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Title: Annali d'Italia, vol. 8 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750
Author: Coppi, Antonio, Muratori, Lodovico Antonio
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Annali d'Italia, vol. 8 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750" ***


                                 ANNALI
                                D'ITALIA

                     DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
                           SINO ALL'ANNO 1750


                              _COMPILATI_

                         DA L. ANTONIO MURATORI

                   E CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI


                        _Quinta Edizione Veneta_

                             VOLUME OTTAVO


                                VENEZIA
                DALL'I. R. PRIVILEGIATO STAB. NAZIONALE
                       DI GIUSEPPE ANTONELLI ED.

                                  1847



CONTINUAZIONE

AGLI ANNALI D'ITALIA

DI LOD. ANT. MURATORI


Chiunque abbia letto sin qui gli Annali d'Italia compilati da Lodovico
Antonio Muratori avrà veduto quale immensa tela sia venuto intessendo
l'illustre autore per discorrere l'italiana istoria di questi dieciotto
secoli, senza che dalla necessità di balzare ogni anno da un punto
all'altro della penisola sia derivato al suo lavoro interrompimento
o disordine; ed avrà insieme ammirato in che giudizioso modo sia
egli riuscito a mettere in tutto il loro lume i veri motivi che
preparato hanno i più notabili cambiamenti e le conseguenze che gli
accompagnarono; a fissare i luoghi e i tempi precisi che sono stati il
teatro, o l'epoca degli innumerevoli avvenimenti narrati; a disgombrare
ogni incertezza dall'ignoranza, dalla malizia, dalla inavvertenza
o precipitazione degli antichi scrittori passata negli scrittori
susseguenti; a sceverare dalle favole la verità; a rendere la dovuta
giustizia a quei personaggi che le passioni aveano indebitamente o
encomiati o biasimati, e, se dato non era raggiugnere la certezza, ad
accennarne almeno ciò che più alla probabilità ed alla verisimiglianza
si atteneva; ad interessare infine i lettori con un quadro
svariatissimo in cui i trionfi o i danni della virtù contrastano colle
alternate vicende del vizio, talvolta fortunato, ma quasi sempre punito
o almeno smascherato e fatto segno al dispregio ed all'odio universale.

Spesa la maggior parte della vita a scorrere il vasto campo della
erudizione, indagando, discutendo ed illustrando le antichità
dell'Italia, il Bibliotecario modonese, divenuto per tal guisa
possessore d'immensi tesori, o sconosciuti o generalmente poco noti, si
aprì la strada alla grande impresa, cui il fino suo discernimento giovò
ad appianare e ad imprimere di quella profonda ragione storica che
spicca in tutti gli altri suoi scritti.

Esattezza somma e precisione riguardo ai luoghi, ai tempi ed alle
cose accadute principalmente dal cominciare del quinto secolo sino al
principio del decimosesto; sagacità e gran fondo di sana critica per
determinare la vera cronologia, nè ammettere ciecamente il maraviglioso
d'una fantasia riscaldata, nè i pravi giudizii della malignità o
i delirii d'una puerile superstizione; esposizione sincera delle
più strepitose rivoluzioni, se pur non abbia a dirsi delle calamità
dell'Italia, purificata da quella tinta bugiarda che il genio, il
partito, il timore o la speranza, la disperazione o il dolore aveano
consigliato agli scrittori contemporanei; ecco il frutto delle
estesissime cognizioni in fatto di storia acquistate coi diuturni suoi
studii dal nostro Muratori, il quale, non taciuti i vizii ed i difetti,
ma nè anche per avventura le virtù degli Attila, degli Alarico, degli
Odoacre, degli Alboino, de' due Pippino, dei Carlo Magno, narra poi
con ordine, con chiarezza e con tutta la imparzialità le fazioni dei
Guelfi e dei Ghibellini, i travagli dei romani pontefici, le intestine
discordie delle città, le mutazioni dei reggimenti, le rivalità delle
provincie ed il contendere dei varii popoli, i fasti e le sciagure di
questa, bella e troppo sventurata parte dell'Europa.

Se non che, ad esercitare le precipue virtù dello storico, il proprio
giudizio e la sincerità, grandemente libero campo gli lasciava la
lontananza dei tempi dei quali tenea parola; laonde potea rendere
omaggio al merito, al valore ed alla virtù senza che nissuna gelosia
si accendesse, e giustamente notare d'infamia il demerito, la viltà
ed il vizio senza tema di dispiacere ad alcuno. Imperocchè, estinti
interamente o in molto gl'interessi del momento, raffreddato lo
spirito di parte, cessate le nemicizie e le rivalità, ed in tutto o
parzialmente sanate le piaghe ad una nazione cagionate da disgrazie
e da politici o guerrieri flagelli, può lo scrittore farsi sicuro di
non incorrere sì di leggieri la taccia di maligno, di bugiardo, di
adulatore, d'entusiasta, e sottrarre si può al pericolo di essere male
interpretato, come se la sua fantasia preoccupata gli avesse fatto
invadere il dominio della fredda ragione, o se il preteso suo zelo
animato si fosse con danno di qualche altra passione.

Ma ben altramente procede la bisogna per chi imprenda a parlare di cose
correnti e vicine: non v'ha cautela che basti. Sia pure e debba pur
essere la verità l'anima dello storico, debba pur tutto subordinarsi
alla sua legge, ognuno però conviene che grande riservatezza è mestieri
nel maneggiare questa verità della storia che ignuda non può sempre
comparire mentre ancor durano e sono in fermento gl'interessi ed i
partiti, gli odii e gli affetti degli uomini, le cui azioni formano il
tema della narrazione, e, peggio ancora, mentre questi uomini vivono
non solo, ma eziandio tengono in mano la forza ed il potere.

Così il Muratori, allorchè, proseguendo la continuazione de' suoi
Annali dopo il secolo XV, giunse a descrivere le cose d'Italia avvenute
dopo il XVII secolo, tenne quel giusto mezzo che a saggio scrittore
conviensi, per non sagrificare la verità nè sè stesso; riferendo
esattamente i fatti de' quali era stato in qualche modo il testimonio
e spettatore, ma rado pronunziando suo giudizio assoluto e positivo, se
pur non faceasi interprete ed araldo del sentimento universale. E così
dovrà adoperare chi prende ad annodare le ultime fila del suo lavoro,
protraendole fino a' giorni nostri, tempi quant'altri mai, spezialmente
per un periodo intermedio di circa vent'anni, pieni di maravigliose
vicissitudini, pur troppo funeste all'Italia, e tali che qualunque sia
il nostro proponimento, qualunque la pacatezza dell'animo nostro, forse
non sarà sempre possibile non uscire in piuttosto concitate che gravi
parole.

Ad ogni modo, narreremo ogni cosa, e narreremo senza amore e senz'ira,
procacciandoci di mantenere quel coraggioso sangue freddo che non ci
farà mai sagrificare la verità alle preoccupazioni, l'imparzialità ai
lamenti ed ai motteggi degli appassionati e dei malevoli. Niuno però
voglia istituir un confronto tra il classico autore, al cui lavoro
apponiamo queste continuazioni, e noi. Senza l'ingegno, altissimo
in lui, in noi molto modesto, differentissime sono le condizioni
ed i tempi. Mancava, o almeno scarseggiava il Muratori di memorie e
documenti, e dovea trar fuori il suo racconto per la maggior parte
dalla polvere delle biblioteche e degli archivii; abbonda adesso
strabocchevolmente la suppellettile, ed eccede le forze dell'uomo
il tutte librarne le parti sopra giusta lance, per discernere,
nella frequentissima loro contraddizione, nel vario atteggiamento,
nel diverso procedere, il vero dal falso, e far capitale di quello,
questo rigettando. I tempi remoti si lasciavano esaminare, ponderare
quetamente; i vicini tempi non consentono tutta calma; strascinano
seco impetuosi chi si pone a descriverli, nè lasciano quella libertà
di esporre, di giudicare, di sentenziare che avrebbe chi i fatti
raccontasse dell'antica Grecia o di Roma, ai quali ciascheduno
presta quella parte di compassione che alle vicende de' suoi simili
generalmente concede, non quell'altra intimamente sentita, profonda,
prepotente, che nelle cose proprie forzatamente, necessariamente,
avvien che riponga.

Per le quali considerazioni tutte, bandito il paragone che dicevamo, ne
conforta la coscienza di aver fatto il meglio che per noi si potesse,
nei ristretti limiti che pur ci vengono prefissi.



ANNALI D'ITALIA

DALL'ANNO 1750 FINO AI GIORNI NOSTRI



    Anno di CRISTO MDCCL. Indiz. XIII.

    BENEDETTO XIV papa 11.
    FRANCESCO I imperadore 6.


Narrata dall'illustre Muratori, alla fine dell'immortale opera sua,
la pace anche all'Italia donata col famoso trattato d'Aquisgrana del
1748, posto in esecuzione nell'anno susseguente in una colle condizioni
convenute nel congresso di Nizza nello stesso anno concluso; ed esposto
dal lodato autore la situazione in cui, al cadere del 1749, veniva per
ciò a trovarsi l'Italia; si può da questo punto incominciare la nuova
carriera per vedere le varie perturbazioni, benchè minime e quasi
innocenti, che ne avvennero in appresso, finchè poi verso la fine
del secolo scorso ed al principio del presente fu tutta sconvolta e
trasformata.

Ripigliando pertanto il filo della narrazione, ci faremo da Roma e
dalle circostanze del presente anno 1750, ch'era l'anno santo.

Aperta con le consuete cerimonie auguste nel tempio di San Pietro
quella porta che per venticinque anni era stata chiusa, esultavano
i fedeli come se si fosse ad essi in certo modo spalancata quella
del cielo. In ogni ora di qualunque giorno vedevasi lo spettacolo
d'un popolo infinito che, od unito in compagnie, o separatamente,
procedeva alla visita delle aperte basiliche; ma lo spettacolo che
più d'ogni altro edificava era appunto Benedetto XIV. Quei pellegrini
e quei forastieri quasi innumerabili che a Roma concorsero in tale
occasione, verificate cogli occhi proprii le mirabili cose che nei
loro paesi aveano udito a raccontare della sua pietà, della virtù sua
e dell'immensa sua dottrina, tenevano quello stesso linguaggio che in
lontanissimi tempi tenne di Salomone la regina Saba. Il pontefice,
in età più che settuagenaria, in mezzo alle infinite bisogna e cure
dello Stato e della religione, attendeva a tutte le solenni funzioni
ordinarie e alle altre colle quali bramava di dare maggiore risalto al
suo giubileo.

Ma tanta sua ed altrui compiacenza fu in gran parte amareggiata da
un'inaspettata disgrazia, accaduta in Roma nel termine dell'anno
stesso. Per le dirotte pioggie continuate ingrossato il Tevere, uscì
dal letto con furore eguale a quello onde avea traripato ai tempi
d'Augusto, cagionando un'orribile innondazione non solo nelle vicine
campagne, dove in alcuni punti coverse fino le cime degli alberi, ma
in molte principali contrade della città, nelle quali non si potea
praticare se non con barchette. Nell'universale spavento e nella
terribile calamità non mancò il governo di apprestare le più opportune
provvidenze, e di far eseguire tutto ciò che potea ridondare in
vantaggio del pubblico; e Benedetto, con tenerissimo paterno affetto,
gemendo per quelli che le acque impedivano di uscire a procacciarsi
il vitto, ordinò che per mezzo di barche fosse ad essi gratuitamente
somministrato il bisognevole.

Ed a viemmaggiormente funestare l'animo del pontefice, altre disgrazie
amare si aggiunsero. Una pretesa di violazione dei privilegii e diritti
della chiesa e del seminario di San Giacomo degli Spagnuoli avea messo
in aperto disgusto la corte di Spagna con quella di Roma. Volea il re
di Sardegna che nella promozione de' cardinali fosse inchiuso monsignor
Merlini, nunzio alla sua corte, e che colla vendita delle più ricche
badie del Piemonte fosse formato un appannaggio al duca di Savoia, a
similitudine dell'infante don Luigi di Spagna. Faceva grande rumore
nell'imperio, tra' principi della casa di Hohenlohe, il ristabilimento
di certi consistori e ministri luterani nelle incumbenze dalle quali
avea il conte cattolico di Hohenlohe trovato il modo di spogliarsi; e
tutti i nunzii pontifizii nelle corti di Germania, considerando questo
dissidio di gran rilievo per la religione e per la corte di Roma, ne
aveano dato parte al papa. Una fiera persecuzione dei cristiani alla
China, rinovando contro i medesimi i più rigorosi editti di sangue, e
della quale rimasti erano vittime generose quattro Domenicani, oltre al
vescovo di Mauricastro, facea giustamente temere non in quelle contrade
si risvegliasse contro i fedeli un odio simile a quello che un secolo
prima gli avea percossi al Giapone. Ma tra tutte le perturbazioni che
toccavano l'animo del pontefice, quella che diede maggiormente allora
a parlare fu la disputa insorta tra la repubblica di Venezia e la casa
d'Austria pel patriarcato d'Aquileia.

Aquileia rispettata e famosa al tempo di Augusto e degli altri
imperadori romani; Aquileia considerata, dopo Roma, la prima città
d'Italia, barbaramente disfatta da Attila, distruttore di tante
altre città e provincie d'Europa, seppellendo sotto le sue rovine
l'antica sua magnificenza, trovossi in quella catastrofe al punto di
vedervi sepolto anche il nome. Se non soggiacque, ne andò debitrice
al per altro funesto scisma dell'Istria, pel quale, sospesa i vescovi
di quella provincia ogni comunicazione colle quattro antiche sedi
patriarcali, conferirono essi diritto e nome di patriarca al loro
metropolitano, ch'era appunto il vescovo di Aquileia, ed il quale,
estinto lo scisma, pur ritenne il conferitogli titolo, e fu da Leone
VIII, Giovanni XX ed Alessandro II considerato primo metropolitano di
tutta l'Italia, come tenutone universalmente per il prelato più ricco.

Divenuti poscia i patriarchi d'Aquileia anche principi temporali per
donazioni lor fatte dai re longobardi, da Carlo Magno, dagl'imperadori
franzesi e tedeschi, pensarono a ristabilire l'antico splendore
dell'abbattuta città. Ma tutte le cure loro non andarono piene di
effetto; imperocchè Aquileia, già distrutta dalla forza dell'armi
d'Attila, soggiacere dovette ad una forza ancor più assoluta ed una
forza ancor più assoluta ed imperiosa, al mare. Abbandonando le acque
a poco a poco gli antichi termini all'estremità occidentale del golfo
Adriatico, dove prima approdavano le triremi di Roma, lento lento
formossi un paludoso terreno, sì che Aquileia, la quale per tanti
secoli avea, come Ravenna, sentito a romoreggiare sotto le sue mura i
marosi, si vide circondata da povere capanne peschereccie, alla purità
d'un aere sano e delizioso succedute esalazioni pestifere e mortali.
Tanta rivoluzione di clima sforzò i patriarchi a tramutare la sede
loro quando in Gemona, quando in Cormons, ora in Cividal del Friuli,
ora in Udine stessa; ed il principe prelato, che pensò di surrogare
quest'ultima città all'antica, costituendola siede del suo dominio e
metropoli della provincia friulana, si fu il patriarca Bertoldo, nel
1251. Passato per altro due secoli dopo, per la forza delle armi, il
Friuli in mano de' Veneziani, e spogliato il patriarca del dominio
temporale, per una transazione conchiusa tra il prelato medesimo e la
repubblica, confermata dal papa Nicolò V e dall'imperadore Federigo
III, assegnaronsi al patriarca di Aquileia le terre di San Vito e San
Daniele, colla costituzione d'una dote ecclesiastica corrispondente.

Da quel tempo i patriarchi furono sempre veneziani; e continuando
a risiedere in Udine, esercitarono, dopo la lega di Cambrai, la
giurisdizione ecclesiastica non solo sopra Aquileia, ch'era passata nel
Friuli austriaco, ma eziandio nella parte della diocesi compresa ne'
dominii della casa d'Austria, giurisdizione che mai sempre dispiacque
ai principi di quella casa. Si convenne pertanto tra gli arciduchi
d'Austria ed i Veneziani che le due potenze godessero alternativamente
del diritto di nominare a questo patriarcato. Ma la convenzione si
ridusse alle parole; poichè gli Austriaci non giunsero mai a godere
del diritto, per l'attenzione sempre posta da' patriarchi d'Aquileia,
veneziani, a scegliersi veneziani coadiutori, loro concessi dal senato,
e muniti di bolle pontificie per la futura successione. Richiamossi
l'imperadrice Maria Teresa contro questa usurpazione de' Veneziani,
pretendendo che la tolleranza de' suoi predecessori non avesse valso
a prescrivere il diritto che anch'essi avevano alla elezione del
patriarca; ed i Veneziani, fondando la loro pretensione sopra il non
essersi mai fatto da' principi della casa d'Austria uso del combattuto
diritto.

Da gran tempo e alla corte di Vienna e nel senato di Venezia agitavasi
la controversia; e alle proposizioni e proferte da una parte surgendo
dall'altra difficoltà e rifiuti, le cose tiravano in lungo senza
speranza di componimento. Finalmente concordarono le due potenze in
questo, di prendere il papa ad arbitro di una vertenza che in gran
parte era ecclesiastica e religiosa, facendo, più della dottrina e
della sapienza di Benedetto XIV, sperare giusta la pontificia decisione
il suo carattere equo e moderato. I Veneziani poi tanto più erano
concorsi di buon grado a sottomettersi al giudizio di lui, perchè,
oltre ad un breve di Giulio III, che ad essi confermava il diritto di
nominare il patriarca, non aveva la santa Sede nel progresso del tempo
tenuto in alcun conto l'alternativa, e perchè, generalmente parlando,
un lungo possesso non interrotto equivale ad un incontrastabile
diritto.

Ed in fatti Benedetto XIV conservò ai Veneziani il diritto di eleggere
soli il patriarca; ma, affine di togliere i sudditi dell'imperatore
dalla suggezione ad un vescovo straniero, nella parte austriaca di
quella diocesi stabilì un vicario apostolico. Spiacque oltremodo al
senato cotale decisione, e richiamò egli tosto i suoi ambasciatori
tanto da Roma quanto da Vienna. Al tempo stesso la repubblica accrebbe
di molto le sue armate di terra e di mare e si dispose alla guerra.
Il papa dichiarò che, qualunque potessero essere le conseguenze di
quella lotta, non credevasi egli mallevadore di quegli avvenimenti;
che stabilito aveva un vicario apostolico, le regole seguendo della
giustizia, e che alcun interesse non pigliando alle operazioni del
veneto senato, rimettevasi alla saviezza dell'imperadrice regina.
Il senato, all'incontro, manifestò a tutte le corti avere il papa
stabilito quel vicario in una parte del patriarcato di Aquileia, ed a
quella dignità inalzato il conte di Atimis, canonico di Basilea; grave
pregiudizio quindi venirne al diritto di padronato dalla repubblica
esercitato costantemente; essere perciò la repubblica stata costretta
a richiamare il suo ministro da Roma dopo le proteste fatte contra quel
breve; professare tuttavia, mentre gelosa era di conservare un diritto
col lasso di più secoli acquistato, alla santa Sede in tutt'altro
rispetto sentimenti di venerazione e di filiale obbedienza.

Il re di Sardegna si proferì mediatore nella contesa, ma dal senato
veneto non ottenne se non un rendimento di grazie. Fu proposto di
smembrare il patriarcato, e di formarne due vescovadi, da stabilirsi
l'uno ad Udine, l'altro a Gorizia; ma anche siffatta proposizione
fu dal senato rigettata; ed il nuovo vicario apostolico, recatosi ad
Aquileia, il possesso pigliò di quella dignità, malgrado le opposizioni
de' Veneziani. Vollero questi ancora qualche tempo resistere; ma,
troppo deboli forse per opporsi alle forze dell'Austria, acconsentirono
finalmente alla proposta divisione: fu però stabilito che abolito
sarebbe il titolo di patriarca d'Aquileia, e ripartita la diocesi in
due vescovadi, dei quali la nomina apparterrebbe per l'uno al senato,
per l'altro ai sovrani dell'Austria.

Il chiudimento della santa porta segnò in Roma il termine dell'anno
1750, nel quale furono celebrate nella corte di Torino le nozze tra il
duca di Savoia Vittorio Amedeo, figlio del re Carlo Emmanuele III, e
l'infante Maria Antonia, sorella di Ferdinando VI re di Spagna.

Manifestossi intanto in Parma un mal umore, perchè quel novello
sovrano, Spagnuolo di nazione, avesse conferito le principali cariche
del ducato, e particolarmente quelle della pubblica economia, agli
Spagnuoli; e furon pubblicati viglietti, co' quali avvertivasi
quel principe di ricordarsi delle istruzioni avute dal re suo padre
Filippo V, cioè di reggere con dolce freno i suoi popoli. Tentando
d'infrenare l'umor sedizioso col rigore, l'espediente non giovò; sicchè
bisognò cambiare i ministri e scemare le tasse. Delle quali benefiche
disposizioni contento il popolo, dimostrò la sincera sua riconoscenza
verso il principe quando giunse di Francia in quello Stato la reale sua
sposa, figlia di Luigi XV.



    Anno di CRISTO MDCCLI. Indiz. XIV.

    BENEDETTO XIV papa 12.
    FRANCESCO I imperadore 7.


A mantenere il benefizio della pace, di cui già da un anno erasi
incominciato a godere in Italia, aveano il massimo interesse le due
corti di Vienna e di Madrid; avvegnachè, se l'imperadore Francesco
I possedeva i dominii della casa de Medici, due principi della casa
regnante di Spagna teneano il regno delle Due Sicilie, e l'eredità
della casa Farnese. Il conte Esterazi adunque, ministro cesareo alla
corte di Madrid, in varie conferenze avute col signor di Carvaial
e Lancastro, e col marchese dell'Ensenada, principali ministri del
gabinetto spagnuolo, propose che, per allontanare il pericolo di nuove
turbolenze, e stabilire la pace sulla base degli antichi trattati, il
re Cattolico s'impegnasse di non prendere parte, nè direttamente nè
indirettamente, in qualunque guerra che insorger potesse in Italia, nel
caso che, contra ogni aspettativa, se ne accendesse alcuna che fosse
prodotta da una causa straniera agli interessi di Sua Maestà Cattolica
e della sua famiglia; che l'imperadrice regina, dal canto suo, per
cooperare al medesimo fine, guarentisse nella più solenne forma gli
Stati de' quali era in possesso il re delle Due Sicilie, non meno
che quelli posseduti dall'infante don Filippo in vigore del trattato
di Aquisgrana; che la stessa malleveria si facesse dall'imperadore
nella sua qualità di granduca di Toscana; che finalmente, in forza di
tale accordo, rimanesse estinta e diffinita ogni scambievole pretesa,
oppure, se alcuna ne restasse, sopra la quale le due corti non si
fossero acconciate, si avesse diffinire amichevolmente.

