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Title: Annali d'Italia, vol. 8 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 Author: Coppi, Antonio, Muratori, Lodovico Antonio Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. Copyright Status: Not copyrighted in the United States. If you live elsewhere check the laws of your country before downloading this ebook. See comments about copyright issues at end of book. *** Start of this Doctrine Publishing Corporation Digital Book "Annali d'Italia, vol. 8 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750" *** This book is indexed by ISYS Web Indexing system to allow the reader find any word or number within the document. ANNALI D'ITALIA DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE SINO ALL'ANNO 1750 _COMPILATI_ DA L. ANTONIO MURATORI E CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI _Quinta Edizione Veneta_ VOLUME OTTAVO VENEZIA DALL'I. R. PRIVILEGIATO STAB. NAZIONALE DI GIUSEPPE ANTONELLI ED. 1847 CONTINUAZIONE AGLI ANNALI D'ITALIA DI LOD. ANT. MURATORI Chiunque abbia letto sin qui gli Annali d'Italia compilati da Lodovico Antonio Muratori avrà veduto quale immensa tela sia venuto intessendo l'illustre autore per discorrere l'italiana istoria di questi dieciotto secoli, senza che dalla necessità di balzare ogni anno da un punto all'altro della penisola sia derivato al suo lavoro interrompimento o disordine; ed avrà insieme ammirato in che giudizioso modo sia egli riuscito a mettere in tutto il loro lume i veri motivi che preparato hanno i più notabili cambiamenti e le conseguenze che gli accompagnarono; a fissare i luoghi e i tempi precisi che sono stati il teatro, o l'epoca degli innumerevoli avvenimenti narrati; a disgombrare ogni incertezza dall'ignoranza, dalla malizia, dalla inavvertenza o precipitazione degli antichi scrittori passata negli scrittori susseguenti; a sceverare dalle favole la verità; a rendere la dovuta giustizia a quei personaggi che le passioni aveano indebitamente o encomiati o biasimati, e, se dato non era raggiugnere la certezza, ad accennarne almeno ciò che più alla probabilità ed alla verisimiglianza si atteneva; ad interessare infine i lettori con un quadro svariatissimo in cui i trionfi o i danni della virtù contrastano colle alternate vicende del vizio, talvolta fortunato, ma quasi sempre punito o almeno smascherato e fatto segno al dispregio ed all'odio universale. Spesa la maggior parte della vita a scorrere il vasto campo della erudizione, indagando, discutendo ed illustrando le antichità dell'Italia, il Bibliotecario modonese, divenuto per tal guisa possessore d'immensi tesori, o sconosciuti o generalmente poco noti, si aprì la strada alla grande impresa, cui il fino suo discernimento giovò ad appianare e ad imprimere di quella profonda ragione storica che spicca in tutti gli altri suoi scritti. Esattezza somma e precisione riguardo ai luoghi, ai tempi ed alle cose accadute principalmente dal cominciare del quinto secolo sino al principio del decimosesto; sagacità e gran fondo di sana critica per determinare la vera cronologia, nè ammettere ciecamente il maraviglioso d'una fantasia riscaldata, nè i pravi giudizii della malignità o i delirii d'una puerile superstizione; esposizione sincera delle più strepitose rivoluzioni, se pur non abbia a dirsi delle calamità dell'Italia, purificata da quella tinta bugiarda che il genio, il partito, il timore o la speranza, la disperazione o il dolore aveano consigliato agli scrittori contemporanei; ecco il frutto delle estesissime cognizioni in fatto di storia acquistate coi diuturni suoi studii dal nostro Muratori, il quale, non taciuti i vizii ed i difetti, ma nè anche per avventura le virtù degli Attila, degli Alarico, degli Odoacre, degli Alboino, de' due Pippino, dei Carlo Magno, narra poi con ordine, con chiarezza e con tutta la imparzialità le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, i travagli dei romani pontefici, le intestine discordie delle città, le mutazioni dei reggimenti, le rivalità delle provincie ed il contendere dei varii popoli, i fasti e le sciagure di questa, bella e troppo sventurata parte dell'Europa. Se non che, ad esercitare le precipue virtù dello storico, il proprio giudizio e la sincerità, grandemente libero campo gli lasciava la lontananza dei tempi dei quali tenea parola; laonde potea rendere omaggio al merito, al valore ed alla virtù senza che nissuna gelosia si accendesse, e giustamente notare d'infamia il demerito, la viltà ed il vizio senza tema di dispiacere ad alcuno. Imperocchè, estinti interamente o in molto gl'interessi del momento, raffreddato lo spirito di parte, cessate le nemicizie e le rivalità, ed in tutto o parzialmente sanate le piaghe ad una nazione cagionate da disgrazie e da politici o guerrieri flagelli, può lo scrittore farsi sicuro di non incorrere sì di leggieri la taccia di maligno, di bugiardo, di adulatore, d'entusiasta, e sottrarre si può al pericolo di essere male interpretato, come se la sua fantasia preoccupata gli avesse fatto invadere il dominio della fredda ragione, o se il preteso suo zelo animato si fosse con danno di qualche altra passione. Ma ben altramente procede la bisogna per chi imprenda a parlare di cose correnti e vicine: non v'ha cautela che basti. Sia pure e debba pur essere la verità l'anima dello storico, debba pur tutto subordinarsi alla sua legge, ognuno però conviene che grande riservatezza è mestieri nel maneggiare questa verità della storia che ignuda non può sempre comparire mentre ancor durano e sono in fermento gl'interessi ed i partiti, gli odii e gli affetti degli uomini, le cui azioni formano il tema della narrazione, e, peggio ancora, mentre questi uomini vivono non solo, ma eziandio tengono in mano la forza ed il potere. Così il Muratori, allorchè, proseguendo la continuazione de' suoi Annali dopo il secolo XV, giunse a descrivere le cose d'Italia avvenute dopo il XVII secolo, tenne quel giusto mezzo che a saggio scrittore conviensi, per non sagrificare la verità nè sè stesso; riferendo esattamente i fatti de' quali era stato in qualche modo il testimonio e spettatore, ma rado pronunziando suo giudizio assoluto e positivo, se pur non faceasi interprete ed araldo del sentimento universale. E così dovrà adoperare chi prende ad annodare le ultime fila del suo lavoro, protraendole fino a' giorni nostri, tempi quant'altri mai, spezialmente per un periodo intermedio di circa vent'anni, pieni di maravigliose vicissitudini, pur troppo funeste all'Italia, e tali che qualunque sia il nostro proponimento, qualunque la pacatezza dell'animo nostro, forse non sarà sempre possibile non uscire in piuttosto concitate che gravi parole. Ad ogni modo, narreremo ogni cosa, e narreremo senza amore e senz'ira, procacciandoci di mantenere quel coraggioso sangue freddo che non ci farà mai sagrificare la verità alle preoccupazioni, l'imparzialità ai lamenti ed ai motteggi degli appassionati e dei malevoli. Niuno però voglia istituir un confronto tra il classico autore, al cui lavoro apponiamo queste continuazioni, e noi. Senza l'ingegno, altissimo in lui, in noi molto modesto, differentissime sono le condizioni ed i tempi. Mancava, o almeno scarseggiava il Muratori di memorie e documenti, e dovea trar fuori il suo racconto per la maggior parte dalla polvere delle biblioteche e degli archivii; abbonda adesso strabocchevolmente la suppellettile, ed eccede le forze dell'uomo il tutte librarne le parti sopra giusta lance, per discernere, nella frequentissima loro contraddizione, nel vario atteggiamento, nel diverso procedere, il vero dal falso, e far capitale di quello, questo rigettando. I tempi remoti si lasciavano esaminare, ponderare quetamente; i vicini tempi non consentono tutta calma; strascinano seco impetuosi chi si pone a descriverli, nè lasciano quella libertà di esporre, di giudicare, di sentenziare che avrebbe chi i fatti raccontasse dell'antica Grecia o di Roma, ai quali ciascheduno presta quella parte di compassione che alle vicende de' suoi simili generalmente concede, non quell'altra intimamente sentita, profonda, prepotente, che nelle cose proprie forzatamente, necessariamente, avvien che riponga. Per le quali considerazioni tutte, bandito il paragone che dicevamo, ne conforta la coscienza di aver fatto il meglio che per noi si potesse, nei ristretti limiti che pur ci vengono prefissi. ANNALI D'ITALIA DALL'ANNO 1750 FINO AI GIORNI NOSTRI Anno di CRISTO MDCCL. Indiz. XIII. BENEDETTO XIV papa 11. FRANCESCO I imperadore 6. Narrata dall'illustre Muratori, alla fine dell'immortale opera sua, la pace anche all'Italia donata col famoso trattato d'Aquisgrana del 1748, posto in esecuzione nell'anno susseguente in una colle condizioni convenute nel congresso di Nizza nello stesso anno concluso; ed esposto dal lodato autore la situazione in cui, al cadere del 1749, veniva per ciò a trovarsi l'Italia; si può da questo punto incominciare la nuova carriera per vedere le varie perturbazioni, benchè minime e quasi innocenti, che ne avvennero in appresso, finchè poi verso la fine del secolo scorso ed al principio del presente fu tutta sconvolta e trasformata. Ripigliando pertanto il filo della narrazione, ci faremo da Roma e dalle circostanze del presente anno 1750, ch'era l'anno santo. Aperta con le consuete cerimonie auguste nel tempio di San Pietro quella porta che per venticinque anni era stata chiusa, esultavano i fedeli come se si fosse ad essi in certo modo spalancata quella del cielo. In ogni ora di qualunque giorno vedevasi lo spettacolo d'un popolo infinito che, od unito in compagnie, o separatamente, procedeva alla visita delle aperte basiliche; ma lo spettacolo che più d'ogni altro edificava era appunto Benedetto XIV. Quei pellegrini e quei forastieri quasi innumerabili che a Roma concorsero in tale occasione, verificate cogli occhi proprii le mirabili cose che nei loro paesi aveano udito a raccontare della sua pietà, della virtù sua e dell'immensa sua dottrina, tenevano quello stesso linguaggio che in lontanissimi tempi tenne di Salomone la regina Saba. Il pontefice, in età più che settuagenaria, in mezzo alle infinite bisogna e cure dello Stato e della religione, attendeva a tutte le solenni funzioni ordinarie e alle altre colle quali bramava di dare maggiore risalto al suo giubileo. Ma tanta sua ed altrui compiacenza fu in gran parte amareggiata da un'inaspettata disgrazia, accaduta in Roma nel termine dell'anno stesso. Per le dirotte pioggie continuate ingrossato il Tevere, uscì dal letto con furore eguale a quello onde avea traripato ai tempi d'Augusto, cagionando un'orribile innondazione non solo nelle vicine campagne, dove in alcuni punti coverse fino le cime degli alberi, ma in molte principali contrade della città, nelle quali non si potea praticare se non con barchette. Nell'universale spavento e nella terribile calamità non mancò il governo di apprestare le più opportune provvidenze, e di far eseguire tutto ciò che potea ridondare in vantaggio del pubblico; e Benedetto, con tenerissimo paterno affetto, gemendo per quelli che le acque impedivano di uscire a procacciarsi il vitto, ordinò che per mezzo di barche fosse ad essi gratuitamente somministrato il bisognevole. Ed a viemmaggiormente funestare l'animo del pontefice, altre disgrazie amare si aggiunsero. Una pretesa di violazione dei privilegii e diritti della chiesa e del seminario di San Giacomo degli Spagnuoli avea messo in aperto disgusto la corte di Spagna con quella di Roma. Volea il re di Sardegna che nella promozione de' cardinali fosse inchiuso monsignor Merlini, nunzio alla sua corte, e che colla vendita delle più ricche badie del Piemonte fosse formato un appannaggio al duca di Savoia, a similitudine dell'infante don Luigi di Spagna. Faceva grande rumore nell'imperio, tra' principi della casa di Hohenlohe, il ristabilimento di certi consistori e ministri luterani nelle incumbenze dalle quali avea il conte cattolico di Hohenlohe trovato il modo di spogliarsi; e tutti i nunzii pontifizii nelle corti di Germania, considerando questo dissidio di gran rilievo per la religione e per la corte di Roma, ne aveano dato parte al papa. Una fiera persecuzione dei cristiani alla China, rinovando contro i medesimi i più rigorosi editti di sangue, e della quale rimasti erano vittime generose quattro Domenicani, oltre al vescovo di Mauricastro, facea giustamente temere non in quelle contrade si risvegliasse contro i fedeli un odio simile a quello che un secolo prima gli avea percossi al Giapone. Ma tra tutte le perturbazioni che toccavano l'animo del pontefice, quella che diede maggiormente allora a parlare fu la disputa insorta tra la repubblica di Venezia e la casa d'Austria pel patriarcato d'Aquileia. Aquileia rispettata e famosa al tempo di Augusto e degli altri imperadori romani; Aquileia considerata, dopo Roma, la prima città d'Italia, barbaramente disfatta da Attila, distruttore di tante altre città e provincie d'Europa, seppellendo sotto le sue rovine l'antica sua magnificenza, trovossi in quella catastrofe al punto di vedervi sepolto anche il nome. Se non soggiacque, ne andò debitrice al per altro funesto scisma dell'Istria, pel quale, sospesa i vescovi di quella provincia ogni comunicazione colle quattro antiche sedi patriarcali, conferirono essi diritto e nome di patriarca al loro metropolitano, ch'era appunto il vescovo di Aquileia, ed il quale, estinto lo scisma, pur ritenne il conferitogli titolo, e fu da Leone VIII, Giovanni XX ed Alessandro II considerato primo metropolitano di tutta l'Italia, come tenutone universalmente per il prelato più ricco. Divenuti poscia i patriarchi d'Aquileia anche principi temporali per donazioni lor fatte dai re longobardi, da Carlo Magno, dagl'imperadori franzesi e tedeschi, pensarono a ristabilire l'antico splendore dell'abbattuta città. Ma tutte le cure loro non andarono piene di effetto; imperocchè Aquileia, già distrutta dalla forza dell'armi d'Attila, soggiacere dovette ad una forza ancor più assoluta ed una forza ancor più assoluta ed imperiosa, al mare. Abbandonando le acque a poco a poco gli antichi termini all'estremità occidentale del golfo Adriatico, dove prima approdavano le triremi di Roma, lento lento formossi un paludoso terreno, sì che Aquileia, la quale per tanti secoli avea, come Ravenna, sentito a romoreggiare sotto le sue mura i marosi, si vide circondata da povere capanne peschereccie, alla purità d'un aere sano e delizioso succedute esalazioni pestifere e mortali. Tanta rivoluzione di clima sforzò i patriarchi a tramutare la sede loro quando in Gemona, quando in Cormons, ora in Cividal del Friuli, ora in Udine stessa; ed il principe prelato, che pensò di surrogare quest'ultima città all'antica, costituendola siede del suo dominio e metropoli della provincia friulana, si fu il patriarca Bertoldo, nel 1251. Passato per altro due secoli dopo, per la forza delle armi, il Friuli in mano de' Veneziani, e spogliato il patriarca del dominio temporale, per una transazione conchiusa tra il prelato medesimo e la repubblica, confermata dal papa Nicolò V e dall'imperadore Federigo III, assegnaronsi al patriarca di Aquileia le terre di San Vito e San Daniele, colla costituzione d'una dote ecclesiastica corrispondente. Da quel tempo i patriarchi furono sempre veneziani; e continuando a risiedere in Udine, esercitarono, dopo la lega di Cambrai, la giurisdizione ecclesiastica non solo sopra Aquileia, ch'era passata nel Friuli austriaco, ma eziandio nella parte della diocesi compresa ne' dominii della casa d'Austria, giurisdizione che mai sempre dispiacque ai principi di quella casa. Si convenne pertanto tra gli arciduchi d'Austria ed i Veneziani che le due potenze godessero alternativamente del diritto di nominare a questo patriarcato. Ma la convenzione si ridusse alle parole; poichè gli Austriaci non giunsero mai a godere del diritto, per l'attenzione sempre posta da' patriarchi d'Aquileia, veneziani, a scegliersi veneziani coadiutori, loro concessi dal senato, e muniti di bolle pontificie per la futura successione. Richiamossi l'imperadrice Maria Teresa contro questa usurpazione de' Veneziani, pretendendo che la tolleranza de' suoi predecessori non avesse valso a prescrivere il diritto che anch'essi avevano alla elezione del patriarca; ed i Veneziani, fondando la loro pretensione sopra il non essersi mai fatto da' principi della casa d'Austria uso del combattuto diritto. Da gran tempo e alla corte di Vienna e nel senato di Venezia agitavasi la controversia; e alle proposizioni e proferte da una parte surgendo dall'altra difficoltà e rifiuti, le cose tiravano in lungo senza speranza di componimento. Finalmente concordarono le due potenze in questo, di prendere il papa ad arbitro di una vertenza che in gran parte era ecclesiastica e religiosa, facendo, più della dottrina e della sapienza di Benedetto XIV, sperare giusta la pontificia decisione il suo carattere equo e moderato. I Veneziani poi tanto più erano concorsi di buon grado a sottomettersi al giudizio di lui, perchè, oltre ad un breve di Giulio III, che ad essi confermava il diritto di nominare il patriarca, non aveva la santa Sede nel progresso del tempo tenuto in alcun conto l'alternativa, e perchè, generalmente parlando, un lungo possesso non interrotto equivale ad un incontrastabile diritto. Ed in fatti Benedetto XIV conservò ai Veneziani il diritto di eleggere soli il patriarca; ma, affine di togliere i sudditi dell'imperatore dalla suggezione ad un vescovo straniero, nella parte austriaca di quella diocesi stabilì un vicario apostolico. Spiacque oltremodo al senato cotale decisione, e richiamò egli tosto i suoi ambasciatori tanto da Roma quanto da Vienna. Al tempo stesso la repubblica accrebbe di molto le sue armate di terra e di mare e si dispose alla guerra. Il papa dichiarò che, qualunque potessero essere le conseguenze di quella lotta, non credevasi egli mallevadore di quegli avvenimenti; che stabilito aveva un vicario apostolico, le regole seguendo della giustizia, e che alcun interesse non pigliando alle operazioni del veneto senato, rimettevasi alla saviezza dell'imperadrice regina. Il senato, all'incontro, manifestò a tutte le corti avere il papa stabilito quel vicario in una parte del patriarcato di Aquileia, ed a quella dignità inalzato il conte di Atimis, canonico di Basilea; grave pregiudizio quindi venirne al diritto di padronato dalla repubblica esercitato costantemente; essere perciò la repubblica stata costretta a richiamare il suo ministro da Roma dopo le proteste fatte contra quel breve; professare tuttavia, mentre gelosa era di conservare un diritto col lasso di più secoli acquistato, alla santa Sede in tutt'altro rispetto sentimenti di venerazione e di filiale obbedienza. Il re di Sardegna si proferì mediatore nella contesa, ma dal senato veneto non ottenne se non un rendimento di grazie. Fu proposto di smembrare il patriarcato, e di formarne due vescovadi, da stabilirsi l'uno ad Udine, l'altro a Gorizia; ma anche siffatta proposizione fu dal senato rigettata; ed il nuovo vicario apostolico, recatosi ad Aquileia, il possesso pigliò di quella dignità, malgrado le opposizioni de' Veneziani. Vollero questi ancora qualche tempo resistere; ma, troppo deboli forse per opporsi alle forze dell'Austria, acconsentirono finalmente alla proposta divisione: fu però stabilito che abolito sarebbe il titolo di patriarca d'Aquileia, e ripartita la diocesi in due vescovadi, dei quali la nomina apparterrebbe per l'uno al senato, per l'altro ai sovrani dell'Austria. Il chiudimento della santa porta segnò in Roma il termine dell'anno 1750, nel quale furono celebrate nella corte di Torino le nozze tra il duca di Savoia Vittorio Amedeo, figlio del re Carlo Emmanuele III, e l'infante Maria Antonia, sorella di Ferdinando VI re di Spagna. Manifestossi intanto in Parma un mal umore, perchè quel novello sovrano, Spagnuolo di nazione, avesse conferito le principali cariche del ducato, e particolarmente quelle della pubblica economia, agli Spagnuoli; e furon pubblicati viglietti, co' quali avvertivasi quel principe di ricordarsi delle istruzioni avute dal re suo padre Filippo V, cioè di reggere con dolce freno i suoi popoli. Tentando d'infrenare l'umor sedizioso col rigore, l'espediente non giovò; sicchè bisognò cambiare i ministri e scemare le tasse. Delle quali benefiche disposizioni contento il popolo, dimostrò la sincera sua riconoscenza verso il principe quando giunse di Francia in quello Stato la reale sua sposa, figlia di Luigi XV. Anno di CRISTO MDCCLI. Indiz. XIV. BENEDETTO XIV papa 12. FRANCESCO I imperadore 7. A mantenere il benefizio della pace, di cui già da un anno erasi incominciato a godere in Italia, aveano il massimo interesse le due corti di Vienna e di Madrid; avvegnachè, se l'imperadore Francesco I possedeva i dominii della casa de Medici, due principi della casa regnante di Spagna teneano il regno delle Due Sicilie, e l'eredità della casa Farnese. Il conte Esterazi adunque, ministro cesareo alla corte di Madrid, in varie conferenze avute col signor di Carvaial e Lancastro, e col marchese dell'Ensenada, principali ministri del gabinetto spagnuolo, propose che, per allontanare il pericolo di nuove turbolenze, e stabilire la pace sulla base degli antichi trattati, il re Cattolico s'impegnasse di non prendere parte, nè direttamente nè indirettamente, in qualunque guerra che insorger potesse in Italia, nel caso che, contra ogni aspettativa, se ne accendesse alcuna che fosse prodotta da una causa straniera agli interessi di Sua Maestà Cattolica e della sua famiglia; che l'imperadrice regina, dal canto suo, per cooperare al medesimo fine, guarentisse nella più solenne forma gli Stati de' quali era in possesso il re delle Due Sicilie, non meno che quelli posseduti dall'infante don Filippo in vigore del trattato di Aquisgrana; che la stessa malleveria si facesse dall'imperadore nella sua qualità di granduca di Toscana; che finalmente, in forza di tale accordo, rimanesse estinta e diffinita ogni scambievole pretesa, oppure, se alcuna ne restasse, sopra la quale le due corti non si fossero acconciate, si avesse diffinire amichevolmente. Intanto che il conte Esterazi adoperava in tal modo alla corte di Madrid, un altro abile ministro della corte di Vienna, il conte Beltrame Cristiani, gran cancelliere di Milano, prevaleasi del suo soggiorno a Torino, dove erasi trasferito per regolare i punti di commercio tra gli Stati del re di Sardegna e la Lombardia austriaca, onde disporre l'animo di quel sovrano ad entrare nella convenzione meditata e stabilita tra l'imperadrice regina Maria Teresa e Ferdinando VI re di Spagna. Riusciti felicemente ne' loro maneggi ambedue i detti ministri, in brevissimo tempo venne fra le corti di Vienna, Madrid e Torino stipulato un trattato, di cui questa era la sostanza. Nel caso che le truppe nemiche invadessero gli Stati del re di Sardegna, dovesse l'imperadrice regina somministrargli un aiuto di sei mila uomini; fornisse ella lo stesso numero di gente per difesa del re delle Due Sicilie, dell'infante duca di Parma e del duca di Modena, allorchè gli Stati di questi principi si trovassero nello stesso caso; ad uguale sussidio fosse tenuto il re di Sardegna, nel caso che fossero attaccati i dominii posseduti in Italia dalla imperadrice regina, e ad egual impegno verso di essa fosse vincolato anche il re di Spagna; facesse Sua Maestà Cattolica il medesimo riguardo al re di Sardegna, e questi verso la Maestà Sua; in ognuno di questi casi il re delle Due Sicilie somministrasse cinque mila uomini di truppe ausiliarie, e tre mila per ciascheduno l'infante duca di Parma ed il duca di Modena; dovesse finalmente ciascuna delle parti stare mallevadrice pei dominii dalle altre rispettivamente posseduti in Italia, nello stato medesimo in cui allora si trovavano. In questa convenzione, intesa a mantenere la quiete d'Italia, non erano, come si vede, compresi gli altri principati italiani, cioè il papa, e le tre repubbliche, di Venezia, di Genova e di Lucca, nè poteano esserlo. I sommi pontefici, e specialmente Benedetto XIV, sicuri di conservare quegli Stati che dalla pietà e munificenza de' principi avea la santa Sede ottenuti, non poteva pensare mai a dilatarli per ambizione o per avidità d'imperio nè temere poteva di esserne, se non dalla violenza e dalla ingiustizia spogliato. Contenta la repubblica di Venezia de' suoi possessi nel continente e fuori, già da più d'un secolo avea rinunziato all'idea di meschiarsi nelle dissensioni dei principi in Italia, e faceva professione d'una rigida neutralità. Quella di Lucca, limitata alla ristrettezza del suo pacifico dominio, compreso e quasi incastrato nella Toscana, attendeva al commercio ed alle arti della pace, e stimavasi felice di non entrare per nulla in bilancia a fissare l'equilibrio della penisola. Quanto alla repubblica di Genova, che tanta parte aveva avuta nell'ultima guerra, non era stata nominata, perchè le direzioni da essa tenute a suo riguardo aveano disgustato la corte di Vienna; perchè le altre potenze, allora belligeranti e rivali della casa di Austria, non aveano trovato vantaggio nissuno dall'amicizia di lei; e perchè finalmente tutte le repubbliche, se non sieno potenti, interessare non possono nella loro sorte i sovrani assoluti, mancando quei vincoli di sangue o di affinità che devono o almeno possono talora stringere i principi fra loro. Ma la genovese repubblica, che da venti anni teneva a sè conversi gli sguardi dell'Europa per quella ribellione della Corsica, che, dopo la tanto decantata dei Paesi Bassi al tempo di Filippo II, non avea avuta ne' secoli moderni l'eguale o per l'energia de' suoi sforzi, o per la costanza nelle disgrazie o per l'accorgimento, trovossi nel presente anno in non troppo felici contingenze. Si è veduto a suo luogo (all'anno 1745) come la città di Bastia, capitale dell'isola, già smantellata pel furibondo fulminare di bombe e cannoni d'una squadra inglese, fosse dal suo governatore genovese abbandonata in mano del colonnello Rivarola, che con tre mila Corsi sollevati se le faceva sotto. Non vogliamo qui lasciar di notare, perchè da nessuno storico riferito, ma pure consegnato nelle memorie d'un insigne naturalista franzese, che un ministro della corte di Francia, vedendo lo spirito sempre inquieto e tumultuante di quelle popolazioni, propose di far tagliare tutti gli alberi de' castagni di quell'isola, che il nutrimento per alcuni mesi fornivano agli abitanti, affinchè costretti fossero a coltivare nelle lor montagne i grani e per ciò distratti dalle guerriere imprese; senza avvedersi che in quelle selve montane mai non si sarebbero seminate le biade, e che il popolo, privo d'un mezzo ad esso fornito dalla natura, ne sarebbe più feroce divenuto ed indomabile. Poichè pertanto il congresso d'Aquisgrana non avea fatto nessun conto della supplica colla quale i Corsi in commoventi termini esponevano le cagioni della loro insurrezione, ed imploravano l'assistenza delle corti europee onde non rimanere più oltre sottoposti alla oppressione de' Genovesi, quegl'isolani continuarono a coraggiosamente combattere per la loro indipendenza. Già la Francia, che, per tornare i ribelli all'ubbidienza del senato genovese avea, dopo il conte di Boisseux, spedito in Corsica il marchese di Maillebois, il quale disse ai Corsi come Sua Maestà Cristianissima prendesse la loro isola sotto la sua tutela e protezione, venuta era in determinazione di sostituire a questo comandante generale il marchese di Cursay. Ora, comandando questi da vicerè, contribuì molto a rendere sempre più odioso il governo antico ed attuale della repubblica di Genova; e la grande autorità che arrogavasi fece insiememente nascere puntigli e serie contese tra lui ed i comandanti generali, che volevano sostenere il decoro ed i diritti della genovese repubblica. Cotali disordini presero gran piede nei primi mesi di quest'anno in molte occasioni, e principalmente per certa paglia niegata da alcuni luoghi al marchese di Cursay, che volea pagarla, ed a lui invece fornita da' Corsi sollevati senza verun pagamento. Da ciò insorte nuove questioni tra le truppe franzesi e le genovesi, unite a' Corsi fedeli, sì che vennero più volte alle mani, quel comandante dovette appigliarsi al partito di vietare a' suoi di approssimarsi ai presidii genovesi. D'uopo è notare che mentre i Corsi sostenevano una lotta accanita coi Genovesi, le diverse corti, e quelle specialmente di Francia e di Spagna, gelose erano a vicenda, e timorose sempre che l'isola cadesse in dominio dell'una o dell'altra; dal che derivava che mentre si ostentava talvolta di prestare aiuto ai Genovesi, e di voler ricondurre la pace, non si lasciava di fomentare in qualche modo la sollevazione e di favoreggiare l'indipendenza di quella nazione. Intanto la discordia, che regnava tra' Franzesi e Genovesi, riaccese quella delle comunità del regno, senza che il generale franzese, il quale procurava di sopirla, o almen frenarla con la dolcezza e con l'autorità, prevalesse a ristabilire la quiete, spesso interrotta da vie di fatto funeste e sanguinose. Informata la repubblica di Genova di quanto era accaduto ed accadeva in Corsica tra il marchese di Cursay ed il suo comandante, tra le milizie di ambedue le parti e tra le comunità del regno, elesse subito il marchese Giacomo Grimaldi, uomo di gran merito e di molta estimazione, per mandarlo nuovo commissario in Corsica a trattare col comandante franzese un aggiustamento di tutte quelle vertenze; inviando al suo ministro a Parigi ampie istruzioni onde giustificare presso quella corte il modo di operare suo e de' suoi. Ma anche il marchese di Cursay avea già di tempo in tempo portate alla sua corte le proprie doglianze, e da ultimo l'aveva ragguagliata delle recenti contese; senza nel frattempo tralasciar l'esecuzione degli ordini ricevuti dal cavaliere di Chauvelin, plenipotenziario del re a Genova, di convocare pei 10 del mese di giugno un'assemblea generale del regno, onde farvi l'elezione di cinque deputati, che, unitamente con lui, col plenipotenziario suddetto e coi commissarii del senato di Genova, dovevano trasferirsi a Tolone, per regolarvi diffinitivamente in una specie di congresso tutte le bisogna della Corsica. L'adunanza non ebbe luogo, perchè la Francia, disgustata grandemente, per le relazioni del Cursay, e de' Genovesi e de' Corsi, venne in determinazione di richiamare dalla Corsica le sue genti, lasciando in balia di sè stessi non meno quegli abitanti che la repubblica di Genova; e già tutto era apparecchiato per la partenza. Sensibilissima riuscì alla repubblica e del pari ai capi de' Corsi l'imminente partenza delle truppe franzesi dall'isola, perciò che lasciavanla esse in un abisso di disordini, de' quali non poteasi sperare allora nè rimedio nè fine. Fecero dunque lor pruove ambe le parti per sospendere l'effetto della presa risoluzione, il senato di Genova dando ordine a' suoi deputati in Parigi di sottomettersi a qualunque soddisfazione che il gabinetto di Versaglies esigesse, e promettendo i Corsi di ricevere con intera sommissione quei regolamenti che al re piacesse di fare intorno agli affari loro. Corse allora voce che qualche bella soddisfazione venisse data da' Genovesi a Luigi XV, ma niuno poi seppe dire in che consistesse. Si seppe bensì tosto che, calmato quel monarca, avea dato ordine al suo ministro Chauvelin di proporre ai Corsi il chiesto regolamento, facendo loro intendere che Sua Maestà, mossa dalla idea delle calamità che per la partenza delle sue truppe sarebbero toccate ai Corsi, era discesa a sospendere l'esecuzione de' suoi ordini, onde terminare un'opera ad essi favorevole, come era quella di restituir loro la pace e far che godessero d'un dolce reggimento e permanente. In conseguenza de' quali ordini, passato nell'isola lo stesso de Chauvelin, il marchese di Cursay intimò di bel nuovo una generale adunanza; alla quale essendosi portati i deputati corsi, dopo comunicate ad essi le condizioni dal re di Francia procurate per assicurar loro uno stato felice e tranquillo, furono anche chiamati a conoscere che felicità e tranquillità, mediante un moderato e giusto governo, non poteano ottenere se non se da quella potenza che avesse sopra di essi una legittima e sovrana autorità, come appunto era la repubblica di Genova; nello stesso tempo dichiarando che Sua Maestà Cristianissima, per un effetto della sua naturale bontà, addossavasi la malleveria di tutto ciò che fosse loro concesso, e di cooperare all'esecuzione. Tutti i deputati ad una voce fecero sapere che si sottomettevano rispettosamente a quanto Luigi XV richiedeva, ed anzi sottoscrissero un atto, col quale giurarono sopra l'Evangelio di volere da allora in poi riconoscere la repubblica di Genova per sola legittima loro sovrana, tornando sotto la sua obbedienza, e rinunziando ad ogni passo od atto in contrario. Laonde fu letto e dato loro a sottoscrivere il regolamento, contenente le condizioni che il re di Francia aveva per essi conseguite dalla repubblica, e comprese in otto articoli, tutti risguardanti al generale governo dell'isola, senza parola da cui argomentare che seguire ne dovesse essenziale mutazione di reggimento. A questi passi, un altro i Corsi ne mandarono dietro. Quattro fra i deputati recaronsi a Bastia, e a nome di tutta la nazione rinnovarono al già detto commissario Grimaldi le sicurezze della loro sommissione e del sincero loro ritorno sotto il dominio dell'antico legittimo Sovrano, presentandogli in pari tempo, ed alla presenza del cavaliere de Chauvelin, una lettera, nella quale, riconoscendo la repubblica per loro sola e legittima sovrana, protestavano che la principal cura dei padri di famiglia e de' capi delle comunità sarebbe stata quella di avvezzare i popoli al dovere ed alla subordinazione, e nel tempo stesso imploravano dal commissario che volesse presso la Repubblica interporsi, affinchè ottenesse dal re di Francia che tuttavia in Corsica restassero le sue truppe, mezzo valevole, forse e unico per assodare quella tranquillità che per esse si era veduta a rinascere. A simile domanda furono i Corsi indotti per un fine politico: sudditi, essi non potevano chiedere al re l'ulteriore soggiorno delle sue milizie; sembrava inconveniente che lo facesse la repubblica riguardo ad un paese pacificato e messo sotto la sua obbedienza; il re di Francia di suo moto proprio nol dovea. Dall'altro canto a tutti conveniva, o per interesse o per decoro, che quegli armati si rimanessero. Fu dunque trovato l'espediente della lettera, che togliea di mezzo tutti gli scrupoli e delicatezze. Se non che non tardò molto a manifestarsi la necessità di quelle truppe. I deputati che aveano firmata la pacificazione della Corsica furono disapprovati da' loro committenti di là dai monti, che si sollevarono, e se di qua il fuoco non iscoppiò nè così presto nè con tanto impeto, covava sotto la cenere, ed anzi si credette che di qui partissero le scintille che appiccarono l'incendio dall'altra parte. Gli abitanti di Niolo, considerati sempre come i meno trattabili dell'isola tutta, furono i primi a tumultuare contro il regolamento, perchè non procacciasse i vantaggi ch'eransi fatti sperare, non parlando esso punto de' privilegii della nazione, che pur erano l'argomento principale della gran lite co' Genovesi, e per tal modo rimanevano, come per l'addietro, soggetti all'autorità dispotica della Repubblica e de' suoi uffiziali. Nè a persuadere i Niolesi e gli altri abitanti di parecchie pievi della parte oltramontana, che ne avevano seguito l'esempio, valsero le parole dell'abbate Olivetto, ecclesiastico molto stimato da quelle genti, ed il medesimo che per esse avea scritto alla corte di Francia promettendo a loro nome tutta la sommessione, perchè si lasciassero nell'isola le truppe che il re ne avea richiamate: prese di bel nuovo l'armi, posero ogni cosa in disordine tale, che forse potea dirsi peggiore di quel di prima. Se non che, recatosi sui luoghi il marchese di Cursay con buona mano di soldati, giunse a calmare gli animi ed i ribelli, deposte l'armi, gli diedero anche statici per sicurezza della loro fede: vedremo in appresso che calma e che sommissione fossero quelle. I corsari africani, che in quest'anno ricomparvero baldanzosi sulle acque della Corsica, ed ogni dì faceano udire il suono di qualche novella preda, e minacciavano di sbarco le coste dell'Italia, senza che a reprimerne l'insolenza valessero una squadra napolitana e le galee di Malta e del pontefice, furono cagione di grave querela tra la corte di Napoli e quella di Vienna. Avendo le galee pontificie e napoletane data la caccia a due galeotte tunisine, ne catturarono una; ma l'altra riuscì a ripararsi sotto il cannone della torre del Giglio, situata all'altura degli Stati de' presidii, sulle terre all'imperadore spettanti nella sua qualità di granduca di Toscana. Allora le galee pontifizie, cessando l'impresa, diedero di volta; ma le napoletane, niente curando i segnali del comandante della torre, che avvisava trovarsi la galeotta in paese sicuro, l'incalzarono sì, che costrinsero i Turchi a salvarsi in terra, dove pure sbarcati, gli attaccarono più volte, finchè li videro in luogo di sicurezza, e quindi condussero seco il legno nemico ed una barca napolitana poc'anzi da quello predata, in tutta questa fazione lavorando col cannone gagliardamente con qualche danno eziandio della torre, che continuava a protestare ed a far fuoco per far rispettare i suoi diritti. Informata la corte imperiale, allora residente a Presburgo, dell'accaduto, lo imperadore, come granduca di Toscana, considerandosi altamente offeso per la violenza praticata a quel corsaro sotto la sua protezione, chiese alla corte di Napoli pronta e solenne soddisfazione colla restituzione immediata del bastimento predato. Alle quali rimostranze re Carlo rispose, aver lui fatto più volte rappresentare alla reggenza di Firenze non potersi avere riguardo alcuno alla pretesa neutralità della corte di Toscana, però che di questa i Barbareschi prevalevansi per impunemente e come da sicuro asilo assaltare le navi napoletane con incredibile danno de' suoi sudditi e del loro commercio; nè dovere quindi parere strano se il duca di San Martino, comandante delle galee napoletane, non avea avuto difficoltà di assalire il legno tunisino, trovatosi appunto nel caso per cui state erano mosse quelle doglianze e proteste. O sia che cotale risposta fosse riconosciuta concludente, o che altri motivi a ciò consigliassero, l'affare rimase allora sopito. Tuttavia, a mettere qualche rimedio al sommo pregiudizio che generalmente recava al commercio d'Italia, quel ricovero che ne' porti di Toscana trovavano i Barbareschi, per la pace da Francesco I imperadore, quale granduca, colle reggenze africane conchiusa; mosse calde lagnanze alla corte di Vienna dal papa, dal re di Sardegna e dalle repubbliche di Genova e di Lucca; l'imperadore stesso, sul cui animo avere doveano maggior forza le ragioni giustissime di quattro italiane potenze che non qualunque trattato o impegno in cui fosse entrato coi governi di Barbaria, s'indusse finalmente a permettere alla reggenza di Firenze di servirsi delle due navi da guerra recentemente a Porto Ferraio tornate dal Levante, per tener lontani dalle coste di Toscana i corsari, non permettendo loro di accostarsi, se non ne' casi di disgrazia, che furono specificati. Alla quale permissione imperiale fu allora creduto che maggiormente avessero contribuito i lamenti de' negozianti di Livorno per le ingiustizie ed avanie che le loro navi pativano da coloro, a' quali la fede de' trattati era lieve freno per trattenerli dal commettere mille estorsioni ed iniquità. A questa provvidenza giusta e salutare, diretta ad assicurare possibilmente il commercio italiano dalla rapacità e malafede degli Africani, un'altra ne mandò dietro Benedetto XIV, e come capo della religione e come principe temporale, molto più dilicata di sua natura, ed assai più importante nelle sue conseguenze, riguardo ai così detti Liberi Muratori. Già da circa venti anni diffusa e clandestinamente dilatata ne' paesi cattolici, e più ancora in quelli che fuor del cattolicismo viveano, teneva questa società in continuo sospetto i principi ed i governi. Chi le ha dato per progenitori coloro che edificarono la torre di Babele, chi quelli del tempio di Salomone; altri, più sistematici, vollero riconoscerne padri i cavalieri Templari. Amava le tenebre, ed in seno dell'oscurità andava ampliando il numero de' suoi confratelli. Sulla porta di quelle stanze che le serviano di notturno ricetto non vedevi impressi caratteri materiali; eppure era scritto: _Lungi, o profani; è questo il regno della luce ed il tempio della verità._ Riti misteriosi ne accompagnavano le iniziazioni. Non diversità di patria, non differenza di governo, non disparità di culto era di ostacolo o ragion di ripulsa a chi chiedea d'entrare. Nel regno della luce, nel tempio della verità ammetteansi egualmente, e come cittadini e come adoratori, i fedeli di Cristo, i discendenti di Abramo, i seguaci di Calvino o di Lutero, di Maometto e di Confucio. La differenza stessa della nascita, del grado, delle fortune quivi spariva; chè l'opulento ed il misero, il dignitario e l'artigiano, principi e sudditi, dotti ed indotti trovavansi indistintamente registrati sulla lista dei Liberi Muratori, e non rado un uomo, cui per le vene scorreva un sangue per trenta o quaranta generazioni purificato, siedeva fra due compagni lordi ancora di quel fango ond'erano usciti nascendo. Soave giocondità presiedeva alle notturne loro adunanze, e parea un'innocente allegria fosse il nume geniale de' loro banchetti. Uno spirito di fratellanza, di benevolenza generale, mentre congiungeva le destre, ne annodava i cuori. I soccorsi, che una mano benefattrice porgea a chi avea bisogno, erano sempre tanto spontanei quanto copiosi; ed il fratello beneficato, lungi dal vedere nel suo benefattore, come suole troppo di sovente, chi della sua superiorità approfitta per farsi dipendente e schiavo un infelice, vedevasi appena obbligato al tacito tributo dell'intima riconoscenza. Come dunque una congregazione di uomini, sì innocente nel suo vantato istituto, sì benefica ne' pretesi suoi effetti, che proponeasi di mettere in pratica quelle sante massime che, proposte dal Vangelo colla promessa di non terminature ricompense, trovano nondimeno tra i cristiani sì scarso numero di cultori, come mai farsi potè sospetta ai governi, tirarsene addosso lo sdegno, e meritar in fine d'esser punita? Facile a conciliarsi è l'apparente contraddizione. La società dei Liberi Muratori è tutta fondata sul più rigoroso secreto. Coloro che vi sono ammessi non entrano a parte del mistero, e nulladimeno si esige da essi sotto i più terribili giuramenti di starne fedeli al silenzio. Se la società ha per oggetto del suo istituto la virtù, a che tanta precauzione per tenere celata la sostanza delle sue massime e delle sue dottrine? Perchè non far vedere agl'iniziati il codice della loro associazione? A che tanta diffidenza, a che tanta gelosia? Tutti questi segreti, tutti questi misteri, che all'illustre Annalista d'Italia sembrarono _inezie_, e ad altri parve che contenessero l'_enigma e non l'arcano_, divennero sospetti non solo alla podestà ecclesiastica, per credere che si macchinassero insidie alla religione, ma eziandio alla stessa secolare podestà, prevedendo che potesse turbarsene la quiete civile. Quindi in poco tempo si videro a circolar per tutta l'Europa editti sopra editti contro i Liberi Muratori. Prima a comparire nella lista delle potenze che proscrissero la società fu la Francia, nel 1727. L'Olanda nello stesso anno, e molto più rigorosamente nel 1755, manifestò il suo sdegno contro i supposti discendenti dei Templari. Tre anni dopo lo stesso fecero la Fiandra e la Svezia. La Polonia nel 1739, la Spagna ed il Portogallo nel 1740, il governo di Malta nel 1741, e la regina d'Ungheria nel 1743 fulminarono gli apostoli della verità e gli angeli della luce, come furono poi proscritti, nel 1748, negli Svizzeri, dal cantone di Berna. Tredici anni erano scorsi da che Clemente XII, stato informato che il mostro, varcate le Alpi, avea posto in Italia il piede, gli scagliò contro gli anatemi del Vaticano. (Ved. sopra all'anno 1736; tomo VII, col. 429 e seg.) Se non che alcuni divulgavano che le censure fulminate della Chiesa, per non essere la bolla di Clemente stata dall'attuale pontefice confermata, non aveano più vigore alcuno. Si volse adunque Benedetto XIV a distruggere sì pernizioso errore, e nel giorno 18 maggio del presente anno comunicò a tutto il mondo cattolico i suoi sentimenti e le risolute sue determinazioni in tale proposito con una bolla, nella quale sei motivi adduceva, pei quali aveasi la società a riguardare come direttamente contraria al bene della religione e dello Stato. Unirsi, diceva, in siffatte adunanze persone di ogni religione e di tutte le sette; occultarsi con istretto costante impegno di segretezza le cose che in dette conventicole si fanno: asserendo essere colpevole il giuramento con cui si obbligano ad inviolabilmente osservare il segreto, come se fosse lecito ad alcuno di premunirsi del pretesto di qualche promessa o giuramento per esimersi dal manifestare le cose tutte, intorno alle quali fosse dalla legittima podestà interrogato; opporsi società simili alle leggi civili non meno che alle ecclesiastiche, essendo dal gius civile vietati tutti i collegi e corporazioni tutte formate senza pubblica autorità; essere in molti paesi state proscritte dalle leggi di principi cotali società ed aggregazioni; cadere esse mai sempre in sospetto degli uomini saggi, riputati perversi coloro che vi si aggregavano. Quantunque in Napoli più che altrove si guardasse con sospetto qualunque adunanza od unione di genti, per le ripetute rivoluzioni alle quali andò quel regno suggetto, così teneasi che colà e nelle altre napoletane provincie si fossero assai moltiplicate le logge di Muratori. Appena dunque venuta in luce la costituzione di Benedetto XIV, il zelo di molti ecclesiastici fece sì che tuonassero, sul fondamento delle voci che correano, contro la setta dei Liberi Muratori; e quindi il popolo a credere di veder sempre chi portasse in fronte i contrassegni del fulmine pontificale; a mormorare che la corte in sì delicato argomento si tenesse in silenzio. Intanto i settatori, benchè con tutta giustizia perseguitati, e quantunque conoscer dovessero il proprio torto, osservavano gelosamente quel segreto ch'era l'anima della loro istituzione, guardavano un rigoroso silenzio sulla sostanza delle loro massime e sulla natura dei dogmi loro, non meno che intorno al nome dei consocii, e continuavano a radunarsi clandestinamente. Ma, per quanto occultamente adoperassero, non valeano a sottrarsi affatto alle suspizioni. Potea il disordine crescere da una parte, crescer dall'altra lo scandalo. Laonde il re, risoluto d'andare alla radice del male, condiscendendo ancora alle istanze del sommo pontefice, elesse cinque giudici particolari, uno per ciascun ordine di persone, onde fossero processati e puniti tutti coloro che alla setta de' Muratori si trovassero aggregati. Ma perchè tali regie disposizioni forse non bastavano, se anche la nazione tutta non fosse senza equivoco e perfettamente istrutta della sovrana volontà, il re Carlo emanò un severo editto, in cui proibì assolutamente ne' suoi dominii i Liberi Muratori, da dover essere puniti come perturbatori della pubblica tranquillità e rei di crimenlese. Anno di CRISTO MDCCLII. Indiz. XV. BENEDETTO XIV papa 13. FRANCESCO I imperadore 8. La convenzione nell'anno scorso da noi mentovata, tra le corti di Vienna, Madrid e Torino, fu nell'anno presente ridotta a solenne trattato, reso poi celebre sotto il nome di trattato di Madrid, o di Aranjuez, dal luogo in cui fu stipulato, ed il quale in sostanza non era che una pura rinnovazione della convenzione sopraccennata, le sole mutazioni fatte consistendo negli aiuti scambievoli promessi da' tre sovrani in caso di aggressione ai loro Stati in Italia, e nell'alternativa di dare in vece di soldati uno stabilito sussidio in denaro contante. Alla diffinitiva conclusione di siffatto accordo molto cooperò il re d'Inghilterra, siccome quegli a cui stava molto a cuore la perfetta esecuzione del trattato di Aquisgrana e della convenzione di Nizza, che ne furono come la base ed il principal fondamento. Ed al totale ristabilimento della pubblica tranquillità concorsero quasi tutte le italiane potenze, con sì buona intelligenza e concordia, che in brevissimo tempo, per mezzi del tutto amichevoli e pacifici, congressi, maneggi, concordati, furono accomodate tutte le questioni e vertenze insorte necessariamente per le perturbazioni delle guerre, intorno ai confini ed alle giurisdizioni tra il regno di Napoli e lo Stato pontificio, tra questo e la Toscana, tra esso granducato ed il duca di Modena, tra il Milanese e gli Stati del re di Sardegna, tra questi e la repubblica di Genova, tra il Mantovano ed il Tirolo colla repubblica di Venezia. Le sollecitudini de' principi contraenti nel detto trattato ebbero per quaranta e più anni un effetto salutare. E forse anche più durato avrebbe il suo beneficio, senza quel turbine che dalla Francia proruppe a disordinare ogni meglio connesso edifizio, verso la fine del secolo, come a suo luogo verremo a mano a mano descrivendo. Ma intanto ci è d'uopo ripigliare il filo delle cose di Corsica, che tenevano allora desta l'attenzione generale dell'Italia non solo, ma di tutta l'Europa. Guardavansi di mal occhio i due primarii personaggi che allora reggevano la isola, il commissario genovese marchese Grimaldi ed il marchese di Corsay comandante franzese, e tanto innanzi procedute erano le cose, che quel primo dalla Bastia erasi ritirato in Aiaccio, per isfuggire le contese quotidianamente insorgenti per l'autorità che questi arrogavasi, in gran parte contraria alla sovranità della repubblica. Ora ad accrescere le discordie accadde che una squadra franzese, tornando da' lidi dell'Africa, dov'erasi portata a minacciare i Tripolini, bombardandone il porto, comparve sulle coste della Corsica e diede fondo nel porto d'Aiaccio, senza che i Genovesi sapessero che pensarsi di quella comparsa, e con grave scontentezza de' Corsi, tra' quali corse come sicura la voce che fosse venuta per opporsi ad altra squadra inglese, che dovea liberar l'isola dalla schiavitù e dall'oppressione. Come il senato di Genova avea già significato al suo commissario che gli chiedea il modo del contenersi, la squadra, dopo rinfrescato, veleggiò per Tolone; ma in quell'occasione il senato stesso avea pur fatto intendere al Grimaldi come stata fosse ottima cosa che se la passasse con miglior accordo col comandante franzese, in pari tempo lagnandosi alla corte di Francia delle costui procedure. E a tali insinuazioni del senato il Grimaldi replicò con sentimenti di buono e zelante repubblicano, lui chiedere piuttosto di essere richiamato, di quello che rimanere in un impiego in cui fosse obbligato a riconoscere autorità altra qualunque fuor di quella della repubblica. Ma l'impossibilità di trovare suggetto capace da sostituire al Grimaldi nel posto di commissario generale in Corsica, il non poterglisi rimproverare altro che un troppo vivo zelo nel sostenere il decoro e gl'interessi della sua patria, determinarono il senato a non aderire alle domande del suo cittadino. Nè solamente le gelosie e le reciproche diffidenze de' due generali in Corsica tenevano molto occupati i Genovesi ed inquietavano la corte di Francia; ma il regolamento stesso comunicato l'anno scorso ai capi dei sollevati dal marchese di Cursay per parte del re di Francia, di cui quei popoli non eransi mostrati troppo contenti, non appagava neppure interamente i Genovesi; sì che si rese necessario concertare col cavaliere di Chauvelin, ministro franzese, che di Francia venisse una riforma, la quale e questi e quelli appagasse. Ma nè anche giovò la riforma creduta opportuna dal gabinetto di Versaglies, poichè, per lo contrario, non appena fu comunicata ai capi delle pievi, che destò uno straordinario ed universale impeto di furore, tutti protestando di non accettare quel regolamento, benchè modificato, nè sottomettervisi in verun modo, altro scopo esso non avendo che rimettere loro sul collo l'abborrito giogo della repubblica. Indarno furono chiamati a nuovo congresso. Ripigliate l'armi, obbligaronsi con fortissimo giuramento di trattare da nemico chiunque ardisse di parlare d'accomodarvisi. Scriveva il marchese di Cursay al cavaliere Chauvelin, non esservi in quello stato di cose che due soli partiti da prendere: o abbandonare la Corsica al suo destino, o far uso della forza contro la medesima. Ma, invece di risposta, si vide il marchese posto in arresto, guardato a vista, indi trasportato in Antibo, e colà custodito come prigioniero di Stato. Tra le accuse che allora si sparsero contro il detto comandante, la principal era quella di un'eccessiva ambizione, per appagare la quale avea voluto rendersi come necessario ad ambe le parti. In fatti un'autorità quasi illimitata erasi egli acquistata, specialmente facendo con una saggia amministrazione godere a quei popoli una vera felicità; temperato per lui il furore dei partiti, le leggi erano rispettate, divenuti rarissimi i delitti, e tutta la nazione tornata per un pezzo in dolce concordia. Fondata egli aveva perfino un'accademia in Bastia, la quale, sebbene lungo tempo non durasse, aveva tuttavia risvegliato tra' Corsi il gusto delle lettere. Arrestato il Cursay, le truppe franzesi rimasero sotto il comando d'un signor di Curci, il quale, facendo suo pro dell'esempio del predecessore, fu dal Grimaldi, e tutto si proferse a' suoi desiderii. Ma intanto le fazioni, le risse, le discordie, le diffidenze continuavano, accompagnate da incendii, violenze e spargimento di sangue; ed i Corsi di là dai monti, a segnalare di bel nuovo l'odio loro contro la repubblica, si elessero de' capi, e questi pubblicarono un editto rigorosissimo contro chiunque avesse avuto l'ardimento di fare qualsiasi proposizione a nome di Genova, e facevano inoltre arrestare ed impiccare senza formalità di processi coloro che erano, o si parea, sospetti di segrete intelligenze co' Genovesi. In mezzo alla universal pace, ogni lieve commovimento diventava osservabile, e tal fu l'attentato sedizioso di quei di Subiaco, grossa terra della Campagna di Roma, che tanto nel temporale come nello spirituale dipendeva dall'abbate commendatario di Santa Scolastica. Questi pastori, che tali sono per la maggior parte, irritati per aver perduto nella Rota di Roma una lite co' Benedettini di quella badia circa i pascoli di certa montagna, invece di rispettare il giudizio, o prevalersi contro d'esso de' rimedii legali, dato di mano all'armi, investirono il convento, costrinsero priore e frati a fuggirsene per le finestre, fugarono quanti accorsero in aiuto de' monaci, ed ucciso uno sbirro, trassero dalle carceri dell'abbadia diversi loro compagni. Giunto l'avviso del caso a Roma, furono mandate truppe, il cui solo aspetto sedò immantinenti il tumulto; parte dei principali autori fuggiti, parte arrestati, e tornati i Benedettini al loro convento. Ma, per non lasciare impunito un fatto di tanta conseguenza, fu comandato a quella popolazione di portare l'armi a Roma, il che fu subito eseguito. Formato intanto il processo ai capi della sedizione, dieci, che erano stati trasferiti nelle carceri di Roma, furono esiliati per sempre dalle terre dello Stato ecclesiastico; ed altri undici, già fuggiti, si sentirono fulminati in contumacia dalla condanna di morte. Quindi in poi il pontefice colse ogni occasione, per isfuggire simili disordini, di separare dalla spirituale la giurisdizione temporale in tutte quelle badie e governi, nei quali erano prima congiunte, assoggettandoli tutti all'immediata direzione della sacra consulta. Accadde in quest'anno in Piacenza la morte del celeberrimo cardinale Giulio Alberoni, che tanta parte ebbe nelle bisogna della Spagna e dell'Europa tutta. Ne era stata la vita in forse qualche tempo prima; ma colto avendolo, nel 24 giugno, fieri dolori seguiti da deliquio, tornarono vani tutti i soccorsi dell'arte, e due giorni dopo spirò, conservando sino all'ultimo una somma presenza di spirito; potendosi dire che fu tanto singolare in quest'uomo la morte, come disse Benedetto XIV, quanto erano state la fortuna, l'ingegno, l'età e la fama. Di tutti i suoi beni, che faceansi ascendere ad un milione di scudi romani, lasciò erede il seminario di San Lazzaro, da lui eretto e fondato con ispesa gravissima fuori di Piacenza; fondazione che sola avrebbe bastato ad immortalare un altro nome. Di quest'uomo molto e variamente fu parlato e scritto, e nel corso della rapida sua elevazione e poi della sua caduta, dopo la quale, quantunque paresse interamente staccato dogli affari politici, pur non lasciava di avere molta influenza in quelli che trattavansi in Europa. Tenendo corrispondenze in tutte le corti ed in tutti gli Stati, i più celebrati ministri lo hanno consultato; e siccome possedeva in grado eminente l'arte delle combinazioni politiche unita a penetrazione profonda ed a sano giudizio, così prevedeva quasi sempre l'esito de' grandi affari, e raro fu che il successo non corrispondesse alle sue conghietture. Tre mesi circa prima dell'Alberoni, passò di questa vita il doge di Venezia Pietro Grimani. Già ambasciatore della patria a Londra ed a Vienna, se colà guadagnossi la stima dell'inglese nazione e fu ascritto alla reale società, legato ancora d'amicizia col primo uomo che allora fosse al mondo, con Isacco Newton, quivi destramente maneggiò gl'interessi del veneto senato, concertando coll'imperadore Carlo VI la sacra lega a danni del comun nemico del nome cristiano. Tornato da sì splendide legazioni in patria, fu insignito della dignità di procuratore di San Marco, e poi, nel 1741, collocato sul trono ducale. Culto letterato e filosofo sublime, gloriosamente regnò dieci anni ed otto mesi, ferma tenendo la repubblica nella saggezza del suo divisamento di starne lontana da straniere guerre. Ma se di grave cordoglio fu per questo conto la sua perdita a tutta la città, che conosceva il pregio d'un tal principe, gli uomini di lettere rimasero altamente contristati, in lui perdendo, più che il mecenate, un amico ed un compagno. Gli fu sostituito Francesco Loredano, cittadino di rara pietà e fornito di virtù morali e civili, tra le quali risplendeano egregie la liberalità e la beneficenza; consumato sino dalla gioventù ne' politici maneggi, ed occupato lungo tempo nel posto di savio grande, che val come chi dicesse nella carica di ministro di Stato. Nel mezzo tempo i corsari africani tenevano, secondo il solito, in apprensione le potenze europee colle continue loro scorrerie sul Mediterraneo, danneggiandone principalmente il commercio. Mentre pertanto alcune con esorbitanti tributi, sotto lo specioso titolo di regali, compravano la mal sicura amicizia delle africane reggenze, due squadre, di Napoli una, l'altra di Malta, segnalaronsi in due diversi incontri. In quella prima, i prodi capitani di due sciabecchi, Martinez e Gratto, andando in traccia di quattro sciabecchi algerini che infestavano le coste della Calabria presso il mare Adriatico, ne trovarono uno, chiamato il Gran Leone, tra l'isole di Zante e di Cefalonia. Era il maggiore di tutti, e montato dal comandante. Lo investirono con sommo coraggio; si difese l'algerino con non minore intrepidezza per due interi giorni, ma vedendosi oltramodo maltrattato dal cannone degli assalitori, fece forza di vele per salvarsi. Il capitano Martinez, temendo non forse potesse ripararsi in qualche spiaggia o porto del dominio ottomano, ove non gli fosse dato d'assalirlo, determinossi ad andarne all'arrambaggio, ed eseguì con tanta energia il suo disegno, pur secondato dal capitano Gratto, che gli riuscì d'impadronirsene e di fare cento ventiquattro prigioni, dalle catene liberando molti cristiani. Era intenzione de' comandanti napoletani di togliere quanto in quella nave era; ma scorgendola tutta forata dalle cannonate, e sì che faceva acqua da ogni lato, si appigliarono al partito di affondarla, senza che si prevalesse a salvarne se non le ancore e qualche sartiame. I regi sciabecchi non ebbero che dodici uomini uccisi e da venticinque feriti, tra' quali i due capitani Martinez e Grotto, che furono, come gli altri uffiziali, proporzionatamente ai meriti, rimunerati. Giusta le deposizioni degli Algerini presi, il numero loro era di ducento e trenta, ed il loro bastimento bene armato portava sedici cannoni e dodici petriere, allestito a spese del re d'Algeri, che ne avea dato il comando al rais Ismachid Nalif, nativo di Candia. Ma più fiero e sanguinoso fu il combattimento tra le galee di Malta ed altri due sciabecchi algerini; conflitto seguito alle alture di Gallizia, dov'è una torre difesa da cannoni e da presidio tunisino, a poca distanza dal capo Bon, tra Tunisi e Maometta. Affinchè non potesse loro fuggire di mano, le galee maltesi si posero tra la torre e i due bastimenti nemici. Menando quindi le mani, se fu straordinario il valore de' cristiani nel combattere, non minore si rimase la resistenza degl'infedeli nel difendersi. Nel famoso combattimento segnalossi il coraggio di tre soldati maltesi, i quali, nell'atto che una galea tentò d'impadronirsi d'uno dei legni turchi, e andolle fallito il colpo, v'erano saltati dentro. Tagliato a pezzi il primo, l'altro, quantunque ferito, troncò il capo all'Algerino che gli stava a fronte, ed indi, gettandosi in mare, ebbe la ventura di salvarsi ad una delle galee; ed il terzo, parimente slanciatosi in acqua, in mezzo al fuoco ed a' remi dei barbari, ebbe una sorte eguale. Due ore durò la pugna, ma infine ambi i sciabecchi rimasero presi, ad onta della disperata foga del rais comandante del più grosso, che, coperto di sangue che uscivagli da diciotto ferite, tra le quali quattro gravissime, non apparia modo di costringerlo. Tra i cavalieri di Malta che spiegarono in queste pruove estremo valore, contaronsi il cavaliere di Valenza, colonnello del reggimento di Bearn al servigio della Francia, il cavaliere Aldobrandini, il cavaliere di Pennes, il cavaliere di Elvemont; ma ben direbbe chi nominasse per tal conto tutti gli uffiziali e soldati maltesi, la perdita de' quali fu di tredici morti e quarantasette feriti, compresi i sopraddetti cavalieri Pennes ed Elvemont. Il ritorno de' vincitori coi vinti legni e coi prigionieri a Malta fu una specie di trionfo. Nè il solo gran maestro ed i cavalieri, ma tutti in Italia fecer plauso al valor loro, ed il giubilo fu tanto maggiore, in quanto che quei due sciabecchi erano i primi bastimenti algerini che fossero caduti in potere dell'ordine gerosolimitano da che i Turchi aveano incominciato a far uso di legni di tal sorta. In uno si trovarono mille ottocento zecchini, prezzo d'una tartana da quei corsari pochi giorni prima venduta. Anno di CRISTO MDCCLIII. Indizione I. BENEDETTO XIV papa 14. FRANCESCO I imperadore 9. Per la stabilità e felice esito del trattato di Madrid, o d'Aranjuez che vogliam dirlo, stipulato nell'anno precedente, occuparonsi seriamente nel principio di quest'anno i ministri delle potenze contraenti onde comporre e terminare le differenze che sussistevano tuttavia intorno alla successione de' beni della famiglia de Medici, de' quali era attualmente in possesso l'imperadore Francesco, come granduca di Toscana. Venne perciò proposto che la Spagna rinunziasse alle sue pretese su questo punto, purchè l'imperadrice regina facesse anch'essa dal canto suo eguale rinunzia per tutte le ragioni che pretendeva di avere sopra i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, dei quali erasi quella sovrana riservato il regresso nel trattato d'Aquisgrana. Due difficoltà però rimanevano a superarsi, l'una col re di Sardegna, con quello di Napoli l'altra; non potendo quel primo, che nel trattato d'Aquisgrana erasi riservato il regresso sulla città e territorio di Piacenza, risolversi a farne la cessione, prima che si fosse trovato il modo di compensarnelo; ed il re di Napoli, facendo tuttavia valere i suoi diritti sui beni allodiali della famiglia de Medici, ai quali non intendeva di avere in alcun modo rinunziato a favore del duca di Lorena, allora imperadore e granduca di Toscana. Non sembrava difficile trovar qualche temperamento onde appianare le difficoltà promosse dal re di Sardegna; ma così non era riguardo a don Carlo re di Napoli, che spedì a Parigi il marchese Caraccioli per impegnare quel gabinetto a sostenere le sue ragioni. Teneva allora quel gabinetto gli occhi aperti sopra un oggetto di maggiore importanza riguardo alle sorti dell'Italia, cioè sui maneggi alla corte di Vienna impresi dai ministri del duca di Modena. Il conte Beltrame Cristiani, gran cancelliere del ducato di Milano, vedeva, e forse da gran tempo aveva tra sè e sè meditato, un gran colpo, moltissimo vantaggioso all'imperadrice regina sua sovrana ed alla casa d'Austria, se fosse riuscito a legarla a quella d'Este con vincoli tali, che gli Stati di questa si fossero uniti al milanese ducato. Sortendo buon fine il divisamento del conte Cristiani, la casa d'Austria avrebbe in Italia dominato all'incirca sovra la maggior parte de' paesi che formavano un tempo lo Stato degli antichi re d'Italia, cioè la Toscana, il ducato di Milano, il Modenese, il Mantovano ed una porzione del Monferrato. E la fortuna secondò i disegni del gran cancelliere. Era, ne' primi giorni dell'anno, nato al principe ereditario di Modena un figlio, il quale, assicurando la posterità mascolina dell'estense famiglia, potea, se vissuto fosse, far prendere misure ben diverse da quelle cui miravano gl'impresi maneggi; ma quel figlio, pochi mesi dopo il suo nascimento, morì, e colpo tale conchiuse alla corte di Vienna il negozio giusta l'intendimento de' ministri modenesi. Fatto pubblico il trattato in cui stipulossi il matrimonio dell'arciduca Leopoldo, allora terzogenito, colla figlia del principe ereditario di Modena, e si dichiararono lo stesso arciduca governatore dello Stato di Milano, ed il duca di Modena amministratore e capitano generale del medesimo Stato, insieme stabilendo che i presidii delle piazze modenesi dovessero essere formati di truppe austriache, e vicendevolmente le milizie del duca di Modena prendessero posto nelle piazze milanesi; non solo i gabinetti di Francia e di Spagna, ma tutti universalmente rimasero oltremodo maravigliati. Non si lasciò quindi di pubblicare, che il duca di Modena, in questo fatto, oltre all'allontanarsi dai noti principii de' suoi maggiori, unendosi all'Austria in confronto della Francia, aveva operato contro le massime della buona politica, dando mano ad un tanto ragguardevole ingrandimento di Stati e di potenza in Italia alla detta casa d'Austria, il che avrebbe col tempo potuto recare gravissimi pregiudizii alla quiete della penisola. Procurò il duca di Modena di giustificare il nuovo partito da lui preso, facendo da' suoi ministri dichiarare alle corti straniere, averlo gl'interessi del suo ducale casato costretto a trattare colla corte di Vienna; essere scopo principale cui proponevasi quello di provvedere alla tranquillità de' suoi Stati, in caso che venisse ad estinguersi la sua linea mascolina; aver parimente in mira il mantenimento della pace d'Italia, e la necessità di prevenire le turbolenze che potessero insorgere in proposito della successione agli Stati della casa d'Este; lusingarsi lui finalmente che siccome gl'impegni per esso incontrati non recavano danno ad alcuno, nissuna potenza volesse adombrarne, e quelle che considerassero la cosa imparzialmente, convenissero nulla esservi che conforme non fosse all'interesse d'Italia in generale e alle ragioni di convenienza che tenere doveano i principi di questa parte dell'Europa svegliati per allontanare dagli Stati loro ogni occasione di turbolenze. Qualunque interpretazione dar si volesse a cotali dichiarazioni del duca di Modena, il colpo era fatto con somma soddisfazione delle due corti; e furono in conseguenza mandati ordini da Vienna a tutti i comandanti e governatori delle piazze di Toscana e Lombardia, di trattare i sudditi di Modena e Massa-Carrara con ogni sorta di riguardi e di prestar loro tutta l'assistenza possibile sì riguardo al commercio, sì in tutte le altre vertenze od atti giuridici che aver potessero da regolare co' sudditi imperiali d'Italia. Ad onta del trattato d'Aranjuez conchiuso col laudevol motivo di conservare la tranquillità nell'Italia, ad onta delle proteste del duca di Modena di non aver avuto in mira che questo prezioso oggetto nella parentela ed unione contratte con la casa d'Austria, da molti credevasi che totalmente contrarii alle parole potessero seguire gli effetti; le quali speculazioni derivavano originariamente dalla condizione attuale della Spagna e da un avvenimento semplicissimo seguito in Napoli ed in Roma. È noto che dopo la pace di Aquisgrana, la corte di Spagna, a principal cura del marchese dell'Ensenada, andava incarnando alcuni suoi disegni: gli arsenali tutti in continuo movimento poneano la marineria spagnuola in grado di mandar navi in America, altre tenerne in corso contro i barbareschi, ed unire a un bisogno una flotta capace di misurarsi colle potenze d'Europa; cominciavano a prosperare le fabbriche e manifatture nazionali, malgrado i rigori in Olanda ed in Inghilterra usati per vietare ai sudditi loro che, allettati da privilegii e vantaggi singolari, in Ispagna non passassero coll'industria loro e cogl'istrumenti relativi; la nazione, naturalmente proclive all'inerzia ed all'infingardaggine, già destavasi; terre, che da secoli non aveano sentito zappa nè aratro, aprivano il seno alle benefiche ferite, e largamente premiavano gl'insoliti sudori dell'agricoltore novello: si fortificavano le piazze frontiere, ingrandivansi i porti principali, dentro e fuori d'Europa moltiplicavansi i cantieri; introdotti nelle truppe gli esercizii all'uso franzese o al prussiano; impiegata buona parte de' tesori, dopo la pace del nuovo mondo, a comprar merci da rimandarvi; istituiti grossi banchi nelle principali città commercianti del regno, e sino in Italia, a nome e profitto del regio erario. Cotali vigorose e non mai interrotte operazioni e sollecitudini della corte di Madrid facevano universalmente conghietturare che nudrisse l'idea di turbare la calma d'Europa e dell'Italia in particolare; conghiettura che prese maggior piede quando si seppe che, partita da Cadice una nave, era approdata a Napoli scaricandovi un milione e mezzo di scudi, non mancando chi affermasse, essere la somma destinata a porre il re delle Due Sicilie in istato di aumentare le proprie truppe secondo il disegno tra le due corti fermato. Però gli autori di queste novelle guerriere trovaronsi non poco sconcertati; chè il picciol tesoro americano sbarcato a Napoli, quivi non si fermò, ma sopra cinquanta muli, coperti coll'arme e cogli stemmi della corona di Spagna entrò in Roma, e, depositato nel palazzo Farnese, pochi giorni dopo da quella casa, appartenente al re di Napoli, fu trasportato nel castel Sant'Angelo. Tuttavia non perciò vollero i politici del giorno mutar opinione o linguaggio; pretendevano che fosse destinato a circolare nel commercio sul nuovo banco eretto dal monarca Cattolico in Roma stessa, ed ostinaronsi a sostenere che si avesse poscia ad impiegarlo in acquisti ed usi militari, collocato intanto in sì cospicua fortezza per maggior cautela. Ma la destinazione vera del denaro fu poco stante saputa: passato dal Messico a Cadice, da Cadice a Napoli, e di colà a Roma, apparteneva alla santa Sede, e le fu spedito in forza di un trattato conchiuso tra le due corti, ampliativo del giuspadronato regio sopra i benefizii ecclesiastici della Spagna, e segretissimamente maneggiato. Importava il trattato, diviso in otto articoli: che il re di Spagna ed i suoi successori, oltre la nomina agli arcivescovadi, vescovadi, monasteri e benefizii concistoriali tanto in Europa come nelle Indie, avessero perpetuo il diritto universale di nominare e di presentare indistintamente in tutte le chiese metropolitane, cattedrali, collegiate e diocesi alle dignità maggiori _post pontificalem_; che i sommi pontefici avessero in perpetuo la libera collazione di cinquantadue benefizii, acciò non mancassero del modo di provvedere e premiare quegli ecclesiastici spagnuoli che meritevoli se ne rendessero per probità e illibatezza di costumi, per letteratura, o per servigii prestati alla santa Sede. E siccome pel padronato e pei diritti ai re di Spagna dalla santa Sede ceduti, e per l'abolizione delle pensioni, la dateria e la cancelleria apostolica restavano prive degli utili provenienti dalle annate, con grave danno dell'erario pontificio, così il re di Spagna fece depositare in Roma un capitale di un milione cento trentatrè mille trecento trenta scudi a libera disposizione del papa, e nel tempo stesso assegnaronsi in Madrid, pur a disposizione di lui e sopra il prodotto della crociata, scudi cinque mila annui per mantenimento e sussistenza de' nunzii apostolici. Con tali esborsi il re di Spagna assodava molto più la sua autorità sopra il clero rendendolo dependente da lui solo nel conseguimento dei benefizii, e poteva quindi sopra i beni ecclesiastici, liberati dalle pensioni e dalle annate, imporre quei pesi che le circostanze dalla sua saviezza esigessero. E la camera apostolica, coi frutti della sopraddetta somma in Roma depositata e coi cinque mila scudi assegnati a Madrid, veniva ad essere risarcita dalle perdite, cui per le fatte concessioni soggiaceva. Altro accidente di quest'anno merita di essere notato. L'infante di Spagna don Luigi, ultimo figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, era stato, in età di 8 anni, creato da Clemente XII cardinale, e poscia fatto anche amministratore delle chiese di Toledo e Siviglia. Ora, giunto ch'ei fu all'età virile, sentì una assoluta ripugnanza a rimanere nello stato ecclesiastico, fattogli abbracciare mentre non era in istato di esaminare e di conoscere la sua vocazione, e comunicata al re Ferdinando VI suo fratello la risoluta sua determinazione di abbandonare cotale istituto di vita, ed approvò questi la risoluzione dell'infante, e spedironsi al cardinale Portocarrero, incaricato degli affari di Spagna alla corte di Roma, istruzioni e plenipotenza per trattarsi la rinuncia di don Luigi al cappello cardinalizio, con una lettera di lui, nella quale spiegava i motivi che a tornarne allo stato secolare lo determinavano. Impreso dal cardinale Portocarrero il maneggio, fu l'affare discusso in una congregazione particolare, tenuta in presenza del pontefice, e si conchiuse che le domande del cardinale infante poteano essere esaudite quanto sia alla rinunzia, ma non riguardo alla pensione di cento cinquanta mila scudi che volea riservarsi sopra le rendite delle due chiese di Toledo e di Siviglia, all'amministrazione delle quali rinunziava. Nullaostante, avendo fatto tacere le ragioni in contrario le fortissime ragioni di Stato e di convenienza nella condizione corrente delle cose che vennero allegate, appoggiato eziandio da esempli precedenti di concessioni consimili, fu risoluto di compiacere in tutto e per tutto la corte di Madrid, ed, unita alla favorevole risposta, le fu spedita la formola, secondo la quale seguir doveva la rinunzia del cardinalato, praticando ciò che stato era osservato nel 1709 col cardinale de Medici. Un concistoro segreto, intimato dal pontefice, approvò poi, lui esponente, quanto era stato fatto, ed il cappello cardinalizio così rinunziato venne, ad istanza del re di Spagna, concesso a don Luigi Ferdinando di Cordova, decano della metropolitana di Toledo, indi arcivescovo. Tutta l'Europa parve allora disposta a considerare questo passaggio dell'infante dallo stato ecclesiastico al secolare, come prodotto da motivo politico. Alle quali supposizioni aggiugneva gran peso il vedere che il re aveva assegnato al principe suo fratello, oltre i cento mila scudi come infante di Spagna ed i cento cinquanta mila di riserva sopra le chiese di Toledo e di Siviglia, altri cinquecento mila come grande ammiraglio di Castiglia. Parlavasi adunque da per tutto, e da per tutto davasi per conchiuso un trattato di matrimonio tra il principe secolarizzato e la principessa Marianna infanta di Portogallo. Ma tale matrimonio, ancorchè allora stato maneggiato, non ebbe effetto, e l'infante più di venti anni dopo sposossi con una dama privata, da cui ebbe prole di ambi i sessi. Altro serio affare, però di natura diversa, ebbe subito dopo a trattare il papa col re delle Due Sicilie, fratello dell'infante sopraddetto. Insorta rissa nel porto di Civitavecchia tra i marinari di un bastimento genovese e le ciurme di alcune tartane di Gaeta, si accesero per tal modo gli animi, che, dalle parole venendo ai fatti, rimasero da ambe le parti uccisi alcuni e moltissimi feriti, nonostante che accorso fosse immantinente il presidio della città a fermare il disordine, che potea divenir generale per la parte che mostrava di prendere la plebe a favore dei Genovesi. Ma avendo la piccola artiglieria ceduto il luogo alla più grossa, fecero le tartane di Gaeta così bene giuocare i cannoni che, presto affondarono il genovese bastimento, e poi, salpate l'ancore, uscirono in alto mare, sebbene, costrette dal tempo burrascoso a tornarne in porto, non ne partissero poi che alquanti giorni dopo. Furono immediatamente chiamati a Roma il governatore della città ed il comandante dell'armi a render conto del fatto e delle direzioni da essi tenute. Niuno domandi però se la repubblica di Genova tardasse molto a chieder giustizia e soddisfazione del torto e dell'insulto fatto alla sua bandiera in un porto amico, ed in pregiudizio della pubblica fede e sicurezza. Quantunque sospesi dalle loro funzioni i due uffiziali superiori di Civitavecchia ed aspramente ripresi in Roma, dov'erano stati richiamati; avendo la repubblica insistito sopra le sue prime rimostranze, fu da Roma stessa espressamente comandato al luogotenente di quella marittima piazza di far levare il timone a qualunque bastimento napolitano entrasse nel suo porto. Ed infatti, essendone comparsi tre da lì a non molto, il luogotenente eseguì appuntino gli ordini che avea dal suo principe ricevuti. Ma la corte di Napoli, la quale al primo avviso dell'accaduto a Civitavecchia avea fatto arrestare i padroni delle tartane rissose, ed ordinatone il processo, sentendo adesso che, per dare soddisfazione a' Genovesi, quella di Roma avea sospeso dall'impiego il governatore della città e fatti pure arrestare i tre navigli napolitani che si è detto, diede suoi ordini perchè si fermassero tutti i bastimenti di bandiera pontifizia nei porti delle Due Sicilie, facendo dal suo ministro in Roma chieder soddisfazione del torto fatto ai legni de' suoi sudditi. Se non che, postosi in trattative l'affare, rimase amichevolmente composto, e dopo reciproche spiegazioni delle tre corti, rimesso, con comune soddisfazione delle medesime, il governatore di Civitavecchia nel suo uffizio. Benedetto XIV fu un pontefice che, mostrando sempre animo veramente sacerdotale, conosceva però egregiamente le differenze dei tempi, e come fosse da concedere alle domande o alle preghiere dei principi tutto ciò che al dogma ed alla sostanza della religione non si appartenesse. Così accomodò egli amichevolmente la vertenza in quest'anno insorta col re di Napoli per la pensione di sei mila scudi concessa al terzogenito di lui sopra il vacante ricchissimo arcivescovato di Montereale in Sicilia; così con fermezza diè termine all'altra sopravvenuta col re stesso, e con quelli di Sardegna e di Polonia riguardo alla promozione al cardinalato dei nunzii pontifizii appo quelle tre corti. Altra occasione ebbe il Lambertini in questo anno di esercitare l'animo suo conciliativo calmando le differenze insorte fra il gran maestro di Malta ed il re delle Due Sicilie. La discordia avea già sparso il suo veleno: i due principi erano in piena rottura, ed il più debole de' due contendenti già ne sentiva i funesti effetti. Ma per ben intendere le cagioni della contesa è giuoco forza farsi dall'origine. Quando l'imperadore Carlo V donò l'isola di Malta a' cavalieri gerosolimitani, da Solimano re de' Turchi stati nel 1323 scacciati dall'isola di Rodi, che aveano per più di due secoli posseduta, vi pose egli la condizione che la tenessero in qualità di feudo dipendente da lui come sovrano delle Due Sicilie; che dovessero pagargli annualmente il giorno di tutti i Santi un falcone; che il vescovato di Malta restasse, qual era, giuspadronato suo e de' suoi successori, sì che, in caso di vacanza della sedia vescovile, il gran maestro avesse a presentargli tre soggetti idonei, tra' quali scegliere il nuovo vescovo. Trascorsi più di due secoli, ne' quali il regno delle Due Sicilie era stato provincia della Spagna, e per un tratto parimente provincia della casa d'Austria, senza che si fosse pensato a far valere quest'ultimo diritto principalmente, stimò il re don Carlo di avere ragioni sufficienti per esercitarlo; quindi ordinando al vescovo di Siracusa, come metropolitano, di passare a Malta e farvi una visita pastorale. Ubbidì il vescovo e mandò innanzi i suoi visitatori; i quali presentatisi sopra un bastimento napolitano a vista dell'isola, non osarono poi di mettervi il piede, per l'opposizione che ragionevolmente previdero di dover incontrare per parte degli abitanti, che, avvisati del motivo della loro comparsa, eransi affollati alla spiaggia, dichiarando sè non soffrire in verun modo che si facesse mai tra di loro una simile visita. Appigliaronsi dunque i visitatori al prudente partito di abbandonar l'isola e tornarne in Sicilia. Il gran maestro della religione stimò bene di dar parte dell'attentato al pontefice non meno che a tutte le altre potenze d'Europa, e nel tempo stesso spedì a Napoli il balì Duegos per esporre a quella corte non contrastarsele il diritto nella sua origine, ma doversi assolutamente riputare, se non estinto e nullo, almeno inefficace e invalido per lungo tratto di tempo in cui rimase disusato. Il pontefice, al primo avviso di cotale differenza, tenne una congregazione di cardinali e prelati, e scrisse al re di Napoli per persuaderlo a desistere da un'impresa ch'egli giudicava inopportuna e senza fondamento. Ma il re, non avendo creduto di condiscendere all'opinione del papa, fece sapere che se continuavasi a ricusare i visitatori che sarebbero mandati a Malta, farebbe sequestrare le rendite delle commende che i cavalieri Gerosolimitani ne' suoi Stati possedevano. Ed il gran maestro dal canto suo dichiarò che, qualora le cose giungessero a tale estremo, egli terrebbesi giustificato di far sequestrare le rendite che godevano in altri Stati i commendatori nati sudditi del re delle Due Sicilie, e richiamò da Napoli il balì Duegos. Sciolto per tal modo ogni trattato, la corte di Napoli, in conseguenza della risoluzione presa di mantenere il vescovo di Siracusa nel gius di far la visita nel vescovato di Malta, colà mandò lo stesso prelato in persona: ma nè il suo viaggio fu più felice di quello dei suoi deputati, avendo dovuto tornarsene addietro senza aver posto piede in terra. Presentatovisi poi una seconda volta, il gran maestro mandogli incontro una barca per avvisarlo, che, persistendo nell'intenzione di scendere a Malta, si sarebbe fatto fuoco sopra il suo vascello per costringerlo ad allontanarsi; laonde il vescovo, voltato bordo, tornò alla sua chiesa. Avvisata la corte di Napoli del nuovo rifiuto, mandò ad effetto le sue minaccie: interdisse ogni commercio fra i porti delle Due Sicilie e l'isola di Malta; proibì a' suoi sudditi di colà trasportare derrate o provvisioni di qualunque altro genere; e sequestrò tutte le commende dell'ordine che trovavansi ne' suoi dominii. Il gran maestro, in rappresaglia, dopo ordinato a' sudditi suoi di rivolgersi alla Sardegna ed alle reggenze di Barbaria per le provvisioni che prima traevano dalle Due Sicilie, sequestrò anch'egli le commende che i cavalieri napolitani godevano in altri paesi. Inasprivano gli animi; il commercio s'interrompeva: ed i popoli, vittime innocenti di una discordia che non potea interessarli, ne gemevano al peso. Il Mediterraneo coperto di legni barbareschi; le coste meridionali dell'Italia e le pontifizie in ispezialità, esposte alle piraterie africane, più non vedevano in loro difesa le galee maltesi, ridotte a convertire l'oggetto primario della loro istituzione in quello di procacciar alimenti agli abitatori dell'isola loro. Vero è che il gran maestro erasi rivolto alle corti di Vienna, di Francia, di Spagna e di Portogallo, pregandole d'interporre i loro buoni ufficii in questo affare; ma preoccupate da alcuni riguardi, e specialmente da quello di non pregiudicare alla gloria del re Carlo, intaccando i diritti e le prerogative della sua corona, ristrinsero le sollecitazioni principalmente a far rivocare da Sua Maestà siciliana ii suo decreto, lasciando le cose nello stato in cui erano precedentemente. Non condiscese la corte di Napoli al proposto temperamento; ma, insistendo il pontefice nelle paterne sue istanze presso la medesima, ambe le parti accordaronsi in questo, di rimettere ogni cosa nelle mani del Lambertini. Il quale, come vicario di Gesù Cristo, scrisse di proprio pugno una lettera al re don Carlo, in cui con l'eloquenza che gli era propria, lo pregava di ridonare la sua buona grazia alla sacra religione di Malta, ed a non negargli il contento di una favorevole risposta. Don Carlo, che sul trono delle Due Sicilie, come poi su quello di Madrid, presentò alle genti nella sua persona il modello di tutte le virtù, che fu sul soglio reale quale, se nato suddito, avrebbe bramato il proprio sovrano; pieno di umanità e di religione; avverso alle guerre e persuaso che la felicità de' popoli al suo governo affidati non dall'arte dipendesse di sterminare i suoi simili, ma dalla probità, dalla buona fede e dalla purità dei costumi in chi governa; affezionato in particolar modo a Benedetto XIV; don Carlo, ricevuta ch'ebbe la lettera, gli rispose, essersi commosso dalle vivissime istanze di Sua Santità in proposito delle differenze con l'ordine di Malta, sentito disposto ad avere ogni riguardo ad una intercessione cui doveva per tanti titoli riverire; avere perciò dato ordine perchè fosse riaperto il commercio dei suoi Stati coll'isola di Malta, e levato il sequestro de' beni della stessa religione; confidarsi però che, come Sua Santità nella sua lettera lo assicurava, la risoluzione così presa non produrrebbe la benchè minima ombra di pregiudizio a' suoi diritti, ma anzi, all'incontro, quelli che possedea nell'isola e sopra la chiesa di Malta, qualunque fossero, rimarrebbero in tutta la loro forza e in pieno vigore. Anno di CRISTO MDCCLIV. Indizione II. BENEDETTO XIV papa 15. FRANCESCO I imperadore 10. All'inaspettata alleanza, anzi alla futura parentela nell'anno precedente convenuta tra la casa d'Este e quella d'Austria, che invece di consolidare parea ad alcuni che metter dovesse in pericolo la quiete dell'Italia; al pacifico concordato della corte di Spagna con quella di Roma; alle moleste sì, ma non sanguinose differenze insorte tra Roma, Genova e Napoli, e tra questa corte e la religione di Malta, che peraltro avrebbero potuto turbare l'italiana tranquillità appena nata; successe quest'anno sulla riviera occidentale di Genova un caso che parea dover produrre un grave incendio. Sollevaronsi i popoli di S. Remo e di Campofreddo. O sia che la piccola comunità di Cola, dipendente da S. Remo, si fosse richiamata alla repubblica di Genova per la gravezza delle taglie che le si faceano portare, o sia che insorgesse la discordia per qualche novità intorno a' confini voluti stabilire, oppure per entrambi cotali motivi; fatto è che il popolo di S. Remo, facendo risuonare voci di libertà, di cui credeva di dover godere a fronte del sovrano dominio della repubblica, dato di piglio alle armi, si mostrò disposto a scuoterne intieramente il giogo. Informato il governo di Genova che quegli abitanti eransi assicurati della persona del commissario Doria e delle truppe state colà spedite per metter fine alle dissensioni tra S. Remo e la comunità di Cola, mandò tre galee, una bombarda e vari bastimenti da trasporto carichi di truppe sotto il comando del generale Agostino Pinelli. Ora, avendo il generale fatto incontanente avanzare una scialuppa con tamburo che intimasse agli abitanti di consegnare fra due ore la persona del commissario Doria e la sua famiglia alle truppe della repubblica, in pena del ferro e del fuoco e di essere passati a fil di spada; la scialuppa stette due ore alla spiaggia, e poscia condusse due deputati, i quali dissero al generale che, dipendendo quanto egli domandava dalla volontà del popolo, non era possibile dargli soddisfazione dentro il poco tempo prescritto. A tale dichiarazione il generale ordinò le ostilità contro i ribelli; quindi le galee e la bombarda fecero un fuoco che durò tutta la notte; i ribelli dal canto loro rispondendo con alcuni cannoni da campagna che trovavansi a loro disposizione. Sul far del giorno le truppe sbarcarono in una spiaggia distante due miglia dalla città, senza incontrare opposizione di sorta; ma di mano in mano che i granatieri verso la città avanzavano, i contadini, dalle case, dalle muraglie, dagli ulivi, facevan loro fuoco addosso, sostenuti da altri che eransi in varii siti appostati. A fronte di tale resistenza, i granatieri, fatti forti da alcuni corpi di milizia alamanni, procedettero arditamente contro i ribelli e si impadronirono de' posti più importanti delle vicinanze di S. Remo. Mentre il generale Pinelli dava le disposizioni necessarie per compire l'impresa, vennero a lui da parte del popolo due nuovi deputati per sottomettersi a patto d'aver salva la vita, l'onore ed i beni. Rispose il generale che bisognava subito consegnargli il commissario Doria, come avea precedentemente domandato, e ritenendo i messi, permise loro di far sapere in iscritto le sue intenzioni ai ribelli. Si prevalsero questi adunque della accordata permissione, ed in fatti poco stante capitò il commissario Doria, e con esso altri quattro deputati per supplicare il generale di annuire alla grazia già prima implorata. Rimandolli egli con isdegno, soggiungendo che dovessero consegnare tutte le armi, ed appartener poi alla repubblica, alla cui clemenza si avevano a rimettere, il conceder quello di che pregavano; nè valsero preghi o lagrime dei deputati a commuovere quel capitano dell'armi genovesi. Ebbesi però un armistizio, ed il giorno appresso la città si arrese a discrezione. La prima notte ed il giorno appresso stettero le cose in calma; ma la seconda notte il generale fece arrestare nel proprio letto molte persone, e chiamati il consiglio di reggenza ed il parlamento, ingiunse loro di pagare in termine di due ore ottanta mila lire; e come nel prefinito spazio non avea potuto essere consegnato il denaro, fece arrestare e il parlamento e la reggenza, guardandoli i soldati colla baionetta in canna. Pagata poi la somma, ciascun credette di tornare a casa sua; ma il capitano, prima di lasciar libero il parlamento, esigette lo sborso di una somma eguale; e contata anche questa due giorni dopo, intimò che dentro otto giorni si dovessero pagare altre cento mila lire. E procedette più innanzi: fatti imprigionare molti ecclesiastici e secolari, fu il priore di consiglio di reggenza, con altri personaggi graduati, rinchiuso nel palazzo del generale, il cui proprietario non potè trattenersi dal dirgli: _V. E. non mantiene la parola data ai deputati, che i cittadini avrebbero salve la vita e la roba; _rimprovero che il punse tanto nel vivo che minacciò delle forche chi glielo faceva. Siffatte asprezze e molte altre ancora spaventarono ed irritarono talmente i Sanremani, che la maggior parte ritiraronsi nelle vicine montagne dette delle Langhe, feudi imperiali sotto il dominio del re di Sardegna, quivi, in numero di due mille cinquecento, campeggiando alla meglio sotto tende e baracche, non rimasti quasi in città se non i vecchi, le femmine ed i fanciulli. Corse allora opinione che un pugno di gente ridotta a tanto estremo, non avrebbe tardato molto a sottomettersi a qualunque legge volesse imporgli la repubblica di Genova; ma assai male conosceva gli uomini e le storie chi in tal modo pensava. I Sanremani spedirono lor deputati a Vienna a chieder contro la repubblica giustizia dall'imperadore Francesco, qual da signore diretto di quel feudo, e segretamente implorarono la protezione del re di Sardegna. O che la repubblica ignorasse quei maneggi, oppure, cosa più verisimile, fingesse d'ignorarli, per finire le cose senza ulteriori strepiti e disturbi, fece pubblicare un editto nel quale, dopo avere esposto con tutta l'enfasi il peso e l'enormità del delitto, di cui erasi resa colpevole quella popolazione, tuttavia, per effetto di somma clemenza, prometteva un perdono generale a tutti, prefiggendo un termine discreto al ritorno di coloro ch'eransene fuggiti, soli eccettuati quattordici dei principali sediziosi. Ma i fuorusciti delusero le aspettative comuni, che, invece di tornarne alle case loro sottomessi ed umiliati, cercarono ricovero in Oneglia, terra del re di Sardegna, e l'ottennero da quel principe, che senza punto ingerirsi nelle querele loro colla repubblica, credette di non poter negare ad essi un asilo che il diritto di natura e quel delle genti non consentono che a verun rifugiato si nieghi. Genova si scosse alla novella, ma viemmaggiormente fu commossa allorchè intese che i deputati di San Remo avevano a Vienna ottenuto che fossero ricevuti dal consiglio aulico i loro ricorsi e fattane poi la relazione all'imperadore. Nè basta; venne altresì la repubblica assicurata che l'imperadore aveva fatto spedire un rescritto, in cui ordinava alla medesima di dovere intorno a fatti esposti dai Sanremani informare nel termine di due mesi; rescritto di cui si sparsero molte copie negli Stati della repubblica, in S. Remo e nella stessa Genova. Quanto moto si desse la repubblica contro queste imperiali disposizioni, ciascuno se l'immagina, e basterà dire che per altro tornarono tutti i suoi passi infruttuosi. Ma non si poteva che lo stabilimento dei Sanremani sulle terre del re di Sardegna, e molto più il favore da essi trovato presso la corte di Vienna, non accrescessero le male disposizioni d'animo dei Genovesi contro di loro. Laonde il commissario che a San Remo per la repubblica dimorava, si credette giustificato di trattarli con modi poco cortesi, spingendo anche le parole e le vie di fatto contro il vescovo di Albenga, il quale in questi commovimenti si trovò troppo propenso ai sollevati, e fu poi costretto a ritirarsi cogli altri ad Oneglia. Nel mezzo tempo molto più gravi erano le cure e più decisive le operazioni della repubblica di Genova per la ribellione della Corsica, ch'era già presso il terzo lustro. Abbiamo già veduto a svanire i bei disegni e le lusinghiere speranze del marchese di Cursay, che di tanti pensieri e tanti maneggi si ebbe a guiderdone la prigionia in Antibo, benchè poi si purgasse dalle accuse che la repubblica gli avea poste addosso, e così fosse liberato. Il colonnello di Curcì, che gli succedette nel comando dell'armi franzesi nell'isola, scorgendo l'insuperabile avversione dei Corsi al già divisato regolamento, formava nuovi progetti; ma, ignaro della mente del suo sovrano riguardo i Corsi, si affaticava indarno. I Corsi bensì che non solo prevedevano, ma erano quasi certi della vicina partenza delle milizie franzesi, dimentichi affatto di tutta quella buona armonia ch'era con esse passata, e non riguardandole se non come gli strumenti de' quali erasi la repubblica servita per soggiogarli, non ebbero ribrezzo ad attaccarle in modi crudelissimi, giungendo a spogliar nudi affatto quelli che cadevano loro in mano e in quello stato rimandandoli ai loro compagni, fra gli orrori del verno, per mezzo alle nevi; crudeltà che crebbero a dismisura allorchè nel mese di febbraio giunse in Corsica un uffiziale franzese cogli ordini della corte di far tosto ritirare dall'isola le truppe. Gravi furono i pensieri del comandante per preservarsi dagl'insulti e dal danno nella ritirata, e sagge le misure da lui prese all'importantissimo fine; ma tutte le sue precauzioni non riuscivano felicemente. I Corsi vegliavano sopra tutti i movimenti ed accorrevano da per tutto. Divisi in piccioli manipoli, bloccavano i Franzesi nelle torri e negli altri posti, impedivano loro le munizioni da guerra e da bocca, finalmente protestavano che avrebbero strozzati tutti i Franzesi, se nell'abbandonare le piazze ed i luoghi da essi occupati, a loro non li consegnassero; ed erano tali da tener la parola. Nè le attenzioni vere o simulate del principale capo Gian Pietro Gaffori avevan forza di trattenere i Corsi, sì che da ogni parte continuassero ad attaccare i Franzesi che erano in cammino per unirsi al loro capo: e guai a quelli che per istanchezza o cagione altra qualunque rimanevano indietro o si scostavano alcun poco dai compagni! Soli i distaccamenti di là dei monti furono meno inquietati, e si ridussero tutti sani e salvi in Aiaccio. Intanto ogni cosa era ormai disposta per la partenza, nè altro mancava che di ottenere da Gaffori e dagli altri Corsi la restituzione de' soldati da essi tenuti prigionieri. Ma fu impossibile indurgli a tanto, finchè con una specie di capitolazione il comandante franzese non si obbligò di consegnar loro la piazza di San Fiorenzo; promessa che però ei non fu in poter di mantenere per la costante opposizione che vi fece la repubblica. Nel qual fatto delusi i Corsi, tennero immediatamente un congresso nel convento di Oletta, in cui unanimi determinarono di non voler più sentire a parlare di soggezione verso qualsiasi potenza, ma sì bene governarsi da sè medesimi coi magistrati proprii e colle proprie leggi. Sul principio di primavera, giunte le navi che trasportare doveano le truppe franzesi, abbandonarono esse finalmente, dopo cinque anni di soggiorno la Corsica, seco non portando altro frutto delle loro fatiche, fuorchè un'idea giusta del valore e dell'entusiasmo de' Corsi, i quali, pratici dei siti, fieri per carattere, ostinati per impegno, avrebbero disputato a chiunque il possesso della loro isola, e se si fossero formata di sè la giusta idea che la Francia in quella occasione e la maggior parte de' sovrani ne avevano concepita, forse si sarebbero formata una sorte migliore; ma allora badavano più alle private passioni che al ben comune. Appena partiti i Franzesi, si vide una manifesta prova di questo loro modo di pensare. Imperciocchè, essendosi di bel nuovo adunati per consultare intorno al modo del governarsi ed ai mezzi di mettersi del tutto in libertà, insorsero fiere dissensioni fra loro, e dalla discordia dei capi provennero amarissime conseguenze. Gaffori, capo principale de' malcontenti, di severità eccessiva, non avea difficoltà alcuna, per lievi motivi, o per sospetti, di far arrestare le persone più cospicue e qualificate, come appunto, fece in questo tempo di un Giuliano, il primo certo fra i Corsi dopo di lui; ed a quattro pievi ch'erano entrate in negoziazioni col commissario Grimaldi per sottomettersi di bel nuovo alla repubblica, fece patire una esecuzione militare, che, invece di atterrire, irritò gli animi di tutti. Il Grimaldi era a giorno di tutto, e d'ogni cosa cercava destramente d'approfittare. Dopo di avere accolto favorevolmente i deputati delle dette quattro pievi, e fatto ad essi sperare sommi favori, per invogliare così altre comunità ad imitarne l'esempio, e dopo fomentate le discordie dei malcontenti, di tutto informò la repubblica. Allora non differì essa di far pubblicare un editto di perdono generale e di obblio del passato per quelli che, deponendo l'armi, fossero ritornati all'antica ubbidienza; ed a questo passo ne tenne dietro un altro dello stesso commissario, in cui dimostrava ai Corsi non rimaner loro altro partito che di attendere gli effetti della clemenza di Genova; poichè e un grosso rinforzo militare che dovea fra poco essergli spedito, e gli ordini dati dai re di Spagna, Francia, Inghilterra, Napoli e Sardegna per vietare rigorosamente alle navi de' loro sudditi di poter trasportare nell'isola nessuna sorte di munizioni, da guerra specialmente, e il cattivo stato della Corsica, ed il vicino cambiamento di sentimenti nella repubblica verso di essi, gli avrebbe poi ridotti a pentirsi invano di non aver saputo approfittare di circostanze sì favorevoli per essi. Convien dire che qualche impressione facessero sull'animo de' Corsi le parole del Grimaldi, poichè essendosi i capi radunati insieme più volte, fu stesa una scrittura in ventidue articoli, ne' quali stavano le condizioni, colle quali si sarebbero rimessi nella soggezione della repubblica; e sebbene non fosse espressa in termini convenienti, come lo stesso Grimaldi, cui fu presentata, fece ai deputati vedere, la spedì egli a Genova, e si trattò fra' Corsi di eleggere persona saggia e prudente, cui affidare la cura di quel dilicato maneggio. I voti comuni raccoglievansi nella persona del cavaliere Gian Francesco Brerio, illustre Corso, degno per le sue qualità della confidenza della sua nazione, e abilissimo all'uopo, per l'esperienza acquistata nel trattar gli affari di molte potenze, presso le quali era estimato e lodato; quando, giunti da Balagna due deputati del canonico Orticoni, famoso raggiratore, di fresco ripatriato dopo luogo esilio, chiedendo in nome di lui che gli fosse affidata l'importante commissione, mandarono a vuoto il partito presso a conchiudersi. Se non che un avvenimento molto più grave terminò di rovinare ogni cosa: l'assassinio di Gaffori. Lasciate dall'un de' lati le molte cose immaginate e dette intorno ai motivi ed a' segreti autori del misfatto, basterà dire che quel capo erasi fra' suoi fatti molti nemici, e che il commissario genovese vedeva in lui il più potente ostacolo ai desiderii della repubblica. Uscito per tanto un giorno il Gaffori a passeggiare o in un giardino alla campagna o sulla pubblica strada, fu d'improvviso colto da più colpi di moschetto sparati contro di lui, e che lo stesero morto a terra con un suo parente che stavagli a lato e che spirò pochi momenti dopo di lui. Tal fine ebbe questo capo de' Corsi, che ne avea titolo di governatore e capitano generale. Uomo pieno di coraggio e di zelo per la patria, ma violento e vendicativo, e forse dominato troppo dalla passione di comandare. Ma quello che destar deve maggior orrore si è che un suo fratello medesimo venia fra' congiurati alla sua morte. Arrestato costui con molti altri complici, fu con trentasette voti contro tredici condannato ad esser rotto vivo in prigione, e prima di morire confessò tutta la congiura. Altri complici furono giustiziati, altri alla pena si sottrassero colla fuga. Fatti all'estinto Gaffori solenni funerali, ne' quali offiziò il canonico Orticoni, gli fu pur recitata funebre orazione. Terminate le quali lugubri funzioni, si radunò di bel nuovo la nazione, e quivi pronunziò la pena della morte, dell'infamia e della devastazione dei beni contro qualunque Corso avesse osato parlare di riconciliazione con Genova. Quasi universale intanto prevaleva in Corsica la persuasione che l'assassinio di Gaffori fosse seguito per seduzione e ad istigazione della medesima e del suo commissario Grimaldi, tanto più che fu divulgato come cosa certa essersi all'arrestato fratello trovate due lettere, nelle quali se gli prometteva il premio di due mila lire per l'esecrabile fratricidio. Anno di CRISTO MDCCLV. Indizione III. BENEDETTO XIV papa 16. FRANCESCO I imperadore 11. Mentre la guerra continuava a travagliarsi con varii ma deboli accidenti, in Corsica, venne surrogato dalla signoria genovese al commissario Grimaldi il marchese Giuseppe Doria, il quale, come giunse in Bastia, mise innanzi ragionamenti di concordia, e procurò di indurre i popoli all'obbedienza colla dolcezza; ma la dolcezza del Doria non valse più dell'acerbità del Grimaldi. La sperienza ammoniva i Corsi che dopo la morte del Gaffori niuno restava a cui con animi concordi la nazione concorresse, e che potesse stagliare quei gruppi di tante fazioni. Pure sapevano che la discordia mena a servitù. Di Matra poco si fidavano, che anzi un fiero sospetto era venuto loro in cuore, ed era, che avesse partecipato nella congiura per dar morte a Gaffori. Degli altri capi, nessuno avea tanto credito che riunire potesse in un sol volere ed in un solo sforzo e chi dissentiva e chi tiepido se ne stava. Volsero gli occhi in Corsica, li volsero fuori, per iscoprire se uomo al mondo vivesse, il quale fosse e sicuro per desiderio di libertà, e capace per ingegno, ed ammaestrato per esperienza di cose militari, onde di lui tanto promettere si potessero che divenisse liberatore e salvatore della patria. Sovvenne loro che vivea in Napoli, ai servigi militari di quella corona col grado di colonnello, Giacinto Paoli, antico loro capitano, che, disperate le cose dell'isola nel 1739 pei successi guerrieri di Maillebois, si era in quel regno ritirato. Aveva con sè allora il suo figliuolo Pasquale, che nella milizia napolitana occupava il grado di tenente, e nel quale, sebbene ancora nella giovane età di ventidue anni, risplendevano segni di animo libero ed invitto. Qual fosse questo Pasquale, lo dice un autore anonimo, che scrisse con verità e senza adulazione ed odio per nissuna delle parti le cose di Corsica. Avuta il padre di lui favorevole accoglienza alla corte di Napoli, si pose in grado di dare al figlio la migliore educazione di cui potesse far copia quella città. Quivi fatti adunque Pasquale i suoi studii, tra' quali quelli di etica sotto Antonio Genovesi, senza dubbio uno de' principali ornamenti d'Italia, a ciò non si stette; ma risoluto di portare più oltre i passi nel sapere, quantunque entrasse al servizio militare assai per tempo, la sua grande ambizione fu d'informarsi a fondo degli antichi Stati di Grecia e Roma. Così ei si pose perfettamente in possesso Tucidide, Polibio, Livio e Tacito; nè per ostentazione, ma per uso, imperciocchè si studiasse di far sue proprie le loro cognizioni, ed ei medesimo confessasse essere sua speranza di formare sè stesso sui modelli d'uomini tali quali furono Cimone ed Epaminonda. E, a vero dire, egli si era loro avvicinato quant'è mai possibile nell'eleganza della condotta e nell'amore delle lettere, egualmente che in un appassionato desiderio di servire la sua patria. Trovossi in procinto di avere un reggimento, e lo tenne sempre come la più grande sventura che gli potesse accadere, come quella che gli dovea impedire di andar a liberare la sua patria dai Genovesi, come ebbe sempre in pensiero. Ad una nazione incolta stava apprestando la provvidenza un uomo colto, ad uomini furibondi un uomo di pacato ingegno, a guerrieri, che meglio sapevano combattere le battaglie che non prepararle, un guerriero, in cui l'arte eguagliava il valore. E per frenare un'incomposta e disordinata furia, Paoli era molto accomodato; poichè, sebbene da Corso odiasse i Genovesi, d'indole sedata era, ed in lui l'operare procedeva piuttosto da fortezza abituale che da impeto passeggiero e facile a svanire. In somma, vero e sincero parto del secolo decimottavo fu Paoli, ma però prima che il secolo dagli abbaiatori e dagli ambiziosi si guastasse. A Pasquale Paoli pertanto pensarono i Corsi, e lui delle necessità della patria ammonirono, e a lei il pregarono che soccorresse. Il dabbene e forte giovane vide qual difficile impresa gli si apprestava. La ferocia e l'ostinazione delle parti erano malagevoli, e forse impossibili, a domarsi; Genova ricca e forte in paragone della Corsica, per peggiore sua sorte notata di ribelle; le ambizioni degli antichi capi, massimamente quella del giovane Mario Matra, più ambizioso di tutti; nè ignorava che i capi de' Corsi, se infelici nell'amministrare la guerra, perdeano con essi la causa; se felici, erano a tradimento ammazzati: i casi di Sampiero e di Gaffori erano tali da spaventare qualunque più intrepido amatore della sua patria. Ma vinse in Paoli il desiderio della gloria, vinse il desiderio della libertà: rispose adunque essere parato, accingersi volentieri all'alto proposito, tutto dare sè stesso alla salute della patria. Navigato felicemente, prese Pasquale Paoli terra a foce di Golo a dì 29 aprile; e soffermatosi alquanto d'ora al vescovato, volse poi i passi a Rostino, dove era nato. Come prima si sparse il grido essere arrivato il figliuolo di Giacinto, figliuolo degno di degno padre, concorsero i popoli bramosamente a vederlo, sperando che, se la somma delle cose loro reggesse, conservare potrebbero il nome e la libertà corsa. Nel mese di luglio fecesi, per mezzo de' capi eletti, un parlamento di tutta la nazione a Sant'Antonio di Casabianca, paese della pieve d'Ampugnani. Paoli, trovato ne' cittadini riscontro ai suoi desiderii, v'intervenne. Fu con consentimento unanime chiamato generale delle armi e capo della parte economica e politica del regno, con autorità piena e libera, fuorchè nei casi ne' quali si trattasse di materie di Stato, sopra cui deliberare non potesse senza l'intervento di due consiglieri di Stato e dei rispettivi rappresentanti di ciascuna provincia. Legossi per fede, e giurò, in cospetto della nazione a parlamento adunata, che fedelmente ed in benefizio della libertà le potestà userebbe che la patria gli dava. In sul limitare stesso del preso magistrato poco mancò che Paoli non perisse. L'invidia degli emuli gli fu subito addosso. Mario Matra, sopra tutti, giovane, siccome si è osservato più sopra, ambizioso e feroce, e per nascita nobile e per sostanze dovizioso, con grave sdegno aveva sentita l'esaltazione del capitano generale, ed ogni mezzo andava macchinando ed ogni via cercando per torgli quella superiorità, cui cotanto egli odiava. Immenso odio in sè medesimo annidando, dovunque vedeva un uomo odiatore di Paoli; od in qualunque modo amatore di risse e di scandali, tosto a lui ricorreva, il tentava, e contro l'emulo lo spingeva. E pretesseva anche parole di libertà, accusando il capitano generale del volersi servirò dell'autorità datagli per istabilire la tirannide. Sommovitrici parole sono sempre queste pe' popoli, più sospettosi di perdere la libertà, che savii per conservarla. Ma i popoli corrono dietro, come pecore, agli ambiziosi che gridano tirannide, quando c'è libertà. Matra gridava e chiamava Paoli tiranno; non pochi si lasciavano sollevare dagli umori torbidi di questo commovitore, intorno a cui si faceva concorso. Ai sospetti, alle maldicenze si aggiunsero alcuni privati sdegni. Il vecchio vizio, vogliam dire l'amore della vendetta, tuttavia predominava, e per quanto avessero fatto i governi precedenti per estirpare questa velenosa pianta, nuovi rampolli ella sempre mandava fuori, se non peggiori, almeno altrettanto maligni dei primi. Solo aveva tregua il feroce talento quando i popoli andavano alle battaglie contro i Genovesi; ma finite le battaglie, i Corsi si ammazzavano partigianamente fra loro. Paoli, che intendeva non solamente a libertà, ma ancora a civiltà, applicò tosto l'animo a sanare questa peste. Cominciò colle persuasioni, cui davano peso il suo nome, l'amore dei popoli, la fresca autorità; che non mai dal collo si leverebbero Genova, se con le proprie mani continuassero a distruggersi; fare loro, insanguinandosi nel sangue corso, ciò appunto che i loro nemici desideravano; non le mani raffreddate dalla morte, ma le vive alcuna cosa potere contro gli oppressori, nè mai esservi di mani vive troppa copia contro di chi tanto può. Quindi, dalle parole venendo ai fatti, stabilì in ciascuna provincia, ed in altri luoghi che gli parvero opportuni, certi magistrati con facoltà di giustizia pronta e sommaria a terrore de' feritori e degli omicidi. La giustizia sempre è più rispettata quando ella è più imparziale, e si esercita egualmente senza eccezione di persone, quali esse sieno e di qual nome si chiamino. Ora accadde che un parente di Paoli, trovato reo di omicidio, fu sentenziato a morte; i parenti pregavano per la grazia; i popoli stavano a vedere che si facesse. Comandò che si facesse giustizia, il reo fu passato per l'armi: fruttifero esempio. Da allora in poi divennero rari gli omicidii, benefizio immenso del giovane capitano chiamato a sanazione della Corsica, il quale maggiormente poscia il confermò con andar esso stesso girando per l'isola, principalmente col fine di vedere se si ministrasse buona e retta giustizia. Ma un altro caso avvenne che fu cagione di atroci sdegni, e, destando molti a nemici pensieri, accrebbe forza alla fazione del Matra. Trovandosi Paoli a Campoloro, bandì dell'isola e castigò colla confisca de' beni un Ferdinando Agostini, reo di tentato omicidio. Era parente di costui Tommaso Santucci di Alessani, stato poc'anzi uno de' quattro membri del consiglio segreto di Stato. Sendo personaggio d'importanza, credettesi di ottenere facilmente la remissione della pena, ed a tal fine pregò il capitano generale. Ma Paoli, che al pro di tutti non di alcuno solamente mirava, e che già un suo parente stesso aveva lasciato al corso della giustizia, la preghiera inflessibilmente sostenne, e per quanta pressa gli si facesse intorno, non volle consentire. Santucci sdegnato, e segnatasi altamente nell'animo l'ingiuria che si credeva di avere ricevuto, andò ad unirsi a Matra, a cui già erano venuti, per odii occulti o palesi o per mera ambizione, altri principali Corsi, per modo che già formavano un'intera intelligenza considerabile. Vi vennero un secondo Santucci, un Angelo Colombani, un Cotani, un Paganelli con molti seguaci, ed adunatisi nel convento dei Francescani, chiamarono loro capo contro Paoli il Matra. Questo moto si andava ingrossando per la giunta di nuovi settarii e di ogni facinoroso avido di fare il suo pro nelle turbate cose. Non sì tosto Paoli, che stava in orecchi e vegliava questi moti, ebbe avviso della sollevazione di questi uomini scandalosi e ribelli alle voglie della patria, prevedendo quanto fatale potesse essere quell'incendio sul principio del suo magistrato, chiamò gente delle pievi meglio affette; e divenuto grosso e potente sui campi, avviossi verso Alessani, per porre il piede su quelle prime faville. Ma l'emulo suo, che s'era imboscato in quella pieve con duemila de' suoi, l'assalì così all'improvviso, mentre passava, che fu rotto e quasi del tutto abbandonato da' compagni, ed alle maggiori fatiche del mondo potè salvarsi nel convento di Campoloro. Se Matra fosse stato presto a seguitare l'impeto della fortuna favorevole, avrebbe ottenuto piena vittoria dell'avversario. Ma stimando di avere vinto quando l'altro poteva ancora risorgere, temporeggiò, se ne stette a bada, ed, in cambio di correre a Campoloro, s'incamminò verso Corte, vincitore sè medesimo predicando. In questo mezzo tempo Paoli non mancò a sè stesso, e non che il suo coraggio si abbattesse, più vivido anzi risorse. Fece quivi veramente grande sperimento della sua virtù, discorse bene le condizioni del tempo, chiamò di nuovo i suoi Rostinchi, levò a rumore tutte le terre del comune, che sono appunto Rostino con le pievi di Orezza, Ampugnani, Casacconi e Vallerustie. Le novelle genti di Paoli arrivarono in suo aiuto unite in una schiera di tre mila furiosi paesani, che assaltati i Matreschi, li misero in fuga per Alessani. Il fugato Mario Matra ritirossi primieramente in Serra, poi in Aleria, dove aveva le sue possessioni; ma tornò in campo con nuovi seguaci raccolti nelle pievi di Castello, Rogna ed Aleria. Novellamente restò vinto e costretto a rifuggirsi in quel suo nido di Aleria, dove girava gli abitanti in ogni sua voglia; ma accortosi che con le proprie forze non poteva ostare all'avversario, si diede in braccio a Genova, non abborrendo dal vincere quello con la servitù de' suoi, purchè vincesse. Tali sono gli ambiziosi. Andò a Bastia, corse a Genova, tornò con promesse ed aiuti; il commissario Doria molto il favoriva. Fece un'intelligenza ed un ristretto de' suoi confidenti, per servirsene al caso che meditava. Era questo il sesto anno che la bella quanto sfortunata Italia godeasi la pace procuratale dal trattato d'Aquisgrana; ma poco mancò che uno strano accidente non venisse a turbarla. Un Luigi Mandrin, capo di contrabbandieri, annidatosi da qualche anno tra i confini della Francia, verso gli Svizzeri e la Savoia, rese la sua squadra talmente celebre e terribile insieme, mettendo a contribuzione e spavento città e provincie, che il governo franzese, volendo tor di dosso a' suoi sudditi questa peste, avea spedito due grossi corpi di milizie con ordine di farne ad ogni costo l'arresto. Madrin, che trovavasi in Savoia, dove pure il tenevano di vista, ritirossi con quattro compagni nel castello di Roccafort, dove non poteva dalle milizie franzesi esser preso senza violazione del diritto delle genti. Ma lo uffiziale che quelle milizie comandava, senza tante considerazioni, ed avanzandosi con gran segretezza sino alla torre di San Genis d'Aosta, dove uccise dieci o dodici contadini, altri ferì, e misse tutti in fuga quelli che, sorpresi dalla novità della fazione, gli si erano voluti opporre, inoltrò quindi prestamente sino a Roccafort, sorprese il famoso contrabbandiere e lo tradusse a Grenoble, poi a Valenza, in cui finì sulla ruota i suoi giorni. Intanto il re di Sardegna, informato dell'accaduto, si fece a chiedere al re di Francia pronta e solenne soddisfazione dell'ingiuria recatagli con un'insigne violenza che ne offendeva la sovranità. E la corte di Francia volea dargliela; ma non convenendosi ne' modi, il re di Sardegna ordinò al suo ambasciatore di lasciar Parigi senza prendere comiato, e distribuì in proposito una ragionata memoria a tutti i ministri stranieri residenti a Torino. Non cessarono intanto i maneggi, i quali condussero al felice risultato d'un accomodamento, che, con reciproca soddisfazione di quelle due potenze, spiantò quel seme che la discordia aveva apprestato a distruggere la buona armonia con tanta difficoltà ristabilita. Anno di CRISTO MDCCLVI. Indizione IV. BENEDETTO XIV papa 17. FRANCESCO I imperadore 12. Nell'anno nuovo Matra corse per la seconda volta le campagne di Corsica, piuttosto nemico di Paoli che amico della patria, contuttochè mostrasse sempre un gran zelo per la libertà. Veniva con armi e munizioni e denaro genovese; la fama portava grandi cose di lui, e magnificava gli aiuti concedutigli. Quei della sua parte ed ogni torbido fante accozzavasi con esso lui per guisa che facevano un alto rumore per quelle montagne. Con tutti questi ordigni del gridare e del promettere e del vantarsi e del sonare i zecchini aveva congregato una seguenza di molti giovani, sì che pareva vicino il sobbisso di Paoli. Il novello Mario uscì in campo, sperando di sorprendere il nemico alloggiato nella pieve di Verde; ma non potè asseguire l'intento, perchè il capitano tanto odiato da lui, avuto presto avviso del fatto, aveva dato indietro, in sembianza di fugato più che di ritirantesi, sino al convento di Bozio, dove si fermò ed attese a fortificarsi. Mandò intanto ordinando a Clemente suo fratello ed al presidente Venturini che prestamente accorressero, se amavano la sua salvezza. Matra in questo mentre passò a quella volta, credendosi al certo di avere la guerra vinta, anzi l'avversario stesso in mano. Giunse, e cinto il convento d'armati, male si poteva Paoli difendere, non avendo con sè che sessanta compagni. Già Mario squassava la porta del convento, già la bruciava, già l'atterrava, già pareva giunto l'estremo termine della vita di Paoli, quando a corsa ed a furia arrivarono Venturini ed altri capi accompagnati da molta gente desiderosissima di salvare colui cui la Corsica aveva chiamato salvatore e padre. Successe fra le due parti una molto accanita zuffa, in cui i matreschi, non sostenendo l'impressione del nemico, rimasero vinti e sbaragliati, ed il loro condottiere ferito in un ginocchio. Ridotto in grande povertà di consiglio, pensò di ritirarsi ma nol potè, perchè, sopraggiunto dai paolisti infuriati, restò crudelmente trucidato, quantunque Paoli ad alta voce gridasse, che dall'atroce pensiero si ritraessero e in vita il serbassero. Tutti i partigiani del vinto rimasero preda del vincitore, eccetto pochi, che si ricoverarono fra i Genovesi a Paludella e San Pellegrino. Fra i prigioni, tre furono passati per l'armi, gli altri obbligati a spianare il forte d'Aleria con gettarne i sassi in mare, affinchè nissun vestigio restasse di quel nido, donde a danno comune s'era partito il ribelle Matra. A tale andò la bisogna, che a tutti furono tolte l'armi, di più di cinquecento si arsero le case, dagli altri si ricercarono ostaggi per sicurezza di obbedienza. Oltre modo lacerarono e dannificarono il paese dei disubbidienti. Mentre Paoli comprimeva il nemico, e, lieto d'una vittoria che tanto gli cresceva credito presso la nazione, castigava i partigiani di Genova, fece pensiero di premiare, affinchè senza il debito onore non rimanessero, coloro che secondo l'animo suo procedevano e fedelmente si conformavano agli ordini suoi. A questo fine istituì un ordine di cavalieri, che chiamò _compagnia volontaria_. Costoro portavano una sottogiubba di panno corso rotonda e senza alcun ornamento, con berretta verde e mostre di velluto pur verde; sulle maniche e sul petto una croce coll'imagine della immacolata Concezione, i semplici compagni d'argento, i graduati d'oro, coperta prima d'alcun fatto illustre, e scoperta dopo. Obbligavansi ai servigi della patria a proprie spese, andavano alle fazioni a piedi, solo a cavallo il gran maestro, che eleggevano per sei mesi; ed il primo fu Giovanni Rocca, segretario di Stato. In questo tempo (per certe risse sanguinose accadute tra Franzesi ed Inglesi nell'America settentrionale, e per contenzione di confini, sulle frontiere del Canadà, o piuttosto per superbia e cupidigia dell'Inghilterra da una parte, per debolezza del governo della Francia dall'altra, poichè immerso il re nei piaceri, pareva che all'emulo impero volesse comportare ogni cosa) s'era accesa fra le due potenze una crudel guerra, sul principio della quale, ed in fin già prima che fosse dichiarata, l'Inghilterra aveva tolto sui mari i vascelli e le sostanze di Francia. Ora, correndo gli Inglesi il Mediterraneo, la Francia concepì timore, ch'essi dei casi della Corsica volessero tramettersi, e, levandola dall'obbedienza di Genova, s'impadronissero di qualche sua parte, e vi facessero una stanza ferma con danno manifesto de' proprii interessi. Della qual cosa tanto più sospettò ch'erano andate attorno voci che Paoli avesse con l'Inghilterra qualche segreta corrispondenza, e con esso lei seguitasse qualche domestichezza d'amicizia e di fede. A ciò pensando, le parve che non fosse più da differire di stringersi maggiormente co' Genovesi; perlochè fece con Genova sue pratiche col fine di conseguire da lei l'intento suo, che era di introdurre soldati franzesi nelle piazze di presidio. La signoria, cui il medesimo sospetto angustiava, massime nel caso che gl'Inglesi perduto avessero Porto Maone per l'espugnazione del forte di San Filippo a quei dì fortemente battuto dai Franzesi, s'inclinò facilmente alla volontà della Francia; laonde nei primi giorni di novembre, condotti dal marchese di Castries, al quale era stato dal re dato il grado di comandarli, sbarcarono in Corsica tre mila Franzesi, prendendo le stanze in Aiaccio, Calvi e San Fiorenzo. Non venivano come nemici ai Corsi sollevati, nè a favore di nessuno, come pubblicavano, nè i Corsi gli trattarono da nemici; solamente si appostavano gli uni e gli altri con somma diligenza, e con grande gelosia osservavano ciò che l'altro facesse. Se la repubblica di Genova era rimasta contenta d'aver ottenuto l'intento suo di vedere in Corsica un corpo di truppe franzesi, ebbe pur motivo d'esserlo pel buon avviamento che presero le di lei vertenze colle comunità di San Remo e di Campofreddo. Nel mese di gennaio l'imperadore diede ordine al consiglio aulico di riassumere la causa di quelle comunità a lui ricorse come feudi imperiali. Appena ne giunse a Genova la notizia, la signoria, che avea già posto a San Remo il morso d'una specie di cittadella, fece immantinente presentare al detto consiglio aulico due scritture valevoli a far sospendere un procedimento, di cui ad ogni modo poteasi temere l'esito incerto. Era l'una di queste scritture una supplica presentata al senato genovese da tre deputati delle comunità di San Remo residenti a Genova, con cui la comunità stessa si metteva a' piedi della signoria, e riponea la sua fiducia nella sovrana clemenza del senato per essere tornata in grazia del suo principe; e l'altro un atto passato a Vienna dal procuratore della comunità di Campofreddo, con cui ampiamente rinunziava ai ricorsi sino a quel giorno fatti all'imperadore presentare. Altissimi commovimenti produsse ne' popoli di quelle due comunità la notizia di tali fatti de' loro commessi; si pubblicarono e divulgarono da per tutto le loro solenni proteste, pregando e richiedendo i ministri de' sovrani e delle potenze d'Europa a voler considerare quelle scritture come estorte, nulle e riprovate dalle comunità. Le quali proteste, pur presentate al consiglio aulico, fecero sì che per quell'anno rimanesse l'affare sospeso, nè se ne udisse parola. La guerra dei sette anni, in questo anno dal re di Prussia rotta all'imperadrice regina, condusse l'Italia a vedere nudarne per la Germania, e quindi per la Boemia, alcuni reggimenti de' suoi figli, bella e fiorita gente, che dal granducato di Toscana l'imperadore chiamò a far parte degli eserciti imperiali. Nè maggior peso le recò l'altra guerra insorta nel nuovo mondo tra Spagna e Portogallo da una parte, e gl'Indiani del Brasile dall'altra, che volevano mantenersi indipendenti; ma vinti e disfatti, dovettero porre giù le pretese, e sottomettersi. Se non che merita forse d'esser ricordato che gli oziosi novellisti avevano fatto alla Italia gratuitamente il dono d'un Nicolò Rubini del Friuli, che sotto il nome di Nicolao I menasse alle pugne gli abitanti del Paraguai, da lui mossi e suscitati nella sua