso a Ferdinando, che tralasciando anche la forza franzese che si avvicinava, non poteva più rimanersi a Napoli con dignità. S'aggiunse che Mack non confidando di poter far guerra con quei soldati, che peraltro quanto potessero valere avea dimostrato l'esempio del conte Ruggiero, consigliava un accordo. Tutte queste considerazioni, e forse più ancora il timore di qualche congiura per opera dei novatori, essendo la rabbia loro grandissima pei sofferti supplizii, fecero prevalere la sentenza di coloro che consigliavano che il re si ritirasse in Sicilia. Anno di CRISTO MDCCIC. Indizione II. PIO VI papa 25. FRANCESCO II imperadore 8. Fatta la deliberazione di abbandonar Napoli, si mandò tosto ad esecuzione, non senza terrore e confusione, come suole in simili accidenti. L'ultima notte dell'anno antecedente imbarcarono sulle navi inglesi e portoghesi ch'erano sorte nel porto, il mobile più prezioso dei palazzi di Caserta e di Napoli, le gioie della corona, il tesoro di San Gennaro, in cui erano meglio di venti milioni coniati ed oro ed argento vergati in quantità: a queste ricchezze si aggiunsero le singolarità più preziose di Ercolano. Imbarcati i denari e le suppellettili, creava Ferdinando suo vicario il principe Pignatelli con facoltà amplissime, anche di conchiudere un accordo coi Franzesi, col consentire all'occupazione di Napoli, purchè la città salva ed incolume si conservasse. S'imbarcava Ferdinando la notte medesima sulla nave di Nelson con Acton, Hamilton ed i cortigiani. Il giorno seguente, non avendo ancor salpato pei venti contrarii, sorse uno spettacolo miserabile; poichè fatte uscir prima le navi Napolitane, sì grosse che sottili, che potevano mareggiare, fece Nelson appiccare il fuoco alle altre, fra le quali campeggiava il Guiscardo grossa nave di settantaquattro cannoni. Arsero in cospetto del re che di non lontano luogo rimirava il fumo ed il fuoco che le proprie sue forze consumava. Si abbruciarono anche con disegno espresso le barche armate della costa di Posillipo ed i magazzini dell'arsenale: la rabbia civile consumava le opere egregie della pace. Fu nella città desolata dolore e terrore per la partenza della reale famiglia. Il volgo sollevato mandò deputati a pregar Ferdinando affinchè restasse, proferendo le sostanze e le vite a difesa ed a conservazione sua; ma fu negata ai deputati la presenza di lui dagl'Inglesi. Nulla più restava da trasportare e da ardere: la dolorosa flotta salpava il dì 2 gennaio, infelice per l'aspetto terribile di Napoli che ancora agli occhi dei naviganti appariva; più infelice pei venti avversi che poco dopo la percossero. Fu lungo e travaglioso il tragitto: accrebbe il dolore, la mestizia e il dolore la morte del principe Alberto, figliuolo del re, fanciullo di sette anni, che in mezzo alle furiose burrasche rendè l'ultimo spirito nel grembo stesso della già tanto addolorata madre. Finalmente le sbattute e travagliate navi afferravano Palermo: le dimostrazioni amorevoli dei Siciliani mitigarono l'amarezza concetta per l'esilio e per la fresca perdita del morto figliuolo. La partenza del re fu in mal punto per l'infelice regno, perchè già la fortuna si mostrava più propizia alle sue armi. Erano, non senza gravi difficoltà per le popolazioni armate che loro contrastavano il passo, Duhesme e Lemoine giunti al campo sotto le mura di Capua. Intanto le popolazioni medesime crescevano di numero, di forze e di furore, e già facendo in ogni luogo suonare le armi e le grida di vendetta, niuna cosa lasciavano sicura alle spalle dei Franzesi. La rabbia loro era incredibile, e commettevano contro i repubblicani che viaggiavano alla spicciolata, atti di ferità più bestiale che inumana. Già Itri, Fondi e Sessa erano in poter dei sollevati, già San Germano si muoveva a stormo; già Teano, alloggiamento principale di Championnet, era stato assaltato e preso; già Piedimonte sul sommo giogo dell'Apennino pericolava; una massa di popoli incitatissimi s'avvicinava al Garigliano e non lasciava alcuna speranza ai repubblicani in picciol sito oramai ristretti. Mandava Championnet ad incontrar la Rey, il quale avendo combattuto più valorosamente che prosperamente, fu fatto tornare con grave perdita frettolosamente nel campo. Il prospero evento aggiunse nuova furia a quelle genti sdegnate e crudeli: spintesi avanti assaltarono il ponte che i Franzesi avevano fabbricato sul fiume, sel presero, e più oltre procedendo, nel parco di riserva rapirono le artiglierie, fracassarono i carretti, trasportarono quante munizioni da guerra poterono. Per tale guasto, le cartucce di provvisione vennero mancando ai Franzesi, già le vettovaglie mancavano, nè vi era modo di andar alla busca per pascere l'esercito, perchè i sollevati inondavano le campagne; il vigore delle menti con gli stromenti di difesa mancava. Da un altro lato, la popolosissima Napoli si muoveva, apprestandosi a correre da Garigliano in aiuto di Capua e dell'esercito che ancor la difendeva. Nè è da passarsi sotto silenzio che la virtù dei Franzesi, oltre il suono dell'armi dei sollevati, che romoreggiavano tutto all'intorno, incominciava ad indebolirsi per un'infelice pruova testè fatta contro Capua. Avendo dato Macdonald un furioso assalto alla piazza, ne era stato respinto con danno gravissimo. Ciò dava loro a temere che i soldati napolitani incominciassero ad agguerrirsi. Si aspettavano d'ora in ora alla foce del Garigliano le genti tornate da Livorno, che dando animo e forza alle turbe stormeggianti sulla destra del fiume, avrebbero fatto un pericoloso assalto a tergo dei Franzesi, mentre sboccando Mack da Capua, gli avrebbe assaliti in viso. Per la qual cosa con un esercito a fronte che si ostinava a voler difendere una città ed un passo tanto abili ad esser difesi, con gli Abruzzesi ed i Campani alle spalle, con la poderosa Napoli in cospetto, rimaneva ai Franzesi poca speranza di salute. La debolezza del vicario Pignatelli aperse una via di scampo ai Franzesi che già incominciavano a disperarsi. S'aggiunse il poco animo di Mack. Perì Napoli per mano di coloro ai quali maggior debito pesava di difenderla. Arrivavano in quell'ora, tanto pregna di dubbio avvenire pei Franzesi, agli alloggiamenti di Championnet il principe di Milano ed il duca di Gesso, che, mandati dal vicario, venivano chiedendo un accordo. Mostrò sulle prime Championnet qualche durezza, conosciuta la timidità di chi reggeva Napoli, e volendo mostrare abilità al combattere; infine pregato da coloro che dovevano minacciare, venne ad un accordo con loro, del quale le principali condizioni furono, che si sospendessero le offese sino alla ratificazione delle due parti: se una ricusasse di ratificare, ricominciassero le offese dopo avviso anticipato di tre giorni; Capua si consegnasse in mano dei Franzesi; l'esercito di Francia occupasse il paese alla destra dei laghi napolitani sino alla foce dell'Ofanto; si serrassero i porti alle navi nemiche della repubblica; non si riconoscessero le opinioni; pagasse il re alla repubblica dieci milioni di tornesi, cinque in cinque giorni, e cinque in dieci; fossero aperte le strade ad ambe le parti pel commercio. Non piacque quest'accordo a nissuna delle parti, perchè il re negò la ratifica e mandò Pignatelli, tornato in Sicilia pel sollevamento di Napoli che or ora racconterassi, nella fortezza di Girgenti. I Napolitani affermarono essere stata un'insidia di Acton, nemico di Pignatelli, dell'averlo messo, partendo, in quella vertigine, acciocchè vi perisse. Mostrossi il direttorio sdegnato contro Championnet come di accordo vile. Ma piacque il trattato a Championnet, perchè con quello e salvava l'esercito e si procurava abilità d'intendersela coi novatori per far del tutto sovvertir Napoli e convertirlo in repubblica. Infatti alcuni fuorusciti napolitani che aveva seco, incominciarono a tenere pratiche segrete coi loro compagni di Napoli, per modo che il generale franzese era per l'appunto informato di quanto alla giornata vi avvenisse. Mali semi sorgevano, si aspettava la occasione. Una cagione che dipendeva dal trattato della tregua, fe' trascorrere le acque mosse, ma in verso contrario. Un Arcambal commissario franzese era andato a Napoli per levarvi il denaro pattuito; il volgo se n'accorse. S'incominciò a mormorare, poi a gridare, poi a minacciare; si trascorse finalmente agli sdegni e sorse in tutta la città fra i lazzaroni un tumulto ed un rumore incredibile. Uscivano furibondi dai nascondigli loro, correvano per le contrade e per le piazze, s'armavano a vicenda, l'un l'altro stimolando, tutti gridavano! _Muoiano i traditori; viva San Gennaro, viva la santa fede, viva il re_. Avidi di far sangue già facevano pruova di manomettere Arcambal; ma trovò modo di porsi in salvo. Fece Pignatelli qualche provvisione per frenare quel cieco impeto; ma il rimedio fu peggior del male, perchè il volgo, vieppiù inferocito a quel ritegno, trascorse in maggior furore chiamando a morte e Pignatelli e Mack e i soldati e tutti che governavano, accusandoli di tradimento. I lazzaroni occupavano i castelli Nuovo, Sant'Elmo e del Carmine: indi correvano all'armeria, dove prese e distribuite fra di loro le armi, s'indirizzavano ad opere maggiori. Pignatelli e Mack pensarono che quello non fosse più tempo da starsene a Napoli e fuggirono, il primo in Sicilia, il secondo all'alloggiamento di Championnet. La guardia urbana fu disarmata. Dell'esercito che da Capua consegnata ai Franzesi se ne veniva alla volta di Napoli, parte sbandatosi cercò ricovero in mezzo ai Franzesi, parte sotto il governo del duca di Salamandra, si unì alla plebe commossa gridando: Viva la patria, viva Napoli, viva il re. Fatti più arditi dal numero e dall'impeto assaltarono rabbiosamente la guardia franzese al ponte Rotto, e parte la ruppero, parte l'uccisero. Protestò Championnet per questo fatto che i Napolitani avessero rotto la tregua ed aperto l'adito alle ostilità. Fuggiti Pignatelli e Mack, una licenza senza freno dominava Napoli sconvolta. In ogni parte erano assalti, depredazioni, incendii e morti. Fulminavano i cannoni dai castelli, fulminavano ai capi delle strade. Fra le grida dei moribondi, fra le minaccie degli uccisori, si udivano cosa che ad ognuno recava maggior terrore: _Viva San Gennaro, viva la santa fede_. Durò gran pezza il tumulto spaventevole. Stanco finalmente di far bottino e sangue, l'impazzato volgo avvisò di crearsi un capo che gli ordinasse e difendesse. Elessero il principe Moliterni. Prima cosa diede opera a piantar certe forche smisurate in parecchi luoghi con minaccia che impiccherebbe chiunque si muovesse senza suo ordine. Poi creava ufficiali municipali e capi del popolo, ed attendeva con manifesti e con bel comparire in pubblico a calmare quegli spiriti infieriti ed a dar qualche sesto alle cose. Ed ecco spargersi subitamente voce, marciare i Franzesi contro Napoli, già esser giunti ad Aversa. Fu Moliterni a parlamento con Championnet nei campi d'Aversa. Riportonne che il generale di Francia non voleva udire proposta alcuna d'accordo, se prima non se gli dessero in mano i castelli e non si togliessero le armi a chi non fosse soldato. Per poco stette che non facessero Moliterni a pezzi gridandolo a furore assassino e traditore. Nè più volendo udire capo di sorta, meno ancora Moliterni, tornarono in sul saccheggiare ed in sull'uccidere più fieramente che prima. Uccisero il duca della Torre, uccisero suo fratello Clemente Filomarino, maltrattarono Zurlo già ministro delle finanze. Nè più guardavano ai forestieri che ai nazionali; trucidarono un fuoruscito tolonese; trucidarono un ufficiale di marina inglese: facevansi della barbarie gioia. Ma Moliterni non secondava più le intenzioni del popolo, tendendo i suoi andamenti ad affidare Napoli alla presenza ed al patrocinio dei Franzesi, verisimilmente perchè credeva che quello fosse il solo modo di salute che restasse. Per arrivare a questo suo fine, aveva introdotto nel castello Sant'Elmo molti de' suoi aderenti e molti ancora che parteggiavano per la repubblica, ed inoltre, armandone quanti più gli venne fatto d'armare, gli aveva distribuiti nei luoghi più opportuni. Avvisavano Championnet e Moliterni che il vincere i lazzaroni in Napoli tanto numerosi, coraggiosi ed arabbiati sarebbe stato piuttosto impossibile che difficile. Perciò Moliterni propagava ad arte fra l'acceso volgo l'opinione ch'era necessario andar ad assaltare i Franzesi che venivano contro Napoli, con dire che il piccol numero loro sarebbe facilmente oppresso dalla sopravanzante moltitudine del popolo. Come era ordito il disegno, così riuscì l'effetto. Usciva il popolo, più impetuoso che esperto di battaglie, a combattere contro i Franzesi, che per la speranza di Sant'Elmo e di trovare in Napoli parte forte in favor loro, ordinati si avvicinavano. Si affrontarono le due parti tra Aversa e Capua; ne seguitava una mischia molto tremenda. Prevalevano i Franzesi per le armi e per l'ordine, prevalevano i Napolitani pel numero e pel furore. Durò per ben tre giorni con variati eventi la battaglia. Le artiglierie di Francia fulminando in quelle spesse squadre, vi menavano uno scempio orribile ed atterravano le file intiere. Rimettevansi i lazzaroni e più aspramente di prima menavano le mani, cercando di avvicinarsi e di venire alle strette col nemico, per fare con lui battaglia manesca. Le artiglierie li guastavano da lontano, le baionette da vicino; ma le morti non gl'intimorivano, anzi piuttosto gl'infierivano. Nei due primi giorni, ruppero parecchie volte i repubblicani, ma questi, come destri e sperimentati soldati, tosto si rannodavano. Nè la notte arrecava riposo; perchè se al chiaro più si udivano le grida de' combattenti, al buio più si udivano quelle degli straziati; e pure nè anche di notte si perdonava alle ferite ed alle morti. Ned era guerra in un sol luogo, ma guerra dappertutto e dappertutto si versava sangue o per uccisioni agglomerate fra corpi grossi o per uccisioni spicciolate fra masse vaghe ed erranti e fra guerrieri isolati. Continuavano a Napoli le carnificine, vi si aggiungeva furore a furore. Fumavano al tempo stesso le incenerite terre d'Abruzzo, del Sannio e della Campania, che la rabbia di guerra e la soldatesca rabbia avevano agli ultimi e più miserandi casi ridotte. Nuovi vesperi siciliani e nuove vendette di vesperi siciliani si agitavano. Non mai i Franzesi si trovarono ridotti a sì duro passo, nè mai con tanta valenzia sostennero un urto di guerra. Infine un fortunato consiglio fece sopravanzare i repubblicani. Championnet mandava Lemoine e Duhesme a ferire con truppe fresche, sbrigatosi testè dagl'impacci dei monti, il fianco destro dei combattenti lazzaroni, i quali, affievoliti dalla fatica e dalla strage, andarono in volta sparsi e sanguinosi riparandosi in Napoli. Mentre nel raccontato modo si combatteva, Moliterni recatosi in mano non solamente il castello di Sant'Ermo, ma ancora quello dell'Uovo, vi aveva inalberato il vessillo tricolorato in segno di pace e di possessione verso Championnet. Ma quando i lazzaroni superstiti alla passata uccisione videro sventolare su quei due forti le odiate insegne, tosto tornarono sui furori, e di nuovo prese le armi, si accingevano a voler impedire ai Franzesi la possessione. Nè si rimasero alle minaccie, perchè impetuosamente contrastavano ai repubblicani l'ingresso. Pendeva tuttavia in bilico la fortuna, quand'ecco calare dai castelli Moliterni con le sue genti ad assaltar alle spalle coloro che lor capo lo avevano creato. Seguitava un durissimo combattimento fra i popolani ed i repubblicani, finchè questi superarono del tutto gli avversarii, cinti e bersagliati da tutte le bande. Allora i Franzesi, benchè i lazzaroni ancora in quest'ultimo frangente fortificassero le strade con isteccati e combattessero dalle case con ogni sorta d'armi, si fecero forzatamente strada fino al palazzo reale e l'occuparono. Poco poscia un'altra squadra di Franzesi, preceduti da novatori del paese, s'introdussero per forza nella contrada principale di Toledo e se ne fecero signori. Tuttavia combattevano ancora sparsamente i lazzaroni con pericolo di sacco e d'incendio; il castel del Carmine appresentava un duro intoppo a superarsi. Per risparmiare il sangue e terminar totalmente quelle moleste battaglie con altro che con armi, uomini astuti, per suggerimenti dei novatori, insinuarono ai lazzaroni che saria bene mandar a sacco il palazzo del re. A tale suono, questi uomini privi di tanti compagni uccisi, e straziati essi medesimi da tante ferite ricevute in difesa del re (cose strane ma vere) si calarono, e rinunziando alle armi, misero in preda le reali spoglie. Restava che il castello del Carmine cedesse. Si venne all'assalto, perchè il presidio non volle mai udire parole d'accordo. Ostinatamente vi si difesero; pure infine il forte cesse in poter dei repubblicani: la sanguinosa Napoli tutta era in potestà loro. Il generale della repubblica, fatto sicuro dell'acquisto di Napoli per l'occupazione dei castelli, mandava al pubblico ch'egli frenava i suoi soldati, desiderosi di vendicare il sangue de' compagni morti nelle battaglie combattute contro gente prezzolata; che sapeva essere i Napoletani un popolo buono, e che bene nel cuor suo si doleva degli strazii sofferti da lui: però rientrassero in sè stessi, esortava, deponessero le armi in Castelnuovo e con queste conserverebbe la religione, le proprietà e le persone salve ed intatte: al tempo stesso arderebbe le case e darebbe a morte coloro che contro i Franzesi usassero le armi: se la tranquillità tornasse, dimenticherebbe il passato e restituirebbe la felicità a quelle ridenti contrade. Partorì questo manifesto l'effetto che Championnet se n'era promesso; Napoli fu ridotta in tranquillo stato, perchè tutti quietarono chi per timore dei Franzesi e chi per timore del volgo. Ma siccome non bastava mettere in calma la metropoli, ma ancora abbisognava ordinare lo Stato, creava Championnet un governo, a cui chiamava venticinque persone, la più parte risplendenti o per dottrina, o per virtù, o per natali, o per tutte queste qualità congiunte insieme; uomini tutti sinceri d'opinione, continenti da quel d'altrui, e quanto degni di esser vissuti ai tempi antichi, tanto inabili a governar la nave dello Stato in tempi tanto tempestosi. Partironsi, secondo il solito, in congregazioni, le quali avevano la potestà esecutiva, mentre tutti insieme collegialmente uniti usavano la legislativa. Fu diviso il regno, pure secondo il solito costume servile, in undici dipartimenti. Quindi crearonsi i distretti, poscia i municipii, ogni cosa a norma delle fogge franzesi: tutto questo chiamossi repubblica Partenopea. Ma prima di raccontar le cose del nuovo governo di Napoli fatte colle più oneste intenzioni, necessario è descrivere come Championnet, dabben uomo se non ingegnosissimo, oprò per solidare l'impresa del regno. Volendo far di Napoli altro che quello che si era fatto di Roma, intendeva non solo a fondare la nuova repubblica, ma ancora a farle sostegno non della forza, ma dell'amore. Chiamato il popolo a parlamento nella chiesa di San Lorenzo, bandiva solennemente in nome del governo franzese e della grande nazione la libertà e l'indipendenza degli Stati napoletani, rinunziava ad ogni ragione di conquista, solo si riservava la facoltà di mettere per una volta una contribuzione militare per dare a' suoi soldati i soldi corsi di sei mesi. Fu la contribuzione di settantacinque milioni compresi dieci per la sola città di Napoli e contado; taglia assai grave, ma che avrebbero i popoli portato volontieri, se non fossero al tempo stesso stati costretti a dare il vitto ed il vestito a quei medesimi soldati che già pagavano. Sapendo poi quanto importassero in quei popoli ardenti le opinioni attinenti alla religione, mandava una guardia d'onore a San Gennaro. Non ammetteva il cardinale Zurlo Capece arcivescovo di Napoli, a ciò esortato dal governo, e il faceva anche volentieri, di confortare con lettere pastorali i popoli ad obbedire alle nuove potestà. Queste cose mitigavano le opinioni contrarie e vieppiù confermavano le quiete. Aboliva il governo i diritti feudatarii ed i fidecommessi e preparava per mezzo della congregazione legislativa la costituzione che avesse a reggere la repubblica. Fu questa costituzione opera specialmente di Mario Pagano, ed in mezzo alla imitazione servile degli ordini di Francia, vi si vedevano alcuni ordini nuovi di non poca importanza e di utilità evidente. Fuvvi principalmente l'autorità censoria commessa ad un tribunale di cinque; fuvvi anche l'eforato. Degni anche di commendazione furono gli ordini proposti per le scuole pubbliche, i quali, mutati i soggetti d'insegnamento, potrebbero utilmente accettarsi anche nelle monarchie. Queste cose trovava Mario Pagano nel suo ingegno; il resto il copiava dalla costituzione franzese, dando in tal modo a conoscere e la capacità della sua mente e la servilità dei tempi. Nè deve essere passato sotto silenzio il ragionamento che si leggeva preposto al modello della costituzione; opera in cui tutto l'acume dei greci ingegni si discopriva, atti sempre a pruovare principii astratti con astrattezze maggiori. Le astrattezze lusingavano gli uomini, le realtà gli sdegnavano; colpa parte di Championnet, parte dei tempi. Era Championnet di natura buona, ma non aveva nervo tale che potesse frenare i suoi, già avvezzi alla licenza negli Stati romani e cisalpini: onde gl'insulti alle persone, anche ai magistrati, massime municipali, e le tolte violenti erano frequenti. I popoli si sdegnavano. A questo si aggiungevano le intemperanze dei democrati più ardenti. I baroni, come aristocrati, come li chiamavano, erano o scherniti con dileggiamenti, o provocati con ingiurie, o nelle tasse sforzate con brutti arbitrii aggravati; il che gl'inimicava, e, siccome quelli che avevano una grande dipendenza, sì per le loro ricchezze e sì per l'effetto degli ordini feudatarii, procuravano con arti e con istigazioni nemici potenti e numerosi alla nuova repubblica. Seguitava a tutte queste un'altra peste ed era quella dei ritrovi politici, in cui giovani infiammatissimi ed invasati delle nuove opinioni si adunavano a ragionare pubblicamente di cose appartenenti allo Stato. Nè i mali prodotti in Francia da simili ritrovi li rendevano più savii, perchè con la medesima veemenza parlavano. Nè procedeva che per le immoderate cose che vi si dicevano, i popoli si alienavano. Peggio poi che non era cosa che gli energumeni, violenti in tutti i paesi, violentissimi in Napoli, non dicessero per istravagante ed eccessiva che si fosse, contro il governo proprio e contro coloro che il componevano. Il che toglieva agli uomini dello stato con la riputazione anche la potenza. Quando prevale il costume che gli uomini più eccellenti sono stimati perfidi, vili, corrotti e tirannici, solo perchè occupano le cariche dello Stato e tengono i magistrati, ogni regola diviene impossibile e lo Stato diviene preda degli ambiziosi. Tal era la condizione del governo napolitano, che odiato dagli aristocrati, biasimato dai democrati, oppresso dai Franzesi, non aveva modo nè di riputazione nè di forza per operare, non che il bene della repubblica, alcun bene che fosse. Restava ai reggitori di Napoli un solo conforto, e quest'era la presenza di Championnet, sempre pronto, per quanto fosse in lui, a frenare la licenza de' suoi ed a secondare gli sforzi di coloro che più avevano in animo l'ordinare un buono Stato che il signoreggiarlo. Accadde che il direttorio di Francia aveva mandato a Napoli per soprantendere ai frutti della conquista, una commissione civile di cui era capo quel Faipoult già mescolato nelle rivoluzioni genovesi. Come prima ei giungeva a Napoli, stimando che quanto ai diritti di conquista ed alle esazioni Championnet fosse stato troppo indulgente, pubblicava un editto con cui dannando quanto il generale aveva fatto, affermava che niun altro magistrato che la commissione civile aveva potestà di por le tasse, e che chi le pagasse in tutt'altra cassa che in quella della commissione, male pagherebbe. Poscia, più oltre procedendo, ordinava che in proprietà di Francia erano caduti per conquista tutti i beni appartenenti alla famiglia reale, spiegando che in esso diritto cadevano non solamente quanto il re possedeva, come palazzi, ville, caccie e simili; ma ancora i beni Farnesiani che erano di proprietà privata di Ferdinando, quei dell'ordine di Malta, i costantiniani, i gesuitici, quei destinati alle pubbliche scuole, i beni stessi dei banchi, che altro non erano che un deposito dei denari dei particolari, e tutte le casse pubbliche, e fino anche i decorsi delle contribuzioni. Così da Napoli si richiedeva un gran dispendio per l'esercito e al tempo stesso gli si toglieva ogni fonte di rendite per cui potesse supplire. Sdegnossi Championnet all'ardimento del commissario e lo cacciava soldatescamente di Napoli. Era discordia tra i Franzesi, discordia fra i Napolitani: tutti venivano in dispregio: il terrore delle armi solo sosteneva lo Stato. Preparavasi in questo mentre un accidente molto grave contro i Napolitani. Era Championnet venuto in disgrazia del direttorio, e perchè non contento all'aver rincacciato dallo Stato romano i Napolitani, avesse subitamente, non aspettati nuovi comandamenti, invaso il regno di Napoli, mentre esso direttorio desiderava di temporeggiare, e perchè si apparecchiava a fare una spedizione in Sicilia per torre al re quell'ultima parte de' suoi dominii; il quale intento toccava certi tasti molto reconditi del ministro Taleyrand, sì che questi, accennando col direttorio in un luogo col pretendere il motivo che bisognasse frenare quello spirito ambizioso di Championnet, e battendo veramente in un altro, aveva operato che il direttorio rivocasse il generale. Prese allora Macdonald il governo supremo dei Franzesi; tornò Faipoult in Napoli ad estenuare i poveri Partenopei. Mentre si travagliava con poco frutto nella capitale per la repubblica, moti di grandissima importanza accadevano nelle provincie. Non amavano i baroni il nuovo Stato, manco ancora i Franzesi, e siccome tutti avevano bande di bravi che da loro dipendevano, uomini audacissimi, ed alcuni facinorosi, le spingevano a tentare rivoluzioni contro coloro che dominavano. Gli ecclesiastici, che non ignoravano che, sebbene fossero vezzeggiati in quei principii del governo, erano da lui veduti malvolentieri, con le maggiori persuasioni che potessero pruomovevano le inclinazioni contrarie. Molti soldati vecchi del re, non essendosi voluti accomodare al dominio dei nuovi signori, si erano ritirati nei luoghi più lontani ed inaccessi; quivi attendevano a fomentare discordie e sollevazioni. A questi si accostavano molti altri uffiziali e soldati dell'esercito regio, i quali, dopo di essersi dimostrati pronti a servire i repubblicani, da loro non curati o per necessità o per la penuria dell'erario, o perchè non se ne fidassero, si erano sdegnosamente partiti e condottisi nelle provincie, quivi con le parole incendevano e con la presenza animavano le popolazioni ad insorgere. Tutti questi erano anche confortati da qualche corpo di gente armata che, dopo l'occupazione di Napoli, o si erano ritirati interi od erano mandati dalla Sicilia appunto con l'intento di sostenere quei moti che si manifestavano sulla terra ferma in favore della potestà regia. A questi motivi tanto potenti si aggiungevano i romori che correvano delle armate turche e russe che dovessero fra breve arrivare nell'Adriatico con grossi soccorsi di gente da sbarco in favore de' regii. Questi aiuti, parte veri, parte ancora esagerati dalla fama, mirabilmente infiammavano i popoli a proseguire i disegni che già avevano concetti. Dimostravano quanto fossero deboli nelle provincie i fondamenti del governo nuovo i successi avuti nelle terre d'Otranto e di Bari da alcuni fuorusciti Corsi, che sulle prime avevano maggior desiderio di fuggire che di combattere: ma il moto si fece d'importanza: accorrevano buoni e cattivi, nobili, plebei, laici, ecclesiastici, e da un accidente fortuito nasceva un gran fondamento a far risorgere l'autorità del re. Quasi al tempo stesso sbarcava con poche genti a Reggio di Calabria il cardinal Ruffo, al quale il re aveva dato facoltà amplissime, chiamandolo suo vicario. Il secondavano il preside della provincia Winspear e l'uditor Fiore. Questo debole principio in poco spazio di tempo cresceva a dismisura e produceva un moto che fu cagione di accidenti di grandissimo momento. Primieramente nella ulteriore Calabria, per le aderenze che la sua famiglia vi aveva, trovava il cardinale molto seguito: poi qualche nervo di truppa reale si aggiungeva, e finalmente chi voleva il re o le vendette o il sacco, a lui cupidamente si accostava. Guadagnò prima le campagne, poscia le terre aperte, finalmente le murate e tanto crebbe la sua potenza, che presi Mileto, Monteleone e Catanzaro, riduceva in poter suo tutta la Calabria ulteriore. Il cardinale Zurlo Capece, arcivescovo di Napoli, lo scomunicava, ed egli scomunicava l'arcivescovo. Nè contenendosi nelle parole, anzi, seguitando il corso favorevole della fortuna, assaltava Cosenza, capitale della Calabria esteriore, e quantunque ella fosse una forte sede di repubblicani, dopo una battaglia assai feroce se ne impadroniva. Prese, non senza una ostinata difesa, Rossano, prese Paola, bellissima città di Calabria, la prese e l'arse per l'animoso contrasto fattovi dai repubblicani; quest'era la pessima delle guerre civili. Ruffo prevaleva; il terrore l'accompagnava e gli dava in mano tutte le Calabrie insino Matera. Quivi si congiunse con de Cesare, sommovitore della provincia di Bari. Tumultuando le Calabrie, non si mostravano le provincie, anche le più vicine a Napoli, più quiete; gente sfrenata guidata da capi ancor più sfrenati, commettevano, sotto specie di voler rinstaurare il governo regio e difendere la religione, atti della più eccessiva barbarie. Uno Sciarpa, antico soldato, uomo tanto audace quanto feroce, aveva posto a romore le rive del Sele, tempestando fin sotto alle mura di Salerno. Dalla parte della Campania era sorto in Sora un moto pericolosissimo, suscitato specialmente da un Mammone Gaetano, prima mulinaro, poi capo dei sollevati di Sora. Commise costui opere indegnissime. Dall'altra parte dell'Apennino incrudeliva Proni con le sue Abruzzesi bande, risorto a nuovo furore, perchè Duhesme e Lemoine si erano condotti sotto le mura di Capua e di Napoli. Ma la più pericolosa e più importante sommossa, dopo quella del cardinale ardeva nella Puglia, sì perchè era molto grossa per sè, sì perchè a lei si erano congiunti gli Abruzzesi, sì perchè alle abruzzesi rive avevano adito le armate russe, ottomane ed inglesi, e sì perchè la Puglia per la feracità delle sue terre nodriva la popolosa Napoli. A questo modo, nonostante la gloriosa vittoria di Championnet, da Napoli in fuori e da alcune rare terre nelle provincie, in cui i repubblicani si difendevano piuttosto con valore smisurato che con isperanza di vincere, tutto il paese si era commosso a favore del re, quantunque i modi che si usavano non fossero degni nè del re nè di alcun altro governo che sia al mondo. Pressavano massimamente le cose della Puglia per motivo delle vettovaglie. Inoltre diminuivano i Franzesi, per tanto ardimento dei popoli, continuamente di riputazione, ed ogni giorno più si rendeva necessario che con qualche nuovo e segnalato fatto mostrassero, che non era cessato in loro per le delizie di Napoli il valore. Per la qual cosa erasi deliberato Championnet (queste cose accadevano prima della sua partenza) a fare due spedizioni, una contro la Puglia, l'altra contro la Calabria, commettendo la prima alla fede ed al pruovato valore di Duhesme, la seconda al generale Olivier. Accompagnava Duhesme, da parte del governo napolitano con una legione napolitana ma con le compagnie ancor non piene, il conte Ettore di Ruvo, giovane d'incredibile ardire, d'animo feroce e capace di tentare qualunque difficile e pericolosa impresa. Dopo varie vicende, era venuto con Championnet, e per mezzo suo fu facilitata la conquista del regno, massimamente quella della capitale. Ora il governo napolitano, conoscendo la natura indomabile e irrequieta di quest'uomo, che sempre pasceva l'animo di pensieri smisurati e si mostrava più inclinato a comandare che ad obbedire, il mandava con Duhesme in Puglia, dove erano le sue terre, sotto colore che trovandosi in paese proprio e pieno di parenti e d'amici, vi facesse gente. Fecevi gente in verità e per pagarla, poichè ai mezzi non guardava, ma solo al fine, e neanche se questo fosse giusto o no, che ciò poco gl'importava, pose taglie e fece depredazioni incredibili, non considerando nè come nè contro chi, o repubblicani o regi che si fossero: soldati e denari per pagargli, questo solo voleva. Il governo aveva qualche sospetto di lui: eppure era il solo uomo capace di puntellare quello Stato cadente: l'avrebbe anche fatto, ma forse per sè, non per la repubblica. Accompagnava Olivier per alla volta della Calabria uno Schipani, piuttosto repubblicano ardente, che buon soldato, e non di natura tale che potesse star a fronte dell'audace Sciarpa e dell'astuto ed animoso cardinale. Partivano Duhesme ed il conte Ettore: marciavano cauti per paura d'agguati e di assalti improvvisi in un paese sollevato; marciavano spigliati e divisi per ispazzare largamente il paese: con loro marciavano i consigli militari, sempre pronti a dannare a morte gli autori delle sollevazioni. Molti presi furono incontanente uccisi. Così dall'un canto Duhesme ed il conte Ettore incrudelivano coi supplizii contro i regi, dall'altro Sciarpa, Mammone e Ruffo incrudelivano anche coi suplizii contro i repubblicani. Le ire erano crudeli, le vendette terribili; le ire chiamavano le vendette, le vendette le ire. Marciava Duhesme spartito in due colonne. Vinte parecchie città, si deliberava ad andare all'assalto di San Severo, perchè distrutto quel nido principale, sperava che gli altri si sottometterebbero. Erano i regi in San Severo grossi di dodici mila combattenti fra soldati vecchi e gente collettizia. Prese le stanze sopra un monte fecondo di ulivi, dominavano tutta la pianura sottoposta, che avevano assicurata con cavalleria e cannoni piantati contro la stretta, che alla pianura medesima apriva l'adito. Accorgendosi i regi che i repubblicani si distendevano a sinistra per assaltarli di fianco e alle spalle, si calarono con grandissimo ardire ed attaccarono con loro una sanguinosissima battaglia. Durò lunga pezza, con grave uccisione da ambe le parti, perchè il valore era uguale nei due eserciti nemici, e se prevalevano i regi di numero, prevalevano i repubblicani in perizia. Infine andarono i primi in volta, e già al punto stesso il generale Forest arrivava alle loro spalle. Allora fuvvi piuttosto carnificina che uccisione. Tre mila soldati vi perdettero la vita: tutti o la più parte l'avrebbero perduta, se una moltitudine di donne e di fanciulli in abito squallido e lugubre, miserando spettacolo, non fosse venuta a chiedere umilmente ed istantemente al vincitore la vita dei padri, dei mariti e dei figliuoli loro. Piegavasi Duhesme a misericordia, quantunque fosse molto sdegnato, e comandava che cessassero le ferite e le morti. La fama della vittoria di San Severo ridusse all'obbedienza le contrade vicine, aperse anche le strade per Pescara, cosa di molta importanza pei Franzesi. Intanto licenziato Championnet, aveva Macdonald assunto il governo, e non solo Duhesme era stato richiamato dalla Puglia, ma ancora gli fu comandato che ritirasse le genti appresso Napoli. Le quali cose saputesi dai regii, inondavano di nuovo la provincia e tagliavano le strade dalla Puglia a Napoli. Fu ben forza allora, se non si voleva che Napoli affamasse, il pensare a riconquistare le terre perdute ed a rompere quella testa di regii, che si era adunata in Trani. Era Trani, come anche Andria, munita con fortificazioni vecchie e nuove; pieno tutto d'uomini armigeri, rabbiosi e risoluti a difendersi. S'incamminava l'assalto da Andria: ad estremo pericolo era per succedere estrema barbarie. Incominciò la battaglia con furor civile da ambe le parti; gli assalitori combattevano con egregio valore, ma con non minore animo si difendevano gli assaliti, nè i primi facevano frutto di momento. Già venivano alle scale, cimento per essi molto pericoloso, quando il tirar di un obice atterrava la porta di Andria. Precipitaronsi i Franzesi; a loro si accostavano i napolitani. Continuarono ciò non ostante a difendersi furiosamente da tutte le case i regi. Non venne la città intieramente in poter dei repubblicani se non dopo che tutte le case, le contrade, le piazze furono piene di cadaveri e di sangue. Nè tante morti nè tanto sangue bastarono: non fu contento il destino se non alla distruzione totale della misera terra. Sei mila Andriotti furono in poco d'ora mandati a fil di spada, la città intiera data alle fiamme; i vecchi, le donne, i fanciulli, e nè anche tutti, furono risparmiati. Trani tuttavia si teneva pei regi, nè lo sterminio d'Andria gl'intimoriva. Città con bastioni, con un forte, con otto mila difensori usi alle armi, accesi dalla rabbia civile e religiosa, pareva piuttosto atta a pigliarsi per assedio che per assalto. Ma il tempo stringeva, ed i repubblicani, sì franzesi che napolitani, erano pronti a qualunque più pericolosa fazione. Andavano dunque all'assalto di Trani. I regi, essendosi accorti del disegno, si assembrarono grossi ad aspettarli al luogo minacciato. Ardeva la battaglia e succedevano molte morti, senza frutto alcuno per l'esito del fatto, da ambe le parti. In questo mezzo tempo i difensori, tutti intenti a tener lontani dalle mura gli assalitori, indebolirono le difese di un fortino situato a riva il mare: della quale occasione prevalendosi i repubblicani, se ne impadronirono e voltarono i loro cannoni contro la città. Questo grave accidente sconcertò le difese: già i repubblicani, non senza però molto scempio loro, saliti sulle mura facevano inchinar la fortuna a loro favore. Tuttavia i regi continuavano a difendersi ostinatamente, essendo come in Andria, ogni casa ed ogni contrada fortezza. Finalmente sparso molto sangue in una pertinacissima difesa i regi abbandonavano il forte, e si davano a correre alle navi, che nel porto erano allestite per fuggire. Ma nemmeno in queste trovarono scampo; poichè i Franzesi, avendo preveduto il caso, avevano armato alcune navi che vietarono loro il passo. Alcune delle regie furono prese per assalto, altre andarono a traverso sulla spiaggia. Chi fuggiva sul lido era senza misericordia e remissione alcuna ucciso dai trionfanti repubblicani. Fu la bella città di Trani, come Andria, data al sacco ed alle fiamme: de' suoi abitatori, quelli che o portavano o potevano portar armi, mandati a fil di spada. Quietava, ma non del tutto, la Puglia per queste vittorie. Schipani mandato a combattere i sollevati ed a sopire le cose di Calabria, non solo non vi fece frutto, ma ancora vi nocque, perchè e conflisse infelicemente ed irritò con parole ed atti repubblicani molto estremi le popolazioni, non che troppo incrudelisse, ma perchè troppo provocasse. I sollevati di questa provincia ebbero facoltà d'unirsi con le bande del cardinale Ruffo, sicchè, pochi luoghi eccettuati, le Calabrie e la terra di Bari sollevata a rumore impugnavano coll'armi in mano la recente repubblica. Nè i Franzesi potevano porvi rimedio, perchè non si fidando degli Abruzzi, nè della Campania, e nè anco della città stessa di Napoli, nè bastantemente forti di numero essendo, pensavano piuttosto a mantenersi nella capitale che a conquistare le provincie. Schipani, tentato invano le Calabrie, se ne giva a far la guerra contro i sollevati di Sarno, che più vicini a Napoli tumultuavano. Ma i popoli lo combatterono per guisa che fu costretto ad andarsene. Vi si condussero i Franzesi; saccheggiarono Lauro, poi se ne tornarono ancor essi, non vinti, ma più inviperiti i Sarnesi ed i Lauriani. Si unirono questi ai sollevati delle vicine contrade di Salerno; e di già una grandissima necessità stringeva la capitale del regno. Accresceva il pericolo l'avere gli Inglesi occupato, non senza un valoroso fatto di Francesco Caracciolo che li combattè per molte ore, le isole d'Ischia e di Procida, che per essere situate alle bocche del golfo di Napoli, ne danno la signoria a chi le tiene. Così ardeva la sollevazione contro il governo nuovo nella maggior parte del regno, s'incominciava a temere che l'impresa di Championnet fosse stata più imprudente che audace. Opere di estrema barbarie furono commesse da ambe le parti alla Fratta ed a Castelforte, perchè prima i regii poscia i repubblicani vi uccisero spietatamente ogni corpo vivente, e le cose e gli edifizii tutti distrussero ed arsero. Guerra crudelissima era questa, siccome portava la qualità dei tempi, l'indole ardentissima degli abitanti e la natura sempre estrema delle opinioni politiche e religiose. Si vedevano padri combattere contro i figliuoli, figliuoli contro i padri, fratelli contro i fratelli, e per fino mariti contro le mogli e mogli contro i mariti. Per atterrire chi atterriva, Macdonald mandava fuori, a dì 4 marzo un aspro e furioso decreto, nuovo esempio del quanto le rivoluzioni stravolgano gli uomini. Il pericolo delle sollevazioni popolari contro i governi repubblicani instituiti in Italia e contro i Franzesi, si accresceva vieppiù dalle sommosse che, nate ora in un luogo ed ora in un altro, travagliavano lo Stato romano. Tumultuavano i popoli di Terni e dei luoghi vicini ed impedivano le strade fra Terni e Spoleto; già Rieti pericolava. Civitavecchia si era ribellata contro i nuovi signori; durò un pezzo il generale Merlin a sottometterla, ancorchè con palle infuocate la combattesse. Stroncone e Alatri parimente rumoreggiavano; Orvieto anch'esso aveva fatto mutazione ed ostinatissimamente si difendeva contro i repubblicani. L'incendio si dilatava; ogni luogo era o mosso con le armi impugnate o poco sicuro anche nella quiete. Nonostante i pericoli che correvano, il direttorio di Francia, o non curandoli o facendo sembianza di non curarli, si era risoluto a far mutazioni nel governo di Napoli. Arrivava in Napoli Abrial, commissario del direttorio, il quale, prevalendosi dei buoni si sforzava di consolare gli uomini afflitti dai tempi tristi. Tentò riforme nelle finanze e fecene di lodevoli. Gli ordini giudiziali molto migliorava; gli ordini politici, non avendo il mandato libero, stabiliva a modo di Francia, non avuto alcun riguardo al modello della costituzione proposto dalla congregazione napolitana e di cui abbiamo di sopra parlato. Creò fra gli altri un direttorio; imitazione servile. Ma quel che l'ordine aveva in sè di cattivo, correggeva con le persone: chiamovvi Ercole d'Agnese, Ignazio Ciaia, Giuseppe Abbamonti, Giuseppe Albanesi, e Melchior Delfico, uomini tutti migliori dei tempi e di non ordinaria virtù. Diede ancora Abrial prova notabile, tacendo le altre, dell'animo suo civile, quando Macdonald mandava i suoi soldati a ridurre agli ultimi casi Sorrento, patria di Torquato Tasso, che in quelle Sarniane e Salernitane rivoluzioni si era levata a romore contro i Franzesi; imperciocchè operò col generale che la casa dei discendenti dei poeta, quando la terra fosse presa d'assalto, salva ed intatta si conservasse. Vollero riconoscere la conservata salute, offrendo a Macdonald, perchè non sapendo di Abrial, a lui riferivano, il ritratto del Tasso dipinto dal vivo, come si credea, da Francesco Zuccaro. Il ricusava Macdonald, facendo certa la salvata stirpe dell'autore primo del benefizio, ed essa, l'immagine del porta salvatore ad Abrial offerendo, pagava con segno di gratitudine unico al mondo, un immenso benefizio. L'accettava di buon animo Abrial e molto caro se lo serbava, dolce e pietosa conquista. Restava che i due fiori d'Italia, Lucca e Toscana, si guastassero. Entrava sul principiare del presente anno in Lucca, accompagnato da quattrocento cavalli, Serrurier: tosto pubblicava le solite lusinghe. Il fine primo ma non primario dell'invasione lucchese era il prestito di due milioni di franchi che dai Lucchesi si richiedeva pei servigi dell'esercito: poi si voleva venire alla mutazione del governo, benchè le parole suonassero in contrario. Già Lucca era serva, poichè l'antico governo stesso non poteva più pubblicare ordine alcuno se non approvato da Serrurier. Miallis succedeva a Serrurier; poi i repubblicani vi s'ingrossavano. Infine, stimolata dalla presenza loro, verso la metà di gennaio tumultuando la parte democratica, condotta da un Cotenna, addomandava l'abolizione della nobiltà e l'instituzione dello Stato popolare; non v'era modo di resistere per le insidie cittadine e forastiere. Si restrinsero i nobili per consultare, piuttosto atterriti che deliberanti, e, cedendo al tempo, stanziarono che fosse abolita la nobiltà, che il popolo lucchese riassumesse la sovranità, che dodici deputati si eleggessero per ordinare una costituzione democratica secondo il modello di quella che reggeva Lucca prima della legge Martiniana. Furono eletti, la maggior parte nobili. I democrati pazzi non vollero udire parole italiche; però fecero accettare le forme franzesi. Nacquero adunque nella mutata Lucca, come in Francia, a Milano, a Genova, a Roma, i due consigli col direttorio. Incominciossi a dar mano a spogliar l'erario di denaro, le armerie d'armi, i granai di vettovaglie; in poco d'ora i frutti dell'antica e mirabile provvidenza lucchese furono dissipati e guasti. Quindi sorsero le parti, perchè chi voleva vivere Lucchese e chi unito alla Cisalpina. Si aggiunsero le solite tribolazioni di dover vestire, pascere alloggiare, pagare i soldati forastieri che andavano e venivano o stanziavano, ora Liguri, ora Cisalpini, ora Franzesi, con molte altre molestie, accompagnature insolenti del dominio militare. Brevemente, la fiorita ed intemerata Lucca divenne sentina di mali e ne fu desolata. Instituitosi dal generale di Francia in Piemonte, dopo l'espulsione del re, un governo che non si saprebbe con qual nome chiamare, si conobbe tostamente che le recenti mutazioni non erano grado dei popoli. I soldati massimamente non si potevano accomodare, perchè ed erano avversi per le passate instigazioni ai soldati Franzesi, e questi in grado di vinti tenendoli, non li trattavano da compagni. Si aggiungevano le solite insolenze, che infiammavano a rabbia un popolo poco tollerante delle ingiurie. Vi era dunque in Piemonte quiete apparente e sostanza minacciosa. Grande scapito aveva patito il governo e per lo spoglio del palazzo del re, non da' Piemontesi, e per aver mandato i capi di famiglia di primaria nobiltà come ostaggi, e pei biglietti di credito, perchè prima promise di non risecarne il valore, e poi il risecava di due terzi, il che fu grave ferita a coloro che li possedevano. Sobbissava il Piemonte sì pei debiti, nè poteva bastare alle spese. S'aggiunse la voragine intollerabile dei soldi, del vestito, del cibo, delle stanze, dei passi pei soldati forastieri. Rovinava a precipizio lo Stato: in tre mesi, sebbene si estremassero le spese pei servigii piemontesi, si spesero tra in pecunia numerata ed in sostanze meglio di trentaquattro milioni. A qual fine si andasse, nissuno il sapeva: la desolazione e la solitudine erano imminenti. Quest'erano le finanze: lo stato politico non era migliore. Già abbiamo detto in parte ciò che rendeva il governo poco accetto. Seguitava che i municipali di Torino, imitando quei di Parigi ai tempi della rivoluzione, l'emulavano e traevano con sè molto seguito. A questo erano stimolati da alcuni repubblicani franzesi, i quali si lamentavano di non aver avuto dal governo piemontese quelle ricompense che credevano esser loro dovute; del che i loro aderenti del paese aspramente si dolevano, tacciando il governo d'ingratitudine. I musei intanto e le librerie si spogliavano rapivasi la tavola Isiaca, rapivansi i manoscritti di Pirro Ligorio e quanto si credeva poter ornare il magnifico Parigi a detrimento della scaduta Torino. In mezzo a tutto questo mandava il governo l'avvocato Rocci ed il conte Laville deputati a Parigi, perchè ringraziassero il direttorio della data libertà, il tenessero bene edificato ed esplorassero qual fosse il suo pensiero intorno alle sorti future del Piemonte. Abolivansi i fedecommessi, abolivansi le primogeniture, facendo di ciò vivissime istanze i cadetti delle famiglie nobili, ma la esecuzione fu sospesa dal direttorio di Francia per opera del conte Morozzo, che si era condotto espressamente a Parigi. Abolivansi anche i titoli di nobiltà e furono arsi pubblicamente sulla piazza del castello. Intanto le sette, per l'incertezza delle sorti piemontesi, si moltiplicavano e s'inasprivano. Chi voleva esser Franzese, chi Italiano, chi Piemontese. Si viveva in queste incertezze, quando arrivava da Parigi l'avvocato Carlo Bossi, uno degli eletti al governo. Egli adunque avendo avuto l'intesa da Joubert, da Taleyrand e da Rewbell, uno dei quinqueviri, di ciò che il direttorio voleva fare del Piemonte, e parendogli che miglior consiglio fosse l'essere congiunto con chi comandava che con chi obbediva, si era deliberato a proporre in cospetto del governo il partito della unione con la Francia. Seguì tosto l'effetto, perchè avendo parlato con singolare eloquenza, da quell'uomo d'ingegno piuttosto mirabile che raro ch'egli era, e confermato il suo favellare con raziocinii speciosissimi, perciocchè nell'una e nell'altra parte valeva moltissimo, vinse facilmente il partito; non avendovi nissuno contraddetto, perchè alcuni non vollero, altri non seppero, stantechè la proposta era inaspettata. Accettatosi dal governo il partito dell'unione, furono tentati al medesimo fine i municipali di Torino. Vi aderirono volontieri. La deliberazione della capitale fu di grandissima importanza, perchè, essendo conforme a quella del governo, facilmente tirava con sè tutto il paese. Si mandarono commissarii nelle provincie a far gli squittini per le unioni. I popoli non l'intendevano e certamente ripugnavano. Ma l'autorità del governo e la presenza dei Franzesi facevano chiarire i magistrati in favore. Mandavansi a Parigi per portar i suffragi Bossi, Botton di Castellamonte, e Sartoris, uomini di celebrato valore e di gran fama in Piemonte; ma vissuti, discordi a Parigi, produssero discordia nella patria loro. Questa risoluzione del governo lo scemò di riputazione, perchè il popolo non amava l'imperio dei forastieri; gl'Italiani si adoperavano per farlo vieppiù odioso. Fu anche non cagione, ma occasione di un moto più feroce e ridicolo che nobile e pericoloso nella provincia d'Aqui. Dieci mila sollevati, compromessi molti luoghi, si disperdevano e della loro imbecillità pativano i danni Strevi, Aqui, ed altri comuni ancora. Avuto il suffragio dell'unione, e conoscendo il direttorio di Francia che il governo del Piemonte, per aver perduto la riputazione, gli era divenuto uno stromento inutile, vi mandava Musset con qualità di commissario politico e civile, affinchè vi ordinasse il paese alla foggia franzese. Arrivato, tutte le ambizioni e di nobili e di plebei si voltavano a lui, ed ei si serviva dei gallizzanti, temeva degli Italici. Fece i soliti spartimenti del territorio, creò i tribunali, i magistrati distrettuali e municipali secondo gli ordini usati in Francia. Per riordinar le finanze tanto peggiorate, chiamava a sè Prina, che molto ed anche troppo se n'intendeva. S'ingegnava di sopire le passioni accese, perchè era uomo buono, ma l'incendio era troppo grave; già nuovi nembi, che s'ingrossavano verso settentrione, dando timori e svegliando nuove speranze, infiammavano viemmaggiormente le passioni già tanto accese. Così, come abbiam raccontato, eran condizionati Napoli e Piemonte. Meglio Genova e Milano si mantenevano per aver governi più ordinati, ma più la prima che il secondo, perchè l'amor della adulazione verso i forestieri vi era minore. Roma era straziata continuamente da uomini avari e da importune mutazioni in chi governava. Dappertutto erano apparecchiate le occasioni alla tempesta, che già si avvicinava ai confini d'Italia. Le arti dell'Inghilterra, delle quali abbiamo altrove parlato, partorivano gli effetti che da loro si erano aspettati, e già tutt'Europa novellamente si muoveva a danni della Francia e dei nuovi Stati che ella aveva creato. Aveva l'Austria mandato un forte esercito in Italia, alloggiandolo sulle sponde dell'Adige e della Brenta. Al tempo stesso aveva operato che la parte che nei Grigioni inclinava a suo favore la chiamasse a preservar il paese dall'invasione dei Franzesi. Vi aveva pertanto mandato nuovi battaglioni per occupar quelle montagne, per modo che le sue prime guardie si estendevano da una parte sino ai confini della Svizzera, dall'altra sino a quei della Valtellina. Omessi i generali vinti, commetteva l'imperadore Francesco il governo militare a pruovati capitani, a Bellegarde nei Grigioni, a Melas in Italia; era con lui Kray, guerriero che si era acquistato buon nome nelle guerre germaniche e molto amato dai soldati. In tal guisa l'Austria si preparava alla guerra. Ma il fondamento principale di tutta l'impresa erano i soldati di Paolo imperadore, che, già lasciate le fredde rive del Volga e del Tanai, marciavano alla volta della Germania ed erano destinate a fare con gli Austriaci uno sforzo contro l'Italia. Conduceva questi soldati tanto strani il maresciallo Suwarow, capitano uso, per l'incredibile suo ardimento, a rompere piuttosto che a schivare gli ostacoli della guerra. A tutta questa mole, già di per sè stessa tanto grave, si aggiungevano le forze marittime dell'Inghilterra, della Russia, e della Turchia, le quali, l'Adriatico dominando ed il Mediterraneo correndo, potevano effettuare sulle coste di Italia subiti trasporti e sbarchi, abili a disordinare i disegni dei capitani della repubblica. Nè, come abbiam veduto, era l'Italia sana rispetto ai Franzesi, perchè infiniti sdegni vi erano raccolti, sì per la contrarietà delle opinioni attinenti allo Stato od alla religione, e sì per le offese recate dal nuovo dominio. Dall'altro lato era intento del direttorio di far guerra con tre eserciti, dei quali il primo condotto da Jourdan avesse carico, varcato il Reno di assaltare la Baviera, che s'era accostata alla lega, il secondo governato da Massena negli Svizzeri, facesse opera di cacciare gli Austriaci dai Grigioni, d'invadere il Tirolo, e, camminando avanti, di dar mano a Jourdan dall'una parte, dall'altra a Scherer in Italia. Era stato proposto alle genti italiche il generale Scherer, vincitore di Loano. Questo terzo esercito, spingendosi anch'esso avanti, doveva, passate le Alpi Giulie e Noriche, congiungersi coi due precedenti per conquistare gli Stati ereditarii. Aveva con sè congiunti i Piemontesi ed i Cisalpini. Joubert, che era per lo innanzi generalissimo, e molto capace per l'ingegno, l'ardire e l'esperienza di governar questa guerra, aveva chiesto licenza, ed il direttorio, che riteneva in tutte le cose le solite sospizioni, temendo di lui, molto volentieri glie l'aveva conceduta. Compariva Scherer, non senza parigino fasto; il che rendeva più notabile la semplicità del vivere di Joubert e lo squallore dei soldati. Ciò fece anche sospettare che le opere del peculato avessero peggio che prima a ricominciare: ognuno stava di mala voglia. Non ostante le ostili dimostrazioni, la guerra non era ancor rotta fra le parti, perchè il direttorio, prima di risentirsi dell'avvicinarsi dei Russi, aspettava che la fortezza di Erebrestein venisse in poter suo. L'Austria stava attendendo, per non trovarsi a combatter sola, mentre poteva combattere accompagnata, che le genti russe alle sue si congiungessero. Finalmente dopo un lungo assedio, costretto dalla fame, Erebrestein si dava ai repubblicani. Insorse incontanente il direttorio, e mandò dicendo all'imperator d'Alemagna, che se i Russi non fermassero i passi contro la Francia e dagli Stati imperiali non retrocedessero, l'avrebbe per segno di guerra: la corte imperiale diè risposte ambigue e si temporeggiava per dar comodità ai soldati di Paolo di arrivare. Conobbe la cosa il direttorio, e però si determinava del tutto allo guerra, volendo prevenire quello che l'Austria aspettava. Per la qual cosa Scherer altro non attendeva, per dar principio alle ostilità che l'udire che Jourdan e Massena avessero fatto il debito loro sul dorso germanico delle Alpi. Sentite le novelle del passo effettuato sul Reno del primo, e dello aver combattuto il secondo prosperamente, non senza però sanguinosissime battaglie, nei Grigioni, si risolveva a non più porre tempo in mezzo per assaltare il nemico. Credeva il direttorio, avvicinandosi la guerra contro l'Austria, non si poter fidare del granduca Ferdinando di Toscana, e perciò si era risoluto di cacciarlo da' suoi Stati. A questo fine, toccato prima che avesse dato asilo al papa e passo ai Napolitani, ed affermato che s'intendesse segretamente coi confederati ai danni della repubblica, Scherer ordinava che il dominio di Francia s'introducesse in Toscana. Così il direttorio stringeva nelle sue mani tutta l'Italia a quel momento stesso in cui era vicino a perderla tutta. Partitosi inaspettatamente il generale Gaultier da Bologna, dove aveva le stanze, entrava nella felice Toscana, e il dì 25 di marzo, conducendo con sè un grosso corpo di cavalleria con qualche nervo di fanteria e col solito corredo di artiglierie e di salmerie, faceva, qui trionfatore, il suo ingresso armato per la porta di San Gallo nella pacifica città di Firenze. Così la sede di civiltà divenne occupata da insolite e forestiere soldatesche. I trionfatori disarmavano i soldati toscani, s'impadronivano delle fortezze, del corpo di guardia, del palazzo vecchio e delle porte. Al tempo medesimo Miollis, assaltata ed occupata Pisa, se ne andava a Livorno, e quivi, disarmate le truppe del granduca, poneva presidio nei forti, guardie sul porto, mano sui magazzini inglesi e napolitani. Un Reinhard, commissario del direttorio, recava in sua potestà la somma delle cose, ed ordinava che i magistrati continuassero a fare gli ufficii in nome della repubblica franzese. Disfatto dai repubblicani il governo di Toscana, partiva per Vienna con tutta la sua famiglia il granduca, e gli fu dato facoltà dagli occupatori del suo Stato di portar con sè parte del mobile del palazzo Pitti, e alcuni capi di pittura e scultura notabili. Il caso strano mosse, non tutti, ma parte dei Toscani: piantarono i soliti alberi sulle piazze, fecero discorsi, gridarono libertà; pure non si fecero tanti schiamazzi come altrove. Il dominio dei Franzesi in Toscana cominciò da opere spietate. Gli esuli Franzesi, o preti o laici che fossero, che sotto il placido dominio di Ferdinando si erano ricoverati, furono senza remissione cacciati. Restava papa Pio che, vecchio, infermo ed ormai vicino all'ultimo termine della vita, se ne stava assai riposatamente nella Certosa di Firenze. Quest'ultima quiete gli turbarono i repubblicani, sforzandolo a partire alla volta di Parma, e poi fin oltre in Francia al tempo stesso della partenza di Ferdinando. Partiva il canuto e cadente pontefice, poco conscio di sè per l'infermità e per la disgrazia, molto salutato dalle pietose e meste popolazioni. Strada facendo, era chiuso nelle fortezze, poi venne serrato in Brianzone, finalmente trasportato in Valenza del Delfinato: quivi condusse nell'esilio una vita, che con tanto apparato di maestà e di potenza aveva incominciato. L'accompagnò sempre lo Spina, che fu poi cardinale, dolce e pietoso ufficio. Ad uno spettacolo compassionevole succedeva uno spettacolo orrendo. I Franzesi, partiti in tre schiere, affrontavano vigorosamente, il dì 26 di marzo, i Tedeschi sulle sponde dell'Adige. Ad un punto preso, tutte tre schiere andavano alla fazione loro, e già la battaglia ardeva con molta uccisione per ambe le parti da Legnago fin oltre Bussolengo. Al primo romore delle armi era corso il presidio di Legnago governato dal colonnello Skal ad occupare le mura e la strada coperta; le guardie esteriori già si urtavano coi Franzesi, ai quali davano favore i fossi, le siepi, e gli alberi che ingombravano il terreno. Si combatteva con grandissimo valore dai Franzesi e dai Tedeschi sotto le mura di Legnago, presso Anghiari, ed a San Pietro per la strada di Mantova. Combatterono i repubblicani felicemente a San Pietro, infelicemente ad Anghiari, con fortuna pari a Legnago; ma la fortezza del luogo sosteneva gli avversarii. Urtarono genti fresche i Franzesi in parecchi luoghi, ma principalmente a San Pietro, dov'erano più forti e già vittoriosi, e superata finalmente la forte ed ostinata resistenza loro, li costrinsero a piegare ed a ritirarsi oltre Anghiari e Cerea verso il Tartaro. Vinto Montrichard a Legnago con perdita di circa due mila soldati, gli Alemanni si mettevano al punto di seguitarlo. Ma sopraggiunte a Kray erano le novelle che Victor e Hatry, battute aspramente le terre di Santa Lucia e di San Massimo, si erano impadroniti della prima e si sforzavano di occupare fermamente la seconda, dalla quale, entrati a viva forza già sette volte, altrettante erano stati risospinti. Così in questa parte stava la battaglia in pendente per l'acquisto di Santa Lucia dall'un de' lati e per la conservazione di San Massimo dall'altro. Tuttavia si continuava a combattere; un terrore profondo occupava Verona, non sapendo i Veronesi qual fine fosse per avere quel lungo ed aspro combattimento e molto temendo dei Franzesi per le ingiurie antiche e nuove. A questo stato dubbio sotto le mura di Verona, s'aggiunse la rotta toccata dalle genti Alemanne sull'ala loro destra, governata dai generali Gottersheim ed Esnitz; il che fece fare nuovi pensieri a Kray, distogliendolo del tutto dal seguitare i repubblicani oltre l'Adige verso Mantova. Era il sito di Pastrengo e Bussolengo munitissimo per molte fortificazioni, che consistevano in due ridotti, in frecce, trincee di campagna e teste di ponti. Urtarono i Franzesi con tanto impeto tutte queste opere, che, sebbene gli Austriaci vi si difendessero virilmente, le sforzarono. Il caso fu tanto subito che questi ultimi non poterono rompere i ponti di Pastrengo e di Polo, per modo che i repubblicani acquistarono facoltà di passar l'Adige e di correre per la sinistra sua sponda contro Verona e quella parte degl'imperiali che aveva le stanze sulla strada verso Vicenza. Al tempo stesso in cui Delmas e Grenier vincevano a Bossolengo, Serrurier, più oltre e più su distendendosi a stanca aveva cacciato i Tedeschi dai monti di Lazise, in ciò aiutato efficacemente dal capitano di fregata Sibilla e dal luogotenente Pons colle navi sottili, con le quali custodivano il lago di Garda. Mentre si combatteva sull'Adige, i Franzesi assaltavano Wukassovich sulle frontiere del Tirolo sopra il lago di Garda. Già si erano fatti padroni di Lodrone, ed avevano guadagnato molto spazio oltre i laghi di Iseo e d'Idro. Ma infine vennero in ogni parte respinti. Non così tosto ebbe Kray inteso la rotta della sua ala destra, che, lasciato un presidio sufficiente in Legnago, s'incamminava a presti passi a Verona, per preservarla dal gravissimo pericolo che le sovrastava. Vi arrivava il 27 e 28, e l'assicurava. I due eserciti, stanchi dal lungo combattere, pieni di morti e di feriti, convennero di sospendere le offese un giorno per dar sepoltura ai primi e cura ai secondi. Continuavano i Franzesi in possessione della riva sinistra dell'Adige, ed era forza o che i Tedeschi ne li cacciassero, o ch'essi cacciassero i Tedeschi di Verona. Se cadeva Verona, era vinta la guerra pei primi, e Suwarow avrebbe potuto arrivare senza frutto. Se i Franzesi erano cacciati dalla riva sinistra era vinta la guerra per gli Austriaci. Sovrastava adunque agli uni e agli altri la necessità del combattere. Adunque alle dieci della mattina del 30 marzo, i Franzesi condotti da Serrurier, passato sugli acquistati ponti il fiume in grosso numero, assaltarono Esnitz e Gottesheim, ai quali già si era congiunto Froelich. Un'altra parte di repubblicani condotta da Victor s'innoltrava verso i luoghi superiori della valle ed in Montebaldo verso la Chiusa e Rivole, coll'intento di occupare i monti, ai quali si appoggiavano i Tedeschi e di guadagnare la strada di Vicenza. Avevano i Franzesi del Serrurier, assaltando con un impeto grandissimo, guadagnato molto campo, e già insistevano sopra Parona, luogo distante ad un miglio e mezzo da Verona. In questo pericoloso momento, Kray mandava fuori otto mila soldati, e, partitigli in tre colonne, li sospingeva ad urtare i Franzesi. Ne sorse un combattimento molto fiero, in fin del quale prevalsero gli Austriaci, ed i Franzesi pensarono al ritirarsi non senza qualche dissoluzione nelle ordinanze. In questo fatto, per frenare l'impeto del vincitore e dar campo ai vinti di ritirarsi, prestò opera egregia la cavalleria piemontese. Restava che si potesse ripassare a salvamento il fiume; una parte passò; ma Kray, avendo occupato i ponti con la cavalleria e rottili per mezzo dei granatieri di Korber, Fiquelmont e Weber, tagliò la strada ai superstiti che, deposte le armi, vennero in suo potere. Quasi tutta la parte che era salita ai monti fu in questa guisa superata e presa. Risultava dalle due battaglie di Verona che gli Austriaci passarono l'Adige a portar guerra sulla sua destra sponda. Dal canto suo Scherer si era accampato dietro il Tartaro, tra Villafranca e l'Isola della Scala, attendendo a fortificarsi ed a riordinare i suoi; aveva fermato il suo campo principale a Magnano. Ma le sue condizioni divenivano ogni ora peggiori; perchè il nemico incominciava a romoreggiargli sui fianchi ed alle spalle con truppe armate alla leggera. Wukassowich, sceso dal Tirolo tra il lago di Garda e l'Iseo, minacciava Brescia, oltrechè il colonnello San Giuliano mandato da Wukassowich aveva spazzato tutto il campo tra la destra dell'Adige ed il lago di Garda, per modo che il navilio, che i Franzesi avevano sul lago, era stato costretto a cercar ricovero sotto le mura di Peschiera. Da un'altra parte Klenau, partitosi dall'ala sinistra austriaca con soldati corridori era comparso sul Po, aveva messo a rumore le due sponde, precipitato in fondo le navi franzesi e costretto i repubblicani a rifuggirsi o in Ferrara o in Ostiglia. Si trovava adunque il generalissimo di Francia in grave pericolo, ed aveva tanto più forte cagione di temere, quanto il suo esercito, scemato per le perdite fatte nelle giornate precedenti, era divenuto di numero inferiore a quello d'Austria. Oltre a tutto questo non isfuggiva a Scherer che Suwarow, ritardato solamente dalle pioggie insolite che avevano fatto gonfiare oltremodo i fiumi ed i torrenti, si accostava; il che avrebbe del tutto fatto prevalere il nemico, se prima dell'arrivare del Russo non ristorava la fortuna cadente. Per tutto questo, nè mancando anche d'animo per sè medesimo, si risolveva a cimentarsi di nuovo col nemico, sperando che Magnano avrebbe restituito le cose perdute a Verona. Dall'altro canto il generale austriaco, non fuggendo di tentar la fortuna da sè solo, agognava ancor esso la battaglia, perchè non voleva dar tempo al nemico di riordinarsi e riaversi dall'impressione delle rotte precedenti, nè lasciar raffreddare l'impeto de' suoi, tanto più imbaldanziti delle vittorie recenti, quanto più le avevano acquistate mentr'era ancor fresca la memoria delle sconfitte. Forse ancora Kray nel più interno dei suo animo desiderava una nuova battaglia per operare che per suo mezzo la guerra fosse del tutto vinta innanzi che arrivassero il generalissimo Melas ed il forte maresciallo di Paolo. Ivano all'affronto i due nemici divisi in tre schiere, il dì 5 aprile. Sorgeva una fierissima battaglia; benchè i Franzesi fossero inferiori di numero, guadagnarono nondimeno, valorosissimamente combattendo, del campo, e facevano piegar l'inimico. Serrurier, sospinto prima ferocemente da Villafranca, fatto un nuovo sforzo e riordinati i suoi, se ne impadroniva. Delmas si spingeva ancor esso avanti; Moreau il seguitava con uguale prudenza e valore, Victor e Grenier sforzavano San Giacomo e vi si alloggiavano. Volle Kray rompere Moreau con aver fatto girare un grosso corpo a fine di attaccar il Franzese alle spalle, ed al tempo medesimo urtava impetuosamente Delmas. Questa mossa ottimamente pensata poteva trarre a duro passo Moreau s'ei non fosse stato quell'esperto capitano che egli era; ma risolutosi incontanente su quanto gli restava a fare in sì pericoloso accidente, invece di camminare direttamente; si voltava con grandissima audacia a destra, ed assaltava sul destro fianco coloro che disegnavano di assaltarlo alle spalle. Per questa mossa gli Austriaci furono rotti e fugati verso Verona, a cui si accostavano Delmas e Moreau con le altre due schiere compagne; già il terrore assaliva la città. Pareva in questo punto disperata la battaglia pei Tedeschi; ma Kray ordinava a nove battaglioni del retroguardo che si spingessero avanti, condotti dal generale Lattermann, ed urtassero il nemico, tre da fronte a sinistra, cinque di fianco. Fu quest'urto dato con tanto ordine ed impeto che i Franzesi, svelta loro di mano per forza la vittoria, se ne andarono rotti in fuga. A questo decisivo passo ordinarono Scherer e Moreau un po' di retroguardo che loro restava, quest'era l'ultima posta, e mandatolo contro il nemico insultante, non solamente ristoravano la fortuna della battaglia, ma ancora rompevano del tutto la mezzana schiera degl'imperiali e fugivano Keim fin quasi sotto alle mura di Verona. Restava un ultimo rimedio a Kray; quest'erano i restanti battaglioni del retroguardo. Serraronsi i freschi battaglioni alemanni, adoprandosi virilmente Lusignano sui Franzesi con un incredibile furore. Non piegarono i repubblicani, ma s'arrestarono: nasceva un urtare, un riurtare tale che pareva che più che uomini tra di loro combattessero. Stette lungo spazio dubbia la vittoria e già, checchè la fortuna apparecchiasse ad una delle parti, era per ambedue salvo l'onore. Finalmente la costanza tedesca prevalse all'impeto franzese: i repubblicani furono piuttosto che cacciati, svelti dal campo di battaglia. Rotto l'argine, precipitaronsi impetuosamente contro i vinti i vincitori e ne fecero una strage grandissima. La schiera di Serrurier, che si era conservata intera e tuttavia teneva Villafranca, fu costretta a mostrar le spalle al nemico non senza scompiglio nelle ordinanze pel caso improvviso, lasciando il fardaggio, le artiglierie ed i feriti in poter del vincitore. Non fu fatto fine al perseguitare se non quando sopraggiunse la notte. Durò la battaglia dalle ore sei della mattina sino alle sei della sera. Il valore vi fu uguale da ambe le parti; la vittoria utilissima alle armi imperiali. Spianò Kray col suo valore la strada alle vittorie di Melas e di Suwarow. Scherer, scemato il numero de' suoi, scemato altresì l'animo loro per le sconfitte, dopo di aver fatto alcune dimostrazioni, come se volesse fermarsi sul Mincio, si deliberava a ritirarsi sulla sponda destra dell'Adda, per ivi fare opera, se ancora possibil fosse, di arrestar l'inimico e difendere la capitale della Cisalpina. A questa deliberazione, piuttosto inevitabile che volontaria, dava motivo la grande superiorità del nemico, accresciuto dalle forze russe, per guisa che sommava a settanta mila combattenti, non noverati quelli di Wukassovich e di Kleneau, mentre il suo, tolti i presidii ch'era obbligato a lasciare a Mantova ed in Peschiera ed in altre fortezze di minor importanza, non passava i venti mila. Si levavano i popoli a calca al suono delle vittorie tedesche e dell'arrivo dei Russi, gente strana e riputata d'invincibil valore. Queste sommosse molto mutavano gl'imperiali, perchè intimorivano gli avversarii, tagliavano le strade, e davano spiatori utilissimi ai nuovi conquistatori. Esse erano più o meno forti, secondo le varie inclinazioni dei luoghi, ma molto romorose nel Polesine e nel Ferrarese. Grandi tempeste ancora si levavano contro i Franzesi nel Bresciano e nel Bergamasco: Wukassowich vi trovava molto seguito. Arrivati i Franzesi sulle sponde dell'Adda fiume assai più grosso e di rive più dirupate che il Mincio e l'Oglio non sono, vi si alloggiavano, ordinandovisi nel modo che giudicavano poter arrestare il corso alla fortuna del vincitore. Intanto una gran mutazione si era fatta nel governo supremo dell'esercito. I soldati repubblicani, stimandosi invincibili, perchè non soliti ad esser vinti, avevano concetto un grandissimo sdegno contro Scherer, di tutte le loro disgrazie accagionandolo. I meno coraggiosi si erano anche perduti di animo, e questo sbigottimento di mano in mano si propagava: l'immagine della Francia già si appresentava alla mente dei più, e quelle terre italiane diventavano loro odiose. Le subite ed estreme mutazioni dei Franzesi davano a temere ai capi per modo, che dubitavano aver presto a contrastare non solamente col nemico, ma ancora con la cattiva disposizione dei proprii soldati. Già si mormorava contro Scherer, ed il meno che dicessero di lui era, che non sapeva la guerra. Certo, essendo tanto declinato del suo credito, ei non poteva più oltre governar con frutto, e la confidenza ed il coraggio dei soldati per niun altro modo potevano riaccendersi che con quello di mutar il capo e di surrogargli un generale amato da loro e famoso per vittorie. Videsi Scherer queste cose e, conformandosi al tempo, rinunziò al grado, con rimetterlo in mano di Moreau e con pregare il direttorio che commettesse in luogo di lui la guerra al capitano famoso per le renane cose. Piacque lo scambio: Scherer, confidate le sorti franzesi al suo successore, se ne partiva alla volta di Francia. Recavasi Moreau in mano il governo di genti vinte e quando già poca o niuna speranza restava di vincere. Sapeva egli che il difendere lungo tempo le rive dell'Adda contro un nemico tanto potente non era possibile: ma andò considerando che il cedere senza un nuovo sperimento la capitale della Cisalpina, che aveva i suoi soldati congiunti co' suoi e che era alleata della Francia, gli sarebbe stato di poco onore; ed oltre a ciò voleva, con ottenere qualche indugio, dar tempo al munire di provvisioni le fortezze del Piemonte. In questo mezzo arrivarono alcuni aiuti venuti di Francia, del Piemonte e dalla Cisalpina. Per tutto questo deliberossi di voltare il viso al nemico e di provare se la fortuna fosse più favorevole alla repubblica sulle sponde dell'Adda che su quello dell'Adige. Arrivava Suwarow a fronte del nemico e, senza soprastare, si risolveva a combatterlo. Divideva, come i Franzesi, i suoi in tre parti; commetteva la prima, che marciava a destra, al generale Rosemberg, che aveva con sè Wucassovich, guidatore dell'antiguardo. Questa parte aveva il carico di aprirsi il varco in qualche luogo vicino al lago. La seconda, cioè la mezzana, guidata da Zopf e Ott, doveva far opera di passare in cospetto di Vaprio, e d'impadronirsi di questa terra. Finalmente la terza che camminava a sinistra, commessa al valore del generalissimo austriaco Melas, andava porsi a campo a Triviglio contro l'alloggiamento principale dei Franzesi a Cassano. Franzesi e Russi, nuovi nemici, eccitavano l'attenzion dal mondo. Serrurier, dopo di aver combattuto e respinto con sommo valore i Russi condotti dal principe Bagrazione, che avevano assaltato la testa del ponte di Lecco, aveva, ritirandosi per ordine di Moreau verso il centro, lasciato alcune reliquie di un ponte di piatte rimpetto a Brivio, per cui egli si era trasferito oltre il fiume. La notte del 26 aprile Wukassovich di queste reliquie presentemente valendosi, ed avendo riattato il ponte, varcava e s'insignoriva di Brivio, dove non trovava guardia di sorte alcuna. Passato, correva Wukassovich la vicina contrada, e non trovava vestigia di nemico, se non se ad Agliate e Carate. Ciò nonostante, molto pericolava la sua squadra, se le altre non avessero passato nel medesimo tempo. Andava Suwarow accompagnato da Chasteler, generale dell'imperatore Francesco, capitano audacissimo e di molta esperienza, sopravvedendo i luoghi per trovar modo di passare all'incontro di Trezzo. Pareva anche agli ufficiali, che soprantendevano l'opera delle piatte e del passare i fiumi, il varcare impossibile per la rapidità e profondità delle acque, e per la natura rotta e scoscesa delle grotte. Tuttavia non disperava dell'impresa Chasteler; però, fatto lavorar sollecitamente i suoi soldati nel trasportar le piatte e le tavole necessarie, tanto s'ingegnò che alle tre della mattina del 27 mandava a pigliar luogo sulla destra un corpo di corridori che vi si appiattavano, senza che i Franzesi se ne accorgessero, e poco poscia passava egli stesso con tutte le genti della mezzana schiera armata alla leggiera. Parve cosa strana a Serrurier, il quale, udito del passo conseguito da Wukassovich, marciava per combatterlo, e si trovava a Vaprio. Ma raccolti subitamente i suoi, anche quelli ch'erano fuggiti da Trezzo, ingaggiava la battaglia col nemico, non bene ancor sicuro della possessione della destra riva. Piegava al durissimo incontro l'antiguardo dei confederati, e sarebbe stato intieramente sconfitto, se non arrivava subitamente al riscatto con tutta la sua schiera l'Austriaco Ott. Si rinfrescava la battaglia più aspra di prima tra Brivio e Pozzo. Mandava Victor alcuni reggimenti dei più presti in aiuto di Serrurier, il quale, valorosissimamente instando, già era in punto di acquistare la vittoria, quando giungevano in soccorso di Ott le genti di Zopf, e facevano inchinar la fortuna in favor degli alleati; perchè, dopo un sanguinoso affronto, cacciarono i Franzesi da Pozzo, e li misero in fuga. Ingegnossi Grenier di raccozzare a Vaprio le genti rotte, ma indarno, perchè, assaltato dagli Austriaci e Russi, fu rotto ancor esso ed obbligato a ritirarsi frettolosamente. Era accorso Moreau in questo pericoloso punto, ma la sua presenza non valse a ristorare la fortuna della battaglia. Per questa fazione fu Serrurier respinto all'insù ed intieramente separato dalle altre parti dell'esercito. Mentre nel raccontato modo si combatteva fra le due schiere superiori, Melas, che, sebbene fosse già molto innanzi cogli anni, era nondimeno uomo di gran cuore, assaltava col fiore de' suoi granatieri la testa di ponte sul canale Ritorto, e, ad onta che ne fosse parecchie volte ributtato, superava tutti gl'impedimenti e si rendeva padrone del passo. Istessamente fece del ponte sull'Adda, testa molto fortificata, dove i soldati freschi dei confederati, spingendosi avanti sui cadaveri dei loro compagni, che quasi pareggiavano il parapetto, con le baionette in canna superarono il passo, e fecero strage del nemico. Moreau, che in questa orribile mischia si era mescolato coi combattenti, comandava a' suoi, che, abbandonato e rotto il ponte, si ritirassero. Ristorava prestamente Melas il ponte, ed una nuova ed ugualmente aspra battaglia ingaggiava coi repubblicani, che, animati dalla presenza e dai conforti del loro generalissimo, virilmente si difendevano. Ma già tutte le schiere superiori erano o separate o volte in fuga, e già, oltre la schiera di Melas, una novella squadra urtava i Franzesi per fianco; già Moreau medesimo era in pericolo d'esser preso dai vincitori, che il cingevano d'ogni intorno. Pure, pel disperato valore de' suoi soldati, che amavano meglio perdere la vita che il loro capitano, Moreau si riscattava da quel duro passo, e, perduta intieramente la battaglia, e lasciato Milano sicura preda ai confederati, gli parve di condurre a presti passi l'esercito sulla destra sponda del Ticino. Melas e Suwarow si ricongiunsero a Gorgonzola. Così si vede che nissuna speranza di salute restava a Serrurier. Fu assaltato dai due corpi uniti di Rosemberg e di Wukassowich. Si difendeva con un valore degno di lui e de' suoi soldati; e, sebbene il combattimento fosse tanto disuguale pel numero, tanto fece che si condusse intero a Verderia, e quindi, affortificatosi con molta prestezza ed arte, attendeva a difendersi. Ma essendosi finalmente accorto dal continuo ingrossar del nemico dell'infelice successo della battaglia sulle altre parti, e tempestando da tutte le bande le artiglierie nemiche sopra uno spazio assai ristretto, chiese i patti e li conseguì molto onorevoli. La vittoria di Cassano, che compiva quelle di Verona e di Magnano, e faceva tanto crescere il nome imperiale in Italia, recò in poter degli alleati tutta la Lombardia ed il Piemonte. Le genti russe, più affaticate delle austriache per lungo viaggio, si riposarono dopo la battaglia. Fu commessa la cura a Melas di condurre quelle dell'imperatore Francesco in Milano, già vinto prima che occupato. Importava altresì che un paese austriaco fosse dagli Austriaci ritornato alla consueta obbedienza. Vivevasi in Milano con grandissima sospensione d'animi, perchè i reggitori della repubblica, con tutti gli addetti ed aderenti loro, non avevano altra speranza in tanta mutazione di fortuna, che quella di salvarsi esulando in Francia. I partigiani del governo antico sollevavano gli animi a grandi speranze, e si promettevano nella depressione altrui l'esaltazione propria. Ognuno pensava od a fuggire la tempesta che sovrastava, od a farla fruttificare in suo pro. Sapevano i capi della repubblica quale ruina sovrastasse, ma le cattive novelle si celavano al volgo, ed inorpellate cose dicevano, ora di vittorie franzesi, ora di alloggiamenti insuperabili da loro fatti, ora di fiumi impossibili a varcarsi, ora di mosse maestrevoli e sicure eseguite dai repubblicani, ora di una apprestata per arte e prossima ruina di tutte le genti imperiali: questa fama nutricavano diligentemente e con ogni studio. Con questo falso corrompevano il vero; i popoli si confondevano. In su questo, ecco arrivare a porta Orientale dalla parte di Cassano soldati repubblicani alla sbandata, carri di feriti, fastelli di munizioni e di bagaglie, armi sanguinose, ogni cosa retrograda. Principiava il popolo a fare discorsi ed adunanze: la sera cresceva il terrore degli uni, l'ansietà degli altri. Partivano, scortati da qualche squadra di cavalleria, alla volta di Torino i direttori della repubblica Marescalchi, Sopransi, Vertemati-Franchi, e con loro quasi tutti coloro che, o nei gradi fossero o no, avevano maggiormente partecipato del governo repubblicano. Portò il direttorio con sè denaro del pubblico, di cui una parte mandava a Novara; venne poco dopo in potere degli alleati. Arrivava il vincitore Melas il dì 28 aprile in cospetto della città. Gli andavano incontro sino a Cresenzano l'arcivescovo ed i municipali. Poco dopo entrava trionfando, accorrendo il popolo in folla, e con lietissime grida salutandolo. Cresceva ad ogni momento la calca; pareva che tutta la città si versasse a vedere ed a salutare le insegne dell'antico signore. La sera si accesero i lumi alle case, si fecero cantate, balli, fuochi d'allegrezza. La bontà del popolo milanese risplendette in questo importante fatto: non fece ingiuria nè minaccia ad alcuno. Ma quando arrivò la gente del contado, s'incominciarono le persecuzioni contro i giacobini, o veri o supposti, e andò a sacco il palazzo del duca Serbelloni. Per frenar il furore di questi uomini facinorosi in paese tanto reputato per dolcezza degli abitatori, l'amministrazione temporanea, che si era creata, esortava il popolo ad astenersi da ogni ingiuria, ed a non contaminare con insolenze e persecuzioni la allegrezza comune. Avvisava inoltre che chi non obbedisse sarebbe gastigato. Volendo Melas ed il commissario imperiale Castelli dare maggior nervo a queste esortazioni, avvertivano che al governo solo si apparteneva la punizione de' rei, e che chi s'arrogasse vendette private o turbasse il pubblico sarebbe senza remissione punito militarmente. A questo modo si frenarono in Milano le intemperanze popolari. Arrivava intanto Suwarow; il riguardavano come un nuovo uomo: disse all'arcivescovo essere venuto a rimettere la religione in fiore, il papa in seggio, i sovrani in onore. Soggiunse ai municipali venuti a fargli riverenza, che li vedeva volentieri; che solo desiderava che come suonavano le parole loro, così avessero i sentimenti. Restavano a compirsi da Suwarow due imprese, secondo che il consigliasse il procedere dell'avversario; o di premere a destra per disgiungere i Franzesi di Italia da quei della Svizzera, o d'incalzare sulla stanca, passando il Po per impedire la congiunzione di Macdonald con Moreau. Dal canto suo Moreau, essendo ridotto il suo esercito a quindici mila combattenti, stava in dubbio a quale parte gli convenisse condursi; perchè o doveva egli pensare a tenersi accosto alle Alpi per consentire con Massena che continuava a combattere aspramente in Isvizzera, o al piegarsi sulla destra del Po per dar la mano a Macdonald. Elesse questo secondo partito. Conduceva dunque lo esercito nei contorni d'Alessandria, alloggiandolo in un sito molto forte. Per tal modo non abbandonava del tutto le pianure, e si teneva la strada aperta verso gli Apennini. Per la qual deliberazione del capitano di Francia fu necessitato Suwarow a fermare la guerra tra la destra del Po e la catena di questi monti. Venute in mano degli alleati Peschiera, Pizzighettone ed il castello di Milano, rimanevano in favor dei Franzesi Mantova, intorno alla quale, siccome piazza di maggiore importanza, Kray si affaticava, e con Mantova tutte le fortezze del Piemonte. Ingrossati gli alleati dai corpi che avevano oppugnate le fortezze conquistate, e fatti animosi delle sollevazioni dei popoli in loro favore, si accostavano a Moreau coll'intento di cacciarlo per forza da quel forte nido in cui si era ricoverato. Passarono i confederati, massimamente Russi, il dì 11 maggio, il Po a Bassignana; ma tentata invano con dimostrazioni parziali e con romoreggiare all'intorno l'ala sinistra di Moreau, avvisarono di far pruova se, minacciando sulla destra, il potessero sforzare alla ritirata. S'ingaggiava una battaglia molto viva, dopo cui tornando intero e minaccioso Moreau nel suo sicuro alloggiamento, dimostrava ch'era ancor vivo, e che gl'infortunii presenti non gli avevano tolto nè la mente nè la fortezza d'animo. Oramai la guerra che gli romoreggiava tutto all'intorno lo sforzava a far nuove deliberazioni. I popoli si erano levati a calca contro i repubblicani: commettevansi crudeltà, saccheggi, uccisioni. Le terre astigiane grondavano sangue, quasi in sul cospetto di Moreau. Pensava egli alla salute de' suoi: vedendo piena troppo grossa, e che non era più tempo di aspettar tempo, passando per Asti, Cherasco e Fossano, e lasciate ben guardate Alessandria e Tortona, andava a porsi alle stanze di Cuneo, per avere le strade libere verso Francia pel colle di Tenda o per la valle d'Argentera. Da Cuneo il generale della repubblica, lasciatovi un forte presidio, si conduceva, essendo oggimai stremo di gente, sul destro dorso degli Apennini Partiti i Franzesi, ciò fu cagione che l'amministrazione del Piemonte creata da Moreau, passando per Torino, andasse a far capo in Pinerolo, perchè le valli dei Valdesi, vicine a questa città, ed abitate da popoli quieti e nemici di ogni scandalo, davano un adito sicuro a ripararsi in Francia. Per la partenza medesima dei soldati di Francia si moltiplicavano a dismisura in Piemonte le sommosse popolari. La rabbia politica, il zelo, come pretendevano, della religione, spesso ancora l'amore del sacco e gli odii privati producevano questi effetti, cui venne ad accrescere un manifesto mandato da Suwarow ai Piemontesi dalle sue stanze di Voghera, incitandogli alle armi. Atroci falli seguitavano le parole. Frattanto Suwarow intendeva l'animo all'acquisto di Torino, perchè, essendo città capitale, si stimava che la possessione di lei, facendo risorgere l'immagine del regno, inviterebbe i popoli a tornare all'antica obbedienza. Oltre a questo, importavano agli alleati il suo sito, molto accomodato alla guerra, e la copia delle artiglierie e delle munizioni che vi si trovava ammassata. Non aveva potuto Moreau, per la debolezza delle genti che gli restavano, lasciar in Torino un presidio sufficiente, e, dalla guarnigione della città in fuori, non vi era forza che potesse preservar la città, quantunque fosse cinta di mura forti ed ordinate secondo l'arte a difesa. Arrivava Wukassovich con genti regolari e turbe paesane; faceva la chiamata. Rispondeva Fiorella volersi difendere. Principiava dai monte dei Cappuccini e dar la batteria; e non facendo frutto con le palle, provò le bombe. S'accesero alcune case vicine alla porta di Po. In questo punto la guardia urbana apriva la porta. Entrarono a furia i soldati corridori di Wukassovich: gli accompagnavano, cosa di grandissimo spavento, le turbe infami di Branda-Lucioni, famoso capo di briganti. Salvaronsi frettolosamente in cittadella i pochi soldati repubblicani che alloggiavano in città, dei quali alcuni furono presi, altri uccisi. Già Torino non era più in potere di Francia, ma non era ancora in poter d'Austria del tutto, perchè su quel primo giungere le truppe contadinesche dominavano, uccidevano, davano il sacco; ed insomma la città piena di spavento aspettava qualche gran ruina, e, se i confederati non fossero stati presti ad accorrere ed a frenare questi uomini