Intanto che il conte Esterazi adoperava in tal modo alla corte di
Madrid, un altro abile ministro della corte di Vienna, il conte
Beltrame Cristiani, gran cancelliere di Milano, prevaleasi del suo
soggiorno a Torino, dove erasi trasferito per regolare i punti di
commercio tra gli Stati del re di Sardegna e la Lombardia austriaca,
onde disporre l'animo di quel sovrano ad entrare nella convenzione
meditata e stabilita tra l'imperadrice regina Maria Teresa e Ferdinando
VI re di Spagna. Riusciti felicemente ne' loro maneggi ambedue i detti
ministri, in brevissimo tempo venne fra le corti di Vienna, Madrid e
Torino stipulato un trattato, di cui questa era la sostanza. Nel caso
che le truppe nemiche invadessero gli Stati del re di Sardegna, dovesse
l'imperadrice regina somministrargli un aiuto di sei mila uomini;
fornisse ella lo stesso numero di gente per difesa del re delle Due
Sicilie, dell'infante duca di Parma e del duca di Modena, allorchè gli
Stati di questi principi si trovassero nello stesso caso; ad uguale
sussidio fosse tenuto il re di Sardegna, nel caso che fossero attaccati
i dominii posseduti in Italia dalla imperadrice regina, e ad egual
impegno verso di essa fosse vincolato anche il re di Spagna; facesse
Sua Maestà Cattolica il medesimo riguardo al re di Sardegna, e questi
verso la Maestà Sua; in ognuno di questi casi il re delle Due Sicilie
somministrasse cinque mila uomini di truppe ausiliarie, e tre mila
per ciascheduno l'infante duca di Parma ed il duca di Modena; dovesse
finalmente ciascuna delle parti stare mallevadrice pei dominii dalle
altre rispettivamente posseduti in Italia, nello stato medesimo in cui
allora si trovavano.

In questa convenzione, intesa a mantenere la quiete d'Italia, non
erano, come si vede, compresi gli altri principati italiani, cioè
il papa, e le tre repubbliche, di Venezia, di Genova e di Lucca, nè
poteano esserlo. I sommi pontefici, e specialmente Benedetto XIV,
sicuri di conservare quegli Stati che dalla pietà e munificenza
de' principi avea la santa Sede ottenuti, non poteva pensare mai a
dilatarli per ambizione o per avidità d'imperio nè temere poteva
di esserne, se non dalla violenza e dalla ingiustizia spogliato.
Contenta la repubblica di Venezia de' suoi possessi nel continente e
fuori, già da più d'un secolo avea rinunziato all'idea di meschiarsi
nelle dissensioni dei principi in Italia, e faceva professione d'una
rigida neutralità. Quella di Lucca, limitata alla ristrettezza del suo
pacifico dominio, compreso e quasi incastrato nella Toscana, attendeva
al commercio ed alle arti della pace, e stimavasi felice di non entrare
per nulla in bilancia a fissare l'equilibrio della penisola. Quanto
alla repubblica di Genova, che tanta parte aveva avuta nell'ultima
guerra, non era stata nominata, perchè le direzioni da essa tenute
a suo riguardo aveano disgustato la corte di Vienna; perchè le altre
potenze, allora belligeranti e rivali della casa di Austria, non aveano
trovato vantaggio nissuno dall'amicizia di lei; e perchè finalmente
tutte le repubbliche, se non sieno potenti, interessare non possono
nella loro sorte i sovrani assoluti, mancando quei vincoli di sangue o
di affinità che devono o almeno possono talora stringere i principi fra
loro.

Ma la genovese repubblica, che da venti anni teneva a sè conversi gli
sguardi dell'Europa per quella ribellione della Corsica, che, dopo la
tanto decantata dei Paesi Bassi al tempo di Filippo II, non avea avuta
ne' secoli moderni l'eguale o per l'energia de' suoi sforzi, o per la
costanza nelle disgrazie o per l'accorgimento, trovossi nel presente
anno in non troppo felici contingenze.

Si è veduto a suo luogo (all'anno 1745) come la città di Bastia,
capitale dell'isola, già smantellata pel furibondo fulminare di bombe
e cannoni d'una squadra inglese, fosse dal suo governatore genovese
abbandonata in mano del colonnello Rivarola, che con tre mila Corsi
sollevati se le faceva sotto.

Non vogliamo qui lasciar di notare, perchè da nessuno storico riferito,
ma pure consegnato nelle memorie d'un insigne naturalista franzese, che
un ministro della corte di Francia, vedendo lo spirito sempre inquieto
e tumultuante di quelle popolazioni, propose di far tagliare tutti gli
alberi de' castagni di quell'isola, che il nutrimento per alcuni mesi
fornivano agli abitanti, affinchè costretti fossero a coltivare nelle
lor montagne i grani e per ciò distratti dalle guerriere imprese; senza
avvedersi che in quelle selve montane mai non si sarebbero seminate le
biade, e che il popolo, privo d'un mezzo ad esso fornito dalla natura,
ne sarebbe più feroce divenuto ed indomabile.

Poichè pertanto il congresso d'Aquisgrana non avea fatto nessun conto
della supplica colla quale i Corsi in commoventi termini esponevano
le cagioni della loro insurrezione, ed imploravano l'assistenza delle
corti europee onde non rimanere più oltre sottoposti alla oppressione
de' Genovesi, quegl'isolani continuarono a coraggiosamente combattere
per la loro indipendenza. Già la Francia, che, per tornare i ribelli
all'ubbidienza del senato genovese avea, dopo il conte di Boisseux,
spedito in Corsica il marchese di Maillebois, il quale disse ai Corsi
come Sua Maestà Cristianissima prendesse la loro isola sotto la sua
tutela e protezione, venuta era in determinazione di sostituire a
questo comandante generale il marchese di Cursay. Ora, comandando
questi da vicerè, contribuì molto a rendere sempre più odioso il
governo antico ed attuale della repubblica di Genova; e la grande
autorità che arrogavasi fece insiememente nascere puntigli e serie
contese tra lui ed i comandanti generali, che volevano sostenere il
decoro ed i diritti della genovese repubblica.

Cotali disordini presero gran piede nei primi mesi di quest'anno in
molte occasioni, e principalmente per certa paglia niegata da alcuni
luoghi al marchese di Cursay, che volea pagarla, ed a lui invece
fornita da' Corsi sollevati senza verun pagamento. Da ciò insorte nuove
questioni tra le truppe franzesi e le genovesi, unite a' Corsi fedeli,
sì che vennero più volte alle mani, quel comandante dovette appigliarsi
al partito di vietare a' suoi di approssimarsi ai presidii genovesi.
D'uopo è notare che mentre i Corsi sostenevano una lotta accanita
coi Genovesi, le diverse corti, e quelle specialmente di Francia e di
Spagna, gelose erano a vicenda, e timorose sempre che l'isola cadesse
in dominio dell'una o dell'altra; dal che derivava che mentre si
ostentava talvolta di prestare aiuto ai Genovesi, e di voler ricondurre
la pace, non si lasciava di fomentare in qualche modo la sollevazione e
di favoreggiare l'indipendenza di quella nazione.

Intanto la discordia, che regnava tra' Franzesi e Genovesi, riaccese
quella delle comunità del regno, senza che il generale franzese, il
quale procurava di sopirla, o almen frenarla con la dolcezza e con
l'autorità, prevalesse a ristabilire la quiete, spesso interrotta da
vie di fatto funeste e sanguinose.

Informata la repubblica di Genova di quanto era accaduto ed accadeva in
Corsica tra il marchese di Cursay ed il suo comandante, tra le milizie
di ambedue le parti e tra le comunità del regno, elesse subito il
marchese Giacomo Grimaldi, uomo di gran merito e di molta estimazione,
per mandarlo nuovo commissario in Corsica a trattare col comandante
franzese un aggiustamento di tutte quelle vertenze; inviando al suo
ministro a Parigi ampie istruzioni onde giustificare presso quella
corte il modo di operare suo e de' suoi.

Ma anche il marchese di Cursay avea già di tempo in tempo portate alla
sua corte le proprie doglianze, e da ultimo l'aveva ragguagliata delle
recenti contese; senza nel frattempo tralasciar l'esecuzione degli
ordini ricevuti dal cavaliere di Chauvelin, plenipotenziario del re a
Genova, di convocare pei 10 del mese di giugno un'assemblea generale
del regno, onde farvi l'elezione di cinque deputati, che, unitamente
con lui, col plenipotenziario suddetto e coi commissarii del senato di
Genova, dovevano trasferirsi a Tolone, per regolarvi diffinitivamente
in una specie di congresso tutte le bisogna della Corsica.

L'adunanza non ebbe luogo, perchè la Francia, disgustata grandemente,
per le relazioni del Cursay, e de' Genovesi e de' Corsi, venne in
determinazione di richiamare dalla Corsica le sue genti, lasciando
in balia di sè stessi non meno quegli abitanti che la repubblica di
Genova; e già tutto era apparecchiato per la partenza.

Sensibilissima riuscì alla repubblica e del pari ai capi de' Corsi
l'imminente partenza delle truppe franzesi dall'isola, perciò che
lasciavanla esse in un abisso di disordini, de' quali non poteasi
sperare allora nè rimedio nè fine. Fecero dunque lor pruove ambe le
parti per sospendere l'effetto della presa risoluzione, il senato
di Genova dando ordine a' suoi deputati in Parigi di sottomettersi
a qualunque soddisfazione che il gabinetto di Versaglies esigesse, e
promettendo i Corsi di ricevere con intera sommissione quei regolamenti
che al re piacesse di fare intorno agli affari loro.

Corse allora voce che qualche bella soddisfazione venisse data da'
Genovesi a Luigi XV, ma niuno poi seppe dire in che consistesse. Si
seppe bensì tosto che, calmato quel monarca, avea dato ordine al suo
ministro Chauvelin di proporre ai Corsi il chiesto regolamento, facendo
loro intendere che Sua Maestà, mossa dalla idea delle calamità che per
la partenza delle sue truppe sarebbero toccate ai Corsi, era discesa
a sospendere l'esecuzione de' suoi ordini, onde terminare un'opera ad
essi favorevole, come era quella di restituir loro la pace e far che
godessero d'un dolce reggimento e permanente.

In conseguenza de' quali ordini, passato nell'isola lo stesso de
Chauvelin, il marchese di Cursay intimò di bel nuovo una generale
adunanza; alla quale essendosi portati i deputati corsi, dopo
comunicate ad essi le condizioni dal re di Francia procurate per
assicurar loro uno stato felice e tranquillo, furono anche chiamati a
conoscere che felicità e tranquillità, mediante un moderato e giusto
governo, non poteano ottenere se non se da quella potenza che avesse
sopra di essi una legittima e sovrana autorità, come appunto era la
repubblica di Genova; nello stesso tempo dichiarando che Sua Maestà
Cristianissima, per un effetto della sua naturale bontà, addossavasi
la malleveria di tutto ciò che fosse loro concesso, e di cooperare
all'esecuzione. Tutti i deputati ad una voce fecero sapere che si
sottomettevano rispettosamente a quanto Luigi XV richiedeva, ed anzi
sottoscrissero un atto, col quale giurarono sopra l'Evangelio di volere
da allora in poi riconoscere la repubblica di Genova per sola legittima
loro sovrana, tornando sotto la sua obbedienza, e rinunziando ad ogni
passo od atto in contrario. Laonde fu letto e dato loro a sottoscrivere
il regolamento, contenente le condizioni che il re di Francia aveva
per essi conseguite dalla repubblica, e comprese in otto articoli,
tutti risguardanti al generale governo dell'isola, senza parola da cui
argomentare che seguire ne dovesse essenziale mutazione di reggimento.

A questi passi, un altro i Corsi ne mandarono dietro. Quattro fra i
deputati recaronsi a Bastia, e a nome di tutta la nazione rinnovarono
al già detto commissario Grimaldi le sicurezze della loro sommissione
e del sincero loro ritorno sotto il dominio dell'antico legittimo
Sovrano, presentandogli in pari tempo, ed alla presenza del cavaliere
de Chauvelin, una lettera, nella quale, riconoscendo la repubblica
per loro sola e legittima sovrana, protestavano che la principal cura
dei padri di famiglia e de' capi delle comunità sarebbe stata quella
di avvezzare i popoli al dovere ed alla subordinazione, e nel tempo
stesso imploravano dal commissario che volesse presso la Repubblica
interporsi, affinchè ottenesse dal re di Francia che tuttavia in
Corsica restassero le sue truppe, mezzo valevole, forse e unico per
assodare quella tranquillità che per esse si era veduta a rinascere.
A simile domanda furono i Corsi indotti per un fine politico:
sudditi, essi non potevano chiedere al re l'ulteriore soggiorno delle
sue milizie; sembrava inconveniente che lo facesse la repubblica
riguardo ad un paese pacificato e messo sotto la sua obbedienza;
il re di Francia di suo moto proprio nol dovea. Dall'altro canto a
tutti conveniva, o per interesse o per decoro, che quegli armati si
rimanessero. Fu dunque trovato l'espediente della lettera, che togliea
di mezzo tutti gli scrupoli e delicatezze.

Se non che non tardò molto a manifestarsi la necessità di quelle
truppe. I deputati che aveano firmata la pacificazione della Corsica
furono disapprovati da' loro committenti di là dai monti, che si
sollevarono, e se di qua il fuoco non iscoppiò nè così presto nè con
tanto impeto, covava sotto la cenere, ed anzi si credette che di qui
partissero le scintille che appiccarono l'incendio dall'altra parte.

Gli abitanti di Niolo, considerati sempre come i meno trattabili
dell'isola tutta, furono i primi a tumultuare contro il regolamento,
perchè non procacciasse i vantaggi ch'eransi fatti sperare, non
parlando esso punto de' privilegii della nazione, che pur erano
l'argomento principale della gran lite co' Genovesi, e per tal modo
rimanevano, come per l'addietro, soggetti all'autorità dispotica
della Repubblica e de' suoi uffiziali. Nè a persuadere i Niolesi e
gli altri abitanti di parecchie pievi della parte oltramontana, che
ne avevano seguito l'esempio, valsero le parole dell'abbate Olivetto,
ecclesiastico molto stimato da quelle genti, ed il medesimo che per
esse avea scritto alla corte di Francia promettendo a loro nome tutta
la sommessione, perchè si lasciassero nell'isola le truppe che il
re ne avea richiamate: prese di bel nuovo l'armi, posero ogni cosa
in disordine tale, che forse potea dirsi peggiore di quel di prima.
Se non che, recatosi sui luoghi il marchese di Cursay con buona mano
di soldati, giunse a calmare gli animi ed i ribelli, deposte l'armi,
gli diedero anche statici per sicurezza della loro fede: vedremo in
appresso che calma e che sommissione fossero quelle.

I corsari africani, che in quest'anno ricomparvero baldanzosi sulle
acque della Corsica, ed ogni dì faceano udire il suono di qualche
novella preda, e minacciavano di sbarco le coste dell'Italia, senza che
a reprimerne l'insolenza valessero una squadra napolitana e le galee di
Malta e del pontefice, furono cagione di grave querela tra la corte di
Napoli e quella di Vienna.

Avendo le galee pontificie e napoletane data la caccia a due galeotte
tunisine, ne catturarono una; ma l'altra riuscì a ripararsi sotto il
cannone della torre del Giglio, situata all'altura degli Stati de'
presidii, sulle terre all'imperadore spettanti nella sua qualità di
granduca di Toscana. Allora le galee pontifizie, cessando l'impresa,
diedero di volta; ma le napoletane, niente curando i segnali del
comandante della torre, che avvisava trovarsi la galeotta in paese
sicuro, l'incalzarono sì, che costrinsero i Turchi a salvarsi in terra,
dove pure sbarcati, gli attaccarono più volte, finchè li videro in
luogo di sicurezza, e quindi condussero seco il legno nemico ed una
barca napolitana poc'anzi da quello predata, in tutta questa fazione
lavorando col cannone gagliardamente con qualche danno eziandio della
torre, che continuava a protestare ed a far fuoco per far rispettare i
suoi diritti.

Informata la corte imperiale, allora residente a Presburgo,
dell'accaduto, lo imperadore, come granduca di Toscana, considerandosi
altamente offeso per la violenza praticata a quel corsaro sotto la sua
protezione, chiese alla corte di Napoli pronta e solenne soddisfazione
colla restituzione immediata del bastimento predato. Alle quali
rimostranze re Carlo rispose, aver lui fatto più volte rappresentare
alla reggenza di Firenze non potersi avere riguardo alcuno alla pretesa
neutralità della corte di Toscana, però che di questa i Barbareschi
prevalevansi per impunemente e come da sicuro asilo assaltare le navi
napoletane con incredibile danno de' suoi sudditi e del loro commercio;
nè dovere quindi parere strano se il duca di San Martino, comandante
delle galee napoletane, non avea avuto difficoltà di assalire il legno
tunisino, trovatosi appunto nel caso per cui state erano mosse quelle
doglianze e proteste. O sia che cotale risposta fosse riconosciuta
concludente, o che altri motivi a ciò consigliassero, l'affare rimase
allora sopito.

Tuttavia, a mettere qualche rimedio al sommo pregiudizio che
generalmente recava al commercio d'Italia, quel ricovero che ne'
porti di Toscana trovavano i Barbareschi, per la pace da Francesco I
imperadore, quale granduca, colle reggenze africane conchiusa; mosse
calde lagnanze alla corte di Vienna dal papa, dal re di Sardegna e
dalle repubbliche di Genova e di Lucca; l'imperadore stesso, sul cui
animo avere doveano maggior forza le ragioni giustissime di quattro
italiane potenze che non qualunque trattato o impegno in cui fosse
entrato coi governi di Barbaria, s'indusse finalmente a permettere alla
reggenza di Firenze di servirsi delle due navi da guerra recentemente
a Porto Ferraio tornate dal Levante, per tener lontani dalle coste di
Toscana i corsari, non permettendo loro di accostarsi, se non ne' casi
di disgrazia, che furono specificati. Alla quale permissione imperiale
fu allora creduto che maggiormente avessero contribuito i lamenti de'
negozianti di Livorno per le ingiustizie ed avanie che le loro navi
pativano da coloro, a' quali la fede de' trattati era lieve freno per
trattenerli dal commettere mille estorsioni ed iniquità.

A questa provvidenza giusta e salutare, diretta ad assicurare
possibilmente il commercio italiano dalla rapacità e malafede degli
Africani, un'altra ne mandò dietro Benedetto XIV, e come capo della
religione e come principe temporale, molto più dilicata di sua natura,
ed assai più importante nelle sue conseguenze, riguardo ai così detti
Liberi Muratori. Già da circa venti anni diffusa e clandestinamente
dilatata ne' paesi cattolici, e più ancora in quelli che fuor del
cattolicismo viveano, teneva questa società in continuo sospetto
i principi ed i governi. Chi le ha dato per progenitori coloro che
edificarono la torre di Babele, chi quelli del tempio di Salomone;
altri, più sistematici, vollero riconoscerne padri i cavalieri
Templari. Amava le tenebre, ed in seno dell'oscurità andava ampliando
il numero de' suoi confratelli. Sulla porta di quelle stanze che le
serviano di notturno ricetto non vedevi impressi caratteri materiali;
eppure era scritto: _Lungi, o profani; è questo il regno della luce
ed il tempio della verità._ Riti misteriosi ne accompagnavano le
iniziazioni. Non diversità di patria, non differenza di governo, non
disparità di culto era di ostacolo o ragion di ripulsa a chi chiedea
d'entrare. Nel regno della luce, nel tempio della verità ammetteansi
egualmente, e come cittadini e come adoratori, i fedeli di Cristo, i
discendenti di Abramo, i seguaci di Calvino o di Lutero, di Maometto
e di Confucio. La differenza stessa della nascita, del grado, delle
fortune quivi spariva; chè l'opulento ed il misero, il dignitario
e l'artigiano, principi e sudditi, dotti ed indotti trovavansi
indistintamente registrati sulla lista dei Liberi Muratori, e non
rado un uomo, cui per le vene scorreva un sangue per trenta o quaranta
generazioni purificato, siedeva fra due compagni lordi ancora di quel
fango ond'erano usciti nascendo. Soave giocondità presiedeva alle
notturne loro adunanze, e parea un'innocente allegria fosse il nume
geniale de' loro banchetti. Uno spirito di fratellanza, di benevolenza
generale, mentre congiungeva le destre, ne annodava i cuori. I
soccorsi, che una mano benefattrice porgea a chi avea bisogno, erano
sempre tanto spontanei quanto copiosi; ed il fratello beneficato, lungi
dal vedere nel suo benefattore, come suole troppo di sovente, chi della
sua superiorità approfitta per farsi dipendente e schiavo un infelice,
vedevasi appena obbligato al tacito tributo dell'intima riconoscenza.

Come dunque una congregazione di uomini, sì innocente nel suo vantato
istituto, sì benefica ne' pretesi suoi effetti, che proponeasi di
mettere in pratica quelle sante massime che, proposte dal Vangelo
colla promessa di non terminature ricompense, trovano nondimeno tra i
cristiani sì scarso numero di cultori, come mai farsi potè sospetta ai
governi, tirarsene addosso lo sdegno, e meritar in fine d'esser punita?
Facile a conciliarsi è l'apparente contraddizione. La società dei
Liberi Muratori è tutta fondata sul più rigoroso secreto. Coloro che
vi sono ammessi non entrano a parte del mistero, e nulladimeno si esige
da essi sotto i più terribili giuramenti di starne fedeli al silenzio.
Se la società ha per oggetto del suo istituto la virtù, a che tanta
precauzione per tenere celata la sostanza delle sue massime e delle
sue dottrine? Perchè non far vedere agl'iniziati il codice della loro
associazione? A che tanta diffidenza, a che tanta gelosia?

Tutti questi segreti, tutti questi misteri, che all'illustre Annalista
d'Italia sembrarono _inezie_, e ad altri parve che contenessero
l'_enigma e non l'arcano_, divennero sospetti non solo alla podestà
ecclesiastica, per credere che si macchinassero insidie alla religione,
ma eziandio alla stessa secolare podestà, prevedendo che potesse
turbarsene la quiete civile. Quindi in poco tempo si videro a circolar
per tutta l'Europa editti sopra editti contro i Liberi Muratori. Prima
a comparire nella lista delle potenze che proscrissero la società
fu la Francia, nel 1727. L'Olanda nello stesso anno, e molto più
rigorosamente nel 1755, manifestò il suo sdegno contro i supposti
discendenti dei Templari. Tre anni dopo lo stesso fecero la Fiandra e
la Svezia. La Polonia nel 1739, la Spagna ed il Portogallo nel 1740, il
governo di Malta nel 1741, e la regina d'Ungheria nel 1743 fulminarono
gli apostoli della verità e gli angeli della luce, come furono poi
proscritti, nel 1748, negli Svizzeri, dal cantone di Berna.

Tredici anni erano scorsi da che Clemente XII, stato informato che il
mostro, varcate le Alpi, avea posto in Italia il piede, gli scagliò
contro gli anatemi del Vaticano. (Ved. sopra all'anno 1736; tomo VII,
col. 429 e seg.) Se non che alcuni divulgavano che le censure fulminate
della Chiesa, per non essere la bolla di Clemente stata dall'attuale
pontefice confermata, non aveano più vigore alcuno. Si volse adunque
Benedetto XIV a distruggere sì pernizioso errore, e nel giorno 18
maggio del presente anno comunicò a tutto il mondo cattolico i suoi
sentimenti e le risolute sue determinazioni in tale proposito con una
bolla, nella quale sei motivi adduceva, pei quali aveasi la società
a riguardare come direttamente contraria al bene della religione e
dello Stato. Unirsi, diceva, in siffatte adunanze persone di ogni
religione e di tutte le sette; occultarsi con istretto costante impegno
di segretezza le cose che in dette conventicole si fanno: asserendo
essere colpevole il giuramento con cui si obbligano ad inviolabilmente
osservare il segreto, come se fosse lecito ad alcuno di premunirsi del
pretesto di qualche promessa o giuramento per esimersi dal manifestare
le cose tutte, intorno alle quali fosse dalla legittima podestà
interrogato; opporsi società simili alle leggi civili non meno che
alle ecclesiastiche, essendo dal gius civile vietati tutti i collegi
e corporazioni tutte formate senza pubblica autorità; essere in molti
paesi state proscritte dalle leggi di principi cotali società ed
aggregazioni; cadere esse mai sempre in sospetto degli uomini saggi,
riputati perversi coloro che vi si aggregavano.