qualità di gesuita; ma presto venne sopra la verità, e l'Italia perdette quel non ambito onore d'aver dato un suo figlio per sovrano del nuovo mondo. Ma mentre svaniva dalla mente dei creduli e dalle pagine della storia questo re immaginario, la Corsica perdeva quello che aveva realmente sopra di lei regnato. Partito Teodoro tre volte da quel regnò che avealo nel 1736 solennemente riconosciuto per suo signore; divenuto in seguito vero trastullo della fortuna, oppresso continuamente da debiti, lottando col bisogno, perseguitato da' creditori, chiuso in una prigione di Londra, come era stato prima in quelle di Amsterdam, trovò in Orazio Valpole chi prese cura di lui, e raccolti sussidii volontarii da uomini benevoli, col provento li cavò del carcere. Teodoro staggì il suo regno di Corsica pel pagamento a favore dei prestatori. «Non so come l'intendessero, dice uno storico esimio, ma in somma il fatto è certo: vi sono di queste ubbie in Inghilterra, quando la vena dà.» Morì poi in quest'anno a Londra, e fu sepolto nella chiesa di Santa Anna di Westminster con la seguente iscrizione in lingua inglese, che vien a dire in italiano: «Qui giace Teodoro, re di Corsica, morto in questa parrocchia a dì 11 dicembre del 1756 subito dopo d'essere uscito, pel benefizio dell'atto sui falliti, dalle carceri del banco del re: lasciò il suo regno di Corsica per sicurtà ai creditori.» Crederei che la chiusa dell'iscrizione fosse scherzo, se si scherzasse sulle tombe, riflette il poc'anzi citato storico illustre. Anno di CRISTO MDCCLVII. Indizione V. BENEDETTO XIV papa 18. FRANCESCO I imperadore 13. La compagnia volontaria da Pasquale Paoli novellamente istituita in Corsica a premio de' più meritevoli non ebbe ad aspettare molto per mettere alla prova il suo valore, e, giustificando la scelta fatta dei membri, accrescere la speranza del capitan generale; imperocchè si pose egli tantosto con essa all'impresa di espugnare la torre di San Pellegrino custodita da' Genovesi, posto d'importanza e vantaggioso a chi ne fosse signore. Un ingegnere svizzero diresse le operazioni dell'assedio, le quali riducevansi a far salire chetamente un soldato alla porta della torre per farvi un'apertura tale che vi potesse passare un uomo armato, e quindi sorprendere d'improvviso il custode dell'armi e della munizione. La cosa o male intesa o male eseguita non riuscì, quantunque i Corsi con tanto silenzio e precauzione si fossero appropinquati alla torre che i difensori non se ne erano accorti per niente. Il soldato, che dovea far l'apertura nella porta, cadde. I Corsi, invece di rifarsi da capo allo esperimento, o di dare un improvviso assalto, perdettero inutilmente molto tempo, che diede campo al presidio di dare all'armi e far piovere sopra gli assalitori le palle. Costretti quelli a ritirarsi, determinaronsi ad un assedio formale e ad obbligare i difensori ad arrendersi almeno per la fame. Nè tardando questa molto a farsi sentire, fu proposta la resa mediante un'onesta capitolazione. Ma Venturini, un capo corso, si fece a gridare non voler capitolazioni, ma o che il presidio si rendesse a discrezione, o altrimenti sarebbe presa per assalto e colla forza dell'armi. Questa ostinazione fu salute degli assediati. Concorse in questi momenti due galee genovesi con altri legni minori, obbligarono i Corsi alla ritirata, colla perdita di molti di loro, tra i quali uno de' nuovi cavalieri. Intanto il marchese Doria, commissario alla Bastia, ordinò in nome della repubblica che nissun paesano si avvicinasse a quella città, ordine che fece ripetere dagli altri commissarii e comandanti genovesi che si trovavano nell'isola, e ad esecuzione del quale formò un campo volante, che dovea arrestare tutti i Corsi trasgressori. Ed all'opposto, Paoli ed il supremo consiglio di Stato corso proibirono a tutti i nazionali di avere alcuna corrispondenza colle città e coi luoghi governati dai Genovesi, e molto più di trasportarvi vettovaglie di qualunque sorta, al campo volante del commissario, contrapponendo un altro campo consimile, per tener in dovere chiunque avesse ardito d'infrangere le loro prescrizioni. La quale rigorosa misura sortì l'inevitabile suo effetto; cominciò a farsi sentire la carestia così vivamente alla Bastia, che il marchese Doria alle calde istanze degli abitanti dovette rivocare i suoi divieti, e lasciar che la città si provvedesse di viveri come meglio potesse. Siccome la fama così altamente parlò di Pasquale Paoli, uomo che tanto fece per la libertà della sua patria e che, se una forza sopravanzante non si opponeva, avrebbe fondato nella natia isola una repubblica a guisa di quella d'Olanda, pensiero che girava a quei tempi nella mente degli uomini, non sarebbe fatica perduta lo spaziare alquanto sulla sua vita, costumi, desiderii ed opere. In picciole scene, sono non di rado grandi esempii. Se non cito ci stringono i limiti a queste carte imposti e ne fanno la legge di toccare sol di volo e per sommi capi l'alto subbietto. Oppressi gli emuli e date di sè medesimo felici speranze, Paoli, se avuto avesse la smania di tanti che abusano della confidenza che in loro collocano i popoli, avrebbe potuto fare i Corsi servi e porre sè in cima di tutti. Ma prevalse in lui un pio desiderio e si diè a battere altra strada. A' tempi del generoso uomo, i Corsi distinsero per suo consiglio l'autorità pubblica in tre potestà; la legislativa, la esecutiva e la giudiziale. Sedeva la prima nel parlamento, o, come la chiamavano, la _consulta generale_, che rappresentava l'intero corpo della nazione, e la componevano circa cinquecento membri, denominati _procuratori_, ed eletti parte dal popolo, parte dal clero sì secolare che regolare. I procuratori in consulta adunati avevano la facoltà di fare e di annullare leggi e di stanziare la somma annua da potersi spendere per lo Stato. Ed oltre alle leggi facevano certi magistrati, di due ordini, uno giudiziale, l'altro esecutivo, cioè un ministro di giustizia per ciascuna delle nove provincie della Corsica, e nove membri del supremo governo esecutivo, uno pure per ciascuna provincia. Il supremo governo esecutivo, cui chiamavano eziandio supremo magistrato, o supremo consiglio, composto, come abbiam veduto, di nove membri o consiglieri, aveva per presidente il generale Paoli, dalla consulta a quella maggioranza eletto. Avevano questi consiglieri diritto d'intervenire alla consulta, e di proporre per bocca del presidente di lei quanto loro paresse giusto, o necessario, o conveniente. Paoli aveva titolo di _generale del regno e capo del magistrato supremo di Corsica_. Nelle sessioni, sedeva sotto un baldacchino coi consiglieri in qualche distanza da lui. La sua tavola ed il mantenimento dalla casa erano a spese della nazione, senza limitazione alcuna di somma, lasciandosi interamente, perchè potesse tener grado, lo spendere a sua discrezione. Poteva disporre del denaro pubblico come gli pareva più spediente, purchè non oltrepassasse la somma fissata dalla consulta. Grande era la sua autorità, e forse eccessiva, se le contingenze del tempo, e le turbate e incerte cose della Corsica non la scusassero; imperciocchè per la milizia e pel mare godeva di una potestà assoluta, e per tali faccende non era nemmeno obbligato di domandar il parere dei consiglieri; e quando spontaneamente il domandava, la loro voce si aveva solamente per consultiva, non per giudicativa. Poteva trattare con qualunque potenza di pace, di guerra, o di alleanza, ma non concludere senza l'assenso dei consiglieri, avendo in tutti questi casi un solo voto come gli altri, con questa eccezione però che nei casi di vita o di morte, se si trattasse di condannare, avesse un voto solo, se di assolvere, due. Aveva intorno per la guardia del suo corpo circa ottanta soldati, i quali per ordine espresso della consulta il dovevano accompagnare ogni qualvolta che in cospetto del pubblico o per ufficio o per altra causa comparisse. I funesti casi di Sampiero e Giampiero, ed altri tentativi di assassinio fatti contro di Paoli stesso, a tale deliberazione avevano sforzato la consulta. Ma ciò egli detestava come segno di tirannide, affermando e protestando volerne veder la fine tosto che la Corsica un volto genovese più non vedesse. Nella sua anticamera, nè nella camera, nemmeno di notte, nessuna guardia di uomo voleva; ma era meglio e più fedelmente custodito che da uomini. Sei grossi cani corsi stavano sempre, terribili custodi, alla porta dell'anticamera, e nella camera stessa. Con lui dormivano, con lui vegliavano, e se alcuno di notte a lui accostato si fosse, in mal punto venuto vi sarebbe; perciocchè sarebbe stato incontanente da quelle orrende bocche lacerato a pezzi. Molto Paoli gli accarezzava, ed essi il conoscevano e l'amavano, e ad ogni suo cenno pronti l'obbedivano: dolcezza e ferità in loro si accoppiavano. Trovo scritto, seguita a dire uno storico famoso, che per tal costume Paoli ritraesse dell'antico; così, al dir d'Omero e di Virgilio, Patroclo, Telemaco ed Evandro avevano i loro cani; al dire degli storici, Siface i suoi. Era stabilito per legge della consulta sotto pene gravissime che nessuno parlasse o scrivesse contro il supremo consiglio, meno ancora contro il generale, credendo quegli uomini gelosissimi la libertà delle lingue e delle penne un veleno pestifero. Quanto alla potestà giudiziale, abbiamo veduto come i procuratori delle province eleggessero un ministro per provincia, al quale si dovea ricorrere nei casi di maggiore importanza, quelli di poco momento essendo giudicati da' giudici o podestà di ciascuna città o aggregazione di villaggi. Questi ministri potevano condannare a multe ed anche a pene corporali; e fu loro eziandio data autorità sopra il sangue; ma quando ne usavano, erano in obbligo di mandare il processo al supremo governo che confermava o annullava la sentenza. Crearono poi pei giudizii delle cause civili, il cui importare oltrepassasse cinquanta lire, imperciocchè sotto di questa somma le sentenze de' ministri sopraddetti erano terminative, una ruota composta di tre legisti, la quale sempre doveva fare la sua residenza nella città di Corte. Da questa ruota vi era appellazione al supremo consiglio, ma solamente quando constava che alcuno fosse stato molto aggravato. Questi ordini giudiziali non erano certamente perfetti, ed ancora li bruttava l'infame uso della tortura. Ma intenzione del generale era di perfezionarli col tempo. I comuni si regolavano per gli uffiziali municipali, e li chiamavano padri del comune. Erano eletti dai padri o capi di famiglia. Le cause ecclesiastiche si agitavano nel tribunale del vicario apostolico mandato dal papa, con autorità universale, e dalle sue sentenze si appellava alla corte di Roma. Paoli sentiva dell'ignoranza de' suoi compatrioti dolore acerbissimo: nissun mezzo più acconcio vedeva per dirozzare, ingentilire ed appiacevolire la nazione, di quello d'illuminare gl'intelletti ed informare gli animi co' buoni esempii. In ciò non concordava con Rousseau, cui aveva chiamato per dar leggi all'isola; imperocchè, come ad ognuno è noto, il filosofo di Ginevra credeva che il ben essere non potesse consistere che con una certa ruvidezza di costumi, e di ciò in Corsica ne era dovizia. Perciò giva predicando che fra tutti i popoli Europei i soli Corsi erano capaci di buone leggi. «Ma qui cade in acconcio, dice il più volte lodato storico, l'antico proverbio, che se l'ignoranza è vizio, il troppo sapere è parimente vizio, ed in questo, come in ogni altra cosa, ogni bene sta nel mezzo. Non dico già che il gran sapere sia vizio, in un individuo, poichè anzi è un pregio eccelso e sommamente da lodarsi, ma solamente dico, che il sapere più che al popolo si appartiene, sparso generalmente in una nazione, è vizio e cosa da fuggirsi, perchè non può essere compiuto in ognuno, e il ciel liberi gli Stati dall'essere in mano dei semidotti! Il perfetto sapere dà la modestia e la ritiratezza, l'imperfetto la superbia, l'impertinenza e l'ambizione.» Paoli mosse, ed i supremi magistrati consentirono, che nella città di Corte si fondasse una università degli studii, a cui concorrendo i giovani Corsi, s'imbevessero di quanto più dirozza ed imbuonisce l'uomo. Ciò successe nel 1764. Ottima disciplina ordinossi pel nascente studio, esami settimanali, esami annuali; lodi e premi e corone, forti stimoli a giovani intelletti. I professori, stipendiati dalla nazione, insegnavano gratuitamente. La novità del caso, quel cibo tanto gradito, quanto per la prima volta offerto e gustato, la naturale attitudine per le scienze e per le lettere degl'ingegni corsi, i conforti e gl'incoraggiamenti del Paoli, uomo tenuto in tanta venerazione dalla gioventù, partorivano effetti mirabili. Queste cose faceva il benevolo reggitore della Corsica fra mezzo i furori della guerra e l'incertezza del destino futuro della sua patria. Importava massimamente a Paoli la cura della guerra e degli esercizii militari. Contuttociò egli andava pensando come avvezzar potesse i suoi compatriotti alle opere di agricoltura, cui per lungo uso ripugnavano. Gli andava dunque invitando alle rurali fatiche, accarezzava chi vi si dava, premiava chi vi profittava, a poco a poco altro aspetto vestiva la Corsica infelice, la smossa terra rendeva l'odore delle fortunate radici, vedevasi sui campi, cosa insolita per lo innanzi, le marre mescolatamente colle spade. Giovine e, per così dire, fanciulla era a quei dì la Corsica per la capacità del governare le faccende dello Stato: bisogno ancora aveva di tutela. Ad ogni ora domandavano a Paoli consiglio di quanto avessero a farsi e per le cose e per le persone: rispondeva: _Fate voi altri, nominate voi altri_. Così gli avvezzava. Squallida l'isola per la guerra, squallida per la povertà. «La patria, il generale diceva, è il corpo della Sunamitide, noi e i magistrati il profeta Eliseo, che, occhi ad occhi, bocca a bocca sopra di lui distesi, opera facciamo di rianimarlo: già comincia a muoversi, già riprende calore e vita, e se il tempo e Iddio ci aiutano, presto vedremo non solo la quiete e l'ordine, ma ancora le scienze e le arti. La Corsica accomodatamente consuonerà colla civile Sicilia, nè indarno la natura ci avrà sotto di questo propizio cielo posti.» Fiera e grande anima aveva; l'indipendenza della patria svisceratamente amava. La più gradita lettura che avesse era quella del libro de' Maccabei: Antioco ed i Romani gli passavano per la mente. Niuna parola più odiava che quella di ribelli applicata ai Corsi. Paoli aveva il volto per l'ordinario assai placido e dolce, e così pure il costume, ma quando udiva dar del ribello ai Corsi, di tali feroci forme le sue fattezze si vestivano, che la corsa natura pienamente in lui si disvelava. Più amava Temistocle che Demostene, perchè questi parlava, quegli faceva. Di gran lunga anteponeva Penn, legislatore della Pensilvania, ad Alessandro Magno, conquistatore dell'Asia, quello per aver fondato uno stato felice e tranquillo, questo per aver martirizzato mezzo un mondo. La voce di Paoli era potentissima sui cuori di Corsica, nè di altro egli aveva bisogno che di lei per disporgli a seguitare la sua volontà e a spingergli ai più pericolosi fatti. Alla guerra, da lui chiamati, andavano spontaneamente. Servivano senza paga, salvo le guardie del generale e quei che erano di presidio nelle fortezze. Paoli poteva congregare ad un bisogno trenta mila armati, vale a dire, quasi la quinta parte di tutta la popolazione. E non avea bisogno di far magazzini per somministrare le vettovaglie all'esercito, posciachè in ogni luogo erano preste o portate dai guerrieri andati in campo. Ogni cosa portava all'entusiasmo: l'odio, l'amore; gli usi antichi, il rispetto verso il generale. «L'esser ferito, scrive un anonimo, è stimato onor grande, onor maggiore perdere i propri figli al servigio del pubblico.... il pensiere dello arrendersi è peggiore della morte. Pochi anni fa, un Corso stava guardando dalla sua finestra e vide alcuni suoi paesani arrendersi ai Genovesi. Questo fece in lui una impressione tale, che risolvette di non uscire mai più di casa; ed alla sua morte che succedette quattro anni dopo, lasciò ordini positivi, che il suo cadavere fosse sepolto fuori della vista della città.» Tali erano gli uomini di Corsica. Molto opportunamente il fervore degli spiriti suppliva alle esigenze dello Stato. In paese per sè non ricco, e fatto povero dai tumulti e dalla guerra, le rendite pubbliche erano di poca importanza. Tutte le gravezze insieme fra tasse e dazii non gettavano un mezzo milione di lire. Le donne di Corsica somigliavano gli uomini; oltre la dura e faticosa vita, a cui erano da mariti astrette, la patria amavano; gli ornamenti loro, i figliuoli; i lor passatempi, le fatiche. Nel rimanente d'Italia tutto in questo anno fu pace; ma se la guerra non ne devastò le belle provincie, non andò per altro esente da altre disgrazie e calamità, che appunto in questi giorni funestarono una gran parte della superficie del globo. Senza dire di quelle due bocche infernali che, a vomitare torrenti di fuoco, spalancaronsi nell'estremità orientale d'Italia; un elemento affatto contrario portò le sue devastazioni in un'altra parte quasi diametralmente opposta. La città di Verona contò in ogni tempo l'Adige come il padre delle sue ricchezze ed insieme quale istrumento delle sue miserie, per le terribili innondazioni che glie ne derivarono. Paolo Diacono ne descrive una, da lui creduta la maggiore di quante avvennero dopo il diluvio. Dice che l'Adige crebbe cotanto che l'acque toccarono sino alle finestre superiori della chiesa di San Zenone situata fuori delle mura, e che queste restarono in gran parte dall'impeto delle acque atterrate. Comunque sia di tale inondazione dell'ottavo secolo, e di altre due avvenute nel 1567 e nel 1719, quella del primo dì di settembre del corrente anno superò tutte le precedenti, poichè le acque si alzarono sino a diciotto piedi e mezzo. In tale disastro, il ponte detto delle Navi perdette i due archi di mezzo, e scuotendosi nel tempo stesso la contigua torre, oltre al rimanere isolata in mezzo a quel pelago nato improvvisamente, videsi vicina a sfasciarsi interamente. Nel quale pericolo è da notarsi la magnanimità ed intrepidezza del contadino Bartolommeo Rubele, detto Leon, che con eroico ardire, toltosi dalla folla tremebonda che sconfortata stava osservando il terribile spettacolo senza osar di cimentarsi, osò salire in quella torre a prendere e salvare due infelici donne che con due teneri fanciulli vi albergavano, ricusando poi l'oro che a ricompensa del generoso fatto ciascuno gli proferiva. Anno di CRISTO MDCCLVIII. Indizione VI. CLEMENTE XIII papa 1. FRANCESCO I imperadore 14. La notte del secondo giorno di maggio dell'anno presente, vide l'ultima sua ora Benedetto XIV. Dotto amico dei dotti, visse, e li protesse e li sollevò, e sotto l'ombra sua li raccolse. Il seppero Cristoforo Maire e Ruggiero Giuseppe Boscovich, matematici celebratissimi, cui chiamò ed a cui diede carico di misurare l'arco del meridiano in tutto lo Stato ecclesiastico, e il fecero. Lo seppe Giovanni Poleni, professore di matematica nell'università di Padova, cui chiamò per consigliarsi con esso lui sul ristauro della basilica Vaticana, la cui volta minacciava ruina. Lo seppe il Quadrio, cui col consiglio e con generose opere soccorse. Lo seppero finalmente Muratori e Maffei, a cui per lettere fece testimonio quanto le persone loro e gli studii onorasse. Nè alcun celebre personaggio era dentro o fuori d'Italia, che da Benedetto estimazione, onore e favore non ottenesse. Al mondo è nota la lettera scrittagli da Voltaire quando gli mandò il suo Maometto. Il poeta, che malizioso era, forse intendeva, secondo il suo costume, a malizia: ma il papa gli rispose con tanta disinvoltura e spirito che il poeta non ne rimase in capitale. Nè solo ai particolari uomini aveva cura il generoso pontefice per sollevarli o per onorarli, ma spandeva ancora i frutti della sua munificenza sopra le scientifiche e letterarie compagnie. Fomentò, accrebbe, arricchì l'istituto di Bologna, e l'accademia Benedettina fondò, in cui gli allievi con accomodati premii si stimolavano ai buoni studii. Le opere sue Roma ancora con gratitudine rammenta. Riedificò di marmo, ornò di statue, crebbe d'un doppio portico e di colonne la facciata della basilica Liberiana, così chiamata per essere stata edificata nel quarto secolo da san Liberio papa, nominata anche volgarmente Santa Maria della Neve, a cagione di una neve caduta miracolosamente ai 5 d'agosto sul monte Esquilino, o Santa Maria _ad Praesepe_, a motivo della culla di Gesù Cristo, che in lei, come dicono, si conserva, o finalmente Santa Maria Maggiore, perchè tiene il primo luogo fra le dedicate alla Vergine, ed è una delle quattro patriarcali, e delle più belle di Roma. Per queste cagioni Benedetto vi aveva volto il pensiero per instaurarla ed abbellirla. Instaurò il triclinio presso san Giovanni in Laterano, rovinato sotto il pontificato di Clemente XII, e vi ripose l'antico mosaico di papa Leone III. Per averla goduta essendo cardinale, ornò di facciata, ne fece dipingere la volta, corredò di tribuna e ridusse allo stato presente la basilica Sessoriana, ossia chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, una delle sette basiliche, fondata da Costantino in memoria del ritrovamento della Santa Croce fatto da sant'Elena madre in Gerusalemme. Abbellì di pitture e di mosaico la magnifica basilica di San Paolo, e vi terminò sino a' suoi tempi la serie de' ritratti dei papi che, incominciata da san Leone il Grande insin da san Pietro, fu poi continuata da san Simmaco sino al 498. Queste cose Benedetto faceva per pietà e munificenza, queste altre a munificenza pure, ma eziandio ad utilità indirizzava: ampliò l'ospedale di Santo Spirito e creò la scuola del disegno con investir denaro pel mantenimento e pei premii. In somma tutto in Roma ancora rammenta ed accenna i benefizii di Benedetto. Nè il mondo taceva o tace delle virtù d'un tanto papa. Sommo pregio è la tolleranza fra gli uomini, che tanto deboli sono, e questa intiera e perfetta possedè il buon Lambertini. La sapeva in oltre condire con ilari e cortesi modi, per forma che ad ognuno era manifesto che in lui da natura procedeva, non da arte, e quantunque arte non fosse, nè studiato pensiero, era finissimo sussidio, poichè niuna cosa più alletta e vince chi dissente, che la sopportazione, niuna più li rende contumaci ed ostinati che la rigidezza e la superbia altrui. Il migliore mezzo di propagare il bene era il suo dolce procedere: Benedetto era atto a conquistare il mondo, perchè colle sue rare virtù conquistava i cuori. Era allora in Francia un incomposto miscuglio di cose in materia di religione, in conseguenza delle diverse sentenze e delle parti che vi regnavano, e che dalle cattedre e cogli scritti, gli uni contro gli altri contendevano e menavano un grandissimo romore; casisti, filosofi, teologi morali e speculativi, increduli e credenti. Se un papa di minore mansuetudine e prudenza avesse occupato la sede di san Pietro, al certo sarebbe nata in quel discorde paese la guerra civile. La tolleranza di Benedetto tolse legna al fuoco. Delle pazzie franzesi di quel tempo ei non sapeva darsi pace e si stringeva nelle spalle, e pregava Dio che facesse sano di spirito chi n'era infermo. A questo proposito egli, che arguto e trattoso era nel favellare, disse quel famoso motto: _La Francia è il regno meglio governato che vi sia, posciachè è la Provvidenza che lo governa_. Con ciò toccava principalmente la debolezza della corte, che maggiore impeto pareva avere per precipitarsi nel vizio, che forza per reggere lo Stato. Brevemente, tali erano le condizioni di quel regno, che si può con verità affermare, andare i Franzesi obbligati a Benedetto di molto sangue loro risparmiato. Certo è anzi che i protestanti della Linguadoca, contro i quali prelati troppo fervidi volevano ricominciare le persecuzioni coi roghi e colle forche, come ai tempi di Luigi XIV, dalla benigna intercessione del pontefice riconobbero il quieto vivere. Grande agevolezza ancor trovò in lui il re di Prussia pe' suoi cattolici della Slesia, ed il papa nel re; si scrissero frequenti lettere l'un l'altro: fra due sovrani d'alto ingegno tosto nacque la concordia, nè niuna lode v'era, che Federico non desse a Benedetto. I protestanti di Germania in somma venerazione il buon pontefice avevano, e come pontefice venuto al mondo per cessare i loro risentimenti contro la santa Sede. Gli Inglesi medesimamente con non minor rispetto il riguardavano, non come i Tedeschi pacatamente, ma mescolandovi, secondo il solito, l'entusiasmo e il lasciarsi guidare dall'umore. Ed ecco il ministro Walpole alzare, nel suo palazzo di Londra, una statua a Lambertini, scolpitovi sotto il seguente elogio, composto dal figliuol suo: «A Lambertini innocente nel principato, restitutore della tiara pontificia, sommamente amato dai cattolici, sommamente stimato da' protestanti, ecclesiastico non insolente, da ogni cupidità ed ambizione alieno, principe senza studio di parte, pontefice senza nipote, autore senza vanità, modesto uomo in tanta potenza, con tanto ingegno: Il figliuol del ministro, che non mai alcun principe adulò, non mai alcun ecclesiastico venerò, in libero protestante paese questo tributo di laude all'ottimo pontefice de' Romani innalzò.» La quale scappata inglese come fu raccontata a Lambertini, disse: «E mi par di essere come le statue della piazza di San Pietro, che vedute di lontano appariscono con acconcio e mirabile artificio fatte, ma da vicino brutte e deformi le diresti.» Ma le lodi erano vere ed il gran papa le meritava. Tale fu Lambertini e tale al mondo si mostrò, nè mai altro papa diede quanto egli così grande avviamento alla riunione delle religioni cristiane dissidenti colla cattolica. Ciò col costume e col procedere savio, prudente, e dolce piuttosto che coi sillogismi faceva. Sapeva che i buoni costumi allettano e convertiscono gli uomini, le sottili argomentazioni li fanno renitenti e caparbi. Il costume non offende, perchè non comanda; il vincere per logica o per forza sì, perchè fra due contendenti indica superiorità in chi vince, inferiorità in chi perde, superbia da una parte, umiliazione dall'altra. È qui da notare che poco tempo prima della sua morte, questo lodato pontefice aveva dato, alle ripetute istanze del Portogallo contro i Gesuiti, un breve diretto al cardinale Francesco Saldagna, a questo oggetto da quel re destinato, nel quale gli commetteva di visitare le case di detta compagnia per riconoscerne (se sussistessero) gli abusi e le mancanze, e quindi riferire del risultamento delle sue pratiche, non senza proporre le misure di riforma che stimasse necessarie per ridur que' religiosi alla lor santa e primitiva osservanza, passando anche alla riforma stessa ogni qual volta il bisogno lo richiedesse, giusta la lettera istruttiva che in un col breve gli veniva trasmessa. Dodici giorni dopo la morte di Benedetto XIV si raccolsero in conclave i cardinali, e nel dì 6 di luglio gli elessero a successore il cardinale Carlo Rezzonico, Veneziano, che assunse il nome di Clemente XIII. In meno di due giorni la nuova dell'elezione giunse in Venezia, dove risvegliò generale esultanza, e fu festeggiata colla suntuosità a quella repubblica consueta; scrivendo pure il nuovo papa direttamente alla veneta signoria, e ricevendone risposta, nella quale veniagli attestato il giubilo universale per la sua esaltazione. La notte del 3 settembre, tornando il re di Portogallo da una visita fatta alla marchesa di Tavera, fu assalito da tre uomini a cavallo, due de' quali, sparando contro il calesse per di dietro, ferirono il re malamente sì che per tre mesi dovette starne ritirato. Un tetro silenzio per tutto quel tempo regnava alla corte, ed ognuno era ansioso di vedere l'esito di un affare cotanto serio. Finalmente la mattina del dì 13 dicembre, si videro circondati i palazzi di diversi dei principali signori, e condotti pubblicamente nelle nuove carceri di Belem il marchese Francesco di Tavora con due suoi figli, due fratelli, due generi ed alcuni domestici; nel giorno seguente fu pure arrestato il duca d'Aveiro nella sua casa di campagna: ed, oltre i suddetti arrestati, anche la marchesa di Tavora, già stata vice-regina di Goa, fu condotta in un convento di monache, come in altri conventi furono trasportate la nuora, marchesa di Aveiro, della suddetta marchesa di Tavora, e le due sue figliuole, contessa d'Atouguia, e marchesa d'Alorna. Nello stesso giorno in cui si vide lo imprigionamento di quelle persone, furono da' soldati accerchiate tutte le case che i Gesuiti tenevano in Lisbona, e successivamente le altre che nel resto del regno possedevano, ed in tutte un regio ministro visitò minutamente le stanze e le persone; vietata intanto qualunque comunicazione all'esterno. Anno di CRISTO MDCCLIX. Indizione VII. CLEMENTE XIII papa 2. FRANCESCO I imperadore 15. Alla mezza notte del dì 12 gennaio dell'anno presente furono condotti nelle carceri della _inconfidenza_, tribunale per l'occasione eretto per giudicare i delitti di fellonia e d'alto tradimento, dieci Gesuiti, a cui in appresso unironsene altri due, tutti imputati di complicità nel tentato regicidio. Eseguitasi solennemente nella mattina del giorno 13 la sentenza di morte contro i regicidi, il re chiedeva da Roma un breve, in virtù del quale potessero in quel regno processarsi e meritamente castigarsi le persone ecclesiastiche che fossero state complici di quell'attentato contro il re non solo, ma ancora che in un modo o nell'altro potessero immischiarsi in altro nequizie consimili per l'avvenire; e Clemente XIII, dopo grandi difficoltà e varie lunghe consultazioni, il concedeva. Se non che, giunto frattanto il giorno 3 di settembre, anniversario del triste fatto, non volendo la corte di Lisbona più oltre differire le misure che aveva stimate convenienti al caso, il re sottoscrisse il decreto, col quale, dichiarandosi avere i religiosi della compagnia di Gesù degenerato affatto dal santo loro istituto e commesso scandalosi ed atrocissimi delitti (che non forse furono giammai provati secondo le regole giudiziarie), per indispensabile regia risoluzione, venivano _snaturalizzati_ ed esiliati per sempre dal regno del Portogallo. Adunque nel giorno 16 settembre imbarcaronsi sul Tago, sopra nave ragusea, in numero di 133, i primi gesuiti condannati a quel perpetuo esilio, e dentro il giro di non molti mesi furono seguitati da cinque altri convogli, così venendo in numero d'oltre a mille e cento sotto il cielo d'Italia, e propriamente negli Stati pontificii, sbarcando in Civitavecchia. Del che avuto avviso il santo padre, comandò che fossero alloggiati decentemente, e finchè vi si trattenessero, mantenuti a spese della camera apostolica. Morto era intanto nel dì 10 agosto il re di Spagna, Ferdinando VI, nè lasciato avendo prole nissuna, era stato il re di Napoli dichiarato suo successore sotto il nome di Carlo III. Tre figliuoli maschi aveva egli giù ottenuti a quel tempo; ma il primo, per le conseguenze di grave malattia, fu dichiarato giuridicamente imbecille avanti la partenza del padre dalla Italia, e quindi riconosciuto re delle Due Sicilie il terzo di lui figliuolo Ferdinando, poichè il secondo destinato era a succedergli nel trono di Spagna, e doveva quindi con esso trasportarsi a Madrid, vietato essendo negli ultimi trattati che alcun principe di quella famiglia potesse sul suo capo riunire le due corone della Spagna e di Napoli. Poco mancò che da tale avvenimento turbata non fosse la tranquillità dell'Italia, perchè pattuito essendosi nel trattato d'Aquisgrana che giugnendo l'infante don Filippo al trono delle Due Sicilie, il ducato di Piacenza tornasse al re di Sardegna, e quelli di Parma e di Guastalla si riunissero al ducato di Milano, giunto sembrava il momento in cui, passando Ferdinando VI al trono della Spagna, l'infante duca di Parma passar dovesse, coll'aiuto anche de' sovrani che attendevano la reversione, ad occupare il regno delle Due Sicilie dal fratello abbandonato. Erasi di fatto inserita una clausula che questa disposizione portava nel trattato di Versaglies del dì 30 dicembre dell'anno precedente ad istanza tanto del re di Francia quanto dell'imperadrice regina; ma all'epoca della morte del re di Spagna, la guerra ardeva nella Germania, sì che le operazioni di quella non permisero alla corte di Vienna di muovere alcuna pretensione sugli altri Stati d'Italia, tanto più che il re Carlo disposto era a fermamente guarentire ai figliuoli suoi il possedimento delle Due Sicilie. La corte cesarea rimase adunque tranquilla; il re di Sardegna troppo debole era per reclamare egli solo l'esecuzione del patto di reversione, ed il duca di Parma conservò pacificamente il possesso dei suoi Stati. Anno di CRISTO MDCCLX. Indizione VIII. CLEMENTE XIII papa 3. FRANCESCO I imperadore 16. Erano in Corsica molto turbate le cose della religione. I vescovi, siccome quelli che per la maggior parte erano Genovesi, e si trovavano nella necessità, se nelle loro sedi fossero rimasti, di obbedire all'autorità di coloro, cui il proprio principe riputava ribelli, e forse non credendosi esenti da insulti personali in mezzo a tanta concitazione, si erano assentati dall'isola cercando più quieto asilo o nel Genovesato loro patria, o in altri paesi non ancora sconvolti dal furor delle parti. Avevano bensì, partendo, delegata la loro autorità; ma il rimedio era poco, perchè i delegati, pel timore dei casi presenti, non osavano adempire l'intero mandato, o i Corsi, avendogli per sospetti, non si conformavano agli ordinamenti loro, e Paoli, prima che arrivasse il vicario apostolico, deputava di propria autorità i pastori dell'anime secondo che stimava convenirsi a' suoi fini. Quindi nasceva che si turbavano le giurisdizioni e toglievasi alle coscienze timorate la quiete. Siccome poi la maggior parte degli ecclesiastici corsi concordavano coi sollevati, e che anzi molti di loro, massime fra i regolari, avevano come principali istigatori dato fomento al fuoco che allora consumava l'isola; in molte parti era l'esercizio della podestà ecclesiastica ridotto in loro mano; cosa che per la giurisdizione era manchevole, stante il non aver essi mandato legittimo, e dannosa per lo Stato dei Genovesi, attesochè la voce ed i consigli d'uomini a loro nemici non potevano non confermare i popoli nel proposito della disubbidienza. Genova vegliava sopra questi interessi. Parecchie volte aveva ricorso alla santa Sede per trovar modo di conciliare il benefizio della religione coi diritti della sovranità, ma non si era potuto venire a conclusione. I vescovi stessi della Corsica, che avevano col medesimo fine supplicato al pontefice, non avevano nemmeno potuto ottenere una sola lettera pontificia, che disapprovasse gli attentati dei Corsi sulle rendite e giurisdizioni del clero così secolare come regolare. Pareva alla repubblica di scorgere nel procedere della corte di Roma non poca parzialità in favore de' suoi ribelli. Gelosa quindi, s'era messa al fermo di non permettere cosa che alla conservazione dei suoi diritti importasse. Da un'altra parte Roma argomentava ch'ella non era stata per niun conto autrice delle sollevazioni di Corsica, nè in esse in modo alcuno aveva posto le mani; che sapeva che un gran disordine regnava nelle cose ecclesiastiche dell'isola e che tutti i buoni ordini vi erano pervertiti; che le pecore si nutrivano di male erbe, ed i legittimi pastori sospiravano; ch'ella avea aspettato sì lungo tempo per venire alle provvisioni necessarie, sperando sempre che la repubblica colle sue forze avrebbe finalmente sottoposto i ricalcitranti, e ritornato l'isola alla quiete; ma se la repubblica era stata inabile a ciò fare dopo una guerra di trent'anni, che colpa ci aveva Roma? Dovere ella pur pensare al benefizio dell'ovile, nè poter abbandonare al caso ed al furore i sussidii spirituali ed i celesti interessi; essere oggimai tempo di offerire un porto di salute a chi in un mare burrascoso pericolava; rispettare ella i diritti sovrani della repubblica nè avere alcuna volontà di offenderli, ma pur dover soddisfare al suo dovere di madre universale; quanto alle preferenze, nissuna averne Roma, Roma giusta e pietosa con tutti; non pretendere ella di scrutare i motivi dei principi nelle loro deliberazioni, ma esigere che ciò stesso si pratichi in riguardo ai suoi nelle sue, nè poter permettere che si mescolino le cose temporali con le spirituali. Travagliandosi le cose a questo modo tra Roma e Genova, le prime cagioni d'un aperto risentimento nacquero dai Cappuccini. Paoli non poteva tollerare che i conventi di questi religiosi situati nei paesi che a lui ed al suo governo obbedivano, fossero sotto la dipendenza del provinciale, il quale abitava in Bastia sotto il dominio della repubblica. Da un'altra parte, non essendovi altro superiore delegato, la disciplina dei conventi ne pativa e seguivano disordini con iscandalo di tutti i buoni. Oltre a ciò, Paoli desiderava che fosse posto alla loro direzione un uomo, il quale, essendo favorevole al suo intento, al medesimo fine indirizzasse le parole e gli atti dei religiosi, ma principalmente la predicazione. Di ciò pensando, scrisse al padre Serafino da Capricolle, provinciale dei Cappuccini nel Genovesato, esortandolo a deputar persona conforme a' suoi desiderii pel governo dei conventi. Il padre Serafino diede la facoltà domandata al padre Paolo d'Altiani, definitore poco avanti uscito dalla carica di provinciale. Nelle risposte scritte lodò Paoli del suo zelo per la gloria di Dio e pel bene della regolare osservanza. La lettera venne alle mani dei governatori della repubblica; onde pieni di sdegno decretarono che tutta la religione dei Cappuccini restasse espulsa dai suoi territorii; con iraconde parole lamentandosi che il padre Serafino tenesse carteggio col capo dei ribelli, ed attribuendo il suo procedere a perfidia per avere comodità d'infiammare vieppiù gli spiriti contro il legittimo sovrano e dare nuovo alimento alla ribellione. Il Cappuccino rescrisse per iscusarsi e per supplicare alla signoria per la rivocazione dell'amaro editto; ma il suo scusarsi non che addolcisse le amarezze, diè novello sprone agli sdegni, perciocchè rivocò bensì il mandato conferito al d'Altiani, ma nel medesimo tempo protestò che vivea contento per avere tentato dal canto suo tutti i mezzi per provvedere al vantaggio ed alla quiete di coscienza dei suoi religiosi. I collegi della repubblica decretarono adunque, che non avendo il provinciale dato segno di rimorso o di pentimento, volevano ed ordinavano di nuovo che tutti i Cappuccini fossero dagli Stati della repubblica espulsi. Alla quale amara intimazione, il padre Serafino si raumiliò, e trasmise alla signoria lettere ubbidienziali, con cui rivocava le facoltà date all'Altiani e sottometteva di nuovo i conventi di Corsica all'autorità del provinciale residente in Bastia. Per la qual cosa i collegi, posta in disamina nuovamente la materia, levarono il divieto, restituendo ai Cappuccini la facoltà di dimorare nelle terre di Genova. Ma molto più grave discordia non tardò a suscitarsi tra la repubblica e la santa Sede a cagione degli affari di Corsica. Il papa, considerato che per l'assenza dei legittimi pastori nelle diocesi di Aleria, di Mariana, d'Acci e di Nebbio, le potestà ecclesiastiche si esercitavano senza mandato legittimo; mancanza per la quale succedevano non pochi scandali, ed il servigio divino ne pativa; aveva preso risoluzione di mandarvi un visitatore apostolico, affinchè avesse cura che si rimediasse ai disordini ed il retto culto si riordinasse. Di tale missione investì adunque Cesare Crescenzio de Angelis, vescovo di Segni, e gli comandò che nelle cose spirituali e nelle rendite ecclesiastiche unicamente si occupasse, nè in verun modo s'ingerisse nelle temporali. Quantunque fin dall'anno 1733, il doge, i procuratori ed i governatori di Genova, sotto la protezione e garanzia dell'imperadore Carlo VI, avessero coi Corsi conchiuso, che affine di promuovere in quel regno i buoni costumi e la religione, non lascierebbero di «cooperare perchè fossero da Sua Santità esaudite le suppliche dei popoli che richiedessero un visitatore apostolico per togliere gli abusi e rimettere nelle diocesi l'ecclesiastica disciplina;» la presente deliberazione del pontefice dispiacque sommamente alla repubblica, essendo stata presa, non solamente senza il suo consenso, ma eziandio senza sua saputa; e giudicando incomportabile che alla coperta e nascosamente si mandasse ne' suoi Stati un mandatario di tanta importanza. Prevedeva che i ribelli se ne sarebbero prevalsi, che di quell'andata avrebbero levato rumore, e che vieppiù si sarebbero confermati nel malvagio proposito loro. E veramente Paoli ed i suoi compagni con grandissima allegrezza ricevettero le novelle della delegazione fatta da Clemente XIII, ed incredibile fu l'ardimento che ne presero assai, più certamente pel fine politico che pel religioso. Come prima pervennero alla signoria di Genova le novelle, sdegnosamente procedendo, decretò, nel dì 13 d'aprile, che il vescovo di Segni, Cesare Crescenzio de Angelis, quando in terra genovese capitasse, fosse tosto arrestato e consegnato in alcuna delle piazze, luoghi, presidi o torri tenuti dai soldati della repubblica, per essere quindi decentemente trasportato nella metropoli, decretando inoltre, cosa che parve di maggior ingiuria ancora, che chiunque in tal modo lo arrestasse e consegnasse, avesse un premio di tre mila scudi romani, e finalmente proibendo a qualunque persona di qualsivoglia grado, stato o condizione di eseguire qualunque decreto, insinuazione, ordine, provvedimento od altro atto si fosse che il vescovo sopraddetto si attentasse di fare. Vane furono le diligenti cautele usate per arrestare in viaggio il commissario apostolico. Essendosi resi liberi i mari per una grossa perturbazione di venti e d'acque che aveva sparpagliati i legni genovesi, egli giunse felicemente e prese terra, ai 23 d'aprile, alla torre della Prunetta, dove fu lietamente accolto dal popolo in gran numero a quella spiaggia concorso. Si condusse quindi, in mezzo ad una folla immensa ed accompagnato per onoranza da trecento uomini d'arme, a Campoloro, per ivi dar principio all'esercizio dell'autorità che per volere del pontefice con sè portava. Ai 3 di maggio, mandati dal generale Paoli, il vennero a visitare ed a fargli riverenza due rappresentanti del regno, Giuseppe Barbagio ed un Baldassari, uomini di gran caldo ed autorità nell'isola. Gli pronunziarono graziose parole, alle quali egli rispose accomodatamente e da farli contenti; imperocchè persona destra era, ingegnosa e delle faccende del mondo politico esperta. Poscia venendo all'esecuzione del mandato, pubblicò un editto per cui, deputati sacerdoti esattori nelle quattro diocesi d'Aleria, Mariana, Acci e Nebbio, ordinò che in mano loro si consegnassero tutti i proventi e le rendite che spettavano alle mense vescovili delle anzidette diocesi ed ai benefizii tanto residenziali che non residenziali, che o al presente fossero in litigio, o dai provvisti non si possedessero in effetto. Per gratificare al pontefice, che così grande benefizio avea largito col mandare il visitatore apostolico, il consiglio di Corsica, con solenne manifesto, ordinò che nessuno stesse più ad ingerirsi nell'amministrazione de' proventi ecclesiastici nelle quattro diocesi sottoposte all'autorità del visitatore, lasciandogli intiera la facoltà di disporne in conformità ai sacri canoni. In ordine poi ai proventi delle altre diocesi, comandò, affinchè non andassero in benefizio di chi non serviva l'altare e ne farebbe uso contro la nazione, che si depositassero sino a che il sommo pontefice avesse spiegato la sua volontà del come ed in benefizio di chi si dovessero adoperare. Dalle condiscendenze verso il papa si venne agli sdegni contro Genova. Il consiglio di Corsica, dichiarato primamente che il bando del senato portante la taglia contro il visitatore apostolico era distruttivo della religione e dell'autorità apostolica, offensivo alla maestà del vicario di Cristo, sedizioso e contrario alla sicurezza e tranquillità del loro Stato, corruttivo delle leggi e dei buoni costumi, lo dannò e condannò ad essere lacerato, stracciato, calpestato e gettato nelle fiamme dal pubblico ministro di giustizia; sentenza che restò eseguita nella piazza di Campoloro sotto le forche piantate nel fondo della casa di un sicario e parricida, denominato il Piscaino. Nè il papa tacque all'atto della repubblica di Genova contro il visitatore apostolico, e pubblicò un editto gravissimo, nel quale per la pienezza dell'apostolica podestà, lo dichiarò «nullo, irrito, invalido, ingiusto, iniquo, riprovato, dannato, vano e temerariamente e dannabilmente da chi non ha potestà emanato.» Nè la signoria di Genova, avuto notizia dell'editto del papa, lasciò di dargli pubblicamente risposta per far capace il mondo della giustizia del suo procedere; sì che del gravissimo litigio tra la santa Sede e la repubblica di Genova chiarissima fama s'innalzò per tutta l'Europa, e, come quello di Venezia, esercitò le penne dei più celebri ingegni, dei quali chi opinava per Genova e chi per Roma. Roma pubblicò la sua apologia, la pubblicò Genova, ed in mezzo a tanta contenzione, si vedeva che il nodo in ciò consisteva, che la sovranità di nome in quelle parti della Corsica apparteneva alla repubblica, e quella di fatto ai Corsi; onde la repubblica si offendeva di ciò che non poteva impedire e che il papa reputava necessario, ed il santo padre, pei provvedimenti da darsi, non poteva non riconoscere quel governo di fatto che la forza aveva stabilito già da parecchi anni senza che Genova l'avesse potuto vietare, e che anzi poca speranza si vedeva che ella in futuro il potesse. Così tra il diritto e la forza nasceva il contrasto; i Corsi si approfittarono della deliberazione del papa, che in loro aggiugneva animo ed in Europa favore e riputazione. Genova si diede special pensiero di notificare quanto accadeva alla repubblica di Venezia, siccome quella che e per similitudine di forme politiche e per comunanza di massime con sè medesima conveniva. Il console di Genova in Venezia, Biffi, espose al collegio de' savi che la missione del visitatore apostolico tendeva a raffermare que' popoli nella ribellione ed a volgere l'armi contro il loro legittimo principe; che la signoria aveva stimato bene di opporsi ad una tale missione per conservare illesi i diritti del principato; che Roma aveva proceduto ingannevolmente, stante che nel tempo stesso, in cui si trattava un accordo per mezzo del cardinale Delci, decano del sacro collegio, e da monsignore Lazzaro Pallavicino, mentre per Genova passava andando alla sua nunziatura di Spagna, il preteso visitatore era partito di nottetempo da Roma per Civitavecchia, dove si era imbarcato per condursi in Corsica, sur una fregata pontificia; sperare Genova, aggiunse, che la savia Venezia la sua condotta approverebbe. Il senato veneto, secondo l'antico uso di quella repubblica, fece risposta ne' seguenti termini; «Che sia permesso ai savi del collegio di far chiamar alle porte del medesimo il console di Genova, e per un segretario di questo consiglio significargli quanto segue: dal memoriale che per ordine della vostra repubblica ci avete fatto tenere, rileva il senato, che alle molte inquietudini promosse alla medesima da' Corsi ribelli, aggiungesi in ora quella della dimanda fatta alla Santa Sede per la missione in quel regno di un visitatore apostolico. Nell'atto però, in cui contempla il senato in questa partecipazione un contrassegno di buona amicizia e corrispondenza della vostra repubblica verso di noi, siamo chiamati a palesarne vero rincrescimento, non dissimulando poi anche l'amaro senso, che proviamo pei molesti e dispiacevoli avvenimenti, che turbano la tranquillità d'un governo, cui professando vera amicizia e perfetto attaccamento, manifesteremo sempre il costante desiderio nostro nel mantenere simili sentimenti, dichiarando a voi la nostra considerazione.» Se mai fu studio per parlare senza dire, nissuno, che si sappia, ha quest'arte imparato ed usato meglio della repubblica di Venezia. La Corsica, che menava le mani armate di ferro, non istette a badare nemmeno colla penna. Pubblicò ancor essa il suo manifesto per adonestare le cose successe il quale conteneva ragioni, conformi a quelle di Roma, ma con ingiurie contro Genova. Genova faceva bruciare per mano del boia in faccia a Banchi i manifesti de' Corsi, e la Corsica faceva per la stessa mano bruciare i manifesti di Genova. Il re di Napoli s'interpose per trovar il modo di comporre quella velenosa discordia; ma trovò il governo pontificio meno arrendevole della signoria di Genova. Il re primamente proponeva, che rivocando l'editto de' 13 aprile, il papa si compiacesse di richiamare dalla Corsica il vescovo di Segni; in secondo luogo, che la rivocazione dell'editto fosse di data anteriore a quella del vescovo; terzo, che le due rivocazioni comparissero al pubblico tutte insieme, e perciò prima di pubblicarsi si rimettessero in mano del re. Cotali proposizioni il re faceva con intesa e consentimento della repubblica. Il senato genovese bramosamente aspirava al vedere sopita una discordia, da cui riceveva non piccola molestia, conciossiachè i popoli cattolici, o ragione o torto che si avesse col papa, sempre sopportavano mal volontieri che i loro governi tenessero lite col supremo pastore. Ma il pontefice stava alla dura, e vane tornarono tutte le ragioni che il re seppe mettere in campo, non volendo lasciarsi persuadere, e sempre pretendendo che prima di tutto la repubblica desse la soddisfazione, e che quindi spiegasse a Sua Santità i suoi desiderii, perciocchè poteva essere sicura, lasciava intendere, di ottenere dalla non mai manchevole affezione del padre comune tutto ciò che fosse dalle pastorali sue obbligazioni permesso. Così la discordia che aveva assalito il papa e la repubblica di Genova, non fu potuta comporre, nè smorzare l'acceso fuoco. Andando le cose a seconda e per quel verso che desideravano, i Corsi presero maggior ardimento e fecero risoluzione di usare tutti gli attributi della sovranità. Il consiglio supremo di Corsica ai 20 di maggio ordinò la guerra di mare contro i Genovesi. Fecero grandissime prede, mutati in bastimenti di corso i legni che prendevano, per forma che col desiderio della preda si moltiplicavano i mezzi di farla. I presidii di Bastia, San Fiorenzo e Calvi, a cui da Genova e da Livorno non potevano più pervenire se non con estrema difficoltà le provvisioni, grandemente ne pativano. Si rendeva un giorno più che l'altro manifesto che invano Genova si affaticava per ristabilire nella sommossa isola il suo imperio. Anno di CRISTO MDCCLXI. Indizione IX. CLEMENTE XIII papa 4. FRANCESCO I imperadore 17. Insorta nel cadere dell'anno scorso nuova differenza tra la corte di Roma e quella del Portogallo, per certi riguardi che il nunzio pontifizio intendeva gli dovessero essere usati e usati non gli furono, in occasione del matrimonio tra l'infante Don Pietro, fratello del re, e la principessa del Brasile, figlia dello stesso sovrano, differenza portata tanto innanzi che il nunzio stesso fu cacciato da Lisbona, ed il ministro portoghese, commendatore d'Almada, abbandonò Roma senza prendere congedo; pareva che tra per questo, e per l'espulsione de' gesuiti da tutti i dominii portoghesi, fosse la discordia per terminare con un'intera rottura. Ma la corte di Lisbona conservava sempre una tenera e rispettosa osservanza verso il successore del principe degli apostoli, e la prima occasione che se ne offerse, fu avidamente accolta per darne solenne dimostrazione. Nato dal connubio di sopra accennato un successore alla corona del Portogallo, il re, trasportato dalla gioia pel felice avvenimento, scrisse di proprio pugno una lettera particolare al sommo pontefice Clemente XIII, nella quale pregava Sua Santità di voler dare al neonato la santa sua benedizione, affinchè, crescendo in virtù, si mostrasse poi degno figlio della Chiesa, ed imitasse lo zelo dei progenitori nel promuovere mai sempre l'ingrandimento della fede e della religione cattolica romana. Riuscì gratissimo al papa cotale uffizio. Rispose adunque ne' termini più obbliganti ed affettuosi, come potea promettersi da chi sospirava il momento di una piena riconciliazione. Ma le speranze per questa così concepite, svanirono senza frutto, e le cose rimasero nello stato di prima. Anno di CRISTO MDCCLXII. Indizione X. CLEMENTE XIII papa 5. FRANCESCO I imperadore 18. Esperimentato i Genovesi quanto inutili fossero stati tutti i loro sforzi per sottomettere colla forza dell'armi i fieri abitatori della Corsica, aveano sino dallo scorso anno pensato di tentare le vie della dolcezza; non che dall'affetto verso i Corsi fossero mossi, ma per pur vedere di ridurli a qualunque costo in lor suggezione. Ma prima di tutto Francesco Matra, fratello maggiore dell'estinto Mario, essendosi sciolto dai servigi del re di Spagna, ed accordatosi ai soldi di Genova con uno stipendio di dodici mila lire all'anno, venne in Bastia, e come prima giunto vi fu, mandò circolari ai Corsi, per cui gli esortava con dolci parole a ritornare sotto il dominio della repubblica e chiamava dispotico e tirannico il governo sotto di cui viveano. Nè risparmiando alcuna ingiuria contro Paoli, gli ammoniva a non fidarsene, avvertendoli che sotto colore di libertà ei voleva farsi padrone e tiranno della patria. Ma le esortazioni del Matra non sortirono effetto d'importanza. Allora fu pubblicato un decreto, con cui il doge, i procuratori e governatori della repubblica si esprimevano, che avendo determinato di dare alla Corsica i contrassegni più sicuri della paterna amorevolezza con cui la riguardavano, e del sincero desiderio che nudrivano di vederla una volta tranquilla e felice, erano entrati in deliberazione di spedire in quel regno una deputazione con tutte le più ampie facoltà onde promuovere e fermare i mezzi d'una stabile pacificazione. Facevano quindi sapere a tutti gli abitanti, che senza distinzione od eccezione alcuna sarebbero tutti restituiti nella grazia della repubblica loro sovrana per mezzo di un generale indulto su tutto ciò che per l'addietro era accaduto. Gli assicuravano ancora della mente della repubblica di contribuir ad assodare la loro tranquillità e felicità col mezzo di tutte quelle grazie e concessioni che avessero potuto valere, non solamente a spiegare e confermare le antiche, ma ancora a stabilire una retta ed inviolabile amministrazione della giustizia civile e criminale ed a proteggere il commercio. Finalmente, dopo avere invitato tutti i soggetti più ragguardevoli del regno, non meno che tutte le altre persone a cooperare a fine sì giusto, proibivano (ed era questo il più riflessibile dell'editto) a chiunque premesse la grazia loro, di recare il menomo danno o disturbo tanto alle persone quanto ai beni dei Corsi. Non migliore successo del Matra ebbero i sei senatori che in Corsica si trasferirono deputati per tale comandamento della repubblica, ed affinchè trovassero modo con offerte e con lusinghe di mansuefare quella gente furibonda, e di fare che un lume di pace finalmente rallegrasse quelle travagliate sponde. Insuperabile impedimento alla concordia vi era ed in ciò consisteva, che i Corsi a niuna condizione volevano consentire che di assoluta libertà e franchezza non fosse, cioè di compiuta sovranità, condizione da cui Genova costantemente abborriva, quantunque più desiderio che possanza avesse per eseguire ciò a che i suoi pensieri innalzava. O fosse sciocchezza di qualche Corso, o artifizio de' senatori e del Matra, desiderosi di seminar sospetto, una partita di Corsi offerse a Paoli la dignità di doge. Ma egli con grandissimo sdegno udì la proposta e col rifiuto dimostrò come fosse alieno dall'ambire il principato sopra la patria. Perdette in quest'anno la repubblica di Venezia il suo doge Francesco Loredano, ma risarcì la perdita nel mese di maggio coll'elezione di Marco Foscarini. Eccellente natura, studii profondi, assidue meditazioni lo posero assai per tempo in istato d'incamminarsi alla gloria per vie diverse. Giovinetto, approfittò della scuola del padre, seguendolo nelle varie legazioni in cui impiegollo la repubblica, e dopo che fu tornato in patria, divise il tempo ed i pensieri fra' più onorifici impieghi e le scienze e le arti, eloquentissimamente poi scrivendo la Storia della Letteratura Veneziana. La incorrotta giustizia nel reggimento dei patrii magistrati, la saggia prudenza nell'amministrazione dei pubblici affari, la grandezza della mente, la vastità delle cognizioni e la dirittura dell'animo non solo furono in lui ammirate ed applaudite da' suoi concittadini, ma riscossero ancora l'ammirazione e l'applauso nelle corti di Savoia, di Vienna e di Roma, dove con superbo e quasi regio apparato fu ambasciatore. Fatto poscia savio del consiglio, cavaliere e procuratore di San Marco, poco prima di essere innalzato al ducal trono, diè chiarissime prove del suo attaccamento alla repubblica e del suo retto e saggio modo di pensare. Erasi fin dall'anno precedente manifestata in Venezia fra patrizii una forte scontentezza per la soverchia autorità che voleasi su di lor usurpata dai tre inquisitori di Stato; scontentezza appalesata col non lasciare che fosse eletto alcuno per formare l'anno susseguente il supremo tribunale detto consiglio dei dieci. Cotale ritardo d'elezione d'un magistrato sì alle forme della repubblica necessario, e nel quale comprendeansi due, e alle volte tutti e tre i detti inquisitori, fece che si proponesse quella di cinque correttori per riformare e modificare le leggi e l'autorità dello stesso consiglio de' dieci; ed uno di tali correttori fu appunto il procuratore Foscarini. Tra i quattro suoi colleghi era disparità d'opinione, duo volendo che fossero aboliti gli inquisitori, due volendoli continuati. Le sessioni del maggior consiglio, che dovea esser giudice assoluto dell'alta quistione, erano state pel corso di più mesi d'esito sempre incerto e non senza concitazione degli animi e studio di parti. Finalmente nel mese di marzo, vedendosi che il maggior numero inchinava all'abolizione, il Foscarini, nemico d'ogni novità nella costituzione della patria, e prevedendo che simile abolizione cagionerebbe o almeno accelerare potrebbe la rovina della medesima, salito in bigoncia là dov'era accolto il maggior consiglio: «Aprite, esclamò, aprite, o cittadini, queste finestre, guardate dalle medesime il popolo che ansioso sta aspettando l'esito delle vostre deliberazioni. Non crediate già ch'egli si trovi raccolto nel cortile di questo palagio per aspettar con una placida indolenza il risultato di questo giudizio; ma stassene colà palpitando ed angoscioso per intendere qual esser debba il suo destino e quello della sua posterità. Egli aspetta se deve ritornare dalla moglie e dai figliuoli per consolarli con la nuova della loro sicurezza e tranquillità, o pure col doloroso avviso di dover abbandonare questo terreno dove son nati, e portar altrove le loro sostanze e le loro vite; giacchè in Venezia nè le une, nè le altre sono più sicure. Aprite, cittadini, aprite queste finestre, e se potete, restate indifferenti a questo spettacolo.» Il successo nel veneto comizio corrispose pienamente all'energico e sentimentoso slancio dell'oratore. Fu limitata entro men lati confini l'autorità degl'inquisitori, ma solennemente confermata, e due mesi dopo, l'eloquentissimo suo sostenitore si vide eletto e coronato doge di Venezia. Anno di CRISTO MDCCLXIII. Indizione XI. CLEMENTE XIII papa 6. FRANCESCO I imperadore 19. Nella scarsezza di materia che all'annalista offre il presente anno, sarà da riferirsi la transazione seguita tra i re di Francia e di Spagna e quello di Sardegna, perchè questo fosse compensato del non asseguito regresso nel ducato di Piacenza. Il quarto articolo preliminare del trattato d'Aquisgrana portava che gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla fossero ceduti, come in fatti furono, all'infante don Filippo, riservato però il diritto di regresso agli attuali possessori, che in quel tempo erano l'imperadrice regina degli Stati di Parma e Guastalla, ed il re di Sardegna per quello di Piacenza; titolo di reversione principalmente fissato pel caso in cui l'infante don Filippo fosse passato al trono di Napoli, o morto fosse senza successione mascolina. Verificatosi il primo caso, per essere il re di Napoli passato alla corona di Spagna, e quindi don Filippo a quella delle Due Sicilie, il re sardo a questo si rivolse, per ottenere ciò che considerava come suo. Don Filippo diresse cotali istanze prima al fratello suo, re di Spagna, indi al re di Francia suo suocero; e quest'ultimo, per distornare i torbidi che potessero insorgere, scrisse di suo pugno al re di Sardegna, che se non si fosse trovato in possesso della città di Piacenza e del suo territorio sino alla Nura nella maniera divisata nel trattato d'Aquisgrana, avrebbe ottenuto un equivalente. Tale impegno fu dal re di Francia partecipato alla corte di Spagna per concertare d'accordo le misure capaci di conservare all'infante don Filippo tutti i suoi Stati e render paghe le giuste domande del re sardo; ma possibil non essendo trovare un territorio che a questo ultimo servisse di compenso senza pregiudizio d'altre potenze, si obbligavano i re di Francia e di Spagna di far godere al re di Sardegna quella stessa rendita annuale, di cui goduto avrebbe se fosse stato attual possessore della città e del territorio di Piacenza. La rendita netta fu per tanto di comune consenso ridotta a trecento ventotto mila lire di Francia, ed il capitale relativo, in somma di otto milioni duecento mila lire della stessa moneta, venne assentato sul palazzo della città di Torino al quattro per cento. E volendo finalmente il re Cristianissimo risarcire il re di Sardegna della privazione delle rendite di quella parte del Piacentino che giace di qua della Nura, dalla morte del re di Spagna Ferdinando VI sino ai 10 di marzo del presente anno, si obbligò di far pagare al re sardo altre cento settantantasei mila trecento trentatrè lire nello spazio di due anni; così rimanendo definitivamente composta l'insorta vertenza. Dopo la breve ducea di dieci mesi terminò di vivere a Venezia Marco Foscarini; e di lì a pochi giorni gli fu dato a successore Alvise Mocenigo, personaggio di somma dignità e prudenza, stato ambasciatore a Parigi, a Roma ed a Napoli, intimo amico del cardinale Fleury, e carissimo a Benedetto XIV. Anno di CRISTO MDCCLXIV. Indiz. XII. CLEMENTE XIII papa 7. FRANCESCO I imperadore 20. Continuavano sempre a travagliarsi in Corsica le cose a piccole fazioni. In quasi tutte le parti dell'isola si guerreggiava, ma principalmente in Furiani, assaltato da Matra e validamente difeso da' Paolisti. Finalmente Matra, conoscendo di non potere far frutto, tornò a Genova col commissario Sauli, che aveva ceduto il luogo al vicereggente Speroni. La repubblica ormai disperava della sottomessione de' Corsi. Nè le forze, nè le lusinghe, nè i maneggi erano valsi. Paoli sormontava d'ardire e di potenza, e quello che Genova non aveva potuto ottenere su' principii del prode e provvido tenente corso, da Napoli venuto con non altro che col suo nome e coll'ardente desiderio di servire la patria, assai meno poteva sperar di conseguire presentemente che il capitano generale dei sollevati aveva assuefatto al suo freno i suoi paesani insofferenti di ogni altro, che aveva dato tante prove di perizia di guerra e di prudenza di Stato, e che già per parecchi anni aveva resistito contro le insidie de' partigiani e contro le forze dell'antica signoria. Alla sua voce, la Corsica quasi tutta concorde ed unanime si muoveva, e le armi minacciosa e fiera contro Genova brandiva: di bocche da fuoco, di ferree punte erano tutti quei lidi orridi ed ispidi. Non potendo da sè, Genova pensò di usare soldati forastieri. Sperava con tale mezzo di venire ad un aggiustamento che discreto e ragionevole fosse. Questo era un ultimo sperimento ch'essa voleva fare, il quale, se, secondo l'aspettazione, non succedesse, aveva in animo poi di abbracciare un partito, per cui i Corsi, se non sarebbero più stati di lei, di loro medesimi non sarebbero nemmeno. Amava meglio vedere la Corsica in balia altrui, che signora di sè medesima. A dì 7 di agosto fu sottoscritto in Compiegne tra la Francia e la repubblica un trattato per cui si concluse che approderebbero in Corsica sette battaglioni franzesi, e prenderebbero le stanze loro in Bastia, Aiaccio, Calvi e San Fiorenzo. Non già verrebbero per far guerra ai Corsi, che anzi da amici li tratterebbero, ma solamente per difendere quelle piazze, ed impedire che di esse non s'insignorissero. Verrebbero anche come portatori di pace, avendo il conte di Marbeuf, che guidare li doveva, ordine di persuadere un accomodamento, e facoltà di concluderlo. Arrivarono in fatti, e nelle destinate piazze si posarono. Da quel momento in poi la Corsica non fu più di Genova che di nome. Gravissima carestia percosse in questo anno la parte meridionale dell'Italia. Napoli si trovò più volte in necessità di combattere sedizioni popolari dal caro del pane prodotte; Roma, più povvidente, mandò suoi commessi in più parti, e quindi fe' sì che il popolo se non abbondantemente, almeno sufficientemente fosse provveduto. Anno di CRISTO MDCCLXV. Indizione XIII. CLEMENTE XIII papa 8. FRANCESCO I imperadore 21. GIUSEPPE II imperadore 1. Genova, che sola per molti anni sentiva in Italia il peso della guerra, mentre il rimanente della penisola godeva d'una calma invidiabile, Genova fu debitrice alla geografica sua situazione di vedersi scelta ad accogliere nel suo seno due gran principesse, cioè la infante Maria Luigia figliuola del re di Spagna, destinata sposa all'arciduca Leopoldo d'Austria e l'infante Luigia di Parma, contemporaneamente destinata al talamo del reale principe d'Austria, figlio dello stesso re di Spagna. Ma la gioia di queste accoglienze fu presto conversa in lutto per la morte in quel mentre accaduta in Alessandria dell'infante don Filippo di Parma, padre dell'una e zio dell'altra delle dette principesse, rapito dal vaiuolo nel suo quarantacinquesimo anno. A lui succedette l'infante don Ferdinando, suo figliuolo, allora in età di quattordici anni. Dopo il tristo caso, la principessa spagnuola procedette ad Innspruck, dove fu accolta dall'imperial corte, e quindi congiunta al suo sposo colla nuzial benedizione loro impartita dal principe di Sassonia, vescovo di Frisinga e Ratisbona. Ma anche colà la attendeva nuova scena di dolore. In mezzo alle feste, agli spettacoli, alle luminarie, ai plausi popolari, che per ogni canto annunziavano il giubilo comune per sì lieto avvenimento, morte rapì nel suo cinquantesimosettimo anno l'imperatore Francesco I. Era il 18 di agosto. Tutti i paesi da Francesco governati piansero la sua morte, perchè dotato di bontà, di affabilità, di clemenza, ebbe sempre in vista come oggetto primario la felicità degli Stati suoi, la tranquillità de' suoi popoli, la prosperità delle scienze, delle lettere, delle arti e del traffico, ed a sua lode si disse altresì che in mezzo alle gravissime cure dell'impero in tempi sovente turbati ed in mezzo alle politiche agitazioni, degnossi talvolta egli stesso di occuparsi delle scienze più utili, e particolarmente d'incoraggiare i progressi delle scienze fisiche. Già nel giorno 27 di marzo del precedente anno era stato eletto re dei Romani il suo primogenito Giuseppe; questi adunque succedette al padre nel trono germanico e negli Stati austriaci ereditarii, e nominato fu tosto dalla madre correggente degli Stati austriaci. Di là a pochi giorni, granduca di Toscana fu dichiarato il di lui fratello, il quale dalla funesta Innspruck si pose, colla gran duchessa sua novella consorte, in viaggio per Firenze, accompagnato sino a Sterginau dal fratello, nuovo imperadore. Così ambe le perdite sofferte dall'Italia venivano ad essere riparate; ma Clemente XIII non trovava compenso alle sue, che specialmente riguardavano ai Gesuiti. Non appartiensi a questi Annali un minuto ragguaglio delle querele e delle contestazioni che verso l'anno 1760 suscitaronsi in Francia relativamente ai religiosi di questa compagnia. Promosse si erano varie lagnanze contra que' regolari, che determinato avevano il parlamento ad esaminare le loro costituzioni, non meno che i titoli del loro stabilimento in Francia, disamina che il re stesso erasi riserbata. Proposta s'era intanto da que' magistrati l'appellazione, detta _come di abuso_, da molte bolle, molti brevi e molte costituzioni riguardanti i Gesuiti, e condannati eransi ad essere abbruciati: vietato erasi parimente all'ordine di ricevere alcun membro, ed anche di continuare nel pubblico insegnamento. Il clero di Francia, chiamato ad esporre il suo sentimento sull'utilità relativa di detti regolari, sul loro insegnamento, sulla loro interna condotta, suggerito aveva di modificare i suoi regolamenti. Il re Luigi XV, che amante mostravasi della concordia, aveva quindi proposto un modello di riforma, che presentato erasi al pontefice ed al generale de' Gesuiti medesimi. Ma questi rispose che esistere doveano essi quali erano, o piuttosto non esistere, _aut sint ut sunt, aut non sint_. Il pontefice prestossi alle viste medesime di quel superiore; ed il re lasciò il corso libero alle contestazioni, e cominciò egli stesso dall'ordinare che chiuse fossero le scuole gesuitiche. Il parlamento quindi, rinnovando l'appellazione dalle bolle, da' brevi e da qualunque regolamento concernente quella società, vietò da prima ai Gesuiti di portare l'abito dell'ordine e di vivere sotto l'obbedienza de' loro superiori, e poscia, nel 1764, ordinò che dentro otto giorni i Gesuiti uscissero del regno, qualora non giurassero di rinunziare all'istituto loro. Sulla fine di quell'anno stesso, il re, aderendo al voto di tutti i parlamenti del regno, pronunciò l'abolizione totale de' Gesuiti in Francia. A tal colpo Clemente XIII, che aveva a sè medesimo persuaso la conservazione de' Gesuiti toccare la coscienza, perchè li teneva utili alla religione ed alla Chiesa, rotto il silenzio, pubblicò, il 7 gennaio di quest'anno, la bolla _Apostolicum_, che confermava i Gesuiti in tutti i loro privilegii, giustificandoli su tutte le accuse, e per capacità, zelo e servigio con somme lodi innalzandoli. Se mai altra bolla si sparse rapidamente nel mondo, questa fu presto in mano di tutti, specialmente in Francia, dove levò altissimo rumore. Denunziata quindi al parlamento, verso la metà di febbraio, il parlamento stesso emanò un decreto, con cui rimase la bolla soppressa e proibita, con espressa inibizione di accettarne per l'avvenire verun'altra, se non fosse accompagnata del regio beneplacito. Ed in Portogallo, fatta la bolla soggetto di molte discussioni, uscì finalmente fuori un rescritto o decreto del re, col quale veniva dichiarata di niun effetto rispetto a' suoi dominii e regni, proibendone qualunque esemplare non solo riguardo al non poterne fare uso alcuno, ma ordinando eziandio che tutte le copie si dovessero consegnare al così detto tribunale dell'inconfidenza. Dichiarò inoltre il re eguale intenzione e volontà riguardo a tutti gli altri brevi e scritture della medesima natura che non avessero ottenuto prima la reale approvazione; ordine sovrano che fu registrato in forma di legge nella segreteria, indi pubblicato nella gran cancelleria della corte e del regno. In Corsica, Marbeuf cominciò ad usare il ministero di pace, promettendo da parte del re Luigi fermezza e sicurtà ai patti di concordia che con Genova fossero stipulati. Varii negoziati s'intavolarono tanto in Corsica con Paoli e col colonnello Buttafuoco da parte del Marbeuf, e dal conte della Tour du Pin, che per la Francia e per Genova trattavano, quanto a Versaglies, dove per questo fine della Tour du Pin e Buttafuoco si condussero. L'affare si maneggiò, come già altre volte, senza effetto, perchè si diede in quel perpetuo intoppo, che i Corsi volevano la loro independenza, e Genova non la voleva consentire. In fatti gl'isolani domandavano lo Stato libero e sovrano, e la possessione di tutte le piazze, che i Genovesi ancora tenevano. Chiedevano inoltre che la Capraia e Bonifazio fossero loro dati in feudo, obbligandosi di pagare a Genova, per ricognizione della feudalità, un tributo annuale di quaranta mila lire, che era quanto i Genovesi, siccome essi stessi affermavano, ricavavano ogni anno dalla Corsica. Per maggior dimostrazione della dipendenza feudataria di que' due luoghi, i Corsi offerivano di mandare ogni dieci anni uno de' loro primarii personaggi a chiedere l'investitura. Promettevano altresì di consentire ai Genovesi il libero commercio e senza pagamento di dazii in tutte le terre e mari di Corsica. Anno di CRISTO MDCCLXVI. Indiz. XIV. CLEMENTE XIII papa 9. GIUSEPPE II imperadore 2. L'Italia, fatta dalla natura delizia dell'Europa, godea pur essa delle delizie della pace, nè il rimbombo de' suoi bronzi guerrieri interruppe in quest'anno i giulivi spettacoli che ne contrassegnarono quasi tutti i giorni, se non fosse in sul mare presso le lontane coste dell'antica Libia. In questo silenzio di avvenimenti maggiori, crediamo di dover consegnare in queste carte la memoria delle circostanze che accompagnavano il pagamento dell'annuo tributo solito a contribuirsi alla santa Sede dai sovrani delle Due Sicilie, e consistente in un cavallo bardato, detto chinea, ed in sette mila ducati del regno. Ogni anno, la vigilia de' Santi Apostoli, portavasi il ministro plenipotenziario del re al portico della basilica vaticana, e colà, presentando al pontefice la chinea, e pagando il denaro al tesoriere della camera apostolica, proferiva in latino una formola già stabilita, e che in lingua italiana così sonava: «N. (il nome del re), mio clementissimo signore, manda a vostra santità questo cavallo decentemente ornato, ch'io presento in nome di lui, e sette mila ducati, per solito tributo del regno di Napoli, pregando Dio Ottimo Massimo che vostra santità possa per molti anni riceverlo pel bene e vantaggio della cristianità e per l'accrescimento della santa nostra cattolica fede. Sono questi i voti di sua maestà ed i miei proprii umili e ferventissimi.» Al che il papa rispondeva: «Riceviamo e volontieri accettiamo questo censo dovuto a noi ed alla Sede apostolica pel diretto dominio del nostro regno delle Due Sicilie di qua e di là del Faro. Al nostro carissimo figlio nel Signore N. preghiamo da Dio salute, ed a lui, ai popoli e vassalli diamo l'apostolica benedizione, in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.» La Toscana, che per quasi trenta anni era stata governata da un privato delegatovi dal granduca Francesco, che faceva la sua residenza a Vienna come imperator di Germania, prestò questo anno, nel dì ultimo di marzo, con vera espansione d'animo, il giuramento di fedeltà ad un sovrano proprio, all'arciduca Leopoldo, di cui presagiva il beato reggimento. Ed in fatti il novello granduca tutte volse le sue cure a render florido il proprio Stato, e fin da questi primordii die' opera al miglioramento delle maremme di Siena, a quello della moneta, a far prosperare la marineria, a sistemare le regole della giustizia. A Livorno, dove fu splendidamente e giulivamente accolto, visitò tutto, animò tutto, e pose la prima pietra alla fabbrica d'un gran quartiere per la marineria. Finalmente fece aprire una strada che da Pistoia arrivasse sino a' confini del Modonese, strada tante volte indarno disegnata e che tornava a reciproco vantaggio degli abitanti de' due Stati. Nè men sollecito del nuovo sovrano di Toscana nel promuovere la circolazione e libertà del commercio fu il giovinetto monarca delle Due Sicilie. L'audacia dei corsari barbareschi infestava continuamente le spiaggie della Calabria e delta Sicilia, non che il rimanente dell'Italia. Per porre una volta freno alla loro insolenza, e provvedere ad un tempo e tutelare la tranquillità del commercio, stimò il re opportuno di conchiudere sull'importante oggetto un trattato con la Francia, e fare che intanto rimanessero interrotte e sospese ne' porti di quel regno le visite de' bastimenti napoletani e siciliani, e lo stesso si osservasse nei porti delle Due Sicilie riguardo alle navi franzesi. E scopo essendo della negoziazione il francare ed assicurare il commercio in quelle parti principalmente dove sarebbe stato più esposto agl'insulti dei Barbareschi, così, attendendo che si concludesse, fece il re di Napoli gettare in acqua sei nuovi sciabecchi, due galere e quattro galeotte, affinchè, mettendosi a corseggiare, coprissero, e difendessero le costiere dei proprii Stati, ed inseguissero i legni dei pirati, ordinando nel tempo stesso che nel porto di Napoli stessero sempre parate una galera ed una galeotta, quella a difesa del porto stesso, questa per recarsi ovunque la chiamasse il bisogno. Già la Francia aveva anch'essa nel Mediterraneo una squadra di vascelli comandati dal principe Beauffremont. Con questa fece egli una visita alle piazze di Barbaria, e prima a quella d'Algeri, che da alquanti mesi avea perduto il vecchio suo beì, ed il cui successore, Mahomet Effendi, ostinatissimamente ricusava qualsiasi componimento colla Spagna e coi Napoletani. Ma ben lo persuase la comparsa della squadra franzese, come si persuasero ancora gli altri beì di Tunisi e di Tripoli; a tal che il principe Beauffremont ottenne quanto desiderava ed avuta promessa solenne che sarebbero rispettati i legni delle due nazioni, oltre a quelli che spiegavano bandiera franzese, se ne tornò a Tolone, lieto della sua corsa e della felice riuscita. Dopo la vista della squadra franzese, il beì di Tripoli n'ebbe un'altra per parte de' Veneziani. Erano seguiti a danno di varii legni mercantili di questa repubblica gravi e frequenti insulti in onta alla fede dei trattati da circa due anni fermati tra la repubblica stessa e le reggenze africane. Ora, risoluto il senato a non più sofferirne la mala fede, ed a trarne solenne vendetta, fu messa alla vela una squadra sotto gli ordini del cavaliere Giacomo Nani, il quale, non sì tosto schierò nel porto di Tripoli le sue navi e fece sonare i cannoni, vide a bordo della propria nave il beì, presto a dargli tutte le convenevoli soddisfazioni ed a pattuirvi quelle condizioni che fossero state di aggradimento del veneziano senato. Furono dunque dalla reggenza sborsate rilevanti somme per salvarsi dal giusto risentimento della repubblica, e, restituiti tutti i bastimenti stati predati, volle in oltre il beì che fossero severamente gastigati i rais o capitani che aveano insultata la bandiera di Venezia; e se non era il console della repubblica che caldamente s'interpose per mitigare l'asprezza ed il rigore dei minacciati gastighi, avrebbero avuta mozza la testa. Fra' patti convenuti fu principalmente questo: che i limiti oltre i quali passare non potessero i legni corsari si dovessero estendere per l'avvenire dal capo di Santa Maria sino a quello della Sapienza; dal che ne derivò un doppio vantaggio, perchè, rimovendosi dalle foci dell'Adriatico le corse di que' Barbari, rimanevano nel tempo stesso difese le coste del regno di Napoli, e meglio protetto il commercio delle altre nazioni. Anno di CRISTO MDCCLXVII. Indiz. XV. CLEMENTE XIII papa 10. GIUSEPPE II imperadore 3. Essendosi rotte le pratiche a ragione di quello scoglio insuperabile dell'indipendenza, i Corsi, condotti da Achille Murati, fecero una fazione improvvisa sopra l'isola Capraia, antico membro del loro regno, e se ne impadronirono, successo, che siccome molto afflisse i Genovesi, così diede non poca allegrezza ai Corsi, che concepirono migliore speranza, e più sicuramente augurarono dello stabilimento della loro libertà. L'incomoda ed oggimai troppo lunga tenzone ora pende al suo fine. Era manifesto ad ognuno che Genova si trovava inabile a ritornare i suoi antichi sudditi all'obbedienza. Quarant'anni di sforzi inutili, oltre le antiche perturbazioni, che tanto travaglio le avevano dato, bene dimostravano che la ribellante isola ero per lei perduta. Non erano valse le tregue, non le paci, non le armi; Genovesi e Corsi non potevano vivere insieme se non come esteri gli uni verso gli altri e non più come nel medesimo ordine misti ed associati. Il valor guerriero dei Corsi, il valore e la prudenza di Paoli si dimostravano insuperabili ed invincibili dalla potenza genovese. E in ciò recava eziandio un gran momento l'avere Paoli riunito in concordia tanti animi discordi, cosa che sin allora non si era veduta. Oltre a questo, quell'uomo aveva saputo ordinare una libertà più ancora fondata sulle leggi che sulle forti inclinazioni d'una gente rozza e quasi ancora selvaggia; e colla libertà introduceva la civiltà. Le quali cose tutte, mentre somministravano più efficaci mezzi di resistenza, rendevano agli uomini più cara la causa corsa. Il secolo stesso la favoriva, e Genova vinta diveniva anche odiosa. Già i popoli cominciavano a maravigliarsi che quella Genova stessa che nel 1746 con sì generoso e forte animo si era rivendicata in libertà, ora tanto odio esercitasse contro una nazione del pari forte e generosa, ed ostinatissimamente affettasse l'assoluto dominio. L'opinione dava favore alla Corsica; ciò non era nascosto a coloro che reggevano la repubblica, e già entravano nei supremi magistrati nuovi pensieri. Col medesimo passo nascevano le voglie forestiere. Vi era chi voltava a suo profitto I'impotenza di Genova. La Corsica, piena di abitatori forti e guerrieri, situata in opportuno luogo tra la Francia e l'Italia, copiosa di generi preziosi, felice per foreste stupende, sicura per porti spaziosi e comodi, molto piaceva a chi coll'Inghilterra gareggiava di possanza marittima nel Mediterraneo. Vecchio pensiero era questo: i soldati a parecchie fiate mandati nell'isola, tante diligenze, tanti amorevoli consigli, il tante volte interporsi a dolcezza tra i Corsi vinti e gli sdegnati signori, ciò era per allettare i popoli, per assuefarli ai volti, alla favella, all'imperio di Francia. Brevemente, la Francia agognava la Corsica. Ciò non ostante, pareva poco generoso procedere il divenire da ausiliario padrone, ma confidava nella necessità, che avrebbe sforzato i Genovesi ad offerirsi. E un accidente impensato, mettendoli in maggiore travaglio ed in qualche disgusto colla Francia, fece piegare il contrasto a quel segno dov'ella mirava. Il re di Spagna aveva in aprile di quest'anno espulsi i gesuiti da' suoi regni: e il papa, a cui parevano in troppo grande numero, perciocchè sommavano a parecchie migliaia, non avea permesso che si ricovrassero nello Stato pontificio. La Spagna ricercò ed ottenne da Genova che avessero ricetto in Corsica, e quivi furono destinate per loro seggio le piazze dove i Franzesi tenevano presidii. I Genovesi, in ciò compiacendo alla Spagna, avevano dispiaciuto alla Francia, che anch'essa aveva pochi anni innanzi espulsi gl'Ignaziani da' suoi dominii, sì che poco mancò che per questa cagione non si partisse dall'amicizia di Genova. Con acerbissime parole se ne lagnò col senato, protestando che ne avrebbe fatto giusti risentimenti; ed in fatti il re mandò ordine a Marbeuf che tosto sgombrasse dalle piazze dove entrati fossero i Gesuiti. Non così tosto vide Marbeuf a comparire in Algaiola, Calvi ed Aiaccio gli ospiti che la Spagna espelleva, che, uniformandosi alla volontà del re, le lasciò, ritirando i passi verso Bastia e San Fiorenzo. Subitamente Algaiola venne in potere dei nazionali; per poco anzi stette che Calvi non vi venisse, come vennevi la città di Aiaccio, e la cittadella stessa, la quale, battuta aspramente dai Corsi e ridotta in grandissima necessità di viveri, già stava in sul punto di darsi. Così i Genovesi, per aver dato ricovero agli esuli di Spagna, sdegnarono la Francia, e perdettero parecchi forti ed importanti luoghi; chè i soldati franzesi cessero il luogo ai monaci spagnuoli. Esuli erano questi religiosi, e per tale titolo meritavano che alcuno cura ne prendesse; ma quivi portavano un fatale pregiudizio. Veramente i Corsi se ne prevalevano, nè mai furono così vicini al conseguimento totale dei loro pensieri e di arrivare a quella franchigia che, fin allora stata sanguinosa e torbida, speravano finalmente di vedere felice, lieta e sicura. Mentre la fortezza di Aiaccio stava in grave pericolo, e nelle altre terre ancor tenute da' Genovesi si trepidava, pervenne avviso che tra Marbeuf e Paoli era stata conchiusa una sospensione di offese da durare insino a che, compiti i quattro anni di soggiorno stati stipulati, i Franzesi dovessero fare la loro partenza dall'isola, il qual termine era di pochi mesi lontano. La Francia minacciosamente affermava di non voler acconsentire ad alcuna prolungazione: assai, diceva, essersi travagliata per quella disordinata Corsica; facessero i Genovesi da sè, e come potevano e come l'intendevano colle loro proprie forze terminassero l'antica lite. I Gesuiti intanto instavano perchè fosse loro permesso d'introdursi nell'interno del regno per fabbricarvi a loro spese chiese e collegi e adoperarsi allo ammaestramento della gioventù. Paoli ed il supremo consiglio inclinavano a contentarli; ma i professori dell'università con molta costanza si opposero, onde furono loro proibite non solamente le fabbriche, ma ancora l'internarsi nella isola senza un passaporto di Paoli. Se non che, acconciatesi frattanto le cose tra Spagna e Roma, i Gesuiti tornarono nello Stato pontificio, dove ebbero pur ricetto quelli del regno delle Due Sicilie e dell'isola di Malta, in questo medesimo anno espulsi, quivi alimentati della pensione dai rispettivi sovrani loro assicurata. Anno di CRISTO MDCCLXVIII. Indizione I. CLEMENTE XIII papa 11. GIUSEPPE II imperadore 4. Genova si accorse finalmente che bisognava veder la fine di un tormento che la teneva impedita e dolorosa già quasi da un mezzo secolo: soggiogare quei forti e pertinaci isolani da sè non poteva, e colla Francia più non lo sperava. Il mondo aspettava di vedere un'Olanda nel mezzo del Mediterraneo; sorse in quella vece una nuova provincia di Francia. Ai 15 di maggio, dopo di essersi agitate molte pratiche, si fermò finalmente a Versaglies tra la Francia e Genova un accordo appartato da' Corsi, per cui si stipulò che la repubblica cedeva alla Francia il regno di Corsica comprese le fortezze, le artiglierie ed ogni attrezzo militare, con patto però che per le artiglierie e gli attrezzi militari, secondo la stima che se ne farebbe dai periti, il re corrispondesse in denaro l'equivalenza; Che la sovranità del regno apparterrebbe sempre alla repubblica; Che agli antichi proprietarii, mostratene le identità, si restituissero tutti i beni confiscati; Che i Corsi fossero veri sudditi della Francia tutto il tempo che l'isola possederebbe; Che la Francia fosse obbligata a mantenere in Corsica sedici battaglioni; Che guarentirebbe la repubblica dai corsari turchi e corsi, acciocchè la bandiera genovese potesse liberamente trafficare ne' suoi mari. Che il re desse libero possesso della Capraia a Genova. Si sparse prima un certo rumore; poi si ebbe certo avviso del trattato. Quindi si udirono novelle che nei porti della Provenza si allestiva un armamento per portare i nuovi battaglioni nell'isola, cui doveva condurre e governare il marchese di Chauvelin, tenente generale. Arrivarono finalmente avvisi, siccome già nel porto d'Aiaccio erano sbarcati due battaglioni del reggimento di Bretagna. A tal annunzio gl'isolani si commossero a gravissimo sdegno; la padronanza di loro medesimi vedevano in grandissimo pericolo, la libertà parimente, tanto sangue inutilmente sparso, spenti i lunghi desiderii, gli antichi costumi, la nativa lingua stessa andava in dileguo. Bene non isfuggiva loro che la potente mano della Francia avrebbe procacciato la quiete nelle loro città e campagne, e protetto le navigazioni per l'esercizio del commercio: ma i popoli che mirano alla franchigia, non misurano la felicità dalla quiete nè dalla ricchezza; ma stimano pazzamente felicità suprema il travagliarsi nelle faccende pubbliche, il maneggiarsi come pare e piace. Chiamata Paoli in fretta la nazione a parlamento, fecesi la consulta in Corte a dì 22 di maggio; e quivi il generale favellò con temperatissime parole non disgiunte da dignità e fermezza. Sdegno destossi nelle anime feroci che altamente deliberarono. Fu quindi decretato che si crescesse numero ai soldati regolari, che in ogni luogo uniformemente si ordinasse la milizia, che in ogni pieve si annotassero le armi da fuoco, e chi fosse atto a portarle, le pigliasse, e difendesse la patria; che i beni sì mobili che stabili e le mercanzie ed ogni altro fondo fruttifero pagassero una nuova tassa del quattro per migliaio, e quanto la tassa gettasse, tutto s'impiegasse nella bisogna della guerra; che il clero secolare la decima pagasse di tutti i benefizii, ed i regolari cento lire per convento; che fossero vietate le tratte delle biade; che si ordinassero più severe forme di giustizia; che tutte le persone civili non impiegate in servizii pubblici dovessero uscirne a campo per guardia del generale. E chiamavano sacro quel denaro, sacri quei battaglioni, quell'impeto sacro. Quindi parlarono alla gioventù di Corsica, e le infiammative parole trovarono in tutti un'ottima volontà verso la patria. Udivansi pei piani e pei monti grida commiste, un fracasso d'armi, un suonar di corni: tutta la silvestre Corsica si moveva, e nel periglioso cimento si avventava. In questo aspetto ed in mezzo a tanta concitazione, i Franzesi, portati sulle navi dalla Provenza pervennero sui lidi corsi, e sbarcarono a Bastia, Calvi, Aiaccio, Bonifazio e San Fiorenzo. Consegnate loro dai Genovesi le piazze, le artiglierie e le munizioni, fu levato da Bastia lo stendardo della repubblica, e postolo sulle navi, non senza solennità, il trasportarono col commissario generale a Genova. Fu inalberata su tutte le cime la bandiera franzese. Ora, prima dei lutti, vengono le feste. I Bastiesi, come se temessero che gli altri Corsi abbastanza già non gli odiassero, ne fecero delle belle e grandi, sì che al loro dire e fare parve che già svisceratamente amassero il re di Francia. Cantossi con molta pompa nella franzese Bastia l'inno delle grazie la mattina; la sera poi rallegrò la città una splendida luminaria; il palazzo pretorio tutto risplendette di doppieri all'uso veneziano; sul finestrone di mezzo si leggeva la seguente iscrizione: LVDOVICO XV FRANCORVM, NAVARRAE ET CVRSORVM REGI CHRISTIANISSIMO AVCTIS IMPERII FINIBVS, TRANQVILLITATE PVBLICA ASSERTA, AVGVSTO, PACIFICO, FELICI MAGISTRATVS POPVLVSQVE BASTIENSIS FAVSTIS AVSPICIIS PLAVDEBANT. Poi sulla destra dello stemma reale, anch'esso circondato di lumi, si vedeva un sole risplendente col motto: _Imbres et nubila vincit_. Sulla sinistra, la Bastia col rimanente della Corsica e tre gigli col motto: _Et Cyrno crescite flores_. Che cosa pensassero i Corsi di queste dimostrazioni, non è punto necessario che con parole si scriva. Fermi poi questi primi bollori, dalle feste si fece passo alle finzioni, dalle finzioni poscia alle battaglie. Il duca di Choiseul, ministro del re, scrisse a Paoli, notificandogli che i soldati di Francia non avrebbero dato veruna molestia allo nazione, che il marchese di Chauvelin, tosto che fosse in Corsica pervenuto, si sarebbe con esso lui accordato, affinchè con buona armonia passassero le cose, che il re accoglieva l'isola sotto l'ombra sua, e prendeva cura della sua felicità. Poi si mandò fuori voce che per certi rispetti si farebbe un po' di guerra, ma senza danno della nazione, perchè le soldatesche regie adoprerebbero di concerto con le corse. I Corsi, che tenevano l'armi in mano, non sapevano che dirsi, ed erano da varii pensieri agitati. Li tolse finalmente dal dubbio un'intimazione fatta da Marbeuf a Paoli: tenere lui ordine dal re di fare che tra Bastia e San Fiorenzo fossero e restassero liberi i passi. Nello stesso tempo si lasciò intendere che voleva che gli fossero cedute le scale dell'isola Rossa, Algaiola, Macinaio e Gornali. Il Corso, che vedeva essere perciò fatto incominciamento di guerra, rispose col sangue avere acquistato que' luoghi, col sangue volerli conservare: bene accorgersi che si voleva privare la nazione della libertà, frutto di tanta guerra. Ora doveva il mondo giudicare se i Corsi, poichè al ferro si veniva, nell'imprender guerra contro la potente Francia, più imprudenti o più prudenti fossero, più temerarii o più coraggiosi. Ripromettevansi i Franzesi di soggiogarli; i Corsi si ripromettevano di poter sostenere quella libertà per cui combattevano fin già da otto lustri: Paoli e Corsica uniti insieme si credevano invincibili. Non così tosto Paoli si avvide, per l'intimazione fatta da Marbeuf e da altri segni che la Francia alle cagioni di Genova e per suo pro veniva a trovare la Corsica coll'armi, e sopra di sè pigliava la guerra, fu reso capace ch'era venuto il tempo di fare gli ultimi sperimenti; laonde applicò il pensiero a prender modo alle difese e ad ordinare quanto per la conservazione della libertà in così estremo caso abbisognasse. Pose in arme tutte le milizie, aggiunse nuovi soldati ai reggimenti d'ordinanza; formò campi mobili, mise in forte tutti i luoghi capaci di munizione, e stabilì in somma ogni cosa a valida propugnazione e conservazione dello Stato. E la nazione tutta consentiva con lui: correvano i Corsi ad offrirsi con volontà prontissima. Quelli che militavano ai servigi di Francia, chiesta licenza, si acconciarono volonterosamente a quelli della loro nazione. Narrano che per tanta concitazione, Paoli avesse cinquanta mila uomini tra pagati dallo Stato, o dalle provincie, o dalle pievi, o dai comuni, o da sè medesimi. Paoli aveva sua stanza a Murato con la sua eletta schiera dei mille, aggiuntevi alcune altre: il suo fratello Clemente alloggiava ad Oletta con cinque mila. Stando le cose in questi termini, si venne al paragone dell'armi. Correndo il dì 30 di luglio, i Franzesi andarono alla fazione dello strigarsi le strade tra Bastia e San Fiorenzo. A questo fine, per incontrarsi sul mezzo, partirono Marbeuf dalla prima di dette piazze, ed il maresciallo di campo Grandmaison dalla seconda. Grandmaison spinse i Corsi con molto sangue, poi fu respinto con molto sangue anch'esso. Ingrossò i soldati, vinse in una trincea quarantadue Corsi, che si lasciarono tagliare tutti a pezzi piuttosto che arrendersi, e marciò verso le vie più strette. Combattuto e combattendo si avanzava, volendo passare alla conquista di Olmetta e di Nonza. Marbeuf nel medesimo tempo, partendo da Bastia, s'era avvicinato alle montagne, cacciatosi davanti con uccisione e presura di molti tutte le piccole squadre del nemico, che fecero pruova di contrastargli il passo. Già era pervenuto verso Barbaggio, e già a Patrimonio s'accostava: assalse le due terre, e da ambe fu ribattuto con molto sangue. Volle impadronirsi della sommità di Montebello, e fu lo sforzo indarno. Così successero i fatti di guerra all'ultimo di luglio ed al primo di agosto. Ai 2, Marbeuf si avventò con più poderose forze contro Barbaggio e Patrimonio. Fuvvi un caldissimo combattere alla seconda di queste terre, che presa e ripresa più volte, dimostrò quanto valorosi fossero ed assalitori e difenditori, ma finalmente cesse in potestà di Francia. E i Franzesi ottennero più facilmente Barbaggio, loro restando da superarsi la forte terra di Furiani, dove reggevano le milizie Nicodemo Pasqualini e Gian Carlo Saliceti, e la torre di Biguglia. Intanto, per la perdita di Patrimonio e di Barbaggio, quasi tutta la provincia del Capo Corso venne in potere dei Franzesi, i quali, possedendo anche la pieve di Sisco, s'impadronirono di Nonza, di Brando e di Erbalunga. Solo ostavano Furiani e Biguglia, onde sicuramente non possedessero il Capo Corso. Giunse in questo mentre in Corsica il marchese di Chauvelin soprattenuto fino allora in viaggio per infermità; nè giunse solo, ma con nuovi soldati, specialmente colla legione reale. Volendo usare l'impressione che credeva avere fatto nella nazione i primi conflitti sull'istmo per cui si va nell'interno del Capo Corso, pubblicò patenti regie, nelle quali parlava il re Luigi: avergli la repubblica di Genova trasmesso la sovranità dell'isola; tanto più volentieri averla accettata, quanto più bramava di procurare felicità a' suoi nuovi sudditi, ai suoi cari popoli di Corsica: volere che si posassero i tumulti che da tanti anni gli agitavano; voler mantenere le promesse per la forma del governo della nazione; sperare che la nazione, godendo i vantaggi della protezione sua, sarebbe per sottomettersi, e non lo ridurrebbe alla necessità di trattarla come ribella; ammonirla che se nell'isola continuassero qualche confusione torbida e mista o la pertinace disobbedienza, ne risulterebbe la distruzione d'un popolo da lui con tanta compiacenza nel numero de' suoi sudditi adottato. Così parlò il re Luigi, nuovo sovrano, ai Corsi; e quindi parlò Chauvelin, che siccome i Corsi Franzesi erano, così comandava che nissun Corso con altra bandiera stesse a navigare fuorchè colla Franzese, ed ogni comandante, padrone, capitano o maestro di nave venisse a levare da lui le nuove patenti e la bandiera bianca. Come ebbero parlato il re e Chauvelin, parlarono i Corsi; cioè per loro il generale ed il consiglio supremo. S'assembrarono a Casinca, s'accordarono, scrissero le loro ragioni e querimonie; ma vane furono le querele, vani i preghi, vane le rimostranze: ai loro instanti desiderii si opponeva una lunga e ben considerata e bene ponderata risoluzione. In settembre si venne novellamente in sul menar le mani ed al combattere le ostinate battaglie. I Franzesi combatterono col solito valore, ma i soldati soli; i Corsi pugnarono con eguale valentia, ma le donne ed i fanciulli con essi. La disciplina prevalse al numero, i Franzesi conquistarono la provincia del Nebbio, ritiratisi i due Paoli, non isbandati, ma congregati, ai luoghi più sicuri verso le montagne di Tenda e di Lento, per non mettere a cimento tutta la somma delle cose in una giornata campale e giudicativa. Sottomesso il Nebbio, i soldati di Chauvelin si scagliarono contro Furiani e Biguglia, e prima questa, poi quella, più sopraffatte che vinte, cedettero. Infrattanto sbarcato era in Calvi il colonnello Buttafuoco, che venia di Francia desideroso che l'isola a buone condizioni si acconciasse con chi più poteva. Gridava pace, la resistenza vana stimava, predicava la sommessione per forza più acerba che per voglia. Ne scrisse a Paoli che allora era in alloggiamento a Rostino; avvertendo che quelli che vogliono sopravvincere perdono, e pregandolo che impiegasse ogni suo uffizio, usasse l'autorità ed il credito per fare che i popoli di queto alla Francia si assoggettassero. Ebbe risposta, ma non quale la desiderava, imperocchè Paoli gli diceva: avere i Corsi fatta una giusta presa d'armi, volere la libertà, averla a note indelebili ne' loro animi scolpita, lui volergliela conservare; per sè non combattere, ma per tutti; tal essere il dover suo; volgesse poi la fortuna le sorti della Corsica come volesse, o che a libertà la destinasse od a servitù. In questo mezzo tempo arrivarono nuovi soldati di Francia, sforzo pur troppo grande per una Corsica, ma da cui si vedeva manifestamente che il re Luigi aveva ad ogni modo fisso il pensiero nella conquista. Paoli temè de' deboli, chiamò in sussidio la religione, e fe' replicare ai capi il giuramento del 1764, che qui sotto si trascrive, quantunque in esso si leggano alcune espressioni che più non si appropriano al caso presente. «Noi giuriamo, e prendiamo Dio per testimonio, che vogliamo piuttosto morire che fare alcun trattato colla repubblica di Genova, e di nuovo sottometterci al suo dominio. Se le potenze dell'Europa, e soprattutto la Francia, non hanno pietà di noi, e vogliono contro di noi armarsi e tentare di abbatterci, rispingeremo la forza colla forza. Combatteremo come disperati, che hanno risoluto di vincere o di morire, sino a che siano affatto abbattute le nostre forze, e l'armi ci cadano di mano. Allora la nostra disperazione c'incoraggerà ad imitare i Sagontini, vale a dire, ci getteremo piuttosto nelle fiamme che sottometterci al giogo insopportabile dei Genovesi.» Tale giuramento, fatto quattro anni innanzi contro Genova, ora il voltavano contro la Francia. Alle raccontate fazioni ed esortazioni s'infiammavano vieppiù da ambe le parti gli spiriti, e con maggior calore si ricominciarono le battaglie. I Franzesi, condotti dal marchese d'Arcambal, passato il Golo ed entrati in Casinca, occupato avevano il Vescovato, Venzolasca, Oreto e la Penta, passo di grande importanza, perchè apre l'adito ai monti; ai quali progressi, cedendo alla forza sopravanzante, s'erano sottomessi la pieve di Tavagna, alcuni paesi d'Orezza ed una parte della Casinca. Non mai ebbero i Franzesi più fondata speranza di terminare felicemente la loro impresa, come dopo l'acquisto della Casinca e di Tavagna, paesi di gran momento, perchè da essi sono solite a prendere esempio le altre popolazioni marittime delle parti orientali dell'isola; e, ciò che più favoriva il loro proposito, era che i popoli di quelle terre, spaventati dall'aspetto sinistro delle cose, da sè medesimi si davano e correvano all'obbedienza. I capi di Corsica videro il pericolo, e non se ne sgomentarono. Per isturbare quegli acquisti a' Franzesi, adunaronsi in Rostino, rassegnarono tutti gli uomini abili all'armi tanto delle pievi vicine quanto di quelle prossime a Corte, e ragunatili, deliberarono di scendere alla riconquista de' luoghi perduti. Uomini erano fortissimi di cuore, infiammatissimi ne' desiderii; e per vieppiù accenderli, Paoli loro parlò, conchiudendo il caldissimo discorso con queste parole: «Di Sampiero ricordatevi, e me seguite; vittoria vi prometto, ed avrete vittoria.» Così detto, Paoli trasse una pistola, e, sguainata la spada, si mosse il primo, verso la sottoposta Casinca avventandosi. Il seguitarono avidissimi del nemico sangue, e: «Moriamo, moriamo per la Corsica (gridavano), moriamo pel duce nostro, moriamo per la libertà.» E così gridando e fremendo, calavano con le robuste piante da quegli aspri gioghi. Si fecero avanti per due strade, l'una più su per piombare sopra Orezza, l'altra sotto, per a Sant'Antonio, onde accennare contro il Vescovato. Mescolaronsi ferocemente Franzesi con Corsi; cedevano ora questi ora quelli alternamente vincitori o vinti. Il fine fu che i Corsi riacquistarono Penta superiormente, Venzolasca inferiormente. L'acquisto della Penta diede loro più grande ardimento. Perciò, passato il Golo, guadagnarono paese sulla sinistra del fiume, presero Murato e ricuperarono buona parte del Nebbio superiore. Fecero in Murato una ricca preda, togliendo a Grandmaison, posto in fuga, i bagagli, le tende e due pezzi di cannone. Di tal maniera furono compressi i Franzesi nel Nebbio, che già i loro nemici si approssimavano a San Fiorenzo; tornati alla Corsica Barbaggio, Patrimonio e Furinole. I Franzesi s'erano fatti forti a Loreto con animo di allargarsi vieppiù. I Corsi, per turbar loro i disegni, andarono a sloggiarli, a fine di spazzare tutta la Casinca. Per ben sette ore durò l'assalto della terra, cui finalmente più non potendo i difensori sostenere, perchè continuamente arrivava a Paoli nuova gente delle montagne, cessero e fecer opera di ritirarsi, lasciando, non solamente Loreto ma ancora Vescovato ed altri luoghi di quella provincia, per cercar ricovero oltre il Golo contro la furia corsa, che li perseguitava. Fuggivano i Franzesi inseguiti ed incalzati da' Corsi, i quali, siccome abili imberciatori, ne facevano grande scempio. Molto anzi maggiore danno avrebbero patito, se i loro persecutori, irritati contro di que' popoli che di volontà si erano dati, non si fossero messi in sul saccheggiare il paese, di maniera che la ruina de' Corsi che s'erano sottomessi fu al tutto la loro salute; però lasciando in potere de' vincitori quattro cannoni. L'avveduto Clemente Paoli, prevedendo che i fuggitivi sarebbero concorsi al ponte del lago Benedetto, per ivi passare il fiume, corse avanti, e l'occupò; il che pose in quasi totale disperazione i vinti. Arrivati al fiume, e vedutolo gonfio ed alto, si arrestarono. Sopraggiungevano a torme i Corsi animati dal furore, dal numero, dalla vittoria: fecero i Franzesi qualche testa, ma ormai vedevano l'ultimo loro eccidio, se non passavano. Misersi all'acqua, le onde furiose li trasportavano, i Corsi furibondi li saettavano con le archibugiate giuste, molti perirono affogati, molti coi corpi trafitti dalle palle, mescolando il loro sangue colle acque del fiume, e fiume funesto fu il Golo pei Franzesi in quel terribile punto: seicento soli si ridussero a salvamento sulla sinistra sponda, e drizzarono i passi verso il borgo di Mariana. Desideravano i Franzesi di conservare in loro potestà quel borgo come terra che poteva facilitare di nuovo il passo del Golo, e per essere quasi antibaluardo di Bastia. Ondechè non così tosto vi pervennero, che si diedero a fortificarlo, cingendolo d'ogni intorno di terrapieni e fossi, e chiamando da Bastia nuove provvisioni di artiglierie e di munizioni così da guerra che da bocca. Ma i Corsi quella terra ad ogni costo occupare volevano, sì perchè credevano necessario, a maggiore fracassamento del nemico, di seguitare l'impeto della vittoria, e sì ancora perchè la possessione di Mariana dava loro facoltà di andar a romoreggiare sin sotto le mura di Furiani e di far accorti i Bastiesi che ancora a loro spavento ondeggiavano in aria le insegne del Moro. Paoli s'infiammò, incalzò, corse; i compagni le sue pedate seguitavano sonando. Quindi, per far maggiore l'oste sua vincitrice, comandò a Mario Cottoni che venisse da Aleria, a Giannantonio Arrighi da Corte, a Giulio Serpentini da terra del Comune; e in fatti giunsero sull'imbrunire, verso notte, a Mariana, e ne occuparono le pendici esteriori; poi fecero una circondazione, e scavarono ed ammontarono la terra d'ogni intorno. L'assaltarono da presso, da lontano l'assediarono; Saliceti, Grimaldi, Raffaelli, Agostini da Ponente, Gafforio, Gavini da Levante si posarono vicini alla terra e senza tregua l'infestavano colle artiglierie. Gli altri si alloggiarono più alla larga, per impedire le vettovaglie e gli aiuti; Clemente Paoli alla strada che porta al Nebbio, Serpentini alla Serra, Pasqualini presso a Luciana per guardare quelle alture, il generalissimo poi in Luciana per essere in pronto di sopravvedere ogni cosa da quella eminenza, e di soccorrere ove abbisognasse. Chauvelin, avuto avviso del pericolo de' suoi che se ne stavano serrati in Mariana, si deliberò immantinente di accorrere in aiuto, movendosi da Bastia con tre mila uomini bene armati. Siccome poi era pratico capitano, volendo dar favore al suo movimento anche da un'altra parte, mandò comandando a Grandmaison che, da Oletta scendendo, venisse a battere le strade verso Mariana, sperando per tal modo di mettere i Corsi in mezzo. Mosse in fatti Grandmaison e affrettava verso Mariana i passi; ma i nazionali, che avevano avuto avviso dell'intenzione e del movimento, s'interposero di mezzo tra San Fiorenzo e il Borgo, alloggiandosi alle strette delle alture di Rutali in così grosso numero, che il Franzese stimò che non fosse bene di venire ad un cimento di troppo eccessivo pericolo. Per la qual cosa, non che tentasse di sloggiarli, se ne ritornò e rimase in Oletta, senza che perciò Chauvelin, non ostante che perduto avesse la speranza della sua cooperazione, volesse deporre il pensiero di dar l'assalto a chi assaltava Mariana, credendosi da sè solo bastante a compir l'impresa, e nel suo disegno secondato da Marbeuf, ch'era con lui. Si aperse il dì 9 d'ottobre, che dovea vedere una grave contesa fra due forti nazioni. Distribuite le vicende, i Franzesi andarono alla fazione divisi in tre parti: Marbeuf assalì con un impeto incredibile le trincee dei Corsi; il conte di Narbona si scagliò con non minor valore contro la terra; e quelli stessi che la terra custodivano, saltando fuori dal loro ripostiglio, urtarono dalla loro banda chi gli assediava. In questi sanguinosi fatti e Franzesi e Corsi fecero cose degne di guerrieri impavidi e valentissimi, bene gli uni e gli altri sostenendo il nome che portavano, sì che l'asprissimo conflitto durò per ben dieci ore. Marbeuf, contuttochè con tutte le forze si travagliasse, non potè ottenere l'intento di cacciare l'inimico dalle trincee; imperciocchè con quanto vigore urtava, con altrettanto era riurtato, nè il corso volle cedere al valore franzese. Dal suo lato Narbona avea giù fatto qualche progresso, perchè, assalite furiosamente le sei case fortificate dai Corsi, tre ne avea recato in suo potere e tempestava tuttavia contro le tre altre che restavano a superarsi. Ma in quel fatale momento essendo stato obbligato a soprastare alquanto, perchè gli mancavano le scuri per ispaccare ed i petardi per rompere, si trovò esposto a così grave e fitto bersaglio, che, disperando del fine, e ribattuto violentamente indietro da quei di dentro, lasciò l'impresa e retrocesse verso il Marbeuf, il quale ancor esso si era ritirato indietro dall'assalto. Quanto a quella colonna degli assediati uscita del suo ricinto, con tanto furore e tale tempesta fu dai Corsi investita che restò tagliata a pezzi tutta, salvo dodici o quindici, che ebbero per bella fortuna il poter rinserrarsi nelle mura. Ultimamente Chauvelin, veduto l'esito infelice de' suoi tentativi, chiamò a raccolta, e viaggiando fra le tenebre della notte, in quel mentre sopraggiunta, si ritirò al campo di Santa Maria dell'Orto ed a Bastia. L'ebbero i nazionali seguitato, e come gli avevano ucciso molta gente nella battaglia, così molta glie ne trafissero a morte nella ritirata. Sommò il numero de' suoi morti intorno a cinquecento, e in assai maggior numero furono i feriti. Lo stesso Marbeuf toccò una ferita nella spalla, il colonnello del reggimento di Rouergue in una gamba, il colonnello del reggimento sassone nel ventre. Gli assediati in Mariana, ch'erano in numero più di cinquecento, perduta ogni speranza di soccorso, si arresero, e furono condotti a Corte. A questo modo Paoli vinse Chauvelin. Ricevettero i Franzesi in questo fatto una gran percossa. In balìa dei vincitori rimasero intorno a due mila archibusi, tre cannoni di bronzo, dodici casse di polvere, diciassette mila cartocci ed altri militari stromenti ed attrezzi. La vittoria di Mariana diede maggior animo ai Corsi per modo che vieppiù a loro medesimi persuasero che Paoli fosse il guerriero nato per fondare la loro libertà. E veramente nei preparamenti e nella condotta della battaglia il generale corso dimostrò un'arte squisitissima; nè i suoi Corsi gli mancarono di assistenza, perchè con un valore, anzi con una ostinazione estrema combatterono. La stagione diveniva ormai sinistra, nè più si poteva campeggiare all'aperto, condizione favorevole ai Corsi, contraria ai Franzesi, per esser quelli avezzi a quel cielo e contentarsi di poco per vivere, mentre l'insolito clima domava questi, nè potevano le provvisioni abbondare alle squadre isolate, posciachè i Corsi, attentissimi ad ogni mossa, velocissimi di natura e per esercizio, e conoscitori perfettissimi d'ogni strada più nascosta, sopravvenivano agevolmente ed improvvisamente e arraffavano le vettovaglie o le tenevano impedite. Il generale di Francia, vedendo la necessità di cessare dalla guerra pei tempi avversi, e desiderando di distribuire in istanze invernali più comode i soldati, s'ingegnava di allargarsi; nell'esecuzione del quale proposito succedevano spesse ed aspre zuffe fra i due popoli nemici, cotanto l'uno contro l'altro instizziti. E fra le altre una ve ne fu tra i Franzesi comandati dal conte di Coigny, che voleva impadronirsi di Murato, ed i Corsi che impedire ne lo volevano, nella quale, colto il giovane Franzese in un'imboscata, benchè forte fosse e valorosamente si difendesse, rimase morto per una palla d'archibuso che lo colpì. Morto Coigny, i suoi compagni ritrassero i passi a tutta fretta, seguitati senza posa dai Paolisti, che gl'incalzavano colle sciabole, cogli stiletti e colle baionette, sì che in questa piuttosto battaglia giusta, che piccola scaramuccia, perì la metà di loro, diciassette uffiziali parte morti, parte feriti, e con essi moltissimi gregarii. In quest'anno furono i Gesuiti espulsi dallo Stato di Parma, tra il quale e la corte di Roma allora più grave contestazione si accese, che, per aver avuto termine nel seguente anno, a quello differiamo il tenerne parola, anche per non interromperne il filo incominciato che abbiasi una volta a tesserne l'istoria. Se non che gioverà fin d'ora notare che, presa parte in quella contesa dalle case di Borbone, il re di Francia fece, a danno della santa Sede, occupare il contado avignonese, e quello di Napoli mandò le sue truppe ad impossessarsi, in pregiudizio della medesima, dei ducati di Benevento e Pontecorvo. Anno di CRISTO MDCCLXIX. Indizione II. CLEMENTE XIV papa 1. GIUSEPPE II imperadore 5. In Corsica, la guerra dell'anno precedente con quel fatto che abbiam riferito quasi finì, riposandosi i guerrieri ne' loro alloggiamenti d'inverno. La prospera fortuna de' Corsi contro una Francia, e lo estremo valore da loro mostrato in tanti bellicosi incontri tenevano maravigliate le nazioni, le quali generalmente a quel forte popolo fortunato destino desideravano. Paoli soprattutto era sulle lingue e sulle penne di tutti, e il chiamavano forte, felice e generoso; lui gli antichi esempi di Grecia e di Roma rinovellare predicavano, ed i moderni d'Inghilterra e d'Olanda, e quegli stessi della recente Genova; la Corsica appellavano bene avventurosa per averlo prodotto, bene avventurosa per averlo a guida; ammiravano quelle inclite rocche in mezzo alle acque del Mediterraneo sorgenti, e pubblicavano dare la combattente isola felice augurio, felice esempio all'Italia e al mondo tutto quanto. Nuovi rumori, che da Tolone si udivano, tenevano i Corsi in qualche ansietà delle cose future, e gli avvertivano che non erano ancora pervenuti al fine delle loro fatiche. In fatti, già si sentiva che in quel porto si travagliavano grandi apparati di guerra, si allestivano e mettevano all'ordine buon numero di bastimenti, si raccoglievano soldati destinati alla conquista, fanti per la maggior parte, non essendo i campi dell'isola atti a ricevere cavalli ed a maneggiarvisi guerra di cavalleria. Non isfuggiva a nissuno che la Francia, avendo assunto l'impresa di sottomettere quell'isola ed al reame aggiugnerla, non era per restare al di sotto, nè per tirarsi indietro per nissuna difficoltà che sorgesse, poichè troppo abbietta cosa le sarebbe paruta, a lei così grande, così forte e di tanto grido in guerra, di essere sgarata e fatta stare da quattro isolani. Le pareva incomportabile, che la piccola Corsica osasse d'alzarle la fronte contro, e quasi a freno tenere la volesse. Perciò soldati a soldati aggiungeva, armi ad armi; Tolone gli accoglieva, e da quel porto già stavano minacciosi per partire e per rinforzare la guerra nella renitente isola. Chauvelin aveva scritto che se non erano trenta mila di quella gioventù franzese, sarebbero indarno, ed in pari tempo, per salute inferma, e forse per l'infelicità de' suoi tentativi, aveva chiesto licenza. Gli venne surrogato il conte di Vaux, del quale pel buon nome di cui godeva, si sperava che avrebbe governata la guerra più virtuosamente e più felicemente dei suoi antecessori. A così potente apparecchio, che indicava l'estrema volontà di Francia, l'estremo cimento della fortuna, molto si sollevarono gli animi in Corsica. Alcuni temevano, credendo l'impresa loro perduta; altri, più oltre procedendo, accusavano Paoli d'ambizione e dello scellerato pensiero di voler vedere la ruina della sua patria, piuttosto che scendere dal grado a cui era stato esaltato; altri finalmente cominciavano in cuor loro ad interporre una servitù quieta ad una libertà turbolenta e tempestosa. Tali erano le opinioni, tali i dissidii: questi pensieri nascevano, quando pel silenzio dell'armi si trovarono i sangui raffreddi nell'inverno. Ma i più di gran lunga pertinacemente perseveravano nel loro proposito: gli sviscerati per la libertà, per lei morire volevano, e in Paoli, come in suo sincero e forte sostenitore, confidavano. Videro il pericolo, e cercando con salute d'incontrarlo, tennero nel mese di aprile nel convento di Casinca una generale consulta, e quell'assemblea di guerrieri, di pastori, di pecorai, di cacciatori, di religiosi ancora decretò: Ognuno dai sedici ai sessant'anni si armasse in guerra, e chiamato, vi andasse con quaranta cariche da schioppo; Un terzo stesse sui campi a fronte del nemico, sinchè gli venisse la muta di un altro terzo; potendo però, se ne scadesse bisogno, gli altri due terzi avviarsi insieme, e col primo andare alla guerra; I bestiami si ritirassero da' piani ai monti alti e sicuri, col privilegio di nissun pagamento pel pascolo; Che i poveri ma valorosi, i quali colle loro famiglie dovessero per cagion del nemico ritirarsi nell'interno del regno, avessero le spese dal pubblico; Che tutti gli ecclesiastici, non in cura d'anime, dovessero concorrere alla comune difesa colle loro persone, e si ordinassero in corpo per tenere certi posti, onde le schiere de' secolari potessero meglio ed in maggior numero travagliarsi nelle fazioni alla campagna. Viveva ancora nella nazione corsa, se non in tutti, certamente ne' più, quando il suo supremo magistrato ordinò queste cose, quell'acceso spirito, per cui per tanti anni aveva a Genova contrastato ed ora la spingeva a resistere alla Francia. I fatti forse le divenivano contrarii, ma con estremo ardore all'estremo cimento si andava preparando. Per la qual cosa di buon grado accettò le sovrane deliberazioni; nissuno si ristette; chi per l'età poteva, chi per l'esempio, tutti davano l'opera loro prontissimamente. I guerrieri, nel corso abito involti e dal corso valore spinti, calpestavano il suolo verso le terre sopra di cui il nemico insisteva, e ferocemente le armi brandivano. I vecchi, i decrepiti stessi, in quell'estremo pericolo della Corsica, parevano rinvigorirsi, e le membra, che ormai abbisognavano più di riposo che di travaglio, esercitavano alle opere faticose da lungo tempo dismesse. Le donne ancora non isgomentatesi, anzi incoraggitesi a quello aspetto terribile delle cose, quai novelle Amazzoni, alcune in femminili vesti avvolte, altre accinte in abito virile, qua e là armate correvano, e cogli uomini gareggiavano di coraggio e di furore. I fanciulli stessi, che fin dalla culla aveano succiato rabbia contro Genova, ora, voltandola contro la Francia, davano a conoscere, negli esercizii militari travagliandosi coll'armi, che i germi, non che le piante adulte, erano di quel vitale succo imbevuti e pregni. Mentre così la Corsica tutta si commoveva e si avventava coll'armi, e in sè medesima forte strepitava in ogni parte di grida, giunsero nuove che il conte di Vaux, generalissimo di Francia, era ai 2 di aprile arrivato in San Fiorenzo, e che genti sopra genti, armi sopra armi, nel medesimo porto ed in Bastia ed in Calvi, sbarcava sulla terra corsa, sbarcava grandissimo apparecchio d'uomini valorosi e bene ordinati contro uomini infiammati e cui muoveva piuttosto la volontà propria che la regolata disciplina. La causa della famosa isola era urtata da urto possente, e se non la salvavano le montagne, gli stretti passi e la longanimità di gente povera e al poco contenta, sembrava impossibile che a così grande sforzo reggere potesse. Ai gravissimi avvisi che i Franzesi cotanto ingrossavano la guerra, Paoli insorse, ed a quella estrema pruova gli animi dispose e le armi. Già si vedeva che se una forza soprabbondante il chiamava a ruina, non da vile, ma da forte perire voleva, e volta la mente alla posterità, nella posterità si consolava. Trasse Paoli fuori il terzo della nazione, ed ordinò che gli altri due stessero pronti al muoversi; i volonterosi compagni schierando e ponendo in ordine a Casinca ed in altri luoghi di frontiera, donde sboccando i Franzesi potevano far impeto. Li raccolse alle insegne; ne fece rassegna e mostra, ed aveano sembianza di soldati provati, non fatti tumultuariamente. In quel momento istesso gli attillati e odorosi vagheggioni delle famose città di Francia e d'Italia marciavano in femminili e molli tresche, e forse dei pecorai di Corsica si burlavano; ma i buoni europei guerrieri ammiravano quelle alte anime, e molti, allettati dal portentoso grido, fra gli altri lord Pembroke, furono presenti alla mostra solenne, ed a quei devoti uomini auguravano sorte felice. Dall'altra parte il capitano franzese che voleva essere mutatore di quello stato, uscito ancor esso a campo fuori di Bastia, aveva raccolto i suoi sulla spiaggia di San Nicola, e gli andava ordinando alle vicine battaglie. Stupivano che rozzi paesani si fossero posto in animo di resistere ad una Francia. Grande arte, grande perizia mostrò de Vaux. Allievo di Maillebois, e, come egli, esercitato nelle guerre di Corsica, i luoghi sapeva, e conosceva le forti e le deboli parti del nemico. Reggeva meglio di ventidue mila soldati, ben provveduti d'ogni cosa alle militari fazioni confacente, e più ancora di coraggio. Accampossi col grosso dell'esercito ad Oletta, colla sinistra appoggiata alla bassa Tuda, e colla destra, distendendosi verso la regione più piana, accennando a San Fiorenzo. Le due ali erano, l'una sotto il governo del marchese di Arcambal, che teneva la destra, l'altra dal conte di Marbeuf, che stava sulla sinistra, quella per ispazzare il paese verso le parti superiori del Nebbio, questa per sottometterlo dalla parte di Borgo e Mariana verso la costa marittima. Una schiera appartata, retta dal signor di Narbona, aveva posto l'alloggiamento a Monte Nebbio, vicino a Borgognano, per tenere in freno i Corsi dell'Oltremonte. Col medesimo intento un altro corpo col marchese di Luker stava a sopraccapo di Montemaggiore, Calenzano e Rapalle per fare che i Corsi della Balagna accorrere non potessero in aiuto di Paoli. I Corsi, disposti a mettersi alla stretta dei fatti d'armi, s'erano ordinati a fronte dell'esercito franzese di maniera che sulla sinistra loro, partendo da San Pietro, San Gavino e Sorio, terre del Nebbio, e procedendo verso la destra, si distendevano, passando per Olmetta, fino a Borgo in poca distanza da Mariana. Il principale loro sforzo era in Olmetta, ed era creduta il più stabile fondamento della loro resistenza una catena di monti, le cui sommità avevano con trincee ed artiglierie fortificate, e che corrono da Val di Bervinco al monte Tenda. Paoli ed il suo fratello Clemente alloggiavano in Murato, punto medio di tutta la circonferenza, e che avevano voluto fortemente presidiare, perchè di là potevano vedere, sopravvedere e provvedere subitamente quanto occorresse. Saliceti, Cottoni, Serpentini ed altri valorosi capi li secondavano chi sull'ala destra e chi sulla sinistra. E a questo modo i due campi nemici stavano a petto l'uno dell'altro. De Vaux conosceva che, per meglio dispensare l'ordine della guerra, e più facilmente rompere il renitente nemico, fosse maggior profitto salire sino a Corte, perchè essendo quella città metropoli del regno, e situata verso i sommi gioghi, fra il Cismonti e l'Oltramonti, l'acquistarla avrebbe dato, siccome giudicava, spavento ai Corsi, e nel medesimo tempo procurato facilità per iscendere nell'Oltramonti sopra Aiaccio. A questo aveva fermo l'animo ed indirizzava i suoi pensieri; ma per condurgli ad effetto, aveva a fare con Corsi, con fiumi e con montagne, se non che il confortavano l'animo suo forte, l'uso di guerra che aveva ed il valore de' suoi soldati. Andando il dì 5 di maggio, si moveva alla fazione, ed in cotal modo il fece. Principale suo intendimento era di guadagnare le alture di San Nicolao, donde, si accenna sulla sinistra a Bigorno, e quindi al basso Golo sulla destra al monte Tenda, superato il quale acquistava l'adito a Ponte Nuovo sul Golo, e più lungi, passato il fiume, a Corte. Credeva che per questa via il nemico fosse più agevole ad essere fracassato. Ordinò primieramente, per tenerlo in inganno di quanto ei volesse fare, che Arcambal e Marbeuf, colla parte delle genti che avevano in custodia, facessero un gran tempestare sulle due estremità. Stimando poi che i Corsi accampati a Sorio, San Gavino e San Pietro potessero, infestando l'ala destra, turbare i movimenti ed interrompere le strade per San Fiorenzo, aveva dato ordine che sui luoghi più opportuni si assettassero fortificazioni estemporanee e si munissero d'artiglierie. Così fatto come pensato, De Vaux, parendogli ormai che il tempo fosse da spenderlo in operare, ed esplorato bene l'inimico, andava all'esecuzione del suo disegno. Ognuno fece il debito suo virilmente e combattessi con molta gara. I Corsi, dato mano alla difesa, contrastarono con sommo valore: i Franzesi con non minor valore gli assaltarono. Stette alcun tempo dubbia la fortuna; ma finalmente prevalse la disciplina al combattere incomposto, e l'onore delle insegne all'amore della patria. De Vaux percosse finalmente con tal impeto nel nemico che lo cacciò da Olmeta, lo cacciò ancora da Vallecalde, ed in fine accostassi a Murato. Mentre le cose in tal fortuna si governavano da Vaux, Marbeuf combatteva felicemente anch'esso. Impadronitosi di Borgo e d'Ortale, e passato co' suoi cavalli il fiume, quasi tutta occupava la Casinca. Murato stesso non resse alla forza franzese, e i due Paoli, quantunque con costanza quasi sovrumana contrastato avessero, erano rimasti perdenti, e furono stretti a ritirarsi, pervenendo a Rostino non senza disegno e speranza di poter ristaurare la fortuna cadente, poichè i Corsi più dispersi che distrutti tendevano a raccozzarsi, ed i luoghi erano ardui a passarsi pei Franzesi. I vincitori riuscirono, secondo il desiderio loro, a San Nicolao, tutto il Nebbio e tutto il paese sino al campo di San Nicolao restando sottomesso alle armi della Francia. Non vi fu nè indugio nè quiete, volendo il Franzese usare l'impressione prodotta dalla vittoria. Marciò sopra Leuto velocemente, e il prese non ostante che i Paolisti acremente gliene contrastassero l'acquisto. I soldati spediti e presti di de Vaux