furibondi, sarebbero forse avvenuti mali peggiori di quelli che si temevano. Quando i tumulti che avevano conquassato il Piemonte alcun poco restarono, entrava, a guisa di trionfatore, il generalissimo Suwarow. Andava in sul giungere nella chiesa metropolitana di San Giovanni per ringraziare Iddio dell'acquistata vittoria. Intanto Fiorella, che governava la cittadella, traeva con le artiglierie; i confederati traevano contro di lui; era vicino un altro sterminio. Infine le due parti convennero, perchè altrimenti la sede del re ne andava in subbisso, che i confederati non assalterebbero la cittadella dalla parte della città, ed i Franzesi non infesterebbero la città dalla cittadella. Era Suwarow continuamente veduto e corteggiato dai nobili; i più savii consigliavano la moderazione, gli altri il rigore. Il Russo, quantunque fosse di natura molto risentita, ed anzi acerba, massime in queste faccende di Stato, più volentieri udiva i primi che i secondi, perchè giudicava secondo la ragione, non secondo la parzialità del luogo o i desiderii di vendetta. Chiamava a sè il marchese Thaon di Sant'Andrea, e gli dava carico di riordinare i reggimenti del re; ed il marchese pubblicava un suo manifesto, e alle sue parole senza tardità i soldati si raccoglievano. Poi Suwarow, consigliandosi col marchese medesimo e con gli altri capi del governo regio, creava, per dar forma alle cose sconvolte, un governo interinale sotto nome di consiglio supremo, insino al ritorno del re. Vedeva il consiglio che per confermare lo Stato del re, principalmente nella capitale, si rendeva necessario l'espugnare la cittadella; perchè non solamente ella era di sicurtà grande al Piemonte, ma non si giudicava nemmeno onorevole l'avere quel morso in bocca nella sede stessa della potestà suprema: laonde, acciocchè la faccenda camminasse con maggior diligenza, si offerse a far le spese dell'oppugnazione. Il dì 13 giugno principiarono i confederati a lavorare al fosso ed alla trincea della prima circonvallazione. Non mancarono gli assediati a sè medesimi nel volere impedire colle artigliere che i nemici tirassero a perfezione la trincea. Ma questi con le solite arti affaticandosi, ed aiutati con molto fervore dai contadini, che niuna fatica o pericolo ricusavano, apprestarono le batterie, e la mattina del 18 diedero mano a bersagliare la fortezza. Prodotti gravissimi danni, faceva Keim, che da Suwarow aveva avuto carico di questa oppugnazione, la intimata alla piazza. Fiorella rispondeva, volersi tuttavia difendere. Il bersaglio ricominciava più forte che per lo innanzi, e continuava sino al mezzodì del 19. La caserma, i magazzini, la casa stessa del governator Fiorella ardevano, una conserva di polvere aveva fatto scoppio; le casematte, per esservi trapelata molta acqua, non offerivano rifugio. Morti erano la maggior parte dei cannonieri; le batterie scavalcate, i parapetti distrutti; la piazza ridotta senza difese d'artiglieria. Già la seconda circonvallazione si cavava a gittata di pistola dalla strada scoperta, e gli oppugnatori la continuavano con la zappa per modo che già erano vicini a sboccare nel fosso. Il perseverare nella difesa sarebbe stato piuttosto temerità che valore; perciò Fiorella trattò della resa. Si fermarono, il dì 20, i capitoli, pei quali si pattuì che il presidio uscisse con gli onori di guerra; che deponesse le armi; che avesse libero ritorno in Francia coi cavalli e colle bagaglie; che desse fede di non servire contro i confederati sino agli scambi; Fiorella e gli altri ufficiali maggiori fossero, come prigionieri di guerra fino agli scambi, condotti in Germania. Uscirono i vinti in numero di circa tre mila; entrarono i vincitori il dì 22. Ottenuta la cittadella, se ne giva Keim ad ingrossare sulle sponde della Bormida Suwarow, al quale la fortuna stava preparando nuove fatiche e nuovi trionfi. Fecersi in Torino molti rallegramenti civili, militari e religiosi per la riacquistata cittadella. Ne pigliarono i regi felici augurii. Mandava Suwarow pregando il re, acciocchè se ne tornasse nel regno ricuperato. Ma l'Austria, che aveva altri pensieri, attraversava questo disegno. La guerra, che insanguinava le terre italiche, non risparmiava le greche. Ma noi non potremo dilungarci dalle cose nostre per narrare come le isole del mare Ionio ed altre terre circostanti, tolte sotto specie di amicizia dai repubblicani di Francia all'imperio dei Veneziani, venissero per forza d'armi sotto quello dei Turchi e dei Russi. Il termine fu, che dopo i fortunosi casi di questa guerra, piena di fatti altri alti e generosi, altri crudeli ed atroci, il consiglio generale di Corfù, convocato dai confederati, secondo gli ordini antichi, decretava che si ringraziasse santo Spiridione, e con annua processione si onorasse; si ringraziassero i comandanti russo e turco e l'ammiraglio d'Inghilterra Orazio Nelson; si ringraziassero Paolo I, Giorgio III, Selim III. Fu data la somma del governo non solo di Corfù, ma ancora di tutte le isole e territorii ionici, ad una delegazione di sei nobili. In tale forma si visse a Corfù finchè dai confederati fuvvi ordinato governo stabile di repubblicani sotto tutela della Porta Ottomana. A questo modo, per opera, prima dei Franzesi, poi dei confederati, fu alienato per sempre dall'imperio d'Italia all'imperio degli oltramontani o degli oltremarini il dominio del mare Ionio, che Venezia avea saputo conservare per tanti secoli contro tutte le forze dell'impero dei Turchi. Venuto Corfù in poter dei confederati, divenne ricovero sicuro a coloro, cui cacciava dall'Italia la presenza dei repubblicani. Vennervi le principesse esuli di Francia: vennervi i cardinali Braschi e Pignatelli, il principe Borghese, i marchesi Gabrielli e Massimi, il cavalier Ricci e molti altri personaggi. Le flotte russa e turca andarono ad altre fazioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo, le quali siamo per vedere in progresso. Come prima ebbe Moreau il governo supremo dell'esercito italico, avea applicato i suoi pensieri a far venire sul campo delle nuove battaglie le genti che sotto l'impero di Macdonald custodivano il regno di Napoli. Per la qual cosa aveva speditamente mandato a Macdonald che partisse da Napoli con tutto l'esercito, solo lasciasse presidio nei castelli, nelle piazze più forti, e con esso lui venisse prestamente a congiungersi, determinando il luogo della congiunzione dei due eserciti nei contorni di Voghera. A questo fine, volendo dar mano più presto che fosse possibile alle genti vincitrici di Napoli, e considerato che Macdonald, per essere le strade del littorale della riviera di Levante troppo difficili e da non dar passo alle artiglierie, era necessitato a camminare fra l'Apennino e la sponda destra del Po; e temendo che fosse troppo debole a sostener l'impeto dei corpi sparsi dei confederati, che prevalevano di cavalleria nelle pianure di Bologna e di Modena, avea mandato Victor con la sua schiera ad incontrarlo sui confini della Toscana e del Genovesato. Partiva Macdonald, accompagnandolo Abrial, da Napoli, lasciati presidii franzesi, sebbene deboli, nei castelli di Napoli e nelle fortezze di Gaeta, di Capua e di Pescara. Grave e difficile carico gli era addossato, ma del pari glorioso, se il portasse a felice fine. Viaggiava con molto disfavore dei paesi per cui gli era necessità di passare, perchè le popolazioni sollevate a cose nuove, stavano in armi e pronte a contrastargli il passo. Tumultuava il regno sulle sponde del Garigliano, tumultava lo Stato romano, e da Roma in fuori non v'era luogo che fosse sicuro ai Franzesi. Tumultuava la Toscana molto furiosamente, già sì pacifica e dolce. Le strade, che davano il passo da una parte all'altra degli Apennini, specialmente Pontremoli, sito di non poca importanza, erano in possessione dei collegati. Nè egli aveva cavalleria bastante a spazzare i paesi, a procacciarsi le notizie, a far vittovaglie, a difendersi dagli assalti improvvisi. Nè è dubbio che l'impresa di Macdonald non fosse delle più malagevoli ed ardue che capitano di guerra sia stato mai obbligato di fornire. Si metteva in via, diviso il suo esercito in due parti. Marciava la destra guidata da Olivier accosto agli Apennini con l'intento di riuscire per la strada di San-Germano, Isola, Ferentino, Valmontone e Frascati, verso Roma. La sinistra, condotta da Macdonald, seguitava verso la capitale medesima dello Stato romano la strada più facile della marina. Erano con questa le più grosse artiglierie e le principali bagaglie. Fu la prima necessitata a combattere, non senza molto sangue, parecchie volte per condursi al suo destino. San-Germano si oppose con le armi; fu preso per forza e saccheggiato. Isola si persuase di poter arrestare con genti tumultuarie soldati regolari, agguerriti e bene armati: assaltarono i Franzesi, dopo di aver ricerco gl'Isolani del passo la terra: si difesero i terrazzani con tale ostinazione che un accanito combattimento durava già più di sei ore, e non se ne prevedeva il fine. All'ultimo, cacciati di casa in casa a viva forza, si ritirarono, lasciando la città in mano degli assalitori, i quali, sdegnati all'antica nimistà degl'Isolani, allo aver tratto al messo mandato avanti per trattare l'accordo del passo, e alla tanto ostinata resistenza, per cui non pochi dei loro erano stati morti, mandarono la terra a ruba ed a sangue. Quanti poterono aver nelle mani, tanti ammazzarono. Entrati nelle case, uccisi prima gli abitatori, facevano sacco. Poi si diedero in sul bere di quei vini generosi, per modo che il furore della presente ebbrezza, congiunto col furore della precedente battaglia, li fece trascorrere in opere abbominevoli. Nè più davano retta ai loro ufficiali o generali, che li volevano frenare, che alla ragione od alla umanità. Sorse la notte; era una grande oscurità, pioveva a dirotto. Gl'infuriati repubblicani, dato mano alle facelle, incesero la città, che in poco d'ora fu da sè stessa tanto disforme che non era più che un ammasso spaventevole di sangue, di fango e di ruine. Passarono i Franzesi a Veroli senza difficoltà, passarono a Ferentino ed a Valmontone; finalmente congiuntisi entrarono il dì 16 maggio del presente anno 1799 nelle sicure stanze di Roma. Quivi Macdonald, dato animo con promesse e con discorsi, lasciate per marciare più spedito le artiglierie e gl'impedimenti più gravi, e guernite di presidii le piazze di Civitavecchia, di Ancona e di Perugia, s'incamminava alla volta di Toscana. Era in questa provincia succeduta una mutazione grandissima; eccettuati i luoghi in cui i Franzesi insistevano coi presidii, tutti gli altri si erano voltati in favor degli alleati, con gridare il nome di Ferdinando. Ma questa mutazione si era fatta con tanto tumulto, con tanto furore e con tanta ferocia, che tutt'altre cose si sarebbero aspettate dai Toscani che queste. La sede principale della sollevazione erano Arezzo e Cortona, le quali il sito rendeva sicure. Arezzo si era con ogni miglior modo fortificata, anzi ogni edifizio era fortezza. Numerose squadre di gente venuta dal contado e variamente armata custodivano le porte, e curiosamente e diligentemente esaminavano chi entrava e chi usciva. Movevansi sospetti ad ogni tratto in mezzo a quei contadini infuriati per voci date, o a ragione o a torlo, di giacobino. Era lo stare cattivo, il viaggiare peggiore. Tuttavia questi uomini, tanto sfrenati contro i Franzesi e contro coloro che avevano o che parevano aver odore di essi, mostravansi obbedienti, al nome di Ferdinando. Erasi in mezzo a questi tumulti creato in Arezzo un magistrato supremo, in cui entravano preti, nobili e notabili; uomini nè sfrenati nè feroci, ma non potevano impedire il furore del popolo; solo s'ingegnavano di dargli regola e legge. Questa fu la mossa di Arezzo, alla quale, come quasi un antiguardo, consuonava quella di Cortona. In grave pericolo si mettevano, perchè le cose dei Franzesi erano ancora in essere, e potevano risorgere, e Macdonald pensava a passare per la Toscana. Pure Arezzo si salvò, Cortona pagò qualche fio; l'una e l'altra furono cagione che il nome di Ferdinando risorgesse in Toscana innanzi che i confederati vi arrivassero. Fu Cortona messa a dura prova da' Polacchi venuti di Perugia; ma si difese sì valorosamente, che gli assalitori se ne rimasero, avviandosi a Firenze. Venne poscia una colonna franzese molto forte, ch'era l'antiguardo di Macdonald. Cortona si arrese con patto che fossero salve le sostanze e le persone; il che fu loro osservato. Avrebbe desiderato Macdonald, che arrivava verso il finir di maggio a Siena, sottomettere Arezzo, e gli faceva l'intimazione. Mandò contro gli Aretini un bando terribile. Ma tutto fu indarno: gli Aretini non si sbigottirono; il Franzese non si accinse a domarli, però che volea camminar veloce all'impresa. Si mosse Albiano, terra vicina al Genovesato, a sollevazione contro i Franzesi, non senza commettere i soliti atti di crudeltà. Andarono i Franzesi, saccheggiarono ed arsero la terra. Simili spaventi succedevano in altre parti della Toscana: ogni cosa sconvolta e sanguinosa. Marciava spedito al suo destino Macdonald, e perchè non avesse intoppi di ammutinamenti di truppe per mancanza dei soldi, Bertolio, che come ambasciadore di Francia reggeva a posta sua Roma, e Reinhard come commissario la Toscana, trovarono molti estremi di raccor denaro. Erano a questo tempo le genti dei confederati molto sparse. Una grossa parte attendeva all'oppugnazione di Mantova: Klenau correva il Ferrarese ed il Bolognese; il principe Hohenzollern il Modenese; Otto stava sugli Apennini, massime a Pontremoli; Bellegarde, venuto dai Grigioni, circondava d'assedio Alessandria e Cortona; Suwarow e Keim alloggiavano in Piemonte per dar sesto al governo, per ridurre a devozione alcune valli delle Alpi, e per osservare a che fine volesse Moreau incamminare le sue operazioni, o verso Cuneo o verso la riviera di Ponente. Guerra troppo spicciolata era questa, mentre Macdonald se ne veniva intero da Napoli, e Moreau poteva tornare più grosso da Francia. Moreau, dato voce che avesse avuto rinforzi di Francia, e che maggiori ne dovesse ricevere, essendo anche a quel tempo arrivata nel Mediterraneo una flotta franzese proveniente da Brest con qualche battaglione da sbarco, era andato a piantare i suoi alloggiamenti presso a Savona per accennare contro Suwarow in Piemonte; poi, speditamente marciando, si era condotto a Genova, verso la quale faceva concorrere le sue genti. Queste mosse apertamente indicavano in Moreau il pensiero di congiungersi con Macdonald, che già era arrivato in Toscana; nè Suwarow le poteva ignorare. Ciò nondimeno, ei se ne stava a consumarsi intorno alle fortezze ed alle montagne piemontesi. Ma non istette lungo tempo ad accorgersi che se per valore ei non era inferiore agli avversarii, gli avversarii lo avanzavano per arte. Già Victor, camminando per la riviera di Levante, appariva vicino a congiungersi con Macdonald, e già gli avvisamenti dei generali di Francia si approssimavano al loro compimento. Macdonald s'incamminava alle accordate fazioni, per le quali si prometteva l'assicurazione d'Italia. L'ala sua dritta, condotta da Montrichard, marciava contro Bologna; la sinistra si conduceva nella valle del Taro. Victor faceva il suo alloggiamento in Fornuovo. Dambrowski s'incamminava a Reggio. Macdonald si era calato col grosso dell'esercito per la valle del Panaro, e inoltrato sino al casino Brunetti a piccola distanza do Modena. Moreau dal suo lato si era ingrossato sulla Bocchetta col pensiero di correre contro Cortona ed Alessandria. Già aveva mandato, per dar la mano più verso il piano e più da vicino a Macdonald, il generale Lapoype con una schiera di Liguri a Bobbio. Queste mosse dei capitani della repubblica fecero accorti i generali de' due imperi ch'era loro mestiero di rannodarsi con molta prestezza, a tale strettezza essendo condotte le cose, che un giorno solo d'indugio poteva aprir l'occasione di una totale vittoria ai Franzesi. Per la qual cosa Kray, che stringeva Mantova, convertita la oppugnazione in assedio, andava a porsi con dieci mila soldati a Borgoforte sulla riva del Po, rompendo tutti i ponti. Un grosso di queste genti passarono anche il Po per fare spalla a Klenau ed a Hohenzollern, ch'erano in pericolo d'essere pressati da Macdonald. Il principale sforzo del generale franzese accennava contro Hohenzollern; però Klenau se gli accostava sulla destra. Per tal modo Montrichard colla destra dei Franzesi andava a ferire Klenau, il grosso Hohenzollern, Victor con la sinistra Otto, e tutto il pondo della guerra si riduceva nei ducati di Modena e di Parma. Ma i raccontati rimedii usati dagli alleati non erano bastanti per distornare la tempesta, perchè Macdonald solo era più forte di Klenau, Hohenzollern ed Otto uniti insieme; Moreau assai più di Bellegarde. Adunque l'importanza dell'impresa era posta nell'esercito proprio di Suwarow, che insisteva in Piemonte. Se lo vide il generalissimo di Paolo, e si mise senza indugio a correre con prestissimi passi a Piacenza, sperando di poter combattere Macdonald prima che si fosse congiunto con Moreau, e di arrivare a tempo perchè il Franzese non rompesse del tutto le schiere unite dei tre generali austriaci. Intanto fortemente già si combatteva sulle rive del Panaro. Il giorno 10 giugno succedeva un grosso affronto tra i soldati armati alla leggiera delle due parti, ed i Franzesi furono costretti a ritirarsi con grave perdita verso le montagne. Si combattè il giorno seguente con uguale ardore da ambe le parti, e la terra di Sassuolo rimase in poter dei Tedeschi. Non erano questi moti di molta importanza, e dimostravano piuttosto un ardore inestimabile di combattere in ambe le parti che un evento terminativo di battaglie. Ma il 12 giugno fece Macdonald un motivo assai più grosso per isbrigarsi da quei corpi nemici, che, sebbene meno grossi de' suoi, il molestavano e gl'impedivano il passo a' suoi disegni ulteriori. Ordiva per tal modo la forma della fazione che Hohenzollern ne venisse non solamente rotto, ma ancora impossibilitato al ritirarsi. Fecero egregiamente i Franzesi l'opera del loro perito ed audace capitano. Fu la zuffa sostenuta con grandissimo valore dai Franzesi e dai Tedeschi, e durò molte ore; i cavalli massimamente andarono alle prese parecchie volte, e sempre se ne spiccarono laceri e sanguinosi. Le fanterie vennero replicatamente alla pruova delle baionette. La sinistra ala dei repubblicani riusciva nell'intento, perchè, cacciati i Tedeschi ed occupata la strada che dà a Reggio, s'intrometteva fra Hohenzollern e Otto. La mezza schiera medesimamente del generale tedesco, dove egli medesimo combatteva animando i suoi, fu obbligata a piegare e lasciare, fuggendo, Modena in potestà del vincitore. Sarebbe stato tutto questo corpo austriaco, secondo il disegno ordito dal generale franzese, circondato o preso se Montrichard avesse vinto sulla destra come Macdonald aveva sulla mezza e sulla sinistra. Ma Klenau, non aspettando che il nemico venisse a lui, era uscito a combattere, ed aveva rotto i repubblicani. La resistenza di Klenau fu la salute di Hohenzollern; perchè questi, trovate le strade aperte, si ritirava alla Mirandola; poi, non credendosi sicuro sulla riva sinistra del Po, venuto a San Benedetto e quivi lasciato un piccolo presidio, varcava sopra un ponte di barche a San-Nicolò per andarsene ad aspettare sulla sinistra quello che i fati portassero. Klenau, vittorioso, poi vinto per le nuove genti mandate da Macdonald contro di lui, si condusse celeremente alle sue prime stanze di Cento; poscia vieppiù dilungandosi, andò a posarsi a Vigarano della Mainerba, sito poco distante da Ferrara. Già Ferrara era piena di spavento, e Klenau vi faceva provvisioni d'armi e di munizioni, come se il nemico fosse fra breve per arrivare. Perdettero gli Austriaci in tutte le raccontate fazioni quindici centinaia di prigionieri è forse pari numero, tra morti e feriti. Dei Franzesi mancarono, fra morti e feriti, circa un migliaio; pochi vennero in poter de' vinti. Macdonald fu ferito non da Tedeschi nè nella mischia, ma dopo la vittoria da' Franzesi del reggimento Bussy che militava sotto le insegne austriache. Cinquanta di questi vollero aprirsi il varco con le armi in mano a traverso i nemici per raggiungere i compagni; e riuscirono, ridotti da cinquanta a sette. Era la sorte d'Italia in pendente e doveva fra breve giudicarsi. Marciava celeremente Macdonald per unirsi a Moreau; Moreau mandava, come già fu detto, una squadra di Liguri sotto il governo di Lapoype a Bobbio, perchè servisse di scala alla congiunzione. Egl'intanto si apparecchiava a sboccare con tutto il suo esercito dalla Bocchetta per andar all'incontro di Macdonald. Suwarow marciava a gran passi da Torino per trovare o Moreau o Macdonald innanzi che fra di loro si fossero congiunti. Erasi Macdonald, dopo i fatti d'armi combattuti contro Hohenzollern, condotto in Piacenza, nella quale era entrato il dì 15 di giugno. Quindi gli si era accostato Victor, che, mandato da Moreau ad ingrossare l'esercito del compagno, era arrivato al suo destino. Macdonald, volendo prevenire il nemico e romperlo prima che fosse fatto più grosso, nè forse sapendo che Suwarow già fosse arrivato con l'esercito sul campo, incominciava la guerra. Trovavasi il generale tedesco Otto, come antiguardo, alloggiato fra la Trebbia ed il Tidone. In questo antiguardo urtando Macdonald, lo sforzava a ritirarsi, a passar il Tidone ed a correre fino a Castel San Giovanni, inseguendolo passo passo i cavalleggieri della repubblica. Ma Otto, indietreggiando, aveva fatto abilità alle prime genti di Suwarow d'arrivare correndo in suo soccorso; imperciocchè primamente Melas, udito il pericolo di Otto, aveva celeremente spinto avanti la schiera di Froelich, che sostenne la impressione dei Franzesi; poscia sopraggiunse opportunamente la vanguardia russa, e tutte queste genti insieme unite fecero un tale sforzo che i repubblicani, quantunque con molta costanza contrastassero, furono rincacciati sulla destra del Tidone. Sopraggiunse la notte: cessavasi per poche ore dagli sdegni e dalle ferite. Erano i due eserciti separati dal torrente Tidone. Avevano i due forti capitani della repubblica e dell'impero preparato, durante la notte, i soldati loro alla battaglia: erano le due parti ostinate alla vittoria o alla morte. Comandava Suwarow a' suoi che venissero in sul primo scontrarsi all'arma bianca, non dessero quartiere a nissuno e scannassero gridando _urrà, urrà_. Ma nel fatto i soldati mostrarono maggiore umanità del loro generale. Era l'esercito repubblicano schierato sulla sinistra della Trebbia, più vicino a questo fiume che al Tidone. Dalla parte sua Suwarow aveva ordinato l'esercito per guisa che fosse diviso in quattro parti. Passato il giorno 18 di giugno il Tidone a guazzo, venivano avanti gli alleati ad affrontare i repubblicani, che stavano preparati a ricevere l'urto loro. Avevano i primi fatto pensiero di urtare principalmente la sinistra del nemico; Bagrazione guidava la vanguardia; ma, essendo la campagna piena di fossi e di siepi, non arrivava se non tardi al cimento. I Franzesi, vedutolo a venire, impazienti di aspettarlo, si scagliarono furiosamente contro di lui. L'impeto loro fu tale che già i soldati del principe si crollavano e sarebbero anche andati in rotta s'ei non fosse stato presto a soccorrerli, ordinando una fortissima carica di cavalleria. Ne seguitò che non solo la fortuna della battaglia si ristorò dal canto degli alleati, ma ancora i Franzesi erano rincacciati fino agli alloggiamenti loro. Il quale accidente veduto da Macdonald, mandava alcuni reggimenti di Victor che frenarono Bagrazione, e facevano di nuovo piegare la fortuna in loro favore. In questo punto Rosemberg muoveva Schweicuschi in soccorso di Bagrazione, e per l'impeto di tante genti si attaccava in questa parte un'asprissima battaglia che durò molte ore. Al tempo stesso Forster con la sua vanguardia, composta massimamente di Cosacchi e di uno squadrone austriaco, si attaccava con la vanguardia repubblicana, e, dopo un ostinato conflitto, la sforzava a piegare. Sopravvenne il colonnello Lawarow con alcune compagnie, ed urtando a forza la vanguardia franzese che già si ritirava, la ruppe. L'impeto delle genti rotte, che disordinate urtarono nel centro dei repubblicani, lo scompigliarono, sforzandolo a ritirarsi, acremente perseguitato, oltre la Trebbia. Macdonald, che vedeva che in questo fatto andava la fama propria e la fortuna della battaglia, rannodò i suoi di nuovo, facendo in questo tutte le veci di capitano esperto, valoroso e forte. Indi, bene ordinato e di nuovo confidente, marciava al riscatto della battaglia. Ne sorse una mischia molto feroce: Forster era molto pressato, e sarebbe eziandio stato vinto se Froelich, veduto il caso, non gli avesse mandato nuove genti in soccorso. Questo avviso di Froelich ristorò la pugna dalla parte degli alleati; la fortuna si pareggiava. Sulla destra dei Franzesi, cioè verso il Po, si combatteva anche egregiamente per la repubblica e per l'impero. Così durò lunga pezza la battaglia, succedendo molto strazio e molte morti da ambe le parti. Vinse finalmente la fortuna dei confederati, che prevalevano di fanterie e di cavalleria. Fu rotto Dambrowski sulla sinistra, Macdonald sul centro, Olivier sulla destra: tutti furono obbligati a cercar ricovero, straziati dalle ferite e bruttati di sangue, sulla destra della Trebbia. Era il campo di battaglia orrido e doloroso a vedersi: in ogni parte uomini e cavalli morti o moribondi; in ogni parte gemiti e spaventi; in ogni parte armi e munizioni rotte e sparse; gli arbusti gocciavano, la Trebbia menava sangue. Sopraggiunse la notte, che rinvolse nelle sue ombre la miseranda strage, gli sdegni ancor vivi delle tre forti schiatte, e la cupidigia non ancora satolla d'umano sangue. Era intento di Suwarow d'ingaggiare il seguente giorno una nuova battaglia, perchè voleva rompere del tutto quella testa di repubblicani innanzi che Moreau gli romoreggiasse alla spalle. Pensava medesimamente Macdonald, per la sua pertinacia insolita ad esser vinta od a piegarsi, di assaltare alla nuova luce quel nemico che già per due volte aveva tentato con tanto danno de' suoi e con sì poco frutto. Intanto le sorti di Francia in Italia andarono in precipizio. Risolutosi Macdonald a non aspettare di essere assaltato, ma ad assaltare, muoveva alle 11 della mattina del 19 di giugno le sue genti contro l'esercito imperiale. Era l'ordinanza dei due nemici la medesima che ne' giorni precedenti. Con singolare intrepidezza passarono i repubblicani la Trebbia, ancorchè fossero aspramente bersagliati dalle artiglierie nemiche sì grosse che minute, principalmente da quelle che ferivano a scaglia. Nissuno creda che maggior valore nelle più aspre battaglie si sia mostrato mai di quello che in questa mostrarono e Franzesi, e Polacchi, e Russi, ed Austriaci. Senza scendere ai particolari è da notare che bene fu combattuta questa battaglia dalle due ale dell'esercito franzese sul principio, male sulla fine; il che fu cagione che se esse si ritirarono intiere sulla destra della Trebbia, la mezza vi si ricoverò fuggendo disordinata e rotta. Avevano i Franzesi passato il fiume, ed essendosi ordinati sulla sponda sinistra assaltavano con l'antiguardo loro il nemico: ma questi, bravamente resistendo, li rincacciava. Venuta la seconda fila repubblicana in soccorso della prima, rinfrescava la battaglia, che fra breve divenne orribile. Impazienti l'una parte e l'altra di combattere di lontano, vennero tosto alle prese con le baionette: fu quest'urto tanto micidiale sostenuto quindi e quinci con un valore inestimabile. Quando pei cadenti, feriti o morti qualche spazio vuoto appariva nelle file, i viventi vi si gettavano e facevano battaglia con le sciabole, e quando non potevano con le sciabole, la facevano coi graffi, coi morsi e coi cozzi. Non fu questa battaglia generale, ma miscuglio di duelli fatti corpo a corpo, nè si vedeva chi avesse ad essere il primo a ritirare il passo. Ma mentre la fortuna stava per tale modo in pendente, ecco arrivare a corsa un reggimento di Tedeschi che diede animo ai Russi, lo scemò ai Franzesi; caricando e smagliando la cavalleria che fiancheggiava la schiera di Montrichard. Un reggimento di fanti leggieri, preso spavento da questo accidente, cesse fuggendo disordinatamente; la fuga e lo scompiglio invasero tutta la schiera, nè Montrichard ebbe potestà di rannodarla, malgrado che se ne desse tanto pensiero e molto vi si sforzasse. La rotta di Montrichard fu cagione del doversi ritirare Victor; perchè Suwarow, accortosi della favorevole occasione, che la fortuna ed il valore de' suoi gli avevano aperta, si cacciava dentro ai luoghi abbandonati col suo corpo di riserbo, ed assaliva il generale franzese per fianco. Pensò allora Victor al ritirarsi sulla destra riva, e il fece ordinatamente, per quanto quell'accidente improvviso il comportava. Così tutta la mezza dei repubblicani, parte rotta intieramente, parte poco intera e fieramente seguitata dalla cavalleria nemica, si era ritirata a salvamento oltre quel fiume che con tanta speranza di vittoria aveva poche ore prima passato. Sopraggiunse la notte: era estrema la stanchezza dei combattenti; fuvvi riposo, se non d'animi, almeno di corpi. Pensava Suwarow, tosto che aggiornasse, di perseguitar il nemico, Macdonald di ritirarsi, quantunque a ciò di mala voglia e costretto dal parere dei compagni si risolvesse, perchè avrebbe desiderato di fare una quarta volta esperienza della fortuna; tanto si era ostinato in questa faccenda del combattere. Per la qual cosa, lasciato sulla sponda del fiume alcune genti delle più spedite per occultare al nemico la sua partita, s'incamminava celeremente col restante esercito, prima che la luce illustrasse l'italiche contrade, alla volta di Parma. Dal canto suo Suwarow, come prima vide sorgere l'aurora, passava il fiume per dar l'assalto al nemico ne' suoi propri alloggiamenti. Nè avendolo trovato ed accortosi della sua levata, si mise tosto a perseguitarlo, egli per la strada vicina ai monti, Melas per la prossimana al Po. Giunsero i Russi a Zema il retroguardo franzese governato da Victor e l'assalirono con molto valore e con ugual valore fu loro risposto dai Franzesi, cosa maravigliosa dopo gli infortuni recenti: la sola diciassettesima dovè darsi prigioniera. Dall'altro lato i Tedeschi arrivarono addosso ai Franzesi presso a Piacenza, e ne fecero molti prigionieri, massime feriti, fra i quali notaronsi principalmente Rusca, Salm e Cambray. Avrebbe voluto Suwarow seguitare più oltre i repubblicani; ma udiva ad un tratto che Moreau, uscito dal suo sicuro nido di Genova, era sboccato dalla Bocchetta, minacciava trarre a mal partito gli assediatori di Tortona e di Alessandria. Deliberossi pertanto a tornarsene indietro, dando carico a Otto, a Hohenzollern ed a Klenau che perseguitando facessero a Macdonald tutto quel maggior male che potessero. Restava a Macdonald un'impresa difficile a compirsi; quest'era di ritirarsi a salvamento in Toscana, per poter quindi per la riviera di Levante condurre le sue genti all'unione di Genova con quelle di Moreau. Ei ne venne, ciò nonostante, a capo con uguale e perizia e felicità. Ordinava a Victor che salisse per la valle del Taro, e che, varcati i sommi gioghi dello Apennino, calasse per quello della Magra nel Genovesato. Egli poi con la sinistra, ora combattendo alle terga, ora sul fianco sinistro, ed ora di fronte, e sempre animosamente e felicemente più che da vinto si potesse sperare, se ne viaggiava alla volta di Bologna per condursi di nuovo a Pistoia. Disperse le genti leggieri di Hohenzollern e di Klenau, che gli volevano contrastare il viaggio, passò per Reggio e per Rubiera, passò per Modena, che pose a grossa taglia, mandò presidii a Bologna ed al forte Urbano: poscia salendo s'internava nelle valle del Panaro ed arrivava al suo alloggiamento di Pistoia. Poco stettero Bologna ed il forte ad arrendersi ai confederati. Nè il generale franzese voleva pei disegni avvenire e per le molte sollevazioni dei popoli fermarsi in Toscana. Perlochè, chiamate a sè le guernigioni di Livorno e dell'isola d'Elba, che avevano capitolato, e poste sulle navi per a Genova le artiglierie e le bagaglie, si avviava per la strada di Lucca alla volta dei territorii Liguri, e quivi conduceva a salvamento i suoi stanchi soldati. Poi stanco egli stesso dalle fatiche e dalle ferite, se n'andava a Parigi piuttosto in sembianza di vincitore che di vinto per lo smisurato valore dimostrato. Con l'esercito di Macdonald si ritirarono ancora le genti franzesi che tenevano Firenze; tutta la Toscana tornava all'obbedienza di Ferdinando. Il giorno medesimo, in cui Macdonald combatteva sulle rive del Tidone, Moreau scendeva con circa venticinque mila soldati dalla Bocchetta, e passando per Gavi e Novi, fatto anche sicuro dalla fortezza di Serravalle, che si trovava in potere de' suoi, se ne giva all'impresa di divertire i confederati dalle offese di Tortona, che già pericolava, essendo stata aspramente bersagliata da bombe ai giorni precedenti. Il giorno 18 assaltava gli Austriaci nel campo loro sotto Tortona, e, quantunque si difendessero da uomini forti, tuttavia, prevalendo i Franzesi in numero, furono costretti a cedere, e perdettero San Giuliano, disordinati e rotti ritirandosi oltre la Bormida. Questa, vittoria liberava Tortona dall'assedio, e fu fatto abilità a Moreau di rinfrescarla di viveri e di munizioni. Scaramucciossi il giorno 19 ed il 20 sulle rive della Bormida. Il 21, messosi Bellegarde all'ordine, raccolte quante genti potè dal campo sotto Alessandria e da altre terre vicine, facendo stima non piccola di questo moto, nè volendo che Moreau si alloggiasse in quei luoghi, mandava Seckendorf con un grosso antiguardo ad assaltar i repubblicani sulla destra del fiume. Attaccossi Seckendorf con Grouchy a San Giuliano. Accorreva Bellegarde, accorreva Moreau. Divenne allora molto aspro il conflitto: da ambe le parti si facevano gli ultimi sforzi per uscirne con la vittoria. Alfine Grouchy, serrandosi addosso con molto impeto agli Austriaci, li rompeva e gli sforzava ad andarsene frettolosamente a cercar ricovero sulla sponda sinistra della Bormida. Quivi Moreau ebbe le novelle dei sinistri accidenti della Trebbia. Perlochè conoscendo che per allora non restava speranza di far risorgere la fortuna, e che la sola strada che gli rimanesse aperta per riparo del suo esercito era quella di ritirarlo prestamente là donde era venuto, condottosi con frettolosi passi per la strada di Novi e di Gavi a Genova, spartiva i soldati nelle stanze di Voltri, Savona, Vado e Loano. Munì Genova con un sufficiente presidio; la strada di sboccar di nuovo nelle pianure tortonesi gli rimaneva libera pei forti di Gavi e di Serravalle. Oltre a ciò aveva per maggior sicurezza ordinato un forte campo con trincee tra la Bocchetta e Serravalle che aveva raccomandato alla fede del marchese Colli, assunto al grado di generale ed a lui congiunto d'amicizia. Le altre valli dei monti Apennini, per le quali si aprono le strade delle piauure bagnate dalle acque del Po, furono anche dal generale di Francia fortificate e munite con buoni presidii. Tale fu la ruina ed il precipizio delle cose dei Franzesi in Italia che non ancora trascorsi quattro mesi da quando la guerra aveva avuto principio in questo anno, perdute sette battaglie campali e le fortezze di Peschiera e di Pizzighettone, il castello di Milano, la cittadella di Torino, perduta tutta l'Italia da Napoli fino al Piemonte, la cadente loro fortuna altro sostegno più non aveva che i gioghi dei monti liguri ed alcune fortezze. Conoscevano gli alleati che l'impero d'Italia non si rimarrebbe in mano loro sicuro se non quando tutte quelle fortezze conquistate avessero. Ma principale pensier loro era quello dell'acquisto di Mantova e delle fortezze del Piemonte. Per la qual cosa non così Moreau si era riparato nel suo sicuro seggio di Genova, che i confederati andarono col campo alla cittadella d'Alessandria con potentissimi apparecchi, sperando per l'efficacia del batterla, ch'ella avesse presto, quantunque molto fosse forte per arte, ad essere sforzata alla dedizione. Era dentro Alessandria un presidio di circa tre mila soldati sottomessi al generale Gardanne, soldato che, pel suo valore in queste guerre italiche, era tostamente salito dai minori gradi della milizia ai maggiori. Risolutosi egli a difendersi fino agli estremi, animava continuamente il presidio con la voce e con la mano, sopravvedeva ogni cosa, ordinava con somma diligenza quanto fosse necessario alla difesa. Dal canto suo Bellegarde niuna diligenza o fatica risparmiava per venire a capo dell'espugnazione. Aveva con sè venti mila soldati tra Austriaci e Russi, più di centotrenta pezzi d'artiglierie assai grosse, con obici e mortai in giusta proporzione. Si convenne da ambe le parti che gli alleati non molesterebbero la fortezza dal lato della città e che ella la città in nissun modo offenderebbe. Scavata ed alzata la prima trincea di circonvallazione, fece Bellegarde la chiamata a Gardanne. Rispose, essergli stato comandato che difendesse la fortezza e volerla difendere. La folgoravano con tiri spessissimi centotrentanove cannoni, quarantacinque obici, cinquantaquattro mortai. Nè se ne stava Gardanne ozioso, fulminando ancor esso con tutto il pondo delle sue artiglierie. Ma la tempesta scagliata dagli alleati fu sì grande che in poco d'ora, o per proprio colpo o per riverberazione ruppe la maggior parte dei letti delle artiglierie, sboccò le restanti, uccise non pochi cannonieri, arse una caserma ed una conserva di polvere con orribile fracasso: tacque per un tempo o debolmente trasse la piazza. Usarono gli assedianti l'accidente, e si spinsero avanti coi lavori; tentava Gardanne di impedirgli. Ciò non ostante tanto fecero che si condussero fin sotto ai bastioni. Sorgevano i segni della vicina dedizione. Già erano alzate le batterie per battere in breccia, già le scale pronte, già le artiglierie della piazza più non rispondevano. Di tanti, quattro cannoni soli si mantenevano in grado di trarre; le armi missili, oggimai consumate tutte, mancavano; un assalto al nascente giorno si preparava; una presa di soldati fortissimi trascelti a questo mortale ufficio già stavano pronti ad eseguirlo: le ruine stesse delle mura facilitavano la salita. Il resistere più lungo tempo sarebbe stato per Gardanne, non che temerità verso la fortuna, crudeltà verso i soldati; però inclinando l'animo alla concordia, chiese ed ottenne patti molto onorevoli il dì 21 luglio. Uscisse il presidio con tutti i segni d'onore che danno i vincitori ai vinti; si conducesse negli stati ereditarii e vi stesse fino agli scambi; avesse Gardanne facoltà di tornarsene in Francia sotto fede di non militare contro i confederati sino allo scambio. Fu celebrata la conquista d'Alessandria con ogni maniera di pubblica dimostrazione. Non si era ancora acquetata l'allegrezza concetta per la conquista d'Alessandria dai collegati, ch'ebbero occasione d'un'altra maggiore prosperità per l'espugnazione di Mantova. Avea Buonaparte due anni innanzi conquistato questa fortezza piuttosto col consumarla per carestia di viveri che con lo sforzarla per oppugnazione. La domò Kray piuttosto per forza che per assedio, perciocchè si arresero i repubblicani alle armi imperiali, quando ancora avevano nelle conserve loro di che cibarsi ancora per lungo tempo; ma le mura sfasciate ed il cinto della piazza rotto li costrinsero in breve a quella risoluzione cui il fare ed il non fare tanto importava a loro ed agli alleati. Si era Kray, già fin quando Suwarow era arrivato al supremo governo dell'esercito, messo intorno a Mantova, ma non si era fatto molto avanti con le trincee, perchè non aveva forze sufficienti a circuire ed a sforzare una piazza di tanta vastità e difesa da una guernigione di dieci mila soldati. Ma quando, dopo le rotte di Macdonald, Suwarow fatto più sicuro ebbe mandato novelle genti all'assedio per forma che l'esercito di Kray ascendeva, se non passava, il novero di quaranta mila soldati, il generale tedesco, nel quale non si poteva desiderare nè maggior animo nè miglior arte, si accinse a voler fare quello che fino allora avea solamente accennato. Trovossi egli in grado di fulminare la piazza con più di seicento bocche da fuoco. Nè stette lungo tempo in dubbio circa la elezione del dove far la breccia per aprirsi l'adito dentro la piazza, se il nemico, ostinato oltre il dovere resistesse, perchè la parte di porta Pradella gli si appresentò tostamente come la più debole. Ma a volere che gli approcci si potessero fare più facilmente, si rendeva necessario per gli oppugnatori l'impadronirsi del torrione e del mulino di Ceresa. Quindi, senza starsene ad indugiare, alzarono le serrature del Paiolo; il che fu cagione che le acque del canale di questo nome, trovando uno scolo più facile, si abbassarono nelle parti superiori, e fu fatto abilità a Kray di spingersi avanti con le trincee contro la piazza. Spesseggiavano i Russi con tiri contro la cittadella, gli Austriaci contro San Giorgio. Ma la principale tempesta veniva da Osteria Alta, dai siti vicini alla strada per a Montanara, da Belfiore, da Casa Rossa, da Paiolo, da Valle e da Spanavera; quivi il generalissimo d'Austria avendo piantato le più grosse e più numerose artiglierie, per battere o per diritto o per fianco l'opera a corno di porta Pradella, i bastioni della porta medesima, il bastione di Sant'Alessio, con le fortificazioni dell'isola del Te e del Migliaretto. Mentre con tanto fracasso e con sì viva tempesta fulminava Kray la parte più debole della piazza, tempesta alla quale gagliardamente anche rispondevano gli assediati, intendeva ad approssimarsi con le trincee all'opera a corno di porta Pradella. Un numero grande di guastatori, di zappatori e di palaiuoli insistevano a scavare e ad ammontar terra. In breve tempo compirono, quantunque gli assediati facessero ogni sforzo per isturbarli, la prima parallela: poi con gli approcci o con le traverse avvicinandosi, piantarono sei batterie. Già i confederati erano arrivati a compire la seconda parallela, e da questa con maggior furore scagliavano nella piazza il giorno palle, la notte bombe: era infinito il terrore della città. Molti assalti e molti vantaggi diedero indi abilità al corpo principale degli assedianti d'avvicinarsi del tutto all'opera a corno, dove sull'orlo stesso dello spalto gli Austriaci scavarono ed alzarono la loro terza circondazione. Non potendo più resistere, i Franzesi se ne ritirarono. Accortisi gl'imperiali dell'accidente, entrarono, vi si alloggiarono e voltando dal bastione acquistato, come da luogo più vicino, l'artiglierie contro la porta Pradella, se alcuna cosa ancora vi era rimasta intera, questa disfecero e rovinarono: già battevano in breccia. La tempesta continuava da ogni lato: più di dieci mila o palle o bombe si lanciavano ogni giorno contro la straziata Mantova; non si era mai per lo innanzi veduta una oppugnazione tanto vigorosa e tanto violenta. Tuttavia la guernigione, benchè assottigliata dalle stragi, indebolita dalle malattie, consunta dalle fatiche, ridotta a poco più di quattro mila abili alla battaglia, certo a gran pezza non più pari a tanta bisogna, tuttavia non pensava ancora a chiedere i patti e perseverava nelle difese, quando di tanto strazio increbbe a Kray. Mandava dentro il colonnello Orlandini, offerendo patti d'accordo onorevoli, e certificando a Latour-Foissac, comandante della piazza, la sconfitta delle genti franzesi sulla Trebbia e l'essersi Moreau del tutto ritirato per ultimo ricovero oltre i gioghi dell'Apennino. Adunò Latour-Foissac una dieta militare: tutti convennero in questo, che fosse necessità pel presidio di dare la piazza. Fu fermato l'accordo a' 28 di luglio; i capitoli di maggior momento furono i seguenti: onoratissimamente ad uso di guerra uscisse la guernigione; avessero i gregari facoltà di tornarsene in Francia sotto fede sino agli scambi: il comandante e gli ufficiali, soggiornato tre mesi negli Stati ereditarii, avessero facoltà di tornare nei paesi loro; i Cisalpini, Svizzeri, Piemontesi e Polacchi avessero come Franzesi a stimarsi, e come tali fossero trattati; avessero i Tedeschi cura degli ammalati e dei feriti; dessersi tre carri coperti al generale, due agli ufficiali; perdonerebbesi la vita ai disertori austriaci. Entrarono i confederati il dì 29 nella lacerata Mantova, e per questa espugnazione fu dimostrato al mondo che per viva forza si può espugnare in pochi giorni. Trovarono più di seicento bocche da fuoco, altre armi in abbondanza, magazzini ancor pieni di vettovaglia. Successe tosto alla dedizione di Mantova quella di Serravalle. Le rotte d'Italia e la presa di tante fortezze, massimamente quella di Mantova, avevano maravigliosamente sollevato gli animi in Francia, nè potevano restar capaci, siccome quelli che ancora avevano la memoria fresca di tante vittorie, del come soldati sì sovente ed in tanti segnalati fatti superati dai repubblicani fossero adesso e tutto ad un tratto divenuti sì forti, che avessero a venir a buon fine di qualunque fazione che tentassero contro Francia. Chi accusava l'oro corrompitore, chi i tradimenti per opinione. Si accusava Scherer, si accusava Latour-Foissac, si accusava Fiorella, si accusava Becaud, comandante che era stato del castello di Milano; nè trovava animi meglio inclinati verso di lui il valoroso Gardanne. Se non si dava carico di tradimento a Moreau, gli si dava quello dell'amministrare la guerra non con quella vigorìa che era richiesta alla repubblica. Gli ambiziosi accagionavano il direttorio delle calamità presenti e facevano ogni opera per espugnarlo, e insomma tanto si travagliarono con le parole e con gli scritti, e col subornare e col sobillare, che tre quinqueviri furono cambiati, surrogati nei seggi loro tre altri. Stettero contenti i zelatori alcuni giorni, forse un mese; poi ricominciarono a gridare contro i surrogati più fortemente di prima. Ma intanto, su quei primi calori dei nuovi quinqueviri sorsero nuove speranze; chè applicarono l'animo a riscaldare l'affezione della repubblica, l'amore del nome franzese, la ricordanza dei gloriosi fatti. Per tal modo diveniva, ogni giorno più la materia ben disposta; delle quali favorevoli inclinazioni valendosi, mandavano alle frontiere in Isvizzera, in Savoia, nel Delfinato, nelle Alpi Marittime, nella Liguria, quante genti regolari poteano risparmiare dei presidii interni. Poi per procurar nuove radici alle genti veterane, ordinavano nuove leve in ogni parte. I soldati nuovi marciavano volontieri, perchè le sconfitte recenti e le vittorie passate, con la necessità di mantener illibato il nome franzese, con accesi colori si rappresentavano dalle gazzette, dagli oratori, dai magistrati: poi le bellezze d'Italia maestrevolmente anche si dipingevano. Questi tentativi su quegli animi pronti efficacemente operavano, e già Francia si moveva confidente contro la lega europea. Pensiero era di assaltare al tempo stesso e Svizzera e Piemonte e Italia. A tanta mole erano richiesti capitani valorosi e di gran fama. Già nella Svizzera Massena animosamente combatteva contro l'arciduca Carlo. Restava che agli eserciti che dovevano far impeto contro il Piemonte e contro l'Italia venissero preposti generali di nome, accetti ai soldati, accetti agl'Italiani. Championnet e Joubert più di tutti maggiormente lodavansi di queste condizioni. Furono eletti. De' due eserciti che il direttorio aveva intenzione di mandare contro gli alleati in Italia, il primo, governato da Championnet, aveva carico di minacciar il Piemonte superiore e preservare le fortezze di Cuneo e Fenestrelle: il secondo più grosso doveva accennare, per le strade massimamente del Cairo e della Bocchetta, verso il Piemonte inferiore, con intento di liberar Tortona dall'assedio e di combattere su quel fianco gli alleati, donde poteva, se la fortuna si mostrasse favorevole, facilmente aprirsi il cammino sino a Milano. Era intenzione che questi due eserciti in uno e medesimo tempo calassero verso i luoghi a cui erano per volgersi; ma Championnet non aveva ancora messo insieme tante genti che fossero abbastanza a così grave bisogno, e quelle che aveva raccolto, la maggior parte soldati nuovi essendo, ignoravano l'arte ed il romore della guerra. Perlochè non poteva sperare di essere in grado di dar principio così presto, come sarebbe stato necessario, alle armi. Da un'altra parte Joubert aveva l'esercito pronto e capace di combattere; erano in lui i forti veterani di Moreau e di Macdonald, con altri reggimenti usi alla guerra della Vandea, stati trasportati dalla flotta di Brest nel Mediterraneo. Arrivava questo esercito a quaranta mila soldati, agguerriti uomini ed infiammatissimi nel voler vincere. Nè mancavano i sussidii necessarii, perchè abbondavano di artiglierie e munizioni; solo desideravano un maggior nervo di cavalleria. Temevano che Tortona, che dopo la perdita di Alessandria era il solo forte che potesse facilitare la strada ai repubblicani per Milano, non venisse in poter dei confederati, che con forti assalti la straziavano. Per la qual cosa, sebbene Championnet non potesse ancora concorrere alla fazione, Joubert si era deliberato a mostrarsi alle falde degli Apennini verso Tortona per combattere in battaglia campale il nemico, e, se ciò non gli venisse fatto, sperava almeno che la fortuna gli aprirebbe qualche occasione per soccorrere Tortona. Già era arrivato al campo. Trovatosi con Moreau, che se ne dovea partire per andare al governo della guerra del Reno: «Generale, gli disse, io vengo generalissimo di questo esercito, ed ecco che il primo uso ch'io voglio fare della mia autorità, quest'è di comandarvi che restiate con noi, e che governiate le genti come supremo duce voi medesimo: ciò mi fia caro oltremodo. Sarommi il primo ad obbedirvi e ad adoprarmi qual vostro primo aiutante.» Tant'era la venerazione che il giovane generale aveva per l'anziano, e tanta la temperanza del suo animo. Ciò fu cagione che Moreau restasse ed aiutasse col suo consiglio il compagno negli accidenti sì ponderosi che si preparavano. Le genti venute da Napoli con Macdonald e l'antico esercito di Moreau si calavano la maggior parte per la Bocchetta; le venute frescamente da Francia s'incamminavano per Dego e Spigno verso Aqui. Bellegarde fece qualche resistenza per quelle erte rupi; ma si ritirò, prima dai più alti luoghi per forza, poi dai più bassi per ordine di Suwarow, che, prevalendo di cavalleria, voleva aspettare i repubblicani al piano. Entrarono questi in Aqui: il mandarono a sacco per vendetta di compagni uccisi dai sollevati, quando Victor si ritirava ai monti liguri. Quando l'ala sinistra dei Franzesi, di cui abbiam favellato, e che era governata dal generale Perignon, col quale militavano Grouchy, Lemoine e Colli, fu arrivata a lato e sulla fronte della mezzana e della destra, ordinava Joubert il suo esercito ed il disponeva agli ulteriori disegni. La mezzana obbediva a Joubert; la destra era commessa al valore del generale Saint Cyr, che aveva con sè Vatrin, Laboissiere e Dambrowski. Questa ultima scesa dalla Bocchetta arrivava per Voltaggio e Gavi sino a Novi, donde cacciava gli Austriaci. Faceva intanto una fazione contro Serravalle per mezzo del generale polacco, il quale occupò la città, ma non potè entrar nel forte. La mezzana alloggiava sulla strada che da Genova porta ad Alessandria per Ovada nella valle d'Orba, spingendosi oltre insino a Capriata. La sinistra aveva le sue stanze verso Basalazzo. Così l'oste di Francia, nella quale si noveravano circa quaranta mila soldati, si distendeva dalla Bormida sin oltre alla Scrivia, signoreggiando le tre valli della Bormida, dell'Erro ed Orba, del Lemmo e Scrivia. Nè contento Joubert alla fortezza naturale di quei luoghi erti e montuosi, con trincee, con fossi e con batterie di cannoni, piantate nei siti più acconci alle difese, gli affortificava. Per tal modo i Franzesi sovrastavano dai monti alla sottoposta pianura. Aveva dalla parte sua Suwarow ordinato le genti per forma che l'ala sua dritta, composta massimamente di quei Tedeschi che Kray aveva condotto dal campo di Mantova dopo la resa della piazza, e da lui medesimo governata, si distendeva nei campi vicini a Fresonara: la mezzana, a cui soprantendeva il generalissimo col generale Derfelden, e quasi tutta consisteva in soldati russi, alloggiava in Pozzuolo all'incontro di Novi. Finalmente la sinistra, in cui era il nervo dei granatieri austriaci e si trovava retta da Melas, stanziava a Rivalta, col fine di fare che i repubblicani non gli potessero impedire la ricuperazione di Tortona, e di combattere d'accordo coi compagni, se d'uopo ne fosse: erano nel novero di circa settanta mila soldati. Apparivano l'uno all'altro molto vicini i due eserciti nemici, nè la battaglia poteva differirsi, battaglia ardentemente desiderata da Joubert sì per ardimento proprio, sì per comandamento del direttorio, che volea che non si stesse ad indugiare, per far inclinar del tutto le sorti dall'un de' lati in quell'aspra guerra. Ma in una dieta convocata a posta pullulò grande varietà di opinioni. Una parte, alla testa dei quali era il generalissimo, voleano dar dentro immediatamente e menare le mani; l'altra conchiudeva i suoi ragionamenti sostenendo che miglior partito era l'aspettar il nemico ne' proprii alloggiamenti, che l'andarlo ad assaltare ne' suoi. Prevalse nel consiglio questa sentenza: raffrenava Joubert i suoi spiriti, e si riduceva, quantunque mal volentieri, a questa deliberazione, di aspettare che il nemico venisse a tentarlo negli apprestati alloggiamenti. Variavano anche molto gli animi fra gli alleati intorno a quello che loro convenisse di fare. I generali austriaci, non soliti a commettersi all'arbitrio della fortuna, dissuadevano la battaglia. Ma le loro buone ragioni non furono capaci a Suwarow, che si consigliava piuttosto con l'ardire che con la prudenza, e che per le vittorie dell'Adda e della Trebbia era venuto in grandissima confidenza di sè medesimo: opinava perciò diversamente, nè poteva pazientemente udire che si fuggisse il combattere, e che il vincere fosse posto in dubbio e differito. Molte ragioni adduceva egli e conchiudeva doversi per onore, per debito, per sicurezza, dar dentro ed affrontare senza indugio l'inimico; perchè il tempo dava forza ai repubblicani, e qualche improvvisa fazione avrebbe soccorso Tortona. A tali parole di quel vecchio risolato, vittorioso, nudrito nelle armi e negli esercizii della guerra, s'acquetarono i generali austriaci, e fu deliberata quella battaglia, in cui si contenevano tutte le sorti future dell'Italia. Appena era sorto il giorno 15 agosto, che i confederati givano all'assalto. Kray fu il primo a ingaggiar la battaglia con l'ala dei Franzesi, in cui il generalissimo della repubblica si trovava. Fu l'urto gagliardo, nè meno gagliardo il riurto. Molto sangue già si era fatto di lontano in questo primo congresso fra le truppe leggieri, molto sangue si faceva per conflitto delle genti più grosse; piegavano i soldati corridori di Francia. Joubert sotto speranza di rimetterli, si spingeva innanzi con le fanterie, gridando con la voce ed accennando col braccio, _avanti_, _avanti_. Quivi una palla mandata, dicesi, da un esperto cacciatore tirolese venne a por fine con una onorevole morte ad una delle vite più onorevoli che sieno state mai, ed a troncare le speranze degli amatori dell'indipendenza italiana. Fu percosso Joubert in mezzo del cuore, e senza poter mettere altra voce se ne morì. Recavasi Moreau in mano il governo dell'esercito. Non isbigottiva il funesto caso i Franzesi, che già si trovavano sul fervor della battaglia; che anzi, aggiungendo a valore furore e desiderio di vendetta, fecero pruove stupende e per sempre memorabili. Sforzavasi Kray, con cui militava anche Bellegarde, parecchie volte affrontando valorosissimamente il nemico, di sloggiarlo; ma sempre fu con perdita gravissima di morti e di feriti rincacciato: pareva disperata da questa parte la fortuna degli alleati. Nè con migliore augurio combattevano sul mezzo. Aveva Suwarow mandato Bagrazione ad attaccar di fronte i Franzesi nel loro alloggiamento di Novi; ma si sforzò invano il principe, costretto anzi a tornarsene indietro sanguinoso e vinto. Mandava Suwarow, che pure la voleva spuntare, invece del generale respinto, ad assaltar una seconda volta Novi con una più grossa schiera Derfelden accompagnato da Miloradowic; ma quantunque l'uno e l'altro virilmente si adoperassero, non poterono venir a capo dell'impresa loro, e furono, come il primo ferocissimamente ributtati, tanta era la fortezza degli alloggiamenti franzesi, e tanto il valore che i difensori mostrarono in questa ostinata battaglia. Al primo sparare delle artiglierie e dell'archibuseria di Francia, andarono a terra o morti o rotti più di mille soldati di Russia. Ma Suwarow non era uomo da sgomentarsi per quell'atroce accidente, ed anche pensava ch'egli solo era stato pertinace a voler la battaglia. Si faceva egli medesimo innanzi da Rivalta con tutta la squadra di riscossa, avventandosi contro il conteso Novi. S'attaccò di nuovo la battaglia tra Russi e Franzesi più furiosa di prima: il coraggio era uguale da ambe le parti, la strage maggiore da quella dei Russi, perchè i Franzesi combattevano da luoghi più sicuri, i Russi all'aperto. Tuttavia si spinsero avanti con tanto singolare intrepidezza, che, puntando con le baionette, costrinsero a piegare una legione repubblicana. Ma accorsi i compagni, e rifatto, siccome quelli che erano esperti ed usi a simili casi, tostamente il pieno, rincacciarono i Russi, che da questa animosa fazione non ritrassero altro che ferite e morti. Animava Suwarow anche con pericolo della vita, in sì fitto bersaglio, i soldati, e nuovamente mandava alla carica gli squadroni ordinati e stabiliti. Ma non per questo cedevano i Franzesi; che anzi tanto più fieramente si difendevano quanto più fieramente erano assaltati. Melas intanto, con la sua sinistra schiera spintosi avanti, era venuto alle mani col nemico. Ma i repubblicani pur sempre prevalevano, nè muro tanto fu saldo mai in niuna battaglia, quanto i petti dei Franzesi in questa. Il generalissimo di Russia dal canto suo, quanto più duro incontro trovava, tanto più si ostinava a volerlo superare. Ordinava a Kray, a Bellegarde, a Derfelden, a Rosemberg, a Bagrazione, a Miloradowich, a Melas, raunassero le schiere, e sì di nuovo a fronti basse percuotessero l'inimico. Il percossero; furono con orribile macello ributtati e voltati in fuga manifesta. Già da più di otto ore si combatteva; la fronte dell'esercito di Francia tuttavia si conservava intera; gl'imperiali, se non rotti del tutto, certo disordinati ed in volta. Già si vedeva che la forza, la quale sola aveva voluto usare Suwarow, non aveva bastato a smuovere i repubblicani dai loro alloggiamenti. I confederati cominciavano a starne con molta dubitazione; già i Russi, fuggendo da quella terribile tempesta, traevano con sè, quantunque quel vecchio robusto ed ostinato fieramente contrastasse, il generalissimo loro. I generali austriaci intanto, dei quali questo accidente perturbava molto gli animi, e per cui quel conflitto era di estrema importanza pei dominii del loro signore, si studiavano a trovare qualche modo, poichè dove la forza non vale, vi abbisogna l'arte onde rinfrancare la fortuna afflitta. Ebbe in questo pericoloso punto Melas un fortunato pensiero che comprovò ch'egli era non solo d'animo invitto a non lasciarsi sgomentare in mezzo a tanto fracasso ed a tante morti, ma ancora di mente serena e di perfetto giudizio. Secondollo volentieri Suwarow, sperando che per arte altrui si salverebbe quello che o per eccessiva imprudenza o per eccessivo coraggio aveva egli perduto. Fece Melas avviso che non fosse impossibile di circuire l'ala destra dei repubblicani, e di riuscir loro alle spalle, al che dava facilità la possessione di Serravalle. Per la qual cosa, volendo mandare ad effetto questo intento, lasciata solamente la prima fronte de' suoi a combattere contro i repubblicani, tirò indietro le altre squadre, alle quali ne aggiunse alcune altre testè arrivate da Rivalta. Fatto un grosso di tutte queste genti, erano otto battaglioni di granatieri, sei battaglioni di fanti, gli uni e gli altri austriaci, sollecitamente marciava sulla sinistra sponda della Scrivia ascendendo. Liberò d'assedio Serravalle; occupò Arquata. Perchè poi in mezzo a quella confusione di battaglia non si aprisse l'occasione al nemico, che già il tentava, di far correre una picciola squadra sulla destra del fiume sino a Tortona, comandava al conte Nobili che se ne andasse a Stazzano con una sufficiente squadra, e frenasse i Franzesi. Già era Melas giunto tra Serravalle e Novi, quando divideva i suoi in tre colonne, la prima con Froelich e Lusignano, perchè assaltasse la punta dell'ala destra dei Franzesi, la seconda, condotta da Laudon, che si sforzasse di spuntare e di circuire quella estremità medesima dell'esercito repubblicano; la terza, governata dal principe di Lichtenstein, che girasse più alla larga, arrivasse alle spalle dei Franzesi e troncasse loro la strada da Novi a Gavi. Intanto Suwarow, rannodate alla meglio le sue truppe disordinate, rinfrescava la battaglia. Lusignano, ferito di palla e di taglio, fu fatto prigione; tutta la colonna di Froelich pericolava; ma accorreva Laudon e recavasi in mano la vittoria. Nè potè Moreau, quantunque molto vi si affaticasse, riordinare i suoi a sostenere l'impressione dell'inimico. Questo fu il momento ed il combattimento decisivo della giornata. Piegarono sempre più i Franzesi; gli Austriaci, perseguitandoli, gli scacciarono, sebbene non senza grave strage dal canto loro, dal forte alloggiamento che avevano sulle alture dietro e a fianco di Novi. I fuggiaschi vi si ripararono: ma assaltata al tempo stesso questa città dai Russi, fu da loro presa di viva forza a colpi di cannone che atterrarono le porte. I vincitori vi commisero molta e crudele uccisione, facendo man bassa ugualmente su chi si arrendeva e su chi non si arrendeva. Mentre così Melas vinceva con la sua prima e seconda colonna, e vincendo apriva anche il varco della vittoria a Suwarow, la sua terza, giunta sui gioghi di Monterosso, era riuscita sulla strada che da Novi porta a Gavi, e per tal modo aveva tagliato ai repubblicani la strada del potersi ritirare per la Bocchetta. Già era, quando queste cose succedevano, il giorno trascorso fino alle sei della sera, e, per conseguente, durava lo stupendo combattere già più da dieci ore. Vinta l'ala destra ed il centro dei repubblicani, non restava più per essi alcun modo di ristorare la fortuna della giornata; però fece Moreau andar attorno i suoni della ritirata. In questa guisa, per una ordinazione maestrevole del generale austriaco, fu tolta ai Franzesi la vittoria, che già tenevano in mano, di una lunga, grave, ostinata e terminativa battaglia. Tagliato il ritorno per Gavi, furono costretti i Franzesi a ritirarsi per la strada meno facile di Ovada. Marciavano prima ordinatamente; un accidente inopinato cambiò subitamente l'ordine in disordine, la ritirata in fuga. Fecero i generali Perignon, Grouchy, Colli, Partonneaux quanto per valorosi soldati si poteva per rannodare le genti loro sconvolte e spaventate, ma furono le loro fatiche sparse indarno. Pieni di spavento, ed incapaci di udire qual comandamento che si fosse, fuggivano a tutta corsa i repubblicani a destra, a stanca, e dove più il terrore che il consiglio li portava. Furono i generali suddetti feriti gravemente di arma bianca, e tutti fatti prigionieri. I gregarii, che per la fuga non si poterono salvare, furono per la rabbia concetta nella battaglia, e per comandamento di Suwarow, tutti uccisi inesorabilmente dai Russi: orribile macello da aggiungersi a quello di Novi! Finalmente i repubblicani giunsero a salvamento ai sicuri ricetti delle montagne genovesi. Niun campo di battaglia fu mai tanto spaventoso quanto questo pel sangue sparso, per le membra lacerate, pei cadaveri accumulati. Ne fu l'aria infetta; orribile tanfo durò molta pezza: spaventevoli terre fra Alessandria, Tortona e Novi, prima infami per gli assassinii, poscia contaminate dalle battaglie. L'assedio di Tortona, ora stretto, ora allargato più volte, secondo che i confederati ebbero comodità di adoperarvi le forze loro, o necessità di usarle altrove, s'incamminava dopo la vittoria di Novi al suo fine. Vi stava dentro il colonnello Gast, il quale con forse due mila Franzesi si difendeva molto virilmente. Fino dai primi giorni di luglio si erano cominciate dal conte Alcaini, uomo veneziano ai servigi d'Austria, a cui Suwarow aveva dato il carico dell'espugnazione, le trincee. Ma la bisogna lentamente procedeva per la resistenza degli assediati, per la natura del suolo, e per essere state le opere interrotte dalle vicine battaglie. Nondimeno, soprantendendo ai lavori della oppugnazione un ingegnere Lopez, fu tirata a perfezione nei primi giorni di agosto la prima trincea di circonvallazione. Ma si faceva poco frutto contro la piazza, perchè, stante il suo sito eminente, piuttosto con le bombe che con le palle si poteva espugnare. Laonde, continuando a lavorare indefessamente gli oppugnatori, tanto fecero che vennero a capo di ordinare la loro seconda trincea, e questa armarono di numero grande di cannoni e di mortai. Non si sbigottiva per questo Gast, perchè ed era uomo di gran cuore, e le casematte di grosse e triplicate volte non cedevano a quella orribile tempesta. Ciò non ostante, un guasto considerabile fu fatto dalle bombe negli artiglieri e nelle artiglierie della fortezza. I Franzesi con arte e costanza somma le riattavano, e continuavano a tuonare contro gli assalitori. Si vedeva che molta fatica e molto sangue bisognava ancora spendere per espugnare Tortona. Ma per la giornata di Novi non vedendo Gast speranza di poter più allungare la difesa, convenne di arrendersi, se infra un certo tempo non fosse soccorso. Stipulossi adunque il dì 22 agosto fra le due parti un accordo, pel quale si sospesero per venti giorni le offese, obbligandosi il Franzese a dare la piazza, se nel detto termine l'esercito non arrivasse a liberarlo; uscirebbe a tempo pattuito la guernigione con armi e bagagli, con le bandiere all'aria, col suono dei tamburi; deporrebbe le armi sulla piazza di San Bernardino, e per la più breve se n'andrebbe in Francia sotto fede di non militare contro gli alleati per quattro mesi. Il dì 11 settembre non essendo comparso aiuto da nissuna parte, uscivano i repubblicani dalla fortezza, entravanvi gl'imperiali. Venne Suwarow in molta allegrezza per l'acquisto di Tortona, perchè il faceva sicuro della guerra genovese, e si vedeva aver ricuperato al nome del re quasi tutti i dominii del Piemonte, oggimai liberi dalla presenza dei repubblicani. Ora i principali suoi pensieri si volgevano ad assicurare il Piemonte superiore dalle armi franzesi con rompere la forza di Championnet e con espugnar Cuneo. Ma il compimento di queste fazioni lasciava a Melas ed a Kray, perchè egli se ne partiva con tutte le genti russe per alla guerra elvetica. Partito Suwarow dalle terre italiche, ne fu molto diminuita la forza dei confederati in Piemonte. E però non poterono i capitani dell'imperator Francesco, innanzi che arrivassero nuovi rinforzi dagli Stati ereditarii, tentar cosa d'importanza. Solo attendevano a conservare gli acquisti fatti, e si apparecchiavano, quando gli aiuti fossero giunti, alla oppugnazione di Cuneo, piazza molto forte, e che, per essere vicina alle frontiere di Francia, è molto facile a venir difesa e soccorsa dai Franzesi. Dall'altra parte primo pensiero dei repubblicani era il conservare la possessione di Cuneo, e tribolare talmente il nemico intorno a lui, che ne nascesse una grave diversione in favor di Massena che aveva a fronte nella Svizzera l'arciduca Carlo, e presto avrebbe non solamente Suwarow con le genti vincitrici d'Italia, ma ancora Korsakow, ch'era vicino ad arrivare con nuovi squadroni di Russi. Ma l'aver voluto distendersi in una fronte tanto lunga con poche forze fu cagione che la guerra, che doveva esser grossa, si cangiò in guerra minuta e fastidiosa, con moltiplicate scaramucce ed affronti, che niuno effetto, non solamente terminativo, ma nemmeno d'importanza potevano partorire. Sarebbe troppo molesta narrazione il raccontar tutto: la somma fu che il forte di Santa Maria, che sta a difesa del golfo della Spezia, e soggetto principale di contesa, finalmente cadde in potestà degl'imperiali; il quale accidente aperse libero l'adito alle navi di Inghilterra in quel magnifico seno di mare, e fece facoltà agli Austriaci d'inoltrarsi di nuovo fino assai prossimamente, sentendosi sicuri alle spalle, a Genova, donde la poterono cingere di assedio, quando, alcun tempo dopo, le armi imperiali vennero a romoreggiarle intorno, anche dalla parte d'Occidente. Le medesime minute fazioni tribolavano e repubblicani e imperiali sulla Scrivia e sulla Bormida, ed ancor più gli abitatori del paese, che si trovavano fra quelle due genti per loro strane, e l'una contro l'altra infuriate. Melas ponderate tutte le cose che accadevano, lasciando Kray alla guardia dei paesi in cui la Scrivia e la Bormida infondono le loro acque, andava a posarsi nei contorni di Bra con circa trenta mila soldati abili a campeggiare in quelle facili pianure. Era questo suo alloggiamento non senza fortezza, siccome quello che, posto tra il Tanaro e la Stura, si mostrava opportuno a sopravvedere i moti che potessero fare i Franzesi da Mondovì, di cui erano in possessione, dal colle di Tenda e dalle valli della Stura e di Pratogelato, che massimamente accennavano a quel luogo come a centro comune. Suo intendimento principalissimo era di guarentire il Piemonte, e di trovar modo di combattere felicemente nelle battaglie che aspettava, per andare a porre il campo sotto Cuneo. Nè i Franzesi ricusavano il cimento. Aveva Championnet, in cui, dopo la partenza di Moreau andato alle guerre del Reno, era investita l'autorità, suprema sopra tutte le genti che si distendevano dalla Magra per tutto il circuito, dei liguri Apennini e delle Alpi sino alla Dora Baltea, chiamato a sè la schiera di Victor, annestandola alla sua destra ala verso Mondovì. Al tempo stesso ordinava che si accostasse al suo fianco sinistro per Pinerolo e per Saluzzo una squadra di genti venute dall'Alpi Cozie, e condotta dal generale Duhesme. Tutte queste genti unite insieme componevano un esercito quasi pari in numero a quello di Melas: la guerra, fin allora sparsa e vaga, si riscontrava in un solo punto, e tutto lo sforzo si riduceva nelle vicinanze di Fossano e di Savigliano: sulle rive della Stura era per definirsi quest'ultimo atto dell'italiana contesa ed il destino di Cuneo. Ardevano l'una parte e l'altra di venir alle mani: il che era da lodarsi dal lato di Melas, perchè assai gl'importava di combattere prima dell'arrivo di Duhesme, ma non parimente dal lato di Championnet, che doveva indugiarsi insino a tanto che la congiunzione di Duhesme avesse avuto intieramente il suo effetto. L'uno esercito nel momento stesso si avventava contro l'altro il dì 9 novembre. I primi ad attaccarsi furono Grenier ed Otto. Combatterono ambidue tra Savigliano e Marene con estremo valore, essendo il coraggio e la perizia militare uguali da ambe le parti. Fu lunga e forte e variata la mischia; gli uni con gli altri parecchie volte si mescolarono. Ma prevalendo gli Austriaci per le cavallerie (a questo fine appunto Melas aveva tirato il suo avversario sui campi aperti) furono finalmente i Franzesi costretti a ritirarsi a Savigliano, e di là cacciati, a retrocedere, incamminandoli a Genola. Le cose succedettero diversamente tra Esnitz e Victor. Uscito il primo da Fossano, aveva assaltato il secondo a Genola; ma il Franzese gli rispose con tanta gagliardia, che, quantunque il Tedesco per tre volte desse furiosamente la carica, ne fu sempre risospinto con grave danno, e fino sforzato a ritirarsi più che di passo dentro le mura di Fossano; donde poi uscendo di nuovo, per usar l'occasione, acquistava Genola, e perseguitava continuamente Victor alle spalle. Melas, raccolti i suoi, non volendo dar posa al nemico in su quel fervore della vittoria, assaltava Lavaldigi, e, dopo un lungo conflitto, se ne impadroniva. Ritiravansi i Franzesi parte a Centallo, parte a Marozzo. In questo mentre giungeva Duhesme sul campo in cui si era combattuto sul principio della battaglia, e trovato Savigliano con debole presidio, se ne rendeva padrone, poi marciava per combattere Marene. Diveniva la sua mossa molto pericolosa pei Tedeschi, e se fosse stata fatta qualche ora prima, sarebbe stata per loro pregiudiziale all'estremo. Ma già erano talmente in possessione della vittoria, che fu loro agevole il portar rimedio contro quell'improvviso accidente. Ordinava Melas al generale Sommariva che andasse a combattere Duhesme. Potè egli giungerlo, quantunque il giorno già inclinasse, e lo costrinse, fattasi dal generale franzese breve resistenza, perchè aveva ricevuto le novelle della rotta dei compagni, a ritirarsi fino a Saluzzo. Avevano gli Austriaci in mano loro la vittoria; restava che l'usassero. Il giorno seguente sforzarono a darsi un grosso squadrone lasciato a Ronchi, indi una schiera più grossa che stanziava a Murazzo. Avrebbe voluto Melas correre sulla destra della Stura per dar addosso a Lemoine; ma inteso che i Franzesi avevano fatto due campi, con intenzione di preservare Cuneo, condusse le sue genti vincitrici contro quei nuovi alloggiamenti del nemico; i Franzesi, non aspettandolo, si ritirarono ai monti. Se non che, premendo a Melas di fargli allargar da Cuneo, perchè l'oppugnazione della piazza non gli potesse venire sturbata, li perseguitava da tutte bande; li cacciava sino all'erto giogo di Tenda, occupava le Barricate e l'Argentiera, Dronero, e sforzava Duhesme e tornarsene nella valle d'Icilia, alle radici del monte Ginevra. Restava che gli Austriaci togliessero ai Franzesi Mondovì, dove si erano riparati Victor, Lemoine e Championnet. Riuscì lor la fazione, perchè, sloggiati i Franzesi sforzatamente da due subborghi e dalle eminenze che dominano la città, l'abbandonarono, ritirandosi ai luoghi più alti della valle del Tanaro. Occuparono i Tedeschi, sempre ritirandosi i Franzesi, Garessio, Ormea, e si spinsero avanti fino al ponte di Nava, ch'è il passo più difficile e quasi la chiave della strada che porta su quelle alture. Per tal guisa i varii corpi di Championnet, che, partendosi da diversi punti di una larga periferia, eran venuti a concorrere, quasi come in centro comune, nelle vicinanze di Fossano e di Savigliano, dopo la battaglia ivi combattuta, che alcuni chiamano di Fossano, altri di Genola, dispersi, e l'uno dall'altro discostandosi di nuovo, si allargarono, ed ai punti medesimi della periferia ritornarono. Ritirossi il capitano del direttorio, Championnet, a Nizza, dove, tra varie cagioni di cordoglio e l'infezione di una malattia gravissima, che quasi a guisa di peste infuriava, passò da questa all'altra vita. Travagliavansi gli Austriaci intorno a Cuneo, piazza forte e di molta importanza pel suo sito. Conoscevano questa importanza i generali dell'imperatore, e però, sebbene la stagione già divenisse sinistra alle opere di oppugnazione, si accinsero all'impresa, sperando di compensar con le forze soprabbondanti la contrarietà del tempo. Obbediva il presidio al generale Clement. Sommava il numero di due mila cinquecento soldati, ma disanimati per le sconfitte e pel desiderio di tornarsene in Francia, parendo loro disperate le cose d'Italia; oltre a questo, non era bene provvista la piazza di munizioni nè da bocca nè da guerra, perchè e per le ingordigie solite e per l'angustia dei tempi non era stata mai sufficientemente empiuta. Ciò nonostante, Clement, non perdutosi d'animo, fece quello che per capitano valoroso si poteva, a fine di sturbare le opere del nemico, ora sortendo a combattere, ed ora fulminando con tutte le artiglierie contro coloro che si affaticavano alle trincee. Ma tanti erano i soldati dell'Austria, e tanti i paesani accorsi, che in brevissimo tempo fu condotta a perfezione la prima parallela e vi si piantarono diciannove batterie pronte a bersagliare gli assediati. Tirarono con tanto impeto il 2 dicembre, che i difensori furono obbligati ad abbandonare le opere esteriori, ritirandosi di tutto allo interno della piazza. Al tempo stesso arse una conserva di polvere con orribile fracasso, e schiantò fin dalle fondamenta un ridotto. Usarono gli assalitori l'occasione, facendo, la notte che seguì, un alloggiamento nelle ruine, ed attendendo a tirar avanti la seconda trincea di circonvallazione. Ma già un altro magazzino scoppiava, le case vicine ardevano, il fuoco, rapidamente distendendosi, minacciava generale incendio. Nè vi era modo o volontà di spegnerlo, perchè i soldati stavano sulle mura a combattere, i cittadini spaventati non avevano più consiglio; la tempesta mandata continuamente dal nemico accendeva l'intero; tanta era la quantità che soprabbondevolmente gittava Lichtenstein di palle, di bombe e di granate reali. Mandarono i Cunesi, pregando che avesse compassione di loro, od almeno risparmiasse le case, posciachè eglino non combattevano. Rispose non farsi alcun divario, quando si oppugnano le piazze, fra chi combatte e chi non combatte: capitolasse il Franzese; cesserebbe la tempesta. Vedeva Clement la necessità della dedizione, perchè già la fortezza era straziata, la breccia si preparava, nissun soccorso gli appariva da nissuna parte, ed erano mancati tutti i fondamenti del difendersi. Chiese perciò i patti e gli ottenne. Fu stipulato ai 5 dicembre che la guernigione uscisse onorevolmente al modo di guerra, che deponesse le armi sullo spalto, che fosse condotta sotto scorta, come prigioniera, negli Stati ereditarii, che si avesse cura degli ammalati e dei feriti: erano ottocento. A questo modo fu domato per forza, in men di dieci giorni, Cuneo, che aveva vinto la gara contro le forze di Francia nel 1691 e nel 1744. La presa di Cuneo e la stagione avversa ebbero posto fine alla guerra nella superiore Italia, e sgravarono gli eserciti confederati di molte fatiche. Tuttavia, sebbene il Piemonte fosse governato in nome del re, non si consentì mai ch'ei vi tornasse, nè che il duca d'Aosta vi comparisse. Intanto molto doloroso fu questo anno alla famiglia reale di Sardegna per mali veri e per le speranze vane; perchè morì a Cagliari l'unico figliuolo del duca d'Aosta, al quale, dopo la morte del padre, spettava la corona; passò anche da questa vita in Algheri di Sardegna il duca di Monferrato, fratello del re, giovane di ottima natura e di costumi dolcissimi. Ma dobbiamo tornare alle cose del regno di Napoli, dove gli accidenti sono fierissimi e pieni di sangue. Ferdinando, Carolina, Acton eransi ritirati in Sicilia, lasciando Napoli in mano dei Franzesi che badavano ai fatti loro ed ai Napolitani, amatori di libertà che sognavano la repubblica. Ma non se ne stava il governo regio senza speranza che le sue cose avessero presto a risorgere, perchè non ignorava la forte lega, che si era ordita in Europa contro la Francia, e sapeva che i dominii dei Franzesi nei paesi forastieri, massimamente in Italia, sono sempre brevi. Egli medesimo si era congiunto per trattati d'alleanza con le potenze che facevano o volevano far la guerra ai Franzesi. Già fin dall'anno ultimo l'aveva stipulato con l'Austria; aveva anche il re contratto amicizia con la Gran Bretagna, e Nelson vittorioso molto confortava le siciliane speranze; medesimamente un trattato erasi concluso con l'imperadore Paolo di Russia. Perchè poi quella repubblica franzese, che era per sè stessa una tanto strana apparenza, avesse a produrre nel mondo accidenti ancor più strani, il re Ferdinando aveva fatto alleanza coi Turchi, con avergli il Gran Signore promesso che manderebbe, ad ogni sua richiesta e senza alcun suo aggravio, dieci mila Albanesi in suo aiuto: a questo dava favore e facilità la conquista di Corfù fatta dai Russi e dai Turchi, quando appunto gli aiuti loro erano divenuti più necessarii al re Ferdinando. Era arrivato il tempo propizio a conquistare il regno per la ritirata di Macdonald da Napoli. Non aveva la repubblica messo forti radici nel regno, sì pel duro dominio dei repubblicani di Francia, sì per le astrazioni di quelli di Napoli, e sì finalmente per gl'ingegni mobili dei Napolitani. Sperava adunque Ferdinando negli aiuti degli alleati e nelle inclinazioni dei popoli. Per conservarsi la grazia dei primi, aveva in Sicilia tenuto Acton in istato, per muovere i secondi mandato Ruffo in Calabria. Già abbiamo narrato come il cardinale, creato l'esercito con gli aderenti proprii, poi ingrossato coi nemici dei repubblicani, aveva mosso a rumore e ricondotto all'obbedienza le due Calabrie quasi tutte, la terra d'Otranto, la terra di Bari ed il contado di Molise. Erano accorsi con le bande loro al cardinale Proni, Mammone, Sciarpa, Fra Diavolo, Decesari, gente ferocissima. Un'altra mossa popolare era sorta che molto aiutava il cardinale per istigazione del vescovo di Policastro, contro il governo repubblicano, la quale, su le rive del Mediterraneo correndo, minacciava Salerno e Napoli. Anche il conte Ruggiero di Damas correva le campagne con uomini speditissimi, e sollevava a furore quelle popolazioni tanto facili ad essere concitate. Il cardinale, vedutosi forte, elevava l'animo a maggiori imprese. Perlochè, volendo torre alla capitale del regno quel pingue granaio della Puglia, e facilitare anche in quelle spiaggie gli sbarchi dei Turchi e dei Russi, s'incamminava contro Altamura, perchè, andando all'impresa di Puglia, non voleva lasciarsi dietro quel seggio di forti repubblicani. Fattosi sotto le mura, ed intimata la resa, gli fu risposto arditamente da quei di dentro che niun'altra risposta volevano dare se non d'armi. Diede il cardinale furiosamente la batteria, e quantunque gli Altamurani virilmente si difendessero, aperta la breccia, vi entrarono i cardinalizii per estrema forza, e recarono in mano loro la terra. Qui, le cose che successero mettono tanto raccapriccio a descrivere che non si vuole raccontarle; solo diremo che se Trani ed Andria furono sterminate dai repubblicani, con uguale immanità fu esterminata la miseranda città d'Altamura. Usossi il ferro, usossi il fuoco, e chi più incrudeliva e mescolava gli scherni, le risa, gli orribili oltraggi alla crudeltà, era miglior tenuto: queste erano le opere dell'esercito che col nome di cristiano s'intitolava. Ad uguale sterminio fu condotta la città di Gravina, prossima ad Altamura, e posta sulla strada per la Puglia. Conseguita la vittoria d'Altamura, andava il cardinale a porre le sue stanze ad Ariano nel Principato ulteriore. Quivi le città principali di Puglia, spaventate dal caso d'Altamura e di Gravina, spente le insegne della repubblica, e seguitando scopertamente il nome del re, concorrevano coi deputati loro a giurare obbedienza. Tutto lo stato della repubblica ruinava, e ritornavano con grandissimo impeto della fortuna a Ferdinando tutte le terre e le fortezze principali. Solo Foggia, capitale, assai fiorente e ricca, popolosa e piena di amatori dello stato democratico, ancor si teneva; ma l'essere tornata tutta la provincia alla devozione del re diede facilità ai Russi, Inglesi ed Ottomani di sbarcare, come fecero, sulle rive del golfo di Manfredonia nel novero di circa mille quattrocento condotti dal cavaliere Micheroux; marciarono contro Foggia, e la ridussero in poter loro. Correva un giorno di fiera quando vi entrarono: i popoli, spaventati al vedere quelle genti strane, che avevano nome di valorose e di feroci, sparsero tosto le triste novelle pei paesi circonvicini. Il terrore dominava, e se qualche luogo era rimasto fedele alla repubblica, questo concorreva prestamente con gli altri all'obbedienza verso il vincitore. Parte dei soldati forastieri si congiunsero col cardinale in Ariano, e parte andarono a trovare sulle rive del Mediterraneo il vescovo di Policastro, che aveva combattuto infelicemente contro i repubblicani. Venne con questa seconda schiera Micheroux medesimo, che, valorosamente guerreggiando pel suo signore, aveva in odio la ferocia delle turbe indisciplinate, e si sforzava, ancorchè fosse indarno, di frenarle. I rinforzi condotti da Micheroux rendettero superiori i regi; anzi tanto s'avvantaggiarono, che, non ostante che i repubblicani con frequenti e forti battaglie cercassero di arrestarli, arrivarono, conquistati i passi importanti d'Eboli e di Campistrina, sotto le mura di Salerno, e se ne impadronirono. Già tutte le provincie avendo obbedito o per amore o per forza alla i fortuna del vincitore, la guerra si avvicinava a Napoli. Il cardinale, per istringerla, era venuto, calandosi da Ariano, a porsi a Nola, mentre Micheroux erasi alloggiato a Cardinale. Eransi anche i regi fatti padroni della Torre del Greco. Da un'altra parte, Aversa, rivoltatasi dalla repubblica, aveva chiamato il nome del re. Questo accidente interrompeva le strade da Napoli a Capua, in cui Macdonald, partendo, aveva lasciato un presidio di due mila soldati. La medesima ubbidienza seguitava l'Abruzzo, perchè Proni, sollevato prima l'Abruzzo superiore, dove, ad eccezione di Pescara, in cui si era rinchiuso il conte Ettore di Ruvo, ogni cosa veniva in poter suo, scendeva a far levare l'inferiore. Veramente tanto vi fece con la forza e con le persuasioni, che l'autorità regia vi fu ristaurata sino prossimamente a Gaeta, munita di un presidio franzese. Per tal guisa furono tagliate tutte le strade tra Napoli e Roma. In questo mentre comparivano le navi inglesi in cospetto, e mostrarono ai repubblicani che la strada del mare era loro interdetta come quella di terra, e che nissun'altra speranza rimaneva loro, se non quella di un disperato valore, poichè nella clemenza del vincitore non potevano in modo alcuno fidare. Avevano innanzi agli occhi il prospetto di Procida isola, nido allora d'immanità orribilissime. S'aggiungeva a spavento dei repubblicani che in Napoli s'era scoperta una congiura in favore del re. In estremo tanto pericoloso, in cui non si trattava più di vincere o di perdere, ma di vivere o di morire, il governo della repubblica ed i repubblicani facevano ora più ora meno di quanto i tempi richiedessero. I sospetti intanto, anche fra gli uomini della stessa parte, come avviene nelle disgrazie, davano il tracollo allo stato già cadente. Fu proposto che un magistrato di censura si creasse, che avesse diritto e carico di scrutinare i membri del direttorio e quei del corpo legislativo, e chi fosse stimato sospetto cassasse, e proponesse in luogo loro cittadini puri ed incorrotti. Fu creato il magistrato: questi creavano, quelli cacciavano, il governo era in mano loro. Instituissi intanto un tribunale, il cui ufficio fosse di giudicare il crimenlese, e di cui fu nominato presidente Vincenzo Lupo: entrarono con lui i repubblicani più vivi. Decretava il direttorio che quando tirassero tre volte i cannoni dei castelli, chi a guardia nazionale od a ritrovi politici non fosse ascritto, incontanente si ritirasse alle sue case sotto pena di morte, e sotto la medesima pena serrasse le finestre. Ai tiri medesimi le guardie nazionali, o chi fosse addetto ai ritrovi, tostamente accorresse al quartier generale: i quinqueviri, i legislatori, i ministri andassero ai seggi loro, e chi nol facesse fosse ammazzato. Queste cose si facevano con terrore infinito della città. Ma i repubblicani più vivi e quelli che avevano in odio ed in sospetto ogni freno ed ogni governo viemmaggiormente s'infierivano. Quelli del ritrovo fermato nella casa dell'accademia dei nobili si spinsero ad eccessi condannabili, facendo cacciar dalle cariche quelli che lor non piacevano, sì che venne a regnare un'orribile anarchia. Poi, per far vedere che, se atterrivano gli altri, non avevano paura essi, immaginarono un registro, dove tutti, come membri dell'adunanza, avessero a scrivere i nomi loro. Questo registro divenne poscia, quando i regi si fecero padroni di Napoli, un libro di morte, perchè trovato, furono giudicati senza remissione tutti coloro che l'avevano segnato coi loro nomi. In questo mentre niuna cosa lasciavano intentata per infiammare il popolo; sbattezzarsi chi avea nome Ferdinando, e prender nomi repubblicani; recitarsi le tragedie di Alfieri e le più forti, e spesso interromperle un predicatore a commentarle; poi un altro a dire che bisognava ammazzar tutti i tiranni: le napolitane grida andavano al cielo; fuori poi i discorsi erano ancor più strani che nel teatro. Eleonora Fonseca scriveva un monitore, giornale in cui pubblicava continuamente vittorie di repubblicani, sconfitte di regi, arrivi di flotte soccorritrici di Francia. La società detta filantropica ammaestrava i lazzaroni per far loro capire che dolce e bella cosa fosse la repubblica. Fin la religione usavano, le predicazioni, le preci; fin la protezione di san Gennaro. Ma i rimedii riuscivano insufficienti senza le buone armi. In questo i repubblicani avevano molta fede in