Quantunque in Napoli più che altrove si guardasse con sospetto
qualunque adunanza od unione di genti, per le ripetute rivoluzioni
alle quali andò quel regno suggetto, così teneasi che colà e nelle
altre napoletane provincie si fossero assai moltiplicate le logge di
Muratori. Appena dunque venuta in luce la costituzione di Benedetto
XIV, il zelo di molti ecclesiastici fece sì che tuonassero, sul
fondamento delle voci che correano, contro la setta dei Liberi
Muratori; e quindi il popolo a credere di veder sempre chi portasse in
fronte i contrassegni del fulmine pontificale; a mormorare che la corte
in sì delicato argomento si tenesse in silenzio. Intanto i settatori,
benchè con tutta giustizia perseguitati, e quantunque conoscer
dovessero il proprio torto, osservavano gelosamente quel segreto
ch'era l'anima della loro istituzione, guardavano un rigoroso silenzio
sulla sostanza delle loro massime e sulla natura dei dogmi loro, non
meno che intorno al nome dei consocii, e continuavano a radunarsi
clandestinamente. Ma, per quanto occultamente adoperassero, non valeano
a sottrarsi affatto alle suspizioni. Potea il disordine crescere da una
parte, crescer dall'altra lo scandalo. Laonde il re, risoluto d'andare
alla radice del male, condiscendendo ancora alle istanze del sommo
pontefice, elesse cinque giudici particolari, uno per ciascun ordine di
persone, onde fossero processati e puniti tutti coloro che alla setta
de' Muratori si trovassero aggregati. Ma perchè tali regie disposizioni
forse non bastavano, se anche la nazione tutta non fosse senza equivoco
e perfettamente istrutta della sovrana volontà, il re Carlo emanò un
severo editto, in cui proibì assolutamente ne' suoi dominii i Liberi
Muratori, da dover essere puniti come perturbatori della pubblica
tranquillità e rei di crimenlese.



    Anno di CRISTO MDCCLII. Indiz. XV.

    BENEDETTO XIV papa 13.
    FRANCESCO I imperadore 8.


La convenzione nell'anno scorso da noi mentovata, tra le corti di
Vienna, Madrid e Torino, fu nell'anno presente ridotta a solenne
trattato, reso poi celebre sotto il nome di trattato di Madrid, o
di Aranjuez, dal luogo in cui fu stipulato, ed il quale in sostanza
non era che una pura rinnovazione della convenzione sopraccennata,
le sole mutazioni fatte consistendo negli aiuti scambievoli promessi
da' tre sovrani in caso di aggressione ai loro Stati in Italia, e
nell'alternativa di dare in vece di soldati uno stabilito sussidio in
denaro contante. Alla diffinitiva conclusione di siffatto accordo molto
cooperò il re d'Inghilterra, siccome quegli a cui stava molto a cuore
la perfetta esecuzione del trattato di Aquisgrana e della convenzione
di Nizza, che ne furono come la base ed il principal fondamento. Ed
al totale ristabilimento della pubblica tranquillità concorsero quasi
tutte le italiane potenze, con sì buona intelligenza e concordia,
che in brevissimo tempo, per mezzi del tutto amichevoli e pacifici,
congressi, maneggi, concordati, furono accomodate tutte le questioni
e vertenze insorte necessariamente per le perturbazioni delle guerre,
intorno ai confini ed alle giurisdizioni tra il regno di Napoli e lo
Stato pontificio, tra questo e la Toscana, tra esso granducato ed il
duca di Modena, tra il Milanese e gli Stati del re di Sardegna, tra
questi e la repubblica di Genova, tra il Mantovano ed il Tirolo colla
repubblica di Venezia.

Le sollecitudini de' principi contraenti nel detto trattato ebbero
per quaranta e più anni un effetto salutare. E forse anche più durato
avrebbe il suo beneficio, senza quel turbine che dalla Francia proruppe
a disordinare ogni meglio connesso edifizio, verso la fine del secolo,
come a suo luogo verremo a mano a mano descrivendo. Ma intanto ci è
d'uopo ripigliare il filo delle cose di Corsica, che tenevano allora
desta l'attenzione generale dell'Italia non solo, ma di tutta l'Europa.

Guardavansi di mal occhio i due primarii personaggi che allora
reggevano la isola, il commissario genovese marchese Grimaldi ed il
marchese di Corsay comandante franzese, e tanto innanzi procedute
erano le cose, che quel primo dalla Bastia erasi ritirato in Aiaccio,
per isfuggire le contese quotidianamente insorgenti per l'autorità
che questi arrogavasi, in gran parte contraria alla sovranità della
repubblica. Ora ad accrescere le discordie accadde che una squadra
franzese, tornando da' lidi dell'Africa, dov'erasi portata a minacciare
i Tripolini, bombardandone il porto, comparve sulle coste della Corsica
e diede fondo nel porto d'Aiaccio, senza che i Genovesi sapessero
che pensarsi di quella comparsa, e con grave scontentezza de' Corsi,
tra' quali corse come sicura la voce che fosse venuta per opporsi ad
altra squadra inglese, che dovea liberar l'isola dalla schiavitù e
dall'oppressione. Come il senato di Genova avea già significato al
suo commissario che gli chiedea il modo del contenersi, la squadra,
dopo rinfrescato, veleggiò per Tolone; ma in quell'occasione il senato
stesso avea pur fatto intendere al Grimaldi come stata fosse ottima
cosa che se la passasse con miglior accordo col comandante franzese,
in pari tempo lagnandosi alla corte di Francia delle costui procedure.
E a tali insinuazioni del senato il Grimaldi replicò con sentimenti
di buono e zelante repubblicano, lui chiedere piuttosto di essere
richiamato, di quello che rimanere in un impiego in cui fosse obbligato
a riconoscere autorità altra qualunque fuor di quella della repubblica.
Ma l'impossibilità di trovare suggetto capace da sostituire al Grimaldi
nel posto di commissario generale in Corsica, il non poterglisi
rimproverare altro che un troppo vivo zelo nel sostenere il decoro e
gl'interessi della sua patria, determinarono il senato a non aderire
alle domande del suo cittadino.

Nè solamente le gelosie e le reciproche diffidenze de' due generali
in Corsica tenevano molto occupati i Genovesi ed inquietavano la corte
di Francia; ma il regolamento stesso comunicato l'anno scorso ai capi
dei sollevati dal marchese di Cursay per parte del re di Francia,
di cui quei popoli non eransi mostrati troppo contenti, non appagava
neppure interamente i Genovesi; sì che si rese necessario concertare
col cavaliere di Chauvelin, ministro franzese, che di Francia venisse
una riforma, la quale e questi e quelli appagasse. Ma nè anche giovò
la riforma creduta opportuna dal gabinetto di Versaglies, poichè, per
lo contrario, non appena fu comunicata ai capi delle pievi, che destò
uno straordinario ed universale impeto di furore, tutti protestando di
non accettare quel regolamento, benchè modificato, nè sottomettervisi
in verun modo, altro scopo esso non avendo che rimettere loro sul collo
l'abborrito giogo della repubblica. Indarno furono chiamati a nuovo
congresso. Ripigliate l'armi, obbligaronsi con fortissimo giuramento
di trattare da nemico chiunque ardisse di parlare d'accomodarvisi.
Scriveva il marchese di Cursay al cavaliere Chauvelin, non esservi in
quello stato di cose che due soli partiti da prendere: o abbandonare la
Corsica al suo destino, o far uso della forza contro la medesima. Ma,
invece di risposta, si vide il marchese posto in arresto, guardato a
vista, indi trasportato in Antibo, e colà custodito come prigioniero di
Stato.

Tra le accuse che allora si sparsero contro il detto comandante,
la principal era quella di un'eccessiva ambizione, per appagare la
quale avea voluto rendersi come necessario ad ambe le parti. In fatti
un'autorità quasi illimitata erasi egli acquistata, specialmente
facendo con una saggia amministrazione godere a quei popoli una
vera felicità; temperato per lui il furore dei partiti, le leggi
erano rispettate, divenuti rarissimi i delitti, e tutta la nazione
tornata per un pezzo in dolce concordia. Fondata egli aveva perfino
un'accademia in Bastia, la quale, sebbene lungo tempo non durasse,
aveva tuttavia risvegliato tra' Corsi il gusto delle lettere.

Arrestato il Cursay, le truppe franzesi rimasero sotto il comando
d'un signor di Curci, il quale, facendo suo pro dell'esempio del
predecessore, fu dal Grimaldi, e tutto si proferse a' suoi desiderii.
Ma intanto le fazioni, le risse, le discordie, le diffidenze
continuavano, accompagnate da incendii, violenze e spargimento di
sangue; ed i Corsi di là dai monti, a segnalare di bel nuovo l'odio
loro contro la repubblica, si elessero de' capi, e questi pubblicarono
un editto rigorosissimo contro chiunque avesse avuto l'ardimento
di fare qualsiasi proposizione a nome di Genova, e facevano inoltre
arrestare ed impiccare senza formalità di processi coloro che erano, o
si parea, sospetti di segrete intelligenze co' Genovesi.

In mezzo alla universal pace, ogni lieve commovimento diventava
osservabile, e tal fu l'attentato sedizioso di quei di Subiaco, grossa
terra della Campagna di Roma, che tanto nel temporale come nello
spirituale dipendeva dall'abbate commendatario di Santa Scolastica.
Questi pastori, che tali sono per la maggior parte, irritati per aver
perduto nella Rota di Roma una lite co' Benedettini di quella badia
circa i pascoli di certa montagna, invece di rispettare il giudizio,
o prevalersi contro d'esso de' rimedii legali, dato di mano all'armi,
investirono il convento, costrinsero priore e frati a fuggirsene per
le finestre, fugarono quanti accorsero in aiuto de' monaci, ed ucciso
uno sbirro, trassero dalle carceri dell'abbadia diversi loro compagni.
Giunto l'avviso del caso a Roma, furono mandate truppe, il cui solo
aspetto sedò immantinenti il tumulto; parte dei principali autori
fuggiti, parte arrestati, e tornati i Benedettini al loro convento. Ma,
per non lasciare impunito un fatto di tanta conseguenza, fu comandato a
quella popolazione di portare l'armi a Roma, il che fu subito eseguito.
Formato intanto il processo ai capi della sedizione, dieci, che erano
stati trasferiti nelle carceri di Roma, furono esiliati per sempre
dalle terre dello Stato ecclesiastico; ed altri undici, già fuggiti,
si sentirono fulminati in contumacia dalla condanna di morte. Quindi in
poi il pontefice colse ogni occasione, per isfuggire simili disordini,
di separare dalla spirituale la giurisdizione temporale in tutte quelle
badie e governi, nei quali erano prima congiunte, assoggettandoli tutti
all'immediata direzione della sacra consulta.

Accadde in quest'anno in Piacenza la morte del celeberrimo cardinale
Giulio Alberoni, che tanta parte ebbe nelle bisogna della Spagna e
dell'Europa tutta. Ne era stata la vita in forse qualche tempo prima;
ma colto avendolo, nel 24 giugno, fieri dolori seguiti da deliquio,
tornarono vani tutti i soccorsi dell'arte, e due giorni dopo spirò,
conservando sino all'ultimo una somma presenza di spirito; potendosi
dire che fu tanto singolare in quest'uomo la morte, come disse
Benedetto XIV, quanto erano state la fortuna, l'ingegno, l'età e la
fama. Di tutti i suoi beni, che faceansi ascendere ad un milione
di scudi romani, lasciò erede il seminario di San Lazzaro, da lui
eretto e fondato con ispesa gravissima fuori di Piacenza; fondazione
che sola avrebbe bastato ad immortalare un altro nome. Di quest'uomo
molto e variamente fu parlato e scritto, e nel corso della rapida
sua elevazione e poi della sua caduta, dopo la quale, quantunque
paresse interamente staccato dogli affari politici, pur non lasciava
di avere molta influenza in quelli che trattavansi in Europa. Tenendo
corrispondenze in tutte le corti ed in tutti gli Stati, i più celebrati
ministri lo hanno consultato; e siccome possedeva in grado eminente
l'arte delle combinazioni politiche unita a penetrazione profonda ed a
sano giudizio, così prevedeva quasi sempre l'esito de' grandi affari, e
raro fu che il successo non corrispondesse alle sue conghietture.

Tre mesi circa prima dell'Alberoni, passò di questa vita il doge
di Venezia Pietro Grimani. Già ambasciatore della patria a Londra
ed a Vienna, se colà guadagnossi la stima dell'inglese nazione e
fu ascritto alla reale società, legato ancora d'amicizia col primo
uomo che allora fosse al mondo, con Isacco Newton, quivi destramente
maneggiò gl'interessi del veneto senato, concertando coll'imperadore
Carlo VI la sacra lega a danni del comun nemico del nome cristiano.
Tornato da sì splendide legazioni in patria, fu insignito della dignità
di procuratore di San Marco, e poi, nel 1741, collocato sul trono
ducale. Culto letterato e filosofo sublime, gloriosamente regnò dieci
anni ed otto mesi, ferma tenendo la repubblica nella saggezza del suo
divisamento di starne lontana da straniere guerre. Ma se di grave
cordoglio fu per questo conto la sua perdita a tutta la città, che
conosceva il pregio d'un tal principe, gli uomini di lettere rimasero
altamente contristati, in lui perdendo, più che il mecenate, un amico
ed un compagno. Gli fu sostituito Francesco Loredano, cittadino di rara
pietà e fornito di virtù morali e civili, tra le quali risplendeano
egregie la liberalità e la beneficenza; consumato sino dalla gioventù
ne' politici maneggi, ed occupato lungo tempo nel posto di savio
grande, che val come chi dicesse nella carica di ministro di Stato.

Nel mezzo tempo i corsari africani tenevano, secondo il solito, in
apprensione le potenze europee colle continue loro scorrerie sul
Mediterraneo, danneggiandone principalmente il commercio. Mentre
pertanto alcune con esorbitanti tributi, sotto lo specioso titolo di
regali, compravano la mal sicura amicizia delle africane reggenze,
due squadre, di Napoli una, l'altra di Malta, segnalaronsi in due
diversi incontri. In quella prima, i prodi capitani di due sciabecchi,
Martinez e Gratto, andando in traccia di quattro sciabecchi algerini
che infestavano le coste della Calabria presso il mare Adriatico,
ne trovarono uno, chiamato il Gran Leone, tra l'isole di Zante e
di Cefalonia. Era il maggiore di tutti, e montato dal comandante.
Lo investirono con sommo coraggio; si difese l'algerino con non
minore intrepidezza per due interi giorni, ma vedendosi oltramodo
maltrattato dal cannone degli assalitori, fece forza di vele per
salvarsi. Il capitano Martinez, temendo non forse potesse ripararsi
in qualche spiaggia o porto del dominio ottomano, ove non gli fosse
dato d'assalirlo, determinossi ad andarne all'arrambaggio, ed eseguì
con tanta energia il suo disegno, pur secondato dal capitano Gratto,
che gli riuscì d'impadronirsene e di fare cento ventiquattro prigioni,
dalle catene liberando molti cristiani. Era intenzione de' comandanti
napoletani di togliere quanto in quella nave era; ma scorgendola
tutta forata dalle cannonate, e sì che faceva acqua da ogni lato,
si appigliarono al partito di affondarla, senza che si prevalesse a
salvarne se non le ancore e qualche sartiame. I regi sciabecchi non
ebbero che dodici uomini uccisi e da venticinque feriti, tra' quali i
due capitani Martinez e Grotto, che furono, come gli altri uffiziali,
proporzionatamente ai meriti, rimunerati. Giusta le deposizioni degli
Algerini presi, il numero loro era di ducento e trenta, ed il loro
bastimento bene armato portava sedici cannoni e dodici petriere,
allestito a spese del re d'Algeri, che ne avea dato il comando al rais
Ismachid Nalif, nativo di Candia.

Ma più fiero e sanguinoso fu il combattimento tra le galee di Malta
ed altri due sciabecchi algerini; conflitto seguito alle alture di
Gallizia, dov'è una torre difesa da cannoni e da presidio tunisino, a
poca distanza dal capo Bon, tra Tunisi e Maometta. Affinchè non potesse
loro fuggire di mano, le galee maltesi si posero tra la torre e i
due bastimenti nemici. Menando quindi le mani, se fu straordinario il
valore de' cristiani nel combattere, non minore si rimase la resistenza
degl'infedeli nel difendersi. Nel famoso combattimento segnalossi il
coraggio di tre soldati maltesi, i quali, nell'atto che una galea tentò
d'impadronirsi d'uno dei legni turchi, e andolle fallito il colpo,
v'erano saltati dentro. Tagliato a pezzi il primo, l'altro, quantunque
ferito, troncò il capo all'Algerino che gli stava a fronte, ed indi,
gettandosi in mare, ebbe la ventura di salvarsi ad una delle galee; ed
il terzo, parimente slanciatosi in acqua, in mezzo al fuoco ed a' remi
dei barbari, ebbe una sorte eguale. Due ore durò la pugna, ma infine
ambi i sciabecchi rimasero presi, ad onta della disperata foga del
rais comandante del più grosso, che, coperto di sangue che uscivagli
da diciotto ferite, tra le quali quattro gravissime, non apparia modo
di costringerlo. Tra i cavalieri di Malta che spiegarono in queste
pruove estremo valore, contaronsi il cavaliere di Valenza, colonnello
del reggimento di Bearn al servigio della Francia, il cavaliere
Aldobrandini, il cavaliere di Pennes, il cavaliere di Elvemont; ma
ben direbbe chi nominasse per tal conto tutti gli uffiziali e soldati
maltesi, la perdita de' quali fu di tredici morti e quarantasette
feriti, compresi i sopraddetti cavalieri Pennes ed Elvemont.

Il ritorno de' vincitori coi vinti legni e coi prigionieri a Malta
fu una specie di trionfo. Nè il solo gran maestro ed i cavalieri, ma
tutti in Italia fecer plauso al valor loro, ed il giubilo fu tanto
maggiore, in quanto che quei due sciabecchi erano i primi bastimenti
algerini che fossero caduti in potere dell'ordine gerosolimitano da
che i Turchi aveano incominciato a far uso di legni di tal sorta. In
uno si trovarono mille ottocento zecchini, prezzo d'una tartana da quei
corsari pochi giorni prima venduta.



    Anno di CRISTO MDCCLIII. Indizione I.

    BENEDETTO XIV papa 14.
    FRANCESCO I imperadore 9.


Per la stabilità e felice esito del trattato di Madrid, o d'Aranjuez
che vogliam dirlo, stipulato nell'anno precedente, occuparonsi
seriamente nel principio di quest'anno i ministri delle potenze
contraenti onde comporre e terminare le differenze che sussistevano
tuttavia intorno alla successione de' beni della famiglia de Medici,
de' quali era attualmente in possesso l'imperadore Francesco, come
granduca di Toscana. Venne perciò proposto che la Spagna rinunziasse
alle sue pretese su questo punto, purchè l'imperadrice regina facesse
anch'essa dal canto suo eguale rinunzia per tutte le ragioni che
pretendeva di avere sopra i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla,
dei quali erasi quella sovrana riservato il regresso nel trattato
d'Aquisgrana. Due difficoltà però rimanevano a superarsi, l'una col
re di Sardegna, con quello di Napoli l'altra; non potendo quel primo,
che nel trattato d'Aquisgrana erasi riservato il regresso sulla città
e territorio di Piacenza, risolversi a farne la cessione, prima che si
fosse trovato il modo di compensarnelo; ed il re di Napoli, facendo
tuttavia valere i suoi diritti sui beni allodiali della famiglia de
Medici, ai quali non intendeva di avere in alcun modo rinunziato a
favore del duca di Lorena, allora imperadore e granduca di Toscana.
Non sembrava difficile trovar qualche temperamento onde appianare le
difficoltà promosse dal re di Sardegna; ma così non era riguardo a
don Carlo re di Napoli, che spedì a Parigi il marchese Caraccioli per
impegnare quel gabinetto a sostenere le sue ragioni.

Teneva allora quel gabinetto gli occhi aperti sopra un oggetto di
maggiore importanza riguardo alle sorti dell'Italia, cioè sui maneggi
alla corte di Vienna impresi dai ministri del duca di Modena. Il
conte Beltrame Cristiani, gran cancelliere del ducato di Milano,
vedeva, e forse da gran tempo aveva tra sè e sè meditato, un gran
colpo, moltissimo vantaggioso all'imperadrice regina sua sovrana ed
alla casa d'Austria, se fosse riuscito a legarla a quella d'Este con
vincoli tali, che gli Stati di questa si fossero uniti al milanese
ducato. Sortendo buon fine il divisamento del conte Cristiani, la casa
d'Austria avrebbe in Italia dominato all'incirca sovra la maggior parte
de' paesi che formavano un tempo lo Stato degli antichi re d'Italia,
cioè la Toscana, il ducato di Milano, il Modenese, il Mantovano
ed una porzione del Monferrato. E la fortuna secondò i disegni del
gran cancelliere. Era, ne' primi giorni dell'anno, nato al principe
ereditario di Modena un figlio, il quale, assicurando la posterità
mascolina dell'estense famiglia, potea, se vissuto fosse, far prendere
misure ben diverse da quelle cui miravano gl'impresi maneggi; ma quel
figlio, pochi mesi dopo il suo nascimento, morì, e colpo tale conchiuse
alla corte di Vienna il negozio giusta l'intendimento de' ministri
modenesi.

Fatto pubblico il trattato in cui stipulossi il matrimonio
dell'arciduca Leopoldo, allora terzogenito, colla figlia del principe
ereditario di Modena, e si dichiararono lo stesso arciduca governatore
dello Stato di Milano, ed il duca di Modena amministratore e capitano
generale del medesimo Stato, insieme stabilendo che i presidii delle
piazze modenesi dovessero essere formati di truppe austriache, e
vicendevolmente le milizie del duca di Modena prendessero posto nelle
piazze milanesi; non solo i gabinetti di Francia e di Spagna, ma
tutti universalmente rimasero oltremodo maravigliati. Non si lasciò
quindi di pubblicare, che il duca di Modena, in questo fatto, oltre
all'allontanarsi dai noti principii de' suoi maggiori, unendosi
all'Austria in confronto della Francia, aveva operato contro le
massime della buona politica, dando mano ad un tanto ragguardevole
ingrandimento di Stati e di potenza in Italia alla detta casa
d'Austria, il che avrebbe col tempo potuto recare gravissimi
pregiudizii alla quiete della penisola.

Procurò il duca di Modena di giustificare il nuovo partito da lui
preso, facendo da' suoi ministri dichiarare alle corti straniere,
averlo gl'interessi del suo ducale casato costretto a trattare colla
corte di Vienna; essere scopo principale cui proponevasi quello di
provvedere alla tranquillità de' suoi Stati, in caso che venisse
ad estinguersi la sua linea mascolina; aver parimente in mira il
mantenimento della pace d'Italia, e la necessità di prevenire le
turbolenze che potessero insorgere in proposito della successione
agli Stati della casa d'Este; lusingarsi lui finalmente che siccome
gl'impegni per esso incontrati non recavano danno ad alcuno, nissuna
potenza volesse adombrarne, e quelle che considerassero la cosa
imparzialmente, convenissero nulla esservi che conforme non fosse
all'interesse d'Italia in generale e alle ragioni di convenienza che
tenere doveano i principi di questa parte dell'Europa svegliati per
allontanare dagli Stati loro ogni occasione di turbolenze.