pervennero fino a Pontenuovo. Non era compita la prosperità, se non isloggiava il nemico dalla foce di san Giacomo, perciocchè questo passo situato fra mezzo le cime del monte Tenda signoreggia dall'alto la Pietralba e la valle d'Ostriconi, ed è stimato la chiave della provincia di Balagna. I Corsi, che conoscevano l'importanza di quel sito, con ogni estremo sforzo il difesero, nè cessero se non quando, ingrossati oltre misura i Franzesi sopravanzarono talmente di forze, che non più coraggio, ma temerità, anzi follia sarebbe stato il più lungamente contrapporsi. I vincitori già si scagliavano correndo contro Sorio e San Pietro, quando uno scoppiar d'archibusi ed un fischiar di palle, che d'ogni intorno dalle rocce e dai boschi uscivano, li fece accorti che i Corsi avevano ripreso animo e voleano ricuperare quella fatale bocca di San Giacomo. Ma i Franzesi con tanta forza si spinsero innanzi, che, rendendo vano lo sforzo del nemico, se la conservarono. Non erano ancora al fine delle loro fatiche in questa parte, perchè i tenaci isolani si raccozzarono novellamente in numero di tre mila, e assaltarono, sempre a quell'importante sito accennando, con incredibile vigoria i Franzesi, cui in quel luogo reggeva il signore Durand d'Ogny. I fieri seguaci della testa di Moro si vedevano con mirabile intrepidezza salire le ripide balze esposti al furioso bersaglio del nemico, e noiati massimaniente dalle artiglierie che gl'imberciavano, e ad ogni momento squarciavano e straziavano le membra loro. Non timore, non esitazione mostrarono: superate le più ardue ripe, s'aggrappavano alle radici delle trincee franzesi, e si affaticavano di salirvi sopra: la rabbia loro era immensa; appiè delle trincee sorgevano monti dei loro corpi estinti. D'Ogny ostava tuttavolta con tutto il valore e tutta l'arte d'un ottimo guerriero, ma sarebbe in fine dalla furia corsa rimasto sforzato, se Arcambal, e Viomenil, e Boufflers, e Campenne non fossero accorsi a prestissimi passi da San Nicolao e da altri luoghi circostanti per aiutarlo. Tanti rinforzi ed un furioso urto dettero perduta la speranza ai Corsi di poter espugnare quel sito, e gli sforzarono finalmente a dare indietro non senza maraviglia da' Franzesi stessi concetta dell'estrema bravura degl'isolani. Fu questo uno dei più grossi cimenti a cui vennero nimichevolmente fra di loro l'armi franzesi e corse. Ma uno più feroce ancora si apprestava da cui pendeva la terminazione del litigio ed il destino dell'isola. Paoli, che ancora era potente in sui campi, s'era ritirato in Bostino, dove col vivido pensiero andava immaginando modo di far risorgere la fortuna che inclinava. Vennero chiamati di suo ordine sotto la condotta del Saliceti ad unirsi con lui mille buoni soldati di quelli che, non avendo potuto ostare in Casinca a Marbeuf, s'erano tirati indietro verso il monte Sant'Angelo e Sant'Antonio della Casabianca; e stimando che fosse meglio assalire che l'essere assalito, sboccò per Ponte Nuovo, varcando alla sinistra del Golo, e con quante genti aveva potuto congregare s'ingegnava di allargarsi a destra ed a sinistra. Suo divisamento era di arrampicarsi su per le balze che ivi costeggiano il fiume, e guadagnare le cime dei monti che, continuandosi ed innalzandosi verso Lento, aggiungono più su a Costa ed a Canavaggia, e sono attinenti al monte Tenda ed alla bocca di San Giacomo. Pericoloso riusciva il pensiero pei Franzesi, attesochè, se Paoli avesse ottenuto l'intento, gli avrebbe da quella bocca cacciati, ed acquistato facoltà di tagliar fuori la loro ala destra, e, per conseguenza, di ferirli per fianco. Già era sulle alture pervenuto, già arditissimamente combattendo aveva superato Lento, e battendo s'incamminava alla volta di San Nicolao e di Murato superiore. Se altra colonna da lui mandata ad assalire Canavaggia avesse incontrato il medesimo successo, il suo accorto pensiero avrebbe avuto effetto; ma essendosi il nemico fatto forte in Canavaggia, i Corsi da questa parte si sforzarono indarno. Questo fatto di Canavaggia diede la guerra perduta ai Corsi. Là cadde la fortuna di Corsica, là tutte le fatiche di Paoli diventarono vane, e là franzese la Corsica divenne. I Franzesi l'aura che spirava favorevole a piene vele ricevendo, si calarono precipitosamente da Canavaggia, e occuparono Pontenuovo, insigne scaltrimento di guerra. Caso fatale ai miseri Corsi fu questo, perciocchè gli scesi da Canavaggia investirono sul sinistro fianco coloro che con Paoli s'erano condotti a Lento, ed intieramente gli sbaragliarono e sbarattarono. Tanto più grave fu lo scompiglio e la fuga, che sparse fra di loro la spaventosa voce, ed era vera, che Pontenuovo era in poter del nemico, e che più niuno scampo restava a chi combatteva sulla sinistra del male avventuroso fiume. Paoli, che aveva munito di qualche fortificazione la testa del ponte sulla destra, arrivato fra mille e varii pericoli sul luogo, tentò bene di racquistarlo, ma fu sbattuto da quel suo sforzo, e gli venne fallito il pensiero. I Corsi assaliti inaspettatamente sul fianco ed alle spalle, non sostenuta la impressione del nemico si precipitarono verso il ponte per ripassarlo; ma, invece del varco aperto, il trovarono chiuso, ed i Franzesi che con le baionette in canna li trafiggevano. Miserabile fu quell'orrendo mescolamento, miserabile lo scempio fatto degli scompigliati: i più furono morti, non pochi si annegarono nel fiume, avendo tentato di scampare per questa via dall'empito della Francia vincitrice; alcuni tra sani e feriti si nascosero fuggendo nei boschi, fra le roccie e per le folte macchie. Quattro mesi dopo il ferale evento si vedevano ancora le gocce del sangue rappreso sul funesto ponte; scoprivansi qua e là per le campagne Corsi morti di ferite, e che meglio avevano amato perire abbandonati dagli uomini e dalla fortuna che ricorrere per salute ad un nemico che tanto detestavano. Quattro specialmente di questi miseri e forti guerrieri furono sopra una deserta roccia trovati tutti sanguinosi e morti in atto di tenersi strettamente abbracciati, atto certamente preso a posta per dare insieme l'ultimo sospiro e l'ultimo respiro alla perduta patria. Nel tempo stesso che queste cose succedevano nel mezzo, Marbeuf, varcato coll'ala sinistra il Golo, sottometteva tutta la Casinca, ed Arcambal sulla destra conquistava la Balagna. In mezzo a tanta ruina, Paoli, lasciato il fratello Clemente a Morosaglia, perchè quanto potesse ritardasse l'impeto, si ridusse vicino a Corte, dove tentava di raccorre e riordinare i pochi avanzi delle sue sconfitte genti; nuovi aiuti eziandio per sua possa convocando. Ma de Vaux, che non voleva temporeggiare quella fortuna, ma piuttosto colla celerità del tutto domarla, venne avanti precipitoso, ed, appressatosi a Clemente, il cacciò di Morosaglia, e cacciò eziandio Pasquale da Corte; laonde questa famosa metropoli venuta in mano altrui, il castello solo resistette, ma per pochi giorni, e quegli aspri monti tutto all'intorno di forestieri suoni echeggiavano. Paoli, più ancora doloroso che scoraggiato, si ritirò di Vivario. De Vaux, che aveva saputo vincere, seppe ancora usare bene la vittoria. Per tirare a sua voglia i renitenti, usò bene le parole, usò bene i fatti. Con quelle, mandate fuora per un bando pubblico, minacciò con castighi, allettò coi perdoni col fine di rompere qualche testa di resistenti, se ancora alcuna ve ne rimanesse. Queste minacce contro chi ancora alla fortuna di Francia resistere volesse, le lusinghe a chi si arrendesse, giunte alla fatale rotta di Pontenuovo, operarono sì che i popoli cominciarono a mancare della prima caldezza; e vedendo di non poter più fare alcuna cosa buona, si misero a fare tumultuazioni in ogni luogo, protestando di volere conformarsi ai desiderii di chi più poteva, e di cercar ricovero nel grembo della Francia. Molti correvano alle stanze dei generali franzesi, certificandoli della loro sommissione ed obbedienza; altri, più oltre procedendo, e combattendo coll'armi in mano i loro cittadini, crescevano potenza a chi già tanta ne aveva e per sè medesimo e per la vittoria acquistata. Così gli odii domestici si aggiungevano agli esterni, e la civil guerra alla forestiera. In mezzo a tanta desolazione, e ricevuta una così spaventevole ruina, i Corsi fecero ancora qualche resistenza nell'Oltramonti, principalmente nella provincia di Vico e nella Conarca; ma il conte di Narbona, accorrendo con sufficienti forze, dissolvette quel gruppo, e le provincie soprannominate, come anche quella di Aiaccio, ridusse a devozione. Nel Cismonti de Vaux stesso personalmente si avanzava vincendo. Fece sua la provincia d'Alesin, e già s'incamminava a Portovecchio, non solamente per sottomettere il paese, ma ancora, e principalmente, per intraprendere Paoli e gli altri Corsi fuggitivi, essendogli pervenuto avviso, che fossero per imbarcarsi in quel porto per far vela verso la Toscana. Desiderava Paoli di far prova di sostenere la fortuna cadente con mostrare il viso, facendosi forte nelle due streme provincie d'Istria e della Rocca. Ma non trovando nelle popolazioni volontà conforme a' suoi desiderii, e giunta essendo la piena franzese sino a Bonifazio, ultima parte dell'isola che di poco spazio dalla Sardegna si disgiunge; la Corsica fu di Luigi. Paoli ed i suoi compagni, poichè si videro perduti e la patria sommessa, nè sperando nè volendo i perdoni e le grazie, presero consiglio di concorrere tutti a Portovecchio, dov'erano due navi inglesi, una per disegno offerta a Paoli ad ogni futuro accidente da un virtuoso inglese per nome Smith, l'altra a caso, che portato aveva molti ufficiali corsi, i quali erano venuti offrendo ingegno e mano in quell'ultimo bisogno alla patria cadente. Queste due navi furono opportuno sussidio ai Corsi che all'esilio andavano. Ma non era senza pericolo l'impresa dello scampare. Due sciabecchi franzesi stanziavano alla bocca del porto, facendo le viste di voler trattenere ogni nave o navicella che uscisse. Tutti principalmente gelosi di salvare Paoli, l'Inglese generoso non aveva pace se prima non lo salvava. La necessità ed i pii desiderii aguzzano l'intelletto: gli amici dell'andantesi capitano trovarono modo di adattarlo in una cassa, che collocarono in fondo della sentina, come se merci contenesse. Paoli in sentina e in cassa fu un tremendo caso. La mattina del 15 giugno questa nave salpò da Portovecchio, lo strano e prezioso carico con sè portando, e quelle luttuose terre abbandonando. Riconobbero i Franzesi il legno, e in ogni canto il frugarono. Qual cuore fosse allora di Paoli e dell'Inglese che a sua salute intendeva, ognuno il comprenderà; ma, non avendo avverato che vi fosse il cercato Corso, nè trovatasi alcuna cosa sospetta, nol molestarono e lo lasciarono andare. L'altra nave, che non fu da' Franzesi investigata, portò via Clemente Paoli, Giulio Serpentini, Giancarlo Saliceti, Nicodemo Pasqualini, conte Gentili, Carlofrancesco Giafferri, Carlo Raffaelli, Francesco Petrignani, con molti altri uffiziali, preti, religiosi e pochi soldati; in tutti sommavano al numero di trecento quaranta. Esuli arrivarono a Livorno, ma ve gli accolse la pietà e l'ammirazione. Guardavano principalmente Paoli, e vedutolo e trattatolo così benigno, si maravigliavano come in lui annidasse così prode guerriero; e bene ora comprendevano come egli avesse voluto e quasi potuto dirozzare una nazione ancora rozza, e addottrinarla ignara. Mancando per avverso destino a Paoli gli applausi de' suoi concittadini in patria, gli abbondavano in Italia quelli dei Toscani, degl'Inglesi, anzi de' Franzesi stessi. Andò dal cavaliere Dick, console d'Inghilterra a Livorno, il quale a grande onore l'accolse, e l'aiutò d'ogni più lieto ed utile servigio. Partitosi quindi e pervenuto a Firenze, fece riverenza al granduca Pietro Leopoldo, da cui molto fu ed accarezzato ed onorato, e gli promise ed accertollo, che la sua Toscana gli sarebbe sempre amico e sicuro ricovero tanto a lui quanto a tutti coloro che sopravvivendo all'eccidio della patria, sarebbero venuti a cercarvi pace, riposo e sicurezza. Paoli partissi, e se ne andò a Londra, non senza però aver prima lasciato, sugli avanzi dell'andata fortuna e su altre rimesse che aspettava da Inghilterra, un assegnamento sufficiente a favore dei suoi compagni che in Toscana aveano fermato le stanze, facendone soprantendente suo fratello Clemente. Terminata la conquista, e ricomposta tutta l'isola all'obbedienza di Francia, il generale de Vaux ne partì, lasciandovi Marbeuf, a cui il re Luigi, dandogli il titolo di commissario regio, aveva commesso la cura di quietare gli umori, comporre le faccende civili ed ordinare il governo in quella nuova possessione. La Francia, divenuta arbitra della isola, per conciliarsi gli animi e tenere in fede quella nazione volubile, guerriera, e che malissimo volentieri pativa la servitù, die' principio ad accarezzarla. Sapeva che una delle principali cagioni per cui gli uomini di maggiori qualità, che poi tirarono con sè i popoli, avevano concetto tanto mal umore contro Genova, si era, ch'essa non aveva mai voluto riconoscere in Corsica una nobiltà, se non al modo ch'essa l'intendeva, e non come i magnati corsi la desideravano, essendo a questi paruto che la repubblica volesse una nobiltà di grado troppo inferiore alla sua. Per la qual cosa uno de' primi pensieri di Marbeuf, affinchè i Corsi ricevessero più volentieri l'imperio di Francia, fu quello di pubblicare un editto del re, per cui si statuiva che sarebbe in Corsica una nobiltà, e si numeravano le pruove che occorreva di fare a ciascuno che di lei voleva essere parte, e vago si dimostrava di essere donato della gentilizia. Presentarono i titoli, e le principali famiglie furono ascritte a nobiltà; soli esclusi i discendenti di Michelangelo, Gianantonio e Francesco Ornano, che avevano a tradimento ucciso il tanto amato Sampiero; esclusione richiesta da tutti gli altri che alla nobiltà aspiravano, e che lor fece altissimo onore. Murbeuf, a termini delle lettere regie, convocò in Bastia pel 25 settembre 1770 l'assemblea della nazione. Volle il re che tanto in questa, quanto in quelle assemblee che in avvenire convocherebbe o permetterebbe, intervenissero i deputati divisi in tre ordini o stati, quello della Chiesa colla prima preminenza, quello della nobiltà colla seconda, e quello del terzo stato nell'ultimo luogo. Volle eziandio ed ordinò che i deputati ecclesiastici, oltre i vescovi, gli eletti de' capitoli ed i provinciali degli ordini religiosi de' serviti, degli osservanti, de' riformati, dei cappuccini, de' domenicani, de' missionarii, fossero eletti da pievani raccolti in assemblea di ciascuna provincia; que' della nobiltà in simili assemblee da' nobili, e que' del terzo stato pure in simili assemblee da' podestà e padri de' comuni. Diremo qui, per non dirlo altrove, che i deputati congregati in parlamento il giorno predestinato udirono primieramente gratissime parole da Marbeuf, enumerando i benefizii che intendeva di fare, sì che i Corsi, solo che il volessero, pervenire potevano a qualunque maggiore grado di felicità e di dignità, di cui le più nobili nazioni si vantano, e pregando ed ammonendo adunque che cessassero gli odi e le divisioni, e pensassero e considerassero che non più piccoli isolani da tutto il mondo segregati, ma erano parte d'un tutto, grande, possente, glorioso: e terminava che assai si rallegrerebbe e nel cuor suo godrebbe, se innanzi al re Luigi dire potesse: «I Corsi la corona di Francia amano, ed al benigno loro signore grati e riconoscenti sono.» Quando Marbeuf ebbe posto fine al suo discorso, i Corsi giurarono in nome del re. Toccando gli Evangeli, giurarono di essere bene e fedelmente sottomessi al re di Francia, di riconoscersi per suoi veri e legittimi sudditi, di non mai portar l'armi contro il suo servizio, di non ricevere nè doni nè pensioni di alcun altro principe e potenza nemica del re, di rivelare quanto a cognizione loro venisse contro del servizio regio, di obbedire a chi mandasse per reggere ed amministrare l'isola. Seguitarono gli statuti, regolaronsi prudentemente le faccende economiche, giudiziali, militari, ecclesiastiche, queste ultime per quanto riguardava la giurisdizione rispetto alla potestà temporale. Nè fu posta in dimenticanza l'università di Corte, fondata da Paoli, di cui la consulta domandò la conservazione. Si udirono poscia le domande delle province, delle pievi, de' comuni, savie per la maggior parte e tutte amorevolmente udite. Addomandarono specialmente che fosse permesso di stendere gli atti in italiano, e di procedere avanti i tribunali nella medesima lingua materna e naturale dell'isola. Fu risposto che quanto al presente il facessero pure, ma desiderare il re che la lingua franzese divenisse famigliare ai Corsi, com'era agli altri sudditi, e la consulta ne prescrivesse il termine. Intanto i nuovi signori munirono di nuove fortificazioni Calvi e Bastia, acciocchè i Corsi, avendole come un freno in bocca, non si rimutassero d'animo, e non potessero più ravvolgersi, come pel passato, fra i tumulti e le rivoluzioni. Le cose si avviarono in ogni luogo alla franzese; e in questa guisa finì la iliade della Corsica. In quest'anno, la notte tra il 2 e il 3 febbraio, passò da questa vita agli eterni riposi Clemente XIII. Era questo pontefice fornito delle doti più degne della tiara; intenzioni pure, una pietà sincera, una carità ardente, i primi anni del suo pontificato non sono soggetti a rimproveri nè indegni d'encomio; e se a questi non corrisposero pienamente gli ultimi suoi anni, coloro che si fecero a biasimarlo attribuiscono la variazione della sua condotta a' consiglieri differenti che lo diressero. Trattavasi di eleggere il successore di Rezzonico; il che non era di facile esecuzione. Gli Spagnuoli davano l'esclusiva a tutti i cardinali che avevano avuto parte nel breve contro Parma, di cui diremo in appresso, ed erano sedici. Di più, la Spagna non voleva consentire a nissun papa che non fosse per sopprimere la società de' Gesuiti. Choiseul, ministro di Francia, appoggiava con tutta l'autorità del re Luigi la volontà degli Spagnuoli, la qual cosa riduceva la scelta tra cinque o sei, nel numero de' quali erano i cardinali Stopani e Fantuzzi. Ma la partita de' cardinali zelanti, come li chiamavano, che volevano la conservazione di quella società, non consentivamo all'esaltazione nè di Stopani nè di Fantuzzi, perciocchè troppo apertamente s'erano spiegati di volere l'estinzione dei Gesuiti. Il cardinale Ganganelli, quantunque fosse stimato di setta giansenistica, s'era però meno fervidamente dimostrato alieno di que' religiosi, ed alcuni anzi credevano che gli avrebbe conservati. Dall'altra parte i Borboni, che intieramente Ganganelli conoscevano, il portavano come capace di venire alla risoluzione ch'essi tanto desideravano: fu anzi affermato da alcuni, ch'egli avesse dato promessa formale, se papa divenisse, di estinguere la compagnia. Adunque tra per queste cose e pel timore che la noia di star serrati in conclave troppo si prolungasse, cosa che si vedeva virisimile pe' grandi contrasti che vi erano dentro, e perchè la chiusura già da più di due mesi durava, aderendo i cardinali avversi a' Gesuiti, non ripugnando la maggior parte de' zelanti, Ganganelli fu eletto papa il 18 maggio. Dalla quale elezione tutta la cristianità fu eretta a nuova speranza. Amò chiamarsi Clemente, XIV di questo nome. Ma prima di narrare le condizioni della Chiesa, al momento dell'esaltazioe del nuovo pontefice, n'è d'uopo riferire le cose di Parma, delle quali abbiam toccato al chiudersi del precedente anno. Filippo, duca di Parma, Piacenza e Guastalla, a cui consigliava Guglielmo Dutillot, sendosi accorto che per gli acquisti fatti dalle mani morte per quelli che ogni giorno andavano facendo, e per quelli finalmente che, quantunque ancora pendenti, fossero in possessione altrui, dovevano col tempo necessariamente in loro ricadere una prodigiosa quantità dei migliori e più fertili terreni de' suoi Stati era e sarebbe sempre più venuta in potestà di simili persone di mano morta, aveva pubblicato, ai 25 d'ottobre del 1764, per provvedere a così grave sconcerto, una prammatica: Che fosse proibito, statuì egli, a qualunque persona di qualsivoglia stato, grado e condizione il vendere, donare, cedere, o in qualsivoglia altro modo trasferire o alienare, nè in proprietà, nè in usufrutto, sia per atto fra vivi o per disposizione di ultima volontà, compresa altra successione intestata, in mani morte beni sì mobili che stabili, luoghi di monte, censi attivi, azioni e ragioni di qualunque somma o valore; Che dal superiore decreto fossero però eccettuati i lasciti limitati alla sola vigesima parte del patrimonio di chi donasse o testasse, con ciò però che il lascito per una sola volta si facesse, e sorpassare non dovesse il valore di scudi trecento di Parma, e fosse in denaro contante, e non altrimenti. Che i crediti appartenenti alle mani morte ed ipotecati su stabili in nissuna altra maniera soddisfare si potessero che coll'obbligare il creditore alla vendita degli effetti ipotecati, ed il ritratto per la somma del credito, se il creditore impiegare lo volesse, si dovesse investire in luoghi di monte delle comunità suddite del ducato; Che fossero vietate le locazioni perpetue od a lungo tempo a favore delle mani morte; Che parimente fossero vietati alle mani morte tutti gli acquisti che ad esse si devolvessero in virtù di livelli, enfiteusi, reversioni, e simili altre cause, e quando ad esse devoluti fossero per antiche disposizioni, si fossero obbligate ad investirgli in persona laica con giusto prezzo di vendita, ed il prezzo investir si potesse in luoghi di monte, restando il possesso del fondo totalmente devoluto presso l'erede dell'ultimo investito col solo obbligo di corrispondere l'antico canone; Che tale legge reggesse non solo le disposizioni da farsi, ma eziandio le già fatte, se non ancora verificate; Che mani morte non fossero riputati gli ospedali degl'infermi e degli esposti; Che le rinunzie da farsi da qualunque persona che volesse professare in qualunque religione, convento, monastero, conservatorio, ritiro o congregazione, o fossero esplicitamente, o quando no, s'intendessero per legge abdicative ed estintive, cosicchè la successione, come se la persona rinunziante non esistesse più fra i viventi, potesse e dovesse passare in chi di ragione si doveva; Che, oltre a ciò, i residui dei livelli o vitalizii riservatisi dai professi non si potessero esigere, e per virtù della legge si riputassero condonati; Che ogni qualunque atto contrario alle disposizioni precedenti fosse irrito, nullo ed in niun modo da attendersi dai tribunali e giudici, e proibito fosse ai notai di rogarlo; riservata però alla suprema autorità del principe la facoltà di concedere esenzioni a chi ricorresse, quando per circostanze particolari il giudicasse conveniente. La raccontata legge dispiacque grandemente alle comunità religiose, e sorto un grave bisbiglio ne' conventi, mandarono le loro lagnanze e ricorsi a Roma. Anche gli ecclesiastici secolari se ne rammaricarono, parendo loro che siccome nel secolo fra i parenti viveano, e fra di loro ed i laici non v'era altra differenza, se non quella ch'essi esercitavano il ministero divino, così ingiusta troppo e dura cosa fosse, ch'ei fossero privati di quei benefizii che la società procura a chi vive nella società. Il duca Ferdinando, che era a Filippo succeduto, pubblicò, rispetto a questi ultimi, cioè agli ecclesiastici secolari, ai 15 di giugno del 1767, una sua volontà, per cui essi furono abilitati a succedere alle eredità dei loro ascendenti e collaterali sino al quarto grado, ed a fare acquisti di beni stabili, di censi, di fitti perpetui e di altri annui redditi, sì veramente che si obbligassero, pei beni di nuovo acquisto, di soddisfare a tutti i carichi pubblici, di non farne alienazione a favore di alcuna mano morta, e di non declinare pei detti beni il foro laicale. Il principe volle altresì che le successioni devolute ai detti ecclesiastici, per disposizione di qualche persona estranea o ad essi congiunta oltre il quarto grado, fossero irrite, e si avessero per nulle e di nessun effetto. La quale irritazione e nullità si intendesse anche estesa agli atti meramente lucrativi ed alle cessioni e donazioni, ancorchè rimuneratorie e corrispettive. Un grave abuso s'era introdotto nell'assetto delle contribuzioni di certi beni ecclesiastici nel ducato di Parma. Certi beni, i quali al tempo della formazione del catasto, per appartenersi a persone laiche, erano stati allibrati e gravati, essendo in progresso di tempo passati in mano di persone e corpi che pretendevano esenzione od immunità, avevano la detta esenzione ed immunità ottenuta. Dal che, fra gli altri inconvenienti, era succeduto quello che la rata delle pubbliche gravezze spettante a tali beni, era andata tutta a cadere sopra i restanti beni accatastati con doppio ed intollerabile aggravio dei possessori; abuso non solamente lesivo dell'equità e giustizia naturale, ma anche contrario alle leggi fondamentali del ducato, secondo le quali trovavasi espressamente prescritto che i beni una volta accatastati passar dovessero col loro carico e colla qualità di tributarii in qualunque persona o corpo, ancorchè immune ed esente per qualsivoglia causa o titolo fosse; legge stata eziandio riconosciuta e confermata dai sommi pontefici Adriano VI, Clemente VII e Paolo III, quando furono signori di Parma e Piacenza. Per ovviare ad un tanto disordine, il duca Filippo, a ciò movendolo sempre il Dutillot, già aveva ordinato, per legge promulgata espressamente ai 13 di gennaio 1765, che quei beni che nei citati catasti, per essere descritti ed allibrati in testa di laici o di persone o corpi sottoposti alla giurisdizione laicale, erano stati obbligati ai carichi pubblici, e che, per passaggi di successione, di donazione o d'altro titolo si ritrovavano allora o per l'avvenire si troverebbero in mano di persone o corpi che pretendessero privilegii, immunità ed esenzioni, dovessero aversi e si avessero per tributarii ed alle gravezze pubbliche così ordinarie come straordinarie sottoposti, come se tuttora si appartenessero ai rispettivi loro autori, in testa dei quali stati erano descritti ed allibrati. Nel medesimo tempo però il principe volle che restassero immuni ed esenti i beni che negli ultimi catasti erano stati descritti ed allibrati con privilegio di esenzione ed immunità in favore delle chiese o di altre opere pie ecclesiastiche. Dichiarò inoltre immuni ed esenti tutti i patrimonii semplici, non solo già costituiti, ma anche da costituirsi in avvenire a favore degli ecclesiastici secolari promossi e da promuoversi agli ordini sacri, purchè non eccedessero i limiti della tassa sinodale da verificarsi innanzi i tribunali. Perchè poi quanto aveva ordinato con maggiore esattezza sortisse il suo effetto, il duca creò un'intendenza sovrana, sopra i luoghi pii e sopra tutti i corpi cadenti sotto il nome di mani morte; uffizio del qual magistrato era di sopravvedere e provvedere che la volontà del principe fosse eseguita. Nè alle narrate deliberazioni si rimasero i pensieri del Dutillot e del duca di Parma. Avevano i popoli supplicato al duca, e pregatolo di far considerazione quanto restassero offesi dalla soverchia libertà per cui si traevano fuor del dominio, e specialmente nelle curie di Roma, i litigii così dei secolari come degli ecclesiastici. Lamentavansi i popoli parimenti, ed al duca supplicarono, perchè vi rimediasse, che i benefizii e le pensioni ecclesiastiche dai diplomi romani si dessero a persone straniere con esclusione degl'indigeni; dal qual abuso segnatamente venivano a sentir danno moltissime chiese parrocchiali, anche quelle che rendite sufficienti per sè medesime non avendo pel decente esercizio del culto divino, erano sovvenute dalle liberalità dell'erario pubblico. Le quali cose e supplicazioni bene considerato dal duca Ferdinando, ed avutovi riguardo, pubblicò, ai 13 di gennaio 1768, un editto, per cui comandò che, senza averne prima ottenuto il sovrano beneplacito, nissun suo suddito, o mediato o immediato, o secolare o ecclesiastico, o collegio od università, compresi i conventi e le famiglie religiose dell'uno e dell'altro sesso, senza la menoma eccettuazione, si ardisse di trarre o di esser tratto a contestare e sostenere, in qualunque grado d'istanza, liti giudiziali in alcun tribunale estero, compresi anche quelli di Roma, per qual si fosse causa, anche ecclesiastica e relativa a beni, ragioni, diritti e preminenze di qualunque sorte; Che nissuno nemmeno si ardisse, senza il mentovato beneplacito, di ricorrere a principi, governi e tribunali esteri, nè per ragione di beni, azioni, preminenze e diritti di qualunque sorta, nè per conseguire ne' suoi Stati benefizii, pensioni ecclesiastiche, commende, dignità o cariche con annessa giurisdizione di qualunque grado o prerogativa; Che i benefizii ecclesiastici curati e non curati, compresi anche i concistoriali, le pensioni, abbazie, commende, dignità e cariche di annessa giurisdizione, qualunque fossero, non potessero conseguirsi che da sudditi nazionali, e ciò ancora nemmeno senza il previo beneplacito dell'autorità sovrana; Che senza la regia permissione dell'esecuzione nissun giudice o tribunale, tanto laico quanto ecclesiastico, s'ardisse di eseguire qual si volessero scritti, ordini lettere, sentenze, decreti, bolle, brevi e provvisioni di Roma, e di qual si fosse podestà o curia estera; Che qualunque atto contrario alla presente sovrana disposizione che da qualche disubbidiente venisse fatto, fosse irrito e nullo e da aversi in nissuna considerazione, con ciò eziandio che i disubbidienti fossero severamente puniti anche in via economica, per la loro disubbidienza verso le principali massime di buon governo e le più rilevanti leggi dello Stato. Un complesso di tali leggi e provvisioni in un breve corso d'anni accettate e promulgate nel ducato di Parma e Piacenza dimostravano evidentemente quanto quel governo fosse risoluto a sradicare gli abusi che in materie giurisdizionali e nelle disposizioni regolatrici dei beni e delle persone ecclesiastiche erano trascorsi. Ma queste erano percosse fatali all'autorità romana, e di tanto maggior rammarico quanto che le medesime deliberazioni andavano prendendo piede, e già l'avevano preso in altri Stati, non che dell'estero, dell'Italia, e pareva che fosse una tempesta che si volesse allargare in ogni luogo. In termini difficili il pontificato si trovava; la resistenza lo metteva in necessità di usare mezzi che l'opinione di molti riprovava, e niuna cosa reca più grande pregiudizio ad una podestà, qualunque ella sia, che fare deliberazioni non obbedite. Dall'altro lato, il non fare risentimento accennava che esso abbandonasse quelle massime che per tanti secoli aveva seguitato. A tale estremo passo gli era mestieri di fare scelta tra il procedere pieghevole e prudente di Benedetto ed il fare rigido ed inflessibile di alcuni altri papi. Clemente XIII non era di natura intrattabile, e sarebbesi forse inclinato od a qualche concessione od almeno a qualche mezzo termine di conciliazione; ma troppo fu e consigliato e sollecitato ad opporre il pontificale petto, ed a farsi forte contro di questa nuova tempesta. Adunque, ai 20 di gennaio dell'anno scorso, il papa pubblicò la sua sentenza, e contro i commettitori di quanto era contrario alla immunità ecclesiastica ed ai diritti legittimi della sedia apostolica usò l'armi pontificali. Toccate primieramente tutte le disposizioni del duca che giudicava contro i diritti e le immunità della Chiesa, e reso conto dei mezzi di pacificazione da lui inutilmente usati; investendosi della sua pontificale autorità, scriveva che poichè speranza più non v'era di stornare con la pazienza e la dolcezza i colpi terribili intentati all'autorità della santa Sede e della Chiesa, credeva essere giunto alla fine quel tempo, in cui egli vendicar doveva le libertà ecclesiastiche così violentemente offese affinchè nissuno potesse dargli la taccia d'aver tradito il suo dovere. Dichiarava pertanto nulli, di niun valore, temerarii ed abusivi i sopraddetti atti, decreti, editti, prammatiche, come usciti da mano di persone che non avevano nissuna autorità di formarli. Dichiarava egualmente nulli e di niun valore tutti quelli che dalle medesime persone in avvenire uscire potessero; proibiva finalmente a' suoi venerabili fratelli ai vescovi di quei ducati, ed a qualunque altro di conformarvisi. Oltre a tutto questo, posciachè ad ognuno era notorio che tutti quelli i quali avevano partecipato nella formazione, pubblicazione o esecuzione delle ordinanze medesime, erano incorsi in tutte le censure ecclesiastiche, così dichiarava che da queste censure non potessero essere liberati, nè riceverne l'assoluzione, eccettuati i casi di pericolo di morte, se non da lui stesso, o dal pontefice che dopo di lui sedesse. Dichiarava altresì che, a volere che l'assoluzione data in pericolo di morte fosse salutare e valida, era condizione indispensabile che, passato il pericolo, gli assolti ritrattassero e disfacessero quanto avevano fatto di attentatorio alle immunità ecclesiastiche; le quali cose non facendo, rimarrebbero alle medesime pene sottoposti. Voleva finalmente che, siccome era notorio che le sue presenti pontificali lettere incontrerebbero pur troppo delle difficoltà, per essere pubblicate ed affisse con sicurezza negli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla, le pubblicazioni fatte nei luoghi soliti di Roma annodassero quelli ai quali appartenevano, come se fossero loro state nominatamente e personalmente intimate. Parlossi altamente e fecesi un rumore grande pel mondo cattolico, così delle risoluzioni del duca di Parma, come del monitorio del papa; ed in mezzo ai molti discorsi, il duca Ferdinando, confortato dal Dutillot, primieramente con suo editto del 13 di marzo 1768 proibì severamente il monitorio in tutti i suoi Stati. Poi a dì 6 del seguente aprile presentò, per mezzo dei ministri delle tre corone di Francia, Spagna e Due Sicilie, al papa una rimostranza de' suoi ministri, in cui e contro la pontificia decisione protestava, e, le sue ragioni adducendo, dimostrava che le prammatiche e gli editti, di cui si trattava, avevano fondamento nel diritto sovrano e nella incontrastabile utilità dello Stato. S'infiammarono dall'una parte e dall'altra gli spiriti. Uscirono alla luce scritti moltiplici, alcuni in favore di Roma, molti in favore di Parma. E siccome il papa, nel principio del suo monitorio, aveva chiamato col nome di _suoi_ i ducati di Parma e Piacenza, si riandarono le antiche cose, per conoscere quale fosse o non fosse la sovranità della Sedia apostolica su di quella bella e doviziosa parte d'Italia. Questi sostenevano che Parma e Piacenza fossero anticamente parte dell'esarcato, e, per conseguenza, devolute con le altre città di quell'antico Stato alla santa Sede; che i pontefici le avevano senza contrasto possedute come vere e legittime possessioni della Sede medesima; che i trattati posteriori, per cui s'erano variate le sorti delle due città e date in mano di altri lignaggi principeschi non avevano potuto cambiare la natura delle cose, nè aver la Sede apostolica mai consentito alle mutazioni di signoria, ma anzi sempre protestato contro le medesime. E venendo alle disposizioni del duca Ferdinando contenute nelle prammatiche ed editti, dei quali si contentava il merito, dicevano essere evidente ch'essi avevano posto la falce nella messe altrui, ed intaccato enormemente i diritti della potestà ecclesiastica. Se v'era abuso, esclamavano, non avere mai Roma ricusato di darvi riparo coi principi secolari intendendosi, nè esser ella per ricusare; ma essere nel tempo medesimo evidente che l'utilità e nemmeno la necessità non danno il diritto, e che quando il mandato non c'è, tutto quello che si fa è irrito, invalido e nullo, nè fare si può senza ingiuria di colui al quale il fare si aspetta; se la contraria dottrina prevalesse, si turberebbero tutte le giurisdizioni e il mondo ritornerebbe nel caos, e la umana società si dissolverebbe. I difensori di Parma non se ne stettero oziosi, e pubblicarono parecchi scritti, fra i quali si notarono principalmente quelli di Giambattista Riga, Piacentino, avvocato fiscale del duca. Del supremo dominio parlando, asserirono che non mai la santa Sede l'aveva posseduto, e che era favola di menti o non sane o ignoranti o bugiarde il pretendere che Parma e Piacenza fossero anticamente membri dell'esercato di Ravenna, perciocchè era notorio che furono sempre città soggette ai Lombardi, o libere colle proprie leggi, o appartenenti al ducato di Milano. Quanto alla immunità ecclesiastica, i difensori del duca allegavano che quanto è vero che il governo della Chiesa in ciò che riguarda le cose meramente spirituali è ed esser deve libero e independente dall'autorità temporale; tanto da un'altra parte è certo che la potestà che la Chiesa esercita sopra alcune cose temporali, come sono appunto i beni della terra e le eredità e le successioni, è una concessione de' principi, che essi possono o modificare o regolare, od anche sopprimere, quando ciò per l'utilità dello Stato fosse richiesto; e citando a sostegno dello loro opinioni santo Agostino, san Girolamo, santo Ambrogio, continuavano a dire che nuova non era nella Chiesa la prammatica del duca, e che esso non aveva fatto altro che imitare altri principi, e queglino stessi dei quali la Chiesa sommamente si lodava. A questo modo gareggiavano fra di loro e si davano l'un l'altro molte brighe la corte Romana ed il duca di Parma; ma nissun di loro si dipartì dalle prese risoluzioni, e tanta fu la prudenza del governo del principe secolare, che nissun grave inconveniente nacque nel ducato per l'interdetto messo sopra gli esecutori della sua volontà, nè pure originandosi quelle turbazioni di alcuni ordini religiosi che parte contristarono, parte sdegnarono Venezia ai tempi del suo interdetto. Con tanta maggior franchezza il duca procedeva in questa bisogna che le altre corti borboniche, le quali per un trattato del 1761, che chiamarono il patto di famiglia, s'erano fra di loro collegate ad ogni bene e ad ogni male, ed a conformità, anzi unità di consigli, avevano preso focosamente a favorirlo. In fatti, non così tosto il monitorio del papa era pervenuto a loro notizia, non si contentarono di sopprimerlo ne' loro Stati, ma richiesero fortemente il papa della sua rivocazione, la quale non avendo potuto ottenere, vennero finalmente a determinazioni più rigorose e più efficaci. Il re di Francia, come si è già detto al finire dell'anno precedente, fece occupare da' suoi soldati, condotti dal marchese di Rochechouart, la città di Avignone ed il contado Venosino; poi mandò commissarii del parlamento di Provenza a prenderne possessione in suo nome, e ricevere il giuramento di fedeltà, come di paese già annesso alla sua corona, dai consoli, sindaci ed abitanti. Dal canto suo il re di Napoli pose le mani addosso nel medesimo modo a Benevento, mandandovi soldatesche e commissarii, e diceva che Benevento era suo, come il re Luigi d'Avignone e del contado affermava. Siccome poi ai Borboni non isfuggiva che la durezza del pontefice procedeva principalmente dai consigli de' Gesuiti, che già avevano cacciati da' loro Stati, e da quelli del cardinale Torrigiani, suo ministro di Stato, prelato tutto dedito a que' padri, addomandarono con molto calore ch'egli la compagnia di Gesù interamente sopprimesse. Ma Clemente, che prestava molta fede alle loro parole, ed a cui rincresceva di privare anche in Italia di quel sussidio la santa Sede, giacchè negli altri regni della cristianità l'aveva perduto, fermò l'animo e resse alle istanze, nè si lasciò volgere ai desiderii de' principi. Dalla quale sua fermezza procedette che le cose non si addomesticarono nè col duca di Parma, nè coi principi suoi consanguinei, finchè Clemente XIII visse. Ei conservò il suo monitorio, Parma i suoi ministri, Francia Avignone, Napoli Benevento, Spagna i suoi risentimenti. Oltre a questi disturbi di Parma, gravi e veramente pericolose erano per altre parti le condizioni della Chiesa al momento dell'esaltazione già detta del Ganganelli. Non poco sdegno nudriva Giuseppe re di Portogallo contro di Roma, per vedere ancora in piè gl'Ignaziani che tanto egli odiava. Vi era anche in quel reame pericolo di scisma, cioè di separazione dalia santa Sede, minacciando il re di creare un patriarca in Lisbona per l'esercizio della suprema autorità pontificale, e di non avere più altra comunicazione col pontefice romano che quella delle preghiere. Non minori minaccie faceva la Spagna, la quale continuamente fulminava contra i Gesuiti e con sinistre voci protestava che se di loro come desiderava sentenziato non fosse, verrebbe a qualche risoluzione funesta a Roma. La Francia riteneva Avignone, come si disse di sopra, e grandi risentimenti faceva sì per l'oltraggio fatto al duca di Parma colla scomunica, e sì per le lunghezze che il papa andava framettendo per conformarsi ai desiderii di Spagna ed a' suoi proprii per la domandata soppressione. Per le narrate cose il duca di Parma irritatissimo anch'egli si dimostrava, e consigliato da ministri savii e fermi, faceva le viste di non temere i fulmini del Vaticano. Non riceveva la Sedia apostolica minori molestie dal re di Napoli, il quale, oltrechè perseverava nello appropriarsi Benevento e Pontecorvo, si spiegava eziandio di volere più avanti nello Stato ecclesiastico allargarsi; e da riforma in riforma procedendo, dava a divedere che, poichè il papa non voleva fare avrebbe fatto egli. In somma le immunità ecclesiastiche continuavano ad andare in ruina nel regno. Il re, considerati gli abusi che nascevano dalla riscossione delle decime ecclesiastiche, le abolì intieramente, ordinando che l'erario regio supplirebbe con una conveniente pensione in favore di que' curati, ai quali, per la soppressione delle decime, restasse una congrua minore di centotrenta ducati. Andava anche un giorno più che l'altro tarpando l'ali alla nunziatura, con ridurre molte cause miste all'autorità ordinaria dei tribunali regi. Queste mosse principalmente davano Tanucci e Carlo di Marco. Venezia, senza ricorrere all'autorità pontificia, di propria volontà riformava le comunità religiose: lo spirito del Sarpi in lei sempre viveva; nè valse a Clemente XIII che da Venezia sortito i natali avesse per poter la novella tempesta schivare. Benchè in grazia di lui avesse cassato il decreto, emanato già per risentimento delle decisioni intorno ad Aquileia, che proibiva gli abusi di certe dispense e delle indulgenze che per denaro si concedevano, non si rimase però che qualche secreto rancore gli animi dei padri ancora non alterasse, e non si manifestasse con rigori di dazii e di gabelle sui confini contro i sudditi dello stato ecclesiastico. Ma più specialmente nell'anno addietro il senato avvertì che le ricchezze del clero erano divenute tanto esorbitanti che di grave scandalo riuscivano ai privati e di molto danno al pubblico, però che le mani morte possedevano una rendita quasi eguale a quella dello Stato. Quindi prese rigorose e valide misure tanto sui beni de' cherici che sopra le persone loro; ma noi potè fare senza che il papa gravemente se ne risentisse. Ed in fatti con un suo breve dell'8 ottobre di quell'anno si lamentò colla repubblica ch'ella avesse, oltrepassando i termini dei proprii campi, posto i piedi in su quelli d'altrui, e sotto specie di regolare interessi attinenti allo Stato, si fosse fatto lecito d'intaccare la giurisdizione ecclesiastica; e dopo noverate ad una ad una le cose che teneva illecite, «alzava la paternale voce, e la repubblica ammoniva che da tali perniziose e scandalose determinazioni recedesse.» Rispose il senato, e stette fermo nelle sue risoluzioni: il papa nuovamente esclamava con altro suo breve del 17 dicembre sempre dello stesso anno, ed, al senato le parole indrizzando, l'avvertiva che, recate dalle di lui lettere nuove ferite al suo paterno cuore, dovea di nuovo parlare, di nuovo ammonire, pregare, lamentarsi, biasimare. Ricevuto il breve del papa, il senato non si rattenne in silenzio; ma non si rimosse da quanto ordinato aveva, nè il pontefice venne al passo estremo di pronunziare l'interdetto contro la repubblica; e come tal era la condizione sua che il consentire gli pareva impossibile, il contrastare senza frutto, le cose in quello stato si rimasero. La Polonia stessa, che sempre era stata devotissima alla santa Sede, mossa dall'universale consentimento e da quell'influsso contrario che contro Roma si spandeva, cominciava a vacillare ed i privilegii della nunziatura diminuiva, e poneva un freno alla volontà della curia romana. Alle quali cose se vogliamo aggiungere quello spirito filosofico che d'ogni intorno spirava, e che metteva in dubbio non solamente le prerogative della Sedia apostolica, ma ancora le verità stesse della fede, si verrà conoscere a quale e quanta tempesta avesse ad ostare il nuovo pontefice, ed in qual pericoloso frangente si avvolgesse. Stava il mondo in grandissima aspettazione di vedere a quali consigli si atterrebbe, e quali mezzi userebbe Clemente XIV per rivolgere in meglio le disposizioni dei principi. Il cedere e il non cedere in tali congiunture può essere ugualmente di danno, quello, perchè mette le cose domandate per perdute, questo, perchè mette pericolo che se ne perdano delle maggiori. Nè si ha nemmeno certezza che il concedere faccia moderazione in chi domanda; imperciocchè il più delle volte succede che più si dà e più si domanda. Contuttociò Ganganelli vedeva evidente la necessità di contentare i principi, perchè, se di soverchio si contrastasse loro, era da temersi che dessero della scure sulla radice stessa dell'autorità pontificia, cosa alla quale gli scritti dei filosofi e dei giansenisti stessi gagliardamente spingevano. Il che ottimamente considerato, principiò a dare segni di quanto voleva fare. Nominò suo segretario di Stato il cardinale Pallavicino, personaggio grato alle potenze; scrisse ai monarchi lettere pacifiche ed amorevoli. Lieti augurii eran questi, che già una causa speciale e viva aveva fomentati, il viaggio, cioè, in Italia in quest'anno fatto dall'imperatore Giuseppe. Vide Napoli, Roma e Firenze, vide la sua Milano. Padre de' popoli più che re in ogni luogo si dimostrava, il povero, più che il ricco in cale aveva, non abborriva dalle tortuose scale ed anguste, nè aveva a schifo gli umili tugurii; il più bell'ornamento di cui un possessore di regni possa far mostra, portava seco; imperciocchè l'accompagnavano la semplicità del costume, l'affabilità del discorso, la bontà dell'animo, e meglio amava sentirsi chiamare benefico che augusto. La sua vivida mente in ogni occorrenza appariva; figliuolo buono ed ingegnoso d'ingegnosa e buona madre. Amava i dotti, e viaggiando gli accarezzava come stelle, fra la volgare oscurità onorandoli. Pio ancora lo vedevano i popoli e religioso, dal che argomentavano che non per tiepidezza di fede, ma per ardore del ben fare richiamava a nuovi ordini le cose giurisdizionali e la vita de' chierici. Le accoglienze che generalmente i popoli gli facevano, e particolarmente gli ecclesiastici, erano segno manifesto del quanto fossero cambiati i tempi da quelli di _Barbarossa_. Quando visitò Roma, l'accompagnava il suo fratello Leopoldo, granduca di Toscana. Nè l'uno nè l'altro si fecero, come il Medici, canonici di San Pietro. Correva il tempo dell'interregno per la morte di Rezzonico, ed avanti l'esaltazione del Ganganelli, il sacro collegio, che allora governava la città, l'accolse con ogni più lieta e festevole dimostrazione, deputando per complimentarlo ed accompagnarlo entro quelle festose mura i principi Conti, Borghese, Aldobrandini, Doria, Barberini, di Bracciano, di Piombino. Come prima in cospetto della città era comparso, i principi deputati, avendo con esso loro il governatore di Roma, con graziose parole l'avevano onorato; offrirongli la guardia svizzera, che ricusò. Gli si diedero festini magnifici nelle case di Bracciano, Corsini, Santacroce e Salviati: tutto era magnifico e bello, ma il più magnifico e più bello era la semplicità del fare e del favellare. Maravigliosa fra le altre fu la festa datagli dall'ambasciatore di Venezia; ad onoranza e a disegno, imperocchè a quel tempo Giuseppe vivesse con qualche amarezza verso la repubblica. I due fratelli visitarono con divozione e maraviglia il famoso tempio ben degno del principe degli apostoli, tempio d'una monarchia che pensiero fu di un repubblicano. Desiderarono di vedere il conclave, che a que' dì si teneva per l'elezione del nuovo papa; si apersero loro le porte. Giuseppe domandò quando la elezione si farebbe, ed i cardinali risposero aspettarsi i cardinali dall'estero; ed interrogando poscia qual fosse il conclave che aveva durato più lungo tempo, gli venne risposto, quello di Benedetto XIV, che più di sei mesi soprastette a far l'elezione; al che soggiunse: «Or bene poco importa che il conclave duri anche un anno, purchè nominiate un pontefice simile al Lambertini che fu amico a tutti.» «Mi vien voglia, dice uno storico illustre, di raccontare i presenti che il sacro collegio ed il governatore di Roma fecero a Leopoldo, simili a quelli di Giulio II, che mandò un carico di presciutti e buoni vini al parlamento d'Inghilterra per renderselo benevolo; tre piatti di vitella mongana adorni di fiori e nastri; di vini del paese otto casse; di vini forastieri fruttati dalle Canarie, da Malaga, da Cipro, sedici barili; di rosolii due; di pesci delicati, come storioni, ombrine, tre; di zucchero, di zuccherini, di caffè, di cioccolata, buona quantità, con frutti, confetti di ogni sorta prugnole, cedrati, poponi, olive; e v'erano anche due statue di butirro alte ciascuna un palmo: poi pavoni, fagiani, galline rare acconce in gabbia, presciutti, mortadelle ed altri salumi preziosi. Questi pel gusto, i seguenti per l'intelletto: dodici tomi in foglio di viste e prospettive di Roma con parecchi quadri di mosaico e di tappeti istoriati oltremodo belli. Vennero quindi i presenti più speciali di Roma, reliquie incassate in oro del peso di sedici libbre con grande numero di pietre preziose incastonatevi. Anche Giuseppe ebbe i suoi doni, e furono reliquie.» Ai 17 di marzo i tre prelati deputati scrissero lettere all'imperatrice madre, in nome del conclave, notificandole, avere il sacro collegio esultato di tutta allegrezza, vedendo fra le mura di Roma e nel grembo degli elettori del pontefice i suoi due figliuoli augusti. Narrarono quanta fosse stata la pietà loro e la venerazione verso le cose sante; dimostrarono quanto il sacro consesso desiderasse e quanto sperasse ch'ella degnasse proteggere e crescere lo splendore e le prerogative degli ordini religiosi, e conservare i diritti, le possessioni e dominii della Chiesa. Testimoniarono infine, niuna cosa più ardentemente desiderare che una pace inviolabile ed una perfetta unione tra il clero ed i principi cattolici. Partissi Giuseppe da Roma, poi dall'Italia, lodato e venerato anche da coloro che di lui e delle sue intenzioni sospettavano. Ma i suoi detti e fatti restarono nella memoria degli uomini, come segni e pegni di un più felice avvenire. Nello Stato di Milano regolaronsi le cose delle mani morte a foggia di quanto erasi fatto in Parma ed a Venezia, ed istessamente quanto riguardava agli ordini religiosi. Levata poi l'imperatrice Maria Teresa di mano all'inquisizione ogni facoltà sui libri, avvocò a sè le cause a questa materia relative, e statuì che la censura dei libri si appartenesse ai magistrati da lei deputati. Anche in Parma, oltre alle cose più sopra discorse, il duca, lamentandosi, in sul limitare stesso d'un decreto, che una potestà straniera esercitata da' claustrali sotto titolo d'Inquisizione del santo Officio, si fosse ne' suoi Stati introdotta, volle ed ordinò che, come morto fosse lo inquisitore di Parma, le cause dovessero giudicarsi da' vescovi, e nissuno più si ardisse, altro che essi, ingerirvisi. Poco appresso mori l'inquisitore, i vescovi assunsero il carico; promessa loro dal principe, ove abbisognasse, l'assistenza del braccio secolare. I detenuti nelle carceri del santo Officio furono dichiarati tenersi prigioni a nome del duca sin che fossero le loro cause spedite, dato anche ai vescovi il comandamento d'informare la potestà secolare delle loro sentenze. E nel medesimo tempo il duca regolò i conventi, espulse i religiosi forestieri, salvo chi per età o per merito o per dottrina si meritasse di dimorare. Delle confraternite e luoghi pii ordinò che, secondo l'utilità, fossero o soppressi o riformati o incorporati. Il marchese Tanucci e Carlo di Marco, ministri del re di Napoli, lo movevano a statuire, come statuì, che i conventi che non potevano mantenere dodici frati fossero soppressi, e i frati distribuiti in altri conventi, con obbedienza di tutti verso gli ordinarii; che nissuno prendesse l'abito claustrale prima di ventun anni, nissuno professasse prima dei venticinque; che le rendite dei conventi fossero depositate nel banco di Napoli a benefizio ed uso dei conventi per quella rata che sarebbe creduta necessaria; che le cause loro in prima istanza si giudicassero dui vescovi, e in appello da un tribunale supremo instituito dal re; che i conventuali forastieri tornassero nei loro paesi; che i benefizii e le dispense di affinità si conferissero dai vescovi; delle rendite delle confraternite, cappelle, congregazioni, una parte restasse assegnata al culto divino, e dell'altra il re disponesse per opere pie; soprantendesse un magistrato apposta creato dal re alle rendite dei vescovati, e se dei più ricchi qualche cosa soprabbondasse, si ripartisse tra le chiese povere ed i vescovi meno facoltosi. In Toscana, in cui, sino dal 1751, per opera del reggente Richecourt, del senatore Rucellai e di Pompeo Neri, si erano fatte varie ordinazioni nella materia delle mani morte ed in quella dell'inquisizione, specialmente intorno alle carcerazioni, ai castighi e alla censura dei libri, in quest'anno, per un ordine del granduca Pietro Leopoldo, i soldati andarono per le città, e tutti i rifuggiti dalle chiese levarono, e li portarono nelle carceri della giustizia civile; in pari tempo il granduca stesso scrivendo a Roma, gli uomini nefarii non contaminare più col loro feroce aspetto le sedi di Dio, essere nelle carceri ordinarie condotti, ma stare e vivere per loro l'immunità, sospendersi contro d'essi, per rispetto dell'antico asilo, la mano regia, nè la giustizia ricercarli dei commessi delitti. E i rei per verità puniti non erano, ma per la sua deliberazione ciò almeno aveva il buon principe conseguito che, chiusi in carceri sicure, quei tormenti della società non potevano più uscire a spaventarla. Poscia pel futuro Leopoldo decretò che i rifuggiti, in qualunque luogo si fossero ricovrati o di qualsivoglia delitto colpevoli, salvo i falliti di buona fede, ne venissero levati dai soldati della mano regia, per essere condotti innanzi ai tribunali ordinarii, e castigati secondo che avessero meritato. Solo per rispetto dei sacri luoghi, e per conciliare quanto dalla giustizia era richiesto colla deferenza verso la Chiesa, statuì che si moderassero le pene, e chi fosse incorso in quella di morte si avesse solamente dieci anni di carcere, e chi avesse meritato dieci anni di carcere, fosse punito con cinque, e così in proporzione fossero tutte le altre pene dimezzate. Quindi proibì il flagellarsi in pubblico, il castrare i fanciulli; soppresse la bolla _In Coena Domini_; vietò ai conventi d'avere carceri senza la approvazione del principe, e che le permesse si visitassero da deputati laici. E (per non tornare più su questo argomento) ordinò negli anni appresso che nissun forestiero più abitasse ne' chiostri toscani; che i voti religiosi non si pronunziassero prima di ventiquattro anni; che gli ordini mendicanti non ricevessero più novizii innanzi che pervenuti fossero all'età di sedici, od anche di diciotto anni; che si sopprimessero i conventi di minor numero di dodici religiosi; che i preti secolari soli, massimamente i curati, e non più i religiosi addetti ai conventi, potessero predicare per le campagne; che gli ordinarii soli regolassero e sopravvegghiassero i conventi delle monache, ed a niun modo potessero intromettersene i religiosi dei conventi; che i conventuali aiutassero nel ministerio divino i parrochi ed a loro fossero soggetti; che le congreghe ricche sopperissero alle povere; che nuove parrocchie sorgessero là dove ne fosse bisogno. Al terminare di quest'anno, rendutosi fatalmente celebre in Francia, in Olanda, in Germania, in Inghilterra per le inondazioni di fiumi e di torrenti, pur la Italia ebbe a patirne di straordinarie e gravissime per le insolite colmate del Tevere, del Panaro, del Tagliamento ed altri che, ingrossati a dismisura, con furia sterminatrice dai letti traboccarono. Le acque del mare due volte inondarono Venezia, e contaminarono con gravissimo danno quelle che ivi si conservano nelle cisterne o venute dalle pioggie o portate dal continente ad uso de' suoi abitatori. E nella seconda di tali allagazioni, spirando impetuosissimo un vento lungo le spiaggie dell'Istria, il mare sconvolto sgominò un lungo tratto del lito, e trasportando altrove sabbia, cespugli e quanto altro ivi era, lasciò scoperti gli avanzi e le rovine di un'intera antica città che conserva ancora la disposizione delle strade interne, le fondamenta e le muraglie delle abitazioni, portici, colonne, pavimenti di musaico e cento altri vestigii di un'ampia e ricca popolazione che stendevasi per due miglia incirca fra Umago e certo vecchio e sfasciato castello già chiamato Sipar. Mentre dissotterravansi rovine morte, seppellivansi i vivi. In una parte dei bellunesi monti, sfasciatasi un'alta montagna detta Piz d'improvviso, andò a piombare sopra la soggetta popolazione, schiacciandone le capanne, i bestiami ed oltre a cinquanta persone, rimaste prima sepolte che morte. Anno di CRISTO MDCCLXX. Indizione III. CLEMENTE XIV papa 2. GIUSEPPE II imperadore 6. Giunto in quest'anno il solito momento di promulgare la bolla _In Coena Domini_, tanto dispiacente ai sovrani, Clemente XIV se ne astenne, omissione, la quale, quanto più insolita era, tanto maggiore argomento ne prendevano gli uomini per giudicare delle future operazioni del pontefice. Già s'era riconciliato col Portogallo che accettò un nunzio, accettazione che il re non aveva mai voluto consentire finchè durarono le differenze. Quanto a Venezia, col suo costume di andare a seconda, e bene persuaso che in quell'età male con gli anatemi si conseguivano i fini della Chiesa, lasciò portare la cosa al tempo. Quindi avvenne che i conventi si andarono negli Stati della repubblica spopolando, per modo che vicina se ne vedeva l'ultima fine. Passati tre lustri, il senato permise le vestizioni a sedici anni e le professioni a ventuno. Per prima risoluzione nelle cose di Parma, Ganganelli sospese l'effetto del monitorio, e ribenedì il duca. Della quale benigna sentenza diede subito notizia al re di Francia, con isperanza che Luigi il ritornasse in possesso d'Avignone. Ma così questo sovrano come gli altri della famiglia borbonica persistevano nel loro proposito, ancorchè il duca di Parma si sforzasse con ogni buon uffizio e diligenza di muoverli ad una intiera riconciliazione colla santa Sede. La cagione della loro renitenza era, ch'essi volevano la soppressione dei Gesuiti. Finalmente il papa avendo fatta nel 1773 questa gravissima deliberazione, Roma restò del tutto riconciliata coi principi; onde accadde (il che tutto vuol dirsi a compimento dell'incominciata narrazione) che nel mese di marzo dell'anno susseguente 1774, a ciò sempre confortando il duca di Parma, ella fu rimessa nella possessione di Benevento e d'Avignone. Le quali cose avvenute, si fecero grandi feste in Roma; cantossi solennemente l'inno delle grazie in presenza di tutti i cardinali, e la sera vi si ordinò una luminaria assai bella e magnifica, come sono tutte quelle che sogliono rallegrare una città quale Roma è, che così nell'alta come nell'umile fortuna seppe sempre tener grado e ritrarre di grandezza. Cotal fine ebbe il molesto litigio tra Roma e Parma, il quale, incominciato da deboli principii, portò poi con sè assai più gran soma che uomo credere avesse potuto. Non un altro litigio, ma un trattato tra la santa Sede ed il re di Sardegna, il cui fine era di tor via certi abusi, che avevano la loro origine nell'asilo dato ai malfattori ne' luoghi sacri, fu pur questa un'opera del buono e prudente Ganganelli, il quale era solito dire, nè senza contentezza, che alla perfine la Chiesa conserverebbe ciò che per diritto divino era suo, e perderebbe ciò che i potentati della terra le avevano dato, e che cagione per lei era di tante querele, di tanti risentimenti, di tante molestie, e così ancora di tanti scandali e discordie tra i fedeli: memorande parole, memoranda la sentenza! Benevola fu la volontà di Ganganelli verso il re Carlo Emmanuele, o piuttosto verso i suoi popoli; ma da quanto ancora restò degli abusi in materia di asilo, si potrà argomentare dell'enormità di quanto esisteva e dell'assurdità del principio sul quale la facoltà dell'asilo era fondata; imperocchè non solamente dannoso alla società, ma ancora empio e ridicolo sia il dire, che sia rispetto e venerazione verso la casa di Dio, ch'essa procuri sicurezza a chi meriti la galera o la forca, e divenga tana, donde i malfattori, come da luogo d'insidia, si avventino a rubare ed ammazzare gli onesti cittadini, ai quali lo Stato è debitore di sicurezza e di salute. Già sin dai tempi di Benedetto XIV si era aperta una pratica intorno agli asili tra il pontefice e il re, desiderando il principe di moderarne gli abusi, donde procedevano grandissimi sconcerti nel paese nè essendo meno desideroso il capo della Chiesa di rimediarvi. In fatti, Benedetto aveva già con sua istruzione mandata al cardinale Merlini, arcivescovo d'Atene, nunzio e ministro apostolico a Torino, moderato molte cose che all'uso di cui si tratta s'aspettavano. Ma, malgrado di tale moderamento, nascendo ancora inconvenienti di non poca importanza, di nuovo il re aveva richiesto la santa Sede, che a più efficaci risoluzioni devenisse. Questa pratica maneggiava in Roma il conte di Rivera quando, già morto essendo Benedetto, era Clemente XIII in sua vece stato al seggio pontificale assunto. Andava Clemente in questa faccenda assai più a rilento che il benevolo e facile suo predecessore; perocchè delle cose di questo mondo più colla pietà che colla prudenza giudicava. Ciò non ostante, il Rivera già l'aveva indotto ad utili concessioni, e si speravano maggiori moderazioni per viemmaggiormente facilitare il corso della giustizia, quando Clemente da questa vita n'andò ad abitare fra i più. Ripresersi i negoziati sotto Clemente XIV, i quali finalmente vennero a conclusione sul principiare dell'anno presente. Clemente decretò e pregò il re che fosse contento delle seguenti risoluzioni: Conciossiacosachè si veda che la principale cagione donde nascono gli abusi sia quella che gli uomini di mala vita si ardiscono di rizzare sulle antiporte, atrii e porticali delle chiese, tugurii, frascati, capannucce, baracche ed altre simili casucce ad uso non solamente di ricovero sicuro e stabile, ma ancora per serrarvi e nascondere armi d'ogni sorte, riporvi i frutti dei loro latrocinii, introdurvi femmine scandalose, uscirne ad assaltare i viandanti, ed impunemente commettere altri eccessi, donde risultano, e un grave pregiudizio della tranquillità pubblica, e la profanazione manifesta dei luoghi santi; resta comandato ai vescovi ed ai rettori delle chiese di far sgombrare incontanente dai detti antiporti e simili luoghi le baracche e casucce, tanto nocive al ben pubblico, quanto indecenti per la maestà dei templi; restando loro anche ingiunto d'impedire che nuove non vi s'innalzino; e se nuove si innalzassero, tosto abbiano cura che si demoliscano. Per maggiormente facilitare la necessaria purgazione di quest'infame genia, o diminuire almeno il numero delle loro nefandità, ordinò anche il pontefice che fosse facoltà ai vescovi di trasferire i rifuggiti da un asilo all'altro, e se i trasferiti abusassero una seconda volta dell'asilo, perdessero la protezione della Chiesa, e fossero arrestati dovunque si trovassero. E perchè i vescovi ciò fare potessero con maggior facilità, volle che non fosse necessario un regolare processo, ma solamente un atto di coscienza informata per trasferire un rifuggito da un asilo all'altro, stando però sempre fermo che per privarlo, in caso di recidiva, del beneficio dell'asilo, fosse richiesto il regolare processo. Dichiarò altresì che le cause di privazione di asilo per abuso fossero il rubar di nuovo, il nascondere i furti, il ricettare femmine di mala vita, l'insultare ed offendere i viandanti, il celare chiavi false, grimaldelli ed altri simili stromenti di ladri. Stante poi che alcuni delitti sono cotanto gravi che in niun caso debba chi commessi gli ha trovare ricovero e scampo ne' luoghi sacri, resta decretato, scrisse il pontefice, che, oltre i commettitori di delitti atroci già esclusi dall'asilo pei decreti dei precedenti pontefici, del beneficio dell'asilo in niuna maniera godere potesse chi pei principi forastieri soldati arrolasse, chi avesse falsificato il sigillo e le lettere apostoliche o regie, chi a mano armata rubasse cosa che per la somma, secondo le leggi comuni o municipali, meritasse la pena di morte, chi l'onore delle donne violasse, rapisse le oneste e non consenzienti. Atteso poi eziandio che per bolla di Clemente XII era stato assicurato l'asilo ai minori di vent'anni, allorchè commesso avessero omicidii atroci, e che da qualche tempo negli Stati del re si moltiplicavano per mano dei detti minori di età delitti di simil fatta, così il pontefice espresse la sua volontà che a tali giovani ricovero niuno fosse dato nei sacri luoghi, e se dentro vi si rifuggissero, tosto si consegnassero al braccio secolare, volendo e prescrivendo che per omicidii atroci s'intendessero il parricidio, il fratricidio, l'ussoricidio, l'assassinio per tradimento, l'assassinio a ghiado, o che insidia vi fosse o che non vi fosse, l'omicidio per rissa quando dopo la rissa trascorse fossero sei ore, o fosse brutale, e senza ragione suscitata si fosse dalla parte del delinquente la rissa. Finalmente abbiano i vescovi, Clemente statuì, facoltà di estrarre dall'asilo, e consegnare al braccio regio chi alcuno con pericolosa e mortale ferita offeso avesse, anche innanzi che ne fosse seguita la morte del percosso, con ciò però che se le ferite fossero state date per necessità di difesa o per caso fortuito, o se ancora il ferito non morisse nel termine prefinito dalle leggi, il reo dovesse venir restituito alla chiesa. Le quali lettere e disposizioni pontificie avendo il re ricevute, molto con lettere regie ringraziò il pontefice del suo volere condiscendente. Rimedio valido fu, ma non sufficiente. Quanto ancor rimase di queste franchigie della Chiesa per procurare asilo ai malfattori, recava ancora gravissimo danno, poscia che la mano della giustizia era in molti casi impedita dal ghermire chi lo meritava, ed in altri casi la prontezza del procedere, cotanto necessaria per reprimere e frenare i facinorosi, si cambiava in indugiamenti perniciosissimi. Oltracciò, gli ordini religiosi, pretendendo di non essere soggetti alla giurisdizione degli ordinarii, ed essendo l'esecuzione delle volontà del papa commessa ai vescovi, avvenne che i ribaldi si ricoveravano negli atrii delle chiese o nei chiostri dei conventi, dove, per non poter esser giunti dall'autorità vescovile, sicuri vivevano, e donde uscivano per rubare e per bruttarsi le mani di sangue. Così distrutta od almeno moderata una immunità, un'altra più forte e più pertinace sorgeva. Anno di CRISTO MDCCLXXI. Indizione IV. CLEMENTE XIV papa 3. GIUSEPPE II imperadore 7. Povero di avvenimenti si presenta quest'anno, e poche cose e di non grave importanza ne porge da ricordare. Giunto, alla metà d'ottobre, in Italia l'arciduca Ferdinando, sposossi nella metropolitana di Milano a Maria Ricciarda Beatrice d'Este: maritaggio che diede motivo a molte gioconde e liete feste. Ma quella che vogliam notare si è il matrimonio di trecento garzoni con altrettante donzelle per munificenza de' regi sposi celebrato nella basilica di Santo Stefano maggiore della detta città, con doti proporzionate al grado di chi le dava, e convitati tutti quanti a lauto banchetto, rallegrato dal suono di musici strumenti, ed illustrato dalla presenza de' benevoli arciduchi. A Parma, alcuni moti popolari richiamarono la vigilanza del duca. Arrestate molte persone di grado, ed anche ecclesiastiche, furono esiliate; in pari tempo un ducal editto comandava un raddoppiamento di forza armata a quiete della città, la dispersione de' gruppi d'oltre a sei persone, la ricerca e la punizione degli autori d'atti o discorsi sediziosi od insolenti. Intanto giunto in Parma, col titolo di consigliere di Stato del re di Spagna, il marchese di Liano, l'ottimo Dutillot, che da quasi vent'anni con altissimo senno regolava le bisogna del ducato, partì per Madrid prima che il presente anno cadesse, e di là poi recandosi in Francia, dov'era nato, poco tempo dopo terminò la gloriosa vita. Avviatesi in Corsica le cose alla franzese, non per questo sedaronsi gli animi, e travolto il primo intendimento, criminose rendevansi le fazioni, tanto contro i Franzesi occupatori del paese quanto contro gli stessi compatriotti, cui i facinorosi percuotevano con omicidii, saccheggi e disordini d'ogni fatta. Il governo franzese, che vedeva la somma difficoltà di guadagnare a sè una nazione non punto concorsa a prendersi in collo il giogo del suo dominio, nulla pretermise per rendere men gravi le catene, e tutte le vie cercava di ridurre l'isola ad uno stato di qualche calma. Trasportato in Corsica non picciol numero di famiglie franzesi, principalmente ne' luoghi che per le vicissitudini e pel lungo durar della guerra aveano ad un tempo perduto gli abitatori ed i coltivatori delle terre; eretti nuovi villaggi; accomodate le strade principali; aggiunte nuove fortificazioni a Corte, all'isola Rossa, e migliorate quelle d'Aiaccio e di altre piazze forti, sempre munendole di buoni e numerosi presidii; tra queste e altre simili provvidenze, e più di tutto per mezzo di quella efficacissima insinuazione che deriva dall'assoluta ed invincibile necessità, cominciò a vedersi nell'isola quella quiete che da molti anni n'era sbandita. Anno di CRISTO MDCCLXXII. Indizione V. CLEMENTE XIV papa 4. GIUSEPPE II imperadore 8. Si sono precedentemente vedute le diverse mosse che Clemente XIV dava per corrispondere con opportuna condiscendenza ai desiderii d'una gran parte de' principi cattolici. Ma il più duro scoglio che superare si dovesse per metter pace tra il sacerdozio e il principato e far tornare amici i rappresentanti della potestà secolare era severamente la controversia intorno a' Gesuiti. Instavano acerbamente i principi per la soppressione; e siccome diffidavano della corte romana, così sospettavano, non già che Ganganelli li favorisse, che anzi sapevano che li disfavoriva, ma che per qualche fine più nascosto amasse di tirare il negozio in lungo, e forse di farlo dileguare per istanchezza. Quando Monino di Spagna, Almada di Portogallo, Bernis di Francia, Orsini di Napoli incalzavano, soleva rispondere che il lasciassero pur fare; che il negozio era grave, e il volea considerare maturamente; ch'egli era il padre comune de' fedeli, soprattutto dei religiosi; che non poteva distruggere un ordine di tanta fama nel mondo senza avere ragioni che appresso a tutti i fedeli, e massimamente appresso a Dio, il giustificassero. Debole conforto aveva la combattuta compagnia nel patrocinio del re di Sardegna, già per mortale infermità vicino a lasciare questo mondo; poichè intanto nello Stato romano a molti segni si conosceva che il pontefice aveva la mente avversa da' Gesuiti, e come si approssimasse la loro ultima fine. Ganganelli non amava di vederli, nemmeno di salutarli, quando incontrati gli facevano riverenza. Erano loro negate le udienze, e le decisioni favorevoli s'indugiavano, le contrarie si affrettavano. Il seminario romano retto da' Gesuiti a Frascati, conservatorio magnifico, ma allora indebitato, fatto prima esplorare da tre visitatori, che aspramente ed alla traversa fecero l'ufficio, restò poscia soppresso, tempo un mese per ritirarsene ai padri, e data licenza ai pensionarii ed agli studenti di andarsene. Presesi anche possesso a nome del papa del sontuoso palazzo ch'essi avevano a Tivoli, e che si apparteneva al medesimo seminario. L'argenteria e gli altri mobili preziosi dati in custodia ai monti di pietà, vendute intanto le provvisioni. Oltre il seminario, i Gesuiti possedevano in Frascati un collegio, al quale, perseverando Clemente nel medesimo rigore, toccò la medesima sorte che al seminario. Già presaghi di quanto doveva avvenire, non accettavano più novizii, e non vestivano gli accettati. Si trattava di tor loro a Loreto l'uffizio di penitenzieri che esercitavano; perchè s'erano conceputi sospetti, e si temeva che volessero far sorgere umori torbidi contra ciò che si andava preparando. Rigide commissioni furono date al cardinale Malvezzi arcivescovo di Bologna, e rigido esecutore trovarono. Visitò per ordine supremo del papa i collegi della compagnia in tutta la diocesi; non ne fu contento e non voleva essere. Biasimò gli studii, biasimò la disciplina, molte cose trovò in disordine. Sospettò delle confessioni, sospettò degli ammaestramenti, prese risoluzioni conformi ai sospetti. Sospese gli esercizii de' Gesuiti nelle feste di Pasqua, chiuse le scuole, serrò, portandone le chiavi, tutte le congregazioni che da loro prendevano regola e norma. Nè ciò bastando, vennero da Roma nuovi ordini: che il rettore della casa di Bologna mandasse incontanente alle loro famiglie tutti i Gesuiti della diocesi, eccettuati solamente quelli che avevano fatto il quarto voto, e che nissun convento li potesse ricevere sotto pena di scomunica; che fosse proibito a' Gesuiti d'insegnare il catechismo in pubblico, proibito d'addottrinare nelle chiese, proibita l'assistenza ai prigionieri, proibiti il ministerio dell'ordine di San Gabriele e gli esercizii di Sant'Ignazio. Nè qui ancora si terminarono le tribolazioni di Bologna. I Gesuiti novizii, cacciati dalla città, eransi riparati alla campagna nel seminario vescovile. Fu intimato a quelli dello Stato veneto che svestissero l'abito gesuitico; la qual cosa ricusando essi di fare, arrivarono soldati che gli sforzarono. Gli altri, o maestri o allievi, mandati chi a Modena, chi altrove. Compiti i rigori, vennero le angherie. Ciò con dannabile consiglio, perchè vestiva la sembianza di persecuzione e di cupidità. Male in queste cose si mescola la gola del fisco; ma la camera apostolica era inesorabile quando di denaro si trattava. Malvezzi domandò al collegio gesuitico di Santa Lucia mille scudi per le spese della visita. I Gesuiti supplicarono al papa perchè giustizia facesse e temperasse i rigori dell'arcivescovo. Ne venne aspra e minacciosa risposta. A Ferrara le medesime cose successero per ordine di Roma e per opera del Cardinal Borghese. La tempesta soffiava contro gl'Ignaziani in tutto lo Stato romano. A Roma stessa continuavano a precipitare, rigidezza vi si usava contro i pericolanti padri. Si vietò loro l'accesso al monastero di Santa Maria dei Funari, a cui si trovava annesso un ospizio di zitelle fondato da Sant'Ignazio: ne avevano la direzione spirituale; il papa sospettoso ebbe per bene che fosse loro tolta. Quantunque Clemente da lungo tempo si fosse prefisso nell'animo di far fine alla compagnia, tuttavia, acciò non si credesse ch'egli facesse un giudizio precipitoso, o venisse per filo e per timore dei principi ad un atto tanto solenne, aveva ormai tre anni temporeggiato. Creò anzi, per dimostrare di voler considerare la cosa con maggiore diligenza, una congregazione di cinque cardinali, Zelada, Casali, Caraffa, Corsini e Marefoschi, con ordine di bene pesare le cose e a lui fedelmente riferirle. Anno di CRISTO MDCCLXXIII. Indiz. VI. CLEMENTE XIV papa 5. GIUSEPPE II imperadore 9. Finalmente il Vaticano fulminò. Il dì 21 di luglio del presente anno vide distrutta l'opera di Paolo III, le radici di più di due secoli svelte; tante magnifiche fonti d'istruzione e di educazione nei due mondi chiuse; tante ricchezze in mani aliene mandate; la più forte milizia di Roma annientata e dispersa; ma vide ancora, e il disse un papa, la cui sentenza ognuno doveva e deve credere ed avere per irrefragabile ed inappellabile, vide, si dicea, la cessazione di non pochi disordini, e la pace del sacerdozio coll'impero. In quel dì, 21 luglio, fatale pei figliuoli d'Ignazio, papa Clemente XIV dalla suprema cattedra l'atta sentenza pronunziò, con acconce parole al mondo favellando. Molte cose essendogli state addotte ed avendo discusse, il santo padre, per aiuto, come disse, e per ispirazione del divino Spirito, e spinto così dalla necessità del proprio uffizio, come dal rispetto che aver dovea alla tranquillità e quiete dalla cristiana repubblica, persuaso inoltre che, la società di Gesù non poteva più partorire quei copiosi frutti pei quali era instituita, convinto eziandio che finchè ella esistesse, pace nella Chiesa nè vera nè lunga essere potrebbe, mosso finalmente ed incalzato da cagioni che le leggi della prudenza all'ottimo governo della Chiesa universale somministravano, e cui nel cuor sepolte profondamente serbava, pronunziò che fosse estinta e soppressa la sopraddetta società di Gesù; che fosse soppresso ed abrogato ogni suo ufficio, ministerio ed amministrazione, ogni casa, ogni scuola, ogni collegio, ogni ospizio e luogo qualunque, in qualunque provincia, reame o dominio si trovassero; che fossero abrogati ed annullati i suoi statuti, regole, pratiche, decreti, costituzioni, anche quelli che per giuramento, autorità apostolica o altrimenti confermati fossero; che fossero egualmente annullati e cassi tutti e ciascun privilegio e indulto sì generale che speciale, e cassi ed annullati s'intendessero, e come se nel presente suo breve a parola per parola fossero inseriti, e qualunque fossero d'altronde le formole, la clausole, i decreti, in cui si contenessero o come fossero concepiti. Per la qual cosa, seguitò ordinando, volle e decretò che fosse estinta per sempre ogni autorità del generale dei Gesuiti, dei provinciali, dei visitatori e di qualsivoglia altro così nello spirituale come nel temporale; che ogni loro giurisdizione ed autorità fosse intieramente negli ordinarii trasmessa; che fosse alla società proibito il ricevere novizii e il dare l'abito; che quelli che fossero accettati, ai voti nè semplici nè solenni essere non potessero ammessi; che i presenti novizii fossero incontanente e senza alcun indugio licenziati; che per nissun titolo o privilegio o ragione coloro che già con voti semplici fossero astretti, ed a niun sacro ordine iniziati, esser non potessero agli ordini maggiori promossi. Decretando la soppressione della compagnia, il santo padre non omise di statuire quanto agl'individui riguardasse: che coloro, sentenziò adunque, i quali fossero solamente vincolati dai voti semplici, e non entrati negli ordini sacri, si intendessero pienamente liberati dal vincolo dei voti, e rientrassero nel secolo per fare quella vita che alla loro vocazione, forze e cognizioni di sè medesimi meglio convenisse; ma quelli che già fossero stati promossi agii ordini sacri, o entrassero in qualche ordine approvato dalla santa Sede, o nel secolo vivessero come semplici preti o cherici, ben inteso però che tenuti fossero all'obbedienza e sottomessione intera e totale verso gli ordinarii de' luoghi; quando poi alcuno di costoro non fosse provveduto d'alcun benefizio, se gli assegnasse, sulle rendite della casa o collegio che abitava, un onesto sostentamento. Quanto a quelli fra i professi e promossi agli ordini sacri, i quali d'onesto sostentamento non fossero provveduti, o niun luogo avessero che potessero eleggere per domicilio, o per età, o per salute inferma, o per qualche altra giusta e grave scusa, opportuno non istimassero lasciare la casa o collegio della società, potessero restarvi, con ciò per altro che in nissuna maniera potessero ingerirsi nell'amministrazione della casa o collegio, vestissero l'abito dei cherici secolari, ed intieramente si sottomettessero all'ordinario del luogo; con ciò però eziandio che non mai in nissun caso confessare potessero e predicare a quei di fuori. In ordine poi a quelli che come preti secolari vivessero nel mondo, i vescovi, conosciuta la loro capacità e bontà di costumi, potessero o investirli o privarli della facoltà di confessare e predicare. Se poi alcuno fra i soppressi padri imprendesse ad insegnare la gioventù, o di qualche collegio divenisse maestro o di qualche scuola, sì il potesse fare purchè non s'ingerisse del governo ed amministrazione della casa, ed alieno di dimostrasse da quelle dispute e dottrine, da cui solevano nascere gli odii, le discordie e le turbazioni. Annullati e cassi nel modo sopraddetto gli stati e privilegii della società, Clemente dichiarò volere che quelli fra i socii che come preti eletto avessero il vivere nel mondo, godessero di tutti i benefizii e prerogative che appartenevano ai loro consimili, non mai stati astretti a vita claustrale fra la società. Comandò poscia a tutti ed a ciascuno dei Gesuiti soppressi, e così a' cherici tanto regolari quanto secolari, che non mai senza licenza del pontefice romano si ardissero parlare o scrivere nè della soppressione nè delle forme, regole, costituzioni e governo dell'annullata società, e nei medesimo tempo proibì a tutti ed a ciascuno di offendere, per occasione della soppressione, sotto pena di scomunica o in voce o in scritto, o nascostamente o palesemente, con ingiurie, soprusi, villanie, beffe, scherni, o qualunque altra maniera di disprezzo qual si volesse persona, molto meno gli antichi membri della compagnia. Raccomandata in ultimo luogo la pace a tutti, e domandato a' principi cristiani il braccio forte per l'esecuzione della sua volontà nella bolla della soppressione espressa, il pontefice protestò volere che essa sortisse il suo pieno ed intero effetto, non ostante tutte le costituzioni ed ordinazioni apostoliche, anche quelle che dai concilii generali emanate fossero, non ostante ancora la regola dell'irrevocabilità del diritto acquistato e qualunque altro statuto, pratica, privilegio e concessione fatta o data, alle quali tutte egli derogava, e voleva che si avessero per nulle e di niun valore, e se come mai state non fossero date o fatte. Per maggior cautela poi e sicurezza che quel che ordinato avea puntualmente si eseguisse, diede l'autorità dell'esecuzione alla congregazione dei cinque cardinali e dei due prelati antecedentemente già nominati, volendo che in via sommaria e senza contestazione o forma o giudizio, anche per mezzo dell'inquisizione, procedessero contro le persone di qualsivoglia stato, grado, qualità e dignità fossero, le quali ritenessero, serbassero o celassero libri, scritture, mobili o suppellettili qualunque che alla soppressa società si fossero appartenute. E potessero anche obbligarle a svelare le nascoste cose colle censure ecclesiastiche, e con tutt'altra pena, con cui piacesse alla congregazione di castigarle. Per tal modo l'edifizio innalzato da Paolo III fu demolito da Clemente XIV. A queste deliberazioni seguitarono ferme esecuzioni. Ai 16 d'agosto, in sul far della notte, i prelati Macedonio e Alfani, membri della congregazione più sopra accennata, andarono alla casa professa del Gesù; il prelato Sersale al collegio romano di Sant'Ignazio; il medesimo prelato Alfani al noviziato di Sant'Andrea; l'avvocato Zacheri, prosegretario della congregazione dei vescovi e regolari, alla penitenzieria di San Pietro; l'avvocato Dionigi, auditore del cardinale Caraffa, all'ospizio dei Portoghesi in Trastevere; il prelato Archetti, al Collegio germanico; il prelato Riganti al collegio greco; il prelato Passionei al collegio scozzese; l'abbate Foggini, teologo del cardinal Corsini, al collegio degl'Inglesi; finalmente il prelato Della Porta al collegio maronita: gli accompagnavano compagnie di soldati corsi. Occupatisi dai soldati tutti gli aditi, e postisi tanto dentro quanto fuori delle nominate case, ciascun prelato deputato, assembrati e chiamati in cospetto loro i religiosi della comunità, lessero loro per bocca di notari, che seco loro avevano condotto per questa bisogna, le lettere del mandato, di cui erano dal pontefice investiti, poscia la bolla che l'istituto sopprimeva. Quindi procedettero a mettere i sigilli su gli archivii, sulla ragioneria ed altri depositi o d'argenterie o di provvisioni. Le quali cose fatte ed eseguite, i deputati se ne andarono, lasciando sul luogo i soldati, affinchè i sigilli si conservassero intatti e fermi, ed i religiosi guardassero. Il giorno seguente i religiosi soppressi cessarono le loro scuole ed ogni altra funzione. Le loro chiese furono chiuse, eccetto quelle del Gesù, di Santo Apollinare, in cui furono posti ad ufficiare cappuccini, minori osservanti e preti secolari, con proibizione di farlo essi Gesuiti pubblicamente, e nemmeno di farsi vedere nelle sagrestie. Il medesimo giorno essendosi adunata la congregazione dei cinque cardinali negli appartamenti della Rota al Quirinale, mandò ordine che il padre Ricci, superiore generale dei Gesuiti, fosse trasferito dalla casa professa al collegio inglese: il quale ordine fu messo ad esecuzione la sera, condotto e scortato il Ricci dai soldati al luogo destinato in una carrozza del cardinale Corsini, il quale, siccome persona di bontà, nè troppo avversa ai Gesuiti, il dimane gli mandò offerendo cioccolato, caffè ed altri simili delicature di cibi. A tale umile stato era ridotto un uomo che poc'anzi reggeva una compagnia ricchissima e potentissima in tutte le provincie cristiane dei due mondi, e che nato egli medesimo in una famiglia per antichità, per dignità e per beni di fortuna risplendente, ogni altra cosa piuttosto doveva augurarsi, che questa di dovere cibarsi dei cibi altrui. Dopo tre mesi poi venne, per le imprudenze di alcun suo amico servato in castel Santo Angelo. Gli assistenti del generale furono anch'essi dalla forza soldatesca sostenuti chi in una casa, chi un'altra. Ancorchè la bolla della soppressione de' Gesuiti fosse da tutti aspettata, poichè non s'ignoravano nè le istanze de' principi, nè che il papa già da lungo tempo biecamente li guardava, nè gli atti rigorosi che erano stati usati contro di loro nelle principali città dello Stato ecclesiastico, fu ciò, non ostante, con molta maraviglia e quasi stupore in Roma ricevuta. Alcuni avevano creduto che il papa non si sarebbe osato di dare un così gran passo, e di venire ad una tanta deliberazione, che stimavano poter riuscire di grave pregiudizio alla santa Sede. Altri si erano persuasi che si sarebbe trovato per ripiego, siccome n'era corso voce, di riformare solamente la società, non di estinguerla. Non si sa per quale proposito, ma certo è bene che il ministro di Spagna aveva in ultimo scritto alla sua corte pregando che della riformazione si contentasse. Ma era venuta risoluta risposta, che attendesse pure alla soppressione, e d'altro non gli calesse, perchè sapeva bene il re quel che si faceva. Ora in quella Roma solita a fare ed udire tanti discorsi sulle operazioni dei papi, si parlava diversamente, e secondo i diversi umori della deliberazione di Ganganelli. Chi le era contrario e per amore de' Gesuiti parlava, andava facendo varii commenti, ed aspre parole a pensieri aspri annestava. Dall'altra parte i difensori del papa non tacevano, nè i loro discorsi erano meno acerbi di quelli degli avversarii. Lungo sarebbe il riportare il molto che fu detto, ridetto e contraddetto in Roma, poi negli altri paesi intorno alla soppressione dei Gesuiti. Intanto per ogni luogo si andava sfasciando l'edifizio da papa Paolo eretto. I principi cattolici accettarono la bolla di Clemente quanto alla soppressione; ma rispetto ai beni della compagnia, che il papa aveva desiderato che si applicassero ad opere pie ecclesiastiche, i sovrani dichiararono che vi mettevano su la mano regia, e ne avrebbero fatto quell'uso che più vantaggioso avrebbero stimato allo Stato ed alla religione. Fecero anche qualche riserva in ordine a quelle clausole della bolla che contrarie fossero ai diritti della sovranità ed alle leggi ed usi del paese. Nominatamente la repubblica di Venezia aveva bensì accettato la bolla, ma colla condizione che fosse salva in tutto la condizione dei vescovi, salvi i diritti sovrani, le leggi ed il costume della repubblica, ed esclusa intieramente la comminatoria della scomunica. Il decreto del senato investì il patriarca della facoltà di eseguire il breve, quanto alla parte spirituale, con ciò però che nulla facesse senza l'assistenza di un senatore delegato. Volle altresì che il senatore prendesse possesso dei beni gesuitici a nome della repubblica, che si usasse ogni dolcezza coi religiosi soppressi, e che agli altri ecclesiastici si anteponessero così per le messe quotidiane come per gli altri esercizii spirituali. Parimente i serenissimi collegi di Genova s'impadronirono per decreto espresso di tutti i latifondi, di tutti i mobili ed immobili, di tutte le rendite, di tutti i capitali in oro ed argento, vasellame, libri, vasi sacri ed ornamenti che ai Gesuiti appartenevano, o di cui godevano, e così pure delle loro case, collegi e chiese che esistevano o fossero per esistere negli Stati della repubblica, ordinando ad una deputazione composta di tre senatori e quattro nobili di prenderne reale ed effettivo possesso, e di usare a questo fine tutti i mezzi che sarebbero necessarii. Allo stesso modo adoperarono gli altri sovrani d'Italia; il re di Napoli specialmente con molta condiscendenza verso la volontà del pontefice, il re di Sardegna con qualche amaro motto verso il breve, non perchè della soppressione non si soddisfacesse, ma per la disposizione del papa di voler dare una destinazione determinata ai beni dei religiosi soppressi, parendogli, come a Venezia ed a Genova era paruto, che ciò toccasse le prerogative della sovranità temporale. Già regnava in quel momento sul Piemonte, in luogo di Carlo Emmanuele III, morto ai 20 di febbraio del corrente anno, il suo successore e figliuolo Amedeo III. In ogni parte ebbe luogo l'umanità verso i vietati padri, nè soggiacquero ad altri rigori, se non quelli che derivavano dal tenore stesso della bolla. Solamente nella Valtellina, come prima vi si ebbe notizia della bolla di soppressione, il popolo si sollevò a furore, e li cacciò via con grida e minacce, mettendo anche a sacco i loro beni, case, chiese e collegi. Nella Germania cattolica il breve ebbe facile esecuzione, se si eccettui la città di Augusta, di cui il principe vescovo scrisse a Clemente, esservi i Gesuiti giudicati necessarii per utilità della religione, e però il pregava di contentarsi che seguitassero a vivere in comunità. Il papa non se ne soddisfece, e, maneggiando il negozio con prudenza, ottenne finalmente quel che desiderava, ed Augusta uniformossi al breve. Ma la volontà del pontefice diede in intoppo nella Slesia per l'opposizione del re di Prussia. Eranvi in quella provincia Gesuiti, a cui era commessa l'educazione della gioventù cattolica. Il re non volle che il breve vi fosse mandato ad effetto, e conservò que' padri nella direzione delle scuole con salvezza de' loro beni, case e collegi. Tra le ricerche fatte con estrema diligenza tanto da' commissarii apostolici in Roma quanto da' deputati de' principi nelle varie provincie d'Europa, e la minaccia della scomunica contro chi ritenesse le proprietà de' Gesuiti, non poche ricchezze si rinvenirono in arnesi, gioie, vasi così sacri come ad uso mondano, ed altre masserizie di gran valore. Rinvennesi eziandio una certa quantità di denaro contante; ma questa parte non riuscì all'aspettazione universale, essendosi ritrovata di gran lunga minore delle enormi somme che nelle riposte gesuitiche od in conservo presso i loro banchieri gli uomini si erano dati a credere essere accumulati; conciossiacosachè fosse voce che occultato avessero e messo in salvo più di ducentocinquanta milioni di franchi. Noi abbiamo di sopra accennato siccome al 20 di febbraio del presente anno il re Carlo Emmanuele III di Sardegna aveva abbandonato la vita, correndo l'anno settuagesimo secondo della sua età. Guerriero abile, amministratore diligente, principe d'ottimo costume, sarebbe per ogni parte da lodarsi, se in certe cose anche buone il volere far troppo non si voltasse in vizio. Lasciò del suo regno memorie notabili. Oltre ad altri benefizii, la Sardegna riconosce da lui la fondazione delle due università di Cagliari e di Sassari; e se da lodarsi era il pensiero di aprire que' fonti di utili sussidii in una contrada che molto abbisognava, ugualmente da lodarsi fu il modo con cui fu mandato ad effetto. Assegnaronsi ai professori emolumenti ragguardevoli per que' tempi, e sotto un principe piuttosto scarso che assegnato nello spendere, non furono certamente di poco momento. Fecesi diligente ricerca de' migliori e più dotti uomini, tanto nazionali quanto esteri per condurli ad insegnare nelle due novelle università. Si ordinò una buona disciplina per gli studenti, un acconcio metodo d'insegnamento per le scuole, una conveniente norma pegli studii. La Sardegna a nuova vita scientifica e letteraria sorgeva, e si rendeva manifesto che quell'antica terra era anch'essa feconda di felici ingegni. Giambattista Simon arcivescovo Turriano, Giannantonio Cossù, Giuseppe Cossù, Francesco Carboni, Francesco Maria Corongiù, Salvatore Mameli, Giuseppe Valentino, ed i Cetti ed il Gemelli, con molti altri, le scienze e le lettere nella famosa e per troppo lungo tempo dagli Spagnuoli negletta isola nobilitarono. Nè devesi defraudare della meritata lode il re per aver dato un migliore ordinamento ai monti frumentarii, o granatici, come si chiamavano in Sardegna, che per opera delle antiche corti, cioè assemblee generali degli Stati, avevano avuto principio. Erano questi monti frumentarii depositi destinati a sovvenire, accomodandoli per via di prestanze gratuite o di modico interesse di denari, gli agricoltori che da per sè non potevano, per mancanza di fondi, sementare le terre. Ma siccome avviene nelle umane istituzioni, anche le migliori, o per difettive ordinazioni sul principio o per abusi nel progresso, questi repositorii non corrispondevano più alle intenzioni de' fondatori, e si erano deviati dall'uso e dall'utile per cui stati erano istituiti. Per ritirare verso il suo principio una instituzione utilissima in un paese dov'erano ancora molte terre incolte, ordinò il re, cui erano ministri o consiglieri un Bogino, un Lodovico Costa della Trinità, un Vittorio Lodovico des Hayes, ordinò, a ciò movendolo principalmente la sentenza del Costa, che in ciascun luogo, per ristringere le cose sotto uniforme regola, vi fosse un magistrato d'uomini eletti così fra gli ecclesiastici come fra i laici (pensiero accomodato, perchè gli uni e gli altri avevano antichi diritti), i quali il locale monte avessero in governo; e perchè l'amministrazione con norma certa ed ordine stabile procedere potesse, per la ordinazione medesima furono statuiti i doveri di ciascuno, e le forme del governare, ed il modo dello spartimento de' frumenti, della riscossione de' crediti, del rendimento delle ragioni. Di grado in grado, affinchè più occhi la medesima cosa guardassero, salivano gli ufficii; in ogni diocesi fu creato un magistrato diocesano, al medesimo modo composto di ecclesiastici e di laici, ma dal vescovo presieduto, datagli la cura d'invigilare sui magistrati locali. Si fece poi provvisione che gli uni e gli altri, cioè ed i magistrati locali ed i diocesani, sopravvegliasse un magistrato supremo, che in Cagliari sedeva, ed a cui furono chiamati i principali uffiziali della corona, le prime voci d'ogni stamento ed altre persone che per zelo dimostrassero avere graziosa volontà verso i monti, e per pratica sapessero giovarli. Al buon pro loro usaronsi eziandio le servitudini, e ad opportuni ordini corrisposero conformi effetti. Diedesi con molto zelo opera ai lavori gratuiti comandati da chi per feudalità di chiesa o di spada ne aveva il diritto, i magistrati sopra i monti con ardore ed intelligenza li disponevano, accrebbersi i capitali, diminuissi il merito delle prestanze, con maggiore agiatezza vissero i coloni, molte terre, per lo innanzi sterili ed infeconde, divennero fertili e fruttifere, e produssero in pro della meglio amministrata isola copia d'ogni buona sostanza. Tanto potè una buona volontà regolata da buon giudizio! Moltiplicossene la popolazione della Sardegna, onde si può affermare che Carlo Emmanuele sia stato il più provvido e benefico sovrano che da molti secoli indietro ella avuto avesse. Carlo Emanuele non era uomo da lasciarsi trasportare dal secolo, posciachè i pensieri proprii non con istraniere forme, ma da sè formava; e nemico era di qualunque novità che non gli fosse paruta utile e buona per ogni parte. Ingegno molto riflessivo aveva, tanto forse eccessivo nella prudenza, quanto lontano dalla temerità. Tardo era nel determinare, tenacissimo nella cosa deliberata. Giusto era, e delle feudali cose sanamente pensava; ma, lento nel toccarle per timore di scrollare l'edifizio sociale di cui erano parte; pure si mosse. Erano in Savoia le mani morte a guisa dell'antico reame di Borgogna, di cui il primitivo dominio della casa di Savoia fu membro. Queste mani morte, ch'erano di due sorti, o delle terre o delle persone, ei regolò primieramente nel 1762, senza troppo conseguire il fine che desiderava, e poi definitivamente nel 1771, con grandissimo utile degli uomini e delle cose. Lodano alcuni Carlo Emanuele per aver dato miglior sesto alle costituzioni de' suoi Stati, opera già incominciata da suo padre. Certamente egli è in ciò da lodarsi, perchè ne risultò maggiore uniformità nell'amministrazione e nella giustizia, ma è da biasimarsi di non aver cancellato da que' codici i vestigii dei tempi barbari che non in picciol numero li contaminavano, massime circa lo stato delle persone ed i processi e giudizii criminali. Per essi si vedeva che le dolci dottrine che accennavano a miglioramenti nel governo dei principi verso i popoli, principalmente negli ordini giudiziali, poco o nulla avevano ancora penetrato, nè udite erano in piazza Castello della nobile e generosa Torino. Crudo non era punto Carlo Emmanuele, ma la tenacità della sua natura il teneva ch'egli quelle riforme, anche salva l'autorità regia, nelle leggi operasse che non che l'umanità, ma ricercavano ancora la giustizia e la religione. Già nei vicini regni e nei lontani un più benigno influsso andava consolando gli uomini, ed a migliori speranze chiamandoli; il Piemonte, a guisa delle rocche che il circondano, immobile durava, nè mostrava d'inchinarsi ai piacevoli venti. Già un Luigi, due Ferdinandi, un Giuseppe, un Leopoldo le condizioni degli uomini da loro governati ammollivano, ed a benefiche voci prestavano le orecchie; ma Carlo Emmanuele ai generosi esempi poco si moveva, quasi unicamente contento al travagliarsi intorno all'amministrazione, nella quale certamente molto valeva. Gli studii si fomentavano, purchè non uscissero da un disegnato e stretto cerchio. Nissuna vita nuova, nissun impulso, nissuna scintilla d'estro fecondatore; un aere grave pesava sul Piemonte, e i respiri impediva. Lo stesso vivere tanto assegnato del principe faceva che la consuetudine prevalesse sul miglioramento, e che nissuno dall'usato sentiero uscisse, ancorchè più facili, più utili e più dilettevoli strade di sè medesime facessero mostra in luoghi vicini. Dai duri lidi fuggivano Lagrange, Alfieri, Denina, Bethollet, Bodoni, e fuggendo dimostravano che se quella era per natura una feconda terra, aveva un gretto agricoltore. Carlo Emmanuele e Bogino si martorizzavano sui conti, e le generose aquile, sdegnose di quel palustre limo, a più alti e propizii luoghi s'innalzavano. Francia, Italia, Inghilterra, Prussia i nobili rampolli accoglievano, ed essi sopra alieni campi fruttificavano: Luigi Federico, Ferdinando, Leopoldo pagavano il debito di Carlo Emmanuele e del suo successore. Tuttavia è da terminarsi quanto di Carlo Emmanuele fu detto colle parole che un valente scrittor franzese, il signor Mimaut, antico console generale di Francia in Sardegna, lasciò in una Storia che ai giorni nostri pubblicò di quell'isola, riportandole quali le ha, nelle sue storie, tradotte il chiarissimo Botta: «Se mai tempo felice e prospero fuvvi per la Sardegna, certo fu quello del regno di Carlo Emmanuele III. Fu questo principe, succeduto a suo padre nel 1730, il migliore ed il più grande re che la casa di Savoia illustrato abbia. Ei godrà nella memoria degli uomini di una gloria tanto più pura, quanto che per benefizii e per virtù se l'acquistò, e per le sue fatiche a niun'altra cosa mirò che alla felicità de' suoi popoli. Non isfuggì a quest'eccellente principe, cui guidavano i savii consigli del conte Bogino, suo primo ministro, uno dei più abili statisti del tempo, suo Sully e suo Colbert, di quanta importanza per lui fosse la possessione di un'isola pur troppo dai suoi antichi signori avuta in non cale; perciò egli con più particolare amore amolla e coltivò.» Non così tosto il re Carlo Emmanuele era passato da questa vita all'altra, che il re Vittorio Amedeo, suo successore, si era con tutta la famiglia condotto alla Veneria, donde non ritornò a Torino se non dopo alcuni giorni; ma prima che vi giungesse, aveva mandato pel cavaliere di Morozzo, ministro degli affari interni, domandando al Bogino che dismettesse la carica di ministro della guerra e di Sardegna, conservatogli però lo stipendio e le pensioni di riposo; della quale carica fu investito il conte Chiavarina, segretario del gabinetto del re. Il marchese di Aigleblanche, della casa di san Tommaso, fu chiamato ministro degli affari esteri con soprantendenza degli archivii. Gli fu, dopo alcun tempo, surrogato il conte di Perone, e il conte Corte fu chiamato ministro degli affari interni in cambio del Morozzo. Il cardinale delle Lance, uomo di un fare generoso e grande, ma delle prerogative di Roma zelantissimo, il quale grande elemosiniere della corona era, domandò licenza, e l'ebbe, ed in suo luogo fu sostituito il Rovà, arcivescovo di Torino. Anno di CRISTO MDCCLXXIV. Indiz. VII. CLEMENTE XIV papa 6. GIUSEPPE II imperadore 10. Godeva il papa anzi prospera salute che no; poichè e di complessione robusta era, e le sue naturali forze non erano state consumate da vita intemperante e licenziosa; che anzi era sempre vissuto assegnato e parco, siccome a' suoi moderati desiderii si confaceva. Per tal modo si andava avanzando verso la più vecchia età, quando in uno di quei giorni della settimana santa del corrente anno, dopo di aver pranzato, si sentì in un subito una commozione nel petto, nello stomaco e nel ventre, come se compreso fosse da un freddo interno. Ne restò con istupore, essendo cosa insolita; ma pure, siccome quello che d'animo forte e costante era, attribuendo quell'insulto di male a caso fortuito, si riebbe, e a poco a poco si rasserenò. Tuttavia fu principio di un'infermità che era per rompere il filo della sua vita; imperciocchè gli si cominciò ad arrocar la voce, e per questa ragione, stimandosi che fosse afflitto di catarro, fu deliberato che per la cappella che dovevasi tenere nella basilica di San Pietro il giorno di Pasqua se gli mettesse un capannone o bussola per ricovero nel sito della cappella. Precauzione inutile, perchè gli si vide dopo alcuni giorni infiammata la bocca e la gola, quindi seguitare vomiti interrotti, ed eccessivi dolori nel ventre; le orine gli si impedirono, gli s'infievolirono le gambe, perdeva le forze, ed ogni giorno più si rendeva manifesto che il suo mortale corpo si andava disfacendo. Mormoravasi che di veleno si morisse. Forse egli stesso sel credeva, tanto era stato subito il male, e tanti erano i sospetti che regnavano. Certa contadina del paese di Valentano, Bernardina Beruzzi, che altri chiamavano Peronchini, famosa profetessa, aveva predetto la morte del Ganganelli ad insistito sulla predizione, come se esser dovesse effetto d'una trama. Ganganelli non era uomo da lasciarsi spaventare da simili baie fatte per dar pasto agli sfaccendati su per i trivii e su per le piazze, e Bernardina teneva in quel concetto che meritava, cioè di una sciocca o d'una furba. Ma da un'altra parte, conoscendo quanto sotto dolci spoglie certa gente nascondesse d'odio e di vendetta, provvedeva a sè medesimo, e la propria salute con tutti i mezzi più prudenti procacciava. Scrissero che furongli trovate pillole contro i veleni. La vitale forza interna mancava, stante che un umore litigginoso, ch'era solito sfiorirgli alla pelle, quell'anno non uscì. Già la morte si avvicinava. Successe un po' di calma, come suole avvenire poco innanzi che l'uomo sia venuto all'ultimo confine della vita, come se Dio avvertire volesse i mortali di pensare ai fatti loro in quell'estremo momento. Già i famigliari si rallegravano, come se il loro signore a sanità tornasse. Ma la calma era preceditrice della morte. Ricomparirono in un subito i funesti segni, e la mattina de' 22 settembre Ganganelli esalò la forte anima, rendendola a colui che gliel'aveva data. Fu sparato il cadavere. Trovaronsegli lividori nelle intestina, la pelle ancor essa illividita ed in alcuni luoghi nera; tutta la salma rendeva un fetore insopportabile. Crebbero i romori che il santo padre fosse stato avvelenato, non già perchè le apparenze dell'esplorato cadavere ciò dimostrassero, perciocchè si osservano anche nei morti senza veleno e da morti naturali tolti da questa vita, ma perchè gli uomini si erano mattamente dati a credere che colui che aveva soppresso i Gesuiti non di morte naturale, ma di tossico dovesse morire. Gli uni affermarono l'attossicamento per certo, gli altri con eguale asseveranza il negarono. Del resto, è da credere che dal detto al fatto ci sia una gran distanza, nè si vede che i medici che il cadavere hanno tagliato abbiano dichiarato avervi trovato sostanza velenosa, cosa che sola avrebbe potuto levar via ogni dubbio. La morte di Clemente increbbe a tutti coloro che amavano di vedere la sincera religione unita alla paterna sopportazione. Papa unico il chiamavano, papa quale ad un secolo scrutatore ed inquieto si conveniva. Sono parecchie cose al mondo che più colla bontà si acquistano che colla ragione; perocchè niuno è che la bontà non ami, ma la ragione ha spesso per nemico chi ella convince. Tutti i sovrani avevano in venerazione Clemente; nè solo i cattolici, ma ancora quelli di religione diversa. Federigo di Prussia, fra gli altri, assai del buono e spiritoso papa si soddisfaceva, ed amava di contentarlo. Da lui impetrò che il vescovo di Breslavia potesse visitare una parte de' suoi diocesani, agevolezza che non aveva mai potuto ottenere da' predecessori. «Che buon papa, che buon papa ha Roma,» diceva Federigo, e il diceva da vero, non per malizia, quantunque malizioso fosse. Il nome di Clemente era in onore in Inghilterra. Vedevansi a Londra frequenti, così ne' luoghi pubblici come nelle case dei privati, i busti di questo pontefice. Le quali cose quando gli venivano riferite, ei rispondeva: «Volesse pur Dio che ciò che fanno per la persona, il facessero per la religione!» In somma in quel paese, tanto abbondante d'uomini sensati, tanto era nominare Ganganelli quanto Lambertini, due papi simili per dottrina, per saviezza, per bontà, per ingegno. Nè minori sentimenti di rispetto e d'affetto nodriva per Ganganelli l'imperadrice di Russia, la quale gli scrisse lettere molto onorevoli per impetrare un vescovo cattolico a regola e consolazione de' prelati e religiosi del rito romano che abitavano ne' suoi Stati. Dicono che l'egregia fama di Clemente fosse anche penetrata sino a Costantinopoli, e che il soldano molto l'onorasse. Fu anzi tramandato alla memoria che il sovrano de' Turchi abbia detto un giorno parlando, all'ambasciatore di Venezia: «Se tutti i vostri papi fossero come quello che presentemente avete, i nostri patriarchi greci non si mostrerebbero tanto dalla corte di Roma alieni. Egli è un saggio che molto sa e rettamente procede, e non fia che ai più lo somiglino le età future.» I Turchi, i protestanti, i Russi, gli Inglesi stessi, tanto odiatori del papato, lodavano quel papa che altri con malediche penne lacerava. Le lodi stesse dei dissidenti gli erano imputate a delitto, come se la durezza e la cupidigia de' due papi della famiglia de Medici e di alcuni altri non avessero partorito abbastanza amari frutti per la Chiesa cattolica, e specialmente per la sede di Roma. Clemente, assunto al pontificato, aveva seguito il suo consueto costume quanto alla vita privata, da umile fraticello vivendosi qual era stato, ma nelle udienze e funzioni pubbliche non mancava in lui la magnificenza. Molto ancora si studiava di abbellire la sua Roma. Promosse ed ingrandì l'opera già cominciata da Lambertini, di adunare in un museo che ancora oggidì del suo nome di Clemente si chiama, preziosi residui dell'antichità. Raccolse i già noti, trovonne in quel fecondo suolo degl'ignoti, e tutti collocava in luogo appropriato, a maraviglia dei curiosi, ad istruzione degli studiosi delle belle arti. Parve che l'antica terra alle generose intenzioni del pontefice sorridesse; imperciocchè, tentata, versava fuori in copia le opere preziose degli scarpelli de' secoli passati. Le reliquie della nostra religione, i residui della pagana ad un tempo adunava. Gli uomini di gentilezza informati o di studio desiderosi di ciò il commendavano molto; ma divenne argomento di nuova accusa dall'altro lato, biasimandolo i suoi nemici dello aver mescolato le cose sacre colle profane, come se un museo d'antichità fosse una chiesa. Piacevagli visitare sovente quelle onorande depositerie de' nostri antichi padri; piacevagli mostrarle egli stesso in persona ai forestieri che la sempre gloriosa Roma visitavano, e fra le maraviglie che vi si vedevano, il buon pontefice stesso non era la minore. Ebbe particolare cura della libreria del Vaticano, cui in singolar modo adornò di stampe, di testi a penna, di medaglie: crebbe a' suoi tempi per gli sforzi suoi, crebbe per generosità del cardinal Passionei, suo amico, ed a lui molto somigliante, il quale l'arricchì della sua. Gentili spiriti nudriva allora Roma, come sempre; ma questa volta erano dati loro liberi e fecondi cambi da chi reggeva. Anche all'utilità Ganganelli mirava. Non omise il pensiero de' porti d'Ancona e Civitavecchia, pei quali ordinò utili riparazioni. Provvide alla comodità delle strade, in ogni parte dell'amministrazione de' pubblici invigilava, più da padre di famiglia procedendo che conosceva le necessità dal mondo. Ma che dirassi di quella sua deliberazione per cui proibì la castratura de' fanciulli, infame usanza, che disonorava la Italia e cambiava un piacere divino, voglio dire quello del canto, in un dolore angoscioso per chi aveva ancora viscere d'umanità. Così comandò, così ottenne; ma tante erano le radici dell'orribile costume, che ripullulò; e se il cielo non aiuta la nobile provincia, temo che lungo tempo ancora sia per durare. Quei che dovrebbero non lo biasimano, i padri dei miseri fanciulli non l'abborriscono, e vi è ancora chi si diletta di sì crudele snaturato scempio. Ganganelli fu papa in tutto assai diverso da' più. Ebbe in dispregio il nepotismo, nè alcuno de' suoi trasse a dignità, e meno al cardinalato. A quelli che gli raccomandavano i parenti, rispondeva che tutti li portava in cuore, gli amava, ma che se ricchi non erano, neppure non erano poveri, ed abbastanza ricco stimava chi con moderate sostanze, moderati desiderii aveva. Non volle empire l'ambizione di nissuno. I suoi parenti prediletti erano i poveri, tirando sempre mai sopra di sè i loro affanni, e a loro con giudizio e discrezione soccorrendo per non farli viziosi. In somma, ei sarebbe stato papa di perfetta fama appresso a tutti, se non avesse soppresso i Gesuiti. Questo solo gli procurò amarezze in vita, riprensione dopo morte. Languiva intanto nel suo carcere il Ricci. Nè dalle lettere intercette nè dalle risposte da lui date ne' costituti del processo che gli fu fatto negli ultimi mesi dell'anno 1773 e ne' primi del presente nè da altro suo andamento risultò che egli si fosse stimato ancora investito, dopo la soppressione pronunziata dal papa, di quell'autorità che aveva, essendo generale della compagnia, esercitato, nè che avesse nascosto grosse somme di denaro, siccome il mondo aveva creduto. Non venne in luce alcun suo reato particolare, nè fu interrogato sulle massime ed artifizii che imputavansi alla compagnia e da' quali si fece derivare la sua soppressione. Gli esami s'indrizzarono piuttosto sui fatti personali del carcerato che sulla natura e sugli atti della società. Invecchiava intanto ed all'ultima sua fine si avvicinava. Volle prima di morire fare una protesta tanto sulla innocenza propria, quanto su quella della compagnia: «L'incertezza del tempo, scrisse di proprio pugno, in cui a Dio piaccia chiamarmi a sè, e la certezza che un tal tempo sia vicino, attesa l'età avanzata, e la moltitudine, la lunga durata e la gravità de' travagli troppo superiori alla mia debolezza, mi avvertono di adempire preventivamente i miei doveri, potendo facilmente accadere che la qualità dell'ultima malattia m'impedisca di adempirli nell'articolo di morte. Pertanto, considerandomi sul punto di presentarmi al tribunale d'infallibile verità e giustizia, qual è il solo tribunale divino, dopo lunga e matura considerazione, dopo avere pregato umilmente il mio misericordiosissimo Redentore e terribile giudice a non permettere ch'io mi lasci condurre da passione, specialmente in una delle ultime azioni della mia vita, non per veruna amarezza d'animo, nè per verun altro affetto o fine vizioso, ma solo perchè giudico esser mio dovere di rendere giustizia alla verità ed all'innocenza, faccio le due seguenti dichiarazioni e proteste: Prima. Dichiaro e protesto che l'estinta compagnia di Gesù non ha dato motivo alcuno alla sua oppressione. Lo dichiaro e protesto con quella certezza che può moralmente aversi da un superiore bene informato della sua religione. Seconda. Dichiaro e protesto ch'io non ho dato motivo alcuno, neppure leggierissimo, alla mia carcerazione. Lo dichiaro e protesto con quella somma certezza ed evidenza, che ha ciascuno delle proprie azioni. Faccio questa seconda protesta solo perchè necessaria alla riputazione dell'estinta compagnia di Gesù, della quale ero preposito generale.» Esposto poi che non intendeva che, in vigore di queste sue proteste, potesse giudicarsi colpevole avanti Dio veruno di quelli che avevano recato danno alla compagnia di Gesù o a lui, continuò dicendo: «E per soddisfare al dovere di cristiano, protesto di avere sempre col divino aiuto perdonato e di perdonare sinceramente a tutti quelli che mi hanno travagliato e danneggiato, prima cogli aggravii fatti alla compagnia di Gesù e con le aspre maniere usate coi religiosi che la componevano: poi colla estinzione della medesima e circostanze che accompagnarono l'estinzione; e finalmente colla mia prigionia e con le durezze che vi sono state aggiunte, e col pregiudizio annesso della riputazione; fatti che sono pubblici e notorii a tutto il mondo. Prego il Signore di perdonare prima a me per sua mera pietà e misericordia e per i meriti di Gesù Cristo i miei moltissimi peccati, e poi di perdonare agli autori e cooperatori dei sopraddetti mali e danni; ed intendo di morire con questo sentimento e preghiera in cuore.» Le quali cose scritte, Ricci terminò la sua scrittura pregando, e scongiurando qualunque la vedrebbe, di renderla pubblica a tutto il mondo per quanto potesse. Di ciò pregò e scongiurò per tutti i titoli di umanità, di giustizia e di carità cristiana che possono a ciascheduno persuadere l'adempimento di questo suo desiderio e volontà. Anno di CRISTO MDCCLXXV. Indiz. VIII. PIO VI papa 1. GIUSEPPE II imperadore 11. Geloso e importante negozio era il dare a Clemente un successore che a Roma ed al mondo cattolico si convenisse. I sovrani stavano attenti, acciò non fosse promosso alla cattedra pontificale un cardinale, di cui si potesse sospettare che fosse per rimettere in vita l'estinta compagnia. Ognuno prevedeva che, stante lo spirito del secolo, un papa che sentisse del severo, non sarebbe piaciuto; e bene avea detto il grande Lambertini, quando delle contingenze dei tempi parlando, si lasciò uscir di bocca le seguenti parole: «Questo è tempo da appiattarsi e da dar del buono. Fortunati noi, se, dopo di avere tanto gridato contro i quattro articoli del clero di Francia del 1682, vedremo che i popoli se ne contentano e si ristanno e non vanno più oltre.» Da' un altra parte la parsimonia del fraticello di Sant'Arcangelo pareva fuori di proposito in un secolo in cui la vita interiore era quasi ridotta al niente, e tutta esteriormente si mostrava. Parve ad ognuno che nel cardinale Angelo Braschi si accoppiassero le qualità che si desideravano. Molto splendore nella persona e nel procedere aveva, e sebbene fosse debitore della sua esaltazione alla porpora cardinalizia ai Gesuiti, essendovisi molto adoperato ai giorni della sua potenza il generale Ricci, la natura sua ne l'allontanava. Aveva eziandio voce di persona dabbene, avendo maneggiato parecchi anni con rettitudine le faccende dalla camera, e siccome voce aveva, così era veramente persona dabbene. Queste considerazioni, oltre i voti fermi a sua voglia che aveva per l'aderenza dei principi, gli procuravano tanto favore, che quasi con tutti i voti fu in un non lungo conclave chiamato papa, il dì 14 del mese di febbraio del presente anno. Poche assunzioni di pontefici cagionarono tanta allegrezza nei popoli, massime nel romano, di quella d'Angelo Braschi, il quale, come è noto, elesse il nome di Pio VI. Auguravano, considerando l'indole sua generosa, che pace per la religione, larghezza ed abbondanza per Roma vi sarebbe. Felicissimi principii che ebbero funestissimo fine, non già per colpa sua, ma dei tempi. Dopo la creazione di Pio si parlava tuttavia con molto calore dei Gesuiti. Erano gli uomini particolarmente attenti al vedere che fosse per avvenire del generale Ricci, che sempre stava rinchiuso in castel Sant'Angelo con molta diligenza. Il nuovo papa, piuttosto per timore che i principi si lamentassero se Ricci liberasse, che per inclinazione o sentenza propria, seguì a tenerlo in cattività, procurandogli però tutte quelle agevolezze e comodi che in una prigione l'uomo carcerato può sperare. I principi avevano gelosia che se l'antico capo della società proscritta divenisse libero, la raggroppasse e integrasse, se non in forma aperta, almeno in segreta. Ma Ricci il 19 novembre riceveva il santo viatico in occasione della sua ultima malattia, e, nell'atto di riceverlo, le medesime proteste e dichiarazioni ripeteva che avea fatte l'anno innanzi, e che furono a lor luogo riportate. Preso il santo viatico, Ricci dopo due giorni passò da questa all'altra vita. Pio VI volle onorare morto colui che non aveva potuto liberare vivo. Per ordine suo gli furono fatte, il dì 26 di novembre, solenni esequie, non già nella parrocchia del castello dove solitamente si uffiziava pei morti in quelle carceri, ma nella chiesa di San Giovanni de' Fiorentini, chiesa della sua patria. Il vescovo di Comacchio celebrò le esequie e predicò Ricci come martire. Il cadavere fu portato la sera alla casa professa, dove venne sepolto fra le ossa dei suoi predecessori. Un singolar ragionamento si è fatto intorno al Ricci dagli avversi agl'Ignaziani che porta il pregio di qui riportare. «Chi attentamente, dicevano, le proteste e dichiarazioni del Ricci, scritte del resto con tanto maggiore forza quanto più spirano semplicità e mansuetudine, considererà, giudicherà certamente, che siccome i fatti sui quali i principi fondarono le loro querele contro la compagnia di Gesù ed il papa la sentenza dell'estinzione, erano notorii a tutto il mondo, e però a nissun modo si potevano o si possono recare in dubbio, così o Ricci non gli stimava riprensibili o dannabili, il che dimostrerebbe una larghezza di coscienza veramente maravigliosa e oltre ogni misura temeraria; o, volendo farli tenere per falsi, mentiva agli uomini e a Dio in quel momento stesso in cui era vicino di comparire alla presenza di colui che non si lascia dalle bugie e dagl'inorpellamenti ingannare.» Anno di CRISTO MDCCLXXVI. Indiz. IX. PIO VI papa 2. GIUSEPPE II imperadore 12. I lieti augurii del nuovo pontificato cominciarono in principio di quest'anno a smentirsi per una contesa insorta colla corte di Napoli, che presagire in vece fece a molti la procellosa condizione del pontificato medesimo. Con suo speciale decreto fu dal re Ferdinando IV abrogato il costume antico di quella corte di presentare ogni anno con grande solennità una chinea al papa, il che come un omaggio riguardavasi dovuto in ricognizione della corona di Sicilia. E colla chinea presentavasi una cedola di dodici mila ducati, che parimenti come tributo ricevevasi, e da quel re fu collo stesso decreto ordinato che tale somma si offrirebbe come semplice limosina. Si ristabilì tuttavia la concordia tra le due corti, e la ceremonia della presentazione della chinea continuò ad adempirsi nella vigilia di San Pietro dal contestabile Colonna, che nominato era ambasciatore straordinario di Napoli per quella solennità. Se non che la presentazione facevasi in un modo consentaneo soltanto agli artifizii politici consueti, perchè, mentre l'ambasciatore offeriva il donativo come limosina ai santi Apostoli Pietro e Paolo, il papa la riceveva come tributo di vassallaggio per la corona di Sicilia. Un'illustre cerimonia fu in quest'anno rinnovata sul Campidoglio romano. Fin dall'anno 1341, Francesco Petrarca, pieno di meriti, era stato dal favore del principe Stefano Colonna portato a vedersi fregiata la fronte della poetica corona nel luogo stesso ove un tempo incoronavansi colla stessa fronda gli sterminatori degli uomini. Nel 1595, eguale onore, per mezzo e colla cooperazione del cardinale Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, apparecchiavasi all'immortale Torquato quando invida la morte il tolse al meritato trionfo. Il cavaliere Bernardino Perfetti, celebre verseggiatore sanese, che con impareggiabile facilità improvvisava versi italiani, e versi pieni di sugo, e non di sole frasche, come si esprime il sommo Muratori (tom. VII, col. 521), fu nel 1725 incoronato di alloro, per protezione di Violante di Baviera, vedova gran principessa di Toscana. Quest'anno, una donna di Pistoia, Maddalena Morelli Fernandez, in Italia conosciuta sotto il nome di Corilla Olimpica, divenuta famosa pel dono dei versi estemporanei, era stata coronata nel serbatorio dell'Accademia di Roma con grande applauso di quei dotti accademici. Ma o che di ciò non paga fosse la Toscana Saffo, o che i suoi ammiratori nol fossero, alle istanti sollecitazioni del custode dell'Arcadia presso il governo romano, ed ai maneggi del principe Gonzaga di Castiglione, conseguì ella l'ambito onore di essere coronata solennemente nelle sale stesse del Campidoglio. Dal che una grande scissura sorse tra i letterati, ed in seno della stessa accademia, gli avversi alla donna, o i più severi, o i più invidiosi, quell'atto chiamando una profanazione dell'alloro al Petrarca ed al Perfetti donato, al Tasso destinato. Le satire e le ingiurie fioccarono da varie parti, e produssero processi e rovine dei meno prudenti; in mezzo al quale trambusto, la coronata poetessa, uscendo del Campidoglio al suono dei fischi degli avversarii più sonori degli applausi de' benevoli, dovette allontanarsi da Roma, scortata da gente armata, per non trovarsi esposta a maggiori dileggi e ad oltraggi ancora. Altra mercede intanto dava la Superba Genova ad un suo cittadino. Il doge Giambatista Cambiaso, decesso nel 1773, aveva a proprie spese, che sommavano ad alcuni milioni di quella moneta, costrutta la pubblica magnifica e spaziosa strada che al commercio apriva libera la comunicazione tra quella capitale e la Lombardia austriaca. Fece dunque la repubblica collocare nel salone del gran palazzo della signoria una statua di marmo rappresentante questo suo cittadino e principe, che fosse ad un tempo gloria di lui e monumento della civica riconoscenza. Anno di CRISTO MDCCLXXVII. Indiz. X. PIO VI papa 3. GIUSEPPE II imperadore 13. Già da circa quattro anni regnava sul Piemonte il re Carlo Emmanuele. Dalle mutazioni al suo avvenimento succedute, e già al proprio luogo riferite, i Piemontesi si auguravano miglior condizione, non tanto perchè così suole avvenire in ogni cambiamento di signore, quanto perchè il nuovo re aveva voce d'uomo generoso e molto lontano dal procedere stretto e scarso del padre. Diede anche alcuna contentezza ai popoli il vedere allontanato dai consigli della corte il cardinale delle Lance di cui si conosceva l'eccessiva dipendenza da Roma; onde sperarono che le ragioni della potestà laica sarebbero meglio preservate, e si fosse per vivere con qualche maggiore larghezza rispetto alle pratiche della esterior disciplina, le quali, quando con soverchio rigore ristrette sono, fanno gli uomini più ipocriti che religiosi. Solamente dava noia il conoscersi l'umore guerreggevole, di cui Vittorio era dominato, e l'usare prodigalità, come ei faceva, principalmente verso i suoi soldati; prodigalità che ogni termine di larghezza oltrapassava. Onde accadde che per lo spendio eccessivo si fusero e scialacquarono le sostanze pubbliche, ed in breve tempo restò esausto il tesoro lasciato pieno dal padre, che la fama affermava sommare a dodici milioni di lire piemontesi. Il debito pubblico s'accrebbe di tal maniera, che, quando vennero i tempi grossi, la monarchia ne restò sobbissata ed oppressa. Ma nel corso del suo vivere ed usare prodigalmente Vittorio, siccome generoso era, molte opere degne di memoria