Mantonè, ministro della guerra, uomo di animo fortissimo, repubblicano gagliardo, e che appunto pel suo coraggio smisurato errò; egli era, per mandato del governo, ordinator supremo di quanto s'appartenesse all'armi ed alla difesa della repubblica. Chiamò a sè gli ufficiali e soldati che erano stati ai servigi del re; ma, non potendo l'erario bastare a tanto dispendio, poneva mano a rimedii straordinarii. I doni d'oro ed argento coniato o vergato, procurati da due gentildonne molto ragguardevoli, le duchesse di Cassano e di Popoli, bastarono ad ordinar tre legioni di veterani, che, rette da Schipani, da Ettore di Ruvo e da un Belpuzzi, marciavano contro Sciarpa, Proni e Ruffo. Per sicurezza poi di Napoli, Mantonè ordinava meglio la guardia urbana, e tentava ogni via di accalorarla in favore della repubblica. Basetta primo generale, secondo Gennaro Serra, terzo Francesco Grimaldi e Antonio Pineda, uomini valorosi; alla fede del generale Federici commessa la custodia di Napoli, a quella di Massa Castelnuovo, al principe di Santa Severina Castel dell'Uovo. Buoni ordinamenti erano questi, ma la guerra più forte di loro; nè Mantonè, o che non sel credesse egli pel gran coraggio che aveva, o che s'infingesse per non ispaventare, non aveva fatto provvedimenti più gagliardi. Si persuadeva che le legioni create fossero bastanti a frenare i regi nelle provincie, e ritornarle sotto l'obbedienza del governo popolare. Ebbe la guerra assai diverso successo; perchè Belpuzzi conoscendo la impossibilità di far fronte ai regi, abbandonata l'impresa, se n'era ritornato a Napoli. Ferocemente aveva combattuto negli Abruzzi Ettore di Ruvo, ma assalito ed attorniato da un numero di nemici molto superiore, fu costretto a cercar ricovero contro il furor dei sollevati dentro le mura di Pescara, Schipani, rotto da Sciarpa, per ultimo rifugio si era ritirato a Napoli. Così Ruffo, vincitore in ogni parte, inondando con le sue genti tutto il paese all'intorno, si era avvicinato alla capitale. Vide allora Mantonè che i moti del cardinale erano per risolversi non in romori, ma in effetti, che la fortuna minacciava, e che i rimedii ordinarii più non bastavano. Creata per custodia di Napoli una legione di fuorusciti calabresi, i quali, perchè parteggiavano per la repubblica, cacciati a furia dalle case loro per le armi di Ruffo, si erano riparati nella capitale, uomini fieri, bellicosi, arrabbiati per le ingiurie recenti, e che se i loro compatriotti militanti col cardinale si mostravano disposti a far cose enormi pel re, essi erano risoluti a farne per la repubblica delle ugualmente enormi; poi, detto al principe di Roccaromana che creasse un reggimento di cavalieri nei contorni di Napoli, partiva Mantonè stesso da Napoli con sei mila soldati, non senza esimio apparato per impressionar quel popolo, di cui l'immaginare è tanto forte. Abbellì quella partenza la liberazione dei prigionieri fatti da Macdonald nella conquista di Castellamare, provveduti ancora perchè potessero ritornare, come loro fosse a grado, alle patrie loro. Mantonè, condotte le repubblicane squadre alla campagna, sbaragliava e fugava facilmente i corridori dell'esercito regio; ma quando più oltre si fu spinto, si accorse che per lui nè pe' suoi altro scampo non restava se non quello di tornarsene prestamente là dond'era venuto. Il suo ritorno in Napoli costernava le genti: per ultima speranza aspettavano quello che fosse per partorire il valore di Schipani; ma ebbero tosto le novelle ch'egli, per aver udito la ritirata di Mantonè, si era condotto alla Torre dell'Annunziata, combattuto quivi aspramente dai Russi, dai regi e da una parte de' suoi soldati medesimi mutatisi a favore del re, era stato preso, dopo di aver veduto lo sterminio quasi intero de' suoi compagni. Sentissi a questo momento ancora che Roccaromana aveva bene levato ed ordinato il reggimento di cavalli, ma che invece, di farlo correre in aiuto dei repubblicani, lo aveva condotto al cardinale, dal quale aveva avuto le grate accoglienze. Il precipizio era evidente. Decretava il direttorio essere la patria in pericolo. Ritiravasi col corpo legislativo ai castelli Nuovo e dell'Uovo; quel di Sant'Elmo, più forte, e che dominava Napoli, era in mano del presidio franzese lasciatovi da Macdonald: un terrore senza pari occupava le menti. La legione Calabra sola non si spaventava, perchè dal vivere al morire, purchè si vendicasse, non faceva differenza. Parte stanziava in Napoli, parte presidiava il castello di Viviena, per cui Ruffo doveva passare per venire a dar l'assalto alla città dal lato del ponte della Maddalena. Udissi tutto ad un tratto nella spaventata Napoli un romore come di tuono; tremò la terra; pure il Vesuvio non buttava: veniva dal forte di Viviena. Lo aveva il cardinale con tutte le sue forze assaltato; si difesero i Calabresi, non come uomini, ma come lioni. Pure i regi, combattendolo da tutte parti con l'artiglieria, l'avevano smantellato, e non una, ma più, brecce e piuttosto una ruina di tutte le mura apriva l'adito ai vincitori. Entraronvi a forza ed a furia: gente disperata, ammazzava gente disperata, nè solo i vinti perivano. Nissuno s'arrendè, tutti furono morti; date, a chi gli uccideva, innumerevoli morti. Restavano una mano di pochi: la rabbia li trasportava; feriti ferivano, minacciati ferivano, ammoniti dell'arrendersi, ferivano. Pure l'estrema ora giungeva. Anteponendo la morte di soldato alla morte di reo, nè soffrendo loro l'animo di venir in forza di coloro che con tanta rabbia abborrivano, un Antonio Toscano, che li comandava, e che già stava con mal di morte per le ferite e pel sangue sparso, strascinossi a stento a carpone al magazzino delle polveri, e con uno stoppaccio acceso postovi fuoco, mandò vincitori, vinti e rovinate mura all'aria. Tutti perirono: questa fu la cagione del tuono e dello spavento di Napoli. Ruffo, espeditosi dall'intoppo del forte, passava e si accingeva a dar l'assalto alla capitale da tre bande. I repubblicani carcerarono come ostaggi alcuni sospetti, e condussero in Castel nuovo ed in Castel dell'Uovo un fratello del cardinale, ed i parenti degli ufficiali dell'esercito regio. Passarono per le armi i fratelli Bacher con quattro lazzaroni mescolati in congiure. Poi partiti in tre schiere, se ne givano contro Ruffo: Writz li conduceva alla Maddalena, Bassetta a Foria, Serra a Capodimonte. Caracciolo con le navi sottili accostatosi al lido, batteva di fianco le genti del re. Animavansi con vicendevoli conforti l'un l'altro, e così diedero dentro ai regi: sorse una furiosissima zuffa alla Maddalena, luogo del principale sforzo: repubblicani e regi eleggevano piuttosto il morire che il cedere. I repubblicani, massimamente quei Calabresi inferociti, non punto sbigottitisi alla morte di Writz, loro prode e fedele capitano, continuavano a menar le mani ed a tener lontani dalle dilette mura le genti regie. Dal canto loro Bassetta e Serra ottimamente facevano il debito loro. Non inclinava ancora la sorte da alcun lato, quand'ecco sorgere grida di _viva il re_ alle spalle dei democrati. Erano una moltitudine di lazzaroni che, stimolati dai partigiani del governo regio, si levarono a rumore. Rivoltaronsi addosso a loro i repubblicani e gli ammazzarono tutti. Ma Ruffo, usando l'occasione che gli si era aperta, perchè i nemici assaliti alle terga avevano rimesso dalle difese, entrava il 13 giugno per viva forza ed inondava la città, solo a lui contrastando quei Calabresi indomabili. Quivi il raccontare le cose che seguirono parrà certamente impossibile, se si si farà a considerare quella rabbia immensa, le ingiurie fatte, il sangue sparso, il sangue caldo, la natura estrema di quei popoli, l'immanità della più parte dei combattenti da nissuna civiltà temperata. Primieramente il castello del Carmine, che domandava i patti, fu preso per assalto e tutto il presidio senza pietà passato a fil di spada. Carnificina più grande e più orribile si faceva per le contrade. Vi si uccidevano gli uomini a caccia per diletto, come se fossero stati fiere; nè età, nè sesso, nè condizione, nè grado si risparmiavano. Uccidevansi i repubblicani per odio pubblico, i non repubblicani per odio privato; nè quei carnefici si contentavano di uccidere, che ancora voleano tormentare, e varii erano i generi delle morti, uno più crudo e più orribile dell'altro. Godevano i barbari, a guisa di veri cannibali, e facevano le loro tresche, le loro grida, le loro danze festevoli intorno alle vittime. Vedeva Ruffo queste cose, e non volle o non potè frenarle. Cercavano e chi era reo e chi era innocente di repubblica, scampo a furore tanto barbaro. Chi fuggiva in abito di donna, e questo ancora nol salvava; chi fuggiva sotto cenci da lazzarone, e non si salvava. Ma quelli a cui la fortuna aveva aperto uno scampo per le contrade gliel toglieva per le case; poichè i padroni ne li cacciavano, sapendo che, se li ricettassero, le case loro sarebbero saccheggiate ed incese ed essi uccisi. Vidersi fratelli chiuder le porte ai fratelli, spose agli sposi, padri a' figliuoli. Risospinti dalle case, i miseri perseguitati si nascondevano nelle fogne, donde di notte tempo e di soppiatto uscivano, cacciati dalla fame e dalla puzza. Se ne accorsero i lazzaroni; si mettevano in agguato alle bocche, come se aspettassero fiere al varco, e quanti uscivano, tanti ammazzavano. Felice chi moriva senza tormenti! Durò lo stato orribile due giorni. Infine si risolvè il cardinale, o perchè la umanità finalmente il movesse, o perchè volesse attendere all'assedio dei castelli, fazione impossibile a tentarsi in tanto scompiglio a frenare il furore de' suoi; Napoli, atterrita per le morti, diventò lagrimosa pei morti. Restavano ad espugnarsi i castelli; a questo espugnazione applicò l'animo il cardinale, piantando le batterie. Veduto il pericolo, i repubblicani ch'erano dentro a Castel dell'Uovo si accordavano con quelli di Castel Nuovo e di Sant'Elmo per fare tutti uniti una fazione notturna contro la batteria di Posilippo, eretta a percuotere il Castel dell'Uovo, il più importante pel suo sito. Dopo un infelice errore che scambiaronsi gli amici per nemici, e ne sorse con parecchie morti molto spavento, finalmente riconosciutisi, e ripreso animo, se ne andarono con incredibile audacia alla fazione; e tanto fu l'ardire e la prestezza loro che, uccise le guardie, e sopraggiungendo improvvisi alla batteria, la presero, arsero i carretti, chiodarono i cannoni, e tornarono sani e salvi al castello. La fazione della punta di Posilippo, la ferocia dei repubblicani calabresi, l'atto disperato del comandante di Viviena ed il coraggio smisurato dimostrato in tutti i fatti dai democrati avevano dato molto a pensare a Ruffo, il quale si era persuaso che senza molto sangue e forse senza lo sterminio di tutta la città non avrebbe poluto riuscire a fine della sua impresa. Considerate e maturamente ponderate tutte le cose che allora accadevano, stimando che non si convenisse mettere i repubblicani nell'ultima disperazione, si deliberarono gli alleati ad offerir loro patti, perchè i castelli e la città si conservassero salvi, e fosse rimesso il pericolo che sovrastava al navilio d'Inghilterra per la flotta di Brest già comparsa allo stretto di Gibilterra. Il cardinale, per mezzo di Mejean, comandante per Francia del castello di Sant'Elmo, col quale aveva avuto qualche pratica, mandò dicendo ai repubblicani che, se volessero patteggiare, vi si sarebbe volentieri risoluto. Rappresentò loro Mejean quello che era vero, cioè che oramai ogni difesa era inutile, e che migliore e più savio partito era il serbar la vita a tempi migliori per la repubblica, che il perire senza frutto per lei: accettassero i patti, esortava, che loro si venivano offerendo. I repubblicani, consultato fra di loro, inclinarono l'animo al partito più ragionevole, e, risolvendosi al trattare, proposero in un modello scritto le condizioni per mezzo delle quali promettevano di lasciare castel Nuovo e Castel dell'Uovo, non potendo stipulare per Sant'Elmo, come in potestà di Francia. Parvero sulle prime al cardinale le condizioni superbe, e penava al ratificarle. Infine, stringendo il tempo, temendo vieppiù della vita dei suoi congiunti, e moltiplicando gli avvisi dell'avvicinarsi della flotta franzese, con pari consentimento degli alleati, si risolvette ad accettarle. Furono queste: fossero Castel Nuovo e Castel dell'Uovo dati in potere dei comandanti del re delle Due Sicilie e de' suoi alleati il re d'Inghilterra, l'imperatore di tutte le Russie e la Porta Ottomana, e così parimente ad essi fossero consegnate le munizioni da guerra e da bocca, con le artiglierie ed altri arnesi che si trovassero nei forti; uscisse il presidio onorevolmente a modo di guerra; le persone e le proprietà sì mobili che stabili di ognuno che si appartenesse ai due presidii si serbassero salve ed inviolate; potessero le persone medesime ad elezione loro imbarcarsi sopra bastimenti di tregua che loro sarebbero forniti, per essere trasportate a Tolone, o potessero ancora rimanersi in Napoli, dove nè esse nè le famiglie loro potessero a modo niuno essere molestate; le medesime condizioni fossero e s'intendessero concedute a tutti coloro fra i repubblicani che nelle battaglie succedute fra loro e le truppe del re o de' suoi alleati fossero stati fatti prigionieri; l'arcivescovo di Salerno, i cavalieri Micheroux e Dillon, ed il vescovo d'Avellino detenuti nei castelli si consegnassero al comandante di Sant'Elmo, e vi restassero come ostaggi, insino a tanto che si avessero le novelle certe dell'essere i repubblicani arrivati a Tolone; tutti gli altri ostaggi o prigioni per ragion di Stato si rimettessero in libertà, tosto che la capitolazione fosse sottoscritta; non isgombrassero i repubblicani dai castelli se non quando ogni cosa fosse presta all'imbarcarli. Fu la capitolazione approvata e sottoscritta dal cardinal Ruffo in qualità di vicario generale del regno, da un Kerandy per l'imperadore di tutte le Russie, da un Bonjeu per la Porta Ottomana e da un Foote pel re d'Inghilterra. Non s'indugiò a dar mano all'esecuzione dei patti. Da una parte gli ostaggi nominati dai repubblicani si condussero in Sant'Elmo, dall'altra entrarono i regi nei due castelli. Il cardinale a nome del re, e come vicario generale del regno di qua dal Faro, pubblicò per tutto il reame un editto, per cui perdonava ogni colpa e pena ai repubblicani, promettendo piena ed intera salute a tutti coloro che restassero, e facoltà d'imbarcarsi per Marsiglia a tutti quelli che amassero meglio, lasciando la patria, andarsi vivere in lontane e forastiere contrade. Mandava espressamente il trattato a Pescara, in cui tuttavia si teneva Ettore di Ruvo, affinchè cedesse la piazza a Proni, e se ne venisse con tutti i suoi a Napoli, scortato per sua sicurezza dai regi. I repubblicani intanto s'imbarcavano. Due navi portatrici di quei di Castellamare, avendo avuto facoltà di uscire, già erano arrivati a salvamento nel porto di Marsiglia; le altre aspettavano la facoltà medesima e i venti prosperi. In questo punto ecco arrivare Nelson: aveva egli udito, essere la flotta franzese ricoverata ne' suoi porti; trovandosi per questo esente da timore, passato prima per Palermo, e levatone il re, il ministro Acton, Hamilton, ambasciatore d'Inghilterra, ed Emma Liona, sua donna, avea voltate le vele verso i lidi d'Italia. Non così tosto dalla sanguinosa Napoli si scoprirono le navi d'Inghilterra, che il cardinale mandava a Nelson deputati per informarlo delle cose fatte e dei patti stipulati. Rispose l'ammiraglio, non doversi il trattato concluso coi ribelli mandare ad esecuzione, se prima il re non lo avesse approvato, risposta veramente incomportabile per mille ragioni. Di tale risoluzione fu molto dolente il cardinale, che non voleva essere distruggitore delle sue promesse, e per fare che la fede data si osservasse, andò egli medesimo a bordo della nave dell'ammiraglio, con efficacissime parole esortandolo a consentire; ma l'Inglese, come se temesse che l'umanità e la fede contaminassero le vittorie, non si lasciò piegare; anzi non potendo rispondere agli argomenti ed alla facondia del cardinale, scusandosi con dire che non sapeva la lingua italiana, prese la penna e scrisse da vittorioso la crudele sentenza. E perchè ognuno sappia il quanto di vituperio sia stato mescolato in queste sanguinose rivolture, non si vuol omettere di dire che Emma Liona era presente quando Nelson contrastava al cardinale e ordinava le uccisioni. Nelson, trapassando dal detto al fatto, ed entrando nel porto con la flotta, dichiarava prigionieri i repubblicani usciti in virtù della capitolazione dai castelli, sì quelli che già si erano imbarcati e non ancora partiti, e sì quelli che non peranco si erano riparati alle navi. Perchè poi dubbio alcuno non potessero avere del destino che gli aspettava, li fece incatenare due a due e riporre in fondo alle navi. Nè contento di tenerli, li lasciava bersaglio ad ogni oltraggio, e stremava loro i viveri. Pure noveravansi tra di loro uomini, se si eccettuano le opinioni ed i fatti politici, in cui consisteva la colpa loro, molto ragguardevoli per dottrina, per linguaggio e per virtù. Bastava bene ammazzarli, senza trattarli come vili assassini di strada. A tanto di barbarie si è lasciato trasportare un ammiraglio d'Inghilterra. Il re, che era sul vascello inglese il Fulminante, non soffrendogli l'animo di vedere i supplizii che si preparavano, se tornava in Sicilia. Rimase il campo libero a chi voleva sangue. Conquistati i castelli di Castel Nuovo e di Castel dell'Uovo, attesero gli alleati all'acquisto di Sant'Elmo, il quale, oppugnato gagliardamente qualche giorno, venne in mano loro, essendosi il comandante Mejean arreso a patti. Stipulossi fra le due parti che la guernigione franzese sarebbe prigioniera di guerra del re e de' suoi alleati; che non servisse contro di loro finchè non fosse scambiata; che sotto fede si conducesse sopra bastimenti regi in Francia. Quanto ai sudditi del re che si trovavano nel forte, si convenne che si consegnassero in mano degli alleati: brutto sfregio alla fama di Mejean che doveva lasciare che gli alleati quegli uomini da immolarsi si prendessero da per sè stessi, non obbligarsi col suo nome sottoscritto a consegnarli. Si aggiunse a patti crudeli una esecuzione più crudele. I repubblicani, travestiti a modo di soldati franzesi, per istare alla fortuna, se non fossero riconosciuti di salvarsi, essendo riconosciuti, ed anzi indicati da chi li doveva preservare, vennero in poter di coloro che tanto agognavano il sangue loro; spettacolo miserabile che commosse a compassione molti degl'inimici. Si arrendevano in questo all'armi regie Capua e Gaeta, non fatta difesa alcuna d'importanza. Così tutto il regno tornò all'antica divozione, ma rotto, sanguinoso, pieno d'incendii, di rapine, di sdegni e di vendette. Incominciavansi i supplizi, l'infuriata plebe imitava; l'uccidere per tribunali era accompagnato dall'uccidere per anarchia. Non ad età si perdonava, non a sesso, non a grado. Un Fiori, un Guidobaldi, un Damiani, un Sambuci, e massimamente uno Speciale, già stato ordinatore dei supplizii di Procida, erano gli strumenti della barbarie. Mario Pagano, al quale tutta la generazione riguardava con amore e con rispetto, fu mandato al patibolo dei primi: era visto innocente, visto desideroso di bene; nè filosofo più acuto, nè filantropo più benevolo di lui mai si pose a voler migliorare questa umana razza e consolar la terra. Errò, ma per illusione, ed il suo onorato capo fu mostrato in cima agl'infami legni, sede solo dovuta ai capi di gente scellerata ed assassina. Non fece segno di timore, non fe' segno di odio. Morì qual era vissuto, placido, innocente e puro. Il piansero da un estremo all'altro d'Italia con amare lagrime i suoi discepoli, che come maestro e padre, e più ancora come padre che come maestro il rimiravano. Il piansero con pari affetto tutti coloro che credono che lo sforzarsi di felicitare l'umanità è merito, e lo straziarla delitto. Non si potrà dir peggio dell'età nostra di questo che un Mario Pagano sia morto sulle forche. Domenico Cirillo, medico e naturalista, il cui nome suonava onoratamente in tutta l'Europa, non isfuggì il destino di tempi tanto sinistri. Se gli offerse la grazia, purchè la domandasse, non perchè virtuoso, dotto e da tutto il mondo onorato fosse, ma perchè aveva servito della sua arte Nelson ed Emma Liona. Rispose sdegnato, non volere domandar grazia, e poichè i suoi fratelli morivano, voler morire ancor esso; nè desiderio alcuno portar con sè di un mondo che andava a seconda degli adulteri, dei fedifragi, dei perversi. La costanza medesima che mostrò coi detti mostrò coi fatti; perì per mano del carnefice, ma perì immacolato e sereno. Francesco Conforti, per dottrina nelle scienze morali e canoniche a nissuno secondo, a quasi tutti il primo, uomo che una lunga vita aveva vissuto o nelle sue segrete stanze a studiare, o sulle pubbliche cattedre ad insegnare, fe' testimonio al mondo col suo miserando fine che niuna cosa è più inesorabile della rabbia civile, e che la gratitudine non ha luogo fra gli sdegni politici. Preso e legato dagli sbirri in Capua, gli diè di mano il boia in Napoli. Vincenzo Russo, giovane singolarissimo per altezza d'animo e per eloquenza e per umanità, portò con gli altri supplizio del buon volere in tempi malvagi; dopo gli strazi, infiniti che nella sua prigione furono fatti di lui, e che sopportò con costanza ineffabile, fu dato in preda al carnefice. Non mutò volto, non fe' atto alcuno indegno di lui; serbò non solo la equalità dell'animo, ma ancora la serenità. Nè giovò a Pasquale Baffi la dolcezza incredibile della sua natura, la straordinaria erudizione, l'essere uno dei primi grecisti del suo tempo, nè l'avere pubblicato una traduzione col testo dei manoscritti greci di Filodemo trovati sotto le ceneri di Ercolano. Letterato di primo grado, fu dannato anch'egli all'ultimo supplizio da chi non aveva altre lettere che del saper sottoscrivere una sentenza di morte. Fu Mantonè, antico ministro di guerra, condotto alla presenza di Speciale, e quante volte era interrogato da lui, tante rispondeva: «Ho capitolato.» Avvertito apprestasse le difese, rispose: «Se la capitolazione non mi difende, avrei vergogna di usare altri mezzi.» Condannato a morte, camminava col capestro al collo, in mezzo a' suoi compagni, con fronte alta e serena, tra sdegnoso e generoso. Salite, senza mutare nè viso nè atto, le fatali scale, dimostrò che l'uomo, quantunque percosso dalla fortuna, è più forte di lei, e che non lo spaventa la morte. I raccontati supplizi, siccome d'uomini, partorirono maraviglia insieme e pietà in coloro che non ancora di ogni affetto umano si erano dispogliati; ma più maraviglia che pietà: il seguente, siccome di donna, mosse più a pietà che a maraviglia; pure a grandissima maraviglia strinse i circostanti. Eleonora Fonseca Piementel, donna ornata d'ogni genere di letteratura, ed ancor più di virtù, da Metastasio lodata, fu condannata a perder la vita sulle forche piantate in piazza del mercato. Non tutti i condannati morirono sul patibolo, ma chi più crudelmente chi meno. I casi d'un Velasso, d'un Fiani destan raccapriccio ed orrore. Un Pasquale Battistessa, impiccato e portato in chiesa, ivi diè segni di vita. Rapportato il compassionevole caso a Speciale, mandò dicendo, il finissero: come Speciale aveva comandato, così fu fatto. Narransi qui storie d'uomini o di fiere? Morirono in Napoli per l'estremo supplizio, e tutti con invitto coraggio, Ignazio Ciaia, Ercole d'Agnese, cittadino di Francia, ma originario di Napoli, Giuseppe Logoteta, dotto e virtuoso uomo, Giuseppe Albanese, Marcello Scotti, letterato eruditissimo ed autore del catechismo de' marinai, un Troisi, sacerdote piissimo e dottissimo, con molti altri, ornamento e fiore delle napolitane contrade. Fu anche affetto con l'ultimo supplizio Ettore di Ruvo, condotto, come abbiam detto, da Pescara a Napoli sotto fede del cardinale. Morì qual era vissuto, indomito, animoso ed imperturbabile. La terra di Napoli era fumante di sangue, le acque del mare ne furono parimente penetrate e tinte. Il principe Francesco Caraccioli, primo onore e primo lume della napolitana marineria, amato dal re, stimato dal mondo, dopo più di otto lustri impiegati ai servigi del regno, fece ancor esso una compassionevole fine. Scoperto da un suo domestico, fu condotto, legate le mani al dorso, e indegnamente maltrattato da villani ferocissimi, a Nelson, che tuttavia stanziava nel porto di Napoli. Convocava l'ammiraglio incontanente al bordo della sua nave il Fulminante un consiglio militare, a cui diede facoltà ed ordine di giudicare, se Francesco Caraccioli fosse reo di ribellione contro il re delle Due Sicilie per avere combattuto la fregata napolitana la Minerva. Allegò l'accusato per discolpa, averlo fatto per forza, ma nol potè pruovare. Dannavanlo il consiglio a morte. Nelson comandava s'impiccasse all'antenna della Minerva, il suo corpo si gettasse al mare. Il misero principe pregava, dicendo, essere vecchio, non aver figliuoli che fossero per piangere la sua morte, per questo non desiderare la vita: solo pesargli il morire da malfattore; pregare, il facessero morire da soldato. Le compassionevoli preghiere non furono udite. Volle il condannato pregare d'intercessione la donna che era a bordo del Fulminante; ma Emma Liona non si lasciò trovare. Il capestro adunque, come piacque all'Inglese, strangolò il principe Caraccioli; il suo corpo gettato al mare. Così fu mandato a morte da Nelson un principe napolitano, prima suo antico compagno in pace, poi suo nemico generoso in guerra; ed il giudizio di morte venne da una nave del re Giorgio. Grande fu la strage nella capitale, sì pei giudizii, sì per la rabbia popolare. Non fu minore nelle provincie: perironvi in modo sempre violento, spesso crudele, quattro mila persone, quasi tutte eminenti o per dottrina o per lignaggio o per virtù; carnificina orribile. Pure ne tocca raccontare un altro caso. Domenico Cimarosa, cui tutta la generazione proseguiva con infinito amore per le sue mirabili melodie, cui chiunque non era straniero alla delicatezza del sentire, era obbligato di tanti affetti soavi pruovati, di tante tristi ed annuvolatici cure scacciate, non trovò grazia appo coloro che reggevano le cose di Napoli con le ire, e le ire coi supplizii. Pregato, egli aveva composto la musica per un inno repubblicano. Venuta Napoli in mano dei sicarii, furono primieramente le sue case saccheggiate, anzi il suo gravicembalo, fonte felicissimo di canti amabili, gittato per le finestre a rompersi sulle dure selci; poi egli medesimo cacciato in prigione, dove stette ben quattro mesi, e vi sarebbe stato ancora, se i Russi ausiliarii del re non fossero giunti a Napoli. Saputo il caso, e non avendo potuto ottenere dal governo napolitano, al quale l'avevano domandata, la sua liberazione, generale ed ufficiali corsero al carcere, e l'italico cigno liberarono. Così in una Italia, in una Napoli, la salute venne a Cimarosa dall'Orsa. Essendo caduta nelle due estremità d'Italia la potenza dei Franzesi, restava ancor in poter loro la romana repubblica, ma non sì che non si vedesse vicina la inevitabile rovina loro anche in questa parte. Suonavano dentro e d'intorno le armi dei confederati o regolari o collettizie. Avevano gli Aretini, sempre infiammati nell'impresa loro contro i Franzesi, in ciò secondati anche dai Cortonesi, avendo le due città in così grave occorrenza posto in disparte le antiche emulazioni, fatto un moto importante sulle rive del Trasimeno, e sforzato Perugia ed il suo forte alla dedizione. A questo modo si erano posti in mezzo, onde i Franzesi rimasti alla guardia di Roma e dei luoghi circonvicini non potessero più comunicare coi loro compagni, che se ne stavano assediati in Ancona. Lo Stato romano quasi tutto tumultuava, e tornava all'obbedienza pontificia. Furonvi al solito uccisioni, rapine, ingiurie a uomini e a donne, con tutte le altre pesti indotte dai popoli mossi a romore. Da una altra parte nè Froelich, che aveva nella Romagna il governo delle genti, nè il re di Napoli, dopo la ricuperazione del regno, avevano trasandato le romane cose. Ad essi accostavansi gl'Inglesi con qualche squadra di genti da terra e con navi condotte dal capitano Trowbridge nelle acque di Civitavecchia. Adunque la repubblica romana era chiamata a ruina da tutte le parti. Nè il generale Garnier, che ne stava alla custodia, perduto avendo ogni speranza di soccorso, e mancando di genti, poteva resistere a tanta piena. Froelich faceva impeto in primo luogo contro Civitacastellana, ed avendola occupata, facilmente si incamminava a Roma dalla parte bassa, salivano i Napolitani, condotti da un Burcard, Svizzero, e turbavano tutto il paese sulla riva sinistra del Tevere. Erano con loro gl'Inglesi di Trowbridge, che, procurata prima la resa di Capua e di Gaeta, se ne venivano alla conquista di Roma. Usciva Garnier alla campagna, piuttosto per non capitolare senza combattere, che per combattere per vincere. Fuvvi un duro e lungo incontro tra i repubblicani sì franzesi che romani da una parte, e i Napolitani dall'altra, presso a Monte rotondo. Ritiraronsi i Napolitani ai luoghi più alti e montuosi. Non erano ancora i soldati di Garnier riposati dalla fatica della battaglia di Monterotondo, che li conduceva contro Froelich; ma, sebbene con molto valore combattesse, fu costretto a ritirarsi nelle mura di Roma, restando in suo potere le sole fortezze di castel Sant'Angelo, Corneto, Tolfa e Civitavecchia. Questo fatto diè cagione di risorgere anche ai Napolitani dall'altra parte. Perlochè, riavutisi dalla rotta di Monterotondo, s'avviarono di nuovo contro Roma. Posero gli Austriaci le loro prime guardie alla Storta, i Napolitani a Portaromana ed a Pontemolle. Consideratosi da Garnier il precipizio delle cose, e pensando che il cedere a tempo sarebbe non solamente la salute de' suoi, ma ancora quella dei repubblicani di Roma, che avevano seguitato la fortuna franzese, aveva introdotto una pratica d'accordo con Trowbridge, quale fu condotta a perfezione e sottoscritta da ambe le parti il dì 25 settembre. Le principali condizioni furono le seguenti: uscissero i Franzesi da Roma, Civitavecchia, Corneto e Tolfa con ogni onore di guerra; serbassero le armi, non fossero prigionieri di guerra; si conducessero in Francia od in Corsica; i Napolitani occupassero castel Sant'Angelo e la Tolfa, gl'Inglesi Corneto e Civitavecchia; i Romani che volessero imbarcarsi coi presidii franzesi, e trasportar le proprietà loro, il potessero fare liberamente, e quei che rimanessero, e che si fossero mostrati affezionati alla repubblica, non si potessero riconoscere nè delle parole nè degli scritti nè delle opere passate, e fossero lasciati vivere quietamente, sì veramente che vivessero quietamente e secondo le leggi. Penò qualche tempo Froelich a consentire all'accordo; commise ancora qualche ostilità; ma finalmente vi accomodò l'animo, e voltate le bandiere verso l'Adriatico, se ne giva all'assedio di Ancona, sola piazza che nello stato romano ancora si tenesse pei repubblicani. S'imbarcarono i Franzesi a Civitavecchia, e con essi tutti coloro fra' Romani che stimarono più sicuro lo esilio che il commettersi ad un governo provocato con tante ingiurie. Burcard occupò primo la città, poscia vi venne don Diego Naselli, dei principi d'Aragona, mandato da Ferdinando con potestà suprema militare e politica, per ridurre a qualche sesto le cose scomposte dalla rivoluzione, innanzichè il governo pontificio vi fosse restituito. Creò un superiore magistrato con titolo di suprema giunta del governo; aggiunse un tribunale di giustizia sotto il nome di giunta di Stato, ufficio del quale fosse che la quiete dello Stato non si turbasse, e chi la turbasse fosse castigato. La suprema giunta notò i beni venduti ai tempi della repubblica come nazionali, ed abrogò le vendite fatte, riserbando agli spossessati il ricorso pei compensi: contenne il libero scrivere, frenò la licenza del vestire sì degli uomini che delle donne, e richiamò ai luoghi loro le suppellettili rapite o vendute del Vaticano e delle chiese, rimborsando però il valore a chi le avesse comperate. Inibì l'ingresso e la dimora in Roma a tutti che avessero avuto cariche nella repubblica, e bandì da tutto lo Stato romano i cinque notai capitolini, che avevano rogato l'atto della sovranità del popolo e della deposizione del sommo pontefice. Oltre a ciò, i beni dei repubblicani furono generalmente sequestrati, poi confiscati: gran numero di coloro che avevano partecipato nel governo precedente, dopo di essere stati esposti ad infinite vessazioni ed insulti, furono gettati in carcere. Violavasi così la capitolazione; del resto, non si fece, come a Napoli, sangue, moderazione degna di molta lode. Ma la sfrenatezza delle soldatesche napolitane suppliva in questo, perchè, oltre al rubare nelle botteghe e nelle strade, il giorno come la notte, uccisero anche parecchie persone che vollero difendersi dalla loro rapacità. Questi delitti andavano impuniti. Roma, offesa dai Napolitani, era compresa da un altro terrore. Le vittorie di Kray e Suwarow avevano posto in mano degli alleati la valle del Po, quelle di Ruffo e le mosse dei sollevati di Toscana, tolto al dominio dei Franzesi e dei repubblicani il regno di Napoli, lo Stato romano e la Toscana. Sulla destra degli Apennini, altra sedia non avevano più i Franzesi che Genova con la riviera di Ponente, sulla sinistra Ancona. Conservavano gelosamente i repubblicani il Genovesato, perchè, siccome prossimo ai loro territorii, poteva facilmente servir loro di scala al racquistarsi il Piemonte e l'Italia. Ma Ancona tanto lontana non poteva più avere speranza di far frutto importante, ed il volervisi tenere più lungo tempo era piuttosto desiderio di buona fama e gelosia di onore, che pensiero di arrecar qualche momento nelle sorti della guerra. Tuttavia non si smarriva d'animo il generale Monnier, che stava al governo della piazza con un presidio che, tra Franzesi, Cisalpini e Romani, non passava tre mila soldati, e forse nemmeno arrivava a questo numero. La piazza, la quale, ancorchè munita di una forte cittadella, non ha in sè molta fortezza per essere dominata dalle eminenze vicine, era, per la diligenza usata da Monnier, divenuta fortissima: non si poteva venir agli approcci della piazza, se prima non erano sforzate le fortificazioni esteriori, effetto difficile a conseguirsi per la natura dei luoghi. Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati. Una flotta turca e russa, governata dall'ammiraglio Woinowich, e comparsa nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto, perchè nuovo fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui lidi circonvicini. Quest'era la flotta che, già vincitrice di Corfù, intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sulle italiche terre coi Turchi e coi Russi i Barbari dell'Epiro. Quivi veniva pure un navilio sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra ed infestare le spiaggie marittime. Dalla parte del regno, gli abitatori delle rive del Tronto si erano levati a romore, ed, accompagnati da qualche nervo di genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di stringere il presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della Romagna, tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro e Fano, voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta importanza. Sinigaglia stessa titubava. Niuna cosa più restava sicura ai repubblicani che le anconitane muraglie. Eransi le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da sè stesse, ma s'aggiunse loro, sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del generale cisalpino Lahoz. Era Lahoz stato stromento potente ai Franzesi per turbare l'antico stato d'Italia. Amico al generale Laharpe, aveva militato con lui, e, com'egli, nodriva l'animo volto a libertà. Mutò poi linguaggio e fatti, sì che Montrichard, a cui era subordinato, risapendone i maneggi, e veduta l'importanza del caso, gli toglieva l'autorità sul dipartimento del Rubicone, mandando Hullin per arrestarlo. Ma Lahoz, avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si era schivato, e mandando fuori apertamente quello che si aveva concetto nell'animo, gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro Francia. A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle che Froelich conduceva dallo Stato romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a destra dei monti che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del Tronto per quivi abboccarsi con Donato de Donatis, alle bande del quale molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano per condottieri i nobili Sciaboloni, Cellini e Vanni. L'arrivo di un generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano molto confortava questi capi, perchè speravano che per opera di lui quelle genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie, le rendeva sperimentate negli usi del muoversi, del marciare, del combattere. Concorrevano cupidamente tratti dal nome suo gli Abruzzesi, e fecero massa tale che da Ascoli passando per Calderola, Belforte, Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano con guardie non interrotte fino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal modo tutto il paese all'intorno d'Ancona. Monnier, non volendo lasciarsi ristringere nella piazza, usciva fuori alla campagna per combattere fazioni che non potevano portare che danno per lui, perchè aveva poche genti e non modo di ristorare i soldati perduti con nuovi, mentre i collegati, per avere i mari aperti e le popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente aggiungere genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa risoluzione di Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a distruzione d'uomini e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente la licenza. Ascoli, Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro ed altre città della Marca, belle tutte e magnifiche, prese e riprese per forza parecchie volte, ora dall'una delle parti ed ora dall'altra, pruovarono quanto la licenza militare ha in sè di più atroce e di più barbaro. Finalmente successe quello che era impossibile che non succedesse, cioè che, moltiplicando sempre più le genti collettizie di Lahoz e le regolari de' collegati, e venute in mano loro Jesi, Fiume, Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro, Osimo, Castelfidardo e perfino Camurano, terra posta a poca distanza da Ancona, fu costretto Monnier a serrarvisi dentro ed a far difesa dei suoi le mura fortificate di lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo in mezzo, s'impadronirono della montagnola, donde più oltre procedendo, tosto piantarono una batteria di diciassette cannoni, con la quale bersagliavano il forte dei Cappuccini, il monte Gardetto e la cittadella. Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizii della cittadella, restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso, ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le tre navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyraud, il Laharpe e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur un'ancora alla bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte Pelago, se ne era fatto padrone, e qui con trincee si approssimava a monte Galeazzo; che anzi, fatto un subito impeto contro di esso, vi si era alloggiato; ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva ricacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano le condizioni dell'anconitana guerra, nè si vedea che gli alleati potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si difendevano egregiamente, e di que' di fuori, i Russi erano pochi, i Turchi ed i sollevati, per l'imperizia loro e la mala altitudine dei loro istrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della piazza. Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich coi suoi Tedeschi, e rendeva tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si alloggiava in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro il monte Galeazzo, confidando anche, per mandarlo ad esecuzione, nell'aiuto dei collettizii di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel posto, di battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella presa di questa eminenza consisteva principalmente la vittoria di Ancona. Due volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte ne era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo conosciuto che finalmente se stesse più lungamente padrone di monte Pelago e delle trincee che vi aveva fatte e che si distendevano verso monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi la possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte del 9 ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere. Ma un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi di Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in viso i combattenti, quando Lahoz, impaziente di quella lunga battaglia, usciva dall'alloggiamento e dava addosso agli assalitori. Siccome poi era uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a caricar l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico fedele, ora suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro l'altro, sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad Italiani. Ed ecco in questo un soldato cisalpino prender di mira Lahoz conosciuto, e ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i repubblicani addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo, gli tolsero le armi ed il pennacchio, che a guisa di trionfo portarono in Ancona. Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se non fossero stati presti i sollevati a soccorrerlo. Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si ritirava il Franzese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel nemico una impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo, si andò prima dell'ultima ora rammaricando e giustificando della sua condotta, finchè passava da questa all'altra vita. Froelich, piantate le artiglierie in luoghi opportuni, e con esse battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne insignoriva. Poi, procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava al monte Gardetto. Poscia, usando il favore di questa vittoria, dava il dì 2 di novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito e correva anche contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano le porte di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore, e cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere quanto potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e coraggio proprio e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora dagli assalti i collegati, solo battevano con le artiglierie la piazza. Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella, rompevansi le artiglierie degli assediati, la piazza già difettava di vettovaglie; Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del monte Gardetto. Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il generale Skal, portatore delle sinistre novelle de' repubblicani rotti in tutta Italia, specialmente della novità di Napoli, di Roma e di Toscana. Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi e la dignità della sua patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare, protestando però volere solamente arrendersi alle armi austriache, non a quelle dei Russi o dei Turchi o dei sollevati. Patti onorevoli seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore di guerra, avesse segurtà di passare in Francia per dove volesse, fino agli scambi non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una guardia d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno, di qualunque nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in Ancona, o fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro potesse essere riconosciuto o castigato od in qualunque modo molestato nè per fatti nè per scritti nè per parole in favore della repubblica, e chi volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia, il potesse fare liberamente. Fu e sarà questa capitolazione egregio e perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così fra tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano di Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani e quelli che si erano aderiti ai Franzesi: tutti gli altri ottennero, o almeno domandarono, la salvazione di coloro che combattendo o consentendo coi Franzesi, avevano con tanta cecità contro di sè concitato l'odio degli antichi signori. Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi ed i Russi si diedero al sacco; quelle misere terre, già conculcate e peste da sì lunga guerra prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio dopo di lei. Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa natura, faceva castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori: il che accrebbe i mali umori e le cause di disunione che già correvano. Intanto era il direttorio costituito in assai difficile condizione. Bollivano molte parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui. La nazione franzese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor più impaziente per la memoria delle vittorie, dava imputazione per appagamento proprio a' suoi reggitori delle rotte ricevute e della perduta Italia. Molteplici querele si muovevano in ogni parte contro di loro, e il meno che si dicesse era che non sapevano governare. Quell'impeto ch'era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era per le ultime rotte svanito. Dominava nei consigli legislativi, secondo il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per arrivare ai seggi del direttorio. I soldati nuovamente descritti non marciavano, i veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti, le contribuzioni non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile lacerava le provincie occidentali; chi voleva le opinioni estreme, chi le mezzane; molti, che sapevano molto bene quello che si volessero, e molti ancora che nol sapevano, desideravano una mutazione. Nè questa mutazione era evitabile, perchè nissun governo può resistere in Francia alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello scrivere e del parlare. La fazione soldatesca, che mal volentieri sopportava che il paese fosse retto dai togati, ed alla quale nissun governo piace se non il soldatesco, guardava intorno se qualche bandiera chiamatrice di novità, ed alla quale potesse, come a centro comune, concorrere, all'aria si spiegasse, proponendosi di sottomettere, prima il governo col nome della libertà, poi il popolo col nome di gloria. Tutte queste cose vedevansi gli uomini savii, nemici della licenza; vedevanle i faziosi, amici della tirannide, e tutti pensavano al ridurle ai disegni loro. In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri il nome di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto dai forastieri. Per mille discorsi, nasceva in Francia un desiderio accesissimo del capitano invitto. Ognuno come redentore il guardava, ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva ch'ei fosse per fare ciò che ciascuno desiderava. Insomma, la materia era ben disposta a ricevere le buonapartiane impronte. Adunque, già fin da quando si erano udite le prime sciagure d'Italia, era sorto fra i desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare Buonaparte dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente, e si mandò ad effetto quando portò la fama essere morto Joubert, combattendo nella battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes quinqueviro, Barras quinqueviro, i generali superstiti dell'esercito italico, eccettuato Massena, il quale non era punto affezionato a Buonaparte, ed i fratelli Giuseppe e Luciano Buonaparte. Molto accomodato a' suoi fini era il procedere di Luciano, che, allettando con le parole, chiamava a sè ed al nome del suo fratello i gelosi della libertà e della gloria franzese, i desiderosi della libertà italica, i cupidi delle spoglie italiche. Viaggiavano le vele, erano quelle di un bastimento greco, portatrici dei desiderii comuni verso l'Egitto, correndo la state, del presente anno. L'avviso fu ed accetto ed opportuno. Buonaparte, che conosceva ottimamente, per la sua mente pronta e vasta, per la perizia somma nelle faccende di Stato, e per la cognizione profonda che aveva di questa umana razza, quanto piena fosse la fortuna che si parava davanti, e quanto fosse propizia l'occasione di condurre ad effetto i suoi pensieri smisurati, parendogli eziandio che un mezzo opportuno gli si offerisse di sottrarsi dall'Egitto, dove le cose sue cominciavano a declinare, cupidissimamente si avviava alle sue nuove e straordinarie sorti. Salpava dagli egiziani lidi, conducendo con sè i suoi compagni più fidati di guerra, perchè aveva bisogno delle mani e delle armi loro; i dotti ed i letterati più famosi, perchè si voleva servire, come di aiuto molto potente, della autorità, delle lingue e degli scritti loro. Arrivava improvviso a Frejus: improvviso ancora, disprezzate le leggi di sanità, perchè non voleva che la fama del suo arrivo si raffreddasse, partendo, giungeva nel volubilissimo Parigi, che bramosamente lo aspettava. Non occorre raccontare le allegrezze che si fecero in tutta Francia quando si sparse la voce del suo ritorno; basta che le genti corsero a lui da ogni parte, come a trionfatore, a salvatore e redentore; già Francia era sua, quantunque uomo privato e generale senza esercito fosse. Lione soprattutto tripudiava per un'insolita allegrezza, città ancor sanguinosa per l'imperio poco anzi spento dei truculenti giacobini, sdegnata per le leggi soldatesche che contro di lei tuttavia vigevano. Toccò, passando, i tasti più teneri; favellò di pace, di prospero commercio, di ferite civili da racconciarsi da un giusto e mansueto governo. I Lionesi contenti speravano ed amavano. A Parigi, ogni opinione, ogni affezione si voltava a lui: dava buone parole a tutti, ma insomma pendeva al moderato, sapendo che tal era il desiderio universale. Cacciò Buonaparte a punta di baionette i consigli legislativi, cacciò il direttorio; i soldati pagati dal governo si voltarono contro il governo: ebbe paura sulle prime, poi fece paura agli altri. Conosce Europa il dì 9 novembre, da cui poteva nascere un vivere moderato e largo, e che non pertanto partorì un reggimento duro, tirato, dispotico e soldatesco. Pace dentro, pace fuori, parvero a Buonaparte i più forti fondamenti della sua potenza: i Franzesi, stanchi ed afflitti da sì lunghe guerre, pace soprattutto desideravano, purchè disonorata non fosse, del che non temevano con Buonaparte capo. A questi fini indirizzava egli principalmente i suoi pensieri. Speciale intoppo alla cittadina concordia gli parevano, ed erano veramente, gli spiriti esagerati, i quali, non potendo per ambizione riposare sotto alcuna potestà, nemmeno possono quando sono giunti essi alla potestà suprema, posciachè, tirannicamente procedendo, decimano prima i popoli, poi sè medesimi, e tutti i fondamenti dello Stato fan rovinare; non gli era ignoto che il nome di costoro era odioso in Francia; perciò fece avviso che molto fosse, per operare a fine di concordia, il cacciare questi commettitori di scandali, di risse e di sangue: per la qual cosa, senza rimanersene ai formali giudizii, nè differendo contro di loro i rimedii severissimi, gli allontanava, confinandoli in terre estreme o forestiere. Purgata la Francia da questi uomini turbolenti, pensava al ribandire dal lungo esiglio coloro che avevano seguitate le parti del re, od almeno destato le esorbitanze che ai tempi più acerbi della rivoluzione si erano commesse in Francia. Pochi furono eccettuati dal clemente editto, piuttosto per lasciare un appicco a nuove grazie, che per altro fine. Rientravano gli esuli, se non sotto i tetti propri, se non nei beni loro posti al fisco, ma a rivedere i monti, i fiumi, le valli e l'aere natio: il che era pur parte di felicità. Gradivano infinitamente queste cose agli amatori del nome reale, e ne auguravano delle maggiori. Della contentezza loro godeva il consolo, volendo arrivare alla dominazione assoluta coll'appoggio dei regi e de' repubblicani. In questi pensieri tanto più volentieri si confermava, quanto non dubitava che sarebbero andati a grado delle potenze europee, siccome quelle che vi vedevano l'intenzione data da lui nei campi di Leoben e di Campoformio, di voler rimettere i Borboni, desiderio primo e principale dei principi, massimamente dell'imperadore Paolo. Sperava che con questi mezzi acquisterebbe pace con l'Europa, e tanta potenza in Francia che potesse senza pericolo finalmente scoprirsi dello aver preso il dominio per sè, non per altri. Il reggimento statuito da lui in Francia, di cui parti principalissime erano il senato ed il corpo legislativo, non gli dava apprensione, perchè del senato lo assicuravano le ricchezze, del corpo legislativo le ambizioni. L'avere poi ridotto le amministrazioni delle provincie ad uno invece di molti, fece gli ordini meglio eseguiti, l'erario pingue: ogni cosa volgeva alla monarchia. Correndo i soldi, i magistrati obbedivano, i soldati marciavano: tutti benedicevano il consolo. A tutti questi maneggi gran momento arrecavano gli scienziati ed i letterati, siccome quelli che avevano molta autorità sui popoli, massimamente in Francia, dove erano uniti in certa specie di congregazioni, non per legge, ma per uso. Per la qual cosa il consolo gli accarezzava, gli arricchiva, gl'ingrandiva. Grande flagello, da che aveva principiato la rivoluzione, era sempre stata la guerra della Vandea, nella quale con infinito furore combattendo e repubblicani e regi, avevano sterminato popolazioni intere, desolati paesi altre volte fioritissimi, commesso quello che solo commettono nelle civili discordie, e forse neanco in queste, gli uomini arrabbiati gli uni contro gli altri. La forza non l'aveva potuta spegnere, perchè irritava; le tregue nemmeno, perchè mal fide: ormai si nominava guerra interminabile. S'accorgeva il consolo quanta grazia acquisterebbe fra i popoli, se pacificasse quelle terre rosse di tanto sangue franzese: applicovvi l'animo; venne a capo dell'impresa. Fra il terrore del suo nome, l'apparato de' suoi soldati, le promesse di osservare la fede, le speranze segretamente date di voler procedere più oltre, vennero i capi della Vandea ad una onesta composizione: la concordia tornava sulle rive dell'insanguinato Ligeri; Parigi maravigliato vedeva i capi della vandeese guerra. Ammiravano i popoli il consolo pacificatore, uguale nel far le guerre, uguale nel far le paci. Forti amminicoli a quanto macchinava pensava che fossero gli uomini di Chiesa tanto maltrattati dal direttorio. Volle racquistarli. Diè patria ai preti fuorusciti, libertà ai carcerati, sicuro vivere ai nascosti. Queste cose faceva apertamente, molto altre prometteva segretamente. Si aggiunse che onorò con pietosi uffizii Pio VI, papa morto, che aveva perseguitato vivo. Il suo favellare maravigliosamente piaceva a coloro che sentivano ancora di religione, massimamente ai ministri di lei. Già non solo vincitore e riformatore generoso del governo di Francia, ma ancora instaurator pio dell'antica sua religione il chiamavano. Vacando il trono pontificale per la morte di Pio VI, eransi a questo tempo adunati i cardinali in conclave a Venezia per intendere alla elezione del nuovo pontefice. Temeva il consolo che si cercasse un pontefice troppo avverso agl'interessi di Francia e proprii; perciò andava moltiplicando ne' suoi segni di affezione verso la religione, e nutriva con grandi speranze i ministri di lei. Si poteva facilmente pronosticare da questi primi favori ch'ei volesse venirne, quanto alle faccende ecclesiastiche, ad ordini legittimi e definitivi. Ciò era cagione che i cardinali raccolti in Venezia non disperassero di Francia, e non consentissero ad innalzare al pontificato un cardinale che si fosse dimostrato troppo contrario a lei. Ma primo ed universale desiderio della Francia, tanto rotta e sanguinosa, era la pace. Questa inclinazione assecondava il consolo, non che sperasse di ottenerla con tutti, ma l'offerirla a tutti gli pareva conferente a' suoi pensieri. Stimava che a' suoi fini molto valesse e fosse molto ricercata dalle cose presenti, se non la pace, la offerta almeno della pace all'Inghilterra. Scriveva una molto bene elaborata lettera al re Giorgio. Rispose acerbamente per bocca del ministro Grenville il re Giorgio. A questo modo furono abbandonati i ragionamenti della concordia tra Francia ed Inghilterra. Pure ciò consegui il consolo, che la continuazione della guerra s'imputasse non a lui, ma al re Giorgio. Erano tra Francia ed Inghilterra odio vivo, interessi diversi, vicinanza gelosa, pace difficilissima: molto diverse condizioni passavano tra Francia e Russia; A questa non fu avaro di promesse e di protestazioni Buonaparte; Paolo si lasciava muovere; il consolo, per fargli dar volta intieramente, pagava, provvedeva di tutto punto e rimandava liberi al loro signore i soldati russi fatti prigionieri nelle guerre di Svizzera e di Olanda. Parve atto generoso ed arra conveniente dei disegni avvenire. Da tutte queste cose mosso il sovrano di Russia, voltando lo sdegno, siccome quegli che era subito nelle sue risoluzioni, da Francia contro Inghilterra, il riceveva nella sua amicizia, e si riduceva alla sua volontà, dichiarando non volere più partecipare nella lega, e richiamava in Russia le sue genti che ancora stanziavano in Germania. Poscia, accendendo vieppiù le speranze dategli, rinnovava contro la potenza marittima dell'Inghilterra i patti della lega del Nord, cacciava da Pietroburgo gli agenti del re Giorgio, imputando agl'Inglesi l'esito infelice della spedizione d'Olanda. Così Paolo, scostandosi dall'amicizia d'Austria e d'Inghilterra, si precipitava in quella di Francia. Rappacificatosi Buonaparte coll'imperatore Paolo, pensava a confermarsi l'amicizia della Prussia. Non gli accadde di sforzarsi molto in queste faccende, perchè ottenne facilmente che Federico Guglielmo, perseverando nell'amicizia fermata a Basilea, consentisse alle ultime mutazioni fatte in Francia, e lui come capo del governo franzese riconoscesse. L'Austria restava sul continente contro la Francia. Tentava il consolo l'animo dell'imperatore Francesco, offerendogli di tornare alla capitolazione di Campoformio con quel di più che si negozierebbe per sicurezza delle monarchie e delle possessioni austriache in Italia. Ripugnava l'Austria al rinunziar del tutto ai frutti delle ultime vittorie, nè si fidava punto delle promesse di Buonaparte. In questo mezzo si accostarono le istigazioni dell'Inghilterra, molto intenta a difficoltare queste pratiche, perchè vedeva nel mondo quieto la sua ruina. Offeriva denaro e cooperazione sulle coste di Francia. Per le quali cose, e considerato altresì che i veterani di Buonaparte erano periti o di peste in Egitto, o di ferro in Italia, si risolveva Francesco a ricusare la concordia. Godeva Buonaparte parimente dell'offerta e della rifiutata pace, perchè non aveva sincero desiderio di convenire coll'Austria. Così, fermando la maggior parte del mondo in suo favore, confermava in Francia i contenti, cattivava gli scontenti, e parte con fatti, parte con isperanze, conseguiva che l'universale dei Franzesi amasse il suo governo, desiderasse la sua grandezza, e volentieri si disponesse a fare quanto si bramasse: precipitavano i popoli a tutte le sue volontà. Tutta Francia correva alle nuove sorti, e se Buonaparte generale l'aveva fatta gloriosa in guerra, tutti confidavano che Buonaparte consolo la farebbe e gloriosa in guerra e felice in pace. Quanto alla guerra, ottimamente considerati furono i suoi consigli: mandava nuove genti, quasi tutte veterane, a Moreau, confermato da lui al governo dei Renani, il quale doveva sostenere il pondo degli Austriaci in Germania. Dall'altro lato, avendo sempre più i pensieri accesi alla ricuperazione d'Italia, inviava in Liguria Massena, acciò facesse pruova di tener lontano il nemico dalle frontiere di Francia, e conservasse il possesso di Genova, fino a tanto che egli medesimo con un forte esercito arrivasse nelle pianure d'Italia. Congregava molti soldati veterani e molti nuovi in Digione, donde pensava, secondochè gli mostrasse il tempo e le occasioni, o di condursi in Germania, se Moreau abbisognasse del suo aiuto, od in Italia, se il generale dei Renani combattesse felicemente. Di questo aveva grande speranza per la perizia di Moreau e la fortezza delle genti accolte sotto a lui. Per la qual cosa il suo principale intento era di condurre le genti adunate in Digione, che col nome di esercito di riserva chiamava nei campi d'Italia, pieni ancora della fama di tante sue vittorie. A questo modo adunque ordinava la guerra contro l'Austria, che nel corno destro estremo guidasse i repubblicani Massena, nel sinistro Moreau, nel mezzo prima Berthier, poi egli stesso. Certamente nè più pruovati, nè più eccellenti, nè più famosi capitani di questi non erano mai stati al mondo, e da loro aspettavano gli uomini maravigliati fatti maravigliosi. Essendo la guerra imminente gridava con la vincitrice voce Buonaparte ai suoi soldati: «Quando promisi la pace, in nome vostro la promisi; voi siete quegli uomini medesimi che conquistaste l'Olanda, il Reno, l'Italia, voi quegli stessi che, già vicini, forzaste alla pace la spaventata capitale nemica. Soldati, avete voi ora ben altro carico che quello di difendere le frontiere vostre: ite, invadete, conquistate i nemici territorii. Voi foste già tutti a molte guerre, voi sapete che, per vincere, e' bisogna soffrire: in poco d'ora non si possono ristorare i danni d'un cattivo governo. Dolce sarammi, a me, primo magistrato della repubblica, il poter dire alla Francia attenta: Questi sono i più disciplinati, i più bravi sostegni che si abbia la patria. Sarò, soldati, quando sia venuto il tempo, sarò con voi. Accorgerassi l'Europa che voi siete quella valorosa stirpe che già tante volte a maraviglia la costrinse.» Così, aggiungendo impeto a valore, faceva uomini fortissimi alle battaglie. L'esercito italico, afflitto dalle disgrazie, titubava; i soldati rompevano i freni dell'obbedienza: già la stagione si rendeva propizia. Buonaparte vincitore mandava loro dicendo: «Non odono le legioni le voci dei loro ufficiali; lasciano, la diecisettesima sopra tutte, le insegne. Adunque son morti tutti i bravi di Castiglione, di Rivoli, di Newmarket? Avrebbero essi eletto il perire piuttosto che abbandonar le insegne. Voi parlate di provvisioni manche: che avreste fatto, se, come la quarta e la vigesimaseconda leggiere, la diciottesima e la trigesimaseconda grosse, fra deserti, senza pane, senz'acqua, a mangiar ridotte carni di sozzi animali, trovati vi foste? La vittoria, dicevano, ci darà pane, e voi disertate le insegne! Soldati dell'esercito italico, un nuovo generale vi governa; quando più splendeva la gloria vostra, ei fu sempre il primo fra i primi. In lui fidatevi; con lui andrete a nuove vittorie. Sarammi, così comando, dato conto di quanto ogni legione farà, massime la diciasettesima leggiera e la sessagesimaterza grossa: ricorderannosi della fede che già ebbi in loro.» Queste parole maravigliosamente accendevano quegli animi valorosi. Era l'esercito italico, in cui si noveravano poco più di venticinque mila soldati, distribuito nelle stanze in modo che la destra, governata dal generale Soult, da Recco in riviera di Levante sino a Cadibuona e Savona si distendeva: presidiava Gavi e Genova, in cui alloggiava, il generalissimo Massena. La sinistra, che obbediva al generale Suchet, custodiva la riviera di Ponente da Vado sino al Varo, con presidii posti nei principali luoghi e nei sommi gioghi delle Alpi marittime; fronte certamente troppo lunga per potersi guardare convenientemente con sì poche genti. Ma Genova necessitava i consigli dei Franzesi, perchè importava ai disegni ulteriori del consolo ch'ella si tenesse lungamente, e voleva Massena conservarvi un campo largo per le tratte delle vettovaglie, di cui penuriava, il che l'aveva fatto risolvere a non cedere le riviere se non quando a ciò fosse sforzato. Da un'altra parte Melas, abbenchè fosse guerriero avveduto e sperimentato, e forse appunto perchè era, non poteva persuadere a sè medesimo che le genti raccolte in Digione fossero una tempesta che avesse a scagliarsi contro l'Italia. Non misurava egli bene la prontezza di Buonaparte, nè la docilità dei Franzesi a scorrere là dove il nome suo e la sua voce li chiamavano. Laonde ei se ne viveva troppo alla sicura su quanto potesse succedere alle spalle e sul suo destro fianco. Anno di CRISTO MDCCC. Indizione III. PIO VII papa 1. FRANCESCO II imperadore 9. Gli Austriaci, che molto prevalevano in numero a Massena, erano per modo alloggiati, che tutto il territorio ligure fasciando, da Sestri di Levante per le sommità degli Apennini opposte a quelle che occupavano i Franzesi, si distendevano fino al colle di Tenda. Governavano a sinistra Otto, poi, seguitando a destra, Hohenzollern, il generalissimo Melas, Esnitz, e finalmente sulla estrema punta destra Morzin. Accingendosi Melas ad invadere il Genovesato, mandata prima una grida ai Genovesi piena di generose parole, aveva condotto il grosso de' suoi alle stanze delle Cercare, intendimento suo essendo di spingersi avanti, cacciando gli avversarii dai sommi gioghi a Savona, per separare e disgiugnere in tale modo l'ala sinistra dei Franzesi dalla mezza e dalla destra che combatteva nella riviera di Levante. Ottenuto il quale intento, gli si spianava la strada, essendo questo l'ultimo fine de' suoi pensieri, a serrare Massena dentro Genova ed a costringerlo alla dedizione. Spuntava appena il giorno 6 aprile che i Tedeschi, partendo dalle Cercare divisi in tre schiere, s'incamminavano alle ordinate fazioni. La mezzana, condotta da Mitruschi, marciando per Altare e per Torre, si avvicinava a Cadibuona, posto molto fortificato dai Franzesi, e chiave e momento principale di tutta quella guerra. Il generale San Giuliano colla sinistra faceva opera d'impadronirsi di Montenotte, per quinci accennare contro Sassello, dove alloggiava un grosso corpo di repubblicani. Finalmente la destra, che obbediva ad Esnitz ed a Morzin, passando per le Mallare ed avvicinandosi alle fonti della destra Bormida, aveva carico di sforzare i passi del monte San Giacomo. Si combattè da prima da ambe le parti molto valorosamente a Torre, avendo gli Austriaci il vantaggio del numero, i Franzesi del luogo. Finalmente superarono i primi quell'antiguardo, e tutto lo sforzo si ridusse sotto le trincee di Cadibuona. Quivi fu molto duro l'incontro, e la battaglia si pareggiò lungo tempo; ma finalmente fe' dare il crollo in favore dell'armi imperiali la mossa di un valoroso battaglione di Reischi, il quale, assaltate di fianco le trincee, costrinse i repubblicani alla ritirata, non senza tale disordine delle ordinanze, che, se non fosse stato presto Soult a sopraggiungere con aiuti freschi, sarebbero stati condotti a molta ruina. Ma non potè nemmeno la presenza e l'opera di Soult ristorare la fortuna; perchè gli Austriaci, seguitando l'impeto della vittoria, obbligarono il nemico a ricoverarsi al monte Aiuto, munito ancor esso di qualche fortificazione. Volle Melas torre quel nuovo ricetto al nemico: mandò all'assalto Lattermann e Palfi, che, fortemente urtando da lato e da fronte, sloggiarono i Franzesi da quel forte sito, e se ne impadronirono. Fecero i repubblicani una nuova testa a Montemoro: Melas, combattendoli da fronte, e girando loro alle spalle ed ai fianchi, e dando perciò loro timore di essere tagliati fuori, li costrinse a dar indietro, col ritirarsi disordinatamente a Savona. Seguitaronli, pressandoli molto alla terga, i vincitori, e con essi alla mescolata entrarono nella città. Soult, non istandosene ad indugiare, introdotta nella fortezza quanta vettovaglia potè in quell'improvviso e pericoloso accidente, si ritirava a Varaggio. Riuscirono molto micidiali questi incontri alle due parti: i Franzesi patirono di vantaggio, trovandosi in minor numero. Frattanto Esnitz aveva assaltato monte San Giacomo custodito da Suchet, che virilmente vi si difese qualche tempo; ma, vincendo gli Austriaci in varii punti, entrarono vittoriosi in Vado. Suchet per le terre di Finale, Gora, Bardino, la Pietra e Loano indietreggiava fino a Borghetto. Nè meno felicemente si era combattuto per gli Austriaci in riviera di Levante ed alla Bocchetta; perchè Otto, assaltando i diversi posti, aveva costretto i Franzesi alla ritirata. La Sturla sotto, il Bisagno sopra separavano in fine i due nemici, e gli Austriaci dall'eminenza del monte delle Fascie vedevano ed erano veduti da Genova. Fortissimo era l'alloggiamento dei Franzesi alla Bocchetta e molto ardua la sua espugnazione, avendo voluto assicurarsi di quella strada facile ed aperta contro il nemico che venisse dai piani della Lombardia. Gli assaltava Hohenzollern coi due reggimenti di Kray e d'Alvinzi condotti dal generale Rousseau, e l'una dopo l'altra, non senza però molto contrasto e sangue, si recava in mano, conquistando tutte le trincee e le artiglierie che le guernivano. Per la quale fazione acquistarono gli Austriaci il passo delle valle della Polcevera con la facoltà di stringere più da vicino Genova. Rannodaronsi i Franzesi a Pontedecimo. Massena, che prevedeva che non avrebbe potuto tenersi lungamente in Genova, se gl'imperiali fossero troppo vicini alle mura, perchè più presto gli sarebbero mancate le vettovaglie, fece pensiero di allargarsi. Siccome poi era uomo generoso e d'animo invitto, non contentandosi al volersi acquistare un campo più largo, benchè fosse molto inferiore pel numero dei soldati al nemico, si delibera a far opera di rompere gli Austriaci sulle alture di sopra Savona, per ricongiungersi con l'ala governata da Suchet. Ma l'evento della guerra ed il destino di Genova erano per giudicarsi sulla riviera di Ponente. Marciava Massena inferiormente più accosto al mare per assaltar Montenotte, Soult superiormente e a destra per impadronirsi di Sassello, quindi del monte dell'Armetta, poi di Mioglio e del ponte Invrea. Quivi avrebbe potuto unirsi a Massena venuto da Montenotte, per indi marciare uniti verso il Cairo, confidando anche di trovarvi Suchet. Soult, combattendo il nemico, restava superiore, nè più altro impedimento gli restava a superare per arrivar al compimento del suo disegno per al Cairo, se non se i posti di Moglio e di ponte Invrea. Vi sarebbe anche riuscito, se la fortuna si fosse scoperta tanto favorevole a Massena quanto si era scoperta a lui. Ma le cose succedettero sinistramente nella parte condotta dal generalissimo; poichè Melas in questo pericoloso punto, non turbata la mente nè diminuito l'animo, si appigliava prestamente ad un partito; ed avvisando che l'evento della battaglia pendeva appunto dalla schiera di Massena, e che se gli fosse venuto di obbligarla a ritirarsi rotta e sconquassata, sarebbe stato obbligato Soult a tornare addietro, la fazione riuscì come l'aveva preveduta. Assaltati i Franzesi da ultimo con molta forza a Cogoletto; bersagliati al punto stesso dagl'Inglesi accostatisi al lido colle loro barche armate di artiglierie; finalmente venne a precipitarsi contro di loro la cavalleria austriaca. Pressati da tutte bande, non poterono resistere, e disordinati si ritirarono precipitosamente ad Arenzano, ma piuttosto per modo di posata che d'alloggiamento stabile. Massena, non credendosi sicuro in questa terra, si ritirava più indietro fino a Voltri, soltanto per aspettarvi Soult, che percossi in vano con assalto ponte Invrea e Mioglio, e udito il caso sinistro di Massena, si ritirava a presti passi. Infatti si raccozzarono i due generali della repubblica a Voltri. Melas, riunite tutte le sue forze, ne li cacciava, e perseguitandoli aspramente con faci accese, perchè era sopraggiunta la notte, li costringeva a varcare la Polcevera sul ponte di Cornigliano, a ripararsi del tutto dentro le mura di Genova ed a desistere da qualunque assalto alla campagna. Mentre che le cose dell'armi procedevano in questa forma a Voltri, Otto aveva ricacciato Miollis dai monti Cornua e delle Fascie, per modo che il francese, impotente al resistere, aveva preso partito di ritirarsi nella valle del Bisagno e sulla destra sponda della Sturla. Così Massena privato della campagna si era ridotto a difender Genova ed i luoghi più vicini. Intanto le frontiere della repubblica sull'Alpi Marittime restavano esposte all'impeto tedesco. Piantava il generalissimo d'Austria il suo alloggiamento in Sestri di Ponente; ma non volendo lasciar indebolire la fama dei recenti fatti, nè dare tempo a Suchet di ricevere rinforzi, si accingeva a cacciare per forza il generale di Francia da tutta la riviera di Ponente. Vinselo in una fazione improvvisa a Torìa: recatosi in mano il colle di Tenda, il minacciava alle spalle e sul fianco sinistro. Suchet, ch'era capitano esperto, avendo fatto quanto per lui si poteva con le poche forze che gli restavano, per ritardare il corso al nemico, si ritirava sulle terre dell'antica Francia oltre il Varo. Il seguitava l'Alemanno, ed impossessatosi di tutta la contea di Nizza, compariva sulla sinistra del fiume. La principale forza dei Franzesi era a San Lorenzo. Vennero quivi ad annodarsi alcuni reggimenti, sebbene deboli, di regolari; chiamavano le guardie nazionali della Provenza. Aveva Suchet provveduto che un telegrafo piantato sul forte di Montalbano lo informasse ad ora ad ora delle mosse di Melas. Ciò fu cagione che non così tosto il Tedesco faceva un apparecchio, il Franzese si apprestasse a combatterlo. Intanto si combatteva aspramente sulle rive del Varo. Due volte i Tedeschi assaltarono con singolare audacia il ponte; due volte furono con uguale valore risospinti. In tal modo con somma sua lode, ed utilità grande della repubblica difendeva Suchet il territorio di Francia, e secondava l'opera immensa concetta dal consolo. Già il canuto e vittorioso Melas si accorgeva che era caduto nell'insidia tesagli dal giovane guerriero, e che, non che fosse tempo di conquistar la Provenza lasciatagli a bella posta quasi in preda, gli era forza pensare di conservar, se ancora potesse, l'Italia. Erangli giunti i primi avvisi del calarsi Buonaparte dalle Pennine Alpi: ebbe sulle prime il fatto in poco conto; errò nel credere che il consolo fosse uomo da comparir debole sulle sommità delle Alpi; avrebbe anzi dovuto persuadersi che dov'era Buonaparte, là fosse tutta la fortuna della guerra, là covasse la rovina sua. Mandava sui primi romori una schiera in Piemonte pel colle di Tenda; ma quando s'accorse che se la fama era stata grande, il fatto era più grande ancora, si risolveva a torsi velocemente da quell'estremo ed infruttuoso campo, dove combatteva per condursi in quei luoghi nei quali vincitore avrebbe a fare con vincitore. Ordinava Melas ad Esnitz, che aveva lasciato alla guerra contro Suchet, prestamente si tirasse indietro, e venisse a raggiunger Otto, che instava contro Genova, se Genova ancora si tenesse, o lui stesso nei piani d'Alessandria, se la capitale della Liguria già avesse ceduto all'armi d'Austria. Ritiravasi Esnitz, seguitavalo velocemente Suchet. Serratogli il passo pel Genovesato, si riparava l'Alemanno per la valle di Ormea nelle piemontesi contrade; il Franzese, spintosi avanti, stringeva il castello di Savona. A questo tempo consisteva la guerra in due accidenti principalissimi: l'assedio di Genova e la scesa di Buonaparte in Italia: l'uno era strettamente congiunto all'altro. Otto faceva ogni sforzo per impadronirsi della piazza, bramando di poter correre alla guerra definitiva nei campi d'Alessandria. Massena, che per coraggio e per l'arte de' suoi ufficiali e dei patriotti fuorusciti del Piemonte, che andavano e venivano a portar novelle, traversando con estremo pericolo loro gli alloggiamenti dei Tedeschi, era bene informato di quanto accadesse sulle Alpi Pennine, desiderava, più lungamente che possibil fosse tenerla per la ragione contraria. Nacquero da questa sua ostinazione fatti molto memorandi e tali che raramente si leggono nei ricordi delle storie. La città capitale della Liguria, posta a guisa di anfiteatro, donde ella fa magnifica mostra, sul dorso dell'Apennino tra la Polcevera e il Bisagno, è chiusa da due procinti di mura, uno più largo, l'altro più stretto. Sono questi due procinti muniti di bastioni e di cortine consenzienti alla natura del luogo, aspra, scoscesa e disuguale. Le difese di Genova, quando stava in propria balia, bastavano, perchè con un breve assedio non si poteva prendere, i lunghi erano impossibili per le emulazioni delle potenze. Consistevano le difese vive di Massena in dieci mila soldati franzesi; aveva con sè Soult, Gazan, Clauzel, Miollis, Darnaud. Accostavansi a queste forze circa due mila Italiani di nazione diversa, ordinati da Massena in corpo regolare sotto la condotta di un Rossignoli Piemontese, uomo di natura molto generosa e di gran cuore. Le corroborava la guardia nazionale di Genova, fedele, parte per amore di Francia, parte per odio ai nemici, parte per paura del sacco, se qualche accidente contrario alla quiete sorgesse. Queste genti unite insieme non componevano certamente un presidio sufficiente per un sì vasto circuito. Inoltre vi si viveva in molta apprensione per le vettovaglie, massime di grani. Gl'Inglesi, governati da Keit, impedivano le provvisioni di Corsica e di Marsiglia. La forzo che investiva Genova era molto varia. Il principal nervo consisteva in Tedeschi; ma con essi andavano congiunte torme numerose di villani sì Genovesi delle due riviere, che Monferrini, i quali, non mossi da alcun desiderio buono, ma dall'odio, dalla vendetta e dall'amor del sacco, erano accorsi alle voci di un Azzeretto, uomo ch'era stato incomposto e rotto quando militava coi Franzesi, ed ora si mostrava incomposto e rotto militando coi Tedeschi. Nè piccolo momento recavano alla oppugnazione le navi inglesi e napolitane, non con solamente intraprendere i viveri sul mare, ma ancora coll'aiutare, fulminando le spiaggie, gli sforzi degli Austriaci, principalmente verso il Bisagno, dove i luoghi avevano contro il mare minore difesa che verso la Polcevera. Fece Otto, che soprantendeva all'assedio, il dì 23 aprile, una grossa fazione sulla sinistra della Polcevera. Il reggimento di Nadasti, cacciati prima i Franzesi da Rivarolo, si impadroniva anche di San Pier d'Arena. Ma uscito Massena colla vigesimaquinta, li rincacciava. Sapevano gli assalitori che la parte più debole della piazza era verso levante; però si deliberarono a darvi un assalto, tentando di occupar le eminenze. Il dì 30 aprile, prima che aggiornasse, givano all'assalto da quella parte, e per consuonar con tutti quei moti, Otto attaccava Rivarolo a ponente. Riuscirono a buon fine quasi tutti gli assalti dei Tedeschi, ed era un gran pericolo pei Franzesi, perchè, se avessero conservati i luoghi conquistati, Genova non aveva più rimedio. Massena si metteva al punto di rimettere la fortuna. Mandava Soult al conquisto del monte dei Due Fratelli, Daruaud al rincalzo di Grottesheim, Miollis contro Santa Tecla e Quezzi. Vinsero tutti. Massena infaticabile, invitto, impaziente, animato dal prospero successo, usciva nuovamente alla campagna il dì 11 maggio. Il suo fine era di cacciar i Tedeschi dal monte delle Fascie. Soult recava in sua mano, dopo una battaglia molto feroce, il conteso monte. Nol conservarono lungamente i repubblicani, perchè Hohenzollern e Frimont, mandati da Otto, il ricuperavano. Massena intanto raccoglieva i viveri alla campagna, breve ed insufficiente ristoro. Volle quindi acquistare il monte Creto; i Tedeschi fortificati stavano a diligente guardia. Fu furioso l'assalto, valorosa la resistenza; pure andava superando la fortuna dei Franzesi, quando sopravvenne un temporale grossissimo; abbuiossi l'aria, straordinariamente piovve; i combattenti sforzati a ristarsi. Rasserenato il cielo, ricominciarono a menar le mani; l'accidente diè tempo ad Hohenzollern d'arrivare con genti fresche: ruppe i repubblicani, e gli sforzò a tornar dentro le mura. Combattessi in questa fazione con incredibile rabbia a corpo a corpo: fu Soult, mentre animosamente confortava i suoi alla carica, ferito sconciamente nella gamba destra e fatto prigione. Questa infelice spedizione pose fine al sortire di Massena; perchè, perduti i suoi migliori soldati, era troppo indebolito per uscire alla campagna. Pure tanto ancora gli restava di forza che gli alleati nol potessero sforzare; ma quello che le armi degli avversarli non potevano, operava la fame. Keit per mare non lasciava entrar viveri, Otto per terra; le provvisioni fatte scarse, le scarse dissipate. Fuvvi fame prima che mancassero i viveri: prima si scorciarono i cibi, poi si corruppero, infine si mangiarono i più schifi e sozzi, non solo i cavalli ed i cani, ma ancora i gatti, i sorci, i pipistrelli, i vermi, e beato chi ne aveva. Eransi gli Austriaci impadroniti dei molini di Bisagno, di Voltri e di Pegli, nè si poteva più macinare. Rimediossi per un tempo coi molini a mano, con quei del caffè massimamente, perchè erano presti; l'accademia consultò dei migliori: s'inventarono ingegni, ruote e molini nuovi. Con certi più grossi un uomo solo poteva macinare uno staio di grano al giorno. In ogni strada, su per ogni bottega si vedevano girar molini. Nelle case private, fra le adunanze famigliari, si macinava; le donne il facevano per vezzo. Infine mancò del tutto il grano: cercaronsi altri semi per supplirvi. Quei di lino, di panico, di caccao, di mandorlo furono i primi; riso ed orzo più non se ne trovava. Gli stritolati e strani semi, prima abbrustoliti, poi misti col miele e cotti parvero delicatura. Rallegravansi i parenti e gli amici con chi avesse potuto sostentare un giorno di più sè e la famiglia con lino, o panico, o tre granelli di caccao. La crusca, materia tanto ribelle alla nutrizione, si macinava ancora essa e cotta con miele serviva di cibo, non per ispegnere, ma per ingannare la fame; le fave stimate preziosissime; felice non chi viveva, ma chi moriva. Erano i giorni tristi per la fame e per le lamentazioni degli affamati; le notti più tristi ancora per la fame e per le spaventate fantasie. Mancati i semi, pensossi alle erbe. I romici, i lapazi, le malve, le bismalve, le cicorie salvatiche, i raperonzoli diligentemente si ricercavano e cupidamente, come piacevolezze di gola, si mangiavano. Si vedevano lunghe file di gente, uomini d'ogni condizione, donne nobili e donne plebee, visitare ogui verde sito, massime i fertili orti di Bisagno e le amene colline di Albaro, per cavarne quegli alimenti cui la natura ha solamente alle ruminanti bestie destinati. Sopperì un tempo il zucchero: zuccheri rosati, zuccheri violati, zuccheri canditi, ogni maniera di confetti andavano attorno, rivenditori e rivenditrici pubblicamente li vendevano, con fiori e con serti gli eleganti loro cestellini adornando: erano spettacolo in mezzo a quei volti pallidi, scarni e moribondi. Tanto possente cosa è l'immaginazione dell'uomo che si compiace in abbellire eziandio quanto havvi di più lagrimevole e di più terribile; rimedio di provvidenza che non ci vuol disperati. Basta: e' furono viste donne e gentil donne, nutritesi con sorci la mattina, mangiarsi tregge delicate la sera. L'aspetto della miseria estrema non ispegne la malvagità in chi è malvagio; del che troppo manifesto e troppo orribile esempio si ebbe in quelle ultime strette di Genova; conciossiachè uomini privi d'ogni senso di umanità, per un vile guadagno, non abborrirono dal mescolar gessi in luogo di farine nei commestibili che vendevano, per modo che non pochi avventori ne restarono avvelenati, morendosene con dolori mescolati di fame e di veleno. Durante l'assedio, ma prima della fine ultima, una libbra di riso si pagava lire sette, una di vitello quattro, una di cavallo soldi trentadue, una di farina lire dieci o dodici, le uova lire quattordici la serqua, la crusca soldi trenta ciascuna libbra. Poi, venendo maggiore la stretta, una fava si vendeva due soldi, un pane biscotto di oncie tre dodici franchi, e non se ne trovava. Maggiori agevolezze dei particolari non vollero Massena nè gli altri generali; apparecchiavano come i plebei; lodevole fatto, e molto efficace a fare star forti gli altri a tanta sventura. Poco cacio, legumi rari erano quanto nutrimento si dava a chi languiva per malattia o per ferite negli ospedali. Uomini e donne tormentate dalle ultime angosce della fame e della disperazione empievano l'aria dei loro gemiti e delle loro strida. Talvolta, così gridando, e le fameliche viscere con le rabbiose mani di lacerare tentando, morti per le contrade cadevano. Nissuno gli aiutava, perchè ognuno pensava a sè; nissuno anche a loro abbadava, perchè la frequenza aveva tolto orrore al fatto. Pure alcuni tra gli spasimi e stridi spaventevoli, e con iscosse e contorte membra davano l'ultimo sospiro in mezzo alle popolari folle. Fanciulli abbandonati da parenti morti o da parenti disperati imploravano con atti con pianti e con voci miserabili, la pietà di chi passava. Nissuno gli aiutava ed aveva di loro compassione, perchè il dolore proprio aveva spento il compassionare l'altrui. Razzolavano quelle innocenti creature bramosamente nei rivoletti delle contrade, nelle fogne, negli sfoghi dei lavatoi, per vedere se qualche rimasuglio di bestia morta o qualche avanzo di pasto di bestia vi si trovasse, e trovatone, se lo mangiavano. Spesso chi si corcava vivo la sera, era trovato morto la mattina, i fanciulli più frequentemente degli attempati. Accusavano i padri la tarda morte, ed alcuni con le proprie mani violentemente se la davano. Ciò facevano i cittadini, ciò facevano i soldati. Dei Franzesi, alcuni, anteponendo la morte alla fame, da per sè stessi si ammazzavano, altri le armi a terra sdegnosamente gettavano, protestando non più esser abili, per la perduta forza, a portarle. Altri, una disperata dimora abbandonando, nel nemico campo se ne andavano, Inglesi ed Austriaci di quella pietà e di quei cibi richiedendo, che tra Franzesi e Genovesi più non ritrovavano. Crudo poi ed oltre ogni dire orribile spettacolo era quello dei prigionieri di guerra tedeschi ditenuti su certe barcacce sorte nel porto; perchè la necessità ultima delle cose aveva operato che ad essi nutrimento di sorte alcuna già da alcuni giorni non si compartisse. Mangiarono le scarpe loro, le pelli dei soldateschi zaini; già con occhi torvi guardavano se non avessero a mangiarsi i loro compagni. Si venne a tale, che si tolsero loro le guardie franzesi, perchè si temette che, sforzati del famelico furore, non si avventassero contro di loro, e sbranatele, non se le divorassero. Tanta era la disperazion loro, che tentarono di forar le barche per andar a fondo, amando meglio perire affogati dalle acque che straziati dalla fame. S'aggiunse, come accadde, alla orrenda fame la mortalità pestilenziale. Febbri pessime le genti all'altra vita con morti spessissime si portavano sì negli ospedali del pubblico, sì negli ultimi casolari dei poveri, e sì nei superbi palazzi dei ricchi. Mescolavansi sotto il medesimo tetto i generi delle morti: chi moriva arrabbiato dalla fame, chi stupido dalla febbre, chi pallido per difetto di nutritiva sostanza, chi livido per petecchiali macchie. Niuna cosa esente da dolore, niuna da paura; chi viveva, o aspettava la morte o vedeva morire i suoi. Tal era lo stato dell'una volta ricca ed allegra Genova, del quale il pensier peggiore era questo, che il soffrir presente non poteva riuscire ad alcun utile suo. Era rotta la costanza di tutti: solo Massena non si piegava, perchè aveva la mente fissa nel pensiero di aiutar la impresa del consolo e di serbare intatta la fama acquistata di guerriero indomabile. Infine, venendogli onorevoli proposte da Keit, e non potendo più bastare quei sozzi e velenosi cibi che per due giorni, tanta era l'estremità del vivere, inclinava l'animo ad un accordo, ma più da vincitore che da vinto. Si accordarono (volle Massena che l'accordo s'intitolasse convenzione, non capitolazione, e fu forza compiacerlo della sua domanda) che uscisse Massena, che uscissero i suoi ufficiali e soldati, in numero di circa otto mila, liberi della fede e delle persone loro; per la via di terra potessero tornare in Francia, e chi non potesse per terra, fosse trasportato dagl'Inglesi per mare ad Antibo o nel golfo di Juan; i prigionieri tedeschi si restituissero, nissun potesse essere riconosciuto pei fatti passati, e chi se ne volesse andare, fosse in libertà di farlo; dessersi viveri, si avesse cura degl'infermi; Genova a' dì 4 giugno si consegnasse alle forze austriache ed inglesi. Infatti il nominato giorno le prime occuparono la porta della Lanterna, le seconde la bocca del porto. Poi entravano trionfando con tutto l'esercito Otto, con tutta l'armata Keit. I democrati più vivi se ne andarono coi Franzesi. Suonaronsi le campane a festa, cantaronsi gl'inni, accesersi i fuochi dai partigiani per