Qualunque interpretazione dar si volesse a cotali dichiarazioni del
duca di Modena, il colpo era fatto con somma soddisfazione delle
due corti; e furono in conseguenza mandati ordini da Vienna a tutti
i comandanti e governatori delle piazze di Toscana e Lombardia,
di trattare i sudditi di Modena e Massa-Carrara con ogni sorta di
riguardi e di prestar loro tutta l'assistenza possibile sì riguardo
al commercio, sì in tutte le altre vertenze od atti giuridici che aver
potessero da regolare co' sudditi imperiali d'Italia.

Ad onta del trattato d'Aranjuez conchiuso col laudevol motivo di
conservare la tranquillità nell'Italia, ad onta delle proteste del duca
di Modena di non aver avuto in mira che questo prezioso oggetto nella
parentela ed unione contratte con la casa d'Austria, da molti credevasi
che totalmente contrarii alle parole potessero seguire gli effetti; le
quali speculazioni derivavano originariamente dalla condizione attuale
della Spagna e da un avvenimento semplicissimo seguito in Napoli ed in
Roma.

È noto che dopo la pace di Aquisgrana, la corte di Spagna, a principal
cura del marchese dell'Ensenada, andava incarnando alcuni suoi disegni:
gli arsenali tutti in continuo movimento poneano la marineria spagnuola
in grado di mandar navi in America, altre tenerne in corso contro i
barbareschi, ed unire a un bisogno una flotta capace di misurarsi
colle potenze d'Europa; cominciavano a prosperare le fabbriche e
manifatture nazionali, malgrado i rigori in Olanda ed in Inghilterra
usati per vietare ai sudditi loro che, allettati da privilegii e
vantaggi singolari, in Ispagna non passassero coll'industria loro e
cogl'istrumenti relativi; la nazione, naturalmente proclive all'inerzia
ed all'infingardaggine, già destavasi; terre, che da secoli non aveano
sentito zappa nè aratro, aprivano il seno alle benefiche ferite, e
largamente premiavano gl'insoliti sudori dell'agricoltore novello: si
fortificavano le piazze frontiere, ingrandivansi i porti principali,
dentro e fuori d'Europa moltiplicavansi i cantieri; introdotti nelle
truppe gli esercizii all'uso franzese o al prussiano; impiegata buona
parte de' tesori, dopo la pace del nuovo mondo, a comprar merci da
rimandarvi; istituiti grossi banchi nelle principali città commercianti
del regno, e sino in Italia, a nome e profitto del regio erario.

Cotali vigorose e non mai interrotte operazioni e sollecitudini della
corte di Madrid facevano universalmente conghietturare che nudrisse
l'idea di turbare la calma d'Europa e dell'Italia in particolare;
conghiettura che prese maggior piede quando si seppe che, partita da
Cadice una nave, era approdata a Napoli scaricandovi un milione e mezzo
di scudi, non mancando chi affermasse, essere la somma destinata a
porre il re delle Due Sicilie in istato di aumentare le proprie truppe
secondo il disegno tra le due corti fermato. Però gli autori di queste
novelle guerriere trovaronsi non poco sconcertati; chè il picciol
tesoro americano sbarcato a Napoli, quivi non si fermò, ma sopra
cinquanta muli, coperti coll'arme e cogli stemmi della corona di Spagna
entrò in Roma, e, depositato nel palazzo Farnese, pochi giorni dopo da
quella casa, appartenente al re di Napoli, fu trasportato nel castel
Sant'Angelo.

Tuttavia non perciò vollero i politici del giorno mutar opinione o
linguaggio; pretendevano che fosse destinato a circolare nel commercio
sul nuovo banco eretto dal monarca Cattolico in Roma stessa, ed
ostinaronsi a sostenere che si avesse poscia ad impiegarlo in acquisti
ed usi militari, collocato intanto in sì cospicua fortezza per maggior
cautela. Ma la destinazione vera del denaro fu poco stante saputa:
passato dal Messico a Cadice, da Cadice a Napoli, e di colà a Roma,
apparteneva alla santa Sede, e le fu spedito in forza di un trattato
conchiuso tra le due corti, ampliativo del giuspadronato regio sopra i
benefizii ecclesiastici della Spagna, e segretissimamente maneggiato.

Importava il trattato, diviso in otto articoli: che il re di Spagna
ed i suoi successori, oltre la nomina agli arcivescovadi, vescovadi,
monasteri e benefizii concistoriali tanto in Europa come nelle Indie,
avessero perpetuo il diritto universale di nominare e di presentare
indistintamente in tutte le chiese metropolitane, cattedrali,
collegiate e diocesi alle dignità maggiori _post pontificalem_;
che i sommi pontefici avessero in perpetuo la libera collazione di
cinquantadue benefizii, acciò non mancassero del modo di provvedere e
premiare quegli ecclesiastici spagnuoli che meritevoli se ne rendessero
per probità e illibatezza di costumi, per letteratura, o per servigii
prestati alla santa Sede. E siccome pel padronato e pei diritti ai re
di Spagna dalla santa Sede ceduti, e per l'abolizione delle pensioni,
la dateria e la cancelleria apostolica restavano prive degli utili
provenienti dalle annate, con grave danno dell'erario pontificio,
così il re di Spagna fece depositare in Roma un capitale di un milione
cento trentatrè mille trecento trenta scudi a libera disposizione del
papa, e nel tempo stesso assegnaronsi in Madrid, pur a disposizione di
lui e sopra il prodotto della crociata, scudi cinque mila annui per
mantenimento e sussistenza de' nunzii apostolici. Con tali esborsi
il re di Spagna assodava molto più la sua autorità sopra il clero
rendendolo dependente da lui solo nel conseguimento dei benefizii, e
poteva quindi sopra i beni ecclesiastici, liberati dalle pensioni e
dalle annate, imporre quei pesi che le circostanze dalla sua saviezza
esigessero. E la camera apostolica, coi frutti della sopraddetta
somma in Roma depositata e coi cinque mila scudi assegnati a Madrid,
veniva ad essere risarcita dalle perdite, cui per le fatte concessioni
soggiaceva.

Altro accidente di quest'anno merita di essere notato.

L'infante di Spagna don Luigi, ultimo figlio di Filippo V e di
Elisabetta Farnese, era stato, in età di 8 anni, creato da Clemente
XII cardinale, e poscia fatto anche amministratore delle chiese di
Toledo e Siviglia. Ora, giunto ch'ei fu all'età virile, sentì una
assoluta ripugnanza a rimanere nello stato ecclesiastico, fattogli
abbracciare mentre non era in istato di esaminare e di conoscere
la sua vocazione, e comunicata al re Ferdinando VI suo fratello la
risoluta sua determinazione di abbandonare cotale istituto di vita, ed
approvò questi la risoluzione dell'infante, e spedironsi al cardinale
Portocarrero, incaricato degli affari di Spagna alla corte di Roma,
istruzioni e plenipotenza per trattarsi la rinuncia di don Luigi al
cappello cardinalizio, con una lettera di lui, nella quale spiegava i
motivi che a tornarne allo stato secolare lo determinavano.

Impreso dal cardinale Portocarrero il maneggio, fu l'affare discusso
in una congregazione particolare, tenuta in presenza del pontefice,
e si conchiuse che le domande del cardinale infante poteano essere
esaudite quanto sia alla rinunzia, ma non riguardo alla pensione di
cento cinquanta mila scudi che volea riservarsi sopra le rendite delle
due chiese di Toledo e di Siviglia, all'amministrazione delle quali
rinunziava. Nullaostante, avendo fatto tacere le ragioni in contrario
le fortissime ragioni di Stato e di convenienza nella condizione
corrente delle cose che vennero allegate, appoggiato eziandio da
esempli precedenti di concessioni consimili, fu risoluto di compiacere
in tutto e per tutto la corte di Madrid, ed, unita alla favorevole
risposta, le fu spedita la formola, secondo la quale seguir doveva
la rinunzia del cardinalato, praticando ciò che stato era osservato
nel 1709 col cardinale de Medici. Un concistoro segreto, intimato
dal pontefice, approvò poi, lui esponente, quanto era stato fatto,
ed il cappello cardinalizio così rinunziato venne, ad istanza del re
di Spagna, concesso a don Luigi Ferdinando di Cordova, decano della
metropolitana di Toledo, indi arcivescovo.

Tutta l'Europa parve allora disposta a considerare questo passaggio
dell'infante dallo stato ecclesiastico al secolare, come prodotto da
motivo politico. Alle quali supposizioni aggiugneva gran peso il vedere
che il re aveva assegnato al principe suo fratello, oltre i cento mila
scudi come infante di Spagna ed i cento cinquanta mila di riserva sopra
le chiese di Toledo e di Siviglia, altri cinquecento mila come grande
ammiraglio di Castiglia. Parlavasi adunque da per tutto, e da per
tutto davasi per conchiuso un trattato di matrimonio tra il principe
secolarizzato e la principessa Marianna infanta di Portogallo. Ma
tale matrimonio, ancorchè allora stato maneggiato, non ebbe effetto, e
l'infante più di venti anni dopo sposossi con una dama privata, da cui
ebbe prole di ambi i sessi.

Altro serio affare, però di natura diversa, ebbe subito dopo a trattare
il papa col re delle Due Sicilie, fratello dell'infante sopraddetto.
Insorta rissa nel porto di Civitavecchia tra i marinari di un
bastimento genovese e le ciurme di alcune tartane di Gaeta, si accesero
per tal modo gli animi, che, dalle parole venendo ai fatti, rimasero da
ambe le parti uccisi alcuni e moltissimi feriti, nonostante che accorso
fosse immantinente il presidio della città a fermare il disordine,
che potea divenir generale per la parte che mostrava di prendere la
plebe a favore dei Genovesi. Ma avendo la piccola artiglieria ceduto il
luogo alla più grossa, fecero le tartane di Gaeta così bene giuocare
i cannoni che, presto affondarono il genovese bastimento, e poi,
salpate l'ancore, uscirono in alto mare, sebbene, costrette dal tempo
burrascoso a tornarne in porto, non ne partissero poi che alquanti
giorni dopo.

Furono immediatamente chiamati a Roma il governatore della città ed il
comandante dell'armi a render conto del fatto e delle direzioni da essi
tenute. Niuno domandi però se la repubblica di Genova tardasse molto a
chieder giustizia e soddisfazione del torto e dell'insulto fatto alla
sua bandiera in un porto amico, ed in pregiudizio della pubblica fede
e sicurezza. Quantunque sospesi dalle loro funzioni i due uffiziali
superiori di Civitavecchia ed aspramente ripresi in Roma, dov'erano
stati richiamati; avendo la repubblica insistito sopra le sue prime
rimostranze, fu da Roma stessa espressamente comandato al luogotenente
di quella marittima piazza di far levare il timone a qualunque
bastimento napolitano entrasse nel suo porto. Ed infatti, essendone
comparsi tre da lì a non molto, il luogotenente eseguì appuntino gli
ordini che avea dal suo principe ricevuti.

Ma la corte di Napoli, la quale al primo avviso dell'accaduto a
Civitavecchia avea fatto arrestare i padroni delle tartane rissose, ed
ordinatone il processo, sentendo adesso che, per dare soddisfazione a'
Genovesi, quella di Roma avea sospeso dall'impiego il governatore della
città e fatti pure arrestare i tre navigli napolitani che si è detto,
diede suoi ordini perchè si fermassero tutti i bastimenti di bandiera
pontifizia nei porti delle Due Sicilie, facendo dal suo ministro in
Roma chieder soddisfazione del torto fatto ai legni de' suoi sudditi.
Se non che, postosi in trattative l'affare, rimase amichevolmente
composto, e dopo reciproche spiegazioni delle tre corti, rimesso, con
comune soddisfazione delle medesime, il governatore di Civitavecchia
nel suo uffizio.

Benedetto XIV fu un pontefice che, mostrando sempre animo veramente
sacerdotale, conosceva però egregiamente le differenze dei tempi, e
come fosse da concedere alle domande o alle preghiere dei principi
tutto ciò che al dogma ed alla sostanza della religione non si
appartenesse. Così accomodò egli amichevolmente la vertenza in
quest'anno insorta col re di Napoli per la pensione di sei mila
scudi concessa al terzogenito di lui sopra il vacante ricchissimo
arcivescovato di Montereale in Sicilia; così con fermezza diè termine
all'altra sopravvenuta col re stesso, e con quelli di Sardegna e di
Polonia riguardo alla promozione al cardinalato dei nunzii pontifizii
appo quelle tre corti.

Altra occasione ebbe il Lambertini in questo anno di esercitare l'animo
suo conciliativo calmando le differenze insorte fra il gran maestro di
Malta ed il re delle Due Sicilie. La discordia avea già sparso il suo
veleno: i due principi erano in piena rottura, ed il più debole de' due
contendenti già ne sentiva i funesti effetti. Ma per ben intendere le
cagioni della contesa è giuoco forza farsi dall'origine.

Quando l'imperadore Carlo V donò l'isola di Malta a' cavalieri
gerosolimitani, da Solimano re de' Turchi stati nel 1323 scacciati
dall'isola di Rodi, che aveano per più di due secoli posseduta, vi pose
egli la condizione che la tenessero in qualità di feudo dipendente da
lui come sovrano delle Due Sicilie; che dovessero pagargli annualmente
il giorno di tutti i Santi un falcone; che il vescovato di Malta
restasse, qual era, giuspadronato suo e de' suoi successori, sì che,
in caso di vacanza della sedia vescovile, il gran maestro avesse
a presentargli tre soggetti idonei, tra' quali scegliere il nuovo
vescovo.

Trascorsi più di due secoli, ne' quali il regno delle Due Sicilie era
stato provincia della Spagna, e per un tratto parimente provincia
della casa d'Austria, senza che si fosse pensato a far valere
quest'ultimo diritto principalmente, stimò il re don Carlo di avere
ragioni sufficienti per esercitarlo; quindi ordinando al vescovo di
Siracusa, come metropolitano, di passare a Malta e farvi una visita
pastorale. Ubbidì il vescovo e mandò innanzi i suoi visitatori; i quali
presentatisi sopra un bastimento napolitano a vista dell'isola, non
osarono poi di mettervi il piede, per l'opposizione che ragionevolmente
previdero di dover incontrare per parte degli abitanti, che, avvisati
del motivo della loro comparsa, eransi affollati alla spiaggia,
dichiarando sè non soffrire in verun modo che si facesse mai tra di
loro una simile visita. Appigliaronsi dunque i visitatori al prudente
partito di abbandonar l'isola e tornarne in Sicilia.

Il gran maestro della religione stimò bene di dar parte dell'attentato
al pontefice non meno che a tutte le altre potenze d'Europa, e nel
tempo stesso spedì a Napoli il balì Duegos per esporre a quella
corte non contrastarsele il diritto nella sua origine, ma doversi
assolutamente riputare, se non estinto e nullo, almeno inefficace
e invalido per lungo tratto di tempo in cui rimase disusato.
Il pontefice, al primo avviso di cotale differenza, tenne una
congregazione di cardinali e prelati, e scrisse al re di Napoli per
persuaderlo a desistere da un'impresa ch'egli giudicava inopportuna
e senza fondamento. Ma il re, non avendo creduto di condiscendere
all'opinione del papa, fece sapere che se continuavasi a ricusare
i visitatori che sarebbero mandati a Malta, farebbe sequestrare le
rendite delle commende che i cavalieri Gerosolimitani ne' suoi Stati
possedevano. Ed il gran maestro dal canto suo dichiarò che, qualora le
cose giungessero a tale estremo, egli terrebbesi giustificato di far
sequestrare le rendite che godevano in altri Stati i commendatori nati
sudditi del re delle Due Sicilie, e richiamò da Napoli il balì Duegos.

Sciolto per tal modo ogni trattato, la corte di Napoli, in conseguenza
della risoluzione presa di mantenere il vescovo di Siracusa nel gius
di far la visita nel vescovato di Malta, colà mandò lo stesso prelato
in persona: ma nè il suo viaggio fu più felice di quello dei suoi
deputati, avendo dovuto tornarsene addietro senza aver posto piede in
terra. Presentatovisi poi una seconda volta, il gran maestro mandogli
incontro una barca per avvisarlo, che, persistendo nell'intenzione
di scendere a Malta, si sarebbe fatto fuoco sopra il suo vascello per
costringerlo ad allontanarsi; laonde il vescovo, voltato bordo, tornò
alla sua chiesa.

Avvisata la corte di Napoli del nuovo rifiuto, mandò ad effetto le sue
minaccie: interdisse ogni commercio fra i porti delle Due Sicilie e
l'isola di Malta; proibì a' suoi sudditi di colà trasportare derrate o
provvisioni di qualunque altro genere; e sequestrò tutte le commende
dell'ordine che trovavansi ne' suoi dominii. Il gran maestro, in
rappresaglia, dopo ordinato a' sudditi suoi di rivolgersi alla Sardegna
ed alle reggenze di Barbaria per le provvisioni che prima traevano
dalle Due Sicilie, sequestrò anch'egli le commende che i cavalieri
napolitani godevano in altri paesi. Inasprivano gli animi; il commercio
s'interrompeva: ed i popoli, vittime innocenti di una discordia che
non potea interessarli, ne gemevano al peso. Il Mediterraneo coperto
di legni barbareschi; le coste meridionali dell'Italia e le pontifizie
in ispezialità, esposte alle piraterie africane, più non vedevano in
loro difesa le galee maltesi, ridotte a convertire l'oggetto primario
della loro istituzione in quello di procacciar alimenti agli abitatori
dell'isola loro.

Vero è che il gran maestro erasi rivolto alle corti di Vienna, di
Francia, di Spagna e di Portogallo, pregandole d'interporre i loro
buoni ufficii in questo affare; ma preoccupate da alcuni riguardi,
e specialmente da quello di non pregiudicare alla gloria del re
Carlo, intaccando i diritti e le prerogative della sua corona,
ristrinsero le sollecitazioni principalmente a far rivocare da Sua
Maestà siciliana ii suo decreto, lasciando le cose nello stato in cui
erano precedentemente. Non condiscese la corte di Napoli al proposto
temperamento; ma, insistendo il pontefice nelle paterne sue istanze
presso la medesima, ambe le parti accordaronsi in questo, di rimettere
ogni cosa nelle mani del Lambertini. Il quale, come vicario di Gesù
Cristo, scrisse di proprio pugno una lettera al re don Carlo, in
cui con l'eloquenza che gli era propria, lo pregava di ridonare la
sua buona grazia alla sacra religione di Malta, ed a non negargli il
contento di una favorevole risposta.

Don Carlo, che sul trono delle Due Sicilie, come poi su quello di
Madrid, presentò alle genti nella sua persona il modello di tutte le
virtù, che fu sul soglio reale quale, se nato suddito, avrebbe bramato
il proprio sovrano; pieno di umanità e di religione; avverso alle
guerre e persuaso che la felicità de' popoli al suo governo affidati
non dall'arte dipendesse di sterminare i suoi simili, ma dalla probità,
dalla buona fede e dalla purità dei costumi in chi governa; affezionato
in particolar modo a Benedetto XIV; don Carlo, ricevuta ch'ebbe la
lettera, gli rispose, essersi commosso dalle vivissime istanze di Sua
Santità in proposito delle differenze con l'ordine di Malta, sentito
disposto ad avere ogni riguardo ad una intercessione cui doveva per
tanti titoli riverire; avere perciò dato ordine perchè fosse riaperto
il commercio dei suoi Stati coll'isola di Malta, e levato il sequestro
de' beni della stessa religione; confidarsi però che, come Sua
Santità nella sua lettera lo assicurava, la risoluzione così presa non
produrrebbe la benchè minima ombra di pregiudizio a' suoi diritti, ma
anzi, all'incontro, quelli che possedea nell'isola e sopra la chiesa
di Malta, qualunque fossero, rimarrebbero in tutta la loro forza e in
pieno vigore.



    Anno di CRISTO MDCCLIV. Indizione II.

    BENEDETTO XIV papa 15.
    FRANCESCO I imperadore 10.


All'inaspettata alleanza, anzi alla futura parentela nell'anno
precedente convenuta tra la casa d'Este e quella d'Austria, che invece
di consolidare parea ad alcuni che metter dovesse in pericolo la quiete
dell'Italia; al pacifico concordato della corte di Spagna con quella
di Roma; alle moleste sì, ma non sanguinose differenze insorte tra
Roma, Genova e Napoli, e tra questa corte e la religione di Malta,
che peraltro avrebbero potuto turbare l'italiana tranquillità appena
nata; successe quest'anno sulla riviera occidentale di Genova un caso
che parea dover produrre un grave incendio. Sollevaronsi i popoli
di S. Remo e di Campofreddo. O sia che la piccola comunità di Cola,
dipendente da S. Remo, si fosse richiamata alla repubblica di Genova
per la gravezza delle taglie che le si faceano portare, o sia che
insorgesse la discordia per qualche novità intorno a' confini voluti
stabilire, oppure per entrambi cotali motivi; fatto è che il popolo di
S. Remo, facendo risuonare voci di libertà, di cui credeva di dover
godere a fronte del sovrano dominio della repubblica, dato di piglio
alle armi, si mostrò disposto a scuoterne intieramente il giogo.

Informato il governo di Genova che quegli abitanti eransi assicurati
della persona del commissario Doria e delle truppe state colà spedite
per metter fine alle dissensioni tra S. Remo e la comunità di Cola,
mandò tre galee, una bombarda e vari bastimenti da trasporto carichi
di truppe sotto il comando del generale Agostino Pinelli. Ora, avendo
il generale fatto incontanente avanzare una scialuppa con tamburo
che intimasse agli abitanti di consegnare fra due ore la persona del
commissario Doria e la sua famiglia alle truppe della repubblica,
in pena del ferro e del fuoco e di essere passati a fil di spada; la
scialuppa stette due ore alla spiaggia, e poscia condusse due deputati,
i quali dissero al generale che, dipendendo quanto egli domandava dalla
volontà del popolo, non era possibile dargli soddisfazione dentro il
poco tempo prescritto.

A tale dichiarazione il generale ordinò le ostilità contro i ribelli;
quindi le galee e la bombarda fecero un fuoco che durò tutta la notte;
i ribelli dal canto loro rispondendo con alcuni cannoni da campagna che
trovavansi a loro disposizione. Sul far del giorno le truppe sbarcarono
in una spiaggia distante due miglia dalla città, senza incontrare
opposizione di sorta; ma di mano in mano che i granatieri verso la
città avanzavano, i contadini, dalle case, dalle muraglie, dagli ulivi,
facevan loro fuoco addosso, sostenuti da altri che eransi in varii siti
appostati. A fronte di tale resistenza, i granatieri, fatti forti da
alcuni corpi di milizia alamanni, procedettero arditamente contro i
ribelli e si impadronirono de' posti più importanti delle vicinanze di
S. Remo.

Mentre il generale Pinelli dava le disposizioni necessarie per compire
l'impresa, vennero a lui da parte del popolo due nuovi deputati per
sottomettersi a patto d'aver salva la vita, l'onore ed i beni. Rispose
il generale che bisognava subito consegnargli il commissario Doria,
come avea precedentemente domandato, e ritenendo i messi, permise loro
di far sapere in iscritto le sue intenzioni ai ribelli. Si prevalsero
questi adunque della accordata permissione, ed in fatti poco stante
capitò il commissario Doria, e con esso altri quattro deputati per
supplicare il generale di annuire alla grazia già prima implorata.
Rimandolli egli con isdegno, soggiungendo che dovessero consegnare
tutte le armi, ed appartener poi alla repubblica, alla cui clemenza si
avevano a rimettere, il conceder quello di che pregavano; nè valsero
preghi o lagrime dei deputati a commuovere quel capitano dell'armi
genovesi. Ebbesi però un armistizio, ed il giorno appresso la città si
arrese a discrezione.