lasciò, e di utilità non poca; imperciocchè e l'accademia delle scienze, che per lo innanzi era semplice e privata società fondata da quei tre sommi uomini Lagrange, Saluzzo e Cigna, con decreto reale approvò; e fondò la specola e l'accademia di pittura e di scoltura. Fra le opere utilissime da lui promosse debbesi annoverare quella d'avere, acciocchè i cadaveri più non si seppellissero nelle chiese, eretto fuori della città, in riva il Po, il cenotafio. Da lui deve eziandio Torino riconoscere il beneficio d'essere illuminata la notte. Nè è da tacersi che, dando ascolto ad uomini chiari per dottrina e gelosi della prosperità del paese, ei creò l'accademia agraria, da cui non poco pro sorse per la coltivazione dei campi, principale fonte di ricchezza per quella subalpina regione. Agli uomini dotti e zelanti della buona coltivazione de' campi aggiunse mezzi insoliti di fertilità, con condurre canali d'acque irrigatrici ne' luoghi che più ne abbisognavano. Fra gli altri è da ricordare quello che da rimpetto a Cuorgnè conduce l'acque limpidissime dell'Orco a Chivasso; per la qual bisogna ei fu d'uopo cavare in molta lunghezza due monti, opera che non senza maraviglia si vede in essere anche a' dì nostri nel territorio di San Giorgio Cavanese. Quindi poscia, entrando in ciò che più gli andava a genio, con nuovo modo ordinò le soldatesche, modo che, come troppo complicato, non ebbe l'approvazione degli uomini periti di milizia. Alzò la fortezza di Tortona, cavò il porto di Nizza, la strada dalla capitale a quella marittima città a maggiore comodo ridusse, alle fortificazioni di Villafranca migliore forma procacciò, sussidio inutile, poichè un urto tremendo venne di fuora, e le radici di dentro erano difettose. Mancò il denaro, principale nervo della guerra, e soprabbondarono smoderatamente le soldatesche, da cui, contuttochè buone fossero e valorose, non potè salvarsi lo Stato; che anzi in certo modo l'oppressero, pel numero stesso nocquero e la macchina sfondarono. Del rimanente, Vittorio Amedeo fu principe di buono ed alto animo, nè gli dispiacevano i generosi pensieri. Lasciò che nella università di Torino da professori egregi s'insegnassero le dottrine che la potestà temporale dagli abusi della spirituale preservavano, ancorchè il cardinale delle Lance alcuna volta lo sgridasse; e taluno ricorda che, volendo un famoso libero muratore fondare in Torino una di quelle sue congreghe, e domandatane la permissione al re Vittorio gli rispose: «Lasciatemi stare, che il cardinale mi sgrida; non voglio brighe coi preti. Oh, va, ed abbi pazienza, che anch'io l'ho.» Dilettavasi della conversazione de' letterati, e si faceva spesso venire avanti l'abbate Morando, prete acerbo, ma che scriveva libri a dilungo con qualche novità, e fra quegli ori il faceva sedere, e parlava con lui di lettere, e tratto tratto apriva il forzierino, e dava doppie d'oro all'abbate, che poi sen andava molto ben contento. Tal era Vittorio. Per la sua natura benigna e generosa, questo principe era fatto per ordinare utili riforme e cambiare il male in bene. Forse le avrebbe fatte in un tempo massimamente in cui suonava tanta fama di quelle che Giuseppe e Leopoldo andavano facendo in Lombardia ed in Toscana, se non fosse stato ritenuto da una nobiltà superba ed imperiosa, nè tanto disposta all'obbedienza delle inclinazioni soldatesche. Il buon uomo non capiva in sè dal piacere, quando vedeva i suoi soldati schierati, e più ancora quando li faceva vedere ai principi che il venivano visitando, a Paolo di Russia, a Gustavo di Svezia e Ferdinando di Napoli. Nè poca noia sentì, quando Paolo gli disse che i fucili de' suoi soldati erano, non so se troppo lunghi o troppo grevi, o per sè stessi o per le baionette, onde i colpi, per la stanchezza delle braccia troppo abbassandosi, andavano verso terra, e non potevano bene ammazzare la gente. Non poteva sopportare che i suoi soldati fossero criticati. In somma soldato era ed amava i soldati, e portava il collo piegato a guisa di Federigo di Prussia. Infelice, che non prevedeva che oltr'Alpi un tale sobbisso di guerra si andava preparando che, i proprii soldati soperchiando, avrebbe condotto lui, il suo Stato e la sua casa in perdizione! Erasi bensì Clemente XIV riconciliato destramente colla corte di Portogallo, ma ricuperato non aveva tuttavia il potere di cui la romana corte godeva in Lisbona al cominciare nel pontificato di Clemente XIII. Si sospettava da alcuni che la controversia fosse ravvivata dal marchese di Pombal, da altri, che opera fosse del partito de' Gesuiti, il quale ancora si agitava dopo la soppressione loro. Tornato era bensì un ambasciatore portoghese in Roma, e un nunzio apostolico era egualmente passato a Lisbona; ma eretto erasi in quella città un tribunale che ristringeva ne' più angustissimi limiti la giurisdizione della corte di Roma, e que' diritti che i papi in quel regno per lungo tempo conservati avevano con grandissima gelosia. In quest'anno morto essendo il re Giuseppe I, la regina Maria esiliato aveva il Pombal, e abolito il tribunale destinato a frenare la pontificia autorità, al quale dovevano presentarsi tutti gli atti alla nunziatura relativi. Non fu dunque se non sotto il pontificato di Pio VI, e precisamente in questo tempo, che tutti i diritti della nunziatura furono ristabiliti, e che con una specie di trattato si venne ad un'aperta concordia tra le due corti. Dopo le cose maggiori, non farà dispiacere il trovare in questi Annali registrate alcune altre glorie dell'Italia nostra. Padova e Bologna in due differenti secoli avevano veduto un singolare spettacolo. Lucrezia Elena Cornaro Piscopia nel 1678 era stata decorata della laurea dottorale di filosofia nell'università di Padova alla presenza di un numero grande di dotti, di nobili veneziani e di altri gran signori ivi concorsi da tutta Italia per sì estraordinaria funzione. Lo stesso onore del dottorato ebbesi in Bologna nel 1732 pel suo gran sapere e pe' talenti suoi sommi Laura Bassi, alla presenza de' cardinali Lambertini e Polignac. Ora anche Pavia vide in quest'anno premiarsi il merito d'una valorosa giovanetta. Maria Pellegrina Amoretti d'Oneglia, sostenuti rigorosi esami in quella università, ricevette la dottoral corona in legge, vera ed estrema ammirazione destando in ognuno colla profonda sua dottrina in tutti i rami della giurisprudenza. Anno di CRISTO MDCCLXXVIII. Indiz. XI. PIO VI papa 4. GIUSEPPE II imperadore 14. Tutti i principi, tutti gli Stati d'Italia studiavansi a gara di aumentare, in seno alla pace, la ricchezza territoriale de' loro sudditi, promuovendo regolarmente la agricoltura ed il traffico. Regnava, come ognun sa, sulla Lombardia l'imperatrice Maria Teresa, e colle più savie leggi, coi più opportuni regolamenti promoveva essa pure la prosperità di quella provincia. Nè deve omettersi, tra le più gloriose imprese del suo regno, il compimento dato allora alla grande opera del censimento della Lombardia medesima. Il papa sembrava che emular volesse a quegli sforzi generosi, e studiavasi a trarre le provincie della Chiesa dallo stato di languore nel quale da più secoli giacevano relativamente al traffico ed all'agricoltura. Il desiderio ardente di rendere alla coltivazione un gran numero di terreni incolti e deserti l'idea gli suggerì di asciugare con immenso spendio le paludi Pontine. Il disegno n'era già stato conceputo più volte, le operazioni relative erano state proposte dal celebre Eustachio Zanotti; ma, morto questi senza poterle eseguire, Pio adottati ne aveva con calore i suggerimenti. Credettero alcuni che la brama egli nudrisse di segnalarsi e rendersi immortale con una impresa, nella quale riusciti non erano Martino V, Sisto V e molti altri pontefici, senza dire de' Romani e de' Goti che nel difficile esperimento gli avevano preceduti; furono altri d'avviso che, riducendo a coltivamento quella immensa pianura, disegnasse già di formarne un bellissimo principato pe' nipoti. È d'uopo però notare, dice il ch. Bossi, contro il parere di varii storici, massime oltramontani, ingannati sovente da false relazioni, che per più anni dopo il suo innalzamento non volle mai il pontefice usare di alcuna compiacenza, nè, molto meno, di alcuna distinzione verso i nipoti suoi, e solo per le replicate istanze del cardinale Giraud s'indusse a chiamarli in Roma da Cesena, dove per lungo tempo lasciati gli aveva. Il disegno dell'asciugamento delle paludi Pontine di qualche tempo prevenne adunque il supposto nepotismo di questo papa. Non potè egli però ne' primi anni del suo regno attendere a quel grande lavoro, nè gli fu tampoco dato, di compierlo interamente benchè dopo il 1780 già fosse aperto un grandioso canale per condurre al Mediterraneo le acque che da prima impaludavano, e formata fosse già a canto a quel canale una strada magnifica, che framezzo alle paludi medesime guida i viaggiatori a Terracina. Non è di questo luogo l'investigare le cagioni per cui quell'opera grandiosa non fu condotta al suo termine, o almeno ad un risultamento che proporzionato fosse alle immense somme in essa profuse; ma la storica verità domanda che si annunzii quello come uno de' tentativi più nobili, più grandiosi e più profittevoli allo Stato pontificio, e come un'impresa che, sebbene non compiuta, renderà tuttavia immortale il nome di quel pontefice. Di tutte le cose che dette si sono da scrittori imprudenti, e sovente ignoranti o parziali, intorno all'opera soprammentovata, opera degna dei secoli dell'antica Roma, da notarsi è come la più giusta, la riflessione fatta da alcuni che, per ridonare alla coltivazione ed alla prosperità lo Stato ecclesiastico, cominciare dovevasi dal render salubre e dal popolare la campagna di Roma, la quale, forse senza lo sborso di somme eccessive, si sarebbe potuta rendere uno dei paesi più ricchi e più fertili dell'Italia, se ai coltivatori soltanto si fosse accordata piena libertà di comperare e di vendere; principio, senza del quale non si risveglia la operosità e l'industria d'una nazione, ma che direttamente si opponeva al modo di accivimento della moderna Roma, ed ai politici regolamenti che concernevano al commercio de' grani. Cosa ella è assai facile da comprendere che con questi politici impedimenti formata non si sarebbe, anche colla perfezione delle opere, una fertile provincia nelle paludi Pontine. E poichè si parla delle imprese di Pio riferibili a questi tempi, non voglionsi tacere nè la sagrestia di San Pietro in Vaticano, nè il museo Pio-Clementino, grandiosi monumenti al suo genio dovuti. Il più gran tempio che sulla terra sia mancava di quest'accessorio che gli fosse corrispondente; e se neppur questo corrispose al concetto desiderio, restandone infinitamente inferiore per la proporzione, non fu colpa della magnificenza di Pio, ma sì bene dello scarso ingegno dell'architetto, il quale, avendo sopraccaricato l'edifizio di decorazioni, scolture, pitture, dorature, attirossi quel detto di Apelle: «Non valendo a farlo bello, il fece ricco.» Il museo era stato principiato da Clemente XIV e compiuto con pari magnificenza che squisitezza. Pio VI vi aggiunse due bracci che, andando a terminare in un atrio di forma circolare, per esso aprivano un passaggio alla celebre libreria Vaticana. Stupende per numero e per qualità le cose quivi dal pontefice in questo preziosissimo museo adunate, troppo in lungo ne trarrebbe il solo annoverarne le principali, sicchè meglio stimiamo il tacerne, che il dirne meno che si convenga. In quest'anno Leopoldo di Toscana manda sue navi a trafficare al Malabar ed alla China; riceve un ambasciatore dell'imperador di Marocco, e con esso stringe con un trattato la pace; un altro trattato col papa determina i confini dei rispettivi Stati, sempre perturbati dall'incerto corso del torrente Chiana. In quest'anno mancò a vivi quella Laura Bassi, del cui dottorato in Bologna dicemmo nell'anno precedente: avea dettato filosofia dalla cattedra nella patria università; l'era stata coniata una medaglia; e lasciava inedito un poema epico sulle ultime guerre d'Italia. Mancò eziandio Giambatista Piranesi, intagliatore ad acqua forte ed a bulino esimio, gloria e splendore dell'arte in Italia. Anno di CRISTO MDCCLXXIX. Indiz. XII. PIO VI papa 5. GIUSEPPE II imperadore 15. Nissuna transazione politica d'importanza abbiamo ad annoverare in quest'anno, se non fosse la neutralità stretta dalle potenze marittime d'Italia e della rimanente Europa nell'occasione che i Franzesi e gli Spagnuoli moveansi a sostenere gli sforzi delle colonie inglesi di America contro la madre patria. Prevedeasi che questa guerra avrebbe prodotti molti inconvenienti, ed arrecato non picciol disturbo all'italiano commercio. Abbracciarono dunque, principalmente il granduca di Toscana, il re di Napoli e la repubblica di Venezia, una rigorosa neutralità, ed emanarono editti che, manifestandola ai rispettivi sudditi, prescriveano le regole alle quali quell'atto gli obbligava. Venne poi Caterina II, e propose ai popoli dell'Europa che non erano in guerra una neutralità armata, a fine di proteggere il commercio delle nazioni neutre da ogni attacco od insulto per parte delle potenze belligeranti. Secondo tale proposizione, le navi neutre devono godere di navigazione libera, anche da un porto all'altro, sulle coste delle potenze in guerra; tutti gli effetti appartenenti ai sudditi di queste hanno a considerarsi come liberi, tosto che sieno sur un bordo neutro, eccetto le merci stipulate contrabbando: conservando in mezzo al rumore dell'armi la neutralità più esatta, le nazioni neutre trattano come pirati tutti i bastimenti delle nazioni in guerra che tentassero qualche violenza contro le navi mercantili sotto la loro bandiera. Senza l'ire degli elementi, che nell'anno precedente travagliarono molte parti della Toscana; senza i danni per le eccessive acque patiti da Parma e da Genova pur percossa da grave incendio; senza Bologna che in quest'anno fu spaventata, pel corso di ben otto mesi, da frequente terribile tremuoto che la minacciava dell'ultima rovina; senza lo scoppio della polveriera di Civitavecchia, accesa da un fulmine, la quale in gran parte guastò la città e la fortezza: il Vesuvio presentossi a' Napoletani in uno aspetto che, a memoria d'uomini, non s'era veduto l'eguale. Per tre bocche ne' primi giorni d'agosto l'ignivoma montagna sfogava le viscere ardenti mandando fuori tre torrenti di lave infuocate e vampe di fiamme guizzanti e sanguigne. Ad un'ora della notte dell'8 di quel mese, dietro un tremendo scoppio, ecco che squarciatosi il monte, dei tre spiragli si forma una spaventosa voragine. Mai ad occhio umano non si offerse spettacolo più infernale. Vedevasi dall'ampia apertura l'interno del monte, ma non vedevasi in esso che un'ardentissima massa di vorticoso fuoco. Salivano le fiamme più alto del monte più d'un miglio, e giù quindi scorreva la lava, che pareva dover tutto incendiare e distruggere. Resina e Portici si credettero sepolti ed inceneriti. Quale a pien meriggio illuminate Napoli e tutta la costa. La cenere ed i sassi, che con orribile impeto e fracasso gettava l'enorme cratere, molto lungi andarono e sino a Nola pervennero. Guai ad Ottaiano, dal cratere del Vesuvio lontano tre miglia! rischiava di essere seppellito co' suoi dodici mila abitanti sotto le pietre, come furono in altri tempi Ercolano, Stabia, Pompei, solo un'ora di più che l'eruzione durasse. Allentava il furore; cessava. Con tutto ciò immensi furono i danni che soffersero tutte le terre e ville d'intorno. Napoli si vide piena di spaventati contadini che correvano in folla a cercare in essa un asilo. Denso il fuoco e caliginoso giunse a coprire tutto il Largo del castello di Napoli; ma le pietre infuocate incendiarono interi boschi, sprofondarono i tetti, la campagna fino ad un palmo di altezza coprirono. Tra queste pietre se ne trovarono sino di novecento libbre, e di spumosa materia essendo, immensa superficie presentavano. Le ceneri, quai gruppi di nubi dal vento agitate, oltre a Benevento e sino in Puglia a scaricarsi andarono. I danni in questa trista occasione risentiti furono calcolati a trecento mila ducati. Da un'altra parte, la grossa terra di Bagolino poco distante da Brescia, terra di tre mila anime, frequente di fucine e fornaci, arse tutta in men di poche ore, con morte d'oltre a cinquecento persone, quali dal fuoco consunte, quali dal fumo soffocate. Fu in quest'anno abolito in Modena il santo uffizio dell'inquisizione. Accaduta, dopo sedici anni di ducea, la morte del doge di Venezia Luigi Mocenigo, gli fu sostituito il cavaliere Paolo Renier. Dotto nella lingua greca e latina, istrutto a fondo nella storia antica e moderna, di memoria straordinaria fornito, animato parlatore ed energico, a queste qualità univa una somma perizia nel maneggio degli affari. Con tutti cotali vantaggi o dalla natura avuti o coll'arte acquistati e coll'applicazione, non godette per qualche tempo della stima universale de' suoi concittadini; imperciocchè, sospettato di favorire sottomano il malcontentamento de' patrizii, manifestatosi principalmente nel 1762, e di cui abbiamo a suo luogo fatto parola, perdette gran parte di quella considerazione, di cui precedentemente godeva. Se non che, da quel sagace ed accorto uomo ch'egli era, tenne fermo nella burrasca, e seppe rivolgere per modo a suo pro le condizioni del tempo, che, eletto ambasciatore alla corte di Vienna, passò poi a quella di Costantinopoli, che gli tornò vantaggiosissima per molti riguardi. Tornato in patria, ed eletto doge, pervenne a riguadagnare l'opinione pubblica interamente, quei medesimi avversando che pareva avesse un tempo favoreggiati. Anno di CRISTO MDCCLXXX. Indiz. XIII. PIO VI papa 6. GIUSEPPE II imperadore 16. Contrassegna quest'anno la morte di una gran donna. L'imperatrice Maria Teresa, dopo la morte del suo consorte Francesco I e la elevazione del figliuol suo Giuseppe, dimesso non aveva mai il lutto; e sebbene una parte attiva pigliato avesse nello smembramento della Polonia, e col trattato del Teschen dell'anno precedente avesse accresciuto gli Stati suoi con porzione della Baviera, gran parte tuttavia delle pubbliche cure aveva all'imperatore Giuseppe lasciato. Data agli esercizii della più solida pietà, vide ella tranquillamente avvicinarsi il supremo giorno, e morì in Vienna il 29 di novembre di quest'anno. Come ad alcuni Romani imperatori dato si era il nome glorioso di padre della patria, così madre della patria taluno la chiamò: certa cosa è che essa, massime negli ultimi anni del suo regno, non fu sollecita che di spargere i benefizii sui poveri, sulle vedove e sugli orfani, e dichiarò perfin, morendo, che se alcuna cosa fatta aveva degna di riprensione, certamente consapevole non n'era, imperocchè sempre avesse avuto in vista il bene e la prosperità de' suoi sudditi. Regnato per lo spazio di quarant'anni, e amato sempre la verità e la giustizia, Maria Teresa talvolta lagnata erasi che nelle elezioni ingannata si fosse e che male intese o peggio ancora eseguite le sue intenzioni state fossero. Ad essa si attribuisce la massima, espressa fino dal tempo in cui regnava il padre suo Carlo VI, non esservi che il piacere di compartire grazie e far del bene ai sudditi che render possa sopportabile il peso di una corona. Gli Stati d'Italia ad essa appartenenti non mai furono tanto felici e tranquilli quanto sotto il suo reggimento; tra le lodi tribuite a quella sovrana, l'ultima non fu certo quella che esattamente voleva essere di tutto informata; che ai piccioli come ai grandi aperto voleva l'accesso alla sua persona, e tutti ascoltava con clemenza, le grazie concedendo o il motivo allegando del rifiuto, senza promesse illusorie, senza mendicati ripieghi, e senza alcuna di quelle vaghe frasi ed incerte che lo stile alcuna volta adornano, ovveramente sfregiano dei potenti. Fu detto da un autor franzese che vivendo seguiti avesse gl'insegnamenti da Marc'Aurelio lasciati intorno ai doveri dei regnanti. Morendo, i figli Giuseppe e Leopoldo sul trono lasciava. Nè a caso si è nominato Leopoldo di Toscana; aveva egli l'animo a ridurre a migliore stato le leggi; gli accidenti anche lo sforzavano. I conventi dei frati, sottratti, in vigore degli ordini ecclesiastici che prima delle riformazioni da lui fatte erano ancora in osservanza, dalla giurisdizione degli ordinarii, da Roma unicamente per mezzo dei loro generali dipendevano. I conventi poi delle monache dai frati ricevevano la direzione spirituale. Queste condizioni riuscivano di non poca molestia a chi sui luoghi la Chiesa governava e lo Stato. I frati come indipendenti erano, così divenivano anche sbrigliati ed il quieto vivere delle famiglie e del pubblico turbavano. Sorgevano poi gravi inconvenienti nei conventi delle monache, conciossiachè, introdottavisi la corruttela dei costumi, non vi era disordine che non vi si commettesse. Il lezzo di dentro rendeva odore fuori, i buoni si scandalizzavano, gli inclinati al male si corrompevano. Maligni esempi uscivano da quei luoghi, che santi dovrebbero essere e santi stimarsi. I vescovi non avevano autorità di porvi rimedio. Da Roma venivano ripari lenti e si mandavano le cose in lungo, domandandosi processi, informazioni, interrogatorii sopra ciò che ognuno pur troppo per vero conosceva. Accusava esagerazioni da parte di chi si lamentava, e supponeva mala volontà e calunnie. La curia poi portava, specialmente ai tempi di Rezzonico, e poi morto Ganganelli, mal animo a chi reggeva la Toscana per le riformazioni che vi erano state fatte in certi ordini toccanti la disciplina ecclesiastica. Le cose andavano di male in peggio, sicchè giunsero ad un estremo tale che la pazienza e l'ulteriore sopportazione in chi governava sarebbero state colpa: anzi erano in tale disposizione che si dubitava che non fossero più atte a ricevere alcuna medicina. Erano in Pistoia due conventi di monache domenicane retti dai religiosi del medesimo ordine; quelli di Santa Caterina e di Santa Lucia. Tristo nome avevano già da qualche tempo; il popolo ragionava di certe brutture che vi si commettevano: incerte voci erano, ma che pure, per la perseveranza, indicavano esservi alcuna radice di verità. Lo dice Scipione Ricci vescovo di Pistoia, nei suoi scritti. Pervennero a notizia di Leopoldo, il quale ordinò all'Alamanni, vescovo in quei giorni, di Pistoia, che si recasse subito in mano la direzione spirituale di tutti i conventi delle domenicane di quella città. Nel tempo stesso proibì, sotto pena di carcere, ai domenicani di entrarvi. Ma le donne non vollero obbedire. Incominciarono a dire che non volevano riconoscere nè il vescovo per loro superiore, nè i confessori. Poi, levando sempre più il viso, allegavano che papa Pio V il santo aveva pronunciato la scomunica contro chi fra i claustrali ad altro superiore obbedisse che a quello dato per autorità della santa Sede. Tanta era la loro contumacia, che quelle, le quali in articolo di morte si trovavano, amavano meglio morire senza confessione che confessarsi al confessore mandato dal vescovo. Se ne scrisse a Pio VI pontefice: rispose essere calunnie, e che non voleva approvare la violazione delle legislazioni dei due conventi. Si lamentò anzi che quello fosse un addentellato di Leopoldo per usurpare in altri conventi e generalmente in tutti l'autorità della santa Sede. Allora il granduca scrisse lettere circolari ai vescovi della Toscana, ordinando che ciascuno di loro e tutti con unanime consentimento addomandassero al papa, che i conventi, nissuno eccettuato, dalla direzione dei frati si sottraessero ed alla dipendenza spirituale degli ordinarii si sottomettessero. I prelati condiscesero ai desiderii di Leopoldo; le episcopali domande arrivarono al Vaticano; Leopoldo stesso mandò le sue istanze, e Pio pregò che quella deliberazione abbracciasse dalla quale sola si poteva sperare la riforma degli abusi ed il ritiramento delle cose religiose verso il loro principio e verso la buona ed esemplare disciplina. Il pontefice, per quel sospetto che aveva che ci covasse sotto e calunnia e disegni a pregiudizio della santa Sede, udì poco favorevolmente le petizioni di Toscana. Rispose a ciascun vescovo attendessero pure a mandargli i processi e le informazioni, poi vedrebbe ciò che convenisse farsi. Ma siccome il granduca insisteva con pressa, così il papa trovò il mezzo termine di dare facoltà ad alcuni vescovi toscani di governare, come delegati apostolici, col freno spirituale i conventi che in deformi consuetudini fossero trascorsi, e che i frati avessero o turbato o corrotto. Quanto alle religiose sregolate di Santa Caterina di Pistoia, Ippoliti, che in quei dì sedeva vescovo di quella città, le fece trasferire nel convento di San Clemente di Prato, che pure al governo dei domenicani soggiaceva. Quelle di Santa Lucia, prive del fomento delle consorti di Santa Caterina, si assoggettarono, e diventarono, se non migliori, almeno più caute. In quest'anno il Ricci successe all'Ippoliti nel governo della diocesi di Pistoia, di cui la città di Prato era membro. Colla medicina di Pistoia credevasi di aver rimediato a tutte le piaghe, e che l'intero ovile fosse a sanità ricondotto. Ma vana fu l'aspettazione, posciachè in Prato maggiore contaminazione si scoperse. Due monache di Santa Caterina di questa città, una nobile pratese di anni cinquanta, l'altra di altra nobile famiglia pur di Prato, di anni trentotto, viveano già da molti anni immerse ne' più gravi disordini. Gli empi dogmi e le perverse consuetudini non avevano però tanto potuto celarsi, non già dalle ree femmine, che non se ne infingevano, ma dai superiori ecclesiastici che desideravano sopire senza scandalo una cosa cotanto detestabile, che fuora le lingue non ne favellassero, e quel luogo che santo ed intemerato doveva essere, empio e sacrilego non chiamassero. Il vescovo Ricci ed il granduca Leopoldo, ai quali queste cose infinitamente dispiacevano, avevano preso risoluzione, correndo gli anni 1778, 1779 e 1780, di osservar bene quegli andamenti, e di accertarsi anche per processi informativi, affinchè, mandate a Roma le informazioni, la congregazione dei cardinali sopra i regolari ed il pontefice stesso non potessero aver cagione di sopportare e non provvedere. Intanto, per allontanare da Santa Caterina ogni occasione di corruttela e di scandalo, le due monache, per ordine sovrano, furono trasferite a Firenze, per esservi chiuse nel conservatorio di San Bonifacio, dove occupate in opere manuali avessero altro che pensare. Tuttavia non vi diventarono migliori; però dagli ordini del conservatorio era impedito ch'elleno con le parole e con l'esempio le innocenti creature che colà entro convivendo contaminassero. In questo mentre si andava fra i consiglieri del papa considerando ciò che fosse a farsi per ravviare le cose di Toscana. Trattavasi se convenisse, inchinandosi alle domande di Leopoldo e di Ricci, dare al vescovo ogni necessaria facoltà, perchè potesse ritornare all'ordine, alla purità ed alla pace Santa Caterina con tutti gli altri monasteri di domenicane che nella sua diocesi si trovavano. Roma aveva gravi risentimenti contro il granduca e il suo vescovo prediletto, a cagione delle riforme che già avevano fatte e quelle che annunziavano di voler fare. Specialmente poi acerbo animo portavano a Ricci per avere pubblicato un monitorio contro la divozione del cuore di Gesù. In questo mezzo il cardinal Palavicino, segretario di Stato di papa Pio, cagionevole di salute essendo, si era condotto a cambiar aria, lasciando il carico delle faccende al cardinale Rezzonico. Quest'ultimo cardinale, più simile allo zio, che fu papa, che prudente ad accomodarsi ai tempi che correvano, benaffetto ai gesuiti, ostava al Ricci. Pio VI, che pur i gesuiti, autori della divozione del cuore di Gesù, non amava, e che quanto Ricci quella divozione dannava, siccome d'animo alto e risentito era, e gelosissimo dell'autorità e dignità della Sede pontificia, si dimostrava anche alieno così dal vescovo di Pistoia, come dal granduca, anzi da tutta la casa austriaca, da cui allora riconosceva la diminuzione delle romane prerogative. I domenicani, grandemente avversi in altri tempi ai gesuiti, nella congiuntura presente ai medesimi si unirono, perchè vedevano che una cattiva nominanza si solleverebbe contro il loro ordine, se il papa con un solenne atto facesse vedere al mondo che le colpe d'alcune domenicane e di alcuni dei domenicani erano conformi alla verità. Tra gesuiti e domenicani fecero un così forte agitare alla corte, che il papa, non che consentisse a dare le facoltà domandate al vescovo di Pistoia, gli scrisse lettere acerbissime, tassandolo d'imprudenza per aver sollevato questi romori in tempi tanto calamitosi per la Chiesa. In quanto poi alle due religiose, prescrisse che fossero innanzi al tribunale dell'inquisizione tradotte, per essere da lui, secondo che meritavano, castigate. Il granduca, a cui stava a cuore l'onor del vescovo pistoiese ed il suo, e che non voleva che la potestà secolare fosse dichiarata incompetente per provvedere ai disordini che succedevano nei conventi, e di cui la fama, uscendo fuori, scandalizzava i popoli, scrisse in termini molto risentiti a Roma, facendo intendere che non mai avrebbe consentito che le due monache fossero date in potestà del santo uffizio. Minacciò poi apertamente che se il governo pontificio si fosse ancora peritato al sommettere i conventi delle monache di Toscana all'autorità spirituale dei loro ordinarii, avrebbe provveduto egli di propria autorità alle corruttele che vi erano pullulate. Ad un tratto così risoluto il papa, rispondendo al granduca, gli fece sapere che delle due monache deliberasse pure ciò che più conveniente stimasse. Nello stesso tempo conferì ai vescovi del granducato, e particolarmente a quel di Pistoia, le facoltà che gli erano state domandate. Che anzi il pontefice, il quale le buone cose amava, quando gli adulatori nol tentavano in proposito della grandezza e della dignità della Sede pontificia, scrisse lettere di amara riprensione al generale dei domenicani, per non avergli fatto conoscere la verità sugli accidenti scandalosi di Prato. In quest'anno Modena abolì nelle procedure criminali la tortura. Anno di CRISTO MDCCLXXXI. Indiz. XIV. PIO VI papa 7. GIUSEPPE II imperadore 17. Giuseppe II, erede di tutti gli Stati della casa d'Austria per la morte della madre, come per quella del padre, era, quindici anni prima, salito sul soglio imperiale, dalla natura dotato d'un capitale straordinarissimo di penetrazione, e ricco di molte e molte cognizioni ne' diuturni suoi viaggi acquistate, tutti i suoi pensieri, tutte le cure al bene ed alla prosperità dei sudditi rivolse. Nuove forme ai giudizii, con nuovo codice civile e criminale; generosa protezione alle scienze ed alle lettere; nuove manifatture e nuove arti introdotte; aperti nuovi canali al commercio, ed ingrandite e ristaurate a comodo dei viandanti le pubbliche vie; sistemata infine ed ordinata ne' suoi stati la pubblica economia. Ardeva però l'imperadore di vivissimo desiderio d'incarnare prontamente coll'esecuzione quelle vaste idee di riforme ecclesiastiche che da gran tempo aveva concette e gustate. Già da più di venti anni, in tutti i governi, e principalmente in quelli d'Italia, lo spirito di riforma in questa parte di esterior disciplina erasi con non poca solennità manifestato. Venezia, Genova, Parma, Modena e Napoli aveano posta la falce nel campo. Ora, scorsi appena diciotto giorni da che mancata era l'imperadrice Maria Teresa, pubblicò Giuseppe la prima sua provvisione intorno alle persone che si davano allo stato claustrale. Essergli, diceva, noto per esperienza che quelli che abbracciano la vita religiosa, dispongono sovente de' loro beni a favore delle case e comunità in cui entrano; or comandare lui che nissun novizio o religioso che testare o stipulare qualunque atto di ultima volontà prima della professione dei voti volesse, non potesse, sotto qualunque pretesto, disporre di più di mille ducento fiorini in favore di dette case e comunità. Tre mesi dopo questo, diede fuori l'editto che concerneva a tutti gli ordini frateschi: che tutte le case religiose negli Stati austriaci sussistenti dovessero, comandava, rinunziare totalmente e per sempre ad ogni unione, dipendenza o connessione con altre cose religiose estere o con esteri superiori; al contrario, tutti i regolari austriaci essere governati e diretti dai provinciali rispettivi, sotto l'ispezione ed autorità de' vescovi, dovessero: le medesime disposizioni altresì alle comunità delle femmine si estendessero, e sotto pena della deposizione, avessero le superiore per l'avvenire a dipendere soltanto ed esclusivamente dal clero degli Stati dell'imperadore, tanto in affari ecclesiastici come nelle temporali bisogna. Immediatamente a questo editto ne seguitò un altro, col quale ordinavasi che quanti religiosi di qualunque sesso chiedessero di essere dispensati da' fatti voti, ai rispettivi ordinarii, per riportarne la bramata dispensa, le istanze loro rivolgessero: vietati, in pari tempo, tutti i voti tanto temporanei come condizionati, se fatti prima dell'età permessa per la vestizione, cioè ventun anni per le donne, venticinque pegli uomini. Intimato a tutti gli eremiti di deporre il lor abito romitico, venne Giuseppe contemporaneamente in sull'abolire diversi monasteri d'ambi i sessi. Tutte le case religiose, tutti i monasteri ed ospizii sotto qualsivoglia nome di certosini e camaldolesi, come pure di monache carmelitane, francescane, cappuccine o di Santa Chiara, rimasero soppressi ed aboliti generalmente in tutta l'estensione degli Stati austriaci. Allora fu che non poche monache, o non persuase di passare in altri istituti dal sovrano approvati, o di trasferirsi fuori degli Stati austriaci, fecero ritorno, in Italia, nelle paterne case. Avendo esso principe giudicato necessario che le bolle, i brevi, i decreti emanati da Roma, per l'influenza che avevano sugli affari dello Stato, prima della pubblicazione, a lui ogni volta e senza eccezione nissuna fossero presentati per ottenere il beneplacito, pratica già in uso in moltissimi altri Stati cattolici, prescrisse a tutti i vescovi ed arcivescovi de' suoi Stati che tutti gli ordini pontificii sì in forma di breve, decreto, costituzione, o in forma altra qualunque si fosse, indirizzati al popolo, a comunità tanto ecclesiastiche che secolari, oppure a private persone, relativi a collazioni di benefizii, pensioni, onori, potestà, diritti, od anche in materie dogmatiche o di disciplina, dovessero, avanti la pubblicazione, presentati essere alla reggenza civile d'ogni provincia con una copia autentica stesa da pubblico notaio del paese, ed accompagnata da suppliche, affine di essere poi della sovrana approvazione muniti. Convinto Giuseppe II, come egli si esprimeva, de' perniciosi effetti della violenza alle coscienze fatta, e de' vantaggi essenziali che una vera tolleranza cristiana procura alla religione ed allo Stato, credette bene di determinare, riguardo a questo punto, alcune regole. Fosse permesso l'esercizio privato della loro religione a tutti i sudditi protestanti, sia della confessione elvetica, sia di quella di Augusta, in qualunque luogo degl'imperiali Stati. Sapessero eglino che, nelle elezioni e collazioni di cariche civili, il principe riguardo alcuno non avrebbe alla differenza della religione, ma unicamente, come s'era sin allora fatto senza sinistro effetto nel militare, la probità; la capacità, la buona condotta degli aspiranti valuterebbe. Ne' matrimonii contratti tra persone di religione diversa, se il marito cattolico fosse e la moglie protestante, i figli e maschi e femmine la religione del padre seguissero; se il marito protestante e la moglie cattolica fosse, i figli maschi seguissero la religione del padre, le femmine quella della madre. Purchè osservasse le leggi municipali e le sovrane ordinazioni, e la quiete pubblica non disturbasse, nissuno, Giuseppe comandava, fosse mai assoggettato per motivo di religione a pene pecuniarie o corporali qualunque; prescritto a tutti i magistrati e giudici di ricordare a' cattolici la carità e l'amor fraterno, di astenersi dalle parole ingiuriose, dalle offese, da' pungenti rimproveri contro coloro che la ventura non ebbero di nascere in grembo della cattolica Chiesa. Aveva già l'imperatore con altro editto annunziato a' suoi sudditi che, trovandosi eglino nel caso di dover chiedere per oggetto di matrimonio una dispensa sopra uno od altro impedimento canonico, non a Roma domandar la dovessero, ma bensì al rispettivo arcivescovo, da cui, mediante il pagamento di modica tassa di cancelleria, concessa sarebbe; ingiunto ai parochi, tanto delle campagne come delle città, di non congiungere in matrimonio coppia veruna di sposi, se dispensa altra qualunque fuor di quella del rispettivo ordinario gli presentasse. Qualche tempo dopo, oltre alcune condizioni prescritte ai vescovi intorno alle dette dispense, ordinò, che chi bisogno ne avesse, prima di cercarle ai vescovi, la permissione dal sovrano impetrarne dovesse. Contenendo il pontificale romano un giuramento che i vescovi, all'atto della loro consacrazione, al papa fanno, l'imperatore emanò un suo decreto, con cui intendeva di non ricusare il placito alle bolle spedite da Roma agli arcivescovi e vescovi nuovamente eletti, ma vi aggiungeva la condizione espressa che nè il prelato consacratore nè il prelato consacrato non venissero autorizzati nè a ricevere nè a prestare il detto giuramento se non nel senso dell'ubbidienza cattolica, e non altrimenti. Ordinò quindi che i nuovi eletti, prima di essere consacrati e prima di quel giuramento ordinario al papa immediatamente dopo la nomina od elezione altro prestarne dovessero tutto speciale di fedeltà all'imperadore, in presenza del governatore e de' due più anziani assessori del luogo; giuramento che, sottoscritto dal nuovo o vescovo o arcivescovo, dai tre testimoni suddetti, e spedito originalmente al sovrano, conteneva una promessa assoluta dell'eletto di comportarsi verso l'imperadore, suo solo legittimo sovrano, principe e signore, da fedel suddito e vassallo, non facendo e non permettendo scientemente che fatta fosse direttamente o indirettamente cosa alcuna che pregiudiciale essere potesse e contraria alla persona di Sua Maestà, alla sua augusta casa, allo Stato o ai diritti della sovranità; con inoltre la promessa di ubbidire senza tergiversazione a tutti i decreti, leggi ed ordini dell'imperadore, di fargli osservare da' suoi inferiori col dovuto rispetto, e di cercare e procurare in ogni occasione la gloria ed il vantaggio del sovrano e de' suoi Stati. Alcuni vescovi eletti e non consecrati, questo decreto come ad essi ingiurioso e tendente a renderne sospetta la fede riguardando, supplicarono all'imperadore di dispensarli dal nuovo giuramento di fedeltà ad essi prescritto, proferendo in quella vece di più non prestare al papa nè l'antico nel pontificale riportato e nelle bolle inserito, nè verun altro; e lo imperadore volentieri la proposizione accettò. Ed altre leggi ed altre provvidenze il saggio principe impartì nelle materie ecclesiastiche, le quali non si poteva che nella novità non cagionassero scrupoli e dubbiezze; il perchè non giorno forse passava che al trono alcuno non si presentasse a chiedere spiegazioni. Ma nel corso di tali riforme e novazioni un avvenimento di natura diversa disgustò l'imperadore. Per uso antico nella romana corte stabilito, alla morte di ciascuno de' principali monarchi cattolici d'Europa, Austria, Francia, Spagna e Portogallo, rendevansi dai papi nella pontificia cappella con grande solennità gli ultimi onori all'estinto, di cui il santo padre stesso tesseva il funebre elogio. Non era però esempio che onore siffatto stato fosse reso alle regine o alle imperadrici che regnato non avevano se non congiuntamente ai mariti; ma l'imperatrice Maria Teresa, regina di Boemia, d'Ungheria e di tanti altri regni e Stati, era caso nuovo e meritava speciale riguardo. Il papa consultò i suoi maestri di ceremonie, e questi gli esposero di non aver trovato, per diligentissimi esami, che a donne solenni funerali nella pontificia cappella stati mai fatti fossero. E non consideravano che, dopo introdotto quell'uso, nissuna sovrana cattolica era in Europa stata nel caso di reggere da sè i popoli, come retti gli aveva Maria Teresa. Corse allora voce che il cardinale Herczam, ministro cesareo a Roma, ne facesse formale istanza, e sotto gli occhi del papa gl'inconvenienti mettesse che dal non fare insorgere potevano; eppure si sentisse dal pontefice rispondere ch'ei derogare dall'usato ceremoniale non poteva. E così fu. Se questo rifiuto non influì ad accelerare i disegni di riforma, ed a farli rapidissimamente gli uni agli altri succedere, questo però fu il tempo in cui l'imperadore ordinò la soppressione del collegio ungarico di Bologna, e la partenza da quella città di tutti quei nazionali suoi sudditi obbligati ad andarne a studiare nelle università di Buda o di Pavia. Non bisogna chiudere la narrazione degli avvenimenti di quest'anno senza registrare la morte, il dì 27 di maggio accaduta, di Giambatista Beccaria, fisico egregio, a cui la scienza va debitrice di molti progressi, specialmente nel ramo della elettricità. Anno di CRISTO MDCCLXXXII. Indiz. XV. PIO VI papa 8. GIUSEPPE II imperadore 18. Le amarezze tra il papa e i due principi austriaci Giuseppe e Leopoldo, non tanto che si raddolcissero, tendevano un giorno più che l'altro a maggiore disgusto per le riformazioni ch'essi tuttavia andavano nelle materie ecclesiastiche tanto nei Paesi Bassi e nel Milanese, quanto nella Toscana facendo. Le cose battevano massimamente, come si è veduto, nel volere che i conventi, riguardati inutili, si sopprimessero; che i sussistenti non avessero più nessuna dipendenza dai loro generali di Roma, ma fossero al vescovo della diocesi sottomessi; che per certo dispense per matrimonio a Roma più non si ricorresse, ma dagli ordinarii fossero concedute; che certe pratiche pompose di culto esteriore si annullassero; che, per quanto fare si potesse, nissuno ecclesiastico ozioso se ne stesse, ma o per sè medesimo od in sussidio dei parrochi nel divino ministero si esercitasse; che le dottrine della giurisdizione suprema del papa sui principi temporali più non s'insegnassero; che nelle università fosse vietato di dare i giuramenti, secondo la forma prescritta da Alessandro VII, e che le bolle _Vineam_ ed _Unigenitus_ dovessero aversi per nulle e di niun effetto; che niun'altra professione di fede fosse permessa se non quella di Pio IV; che silenzio perpetuo vi fosse sulla costituzione contro i giansenisti, tanto nelle scuole private, quanto nelle pubbliche. Tutte queste ed altre provvisioni, aggiunte alle risoluzioni già prese intorno alle mani morte mettevano in grande apprensione il pontefice e chi lo consigliava. Pio adunque, a cui romoreggiava d'ogni intorno così fiera tempesta, essendo disposto a tentare ogni fortuna per tornare la santa Sede nella sua dignità e prerogativa, ancorchè di Leopoldo maggiormente temesse, fece risoluzione di indirizzarsi a Giuseppe, presumendo che, ove il fratello maggiore si fosse piegato a più amorevoli pensieri, il minore non si sarebbe indugiato a seguirne l'esempio. Oltre a ciò, che un papa viaggiasse per andar a visitare un imperatore, era accidente più conforme alla dignità che se si fosse mosso alla volta di un principe di minore grado e potenza. Il pontefice persuadeva a sè medesimo che non invano veduto avrebbe nella sua Vienna Giuseppe, che non in vano sarebbe stata la gita del capo supremo della Chiesa, che non invano avrebbe in età già avanzata corso paesi a lui tanto insoliti e lontani. Deliberossi pertanto a voler vedere l'imperatore nella capitale stessa del suo vasto impero. Grande attenzione, pari aspettazione era sorta nel mondo per le recenti deliberazioni dei due fratelli austriaci, ma più grandi ancora furono e l'attenzione e l'aspettazione quando udissi un caso già da più secoli inudito, che ad un così lungo viaggio si accingesse un romano pontefice. Ovunque egli passava, concorrevano i popoli divoti per venerarlo; i principi dal canto loro gli rendevano i dovuti onori. Alta cagione il moveva. Chi maggiore pietà che congnizione delle storie aveva, augurava lieto fine dell'insolita andata. Ma chi più dentro sentiva nelle umane cose, queste consolatorie speranze non accettava, credendo che il papa nulla potrebbe appuntare coll'imperadore. Costoro ragionavano che Giuseppe, non per capriccio, ma molto pensatamente e di proposito deliberato venuto era alle sue deliberazioni, e che per ciò da esse per nissuna dimostrazione romana si dipartirebbe. Pio fu accolto a Vienna con ogni maggiore segno di riverenza. Se gli diede stanza nel palazzo imperiale, spesse volte l'imperatore il visitava, i popoli se gli presentavano riverentemente avanti per onorarlo, i soldati stessi, così comandando il principe, al sommo sacerdote con le loro militari maniere s'inclinavano. Onde si vedeva che la maestà religiosa vinceva la forza. Se in chiesa con la sua pontificale pompa ufficiava, pieni erano i sacri luoghi di fedeli che dal pontefice romano le spirituali grazie attendevano. Se dalla imperial magione si affacciava, o andava per le vie della sovrana città, ognuno alla venerabile sua persona o nel segreto suo pensiero od anche colle aperte voci applaudiva. Nella più intima parte della Germania trionfava Pio per l'aspetto della persona, per la riverenza della religione, per portare in fronte quel nome di Roma, già prima sede del mondo per l'armi, ora prima sede della cristianità per la religione. Quanto più l'imperadore stava fermo nel non volere cambiar proposito e nel ricusare i desiderii del papa, tanto più si mostrava fervente nella religione. Pio stesso con gravissime parole in un concistoro pubblico tenuto nel palazzo imperiale a dì 19 di aprile il lodò; con somma contentezza, disse, avere veduto da vicino l'imperiale maestà, con somma contentezza avere abbracciato l'imperatore stesso, quell'imperadore ch'egli cotanto stimava, cortese e facile averlo sempre trovato ogni volta che pel debito del suo pastorale ufficio di alcuna cosa il richiedeva; essere stato da lui nell'augusto suo domicilio accolto, con ogni maniera di generoso servimento trattato; maraviglia e consolazione avere sentito nel vedere la sua somma divozione verso Dio, l'altezza del suo spirito, l'attenzione indefessa ai negozii del principato; ciò consolare la sua paterna affezione, ciò ricompensarlo della fatica presa per così lungo viaggio; consolarsi ancora e dolce compenso trovare nel vedere quella magnifica città, nel vedere i popoli concorsi, mentre ancora per via veniva, per onorarlo, onde bene argomentato aveva che ancora intatte ed incorrotte erano la pietà e la religione; non essere pertanto per cessare mai di lodare un così religioso imperadore, non mai cessare di ricordarlo nelle preci sue, non mai cessare d'implorare dal grande Iddio (che chi da lui non si scosta, sempre sostenta e regge), acciocchè ed imperadore e popoli nel santo proposito in cui erano, aiutasse sempre e confermasse. Pio aveva vinto colla presenza e colla dignità i popoli, ma non potè vincere l'imperadore. Nè le sue lodi, nè le istanze ebbero valeggio di svolgere l'austriaco principe dal suo proponimento, e il pontefice fu pur troppo chiaro della di lui mente volta a continuare nelle riforme. Crescendo le molestie della santa Sede, manifestavansi per ogni dove acerbi segni. La Toscana, Milano, l'alta Germania insorgevano; che anzi Giuseppe avendo in questo tempo appunto messo la mano sui beni ecclesiastici, così dei regolari come dei secolari, e lamentandosene il pontefice, l'imperadore rispose risentitamente, che sapeva ben egli ciò che si faceva, e che una divina voce in sè medesimo sentiva, la quale i suoi imperiali decreti gl'inspirava e dettava. Un mese erasi Pio soffermato a Vienna, donde partendo e prendendo via per Augusta, Innspruck, Bressanone, Bolzano e Roveredo, giunse ai confini del veneto dominio, dove, incontrato dai deputati della repubblica, l'accompagnarono in Verona al convento dei domenicani di Santa Anastasia, in cui albergò. Veduta l'arena, veduti gli altri veronesi monumenti, avviavasi per Vicenza e per Padova a Venezia, accolto sopra un ricco bucentoro, accompagnato dal patriarca e da' prelati, incontrato dal doge e dalla signoria, da per tutto onorato, da per tutto festeggiato, e padre comune salutato. Nel convento dei domenicani, superbamente addobbato a spese del pubblico, prese la stanza; pontificò nell'aggiacente chiesa de' Santi Giovanni e Paolo, all'immenso devoto popolo accorso da superba tribuna la papale benedizione impartì. Da questa magnifica Venezia partitosi, giungeva il dì 13 del mese di giugno nella sua Roma. Paolo, figliuolo di Caterina II imperadrice di Russia, dall'augusta madre mandato, in compagnia della granduchessa sua consorte, a restituire a Giuseppe II la visita che questi fatta le aveva nella sua residenza di Pietroburgo, da Vienna passò a vedere l'Italia, sotto il nome di conti del Nord, che aveano gl'imperiali coniugi per questo viaggio assunto. Gli accolsero Roma e Napoli, Firenze, Modena e Milano, e la nostra Venezia gli accolse in isplendida e regia ospitalità, nel che non solea restare a niun altro potentato seconda. Magnifiche feste in teatro, caccia di tori al chiaror delle faci nella gran piazza di San Marco, e lo spettacolo singolare di queste adriache spiaggie, la regata, con altri non meno brillanti che graditi trattenimenti segnalarono i dieci giorni che gli ospiti illustri qui fermarono il piede. Ma mentre i principi veniano in Napoli accolti e festeggiati, la città di Ortona, parte di quel regno, situata in riva al mare Adriatico, nell'Abbruzzo Citeriore, si subissò. Posta sopra un monte assai alpestre, formando una specie di penisola, in un terreno di tufo più volte già smotato, venne a scoscendersi una parte del poggio, sì che un buon terzo della città piombò tutto in un tratto in mare, nel rovinio ammazzando più di due mila persone. Nel dì 25 di febbraio, un'ora prima di sera, quasi in tutta l'estensione della città, incominciò a distaccarsi dalle fabbriche la terra; alle tre della notte tutto ciò che prima era colle apparve una voragine spaventevole. Il terreno coperto dalla neve a quei giorni caduta precipitò velocissimo in mare. Nessun riparo fermar poteva gli ulteriori danni. Gli abitanti, rimasti attoniti a tanto inaspettato disastro, si diedero tutti alla fuga. In quest'anno l'imperadore Giuseppe II abolì in tutti i suoi Stati, quelli di Italia compresi, la pena di morte. Contemporaneamente in Toscana abolivasi l'inquisizione. Due figli di Apollo in quest'anno morte rapiva all'Italia; Metastasio e Farinelli; famoso poeta quello, questo cantore famoso. Anno di CRISTO MDCCLXXXIII. Indiz. I. PIO VI papa 9. GIUSEPPE II imperadore 19. Nissuna regione del mondo fu mai tanto tormentata quanto l'estrema parte d'Italia, che ora il regno delle Due Sicilie comprende. Gli uomini in ogni tempo l'afflissero, ora con guerre intestine, ed ora con guerre esterne, e spesso ancora con mutazioni di stirpi regie, a cui pareva che quel bel paese non fosse cosa da lasciarsi ad altri. La natura poi lo straziò ora con incendii spaventevoli di monti, ed ora con terremoti più spaventevoli ancora. Sonvi sul globo terracqueo alcuni luoghi, dove da tempi antichissimi la natura è già sfogata, che è quanto dire, che le forze sue, superati tutti gli ostacoli, hanno indotto quello Stato che a loro più consentaneo è: questi luoghi, quanto ai fenomeni naturali, godono di maggiore tranquillità. In altri paesi poi la natura, per così dire, sforzantesi e rabbiosa ancora si travaglia, e tra mezzo a perturbazioni ed a ruine tende a sormontare quanto le si oppone per arrivare al suo stato di quiete. Ora l'estrema parte d'Italia che al mezzodì si volge è una di quelle che non hanno ancora ottenuta quella quiete, e la van cercando. Quindi è che nelle sue viscere interne regna tuttavia una gran discordia, che fuori a noi si scopre con fiamme spaventose, con eruttamenti maravigliosi, con macigni liquefatti, con terremoti, con marimoti, con aeremoti, che danno a temere che sia venuta la fine dell'esistenza, non che del riposo, e pure altro non sono che avviamento alla quiete. La natura non conosce tempo; per lei nè anni nè secoli vi sono, e di noi si ride, a cui incresce il morire. Noi non vedremo la quiete della Magna Grecia nè delle siciliane sponde, ma tempo verrà ch'esse l'avranno, e la stessa condizione acquisteranno, che già nelle più parti di questo nostro globo si osserva. Non so però perchè così tardi ella vi sia per arrivare, scrive un famoso storico che trascriviamo, e perchè contrada così magnifica e così bella, forse la più magnifica e la più bella di tutte, e perchè uomini così sensitivi e così immaginosi abbiano a soffrire un così luogo travaglio. Se castigo di Dio è, non vedo ch'essi abbiano peccato più degli altri; se necessità di fortuna, bisognerà confessare, che siccome sempre cieca ella è, così ella è sovente ingiusta. Racconterò, seguita il lodato storico, cose stupende, e tali, che dubito che da nessuna penna degnamente raccontare non si possano; una provincia intera sconvolta, molte migliaia d'uomini in un sol momento estinti, i sopravviventi più infelici dei morti; la terra, il cielo, il mare sdegnati; ciò che la natura ha fatto di più sodo, in ruina; ciò che per la sua sottigliezza toccare non si può tanto impeto acquistare, che, le toccabili cose furiosamente urtando, rovesciò; ciò che mobile e grave è, fuori del consueto nido sboccando, guastare ed abbattere quanto per resistere a più leggeri elemento solamente stato era construtto; i fati d'Ercolano, i fati di Pompei, e forse peggiori perchè più subiti, a molte città apprestarsi, non soffocate ed oppresse, ma stritolate e peste; una faccia di terre le più amene e ridenti del mondo cambiata subitamente in ultima squallidezza ed orrore; orribili fetori di cadaveri putrefatti non riscattabili fra l'immense ruine, orribili effluvii di acque stagnanti nel loro corso d'accidenti straordinarii interrotte, orribili malattie da spaventi, da stenti, da moltiplici infezioni prodotte, abissi aperti, città subbissate od inabissate, monti scoscesi, valli colmate, fiumi e fonti scomparsi, nuovi comparsi, polle di mota da aperte voragini scaturienti; un istinto d'animali bruti il futuro male preveggenti, una sicurezza d'uomini, cui la ragione è meno provvida dell'istinto; un salvar di fanciulli con morte delle madri, un preservar di padroni per fedeltà di servi, un aiutar d'infelici per bontà di governo, per umanità di signori, per carità di preti; vittime per casi strani o quasi non credibili dall'ultimo eccidio scampate; una cieca fortuna, un impeto ineluttabile, un grido di morte uscito dalla terra per sotto, dal cielo per sopra, dal mare per lato, spaziare dappertutto, ed ogni cosa rompere, ogni cosa spaventare, ogni cosa in ruina ed in isconquasso precipitare; gl'incendii uniti alle ruine, e le fiamme consumare ciò che al furore degli altri elementi era avanzato. — A ciò tutte le superstizioni più stravaganti che caggiono in menti smosse, tutte le furberie di chi delle sciocche superstizioni e dei solenni terrori si pasce ed in suo pro gli converte; a ciò ancora pentimenti fugaci di uomini malvagi, rapine contro miseri, insulti contro benefattori, abbandoni di chi soccorso chiedeva e pietà; il mondo morale, come il mondo fisico in disordine; ciò che doveva intenerire i cuori, e farli dell'umana miseria conoscenti, vieppiù indurarli ed aspri ed inesorabili farli; gente scelleratissima con opere nefande dimostrare che la cupidigia del rubare e l'infame sfogamento della libidine sopravanzavano, e soffocavano la compassione e lo spavento. Maravigliosa terra di Napoli che sempre dimostrasti essere in te estremo il bene, estremo il male, nè dal consueto stile poterti ritrarre nemmeno la natura orrida e sconvolta: quello dinota eroismo, questo una spaventevole ostinazione. È impossibile seguire più innanzi nella sua stupenda narrazione del fatto lo storico illustre che a parte a parte lo descrisse; ma verrem da lui traendo ciò che i tratti principali della tremenda catastrofe possa mettere dinanzi alla mente. Alla state fervidissima dell'anno 1782 era succeduto nelle Calabrie un autunno piovosissimo, nè cessò lo smisurato acquazzone nel susseguente gennaio; che anzi vieppiù per questo conto imperversando il cielo, caddero nell'anzidetto mese pioggie così disoneste e dirotte e precipitose, che la terra calabra, massime quella così detta della Piana, restò altamente danneggiata, non solamente pegli allagamenti dei fiumi, ma ancora per essere stati i terreni viemmaggiormente ammelmati e fatti capaci di dissoluzione. Cotale perturbazione della natura presagiva calamità ancor maggiori, ma niuno si dava a temere che esse fossero per arrivare al totale discioglimento della contrada. Avevano altre volte quei popoli simili pioggie e simili innondazioni vedute, ma, dal guasto dei superficiali terreni e dal danno delle ricolte in fuori, da altri maggiori disastri non restarono afflitti. Intanto era il nuovo anno giunto al principio di febbraio, mese per fatal destino funesto alla Magna Grecia, e specialmente alla Calabria; perciocchè in esso piombò la fatale ruina sopra i distretti Ercolanense e Pompeiano sotto il consolato di Regolo e di Virginio; in esso fu conturbata, alcuni secoli avanti, la Sicilia e distrutta Catania; in esso nel duodecimo secolo sommosse dai tremuoti non solamente la Sicilia, ma eziandio le Calabrie. Il principio più fatale che la fine, poichè al quarto od al quinto giorno di lui accaddero quegli scroscii della natura. Correva appunto il quinto giorno di febbraio di quest'anno, ed il giorno era giunto alle diecinove ore italiane, vale a dire, in quella stagione, un poco più oltre del mezzodì. Nell'aria non appariva alcun segno straordinario. Rare e quiete nubi a luogo a luogo il cielo velavano. Nè il Vesuvio nè l'Etna buttavano; Stromboli non più del solito. Sentivasi il freddo, ma non oltre l'usato; il consueto aspetto stava sopra le calabresi cose. Eppure la terra in sè medesima chiudeva un insolito furore. O fossero fuochi, o fossero vapori potentissimi che scarcerare si volessero, quella ordinaria calma dovea fra brevi momenti turbarsi per dar luogo ad un rumore e ad uno scompiglio orrendo. Gli uomini nol presentivano, e senza tema le ore fra i soliti diletti o fra le solite fatiche andavano passando. Ma non gli animali bruti, che inquieti, fastidiosi, spaventati, col correre, col tremare, col gridare, mostravano che alcuna terribil cosa si andava avvicinando, ed aspettavano. Così un'arcana natura con ispaventosi presentimenti avvertiva del pericolo chi poco o nulla evitare il poteva, mentre di lui conscii non faceva quelli che pel lume della ragione fuggirlo, se non in tutto, almeno in parte saputo avrebbero. Trascorso era il giorno 5 di febbraio di pochi minuti oltre il mezzodì quando udissi improvvisamente nelle più profonde viscere della terra un orrendo fragore; un momento dopo la terra stessa orribilmente si scosse e tremò. In quel momento medesimo cento città, o non furono più, o dalla primiera forma svolte, quasi informi ammassi di spaventevoli ruine giacquero. In quel sempre orribile e sempre lagrimevole e sempre di funesta rimembranza momento, più di trenta mila umane creature rimasero ad un tratto morte e sepolte. Quale passo da tanta quiete a tanto spavento! Quale conversione da tanta allegrezza a tanto pianto! Quale differenza da tante vite a tante morti! Non fu breve la cagione dell'orrenda catastrofe: perciocchè scossesi e tremò la terra colla medesima veemenza e fremito ai 7 febbraio, ai 26 ed ai 28, e finalmente ai 18 di marzo una violentissima scossa avvertì i Calabresi che i loro spaventi e dolori non erano ancora giunti al fine, e che, per iscampare dalla morte, su quel suolo infido altro rimedio non vi era che quello di fuggire; ed assai lontano fuggire, posciachè l'ira del cielo sopra di loro non era ancora esausta. Il gravissimo urto di marzo scompigliò, ruppe e rovesciò quanto ancora era rimasto intiero ed in piè, se pure ancora alcuna cosa intiera e sulle fondamenta rimasta era. Giunsesi la disperazione al terrore: ad ogni momento credevano quei miserandi popoli che la terra, spaccandosi in abisso, gl'inghiottisse tutti. Quelli di febbraio esercitarono principalmente il loro furore sopra le città più vicine al Faro; l'ultimo su quelle che verso lo strangolamento d'Italia tra i golfi di Sant'Eufemia e di Squillace sono poste. Le raccontate scosse squassarono con violentissime urtate la terra, ma fra di quelle non vi fu mai quiete perfetta. Di quando in quando alcune scosse minori si sentivano, e fra di loro un perpetuo ondeggiamento, un andare e venire più o meno manifesto della terra, come se ella divenuta fosse fiottosa, e per cui non pochi travagliavano di quel molesto male che affligge ne' viaggi marittimi coloro che non vi sono avvezzi. Fatale fu questo terremoto non solamente per la violenza delle concussioni, ma ancora, e forse più, per la diversità e moltiplicità de' moti impressi alla terra. Fuvvi il moto subsultorio, cioè dal basso all'alto, come se qualche orrendo fomite battesse o picchiasse o punzecchiasse l'esterna crosta per farsi via da uscir fuora, in quella guisa stessa che un colpo dato con un grosso martello sotto una tavola orizzontale farebbe. Fuvvi il moto di sbalzo, come se una porzione della terra a modo di fionda i soprapposti corpi in alto scagliasse. Fuvvi il moto vertiginoso, come se la terra in sè medesima si rivoltasse ed una vertigine imprimesse a ciò che toccava, moto che fu il più pericoloso di tutti, e che atterrò molti edifizii che retto avevano ad altri moti, e le superficie de' corpi converse, mettendo le superiori sotto, le inferiori sopra. Fuvvi il moto ondulatorio, il più solito ne' terremoti, e per lo più da Oriente verso Occidente andava. Fuvvi finalmente un moto di compressione dell'alto al basso, per cui i terreni si abbassavano, e, come a dire, si insaccavano, e più fortemente compressi si assodavano. Dal disordine de' moti si argomentava che disordinata fosse la cagione, e che guerra vi fosse sotto, come vi era sopra. Non è da tacersi punto che più sonoro era il fragore, che chiamavano _rombo_, spaventevole nunzio di estreme sciagure, e più forti erano le scosse che susseguitavano, onde maggiore danno seguitava un maggiore spavento. Or chi potrebbe ridire la varietà degli accidenti in tanto sconquasso? Monteleone, nobile ed antica città, che mostra qualche residuo di muri ciclopei, restò altamente offeso dalla percossa, sì che i più suntuosi templi, i più vasti edifizii, come le più umili case, furono rotti e scomposti, ed ancora che i più atterrati non fossero, diventarono nondimeno inabitabili. Maggiore fu la desolazione di Mileto, dove, oltre le case, che tutte patirono infiniti danni, restò da cima a fondo irreparabilmente infranto e inabissato il magnifico tempio della Trinità; tetto, mura, campanile, altari, andarono tutti in un monte di rottami. Tropea fu percossa dal terremoto, ma in grado minore. Meno ancora restò offeso il poco lontano villaggio di Parghelia, villaggio singolare non per grandezza nè per ricchezza di edifizii, ma per industria dei terrazzani, troppo diversa dalla rilassatezza che in non poche parti della Calabria regnava. Soriano, andato esente dal terremoto del 5 febbraio, restò desolato da quello del 7; nè vi rimase orma degli edifizii di terra pigiata, che nel paese chiamano terraloto, e da cui la massima parte della città si formava. Lieta, anzi lietissima era la strada da Soriano a Jerocarne, siccome quella che ombreggiata era e vagamente sparsa di ulivi, di castagni, di quercie e di viti, ed ora divenne un miscuglio commisto di ruine. Tanto sovvertimento patirono i terreni! Si screpolarono, aprironvisi di profonde fessure. Ma le fessure immobili non erano; ora si serravano impetuosamente, combaciandosi di nuovo gli orli, ora si riaprivano, disgiungendosi quelli novellamente. Le fenditure, e così in questo luogo come in ogni altro, pigliavano diverse forme, ma le più in cotale modo s'informavano, che parecchie da un solo centro aperto anch'esso partendo, a guisa di raggi se ne allontanavano. Talvolta usciva da queste spaccature una fanghiglia cretacea spremuta a forza, come pare, dai più interni ripostigli della terra. E di questa fanghiglia altri ed altri eziandio erano i modi. Dalle grandi e vaste spaccature usciva copiosissima, e le vicine campagne allagava. Ne restavano intrisi i rottami, intrise le ruine, intrisi gli alberi e i sassi. Sovente accadea che non da fenditure saltava fuori, ma da certe conche circolari; che sul terreno cavo si formavano; e dal centro delle medesime, piuttosto che da altre parti, scaturiva. Tale fu la natura degli accidenti di questo terremoto, che piuttosto acqua o creta nell'acqua disciolta sorsero dalle profonde viscere del travagliato globo che fuoco od altre sostanze che la presenza dall'igneo elemento manifestare sogliono; cosa che riuscì contraria alla opinione di molti che credono da fuochi sotterranei ingenerarsi i terremoti. Successe poco lungi da Soriano nei terreni del fra Ramondo, del Covolo e del fiume Caridi una gran rovina ed una inondazione di fango: giardini, due case rurali, un oliveto, due monticelli sdrucciolarono, il Caridi scomparve, si aprirono voragini, sgorgò acqua in copia, giacquero gli alberi in varie guise fra quell'incomposta congerie, sfortunatamente sepolte dall'orrendo scoscendimento alcune umane creature. Alcuni giorni appresso ricomparve il Caridi, ma in altro letto, nè puro o limpido come prima, ma limaccioso e torbido. Il più atroce tormento di chi restava sepolto vivo, ed in molti uomini e donne ciò si osservò, sempre fu la sete. Usciti dal carcere rovinoso non altro domandavano, non altro agognavano che bere, e sull'acqua per dissetarsene cupidissimamente si gettavano. Tant'era il rovello che li tormentava, che, perchè dall'improvviso e troppo copioso uso della bevanda non ricevessero mortale danno, uopo era ministrarla loro con regola e misura. Tra le disgrazie di molti illustri luoghi, di molte nobili città che raccontare non possiamo, però che il tempo e lo spazio ne sospingono, non possiamo tacere di Polistena, vaga città sulle sponde del Jerocarne, che non fu più, demolita di maniera, che i tetti rimasero innabissati e le fondamenta cacciate fuora dal loro sotterraneo cavo: tutta sotto sopra fu messa, nè mai più informe ammassamento di rottami si presentò agli occhi degli uomini spaventati che quello della distrutta Polistena. «Quando da sopra una eminenza, scrive il Dolomieu nella versione del Botta, io vidi le ruine di Polistena, quando io contemplai i mucchi di pietre che non hanno più alcuna forma, nè posson dare più idea di ciò che era quel luogo, quando io vidi che nissuna casa era sfuggita dalla distruzione, e che tutto era stato livellato al suolo, io pruovai un sentimento di terrore, di pietà, di raccapriccio, e per alcuni momenti le mie facoltà restarono sospese.» Le case precipitarono nel fiume, i grossi muri del convento dei domenicani si sfasciarono ed in grandi massi rovinarono. Dalla parte de' cappuccini si avvallò il terreno, in varii luoghi largamente si sfesse, tutto il paese all'intorno sino a piè del monte tre miglia distante si screpolò. Un momento solo del 5 febbraio precipitò e soffocò negli abissi più di due mila Polistenesi, fra sei mila che erano. I sopravviventi, erranti e miseri, non solo case più non avevano, ma nemmeno fra quella informe ruina le riconoscevano: a stento il luogo dell'antica e distrutta sede accertavano. Terranuova divenne in pochi istanti un vano nome; il suolo stesso ove posava, non solo cangiò forma, ma non fu più. «Un gemito indistinto, così scrivono gli accademici di Napoli, un gemito indistinto, un terribile fragore, e una densa nube di polve ascose tra la più compiuta annichilazione l'enorme strage che indistintamente si fece degli uomini e dei bruti.» Aveva la terra nel suo fiorito stato due mila abitatori; solo quattrocento dalla catastrofe scamparono. Trapasseremo senza arrestarci le ruine, gli sconvolgimenti, l'annichilamento di Molochiello, di Casalnuovo, di Oppido, di Santa Cristina, di Scilla, di Reggio, di cent'altri e villaggi e casali e città; trapasseremo eziandio gl'infiniti casi compassionevoli e i molti singolari casi e venture e disavventure dell'orrendo disastro non per la prima volta avvenuto in paesi che bugiardi ed insidiosi si potrebbero chiamare, posciachè per la bellezza ed amenità loro allettano a spiagge infide e piene di mortali pericoli: un sole benefico, chiari rivi scendenti dai poco lontani Apennini, freschezza di siti all'ombra degli aranci, dei gelsi, dei limoni, dei fichi, dei cedri, dei granati e della pampinosissima vite, fanno che quivi sieno i luoghi forse i più dilettevoli della terra. Ma sono giardini d'Alcina; la natura vi fu ad un tempo madre e matrigna. Ma fra le quasi infinite avventure e disavventure che dobbiam tralasciare, non possiamo astenerci dai trascrivere dallo storico più volte lodato alcuni casi che più degli altri potranno interessare il lettore. «La compassione ch'io sento, scrive egli adunque, m'invoglia di raccontare il caso di due madri infelici all'ultima ora sotto le ruine codotte, ma non sole. Rovinò sopra di loro un tetto, rovinò la povera casa. L'una aveva seco un figliuolo di tre anni, l'altra stringeva al petto un bambino di sette mesi. Nella estrema sciagura, in quel fondo di morte, la materna tenerezza non le abbandonò, anzi si accrebbe. Curvaronsi contro i cadenti sassi, e fecero del dosso arco sopra le innocenti creature. Istinto era, amore di madre era, ma frutto altresì di compassionevole illusione; perciocchè incontro ai rovinanti massi qual corpo di donna resistere potea? Morirono, e con esse i non salvati fanciulli. Chi fu mai più infelice al mondo di quelle misere e desolate madri? Furono trovate nell'attitudine descritta; e con le braccia avvinte ai figli l'una accanto all'altra, esse coi corpi pieni di lividori e di putrida gonfiagione, essi seccati e smunti. Or chi potrà dire quanto dolore regnato abbia in quell'oscuro speco? «Delle raccontate donne un'altra meno infelice, quantunque infelicissima sia stato, tutta la Calabria in ammirazione converse. Sette giorni intieri stette fra le ruine sepolta, nè alcun cibo o bevanda ebbe. Funne estratta esanime e moribonda. Come prima racquistò l'imperio dei sensi, _acqua_, gridò, _acqua, acqua io voglio_. Tant'era la sete che la straziava. Disse che nella tenebrosa caverna prima una infernale sete la struggeva, poscia perdè ogni sentimento di sè stessa. La da così vicina morte scampata donna visse ancora alcun tempo sovvenuta dalla pietà del pubblico. «Simile caso avvenne ad una donna di Cinquefrondi, villaggio poco distante te da Polistena, e dal sommo all'imo distrutto. Fu tratta viva dopo sette giorni di sepoltura, ma con due figliuolini, che seco aveva, morti. «Quanto sopportar possa in casi straordinarii l'animale natura, ancora più ne diede testimonianza un gatto, che, appiattatosi per asilo in un caldaio, il quale il peso dei rottami sostenne, vi stette quaranta giorni senza cibo di sorte alcuna. Il trovarono come giacente in placido sonno. Appoco appoco si riebbe, ed alcuni anni ancora visse, delizia del padrone. «Quale fosse lo spaventevole capriccio del terremoto, egli scrive in altro luogo, seppeselo il padre maestro Agazio, priore del carmine di Jerocarne, il quale per questi luoghi viaggiava, quando più il flagello v'infuriava. Spaventato volle fuggire; ma ecco un piede incepparsi in un crepaccio che subito si serrò. S'affaticò di ritirarlo, ma spese la fatica indarno. Mise grandi stridori, chiamò aiuto con alte grida, in quella desolata solitudine nissuno comparve, e tuttavia il piè stava stretto da quella straordinaria tanaglia. Credeasi morto, attaccato com'era a quel fatale e strano ceppo. Ma ecco in un subito per un nuovo urto di terremoto aprirsi il ceppo, spalancarsi la fauce e dargli libertà e vita. Il povero religioso arrivò al convento tutto sganganato, e più morto che vivo. Ognuno si maravigliava della stupenda ventura, ed egli a stento la poteva raccontare; tanto era oppresso dall'anelito e dalla paura!» E altrove: «Era una casa ad uso d'osteria lontana forse a trecento passi dal Solì. L'abitavano l'oste per nome Giovanni Aquilino, la sua moglie ed una nipote di tenera età. Eranvi per accidente quattro avventori. Giovanni se ne stava russando sul letto, siccome quello che avvinazzato era e cotto bene, le due donne attendevano agli uffizii di casa, gli avventori giuocavano alle carte. Ed ecco la casa intera prender viaggio verso il Solì, nè fermarsi se non quando al suo letto pervenne. Quivi l'urto fece ch'ella si disfece ed in frantumi andò. L'ostessa rimase, come trovavasi, seduta, e dalla paura in fuori non ebbe male alcuno. L'oste a maladetta forza si svegliò, e smaltito il vino, pianse la perduta fortuna; la misera fanciulla schiacciata morì. Morirono pure gli avventori venuti a giuocare sulle sponde dell'ameno, ma infedele Solì. «Uno sbalzo di terremoto aveva sepolto fra le ruine della sua casa l'abbate Taverna, medico di Terranuova. La polvere lo soffocava, la grandine dei piombanti sassi lo martellava, si credeva morto, quando un'altra urtata di terremoto lo scarcerò, fuora il trasse e dal pericolo lo scampò, per lo strano caso restò allibbito e intronato lungo tempo; finalmente tornò del tutto in sè, e dilettavasi nel raccontare come il terremoto l'avesse condotto vicino a morte, e come l'avesse salvato. La famiglia dei Zappia ebbe un caso comune col Taverna; sepolti da una spinta di terremoto, dissepolti da una altra. «Anche nella desolata Terranuova successe una mirabile sopportazione di un animale bruto. Nella casa dei Tutini, che rimase tutta infranta e distrutta, una cagna fra le ruine incarcerata visse per tredici dì senza alimento alcuno, e senza avere mai potuto lambire nè pure una stilla d'acqua. Uscì, toltigli i rottami d'intorno, viva e magra, e soprammodo sitibonda. I terreni rimasero tutti lacerati da crepacci e da fenditure. Alcune di queste fenditure avevano otto palmi di profondità, altre tredici, altre venti, ed anche di più; varia era la larghezza, ma nissuna maggiore di quattro palmi. Parevano quasi tutte fatte a taglio netto e successivo, ma con direzione confusa, varia e indistinta a segno che non ammettevano ordine alcuno, nè dove fosse il loro principio e dove la fine non si poteva accertare. Sopra un alto monte rimpetto a Terranuova, ma sulla opposta sponda del Solì, s'ergeva un villaggio per nome Molochiello. Questo infelice paesetto fu devastato in modo che pochi ed informi vestigii rimasero della sua esistenza. Una parte di lui precipitossi a destra, l'altra a sinistra, nè più altro suolo vi rimase del sito su cui giaceva che una fettolina a schiena d'asino, così acuta, che non vi si poteva su camminare. Videsi in questo luogo un orrido e non più udito spettacolo; che nel fianco del monte reciso come a perpendicolo pendevano ammassate le reliquie dei cadaveri riposti nei sepolcri, i quali, per lo squarcio avvenuto nei fianchi delle rupe, rimasero scantonati e per metà divisi. Un Antonio Avati contadino stava sur un castagno recidendone i rami, quando arrivò la devastazione. Il castagno si mosse, e con placido corso scese verso il fiume Marro per più di trecento passi. Fermossi finalmente intoppandosi giù nel vallone. Scuotessi Arati, e salvo sulla ripa saltò. La rustica casa di Grazia Albanesi, moglie di Giuseppe Zema, viaggiava anch'essa giù per lo monte. Aveva Grazia un bambino di poca età, che giaceva forse placidamente dormendo in una rozza culla fra meschine fasce avvolto. L'infelice madre restò affogata ed oppressa sotto le smisurate moli e della propria casa e delle altre fabbriche e del terreno e della creta che giù rovinavano dalla rupe di Molochiello. Credessi che con lei fosse morto il bambino. Già erano trascorsi tre giorni dal fatale avvenimento, quando da coloro che andavano fra le ruine raccogliendo gli avanzi della loro sepolta e scarsa suppellettile, furono uditi alcuni oscuri vagiti. Alzarono a speranza i pietosi animi, smossero, scavarono, trovarono la misera ed innocente creatura nella sua culla cinta di fango e fra orrendi frantumi involta. Rea era la stagione, il freddo aspro assai, la pioggia dirotta. Estrassero il bambino vivo da quell'informe spelonca così com'era, rauco dal pianto, conquiso dalla fame e dalla sete, assiderato dal freddo, dimagrato al sommo; così usci vivo dal sepolcro inusitato della madre. Il presero, il fomentarono, con prudenza il dissetarono, con prudenza ancora lo sfamarono. Salvo in somma il resero, ma non tanto che non portasse nello smunto viso e nel debole corpicino, finchè visse, i segni dell'andato patimento. Siccome morta era la madre, una zia materna prese cura dell'orfano così stranamente preservato da una stranissima ventura. Gli accademici di Napoli non senza maraviglia il videro.» Sino a questo passo furono raccontate le disgrazie di molti illustri luoghi, di molte nobili città; or si diranno quelle di colei che tutte e per antichità e per grandezza e per altezza di fama le avanza. La magnificenza non più che l'amenità non preservò dalla cagione inesorabile e furibonda. Siede Messina sulla terra sicula, alto elevandosi quale regina del famoso stretto che da lei il suo nome prende. Celebre ai tempi antichi, celebre nel medio evo, e celebre ancora nelle moderne età, fa testimonio, che quivi all'industria degli abitanti, alla fertilità del suolo, alla benignità del cielo si aggiunge un quieto e necessario rifugio a chi sen va navigando sur un mare sopra misura tempestoso, e troppo spesso da furie disordinate perturbato. La natura rabbiosa qui pose Scilla e Cariddi, scoglio e voragine infami per tanti naufragii, e quivi la provvida natura pose il porto di Messina al pari di qualunque altro più famoso che al mondo sia, ampio, profondo, sicuro, atto a ricettare come le più piccole ed umili barche, così le più grosse e magnifiche navi. Fu città cara a' Normanni, cara agli Svevi, cara agli Aragonesi, onde sorse piena di sontuosi edifizii e corredata di tutti quei comodi della vita che alle città principali di un reame si appartengono. A così alto grado salì una volta la sua potenza, che e grossissimo commercio faceva, e numerose armate sui mari spingeva, e del primato dell'isola con la stessa popolosa Palermo contendeva, ed alcun tempo il tenne. Per le guerre civili poi e pei rivolgimenti politici e per le ribellioni, ed ancora pel crescere progressivo dell'emula città, cadde in più basso stato, ma non però tale che illustri segni non serbi, e per popolazione e per magnificenza di edifizii, della grandezza antica. La natura e gli uomini l'avevano fatta grande e graziosa; gli uomini poscia per le discordie, la natura pei terremoti la mandarono in declinazione; e da sè medesima diversa la fecero. Tremarono e rovinarono le Calabrie, Scilla e Reggio a rincontro di Messina poste, parte fracassate, parte sommerse giacquero. Il profondo mare non interruppe la mortale causa. Tanto essa era entro le più cupe e più profonde viscere della terra nascosta! Successero nell'infelice Messina cose tali che Scilla e Cariddi non ne starebbono al paragone. Sino dai primi giorni di febbraio vi comparvero, ancorchè fuor di stagione fosse, quei _cicirelli_, pesci del genere delle sfirene, che sono a quelle spiaggie tristo annunzio di tremuoto. La veduta di questi allora insoliti pesci cominciò a turbare i Messinesi, i quali qualche grave caso ne augurarono, ma però non sospettavano di così spaventosa ruina della loro città. Altri segni sorgevano dell'imminente tempesta e di funesto avvenire. Il mare in quello stretto, che dal Peloro trascorre lungo l'aspetto di Messina, è commosso da un flusso quotidiano, cui gli abitanti chiamano marea, e con vocabolo corrotto rema. Due volte al giorno le acque sono solite a gonfiarsi ed a correre verso settentrione nel Faro, e due volte ricorrono nel mare Siculo verso Ostro. Fremono sì quando vanno e vengono, ma non tanto che nei tempi ordinarii diventino tempestose. Tal era ed è il consueto tenore con cui nello stretto di Messina procede quel vorticoso mare. Ma quando l'anno giunse ai primi di febbraio, principiò ad alterarsene l'usato andamento: «Le maree, narrano gli accademici di Napoli, non erano esattamente regolari da sei in sei ore; torbida, fremente e oltre il costume feroce divenne la vorticosa Cariddi, e spesso anche allorquando parea meno agitato il volume delle acque, si osservò crescere repente il tortuoso giro di quel vortice, che quei naturali appellano _carofalo_, e la rema, quasi confusa e interrotta nella sua direzione, o arrestarsi per poco o sull'onda seguace rialzarsi, o aprirsi in mormorante e rapidissima concentrica voragine. A ciò si univa un insolito oscuro fremito, che quasi si approssimava a un profondo e lontano muggito; e ciò o precedeva alla repentina conturbazione delle correnti, o vi si accompagnava o la susseguiva. E per ultimo, siccome al ritorno della rema dal Peloro l'onda escrescendo si alzava oltre all'ordinario livello, e talvolta attentava di risalire su i segni terminali della sponda selciata, così all'uscir del porto e nel rientrare le anguste gole del Faro, lo sbassamento sovente n'era fuor dell'usato tumultuario, vorticoso ed eccessivo.» La sponda selciata di cui qui si parla, altro non era che una petraia o seguenza di sassi ordinatamente posti che per difesa contro gl'impeti del mare e per termine tra il mare medesimo e la susseguente pianura, scorre per tutto il circuito del porto, e ne forma l'orlo estremo o sia il margine internamente. Questo orlo selciato, ornato vagamente di fontane e di statue, i Messinesi chiamano panchetta, dietro la quale succede un ampio stradone, e in fondo di esso si ergeva un eminente e maestoso casamento, o continuazione di graziosi e nobili edifizii che facevano di sè bellissima mostra a chi veniva dal porto l'inclita città visitando. Dal mare venivano gli augurii, venivano anche dal cielo. Il sole tinto di pallida luce in pieno meriggio, un aere ora quieto, ora repente turbato, ora di nuovo quieto con un'afa noiosa che rendeva i corpi gravi ed affannosi; cupi suoni che di lungi venivano, ma non bene si sapeva donde; un volare incerto degli uccelli, un tremar degli animali, uno schiamazzar di galline, e massimamente di oche, un urlar di cani straordinario alcuna cosa fuor dell'usato protendevano, la natura trovarsi in qualche penoso travaglio significavano, e gli animi riempivano di stupore e di terrore. Fra tutto questo apparato di luttuosi segnali nei primi giorni di febbraio principiò la terra a tremolare, come di sè medesima più sicura non fosse, e, come il mare, farsi ondeggiante volesse. Ma il tremolio non cresceva in iscosse, muoveasi la terra, ma stavano gli edifizii. I Messinesi, usi ai tremuoti, per così dire, volgari, non credevano, quantunque spaventati fossero, che la leggiere trepidazione avesse a cambiarsi in furor tale, che la città ne dovesse andar in sobbisso. Implorarono l'aiuto divino, le sacre pissidi esponevano, inni sacri cantavano, facevano processioni, i luoghi aspergevano coll'acqua benedetta, ed accendevano i lumi all'adorato seggio dove si conserva la lettera autografa che la Vergine scrisse ai Messinesi: reliquia da essi tenuta preziosissima, e con grandissima divozione onorata. Ma la natura, che aveva accesa nei profondi recessi di quelle terre qualche immensa fornace, od ammassata qualche sterminata quantità di acque, le quali in quei monti tendevano a squilibrarsi, non patì che la potentissima cagione fosse defraudata de' suoi terribili effetti. Ai 5 di febbraio, poco appresso l'infausta ora del mezzodì, la piccola ondulazione degenerò subitamente in un orribile e generale rivolgimento del mare, dell'aria e della terra. Udironsi frequenti sotterranei muggiti; pruovaronsi ad ora ad ora ed a precipizio confusi e forti scuotimenti del suolo. Ora in su si spingeva, come se di sotto all'insù fosse percosso da potentissime spuntonate; ora s'avvallava come se una voragine se gli fosse aperta sotto; orizzontalmente oscillava, ora dava sbalzi di traverso, ora, quel che fu il moto pessimo di tutti, si rivolgeva in giro, come se fosse portato da vertigine. Brevemente, una tempesta per tanti lati e talmente succussoria infuriò, che non fu maraviglia che così gravi e così numerosi guasti siano accaduti; bensì è maraviglioso che tutta la città, almeno nella sua parte inferiore, dove maggiormente la sofferente natura travagliò, non sia stata messa a soqquadro intieramente ed in ruina. Moltissime porzioni del teatro marittimo, cioè del casamento sovraddescritto, che il porto orna e nobilita, diroccarono, questa a brani a brani, quella a sfasciumi più grossi, quest'altra per un muro giù e un altro su, onde come spaccate dall'alto al basso apparivano. Non si udivano in quelle ferali ore che muggiti della terra convulsa, invocazioni di supplicanti, lamenti di moribondi, scroscii e rimbombi di case e palazzi che si discioglievano in ruine. «A dì così tremendo, scrivono gli accademici, a dì così tremendo sopravvenne notte più infausta. Verso le ore sette e mezzo la terra fu presa da tale e sì profondo scuotimento, che parve tutta intesa a fendersi o a rovesciarsi e nabissare; e quindi la pallida e tremante popolazione, tra il muggito della terra, il fremito de' venti e il fragore del mare, sentì percuotersi dal rimbombo prodotto dalla orrenda e quasi universale ruina de' tempii, de' casamenti volgari e degli edifizii più vasti e più vistosi, ed ecco in qual modo fu portato a più compiuto termine quel danno che s'era tra essi nel giorno e nella sera cominciato a produrre.» Non uno, ma tutti gli elementi congiurarono a ruina della città dominatrice del Faro. Rovinate le case e rotti i focolari, il fuoco non trovando più nè pascolo regolare, nè uscite consuete, s'appiccò alle materie diroccate, e divampando con orribile incendio andava serpendo e bruciando quanto era rimasto intero, sia che in piè ancora si sostenesse, sia che a terra già sbalzato giacesse. La fiamma divoratrice si estese con rapido corso da uno in altro luogo, e tale spazio guadagnò, e tale acquistò irreparabile forza, che per sette giorni ogni opera fu vana per estinguerla. Molto prezioso mobile arso, molte sostanze o di ricchi negozianti o di nobili famiglie incenerite. «Quindi a molti infelici, seguono a scrivere gli accademici, a' quali riuscì facile lo scampare dal precipizio de' sassi, toccò la disperata sorte di rimanere vittime delle fiamme. Orribile cosa a mirarsi! Chi cercava di guadagnare l'altura de' tetti, chi si affaticava per arrampicarsi alle travi; chi, ora ad una e ora ad un'altra finestra affacciandosi, misurava col guardo l'altezza delle mura, per gettarvisi, e ne rifuggiva spaventato dall'evidente pericolo della caduta. Ma finalmente tutti videro approssimarsi la morte, invocando invano, coll'errare di qua o di là, il desiderato soccorso, impossibilitati a fuggire per le scale già dirute, ed ugualmente privi di coraggio e di modo onde o gettarsi dall'alto o ricevere da' cittadini, dagli amici o da' parenti un aiuto qualunque in mezzo alla medesima loro situazione.» L'incendio infuriava. Oltre allo scompiglio delle cadenti mura e il terrore e la fuga de' cittadini, che impedivano le azioni dello spegnere, un irresistibile alimento aveva la fiamma nella furiosa bufera, che chiamarono aeremoto, la quale, quando più la terra si scrollava ed il fuoco imperversava, soffiava terribilmente con direzione incerta, anzi con buffi vorticosi e disordinati. Una casa de' Ceraselli, già percossa e conquassata dal terremoto, fu dal vento svelta, di lancio gettata, e sparsa in frantumi sopra il suolo. Pareva veramente che quivi ed in que' momenti il mondo, sottosopra andando, fosse arrivato alla sua fine. Col fuoco, coll'aria, colla terra i Messinesi avevano a fare. Ma il mare non s'indugiò a concorrere colla sua vasta mole a loro distruzione e morte. Sollevossi quella mortifera e devastante inondazione, frutto del marimoto di cui abbiamo, favellato e che ai Scillitani diede tanto spavento ed arrecò gli ultimi danni. Lo smisurato e furiosissimo fiotto con incredibile violenza entrò a turbare il tranquillo letto del porto, superò la panchetta, traboccò fra di essa ed i grandi edifizii del teatro marittimo, e tutto quello spazio allagando, di arena e di marino fango il coverse. Aprissi in tale modo ed in que' funesti momenti una scena di mostruosa e multiforme rivoluzione di natura, e si trovò chiuso ogni passo alla fuga ed allo scampo. Troppo lunga e noiosa narrazione sarebbe il numerare tutti i luoghi o nabissati o infranti. Basterà il dire che i tempii più ragguardevoli furono o sconquassati o altamente lesi o lievemente percossi. Oltre la ruina de' begli edifizii del teatro marittimo, moltissimi casamenti nobili, graziose stanze di magnati, abbellite da tutte le arti più industri, furono o posti a soqquadro intieramente o gravemente maltrattati. Le fabbriche delle opere pubbliche non incontrarono sorte migliore. Una parte del grande spedale fu ridotta in pessimo stato. Il palazzo reale rotto e diroccato in più parti, il seminario una congerie informe di sassi, la parte maggiore del convitto di educazione un ammasso di ruine, l'archivio della regia udienza sepolto sotto i rottami, la porta dell'Assunzione quasi disfatta, il palazzo senatorio screpolato tutto ed in parte diroccato, e di quasi tutte le case, che più o meno offese restarono, tetti di peso divelti da' loro appoggi e sbalzati in aria, poi caduti a sfasciarsi e stritolarsi del tutto in terra; il convento de' teresiani, uno de' più danneggiati. La cupola della chiesa del Purgatorio arrandellata di piombo sui tetti d'una casa vicina. Mirabile fu il vedere il campanile del duomo tagliato, per così dire, per filo d'altezza, e una metà rimasta in piè, l'altra diroccata a terra, come se spaccato dalla cima alla base da una potente scure stato fosse. Tra mezzo a così rovinoso tumulto e scroscio poco più di settecento persone in così popolosa città perirono; imperocchè, ai primi insulti del terremoto, i cittadini fuggirono precipitosamente e al disteso sui campi liberi alla campagna, dove, alzato avendo tende e baracche, attendevano a dimorarvi sino a tanto che quell'insolito furore si fosse estinto. Così l'immagine della vita s'era trasportata fuori; morte, silenzio e solitudine regnavano in Messina. L'uomo sentiva raccapriccio ed orrore per le desolate contrade della vasta città trascorrendo, dove nè anima vivente vedeva che movesse, nè suono sorgere che le orecchie gli percuotesse, udiva, se non quello d'alcune porte o finestre ancora attaccate ai muri e dal vento sbattute come in abbandonato e deserto edifizio. Avresti detto una città percossa e devastata dalla peste. Ai 5 di febbraio non vi fu mai riposo compito dal terremoto, scuotendosi continuamente ora con maggiore scrollo ora con minore il suolo. Bene successe ai Messinesi la prudenza in appresso; imperocchè ai 28 di marzo, come in Calabria, così ancora in Messina, preceduta da molte scossette, venne una scossa violenta che parve che quello fosse l'ultimo giorno per la città già cotanto desolata e deserta. Novelle grida di stupore e di terrore si alzarono allora di sotto le tende e le baracche, grida commiste di uomini e di donne, di vecchi e di fanciulli cui pietà prendeva degli antichi abituri. Non poche spaccature di terra si aprirono in Messina, ma non però di quella lunghezza e profondità che si osservarono nella Piana di Monteleone. Alcuni narrano che da queste aperte bocche usciti fossero aliti ferventi e di fetore sulfureo; ma con migliore osservazione fu accertato che piuttosto chimere d'immaginazioni percosse deggiono stimarsi, che testimonianze d'uomini prudenti ed amatori della verità. La prossimità dell'Etna spirava queste fole, sembrando al volgo che un terremoto ed un così estremo conquasso avvenire non potessero senza che quel colossale e rabbioso monte vi avesse parte e cagione ne desse. Ma fatto sta, che, se egli operò di sotto, non operò di sopra, nè con fuochi o con aliti o con fumi la sua immensa forza manifestò. Fuvvi altresì chi s'immaginò avere sentito impresse di calore le acque accavallate sui lidi nel momento del terribile marimoto; ma anche questa fu una chimera di mente inferma. Bene è vero che le fontane e i pozzi per alcuni giorni si disseccarono; il che aggiunse miseria all'estremo travaglio prodotto dalle altre cagioni. Il terreno sotto la panchetta e del contiguo stradone parve infangarsi e divenir molliccio, ma però non eruttò melma. Forse la cagione che dalle profondissime interiora della terra procedeva, quivi fu meno attiva che nella Calabria, e non ebbe sufficiente forza per ispingere sino alla superficie le fanghiglie, e produrre quei vomiti di materia cretacea. Le spaventevoli catastrofi accaddero fra popoli di fantasia vivissima e molto dediti alla religione, la quale nelle menti rozze e poco illuminate degenera facilmente in superstizione. Onde non è a maravigliare se nei paesi percossi si osservarono cose singolari: apparizioni straordinarie, predizioni portentose, e cerimonie e riti stupendi. Tre giorni dopo il fine del disastro, fatta una processione, cantarono l'inno delle grazie: ringraziavano, abbenchè fossero senza pane, senza roba e senza tetto; lodevole radice di pietà anche nella miseria. I costumi, ciò nondimeno, non erano nè diventarono migliori; che anzi, come a segni non menzogneri apparve, peggiorarono e nel pessimo diedero. Fra tanti dolori, una sfrenata cupidigia del far suo quello d'altrui i feri animi di quei popoli dominava. Come ogni cosa era in confusione, così adoperarono come se credessero che ogni cosa fosse comune, e ciascuna di tutti; nè la compassione per altri nè il proprio pericolo valevano per ritenergli che in abbominevoli latrocinii non si precipitassero. Userem le parole del Dolomieu, siccome quelle che pingono al vivo la condizione di quel tempo, e dimostrano quale creatura sia l'uomo quando è sciolto dal freno delle leggi, quantunque Dio minacci e colla sua terribil voce faccia sentire che pronto e presto è il castigo. «Mentre una madre scapigliata, scrive l'egregio Franzese quale nelle sue Storie il traduce il Botta, e coperta di sangue andava domandando alle ruine stesso ancora fumanti il figliuolo, cui, mentre nel grembo il portava fuggendo, le aveva tolto la caduta di una rovinosa trave; mentre un marito affrontava una morte quasi certa per ritrovare una diletta sposa, si vedevano mostri con faccie d'uomini precipitarsi in mezzo a muri traballanti, bravare il pericolo più orrendo, calpestar uomini mezzo sepolti che di pietà e di aiuto gli richiedevano, per andar a saccheggiare la casa del ricco e soddisfare ad una cieca cupidigia. Costoro spogliavano vivi tanti infelici, i quali avrebbero loro date le più generose ricompense, se al lagrimevole caso loro avessero prestato una mano soccorritrice. Io ho alloggiato a Polistena nella baracca d'un galantuomo che fu seppellito nelle ruine della sua casa, le sole gambe scoperte per aria: il suo domestico gli tolse le fibbie d'argento, e se ne andò via senza volergli dare aiuto per disseppellirlo. Generalmente il popolo della Calabria ha mostrata una depravazione incredibile di costumi nel mezzo agli orrori de' tremuoti. La maggior parte degli agricoltori era all'aperto nelle campagne quando successe la scossa dei 5 febbraio, e accorsero subito nei paesi ingombri di polvere, non per prestare soccorso, ma per saccheggiare.» Sin qui il veridico Dolomieu; ma direm cosa ancora più orrenda e pur anco vera, ed è che questi uomini spietati, se soli erano ed in deserti luoghi, rubavano e lasciavano in vita i miserabili sepolti senza punto nè delle loro grida, nè delle loro strida curarsi; ma quando temevano che alcuno li vedesse o gente sopraggiungesse, ammazzavano o calpestavano, soppozzando o con rottami acciaccando coloro, cui rubato avevano, più crudi in ciò che l'orrido flagello che allora la patria sobbissava. Nè età, nè sesso, nè memoria di benefizii valevano per fare che quelle spietate tigri s'impietosissero. Tutti soffocavano, purchè chi soffocato era, avesse cosa che utilmente pel rubatore gli potesse venir tolta. Fieri esempi massimamente d'ingratitudine sorsero. I servitori i padroni, i coloni i proprietarii spogliarono. Ciò facevano per istinto, ciò facevano per un barbaro raziocinio. Credevano che la fortuna avendo tutto sconvolto, e tutti nella medesima sciagura involti, e la condizione del ricco uguagliata a quella del povero, avesse lasciato i beni in preda alla forza ed a benefizio del primo occupante. Quindi è facile a comprendersi qual barbaro governo si facesse, nei primi dì dell'orribile percossa, delle leggi, delle sostanze, della santa religione, della sacra umanità. Orride cose faceva la natura, ancor più orride ne facevano gli uomini. Nè vuol tacersi che la sporca lussuria trovò anche luogo fra tante angosce, fra tante ruine. Fu una peste peggiore del rubare, perchè quella era mescolata colla speranza, questa accompagnata dalla disperazione. Nè tacere pur devesi che chi doveva meno partecipare in queste sporcizie, non meno degli altri dentro vi s'immerse, e nell'universale dissoluzione fu provato che sventura non rompe libidine. Pronta e di breve tempo fu la distruzione, ma il ristaurare tante ruine e l'emergere da tanto conquasso, il ricuperare quanto s'era perduto fu opera di più lunga fatica e di maggiore momento. Ond'è che si videro le popolazioni fuggite alla rabbia del terremoto in punto di perire per la mancanza dei sussidii al vivere necessarii. La stagione era in quel mentre d'assai e oltre l'usato inclemente, regnando sempre pioggie molestissime e un freddo anzi rigido che no. Le ingiurie del tempo tormentavano i miseri scampati, li tormentava ancora più la fame. Tutti i generi, che al vestire dell'uomo ed a cibarlo servono, erano stati o distrutti o sotto le rovinate fabbriche sepolti. L'olio quasi tutto miseramente a terra sparso: sparsesi o perdessi la più gran parte del vino o per la rottura delle botti o per lo sprofondarsi delle volte. Quel vino poi che potè essere preservato, nelle sue più intime parti corrotto, non acquistò mai più nè la sua vigoria nè la sua purità. L'aceto stesso fiacco e privato del suo spirito e del suo gusto divenne. La medesima tempesta annientò le biade che nei granai erano riposte. Dissotterrossi in progresso di tempo il grano che nelle fosse all'uso del paese si conservava; ma di niuna utilità fu, perchè fracido si estrasse e d'ingrato odore o ciò fosse per l'acqua che per le insolite fessure in quei penetrali aveva trovato la via, o per altri influssi sorti dalle parti più interne e più basse, da cui la naturale economia dei grani fosse stata contaminata e guasta. Nè solo mancarono i generi, ma ancora le officine e gli artifizii, per cui si ammorbidavano ed all'uso degli uomini atti e confacenti si rendevano. La pallida fame incrudelì per ogni parte, e fu la prima e la più terribile seguace del terremoto. Nè modo v'era in quel punto di rimediarvi. Le strade giacevano così altamente ingombre di rottami e di ruine, che il portare le vitali derrate dai paesi ove abbondavano a quelli a cui mancavano, era opera difficile, anzi in quei primi momenti d'impossibile esecuzione. Arrogevasi all'universale disgrazia che essendosi o guasti i fonti per la corruzione delle acque o disseccati per avere le polle interne preso altre vie, negavano all'afflitta popolazione il solito refrigerio; e quando non pioveva più, chi presso ai fiumi non abitava, sperimentava quanto fosse crudo il tormento della sete. Da tanti stenti, da tanti strazii, da tanti dolori, da tanti terrori si generarono con una marcigione orribile malattie mortali, massimamente di febbri di mal costume, per cui era tolto di vita chi da tanti rischi di morte già era scampato. La fame, la sete, i perpetui lamenti di chi era rimasto storpio o ferito, o di chi da ferale febbre era consumato ed arso, il tetro aspetto dei cadaveri insepolti o chiusi sotto le rovine, donde altro segno di sè non davano che un incomportabile fetore, o gettati sui roghi ad incenerirsi, formavano un misto tale, che da lui altro non poteva nascere che l'ultima desolazione e la totale dissoluzione della società. Che leggi, quai magistrati, o qual lume di ragione, o qual impulso di sentimento potevano resistere a cruciamenti che piuttosto erano quelli, per così dire, delle anime dannate, che di creature nella luce di questo mondo ancora viventi? Umanità e religione si scossero in così fatale momento; non mancarono gli umani provvedimenti. Sorse alla voce di tanti miseri il governo del re Ferdinando, e prontamente con animo da beneficenza compreso, e con mezzi quanto potè più efficaci a quegli estremi bisogni accorse. Elesse al pio ufficio uomini che sapevano e volevano secondarlo, un Pignatelli in Calabria, un Caracciolo in Sicilia. La fame, la mala consigliatrice fame più d'ogni altra necessità pressava; alla fame adunque per le prime provvidero. Nè fredda o lenta, ma accesa e spronata fu la benignità di chi comandava e di chi obbediva. Soccorsero con mandar generi di vitto prestamente nei luoghi più danneggiati, innumerabili braccia al racconcio delle terre lavorando. Si fecero incontanente assettare molini e forni, ed, antivedendo qualche nuovo conquasso, ordinarono, là dove l'opportunità era maggiore, conserve di grani, di farine, di biscotto, onde, ad ogni tristo accidente che sopravvenisse, potesse essere in pronto il compenso. Non solamente nei primi dì della fatale sventura, ma per molto tempo ancora una moltitudine quasi innumerabile d'uomini affamati e per fame languenti furono sostentati dai soccorsi che dalla mano regia provenivano. Provvidesi eziandio, poichè malizia umana è così grande che fa negozio della miseria altrui, con ordini adatti e severissimi, che siccome i commestibili si somministravano, così ancora il loro trasporto da un luogo all'altro, e l'acquisto sul luogo fosse agevole, retto e non incomodo nè al venditore nè al compratore. L'annona regia largiva il vitto, la supellettile, le vesti; l'erario il denaro. Per ogni lato, per ogni canale scorreva il fiume della beneficenza sopra gl'infelici percossi. Il governo faceva da sè e per sè, ma non tralasciò il pensiero di raccomandare ai baroni che pronta ed amorosa cura avessero dei loro vassalli. Quanto alle città regie, cioè quelle che, esenti da baronaggio essendo, alla sola autorità del re soggiacevano, furono loro dall'erario pubblico, per quel medesimo fine di soccorrere chi pativa, distribuiti larghi sussidii. L'immensa forza che aveva conquassato la terra, aveva eziandio la sopraffaccia sua sconvolta tutta e coperta di ruine. Ondechè la maggiore difficoltà che s'incontrava nel condurre a compimento il pietoso ufficio era appunto la malagevolezza delle strade, come già più sopra abbiamo osservato. Quasi isolate erano le città, isolati i villaggi. Ad un male così grave sopperire non potevano le languenti braccia dei Calabresi superstiti, nè l'animo afflitto, nè il numero scemato. Misersi in opera le compagnie provinciali che nuovamente, non a questi usi di sciagura, erano state ordinate. Fu loro comandato che nella ulteriore Calabria gissero ed in pro degl'infelici abitatori a sgombrar terre, a sollevar rottami, a racconciare strade, ad inalveare fiumi, a prosciugar paludi, a dar corso a stagni si adoperassero. Le soldatesche mani quivi non a micidiale, ma a conservatrice opera con provvidissimo consiglio mandate, molto volentieri vi attesero. Deposti i fucili e le sciabole, presero in mano vanghe, uncini, picconi, zappe, funi, e racconciarono coll'arte ciò che la natura aveva stravolto e scomposto. Quanti cadaveri trassero dai muti abissi, quanto prezioso mobile dai rovinati edifizii, quanto oro, quanto argento, quanti nobili arredi tra il fango, i sassi ed ogni lordura giacenti! «Dicasi senza sospetto, scrivono i lodati accademici di Napoli, dicasi senza sospetto di adulazione; fu mirabile cosa a vedere i tardi nipoti de' valorosi Bruzii e degl'industri abitatori di tal parte della Magna Grecia comportarsi con tale e sì costante intrepidezza e fedeltà, che non può abbastanza lodarsene il coraggio, con cui si esposero a sì difficile impresa, la rassegnazione colla quale si prestarono ai comandi di que' prodi uffiziali che in tanto penoso impegno ne diressero le operazioni, e l'ottima fede colla quale religiosamente custodirono tutto ciò che essi dalle ruine disotterrarono. Si videro in brevi giorni sgombrate le più vaste ruine, riaperte le strade e facilitati i modi, onde potersi la sbandata gente riunire e sovvenirsi a vicenda. Ritornarono al bene e al comodo della popolazione gli ori, gli argenti, le suppellettili, i commestibili e que' generi di prima necessità che non erano stati o guasti o distrutti.» Speciale ordine dal principe e da chi la benefica sua volontà eseguiva, ebbero questi pietosi e forti soldati di avere cura principalmente di rinvenire e conservare le scritture, onde si regolavano gl'interessi e lo stato delle famiglie. Come a loro fu comandato, così fecero. Impedissi a questo modo uno scompiglio, una crudele confusione che sarebbe stata d'infiniti danni e di acerbi sdegni troppo feconda cagione. Fra di queste benefiche operazioni che un paese vasto ed una numerosa popolazione a novella vita chiamavano, una tristissima vista rendeva funesti gli animi. Disotterravansi a luogo a luogo, a ora a ora dai diroccamenti e dai dirupamenti gli ammaccati cadaveri. Sorgevano pianti di chi riconosceva i suoi più cari, compassione e smarrimento era in tutti. Vedendoli, contemplandoli, ognuno comprendeva quanto fosse grande il calabrese ed il siciliano infortunio. Rotti erano i corpi estinti in varie ed orribili guise, molti sformati talmente e dall'antico aspetto tanto diversi, che più non si riconoscevano. Putivano per putredine: un infame odore anticorriero e seme di mortali malattie per le città e per le campagne si diffondeva. Al quale fomite d'aere pestilenzioso maggiore forza era aggiunta dalla puzza che usciva dai sepolcri stati sommossi, aperti e scoperti dalla violenza del terremoto. Vedevansi per gli spaccamenti e scosci dei monti scendere i cadaveri per lo innanzi chiusi nei loro avelli, o sul suolo stesso sconvolto apparire in sembianze orrende. Il pericolo era grave che i morti ammazzassero i vivi. Ebbesi dai magistrati regii nel miserabile frangente, cura della salute pubblica. Per provvidenza generale ordinarono ciò che per provvidenze particolari già si era fatto in alcuni luoghi. Vollero che si accendessero i roghi per dovunque abbisognasse, e che i cadaveri vi si incenerissero. Abborriva sulle prime il volgo da un ufficio che siccome insolito era, così ancora crudele ed inumano gli pareva. Ma tra per promesse, persuasioni e comandamenti si venne a termine che il salutare editto si mettesse ad esecuzione. All'odore putredinoso si mescolava l'odore delle carni e delle ossa arse: il che cagione era di sommo ribrezzo ed abbominazione. Per andare all'incontro di così molesto senso, e per resistere ai fatali effetti del fetore, si bruciavano nel medesimo tempo materie odorose in grandissima copia, onde una densa e perpetua nube di profumi la tristissima scena avviluppava, e meno orribile la rendeva. Rivolsero anche il pensiero a chiudere le squarciate fauci dei sepolcri con ampie e ferme masse di materiali atti ad impedire il velenoso fiato che dalla putrescenza ne usciva. Questi consigli e provvedimenti sortirono l'effetto desiderato nelle Calabrie, ma non sì però che un influsso mortifero non le desolasse, e molti fra i più non mandasse. Ma la salutare efficacia se ne conobbe in que' luoghi, dove con maggiore diligenza furono mandati ad esecuzione; imperocchè o le popolazioni ne furono preservate del tutto, o il morbo con minore veemenza v'incrudelì, o più breve durata ebbe. Per le prudenti e forti deliberazioni del vicerè di Sicilia Domenico Caracciolo, Messina ne restò intieramente esenzionata. Vi si piansero morti pel furore della terra e del mare, ma non per la forza delle malattie. Terminati i fieri e crudi disastri, rimase lungo tempo nei popoli stupore, terrore ed orrore. Chi per gl'infelici luoghi viaggiava, vedeva uomini che a manifesti segni dimostravano essere stati tocchi da uno straordinario furore d'elementi e da un immenso infortunio. Oltracciò, ad ogni tratto si temeva che la potente e rabbiosa natura delle Due Sicilie di nuovo si mettesse in travaglio, e quanto aveva lasciato intero o non intieramente distrutto rompesse e disciogliesse. Una densa e fetente nebbia ingombrò per parecchi mesi, non solamente il teatro di tante tragedie, ma ancora tutta l'Italia con parte della Francia e della Germania. A dì 29 d'aprile del presente anno cessò di vivere Bernardo Tanucci, ministro napoletano. Da qualunque lato si guardi il lungo politico aringo corso da Tanucci, indarno si cerca quale cosa potuto abbia servire di fondamento all'alta riputazione in cui levossi da vivo e che nol lasciò dopo morte. La setta popolare e l'uso di recare le cose a maggior vantaggio dei più prevalevano. Il secolo si volgeva principalmente contro i residui degli ordini feudali, contro gli abusi, se mai ce ne fossero, e le esenzioni del clero, contro i privilegii, di cui la nobiltà ed il clero stesso godevano. A migliore egualità si volevano le cose tirare; a maggiore dignità si andava la natura umana riducendo. Vivo esempio del secolo era l'imperadore Giuseppe. Ora il vediamo visitare di nuovo l'Italia con quel solo apparato che la virtù ed il ben volere gli davano. Partito dall'imperiale residenza di Vienna nel dì 6 dicembre, passato per Mantova, Parma e Modena, e tre giorni a Firenze col fratello granduca trattenutosi, a Roma sull'ora del mezzodì del dì 23 di tale mese inaspettatamente arrivò. Vide Roma e Pio, a cui disse restituirgli la visita. Per soddisfare ai curiosi di queste cose, si dica, ch'ei portava l'abito schietto dei suoi ufficiali, bianco con mostre di velluto rosso; per abitazione aveva la casa del cardinale Herezam, suo ministro; per tavola, quella d'un albergo vicino a piazza di Spagna. La vigilia di Natale assistette ai primi vespri in San Pietro, poi vi udì il mattutino e la messa di mezza notte. Erasegli apparecchiato un magnifico inginocchiatoio con cuscini e tappeti di velluto e d'oro; ma in quel luogo ed avanti il cospetto di colui che il più alto adegua agl'imi, il ricco seggio ricusando, inginocchiossi a terra, come se uno del popolo fosse, ed a terra prostrato pace al mondo e felicità pe' suoi popoli pregò. In mezzo alle romane grandezze umile e modesto si mostrò, grandezza più grande di tutte. Il dì seguente poi recossi alla messa solenne cantata dal papa con tanta maestà, con tanta pompa e con tale concorso di popolo, che vincitrice in quel giorno veramente appariva la cattolica religione. Gustavo di Svezia stesso, che con Giuseppe d'Austria a que' dì ai sublimi riti assisteva, maravigliato restonne e tocco. Non era già uomo da convertirsi, ma da considerare, come fece, con quanta maggiore efficacia delle protestanti la religione cattolica possa con le sue pompe esteriori operare a pietà e riverenza verso Dio, ed amore e beneficio verso gli uomini. Giuseppe visitava Roma, e salutato di nuovo il pontefice, partì per Napoli, onde vedervi quell'ameno e grande paese, il re Ferdinando, la regina Carolina e la duchessa di Parma, sua sorella, alla quale portava particolare affezione. Spezialmente poi desiderava di conversare coi sommi filosofi che allora Napoli abitavano ed illustravano. Grandi balli, grandi festini, e soprattutto grandi cacce vi si facevano. Di ciò Giuseppe si dilettava, ma non vi aveva capriccio. Per sollievo di spirito, non per tenore di vita que' piaceri prendeva. Meglio si dilettava di vedere Filangeri, meglio di visitare gli ospedali e gli ospizii, meglio di ammirare quel dilettoso clima, quella potente natura che indicano dover pure chi vi regge fare per chi vi abita quanto essi hanno fatto; e che certo gli abitatori vi sarebbero felicissimi. Grande disparità era in tutti i paesi tra la bontà della natura ed il rigore delle instituzioni, ma in nessun luogo più grande che in Napoli. Anno di CRISTO MDCCLXXXIV. Indiz. II. PIO VI papa 10. GIUSEPPE II imperadore 20. Continuando a trattenersi in Napoli, il principe austriaco vide ancora molto volontieri Carlo di Marco, come veduto avrebbe Tanucci, morto l'anno precedente[1], per opera de' quali principalmente a migliore condizione s'incamminavano ogni giorno le cose del regno. Vide anche volontieri Acton, che delle cose marineresche principalmente aveva cura, e che allora, non essendo ancora nati tremendi furori in esteri paesi, non era ancora acceso di que' furori egli stesso che il resero, alcuni anni dopo, cotanto diverso ed acerbo. Già s'erano fatte in Napoli, e si andavano preparando deliberazioni che di non poco contentamento riuscivano al sovrano di Vienna. Abolivansi i privilegii baronali, i comuni si proteggevano, gli ordini giudiziali si miglioravano, si voleva che i giudici motivassero le sentenze. Molto si faceva, eppure molto ancora restava da farsi. Ciò quanto al civile e lo economico; quanto alle cose di giurisdizione mista, si procedeva anche, ma con lodevole prudenza, a riforme. Le appellazioni a Roma furono tolte, e soppresso il tribunale della nunziatura, soppresso del tutto il tribunale dell'inquisizione. Già si parlava di sopprimere i conventi stimati inutili; già si pensava di far dipendenti dagli ordinarii e troncar loro ogni dipendenza da' generali di Roma: già un Michele Torcia aveva presentato alla suprema giunta della Calabria uno scritto, per cui provava che i claustrali costavano alla nazione più di nove milioni di ducati all'anno, onde molti, tra per la condotta, l'inscienza, le maniere e l'enorme prezzo, erano ormai venuti a noia a tutti. Quelli che fra di loro di buoni studii erano nudriti e di retti costumi informati, i quali non erano pochi, non bastavano per lavare le note che sulle spalle di quegli altri erano state impresse. Grati suoni venivano anche a Giuseppe dalla Sicilia. Domenico Caraccioli, marchese di Villamarina, uomo di alto spirito e d'animo volto a benefizio dei popoli, governava col grado di vicerè quell'isola sino dal 1781. Personaggio era che molte regioni avendo peragrate, e molte cose vedute in Francia e in Inghilterra, e di purgato intelletto essendo, di suo proposito si moveva, e da sè medesimo sanamente deliberava. Ma, oltre la capacità e volontà propria, si consigliava col Napolitano Saverio Simonetti uomo di non mediocre valore, e che, stato prima luogotenente della sommarìa in Napoli, era poi stato eletto segretario di Stato per la grazia e per la giustizia. Quanto di bene in Sicilia si fece a que' tempi, da questi due uomini riconoscere si debbe, ma forse ancora più dal Simonetti che dal Caracciolo; imperocchè il primo, siccome più prudente, più consigliatamente procedeva; mentre il secondo, siccome più focoso, dava qualche volta negli scogli che non sapeva nè voleva evitare. Erasi già stabilito da' ministri di Napoli che il tribunale dell'inquisizione anche in Sicilia con un modo pacifico, e senza che il papa molto se ne risentisse, si sopprimesse; quest'era il non provvedere le cariche degli inquisitori a misura che venivano vacando. In fatti, vacato uno degli inquisitori, non aveva avuto surrogazione, e vacato anche il secondo, non si pensava a dargli un successore. Il supremo inquisitore Ventimiglia acerbamente si lamentava, rappresentando che fosse meglio annullare del tutto il tribunale che lasciarlo sprovveduto d'inquisitori; perciocchè, se dannoso era stimato, la soppressione faceva l'effetto che si desiderava, e nissun bisogno vi era di aggiungervi lo scherno, col lasciare le cariche vacanti. Caraccioli, presa occasione da questa rappresentanza, instò presso il governo supremo di Napoli, affinchè il tribunale finalmente fosse tolto. In fatti, vi fece passare una provvisione, per cui fu espedita l'abolizione del tribunale. Imperfetti erano certamente gli ordini del parlamento di Sicilia, ma pure servivano, massimamente per le tasse, di salutare freno al governo. Il Caracciolo applicò l'animo a migliorarli. Grande vizio era nel modo con cui si formava la deputazione del regno, la quale, fra una tornata e l'altra del parlamento sedendo, alla perfetta esecuzione delle leggi sancite vegliare doveva; conciossiachè accadesse che essendo i baroni di grande potenza, risultava per l'ordinario ch'ella fosse quasi tutta composta di baroni, o di qualche cadetto nobile. Dal che procedeva che piuttosto agl'interessi di chi più poteva che a quelli di chi poteva meno si avesse riguardo. Il buon vicerè, per andare all'incontro di un così grave disordine, e ridurre quella forma politica al suo primiero e più utile instituto, ordinò che sempre alla deputazione fossero eletti quattro ecclesiastici pel braccio ecclesiastico, quattro baroni pel braccio baronale, e quattro deputati delle città libere pel braccio demaniale. Per tale ordinamento si videro assunti alla deputazione ed ecclesiastici e gentiluomini in compagnia de' baroni; cosa che fu di grande contento ed utilità ai Siciliani. Il parlamento in ciò giovava, che la Sicilia non venisse molto aggravata dalle contribuzioni, ma portava con sè l'inconveniente che i pesi fossero a rovescio ripartiti; perchè i baroni, pretendendo certe ragioni di esenzione, alleggerivano i feudi ed aggravavano gli allodii. Per la qual cosa il vicerè ed il suo savio consigliere Simonetti proposero che i beni si allibrassero, e tutti, nissuno eccettuato, a proporzione del loro valore, ai pubblici pesi soggiacessero. Ma i baroni, che si sentivano percuotere nell'interesse, fecero in Napoli un tale contrasto, che per lungo tempo all'utile e giusto pensiero si soprassedette. Il loro principale argomento in ciò consisteva, che le esenzioni e privilegii, di cui ora si trattava di privarli, non erano punto a titolo gratuito, ma bensì un contraccambio ed un compenso di certi obblighi speciali ch'essi soli avevano verso la corona, massimamente ai tempi di guerra contratti. Protestavano essere ingiusto giudizio il venire accomunati da una parte e restare gravati dall'altra. Tutto l'andamento di Caraccioli fu quello di abbattere i privilegi baronali e la feudalità. Quindi aveva sempre caro di proteggere i vassalli contro i baroni, e quelli fra i magistrati, che in pro dei primi e contra i secondi giudicavano le cause, accarezzava. Per lo che suscitati i popoli a quel favorevole vento, generalmente si muovevano contro i diritti dei rispettivi baroni, e innanzi a' tribunali quasi ogni giorno risuonavano querele contro i diritti proibitivi di caccia, di forni, di fattoi, di pedaggi, di dogane interne, dei pagamenti detti di terraggio e terraggiuolo, e di simili altre angherie odiose per l'origine, pregiudiziali per gli effetti. Il commercio in fatti e l'agricoltura per essi sommamente pativano, e la libertà dell'operare nelle cose necessarie alla vita ne restava grandemente offesa. Non disformi alle querele erano le sentenze, per le quali quasi sempre i signori ne andavano con la peggio, onde appoco appoco un nuovo diritto pubblico più conforme alla egualità si andava creando, e le gravezze dei popolani si allentavano. Caraccioli, uno dei primi baroni del regno, seguitava il suo genio, e l'umor suo contro i baroni sfogava; non però per amarezza, ma per l'utilità comune il faceva. Stabilì che il mero e misto imperio da nissuno potesse esercitarsi, se non da chi ne mostrasse il titolo, e parimente volle che nissuno dei baroni potesse partecipare nella elezione dei giurati, cioè ufficiali del comune, se il titolo autentico di poter ciò fare non esibisse. Abolì anche in amendue i casi ogni forza di consuetudine; e siccome i più per consuetudine piuttosto che per titoli scritti mostrabili quelle potestà esercitavano, ne seguitò che furono obbligati di cessarle, non senza grave risentimento degli antichi signori, a' quali pareva strano di non essere più delle antiche ragioni e consuetudini investiti. Così i popolani divennero meno gravati, ed i comuni più liberi; imperciocchè il principale nemico della libertà dei comuni fu sempre, non già l'autorità regia, ma la feudalità. I vicerè di Sicilia erano soliti a fare delle circolari, monumenti durabili del loro governo. Celebri furono a' suoi tempi quelle del Caracciolo. Molte utili riforme vi si leggevano. Ai 15 di settembre restrinse la così detta mano baronale, che valeva a fare l'esenzione dei proventi territoriali e dei livelli, e prescrisse che i baroni non potessero procedere a carcerazioni od altri atti simili nè di per sè, nè per via di fatto. Ai 10 di gennaio poi dell'anno seguente, diciamolo qui, giacchè siamo a questa, ordinò che i baroni non si potessero ingerire nell'amministrazione delle università baronali, nè nel peculio che amministravasi dai giurati. Un pensiero utilissimo ebbe nel mese di ottobre del medesimo anno 1785, e fu che stabilì che i vassalli non fossero più obbligati a lavorare i terreni dei loro baroni: il che distruggeva i comandati, ossia certe servitudini di persone e di gleba. Dalle narrate riformazioni ciascuno può conoscere quanto il male fosse grave in Sicilia a cagione di quegli sconcii ordini feudali. Piacquero all'universale dei popoli, il nome di Caraccioli fu celebrato dai Siciliani, come di proprio ed alto benefattore; chi più poteva per l'opinione, chi più poteva per le braccia, con somme lodi l'esaltavano. I magistrati, i forensi, le persone di lettere l'egregio vicerè favorivano, e dai risentimenti dei baroni il difendevano. Il popolo poi, massimamente i contadini, e generalmente tutti i vassalli, si dimostravano pronti a tener lieto e sicuro colui che le fatiche più profittevoli e la vita più dolce aveva lor procurato. Quindi era nato che i Siciliani si erano divisi in due parti, e venuto l'uso di chiamarsi vicendevolmente col nome o di caracciolesco o di baronale. Tutta la Sicilia co' suoi pensieri Caraccioli abbracciava, ma speciale cura si dava di Palermo. Al dì primo di aprile vi pose la prima pietra del camposanto; lodevole risoluzione. Ma spiacque dove fu stabilito, per esser quello stesso presso la chiesa di Santo Spirito, là dove appunto ebbero principio i vesperi contro i Franzesi. Adornò e rese più regolare la piazza pubblica del mercato. Volle, ma non potè condurre a termine il suo intento di aprire due giorni per settimana un mercato pubblico per l'annona. Tali erano le virtù di Caraccioli, le quali chiaramente splendevano dentro e lontano da Palermo, ma non senza qualche ombra dentro. Quelli che da vicino il vedevano, ed ogni giorno a fare con lui avevano, non si soddisfacevano dell'impeto e dell'imprudenza con cui trattava le faccende, ancorchè, come già abbiamo accennato, Simonetti in qualche modo il ritenesse. Disgustò anche il popolo di Palermo, perchè aveva voluto riformare le feste di Santa Rosalia, e perchè ostentava una certa miscredenza e disprezzo delle cose sacre. Non volle fare il voto solenne per l'immacolata Concezione della Vergine, e motteggiava sovente sopra le cose riputate più rispettabili. Queste erano imprudenze ed errori, le seguenti scandali e sconcezze indegne dell'uomo e del grado. Invitava alla sua mensa le ballerine e le cantatrici, e con esse conversava più famigliarmente che si convenisse. Accadde ancora che, fatta venire una compagnia di comici franzesi, invitò al teatro i vescovi. Non minore dispiacere arrecava nè minore molestia dava ad ognuno la protezione, con cui favoreggiava i delatori ed i fiscali, onde e le calunnie e le avare investigazioni turbavano le famiglie, e le proprietà incerte o gravate mantenevano. Questa fu una brutta peste che contaminò l'amministrazione di quel famoso vicerè, e lo rese meno commendabile ai contemporanei ed ai posteri. Nè vuolsi tacere che assai subito e sensitivo era verso chi il riprendeva, ed è noto in Sicilia ch'egli perseguitò acerbamente coloro che avevano fatto una satira contro di lui, uomo grande per umanità, non grande per sopportazione; virtù che ricerca maggior signoria di sè medesimo, e che Caraccioli non aveva. L'imperadore Giuseppe sentì, essendo ancora in Napoli, farsi o prepararsi dal vicerè tante generose riformazioni in Sicilia; ne riceveva non poca allegrezza. Poscia, lasciato Napoli, verso la sua Milano s'incamminava. Ebbe a Roma nuove e prolungate conferenze col pontefice, da solo a solo, nissun cardinale, nissun prelato, nissun domestico ammesso ai segretissimi colloqui. Ai 20 di febbraio l'austriaco principe arrivava a Milano. In Torino ora si riscaldava ora si raffreddava il grido della sua venuta. Vittorio Amedeo di Sardegna desiderava che la sua città visitasse. Mandò il marchese Balbis, pregando acciò venisse. Furono tra l'inviato del re e lo imperatore molte cose parlate, ma nissuna conclusa. Per non vedere quelle sponde del Po, l'Austriaco si scusò colla brevità del tempo: il duca del Chiablese, fratello di Vittorio, fu mandato a Milano per onorarlo. Giuseppe fu nella capitale della Lombardia ciò che era stato altrove, ma essendo fra i suoi popoli, con le mani ancor più piene di grazie per dar riparo alla vita dei miseri. Visitò quindi Pavia e la sua famosa università, a cui egli e la sua madre augusta tanto lustro, tanti nobili professori, tanti utili sussidii di scienze avevano procacciato. Era a quei tempi Pavia una vera italica Atene. Ognuno, crediamo, di questo parere sarà, quando dirassi che Scarpa, Spallanzani, Gregorio Fontana, Volta, Scopoli, Franck, Presciani, Tamburini, Mascheroni e tanti altri illustri uomini la studiosa gioventù alle fonti del sapere abbeveravano. Quivi l'imperatore, come in gratissimo seggio, si rallegrava. Tutti quei virtuosi sacerdoti delle muse amorevolmente accolse, e tutti quei preziosi repositorii di libri, dei parti dei tre regni, curiosamente esaminò ed accrebbe, tutti quei ticinesi popoli coi detti ed ancora più coi fatti rallegrò e consolò. Veduta al suo cospetto la facoltà di teologia, così le disse: «Attendete pure ad insegnare i dogmi semplicemente, e non istate a mescolarvi questioni inutili, commenti oscuri, sofisticherie scolastiche. Le superflue parole