amore, più ancora dagli avversi per paura, tutto secondo il solito. Ricomparvero in copia il pane, le carni, gli ortaggi, le grasce, e chi vi si abbandonò senza freno, in quel primo fervor della fame, se ne morì. Pruovaronsi i villani dell'Azzeretto a porsi in sul sacco contro i democrati, come dicevano, perchè saccheggiavano anche gli aristocrati; ma Hohenzollern, posto a guardia della città da Otto, con militare imperio li frenava. Creava il capitano tedesco una reggenza imperiale e reale; frenava la reggenza le vendette prossime a prorompere, comandamento lodevole; veniva sul toccar le borse, comandamento inevitabile, ma duro nella misera Genova. Buonaparte intanto, cambiatore di sorti, si avvicinava. Aveva il consolo con meravigliosa celerità ed arte adunato il suo esercito di riserva a Digione, donde accennava ugualmente al Reno ed all'Italia. Ma avendo Moreau combattuto prosperamente in Germania contro Kray, gli fu fatto abilità di condursi su quei campi in cui tuttavia vivevano i segni e le memorie delle sue fresche vittorie; cosa che gli era cagione di somma incitazione, perchè la gloria lo stimolava, ed era sicuro di trovarvi forti aderenze. Adunque, mentre Melas se ne stava martirizzandosi contro le sterili rocche dell'estrema Liguria, si avvicinava Buonaparte alle Alpi, tutto intento alle fazioni d'Italia. Varii, molti e potenti modi aveva di condurre a prospero fine la sua impresa: i soldati prontissimi a volere qualunque cosa egli volesse, generali esperti e valorosi, artiglierie formidabili, cavalleria sufficiente. Aveva apprestato, per pascere i soldati sull'erme solitudini delle Alpi, biscotto in grande abbondanza, e per tirar su e giù, secondo i casi, le artiglierie per quei sentieri rotti, stretti ed ingombri di nevi e di ghiacci, certi carretti a modo dei traini sdrucciolevoli che si usano in quei paesi per iscendere dai nevosi gioghi. Nè questo fu il solo trovato di Buonaparte e di Marmont, che soprantendeva alle artiglierie, per facilitar loro il passo per luoghi fino allora alle medesime inaccessi, perchè scavarono, a guisa di truogoli, tronchi d'alberi grossissimi, a fine di potervele posar dentro, come in un letto proprio, e per tal modo trasportarle a dorso di muli a traverso le montagne. Denaro sufficiente aveva rammassato per le necessità de' suoi fin oltre l'Alpi; poi, si confidava nell'Italia. Per muovere le opinioni degl'Italiani, aveva chiamato a sè la legione italiana capitanata da un Lecchi, la quale, fuggendo il furore nemico per le rotte di Scherer, si era riparata in Francia, bella e buona gente. Per conoscere poi i luoghi, conduceva con sè gl'Italiani che più ne erano pratici; e siccome l'intento suo era di varcare il gran San Bernardo, così si consigliava specialmente con un Pavetti di Romano nel Canavese, giovane di natura molto generosa, e che in queste bisogna con molto affetto camminava. Grande e magnifico era il disegno di Buonaparte per riconquistar l'Italia. Suo proponimento era di varcare col grosso dell'esercito il gran San Bernardo, col fine di calarsi per la valle di Aosta nelle pianure piemontesi. Ma perchè altre genti con questa parte consuonassero, e, giunte al piano, potessero e muovere i popoli a romore contro il nemico e congiungersi con lui a qualche importante fatto, aveva ordinato che il generale Thureau, pei passi dei monti Cenisio e Ginevra, con una squadra di tre in quattro mila soldati si calasse a Susa; al tempo medesimo comandava al generale Moncey che pel San Gottardo scendesse a Bellinzona con una eletta schiera di circa dodici mila soldati. Imponeva infine al generale Bethancourt che facesse opera di varcare il Sempione, e di precipitarsi per Domodossola sulle sponde del lago Maggiore. Siccome poi non ignorava quali e quante difficoltà ostassero al passo di un grosso esercito pel gran San Bernardo, commetteva ad un corpo di circa cinque mila soldati che passasse il piccolo San Bernardo, ed andasse a raccostarsi col grosso nella valle di Aosta. Tutte le raccontate genti insieme unite sommavano circa a sessanta mila combattenti. Così il consolo, tutta la regione dell'Alpi abbracciando che si distendeva dal San Gottardo al monte Ginevra, minacciava invasione al sottoposto piano del Piemonte e della Lombardia. Lusingati, per la città loro passando, con discorsi di umanità, di pace e di civiltà quei Ginevrini tanto ingentiliti, se ne giva il consolo alla stupenda guerra. Erano le genti già adunate tutte a Martigny di Vallese sul Rodano, terra posta alle falde estreme del San Bernardo. Guardavano con maraviglia e con desiderio quelle alte cime. Parlava loro Berthier, quartiermastro, ed il suo parlare di gloria e di Buonaparte infinitamente infiammava quegli animi già da per sè stessi tanto incitati e valorosi. Partivano il dì 17 maggio da Martigny per andarne a conquistar l'Italia. Maraviglioso l'ardore loro, maravigliosa l'allegria, maraviglioso ancora il moto ed il fervore delle opere. Casse, cassoni, truogoli, obici, cannoni, carretti ruotati, carrelli sdrucciolevoli, carrette, lettiche, cavalli, muli, bardature, arcioni, basti da bagaglie, basti da artiglierie, impedimenti di ogni sorte, e fra tutto questo soldati affaticantisi ed ufficiali affaticantisi al par dei soldati. S'aggiungevano le risa e le canzoni: i motti, gli scherzi, le piacevolezze alla franzese. Non a guerra terribile, ma a festa, non a casi dubbii, ma a vittoria certa pareva che andassero. Il romore si propagava da ogni banda: quei luoghi ermi, solitarii, e da tanti secoli muti, risuonavano insolitamente e ad un tratto per voci liete e guerriere. L'esercito strano e stranamente provvisto, al malagevole viaggio saliva per l'erta alla volta di San Pietro fin dove giunge la strada carreggiabile. Pure spesso erte ripidissime, fosse sassose, capi di valli sdrucciolanti si appresentavano; i carri, i carretti, le carrette pericolavano. Accorrevano presti i soldati a braccia, sostenevano, puntellavano, traevano, e più si affaticavano e più mettevano fuori motti, facezie e concetti, parte arguti, parte graziosi, parte frizzanti: così passavano il tempo e la fatica. I tardi Vallesani, che erano accorsi in folla dalle case, o piuttosto dai tugurii e dalle tane loro, vedendo gente sì affaticata e sì allegra, non sapevano darsi pace; pareva loro cosa dell'altro mondo. Invitati e pagati per aiuto, il facevano volentieri. Ma più bisogna faceva un Franzese che tre Vallesani. Così arrivarono i repubblicani a San Pietro, Lannes con la sua schiera il primo, siccome quello che per l'incredibile ardimento il consolo sempre mandava, lui non solo volente, ma anche domandante, alle imprese più rischievoli e più pericolose. Quivi si era arrivato ad un luogo in cui pareva che la natura molto più potesse che l'arte od il coraggio; perciocchè da San Pietro alla cima del gran San Bernardo, dov'è fondato l'eremo dei religiosi a salute dei viaggiatori in quei luoghi d'eternale inverno, non si apre più strada alcuna battuta. Solo si vedono sentieri stretti e pieghevoli su per monti scoscesi ed erti. Rifulse la pertinacia del volere e la potenza dell'umano ingegno. Quanto si rotolava, fu posto ad essere tirato, quanto si tirava ad essere portato. Posersi le artiglierie grosse nei truogoli, i truogoli negli sdruccioli, e dei soldati, chi tirava, chi puntellava, chi spingeva: le minute sui robusti e pratici muli si caricarono. Così se Gian Giacopo Triulzi montò e calò con grosse funi di roccia in roccia per le barricate nella stagione più rigida dell'anno le artiglierie di Francesco I, tirò Buonaparte quelle della repubblica sui carri sdrucciolevoli e sulle bestie raunate a questo intento. Seguitavano le salmerie al medesimo modo tirate e portate. Era una tratta immensa: in quelle volte di ripidi sentieri ora apparivano, ora scomparivano le genti: chi era pervenuto all'alto vedeva i compagni in fondo, e con le rallegratrici voci gl'incoraggiava. Questi rispondevano, ed al difficile cammino s'incitavano. Tutte le valli all'intorno risuonavano. Fra le nevi, fra le nebbie, fra le nubi apparivano le armi risplendenti, apparivano gli abiti coloriti dei soldati; quel miscuglio di natura morta e di natura viva era spettacolo mirabile. Godeva il consolo, che vedeva andar le cose a seconda de' suoi pensieri, e soldatescamente parlando a questo ed a quello, che in ciò aveva un'arte eccellente, gl'induceva a star forti ed a trovar facile quello che era giudicato impossibile. Già s'avvicinavano al sommo giogo, ed incominciavano a scorgere l'adito che, in mezzo a due monti altissimi aprendosi, dà il varco verso la più sublime cima. Salutarono, qual fine delle fatiche loro, con gioiose voci i soldati, e con isforzi maggiori intendevano al salire. Voleva il consolo che riposassero alquanto: _Di cotesto non vi caglia_, rispondevano, _badate a salir voi, e lasciate fare a noi_. Stanchi facevano dar nei tamburi, ed al militare suono si rinfrancavano e si rianimavano. Infine guadagnarono la cima, dove non così tosto furono giunti, che l'uno con l'altro si rallegrarono, come di compiuta vittoria. Accrebbe l'allegrezza il vedere mense appresso all'eremo rusticamente imbandite per opera dei religiosi, provvidenza del consolo, che aveva loro mandato denari all'uopo. Ebbero vino, pane, cacio; riposaronsi fra cannoni e bagaglie sparse, fra ghiacci e nevi agglomerate. I religiosi s'aggiravano fra i soldati con volti dipinti di sedata allegrezza: bontà con forza su quel supremo monte s'accoppiava. Parlò Buonaparte ai religiosi della pietà loro, di voler dare il seggio al papa, quiete e sostanze ai preti, autorità alla religione: parlò di sè e dei re modestamente, della pace bramosamente. I romiti buoni, che non avevano nè cognizione, nè uso, nè modo, nè necessità dell'infingere, gli credevano ogni cosa. Quanto a lui, se tratto da quella aria, da quelle quiete, da quella solitudine, da quella scena insolita, si lasciasse piegare a voler fare per affezione quello che faceva per disegno, niuno il sa, nè si ardirebbe giudicare; perchè da un lato efficacissima era certamente l'influenza di quella pietà e di quei monti, dall'altro tenacissima incredibilmente e sprezzatrice delle umane cose la natura di lui. Fermossi a riposare nel benigno ospizio un'ora. Quando parve tempo, comandava si partisse. Voltavano i passi là dove l'italico cielo cominciava a comparire. Fu difficile e pericolosa la salita, ma ancor più difficile e pericolosa la discesa; conciossiachè le nevi tocche da aria più benigna incominciavano ad intenerirsi e davano malfermo sostegno. Oltre a ciò, la china vi era più ripida che dalla parte settentrionale. Quindi accadeva che era lento lo scendere, e che spesso uomini e cavalli con loro, sfuggendo loro di sotto le nevi, nelle profonde valli erano precipitati, prima sepolti che morti. Incredibili furono le fatiche ed i pericoli: poco s'avvantaggiavano. Impazienti del tardo procedere, ufficiali, soldati, il consolo stesso, scegliendo i gioghi dove la neve era più soda, precipitosamente si calavano, sdrucciolando fino ad Etrubles. Era un pericolo, eppure era una festa; tanto diletto prendevano, e tante risa facevano di quel volare, di quell'essere involti chi in neve grossa e chi in polverio di neve. Quelli che erano rimasti al governo delle salmerie arrivarono più tardi per gl'incontrati ostacoli. Riuniti ad Etrubles, gli uni con gli altri si rallegravano dell'esser riusciti a salvamento, e guardando verso le gelate e scoscese cime che testè passato avevano, non potevano restar capaci del come un esercito intero con tutti gl'impedimenti avesse potuto farsi strada per luoghi orribilmente disordinati da sconvolgimenti antichi, e potentemente chiusi da perpetui rigori d'inverno. Ammiravano la costanza e la mente del consolo, delle future imprese felicemente auguravano. Pareva loro che a chi aveva superato il San Bernardo, ogni cosa avesse a riuscire facile e piana. Intanto le aure soavi d'Italia incominciavano a soffiare: le nevi si squagliavano, i torrenti s'ingrossavano, le morte rupi si ravvivavano e si rinverdivano. I veterani conquistatori riconoscevano quel dolce spirare; gridavano: Italia; con discorsi espressivi ai nuovi la descrivevano; nei veterani si riaccendeva, nei nuovi si accendeva un mirabile desiderio di rivederla e di vederla; l'esperienza ricordava il vero, la immaginazione il rappresentava e l'ingrandiva, le volontà diventarono efficacissime: già pareva a quegli animi forti ed invaghiti che l'Italia fosse conquistata; solo pensavano alle vittorie, non alle battaglie. La vittoria consisteva nella celerità; perciocchè quegli alpestri luoghi erano sterili, il passo del San Bernardo difficile, nè si doveva dar tempo a Melas di arrivare al piano prima che l'esercito vi arrivasse. Importava altresì che il romore già sparso della ritornata dei Franzesi non si rallentasse. Perciò il consolo si calava tostamente per la sponda della Dora, e con assalti di poca importanza dati all'antiguardo condotto da Lannes, mandato avanti a speculare il sito del paese, s'impadroniva facilmente della città d'Aosta e della terra di Chatillon. Ma un duro intoppo era per trovare nel forte di Bard, posto sopra un sasso eminente, che, come chiave, serra la strada in quella stretta gola che quivi forma, restringendosi, la valle. Il fatto pruovò che un umile sasso poteva divenire ostacolo ad una gran fortuna. Fatta la chiamata, rispose coraggiosamente il Tedesco, non voler dare la fortezza. S'avvicinarono i Franzesi; entrarono facilmente nella terra di Bard, posta sotto al forte; poi andarono all'assalto; ricevuti con ferocia, abbandonarono l'impresa. Rinnovarono parecchie volte la batteria, ma sempre con poco frutto. Si sdegnavano i capi e di una infinita pazienza si travagliavano, nel vedere che una piccola presa di gente, poichè il presidio non sommava che a quattrocento soldati, ed un'angusta roccia interrompessero il corso a tante vittorie. Già sorgevano i primi segni della penuria. Pensavano al rimedio, e nol trovavano. Batterono la rocca dalle case della terra, batterono con un cannone tirato sul campanile; ma essendo il luogo ben difeso e di macigno, non facevano frutto. Avvisarono se potessero passare continuando il forte in possessione dell'inimico. Fabbricarono con opera molto maravigliosa una nuova strada; varcarono gli uomini sicuramente, con nuovo strattagemma, varcarono le artiglierie. S'accorgeva il castellano dell'arte usata dagli avversarii, e folgorava con grandissimo favore fra il buio della notte, ma la oscurità da una parte, la celerità dall'altra furono cagione che i repubblicani patirono poco danno in questa straordinaria passata; con tutte le armi allestite e pronte si apprestavano ad inondare il piemontese dominio. Poco stante Chabran, divallatosi dal piccolo San Bernardo, costringeva alla dedizione il comandante di Bard, salvo l'avere e le persone, e con fede di non militare fino agli scambi. Mentre a questo modo il grosso dei soldati di Francia sboccava per Ivrea, non erano state oziose le genti più lontane, anzi, concorrendo dal canto loro all'adempimento del principale disegno, erano pervenute ai luoghi ordinati dal consolo. Era Bethancourt sceso dal Sempione e fattosi padrone di Domodossola. Moncey, venuto a Bellinzona, accennava a Lugano ed alle sponde del Ticino e dell'Adda. Thureau poi, più prossimamente romoreggiando alla capitale del Piemonte, era comparso a Susa, e, camminando più avanti, s'era mostrato ad Avigliana, avendo fatto una buona presa di nemici che si erano provati a serrargli il passo dall'erto ed eminente sito sul quale stava, prima della guerra, fondata la fortezza inespugnabile della Brunetta. Tale tempesta da tutte parti sovrastava per l'invitto pensiero del consolo a quel tratto di paese che si comprende fra la Dora Riparia e l'Adda. Ma il principale sforzo sorgeva da Ivrea. Ordito pertanto il suo disegno, lo mandava ad esecuzione. Temendo gli Austriaci di Torino, avevano accostato un antiguardo al ponte della Chiusella, a dirittura del quale avevano piantato quattro bocche da fuoco, per non lasciar guadagnare questo passo al nemico. Essendo questo ponte molto stretto e lungo, dura impresa era il superarlo. Avvicinatosi Lannes, ordinava ai più valorosi il passassero velocemente. Fecerne pruova; ma i cannoni tedeschi fulminarono sì furiosamente a scaglia, e dai fianchi i feritori leggieri tempestarono con sì fatta grandine, che i Franzesi tornarono indietro laceri e sanguinosi. Nuovamente cimentatisi, nuovamente perdevano. Rinnovò due altre volte la pruova Lannes, e due altre volte ne uscì con la peggio. Ostinavasi, ma non aveva rimedio. Pavetti allora, che ottimamente conosceva i luoghi, perchè la battaglia si commetteva quasi sotto alle mura di Romano, sua patria, fece accorto il generale di Francia che a sinistra del ponte era un passo facilmente guadoso. Guadò con felice ardimento il fiume: si mostrava improvviso sulla destra del nemico, che costretto a dar indietro, lasciò libero il ponte. Nè miglior esito ebbe uno sforzo fatto da Keim con la cavalleria, nel piano che si frappone tra Romano e i colli di Montalenghe; onde fu aperta la strada a Lannes sino a Chivasso, dove trovò conserve considerabili di vettovaglie, opportuno ristoro alle sue stanche genti. Avendo conseguito Lannes l'intento di far correre Melas a Torino, volgeva improvvisamente le insegne a mano manca, e camminava con passo accelerato a seconda della sinistra del Po alla volta di Pavia. Tutto lo sforzo dei Franzesi accennava a Milano. Marciavano Murat, Boudet e Victor contro Vercelli; marciava sull'istessa fronte più basso Lannes e superiormente spazzava il paese la legione italiana di Lecchi, che da Chatillon di Aosta per la via di Grassoney camminando, era venuta a Varallo, poi ad Orta, donde aveva cacciato il principe di Loano, che vi stava a presidio con una mano di Tedeschi. Tutta questa fronte di un esercito bellicoso, spingendosi avanti, guadagnava Vercelli, dove passava la Sesia; poi contrastava invano Laudon che era accorso, entrava in Novara e si apprestava a varcar il Ticino. L'ala sinistra intanto ingrossava per essersi Lecchi congiunto a Sesto Calende con Bethancourt disceso da Domodossola. Laudon, postosi a Turbigo, intendeva ad impedire il passo del fiume; ma Murat, che guidava l'antiguardo, dato di mano a certe barche lasciate a Galiate, guadagnava la sinistra sponda, e cacciava da Turbigo, non senza però qualche difficoltà, il generale tedesco. Al tempo medesimo la sinistra ala si rinforzava vieppiù per la giunta delle genti di Moncey, che venute sui laghi di Lugano e di Como, avevano incontrato Lecchi a Varese. Per queste mosse ottimamente eseguite come erano state ottimamente ordinate, già era la capitale della Lombardia posta in potestà dei Franzesi. Entrava in Milano il dì 2 di giugno con le più elette schiere Buonaparte vincitore. Non siam per raccontare le allegrezze che vi si fecero, perchè nelle rivoluzioni il governo ultimo è sempre stimato il peggiore, il nuovo il migliore. Riordinava Buonaparte la Cisalpina repubblica. Volle che i riti della religione cattolica pubblicamente si celebrassero e la religione si rispettasse, e chi il contrario facesse severamente, anche con la pena di morte se il caso lo richiedesse, fosse punito; che fossero salve le proprietà di tutti; che i fuorusciti rientrassero, che i sequestri si levassero, che le cedole si abolissero e valor di moneta più non avessero. Lasciati in Milano questi fondamenti della sua potenza, applicava di nuovo i pensieri alla guerra, che quantunque bene principiata fosse, non era ancora terminata. Melas sulla destra del Po si conservava tuttavia intiero, nè sapeva il consolo ancora che Massena fosse stato costretto a cedere in Genova alla fortuna dei confederati. Per questo motivo, credendosi più sicuro di quanto egli era veramente, aveva fatto correre da' suoi il Lodigiano, il Cremonese, il Bergamasco, il Cremasco; poi suo intento era di passare subitamente il Po; ed in questo modo mozzare a Melas ogni strada al ritirarsi. Lannes frattanto, per una subita correria, aveva preso Pavia: trovovvi munizioni abbondanti da bocca, e quantità considerabile d'armi. Melas, che, per la perdita di Milano, aveva conosciuto quanto la sua condizione fosse pericolosa ed il nemico forte, avvisandosi che il suo scampo non poteva più venire se non da una battaglia risoluta e da una vittoria piena, voleva tirar la guerra nei contorni di Alessandria, per cagione dell'appoggio che quivi aveva della cittadella e del forte di Tortona. Venuto adunque in Alessandria, chiamava a sè Esnitz, mandava Otto a Piacenza, affinchè s'ingegnasse d'impedire il passo del fiume ai Franzesi. Ma Murat fu più presto di Otto; passava e s'impadroniva di Piacenza. Al medesimo punto Lannes varcava a Stradella e si poneva a campo a San Cipriano. Otto ritirava i suoi a Casteggio ed a Montebello. Combattessi in questi due luoghi il dì 9 giugno una battaglia asprissima, segno ed augurio di un'altra assai più aspra, più famosa e più piena di futuri accidenti. Urtarono i Franzesi condotti da Watrin con grandissimo impeto i Tedeschi, fu loro risposto con uguale costanza; vario fu per molte ore l'evento. Finalmente gl'imperiali restarono superiori per opera massimamente della cavalleria. Watrin si ritirava rotto e sanguinoso, e sarebbe stata perduta la battaglia pei Franzesi, se non fossero sopraggiunti battendo i generali Chambarlhac e Rivaud, quindi lo stesso Lannes con una grossa squadra di buoni soldati, ch'entrando impetuosamente, come sempre soleva, nella battaglia, sforzava il nemico a piegare, e cacciandolo del tutto da Casteggio, l'obbligava a ritirarsi a Montebello. Quivi Otto più fiero di prima rinnovava la battaglia, e faceva di nuovo le sorti dubbie; che anzi le sue già principiavano a prevalere, quando Buonaparte, che era sopraggiunto, ordinava a Victor caricasse con sei battaglioni la mezzana schiera del nemico. In questo punto divenne furiosissimo l'incontro. Durò un pezzo il combattimento di fuoco e di ferro. All'ultimo arrivarono sugli estremi del campo i generali Geney e Rivaud, e fecero inclinare la fortuna in favore di Francia, perchè per le mosse loro si trovava Otto quasi circondato da ogni banda. Si ritirava in Voghera. Questa fu la battaglia di Casteggio che durò dalle sei della mattina fino alle otto della sera. Superata l'asprezza delle Alpi con arte e costanza, corsa la Lombardia con prestezza, fatto risorgere il nome di Cisalpina in Milano, sollevati a gran cose gli animi dei popoli con una impresa inusitata, restava che per una determinativa battaglia i presi augurii si adempissero, e si confermasse in Buonaparte il supremo seggio di Francia e l'imperio assoluto d'Italia. Assai presto fu l'acquisto di questo paese fatto da Kray, Suwarow e Melas; restava che si vedesse se il capitano di Francia non fosse abile a riconquistarlo più presto ancora. Aveva Melas, come abbiamo narrato, raccolti i suoi nel forte alloggiamento tra la Bormida ed il Tanaro sotto le mura di Alessandria. Grosso di circa quaranta mila soldati, fornitissimo di artiglieria, fiorito di cavallerie sceltissime, provvisto di veterani, era molto abile a combattere di tante sorti. Nè mancava in lui l'ardire o l'arte, nè la memoria delle recenti vittorie. Sapeva altresì di quanto momento fosse la battaglia che soprastava. Dall'altra parte il consolo combatteva su quelle italiche terre, già piene di tanta sua gloria; i suoi ufficiali, giovani, confidenti e valorosi, con incredibile ardimento andavano al confermare i gloriosi destini di Francia; i soldati, alcuni veterani, molti nuovi, non avevano tanto uso di battaglie quanto i Tedeschi, ma l'ardore e la confidenza supplivano a quanto mancasse nell'esperienza. Di numero erano inferiori agli avversarii, e di cavallerie e di artiglierie. Giravano adunque assai dubbie le sorti. Il dì 14 giugno alle cinque della mattina, Melas varcava, fulminando l'augurosa Bormida. Esnitz coi fanti leggieri e col maggior nervo delle cavallerie, movendosi a sinistra degl'imperiali, marciava contro castel Ceriolo per la strada che porta a Sale, perchè intento del generalissimo austriaco era di riuscire alle spalle dei Franzesi da quella parte per tagliargli fuori da Pavia e da Tortona, donde avevano corrispondenza con le altre loro genti alloggiate sulla sponda sinistra del Po. Keim coi soldati di più grave armatura muoveva l'armi contro il villaggio di Marengo, per cui passa la strada per Tortona; quest'era la schiera di mezzo. Una terza, che era la destra, sotto la condotta di Haddick, con un grosso di granatieri ungari guidati da Otto, doveva fare sforzo, seguitando la destra sponda della Bormida all'insù, per riuscire a Fregarolo, e consentire verso Tortona con la mezzana. Si prevedeva, e quest'era il pensiero delle due parti, che si sarebbe conteso massimamente della possessione di Marengo, perchè quello era il sito, alla conservazion del quale indirizzavano i Franzesi tutti i loro movimenti. Precedeva le camminanti squadre d'Austria un apparato formidabile di artiglierie, che, furiosamente tuonando, significavano quanto duro e quanto micidiale fosse per essere l'incontro. A tanto impeto non erano i Franzesi pari in quel primo tempo della battaglia, perchè Monnier si trovava lontano a destra, Desaix a sinistra. Adunque tutte le difese loro consistevano nella schiere di Victor, che occupava assai grossa Marengo, ed in quella di Lannes, che aveva la sua sede a destra della strada di Tortona. A queste genti si aggiungevano circa novecento soldati della guardia del consolo, i cavalli condotti dal giovane Kellermann, quei di Champeaux, e finalmente quelli di cui aveva il governo Murat: i primi facevano spalla ai fanti di Victor, i secondi a quei di Lannes, ed in ultimo i terzi, posti sulla punta estrema a destra di tutta la fronte, custodivano la strada che accenna a Sale. Così l'ordinanza dei Franzesi, partendo dalla Bormida, e da lei scostandosi obbliquamente, e passando per Marengo, si distendeva sin verso a Castel-Ceriolo. Keim incontrava Gardanne mandato da Victor a Pietrabuona, piccolo luogo posto tra Marengo e la Bormida, e con una forza prepotente lo prostrava. Si ritiravano disordinatamente le reliquie verso Marengo. Sarebbero anche state intieramente circondate e prese se Victor non avesse tosto mandato Chamberlhac a riscattarle. Vennero avanti i Tedeschi ed ingaggiarono con Victor una battaglia orribile: commiservi ambe le parti fatti di stupendo valore. Piegò finalmente la fortuna in favor di coloro che avevano più numerose genti e più fiorite artiglierie: entrava vittoriosamente Keim in Marengo. Non per questo si era Victor disordinato; che anzi grosso, intiero e minaccioso novellamente si schierava dietro Marengo. Venne a congiungersi a lui sulla destra sua punta Lannes, il che fece rinfrescare la battaglia più feroce di prima. S'attaccò Keim con Lannes, Haddich con Victor, e chi considererà la natura sì di quei generali che di quei soldati, si persuaderà facilmente che mai in nissuna battaglia sia stato speso più valore e maggior arte che in questa. Secondava potentemente l'urto di Lannes contro Keim Champeaux co' suoi cavalli, nella quale mischia gravemente ferito passò di questa vita alcuni giorni dopo. Kellermann con la sua squadra aiutava anche efficacemente Victor, cariche a cariche continuamente aggiungendo e moltiplicando. Ciò non ostante, Victor, per essere entrato nella battaglia il primo, e per avere Gardanne molto patito nell'affronto di Pietrabuona, stanco e diradato cedè finalmente il luogo e si ritirò, quanto più potè prestamente e non senza qualche moto disordinato, a San Giuliano. Lannes allora, nudato sul suo sinistro fianco dell'appoggio di Victor, fu costretto rinculare ancor esso; il che diede cagione a Keim di guadagnare vieppiù del campo e di credersi sicuramente in possessione della vittoria. Frattanto Esnitz coi fanti leggieri aveva occupato castel Ceriolo, e coi cavalli si andava allargando col pensiero di mostrarsi alle spalle delle due schiere repubblicane che indietreggiavano; il quale disegno se avesse avuto effetto, dava senza dubbio alcuno la vittoria agl'imperiali. Solo rimedio a tanto pericolo aveva il consolo nei novecento soldati della sua guardia e nei cavalli di Murat, certamente non capaci a far fronte alla numerosa cavalleria d'Esnitz. Mandava adunque avanti i novecento. L'Alemanno, quantunque gli avesse circondati da ogni banda, non li potè mai rompere, o che egli non abbia fatto tutto quello che poteva, o che i novecento abbiano fatto più di quello che potevano. Questa mollezza o errore di Esnitz e questo valore dei consolari diedero comodità a Monnier di arrivare da Castel Nuovo, donde, chiamato dal consolo veniva, a prestissimi passi. S'incontrava egli arrivando con le genti di Esnitz; sebbene elleno da tutte le parti il circondassero, si aperse una strada, aiutato gagliardamente dai consolari. Il generale Cara-San-Cyr, cacciati i Tirolesi da Castel-Ceriolo, se ne faceva padrone, e tostamente con tagliate e barricate vi si affortificava. Dievvi dentro Esnitz per ricuperarlo, e non gli venne fatto; pure la fortuna li favoriva, perchè aveva in questo punto obbligato alla ritirata i consolari e l'altra parte dei soldati di Monnier. Ma, invece di seguitare alla dilunga i cedenti, si ostinava all'acquisto di Castel-Ceriolo. Cara-San-Cyr sempre il respinse, e tanto il tenne lontano, che ora Cara-San-Cyr fu salvamento de' suoi, come prima erano stati i novecento; questi diedero tempo a Monnier di arrivare, egli il diede a Desaix. Melas in questo, volendo usare l'occasione favorevole che la fortuna gli parava davanti, aveva spinto innanzi la sua ala destra, massimamente i cinque mila Ungari, affinchè andassero a disfare quella nuova testa che i Franzesi mostravano di voler fare a San Giuliano. Pareva che a questo effetto bastassero Keim vincitore ed Esnitz mezzo vinto e mezzo vincitore. Ma, per assicurarsi meglio del fatto, e per provvedere ai casi dubbii che Desaix, arrivando, avrebbe potuto arrecare, mandava di lungo spazio avanti i cinque mila, dei quali, come di corpo autore di vittoria, aveva preso il governo Zach, quartiermastro di tutto il campo austriaco. Erano le cinque della sera; già da più di dieci ore si combatteva: gli Austriaci vincitori si rallegravano; tenue speranza e solo in Desaix rimaneva ai Franzesi. Il consolo stesso, che aveva concepito il mirabile disegno di questa seconda invasione d'Italia, stava perplesso. Mentre fra molto timore e poca speranza si esitava, ecco arrivare al consolo le novelle che la prima fronte della deseziana schiera compariva a San Giuliano. Determinavasi subitamente; altro uomo ch'egli, in fortuna quasi disperata com'era quella in cui si trovava, si sarebbe servito della forza che arrivava solamente per appoggio della ritirata. Ma l'audace consolo la volle usare per rinnovar la battaglia e per vincere. Metteva l'esercito in nuova ordinanza per modo che da Castel-Ceriolo obbliquamente distendendosi sino a San Giuliano, alloggiava Cara-San-Cyr sul luogo estremo a destra, poi a sinistra verso San Giuliano procedendo, Monnier, quindi Lannes, poi finalmente in quest'ultima terra a cavallo della strada per Tortona Desaix. I cavalli di Kellerman a fronte, e fra Desaix e Lannes avevano il campo. Non avendo fatto Esnitz co' suoi fanti e cavalleggieri contro l'ala destra de' Franzesi quell'opera gagliarda e quel frutto che Melas aspettava da lui, aveva il generalissimo d'Austria mandato i cinque mila Ungari condotti da Zach control l'ala sinistra, sperando che questo nodo di genti fortissime l'avrebbero potuta rompere e tagliarle la strada verso Tortona. La colonna di cinque mila, in cui si conteneva tutto il destino della giornata, in sè medesima ristretta, baldanzosamente marciava contro i Deseziani. Desaix, lasciatala approssimare senza trarre, quando arrivò a tiro, la fulminava con le artiglierie che Marmont aveva collocato sulla fronte, poi scagliava contro di lei tutti i suoi. A quel duro rincalzo attoniti sulle prime si fermarono gli Ungari: poi, ripreso nuovo animo, qual mole grossa ed insuperabile, marciavano. Nè le genti franzesi, siccome più leggieri, quantunque tutto all'intorno vi si affaticassero, li poterono arrestare. Era questo un caso simile a quello di Fortenoy. Desaix, che punto non si era sbigottito a quel pericolo, postosi a fronte de' suoi, stava sopravvedendo il paese per iscoprire se gli accidenti del terreno gli potessero offrire qualche vantaggio, quando ferito in mezzo al petto da una palla di archibuso, si trovò in fine di morte. Sottentrava al governo, invece di Desaix, Boudet. Non si perdè questi d'animo per sì amaro caso, non si perdettero di animo i suoi soldati; che, anzi stimolando quegli uomini già di per sè stessi valorosi il desiderio di vendetta, con incredibile furia si gettarono addosso ai cinque mila. Nè gli Ungari cedevano: era un combattere asprissimo e mortalissimo. Già piegavano i repubblicani, disperate parevano le sorti; volle la fortuna che la salute di Francia nascesse prossimamente dall'estrema rovina. Era Kellermann, destinato al gran riscatto. Effettivamente, mentre Boudet instava ancora da fronte, quantunque rinculasse, Kellermann dal consolo commesso, assaltava con tutto il pondo de' suoi cavalli il sinistro fianco dell'ungara mole, e siccome quella era spartita in manipoli, tra l'uno e l'altro ficcandosi, totalmente la disordinava. Snodata, perduti gli ordini tra sè medesima e coi Franzesi intricata e ravviluppata, non le restava più nè disegno nè modo di difendersi. Laonde, insistendo sempre più valorosamente contro di essa Kellermann e tornando alla carica Boudet rianimato dal favorevole caso, fu costretta a darsi intiera, deposte le armi, al vincitore. Così quello che non avevano potuto fare nè le fanterie nè le artiglierie fecero le cavallerie, al contrario di quanto successe in Fontenoy, dove le artiglierie fecero quello che le fanterie e le cavallerie non avevano potuto fare. Il sinistro caso degli Ungari fe' superar del tutto la fortuna de' Franzesi; perchè, spingendosi avanti, si serrarono addosso ai nemici privi di quel principale sostegno, e li costrinsero alla ritirata, con grave sbaraglio ed uccisione. Pensò tostamente Melas a far dare il segno della raccolta per andarsi a ritirare vinto là dond'era la mattina partito con tanta speranza di vincere: solo fece una testa grossa a Marengo per dar tempo alle ritirantesi squadre di arrivare. Ricoverossi oltre la Bormida: riassunsero i Franzesi gli alloggiamenti che avevano occupati prima della battaglia. A questa battaglia, che cambiò le sorti d'Europa, e la fece andare pel medesimo verso per quattordici anni, principali operatori della vittoria furono Cara-San-Cyr per aver preso e conservato Castel Ceriolo, Victor per avere fortemente combattuto a Marengo contro Keim, Boudet per aver opposto un duro intoppo alla mole ungara, finalmente, e soprattutto, quell'accorto e prode Kellermann, che, usando il momento opportuno, non dubitò di dar dentro co' suoi cavalli a quella massa intera e grave che solo col peso pareva che fosse per prostrare quanto le si parasse davanti. Si rallegravano i compagni del glorioso fatto con lui, ma, venuto in cospetto del consolo, questi con la solita aria di sussiego e superiorità parlando, nè informandosi punto di quanto era successo, gli disse: _Avete dato anzi una bella carica che no_. Sdegnato il giovane guerriero, rispose: _Bene godo che la prezziate, giacchè vi mette la corona in capo_. Il consolo, che non amava l'essere scoperto prima che si scoprisse egli, l'ebbe per male, e sempre dimostrò l'animo alieno dal figliuolo del maresciallo. Rimaneva ancora dopo la battaglia al generalissimo d'Austria forza bastante a resistere lungo tempo nel forte sito in cui si era riparato. Ma o che il terrore concetto per la recente rotta o l'arti di Buonaparte, che continuamente protestava voler aderire ai patti di Campoformio, e ridurre i paesi dipendenti da lui a forma di governo più tollerabile e meno minacciosa pei principi, sel facessero, non si mostrò renitente, e chiese i patti. Furono gloriosi per la Francia, stupendi per l'Europa. Sospendessersi fino a risposta da Vienna le offese; l'imperiale esercito se ne gisse a stanziare tra il Mincio, la Fossa Maestra ed il Po; occupasse Peschiera, Mantova, Borgoforte, e sulla destra del fiume Ferrara; medesimamente ritenesse la possessione della Toscana: il repubblicano possedesse il paese fra la Chiesa, l'Oglio e il Po; il tratto tra la Chiesa ed il Mincio fosse esente dai soldati d'ambe le parti; le fortezze di Tortona, di Alessandria, di Milano, di Torino, di Pizzighettone, d'Arona e di Piacenza si consegnassero ai repubblicani; Cuneo ancora, i castelli di Ceva e di Savona, Genova ed il forte Urbano cedessero in loro possessione: niuno per opinioni dimostrate o per servigi fatti agli Austriaci potesse essere riconosciuto o molestato; i Cisalpini carcerati per opinioni politiche si rimettessero in libertà; qual fosse la risposta di Vienna, le ostilità, se non dopo avviso di dieci giorni, non si potessero ricominciare; durante la tregua niuna delle parti potesse mandar gente in Germania. Tali furono i patti conclusi in Alessandria. La tregua, prolungata più volte di comune consenso di dieci in dieci giorni, fu finalmente per nuova ed espressa convenzione accordata fino al 23 novembre. Buonaparte, vincitore di Marengo, aveva in sua mano le sorti d'Europa liete o tristi, la pace o la guerra, la civiltà o la barbarie, la libertà o la servitù dei popoli: gloria civile l'aspettava uguale alla guerriera; ma l'ultima ed un desio fiero ed indomabile di comandare non lasciarono luogo alla prima. Fu ricevuto a Milano qual trionfatore. Il chiamavano uomo unico, eroe straordinario, modello impareggiabile, con tutte quelle altre lodi che l'adulazione meglio sapeva inventare; con pari adulazione rispondeva Francia. Parlò a Milano molto di pace, molto di religione, molto di lettere, molto di scienze. Creovvi una consulta, una commissione di governo. V'aggiunse un ministro straordinario di Francia, chiamando a questa carica un Petiet, ch'era stato ministro di guerra ai tempi del direttorio. Riapriva l'università di Pavia stata chiusa; ordinava stipendii onorevoli ai professori; vi chiamava i più riputati, i più dotti, i più virtuosi uomini. Fiorì vieppiù per questi ordini l'università; pareva rinascessero i tempi di Giuseppe; ma il dominio militare, in cui si viveva, avvertiva i popoli che l'età era diversa. Non accarezzava più gli amatori ardenti di rivoluzioni, anzi da sè gli allontanava; chiamava a sè coloro che erano in voce di aristocrati, purchè fossero di natura moderata e ricchi e di buona fama. Melzi, Aldini, Birago, il dottor Moscati, Scarpa, il vescovo di Pavia, Gregorio Fontana, Marescalchi, Mascheroni molto volontieri vedeva. Del resto, quantunque il procedere paresse più civile, e le sembianze più oneste, il prendere e il dilapidare era lo stesso; ricominciò la Cisalpina a travagliare del male antico. Riordinata la Cisalpina, se ne tornava il consolo in Francia. Passò, per Torino; alloggiò in cittadella; non si lasciò vedere, non volendo lasciarsi tirare alle promesse per rispetto di Paolo, che sempre favoriva il re. Anzi fu certo che, sebbene avesse l'animo molto alieno, aveva nondimeno, dopo la battaglia di Marengo, offerto l'antico seggio a Carlo Emmanuele, purchè nuovamente rinunziasse alla Savoia ed alla contea di Nizza. Tornò altresì sull'antico pensiero, per potersi serbar il Piemonte, che appetiva con grandissimo desiderio, di dare al re la Cisalpina, sì veramente che rinunziasse al Piemonte. Le quali proposte non furono accettate dal principe, parte per motivi di religione, parte per non voler concludere senza il consentimento dei suoi alleati, di Paolo massimamente e dell'Inghilterra; nè pur volendo dar appicco all'Austria, nel caso che le cose di Francia nuovamente sinistrassero, acciocchè ella s'impadronisse del Piemonte. Non ostante le proferte ed i negoziati, creava in Piemonte, come in Cisalpina, non per terminare, ma per minacciare, una consulta ed una commissione di governo, a cui chiamò molti uomini riputati per dottrina e per pacatezza d'opinione. Creava ministro straordinario presso a questo governo prima il generale Dupont, poi, per riconoscere i meriti del vincitore di Fleurus, Jourdan. Era a questo tempo l'aspetto del Piemonte oltre ogni dire miserabile: una estrema carestia, un rapir di soldati lo avevano messo in estrema penuria. I Piemontesi non sapevano più nè che cosa sperare, nè che cosa temere, nè che cosa desiderare. I biglietti di credito, che sempre più scapitavano, lunga e luttuosa peste del paese, avevano posto in confusione tutti gli averi. Penò molto la consulta, quantunque in lei abbondassero gli avvocati dotti e sottili, ad assestar questa faccenda, e quando si assestò, nissuno contento, ancorchè la legge fosse giusta. Questa fu gran radice di mali umori. Nè gran momento di sventura non recava il peso gravissimo del dover mantenere i soldati di Francia, sì quelli che passavano, come quelli che stanziavano: peso da non poter esser portato dalle finanze piemontesi. S'aggiungevano i comandamenti fantastici; perchè ora si voleva che una fortezza piemontese si demolisse a spese del Piemonte, ed ora che la medesima si riattasse: ora s'addomandavano i piombi della cupola di Superga, il che, prima cosa, avrebbe fatto rovinar l'edifizio per le acque, ed ora si voleva che si demolissero i bastioni che sopportano il giardino del re, opera inutile, perchè la città era già tutto all'intorno smantellata. Se non era la costanza di chi governava ad opporvisi, Superga ed il giardino, gradito passeggio dei Torinesi, perivano. Chi domandava denari pel vivere dei soldati, chi pel vestito, chi per gli ospedali, chi per le artiglierie, chi pei passi, chi per le stanze; erano le richieste capricciose, i consumi eccessivi, le finanze impotenti; ogni cosa in travaglio e confusione. Altri tormenti, oltre i raccontati, travagliavano i Piemontesi e rendevano impossibile ogni buon governo; questi erano l'incertezza delle sorti future. Sorgevano e s'inviperivano le sette. Chi voleva essere Franzese, chi Italiano, chi Piemontese. Gli amici si odiavano, i nemici si accordavano, nessun nervo di opinione. Accrebbe l'incertezza ed i mali umori un atto del consolo, con cui diede il Novarese sì alto che basso alla Cisalpina. La sinistra novella sollevò gli animi maravigliosamente in Piemonte, perchè si pensò che Buonaparte volesse restituire il rimanente al re. Il governo protestò: il consolo, che sapeva ciò che si faceva, si maravigliava che si temesse, che si protestasse. Pure non si scopriva; i timori, le sette e le angustie del governo crescevano. Era segno il Piemonte ad ogni più fiera tempesta. Fra sì funesta intemperie, ebbe il governo che allora, sotto nome di commissione esecutiva, surrogata alla commissione di governo, era composto di Bossi, Botta e Giulio, un consolativo pensiero, e questo fu di stanziar beni di una valuta di cinquecento mila franchi all'anno a benefizio dell'università degli studii, dell'accademia delle scienze, del collegio e di altre dipendenze, ordine veramente benefico e magnifico, di cui solo si trovano modelli negli Stati Uniti d'America per munificenza del congresso, com'erano in Polonia per munificenza dell'imperatore Alessandro. Fu questo conforto piccolo pei tempi, perchè le disgrazie sormontavano. Continuossi a vivere disordinatamente, discordemente, servilmente, famelicamente in Piemonte, finchè venne il destro a Buonaparte d'incamminarlo a più certo destino. Le sorti di Genova erano del pari infelici, parte pei medesimi motivi, parte per diversi. Per la capitolazione d'Alessandria, abbandonava Hohenzollern Genova, non senza aver prima, per comandamento di Melas, esatto dai sessanta negozianti più ricchi un milione, come diceva, in presto ad uso dei soldati. I Franzesi, condotti da Suchet, entrarono nella desolata città il dì 24 giugno. Quante sventure e quanti dolori abbiano in sè queste frequenti mutazioni di dominio, ciascuno può giudicare. Trattaronla i Franzesi duramente, come se fosse sana ed intera. Il consolo, come in Cisalpina ed in Piemonte, creava una commissione di governo con tutte le potestà, salvo la giudiziale e la legislativa; creava una consulta colla potestà legislativa; creava finalmente presso il governo ligure un ministro straordinario, chiamandovi il generale Dejean. Nella presa del magistrato sorsero le solite adulazioni, maggiori però da parte del ministro straordinario che del governo. Più certo e più chiaro era il destino di Genova che quel di Piemonte; perciocchè la Francia prometteva independenza. Ciò fu cagione che fosse maggior forza nel governo ligure che nel piemontese, e che le parti avverse meno si ardissero di contrastargli. Erano quei della commissione di governo uomini pacifici e dabbene. Pure, mossi dalle grida dei democrati, stanziarono una legge d'indennità, della quale il minor male che si possa dire è, ch'era contraria ai capitoli d'Alessandria. Si risarcissero dai briganti e nemici della patria (così chiamavano i fautori dell'antico stato) i danni ai danneggiati; se non avessero di che risarcire, risarcissero per loro i comuni; radice pericolosa era questa di enormi arbitrii. Con questi accidenti si viveva il governo povero, obbligato a sopperire allo Stato ed ai soldati forestieri: Keit dominava i mari e serrava i porti; Genova, sempre in servitù o periva di fame o periva per ferro; contristava vieppiù la città, venuta a crudeli strette per la forza, la malattia pestilenziale che, non che cessasse, montava al colmo. Due mila perirono in un mese. Brevemente, le condizioni dei tre Stati contermini era questa; in Piemonte fame, peste di carta pecuniaria, incertezza di avvenire; in Cisalpina abbondanza di viveri, erario sufficiente, maggiore speranza, se non di stato libero, almeno di stato nuovo; in Genova fame, peste e povertà d'erario. Nel resto, in tutti tre servitù; i governi, fattori di Francia. Sospinti dalle gravi combinazioni della guerra italica, non si è fatto fin qui menzione d'un fatto importantissimo, e che avrà non meno importanti conseguenze. I cardinali, già adunati, come si è detto, in conclave a Venezia per intendere alla elezione del successore a Pio VI, nel dì 13 marzo del presente anno assunsero al pontificato il cardinale Gregorio Barnaba Chiaramonti, vescovo d'Imola, che sotto il nome di Pio VII fu, nel giorno 21 di detto mese, incoronato nella chiesa di San Giorgio Maggiore di quell'unica città. Così la fortuna preparava a Buonaparte il più efficace fondamento che potesse desiderare a' suoi disegni, fondamento più potente delle armi, più potente della fama; poichè il consolo confidava di ridurlo ai suoi pensieri con accarezzar la religione. Ciò produsse effetti di grandissima importanza. Ricevettero i Romani con molte dimostrazioni di allegrezza le novelle della creazione del pontefice. Erano in servitù dei Napolitani: speravano che il signore proprio avesse a liberarli dal signore alieno. Partiva papa Pio il dì 9 di giugno da Venezia e dopo travagliosa navigazione arrivava ai 25 a Pesaro. Mandati avanti con suprema autorità per ricevere lo Stato dagli agenti del re Ferdinando e per dare qualche assetto alle cose sconvolte, i cardinali Albani, Roverella e della Somaglia, entrava in Roma il terzo giorno di luglio in mezzo alle consuete allegrezze dei Romani. Provvide alla Chiesa con la creazione di nuovi pastori, allo Stato con quella di nuovi magistrati; ridusse ogni cosa, quanto possibil fosse, alla forma antica. Fu mansueto l'ingresso, mansueto il possesso; i partigiani della repubblica salvi. Stanziò che i beni venduti al tempo del dominio franzese alla camera apostolica tornassero, salvo il rimborso del quarto, ai possessori. Nè molto tempo corse che, volendo provvedere dall'un de' lati alla camera, dall'altro all'interesse dei comuni e dei particolari, tolse alcune tasse, ne pose di nuove. Volle che i comuni si liberassero dai debiti, sulla camera pontificia trasferendoli, salvo i debiti contratti per l'annona e gl'interessi corsi dei debiti anteriori; liberava i comuni dai luoghi di monte, sullo Stato investendogli, ma al tempo medesimo statuiva che, finchè l'erario non fosse ristorato, solo i due quinti dei frutti dei monti si pagassero. Comandava che i quattro quinti si corrispondessero ai possessori dei monti vacabili, e che i luoghi di monte sì perpetui che vacabili fossero esenti da ogni qualunque tassa o contribuzione. Aboliva le gabelle privilegiate, quali quelle dei bargelli, del bollo estinto, dei cavalli morti, o le trasferiva a benefizio dei comuni. L'opera poi delle contribuzioni indirizzava a più generale ed uniforme condizione: creava due tasse, abolito ogni privilegio e consuetudine antica che fosse contraria. Chiamò l'una reale e l'altra dativa. Quattro erano le parti della prima; un terratico di paoli sei per ogni centinaio di scudi d'estimo pei fondi rustici, una imposizione di due paoli per ogni centinaio di scudi di valuta sui palazzi e case urbane, un balzello di scudi cinque sui cambii per ogni centinaio di frutti, una contribuzione di valimento, che doveva sommare alla sesta parte di tutte le rendite dei capitali naturali e civili, rustici ed urbani sopra coloro che consumassero le loro rendite fuori di Stato. La dativa consisteva nella gabella del sale sforzato, in quella della mulenda o macinato, ed in quella di tre paoli per ogni barile di vino che s'introducesse in Roma, salva la esenzione pei padri di dodici figliuoli e pei religiosi mendicanti. Buoni ordini furono questi, fatti anche migliori dal benefizio di aver cassa del tutto la carta pecuniaria. Non omise il consolo di considerare le romane cose. Prevedeva che come la pace coi re era per lui grande mezzo di potenza, così maggiore sarebbe la pace con la Chiesa. Quando poi seppe che il cardinale Chiaramonti era stato esaltato al supremo seggio, concepì maggiori speranze, perchè il conosceva fornito di pietà sincera, e però più facile ad essere tirato. Era gran cosa quella che veniva offerendo il consolo, perchè il ristorare la religione cattolica in Francia importava non solamente la restituzione di un gran reame alla santa Sede, ma ancora la conservazione pura ed intatta degli altri; conciossiachè non era da dubitare che se la Francia avesse perseverato nell'andare sviata in materia di religione, anche gli altri paesi sarebbero stati, o tardi o tosto, contaminati dall'esempio. Per la qual cosa papa Pio VII prestava benigne orecchie a quanto il consolo gli mandava dicendo. Adunque, tentati prima gli animi da una parte e dall'ultra, si venne poscia alle strette del negoziare, e finalmente alla conclusione, come sarà a suo luogo raccontato. Buonaparte dominava la terra, Nelson il mare. Dopo la vittoria di Aboukir, comparve questi colla vincitrice armata davanti a Malta, già bloccata, e tolse, se alcuna ancor restava, ogni speranza di redenzione ai Franzesi assediati. Fece più volte, ma invano Nelson, la chiamata a Vaubois, che la comandava. Incominciava a patire maravigliosamente di vitto, d'abiti, di denaro; le malattie si moltiplicavano. Non per questo rimetteva Vaubois della solita costanza, nè allentava la diligenza delle difese. Per provvedere ai cambii, costrinse i principali isolani a dargli carte d'obbligo da scontarsi in Francia alla pace generale, e con queste pagava i soldati. Per vestirli, si fe' dare tele e drappi; per pascerli, farine; spianava pane, obbligava gl'isolani a venir levare le farine da lui, moltiplicava i conigli ed il pollame, per modo che molto tempo bastarono. Infieriva lo scorbuto; il combattevano col coltivare a molta cura nei luoghi più acconci gli ortaggi. Un Nicolò Isvard di Malta, maestro di musica, componeva opere, e recitavano, e cantavano, e ballavano. Pure la fame pressava. Provavasi il governatore a mandar in Francia per soccorso il Guglielmo Tell; ma i vigilanti e lesti Inglesi se lo pigliarono. Stava attento, e provvedeva con mirabile accortezza a tutti gli accidenti. Fecero i Maltesi di fuori congiure con quei di dentro: Vaubois le scopriva; davano assalti, e li risospingeva; pruove mirabili di chi si moriva di fame e di morbo. In cospetto degli assediati, tre navi tolonesi, cariche di tre mila soldati e di munizioni sì da bocca che da guerra, venivano in potere di Nelson. Ogni giorno, anzi ogni ora, la fame cresceva. Mandava fuori le bocche disutili; gl'Inglesi, barbaramente, come se vi fosse pericolo di vicino soccorso, le rincacciavano. Parecchi morirono di fame sotto le mura, gli altri, più morti che vivi, furono di nuovo ricettati dai Franzesi. Prevedeva Vaubois avvicinarsi l'ultima fine. La fame sopravanzò il valore. Vennesi a resa, ma onorevole, il dì 5 settembre. Mentre l'Inghilterra, che già per la possessione di Gibilterra aveva la chiave del Mediterraneo, si sforzava di acquistarvi una stanza sicura con l'espugnazione di Malta, ordinavano concordemente la Russia e la Porta Ottomana le condizioni delle possessioni ioniche. A questo modo le veneziane isole arrivarono, in mezzo a tante guerre, ad una condizione non solo tollerabile, ma buona, ed in lei vissero parecchi anni assai felicemente; vennero poi nuove guerre e nuove ambizioni nuovamente a turbarle. La sospensione delle ostilità non rallentava gli apparecchi di guerra nè dall'una parte nè dall'altra. Buonaparte, che, mentre si combatteva in Germania ed in Italia, non aveva mai intermesso di ordinar nuove genti, ne aveva già adunato un numero di non poca importanza, e le mandava ad ingrossare ora l'esercito germanico ed ora l'italico. Un grosso corpo specialmente ne aveva rannodato, il quale posto sotto la condotta di Murat, e stanziando nei contorni di Digione, accennava ad ambedue. Dal canto suo l'Austria non ometteva di levar nuovi soldati, massimamente dall'Ungheria, e gli inviava a rinforzar quelli che alloggiavano ai confini. L'esercito vinto a Marengo si conservava tuttavia intero, ed era pronto a contendere di nuovo della vittoria. Ma non piccolo fondamento alle future cose faceva la corte di Vienna sulle mosse di Toscana, che, posta pei capitoli d'Alessandria fuori del dominio franzese, e conseguentemente in quello dell'Austria, seguitava i desiderii dell'imperatore. Grande odio annidava ancora in Toscana contro i repubblicani, perchè e troppo oltre era trascorso, nè si cessava di fomentarlo. Al medesimo fine indirizzava gli animi la reggenza creata in nome del duca. Il marchese Sommariva, mandato perchè desse forma a quelle masse incomposte, le ingrossasse e le armasse, con indefessa attività attendeva a compir l'ufficio che gli era stato commesso. Quelle genti, siccome quelle che non avevano nè ubbidienza nè ordine, ed erano mosse da odio contro i repubblicani, ruppero i confini, e romoreggiando sui monti che dividono la Toscana dal Bolognese e dal Modenese, vi facevano molti insulti. Questi moti diedero qualche apprensione ai repubblicani. Per la qual cosa, usando l'occasione, non solamente richiedevano la Toscana e Sommariva che frenassero e punissero i violatori dei confini, ma ancora dissolvessero le masse dei contadini armati. Non fece Sommariva risposta che piacesse, e continuava a scorrere il paese a suo piacimento. Ciò diede occasione, muovendolo anche l'esca di Livorno, al consolo di far risoluzione di occupare sforzatamente la Toscana. A questo fine mandò comandando a Dupont, varcasse prestamente gli Apennini e s'impadronisse di Firenze; a Monnier, andasse a combattere e a disfare in Arezzo quel nido infesto di sollevati; a Clement, marciasse più sotto, e Livorno in poter suo recasse. Nè fu diverso l'esito dalle intenzioni; perchè il primo occupava facilmente la capitale della Toscana, e l'ultimo partendosi da Lucca, arrivava a Livorno, dove pose le mani adesso a cinquanta bastimenti inglesi e ad una quantità grandissima di frumenti. Le cose non successero di questo dalla parte di Arezzo. Gli Aretini si difendevano virilmente. Fu presa d'assalto il 19 di ottobre, con moltissimo sangue. Seguitava una strage, una insolenza, un sacco tale, quale si doveva aspettare da soldati irritati per ingiurie nuove, che avevano risuscitata la memoria delle antiche. Il terrore concetto pel caso di Arezzo fe' risolvere in gran parte le masse toscane. Sommariva si ritirava nel Ferrarese. Le cose si volgevano novellamente a guerra tra Francia ed Austria. Non aveva voluto l'imperatore ratificare ai preliminari di pace stipulati a Parigi il dì 8 luglio tra il conte San Giuliano ed il ministro Taleyrand. Stimolava a questi giorni instantemente l'Inghilterra l'imperadore alla guerra, perchè, avendo rifiutato la pace, abborriva dal restar sola contro la Francia, nè poteva ancora accomodar l'animo al pensiero che i Paesi Bassi avessero a restare in possessione della potenza emola a lei: offeriva adunque sussidii di denaro ed aiuti di forze dalla parte di Napoli. Dall'altra parte l'imperadore non sapeva risolversi ad abbandonar la possessione di Mantova, parendogli che fossero mal sicuri i suoi nuovi acquisti in Italia finchè quella fortezza fosse in potestà di uno Stato dipendente intieramente dalla Francia. Quantunque poi si trovasse privato della forte cooperazione dell'imperadore Paolo, giustamente confidava di poter fare fortunata guerra da sè stesso, ricordandosi delle recenti vittorie di Verona e di Magnano, e considerando che si era perduta la giornata di Marengo un sol momento, dopo ch'era stata vinta sei ore, nè per difetto di valore ne' suoi soldati. Erano gli eserciti avversi ordinati a questo tempo nel seguente modo. Al germanico di Francia condotto da Moreau stava a fronte il germanico d'Austria governato da Kray; all'italico di Francia che obbediva a Brune, l'Italico d'Austria cui era proposto Bellegarde. Fra i due e per congiungere l'uno coll'altro, si trovavano posti in mezzo nei Grigioni un franzese governato da Macdonald, nel Tirolo un austriaco capitanato da Hiller. Così Moreau con Kray, emoli antichi, Macdonald con Hiller, Brune con Bellegarde avevano a combattere. La sollevazione del paese toscano che aveva obbligato Brune a smembrar parte delle sue forze ed a mandarle oltre il suo fianco destro, aveva debilitato il restante. Laonde pensò il consolo a mandarvi nuove genti, con comandare a Macdonald, che, lasciati grossi presidii nei Grigioni, si calasse prima dai Grigioni nella Valtellina, poscia dalla Valtellina sulle sponde dell'Oglio e dell'Adige, quello per rinforzar Brune dove alloggiava, questo per riuscire alle spalle di Bellegarde, ed obbligarlo a ritirarsi indietro dalla fronte del Miurio, dove allora aveva le sue stanze. Aspro e difficile comandamento era questo del consolo; ciò non ostante, non si perdeva d'animo Macdonald, stimolando il fatto del San Bernardo, e volendolo emulare. L'antiguardo condotto da Baraguey d'Hilliers, siccome quello che era e partito più presto e più vicino a quei monti, parte varcando la Spluga, parte il monte dell'Ora, riusciva, non senza aver superato ostacoli gravissimi, sulla destra a Chiavenna, sulla sinistra a Sondrio. Acquistava per tal modo Baraguey l'impero della Valtellina, e facilitava la strada allo scendere di Macdonald. I Valtellini, al veder comparire quelle genti, si maravigliavano, come se venissero dal cielo; tanto pareva loro impossibile che elleno per quei luoghi ed in quella stagione (novembre) fossero passate. Restava l'opera più difficile a compirsi a Macdonald. Arrivato a Tusizio, donde si sale al monte eternamente incappellato di nevi e di ghiacci, pareva che la natura fosse divenuta insuperabile. Tanto erano alte le nevi, tanto chiusa la strada, già di per sè stessa sdrucciolevole, stretta, rotta e precipitosa; pure, come al San Bernardo, si posero le artiglierie sui traini, le provvigioni sui muli; marciavano, ma con difficoltà grandissima. Arrivava l'antiguardo condotto dal generale Laboissiere al villaggio di Spluga; donde restava a salirsi l'erta precipitosa che porta al sommo giogo. Mettevansi in viaggio, e con penosi passi ed infinito anelito procedendo, alla bramata cima già si approssimavano, quando ecco levarsi un levante furiosissimo, che, innalzando un immenso nembo di nevosa polvere e negli occhi dei soldati gettandolo, rendeva impossibile ogni passo. La forza della veemente bufera furiosamente soffiando sul dorso delle nevi ammonticchiate sopra quegli sdrucciolenti gioghi, levava un'orribile sommossa di neve, che con incredibile velocità e fracasso sulle sottoposte valli piombando, portò con sè a precipizio quanto le si era parato davanti. Trenta soldati precipitati nell'abisso perirono; gli altri atterriti, le strade chiuse. Aggiunse la sopravvegnente notte nuovo orrore al fatto: tornarono a Spluga. Laboissiere, che, separato da' suoi, precedeva con le guide, a male stento e quasi morto aggiungeva alla cima; trovovvi benigno ospizio appresso ai religiosi, che, come quei del San Bernardo, attendono con pietà sì eroica alla salute dei viaggiatori. Pareva disperata l'impresa, e sarebbe stata, se non fosse arrivato Macdonald, il quale, spinto da ardente desiderio di emolare il consolo, e prevedendo che lo stare importava la distruzione per la mancanza dei viveri, con accesissime esortazioni tanto fece, che le stanche ed atterrite genti di nuovo s'incamminavano. Precedevano quattro forti buoi a pestar le nevi: seguitavano quaranta palaiuoli ad appianarle ed a fare il sentiero: i zappatori, venendo dopo, l'assodavano; due compagnie di fanti a destra ed a sinistra perfezionavano pel sicuro passo ciò che ancora si trovava imperfetto. A questi s'attergavano le altre genti, fanti e cavalli; le artiglierie, le bestie da soma viaggiavano alla coda; questo era l'antiguardo. Arrivata sulla cima all'ospizio, con infinita allegrezza si ricongiungeva col salvato Laboissiere. Poi seguitando il cammino per la pianura del Cardinello, giungeva a campo Dolcino. Allo stesso modo varcavano il dì 2 e 3 di dicembre due altre squadre di fanti, di cavalli e d'artiglierie; il tempo freddo e sereno, le nevi indurite in ghiaccio facilitavano il passo. Solo alcuni soldati, per la forza di quell'insolito rigore, o morivano gelati o, perdute le estremità, con le membra monche restavano. Crudo era il viaggio, ma con isperanza di terminarlo felicemente, quando il dì 4 (rimaneva a varcarsi il retroguardo in cui si trovava Macdonald) si levava una spaventevole bufera, che e gli uomini col soffio violentissimo arrestava e sotto monti di lanciata neve li seppelliva, ed ogni traccia che fatta si fosse di strada intieramente scassava. La disperazione entrava negli animi: le guide, uomini del paese, atterrite, attestavano l'impossibilità del passare, e l'opera loro ricusarono. Era per perire Macdonald sotto monti di neve come era perito Cambise sotto monti di arena. Ma vinse la virtù sua e dei compagni: queste sono opere piuttosto da giganti che da uomini. Incoraggiò le guide, incoraggiò i soldati. Accorreva e gridava: «Franzesi, ha l'esercito di riserva vinto il San Bernardo, vincete voi la Spluga: superate per gloria vostra quello che la natura ha voluto fare insuperabile: i destini vi chiamano in Italia; ite e vincete, prima i monti e le nevi, poscia gli uomini e l'armi.» La lunga tratta delle squadre desolate riprendeva il cammino. Imperversava vieppiù la bufera: spesso le guide piene di un alto terrore tornavano indietro, spesso gli uomini sepolti, spesso dispersi, spesso la stretta foce della sublime valle si trasformava in monte di neve; là era un muro bianco e sodo, dove prima era l'aperta; chiusa ogni strada. S'aggiungeva un freddo intensissimo, maggiore quanto più si saliva e che gli animi attristava e prostrava, e le membra, con renderle inutili, aggrezzava. Le nevose ed estemporanee mura spesso si rinnovavano, l'inesorabile inverno spaziava largamente e dominava; le Rezie Alpi in atto di sorbirsi gli audaci Franzesi. Rifulse in tanto estremo caso mirabilmente quanto possa questa portentosa umana natura; perchè, non restandosi Macdonald nè i suoi a quel mortale pericolo, aprivano ciò ch'era chiuso, spianavano ciò ch'era montuoso, rompevano ciò che era ghiacciato, assodavano ciò che era cedevole, sgretolavano ciò che era sdrucciolente, coprivano o riempivano ciò che era abisso. Per tale modo, quantunque un rovinoso inverno li chiamasse a distruzione ed a morte, l'inverno vincevano, e contrastando a quanto hanno di più terribile e di più insuperabile i furibondi elementi, riuscivano nella Valtellina valle a salvamento. Rallegravansi dell'acquistata vita l'uno con l'altro, perchè si erano creduti morti; godevasi Macdonald il raccolto frutto dell'invitta costanza. Imprese son queste che paiono impossibili, e più a coloro che le hanno effettuate. Non le crederebbe la posterità, se il secolo nostro, tanto abbondante raccontatore, non una, ma cento testimonianze non fosse per tramandarne; nè ricorda alcuna storia o antica o moderna fatto più maraviglioso o più erculeo di questo. Sebbene la prima parte dell'impresa fosse compita, restavano da effettuarsi le due altre che avevano anch'esse gran momento di difficoltà; quest'erano il passo dalla Valtellina nella valle Camonica, cioè dalle acque dell'Adda a quelle dell'Oglio, ed il passo dalla Valtellina nel Trentino, cioè delle acque dell'Adda a quelle dell'Adige. Apriva il primo il monte Priga, il secondo il monte Tonale. Non ebbe prospero fine il tentativo contro quest'ultimo, perchè gli Alemanni vi si erano fortemente trincierati, e sebbene Macdonald due volte con grande vigoria li combattesse, aiutati dalla stagione, dalla fortezza del sito e dal proprio valore, il risospinsero. Da un'altra parte sortiva esito felice il passo della Priga. Traversato, non senza gravi difficoltà e pericoli, quell'aspro monte, vedevano i repubblicani le acque dell'Oglio, e, passato Breno, si raccoglievano a Pisogna, terra posta sulla settentrional punta del lago d'Iseo, cui l'Oglio con le sue acque forma e nudrisce. Vi trovavano la legione italiana di Lecchi e vettovaglie fresche, provvidenza di Brune, che ve le aveva mandate a ristoro di quelle stanche ed eroiche genti. Erasi sul fine di novembre disdetta la tregua e denunziate le ostilità da una parte e dall'altra; ma non si venne tosto alle mani in Italia, perchè Brune non voleva principiar la guerra innanzi che Macdonald, occupato allora nel passo dei monti, fosse venuto a congiungersi con lui. Nè stava senza timore che il suo fianco destro pericolasse, stantechè Dupont, dopo la conquista della Toscana, era ritornato con la maggior parte delle truppe al campo principale, lasciato solamente in quel paese Miollis con tre o quattro mila soldati. Oltre a ciò il re di Napoli, stimolato dagl'Inglesi, e volendo cooperare con l'Austria, aveva radunato un esercito campale sotto la condotta del conte Ruggiero di Damas; il quale, traversato lo Stato pontificio, già si avvicinava alla Toscana. Perciò il generale di Francia stava aspettando che Macdonald si accostasse, e che i soldati novelli, che già erano arrivati in Piemonte, gli pervenissero. Nè meno desiderava indugiar la guerra Bellegarde, volendo aspettare che Laudon e Wukassowich fossero scesi dal Tirolo. Inoltre, trovandosi alloggiato in sito forte per natura e per arte, amava meglio essere assaltato che assaltare. Avvicinandosi oggimai la fine dell'anno, ed essendo giunto Macdonald sui campi donde poteva cooperare con Brune, e volendo il generalissimo secondare i movimenti di Moreau in Germania, che con armi prospere minacciava il cuore dell'Austria, si deliberava a dar principio alle ostilità: assaltati impetuosamente i corpi che Bellegarde aveva posto alle stanze sulla destra del Mincio, gli sforzava a rivarcare il fiume. Restava ch'egli medesimo il passasse, difficil opera, perchè gli Austriaci, forti di numero e di sito, si erano risoluti a difendere gagliardamente il fiume. Erano i Franzesi partiti in tre schiere. Fece Brune pensiero di varcare al passo di Mozambano, perchè quivi le rive essendo meno paludose, facilitavano l'accostarsi ed il combattere più fermamente ne' luoghi occupati. Perchè poi il passo gli riuscisse più facile, avvisò d'ingannar il nemico col fargli credere ch'ei lo volesse passare più sotto tra la Volta e Pozzuolo. Correva il giorno 25 dicembre, cui il generalissimo di Francia aveva destinato al passaggio del Mincio. Fu il primo Dupont a mandar ad effetto la fazione che gli era commessa, d'ingannare, cioè, il generale tedesco, però contentandosi di una dimostrazione sulla riva sinistra, senza prendervi alloggiamento stabile, senza ingaggiare battaglia giusta. Passava primieramente coi soldati leggieri sulle barche trovate a caso, poi, accomodate le piatte, costruiva il ponte e varcava con la maggior parte delle genti. S'impadroniva, dopo breve contrasto, della terra di Pozzuolo, e, senza aver rispetto alle condizioni delle cose, vi fermava le sue stanze; felice ad un tratto ed infelice pensiero. Ne sorse un gravissimo pericolo; perchè Brune, avendo trovato le strade molto sinistre, non potè mettersi all'impresa il giorno 25: il che fu cagione che Bellegarde, che alloggiava col grosso a Villafranca, terra poco lontana, corse subitamente con tutto il pondo de' suoi contro Dupont. Si difese virilmente il Franzese, ancorchè Bellegarde si fosse scoperto con quasi tutto il suo esercito in battaglia; fecero i suoi soldati quanto in accidente sì pericoloso per uomini valorosi si poteva fare. Ma tanto preponderava il nemico, che già Dupont, non essendo potente a resistere col suo corpo solo, cedeva e si vedeva vicino ad essere rituffato nel fiume, portando in tal modo la pena dell'aver preso animo, contro gli ordini del capitano generale, di fermarsi a far grossa battaglia sulla riva opposta del fiume. Sarebbe adunque stata l'ala destra dei Franzesi conquisa intieramente e rotta, se non fosse giunto improvvisamente un non pensato soccorso. Suchet, che dall'eminenza della Volta scopriva quanto Dupont fosse pressato dal nemico, consigliandosi piuttosto con la necessità dell'accidente che con gli ordini di Brune, perciocchè il generalissimo gli aveva ordinato che andasse ad aiutare il passo di Mozambano, frettolosamente marciava al mal auguroso Pozzuolo. L'arrivo di Suchet, ristorava la fortuna della giornata oramai perduta. Tuttavia gli Austriaci, grossi e sicuri sul destro fianco, facevano una battaglia forte e molto ostinata. Tre volte s'impadronirono di Pozzuolo, e tre volte ne furono risospinti. Infine fu costretto Bellegarde a tirarsi indietro a Villafranca, lasciando i repubblicani in possessione di Pozzuolo. Patì molto in questa battaglia, nè però senza strage fu la vittoria dei Franzesi. Il seguente giorno, come aveva destinato, passava Brune il fiume a Mozambano per guisa tale che tutto l'esercito di Francia si trovava condotto sulla sinistra del Mincio. Bellegarde, considerato il successo della fazione di Pozzuolo, nè volendo avventurarsi a battaglie campali in quelle facile largura tra il Mincio e l'Adige, ancorchè molto prevalesse di cavalleria, accomodava le sue deliberazioni agli esiti delle cose, e ritirava le genti sulla sinistra dell'Adige, solo lasciando sulla destra alcuni corpi, non per signoreggiare il paese, ma soltanto per meglio difendere il passo del fiume. Brune, fatto più ardito dalla vittoria, applicava l'animo a cacciare l'avversario oltre Verona, ed a far sentire l'impressione dell'armi franzesi nel Vicentino, nel Padovano e nel Trivigiano. Per la qual cosa, avvicinandosi col grosso all'Adige, mandava Moncey con un corpo sufficiente verso Corona e Rivoli, affinchè serrasse la strada a Laudon ed a Wukassovich, che già scendevano dal Tirolo, e nel caso in cui eleggessero di rivoltarsi là dond'erano venuti, li perseguitasse anche all'insù. Sapeva che Macdonald, procedendo pei monti superiori, ed entrando dalla valle dell'Oglio in quella del Mela, da questa in quella della Chiesa, e pervenendo alla superior coda del lago di Garda, si proponeva di riuscire per montagne scoscese e rotte sopra a Trento. La quale mossa, se avesse avuto il suo effetto, Laudon e Wukassovich, combattuti sopra da Macdonald, sotto da Moncey, non avrebbero più avuto scampo. Succedeva felicemente il pensiero di Brune, rispetto al passo del fiume, perchè facilmente gli veniva fatto di varcarlo a Bussolengo, luogo già tanto famoso pei successivi passaggi, ora dei Franzesi, ora di Tedeschi. Bellegarde, informato del viaggio di Macdonald, aveva fatto debole dimostrazione per impedire il transito ai repubblicani, e si ritirava, lasciato solamente nel castello di San Felice di Verona un presidio, che poco dopo si arrese sulle rive del Brenta. Al tempo stesso accortosi quanto la guerra fosse pericolosa a Laudon ed a Wukassovich, aveva loro comandato che risalissero più presto che potessero l'Adige, e per la valle della Brenta con frettolosi passi venissero a congiungersi con lui nei contorni di Bassano. In questo punto pervennero le novelle che dopo la vittoria di Hohenlinden, guadagnata da Moreau contro l'arciduca Giovanni, era stata conclusa a Steyer il giorno 25 dicembre una tregua tra il generale franzese e l'arciduca Carlo. Propose Bellegarde a Brune un trattato simile di sospensione di offese; ma, esigendo, conforme alle istruzioni, che gli si cedesse, oltre Peschiera, Ferrara, Ancona e porto Legnago, anche Mantova, il trattato non potè aver effetto, e si continuò la guerra. Anno di CRISTO MDCCCI. Indizione IV. PIO VII papa 2. FRANCESCO II imperadore 10. Le cose pressavano molto nel Tirolo. Moncey e Macdonald intendevano a serrare da ogni parte Wukassovich e Laudon, per impedir loro la facoltà del ritirarsi. Ma il primo, alloggiato superiormente al secondo, e prestamente obbedendo a Bellegarde, entrato per Pergine nella valle del Brenta, schivava il pericolo, e sicuramente per la sponda di questo fiume camminava alla volta del suo generalissimo; il secondo, pel contrario, si trovava in molto ardua condizione, imperciocchè già si era condotto tanto innanzi, che era disceso fin sotto a Roveredo, e non poteva più tornare indietro per Trento innanzi che Macdonald vi arrivasse. Era, oltre a ciò, aspramente combattuto da Moncey dalla parte inferiore, per modo, che cacciato all'insù da un sito all'altro, aveva anche abbandonato al vincitore la possessione di Roveredo. Al tempo stesso Macdonald, superata la resistenza che Davidowich con un po' di retroguardo di Wukassovich aveva fatto a Trento, s'impadroniva di questa ultima capitale del Tirolo italiano. Era dunque tolto ogni scampo a Laudon per la strada maestra, nè altra speranza gli restava che quella di condursi, per le strette ripide e malagevoli di Cadonazzo, a Levico. Ma illuso Moncey colla notizia d'una tregua, frettolosamente marciando per approfittar dell'inganno, a Levico arrivava a salvamento, donde calando con viaggio prospero, si avvicinava a Bellegarde. Diede Moncey all'insù di Roveredo, Macdonald all'ingiù da Trento: incontraronsi fra le due città i due generali della repubblica, dolenti ambidue dell'essere stati ingannati. Restava a Macdonald che compisse un'altra parte del suo disegno, piacendogli le imprese grandi ed audaci: quest'era di montar l'Adige sino a Bolzano ed a Brissio, poi di entrare nella valle della Drava per uscire alle spalle di Bellegarde, e tagliargli la strada al suo ricetto d'Austria. Infatti, già era arrivato col suo antiguardo a Bolzano, combattendovi gagliardamente il generale Auffenberg, che vi stava a difesa con quattro mila soldati; non la guerra, ma la pace impedì a Macdonald l'esecuzione del suo animoso disegno. Eransi Wukassovich e Laudon ricongiunti con Bellegarde, che ancora poteva tener in pendente la fortuna, ma non volle più avventurare le sorti, avendogli interrotto la speranza le novelle allora pervenute della sospensione di Steyer. Per la qual cosa si ritirava dal Brenta, riducendosi sulle sponde del Piave. Il perseguitava Brune: era il fine della guerra. A petizione del generale d'Austria, si concluse, il dì 16 gennaio, a Treviso un trattato di tregua coi capitoli seguenti: si sospendessero le offese; le due parti non potessero rompere il trattato se non dopo quindici giorni di disdetta; le piazze di Peschiera e di Sermione, i castelli di Verona e di Legnago, la città e la cittadella di Ferrara, la città e il forte d'Ancona si consegnassero ai Franzesi; Mantova restasse bloccata dai repubblicani ad ottocento braccia dallo spalto, con facoltà al presidio di procacciarsi viveri di dieci in dieci giorni; i magistrati austriaci si rispettassero; la tregua durasse trentatrè dì, compresi i quindici; nissuno per fatti od opinioni politiche potesse essere molestato. Non piacque al consolo l'accordo di Treviso, perchè non giudicava a suo proposito che l'Austria possedesse Mantova. Fu forza cedere, e, per un nuovo accordo fatto a Luneville, fu quella principalissima fortezza data in mano dei Franzesi. La sospensione di Treviso ridusse alle strette il re di Napoli, perchè per lei potevano i Franzesi più espeditamente attendere alla ricuperazione dei paesi perduti. Il conte Ruggiero, volendo cooperare con Bellegarde, si era mosso coi Napolitani, e, traversato lo Stato romano era, andato in Toscana, alloggiandosi in Siena. Dall'altro lato il marchese Sommariva con qualche squadrone di Tedeschi e coi fuorusciti aretini s'era ancor egli fatto avanti, ed aveva levato a rumore le parti superiori del granducato. Al quale moto sollevati gli Aretini, siccome quelli che mal volentieri sopportavano il nuovo dominio, di nuovo erano corsi all'armi, ed avevano condotto in grave pericolo Miollis, che con poche genti custodiva la Toscana. Messi in confusione e sconquasso i confini, si incamminavano Sommariva da una parte, il conte Ruggiero dall'altra all'acquisto di Firenze, dove il generale franzese aveva la sua principale stanza. Queste cose accadevano sul principiare del presente anno. Disperando Miollis, perchè si sentiva più debole pel poco numero de' suoi soldati, misti di Franzesi, Cisalpini e Piemontesi, di far fronte ad un tratto ai due nemici, s'appigliò prudentemente al partito di combatterli separati, usando celerità. Marciavano primieramente contro i Napolitani, condotti dal conte. Guidava il generale Pino l'antiguardo di fanti cisalpini e di cavalli piemontesi. Affrontava tra Poggibonzi e Siena una grossa colonna di cinque o sei mila fanti napolitani, e valorosamente urtando con le baionette, li voltava in fuga. Volle il conte far testa in Siena; ma Pino, guidato dal proprio valore, da quello de' suoi, dal fervore della vittoria, dava dentro incontanente, e, fracassate coi cannoni le porte, vittoriosamente vi entrava. Ritirossene il conte; poi fece opera di rannodarsi sui poggi vicini; ma pressando viemmaggiormente i Cisalpini ed i Piemontesi, fu costretto ad abbandonar tostamente i territorii toscani, ritirandosi in quei di Roma per l'oscurità della notte. Il marchese, udito il sinistro caso del conte, ritraeva prestamente i passi, e giva a ricoverarsi in Ancona. In tal modo Miollis per valore de' suoi e per la provvidenza propria riduceva di nuovo in arbitrio di Francia le cose di Toscana, e teneva in timore il sinistro fianco di Bellegarde. Queste erano le condizioni di Toscana quando, conclusa la sospensione di Treviso, nella quale non fu compreso il re di Napoli, le cose del regno restarono esposte a grandissimo pericolo; perchè Murat, siccome gli era stato comandato dal consolo, già venuto con le nuove reclute in Italia, s'incamminava a gran passi contro la Toscana e la Romagna per invadere il regno. Ai soldati di Murat s'accostava al medesimo fine una forte squadra dell'esercito vittorioso di Brune: ogni cosa cedeva alla riputazione della vittoria. Il resistere pel re era impossibile, la sua ruina certa. La salute, caso da non essere presentito, gli venne dal settentrione. Carolina regina, donna di mente forte, e che non dava molta fede alle matte credenze ed alle parole gonfie, si era risoluta, voltando tutto l'animo alle speranze russe, e non isperando in altro modo congiunzione con Francia, di andar a Pietroburgo per pregare l'imperatore Paolo ad intromettersi, come mediatore, tra il consolo e Ferdinando. Piacque la fede a Paolo: già rappattumato col consolo, mandava in Italia il generale Lewashew, affinchè s'intromettesse a concordia fra le due potenze. Si soddisfece Buonaparte del procedere di Paolo, perchè secondava i suoi fini. Venne per parte del re il cavaliere Micheroux a trovare Murat a Foligno: non istettero a negoziar lungo tempo, essendo le due parti sommamente desiderose di convenire, una per piacere a Paolo, l'altra per paura di Buonaparte. Fu dunque il dì 18 febbraio accordata tra Francia e Napoli, con corroborazione dell'autorità della Russia, una tregua, principali capitoli della quale furono che i soldati regi sgombrassero dallo Stato romano; che i repubblicani occupassero Terni, ma che la Nera non oltrepassassero; che tutti i porti di Napoli e di Sicilia si serrassero contro gl'Inglesi e contro i Turchi; che ogni comunicazione cessasse tra Porto-ferraio e Porto-longone nell'isola d'Elba fintantochè gl'Inglesi non avessero sgombrato da Porto-ferraio; che Dolomieu si liberasse dalle carceri di Messina; che si restituissero gli ufficiali ed i generali franzesi; che si obbligasse il re ad udire favorevolmente le raccomandazioni di Francia per coloro che fossero o banditi o carcerati per opinioni politiche. Ebbe questo trattato subito effetto: vuotò il conte Ruggiero il territorio della Chiesa; prevenendo le istanze del consolo, aboliva tribunali straordinarii, e condonava ogni pena pel crimenlese. Murat, tra per vanagloria d'entrar qual liberatore in Roma e per adescare ai futuri disegni, venutovi dentro e concorrendo a lui il popolo, si condusse a far riverenza al pontefice. Ogni cosa si componeva a concordia. Negoziavasi a Luneville per l'Austria dal conte Luigi Cobentzel, per la Francia da Giuseppe Buonaparte, l'uno e l'altro avendo mandato e possanza di concludere. Dopo qualche contenzione, pigliarono forma che il trattato definitivo di pace fosse sottoscritto il dì 9 di febbraio. I capitoli principali quanto all'Italia furono quelli stessi del trattato di Campoformio, solo variossi pei confini: l'Adige, principiando dove sbocca dal Tirolo infino alla sua foce, fosse confine tra la Cisalpina e gli Stati d'Austria; la destra parte di Verona, e così quella di Portolegnago spettassero alla Cisalpina, la sinistra all'Austria; si obbligava l'imperatore a dare la Brisgovia al duca di Modena in ricompensa dal perduto ducato; rinunziasse il granduca alla Toscana ed all'isola d'Elba, e la Toscana e l'isola si dessero all'infante duca di Parma: il granduca si ricompensasse con Stati competenti in Germania; conoscesse e riconoscesse l'imperatore le repubbliche cisalpina e ligure, e rinunziasse ad ogni titolo, sovranità e diritto sopra i territori della Cisalpina; consentisse all'unione dei feudi imperiali colla repubblica ligure. Del Piemonte nulla si stipulava. Il re di Napoli, ridotto alla necessità di obbedire alla forza lontana di Paolo ed alla vicina di Buonaparte, si quietava anche col consolo, convenendo in un trattato di pace a Firenze, il dì 28 di marzo, sottoscritto per parte di lui da Micheroux, per parte della Francia da Alquier. Convenissi come nella tregua, e di vantaggio che il re rinunziasse primieramente e per sempre a Porto-longone ed a quanto possedesse nell'isola d'Elba; secondamente cedesse alla Francia, come cosa propria e da farne ogni voler suo, gli Stati dei Presidii ed il principato di Piombino; ancora perdonasse ogni delitto politico commesso fino a quel giorno; restituisse i beni confiscati, liberasse i detenuti, potessero gli esuli tornare nel regno sicuramente, e fosse loro restituita ogni proprietà; da ambe le parte si dimenticassero le offese. Le cose si fermarono anche con nuova composizione con la Spagna, essendosi stipulato un trattato a Madrid, il dì 21 marzo, da Luciano Buonaparte per parte di Francia, e dal principe della Pace per parte di Spagna. S'accordarono le due parti che il duca di Parma rinunzierebbe al ducato in favore della repubblica di Francia; che la Toscana si darebbe al figliuolo del duca col titolo di re; che il duca padre si compenserebbe con rendite e con altri Stati; che la parte dell'isola d'Elba che apparteneva alla Toscana spetterebbe alla Francia, e che la Francia ne ricompenserebbe il re di Etruria collo Stato di Piombino; che la Toscana s'intendesse unita per sempre alla corona di Spagna; che se il re d'Etruria morisse senza prole, succedessero i figliuoli del re di Spagna. Così, in men che non fa un anno, ogni ostacolo cedette ai buonapartiani fatti. Poscia, essendo in tutti, parte pei medesimi, parte per diversi rispetti la medesima intenzione alla pace, composte tutte le controversie, il consolo contrasse amicizia coll'imperatore Paolo, s'accordò coll'imperatore Francesco, e rialzò la Francia da bassa ad eminente fortuna. Le cose della religione cattolica erano in gran disordine in Francia. L'assemblea costituente aveva interrotto la unione con la sedia apostolica, rispetto alla instituzione pontificia dei vescovi, qual era stata accordata tra Leone X e Francesco I, e tolto i beni alla Chiesa, con appropriargli alla nazione. I governi che vennero dopo, massimamente il consesso nazionale, non solamente distrussero gli ordini statuiti dall'assemblea, ma spensero ancora ogni ordine religioso, perseguitarono i ministri della religione, ed alcuni anche sforzarono, cosa nefanda, a rinegare il proprio stato e le proprie opinioni. Il direttorio continuò a perseguitare i preti, ora confinandoli nell'esilio, ora serrandoli nelle prigioni, e sempre impedendo loro, massime ai non giurati, che liberamente e pubblicamente celebrassero i riti divini. Era quindi nato un desiderio in Francia di veder ristorati i riti della religione cattolica, e molti Franzesi in questo desiderio tanto più s'infiammavano, quanto più difficile sembrava la reintegrazione. Buonaparte non era uomo da non vedersi queste cose, meno ancora da non usarle per edificare la sua potenza e per arrivare a' suoi fini smisurati. Adunque, divenuto libero dai pensieri, che più nella mente sua pressavano, della guerra, applicava viemaggiormente l'animo al negoziare col papa, col fine di venirne con lui ad un aggiustamento in materia religiosa. Alcuni accidenti aiutavano queste pratiche, altri le disaiutavano. Dava favore al consolo un concilio nazionale di vescovi giurati che, dipendentemente da un altro tenuto nel 1797 con suo consentimento espresso era per adunarsi in Parigi il dì di San Pietro. Non solamente ei non impediva che questi vescovi parlassero, ma gl'incitava anche a parlare, quantunque fossero giurati e contrarii a quella pienezza di potestà che i papi sostengono spettarsi alla Sedia apostolica. Da un'altra parte la romana curia ardentemente impugnava le loro dottrine. Le disputazioni, come accade, s'inasprivano. Queste contese teologiche molto piacevano al consolo, e gli dimostravano una grande opportunità, perchè non dubitava che il papa, temendo ch'ei non fosse per gettarsi in grembo agl'impugnatori della santa Sede, avrebbe mostrato più docilità nel concedere ciò che desiderava; perciò questi umori non solo favoriva, ma incitava. Questi erano gli accidenti favorevoli al consolo; ma per natura e per uso e per massima amava egli molto più il governo stretto e monarcale del papa che il governo largo e popolare degli avversarii, e gli pareva che gli ordini papali, rispetto alla potestà unica ed universale, fossero un grande, utile e maraviglioso pensamento. Chiamava i giansenisti gente di molta fede e di ristretti pensieri; nè gli pareva che la costituzione del clero, siccome cosa antiquata e cagione di molte disgrazie, si potesse utilmente rinfrescare. Un nuovo e vivace pensiero, e più conforme ai desiderii dei popoli, gli pareva che abbisognasse. Da un'altra parte cadevano in questa materia molte e gravi difficoltà. La principale forza del consolo era posta ne' suoi soldati, e non istava senza timore che quell'apparato religioso, al quale da sì lungo tempo erano disavvezzi, e quel comparir di preti, che avevano e con fatti perseguitato e con motteggi lacerato, non paresse avere agli occhi loro qualche parte di ridicolo, cosa di somma importanza in Francia. Temeva altresì in quei primi principii la setta filosofica, nemica al papa, assai più potente di quella che impugnava la larghezza dell'autorità pontificia. Egli aspettava dalla prima gran favore e gran sussidio. Ma più di tutto questo travagliava l'animo suo la faccenda dei beni della Chiesa venduti dai precedenti governi; perchè l'ottenere dal papa la confermazione di queste vendite era di sommo momento, e sapeva che il pontefice ripugnava al fare in questo proposito alcuna espressa dichiarazione. Pure la tranquillità dei possessori era fondamento indispensabile della sua potenza. Non pochi dei giurati erano di gran nome e di qualche autorità, e il consolo li voleva vezzeggiare; ma l'impetrare dal papa che non solamente gli assolvesse e nel grembo suo li riaccettasse, ma ancora, come desiderava, che ai primi seggi della gallicana Chiesa li sollevasse, appariva intricato e malagevole argomento. La medesima difficoltà sorgeva per gli ecclesiastici della parte contraria che avevano conservato i seggi loro anche ai tempi dell'esilio, ed