La prima notte ed il giorno appresso stettero le cose in calma; ma
la seconda notte il generale fece arrestare nel proprio letto molte
persone, e chiamati il consiglio di reggenza ed il parlamento, ingiunse
loro di pagare in termine di due ore ottanta mila lire; e come nel
prefinito spazio non avea potuto essere consegnato il denaro, fece
arrestare e il parlamento e la reggenza, guardandoli i soldati colla
baionetta in canna. Pagata poi la somma, ciascun credette di tornare
a casa sua; ma il capitano, prima di lasciar libero il parlamento,
esigette lo sborso di una somma eguale; e contata anche questa due
giorni dopo, intimò che dentro otto giorni si dovessero pagare altre
cento mila lire. E procedette più innanzi: fatti imprigionare molti
ecclesiastici e secolari, fu il priore di consiglio di reggenza, con
altri personaggi graduati, rinchiuso nel palazzo del generale, il cui
proprietario non potè trattenersi dal dirgli: _V. E. non mantiene la
parola data ai deputati, che i cittadini avrebbero salve la vita e la
roba; _rimprovero che il punse tanto nel vivo che minacciò delle forche
chi glielo faceva.

Siffatte asprezze e molte altre ancora spaventarono ed irritarono
talmente i Sanremani, che la maggior parte ritiraronsi nelle vicine
montagne dette delle Langhe, feudi imperiali sotto il dominio del re
di Sardegna, quivi, in numero di due mille cinquecento, campeggiando
alla meglio sotto tende e baracche, non rimasti quasi in città se
non i vecchi, le femmine ed i fanciulli. Corse allora opinione che
un pugno di gente ridotta a tanto estremo, non avrebbe tardato molto
a sottomettersi a qualunque legge volesse imporgli la repubblica di
Genova; ma assai male conosceva gli uomini e le storie chi in tal modo
pensava. I Sanremani spedirono lor deputati a Vienna a chieder contro
la repubblica giustizia dall'imperadore Francesco, qual da signore
diretto di quel feudo, e segretamente implorarono la protezione del
re di Sardegna. O che la repubblica ignorasse quei maneggi, oppure,
cosa più verisimile, fingesse d'ignorarli, per finire le cose senza
ulteriori strepiti e disturbi, fece pubblicare un editto nel quale,
dopo avere esposto con tutta l'enfasi il peso e l'enormità del delitto,
di cui erasi resa colpevole quella popolazione, tuttavia, per effetto
di somma clemenza, prometteva un perdono generale a tutti, prefiggendo
un termine discreto al ritorno di coloro ch'eransene fuggiti, soli
eccettuati quattordici dei principali sediziosi.

Ma i fuorusciti delusero le aspettative comuni, che, invece di tornarne
alle case loro sottomessi ed umiliati, cercarono ricovero in Oneglia,
terra del re di Sardegna, e l'ottennero da quel principe, che senza
punto ingerirsi nelle querele loro colla repubblica, credette di non
poter negare ad essi un asilo che il diritto di natura e quel delle
genti non consentono che a verun rifugiato si nieghi. Genova si scosse
alla novella, ma viemmaggiormente fu commossa allorchè intese che i
deputati di San Remo avevano a Vienna ottenuto che fossero ricevuti
dal consiglio aulico i loro ricorsi e fattane poi la relazione
all'imperadore. Nè basta; venne altresì la repubblica assicurata che
l'imperadore aveva fatto spedire un rescritto, in cui ordinava alla
medesima di dovere intorno a fatti esposti dai Sanremani informare nel
termine di due mesi; rescritto di cui si sparsero molte copie negli
Stati della repubblica, in S. Remo e nella stessa Genova.

Quanto moto si desse la repubblica contro queste imperiali
disposizioni, ciascuno se l'immagina, e basterà dire che per altro
tornarono tutti i suoi passi infruttuosi. Ma non si poteva che lo
stabilimento dei Sanremani sulle terre del re di Sardegna, e molto più
il favore da essi trovato presso la corte di Vienna, non accrescessero
le male disposizioni d'animo dei Genovesi contro di loro. Laonde il
commissario che a San Remo per la repubblica dimorava, si credette
giustificato di trattarli con modi poco cortesi, spingendo anche le
parole e le vie di fatto contro il vescovo di Albenga, il quale in
questi commovimenti si trovò troppo propenso ai sollevati, e fu poi
costretto a ritirarsi cogli altri ad Oneglia.

Nel mezzo tempo molto più gravi erano le cure e più decisive le
operazioni della repubblica di Genova per la ribellione della Corsica,
ch'era già presso il terzo lustro. Abbiamo già veduto a svanire i
bei disegni e le lusinghiere speranze del marchese di Cursay, che
di tanti pensieri e tanti maneggi si ebbe a guiderdone la prigionia
in Antibo, benchè poi si purgasse dalle accuse che la repubblica gli
avea poste addosso, e così fosse liberato. Il colonnello di Curcì, che
gli succedette nel comando dell'armi franzesi nell'isola, scorgendo
l'insuperabile avversione dei Corsi al già divisato regolamento,
formava nuovi progetti; ma, ignaro della mente del suo sovrano
riguardo i Corsi, si affaticava indarno. I Corsi bensì che non solo
prevedevano, ma erano quasi certi della vicina partenza delle milizie
franzesi, dimentichi affatto di tutta quella buona armonia ch'era con
esse passata, e non riguardandole se non come gli strumenti de' quali
erasi la repubblica servita per soggiogarli, non ebbero ribrezzo ad
attaccarle in modi crudelissimi, giungendo a spogliar nudi affatto
quelli che cadevano loro in mano e in quello stato rimandandoli ai loro
compagni, fra gli orrori del verno, per mezzo alle nevi; crudeltà che
crebbero a dismisura allorchè nel mese di febbraio giunse in Corsica
un uffiziale franzese cogli ordini della corte di far tosto ritirare
dall'isola le truppe. Gravi furono i pensieri del comandante per
preservarsi dagl'insulti e dal danno nella ritirata, e sagge le misure
da lui prese all'importantissimo fine; ma tutte le sue precauzioni non
riuscivano felicemente.

I Corsi vegliavano sopra tutti i movimenti ed accorrevano da per
tutto. Divisi in piccioli manipoli, bloccavano i Franzesi nelle torri e
negli altri posti, impedivano loro le munizioni da guerra e da bocca,
finalmente protestavano che avrebbero strozzati tutti i Franzesi, se
nell'abbandonare le piazze ed i luoghi da essi occupati, a loro non
li consegnassero; ed erano tali da tener la parola. Nè le attenzioni
vere o simulate del principale capo Gian Pietro Gaffori avevan forza di
trattenere i Corsi, sì che da ogni parte continuassero ad attaccare i
Franzesi che erano in cammino per unirsi al loro capo: e guai a quelli
che per istanchezza o cagione altra qualunque rimanevano indietro o
si scostavano alcun poco dai compagni! Soli i distaccamenti di là dei
monti furono meno inquietati, e si ridussero tutti sani e salvi in
Aiaccio.

Intanto ogni cosa era ormai disposta per la partenza, nè altro mancava
che di ottenere da Gaffori e dagli altri Corsi la restituzione de'
soldati da essi tenuti prigionieri. Ma fu impossibile indurgli a tanto,
finchè con una specie di capitolazione il comandante franzese non si
obbligò di consegnar loro la piazza di San Fiorenzo; promessa che però
ei non fu in poter di mantenere per la costante opposizione che vi fece
la repubblica. Nel qual fatto delusi i Corsi, tennero immediatamente
un congresso nel convento di Oletta, in cui unanimi determinarono di
non voler più sentire a parlare di soggezione verso qualsiasi potenza,
ma sì bene governarsi da sè medesimi coi magistrati proprii e colle
proprie leggi.

Sul principio di primavera, giunte le navi che trasportare doveano
le truppe franzesi, abbandonarono esse finalmente, dopo cinque anni
di soggiorno la Corsica, seco non portando altro frutto delle loro
fatiche, fuorchè un'idea giusta del valore e dell'entusiasmo de' Corsi,
i quali, pratici dei siti, fieri per carattere, ostinati per impegno,
avrebbero disputato a chiunque il possesso della loro isola, e se si
fossero formata di sè la giusta idea che la Francia in quella occasione
e la maggior parte de' sovrani ne avevano concepita, forse si sarebbero
formata una sorte migliore; ma allora badavano più alle private
passioni che al ben comune.

Appena partiti i Franzesi, si vide una manifesta prova di questo loro
modo di pensare. Imperciocchè, essendosi di bel nuovo adunati per
consultare intorno al modo del governarsi ed ai mezzi di mettersi
del tutto in libertà, insorsero fiere dissensioni fra loro, e dalla
discordia dei capi provennero amarissime conseguenze. Gaffori, capo
principale de' malcontenti, di severità eccessiva, non avea difficoltà
alcuna, per lievi motivi, o per sospetti, di far arrestare le persone
più cospicue e qualificate, come appunto, fece in questo tempo di
un Giuliano, il primo certo fra i Corsi dopo di lui; ed a quattro
pievi ch'erano entrate in negoziazioni col commissario Grimaldi per
sottomettersi di bel nuovo alla repubblica, fece patire una esecuzione
militare, che, invece di atterrire, irritò gli animi di tutti.

Il Grimaldi era a giorno di tutto, e d'ogni cosa cercava destramente
d'approfittare. Dopo di avere accolto favorevolmente i deputati
delle dette quattro pievi, e fatto ad essi sperare sommi favori, per
invogliare così altre comunità ad imitarne l'esempio, e dopo fomentate
le discordie dei malcontenti, di tutto informò la repubblica. Allora
non differì essa di far pubblicare un editto di perdono generale e di
obblio del passato per quelli che, deponendo l'armi, fossero ritornati
all'antica ubbidienza; ed a questo passo ne tenne dietro un altro
dello stesso commissario, in cui dimostrava ai Corsi non rimaner loro
altro partito che di attendere gli effetti della clemenza di Genova;
poichè e un grosso rinforzo militare che dovea fra poco essergli
spedito, e gli ordini dati dai re di Spagna, Francia, Inghilterra,
Napoli e Sardegna per vietare rigorosamente alle navi de' loro
sudditi di poter trasportare nell'isola nessuna sorte di munizioni,
da guerra specialmente, e il cattivo stato della Corsica, ed il vicino
cambiamento di sentimenti nella repubblica verso di essi, gli avrebbe
poi ridotti a pentirsi invano di non aver saputo approfittare di
circostanze sì favorevoli per essi.

Convien dire che qualche impressione facessero sull'animo de' Corsi
le parole del Grimaldi, poichè essendosi i capi radunati insieme più
volte, fu stesa una scrittura in ventidue articoli, ne' quali stavano
le condizioni, colle quali si sarebbero rimessi nella soggezione della
repubblica; e sebbene non fosse espressa in termini convenienti, come
lo stesso Grimaldi, cui fu presentata, fece ai deputati vedere, la
spedì egli a Genova, e si trattò fra' Corsi di eleggere persona saggia
e prudente, cui affidare la cura di quel dilicato maneggio.

I voti comuni raccoglievansi nella persona del cavaliere Gian Francesco
Brerio, illustre Corso, degno per le sue qualità della confidenza della
sua nazione, e abilissimo all'uopo, per l'esperienza acquistata nel
trattar gli affari di molte potenze, presso le quali era estimato e
lodato; quando, giunti da Balagna due deputati del canonico Orticoni,
famoso raggiratore, di fresco ripatriato dopo luogo esilio, chiedendo
in nome di lui che gli fosse affidata l'importante commissione,
mandarono a vuoto il partito presso a conchiudersi.

Se non che un avvenimento molto più grave terminò di rovinare ogni
cosa: l'assassinio di Gaffori. Lasciate dall'un de' lati le molte cose
immaginate e dette intorno ai motivi ed a' segreti autori del misfatto,
basterà dire che quel capo erasi fra' suoi fatti molti nemici, e che il
commissario genovese vedeva in lui il più potente ostacolo ai desiderii
della repubblica. Uscito per tanto un giorno il Gaffori a passeggiare
o in un giardino alla campagna o sulla pubblica strada, fu d'improvviso
colto da più colpi di moschetto sparati contro di lui, e che lo stesero
morto a terra con un suo parente che stavagli a lato e che spirò pochi
momenti dopo di lui.

Tal fine ebbe questo capo de' Corsi, che ne avea titolo di governatore
e capitano generale. Uomo pieno di coraggio e di zelo per la patria,
ma violento e vendicativo, e forse dominato troppo dalla passione di
comandare. Ma quello che destar deve maggior orrore si è che un suo
fratello medesimo venia fra' congiurati alla sua morte. Arrestato
costui con molti altri complici, fu con trentasette voti contro
tredici condannato ad esser rotto vivo in prigione, e prima di
morire confessò tutta la congiura. Altri complici furono giustiziati,
altri alla pena si sottrassero colla fuga. Fatti all'estinto Gaffori
solenni funerali, ne' quali offiziò il canonico Orticoni, gli fu pur
recitata funebre orazione. Terminate le quali lugubri funzioni, si
radunò di bel nuovo la nazione, e quivi pronunziò la pena della morte,
dell'infamia e della devastazione dei beni contro qualunque Corso
avesse osato parlare di riconciliazione con Genova. Quasi universale
intanto prevaleva in Corsica la persuasione che l'assassinio di Gaffori
fosse seguito per seduzione e ad istigazione della medesima e del
suo commissario Grimaldi, tanto più che fu divulgato come cosa certa
essersi all'arrestato fratello trovate due lettere, nelle quali se gli
prometteva il premio di due mila lire per l'esecrabile fratricidio.



    Anno di CRISTO MDCCLV. Indizione III.

    BENEDETTO XIV papa 16.
    FRANCESCO I imperadore 11.


Mentre la guerra continuava a travagliarsi con varii ma deboli
accidenti, in Corsica, venne surrogato dalla signoria genovese al
commissario Grimaldi il marchese Giuseppe Doria, il quale, come giunse
in Bastia, mise innanzi ragionamenti di concordia, e procurò di indurre
i popoli all'obbedienza colla dolcezza; ma la dolcezza del Doria non
valse più dell'acerbità del Grimaldi.

La sperienza ammoniva i Corsi che dopo la morte del Gaffori niuno
restava a cui con animi concordi la nazione concorresse, e che potesse
stagliare quei gruppi di tante fazioni. Pure sapevano che la discordia
mena a servitù. Di Matra poco si fidavano, che anzi un fiero sospetto
era venuto loro in cuore, ed era, che avesse partecipato nella congiura
per dar morte a Gaffori. Degli altri capi, nessuno avea tanto credito
che riunire potesse in un sol volere ed in un solo sforzo e chi
dissentiva e chi tiepido se ne stava. Volsero gli occhi in Corsica, li
volsero fuori, per iscoprire se uomo al mondo vivesse, il quale fosse e
sicuro per desiderio di libertà, e capace per ingegno, ed ammaestrato
per esperienza di cose militari, onde di lui tanto promettere si
potessero che divenisse liberatore e salvatore della patria. Sovvenne
loro che vivea in Napoli, ai servigi militari di quella corona col
grado di colonnello, Giacinto Paoli, antico loro capitano, che,
disperate le cose dell'isola nel 1739 pei successi guerrieri di
Maillebois, si era in quel regno ritirato. Aveva con sè allora il suo
figliuolo Pasquale, che nella milizia napolitana occupava il grado
di tenente, e nel quale, sebbene ancora nella giovane età di ventidue
anni, risplendevano segni di animo libero ed invitto.

Qual fosse questo Pasquale, lo dice un autore anonimo, che scrisse
con verità e senza adulazione ed odio per nissuna delle parti le cose
di Corsica. Avuta il padre di lui favorevole accoglienza alla corte
di Napoli, si pose in grado di dare al figlio la migliore educazione
di cui potesse far copia quella città. Quivi fatti adunque Pasquale i
suoi studii, tra' quali quelli di etica sotto Antonio Genovesi, senza
dubbio uno de' principali ornamenti d'Italia, a ciò non si stette; ma
risoluto di portare più oltre i passi nel sapere, quantunque entrasse
al servizio militare assai per tempo, la sua grande ambizione fu
d'informarsi a fondo degli antichi Stati di Grecia e Roma. Così ei si
pose perfettamente in possesso Tucidide, Polibio, Livio e Tacito; nè
per ostentazione, ma per uso, imperciocchè si studiasse di far sue
proprie le loro cognizioni, ed ei medesimo confessasse essere sua
speranza di formare sè stesso sui modelli d'uomini tali quali furono
Cimone ed Epaminonda. E, a vero dire, egli si era loro avvicinato
quant'è mai possibile nell'eleganza della condotta e nell'amore delle
lettere, egualmente che in un appassionato desiderio di servire la sua
patria. Trovossi in procinto di avere un reggimento, e lo tenne sempre
come la più grande sventura che gli potesse accadere, come quella che
gli dovea impedire di andar a liberare la sua patria dai Genovesi, come
ebbe sempre in pensiero.

Ad una nazione incolta stava apprestando la provvidenza un uomo colto,
ad uomini furibondi un uomo di pacato ingegno, a guerrieri, che meglio
sapevano combattere le battaglie che non prepararle, un guerriero,
in cui l'arte eguagliava il valore. E per frenare un'incomposta e
disordinata furia, Paoli era molto accomodato; poichè, sebbene da Corso
odiasse i Genovesi, d'indole sedata era, ed in lui l'operare procedeva
piuttosto da fortezza abituale che da impeto passeggiero e facile
a svanire. In somma, vero e sincero parto del secolo decimottavo fu
Paoli, ma però prima che il secolo dagli abbaiatori e dagli ambiziosi
si guastasse. A Pasquale Paoli pertanto pensarono i Corsi, e lui
delle necessità della patria ammonirono, e a lei il pregarono che
soccorresse.

Il dabbene e forte giovane vide qual difficile impresa gli si
apprestava. La ferocia e l'ostinazione delle parti erano malagevoli,
e forse impossibili, a domarsi; Genova ricca e forte in paragone
della Corsica, per peggiore sua sorte notata di ribelle; le ambizioni
degli antichi capi, massimamente quella del giovane Mario Matra, più
ambizioso di tutti; nè ignorava che i capi de' Corsi, se infelici
nell'amministrare la guerra, perdeano con essi la causa; se felici,
erano a tradimento ammazzati: i casi di Sampiero e di Gaffori erano
tali da spaventare qualunque più intrepido amatore della sua patria.
Ma vinse in Paoli il desiderio della gloria, vinse il desiderio della
libertà: rispose adunque essere parato, accingersi volentieri all'alto
proposito, tutto dare sè stesso alla salute della patria.

Navigato felicemente, prese Pasquale Paoli terra a foce di Golo a dì 29
aprile; e soffermatosi alquanto d'ora al vescovato, volse poi i passi a
Rostino, dove era nato. Come prima si sparse il grido essere arrivato
il figliuolo di Giacinto, figliuolo degno di degno padre, concorsero
i popoli bramosamente a vederlo, sperando che, se la somma delle cose
loro reggesse, conservare potrebbero il nome e la libertà corsa.

Nel mese di luglio fecesi, per mezzo de' capi eletti, un parlamento
di tutta la nazione a Sant'Antonio di Casabianca, paese della pieve
d'Ampugnani. Paoli, trovato ne' cittadini riscontro ai suoi desiderii,
v'intervenne. Fu con consentimento unanime chiamato generale delle armi
e capo della parte economica e politica del regno, con autorità piena
e libera, fuorchè nei casi ne' quali si trattasse di materie di Stato,
sopra cui deliberare non potesse senza l'intervento di due consiglieri
di Stato e dei rispettivi rappresentanti di ciascuna provincia. Legossi
per fede, e giurò, in cospetto della nazione a parlamento adunata, che
fedelmente ed in benefizio della libertà le potestà userebbe che la
patria gli dava.

In sul limitare stesso del preso magistrato poco mancò che Paoli non
perisse. L'invidia degli emuli gli fu subito addosso. Mario Matra,
sopra tutti, giovane, siccome si è osservato più sopra, ambizioso
e feroce, e per nascita nobile e per sostanze dovizioso, con grave
sdegno aveva sentita l'esaltazione del capitano generale, ed ogni
mezzo andava macchinando ed ogni via cercando per torgli quella
superiorità, cui cotanto egli odiava. Immenso odio in sè medesimo
annidando, dovunque vedeva un uomo odiatore di Paoli; od in qualunque
modo amatore di risse e di scandali, tosto a lui ricorreva, il tentava,
e contro l'emulo lo spingeva. E pretesseva anche parole di libertà,
accusando il capitano generale del volersi servirò dell'autorità
datagli per istabilire la tirannide. Sommovitrici parole sono sempre
queste pe' popoli, più sospettosi di perdere la libertà, che savii per
conservarla. Ma i popoli corrono dietro, come pecore, agli ambiziosi
che gridano tirannide, quando c'è libertà. Matra gridava e chiamava
Paoli tiranno; non pochi si lasciavano sollevare dagli umori torbidi
di questo commovitore, intorno a cui si faceva concorso. Ai sospetti,
alle maldicenze si aggiunsero alcuni privati sdegni. Il vecchio vizio,
vogliam dire l'amore della vendetta, tuttavia predominava, e per quanto
avessero fatto i governi precedenti per estirpare questa velenosa
pianta, nuovi rampolli ella sempre mandava fuori, se non peggiori,
almeno altrettanto maligni dei primi. Solo aveva tregua il feroce
talento quando i popoli andavano alle battaglie contro i Genovesi; ma
finite le battaglie, i Corsi si ammazzavano partigianamente fra loro.

Paoli, che intendeva non solamente a libertà, ma ancora a civiltà,
applicò tosto l'animo a sanare questa peste. Cominciò colle
persuasioni, cui davano peso il suo nome, l'amore dei popoli, la
fresca autorità; che non mai dal collo si leverebbero Genova, se con le
proprie mani continuassero a distruggersi; fare loro, insanguinandosi
nel sangue corso, ciò appunto che i loro nemici desideravano; non le
mani raffreddate dalla morte, ma le vive alcuna cosa potere contro
gli oppressori, nè mai esservi di mani vive troppa copia contro di
chi tanto può. Quindi, dalle parole venendo ai fatti, stabilì in
ciascuna provincia, ed in altri luoghi che gli parvero opportuni,
certi magistrati con facoltà di giustizia pronta e sommaria a terrore
de' feritori e degli omicidi. La giustizia sempre è più rispettata
quando ella è più imparziale, e si esercita egualmente senza eccezione
di persone, quali esse sieno e di qual nome si chiamino. Ora accadde
che un parente di Paoli, trovato reo di omicidio, fu sentenziato a
morte; i parenti pregavano per la grazia; i popoli stavano a vedere
che si facesse. Comandò che si facesse giustizia, il reo fu passato
per l'armi: fruttifero esempio. Da allora in poi divennero rari gli
omicidii, benefizio immenso del giovane capitano chiamato a sanazione
della Corsica, il quale maggiormente poscia il confermò con andar esso
stesso girando per l'isola, principalmente col fine di vedere se si
ministrasse buona e retta giustizia.