non ad altro servono che a suscitare gli odii ed a soffocare i principii del vero cristianesimo. Sia chiara e schietta la fede, benigna e tollerante la carità: sia Cristo la nostra face, Cristo il nostro amore; le oziose ed acerbe disputazioni lasciamo a chi mal vede, a chi mal sente, a chi mal ama.» Così parlato, e poco ancora dimoratosi nell'antica sede del regno lombardo, sede recente di più fortunati influssi, quell'amorevole padre dei popoli a Milano tornò; poscia, valicate le Alpi, sulle sponde del Danubio si ricondusse. Lasciò in Italia immortale memoria de' suoi benefizii, ed un fratello condegno imitatore delle sue virtù. Tutto il tempo che Giuseppe, di Napoli partito fermossi in Italia, Gustavo di Svezia si trattenne a Napoli. Parea che i due sovrani non avessero gran piacere di trovarsi insieme in alcun luogo. Per tanto, restituitosi il re di Svezia a Roma il dì 10 di marzo, vi rimase sino al 19 di aprile, i maggiori riguardi al capo della Chiesa cattolica dimostrando, e colle maniere cortesi ed affabili la benivoglienza dei Romani conciliandosi. Andato una mattina a vedere il museo, vi trovò come a caso il pontefice, e, trattenendosi seco in conversazione presso a due ore, formò il soggetto d'un bellissimo quadro del celebre pittore franzese Gagneraux. Assistendo alle funzioni della settimana santa, veramente magnifiche nella principal chiesa dell'universo, non si potè, che pieno di ammirazione non si manifestasse avere i protestanti il torto nel criticare la pompa delle cattoliche funzioni; poichè, essendo ai popoli la religione necessaria, era ben fatto circondarla con tutto ciò che può renderla agli occhi umani rispettabile ed augusta. Non per tanto, temendo quel monarca che i suoi popoli, della setta di Lutero seguaci, nol credessero disposto rinnovellar l'esempio dato un secolo prima dalla regina Cristina, e assicurarli volendo del suo attaccamento al culto del proprio paese anche in mezzo alla cattolica Italia, pose la romana tolleranza ad uno stranio cimento. Ordinò che fosse alla meglio preparata una cappella nella sala del palazzo che abitava, ed ivi assistette divotamente ad un discorso assai lungo del barone di Taube, vescovo svedese, suo primo predicante e cappellano di corte, accorso da Stoccolma a Roma per adempire ai doveri del suo ministero, e alla celebrazione delle cerimonie pasquali secondo la confessione di Augusta, e con i cavalieri, con tutta la gente della sua comitiva e con altri luterani forestieri che trovavansi a Roma, la cena conforme ai riti di detta confessione ricevette, alla funzione ammettendo quante d'ogni classe persone vollero concorrervi. Mandò in dono Gustavo al papa le medaglie dei sovrani e degli uomini più insigni in diversi tempi dalla Svezia prodotti; ed essendo andato a visitare il collegio di Propaganda, fu a lui offerto un omaggio che indarno sarebbesi cercato ed ottenuto in qualunque altro paese: il suo elogio in versi, stampato in quarantasei diversi linguaggi antichi e moderni. La sorpresa del re fu viva, e soprattutto vivamente espressa. Congedatosi Gustavo da Pio, per la via di Firenze e Parma giunse a Venezia il giorno 3 di maggio, e Venezia con la solita sua splendidezza delizioso e grato rese al monarca il suo soggiorno, con regate e balli i più sontuosi. Di qui partito, passando per Milano e Torino in Francia, al suo regno affrettatamente il richiamarono le vicissitudini della Danimarca. Già da quindici anni il granduca Leopoldo felicitava la Toscana. Non solo la Italia, ma l'Europa tutta ammirava la saviezza delle sue leggi, e applaudiva all'affetto dei sudditi pel sovrano. Ne abbiam fatto più d'un cenno negli anni precedenti, non meno che delle riforme tanto nel civile quanto nell'ecclesiastico da lui fatte. Ma ciò non ostante, e quantunque delle cose ecclesiastiche sia per presentarsi altrove l'occasione di parlare, non può tacersi delle forme politiche, le quali, secondo che alcuni scrivono, egli voleva dare alla felice provincia. Narrano adunque ch'egli avesse in animo di statuire, per suprema legislazione dello Stato, quanto segue: Che alla creazione della legge dovesse intervenire il voto del granduca e quello della nazione; Che la legge dovesse consegnarsi al granduca per l'esecuzione; perciò fosse investito dell'autorità e del comando della forza, siccome per la legge constituita veniva ordinato; Che la nazione rappresentata fosse dalle assemblee comunitative, dalle provinciali e dalla generale; Che la petizione fosse libera ad ogni individuo maschio sopra ai venticinque anni davanti alle assemblee comunitative del luogo di suo domicilio, ma per oggetti meramente locali e compresi nelle facoltà dei magistrati delle medesime comunità; Dall'aggregato di varie comunità si formasse il distretto o circondario provinciale, e che quivi tener si dovessero le assemblee provinciali; Che le assemblee provinciali composte fossero dai deputati delle rispettive comunità, e che appresso loro fosse libera la petizione, ma soltanto per oggetti risguardanti l'intera provincia; Come nelle assemblee comunitative si dovevano sentire le petizioni delle rispettive comunità e quelle dei particolari comunisti, così si dovessero anco discutere e passare al partito dei voti, e poi le ammesse consegnare ai deputati, perchè le presentassero alle assemblee provinciali, per quindi discutersi e mandarsi a partito partitamente; Che dalle assemblee provinciali si eleggessero deputati per intervenire all'assemblea generale, e ad essi si consegnassero tutte le petizioni che vi erano state ammesse o decretate come voto provinciale, e così venissero abbracciate tanto le petizioni comunitative quanto le provinciali; Che i deputati provinciali formassero l'assemblea generale, che dovesse adunarsi senza intimazione o invito in determinato tempo ogni anno, e risedere prima in Pisa, poi in Siena, poi in Pistoia, e finalmente in Firenze, incominciando la volta ogni quattro anni; Che per Livorno si stabilisse una norma particolare; Che le assemblee in tutte tre i gradi fossero pubbliche; Che la legge si potesse promuovere dalle assemblee generali, e dovesse ricevere la sanzione del granduca, come egli la poteva proporre all'assemblea, e col voto di quella la legge venisse creata; Che il conto generale delle finanze si dovesse esaminare in pubblico nell'assemblea generale, ed il ministro delle finanze dovesse produrlo e dare tutte le notizie o spiegazioni occorrenti; Che al medesimo modo esaminare si dovessero i conti comunitativi e provinciali; Che gli aumenti di stipendio agl'impiegati dello Stato dovessero passare per due voti concordi, e così parimente le pensioni e gratificazioni per titoli degni di straordinaria ricompensa; Che qualunque impiegato di qualunque grado al servizio dello Stato che fosse dichiarato di non avere la soddisfazione del pubblico, si dovesse dimettere, e non si potesse altrimenti impiegare; ma che per tale atto dovesse concorrere il voto unanime della piena assemblea generale senza bisogno del voto regio; Che tutte le nomine degl'impiegati appartenessero alla prerogativa regia, e però tutte dal granduca si facessero; Che parimenti di prerogativa regia fossero le nomine ai vescovati e la collazione dei benefizii ecclesiastici di padronato regio o comunitativo; Che medesimamente i gradi e gli onori da darsi agli uffiziali della milizia fossero parte della prerogativa regia; Che finalmente la medesima prerogativa regia abbracciasse tutto ciò che non era contrario alla legge fondamentale della costituzione; Che gl'impiegati al servizio della corte o dello Stato non potessero essere ammessi a sedere nelle assemblee nazionali, e neppure i pensionarii, ma che ai medesimi non venisse interdetto il diritto di petizione; fu anche spiegato che non cadessero sotto questa censura gl'impiegati al servizio della comunità. Giova andare avanti in queste disposizioni di Leopoldo siccome sono da alcuni raccontate. Voleva bensì che la prerogativa di far grazia fosse riservata al granduca, ma solamente per diminuire o commutare le pene afflittive corporali ai delinquenti già condannati, ma non già le pecuniarie. Intendeva e voleva che fosse intieramente nel granduca soppressa la facoltà di rompere le sentenze dei tribunali nelle cause civili, e per tale modo veniva estirpato quell'enorme abuso, che ancora viveva e vive in certe monarchie, di violare a favore o pregiudizio di questo o di quello le decisioni della giustizia. Non sono da trasandarsi le parole veramente auree, se vere sono, che Leopoldo scrisse nel preambolo di questa sua legge constitutiva: «Che solo un despota imbecille o malvagio può credersi superiore alla legge; ch'ella è fatta per regolare i diritti tra privati, e che il far nascere la legge in grazia di una parte non è altro che un abuso di potere, o l'effetto d'imprudenza di volubilità o di ignoranza di quei giudici che introdussero questa nuova specie di grazia, che non può aver luogo senza un torto o un'ingiuria verso dell'altra parte, a cui la legge in quel momento sta in favore.» Seguono alcune sicurtà, perchè in ogni tempo la costituzione salva ed intatta conservare si potesse; Che i successori al trono dovessero accettare e promettere l'osservanza della costituzione prima di assumere l'autorità e la corona; Che i principi della famiglia regnante non potessero essere investiti di benefizii ecclesiastici di padronato regio, nè ammessi ad impieghi a servizio dello Stato, o civili fossero o militari; Che lo stesso interdetto abbracciasse espressamente anche i principi di famiglie regnanti estere; Che la truppa fosse tutta civica, nè che si potessero fabbricare fortezze, e quelle che già esistevano non potessero contenere artiglierie, nemmeno in forma di conserva. Che le assemblee non solo potessero, ma dovessero esser guardiane della costituzione, ed obbligate fossero a denunziare le infrazioni ed a contrastarle, regolando in quali modi ed in quali forme speciali per tali casi essi dovessero procedere. La pretesa suprema legge continuava dicendo: che non si potessero creare feudi, e quelli che venissero a decedere, non si potessero più conferire; Che la libertà del commercio fosse un articolo di legge costitutiva, e che ad essa in nissuna maniera si potesse derogare, nè che limitare si potesse, nemmeno a tempo, nè direttamente nè indirettamente, nè con imposizioni o tasse, od altro qual si volesse vincolo o restrizione; Che non si potesse creare debito pubblico nè per lo Stato, nè provinciale, nè comunitativo oltre di quello che già vi fosse; Che neppure alcun debito creare si potesse sul patrimonio della corona, che si dichiarava inalienabile, indivisibile e incapace d'ipoteca. Che, oltre i beni attribuiti a questo patrimonio, fosse instituito un supplemento sull'erario pubblico pel decorso mantenimento del granduca e della famiglia; ma che tale supplemento fisso fosse, nè mai aumentare si potesse; Che lo Stato non potesse mai essere obbligato a supplire nè alle doti, nè alle spese pel mantenimento delle principesse, nè per lo stabilimento e promozioni dei principi della famiglia; Che fosse proibito dalla costituzione il vendere o il dare in appalto le tasse, gabelle od imposizioni quali fossero o quali si volessero, e che parimente fosse dalla costituzione vietato il concedere in privativa alcun mercimonio o manifattura, neppure col profitto dell'erario. Quanto poi alla legge politica rispetto agli altri Stati, non era fuggito dall'animo a Leopoldo il desiderio che la Toscana fosse in perpetua neutralità con le nazioni anche barbaresche così per mare come per terra, qualunque i tempi fossero, o quali le contingenze. Per la qual cosa stabilì: Che non si potessero stipulare alleanze offensive nè difensive, o ricevere protezione o assistenza da potenze estere, e, molto meno, somministrare oltre i termini, della neutralità, che dal granduca erano stati chiaramente prescritti; Che il territorio non si potesse ingrandire con l'acquisto di nuovi Stati; nè cederne o cambiarne parte alcuna. Parve a Leopoldo, seguono a narrare, che per Livorno, porto di mare, scala di tanta mercatura, stanza e passaggio di tanti forastieri, in un particolare modo statuire si dovesse. Vogliono pertanto che ordinasse che la comunità di Livorno fosse esclusa dalle assemblee provinciali; dal che conseguitava, che esclusa anche fosse dall'assemblea generale; ma perchè le restasse qualche politico vincolo col rimanente della Toscana, e i suoi bisogni fossero conosciuti, ed ai medesimi provvedere si potesse, le furono lasciate le assemblee comunitative ed il diritto di petizione. Le domande mandate e vinte per partito delle assemblee comunitative di quella città dovevano mandarsi per mezzo di un oratore espresso, ma senza voce deliberativa, all'assemblea generale per esservi discusse e poste a partito. Leopoldo decretò eziandio che, affinchè la pacifica Toscana, come pacifica era, così ancora paresse, si sopprimesse ogni vestigio di apparato di guerra marittima, salve soltanto le barche armate di sanità e di esplorazione ed altri servigi fra le isole e la costa. Dal quale decreto venne interamente annullata quella pazzia del correre armata mano dei cavalieri di Santo Stefano contro i seguaci di Maometto, che i detti cavalieri potevano bensì irritare, ma non ispegnere. Contuttociò, per sicurezza di quell'emporio di Livorno e delle terre di marina, pensò che utile e necessaria cosa fosse di farvi stanziare qualche soldatesca stabile, massime di bombardieri e, come adesso si dice, di artiglieri o cannonieri, e conservarvi o innalzarvi alcuna fortezza. Tali erano, siccome narrano, i pensieri di Leopoldo circa il modo con cui egli intendeva di costituire la Toscana. Anno di CRISTO MDCCLXXXV. Indiz. III. PIO VI papa 11. GIUSEPPE II imperadore 21. Intesa a questi giorni più di mezza Italia alle riformazioni d'ogni genere nella pubblica cosa, ebbe Venezia a mettere per qualche tempo in esercizio la sua saviezza, per divertire possibilmente le conseguenze d'un avvenimento che alla fine costrinse la repubblica ad impugnare le armi sul mare. Nel marzo 1781 alcuni negozianti tunisini noleggiarono nel porto d'Alessandria un bastimento veneziano per trasportare a Tunisi le loro merci. Or pretendeano costoro che il legno dovesse dare tantosto alla vela, non ostante una malattia sopraggiunta al capitano che impedivagli assolutamente di partire, e, senza voler udir ragione, tanto quei Tunisini insistettero che il console veneziano residente in Alessandria dovette obbligare il figliuolo del capitano a mettersi in mare in vece del padre. Coll'equipaggio adunque di otto marinai veneziani e diciotto Tunisini proprietarii del carico, imbarcossi il giovane pel suo destino; ma, fatto ch'ebbe circa un sessanta miglia, si avvide che nel bastimento era la peste. Volle tornarsene indietro ad Alessandria; ma i Tunisini a viva forza l'astrinsero a progredire nel viaggio sino al porto di Sfax, ove pel contratto doveva approdare. Se non che erano in tragitto periti dieci Tunisini e tre marinai, e gli abitanti di Sfax, del male accortisi, coll'armi in mano respinsero il capitano col suo legno infetto, il solo favore accordandogli di due marinai, a prezzo smisuratissimo, quantunque poco nel mestiere valenti. Rigettato così dalla forza, e costretto a rimettersi in mare, il capitano approdò a Malta. Quivi ancora, informata la deputazione di sanità che il bastimento era attaccato dal contagio, mandò proibendogli il porto, ed intimandogli che, se non fosse immantinenti partito, avrebbesi senza remissione abbruciato il naviglio con tutto l'equipaggio. Indarno furono le protestazioni e le proferte del capitano di far lunga e rigorosa contumacia; indarno chiese il soccorso d'alcuni marinai, senza i quali impossibile gli tornava ogni movimento, quantunque esibisse di pagargli sino a dugento scudi per ciascuno: le leggi inesorabili della pubblica salute gli stavano contro, ed ei vide ardere sotto i proprii occhi il bastimento, salvo l'equipaggio, cui peraltro non fu permesso di toccar terra che affatto ignudo, e sommergendosi prima nell'acqua. Circostanza da notarsi in questo luogo si è, che malgrado tutte le precauzioni dai Maltesi prese, i Tunisini, sbarcando, seco portarono sopra bacili di rame tutto il denaro che si trovavano, ed in appresso diedero ad intendere al loro dey, non essersi il capitano preso alcun pensiero di loro, nè aver adoperato lui mezzo di sorta per impedire l'arsione del bastimento. La quale relazione fece che il dey pretendesse obbligata la repubblica di Venezia a pagare i danni da' suoi sudditi patiti, mentre, per lo contrario, aveva ella il diritto che indennizzati fossero i sudditi suoi del danno che lor proveniva dalle mosse cui fu il capitano dai Tunisini forzato nelle narrate circostanze. Il dey che allora in Tunisi regnava fece sopra di ciò pressanti rimostranze al console veneziano; ma ossia che sentisse la debolezza delle sue ragioni e gli imponesse la forza della repubblica, oppure che qualche altro motivo il consigliasse, si tacque, nè finchè visse parlò di tali sue pretensioni. Ma, morto lui, il figliuolo che gli succedette le mise di nuovo in campo, e dichiarò al console che si sarebbe rotta la pace, se a lui ed a' suoi sudditi data non fosse intiera soddisfazione. Ed insistendo il dey con tutta la tenacità nel suo proposito, determinò la repubblica d'inviargli, per farla finita, il suo capitano delle navi con proposizioni ragionevolissime e coll'aggiunta di regali per la sua esaltazione. Ma questi sentimenti di moderazione per parte della repubblica non fecero effetto; che anzi il dey, invece di prestarsi ai termini di giustizia ed equità, produsse nuove pretensioni, fra le quali una era quella che altri Tunisini domandavano risarcimento di certi effetti che trovavansi sopra un bastimento veneziano saltato in aria nel porto di Tunisi, avendovisi appreso fortuitamente il fuoco. Per quanto incompetenti, irragionevoli ed ingiuste cotali pretensioni fossero, non uscivano dal circolo dell'insaziabile avidità della barbara nazione che le metteva in mezzo, nè dai principii da essa professati, che la forza sia la suprema ragione e giustizia in ogni cosa. Intanto eccessi di un'altra natura ferirono direttamente la dignità della repubblica. Non solo rovesciarono coi modi più insultanti gli stemmi del veneziano consolato, ma e il suo capitano delle navi spedito a Tunisi e la sua comitiva durarono molta fatica a sottrarsi al tumulto della plebe, che furibonda gl'inseguiva nel momento che tornavano alle navi. Abbattere lo stemma, insultare il pubblico messo ed intimarsi solennemente dal dey alla repubblica la guerra fu tutt'uno. Sdegnato il senato all'iniquo modo di procedere, elesse a capitano straordinario delle navi il cavaliere Angelo Emo. Quest'uomo sommo, ben a ragione chiamato l'ultimo de' Veneziani, ricreatore della veneziana marineria, salpò con breve flotta dalla patria nel precedente anno, a Cattaro ed a Corfù rinforzandosi di legni da guerra, di soldati e di gente di mare. Giunto colla sua squadra a Tunisi, s'impadronì subito d'una tartana armata e riccamente carica ai Tunisini appartenente; e quindi, esaminati i luoghi della costa, lasciò l'almirante a bloccare l'ingresso principale del porto, ed ei coi rimanenti legni si volse a bombardare Susa, città sessanta miglia da Tunisi discosta. Il vivissimo bombardamento, per diciassette giorni e diciassette notti continuato, atterrò molti e i più notabili edifizii della città, molti pure spegnendo dei suoi difensori ed abitanti, sagrificati alle ostinate barbarie del dey, che non volle la rinovazion della pace. Avendo la veneziana squadra svernato a Trapani, tornò in quest'anno dopo la metà di luglio sulle coste d'Africa, ripigliò il bombardamento di Susa che durò sino al 4 di agosto, non permettendo il mare sempre agitato di spingere più innanzi le guerriere operazioni, ed i bassi fondi anzi consigliando a portare altrove lo sforzo. Giace sulla costa di Barbaria, entro il golfo di Zerbi, la città di Sfax, dipendente dal regno di Tunisi. Benchè circondata da bassi fondi che non permettono di accostarvisi ai vascelli da guerra, benchè alcune isole sorgan fra quelli che più pericolosa ne rendono la navigazione, benchè sino allora avessero cotali ostacoli impedito ai legni delle altre potenze di penetrare in quel ricinto, Emo tentò di conquiderla, ancorandosi in distanza, e di quivi slanciandole contro più di cinquanta bombe, che, cadendo per la maggior parte entro le mura, insegnarono per la prima volta a que' barbari a temere pur essi que' globi fulminanti da' quali si credeano sicuri. Ma non corrispondendo l'effetto pienamente alle mire del comandante, pensò altra via di tornar loro del tutto vano lo schermo di quella sirti, da' proprii navigli, congiungendone le vuote botti, traendo, novella sua invenzione, un navile atto a dar sui _querquenci_ e sulle secche il saggio e l'esempio di quel modo di marittima offesa contro le rocche in terra, che, imitato poi e tratto a termini di grandezza per mezzi infinitamente maggiori dal lord Exmouth sotto Gibilterra, riuscì nondimeno a quella stessa fine, con immenso apparato di forze, a cui Emo con forze tanto rimesse e parche il condusse, di vincere no o distruggere que' corsali, ma di rintuzzarli. Impietositosi però l'Emo ai casi di una popolazione tanto, per l'ostinatezza del capo, sofferente, volle generosamente fare al dey grave rappresentanza in una sua lettera, significandogli eziandio come la repubblica fosse disposta a dargli quelle dimostrazioni di affetto che in varie occasioni avea date al dey di lui genitore e predecessore, qualora si determinasse ad approfittare della clemenza del veneto senato. Commosso il dey alla generosa dichiarazione, fece sapere all'Emo che intavolato avrebbe proposizioni di pace, qualora avesse a trattare con lui solo, rimanendo con due soli legni, e licenziando il rimanente. Rispose il Veneziano che poteva bensì far ritirare la squadra, ma che delle condizioni della pace era del senato il decidere. A questo pertanto inviò per espresso le proposizioni del dey, e mandata la squadra parte a Trapani e parte a Corfù, passò egli a Malta, per attendervi le risposte di Venezia, concessa frattanto ai Tunisini una tregua di quaranta giorni. Lasciò il senato al suo capitano la libertà di conchiuder la pace, escluso però qualunque esborso o patto di denaro, e fissato che per le gabelle i bastimenti veneziani non avessero a pagare se non il tre per cento come i Franzesi pagavano, e non il cinque dal dey imposto; che se a questi tali condizioni non aggradissero, rinnovasse Emo, il senato comandava, le ostilità al più tardi nell'anno nuovo. Fu allora mormorato che questa guerra, la quale durò sei anni ancora, avrebbe potuto, appena sorta, terminarsi col sagrifizio di qualche denaro per saziare l'avidità di quel principe africano, sacrifizio infinitamente minore a quello d'una guerra di mare sì dispendiosa e tanto lunga. E taluni ancora, sospettosi o maligni, vollero colpare della continuazione d'essa lo stesso Emo, che non poteva, dicevano, vedersi ozioso in patria, amava l'agitazione ed il movimento, e godea l'animo in comandare, padrone assoluto, una flotta sul mare. Meschini di loro! che non sapeano, o di sapere dispettavano, quanta mente, qual cuore in Angelo Emo fosse, e qual giudizio di lui era per dare la storia che i giudizii del volgo non imita. «Angelo Emo visse esemplare di costumi e di repubblicana temperanza. Che aspirasse a farsi il Pisistrato della sua patria altro indizio addurre non saprebbe la calunnia che quell'arte in lui somma di rendere idolatre di sè le genti commessegli, di far che i timori e le speranze tutte nel duce loro riponessero, ed in sè rivelato loro, quasi diremmo, presente, rimuneratore, all'unità ridotto venerassero l'aristocratico reggimento da cui gli uomini più ripugnano. Comunque sia, la caligine di congetture non offusca lo specchio della storia. Emo visse e morì terso di macchia; ma certamente palese e quasi vocazione fu in esso la brama di ringiovanire la vecchia patria: e di fatto, quella parte di cui sembra che prima uopo era ravvivare in città sedente sul mare, la naval possa, con tanta saldezza di vita rinnovò, che quando la patria omai più non era, opima spoglia la rinvenne e tutta vita per anche chi ad usurparla mandò quel guerriero che usando fin d'allora del diritto ferreo della fortuna e dell'armi, nel 1796, Venezia rimeritava dell'ospitalità dandole morte.» (_Castelli._) Anno di CRISTO MDCCLXXXVI. Indiz. IV. PIO VI papa 12. GIUSEPPE II imperadore 22. Abbiam detto di quello che Leopoldo granduca di Toscana volea fare; ora è d'uopo toccare quello ch'ei fece. Questo principe, il quale, al dire d'uno storico esimio, non si potrà mai tanto lodare che non meriti molto più, mostrò quanto possa per la felicità de' popoli una mente sana congiunta con un animo buono e tutto volto a gratificare all'umanità. Solone fece un governo popolare e torbido, Licurgo un governo popolare e ruvido, Romolo un governo soldatesco e conquistatore; fece Leopoldo un governo quieto, dolce e pacifico, tanto più da lodarsi dell'aver concesso molto quanto più poteva serbar tutto. Erano prima di Leopoldo le leggi di Toscana parziali, intricate, incomode, improvvide, siccome quelle che in parte erano state fatte ai tempi della repubblica di Firenze, tumultuaria sempre e piena di umori di parti, e parte fatte dopo, ma non consonanti con le antiche, le quali tuttavia sussistevano. Altre ancora erano per Firenze, altre pel contado, queste per Pisa, quelle per Siena, poche o nissune generali. Sorgevano incertezze di foro, contese di giurisdizione, lunghezze di affari, un tacersi per istracchezza dei poveri, un procrastinare a posta de' ricchi, ingiustizie facili, ruine di famiglie, rancori inevitabili. Erano altresì leggi criminali crudeli o insufficienti, un commercio male favorito, un'agricoltura non curata, un suolo pestilenziale, possessioni mal sicure, debito pubblico grave, dazii onerosissimi. A tutto pose rimedio il buon Leopoldo. Annullò i magistrati o superflui, o poco proficui, o privilegiati, e tra questi quello delle regalie, togliendo in tal modo qualunque prerogativa che sottraesse ai tribunali ordinarii quelle cause che percuotevano l'interesse della corona. Esentò i comuni dai fori privilegiati; li rendè liberi nel governo dei loro beni, diede loro facoltà non solamente di esaminare, ma ancora di giudicare dell'opportunità delle pubbliche gravezze per modo che il corpo loro venne a formare nel granducato a certi determinati effetti una rappresentanza nazionale. Condonati, oltre a ciò, dei debiti verso l'erario, e soddisfatti dei crediti, sorsero a grande prosperità; crebbela ancor più il miglioramento del catasto. Soppressi adunque i privilegii individui e i fori privilegiati, corpi e persone acquistarono equalità di diritti quanto alla giustizia. Tali furono gli ordini civili introdotti da Leopoldo. Circa i criminali annullò altresì ogni immunità e parzialità di foro; abolì la pena di morte, abolì la tortura, il crimenlese, la confisca dei beni, il giuramento de' rei; statuì, le querele doversi dare per formale istanza, e dovere stare il querelante per la verità dell'accusa; restituirssersi i contumaci alla intregrità delle difese; del ritratto delle multe e pene pecuniarie, cosa degna di grandissima lode, si formasse un deposito separato a beneficio di quegli innocenti che il necessario e libero corso della giustizia sottopone talvolta alle molestie di un processo, ed anche del carcere, non meno che per soccorrere i danneggiati per delitti altrui; il che fondò, cosa maravigliosa, un fisco che dava invece di togliere; le pene stabili proporzionate al delitto. Nè contento a questo, diè carico di scrivere un novello codice toscano all'auditor di ruota Vernaccini ed al consigliere Ciani, uomini l'uno e l'altro, i quali non solo volevano e sapevano, ma ancora credevano potersi far bene e utilmente in queste faccende delle leggi, il che non si dice senza ragione a questi nostri dì, in cui da alcuni vorrebbesi insegnare che la miglior legislazione che sia è quella dei tempi barbari. Fu l'effetto conforme alle pie intenzioni; poichè fu in Toscana una vita felicissima dopo le novità di Leopoldo: i costumi non solo buoni, ma gentili; i delitti rarissimi, nè sì tosto commessi che puniti; le prigioni vuote, ogni cosa in fiore. Così questa provincia, che già aveva dato al mondo tanti buoni esempi, venuta in podestà d'un principe umanissimo, diè ancor quello di un corpo di leggi temperato di modo che nè il governo maggiore sicurezza, nè i popoli potevano maggior felicità desiderare. A questo medesimo fine contribuirono non poco i nuovi ordini di Leopoldo rispetto all'agricoltura ed al commercio. Rendè i coloni liberi dalle vessazioni, le terre dalle servitù, moderò la facoltà di instituir fidecommissi, riunì la facoltà del pascolo al dominio, onde fu distrutta l'antica legge del pascolo pubblico, per cui veniva impedito ai possessori ed ai coloni di cingere di stabili difese i terreni, e costretti erano a lasciarli in preda al bestiame inselvatichito, con grandissimo guasto delle ricolte. Nacquero da questa provvisione effetti notabilissimi, che e le ricolte si migliorarono, ed i bestiami si addomesticarono. Considerato poi quanto gli appalti generali dei dazii fossero molesti ai popoli e gravi ai governi buoni, Leopoldo gli abolì. Molte privative ancora furono tolte, quella della vendita dei tabacchi, dell'acquavite e del ferro; a tutti si diè facoltà di cavar miniere; le gabelle sui contratti, e la regalia della carta bollata si moderarono. Sapevasi Leopoldo che tutte queste riforme avrebbero diminuito le entrate dell'erario. Pure non se ne rimase, movendolo il ben pubblico più che il vantaggio del fisco. Ciò non ostante, assai meno diminuirono che s'era creduto; perchè la prosperità del paese e la più attiva circolazione dei generi, che ne risultarono, supplirono in gran parte quello che si perdeva. Mirabile argomento che la prosperità dei popoli prodotta dallo svincolo, non la gravezza delle imposte, è la maggior fonte che sia della ricchezza dell'erario. Si aggiunsero le dogane interne soppresse, nuove strade aperte, canali scavati, porti e lazzaretti o nuovi o ristorati, fatto sicuro a Livorno agli esteri lo esercizio della religione, aboliti i corpi delle arti e le matricole, surrogati agli impedimenti premii, facilità ed esenzioni, massime in benefizio delle arti della seteria e del lanificio, parti essenzialissime del commercio di Toscana. La libertà delle tratte, mediante un modico dazio rispetto alle sete, tanto operò che se il provento loro in Toscana montò, nel 1780, solamente a libbre cento sessantatre mila cento settantotto; montò nel 1789, diciamlo in questo luogo, a ben trecento mila. Ma, per parlar di nuovo del governo delle terre, non solo Leopoldo lo migliorò d'assai migliorando la condizione dei coloni, ma rendè ancora coltivabili quelle che per infelicità di suolo si trovavano incolte. Così la val di Chiana, così quella di Nievole, ricche ed ubertose terre; così in gran parte il capitanato di Pietrasanta, e le frontiere del litorale livornese e pisano, usando, secondo i luoghi, appositamente tagli, colmate, argini, canali, furono per opera sua liberate dall'acque, ridotte a sanità e restituite alla coltivazione. Ma opera di molto maggior momento e di quasi insuperabile difficoltà fu il prosciugamento delle maremme sanesi a tal termine condotto che si aveva speranza di totale perfezione. Sono le maremme sanesi un vastissimo padule che dai confini della provincia di Pisa sino a quelli dello Stato ecclesiastico si distende, lungo il mare, lo spazio di circa settanta miglia, e per larghezza dentro le terre da cinque o sei fino a quindici o diciotto. La pianura di Grosseto è la parte più considerabile di queste maremme. Sono in questi luoghi i terreni non sommersi tanto fecondi, quanto l'aria vi è infame e pestilenziale. Sotto Ferdinando I de Medici erasi già in parte conseguito l'intento, e parecchi paduli a stato coltivabile ridotti. Trascurate poi le opere da' suoi successori, ritornarono le terre e l'aria a peggior condizione di prima. Ma non così tosto fu assunto Leopoldo, che pensò alle maremme. Mandovvi il padre Ximenes, mandovvi Ferroni e Fantoni, matematici di chiaro nome e dell'idraulica intendentissimi. Già la pianura di Grosseto o, per meglio dire, la palude di Castiglione, ambedue parti principalissime delle maremme, eransi ridotte a stato tollerabile. Speravasi meglio, anzi il finale intento: usavansi le colmate per le acque dell'Ombrone e della Bruna, introdotte ai tempi delle torbe; usavansi canali e cateratte in più opportuni siti trasportate. Oltre a ciò, Leopoldo, mosso dal pensiero che le popolazioni scarse fanno l'aria insalubre, le abbondanti sana, allettò con premii ed esenzioni tanto i paesani quanto i forestieri, principalmente gli abitatori dell'agro romano, a fermare la sede loro nella maremma. Pagassesi dell'erario il quarto del prezzo delle nuove case ai fondatori, dessersi terre o gratuitamente od a basso prezzo od a carico di livelli od in enfiteusi; dessesi anco denaro a prestito, e sicuro asilo a chi vi si venisse a ricoverare. Per questo crebbe la popolazione, ed i terreni si coltivarono, e l'aria risanò. Peggiorarono poi le opere per le difficoltà dei tempi; pure rimangono, e forse ancora lungo tempo rimarranno nelle maremme sanesi i vestigii della generosità di Leopoldo. Nè minor lode meritano gli ordinamenti di questo giusto e magnanimo principe circa il debito dello Stato. Più di tre mila luoghi di monte furono cancellati, restituiti i capitali ai creditori col ritratto dei beni venduti spettanti a regie e pubbliche aziende, impiegando a questo uso anche i capitali provenienti dalla dote e contraddote della regina sua moglie, ed altri costituenti parte del patrimonio suo privato. In tal modo si spense in gran parte il debito che tanto gravava l'erario: così, mentre in altri luoghi d'Italia il debito dello Stato montava continuamente non per altro fine che per crear soldatesche, in Toscana, per opera di Leopoldo, il debito medesimo si estingueva per fondarvi un governo dolce, quieto per sè, sicuro pei vicini. Nè per questo tralasciavansi provvedimenti di utilità o di ornamento; perciocchè nel tempo medesimo sorgevano scuole per ogni ceto, conservatorii, case di rifugio e di ricovero, ospizii ed ospedali, e gli studii di Pisa e di Siena meglio si ordinavano; nuovi palazzi fondavansi, gli antichi si abbellivano, nuovi passeggi si aprivano, le librerie si arricchivano, il gabinetto di fisica s'accresceva, ed un orto botanico si piantava. Tra mezzo a tutto questo il principe, siccome quello che giusto era e sincero, non volle starsene oscuro. E però fe' pubblicare la dimostrazione per entrata e per uscita delle rendite dello Stato: in questo quasi specchio dell'economia di Toscana vedonsi ed i risparmii fatti e le imposizioni moderate ed il denaro convertito in cause pietose di sollievo o d'ornamento pubblico. E qui sarebbe da continuare il discorso intorno alle cose ecclesiastiche; ma siccome ebbero compimento nell'anno seguente, così a quello differiremo il tenerne parola. Anno di CRISTO MDCCLXXXVII. Indiz. V. PIO VI papa 13. GIUSEPPE II imperadore 23. Le riforme fatte in Toscana da Leopoldo nelle ecclesiastiche discipline furono materia di molta gravità, e che destò molto grido e molta aspettazione di uomini sì in Italia che fuori di essa. Gli antichi Toscani, più propensi a dar ricchezze ai conventi che alle parrocchie, lasciarono quelli ricchi, queste povere. Leopoldo convocò in quest'anno un'assemblea dei vescovi di Toscana, proponendo loro cinquantasette punti; tutti relativi alla riforma dell'ecclesiastica disciplina. Molti si accordarono, altri si modificarono, altri si serbarono a tempi migliori. Il principe, avuto il parere di alcuni ecclesiastici di non poco nome, stabilì le parrocchie dessersi a concorso, s'aumentassero i redditi loro; veruna tassa più non pagassero ai vescovi forestieri, annullassersi le pensioni di qualunque sorte sopra i benefizii curati, permutassesi la destinazione dei fondi vincolati ad usi religiosi e indifferenti, o poco utili, ed il provento di tali capitali in aumento delle scarse congreghe dei parochi più bisognosi s'impiegasse; con questo ed in compenso di tali concessioni i rettori delle cure dall'esazione delle decime e da altri emolumenti di stola desistessero; i parrochi alla residenza obbligati fossero; niuno più di un benefizio godere potesse, ancorchè semplice, massimamente se residenziale fosse; tutti i sacerdoti che benefizio residenziale avessero, fossero alla chiesa, ove era fondato, incardinati, e tutti i sacerdoti semplici, alla chiesa parrocchiale dove abitassero, e ciò con dipendenza dal paroco, ed obbligo di aiutarlo nel pio suo ufficio; i benefizii tanto di collazione ecclesiastica, quanto di nomina regia, a chi servito avesse od attualmente servisse la chiesa, solo ed unicamente si conferissero; i regolari ed i canonici dal paroco dipendessero, e ad aiutarlo in tutto che abbisognasse obbligati fossero; alla sussistenza degli ecclesiastici o poveri od infermi provvedessesi; i romiti, salvo quelli che utili fossero, abolissersi; tutte le compagnie, congregazioni e confraternite sopprimessersi: a tutte sostituissersi le sole compagnie di carità; le chiese, oratorii, refettorii e stanze delle compagnie soppresse ai parrochi gratuitamente si consegnassero; i religiosi regolari dal vescovo dipendessero; l'abito non vestissero prima dei diciotto anni, non professassero prima dei ventiquattro; le religiose non prima dei venti vestissero, non prima dei trenta professassero; il tribunale del santo ufficio s'annullasse; gli ordini di Roma tutti si assoggettassero al regio consenso, prima che pubblicarsi ed eseguirsi potessero; s'intendesse abolito il privilegio degli ecclesiastici di tirar i laici al foro loro, e nelle cause criminali in tutto e per tutto ai laici parificati fossero; le cure ecclesiastiche e delle cause meramente spirituali conoscessero, e pene puramente spirituali definissero; gli ordinarii ogni due anni il sinodo diocesano, per conservare la purità della dottrina e la santità della disciplina, convocassero. Queste deliberazioni del principe Toscano, ancorchè molestissime alla santa Sede, pareva che non toccassero la sostanza stessa di quell'autorità spirituale pontificia, che già da più secoli i papi avevano piena ed intiera. Ma a quelle deliberazioni non si rimase Scipione Ricci, vescovo di Pistoia, che aveva già opinato nell'assemblea dei vescovi di Toscana acciò si ampliassero le facoltà, non che de' vescovi, de' parochi, volendo che gli uni e gli altri avessero voce deliberativa ne' sinodi diocesani. Statuì poi nel suo sinodo, avere il vescovo ricevuto da Cristo immediatamente tutte le facoltà necessarie al buon governo della sua diocesi, nè potersi le facoltà medesime od alterare od impedire, e poter sempre e dovere un vescovo nei suoi diritti originarii ritornare quando lo esercizio loro fu per qualsivoglia cagione interrotto, se il maggior bene della sua chiesa il richiegga. Le quali proposizioni ed altre ancora diedero assai mal suono, per guisa che Pio VI come erronee ed anche come scismatiche alcuni anni dopo le condannò. Aggiunse il Ricci alcune altre dottrine che parvero e temerarie ed alla santa Sede ingiuriose: essere una favola pelagiana il limbo de' fanciulli; un solo altare dover esser in chiesa secondo il costume antico; la liturgia ed esporsi in lingua volgare e ad alta voce recitarsi; il tesoro delle indulgenze essere trovato scolastico, chimerica invenzione lo averlo voluto applicare ai defunti; la convocazione del concilio nazionale esser una delle vie canoniche per terminar le controversie circa la fede ed i costumi. In fine sommamente dolse a Roma quella proposizione del sinodo pistoiese, per la quale i quattro articoli statuiti dal clero gallicano nell'assemblea del 1682 si approvarono, e questa particolarmente Pio VI con una sua bolla cassò e dannò come temeraria, scandalosa ed alla santa Sede ingiuriosa. Le dottrine del sinodo pistoiese levarono un gran rumore in Italia, massimamente quando furono condannate a Roma. Scritti senza numero vi si pubblicarono, quali in favor di Roma, quali in favor di Pistoia. Allegavasi da' Romani incominciare a por piede in Italia le eresie di Lutero; da' difensori del Ricci, un salutar freno incominciarsi e porre agli abusi. Gli ultimi, tra perchè pretendevano ai discorsi loro parole di semplicità e di parsimonia, e perchè inclinavano a favore de' più, molto s'avvantaggiavano sugli avversarii loro ed andavano ogni dì maggior favore acquistando. Queste ferite tanto più addentro andavano a penetrare nel cuor del pontefice, quanto più nel regno stesso di Napoli le medesime o poco dissomiglianti dottrine si professavano. Pareva, ed ai principi massimamente, che le dottrine che in Toscana prevalevano, non solo la disciplina ristorassero, ma ancora la potenza temporale alla libertà ed alla indipendenza da' romani pontefici restituissero. Perlochè con piacere si abbracciavano, con celerità si propagavano, con calore si difendevano. Ma nel regno delle Due Sicilie erano alcuni particolari motivi per cui le medesime dottrine, che suonavano parole tanto gradite di libertà e d'indipendenza, fossero dal governo medesimo più volonterosamente ed accettate e difese. Da quanto si è venuto ne' precedenti anni discorrendo si vede che colà pure i medesimi tentativi si facevano che nella Lombardia austriaca ed in Toscana circa alla disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore, come si disse, a cagione delle controversie politiche con Roma. Composte aveva Pio VI, al cominciamento del suo regno, o almeno acchetate le controversie che sussistevano colla corte di Napoli; ma ben tosto si rinnovarono più ardenti, e forse contribuì ad accenderle l'intolleranza del nunzio pontificio, il quale ancora in quest'anno in Napoli trovavasi. Perdette Roma il tributo della chinea, nè giovarono a ristabilirlo le erudite allegazioni del cardinale Borgia ed altri scritti d'ordine della romana corte pubblicati; ed il cardinale Buoncompagni, a Napoli spedito per rivendicare almeno in parte il diritto di nomina ai vescovadi del regno che quel sovrano erasi arrogato, nulla potè ottenere. Sembrava che la corte volesse liberarsi da quella specie di tutela sotto la quale i precedenti pontefici aveanla tenuta: scritti giurisdizionali fortissimi pubblicavansi in quel regno, ed apertamente attaccavasi la pontificia autorità; nè quelle contese cessarono se non allorchè un più importante avvenimento, il cominciare, cioè, della rivoluzione di Francia, tutta attrasse ed assorbì l'attenzione dell'Europa; vorticoso nembo che già ci si vien facendo sopra. Anno di CRISTO MDCCLXXXVIII. Indiz. VI. PIO VI papa 14. GIUSEPPE II imperadore 24. Comincia quest'anno colle convulsioni della natura che desolarono gli Stati del pontefice. Rimini varie scosse ne sentì successivamente, a brevi intervalli, una più forte dell'altra. Scrollarono molti edifizii, e quelli che in piedi rimasero davano nelle soffitte e nelle pareti segni della potenza del terremoto; chiese e palagi, oggetti spaventevoli di compassione. Gli abitanti atterriti e dal terrore inseguiti, fuggiano per le piazze, uscian dalla città all'aperta campagna, asilo cercando anche dove men sicuro asilo era. Molti caddero vittima del disastro. Lungo tempo i tremebondi Riminesi soggiornavano sotto le tende, anche nelle crude notti dell'invernal stagione. E Pio VI, padre e signore, ad accorrere in sollievo de' suoi sudditi, de' suoi figli, inviando loro non meno pronti che generosi soccorsi. I due vulcani di Napoli e di Sicilia, se colle eruzioni straordinarie non cagionarono grandi danni, sommo spavento destarono. Nell'Etna fu maggiore che non nel 1779: l'arena e le pietre caddero sino sulla città di Messina, sulle campagne adiacenti, su quelle dell'opposta Calabria, sopra tutte le isole circostanti, e sino in Malta. Nè il Vesuvio volle esser da meno: nel tempo stesso cominciò a gettar fiamme, e scorrendo la lava lateralmente nel vallone che divide quella montagna dall'altra di Somma, portò il terrore nell'anima degli abitatori della più deliziosa parte dell'Italia. Volle il re di Napoli mettere in piedi una rispettabile marineria: trentadue legni da guerra, tra navi, fregate, corvette, brigantini e galeotte, senza contare gli sciabecchi, gli ebbe costruiti ne' due arsenali di Napoli e Castellamare, trovandosi egli continuamente presente ad affrettare ai lavori. Con queste forze gli venne fatto di reprimere le piraterie dei Barbareschi che pareva avessero preso di mira particolarmente i legni mercantili napoletani. Erano coloro in quest'anno usciti a corseggiare più forti e più numerosi del solito, sotto pretesto di doversi, come tributarii, unire alla flotta ottomana contro i Russi. A maggior sicurezza, il re conchiuse un trattato di commercio e di navigazione coll'imperatrice Caterina II, soprattutto pei porti russi sul mar Nero, co' quali erasi stabilito un traffico proficuo ad ambe le nazioni. Nè soli i Barbareschi abusavano dell'occasione della guerra tra i Turchi ed i Russi, onde insultare persino quelle nazioni colle quali erano in pace le loro reggenze; meno non ne abusavano alcuni altri Europei, dandosi alla pirateria con bandiera russa. Se non che, a porvi un argine, sorse Caterina con provvidenze opportune; e la repubblica di Venezia, però che non erasi ancor potuta conchiudere coi Tunisini la pace, faceva dal suo capitano delle navi Angelo Emo, di cui abbiam detto, battere colla poderosa sua squadra di ottanta legni armati le acque del Mediterraneo, perchè rispettata fosse la veneziana neutralità, protetto il commercio, tolto di mezzo qualunque disordine. A dì 31 di gennaio passò di questa vita in Roma, nell'età di sessantasette anni, Carlo Odoardo della regal casa Stuarda, figliuolo di Giacomo III e nipote di Giacomo II, re d'Inghilterra, della cui impresa, a ricovrare il regno intesa, il sommo Muratori espose le vicende nell'anno 1745. Anno di CRISTO MDCCLXXXIX. Indiz. VII. PIO VI papa 15. GIUSEPPE II imperadore 25. Nuova era apresi in quest'anno alla storia. Prima però di chiudere con adequato discorso quella che sin qui trascorremmo, e di apparecchiarci, colla esposizione dello stato d'Italia nel punto dal quale partiremo per percorrere la novella, vogliamo notare in questo luogo alcun fatto di minore importanza, ma che tuttavia merita d'essere ricordato in questi Annali. Fece molto parlare di sè sul finire di quest'anno un uomo singolare; vogliam dire il conte Alessandro Cagliostro. Sotto di questo nome un avventuriere si è acquistata non tenue celebrità. Non è noto particolarmente che per alcuni libelli, sempre sospetti di parzialità, e pel processo fattogli a Roma. Ma l'ignoranza e le contraddizioni de' compilatori non permette di credere ad essi gran fatto maggiormente. Comunque sia, riferiremo succintamente i principali fatti narrati nel processo. Cagliostro nacque, dicono, a Palermo, il dì 8 di luglio 1743, da genitori di mezzana condizione, ed il suo vero nome era Giuseppe Balsamo. Dopo una gioventù burrascosa non poco, e dopo molte gherminelle, come quella che fece ad un orefice nominato Marano, al quale cavò sessanta oncie di oro colla promessa di dargli un tesoro sotterrato in una grotta, custodita dagli spiriti infernali, lasciò la sua città natia, e cominciò a viaggiare. Visitò successivamente la Grecia, l'Egitto, l'Arabia, la Persia, Rodi, l'isola di Malta, ed in quei viaggi strinse amicizia col dotto Althotas, ch'egli ci ha dipinto come il più saggio degli uomini; ma lo perdè a Malta, dove fu bene accolto dal gran maestro che gli diede commendatizie per Napoli. Di Napoli andò a Roma. In questa città conobbe la bella Lorenza Feliciani, colla quale si unì in matrimonio. Da Roma gl'inquisitori della sua vita gli fanno scorrere pressochè tutte le città d'Europa sotto i nomi diversi di Tischio, di Melissa, di Belmonte, di Pellegrini, d'Anna, di Fenice, di Harat e di Cagliostro, vivendo ora del prodotto delle sue composizioni chimiche, ora di giunterie, più sovente del vergognoso traffico che faceva delle bellezze della sua sposa. L'apparizione più brillante di questo personaggio singolare fu quella che fece a Strasburgo ai 19 di settembre 1780. Sarebbe difficile l'esprimere lo entusiasmo ch'egli destò in quella città e di far conoscere i moltiplicati atti di beneficenza onde parve che lo giustificasse. La Borde non conosce termini abbastanza forti per dipingere il conte Cagliostro. Nelle sue Lettere sulla Svezia, ei lo qualifica come uomo ammirabile per la sua condotta e per le sue vaste cognizioni. «La sua fisonomia, dice, annunzia lo spirito, esprime l'ingegno; i suoi occhi di fuoco leggono nel fondo degli animi. Sa pressochè tutte le lingue dell'Europa e dell'Asia, la sua eloquenza sorprende e rapisce, anche in quelle cui parla men bene.» «Ho veduto, prosegue dicendo, questo degno mortale in mezzo ad una sala immensa, correre di povero in povero, medicare le schifose piaghe di tutti, mitigarne i mali, consolarli colla speranza, dispensar loro i suoi rimedii, colmarli di benefizii, alla fine caricarli de' suoi doni, senz'altro scopo fuor quello di soccorrere l'umanità sofferente. Tale spettacolo incantatore si rinuova tre volte ogni settimana; più di quindici mila infermi gli devono l'esistenza.» A sì fatte testimonianze di La Borde si possono aggiungere le lettere scritte al pretore di Strasburgo nel 1783 da Miromesnil, da Vergennes, dal marchese di Segar, colle quali si chiede l'appoggio dei magistrati in favore del nobile straniero, ne' termini più favorevoli per esso. Tali tratti, è d'uopo confessarlo, non si confanno colla orrida pittura che di Cagliostro ha fatto l'autore della sua Vita, il quale lo mostra come l'infimo de' mariuoli ed il più abbietto degli uomini. Ai 30 di gennaio 1785 il conte di Cagliostro, che aveva già fatto un viaggio a Parigi, ritornò in essa capitale ed alloggiò nella via San Claudio presso il baloardo. In quell'epoca si tramava, o piuttosto, come dice egli medesimo, era già nata la famosa baratteria della collana. Gl'intimi vincoli del conte col principe Luigi di Roano, fortemente implicato in tale faccenda, dovevano fargli temere per la sua propria libertà; ma fatto forte della sua innocenza, s'oppose alle istanze de' suoi amici, i quali lo stimolavano a lasciar Parigi. In fatti venne arrestato il dì 22 di agosto e chiuso nella Bastiglia. La contessa di La Motte l'accusò «d'aver ricevuto la collana dalle mani del cardinale, e di averla fatta in pezzi onde ingrossarne l'occulto tesoro d'una facoltà inudita.» La accusa era un assurdo. Cagliostro rispose con una memoria che fu dai Parigini ricevuta con la sollecitudine che inspirava il personaggio. In tale memoria, di cui si attribuisce la compilazione ad un magistrato celebre, Cagliostro, senza appagare pienamente la curiosità del lettore, esce in alcuni tratti del romanzo della sua vita, e dà ad intendere che la sua nascita, quantunque sconosciuta, è illustre. Cita, affermando di averli frequentati, i personaggi più eminenti dell'Europa, ed invoca la loro testimonianza: nomina i banchieri che in tutte le città gli somministrarono denaro, ma senza far conoscere la sorgente delle sue ricchezze. La sentenza del parlamento del 31 di maggio 1786 assolse il principe Luigi e Cagliostro dalle accuse contro di essi intentate; ma entrambi furono esiliati. Cagliostro si ritirò in Inghilterra ivi soggiornò circa due anni; passò da Londra a Basilea, indi a Bienne, ad Aix, in Savoia, a Torino, a Genova, a Verona, e da ultimo andò a Roma, dove fu arrestato il 27 di dicembre del presente anno e trasferito nel castello Sant'Angelo, in un con sua moglie. Volendo qui dire quant'è da dirsi di costui: gli fu fatto il processo e venne condannato a dì 7 del mese di aprile 1791, siccome in esercizio di libero muratore. La pena di morte, a cui era motivo siffatto delitto, fu commutata in una prigione perpetua. Dicesi che sia morto l'anno 1795 nel castello di San Leo. Sua moglie era stata anch'essa condannata a perpetua clausura nel convento di Sant'Apollinare. Furono spacciate sul conte Cagliostro parecchie favole, le quali altro fondamento non hanno che la preoccupazione o le opinioni particolari di chi le ha divulgate, gli uni lo tengono per uomo estraordinario, per un vero facitor di prodigii; altri non veggono in lui che un accorto ciarlatano. Gli si attribuiscono cure maravigliose e senza numero; sembra nulladimeno evidente che il suo sapere in medicina fosse estremamente limitato. Ugualmente che tutti i partigiani delle dottrine ermetica e paracelsica, faceva grand'uso d'aromi e di oro. Fu Cagliostro, caduto sotto le investigazioni della inquisizione, fu tenuto per membro dei muratori templarii, ed attribuita la continua sua opulenza ai moltiplici soccorsi che dalle diverse logge dell'ordine gli provenivano. L'autore già citato della sua vita gli dà il vanto dell'instituzione d'una società di muratori che si dicono egiziani, la quale, s'egli fedelmente la avesse descritta, non sarebbe stata che una meschina ciarlataneria, inetta a trappolare un istante l'uomo meno assennato. Una pupilla o colomba, cioè una fanciulla nello stato d'innocenza, messa dinanzi una caraffa, ma riparata da un paravento, otteneva per la imposizione delle mani del gran cofto, la facoltà di comunicare cogli angeli, e in quella caraffa vedeva qualunque cosa volevi che vedesse. Finalmente uno scrittore de' nostri giorni, l'abate Fiard, non dubitò di far Cagliostro uno spirito del tenebroso impero e di associarlo con Mesmer, Pinetti, ed altri, all'infernale coorte. Il cavalier Bossi, nella sua Istoria d'Italia, dopo esposte e confutate le opinioni che intorno a Cagliostro correvano, conchiude: «Certo è che giudicato fu egli secondo le massime del santo ufficio, e reo supposto di avere sparso erronee opinioni e praticati gl'insegnamenti delle scienze occulte, fu condannato a morte...... sebbene osservassero alcuni che commesso non avea delitti, nè sparse tampoco le opinioni condannate, nel territorio di coloro che costituiti si erano suoi giudici.» Morto in quest'anno il doge di Venezia Paolo Renier, gli fu dato a successore Lodovico Manin, cavaliere e procurator di san Marco, stato podestà di Vicenza, di Verona, di Brescia, e mostratosi nelle magistrature interne d'indefessa attività e di vivo zelo pel pubblico interesse fornito. Se nel suo particolare gli venne data nota di tanta parsimonia che mal si addiceva alla sua opulenza, però che fosse il più ricco uomo di Venezia, nelle pubbliche rappresentanze spiegò l'apparato più nobile e più pomposo della magnificenza e della grandezza. Notarono gli oziosi che de' cento venti dogi che a Venezia furono, il primo e l'ultimo portarono lo stesso nome di Paolo, non volendosi nella serie contare il Manin, che nella dignità in fatti non morì, avendo veduta la caduta dell'insigne repubblica, e mancato poi a' vivi privato e da parecchi negletto. Ed eccoci alla nuova era storica, della quale abbiam detto in principio del presente anno. Se non che, prima d'entrare nel difficile arringo ne pare di dover chiudere il tratto sinora percorso con opportuno discorso sulle scienze e sulle lettere, non che sulle arti, che sì gran parte sono della gloria d'Italia nostra. Un celebrato storico diede di queste parti un suo giudizio, nel quale, sebbene in tutto non consentiamo, crediamo però pregio dell'opera il presentarlo tale e quale ai nostri lettori, i quali, se in qualche luogo il troveranno disforme dalle sentenze che in proposito sono corse, bel campo avranno a quei raffronti, a quelle disposizioni, a que' paralleli da' quali l'istruzione risulta. Dice egli adunque: «Nessuna età mai promise tanta felicità agli uomini quanto il secolo decimottavo, prima che una feroce tempesta lo turbasse. Quanto fra gli uomini di utile, di grazioso, di grande si trovava, tutto allora era o si travedeva. Le volontà benevole, gl'intelletti illuminati, le lettere in onore, le scienze in progresso. Dirò brevemente di ognuno di questi fonti di beneficenza e di gloria. I nostri figliuoli, conoscendo l'aria prima che respirammo e quali fummo e ciò che volemmo, non saranno, credo, verso i loro padri di gratitudine avari. L'Italia per le scienze naturali a nissuna delle nazioni che più le coltivavano era inferiore, ad alcune superiore. E per parlare della Francia specialmente che allora per questa parte dell'umano sapere più d'ogni altra aveva onorata nominanza, sotto certi rispetti l'Italia le cedeva, sotto altri la superava. Cedevale per lo splendore e per l'eloquenza; il grande Buffon in questa parte chi eguagliare potrebbe? Superavala per l'indagine scrupolosa, per l'esattezza delle ricerche, contenti gl'Italiani di dire agli altri ciò che la natura diceva loro, e temperandosi dai commenti; sistemi ed ipotesi, della cui fugace indole già insin dai tempi suoi quel famoso italiano, a cui niuno fu eguale, parlò, dico il buono, dotto ed eloquente Cicerone. Ciò che io qui affermo, ad ognuno sarà manifesto che vorrà considerare, quale Buffon e quale Spallanzani fossero. Dottissimi ambedue e diligentissimi scrutatori della natura, venerandi ambedue sacerdoti della scienza, ma uno dedito più all'immaginazione che all'osservazione, l'altro più a questa che a quella, onde il tempo che sa bene scerner la realtà dalle chimere, non poche cose riformò nelle opinioni del naturalista franzese, poche o nissuna in quelle del naturalista italiano. Ma sebbene non mediocri pregi d'eloquenza Spallanzani avesse, a niun modo il suo fare si potrebbe paragonare con quel largo fiume che spandeva con la sua inimitabil penna colui, cui tutte le nazioni onoravano, cui la morte si pianse con universale cordoglio, cui la memoria tanto valse nei cuori irritati dei nemici della Francia, nel 1814, che Swartzemberg, che gli guidava, mandò spontaneamente salvaguardia al piccolo Monbard, solo perchè stato era seggio di colui, cui, benchè morto fosse, credeva degno di arrestare armi ed armati. Potenti ossa di Buffon, pacifica vittoria, memorando temperamento dai furori guerreschi, ugualmente onorevole e per chi l'inspirava e per chi l'ordinava! I cannoni di Napoleone perdevano, le ossa di Buffon vincevano. «Buffon abbelliva, Spallanzani diceva semplicemente: _La cosa sta così_: ma l'uno certamente e l'altro onore delle loro patrie, ornamento del mondo. Io veramente ammiro nel naturalista, cui Scandiano produsse e Pavia albergò, il genio italiano che, ancorchè abbondi di fantasia, di verità pure e di realtà si pasce. «Il lume della fisica primieramente in Italia tanto splendeva quanto presso ad alcun'altra nazione, e forse per certe parti di lei, come, per cagion d'esempio, l'idraulica e la meccanica, era ita più avanti. Forse ancora per la elettricità, massimamente per le fatiche del padre Beccaria, professore in Torino, ebbe più profonde e più sane nozioni di qualunque altra, ricevuti ciò non per tanto i primi semi dall'estero. «Ciò sulle prime, ma poscia tanto si innalzò che le altre nazioni a' suoi fonti vennero abbeverandosi. Il caso fece trovare a Galvani un fecondo pensiero; egli stesso colle sue sollecite investigazioni il fecondò. Levossene un alto grido nel mondo. L'inventore credè che fosse una legge animale e che perciò più a fisiologia che a fisica si appartenesse. Ma era uscito da Como un sublime ingegno che a fisica lo rivocò, dimostrando che gli effetti prodotti sugli animali altro non erano che una parte, una derivazione della generale fisica legge. Dire quanto pensasse e quanto scrivesse Volta impossibile sarebbe alla mia stanca e tarpata penna; ma mi consolo pensando che bisogno non è ch'io lo dica. Qual parte della terra v'ha che nol sappia e nol dica e maraviglia non ne senta? Per Volta l'Italia andava nell'impero delle scienze ogni giorno alcuna conquista facendo: il suo nome stesso nel possente stromento impresso farà memoria nelle future età, quanti miracoli un modesto uomo, imperocchè tanto modesto fu Volta quanto ingegnoso e dotto, scoprisse nel chiuso seno dell'arcana natura, ed ai maravigliati ed attenti uomini gli rivelasse. «Se delle scienze matematiche vogliamo parlare, si vedrà che, tacendo anche di tanti altri che a Pavia, a Firenze, a Roma, a Napoli ed a Palermo fiorivano, il solo Lagrange dimostrava, che per la scienza delle quantità astratte l'Italia non era sfruttata e degna ancora appariva di quella regione di cui erano usciti Galileo e Sarpi. Nè di Gugliemini tacerò, il quale trovò modo di pruovare con fisico sperimento che la terra si muove. «Quanto alle scienze chimiche, il cui imperio tanto incominciava a dilatarsi innanzi che sorgesse il sole dell'ottantanove, gl'Italiani più dagli altri impararono che agli altri insegnassero, quantunque valenti chimici fra di loro a Torino, Pavia, Venezia e Napoli sorgessero. La Francia in questa parte splendeva di un lume, senza pari, e i nomi di Lavoisier, Berthollet, Fourcroy, Guyton-Morveau saranno immortali. «Ma non è senza opportunità il notare in questo luogo che se uomini sommi allora la feconda Francia illustravano, veri e santi oracoli del mondo, nella scienza che....... compone, scompone e ricompone le sostanze, il volgo correva dietro cupidamente alle pazzie ed alle chimere di un Cagliostro, di un San Martino e di un Mesmer. Questi credeva con le boccette del primo di poter vivere almeno trecento anni; quest'altro teneva per fermo di poter leggere, come si diceva di San Martino, a trapasso di muro; un terzo finalmente, di Mesmer seguace, con un poco di sale rotto in una bigoncia, e con certi alti smorfiosi fatti da un impostore, si persuadeva di poter guarire da tutte le malattie. Ed ecco un altro sicofanta, o sicofantessa che si fosse, che conosceva e guariva tutti i mali solo con guardare le orine e far dal suo tripode ricettacce, dopo di averle guardate. Ciò succedeva in Parigi, e sì che si vedevano concorrere alla porta della sicofantessa ogni mattina uomini e donne, cocchi e barelle con le ampolluzze e con gli utelli pieni di orina per farla vedere alla pitonessa e portarne poscia a casa i precetti. Queste materie poco si videro in Italia e non vi fecero frutto, e la cagione si è che i Parigini sono tutto Ateniesi, graziosi uomini in verità, mentre negl'Italiani, sebbene anch'essi sappiano dell'Ateniese, c'è mescolato un po' di Spartano, voglio dire che amano ragguardare dentro la midolla delle cose. Poi sono più maliziosi, e sanno bene squadrare e guardare in viso gl'impostori. «Le scienze morali seguitavano in Italia l'inclinazione comune, con più felici augurii a miglior stato avviandosi. Una gran differenza ciò non per tanto si osserva tra quanto vi succedeva in questo proposito e ciò che in altri paesi si vedeva; questa era che quegl'Italiani stessi che ardentissimi erano nel risecare dalla pianta religiosa ciò che d'eccessivo e d'illegittimo vi aveva......... aggiunto, persistevano però nelle credenze cattoliche lontani dagli scherni e dall'incredulità che altrove regnavano. Volevano un'emendazione, non una distruzione. «Le scienze economiche spiegavano pure anche esse i loro fiori nella bene generativa penisola. Della quale cosa ognuno sarà persuaso, se vorrà avvertire agli utili scritti di Genovesi e Galiani di Napoli e di Fabbroni di Firenze. Questi alti ingegni, del bene comune aumentatori, eziandio si differenziavano da certi economisti forestieri; perciocchè non a chimere impossibili a ridursi in pratica nè ad astruse teorie andavano dietro, ma cose palpabili trattavano e che, se vere erano in ragione, utili erano anche in esperienza. Oltre a questi maestri per iscritto, era allora in Italia un economista pratico che quanto essi nelle loro benefiche lucubrazioni pensavano riduceva all'atto, e questi fu Leopoldo di Toscana. Seppelo la Toscana stessa, che a più fiorente stato pervenne. «Sommo, anzi singolar pregio della Italia a que' tempi fu la scienza della penalità, merce di quel........ mandato fuori da Beccaria. Chi la umanità ama, chi ama la giustizia, debbe con perpetue lodi innalzare quest'uomo immortale. La Italia l'onorò, l'onorarono le nazioni forestiere, e da lui tutte riconobbero un bene immenso fatto nella parte più cruda e terribile dell'umana legislazione. Orrende piaghe sanò. Quattro grandi lumi, oltre i minori, splendevano allora in Italia, uno in Napoli, uno in Firenze, un terzo in Milano e Pavia, un quarto in Parma. Quelle erano veramente scuole patrie, quelli sodi beneficii, che tutto l'edificio sociale con amica luce rischiaravano, fecondavano, miglioravano. Così voleva allora il cielo che seguisse. «Se poi vogliam voltare il discorso alle lettere, vedremo che, se poche parti se ne eccettuano, la letteratura italiana era spenta, nè altro più non era che una servile e sconcia imitazione della letteratura francese. La storia, la maggior parte delle opere teatrali, le novelle, i romanzi i poemi stessi rendevano un odore franzese, e tanta distanza passava dallo scrivere che a que' tempi era prevalso in Italia, a quello che vi si usava due secoli innanzi, quanta veramente si scorgeva tra le cose scritte nell'ignorante medio evo a quelle, cui mandarono alla luce gli autori del decimo quarto e decimosesto secolo. Parlo solamente della distanza che tra l'un modo e l'altro s'interponeva, non già dell'effetto, perchè allora si andò dal male al bene, adesso si andava dal bene al male. Nei bassi tempi vi era speranza, perchè non vi era corruzione di età decrepita, e solamente si vedeva che l'arte era bambina; ma nella seconda metà del secolo decimottavo, quasi ogni speranza si trovava estinta; perciocchè la medesima legge governa le cose morali che le fisiche, cioè che si può andare dall'infanzia alla virilità, non già dalla decrepitezza all'adolescenza, ed il pomo acerbo può diventar maturo, il fracido non torna più a sanità, ma si disfà. Tal era, generalmente parlando, l'italiana letteratura a' tempi che videro fanciulla l'età presentemente canuta. A stento e se non con molto stomaco si possono leggere oggidì le cose che vi si scrivevano. Servilità ne' pensieri, servilità nella lingua. Come le scarpette delle donne, così ancora i concetti e le frasi dei letterati venivano bell'e formati da Parigi. «In mezzo alla foresteria si era introdotto un altro nauseoso vizio, e quest'era una certa leziosaggine, una certa delicatura, e quasi direi smanceria, che faceva credere che la letteratura italiana fosse divenuta imbelle e non più da uomini, ma da donne. Concettuzzi fioriti, frasi leccate, nissuna forza, nissuna naturalezza, nissun maschio, nissun sincero pensiero; ogni cosa scritta come se fosse alla presenza della donnetta che si acconciava. La _toaletta_, come dicevano, e il _sofà_, ed è miracolo che non abbiano detto il _budorio_ per dire il _boudoir_, e le braccia ben _tornite_, pure come dicevano, della innamorata, e i suoi pedini e le dituzze, e le descrizioni al minuto del prendere il cioccolate, senza nemmeno dimenticare il colore de' confetti che vi s'immergevano, od altre simili inezie andavano per gli scritti de' più. Chi avrà letto il Roberti, e l'Algarotti, e Pietro Chiari e le commedie del principe di Sangro, e quelle del Villis, saprà da sè stesso ciò che voglio dire. «Il male si accrebbe per l'autorità di un uomo cui la natura aveva dato un ingegno smisurato, e che poteva essere il ristauro, e pure fu quasi del tutto la ruina dell'italiana letteratura. Parlo del famoso poeta padovano, del Cesarotti. Dio mi guardi dal proferire la bestemmia che costui fosse imbelle; che anzi ingegno più virile e più vivido del suo da lungo tempo la natura non aveva in Italia procreato. Ma volle farsi singolare con una poesia parte gonfia, parte leccata, traducendo il vero o finto Ossian. Le leziosaggini per la sua Bragela, ed il suo lanciare pel suo Fingallo, ed altri eroi così tremendi pel nome come pei fatti, corruppero talmente la poesia italiana, che più forma alcuna non conservava di sè medesima. Quanto poi alle sue prose, egli era un molinista tale in lingua, che ogni franzese parola o frase per lui era buona, purchè una desinenza italiana le applicasse. Egli fu un gran Busembaum per la lingua. Questi scandali dava Cesarotti, egli che per la sublimità dell'ingegno avrebbe potuto a sublimi e sincere opere italiane dare origine. E veramente si vede, che là dove puro voleva ed italiano essere, il che non di rado ancora gli succedeva, tali lumi mandava fuori che non uscirono mai maggiori dalla penna dei più rinomati scrittori del bel secolo. Ma il consueto suo andare era corrotto, e fu questo il tracollo. «Le cose parevano doversi tenere per perdute, e nulla si poteva più sperare da chi si tagliava i nervi da sè. Fortunatamente, mentre Cesarotti ed altri, che di lui il vizio non l'ingegno avevano, gettavano, come se a contanti pagati fossero, feccioso limo nelle pure e limpide acque dell'Arno, il cielo, che non voleva che il fiore italico si spegnesse, mandò quattro uomini a vivificarlo; questi furono Parini, Metastasio, Goldoni ed Alfieri. «Parini fu il primo a ritirare la trascorsa letteratura italiana verso il suo principio, ed a ritirarla, nel tenero, al fare petrarchesco, nel forte, al dantesco; ma più veramente ancora per la natura sua sapeva di Dante che del Petrarca. Sublimi e pretti pensieri aveva, sublime e pura lingua usava, un terribile staffile maneggiava. Le _toalette_, e i _sofà_, e i ventagli, ed i letticciuoli morbidi rammentava non per lodarli, ma per fulminarli. Grande e robusto uomo fu costui, nella satira il primo, nella lirica ancora il primo. Ei fe' vedere e dimostrò che senza le nebbie caledoniche, senza le smancerie galliche, e consistendo nella vera lingua e nel vero stile italiano si potevan creare opere in cui colla purità si trovava congiunta l'energia. Più che poeta, più che sacerdote d'Apolline fu, posciachè fu maestro di virtù, ed i molli costumi ad una virile robustezza ridusse: l'eunuca età a più maschi spiriti eresse. Tanto potenti furono i suoi detti, tanto potenti i suoi scritti!............... ..... Forse, chi sa, un giorno verrà quando gl'Italiani avran dimesso il mestiere del voler fare i pedissequi dei forestieri........... in cui maggiormente il suo esempio ed i suoi altissimi versi frutteranno. Eglino intanto debbono aver cara ed onorata sempre la memoria del Parini, di quel Parini che dal lezzo li sollevò, e dalle insipide erbe purgò il sentiero che mena all'eletto monte, dove la virtù e le divine suore albergano. Parini, poscia Alfieri, spensero la letteratura delle inezie; ed i descrittori delle scene di taverna, e di qualche monasteruzzo, mercè le illustri fatiche di quel grande Milanese, peneranno ad allignare. «In nissun autore osservasi un così puro fiore, una così perfetta fragranza delle tre letterature madri, quanto in Metastasio, e niuna traccia, quantunque in mezzo alla corruttela che già cominciava ad ammorbare, vivesse, in Lui si ravvisa di moderna foresteria. L'anima sua nitida e dolce a ciò il portava, l'essere Romano forse vi contribuiva; conciossiacosachè o che i letterati romani siano vissuti divisi dai forestieri più che gli altri Italiani, o che la natura romana più fortemente resista al piegarsi alle influenze altrui, o che quella lingua tanto scolpita che parlano, italiani pensieri e italiane immagini e forme più profondamente nelle menti loro imprima, o che finalmente quel ravvolgersi continuamente fra le romane antichità, che i concetti e la grandezza antica ad ogni momento loro ricordano, sel facciano, certo è bene ch'essi più di ogni altro si tennero lontani così dalle gonfiezze del secolo decimosettimo, come dal loglio forestiero che veniva mescolandosi col grano d'Italia. La quale cosa tanto è più da osservarsi quanto che Roma si trova fra Toscana e Napoli, dove, dopo la metà del secolo ultimo, quel loglio aveva messo più profonde barbe, ed erasi in isconcia guisa moltiplicato. Chi Metastasio legge, beve a pieno vaso senza alcuna mescolanza di stranezza la grazia greca, la maestà latina, la eleganza italiana. Col chiaro, amabile ed armonioso suo stile, colla naturalezza dei pensieri e dei sentimenti, col contrasto nitidissimo delle passioni, non feroci e barbare, ma alte e generose, e tali quali a popoli civili, non a Caraibi, o ad Uroni, o a quelle bestie del medio evo si convengono, diede a divedere che stando nei confini delle letterature madri della meridionale Europa, si può e muovere fortemente gli affetti e, mantenendo la sincerità del gusto italiano, innalzare gli animi. Certamente, mai nissun autore fu tanto Italiano quanto Metastasio. Possente argine fu contro il contagio forestiero, possente rimedio per risanare i corrotti. La quale salutare operazione con tanto maggior efficacia fece, che pel genere delle sue composizioni e per la chiarezza del suo stile egli andava per le mani di tutto il mondo. Che anzi non solamente su i regi teatri i suoi drammi si cantavano, ma eziandio sulle scene innalzate dai comuni o dai particolari si recitavano, e pochi erano i villaggi, non che le città che ogni anno, massime nell'autunno, non udissero alcuna opera del poeta romano recitata da uomini colti, e talvolta ancora da uomini di villa, a cui poco altro sapere era venuto che quello di saper leggere e scrivere. Il concorso a queste rappresentazioni era grande, ed il piacere che gli astanti provavano, maraviglioso. Attori e spettatori si immedesimavano, e degli eroici costumi dell'antichità si dilettavano, e per essi di migliori sentimenti s'informavano............... Ciò pruova che il Metastasio era veramente autore italiano, poichè tanto agli italiani andava a sangue. Ciò pruova ancora che il vero fine delle rappresentazioni teatrali è d'invaghire l'uomo del bello ideale ed eroico onde ritrarlo dal pensare e dal sentire abietto e plebeo, e più avvicinarlo a quell'alto scopo per cui Dio l'ha creato. Il quale effetto se alcune moderne composizioni facciano, lascio al lettore il giudicare. Ma, seguitando a parlare del Metastasio, per giudicar bene che cosa ei fosse e quel che far si volesse, e' non bisogna supporre, come alcuni fanno, che intenzione sua fosse di scrivere tragedie, dando al nome di tragedia la significazione che volgarmente gli si dà. Imperocchè ei non volle già comporre tragedie da recitarsi, ma drammi da cantarsi, quantunque assai acconciamente ancora recitare si possano, ed in essi non di rado si trovino scene che nella più vera e sublime tragedia si confarebbero. Ma resta sempre che, scrivendo per la musica, egli soggiaceva a parecchie necessità che la sua libertà impacciavano, e che dalle esigenze o del compositore della musica, o de' cantanti, o dalle consuetudini teatrali stesse di que' tempi derivavano. Maravigliosa cosa è come fra tanti lacci produrre potesse scene da cui nasceva una così potente mossa d'affetti. Di questo poeta parlando, pel quale principalmente si fa manifesto che la sublimità dei pensieri e dello stile possono stare con la semplicità e con la chiarezza, cade in acconcio il discorrere dello stato in cui si trovava la musica al tempo in cui viene a terminarsi la nostra presente storia. Pare a me, ed anzi certo sono, ch'ella pervenuta fosse a quel grado di perfezione, sopra il quale nulla più resta nè da desiderare nè da aggiungere, ed al quale qualche cosa aggiungendo, si va verso la corruzione. Ciò dal conservatorio di Napoli e dagli ammaestramenti di Durante principalmente riconoscere si dovea. Era quel conservatorio, come quasi il cavallo troiano, da cui uscivano, non già uomini armati per incendere e distruggere le città, ma divini ingegni da eccellenti maestri informati, che per l'Italia, loro felice patria, poi per estere regioni portando andavano ciò che più l'anima molce ed innalza, e dalle tristi cure che l'umanità tanto spesso affliggono la solleva ed allontana. Non romorosi o abbaruffati componimenti erano, ma per ciascun pezzo un'idea madre, un'idea architettonica, alle quali le altre, come ancelle ad una regina, per darle maggiore risalto e farla campeggiare, servivano. La stessa armonica simmetria ed acconcia corrispondenza di tutte le parti si scorgeva nella totalità del componimento, di maniera che non solamente si vedeva che era una creazione dello stesso spirito, ma eziandio che al medesimo soggetto si apparteneva. La semplicità e la unità cotanto raccomandate da Orazio, e in ciascuna parte e nel tutto si osservavano, e con loro congiunta una tale leggiadria, una tale grazia, una tale eleganza che a sentirgli era un vero incanto, e l'uomo provava una dolcezza inestimabile. Pareva che egli da queste terrene cose disciolto, ed in migliore mondo trasportato, di angelica natura si vestisse. Nè complicati o meccanicamente laboriosi erano i mezzi, di cui quei divini ingegni si servivano per produrre così maravigliosi effetti. Semplicissimi erano e, quasi direi, invisibili questi mezzi. Al mirare que' loro spartiti, assai poche note vi si vedevano, onde quasi pareva che vi fossero effetti senza causa. Ma la causa appunto più forte ed operosa era, perchè più semplice era e sapeva batter bene in quella parte del cuore che abbisognava. Ed io mi ricordo di avere letto nel dizionario di musica del Rousseau un fatto mirabile, ed è dove racconta il terribile effetto che sempre faceva su gli ascoltanti (credo, se ben mi ricordo, nel teatro di Ancona) un recitativo solamente accompagnato da poche note del violoncello; irresistibile era quest'effetto, onde ognuno al solo suo approssimarsi, già si sentiva commosso e subitamente impallidiva come se da una incognita e possente causa compreso e domato fosse. Quella era veramente musica italiana, possente per semplicità, per grazia, per verità; la melodia padrona, l'armonia serva, l'armonia che non fa effetto se non quando imita la melodia, i mezzi meccanici lasciati a chi callose orecchie ed insensibile cuore ha. Chi sa che siano Omero, Virgilio, Raffaello d'Urbino, facilmente intenderà ciò ch'io voglio dire. Ed Omero, Virgilio, Raffaello si erano trasfusi in Paisiello e in Cimarosa ed in tanti altri compositori di quel tempo, che veramente si può e dee chiamare l'età dell'oro per la musica. La maestria e la vera arte non consistono nel far monti di note e di strani e ricercati accordi, ma nell'inventare motivi nuovi, graziosi, adatti all'effetto che si vuole esprimere, e questi accompagnare con accompagnamenti che gli aiutino, non gli soffochino. Il quale modo di comporre, siccome di maggior effetto, così ancora di maggiore difficoltà è; conciossiacosachè assai più difficile bisogna sia l'inventar cose ideali, cioè i motivi (dono dato dal cielo a pochi) che il raccappezzare cose corporee, cioè gli accordi. Di gran lunga maggior numero di motivi nuovi, cui i maestri chiamano di prima intenzione, e perciò maggiore difficoltà superata ed assai maggiore e più eccelsa facoltà creatrice havvi nella sola Nina di Paisiello o nel solo Matrimonio segreto di Cimarosa che in tutte le opere insieme anche del più fecondo compositore de' giorni nostri. È vero che non vi è tanto fracasso, cioè tanti mezzi meccanici; ma i divini dove sono? Questa è una età pessimamente corrotta: nel morale vuole la forza, nella musica il fracasso. I compositori sono diventati servi delle orchestre, le quali sempre vogliono sbracciarsi per fare un gran romore e far vedere che sanno sonare le difficoltà, ed eseguire il concerto, i cantanti sono soffocati ed obbligati di strillare, ed il pubblico, che ha perduto il cuore ed è divenuto tutto orecchie, applaude;..... Altra è la musica istromentale, altra la vocale. La voce umana è la vera e naturale espressione delle passioni; gli istrumenti sono mezzi artificiali li quali possenti non sono se non in quanto imitano la voce umana, e più o meno possenti sono, secondochè più o meno a lei si avvicinano o da lei si discostano. Questa è la ragione per cui quel gemere di violino ne fa uno strumento potentissimo. Onde non solamente contro l'effetto fa, ma ancora contro natura chi con gl'istrumenti soffoca la voce invece di secondarla ed aiutarla. Io fui amico, ed egli a me, e molto me ne pregio, di un gentilissimo maestro italiano. Compostasi da lui alcun tempo vera musica italiana, piena di verità, di soavità, di grazia, come, per esempio, i suoi bellissimi notturni sulle parole di Metastasio, una delle più dolci cose che siano uscite da un cuore dolcissimo, si diede poi a ingarbugliarsi con mescolare con eccessiva proporzione, musica istromentale colla vocale. E Paisiello per Milano passando per andar a Parigi ai cenni di Napoleone, sentita quella sua musica nodosa e strepitosa, e, postagli la mano sulla spalla, gli disse: «Bonifazio, lascia stare la musica tedesca.» (Il tarantino Anfione parlava della musica vocale[2].) Il grazioso uomo mi disse con quella sua giovenil voce che sempre ebbe: «Me la sono attaccata all'orecchio;» ma non se la attaccò. Veramente il buon Bonifazio, oltre ad altre sue composizioni alla tedesca, aveva composto la musica per un dramma a Torino, la quale, malgrado di un gran miagolare di bassi che vi aveva fatto, non ebbe alcun buon successo; felicissima vena, se mai una fu al mondo, e veramente correggiesca, da un poco sano metodo di comporre guastata. «La poesia e la prosa erano parecchie volte degenerate in Italia, e da quasi cinque secoli avevano a più maniere di degenerazioni soggiaciuto. La musica sola, da' suoi principii al suo apice gradatamente ascendendo, sempre simile a sè medesima era proceduta, vero e sincero frutto italico dimostrandosi. Tanto crebbe, che finalmente al punto di perfezione pervenne, allor quando Cimarosa e Paisiello colle loro mirabili melodie incantavano il mondo. Il secolo decimottavo dopo il cinquanta fu per la musica ciò che il decimosesto fu per la pittura, quando con le loro divine rappresentazioni Raffaello e Michelagnolo pruovavano che la Grecia s'era in Italia trasportata. A ciò contribuì Metastasio co' suoi dolcissimi versi, e, secondochè gli affetti portavano, qualche volta ancora tremendi, ma pur sempre dolci. Vincendevolmente i musici coi loro soavi o tremendi accenti al fare di Metastasio ed all'imperio ch'egli sulle anime acquistato aveva, contribuirono. Musica era la poesia di Metastasio, poesia la musica dei napolitani maestri. Gli orfeiani miracoli si rinnovavano a quel tempo; persino i sassi si muovevano, se per essi intendiamo i duri e silvestri cuori. «Quando io dico che la musica era a' quei dì alla sua perfezione giunta, non intendo già che, rotte alcune consuetudini teatrali, non si potessero impinguare le musiche delle opere drammatiche con maggiore numero di pezzi di nervo; che ciò si poteva acconciamente ed utilmente fare; ma solamente voglio dire che il metodo del comporre i pezzi, che si usava allora, era il vero ed il più perfetto che si possa immaginare, e che il dipartirsene è un andare verso la corruzione. Ciò è così vero che nelle musiche meccaniche, che si odono e si ostentano oggidì, e che sono veramente come il pesce pastinaca, che non ha nè capo nè coda, o come quella testa d'uomo con collo di cavallo da Orazio sul principio della sua poetica descritta, i pezzi che fanno maggiore effetto e più nel cuore s'imprimono e più nella memoria si serbano, sono appunto quelli che al fare dell'antica musica da noi rammentata si ravvicinano ed in quello stile si ravvolgono. Il muovere i cuori è il vero ufficio della musica, non quello di assordare le orecchie, e perchè appunto il primo effetto può fare, fra le divine arti fu collocata, ed i poeti le loro più alte composizioni incominciavano cantando. I filosofi stessi immaginarono che le celesti sfere muovendosi, suoni rendevano e concenti facevano. «Il principal fine delle arti è veramente il muovere gli affetti, e nissuna più gli muove e forse nemmeno altrettanto della musica. Per me, oltre la dolcezza che ne pruovo, giudico della bontà di un pezzo dal sentirmi mosso ad accompagnarlo col gesto, perchè allora veramente espressione d'affetto è; che se a quel gestire invitato non sono, subito concludo che quella non è musica, ma solamente rumore di corde o fischio di legno. Io detesto coloro che vogliono disonorare la musica col ridurla da un'arte liberale che ella è, ad un'arte meccanica. I maestri sterili, cioè incapaci di trovar motivi nuovi, sono appunto quelli che danno nel fracasso: manca in loro la divina favilla, e per ciò fanno ciò che i venti sanno fare nelle elci cave. «Tornando adunque al Metastasio, dico ed affermo ch'egli fu un principale sostegno del gusto italiano, e che per lui stette che l'italiana letteratura il suo naturale aspetto del tutto non perdesse ed al basso ed allo straniero non scendesse e trascorresse. «I soggetti che trattava, cavati i più dalla veneranda antichità, facevano che la Grecia e l'antica Roma nella novella Roma risorgessero. Al quale effetto eziandio con non poca efficacia conferivano gli studii dell'archeologia che nella città regina sempre avevano fiorito e tuttavia fiorivano. Chi non conosce le opere dell'immortale Visconti, di quell'uomo singolarissimo che univa un giudizio sano con una erudizione immensa, due cose che negli eruditi non sovente congiunte si vedono, stante che questo genere di letterati sono per l'ordinario creduli nella fantasia che gli tocca? «Oltre i vestigii dell'antica Roma, che la nuova ancora adornano, e lo zelo con cui il Visconti ed i suoi compagni ed allievi questa parte della scienza coltivavano, a maggior ardore sollecitavano gli studiosi di lei le scoperte che in Ercolano si andavano facendo. Risuonava in ogni luogo il grido della città sepolta e dissepolta, ed a quella parte con somma avidità s'indirizzavano gli animi, studii certamente innocenti ed utili, poichè a pacatezza ed a grandezza tendevano ed invitavano. Napoli, il cui suolo tante ritrovate ricchezze in questo genere versava, non pretermise di coltivare la scoperta vena, anzi con tutte le forze l'esplorò e l'avanzò. Oltre le munificenze regio che alle spese dei lavori sopperivano, il re, a ciò muovendolo il Caracciolo, il quale, nel 1786, era stato richiamato dalla Sicilia per reggere in Napoli la segreteria degli affari esteri, aveva nel 1787 ordinato che fosse ritornata in pristino l'antica accademia d'Erodano, chiamandovi uomini egregi per zelo e per dottrina, l'abbate Galiani, Niccolò Ignarra, Mattia Zarillo, Giambatista Basso Bassi, Francesco Lavega, Francesco Daniello, Emmanuele Campolongo, Domenico Diodati, Saverio Gualtieri, Michele Arditi, Andrea Federici, Gaetano Carcani, Saverio Mattei, Carlo Rosini, e quel Pasquale Baffi, che, dodici anni dopo, tratto da questi studi pacifici a più tempestose cure, fu poi specchio di tanta virtù e segno di così estrema disavventura. Il re dolcemente parlò nel preambolo del suo decreto: desiderare, disse, procurare ai suoi popoli ogni sorta di beni e di vantaggi, nè in altro migliore modo saper ciò fare che col dar favore alle scienze ed alle belle arti. Con queste dolcezze si preambolava in quelle volcaniche terre ai crudi ed orrendi spettacoli che poscia le spaventarono ed insanguinarono. «Terza colonna del buon gusto italiano fu Carlo Goldoni. Quest'uomo insigne parlava al popolo colle sue commedie scritte in istile semplice e chiaro, il quale, abbenchè non sia notabile per eleganza toscana, è nondimeno generalmente scevro dalla infezione forestiera. Grande energia non aveva, nè di sali abbondava, o piuttosto i suoi sali erano senza punte; perciocchè i motti ed i frizzi non possono sorgere da quella lingua generale italiana ch'egli usava, ma solamente da un dialetto. Ma molto maestrevolmente sapeva ei condurre le passioni, e stringere e sciorre i nodi delle sue commedie. Siccome tutto è naturalezza in lui, così venne in fastidio altrui quando le esagerazioni dei grandi lanciatori di sentimenti e le caricature flebili dei romanzieri inondarono il teatro. Ma stante che questa era una malattia fuori di natura, fugace fu l'invasamento, ed odo con somma contentezza che le commedie del Goldoni sono novellamente divenute care al popolo italiano; il che veramente è segno di guarigione. «Portato dal suo genio, costretto dalle sue condizioni, ei troppe cose scrisse, e pel troppo scrivere diede talvolta nello slombato. Pure si può con verità asserire, che fra tante sue commedie, dieci almeno ve ne sono che toccano la perfezione e possono stare a paragone di qualunque altra scenica composizione di questo genere di cui si vantano le altre nazioni. Alcune poi da lui scritte in dialetto veneziano sono da commendarsi non solamente per gli altri comuni pregi, ma ancora pel brio, pei motti, per le arguzie, per le lepidezze, per le piacevolezze e generalmente per lo stile festevole e gaio con cui le seppe condire. Chi le legge sente un sollucheramento tale che non può essere maggiore, ed uguaglia quello che l'uom pruova leggendo la Mandragora del Macchiavello, o la Trinuzia del Firenzuola. Dal che si dimostra, che se uguale vivacità non si rinviene nelle altre sue commedie, ciò non da inettitudine d'ingegno, ma bensì dalla lingua che usava, proviene. Tanto è vero che i dialetti soli possono dare il vero stile della commedia! e se la Madragora e la Trinunzia tanto diletto ci danno, ciò è perchè sono scritte nel dialetto toscano; che se colla pretesa lingua generale d'Italia si vestissero, o in lei si traducessero, insulse e noiose diventerebbono. Da ciò si vede che bel guadagno abbiano fatto gl'Italiani coll'aver ricusato il dialetto toscano, anzi gridatogli la croce addosso, come se ridicolo e degno di scherno fosse. Bene con migliore senno si sono adoperati i Francezi, che hanno dato la cittadinanza nella loro lingua generale al dialetto parigino per modo che parte indivisibile di lei è divenuto; ond'è che i Franzesi possono facilmente aver la buona commedia. Le piacevolezze parigine sono tali in tutta la Francia mentre le piacevolezze toscane non sono intese o sono schernite nelle altre parti d'Italia che Toscana non sono. Questo è un male gravissimo, e che non è più atto a ricevere medicina, donde nasce che gl'Italiani difficilmente possono avere la vera e buona commedia che da tutta l'Italia sia intesa, prezzata e gustata. S'era cercato un rimedio nei Zanni o bergamaschi o bresciani o veneziani o bolognesi o piemontesi o milanesi o toscani o napolitani; rimedio insufficiente, per verità, ma pure in certo modo rimedio. Ma anche questo i moderni dottori nel loro alto sussiego, come se il ridere fosse delitto, hanno sbandito. «Goldoni fu autore, se altro mai, popolare; e lo scuotere che faceva, non da acerba ed indecente satira o da sentimenti eccessivi in alcun genere, imperò che ei fu castigatissimo, derivava, ma dal toccare quella parte dell'animo che nella natura tranquilla e nobile si ritrova. Ei fu principal cagione per cui il popolo italiano non s'invaghì di certi scrittori di Italia che non erano contenti se con pensieri forestieri non pensavano, se con lingua servile non scrivevano. Ei fu principale operatore, onde la corruzione dai sommi non scendesse agl'imi, e che il popolo si contenne nei confini del vero, sincero e pretto italianismo. Ei fece maggior benefizio che il mondo non crede. «Dopo le malattie viene per l'ordinario il medico che le guarisce. La leziosaggine che era prevalsa negli scritti, e la effeminatezza che era entrata nei costumi fra gli alti e mezzani gradi della società italiana, non ebbero più acerbo nè più forte nemico d'Alfieri. I tre primi che abbiamo nominati, persuadevano gli animi e coll'esempio allettavano affinchè al buon sentiero si riparassero; ma l'astigiano poeta con una terribile sferza gli sforzava. Le debolezze e le gonfiezze non avevano posa con esso lui, che d'animo gagliardo era, e che se al sublime facilmente andava, il procedere più oltre e precipitare nelle gonfiezze impossibile gli era. Vena sufficiente, anzi abbondante aveva, ma non soprabbondante, onde in superflui rivi non si spandeva. Ciò procedeva dalla gran forza per cui l'oggetto stringeva e che padrone del tutto nel rendeva. Le foresterie poi aveva in odio così per qualche avversione contro le persone che il rese sempre acerbo, e non di rado ingiusto, come per amore verso le lettere italiane. Ma siccome, usando fra i nobili piemontesi, egli era stato cresciuto ed allevato negli usi, pensieri e fogge franzesi, e che poco innanzi che a scrivere nell'italiana lingua si accingesse, più di franzese sapeva che d'italiano, così è manifesto che, massime nei suoi primi scritti, a stento dallo scrivere francescamente si allontanava; ed a gran fatica al gusto italiano si avvicinava. Della quale pendenza pochi segni per verità restarono nelle sue composizioni in versi, ma non pochi in quelle di prosa, in cui si veggono mescolati spesse volte eleganti fiorentinismi con isconci gallicismi. «Ora questo grande Alfieri in tre modi giovò all'Italia, primamente collo aver ritratto dai costumi femmenili, in ciò compagno di Parini, chi n'era magagnato; secondamente coll'aver composto vere tragedie e creato lo stile tragico italiano che prima di lui non si aveva; terzamente coll'aver innamorata la nazione di sentimenti più alti e più forti. La lunga pace di cui ella aveva goduto, poichè di lungi aveva solamente sentito romoreggiare le armi, l'uso dei sonettuzzi e delle novellette del sofà, la privazione in questo intervallo di tempo di una forte apostolica voce che gli stimolasse, aveano talmente anneghittito coloro che più per l'esempio potevano fra gl'Italiani, che nè Metastasio, nè Goldoni, nè Parini, quantunque molto avessero operato, erano stati bastanti a destargli onde più sonnacchiosi non fossero e mogi. Uno sdegno acerbo, un'ira feroce, una ferrea ed indomabile natura era richiesta alla grande redenzione. Sorse allora, come per sovrumana provvidenza, la possente voce d'Alfieri che intuonò dicendo: Italiani, Italiani:............................... lasciate i giardini, correte alle zolle; lasciate l'ombra, andate al sole; vigili le notti passate, le donne come compagne, non come signore accettate, i fanciulli non nelle acque odorose, ma nei freddi e puri laghi, ma nell'onde stesse del terribile Stige tuffate; indurate i corpi al dolore, indurategli alla fatica.... «Così andava per gl'italiani campi Vittorio Alfieri, moderno Dante, Petrarca redivivo gridando. Furono i suoi detti come il lucente specchio a Rinaldo. Visto i molli abiti e gl'imbelli costumi, sorse vergogna, vergogna senso di risorgente natura, vergogna segno di rinascente virtù................................... .......................... A tale sacerdozio fu chiamato Alfieri, e bene il compì. «Bene il compì ancora colle sue tragedie; per mezzo loro, non con le brache del medio evo, ma colla romana toga volle vestire gl'Italiani. Tal è il loro fine ed effetto. Quanto all'arte, io trovo che elle sono sempre energiche e profonde, come son nei passi più patetici le tragedie inglesi, altrettanto regolari quanto sono sempre le franzesi, ma che nel medesimo tempo fuggono le cose plebee che troppo spesso contaminano le prime, nè mai danno nelle insulsaggini cortigiane che di soverchio snervano le seconde. Beltà greca, beltà romana, e quanto vi è di più alto nell'uomo, sempre e puramente splendono nelle alfieriane tragedie, nè altro di moderno hanno se non la lingua in cui sono scritte. «Quanto alle passioni che dall'autore sono poste in opera, io non le chiamerò nè antiche nè moderne, perciocchè elle sono di tutti i tempi, nè credo che gli antichi altrimenti amassero od odiassero, sperassero o temessero di quello che noi altri moderni facciamo. Quando io vedrò nascere gli uomini senza occhi e senza naso, crederò che sono cambiate le passioni. Voglio dire che siccome la natura esteriore ha le sue leggi immutabili, così le ha ancora l'interiore. Ciò dimostra eziandio il grande effetto che le tragedie, di cui trattiamo, producono in Italia quando bene recitate sono. La quale cosa succedere non può se non quando le passioni rappresentate fanno correlazione e consentono con quelle degli spettatori. «Dal medesimo fatto nasce anche questo corollario, che non è punto bisogno per iscuotere le anime di dare nel famigliare e nel plebeo; nè io posso consentire con coloro i quali vorrebbono sbandire il bello ideale. Non solo non posso accettare la loro opinione, ma me n'incresce e sommamente me ne dolgo; perchè l'uomo solo è capace di creare colla sua fantasia il bello ideale, e questa è la più magnifica prerogativa ch'egli abbia e che dagli altri animali bruti principalmente lo distingue. Parte anzi di questo bello ideale, ideale non è, nè tanto è trista la umana natura che in alcuni tempi non abbia prodotto uomini e fatti eroici e del tutto sopra l'uso volgare. Adunque questo bello ideale veramente esiste e il rappresentarlo non è vizio. Quando però egli in fatto eziandio non esistesse, bisognerebbe ancora crearlo coll'immaginazione per rendere gli uomini migliori; posciachè niuna cosa è che tanto sublimi l'uomo e dalla mondana feccia il ritragga quanto la viva rappresentazione della natura eroica. Se il diventar migliore è vizio, concorderò con gli avversarii che il bello ideale ed eroico si cancelli e da ogni umano parto si rimuova, e che prosa e poesia si ravvolgano nel lezzo di quanto il mondo ha di più sciocco, di più goffo, di più vile, di più basso. «Dicono alcuni che le scene plebee, siccome naturali, allettano e divertono, e dal solo effetto che producono, qualunque ei sia, giudicano del merito delle composizioni teatrali. Sì certamente, le scene plebee e quelle della dimessa natura allettano e divertono; anche Pulcinella in piazza alletta e diverte, e se uom uscisse per le vie con le brache a rovescio, anch'egli alletterrebbe e divertirebbe. Per questo s'han a proscrivere i maestri dell'alta virtù? per questo da bandire i dimostratori d'una natura più sublime, più dignitosa, più bella? Il teatro non ha da essere solamente divertimento, ma debb'essere scuola, scuola da informar gli uomini alla virtù, da accendergli di sdegno contro il vizio, da sollevargli dal terreno lezzo alla celeste purità, da nodrire l'angelica favilla ch'è in lui, da rompere la indegna scorza che la soffoca e comprime. Se alcune moderne composizioni o piuttosto slavature facciano questi effetti, lascio che giudichi il lettore. L'andar terra terra non può riuscir ad altro che al lasciarci terra terra. «Ora chi mai meglio dell'Alfieri seppe pingere al vivo queste allettatrici scene di un mondo migliore? Chi mai diede maggiormente questi stimoli ad innalzarsi come aquile in un puro firmamento? Certamente nissuno. Chi mai meglio di lui seppe fare la ipotiposi delle miserie che nascono per fato contro gli innocenti, o di quelle che materialmente caggiono su gli uomini malvagi? Certamente nissuno. Chi mai meglio di lui trovò le vie per muovere od a compassione od a terrore? Certamente nissuno. Nè ciò fece con mezzi plebei o meccanici, mezzi usati da chi sterile l'immaginazione ed il cuore secco ha, ed oltre le consuetudini del volgo non sa innalzarsi, ma colla rappresentazione vera delle alte umane passioni, nè mai volle trasportare le bettole sulle tragiche scene. Brevemente, e coi soggetti che sceglieva e col modo col quale li trattava, chiamava continuamente gl'Italiani a più sublimi regioni. Il tenergli rasenti le paludi ripugnava al suo generoso e forte animo, ripugnava alla virtuosa missione cui s'era addossata. Se animi forti più nella seconda metà del secolo decimottavo che nella prima sorsero in Italia, da Alfieri massimamente debbesi riconoscere il beneficio. Ciò non fecero pe' tempi loro e per le loro nazioni nè Shakspeare, nè Racine, nè Schiller, che semplici autori tragici furono, certamente sommi, ma non maestri di alto pensare e di alto fare, non caldi sacerdoti della loro patria per sollevarla e farla amare, come il poeta italiano fu. Solo ad Alfieri ed a Sofocle ciò fu dato, ma maggiore merito acquistò l'Italiano che il Greco............................ ..................................... Tali sono le obbligazioni che gl'italiani hanno ad Alfieri, e bene in Santa Croce di Firenze l'Italia piange sulla sua tomba. «Evvi chi pretende che i caratteri de' personaggi d'Alfieri sono tirati ed esagerati. Certo sì sono per chi va e vuole andar terra terra; e chi smaccato, e snervatello, e sdolcinato, e molle..... è, non vada dove si rappresentano. Chi grida contro le alferiane tragedie, e dell'alto fare di questo sommo tragico si dinoccola, e delle slavature moderne si diletta, non è degno............, imperocchè nel suo freddo cuore nissuna scintilla di generoso italiano fuoco v'è. La nobile Italia, quanto alla letteratura.... è, per opera di alcuni spiriti, non so se mi debba dire più ambiziosi o più servili, immersa in chimere stillate da sottilissimi lambicchi ed in un mare di foresterie..... Costoro corrompono la sanazione fatta dai quattro sommi uomini di cui trattiamo. La sola differenza che passa tra i servi d'oggidì ed i servi della seconda metà del secolo decimottavo in ciò consiste, che questi desumevano lingua, stile e pensieri da una sola fonte di foresteria, quelli gli desumono da due o tre..... ......................... Oh, quando mi porterà la fama il desiato suono che gli Italiani, deposta l'ennucheria, creano da sè e non vanno più in cerca d'idee d'oltremare ed oltremonti! Oh Alfieri, Alfieri dove sei? Per me io credo, anzi certo sono, che finchè si va pel sentier delle scimie, non vi può essere.... nè letteratura, nè lingua italiana. «Dello stile d'Alfieri quindi favellando, diremo che in esso due qualità si ravvisano, la novità e, con pochissime eccettuazioni, la purezza; la quale purezza non di rado va sino all'eleganza. Prima dell'Alfieri non aveasi stile tragico. Le tragedie scritte nel decimosesto secolo sono, per rispetto dello stile, così deboli ed imperfette che senza noia non si possono nè leggere nè sentire. Questa parte fu la meno lodevole di quel secolo, che in tutte le altre a così grande altezza si sollevò. Maffei diede un passo più avanti verso l'eletta maniera, ma restò a mezza strada, contento allo avere piuttosto indicato che fatto; poco o nulla si fece dopo il Maffei che una nuova vena aprisse. L'Italia giaceva, quanto alla tragedia, in grado inferiore a comparazione delle altre nazioni. Alcuni anzi affermavano, non essere la lingua capace di stile tragico. «Queste bestemmie andavano pel mondo quando levossi dal Piemonte subitamente un grido, esservi nato un grande poeta. Ad alcun debole sperimento successero compiute vittorie. A nobili pensieri vidersi congiunte nobili parole, e la pietà e il terrore eccitarsi con voci ora compassionevoli, ora terribili, ma tutte italiane, non cavate dai romanzi francezi o dal vocabolario della plebe. Brevità vi si scorge, e più ancora fa pensare che non dice, onde nasce che le alfieriane tragedie ricercano abili attori. Sublime è lo stile, ma molto diversamente dal lirico e dall'epico procede; essa è una sublimità tutta sua e di novità perfetta. Certamente nissuno scrittore ebbe mai, se Dante si eccettua, uno stile tutto suo proprio e di suo genere quanto Alfieri. Nissun prima di lui avrebbe potuto sospettare che la italiana lingua potesse in quel suono parlare. L'esempio d'Alfieri pruova ch'ella è capace di rendere tutti i suoni senza che sia necessario andare accattando vocaboli e frasi da lingue forestiere. Grande era in questo la servilità degli scrittori italiani; profondo il male; una forte scossa era richiesta per iscuoternegli e guarirgli. Alfieri questa scossa diede, ed ei solo forse era capace di darla. Diedela col tenace volere, diedela coll'ostinato studio, diedela con quell'alta capacità del fare che dal cielo aveva sortito. Da lui impararono gl'Italiani quanto possa una volontà forte e l'amore di una lingua che per esprimere qualunque affetto a nissuna è seconda. La purificazione della lingua non potè Alfieri intieramente effettuare, perchè all'inondazione dei libri forestieri successe poscia l'inondazione delle persone forestiere che la principiata guarigione interruppe, ed anzi la dannosa consuetudine raffermò. Ma pure i semi da lui gettati fruttificarono, e, mercè sua, resta ancor acceso l'amore della bella lingua, e gl'Italiani dalle caligini levandosi, ai puri ed intemerati antichi candori s'innalzeranno.» Ora in quella innondazione delle persone forestiere dall'illustre qui sopra indicata, accennata si trova la novella era d'Italia della quale al principio del presente anno abbiamo toccato e la causa donde ebbe a derivare. Noi la percorreremo quest'era, con quelle che vi furono inondazioni di eserciti forestieri, arsioni di città, rapine di popoli, devastazioni di provincie, sovvertimenti di Stati, e fazioni, e sette, e congiure, ed ambizioni crudeli, ed avarizie ladre, e debolezze di governi effeminati, e fraudi di reggimenti iniqui; e sfrenatezze di popoli scatenati, con eguale sincerità raccontando le cose liete, utili e grandi che fra tanti lagrimevoli casi si operarono. Ma perchè possa essere appieno apprezzata la compassionevol trama di tanti accidenti di cui la memoria sola ancora ci sgomenta, forza è segnare il punto donde si parte, e bene chiarire le cagioni donde la spinta ne venne. L'Europa conquistata dai re barbari fu data in preda ai capitani loro, uomini e terre cadendo in potestà di questi. Così se ai tempi romani le generazioni erano partite in uomini liberi e schiavi, ai tempi barbari furono divise in conquistatori e servi: tale è l'origine degli ordini feudali. Teodorico, re dei Goti, moderò una tal condizione coll'avere instituito i municipii; poi gli ecclesiastici diventati ricchi fecero ordine e mitigarono, dividendola o contrastandola, l'autorità feudale; così sorsero gli ordini, o stati, o bracci, che si voglian nominare della nobiltà, del clero e dei comuni. Carlo V gli spense nella Spagna, ma non potè nelle isole d'Italia; i Borboni li conservarono in Francia, servendosene più o meno, secondo i tempi. Nell'Italia, divisa in tanti Stati e sì spesso preda di principi forastieri che, a fine di tenerla, accarezzavano pochi potenti per assicurarsi dei più, l'autorità municipale, se si eccettuano alcune antiche repubbliche, si mantenne più ristretta, la feudale più larga. Ciò quanto allo Stato; rispetto poi ai particolari, restavano ancora non pochi vestigii dell'antico servaggio, tanto circa le cose, quanto circa le persone. Di questi, alcuni andarono in disuso per opinione de' popoli o per benignità de' feudatarii; altri furono aboliti dai principi; dei superstiti, il secolo di cui abbiamo veduto il fine, volea l'annullazione. Nè in questo si contenevano i desiderii dei popoli. Volevasi una egualità quanto alla giustizia e quanto ai carichi dello Stato; nella quale inclinazione concorrevano non solamente coloro ai quali questa equalità era profittevole, ma eziandio la maggior parte di quelli che si godevano i privilegii. Dire poi, come alcuni hanno scritto e probabilmente non creduto, che si volesse una equalità di tutto ed anche di beni, fu improntitudine d'uomini addetti a sette, soliti sempre a non guardar quel che dicono, purchè dicano cose che possano infiammare i popoli e farli correre alle armi civili. Queste erano le quistioni dei diritti; e sarà da quinc'innanzi cosa luttuosa al pensarci e degna di eterne lagrime che col progresso di tempo siansi alle quistioni medesime mescolate certe altre astrattezze e sofisterie che insegnarono alla moltitudine il voler fare da sè, quantunque si sapesse che la moltitudine commette il male volentieri e si ficca anche spesso il coltello nel petto da sè: tanto i moti suoi sono incomposti, i voleri discordi, le fantasie accendibili, e tanto ancora sopra di lei possono più gli ambiziosi che i modesti cittadini. L'ordine ecclesiastico era già trascorso, non già nel dogma che sempre rimase inconcusso, ma bensì nella disciplina. Dolevansi che gli utili operai della vigna del Signore fossero poveri, mentre gli altri, se vivevano nella ricchezza, della quale talora anche abusavano, dolevansi essere i primi insufficienti per numero o per mala distribuzione delle cariche, i secondi troppi; dolevansi di certe pratiche religiose che si parevano più utili a chi le promoveva che decorose pel divin culto, mentre per queste era pur troppo scemato maestà e frequenza alle più gravi e necessarie solennità della Chiesa: con che davasi a dire agli empi ed agli accattolici. Ma ben altri discorsi si facevano, massimamente in Italia, i quali tutti nascevano da quella inclinazione del secolo favorevole ai più. Era stata soppressa la società di Gesù. Vedeva il sommo pontefice Clemente XIV che lo spegnere i Gesuiti era un privare la evangelica vigna della più efficace cooperazione che si avesse; con tutto ciò non potè resistere alle esortazioni ed alle minaccie di tanti principi potenti di forze, e più formidabili per concordia. Pure stette lungo tempo in forse; finalmente consentì, poi fra breve si pentì. Ma seguitonne maggior effetto che il papa ed i principi non avevano creduto; poichè ne sorse più viva nel corpo della Chiesa la parte popolare. Parlossi di doversi ridurre alla semplicità antica la Chiesa di Cristo; allargare l'autorità dei vescovi e dei parrochi; scemar quella del pontefice sommo. Le querele che risuonarono già fin dai tempi antichissimi contro Roma, rinnovellavansi ed andavano al colmo. Le dottrine di Porto-Reale si diffondevano; coloro che lo mantenevano erano in molta autorità presso il popolo, perchè risplendevano, non per oro nè per corredi, ma per dottrina, per austerità di costumi e per una certa semplicità di vita che ai non accetti altamente imponevano. Inclinazioni di tal sorte piacevano a più principi; e queste massime trovavano disposizioni favorevoli nell'opinione dei popoli, e però più profonde radici mettevano. Così uno spirito stesso e circa le cose civili e circa le ecclesiastiche andava insinuandosi a poco a poco in tutte le parti del corpo sociale. Ciò non ostante, se molti pensavano a riforme, niuno pensava a sovvertimenti; nè alcuno ambiva di far da sè, ma ognuno aspettava dal tempo e dalla sapienza dei principi temperamento alle cose e compimento a' desiderii. Venendo a' particolari, in proposito di riforme sarebbe da cominciare da un nome imperiale, da Giuseppe II. Ma e di lui, e delle sue virtù, e delle azioni sue abbiano già detto quanto può forse bastare negli anni precedenti; il perchè basterà qui il riepilogare in brevi parole il già detto. Molto viaggiò Giuseppe, non per pompa, ma per conoscere le istituzioni utili e i bisogni dei popoli; i casolari dei poveri più aveva in cale che gli edifizii dei ricchi; nè mai visitava il bisognoso, che nol consolasse di parole ed ancor più di fatti. Protesse con provvide leggi i contadini dalle molestie dei feudatarii, opera già incominciata dalla sua madre augusta Maria Teresa; gli ordini feudali stessi voleva estirpare, e fecelo. Volle che si ministrasse giustizia indifferente a tutti; là creava spedali, ospizii, conservatorii ed altre opere pie; qua fondava università di studii; i giovani ricchi d'ingegno e poveri di fortuna in singolar modo aiutava. Ai tempi suoi e per opera sua lo studio di Pavia sorse in tanto grido che forse alcun altro non fu mai sì famoso in Europa. Lo studio medesimo empiè di professori eccellenti in ogni genere di dottrina, cui favoriva con premii, e non avviliva colla necessità dell'adulazione. Nè contento a questo, fondò premii per gli agricoltori diligenti, ed aprì novelle vie al commercio per nuove strade, per nuovi porti, per abolizione delle dogane interne; non mai in alcun altro paese o tempo furono in così grande onore tenuti, come in Italia sotto Giuseppe, gli scienziati che sollevano ed i letterati che abbelliscono la vita incresciosa e trista. Mandovvi altresì, qual degno esecutore de' suoi consigli, il conte di Firmian, sotto la tutela del quale la Lombardia Austriaca venne a tanto fiore che stiam per dire che in lei verificossi la favolosa età dell'oro. Quanto alle instituzioni ecclesiastiche, dichiarò Giuseppe la religione cattolica dominante, ma volle che si tollerassero tutte; comandò ai vescovi che niuna bolla pontificia avessero per valida, se non fosse loro dal governo trasmessa; statuì che gli ordini dei religiosi regolari non dai loro generali residenti a Roma, ma bensì dal superiore ordinario, cioè dal vescovo, dipendessero; abolì i conventi che gli parvero inutili, lasciando sussistere fra le monache solamente quelle che facevano professione di ammaestrar le fanciulle; eresse nuovi vescovati, accoppionne altri; fondò poi un numero assai considerabile di parrocchie, sollecito della instruzione di tutti i fedeli. Anco di Leopoldo di Toscana abbiamo narrato quanto bisognava e sì di recente che il tenerne nuovamente discorso sarebbe oziosa replica. Ma non così degli altri italiani Stati, intorno a' quali, ben che qua e colà siasi all'evenienza parlato, rendesi di tutta necessità divisare a parte a parte la loro attuale condizione, senza che, niuna concatenazione avrebbero i fatti che verranno in appresso. Essendo il re Carlo di Borbone salito sul trono di Spagna nel 1750, cedè il regno delle Due Sicilie a Ferdinando IV, suo figliuolo secondogenito, costituito allora nella tenera età di nove anni. Creata prima di partire la reggenza, pose per moderatore della giovinezza del nuovo re il principe di San Nicandro, il quale, privo di ogni sorte di lettere, non potendo insegnare altrui quello che non sapeva egli medesimo, insegnò al regio alunno la pesca, la caccia ed altri cotali esercizii del corpo. Di questi si invaghì Ferdinando che ne prese poi in tutti i tempi di sua vita grandissimo diletto. Ma crebbe poco instrutto di ciò che importa alla vita civile ed al governo degli Stati; pure amava chi sapeva e di consigliarsi con loro. Piacque alla fortuna, qualche volta pure favorevole ai buoni, che a quei tempi avesse grandissima introduzione e principal parte nei consigli napolitani il marchese Tanucci, uomo dotto, di libera sentenza, mantenitor zelante delle prerogative reali ed avverso alle immunità, massime in materie criminali. Dava il re facile orecchio alle parole sue; però il governo del regno procedeva con prudenza e con dolcezza. Speravasi qualche moderazione al dispotismo feudale, che in nissuna parte d'Italia erasi conservato più gravoso che in quel regno, principalmente nelle Calabrie. I baroni, possessori dei feudi, nemici egualmente dell'autorità regia e del popolo, quella disprezzavano, questo aggravavano. Oltre i soliti bandi della caccia, della pesca, dei forni, dei mulini, essi nominavano i giudici delle terre, essi i governatori delle città; per loro erano le prime messi, per loro le prime vendemmie, per loro le prime ricolte degli olii, delle sete e delle lane; per loro ancora i dazii d'entrata nelle terre, i pedaggi, le gabelle, le decime ed i servigi feudali. In somma erano i popoli vessati, l'erario povero, l'autorità regia manca. Sì fatte enormità, tanto discordanti dal secolo, non potevano nè sfuggire a Tanucci, nè piacere ad un re di facile e buona natura. Però con apposite leggi furono moderate. Inoltre Tanucci chiamò i baroni alla corte; il che fu cagione che, raddolciti i costumi loro, diventarono più benigni verso i popoli. Quanto agli Stati esteri, questo ministro, amico a tutti, pendeva per la Francia: ciò spiacque a Carolina d'Austria, fresca sposa di Ferdinando. Fu dimesso Tanucci, e surrogati in suo luogo, prima il marchese della Sambuca, poi Acton. Pure le salutari riforme si continuarono; parecchi privilegi baronali furono aboliti, i pedaggi soppressi, migliori speranze nascevano dell'avvenire. Gli animi si mostravano disposti. Aveva Filangeri filosofo pubblicato i suoi scritti, nei quali non sapresti dire se sia maggiore la forza dell'ingegno o l'amore dell'umanità. Erano con incredibile avidità letti e con grandissime lodi celebrati da tutti. Sorse allora universalmente un più acceso desiderio di veder lo Stato ridotto a miglior forma. Volevasi una libertà civile più sicura, una libertà politica maggiore, una tolleranza religiosa più fondata. Nè a questa inclinazione dei popoli contrastava il governo non ancora insospettito della rivoluzione di Francia. Nel regno di Napoli specialmente più si desideravano le riforme, perchè maggiori radici avevano messe le generose dottrine, massime fra i legisti. Gran confusione ancora era nelle leggi: vivevano tuttavia quelle degli antichi Normanni, viveano quelle dei Lombardi, nè le leggi dei due Federici, nè le aragonesi, nè le angioine, nè le spagnuole, nè le austriache erano del tutto dimesse. Quindi niun diritto in palese, nè niuna lite terminabile. La gravità del male faceva più desiderare il rimedio, principalmente negli ordini giudiziali, per le dette ragioni imperfettissimi. Ma queste cose meglio si conoscevano per dottrina che per esperienza; desideravasi qualche saggio pratico della utilità loro. Aveva il re, mentre viaggiava in Lombardia, visitato le cascine, per cui tanto sono celebrate le pianure del Parmigiano e del Lodigiano. Piaciutegli opere tali, ne fondò una a San Leucio, luogo poco distante da Caserta. La colonia cresceva. Gli amatori delle riforme tentarono Ferdinando, dicendo che poichè era stato il fondator di San Leucio, fossene anche il legislatore; e l'ottennero facilmente. Statuì il re delle leggi della colonia, per cui venne a crearsi nel regno uno Stato indipendente, di cui solo capo era il re. Dichiarossi la colonia indipendente dalla giurisdizione ordinaria, e solo soggetta ai capi di famiglia ed agli anziani di età; gli atti appartenenti alla vita civile, massime al matrimonio, reggevansi con forme e regole speciali, ogni cosa in conformità delle dottrine di Filangeri. Con queste leggi particolari prosperava dall'un canto continuamente la colonia, dall'altro il re vieppiù se n'invaghiva, e vedutone il frutto in pratica, diventava ogni dì meno alieno da quei pensieri che gli si volevano insinuare. Appoco appoco si distendevano nel popolo, ed il desiderio di nuovi ordini andava crescendo, parendo ad ognuno che quello che per l'angustia del luogo era fino allora utile a pochi, sarebbe a tutti, se con la debita moderazione a tutti si estendesse. Questi consigli tanto più volentieri udiva Ferdinando, quanto più coloro che glieli porgevano erano i più zelanti difensori contro chiunque dell'autorità e dignità sua. Già s'era Tanucci dimostrato molto operativo intorno alle controversie romane. Già, per consiglio suo, erasi soppresso il tribunale della nunziatura in Napoli, a cui erano chiamate in appello avanti il nunzio del papa tutte le cause nelle quali qualche ecclesiastico avesse interesse; fu anche troncato ogni appello a Roma. Era Tanucci stato anche autore che la corona di Napoli, e non la santa Sede, nelle vacanze dei benefizii nominasse i vescovi, gli abbati e gli altri beneficiati, che la presentazione della chinea il giorno di san Pietro in un'offerta di elemosina si cangiasse, che il nuovo re non s'incoronasse per evitar certe formalità che si usavano fin dai tempi dei re Normanni, e che la sovranità romana sul regno indicavano. Per consiglio suo medesimamente s'era diminuito il numero dei religiosi mendicanti, e soppressa la società di Gesù. Parlossi inoltre di rendere i regolari indipendenti dai generali loro residenti a Roma, e d'impiegar una parte dei beni della Chiesa per allestire un navilio sufficiente di vascelli da guerra. Tutte queste novità non si potevano mandar in esecuzione senza querele dalla parte di Roma; infatti elle furono molte. Così sorsero nel regno molti scrittori a difesa della libertà e della indipendenza della corona. I fratelli Cestari risplendevano fra i primi: si accostò a loro il vescovo di Taranto; ma vivi soprattutto si dimostrarono coloro che desideravano un governo più largo, proponendosi in tal modo e ad un tempo medesimo di difendere la dignità della corona, e di combattere le prerogative feudali. Ciò andava a' versi a Ferdinando non in pace con Roma; però ogni giorno più si addomesticava con loro, e li vedeva e gli udiva più volentieri. S'aggiunse che Carlo di Marco, uno dei ministri del re, uomo di non poca dottrina, dava lor favore, per quanto spetta alle controversie con Roma. Tale era lo Stato del regno di Napoli, in cui si vede, come abbiamo già altrove notato, che i medesimi tentativi si facevano che nella Lombardia Austriaca ed in Toscana circa la disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore, a cagione delle controversie politiche con Roma. Rispetto poi alle riforme nelle leggi civili, vi s'era anche incominciato a por mano, ma con minor efficacia, perchè Acton non se n'intendeva e ripugnava; ed il re, occupato ne' suoi geniali diporti, amava meglio che altri facesse, che far da sè. Da ciò nasceva che gli umori non si sfogavano, ed il negato si appetiva più avidamente. La Sicilia, parte tanto essenziale del regno di Napoli, si reggeva con leggi particolari. Da tempi antichissimi ebbe un parlamento di tre camere dette bracci, ch'erano gli ordini dello Stato. Una chiamavasi braccio militare, o baronale; in questo sedevano i signori che avevano in proprietà loro popolazioni almeno di trecento fuochi. L'altra intitolavasi braccio ecclesiastico; entravano in questo tre arcivescovi, sei vescovi e tutti gli abbati, ai quali il re conceduto avesse abbazie. La terza aveva nome camera demaniale; era composta dai rappresentanti di quelle città che non appartenevano ai baroni, e che demaniali si chiamavano, cioè del dominio del re. Perciocchè due sorte di città avea la Sicilia, baronali e libere; le prime erano quelle che stavano soggette ad un barone, le seconde quelle che dipendevano immediatamente dal re, e si reggevano con le proprie leggi municipali. Accadeva spesso che un solo barone avesse più voti in parlamento, per essere feudatario di più terre. Lo stesso accadeva, e per la medesima ragione, degli ecclesiastici; lo stesso ancora dei deputati delle città, dando più città il mandato ad una persona medesima. Capo del braccio baronale tenevasi il barone più antico di titolo, dell'ecclesiastico l'arcivescovo di Palermo, del demaniale il pretore della medesima città: adunavasi anticamente il parlamento ogni anno. Prima di Carlo V faceva le leggi, dopo venne ridotto a concedere i donativi. Da questo si vede che il nervo principale del parlamento siciliano consisteva ne' baroni, perchè più ricchi erano e più numerosi. Ma ben maggiore era la potenza loro nelle terre, a cagione de' privilegi feudali. Rimediovvi in parte Caraccioli, vicerè; pure i vestigii feudatarii v'erano ancora gravi. Del resto, le opinioni del secolo poco avevano penetrato in quella isola; ma quello che non dava l'opinione il potevano dare facilmente gli ordini dello Stato. Questa che abbiamo raccontata era la condizione del regno delle Due Sicilie verso l'anno 1789; ma poco diversa appariva quella del ducato di Parma e Piacenza, dove, come a Napoli, regnava la famiglia de' Borboni di Spagna. Anche in questi luoghi vedevasi sorta una maggior perfezione del vivere civile, e le contese con la Sedia apostolica pel medesimo fine delle investiture avevano aperto il campo ad investigazioni del solito effetto. Quando l'infante don Filippo governava il ducato, era in lui grande l'autorità del Franzese Dutillot, il quale, nato di poveri parenti in Baiona, era salito per la virtù sua al grado di primo ministro. Era stato appunto mandato Dutillot dalla corte di Francia al duca Filippo, acciocchè lo consigliasse intorno agli affari che correvano con la corte di Roma, temendosi che, in quella nuova possessione del ducato, ella volesse dare qualche sturbo in virtù de' diritti di superiorità sovrana che pretendeva in quello Stato. Per verità, se grande fu la fede che la Francia ed il duca Filippo ebbero in Dutillot, non furono minori la sua destrezza e la prudenza. Chiamò a sè i più famosi ingegni d'Italia, tra i quali non è da tacersi il teologo Contini, uomo dottissimo nelle scienze canoniche, ed il Turchi, cappuccino di molte lettere, di notabile eloquenza; e tanto per opera di Dutillot si dirozzarono i costumi di quella bella parte di Italia, e tanto vi prosperarono le buone arti, che il regno di don Filippo ebbe fama del secolo d'oro di Parma. Certo, città nè più colta nè più dotta di Parma non era a que' tempi, nè in Italia nè forse anche altrove. Crearonsi, per consiglio del Paciaudi, a questo fine chiamato da Roma, più perfetti ordini nell'università degli studii, un'accademia di belle arti, una magnifica libreria; e perchè con gli ordini buoni concorressero i buoni insegnamenti ed i buoni esempi, vennervi, chiamati da diversi paesi, oltre Paciaudi e Contini, anche Venini, Derossi, Bodoni, Condillac, Millot, Pageol. Fra i buoni esempi Dutillot medesimo non era degli ultimi, scoprendosi in lui decoro, facondia, cortesia, e tutte quelle parti che a perfetto gentiluomo si appartengono: arricchivasi al tempo stesso ed abbellivasi il ducato per manifatture o fondate o ristorate, per edifizii, per istrade, per pubblici passeggi. Così passò il regno di don Filippo assai facilmente sotto la moderazione di Dutillot. Morto poi nel 1765 il duca Filippo, e devoluto li ducato nel duca Ferdinando, ancor minore d'età, Dutillot continuò a governare lo Stato con la medesima sapienza. A questo tempo sorse una grave controversia tra il governo del duca e la corte di Roma; imperciocchè, avendo il duca mandato fuori una sua prammatica intorno alle mani morte, ed un editto che le obbligava al pagamento delle gravezze pubbliche, il papa Clemente XIII pubblicò in Roma un breve monitorio, con cui dichiarò nulle quelle ordinazioni sovrane di Parma, come provenienti da autorità non idonea a farle, e lesive deil'immunità ecclesiastica, ammonendo eziandio che tutti coloro che cooperato vi avevano erano incorsi nelle censure ecclesiastiche, da cui non potessero essere assolti in nissun caso, eccettuato in punto di morte, se non da lui stesso o dal pontefice che dopo di lui sulla cattedra di san Pietro sedesse. Dutillot difese con non ordinaria franchezza e prudenza il diritto sovrano del duca, alla quale difesa diedero non poco favore molti scritti pubblicati da uomini dotti in tale proposito. Questi accidenti concitarono contro Dutillot l'odio e le arti della parte avversaria già entrata molto addentro nella buona grazia del giovinetto principe. Ciò non ostante, in tutto il tempo in cui questo fu minore di età, non perdè il ministro dell'autorità sua. Quando poi, giunto all'età di diciotto anni, assunse il governo, s'indrizzarono i suoi pensieri ad altro fine. Perchè, congedato Dutillot, il principe