ai quali non avrebbero forse voluto rinunziare, parte per insistenza nelle antiche opinioni, parte per affezione alla famiglia reale di Francia. Nè mediocre impedimento alla definizione del trattato recava il capitolo della celebrazione dei riti cattolici; perciocchè, essendo i medesimi andati in disuso da sì lungo tempo, non era senza pericolo di scandalo, in mezzo a popolazioni infette di usi e di opinioni contrarie, il volere che tutto ad un tratto pubblicamente e secondo tutti gli usi della Chiesa si celebrassero: si temeva che nascessero enormità, dalle quali i fedeli ricevessero maggiore offensione che edificazione. Ripugnava adunque il consolo, malgrado che il papa insistesse per ogni larghezza di culto pubblico, a questa condizione, volendo indugiare a tempo più propizio i desiderii di Roma. Nonostante tutte queste malagevolezze in un negozio di tanta importanza, essendo nelle due parti grandissimo desiderio di convenire, mandava Pio VII a Parigi il cardinale Ercole Consalvi, suo segretario di Stato, Giuseppe Spina, arcivescovo di Corinto, ed il padre Caselli, teologo consultore della santa Sede. Dal canto suo dava il consolo facoltà di trattare e di concludere a Giuseppe Buonaparte, a Cretet, consigliere di Stato, ed a Bernier, curato di San-Lodo d'Angeri. Da questi si venne, il dì 15 luglio, al trattato definitivo tra la santa Sede e la repubblica di Francia, atto piuttosto di unica che di molta importanza, poichè per lui si restituiva alla Chiesa cattolica una parte nobilissima d'Europa, e si ridava la pace a tanti uomini di coscienza timorata e pia. Confessatosi dal governo franzese che la religione cattolica, apostolica e romana era professata dalla maggior parte dei Franzesi, e confessatosi altresì da Sua Beatitudine che dalla sua reintegrazione in Francia era per derivarle un grande benefizio ed un grande splendore, convennero e stipularono le due parti, che la religione cattolica apostolica e romana avrebbe libero e pubblico esercizio in Francia, a quelle regole conformandosi che il governo giudicherebbe necessarie per la quiete dello Stato; s'accorderebbero la santa Sede ed il governo ad ordinare una nuova circoscrizione delle diocesi; esorterebbe il pontefice i vescovi titolari a rinunziare alle sedi loro, e, se nol facessero, con la elezione di nuove titolari provvederebbe, nominerebbe il consolo tre mesi dopo la pubblicazione della bolla di sua Santità, gli arcivescovi ed i vescovi secondo la nuova circoscrizione, e conferirebbe il papa l'instituzione canonica secondo le regole costituite per la Francia innanzi che il governo vi si cambiasse; le sedi vescovili, che in progresso vacassero, ugualmente con nominazioni fatte dal consolo si riempissero, e l'instituzione canonica, conforme al capitolo precedente, dal papa si conferisse; giurassero i vescovi e gli altri ecclesiastici, prima dell'ingresso loro, fedeltà alla repubblica, e promettessero di svelare qualunque trama contraria allo Stato; pregassero nelle chiese per la repubblica e pei consoli; i vescovi non potessero fare nuove circoscrizioni di parrocchie nè nominare parochi se non a beneplacito del governo; le chiese non vendute si restituissero ai vescovi. Dichiarava inoltre il papa, avuto riguardo alla pace ed alla reintegrazione della religione in Francia, che nè egli, nè i suoi successori non sarebbero mai per molestare gli acquisitori dei beni ecclesiastici alienati, e che, per conseguente, la proprietà di essi beni, i diritti e le rendite annessivi, fossero e restassero incomutabilmente in loro, nei loro eredi e negli aventi causa da essi. Obbligossi il governo di Francia a dare congrui assegnamenti ai vescovi ed ai parrochi, e provvedere che i fedeli di Francia potessero legare alle chiese per benefizio della religione. Confessò e riconobbe il papa, essere nel consolo gli stessi diritti e prerogative, di cui appresso alla sedia apostolica godevano gli antichi sovrani di Francia. Se accadesse che un consolo cattolico arrivasse al seggio supremo in Francia, i suoi diritti e prerogative, e così ancora la forma delle elezione dei vescovi si regolassero per un nuovo accordo. Concluso il concordato, dissolveva tostamente il consolo, non avendone più bisogno, il concilio nazionale di Parigi. Così gli sforzi dei vescovi e preti giurati, per astuzia del consolo servirono alla reintegrazione dell'autorità papale piena in Francia. Questa convenzione mandata a Roma per la ratifica del papa, vi destò gravi e pertinaci controversie. I teologi più stretti e più dediti alle massime della curia romana apertamente biasimavano i plenipotenziari dello avere troppo largheggiato nelle concessioni e grandemente offeso i diritti e le prerogative della Chiesa cattolica. Il papa medesimo, siccome quegli che molto timorato era e delle prerogative della santa Sede zelantissimo, se ne stava in forse non sapendo risolversi al ratificare. Deliberò, prima di risolversi, di consigliarsi coi teologi più dotti di Roma: richiese del parer loro il cardinal Albani e frate Angelo Maria Merenda dei predicatori, commissario del sant'Officio. S'accordarono ambidue che il papa, salva coscienza, potesse ratificare. Stante adunque le dilucidazioni date dal cardinale e dal commissario, non soprastette più lungamente Pio VII a dare il suo assenso e ratificò il concordato. Scrisse al tempo stesso brevi ai vescovi titolari, acciocchè alle sedi loro rinunziassero. Alcuni rinunziarono; la maggior parte, massimamente quelli che si erano riparati in Inghilterra, ricusarono. Dei giurati, Primat, le Blanc di Beaulieu, Perrier, Lecoz, Saurin, supplicato al papa che loro perdonasse e nelle sedi destinate dal consolo gl'instituisse, impetrarono. Anno di CRISTO MDCCCII. Indizione V. PIO VII papa 3. FRANCESCO II imperadore 11. Rimossi tutti gl'impedimenti, pubblicava il consolo il giorno di Pasqua del presente anno il concordato. Scriveva ai vescovi una circolare in cui con parole asprissime ingiuriava i filosofi: poi rivolgendosi ai Franzesi col solito stile discorreva che da una rivoluzione prodotta dall'amor della patria erano sorte le discordie religiose, e per esse il flagello delle famiglie, gli sdegni delle fazioni, le speranze dei nemici; uomini insensati aver atterrato gli altari, spento la religione; per loro avere cessato quelle divote solennità, in cui l'un l'altro aveva per fratello, in cui tutti sotto la mano di Dio creatore di tutti, si stimavano fra di loro uguali; per loro non udire più i moribondi quella voce consolatrice che chiama i cristiani a miglior vita; per loro Dio stesso parere sbandito dalla natura; dipartimenti distrutti dall'ire religiose, forastieri chiamati a danni della patria, passioni senza freno, costumi senz'appoggio, sciagure senza speranza, dissoluzione di società: sola religione avere potuto portarvi rimedio; averlo lui voluto, averlo nella sapienza sua voluto il pontefice, averlo i legislatori della repubblica approvato: così essere sorto il concordato, così spenti i semi delle discordie, così svanire gli scrupoli delle coscienze, così superarsi gli ostacoli della pace. Dimenticassero, esortava, i ministri della religione le dissensioni, le disgrazie, gli errori; con la patria la religione li riconciliasse; con la patria li ricongiungesse; i giovani cittadini all'amore delle leggi, all'obbedienza dei magistrati informassero: consigliassero, predicassero, inculcassero che il Dio della pace era peranco il Dio degli eserciti, e che, impugnate l'armi sue insuperabili, combatteva a favor di coloro che la libertà della Francia difendevano. Grande allegrezza ricevettero i fedeli in Francia per la reintegrata religione; gioinne anche maravigliosamente Roma: ma non fu il contento del pontefice senza amarezze; conciossiachè il consolo aveva accompagnato la pubblicazione del concordato con certe regole di disciplina ecclesiastica sotto forma di decreto che, secondo taluni, offendevano le prerogative della santa Sede, o ristringevano l'autorità dei vescovi, o difficoltavano l'ingresso allo Stato ecclesiastico. Le quali regole, quantunque potessero parer giuste e necessarie sì per la sicurezza della potestà temporale come pel buon ordine dello Stato, ed usate già dai tempi antichi non solamente in Francia, ma ancora in altri paesi d'Europa, e massimamente in Italia, rendevano mal suono; ma il consolo ne aggiunse un'altra veramente intollerabile, perchè toccava la giurisdizione, e questa fu, che i vicarii generali delle diocesi vacanti continuassero ad usare l'autorità vescovile anche dopo la morte del vescovo, e fino a tanto che successore non avesse. Se ne dolse il papa, e non punto calse al consolo ch'ei se ne dolesse. Orava in concistoro Pio VII, descrivendo con singolare facondia i negoziati introdotti, le stipulazioni fatte, lo stato della Francia. Quindi instò perchè gli articoli si riformassero; ma il consolo che, ottenuto il concordato, voleva essere padrone della Chiesa, non che la Chiesa fosse di lui, rispondeva ora con sotterfugi, ora con minaccie, nè mai il pontefice potè venire a capo del suo intendimento. In tale conformità continuarono le faccende religiose in Francia, finchè nuove condiscendenze del pontefice e nuove ambizioni del consolo mandarono ogni cosa in ruina ed in conquasso. A questo modo travagliava Roma con Francia; nè noi abbiam creduto d'interrompere il filo della narrazione per riferire altri fatti, de' quali ora riprenderemo il discorso. Intanto cambiamenti notabili fin dal varcato anno erano accaduti in Piemonte. Aveva il consolo voglia di serbar questo paese per sè, ma indugiava al risolversi, ed occultava cautamente le sue intenzioni. Aveva anzi veduto volentieri il marchese di San Marsano mandato a Parigi per negoziare della restituzione del Piemonte. Le incertezze e le ambagi del consolo, le offerte palesi fatte al re dopo la battaglia di Marengo e la presenza del marchese a Parigi tenevano in pendente l'opinione dei popoli in Piemonte, e toglievano ogni modo di buon governo. Ognuno guardava verso Firenze, Roma o Napoli, dove abitava, ora in questa, ora in quella, il re Carlo Emmanuele. Sorsero le sorti fatte più certe della Cisalpina e della Liguria, mentre si tacquero quelle del Piemonte, onde chi sperava pel re ebbe cagione di più sperare, chi temeva, di più temere. In tali intricate occorrenze avvenne di verso Borea un caso di grandissima importanza, perchè nella notte del 13 marzo 1801 morì di morte violenta Paolo, imperadore di Russia; della quale non così tosto fu avvisato il consolo, che trovandosi libero dalle instanze di lui, e volendo preoccupare il passo alle intenzioni di Alessandro suo figliuolo e successore, fece un decreto, mettendovi una data anteriore, il quale, sebbene ancora non importasse la unione definitiva del Piemonte alla Francia, accennava però manifestamente che sua volontà fosse che l'unione si effettuasse: costituiva il decreto il Piemonte secondo gli ordini di Francia. Sperava che Alessandro, trovata all'assunzione sua la cosa fatta, non difficilmente sarebbe per consentirvi. Importava il decreto dato ai 2 d'aprile del 1801, che il Piemonte formerebbe una divisione militare della Francia, che fosse partito in sei dipartimenti, che le leggi della repubblica, rispetto agli ordini amministrativi e giudiziali, vi si pubblicassero ed eseguissero, che le casse al primo giugno fossero comuni, che un amministrator generale con un consiglio di sei reggesse; che Jourdan restasse eletto amministrator generale. Si crearono sei dipartimenti, dell'Eridano, poi detto del Po, con Torino, di Marengo con Alessandria, del Tanaro con Asti, della Sesia con Vercelli, della Dora con Ivrea, della Stura con Cuneo. Mandava Jourdan a Parigi per ringraziare e promettere obbedienza deputati. Furono veduti molto volontieri, massime i nobili, perchè il consolo li voleva allettare. Intanto il consolo si studiava a conciliarsi l'animo di Alessandro ed a congiungerselo in amicizia; e, siccome astutissimo ch'egli era e sprofondato in tutte le arti di Francia, d'Italia e d'Egitto, avendo udito che il novello imperadore era di natura generosa, e tendente al governare gli uomini piuttosto con dolcezza che con severità, se gli mise intorno da tutte le parti tentandolo. E ai dolci suoni, alla magnificenza e giocondità delle parole, come benevolo, si calava Alessandro. Quindi il consolo, fatto sicuro dell'amicizia di Russia, insorgeva, e mentre Alessandro si pasceva di speranze lusinghiere, ei dava mano alla realtà, incamminandosi al dominio del mondo. Cominciando dal Piemonte, che stimava essere necessario congiungersi per avere senza impedimenti di mezzo la signoria d'Italia, comandava che il decreto dei 2 d'aprile fosse in ogni sua parte mandato ad effetto. L'Austria pei patiti danni, la Inghilterra per la lontananza, nè consentirono, nè contrastarono. Arrivarono a Torino i commissarii parigini ad ordinar lo Stato, chi per le finanze, chi pel fisco, chi pel lotto, chi per le poste, chi per gli studii, chi pei giudizii. Voleva il consolo ridurre lo Stato alla forma di monarchia; i repubblicani in Francia, eccettuati i più furibondi che aveva confinati in carcere o banditi in lidi lontani, il secondavano. Quanto ai repubblicani italiani, due mezzi gli si paravano davanti, o di vezzeggiarli come quei di Francia, o di spegnerli, non già coll'ammazzarli, perciocchè sapeva che l'età non comportava sangue, ma col torre loro l'autorità e la riputazione. Elesse quest'ultimo; al che diede anche favore la ricchezza degli avversarii, che mandavano doni, presenti e denari nelle corrotte Tuilerie, il che era cagione che a quello, a che di propria volontà inclinava, fosse anche stimolato da altri. Buon procedere sarebbe stato questo quanto all'utile se mai non avessero potuto arrivare i tempi grossi, ma non al contrario, perchè per esso si perdevano gli amici e non si acquistavano i nemici; ma il consolo sempre aspettava prosperità. Restava Jourdan ch'era stimato repubblicano. Deliberossi a torre anche questo capo ai repubblicani, quantunque ei si fosse portato molto rimessamente con loro; partì Jourdan lodato dal consolo, desiderato dai Piemontesi. Arrivava Menou in Torino, in luogo di Jourdan. Raccontare le lepidezze e gli arbitrii che vi fece questo Menou, sarebbe troppo lunga bisogna, e forse troppo più piacevole che la gravità della storia comporti. A questa guisa passarono i tempi fra i Subalpini infino alla unione definitiva: partigiani di Francia perseguitati, partigiani di Sardegna accarezzati, partigiani d'Italia usati come stromenti di calunnie e di vendette, il giardino del re difformato da una sucida baracca ad uso d'una Turca. A questo modo incominciava il promesso legale dominio del generoso e sfortunato Piemonte. Il consolo teneva il Piemonte per Menou, la Toscana per Murat. Voleva, come a suo cognato, aprire a Murat l'adito alle grandezze; nè Murat era di cattiva natura, solo aveva poco cervello e l'animo molto vanaglorioso: per questo, quantunque fosse buono, si piegava volontieri alle voglie del consolo, quali elle si fossero. La parte dell'esercito che egli governava, mandata primieramente in Italia per rinforzare l'ala destra di Brune e per alloggiare in Toscana, fu, dopo la pace di Luneville, mandata nello Stato romano, con star pronta ad assaltare il regno di Napoli. Conclusa poi la pace, entrava nel regno fino a Taranto, in nome dal re, per isforzare il governo ad osservar il trattato ed i perdoni verso i novatori, in fatto per minacciar gl'Inglesi e per vivere a spese del regno. Quanto allo Stato romano, concluso il concordato, Murat ritirava le genti che vi aveva, in Ancona, per tener quel freno in bocca al pontefice; si coloriva il fatto col pretesto degl'Inglesi. Così gl'Inglesi occupavano quanto potevano in Italia e nelle sue isole per impedire, come dicevano, il predominio e la tirannide dei Franzesi, questi facevano lo stesso per impedire, come protestavano, ii predominio e la tirannide degl'inglesi; fra entrambi intanto l'Italia non aveva nè posa nè speranza. Murat girando per Toscana e stando in Firenze, ed ora andando a Pisa, ed ora a Livorno ed ora a Lucca, riceveva in ogni luogo come cognato del consolo, onorevoli accoglienze; cagione per lui d'incredibile contentezza. Si mostrava cortese ed affabile con tutti, nè amava le rapine, manco il sangue; purchè il lodassero, se ne veniva contento. Pure trascorse ad un atto, nel quale non si sa se sia o maggior barbarie, o maggior ingratitudine, o maggiore insolenza. Comandava con bando pubblico che tutti gl'Italiani, erano la maggior parte Napolitani, esuli dalle patrie loro per opinioni politiche, dovessero sgombrare dalla Toscana, e ritornare ne' proprii paesi, in cui, secondochè affermava, potevano, in virtù dei trattati, vivere vita sicura e tranquilla: chi fosse contumace a questo comandamento, fosse per forza condotto ai confini ed espulso. Murat contento di comandar in Toscana, fu contentissimo d'instituirvi un re. Era l'infante principe di Parma arrivato in Parma, dove stava aspettando i deputati del novello regno. Vennervi a complimentarlo e riconoscerlo come re di Etruria, quest'era il titolo che gli si dava, Murat, Ippolito Venturi, Ubaldo Feroni. Assunse il nome di Lodovico I; nominò suo legato a ricever il regno Cesare Ventura. Murat annunziando l'assunzione di Lodovico, parlava di civiltà e di dottrina ai Toscani, lodava i Medici ed i Leopoldi, esortava i regnicoli ad avere i Franzesi in luogo di un popolo amico. Cesare Ventura prendeva possesso del regno. Favellarono nella solennità Francesco Gonella, Tommaso Magnani, Orlando del Benino. Vidervisi due donne complimentate da Gian Batista Grisoni, l'una sorella del consolo, l'altra vedova del ministro di Spagna. Venne Lodovico a Firenze, resse con dolcezza, le leopoldiane vestigia calcando. Era tempo di costituzioni transitorie, fatte non perchè durassero, ma perchè servissero di scala ad altre. Mandava il consolo, qual suo legato, Salicetti a riformar Lucca, oppressa dall'impero dei forastieri e straziata dalle discordie civili. Parve bello ed acconcio trovato per ritrarre i paesi, a satisfazione delle potenze, verso i loro ordini antichi, l'introdurre nei nuovi nomi i vecchi. Cominciavasi a parlar di aristocrazia per far passo alla monarchia. Costituiva Salicetti la repubblica di Lucca con un Collegio o Gran Consiglio di duecento proprietarii più ricchi e di cento principali negozianti, artisti e letterati: avesse questo consiglio la facoltà di eleggere i primi magistrati. Fossevi un corpo d'anziani con la potestà esecutiva; presiedesselo un gonfaloniere eletto a volta dai colleghi, una volta ogni due mesi: un consiglio amministrativo, nel quale gli anziani entrassero, e quattro magistrati di tre membri ciascuno, esercesse le veci di ministri: proponessero gli anziani le leggi e le eseguissero; una congregazione di venti eletti dal collegio le discutessero e le statuissero; rappresentasse il gonfaloniere la repubblica, le leggi promulgasse, gli atti degli anziani sottoscrivesse. I cantoni del Serchio con Lucca, del Littorale con Viareggio, degli Apennini con borgo a Mozzano componessero la repubblica. Per la prima volta trasse Salicetti i magistrati supremi. Ordini buoni erano questi, ma il tempo li guastava. Le sorti della Toscana erano congiunte con quelle di Parma. Essendo il duca padre mancato di vita, cesse la sovranità del ducato nella repubblica di Francia. Mandava il consolo il consiglier di Stato Moreau di Saint-Mery ad amministrarlo. Resse Saint-Mery, che buona e leale persona era, con benigno e giusto freno. Era egli, se non letterato, non senza lettere ed amatore sì di letterati che d'opere letterarie: ogni generoso pensiero gli piaceva. Solo procedeva con qualche vanità, e siccome le vanità particolari sono intollerabili alle ambizioni generali, venne in disgrazia del consolo, nè potè costituire in Parma ordini stabili. Due qualità contrarie erano nel consolo, pazienza maravigliosa nel proseguire cautamente anche pel corso di molti anni, i suoi disegni, impazienza di conseguire precipitosamente il fine quando ad esso approssimava. Riconciliatosi col papa, quieta l'Austria, ingannato Alessandro, confidente della pace coll'Inghilterra, si apparecchiava a mandar ad effetto ciò che nella mente aveva da sì luogo tempo concetto e con tanta pertinacia procurato. Voleva che le prime mosse venissero dall'Italia, perchè temeva che certi residui di opinioni e di desiderii repubblicani in Francia non fossero per fargli qualche malgiuoco sotto, se la faccenda non si spianasse con qualche precedente esempio. Deliberossi adunque prima di scoprirsi in Francia di fare sue sperienze italiane, confidando che gli Italiani, siccome vinti, avrebbero l'animo più pieghevole. Così con le armi franzesi aveva conquistato Italia, con le condiscendenze italiane voleva conquistar Francia. Sapeva che le cose insolite allettano tutti, spezialmente i Franzesi nati con fantasia potente. Perciò volle alle sue italiane arti dare pomposo cominciamento. Spargevansi ad arte dai più fidi in Cisalpina voci che la repubblica pericolava con quei governi temporanei; che era oggimai tempo di costituirla stabilmente e come a potenza independente si conveniva; che ordini forti erano necessarii perchè diventasse quieta dentro, rispettata fuori; che niuno era più capace di darle questi necessari ordini di colui che prima l'aveva creata, poi riscattata; non potersi più lei costituire con gli ordini dati dall'eroe Buonaparte del 1797, perchè avviliti dalla invasione, ricordatori di discordie, sospetti per democrazia ai potentati vicini. Aver pace Europa, averla Italia: non doversi più la felice concordia turbare con ordini incomposti; volersi vivere in repubblica, ma non troppo disforme dai governi antichi conservati in Europa; sola potenza essere la Cisalpina in Italia che a favor di Francia stando, fosse in grado di tener in equilibrio l'Austria tanto potente per l'acquisto de' dominii veneziani, nè essere la repubblica per acquistare la forza necessaria, se non con leggi conducenti a stabilità: varii essere gli umori, gl'interessi, le opinioni, le abitudini delle cisalpine popolazioni, nè Veneziani, Milanesi, Modanesi, Novaresi, Bolognesi nel medesimo desiderio concorrere, nè la medesima cosa volere; rimanere i vestigii dell'antiche emolazioni: parti separate e non consenzienti non poter comporre un corpo unito e forte, se un governo stretto, se una mano gagliarda in uno e medesimo volere non le costringessero: richiedere adunque un reggimento nuovo, concorde e virile la pace d'Europa, richiederlo la quiete della Cisalpina, richiederlo le condizioni felici alle quali era chiamata. Mentre questi semi si spargevano nel pubblico, Petiet coi capi della Cisalpina negoziava affinchè i comandamenti imperativi del consolo avessero a parere desiderii e supplicazioni spontanee dei popoli. Maturati i consigli, a Parigi pel disegno, a Milano per l'esecuzione, usciva un decreto della consulta legislativa del governo: ordinava che una consulta straordinaria si adunerebbe a Lione in Francia, e suo ufficio sarebbe ordinare le leggi fondamentali dello Stato ed informare il consolo intorno alle persone che nei tre collegi elettorali dovessero entrare: sarebbe l'assemblea composta dei membri attuali della consulta legislativa, da quei della commissione, eccettuati tre per restare al governo del paese, da una deputazione di vescovi e di curati, e dalle deputazioni dei tribunali, delle accademie, della università degli studii, della guardia nazionale, dei reggimenti della truppa soldata, dei notabili dei dipartimenti, delle camere di commercio. Sommò il numero a quattrocento cinquanta. Risplendeanvi un Visconti, arcivescovo di Milano, un Castiglioni, un Montecuccoli, un Opizzoni, un Rangoni, un Melzi, un Paradisi, un Caprara, un Serbelloni, un Aldrovandi, un Giovio, un Pallavicini, un Moscati, un Gambara, un Lecchi, un Borromeo, un Triulzi, un Fantoni, un Belgiojoso, un Mangili, un Cagnoli, un Oriani, un Codronchi, arcivescovo di Ravenna, un Belissomi, vescovo di Cesena, un Dolfino, vescovo di Bergamo. Andarono a Lione, chi per amore, chi per forza, chi per ambizione: grande aspettazione era in Cisalpina; in Francia le menti attentissime. Pareva un fallo mirabile che una nazione italiana si conducesse in Francia per regolare le sue sorti. Il governo cisalpino esortava con pubblico manifesto i deputati; gissero a fondare gli ordini salutari della repubblica in mezzo alla maggior nazione, in cospetto dell'autore e del restitutore della Cisalpina; nissuno l'ufficio ricusasse; mostrassero con le egregie qualità loro, quanto la cisalpina nazione valesse: a lei amore e rispetto conciliassero; ogni pretesto di calunnia togliessero; nel lionese congresso livor nissuno, parzialità nissuna recassero; al mondo disvelassero, buonamente, nobilmente, affettuosamente verso la patria procedendo, esser loro quei medesimi Cisalpini che nell'inevitabile tumulto di tante passioni, nell'avviluppamento di tante vicende, nell'alternativa di politici eventi tanto contrarii, mai non attesero a vendette, a discordie, a fazioni, a persecuzioni, a sangue: pruovassero che non invano aveva il cisalpino popolo nome di leale e di buono; pruovassero che se a sublime grado fra le nazioni erano destinati, a sublime grado ancora meritavano d'essere innalzati; dovere a sè stessa dei propri ordini restare la Cisalpina obbligata; solo sè medesima potrebbe accagionare, se tanti lieti augurii, se tante concepite speranze fossero indarno. Questi nobili sentimenti verso la cisalpina patria e questa rinunziazione di ogni affetto parziale ed interessato predicava un Sommariva, presidente del governo. Trovarono in Lione il ministro Talleyrand, che aveva in sè raccolti tutti i pensieri del consolo; trovarono Marescalchi che riconosciuto da Francia per ministro degli affari esteri della Cisalpina, guardava dove accennasse in viso Taleyrand, e il seguitava. L'importanza era che vi fosse sembianza di discutere liberamente quello che già il consolo aveva ordinato imperiosamente. Già aveva sparso sue ambagi: volere la felicità della Cisalpina, volere consigliarsi con gli uomini savi di lei; niuna cosa più desiderare che la independenza e la salute sua; amarla come sua figliuola prediletta, stimarla principal parte della sua gloria; l'arte allignava, bene si disponeva la materia. Partivansi i deputati in cinque congregazioni che rappresentavano i cinque popoli, esaminassero la costituzione già data dal consolo per Petiel a Milano, e come per leggi organiche si potesse mandar ad esecuzione. Discutevasi a Lione dai mandatarii; la licenza soldatesca straziava intanto i mandatori, un inesorabile governo con le tasse li conquideva. Dolevansi e delle perdute sostanze e degli innumerevoli oltraggi e della durissima servitù: le grida degli straziati a Milano furono soffocate dalle grida dei festeggianti a Lione. A Lione si discorreva e si obbediva. Allungato il farne pubblica dimostrazione quanto potesse parere dignità e sufficienza di discussione, arrivava il consolo: era l'11 gennaio. Lionesi e Cisalpini a gara accorrevano. Era spettacolo grande a chi mirava la scorza, compassionevole a chi dentro, perchè là si macchinava di spegnere per legge la libertà che già innanzi era perita per abuso. Ognuno maravigliava la dolcezza e la semplicità del consolo: pareva loro che fossero parte di grandezza; le adulazioni sorgevano. I repubblicani, se alcuno ve n'era, si rodevano, ma s'infingevano non tanto per non esser tenuti faziosi, quanto per non esser tenuti pazzi o sciocchi; che già con questi nomi cominciava a chiamarli l'età. Buonaparte metteva mano all'opera; chiamava i presidenti delle congregazioni e con loro discorreva intorno alla costituzione: ora approvava, ora emendava, ora domandava consiglio. Contradditor benigno e docile alle risposte, pareva che da altri ricevesse quello che loro dava. Chi conosceva l'intrinseco, ammirava l'arte; chi l'ignorava, la modestia. Infine dai discorsi permessi si venne alla conclusione comandata: fu approvata la costituzione; parve buono e fondamentale ordine quello dei collegi elettorali: nominolli per la prima volta il consolo su liste doppie presentate dalle congregazioni. Ma non s'era ancor toccato il principal tasto, per cui mezza Italia era stata fatta venire in Francia. Meno una costituzione che un esempio si aspettava dagl'Italiani. Trattavasi di nominare un presidente della Cisalpina. Importava la persona, importava la durata del magistrato: a Buonaparte non piacevano i magistrati a tempo. Fu data l'intesa ai cisalpini perchè il chiamassero capo della repubblica e gli dessero il magistrato supremo di presidente per dieci anni, e potesse essere rieletto quante volte si volesse. Avevano queste due deliberazioni qualche malagevolezza, parte coi Cisalpini, parte colle potenze per la evidente dipendenza verso Francia, se il consolo fosse padrone della Cisalpina. Importava anche il confessare che niun cisalpino fosse atto a governare: alcuni andavano alla volta di Melzi. I ministri di Buonaparte fecero diligenze coi partigiani, ora lodando Melzi, ora asseverando che avrebbe grande autorità nei nuovi ordini. Ebbero le arti il fine desiderato. Appresentaronsi con la deliberazione fatta i Cisalpini al consolo, nella quale era tanta adulazione di lui e tanta depressione di loro medesimi, che non è da credere che nelle storie vi sia un atto più umile o più vergognoso di questo. Confessarono, e si forzarono anche di pruovare con loro ragioni, a tanto di viltà eran ridotti, che nissun Cisalpino era che idoneamente li potesse governare. Gradì il consolo nelle umili parole i proprii comandamenti; disse che domani fra i convocati cisalpini in pubblica adunanza sederebbe. Accompagnato dai ministri di Francia, dai consiglieri di Stato, dai generali, dai prefetti e dai magistrati municipali di Lione, fra le liete accoglienze ed i plausi festivi dei Cisalpini, in alto seggio recatosi, così loro favellava: «Hovvi in Lione, come principali cittadini della Cisalpina repubblica appresso a me adunati; voi mi avete bastanti lumi dato, perchè l'augusto carico a me imposto, come primo magistrato del popolo franzese e come primo creator vostro, riempire io potessi. Le elezioni dei magistrati io feci senza amore di parti o di luoghi; quanto al supremo grado di presidente, niuno ho trovato fra di voi che per servigi verso la patria, per autorità nel popolo, per sceveramento di parti abbia meritato ch'io un tal carico gli commettessi. Muovonmi i motivi da voi prudentemente addotti: ai vostri desiderii consento. Sosterrò io, finchè fia d'uopo, la gran mole delle faccende vostre. Dolce mi sarà fra tante mie cure l'udire la confermazione dello Stato vostro e la prosperità dei vostri popoli. Voi non avete leggi generali, non eserciti forti; ma Dio vi salva, poichè possedete quanto li può creare, dico popolazioni numerose, campagne fertili, esempio da Francia.» (Versione del Botta.) Questo favellare superbo fu da altissimi plausi e di Franzesi e di Cisalpini seguitato. La servitù era dall'un de' lati mitigata dall'imperio sopra i forastieri, dall'altro amareggiata dal vilipendio; pure lietissimamente applaudivano i servi doppii, come se onorati e liberi fossero. Dimostrarono desiderio che la repubblica, non più cisalpina, ma italiana si chiamasse, cosa molto pregna, massimamente in mano di Buonaparte. Consentì facilmente il consolo. Riprese, adulando, le parole Prina Novarese, il quale, essendo di natura severa ed arbitraria, molto bene aveva subodorato il consolo, ed il consolo lui. Chiamarono gl'Italici ad alla voce il consolo presidente per dieci anni, e rieleggere si potesse. Ebbe Melzi luogo di vicepresidente. Era Melzi uomo generoso, savio, molto amato dagl'Italiani: pendeva all'assoluto, ma piuttosto per grandezza che per vanità. Restava che si ordinasse la costituzione: cominciossi dagli ordini ecclesiastici. Fosse la religione cattolica, apostolica e romana religione dello Stato: ciò non ostante, i riti acattolici liberamente si potessero celebrare in privato; nominasse il governo i vescovi, gl'instituisse la santa Sede; nominassero i vescovi ed instituissero i parrochi, il governo gli appruovasse: ciascuna diocesi avesse un capitolo metropolitano ed un seminario; i beni non alienati si restituissero al clero; si definissero le congrue in beni pei vescovi, pei capitoli, pei seminarii, per le fabbriche, fra tre mesi; si assegnassero pensioni convenienti ai religiosi soppressi; non s'innovassero i confini delle diocesi; per gl'innovati si domandasse la approvazione della santa Sede; gli ecclesiastici delinquenti con le pene canoniche fossero dai vescovi puniti; se gli ecclesiastici non si rassegnassero, i vescovi ricorressero al braccio secolare; se un ecclesiastico fosse condannato per delitto, si avvisasse il vescovo della condanna, acciocchè quanto dalle leggi canoniche fosse prescritto potesse fare: ogni atto pubblico che o i buoni costumi corrompesse, od il culto o i suoi ministri offendesse, fosse proibito; niun parroco potesse essere sforzato da nissun magistrato a ministrare il sacramento del matrimonio a chiunque fosse vincolato da impedimento canonico. A questo modo fu ordinata la Chiesa italiana nella lionese consulta. Alcuni capi, ancorchè forse laudabili e sani, toccavano la giurisdizione ecclesiastica, e sarebbe stato necessario, l'intervento del pontefice. Nondimeno con acconcio discorso a nome di tutto il clero italico assentiva lo arcivescovo di Ravenna, assentimento non necessario se l'autorità civile aveva dritto di fare quello che fece, non sufficiente, se l'intervento dell'autorità pontificia era necessario. Ma il consolo su quelle prime tenerezze di amicizia col papa non aveva timore. Quanto agli ordini civili, i tre collegi dei possidenti, dei dotti e dei commercianti erano il fondamento principale della repubblica: in loro era investita la autorità sovrana. Ufficio dei collegi fosse nominare i membri della censura, della consulta di Stato, del corpo legislativo, dei tribunali di revisione e di cassazione, della camera dei conti. Ancora accusassero i magistrati per violata costituzione e per peculato; finalmente i dispareri nati tra la censura ed il governo per accuse di tal sorte definissero. Sedessero i possidenti in Milano, i dotti in Bologna, i commercianti in Brescia: ogni biennio si adunassero. Magistrato supremo era la censura: componessesi da nove possidenti, di sei dotti, di sei commercianti: sedesse in Cremona: desse per sè e giudicasse le accuse date per violata costituzione e per peculato; cinque giorni dopo la fine delle adunanze dei collegi si adunasse; dieci giorni, e non più, sedesse. Ordine buono era questo, ma l'età servile il rendeva inutile. Fosse il governo della repubblica commesso ad un presidente, ad un vicepresidente, ad una consulta di Stato, ai ministri, ad un consiglio legislativo. Avesse il presidente la potestà esecutiva, e il vicepresidente nominasse: fossero i ministri tenuti d'ogni loro atto verso lo Stato. Uffizio della consulta fosse l'esaminare ed il concludere le instruzioni pei ministri presso le potenze e l'esaminare i trattati. Potesse nei casi gravi derogare alle leggi sulla libertà dei cittadini ed all'esercizio della costituzione: provvedesse in qualunque modo alla salute della repubblica. Se dopo tre anni qualche riforma giudicasse necessaria in uno o più ordini della costituzione, sì la proponesse ai collegi, ed i collegi definissero. Avesse il consiglio legislativo facoltà di deliberare intorno ai progetti di legge proposti dal presidente, e di consigliarlo sopra quanti affari fosse da lui richiesto. Il corpo legislativo statuisse le leggi proposte dal governo, ma non discutesse nè parlasse: solo squittinasse. Tali furono i principali ordini della costituzione dell'Italiana repubblica, forse i migliori, massime i tre collegi ed il magistrato di censura, che Buonaparte abbia saputo immaginare. Letta ed accettata la costituzione, se ne tornava il consolo, traendo a calca e con acclamazioni il popolo, nel suo palazzo. Poscia, ricevute le salutazioni degl'Italici e nominati i ministri, si avviava, contento del successo del suo italiano sperimento, al maraviglioso e maravigliato Parigi. Fecersi molte allegrezze nell'italiana repubblica per la data costituzione e per l'acquistato presidente. Le adulazioni montarono al colmo. Presersi solennemente i magistrati secondo gli ordini nuovi; Melzi, prendendo il suo, parlò magnificamente del consolo, modestamente di sè, acerbamente dei predecessori: toccò principalmente delle corruttele. Intanto i soldati si descrivevano, ed i buoni reggimenti si ordinavano. Prina, ministro di finanza, talmente rendè prospera la rendita dello Stato, che, nonostante il tributo annuo che pagava alla Francia, erano le casse piene, i pagamenti agevoli. Le lettere e le scienze fiorivano, ma più le adulatorie che le libere. Buon modo avea trovato Buonaparte presidente perchè gli scrittori non facessero scarriere: questo fu di arricchirli e di chiamarli ai primi gradi. Pareva loro un gran fatto, ed accettando il lieto vivere, tacevano o adulavano. Tuttavia qualche volta il mal umore gli assaliva, e negl'intimi simposii loro si sfogavano e si divertivano a spese del presidente di Parigi. Il sapeva e ne rideva, perchè non li temeva. Insomma la letteratura servile, le finanze prospere, i soldati ordinati, l'independenza nulla. Fra tutto questo sorgevano opere di singolare maguificenza: il foro Buonaparte, come il chiamavano, fondessi nel luogo dove prima s'innalzavano le mura del castello di Milano. Fu questo un maraviglioso disegno che molto ritraeva della romana grandezza. Diessi mano al finirsi il duomo di Milano da tanto tempo imperfetto, e tanto fu promossa l'opera, che in poco d'anni vi si fece più lavoro che in parecchi secoli. Da ogni parte si acquistava la bellezza. Tutte queste cose e quel nome di repubblica italiana singolarmente allettavano i popoli della penisola. Così vissesi qualche tempo in lei, finchè nuovi disegni di Buonaparte l'incamminarono a nuovi pericoli ed a nuovi destini. A questo nome di repubblica Italiana ed all'esserne Buonaparte fatto capo, si insospettarono giustamente le potenze, massimamente l'Austria, alla quale stavano per le sue possessioni più a cura le italiane cose. L'imperadore Alessandro stesso, che già aveva concetto qualche sinistra impressione per la grande autorità che il consolo si era arrogata nella Svizzera, vieppiù si allontanava da lui pei risultamenti della lionese consulta, e le cose della Russia con la Francia già si scoprivano in manifesta contenzione. Il consolo, che non voleva essere arrestato a mezzo viaggio, tentò di mitigare questi mali umori col pubblicare una scrittura, con la quale si sforzava di mostrare che la Francia, conservando l'italiana repubblica, non aveva preso troppo per sè, nè tanto quanto avevano per sè stessi preso gli altri potentati. Genova sentiva ancor troppo pel recente governo di democrazia: volle il consolo venirne alla solita scala dell'aristocrazia. Il supplicarono affinchè desse loro una costituzione: consentiva facilmente. I governatori di Genova lietamente annunziavano le felici novelle ai loro concittadini; nè lo scritto dei reggitori genovesi disteso in lingua e stile assai più purgato che le sucide scritture cisalpine, toscane e napolitane, era, quanto alla forma, senza dignità. Importava la costituzione, che un senato reggesse con potestà esecutiva la repubblica; presiedesselo un doge; dividessesi in cinque magistrati, il magistrato supremo, quello di giustizia e legislazione, quello dell'interno, quello di guerra e mare, quello di finanza. Trenta membri il componessero. Ufficio suo fosse presentare ad una consulta nazionale le leggi da farsi, eseguire le fatte; eleggesse il doge sopra una lista triplice presentata dai collegi. Il doge presiedesse il senato ed il magistrato supremo: stesse in carica sei anni; rappresentasse, quanto alla dignità ed agli onori, la repubblica; sedesse nel palazzo nazionale; la guardia del governo gli obbedisse; un delegato del magistrato supremo in ogni suo atto l'assistesse. Fosse il magistrato supremo composto del doge, dei presidenti degli altri quattro magistrati e di quattro altri senatori; il senato gli eleggesse; gli si appartenesse specialmente l'esecuzione delle leggi e dei decreti; pubblicasse gli ordini e gli editti che credesse convenienti; tutti i magistrati amministrativi a lui subordinati s'intendessero; reggesse gli affari esteri; avesse facoltà di rivocare i magistrati da lui dipendenti, di sospendere per sei mesi i non dipendenti, anche i giudici dei tribunali; provvedesse alla salute sì interna che esterna dello Stato; vegliasse che la giustizia rettamente e secondo le leggi si ministrasse: sopravvegghiasse alle rendite pubbliche, agli affari ecclesiastici, agli archivii, alla pubblica instruzione; comandasse all'esercito. Questo ordine del magistrato supremo rappresentava nella nuova costituzione l'antico piccolo consiglio, che i Genovesi chiamavano consiglietto; in lui era tutto il nervo del governo. L'autorità del doge era, come negli antichi ordini, piuttosto onorifica che efficace. Questo era il governo della repubblica ligure. Restava a dichiararsi in qual modo si attuasse. Stanziò il consolo che vi fossero i tre collegi dei possidenti, dei negozianti, dei dotti, dai quali ogni potestà suprema, o politica, o civile, o amministrativa, come da fonte comune derivasse. Eleggessero ogni due anni i collegi un sindacato di sette membri: in potestà del sindacato fosse censurare due membri del senato, due della consulta nazionale, due di ogni consulta giurisdizionale, due di ogni tribunale, e chi fosse censurato, immantinente perdesse la carica. Le giurisdizioni o distretti nominassero ciascuno una consulta giurisdizionale; le consulte giurisdizionali i membri della consulta nazionale eleggessero: sedesse in questa la potestà legislativa. Il dì 29 giugno entrava in ufficio il nuovo governo in cospetto di Saliceti, ministro plenipotenziario di Francia. Orò Saliceti con parole acconce, ma in aria al solito e teoretiche. Ringraziato dal senato, il consolo rispondeva: amare la Francia i Liguri, perchè in ogni fortuna avevano i Liguri amato la Francia; non temessero di niuna potenza, la Francia gli aveva in tutela; dimenticassero le passate disgrazie, spegnessero gli odii civili, amassero la costituzione, le leggi, la religione; allestissero un navilio potente, ristaurassero l'antica gloria del nome ligure; sarebbesi sempre delle prospere cose dei Liguri rallegrato, delle avverse contristato. Decretava il senato che a Cristoforo Colombo, per avere scoperto un nuovo mondo, ed a Napoleone Buonaparte, per avere pacificato l'universo, due statue marmoree, una a ciascuno nell'atrio del palazzo nazionale s'innalzassero. Oltre a questo i Sarzanesi, supplicarono il governo fosse loro lecito fondare nella loro città un monumento a memoria della famiglia Buonaparte, che in lei, come affermavano, aveva avuto origine. Fu udito benignamente il supplicare dei Sarzanesi, e concessa loro volentieri la facoltà del monumento. Mentre Menou trasordinava in Piemonte, i reali di Sardegna andavano esuli per l'Italia. Il re Carlo Emmanuele, deditissimo alla religione, perseguitato da fantasmi malinconici, ed avendo per le sofferte disgrazie in poco concetto le cose umane, si deliberò di rinunziare al regno, acciocchè, da ogni altra mondana sollecitudine rimoto, solamente ai divini servigi ed alla salute dell'anima vacare potesse; rinunziazione senza fasto, che dimostrò al mondo che se l'ambizione è tormento a sè stessa, la moderazione rende felice l'uomo così negli alti come negli ultimi seggi. Per la rinunziazione di Carlo Emmanuele venne il regno in potestà di Vittorio Emmanuele, suo fratello, che allora dimorava nel regno di Napoli. Il consolo, che aveva indugiato ad unire formalmente il Piemonte alla Francia, venne finalmente a questa deliberazione, non perchè Alessandro consentisse, ma perchè le cose sue colla Russia già tendevano a manifesta discordia. Avvisava il consolo che fra quegli umori già tanto mossi il non unire il Piemonte non ristorerebbe l'amicizia, l'unirlo non accrescerebbe l'inimicizia. Per la qual cosa decretava, il dì 14 settembre, il suo senato, che i dipartimenti del Po, della Dora, di Marengo, della Sesia, della Stura e del Tanaro fossero e s'intendessero uniti al territorio della repubblica franzese. Principiò l'unione del Piemonte la sequela delle italiane aggiunte. Si fecero per la unione allegrezze in Piemonte, dai nobili volontieri, perchè per le carezze del consolo e di Menou vedevano che il dominio interrotto dalle intemperanze democratiche di nuovo veniva loro in mano, dal popolo non senza sincerità, perchè sperava che col reggimento legale fosse per cessare il dominio incomposto del capitano d'Egitto. Anno di CRISTO MDCCCIII. Indizione VI. PIO VII papa 4. FRANCESCO II imperadore 12. Continuossi a vivere qualche tempo in Italia, eccettuata la parte veneta, dal Piemonte fino a Napoli con due governi, l'uno di nome, l'altro di fatto. In Piemonte piuttosto Menou che Buonaparte regnava, in Parma piuttosto Buonaparte che Saint-Mery, a Genova piuttosto il consolo che il senato, in Roma piuttosto il consolo che il papa, in Toscana piuttosto Murat che Lodovico, in Napoli piuttosto Napoleone che Ferdinando. Rotte e superbe erano spesso le intimazioni a tutti questi italiani governi. Solo Menou faceva quel che voleva, e dominava a suo arbitrio. Il consolo gli comportava ogni cosa, e solo che l'Egiziano gli toccasse ch'erano democrati coloro che si querelavano, tosto l'approvava ed il lodava. Pagava il Piemonte le tremende ambagi d'Egitto. Gli altri obbedivano, chi per paura, chi per le ambizioni. A questo tempo (27 maggio) morì di febbre acuta il re Lodovico d'Etruria. Per la sua morte fu devoluto il trono nell'infante di Spagna Carlo Lodovico, del quale, per essere minore d'età, fu commessa la reggenza alla vedova regina, Maria Luisa. Ma qual regno fosse devoluto all'infante bene dimostrarono i comandamenti pubblicati nel tempo della sua assunzione da Murat in Livorno, dando questa città, come dichiarata d'assedio, nel governo dei suoi soldati. Mandava inoltre il generale buonapartico truppe a Piombino ed in tutto il litorale toscano per impedire ogni pratica cogl'Inglesi, arrestava gl'Inglesi, prendeva le loro navi sorte nel porto, e molestava, co' suoi corsari che uscivano da Livorno, i traffici inglesi. Queste cose faceva, perchè, dopo breve pace, era sorta nuova guerra con la Gran Bretagna. Prendeva, in mezzo a queste insolenze forastiere, nel mese di agosto (il dì 29), possessione del regno Carlo Lodovico, sotto tutela della regina madre. Giurarono fedeltà il senato fiorentino, i magistrati, i deputati delle principali città. Furonvi corse di cocchi, emblemi, luminarie, fuochi artificiali e le solite poesie elogistiche. Anno di CRISTO MDCCCIV. Indizione VII. PIO VII papa 5. FRANCESCO II imperadore 13. Ordinate col consentimento del papa le faccende religiose in Francia, si rendeva necessario che il consolo le acconciasse coll'intervento pontificio nell'Italia; imperciocchè il pontefice non aveva tralasciato di muovere querele intorno alle deliberazioni prese senza che la potestà sua fosse, non che consenziente, richiesta, nell'italiana costituzione. Il consolo, per un suo gran fine, voleva gratificare al papa. Per la qual cosa, dopo alcune pratiche tenute a Parigi tra il cardinal Caprara, legato della santa Sede, e Ferdinando Marescalchi, ministro degli affari esteri della repubblica italiana, fu concluso, il dì 16 settembre dell'anno precedente, in nome del pontefice e del presidente un concordato, l'importar del quale fu quasi del tutto conforme al concordato di Francia. Ma bene ne ampliò le condizioni a favore della potestà secolare Melzi vicepresidente. Decretava, ai primi di febbraio del presente anno, che la facoltà di vestire e di ammettere alla professione religiosa fosse ristretta agli ordini, conventi, collegi, monasteri, che per instituto fossero dediti all'istruzione ed educazione della gioventù, alla cura degl'infermi, o ad altri simili ufficii di speciale e pubblica utilità; che per vestire o far professione religiosa individuale, e per la promozione agli ordini sacri il beneplacito del governo si richiedesse; che la libera comunicazione dei vescovi colla santa Sede non importasse nè devoluzione di cause da trattarsi in via contenziosa avanti i tribunali, nè dipendenza alcuna dall'autorità spirituale nelle cose di privata competenza dell'autorità temporale; che le bolle, i brevi ed i rescritti della corte di Roma non si potessero recare in uso esteriore e pubblico senza il beneplacito del governo; che solamente i sacerdoti, gl'iniziati negli ordini sacri, i cherici ammessi nei seminarii vescovili ed i vestiti o professi negli ordini religiosi fossero esenti dal servizio militare; che il governo non darebbe mano forte per l'esecuzione delle pene esterne ordinate dall'autorità ecclesiastica per correggere gli ecclesiastici delinquenti e gli appellanti dalle medesime, se non se in caso di abuso manifesto, ed osservati sempre i confini ed i modi della rispettiva competenza; finalmente, che la vigente disciplina della Chiesa nella sua attualità, salvo il diritto della tutela e giurisdizione politica, si mantenesse. Queste disposizioni sentì molto gravemente il pontefice, e vivamente se ne dolse col presidente. Egli si temporeggiava alle risposte, nè dava nè toglieva speranza di ammendazione. Intanto quantunque il concordato italico, e massime il decreto del vicepresidente, fossero più accetti a certuni che a certi altri, servirono, ciò non ostante, a tranquillare le coscienze timorate del popolo, il quale, avendo sempre perseverato nella fede e nella riverenza verso il papa, vedeva mal volentieri le dissensioni con Roma, ed ora della ristorata concordia si rallegrava. Ma già i bilustri pensieri del consolo si avvicinavano al loro compimento. Glorioso per guerra, glorioso per pace, nissun nome nè negli antichi, nè nei moderni tempi alle allucinate generazioni pareva uguale al suo. Ancora spesseggiava il suono nelle bocche degli uomini e fresca era negli animi la memoria delle sue maravigliose geste in Italia e prima e dopo le egiziache fatiche. Mirabili cose si dicevano ed ancor più si scrivevano. Il consolo, non abborrendo dal proposito di ridurre in servitù una nazione che con una piena di tanto amore si versava verso di lui, pensò esser arrivato il tempo di dar compimento a' suoi disegni. Perciò, allettati gli amatori del nome reale con la patria, i soldati coi donativi, i preti col concordato, i magistrati con gli onori, il popolo coi comodi, si accinse ad appropriarsi la parola di quello di cui già aveva la sostanza, accoppiando in tal modo il supremo nome alla suprema potenza. Restava che i repubblicani assicurasse: il fece con l'uccisione del duca d'Enghien. Diè le prime mosse il tribunato: il senato non s'indugiò a seguitare, parte per paura, parte per ambizione: il dì 18 maggio chiamava Napoleone Buonaparte imperator dei Franzesi. Questo atto, ancorchè inaspettato non fosse, empiè di maraviglia il mondo. I reali si accorsero che Buonaparte non era uomo, come aspettavano, che volesse fare il Monk; i repubblicani videro che non era uomo da voler fare, come si promettevano, il Cincinnato. Poi i reali dimenticarono tosto la realtà, i repubblicani la repubblica, e gli uni e gli altri trassero cupidamente agl'imperiali allettamenti. Pochi dall'una parte e dall'altra si ristarono. Delle potenze d'Europa, l'Inghilterra, che non s'era mai ingannata sulle qualità di Buonaparte, contrastava, ma invano; contrastava anche invano il lontano ed ingannatosi Alessandro; la Turchia, per timore della Russia, si peritava; l'Austria taceva; la Prussia, che tuttavia continuava ad ingannarsi, non solamente aveva consentito, ma ancora esortato. Questo era stato uno dei principali fondamenti dell'ardimento di Napoleone. Luigi XVIII, re di Francia, che fino a questo tempo, forse per qualche speranza, aveva più temperatamente che degli altri governi franzesi parlato e scritto di Buonaparte, a questo estremo atto di assunzione di potenza, per cui ogni aspettazione di buon fine era tolta, grandemente risentendosi, con gravissime parole contro l'usurpazione fin dall'ultimo settentrione, dove esule da' suoi regni se ne stava, protestò. Il Piemonte si confortava della perduta independenza per l'unione con chi comandava; Genova ingannata sperava almeno di conservare l'antico nome; la repubblica italiana, giacchè era perduta la libertà, si prometteva almeno la potenza; la Toscana, che meglio di tutti giudicava delle faccende presenti, non sapeva nè che sperasse nè che temesse; bene si doleva che i leopoldiani tempi fossero perduti per sempre; Napoli, già servo il regno di qua dal Faro, stava in dubbio se almeno potesse conservar libero quello oltre il Faro. Il papa era spaventato dalla grandezza di Napoleone; ma egli il confortava con le promesse, con le adulazioni, ed ancor più con le richieste; imperciocchè, vedendo che, poichè alle antiche consuetudini se ne tornava, non aveva titolo legittimo, nè volendo ammettere la dottrina della sovranità del popolo perchè l'ammetterla era un confessare che chi faceva poteva disfare, ed ei non voleva essere disfatto, il pontefice con grandissime istanze, non purgate da qualche minaccia, richiedeva che a Parigi se ne venisse per consecrarlo imperatore. Parevagli che la consecrazione del papa gli desse nella opinione degli uomini quello che per altre parti gli mancava. Era certamente un gran fatto che il capo supremo della Chiesa, in età già grave, in istagione sinistra, a lontana e straniera terra se ne andasse per legittimare con la santità del suo ministerio quello che tutti i principi d'Europa chiamavano o apertamente o occultamente una usurpazione. Per indurre il papa a questa deliberazione, Napoleone gli prometteva, che se già molto aveva fatto a benefizio della religione e della santa Sede in Francia, molto più era per fare, ove il papa consentisse alla consecrazione. Si trovava il pontefice da queste domande molto angustiato, perchè dall'una parte desiderava di satisfare a Napoleone, sperando di farne nascere tratti profittevoli alla religione; dall'altra il confermare con la efficacia del suo ufficio gli effetti della prepotenza militare, gli pareva duro e disonorevole consiglio. Tutte le cose però molto bene e maturamente considerate, e co' suoi cardinali parecchie volte ponderate, implorato anche l'aiuto divino, siccome quegli che pienamente da lui ripeteva ogni evento o prospero od avverso, si deliberava a voler fare quello che da tanti secoli non si era veduto che alcuno fatto avesse. Per la qual cosa, risolutosi del tutto a voler posporre al benefizio della religione ogni altro umano riguardo, convocati i cardinali il dì 29 ottobre, con queste gravi ed affettuose parole loro favellava: «Da questo medesimo seggio, venerabili fratelli, noi già vi annunziammo, siccome il concordato con Napoleone imperadore dei Franzesi, allora primo console, era stato da noi concluso: da questo stesso vi partecipammo la contentezza, che aveva ripieno il nostro cuore nel veder volte novellamente, per opera del concordato medesimo, alla cattolica Religione quelle vaste e popolose regioni. D'allora in poi i profanati tempi furono aperti e purificati, gli altari riedificati, la salvatrice croce innalzata, l'adorazione del vero Dio restituita, i misteri augusti della religione liberamente e pubblicamente celebrati, legittimi pastori a pascere il famelico gregge conceduti: numerose anime dai sentieri dell'errore al grembo della felice eternità richiamate, e con sè stesse e col vero Dio riconciliate: risorse felicemente, da quella oscurità in cui era stata immersa, alla piena luce del giorno in mezzo ad una rinomata nazione la cattolica religione. A tanti benefizii esultammo, e le esultazioni nostre a Dio nostro Signore dall'intimo del nostro cuore porgemmo. Questa grande e maravigliosa opera non solamente ci riempiva di gratitudine verso quel potente principe che usò tutto il potere e l'autorità sua per fare il concordato, ma ancora ci spingeva, per la dolce ricordanza, ad usare ogni occasione che si aprisse per dimostrargli tale essere verso di lui lo animo nostro. Ora questo medesimo potente principe, il nostro carissimo figliuolo in Cristo Napoleone imperadore dei Franzesi, che con le opere sue sì bene ha meritato della cattolica religione, viene a noi significandoci, ardentemente desiderare di essere coi santi olii unto, e dalle mani nostre l'imperiale corona ricevere, acciocchè i sacri diritti, che sono in così alto grado per collocarlo, siano col carattere della religione impressi, e più potentemente sopra di lui le celesti benedizioni appellino. Richiesta di tal sorte non solo chiaramente la Religione sua e la sua filiale riverenza verso la Santa Sede dimostrata, ma siccome quella che accompagnata è da espresse dimostrazioni e promosse, dà speranza che sia la fede sacra promossa, e che siano le dolorose ingiurie riparate, opera che già ha egli con tanta fatica e con tanto zelo in quelle fiorite ragioni procurato. Voi vedete pertanto, venerabili fratelli, quanto giuste e gravi siano le cagioni che ad intraprendere questo viaggio c'invitano. Muovonci gl'interessi della nostra santa religione, e muoveci la gratitudine verso il potente imperadore, muoveci l'amore verso colui che, con tutta la forza sua adoperandosi, ebbe in Francia alla cattolica religione libero e pubblico esercizio procurato, muoveci il desiderio che d'avanzarla viemmaggiormente in prosperità ed in dignità ci dimostra. Speriamo altresì, che quando al cospetto suo giunti saremo, e con lui volto a volto favelleremo, tali cose da esso a benefizio della cattolica Chiesa, sola posseditrice dell'arca di salvazione, impetreremo, che giustamente con noi medesimi dello avere a perfezione condotto l'opera della nostra santissima religione congratularci potremo. Non dalle nostre deboli parole tale speranza concepiamo, ma dalla grazia di colui di cui, quantunque immeritatamente, siamo il Vicario sopra la terra, dalla grazia di colui che per la forza dei sacri riti invocato essendo, nei bene disposti cuori dei principi discende, specialmente quando padri dei popoli si mostrano, specialmente quando alla eterna salute intendono, specialmente quando di vivere e di morire veri e buoni figliuoli della cattolica Chiesa deliberano. Per tutte queste cagioni, venerabili fratelli, e l'esempio seguitando di alcuni nostri predecessori, che, la propria sede lasciando, in estere regioni per promuovere la religione e per gratificare ai principi che della Chiesa bene meritato avevano, peregrinarono, ci siamo ad intraprendere il presente viaggio deliberati, avvengadiochè da tale risoluzione avessero dovuto allontanarci la stagione sinistra, l'età nostra grave, la salute inferma. Ma non fia che a tali impedimenti ci sgomentiamo, solo che voglia Iddio farci dei nostri desiderii grazia. Nè fu il negozio, prima che si risolvessimo, da ogni parte ed attentamente non considerato. Stemmo dubbii ed incerti un tempo; ma con tali assicurazioni si fece incontro ai desiderii nostri lo imperadore, che ci rendemmo certi, essere il nostro viaggio a pro della religione per riuscire. Voi ciò sapete che su di ciò a voi chiesi consiglio; ma per non preterire quello che ogni altra cosa avanza, sapendo benissimo che, conforme al detto della divina Sapienza, le risoluzioni dei mortali, anche di quelli che per dottrina e per pietà più riputati sono, di quelli altresì, il cui parlare quale incenso alla presenza di Dio sen sale, sono deboli e timide ed incerte, le nostre fervorose preghiere al Padre di ogni sapere indirizzammo, instantemente richiedendolo che ci sia fatto abilità di solo fare quello che a lui piacer possa, solo quello che a prosperità ed incremento della sua Chiesa tornare prometta. Ecci Dio, il quale coll'umile nostro cuore tante volte supplicammo, al quale nel suo sacro tempio le supplici nostre mani alzammo, dal quale e benigna udienza ed aiuto propizio in tant'uopo implorammo, testimonio che niun'altra cosa vogliamo, o niun'altra intendiamo, che alla gloria ed agli interessi della cattolica religione, alla salute delle anime, all'adempimento dell'apostolico mandato a noi, quantunque immeritevoli, commesso. Di questa medesima sincerità nostra voi stessi, venerabili fratelli, a cui tutto apersi, siete testimonii. Adunque quando un negozio sì grande con l'aiuto della divina assistenza vicino è a compirsi, qual vicario di Dio, Salvator nostro, operando, questo viaggio, al quale tante e sì ponderose cagioni ci confortano, imprenderemo. Benedirà, speriamo, il Dio d'ogni grazia i nostri passi, ed in questa epoca nuova della religione con uno splendore di accresciuta gloria si manifesterà! Ad esempio di Pio VI di riverita memoria, quando a Vienna d'Austria si condusse, abbiamo, venerabili fratelli, provveduto che le curie e le audienze siano e restino, secondo il solito, aperte; e siccome la necessità del morire è certa, il giorno incerto, così abbiamo ordinato, che se durante il viaggio nostro a Dio piacesse di ritorci a lui, si tengano i pontificii comizii. Infine da voi richiediamo, voi instantemente preghiamo che vi piaccia per noi sempre quell'affezione medesima conservare che finora ci mostraste, e che, noi assenti, l'anima nostra all'onnipotente Iddio, a Gesù Cristo nostro Signore, alla gloriosissima sua Vergine madre, al beato apostolo Pietro, acciò questo viaggio e felice sia nel corso e prospero nel fine, raccomandiate. La quale cosa, se come speriamo, dal fonte di bene impetreremo, voi, venerandi fratelli, che di ogni consiglio nostro e di ogni nostra cura foste sempre partecipi fatti, della comune contentezza ancora voi parteciperete e tutti insieme nella mercè del Signore esulteremo e ci rallegreremo.» Giunto il pontefice sulle franzesi terre, fu per ordine dell'imperatore, ed ancor più per la pietà dei fedeli, in ogni luogo con riverenza veduto. A Parigi, anche quelli che non credevano nè al papa nè alla religione si precitavano a gara alla sua presenza, per esprimergli con parole sentimenti di rispetto. Incoronava Napoleone il dì 2 dicembre. Napoleone consecrato diè nel campo di Marte solennemente le imperiali aquile a' suoi soldati: le antiche insegne della repubblica, che avevano veduto le renane, italiche, egiziache vittorie, lasciate nel fango. Andarono i magistrati ed i capi dell'esercito a rendere omaggio all'incoronato loro signore. Cervoni, antico compagno, vedendolo non più così scarso del corpo come era una volta, con esso lui della prospera salute si rallegrava. Si, rispose il sire, ora sto bene. Mentre pel concordato con Francia aveva il pontefice dato sesto alle faccende religiose di quel regno, un altro pensiero mandava ad effetto, dal quale confidava che dovesse risultare molto benefizio alla Sedia apostolica; e siccome per l'accordo fatto con Napoleone aveva posto freno alla setta filosofica, così con un'altra deliberazione voleva medicare dalle radici il male che vedeva provenire dalla setta che l'impugnava, pretendendo le massime e gli usi della Chiesa primitiva. Erasi sparsa voce: spenti i gesuiti, per questo appunto esser nate le rivoluzioni, per questo la rovina de' reali seggi, per questo imperversare una libertà scapestrata, per questo l'anarchia dissolvere ogni buon ordine, perchè era stata soppressa la società loro; per questo la filosofica e la giansenistica piena avere tutto allagato: a sì potenti e sì ostinati nemici, i re soli senza il papa, nè il papa solo senza i re, nemmeno i re ed il papa insieme congiunti non poter resistere, se non s'accosta l'opera aiutatrice e tanto efficace dei gesuiti: sedurre la filosofia gli animi ardenti ed allegri con torre il freno alle passioni, sedurre il giansenismo gli animi ardenti e rigidi con un'apparenza di santimonia e di austerità: non essere padroni i re dell'ammaestrare i giovani a seconda dei pensieri loro; non esser padrone il papa di piegar uomini male ammaestrati: necessario esser l'aiuto di coloro che radici buone sanno porre negli spiriti, e di quanto gli spiriti concepiscono e di quanto le mani fanno, possono essere e sono diligentemente informati: cospirare il volgo contro i potenti, doversi accordare i potenti per resistere al volgo; nè un modo qualunque al grand'uopo poter bastare; richiedersi il più alto, il più stretto, il più generale: soli a questo fine valere i gesuiti; doversi loro chiamare ad instaurazione della società sciolta, a salute dei principi pericolanti, a rannodamento dell'Europa disordinata: o gesuiti o rivoluzioni, nè altro modo di salvamento trovarsi che in loro. A tali vociferazioni, che in quest'anno diffondevansi ogni giorno più, supplicava il re Ferdinando di Napoli il papa, acciocchè, per ammaestrare la gioventù del suo reame nelle rette e salutevoli dottrine, come diceva, vi riinstaurasse, siccome già in Russia aveva fatto, la compagnia di Gesù. Il pontefice facilmente gliene consentiva: un Gabriello Gruber la ordinava. Così fu principiata la risurrezione dei gesuiti; e fu osservato che fu principiata da un re, attivo cooperatore della soppressione, e da un papa uscito dai benedettini, avversi ai gesuiti. Le toscane cose, che nell'anno precedente lasciammo non poco sinistre, vieppiù turbava un insolito e doloroso accidente: conciossiachè sorse in sul finire dell'autunno del presente anno nella egregia città di Livorno una pestifera infermità, alla quale diede occasione, siccome pare, la state che trascorse in quest'anno, sotto il dominio continuo di venti austriali, oltre solito calda e piovosa. La quale infermità, da alcuni chiamata febbre gialla, da altri vomito nero, nomi l'uno e l'altro che a lei molto bene si confanno pei segni strani che l'accompagnano, incominciò ad infierire nelle parti più basse, più fitte e più sucide della città per modo che a questi toglieva la vita in sette giorni, a chi in cinque, a chi in tre, ed a chi ancora nel breve giro di un giorno. Dire quali e quanti fossero gli effetti che in chi ella s'appiccava ingenerasse, fora materia assai lunga e difficile, perchè chi assaliva ad un modo e chi ad un altro, ed era molto proteiforme. Pure sormontavano sempre i due principali segni, che il corpo, massimamente il busto, e prima e dopo morte, giallo divenisse, e certo sozzume nero a guisa della posatura del caffè in copia lo stomaco recesse. Nè più facilmente nei cagionevoli che nei sani s'accendeva il mortale morbo, perciocchè si vedevano spesso giovani gagliardi passarsene dallo stato il più florido di salute fra brevissimo tempo in fine di morte. Nè uno era nei diversi tempi l'aspetto del morbo, tre particolarmente notandosene: in sul primo, poco aveva che dalle solite ardenti febbri il differenziasse; l'insulto primo accompagnava un ribrezzo di freddo, massimamente lungo il dorso ed alla regione dei lombi; doleva acerbamente il capo, ma più alle tempia ed alla fronte che altrove, dolevano in singolar modo le membra alle giunture; gli occhi accesi e come pieni di sangue, duri e presti i polsi; la pelle ardeva di calore intensissimo, nè godeva l'ammalato del benefizio del ventre o delle orine. Augurio funesto erano principalmente un molesto senso alla forcella dello stomaco ed una inclinazione al vomitare. Questo primo tempo concludeva una grande insidia, per modo che quando più pareva al malato, ai parenti ed agli amici vicina la guarnigione, più vicina era la morte. Tutto il mortifero apparato s'attutiva ad un tratto, e, cessata la lebbre, se un leggiero sudore ed una somma debolezza si eccettuavano, sano si mostrava il corpo, ed a perfetta salute inclinante. Ma ecco improvvisamente e dopo il breve spazio di poche ore, sorgere nuova e più fiera tempesta; che la molestia della bocca dello stomaco diveniva dolore acerbissimo, e dalla regione del ventricolo a quella del fegato si estendeva; nè il toccare queste parti, ancorchè leggerissimo fosse, era a modo alcuno sopportabile all'ammalato. Abboriva da ogni cibo e da ogni bevanda; gli occhi rossi, gialli si facevano: gialle ancora le orine, e giallo il corpo; la faccia ed il collo più di ogni altra parte il giallore vestivano. Lo stomaco impaziente vomitava ogni presa vivanda, benchè leggerissima fosse; ovvero pretta bile o bile mista a vermini buttava. A questo si aggiungevano oppressione ai precordii, sospiri frequenti, purgamenti del corpo fetidissimi, liquidi e come color di cenere. Nè regola certa più restava ai medicanti per giudicar del male, perchè i polsi ad ogni momento variavano; ora tardi, ora celeri, ora piccoli, ora spiegati, ora urtanti, ora languidi, ora depressi, mostravano che se insorgeva qualche volta natura, invano ancora insorgeva, superando la prepotente forza del morbo. In mezzo a tanto tumulto, come se chi era per morire meglio dovesse vedere la sua morte, libera si conservava la mente ed intiera. Succedeva tantosto l'ultimo tempo più vicino a morte, in cui tremavano le membra, i reciticci divenivano non più di muchi o di bile, ma di materia nera, fetidissima, come di sangue putrefatto e marcio. Trasudava anche, e spesso in gran copia, dalle gengive e dalle fauci questo nero sangue; e così ancora dalle narici e dal fondamento dell'utero copiosamente usciva: ogni cosa si volgeva a putredine ed a mortificazione. Bruttavano la pelle o macchie nere a guisa di piccoli punti, o larghi lividori a guisa di pesche, massimamente in quei luoghi a cui si appoggiava il corpo. Facevano la bocca disforme ed orrida, le labbra turgidissime e nere; gli occhi lagrimosi e tristi ogni vivo lume perdevano; quindi il delirio od il letargo fra le convulsioni ed un mortale freddo di membra la vita troncavano. Chi moriva nel primo, chi nel secondo, chi nel terzo tempo. Ma quando prima la malattia invase, più morivano nel primo che nell'ultimo; più nell'ultimo che nel primo, ma non molti, quando già trascorsi essendo circa due mesi, o fosse per l'abitudine dei corpi, o fosse per la diminuzione delle cagioni, già era stata ammansita la ferocia del funesto influsso. Pessimi presagii erano la violenza della prima febbre, i dolori acutissimi delle membra, massime al petto, l'affanno sommo, la prostrazione delle forze, il vomito pertinace e nero, il comparire sulle prime il giallore; il chiudersi la via delle orine, il singhiozzo: ottimi, la moderata febbre, il vomito raro e mucoso senza putridume, il giallore tardo, la traspirazione libera, il corpo lubrico, ma di bile, non di sangue, e il non tremare e il non prostrarsi. Per le orine trovava per l'ordinario via la natura a discacciare il veleno mortifero; imperciocchè, quando copiose ed intensamente gialle fluivano, annunziavano l'esito felice. Ma non una era la maniera del guarire; conciossiachè si è veduto l'uscire improvvisamente e copiosamente sangue dalla bocca e dalle narici chiamare inaspettatamente a vita chi già pareva preda d'inevitabil morte. Furono viste femmine guarite dal correre improvviso di mestrui abbondanti; fu visto lo sconciarsi della concetta creatura ed il copioso versarsi del sangue, che ne conseguitava, redimere la sofferente madre dalla fine imminente. Crudo era il male e nimicissimo alla vita; funeste vestigia, anche già quando se n'era ito, nei corpi lasciava: lunghe, tristi, penose si vedevano le convalescenze; chi restava stupido lungo spazio, chi tremava, chi, spaventato da funeste fantasime, passava malinconici i giorni, spaventose le notti, miserabili segni che stata era vicina la morte. Strana ed orrida contaminazione di corpi, che spesso, oltre le raccontate alterazioni, insolite apparenze induceva: a questo veniva in odio l'acqua, come se da cane arrabbiato morso fosse; a quello la vista si pervertiva, o doppio o più grande del solito vedendo; a quest'altro gonfiavano straordinariamente le parotidi: a chi venivano bollicine piene di umore corrosivo in pelle, ed a chi pioveva sangue dagli orecchi. Escoriavasi la pelle, come se dal fuoco bruciata fosse, in quei luoghi dove la suffusa bile si spargeva: trascolava dai vescicatorii una linfa intensamente verde, simile piuttosto al sugo di cicoria che ad altro, la quale sì caustica e sì pungente natura aveva, che la pelle delle toccate membra dolorosamente infiammava, e tostamente cancrenava. Più feroce infierì il male contro le donne. Ma le gravide quasi tutte, che prese ne furono, morirono: i fanciulli passarono quasi tutti indenni. L'intemperanza di ogni genere, specialmente il darsi al bere eccessivo del vino e degli spiriti, ed il gozzovigliare ed il trascorrere nei cibi cagionavano e più certa malattia e più certa morte. Ogni cosa poi sozza così dentro come fuori; imperciocchè negli sparati cadaveri le narici si vedevano imbrattate di nero sangue, e la morta bocca recere ancora, tanto n'era pieno il corpo, quel sucidume nero e fetido che nelle ultime ore della vita da lei pioveva. Pieno ancor esso e zeppo e gonfio di questo medesimo putridume infame e nero si trovava il ventricolo, roso, oltre a ciò, da serpeggiante cancrena, e rosi gl'intestini; la rete, chiamata dai medici omento, rosa del tutto, mostrava quanta forza di distruzione l'orribile malore avesse. Un fluido rosso e giallastro, come di bile mista a sangue, il cavo torace ingombrava; e sangue nero e putredinoso tutti aveva pieni i polmoni, cospersi ancor essi di macchie livide e cancrenose; livido ed infiammato il setto traverso; livida e di corrotto sangue piena la milza; livido, molle, putredinoso e di colore come se cotto fosse, il fegato, sul quale, e così sul ventricolo, pareva essersi specialmente scagliata con tutti i suoi effetti più tremendi la pestilenza. Insomma, o putridume sanguinolento, o sangue nero, o infiammazione vicina a sfacelo, o distruzione intiera di parti in ogni luogo e nelle più vitali viscere si discoprivano. Nè perchè la funesta corruttela tali mortiferi effetti producesse, lungo tempo richiedevasi che anche in coloro, i quali nel breve spazio di ventiquattr'ore restavano morti, si scorgeva che uno sfacelo universale, che un'aura venefica aveva il corpo tutto invaso ed allo stato di morte ridotto; che tale vide, tale descrisse con singolar medica maestria questa esiziale infermità il dottor Palloni, mandato dal toscano governo a vedere se alcun senno od umano provvedimento contro la medesima valesse. Nè solamente i visceri che più vicini e concorrenti all'opificio della digestione, quali sono, per esempio, il fegato ed il ventricolo, ma ancora i più segreti e più lontani erano da lei tocchi e contaminati; posciachè la vescica, che serve di ricettacolo alle orine, vuota si rinveniva, e di striscie sanguinose listata; il cerebro stesso, fonte principale di vita, ed i suoi proteggitori invogli col sozzo aspetto di vasi sanguigni strapieni, e con le cavità bruttate di un fluido sviato e giallastro, alla vista si appresentavano. Corrotta era la bile, e sparsa per tutto il corpo dei miseri contaminati. Pessimi il quinto e settimo giorno; pure notati di morti frequenti anche il primo, il secondo e il terzo: in alcuni, ma rari, indugiò la morte insino al decimoterzo od al decimoquarto. Varii furono gli argomenti usati dai medici per domare la dolorosa infermità; ma i più semplici, come suole, riuscirono anche i più vantaggiosi. Tenere il ventre libero col calomelano e con la gialappa, buono; buono promuovere il sudore; buonissime le limonee con qualche piccola dose di tartaro emetico; utili i fomenti caldi, in cui fosse stata cotta senape. Nè mancò di sovvenire efficacissimamente agli ammalati l'acido nitrico, massimamente quando si usava in sulle complessioni deboli, e quando, essendo già molt'oltre trascorso il male, le emorragie, il vomito nero ed altri segni la incominciata dissoluzione del corpo indicavano. Deteriorava pei vescicatorii la condizione degli ammalati; pure giovarono in qualche caso applicati alla regione del sottoposto ed infestato fegato. Le orine soppresse, la digitale purpurea giovava. Ma forte e sopra tutti supremo rimedio mostrossi l'aria pura, e spesse volte rinnovata, dalla quale tanta era la efficacia, che per lei, anche a piccola distanza, si distruggeva la venefica qualità ed il fomite stesso del male. Dall'altro canto si vedeva che per l'aria pregna di esalazioni animali si trasportava da uomo a uomo facilmente il morbo, e più fieramente l'infettato tormentava. Serve di argomento a compruovare questo accidente che le contrade più piene d'immondizie e meno ventilate della città, e le case dei poveri furono le più miseramente contaminate. Al contrario, le contrade spaziose e le case comode, pulite, e di aria aperta e libera, o andaronne esenti, o non peggiorovvi, o non vi appiccossi da corpo a corpo la corruzione; che anzi nel contaminato individuo si contenne, gli assistenti, i parenti, i medici, i ministri di Dio immuni lasciando. La qual cosa questa malattia dalle altre contagiose febbri, e specialmente dalla peste di Egitto, differenzia, il cui veleno largamente e lontanamente si appicca. Nè in contado si propagava, abbenchè continuamente infinite persone ed infinite mercanzie da contrada a contrada, e dalla città nei contado si trasportassero e si diffondessero. Nè l'uomo sano, ancorchè nella vicinanza degli ammalati vissuto fosse, mai ad altri la infezione, se prima egli medesimo tocco dalla malattia stato non fosse, comunicava; nè per gl'individui sani delle contaminate famiglie, nè per gli arnesi loro, nè per le altre suppellettili delle case giammai fuori la corruzione si avventava; e sì pure che le monete, le carte, le merci tutte in continuo giro ed in un indistinto commercio dentro e fuori della città versavano. L'abitudine, per un mirabile e non conosciuto artifizio dei nostri corpi, al malefico influsso gradatamente avvezzandoli, li salvava. Infatti, pel funesto male che tanti fra la minuta gente toglieva di vita, un solo ministro di Dio, tre soli ministri di salute perirono, quantunque e gli uni e gli altri frequentissimamente e con tutta cura agl'infettati assistessero. E quanta fosse la forza del rinnovato aere a domare l'acume del veleno, confermò visibilmente il provvedimento dato da chi reggeva l'ospedale di San Jacopo, il quale, quasi a riva il mare situato, ed ottimamente a salute edificato, di un'aria libera, sfogata e purissima godeva; conciossiachè non così tosto gl'infetti, ancorchè languidi, oppressi e già quasi vinti fossero dalla malattia, la soglia di quel salutifero edificio toccavano, ed in lui riposti erano, che i vitali spiriti in loro si rinvigorivano mirabilmente, e dalle angosce più crudeli subitamente ad un confortevole stato passavano. Toscano pregio fu rimedio all'inquilino morbo; perchè oltre alla purezza procurata dell'aria, la pulitezza delle case, la nettezza delle vestimenta, la mondezza dei corpi, qualità tanto eminenti nel toscano paese, sovvennero agl'infermi, e per sanarli bastarono le consuete abitudini. Nè anco in così nemico tempo si scoverse quel fine crudele di schifare e di fuggire gl'infetti per acquistare salute: a tutti rimasero i debiti sussidii, o per la carità dei parenti, o per l'amorevolezza degli amici, o per la pietà dei cherici, o per la provvidenza del pubblico; dei quali vantaggi devono i Livornesi o ad una maggiore civiltà o a più celesti inspirazioni restare obbligati. Adunque se, oltre una naturale disposizione dei corpi a restare contaminato dal morbo, abbisognavano e la vicinanza o il contatto dell'uomo ammalato, o delle robe che a suo uso avevano servito nel corso della malattia, se l'aria stagnante e chiusa e zeppa d'animali effluvii la dava, se l'aria aperta e sfogata o l'allontanava o l'aleggiava, se le persone sane, benchè vissute in prossimità degl'infetti, e le merci da loro tocche, solo che al puro e ventilato aere esposte fossero, l'infezione fuori della città non trasportavano, e se finalmente il medesimo aere ventilato e puro il malefico fomite presso al suo fonte stesso, cioè all'ammalato, distruggeva ed annientava, si deduce che o l'accidente mortifero di Livorno, quantunque avesse in sè raccolti tutti i segni di quel morbo che alcuni febbre gialla, altri vomito nero appellano, era nondimeno molto dal medesimo diverso, opinione non verisimile, perciocchè i segni indicano identità di natura, o che il terrore e la mossa immaginazione l'hanno in altri paesi fatto parere diverso da quello ch'egli è veramente, tassandolo di contagio, quando veramente contagioso non è, a modo delle malattie che i medici chiamano specialmente con questo nome, come, per cagion d'esempio, la peste d'Egitto. Nè dimoreremci a dire com'egli in Livorno stato fosse recato; perchè se il vi recasse, come corse fama, un bastimento venuto da Vera-Crux, è incerto, siccome ancora è incerto se da altro contagio qualunque, o se da mera disposizione del cielo piovoso e caldo, come alcuni credono, e pare più verisimile, ingenerato e sorto fosse. Certo è bene ch'ei fu contaminazione schifosa ed abbominevole, e che funestò per numerose morti Livorno, spaventò le città vicine, tenne lunga pezza dubbiosa ed atterrita l'Europa per la fama delle provincie devastate in America. Queste cose si son volute raccontare con quella semplicità che s'è potuto maggiore, acciocchè la nuda verità meglio servir potesse a far conoscere, per forza di comparazione, la natura ed i rimedii di un male che omai minaccia di voler accrescere la soma di tutti quelli che già pur troppo affliggono la miseranda Europa. Anno di CRISTO MDCCCV. Indizione VIII. PIO VII papa 6. FRANCESCO II imperadore 14. Pareva, e fu anche solennemente e con magnifiche parole detto da Napoleone e da Melzi, che gli ordini statuiti in Lione per l'Italia fossero per essere eterni; ma non erano corsi due anni, che già manchi, insufficienti, non conducenti a cosa che buona e durevole fosse, si qualificarono. Importava a chi s'era fatto imperatore che re ancora si facesse. Erano, non senza disegno, stati invitati gli Italici a condursi a Parigi, per cagione di assistere in nome della repubblica alle imperiali cerimonie ed allegrezze. Vi andarono Melzi presidente, i consultori di Stato Marescalchi, Caprara, Paradisi, Fenaroli, Costabili, Luosi, Guicciardini; i deputati dei collegi e dei magistrati, Guastavillani, Lambertenghi, Carlotti, Dambruschi, Rangone, Galeppi, Litta, Fe, Alessandri, Salimbeni, Appiani, Busti, Negri, Sopransi, Valdrighi. L'imperatore si lasciò intendere che il chiamassero re, e condannassero gli ordini lionesi: disponendosi la somma delle cose non solo con un comando, ma ancora con un cenno di Napoleone, il fecero volontieri; Melzi, appresentandosegli il dì 17 marzo con gli altri deputati in cospetto di Napoleone salito sul trono nel castello delle Tuillerie, in tali accenti favellava: «Voi ordinaste, o sire, che la consulta di Stato e i deputati della repubblica italiana si adunassero, e l'affare il più importante pe' suoi destini presenti e futuri, cioè la forma del suo governo, considerassero. Al cospetto vostro io m'appresento, o sire, per compire appresso a voi l'onorevole carico d'informarvi di quanto ella fece e di quanto ella desidera. Primieramente l'assemblea, molto bene ogni cosa considerando, venne in questa sentenza, che l'impossibile è, se troppo non si vuole dagli accidenti dell'età nostra discordare, le attuali forme conservare. Ebbero le lionesi constituzioni tutti i segni di ordini provvisorii: accidentali furono, perchè agli accidenti dei tempi fossero rispondenti, nè in sè alcun nervo avevano, per cui gli uomini prudenti e durata e conservazione promettere si potessero. Non che la ragione, l'evidenza stringono urgentemente a cambiarla. La quale cosa concessa e confessata vera, come vera è realmente, la via da seguitarsi semplice diventa e piana; i progressi delle cognizioni, i dettami dell'esperienza, la monarchia constituzionale, la gratitudine, l'amore, la confidenza il monarca ci additano. Voi conquistaste, o sire, voi riconquistaste, voi creaste, voi ordinaste, voi sino a questo dì l'italiana repubblica governaste; quivi ogni cosa le vostre geste, la vostra mente, i vostri benefizii rammenta: un unico desiderio poteva essere fra di noi; un unico desiderio è sorto. Noi non preterimmo di maturamente considerare quanto nelle future cose la profonda sapienza vostra indicava; ma per quanto gli alti e generosi pensieri vostri coi nostri più bramati interessi si accordino, facilmente abbiamo a noi medesimi persuaso che le condizioni nostre tanto ancora non sono mature che possiamo aggiungere a quest'ultimo grado della politica independenza. L'italiana repubblica, così porta l'ordine naturale delle cose, deve ancora per qualche tempo restare impressa della condizione degli Stati novellamente creati. Un primo nembo, quantunque leggiero, che l'aere oscurasse, sarebbe per lei d'affanni e di timore cagione. Nella qual condizione, quale maggior sicurezza, quale più fondata speranza di felicità potrebbe ella, sire, che in voi trovare? Voi siete ancora necessaria parte di lei. Solo nell'alta sapienza vostra sta, solo a lei s'appartiene il vedere il preciso termine della dependenza tra le gelosie esterne e i pericoli nostri. Interrogati amorevolmente, rispondiamo sinceramente. Questo è il desiderio nostro che a voi significhiamo, questa la preghiera che a voi indirizziamo, che vi piaccia quelle costituzioni darne, in cui i principii già da voi pubblicati, dall'eterna ragione richiesti, alla quiete delle nazioni necessarii, statuiti siano e confermati. Siate contento, o sire, di accettare, siate contento di compire le preghiere e i desiderii dell'italica consulta. Per questa mia bocca istantemente tutti ve ne ricercano e ve ne scongiurano. Se voi benignamente ci esaudite, agl'Italiani diremo, che voi con più forte legamento vi siete alla conservazione, alla difesa, alla prosperità dell'italiana nazione congiunto. Così è, sire, voi voleste che l'italiana repubblica fosse, ed ella fu: fate ora che l'italiana monarchia sia felice, e sarà.» Terminato il favellare, e fattosi avanti Melzi, l'atto dell'italiana consulta espresse: il governo della repubblica italiana fosse monarcale ed ereditario; Napoleone I re d'Italia si dichiarasse; le due corone di Francia e d'Italia in lui solo, non ne' suoi discendenti o successori, potessero esser unite: insino a tanto che gli eserciti franzesi occupassero il regno di Napoli, i Russi Corfù, gl'Inglesi Malta, le due corone non si potessero separare; pregassesi Napoleone imperatore passasse a Milano per ricevere la corona e statuire leggi definitive pel regno. Rispose Napoleone, aver avuto sempre il pensiero di creare libera e independente la nazione italiana; dalle sponde del Nilo avere sentito le italiane disgrazie; essere, mercè il coraggio invitto de' suoi soldati, comparso a Milano, quando i suoi popoli d'Italia ancora il credevano sulle spiaggie del mar Rosso; ancora tinto di sangue, ancora cosperso di polvere, sua prima cura essere stata l'ordinare l'italiana patria; chiamarlo gl'Italiani a loro re; volere loro re essere, volere questa corona conservare, ma solo fintantochè gl'interessi loro il richiedessero; deporrebbela, quando fosse venuto il tempo, sopra un giovane rampollo volontieri, al quale, del pari che a lui, sarebbero a cuore la sicurezza e la prosperità dei popoli italiani. Nè questa fu la sola dimostrazione ch'ei fece in questo proposito. Entrò il giorno seguente l'imperatore in senato. Taleyrand, ch'era uomo molto ambidestro, e capace di pruovar questa con molte altre cose ancora, pruovò che per allora l'unione della corona d'Italia a quella di Francia era necessaria. Lessesi l'accettazione; poi Napoleone prese a favellare pretendendo parole di moderazione e di temperanza. «Noi vi chiamammo, o senatori, disse, per darvi a conoscere tutto l'animo nostro intorno agli affari più importanti dello Stato. Potente e forte è l'impero di Francia, ma più grande ancora la moderazione nostra. L'Olanda, la Svizzera, l'Italia tutta, la Germania quasi tutta conquistammo: ma in fortuna tanto prospera misura e modo serbammo. Di tante conquistate provincie quello solo ritenemmo che necessario era a mantenerci in quel grado d'autorità e di potenza, nel quale fu la Francia posta. Lo spartimento della Polonia, le provincie tolte alla Turchia, la conquista delle Indie e di quasi tutte le colonie hanno, a pregiudizio nostro, dall'uno de' lati fatto ir giù la bilancia: l'inutile rendemmo, il necessario serbammo, nè mai le armi per vani progetti di grandezza, nè per amore di conquiste impugnammo. Grande incremento alla fertilità delle nostre terre avrebbe recata l'unione dei territorii dell'italiana repubblica: pure, dopo la seconda conquista, l'independenza sua a Lione confermammo; ed oggidì, più oltre ancora procedendo, il principio della separazione delle due corone statuiamo, solo il tempo di lei, quando senza pericolo pei nostri popoli d'Italia effettuare si possa, assegnando. Accettammo, e sulla nostra fronte l'aulica corona dei Lombardi posammo: questa rattempreremo, questa ristaureremo, questa contro ogni assalto, finchè il Mediterraneo non sia restituito alla condizione consueta, difenderemo, e questo primo italico statuto a poter nostro sano e salvo conserveremo.» Creava l'imperatore Eugenio Beauharnais, figliuolo dell'imperadrice sua moglie, principe, poi, suo