Ma un altro caso avvenne che fu cagione di atroci sdegni, e, destando
molti a nemici pensieri, accrebbe forza alla fazione del Matra.
Trovandosi Paoli a Campoloro, bandì dell'isola e castigò colla confisca
de' beni un Ferdinando Agostini, reo di tentato omicidio. Era parente
di costui Tommaso Santucci di Alessani, stato poc'anzi uno de' quattro
membri del consiglio segreto di Stato. Sendo personaggio d'importanza,
credettesi di ottenere facilmente la remissione della pena, ed a tal
fine pregò il capitano generale. Ma Paoli, che al pro di tutti non di
alcuno solamente mirava, e che già un suo parente stesso aveva lasciato
al corso della giustizia, la preghiera inflessibilmente sostenne, e per
quanta pressa gli si facesse intorno, non volle consentire. Santucci
sdegnato, e segnatasi altamente nell'animo l'ingiuria che si credeva
di avere ricevuto, andò ad unirsi a Matra, a cui già erano venuti, per
odii occulti o palesi o per mera ambizione, altri principali Corsi, per
modo che già formavano un'intera intelligenza considerabile. Vi vennero
un secondo Santucci, un Angelo Colombani, un Cotani, un Paganelli con
molti seguaci, ed adunatisi nel convento dei Francescani, chiamarono
loro capo contro Paoli il Matra. Questo moto si andava ingrossando per
la giunta di nuovi settarii e di ogni facinoroso avido di fare il suo
pro nelle turbate cose.

Non sì tosto Paoli, che stava in orecchi e vegliava questi moti,
ebbe avviso della sollevazione di questi uomini scandalosi e ribelli
alle voglie della patria, prevedendo quanto fatale potesse essere
quell'incendio sul principio del suo magistrato, chiamò gente delle
pievi meglio affette; e divenuto grosso e potente sui campi, avviossi
verso Alessani, per porre il piede su quelle prime faville. Ma l'emulo
suo, che s'era imboscato in quella pieve con duemila de' suoi, l'assalì
così all'improvviso, mentre passava, che fu rotto e quasi del tutto
abbandonato da' compagni, ed alle maggiori fatiche del mondo potè
salvarsi nel convento di Campoloro. Se Matra fosse stato presto a
seguitare l'impeto della fortuna favorevole, avrebbe ottenuto piena
vittoria dell'avversario. Ma stimando di avere vinto quando l'altro
poteva ancora risorgere, temporeggiò, se ne stette a bada, ed, in
cambio di correre a Campoloro, s'incamminò verso Corte, vincitore sè
medesimo predicando.

In questo mezzo tempo Paoli non mancò a sè stesso, e non che il suo
coraggio si abbattesse, più vivido anzi risorse. Fece quivi veramente
grande sperimento della sua virtù, discorse bene le condizioni del
tempo, chiamò di nuovo i suoi Rostinchi, levò a rumore tutte le terre
del comune, che sono appunto Rostino con le pievi di Orezza, Ampugnani,
Casacconi e Vallerustie. Le novelle genti di Paoli arrivarono in suo
aiuto unite in una schiera di tre mila furiosi paesani, che assaltati
i Matreschi, li misero in fuga per Alessani. Il fugato Mario Matra
ritirossi primieramente in Serra, poi in Aleria, dove aveva le sue
possessioni; ma tornò in campo con nuovi seguaci raccolti nelle pievi
di Castello, Rogna ed Aleria. Novellamente restò vinto e costretto
a rifuggirsi in quel suo nido di Aleria, dove girava gli abitanti
in ogni sua voglia; ma accortosi che con le proprie forze non poteva
ostare all'avversario, si diede in braccio a Genova, non abborrendo dal
vincere quello con la servitù de' suoi, purchè vincesse. Tali sono gli
ambiziosi. Andò a Bastia, corse a Genova, tornò con promesse ed aiuti;
il commissario Doria molto il favoriva. Fece un'intelligenza ed un
ristretto de' suoi confidenti, per servirsene al caso che meditava.

Era questo il sesto anno che la bella quanto sfortunata Italia godeasi
la pace procuratale dal trattato d'Aquisgrana; ma poco mancò che
uno strano accidente non venisse a turbarla. Un Luigi Mandrin, capo
di contrabbandieri, annidatosi da qualche anno tra i confini della
Francia, verso gli Svizzeri e la Savoia, rese la sua squadra talmente
celebre e terribile insieme, mettendo a contribuzione e spavento
città e provincie, che il governo franzese, volendo tor di dosso a'
suoi sudditi questa peste, avea spedito due grossi corpi di milizie
con ordine di farne ad ogni costo l'arresto. Madrin, che trovavasi in
Savoia, dove pure il tenevano di vista, ritirossi con quattro compagni
nel castello di Roccafort, dove non poteva dalle milizie franzesi esser
preso senza violazione del diritto delle genti. Ma lo uffiziale che
quelle milizie comandava, senza tante considerazioni, ed avanzandosi
con gran segretezza sino alla torre di San Genis d'Aosta, dove uccise
dieci o dodici contadini, altri ferì, e misse tutti in fuga quelli
che, sorpresi dalla novità della fazione, gli si erano voluti opporre,
inoltrò quindi prestamente sino a Roccafort, sorprese il famoso
contrabbandiere e lo tradusse a Grenoble, poi a Valenza, in cui finì
sulla ruota i suoi giorni.

Intanto il re di Sardegna, informato dell'accaduto, si fece a chiedere
al re di Francia pronta e solenne soddisfazione dell'ingiuria recatagli
con un'insigne violenza che ne offendeva la sovranità. E la corte
di Francia volea dargliela; ma non convenendosi ne' modi, il re di
Sardegna ordinò al suo ambasciatore di lasciar Parigi senza prendere
comiato, e distribuì in proposito una ragionata memoria a tutti i
ministri stranieri residenti a Torino. Non cessarono intanto i maneggi,
i quali condussero al felice risultato d'un accomodamento, che, con
reciproca soddisfazione di quelle due potenze, spiantò quel seme che
la discordia aveva apprestato a distruggere la buona armonia con tanta
difficoltà ristabilita.



    Anno di CRISTO MDCCLVI. Indizione IV.

    BENEDETTO XIV papa 17.
    FRANCESCO I imperadore 12.


Nell'anno nuovo Matra corse per la seconda volta le campagne di
Corsica, piuttosto nemico di Paoli che amico della patria, contuttochè
mostrasse sempre un gran zelo per la libertà. Veniva con armi e
munizioni e denaro genovese; la fama portava grandi cose di lui,
e magnificava gli aiuti concedutigli. Quei della sua parte ed ogni
torbido fante accozzavasi con esso lui per guisa che facevano un alto
rumore per quelle montagne. Con tutti questi ordigni del gridare e del
promettere e del vantarsi e del sonare i zecchini aveva congregato una
seguenza di molti giovani, sì che pareva vicino il sobbisso di Paoli.
Il novello Mario uscì in campo, sperando di sorprendere il nemico
alloggiato nella pieve di Verde; ma non potè asseguire l'intento,
perchè il capitano tanto odiato da lui, avuto presto avviso del fatto,
aveva dato indietro, in sembianza di fugato più che di ritirantesi,
sino al convento di Bozio, dove si fermò ed attese a fortificarsi.
Mandò intanto ordinando a Clemente suo fratello ed al presidente
Venturini che prestamente accorressero, se amavano la sua salvezza.

Matra in questo mentre passò a quella volta, credendosi al certo di
avere la guerra vinta, anzi l'avversario stesso in mano. Giunse,
e cinto il convento d'armati, male si poteva Paoli difendere, non
avendo con sè che sessanta compagni. Già Mario squassava la porta del
convento, già la bruciava, già l'atterrava, già pareva giunto l'estremo
termine della vita di Paoli, quando a corsa ed a furia arrivarono
Venturini ed altri capi accompagnati da molta gente desiderosissima di
salvare colui cui la Corsica aveva chiamato salvatore e padre. Successe
fra le due parti una molto accanita zuffa, in cui i matreschi, non
sostenendo l'impressione del nemico, rimasero vinti e sbaragliati, ed
il loro condottiere ferito in un ginocchio. Ridotto in grande povertà
di consiglio, pensò di ritirarsi ma nol potè, perchè, sopraggiunto
dai paolisti infuriati, restò crudelmente trucidato, quantunque Paoli
ad alta voce gridasse, che dall'atroce pensiero si ritraessero e
in vita il serbassero. Tutti i partigiani del vinto rimasero preda
del vincitore, eccetto pochi, che si ricoverarono fra i Genovesi a
Paludella e San Pellegrino. Fra i prigioni, tre furono passati per
l'armi, gli altri obbligati a spianare il forte d'Aleria con gettarne
i sassi in mare, affinchè nissun vestigio restasse di quel nido, donde
a danno comune s'era partito il ribelle Matra. A tale andò la bisogna,
che a tutti furono tolte l'armi, di più di cinquecento si arsero le
case, dagli altri si ricercarono ostaggi per sicurezza di obbedienza.
Oltre modo lacerarono e dannificarono il paese dei disubbidienti.

Mentre Paoli comprimeva il nemico, e, lieto d'una vittoria che tanto
gli cresceva credito presso la nazione, castigava i partigiani di
Genova, fece pensiero di premiare, affinchè senza il debito onore non
rimanessero, coloro che secondo l'animo suo procedevano e fedelmente
si conformavano agli ordini suoi. A questo fine istituì un ordine
di cavalieri, che chiamò _compagnia volontaria_. Costoro portavano
una sottogiubba di panno corso rotonda e senza alcun ornamento, con
berretta verde e mostre di velluto pur verde; sulle maniche e sul petto
una croce coll'imagine della immacolata Concezione, i semplici compagni
d'argento, i graduati d'oro, coperta prima d'alcun fatto illustre, e
scoperta dopo. Obbligavansi ai servigi della patria a proprie spese,
andavano alle fazioni a piedi, solo a cavallo il gran maestro, che
eleggevano per sei mesi; ed il primo fu Giovanni Rocca, segretario di
Stato.

In questo tempo (per certe risse sanguinose accadute tra Franzesi ed
Inglesi nell'America settentrionale, e per contenzione di confini,
sulle frontiere del Canadà, o piuttosto per superbia e cupidigia
dell'Inghilterra da una parte, per debolezza del governo della Francia
dall'altra, poichè immerso il re nei piaceri, pareva che all'emulo
impero volesse comportare ogni cosa) s'era accesa fra le due potenze
una crudel guerra, sul principio della quale, ed in fin già prima
che fosse dichiarata, l'Inghilterra aveva tolto sui mari i vascelli
e le sostanze di Francia. Ora, correndo gli Inglesi il Mediterraneo,
la Francia concepì timore, ch'essi dei casi della Corsica volessero
tramettersi, e, levandola dall'obbedienza di Genova, s'impadronissero
di qualche sua parte, e vi facessero una stanza ferma con danno
manifesto de' proprii interessi. Della qual cosa tanto più sospettò
ch'erano andate attorno voci che Paoli avesse con l'Inghilterra qualche
segreta corrispondenza, e con esso lei seguitasse qualche domestichezza
d'amicizia e di fede.

A ciò pensando, le parve che non fosse più da differire di stringersi
maggiormente co' Genovesi; perlochè fece con Genova sue pratiche
col fine di conseguire da lei l'intento suo, che era di introdurre
soldati franzesi nelle piazze di presidio. La signoria, cui il
medesimo sospetto angustiava, massime nel caso che gl'Inglesi perduto
avessero Porto Maone per l'espugnazione del forte di San Filippo a
quei dì fortemente battuto dai Franzesi, s'inclinò facilmente alla
volontà della Francia; laonde nei primi giorni di novembre, condotti
dal marchese di Castries, al quale era stato dal re dato il grado
di comandarli, sbarcarono in Corsica tre mila Franzesi, prendendo le
stanze in Aiaccio, Calvi e San Fiorenzo. Non venivano come nemici ai
Corsi sollevati, nè a favore di nessuno, come pubblicavano, nè i Corsi
gli trattarono da nemici; solamente si appostavano gli uni e gli altri
con somma diligenza, e con grande gelosia osservavano ciò che l'altro
facesse.

Se la repubblica di Genova era rimasta contenta d'aver ottenuto
l'intento suo di vedere in Corsica un corpo di truppe franzesi,
ebbe pur motivo d'esserlo pel buon avviamento che presero le di lei
vertenze colle comunità di San Remo e di Campofreddo. Nel mese di
gennaio l'imperadore diede ordine al consiglio aulico di riassumere la
causa di quelle comunità a lui ricorse come feudi imperiali. Appena
ne giunse a Genova la notizia, la signoria, che avea già posto a San
Remo il morso d'una specie di cittadella, fece immantinente presentare
al detto consiglio aulico due scritture valevoli a far sospendere un
procedimento, di cui ad ogni modo poteasi temere l'esito incerto. Era
l'una di queste scritture una supplica presentata al senato genovese
da tre deputati delle comunità di San Remo residenti a Genova, con cui
la comunità stessa si metteva a' piedi della signoria, e riponea la sua
fiducia nella sovrana clemenza del senato per essere tornata in grazia
del suo principe; e l'altro un atto passato a Vienna dal procuratore
della comunità di Campofreddo, con cui ampiamente rinunziava ai ricorsi
sino a quel giorno fatti all'imperadore presentare.

Altissimi commovimenti produsse ne' popoli di quelle due comunità la
notizia di tali fatti de' loro commessi; si pubblicarono e divulgarono
da per tutto le loro solenni proteste, pregando e richiedendo i
ministri de' sovrani e delle potenze d'Europa a voler considerare
quelle scritture come estorte, nulle e riprovate dalle comunità. Le
quali proteste, pur presentate al consiglio aulico, fecero sì che per
quell'anno rimanesse l'affare sospeso, nè se ne udisse parola.

La guerra dei sette anni, in questo anno dal re di Prussia rotta
all'imperadrice regina, condusse l'Italia a vedere nudarne per la
Germania, e quindi per la Boemia, alcuni reggimenti de' suoi figli,
bella e fiorita gente, che dal granducato di Toscana l'imperadore
chiamò a far parte degli eserciti imperiali. Nè maggior peso le recò
l'altra guerra insorta nel nuovo mondo tra Spagna e Portogallo da una
parte, e gl'Indiani del Brasile dall'altra, che volevano mantenersi
indipendenti; ma vinti e disfatti, dovettero porre giù le pretese, e
sottomettersi. Se non che merita forse d'esser ricordato che gli oziosi
novellisti avevano fatto alla Italia gratuitamente il dono d'un Nicolò
Rubini del Friuli, che sotto il nome di Nicolao I menasse alle pugne
gli abitanti del Paraguai, da lui mossi e suscitati nella sua qualità
di gesuita; ma presto venne sopra la verità, e l'Italia perdette quel
non ambito onore d'aver dato un suo figlio per sovrano del nuovo mondo.

Ma mentre svaniva dalla mente dei creduli e dalle pagine della storia
questo re immaginario, la Corsica perdeva quello che aveva realmente
sopra di lei regnato. Partito Teodoro tre volte da quel regnò che
avealo nel 1736 solennemente riconosciuto per suo signore; divenuto
in seguito vero trastullo della fortuna, oppresso continuamente da
debiti, lottando col bisogno, perseguitato da' creditori, chiuso in una
prigione di Londra, come era stato prima in quelle di Amsterdam, trovò
in Orazio Valpole chi prese cura di lui, e raccolti sussidii volontarii
da uomini benevoli, col provento li cavò del carcere. Teodoro staggì
il suo regno di Corsica pel pagamento a favore dei prestatori. «Non so
come l'intendessero, dice uno storico esimio, ma in somma il fatto è
certo: vi sono di queste ubbie in Inghilterra, quando la vena dà.» Morì
poi in quest'anno a Londra, e fu sepolto nella chiesa di Santa Anna di
Westminster con la seguente iscrizione in lingua inglese, che vien a
dire in italiano:

«Qui giace Teodoro, re di Corsica, morto in questa parrocchia a
dì 11 dicembre del 1756 subito dopo d'essere uscito, pel benefizio
dell'atto sui falliti, dalle carceri del banco del re: lasciò il suo
regno di Corsica per sicurtà ai creditori.» Crederei che la chiusa
dell'iscrizione fosse scherzo, se si scherzasse sulle tombe, riflette
il poc'anzi citato storico illustre.



    Anno di CRISTO MDCCLVII. Indizione V.

    BENEDETTO XIV papa 18.
    FRANCESCO I imperadore 13.


La compagnia volontaria da Pasquale Paoli novellamente istituita in
Corsica a premio de' più meritevoli non ebbe ad aspettare molto per
mettere alla prova il suo valore, e, giustificando la scelta fatta
dei membri, accrescere la speranza del capitan generale; imperocchè si
pose egli tantosto con essa all'impresa di espugnare la torre di San
Pellegrino custodita da' Genovesi, posto d'importanza e vantaggioso
a chi ne fosse signore. Un ingegnere svizzero diresse le operazioni
dell'assedio, le quali riducevansi a far salire chetamente un soldato
alla porta della torre per farvi un'apertura tale che vi potesse
passare un uomo armato, e quindi sorprendere d'improvviso il custode
dell'armi e della munizione. La cosa o male intesa o male eseguita
non riuscì, quantunque i Corsi con tanto silenzio e precauzione si
fossero appropinquati alla torre che i difensori non se ne erano
accorti per niente. Il soldato, che dovea far l'apertura nella porta,
cadde. I Corsi, invece di rifarsi da capo allo esperimento, o di dare
un improvviso assalto, perdettero inutilmente molto tempo, che diede
campo al presidio di dare all'armi e far piovere sopra gli assalitori
le palle. Costretti quelli a ritirarsi, determinaronsi ad un assedio
formale e ad obbligare i difensori ad arrendersi almeno per la fame.
Nè tardando questa molto a farsi sentire, fu proposta la resa mediante
un'onesta capitolazione. Ma Venturini, un capo corso, si fece a
gridare non voler capitolazioni, ma o che il presidio si rendesse
a discrezione, o altrimenti sarebbe presa per assalto e colla forza
dell'armi. Questa ostinazione fu salute degli assediati. Concorse in
questi momenti due galee genovesi con altri legni minori, obbligarono
i Corsi alla ritirata, colla perdita di molti di loro, tra i quali uno
de' nuovi cavalieri.

Intanto il marchese Doria, commissario alla Bastia, ordinò in nome
della repubblica che nissun paesano si avvicinasse a quella città,
ordine che fece ripetere dagli altri commissarii e comandanti genovesi
che si trovavano nell'isola, e ad esecuzione del quale formò un
campo volante, che dovea arrestare tutti i Corsi trasgressori. Ed
all'opposto, Paoli ed il supremo consiglio di Stato corso proibirono
a tutti i nazionali di avere alcuna corrispondenza colle città e coi
luoghi governati dai Genovesi, e molto più di trasportarvi vettovaglie
di qualunque sorta, al campo volante del commissario, contrapponendo
un altro campo consimile, per tener in dovere chiunque avesse ardito
d'infrangere le loro prescrizioni. La quale rigorosa misura sortì
l'inevitabile suo effetto; cominciò a farsi sentire la carestia così
vivamente alla Bastia, che il marchese Doria alle calde istanze degli
abitanti dovette rivocare i suoi divieti, e lasciar che la città si
provvedesse di viveri come meglio potesse.

Siccome la fama così altamente parlò di Pasquale Paoli, uomo che tanto
fece per la libertà della sua patria e che, se una forza sopravanzante
non si opponeva, avrebbe fondato nella natia isola una repubblica a
guisa di quella d'Olanda, pensiero che girava a quei tempi nella mente
degli uomini, non sarebbe fatica perduta lo spaziare alquanto sulla
sua vita, costumi, desiderii ed opere. In picciole scene, sono non di
rado grandi esempii. Se non cito ci stringono i limiti a queste carte
imposti e ne fanno la legge di toccare sol di volo e per sommi capi
l'alto subbietto.

Oppressi gli emuli e date di sè medesimo felici speranze, Paoli, se
avuto avesse la smania di tanti che abusano della confidenza che in
loro collocano i popoli, avrebbe potuto fare i Corsi servi e porre
sè in cima di tutti. Ma prevalse in lui un pio desiderio e si diè a
battere altra strada.

A' tempi del generoso uomo, i Corsi distinsero per suo consiglio
l'autorità pubblica in tre potestà; la legislativa, la esecutiva e la
giudiziale. Sedeva la prima nel parlamento, o, come la chiamavano, la
_consulta generale_, che rappresentava l'intero corpo della nazione,
e la componevano circa cinquecento membri, denominati _procuratori_,
ed eletti parte dal popolo, parte dal clero sì secolare che regolare.
I procuratori in consulta adunati avevano la facoltà di fare e di
annullare leggi e di stanziare la somma annua da potersi spendere per
lo Stato. Ed oltre alle leggi facevano certi magistrati, di due ordini,
uno giudiziale, l'altro esecutivo, cioè un ministro di giustizia per
ciascuna delle nove provincie della Corsica, e nove membri del supremo
governo esecutivo, uno pure per ciascuna provincia.

Il supremo governo esecutivo, cui chiamavano eziandio supremo
magistrato, o supremo consiglio, composto, come abbiam veduto, di
nove membri o consiglieri, aveva per presidente il generale Paoli,
dalla consulta a quella maggioranza eletto. Avevano questi consiglieri
diritto d'intervenire alla consulta, e di proporre per bocca del
presidente di lei quanto loro paresse giusto, o necessario, o
conveniente.

Paoli aveva titolo di _generale del regno e capo del magistrato
supremo di Corsica_. Nelle sessioni, sedeva sotto un baldacchino
coi consiglieri in qualche distanza da lui. La sua tavola ed il
mantenimento dalla casa erano a spese della nazione, senza limitazione
alcuna di somma, lasciandosi interamente, perchè potesse tener grado,
lo spendere a sua discrezione. Poteva disporre del denaro pubblico come
gli pareva più spediente, purchè non oltrepassasse la somma fissata
dalla consulta. Grande era la sua autorità, e forse eccessiva, se
le contingenze del tempo, e le turbate e incerte cose della Corsica
non la scusassero; imperciocchè per la milizia e pel mare godeva di
una potestà assoluta, e per tali faccende non era nemmeno obbligato
di domandar il parere dei consiglieri; e quando spontaneamente il
domandava, la loro voce si aveva solamente per consultiva, non per
giudicativa. Poteva trattare con qualunque potenza di pace, di guerra,
o di alleanza, ma non concludere senza l'assenso dei consiglieri,
avendo in tutti questi casi un solo voto come gli altri, con questa
eccezione però che nei casi di vita o di morte, se si trattasse di
condannare, avesse un voto solo, se di assolvere, due.

Aveva intorno per la guardia del suo corpo circa ottanta soldati, i
quali per ordine espresso della consulta il dovevano accompagnare ogni
qualvolta che in cospetto del pubblico o per ufficio o per altra causa
comparisse. I funesti casi di Sampiero e Giampiero, ed altri tentativi
di assassinio fatti contro di Paoli stesso, a tale deliberazione
avevano sforzato la consulta. Ma ciò egli detestava come segno di
tirannide, affermando e protestando volerne veder la fine tosto che
la Corsica un volto genovese più non vedesse. Nella sua anticamera,
nè nella camera, nemmeno di notte, nessuna guardia di uomo voleva; ma
era meglio e più fedelmente custodito che da uomini. Sei grossi cani
corsi stavano sempre, terribili custodi, alla porta dell'anticamera,
e nella camera stessa. Con lui dormivano, con lui vegliavano, e se
alcuno di notte a lui accostato si fosse, in mal punto venuto vi
sarebbe; perciocchè sarebbe stato incontanente da quelle orrende bocche
lacerato a pezzi. Molto Paoli gli accarezzava, ed essi il conoscevano e
l'amavano, e ad ogni suo cenno pronti l'obbedivano: dolcezza e ferità
in loro si accoppiavano. Trovo scritto, seguita a dire uno storico
famoso, che per tal costume Paoli ritraesse dell'antico; così, al dir
d'Omero e di Virgilio, Patroclo, Telemaco ed Evandro avevano i loro
cani; al dire degli storici, Siface i suoi.