si governò intieramente al contrario di prima. Il tribunale dell'inquisizione fu istituito in Parma, ma mostrò mansuetudine; nè aspro fu il reggimento del duca; le tasse assai moderate. Era molesto a molti il rigore eccessivo che si usava per far osservare certe pratiche di esterior disciplina: in questo i popoli non potevano dire del principe che altro suono avessero le sue parole ed altro i fatti; poichè ei dava le udienze in sagrestia, ei cantava coi frati in coro, egli addobbava gli altari, ei suonava le campane, egli ordinava i santi nel calendario dell'anno. Mentre il duca pregava, il popolo si erudiva, nè Parma perdette il nome che si era acquistato di città dotta e gentile. Sedeva a questi tempi, come già sappiamo, sulla cattedra di san Pietro il sommo pontefice Pio VI, destinato dai cieli a sostenere il colmo della prospera e dell'avversa fortuna. Il suo antecessore Clemente XIV, da povero fraticello salito, per le virtù sue, alla grandezza del papato, aveva in tanta sublimità conservato quella semplicità di costumi e quella modestia di vita, alle quali nella solitudine dei chiostri s'era avvezzato. Ciò parve a molti, in una Roma, nel primo seggio della cristianità, cosa altrettanto intempestiva e pericolosa quanto era in sè lodevole e virtuosa. Il perchè i cardinali, morto Clemente, elessero papa il cardinal Braschi, che già fin quando era tesoriere della camera apostolica aveva mostrato in tutte le azioni non ordinario splendore. Veramente erano in lui, forse più che in altr'uomo de' suoi tempi, molto notabili l'eccellenza delle forme, la facondia del discorso, la finezza del gusto, la grandezza delle maniere, procedendo in ogni affare con tanta grazia giunta a tanta maestà, che e la venerazione verso la persona sua, ed il rispetto verso la Sede ne venivano facilmente conciliati. Queste erano le qualità di papa Pio. Circa i costumi, e' furono, non che non meritevoli di riprensione, degni di lode; e certe voci corse in questo proposito, piuttosto alla malvagità de' tempi che seguirono, che a verità debbonsi attribuire. Ognuno crederà facilmente che un pontefice di tal natura doveva altamente sentire dell'autorità sua e delle prerogative della Sedia apostolica. Nè mancavano incentivi a queste inclinazioni. Covava allora fra' cardinali più dotti, più operativi, più esperti, un disegno d'una suprema importanza per l'Italia, e quest'era di ridurla unita sotto un governo confederato, di cui fossero parte tutti i principi italiani, e capo il sommo pontefice. Principal autore di questo consiglio era il cardinal Orsini, uomo di natura piuttosto strana che no, ma dottissimo in materia canonica, ed assai caldo zelatore delle prerogative romane; se ad altri pareva che Gregorio VII avesse troppo detto e troppo fatto, pareva all'Orsini ch'ei non avesse nè detto nè fatto abbastanza. Pure, siccome da cosa nasce cosa, se il pensiero dell'Orsini circa la lega italica fosse stato ridotto in atto, avrebbe partorito effetti importanti, e dai papi potuto nascere la salute d'Italia. Ma non potendo Pio allargare, come avrebbe voluto, nè il dominio nè l'autorità, perchè l'opinione era contraria, cercò di acquistar fama di splendido sovrano. Debbesi per prima e principal opera mentovare il prosciugamento delle paludi Pontine, se non a final termine condotto, certamente per la maggior parte eseguito con ispesa tanto enorme rispetto a Stato sì angusto, con costanza tanto mirabile che pochi esempii si leggono nelle storie degni di egual commendazione. Quattro fiumi, l'Amazeno, l'Uffente, la Ninfa e la Teppia non trovando sfogo al mare verso Terracina, sono principalmente cagione dell'impaludamento. Rapini, ingegnere di grido, preposto da Pio alle opere, cavata la linea Pia, condusse le acque al mare pel portatore di Badino, cavò l'antico fiume Sisto, alveò l'Uffente e l'Amazeno. S'abbassarono le acque, si scoversero i terreni, i colti si mostrarono dov'erano le paludi, la via Appia restituita ai viandanti. Tale fu l'opera egregia di Pio VI. Non dismostrossi minore l'animo del pontefice negli ornamenti aggiunti all'antica Roma. Edificò la famosa sagrestia a lato alla chiesa di San Pietro, opera certamente di molta magnificenza, ma forse di troppo minuta e troppo vaga architettura, se si paragona al grandioso stile della basilica di Michelangelo. Dolsersi anche non pochi, che, per fondare questo suo edifizio, abbia il papa ordinato che si atterrasse l'antico tempio di Venere, al quale Michelangelo aveva avuto tanto rispetto, che solo il toccarlo gli era paruto sacrilegio. Bellissimo pensiero di Pio altresì fu quello di persuadere come aveva fatto già, fin quando esercitava l'ufficio di uditore del camarlingo, a papa Clemente, di ornar il Vaticano con un sontuoso museo, il quale poi condotto a maggior grandezza da lui dopo la sua esaltazione, fu chiamato Pio-Clementino. Lo arricchì con gran numero di statue, busti, bassorilievi ed altre anticaglie di gran pregio. Come nobile fu l'intento suo nel fondar il museo, così nobile del pari fu il suo consiglio di volerne tramandare con eccellente rappresentazione di scritture e di figure la memoria ai posteri. Nè fu meno commendabile l'esecuzione; imperciocchè, affidatane la cura, quanto alle figure, a Lodovico Mirri, e quanto ai commenti, ad Ennio Quirino Visconti, ne sorse quella bella descrizione del Museo Pio-Clementino, una delle opere più perfette che in questo genere sieno. Così cresceva Roma sotto Pio in bellezza ed in isplendore ogni giorno; così, visitata dai più potenti principi d'Europa, lasciava in loro riverenza e maraviglia; i popoli mossi da sì sontuosi apparati non rimettevano di quella venerazione che avevano sempre avuto verso la Sedia apostolica. Quanto alle nuove dottrine filosofiche, che parlavano tanta umanità, poche radici avevano messe in Roma; non che i gentili pensieri non vi fossero graditi, ma perchè gli autori loro, mescolando, come facevano, tempi dissomigliantissimi, ed attribuendo a certi effetti cagioni non vere, troppo in sè stessi si compiacquero di condannar le romane cose. Tal era Roma, tanto sempre a sè medesima conforme, ritraendo sempre in ogni fortuna di quella grandezza che per ispecial privilegio del cielo pare in lei congenita e naturale. Mentre così in varie parti d'Italia più o meno si cancellavano per benefizio dei principi o per ammaestramento dei buoni scrittori, la vestigia che i tempi barbari avevano lasciato nelle instituzioni dei popoli e che evidentemente vi si procedeva verso un vivere sociale più generoso e più mite, poco o nissun cambiamento si osservava in altre parti della medesima provincia. La monarchia piemontese era la più ferma di tutte le monarchie, poichè in lei non si videro mai, come in tutte le altre, o rovine nella casa regnante o rivoluzioni di popoli. Del quale privilegio, se si vorrà ben dentro considerare, apparirà prima e principal cagione, essere la potestà assoluta del principe giunta con un uso moderato della medesima. Poi mancavano le occasioni della ambizione dei potenti; perciocchè trovandosi il Piemonte posto tra la Francia e l'Austria, altro non avrebbe partorito l'ambizione di un potente, anche fortunata, che render sè ed il paese suddito o dell'una o dell'altra; nè mai chi avesse voluto imitare un duca di Braganza avrebbe potuto venir a capo della sua impresa. S'aggiunse che i principi di Savoia governarono sempre gli eserciti loro da loro medesimi, nè potevano sorgere capitani di gran nome che potessero, non che distruggere, emulare la potenza dei principi. Da questo e dagli eserciti molto grossi nacque la maravigliosa stabilità della monarchia piemontese. Ne procedette, oltre a ciò, in quello Stato un'opinione generale stabile, che, da generazione in generazione propagandosi, rendè questa monarchia somigliante, alle repubbliche, nelle quali se cangiano gli uomini, non cangiano le massime nè le opinioni. Adunque gli ordini antichi si erano conservati intieri; le opinioni nuove poco vi allignavano. Ciò non ostante, alcuni segni, sebben deboli, di cambiamento si ravvisavano negli Stati del re di Sardegna, massimo circa la ecclesiastica disciplina. Imperciocchè, tolte dal re Vittorio Amedeo II le pubbliche scuole ai gesuiti, e fornita l'università degli studii di ottimi professori, incominciarono le dottrine dell'antichità cristiana a diffondersi. I tre bibliotecarii dell'università, Pasini, Berta e Pavesio, uomini di molto sapere e pietà, promossero lo studio delle opere scritte dai difensori di quelle dottrine, e Vaselli ne arricchì la libreria del re. Regnava Vittorio Amedeo, terzo di questo nome, principe di animo generoso, di vivo ingegno e di non ordinaria perizia nelle faccende di stato. Contaminava la sua buona natura un amore eccessivo della gloria militare: quindi ordinò e mantenne in piè un esercito grosso fuor di misura; il che rovinò le finanze che tanto fiorivano a tempi di Carlo Emmanuele suo padre, sparse largamente nella nazione la voglia delle battaglie, e diè favor eccessivo e potenza ai nobili soli ammessi a capitanar le soldatesche. Ognuno voleva essere, ognuno imitar Federigo re di Prussia. Certamente, se immortali lodi si debbono a Federigo per aver difeso il suo reame contra tutta la Europa, gran danno ancora le fece per avervi introdotto coll'esempio suo un eccessivo umor soldatesco, ed aver messo su eserciti. Gli altri potentati, o per fantastica imitazione, o per dura necessità, furono costretti a far lo stesso; poi venne la rivoluzione di Francia che dilatò questa peste ancor di vantaggio, poi sorse Buonaparte che la portò agli estremi, ed altro non mancherebbe alla misera Europa, per aver la compita barbarie, se non che ella facesse marciare, a guisa degli antichi Galli e Goti, coi combattenti anche i vecchi, le donne ed i fanciulli. Ma, tornando a Vittorio, tanto era in questa bisogna infatuato che soleva dire ch'ei faceva più stima d'un tamburino che d'un letterato, benchè poi riuscisse miglior che di parole; perciocchè i letterati accarezzava e premiava, ed usava anche con loro molto famigliarmente. Ma le armi prevalevano; quindi non solamente fu dissipato il tesoro lasciato da Carlo, ma i debiti dello Stato, non ostante che le imposizioni si aggravassero, tanto s'ammontarono che sommavano in questo anno a meglio di cento milioni di lire piemontesi, che sono più di cento milioni di franchi. Le cariche civili ed ecclesiastiche conferivansi solo ai nobili ed agli abbati di corte. Ad una generazione di magistrati integerrimi e capaci, e di vescovi santi e dotti, successero qualche volta magistrati e vescovi poco atti a ben reggere gli uffizii loro. Pure fiorivano le scienze; fiorivano anche, ma non tanto, le lettere. Quanto alle contese circa l'ecclesiastica disciplina fra il romano pontefice ed i principi di casa austriaca, il re Vittorio avea, per amor di quiete, ordinato che mai non si parlasse o scrivesse nè pro nè contro la bolla _Unigenitus_, nè mai si trattasse dei quattro capitoli della Chiesa gallicana; che anzi, siccome questi articoli erano apertamente insegnati e costantemente difesi nell'università di Pavia dopo le riforme fattevi da Giuseppe II, aveva, a petizione del cardinale Gerdil, proibito che i sudditi suoi andassero a studiare in questa università. Ma tali opinioni più pullulavano quanto più si volevano frenare. Se la monarchia piemontese era la più ferma delle monarchie, la repubblica di Venezia era la più ferma delle repubbliche. Coloro, i quali, credono essere le repubbliche varie e turbolente, potran vedere nella veneziana una repubblica più quieta di quante monarchie sieno state al mondo, eccetto solo quella del Piemonte. Passò gran corso di secoli senza turbazioni; fu percossa da potentissime nazioni, da Turchi, da Germani, da Franzesi; trovossi fra guerre atroci, fra conquiste di popoli barbari, fra rivoluzioni orribili di genti; Roma stessa fulminava contro di lei. Pure conservossi non solo salva in mezzo a tante tempeste, ma nemmeno ebbe bisogno di alterar gli ordini antichi. Tanto perfetti erano i medesimi, e tanto s'erano radicati per antichità! Pare che più sapiente governo di quel di Venezia non sia stato mai, o che si riguardi la conservazione propria, o che si miri alla felicità di chi obbediva. Per questo non vi sorsero mai parti pericolose; per questo certe nuove opinioni non vi si temevano. Solo pareva meritevole di biasimo quel tribunale degl'inquisitori di Stato, per la segretezza e per la crudeltà dei giudizii; pure era volto piuttosto a frenare l'ambizione dei patrizii che a tiranneggiare i popoli. Nè sola Venezia ebbe inquisitori di tal sorte, perchè i governi che non gli hanno per legge stabile, se li procurano per abuso; e non sapresti se muovano più al riso o allo sdegno certuni che tanto rumore hanno levato contro il tribunale suddetto, e che anche presero pretesto da lui di distruggere quell'antica repubblica. Del resto la provvidenza di lei era tale che e l'umanità vi trovava luogo, e le gentili discipline vi si proteggevano. Ma la lunga pace vi aveva ammollito gli animi, e se vi rimanevano gli ordini buoni, mancavano uomini forti per sostenerli. Diminuita la potenza turchesca, e composte a quiete le cose d'Italia, perchè accordate, rispetto al ducato di Milano ed al regno di Napoli, tra Francia, Austria e Spagna, posò intieramente le armi la repubblica, e credette colla sola sapienza civile potersi preservar salva ne' pericoli, che radi ancora si rappresentavano. Ma vennero certi tempi strani, in cui la sapienza civile non poteva più bastare senza la forza, troppo rotti e troppo enormi dovevano essere i moti; la sapienza civile stessa era venuta in derisione. Così Venezia verso l'anno presente stimata da tutti, temuta da nissuno, se era capace di risoluzioni prudenti, non era di risoluzioni gagliarde; l'edilizio politico vi stava senza puntello: una prima scossa il doveva far rovinare. Assai diversa da questa mostravasi, quanto al vigore degli animi, la condizione della repubblica di Genova. Nissun popolo si è veduto meno da' suoi maggiori degenerato del genovese. Fortezza d'animo, prontezza di mente, amore di libertà, attività mirabile, civiltà ancor mista con qualche rozzezza, ma da mollezza esente; un osare con prudenza, un perseverare senza ostinazione, ogni cosa insomma ritragge ancora in lui quel popolo che resistè ai Romani, battè i Saracini, pose agli estremi Venezia, distrusse Pisa, conquistò Sardegna, produsse Colombo e Doria, cacciò dalla sua città capitale i soldati forastieri; e se i destini in questi ultimi tempi non fossero stati tanto contrarii alla misera Italia, forse i Liguri avrebbero lasciato al mondo qualche bel saggio di valore e di virtù. Ma parlossi d'indipendenza colla oppressione e di libertà colla servitù, e gli animi distratti fra dolci parole e tristi fatti, non poterono nè accendersi al bene, nè vendicarsi del male. Era in Venezia un acquetarsi abituale alla sovranità dei patrizii, perchè era non solamente non tirannica, ma dolce, e perchè era da principio presa e non data. Era in Genova un vegliare continuo, una gelosia senza posa nell'universale verso la sovranità de' nobili, non perchè tirannica fosse, ma perchè era stata non presa da chi comandava, ma data da chi obbediva. La lunga quiete aveva fatto posar gli animi in Venezia: le sette, la fazioni e le parti, ora rompendo in manifesta guerra civile, ora sottomettendo la patria ai forestieri, avevano mantenuto in Genova gli animi forti e le menti attente. Era nel paese veneziano gran ricchezza con ampio territorio e fertile; era nel Genovesato gran ricchezza con angusto territorio e sterile; perciò là si poteva conservare l'acquistato posando, qua bisognava conservarlo operando. Era in Venezia chiuso ai plebei il libro d'oro; era in Genova aperto, possente stimolo a chi aveva avuto più amica la natura che la fortuna. Sicchè non dee far maraviglia, se risplendeva Venezia più per delicatezza di costumi che per forza, e se, pel contrario, era più cospicua in Genova la forza che la delicatezza. Quanto alle opinioni, quelle relative allo Stato poco sapevano di cambiamento, quelle relative alle ecclesiastiche discipline, assai. Quindi Porto Reale era in favore e molto largamente si pensava. Tal era Genova, non cambiata dai secoli, e le antiche querele sulla natura de' suoi abitatori al molto amor patrio suo non gradito ai forastieri piuttosto che a verità debbonsi attribuire. Se Venezia dimostrava quanto possa per la felicità de' popoli e per la stabilità degli Stati l'aristocrazia temperata dal costume; se Genova c'insegnava quanto possa pel medesimo fine la maniera stessa di governo temperata dal costume e dalla gelosia del popolo; dimostravalo Lucca con l'uno e con l'altro, e di più col freno di una sottile investigazione sul procedere tanto dei nobili quanto dei popolari. Era in Lucca quest'ordine, che chiamavano _discolato_, e rappresentava l'antico ostracismo d'Atene e la censura di Roma, che quando alcuno, o nobile o popolano si fosse, trascorreva i limiti della modestia civile o de' costumi buoni, tosto tenevasi discolato, scrivendo ciascun senatore il suo nome in sur una polizza; e se venticinque polizze il dannavano in tre discolati successivi, ei s'intendeva mandato a confine o in esilio. Tenevasi il discolato ogni due mesi: il che era gran freno agli uomini ambiziosi e scorretti. Pure, siccome sempre il male è vicino al bene, quella continua e minuta inquisizione, col timore che ne nasceva, rendeva di soverchio gli uomini sospettosi e guardinghi; perfino l'onesta piacevolezza era sbandita dal conversare lucchese, ed una terra oltre ogni creder dolce e gioconda era abitata da gente grave e contegnosa. Nè minor gelosia era verso i giudici; quindi si chiamavano dall'estero; poi, deposto il magistrato, si sottomettevano a sindacato o, vogliam dire, ad esame: seduti in luogo pubblico, poteva ognuno accusarli di gravame; commissarii espressi tenevano registro, e facevano rapporto al senato, che giudicando assolveva o condannava. Così erano in Lucca giudizii integerrimi, primo e principal fondamento alla contentezza de' popoli. Ma se vi si dava ad ognuno il suo, vi si largiva il necessario al bisognoso; perchè a chi voleva aprir traffichi, o era stato danneggiato dalle stagioni, si fornivano o danari dall'erario o generi dai magazzini del comune. Così mite provvido e largo era il reggimento di Lucca. Così ancora facilmente si vede che nei paesi d'Italia non soggetti agli ordini feudali, erano state ordinate la giustizia e la franchezza, non impronte e superbe favellatici come in altri paesi, ma fondate su buoni statuti, sull'assenza di eserciti esorbitanti, sulla modestia di chi reggeva, sulla natura sottile ad un tempo ed assennata degl'Italiani. Che poi questi ordini fossero perfetti per fondare una compita franchigia, nissuno s'ardirà di dire. Ma dove sia questo genere di perfezione, niuno il sa; poichè nè anche vuol credersi che sia dove le soldatesche sterminate possono conquistare e recare a servaggio, non che la patria, una ed anche più parti dei mondo. Che se poi solo ed unicamente si volesse giudicare della bontà de' governi, argomentando dall'infrequenza de' delitti, certamente si affermerebbe i governi di Venezia, di Genova, di Lucca e di Toscana, essere stati i migliori. Va con questi, se però non è superiore per bontà, quello della repubblica di San Marino. Vive da dodici secoli la repubblica di questo nome appena nota al mondo per fama. Quivi virtù senza fasto, quiete senza tirannide, felicità senza invidia; quivi nobiltà solo per chiarezza di natali, non per diritti oltraggiosi, nè per privilegii, nè per desiderio di dominazione; quivi popolo occupato ed industrioso, e come fra i nobili temperati, così nè irrequieto nè tirannico. Fortunate sorti, per cui, tolta l'ambizione dalle due parti, solo rimasero gli effetti conservatori della società. Rovinavano per lunghi anni intorno a San Marino i regni, rovinavano le repubbliche, si straziavano gli uomini per civili e per esterne guerre: sul Titano monte perseverarono i Sammariniani in tranquillo stato ed amici di tutti: dall'alto e dal sereno miravano le tempeste. Volle l'ambizione moderna introdursi in quei placidi recessi, ma fu l'opera indarno, come sarà a suo luogo raccontato: l'inveterato e dolce aere resistette al pestilenziale soffio. Un consiglio di sessanta nominato primitivamente da' capi di tutte le famiglie adunati in generale congresso, o, vogliam dire, a parlamento, e che chiamavano aringo, poi rinnovellato da sè stesso a misura delle vacanze, e due consoli semestrali col titolo di capitani del comune reggono lo Stato. Hanno i capitani la facoltà esecutiva; avevano anche anticamente, a norma degli antichi consoli di Roma, parte della giudiziale, ma questa poi cesse ad uomini chiamati dall'estero dal consiglio sotto nome di podestà; rimase ai capitani l'ufficio di paciali. Sono i capitani, e così ancora i podestà, per gli atti del loro uffizio soggetti al sindacato, che è il modo della legge delle obbligazioni, o, come dicono i Franzesi, della risponsabilità, trovato dagl'Italiani per la guarentigia dei dritti. L'equalità civile consola San Marino, i costumi il conservano, la povertà sicuro scudo contro i forastieri. Nulla ei desidera negli altri, nulla gli altri desiderano in lui, perchè i buoni hanno a schifo i vizii, la quiete non piace ai turbolenti, nè la libertà ai corrotti. Regnava in Modena il duca Ercole Rinaldo d'Este, ultimo rampollo d'una casa da cui l'Italia riconosce tanti benefizii di gentilezza, di dottrina e di lettere, come se fosse ordinato dai cieli che non solo ogni reggimento italiano, ma ancora ogni sangue sovrano, eccetto quel di Piemonte, dovessero andare spenti nei calamitosi tempi che vedemmo. Era il duca Ercole principe degno de' suoi maggiori, se non che forse la sua strettezza nello spendere era tale che sapeva di miseria. Pure dubitar si potrebbe se tale qualità in lui si debba a vizio od a virtù attribuire; perchè se dagli eventi giudicar si dovesse e dalla natura sua, ch'era previdentissima, sarebbe degno anzi di lode che di biasimo. Certo era in lui maravigliosa la previdenza, e non saprebbesi se i posteri crederanno, perchè ciò solo a rinomati filosofi fu attribuito, quando si dirà che il duca Ercole con chiaro ed evidente discorso predisse, parecchi anni prima del presente anno il sovvertimento di Francia e la rovina d'Europa. Aggiunse con voce ugualmente profetica che la Francia perderebbe la sua preponderanza, che tutte le potenze si sarebbono collegate contro di lei, e che nissuna l'avrebbe aiutata. Principe buono ed avverso agli ordini feudali, affermava ch'essi erano più funesto flagello all'umana generazione, che la guerra e la peste, nè mai comportò ai nobili le insolenze. Principe religioso, seppe tener in freno anche il clero, perchè e voleva intiero il dominio de' suoi, e si ricordava di Ferrara. Fiorirono meravigliosamente a tempo suo le lettere in quella parte di Italia: finì la casa d'Este simile a lei, nell'antico costume perseverando. Ora, per raccogliere in poco discorso quello che siamo andati finora largamente divisando, si vede che se apparivano in Italia desiderii di riforma, non apparivano semi di rivoluzione; che questi desiderii risguardavano parte lo Stato politico, parte la disciplina ecclesiastica; principalmente un'evidente impazienza vi era sorta di quanto rimaneva degli ordini feudali. Più principi mostrarono di volere, e mandarono ad effetto non poche riforme; il che fece nascere generalmente desiderio e speranza di veder condotta a compimento la macchina delle istituzioni sociali. Tutte queste cose assecondava la filosofia tanto squisita di que' tempi, non quella turbolenta e sfrenata che non si intende come alcuni chiamino filosofia, ma quella che desiderava maggior moderazione ne' potenti e maggior felicità nei deboli. In ciò volle supplire la filosofia, e fecelo, finchè uomini senza freno, di lei troppo enormemente abusando, empierono il mondo di sterminii e di sangue. A questo, erano in alcuni luoghi della penisola uomini rozzi, ma forti, in altri uomini gentili, ma deboli; di nuovo, in alcuni armi deboli, ma opinioni tenaci, in altri armi forti, ma eccessive, e, per questo medesimo che eccessive erano, non sufficienti. Del resto, se erano in Italia desiderii buoni, non erano ambizioni cattive; non solo non vi si aveva speranza, ma nè anco sospetto di rivoluzione, e gli italiani hanno natura tale, che, se van con impeto, maturano con giudizio. Tale era Italia quando, giunto il secolo verso l'anno 1789 che andiam discorrendo, si manifestarono in Francia, provincia solita a muovere co' suoi moti tutta l'Europa, inclinazioni e cambiamenti di grandissimo momento. Destarono queste novità diverse speranze e diversi timori in Italia, secondo la diversità degli ingegni e delle passioni. In questi crebbero le speranze, in quelli i timori; in alcuni cominciarono a sorgere le ambizioni: i principi si ristettero dalle riforme per sospetto, i popoli più le desideravano per esempio: tutti credettero che per la vicinanza de' luoghi, per la frequenza del commercio, per la comunanza delle opinioni, novità di una suprema importanza avverrebbero di qua, come già erano avvenute di là de' monti. Ma è d'uopo entrare in qualche particolarità sulle rivoluzioni in Francia, loro cagioni ed effetti, per comprendere quello che ne derivò pegli altri paesi. Le mutazioni fatte in Italia da principi eccellenti non partorirono che bene; quelle fatte da un principe giusto e buono in Francia non solo non fruttificarono quel giovamento ch'ei s'era proposto, ma originarono ancora orribili disgrazie. Della qual differenza chi voglia investigar le cagioni, avrà a considerar in primo luogo le opinioni ed i costumi che prevalevano a quei tempi in quel regno, poi le leggi che il governavano, e finalmente lo stato dell'erario. Quello spirito di benevolenza verso l'umana generazione, il quale era prevalso in Europa a questi tempi, aveva messo più profonde e più larghe radici in Francia che in qualsivoglia altra provincia, sì perchè dalla Francia medesima, quasi da fonte principale, derivava, sì perchè la civiltà degli uomini in questo paese era molt'oltre proceduta, e sì finalmente perchè, essendo essi d'indole volubile, fan nascere spesso le mode ed i tempi, ed i tempi poscia li governano. Così era allora tempo d'umanità; e siccome questa è una nazione che, per la prontezza della mente e per la grandezza dei concetti, dà facilmente negli estremi così nel bene come nel male, e sempre si governa coi superlativi, così questa universale benevolenza era diventata eccessiva, estendendosi anche a certi fini che toccano la radice del governo, e ciò non senza pericolo dello Stato; poichè, se è necessario allettar gli uomini con l'amore, è anche necessario frenarli col timore, più potendo in loro l'ambizione e le altre male pesti, che non la gratitudine. In tale disposizione d'animi non solo erano divenuti più che non fossero mai stati odiosi i residui degli ordini feudali, ma ogni leggier freno che dal governo venisse era riputato duro e tirannico. Da questo procedeva che con riforme utili si desideravano anche riforme disutili o pericolose. Queste opinioni recavano possente incentivo da quelle che s'erano formate e sparse ai tempi della ultima guerra d'America, sì opportunamente intrapresa e sì generosamente condotta dalla Francia: esser doni volontarii le contribuzioni dei popoli; dover essi e della necessità loro e della quantità giudicare; esser la nobiltà non necessaria, anzi pericolosa allo Stato; il re capo, non sovrano; il clero consiglio, non ordine, e richiamavanlo alla semplicità antica; la religione dover esser libera. A questo aggiungevasi una tale tenerezza per gli oppressi, che, se mancavano i veri, si cercavano i supposti, per isfogar la piena di tanto amore, poichè ogni punito ed ogni imposto riputavansi oppressi, ed un gran di sale che si pagasse, faceva sì che si gridava tirannide. Le ambizioni si mescolavano alle dolci affezioni, ed alcuni fra i popolani, vedendosi favoriti dall'opinione; volevano diventar potenti, con salire alle dignità ed alle cariche dello Stato. Queste erano le improntitudini popolari; ma la ferita era ancor più grave, e più dentro penetrava nelle viscere dello Stato; conciossiachè coloro fra i nobili che avevano militato in America, eransi lasciati ridurre sì per l'esempio, e sì ancora sospinti da un'illusione benevola, credendo che un'americana pianta potesse portar buoni frutti in un terreno europeo non adatto ad opinioni più favorevoli ai popoli che non alla corona; ed, oltre alla egualità dei diritti, desideravano l'introduzione di qualche ordine popolare nell'antica costituzione del regno. Piacevano loro le forme della costituzione d'Inghilterra. Ciò mise discordia fra la nobiltà, poichè alcuni fra i nobili opinavano per la novità, alcuni per le antiche cose, e così s'indeboliva questo propugnacolo della corona in un tempo in cui ella ne aveva più bisogno. Ma i più fra quelli dei nobili che o per coscienza o per interesse perseveravano nelle massime antiche, e rimanevano fedeli alla corona, tale quale era durata tanti secoli, davano novella forza, certo per orgoglio mal misurato, alla potenza popolare che sorgeva; imperciocchè e più insolenti si mostravano nelle ville e castelli loro, e più duramente esigevano gli abborriti diritti feudali, credendo con maggior forza doversi tener quello che si temeva di perdere. Ciò tanto maggiormente si osservava, e tanto maggior odio creava, che quella parte dei nobili che inclinavano a novità, avevano i medesimi ordini o intieramente dismessi o grandemente moderati, ed i restanti con molta mansuetudine riscuotevano. L'odio saliva alla corona, perchè questi nobili arroganti erano appunto quelli che facevano maggior dimostrazione in favor delle prerogative e della potenza regia. Nè queste erano le sole cagioni di novità. Certo è che i vizii maggiormente allignano fra i grandi che fra il popolo, tale essendo la natura umana, che tanto più si corrompe, quanto ha più modi di corrompere e di corrompersi, nè bastano le gentili dottrine a raffrenar questo impeto, poichè esse meglio servono di scusa che di freno. Quindi era in Francia sorta fra i ricchi una tale dissolutezza di costumi, che ne fu tolto alle persone loro quel rispetto che già avea tolto ai loro diritti l'opinione. L'ozio, il lusso, i piaceri lascivi, i piaceri infami erano giunti al colmo; nè alcuno era contento alla condizione sua, che, nata l'ambizione, niuno voleva stare, ognuno voleva salire, ed ogni modo era riputato buono, o di pecunia accattata e di meretrice compra, o di bugia o di calunnia. Tanta era stata la mala efficacia dei tempi della reggenza! Il vizio s'era introdotto nella corte stessa, nè bastava, non dirò a sanar gli animi, ma a contenerli, l'esempio del re, per verità di costumi integerrimi. Ma siccome i popoli credono che le corti s'informino sul modello dei re, così i Franzesi, vedendo una corte scostumata, rimettevano ogni giorno più di quell'amore che in tutti i secoli hanno portato ai re loro. Il perverso influsso era tale che ne furono contaminati anche coloro che dovrebbero avere in sè più di sacro e di venerando; il perchè scemava fra i popoli il rispetto verso la religione. In tal modo la potenza, separatasi prima dalla virtù, separossi anche dal rispetto, suo principal fondamento; la virtù medesima, sbandita dalla città e dalle curie, ricoverossi fra i modesti presbiterii dei parrochi e fra gli umili casolari dei contadini. Dal che ne nacque più forza alla potenza popolare; perciocchè credessi là esser la buona causa dov'era la virtù, e la cattiva dov'era il vizio. A questo si aggiungeva che a gran pezza l'entrata non pareggiava l'uscita dello Stato, deplorabile frutto dei concetti smisurati di Luigi XIV, del voluttuoso vivere di Luigi XV, e del profuso spendere della corte di Luigi XVI, ancorchè questo principe se ne vivesse per sè molto parcamente. Questo difetto nell'entrata era giunto a tale sul finire del 1786, ch'era per nascere una gran rovina, se presto non vi si rimediava. In cotal modo scomposte le cose, passata la forza dell'opinione dai nobili ai popolari, dai ricchi ai poveri, dai prelati ai curati, e mancato il denaro, principal nervo dello Stato, si vedeva, che ove nascesse un primo incitamento, un grande sovvertimento sarebbe accaduto. Nè la natura del re, dolce e buona, era tale che potesse dare speranza di potere o allontanare o indirizzare con norma certa ed a posta sua gli accidenti che si temevano. Qui nacque un caso degno veramente di eterne lagrime, e pur non raro nelle memorie tramandate dagli storici. Tanto è la natura umana sempre più consentanea a sè stessa nel male che nel bene, e tanto sono cupe le ambizioni degli uomini. Volevasi da tutti, come opinione portata dai tempi, e come cosa utile e giusta, un'equalità civile, un'equalità d'imposte, una sicurezza delle persone, una riforma negli ordini giudiziali, una maggior larghezza nello scrivere. Era il re inclinato ad accomodar le cose ai tempi, per quanto la prudenza e le prerogative della corona, tanto salutari in un reame vasto ed in una nazione vivace e mobile, il comportassero. Ma una setta composta principalmente dai parlamenti, dai pari del regno, dai prelati più ragguardevoli, dai nobili più principali, e secondata da un principe del sangue, del quale se fu biasimevole la vita, fu ancor più lagrimevole il fine, preoccuparono il passo, e vollero farsi capi e guidatori, dell'impresa. In questo il pensier loro era di cattivarsi con allettattive parole la benevolenza del popolo, e diminuire, con l'aumento della propria, l'autorità della corona. Forse i primi e i principali autori di questo disegno miravano più oltre, velando con parole denotanti amore di popolo pensieri colpevoli di mutazioni nella famiglia regnante. Quale di questo sia la verità, i capi di questa setta si prevalsero molto opportunamente per arrivare ai fini loro, di un errore commesso dal governo, il quale diede occasione alla resistenza loro e fu primo principio di quel fatale incendio che arse prima il reame di Francia, poi propagatosi per tutta Europa, vi trasse tutto a scompiglio ed a rovina. Il re, in vece di cominciar l'opera dalle riforme tanto desiderate del popolo, poi ordinar le tasse, volle principiare a por le tasse, poi le riforme. Quindi l'amore cominciò a convertirsi in odio; la setta nemica alla corona se ne prevalse. Adunque, avendo egli pubblicato due editti, uno perchè si ponesse un'imposta sopra le terre, l'altro perchè si ponesse una tassa sulla carta bollata, il parlamento di Parigi, non solo fortemente protestò, ma, ancora più oltre procedendo, ordinò che chiunque recasse ad effetto i due editti fosse riputato reo di tradimento e nemico della patria. Questo era il momento d'insorgere da parte del governo, e di dar forza alla legge, e di aggiungere al tempo stesso qualche editto contenente riforme e giuste per sè e desiderate dal popolo: ciò avrebbe preoccupato il passo. Ma egli, rimettendo dall'opera sua, lasciò andar non eseguiti i suoi editti. Quindi crebbe l'ardire del parlamento, che, volendo usar l'occasione di guadagnarsi la grazia del popolo a diminuzione dell'autorità regia, passò ad abbominare con pubbliche scritture e con parole infiammative le incarcerazioni arbitrarie; poi statuì, annuendo ad una convocazione degli Stati generali, non essere in facoltà sua, nè della corona, nè di tutti due uniti insieme trar denaro dal popolo per via di tasse; la sola volontà del re non bastare a far la legge, nè la semplice espressione di questa volontà poter costituire l'atto formale della nazione; essere necessario, a volere che la volontà del re debba trarsi ad effetto, ch'essa sia pubblicata secondo le forme prestabilite dalla legge; tali essere i principii, tali i fondamenti della costituzione franzese; sapere il parlamento che si volevano sovvertire i diritti pubblicati, per istabilire il dispotismo; la libertà comune essere in pericolo; ma non volere nè poter a tali rei disegni dar la mano, anzi volere opporsi, nè mai permettere che gli essenziali diritti dei sudditi fossero conculcati e messi al fondo; poi, rivoltosi al re, gl'intimò non isperasse di poter annullare la costituzione, concentrando il parlamento nella sola sua persona. Rispose risentitamente il re, che quello che s'era fatto, s'era fatto secondo gli ordini fondamentali dello Stato; non s'intromettessero in affari di governo, perchè di ciò non avevano autorità di sorte alcuna; ch'erano i parlamenti del regno di Francia corti di giustizia abili solo a giudicare in materie civili e criminali, ma non avere autorità nè legislativa nè amministrativa; la volontà del re non potersi senza pericolo nè senza un nuovo e funesto cambiamento nella constituzione del regno soggettare a quella dei magistrati; se ciò fosse, cambierebbesi la monarchia in aristocrazia di magistrati; badassero a far il debito loro come giudici, e lasciassero il governo delle cose pubbliche a chi per antica consuetudine e per costituzione l'aveva in mano; considerassero quante leggi erano state fatte in ogni tempo dai re di Francia, non solo senza il consenso, ma ancora contro la volontà dei parlamenti; la registrazione non essere approvazione, ma solo autenticazione, nè altro in questo fare i parlamenti, che le veci di notai del regno; che quest'erano le forme, questi i precetti, ai quali e' si dovevano conformare, e se nol facessero, si li costringerebbe. Tal era la contesa nata in Francia fra il re ed i parlamenti circa le prerogative e l'autorità della corona. Intanto ogni pubblico affare era soprattenuto, perchè i parlamenti di provincia, come quello di Parigi, o avevano cessato di per sè stessi l'ufficio, o erano dall'autorità regia sospesi. Volle il re rimediare colla creazione della corte plenaria, ma proruppe il parlamento in un'asprissima protesta; protestarono i pari del regno; il clero stesso titubava. Intanto uomini faziosi d'ogni genere, o stimolati espressamente dei capi della parte dei parlamenti, o valendosi acconciamente dell'occasione offerta dalla resistenza loro per macchinar novità, andavano spargendo in ogni luogo semi di discordia e di anarchia. Tumultuavasi a Grenoble, a Rennes, a Tolosa e in altre sedi di parlamenti; orribili scritture uscite in Parigi chiamavano tiranno il re, distruttore dei diritti del popolo, oppressore crudelissimo, esortavansi le genti a levarsi, a disvelare e punir gli oppressori. Avendo il re trovato, invece d'appoggio, opposizione e resistenza nei parlamenti, nella nobiltà e in una parte del clero, dovette necessariamente voltarsi verso il popolo, e fondar l'autorità sua sulla potenza dei più, giacchè i pochi lo abbandonavano. Così era fatale che le prime occasioni delle enormità che seguirono siano state date da coloro ai quali più importava di evitarle, e che ne furono alla fine le miserabili vittime. Adunque fu chiamato ministro il Ginevrino Necker, e con lui altri personaggi consentanei al tempo. Si sperava bene, il popolo esultava. Convocaronsi i notabili del regno, convocaronsi gli stati generali. Prevalse in sul bel principio la parte popolare, siccome quella, in favor della quale operavano i tempi. Decretossi da prima, del qual consiglio fu autore Necker, fosse doppio il numero dei deputati del terzo stato; poi sedessero i tre ordini, non separatamente, ma in comune, poi si deliberasse, non per ordini, ma per capi, il che diede del tutto la causa vinta ai popolari. Gli ordini uniti presero il titolo di assemblea nazionale. Erano portati al cielo: non si parlò più dei parlamenti, quantunque eglino con opportune scritture si fossero sforzati di riguadagnarsi quel favore che per un nuovo empito popolare s'era voltato all'assemblea. L'assemblea nazionale, ottenuta la superiorità del terzo stato, abolì l'inequalità delle imposte, poi i privilegii della nobiltà, poi quelli del clero, poi la nobiltà ed il clero; ed aboliti la nobiltà ed il clero, s'incamminava ad indebolire talmente l'autorità regia, ch'ella non fosse più che un'ombra vana. Il benefizio della equalità era solamente apprezzato dai buoni; i tristi usavano l'occasione dello indebolimento del governo. I faziosi dominavano: l'autorità regia non li poteva frenare, perchè scema di potenza e d'opinione; l'autorità popolare non ardiva perchè parlavano in nome ed in favor del popolo. In ogni luogo, sedizioni, incendii e rapine, morti funeste e modi di morte più funesti ancora, uomini mansueti divenuti crudeli; uomini innocenti cacciati dai colpevoli; uomini benefici uccisi dai beneficiati. Virtù in parole, malvagità in fatti. Novelle strane si spargevano ogni giorno, e quanto più strane, tanto più credute, e tosto si poneva mano nel sangue o ad ardere i palazzi; nè il sesso nè le età si risparmiavano; ad ogni voce che si spargesse, il popolo traeva, massime in Parigi. In mezzo a tutto questo, atti sublimi di virtù patria e di virtù privata, ma insufficienti pel torrente insuperabile e contrario. Nè si vedeva fine agli scandali, perchè l'argine era rotto, e fin dove avesse a trascorrere questo fiume senza freno, nissuno prevedeva. In fine, dopo molti e varii eventi, l'assemblea con una cotal costituzione che teneva poco del regio, meno ancora dell'aristocratico, molto del democratico, rendè il re un nome senza forza; poi venne l'assemblea legislativa, che il depose; poi il consesso nazionale che l'uccise. Intanto uccisi o intimoriti i buoni, impadronitisi della somma delle cose i tristi, la nazione franzese, non trovando più riposo in sè stessa, minacciava, qual mare ingrossato dalla tempesta, di uscir da' proprii confini, e di allagare con rovina universale l'Europa. Anno di CRISTO MDCCXC. Indizione VIII. PIO VI papa 16. LEOPOLDO II imperadore 1. A dì 20 del mese di febbraio del presente anno cessò di vivere in Vienna, nell'età di quarantanove anni, l'imperatore Giuseppe II, dopo che i suoi eserciti impadroniti eransi di Belgrado, ed ebbe a successore il fratel suo granduca di Toscana, sotto il nome di Leopoldo II, principe filosofo e pacifico, che, sollecitato da una parte dalla corte di Prussia, dall'altra dal bisogno de' suoi popoli, non tardò a staccarsi dalla Russia ed a conchiudere una pace parziale coi Turchi. In più luoghi di questi Annali si è accennato qual fosse il carattere, quale l'indole, quale la condotta di Giuseppe. Tuttavia porta il pregio di riferire un brano della Storia d'Italia del cavalier Bossi che in questo modo riassume l'argomento: «Abbiamo già notato come in mezzo ad uno zelo ardentissimo per lo bene e la prosperità de' suoi popoli, non fosse stato dalla opinione pubblica secondato ne' suoi vasti disegni d'innovazione e di riforma, tanto nel sistema civile, quanto nell'ecclesiastico. Si dissero talvolta troppo minuti i suoi regolamenti, troppo precipitose le sue risoluzioni, soventi volte revocate o modificate, si dissero troppo gigantesche le sue idee, le quali forse tendevano, al pari di quelle di Caterina II, a cacciare i Turchi dall'Europa; ma sebbene la riconoscenza de' popoli pari forse non si mostrasse alla sollecitudine da esso impiegata nel procurare i loro vantaggi, glorioso nome lasciò egli per la saviezza di molte leggi e di molti interni regolamenti, per le sue grandiose istituzioni, per i suoi tentativi medesimi, sempre diretti alla pubblica utilità ed allo stabilimento dell'ordine, e grandissima lode ottenne per le sue virtù domestiche, per la sua affabilità mantenuta costantemente anche col più minuto popolo, per il disprezzo da esso mostrato verso il lusso e la vana ostentazione, per il suo allontanamento dai pubblici omaggi, per la sua vita frugale e laboriosa, per un infaticabile ardore di veder tutto egli stesso e di informarsi di tutto, per la sua beneficenza verso i più miseri e per l'attenzione sua continua nello indagare e nel ricompensare il merito anche nascosto. Gli stranieri, forse più giusti dei di lui sudditi medesimi, pubblicarono a gara i tratti segreti, o gli aneddoti più gloriosi della sua vita, i quali provano l'elevatezza della di lui mente e la professione continua delle massime filantropiche più virtuose. Un problema politico assai curioso e singolare potrebbe proporsi: quale andamento, cioè, pigliato avrebbe la rivoluzione franzese, e quali ne sarebbero stati i risultamenti pegli altri Stati, e specialmente per l'Italia, se Giuseppe II non fosse stato da immatura morte colpito.» Intanto, agli accidenti di Francia, cadevano nelle menti degli uomini degli altri paesi di Europa varii pensieri. Da principio, quando solo si trattava della opposizione nata fra il re ed i parlamenti, era sorta un'aspettazione tuttavia scevra da timore. Ma quando vi si aggiunsero le insolenze popolari, le rapine e le uccisioni continue, quando si distrussero, e più ancora quando si schernirono i diritti sopra i quali erano fondati gli ordini delle monarchie d'Europa, quando s'insultò il re, quando mani scellerate cercarono la regina per ucciderla, cominciò alla maraviglia a mescolarsi il timore. Finalmente quando alle incredibili enormità si aggiunsero quelle compagnie raunate in Parigi ed affratellate in tutta la Francia, le quali apertamente dichiaravano volere, con portar la libertà, come dicevano, fra gli altri popoli, distruggere i tiranni (che con tal nome chiamavano tutti i re), il timore diventò spavento. Veramente uomini a posta scorrevano la Germania, massime i Paesi Bassi, e pretendendo magnifiche parole a rei disegni, insidiavano ai governi, ed incitavano i popoli a cose nuove: si temeva che, per le sfrenate dottrine tutte le provincie s'empissero di ribellione. Si aveva anche in Italia avuto odore di tali mandatarii; i sospetti crescevano ogni giorno. Dava ancora maggior fondamento di temere il sapersi che si trovavano in tutti i paesi non solo uomini perversi, i quali pei malvagi fini loro desideravano far novità nello Stato, ma ancora uomini eccellenti, che levati a grandi speranze dalle riforme già fatte in que' tempi dai principi, e credendo potersi dare una maggior perfezione al vivere civile, non erano alieni dal prestar orecchie alle lusinghevoli parole. Il pericolo si mostrava maggiore in Germania ed in Italia per la vicinanza de' territorii, per la facilità e la frequenza del commercio con la Francia, e per la comunanza delle opinioni. Tal era la condizione de' tempi. In Italia, il re di Sardegna, trovandosi il primo esposto, per la prossimità de' luoghi, a tanta tempesta, aveva più che ogni altro principe cagione di pensare a provvedere al suo Stato. Del che tanto maggiore necessità il premeva, che non gli era nascosto che nella parte de' suoi dominii posta oltre l'Alpi le nuove opinioni si erano largamente sparse, e ch'ella poco attamente si poteva difendere dagli assalti franzesi, quando si venisse a rottura di guerra con la Francia. Sapeva di più che i suoi Stati erano principalmente presi di mira da quella compagnia di propagatori di scandali che s'era unita in Parigi, secondochè sfacciatamente uno di loro, favellando in pubblico, aveva predicato. Per la qual cosa, veduto il pericolo imminente, coloro i quali reggevano i consigli della corte di Torino, ristrettisi con gli ambasciatori e ministri degli altri principi d'Italia, rappresentarono loro che i casi avvenuti nel desolato reame di Francia davano giusta cagione di timore per la quiete d'Italia; che l'assemblea nazionale, acciocchè i principi europei non potessero voltare i pensieri loro agli affari di Francia, pensava, per mezzo di seminatori di scandali e di ribellione, a turbar la quiete altrui; che già i mali semi incominciavano a sorgere, stantechè, sebbene fosse stato continuo il vigilare del governo e continue le provvidenze date, non s'erano potute evitare le compagnie segrete, ed anche alcuni, quantunque leggieri, moti nel popolo; che tali ingratissimi effetti si dimostravano più o meno nelle altre parti d'Italia; che, per verità, attentamente si affaticavano in ogni luogo i principi per estirpare queste occulte radici, per chiudere i passi ai malvagi mandatarii, per iscoprir le congreghe segrete, per allontanar le turbazioni; ma non ravvisarsi quale de' due alfine avesse a restar superiore, o la vigilanza de' governi o la pertinacia de' novatori, se non si prendevano nuove e più accomodate risoluzioni; che la necessità dei tempi richiedeva che i principi d'Italia si stringessero in una lega comune a quiete e difesa comune; poichè quello che spartitamente non avrebbero potuto conseguire, lo avrebbero ottenuto per l'efficacia e pei soccorsi comuni. Aggiunsero, che, per verità, questo disegno era già loro venuto in mente da un pezzo, di tanta opportunità egli era; ma che gli aveva ritratti dal proporlo il sapere, che Giuseppe, imperador d'Alemagna, pareva volersi condurre ad assaltar con l'armi nel proprio loro covile que' nemici della umanità e della religione; che ora, cambiate le circostanze per la morte di Giuseppe, e volti i pensieri di Leopoldo, suo successore, piuttosto a preservare e conservare il proprio che ad assalire l'alieno, avvisavano esser tempo opportuno di ordinare e di stringere i vincoli di una comune difesa; che già il fuoco era vicino a consumare la Savoia; che il Piemonte era in procinto di ardere; e chi avrebbe potuto prevedere le calamità d'Italia, se non si spegnevano queste prime faville? che però, visti i pericoli sì gravi e sì imminenti, il re giudicava doversi, più presto il meglio, stringere una lega fra tutti i potentati d'Italia, non già diretta a danno altrui, ma solo a preservazione propria, a tenersi guardati l'un l'altro dalle insidie dei mandatarii franzesi, a mantener la quiete negli Stati, a parteciparsi vicendevolmente le notizie sulle faccende presenti, e ad aiutarsi con l'armi e coi denari, ove nascesse in questo luogo od in quello qualche turbazione. Nè pretermisero i ministri sardi di spiegar meglio quali dovessero essere i membri della lega, nominando particolarmente il re loro signore, l'imperadore d'Alemagna, la repubblica di Venezia, il papa, il re di Napoli ed il re di Spagna, per la parte di Parma. Il re di Sardegna s'era chiarito per alcune pratiche segrete della mente de' re di Napoli e di Spagna che acconsentivano ad entrare nella lega; il papa vi si accostava ancor esso, come quello che ardeva di sdegno a cagione delle innovazioni effettuate in Francia circa gli interessi spirituali e temporali della religione. Solo la repubblica di Venezia se ne stava sospesa, considerando quanto questa lega, ancorchè apparisse pacifica e veramente difensiva, avrebbe fatto ingrossar l'armi in Italia, e chiamato forti eserciti di Alemagna, se le cose venute all'estremo avessero necessitato l'esecuzione: cosa sempre, e non senza cagione, detestata da quella repubblica. S'aggiungeva, che non avendo essa pur testè voluto collegarsi con Giuseppe contro il Turco, naturale ed eterno nemico dello Stato suo, del qual rifiuto ne aveva anche avuto le male parole da quell'imperatore in Trieste, pareva enorme al senato lo stringersi ora in alleanza con Leopoldo suo successore in un'impresa evidentemente dirizzata, quantunque sotto parole velate, contro la Francia, amica vera e necessaria della repubblica. Nè grande era il timore del senato delle nuove massime franzesi; poichè la natura italiana molto eminente negli Stati veneti efficacemente si opponeva alla loro propagazione; poi le consuetudini da tempi antichissimi radicate nell'animo de' popoli, e l'amore che portavano al loro governo, non consentivano; ma erano continue e forti le istanze del re di Sardegna e degli altri alleati, acciocchè il senato si risolvesse, perchè, se non avevano molta fede nell'armi venete, avevano gran bisogno del nome e de' denari della repubblica. Miravano tutte queste pratiche ad introdurre in Italia le medesime deliberazioni ch'erano state prese in Germania dall'Austria e dalla Prussia dopo la morte di Giuseppe e l'assunzione di Leopoldo. Erasi Leopoldo collegato con Federico Guglielmo di Prussia a sicurezza comune contro gli appetiti immoderati di Caterina di Russia e contro le vertigini della Francia. Ma questa congiunzione tendeva a difendersi, non ad offendere; i trattati di Pavia e di Pilnitz, in cui si suppose essere poi stata stipulata la guerra e lo smembramento della Francia, furono trovati e menzogne politiche per apporre a Leopoldo risoluzioni guerriere ed ostili che non lece, e per istimolare a maggior empito i Franzesi, che già con tanto empito correvano. Primo a risentire in Italia i danni della rivoluzione franzese fu il papa. Una commozione in Avignone accaduta, e cui tornarono indarno tutte le pratiche del vicelegato pontificio per sedare, non meno che quelle d'uno special commissario colà dal papa spedito, terminò colla dichiarazione della propria indipendenza che gli Avignonesi fecero, in pari tempo a grandi istanze, chiedendo d'essere incorporati alla repubbica franzese. Così cessò dopo quattro secoli e mezzo la dominazione pontificia in Avignone. Anno di CRISTO MDCCXCI. Indizione IX. PIO VI papa 17. LEOPOLDO II imperadore 2. Nel mese di marzo di quest'anno divenne Venezia albergo di molti principi, che vi si trovarono uniti tutti ad un tempo stesso, cioè l'imperatore Leopoldo II, sotto il nome di conte di Burgau, il re e la regina di Napoli, il nuovo granduca e la nuova granduchessa di Toscana, gli arciduchi Carlo e Leopoldo, palatino d'Ungheria, preceduti dall'arciduca Ferdinando e dall'arciduchessa sua moglie. Se durante la loro dimora festeggiati fossero gl'illustri personaggi, non è da domandarsi a chi già sa con che magnificenza, con che splendidezza la veneziana repubblica accogliesse nella sua capitale, ospiti graditi, i principi ed i sovrani esteri. Balli, accademie, luminarie, regate, e cent'altri passatempi, tutti sontuosi e ogni giorno svariati, si succedevano l'uno all'altro, quasi direbbesi, senza interruzione. Al che se aggiungasi lo spettacolo veramente imponente della città, regina del mare, in sè medesima, colle cospicue sue fabbriche, colla sua singolare configurazione, non dubitare si può che gli augusti ospiti non avessero dal soggiorno loro avuto sommo piacere. Partiti da Venezia essi principi, si avviarono verso la Toscana. Già a nome del nuovo granduca Ferdinando III era stato dal consiglio di reggenza preso il possesso del granducato. Leopoldo si trattenne per alcuni giorni a Firenze, ed allora fu veduta a pubblicare l'opera, che già altrove accennammo, intitolata: _Il governo della Toscana sotto il regno di Leopoldo_. Con irrefragabili documenti da tale opera risultava che nell'anno 1765, epoca dell'avvenimento al trono del granduca Leopoldo, l'entrate pubbliche del granducato montavano ad otto milioni novecento cinquantotto mila seicento ottantacinque lire di Firenze, e nell'anno 1789, ultimo del suo regno, ascesero a dieci milioni cento novantasette mila seicento cinquantaquattro lire: aumento tanto più ragguardevole e degno di maggior encomio, che Leopoldo, come abbiam veduto, avea scemato le pubbliche contribuzioni e tolto via non pochi aggravii, sì che tutto fu effetto della maggior industria, della popolazione maggiore e del più esteso commercio della Toscana. Tanto accrescimento di rendite, tranne quattro milioni che si trovarono in essere nel 1789, fu dal buon principe speso tutto a sollievo dei proprii sudditi o per ristorarli da calamità, o per proteggere le arti e promuovere l'industria ed ogni ramo di pubblica utilità. Il vescovo di Pistoia Scipione Ricci, contro il quale erano nell'anno precedente scoppiate sommosse, prima in Pistoia stessa, poi a Prato e nel rimanente della diocesi, dovette fuggire, e gli stessi capitoli delle due cattedrali si dichiararono contro di lui. Si presentò egli a Leopoldo; partito lui, presentossi al successore Ferdinando; ma le sue riforme furono abbandonate; e Ricci, non potendo rientrare nella diocesi, dove tutti gli animi erano esacerbati, rinunziò al vescovato, tale risoluzione partecipando al papa con una lettera, in cui protestava della sua devozione e sommissione, ed alla quale Pio VI si piacque rispondere in modo affettuoso. Il re e la regina di Napoli da Firenze passarono a Roma. In tre abboccamenti dal re avuti col papa, gettaronsi i primi fondamenti della concordia, che non potuta conchiudersi nel congresso a Castellone, tenuto tra il cardinale Campanelli e l'Acton, primo ministro del re, ebbe effetto nei maneggi di Napoli, in resultato dei quali fu convenuto: ogni nuovo re, salendo al trono, pagasse cinquecento mila ducati in forma di pia offerta a San Pietro; godesse egli la nomina a tutti i vescovati; nominasse il papa a tutti i benefizii subalterni, purchè l'elezione sopra sudditi regnicoli cadesse; in quanto alle sedi episcopali, il papa eleggesse fra i tre candidati che la corte proponesse; in avvenire alla corte di Roma per le cause matrimoniali si ricorresse; per questa volta il pontefice tutte le dispense, concesse dai vescovi napolitani, confermasse; con questo, la cerimonia della chinea per sempre cessasse. Anno di CRISTO MDCCXCII. Indizione X. PIO VI papa 18. FRANCESCO II imperadore 1. Quella inesorabil morte che la temuta falce ruota a cerchio ciecamente, mietendo le vite dei monarchi non meno che quelle de' più meschini mortali, tolse del mondo un gran principe; Leopoldo imperadore morì il dì 10 di marzo del presente anno in età di soli quarantaquattro anni. L'immatura perdita, che in Europa diede luogo alle più strane conghietture, fu dai più saggi attribuita ad una dissenteria che da lungo tempo lo travagliava, all'uso troppo frequente di aromati irritanti, ed all'indebolimento che le continue e gravissime occupazioni portato avevano al di lui temperamento. Giunto al trono imperiale dalla Toscana, questo principe vi aveva portato i medesimi principii, le medesime viste, il medesimo zelo per l'avantaggio dei sudditi, e dato aveva al suo regno uno splendore che tanto più singolare riusciva quanto più difficili erano i tempi, angosciose le circostanze. Collegato erasi egli destramente coll'Inghilterra, affine di frenare l'ardore delle conquiste di Caterina II ed accelerare la pace tra quella sovrana e la Porta; ricuperata aveva in parte la autorità sua sovra i Paesi Bassi, contratta un'alleanza colla Prussia, e assicurati tutti i rami dell'amministrazione della vastissima monarchia, e tutto questo in due soli anni. Tra le sue doti più singolari fu commendata la sua affabilità; nel di lui palazzo ammesso era il povero ugualmente che il ricco; nella Toscana, destinati aveva tre giorni della settimana, solo per ascoltare le domande degl'infelici, e passato alle sede dell'impero, ancora lasciava libero l'accesso a chiunque alla di lui persona, e pochi giorni perfino avanti la sua morte dato aveva pubblica udienza. Il dolore, che provato aveva la Toscana alla sua partenza, divenne, alla epoca della morte di lui, comune a tutta la monarchia, e pochi principi lasciarono al pari di lui vivo il desiderio ne' sudditi e gloriosa dovunque la rimembranza. Morto Leopoldo, ed assunto al trono il suo figliuolo Francesco, principe giovane ed ancora nuovo nelle faccende, i negozii pubblici si piegarono a diverso fine. Caterina di Russia, la quale, visto il procedere temperato di Leopoldo e di Federigo Guglielmo, si era costituita pubblicamente, volendo pur muovere qualche cosa in Europa, la protettrice dell'antico governo di Francia, dimostrava con molte protestazioni volerlo ristaurare. Molte cose diceva continuamente Caterina ed insinuava destramente nell'animo dei principi, massime di Francesco II e di Federigo Guglielmo. Nè mancarono a sè medesimi in tale auguroso frangente i fuorusciti franzesi, e più i più famosi ed i più eloquenti, i quali erano indefessi nell'andar di corte in corte, di ministro in ministro, per raccomandar la causa del re, la causa stessa, come affermavano, dell'umanità e della religione. A queste instigazioni l'imperatore Francesco, che giovane d'età avea già assaggiato la guerra all'assedio di Belgrado, deposti i pensieri pacifici di Leopoldo, e non dando ascolto ai ministri, nei quali aveva suo padre avuto più fede, accostossi ai consigli di quelli che, consentendo colla Russia, lo esortavano ad assumere l'impresa ed a cominciar la guerra. Dal canto suo, Federigo Guglielmo, principe di poca mente, ma d'indole generosa, impietositosi alle disgrazie della casa reale di Francia, e ricordandosi della gloria acquistata da Federigo II, si lasciò persuadere, e postosi in arbitrio della fortuna, corse anche egli all'armi contro la Francia. Noi non descriveremo nè la lega che seguì tra la Russia, l'Austria e la Prussia, nè il congresso di Magonza, nè la guerra felicemente cominciata e più felicemente terminata nelle pianure della Sciampagna: quest'incidenza troppo ci allontanerebbe dall'Italia. Incredibile era l'aspettazione degli uomini in questa provincia, e ciascuno formava in sè varii pensieri secondo la varietà dei desiderii e delle opinioni. Il re di Sardegna, spinto sempre dalla brama di far chiaro il suo nome per le imprese d'armi, stimolato continuamente dai fuorusciti franzesi, che in grandissimo numero s'erano ricoverati ne' suoi Stati, e lasciandosi tirare alle loro speranze, aveva meglio bisogno di freno che di sprone. Intanto non cessava di avviar soldati, armi e munizioni verso la Savoia e nella contea di Nizza, parti del suo reame solite a sentir le prime percosse dell'armi franzesi, e donde, se la guerra dal canto suo fosse amministrata con prospero successo, poteva penetrar facilmente nelle viscere delle province più popolose e più opime della Francia. Nè contento alle dimostrazioni, ardeva di desiderio di venirne prestamente alle mani, persuadendosi che le soldatesche franzesi, come nuove e indisciplinate, non avrebbero osato, non che altro, mostrar il viso a' suoi prediletti soldati. Ma o che l'Austria e la Prussia abbiano creduto di terminar da sè la bisogna, marciando sollecitamente contro Parigi, o che credessero pericoloso pel re di Sardegna lo scoprirsi troppo presto, lo avevano persuaso a temporeggiare fino a tanto che si fosse veduto a che termine inclinasse la guerra sulle sponde della Marna e della Senna. La subitezza di Vittorio Amedeo e la lega dei re contro la Francia diedero non poco a pensare al senato veneziano, e lo confermarono vieppiù nella risoluzione presa di non pendere da nissun lato, quantunque la corte di Napoli gli facesse frequenti e vivissime istanze, affinchè aderisse alla lega italica. Ma prevedendo le ostilità vicine anche dalla parte d'Italia, il che gli dava sospetto che navi armate di potenze belligeranti potessero entrare nel golfo e turbar i mari, e forse ancora che altri potentati d'Italia, non forti sull'armi navali, gli domandassero aiuti per preservar i lidi dagl'insulti nemici, ordinò che le sue armate, che, ritornate dalla spedizione contro Tunisi, stanziavano nelle acque di Malta e nelle isole del mar Ionico, se ne venissero nell'Adriatico. E veramente essendo stato richiesto poco dopo dai ministri cesareo e di Toscana che mandasse navi per proteggere Livorno ed il litorale pontificio, rispose di aver deliberato di osservar la neutralità molto scrupolosamente: la qual deliberazione convenirsegli e per massima di Stato e per interesse dei popoli. Il re di Napoli, stimolato continuamente dalla regina e dal debito del sangue verso i reali di Francia, andava affortificandosi coll'armi navali e terrestri; ma non si confidava di scoprirsi apertamente, perchè sapeva che una forte armata franzese era pronta a salpare dal porto di Tolone; nè era bastante da sè a difendersi dagli assalti di lei, nè appariva alcun vicino soccorso d'Inghilterra, non essendosi ancora il re Giorgio chiarito del tutto, se dovesse continuar nella neutralità o congiunger le sue armi con quelle dei confederati. Perciò se ne giva temporeggiando con gli accidenti. Solo si apparecchiava a poter prorompere con frutto in aperta guerra quando fosse venuto il tempo, e teneva più che poteva le sue pratiche segrete. Il granduca di Toscana, principe savio, stava in non poca apprensione pei traffici di Livorno; però schivava con molta gelosia di dar occasione di tirare a sè la tempesta, che già desolava i paesi lontani e minacciava i vicini. Il papa non poteva soffrire indifferentemente le novità di Francia in materia religiosa. Ma l'assemblea costituente, astutamente procedendo, ed andando a versi alla natura di lui alta e generosa, protestava volersene star sempre unita col sommo pontefice, come capo della Chiesa cattolica, in quanto spetta alle materie spirituali. Chiamavanlo padre comune, lo salutavano vicario di Dio in terra. Queste scaltre lusinghe venute da un'assemblea di cui parlava e per cui temeva tutto il mondo, avevano molta efficacia sulla mente del pontefice, e già si lasciava mitigare. Ma succedette all'assemblea costituente, la quale, benchè proceduta più oltre che non si conveniva, aveva nondimeno mostrato qualche temperanza, l'assemblea legislativa ed il consesso nazionale, che, disordinatamente usando la potestà loro, diedero senza freno in ogni sorta di enormità. Pio VI, risentitosi di nuovo gravissimamente, fulminò interdetti contro gli autori delle innovazioni, e condannò sdegnosamente le dottrine dei novatori circa le materie religiose. Allora fu tentato dallo imperadore d'Alemagna e dai principi d'Italia che seguitavano le sue parti. Nè fu vana l'opera loro; perchè il pontefice, parendogli che alla verità impugnata della religione, alla necessità contraddetta delle discipline, ed alla dignità offesa della Sedia apostolica fosse congiunta la sicurezza dei principi e la protezione degli afflitti, ministerio vero e prediletto del successore di Cristo, prestò orecchio alle nuove insinuazioni, ed entrò volentieri nella lega offensiva contro la Francia. La repubblica di Genova fu poco tentata dagli alleati o per disegni che si facevano sopra di lei, o perchè la credevano troppo dipendente o troppo vicina della Francia. Dimostrossi neutrale con un gran benefizio dei sudditi, che, tutti intenti al commercio di mare con la Francia, navigavano sicuramente nelle acque della riviera di ponente. Così erano in Italia nel corso del presente anno timori universali; armi potenti ed aperte con un'accesa voglia di combattere in Piemonte; preparamenti occulti in Napoli; desiderio di neutralità in Toscana; armi poche ed animo guerriero in Roma; neutralità dichiarata nelle due repubbliche. Queste erano le disposizioni dei governi; ma varii si dimostravano gli umori dei popoli. In Piemonte per la vicinanza le nuove dottrine si erano introdotte, e quantunque non pochi per le enormezze di Francia si fossero ritirati, alcuni ancora vi perseveravano. In Milano le novità avevano posto radice, ma molto rimessamente, siccome in terreno molle e dilettoso. In Venezia, per l'indole molto ingentilita dei popoli, gli atroci fatti avevano destato uno sdegno grandissimo, e poco si temevano gli effetti dell'esempio, massime con quel tribunale degl'inquisitori di Stato, quantunque fosse divenuto più terribile di nome che di fatto. Gli Schiavoni ancora servivano di scudo, siccome gente aliena dalle nuove opinioni, e fedelissima alla repubblica. In Napoli covava gran fuoco sotto poca cenere, perchè le opinioni nuove vi si erano molto distese e il cielo vi fa gli uomini eccessivi. In Roma, fra preti che intendevano alle faccende ecclesiastiche, ed un numero esorbitante di servitori che a tutt'altro pensavano che a quello che gli altri temevano, si poteva vivere a sicurtà. In Toscana, provincia dove sono i cervelli sottili e gli animi ingentiliti, poco si stimavano i nuovi aforismi, e la felicità del vivere vi faceva odiar le mutazioni. In Genova poi erano molti e fortemente risentiti gli umori; ma siccome vi si lasciavano sfogare poco erano da temersi, ed i rivolgimenti non fanno per chi vive sul commercio. La Francia intanto venuta in preda ad uomini senza freno e senza consiglio, vedendo la piena che le veniva addosso, volle accoppiare all'armi le lusinghevoli promesse e le disordinate opinioni. Però i suoi agenti sì pubblici che segreti riempivano l'Italia della fedeltà del governo loro e delle beatitudini della libertà. Affermavano non voler la Francia ingerirsi nei governi altrui; voler esser fedele coi fedeli, rispettare chi rispettava. Queste erano le parole, ma i fatti avevano altro suono; imperciocchè e cercavano di stillare le nuove massime nell'animo dei sudditi con rigiri segreti, mostravano loro il modo di unirsi, loro promettevano aiuti di consiglio, di denaro e di potenza, e, tentando ogni modo ed ogni via, si sforzavano di scemar la forza dei governi, con torre loro il fondamento della fedeltà dei sudditi. Chi raccontasse ciò che allegavano le due contrarie parti, quantunque dicesse cose enormi, ma non tali che di più enormi ancora non se ne facessero, farebbe vedere quanto sieno intemperanti gli uomini quando sono mossi da passioni politiche; imperciocchè l'una parte errava per aver portato troppo oltre le riforme, l'altra per averle fatte degenerare in eccessi enormi pel contrasto da loro fatto anche alle più utili e giuste; gli uni per aver posto le mani nel sangue, gli altri per volervele porre. In mezzo a tutto, le parole dei novatori avevano più forza sull'animo dei popoli che quelle dei loro avversarii, perchè i popoli sono sempre cupidi di novità; poi coloro che si cuoprono col velame del ben comune, hanno più efficacia di quelli che pretendono i privilegii. Laonde l'Europa era piena di spaventi, e si temevano funesti incendii per ogni parte. Intanto, essendo accesa la guerra fra l'Austria e la Francia, l'una e l'altra di queste potenze applicavano l'animo alle cose d'Italia; la prima per conservare quello che vi possedeva, la seconda per acquistarsi quello che non possedeva, od almeno per potervi sicuramente avere il passo, col fine di andar a ferire sul fianco il suo nemico. Dall'altro lato, il governo di Francia aveva spedito agenti segreti e palesi per domandare, parte con minaccie, parte con preghiere, ai governi d'Italia o lega o passo o neutralità. Fra gli altri Ugo di Semonville fu destinato ad andare a specular lo cose in Piemonte ed a tentar l'animo del re, affinchè negli accidenti gravi che si preparavano si dimostrasse favorevole alla Francia. Aveva carico di proporre a Vittorio Amedeo di collegarsi con la Francia e di dare il passo agli eserciti franzesi perchè andassero ad assaltare la Lombardia Austriaca; con ciò la Francia gli guarentirebbe i suoi Stati, raffrenerebbe gli spiriti turbolenti in Piemonte ed in Savoia, cederebbe in potestà di lui quanto si sarebbe conquistato con l'armi comuni in Italia contro l'imperadore. Il re si era risoluto a non udire le proposte, sì perchè temeva, nè senza ragione, d'insidie, sì perchè la sua congiunzione con l'Austria già era troppo oltre trascorsa. Infatti già calavano Tedeschi dal Tirolo, e s'incamminavano a gran passo verso il Piemonte. Il perchè, giunto essendo Semonville ad Alessandria, fu spedito ordine al conte Solaro governatore che nol lasciasse procedere più oltre, anzi gl'intimasse di tornarsene fuori degli Stati del re, usando però col ministro franzese tutti quei termini di complimento che meglio sapesse immaginare. Solaro, uomo assai cortese ed atto a tutte le cose onorate, eseguì prudentemente gli ordini avuti. Tornossene Semonville a Genova. Il fatto fu gravissimamente sentito a Parigi. Il giorno 15 settembre di questo anno, Dumourier, ministro degli affari esteri, favellando molto risentitamente al consesso nazionale del governo di Piemonte, e lamentandosi con apposito discorso dell'affronto fatto alla Francia nella persona del suo ambasciatore in Alessandria, concluse doversi dichiarar la guerra al re di Sardegna. Quivi levossi un rumore grandissimo; chè le parole di despota, di tiranno, di nemico del genere umano andarono al colmo. In somma fu chiarita solennemente la guerra tra la Francia e la Sardegna. Di già il giorno 10 dello stesso mese il consiglio esecutivo provvisorio aveva spedito ordine al generale Montesquiou, cupo dell'esercito, che raccolto nell'alto Delfinato minacciava la Savoia, di assaltar questa provincia, e cacciate l'armi piemontesi oltremonti, di usare quelle maggiori occasioni che gli si offrirebbero. Questo fu il primo principio di tutti quei mali che patì Italia per tanti anni, e che empierono tutto il corpo suo di ferite che non si potranno così facilmente sanare. Il re di Sardegna, come prima fu incominciata la guerra tra la Francia e le potenze confederate di Germania, aveva con grandi speranze fatto notabili apparecchi in Savoia e nella contea di Nizza. Ma le vittorie dei Franzesi nella Sciampagna cambiarono le condizioni della guerra, ed il re, invece di conquistare i paesi d'altri, dovette pensare a difendere i proprii. Erano le sue condizioni assai peggiori di quelle dei Franzesi; poichè nei due paesi contigui in cui si doveva far la guerra, la Savoia parteggiava pei Franzesi, il Delfinato non solo non parteggiava pei Piemontesi, ma loro era anche nimicissimo; che anzi questa provincia si era mostrata molto propensa alle mutazioni che si erano fatte e si facevano; sicchè i Franzesi avevano favore andando avanti, sicurezza andando indietro; il contrario accadeva ai Piemontesi. Non ostante tutto questo, i capi che governavano le cose del re di Savoia, se ne vivevano con molta sicurezza. Soli coi fuorusciti franzesi che loro stavano continuamente intorno, non vedevano ciò che era chiaro a tutto il mondo: improvvidi, che non conobbero che male con le ire e con la imprudenza si reggono i casi umani. Il cavaliere di Colegno, comandante di Ciamberì, oltre la sua credulità verso i fuorusciti e verso un generale di Francia che, per ispiare, il veniva a trovare in abito e sotto nome di prete irlandese, con duro governo asperava i popoli, soffio imprudente sur un fuoco che già si accendeva. Assai miglior animo aveva il conte Perrone, governator generale della Savoia, ma in mezzo a tanti sfrenati non aveva quell'autorità e quel credito che in sì pericoloso accidente si richiedevano; ed anch'egli dava fede alle novelle del prete irlandese. Il cavaliere di Lazari governava l'esercito; capitano certamente poco atto a sostenere le guerre vive dei Franzesi. Adunque, tali essendo le condizioni della Savoia, nel mese di settembre si aperse la via alle future calamità. I capi dell'esercito, vivendo sempre nella solita sicurezza, nè potendo credere sì vicino un assalto, invece di allogar le truppe in pochi luoghi, ma forti, ed ai passi, le avevano sparse qua e là senza alcun utile disegno, talmente che ed erano inabili al resistere al nemico ovunque si appresentasse, ed incapaci a rannodarsi subitamente dove gli assaltasse. Il prete irlandese stava loro a' fianchi, e raccontava loro le più gran novelle dei mondo, ed ei se le credevano. I fuorusciti franzesi, che pure incominciavano a temere, dimandarono se vi fosse pericolo; risposero del no; e mordevano il conte Bottone di Castellamonte, il quale, essendo intendente generale della Savoia, da quell'uomo fine e perspicace ch'egli era, avendo bene penetrate le cose, aveva domandato soldati al governatore per iscorta al tesoro che voleva far partire alla volta del Piemonte. Certo impossibil cosa era il difendere la Savoia, massime dopo le disgrazie de' confederati; non istanziavano in questa provincia più di nove in dieci mila soldati; ma siccome erano buoni, così, se fossero stati retti da capitani pratici, e posti ai passi opportuni, avrebbero almeno fatto una difesa onorata e ritardato l'impeto del nemico. Ma agli sparsi mancò l'ordine; il riunirli fu impossibile in accidente tanto improvviso. Intanto il generale Montesquiou, avuto comandamento d'incominciar la guerra, dal campo di Cessieux, dove alloggiava con l'esercito raccolto, in cui si noveravano circa quindici mila combattenti, gente se non molto disciplinata, certo molto ardente, andò a porsi agli Abresti, donde spedì ordine al generale Anselmo, che, passato il Varo, assaltasse nel tempo medesimo la contea di Nizza, presidiata da genti poco numerose, che obbedivano al conte Pinto. Queste mosse doveva anche aiutare dalla parte del mare il contrammiraglio Truguet, il quale, partito da Tolone con un'armata di undici legni de' più grossi ed alcuni più sottili, e due mila soldati di sopraccollo, se ne giva correndo le acque di Villafranca sino al golfo di Juan, pronto a sbarcar le genti ovunque l'opportunità si fosse scoperta. Montesquiou, lasciati prestamente gli Abresti, se ne venne con tutto l'esercito a posarsi al forte di Barraux vicino a due miglia dalle frontiere della Savoia, donde disegnava di dar principio alla guerra. Era suo pensiero di assaltare col grosso dell'esercito Chapareillan, o Sanparelliano, che si voglia dire, ed il castello delle Marcie, per poscia camminar velocemente alla volta di Ciamberì. Nel medesimo tempo, per tagliar il ritorno al nemico, spediva due grosse bande, delle quali una, radendo la riva sinistra del fiume Isero, doveva chiudere il passo di Monmeliano, e l'altra dal Borgo d'Oisans, valicando gli aspri monti che dividono la valle della Romanza da quella dell'Arco, serrare al tutto la strada della Morienna; nel qual caso tutto l'esercito piemontese sarebbe stato o preso ai passi, o poca parte se ne sarebbe potuta salvare per le strade aspre e difficili della Tarantasia. Se non che, una piena improvvisa dell'Isero, che, rotti i ponti, non permise il passo, e la quantità delle nevi cadute molto per tempo sugli altissimi monti del Galibiero, resero senza effetto queste due ultime fazioni. I Piemontesi, svegliati finalmente dal suono dell'armi franzesi, tentarono di fortificarsi con artiglierie presso Sanparelliono agli abissi di Mians, donde tempestare pensavano di traverso con palle sul passo per mezzo d'artiglierie poste sul castello delle Marcie. Ma a questo non ebbero tempo; le artiglierie non erano ancora ai luoghi loro, quando la notte del 21 settembre, tirando venti orribili, e cadendo una grossissima pioggia, il generale Laroque, a ciò destinato dal generale Rossi, partito con grandissimo silenzio dal campo di Barraux, se ne marciò contro Sanparelliano con una forte schiera. E come disegnava, così gli riuscì di fare; s'impadronì in mezzo a quella oscurità improvvisamente della terra, e, se non fosse stato il tempo sinistro, avrebbe anco presa quella mano di Piemontesi che la difendevano. Ma, avuto a tempo sentore dell'approssimarsi del nemico, si ritirarono a salvamento. Perduto Sanparelliano con gli abissi di Mians, i capi Piemontesi, privi di consiglio, abbandonarono frettolosamente i castelli delle Marcie, di Bellosguardo, di Aspromonte e la Madonna di Mians. Così le fauci dalla Savoia vennero da quel lato in poter de' Franzesi. Ma Montesquiou, usando celeremente la vittoria, e prevalendosi della rotta del nemico, si spinse avanti dal castello delle Marcie con due brigate di fanteria, una di dragoni e venti bocche da fuoco, alle quali fece tener dietro come retroguardo da due altre brigate di fanteria, una di cavalleria, parimente con molti cannoni. Così tagliò e divise in due l'esercito piemontese; una parte fu costretta a ritirarsi verso Anecì, l'altra verso Monmeliano: gli rimase la strada per Ciamberì, capitale della provincia. Ma già il terrore ne aveva cacciato i regi; e sì grande fu la subitezza dello spavento loro, che i Franzesi, temendo d'insidie, non s'ardirono di entrar incontanente nella città che se ne stette posta in propria balìa alcuni giorni. In sì pericoloso passo non vi fu tumulto, non insulto, non saccheggio di sorte alcuna, tanta è la bontà e la civiltà di quel popolo: vi arrivarono i Franzesi; furonvi accolti con tutte quelle dimostrazioni di allegrezza che portavano le opinioni. Montesquiou andava molto cauto nello spignersi avanti, perchè non avendo ancora avuto notizia dell'assalto che doveva dare Anselmo a Nizza, e vedendo la celerità incredibile delle genti sarde nel ritirarsi, dubitava ch'elleno marciassero velocemente a quella banda per opprimere l'esercito che militava sotto quel generale. Si spargeva ancor voce che i Piemontesi, forti di sito e provveduti di munizioni da guerra e da bocca, si erano fermati alle montagne delle Boge o Bauge, che separano Ciamberì dall'Isero, per ivi fare una testa grossa, e passarvi l'inverno. Però deliberossi di sostare alquanto per ispiar meglio le cose e per aspettare che portassero i tempi dal canto delle Alpi marittime. La rotta de' soldati reali fece cadere in mano de' Franzesi dieci cannoni, quantità grande di polvere, di palle, di casse e d'altri arnesi da guerra, con magazzini pienissimi di foraggi e di vettovaglia. Dalla parte di Nizza non dimostrarono i capi piemontesi miglior consiglio nè miglior animo che in Savoia. Conciossiachè non così tosto ebbero avviso che Anselmo aveva passato il Varo, fiume che divide i due Stati, la notte del 23 settembre, dandosi precipitosamente alla fuga, abbandonarono la città di Nizza, e già davano mano a votare con grandissima celerità quanto si trovava nel porto di Villafranca. I Franzesi, usando prestamente il favore della fortuna, corsero a Villafranca; e minacciato di dare la scalata, il comandante si diede a discrezione con ducento granatieri, ottimi soldati, ed alcune bande di milizie, lasciando in preda al nemico cento pezzi d'artiglieria grossa, una fregata, una corvetta e tutti i magazzini reali. Così la parte bassa della contea di Nizza venne in poter dei Franzesi con incredibile celerità e facilità. Solo si teneva ancora pel re il forte di Montalbano, ma poco stante si arrese ancora esso a patti. A queste vittorie contribuì non poco l'ammiraglio Truguet con la sua armata, che, dando diversi riguardi ai Piemontesi, gli teneva in sospetto d'assalti da ogni banda, e loro fece precipitar il consiglio di ritirarsi dal littorale. Anselmo, avuta Nizza, Villafranca e Montalbano, si spinse avanti per la valle di Roia, e non fece fine al perseguitare se non quando arrivò a fronte di Saorgio, fortissimo castello che chiude il passo da quelle parti, ed è come un antemurale del colle di Tenda. Ma, alcuni giorni dopo, le genti piemontesi, avuto un rinforzo d'un grosso corpo di Austriaci, ed assaltato con molto impeto il posto di Sospello, se ne impadronirono. Nè molto tempo vi dimorarono, perchè, ritornato Anselmo col grosso di tutto l'esercito, se lo riprese, e di nuovo Saorgio divenne l'estremo confine dei combattenti. Queste spedizioni dei Franzesi nella provincia di Nizza costarono poco sangue; perchè la ritirata dell'esercito sardo fu tanto presta, che non successero che poche e leggieri avvisaglie; nè i conquistatori si scostarono dai termini della umanità e della moderazione. Assai diverso da questo fu il destino dell'infelice Oneglia; poichè, accostatasi l'armata del Truguet a quel lido, e mandato avanti un palischermo per negoziare, gli furon tirate le schioppettate, per le quali furono uccisi o feriti parecchi, caso veramente deplorabile, e non mai abbastanza da biasimarsi. Però l'armata franzese, accostatasi vieppiù, e schieratasi più opportunamente che potè; cominciò a trarre furiosamente contro la città. Quando poi, per il fracasso, per la rovina, per le ferite e per le morti, l'ammiraglio credè che lo spavento avesse fatto fuggire i difensori, sbarcò le genti che aveva a bordo, le quali, unite ai marinai, s'impadronirono della città, e la posero miserabilmente a sangue, a sacco ed a fuoco. Questa fu mera vendetta dei violati messaggieri di pace: Oneglia, luogo di poco profitto, fu dai Franzesi abbandonata, e l'armata loro, toccata Savona, e posatasi alquanto nel porto di Genova, se ne tornò poco tempo dopo a Tolone. Essendosi oramai tanto avanzata la stagione che non si potea guerreggiare se non con molto disagio, si posarono dalle due parti l'armi tutto l'inverno, attendendo a far apparecchi più che potevano gagliardi per tornar sulla guerra con frutto tosto che il tempo s'intiepidisse. In mezzo a questo silenzio dell'armi nulla decorse che sia degno di memoria, se non la differenza del procedere dei Savoiardi e de' Nizzardi verso i Franzesi, avendo i primi mostrato molta inclinazione per loro e desiderio di accomodarsi alle foggie del nuovo governo: al contrario, i secondi fecero pruova di molta avversione e di volersene rimanere nei termini del governo antico. Pervenuta a notizia di Montesquiou la conquista di Nizza, si mise in sul voler cacciar del tutto le genti sarde dalla Savoia. A questo fine ordinò a Rossi che, cacciandosi avanti le truppe del re, le spingesse fino al Cenisio per la Morienna, ed a Casabianca fino al piccolo San Bernardo per la Tarantasia: il che eseguirono con grandissima celerità, e quasi senza contrasto da parte del nemico. Anzi è da credere che se Montesquiou, invece di soprastarsi, come fece, per aspettar le nuove di Nizza, fosse dopo la conquista di Ciamberì camminato con la medesima celerità, si sarebbe facilmente impadronito di queste due sommità delle Alpi con grande suo vantaggio, e con maggiore speranza di andar a ferire, alla stagione prossima, il cuore stesso del Piemonte, tanta era la confusione delle genti regie. Aix, Annecì, Rumillì, Carouge, Bonneville, Tonon e le altre terre della Savoia settentrionale, abbandonate dai vinti, riconobbero l'imperio dei vincitori. Così questa provincia venne tutta in potestà dei Francesi. La quale possessione per quell'inverno fu loro assicurata dalle nevi strabocchevolmente cadute sui monti, le quali indussero da questa banda la medesima cessazione dall'armi, ed anche più compiuta, che era prevalsa nelle Alpi marittime. In cotal modo un paese pieno di siti forti, di passi difficili, di torrenti precipitosi, fu perduto pel re di Sardegna, senza che nella difesa del medesimo si sia mostrato consiglio o valore. Del qual doloroso caso si deve imputar in parte il re medesimo, per aversi voluto scoprire, a cagione de' suoi pensieri tanto accesi alla guerra, molto innanzi che gli aiuti austriaci arrivassero in forza sufficiente e per aver dato il più delle volte i gradi militari a coloro che più miravano a comparire, che ad informarsi dell'arte difficile della guerra. Certamente error grande fu quel di Vittorio di metter l'abito militare ad ogni giovane cadetto che si appresentasse, e di mandarli sulle prime alla guerra, come se l'arte della guerra ed il rumor dei cannoni non fossero cose da far sudare e tremare anche i soldati vecchi. I nobili poi ci ebbero più colpa del re, pel disprezzo, non saprebbesi se dire ridicolo od assurdo, in cui tenevano i Franzesi. Pure fra di loro non pochi erano che, modesti e valorosi uomini essendo, detestavano i male avvisati consigli, e sentivano sdegno grandissimo della vergogna presente. La rotta di Savoia, già sì grave in sè stessa, fu anche accompagnata da accidenti parte terribili, parte lagrimevoli. Pioggie smisurate, strade sprofondate, carri rotti, soldati alla sfilata parte armati, parte no, gente fuggiasca di ogni grado, di ogni sesso e di ogni età, terribili apparenze e di cielo e di uomini e di terra. Ma fra tutti movevano compassione grandissima i fuorusciti franzesi, i quali, confidandosi nelle parole dei capitani regi, eransi soprastati a Ciamberì fino agli estremi, ed ora cacciati dalla veloce furia che loro veniva dietro, non potevano nè stare senza pericolo; nè fuggire con frutto, imperciocchè a chi mancava il danaro per povertà, a chi la forza per infermità, a chi le bestie ed i carri per trasferirsi, perchè non se ne trovavano per prestatura nè amichevole nè mercenaria, ed in tanto scompiglio era venuto meno il consiglio di prevedere e di provvedere. Spettacolo miserando era quello che si vedeva per le strade che portano a Ginevra ed a Torino, tutte ingombre di gente caduta da alti gradi in un abisso di miseria. Erano misti i padri coi figliuoli, le madri con le figliuole, i vecchi con i giovani, e fanciulle tenerissime ridotte fra i sassi e il fango a seguitar i parenti loro caduti in sì bassa fortuna. Vi erano vecchi infermi, donne gravide, madri lattanti e portanti al petto le creature loro certamente non nate a tal destino. Nè si desiderò la virtù o la carità umana in sì estremo caso perchè furono viste spose, figliuoli, fratelli, servidori non proscritti voler seguitare nelle terre strane, anche a malgrado dei parenti e padroni loro, gli sposi, i padri, i fratelli ed i padroni, posponendo così la dolcezza dell'aere natìo alla dolcezza del ben amare e del ben servire: secolo veramente singolare, che mostrò quanto possono fra l'umana generazione la virtù ed il vizio, l'una e l'altro estremi. Ma se era il viaggiar crudele, non era miglior lo starsi; alberghi pieni o niuni in quelle rocche, bisognava pernottar al cielo, e il cielo era sdegnato, e mandava diluvii di pioggie. A questo, soldati commisti che fuggivano sbanditi, armi sparse qua e là, un tramestio d'uomini sconsigliati, un calpestio di bestie, un rumor di carrette, un furore, un dolore, una confusione, un fremito, aggiungevano grandissimo terrore e grandissima miseria. Quanti si sono visti cresciuti ed allevati in tutte le dolcezze di Parigi, ora non trovar manco quel ristoro che a gente nata in umil luogo abbonda nel corso ordinario della vita! Quanti gravi magistrati, dopo avere ministrato la giustizia nei primi tribunali del nobilissimo reame di Francia e vissuto una vita integerrima, ora travagliosamente incamminarsi ad un esiglio, di cui non potevano prevedere nè il modo nè il fine! Quante nobili donne, che pochi mesi prima speravano di dar eredi a ricchissimi casati nei palazzi dei maggiori loro, ora vicine a partorire, fra lo squallore di tetti abbietti ed alieni, a padri venuti in povertà figli più poveri ancora! Quante fanciulle, richieste prima da principi, non sapere ora nè a qual rifiuto andassero nè a qual consenso! Quanti capitani valorosi ed invecchiati nella milizia, ora che per la fralezza dei corpi loro avevano più bisogno del riposo e dello stato, mancati il riposo e lo stato, raminghi sotto cielo straniero, cacciati correr da quei soldati medesimi, ai quali avevano e l'onore ed il valore insegnato! Erano le strade, per donde passavano, piene di gente instupidita a sì miserabile caso, ed intenerita a tanta disgrazia. E spesso trovarono sotto gli umili tugurii più ristoro e più consolazione che non s'aspettavano. Così per molti dì e molte notti su per le vie di Ginevra e di Torino la tristissima comitiva mostrò quanto possa questa cieca fortuna nel precipitare in fondo chi più se ne stava in cima. Eppure in mezzo a tanto lutto la natura franzese era tuttavia consentanea a sè medesima. Imperciocchè uscivano dagli esuli non di rado e canti e risi e piacevolezze tali, che pareva piuttosto che a festa andassero, che a più lontano esiglio. Vedevansi altresì uomini gravissimi o galoppanti sulla fangosa terra, o dentro o dietro le carrozze stanti, recarsi con le cappellature acconce, e con croci e con nastri, e con altri segni dell'andata fortuna: tanto è tenace ciò che la natura dà che la sciagura non lo toglie! Ma giunti i miseri fuorusciti in Ginevra ed in Torino, non si può spiegare quanto fosse il dire, il guardare ed il pensare degli uomini. Grandi cose aveva rapportato la fama di Francia; ma ora ai più pareva che il fatto fosse maggior del detto; chi andava considerando quel che potesse fare una nazione furibonda che usciva dai proprii confini; che il valore de' suoi soldati, e chi la contagione delle sue dottrine sostenute da tanta forza. Chi pensava alla vanità di coloro che l'avevano predicata vinta, e chi all'imprudenza di coloro che l'avevano provocata potente. Meglio sclamavano fora stato il lasciarla lacerare da sè stessa, che il riunirla con le minaccie; meglio ammansarla, che irritarla: tutti poi affermavano esser venuti tempi pericolosissimi, essere minacciata Elvezia; essere minacciata Italia; già già titubare la società umana in Europa. A Torino tutti questi discorsi si facevano, ed altri ancor più gravi. Intanto gli esuli facevano pietà, e con la pietà nasceva il terrore. Tutta la città era contristata e piena di pensieri funesti. Ma tanta era la fermezza della fede dei Piemontesi nel loro re, che pochi pensavano a novità; alcuni desideravano qualche riforma nel reggimento civile e politico dello Stato; tutti volevano la conservazione della monarchia, ed i peggiori tratti che si udivano contro il governo, più miravano ad ammenda che a satira. Il governo mosso da accidente tanto improvviso e tanto pericoloso, poichè cominciaronsi a sgombrare i primi timori, andava maturamente pensando a quello che fosse a farsi. Il cantone di Berna fu richiesto d'aiuto, ma senza frutto; l'Austria fu richiesta ancor essa, e con frutto. Laonde reggimenti tedeschi arrivarono a gran giornate dalla Lombardia in Piemonte, e s'inviavano prestamente alle frontiere, massime verso il colle di Tenda. Addomandossi denaro in presto a Venezia, che ricusò, fondandosi sulla neutralità. Si spedirono corrieri per rappresentare il caso in Inghilterra, in Prussia ed in Russia. Allegavasi essere il re solo guardiano d'Italia: se si rompesse quell'argine, non sapersi dove avesse a distendersi quell'enorme piena; starsi di buon animo il re, ma ove mancavano le forze proprie, abbisognar gli aiuti altrui. Cercavasi anche di scusare le rotte di Nizza e di Savoia, con dire che quei passi non erano difendevoli se non con grossi eserciti; le forze che s'erano inviate essere state sufficienti non solo per difendere, ma ancora per offendere, senza le disgrazie di Sciampagna; dopo queste non poter più bastare nè anco a difendere; per verità: essere stata troppo presta, ed anche disordinata, la ritirata; ma doversi attribuire alla imprudenza di chi comandava; essere i soldati buoni e fedeli, parato Vittorio a non mancare a sè medesimo nè alla lega; solo richiedere che, come egli era l'antiguardo, così non fosse lasciato senza retroguardo; e siccome egli era esposto il primo alle percosse del nemico comune, così lo potesse fronteggiare con gli aiuti comuni. Tutte queste cose rappresentate con parole appropriate avevano gran peso. Ma la Prussia, quantunque perseverasse nell'alleanza, cominciava a pensare a' casi suoi, siccome quella che, essendo lontana dalla voragine, aveva minori cagioni di temere. Bensì l'Austria, che già ardeva ne' suoi proprii Stati, per preservare il resto, procedeva con sincerità, e si risolveva a mandar soccorsi gagliardi in Piemonte. L'Inghilterra, che aveva serbato certa sembianza di neutralità sino alla morte di Luigi XVI (21 gennaio 1793), dopo questa orrenda catastrofe s'era scoperta del tutto, e licenziato da Londra Chauvelin, ministro plenipotenziario di Francia, si preparava alla guerra. Però diede buone speranze al re promettendo denari ed efficace cooperazione con le sue armate sulle coste del Mediterraneo. Intanto in Piemonte si compivano i numeri delle compagnie, si ordinava la milizia, si creavano nuovi luoghi di monti, si gettavano nuovi biglietti di credito, si coniavano monete che scapitavano più della metà del valor loro edittale, pessimo, ma non sempre evitabile rimedio dei mali. Nel punto medesimo si provvedevano le fortezze poste ai passi dell'Alpi con ogni genere di munizioni, e si affortificavano le cime del Cenisio e del piccolo San Bernardo. Con questo, usando dell'opportunità della stagione, che andò freddissima, e fatti tutti i preparamenti necessarii, si aspettava con incredibile ansietà da tutti qual fosse per essere al tempo nuovo l'esito delle battaglie, dalle quali dipendeva il destino d'Italia e del mondo. Anno di CRISTO MDCCXCIII. Indiz. XI. PIO VI papa 19. FRANCESCO II imperadore 2. La ritirata così subita delle genti regie dalla Savoia e dal contado di Nizza, e la cacciata a forza degli eserciti tedeschi dalle terre franzesi verso il Reno, diedero molto a pensare agli alleati. Tra per questo e l'andar sempre più crescendo a cagione delle vittorie e di più feroci istigamenti l'appetito delle cose nuove e la furia delle menti in Francia, eglino s'accorsero che assai più dura impresa si avevano per le mani di quanto avevano a sè medesimi persuaso. Bande tumultuarie ed indisciplinate, come le chiamavano, avevano vinto eserciti floridissimi; capitani di poco o nissun nome avevano superato per arte militare generali che erano in voce de' primi per tutte le contrade dell'Europa. Coloro ancora, i quali si erano concetto nell'animo di piantar facilmente le insegne della lega sulle mura di Parigi e di Lione, a mala pena potevano difendere i dominii proprii dagli assalti di un nemico poco prima disprezzato ed ora vittorioso ed insultante. Ciò nondimeno i confederati non vollero ristarsi, sperando che, coll'andar più cauto, poichè si era conosciuto di quanto fosse capace quella furia franzese, e coll'accrescer le proprie forze e con l'unione di aliene, si potesse mutar la fortuna e compensar le perdite passate coi guadagni avvenire. Tal è la costanza delle menti tedesche che più e meglio ancora che l'impeto le fa riuscire ad onorate imprese. L'Austria ed il Piemonte, siccome più vicini al pericolo, procedevano con animo più sincero della Prussia, la cui congiunzione con la lega già forse incominciava a vacillare. L'Austria massimamente applicava i pensieri alla preservazione de' suoi Stati in Italia, ai quali già si era avvicinata la tempesta, e che sono parte tanto principale della sua potenza. Perlochè si preparavano con molta diligenza tutte le provvisioni necessarie alla guerra, tanto negli Stati austriaci quanto nel Piemonte, e si tentava ogni rimedio per impedire la passata de' Franzesi. Perchè poi i popoli provocati da quelle lusinghevoli parole di libertà e di uguaglianza, non solamente non si congiungessero con coloro che procuravano la turbazione d'Italia, e non facessero novità, ma ancora sopportassero di buona voglia tutto quell'apparato guerriero, e non si ristessero a tanto romor d'armi, usavansi i mezzi di persuasione. Il più potente era la religione: spargevansi sinistre voci: essere i Franzesi nimici di Dio e degli uomini, conculcare la religione, profanare i templi, perseguitare i sacerdoti, schernire i santi riti, contaminare i sacri arredi, e, facendo d'ogni erba fascio, proteggere gl'increduli ed uccidere i credenti. I vescovi, i preti, i frati intendevano accesamente a queste persuasioni; se ne accendevano mirabilmente gli animi del volgo. Parte essenziale de' disegni della lega erano le deliberazioni del senato veneto. L'imperadore, conghietturando che il terrore cagionato dall'invasione di Savoia e di Nizza, e quell'insistere così vicino sulle frontiere del Piemonte d'un nemico audace, e che mostrava tanta inclinazione alle cose d'Italia, avessero mosso e disposto il senato a piegarsi alla sua volontà, aveva con efficacissime parole dimostrato che era oramai tempo di non più provvedere con consigli separati, e di pensare di comune accordo alla salute comune. Rappresentavagli, non isperasse preservare lo Stato, se quel diluvio di gente sfrenata, valicati i monti, inondasse Italia; voler fare, e per sè e per gli sforzi contemporanei del suo generoso alleato il re di Sardegna, quanto fosse in potestà sua per allontanare da quel felice paese tanta calamità; ma esser feroci i Franzesi, e gli eventi di guerra incerti; vano pensiero essere il credere che chi fa spregio dell'umanità e conculca ogni legge divina ed umana rispetti la neutralità; disprezzare i Franzesi la neutralità, ed amar meglio un nemico aperto che un amico dubbioso; avere egualmente in odio le aristocrazie che le monarchie, ed il prestar fede alle protestazioni amichevoli loro essere un volersi ingannare da per sè stesso. E dopo molte e molte convincentissime ragioni e dimostrazioni: Questo è, aggiunse l'imperadore, l'estremo de' tempi; il sorger di tutti solo poter essere la salute di tutti; il mancar di un solo, la rovina di tutti. Pensasse adunque il senato e maturamente considerasse la necessità de' tempi, l'infedeltà della Francia, la fede della Germania, la lega proposta, gli aiuti offerti, e l'avvenire, che già già incalzava e premeva, o felice o funestissimo per sempre. Il senato veneto, che per la sua prudenza sempre seppe bene conoscere i tempi, ora male misurandoli, e volendo applicare ad un male nuovo rimedii antichi, rispose che la repubblica, sempre moderata e temperante, voleva esser amica a tutti, nemica a nissuno; che tale mansueto procedere era sempre stato a grado di tutti i principi, e sperava dover essere per l'avvenire, massime nella presente controversia tanto piena di difficoltà e d'incertezza; che, quanto a' sudditi, non aveva timore alcuno di novità, stante che conosceva e la fede loro e la vigilanza de' magistrati; che ammirava bene la costanza dello imperadore e de' suoi alleati in un affare di tanto pericolo, ma che finalmente si persuadeva che Sua maestà imperiale, considerando bene, secondo la prudenza sua la natura del governo veneto, avrebbe conosciuto non dovere lui allontanarsi da quella moderazione che l'aveva preservato salvo per tanti secoli; ricever somma molestia di non poter deliberare altrimenti; esser parata la repubblica a dar il passo alle genti tedesche, a sovvenir i confederati di quanto potesse consistere con la neutralità; ma procedere più oltre, e soprattutto implicarsi in guerre con altri, non comportar la fede, la costanza e la consuetudine della repubblica. Ma, moltiplicando sempre più gli avvisi de' progressi fatti da' Franzesi nel ducato di Savoia e nel contado di Nizza, fu ben necessario il pensare a provveder quello che la stagione richiedeva; e se non si voleva impugnar l'armi per fare una guerra estrema, bisognava bene considerare quanto fosse a farsi per preservare la repubblica dagli assalti forestieri e da' tumulti cittadini. Per la qual cosa, convocato straordinariamente il senato, vi si pose in consulta quali fossero i provvedimenti da farsi per conservare salva la repubblica nell'imminente pericolo dell'invasione dei Franzesi in Italia. Francesco Pesaro, procurator di San Marco, uomo, il quale, e per sè e pel seguito della sua famiglia, era in grandissima fede appresso ai Veneziani, e di cui sarà spesso fatta menzione in questi Annali, dal suo seggio levatosi e stando, ognuno attentissimo a udirlo, parlò con gravissimo discorso in favore della neutralità armata, conchiudendo ..... «io opino che si fornisca l'erario, che si allestisca il navilio, che si levino le cerne, e che alcun polso di Schiavoni sia chiamato a tutelare le cose di terra ferma. A questo io penso che si debba dichiarare alle potenze belligeranti che il senato, costante sempre nel suo procedere pacifico, vuol conservarsi fedele ed amico a tutti, e che i moderati apparecchi d'armi mirano piuttosto e solamente a conservazione di pace che a dimostrazione di guerra.» Grande impressione fecero nella mente del senato le parole gravemente dette dal Pesaro, nelle quali concorrevano amplissimamente tutti i fondamenti che nel deliberare le imprese principalmente considerare si devono. Al contrario, parlò con singolare eloquenza il savio del consiglio Zaccaria Vallaresso per la neutralità disarmata, e la sua orazione fu udita con grande inclinazione dalla più parte dei senatori, soliti a godersi da lungo tempo le dolcezze della pace. Lo stesso Pesaro, quantunque fosse uomo di molta virtù e di svegliati pensieri, si lasciò svolgere dalla eloquenza dell'avversario e venne nella opinione della neutralità disarmata. Però ne fu presa con unanime consenso la deliberazione, solo contraddicendo, come dicesi, il savio di terra ferma Francesco Calbo. Da questa prima cagione sorse la rovina della repubblica, e se per l'oscurità e l'incertezza degli eventi umani non si potrebbe affermare che il consiglio contrario l'avrebbe condotta a salvamento, e se veramente era destinato dai cieli ch'ella perisse, certo è almeno che sarebbe perita onoratamente e con fine degno del suo principio. Le medesime deliberazioni fece la repubblica di Genova per la vicinanza di Francia, per l'integrità de' traffici e pel timore del re di Sardegna. Avevano gli alleati qualche più fondata speranza in Corsica. Erasi ridotto in questa sua antica patria il generale Paoli, richiamatovi dall'assemblea costituente: godevasi quietamente il restituito seggio, quando uomini feroci misero, sotto nome di libertà, ogni cosa a soqquadro in Corsica come l'avevano messa in Francia. Sdegnossene Paoli; sepperlo i confederati. Con lettere e con parole esortatorie lo stimolarono non permettesse che la sua patria fosse preda di uomini sfrenati; si ricordasse del nome suo, avvertisse essere i Franzesi queglino stessi nemici contro i quali aveva sì generosamente combattuto; considerasse avere allora i medesimi voluto opprimere la libertà del suo paese con introdurre uno Stato civile, ora volervi introdurre uno stato disordinato e barbaro; pensare quanto fosse pietoso il liberare da gente crudele popoli che adoravano il glorioso suo nome; desse mano di nuovo a quelle armi generose, esortasse, levassesi, combattesse; essere in pronto nuova gloria, nuova libertà, nuove benedizioni di popoli. Queste insinuazioni già da lungo tempo tentavano l'animo di Paoli, il quale veramente non poteva sopportare lo stato nuovo, ma l'importanza del fatto prima di muoversi era che l'Inghilterra si chiarisse delle sue intenzioni; e di comune consentimento fu deliberato che si aspettasse la guerra dell'Inghilterra, solo intanto si tenessero gli animi disposti. Il re di Sardegna più speciale conforto riceveva, oltre il denaro che gli veniva dalla Gran Bretagna, dall'accessione della Spagna; era evidente che quante forze la Francia avesse mandato alla volta de' monti Pirenei, di tante avrebbe scemato quelle che mandava per le Alpi; sicchè Spagna e Piemonte, quantunque lontani, concorrevano, combattendo, ad un medesimo fine. A tutte queste speranze se ne aggiungeva un'altra assai viva, e quest'era che, presentandosi grossi gli alleati sulle province meridionali della Francia, vi sarebbero nati a favor loro, e contro l'autorità del governo parigino, movimenti d'importanza. L'aspettare che sorgessero novità favorevoli alla lega nelle provincie più vicine alla Spagna ed all'Italia, non era certamente senza fondamento. La soppressione dei traffici, nata a cagion della guerra, vi aveva dato occasione a non poca mala contentezza, e l'enormità commesse a Parigi, operando nelle menti più sane, vi avevano un grandissimo odio concitato contro i commettitori di tanti scandali; ai più feroci poi pareva oggimai troppo lungo che non si desse mano a far sacco e sangue. Questi nuovi pensieri buoni e cattivi massimamente pullulavano in Marsiglia ed in Lione, città grosse, emule a Parigi, ricche per commercio in pace, ed ora povere in guerra, e se il nome del re di Sardegna era molto mal gradito nella prima, era udito con più benigne orecchie nella seconda. Tutte queste disposizioni non s'ignoravano dagli alleati massime per mezzo della corte di Torino che usava un'arte grandissima nello spiare e nello accordarsi segretamente in Savoia ed in Nizza sì coi magistrati che coi capi dell'esercito. Queste trame parte si sapevano, parte si presumevano dai giacobini. Quindi le mutazioni dei capi dell'esercito erano frequenti, e siccome era rotta ed improvvida la natura loro, così spesso punivano gl'innocenti od esultavano i rei. I supplizii poscia e le confische, producendo abbominazione nei popoli, operavano che sempre più quell'avversione che hanno naturalmente i Franzesi contro i forastieri, che vogliono metter mano e piede nelle cose e nelle case loro, si diminuisse, e con essa gli ostacoli alla disegnata invasione; poichè tal era il terror delle mannaie, che i più preponevano la servitù forastiera alla tirannide cittadina. Ordinavano l'imperatore ed il re di Sardegna in tal modo i pensieri della guerra; nuovi reggimenti tedeschi arrivavano in Piemonte; quelli che appartenevano all'armatura leggiera, come Croati, Panduri e simili, s'avviavano alle montagne. Gli squadroni più gravi e la cavalleria stanziavano nelle pianure più vicine. Erano poi siffattamente ordinati, che le truppe piemontesi, come più pratiche dei luoghi, e più snelle di natura, guernivano le Alpi; alle quali, come abbiam detto, s'accostavano le genti leggieri dell'imperatore; mentre le genti grosse austriache, stanziando nei luoghi bassi, contenevano i popoli e si tenevano pronte a marciare ovunque il nemico fosse riuscito a sboccare. Mandò l'imperatore a reggere l'esercito confederato in Piemonte il generale Devins. Era Devins uomo di buona mente, e salito pel valor suo dagl'infimi gradi della milizia fino ai supremi, aveva in ogni occasione mostrato la sua eccellenza nell'arte della guerra. Devesi qui interrompere il filo della narrazione di questi preparamenti e di questi maneggi per raccontare un fatto enorme accaduto in Roma in sull'entrare del presente anno, il dì 13 di gennaio, e che in appresso aggiunse gravezza ai fati papali. Un Basseville, segretario della legazione di Francia, o per imprudenza propria, come alcuni stimano, nel voler promuovere troppo vivamente le opinioni del tempo, di cui era infatuato, o per un sorgere spontaneo dei Romani a cagione dell'odio che portavano ai repubblicani, come altri credono, fu crudelmente ammazzato a furia di popolo, con alcuni altri individui della medesima nazione. Fu incesa anche nel medesimo fatto parte dei palazzi dell'Accademia di Francia e del console franzese. Quantunque il governo pontificio non vi avesse colpa, e che anzi avesse fatto in quel subito accidente quanto per lui s'era potuto per frenare la rabbia di chi voleva contaminar Roma con un sì grave misfatto, venne tempo in appresso che importava ai repubblicani che glielo imputassero, e da lui alla ferocia del romano governo argomentando, protestavano di volerne fare condegna vendetta. Intanto alcune pratiche segrete s'erano appiccate fra la corte di Torino e gli aderenti al nome regio in Lione ed in Provenza, il cui fine era di accordare i modi che si dovevano usare, perchè i disegni che si macchinavano a benefizio comune avessero la loro esecuzione. E siccome si faceva maggior fondamento sui Lionesi, più centrali di sito, più vicini alla Germania, fonte e nervo principale della guerra, e più tenaci di proposito che i Provenziali, così coi primi massimamente si tenevano questi trattati. Quando i negozii si avvicinavano alla conclusione, il signor di Precy, mandato dai Lionesi, andò egli medesimo nascostamente a Torino per quivi accordarsi su quanto si trattava: l'imperatore ed il re si offerivano parati a secondare i suoi disegni con le forze loro. Intervenne Precy a molte consulte, ed egli e Devins non tardarono d'entrare nella medesima opinione, cioè, che, lasciata una parte dello esercito sulle Alpi marittime, per tener a bada il nemico da quelle parti, il principale sforzo sì di Tedeschi che di Piemontesi si dirizzasse contro la Savoia per quindi marciare a Lione. Certamente disegno nè più conforme agli accidenti nè di più probabile esecuzione non s'era mai concetto di questo; ma il re Vittorio, mosso da un desiderio più generoso che considerato, non vi volle acconsentire. Era egli gravissimamente sdegnato contro i Savoiardi, siccome quelli che avevano accettato con amore i Franzesi, e lui, con quella legione degli Allobrogi ordinata dal medico Doppet, asperavano coi fatti, e più ancora l'asperavano con gli scherni e per l'eccessive cose che dicevano contro di lui; mentre assai diverso era il procedere dei Nizzardi, i quali, più alieni di natura, di mala voglia sopportavano il nuovo imperio, e continuamente infestavano i Franzesi, facendo loro, con bande sparse, tutto quel maggior male che potevano. Queste inclinazioni considerate dal re Vittorio, non volle mai udire con pacato animo che si desse mano a liberare dalla tirannide franzese prima i secondi che i primi. Ogni ora gli pareva mille anni che i suoi fedeli di Nizza non tornassero al grembo suo, mentre per castigo sopportava più volontieri che i popoli di Savoia continuassero a gustare di quanto sapessero i Franzesi, non considerando ch'ei li castigava di quanto essi più desideravano. Devins e Precy interposero grandissima diligenza per persuadere il loro desiderio al re, ma non avendo potuto vincere la sua ostinazione, si fermarono in questo pensiero, che, munite le frontiere della Savoia con truppe sufficienti per frenare il nemico, ed anche per ispingersi più oltre, secondo le occasioni, si assaltasse la contea di Nizza col grosso dell'esercito, come prima il tempo avesse condotto la opportunità di tentar l'impresa. Questa fu la prima origine, questo il seme delle calamità innumerabili e della variazione di quasi tutte le cose che poco dopo seguirono. Devins continuamente si lamentava che il re di Sardegna gli avesse tolta l'occasione di far chiaro il suo nome con una onorata e grande vittoria. Mentre tutte queste cose si sollecitavano per gli alleati, i Franzesi pensavano ai modi di resistere alla piena che veniva loro addosso, e le deliberazioni loro parte miravano la guerra, parte i negoziati, parte le corruttele. Quanto alla guerra, si consigliarono di preporre ai due eserciti, dell'Alpi e d'Italia, un solo generale, acciocchè, per l'unità dei pensieri potesse più efficacemente conseguire il medesimo fine; ed a ciò scelsero un uomo non solo di provato valore, ma ancora di provata fede, Kellerman, che aveva testè combattuto i Prussiani con molta gloria sulle sponde della Marna. All'aprirsi della stagione, componeano l'esercito cinquanta mila soldati, buoni per la disciplina, ottimi per valore, terribili per la rabbia. Kellerman, recatosene in mano il governo, siccome il nemico principalmente minacciava di prorompere sulle ali estreme della troppo larga frontiera, così sulla Savoia e su Nizza, determinossi a porre il campo grosso in un sito mezzano, a Tornus, posto nella valle di Queiras, per essere ad un di presso ugualmente discosto da Nizza e da Ciamberì, e vi mandava le genti, l'armi e le vettovaglie. Ma la difesa era difficile, perchè gli alleati occupavano tuttavia la sommità delle Alpi su tutta la frontiera, e potevano con facilità e vantaggio calare nelle parti più basse, e cacciarne i Franzesi, combattendoli dall'alto. Per ovviare a questo pericolo, il generale franzese dispose con lodevol arte le sue genti nelle valli della Savoia superiore che accennano per istrade più facili all'Italia. Così munì Termignone e San Giovanni nella Morienna; Moutiers nella Tarantasia, e per maggior sicurezza allogò un grosso corpo a Conflans. Nelle Alpi marittime, ove i Piemontesi e gli Austriaci insistevano con grandissimo vantaggio, Kellerman, distendendo l'esercito dalla Roia sino ai fonti della Nembia, aveva munito tutte le cime accessibili delle montagne, e posto il campo in mezzo, sul monte Fogasso. Quanto all'ala sua sinistra, dove il pericolo era maggiore per la facilità dei varchi e per la vicinanza della città di Nizza, alla quale principalmente miravano gli alleati, oltre le stanze solite, aveva collocato un grosso squadrone, come squadra di riscossa, sul monte Boletto. Questi erano i preparamenti guerrieri di Francia; le arti politiche furono le seguenti. Tentarono la Porta Ottomana, affinchè si aderisse alla repubblica contro l'Austria e contro Venezia, ma fu senza frutto. Tentarono Venezia, promettendole grossi e pronti aiuti, ed ingrandimento di Stato a pregiudizio dell'imperadore; ma il senato perseverò nella neutralità, offerendo a' Franzesi quelle medesime agevolezze negli Stati veneti che erano state concedute alle potenze confederate. Parte principalissima della lega, tra per forza de' suoi eserciti e per la situazione del suo dominio, era certamente il re di Sardegna. Adunque i capi del governo franzese assai volentieri piegarono l'animo a provare se potessero con promesse guadagnarsi la sua amicizia. A questo fine furono introdotti alcuni negoziati segreti tra un agente di Robespierre, per parte della Francia, ed il conte Viretti, per parte del re. Ma il re, che animoso era, e sapeva anche del cavalleresco, non volle mai udire pazientemente le proposte di fare collegazione con Francia, nè accettare le speranze che gli si proponevano, aggiungendo parole, certo molto prudenti, che non si voleva fidar de' giacobini. Così, rifiutati del tutto i consigli quieti, sorse più ardente l'inclinazione alla guerra. Mentre così andavano i repubblicani di Francia lusingando i potentati d'Italia per conciliarsi l'amicizia loro, non cessavano per uomini a posta e per mezzo de' loro giornali, che pure, malgrado della vigilanza de' governi ad interromperli, si insinuavano nascostamente in ogni luogo, a spargere mali semi ne' popoli, con invasarli dell'amore della libertà ed imitarli a levarsi dal collo il giogo degli antichi signori. Queste instigazioni non restavano senza effetto, perchè di quella libertà nella lontana Italia si vedevano soltanto le parole, e non bene se ne conoscevano i fatti. Le parti nascevano, le sette macchinavano accordi, le fazioni tumulti. Ma non fia senza utilità il particolarizzare gli umori che correvano a que' tempi in Italia, acciocchè i posteri possano distinguere i buoni da' tristi, conoscere i grandi inganni e deplorare le debolezze fatali. Adunque in primo luogo gli uomini si erano generalmente divisi in due parti, quelli che parteggiavano pei governi vecchi, detestando le novità, e quelli che, parteggiando pe' Franzesi, desideravano mutazioni nello Stato. Fra i primi alcuni così opinavano per fedeltà, alcuni per superbia, alcuni per interesse. Erano i fedeli i più numerosi, fra i quali chi per tenerezza verso le famiglie regnanti, e questi erano pochi, chi per bontà di giudizio o per esperienza delle azioni umane, il numero de' quali era più largo, e chi finalmente per consuetudine, e questi erano i più. Fra i superbi osservavansi principalmente i nobili che temevano di perdere in uno stato popolare l'autorità ed il credito loro. Tra questi, oltre i nobili, mescolavansi anche non pochi popolani che volevano diventar nobili od almeno tenere i magistrati. Per interesse poi abborrivano lo stato nuovo tutti coloro che vivevano del vecchio, e questi erano numerosissimi; a costoro poco importava la equalità o la non equalità, la libertà o la tirannide, solo che si godessero o sperassero gli stipendii. Si aggiungevano alcuni prelati ricchi ed oziosi, per interesse, i preti popolari e buoni, per amor della religione. In tutti poi operava un'avversione antica contro i Franzesi, nata per opera de' governi italiani sempre sospettosi della potenza di quella nazione e del suo appetito di aver signoria in Italia. Di tutti quelli che fino a qui siamo andati descrivendo, alcuni erano utili ai governi, alcuni disutili, alcuni dannosi, ned è mestieri che si vengano individuando, che ognun se li vede. Ma i dannosi erano gli ambiziosi, i quali credevano di render più sicuro lo Stato loro coll'esagerarlo, e si proponevano di far argomento di gran fiducia con mostrar maggiore insolenza. Il frenarli non pareva buono ai governi, perchè temevano e di alienar coloro di cui avevano bisogno, e di mostrar debolezza ai popoli. L'odio di costoro principalmente mirava contro gli uomini della condizione mezzana, nei quali supponevano dottrine per lettura, orgoglio per dottrine, autorità col popolo per contatto. Gli uni chiamavano gli altri ignoranti, insolenti, tiranni, gli altri chiamavano gli uni ambiziosi, novatori, giacobini, e tra mezzo ad ire sì sfrenate, non trovando gli animi moderazione, ed introdotta la discordia nello Stato, si preparava l'adito ai forastieri. Ora, per dire di coloro che inclinavano a' Franzesi, od almeno desideravano che per opera loro si facessero mutazioni nello Stato, diremo che per la lettura de' libri de' filosofi di Francia era sorta una setta di utopisti, i quali, siccome benevolenti ed inesperti di queste passioni umane, credevano esser nata un'era novella, e prepararsi un secol d'oro. Costoro, misurando gli antichi governi solamente dal male che avevano in sè, e non dal bene, desideravano le riforme. Questa esca aveva colto i migliori, i più generosi uomini, e siccome le speculazioni filosofiche, che son vere in astratto, allettavano gli animi, così portavano opinione che a procurar l'utopia fra gli uomini non si richiedesse altro che recare ad atto quelle speculazioni, persuadendosi, certo con molta semplicità, che la felicità umana potesse solo e dovesse consistere nella verità applicata. Queste radici tanto più facilmente e più profondamente allignavano quanto più trovavano un terreno bene preparato a riceverle ed a farle prosperare, massime in Italia, a cagione della memoria delle cose antiche. Chi voleva essere Pericle, chi Aristide, chi Scipione, e di Bruti non v'era penuria; siccome poi un famoso filosofo franzese aveva scritto che la virtù era la base delle repubbliche, così era anche nata la moda della virtù. Certamente non si può negare, ed i posteri devonlo sapere, che gli utopisti di que' tempi per amicizia, per sincerità, per fede, per costanza d'animo e per tutte quelle virtù che alla vita privata si appartengono non siano stati piuttosto singolari che rari. Solo errarono perchè credettero che le utopie potessero essere, perchè si fidarono di uomini infedeli e perchè supposero virtù in uomini che erano la sentina de' vizii. Costoro, così affascinati com'erano, offerivano fondamento a' disegni de' Franzesi, perchè avevano molto seguito in Italia; ma fra di loro non tutti pensavano allo stesso modo. I più temperati, ed erano il maggior numero, avvisavano non doversi muovere cosa alcuna, ed aspettavano quietamente quello che portassero i tempi. Altri più audaci opinavano doversi aiutar l'impresa co' fatti, e però si allegavano, tenevano congreghe segrete, ed avevano intelligenze in Francia, procedendo a fine di un bene immaginario con modi degni di biasimo. A tutti questi, come suol avvenire, s'accostavano uomini perversi, i quali celavano rei disegni sotto magnifiche parole di virtù, di repubblica, di libertà, di uguaglianza. Di questi alcuni volevano signoreggiare, altri arricchire; gli avidi, gli ambiziosi eran diventati amici della libertà, e nissun creda che altri mai abbia maggiori dimostrazioni fatto d'amor di patria, che costoro facevano. Essi soli erano i zelatori, essi i virtuosi, i patriotti, ed i poveri utopisti eran chiamati aristocrati; accidenti tutti pieni di un orribile avvenire; imperciocchè non solamente pronosticavano mutazioni nello Stato vecchio, ma ancora molto disordine nel nuovo. A tutte queste sette, all'una o all'altra delle quali s'erano accostati anche per lo più gli ecclesiastici, si aggiungeva quella degli ottimati, la quale, avida anche essa del dominare, e nemica ugualmente all'autorità reale ed all'autorità popolare, sperava che in mezzo alle turbazioni potesse sorgere la sua potenza. Costoro nè aiutavano nè disaiutavano la potenza reale che pericolava, ed aspettavano la loro esaltazione dalla potenza popolare che loro era nemica. Tal era la condizione d'Italia; i buoni esperti volevano la conservazione per previdenza di male, i buoni inesperti volevano la novità per isperanza di bene, i malvagi desideravano rivoluzioni per dominare e per succiarsi lo Stato; il clero stesso ondeggiava; dei nobili alcuni erano fedeli e temperati, altri fedeli ed insolenti, e per l'insolenze loro operatori che nascessero male inclinazioni nel popolo: altri finalmente poco fedeli, ma prudenti, aspettavano quietamente le occasioni: in mezzo a tutte queste inclinazioni s'indebolivano continuamente i fondamenti dello Stato; pure la massa dei popoli perseverava sana, ed avrebbe potuto essere di grande appoggio a chi avesse saputo usarla prudentemente e fortemente. Narrati i preparamenti, le trame e le speranze di ambe le parti, ora si descriveranno gli accidenti che portò seco la fortuna dell'armi: nel che si dovrà sempre tenere a mente che in quest'anno intenzione dei Franzesi non era di farsi strada in Italia per forza se non nel caso in cui la fortuna avesse loro scoperto occasioni molto favorevoli; perciò disegnavano di starsene sulla guerra difensiva, mentre dall'altro canto gli alleati volevano ad ogni modo, usando l'offensiva, penetrare nell'interno della Francia. I Franzesi, prevedendo una guerra vicina coll'Inghilterra e la Spagna, e volendo usare la breve signoria che restava loro nel Mediterraneo, avevano ordinato una spedizione contro l'isola di Sardegna. Posta in ordine un'armata nel porto di Tolone, composta di ventidue navi da guerra, fra le quali se ne noveravano diecinove grosse di fila; per combattere in terra ed usar le occasioni che si appresentassero, vi aveva il governo di Francia imbarcato sei mila soldati atti a combattere nelle battaglie stabili di terra. Questa mole guerriera dovevano seguitare molte navi da carico, per imbarcarvi i frumenti e trasportargli in Francia. Il governo di sì fiorita spedizione fu dato all'ammiraglio Truguet; laonde, trovandosi ogni cosa in pronto, ed appena giunto il presente anno, l'armata franzese, salpando da Tolone se ne veleggiava con vento prospero verso Sardegna; vi giunse prima del finir di gennaio, ed il dì 24 del medesimo mese pose l'ancora, mostrando un terribile apparato, nel porto di Cagliari; nè ponendo tempo in mezzo, l'ammiraglio mandò un uffiziale con venti soldati a far la chiamata alla città. Qui nacque il medesimo caso già deplorato di Oneglia, cioè che i Sardi, veduto avvicinarsi il palischermo sul quale era inalberata la nuova insegna dei tre colori, trassero sì, che l'uffiziale e quattordici soldati restarono morti, e la più parte degli altri feriti. L'ammiraglio pose mano a fulminare ed a bombardare la piazza con tutto il pondo delle sue artiglierie. Nè i difensori se ne stettero oziosi; spesseggiando coi colpi e traendo con palle di fuoco contro le navi franzesi, sostenevano una ferocissima battaglia. Questo assalto durò tre giorni con poco danno de' Sardi, ma con gravissimo dell'armata franzese, della quale una nave grossa arse, e due andarono a traverso. Le altre, o rotte sconciamente nel corpo, o lacerate negli arredi, a stento potevano mareggiare. In questo mentre, oltre il presidio che combattè egregiamente, massime i cannonieri, arrivarono i montanari, che si erano mossi quando dall'alto avevano veduto avvicinarsi l'armata nemica; ed ora essendo stati distribuiti ai luoghi più opportuni, minacciavano di rincacciare e di uccidere chiunque si attentasse di sbarcare; memorabile esempio di fedeltà civile e di virtù militare. E in fatti, quanti sbarcarono, o restarono uccisi, o, costretti dai montanari, si ricoverarono precipitosamente alle navi. Così restò vana la fatica ed il desiderio dell'ammiraglio di Francia. Perderono i Franzesi in questo