figliuolo adottivo chiamandolo, vicerè d'Italia il nominava. Creava Melzi guardasigilli del regno. Decretava, andrebbe a Milano, e la corona reale la domenica 26 di maggio prenderebbe. Messosi in viaggio con grandissimo seguito di cortigiani, perchè voleva far illustre questa sua gita con apparato molto magnifico e piucchè regio, e festeggiato con grandissimi onori per tutta Francia, arrivava Napoleone, il dì 20 aprile, a Stupinigi, piccola ed amena villa dei reali di Sardegna, posta a poca distanza da Torino. Quivi concorsero a fargli onoranza i magistrati: Menou verso di lui umilissimo si mostrava. Vennero a trovarlo i deputati di Milano per fargli omaggio, re loro, rigeneratore loro, padre loro chiamandolo. Rispose amorevolmente, gli avrebbe in luogo di figliuoli: raccomandò loro fossero virtuosi, l'attiva vita, la patria e l'ordine amassero. Dell'ordine parlava per dar contro ai giacobini. Terminò minacciosamente, dicendo che se alcuno avesse concetto gelosia pel regno d'Italia, avere una buona spada per disperdere i suoi nemici. Visitato Moncalieri, corse la collina di Torino: esaminata Superga, entrò trionfalmente nella reale città. Abitò il palazzo del re con molto studio e diligenza a questo fine restituito e addobbato dal conte Salmatoris. Correvano i popoli piemontesi a vedere l'inusitato spettacolo. Arrivava in questo mentre papa Pio a Torino, tornando di Francia. Fu fatto alloggiare nella reggia con Napoleone: stettero molte ore ristretti insieme; Pio sperava, Napoleone lusingava, pubblicamente stretto accordo mostravano. Visitò le pubbliche singolarità: parlò con facilissima loquela di musica, di medicina, di leggi, di pittura; volle vedere la tavola d'Olimpia pinta da Revelli, pittore di nome. Lodò l'opera, ma notò qualche difetto. Il papa festeggiato, anche da Menou Abdallah, se ne partiva alla volta di Parma. Dai discorsi civili si venne alla rappresentazione dell'armi. Volle Napoleone vedere i gloriosi campi di Marengo, e quivi simulare una sembianza di battaglia. Rizzossi un arco trionfale sulla porta d'Alessandria per Marengo con gli emblemi delle italiche, germaniche, egiziache vittorie. Sul campo stesso del combattuto Marengo l'imperial trono si innalzava. Compariva Napoleone in una carrozza molto splendida, e tirata da otto cavalli. Stavano i soldati schierati, molti memori delle portate fatiche in questi stessi marenghiani campi: Franzesi, Italiani, Mamelucchi, sì fanti che cavalli; s'accostavano le guardie nazionali, tutte in abito ed in bellissimo ordine disposte; magnifica comparsa poi facevano le guardie d'onore milanesi venute a Marengo per onoranza del nuovo signore. Stavano appresso gli uffiziali di corte, i ciamberlani, le dame, i paggi e molti generali in abiti ricchissimi. Splendeva il sole a ciel sereno: i raggi, ripercossi e rimandati in mille differenti guise da tanti ori, argenti e ferri forbiti, facevano una vista mirabile. Una moltitudine innumerevole di popolo era concorsa; l'alessandrina pianura risuonava di grida festive, di nitriti guerrieri, di musica incitatrice. Napoleone glorioso, venuto sul trono e postovi l'imperatrice a sedere, scendeva dall'imperiale cocchio e, montato a cavallo, s'aggirava per le file degli ordinati soldati. Le grida, gli applausi, i suoni d'ogni sorta più vivi e più spessi sorgevano ed assordavano l'aria. Terminate la rassegna e la mostra, iva a sedersi sull'imperiale seggio ancor egli, essendo in lui conversi gli occhi della moltitudine, tutti imperadore o vincitore di Marengo con altissime voci salutandolo. Seguitava la battaglia simulata fra due opposte schiere, moderando le mosse e gli armeggiamenti Lannes, che dopo i nuovi ordini imperiali era stato creato maresciallo. Durò dalle dieci della mattina sino alle sei della sera con diletto grandissimo di Napoleone; la quale terminata, dispensò a parecchi soldati o magistrati le insegne della legione d'onore, creata da lui novellamente. Sceso poscia dal trono, gettava le fondamenta d'una colonna per testimonianza alle future genti della marenghiana vittoria: ivi si fermarono le gloriose ricordanze. Arrivava Napoleone con tutti i grandi della corona, il dì 6 di maggio, a Mezzana Corte sulla sponda del Po, dove, passato il fiume sopra estemporaneo bucintoro fra le innumerevoli acclamazioni dei popoli, che sulle opposte rive tripudiavano, sulle terre del suo italico regno entrava. L'aspettavano in solenne pompa, il ricevettero, il lodarono il prefetto dell'Olona, il guardasigilli Melzi, il maresciallo Jourdan, che stava al governo dei soldati franzesi alloggiati nel regno italico. Giunto a Pavia, fece sua stanza nel palazzo del marchese Bolla, ad uso di palazzo imperiale destinandolo. Guardie d'onore, studenti addobbati, folle di popolo, arazzi spiegati, fiori sparsi, lumi accesi, applausi infiniti testificavano l'allegrezza dei Pavesi. Vide volontieri l'università, che l'ebbe con discorso limpido e puro di parole e di stile non isconveniente al soggetto, per voce del rettore e dei professori decani, lodato. Fu magnifico l'ingresso di Napoleone in Milano. Entrava per la porta ticinese, a cui fu dato il nome di Marengo. Gli appresentarono i municipali le chiavi posate sopra un bacile d'oro. Dissero esser le chiavi della fedel Milano; i cuori averseli già da lungo tempo acquistati. Rispose, servassero le chiavi; credere amarlo i Milanesi, credessero lui amarli. Pervenuto, traendo e gridando lietissimamente una foltissima calca di popolo, al duomo, il cardinal Caprara arcivescovo, fattosegli incontro sulla soglia, giurava rispetto, fedeltà, obbedienza e sommessione, augurava conservazione di sì gran sovrano, invocava gl'incliti protettori della magnifica città Ambrogio e Carlo, acciocchè a lui ed a tutta la sua famiglia salute piena e contentezza perenne dessero. Terminate le cerimonie del tempio, il palazzo dei duchi ornato a festa e tutto esultante per l'acquistata grandezza accoglieva il novello re. Ed ecco che, saputo ch'era andato a Milano per la corona, il venivano a trovare i deputati dell'italiche e dell'estere città. Vennevi Lucchesini portatore dei prussiani onori: recava da parte del re Federico l'aquila nera e l'aquila rossa a Napoleone; fregiatosene il sire, compariva con esse al cospetto de' suoi schierati soldati. Vennevi Cetto, inviato di Baviera; Beust, inviato dell'arcicancelliere dell'impero germanico; Alberg mandato da Baden, Benvenuti balì mandato dall'ordine di Malta: mandovvi il montagnoso Vallese il landmanno Augustini; mandovvi l'adusta Spagna il principe di Masserano, Lucca un Contenna ed un Belluomini, Toscana un principe Corsini ed un Vittorio Fossombroni: tutti venivano ad onoranza ed a raccomandazione appresso al potente e temuto signore. Maggior materia era sotto i deputati della ligure repubblica. Aveva mandato il senato genovese Durazzo doge, cardinale Spina arcivescovo, Carbonara, Roggieri, Maghella, Fravega, Balbi, Maglione, Delarue, Scassi, senatori. A loro maggiori carezze e più squisiti onori si facevano. Studiavansi il ministro Marescalchi ed il cardinale Caprara a soddisfar loro con mense, con udienze, con complimenti. Le medesime gentilezze usavano i ministri di Francia: ad ogni piè sospinto veniva dato dell'altezza serenissima al doge, e di ambasciatori straordinarii ai senatori. Il signore stesso sempre li guardava con viso benigno, e si allargava con loro in melliflue parole. Brevemente, fra tanto festeggiare non erano i liguri legati la minor parte della comune allegrezza. Ammessi all'udienza del signore, il videro sereno e lieto. Con esso lui dell'acquistato imperio si rallegrarono, il commercio della prediletta Liguria instaurasse supplicarono. Rispose umanamente, conoscere l'amore dei Liguri; sapere aver soccorso gli eserciti di Francia in tempi difficili; non isfuggirgli le angustie loro; prenderebbe la spada, e li difenderebbe; conoscere l'affezione del doge, vederlo volentieri, veder volentieri con lui i liguri senatori: andrebbe a Genova; senza guardie come fra amici v'andrebbe. Dopo l'udienza furono veduti ed accarezzati dall'imperatrice e da Elisa principessa, sorella di Napoleone, sposata ad un Bacciocchi, creato principe anch'egli. Tutti mostravano dolce viso ai liguri legati nella napoleonica corte. Presa in Monza la ferrea corona, e non senza solenne pompa a Milano trasportata, si apriva l'adito all'incoronazione. La domenica 26 di maggio, essendo il tempo bello ed il sole lucidissimo, s'incoronava il re. Precedevano Giuseppina imperatrice, Elisa principessa in abiti ricchissimi: ambe risplendevano di diamanti. Seguitava Napoleone, portando la corona imperiale in capo, quella del regno, lo scettro e la mano di giustizia in pugno, il manto reale, di cui i due grandi scudieri sostenevano lo strascico, indosso. L'accompagnavano uscieri, araldi, paggi, aiutanti, mastri di cerimonie ordinarii, mastro grande di cerimonie, ciamberlani, scudieri pomposissimi. Sette dame ricchissimamente addobbate portavano le offerte; ad esse vicini con gli onori di Carlo Magno, di Italia e dell'impero procedevano i grandi ufficiali di Francia e d'Italia, ed i presidenti dei tre collegi elettorali del regno. Ministri, consiglieri, generali accrescevano la risplendente comitiva. Ed ecco Caprara cardinale affaccendatissimo e rispettoso in viso, col baldacchino e col clero accostarsi al signore, e sino al santuario accompagnarlo. Sedè Napoleone sul trono, il cardinale benediceva gli ornamenti regi. Saliva il re all'altare, e presasi la corona, ed in capo postalasi, disse queste parole: _Dio me la diede, guai a chi la tocca_. Le divote volte in quel mentre risuonavano di grida unanimi di allegrezza. Incoronato, givasi a sedere sopra un magnifico trono alzato all'altro capo della navata. I ministri, i cortigiani, i magistrati, i guerrieri l'attorniavano. Le dame specialmente, in acconce gallerie sedute, facevano bellissima mostra. Sedeva sopra uno scanno a destra Eugenio, vicerè, figliuolo adottivo. A lui, siccome a quello a cui doveva restare la suprema autorità, già guardavano graziosamente i circostanti. Onorato e speciale luogo ebbero nell'imperial tribuna il doge ed i senatori liguri: stavano con loro quaranta dame bellissime e pomposissime; Giuseppina ed Elisa in una particolar tribuna rispondevano. Le volle, le pareti, le colonne sotto ricchissimi drappi si celavano, e con cortine di velo, con frange d'oro, con festoni di seta s'adornavano. Grande, magnifica e maravigliosa scena fu questa, degna veramente della superba Milano. Cantossi la solenne messa; giurò Napoleone: ad alta voce gridossi dagli araldi: «Napoleone I, imperatore dei Franzesi e re d'Italia è incoronato, consecrato e intronizzato; viva l'imperatore e re.» Le ultime parole ripeterono gli astanti con vivissime acclamazioni tre volte. Terminata la incoronazione, andò il solenne corteggio a cantar l'inno ambrosiano nell'ambrosiana chiesa. La sera, Milano tutta festeggiava; fuochi copiosissimi s'accesero, razzi innumerevoli si trassero, un pallone areostatico andava al cielo: in ogni parte canti, suoni, balli, tripudii, allegrezze. A veder tante pompe, si facevano concetti d'eternità: già gli statuali si adagiavano giocondamente sui seggi loro. Mentre con lusinghe e con onori s'intrattenevano in Milano il doge ed i liguri legati, per un concerto con gli aderenti più fidi, un gran fatto si tramava. Sollevavasi a cose nuove la travagliata Liguria. Vi si spargevano prima parole, poi aperti discorsi, intorno alla necessità dell'unione con Francia. Allegavasi da uomini prezzolati nelle liguri provincie, allora essere stata perduta l'independenza quando fu fatta la rivoluzione; d'allora in poi essere stata sotto diversi nomi e reggimenti diversi Genova serva; aver lo Stato più pesi che portar possa da sè; poterli portare facilmente congiunto con Francia; sperarsi invano che il potente non manomettesse il debole; di ciò manifeste testimonianze aver dato i forastieri venuti quali come amici, quali come alleati; ripugnare la natura umana, sempre superba, ai moderni desiderii, nè la giustizia regnare in chi troppo può; essere cangiate le sorti d'Europa; preponderare oltremodo la Francia; già abbracciare e stringere da ogni parte, pel Piemonte unito e per l'italico regno obbediente, l'esile Liguria: che starsi a fare; che non si domandava l'unione a Francia? Giacchè non si può più comandare da sè, savio consiglio essere il comandare con altrui; le umili genovesi insegne non rispettarsi sui mari dai barbari buttati fuori dalle caverne africane, rispettarsi le franzesi, i napoleonici segni avere a render sicuri i liguri navili: così una sola deliberazione politica esser per fare ciò che le antiche armi della repubblica più non potevano. A queste parole si aggiungevano le adulazioni sulla felice condizione di esser posti al freno di Napoleone eroe. Le giurisdizioni domandavano l'unione con Francia, supplicava il senato, Napoleone la decretasse. Avendo le arti sortito l'effetto loro, comparivano al cospetto dell'imperatore in Milano, il dì 4 di giugno, i liguri legati. Girolamo Durazzo doge, tutto pallido e sgomentato, orava in umili parole; le quali dette, e porti i suffragii del ligure popolo al signore, rispondeva Napoleone: essere da lungo tempo venuto a parte delle faccende dei Liguri; a buon fine sempre averle indirizzate; essersi accorto che per loro era impossibile che qualche cosa degna dei padri loro facessero; l'avara Inghilterra chiudere a piacer suo i porti, infestar i mari, visitar le navi; le africane rapine andare ognora più discendo; essere servitù nell'independenza ligure; essere necessità ai Liguri di unirsi a un popolo potente; adempirebbe i loro desiderii, gli unirebbe al suo gran popolo volontieri, memore dei servigii prestati; tornassero nella loro patria; visiterebbeli fra breve, suggellerebbe la felice unione in Genova. Lessersi i voti. A cagione che la Liguria non ha forza sufficiente per mantenere la sua independenza, che gl'Inglesi non riconoscono la repubblica, che chiuso è il mare dai barbari, la terra dalle dogane, supplicare il senato all'imperatore e re, la Liguria al suo impero unisse. Seguitavano le condizioni; si soddisfacesse dallo Stato ai creditori liguri come a quei di Francia; si conservasse il porto franco di Genova; nell'accatastare, si avesse riguardo alla sterilità delle terre liguri ed al caro delle opere; si togliessero le dogane e le barriere tra la Francia e la Liguria; si descrivessero i soldati solamente all'uso di mare; si regolassero per modo i dazii sugl'introiti e sulle tratte, che i proventi e le manifatture della Liguria ne sentissero beneficio; le cause sì civili che criminali si terminassero in Genova, od in uno dei dipartimenti più vicini dell'impero; gli acquistatori dei beni nazionali fossero indenni e sicuri nel possesso e nella piena proprietà di loro. Napoleone, desiderando mitigare la acerbità del fatto con un uomo di temperata e prudente natura, mandava a Genova il principe Lebrun, arcitesoriere dell'impero, perchè lo Stato nuovo ordinasse a seconda delle leggi franzesi. Restava che con le feste si celebrasse la perduta patria. Arrivava Napoleone il dì 30 di giugno a Genova. Tutta la città si muoveva per vederlo. Veniva dalla Polcevera: l'incontrava la cavalleria a Campo Marone; le campane suonavano a gloria, i cannoni rimbombavano, le fregate e i legni minori sorti nel porto esultando mareggiavano: chi traeva alle ambizioni, si componeva nei sembianti; le genovesi donne attentamente il guardavano per giudicare di che cosa sapesse; del popolo, chi si maravigliava, chi diceva arguzie da marinaro. Michel Angelo Cambiaso, creato sindaco da Lebrun, s'appresentava con le chiavi: Genova, superba per sito, essere ora superba per destino, disse: darsi ad un eroe; avere gelosamente e per molti secoli custodito la sua libertà; dì ciò pregiarsi; ma ora molto più pregiarsi, le chiavi della città regina in mano di colui rimettendo che, savio e potente più d'ogni altro, valeva a conservargliela intatta e salva. Rispose benignamente; restituì le chiavi. Spina, cardinale arcivescovo, sulla soglia della chiesa di San Teodoro aspettandolo, col sacro turibolo l'incensava. Luigi Corvetto, presidente del consiglio generale, venuto alla presenza del signore, favellava, avere lui liberato il buon popolo di Genova, averlo in figliuolo adottato; essere quivi in mezzo a' suoi figliuoli; dimenticare il genovese popolo le passate calamità; ogni altro affetto in questo solo affetto comporsi dell'amore dell'imperadore e re; per questo essere i Genovesi sudditi deditissimi; per questo i doveri più sacri affortificarsi dalle affezioni più dolci; non isdegnasse, pregava, la semplicità delle parole loro; eroe, sovrano e padre, in buon grado accettasse il tributo dell'ammirazione, dell'amore e della fedeltà loro. Poscia a nome proprio e di Bartolammeo Boccardi, uomo di non mediocre ingegno e stato sempre dedito alla parte franzese, Luigi Corvetto medesimo pregava felicità per la sua patria, chiamando Napoleone più grande di Cesare, e confortandolo a cambiare l'antica cesarea divisa in quest'altra: _venni, vidi, felicitai_. Piacque la squisita lusinga: Luigi Corvetto fu creato consigliere di Stato. Bene ne occorse ai Liguri che, perduto l'antico nome, trovarono in Corvetto chi affettuosamente gli amava, chi prudentemente li consigliava, e chi utilmente presso il signore gli avvocava, non a sdegni e ad antichi rancori in tempi tanto solenni servendo, ma solamente al benefizio de' suoi compatriotti riguardando. Alloggiava Napoleone al palazzo Doria a quest'uopo diligentissimamente preparato. Terminati i complimenti, si veniva alle feste. Incominciossi dal mare. Faceva magnifica mostra un tempio che di Nettuno o Panteon marittimo chiamarono: eretto sopra un tavolato di navi, senza però che ciò apparisse, perciocchè pareva fondato sopra un verdeggiante suolo, se ne andava sulle marine acque per forza d'ignoti ordigni galleggiando. Una gran cupola aveva per colmo, sedici colonne d'ordine ionico il sostentavano, le immagini de' marini dei l'adornavano. Sulle due facce interna ed esterna della cupola si leggeva un'inscrizione, parto del pad. Solari, la quale significava, i Liguri augurare a Napoleone imperadore e re lo impero del mare, come già si aveva quello della terra. Opera bella ed ingegnosa fu questo tempio; sopra di lei, condotta che fu in mezzo al porto, sedeva Napoleone i circostanti festeggiamenti rimirando. Quattro isolette, che rappresentavano quattro giardini chinesi adorni di palme, cedri, limoni, melaranci, rinfrescati da zampilli d'acque limpidissime, coperti da una cupola listata di più colori ed ornata da quantità mirabile di campanelli, che messi in moto dal continuo aggirarsi della macchina, con dolce concerto tintinnavano continuamente, giravano con morbide giravolte, ora qua ora là a galla ondeggiandosi. Un numero innumerabile di battelli, burchietti, schifetti, liuti, gondolette in varie guise ed elegantemente ornate facevano che alla instabilità del mare nuova instabilità di barche e di vele si aggiungesse, e mille variati aspetti ad ogni momento agli occhi dei risguardanti si raffigurassero. S'apriva la regata, o vogliam dire gara di navi in numero di sei: partite dalle tre porte di mare, due da ciascuna con velocità meravigliosa contesero della vittoria; vinse la bandiera del ponte di Spinola: gli applausi e le grida festose montavano al cielo. Fecesi notte intanto: diventò più bello lo spettacolo. Lumiere di cristallo, che fra le colonne del galleggiante tempio stavano sospese, subitamente accese, gittavano sulle incostanti acque, che con lampi di vario colore li rimandavano, raggi di abbondante e rallegratrice luce. Le cupolette dei giardini, anch'esse illuminate, consentivano con la sopravanzante luce del tempio. Fuochi in aria a forma di stelle, secondochè insegna Vitruvio, si volteggiavano intorno al tempio ed ai quattro giardini chinesi. Le agili barchette, posti fuori anch'esse i lumi loro, facevano apparire giri, guizzi e baleni, che con la piena luce del tempio e delle isolette da un canto si confondevano, dall'altro a chi d'in sulle spiaggie di lontano mirava, l'oscurità della notte con l'immagine d'innumerevoli e vaganti stelle temperavano. Alla dolce vista consuonava un soave ascoltare: imperciocchè dalle chinesi isolette uscivano suoni e concerti giocondissimi, mandati fuori dai petti e dagli appositi strumenti di musici vestiti alla chinese. Al tempo stesso le mura della città risplendevano per un'immensa luminaria; i palazzi e le case quasi tutte avevano anch'esse i lumi a festa: tutto l'anfiteatro della superba Genova con maraviglioso splendore rispondeva ai marini splendori. La torre della lanterna, accesasi ad un tratto da innumerevoli lumi con bel disegno ordinati, trasse a sè gli occhi dei festeggianti spettatori, che con intense grida applaudirono. Accrebbe la maraviglia, che ben tosto prese a buttar fuoco dalla cima a guisa di vulcano, come se veramente vulcano fosse. Nè i fuochi artificiati furono la parte meno notabile del magnifico rallegramento; poichè due bellissimi templi di fuoco sorsero improvvisamente dalle due punte dei moli, ed altri fuochi, con mirabile artifizio apprestati, ora si tuffavano nelle acque, ed ora, più vivi che prima fossero, ne uscivano. Così fra il molle ondeggiare, il vago risplendere, il giocondo suonare nasceva una scena, a cui niuna può essere pari in dolcezza ed in grandezza. Stette in queste allegrezze Napoleone sino alle dieci della sera: poi, sceso dal marino tempio, se ne giva al magnifico palazzo di Girolamo Durazzo, dove trovò nuovi e squisiti onori. Diessi un festino sontuoso a Napoleone nel palazzo pubblico. Intervennero Giuseppina di Francia, Elisa di Piombino. Fu allegra la festa. Cantossi l'inno ambrosiano nella cattedrale di San Lorenzo. Quivi giurarono nelle parole dell'imperatore l'arcivescovo ed i vescovi. Poi dispensò le insegne della Legion d'onore, più eccelse a Durazzo, Cambiaso, Celesia, Corvetto, Serra, Cattaneo, arcivescovo Spina: presentò con dorate gioie Cambiaso, Durazzo, Corvetto, Gentile. Comandò che si restituisse la statua di Andrea Do- ria, atterrata dai giacobini. Contento indi se ne tornava Napoleone al suo imperiale Parigi. Rimase al governo di Genova il principe Lebrun, il quale, temperatamente, secondo la natura sua procedendo, diede norma allo Stato nuovo riducendolo alla forma di Francia. Ordinò con prediletto pensiero l'università degli studii; vedeva i professori volontieri: tra il bene operare ed il buon ricompensare cresceva lo zelo in chi ammaestrava ed in chi era ammaestrato; l'università genovese diventò fiorente. Passarono alcuni mesi tra l'introduzione degli ordini franzesi e l'unione alla Francia: finalmente, orando Regnault di San Giovanni di Angely, decretava, il dì 4 ottobre, il senato che i territorii genovesi fossero uniti al territorio di Francia. A questo modo finì uno dei più antichi Stati, nonchè d'Italia, d'Europa. Gl'inorpellamenti non mancarono nella bocca di Regnault; fra tutti fu lepidissimo il suo trovato, che la Francia distruggeva l'indipendenza di Genova (questo appunto significavano le sue parole), perchè l'Inghilterra non la rispettava. Fu lieto il principio: per la potenza di Napoleone, tornarono in patria i Genovesi schiavi della crudele Africa. La repubblica di Lucca anch'essa periva. Die' primieramente Piombino ad Elisa sorella; poi Lucca e Piombino a Bacciocchi ed Elisa. Fossevi in Lucca un senato: soldati non vi si scrivessero, ma tutti fossero soldati; tassa e tributo nessuno vi si pagasse, se non per legge. Le cariche, salve le giudiziali, non si potessero conferire se non ai Lucchesi; principi di Lucca fossero Bacciocchi ed Elisa. Andavano al possesso il dì 8 luglio. Avviava Napoleone Parma all'unione con Francia: le leggi franzesi vi promulgava; già le ambizioni parmigiane si voltavano alla fonte parigina; Moreau di Saint-Mery secondava l'imperadore piuttosto per piacere a lui che a sè, perchè amava il comandare assai più che a modesto ed attempato uomo si convenisse; ma dolce era il cielo, dolci gli abitatori, dolce il comandare. Mentre con trionfale pompa scorreva per l'Italia Napoleone e gl'italiani Stati rovinavano, tornava nella sua romana sede il pontefice Pio. Parlò agli adunati cardinali, il 16 di giugno, delle cose fatte e delle cose sperate, molto benefizio per la religione e per la romana Chiesa dal suo parigino viaggio promettendosi. Ordinate le faccende religiose in Francia, aveva desiderato di compor quelle che più vicino a lui avevano romoreggiato, e gettato anzi lunghe radici in tutte le parti d'Italia: quest'erano le differenze tra la santa Sede e Ricci, vescovo di Pistoia. Dopo varie lettere e dichiarazioni, che Roma non soddisfecero, nuove protestazioni di obbedienza e di fede fece il vescovo, e le mandò al pontefice, quando, passando per Firenze, se ne andava in Francia all'incoronazione. Ma papa Pio, tornando da Parigi, e ripassando per la capitale della Toscana, fece sapere a Ricci che l'abbraccierebbe volontieri, se prima volesse sottoscrivere una dichiarazione. Ricci, stretto dai tempi, e temendo che il rifiuto gli fosse apposto a pertinacia, sottoscrisse. L'aspettavano il papa e la regina nel palazzo Pitti; il pontefice gittossegli al collo, l'abbracciava, e fattoselo sedere accanto a lui, molto l'accarezzava, della presa risoluzione con esimie espressioni commendandolo. Passate le prime caldezze, consegnava il vescovo nelle mani del pontefice un altro scritto; approvò Pio la seconda dichiarazione, affermando, non dubitare della purezza cattolica di Ricci; e ne farebbe fede al concistoro. Ciò detto, con nuove dimostrazioni accarezzava il vescovo. Scrissegli Pio da Roma lunghe ed affettuose lettere; il lodò nelle allocuzioni del concistoro. A questo modo Pio, vittorioso di Napoleone, trionfava anche di Ricci, due avversarii potenti, uno per la forza dell'armi, l'altro per la forza delle opinioni. Mentre il pontefice s'ingegnava di confermare la potenza novellamente riacquistata, nuove ferite si apprestavano alla sanguinosa Europa. L'assunzione di Napoleone al trono imperiale di Francia aveva sollevato gli animi di tutti i potentati, e dato loro giusta cagione di temere nuovi sovvertimenti e nuova servitù. Solo la Prussia se ne contentava e se ne rallegrava, perchè credeva che più stabile fondamento all'ingrandimento de' suoi Stati fosse la nuova potenza di Napoleone, che l'antica dell'Inghilterra e della Russia. Due cose massimamente si scorgevano nell'esaltazione ed incoronazione di Napoleone: era la prima che per loro si veniva a torre ogni speranza del veder restituiti i Borboni; l'altra, che, avendo acquistato l'autorità imperiale, aveva ridotto in mano sua maggiore forza a far muovere i popoli della Francia dovunque egli volesse; nè che fosse per usarne moderatamente da nissuno si confidava, manco dall'Austria. Oltre a questo, si pensava che non fosse prudente di dar tempo a Napoleone, onde mettesse radici sul suo imperio. Si portava opinione che i repubblicani di Francia e gli amatori del nome borbonico a quell'imperiale capriccio di Napoleone si fossero risentiti e divenuti meno inclinati ad aiutarlo, quando si venisse ad una nuova mossa d'armi. Si conosceva ch'egli non era uomo da non usare efficacemente la sua fresca potenza per solidarla, e che se gli desse tempo sarebbe stato, non che difficile, impossibile a frenarlo. Nè egli pel desiderio ardentissimo del comandare, troppo s'infingeva. Il suo procedere già era da imperatore d'Occidente. Questo voler significare, argomentavano, quegli onori di Carlo Magno offerti il giorno dell'incoronazione tanto a Parigi quanto a Milano, questo la corona ferrea dei Lombardi, questo i motti che metteva fuori già fin d'allora, che l'Italia fosse vassalla del suo impero. Aggiungevasi nella mente dell'imperator Alessandro alcune ragioni particolari di tenersi mal soddisfatto dell'imperator Napoleone, delle quali la principale consisteva nell'uccisione del duca d'Enghien, giovane di sua età, e da lui specialmente conosciuto ed amato. Da questi motivi era sorto nelle principali potenze d'Europa il desiderio di una nuova collegazione a difensione comune ed a conservazione degli antichi Stati contro la Francia, il cui fine era o di accordarsi con Napoleone, se qualche termine di buona composizione a benefizio dell'indipendenza dei consueti sovrani con lui si potesse trovare, o di venire con esso lui al cimento dell'armi, quando ancora era tenero su quel suo sovrano seggio. Nè l'Inghilterra mancava a sè stessa, non solo per l'antica nimicizia, ma ancora pel pericolo che pareva sovrastare al cuore stesso del suo Stato; conciossiachè avesse Napoleone raccolto un esercito molto grosso sulle coste della Picardia e della Normandia, minacciando d'invasione i tre regni. Nè era privo di un sufficiente navilio, avendo allestito, oltre alle grosse navi da guerra, una quantità considerabile di legni minori. Secondavano le intenzioni dell'imperatore con celere grandissimo i popoli di Francia con profferte di danari e di navi. Guglielmo Pitt, che a questo tempo reggeva i consigli del re Giorgio, aveva questo moto in poco concetto, conoscendo che pel prepotente navilio d'Inghilterra difficile era l'approdare, più difficile l'acquistare piè stabile nell'isola prima che le sorti fossero definite. Ciò non ostante l'apparato di Francia travagliava la nazione ed interrompeva i traffici. Per la qual cosa intendeva con tutto l'animo a suscitar nuovi nemici e ad ordinare una nuova lega contro Francia. A questo fine, e già fin dal mese di aprile, era stato concluso a Pietroburgo tra la Russia e l'Inghilterra un accordo, col quale si erano obbligate ad usare i mezzi più pronti ed efficaci per formare una lega generale, e che, per conseguire questo intento, adunassero cinquecentomila soldati, non compresi i sussidii d'Inghilterra; il fine fosse d'indurre o costringere il governo di Francia alla pace e ad una condizione in Europa, in cui nissuno Stato preponderasse sopra gli altri: evacuasse Napoleone l'Annoverese e la settentrionale Germania, rendesse independenti l'Olanda e la Svizzera, restituisse il re di Sardegna con qualche accrescimento il territorio, desse sicurezza al re di Napoli, sgombrasse da tutta Italia, compresa l'isola d'Elba. Già la Svezia e l'Austria erano entrate in questa lega. Prima però che all'aperta rottura si venisse, sì per vedere se ancora qualche modo di questa composizione vi fosse, e sì per aver comodità di fare i necessarii apprestamenti e di dar tempo agli aiuti di Russia di arrivare, si deliberarono gli alleati a mandare a Parigi il barone di Novosiltzoff, perchè le proposte loro vi recasse, e di un accordo conforme l'imperator Napoleone sollecitasse. Già era l'inviato dei confederati giunto a Berlino, quando sopraggiunsero le novelle dell'unione di Genova all'imperio di Francia, accidente contrario alle dichiarazioni di Napoleone ed agl'interessi dell'Austria in Italia. Arrestossi a tale improvvisa notizia Novosiltzoff, donde, fatto sapere all'imperadore Alessandro il fatto, era tostamente richiamato a Pietroburgo. Per questo medesimo accidente, e pel caso di Lucca, che poco dopo si seppe, l'Austria più strettamente si congiungeva con la Russia. Incominciarono i discorsi politici soliti a precedere le guerre, e dai discorsi si vedeva che poca speranza restava di pace: nè Napoleone era uomo capace di disfare per minaccie ciò che aveva fatto, nè l'Austria si voleva tirar indietro dalle sue risoluzioni, sapendo che Alessandro già aveva avviato verso i suoi confini due eserciti, ciascuno di cinquanta mila soldati. Insorgeva adunque più vivamente ed a Napoleone rappresentava il suo desiderio d'amicizia con Francia, di pace con tutta Europa; ma essersi violato per gli ultimi accidenti d'Italia il trattato di Luneville, promettitore d'indipendenza per l'italiana repubblica; essersi con nuove rovine di stati independenti spaventata l'Italia: non dovere una sola potenza arrogarsi il diritto di regolare da sè gli interessi delle nazioni con esclusione delle altre; richiedere la Francia dell'osservazion dei patti; richiederla della dignità e dei diritti dell'altre potenze; offerire a norma delle condizioni stipulate alla concordia, offerirla ora che con le armi ancora non si contendeva, offerirla quando già si combattesse, e sempre essere parata a convenire, salvi i trattati conclusi e l'independenza delle nazioni. Seguitarono queste protestazioni altri discorsi da ambe le parti. Intanto le armi si apprestavano. L'imperadore di Francia, che con la celerità aveva sempre vinto, vedendo la nuova lega ordita contro di lui e la guerra inevitabile, stando coll'animo riposato dal canto della Prussia, ordinò incontanente all'esercito raccolto sulle coste di Francia verso l'Inghilterra marciasse in Alemagna, soccorresse alla Baviera minacciata dalla Austria, ributtasse la forza colla forza. Poco dopo, descritti nuovi soldati, si avviava egli medesimo verso i campi d'Alemagna, sapendo quanto mole della guerra fossero il suo nome ed il suo valore. Dal canto suo l'Austria commetteva all'arciduca Ferdinando, giovane animosissimo, l'esercito germanico, dandogli per moderatore della sua gioventù il generale Mack. Dalla parte d'Italia, le condizioni delle cose militari erano le seguenti. L'Austria, considerato quanta efficacia fosse per avere il nome dell'arciduca Carlo, lo aveva preposto all'esercito italico, schierato sulle rive dell'Adige. I forti passi del Tirolo erano dati in guardia all'arciduca Giovanni con una grossa schiera, congiungitrice de' due eserciti germanico ed italico. Si era fatto disegno che a queste forze si accostasse, sbarcando in qualche parte d'Italia, un grosso aiuto di Russi e d'Inglesi, che allora erano raccolti nelle isole di Corfù e di Malta. Ma Napoleone, contuttochè principal cura avesse delle cose di Germania, non pretermise quelle d'Italia; e poichè seppe che l'arciduca Carlo era stato posto al governo della guerra, avendo più fede nella fortuna di Massena che in quella di Jourdan, surrogava il capitano italico al capitano germanico. Mandava intanto nuovi soldati, per modo che tra Franzesi ed Italiani Massena aveva un esercito fiorito ed uguale pel numero all'alemanno, che sommava circa ad ottanta mila soldati. Stavasi Massena alloggiato sulla destra dell'Adige, pronto a tentare il passo, come prima fosse dato il segno delle battaglie. L'imperadore di Francia, che in tutte le sue guerre, poco curandosi delle estremità, ed amando le guerre grosse piuttosto che le sparse, badava sempre al cuore, perchè sapeva che a chi n'andava il cuore ne andavano anche le estremità, fece, disegno d'ingrossare sull'Adige con mandarvi quella parte che sotto Gouvion di Saint-Cyr alloggiava nel regno di Napoli. Il che, perchè con sicurtà potesse eseguire, aveva con sue pratiche e per mezzo del marchese del Gallo, ambasciatore del re a Parigi, indotto Ferdinando a sottoscrivere un trattato di neutralità. S'obbligava per questo trattato il re a starsene neutrale durante la presente guerra, a respingere colla forza ogni tentativo fatto contro la sua neutralità, a non permettere che alcuna truppa nemica sbarcasse, o ne' suoi regni entrasse, a non ricettare ne' suoi porti alcuna nave nemica, a non commettere i suoi soldati o le piazze ad alcun ufficiale o russo od austriaco o di altra potenza nemica, ed in questo capitolo s'intendessero anche compresi i fuorusciti franzesi: il che particolarmente accennava al conte Ruggiero di Damas. Dalla parte sua Napoleone, fidandosi, come si spiegava, nelle obbligazioni e promesse del re, consentiva a sgomberare il regno dei suoi soldati, ed a consegnare i luoghi occupati agli ufficiali napolitani. Si obbligava, oltre a ciò, e prometteva di conoscere ed avere per neutrale nella guerra presente il regno delle Due Sicilie. Saint-Cyr marciava verso l'Adige. I discorsi, secondo il solito, procedevano le armi; moderati dal canto dell'arciduca, più vivi da quello del capitano napoleonico. Quando poi già le armi suonavano in Alemagna, e già la Baviera era invasa dagli Austriaci, il principe Eugenio, vicerè d'Italia, pubblicava con parole molto aspre contro l'Austria la guerra. Già si combatteva aspramente in Germania, quando ancora si riposava dalle armi in Italia, imperciocchè, a petizione dell'arciduca, che desiderava, prima di combattere, sapere a qual via s'incamminassero gli accidenti della guerra germanica, si era fatto tra lui e Massena un accordo, perchè le offese non si potessero cominciare prima del 18 ottobre. Ma già vincevano le napoleoniche stelle. L'imperatore dei Franzesi arrivando in Alemagna innanzi che gli Austriaci avessero avuto tempo di riuscir oltre i passi della Selva Nera e di fortificarli, ed innanzi che i Russi giungessero in aiuto loro, si avventava, in ciò mostrando, oltre la celerità, una grandezza di militari concetti straordinaria, contro il nemico tante volte vinto. Trovossi Mack in pochi giorni cinto da ogni parte, segregato da Vienna, ridotto dentro le mura di Ulma. Aveva vinto Napoleone una prima battaglia a Vertinga, una seconda a Gunsborgo. Per tal guisa non solamente furono serrati gli Austriaci, ma fu ancora Mack separato dall'arciduca Giovanni. Spuntava appena il giorno 18 ottobre, termine della tregua, che sapendo già Massena essersi venuto alle mani in Germania con prospero successo de' suoi compagni, si deliberava a cominciar la guerra. Alle quattro della mattina, dando due assalti uno sotto l'altro sopra Verona, si accingeva a sforzare sul mezzo il passo. Imponeva a questo fine a Duhesme ed a Gardanne che assaltassero il ponte: era murato e rotto; ma Lacombe Saint-Michel, generale d'artiglieria, con un petardo, esponendosi a grave pericolo, perchè i Tedeschi fulminavano dalla riva sinistra, rompeva il muro, ed il generale Chasseloup con pari valore riattava il ponte. Passarono i soldati annali alla leggiera; ma fortemente pressati dai Tedeschi, correvano grandissimo pericolo. Non tardò Gardanne a venire in soccorso loro col grosso delle sue compagnie, e rinfrescò la battaglia. Si combattè con molto valore e con vario successo da ambe le parti. L'arciduca, che aveva il suo campo a San Martino, mandò tostamente nuovi soldati in soccorso de' suoi, donde nasceva un più vivo e più generale combattere; Duhesme ancor egli era passato con tutta la sua schiera. Per quel giorno non fu compiuta pei Franzesi, ancorchè avessero il vantaggio, la vittoria, e fu loro forza tornarsene ad alloggiare sulla destra del fiume, conservando però in poter loro la signoria del ponte. Massena, o che il ritenesse il forte sito dell'arciduca, o che volesse aspettare che Saint-Cyr l'avesse raggiunto, o che desiderasse, prima di cacciarsi avanti, udire i fatti ulteriori della Germania, se ne stette più giorni senza fare alcun movimento d'importanza. In questo gli sopraggiungono desideratissime novelle: avere tutto l'esercito di Mack, salvo una piccola squadra fuggita sotto la condotta dell'arciduca Ferdinando, deposto le armi, ed essersi dato, il dì 17 ottobre, vinto e cattivo in mano di Napoleone: il che importava l'annichilazione quasi intiera delle forze austriache in Alemagna. Cambiavansi le sorti dell'italica guerra. Fu l'arciduca obbligato a debilitarsi con mandar parte de' suoi in aiuto dell'imperio pericolante. Sgomentaronsene i Tedeschi, presero animo i Franzesi. Massena, udito il maraviglioso caso d'Ulma, si risolveva, senza frappor tempo in mezzo, ad assaltare l'avversario nel suo forte alloggiamento di Caldiero. Il giorno 29 ordinava il passo del fiume. Duhesme e Gardanne, passato il ponte, si erano allargati a destra; Seras, passato più sopra, seguitava ad altro disegno le falde dei monti, ed occupando le alture di val Pontena, che signoreggiavano il costello di San Felice, che con le artiglierie aveva molto noiato i Franzesi al passo del ponte, aveva obbligato i Tedeschi a sgombrare da Veronetta. Ciò diede abilità ad altre squadre di passare, massimamente ai cavalli, per modo che gli Austriaci, cacciati da tutti i siti, e perfino da San Michele, si ritirarono con grave perdita, sempre però animosamente combattendo, oltre San Martino. I Franzesi pernottarono in Vago. Si risolveva l'arciduca a far fronte a Caldiero. Si ordinava la mattina del giorno 30 alla battaglia, distendendosi in siti diligentemente fortificati, e tenendo in serbo la cavalleria ed un grosso corpo di ventiquattro battaglioni di granatieri. Il generale di Francia aveva partito i suoi in tre schiere, con un grosso ordinato alle riscosse, e che stava accampato in poca distanza alle spalle. Massena, avendo inteso che le fazioni ordinate di Seras e di Verdier avevano avuto il fine ch'egli si era proposto, si deliberava ad attaccare la battaglia. Non immoreremo a descrivere questo fatto, che fu egregiamente combattuto da ambe le parti, ma il fine fu che i Tedeschi, lasciando la vittoria in potestà di chi poteva più di loro, cedettero, del campo e si ritirarono alle batterie che l'arciduca aveva piantato sopra le eminenze che torreggiano oltre Caldiero. Mentre si combatteva a Caldiero, aveva l'arciduca mandato a sua destra verso i monti una colonna di cinque mila soldati sotto la condotta d'Hillinger col proposito di circuire e di combattere i Franzesi alle spalle. Ne nacque un grave accidente a danno delle forze austriache, poichè Seras, che assai forte marciava su quelle medesime terre, oltre procedendo ed intromettendosi tra Hillinger e l'arciduca, tagliò fuori la squadra segregata, e la ridusse alla necessità di arrendersi. Il fatto di Caldiero, la calamità d'Hillinger, gli ordini dell'imperatore suo fratello non lasciarono più luogo ad elezione nell'arciduca. Per la qual cosa la notte del primo novembre principiò a tirarsi indietro per la strada di Vicenza; poi, continuando con arte a cedere del campo, conduceva le sue genti, più intere che le perdite prime e la presta ritirata potessero permettere, sulle sponde della Sava, ponendosi alle stanze di Lubiana. Il seguitarono velocemente i Franzesi: raccolsero alcuni corpi, ma piccoli, di sbrancati e grossi magazzini di viveri, principalmente in Udine e Palmanova. A questo modo i fertili paesi della terra ferma veneta, conquistati di nuovo dalle armi vincitrici di Napoleone, furono tolti all'Austria. Solo la città di Venezia restava in poter dei Tedeschi. Era in questo mezzo tempo arrivato da Napoli Saint-Cyr. Massena, trovandosi in necessità di seguitare a seconda l'arciduca nelle montagne della Carniola e della Carintia, non voleva, per timore di qualche sbarco di Russi e d'Inglesi, lasciare senza difesa i lidi veneziani. Ordinava pertanto a Saint-Cyr che si allargasse e custodisse le spiaggie dalle bocche dell'Adige sino a Venezia. Questa provvidenza ebbe felice successo, non contro i tentativi di mare, che nessuno fu fatto, ma contro uno di terra. Occupato Ney il Tirolo tedesco, e insignoritosi del Tirolo italiano; costretto Augereau il generale Yellacich alla dedizione; un grosso di sette mila fanti e mille cavalli, sotto la condotta del principe di Roano, forzato a calarsi per le sponde della Brenta verso i piani bagnati da questo fiume, incontratosi a Castelfranco con Saint-Cyr, dopo un furioso conflitto, fu obbligato ad arrendersi. Dopo questo fatto Massena, sicuro alle spalle, vieppiù inoltrava la sua fronte, e fermava gli alloggiamenti in Lubiana, ritiratosene l'arciduca per internarsi nella Croazia, e di là nel principato di Sirmio in Ischiavonia, tra la Drava e la Sava. I soldati di Massena e di Ney si congiunsero a Villaco ed a Clagenfurt: i due eserciti di Francia, germanico ed italico, si congregarono alle future imprese sul Danubio. Aveva Ferdinando di Napoli, siccome si è narrato, stipulato la neutralità; ma quando appunto la guerra si definiva in favor di Francia in Germania e nell'Italia superiore, essendo già corso oltre il suo mezzo il mese di novembre, arrivavano nel golfo di Napoli due navi inglesi con molte onerarie, sopra le quali erano quindici mila soldati, dodici mila Russi venuti da Corfù, tre mila Inglesi venuti da Malta. Sbarcarono soldati, armi e munizioni tra Napoli e Portici, annunziando, venire non solo per proteggere il regno, ma ancora per correre verso Italia superiore in aiuto degli Austriaci. Non fece il re, non bene considerando quel che potesse portare seco il tempo futuro, alcuna dimostrazione nè protesta per impedire lo sbarco di queste genti nemiche a Francia. L'ambasciator di Napoleone, viste le insegne del nemico, molto acerbamente si risentiva, e, calati gl'imperiali stemmi dalla fronte del suo palazzo, richiedeva il re dei passaporti, e l'infedele terra (come diceva) abbandonando, se ne partiva alla volta di Roma. Per mitigarlo, mandava fuori il governo un editto, per cui prometteva ai Franzesi, Italiani, Liguri e ad altre nazioni unite all'impero franzese, che sarebbero le proprietà loro ed i traffici sicuri e salvi. Fu la dimostrazione indarno, perchè non solo nissuna protestazione conteneva contro il moto dei confederati, ma nemmeno mostrava alcun dispiacere di quello che la Francia avea sentito sì acremente. Gli effetti che ne seguitarono, e che per molti anni tolsero al re la possessione del regno di qua dal Faro, saranno fra breve raccontati. Vinceva Napoleone nei campi d'Austerlitz una campale battaglia. Vinti i Russi ausiliarii, fu l'Austria costretta a consentire ai patti. Si fermarono a Presborgo in Ungheria il dì 26 dicembre. Consentiva l'imperatore di Alemagna e d'Austria a tutte le unioni dei territorii italiani; riconosceva le risoluzioni prese dall'imperator di Francia rispetto a Lucca ed a Piombino; riconosceva l'imperator di Francia come re d'Italia con ciò però che, seguita la pace generale, le due corone, a seconda delle promesse fatte dall'imperator Napoleone, l'una dall'altra fossero separate, nè mai in perpetuo potessero esser riunite; dava in potestà dell'imperatore medesimo di Francia tutti gli Stati dell'antica repubblica di Venezia a lui ceduti pel trattato di Campo Formio, e consentiva che fossero uniti al regno d'Italia; riconosceva ancora nei duchi di Vittemberga e di Baviera la qualità ed il titolo di re; cedeva a quest'ultimo, oltre parecchi paesi, i principati di Brissio e di Bolzano, le sette signorie di Voralberga e parecchi altri paesi sulle rive del lago di Costanza; dal canto suo l'imperator Napoleone guarentiva l'interezza dell'impero d'Austria, consentiva che Salisborgo, già dato all'arciduca Ferdinando di Toscana, al medesimo imperio si unisse, e si obbligava ad intromettersi appresso al re di Baviera, perchè cedesse Visborgo all'arciduca in compenso di Salisborgo. Anno di CRISTO MDCCCVI. Indizione IX. PIO VII papa 7. FRANCESCO II imperadore 15. Si mandava ad effetto il trattato del 26 dicembre. Venezia e gli antichi suoi territorii, dopo otto anni di dominio austriaco, tornavano sotto quello di Francia. Venne Law Lauriston a prenderne possesso da parte del re d'Italia. Il dì 19 gennaio arrivarono in Venezia i soldati di Napoleone; li comandava Miollis. Arrivava il dì 5 di febbraio in Venezia Eugenio vicerè, testè sposato ad Amelia di Baviera. Fecersi i soliti rallegramenti. A questo tempo rinfrescavansi le napolitane ruine. Napoleone vittorioso pensava a soddisfare all'ambizione ed alla vendetta. Già sull'uscire del precedente anno aveva pubblicato, parlando a' suoi soldati, queste parole: «Da dieci anni io feci quanto per me si potè per salvare il re di Napoli e da dieci anni ei fece quanto per lui si potè per perdersi. Dopo le battaglie di Dego, di Mondovì e di Lodi, deboli forze gli restavano per resistermi: fidaimi nelle sue parole, anteposi la generosità alla forza. Risolvè poscia Marengo la seconda lega: aveva il re, di tutti il primo, incominciato la guerra: da' suoi alleati abbandonato a Luneville, solo e senza difesa rimase. Implorò perdono, gliel concedei. Voi, a Napoli già vicini, avevate in poter vostro il regno: i tradimenti io sospettava, le vendette poteva fare: novella generosità amaimi; che sgombraste il regno, ordinarvi; la terza volta restommi della salute sua la casa dei reali di Napoli obbligata. Perdonerò io la quarta ad una corte senza fede, senza onore, senza ragione? No; ceda dal regno la napolitana famiglia: non può ella col riposo d'Europa, coll'onore della mia corona sussistervi. Ite, marciate, precipitate nell'onde quei deboli battaglioni dei tiranni del mare, seppure a loro basterà l'animo di aspettarvi; ite, e mostrate al mondo come da noi si puniscano gli spergiuri; ite e fate ch'egli presto s'accorga che nostra è l'Italia, che il più bel paese della terra ha ormai gettato via dal collo il giogo d'uomini perfidissimi: ite, e mostrate che è la santità dei trattati vendicata, che sono le ombre de' miei soldati, sopravvissuti ai naufragii, ai deserti, a cento battaglie ed alle uccisioni nei porti della Sicilia, mentre tornavano dall'Egitto, placate e paghe. Guideravvi mio fratello; partecipe della mia potenza, partecipe dei miei consigli, in lui fidatevi, come io in lui mi fido.» A queste aspre parole del terribile vincitore di Austerlitz tenevan dietro consenzienti fatti. Giuseppe fratello con esercito poderoso marciava contro il regno; gli aveva dato Napoleone, conoscendolo irresoluto e solito a lasciarsi portare dalla volontà degli altri, per compagno e sostenitore de' suoi consigli Massena. Pruovossi Ferdinando di stornare la tempesta con mandar Ruffo cardinale appresso allo sdegnato signore per iscusare il fatto dello sbarco. Mostrossi Napoleone inesorabile; preparava reali seggi ai fratelli; voleva formare in ogni luogo Stati dipendenti intieramente da lui. Quando pervennero a Ferdinando le novelle della volontà di Napoleone, si ristrinsero insieme i suoi consiglieri per deliberare su quanto la necessità del caso richiedesse. Ma la partenza dei Russi per Corfù, con corriero espresso comandata dall'imperatore Alessandro, rendè necessaria anche quella degl'Inglesi, che passarono in Sicilia, lasciato Ferdinando nell'ultima ruina. Lasciava Ferdinando la real sede il dì 23 gennaio, in Sicilia ritirandosi. Così finiva allora il suo regno. Partito Ferdinando sul vascello reale l'Archimede, fu lasciata una reggenza composta dal generale Naselli, dal principe di Canosa, da don Michelagnolo Cianciulli e da don Domenico Sofia. Era la città paventosa delle cose avvenire; si temeva del popolo, dei Franzesi, dei Calabresi. Accrebbe il terrore un grave tentativo dei carcerati al serraglio, che, se avesse avuto effetto, Napoli sarebbe andata a rovina. Marciavano intanto i Franzesi alla conquista. Giuseppe, fulminato vendetta contro la corte, e promesso dolcezza al popolo se si sottomettesse, velocemente viaggiava contro la capitale. Correva a destra a riva il mare Regnier, nessuno ostacolo in nessun luogo incontrando, salvo in Gaeta, piazza forte di sito, e custodita dal principe di Assia, capitano valoroso. Intimata la resa, rispose negando. Assaltarono i Franzesi il bastione di Sant'Andrea, e se lo presero, non senza sangue. L'altra parte si difendeva egregiamente; ma essendo i napoleoniani grossi, lasciate genti all'oppugnazione, passarono. Massena a sinistra senza impedimento alcuno camminando, poichè Capua già si era data, arrivava al 14 di febbraio sotto le mura dell'appetita città. Si arresero castel Nuovo, castel dell'Uovo, castel del Carmine e castel Sant'Elmo. Entrava Duhesme il primo con una scelta fronte di soldati leggieri sì fanti che cavalli. Faceva il dì seguente il suo ingresso Giuseppe a cavallo con molto seguito di generali e con tutte le ordinanze in bellissima mostra. Smontò al palazzo reale; trovollo squallido, e spogliato dai fuggitivi. Addì 16, visitava la chiesa di san Gennaro; udita la messa di Ruffo cardinale, presentava il santo con doni, primizie del futuro regno. Tornatosi nella regia sede, dava le udienze ai magistrati, vedeva con viso benigno la reggenza di Naselli; ma tosto la cassava, per crearne un'altra: fecene capo Saliceti. Per far denaro, si mantennero le tasse vecchie, se ne imposero delle nuove; per far sicurezza, si tolsero le armi ai cittadini, e si venne sul suono di far morire soldatescamente chi le portasse. Intanto le Calabrie non quietavano. Si era il duca di Calabria accostato, con un corpo di soldati uscito con lui da Napoli, al conte Ruggiero, che con una squadra riempiuta di soldati siciliani, tedeschi, napolitani, e con qualche misto di raunaticci, parte buona, parte pessima, aveva fatto un alloggiamento fortificato sulle rive del Silo nel principato di Salerno. Arso il ponte, schierava i suoi sulla riva. Parve il caso d'importanza; vi fu mandato Regnier. Andò il Franzese all'assalto, mandò i Napolitani in rotta, perseguitò i vinti fino a Lagonero. Rannodaronsi i regi a Campotenese; venne loro sopra Regnier, il dì 9 marzo e con un forte assalto li risolvette facilmente in fuga. A stento salvossi il conte con mille soldati tra fanti e cavalli. Il Franzese vittorioso s'inoltrava nella Calabria Ulteriore: occupava Reggio, muniva di presidio la fortezza di Scilla, posta alla punta d'Italia, dove è più vicina alla Sicilia, il che dava freno e sospetto agl'Inglesi che in Messina si erano raccolti a difesa dell'isola. Da un'altra parte Duhesme, oltratosi nella Basilicata, cacciava i nemici da Bernarda e da Torre, ed entrava in Taranto, città opportuna, pel suo sito, ad accennare ugualmente a Corfù ed alla Sicilia. Alcuni rimasugli dei vinti si erano rannodati a Castrovillari, ma, combattuti da Regnier, furono dispersi. Sbaragliati i regolari, sorgevano, parte per la mutazione del governo, parte per gl'istigamenti di Sicilia, parte per amore della vendetta, parte per cupidigia del sacco, in diverse parti della Calabria, bande collettizie di soldati spicciolati e di uomini facinorosi che mettevano la provincia a terrore, a ruba ed a sangue. In questi orribili ravvolgimenti perdeva chi aveva, acquistava chi non aveva; i buoni solamente perivano, gli scellerati trionfavano. La ferocia di uomini quasi ancora selvaggi era stimolata da uomini feroci per consetuedini; il male si appiccava e dominava in ogni parte. Spargevansi voci che la regina fomentasse questi moti: i Franzesi ed i partigiani loro accrescevano questi romori, e davano loro più credito collo intento di seminare viemmaggiormente rancori ed odii contro quel governo che da loro era stato cacciato. Da questi accidenti nasceva che non solamente il desiderio di Ferdinando diminuisse continuamente nelle popolazioni quiete e negli uomini facoltosi, ma ancora con minor avversione si vedesse il dominio dei Franzesi. Questi rumori non ignorava Napoleone. Però, giudicando che fosse arrivato il momento propizio per mandar fuori quello che si aveva giù da lungo tempo concetto, nominava Giuseppe re delle Due Sicilie. Annestava la solita condizione, che le due corone di Francia e di Napoli non potessero mai essere posate sul medesimo capo. La creazione del re Giuseppe fu sentita con qualche allegrezza in Napoli: furonvi luminarie, spari, feste, teatri, canzoni, sonetti, al solito; e di questi sonetti chi ne aveva più fatto per Carolina, più ne faceva per Giuseppe. Vi furono anche non insolite, ma indecenti cose: rivoltamenti di animi. Ruffo cardinale esultando ricevè Giuseppe sotto il baldachino; il marchese del Gallo, ambasciatore di Ferdinando a Parigi, il divenne di Giuseppe, poi incontanente suo ministro degli affari esteri; il duca di Santa Teodora, ambasciatore di Ferdinando in Ispagna, accettò carica in corte di Giuseppe. La Turchia stessa, cui Napoleone avea voluto torre quel granaio dell'Egitto, adulava: il giorno dell'assunzione di Giuseppe, il suo inviato in Napoli cacciò fuori sulla fronte del suo palazzo, in mezzo a certa lumineria, questo motto in lingua turca e franzese: _L'Oriente riconosce l'eroe del secolo._ Le vittorie e di Lagonero e di Campotenese, avendo rotto le forze regie in Calabria, tutto il paese era venuto, salvo alcuni moti incomposti, a divozione dei Franzesi. Solo Gaeta e Civitella di Tronto resistevano. Poca speranza restava al re di far frutto, sebbene sapesse che non mancavano mali semi contro il nuovo signore, se gl'Inglesi, sbarcando sulle terre calabresi, non avessero somministrato qualche forte soccorso di battaglioni ordinati. Ma grandemente ripugnava ad una spedizione in terraferma Stuart, che, essendo succeduto a Craig nel governo de' soldati britannici in Sicilia, continuava a starsene nelle stanze di Messina. Gli pareva che il principal fine degl'Inglesi fosse la conservazion della Sicilia. Ma era a questo tempo giunto in Sicilia un uomo a cui piacevano le imprese avventurose; questi era Sidney Smith, che, arrestata la fortuna prospera di Buonaparte in Oriente, si era persuaso di poterla arrestare in Occidente. Stimolato dalla propria natura, dalle preghiere di Ferdinando e dalle instigazioni della regina, continuamente esortava Stuart alla fazione. Ma la prudenza dell'uno superava l'audacia dell'altro, e niuna cosa si risolveva. Si deliberava Sidney a fare qualche sforzo da sè colle forze marittime per far vedere a Stuart che la materia era meglio disposta ch'ei non credeva. Per la qual cosa partiva dalla Sicilia con qualche nave grossa da guerra e molte annorarie, con intento d'andar a visitare le coste di Napoli. Vi scoperse inclinazioni favorevoli, ma non sufficienti, perchè potessero fare da sè. Tornossene in Sicilia: con intente esortazioni tanto fece, che il prudente Stuart si lasciò muovere a tentare qualche fatto su quella tribulata e tumultuosa terra. Sbarcava sul principiar di luglio con circa cinque mila soldati sulle coste del golfo di Sant'Eufemia: chiamava, ma con poco frutto, le popolazioni a levarsi. Stava sospeso, stante la freddezza dei popoli, se dovesse tornare alle navi, o persistere sulla terraferma, quando gli pervennero le novelle, che Regnier con un corpo di circa quattro mila soldati aveva posto il campo a Maida, terra distante dieci miglia dal mare. Udì al tempo stesso che una nuova schiera di tre mila soldati accorreva in soccorso di Regnier, perciocchè la nuova della venuta degl'Inglesi già si era sparsa nelle vicinanze. Si deliberava pertanto ad assaltare il nemico innanzi che il soccorso si fosse congiunto con esso lui. Forte e quasi inespugnabile era il sito di Regnier, e se si avesse aspettato l'inimico, la sua vittoria sarebbe stata certa. Ma o nel proprio valore troppo confidando, o di quello del nemico troppo debolmente giudicando, consentì al commettere all'arbitrio della fortuna un'impresa certa, e scese, varcato il fatale fiume Amato, che gli stava alla fronte, nella pericolosa pianura. Arrivavano in questo mentre i tre mila; il quale accidente accrebbe nei Franzesi l'opinione del vincere. Si fece dalla sua parte avanti l'esercito d'Inghilterra: le due emole nazioni venivano al cimento. Incominciò la battaglia, correva il dì 6 luglio, dall'affronto incomposto e sparso dei soldati armati alla leggiera; poi si venne alla zuffa delle genti grosse. Trassero poche volte con gli archibusi: mossi dall'emulazione, ed impazienti del combattere da lontano, si avventarono colle baionette in canna gli uni contro gli altri. La mischia era spaventosa; vivi erano i Franzesi, stabili gl'Inglesi. Dopo varii accidenti, la battaglia si facea pericolosa per questi, quando un nuovo reggimento partito da Messina, e testè sbarcato a Santa Eufemia, arrivò sul campo, e posto dietro un po' di riparo che il terreno offeriva, fece fronte ai cavalli franzesi che incalzavano, e coi tiri spesseggiando, non solamente arrestò l'impeto loro, ma ancora li costrinse alla ritirata più rotti che interi. Dopo questo fatto, i soldati di Regnier si posero in fuga sconposti e sbaragliati, cercando ciascuno salute senza ordine e norma, come meglio avvisava. Fu compiuta la vittoria degli Inglesi. Dei dispersi, che furono un grosso numero, molti venuti in mano dei Calabresi, furono crudelmente ammazzati: alcuni, condotti cattivi al cospetto di Stuart, salvi restarono. La vittoria di Maida die' nuova cagione ai Calabresi di levarsi a romore: ad uso barbaro ammazzavano quanti venivano loro alle mani. I Franzesi, dal canto loro irritati contro uomini che a nissun uso civile attendevano, saccheggiavano ed ardevano tutte le terre che loro si scoprivano contrarie, uccidendo i terrazzani, e nissun rispetto avendo o al sesso o all'età. La Calabria tutta fumava d'incendii e di sangue. Furono i Franzesi obbligati a sgombrarne. Il trionfo di Maida poco durava. Si ingrossavano di nuovo i napoleoniani; gli assassinii erano cattivo fondamento; il capitano d'Inghilterra si ritirava in Sicilia, solo lasciando un presidio nel forte di Scilla, di cui s'era impadronito. Si accalorava l'oppugnazione di Gaeta. Già per molti mesi l'aveva virilmente difesa il principe d'Assia: vi morirono molti buoni Franzesi, fra gli altri il generale Vallelongue. Il principe ferito gravemente fu portato in Sicilia. Si diede la fortezza, che già, aperta una breccia molto grande nel muro della cittadella, i terribili granatieri di Francia erano pronti all'assalto, il dì 18 luglio. La resa di Gaeta avvantaggiò le condizioni dei Franzesi nel regno. La forte schiera che l'aveva oppugnata andava a ricuperare le Calabrie; e stantechè il nome di Massena era di molto terrore, gli fu dato il governo della spedizione. Perchè un uomo terribile avesse podestà terribili, decretava Giuseppe, fossero e s'intendessero le Calabrie in istato di guerra; i magistrati civili e militari obbedissero a Massena; creasse commissioni militari pei giudizii, ed i giudizii si eseguissero senza appello in ventiquattro ore; i soldati vivessero a carico dei paesi sollevati; i beni degli assassini e dei capi dei ribelli si ponessero al fisco; i beni degli assenti ancor essi si confiscassero; chi, non essendo ascritto alla guardia provinciale, fosse trovato con armi, si desse a morte; i conventi che non dichiarassero i religiosi complici si sopprimessero. Andava Massena alla spedizione: seguitarono dalle due parti crudeltà inusitate. Durò lunga pezza la carnificina; pure i napoleoniani per la disciplina e per gli ordinati disegni prevalevano. Il terrore e le uccisioni frenarono, non quietarono la provincia; semi orrendi vi covavano, che ora in questo luogo ora in quell'altro ripullulavano, e facevano segno che più potevano l'odio e la rabbia che i supplizii; nè mai potè Giuseppe venir a capo dei sollevamenti calabresi, ancorchè osasse rimedii asprissimi, e qualche volta anche dolcezza coi perdoni. Vedremo poi che se la dolcezza mescolata con la crudeltà non fece frutto per pacificare le Calabrie, una crudeltà pura il fece: feroce razza di Calabria che non potè costringersi alla quiete, se non con lo sterminio. Risoluzioni infedeli, atti soperchievoli, guerra barbara insanguinavano una costa dell'Adriatico; simili accidenti insanguinavano l'altra. Erano le Bocche di Cattaro il più sicuro ricovero che si avessero i naviganti nell'Adriatico, state cedute alla Francia pel trattato di Campo Formio, con tempo di sei settimane ad esserne messo in possessione. Spirato il termine, e non comparsi gli ufficiali di Francia a prenderne possessione, un agente di Russia, col quale concordavano, siccome Greci, gran parte dei Bocchesi e dei Montenegrini, selvaggi abitatori delle vicine montagne, sollevò il paese, predicando che, poichè il tempo buono della consegna era trascorso, i Franzesi erano scaduti, ed il paese padrone di sè stesso. I comandanti austriaci di Castel Nuovo e degli altri forti la intendevano ad un altro modo, e volevano serbare la fede. Arrivava in questo mentre il marchese Ghisilieri, commissario d'Austria, per fare la consegnazione; ma non che il suo mandato eseguisse perchè già i Franzesi si approssimavano, consentì a sgombrar il paese, lasciandolo in potere de' natii, dei Montenegrini e dei Russi. Sgombrarono di malavoglia i comandanti austriaci, e sdegnosamente anche protestarono della violazione dei patti. Nè meno sdegnosamente udì Vienna il fatto: fu il marchese condannato a carcere perpetuo in una fortezza di Transilvania. La fede violata a Cattaro die' occasione a fede violata in Ragusi. I napoleoniani, non potendo più occupare Cattaro, s'impadronirono di Ragusi, nessuna ragione contro quella pacifica ed innocente repubblica allegando, ma solamente il pretesto di preservarla dalle scorrerie dei Montenegrini. Certo i soldati napoleonici difesero Ragusi, dicesi la città, perciocchè i Montenegrini saccheggiavano il territorio; ma Napoleone spense la repubblica, congiungendola all'italico regno: singolar modo di preservazione. Sorse una guerra varia. Lauriston, tenuto in assedio in Ragusi dai Montenegrini, era soccorso da Molitor, che li vinceva, risospingendoli ai loro nidi delle montagne. Pure stavano ancora minacciosi ed infestavano con ispesse correrie il paese, quando Marmont, con astuzia militare avendogli indotti a venire al piano, con istrage grandissima prostrava tutte le forze loro. Guerra orribile fu questa: i Montenegrini ammazzavano i prigioni e gittavano le lor teste tronche fra le file dei compagni inorriditi; i napoleoniani perseguitavano sui monti loro i Montenegrini, e quando non li potevano avere, per essersi nascosti nelle tane, ne li cacciavano con fuoco e fumo, come se fiere fossero, per uccidersi. Cantava queste vittorie con gloriose promulgazioni, secondo la natura sua, Dandolo, che era per Napoleone provveditore generale della Dalmazia. Il re Federico sentiva i frutti della tenuta condotta. Vinta l'Austria per avere la Prussia imprudentemente serbata la neutralità, insorgeva Napoleone a vincere la Prussia dopo l'Austria. Usò le insidie, le insolenze e le usurpazioni per farla vile agli occhi del mondo; poi assalti più aperti per farla risentire, non dubitando di vincerla. Invase l'Annover, ed operò ch'ella lo accettasse in proprietà, dono funesto per la riputazione, funesto per gli effetti. Offese la Germania nel caso del duca d'Enghien: non risentissi la Prussia. Portò pazientemente il re l'incoronazione italica, l'unione di Genova, il fatto di Lucca, le non attenute promesse al re di Sardegna: portò pazientemente la carcerazione dei legati d'Inghilterra sui territorii germanici, le taglie poste sulle città anseatiche, le violazioni delle terre d'Anspach e di Bareit. Di mezza Germania si faceva signore Napoleone per la confederazione del Reno. Non ci allungheremo in altri fatti; ma nuovi soldati napoleonici marciavano in Germania. Conobbe il re con quale amico avesse a fare, e corse alle armi; corse altresì al ferro Napoleone. Vinse la fortuna di Napoleone. Fu la Prussia prostrata a Jena, fu prostrata a Maddeborgo ed a Perenslavia. Berlino, capitale del regno, le fortezze tutte, dominando uno scompiglio ed un terrore estremo, vennero in poter del vincitore. Questo fine ebbero le armi animosamente mosse dal re Federico per istimolo proprio e per quelli di Alessandro di Russia. Arrivava Alessandro imperatore con le sue schiere in aiuto del vinto amico; ma Napoleone soprastava di ardire, di forza e d'arte. Fu asprissima la battaglia di Eylau e di esito incerto. Incrudelita la stagione, ritiraronsi i Franzesi di qua della Vistola, i Russi di là della Pregel. Anno di CRISTO MDCCCVII. Indizione X. PIO VII papa 8. FRANCESCO I imp. d'Austria 2. Intiepiditosi il tempo, si avventavano gli uni contro gli altri Franzesi e Russi: varii furono i combattimenti; sanguinosi tutti. Infine sui campi di Friedland conflissero con ordinanza piena i due nemici (14 giugno). Quivi cadde la fortuna russa. Napoleone vincitore ai confini di Alessandro sovrastava; addomandava Alessandro i patti. Narrano che i due imperatori nelle conferenze più segrete fra di loro si spartissero il mondo. Quale di questo sia la verità, convennero sulle sponde del Niemen in trattato, il dì 7 di luglio; riconobbe Alessandro il nome e l'autorità regia in Giuseppe Napoleone come re di Napoli, ed in Luigi Napoleone come re d'Olanda; consentì che un regno di Vestfalia si creasse, ed in Girolamo Napoleone, fratello minore di Napoleone, s'investisse; accordò che un ducato di Varsavia si creasse, e duca ne fosse Federico Augusto di Sassonia; riconobbe la renana confederazione; stipulò per articolo segreto che le Bocche di Cattaro si sgombrassero dai Russi e si consegnassero in potestà di Napoleone. Convenne infine che sette isole ioniche cedessero in possessione del medesimo. I fatti di guerra di Napoleone superavano per grandezza quanti siano stati mandati alla memoria dei posteri, e già lui temeva ed adorava il mondo. Non v'era più luogo all'adulazione; perchè le lodi, per ismisurate che fossero, parevano minori del vero; nè i poeti più celebri, quantunque con ogni nervo vi si sforzassero, potevano arrivare a tanta altezza. Un mezzo solo gli restava per accrescere la gloria acquistata; questa era di usarne moderatamente; ma amò meglio dilettarsi, provando quant'oltre potesse trascorrere la viltà degli uomini. Lasciando le adulazioni franzesi e d'altre nazioni, solo si dica delle italiane. A questo fine erano stati chiamati a Parigi i deputati del regno italico. Gamboni, patriarca di Venezia, favellava, introdotto all'udienza nell'imperial sede di Saint-Cloud, con servilissimo discorso al signore. Rispose, gradire i sentimenti de' suoi popoli d'Italia; con piacere averli veduti combattere valorosamente sulla scena del mondo; sperare che sì fausto principio avrebbe consenziente fine. In questo luogo venne in sul dire che le donne italiane dovevano allontanare da sè stesse gli oziosi giovani, nè permettere che più languissero negl'interni recessi, e comparissero al cospetto loro se non quando portassero cicatrici onorevoli. Soggiunse poscia, vedrebbe Venezia volentieri; sapere quanto i Veneziani l'amassero. Accarezzato dai monaci del Cenisio, festeggiato dai Torinesi testè liberati da Menou, al quale era succeduto, come governator generale, il buon principe Camillo Borghese, arrivava Napoleone trionfante nella reale ed accetta Milano. Le feste furono molte: i soldati armeggiavano, i poeti cantavano, i magistrati lusingavano. Trattò Melzi molto rimessamente, perchè non ne aveva più bisogno; perchè poi fosse meglio rintanato, il creò duca di Lodi. Ed ecco che Napoleone arrivava a Venezia (29 novembre). Luminaria per tutta la città; di notte il canal grande chiaro come di giorno; la piazza di San Marco più chiara del canale; regata, balli, teatri, plausi di voci e di mani. Si mostrò lieto e contento in volto. Tornato a Milano il dì 6 dicembre udiva i collegi, ed i collegi parlava. Accusò gli antenati, parlò di patria degenere dalla antica, affermò molto aver fatto per gli Italiani, molto più voler fare; ammonilli, stessero congiunti con Francia; ricordò loro che da quella ferrea corona si ripromettessero l'independenza. Corsa trionfalmente la Lombardia, nuovi italici pensieri gli venivano in mente e li mandava ad esecuzione. Aveva, a cagione che il principe reggente di Portogallo si era ritirato dal voler fare contro gl'Inglesi, per un trattato sottoscritto a Fontanablò ai 27 di ottobre con un ministro di Spagna, tolto il Portogallo a' suoi antichi signori, che vi erano ancora presenti, e dato in potestà di nuovi. Per esso si accordarono la Francia e la Spagna, che la provincia del Portogallo tra Mino e Duero colla città di Porto cedessero in proprietà e sovranità del re d'Etruria, ed egli assumesse il nome di re della Lusitania settentrionale; che l'Algarve si desse al principe della Pace con titolo di principe dell'Algarve; che il Beira ed il Tramonti e l'Estremadura di Portogallo si serbassero sequestrate sino alla pace; che il re d'Etruria cedesse il suo reame all'imperator dei Franzesi; che un esercito napoleonico entrasse in Ispagna, e congiunto con lo spagnuolo occupasse il Portogallo. I Braganzesi, avuto notizia del fatto, e non aspettata la tempesta, s'imbarcarono per Brasile sopra navi proprie ed inglesi. Il dì 22 novembre i ministri di Francia e di Spagna, nelle stanze di Maria Luisa regina reggente di Toscana entrando, le intimarono essere finito e ceduto a Napoleone il suo toscano regno, e che in compenso le erano assegnati altri Stati da goderseli col suo figliuolo Carlo Lodovico. Significava la regina ai suoi popoli essere la Toscana ceduta all'imperator Napoleone; ad altri regni andarsene: ricorderebbesi con diletto del toscano amore, rammaricherebbesi della separazione, consolerebbesi pensando, passare una nazione sì docile sotto il fausto dominio di un monarca dotato di tutte le più eroiche virtù, fra le quali, per usare le stesse parole che usò la regina, dette così com'erano alla segreteriesca, fra le quali campeggiava singolarmente la premura la più costante di promuovere ed assicurare la prosperità dei popoli ad esso soggetti. Non seguitò la regina in Toscana le vestigie leopoldiane, anzi era andata riducendo lo Stato a governo più stretto. Arrivò il generale Reille, il dì 11 dicembre, a pigliar possesso in nome dell'imperatore e re; i magistrati giurarono obbedienza; cassaronsi gli stemmi di Toscana; rizzaronsi i napoleonici: arrivava Menou egiziaco a scuotere le toscane genti; Napoleone trionfatore, tornando a Parigi, tirava dietro le sue carrozze quelle di Maria Luisa e di Carlo Lodovico. La natura rotta e precipitosa di Menon mitigava in Toscana una giunta creata dal nuovo sovrano e composta di uomini giusti e buoni, fra i quali era Degerando, solito sempre a sperare, a supporre e a voler bene. Avevano il difficile carico di ridurre la Toscana a forma franzese. Erano in questa bisogna alcune cose inflessibili, alcune pieghevoli. Si noveravano fra le prime gli ordini giudiziali, amministrativi e soldateschi: furono introdotti nella nuova provincia senza modificazione; degli ultimi non potevano i Toscani darsi pace, parendo loro cosa enorme che dovessero andare alle guerre dell'estrema Europa per gl'interessi di Francia, o piuttosto del suo signore. Si adoperava la giunta, non senza frutto, a fare che la nuova signoria meno grave riuscisse. Primieramente la tassa fondiaria, opinando in ciò molto moderatamente Degerando, fu ordinata per modo che non gettasse più del quinto nè meno del sesto della rendita. Non trascurava la giunta le commerciali faccende. Pel cielo propizio, volle tirarvi la coltivazione del cotone, e per migliorar le lane, diede favore al far venire pecore di vello fino nelle parti montuose della provincia sienese. Delle berrette di Prato, dei cappelli di paglia, degli alabastri e dei coralli di Firenze e di Livorno, parti essenziali del toscano commercio, con iscuole apposite, con carezze e con premii particolar cura aveva. Domandò a Napoleone che permettesse le tratte delle sete per Livorno, provvedimento utilissimo, anzi indispensabile, per tener in fiore le manifature dei drappi e la coltivazione dei gelsi nella nuova provincia. Richiese anche dal signore che concedesse una camera di commercio a Livorno a guisa di quella di Marsiglia, acciocchè i Livornesi potessero regolare da sè, e non per mezzo dei Marsigliesi, le proprie faccende commerciali: non solo buona, ma sincera e disinteressata supplica fu questa della giunta, perchè dava contro Marsiglia. Per queste deliberazioni si mirava a conservar salvo il commercio del Levante con Livorno. I comodi di terra pressavano nei consigli della giunta come quei di mare. Supplicava all'imperadore aprisse una strada da Arezzo a Rimini, brevissima fra tutte dal Mediterraneo all'Adriatico, ristorasse quella da Firenze a Roma per l'antica via Appia, dirizzasse quella da Firenze a Bologna pei Bisenzio e pel Reno, terminasse finalmente quella che insistendo sull'antica via Laontana, da Siena porta a Cortona, Arezzo e Perugia. Nè gli studii si ommettevano; consiglio degno del dotto e dabbene Degerando. Ebbero quei di Pisa e di Firenze con tutti i sussidii loro ogni debito favore: ebberlo le accademie del Cimento, della Crusca, del Disegno, dei Georgofili: feconda terra coltivava Degerando, e la feconda terra ancora a lui degnamente rispondeva. Quando poi arrivava gennaio, cessava la giunta l'ufficio, dato da Napoleone il governo di Toscana ad Elisa principessa, granduchessa nominandola. La qual Elisa, o per natura o per vezzo, simile piuttosto al fratello che a donna, si dilettava di soldati, gli studii e la toscana fama assai freddamente risguardando. A questo modo finì la toscana patria. Similmente ed al tempo stesso Napoleone univa all'imperio il ducato di Parma e Piacenza dipartimento del Taro chiamandolo. Restavano ai Borboni di Parma le speranze del Mino e del Duero. La servitù si abbelliva. In questo Napoleone fu singolarissimo. Opere magnifiche, opere utilissime sorgevano. Milano massimamente di tutto splendore splendeva. La mole dell'ambrosiano tempio cresceva; il foro Buonaparte ogni giorno più grandeggiava; Eugenio vicerè fomentava i parti più belli dei pittori, degli scultori, degli architettori; la corte promuovitrice di servitù era anche pruomovitrice di bellezza. Nuovi canali si cavavano nuovi ponti s'innalzano nuove strade si aprivano. Nè le rocche nè i dirupi ostavano; l'umana arte stimolata da Napoleone, ogni più difficile impedimento vinceva. Sorsero sotto il suo dominio e per sua volontà due opere piuttosto da anteporsi che da pareggiarsi alle più belle ed utili degli antichi Romani; queste sono le due strade del Sempione e del Cenisio, le quali, aprendo un facile adito tra le più inospite ed alte roccie dall'Italia alla Francia, attesteranno perpetuamente all'età future, in un colla perizia ed attività dei Franzesi, la potenza di chi sul principiare del secolo decimonono le umane sorti volgeva. Anno di CRISTO MDCCCVIII. Indizione XI. PIO VII papa 9. FRANCESCO I imp. d'Austria 3. Era arrivato il tempo in cui i disegni napoleonici dovevano colorirsi a danno del re di Spagna. Il mettere discordia nella famiglia reale, il far sorgere sospetto nel padre del figliuolo, dispetto nel figliuolo verso il padre, il seminar sospetti sopra la coniugal fede della regina, e al tempo stesso accarezzare chi era soggetto dei sospetti, e farne strumento alle macchinazioni, il contaminar la fama di una principessa morta, accusar un principe di Spagna d'insidie, perchè più amava la Francia che la Spagna, fare che a Madrid e ad Aranjuez ogni cosa fosse sospetto di fraudi e di tradimenti, e la quiete e confidente vita del tutto sbandirne, queste arti produssero il mal frutto. La subitezza spagnuola le ruppe, col far re Ferdinando e dimetter Carlo; ma Napoleone ravviava le fila: l'accidente stesso d'Aranjuez, che parea dovere scompigliar ogni trama, gli diede occasione a mandarla ad effetto. Trasse con le lusinghe il re Carlo in suo potere a Baiona; restava che vi tirasse il re Ferdinando, ed il vi tirò. Rallegrossi allora dell'opera compita. Costrinse il padre ed il figliuolo a rinunziare al regno in suo favore, mandò il padre poco libero a Marsiglia, il figliuolo prigione a Valenzay: nominò, ribollendo in lui la cupidità dell'esaltazione de' suoi, Giuseppe re di Spagna, Murat re di Napoli. Sorsero sdegnosamente gli Spagnuoli contro le ordite cose, e combatterono i napoleoniani. Napoleone, obbligato a mandar soldati contro Spagna, ed a scemargli in Germania, temeva di qualche moto sinistro. Una nuova dimostrazione dell'amicizia di Russia gli parve necessaria. Fatte le sue osservazioni, otteneva che Alessandro il venisse a trovare ad Erfurt. Quivi furono splendide le accoglienze pubbliche, intimi i parlari segreti: stava il mondo in aspettazione e timore nel vedere i due monarchi, allora potenti sopra tutti favellare insieme delle supreme sorti. Chi detestava l'imperio dispotico di Napoleone, disperava della libertà d'Europa, perchè, essendo le due volontà preponderanti ridotte in una sola, non restava più nè appello, nè ricorso, nè speranza. Chi temeva dell'insorgere progressivo della potente Russia, abborriva ch'ella fosse chiamata ad aver parte in modo tanto attivo nelle faccende di Europa; conciossiachè le abitudini più facilmente si contraggono che si dismettano, ed anche l'ambizione del dominare non si rallenta mai, anzi cresce sempre ed è insanabile. Rotto era e capriccioso il procedere di Napoleone, e però da non durare, mentre l'andare considerato e metodico della Russia dava più fondata cagione di temere. Le scene di Erfurt erano per Napoleone più di apparato che di arte, per Alessandro più di arte che di apparato. Giovacchino Murat, nuovo re di Napoli, annunziava la sua assunzione ai popoli del regno: avergli Napoleone Augusto dato il regno delle Due Sicilie, due primi e supremi pensieri nodrire, esser grato al donatore, utile ai sudditi; volere conservar la costituzione data dall'antecessore; venire con Carolina, sua sposa augusta, venire col principe Achille, suo reale figliuolo, venire co' figliuoli ancor bambini, commettergli alla fede, all'amore loro; sperare farebbero i magistrati il debito loro; in esso consistere la contentezza dei popoli, in esso la sua benevolenza. Principiarono le napolitane adulazioni. Il consiglio di Stato, il clero, la nobiltà mandarono deputati a far riverenza ed omaggio a Giovacchino re. Il trovarono a Gaeta; in nome suo giurarono. Napoli intanto esultava. Inscrizioni, trofei, statue, archi trionfali, ogni cosa in pompa. Una statua equestre, rizzata sulla piazza del mercatello, rappresentava Napoleone augusto. Un'altra sulla piazza del palazzo raffigurava, sotto forma di Giunone, Carolina regina. Perignon, maresciallo di Francia, lodato guerriero, appresentava, il dì 6 di settembre, a Giovacchino le chiavi di Napoli. Generali, ciamberlani, scudieri, ufficiali, soldati, chi con le spade al fianco, chi con le chiavi al tergo, ed un popolo numeroso e moltiforme, chi portando rami d'alloro e chi di ulivo. Firrao cardinale col baldacchino e con gli arredi sacri riceveva Giovacchino sulla porta della chiesa dello Spirito Santo: condottolo sul trono, a tal uopo molto ornatamente alzato, cantava la messa e l'inno ambrosiano. Terminata la ceremonia, per la contrada di Toledo piena di popolo, a cui piaceva la gioventù e la bellezza del nuovo re, andava Giovacchino a prender sede nel real palazzo. Pochi giorni dopo, incontrata dal re a San Leucio, faceva lieto e magnifico ingresso Carolina regina; risplendeva, come lo sposo, di tutta gioventù e bellezza. Guardavano la venustà delle forme, miravano il portamento dolce ed altero, cercavano le fattezze di Napoleone fratello: gridavanla felice, virtuosa, augusta. Furono felici i primi tempi di Murat. Occupavano tuttavia gl'Inglesi l'isola di Capri, la quale, come posta alla bocche del golfo, è freno e chiave di Napoli dalla parte del mare. La presenza loro era stimolo a coloro che non si contentavano del nuovo stato, cagione di timore agli aderenti, e ad ogni modo impediva il libero adito con manifesto pregiudizio dei traffici commerciali. Pareva anche vergognoso che un Napoleonide avesse continuamente quel fuscello negli occhi, da parte massimamente degl'Inglesi, tanto disprezzati. Aveva Giuseppe, per la sua indolenza, pazientemente tollerato quella vergogna: ma Giovacchino, soldato vivo, se ne risentiva, e gli pareva necessario cominciar il dominio con qualche fatto d'importanza: andava contro Capri. Vi stava a presidio Hudson Lowe con due reggimenti accogliticci d'ogni nazione, e che si chiamavano col nome di reale Corso e di reale Malta. Erano nell'isola parecchi siti sicuri, le eminenze di Anacarpi, ed il forte maggiore con quelli di San Michele e di San Costanzo. Partiti da Napoli e da Salerno, e governati dal generale Lamarque, andavano Franzesi e Napolitani alla fazione dell'isola. Posto piede a terra per mezzo di scale uncinate, non senza grave difficoltà perchè gl'Inglesi si difendevano risolutamente, s'impadronirono d'Anacarpi: vi fecero prigioni circa ottocento solduti del reale Malta. Conquistato Anacarpi, ch'è la parte superiore dell'isola, restava che si ricuperasse l'inferiore. Dava ostacolo la difficoltà della discesa per una strada molto angusta a guisa di scala scavata nel macigno, dentro la quale traevano a palla ed a scaglia i forti, specialmente quello di San Michele. Fu forza alzar batterie sulle sommità per battere i forti: l'espugnazione andava in lungo. Arrivavano agli assediati soccorsi di uomini e di munizioni dalla Sicilia. Ma la fortuna si mostrava prospera al Napoleonide, perciocchè i venti di terra allontanavano gl'Inglesi dal lido. Il re che stava sopravvedendo dalla marina di Massa, fermatosi sopra la punta di Campanella, e veduto il tempo propizio, spingeva in aiuto di Lamarque nuovi squadroni. Gl'Inglesi, rotti già in gran parte e smantellati i forti, si diedero, il dì 2 di ottobre, al vincitore. L'acquisto di Capri piacque ai Napolitani, e ne presero buon augurio del nuovo governo. Erano nel regno baroni, repubblicani e popolo. I baroni al nuovo re volontieri si accostavano, perchè si contentavano degli onori, nè stavano senza speranza di avere od a ricuperare gli antichi privilegi, perciocchè, malgrado delle dimostrazioni contrarie, i Napoleonidi tendevano a questo fine, od almeno ad acquistarne di nuovi. I repubblicani erano avversi a Giovacchino, non perchè fosse re, che di ciò facilmente si accomodavano, ma perchè si ricordavano che gli aveva cacciati e fatti legare come malfattori in Toscana. Dava anche loro fastidio la vanità incredibile di lui, siccome quegli che indirizzava ogni suo studio e diligenza a vezzeggiare chi portasse un nome feudatario. Per questo temevano che ad un bel bisogno li desse in preda a chi desiderava il sangue loro; ma egli con qualche vezzo se li conciliava, perchè avevano gli animi domi dalle disgrazie. Il popolo non meglio di Giovacchino si curava che di Giuseppe; si sarebbe facilmente contentato del nuovo dominio, purchè restasse tutelato dalle violenze dei magnati ed avesse facile e quieto vivere. Ma Giovacchino, tutto intento a vezzeggiare i baroni, trascurava il popolo, il quale, vessato dai baroni e dai soldati, si alienava da lui. Era anche segno che volesse governare con assoluto imperio il tacere della costituzione che si credeva aver voluto dare Giuseppe in sul partire. Inoltre ordinò che si scrivessero i soldati alla foggia di Francia. Ciò fe' sorgere mali umori negli antichi possessori dei privilegi; nè meglio se ne contentava il popolo, perchè gli pareva troppo insolito. Siccome poi le province non quietavano, e che massimamente le Calabrie, secondo il solito, imperversavano, scrisse le legioni provinciali, una per provincia, ordine già statuito da Giuseppe, ma da lui rimessamente eseguito. Così tutto in armi; chi non le portava come soldato pagato, era obbligato a portarle come guardia non pagata. Narra un storico famoso che Giovacchino, come soldato, comportava ogni cosa ai soldati, e ne nasceva una licenza militare insopportabile. «Seguitava anche questo effetto, che il solo puntello che avesse alla sua potenza, erano i soldati e che nessuna radice aveva nell'opinione dei popoli. Le insolenze soldatesche moltiplicavano. Non solo ogni volontà, ma ogni capriccio d'un capo di reggimento, anzi di un ufficiale qualunque, dovevano essere obbediti come se fossero leggi: chi anzi si lamentava era mal concio, e per poco dichiarato nemico del re. Molto e con ragione si erano doluti i popoli delle insolenze dei baroni, ma quelle dei capitani di Giovacchino erano maggiori. Rappresentavano i popoli i loro gravami, domandando proiezione ed ammenda. Ma le soldatesche erano più forti delle querele, e si notava come gran caso che chi si era lagnato non fosse mandato per la peggiore. Nascevano nelle provincie un tacere sdegnoso ed una sopportazione desiderosa di vendetta. Nè in miglior condizione si trovava Napoli capitale. La guardia reale stessa, che attendeva alla persona di Giovacchino, oltre ogni termine trascorreva. Nessuna quiete, nessun ordine poteva essere pei cittadini, nè nel silenzio della notte nè nelle feste del giorno, perchè, solo che un ufficiale della guardia il volesse, tosto turbava con importuni romori, minaccie ed insolenze i sonni ed i piaceri altrui. Il re comportava loro ogni cosa. I mandatarii dei magistrati civili, che si attentavano di frenare sì biasimevoli eccessi, erano dai soldati svillaneggiati, scherniti e battuti; e sonsene veduti di quelli che arrestati, per aver fatto il debito loro, dalle sfrenate soldatesche, e condotti sotto le finestre del palazzo reale, furono, veggente il re, fatti segno d'ogni vituperio.» Niega un annalista che la scontentezza dei popoli dalla licenza, che Giovacchino accordava ai soldati, sorgesse.» Una severa disciplina, dice egli, una cieca subordinazione trionfava nei reggimenti napolitani, ai quali non devesi addebitare un qualche eccesso commesso nella guerra, che civile ardeva nella Calabrie.» Ma noi, che in quel torno di tempo avemmo a visitare quelle contrade possiamo asserire che, tollerante o no il re, la licenza della soldatesca era molta, e molto se ne risentivano le popolazioni. Comunque di ciò sia, i mali umori prodotti da tutte queste cause davano speranza alla corte di Palermo che le sue sorti potessero risorgere nel regno di qua del Faro. Infuriava tuttavia la guerra civile nelle Calabrie, nè gli Abbruzzi quietavano. Erano in questi moti varie parti e varii fini: alcuni di coloro che combattevano contro Giovacchino e che avevan combattuto contro Giuseppe, erano aderenti al re Ferdinando; altri amatori della repubblica. Tacciasi di coloro, e non erano pochi, che solo per amor del sacco