Era stabilito per legge della consulta sotto pene gravissime che
nessuno parlasse o scrivesse contro il supremo consiglio, meno ancora
contro il generale, credendo quegli uomini gelosissimi la libertà delle
lingue e delle penne un veleno pestifero.

Quanto alla potestà giudiziale, abbiamo veduto come i procuratori
delle province eleggessero un ministro per provincia, al quale si
dovea ricorrere nei casi di maggiore importanza, quelli di poco
momento essendo giudicati da' giudici o podestà di ciascuna città o
aggregazione di villaggi. Questi ministri potevano condannare a multe
ed anche a pene corporali; e fu loro eziandio data autorità sopra il
sangue; ma quando ne usavano, erano in obbligo di mandare il processo
al supremo governo che confermava o annullava la sentenza.

Crearono poi pei giudizii delle cause civili, il cui importare
oltrepassasse cinquanta lire, imperciocchè sotto di questa somma
le sentenze de' ministri sopraddetti erano terminative, una ruota
composta di tre legisti, la quale sempre doveva fare la sua residenza
nella città di Corte. Da questa ruota vi era appellazione al supremo
consiglio, ma solamente quando constava che alcuno fosse stato molto
aggravato.

Questi ordini giudiziali non erano certamente perfetti, ed ancora li
bruttava l'infame uso della tortura. Ma intenzione del generale era di
perfezionarli col tempo.

I comuni si regolavano per gli uffiziali municipali, e li chiamavano
padri del comune. Erano eletti dai padri o capi di famiglia.

Le cause ecclesiastiche si agitavano nel tribunale del vicario
apostolico mandato dal papa, con autorità universale, e dalle sue
sentenze si appellava alla corte di Roma.

Paoli sentiva dell'ignoranza de' suoi compatrioti dolore acerbissimo:
nissun mezzo più acconcio vedeva per dirozzare, ingentilire ed
appiacevolire la nazione, di quello d'illuminare gl'intelletti ed
informare gli animi co' buoni esempii. In ciò non concordava con
Rousseau, cui aveva chiamato per dar leggi all'isola; imperocchè, come
ad ognuno è noto, il filosofo di Ginevra credeva che il ben essere
non potesse consistere che con una certa ruvidezza di costumi, e di
ciò in Corsica ne era dovizia. Perciò giva predicando che fra tutti i
popoli Europei i soli Corsi erano capaci di buone leggi. «Ma qui cade
in acconcio, dice il più volte lodato storico, l'antico proverbio,
che se l'ignoranza è vizio, il troppo sapere è parimente vizio, ed in
questo, come in ogni altra cosa, ogni bene sta nel mezzo. Non dico già
che il gran sapere sia vizio, in un individuo, poichè anzi è un pregio
eccelso e sommamente da lodarsi, ma solamente dico, che il sapere più
che al popolo si appartiene, sparso generalmente in una nazione, è
vizio e cosa da fuggirsi, perchè non può essere compiuto in ognuno, e
il ciel liberi gli Stati dall'essere in mano dei semidotti! Il perfetto
sapere dà la modestia e la ritiratezza, l'imperfetto la superbia,
l'impertinenza e l'ambizione.»

Paoli mosse, ed i supremi magistrati consentirono, che nella città
di Corte si fondasse una università degli studii, a cui concorrendo
i giovani Corsi, s'imbevessero di quanto più dirozza ed imbuonisce
l'uomo. Ciò successe nel 1764. Ottima disciplina ordinossi pel nascente
studio, esami settimanali, esami annuali; lodi e premi e corone, forti
stimoli a giovani intelletti. I professori, stipendiati dalla nazione,
insegnavano gratuitamente. La novità del caso, quel cibo tanto gradito,
quanto per la prima volta offerto e gustato, la naturale attitudine
per le scienze e per le lettere degl'ingegni corsi, i conforti e
gl'incoraggiamenti del Paoli, uomo tenuto in tanta venerazione dalla
gioventù, partorivano effetti mirabili.

Queste cose faceva il benevolo reggitore della Corsica fra mezzo i
furori della guerra e l'incertezza del destino futuro della sua patria.

Importava massimamente a Paoli la cura della guerra e degli esercizii
militari. Contuttociò egli andava pensando come avvezzar potesse i suoi
compatriotti alle opere di agricoltura, cui per lungo uso ripugnavano.
Gli andava dunque invitando alle rurali fatiche, accarezzava chi vi si
dava, premiava chi vi profittava, a poco a poco altro aspetto vestiva
la Corsica infelice, la smossa terra rendeva l'odore delle fortunate
radici, vedevasi sui campi, cosa insolita per lo innanzi, le marre
mescolatamente colle spade.

Giovine e, per così dire, fanciulla era a quei dì la Corsica per la
capacità del governare le faccende dello Stato: bisogno ancora aveva di
tutela. Ad ogni ora domandavano a Paoli consiglio di quanto avessero
a farsi e per le cose e per le persone: rispondeva: _Fate voi altri,
nominate voi altri_. Così gli avvezzava.

Squallida l'isola per la guerra, squallida per la povertà. «La patria,
il generale diceva, è il corpo della Sunamitide, noi e i magistrati
il profeta Eliseo, che, occhi ad occhi, bocca a bocca sopra di lui
distesi, opera facciamo di rianimarlo: già comincia a muoversi, già
riprende calore e vita, e se il tempo e Iddio ci aiutano, presto
vedremo non solo la quiete e l'ordine, ma ancora le scienze e le arti.
La Corsica accomodatamente consuonerà colla civile Sicilia, nè indarno
la natura ci avrà sotto di questo propizio cielo posti.»

Fiera e grande anima aveva; l'indipendenza della patria svisceratamente
amava. La più gradita lettura che avesse era quella del libro de'
Maccabei: Antioco ed i Romani gli passavano per la mente. Niuna
parola più odiava che quella di ribelli applicata ai Corsi. Paoli
aveva il volto per l'ordinario assai placido e dolce, e così pure
il costume, ma quando udiva dar del ribello ai Corsi, di tali feroci
forme le sue fattezze si vestivano, che la corsa natura pienamente in
lui si disvelava. Più amava Temistocle che Demostene, perchè questi
parlava, quegli faceva. Di gran lunga anteponeva Penn, legislatore
della Pensilvania, ad Alessandro Magno, conquistatore dell'Asia,
quello per aver fondato uno stato felice e tranquillo, questo per
aver martirizzato mezzo un mondo. La voce di Paoli era potentissima
sui cuori di Corsica, nè di altro egli aveva bisogno che di lei per
disporgli a seguitare la sua volontà e a spingergli ai più pericolosi
fatti. Alla guerra, da lui chiamati, andavano spontaneamente. Servivano
senza paga, salvo le guardie del generale e quei che erano di presidio
nelle fortezze.

Paoli poteva congregare ad un bisogno trenta mila armati, vale a dire,
quasi la quinta parte di tutta la popolazione. E non avea bisogno di
far magazzini per somministrare le vettovaglie all'esercito, posciachè
in ogni luogo erano preste o portate dai guerrieri andati in campo.
Ogni cosa portava all'entusiasmo: l'odio, l'amore; gli usi antichi,
il rispetto verso il generale. «L'esser ferito, scrive un anonimo, è
stimato onor grande, onor maggiore perdere i propri figli al servigio
del pubblico.... il pensiere dello arrendersi è peggiore della morte.
Pochi anni fa, un Corso stava guardando dalla sua finestra e vide
alcuni suoi paesani arrendersi ai Genovesi. Questo fece in lui una
impressione tale, che risolvette di non uscire mai più di casa; ed alla
sua morte che succedette quattro anni dopo, lasciò ordini positivi, che
il suo cadavere fosse sepolto fuori della vista della città.»

Tali erano gli uomini di Corsica.

Molto opportunamente il fervore degli spiriti suppliva alle esigenze
dello Stato. In paese per sè non ricco, e fatto povero dai tumulti
e dalla guerra, le rendite pubbliche erano di poca importanza. Tutte
le gravezze insieme fra tasse e dazii non gettavano un mezzo milione
di lire. Le donne di Corsica somigliavano gli uomini; oltre la dura e
faticosa vita, a cui erano da mariti astrette, la patria amavano; gli
ornamenti loro, i figliuoli; i lor passatempi, le fatiche.

Nel rimanente d'Italia tutto in questo anno fu pace; ma se la guerra
non ne devastò le belle provincie, non andò per altro esente da
altre disgrazie e calamità, che appunto in questi giorni funestarono
una gran parte della superficie del globo. Senza dire di quelle due
bocche infernali che, a vomitare torrenti di fuoco, spalancaronsi
nell'estremità orientale d'Italia; un elemento affatto contrario portò
le sue devastazioni in un'altra parte quasi diametralmente opposta.
La città di Verona contò in ogni tempo l'Adige come il padre delle
sue ricchezze ed insieme quale istrumento delle sue miserie, per
le terribili innondazioni che glie ne derivarono. Paolo Diacono ne
descrive una, da lui creduta la maggiore di quante avvennero dopo il
diluvio. Dice che l'Adige crebbe cotanto che l'acque toccarono sino
alle finestre superiori della chiesa di San Zenone situata fuori
delle mura, e che queste restarono in gran parte dall'impeto delle
acque atterrate. Comunque sia di tale inondazione dell'ottavo secolo,
e di altre due avvenute nel 1567 e nel 1719, quella del primo dì di
settembre del corrente anno superò tutte le precedenti, poichè le acque
si alzarono sino a diciotto piedi e mezzo.

In tale disastro, il ponte detto delle Navi perdette i due archi di
mezzo, e scuotendosi nel tempo stesso la contigua torre, oltre al
rimanere isolata in mezzo a quel pelago nato improvvisamente, videsi
vicina a sfasciarsi interamente. Nel quale pericolo è da notarsi
la magnanimità ed intrepidezza del contadino Bartolommeo Rubele,
detto Leon, che con eroico ardire, toltosi dalla folla tremebonda
che sconfortata stava osservando il terribile spettacolo senza osar
di cimentarsi, osò salire in quella torre a prendere e salvare due
infelici donne che con due teneri fanciulli vi albergavano, ricusando
poi l'oro che a ricompensa del generoso fatto ciascuno gli proferiva.



    Anno di CRISTO MDCCLVIII. Indizione VI.

    CLEMENTE XIII papa 1.
    FRANCESCO I imperadore 14.


La notte del secondo giorno di maggio dell'anno presente, vide l'ultima
sua ora Benedetto XIV. Dotto amico dei dotti, visse, e li protesse e li
sollevò, e sotto l'ombra sua li raccolse. Il seppero Cristoforo Maire e
Ruggiero Giuseppe Boscovich, matematici celebratissimi, cui chiamò ed
a cui diede carico di misurare l'arco del meridiano in tutto lo Stato
ecclesiastico, e il fecero. Lo seppe Giovanni Poleni, professore di
matematica nell'università di Padova, cui chiamò per consigliarsi con
esso lui sul ristauro della basilica Vaticana, la cui volta minacciava
ruina. Lo seppe il Quadrio, cui col consiglio e con generose opere
soccorse. Lo seppero finalmente Muratori e Maffei, a cui per lettere
fece testimonio quanto le persone loro e gli studii onorasse. Nè alcun
celebre personaggio era dentro o fuori d'Italia, che da Benedetto
estimazione, onore e favore non ottenesse. Al mondo è nota la lettera
scrittagli da Voltaire quando gli mandò il suo Maometto. Il poeta, che
malizioso era, forse intendeva, secondo il suo costume, a malizia: ma
il papa gli rispose con tanta disinvoltura e spirito che il poeta non
ne rimase in capitale.

Nè solo ai particolari uomini aveva cura il generoso pontefice per
sollevarli o per onorarli, ma spandeva ancora i frutti della sua
munificenza sopra le scientifiche e letterarie compagnie. Fomentò,
accrebbe, arricchì l'istituto di Bologna, e l'accademia Benedettina
fondò, in cui gli allievi con accomodati premii si stimolavano ai buoni
studii.

Le opere sue Roma ancora con gratitudine rammenta. Riedificò di marmo,
ornò di statue, crebbe d'un doppio portico e di colonne la facciata
della basilica Liberiana, così chiamata per essere stata edificata nel
quarto secolo da san Liberio papa, nominata anche volgarmente Santa
Maria della Neve, a cagione di una neve caduta miracolosamente ai 5
d'agosto sul monte Esquilino, o Santa Maria _ad Praesepe_, a motivo
della culla di Gesù Cristo, che in lei, come dicono, si conserva, o
finalmente Santa Maria Maggiore, perchè tiene il primo luogo fra le
dedicate alla Vergine, ed è una delle quattro patriarcali, e delle più
belle di Roma. Per queste cagioni Benedetto vi aveva volto il pensiero
per instaurarla ed abbellirla. Instaurò il triclinio presso san
Giovanni in Laterano, rovinato sotto il pontificato di Clemente XII, e
vi ripose l'antico mosaico di papa Leone III. Per averla goduta essendo
cardinale, ornò di facciata, ne fece dipingere la volta, corredò di
tribuna e ridusse allo stato presente la basilica Sessoriana, ossia
chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, una delle sette basiliche,
fondata da Costantino in memoria del ritrovamento della Santa Croce
fatto da sant'Elena madre in Gerusalemme. Abbellì di pitture e di
mosaico la magnifica basilica di San Paolo, e vi terminò sino a' suoi
tempi la serie de' ritratti dei papi che, incominciata da san Leone
il Grande insin da san Pietro, fu poi continuata da san Simmaco sino
al 498. Queste cose Benedetto faceva per pietà e munificenza, queste
altre a munificenza pure, ma eziandio ad utilità indirizzava: ampliò
l'ospedale di Santo Spirito e creò la scuola del disegno con investir
denaro pel mantenimento e pei premii. In somma tutto in Roma ancora
rammenta ed accenna i benefizii di Benedetto.

Nè il mondo taceva o tace delle virtù d'un tanto papa. Sommo pregio è
la tolleranza fra gli uomini, che tanto deboli sono, e questa intiera
e perfetta possedè il buon Lambertini. La sapeva in oltre condire con
ilari e cortesi modi, per forma che ad ognuno era manifesto che in
lui da natura procedeva, non da arte, e quantunque arte non fosse,
nè studiato pensiero, era finissimo sussidio, poichè niuna cosa più
alletta e vince chi dissente, che la sopportazione, niuna più li rende
contumaci ed ostinati che la rigidezza e la superbia altrui.

Il migliore mezzo di propagare il bene era il suo dolce procedere:
Benedetto era atto a conquistare il mondo, perchè colle sue rare virtù
conquistava i cuori.

Era allora in Francia un incomposto miscuglio di cose in materia di
religione, in conseguenza delle diverse sentenze e delle parti che vi
regnavano, e che dalle cattedre e cogli scritti, gli uni contro gli
altri contendevano e menavano un grandissimo romore; casisti, filosofi,
teologi morali e speculativi, increduli e credenti.

Se un papa di minore mansuetudine e prudenza avesse occupato la sede
di san Pietro, al certo sarebbe nata in quel discorde paese la guerra
civile. La tolleranza di Benedetto tolse legna al fuoco. Delle pazzie
franzesi di quel tempo ei non sapeva darsi pace e si stringeva nelle
spalle, e pregava Dio che facesse sano di spirito chi n'era infermo.
A questo proposito egli, che arguto e trattoso era nel favellare,
disse quel famoso motto: _La Francia è il regno meglio governato
che vi sia, posciachè è la Provvidenza che lo governa_. Con ciò
toccava principalmente la debolezza della corte, che maggiore impeto
pareva avere per precipitarsi nel vizio, che forza per reggere lo
Stato. Brevemente, tali erano le condizioni di quel regno, che si
può con verità affermare, andare i Franzesi obbligati a Benedetto di
molto sangue loro risparmiato. Certo è anzi che i protestanti della
Linguadoca, contro i quali prelati troppo fervidi volevano ricominciare
le persecuzioni coi roghi e colle forche, come ai tempi di Luigi XIV,
dalla benigna intercessione del pontefice riconobbero il quieto vivere.

Grande agevolezza ancor trovò in lui il re di Prussia pe' suoi
cattolici della Slesia, ed il papa nel re; si scrissero frequenti
lettere l'un l'altro: fra due sovrani d'alto ingegno tosto nacque la
concordia, nè niuna lode v'era, che Federico non desse a Benedetto. I
protestanti di Germania in somma venerazione il buon pontefice avevano,
e come pontefice venuto al mondo per cessare i loro risentimenti contro
la santa Sede.

Gli Inglesi medesimamente con non minor rispetto il riguardavano,
non come i Tedeschi pacatamente, ma mescolandovi, secondo il solito,
l'entusiasmo e il lasciarsi guidare dall'umore. Ed ecco il ministro
Walpole alzare, nel suo palazzo di Londra, una statua a Lambertini,
scolpitovi sotto il seguente elogio, composto dal figliuol suo:

«A Lambertini innocente nel principato, restitutore della tiara
pontificia, sommamente amato dai cattolici, sommamente stimato da'
protestanti, ecclesiastico non insolente, da ogni cupidità ed ambizione
alieno, principe senza studio di parte, pontefice senza nipote, autore
senza vanità, modesto uomo in tanta potenza, con tanto ingegno:

Il figliuol del ministro, che non mai alcun principe adulò, non mai
alcun ecclesiastico venerò, in libero protestante paese questo tributo
di laude all'ottimo pontefice de' Romani innalzò.»

La quale scappata inglese come fu raccontata a Lambertini, disse: «E
mi par di essere come le statue della piazza di San Pietro, che vedute
di lontano appariscono con acconcio e mirabile artificio fatte, ma da
vicino brutte e deformi le diresti.» Ma le lodi erano vere ed il gran
papa le meritava.

Tale fu Lambertini e tale al mondo si mostrò, nè mai altro papa diede
quanto egli così grande avviamento alla riunione delle religioni
cristiane dissidenti colla cattolica. Ciò col costume e col procedere
savio, prudente, e dolce piuttosto che coi sillogismi faceva. Sapeva
che i buoni costumi allettano e convertiscono gli uomini, le sottili
argomentazioni li fanno renitenti e caparbi. Il costume non offende,
perchè non comanda; il vincere per logica o per forza sì, perchè fra
due contendenti indica superiorità in chi vince, inferiorità in chi
perde, superbia da una parte, umiliazione dall'altra.

È qui da notare che poco tempo prima della sua morte, questo lodato
pontefice aveva dato, alle ripetute istanze del Portogallo contro i
Gesuiti, un breve diretto al cardinale Francesco Saldagna, a questo
oggetto da quel re destinato, nel quale gli commetteva di visitare le
case di detta compagnia per riconoscerne (se sussistessero) gli abusi e
le mancanze, e quindi riferire del risultamento delle sue pratiche, non
senza proporre le misure di riforma che stimasse necessarie per ridur
que' religiosi alla lor santa e primitiva osservanza, passando anche
alla riforma stessa ogni qual volta il bisogno lo richiedesse, giusta
la lettera istruttiva che in un col breve gli veniva trasmessa.

Dodici giorni dopo la morte di Benedetto XIV si raccolsero in conclave
i cardinali, e nel dì 6 di luglio gli elessero a successore il
cardinale Carlo Rezzonico, Veneziano, che assunse il nome di Clemente
XIII.

In meno di due giorni la nuova dell'elezione giunse in Venezia, dove
risvegliò generale esultanza, e fu festeggiata colla suntuosità a
quella repubblica consueta; scrivendo pure il nuovo papa direttamente
alla veneta signoria, e ricevendone risposta, nella quale veniagli
attestato il giubilo universale per la sua esaltazione.

La notte del 3 settembre, tornando il re di Portogallo da una visita
fatta alla marchesa di Tavera, fu assalito da tre uomini a cavallo,
due de' quali, sparando contro il calesse per di dietro, ferirono il
re malamente sì che per tre mesi dovette starne ritirato. Un tetro
silenzio per tutto quel tempo regnava alla corte, ed ognuno era ansioso
di vedere l'esito di un affare cotanto serio. Finalmente la mattina
del dì 13 dicembre, si videro circondati i palazzi di diversi dei
principali signori, e condotti pubblicamente nelle nuove carceri di
Belem il marchese Francesco di Tavora con due suoi figli, due fratelli,
due generi ed alcuni domestici; nel giorno seguente fu pure arrestato
il duca d'Aveiro nella sua casa di campagna: ed, oltre i suddetti
arrestati, anche la marchesa di Tavora, già stata vice-regina di Goa,
fu condotta in un convento di monache, come in altri conventi furono
trasportate la nuora, marchesa di Aveiro, della suddetta marchesa
di Tavora, e le due sue figliuole, contessa d'Atouguia, e marchesa
d'Alorna.

Nello stesso giorno in cui si vide lo imprigionamento di quelle
persone, furono da' soldati accerchiate tutte le case che i Gesuiti
tenevano in Lisbona, e successivamente le altre che nel resto del regno
possedevano, ed in tutte un regio ministro visitò minutamente le stanze
e le persone; vietata intanto qualunque comunicazione all'esterno.



    Anno di CRISTO MDCCLIX. Indizione VII.

    CLEMENTE XIII papa 2.
    FRANCESCO I imperadore 15.


Alla mezza notte del dì 12 gennaio dell'anno presente furono condotti
nelle carceri della _inconfidenza_, tribunale per l'occasione eretto
per giudicare i delitti di fellonia e d'alto tradimento, dieci Gesuiti,
a cui in appresso unironsene altri due, tutti imputati di complicità
nel tentato regicidio.

Eseguitasi solennemente nella mattina del giorno 13 la sentenza di
morte contro i regicidi, il re chiedeva da Roma un breve, in virtù del
quale potessero in quel regno processarsi e meritamente castigarsi le
persone ecclesiastiche che fossero state complici di quell'attentato
contro il re non solo, ma ancora che in un modo o nell'altro potessero
immischiarsi in altro nequizie consimili per l'avvenire; e Clemente
XIII, dopo grandi difficoltà e varie lunghe consultazioni, il
concedeva. Se non che, giunto frattanto il giorno 3 di settembre,
anniversario del triste fatto, non volendo la corte di Lisbona più
oltre differire le misure che aveva stimate convenienti al caso, il re
sottoscrisse il decreto, col quale, dichiarandosi avere i religiosi
della compagnia di Gesù degenerato affatto dal santo loro istituto
e commesso scandalosi ed atrocissimi delitti (che non forse furono
giammai provati secondo le regole giudiziarie), per indispensabile
regia risoluzione, venivano _snaturalizzati_ ed esiliati per sempre dal
regno del Portogallo.

Adunque nel giorno 16 settembre imbarcaronsi sul Tago, sopra nave
ragusea, in numero di 133, i primi gesuiti condannati a quel perpetuo
esilio, e dentro il giro di non molti mesi furono seguitati da cinque
altri convogli, così venendo in numero d'oltre a mille e cento sotto
il cielo d'Italia, e propriamente negli Stati pontificii, sbarcando in
Civitavecchia. Del che avuto avviso il santo padre, comandò che fossero
alloggiati decentemente, e finchè vi si trattenessero, mantenuti a
spese della camera apostolica.