conflitto circa seicento buoni soldati. Dal canto dei Sardi, cinque solamente furono uccisi, pochi feriti. Nè Cagliari ricevè danno proporzionato a tanto bersaglio; solo i sobborghi situati di sotto e più vicini al mare patirono. L'ammiraglio, veduto che gl'isolani, ne' quali aveva posto la principale speranza, non solamente non avevano fatto movimento in suo favore, ma ancora avevano validamente combattuto contro di lui, disperato dell'evento, si allargò nel mare lontano dalla portata delle batterie, quantunque tuttavia stanziasse ancora con le sue navi, così lacere com'erano, per qualche tempo nelle acque del golfo di Cagliari. Ma poco stante non essendo senza sospetto di ammutinamento nei suoi soldati, come suole avvenire nelle disgrazie, e levatasi una furiosa tempesta, se ne andò di nuovo a porre nel porto di Tolone, dove l'attendevano casi ancor più tremendi. Mentre in tal modo una guerra viva s'era accesa e presto spenta sulle coste di Sardegna, le cose della Corsica non passavano quietamente: la perdita medesima dell'impresa di Cagliari diede fomento a coloro che, scontenti del governo di Francia, macchinavano di rivolgere lo Stato. Mosso dall'odio antico e dalle ingiurie recenti, andava Paoli sollevando ed armando le popolazioni, massimamente ne' luoghi montuosi ed inaccessi. Al qual disegno gli preparavano la strada la chiarezza del suo nome, la venerazione in cui lo avevano i Corsi, le esorbitanze dei repubblicani. E le sue esortazioni producevano un effetto incredibile. I montanari, mossi alle voce del mantenitore della libertà corsa, calavano in folla, pronti a combattere sotto le sue insegne contro gl'intemperanti repubblicani. Le stesse città principali di Corte e di Aiaccio, mutato l'ordine pubblico, accettavano il nuovo governo, rivocavano dal consesso nazionale di Francia i loro deputati, chiamavan o Paoli generalissimo delle genti, ribandivano i fuorusciti, restituivano il clero nella pristina condizione, e, fatto un grosso di mille dugento soldati bene armati, s'impadronivano delle riposte pubbliche, ed assaltavano le genti della repubblica. I soldati repubblicani, sorpresi da tanto tumulto e ad impeto tanto improvviso, fatto prima un poco di testa nei luoghi più forti, si ritirarono nelle fortezze di Bastia e di San Fiorenzo. Era sorta intanto la guerra tra la Gran Bretagna e la Francia, accidente di sì supremo momento per ambe le parti. Ne pigliavano nuovi spiriti quei Corsi che aderivano a Paoli e detestavano il nome di Francia. Intanto, per dar forma al governo nuovo e ricompor quello che il disordine dei popoli tumultuanti aveva scomposto, Paoli aveva adunato una consulta che, procedendo secondo i tempi, gli conferiva potestà di fare quanto credesse necessario alla conservazione della libertà ed alla salute del popolo. Nel tempo medesimo bandiva, sotto pena di morte, i commissarii di Francia, Casabianca, Saliceti ed Arena. Il consesso nazionale, udite queste novità, risentitamente deliberando decretava, essere cassa la consulta di Corsica, si arrestasse Paoli e si conducesse alla sbarra dell'assemblea, fossero Casabianca, Saliceti ed Arena investiti di qualunque suprema facoltà per rinstaurar lo Stato e castigar i ribelli; il general Lacombe Saint-Michel contro i ribelli marciasse. Obbediva Lacombe; nel medesimo tempo i commissarii del consesso fulminavano con gli scritti e con le parole contro Paoli e contro coloro che a lui si aderivano. Aggiungevano alle esortazioni, che ai Corsi dirigevano, parole terribili e gonfie, secondo il solito, minacciando castigo inevitabile, e confische, e morti a chi contrastasse. Raggranellati quei Corsi che per un motivo o per l'altro tenevano per Francia, ed adunati, come meglio potè, i suoi soldati, Lacombe era uscito dai forti; dall'altra parte, insisteva Paoli colle genti collettizie. Ne sorgeva tra quelle rupi una guerra minuta e feroce; ne' giusti incontri prevalendo le genti disciplinate di Lacombe, nella guerra sparsa vantaggiando le genti di Paoli; e se non pareva che fosse possibile che i Franzesi sforzassero i Corsi nei luoghi alpestri, non si vedeva dall'altro canto come i Corsi potessero sforzare i Franzesi, forti per disciplina e per artiglierie, nelle pianure e nelle terre che occupavano sul lido. Mentre in cotal modo le sorti della Corsica pendevano incerte, si scopersero improvvisamente sulle sue coste più di venti navi inglesi da guerra, le quali faceveno opera per intraprendere quelle che si avviavano all'isola. Poscia, appoco appoco accostatesi al lido, infestavano con bombe e con palle i luoghi che Paoli assaltava dalla parte di terra; poste anche sul lido alcune genti, ed unite con le schiere di Paoli, rendevano molto difficile la difesa a' Franzesi. Per la qual cosa Lacombe, abbandonata l'isola, si ritirava a Genova sul principiare di maggio. Rimanevano in mano dei Franzesi, Bastia, Calvi e San Fiorenzo, ma non soprastettero ad entrare sotto le devozione del vincitore. Così tutta la Corsica, dopo di aver obbedito al freno di Francia per lo spazio di venticinque anni, venne, non saprebbesi dire se in potestà propria o in potestà dell'Inghilterra. Cacciati i Franzesi dall'isola, vi fu creato un governo per mezzo di provvisione che intieramente dipendeva da Paoli e dalla parte contraria alla Francia; l'autorità dei municipii fu ordinata secondo le forme antiche. Paoli si accorgeva che questa condizione, siccome transitoria, poteva terminarsi in molte maniere; però desiderava di stringere, sì per fare un destino certo alla sua patria, e sì ancora per metterla in grado di resistere ai tentativi della Francia sì vicina e sì potente. Da un altro lato era pensiero dell'Inghilterra, per le medesime ragioni, e per avere un piè fermo nell'isola, tanto opportuna a' suoi traffici, a' suoi arsenali ed alla sua potenza, che si venisse ad un partito determinativo. A questo fine Paoli applicò l'animo a sollecitare il re della Gran Bretagna, acciocchè, ordinato un governo libero in Corsica, ne pigliasse protezione, e il difendesse dagli assalti della Francia: gratissimo suono all'Inghilterra. Da questo seguitarono gli accidenti che si vedranno nell'anno seguente. La guerra sorta coll'Inghilterra e colla Spagna e le armate loro che erano giunte, o frappoco si attendevano nel Mediterraneo, erano occasione di molesti pensieri ai Franzesi che occupavano la contea di Nizza; laonde Brunet, che a quel tempo l'esercito in questi luoghi governava, si risolvette a tentare qualche impresa di momento prima che i confederati si fossero fatti forti nei mari vicini. Il fine di questo moto era di cacciare i Piemontesi, dalle sommità e prender per sè quei vantaggio che allora si trovava in mano del nemico. Partitosi adunque sul principiar di maggio dalla Scarena, si dirizzava verso i monti. E, siccome l'esercito piemontese era padrone di tutte le creste, così gli fu d'uopo dividere le sue genti in moltiplici assalti. Erano i Piemontesi sotto la condotta dei generali Colli e Dellera; siccome avevano avuto intesa della mossa del nemico, così se ne stavano apparecchiati per ributtarlo. Adunque, preparati gli uomini e le armi dall'una parte e dall'altra, andavano, il dì 8 giugno, i Franzesi all'assalto con un valore e con una furia incredibile; nè la difficoltà dei luoghi, nè il calore della stagione, che era smisurato, nè la tempesta di palle che fioccavano loro addosso, non li poterono rattenere che non giungessero fin sotto le trincee, colle quali sul sommo dei gioghi si erano i Piemontesi fortificati. Tanto fu l'impeto loro, che tutti i posti furono sforzati, salvo quello di Raus, sotto il quale si combatteva ostinatissimamente. Arrivarono i repubblicani con un'audacia inestimabile fin sotto le bocche delle artiglierie italiane; ma quanti arrivavano, tanti erano uccisi. Continuò la battaglia con molto valore da ambe le parti con poco danno dei Piemontesi e con gravissimo danno dei Franzesi, i quali rinfrescando continuamente con nuovi rinforzi i combattenti, sostenevano quel duro scontro; ma in questo punto i capi regii, veduta l'ostinazione del nemico, mandarono al capitano Zin piantasse le artiglierie in un giogo vicino, e di là lo fulminasse sul fianco. Il quale consiglio, opportuno per sè, fu con tanta arte e con sì gran valore eseguito da Zin, che percossi i repubblicani di costa, e raffrenata la temerità loro, abbandonarono precipitosamente l'impresa, ritirandosi e lasciando i fianchi di quelle montagne miseramente cospersi dei cadaveri de' compagni loro. In questo fatto mostrarono i Franzesi il solito valore impetuoso e sconsiderato; i Piemontesi, massimamente gli artiglieri ed il reggimento provinciale di Acqui, che difendea le trincee di Raus, arte e costanza. Perdettero i primi in questo fatto meglio di quattrocento buoni soldati tra morti, feriti e prigionieri; negli altri assalti dati in questo medesimo giorno circa trecento. Ne perdettero i secondi in tutta la giornata circa trecento con due cannoni e molti arnesi da guerra. Ma tale era l'importanza del colle di Raus, che i repubblicani, non isbigottiti all'infelice successo della battaglia dell'8, lo assaltarono di nuovo il dì 12 dello stesso mese con ben dodici mila soldati risolutissimi a voler vincere. Ma nè il numero, nè il valor loro poterono operar tanto che non fossero una seconda volta con gravissima perdita risospinti. Così fu conservato in poter dei Piemontesi il forte posto di Raus, dal quale intieramente pendevano gli accidenti della guerra in quelle parti. La fazione tanto sanguinosa di Raus aveva singolarmente raffrenato l'audacia de' repubblicani e dato occasione agli alleati di sollevar l'animo a più alte imprese. Se ne fecero allegrezze in Piemonte, e si argomentava che la fuga di Savoia e di Nizza dalla mala condotta de' capi, non da mancanza di valore ne' soldati si doveva riconoscere. Da un altro lato i repubblicani accusarono i capi loro di tradimento. Kellerman, avute le novelle de' fatti avversi accaduti nell'Alpi marittime, si era condotto a Nizza per sopravveder le cose, e per mettere in opera que' rimedii che i tempi richiedessero. Il pericolo maggiore era quello che l'esercito alleato, facendo punta verso il Varo, si ficcasse in mezzo, nel qual caso sarebbe stato forza evacuare prestamente tutta la contea. Considerato bene il tutto, fe' munire accuratamente i posti che accennavano sulla estremità dell'ala sinistra dell'esercito dell'Alpi marittime; e ciò col fine di tener aperte le strade a poter comunicare con le genti che tenevano il campo di Tornus, per mezzo delle alture della Tinea, e nel tempo medesimo di stare all'erta ed in buona guardia di quanto potesse sopraggiungere dalla valle di Stura, per qualche passo de' gioghi sommi che coronano le Alpi da quelle parti, e soprattutto dal colle delle Finestre, pel quale il varco è molto più agevole. A riscontro Colli e Dellera avevano fortificato di vantaggio e munito di genti fresche il colle di Raus, sul quale insisteva l'ala dritta dell'esercito loro, e distendendosi su per quelle cime fino al forte di Saorgio, avevano speranza non solamente di resistere, ma ancora di conseguire qualche onorata vittoria. L'arrivo delle armate inglesi nel Mediterraneo, dando maggior animo agli Stati d'Italia che già si erano dichiarati, diede anche occasione di manifestarsi a coloro che, più per timore che per desiderio di neutralità, se n'erano stati fino allora ad osservare. Per la qual cosa il re di Napoli, scoprendosi intieramente, chiudeva i porti a' Franzesi, e si obbligava a fornire alla lega di sei mila soldati, con grosse navi da guerra e molte minori. Il papa medesimamente, che aveva causa particolare di temere de' Franzesi, armava e prometteva di dar gente; ma Venezia, Genova e Toscana persistevano nella neutralità. Però gl'Inglesi, per farle venire ad una deliberazione terminativa, aggiunsero alla presenza delle navi i negoziati politici; mostrarono in questi trattati, massimamente con Genova e Toscana, tanta arroganza, che già fin d'allora ebbe l'Italia un saggio, e potè prendere augurio di quello che i forastieri le preparavano. Un Harvey, ministro d'Inghilterra a Firenze, scriveva a Seristori, ministro del granduca, dopo un superbo preambolo: sapesse il granduca che l'ammiraglio Hood avea comandato che un'armata inglese con una parte della spagnuola sarebbero venute a Livorno per vedere quello che sua altezza volesse farsi; sapesse inoltre sua altezza, e ciò l'Harvey dichiarare per bocca dell'ammiraglio Hood e in nome del re suo signore, che se in termine di dodici ore ella non aveva cacciato da' suoi Stati De La Flotte, ministro di Francia, e gli altri suoi aderenti, l'armata avrebbe assaltato Livorno. Badasse bene sua altezza a quello che si facesse, poichè solo mezzo di prevenire l'inimicizia d'Inghilterra era di eseguire puntualmente e subito quanto ora le si domandava, cioè cacciasse La Flotte, e con quel governo regicida di Francia rompesse; facesse causa cogli alleati. Con tanta insolenza Harvey favellava ad un sovrano indipendente, ad un principe di casa austriaca; con altrettanta rimproverava ad altrui un Inglese di aver ucciso un re. Rispose assai rimessamente Seristori che il granduca aveva dato ordine che De La Flotte ed i suoi aderenti, fra cui Chauvelin e Fougère, se ne partissero di Toscana il più presto che fosse possibile; ma non si scoprì quanto allo accostarsi alla lega ed al romper guerra alla Francia. Le stesse minacce furono fatte e nel medesimo tempo dal ministro inglese Drake ai Genovesi; ed alle minacciose ed inconvenienti parole si aggiunsero fatti più minacciosi e più inconvenienti ancora. Imperciocchè, trovandosi la fregata franzese la Modesta a stanziare nel porto di Genova, fu improvvisamente assalita da due navi inglesi, che le si erano a questo fine poste a lato, e presa con uccisione di non pochi marineri che vi si trovarono a bordo. Parve a tutti questo fatto, com'era veramente, di pessimo esempio; e se prima si temevano le insolenze franzesi in uno stato così vicino, ora più si temevano per la violata neutralità. In fatti non così tosto si ebbe a Nizza notizia di questo attentato che i rappresentanti del popolo, Robespierre giovane e Ricard, pubblicarono uno sdegnosissimo scritto che conchiudeva che Genova si risolvesse incontanente a voler essere o amica degli amici o nemica de' nemici della società oltraggiata nelle persone de' repubblicani franzesi; protestavano poscia al popolo genovese che se il senato tardasse a risolversi ed a punire con giusto ed esemplare castigo gli autori di un delitto commesso nel suo porto e sotto le bocche delle sue artiglierie, sarebbe stimato ostilità, e la repubblica avrebbe di per sè fatto quanto crederebbe necessario per vendicarsi di una sì orribile violenza. Le medesime acerbe parole fece poco tempo dopo Robespierre maggiore contro Genova, favellando alla tribuna del consesso nazionale; e così il governo di Genova, stretto da due necessità, non sapeva a qual partito appigliarsi. Pure, siccome il non risolversi era peggio che risolversi, tutto bene ponderato, il senato deliberò di starsene neutrale, aggiungendo in risposta, che molto gl'incresceva di non poter deliberare altrimenti, ma che la necessità dei tempi non ammetteva altra risoluzione. Quanto poi al fatto della Modesta, se ne stette sui generali. Il senato veneziano fu nuovamente tentato a questi tempi. Era residente in Venezia per parte dell'Inghilterra il cavaliere Worsley, personaggio non tanto rotto quanto Hervey e Drake, ma pure intentissimo a procurare gl'interessi dei confederati. Questi, o fosse la natura sua più temperata, o comando del re, che portasse maggior rispetto a Venezia più potente, che a Toscana ed a Genova più deboli, fece modestamente le sue rappresentanze al senato, favellando piuttosto per modo di consiglio che di richiesta. Pregava pertanto ed esortava caldamente il senato che fosse contento di allontanare da Venezia quella occasione di scandali, quella sentina di mali, quella radice di corruttele dell'ambasceria franzese. Concludeva che se il senato consentisse a licenziare l'ambasceria, e se vietasse ai Franzesi le tratte d'armi e di vettovaglie dagli Stati della repubblica, sarebbero gli alleati contenti, che nel resto conservasse la sua neutralità, e che, in caso di guerra dalla parte di Francia, se gli assicurerebbero gli Stati con tutte le forze della lega; che già fin d'allora gli si offerivano le armate d'Inghilterra e di Spagna, ordinate di modo che ne fossero preservati da ogni insulto. Queste parole terminò dicendo, porgere lui alla repubblica da parte del re suo signore, che glielo comandò di bocca propria; porgerle per mandato del ministro Pitt; porgerle ancora per mandato espresso dell'imperatrice di tutte le Russie, dell'imperatore d'Austria e del re di Prussia. Si riscuotesse adunque e prendesse quelle deliberazioni che a tempi tanto pericolosi, a richieste tanto efficaci, ad offerte tanto generose ed alla salute stessa della repubblica si convenivano. Il senato veneziano, non mai solito ad appigliarsi a partiti precipitosi, e credendo che la forza della Francia, quantunque disordinata per la discordia, fosse formidabile per la rabbia, e capace di fare qualche sbocco in Italia, volendo altresì conservare salvi i traffichi di mare, rispose gravemente, voler serbare intera la neutralità, non poter risolversi a licenziare lo incaricato d'affari di Francia Jacob, ma che solamente il chiamerebbe incaricato della nazione franzese, non della repubblica. Worsley non fece altra dimostrazione e continuò a starsene a Venezia, dove continuamente biasimava i discorsi superbi di Harvey e di Drake al granduca ed a Genova. La cupidità del gran mastro dell'ordine di Malta alla guerra non essendo più raffrenata dal timore dei Franzesi a cagione dell'intervento degl'Inglesi nel Mediterraneo, prese animo di manifestare più apertamente quello che già da lungo tempo sentiva rispetto agli affari di Francia; imperciocchè, recandosi in ciò esortatore il re di Napoli, aveva comandato, che tutti gli agenti franzesi se ne uscissero dall'isola e che i porti fossero chiusi a qualunque nave franzese sì pubblica che privata, finchè durasse la presente guerra: pubblicato inoltre che non sarebbe mai per accettare ad incaricato d'affari chiunque a lui si mandasse da quella repubblica, ch'ei non doveva, nè poteva, nè voleva conoscere. In cotal modo, essendo sorta la guerra tra la Francia e l'Inghilterra e, comparse le armate inglesi nel Mediterraneo, si ravvivavano le speranze dell'Austria e della Sardegna in Italia, furono serrati ai Franzesi tutti i porti del Mediterraneo e dell'Adriatico, salvo i Veneziani ed i Genovesi, si aggiunsero alle forze della lega quelle della Chiesa e di Napoli, e l'aspettazione degli uomini divenne tanto maggiore quanto più vedevano che se dall'un dei lati si era cresciuta nuova forza ai confederati, dall'altro cresceva a proporzione la concitazione ed il furore in Francia. Oggimai si aprivano le occasioni agli accidenti importanti, ai quali da lungo tempo tendevano i consigli dei confederati rispetto alle provincie meridionali della Francia. La cacciata fatta dal consesso nazionale e la proscrizione della setta girondina, come la chiamavano, diè cagione a coloro che la seguitavano ed a coloro che od amavano la libertà, conculcata dagli sfrenati giacobini, o s'intendevano con gli alleati per rinstaurare il governo regio, di collegarsi, di correre all'armi, e di far tumulti e sollevazioni. Già le città di Bordò, di Mompellieri e di Nimes tumultuando mostravano con quanto sdegno avessero ricevuto le novelle del cacciamento dei deputati loro: ma l'importanza del fatto consisteva nella grossa città di Lione, che era stata la mira di tutte le pratiche segrete tenute già da qualche tempo tra i capi della lega a Torino ed i capi degli scontenti. Congiuntisi nelle sue mura Biroteau ed alcuni altri capi dei girondini di minor nome con Precy, commossero alle armi tutta la città e pubblicarono manifesti contro la tirannide del consesso nazionale. Non è di questi Annali il narrare particolarmente l'oppugnazione di Lione, che poco tempo dopo seguì, e che fu uno dei fatti più memorabili di quest'anno, sì pel valore e la ostinazione d'ambe le parti, e sì per l'immanità dei vincitori. Ma come prima i Lionesi erano insorti contro l'autorità di chi reggeva, i Marsigliesi si erano levati ancor essi a rumore. Impazienti di starsene chiusi fra le mura, e raccolti sotto le insegne in numero assai notabile, si dirizzarono al soccorso di Lione. Non avevano i Lionesi trovato nei popoli circonvicini quell'aderenza che avevano sperato; e i Marsigliesi vantavansi di esser capaci da sè soli di vincer la impresa e di salvar Lione. In fatti già avevano varcato il fiume Duranza, e con ischiamazzo infinito erano entrati in Avignone; e quivi commesso ogni male, già si avviavano verso le regioni superiori del Rodano. Nel tempo medesimo s'incominciavano a colorire i disegni degli alleati. I Piemontesi congiunti con qualche nervo di Austriaci, erano calati grossi dal monte Cenisio e dal piccolo San Bernardo a fine d'invadere la Morienna e la Tarantasia; anzi una parte di quelli che scendevano dall'ultimo dei detti monti, avuto il passo per le terre del Vallese, si drizzavano ad occupare il Faussigny col pensiero di fare spalla all'impresa di Tarantasia e di rannodarsi verso la terra di Conflans, per quindi marciare, se la fortuna si mostrasse a tale segno favorevole, sino a Lione. Tutte queste genti militavano sotto il governo del duca di Monferrato, figliuolo del re, principe ottimo per mente e per costume e molto amato dai popoli per la natura sua facile e mansueta. Dall'altra parte il re di Sardegna si era condotto col grosso dell'esercito nella contea di Nizza, molto confidente di avere a conseguir presto, con ricuperar un paese amato sopra tutti e che gli era stato occupato da un nemico odiatissimo, una piena e gloriosa vittoria. Era suo intendimento di calarsi per le sponde del Varo a fine di obbligare i Franzesi ad evacuar la contea, o di tagliarli fuori dalla Provenza se non l'evacuassero. Aveva il re compagno a questa impresa il duca d'Aosta, suo figliuolo secondogenito, principe molto ardente in questo bisogno contro chi allora signoreggiava la Francia e che sempre aveva dimostrato pensieri alieni dalla pace. Questo era il principale sforzo che i confederati volevano fare; e così quel nembo che poco innanzi pareva dovesse tutto scagliarsi contro la Italia dalla Francia, ora si rivoltava contra la Francia dall'Italia. Udite tutte queste cose, Kellerman accorreva prestamente in Savoia, dove venuto al campo dei suoi, posto all'ospedale presso Conflans, alloggio principalissimo in quelle circostanze, ebbe con la sua presenza e con le sue esortazioni tanto inanimato i soldati che si mostrarono prontissimi a mettersi a qualunque pericolo anzichè abbandonare il luogo commesso alla fede loro. Nel tempo stesso fe' venire dal campo di Tornus una grossa schiera, in gran parte di buona ed audace gente; e stantechè il pericolo era oltre ogni dire grave, aveva, costretto dall'estrema necessità, chiamato dal campo di Lione un'altra squadra e mandata nel Faussigny, che si trovava del tutto privo di difensori. A questo si aggiunse ch'ei fece la chiamata alle guardie nazionali della Savoia e del dipartimento vicino dell'Isero, acciocchè facendo un po' di retroguardo agli stanziali, dessero loro coraggio e potessero, in caso d'infortunio, ristorar la fortuna della guerra. Per maggior sicurezza ordinava che si facessero trincee al passo di Barreaux, molto importante alla sicurtà del Delfinato, e che si munissero di artiglierie, avvisando che con quel sospetto da fianco, gl'Italiani non si sarebbero arditi di correre fino a Lione. Egli poi, a motivo di poter sopravvedere bene le cose, si venne a porre al castello delle Marcie, luogo centrale a cui accennavano le tre divisioni delle sue genti. Dall'altro lato e più sotto Kellerman avea spedito con tutta celerità il generale Carteau con un buon nervo di gente, ordinandogli riacquistasse il passo di Santo Spirito, cacciasse i Marsigliesi da Avignone, gli rincacciasse sulla riva sinistra della Durunza, non passasse il fiume, solo attendesse a proibire al nemico lo scorrazzare sulla destra. Ma Carteau varcava, e fu salute mentre doveasene attendere la rovina; imperciocchè i Marsigliesi, invece di assaltarlo e buttarlo nel fiume, cosa agevole, si diedero disordinatamente alla fuga. Carteau, usando l'occasione, voltossi con tutte le sue forze contro Aix, di cui s'impadronì; poi, senza frappor tempo in mezzo, marciò contro Marsiglia, capo e fomite principale di quella guerra; o tanto fu il terrore concetto dai Marsigliesi, che, fatta niuna difesa della città loro, la diedero in mano del vincitore. L'infelice Marsiglia, pagando troppo fiero scotto della sua imprudenza, fu posta miserabilmente a sacco, e vi furono commesse opere al tutto degne di quei tempi ferocissimi. La presa di Marsiglia nocque ai Lionesi che per questa cagione si trovarono soli esposti a tutto lo sforzo dei repubblicani; ma le immanità commessevi giovarono ai disegni della lega in Provenza; poichè per iscamparne, Tolone udì con maggiore inclinazione le proposte degli alleati, e diede sè ed il porto in mano dell'ammiraglio d'Inghilterra Hood, desiderando che l'autorità del re Luigi si restituisse e la costituzione dell'89 si accettasse. I repubblicani già tanto feroci vieppiù s'inferocirono all'accidente di Tolone. Esortazioni ardenti, minacce precipitose posero in opera per far correre i popoli al riscatto. Nè fu l'effetto minore dell'intento; perchè, tra soldati bene ordinati e gente tumultuaria, s'adunò tosto intorno alle mura di Tolone un esercito giusto di circa quaranta mila soldati. Dalla parte loro gli alleati vollero confermar con la forza quello che la fortuna aveva loro conceduto. Spagnuoli, Napolitani e Piemontesi furono portati a presidiare i forti di Tolone; gli altri potentati d'Italia li fornivano di vettovaglie; il papa stesso somministrava armi e munizioni. Così con grandissimo ardore si combatteva sotto le mura di Lione e di Tolone, nelle montagne della Savoia e di Nizza. Non indugiò molto spazio la fortuna a mostrare a qual parte volesse inclinare. I Piemontesi calati dal Cenisio e dal San Bernardo vincevano, e se si fossero spinti avanti con quella celerità che i tempi richiedevano, avrebbero acquistato una compiuta vittoria. Ma se ne stettero a soprastare; l'indugio diè comodità agli avversarii di rannodarsi ed ai popoli di aiutarli. Kellerman li ricacciò di posto in posto, sì che in fine si ritirarono al San Bernardo, da dove un mese prima erano discesi con tanta speranza di vittoria. Rimaneva pei repubblicani che i regi si cacciassero dalla Morienna, e Kellerman colle sue disposizioni vinse anche questo punto, perchè l'esercito del re, pressato da ogni banda, si ritirò ordinatamente al Cenisio. Tale fu l'esito dell'assalto dato alla Savoia dalle genti del re di Sardegna nell'autunno di quest'anno, e per tale modo fu esclusa la lega dalle sue speranze in queste parti; che se il disegno dei confederati fosse riuscito, e Lione liberato, totale sarebbe stata la mutazione delle cose d'Europa. Ma intanto i miseri Lionesi, udita la ritirata dell'esercito e, privi di quest'ultima speranza, furono costretti a rimettersi in potere dei repubblicani. Il mondo sa con quale immanità sia stata trattata quella città sì nobile e sì generosa. Dall'altra parte e nel medesimo tempo in cui i Piemontesi assaltavano la Savoia, s'erano mossi con forte apparato contro Nizza. Da principio la fortuna si mostrava loro favorevole; ma, arrivati a Giletta, e assaltato il dì 18 ottobre con grande impeto il ponte, furono duramente risospinti, e con perdita sì grave che questo fatto, giunto alle sinistre novelle che si ebbero in quel punto di Savoia e di Lione, terminò la guerra di quest'anno in quelle parti. Intanto sempre più si stringeva l'oppugnazione di Tolone, alla quale era concorso l'esercito vincitore di Lione e la guernigione di Valenciennes, piazza forte in Fiandra che gli alleati avevano espugnato. Già parecchie onorate fazioni si erano combattute con varia fortuna nelle quali mostrarono ambe le parti quanto potesse il valore congiunto con l'odio, e quanto a ciascuna premesse il conservare o l'acquistare una piazza di tanto rilievo. Eransi posti gl'Inglesi a presidiare i forti rizzati sulla stanca, i Piemontesi stavano a guardia sulla dritta. Gli oppugnatori s'erano accampati per modo che Dugommier, generalissimo, avesse carico di far forza verso occidente, Lapoype assaltasse verso levante, e parte di queste genti, stanziando principalmente alla Valletta, si distendesse sì verso mezzo giorno che una corona di schiere armate e di cannoni cingeva Tolone tutto all'intorno. L'importanza della difesa dal canto degli alleati consisteva nel forte Malbousquet fidato alla guardia degl'Inglesi e nel ridotto da questi fatto vicino al forte. Ma i Franzesi già s'erano impadroniti delle eminenze opposte al forte ed al ridotto; e preso anche per assalto il forte dei Pommets, da tutti tali punti con numerose artiglierie continuamente infestavano gl'Inglesi. Ohara, generalissimo d'Inghilterra, veduto che il nemico dal suo posto sopraeminente al Malbousquet non solo infestava il forte, ma, poste le artiglierie in luogo molto opportuno, per opera massimamente del luogotenente colonnello d'artiglieria Bonaparte, giovane di virile spirito, arrivava coi tiri insino all'arsenale; e prevedendo che se non si cacciavano da quel nido i Franzesi, bisognava pensar ad altro che a stare a Tolone, sì deliberò di dar loro l'assalto. Ed, uscito il 3 di novembre con sei mila soldati, la fortuna fu loro sul primo incominciare seconda. Ma all'avviso di tanto sinistro accorso Dugommier con un grosso di soldati agguerritissimi, cacciò gl'Inglesi in fuga manifesta e con tanta foga, che i vincitori non si arrestarono se non se alle palizzate del forte Malbousquet, e stette per poco che non vi entrassero alla mescolata coi vinti. Fu in questo incontro gravemente ferito e fatto prigioniero Ohara ch'era accorso per rannodare i suoi. Questa fazione tanto sanguinosa diede molto a pensare agli alleati, non li lasciando senza timore sull'esito della guerra accesa sotto le mura di Tolone; e i repubblicani, mostrandosi pronti a mettersi ad ogni più grave pericolo per conquistar quella città: si risolveva Dugommier a dar l'assalto da tutte le bande. Adunque, posta essendo ogni cosa in pronto, il dì 14 dicembre i Franzesi si avviavano all'assalto. Gli alleati, che sapevano che da quel fatto doveva risultare non solo la conservazione o la perdita di Tolone, ma ancora la riputazione delle armi e l'acquisto d'Italia, con grandissimo ardire gli aspettavano. Feroce fu l'assalto, feroce la difesa; la fortuna si mescolò spesso col valore; ora prevaleva la furia al coraggio, ora il coraggio alla furia; ora la sicurità dei luoghi faceva inclinare le sorti a favore degli assaltatori, ora l'audacia, per verità non credibile se non fosse vera, le voltava a favor degli assaltatori: stette un pezzo dubbia la battaglia; già le difese erano lacere dall'un canto, già dall'altro i gioghi dei monti ed i parapetti delle batterie inglesi apparivano cospersi di cadaveri franzesi, e nonostante non cessava l'ostinazione delle parti; che anzi i sangui che ribollivano rendevano gli uomini più accaniti e continuamente si dava mano al tuonare, al ributtare, al ferire da presso e da lontano. Prevalse la fortuna di Francia; i forti tutti caddero in mano dei repubblicani. L'espugnazione de' forti rendeva impossibile agli alleati il tenere più lungamente Tolone: conciossiachè i repubblicani potevano fulminarvi dentro, e spazzando i due seni sperperare all'estremo le flotte confederate. Deliberaronsi a vuotare; ma prima vollero fare tutto quel maggior male che poterono. Posto mano adunque alle faci, appiccarono il fuoco alle navi che non potevano trasportare con loro ed a tutte le opere preziose di marineria di cui Tolone abbondava. In questo Sidney Smith, uomo più atto alle imprese rischievoli che alle grandi, con molta industria ed attività si adoperava. Ardevano le navi, ardevano le armerie, ardevano gli arsenali; nella città medesima le case ardevano. Breve ora distruggeva opere, cui l'industria umana aveva penato lungo tempo a compire. Ma compassionevole spettacolo era quello de' Tolonesi, i quali costretti ad abbandonare la patria loro per non cader nelle mani di gente sdegnata, accorrevano in tutta fretta alle navi, conducendo con esso loro le donne, i fanciulli, e le suppellettili più preziose che in tanto precipizio avevano potuto raccorre. Tra questi alcuni annegavano per la fretta, altri erano straziati dalle artiglierie de' loro compatriotti o da quelle degl'Inglesi. Così tra il fuoco, il fumo, il tuonare, lo scompiglio delle navi che andavano e venivano, le minaccie de' soldati da terra che fuggivano, lo strepito de' soldati da mare che volevano metter ordine e regola dov'era disordine e confusione, le grida disperate di coloro che si spatriavano, era un dolore, un terrore, una miseria che si possono meglio con la mente immaginare che con le parole descrivere. Dieci mila Tolonesi, disperando della pietà del vincitore, accettato l'esilio, si ricoveravano alle navi, non sapendo nè dove nè quando avessero a terminarsi le miserie loro. Tre giorni e tre notti durò la lagrimevole tragedia. Finalmente le flotte confederate, tirandosi dietro le navi rapite di Francia, i giorni 18 e 19 dicembre si ricoverarono nelle vicine isole Iere, che sono le antiche Stecadi. Il giorno 20 poi, e poichè tutti si erano ridotti a salvamento, vuotato il forte Lamalgue che ne avea protetto la ritirata, lasciarono la misera terra intieramente a discrezione de' repubblicani: entraronvi fieri e minacciosi. Arsero nell'incendio tolonese acceso dagl'Inglesi quindici navi grosse di fila; arsero sei fregate, con molti altri legni minori. Rapirono e s'appropriarono gli Inglesi la grossissima nave di cento venti cannoni chiamata il Commercio di Marsiglia, col Pompeo ed il Potente, l'uno e l'altro di settantaquattro, e con le fregate la Perla, l'Aretusa, l'Aurora, il Topazzo e non pochi altri legni minori. I Sardi se ne portarono la fregata l'Alceste; i Napolitani il brigantino l'Imbroglio, gli Spagnuoli la piccola Aurora, esile preda a comparazione di quella d'Inghilterra. Queste furono le spoglie di Tolone rapite dagli alleati. E non era poco per l'Inghilterra l'aver distrutto il navilio di una nazione emula, che ai tempi floridi aveva combattuto con lei dell'imperio dei mari, e che tuttavia avrebbe potuto tener in pendente la fortuna del Mediterraneo. Così perì Tolone, città nobile e ricca, e sede principale della marineria franzese. I rappresentanti del popolo, Barras, Freron, Robespierre giovane e Saliceti scrissero il dì 21 dicembre al consesso nazionale, essere Tolone in potestà della repubblica. Anno di CRISTO MDCCXCIV. Indiz. XII. PIO VI papa 20. FRANCESCO II imperadore 3. L'infelice riuscita delle due imprese di Lione e di Tolone, la cattiva prova fatta dai Marsigliesi, e la poca dipendenza che trovavano nelle regioni del Rodano superiore i seguaci del re, dimostrarono ai confederati quanto fosse fallace l'opinione di aver nella popolazione e nella efficacia del nome reale un principale appoggio ai disegni che si avevano posto in mente di voler mandare ad esecuzione. Però si persuasero facilmente che non nelle parole ma nei fatti, non nelle armi altrui ma nelle proprie dovevano fondare le loro speranze. Tal era diventato l'ardore degli animi in Francia, e tanto vi erano le menti stravolte, che il parlar loro in nome del re, il che era cagione una volta che obbedissero volonterosamente, ora a maggior disubbidienza li concitasse. E siccome era divenuto necessario che si cambiassero i mezzi di far loro guerra, così ancora si vedeva che si dovevano cambiar i fini della medesima: poichè se gridare il nome del re, in vece di giovare, nuoceva, era vano il conquistar le terre in nome di lui. Ciò diè maggior ragionevolezza al conquistare per sè. Pareva necessario torre per la risecazione di territorii forza ad una nazione potente per sè stessa, potentissima per concitazione. Questi pensieri si rivolgevano per la mente de' confederati, i quali finalmente vennero in questa risoluzione, che quello che in Francia si conquistasse, con certe condizioni si serbasse. Così la guerra, che prima era solamente politica, cambiava di natura diventando guerra politica e territoriale. Per tali condizioni dopo molti e lunghi negoziati fu concluso in Valenciennes il dì 21 di maggio del presente anno tra l'Austria e la Sardegna un trattato, nel quale inoltre prometteva il re di fare ogni maggiore sforzo e dal canto suo prometteva l'imperatore di mandar in Italia il più gran numero di genti potesse, oltre le ausiliarie che fin dal principio della guerra aveva mandato a congiungersi con l'esercito reale in Piemonte; che i due eserciti unitamente e coi medesimi consigli combattessero; che quello del re intendesse specialmente alla difesa dei monti e dei passi tanto verso la Savoia, quanto verso il contado di Nizza; che le genti imperiali non si spartissero in piccole schiere, ma stessero congiunte in grosso corpo, sempre pronto ad operare fortemente e ad assaltare, congiuntosi con l'esercito regio, il nemico ove questi arrivasse ad aprirsi il varco in Piemonte; e che finalmente il medesimo esercito imperiale mettesse mano per prima cosa e innanzi che si conducesse in Piemonte, ad arrestar il nemico sulla riviera di Genova, affine di guarentire ed assicurare il Milanese; fosse il barone Devins generalissimo tanto di questo corpo di truppe imperiali, quanto di quello che già militava in Piemonte; avesse l'arciduca governator generale della Lombardia austriaca facoltà di trattare ed accordare immediatamente tutto quanto all'esecuzione del presente trattato si appartenesse, e di spiegare ogni cosa e di rimuovere gli ostacoli che fossero per difficoltare la impresa. I Franzesi i quali per la propagazione delle opinioni loro avevano entrature segrete nelle pratiche più recondite dei principi, avevano subodorato quello di che si trattava, e però si deliberarono di prevenire con la solita celerità ed impeto le risoluzioni degli alleati. Adunque prima che la stagione diventasse più benigna, e che il nemico si fosse svegliato alle difese, i generali repubblicani, tanto quelli che reggevano le genti adunate nella Savoia e nel Delfinato, quanto quelli che custodivano la contea di Nizza, si deliberarono di fare uno sforzo contemporaneo contro i luoghi occupati dai regii su tutta la fronte, principiando dal piccolo San Bernardo insino alla costiera del Mediterraneo. Ma siccome era d'uopo dall'un dei lati assalire i posti occupati dal nemico, dall'altro entrare nel territorio d'una potenza neutrale, così là usarono le armi e qua le persuasioni; le une e le altre mezzi ugualmente efficaci per arrivare ai fini loro. Abbiamo già raccontato con quanto sdegno fossero state ricevute dal governo franzese le novelle dell'attentato commesso dagl'Inglesi contro i Franzesi nel porto di Genova, e le minacce con le quali ei proruppe non solamente contro gl'Inglesi per aver fatto, ma ancora contro il governo genovese per aver lasciato fare. La repubblica di Genova si era composta per questo fatto in quattro milioni di tornesi. Così sedate le ire e restituita la buona amicizia fra le due repubbliche, volendo i Franzesi usare le opportunità del territorio genovese per assaltare gli Stati del re, cercarono di coonestare il disegno loro con un adeguato manifesto, scritto da Nizza, il dì 30 marzo, dai rappresentanti del popolo Robespierre giovane, Ricard e Saliceti. Alle benigne parole succedevano ben tosto apparati terribili. Erano i Franzesi ragunati in numero di ben sedici mila, sotto la condotta del generale Dumorbion, verso il principio di aprile, nel territorio di Mentone, città del principato di Monaco, vicina all'estremo confine del genovesato; e non volendo più porre tempo in mezzo a colorire i disegni loro, mandarono la notte del 6 dello stesso mese il generale Arena a Ventimiglia, dicendo al governatore che la Francia chiedeva che le si consentisse il passo, che l'esercito della repubblica già si avvicinava, che presto comparirebbe sotto le mura di Ventimiglia. A queste intimazioni rispondeva il governatore Spinola, protestando della violata neutralità; ma vano era il protestare contro una risoluzione irrevocabile presa da chi più poteva. Compariva per la prima volta il dì 6 aprile sul territorio italiano l'esercito repubblicano di Francia in aspetto squallido e misero, ma con sembiante magnanimo e quale si conviene ai vincitori. Precedeva Arena con la vanguardia, a cui teneva dietro col retroguardo il generale Massena, destinato a sollevarsi da' più bassi gradi della milizia ai più sublimi, ed a divenir uno dei più periti e famosi capitani che abbiano acquistato nome nelle storie. Occupata la città di Ventimiglia, i repubblicani, per viemmeglio assicurarsi, posero un presidio nel castello; al quale atto, essendo piuttosto da nemico che da amico, ed oltrepassando i limiti del passo, caldamente, ma invano, s'era opposto il governatore genovese; ma avendone poscia fatto forti querele coi rappresentanti Robespierre e Salicetti, ritirossene il presidio franzese, lasciando di nuovo il castello in potere dei Genovesi. Intanto, proseguendo i Franzesi l'impresa loro, una parte, voltatasi alla sinistra, s'impossessava del marchesato di Dolceacqua, cacciatone un picciol presidio piemontese che vi stava a guardia, l'altra, marciando sul litorale, s'incamminava alla volta di San Remo col pensiero di andar ad occupare Oneglia; il che era il principal fine di questa fazione. Al tempo medesimo un'altra grossa schiera, salendo per quei monti alti e dirupati, aveva cacciato i Piemontesi dal colle delle Forche, ed anche occupato le vicine alture di Dolceacqua, per le quali si apre una strada, quantunque molto stretta ed alpestre, verso Saorgio. Nè contenti a questo i Franzesi, muovendosi sulla stanca di Nizza, si erano fatti padroni di tutti i posti fin oltre Breglio, i quali erano come i primi propugnacoli a guarentire la importante fortezza di Saorgio. Lo stesso colle di Raus, dove le genti regie avevano, non era ancora scorso un anno, combattendo con molto valore, acquistato una gloriosa vittoria, veniva in poter dei vincitori, per modo che Saorgio, perdute tutte le difese esteriori, si trovava esposto ad essere assalito da vicino. Nonostante, essendo forte per natura e per arte, assai ardua fatica sarebbe riuscita ai repubblicani quella d'impadronirsene per oppugnazione, con assaltarlo da fronte. Mentre in tale guisa stava Saorgio in grave pericolo, marciavano i repubblicani sul lido verso Oneglia. Era Oneglia un posto di non poca importanza; annidavano in quel porto corsari arditissimi che interrompevano i traffichi di mare con grave danno dei Franzesi alloggiati in Nizza, che niun altro mezzo avevano di vettovagliarsi se non per le navi genovesi che loro portavano i frumenti. Oltre a questo, la strada non era nè lunga nè difficile per andar ad assaltare Ormea e Garessio, terre grosse, per le quali si apre l'adito alle pianure del Piemonte. Finalmente era Oneglia il solo spiraglio che fosse rimasto al re di Sardegna a poter comunicare prontamente e sicuramente coll'Inghilterra, massimamente con le flotte inglesi, che già erano, o fra breve si aspettavano nelle acque del Mediterraneo. Sapevano queste cose coloro che reggevano le armi regie, e perciò avevano risoluto di fare una testa grossa sulle alture di Sant'Agata. Radunato tutto quel maggior numero di genti che per loro si poteva in tanta pressa, e poste le artiglierie nei luoghi più opportuni, aspettavano con animo costante l'affronto. Ma nè il numero dei soldati, nè i provvedimenti militari erano tali, che potessero arrestare il corso ad un nemico che sopravanzava per la moltitudine ed era fatto più audace per le vittorie. La battaglia fu aspra. I Franzesi, partiti da San Remo, ed occupato Porto Maurizio, salivano all'erta di Sant'Agata con ardore inestimabile; non meno forte fu la resistenza dei Piemontesi, massime delle artiglierie, le quali, traendo a punto fermo, facevano una strage incredibile nelle file dei Franzesi. Questi, veduto il danno, e stimando che nissun altro modo avevano di espugnare quel forte posto, che la celerità, spintisi avanti prontissimamente, e condotti alcuni pezzi di artiglierie minute in luoghi prima creduti inaccessibili, e traendo a scheggie contro i Piemontesi, che ancor essi fulminavano nella stessa forma, tanto fecero che questi, soppressati dal numero, e sorpresi all'ardire del nemico, si ritirarono non senza qualche disordine da quel sito eminente, che con molto valore avevano difeso. Poscia, squadronatisi di nuovo, si ridussero al ponte di Nava, lasciando Oneglia, che più non si poteva difendere, aperta all'impeto del vincitore. Gli abitatori, mossi dal romore delle armi, e nei quali la ricordanza delle uccisioni e dei saccheggi fatti ai tempi di Truguet aveva messo un grandissimo spavento, lasciata la città abbandonata e deserta, si erano ritirati ai luoghi alpestri e chiusi. Vi entrarono i repubblicani; e qui, per fare testimonianza al vero, è debito raccontare come, modestamente governandosi, e' si astennero dal por mano nelle sostanze altrui, portarono rispetto alle cose sacre, e nissun segno dando nè della petulanza repubblicana, nè dell'insolenza militare, acquistarono nome d'uomini moderati e civili. La qual cosa tanto è più da notarsi, quanti a quei tempi in Francia correvano esempi degni di ogni più truculenta barbarie, ed essi medesimi si trovarono all'estremo di ogni fornimento al vivere umano necessario. Trovarono in Oneglia dodici bocche da fuoco, magazzini pieni di vettovaglia, bestie da soma a poter servire ai bisogni loro in quelle guerre alpestri. Pubblicarono che i fuggitivi si ripatriassero sotto pena di confisca, promettendo a tutti che tornassero intiera sicurezza nelle persone e nelle proprietà. Nè contenti alla possessione di Oneglia, spedivano una squadriglia di soldati ad impossessarsi di Loano, terra anch'essa con piccolo porto situata in su quella marina ed appartenente al re di Sardegna. Quantunque questa fazione fosse di importanza per le bisogna loro verso il mare, non bastava però a compire l'altro disegno d'impadronirsi dei sommi gioghi dei monti: s'accorgevano che insino a tanto che quelle altissime cime fossero in mano dei regi, e massime il ponte di Nava, passo forte, al quale si erano attestati con munirlo di trincee e di artiglierie, e cui erano accorsi a difendere quindici centinaia di Austriaci, la vittoria conseguita non avrebbe avuto il suo compimento. Massena, già vincitore di Santa Agata e di Oneglia, fu destinato a questa fazione. Andò all'assalto del ponte di Nava con otto mila soldati scelti, e tanto e così subito fu l'impeto loro, che nè i luoghi oltre ogni dire difficili, nè le trincee fatte dai regi, nè le artiglierie loro governate con molta maestria poterono operare che i repubblicani non riuscissero vincitori. Massena, per non dar respitto, e per far parere la cosa più grave ancora che non era, mandò fuori un bando coi soliti blandimenti e minaccie. Superato il ponte di Nava, corsero i repubblicani contro il borgo di Ormea, che, abbandonato dai difensori, venne in potere degli assalitori, colle artiglierie grosse e minute e colle munizioni da guerra e da bocca; gran quantità di panni singolarmente utili al vestire dei soldati; undici centinaia di prigionieri resero più cospicua questa vittoria. Seguitarono Garessio e Bagnasco la fortuna del vincitore, sicchè altro impedimento non restava a superarsi dai repubblicani, ormai penetrati nella valle del Tanaro, perchè non si spandessero nel Piemonte, che la fortezza di Ceva, alla quale fecero la intimazione. Il generale Argenteau, che la governava, rispose volerla difendere sino all'estremo. I Franzesi, conquistata Oneglia ed i luoghi importanti pe' quali potevano andar a ferire il cuore del Piemonte, pensarono ad assicurarsi di altri posti di uguale momento, sì per dar timore da diverse parti al nemico, e sì per assicurarsi la possessione di quello che già avevano conquistato. Nel che mostrarono tanta perizia nelle cose militari e tanto ardimento, che l'Europa ne restò piena di maraviglia e di terrore. Imperciocchè non solo fu loro d'uopo combattere con soldati valorosi, ma ancora con le nevi, coi ghiacci, con le rupi, coi precipizii, in tempi asprissimi per la stagione. Opera non solo ardua, ma impossibile, si credeva quella di superare il piccolo San Bernardo, non che ai tempi invernali, nella stagione propizia. Ma non si ristettero gli audaci repubblicani: prima del terminar d'aprile, il generale Bagdelone, dopo di avere serenato due giorni sulle nevi delle più alte cime de' monti, con soldati disposti a morire di disagio, non che di ferite, piuttosto che non arrivare ai fini loro, assaltò improvvisamente tre forti ridotti che i Piemontesi avevano costrutto sul monte Valesano a difesa del sommo giogo del San Bernardo, e dopo breve contrasto se ne impadroniva; quindi, voltate le artiglierie, ond'erano muniti, contro la cappella del San Bernardo, dove i regii avevano il campo più grosso, facevano le viste di fulminarla. Fu forza allora ai Piemontesi di ritirarsi, lasciando in mano de' nemici un sito che fu prima perduto che si pensasse di poterlo perdere. Nè i Franzesi arrestarono il corso loro; anzi, spingendosi avanti, cacciarono a furia i Piemontesi all'ingiù di quelle rupi fin più là della Tuile, della quale si impadronirono. Per questo moto fu messa in sentore tutta la valle d'Aosta, e già si temeva della capitale della provincia. In quel mentre accorse prontamente il duca di Monferrato, che, dopo di avere raccolte con sè tutte le milizie e tutte le genti regolari che in sì grave tumulto potè, e spintosi avanti, frenò il corso delle cose che precipitavano. Tentarono nel medesimo tempo e pei medesimi motivi i repubblicani parecchie altre fazioni nelle Alpi. Varcavano, non arrestati nè da' turbini nè dalle nevi altissime, il monte della Croce, e riuscendo all'improvviso sopra il forte di Mirabacco, difeso da pochi invalidi, se ne impadronirono facilmente. Poscia, scendendo per la valle di Lucerna, occuparono Bobbio ed altre terre superiori della medesima valle, minacciando Pinerolo di prossimo assalto. Ma anche qui si fecero dal governo le convenevoli provvisioni per modo che, assaliti valorosamente i Franzesi dai regii nella terra del Villars, furono costretti a ritirarsi ai sommi gioghi. Passato altresì il monte Ginevra, si calarono sino a Cesana, e s'insignorirono della grossa terra d'Oulx, dove posero una taglia enorme; ma dopo di avere presentito la fortezza d'Icilia, che si trovava munitissima, si ritirarono di nuovo ai luoghi alti e scoscesi, contenti all'aver romoreggiato con l'armi loro per quelle valli alpestri, ed all'aver fatto diversione efficace alla guerra di Oneglia. Colla medesima fortuna sforzarono il colle dell'Argentiera ed il passo delle Barricate, pel quale si apre l'adito nella valle della Stura. Fu questa fazione di non poca utilità alle genti di Francia, perchè per lei spianò la strada all'esercito d'Italia a potersi comunicare con quello delle Alpi. Il fatto d'armi di maggior rilievo, e per la sua grandezza e pel valore mostrato da ambe le parti, successe sulle altissime cime del monte Cenisio. Ne avevano i Piemontesi munito la eminenza con molte e grosse artiglierie e con trincee e con ridotti. Tre principalissimi massimamente parevano rendere sicuro quel passo, de' quali uno chiamato de' Rivetti guardava il borro a destra dell'eminenza; il secondo detto della Ramassa, e che stava in mezzo, s'affacciava alla salita della Ramassa, che è la strada solita a farsi dai viaggiatori; finalmente il terzo posto alla destra de' regii, il quale, avuto il nome di un valente generale italiano che militava ai soldi dell'Austria, chiamavasi ridotto di Strasoldo, aveva le bocche delle sue artiglierie volte verso una selva di spessi e folti virgulti che poteva da quella parte facilitare la salita agli assalitori. Erano tutti questi posti presidiati da soldati agguerriti e da cannonieri abilissimi. Tutti avevano gran fede nel barone Quinto, soldato di molto valore e di provata esperienza, che li comandava: così il luogo, l'arte ed il valore promettevano la vittoria. Ma i Franzesi, soliti a que' tempi a tentare piuttosto l'impossibile che il difficile, erano confidenti di riuscirne con vantaggio. Il generale Dumas, fatto convenire a Laneburgo una schiera di soldati pronti a mettersi a qualunque più pericoloso cimento, gli aveva provveduti di quanto era richiesto a far riuscire vittoriosa la repubblica da quel terribile incontro. Era corsa la stagione fin verso la metà di maggio: in sul finir del giorno, perciocchè splendeva la luna, givano i repubblicani all'assalto divisi in tre parti: Dumas medesimo per la strada maestra contro il ridotto della Ramassa; il capitano Cherbin addosso al ridotto de' Rivetti; Bagdelone per al ridotto Strasoldo. Non così tosto i regii si accorsero dell'approssimarsi del nemico, che diedero mano a trarre con l'artiglieria e con l'archibuseria. Ne nacque in mezzo a que' dirupi una battaglia orribile, resa ancor più spaventosa per l'ombre della notte che oscuravano le forre più basse, pel lume sinistro che spandevano ad ora ad ora le artiglierie, e per l'eco che in quelle cave montagne rispondeva orribilmente da vicino e da lontano al rimbombar loro così spesso e così strepitoso. I quali spavento e fracasso sempre più crescevano quanto più si avvicinavano i Franzesi ai ridotti regii; poichè, non isbigottiti punto dalla feroce difesa nè dal numero dei loro morti e feriti, sempre più s'accostavano, posponendo il non vincere al morire. Già si combatteva da vicino ai due ridotti de' Rivetti e della Ramassa, e pendeva dubbia la vittoria; con pari evento e valore si combatteva al ridotto di Strasoldo, nè si sapeva ancora a chi dovesse rimanere il dominio delle Alpi, quando Bagdelone con la sua squadra, uscito felicemente fuori da tutti gl'impedimenti, massime da alcuni luoghi precipitosi che gli si pararono davanti, strada facendo, si scoperse alle spalle del ridotto medesimo, e diè con questa ardentissima mossa principio alla vittoria de' suoi. Superato il ridotto Strasoldo, non vi era più speranza di poter conservare i Rivetti e la Ramassa. Furono pertanto abbandonati con molta fretta da' difensori, pressati impetuosamente da Cherbin e da Dumas, che già, prima della rotta de' regii a stanca, erano in procinto di entrare, superato ogni ostacolo, in que' forti. In cotal modo le difese rizzate sull'estremo confine d'Italia vennero in poter dei Franzesi, non senza però che il valore italiano avesse fatto di sè fierissima mostra. Questa vittoria riuscì ai repubblicani tanto utile e preziosa quanto era stata difficile e pericolosa. Per la subita ritirata dei regii, acquistarono i Franzesi tutte le artiglierie dei ridotti che erano fioritissime, con alcune altre che vicine stanziavano per gli scambii, molta moschetteria, e munizioni sì da guerra che da bocca in quantità considerabile. Morirono pochi, rispetto alle gravità del fatto, dall'una parte e dall'altra; circa otto cento prigionieri ornarono la vittoria dei repubblicani. Non fecero i Franzesi fine al perseguitare se non quando il nemico si fu ridotto a Susa. In tal modo la Ferriera e la Novalesa vennero a divozione dei repubblicani. Perduto il Cenisio, tutta la difesa del Piemonte per quella strada era ridotta nel forte della Brunetta, che fondato sul vivo macigno, e provveduto d'armi e di munizioni, era impossibile ad essere superato. Nè i Franzesi si attentarono di combatterlo; poichè, contenti all'essere divenuti signori del passo alpestre del Cenisio ed all'aver messo spavento coll'armi loro sulle rive della Dora riparia, nè essendo in numero sufficiente a poter tentare cosa di importanza più oltre la Novalesa, se ne stettero quieti aspettando quel che la fortuna si recasse avanti nelle altre parti dove ardeva la guerra. Dalla parte della Liguria non era compiuta la vittoria dei Franzesi, nè potevano impadronirsi della sommità delle Alpi, finchè restava sotto l'imperio del re la fortezza importante di Saorgio. Ma tal era il sito di lei, e così sicuro per arte e per natura il luogo dov'era fondata, che non potevano avere speranza di conquistarla per oppugnazione. Voltarono dunque il pensiero ad insignorirsene per assedio: al che per togliere ogni facilità, i capitani del re, e fra i primi Colli, avevano diligentemente fortificato le cime dei monti che dividono il Genovesato dalla valle della Roia, massime il passo principale di colle Ardente. Ivi si aspettava una sanguinosa battaglia. Infatti i Franzesi, dopo di essere stati respinti con molto valore in un primo incontro, si appresentarono alla batteria il dì 27 aprile, ed incominciarono un furiosissimo combattimento. Durò molte ore il conflitto; finalmente i Franzesi, spintisi avanti grossi ed impetuosi contro il ridotto di Felta, se ne impadronirono; la qual cosa fu occasione che tutti quei passi, e principalmente quello del colle Ardente, fossero ridotti in potestà loro. Morirono in questo fatto parecchi soldati di nome e di valore d'ambe le parte, e fra essi il capitano Maulandi, italiano, nel quale non saprebbe dirsi se fosse maggiore il valor militare, o la modestia civile, o l'amore dell'umanità, o l'ingegno, o la letteratura. La vittoria del colle Ardente diè campo ai Franzesi di calarsi per la via della Briga alle spalle di Saorgio sulla strada maestra che porta al colle di Tenda. Certamente essendo quel forte munitissimo, avrebbe potuto agevolmente difendersi insino a che la fame non costringesse il presidio a far quello a che la forza non l'avrebbe necessitato. Aveva Colli, ritirandosi più frettolosamente che poteva verso il colle di Tenda, ordinato al cavaliere di Sant'Amore, comandante della fortezza, resistesse più lungamente che potesse, e non cedesse la piazza se non quando se ne avesse avuto il comandamento da lui; perchè l'intento suo era di ritornare con maggior nervo di forze a soccorrerla. Ma il cavaliere, o che credesse nella occorrenza presente, e per lo effetto dell'essere i Franzesi calati sulla strada maestra tra Saorgio ed il colle di Tenda, fosse impossibile al Colli di mandargli avviso, o per altra meno nota cagione, la dette, con patto che fossero salve le sostanze e la vita, e sotto fede di restar prigioniero di guerra con tutti i suoi soldati. Condotto a Torino, e quivi processato in un con Mesmer comandante di Mirabocco, furono entrambi condannati a morte da un consiglio militare, e passati per l'armi sulla spianata della cittadella; col quale giudizio, se giusto, certamente anche rigoroso, volle il governo dar terrore ai novatori e credenza ai popoli, che il tradimento avea procurato la vittoria al nemico. Rimaneva ai Franzesi per compir l'opera che si impadronissero del colle di Tenda, sommo apice delle Alpi marittime; nè s'indugiarono a questa impresa, volendo prevalersi dello scompiglio dei regii e del favor della vittoria. Per la qual cosa, seguitando con celerità, assaltarono i Piemontesi che facevano le viste di voler difendere il colle; e con molta audacia e perizia occupando i Franzesi l'uno dopo l'altro i posti eminenti sulla faccia del monte, i Piemontesi, abbandonata dopo debole difesa la cresta in balia del nemico, si ritirarono a Limone, terra posta alle radici del colle dalla parte del Piemonte. Tutte queste fazioni, molto perniziose allo Stato del re, tanto maggior terrore creavano, quanto incominciavano a pullularvi in qualche parte le male erbe nate dai semi di Francia. Fecersi congiure contro lo Stato da uomini condotti da illusioni funeste, ma che niun mezzo avevano di arrivare ai fini loro. Presesi dei capi l'ultimo supplizio; degli altri si giudicò più rimessamente; moderazione degna di grandissima lode in mezzo a tanti sdegni ed a tanti terrori. Vittorio, perduta la metà degli Stati e le principali difese dell'Alpi, faceva continui provvedimenti per preservarsi dall'estrema rovina. Avendo fede nei sudditi, ordinò che tutti, di qualunque grado o condizione si fossero, purchè abili all'armi, avessero a procurarsi armi e munizioni sì da guerra che da bocca per giorni quattro, e si tenessero pronti a marciare al primo tocco di campana a martello; fossero retti e divisi in isquadroni da ufficiali di sperimentata capacità; se la spedizione più di quattro giorni durasse, somministrassersi munizioni dalle armerie, e viveri dai magazzini del regno; i nobili ed i facoltosi ne fornissero a chi ne mancasse; sostentasse il pubblico le famiglie degli accorsi, ove ne abbisognassero; gli ufficiali civili stessi, se il caso della mossa arrivasse, si unissero allo stormo; premierebbersi coloro che meglio avessero combattuto pel re e per la patria. Questo stormo non poteva esser di molto momento alla vittoria; che anzi avrebbe piuttosto potuto nuocere che giovare, se non fosse stato secondato da forti squadre di gente stanziale usa alle guerre ed ai pericoli. Per la qual cosa si provvedevano di nuove reclute i reggimenti sì stabili che provinciali; ma questi rimedii non bastando alla salute del regno, instantemente si ricercarono i generali austriaci che, fatti uscire dalle stanze invernali i soldati loro, prontamente verso il Piemonte che pericolava gl'indirizzassero. Il conte Oliviero Wallis, tenente maresciallo, preposto dall'imperatore a tutte le genti che avevano le stanze nel ducato di Milano, conformandosi alle richieste, mandò in Piemonte sollecitamente nell'aprile tutte quelle che avea disponibili, e che unite componevano un esercito di venti mila soldati. Si sperava di poter rintuzzare con queste l'audacia dei repubblicani, e di frenar l'impeto loro insino a tanto che un esercito ancor più forte accorresse di Germania in Piemonte, a norma del trattato di Valenciennes. Inoltre muniva il re di genti e di provvisioni fresche la Brunetta, Fenestrelle, Demonte, Ceva, Cuneo ed Alessandria. Perchè poi in tanto e sì straordinario bisogno non mancassero l'armi e le munizioni, nè potendo i mezzi ordinarii supplire, ordinava che si raccogliesse il salnitro in tutte le case di Torino, e si portassero alla zecca ed all'arsenale le campane non necessarie al culto. Pure il terrore era grande. I ricchi, massime i nobili, non quelli che militando seguivano le insegne reali, ma gli oziosi ed i cortigiani, si apparecchiavano, certo con poco generoso consiglio verso la patria loro, ad andarsene in paesi stranieri, con sè le cose più preziose trasportando. Per andar all'incontro delle ignominiose fughe, mandava fuori il re una legge che sotto pena di confiscazione di beni le proibiva, con questo altresì che i beni confiscati si incorporassero alla corona. Fu anche giudicato che, per prevenir le congiure, fosse necessario di soffocarne i semi e sbarbarne le radici. Perlochè si ordinava che fossero proibite tutte le adunanze segrete, anche le letterarie, ed anche i casini. Così in quell'estremo frangente si preparavano le armi, si spartivano i cittadini perchè non congiurassero, si univano perchè combattessero. Le fazioni tanto favorevoli ai Franzesi diedero molto a pensare ai governi italiani. Laonde il re di Napoli si risolveva a fare maggiori sforzi in favore dei confederati: indirizzava alla volta della Lombardia, parte per terra, parte per mare, dieciotto mila soldati tra fanti e cavalli, acciocchè fossero presti ai bisogni della lega. Per bastar poi al dispendio che sì considerabili apparecchiamenti richiedevano, aveva comandato pagassero i baroni, i nobili ed i ricchi cento venti mila ducati il mese; il restante, per non aggravare i popoli dell'inferior condizione, fornirebbe l'erario; pagassero i beni ecclesiastici una tassa del sette per centinaio; portassersi alla zecca gli ori e gli argenti delle chiese che non fossero necessarii al culto, obbligandosi il re a corrispondere un merito del tre e mezzo per centinaio del valore; alcuni ordini di frati si sopprimessero, e il patrimonio loro si assegnasse all'ospedale degl'incurabili. Erano pronte le genti a marciare verso l'Italia superiore, quando si scoperse la congiura di Napoli, che tendeva, siccome portò la fama, a cambiare il governo regio ed a fare una rivoluzione nel regno. Questo fatto grave in sè stesso, e reso ancor più grave dalle menti accendibili e tanto magnificatrici dei Napolitani, trattenne le truppe, proponendo il governo la salute propria a quella altrui. Si aggiunse che i corsari sì franzesi che algerini infestavano i litorali del regno, con rapire i bastimenti mercantili sul mare; gli ultimi a volta a volta sbarcavano anche sulle coste delle Calabrie per rubare, e per far peggio eziandio che rubare. Anche il pontefice che fra tutti i principi era forse quello che procedeva con più sincerità, faceva guerrieri provvedimenti. Presidiò con navi armate i porti del Mediterraneo, armò le fortezze, pose su' luoghi più sospetti del littorale sufficienti guardie, ordinò magazzini, ospedali e nuove regole per la milizia. In questi suoi pensieri dell'armare tanto più volentieri s'infiammava, quanto più sapeva essere i repubblicani molto sdegnati contro di lui per quel fatto enorme di Basseville, accaduto in Roma sull'entrare dell'anno precedente, e che abbiamo a suo luogo raccontato. Non così tosto pervennero in Venezia le novelle delle prime vittorie dei repubblicani sulle Alpi, e del loro ingresso nel territorio genovese, i capi del governo, veduto avvicinarsi il pericolo, tennero fra di loro molte consulte per deliberare quello che fosse a farsi in una occorrenza di tanta importanza, contendendo aspramente tra di loro le due parti contrarie, e quella, sostenuta dal procurator Pesaro, al quale si aggiunse il suo fratello Pietro, uomo anch'egli di molta autorità, che insisteva perchè la repubblica si armasse, e quella che credeva più pericoloso l'armarsi che il fidarsi. Sorse in senato un'aspra contesa, discrepando con parole veementi dalla volontà del Pesaro la parte contraria, nella quale mostravano maggior ardore Girolamo Giuliani, Antonio Ruzzini, Antonio Zeno, Zaccaria Valaresso, Francesco Battaglia, Alessandro Marcello primo, sclamando tutti che l'armarsi non era possibile, non a tempo, inutile. Dopo molte contese fu vinto il partito posto dal Pesaro con centodiciannove voti favorevoli e sessantasette contrarii. Decretossi, chiamassersi le truppe, sì a piedi che a cavallo, dalla Dalmazia, perchè venissero ad assicurare la terra ferma; le reclute degli Schiavoni si ordinassero, le cerne in Istria si levassero, le leve in terra ferma per riempiere i reggimenti italiani si facessero, le compagnie dalle quarantotto alle cento teste, quelle degli Schiavoni alle ottanta si accrescessero; finalmente l'erario con le tasse si riempisse. Volle inoltre il senato che si rendessero sicure con le navi della repubblica le navigazioni sul golfo infestato da corsari africani e franzesi. A questo modo aveva il senato prudentemente e fortemente deliberato. Ma i savii del consiglio, ai quali apparteneva l'esecuzione del partito vinto dal Pesaro, essendo la maggior parte di contraria sentenza, tanto fecero, scusandosi con la penuria delle finanze, che, eccettuata una massa di sette mila soldati, nissun effetto ebbe la deliberazione del senato, sclamando sempre in contrario il procurator Pesaro, e continuamente accusando in pubblico come in privato l'improvvidenza degli uomini ed il destino che perseguitava, senza che vi fosse speranza di salute, la sua diletta ed infelice patria. Intanto, come se le spie senza le armi valessero, aveva la repubblica mandato a Basilea il conte Rocco Sanfermo, acciò spiasse e mandasse quello che gli venisse fatto di scoprire in quella città finitima di Francia, ed in cui concorrevano, siccome in terra neutrale, amici e nemici di ogni sorta. Sanfermo, o che fosse spaventato egli, o che volesse spaventare gli altri, scriveva continui terrori a Venezia: d'un Gorani destinato dal governo di Francia ad essere stromento a far rivoluzione in Italia; poi certe ciance d'un Bacher, segretario della legazione franzese in Basilea; poi d'un Guistendoerffer, che da Parigi gli riferiva che la Francia faceva grandissimi disegni sulla Italia, che già vi aveva per oro intelligenze da per tutto, anche a Venezia, per modo che già erano a quei della salute pubblica obbligati personaggi di eminente condizione, e fra di loro alcuni de' destinati dal governo a sopravvedere ed a scoprire le trame di Francia; che Venezia non si assalirebbe, ma s'insidierebbe, perchè stimata nemica per queste e per queste altre ragioni. Le quali novelle, che avrebbero incoraggito per un generoso risentimento animi valorosi, intimorirono i molti, e furono cagione che le deliberazioni della repubblica in que' tempi difficili sentissero meglio di debolezza che di prudenza. Accrebbe le difficoltà una causa generosa. Erasi il conte di Provenza, fratello di Luigi XVI re di Francia, fuggendo il furore de' nemici della sua casa, riparato in Torino. Ma essendo i repubblicani, tanto avidi del suo sangue, comparsi prima sulle cime delle Alpi, poscia sull'aprirsi delle valli, e già insistendo sulle pianure del Piemonte in atto minaccievole, stimò bene di allontanarsi da quella tempesta, e di andarsene, fidandosi nella integrità del senato, a cercar asilo sulle terre della repubblica veneta. Seguitavano il principe, che sotto nome incognito si chiamava il conte di Lilla, parecchi fuorusciti di Francia, tra' quali principalmente si notavano il duca d'Avaray ed il conte d'Entraigues. Il senato veneto, pietosamente risguardando ad un tanto infortunio, sebbene presentisse le molestie che glie ne sarebbero venute da chi aveva la somma delle cose in Francia, accolse umanamente ne' suoi Stati il conte, solo desiderando ch'ei se ne vivesse privatamente, nè desse luogo di sospettare al governo di Francia con pratiche ch'ei poteva tentare se fosse stato in propria balìa posto, ma non doveva, trovandosi in grado di ospite in casa altrui. Ai desiderii del senato veneto si conformarono le intenzioni del conte di Provenza, il quale, in tanta depressione di fortuna, non solo serbò la costanza di uomo generoso, ma ancora si propose di non commettere atti, da' quali potessero seguir danno o pericolo agl'interessi altrui. Volle egli far la sua dimora in Verona; del quale desiderio essendo stato fatto consapevole il senato, mandava al suo rappresentante, trattasse il conte a quella guisa che ricercavano le sue virtù e la sventura da cui era combattuto: riconoscesse anche in lui ne' colloqui privati la altezza del grado; ma pubblicamente si astenesse dall'usare verso di lui di quegli atti, co' quali si sogliono riconoscere i principi. Nella quale emergenza il rappresentante con tanta destrezza si maneggiò, che ed il conte ne restò soddisfatto, e non diede fondati motivi al governo di Francia di querelarsi: il che però, siccome suole avvenire che i forti usano la vessazione come i deboli il sospetto, non impedì punto le querele nè in Francia, nè in Basilea, nè in Venezia da parte del robespierrano governo e de' suoi agenti; che se mai i Veneziani ebbero bisogno di destreggiarsi, che certo n'ebbero bisogno in ogni tempo, e sepperlo anche fare, certamente si fu nell'occorrenza presente. In somma usarono un atto molto pietoso, del quale con tanto maggior lode debbonsi riconoscere i popoli, quanto esso era anche pericoloso. Qual frutto ne abbiano conseguito, vedremo a suo tempo. La veneta repubblica non era ancora giunta agli affanni estremi. Era stato destinato dalla congregrazione della salute pubblica, con titolo d'inviato a Venezia, Lallemand, per lo innanzi console di Francia a Napoli. Scrivendo Giovanni Jacob, incaricato d'affari, uomo buono e molto dissimile da' tempi, al serenissimo principe il dì 13 novembre, manifestava che, per l'elezione del Lallemand, cessava il suo mandato. Furono in questo proposito molti e varii i dispareri nelle consulte venete, opinando alcuni che il nuovo ministro si accettasse, mantenendo altri la contraria sentenza. Instavano i ministri delle potenze estere acciocchè non si accettasse, allegando l'esempio del Noel, che poco tempo innanzi era stato rifiutato dalla repubblica. Prevalse l'opinione favorevole all'accettazione. Di tutti i governi d'Italia, nissuno, eccetto il piemontese, riceveva maggiori molestie del genovese, e nissuno ancora in mezzo a così estrema difficoltà dimostrò maggiore o dignità o costanza. Già abbiamo narrato il fatto della Modesta. Non omise la signoria di fare gravi risentimenti al governo inglese: fu risposto per i generali. Intanto ne successe un altro, che offese anche più direttamente la dignità e l'independenza dello Stato. Appresentavansi in cospetto della signoria Francesco Drake, ministro d'Inghilterra, e Don Giovacchino Moreno, almirante del re Cattolico, che con parte della sua flotta stanziava nel porlo di Genova, e con parole superbe e in termini eccessivi dettavano alla repubblica leggi contro la Francia, intimando in fine che, se non consentisse, chiuderebbero i suoi porti, impedirebbero ogni suo commercio con Francia e co' paesi da Francia occupati. Questa prepotenza inglese, dicesi inglese, perchè lo Spagnuolo, udite le rimostranze de' Genovesi, se n'era ritirato, tanto era più odiosa quanto Drake non aveva mandato di farla, ed obbediva meglio ad un furioso talento che ai comandamenti del suo governo. La signoria di Genova, serbata la dignità e non omesse le rimostranze, fece opera di mostrare al ministro del re Giorgio quanto lontane dal diritto fossero le sue deliberazioni, replicatamente e della libertà dell'onesto traffico e dell'indipendenza della nazione richiedendolo. Ma Drake, che meglio mirava all'utile o allo sdegno, che al giusto o alla temperanza, non volle punto piegarsi alle domande della repubblica, ed, abbandonando Genova, si ritrasse a Livorno, con aver prima dichiarato, essere i porti genovesi, massimamente quel di Genova, chiusi per entrata e per uscita, e che le navi che vi entrassero, o ne uscissero, sarebbero predate dagl'Inglesi e poste al fisco. Il fatto della Modesta, l'insolenza dell'assedio, il perseguitare le navi genovesi che entravano nel porto fin sotto il tiro delle artiglierie del molo avevano concitato a gravissimo sdegno quel popolo vivace ed animoso per modo che il nome inglese vi era divenuto odiosissimo, e quando gli uffiziali delle navi venivano in Genova per le bisogne loro, erano a furia di popolo insultati con parole e minacciati con fatti peggiori delle parole. Anzi usando i Genovesi di quei tempi di portare sui cappelli la nappa nera, che è pure l'insegna degl'Inglesi, uomini di ogni età e di ogni condizione sdegnosamente a chi la portava la laceravano, con ogni maniera di disprezzo e di furore calpestandola e vilipendendola. Le donne stesse, per l'ordinario lontane da queste improntitudini politiche, mosse dall'esempio comune, stracciavano le nappe e le schernivano con ogni strazio. Queste cose accadevano in Genova. Quando poi i Franzesi, passati i confini, erano venuti con l'esercito sulle terre della repubblica, crebbero a dismisura le molestie; perchè e Tilly, ministro di Francia, vieppiù imperversava, ed i zelatori dello stato nuovo s'accendevano. I consigli pensarono a' rimedii. Mandarono dicendo ai potentati d'Europa, essere seguita l'invasione non solo senza alcuna partecipazione loro, ma ancora contro la volontà espressa; e non mettessero punto in dubitazione, stessero pur confidenti che la repubblica, sempre consentanea a sè medesima ed al retto ed all'onesto, non sarebbe mai per dipartirsi da quanto la sincera neutralità e l'animo non inclinato nè a questa parte nè a quella richiedevano. Circa lo stato interno e la sicurezza della città, ordinavano le milizie cittadine, e chiamavano più grossi corpi di gente assoldata a stanziare nella capitale; munivano più acconciamente la fortezza di Savona, serravano la bottega di Morando speziale ch'era ritrovo consueto dei novatori più ardenti e più arditi. Tali erano le tribolazioni di Genova. S'aggiunsero altre non minori. Era, siccome si è narrato, venuta la Corsica in potestà degl'Inglesi. Hood ammiraglio, Elliot ministro plenipotenziario d'Inghilterra, Paoli generale di Corsica vollero temperare il dominio forastiero con qualche moderazione di leggi; modellarono una costituzione; mancava il consenso dei popoli; adunossi una dieta o congresso generale nella città di Corte; approvò la costituzione. L'ordinamento della Corsica disordinava Genova. Non così tosto Hood e Drake si rendettero sicuri della possessione dell'isola, che Paoli mandava fuori un manifesto di guerra in nome del governo e della nazione corsa contro la repubblica di Genova. Pubblicava, rammentate prima le ingiurie fatte ai Corsi dai Genovesi, che la Corsica intimava la guerra a Genova. Esortava quindi i Corsi, armassero navi in guerra, corressero contro i bastimenti genovesi; avessero gli armatori facoltà di appropriarsi non solo le navi genovesi, ma ancora, cosa certamente enorme, le merci genovesi che si trovassero a bordo di bastimenti neutrali; i Genovesi presi fossero condotti nell'isola come schiavi, e si condannassero a lavorar la terra; finalmente si pagassero cento scudi di premio per ogni capo di tali schiavi che fosse condotto a Bastia. Non è certo da maravigliare che Paoli, nemicissimo per natura ai Genovesi, e mosso dai risentimenti antichi, abbia dato in questi eccessi; ma che gl'Inglesi, signori allora di Corsica, che potevano in Paoli quel che volevano, e che erano, o si vantavano di essere civili ed umani uomini, gli abbiano tollerati, e forse instillati, con lasciar anche scrivere in fronte di un manifesto europeo le parole di schiavo e di schiavitù, niuno sarà che non condanni. Intanto arditissimi corsari corsi correvano il mare, e portando per insegna la testa di Moro coi quarti d'Inghilterra e con patenti spedite da Elliot, facevano danni incredibili al commercio genovese, e peggio ancora che il manifesto non portava. Finalmente udì l'Inghilterra le querele dell'innocente repubblica; ma insidiosa e non piena fu la riparazione. Ordinava che l'assedio di Genova si levasse; ma nel tempo stesso statuiva che i corsari corsi avessero facoltà di predare i bastimenti genovesi, o di qualunque nazione, che andassero o venissero dai porti di Francia, e le merci loro ponessero al fisco, e gli uomini non più come schiavi, ma come prigionieri di guerra si arrestassero, secondo l'uso delle nazioni civili. Pareva che la condizione di Genova con la Gran Bretagna fosse divenuta più tollerabile; al tempo stesso i termini in cui viveva colla Francia si miglioravano; perchè, morto Robespierre, era stato richiamato Tilly, mandandosi in iscambio un Villard, che più moderatamente procedeva. Ma la guerra non lasciava quietare la malarrivata Genova. L'accidente seguito della occupazione d'una parte della riviera di Ponente ed i progressi dei Franzesi insino a Finale, davano timore che potessero, per la via del Dego e del Cairo, sboccare in Piemonte. Per preservare questa provincia finchè giungessero le genti tedesche stipulate nel trattato di Valenciennes, tutte le truppe austriache, già chiamate, si adunavano nei contorni di Alessandria e di Acqui. Poscia, veduto che i Franzesi s'ingrossavano verso Loano e Finale, si riducevano più vicino. Sommavano a dodici mila combattenti tra fanti e cavalli: queste erano le squadre della vanguardia e del grosso dell'esercito; il retroguardo stanziava al Dego. Ivi avevano le artiglierie grosse, i magazzini ed i forni ad uso di spianar pane per tutto l'esercito. In questi posti attendevano ad affortificarsi con trincee e ridotti, massimamente al monte di Santa Lucia ed a levante di Vermezzano sopra la strada del Cairo, e finalmente su certe eminenze che dominavano la Bormida sopra la pescaia del Mulino. Oltre di ciò, alcuni reggimenti piemontesi che alloggiavano in un campo a Morozzo marciavano verso Millesimo col fine di congiungersi cogli Austriaci che difendevano il paese del Cairo. Dall'altra parte i Franzesi, udito di questo moto, ed avendo anche presentito che l'esercito imperiale si volesse impadronire improvvisamente di Savona, deliberarono di prevenire l'uno e l'altro con assaltare gli Austriaci nel loro campo di Dego. Perlochè l'esercito loro grosso di quindici mila combattenti, fatto uno sforzo, avea sloggiato la vanguardia austriaca da varii posti, seguitandola sino sulle alture che stanno a sopraccapo del Cairo, le quali occuparono, la notte del 20 settembre, principalmente quelle che signoreggiavano il castello. La quale cosa vedutasi dai generali austriaci Turcheim e Colloredo, prevalendosi dell'oscurità della notte, ritirarono le genti loro verso il campo di Dego. Avviarono altresì più dietro a Spigno l'artiglieria grossa, serbando con loro la leggiera ch'era fiorita e numerosa. Era il dì 21 settembre imminente una battaglia. La mattina molto per tempo avevano i generali austriaci ordinato le genti loro, partendole in due parti, delle quali una, ch'era l'antiguardo, occupava le alture del Colletto fino alla Bormida, seguitando pel Pianale sino a Montebrile sopra la valle di Carpezzo. Avanti al passo di Colletto, per cui si va a Rocchetta del Cairo, stavano, come guardia avanzata, una quadriglia di Ulani: il passo medesimo munivano due bocche da fuoco governate dai volontari. Al piano e verso il mezzo dell'antiguardo, trentasei pezzi di artiglieria guardavano il passo, sei sul monte Lucia, gli altri sulla ripa del fiume sopra il mulino. Il grosso della battaglia si distendeva dal monte del Bosco sopra Pollovero e le alture di Brovida. Un battaglione di Croati schierato sul monte Cerreto dava sicurezza all'ala sinistra; uno di cacciatori posto sul monte Vallaro alla destra. Wallis, supremo generale austriaco, arrivato al campo poco innanzi che incominciasse la battaglia, operò che alcuni battaglioni dell'antiguardo venissero a rinforzare il grosso dell'esercito, il quale finchè fosse intero, non avrebbe potuto il nemico avere vittoria. Stando le cose in questi termini dal canto degli Austriaci, ivano i Franzesi all'assalto condotti dal generalissimo Dumorbion, dai generali Massena e Laharpe, e dal generale di artiglieria Buonaparte. Erano le genti loro divise in tre schiere: la prima, seguitata da cinquecento soldati a cavallo, e passando per la strada alla Rocchetta del Cairo, andava ad assaltare gli Austriaci posti al Colletto. La seconda, passando pel convento di San Francesco del Cairo, assaltava i cacciatori che difendevano il monte Vailaro; poi, fatto un branco di sè, composto di valentissimi soldati, lo mandava contro il colle di Vignarolo, il quale superato, diveniva la strada più facile per superare anche quello del monte Vallaro. Era l'intento della terza, radendo i poggi che dominano la strada del Cairo e della Rocchetta, riuscire alla cresta sinistra del Colletto. Già la prima schiera, che era quella di mezzo, venuta per la Rocchetta, aveva costretto la guardia avanzata a cedere il passo, e bersagliava di fronte con grandissimo furore il posto del Colletto. A tanto assalto ad ora ad ora gli ordini degl'imperiali si rompevano, ma pel valore loro tosto si rannodavano: i due cannoni facevano grande strazio dei Franzesi. La seconda colonna, sforzato, non senza una valida resistenza degli Austriaci accorsi in aiuto del Pinale, il passo del Vignarolo, gli assaltava al monte Vallaro e sulle alture della Bormida, ed al primo tratto li disordinava; ma essendo venute in soccorso loro altre due squadre mandate dal Wallis, gli Austriaci, con nuova vigoria combattendo, fin oltre Vignarolo la ributtavano. La terza schiera, che costeggiava a sinistra i monti, trovato un corpo d'Austriaci che s'era posto in agguato nel castello rovinato della Rocchetta, e che ricevette in quel punto un rinforzo di genti fresche, fu anch'essa costretta a dare indietro. Così la vittoria sulle due ali inclinava a favor degl'imperiali; ma l'importanza del fatto consisteva nel posto del Colletto assaltato e difeso con mirabile costanza. Le fanterie dei Franzesi non avendo potuto sforzare questo passo, la cavalleria si fece avanti e diè per modo la carica alla cavalleria austriaca, ch'essa, non fatta lunga resistenza, si ritirava ordinatamente di là del Colletto, proteggendo anche la ritirata dei fanti, e conducendo seco i due cannoni; e ciò forse per allettare tanto la cavalleria dei repubblicani, che, condottasi nella valle di Pollovero, potesse essere bersagliata, con evidente vantaggio, di fianco e di fronte dalle batterie di Santa Lucia e del Pinale. Ma i Franzesi accortisi dell'insidia, non si avventurarono. Intanto gli Austriaci, o perduto per forza o abbandonato per arte il sito del Colletto, si ritirarono grossi e minacciosi ai loro sicuri ripari del monte di Santa Lucia e dell'argine del Mulino. Scesero i Franzesi dal Colletto nella pianura, e già si erano inoltrati, accostandosi il sole al suo tramontare, sin presso ai Zingani, sopra la foce del Pollovero, quando le batterie di Santa Lucia e del Pinale cominciarono a fulminarli con orribile fracasso. Dalla parte loro, anch'essi facevano ogni sforzo per superar quei passi: nel tempo medesimo si combatteva sulle due ali estreme dell'uno e dell'altro esercito. Nè fu fatto fine a tanta battaglia e strage se non quando, sopraggiunta la notte, i Franzesi furono forzati a ritornarsene oltre il Colletto, dond'erano venuti, per iscostarsi dall'impeto delle artiglierie d'Austria, che non cessavano di trarre. Perdettero in questo fatto i Franzesi meglio di seicento buoni soldati, gli Austriaci meglio di settecento, fra i quali alcuni uffiziali di nome. Sforzossi ciascuna delle parti di tirare a sè la fama della vittoria e dell'onore di questo giorno difficile ed importante; non ostante gli Austriaci, o che temessero che per le piene autunnali la Bormida interrompesse loro le strade a poter comunicare con Acqui, dov'erano le riposte dell'esercito, ovvero che avessero avuto avviso, come fu scritto, che un corpo franzese partito di Savona fosse per riuscir loro alle spalle, e per tal guisa mozzar loro la strada, la notte del 22, abbandonate lor forti posizioni, si ritirarono con tutte le bagaglie e con tutte le artiglierie in Acqui. Nel che si dee notare la falsità degli avvisi che ricevevano gli Austriaci; perchè e nissun corpo franzese era a quei giorni in Savona, e tutti i Franzesi eransi adunati per fare un grosso sforzo a Dego, e nissuna altra schiera notabile di loro si trovava da Nizza sino a Savona. Questa falsità di avvisi, quale ne fosse la cagione, operò molto efficacemente in tutti i fatti della presente guerra, e fece rovinare molte imprese dell'armi imperiali. Frattanto i Franzesi, temendo di qualche insidia, nè potendo recarsi a credere che gli avversarii si fossero ritirati, dubitando anzi di essere assaliti in sul far del giorno, molto posatamente e con ogni cautela entrarono nel Dego. Ma quando si accorsero che quello che non potevano sospettare era vero, vi si confermarono, e diedero mano a vuotare e trasportare ai luoghi sicuri della Liguria i magazzini dell'esercito tedesco, pieni di farine, avena, pane e strame. Nè contenti i repubblicani all'aver fatte proprie le sostanze del pubblico, diversamente da quello che in Oneglia avevano operato, infestarono quelle dei privati, saccheggiando le case di coloro che per timore le avevano abbandonate, consumando o disperdendo i vini ed ogni altra grascia o vettovaglia, ardendo la casa del feudatario, guastando le vigne portanti uve delicatissime, distruggendo una quantità di bestiame sì grosso che minuto, dimostrando in somma con ogni proceder loro quanto fossero dissomiglianti i fatti dalle parole, tristo presagio dei mali ancor più gravi che si preparavano all'infelice Italia. L'esercito di Francia, dimoratosi tre giorni sul territorio del Dego, si ritrasse poscia pel sospetto che gli davano le genti accorse dal campo di Morozzo, e pei tempi sinistri, nel Genovesato, dove si fortificava, principalmente a Vado, aspettando che la stagione nuova gli facesse facoltà di tentare fazioni di maggior momento. In mezzo a queste battaglie degli uomini, non vuolsi lasciare di far menzione della trentesima eruzione del Vesuvio, accaduta la sera del 15 giugno, violentissima e spaventosa, che colla lava rovinò quasi tutta la torre del Greco, e non poco danno recò a Resina, in tutto il paese sollevandosi all'altezza di venti in trenta piedi. Poche case rimasero intatte, e molte persone perirono. Anno di CRISTO MDCCXCV. Indiz. XIII. PIO VI papa 21. FRANCESCO II imperadore 4. Erasi la fortuna, sul finire del precedente anno, mostrata favorevole alle armi dei repubblicani non solamente dalla parte d'Italia, ma eziandio, e molto più, verso la Spagna, i Paesi Bassi e quella parte della Germania che si distende sulla riva sinistra del Reno: che anzi in questi ultimi paesi tanta era stata la prosperità loro, che, cacciati al tutto gli eserciti inglesi, olandesi, prussiani ed austriaci, si erano fatti padroni del Brabante, dell'Olanda e di tutta la Germania di là dal Reno, sì fattamente che, minacciando di varcar questo fiume, niuna cosa lasciavano sicura sulla destra sponda. Tante e così subite vittorie davano timore che la confederazione si potesse scompigliare, e che alcuno degli alleati pensasse ad inclinar l'animo ai Franzesi, anteponendo una pace qualunque ad una contesa molto incerta nell'esito. A questo si aggiungeva che il reggimento introdottosi in Francia dopo la morte di Robespierre mostrava e più moderazione verso i cittadini e maggior temperanza verso i forastieri; dannando le immanità dei governo precedente; protestando di non consentire a turbar la pace altrui se non quando altri turbasse la sua. Ogni cosa anzi inclinava ad un quieto e regolato vivere: solo dava fastidio quel nome di repubblica, che potea, col linguaggio che tenevano i Franzesi negli scritti e nelle parole, partorir col tempo variazioni d'importanza. Non ostante, essendosi le cose ridotte in Francia a maggior moderazione, si era il pericolo di presenti turbazioni allontanato, e si dubitava che cresciuto dall'un de' lati il terrore dell'armi franzesi, diminuito dall'altro il pericolo delle forsennate suggestioni, prevalesse in alcun membro della lega la volontà di procurar i proprii vantaggi con danno di tutti o di alcuno dei confederati. Massimamente non si stava senza apprensione che la Prussia facesse pensieri diversi dai comuni, e già se ne aveano alcuni segni, e quanto peso un tal caso fosse per arrecare nelle cose d'Europa, è facile vedersi da chi conosce e la sua potenza e la sede de' suoi reami. Si temeva pertanto che l'inverno, il quale, acquetando l'operare, risveglia il deliberare, potesse condurre qualche negoziato col fine di porre discordia nella lega, e che, ove la stagione propizia al guerreggiare fosse tornata, le armi dei Franzesi avessero a fare qualche grande impeto, con insinuarsi nelle viscere di uno o di più dei rimanenti alleati. Ma già aveano i Franzesi verso Germania acquistato quanto desideravano; perchè signori dell'Olanda, signori delle provincie germaniche poste di là dal Reno, a loro non rimaneva altra cagione di condursi a far guerra sulla sponda destra di quel fiume, se non quella di sforzare con continuate vittorie l'imperator d'Alemagna a conoscere la repubblica loro ed a concluder la pace con lei. Ma sarebbe stato il cammino lungo, e forse non sicuro; poichè l'Austria era sempre formidabile, massime se si venissero a toccare gli Stati ereditarii. Perlochè avvisavano potersi assaltare con minor pericolo e col medesimo frutto da un'altra parte. Quanto alla Spagna, i Franzesi non ponevano l'animo a volervi fare un'invasione d'importanza, sebbene se ne fossero aperta la strada; ed anzi credevano che, per costringerla alla pace, un romoreggiare sui confini bastasse. Inoltre, salito pel favor della regina ad immoderata potenza il duca d'Acudia, avvisavano i Franzesi, accortissimi nel pesare le condizioni delle corti straniere, che il duca pensasse piuttosto a solidare la sua autorità, allontanando, con un accordo, un pericolo gravissimo, che a mantenere la integrità della fama del nome spagnuolo e quanto richiedeva in quella occorrenza tristissima di tempi la dignità della corona di Spagna. Restava l'Italia, alla quale si prevedeva che si sarebbe, piuttosto che in altro luogo, voltato il corso delle armi franzesi: per questo avevano i repubblicani con infinito sforzo superate le cime delle Alpi e degli Apennini; per questo ordinato ai passi l'esercito vincitore di Tolone; per questo allettato con promesse e lusinghe il re di Sardegna; per questo adulato Genova, addormentato Venezia, convinto Toscana e turbato Napoli; per questo risarcivano a gran fretta i danni di Tolone, con crearvi un navilio capace ad operare con forza sulle acque del Mediterraneo; per questo stillavano continuamente nei consigli loro, come, quando, per quale via e con quali mezzi dovessero assaltar l'Italia. Era la penisola in quest'anno la principal mira dei disegni loro, perchè speravano, per la debolezza e disunione de' suoi principi, poterla correre a posta loro, perchè, malgrado delle funeste pruove fatte in ogni età, il correre questa provincia è sempre stato appetito principalissimo dei Franzesi. Conculcate poi l'armi austriache in lei, precorrendo la fama della conquista di una sì nobile regione, speravano che l'Austria spaventata calerebbe presto agli accordi. Sì fatti disegni, non solamente non celati, ma ancora manifestati espressamente, perchè meglio nascesse il timore, operavano in differenti guise nella mente de' principi italiani. Il re di Sardegna, ridotto in estremo pericolo, perduti oggimai i baloardi delle Alpi; e trovandosi con l'erario consumato da quell'abisso di guerra, aveva grandissima difficoltà del deliberare sì della pace che della guerra, se però non è più vero il dire che altro scampo più non avesse che aperto gli fosse, se non di pruovare se forse l'armi, che sempre sono soggette alla fortuna, avessero a portare nel prossimo anno accidenti per lui più favorevoli. Per la qual cosa deliberassi di non separare i suoi consigli da quelli de' confederati, e di continuare piuttosto nella amicizia austriaca già pruovata e consenziente alla natura del suo governo, che di darsi in braccio ad un'amicizia non pruovata e contraria ai principii della monarchia. Gli pareva anche odioso ed indegno del suo nome il rompere gli accordi di Valenciennes così freschi, e prima che si fosse sperimentato che valessero o non valessero alla salute del regno. Per verità, l'Austria, commossa dal pericolo imminente che i Franzesi, superate le Alpi ed annientata la potenza sarda, inondassero l'Italia, non differiva le provvisioni per procurar l'esecuzione de' patti di Valenciennes; perchè oramai non si trattava soltanto della salute d'un alleato, ma bensì della propria; laonde si dimostravano dalla parte della Germania ogni di più efficaci movimenti, le genti tedesche ingrossavano in Piemonte, e già componevano un esercito giusto e capace di tentare, unito al piemontese, fazioni di importanza. Adunque il re, posto dall'un de' lati ogni pensiero d'accordo con un nemico che più odiava ancora che temesse, allestiva con ogni diligenza l'armi, i soldati e le munizioni. Nè potendo lo Stato, e scemato di territorio e conculcato dalla guerra, sopperire al dispendio straordinario co' mezzi ordinarii, e trovandosi oppressato dalla necessità di danari, si diede opera a vendere, in virtù di una bolla pontificia, trenta milioni di beni della Chiesa; venderonsi i beni degli ospedali con dar in iscambio luoghi di monte; ponessi con accatto sforzato sulle professioni liberali; accrebbersi le gabelle del sale, del tabacco e della polvere da schioppo, ed ordinossi un balzello per capi. Le quali imposte, che dimostravano l'estremità del frangente, rendevano i popoli scontenti; ma però, gettando somme considerabili, aiutavano l'erario a pagar soldati, esploratori e il resto. Così tra le gravi tasse, le provvisioni straordinarie, le leve sforzate e il romore delle armi sì patrie che straniere, sospesi i popoli tra la speranza ed il timore, aspettavano con grandissima ansietà i casi avvenire. Le vittorie de' repubblicani sui monti, che davano probabilità ch'eglino avessero presto ad invadere l'Italia, confermando il consiglio de' savii in Venezia nella risoluzione presa di mantenere la repubblica neutrale e poco armata, avevano indotto al tempo medesimo il granduca di Toscana a far nuove deliberazioni, con trattar accordo con la repubblica franzese, e con tornarsene a quella condizione di neutralità, dalla quale sforzatamente, e solo coll'aver licenziato il ministro di Francia, s'era allontanato. Aveva sempre il granduca, in mezzo a tutti que' bollori, conservato l'animo pacato e lontano da quegli sdegni che oscuravano le menti rispetto alle cose di Francia; non già che egli approvasse le esorbitanze commesse in quel paese, che anzi le abborriva, ma avvisava che infino a tanto che i repubblicani si lacerassero fra di loro con le parole e coi fatti, avrebbero lasciato quietare altrui, e che il combatterli sarebbe stato cagione che si riunissero a danni di chi voleva essere più padrone in casa loro che essi medesimi. Ma poichè senza colpa sua, e pei cattivi consigli d'altri, i Franzesi, non che fossero vinti, avevano vinto altrui per modo che oramai questa sede d'Italia da tanti anni immune dagli strazii di guerra era vicina a sentire le sue percosse, pareva ragionevole che il granduca s'accostasse a quelle deliberazioni che i tempi richiedevano, e che erano conformi sì alla natura sua quieta e dolce, e si agl'interessi della Toscana. Oltre a ciò, il porto di Livorno era divenuto, poichè erano chiusi dalla guerra quei di Francia, di Genova e di Napoli, il principale emporio del commercio del Mediterraneo. Quivi gl'Inglesi concorrevano col loro numeroso navilio sì da guerra che da traffico; quivi i Franzesi ed i Genovesi, o sotto nome proprio o sotto nome di neutri, a fare i traffici loro, massimamente di frumenti, che trasportavano nelle provincie meridionali della Francia. Levavano gl'Inglesi grandissimi rumori per cagione di questi aiuti procurati dalla neutralità di Livorno; ma il granduca, preferendo gli interessi proprii a quelli d'altrui, non si lasciava svolgere, e sempre si dimostrava costante nel non voler serrare i porti ai repubblicani. Nè contento a questo, con molta temperanza procedendo, ordinava che fossero aperti i tribunali a' Franzesi, e venisse fatta loro buona e sincera giustizia, secondo il diritto e l'onesto. Avendo poi anche udito che alcuni falsavano la carta monetata di Francia, diede ordine acciò sì infame fraude cessasse, e ne fossero castigati gli autori; cosa tanto più laudabile che appunto nel medesimo tempo uomini perversi in paesi ricchissimi e potentissimi, per l'infame sete dell'oro, e forse per una sete ancor peggiore, compivano opera sì vituperosa, non nascostamente, ma apertamente. Così le mannaie uccidevano gli uomini a folla in Francia, così la guerra infuriava in Piemonte, così lo Stato incrudeliva in Napoli, così i falsari contaminavano la Inghilterra, mentre l'innocente Toscana ministrava giustizia a tutti, nè si piegava più da una parte che dall'altra. Ma, divenendo ogni ora più imminente il pericolo d'Italia, pensò il granduca che fosse oramai venuto il tempo di confessare apertamente quello che già eseguiva con tacita moderazione, sperando di meglio stabilire in tal modo la quiete e la sicurtà di Toscana. Per la qual cosa deliberossi al mandare un uomo apposta a Parigi, affinchè fra i due Stati si rinnovasse quella pace che più per forza che per deliberazione volontaria era stata interrotta. Molte furono le querele che si fecero in que' tempi di questa risoluzione, e della scelta del conte Carletti ad eseguirla destinato; ma il tempo non tardò a scoprire che quello che il granduca ebbe fatto per solo amore de' sudditi, il fecero altri principi assai più potenti di lui. Ma era fatale che in quella volubilità di governi franzesi quest'atto del granduca non preservasse la Toscana dalle calamità comuni, perchè vennero i tempi in cui la forza e la mala fede ebbero il predominio: l'innocenza divenne allettamento non scudo. Fecero i repubblicani al conte Carletti gratissime accoglienze sì per acquistar miglior fama e sì per allettar altri principi a negoziare con quel governo insolito e terribile. Debole era il granduca a comparazione di Francia; ma era pei Franzesi di non poco momento che un principe d'Europa riconoscesse quel loro nuovo reggimento, e concludesse un accordo con lui; perchè, superata quella prima ripugnanza, si doveva credere che altre potenze, seguitando l'esempio di Toscana, si sarebbero più facilmente condotte a fare accordo ancor esse. Perlochè fu udito con facili orecchie il conte a Parigi, ed appena introdotti i primi negoziati, fu concluso, il dì 9 febbraio, tra Francia e Toscana un trattato di pace e di amicizia, pel quale il granduca rivocava ogni atto di adesione, consenso od accessione che avesse potuto fare con la lega armata contro la repubblica franzese, e la neutralità della Toscana fu restituita a quelle condizioni in cui era il dì 8 ottobre del 1793. Giunte in Toscana le novelle della conclusione del trattato, si rallegrarono grandemente i popoli, massime i Livornesi, per l'abbondanza dei traffichi, e con somme lodi celebrarono la sapienza del granduca Ferdinando. Bandissi la pace con le solite forme, ma a suon di cannoni in Livorno in cospetto dell'armata inglese, che quivi aveva le sue stanze. Pubblicò Ferdinando un suo manifesto, conchiudendo volere ed ordinare che il trattato con Francia si eseguisse, e l'editto di neutralità, pubblicato nel 1778 dalla sapienza di Leopoldo, si osservasse. Perchè poi quello che la sapienza aveva accordato i buoni ufficii conservassero, chiamò Ferdinando il conte Carletti suo ministro plenipotenziario in Francia. Introdotto al cospetto del consesso nazionale, acconciamente orava; rispondeva il presidente con magnifico discorso; infine, perchè non mancasse alle lusinghevoli parole quel condimento dell'abbracciata fraterna, come la chiamavano, gridossi romorosamente l'abbracciata, e l'abbracciata fu fatta, plaudendo i circostanti. Andossene Carletti molto ben lodato ed accarezzato. Così verificossi con nuovo esempio l'indole dei tempi, che portava gioie corte e vane, dolori lunghi e veri. E poichè si hanno a raccontare dolci parole e tristi fatti, non è da passar sotto silenzio le dimostrazioni non dissimili con le quali si procedette col nobile Querini, destinato dalla repubblica veneziana ad inviato appresso al consesso nazionale di Francia. Avevano coloro che nei consigli di Venezia prevalevano sperato di solidar veppiù lo stato della repubblica col mandar a Parigi un personaggio d'importanza, acciocchè con la presenza e con la destrezza dimostrasse esser vera e sincera la determinazione del senato di volersene star neutrale. Perlochè, adunatosi il senato sul principiar di marzo, trasse inviato straordinario in Francia Alvise Querini, in cui non sapresti se stato sia maggiore o l'ingegno, o la pratica del mondo politico, o l'amore verso la sua patria; che certo tutte queste cose erano in lui grandissime. Adunque, arrivato Querini a Parigi, ed introdotto onoratamente al consesso nazionale, e vicino al seggio del presidente postosi, con bellissimo favellare disse, cittadino di una repubblica dai tempi antichissimi fondata per la necessità di fuggire i barbari e pel desiderio di vivere tranquilla, avere ora nuova cagione di gratitudine verso la sua patria per averlo destinato ministro appresso ad una repubblica che appena nata già riempiva il mondo colla fama delle sue vittorie. Qual cosa, in fatti, poter essere a lui più lusinghiera, quale più gioconda, di quella di comparire in cospetto del nazionale consesso di Francia a fine di confermar la amicizia che il senato e la repubblica di Venezia alla repubblica franzese portavano? Sperare la conservazione di questa antica amicizia: sperarla, desiderarla, volerla con tutto l'animo e con tutte le forze sue procurare, e stimarsene fortunatissimo; recarsi ancora a felicità sua, se, al mandato della sua cara patria adempiendo, meritasse che in lui avesse il consesso fede, e se conceduto gli fosse di vedere che il consesso medesimo, fatto maggiore di sè, e benignamente agli strazii dell'umanità risguardando, con generoso consiglio dimostrasse aver più cura della pace che della guerra, ed il frutto di tante vittorie aver ad essere il riposo di tutti. Orava in risposta il presidente dicendo, felicissimo essere alla repubblica franzese quel giorno in cui compariva avanti a sè l'inviato della illustre repubblica di Venezia; poter vedere il nobile Querini in volto ai circostanti i segni della contentezza comune; antica essere l'amicizia tra Francia e Venezia, ma anticamente aver vissuto la prima sotto la tirannide dei re, ora dover l'accordo esser più dolce, perchè libera dal giogo; avere avuto pari principio le due repubbliche: sorta la veneziana fra le tempeste del mare, fra le persecuzioni dei barbari; pure fra tanti pericoli avere acquistato onorato nome al mondo per la sua sapienza e pei suoi illustri fatti; avere spesso le querele dei re giudicato, spesso l'Occidente dai Barbari preservato: similmente sorta la Franzese fra le tempeste del mondo in soqquadro; gente più barbara dei Goti avere voluto distruggerla, usato fuori le armi, dentro le insidie, chiamato in aiuto la civile discordia, ma tutto stato essere indarno: la libertà avere vinto: non dubitasse pertanto Venezia, che siccome pari era il principio e pari l'effetto, così sarebbe pari l'amicizia; avere la generosa Venezia, allora quando ancora stava la gran lite in pendente, accolto l'inviato della franzese repubblica onorevolmente; volere la Francia grata riconoscere con procedere generoso un procedere generoso, e siccome la sua alleata non aveva dubitato di commettersi ad una fortuna ancor dubbia, così godrebbe sicuramente i frutti d'una fortuna certa: avere potuto la Francia, quando aveva il collo gravato dal giogo di un re, ingrata essere ed ingannatrice, ma la Francia libera, la Francia repubblicana riconoscente essere e leale, e con tanto miglior animo riconoscere l'obbligo, quanto il benefizio non era senza pericolo: andasse pur sicura Venezia e si confortasse che la nazione franzese nel numero de' suoi più puri, de' suoi più zelanti alleati sarebbe: quanto a lui, nobile Querini, se ne gisse pur contento che la franzese repubblica contentissima si reputava di averlo per ministro di una repubblica amica, e che di pari estimazione in Francia goderebbe di quella che già si era in Venezia acquistata; i desiderii di pace essere alle due repubbliche comuni; confidare, sarebbero presto con la quiete universale d'Europa adempiti. Per tal modo si vede che per testimonio del presidente Lareveillere-Lepaux, che orava, Venezia era generosa, libera, amica di Francia. Pure poco tempo dopo coloro che sottentrarono al governo ed un soldato la distrussero, chiamandola vile, schiava e perfida. Giunte a Venezia le novelle della cortese accoglienza fatta al Querini, si rallegrarono vieppiù coloro che avevano voluto fondar lo Stato piuttosto sulla fede di Francia che sull'armi domestiche, e si credettero di aver in tutto confermato lo impero della loro antica patria. Dalla parte d'Italia, dov'era accesa la guerra, incominciavano a manifestarsi i disegni dei Franzesi. Doleva loro l'acquisto fatto della Corsica dagl'Inglesi, e desideravano racquistarla. Oltre a ciò le genti accampate sulla riviera di Ponente travagliavano per una estrema carestia di vettovaglia; importava finalmente che il nome e la bandiera di Francia si mantenessero vivi nel Mediterraneo. Fu allestita con incredibile celerità a Tolone una armata di quindici grosse navi di fila con la solita accompagnatura delle fregate e di altri legni più sottili. Genti da sbarco e viveri in copia vi si ammassarono; usciva nei primi giorni di marzo, e postasi nelle acque delle isole Iere, aspettava che il vento spirasse favorevole all'esecuzione dei suoi pensieri. Il vice-ammiraglio inglese Hotham, che stava in sentore a Livorno con una armata in cui si noveravano quattordici grosse navi di fila, tutte inglesi, ed una napolitana, con tre fregate inglesi e due napolitane, avuto subitamente avviso dell'uscita dei Franzesi, pose tosto in alto per andar ad incontrare il nemico, e combatterlo ovunque il trovasse. Dall'altra parte, uditosi dall'ammiraglio franzese Martin, al quale obbediva l'armata, che gl'Inglesi solcavano il mare per combattere con lui, lasciate le onerarie all'isole Iere, sciolse animosamente le ancore ancor egli, risolutosi al commettere alla fortuna delle battaglie l'imperio del Mediterraneo. Incominciò a dimostrarsegli con lieto augurio la benignità della fortuna, perchè avendo l'Hotham, tosto che ebbe le novelle del salpar dei Franzesi, spedito ordine alla nave il Berwick, che stanziava a San Fiorenzo di Corsica, acciò con tutta celerità venisse a congiugnersi con lui verso il capo Corso, essa, abbattutasi per viaggio nell'armata franzese, fu fatta seguitare dal vascello ammiraglio il Sanculotto (con questi pazzi nomi chiamavano i Franzesi di quell'età le navi loro) e da tre fregate, per modo che, combattuta gagliardamente, fu costretta ad arrendersi in cospetto di tutta l'armata repubblicana, che veniva via a vele gonfie per secondare i suoi che già combattevano; sì mal concio però uscendo dal feroce contrasto il Sanculotto che ritirossi per forza nel porto di Genova e poco poscia in quello di Tolone. Intanto arrivarono le due armate l'una al cospetto dell'altra nel giorno 13 marzo. Quivi incominciò la fortuna a voltarsi contro i Franzesi, perchè separata da una forte buffa di vento dalla restante armata la nave il Mercurio, per questi accidenti si trovarono i Franzesi al maggior bisogno loro con due navi di manco, delle quali il Sanculotto, essendo a tre palchi, era la principale speranza della vittoria. Godevano gl'Inglesi il vantaggio del vento, sicchè fu spinta l'armata della repubblica verso il capo di Noli, seguitandola gl'Inglesi per modo di caccia generale. In questo, tra pel mareggiare, ch'era forte a cagione del vento assai fresco, e per la forza dell'artiglierie inglesi che già si erano approssimate, perdè il vascello il Caira gli alberi di gabbia, e perseguitato dalla fregata l'Incostante e dal vascello l'Agamennone, si difese bensì gagliardamente, soccorso da' suoi sino a notte, ma per la difficoltà del muoversi continuando tuttavia a rimanere troppo più vicino agli Inglesi che la salute sua non richiedesse, come anche la nave il Censore che l'aveva aiutato. Questi accidenti, parte inevitabili, parte fortuiti, furono cagione che la mattina del 14 fossero queste due navi nuovamente assaltate. Contrastarono esse con tanto valore, che gl'Inglesi non poterono venire così tosto a capo del disegno loro di rapirle. Chiamarono in soccorso l'Illustre ed il Coraggioso, ma furono anche queste tanto lacerate dalla furia delle cannonate repubblicane, che la prima, non più abile a governarsi, fu arsa, la seconda andò per forza a ritirarsi nel porto di Livorno. Ma finalmente le due navi della repubblica, non potendo pel silenzio dei venti essere aiutate dal grosso dell'armata, calata la tenda, si arrenderono. Continuava agl'Inglesi il benefizio del vento; alla fine, essendosi messa una brezza leggiera anche pei Franzesi, se ne prevalsero, solo per altro per ritirarsi con minor danno che possibil fosse da quel campo di battaglia oramai più pericoloso che glorioso. La quale mossa riuscì poco ordinata nè conforme alla volontà dell'ammiraglio; ma un cattivo consiglio fu compensato da un valore inestimabile, sì che gl'Inglesi medesimi ne restarono maravigliati. Assicurò per allora questa vittoria le cose di Corsica a favor degl'Inglesi. Questa fu la battaglia del capo di Noli, nella quale fu pari da ambe le parti il valore, ma maggiore dalla parte degli Inglesi la perizia e l'ubbidienza dei capitani minori. Così fu sturbata ai Franzesi l'impresa di Corsica, diventarono i nemici loro padroni del Mediterraneo, le provincie meridionali di Francia penuriarono vieppiù di vettovaglie, i repubblicani sulla riviera di Ponente furono a tali strette ridotti, che se si mostrarono mirabili nel vincere i pericoli della guerra, più ancora diedero maraviglia nel superare gli stimoli della fame. In questo mentre si ebbero le novelle della pace conclusa tra la repubblica franzese e il re di Prussia, accidente gravissimo e che diede molta alterazione agli alleati, sì per l'opinione come per la diminuzione di forze che a loro ne veniva. Non potè però fare che l'imperator d'Alemagna ed il re di Sardegna non rimanessero in costanza; anzi cominciando a manifestarsi in Piemonte gli effetti del trattato di Valenciennes, pel grosso numero di Tedeschi che vi erano arrivati, malgrado l'alienazione della Prussia, alzarono la mente a più importanti pensieri, colla speranza di cacciar del tutto i repubblicani dalla riviera di Genova. Per la qual cosa avviate le genti loro verso il Cairo, dal quale i Franzesi si erano ritirati, ed occupata la sommità dei monti, già inclinavano a qualche fatto memorabile. Erano in tal modo ordinati i confederati, che l'ala loro sinistra guidata dal generale Wallis faceva sembiante di volersi impadronire di Savona, e di assaltare i Franzesi che si erano fortificati al ponte di Vado: il mezzo, dov'era presente il generalissimo Devins, e che era il nervo principale, minacciava di voltarsi al cammino dei siti molto importanti di San Giacomo e di Melogno; la destra, che obbediva al generale Argenteau, dava a dubitare che, con impeto improvviso avanzandosi, andasse a riuscire a Finale. Una grossa squadra di cavalleria piemontese stanziava presso a Cuneo, pronta a passar le Alpi o gli Apennini ove la fortuna aprisse qualche adito alla vittoria. Corpi sufficienti di truppe, massime piemontesi, munivano le valli di Stura, di Susa e d'Aosta sotto la condotta dei duchi d'Aosta e di Monferrato. Davano gran forza a tutte queste genti i Barbetti, come li chiamavano, i quali, gente piuttosto da strada che da milizia, nascondendosi spediti e leggieri nei luoghi più ermi e precipitosi delle nizzarde montagne, erano assai pronti a spiare le mosse dell'inimico, a sorprendere le vettovaglie, e ad uccidere, spesso anche crudelmente, gli spicciolati. Usavano somma barbarie nel difendere la regia causa; nè i comandamenti del re, che desiderava di metter ordine e moderazione fra di loro, bastavano per frenar appetiti così smoderati e disumani. Dall'altra parte i Franzesi governati dal Kellerman erano molto intenti alle provvisioni per resistere ai confederati, quantunque l'esercito loro non pareggiasse di numero quel della lega. La loro ala dritta, sotto l'imperio di Massena, stanziava colla estremità sua a Vado, e distendendosi pei monti arrivava insino alla valle del Tanaro. Quivi incominciava la parte mezzana, che pel colle di Tenda andava a congiungersi sul Gabbione con la sinistra che muniva i colli di Raus e delle Finestre, e le valli della Vesubia e della Tinea. Era Savona sito di molta importanza sì per l'opportunità del porto, sì pel suo castello munitissimo. L'una parte e l'altra, non portando rispetto alla neutralità di Genova, desideravano d'impadronirsene o per insidia o per una battaglia di mano. Fuvvi sotto le sue mura un'abbaruffata fra i repubblicani, che vi erano venuti, e i confederati, che li volevano pigliare: rifulse in questo fatto la virtù del governatore Spinola, che serbò la neutralità e la piazza, costringendo le due parti a levarsene. A questa incomposta avvisaglia successero assai tosto battaglie grossissime. Vedevano i confederati essere loro di somma importanza lo scacciare i repubblicani dalla riviera di Genova, perchè, se a ciò non riuscissero, la Lombardia austriaca sarebbe sempre stata in grave pericolo, e la difesa del re di Sardegna, non che difficile, quasi impossibile. Assai lunga era la fronte dell'esercito franzese: il romperlo in mezzo era un vincerla tutta. Si risolvettero adunque a fare impeto principalmente contro i monti di San Giacomo e di Melogno, onde riuscisse loro di tagliar fuori l'ala dritta dei Franzesi dalle due altre parti. Pensarono altresì ad assaltare fortemente il luogo di Vado, dove i repubblicani s'erano molto fortificati, perchè, se la fortuna fosse stata per loro anche qui propizia, si sarebbe allargato subitamente lo spazio dove gl'Inglesi potevano approdare. Pertanto gli Austriaci assalirono con grandissimo valore il posto di Vado, già inclinando verso il suo fine il mese di giugno; risposero con eguale virtù i Franzesi guidati da Laharpe, e tanto fecero che non si piegarono punto, anzi ributtarono valorosamente il nemico, più valoroso ed impetuosissimo. Questo fu uno dei fatti della presente guerra per cui si devono accrescere le laudi dei Franzesi pel valor dimostrato e per la perizia del saper prendere i luoghi e dell'usar le occasioni; ma non con pari fortuna combatterono sui monti di San Giacomo e di Melogno; perchè una grossa schiera di Austriaci condotti da Devins assaltava impetuosissimamente tutti i posti che munivano le alture del primo: varii furono gli assalti, varie le difese, molti i morti, molti i feriti da ambe le parti; durò ben sette ore la battaglia, nè ben si poteva prevedere quale avesse a prevalere, o la costanza austriaca o la vivacità franzese, avvegnachè quegli alpestri gioghi già fossero contaminati di cadaveri e di sangue. Finalmente declinò la fortuna dei Franzesi; gli Austriaci, che prevedevano che da quella fazione dipendeva tutto l'evento della ligustica guerra, fatto un estremo sforzo, riuscirono, cacciatone di viva forza gli avversati, sulla sommità del monte. Con pari disavvantaggio procedevano le cose dei Franzesi a Melogno, custodito solamente da due battaglioni. Lo attaccava Argenteau con cinque mila soldati fioritissimi, e dopo breve contrasto facilmente se lo recava in mano. Come prima ebbe Kellerman avviso della perdita di Melogno, mandava Massena con un grosso di quattro battaglioni valentissimi a far opera di ricuperarlo; il che era non di somma, ma di estrema importanza. Usarono i soldati di Massena molto opportunamente d'una nebbia assai folta; ma furono rigettati con le artiglierie e con le baionette, non senza aver perduto buon numero di valenti soldati. Questo rincalzo non tolse loro tanto di speranza, che non tentassero un secondo assalto: Massena medesimo, al solito rischievole guidatore di qualunque più difficile impresa, reggeva i passi loro, ed avendoli divisi in tre colonne, comandava alle due estreme ferissero l'inimico sui due fianchi; alla mezzana percuotesse di fronte l'altura pericolosa. Marciavano molto confidenti della vittoria; ma la nebbia fece sì che le colonne laterali si accozzassero alla mezzana per modo che in vece di tre assalti si ridussero a darne un solo sulla fronte. Questo cangiò del tutto la condizione della battaglia, perchè gl'imperiali, combattendo per diritto da quei ripari sicuri con tutte le artiglierie loro, obbligarono prestamente i repubblicani a ritirarsi, non senza strage, ai luoghi d'ond'erano venuti. S'aggiunse a questo che gli Austriaci s'impadronirono del passo dello Spinardo, altro sito importante che dava loro maggior facoltà di rompere e spartire in due l'esercito di Francia. Occupato San Giacomo e Melogno, salirono gl'imperiali facilmente sui monti che stanno imminenti a Vado, donde poterono bersagliare i Franzesi, che tuttavia vi avevano le stanze. Perlochè questi, disperati pei sinistri occorsi di poter conservare questo luogo, chiodati ventidue cannoni e due obici che non potevano trasportare, si ritirarono. Entrarono tosto in Vado gli Austriaci, e poservi di presidio il reggimento Alvinzi. Mentre tutte queste cose si facevano sulla riviera di Genova, succedevano parecchie battaglie su tutte le creste degli Apennini e dell'Alpi con vario evento; volendo e Franzesi e Piemontesi aiutare con questi assalti lontani le maggiori battaglie del Genovesato. Kellerman, vedendo che per l'occupazione fatta dagli alleati de' siti più importanti verso Savona, le sue stanze in que' luoghi non erano più sicure, e che la sua ala dritta correva pericolo d'essere tagliata fuori dalle altre, tirò con molta prudenza e singolare arte indietro la troppo lunga fronte de' suoi. Per tal modo Finale e Loano, abbandonati dai repubblicani, vennero in potere degl'imperiali. La ritirata de' Franzesi da Vado era necessaria per la salute loro, ma fu loro da un altro canto di grandissimo incomodo a cagione della mancanza delle vettovaglie, perchè i corsari vadesi e savonesi con bandiera austriaca correvano continuamente il mare, tanto che a mala pena alcune navi più sottili d'Idriotti, sguizzando la notte o pel favor di venti prosperi, riuscivano ad approdare, sussidio insufficiente a sollevare tanta carestia. Per privare viemmaggiormente le navi neutre della comodità di farsi strada ai lidi di Francia ed alla parte della riviera occupata dai Franzesi, aveva il generale austriaco armato nel porto di Savona certe grosse fuste che portavano venti cannoni; e v'erano giunte due mezze galere e quattro fuste napolitane, ed a tutti questi legni minori faceano ala le fregate inglesi. Per tutto questo nacque una penuria incredibile nel campo franzese, e già si ripromettevano i confederati che i repubblicani, indeboliti dalla fame, pensassero oramai a ritirarsi da tutta la riviera. Ma i Franzesi, non mostrandosi meno costanti nel sopportare l'estremità del vivere, di quanto fossero stati valorosi ne' fatti d'arme, continuavano ad insistere dal Borghetto e dal Ceriale, in atto minaccioso e fiero. Il che vedutosi da' capi della lega, estimando che, ove la fame non bastava, bisognava usar la forza, assalirono con numero e con valore le posizioni nuove alle quali i repubblicani si erano riparati. Sanguinose battaglie ne seguitavano, in cui ora gli uni ed ora gli altri restavano superiori: la somma fu, che, non essendo venuto fatto agli alleati di sloggiar i Franzesi, perdettero il frutto di tutta l'opera, perchè il non superare que' luoghi era un perdere tutto il frutto del trattato di Valenciennes. Così le sorti d'Italia si arrestarono ed ebbero il tracollo sul piccolo ed ignobile scoglio del Borghetto. Intanto le cose vieppiù s'allontanavano dalla temperanza in Napoli. Eranvi nate sì pel famoso grido della rivoluzione di Francia, sì per le istigazioni segrete di alcuni agenti di quel paese, sì per l'esempio e le esortazioni degli uomini venuti sull'armata dell'ammiraglio Truguet, che aveva visitato il porto di Napoli nel 1793, e sì finalmente per le inclinazioni de' tempi, opinioni favorevoli alla repubblica. Alcuni giovani con molta imprudenza la professavano; altri meno imprudenti, ma più inescusabili, si adunavano e facevano congreghe segrete a rovina del governo. Notarono i discorsi, seppersi le trame: il governo insorgeva a freno de' novatori. Il ministro Acton, conosciuti gli umori, si studiava, come i favoriti fanno, di andare a seconda, con rappresentare continuamente all'animo della regina, già tanto alterato, congiure e tentativi di ribellioni pericolose. Creossi una giunta sopra le congiure. Furonvi eletti il principe Castelcicala, il marchese Vanni ed un Guidobaldi, antico procurator di Teramo, uomini disposti, non solo a far giustizia, ma ancora ad usar rigore. Emmanuele de Deo ed alcuni altri rei furono puniti coll'ultimo supplizio; alcuni carcerati, alcuni confinati. Ciò era non solo diritto, ma ancora debito dello Stato; ma si crearono gli uomini sospetti, parte per indizii più o meno fondati, parte anche senza indizii, mescolandosi le emulazioni e gli odii particolari là dove non era nè reità nè indizio di reità. Le carceri si empierono. Era un terrore universale; il familiare consorzio era contaminato dalla paura de' delatori. Diceva Vanni, già confinata in carcere una gran moltitudine, pullulare tuttavia nel regno i giacobini; abbisognare arrestarsene ancora venti mila; nè si ristava: i carcerati si moltiplicavano. Fu imprigionato Medici, e se nol salvava l'integrità del giudice Chinigò, sarebbe caduto sotto la macchina orditagli da Acton per gelosia, e privato il regno di un uomo di non ordinaria perizia negli affari di Stato. Duravano già da molto tempo le pene insolite, nè rimetteva il rigore. I popoli prima si spaventavano, poi s'impietosivano, finalmente si sdegnavano, e ne facevano anche qualche dimostrazione. Pensossi al rimedio. Siccome Vanni principalmente era venuto in odio all'universale, così fu dimesso ed esiliato da Napoli; gratitudine degna del benefizio. Ciò non ostante, la asprezza non cessò del tutto, se non quando Napoli venne a patti con Francia. Frattanto non si confermava l'imperio inglese in Corsica, parte per l'inquietudine naturale di quella nazione, parte perchè i partigiani franzesi vi erano numerosi, parte finalmente perchè i popoli, scaduti dalle speranze, si erano sdegnati, e gridavano aver solo cambiato padrone, non peso. Oltre a ciò, grande era tuttavia il nome di Paoli in Corsica, e coloro che più amavano l'indipendenza che l'unione con gl'Inglesi, voltavano volentieri gli animi a lui, come a quello che avendo contrastato l'acquisto della Corsica ai Franzesi, poteva anche turbarlo agl'Inglesi. Erano pertanto sorti parecchi rumori in alcune pievi di qua da' monti, massimamente ne' contorni d'Aiaccio; ed il male già grave in sè induceva ogni giorno maggior timore; alcuni già gridavano apertamente il nome di Francia: si temeva una turbazione universale, se prontamente non vi si provvedesse. Per la qual cosa il vicerè Elliot, avvisato prima diligentemente in Inghilterra quanto occorreva, mandò fuori un bando esortatorio. Nè le sue esortazioni restarono senza effetto, non già sulle popolazioni mosse, perchè a popolo mosso bisogna parlar co' fatti, e non con le parole, ma bensì su quelle d'oltremonti, che eleggevano volentieri di stare sotto l'imperio d'Inghilterra. Laonde, ordinate alcune squadre, furono mandate ad aiutare nelle pievi licenziose le esortazioni del vicerè. Oltre a tutto questo, Paoli, o cagione o pretesto che fosse di questi rumori, fu chiamato in Inghilterra dal re, il quale, perchè la chiamata fosse più onesta, gli aveva scritto, la presenza sua in Corsica fare i suoi amici