e del sangue avevano l'armi in mano. Non sarà forse narrazione incresciosa a chi leggerà questi annali, se si racconterà come e per qual cagione la setta dei Carbonari a questi tempi nascesse; quella setta che negli anni più a noi vicini tanti scompigli cagionò nell'italiana penisola ed a sì gran repentaglio pose la sicurezza degl'individui, l'ordine e la quiete degli stati. Alcuni dei repubblicani più vivi, ritiratisi, durante le procedure usate contro di loro, nelle montagne più aspre e nei più reconditi recessi dell'Abruzzo e delle Calabrie, avevano portato con sè un odio estremo contro il re, non solamente perchè loro avverso era stato, ma ancora perchè era re. Nè di minore odio erano infiammati contro i Franzesi, sì perchè avevano disfatto la repubblica propria e quelle d'altrui, sì perchè gli avevano anche perseguitati. Non potevano costoro pazientemente tollerare che in cospetto loro, nonchè di Ferdinando, di Giovacchino, nonchè di Giovacchino, di regno si favellasse. Così tra aspri dirupi e nascoste valli vivendosi, gli odii loro contro i re tutti e contro i Franzesi fra immense solitudini continuamente infiammavano. Ma sulle prime isolati ed alla spartita vivendo, nessun comune vincolo li congiungeva, intenti piuttosto ad arrabbiarsi che a vendicarsi. Gl'Inglesi, che custodivano la Sicilia, ebbero notizia di quest'umore, ed avvisarono che fosse buono per turbare il regno contro i Franzesi. Pertanto gli animarono a collegarsi fra di loro, affinchè con menti unite concorressero ai medesimi disegni e creassero nuovi seguaci. Per accenderli promettevano gl'Inglesi qualche forma di costituzione. Sorse allora la setta dei carbonari, la quale acquistò questo nome, perchè ebbe la sua origine e si mostrò la prima volta nelle montagne dell'Abruzzo e delle Calabrie dove si fa una grande quantità di carbone. Molti ancora fra questi settarii sapevano ed esercevano veramente l'arte del carbonaio. Siccome poi non ignoravano che, a voler tirar gli uomini, niuna cosa è più efficace che le apparenze astruse e mirabili, così statuirono pratiche e riti maravigliosi. Principal capo ed instigatore era un uomo dotato di sorprendente facoltà persuasiva che per nome si chiamava Capobianco. Avevano i carbonari quest'ordine comune coi liberi Muratori, che gli ammessi passavano successivamente per varii gradi fino al quarto; che celavano i riti loro con grande segretezza; che a certi statuiti segni si conoscevano fra di loro; ma in altri particolari assai diversi erano i carbonari dai liberi muratori: conciossiachè siccome il fine che questi ostentano è di beneficare altrui, di banchettare sè stessi, così il fine di quelli era tutto politico. Avevano i carbonari nel loro procedere assai maggiore severità dei liberi muratori, poichè non mai facevano banchetti, nè mai fra canti e suoni si rallegravano. Il loro principal rito in ciò consisteva: che facessero vendetta, come dicevano, dell'agnello stato ucciso dal lupo, e per agnello intendevano Gesù Cristo, e pel lupo i re che con niun altro nome chiamavano se non con quello di tiranni. Sè stessi poi nel gergo loro chiamavano col vocabolo di pecore, ed il lupo credevano essere il monarca sotto il quale vivevano. Opinavano altresì costoro che Gesù Cristo sia stato la prima e la più illustre vittima della tirannide, e protestavano volerlo vendicare con la morte dei tiranni. Così come adunque i Liberi muratori intendono a vendicar la morte del loro Iramo, i carbonari intendevano a vendicare la morte di Cristo. In questa setta entravano principalmente uomini del volgo, sulla immaginazione dei quali gagliardissimamente operavano, con vivi colori rappresentando la passione e la morte di Cristo; e quando nelle loro congreghe i riti loro adempivano, avevano presente un cadavere tutto sanguinoso, che dicevano essere il corpo di Gesù Cristo. Quale effetto in quelle napolitane fantasie sì terribili forme partorissero, ciascuno sel può considerare. Erano i segni loro per conoscersi vicendevolmente, quando s'incontravano, oltre alcuni altri, il toccarsi la mano, ed in tale atto col pollice segnavano una croce nella palma della mano l'uno dell'altro. Quello che i liberi muratori chiamavano loggia, essi baracca chiamavano, e le assemblee loro col nume di vendite distinguevano, ai carbonari alludendo, i quali, scendendo dalle montagne, andavano a vendere il carbone loro pei mercati in pianura. Sentivano, come abbiamo detto, molto fortemente di repubblica: niun altro modo di reggimento volevano che il repubblicano, ed in repubblica già si erano ordinati apertamente nelle parti di Catanzaro sotto la condotta di quel Capobianco che abbiamo sopra nominato. Odiavano acerbamente i Franzesi, acerbissimamente Murat per esser Franzese e re, ma non per questo erano amici di Ferdinando; perchè piuttosto non volevano re. Nata prima nell'Abruzzo e nelle Calabrie, questa peste propagata si era nelle altre parti del regno; e perfino nella Romagna avevano introdotto le pratiche loro e creato consettarii. In Napoli stessa pullulavano: non pochi fra i lazzaroni della segreta lega micidiale erano consapevoli e partecipi. Vedendo Ferdinando che la potenza dei carbonari era cosa d'importanza, si deliberava, a ciò massimamente stimolato dagl'Inglesi, di fare qualche pratica, acciocchè, se possibil fosse, concorressero co' suoi proprii aderenti al medesimo fine, ch'era quello di cacciar i Franzesi e di restituirgli il regno. Principale mezzano di queste pratiche era il principe di Moliterno, che tornato d'Inghilterra, dove si era condotto per proporre a quel governo che dichiarasse l'unione e l'indipendenza di tutta Italia, se vi voleva far frutto contro i Franzesi, le quali proposte non volle l'Inghilterra udire, non fidandosi del principe per essere stato repubblicano, si era in Calabria fatto capo di tutti gli antichi seguaci del cardinal Ruffo, e vi teneva le cose molto turbate contro Giovacchino. Parlava efficacemente. Pareva Moliterno personaggio atto a questi maneggi coi carbonari, perchè ai tempi di Championnet era stato aderente della repubblica, ed anzi per questa sua opinione proscritto dalla corte di Napoli. I carbonari, sì perchè erano aspramente perseguitati dai soldati di Murat, sì perchè Moliterno sentiva di repubblica, e sì finalmente perchè molto si soddisfacevano di quella condizione d'Italia, prestavano favorevoli orecchie alle proposte del principe. Ciò, nonostante, stavano di mala voglia, e ripugnavano al venire ad un accordo con gli agenti regi. Per vincere una tale ostinazione, il governo di Palermo dava speranza ai carbonari che avrebbe loro dato una costituzione libera a seconda dai desiderii loro. Per questi motivi, e massimamente per questa promessa, quanto assurda ed impossibile ognun sel vede, consentirono ad unirsi con gli aderenti del re a liberazione del regno dai Franzesi. A queste risoluzioni vennero la maggior parte dei carbonari; ma i più austeri, siccome quelli che abborrivano da ogni qualunque lega con coloro che stavano ad un servizio regio, continuarono a dissentire, e questa parte discordante fu quella che ordinò quella repubblica di Catanzaro che abbiamo sopra nominato. L'unione dei carbonari coi regi diede maggior forza alla parte di Ferdinando in Calabria; ma dal canto suo Giovacchino, in cui non era la medesima mollezza che in Giuseppe, validamente resisteva, massime nelle terre murate, cooperando alla difesa i soldati franzesi guidati da Partonneaux, i soldati napolitani e le legioni provinciali. Ogni cosa in iscompiglio: la Calabria non era nè del re Ferdinando, nè del re Giovacchino; le soldatesche ed i sollevati ne avevano in questa parte ed in quella il dominio. Seguitavano tutti gli effetti della guerra disordinata e civile; incendii, ruine, saccheggi, stupri, e, non che uccisioni, assassinii. I fatti orribili tanto, più si moltiplicavano quanto più, per l'occasione della guerra fatta nel paese, uomini di mal affare d'ogni sorta, banditi, ladri, assassini, a cui nulla importava nè di repubblica nè di regno, nè di Ferdinando nè di Giovacchino, nè di Franzesi nè d'Inglesi, nè di papa nè di Turco, ma solo al sacco ed al sangue intenti, dai più segreti rispostigli loro uscendo, commettevano di quei fatti dai quali più la umanità abborrisce, e cui la storia più ha ribrezzo a raccontare. Così le Calabrie furono da questo momento in poi e per due anni continui fatte rosse da sangue disordinatamente sparso finchè lo spavento cagionato da sangue ordinatamente sparso le ridusse a più tollerabile condizione. Anno di CRISTO MDCCCIX. Indizione XII. PIO VII papa 10. FRANCESCO I imp. d'Austria 4. Le ruine si moltiplicavano: la Spagna ardeva, l'Italia e la meridional parte della Germania sotto l'imperio diretto di Napoleone, l'Austria perplessa, la Prussia serva, la Russia devota, la Turchia aderente, la terraferma europea tutta obbediente a Napoleone o per forza o per condiscendenza. Un solo principe vivente nel cuor dell'Italia, debole per soldati, forte per coscienza, resisteva alla sovrana volontà. Napoleone, spinto dalla ambizione e acciecato dalla prosperità, aveva messo fuori certe parole sull'imperio di Carlo Magno, suo successore nei diritti e nei fatti intitolandosi, come se gl'impiegati di Francia, che da lui traevano gli stipendii, avessero potuto, imperadore dei Franzesi chiamandolo, dargli il supremo dominio e l'effettiva possessione, non che della Francia, di tutta la Italia, di tutta la Germania, di quanto insomma componeva l'imperio di Occidente ai tempi di quel glorioso imperadore. Adunque con quell'insegna di Carlo Magno in fronte si avventava contro il papa. Non poteva pazientemente tollerare che Roma, il cui nome tant'alto suona, non fosse ridotta in sua potestà, e gli pesava che ancora in Italia una piccola parte fosse che a lui non obbedisse. Dal canto suo il papa si mostrava renitente al consentire di mettersi in quella condizione servile, nella quale erano caduti, chi per debolezza e chi per necessità, quasi tutti i principi di Europa. Così chi aveva armi, cedeva, chi non ne aveva, resisteva. Pio VII, non che resistesse, fortemente rimostrava al Signore della Francia, acerbamente dolendosi che per gli articoli organici e pel decreto di Melzi fossero stati due concordati guasti a pregiudizio della sedia apostolica, ed anche a violazione manifesta dei concilii e del santo Vangelo stesso. Si lamentava che nel Codice civile di Francia, introdotto anche per ordine dell'imperadore in Italia, si fosse dato luogo al divorzio tanto contrario alle massime della Chiesa ed ai precetti divini. Rimproverava che in un paese cattolico, quale si protestava essere ed era la Francia con legge uguale si ragguagliassero la religione cattolica e le dissidenti, non esclusa anche l'ebraica, nemica tanto irreconciliabile della religione di Cristo. Di tutte queste cose ammoniva l'imperadore, dell'esecuzione delle sue promesse a pro della cattolica religione richiedendolo. Ma Napoleone vincitore delle maggiori potenze, non era più quel Napoleone ancor tenero ne' suoi principii. Per la qual cosa, volendo ad ogni modo venir a capo del suo disegno di farsi padrone di Roma, o che il papa vi fosse o che non vi fosse, mandava dicendo al pontefice, che essendo egli il successore di Carlo Magno, gli stati pontifizii, siccome quelli che erano stati parte dell'impero di esso Carlo Magno, appartenevano all'impero franzese; che se il pontefice era il signore di Roma, egli ne era l'imperadore, e che a lui, come a successore di Carlo Magno, il pontefice doveva obbedienza nelle cose temporali, come egli al pontefice la doveva nelle spirituali; che uno dei diritti inerenti alla sua corona era quello di esortare, anzi di sforzare il signore di Roma a fare con lui e co' suoi successori una lega difensiva ed offensiva per tutte le guerre presenti e future; che il pontefice, essendo soggetto all'imperio di Carlo Magno, non si poteva esimere dall'entrare in questa lega e dall'avere per nemici tutti coloro che di lui Napoleone fossero nemici. Aggiungeva, che se il pontefice a quanto da lui si esigeva non consentisse, aveva egli il diritto di annullare la donazione di Carlo Magno, di spartire gli Stati pontifizii e di dargli a chi meglio gli paresse; che nella persona del pontefice separerebbe l'autorità temporale dalla spirituale; che manderebbe un governatore con potestà di reggere Roma, e che al papa lascerebbe la semplice qualità di vescovo di Roma. Queste estreme intimazioni fatte al pontefice, che non aveva dato a Napoleone alcuna cagione di dolersi di lui, e che anzi con tutta l'autorità sua l'aveva aiutato a salire sul suo seggio imperiale, dimostravano in chi le faceva una risoluzione irrevocabile. Rispondeva il pontefice, e troppo seriamente rispondeva alle allegazioni di Napoleone, perchè niuno meno le stimava che Napoleone stesso. Instava adunque minacciosamente l'imperatore col pontefice, entrasse nella confederazione italica coi re d'Italia e di Napoli, e per nemici avesse i suoi nemici, e per amici gli amici. Ma avendo il papa costantemente ricusato di aderire, si era ridotto a richiedere che il pontefice facesse con lui una lega difensiva ed offensiva, e medesimamente tenesse i suoi amici per amici, i suoi nemici per nemici: quando no, lo stimerebbe intimazione di guerra, avrebbe il papa per nemico, Roma conquisterebbe. Allora, esposto il papa Pio con gravissime querele l'animo suo a Napoleone, andava protestando, che se per gli occulti disegni di Dio l'imperatore volesse consumare le sue minaccie, impossessandosi degli Stati della Chiesa a titolo di conquista, non potrebbe sua Santità a tali funesti avvenimenti riparare, ma protesterebbe come di usurpazione violenta ed iniqua. L'imperatore perseverò nel dire che a questo principio mai non consentirebbe, che i prelati non fossero sudditi del sovrano, sotto il dominio del quale son nati, e che intenzion sua era che tutta l'Italia, Roma Napoli e Milano, facessero una lega offensiva e difensiva per allontanare dalla penisola i disordini della guerra. Questa sua ostinazione corroborava col pretesto che la comunicazione non doveva e non poteva essere interrotta per uno Stato intermedio che a lui non si appartenesse tra i suoi Stati di Napoli e di Milano. Inoltre voleva e comandava che i porti dello Stato pontificio fossero e restassero serrati agli Inglesi. Rimostrò nuovamente il papa; e quanto al serrare i porti agl'Inglesi, sebbene fosse da temersi che ciò non potesse essere senza qualche pregiudizio dei cattolici che abitavano l'Irlanda, l'avrebbe nondimeno il pontefice consentito, per amor della concordia, all'imperatore. Napoleone, al quale sempre pareva che la corona imperiale fosse monca, se non fosse padrone di Roma, si apprestava a disfar quello che aveva per tanti secoli durato fra tante rivoluzioni e di Italia e del mondo. Perchè poi la forza fosse aiutata dall'arte, accompagnava le sue risoluzioni con parole di umanità e di desiderio di libertà per la potestà secolare. Quindi instantemente richiedeva, anche con la solita minaccia di privarlo della potenza temporale, se non consentisse, il papa che riconoscesse in lui il diritto d'indicare alla santa Sede tanti cardinali franzesi, quanti bastassero perchè il terzo almeno del sacro collegio si componesse di cardinali franzesi. Se il papa consentiva, acquistava Napoleone preponderante autorità nelle deliberazioni, e massimamente nelle nomine dei papi; se ricusava, avrebbe punito alla nazione franzese che egli le negasse ciò che per la sua grandezza credeva meritarsi, punto questo che all'imperatore molto caleva. Non potere, rispose il pontefice, consentire ad una domanda che vulnerava la libertà della Chiesa ed offendeva la sua più intima costituzione, e ciò dimostrava con sane e sante ragioni. Non si rimaneva l'imperatore dalla presa deliberazione; mandò di nuovo dicendo al papa, o gli desse il terzo dei cardinali o si piglierebbe Roma. Tentato di render Pio odioso ai Franzesi, il volle far disprezzabile al mondo. Imperiosamente intimava al pontefice, cacciasse da Roma il console del re Ferdinando di Napoli. Rispondeva Pio, ch'egli non aveva guerra col re, che il re possedeva ancora tutto il reame di Sicilia, che era un sovrano cattolico, e che egli non sarebbe mai per consentire a trattarlo da nemico, cacciando da Roma coloro che a Roma il rappresentavano. L'appetita Roma veniva in mano di lui. Se vi fu ingiustizia nei motivi, fuvvi inganno nell'esecuzione. Si avvicinavano i napoleoniani all'antica Roma, nè ancora confessavano di marciare contro di lei. Pretendevano parole di voler andare nel regno di Napoli: erano sei mila; obbedivano a Miollis. Nè bastava un generale per un papa: Alquier, ambasciatore di Napoleone presso la santa Sede, anch'egli vi si adoperava. Usava anzi parole più aspre del soldato. Era giunto il mese di gennaio 1808 al suo fine, quando Alquier mandava dicendo a Filippo Casoni, cardinale segretario di Stato, che sei mila napoleoniani erano per traversare, senza arrestarvisi, lo Stato romano: che Miollis prometteva che passerebbero senza offesa del paese, e che il generale era uomo di tal fama che la sua promessa doveva stimarsi certezza. Mandava Alquier con queste lettere l'itinerario de' soldati, dal quale appariva che veramente indirizzava verso il regno di Napoli il loro cammino, e non dovevano passare per la città. Pure si spargevano romori diversi. Affermavano questi che andassero a Napoli, quelli che s'impadronirebbero di Roma. Il papa interpellava formalmente, per mezzo del cardinal segretario, Miollis, dicesse e dichiarasse, apertamente e senza simulazione alcuna, il motivo del marciare di questi soldati, acciocchè Sua Santità potesse fare quelle risoluzioni che più convenienti giudicherebbe. Rispondeva, aver mandato la norma del viaggio dei soldati, e sperare che ciò basterebbe per soddisfare i ministri di Sua Santità. Il tempo stringeva: i comandanti napoleonici marciando, e detti i soliti motti e scherni sui preti, sul papa e sui soldati del papa, minacciavano che entrerebbero in Roma, e l'occuperebbero. Novellamente protestava il papa, fuori delle mura passassero, in Roma non entrassero; se il facessero, l'avrebbe per caso di guerra, ogni pratica di concordia troncherebbe. Già tanto vicini erano i napoleoniani, che vedevano le mura della romana città. Alquier tuttavia moltiplicava in protestazioni col santo padre, affermando con osservazione grandissima che erano soltanto di passo e non avevano, nessuna intenzione ostile. I napoleoniani intanto, arrivati più presso, assaltarono armata mano, il dì 2 febbraio, la porta del popolo, per essa entrarono violentemente, s'impadronirono del castel Sant'Angelo, recarono in poter loro tutti i posti militari, e tant'oltre nell'insolenza procederono, che piantarono le artiglierie loro con le bocche volte contro il Quirinale, abitazione questa del pontefice. Perchè poi niuna parte di audacia mancasse in questi schifosi accidenti, Miollis domandava, per mezzo di Alquier, udienza al santo padre; ed avendola ottenuta, si scusò con dire che non per suo comando le bocche dei cannoni erano state volte contro il quirinale palazzo, come se l'ingiuria fatta al sovrano di Roma ed al capo della cristianità consistesse in questa sola violenza che certamente era molto grave. Della occupazione frodolenta ed ostile di Roma, ch'era pure l'importanza del fatto, non fece parola. Gli oltraggi al papa si moltiplicavano. L'accusavano dell'aver dato asilo nei suoi Stati a Napolitani briganti, ribelli, congiuratori contro lo Stato di Murat; per questo, affermavano, aversi occupata Roma; il papa stesso accagionarono di connivenza. Alquier già ne fece querele; del rimanente voleva, non so se per pazzia o per ischerno, che il papa avesse e trattasse ancora come amiche le truppe che violentemente avevano occupato la sua capitale e la sede del suo governo, e fatto contro il pacifico ed inerme suo palazzo quello che contro le fortezze nemiche ed armate solo si suol fare. A questo tratto non potè più contenere sè medesimo il pontefice: sdegnosamente scrisse all'ambasciatore napoleonico, non terrebbe più per amici quei soldati che, rompendo le più solenni promesse, erano entrati in Roma, avevano violato la sua propria residenza, offeso la sua libertà, occupato la città ed il castello, voltato i cannoni contro la propria abitazione, e che inoltre con intollerabile peso si aggravavano sopra il suo erario e sopra i suoi sudditi. A questo aggiungeva che, essendo privato della sua libertà, e ridotto in condizione di carcerato, non intendeva più nè voleva negoziare, e che solo allora si risolverebbe a trattare delle faccende pubbliche con Francia, che sarebbe restituito alla sua piena e sicura libertà. Le amarezze del papa divenivano ogni giorno maggiori. Il comandante napoleonico intimava ai cardinali napolitani, nel termine di ventiquattr'ore partissero da Roma, tornassero a Napoli. Se nol facessero, gli sforzerebbero i soldati. Quindi l'intimazione medesima, termine tre ore a partire, fu fatta dal soldato medesimo ai cardinali del regno italico. Risposero stare ai comandamenti del pontefice; farebbero quanto ordinasse. A tanto oltraggio il pontefice, quantunque in potestà di altrui già fosse ridotto, gravemente risentissi. Scrisse ai cardinali, non potere Sua Santità permettere che partissero: proibirlo anzi a tutti ed a singoli in virtù di quella obbedienza che a lui giurato avevano. La sovranità del papa a grado a grado dai violenti occupatori si disfaceva. Commettevano il male, non volevano che si sapesse. Soldati napoleoniani furono mandati alla posta delle lettere, dove, cacciate le guardie pontifizie, ogni cosa recarono in poter loro. Al medesimo fine invasero tutte le stamperie di Roma per modo che nulla, se non quanto permettevano essi, stampare si potesse. Tolta al papa la forza civile, si faceva passo di togliergli la militare. Incominciossi dalle arti con subornare i soldati, le napoleoniche glorie e la felicità degli imperiali soldati magnificando. Pochi cessero, i più resisterono. Riuscite inutili le instigazioni, toccossi il rimedio della forza. I soldati furono costretti alle insegne napoleoniche, e mandati prima in Ancona, poscia nel regno italico per essere ordinati secondo le forme imperiali. Restava il santo padre nel suo pontificale palazzo con poche guardie, piuttosto ad onore che a difesa. Vollero i Franzesi che quest'ultimo suo ricetto fosse turbato dalle armi forastiere, non contenti se non quando il sommo pontefice fosse in vero carcere ristretto. Andavano, il dì 7 aprile, all'impresa del prendere il pontificale palazzo; si appresentavano alla porta: il soldato svizzero, che vi stava a guardia, rispose che non lascerebbe entrare gente armata, ma solamente l'ufficiale che le comandava. Parve soddisfarsene il capitano napoleonico: fatti fermar i soldati, entrava solo; ma non così tosto fu lo sportello aperto, e l'ufficiale entrato, che, aggiungendo la sorpresa alla forza, fece segno a' suoi che entrassero. Entrarono; volte le baionette contro lo Svizzero, occuparono l'adito. Si impadronirono, atterrando romorosamente le porte delle armi delle papali guardie, i più intimi penetrali invasero. Di tanti eccessi querelavasi gravissimamente il pontefice con Miollis; ma le sue querele non muovevano il generale, che anzi, negli eccessi moltiplicando, faceva arrestare da' suoi soldati monsignor Guidebono Cavalchini governator di Roma, ordinando che fosse condotto a Fenestrelle, fortezza alle fauci delle Alpi sopra Pinerolo. A questi tratti il pontefice, fatto maggiore di sè medesimo, in istile grave e profetico, a Napoleone le sue parole rivolgendo: «Per le viscere, diceva, della misericordia di Dio nostro, per quel Dio che è cagione che il sole levante venne dall'alto a ritirarsi, esortiamo, preghiamo, scongiuriamo te, imperadore e re Napoleone, a cambiar consiglio, a rivestirti dei sentimenti che sul principiar del tuo regno manifestasti; sovvengati che Dio è re sopra di te; sovvengati ch'ei non rispetterà la grandezza di uomo che sia; sovvengati ed abbi sempre alla mente tua davanti, ch'ei si farà vedere, e presto, in forma terribile; perchè quelli che comandano agli altri saranno da lui con estremo rigore giudicati.» Napoleone, cieco, e dal suo inevitabile destino tratto, non attendeva alle spaventevoli o fatidiche voci del pontefice. Decretava, il dì 2 aprile dello scorso anno, che, stantechè il sovrano attuale di Roma aveva costantemente ricusato di far guerra agl'Inglesi, e di collegarsi coi re d'Italia e di Napoli a difesa comune della penisola; stantechè l'interesse de' due reami e dell'esercito d'Italia e di Napoli esigevano che la comunicazione non fosse interrotta da una potenza nemica; stantechè la donazione di Carlo Magno, suo illustre predecessore, degli Stati pontifizii, era stata fatta a benefizio della cristianità, non a vantaggio dei nemici della nostra santa religione: stante finalmente che l'ambasciatore della corte di Roma appresso a lui aveva domandato i suoi passaporti; le provincie d'Urbino, Ancona, Macerata e Camerino fossero irrevocabilmente e per sempre unite al suo regno d'Italia; il regno italico, il dì 11 maggio, prendesse possessione delle quattro provincie, vi si pubblicasse ed eseguisse il codice Napoleone: fossero investite nel vicerè amplissime facoltà per l'esecuzione del decreto. Il giorno stesso del 2 di aprile, l'imperatore, conoscendo quanti prelati natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del pontefice, e volendo privare il santo padre del sussidio di tanti servitori ed amici, decretava che tutti i cardinali, prelati, ufficiali ed impiegati qualsivogliano appresso alla corte, di Roma, nati nel regno d'Italia, fossero tenuti, passato il dì 25 di maggio, di ridursi nel regno; chi nol facesse avesse i suoi beni posti al fisco; i beni già si sequestrassero a chi non avesse obbedito il dì 5 di giugno. Nè solo la violenza del voler torre i servidori al papa si usò contro coloro ch'erano nati nel regno italico, ma ancora contro quelli che, sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano ufficii spirituali in quel regno. Eugenio vicerè, con solenne decreto del 20 maggio spartiva, le quattro provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone e del Tronto chiamandoli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata, il terzo Fermo. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi territorii un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente: due consiglieri di Stato. Si esigevano nelle provincie unite i giuramenti di fedeltà all'imperatore, di obbedienza alle leggi e costituzioni. Il pontefice, che non aveva riconosciuto l'usurpazione, non consentiva ai giuramenti pieni. Da questo conflitto tra armi ed opinioni sorse nelle Marche, una volta sì prospere e felici, un disordine ed una infelicità dolorosissima. Pubblicava Pio una solenne protesta, la quale così terminava: «Stante adunque che per le ragioni finora raccontate egli è chiaro e manifesto che per forza di un attentato enorme i diritti della romana Chiesa sono stati dall'ultimo decreto di Napoleone violati, e che una ferita ancor più profonda è stata a noi ed alla santa Sede fatta, acciocchè tacendo non paia ai posteri che noi l'iniquissimo delitto commesso con violazione di tutte le regole della rettitudine e dell'onore, quanto pure merita, non abbiamo, il che sarebbe perpetua vergogna nostra, a sdegno e ad abborrimento avuto, di nostro proprio moto, di nostra certa scienza, di nostra piena potenza dichiariamo, e solennemente e in miglior modo protestiamo, l'occupazione delle terre che sono nella marca d'Ancona, e l'unione loro al reame d'Italia, senza alcun diritto e senza alcuna cagione per decreto dell'imperatore Napoleone fatte, ingiuste essere, usurpate, nulle. Dichiariamo altresì e protestiamo nullo essere e di niun valore quanto fino ad oggi si è fatto per esecuzione del detto decreto, e quanto potrà essere d'ora in poi sulle terre medesime da qualunque persona fatto e commesso: vogliamo inoltre e dichiariamo che anche dopo mille anni, e tanto quanto il mondo durerà, quanto vi si è fatto e quanto sarà per farvisi, a patto niuno possa portar pregiudizio o nocumento ai diritti sì di dominio che di possessione sulle medesime terre, perchè sono e debbono essere di tutta proprietà della nostra santa Sedia apostolica.» Così Pio, venuto in forza altrui, parlava a Napoleone, e contro di lui protestava. Così ancora Napoleone, dopo di aver carcerato i reali di Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna, usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene a visitarlo in Erfurt; Francesco d'Austria vi mandava il generale Saint-Vincent (27 settembre 1808). Ma era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità, e già l'Austria, non abborrendo dall'entrare in nuovi travagli, e dall'abbracciar sola la guerra, si mise in sull'armare. Si doleva Napoleone dei romorosi apparecchi, affermando non pretendere coll'imperatore d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco essere a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli austriaci ministri, e non so quale viennese setta, bramosa di guerra, come la chiamava, e prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a Francesco l'avere conservato la monarchia austriaca quando la poteva distruggere; gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dalle armi. Ma l'Austria non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui che aveva incarcerato i reali di Spagna. La confederazione renana, la distruzione dell'impero germanico, Vienna senza propugnacolo per la servitù della Baviera, Ferdinando cacciato di Napoli, il suo trono dato ad un Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta, la Toscana congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata cagione all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno esser capace che a lei altro partito restasse che armi o servitù. Solo le mancava l'occasione: la offerse la guerra di Spagna, all'impresa della quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che quello era l'ultimo cimento, faceva apparati potentissimi. Un esercito grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca Carlo in Germania. Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale perseverava nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse favorevole a questo primo conato, si aveva in animo di attraversare la Selva Nera e di andar a tentare le renane cose. Per aiutare questo sforzo, ch'era il principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo, stanziava con un corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccar nella Franconia, tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima speranza poi aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei Tirolesi, sempre affezionati al suo nome e desiderosi di riscuotersi dalla signoria dei Bavari. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di questo vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con un'oste assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni, giovane di natura temperata e di buon nome presso agl'Italiani. A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore. Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà della quiete. Ma, da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non ingannandosi punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato della mala disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si preparava alla guerra, con mandar in Germania ed in Italia quanti soldati poteva risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò nondimeno Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva, stava meglio armato e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar egli medesimo alla guerra germanica, perchè vedeva che sulle sponde del Danubio erano per volgersi le difinitive sorti, e che nessun altro nome, fuorichè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo. Quanto all'Italia, diede il governo della guerra in questa parte importante al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald. L'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino. L'arciduca Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe avanti, e chi resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo il dì 9 aprile del presente anno al medesimo modo intimò la guerra Broussier che colle prime guardie custodiva i passi della valle di Fella. Preparate le armi, pubblicavansi i discorsi. Addì 10 di aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca, varcata la sommità dei monti al passo di Tarvasio, e superato, non però senza qualche difficoltà per la resistenza dei Franzesi, quello della Chiusa, si avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante corredo di artiglierie e di cavalleria passava l'Isonzo, e minacciava con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei napoleoniani. Fuvvi un feroce incontro ai ponte di Dignano, perchè quivi Broussier combattè molto valorosamente. Ma, ingrossando vieppiù nelle parti più basse gli Austriaci che avevano passato l'Isonzo, Broussier si riparò, per ordine del vicerè, sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, andò il principe a piantare il suo alloggiamento a Sacile sulla Livenza, attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere, sì quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano dal Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le fortezze di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi, eccetto quelli che venivano dalle parti superiori del regno Italico e dalla Toscana, si deliberava ad assaltar l'inimico innanzi ch'egli avesse col grosso della sua mole congiunto le altre parti che a lui si avvicinavano. Erano i Franzesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras e Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo, Broussier a sinistra: le fanterie e le cavallerie del regno Italico formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i Tedeschi; correva il dì 16 aprile: destossi una gravissima contesa nel villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie volte cacciati e rincacciati: i soldati italiani combatterono egregiamente. Pure restò Palsi in potere dell'arciduca: e già i Tedeschi minacciosi colla loro sinistra fornitissima di cavalleria insistevano; la destra de' Franzesi molto pativa; Seras e Severoli si trovavano pressati con urto grandissimo ed in grave pericolo. Sarebbero anche stati condotti a mal partito, se Barbon dal mezzo non avesse mandato gente fresca in loro aiuto. Avuti Seras questi soldati di soccorso, preso nuovo animo, spinse avanti con tanta gagliarda, che, pigliando del campo, scacciò il nemico non solamente da Palsi, ma ancora da Porcia, dove aveva il suo principale alloggiamento. L'arciduca, veduto che il mezzo delle fronte franzese era stato debilitato pel soccorso mandato a Seras, vi dava dentro per guisa che per poco stette non lo rompesse intieramente. Ma entrava in questo punto opportunamente nella battaglia Broussier, e riconfortava i suoi che già manifestamente declinavano. Barbou eziandio si difendeva con molto spirito. Spinse allora l'arciduca tutti i suoi battaglioni avanti: la battaglia divenne generale su tutta la fronte. Fu la zuffa lunga, grave e sanguinosa, superando i Tedeschi di numero e di costanza, i Franzesi d'impeto e di ardire. Intento sommo degli Austriaci era di ricuperar Porcia; ma, contuttochè molto vi si sforzassero, non poterono mai venirne a capo. Durava la battaglia già da più di sei ore, nè la fortuna inclinava. Pure finalmente rinfrescando sempre più l'arciduca con nuovi aiuti la fronte, costrinse i napoleoniani a piegare, non senza aver disordinato in parte le loro schiere e ucciso loro di molta gente. E se la notte, che sopraggiunse, non avesse posto fine al perseguitare del nemico, avrebbero i Franzesi e gl'Italiani provato qualche pregiudizio molto notabile. Dopo l'infelice fatto, non erano più le stanze di Sacile sicure al principe vicerè. Per la qual cosa si ritrasse, seguitato debolmente dai Tedeschi, sulle sponde dell'Adige. Quivi vennero a congiungersi con lui i soldati di Lamarque, che già stanziavano nelle terre veronesi, e quelli che sotto Durante dalla Toscana erano venuti. Nè piccola cagione di dare novelli spiriti ai napoleoniani fu l'arrivo di Macdonald. Fu egli veduto con allegra fronte, ma con animo poco lieto da Eugenio, che stimava aver a passare in lui la riputazione di ogni impresa segnalata. Passò l'arciduca la Piave, passò la Brenta, tutto il Trivigiano, il Padovano e parte del Vicentino inondando. Assaltava in questo mentre Palmanova, ma con poco frutto; tentò con un grosso sforzo il sito fortificato di Malghera per aprirsi la strada alle lagune di Venezia, ma non sortì effetto. Si apprestava non ostante ad andar a trovare il nemico sulle rive dell'Adige, sperando di riuscire nella superiore Lombardia, dominio antico de' suoi maggiori. Non trovò nelle regioni conquistate quel seguito che aspettava. Vi fu qualche moto in Padova, ma di poca importanza: si levarono anche in arme gli abitatori di Crespino, terra del Polesine, e fu per loro in mal punto, perchè Napoleone, tornato superiore per le vittorie di Germania, fortemente sdegnatosi, li suggellò all'imperio militare ed alla pena del bastone per le trasgressioni. Supplicarono di perdono. Rispose, perdonare, ma a prezzo di sangue: dessero, per esser immolati, quattro di loro. Per intercessione del vicerè, che tentò di mollificare l'animo dell'imperadore, fu ridotto il numero a due; questi comprarono coll'ultimo supplizio l'indennità della patria. Intanto l'arciduca Carlo aveva occupato la Baviera, e col suo grosso esercito s'incamminava alla volta del Reno. Ogni cosa pareva su quei primi principii dar favore allo sforzo dell'imperatore Francesco. Ma parte molto principale era la sollevazione dei Tirolesi. Il giorno stesso in cui l'arciduca Carlo aveva passato l'Inn, e l'arciduca Giovanni le strette di Tarvisio, i Tirolesi, mossi da una sola mente e da un solo ardore, si levarono tutti improvvisamente in armi, e diedero addosso alle truppe bavare e franzesi che nelle terre loro erano poste a presidio. Fecero capo al moto loro un Andrea Hofer, albergatore a Sand nella valle di Passeira. Non aveva Andrea alcuna qualità eminente, di quelle, cioè, alle quali il secolo va preso: bensì era uomo di retta mente e d'incorrotta virtù. Vissuto sempre nelle solitudini dei tirolesi monti, ignorava il vizio ed i suoi allettamenti. Allignano d'ordinario in questa sorte di uomini due doti molto notabili: l'amore di Dio e l'amore della patria: l'uno e l'altro rispondevano in Andrea. Per questo la tirolese gente aveva in lui posto singolare benevolenza e venerazione. Non era in lui ambizione; comandò richiesto, non richiedente. Di natura temperatissima, non fu mai veduto nè nella guerra sdegnato, nè nella pace increscioso, contentò al servire od al principe od alla famiglia. Vide vincitori insolenti, vide incendii di pacifici tugurii, vide lo strazio e la strage de' suoi; nè per questo cessò dall'indole sua moderata ed uguale: terribile nelle battaglie, mite contro i vinti, non mai sofferse che chi le guerriere sorti avevano dato in sua podestà, fosse messo a morte; anzi i feriti dava in cura alle tirolesi donne, che e per sè e per rispetto di Hofer gli accomodavano d'ogni più ospitale sentimento. Adunque la nazione tirolese, al suo antico signore badando, ed avendo a schifo la signoria nuova, uomini, donne, vecchi e fanciulli da Andrea Hofer ordinati e condotti, insorsero, e dalle più profonde valli e dai più aspri monti uscendo, fecero un impeto improvviso contro i Bavari ed i Franzesi. Assaltati in mezzo a tanto tumulto i Bavari in più luoghi, non poterono resistere, e perduti molti soldati tra morti e cattivi, deposero le armi, erano circa dieci mila, in potestà del vincitore rimettendosi. Nè miglior fortuna incontrò un corpo di tre mila napoleoniani, franzesi e bavari, che in soccorso degli altri arrivava sotto le mura di Vildavia. Quindi quante squadre comparivano alla sfilata o degli uni o degli altri, tante erano sottomesse dai sollevati. Nè luogo alcuno sicuro nè ora vi erano per gli assalitori; perchè da ogni parte, e così di notte come di giorno i Tirolesi, uscendo dai loro reconditi recessi, e viaggiando per sentieri incogniti, siccome quelli che ottimamente sapevano il paese, opprimevano all'improvviso gl'incauti napoleoniani. Fu questa una guerra singolare e spaventosa; conciossiachè al romore dell'armi si mescolava il rimbombo delle campane che continuamente suonavano a martello, e le grida dei paesani sclamanti senza posa: In nome di Dio! In nome della santissima Trinità! Tutti questi strepiti uniti insieme, e dall'eco delle montagne ripercossi facevano un misto pieno d'orrore, di terrore e di religione. Camminavano i vinti, erano una moltitudine considerabile, per la strada di Salisburgo verso il cuore dell'Austria. I Tirolesi vincitori sulle terre germaniche, passate le altezze del Breuver, vennero nelle italiane, e mossero a rumore le regioni superiori a Trento. Propagavasi il rumore da valle in valle, da monte in monte, e la trentina città stessa era in pericolo. Certo era che quando l'arciduca Giovanni fosse comparso sulle rive dell'Adige, la massa tirolese sarebbe calata a fargli spalla, il che avrebbe partorito un caso di grandissima importanza per tutta Italia: questo era il disegno dei generali austriaci. L'imperatore Francesco, sì per aiutare la caldezza di questo moto, e sì per dimostrare che non aveva mandato in dimenticanza quelle popolazioni tanto affezionate, mandava in Tirolo Chasteler, un generale per arte e per valore fra' primi dell'età nostra, acciocchè nelle cose di guerra consigliasse Hofer. Mandava altresì, come s'è notato, un capo di regolari, usi alle guerre di montagna, sotto la condotta di Jellacich, capitano esperto e conoscitore del paese. — Come prima le insegne ed i soldati dell'Austria comparvero, sentirono i Tirolesi una contentezza incredibile. Entrarono gli imperiali a guisa di trionfo; tante erano le dimostrazioni di allegrezza che i popoli facevano loro intorno. Le campane suonavano a gloria le artiglierie e le archibuserie tiravano a festa; i vincitori popoli applaudivano, abbracciavano, si abbracciavano, erano pronti a ristorare i soldati d'Austria con le più gradite vivande di quei monti: giorni felicissimi per l'eroico Tirolo. Ma qui finirono le prosperità dell'Austria; poichè nel colmo più alto delle sue maggiori speranze, Napoleone fatale, giunto sulle terre germaniche, recatosi in mano il governo della guerra, vinse in pochi giorni tre grandissime battaglie a Taun, ad Abensberga, ad Eckmül. Per questi accidenti, fu costretto l'arciduca Carlo a ritirarsi sulla sinistra del Danubio, e restò aperta la strada sulla destra ai napoleoniani per Vienna. Quando pervennero all'arciduca Giovanni le novelle delle perdite del fratello, si accorse, e vi ebbe anche comandamento da Vienna, che quello non era più tempo da starsene a badare in Italia, e che gli era mestiero accorrere in aiuto della parte più vitale della monarchia. Ordinava dunque il suo esercito, che già era trascorso oltre Vicenza, alla ritirata, solo proponendosi di fare qualche resistenza ai luoghi forti per poter condurre in salvo le artiglierie, le munizioni e le bagaglie, opera difficile in vero, e pericolosa con un nemico tanto svegliato e precipitoso. Ritiravasi l'arciduca, perseguitavalo Eugenio. Fuvvi qualche indugio alla Brenta per la rottura dei ponti. Fermaronsi gli Austriaci sulle sponde della Piave, e si deliberarono a contendere il passo. Erano alloggiati in sito forte. Si apprestavano i Franzesi al passo, sforzandosi di varcare a quello di Lovadina, che è il principale. Nonostante che i Tedeschi furiosamente tempestassero con le artiglierie poste nei luoghi eminenti, Dessaix venne a capo dell'intento. Poi passò il vicerè sopra e sotto a Lovadina con la maggior parte dell'esercito. Ordinò tostamente i soldati sotto il bersaglio stesso dei nemici, che con palle e cariche continue di cavalleria l'infestavano. Pareggiossi la battaglia che continuava con grandissimo furore da ambe le parti, perchè i Franzesi volevano sloggiare gli Austriaci dalle alture, gli Austriaci volevano rituffar i Franzesi nel fiume. Non risparmiavano nè il principe nè l'arciduca in questa terribile mischia a fatica od a pericolo, ora come capitani comandando, ed ora come soldati combattendo. Era il conflitto tra la Piave e Conegliano; fossi profondi munivano la fronte tedesca. Diedero dentro i Franzesi. Dopo ostinato affronto i soldati dell'arciduca furono costretti a piegare: la fortuna si scopriva in favore del principe. Si ritirarono gli Austriaci non senza disordine nelle ordinanze, a Conegliano. Poi, pressando vieppiù il nemico, cercavano salvamento in Sacile. Fu molto grossa questa battaglia, e molto vi patirono i Tedeschi; dei napoleoniani mancarono tra morti e feriti circa tre mila. Continuava l'arciduca a ritirarsi, il principe a seguitarlo. Passò il Franzese facilmente la Livenza, difficilmente il Tagliamento. Inondando i napoleoniani con la cavalleria il piano e le valli, scioglievano l'assedio di Osopo e di Palmanova. Divise il vicerè i suoi in due parti, mandando la prima alla volta dei passi di Tarvisio verso la Carintia, la seconda sotto la condotta di Macdonald verso la Carniola. L'uno e l'altro disegno riuscirono a quel fine che il capitano di Francia si era con ciò proposto, imperocchè alla sinistra Serras si congiungeva con le prime scolte dell'esercito germanico, e Macdonald sulla destra aveva occupato, passando per Monfalcone e Duino, Trieste. Da questo luogo si era incamminato verso la Carniola per impadronirsi di Lubiana, città capitale, cooperare con Marmont, che a gran passi veniva dalla Dalmazia, e quindi, per la strada maestra che da Lubiana porta a Gratz, condursi in quest'ultima città col fine di essere in grado di menar nuovi soldati a Napoleone. L'arciduca Carlo teneva ancora il campo grosso e minaccioso. Trovava Macdonald un duro intoppo in Prevaldo, ma parte di fronte assaltandolo, e parte girando ai fianchi, l'acquistava. Colla medesima arte d'accennare ai fianchi ed alle spalle constringeva alla dedizione quattro mila Austriaci che difendevano Lubiana, e vi entrava trionfando. Acquistata tale vittoria, se ne giva, lasciati in Carniola presidii sufficienti, a Gratz. Quivi fermossi aspettando che Marmont lo venisse a trovare dalla Dalmazia. Questi, vinta una fiera battaglia a Gospitz, si aprì con tale vittoria facile le strade, perchè, da un incontro in fuori ch'egli ebbe col retroguardo nemico ad Octopsch non gli fu più oltre contrastato il passo. Occupò successivamente Segna e Fiume, e trovati i compagni in Istria, si incamminava a gran giornate a Gratz. A questo modo tutto l'antico Illirio venne in potestà di Francia. Il vicerè, raccolte tutte le squadre, e solo lasciate le guernigioni necessarie nei luoghi più opportuni, passava i monti di Somering, e per la valle della Raab verso il Danubio calandosi, andava a farsi partecipe delle imprese del padre. Il giorno 14 di giugno, anniversario della vittoria di Marengo, vinceva il principe Eugenio sotto le mura di Raab una grandissima battaglia contro l'arciduca Giovanni, che saliva per le sponde del Danubio in aiuto del suo fratello Carlo. Il dì 7 di luglio periva la mole austriaca nei campi di Vagram. Quivi fu poi prostrato l'arciduca Carlo, e Napoleone divenne padrone di quell'antica e grande monarchia. Si trovò facilmente forma di concordia per la situazione d'una delle parti: consentì l'imperadore Francesco a condizioni durissime di pace. Il dì 14 ottobre si stipulava in Vienna, per lo stabilimento delle cose comuni, dal signor di Champagny per parte di Napoleone, e dal principe di Lichtenstein per parte di Francesco, il trattato di pace. Cedeva lo imperadore Francesco all'imperadore franzese, oltre molti altri paesi in Germania ed in Polonia, la contea di Gorizia, il territorio di Monfalcone, la contea e la città di Trieste, il ducato di Carniola con le sue dipendenze nel golfo di Trieste, il circolo di Villaco nella Carintia con tutti i paesi situati sulla riva destra della Sava dal punto in cui questo fiume esce dalla Croazia fin dove tocca le frontiere della Bosnia, nominatamente una parte della Croazia provinciale, sei distretti della Croazia militare, Fiume ed il litorale ungherese, l'Istria austriaca col distretto di Casina, Piccino, Buccari, Buccarizza, Porto re, Segna e le isole dipendenti dai paesi ceduti, e tutti gli altri territorii qualsivogliano situati sulla destra del fiume, il filo delle acque del quale avesse a servire di limite fra i due Stati: perdonasse Napoleone ai Tirolesi, Francesco ai Polacchi: l'Austria cessasse ogni relazione con l'Inghilterra. Napoleone fece inserire nel trattato un capitolo, per cui l'Austria si obbligava a cedere all'imperadore Alessandro di Russia nella parte più orientale dell'antica Galizia un territorio che contenesse quattrocento mila anime, non inclusa però la città di Brodi. L'Austria, percossa da tanto infortunio, quietava por la pace, ma era dolorosa la sua quiete. Oltre la scaduta potenza, l'infestava l'insolenza del vincitore, e la aggravavano le grossissime imposizioni. Soli i Tirolesi non cedevano al terrore comune, e con l'armi in mano continuavano a difendere quel sovrano, che già deposte per forza le sue, aveva per forza dato molte nobili parti del suo dominio e loro stessi in potestà del vincitore. Il principe Eugenio dalle sue stanze di Villaco gli esortava a posare, ma invano. Più volte combattuti dai Franzesi, dai Sassoni e dai Baveri, più volte batterono, e più volte anco battuti, più volte risorsero. Vinti, si ritiravano alle selve impenetrabili, ai monti inaccessibili; vincitori, inondavano le valli, e furiosamente cacciavano il nemico. Vinti, erano trattati crudelmente dai napoleoniani: vincitori, trattavano i napoleoniani umanamente; e siccome gente religiosa, vinti, con grandissima divozione pregavano dal cielo miglior fortuna alla patria; vincitori, coi medesimi segni il ringraziavano. E' furono visti, dopo di avere superato con incredibile valore i soldati di Lefevre, e restituito a libertà coloro che si erano arresi, scorrente ancora il sangue e presenti i cadaveri dei compatriotti e dei nemici, gettarsi tutti al punto stesso, dato il segnale di Hofer, coi ginocchi a terra ed in tale pietosa attitudine tra lacrimosi e lieti rendere grazie a Dio dell'acquistata vittoria. Eccheggiavano i monti intorno dei divoti e allegri suoni mandati fuori dai religiosi e santi petti. Infine, sottentrando continuamente genti fresche a genti uccise, abbandonati da tutto il mondo, anzi quasi tutto il mondo combattendo contro di loro, cessarono i Tirolesi, non dal volere, ma dal potere, e nei montuosi ricetti loro ricovratisi, aspettavano occasione in cui più potesse la virtù che la forza. Il bavaro dominio si restituiva nel Tirolo tedesco: cedè l'italiano in possessione del regno italico. Sul finire del presente anno 1809 Andrea Hofer si ritirava con tutta la sua famiglia ad un povero casale fra montagne e nevi altissime, dolente per la patria, tranquillo per sè. Ma i Franzesi erano sitibondi del suo sangue. Perciò, fattolo con tutta diligenza cercare e ricercare, riuscì di trovarlo nel suo recondito recesso. Batterono alla porta i soldati; era la notte del 27 gennaio del 1810. L'aperse Hofer: veduto ch'era venuto in forza altrui, con semplicità e serenità mirabile: «Son io, disse, Andrea Hofer; sono in poter di Francia: fate di me ciò che vi aggrada: ma vi piaccia risparmiare la mia donna ed i miei figliuoli; sono eglino innocenti, nè dei fatti miei obbligati.» Così dicendo, diessi in potestà loro. Condotto a Bolzano, ultimo destino gli soprastava. Le palle soldatesche ruppero in Mantova il patrio petto di Andrea, lui, non che intrepido, quieto in quell'estrema fine. Acquistata tanta vittoria dall'Austria, veniva a Napoleone in mente l'antica cupidigia di Roma. Decretava, il dì 17 maggio di quest'anno in Vienna stessa queste cose: Considerato che quando Carlo Magno imperadore dei Franzesi, e suo augusto antecessore, diede in dono ai vescovi di Roma parecchi paesi, glie li cedesse loro a titolo di feudo col solo fine di procurare sicurezza a' suoi sudditi, e senza che per questo abbia Roma cessato di esser parte del suo impero considerato ancora che da quel tempo in poi l'unione delle due potestà spirituale e temporale era stata, ed era ancora fonte e principio di continue discordie; che pur troppo spesso i sommi pontefici si erano serviti dell'una per sostenere le pretensioni dell'altra, e che per questo le faccende spirituali, che per natura propria sono immutabili, si trovarono confuse con le temporali sempre mutabili a seconda de' tempi; considerato finalmente, che quanto egli aveva proposto a conciliazione della sicurezza de' suoi soldati, della quiete e della felicità de' suoi popoli, della dignità e della integrità del suo impero colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato proposto indarno, intendeva voleva ed ordinava che gli Stati del papa fossero e restassero uniti all'impero franzese; che la città di Roma, prima sede della cristianità e tanto piena d'illustri memorie, fosse città imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali; che i segni della romana grandezza, che ancora in piè sussistevano, a spesa del suo imperial tesoro fossero conservati e mantenuti; che il debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del papa si amplificassero fino a due milioni di franchi, e fossero esenti da ogni carico e prestanza; che le proprietà e palazzi del santo padre non fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse e a nessuna giurisdizione o visita, ed, oltre a questo, godessero d'immunità speciali; che finalmente una consulta straordinaria il 1.º di giugno prendesse possessione a suo nome degli Stati del papa, ed operasse che il governo, secondo gli ordini della costituzione, vi fosse recato in atto il primo giorno del 1810; nè mettendo tempo in mezzo, chiamava, il giorno stesso del 17 maggio, alla consulta Miollis, creato anche governator generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo, e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino. A questo modo veniva Roma in potestà immediata di Napoleone, ed i papi, dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del dominio temporale. Ad atto così grave ed insolito sclamava Pio, e con la sua pontificale voce a tutto il mondo gridava. E il giorno appresso, in cui mandava fuori le sue lamentazioni, fulminava la scomunica contro l'imperator Napoleone e contro tutti coloro che con lui avessero cooperato all'occupazione degli Stati della Chiesa, e massimamente della città di Roma. Fulminò altresì l'interdetto contro tutti i vescovi e prelati sì secolari che regolari, i quali non si conformassero a quanto aveva statuito circa i giuramenti e le dimostrazioni pubbliche verso il nuovo governo. Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte e murare gli aditi del Quirinale, acciocchè non si potesse pervenire nelle interne stanze sino alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio. Informarono i napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa e della fulminata sentenza; pregarono, ordinasse che avessero a fargli. Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni: quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro comando trovò duri esecutori. Andarono la notte del 5 luglio sbirri, manasdieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali e soldati alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i masnadieri ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera, dov'era più basso, ed entrati, aprirono la porta ai soldati, parte genti d'armi, parte di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i cardini, rompevansi i muri: il notturno rumore di stanza in stanza dell'assaltato Quirinale si propagava; le facelle accese accrescevano terrore alla cosa. Svegliati a sì grande ed improvviso fracasso, tremavano i servitori del papa; solo Pio imperterrito si mostrava. Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di quello del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato fede al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed ecco arrivare i soldati, atterrate o fracassate tutte le porte, alla stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio il mondo della violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo grado e della sua dignità. Entrò per forza nella pontificia camera il generale di gendarmeria Radet, cui accompagnava un certo Diana, che per poco non aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato in una congiura contro di Napoleone. Radet, pensando agli ordini dell'imperadore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i due milioni, rivocasse la scomunica, altrimenti sarebbe preso e condotto in Francia. Ricusò non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior forza, il pontefice la proferta. Poi disse perdonare a lui, esecutore degli ordini; bene maravigliarsi che un Diana, suo suddito, si ardisse di comparirgli avanti, e di fare alla dignità sua tanto oltraggio; ciò non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il rifiuto, trapassava a protestare, dichiarando nullo e di niun valore essere quanto contro di lui, contro lo Stato della Chiesa e contro la romana Sede aveva il governo franzese fatto e faceva; poi disse essere parato; di lui facessero ciò che volessero; dessergli pure supplizio e morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ciò solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori del suo palazzo ed ai soldati che non avevano abborrito dal mescolarsi con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli offeriva Radet desse il nome dei più fidi cui desiderasse aver compagni al suo viaggio. Diedelo; nessuno gli fu conceduto. Fugli per forza svelto dal grembo Bartolommeo Pacca cardinale. Poi fu con presto tumulto, condotto assiepandosegli d'ogni intorno le armi soldatesche, nella carrozza che a questo fine era stata apparecchiata, e con molta celerità incamminato alla volta di Toscana. Solo era con lui Radet. Mentre gl'indegni fatti notturnamente si commettevano nel pontificale palazzo, Miollis, sorto a vegliare la impresa, se ne stava ad udire i rapporti che ad ogni momento gli pervenivano, nel giardino del contestabile passeggiando. Stupore ed orrore occuparono Roma quando, nato il giorno, vi si sparse la nuova della commessa enormità. Portavano i carceratori il pontefice molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama. Trasmettevansi l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il captivo e potente Pio. Quel di Genova temendo qualche moto in Riviera di levante, l'imbarcava sur un debole schifo che veniva da Toscana. Addomandò il pontefice al carceratore se fosse intento del governo di Francia di annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava nelle apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni non galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per le soldatesche, a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocità di volo. A Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli per partire con maggiore celerità che non era venuto. Lasso dall'età, dagli affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone il voleva vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio: Adunque starommi questa notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il Cenisio: gl'italiani popoli, non avendo potuto per la velocità venerare il pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri li chiamavano per isventura, sacri per dignità, sacri per santità. Pacca fedele fu mandato, come se fosse un malfattore, nel forte di Pierrechateau presso a Bolley. Fu lasciato il papa fermarsi qualche giorno a Grenoble, poi messo di nuovo in viaggio. Come se altra strada non ci fosse, fu fatto passare a Valenza di Delfinato, stanza di morte di Pio VI, atto tanto più incivile quanto non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza di Provenza il condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia a Savona. Ma celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro che presenti vedevano il pontefice, niuno sapeva; perchè delle lettere dei privati poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, nè dove andasse. I Franzesi con la medesima riverente osservanza l'onoravano, con cui lo avevano onorato gl'Italiani: il trattarono i prefetti dei dipartimenti con sentimento e rispetto: così aveva comandato Napoleone. Napoleone vincitore tornava in Francia nella imperial sede di Fontainebleau. I deputati italiani già l'aspettavano per le adulazioni. Moscati, orando pel regno italico, ringraziò delle date leggi; Zondadari cardinale, per la Toscana, della data Elisa. Per Roma vi fu maggior magniloquenza. Braschi, oratore della città dei sette colli, favellò degli Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre Tevere. Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro antenati; passerebbe le Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso loro; gl'imperatori franzesi suoi predecessori avergli scorporati dall'impero e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi popoli non ammettere più alcuna divisione. Sotto le medesime leggi, sotto il medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia; del resto, aver loro bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio, e volerlo usare a benefizio loro: ciò non ostante non intendere che alcun cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo primogenito della Chiesa, non voler uscire dal suo grembo; non avere mai Gesù Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranità temporale: la romana sede essere la prima della cristianità, essere il vescovo di Roma capo spirituale della Chiesa, lui esserne l'imperadore: voler dare a Dio ciò ch'è di Dio, a Cesare ciò ch'è di Cesare. Intanto in Roma francese, la romana consulta, come prima prese il magistrato, pensò alla sicurezza del nuovo Stato, sapendo quanti mali umori e quante avverse opinioni covassero: parve bene spiare sul bel principio i pensieri più segreti degli uomini: ordinava la polizia: creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo carico. Ciò quanto ai detti ed ai fatti segreti; quanto agli scritti, anche segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e data al direttore della posta di Francia. Nè la cosa fu solo in nome; perchè con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere che s'indirizzavano a Savona dov'era il papa. Si usava in questo un rigore eccessivo. Importava che, a confermazione della quiete, si unisse la forza alle notizie, nè potendo i soldati di Francia essere in ogni luogo, si crearono le guardie, urbane in Roma, provinciali nelle provincie, legioni chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il conte Francesco Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi uomini furono buoni per impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal affare, che infestavano l'agro romano e le vicinanze stesse di Roma. Trapassossi a partire il territorio, con fare due dipartimenti, di cui chiamarono l'uno del Tevere e l'altro del Trasimeno; nominaronsene a tempo i due prefetti, un Giacone ed un Olivetti. Trassersi gli ufficiali municipali; furono le elezioni di gente buona e savia; faceva la consulta presto, ma faceva anche bene. Ostava alla nuova amministrazione dei comuni l'ordine del buon governo, il quale, creato da Sisto V ed attuato da Clemente VIII, aveva l'ufficio di amministrar i comuni, nè senza grande utilità loro. La consulta l'abolì, sostituivvi le forme franzesi. Il consiglio municipale di Roma chiamò senato; elessevi personaggi di gran nome, i principi Doria, Albani, Chigi, Aldobrandini, Colonna, Barberini, i duchi Altieri, Braschi, Cesarini, Fiano. Braschi fu nominato maire, o vogliam dire sindaco di Roma. Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere, anche nella città imperiale e libera di Roma. Nè le leggi civili e criminali di Francia si omettevano; che anzi, per ordinazione della consulta, si promulgavano sì quanto alle persone, sì quanto alle cose, sì quanto ai diritti, e sì quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato presidente della corte di appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e profonda, di non ordinaria letteratura, e di giudizii e di stato molto intendente. Chiamato consigliere di Stato a Parigi, vi diede saggi di quell'uomo dotto e prudente ch'egli era. Le casse intanto più di ogni altra cosa premevano; Janet ne aveva cura. Conservò la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo di franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad un milione, ed il dazio della mulenda, che si estimava ad una valuta circa di cinquecento mila franchi. Tra il lusso dei primi magistrati, la miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Pure buon uso faceva la consulta di una parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone, e da lui impetrò anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro alla duchessa di Borbone parmense ed a Carlo Emmanuele re di Sardegna, che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della religione; nobile atto e da non tralasciarsi negli annali. La parte più malagevole del romano governo era l'ecclesiastica: aveva il papa, già fin quando le Marche erano state unite al regno italico, proibito i giuramenti; confermò questa proibizione per lo Stato romano nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone del giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficoltà nel giurare la fedeltà; dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola di fedeltà, perchè credevano che importasse di riconoscer l'imperador Napoleone come loro sovrano legittimo: al che giudicavano di non poter consentire, non avendo il papa rinunziato. Imprendeva a giustificare i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta, uomo di gran sapere e di maggior ingegno. Sani ed irrefregabili erano i principii del Dalpozzo quanto all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano di giurarla al nuovo Stato, e di più di giurare di non partecipare mai in nessuna congiura e trama qualunque contro di lui, così un governo giusto e buono avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone esigeva il giuramento di fedeltà, sì perchè gli pareva che un tal giuramento implicasse la riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal modo effettivamente, come abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e gl'intimati, sì perchè voleva fare scoprire i renitenti, per avere un pretesto di allontanarli da Roma, dove li credeva pericolosi. Vi era in questo troppa scrupolosità da una parte, troppo rigore dall'altra: la materia aveva in sè molta difficoltà. La romana consulta procedeva cautamente. Operando alla spartita, cominciò dai vescovi. Altri giurarono, altri ricusarono. Aveva il vescovo di Tivoli giurato; ma pentitosi, fece pubblicamente la sua ritrattazione: i gendarmi se lo pigliarono, ed in Roma carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i non giurati, suonando loro d'ogni intorno le armi dei gendarmi, chi in Francia, chi a Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono condotti. Fu anche portato via da Roma, come non giurato e troppo devoto al papa, un Bacolo veneziano, vescovo di Famagosta, uomo molto nuovo e di natura facetissima, che dava una gran molestia alla polizia. Spedita la faccenda dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti i canonici. Molti giurarono, molti ancora non giurarono; i gendarmi si affacendavano. Molto maggiore difficoltà avevano in sè i giuramenti dei curati, massimamente di quei di Roma, uomini d'innocente vita e di evidente vantaggio dei popoli, non solamente pei sussidii spirituali, ma ancora pei temporali. Rappresentò la consulta, che in questo opinava saviamente, che s'indugiasse. Napoleone mandò loro dicendo che voleva i giuramenti da tutti, ed obbedissero. Delle province la maggior parte ricusarono: i gendarmi se li portarono. Dei Romani, i più si astennero: i renitenti portati via, e se infermi ed impotenti all'esilio, serrati in San Callisto. A questo tempo furono soppressi nello Stato romano i conventi sì di religiosi che di religiose, i forestieri mandati al loro paese, i paesani sforzati a depor l'abito. Intendeva la consulta a consolare la desolata Roma. Ciò s'ingegnava di fare ora con ordinamenti convenienti al luogo, ora con ordinamenti non convenienti, e sempre con animo sincero e buono. Pensava alle scienze, alle lettere, all'agricoltura, al commercio, alle arti. Ordinò che con denaro del pubblico si procacciassero gli stromenti necessarii alla specola del collegio romano; condusse a fine i parafulmini della basilica di San Pietro, stati principiati da papa Pio; ebbe speciale cura delle allumiere della Tolfa e delle miniere di ferro di Monteleone nell'Umbria. Gente perita, denaro a posta addomandava; due artieri Romani mandava alla scuola delle mine, due a quella della veterinaria, due a quella delle arti e mestieri in Francia, semi di utili scienze nell'ecclesiastica Roma. Temevasi che la presenza dei Franzesi in Italia, massimamente in Toscana e nello Stato romano, giunta a quella loro lingua tanto snella e comoda per gli usi famigliari, avesse a pregiudicare alla purezza ed al candore dall'italiana favella; timore del tutto vano, perciocchè quale cosa si potesse ancora corrompere in lei, non si vede. Tuttavia Napoleone, il quale, unendo Toscana e Roma alla Francia, vi aveva introdotto negli atti pubblici l'uso della lingua franzese, aveva già fin dall'anno ultimo decretato premii a chi meglio avesse scritto in lingua toscana. La consulta di Roma, a fine di cooperare con quello che l'imperatore aveva comandato, a ciò muovendola Degerando, statuiva che la lingua italiana si potesse in uno con la franzese usare negli atti pubblici; benevola, ma strana permissione in Italia. Volle altresì che l'accademia degli Arcadi si ordinasse in modo che e la letteratura italiana promuovesse e la lingua pura ed incorrotta conservasse, con premii a chi meglio l'avesse scritta o in prosa o in versi; Arcadia sedesse sul Gianicolo, nelle stanze di Sant'Onofrio. Ordinamento conforme alla fama antica, alle influenze del cielo, alla natura degli uomini, alle romane usanze fu quello dell'accademia di San Luca, chiamata, per conforto di Degerando, a più magnifico stato. La consulta le dava più cospicui sussidii, l'imperator più convenienti stanze, e dote di cento mila franchi. La ruina universale aveva addotto la ruina della Propaganda, con avere o del tutto annientato parte delle rendite, o ritardato la riscossione delle sussistenze: si aggiunse la rovina del palazzo devastato nel 1800. Adunque ella sussisteva piuttosto di nome che di fatto quando Napoleone s'impadronì di Roma; poi i frutti dei monti non si pagavano, la computisteria, per comandamento imperiale, sotto sigilli, gli archivi portati a Parigi. Volle Degerando rimetterla in istato, e che si aprissero intanto i pagamenti: l'imperatore stesso aveva dichiarato per senatoconsulto, volere la sua conservazione, e doterebbela coll'erario imperiale. Ma distratto primieramente dai gravi pensieri delle sue armi, poscia dai tempi sinistri che gli vennero addosso, non potè nè ordinare la macchina, come era necessario, nè far sorgere a propagazione degl'interessi politici quello zelo che per amore della religione, per le esortazioni dei papi e per la lunga consuetudine era sorto nei membri della congregazione ai tempi pontificii. Così sotto Napoleone ella non fu di alcuna utilità nè per la religione nè per la politica: solo le sue ruine attestavano la grandezza dell'antico edifizio e la rabbia degli uomini che l'avevano distrutto. Le opere di musaico, peculiar pregio di Roma, perivano; perchè pei danni passati poco si spacciavano, ed anche mancavano i fondi per le spese degli smalti e degli operai. La principale manifattura che serviva di norma alle altre era attinente a San Pietro, e si sostentava con le rendite della sua fabbrica: per le necessità dei tempi, mancando la più gran parte delle rendite, non che il musaico si conservasse, pericolava la basilica. Fu proposto di commetterlo all'erario imperiale; ma perchè Napoleone non si tirasse indietro, fu d'uopo alla consulta d'inorpellare le cose con dire che il musaico pagato dall'imperatore non servirebbe più solamente ad obbedire San Pietro, ma che protetto dal più grande dei monarchi adornerebbe il palazzo del principe ed i monumenti dell'imperial Parigi. A questi suoni Napoleone si calava e pagava. Restava che, poichè s'era provveduto all'opera, si avesse cura degli operai. Essendo la lavoreria loro addossata al colle del Vaticano ed in parte sotterranea, e perciò molto malsana, troppo spesso infermavano e sovente il vedere perdevano. Oltre a ciò, gli armadii e gli scaffali, in cui si conservavano gli smalti, infracidivano, le tele dipinte che si portavano a copiarsi, dall'umidità si guastavano. A questo modo era testè perito con rammarico di tutti un bel quadro del pittore Camucini. Decretò la consulta trasportassersi gli opificii nelle stanze del santo Ufficio. Concedutosi dall'imperatore un premio di duecento mila franchi ai manifattori di Roma, volle la consulta che fossero spartiti a chi meglio filasse o tessesse la tela o la lana, a chi meglio conducesse le opere dei merletti, a chi meglio addensasse i feltri, a chi meglio conciasse le pelli, a chi meglio stillasse l'acquavite, a chi meglio lavorasse di maioliche, o di vetri, o di cristalli, o di carta, a chi più e miglior cotone raccogliesse sulle sue terre, a chi piantasse più ulivi, a chi ponesse più semenza di piante utili. I musei espilati ai tempi torbidi ora con cura si conservavano: i preziosi capi d'arte che adornavano i conventi, ed erano molti e belli, diligentemente si custodivano. Fu anche creata a conservazione loro dalla consulta una congregazione di uomini intendenti e giusti estimatori, che furono Lethier pittore, Guattani, de Bonnefond, l'abbate Fea e Toffanelli, conservatore del Campidoglio. Conservando Roma odierna si poneva mente a scoprire l'antica: almeno così desiderava la consulta; la Francia potente e ricca poteva fare. Si ordinarono le spese del cavare nei luoghi promettenti. Sarebbesi anche, come pare, fatto gran frutto, se i tempi soldateschi non avessero guastato l'intenzione. Discorreva Napoleone di volere visitar Roma sua. Se, di fatto, non voleva andarvi, l'essere aspettato faceva a' suoi fini: la consulta pensava al trovar palazzi che fossero degni dell'imperatore. Castelgandolfo le parve acconcio per la campagna, il Quirinale per la città, il Quirinale grande e magnifico per sè, sano per sito e con bella apparenza da parte di strada Pia: ogni cosa all'imperiale costume si accomodava. Nè la bellezza o la salubrità si pretermettevano. Disegnavano di piantar alberi all'intorno, di aprir passeggiate, specialmente alla piazza del Popolo da riuscire a Trinità del monte, di trasportare i sepolcri fuori delle mura, di prosciugar le paludi. Le pontine massimamente pressavano nei consigli imperiali. Prony Franzese, Fossombroni Italiano, idraulici di gran nome e di scienza pari al nome, le visitavano e fra loro consultavano. Si fece poco frutto a cagione dei tempi contrarii; e, se le pontine non peggiorarono sotto il dominio franzese, certo non migliorarono. Così vivevasi a Roma; con un sovrano prigioniero a Savona, con un sovrano prepotente a Parigi, con dolori presenti, con isperanze avvenire, diventata provincia di Francia, non poteva nè conservare le forme proprie, nè vestirsi delle aliene; tratta in contrarie parti, lagrimava e si doleva; nè poteva la consulta, quantunque vi si affaticasse, di tante percosse consolarla e racconfortarla. Anno di CRISTO MDCCCX. Indizione XIII. PIO VII papa 11. FRANCESCO I imp. d'Austria 5. Era venuto a noia a Carolina di Sicilia, che voleva a giusta ragione comandare da sè, il dominio degl'Inglesi; nè sperando di riconquistare il regno di terraferma, desiderava almeno di essere padrona di quello che le restava. Napoleone aveva penetrato il suo desiderio, e per mezzo di pratiche le persuase ch'era pronto a secondare le sue intenzioni. Vennesi ad un negoziato tra l'imperatore e la regina, il fine del quale era che il re aprisse i porti di Sicilia ai soldati di Napoleone, e permettesse che gli occupassero, sì veramente che l'imperatore aiutasse il re a cacciar gl'Inglesi dalla Sicilia. Mentre questi negoziati pendevano, entrò in Murat il desiderio di conquistar la Sicilia, sperando che la durezza di quel governo, procurandogli aderenze negli scontenti, gli aprirebbe la occasione di far frutto con le spalle loro. Già le troppe franzesi si erano condotte nella Calabria Ulteriore: al che aveva consentito Napoleone per dar gelosia agli Inglesi, acciocchè non potessero correre contro Corfù. Ad esse si erano accostati i Napolitani; la costa di Calabria da Scilla a Reggio piena di soldati. Vi concorrevano altresì le forze navali del regno, non senza aver prima combattuto onorevolmente contro le navi d'Inghilterra, che, per vietar loro il passo, le avevano assaltate nel golfo di Pizzo, al capo Vaticano e sulle spiaggie di Bagnara. Si ingiungeva a tutti i comuni posti pel litorale del Mediterraneo che somministrassero legni armati in guerra per l'impresa di Sicilia. Murat spesso imbarcava e spesso anche sbarcava le genti per addestrarle. Ognuno credeva che la spedizione si tenterebbe. Ma siccome il nerbo principale della spedizione consisteva nei Franzesi, così aveva anche Murat pregato l'imperatore, affinchè ordinasse che eglino cooperassero co' suoi Napolitani alla fazione. Napoleone, che a questo tempo negoziava con la regina, rispose nè approvando nè disdicendo, contento al moto, o che riuscisse o che solo spaventasse. Nessun ordine mandò a' suoi, acciocchè si congiungessero con quei del re. Ma Gioacchino, acceso per sè stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Sicilia, e persuadendosi di trovarvi gran seguito e facile mutazione, volle tentar la fazione da sè e con le sole sue forze. Cinque mila Napolitani, fra i quali era il reggimento reale corso, partivano di nottetempo dalle vicinanze di Reggio e di Pentimela, e si avviavano alla volta di Sicilia con intento di approdare tra Scaletta e Messina. Al tempo stesso Murat, standosene sulla reale scialuppa riccamente addobbata, dava opera ad imbarcare le genti franzesi, come se anch'elleno dovessero andare alla conquista, ancorchè sapesse, ed esse meglio di lui, che non si attenterebbero. Ma avevano consentito ad aiutar l'impresa con un poco di romore e con quelle vane dimostrazioni. Sbarcarono nel destinato luogo i Napolitani condotti dal generale Cavagnac; ma non così tosto posero piede sulle terre siciliane, che invece di correre uniti a qualche fatto importante, si sbandarono per vivere di sacco. La qual cosa veduta dai paesani e dalle milizie, accorsero con le armi ed in folla, ed oppressero facilmente quegli uomini sfrenati e dispersi: chi non fu morto fu preso; alcuni dei presi, uccisi per la rabbia civile. Accorrevano gl'Inglesi al romore dalle stanze di Messina, ma arrivarono quando già la vittoria era compita. Dopo questo fatto, che non fu senza diminuzione della riputazione del re, deposta, non senza querela contro Napoleone, la speranza concepita, ritirava Gioacchino i soldati verso Napoli, e con pubblico scritto annunziava essere terminata la spedizione di Sicilia, il che era verissimo. Ma rimasero nell'Ulteriore Calabria miserabili vestigia del furore delle soldatesche. Tra il guasto fatto per accampare e quello degli scorazzamenti per le campagne, ne furono guastate vaste tenute di ulivi e di viti, sole ricchezze che il paese si avesse. Così il regno di là dal Faro non fu conquistato, quello di qua desolato. Intanto i negoziati tra Napoleone e Carolina non poterono tanto restar segreti che non venissero a cognizione degl'Inglesi: ne intrapresero anche le lettere certissime. Ciò fu cagione che Carolina a loro, e principalmente a lord Bentinck, mandato in Sicilia a confermarvi il dominio della gran Bretagna, tanto venisse in odio, che, per allontanarla del tutto dalle faccende, la confinarono in una villa lontana a qualche miglio da Palermo, e poco dopo la obbligarono anche a partir di Sicilia, accidente molto singolare e strano che sarà raccontato a suo luogo. Partito l'esercito, i facinorosi della Calabria, di nuovo uscendo dai loro ripostigli, ripullulavano, ed ogni cosa mettevano a ruba ed a sangue. Niuna strada, non che maestra, rimota, niun casale sparso, niun casale riposto erano più sicuri. Divisi in bande, e sottomessi a capi, si erano spartite le provincie. Carmine Antonio e Mescio infestavano coi loro seguaci Mormanno e Castrovillari; Benincasa, Nievello, Parafanti e Gosia il distretto di Nicastro ed i casali Cosenza; Boia, Giacinto Antonio ed il Ticiolo, la Serra stretta ed i borghi Catanzaro; Pannese, Massotta e il Bizzarro le rive dei due mari e l'estremità dell'Ulteriore Calabria. Spaventò il Bizzaro specialmente e lungo tempo la selva di Golano e le strade di Seminara a Scilla. Questi erano gli effetti delle antiche consuetudini e delle guerre civili presenti. Si temeva che alle prima occasione i capi politici contrarii al governo, i carbonari massimamente ed i loro aderenti, di nuovo prorompessero a moti pericolosi. Si sapeva che i carbonari, sempre nemici dei Franzesi, quantunque se ne stessero quieti, fomentavano non le ruberie e gli assassinii, che anzi cercavano di frenarli, ma la incitazione e l'empito, per voltarlo, quando che fosse, contro quella nazione che tanto odiavano. Si rendeva adunque per ogni parte necessario a Murat l'estirpar del tutto quella parte dei facinorosi di Calabria, e lo spegnere, se possibile fosse, la setta tanto importuna dei carbonari. Varii per questo fine erano stati i tentativi ai tempi di Giuseppe, varii altresì ai tempi di Murat, ma sempre infruttuosi, non tanto per la forza della parte contraria e per la difficoltà dei luoghi, quanto pei consigli spartiti e la mollezza delle risoluzioni. A ciò fare era richiesto un uomo inesorabile contro i malvagi, ed un'autorità piena per punirli. Un Manhes generale, aiutante di campo di Murat, che già aveva con singolare energia pacificati gli Abbruzzi, parve al re uomo capace di condurre a buon fine l'opera più difficile delle Calabrie. Il vi mandò con potestà di fare come e quanto volesse. Era Manhes di aspetto grazioso, di tratto cortese, non senza spirito, ma di natura rigida ed inflessibile, nè strumento più conveniente di lui poteva scegliere Gioacchino per conseguire il fine che si proponeva. Arrivava Manhes nelle Calabrie, a questo solo disposto, che le Calabrie pacificasse; del modo, qualunque ei fosse, non si curava: ciò si pose in pensiero di fare e fece, ferocia a ferocia, crudeltà a crudeltà, invidia ad invidia opponendo. Primieramente considerò Manhes che l'operare spartitamente avrebbe guastato il disegno; perocchè i facinorosi fuggivano dal luogo in cui si usava più rigore, in quello in cui si procedeva più rimessamente: così, cacciati e tornati a vicenda da un luogo in un altro, sempre si mantenevano. Secondamente, andò pensando che i proprietarii, anche i più ricchi, ed i baroni stessi, che vivevano nelle terre, ricoveravano, per paura di essere rubati e morti, questi uomini barbari. Dal che ne nasceva, che se non si trovava modo di torre loro questi nascosti nidi, invano si sarebbe operato per ispegnerli. Si aggiungeva, che la gente sparsa per le campagne, per non essere manomessa da loro, dava ad essi, non che ricovero, vettovaglie, e così fra il rubare, il nascondersi ed il vagare, era impossibile il sopraggiugnerli. Vide Manhes convenirsi, che con qualche mezzo straordinario, giacchè gli ordinarii erano stati indarno, si assicurassero gli abitatori buoni, i briganti s'isolassero. Da ciò ne cavava quest'altro frutto, che i giudizii sarebbero stati severi, operando contro i delinquenti l'antica paura ed i danni sopportati. Ferro contro ferro, fuoco contro fuoco abbisognava a sanare tanta peste, e medicina di ferro e di fuoco usò Manhes. Per arrivare al suo fine, quattro mezzi mise in opera, notizia esatta del numero dei facinorosi comune per comune, intiera loro segregazione dai buoni, armamento dei buoni, giudizii inflessibili. Chi si diletta di considerare le faccende di Stato ed i mezzi che riescono, e quelli che non riescono, vedrà nelle operazioni di questo prudente e rigido Franzese, quanto i mezzi suoi quadrassero col fine, e ch'ei non andò per le chimere e le astrazioni, come fu l'uso dell'età. Ordinò che ciascun comune desse il novero de' suoi facinorosi, pose le armi in mano ai terrazzani, partendogli in ischiere, fe' ritirare i bestiami e i contadini a borghi più grossi, che erano guardati da truppe regolari, fe' sospendere tutti i lavori di agricoltura, dichiarò caso di morte a chiunque che ai corpi armati, da lui non essendo ascritto, fosse trovato con viveri alla campagna, mandò fuori a correrla i corpi dei proprietarii armati da lui, comune per comune, intimando loro fossero tenuti a tornarsene coi facinorosi o vivi o morti. Non si vide più altro nelle selve, nelle montagne, nei campi, che truppe urbane, che andavano a caccia di briganti, e briganti che erano cacciati. Quello che rigidamente aveva Manhes ordinato, rigidamente ancora si effettuava. I suoi subalterni il secondavano, e forse non con quella retta inflessibilità ch'egli usava, ma con crudeltà fantastica e parziale. Accadevano fatti nefandi: una madre, che ignara, degli ordini, portava il solito vitto ad un suo figliuolo che stava lavorando sui campi, fu impiccata. Fu crudelmente tormentata una fanciulla, alla quale furono trovate lettere indiritte ad uomini sospetti. Nè il sangue dei carboneri si risparmiava. Capobianco loro capo, tratto per insidia, e sotto colore di amicizia nella forza, fu ucciso. Un curato ed un suo nipote, entrati nella setta, furono dati a morte, l'uno veggente l'altro, il nipote il primo, lo zio il secondo. Rifugge l'animo a chi già tante orrende cose raccontò, dal raccontare i modi barbari che contro di loro si usavano. I carbonari, spaventati dalle uccisioni, perocchè molti di loro perirono nella persecuzione, si ritirarono alla più aspra montagna. I facinorosi intanto, o di fame, per essere il paese tutto deserto e privo di vettovaglie, perirono, o nei combattimenti, che contro gli urbani ferocemente sostenevano, morivano, o, preferendo una morte pronta alle lunghe angosce, o da sè medesimi si uccidevano, o si davano volontariamente in preda a chi voleva il sangue loro. I dati o presi, condotti innanzi a tribunali straordinarii composti d'intendenti delle provincie, e di procuratori regi, erano partiti in varie classi, quindi mandati a giudicare dai consigli militari creati a posta da Manhes. Erano o strangolati sui patiboli, o soffocati dalla puzza in prigioni orribili: gente feroce e barbara, che meritava supplizio, non pietà. Nè solo si mandavano a morte i malfattori, ma ancora chi li favoriva, o poveri, o ricchi, o quali fossero o con qual nome si chiamassero; perciocchè, se fu Manhes inesorabile, fu anche incorruttibile. Pure, per opera di chi aveva natura diversa dalla sua, si mescolavano a giuste pene fatti iniqui. Succedevano vendette che fanno raccapriccio a raccontare. Denunziati dai facinorosi, che per ultimo misfatto usavano mortali calunnie, alcuni innocenti furono presi e morti. Talarico di Cartopoli, capitano degli urbani, devoto e pruovato servitore del nuovo governo, accusato, per odio antico, da un facinoroso, piangendo ed implorando tutti la sua grazia, fu dato a morte. Parafanti donna, per essere, come si disse, stata moglie del facinoroso di questo nome, arrestata con tutti i suoi parenti, e dannata con loro all'ultimo supplizio, perì. Posti in fila del destinato giorno, l'infelice donna la prima, i parenti dietro, preti e boia alla coda, marciavano in una processione, che non si saprebbe con qual nome chiamare. Eransi poste in capo ai dannati berrette dipinte a fiamme, indosso vesti a guisa di San-Benito; cavalcavano asini a ritroso ed a bisdosso. A questo modo si accostavano al patibolo: quivi una morte crudele pose fine ad una commedia fantastica ed orribile. Nè davano solamente supplizii coloro che a ciò fare erano comandati, ma ancora i paesani, spinti da rabbia e da desiderio di vendetta, infierivano contra i malfattori; insultavano con ischerni ai morti, straziavano con le unghie i vivi, dalle mani togliendoli dei carnefici per ucciderli. Furono i Calabri facinorosi sterminati da Manhes fino ad uno. Chi non morì pei supplizii, morì per fame. I cadaveri di molti nelle vecchie torri, o negli abbandonati casali, ed anche sugli aperti campi si vedevano spiranti ancor minaccie, ferocia e furore; la fame gli aveva morti. Dei presi, alcuni ammazzavano le prigioni prima dei patiboli. La torre di Castrovillari angusta e malsana videne perire nell'insopportabile tanfo gran moltitudine. La contaminazione abbominevole impediva ai custodi l'avvicinarsi; i cadaveri