troppo animosi; se ne venisse pertanto a respirare aere più tranquillo in Londra; rimunererebbe la fede sua, metterebbelo a parte della propria famiglia. Paoli, obbedendo all'invitazione, se ne giva a Londra, trattenutovi con due mila lire di sterlini all'anno. Visse fino all'ultimo più accarezzato che onorato. Così finì Pasquale Paoli, nome riverito nella storia, e che sarebbe molto più, se non fosse nata la rivoluzione franzese. Gli avvertimenti del vicerè, le mosse dei soldati corsi ai soldi d'Inghilterra, la partenza di Paoli, ed insieme i benigni ordini venuti da Londra furono di tanta efficacia, che i comuni sollevati, deposte le armi, tornarono all'ubbidienza. Così fu ristorata, se non la concordia, almeno la pace in Corsica, non sì però che, per l'infezione delle parti, non vi fossero molti mali semi, che avevano a partorire fra breve effetti notabili a pregiudizio degl'Inglesi in quell'isola. Qualche moto anche accadde in questi tempi in Sardegna, principalmente in Sassari, città vicina alla Corsica. Il popolo sollevato domandava gli stamenti, che non sono altro che gli stati generali di Sardegna; domandava i privilegii conceduti dai re d'Aragona; domandava i patti giurati nel 1720. Sassari mandò i suoi deputati a Torino, perchè, moderatamente procedendo, i diritti ed i desiderii dei Sardi al re rappresentassero. Dieronsi ai deputati buone parole, e forse qualche cosa più che buone parole. La missione loro non partorì frutto e se ne partirono disconclusi. Intanto furono i tumulti di leggieri sedati, componendosi di nuovo il vivere nella solita quiete, con grande contentezza del re, che molto mal volontieri aveva veduto contaminarsi la difesa di Cagliari dalle sollevazioni di Sassari. Fadda, Mundula ed Angioi, capi e guidatori di quei moli, si posero con la fuga in salvo. In questo mezzo tempo si udirono importantissime novelle da Basilea, essere la Spagna, partendosi dalla confederazione, condiscesa, il dì 22 luglio, alla pace con la repubblica franzese; il quale accidente tanta efficacia doveva avere in Italia, principalmente negli Stati del re di Sardegna, quanta ne aveva avuto negli affari di Germania, e principalmente in quei dell'Austria, la pace conchiusa tra la Francia e la Prussia; i repubblicani vincitori dei Pirenei potevano facilmente voltarsi contro l'Italia per farvi preponderare le forze franzesi. Mossi poi anche i parigini reggitori da quel loro perpetuo appetito d'invadere l'Italia, col diventar padroni del Piemonte per la pace, del Milanese per la guerra, erano stati operatori che s'inserisse nel trattato con la Spagna il capitolo, che la repubblica franzese, in segno di amicizia verso il re Cattolico, accetterebbe la sua mediazione a favore del regno di Portogallo, del re di Napoli, del re di Sardegna, dell'infante duca di Parma e degli altri Stati d'Italia, a fine di concordia tra la repubblica e questi principi. Ulloa, ministro di Spagna a Torino, fece l'ufficio, proferendosi a mediatore tra la repubblica ed il re Vittorio. Offeriva la conservazione e la guarentigia dei proprii Stati, se consentisse a starsene neutrale e a dar il passo ai Franzesi verso l'Italia. Offeriva la possessione del Milanese, se si risolvesse a collegarsi con la repubblica. Mescolaronsi al solito speranze di acquisti di territorii più contigui, se cedesse l'isola di Sardegna alla Francia. Udiva il re Vittorio molto sdegnosamente le proposizioni della Spagna, e sulle prime dichiarò di voler continuare nell'alleanza con l'Austria. Ma perchè fu più pacatamente considerata la cosa, o che s'inclinasse ai patti o che solo si volesse aver sembianze d'inclinarvi, si convocò il consiglio, al quale furono chiamati molti uomini prudenti ed altri assai pratici delle militari faccende. Erano per deliberare intorno ad un soggetto gravissimo e da cui dipendeva questo punto: se il Piemonte avesse a conservare la signoria di sè medesimo o da cadere in servitù dei forestieri. Era presente a questo consiglio il marchese Silva, figlio d'uno Spagnuolo, console di Spagna a Livorno. Pratico delle cose del mondo per molti viaggi in Europa, massimamente in Russia, dov'era stato veduto amorevolmente dall'imperatrice Elisabetta, pratico delle cose militari per lungo studio ed esperienza, avendo anche scritto trattatti sull'arte della guerra, condottosi finalmente agli stipendii della Sardegna, era il marchese da tutti stimato e riverito. Chiesto del suo parere in sì pericoloso caso, parlò con singolare franchezza, e, discorse tutte le presenti sorti delle cose, conchiuse.... «Io porto opinione che la pace sia assai più sicura della guerra, ed alla pace vi conforto, e la chiamo, e la bramo, ora che le forze che ancor vi restano ve la possono dare onorevole e sicura; che se aspettate l'ultima necessità, fia la pace infame, fia distruttiva, fia congiunta con servitù intiera ed insopportabile. Se altro partito miglior di questo vi sovviene, avrei caro udirlo; ma qualunque ei sia, non istate più indugiando, che il tempo pressa, l'occasione fugge, e il pericolo sovrasta. Or vi spiri benigno il cielo, e vi faccia deliberar sanamente a salvazione del generoso Piemonte ed a preservazione della nobile Italia.» Questo discorso, porto da un uomo pratico di guerra, di natura molto veridica, congiunto di amicizia col generale austriaco Strasoldo, fece non poco effetto negli animi dei circostanti, dei quali una parte inclinava agli accordi, quantunque tutti avessero la volontà aliena dai Franzesi. Ma sorse a contrastar questa inclinazione il marchese d'Albarey, il quale, sebbene fosse di indole pacifica e d'animo temperato, essendo stato operatore del trattato di Valenciennes, e fondandosi sulle considerazioni politiche, opinava doversi nella guerra e nella fede data all'Austria perseverare. E le parole sue, che furono gravi ed abbondanti, vere in sè stesse, non restarono senza effetto, meno perchè vere erano che perchè gli animi non avevano per una anticipata risoluzione alcuna inclinazione alla concordia. Per la qual cosa, posta in non cale la mediazione di Spagna, e tagliata ogni pratica, deliberossi di continuar nella guerra contro la Francia, e non si partire dall'alleanza con l'Austria. Certamente il partito era pieno di molta dubbietà; perchè non vi era minor pericolo nelle suggestioni che nelle armi repubblicane, e si temevano con molta ragione gli effetti che avesse a portar con sè la presenza de' Franzesi in Piemonte. Laonde la risoluzione fatta non è se non da lodarsi, non perchè più sicura fosse, ma perchè, in pari pericolo da ambe le parti, ella era più onorevole. Giungeva intanto il tempo che doveva mostrare se quell'armi che non senza grave fatica e stento avevano potuto contrastare ai Franzesi divisi tra Spagna ed Italia, potessero resistere all'impeto loro unito, ed indirizzato a voler fare la conquista delle italiane contrade. Già fin dal principio di quest'anno si era deliberato nei consigli di Francia di voler passare con l'armi in Italia. Uno dei principali confortatori a quest'impresa era Scherer, riputato fra i buoni generali di Francia per le pruove fatte recentemente da lui nelle guerre di Germania e di Spagna. Si rinfrescavano vieppiù questi pensieri dopo la pace di Spagna, e parendo che quegli che ne aveva fatto il disegno più accomodato capitano fosse per mandarlo ad esecuzione, fu egli preposto all'esercito d'Italia, restando Kellerman a governare solamente le genti alloggiate nelle Alpi superiori. Concorrevano intanto i soldati repubblicani dai Pirenei agli Apennini, e con loro parecchi guerrieri di nome. Inchinava omai la stagione all'inverno, e trovandosi gli alleati riparati a luoghi forti per natura e per arte, a tutt'altro pensavano fuori che a questo, che i repubblicani, massime privi, com'erano di cavallerie, con poche e piccole artiglierie, e ridotti in una insopportabile stretta di vettovaglie, avessero animo di assaltarli. Ma i soldati della repubblica, usi a vincere le difficoltà che più insuperabili si riputavano, ed astretti anche dall'ultimo bisogno ad aprirsi la via per mare e per terra verso Genova, dalla qual sola potevano sperare di trarre di che pascersi, non si ristettero, ed opponendo un coraggio indomabile all'asprezza del tempo, alla mancanza dell'armi, alla carestia del vivere, ad un nemico più numeroso di loro, abbondante d'armi e di munizioni, fortificato in luoghi già per sè stessi malagevoli, si deliberarono di voler pruovare se veramente il valore vince la forza, e se l'audacia è padrona della fortuna. Così si preparava la battaglia di Loano, assai famosa pel valore mostrato dai soldati repubblicani e per la perizia dei generali loro, specialmente di Massena, che ebbe la principal gloria di questo fatto. Era la fronte dei Franzesi in tal modo ordinata, che, posando con l'ala dritta sulla rocca del Borghetto bagnata dal mare, e passando per Zuccarello e per Castelvecchio, dov'era la battaglia, andava con la sinistra a terminarsi sui monti che sono in prospetto di quelli della Pianeta e del San Bernardo per alla via verso Garessio. Reggevano la destra Scherer ed Augereau, la mezza Massena, la sinistra Serrurier. I confederati stavano schierati di modo che l'ala loro da mano manca, governata, da Wallis, occupava Loano, la battaglia, condotta da Argenteau, Roccabarbena, e la destra, composta in gran parte di Piemontesi e retta da Colli, si stendeva sui monti della Pianeta e del San Bernardo. Parendo a Devins che tutti questi siti forti non bastassero ad assicurarlo, aveva, come guardie avanzate, fatto tre campi forti, due innanzi Loano, un terzo, per sicurezza della mezzana, più in su, a Campo di Pietra. Ma come prudente capitano, prevedendo gli accidenti sinistri, aveva munito di gente e d'artiglierie, non solamente Bardinetto e Montecalvo, ma ancora più dietro, qual ultimo presidio e schiera soccorrevole, i monti di Melogno e di Settepani. Per tal modo si vede che Devins aveva ottimamente preveduto donde doveva venire il pericolo, e provvedutovi ancora efficacemente. Separava i due eserciti una valle profonda, il cui fondo bagna il piccolo fiumicello che corre tra Loano ed Albenga. Il giorno 17 novembre, per riconoscere i luoghi e per assaggiar l'inimico, Massena commise al generale Charlet che assaltasse il posto di Campo di Pietra, il quale, sostenuto un furioso urto, si arrese. Questa fazione, terribile presagio di battaglie più gravi, ed indizio probabile di quanto i Franzesi avevano in animo di fare, non tenne tanto avvertito Arganteau, che pensasse a starsene avvisatamente. Era la notte del 22 novembre quando Massena, raunati i suoi, così lor disse: «Soldati, il ricordare valore a voi, fora piuttosto ingiusta diffidenza che giusto incoraggiamento; bastò sempre per animarvi a vincere il mostrarvi dove fosse il nemico. Ora, quantunque più numeroso di voi, si è riparato alle rupi, confessando in tal modo coi fatti più che con le parole, che ei non può stare a petto vostro. Ma che rupi o quali precipizii possono trattenere i soldati della repubblica? Voi vinceste le Alpi, voi gli Apennini già più volte, e costoro, nuovi compagni vostri, vinsero i Pirenei: vinsero essi i soldati di Spagna, voi vinceste quei di Sardegna e dell'Imperio; ma Sardegna ed Imperio continuavano ad affrontarvi; però voi un'altra volta vinceteli, voi fugateli, voi dissipateli, e fia la vittoria vostra pace con l'Italia, come fu la vittoria loro pace con la Spagna. Questi ultimi re, non ancora fatti accorti dalle sconfitte, osano, con l'armi impugnate, stare a fronte della repubblica; ma voi pruovate loro con le opere, che nissun re può stare armato contro di noi; e poichè aspettano lo estremo cimento, fate che esso sia l'estremo per loro.» Era Massena piccolo di corpo, ma di animo e di volto vivacissimo, e perciò abile ad inspirar impeto nel soldato franzese, già per sè stesso tanto impetuoso. Perciò, alle sue parole maravigliosamente incitati, givano con grandissimo ardimento per quei dirupi, essendo la notte oscurissima e fatta più oscura da un tempo tempestoso. Era intento di Massena, così accordatosi con Scherer, di urtare nel mezzo dei confederati, di romperlo, e, separando gli Austriaci dai Piemontesi, di farsi strada ad un tempo a calarsi alle spalle dell'ala sinistra, che avrebbe dovuto od arrendersi o fuggire alla dirotta. Dovevano secondare questa fazione a diritta Scherer con un assalto forte contro Loano; Serrurier con un assalto più molle contro il San Bernardo. Appariva appena il giorno dei 23 novembre che Massena assaliva da due bande con una foga incredibile il campo di Roccabarbena. Accorrevano a questo accidente impensato gli uffiziali tedeschi ai luoghi loro, e già trovavano qualche titubazione e scompiglio nella loro ordinanza. La qual cosa dimostra l'inconsiderazione d'Argenteau, che, non avendo presentito, com'era facile, quella tempesta, aveva permesso che gli uffiziali si allontanassero dai loro soldati. S'aggiunse un altro infortunio, e fu che Devins, afflitto da grave malattia, e reso inabile al comandare, si era condotto, instando la battaglia, da Finale a Novi, con lasciare la direzione suprema dell'esercito a Wallis. Intanto ardeva la zuffa a Roccabarbena. Laharpe e Charlet, che davano la batteria, con molto valore insistendo tanto fecero, che, superata ogni resistenza, cacciarono il nemico che si ritirava, andando a farsi forte a Bardinetto. Qui nacque un nuovo e terribile combattimento; perchè i confederati, riavutisi da quel primo terrore, vi si difendevano gagliardamente, e dal canto suo fulminava con tutte le sue forze Massena, giudicando che dalla prestezza del combattere dipendesse del tutto la vittoria. Finalmente, dopo molte ferite e molte morti da ambe le parti, prevalsero i repubblicani; entrati forzatamente in Bardinetto, uccisero quanti resistevano, presero quanti non poterono fuggire, e s'impadronirono di tutte le artiglierie. Ritiraronsi sconcertate e sconnesse le reliquie dei confederati per luoghi erti e scoscesi verso Bagnasco sulla sinistra sponda del Tanaro. Nè bastando all'intento ed all'impeto smisurato di Massena l'acquisto di Bardinetto, mandava a Cervoni s'impadronisse di Melogno, ed al colonnello Suchet pigliasse Montecalvo, luogo arido e quasi inaccessibile. Ebbero queste due fazioni il fine che Massena si era proposto; in tal modo non solo fu prostrata tutta la mezzana dei confederati, ma fu fatto abilità ai Franzesi di calarsi verso il mare alle spalle dell'ala sinistra. Il quale fatto coi precedenti fece del tutto piegar le sorti in favor dei repubblicani. Ma perchè la sinistra dei confederati non ricuperasse quello che la mezzana avea perduto, Scherer, fatto dar dentro fortemente ai tre monticelli fortificati avanti Loano ed alla forte terra di Toirano, li superava. Nei quali fatti, aiutati anche da tiri di alcune navi franzesi che si erano accostate al lido tra Loano e Finale, acquistarono buon nome i generali Augereau e Victor. Allora, tra per questo e per essersi Suchet, ricevuto un rinforzo di tre grossi battaglioni mandati da Scherer, calato correndo alle spalle loro, si ritirarono i confederati verso Finale, seguitati dai repubblicani a pressa a pressa. Serrurier, vedute le vittorie della mezzana e della destra parte de' suoi, insisteva più vivamente contro il fianco destro del nemico, e cacciatolo da tutti siti, lo costringeva a ripararsi nel campo trincierato di Ceva, dove giungevano altresì lacerati e sbaragliati i residui della squadra d'Argenteau, generale che fu cagione principale di questa rotta, per imprevidenza prima del fatto, e per la nissuna avvedutezza nè costanza nel combattimento. Così l'ala sinistra dei confederati si ritirava non senza scompiglio, e seguitata dai Franzesi, sul litorale verso Savona, la mezzana del tutto rotta se n'era fuggita, la destra più intera si era accostata al forte di Ceva. Scese intanto la notte e conchiuse l'affannoso giorno. Sorse con lei un temporale orribile misto di pioggia dirotta e di grandine impetuosa: serenarono i Franzesi nei luoghi conquistati. Ma non così tosto appariva l'alba del giorno seguente, che, condotti da Augereau, si misero di nuovo a seguitare velocemente quella parte dei confederati che si ritirava pel litorale, e già la giungevano, con far molti prigionieri. Nè qui si contenne l'infortunio dei vinti; perchè Massena, che stava continuamente alla vista di tutto, avvisando quello che era, cioè che il nemico, dopo di essere passato per Finale, volesse ritirarsi pel monte San Giacomo, era comparso improvvisamente a Gora sul ciglione della valle del Finale, e da una parte mandava una prima squadra ad assaltare il cadente nemico, dall'altra ne spediva una seconda, affinchè occupasse celeremente San Giacomo. In questo modo la sinistra degli alleati, per la rotta improvvisa della mezzana, pressata da fronte, sul fianco ed alle spalle, non aveva altro rimedio che la sollecita fuga; alla quale quei luoghi montagnosi, pieni di tragetti e di sentieri reconditi davano molto favore. Chi si potè salvare andò a formar la massa in Acqui, dove i capi attendevano a raccorre e riordinare le compagnie dissipate; chi non potè, cadde in balia del vincitore. Tutte le artiglierie, gran parte delle bagaglie e delle munizioni, il carreggio quasi tutto, rendettero più lieta la fortuna dei repubblicani. Andavano a svernare in Vado ed in Savona, padroni del tutto della riviera di Ponente, e minacciando con la presenza vicine calamità all'Italia. Oscurarono lo splendore di questa vittoria le ruberie, i saccheggi, e perfino i violamenti delle miserande donne commessisi dai repubblicani sul genovese territorio. Levossene un grido per tutta Italia che aspettava gli estremi danni. Volle Scherer frenare tanto furore; pubblicava che farebbe morire chi continuasse; prese anche l'ultimo supplizio de' più rei; ma non udivano l'impero dei capitani, e nè le minacce nè i supplizii spegnevano la scellerata rabbia. Non gli scusava, perciocchè nissuna cosa può scusare sì eccessive enormità, ch'eran stremi d'ogni vettovaglia e d'ogni fornimento, come l'esser forniti abbondantemente d'ogni cosa necessaria al vivere di soldato aggravava la colpa dei loro avversarii, che non si stettero immuni da sì fatte colpe. Così l'Italia, lacerata dagli amici, lacerata dai nemici, in preda al furore degli uni, in preda al furore degli altri, «mostrava quale sia la condizione di chi alletta con la bellezza e non può difendersi con la forza.» Anno di CRISTO MDCCXCVI. Indiz. XIV. PIO VI papa 22. FRANCESCO II imperadore 5. A questo tempo avendo i collegati provato con molto danno loro qual dura impresa fosse l'affrontarsi con quegli audaci repubblicani di Francia, si consigliarono di voler dimostrare inclinazione alla concordia e porre avanti alcune proposizioni d'accordo, sì per avere più giustificata cagione di continuar a combattere, se i repubblicani ricusassero, e sì per aver comodità di respirare e di aspettare il benefizio del tempo, se accettassero. Per la qual cosa pensarono a tentare la disposizione del direttorio di Francia, con introdurre qualche negoziato a Basilea, città neutrale, e già famosa per le due paci di Prussia e di Spagna. Siccome poi l'Inghilterra era l'anima di tutta la mole, così da questa ed a nome di tutti procedettero le proferte. Scriveva il dì 8 marzo del presente anno Wickam, ministro d'Inghilterra appresso ai cantoni Svizzeri, a Barthelemi, ministro di Francia, ch'egli aveva comandamento di fargli a sapere che la sua corte desiderava di restare informata se la Francia aveva inclinazione a negoziare con sua maestà e co' suoi alleati, a fine di venirne ad una pace generale stipulata con giusti e convenienti termini; se a ciò si risolvesse la Francia, mandasse ministri ad un congresso in quel luogo che più sarebbe stimato conveniente da ambe le parti. Desiderava altresì sapere quali fossero i generali fondamenti della concordia che piacesse al direttorio di proporre, affinchè si potesse esaminare se fossero accettabili, finalmente, se i mezzi proposti, non fossero accettati, quali altri avesse a proporre per trovare qualche modo d'onesta composizione. Questa proposta, la qual era del tutto conforme ai modi soliti a usarsi fra i principi, nè avea in sè cosa che potesse offendere l'animo del direttorio, fu molto risentitamente udita da lui, e diede principio a quel costume dottorale e loquace di quei governi repubblicani ed imperiali di Francia di voler insegnare in casa altrui, come se meglio non conoscesse i fatti proprii chi li governa di chi non li governa; ed altresì a quell'uso affatto insolito e veramente enorme di dar consigli o ad un amico o ad un nemico, e di convertire in cagion di guerra il rifiuto di seguitarli. Il direttorio comandava a Barthelemi che rispondesse, desiderare lui la pace, ma desiderarla giusta, onorevole e ferma; avrebbe udito volontieri le proposte, se quel dire di Wickam, di non aver autorità di negoziare, non desse sospetto intorno alla sincerità inglese. E qui veniano le parole dottorali all'Inghilterra, dopo cui terminava; convenirsi alla sincerità del direttorio il palesare apertamente a quali patti ei potrebbe consentire agli accordi; vietare la costituzione della repubblica che niun paese di quelli che erano stati incorporati al suo territorio da lui si scorporasse; delle altre conquiste si negozierebbe. Qui parimente ebbe principio quel metodo veramente incomportabile, usato dai governi che per venti anni l'uno all'altro succedettero in Francia, di volere che una legge politica interna diventasse legge politica esterna, ed obbligatoria pei forestieri. Rispose l'Inghilterra, anche a nome di tutti i confederati, non poter consentire ad una condizione tanto insolita, nè altro mezzo restare se non quello di continuare in una giusta e necessaria guerra. Così non si seguitò più questo ragionamento, e svanirono le speranze di pace concette dalle proferte di Basilea. Ognuno aveva gli occhi volti al re di Sardegna, il quale, già perduto mezzo lo Stato e prostrate le difese del restante, si vedeva vicino ad essere prima condotto all'ultima rovina che la guerra incominciasse pure a romoreggiare sui confini de' suoi alleati. Conoscevano questi la costanza del re, ma dubitavano che nel prossimo urto dell'armi, se le battaglie fossero riuscite infelicemente ed i repubblicani si facessero strada nel cuor del Piemonte, si sarebbe forse alienato da loro. Tentarono dunque il re, ammonendolo che si dichiarasse pel caso d'un sinistro di guerra. Ridotto a queste strette, rispose animosamente Vittorio che correrebbe con loro la medesima fortuna, che persisterebbe nella fede, che non sarebbe per abbandonar la sua congiunzione; non dubitassero che i fatti non fossero per corrispondere alla prontezza dell'animo. L'Austria intanto, veduto che i tempi estremi erano giunti per lei in Italia, mandava a governare le genti, invece del Devins, più prudente che ardito capitano, il generale Beaulieu, il quale, quantunque già molt'oltre con gli anni, era animoso, vivace, ed abile per questo di stare a fronte di quella furia franzese che meglio si può vincere col prevenirla che coll'aspettarla. Ma quantunque fossero in Beaulieu le qualità più necessarie in un buon capitano, mancava in lui la cognizione dei luoghi, non avendo mai guerreggiato in Italia, nè portò con sè tante forze quante sarebbero state necessarie. Oltre a ciò, sebbene quando fu chiamato generalissimo in Italia, gli fosse stato promesso che sarebbe rivocato Argenteau, che, per difetto o d'animo o di mente, era stato cagione d'infelici eventi nella riviera di Genova, nondimeno l'aveva trovato ancora, non senza sdegno, non solo presente all'esercito, ma ancora rettore d'una forte divisione di soldati: il che a lui, che era consideratore delle cose future, diede sinistro presagio. Nè Beaulieu medesimo era tale che potesse convenientemente governare capitani e genti di diverse lingue e di diverse nazioni, tenendo più del guerriero che del cortigiano, per guisa che, più temuto che amato dai suoi e dai forastieri, era piuttosto obbedito per forza che per volontà. Nè i nobili piemontesi, che sentivano molto altamente di loro medesimi, lo avevano a grado. E Colli, che reggeva sovranamente l'esercito regio ed al quale non mancava nè perizia nè virtù militare, non vivea concorde col capitano austriaco. Questo fu cagione che, contuttochè i due generali operassero di concerto, nei partiti dubbii però, dove aveva gran parte la propria opinione, l'uno non secondava l'altro, nè l'altro l'uno, quanto la gravità del caso avrebbe richiesto. Erano per tale guisa ordinati i confederati, che la loro ala sinistra, partendo dalla vicinanza di Serravalle, si distendeva fino alla destra sponda della Bormida; quivi incominciava il corno sinistro de' Piemontesi, che si prolungava fino alla Stura, appoggiandosi coll'estremità del corno destro alla forte città di Cuneo. Ma siccome quello di cui stavano in maggior gelosia gli Austriaci, erano le possessioni loro in Lombardia, così si erano molto ingrossati nei contorni di Alessandria e di Tortona; ed avrebbero desiderato, per maggior sicurezza delle cose aver in mano la fortezza di Tortona stessa; e ne fecero anche richiesta; ma ciò fu loro con la solita costanza dinegato dal re, il quale, ancorchè posto nell'ultima necessità, volle non ostante, quanto potè, in propria balìa conservarsi. Tal era adunque la condizione de' tempi, che il re di Sardegna combatteva per la salute sua, e ne andava tutto lo Stato, l'imperador di Alemagna per le sue possessioni del Milanese e del Mantovano, il re di Napoli per la preservazione d'Italia, il papa per l'autorità della santa Sede e per l'incolumità della religione; Venezia sperava nella neutralità con armi, Toscana nella consanguinità coll'Austria e nell'amicizia colla Francia; Parma e Modena, nè in pace nè in guerra, dipendevano in tutto dagli accidenti. Risoluzione principalissima de' reggitori franzesi era di far potente impresa per invadere l'Italia, ed a questo fine indirizzavano tutti i pensieri loro. A questo si muovevano non solo per desiderio di pascere l'esercito in un paese ricco ed ancora intatto, ma eziandio per la speranza che alla fama di un tanto fatto, e per lo scompiglio che ne sarebbe nato tanto in Italia quanto in Germania, si sarebbero manifestati a favor loro in tutte od in alcune corti d'Europa cambiamenti di importanza. Più special fine loro in tutto questo era di costringere l'imperatore alla pace, per facilitar la quale, speravano di trovar in Italia per la forza delle armi compensi ad offerire a quel principe in iscambio de' Paesi Bassi, che ad ogni modo voleano conservare incorporati alla Francia; imperciocchè si avvedevano che ove fosse la casa d'Austria, tanto nobile e tanto potente, sforzata alla pace con la repubblica, non solo i potentati minori, ma anche i più grossi sarebbero facilmente venuti ancor essi agli accordi. Al qual primario disegno subordinavano tutti i pensieri e tutte le risoluzioni loro: del modo, o fosse di forza o fosse di fraude, non si curavano. Siccome quando si vuol perdere qualcheduno, ei s'incomincia a fargli proposte disonorevoli, per la speranza di rifiuto, pretesto di ostilità, così i Franzesi uscirono con richiedere Venezia che scacciasse da' suoi Stati il conte di Lilla, il quale sotto tutela del diritto delle genti, e sotto quella ancor più sacra dello infortunio, se ne riposava solitariamente a Verona. Poco importava al governo repubblicano di Francia che il conte se ne stesse negli Stati veneziani, che anzi gl'importava che vi stesse piuttosto che altrove; perchè, se era pericoloso per quel governo che dimorasse in paese non solamente neutrale, ma ancora alieno dal tentar novità in favore di lui, assai più pericoloso sarebbe stato, se si fosse condotto od all'esercito del principe di Condè o negli Stati delle potenze in guerra con la Francia. Ma la domanda di farlo uscire era appicco di querela, non testimonio di timore. Quantunque il conte di Lilla, dopo la morte di Luigi XVII, avesse assunto la dignità reale, e fosse in grado di re tenuto da' fuorusciti franzesi, dal ministro di Spagna Lascasas, dal ministro di Russia Mardinof e dal ministro d'Inghilterra Macarteney, che appresso di lui era stato mandato appositamente dal re Giorgio, il senato veneto non l'aveva mai riconosciuto pubblicamente nè trattato da re; che anzi interpose ogni diligenza, perchè, mentre sul territorio della repubblica dimorasse, non usasse apertamente atti che l'autorità sovrana dinotassero. Al che il conte rispose con nobile condiscendenza, vivendosene assai ritirato in una villa del conte di Gazola; nel quale contegno tanto egli abbondava, che nè pubblicò con le stampe della veneta repubblica, nè datò di Verona il manifesto che fece, nella sua esaltazione, alla nazione franzese; che se poi nelle sue azioni segrete ed in privato teneva pratiche, che certo teneva, per ricuperare l'antico seggio de' suoi maggiori, non si vede come ciò si potesse imputare alla repubblica di Venezia. Gran maraviglia farebbe in questo caso, se non si sapessero le cagioni, lo sdegno del direttorio di Francia; perchè, mentre superbamente comandava al senato veneto che allontanasse da' suoi dominii il conte di Lilla, sopportava molto pazientemente che l'ambasciador di Spagna Lascasas riconoscesse il conte come re di Francia, e con lui, come col re di Francia, di affari pubblici trattasse: il che era di ben altra importanza che il dare ricovero ad un principe infelice e perseguitato. Ma la Spagna era più potente di Venezia. Scriveva dunque, il primo marzo del presente anno, in nome e per ordine del direttorio, il ministro degli affari esteri Carlo Delacroix al nobile Querini in Parigi, che poichè Luigi Stanislo Saverio non aveva dubitato di operare in qualità di re di Francia sul territorio della repubblica di Venezia, si era reso indegno all'asilo concedutogli dalla umanità del senato: richiedeva pertanto e domandava fossene privato, e gli si desse bando da tutti i territorii veneziani. Posto in senato il partito se dovesse la repubblica adempiere la richiesta del governo franzese, ancorchè il procurator Pesaro generosamente contrastasse, ricordando con parole gravissime alla repubblica la bruttezza del fatto e l'antica generosità di Venezia, fu vinto con cento cinquanta sei voti favorevoli e quaranta sette contrarii. Orarono in questo fatto contro l'opinione del Pesaro i savii del consiglio Alessandro Marcello, Nicolò Foscarini e Pietro Zeno, rappresentando che la pietà verso un principe forestiero non doveva più operare negli animi dei padri che la carità verso la patria. Brutta certamente e vituperosa deliberazione del senato fu questa, nè ad alcun modo scusabile e tanto meno quanto si vedeva chiaramente che il vituperio non avrebbe bastato a partorir salute. Si commise al tribunale degl'inquisitori di stato l'esecuzione del partito dal senato preso. Delegossi a far l'ufficio il segretario Giuseppe Gradenigo ed il marchese Carlotto. Introdotti nelle stanze del conte, che per uomo a posta era stato avvisato da Venezia dal conte d'Entraigues del successo delle cose, ed al cospetto suo venuti, eseguirono quello che dalla signoria era stato loro comandato. A tale annunzio rispose gravemente: partirebbe, ma per forza; gli si portasse intanto il libro d'oro, che ne cancellerebbe di sua mano il nome dei Borboni; se gli restituisse l'armatura di Enrico IV, suo glorioso avolo, data in dono alla repubblica. Nè parendogli più dignità il dimorar più lungamente in un dominio che per debolezza obbediva ai comandamenti degli uccisori del suo fratello, se ne partiva senza dilazione, e sotto nome di conte di Grosbois si condusse all'esercito dei Franzesi fuorusciti a Friburgo in Brisgovia. Innanzi però che partisse, fece mandato al ministro di Russia appresso al senato, acciocchè in vece sua cancellasse sul libro d'oro il nome dei Borboni, e l'armatura di Enrico in deposito ricevesse. Al tempo medesimo gli rammentava, che per l'affezione e la fede che aveva posta in lui, gli affidava quanto di più caro e di più prezioso aveva, e quest'era il ritratto del re suo fratello. Gli ricordava infine e gli raccomandava i suoi sudditi fedeli, particolarmente il conte di Entraigues, che nel dominio dei Veneziani rimanevano. Intanto per gli uffizii fatti per ordine del senato dai ministri veneziani presso le corti d'Europa, massimamente presso l'imperatrice delle Russie, che con più caldezza degli altri procedeva in favore del conte, si acquetò il negozio del libro d'oro e dell'armatura di Enrico. Oggimai si avvicinano le calamità d'Italia. «La tirannide sotto nome di libertà, la rapina sotto nome di generosità, un concitare i poveri ed uno spogliare i ricchi, un gridare contro la nobiltà pubblicamente ed un adularla privatamente, un far uso degli amatori della libertà e disprezzarli, un incitarli contro i re ed un perseguitarli per piacere ai re, il nome di libertà usato come mezzo di potenza, non come mezzo di felicità, un lodarla con parole ed un vituperarla coi fatti, le più sante cose antiche stuprate per derisione o per ladroneccio, le più sante cose moderne fatte vili da un'orribile accompagnatura, un rubar di monti di pietà, uno spogliar di chiese, un guastar palazzi di ricchi, un incendere casolari di poveri, ciò che la licenza militare ha di più atroce, ciò che l'inganno ha di più perfido, ciò che la prepotenza ha di più insolente.... conculcata hanno e desolata in fondo la miseranda Italia. Nè più si vanti ella dell'esser bella, o il giardino dell'Europa, o, come la chiamavano, la terra classica delle arti; poichè tali doti, se pur vere sono, che pur troppo sono, non la fecero segno di rispetto, ma sì di preda e di derisione.» Era risoluzione irrevocabile del governo franzese in quest'anno di tentare le cose d'Italia, di aprirvisi l'adito forzatamente, e di correrla con eserciti vittoriosi. Erano i pensieri maturi, le vie spianate, le armi pronte, gli animi de' soldati accesi, la fame stessa che li tormentava sugli sterili Apennini, gli stimolava a far impeto in un paese abbondante in fatto, abbondantissimo per fama. A reggere tanta mole, poichè, giusta l'opinione di quel governo, dall'esito dell'armi usate in Italia dipendeva in tutto la fortuna dell'europea guerra, mancava un generale capace di mente, invitto d'animo e d'audacia pari alle difficoltà che si prevedevano. Fecero adunque avviso di mandare la magnifica impresa al generale Buonaparte, giovane già in nome di buon guerriero per le cose fatte a Tolone e nella riviera. Presentendo egli, per la vastità e la forze dell'animo suo, quello che fosse capace di fare, quantunque di natura superbissima ed insofferente fosse, non cessava di sollecitare e d'infestare con tenacissima perseveranza e con preghiere continue il direttorio, affinchè gli commettesse la condotta dell'italiana guerra. Militavano anche a suo favore alcuni motivi segreti che si spiegheranno in progresso, i quali, se non sarebbero piaciuti a Carnot ed a Lareveillère Lepeaux, quinqueviri, che gl'ignoravano, piacevano a Barras, altro quinqueviro, che sotto specie di repubblicano forte nutriva pensieri del tutto diversi. A questo si aggiunse un matrimonio ch'ei fece grato a Barras, sposandosi con Giuseppina, d'età maggiore di lui, e moglie che era stata di Alessandro Beauharnais. Adunque a Buonaparte, giovane d'ingegno smisurato e di cupidità ardentissima di dominio fu commessa da chi reggeva la Francia, in iscambio di Scherer, del cui ingegno frutto era il primo disegno d'invadere l'Italia, l'opera di conquistare l'Italia. Nè così tosto ei giunse al governo dell'esercito, che mostrò quanto fosse nato per comandare; imperciocchè, quantunque più giovine di tutti i suoi predecessori, si compose in maggior dignità, e, non dimesticandosi con nissuno, pareva non più il primo fra gli uguali, ma bensì il superiore fra gl'inferiori. A questo si acconciarono facilmente Massena, Augereau e gli altri capitani di maggior grido. Quindi nacque che i nodi dell'esercito viemmaggiormente si ristrinsero, furono i soldati più pazienti all'ubbidire, l'ordine più stabile, il concerto più perfetto. Era l'esercito finito di ben cinquanta mila combattenti, poveri sì di arnesi e penuriosi di vettovaglie, ma abbondanti di coraggio e forti di volontà: quel lusinghevole pensiero di correre come signori d'Italia li rendeva ancor maggiori di loro medesimi, e già abbracciavano colle speranze la possessione di lei. Mandava il direttorio al nuovo capitano franzese quanto volesse, purchè battesse l'Austriaco, il separasse dal Piemontese, sforzasse Genova a dar denaro e la fortezza di Gavi; se Genova non desse Gavi per amore, lo prendesse per forza; instigasse i malevoli del Piemonte, acciocchè o generalmente o particolarmente insorgessero contro l'autorità regia: ciò per forza o per arte subdola; quel che segue per sete di rapina, conciossiacchè mandavagli facesse una subita correria contro la casa di Loreto, onde ne fosse Italia atterrita, rapite le ricchezze ed involati i voti appesi da' fedeli in tanti secoli: tanto era smisurata in quel governo la cupidità del rapire e del fare di ogni erba fascio. Reggevano l'ala dritta, che si distendeva insino a Voltri, Laharpe con Cervoni, la battaglia Buonaparte con a dritta Massena ed a sinistra Augereau, finalmente l'ala sinistra, che stava a fronte de' Piemontesi, Serrurier, congiunto con Rusca, uomo di smisurato valore. Disegnava il generale repubblicano di far impeto contro la mezzana schiera de' confederati, acciocchè, rotta che ella fosse, potesse entrar di mezzo fra gli Austriaci ed i Piemontesi: conseguito questo intento, i primi si sarebbero ritirati nell'Oltre-Po, i secondi, rincacciati nell'angusta pianura loro, avrebbero, come credeva, facilmente accettato gli accordi, separandosi dalla confederazione dell'imperadore. A questo fine, e sapendo che grandissima gelosia avevano gli Austriaci della loro sinistra, perchè la larga e comoda strada della Bocchetta accennava Milano, aveva ordinato a Cervoni occupasse con un corpo grosso Voltri. Oltre a questo, fece marciare da Savona un'altra forte squadra verso la montagna di Nostra Signora dell'Acquasanta, strada che mette direttamente alla Bocchetta; e questa squadra conduceva con sè molti pezzi di artiglierie sì grosse che minute. Adunque erano giunti i tempi fatali per l'Italia. Beaulieu, precipitoso ed audace capitano, presentendo il disegno del nemico, poichè non si raffreddava, anzi cresceva ogni giorno il romore delle preparazioni franzesi, si era deliberato a prevenirlo. Aveva egli assembrato in Sassello una grossa schiera composta di dieci mila Austriaci e quattro mila Piemontesi, bella e fiorita gente, col pensiero di dar dentro nel mezzo della fronte francese, e, dopo di averlo fracassato, riuscire a Savona, con che egli avrebbe separato il nemico in due parti, e presa tutta quella che stanziava a Voltri e nei luoghi circostanti. Non pertanto, per interrompere alle genti di Voltri la facoltà di accostarsi a tempo del conflitto in aiuto della mezzana, si era risoluto ad assaltar questa terra. Il dì 10 aprile, circa le tre pomeridiane, givano i Tedeschi all'assalto di Voltri con sei mila fanti e quattro bocche da fuoco. Alcune navi da guerra inglesi secondavano lo sforzo loro con ispessi tiri dal mare vicino. Non potendo i Franzesi rispondere a tanti assalti, furono rotti, diventarono i Tedeschi padroni dei posti sopraeminenti a Voltri, e se avessero incominciato la battaglia più per tempo, tutta la forza franzese di Voltri sarebbe stata o morta o presa; ma sopraggiunse la notte, dell'oscurità della quale opportunamente valendosi i repubblicani, si ritiravano a Varaggio ed alla Madonna di Savona. In questo mezzo tempo Argenteau e Roccavina non erano stati a bada; anzi, mossisi da Sassello, assaltarono grossi ed impetuosi le trincee estemporanee fatte dai Franzesi a Montenotte. Difendeva i Franzesi la fortezza del luogo, favoriva i Tedeschi il maggior numero; gli uni e gli altri infiammava un incredibile valore: stava in mezzo, qual premio al vincitore, l'innocente l'Italia. Si combattè coi cannoni, coi fucili, con le spade, con le mani. Maravigliavansi i Franzesi a sì feroce assalto; maravigliavansi i Tedeschi a sì lunga resistenza. Finalmente, dopo molto sangue, riuscirono questi ad entrare per bella forza dentro le due trincee più basse, e se ne impadronirono. Rimaneva a conquistarsi la terza; contro di lei voltarono i Tedeschi tutto l'impeto dell'armi loro vittoriose. Qui sorse una battaglia tale che poche di simil fatta, per la virtù dimostrata dagli assalitori e dagli assaliti, sono tramandate dalle storie. Incominciavano a sormontare gl'imperiali, trovandosi assai più grossi, e già sul ciglione medesimo della trincea si combatteva asprissimamente da vicino. Ma in questo forte punto il collonnello Rampon, sotto la custodia del quale era la trincea, a patto nessuno sbigottitosi a quell'orribile fracasso, che anzi tanto più infiammandosi nel suo coraggio quanto più era grave il pericolo, animosissimamente rivoltosi a' suoi soldati, fece lor prestare quel bel giuramento che fia eterno nelle storie, di non cedere se non morti. Il valor dei Franzesi diventò più che sprezzo di morte, e con tanta pertinacia, con tanta ostinazione, con un menar di mani tanto tremendo combatterono, che ributtati, furiosamente da ogni assalto i Tedeschi, sopravvenne la notte, senza che eglino potessero conquistare la trincea tanto contrastata e tanto importante. Gli uni e gli altri, sull'armi loro posando, aspettavano la luce del seguente giorno, che doveva in un nuovo conflitto definire la spaventevole contesa. Ma il generalissimo Buonaparte, nella notte stessa, con pari celerità ed arte mandò a tutta fretta un rinforzo da Savona a Montenotte, il quale non solamente rinfrancò gli spiriti dei difensori della trincea, ma diede agio a Rampon di empiere di soldati a destra ed a sinistra le boscaglie. Al tempo stesso comandò a Laharpe, andasse avanti con tutta l'ala diritta, e snodasse minutamente l'ala sinistra dalla mezzana degli alleati. E per rendere vieppiù la vittoria certa, ed arrivare al fine principale di tutto il disegno, marciava egli medesimo con due forti colonne, sperando di sgiungere la mezzana governata da Argenteau e da Roccavina dalla destra retta da Colli. Spuntava appena l'aurora del giorno 11, che Argenteau, senza prima aver fatto esplorare le boscaglie, iva baldanzoso all'assalto; ma non era ancora il suo antiguardo arrivato vicino alla trincea, che venne assalito ai fianchi da una tempesta di moschetti, che procedeva dai soldati imboscati, e da un'impetuosa scaglia lanciata dal ridotto. A tale sanguinoso intoppo s'arrestarono, titubarono, si disordinarono, diedero indietro le sue genti: Roccavina ferito gravemente, lasciato il campo di battaglia, andava a ricoverarsi in Acqui. Pure v'era speranza, con qualche rinforzo e dopo respiro, di ricominciar la batteria; ma ecco arrivare infuriando dall'un canto Buonaparte, dall'altro Laharpe. Fu allora forza ai confederati di ritirarsi piucchè di passo per non essere posti negli estremi, ed il forzato loro movimento fece riuscir ad effetto il pensiero di Buonaparte dell'aver voluto separare i Piemontesi dai Tedeschi. Morirono nella battaglia di Montenotte meglio di due migliaia di buoni soldati dalla parte dei confederati; circa tre mila tra feriti e sani vennero come prigionieri in poter del vincitore. Dalla parte dei repubblicani pochi furono i prigionieri, molti i feriti, più di un migliaio incontrarono la morte. Ma perchè quello che avevano i repubblicani conseguito, cioè la separazione degl'imperiali dai regii, non venisse loro guasto per una nuova riunione, il che poteva venir fatto finchè i confederati stavano più su nella valle della sinistra Bormida a Millesimo che nella valle della Bormida destra, dove stanziavano a Dego ed a Magliani, era necessario cacciarli più sotto nella prima. Quindi nacque pei Franzesi la necessità di dar l'assalto al posto di Magliani e d'impadronirsi di Millesimo. Il secondo di questi fini fu conseguito da Augereau, il quale per viva forza superò i passi dei monti che dividono le due valli. Era alla guardia della sinistra Bormida il vecchio, ma prode generale Provera con un corpo franco austriaco e quindici centinaia di granatieri piemontesi. Posto egli in molto pericolosa condizione, volle con sano consiglio ritirarsi a mano manca verso gli Austriaci; ma gli venne impedito il viaggio dalla Bormida che, cresciuta per pioggie abbondanti, correva torbida ed impetuosa. Fece allora l'animosa risoluzione di salirsene in cima al monte, dove siede il vecchio castello di Cosseria, ed ivi senza artiglierie, senza munizioni, senza sussidio alcuno di cibo o di acqua attendeva a difendersi. Augereau che conosceva ottimamente che fin tanto che quel freno del castello di Cosseria fosse in mano del nemico, non era possibile di consuonare co' suoi verso il centro e la destra, si accinse a fare ogni sforzo per superarlo. Tre volte andarono i repubblicani all'assalto, altrettante furono risospinti con immenso valore dagli assaltati. Pernottarono i Franzesi a mezzo monte. Ma era sitibonda all'estremo la guernigione; chiedeva Provera quant'acqua bastasse ai feriti; la negava Augereau. Arrivava il giorno 14 aprile: la fame e la sete operarono ciò che la forza non aveva potuto; diessi la piazza ai vincitori. Ai medesimo tempo Rusca cacciava i Piemontesi da San Giovanni di Murialto, e la vittoria di Cosseria abilitava Augereau a superare Montezemo; il che diè facoltà ai Franzesi di spiegar la bandiera loro nella valle del Tanaro, ed indusse Colli alla necessità di correre a difender Ceva e Mondovì. Queste cose succedevano a sinistra dei repubblicani; ma altre di maggiore importanza preparava la fortuna in mezzo e a destra. Quantunque gli alleati avessero toccato una grave sconfitta a Montenotte, le sorti loro avrebbero potuto facilmente risorgere, perchè nè erano perduti d'animo, nè mancavano di passi forti a cui potessero ripararsi: massimamente insino a tanto che la strada del Dego non era libera al nemico, non temevano ch'ei potesse fare un'impressione d'importanza in Piemonte. Laonde applicarono l'animo a farsi forti per quella strada; dall'altra parte i Franzesi pensavano a sforzarla. Gli Austriaci in numero di circa quattro mila soldati, ai quali si erano accostati i due reggimenti piemontesi della Marina e di Monferrato, si fortificarono a questo fine sui monti di Magliani ed altri, facendovi un ridotto munito d'artiglieria e grande abbattuta d'alberi. Diedero loro tempo due giorni i Franzesi a fornire le loro fortificazioni in quei luoghi eminenti e difficili. La principal difesa degli alleati consisteva nel ridotto di Maglioni, che stava a ridosso del castello del medesimo nome. I repubblicani, per aprir quella strada che i confederati avevano serrata, comparivano alle due meridiane del dì 13, minacciosi e grossi di quindici mila combattenti, facendosi avanti sino alla Rocchetta del Cairo, ad un miglio distante di Dego. Quivi si spartirono in tre colonne che si accostarono ai siti occupati dai confederati. Ma non furono questi fatti che minaccie, tentativi per iscoprir bene il sito e la forza del nemico. A questo fine appunto Buonaparte, giunto che fu al Colletto, fece trarre d'una forte cannonata, per prender notizia del nemico, sperando che gli alleati, credendosi assaliti, e rispondendo, lo avvisassero dei luoghi dove si trovavano, il che gli riuscì come aveva sperato. Ma l'urto dei due forti nemici doveva succedere nel dì 14, nel quale i repubblicani, risoluti di venire al cimento, si spartirono, come innanzi, in tre parti. Le molte mosse loro erano con molta maestria di guerra pensate, e furono altresì con molto valore eseguite. Riuscì terribile l'urto al Poggio ed alla Sella; vi morirono molti buoni corpi da ambe le parti. Saliva di fronte la mezzana, ma posatamente per aspettare l'effetto dell'assalto dato sui due fianchi. I Franzesi, dopo un combattimento sostenuto quinci e quindi con molta ostinazione, riuscirono finalmente ad aver vittoria sui due lati, cacciando i nemici loro dal Poggio e da Monterosso. Si fece allora avanti la mezzana ed entrò forzatamente, nel castello di Magliani dove uccise i soldati di Giulay, che tutti vollero piuttosto morire che cessar di combattere. Restava il ridotto di Magliani, principale propugnacolo degli alleati, dal quale tempestavano con una furia incredibile di palle e di scaglie. Fu quivi assai dura l'impresa pei repubblicani, perchè i confederati, maravigliosamente inferociti, traevano spessissimamente a punto fermo, e solo a cento passi di distanza. Finalmente dopo tre ore di sanguinosissima battaglia, e solamente verso la sera, venne fatto ai Franzesi, che accorrevano contro il ridotto da tutte le bande, d'impadronirsi di quel forte sito, cacciatine a forza i difensori. Si precipitarono allora gli alleati nella valle delle Cassinelle per guadagnar prestamente la strada per a Pareto; ma i Franzesi li seguitarono a corsa, e quella colonna che s'era spartita al principio del fatto dalla destra schiera, che se ne stava ai Pini, scagliossi ancor essa siffattamente contro i fuggiaschi, che ne furono quasi tutti o morti o presi: tutti anzi sarebbero stati sterminati, se i due reggimenti piemontesi della Marina e di Monferrato, fatto un po' di testa al monte Scazzone, non avessero fatto ala a coloro che fuggivano, cacciati dalla furia franzese che gl'incalzava. Perdettero gli alleati in questa battaglia meglio di due mila soldati tra morti, feriti e prigionieri; i repubblicani poco più di duecento. Ma grave perdita pei primi fu quella che susseguitò, del castello di Cosseria, perchè stretto già Provera, come abbiam detto, dalla sete e della fame, perduta la speranza d'ogni aiuto poichè vide dall'alto la sconfitta de' suoi, non indugiò più ad arrendersi. Argenteau, invece di soccorrere i difensori di Magliani coi cinque o sei mila soldati che avea seco a Pareta, il che avrebbe potuto facilmente cambiare la fortuna della giornata, li mandò a far massa ad Acqui. Questa fu la battaglia che meglio di Magliano, che di Millesimo, si chiamerebbe, perchè a Magliano concorsero le principali forze delle due parti, e nel luogo medesimo succedette il più forte conflitto. La notte che seguì il giorno della battaglia, il tempo stato nuvoloso, diventò piovoso; piovve a rotta verso l'alba. Tra per questo e per pensare i Franzesi a tutt'altro, fuorchè il nemico vinto avesse a prendere così tosto nuovo rigoglio ad assaltarli, si guardavano negligentemente, e solo cinque a seicento vegliavano alla difesa delle trincee. Ed ecco appunto che in sul far del giorno il colonnello Wukassovich, accompagnato dal luogotenente Lezzeni, con un corpo di circa cinque mila soldati compariva improvvisamente alla vista di Magliani. Aveva Argenteau, perduta la battaglia di Montenotte, ordinato a Wukassovich venisse tosto a raggiugnerlo al Dego ed a Magliani; ma per poca mente, che anche la sventura gliela faceva girare, gli aveva indicato per la mossa un giorno più tardi di quello che avesse in animo, dimodochè il colonnello, invece di arrivare al dì 14, che forse avrebbe vinto la battaglia, arrivava il 15. Non ostante che con sua gran maraviglia avesse veduto, strada facendo, la fuga de' suoi, e che il nemico aveva occupato Magliani, si risolveva a dar dentro risolutamente, e già urtava il castello ed il ridotto. Risentitisi a sì improvviso accidente i Franzesi, muovevansi a corsa verso il ridotto per difenderlo; ma nè ebbero tempo di schierarsi, nè di apparecchiare le artiglierie, e quel forte sito, che con tanta fatica e sangue avevano conquistato, ritornava, quasi senza contrasto, in potestà dei confederati, in un con le artiglierie che munivano i luoghi, e con molta strage dei Franzesi, che si diedero alla fuga. Massena, a così fortunoso caso riscossosi e gettatosi al piano, frenava primieramente l'impeto dei suoi che fuggivano verso il Colletto; poi ordinatili di nuovo in tre colonne, come nella battaglia del dì 14, li conduceva all'assalto. Ma se Massena non era capace di timore, non era nemmeno Wukassovich: qui la battaglia divenne orrenda. La sinistra era alle mani con le guardie avanzate austriache, che si difendevano con singolare ardimento; la mezzana pativa assai, perchè i Tedeschi fulminavano dal ridotto, e già i soldati stanchi e impauriti si nascondevano per le case. La destra medesimamente trovava un feroce rincalzo. Massena, veduto titubare i suoi, mandò avanti la squadra di ricuperazione, e postata dietro alla mezzana, impediva che coloro che davano indietro passassero il Grillero. La colonna di mezzo, da lui incoraggita e dagli altri generali, già arrivava fin sotto al ridotto; ma uscitine impetuosamente gli Austriaci, la urtarono e rincacciarono sino al castello. La sinistra ancor essa era stata risospinta con grave perdita; la destra non faceva frutto; già il quarto assalto era riuscito vano. Arrivava in questo punto con sei mila soldati Laharpe. Novellamente si raccozzavano, si riordinavano, si muovevano, si serravano contro il nemico; nè ciò ancor bastava a piegare la costanza austriaca. Dopo tanti rincalzi e tante stragi, incominciavano i Franzesi a dubitare della battaglia. Buonaparte, che vedeva l'importanza del fatto, accorreva coi soldati vincitori di Cosseria, e con impeto unito menava i suoi ad un ultimo assalto. Puntarono acremente la destra e la sinistra sui fianchi; la mezzana, ingrossata e rinfrescata, assaliva di fronte. Urtati da tante parti, continuavano gli Austriaci a combattere; cacciati dal ridotto, combattevano dalle case; cacciati dalle case, combattevano dalle boscaglie; finalmente cacciati anche da queste e pressati da ogni banda, minacciosi e rannodati si ritiravano. Perdettero gli Austriaci in questa battaglia, tra morti, feriti e prigionieri, sedici centinaia di buoni soldati con tutte le artiglierie loro; ma non fu nemmeno senza sangue pei Franzesi la vittoria. Tra morti feriti e prigionieri, mancarono più di ottocento soldati. Argenteau errò in molti modi, e nella battaglia di Montenotte e dopo di lei, e massimamente in quella di Magliani, per modo che ei fu costretto di combattere con una parte delle sue forze contro la maggior parte di quelle del nemico. Sollevossi fra l'austriaca gente un romore ed uno sdegno grandissimo contro di lui; accusandolo tutti dell'infelice successo delle battaglie di Loano, di Montenotte e di Magliani, delle quali la prima preparò la strada, le altre l'apersero alla conquista d'Italia. Beaulieu il fece arrestare e condurre a Mantova, poi a Vienna, perchè fossevi preso dell'error suo da un consiglio di guerra debito giudizio. Ma il nome di Wukassovich rimarrà nella memoria dei posteri a giusto titolo glorioso, come di uno de' migliori guerrieri de' nostri tempi. Lo splendore della vittoria franzese fu oscurato dal furore del sacco. Molti fra i repubblicani, non perdonando nè a cosa sacra, nè a profana, riempivano i paesi di terrori e di fughe. Queste enormità, che tanto contaminavano il nome di Francia, abbominavano molti generali, abbominavano i soldati buoni; ma quelli non potevano impedirle coi comandamenti, nè questi con l'esempio. Serrurier, Chambarlac, Maugras, Laharpe ne mossero gravissime lagnanze, e tanto si concitarono, che, per non più vedere e dover comportare sì abbominevoli eccessi, chiedean licenza a Buonaparte generale di potersene ire; soprattutto esclamavano contro gli scellerati amministratori, che ridotti avevano i soldati dell'italica oste od a farsi ladri ed assassini od a morir di fame. Seguitando la narrazione dei fatti, dopo la vittoria di Magliano, insistendo velocemente Buonaparte nei prosperi successi, era venuto a capo del suo pensiero di separare gli Austriaci dai Piemontesi; nel che tanto più facilmente riuscì, che nè Beaulieu si curò molto di starsene unito a Colli, nè Colli a Beaulieu, perchè alcuni semi di discordia già erano prima dei raccontati fatti tra di lor sorti, e, come suole accadere nelle disgrazie, gli Austriaci accusavano i Piemontesi di non avergli aiutati, i Piemontesi davano il medesimo carico agli Austriaci. Finalmente premeva più a Beaulieu l'accorrere alla difesa del Milanese, a Colli a quella del Piemonte. Di questa dissidenza dei capi accortosi Buonaparte, quantunque gli fosse stato ingiunto di perseguitar piuttosto gli Austriaci che i Piemontesi, si risolveva serrarsi addosso agli ultimi, sperando di costringere fra breve il re di Sardegna alla pace, per voltarsi poscia, assicuratosi alle spalle, con maggiore speranza di vittoria alla conquista della Lombardia. Voltò adunque il capitano di Francia del tutto i pensieri a voler vedere quello che fosse per partorire in Piemonte la presenza dei repubblicani. Due erano i modi che voleva usare; la forza, con perseguitar da vicino co' suoi soldati vittoriosi le reliquie delle truppe reali; l'astuzia, col tentar di far muovere i popoli con le parole di libertà contra l'autorità del re. A questo era disposto per sè e comandato dal direttorio, che tentasse per ogni mezzo di dare spirito ai novatori, e tanto più ciò facesse quanto più si ostinasse il Piemonte a voler perseverare nella sua congiunzione con la lega e nella guerra. Adunque ordinato ogni cosa, e collocato un grosso corpo nei contorni del Dego per appostar gli Austriaci, acciocchè non tentassero nulla a suo pregiudizio, si avviava verso Ceva, contro cui aveva già mandato con molte forze Augereau e Serrurier. Erasi Colli, dopo l'infelice successo della giornata di Maglioni, e dopo che pel fatto di Cosseria era stato obbligato di lasciar al nemico la possessione di Montezemo, ridotto coi Piemontesi nel campo trincerato che per difesa della fortezza di Ceva era stato ordinato alla Pedagiera ed alla Testa-nera, sito che signoreggia la fortezza. Assaltò Buonaparte impetuosamente questo campo; gli fu anche virilmente risposto; durò la battaglia molte ore con molto sangue da ambe le parti, nè vi fu modo di far piegare i regii che, con valore difendendosi, respingevano costantemente il nemico. Succedeva questa fazione il 16 aprile. Pernottarono repubblicani e regii ai luoghi loro; ma il giorno seguente, ingrossatisi molto i primi, rinfrescarono l'assalto più forte di prima, nel quale, sebbene animosamente si difendessero i regii, temendo Colli di essere spuntato da' lati, lasciato un grosso presidio nella fortezza, ritraeva le genti, con andar ad alloggiarle in sito molto opportuno là dove la Cursaglia mette nel Tanaro. Occuparono, fatta questa ritirata, i repubblicani subitamente la città di Ceva, nè così tosto l'occuparono che vi fecero grosse tolte di pane, e posero taglie di denaro. Attaccarono i repubblicani superiori di numero l'esercito regio ne' campi della Niella e di San Michele, ma non poterono sloggiarlo, pel duro contrasto che vi fece. Al 20 massimamente si combattè con molto sangue: pure stettero fermi alla pruova i Piemontesi per modo che Serrurier si ritirava assai malconcio e disordinato. In fine quel valoroso Massena, il quale, nato suddito del re, più di tutti operò per abbattere la sua potenza, passato, la notte del 21, il Tanaro a guado presso Ceva, aveva occupato Lesegno. Dall'altra parte Guyeu e Fiorella, essendosi fatti padroni del ponte della Torre, mettevano Colli in pericolo di essere circondato da' repubblicani alle spalle: il che avrebbe condotto quell'esercito, ultima speranza della monarchia piemontese, ad una estrema rovina. Per lo che, levato il campo occultamente alle due della notte, e conducendo seco tutte le artiglierie e le bagaglie, si incamminava frettolosamente, ma ordinatamente, alla volta di Mondovì. Il seguitarono velocemente i repubblicani, ed il raggiunsero a Vico, dove allo spuntar del giorno seguì la battaglia che i Franzesi chiamano di Mondovì. Ma non fu battaglia giusta, che intento di Colli non era di darla, ma solo di ritardar tanto il perseguitante nemico che potesse condur in salvo le artiglierie ed il bagaglio, come potè conseguire, mettendo ne' luoghi sicuri dietro l'Ellero ed il Pesio le armi grosse e tutti gl'impedimenti. Ritirossi poscia in un forte alloggiamento oltre la Stura, con Cuneo alla destra e Cherasco alla stanca. In tale modo un umile fiume, un esercito valoroso, ma vinto, e due piazze, una forte, l'altra debole, restavano soli impedimenti a' Franzesi, onde non inondassero tutto il Piemonte, e non sventolassero le insegne repubblicane sotto le mura della città capitale di Torino. L'audace Buonaparte, non contento se prima non avesse rotto ogni resistenza, usava l'estrema forza e l'estrema astuzia. Minacciava dall'un canto di varcar la Stura, dall'altro impadronitosi d'Alba per mezzo di Laharpe, città posta sulla riva del Tanaro sotto la foce della Stura, era in grado di passare il primo di questi fiumi e di correre alle spalle de' Piemontesi. Oltre di questo, per rizzare a spavento del governo una prima bandiera di ribellione, aveva operato, e l'ottenne anche facilmente, che alcuni abitatori di Alba, instigati principalmente da Bonafons, fuoruscito piemontese venuto coi repubblicani, ed a cui erasi accostato un Ranza, uomo dabbene, nè senza lettere, ma cervello disordinato, facessero un movimento contro l'autorità regia, mandando fuori bandi di volersi costituire in repubblica. Nè contenti a questo Bonafons e Ranza, procedendo immoderatamente, mandavano altri bandi repubblicani al clero del Piemonte e della Lombardia, siccome pure ai soldati Napolitani e Piemontesi. Adunque, e per questi romori, e per esser padrone il nemico del passo del Tanaro in Alba, e per essere Cherasco in sè stesso poco difendevole, temendo Colli di essere assaltato alle spalle, lasciato Cherasco, si ritraeva, per sicurezza di Torino, alle stanze di Carignano. Ora era giunto il re di Sardegna a quell'estremo punto, in cui o far doveva una risoluzione magnanima, o sottoporre il collo ad un nemico insolente e ad un governo disordinato e del tutto diverso dal suo. Adunossi in tanto precipizio di cose il consiglio, al quale assistettero il re ed i principi reali, con tutti i ministri dello Stato. Drake, ministro d'Inghilterra a Genova, trasferitosi a Torino, ed il marchese Gherardini, ministro d'Austria, temendo che in agitazione sì grave il re fosse per separare i suoi consigli da quei della lega, e desiderando sommamente di interrompere questa cosa, non avevano mancato all'uffizio loro, con tenerlo continuamente sollecitato, perchè voltasse il viso alla fortuna e stesse in fede, molte e molte cose rappresentandogli, e conchiudendo, considerasse bene quanto da lui richiedessero Italia ed Europa, nè consentisse che in lui più potesse un romor repentino che i veri interessi del suo reame. Dimostravasi Vittorio Amedeo costantissimo a voler continuare nella fede data: difenderebbe Torino sino all'ultimo, o andrebbe ramingo, se così fortuna volesse, non consentirebbe a pace con un nemico odiosissimo. Il secondava nella medesima sentenza il principe di Piemonte, nel quale, come primogenito regio, doveva pervenire il regno, non per motivi di Stato soltanto, ma sì ancora di religione, parendogli, come a principe religiosissimo, troppo abbominevole aver per amici coloro che stimava eretici e nemici di Dio; temeva la propagazione de' principii loro anche in Piemonte, ed abborriva una pace ancor più rea verso gli uomini. Ma dal cardinale Costa, arcivescovo di Torino, personaggio, nel quale risplendevano ingegno, dottrina ed amor singolare di lettere e di letterati, fu ragionato in contrario, «essere il pericolo della ribellione imminente, la necessità più forte della fede; il cacciare i Franzesi dal Piemonte del tutto impossibile; meglio avergli amici che nemici; ponendo anche l'Austria di eguale potenza della Francia, esser questa vicina, quella lontana; riuscir più facile ai Franzesi l'invadere il Piemonte, che agli Austriaci il preservarlo; potere l'Austria, come lontana, perseverare nella guerra; dovere il Piemonte pensare ai casi suoi; nella supposizione favorevole diventerebbe il Piemonte campo di guerra, pieno di ruberie, di devastazioni e di uccisioni; e se già a mala pena si poteva resistere a' Franzesi, come si sarebbe potuto resistere ai Franzesi stessi ed ai sudditi tumultuanti a perdizione del regno?.... Sperar la guerra tanto felice ch'ella reintegrasse il re delle perdute Savoia e Nizza per la forza dell'armi, esser piuttosto fola da infermi che argomento d'uomini ragionevoli; all'incontro potere i Franzesi, dal canto de' quali allora stava la probabilità della vittoria, e volere ed offerire nel conquistato Milanese grassi ed adequati compensi: sì certamente essere infido quel franzese governo, ma poter tendere maggiori insidie in guerra che in pace, perchè la guerra fa le insidie lecite, la pace le fa infami; variare consiglio il savio al variare degli eventi, e poichè la fortuna aveva addotto un accidente, non che straordinario, maraviglioso, doversi anche fare una risoluzione straordinaria. Loderebbonla gli uomini prudenti, benedirebbonla i sudditi fatti immuni dalle esorbitanze incomportevoli della guerra; assai e pur troppo essersi fatto per mantenere la fede promessa; dimostrarlo il sangue sparso, dimostrarlo le innumerevoli morti, dimostrarlo le desolate campagne assai essersi soddisfatto all'onore, ora doversi soddisfare all'esistenza.» A questa sentenza del consigliar la pace era stato tirato l'arcivescovo per lume proprio e per un conforto dell'avvocato Prina, Navarese, quel medesimo che, d'ingegno acutissimo, d'animo duro, e bel parlatore e maestro singolare del comandare, piacque poi tanto per infelice suo destino a Buonaparte. Il favellare di un uomo tanto grave e tanto pratico delle cose del mondo, qual era il cardinale Costa, commosse tanto e sì maravigliosamente gli animi degli ascoltanti, che fu fatta quella risoluzione che, sottraendo la monarchia piemontese da una dipendenza verso l'Austria, la fece vera e reale serva della Francia. Allora veramente, e non più tardi, perì il reame di Sardegna, allora, e non più tardi, perì la monarchia piemontese. Spedironsi pertanto a fretta verso Genova il conte Revello ed il cavaliere Tonso, con mandato di negoziar della pace con Faipoult, ministro della repubblica franzese. Al tempo medesimo fu fatto mandato a Colli di domandare, ed al conte Delatour e marchese della Costa di accordare una sospensione di offese col generale repubblicano; ma non avendo Faipoult facoltà di negoziare, i commissarii s'incamminarono tostamente alla volta di Parigi, affine di stabilire la pace e l'amicizia con la repubblica. Intanto scrittosi da Colli a Buonaparte si sospendessero le offese, rispose nè potere nè volere, se prima non gli si davano due delle tre fortezze di Cuneo, di Alessandria e di Tortona. Consentiva il re per la prima e per l'ultima, e di più per Ceva, che, oppugnata gagliardamente, con ugual gagliarda si difendeva. Adunque l'estremo momento essendo giunto, in cui l'antichissima monarchia de' Piemontesi doveva, cessando d'esser padrona di sè medesima, cadere in servaggio altrui, fu accordata in Cherasco la tregua tra Buonaparte dall'un lato, Latour e della Costa dall'altro, con questo che i repubblicani occupassero Cuneo il dì 28 aprile, Tortona non più tardi del 30, la fortezza di Ceva subito dopo gli accordi; restassero i Franzesi in possesso dei paesi conquistati oltre la Stura ed il Tanaro; fosse fatto facoltà ai corrieri di passare pel Cenisio per a Parigi; comprendessersi nella tregua i soldati dell'imperadore che erano ai soldi del Piemonte; durasse sino a cinque giorni dopo la conclusione dei negoziati di Parigi. Siccome poi Buonaparte tesseva un grande inganno a Beaulieu per farsi comodo il passo del Po, così stipulava che l'esercito di Francia potesse passare il fiume sopra Valenza. Queste furono le tristi condizioni della tregua, alle quali succedettero poco stante le condizioni più tristi ancor della pace. A tale accordo si rallegrarono i novatori, s'avvilirono i ligii, si scoraggiano i leali, si spaventarono i popoli, si sdegnarono i soldati; spaventossene l'Italia, maravigliaronsene i potentati d'Europa. Volle anzi in questo la fortuna, solita ad addurre casi strani, che le novelle della debolezza del governo regio, che tanto disordinava le cose comuni, spedite con grandissima celerità a Pietroburgo, vi arrivassero prima della circolare scritta dal re, per cui affermava la sua costanza di voler perseverare nella guerra essere inconcussa; delle quali novelle non sapendo l'agente di Sardegna, visitava il conte Ostermann, ministro degli affari esteri dell'imperatrice Caterina, la circolare rappresentandogli, la quale leggendo Ostermann, dava segni di maraviglia, di dispetto e di sdegno, servendosi anche, parlando del re, di parole che non voglionsi riportare. La somma fu, che squadernò in viso all'agente lo spaccio che conteneva le novelle della tregua, sdegnosamente dicendo che i confederati sapevano ottimamente che la fortuna della guerra avrebbe potuto portare che i Franzesi penetrassero in Piemonte; che non ostante avevano confidato che il re, ad imitazione dei gloriosi suoi antenati, serbando la medesima costanza, avrebbe loro osservato le cose promesse; che la lega non avrebbe pretermesso di soccorrerlo; che finalmente, se avessero i confederati potuto credere che a un primo impeto ei fosse per mancar d'animo e per posar le armi, avrebbero fatto altri pensieri, e provveduto in altra guisa alla sicurezza ed agl'interessi degli Stati loro. Infatti non si vede quale sì inevitabile necessità dovesse condurre il governo regio ad una risoluzione tanto pregiudizievole e tanto inonorata. Di quello poi che fosse a farsi in così grave frangente testimonio irrefregabile è Buonaparte medesimo, che soleva dire che se il re di Sardegna gli avesse tenuto il fermo solamente quindici giorni, ei sarebbe stato costretto a rivarcar i monti per ritornarsene là dond'era venuto. Mancò adunque il governo regio a sè medesimo, non mancarono i popoli, e manco i soldati al governo; e se Vittorio Amedeo II, già signori i Franzesi di quasi tutto il Piemonte, e già oppugnanti con ottanta mila soldati, fornitissimi di cavalleria e di grosse artiglierie, la capitale del regno, non disperò delle sue sorti; anzi finalmente con una subita e gloriosa vittoria ricuperò lo Stato; stupiranno i posteri che Vittorio Amedeo III, intero ancora lo Stato suo in Italia, intere le fortezze, intero l'esercito al primo romoreggiare d'un quaranta mila Franzesi, difettosi di artiglierie, massime grosse, difettosi di cavalleria, senza denaro per pagare, nè magazzini per pascere i soldati, si sia sbigottito nell'animo e dato subitamente in preda a coloro che con una pace a lui pregiudizievole non altro fine avevano se non di costringere l'Austria ad una pace utile a loro. Avendo adunque fermate le armi col re, acconce le condizioni del Piemonte e posto in sua balia quel primo Stato d'Italia, il che gli alleggeriva il bisogno di tenersi truppe alle spalle, innalzava Buonaparte l'animo ad imprese più grandi; e perchè l'esercito non gli mancasse sotto, mandava fuori un bando che merita di essere attentamente considerato per rilevar l'indole del nuovo capitano di Francia: «Ecco, diceva, o soldati, che in quindici giorni avete vinto sei battaglie, preso trenta stendardi, cinquantacinque cannoni, parecchie fortezze, quindici mila prigioni; avete ucciso dieci mila nemici, conquistato la parte più ricca del Piemonte, vinto battaglie senza cannoni, varcato fiumi senza ponti, marciato viaggi senza scarpe, passato notti senza tetti, sostenuto giorni senza pane. Le falangi repubblicane, i soldati soli della libertà capaci sono di sì virili sopportazioni; rendevi la patria grazie dell'acquistata prosperità; vincitori di Tolone, le vittorie del 93 presagiste; vincitori delle Alpi, più fortunate guerre presagiste; non più fra sterili rupi, non più fra monti inaccessibili, ma nella ricca Italia avrete a far guerra; ecco che gli eserciti, che testè vi assalivano con audacia, fuggono con terrore al cospetto vostro; ecco trepidar coloro che si facevano beffe della miseria vostra; ma se avete operato cose grandi, restanvene maggiori a compire. Non ancor sono Roma e Milano in poter vostro, ancora insultano alle ceneri dei vincitori dei Tarquinii gli assassini di Basseville; altre battaglie avete a vincere, altre città ad espugnare, altri fiumi a varcare; forse alcuno di voi si ritragge? Forse sulle cime dei superati monti ama tornarsene per esser quivi di nuovo segno delle ingiurie di una soldatesca di schiavi? No, i vincitori di Montenotte, di Millesimo, di Digo e di Mondovì bramano tutti di portar più oltre la gloria del nome franzese; tutti vogliono una pace utile alla patria; tutti desiderano alle paterne mura tornarsene, tutti quivi con militare vanto dire: _Ancor io mi fui dell'esercito conquistatore d'Italia. _Promettovi, amici, ed a voi per ciò mi lego, che dell'Italia vittoria avrete; ma frenate, per mia fè, gli orribili saccheggi, sovvengavi che siete liberatori del popolo, non flagello; non contaminate con la licenza le vittorie nè il nome vostro; non contaminate la fama dei fratelli morti nelle battaglie. Io sarò freno a tanto vituperio; vergognereimi al reggere un esercito indisciplinato; ogni scellerato soldato, che con gli oltraggi e col ladroneccio oscurerà lo splendore dei vostri fatti, fia da me, senza remissione alcuna, dato a morte.» Questo favellare di un capitano vittorioso a soldati vittoriosi, a Franzesi massimamente tanto avidi di gloria d'armi, partoriva un effetto incredibile: coll'immaginare, già facevano loro la Germania lontana, non che l'Italia vicina. Quel mostrar poi di voler frenare il sacco, era molto astuto consiglio per dare sicurtà ai popoli, spaventati da una fama terribile e da fatti più terribili ancora. Rivoltosi poscia ai popoli d'Italia, mandava lusinghieramente, venire il franzese esercito per rompere i ceppi loro; essere il popolo franzese amico a tutti i popoli; accorressero a lui confidentemente, lealmente, securamente; serberebbe intatte le proprietà; la religione, i costumi, fare i Franzesi la guerra da nemici generosi; solo averla coi re. Quali sentimenti producessero siffatti incentivi, coloro sel pensino che sanno quanto operi la forza congiunta a magnifiche parole: nè è da far maraviglia se queste guerre vive dei Franzesi di tanto abbiano prevalso ad ogni altro genere di guerra. Possente aiuto a far la guerra da fronte era la quiete alle spalle. Arrivarono le novelle desideratissime essersi conclusa la pace il dì 15 maggio fra la repubblica e il re. Furono le condizioni principali: cedesse il re alla repubblica la possessione del ducato di Savoia e della contea di Nizza; oltre le fortezze di Cuneo, Ceva e Tortona, mettesse in potestà dei repubblicani Icilia, l'Assietta, Susa, la Brunetta, Castel-Delfino ed Alessandria, od in luogo suo, ed a piacere del generale di Francia, Valenza; smantellassersi a spese del re Susa e la Brunetta, nè alcuna nuova fortezza potesse rizzare per quella frontiera; non desse passo ai nemici della repubblica; non sofferisse ne' suoi Stati alcun fuoruscito o bandito franzese; restituissersi da ambe le parti i prigionieri fatti in guerra; abolissersi ed in perpetua dimenticanza mandassersi i processi fatti ai querelati per opinioni politiche; a libertà si restituissero e dei beni loro posti al fisco si redintegrassero; avessero facoltà, durante il loro quieto vivere, o di starsene senza molestia negli Stati regii o di trasferirsi là dove più loro piacesse; dei paesi occupati dai Franzesi conservasse il re il governo civile, ma si obbligasse a pagare le taglie militari, ed a fornir viveri e strame allo esercito repubblicano; disdicesse l'ingiuria fatta al ministro di Francia in Alessandria. Fatta la pace e domate le forze regie, aveva Buonaparte diminuito considerabilmente la potenza della lega in Italia. L'esercito austriaco, congiunto coi soldati di Napoli e con qualche parte di Tedeschi testè arrivata dal Tirolo, si trovava solo esposto a tutto l'impeto dei repubblicani, ai quali veniva a congiungersi gente fresca, che dall'Alpi e dagli Apennini a gran passi calava, allettata dalla fama di tante vittorie. La mira principale e tutta l'importanza dell'impresa del generale della repubblica erano d'impadronirsi di Milano: al qual fine due strade se gli appresentavano, di passare il Po a Valenza, o di varcarlo sotto la foce del Ticino. Appigliossi al secondo partito, il quale, oltre la maggior sicurezza che aveva in sè, dava opportunità di metter taglie al duca di Parma, il quale, sebbene subito dopo la tregua di Cherasco fosse stato esortato ad accordarsi con Francia da Ulloa ministro di Spagna a Torino, non vi aveva voluto consentire. Adunque, risolutosi del tutto Buonaparte a voler varcare il Po tra le foci del Ticino e dell'Adda, il che dovea anche dar timore a Beaulieu di vedersi tagliar fuori dal Tirolo, con arte veramente mirabile, oltre la condizione del passo di Valenza inserita nella tregua fatta a Cherasco, dava voce che voleva passare a Valenza, e richiedeva continuamente il governo sardo di barche pel valenziano passo, là mandando carri, là artiglierie, là soldati, e facendovi intorno una continua tempesta. Beaulieu, udita la tregua, tentate per una soprammano inutilmente le fortezze di Alessandria e di Tortona, perchè vi fu ributtato da' presidii piemontesi che vi stavano vigilanti, aveva passato il Po a Valenza, ardendo tutte le barche che nelle vicine rive si ritrovavano. Condottosi sulla sinistra sponda con tutto l'esercito e proprio e napolitano, stava attento ad osservare quello che fosse per partorire l'astuzia e l'ardire dell'avversario. Ma, quantunque sperimentato ed accorto capitano fosse, si lasciò prendere agl'inganni del giovane generale della repubblica; perciocchè fece concetto che veramente questi avesse lo intento di varcare a Valenza. Per la qual cosa si era alloggiato tra la Sesia ed il Ticino, affortificandosi per fare due prime teste grosse sulle rive dell'Agogna e del Terdappio, e rendendosi forte massimamente su quelle del Ticino. Siccome poi la città di Pavia, posta sul Ticino, vicino al luogo dove si mette nel Po e dov'è un ponte, gli dava sospetto, l'aveva munita sulle rive del fiume di trincee e di artiglierie. Per questi medesimi motivi aveva lasciato con poche guardie la sinistra del Po, non solo fra il Ticino e l'Adda, ma ancora fra la Sesia ed il Ticino. Ecco intanto che Buonaparte, sicuro oggimai di conseguire il fine che si era proposto, mandava una mano di veloci soldati, comandando facesse due alloggiamenti per giorno, verso Castelsangiovanni. Seguitava egli medesimo più che di passo con tutte le genti, mentre le sue artiglierie continuavano a fulminare, per non lasciar cader l'inganno, dalle rive di Valenza. Il colonnello Andreossi e lo aiutante generale Frontin spazzavano con cento soldati di cavalleria tutta la riva destra del Po insino a Piacenza, recando anche in poter loro alcune barche, le quali navigavano alla sicura sul fiume, portando riso, ufficiali e medicamenti destinati agl'Imperiali. Usando adunque celeremente l'occasione favorevole aperta dall'arte del generale loro, i Franzesi colla vanguardia composta di cinque mila granatieri e quindici centinaia di cavalli, varcavano felicemente, il dì 7 maggio, su quelle barche medesime e sopra alcune altre che loro si offersero preste a Piacenza, il fiume, e con allegrezza indicibile afferravano la sinistra sponda. Seguitava a veloci passi Buonaparte, per tale guisa che il dì 8 quasi tutto l'esercito aveva posto piede sulle milanesi sponde. Non così tosto ebbe udito Beaulieu le novelle del precipitarsi i Franzesi verso il basso Po, che spediva una grossa banda a Fombio, terra posta rimpetto a Piacenza sulla sinistra del fiume, per impedire, se ancora fosse a tempo, il passo ai repubblicani. Egli intanto ritirava le genti sull'Adda, sì per serbarsi aperte le strade al Tirolo, e sì per munire Mantova di gagliardo presidio. Avvisava ancora che finchè il grosso de' suoi, che, malgrado delle sconfitte, era tuttavia formidabile, si conservasse intiero sulle rive di questo fiume, pericolosa impresa sarebbe pei Franzesi il correre a Milano. Perlochè si avviava colla maggior parte delle genti a Lodi per guardar il ponte, che ivi apre il varco dalla destra alla sinistra del fiume. Mandava altresì una forte squadra, principalmente di cavalleria, a Casal Pusterlengo, affinchè, passando per Codogno, fosse in grado di servire come retroguardo alla schiera di Fombio, e di soccorrerla, ove bisogno ne fosse. Pavia intanto, abbandonata da' suoi difensori, non si reggeva più che con la guardia urbana. Bene erano considerati i disegni di Beaulieu, ma la prestezza franzese gli ebbe guasti; i soldati mandati a Fombio, benchè con veloce viaggio fossero accorsi, arrivarono non più per contrastare il passo al nemico, ma solo per combattere il medesimo, che già era passato. Buonaparte, che con la solita sagacità prevedeva che quella testa grossa di Austriaci, se le desse tempo di essere soccorsa poteva disordinare i suoi pensieri, si deliberava ad assaltarla senza dilazione. Occupavano gli Austriaci la terra di Fombio, in cui avevano fatto in fretta e munito di venti pezzi d'artiglieria alcune trincee; i cavalli, la maggior parte napolitani, che in questa fazione si portarono egregiamente, battevano la campagna. La moltitudine delle sue genti permetteva a Buonaparte di allargarsi e di assaltar da diversa parte la terra, solo mezzo perchè il combattere fosse breve e felice. Adunque spartiva i suoi in tre bande; la prima col generale Dallemagne doveva assaltar Fombio sulla sinistra, la seconda, condotta dal colonnello Lannes, dar dentro sulla destra, e finalmente il generale Lanusse con la mezzana aveva carico di attaccar la battaglia sulla mezza fronte della piazza per la strada maestra. Fu forte l'incontro, forte ancora la difesa. Gli Austriaci combattevano valorosamente e per natura propria e per la speranza del soccorso vicino. Finalmente prevalsero, non prima però che non fosse stato fatto molto sangue, l'impeto, la moltitudine e l'audacia de' Franzesi. Andavano gl'imperiali in rotta, ed abbandonato Fombio, si ritiravano a gran fretta a Codogno, con lasciar ai vincitori non poca parte delle bagaglie, trecento cavalli, circa cinquecento tra morti e prigionieri; e sarebbe stata più grave la perdita, se la cavalleria napolitana, condotta massimamente dal colonnello Federici, uffiziale di gran valore, serrandosi grossa ed intera alla coda, ed urtando di quando in quando gagliardamente il nemico, non avesse ritardato l'impeto suo, e fatto abilità ai disordinati Austriaci di ritirarsi. Usando i repubblicani la fortuna propizia, seguitavano i confederati ed occupavano Codogno. In questo mentre sopraggiunse la notte. Aveva Beaulieu avuto le novelle del passo de' Franzesi e del pericolo de' suoi assaltati in Fombio. Comandava pertanto a cinque mila eletti soldati corressero da Casal Pusterlengo per la strada di Codogno in soccorso di Fombio, credendo che i suoi tuttavia in quest'ultima terra si sostenessero. Fu questo un molto audace comandamento, e che poteva rompere i disegni al generale della repubblica, se fosse stato secondato dalla fortuna. In fatti arrivavano i Tedeschi nel buio della notte sopra i Franzesi all'improvviso, e sbaragliate le prime guardie, seminarono terrore e disordine in Codogno; anzi, spingendosi oltre, s'impadronirono di parte della terra. Accorreva al subitaneo rumore Laharpe, e, postosi a guida d'un reggimento fresco, marciava per rinfrancare la fortuna vacillante. L'avrebbe anche fatto, se nel bel principio di quella mischia, colto nel petto da una palla mortale, non fosse stato tolto subitamente di vita. Soldato di compito valore, ma ancora più di compita virtù, amato da tutti in vita, pianto da tutti in morte. L'accidente sinistro di Laharpe sgomentò di modo i repubblicani, che le sorti loro avevano del tutto il tracollo, se non arrivava frettolosamente il generale Berthier, che con la sua presenza tanto fece che rinfrancò gli spiriti e riordinò le schiere sbigottite e disordinate. Spuntava intanto il giorno: i Tedeschi, nell'ardir loro moltiplicando, perchè già si credevano in possessione della vittoria, si allargavano sulle ali per circondare il nemico. Ma già si erano riavuti i Franzesi; i Tedeschi medesimi, veduto al lume del giorno che i nemici, superiori assai di numero, facevano le viste di assaltarli, pensarono al ritirarsi: il che fecero, prima in buon ordine e regolatamente, poscia disordinati e rotti, instando acremente i Franzesi, oramai consapevoli dei loro vantaggi. La schiera tutta sarebbe stata condotta all'ultimo termine, se per la seconda volta la cavalleria napolitana non le faceva scudo alla ritirata. Perdettero in questo fatto i Tedeschi quasi tutto il bagaglio, non poche artiglierie lasciate nei fossi della terra, molti prigionieri fra i dispersi. Tenevano loro dietro a gran passo i repubblicani, e s'impadronivano di Casale, mentre i residui degl'imperiali si ricoveravano a Lodi, dov'era giunto con tutte le sue forze Beaulieu, e dove voleva pruovare per l'ultima volta, se, obbligando il fortunato emulo suo a fare un moto eccentrico verso destra per venirlo ad assaltare a Lodi, gli venisse fatto di rompere quell'ascendente che aveva, e trasportare in sè il favore della volubile fortuna. A Lodi adunque in un ultimo cimento si doveva combattere della salute di Milano, della conservazione della Lombardia, del destino delle reliquie ancora potenti delle genti imperiali. Aveva ottimamente il capitano austriaco collocato la sua retroguardia, sotto guida del colonnello Melcalm, suo parente, in Lodi, comandandogli che resistesse quanto potesse, ed, in caso di sinistro, si ritirasse sulla sinistra del fiume. Intanto, per assicurare il passo del ponte, molte bocche da fuoco situava all'estremità di lui presso la sinistra sponda, per modo che direttamente l'imboccavano e spazzare potevano. Nè parendogli che questo bastasse alla sicurezza di quel varco importante, munì la riva sinistra con venti pezzi d'artiglierie grosse, dieci sopra, dieci sotto al ponte, le quali coi tiri loro battendo in crociera, parevano rendere il passo piuttosto impossibile che difficile. Gli Austriaci, cui nè tante rotte nè una ritirata di sì lungo spazio non avevano ancora disanimato, se ne stavano schierati sulla sinistra riva, pronti a risospingere l'inimico disordinato dal passo del ponte, se mai contro ogni credere l'avesse effettuato. Ed ecco arrivare Buonaparte impaziente delle guerre tarde, che, veduti i preparamenti del nemico, e sloggiatolo da Lodi con un assalto presto, si risolveva, correndo il dì 10 di maggio, a far battaglia sul ponte, quantunque tutti i suoi non fossero ancora quivi raccolti. I generali suoi compagni, che vedevano l'impresa molto pericolosa, fecero opera di sconfortarnelo, rappresentandogli la fortezza del luogo, la stanchezza dei soldati, le genti menomate dalle battaglie e minorate dalla lontananza di molte schiere valorose. Ma egli, che ne sapeva più di tutti, che voleva quel che voleva, e che era, nonchè liberale, prodigo del sangue dei soldati purchè vincesse, persisteva a voler dar dentro, e tosto si accingeva alla pericolosissima fazione. Fatto adunque venire a sè un nodo di quattro mila granatieri e carabine, gente rischievole, usa al sangue, pronta a mettersi ad ogni sbarraglio, diceva loro con quel suo piglio alla soldatesca: «Vittoria chiamar vittoria; esser loro quei bravi uomini che già avevano vinto tante battaglie, fugato tanti eserciti, espugnato tante città; già temere il nemico, poichè già dietro ai fiumi si ritirava: credersi quel Beaulieu, già tante volte vinto, che il breve passo di un ponte arrestar potesse i repubblicani di Francia; vana presunzione, vana credenza; aver loro passato il Po, re dei fiumi, arresterebbeli l'umile Adda? Pensassero essere questo l'ultimo pericolo; superatolo, in mano avrebbero la ricca Milano; dessero adunque dentro francamente, sostenessero il nome di soldati invitti; guardarli la repubblica grata alle fatiche loro, guardarli il mondo maravigliato ed atterrito alla fama di tante vittorie: qui conquistarsi Italia, qui rendersi il nome di Francia immortale.» Schieraronsi, serraronsi, animaronsi, contro il ponte marciarono. Non così tosto erano giunti, che li fulminavano un tuonare d'artiglierie d'Austria orrendo, una grandine spessissima di palle, un nembo tempestoso di schegge. A sì terribile urlo, a sì duro rincalzo, alle ferite, alle morti, esitavano, titubavano, si arrestavano. Se durava un momento più l'incertezza, si scompigliavano. Pure il valor proprio ed i conforti dei capitani tanto gli animarono, che tornavano una seconda volta all'assalto: una seconda volta sfolgorati cedevano. Vistosi dai generali repubblicani il pericolo, ed accorgendosi che quello non era tempo di starsene dietro le file, correvano, a fronte Berthier il primo, poi Massena, poi Cervoni, poi Dallemagne, e con loro Lannes e Dupas, e si facevano guidatori intrepidi dei soldati loro in un mortalissimo conflitto. Le scariche delle artiglierie tedesche avevano prodotto un gran fumo che avviluppava il ponte; del quale accidente valendosi i repubblicani, e velocissimamente il ponte attraversando, riuscirono, coperti di fumo, di polvere, di sudore e di sangue, sulla sinistra sponda. Spingeva oltre Buonaparte subitamente i restanti battaglioni; ma le fatiche loro non erano ancora giunte al fine, nè la vittoria compita, perchè gl'imperiali ordinati sulla riva, facevano tuttavia una ostinatissima resistenza. Tuonavano le artiglierie, calpestavano i cavalli, la battaglia, siccome combattuta da vicino, più sanguinosa. Già correvano pericolo i Franzesi di essere rituffati nel fiume, ed obbligati a rivarcare con infinito pericolo il ponte con sì estremo valore conquistato, quando opportunamente giunse con la sua eletta squadra Augereau, che, udito l'avviso della battaglia orribile, a gran passi dal Borghetto in aiuto de' suoi compagni pericolanti accorreva. Questa giunta di forze in momento tanto dubbio fece del tutto sormontare la fortuna franzese. Beaulieu, abbandonato il bene contrastato ponte, si ritirava prestamente con animo di andarsi a porre sul Mincio per serbare le strade aperte al Tirolo e per assicurar Mantova con un grosso presidio. Di pochi prigionieri nella ritirata loro furono gl'Imperiali scemi; bensì perdettero nel fatto due mila cinquecento soldati tra morti e feriti, quattrocento cavalli, gran parte delle artiglierie. Grave fu anche la perdita dei Franzesi, i morti, i feriti, i prigionieri passando i due mila. La ritirata dei confederati assicurò i repubblicani delle cose di Lombardia, e pose in mano loro Pavia, Pizzighettone e Cremona: la imperial Milano, priva ormai di difesa, tanto solamente indugiava a venir sollo l'imperio repubblicano, quanto tempo abbisognava ai repubblicani per arrivarvi. Mescolaronsi a questi gloriosi fatti i saccheggi e le devastazioni. Giunte a Milano le novelle del passo del Po, e dell'abbandonarsi da Beaulieu la frontiera del Ticino, vi sorse un grande sbigottimento, poichè vi si prevedeva che poca speranza restava di conservare la città sotto la devozione dell'Austria. Erano gli animi di tutti, come in una popolazione ricca allo approssimarsi di soldatesche nuove non conosciute, e forse anche troppo conosciute. Mancavano nel Milanese le cagioni di mala soddisfazione, e quindi nasceva che, sebbene i popoli siano generalmente amatori di novità, e non conoscano il bene se non quando lo hanno perduto, non si manifestavano nella felice Lombardia segni di future e spontanee rivoluzioni. Ognuno anzi temeva per sè, per le famiglie, per le sostanze. Sapevano i Milanesi che pochi erano fra loro i zelatori di novità, e questi pochi ancora quieti e rimessi secondo la natura del paese; ma apprendevano che ove i repubblicani vi avessero posto sede, da tutta Italia vi concorressero o gli scontenti dei governi regii o gli amatori della repubblica, e con mezzi nuovi ed insoliti vi partorissero accidenti ignoti e forze terribili. Per la qual cosa vi si viveva in grande spavento. L'arciduca Ferdinando si risolveva a lasciar quella sede per andarsene nella sicura Mantova, o, quando i tempi pressassero di vantaggio, nella lontana Germania. Desiderando però, prima di partire, provvedere alla quiete dei popoli, ordinava, con editto del 7 maggio, che i cittadini abili all'armi si descrivessero ed in milizia urbana si ordinassero. A dì 9, creava una giunta con autorità di fare quanto al governo si appartenesse, ed a questa giunta, come a capo supremo dello Stato, voleva che i magistrati minori obbedissero. L'ordine giudiziale a far l'ufficio suo continuasse. Avendo per tal guisa l'arciduca provveduto alle faccende, se ne partiva il medesimo dì 9 di maggio alla volta di Mantova, avviandosi dove già era arrivata la sua famiglia. L'accompagnavano personaggi di nome, fra' quali il principe Albani ed il marchese Litta. Una moltitudine di persone di ogni grado, di ogni età e di ogni sesso, fuggendo la furia dei repubblicani, abbandonate agli strani le case loro, correvano a ricoverarsi sulle terre veneziane, destinate ancor esse, e molto prossimamente, alla medesima ruina. Seguitava in Milano un interregno di tre giorni. Buonaparte intanto, espeditosi per la vittoria di Lodi di quanto più pressava nella guerra, e già stimando Milano in sua potestà, mandava Massena a farsene signore. In questo mentre mandavano i magistrati municipali i loro delegati ad offerire la città a Buonaparte che si trovava alle stanze di Lodi, pregandolo di usare mansuetudine verso un popolo in ogni tempo quieto, nemico a nissuno, confidente nella generosità dei Franzesi. Rispose benignamente, porterebbe rispetto alla religione, alle proprietà, alle persone. Il giorno 14 di maggio entrava Massena con una schiera di dieci mila soldati valorosissimi. L'incontravano al Dazio di porta Romana i municipali. Disse, per mescolare qualche temperamento alla fierezza dell'armi, che sarebbero salve la religione, le proprietà. Arrivarono il giorno dopo nuovi corpi di truppa; ogni parte piena di soldati. Incominciossi l'opera d'oppugnar il castello, a cui si erano riparati gli Austriaci. Arrivavano intanto i repubblicani, sì finti come sinceri, i quali, o allettati dalla fama o costretti dalla necessità, fuggendo lo sdegno dei signori loro, correvano, come in sede propria e di salute nella città conquistata. A costoro si univano i repubblicani milanesi, ed intendevano a far novità. Fra tutti questi gli utopisti, servi di un'opinione anticipata e di un dolce delirio andavano sognando una perpetua felicità. Di costoro si faceva beffe Buonaparte, stimandogli uomini da poco, scemi e, come sarebbe a dire, pazzi. V'erano poi quei patriotti che amavano lo stato libero per ambizione: di questi il generalissimo facevane maggiore stima, perchè, come diceva, erano gente che aveva polso, e, per poco che si stimolassero, avrebbero servito mirabilmente a' suo disegni. Finalmente quei patriotti, i quali amavano le novità per le ricchezze, e, sperando di pescar nel torbido, gridavano ad alte e spesse voci libertà, non frequentavano mai le stanze di Buonaparte, ma amavano molto aggirarsi fra i commissarii e gli abbondanzieri dell'esercito, dei quali diventavano sensali e mezzani. Fecero grandi allegrezze tutti questi generi di patriotti, in sull'entrar dei Franzesi, di luminarie, di balli, di festini; ma per quella servile imitazione di cui erano invasati verso le cose franzesi, e che fu la principal cagione della servitù d'Italia, piantarono altresì alberi di libertà, vi facevano intorno canti, balli, discorsi, ed altre simili tresche. Poscia, acciocchè non mancasse quel condimento delle congreghe pubbliche per aringarvi intorno a cose appartenenti allo Stato, le fecero a modo di Francia, ed in loro chi aringava con maggior veemenza, più era applaudito. Entrava in Milano il vincitor Buonaparte, non già con semplicità repubblicana, ma con fasto regale, come se re fosse: l'accolsero con grida smoderate i patriotti e parte del popolo, solito a fare come gli altri fanno. Innumerabili scritti si pubblicarono, in cui sempre più si lodava Buonaparte che la libertà: mostrossi, per dir il vero, in questo molto schifosa l'adulazione italiana. Fra i patriotti, chi lo chiamava Scipione, chi Annibale; il repubblicano Ranza il chiamava Giove. I buoni utopisti, quando lo vedevano, piangevano di tenerezza. Queste dimostrazioni egli si godeva tanto in pubblico quanto in privato; ma augurava male degl'Italiani. Intanto vedeva il mondo una cosa maravigliosa. Un soldato di ventott'anni, un mese innanzi conosciuto da pochi, avere con un esercito sprovveduto e non grosso superato monti difficilissimi, varcato grossi e profondi fiumi, vinto sei battaglie campali, disperso eserciti più potenti del suo, soggiogato un re, cacciato un principe, acquistato il dominio di una parte d'Italia, apertasi la strada alla conquista dell'altra, convertiti in sè stesso gli occhi di tutti gli uomini di quell'età. Sapevaselo Buonaparte; l'anima sua ambiziosa maravigliosamente se ne compiaceva. Ma perchè l'aspettativa che aveva desta di lui non si raffreddasse, e per farsi scala a cose maggiori, mandava fuori, il 20 maggio, un discorso molto infiammativo a' suoi soldati: «Soldati valorosi, diceva, voi piombaste, come torrente precipitoso, dalle Alpi e dagli Apennini; voi urtaste, voi rompeste nel corso vostro ogni ritegno. Il Piemonte, oggimai libero dell'austriaca dipendenza, spiega i naturali suoi sentimenti di pace e d'amicizia verso la Francia. Vostro è lo Stato di Milano: sventolano all'aura su tutte le alte cime della Lombardia le repubblicane insegne: i duchi di Parma e di Modena alla generosità vostra sono del dominio che ancora lor resta obbligati. Dov'è l'esercito che testè con tanta superbia v'insultava? Ei non ha più riparo contro al coraggio vostro. Nè il Po, nè il Ticino, nè l'Adda poterono un sol giorno arrestarvi. Vani furono i vantati baluardi d'Italia, vani i gioghi inaccessibili degli Apennini. Sentì la patria infinita allegrezza delle vostre vittorie; vuole che ogni comune le celebri: i padri, le madri, le spose, le sorelle, le amanti, de' fausti eventi vostri si rallegrano e si stimano dell'avervi per congiunti fortunatissime. Sì per certo, o soldati, assai faceste; ma forse altro a fare non vi resta? Diranno di voi i contemporanei, diranno i posteri, che abbiam saputo vincere, non usare la vittoria? Accuseranci dell'aver trovato Capua in Lombardia? No, per Dio no, che già vi veggo correre alle vincitrici armi, già veggo sdegnarvi ad un vil riposo, già sento i giorni passati senza gloria esser giorni perduti per voi. Orsù, partiamne; restanci viaggi frettolosi a fare, nemici ostinati a vincere, allori gloriosi a cingere, crudeli ingiurie a vendicare. Tremi chi accese le faci della civil guerra, tremi chi uccise i ministri della repubblica, tremi chi arse Tolone, tremi chi rapì le navi; già suona contro a loro in aria una terribile vendetta. Pure stiansi senza timore i popoli: siamo noi di tutte le nazioni amici, specialmente siamo dei discendenti di Bruto, degli Scipioni, di tutti gli uomini grandi che impreso abbiamo ad imitare. Ristorare il Campidoglio, riporvi in onore le statue degli eroi, per cui tanto è famoso al mondo, destar dal lungo sonno il romano popolo, torlo alla schiavitù di tanti secoli, fia frutto delle vittorie: acquisteretevi una gloria immortale, cangiando in meglio la più bella parte d'Europa. Il popolo franzese libero, rispettato dai popoli, darà all'Europa una pace gloriosa, che di tanti sofferti danni, di tante tollerate fatiche ristorerallo. Ritornerete allora fra le paterne mura; i concittadini, a dito mostrandovi, diranno: _Fu soldato costui dell'esercito d'Italia_.» Questo tremendo parlare empiva di spavento Italia; ognuno aspettava accidenti terribili. Conquistato il Piemonte, conculcato il re di Sardegna, e posto il piede nella città capitale degli Stati austriaci in Italia, si apparecchiava Buonaparte a più alte imprese. Suo principal desiderio era di passar il Mincio, e, cacciando le genti tedesche oltre i passi del Tirolo, vietare all'imperatore che non mandasse nuovi aiuti per ricuperare le provincie perdute. Intanto le sue vittorie avevano aperta l'occasione al governo di manifestare il suo intento circa il modo di procedere verso alle potenze italiane, e congiunte d'amicizia con la Francia, e neutrali, e nemiche. La somma era, che facendo traffico del Milanese, con darlo in preda, secondochè per le occorrenze dei tempi meglio si convenisse, o al re di Sardegna o all'imperatore, si taglieggiassero i principi d'Italia, e da loro quel maggiore spoglio di denaro e di altre ricchezze che possibil fosse si ricavasse. Nè in questo mostrava il direttorio maggior rispetto agli amici che ai nemici. Nella quale risoluzione egli allegava per pretesto e la guerra fatta e l'amicizia finta e la necessità di assicurare l'esercito. Voleva prima di tutto che si conquidesse ogni reliquia dell'esercito alemanno, e che intanto si consumasse il Milanese, sì per pascere i soldati e sì per farlo meno utile a chi si dovesse o dare o restituire; se ne cavasse denaro, e sino i canali e le opere pubbliche fossero un po' tocche dalla guerra. Poi si corresse contro il granduca di Toscana, e si occupasse Livorno, confiscandovi le navi e le proprietà inglesi, napolitane, portoghesi e di altri Stati nemici della repubblica, sequestrandovi le proprietà dei sudditi loro; e se il granduca si opponesse, si dicesse perfidia, e sì allora si trattasse la Toscana come se fosse alleata dell'Inghilterra e dell'Austria. Grande rapacità fu questa veramente, ed incomportevole e barbara, poichè, se erano in Livorno proprietà d'Inghilterra o d'Inglesi e di altri nemici della repubblica, eranvi in vigore della neutralità di Toscana, che la Francia stessa aveva e riconosciuta ed accordata col granduca. Questa fu la ricompensa che ebbe Ferdinando di Toscana da quei repubblicani di Parigi, che pure pretendevano sempre alle parole loro la sincerità e la grandezza, dello avere, primo fra tutti i potentati d'Italia, e riconosciuta la repubblica e fatta la pace con lei, e dato lo scambio, per istanza del Direttorio, al suo ministro conte Cartelli, cui sostituì il principe don Neri Corsini. Era Genova stata straziata dalle armi franzesi e dalle avversarie, e poteva avere speranza, ora che la sede della guerra si era allontanata da' suoi confini, di vivere più quietamente. Ma i tempi erano tali che dove mancavano le cagioni s'inventavano i pretesti, ed il fine era non di rispettare i neutri deboli, ma di molestargli e di mettergli in preda. Adunque per quella cupidità di voler trarre denaro da Genova, si cominciò ad insorgere contro il governo genovese. Scriveva con una insolenza incredibile Buonaparte al senato, ch'era Genova il luogo donde partivano gli uomini scellerati, che, datisi alle strade, intraprendevano i carriaggi ed assassinavano i soldati franzesi; che da Genova un Girola mandava ai feudi imperiali ribellanti armi e munizioni da guerra pubblicamente, ed ogni giorno i capi degli assassini accoglieva ancor bruttati di sangue franzese; che parte di questi orribili fatti succedevano sul territorio della repubblica; che pareva che essa col tacere e col tollerare approvasse opere tanto scellerate; che il governator di Novi proteggeva i commettitori di tanti alti barbari; perciò arderebbe i comuni dove fosse ucciso un Franzese; voleva che il governatore di Novi si cacciasse, come Girola da Genova: arderebbe infine le case tutte in cui gli assassini trovassero asilo; punirebbe i magistrati trasgressori della neutralità che egli osserverebbe bene e puntualmente, ma volere che la repubblica di Genova non fosse rifugio di gente malandrina; e di egual tuono, e vieppiù soldatescamente accendendosi, scriveva al governatore di Novi. Rispondevano il senato ed il governatore stando in sui generali, perchè lo attribuire a sè medesimi opere tanto nefande non era nè verità nè dignità, ed il non soddisfare ad un soldato vittorioso e sdegnato, era pericolo. Certo è bene che per quelle strade si commisero contro i Franzesi opere di molta barbarie; ma questi omicidii ed assassinamenti, di cui con tanta ragione Buonaparte si querelava, non già solamente sul territorio genovese accadevano, ma ancora, e molto più, sul territorio piemontese. Eppure non fece il generale di Francia che un leggier risentimento e nissuna minaccia contro il re di Sardegna, poichè contro di lui non aveva quel fine che contro Genova aveva. A queste minaccie soldatesche succedevano le prepotenze parigine. Comandava il direttorio a Buonaparte s'impadronisse o di queto o per forza di Gavi, a fine di assicurare l'esercito alle spalle, e di conservarsi la strada della Bocchetta aperta da Genova a Tortona; col qual medesimo pensiero già s'era impadronito della fortezza di Vado: il che quale rispetto sia per la neutralità, ciascuno potrà giudicare. Poscia voleva che come prima l'esercito repubblicano occupato avesse il porto di Livorno, occupasse anche la Spezia, ed ivi quanti bastimenti appartenessero a potentati nemici alla Francia mettesse in preda. Nè contento a questo, dimenticando tutto l'accaduto, comandava a Buonaparte che domandasse nuovamente vendetta e nuovi milioni di contanti per la straziata Modesta, ed operasse che coloro che si erano mescolati in tale fatto fossero come traditori della patria dannati; oltre a ciò, voleva e comandava che si confiscassero e si dessero in mano della repubblica tutte le proprietà pubbliche appartenenti ai nemici, e sotto sicurtà di Genova si sequestrassero tutte quelle che a sudditi di potentati nemici spettassero; cacciasse Genova da' suoi territorii tutti i fuorusciti franzesi; fornisse bestie da tiro e da soma, carriaggi e viveri, e si dessero in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace generale. Passando ora da Genova a quella primogenita, come la chiamavano, repubblica di Venezia, siccome cresceva nei vincitori con le vittorie la cupidigia dell'oro e del dominare, incominciarono a dire che volevano che fosse trattata non da amica, ma solamente da neutrale, sotto colore di certi pretesti vecchi che già sussistevano, poichè non era cambiata la condizione delle cose fra le due repubbliche, quando nell'ingresso del nobile Querini se gli fecero tante carezze. Tra questi pretesti il primo e principale era il passo dato ai Tedeschi pei territorii veneziani. Poi, prosperando vieppiù la fortuna dell'armi repubblicane in Italia, insorse il direttorio, con volere che Verona desse grossa somma di denaro a prestito, a motivo ch'ella aveva accolto nelle sue mura Luigi XVIII. Finalmente, cacciato del tutto Beaulieu oltre Mincio, voleva ed imperiosamente comandava che Venezia prestasse dodici milioni, e si voltasse in ricompensa questo debito alla repubblica batava, che era debitrice di questa somma, a norma de' freschi trattati, alla Francia. Voleva, oltre a ciò, e comandava che si consegnassero alla repubblica tutti i fondi de' potentati nemici che fossero in Venezia, principalmente quelli che spettavano personalmente al re d'Inghilterra, ed inoltre si dessero alla Francia tutte le navi sì grosse che sottili, ed altre proprietà di nemici che stanziassero nei porti veneziani. Quanto al papa, se volesse trattar di accordo, si esigesse da lui, imponeva il direttorio, per primo patto che ordinasse subito preci pubbliche per la prosperità e la felicità della repubblica; nel che faceva il direttorio gran fondamento, per l'autorità che aveva la Sedia apostolica sulla opinione dei popoli sì franzesi che italiani. Si venne quindi in sul toccar il solito tasto del danaro, intimando che desse venticinque milioni. Si comandasse al tempo medesimo al re di Napoli, che se pace volesse, badasse a cacciar dai suoi Stati gl'Inglesi e gli altri nemici della repubblica, mettesse in poter suo tutte le navi loro che nei napolitani porti fossero sorte, e loro vietasse d'entrarvi nemmeno con bandiera neutrale. Pei potentati minori, correndo la fama che avessero ricchezze, voleva il repubblicano governo che si scuotessero bene i duchi di Parma e di Modena, ma il primo meno rigidamente del secondo, per rispetto del re di Spagna, col quale era congiunto di sangue. Lallemand, ministro di Francia a Venezia, esortava che si conculcasse, si pugnesse, si travagliasse per ogni guisa il modenese duca a fargli dar denaro, perchè ne aveva molto, ed era avaro; e più si scuoterebbe, e più contanti darebbe. Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva all'Italia dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto la principal sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse a quelle dolci parole di umanità e di libertà che dai repubblicani di quei tempi si andavano sino a sazietà spargendo, ordinava il direttorio, a petizione di Buonaparte, che si comandasse nei patti d'accordo a principi vinti, dessero in potere dei vincitori, perchè nel museo di Parigi fossero condotti, quadri, statue, testi a penna, ed altri capi dell'esimie arti, usciti di mano ai più famosi artisti del mondo, affermando esser venuto il tempo in cui la sede loro doveva passare da Italia a Francia e servire d'ornamento alla libertà. Brutta certamente ed odiosa opera fu questa dell'avere spogliato l'Italia di preziosi ornamenti; ma lo spoglio piaceva ad alcuni per l'amor della gloria, ad altri perchè potessero essere sotto gli occhi modelli tanto perfetti di natura abbellita dall'arte; imperciocchè in quei tempi erano sortiti in Francia, massimamente in pittura, artisti di gran valore, i quali ed ammiravano e sapevano imitare lodevolmente gli esempi italiani: e con questo ancora Buonaparte, pe' suoi fini, lusingava la Francia. In Italia poi i repubblicani, non i buoni, ma i malvagi, indicavano le opere preziose da rapirsi; i più dolci andavansi confortando con la speranza che l'Italia, siccome quella che ancora era feconda, ne avrebbe prodotto delle altre ugualmente preziose; i più severi poi, trasportando nelle moderne repubbliche l'austerità delle antiche, se ne rallegravano, predicando che la libertà non aveva bisogno di queste preziosità, e che pane e ferro dovevano bastare a chi repubblicano fosse. Ma il direttorio, a suggestione sempre di Buonaparte, che sapeva quel che si faceva, voleva che se le opere più insigni delle arti servivano d'ornamento ai trionfi della repubblica, gl'ingegni celebri li lodassero, avvisandosi che non sarebbe accagionato di barbarie, se coloro che da lei per costume, per ingegno e per sapere erano i più lontani, si facessero lodatori delle imprese dei repubblicani, a danno ed a spoglio dell'Italia. Voleva conseguentemente ed imponeva al suo generale che ricercasse e con ogni modo di migliore dimostrazione accarezzasse gli scienziati ed i letterati d'Italia; ed il generale recava ad effetto l'intento del direttorio, parte per vanagloria, parte per astuzia, come mezzo e scala alle future ambizioni. Or ecco in qual modo i raccontati comandamenti, che finora erano solamente intenzioni, siano stati ridotti in atto. Non così tosto ebbe Buonaparte passato il Po a Piacenza, che sorse una trepidazione nella corte di Parma tanto maggiore quanto il duca aveva rifiutato l'accordo con Francia, che il ministro di Spagna in Torino gli era venuto offerendo con qualche intesa del generalissimo, come prima i Franzesi erano comparsi nella pianura del Piemonte. Non solamente una parte del ducato era venuta sotto la devozione dei repubblicani, ma ancora il restante, non avendo difesa, era vicino, e solo che il volessero, a venire in poter loro; nè si stava senza timore che seguisse anche qualche turbazione. In tanta e sì improvvisa ruina prese il duca quel partito che solo gli restava aperto, del tentare di assicurar gli Stati con un accordo, che, quantunque grave e duro dovesse riuscire, sarebbe, ciò nonostante men grave che la perdita di tutto il dominio. Domandava il vincitore superbamente l'accordo che ponesse fine alla guerra, e con l'accordo denari, vettovaglie e tavole dipinte di estremo valore. Adunque in primo luogo fu consentita una tregua con mediazione del ministro di Spagna il dì 9 maggio in Piacenza. Non aveva il duca armi nè fortezze da dare, ma si obbligava di pagare in pochi giorni sei milioni di lire parmigiane, che sono a un di presso un milione e mezzo di franchi, e di più a fornire quantità esorbitanti di viveri e di vestimenta pei soldati. Si obbligava, oltre a ciò ad allestire due ospedali in Piacenza, provveduti di tutto punto, ad uso dei repubblicani. Consegnerebbe finalmente venti quadri dei più preziosi, fra i quali il San Girolamo del Correggio. Mandava pertanto Buonaparte Cervoni a Parma, perchè ricevesse i denari ed i quadri, e vigilasse onde le condizioni della tregua si eseguissero puntualmente. Stretto il duca da tanta necessità, mandava le ducali argenterie alla zecca, perchè vi si coniassero, ed il vescovo le sue. Così, usato ogni estremo rimedio, e raggranellato denaro da ogni parte, satisfaceva Ferdinando alle condizioni della tregua. Intanto i fuorusciti parmigiani e piacentini, ritiratisi a Milano, laceravano il duca con incessanti scritture, dal che riceveva grandissima molestia. Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte dei suoi tesori, il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza che disposto per la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta il vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano le instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto dì nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse, oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente di altri due milioni: di più, fra quarantotto ore rispondessero del sì o del no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero dal ducale governo la diminuzione di un milione nei generi da somministrarsi e dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano quindici quadri dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa di pagare a contanti quanto abbisognasse loro, passando per gli Stati del duca. Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima che partisse, con surrogar loro magistrati ed uomini o partigiani o dipendenti da Francia; e di procacciar denaro e fornimenti che l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual cosa, in luogo della giunta di Stato, creava la congregazione generale di Lombardia, ed al consiglio dei decurioni surrogava un magistrato municipale in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di grande stato, Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini, Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato ed a lui si riferivano gli affari più gelosi e più segreti. Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte sulla conquistata Lombardia una gravezza di venti milioni di franchi, e faceva abilità ai commissarii e capi di soldati di torre per forza i generi necessarii, con ciò però che dessero polizze del ricevuto accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni. Intenzione sua era che cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati e sui corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa dall'intenzione l'esecuzione; ma i ricchi, sì perchè si sentivano gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti e licenziavano i servitori, chè poco bene disposti in sè per natura vecchia, ed avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel popolo, massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle il magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni dovessero continuar a pagare i salarii ai servitori. Ma fu il rimedio insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo, perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate di generi d'ogni specie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi ai generali, ai commissarii, ai comandanti, agli uffiziali, talmente il costringevano, che non era più padrone di sè medesimo, stanziava un'imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi milanesi. Non parlasi dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare, consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè a grandi e replicate vittorie era congiunta un'opinione politica ardentissima e molto diversa da quella dei popoli, fra' quali egli viveva. Il che sia detto generalmente, perchè molti uffiziali, o per gentile educazione o per bontà di natura, si portavano e dentro e fuori delle case del popolo conquistato in tale guisa che si conciliavano la benevolenza d'ognuno. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli erano le tolte sforzate di generi che per uso dei soldati o proprio alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villerecci luoghi, liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva e a chi non aveva, e così agli amici come ai nemici del nome franzese. Aggiungevansi le minaccie e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire l'uomo che i cattivi fatti. Ciò rendeva i Franzesi odiosi, ma più ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi o per le opinioni parteggiavano pei Franzesi. Nè il popolo discerneva i buoni dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che tutti aiutavano l'impresa di una gente che, venuta per forza nel loro paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Adunque lo sdegno era grande; la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli. A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca e gli ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il dominio franzese in Italia; che questa terra era pur tomba ai Franzesi, che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le loro cacciate o gli eccidii; quindi eccitavano all'armi, quindi dicean calar dalle tirolesi rupi nuovi eserciti imperiali, quindi spargevano voler i Franzesi fare per forza una leva di gioventù lombarda per mandarla, con le genti franzesi incorporandola, alla guerra contro l'imperatore; e per quanto si sforzassero i magistrati di persuadere ai popoli il contrario, vieppiù nella concetta opinione si confermavano. In mezzo a tutti questi mali umori successe a Milano un fatto veramente enorme che li fece traboccare e crescere in grandissima inondazione. Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano, o gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti e gioie di grandissimo valore. Si aggiungevano, come si usa, capi di minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano a doti di fanciulle povere. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà non solo perchè era segno di fede pubblica, ma ancora perchè le cose depositate la maggior parte appartenevano a persone o per condizione o per accidente bisognose. Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel monte e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio che là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo. Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire che non si fosse portato più rispetto alle proprietà de' poveri che a quelle de' ricchi, il che in parte era anche vero. Le quali cose, giunte all'insolenza militare, allo strazio che si faceva nelle campagne, alle improntitudine dei patriotti, partorirono una indegnazione tale che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di far un moto contro i Franzesi. Nè fu la città stessa di Milano esente da questa turbazione; perciocchè, facendo i repubblicani non so quale allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il quale, frenato l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio. Ma le cose non passarono sì di queto ne' contorni di Milano, massimamente verso la porta Ticinese, perchè viaggiando e Franzesi e patriotti italiani, o soli o con poca compagnia, per quelle campagne, e non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservarli, furono da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano uccisioni ancor maggiori ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In Binasco principalmente l'ardore contro i Franzesi e contro i giacobini, come li chiamavano, era giunto agli estremi; e credendosi i Binaschesi ogni più crudele fatto lecito, ammazzavano quanti Franzesi o Italiani partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso, molti, anzi una squadra non piccola di Franzesi, furono barbaramente trucidati da quella gente. A questo molo di Binasco, terra posta a mezzo cammino fra Milano e Pavia, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi de' Tedeschi, che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia. Chi poi non accorreva per la speranza de' soccorsi tedeschi, che non pochi sapevano esser vana, il facevano per la voce che s'era levata fra la gente tumultuaria che i Franzesi si avvicinassero per mettere a sacco Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero della libertà, si erano sollevati la mattina del 23 maggio, e correvano la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza. Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le truppe sollevate: suonavano precipitosamente in Pavia le campane a martello; rispondevano, con grandissimo terrore di tutti, quelle della campagna. Nascondevansi i patriotti, perchè il popolo li chiamava a morte: pure, più temperato in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini quieti serravano a furia le porte. I soldati di Francia segregati erano presi; i rimanenti, non più di quattrocento fanti, male in arnese, la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoverarono nel castello, dove, per mancanza di vitto, era certamente impossibile che si potessero difendere lungo tempo. Arrivarono in questo punto i contadini, e, congiuntisi coi cittadini, aggiungevano furore a furore. Alcuni fra i più ricchi, o che temessero per sè o che volessero aiutare quel moto, mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri mangiari in quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi, i tristi trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di pesar con giusta lance le cose, non vedendo a comparire da parte alcuna soccorsi in favore degli avversarii, davansi in preda all'allegrezza, e concependo speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro, non solo la liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardia e di tutta l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale franzese Haquin; nè così tosto ebbe messo il piede dentro le mura, che, minacciato nella persona, fu condotto per forza al palazzo del comune, dove già era una banda grossa di soldati franzesi, che disarmati ed incerti della vita e della morte, se ne stavano del tutto in balìa di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto da' municipali, che ogni sforzo facevano per sedare quel cieco impeto. Ma finalmente il popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e, trovato Haquin, lo volevano ammazzare; i municipali, facendogli scudo de' corpi loro, il preservavano, benchè ferito di baionetta in mezzo alle spalle. Mentre alcuni si adoperavano per la salute del generale, altri si ingegnavano di salvar la vita de' Franzesi; nè riuscì vano il benigno intento loro. Bene fece poi Haquin ufficio di gratitudine a Buonaparte, che, ritornata Pavia a sua devozione, gli voleva far ammazzare come autori della ribellione, raccomandandogli e con istanti parole pregandolo perdonasse a uomini già vecchi, a uomini più abili a pregare il popolo concitato che a concitar il quieto. Intanto si viveva con grandissimo spavento in Pavia non già perchè vi si temessero dai più i Franzesi, avendo la rabbia tolto il lume dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano che quella furia, per trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio della misera città. Così passarono le due notti dai 23 ai 25; ma già si avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata impresa, quando più la moltitudine, per la dedizione del presidio ricoverato in castello, si credeva sicura della vittoria. Era giunto il 25 maggio, quando udissi improvvisamente un rimbombar di cannoni, prima di lontano, poi più da presso; e via via più spesseggiando il romore, dava segno che qualche gran tempesta si avvicinasse dalle parti di Binasco. Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto a Lodi, con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto Beaulieu, quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco e di Pavia. Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza, perchè questi incendii più presto si spandono che non si estinguono, tornossene subitamente indietro, conducendo con sè una squadra eletta di cavalli ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in Milano, considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato ostinazione uguale alla rabbia, o forse, volendo risparmiare il sangue, si deliberava a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo di Milano, affinchè con l'autorità del suo grado e delle sue parole procurasse di ridurre a sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto, applicando l'animo a far sicuro colla forza quello che le esortazioni non avrebbero per avventura potuto operare, rannodava soldati e li teneva pronti a marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già incontrati per via i Binaschesi, facilmente li rompevano, facendone una grande uccisione. Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da diverse bande il fuoco, l'arsero tutto. Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e, fattosi al balcone del municipale palazzo, orava istantemente alle genti che si erano affollate per ascoltarlo. Con grande ardore parlava, desiderosissimo di salvar la città; ma più poteva in chi lo ascoltava un feroce inganno che le persuasive parole. Gridarono non doversi dar orecchio all'arcivescovo, esser dedito ai Franzesi, esser giacobino; e così su questo andare con altre ingiurie offendevano la maestà del dabben prelato. Adunque non rimaneva più speranza alcuna alla desolata terra; le matte ed inferocite turbe, accortesi oggimai che lo sperare aiuti estranei era vano, e che i Franzesi giù stavano loro addosso, chiusero ed abbarrarono le porte, ed empierono tutto all'intorno le mura d'armi e di armati. Ma ecco arrivare a precipizio il vincitor Buonaparte ed atterrare a suon di cannoni le mal sicure porte. Fessi in sulle prime una tal qual difesa; ma superando fra breve le armi buone e le genti disciplinate, abbandonavano frettolosamente i difensori le mura, e ad una disordinata fuga si davano. Fuggirono per diverse uscite i contadini alla campagna; si nascondevano i cittadini per le case. Restava a veder