non se ne ritiravano, la peste cresceva, i moribondi si brancolavano per isfinimento o per angoscia sui morti, i sani sui moribondi; e sè stessi, come cani, con le unghie e coi denti laceravano. Infame pozza di putrefatti cadaveri diventò la costrovillarese torre; sparsesi la puzza intorno, e durò lunga stagione; le teste e le membra degl'impiccati appese sui pali di luogo in luogo rendettero lungo tempo orrenda la strada da Reggi a Napoli. Mostrò il Crati cadaveri mutilati a mucchi; biancheggiarono e forse biancheggiano ancora le sue sponde di abbominevoli ossa. Così un terrore maggiore sopravanzò un terror grande. Diventò la Calabria sicura, cosa più vera che credibile, sì agli abitatori che ai viandanti; si apersero le strade al commercio, tornarono i lavori all'agricoltura, vestì il paese sembianza di civile, da barbaro ch'egli era. Di questa purgazione avevano bisogno le Calabrie; Manhes la fece; il suo nome saravvi e maledetto e benedetto per sempre. Anno di CRISTO MDCCCXI. Indizione XIV. PIO VII papa 12. FRANCESCO I imp. d'Austria 6. Aveva Napoleone per mezzo del concordato confermata la sua potenza, sì soddisfacendo al desiderio dei popoli, e sì tenendo con l'imperio degli ecclesiastici in freno la parte contraria alla quale non piaceva quella sua immoderata cupidigia di dominare. Restava che la religione romana stessa domasse con la depressione dell'autorità pontificia: aveva in ciò un desiderio molto ardente, siccome quegli che era impaziente di ogni potenza forte che a lui fosse vicina. A questo fine, occupate le Marche, si era avvicinato alla pontificia sede di Roma, e sotto colore delle cose di Napoli, mostrava spesso i suoi soldati agli attoniti Romani. A questo fine ancora aveva occupato la romana città, e trasportato il papa in condizione cattiva a Savona, retribuzione certamente indegna di tanti benefizii. Era arrivato papa Pio prigione a Savona il dì 15 agosto del 1809, se per caso o pensatamente, perchè quello era giorno festivo di Napoleone, ognuno giudicherà. Gli furono date sull'arrivare le stanze in casa di un Sansoni sindaco della città. Accorrevano d'ogni intorno i popoli per vedere il pontefice. Pure gli agenti imperiali osservavano che, o fosse timore o fosse opinione, era quivi la moltitudine meno fervorosa, e minore il fanatismo, così il chiamavano, mostravasi verso il sovrano pontefice, che in Francia, e che la presenza del papa cattivo non alterava punto la obbedienza verso il governo. Sino a che si comandasse altrimenti, erano vietate le udienze al papa, ed a nessuno si permetteva che gli favellasse, se non presenti le guardie; su quanto facesse nelle interiori stanze, diligentemente si vigilava e sopravvigilava; le lettere che scriveva e quelle che a lui si scrivevano, copiavansi e si mandavano a Parigi. Se ne viveva il pontefice nel suo savonese carcere con molta semplicità, nè mai si mostrava sdegnato, quantunque avesse tante cagioni di sdegnarsi. Desiderava Napoleone che il senatoconsulto dell'unione dello Stato romano al suo impero sortisse il suo effetto anche per consentimento del papa. Per la qual cosa gli agenti imperiali continuamente e con esortazioni vivissime cercavano di muoverlo, acciocchè rinunziasse al dominio temporale, accettasse i milioni, abitasse il palazzo arcivescovile di Parigi. Certamente pareva a que' tempi la potenza di Napoleone inconquassabile; le paci di Tilsit e di Vienna, il nuovo matrimonio, l'esercito invitto, vincitore, innumerabile la fondavano. Niuna speranza rimaneva al pontefice di risorgere, il sapeva, il credeva, il diceva; ma vinse la coscienza: ricusò Pio le imperiali proposte. Ma ecco oggimai avvicinarsi il tempo in cui la sua virtù doveva essere messa a più duri cimenti. Posciachè si era tentato di spaventarlo coi soldati, di osservarlo con le spie, di sgomentarlo con la segregazione, di scuoterlo con le minaccie, si faceva passaggio ad assalirlo con le dottrine e con le persuasioni di coloro che, o per antica amicizia o pel carattere di cui erano vestiti, si credeva potessero avere molta autorità nelle sue deliberazioni. In questo mezzo tempo, per intimorire il papa e farlo consentire a quanto si desiderava con dargli sospetto che, se non consentisse, tuttavia si farebbe, erasi convocato un concilio ecclesiastico a Parigi, a cui furono proposti certi quesiti, acciocchè li dichiarasse. Intanto Napoleone, costretto dalla necessità, perchè la vacanza delle sedi episcopali turbava la coscienza dei fedeli, essendo a ciò consigliato da coloro che appresso a lui trattavano delle faccende ecclesiastiche, si deliberava ad usare un rimedio che poteva dargli, secondo che credeva, tempo ad aspettar tempo e conclusione definitiva delle differenze nate con la santa Sede. Voleva dunque che i capitoli delegassero l'autorità vescovile ai nominati dall'imperatore; ma per questo era d'uopo che i vicarii, già eletti dai capitoli stessi all'atto della vacanza, rinunziassero: però che non vi potessero essere due delegati. A questo fine indirizzava i pensieri il governo; dal che nacquero accidenti di non poca importanza, come quelli del cardinale Maury nominato alla Sede di Parigi, e quello del vescovo Osmond eletto a quello di Firenze. Dalle opposizioni del papa provennero nuove minaccie, e alle minaccie seguitavano i fatti, poichè dall'abitazione pontificia fu sbandito ogni apparato esteriore, tolte le carrozze, tolti i servitori, soppresso ogni segno di rispetto, interdetti penna ed inchiostro; usate tutte le cautele per mutare il papa, e per fare che nissuno sapesse o dicesse o facesse altro che quello che piaceva al governo. L'imperatore, veduto che le persuasioni, nè le minaccie, nè gli spaventi, nè le strettezze non avevano potuto piegare l'animo del pontefice, e credendo, per le opinioni dei popoli, di non potere da sè e senza che gli estremi mezzi prima si fossero tentati, fare questa gravissima mutazione che i vescovi di Francia e di tutti i paesi sudditi a lui più non ricevessero la instituzione canonica dalla Sede apostolica, si era risoluto ad usare più efficacemente il sussidio del concilio ecclesiastico adunato in Parigi. Inoltre, a ciò consigliato e stimolato principalmente dal concilio stesso, si era deliberato a convocare un concilio nazionale a Parigi, acciocchè considerasse la necessità presente, e proponesse i mezzi di rimediarvi. Il concilio decideva i quesiti secondo le mire del governo, i romani teologi contraddicevano a quelle decisioni, e le discussioni erano infinite. Già il disegno ordito contro un papa carcerato era pronto a colorirsi: i soldati e le spie facevano l'opera loro in Savona, i prelati si accingevano a farla da Parigi. Erano quindici o cardinali o arcivescovi o vescovi. Comandava il governo che mandassero una deputazione a muovere il papa a Savona. Il concilio nazionale convocato a Parigi pel dì 9 giugno del presente anno, parte ancor egli della macchina per intimorire il papa, stava pronto a proporgli i termini d'accordo voluti dal governo. Il papa, assalito e conquiso da ogni parte, ritirandosi dalla sua risoluzione di non voler trattare se prima non fosse libero, incominciò a manifestare le sue intenzioni; ed insomma, tentato in tutte le guise, e separato dal consorzio del mondo, promise di venire ad un accordo, il cui importare fosse questo: che sua santità, considerati i bisogni ed i voti delle chiese di Francia e l'Italia a lui rappresentati dai deputati, e deliberatosi a mostrare con un nuovo atto la sua paterna affezione verso le chiese medesime; darebbe l'instituzione canonica ai soggetti nominati da sua maestà con le forme convenute nei concordati di Francia e del regno d'Italia; che si piegherebbe ad estendere con un nuovo concordato le medesime disposizioni colle chiese di Toscana, di Parma e di Piacenza; che consentirebbe che s'inserisse nei concordati una clausola, per la quale prometterebbe di spedir le bolle d'instituzione ai vescovi nominati da sua maestà in un certo determinato tempo, che egli stimava non poter esser minore di sei mesi; e caso ch'ella differisse più di sei mesi per altri motivi che per quelli dell'indegnità personale dei soggetti, investirebbe, spirati i sei mesi, della facoltà di dare in suo nome le bolle il metropolitano della chiesa vacante, o, mancando lui, il vescovo più anziano delle provincie ecclesiastiche. Aggiunse, che sua santità a queste concessioni aveva inclinato l'animo per la speranza concetta nei colloqui avuti coi vescovi deputati, che elleno fossero per appianar la strada ad accordi, che ristorerebbero l'ordine e la pace della Chiesa, e restituirebbe alla santa Sede la libertà, la independenza e la dignità che le si convenivano. Fu aggiunto allo scritto contenente queste promesse del pontefice, i deputati affermarono per consenso di lui, il papa per sorpresa, un capitolo concepito in questi termini: Che i diversi aggiustamenti relativi al governo della Chiesa ed all'esercizio dell'autorità pontificia, sarebbe materia di un trattato particolare che sua santità era disposta a negoziare tostochè a lei fossero restituiti i suoi consiglieri e la sua libertà. Ma il pontefice protestò il giorno appresso contro questa giunta, che i vescovi deputati consentirono facilmente a cassarla dallo scritto che da Torino mandarono al ministro. Grande allegrezza sorse, per le agevolezze promesse dal pontefice, negl'imperiali palazzi, in cui si stava aspettando con molto desiderio quello che fosse per partorire l'andata dei prelati a Savona. L'imperadore, domato in parte il papa, si spinse avanti a soggiogarlo del tutto. Insorse adunque con maggiori richieste, volendo che quanto nelle istruzioni date ai deputati aveva ordinato, avesse il suo effetto per modo che nessuna eccezione di vescovi si potesse fare, il papa rinunziasse al dominio temporale, e se ne tornasse servo a Roma, e se ne andasse più servo ancora ad Avignone, ed accettasse lo stipendio. A questo fine si deliberava di usare il concilio. Mandò primieramente al pontefice alcuni cardinali, non già i neri, ma i rossi, e di questi nè anco tutti, ma solo quelli che gli parvero meno alieni dal secondare le sue intenzioni, Roverella, Dugnani, Fabrizio Ruffo: grande fondamento poi faceva principalmente sul cardinal Baiana, siccome quello che era molto entrante e di risoluta sentenza, e sempre era stato nel concistoro consigliatore di deliberazioni quieto verso lo imperatore. Aggiunse monsignor Bertazzoli, arcivescovo in partibus di Edessa, timida ed accomodante persona, congiunto per antica famigliarità col pontefice ed in grandissima fede e favore appresso di lui. Così Napoleone minacciava, Baiana parlava risolutamente, Bertazzoli persuadeva con preghiere e con lagrime. Intanto il ministro dei culti comandava che nessuna persona che fosse al mondo, salvo i mandatarii, il prefetto e Lagorsse gendarme, potesse parlare al papa. Intanto il concilio di Parigi faceva un decreto conforme alle ultime promesse del santo padre; portasse a Savona una deputazione del concilio, acciocchè il papa ratificasse e desse un breve conforme. Vide i deputati umanamente e volentieri il papa: ottennero facilmente il dì 20 settembre, il breve che approvava il decreto conciliare: le sedie arcivescovili e vescovili più di un anno non potessero vacare; lo imperatore nominasse, il papa instituisse; se fra sei mesi non avesse instituito, il metropolitano od il più anziano instituissero essi. Solo ai notati capitoli aggiunse il seguente: Che se, spirati i sei mesi, e se alcuno impedimento canonico non vi fosse, il metropolitano o il più anziano, innanzi che instituissero, fossero obbligati a prendere le informazioni consuete, e ad esigere dal consecrando la professione di fede e tutto che dai canoni fosse richiesto. Volle finalmente che instituissero, in nome suo espresso, e in nome di colui che suo successore fosse, e tantosto trasmettessero alla sedia apostolica gli atti autentici della fedele esecuzione di queste forme. Se non che quanto maggiore si mostrava la condiscendenza del pontefice, tanto più si domandava, e tutti si serrarono addosso al prigioniero, acciocchè consentisse alle altre richieste dell'imperadore. A tutta la tempesta che gli faceva intorno, domandava primieramente il papa la sua libertà: al che rispondevano i deputati conciliari, ch'egli era libero. Del giuramento, del rinunziare ai vescovi di Roma, del tornare a Roma o dello andar ad Avignone in qualità di suddito, con fermezza grandissima negava. Napoleone, veduto che non si approdava a nulla, volle pruovare se una solenne e subita minaccia potesse far effetto, e comandato ai deputati di farla, quelli la facevano. Ma i prelati partirono disconclusi. Per ultimo cimento, e per ordine risoluto del ministro dei culti, il prefetto, venuto in cospetto del pontefice, gli fece gravemente nuove rimostranze ed ammonizioni. Indarno. Anno di CRISTO MDCCCXII. Indizione XV. PIO VII papa 13. FRANCESCO I imp. d'Austria 7. Le minacce di lontano non avendo prodotto impressione, si volle far pruova se da vicino fossero più fruttuose. Deliberossi l'imperatore a tirarlo in Francia, dove potesse vederlo e stringerlo egli medesimo. La segretezza parve più sicura della pubblicità, la notte più del giorno. Diessi voce che Lagorsse, capitano di gendarmi, che doveva accompagnar il papa cattivo nel suo viaggio, fosse venuto in disgrazia dell'imperatore, e che il principe Borghese il chiamasse a Torino per udire da lui gl'imperiali comandamenti. La notte del 9 giugno 1812 era scurissima per accidente; al tocco della mezzanotte, messosi addosso una sottana bianca, un cappello da prete in capo, la croce vescovile in petto, lui non ripugnante, anzi serbando serenità, spingevano il capo della cristianità nella carrozza apprestata e l'incamminavano alla volta di Alessandria. Spargevano che fosse il vescovo di Albenga che andasse a Novi. Niuna cosa cambiata in Savona: ogni giorno, e durò ben quindici dopo la partenza, i magistrati andavano in abito al palazzo pontificale per far visita al pontefice come se fosse presente; i domestici preparavano le stanze, apparecchiavano la mensa, andavano al mercato per le provvisioni, cuocevano le vivande: Fenestrelle in vita se parlassero. Le guardie vigilavano al palazzo; i gendarmi attestavano a chi il voleva udire e a chi nol voleva, avere testè veduto il papa con gli occhi loro o nel giardino, o nel terrazzo, o in cappella: Suard, luogotenente di Lagorsse, che era consapevole del maneggio, compiangeva il povero Lagorsse per aver perduto la grazia dell'imperadore. Chi non sapeva parlava; chi sapeva non parlava: ma si voleva che niuno parlasse. Insomma già era il pontefice a dugento leghe, che ancora si credeva che fosse in Savona. Tanto erano perfettamente orditi i disegni! Arrivava il pontefice il dì 20 giugno a Fontainebleau: poco dopo vi arrivava anche Napoleone. Regnava in Napoli Gioacchino, in Sicilia Carolina. Molto operava Napoleone nel regno di qua dal Faro per la sua potenza, molto gl'Inglesi in quello di là dal Faro per la presenza: molti e varii furono effetti ed in chi regnava di nome ed in chi regnava di fatto. Era Gioacchino tutto intento a turbare le cose di Sicilia sì colle dimostrazioni guerriere, sì colle instigazioni e con le spie. Carolina dal canto suo, in ciò aiutata dagl'Inglesi, si era in tutto dirizzata a questo disegno che la dominazione dei napoleonidi nel regno di terraferma mal quieta e mal sicura rendesse. Tentavano principalmente i napoleonidi Messina per la vicinanza ed importanza del luogo. Vi avevano segrete intelligenze con alcuni uomini d'umile condizione, il cui fine era di operare moti contrarii al governo. I congiurati, come gente di basso Stato, non avevano alcuna dipendenza d'importanza; ma si temeva ch'essi fossero gli agenti di uomini più potenti. Per la qual cosa, per iscoprire fin dove il vizio si stendesse, il governo mandava da Palermo sul luogo un marchese Artali, uomo non solo inclinato a fare quanto il governo volesse, ma capace ancora di far degenerare la giustizia in sevizia. Terribile fu il suo arrivo, terribile la dimora. Gridarono i Messinesi; venne avviso della tragedia a Giovanni Stuart, generale dei soldati britannici. Mandò un lord Forbes a visitare le segrete dolorose; gli diede per compagni parecchi chirurghi per sanare le vestigia impresse dal furore del carnefici. Seppesi queste cose il governo del re Giorgio: gliene fu fatta anche fede indubitata. Se non dei tormenti, bene gli calse dell'odio che ne veniva contro il governo siciliano e contro l'Inghilterra: indebolivasene la difesa dell'isola. Di gran momento era agl'Inglesi la conservazione della Sicilia sì per sè medesima come pel sito opportuno a difendere Malta ed a percuotere nel cuore del regno di Napoli. Pensarono ai rimedii. I Siciliani, che con molta allegrezza avevano veduto la corte venire in Sicilia nel 1798 ora, mutatisi intieramente, alla medesima erano avversi. Incominciavano gl'Inglesi ad accorgersi che avevano a fare con un alleato, il quale, dopo di aver procurato odio a sè, il procurava anche a loro. Già se ne gettavano motti aperti nei giornali di Londra: il governo stesso pensava ai rimedii. Il fine era questo, che si togliesse la autorità ai ministri che se l'erano arrogata, e che la parte popolare si accarezzasse si conciliasse, si fortificasse. Ma prima che gl'Inglesi comandassero si sperava in un rimedio domestico: quest'era il parlamento siciliano. Lo aveva il re convocato nel 1810. Aveva Medici dato molte speranze di questo parlamento, come se fosse per essere molto liberale di sussidii, donativi li chiamano in Sicilia. Era Medici uomo molto ingegnoso ed inframettente, nè mancava di ardimento: perciò, sempre confidente in quanto imprendesse a fare, sperava di volgere a suo grado il parlamento. Ma nelle sue pratiche errò in due modi: perchè, credendosi sicuro de' due bracci demaniale ed ecclesiastico, omise di accarezzare il baronale più potente di tutti, ed, oltre a questo, usò l'opera di certe persone, le quali, avvegnachè fossero dotate di singolare abilità, erano nondimeno venute in odio ai popoli, perchè nel parlamento del 1806 si erano adoperate con molto calore, acciocchè si aumentassero i dazi. I baroni, con alla testa il principe di Belmonte, fecero tra di loro un'intelligenza per isturbare i disegni al ministro. L'esito fu che il parlamento concedesse un piccolo aumento di donativi, ma interpose tante difficoltà alla distribuzione e riscossione loro, che fu impossibile di esigerli. I Siciliani, secondo la natura dei popoli che sempre pagano mal volontieri, e peggio, quando sono entrati in opinione che chi maneggia il denaro loro lo sperge, alzarono voci di plauso in tutta l'isola a favor dei baroni: pel contrario, con discorsi acerrimi laceravano il nome di Medici e di coloro che nel parlamento l'avevano secondato. Fu molto memorabile il parlamento siciliano del 1810, perchè i baroni volontieri e con singolar lode consentirono ad una riforma nei feudi, che recava loro, quanto alle rendite, notabile pregiudizio; perchè fu ordinato un censo o catasto delle terre che, sebbene imperfetto, diede non pertanto qualche utile norma nella faccenda intricatissima della distribuzione dei dazi, e perchè si migliorarono anche gli ordini giudiziali, cosa in quei tempi di estrema necessità per la frequenza intollerabile che era invalsa dei furti e delle rapine. Ma intanto le tasse a mala pena si riscuotevano, ogni cosa in ruina. Per ultimo rimedio si chiamava un secondo parlamento. Diede maggiore agevolezza nel riscuotere le tasse; negò più grossi donativi: ogni promessa o minaccia della corte indarno; i baroni non si lasciarono piegare nè alle lusinghe delle parole, nè alle profferte di onori; lo Stato periva, ei bisognava uscirne. Trovaronsi due rimedi: pagassesi una tassa dell'un per centinaio sul valsente di tutti i contratti, stromenti e carte private che si facessero dai particolari; si vendessero alcuni beni appartenenti a luoghi pii. Non fu consentaneo alle speranze l'effetto dei due decreti, perchè, secondo gli umori mossi e l'opinione avversa, i rimedii si cambiavano in veleni. Questa condizione non era tale che lungo tempo potesse durare senza variazione. Il governo non rimetteva dal solito procedere; i baroni instavano, nè erano uomini da non usar bene il tempo; gl'Inglesi ci mettevano la mano, perchè vedevano che gli andamenti di chi reggeva precipitavano le cose in favor dei Francesi per la mala soddisfazione dei popoli, e giacchè avevano pruovato che i consigli dati al governo non avevano prodotto frutto, si erano risoluti a prevalersi della nuova inclinazione di animi che era sorta. Tutti volevano comandare, chi per superbia, chi per interesse, chi per desiderio di regolate leggi. In questo nacque un accidente, dal quale doveva avere la sua origine il cambiamento delle siciliane sorti. Fecersi avanti i baroni, e si appresentarono con una rimostranza al re, supplicandolo della rivocazione de' due decreti come contrarii alla costituzione siciliana fino allora inviolata nel diritto di porre le contribuzioni. Portarono la medesima rimostranza alla deputazione del regno, la quale, dal parlamento eletta, sedeva, secondo i siciliani ordini, tra l'una tornata e l'altra del parlamento. Il governo non solamente non si piegò a questo assalto dei baroni, ma persuase ancora al re che li facesse arrestare e condurre in luogo dove fosse loro mestieri di pensar ad altro piuttosto che a rimostrare. Furono arrestati, condotti in varie isole, serrati in prigioni diverse, e trattati con sevizia cinque dei primarii baroni del regno. Parlossi anche nelle più segrete consulte che si uccidessero; ma Medici contraddisse, allegando che un fatto tanto grave sarebbe certamente occasione di rivoluzione. Queste cose davano gran sospetto agl'Inglesi, perchè nulla di certo si potevano promettere da un moto popolare, nè maggior fede avevano nel governo. Adunque, non potendo più comandare col governo, nè fidandosi del popolo, si vollero pruovare, ristringendosi coi baroni, di comandare per mezzo loro. A questo fine, richiamato a Londra lord Amherst, ambasciatore d'Inghilterra alla corte di Palermo, mandarono in sua vece lord Bentinck, uomo di natura molto risoluta; pretendeva parole di libertà. Non così tosto pervenne in Palermo, che si mise a negoziare strettamente con la regina, ammonendola dei pericoli che correvano, rappresentandole la necessità di cambiar di condotta, e proponendo la riforma degli abusi introdotti nell'amministrazione e nella costituzione del regno. Insisteva principalmente affinchè si rivocassero i due decreti e si richiamassero dalle carceri e dall'esilio i cinque baroni. Aggiungeva che se non si uniformasse ai desiderii dell'Inghilterra, ei direbbe e farebbe gran cose. Risentissi la regina a quel parlare, e gli disse apertamente di non voler farsi serva di chi era mandato a farle riverenza non a comandarle. Sentissi Bentinck toccar sul vivo, perchè veramente aveva avuto dal re Giorgio potestà di consigliare, non di comandare. Tuttavia non si tirava indietro, e con pertinacia contrastando, disse che se non aveva mandato a ciò, lo andrebbe a cercare; e come disse, così si metteva in punto di fare. Tuttavia scese a nuovo abboccamento; ma non si potè venire ad alcuna conclusione, per forma che l'ambasciatore disse per ultima risposta: O costituzione o rivoluzione. Nè interponendo dilazione, partì, andò a Londra, e in tre mesi tornò con mandato amplissimo. Ma i ministri d'Inghilterra, avvisandosi che le parole non basterebbero, diedero a Bentinck podestà suprema sopra tutte le truppe inglesi raccolte nell'isola, acciocchè quello che pei concilii non potesse, colla forza il potesse. L'ambasciatore parlò, minacciò; la regina si ritirava ad un suo casino poco distante dalla città. L'evento finale si avvicinava, si rompevano le trame napoleoniche in Sicilia, la parte inglese trionfava. Bentinck, recatosi in mano la somma dell'autorità, operò primieramente che Ferdinando re, sotto colore di malattia, rinunziasse alla potestà reale ed investisse di lei pienamente il principe ereditario suo figliuolo con titolo di vicario generale del regno. Bentinck fu eletto capitan generale della Sicilia, accoppiando in tal modo in sè l'imperio militare e sopra i soldati del re Giorgio e sopra quelli del re Ferdinando. Atti primi e principali del nuovo reggimento furono il richiamare i baroni carcerati, il licenziare i ministri del precedente governo, l'abolire il dazio dell'un per centinaio, il chiamare ministri Belmonte degli affari esteri, Villarmosa delle finanze, Aci della guerra e marina. Indi puniti pochi più in odio al popolo, mandavansi i rimanenti in dimenticanza. Intanto il principe vicario convocava il parlamento. Era il mandato dei membri, provvedessero che la Sicilia avesse un buono e libero governo, rimediassero agli abusi, creassero nuovi ordini di costituzione. I baroni avevano maggior autorità degli altri. Bentinck era accesissimo in questo, che promulgassero libertà e statuti generosi in ogni luogo. Incominciossi dagli ordini supremi della costituzione. Statuirono che la religione cattolica, apostolica, romana fosse la sola religione del regno; che il re la professasse; quando no, s'intendesse deposto; la potestà legislativa fosse investita nel solo parlamento, e solo il parlamento ponesse le tasse; i suoi decreti approvati dal re avessero forza di legge; l'approvare od il vietare del re in questa forma si esprimesse: Piace al re, o: Vieta il re; la potestà esecutiva fosse investita nel solo re, e sacra ed inviolabile la sua persona; i giudici avessero intiera indipendenza dal re e dal parlamento: i ministri fossero tenuti di ogni atto, e fosse in facoltà del parlamento l'esaminarli, il processarli, il condannarli per crimenlese; due camere componessero il parlamento, una dei comuni o dei rappresentanti del popolo, l'altra dei pari del regno; i rappresentanti fossero eletti dal popolo a norma di certe forme prestabilite; fosse pari del regno chiunque avuto seggio nel braccio ecclesiastico o baronale, o chiunque il re chiamasse a tale dignità; stesse in facoltà del re il convocare il parlamento, ma fosse obbligato a convocarlo ogni anno; la nazione desse al re dote splendida, e con ciò i beni della corona cedessero in amministrazione della nazione; niun siciliano potesse essere turbato nè nelle proprietà, nè nella persona, se non conforme alle leggi sancite dal parlamento; s'instituissero forme giudiziali peculiari pei pari del regno; la camera dei comuni sola avesse facoltà di proporre i sussidii, o vogliam dire i donativi, il parlamento vedesse quali e quante parti della costituzione della Gran Bretagna convenissero alla Sicilia, ed esse ad utilità comune si accettassero. Questi furono i capitoli principali della costituzione siciliana circa agli ordini primitivi dello Stato. A questi si aggiunse una maraviglia non senza molta parte di gratitudine per certi capitoli aggiunti, essendone posto il partito dei baroni: il fecero per generosità d'animo, il fecero per conciliarsi i popoli. Offerirono spontaneamente, e fu dal parlamento statuito che il sistema feudatario fosse e restasse abolito in Sicilia, con tutte le sue conseguenze. Giubilavano i Siciliani dell'ottenuta libertà, la generosità dei baroni ed i nuovi ordini con somme lodi esaltando. Restava che il re, cioè il principe vicario, appruovasse. Fuvvi qualche soprastare. Duro pareva a chi regnava lo spogliarsi dell'autorità; infine tanto operarono Bentinck, il parlamento ed i segni dell'impazienza popolare, che il principe vicario dichiarò piacergli i capitoli. La regina si ritirava a Castelvetrano, terra distante sessanta miglia da Palermo, finchè nell'anno seguente, lasciando la Sicilia, portata dai venti e dall'avversa fortuna in istrani e barbari lidi, potè infine con disagi incredibili rivedere la sua Vienna, riabbracciare i parenti e respirare l'aere natio, donde solo poteva sperar conforto. Ma non fu lungo il sollievo, perchè, presa da subita malattia, passò poco tempo dopo da questa all'altra vita. Mentre Guglielmo Bentinck dominava in Sicilia, Eduardo Pellew signoreggiava i mari Mediterraneo ed Adriatico. Era la terra in mano ad un solo, il mare in mano ad un solo. Nacquero accidenti ora in questo mare, ora in quell'altro, ma di poco momento per la superiorità tanto notabile di una delle parti, e la depressione dell'altra. Predarono gl'Inglesi già sino dal 1811 molte onerarie al capo Palinuro. Nell'Adriatico poi, per istringere il presidio di Ragusi, s'impadronirono, presso a Ragonizza, di una conserva di navi, anch'esse cariche di vettovaglie. Fatto di maggiore importanza è una battaglia navale combattuta aspramente nelle acque di Lissa, una delle isole antemurali della Dalmazia. Vinse la fortuna britannica: le fregate franzesi la Corona e la Bellona vennero in potere degl'Inglesi; la Flora si condusse in salvo, la Favorita andò di traverso. Per questa fazione Lissa cadde in potestà degl'Inglesi. Vi fecero una stanza ferma ed un nido sicuro, dove e donde poteva ritirarsi ed uscire a dominar l'Adriatico. Già i fatti assalivano Napoleone; la ambizione, che mai non dormiva in lui, gli toglieva l'intelletto. Come la Francia, la Germania, l'Italia non poteva capirgli nell'animo che di tutta Europa signore non fosse. La Russia e l'Inghilterra gli turbavano i sonni, quella amica poco sincera, questa nemica costantissima. Parevagli che due grandi imperii, quali erano il suo e quel di Alessandro, non potessero sussistere insieme nel mondo. Questi pensieri tanto più gli turbavano la mente, quanto più prevedeva che non poteva domar l'Inghilterra, se prima non domasse la Russia. Per questo e per altri ancor più vasti disegni ambiva di soggiogarla, confidando che il vincerla gli metterebbe in seno l'imperio del mondo. Dall'altro lato la Russia, che vedeva il cimento inevitabile, pensava che il più presto sarebbe il meglio; mezzo mondo era vicino a marciare in guerra contro mezzo mondo, i due imperii apprestavano le armi con tutte le forze loro. Risolutisi i due potenti imperatori al venirne al cimento delle armi ed al contendere fra di loro dell'imperio del mondo, cominciarono, come si usa, a gareggiar di parole, allegando l'uno contro l'altro piccoli fatti, certamente molto abbietti e molto indegni di tanta mole. Essi sapevano il motivo vero della guerra: tutto il mondo se lo sapeva; questo era la impossibilità del vivere insieme sulla vasta terra. Napoleone, come più impaziente e più ambizioso, tirandolo il suo fato, assaltava primo il 23 e 24 giugno. Infierì la guerra in regioni rimotissime: desolò prima le sponde del Boristene, poi quelle del Volga: combatterono i Russi a Smolensco, combatterono a Borodina sulla Masewa: era fatale che sui confini dell'Asia perisse la fortuna napoleonica: arse Mosca, immensa città, cagione e presagio di casi funesti. Una rotta toccata a Murat avvertiva Napoleone che il nemico si faceva vivo, e che quello non era più tempo di starsene in fondo delle Russie. Gli restava l'elezione della strada al ritirarsi. Pensò di ridursi, passando per Calug e Tuia, a svernare nelle provincie meridionali della Russia: vennesi al cimento terminativo di Malo-Yaroslavetz, in cui mostrarono un grandissimo valore i soldati del regno italico. Quivi perirono le speranze di Napoleone, quivi si cambiarono le sorti del mondo, quivi rifulse principalmente la virtù di Kutusof, generalissimo di Alessandro. Napoleone, ributtato con ferocissimo incontro, fu costretto a voltarsi di nuovo alla desolata strada di Smolensco; il russo gelo spense l'esercito: pianse e piangerà eternamente la Francia, piange e piangerà l'Italia il suo più bel fiore perduto. Anno di CRISTO MDCCCXIII. Indizione I. PIO VII papa 14. FRANCESCO I imp. d'Austria 8. Al suono delle rotte napoleoniche, la Prussia insorgeva e si vendicava cupidissimamente in libertà. Napoleone ritornava nella sua sede di Parigi. Murat, sbalordito da accidenti tanto straordinarii, abbandonato l'esercito, se ne veniva a Napoli; presene il governo Eugenio vicerè. Aveva Murat mala satisfazione di Napoleone, ed era maravigliosamente commosso contro di lui, perchè gli aveva attraversato i suoi disegni sopra la Sicilia, e perchè non gli era ignoto ch'egli aveva negoziato col siciliano governo di cose pregiudiziali al suo dominio napolitano. Dall'altra parte gl'Inglesi si erano deliberati a pretendere ed a mettere fuori certe voci: che oggimai, cioè, era venuto il tempo di dare all'Italia l'essere independente. Bentinck, o tentativamente o sicuramente che sel facesse, si spiegava di questo disegno con parole incitatissime, e dimostrava la Gran Bretagna parata a secondarlo. Conosceva Gioacchino tutti questi umori. Per questo, tornando da Mosca, passò dove più che in altri paesi d'Italia questi desiderii si erano accesi, e si mise a fare gran promesse. Bentinck, conosciuto l'uomo, e volendo turbare fin dalla bassa Italia le cose a Napoleone, il confortava ad assumere le insegne di campione dell'italica franchigia. Insinuazioni consimili facevansi ad Eugenio, perchè da Napoleone si distaccasse; e non senza frutto. Tanto poi si era fatto per l'attività del vicerè, che si era creato un esercito giusto, composto parte di Franzesi raccolti dai presidii e dagli iscritti dell'Italia franzese, parte di soldati del regno, alcuni veterani, molti novelli. Il vedere queste genti dava qualche sicurtà ai popoli, se non di vincere, almeno di negoziare, e non si disperava dello stato franco. La tempesta intanto di verso il mare e di verso il Tirolo e l'Illirio si avvicinava. Aveva l'imperadore Francesco, che in grandissima prontezza si era allestito alla guerra, mandato un forte esercito in cui si noveravano meglio di sessanta mila buoni soldati ai confini per modo che cingeva tutto il regno italico da Carlsbad di Croazia insino al Tirolo. Obbedivano tutte queste genti al generale Hiller, uomo di grande sperienza per esser già molto oltre con gli anni e vecchio ancora di milizia. Militavano con lui non pochi generali di nome, tra' quali principalmente si notavano Bellegarde e Frimont, capitani esperti nelle italiche guerre. Mandava fuori Hiller un suo militare manifesto, con cui, descritte primieramente le forze e le vittorie della lega, esortava gl'Italiani «a levarsi contro il tiranno a generale liberazione dell'Europa conquassata sì lungamente da tanti movimenti ed a cooperazione di poderosi eserciti che accorrevano in aiuto loro da ogni banda.» Questo era il nembo che minacciava il regno italico dai paesi di settentrione e di oriente. Verso ostro i confini non gli erano sicuri, perchè gli alleati, facendo grande fondamento sulle sollevazioni dei popoli, si erano accordati, che mentre gli Austriaci l'assalterebbero dalla parte loro, gl'Inglesi, o con soldati proprii, o con soldati d'ogni paese, massimamente Italiani raccolti in Malta ed in Sicilia, o finalmente con qualche mano di Austriaci, infesterebbero i due litorali dell'Adriatico, tanto dalla parte della Dalmazia e dell'Istria, quanto da quella di Italia. Intendevano anche a percuotere nei lidi italiani, entrando per le bocche del Po per far diversione in favore dello sforzo principale che calava dalle Alpi Rezie, Giulie e Noriche. Avevano anche speranza, sebbene il vedessero incerto e titubante, che Gioacchino di Napoli si sarebbe congiunto a loro; e le forze del re di Napoli erano di grande momento perchè andavano a ferire il regno italico a fianco ed alle spalle, e dove aveva minor difesa, perchè nissuno anche previdentissimo, avrebbe potuto immaginare questo, che Gioacchino di Napoli fosse un giorno per muovere l'armi contro l'italico regno. Nè dovevano restare senza disturbo le sponde del Mediterraneo, perchè gli Inglesi, essendo ormai certi delle intenzioni di Gioacchino, si proponevano di far impeto con quei loro soldati multiformi e racimolati da ogni paese, nella Toscana, provincia che credevano non senza ragione avversa al nuovo Stato, e desiderosa di tornare all'antico. Venivano con loro Bentinck e Wilson generale colle loro pubblicazioni di libertà e d'independenza. Avevano essi trovato non saprebbesi che bandiere con suvvi scritto il motto _Indipendenza d'Italia_, e dipinte due mani che si toccavano in segno di amicizia e di colleganza. A questo modo suonava di ogn'intorno un forte nembo al regno italico. Il vicerè forbiva ancor egli le sue armi. Aveva circa sessanta mila soldati, nei quali erano i veterani italiani venuti di Spagna, i soldati di nuova leva e la guardia reale italiana, bella e valorosa gente; sommavano gl'Italiani circa ad un terzo. I Franzesi anch'essi, o raccolti prestamente dai presidii, o chiamati dalla Spagna con celeri passi accorrevano al sovrastante pericolo. Li partiva in tre principali schiere: la prima, che obbediva a Grenier, aveva le sue stanze sulle rive del Tagliamento e dell'Isonso, terre tante volte ancora gloriosamente conquistate dai Franzesi; la seconda, retta da Verdier, alloggiava a Vicenza, Castelfranco, Bassano e Feltre. La terza, quest'era la Italiana, posava a Verona ed a Padova: la governava Pino. Una parte di essa, sotto l'obbedienza dei generali Lecchi e Bellotti, era mandata a custodire l'Illirio, la cavalleria stanziava a Treviso; per vigilare intanto agli accidenti del Tirolo, parte che dava grandissima gelosia, una schiera di soccorso alloggiava in Montechiaro; quando poi divenne il pericolo più imminente, fu mandata sotto il governo di Giflenga a combattere in Tirolo contro un corpo di Austriaci condotto dal generale Fenner. Secondavano tutto questo sforzo dalla Dalmazia, ma piuttosto per difendere che per offendere, pel piccol numero dei soldati, i presidii, la maggior parte italiani, di Zara, Ragusi e Cattaro. Ora, diventando ad ogni momento la guerra più imminente, pensò il vicerè a spingersi più innanzi, andando a porre il campo principale ad Adelsberga, terra poco distante dalla sponda destra della Sava, sulla strada per a Carlsbad di Croazia e per a Lubiana di Carniola. Al tempo stesso, allargandosi sulla sinistra, mandava una forte squadra a custodire i passi di Villaco e di Tarvisio, avendo avviso che Hiller, fatto un assembramento molto grosso a Clagenfurt, minacciava di farsi avanti, sì per isforzare quei forti paesi, e sì per condursi, montando per le rive della Drava, alle regioni superiori dell'affezionato Tirolo. Gli Austriaci, cingendo con largo circuito tutta la fronte dell'esercito italico, avevano un grandissimo vantaggio, il quale ed all'occorrenza presente ed alla natura sempre circospetta molto bene si conveniva. Sicura era la loro destra pei fatti succeduti in Germania, ed ultimamente per l'adesione della Baviera alla lega dei principi uniti contro Napoleone. In questo ancora molto momento recavano i Tirolesi pronti ad insorgere contro il nuovo dominio, e la inclinazione loro rendeva sicuro il loro paese alle forze austriache e dava sospetto al vicerè, perchè potevano offenderlo a mano manca ed alle spalle. Nè meno avvantaggiata condizione avevano gli Austriaci sulla loro sinistra, posciachè sapevano che le popolazioni dalmate e croate erano pronte a sorgere contro i presenti dominatori. Correvano i Dalmati, inclinava verso il suo fine agosto, contro i presidii, i Croati contro gl'Italiani. Zara, Ragusi e Cattaro tenuti da deboli guernigioni, romoreggiando nimichevolmente i popoli d'intorno e tenendo infestato la campagna, cedettero facilmente. Una presa di Croati, avvalorata da qualche battaglione di Austriaci, urtando contro Carlsbad, facilmente se ne impadroniva. Gli Austriaci ed i Croati, più oltre procedendo, s'insignorirono di Fiume, ritiratosene il generale Janin, impotente a resistere. I Croati, ch'erano stati arrolati sotto le insegne franzesi, dai loro signori segregandosi, ritornavano alle antiche insegne di Austria. Mentre a questo modo felicemente si combatteva per gli Austriaci verso lo Adriatico, mandavano grossi squadroni verso il Tirolo. Giunto a Brixen, scendevano per le rive dell'Adige con intento di andar a battere nelle veronesi e nelle bresciane regioni. Al tempo stesso veniva alle mani nel mezzo: fu preso e ripreso Grinborgo con molto sangue da ambe le parti. Sorse un gravissimo contrasto a Villaco, e dopo un feroce combattere, in cui la città fu presa e ripresa parecchie volte, e finalmente arsa per opera dei Tedeschi, i Franzesi rimasero vincitori. Gli Austriaci, seguitando il consiglio loro, si allargavano sulle corna. Trieste, preso e ripreso più volte, venne in potestà loro; già tutta l'Istria loro obbediva. Dalla parte superiore, precipitandosi dalle Alpi Tirolesi minacciavano di far impeto contro Belluno, e più alle spalle le armi loro suonavano nelle regioni vicine a Trento. Conoscendo ed usando il vantaggio avevano passato la Sava a Grinborgo ed a Ramansdorf, per dove facevano sembianza di condursi per Tulmino nelle regioni superiori del Friuli. Anche contro Villaco preparavano un grande assalto. Non era più in potestà del vicerè il resistere. Avevano gli avversarii maggior numero di soldati ed i popoli amici; erano al vicerè minori le forze ed i popoli avversi. Ritirandosi adunque, fermossi prima sull'Isonzo qualche giorno, poscia sulla Piave, combattendo sempre valorosamente, sempre inutilmente. Le stanze della Piave non si potevano conservare. Già gli Austriaci, scesi a Bassano, vi avevano fatto una testa grossa, ed insistendo alle spalle, davan timore di estrema rovina al vicerè, se presto non si ritirasse. Fu infatti costretto a combattere a Bassano una battaglia molto grave. Durò due giorni, il 31 ottobre ed il primo novembre. Vinse la fortuna franzese ed italiana. Entrarono i vincitori, e pernottarono nella sanguinosa città. Acquistò Eugenio facoltà di ritirarsi più quietamente sull'Adige; marciava indietro, parte per Padova, parte per Vicenza, andando ad alloggiarsi a Verona ed a Legnago. Sulle veronesi sponde incominciavano a manifestarsi fra gl'Italiani mali semi contro il vicerè, che, già insino in Prussia dopo le disgrazie di Russia, si era lasciato uscir di bocca parole di cattivo concetto verso gl'italiani generali. Nè il suo disprezzo nelle semplici parole contenendosi, era trascorso sino agli atti: delle quali cose tenendosi eglino molto offesi, avevano appoco appoco sparso una mala contentezza fra i soldati, dal che ne seguivano nel campo sinistre mormorazioni, ed anche atti aperti di sdegno contro il principe. Intanto non rimetteva in Eugenio il desiderio di farsi famoso in guerra. Corse in Tirolo, vi fece fazioni onorate, ma senza frutto; liberò Brescia dal nemico, ma indarno; ruppelo in una grossa e bene combattuta battaglia a Caldiero, ma tornossene poco dopo là dond'era venuto: il nemico, che era stato rincacciato fin oltre all'Alpone, venne fra breve a rinsultare San Michele di Verona. Appena la fronte dell'Adige, fiume grosso e munito sotto dalla fortezza di Legnago, sopra dai castelli di Verona, si poteva tenere. Ecco un secondo nembo approssimarsi al Po, nè fia l'ultimo a raccontarsi, ancorchè sia prossimo il fine della tragedia. Aveva il generale austriaco Nugent combattuto virilmente in Croazia ed in Istria contro gl'Italiani che occupavano quella parte del regno. Ma quivi ogni cosa era oggimai divenuta sicura a lui, sì per la ritirata di Eugenio, come perchè le fortezze di Lubiana e di Trieste si erano arrese all'armi tedesche. Sola restava dell'antico austriaco o veneziano dominio in mano del vicerè la città di Venezia. Per la qual cosa Nugent, messosi sulle navi a Trieste, era venuto a sbarcare a Goro con una grossa mano di accogliticci; poi si spingeva tostamente innanzi e s'impadroniva di Ferrara. Quivi correva il paese coi suoi soldati leggieri, chiamando in ogni luogo i popoli a sollevazione. L'importanza del fatto era che si congiungesse con le schiere d'Austria che, venute col grosso dell'esercito, già si erano condotte a Padova. A questo fine, Nugent, passato il Po con una parte de' suoi, e preso alloggiamento in Crespino, si era accostato all'Adige. Dall'altro canto Bellegarde, generalissimo succeduto ad Hiller, per consentire coi movimenti di Nugent, aveva avviato a Rovigo una presa di tre mila soldati sotto la condotta del generale Marshall. Come prima il vicerè ebbe avviso del tentativo di Nugent, aveva speditamente mandato un corpo sotto il governo del generale Decomby a Trecenta, acciocchè facesse opera d'impedire la congiunzione delle due squadre nemiche. Al tempo stesso Pino, che governava Bologna, assembrava quante genti poteva e le spingeva avanti alla guerra ferrarese. Ripresesi Ferrara, ma indarno pegli accidenti che seguirono. Aveva bene Decomby cacciato Marshall da Rovigo con non poca strage, e costretto a ritirarsi a Boara padovana. Ma gli Austriaci continuamente ingrossavano coll'intento di congiungersi con Nugent, che tuttavia era in possessione di Crespino. Mandava perciò il vicerè nuovi aiuti col generale Marcognet verso il basso Adige, acciocchè cooperassero al fine comune con Decomby. Uscirono i Tedeschi da Boara padovana; Decomby e Marcognet gli assaltavano. Sorgeva un ostinata zuffa: combatterono i Franzesi felicemente a destra, infelicemente a sinistra; si ritirarono i Tedeschi nel loro sicuro nido di Boara padovana; ma colto il destro che offerivano loro la notte e la mala guardia a cui stavano i Franzesi, con un impeto improvviso li ruppero e li costrinsero a ritirarsi prima a Lendinara ed a Trecenta, poi a Castagnero. Riacquistarono Rovigo: fu tolto ogni impedimento alla congiunzione di Nugent e di Marshall. Nugent, fatto sicuro per la congiunzione, s'incamminava a Ravenna, e da Ravenna a Forlì. Ora trovavasi Gioacchino di Napoli molto perplesso, e siccome le novelle di Germania, di Francia e d'Italia giravano fauste od infauste, si appigliava a questa parte ed a quella, a questo partito ed a quell'altro. Molto in lui poteva il desiderio di conservare il suo reale seggio, molto la paura di Napoleone. Perciò procedendo con la sua naturale varietà, aveva negoziato ora coll'Austria, ora con Bentinck, ora con Eugenio, qualche volta con tutti insieme, nè si accorgeva che tutti il conoscevano. Intanto, già sicuro dell'Austria e dell'Inghilterra, ma non ancora sicuro di sè medesimo, si avviava verso l'Italia superiore. Già occupava Roma, già occupava le Marche, nè ancora l'animo suo scopriva. Pretendeva parole di amicizia verso il regno italico. Lasciato passare in Ancona ed in Roma amichevolmente dai presidii franzesi, gettava gioconde e pacifiche parole di Francia e di Napoleone. Infine, veduta la ritirata del vicerè, udite le novelle dell'avvicinarsi i confederati molto grossi al Reno per invadere la Francia, ed aspettato Bentinck oramai vicino a tempestare in Toscana, rimossa finalmente ogni dubitazione, si risolveva a scoprirsi del tutto ed a fare quello che il mondo non avrebbe potuto pensare e di che si perturbò più d'ogni altra cosa Napoleone. Fermava i suoi casi con l'Austria, stipulando con lei un trattato. Bellegarde annunziava pubblicamente agl'Italiani la congiunzione di Gioacchino con la lega. Gioacchino, scoprendosi nemico in quei paesi dov'era entrato e stato accolto come amico, sforzava il generale Barbon, che custodiva in nome di Francia la fortezza di Ancona, e Miollis che teneva castel Sant'Angelo, alla dedizione. Tutto lo Stato romano veniva all'obbedienza dei Napolitani. Anno di CRISTO MDCCCXIV. Indizione II. PIO VII papa 15. FRANCESCO I imp. d'Austria 9. Le forze preponderanti di Bellegarde, i progressi di Nugent sulla sponda destra del Po, l'accostamento del re di Napoli alla lega e la presenza delle sue numerose schiere del Modenese toglievano al vicerè ogni possibilità di conservare gli alloggiamenti dell'Adige. Fatti pertanto gli apprestamenti necessarii, si tirava indietro, e andava a porsi alle stanze assai più sicure del Mincio. Il dì 8 febbraio usciva ottimamente ordinato a campo per combattere in una campale battaglie Bellegarde. Ogni schiera, passato il fiume, correva ai luoghi destinati, quando la fortuna, per un accidente improvviso, ridusse il disegno bene ordinato ad un moto disordinato. Nel momento stesso in cui Eugenio si proponeva di assalire Bellegarde sulla sinistra del Mincio, si era Bellegarde risoluto ad andar a trovare Eugenio alla destra. L'esito però fu che Bellegarde fu costretto a tornarsene sulla sinistra del Mincio, ma intero e ristretto; il che obbligò anche il vicerè a ritirarsi con tutta la sua forza sulla destra. Intanto Eugenio si accorgeva che non era più in sua facoltà d'indugiar a soccorrere alle cose d'oltre Po, che, per la invasione dei Napolitani diventavano ogni ora più difficili. Munita già di qualche maggiore fortificazione Piacenza, vi mandava con qualche aiuto di nuove genti Grenier. Formava l'antiguardo del nemico Nugent co' suoi Tedeschi, Istriotti ed Italiani; il retroguardo Gioacchino coi suoi Napolitani. Come primo Grenier arrivava, rincacciava con forte rincalzo all'ingiù Nugent, e la sforzava a tornarsene più che di passo al Taro. Nugent però, sperando di arrestarne l'impeto, si era fermato con tre mila soldati a Parma. Il Franzese, urtando la città da ogni parte, vi entrava per viva forza, ritirandosene a tutta fretta colla minor parte de' suoi soldati il Tedesco. Il re di Napoli, tornato più grosso, e sforzato finalmente il passo del Taro, già si avvicinava a due miglia da Piacenza. Quivi l'arrestavano, non la forza degli avversarii, ma più alte e più strepitose sorti. Pellew e Bentinck comparivano in cospetto di Livorno: avevano molte e grosse navi con sei mila soldati da sbarco, italiani, siciliani, inglesi. Il governatore vuotò la città per patto; vi entrarono gl'Inglesi il dì 8 marzo. Suonavano le armi, suonavano le parole; si scrivevano i manifesti, si sventolavano le bandiere dell'italiana independenza. Bentinck in questo si mostrava molto acceso, Wilson il secondava. Ma l'Inglese, siccome quegli che era uomo audace ed operoso, tosto giungeva alle parole i fatti. Ebbe avviso a Livorno che Genova si guardava solamente da due mila soldati; abbondava d'armi e di munizioni navali; si accingeva ad espugnarla. Giunta a Sestri di Levante, udiva che nuovo soccorso era entrato a custodir Genova per forma che il presidio sommava a sei mila soldati: presidio insufficiente alla vastità delle fortificazioni, ma bastante a rendergli molto dura la impresa; il reggeva Fresia. Dal modo onde si era questi apparecchiato conseguitava che era a Bentinck necessità di insignorirsene per un assalto vivo. A questo ordinava i suoi, che mostravano un grandissimo ardire ed una prontezza incredibile a fare quanto egli volesse. Succedevano i fatti a secondo de' suoi pensieri. Non volendo il presidio dei forti Tecla e Richelieu aspettare l'ultimo cimento, si arrese a patti. Gli assediati, vedendo che, per la perdita di quei forti, correvano pericolo di esser presi alle spalle, fecero avviso di ritirarsi del tutto dentro le mura, lasciando le difese esteriori in potere dei confederati. Già per opera di Bentinck si piantavano le batterie per fulminare la città. In questo, ad accrescere il terrore, arrivava sopra Genova Pellew con tutta la sua armata, attelandosi a fronte di Nervi. Ai piccoli cannoni di Bentinck si aggiungevano i grossi e le bombarde di Pellew per modo che allo assalto che si vedeva imminente, ogni cosa presagiva un successo prospero a chi assaltava. Si venne in sul convenire: Fresia si arrese il dì 18 aprile. Bentinck, acquistata la possessione di Genova, faceva sorgere speranze di franco stato nei Genovesi. Ordinava pertanto un governo preparatorio, ed i motivi pubblicamente per lui detti suonavano che, stantechè i soldati d'Inghilterra retti da lui avevano scacciato dalle terre di Genova i Franzesi, e che importava che alla quiete ed al governo dello Stato si provvedesse, considerato ancora che a lui pareva che universale desiderio della nazione genovese fosse il tornare a quella antica forma alla quale era stata sì lungo spazio obbligata della sua libertà, prosperità e indipendenza, voleva ed ordinava che quello che i popoli genovesi desideravano, si risolvesse in atto e si mandasse ad effetto. Già tutta l'Italia era sottratta dallo imperio di Napoleone: solo restava la parte che si comprende tra il Mincio, il Po e le Alpi. Ma la somma delle cose per lei si aveva piuttosto a decidere sulle rive della Senna che su quelle del Po. Infatti, come prima pervennero in Italia le novelle della presa di Parigi e della rinunziazione di Napoleone, pensò il vicerè a pattuire per la sicurezza delle genti franzesi, nè si conveniva che, poichè i Borboni, ai quali erano le potenze amiche, si trovavano reintegrati in Francia, i Franzesi combattessero contro di loro. Inoltre desiderava il vicerè, con facilitare le condizioni ai Borboni ed ai potentati, avvantaggiare le proprie, e fare in modo che gli alleati usassero contro a lui meno inimichevolmente la vittoria. A questo fine uscito di Mantova, si abboccava con Bellegarde, l'uno e l'altro accompagnati da pochi soldati. Convennero che si sospendessero le offese per otto giorni; che intanto i soldati franzesi che militavano col vicerè, passate le Alpi, ritornassero nelle antiche sedi di Francia; che le fortezze di Osopo, Palmanova, Legnago, la città di Venezia si consegnassero in mano degli Austriaci; che gl'Italiani continuassero ad occupare quella parte del regno che ancora era in poter loro; che fosse fatto facoltà ai delegati del regno di andar a trovare i principi confederati per trattare di un mezzo di concordia, e che se i negoziati non riuscissero a felice fine, le offese tra gli alleati e gli Italici non potessero ricominciare se prima non fossero trascorsi quindici giorni da che i primi si fossero scoperti delle intenzioni loro. La convenzione di Schiarino Rizzino, che in questo luogo appunto si concluse il dì 16 aprile, spegneva del tutto il regno italico. Perchè, segregati i Franzesi dagli Italiani, nasceva una tale disproporzione di forze tra gl'Italiani ed i Tedeschi, che quel patto, il quale dava quindici giorni d'indugio alle ostilità, era indarno. Il vicerè, acconce le cose sue, già faceva pensiero di ritirarsi negli Stati del re di Baviera, col quale era congiunto di parentado pel patrimonio della principessa Amalia. Ma ecco arrivar novelle, o vere o supposte, che Alessandro imperatore consentirebbe a conservargli il regno, sì veramente che i popoli il domandassero. Accettava Eugenio le liete speranze: fecersi brogli, cominciossi dall'esercito ridotto in Mantova. L'intento parte ebbe effetto e parte no; ma l'importanza consisteva in Milano capitale. Viveva in questo momento il regno diviso in tre sette; alcuni desideravano il ritorno dell'Austria con niuna o poca differenza dall'antica forma; gli altri pendevano per l'independenza, ma chi ad un modo, chi ad un altro; conciossiachè chi l'amava, con avere per re il principe Eugenio, e chi l'amava, con avere per re un principe di altro sangue, specialmente austriaco; questa era la parte più potente. Dopo molti e caldissimi dibattimenti, decretava il senato che si mandassero tre legati a' confederati, supplicandoli, ordinassero che cessassero le offese; domandassero i legati che il regno d'Italia fosse ammesso a godere dell'independenza promessa e garantita dai trattati; testificassero quanto il senato ammirasse le virtù del principe vicerè, e quanta gratitudine del suo buon governo avesse. Seppesi la deliberazione. Fece la parte contraria, che abborriva dal nome di Eugenio, un concerto. Entraronvi i capi principali delle armi, le case più eminenti di Milano; si aggiunsero i negozianti più ricchi, e fra gli scienziati e letterati i meno paurosi. Domandavano che si convocassero i collegi elettorali. Era il 20 aprile, quando, essendo il senato raccolto nella sua solita sede, una gran massa di gente, gridando, a lui traeva: era il cielo nuvoloso e scuro, pioveva leggiermente, un'apparenza sinistra spaventava gli spiriti tranquilli. I commossi non ristavano. Eravi ogni generazione di uomini, plebe, popolo, nobili, operai, benestanti, facoltosi. Le donne stesse, e delle prime partecipavano in questo moto. Era tutta questa gente volta a bene, ed il male, non che l'avesse fatto, non l'avrebbe neppure pensato. Ma, come suole, incominciavano ad arrivare e da Milano e dal contado uomini ribaldi che volevano tutt'altra cosa piuttostochè l'independenza. Queste parole scritte andavano attorno: «Hanno la Spagna e l'Alemagna gittato via dal collo il giogo dei Franzesi; halle l'Italia ad imitare.» Tutti gridavano: «Noi vogliamo i collegi elettorali: noi non vogliamo Eugenio.» Fuggirono i senatori partigiani del principe; il senato si disciolse. Entrò il popolo a furia nelle sue stanze, e tutto con estrema rabbia ruppero e lacerarono. Gridossi da alcuni uomini di mal affare mescolati col popolo: «Melzi, Melzi,» e già si mettevano in via per andarlo a manomettere. Un amico di lui gridò «Prina:» era Prina più odiato di Melzi, ed ecco che corsero a Prina, e flagellatolo prima crudelmente, l'uccisero, con insultar anco al suo sanguinoso cadavere lungo tempo. Cercarono di Meiean e di Damay; non li trovarono. La folla frenetica, messe le mani nel sangue, le voleva mettere nelle stanze. Già le case si notavano, già le porte si rompevano, già le suppellettili si recavano; la opulenta Milano andava a ruba. A questo passo i possidenti ed i negozianti, ordinata la guardia nazionale, frenarono i facinorosi e preservarono la città. Il vicerè, che tuttavia sedeva in Mantova, uditi i moti di Milano indispettitosi, diè la fortezza in mano degli Austriaci. Partiva indi per la Baviera, le italiche ricchezze seco portando. I collegi elettorali, adunatisi, crearono una reggenza. Decretarono che le potenze alleate si richiedessero dell'indipendenza del regno, di una costituzione libera, e di un principe austriaco, ma indipendente. Si appresentarono i legati a Francesco imperatore a Parigi. Esposte le domande, rispose, anche lui esser Italiano, i suoi soldati avere conquistata la Lombardia: udrebbero a Milano quanto loro avesse a comandare. Entrarono gli Austriaci in Milano il dì 28 aprile: Bellegarde ne prendeva possessione in nome dell'Austria il 23 di maggio. Così finì il regno italico. Continuava Genova in potestà d'Inghilterra. Il congresso di Vienna decretò, dover Genova cedere in potestà del re di Sardegna. Così l'Italia, dopo una sanguinosa e varia catastrofe di venti anni, si ricomponeva a un di presso nello stato antico. Tornava Vittorio Emmanuele in Piemonte, Francesco in Milano, Ferdinando in Toscana, Pio in Roma; passò Parma dai Borboni agli Austriaci; conservò Gioacchino il real seggio di Napoli, ma per non durare; le italiane repubbliche ebbero fine; solo fu conservato l'umile San Marino. Cedè Venezia a Francesco, Genova a Vittorio. Anno di CRISTO MDCCCXV. Indizione III. PIO VII papa 16. FRANCESCO I imperad. d'Austria 10. Mentre Napoleone Buonaparte, evaso il dì 26 di febbraio dall'isola d'Elba, che gli era stata data in sovranità, faceva il solenne suo reingresso, addì 21 del seguente marzo, nella capitale della Francia, Gioacchino di Napoli, prevedendo di non potersi a lungo sostenere sul reale suo seggio col beneplacito delle potenze alleate, pensò di muoversi con le sue schiere verso l'alta Italia, chiamando da per tutto gl'Italiani ad unirsi a lui a fine di rendere la patria independente. Oppose l'Austria imponentissime forze all'ardito tentativo del Napoleonide, il quale, vinto dagli avversarli, abbandonato da' suoi, perdette il regno, in cui fu redintegrata l'antica dinastia. Gioacchino, la notte del 19 al 20 maggio, in compagnia di Manhes generale e di qualche altro, imbarcatosi, andò in Francia, dove fu male accolto. Si risolvette allora a passare in Corsica; e quivi ebbe avviso delle condizioni sotto le quali l'imperatore Francesco gli concedeva generosamente un asilo ne' suoi Stati. Ma correndogli intorno molti fuorusciti che l'avevano servito a Napoli, egli s'imbarcò, la notte del 28 settembre, con essi ad Ajaccio, per irrompere nella Calabria. Ma il dì 13 ottobre trovò a Pizzo la morte. Intanto era, il dì 8 di agosto, caduta Gaeta, e con essa tutto il regno tornò sotto il dominio dell'antico signore, il quale, sbarcato già a Baia il dì 5 di giugno, fece in appresso il trionfale suo ingresso nella esultante Napoli. Ceduta nel congresso di Vienna l'isola dell'Elba al granduca di Toscana, le armi sue costrinsero alla resa la fortezza di Portoferraio, che ancor si teneva, e quindi dell'intera isola presero possessione il dì 6 di settembre. Napoleone, partito per l'isola di Sant'Elena il 26 luglio, vi giunse nel dì 13 ottobre seguente. Anno di CRISTO MDCCCXVI. Indizione IV. PIO VII papa 17. FRANCESCO I imperad. d'Austria 11. Due soli avvenimenti meritano di essere notati nel presente anno. Francesco d'Austria venne nei primi mesi a visitare il nuovo suo regno d'Italia, che aveva assunto il nome di Lombardo-Veneto per conoscere da sè i bisogni dei popoli, cui voleva ammessi a godere dei frutti d'una saggia amministrazione. All'ordine della Corona di ferro, già instituito sotto il precedente regno, diede l'Augusto imperatore nuovi statuti, fissando il numero dei cavalieri a cento; cioè venti della prima, trenta della seconda e cinquanta della terza classe, in tal numero non compresi i principi della casa imperiale. L'altro fatto degno di ricordanza si è la restituzione alle italiane città tutte degli oggetti d'arti e di scienze stati loro in varii tempi rapiti. I trattati ultimi di Parigi avevano obbligata la Francia a restituire una preda che senza il più grave insulto alla proprietà ed all'onor nazionale, non dovea essere fatta all'Italia. Roma, Firenze, Bologna, Venezia, Torino ebbero più delle altre a rallegrarsi dell'aver ricuperato un numero prodigioso di produzioni dell'ingegno de' loro figli, che le rendono superiori per questo conto a qualunque più ricca città del mondo. Anno di CRISTO MDCCCXVII. Indizione V. PIO VII papa 18. FRANCESCO I imperad. d'Austria 12. In mancanza di verun avvenimento politico da registrarsi in quest'anno, diremo la morte del celebre medico Eusebio Giacinto Valli di Toscana. La passione di più sapere e di rendersi utile all'umanità aveva indotto quest'uomo singolare a disastrosi viaggi per le quattro parti del mondo. Fatte in Egitto e a Costantinopoli varie sperienze sopra sè stesso relativamente al veleno pestilenziale, recossi all'Avana, ove infieriva la febbre gialla. Quivi, presa la camicia di un marinaio morto di tal malore, se ne stropicciò il volto, il petto, le mani, le braccia e le coscie, fiutandola indi come un fiore, e finalmente ponendosi a contatto del cadavere. Era molto contento della sua sperienza. A mensa si sentì spossato, per aver corso, diceva. Chiese del vino, mezzo, secondo lui, per conoscere se avesse acquistato la malattia. Manifestossi in fatti, e in tre giorni lo spense. Anno di CRISTO MDCCCXVIII. Indiz. VI. PIO VII papa 19. FRANCESCO I imperad. d'Austria 13. Un trattato, stipulato a Parigi, nel decorso anno, precisamente il dì 10 giugno, fra le corti d'Austria, di Spagna, di Francia, della Gran Bretagna, di Prussia e di Russia, e pubblicato nell'anno presente, stabilisce i futuri destini dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, che alla morte dell'arciduchessa Maria Luigia, passeranno in tutta sovranità all'infante di Spagna Maria Luisa, e sua discendenza mascolina. Anno di CRISTO MDCCCXIX. Indiz. VII. PIO VII papa 20. FRANCESCO I imperad. d'Austria 14. In mezzo alla profonda pace onde fruiva in quest'anno l'Europa, altro avvenimento non ne occorre da notare fuor quello che l'imperatore Francesco di Austria con la consorte e la figlia si recò a Milano e quivi unitosi all'altra figliuola Maria Luigia, passò nella Toscana, dove con grandiose feste lietamente lo accolse il suo fratello granduca. Anno di CRISTO MDCCCXX. Indiz. VIII. PIO VII papa 21. FRANCESCO I imperad. d'Austria 15. In molte contrade dell'Europa non lievi sciagure cagionò lo spirito esaltato dei popoli. Ogni angolo ne fu commosso, e pe' due anni successivi rimase turbata l'universale tranquillità. Nel dì primo gennaio fu dato il segnale d'allarme in Cadice, dove la forza armata promulgò la antica costituzione delle Cortes, mentre nello stesso giorno il fatto medesimo si avverava nell'isola di Cuba. In poco tempo l'incendio si apprese a tutta la Spagna, sicchè la costituzione fu nel dì 10 marzo pubblicata in nome del re anche in Madrid. Grave reazione ne venne per parte dei così detti assolutisti; e ad egual sorte soggiacque il Portogallo che avea imitato l'esempio della nazione vicina. Ma in un'altra estremità d'Europa manifestossi col massimo calore il genio costituzionale: nel regno di Napoli. La notte del primo al 2 del mese di luglio, la maggior parte del reggimento di cavalleria Reale Borbone, di presidio a Nola, abbandonate le stanze, inalberò una bandiera tricolore su cui leggevasi scritto: _Viva la costituzione_. Imitarono il fatto le provincie vicine, non tanto per parte delle truppe regolari, quanto delle milizie. Giunte di ciò le nuove a Napoli, furono subito spediti in varie direzioni corpi di truppe capitanate dai generali Carascosa e Nunziante; ma intanto molte squadre di paesani, armati in varie guise, eransi alleate coi costituzionali, e le stesse truppe reali, unitesi alle altre, eressero nuovo vessillo col moto: _Viva il re, viva la costituzione_, e coi tre colori adottati dalla setta dei carbonari. Manifestandosi in appresso disposizioni consimili anche in altri reggimenti, il re Ferdinando stimò prudenza il pubblicare, nel dì 6, una grida, diretta agli abitanti del regno delle Due Sicilie, nella quale annunziava, sarebbesi sollecitamente pubblicate le basi della nuova costituzione. Trionfo tale fu preludio di colpo più decisivo: pubblicarono la costituzione spagnuola, alla quale, nel giorno 13 prestò giuramento il re, unitamente al duca di Calabria, vicario generale ed erede della corona, al principe di Salerno, alla giunta provvisionale, ai ministri, ai pubblici impiegati ed alle truppe. Dichiarata legge dello Stato, parve che l'espediente avesse reso la calma a quella parte meridionale dell'Italia. Già sino dal giorno 7 avea Ferdinando, atteso lo stato di sua salute, eletto a suo vicario generale il principe ereditario, il quale, assuntosi il carico, scese ad appagare i voti della nazione, confermando la costituzione di Spagna, salvo le modificazioni che la rappresentanza nazionale avesse trovato d'introdurre per adattarla alle circostanze locali. Le faville dell'incendio propagavansi in Sicilia, la quale mirava a svincolarsi dalla soggezione a Napoli. Pertanto, il 16 di luglio, gli ammutinati in Palermo, commessi molti disordini, s'impadronirono dell'arsenale, armandosi quindi in massa. Ne sorse una mischia sanguinosa colle truppe del presidio composto di quattro in cinque mila soldati. Ma nel giorno seguente, facendo i campagnuoli causa comune co' Palermitani, i regi rimasero vinti, mentre dalle finestre i cittadini gli opprimevano, gettando loro addosso olio ed acqua bollente, pietre, e qualunque cosa lor giungesse alle mani. Quattro mila vittime caddero in questo fatto, per imperizia e imprevidenza del luogotenente generale Naselli. Molti edifizii, in ispecie gli archivi e le carceri, furono preda delle fiamme. Naselli si salvò sulla reale feluca il Tartaro, di dove elesse una giunta provvisionale ad essa, con una grida del 17 luglio, commettendo il governo dell'isola. Come pervenne la molesta notizia a Napoli, il duca di Calabria, nella sua qualità di vicario generale del regno, imprese con gli scritti e con l'armi a sedare la insurrezione, mandando in Sicilia il generale Florestano Pepe, al quale, dopo grave e micidiale combattere, riuscì, giovato dal potere del principe di Paternò sul cuore del popolo palermitano, a stabilire, nel dì 5 ottobre, che le truppe napolitane occupassero i forti, ed il dì 6 prendessero posto al Molo ed intorno alla città. Contuttociò il popolo di Palermo spiegava la sua inquietudine e l'odio contro gli occupatori. Il generale in capo, d'accordo con la giunta, potè a poco a poco ridurre tutti i male intenzionati al dovere, e avendo riconosciuto essere la popolare sommossa stata tutta prodotta da non pochi oligarchi, che il napolitano freno disdegnavano, procedette a disarmare i meno inquieti, ad arrestare i facinorosi, e quindi a costringere i più fervidi che, trovandosi isolati, si consigliarono a deporre le armi; e con tal modo fu resa la pace all'isola che per molto tempo rammenterà questa breve sì, ma funestissima insurrezione. Contemporaneamente anche i Beneventani si ardirono di seguire l'esempio dei confinanti: ma il governo di Napoli ordinò espressamente ai popoli tutti di non prestare aiuto nè diretto nè indiretto a quella popolazione, non volendo dare motivo di doglianze alla Santa Sede, in cui potestà era Benevento tornata. Il parlamento di Napoli in questo mentre teneva sue sessioni, e spendeva il tempo a cambiare i nomi alle provincie del regno, quelli volendo repristinare che portavano i loro abitatori al tempo della repubblica romana. Non pensavano che le principali potenze non avrebbero permesso che si dicesse che una nazione in Italia avea imposto al suo re una costituzione. Infatti, congregatosi a Tropau un congresso di ministri, ivi giunsero, nei primi giorni di novembre, gl'imperadori d'Austria e di Russia ed il re di Prussia per meglio discutere le cose di Napoli. L'imperadore Francesco d'Austria scrisse al re di Napoli, sul finire del mese stesso, una lettera, con la quale non solo gli dava contezza che il congresso si sarebbe trasferito a Lubiana, ma lo invitava, a nome ancora degli altri potenti ed illustri suoi alleati, e recarvisi in persona, per trattare degl'interessi più cari del suo regno. Partì di Napoli il re il 13 di dicembre sul vascello inglese il Vendicatore, e giunse a Lubiana il 14 del successivo gennaio, avendo già manifestato, con sue lettere da Livorno, ai sovrani riuniti in congresso ed a quei di Francia ed Inghilterra i proprii sentimenti sopra gli avvenimenti del napolitano regno. È notabile il presente anno per l'eccessivo freddo che al suo terminare regnò in tutta Europa; e più ancora per la morte di Giorgio III, re d'Inghilterra, accaduta il dì 30 gennaio, e per l'assassinio del duca di Berry commesso la notte del 13 al 14 febbraio dal sellaio Luigi Pietro Louvel. Anno di CRISTO MDCCCXXI. Indizione IX. PIO VII papa 22. FRANCESCO I imperad. d'Austria 16. Quantunque numerose forze fossero dalla Germania calate in Italia per essere pronte ad eseguire quanto sarebbesi dai sovrani accolti in congresso a Lubiana risoluto, s'accrebbero nella penisola le turbolenze. Decretavasi nella lubianese adunanza, numerosissima, poichè, oltre ai monarchi già ricordati, tutti i principi d'Italia vi si fecero rappresentare ed il duca di Modena vi assistette in persona, di porre un termine al germe costituzionale di Napoli, per togliere agli altri popoli l'esempio di costringere i sovrani a pattuire con essi. Ma il governo di quella meridional parte d'Italia, preseduto dal principe ereditario e vicario generale del re, poneasi in istato di difesa, e minacciava di resistere a qualunque forza straniera che si fosse presentata per distruggere l'opera che da essi medesimi si fondava sopra non troppo solide basi, giacchè nulla di giovevole alla nazione vi faceva quel partenopeo parlamento. Fatte intanto palesi le risoluzioni delle potenze alleate, numeroso esercito austriaco varcava il Po, e per varie strade si dirigeva alla volta di Napoli, sotto il comando del feld-maresciallo Frimont. Con grande circospezione marciavano le falangi, mentre una sorda voce annunziava che, appena avessero attaccato i Napolitani, una pressochè generale sollevazione in Italia, e specialmente negli Stati papali e nel Piemonte, le avrebbe condotte a certa rovina. Il generale Frimont, con suo manifesto dotato da Padova, fece conoscere per tutto ove passava quali fosser le mire della sua spedizione. Una lettera del re di Napoli, diretta a suo figlio reggente del regno, e fatta pubblica, avvisò i Napolitani del quanto avessero a temere, se non si rimettevano ciecamente nelle braccia del loro monarca, arrendendosi alle forze tedesche. In una dichiarazione mandata fuori da Lubiana, e resa pubblica in tutti i possibili modi, eransi espressi gli alleati sovrani che «se, contro ogni calcolo ed a grave rammarico dei monarchi alleati, questa bene intenzionata impresa, lontana da qualunque mira ostile, avesse a degenerare in una guerra formale, o la resistenza d'una implacabile fazione e delle compassionevoli vittime della sua frenesia venisse prolungata per un tempo indeterminato, allora sua maestà l'imperadore di Russia, inalterabilmente fedele a' suoi alti principii, alla sua intima convinzione della necessità di reprimere male sì grande, fedele a que' nobili e costanti sentimenti di amicizia di cui ha dato nuovamente tante inestimabili ripruove, associerà i suoi combattenti a quelli dell'Austria.» O fosse il timore di vedersi piombare addosso la mole armata de' due imperii, o che l'editto del re Ferdinando e le grida del generale austriaco, che avevano già circolato pel regno, avessero diviso gli animi e tolto il coraggio, o qual si voglia altra causa, forse propria dall'incostante carattere di quella popolazione, che sel facesse, piccola fu la resistenza che nel giorno 7 di marzo e ne' tre successivi presentarono le truppe napolitane comandate dal generale Guglielmo Pepe, meno ancor delle milizie, le quali, sole pugnarono; ma, vedutesi abbandonate dai soldati stanziali, si dettero a vergognosa fuga. In quei tre giorni gli Austriaci superarono le gole d'Antrodoco, si resero padroni degli Abbruzzi e della strada che dall'Aquila conduce a Sulmona, e quindi a Napoli. Inoperoso era stato il general Carascosa, mentre la destra dell'esercito era alle prese con gl'imperiali; laonde la truppa più disciplinata, più agguerrita, e quella che chiamavasi scelta, tutta sotto gli ordini di lui, nemmeno si mosse dalle sue stanze. Adunatosi, alla novella di tali fatti, il parlamento nel giorno 12, si deliberò a pregare il duca di Calabria, vicario generale del regno, di spedire un messaggio al re, per presentare in suo nome, un atto di rispetto e di sommissione al monarca. Infatti, fu a tanto uffizio mandato il generale Fardella a Firenze, ove sino dal 9 marzo era giunto da Lubiana il re Ferdinando. Era Ferdinando a fatto di quanto accadeva, ed avea avuto notizia e dei progressi degli Austriaci e della seguita occupazione di Capua. Accolto pertanto il generale Fardella, lo rispediva a Napoli con sue lettere al principe reggente, nelle quali rimproverava gli autori della resistenza e della violazione del territorio papale, dov'eransi dalle truppe del generale Pepe cominciate le ostilità. Ma mentre giungeva, era il 24 marzo, l'esercito austriaco entrava per convenzione in Napoli, e metteasi in possesso di tutti i forti. Fu il principe di Salerno che volò a recare la felice novella al re suo padre, il quale già aveva antecipatamente chiamato un governo provvisionale che sino a nuova sua disposizione assumesse la cura delle cose del regno. Così restò sciolto il parlamento, incarcerati tutti i membri che lo componevano. Un editto fulminante pubblicava in Napoli contro i settarii, a nome del re, il marchese di Circello, presidente del provvisional governo, col quale, innumerevoli essendo i proscritti, molti si diedero alla fuga, e furono in contumacia condannati allo ultimo supplizio, ed altri vi soggiacquero in fatto, mentre altri ancora od erano puniti di esilio o di galera o di prigione: promessi, per ordine del tribunale di polizia, mille ducati a chiunque avesse arrestato uno dei designati quali autori principali della rivoluzione. Il dì 26 marzo anco la piazza di Gaeta si arrese agli Austriaci, essendo stato il comandante Begani minacciato d'essere trattato da ribelle in una co' suoi soldati, ove non cedesse la fortezza. Questo infausto moto produsse adunque al napolitano popolo soltanto spese enormi, proscrizioni e morti ignominiose. Il generale Pepe potè sottrarsi a tanti guai, perchè il principe reggente, che l'aveva in particolare affezione, lo fece allontanare dal regno. Il re Ferdinando, rientrando nella sua capitale il dì 15 maggio, vi fu ricevuto tra le acclamazioni d'una popolazione solita a festeggiar l'ingresso di tutti coloro che destinati sono dalla Provvidenza a governarla, e con sua notificazione si espresse di voler riformare gli abusi e purificare tutti i dicasteri, perchè più non avesse nutrimento l'idra rivoluzionaria. Infatti, molti e molti furono i generali ed ufficiali dimessi, non pochi gli arrestati, ed in tutti i dipartimenti non vedevansi che riforme, mutazioni e dimissioni. Ma la Sicilia non avea dimostrato quella sommissione che gli stati di qua del Faro, sì nel tempo del regime costituzionale e sì quando presentaronsi gli Austriaci per entrare nel regno. I due partiti erano sempre in fermento e fu d'uopo d'un grosso numero di soldatesche forastiere, le quali, unite ai regi, poterono ricondurvi l'ordine. È bensì vero che in quella isola minore fu la ricerca che si fece dei perturbatori dell'ordine pubblico e dei fautori della costituzione, onde più presto sedaronsi gli animi e più presto obbedienti si piegarono agli ordini del comandante austriaco e de' regi magistrati. Una convenzione fu finalmente conchiusa fra sua maestà l'imperadore d'Austria e il re delle Due Sicilie, nel dì 18 ottobre, e ratificata l'8 del gennaio susseguente nella quale, a ristabilimento dell'ordine in tutto il regno, stipulavasi che un esercito austriaco in esso stanzierebbe sino alla totale pacificazione e al riordinamento delle cose, a tutto carico e spesa del napolitano erario. Contemporaneamente ai primi passi sui confini napolitani, una sommossa scoppiava, per parte delle truppe, nel Piemonte, e segnatamente in Alessandria, nel dì 8 marzo. Questa voglia di novità si diffuse anco in parte nella guernigione di Torino ed in altri reggimenti sparsi in varie città degli Stati Sardi. Gli studenti, i quali, per avere sino dal dì 11 di gennaio resistito alla truppa in un conflitto nel quale erano rimasti feriti diciotto loro compagni, aveano avuto severo gastigo, si unirono ai rivoltosi, e l'esempio loro fu da molta gioventù seguitato, facendo per ogni dove udire le grida di _viva la costituzione_. Tutti coloro che per delitti politici erano stati in varie parti del regno, pochi giorni prima arrestati e tradotti nelle carceri di Torino, furono posti in libertà. Il re Vittorio Emmanuele, dal cui animo non era mai uscito il divisamento di sottrarsi alle gravi cure dello Stato, dopo lungo consiglio, per non mancare agl'impegni contratti con le alte potenze nel congresso di Vienna e di Tropau, creò reggente del regno il principe di Carignano, che pubblicò un editto, annunziando i poteri conferitigli dal re e l'abdicazione di lui al trono in favore del fratello Carlo Felice, il quale da Modena, ove in quel mentre si trovava, notificò ai popoli del regno, avere lui assunto l'esercizio della regia podestà, e non riconoscere allora nè mai cambiamento alcuno nella forma del reggimento. Nel dì 14 fu promulgato l'atto, e la formula del principe reggente relativa a tale promulgazione terminava con le parole: _Giuro altresì di esser fedele al re Carlo Felice_. A Genova intanto l'ordine pubblico non era stato alterato; ma il dì 21 di marzo, avendo quel governatore pubblicato la dichiarazione del nuovo re Carlo Felice, la popolazione, siccome quella che portava opinione doversi anche in Genova promulgare la costituzione, cominciò a dubitare della veracità del documento, e ad avere per equivoche le espressioni del governatore relative al principe, che suonavano di questo tenore: «S. A. S. il principe di Carignano mi ha fatto conoscere che, mosso dai sentimenti di onore e fedeltà che lo distinguono, si è pienamente confermato a quanto nella prelodata dichiarazione viene ingiunto.» Formaronsi pertanto degli attruppamenti che si diressero al palazzo del governatore. Accolse egli alcuni dei capi, cercò calmarli, ma non rimasero paghi. Verso sera crebbe il tumulto, e disarmati alcuni corpi di guardia, con quelle armi la folla s'avviò a Banchi. Intanto i posti principali erano stati occupati dai soldati, e collocati sulle mura due cannoni, a dominio di tutta la strada verso Banchi, ove sorgeva appunto il palazzo del governatore. L'attitudine delle truppe e due sole cannonate a polvere poterono disperdere gli ammutinati, e la notte passò tranquilla. Ma la mattina appresso due colpi a scaglia tirati, non si sa come nè perchè, dal medesimo posto militare, ferirono due soldati sotto la loggia e due altri individui; del che esacerbaronsi molto gli animi, e fin dall'alba del dì 23 udivansi dappertutto alti gridori, accresciuti dalla sparsa voce che il governatore se ne fosse la notte fuggito, il che non era. Le cose correvano a questo modo quando le nuove di Torino mutarono la scena. Sorse una confusione orribile. Fu creduto che l'editto del governatore non fosse leale; i nemici di lui avvaloravano il sospetto; molti del popolo si unirono agli stanziali che aveano abbandonato i posti e le caserme: la moltitudine entrò nel palazzo, e impadronitasi del governatore, avrebbe su d'esso sfogato l'odio antico se il generale d'Ison e alcuni altri, accorrendo in suo aiuto, non l'avessero di colà sottratto per condurlo in sicuro nel palazzo ducale. Se non che per istrada si svenne, ed allora trasportato in casa Sciaccaluga in Campetto, emanò poco stante un decreto col quale eleggeva una commissione di governo conferendole irrevocabilmente tutti quei poteri che erano in lui, e così rimase alquanto calmata la città. Continuavano i rumori insurrezionali in Torino. A Novara, Voghera, Vercelli ed Alessandria, le truppe discordi erano sempre in procinto di venire tra loro alle mani. La discordia si propagava tra i liberali; e molti affezionati alla causa regia, abbandonavano il Piemonte. Ma l'esito delle cose di Napoli disanimò i capi del partito, i quali da altro canto vedevansi vicini ad essere attaccati dai Tedeschi comandati dal generale Bubna, che s'era fatto precedere da una grida onde i liberali si erano vieppiù costernati. Raffreddossi l'ardore che aveva il primo moto inspirato nel petto degli amatori della novità, e il seducente e lusinghiero manifesto del conte di Santa Rosa valse a mantenere il coraggio in chi già si consideravo esposto a tutte le forze austriache, stante la sommissione totale del regno di Napoli. Infatti, il conte di Bubna, informato che gl'insorti soldati piemontesi movevansi verso Novara contro quelli che, rimasti fedeli al re, militavano sotto il generale La Torre, si deliberò a prestare a questo capitano il suo aiuto. Laonde, varcato, la notte del 7 all'8 di aprile, il Ticino, e fatta promulgare la grida che dicemmo, il dì 8 la vanguardia tedesca già era dinanzi a Novara. Nel mezzo tempo, vedendo il principe Carlo Alberto le proteste del duca del Genovese e la parte attiva che in quelle faccende prendeva il gabinetto austriaco, notificò in uno suo editto che rinunziava alla reggenza, e abbandonando l'esercito si ritirò in Toscana, ove poco stante si riparò anche la sua consorte, figlia di quel granduca. Allora l'esercito si elesse a capo il marchese di Caraglio, e senza lasciarsi abbattere, si dispose a resistere agl'imperiali. Ostinato fu il combattimento dato dentro la stessa Novara; ma i rivoltosi furono costretti a cedere, inseguiti sino a Vercelli. Questo esercito, che ne' giorni antecedenti ogni ora più ingrossava, ed era venuto da Torino per indurre i dissenzienti a fare con esso causa comune, da che si sentì privo di valido appoggio, andò del continuo scemando, sì che si ridusse al breve numero di cinque mila soldati. Si mosse il generale Ansaldi, che comandava in Alessandria, con parte dei suoi in soccorso di Novara; ma fu costretto a rimanersi, perchè minacciato da una forte colonna austriaca, e che da Piacenza marciava a Voghera e Tortona; e quindi udita la perdita dei compagni a Novara, e considerando che quantunque la piazza d'Alessandria ben provveduta fosse di ogni sorta di munizioni e capace di resistere a lungo assedio, pure poteva alla fine priva di soccorsi trovarsi al caso di rimaner vittima con tutti i suoi seguaci, senza utile del suo partito che sino da quel momento potea dirsi annichilato; con trecento studenti, alquanti soldati e dragoni, il conte di San Marzan, il conte Santa Rosa, e molti uffiziali, si diresse verso Genova, dov'ebbe coi suoi seguaci tutto lo agio d'imbarcarsi per le coste di Spagna, stante la premura del colonnello Rapello della guardia nazionale genovese, cui erano stati perciò dati ordini segreti. Con tale evasione, il dì 11 aprile, fu restituita la tranquillità a quelle contrade ancora. Calmate le cose, il duca del Genovese Carlo Felice, previa rinunzia del suo regio fratello, assunse il titolo di re e lo esercizio della potestà suprema. Nel dì 4 di giugno andò ad abboccarsi in Lucca con esso suo fratello Vittorio, ivi pur ricevendo le chiavi della città di Alessandria cadute in potere delle armi austriache, e per ordine dell'imperadore Francesco consegnategli dal generale conte di Bubna. È noto che il già re Vittorio Emmanuele pregò il suo successore a non usar il rigore contro i complici della rivolta, volendo considerare cotale sommossa più come un resultato delle idee del giorno che di mal animo verso il legittimo sovrano. Pochi adunque furono quelli che soggiacquero alla morte. Terminarono finalmente tutte cotali vicissitudini del regno di Sardegna con una convenzione sottoscritta in Novara il 24 luglio dai plenipotenziarii piemontesi ed austriaci e con la quale venne in sostanza fermato: che un corpo austriaco di dodici mila uomini, e sotto la guarentigia delle alte potenze, rimarrebbe a disposizione di sua maestà sarda per mantenere, di concerto con le proprie truppe, la tranquillità interna del regno; corpo da poter essere aumentato ad ogni richiesta della sua maestà: occuperebbe esso corpo la linea militare di Stradella, Voghera, Tortona, Alessandria, Valenza, Casale e Vercelli. In Toscana seguivano, il dì 7 di aprile, gli sponsali tra il granduca Ferdinando e la principessa Maria Ferdinanda di Sassonia, con giubilo di quei popoli, i quali nel loro monarca ammiravano il padre e l'ottimo principe, al loro unanime grido facendo eco i profughi napolitani, romani e piemontesi, che sotto l'egida delle leggi di lui trovavano asilo e protezione, essendo che negli Stati per lui governati ricoverò di essi il massimo numero. Il dì 5 maggio morì a Sant'Elena Napoleone Bonaparte. Anno di CRISTO MDCCCXXII. Indizione X. PIO VII papa 23. FRANCESCO I imperad. d'Austria 17. Gli Stati di Napoli di qua dal Faro, o fosse la presenza di numerosi presidii tedeschi, o la vigilanza della polizia, che senza posa preveniva tutte le combriccole che di soppiatto si tenevano, godevano d'una quiete da molto tempo insolita. I masnadieri e gli assassini del continuo perseguitati e senza remissione puniti. Ma così non era in Sicilia, ove le opinioni continuavano ad essere in guerra fra loro, e le falangi alemanne potevano a stento reprimere nelle vicinanze delle città popolose il brigantaggio. Frequenti erano gli assassinii e gli omicidii: le carceri rigurgitavano di sospetti, di rei e di prevenuti. Fecersi le vendette private quasi più che altrove sentire, e fu d'uopo a' magistrati d'una fermezza particolare per giungere nel corso dell'anno a rendere la pace alle famiglie, la quiete a' cittadini, la sicurezza ai viandanti. La condizione critica nella quale da molto tempo trovavasi la Spagna, consigliò i monarchi ad unirsi in congresso a Verona, dove convennero gl'imperatori d'Austria e di Russia, i re di Prussia e delle Due Sicilie, il re e la regina di Sardegna, il granduca di Toscana con suo figlio, la duchessa di Parma, il duca di Modena ed il principe reale di Svezia, le altre potenze mandato avendo i loro plenipotenziarii. Le risoluzioni di questo congresso non solamente furono notificate all'Europa con una circolare dei monarchi alleati diretta a tutte le loro rispettive legazioni e rese pubbliche, ma ben anche portate ad esecuzione con la guerra nell'anno dopo fatta alla Spagna. Per quelle conferenze maggiore concordia risultò tra le alte potenze unite nella sacra alleanza, e tutte le loro misure furono più specialmente dirette a sopire ogni germe di novità negli ordini di pubblico reggimento, e viemmaggiormente solidare il principio della legittimità nei troni. Il dì 13 ottobre morì a Venezia Antonio Canova. E qui, alla morte di questo sommo ingegno, onor delle arti belle e del suolo natio, qui in mezzo alla profonda pace e tranquillità dell'Italia deponiamo la penna per non ripigliarla mai più in trattazioni tanto superiori alle nostre forze, e nelle quali solo una eccessiva condiscendenza ci ha impegnato. FINE DEGLI ANNALI. NOTE: [1] Non so per quale svista l'egregio Botta faccia da Giuseppe II vedere il Tanucci morto otto mesi prima che il principe austriaco si fosse recato a Napoli: forse fu per desiderio di lui. [2] Musica _tedesca_ suol dirsi quella nella quale predomina l'armonia alla melodia, quest'ultima invece signoreggiando nella musica che diciamo _italiana_. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Annali d'Italia, vol. 8 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.