Morto era intanto nel dì 10 agosto il re di Spagna, Ferdinando VI, nè
lasciato avendo prole nissuna, era stato il re di Napoli dichiarato suo
successore sotto il nome di Carlo III. Tre figliuoli maschi aveva egli
giù ottenuti a quel tempo; ma il primo, per le conseguenze di grave
malattia, fu dichiarato giuridicamente imbecille avanti la partenza
del padre dalla Italia, e quindi riconosciuto re delle Due Sicilie il
terzo di lui figliuolo Ferdinando, poichè il secondo destinato era a
succedergli nel trono di Spagna, e doveva quindi con esso trasportarsi
a Madrid, vietato essendo negli ultimi trattati che alcun principe
di quella famiglia potesse sul suo capo riunire le due corone della
Spagna e di Napoli. Poco mancò che da tale avvenimento turbata non
fosse la tranquillità dell'Italia, perchè pattuito essendosi nel
trattato d'Aquisgrana che giugnendo l'infante don Filippo al trono
delle Due Sicilie, il ducato di Piacenza tornasse al re di Sardegna,
e quelli di Parma e di Guastalla si riunissero al ducato di Milano,
giunto sembrava il momento in cui, passando Ferdinando VI al trono
della Spagna, l'infante duca di Parma passar dovesse, coll'aiuto anche
de' sovrani che attendevano la reversione, ad occupare il regno delle
Due Sicilie dal fratello abbandonato. Erasi di fatto inserita una
clausula che questa disposizione portava nel trattato di Versaglies
del dì 30 dicembre dell'anno precedente ad istanza tanto del re di
Francia quanto dell'imperadrice regina; ma all'epoca della morte del
re di Spagna, la guerra ardeva nella Germania, sì che le operazioni di
quella non permisero alla corte di Vienna di muovere alcuna pretensione
sugli altri Stati d'Italia, tanto più che il re Carlo disposto era
a fermamente guarentire ai figliuoli suoi il possedimento delle Due
Sicilie. La corte cesarea rimase adunque tranquilla; il re di Sardegna
troppo debole era per reclamare egli solo l'esecuzione del patto di
reversione, ed il duca di Parma conservò pacificamente il possesso dei
suoi Stati.



    Anno di CRISTO MDCCLX. Indizione VIII.

    CLEMENTE XIII papa 3.
    FRANCESCO I imperadore 16.


Erano in Corsica molto turbate le cose della religione. I vescovi,
siccome quelli che per la maggior parte erano Genovesi, e si trovavano
nella necessità, se nelle loro sedi fossero rimasti, di obbedire
all'autorità di coloro, cui il proprio principe riputava ribelli,
e forse non credendosi esenti da insulti personali in mezzo a tanta
concitazione, si erano assentati dall'isola cercando più quieto asilo
o nel Genovesato loro patria, o in altri paesi non ancora sconvolti
dal furor delle parti. Avevano bensì, partendo, delegata la loro
autorità; ma il rimedio era poco, perchè i delegati, pel timore dei
casi presenti, non osavano adempire l'intero mandato, o i Corsi,
avendogli per sospetti, non si conformavano agli ordinamenti loro, e
Paoli, prima che arrivasse il vicario apostolico, deputava di propria
autorità i pastori dell'anime secondo che stimava convenirsi a' suoi
fini. Quindi nasceva che si turbavano le giurisdizioni e toglievasi
alle coscienze timorate la quiete. Siccome poi la maggior parte degli
ecclesiastici corsi concordavano coi sollevati, e che anzi molti di
loro, massime fra i regolari, avevano come principali istigatori dato
fomento al fuoco che allora consumava l'isola; in molte parti era
l'esercizio della podestà ecclesiastica ridotto in loro mano; cosa che
per la giurisdizione era manchevole, stante il non aver essi mandato
legittimo, e dannosa per lo Stato dei Genovesi, attesochè la voce ed
i consigli d'uomini a loro nemici non potevano non confermare i popoli
nel proposito della disubbidienza.

Genova vegliava sopra questi interessi. Parecchie volte aveva ricorso
alla santa Sede per trovar modo di conciliare il benefizio della
religione coi diritti della sovranità, ma non si era potuto venire a
conclusione. I vescovi stessi della Corsica, che avevano col medesimo
fine supplicato al pontefice, non avevano nemmeno potuto ottenere una
sola lettera pontificia, che disapprovasse gli attentati dei Corsi
sulle rendite e giurisdizioni del clero così secolare come regolare.
Pareva alla repubblica di scorgere nel procedere della corte di Roma
non poca parzialità in favore de' suoi ribelli. Gelosa quindi, s'era
messa al fermo di non permettere cosa che alla conservazione dei suoi
diritti importasse.

Da un'altra parte Roma argomentava ch'ella non era stata per niun
conto autrice delle sollevazioni di Corsica, nè in esse in modo alcuno
aveva posto le mani; che sapeva che un gran disordine regnava nelle
cose ecclesiastiche dell'isola e che tutti i buoni ordini vi erano
pervertiti; che le pecore si nutrivano di male erbe, ed i legittimi
pastori sospiravano; ch'ella avea aspettato sì lungo tempo per venire
alle provvisioni necessarie, sperando sempre che la repubblica colle
sue forze avrebbe finalmente sottoposto i ricalcitranti, e ritornato
l'isola alla quiete; ma se la repubblica era stata inabile a ciò fare
dopo una guerra di trent'anni, che colpa ci aveva Roma? Dovere ella
pur pensare al benefizio dell'ovile, nè poter abbandonare al caso ed
al furore i sussidii spirituali ed i celesti interessi; essere oggimai
tempo di offerire un porto di salute a chi in un mare burrascoso
pericolava; rispettare ella i diritti sovrani della repubblica nè avere
alcuna volontà di offenderli, ma pur dover soddisfare al suo dovere di
madre universale; quanto alle preferenze, nissuna averne Roma, Roma
giusta e pietosa con tutti; non pretendere ella di scrutare i motivi
dei principi nelle loro deliberazioni, ma esigere che ciò stesso si
pratichi in riguardo ai suoi nelle sue, nè poter permettere che si
mescolino le cose temporali con le spirituali.

Travagliandosi le cose a questo modo tra Roma e Genova, le prime
cagioni d'un aperto risentimento nacquero dai Cappuccini. Paoli non
poteva tollerare che i conventi di questi religiosi situati nei paesi
che a lui ed al suo governo obbedivano, fossero sotto la dipendenza
del provinciale, il quale abitava in Bastia sotto il dominio della
repubblica. Da un'altra parte, non essendovi altro superiore delegato,
la disciplina dei conventi ne pativa e seguivano disordini con
iscandalo di tutti i buoni. Oltre a ciò, Paoli desiderava che fosse
posto alla loro direzione un uomo, il quale, essendo favorevole al
suo intento, al medesimo fine indirizzasse le parole e gli atti dei
religiosi, ma principalmente la predicazione. Di ciò pensando, scrisse
al padre Serafino da Capricolle, provinciale dei Cappuccini nel
Genovesato, esortandolo a deputar persona conforme a' suoi desiderii
pel governo dei conventi. Il padre Serafino diede la facoltà domandata
al padre Paolo d'Altiani, definitore poco avanti uscito dalla carica
di provinciale. Nelle risposte scritte lodò Paoli del suo zelo per la
gloria di Dio e pel bene della regolare osservanza.

La lettera venne alle mani dei governatori della repubblica; onde pieni
di sdegno decretarono che tutta la religione dei Cappuccini restasse
espulsa dai suoi territorii; con iraconde parole lamentandosi che il
padre Serafino tenesse carteggio col capo dei ribelli, ed attribuendo
il suo procedere a perfidia per avere comodità d'infiammare vieppiù
gli spiriti contro il legittimo sovrano e dare nuovo alimento alla
ribellione. Il Cappuccino rescrisse per iscusarsi e per supplicare alla
signoria per la rivocazione dell'amaro editto; ma il suo scusarsi non
che addolcisse le amarezze, diè novello sprone agli sdegni, perciocchè
rivocò bensì il mandato conferito al d'Altiani, ma nel medesimo tempo
protestò che vivea contento per avere tentato dal canto suo tutti i
mezzi per provvedere al vantaggio ed alla quiete di coscienza dei suoi
religiosi. I collegi della repubblica decretarono adunque, che non
avendo il provinciale dato segno di rimorso o di pentimento, volevano
ed ordinavano di nuovo che tutti i Cappuccini fossero dagli Stati della
repubblica espulsi. Alla quale amara intimazione, il padre Serafino
si raumiliò, e trasmise alla signoria lettere ubbidienziali, con cui
rivocava le facoltà date all'Altiani e sottometteva di nuovo i conventi
di Corsica all'autorità del provinciale residente in Bastia. Per la
qual cosa i collegi, posta in disamina nuovamente la materia, levarono
il divieto, restituendo ai Cappuccini la facoltà di dimorare nelle
terre di Genova.

Ma molto più grave discordia non tardò a suscitarsi tra la repubblica e
la santa Sede a cagione degli affari di Corsica. Il papa, considerato
che per l'assenza dei legittimi pastori nelle diocesi di Aleria, di
Mariana, d'Acci e di Nebbio, le potestà ecclesiastiche si esercitavano
senza mandato legittimo; mancanza per la quale succedevano non pochi
scandali, ed il servigio divino ne pativa; aveva preso risoluzione
di mandarvi un visitatore apostolico, affinchè avesse cura che si
rimediasse ai disordini ed il retto culto si riordinasse. Di tale
missione investì adunque Cesare Crescenzio de Angelis, vescovo
di Segni, e gli comandò che nelle cose spirituali e nelle rendite
ecclesiastiche unicamente si occupasse, nè in verun modo s'ingerisse
nelle temporali.

Quantunque fin dall'anno 1733, il doge, i procuratori ed i governatori
di Genova, sotto la protezione e garanzia dell'imperadore Carlo VI,
avessero coi Corsi conchiuso, che affine di promuovere in quel regno
i buoni costumi e la religione, non lascierebbero di «cooperare
perchè fossero da Sua Santità esaudite le suppliche dei popoli che
richiedessero un visitatore apostolico per togliere gli abusi e
rimettere nelle diocesi l'ecclesiastica disciplina;» la presente
deliberazione del pontefice dispiacque sommamente alla repubblica,
essendo stata presa, non solamente senza il suo consenso, ma eziandio
senza sua saputa; e giudicando incomportabile che alla coperta
e nascosamente si mandasse ne' suoi Stati un mandatario di tanta
importanza. Prevedeva che i ribelli se ne sarebbero prevalsi, che
di quell'andata avrebbero levato rumore, e che vieppiù si sarebbero
confermati nel malvagio proposito loro. E veramente Paoli ed i suoi
compagni con grandissima allegrezza ricevettero le novelle della
delegazione fatta da Clemente XIII, ed incredibile fu l'ardimento che
ne presero assai, più certamente pel fine politico che pel religioso.

Come prima pervennero alla signoria di Genova le novelle, sdegnosamente
procedendo, decretò, nel dì 13 d'aprile, che il vescovo di Segni,
Cesare Crescenzio de Angelis, quando in terra genovese capitasse,
fosse tosto arrestato e consegnato in alcuna delle piazze, luoghi,
presidi o torri tenuti dai soldati della repubblica, per essere quindi
decentemente trasportato nella metropoli, decretando inoltre, cosa
che parve di maggior ingiuria ancora, che chiunque in tal modo lo
arrestasse e consegnasse, avesse un premio di tre mila scudi romani, e
finalmente proibendo a qualunque persona di qualsivoglia grado, stato
o condizione di eseguire qualunque decreto, insinuazione, ordine,
provvedimento od altro atto si fosse che il vescovo sopraddetto si
attentasse di fare.

Vane furono le diligenti cautele usate per arrestare in viaggio il
commissario apostolico. Essendosi resi liberi i mari per una grossa
perturbazione di venti e d'acque che aveva sparpagliati i legni
genovesi, egli giunse felicemente e prese terra, ai 23 d'aprile, alla
torre della Prunetta, dove fu lietamente accolto dal popolo in gran
numero a quella spiaggia concorso. Si condusse quindi, in mezzo ad
una folla immensa ed accompagnato per onoranza da trecento uomini
d'arme, a Campoloro, per ivi dar principio all'esercizio dell'autorità
che per volere del pontefice con sè portava. Ai 3 di maggio, mandati
dal generale Paoli, il vennero a visitare ed a fargli riverenza due
rappresentanti del regno, Giuseppe Barbagio ed un Baldassari, uomini di
gran caldo ed autorità nell'isola. Gli pronunziarono graziose parole,
alle quali egli rispose accomodatamente e da farli contenti; imperocchè
persona destra era, ingegnosa e delle faccende del mondo politico
esperta.

Poscia venendo all'esecuzione del mandato, pubblicò un editto per
cui, deputati sacerdoti esattori nelle quattro diocesi d'Aleria,
Mariana, Acci e Nebbio, ordinò che in mano loro si consegnassero
tutti i proventi e le rendite che spettavano alle mense vescovili
delle anzidette diocesi ed ai benefizii tanto residenziali che non
residenziali, che o al presente fossero in litigio, o dai provvisti non
si possedessero in effetto.

Per gratificare al pontefice, che così grande benefizio avea largito
col mandare il visitatore apostolico, il consiglio di Corsica,
con solenne manifesto, ordinò che nessuno stesse più ad ingerirsi
nell'amministrazione de' proventi ecclesiastici nelle quattro diocesi
sottoposte all'autorità del visitatore, lasciandogli intiera la facoltà
di disporne in conformità ai sacri canoni. In ordine poi ai proventi
delle altre diocesi, comandò, affinchè non andassero in benefizio di
chi non serviva l'altare e ne farebbe uso contro la nazione, che si
depositassero sino a che il sommo pontefice avesse spiegato la sua
volontà del come ed in benefizio di chi si dovessero adoperare.

Dalle condiscendenze verso il papa si venne agli sdegni contro Genova.
Il consiglio di Corsica, dichiarato primamente che il bando del senato
portante la taglia contro il visitatore apostolico era distruttivo
della religione e dell'autorità apostolica, offensivo alla maestà del
vicario di Cristo, sedizioso e contrario alla sicurezza e tranquillità
del loro Stato, corruttivo delle leggi e dei buoni costumi, lo dannò
e condannò ad essere lacerato, stracciato, calpestato e gettato nelle
fiamme dal pubblico ministro di giustizia; sentenza che restò eseguita
nella piazza di Campoloro sotto le forche piantate nel fondo della casa
di un sicario e parricida, denominato il Piscaino.

Nè il papa tacque all'atto della repubblica di Genova contro il
visitatore apostolico, e pubblicò un editto gravissimo, nel quale
per la pienezza dell'apostolica podestà, lo dichiarò «nullo, irrito,
invalido, ingiusto, iniquo, riprovato, dannato, vano e temerariamente e
dannabilmente da chi non ha potestà emanato.» Nè la signoria di Genova,
avuto notizia dell'editto del papa, lasciò di dargli pubblicamente
risposta per far capace il mondo della giustizia del suo procedere;
sì che del gravissimo litigio tra la santa Sede e la repubblica di
Genova chiarissima fama s'innalzò per tutta l'Europa, e, come quello
di Venezia, esercitò le penne dei più celebri ingegni, dei quali chi
opinava per Genova e chi per Roma. Roma pubblicò la sua apologia,
la pubblicò Genova, ed in mezzo a tanta contenzione, si vedeva che
il nodo in ciò consisteva, che la sovranità di nome in quelle parti
della Corsica apparteneva alla repubblica, e quella di fatto ai Corsi;
onde la repubblica si offendeva di ciò che non poteva impedire e che
il papa reputava necessario, ed il santo padre, pei provvedimenti da
darsi, non poteva non riconoscere quel governo di fatto che la forza
aveva stabilito già da parecchi anni senza che Genova l'avesse potuto
vietare, e che anzi poca speranza si vedeva che ella in futuro il
potesse. Così tra il diritto e la forza nasceva il contrasto; i Corsi
si approfittarono della deliberazione del papa, che in loro aggiugneva
animo ed in Europa favore e riputazione.

Genova si diede special pensiero di notificare quanto accadeva alla
repubblica di Venezia, siccome quella che e per similitudine di forme
politiche e per comunanza di massime con sè medesima conveniva. Il
console di Genova in Venezia, Biffi, espose al collegio de' savi che
la missione del visitatore apostolico tendeva a raffermare que' popoli
nella ribellione ed a volgere l'armi contro il loro legittimo principe;
che la signoria aveva stimato bene di opporsi ad una tale missione per
conservare illesi i diritti del principato; che Roma aveva proceduto
ingannevolmente, stante che nel tempo stesso, in cui si trattava un
accordo per mezzo del cardinale Delci, decano del sacro collegio, e
da monsignore Lazzaro Pallavicino, mentre per Genova passava andando
alla sua nunziatura di Spagna, il preteso visitatore era partito
di nottetempo da Roma per Civitavecchia, dove si era imbarcato per
condursi in Corsica, sur una fregata pontificia; sperare Genova,
aggiunse, che la savia Venezia la sua condotta approverebbe.

Il senato veneto, secondo l'antico uso di quella repubblica, fece
risposta ne' seguenti termini; «Che sia permesso ai savi del collegio
di far chiamar alle porte del medesimo il console di Genova, e per
un segretario di questo consiglio significargli quanto segue: dal
memoriale che per ordine della vostra repubblica ci avete fatto tenere,
rileva il senato, che alle molte inquietudini promosse alla medesima
da' Corsi ribelli, aggiungesi in ora quella della dimanda fatta alla
Santa Sede per la missione in quel regno di un visitatore apostolico.
Nell'atto però, in cui contempla il senato in questa partecipazione un
contrassegno di buona amicizia e corrispondenza della vostra repubblica
verso di noi, siamo chiamati a palesarne vero rincrescimento, non
dissimulando poi anche l'amaro senso, che proviamo pei molesti e
dispiacevoli avvenimenti, che turbano la tranquillità d'un governo,
cui professando vera amicizia e perfetto attaccamento, manifesteremo
sempre il costante desiderio nostro nel mantenere simili sentimenti,
dichiarando a voi la nostra considerazione.»

Se mai fu studio per parlare senza dire, nissuno, che si sappia, ha
quest'arte imparato ed usato meglio della repubblica di Venezia.

La Corsica, che menava le mani armate di ferro, non istette a
badare nemmeno colla penna. Pubblicò ancor essa il suo manifesto per
adonestare le cose successe il quale conteneva ragioni, conformi a
quelle di Roma, ma con ingiurie contro Genova. Genova faceva bruciare
per mano del boia in faccia a Banchi i manifesti de' Corsi, e la
Corsica faceva per la stessa mano bruciare i manifesti di Genova.

Il re di Napoli s'interpose per trovar il modo di comporre quella
velenosa discordia; ma trovò il governo pontificio meno arrendevole
della signoria di Genova. Il re primamente proponeva, che rivocando
l'editto de' 13 aprile, il papa si compiacesse di richiamare dalla
Corsica il vescovo di Segni; in secondo luogo, che la rivocazione
dell'editto fosse di data anteriore a quella del vescovo; terzo, che le
due rivocazioni comparissero al pubblico tutte insieme, e perciò prima
di pubblicarsi si rimettessero in mano del re.

Cotali proposizioni il re faceva con intesa e consentimento della
repubblica. Il senato genovese bramosamente aspirava al vedere sopita
una discordia, da cui riceveva non piccola molestia, conciossiachè i
popoli cattolici, o ragione o torto che si avesse col papa, sempre
sopportavano mal volontieri che i loro governi tenessero lite col
supremo pastore. Ma il pontefice stava alla dura, e vane tornarono
tutte le ragioni che il re seppe mettere in campo, non volendo
lasciarsi persuadere, e sempre pretendendo che prima di tutto la
repubblica desse la soddisfazione, e che quindi spiegasse a Sua Santità
i suoi desiderii, perciocchè poteva essere sicura, lasciava intendere,
di ottenere dalla non mai manchevole affezione del padre comune tutto
ciò che fosse dalle pastorali sue obbligazioni permesso. Così la
discordia che aveva assalito il papa e la repubblica di Genova, non fu
potuta comporre, nè smorzare l'acceso fuoco.

Andando le cose a seconda e per quel verso che desideravano, i Corsi
presero maggior ardimento e fecero risoluzione di usare tutti gli
attributi della sovranità. Il consiglio supremo di Corsica ai 20 di
maggio ordinò la guerra di mare contro i Genovesi. Fecero grandissime
prede, mutati in bastimenti di corso i legni che prendevano, per
forma che col desiderio della preda si moltiplicavano i mezzi di
farla. I presidii di Bastia, San Fiorenzo e Calvi, a cui da Genova e
da Livorno non potevano più pervenire se non con estrema difficoltà
le provvisioni, grandemente ne pativano. Si rendeva un giorno più che
l'altro manifesto che invano Genova si affaticava per ristabilire nella
sommossa isola il suo imperio.



    Anno di CRISTO MDCCLXI. Indizione IX.

    CLEMENTE XIII papa 4.
    FRANCESCO I imperadore 17.


Insorta nel cadere dell'anno scorso nuova differenza tra la corte
di Roma e quella del Portogallo, per certi riguardi che il nunzio
pontifizio intendeva gli dovessero essere usati e usati non gli furono,
in occasione del matrimonio tra l'infante Don Pietro, fratello del re,
e la principessa del Brasile, figlia dello stesso sovrano, differenza
portata tanto innanzi che il nunzio stesso fu cacciato da Lisbona, ed
il ministro portoghese, commendatore d'Almada, abbandonò Roma senza
prendere congedo; pareva che tra per questo, e per l'espulsione de'
gesuiti da tutti i dominii portoghesi, fosse la discordia per terminare
con un'intera rottura. Ma la corte di Lisbona conservava sempre una
tenera e rispettosa osservanza verso il successore del principe degli
apostoli, e la prima occasione che se ne offerse, fu avidamente accolta
per darne solenne dimostrazione.

Nato dal connubio di sopra accennato un successore alla corona del
Portogallo, il re, trasportato dalla gioia pel felice avvenimento,
scrisse di proprio pugno una lettera particolare al sommo pontefice
Clemente XIII, nella quale pregava Sua Santità di voler dare al neonato
la santa sua benedizione, affinchè, crescendo in virtù, si mostrasse
poi degno figlio della Chiesa, ed imitasse lo zelo dei progenitori
nel promuovere mai sempre l'ingrandimento della fede e della
religione cattolica romana. Riuscì gratissimo al papa cotale uffizio.
Rispose adunque ne' termini più obbliganti ed affettuosi, come potea
promettersi da chi sospirava il momento di una piena riconciliazione.
Ma le speranze per questa così concepite, svanirono senza frutto, e le
cose rimasero nello stato di prima.



    Anno di CRISTO MDCCLXII. Indizione X.

    CLEMENTE XIII papa 5.
    FRANCESCO I imperadore 18.


Esperimentato i Genovesi quanto inutili fossero stati tutti i loro
sforzi per sottomettere colla forza dell'armi i fieri abitatori della
Corsica, aveano sino dallo scorso anno pensato di tentare le vie della
dolcezza; non che dall'affetto verso i Corsi fossero mossi, ma per
pur vedere di ridurli a qualunque costo in lor suggezione. Ma prima di
tutto Francesco Matra, fratello maggiore dell'estinto Mario, essendosi
sciolto dai servigi del re di Spagna, ed accordatosi ai soldi di Genova
con uno stipendio di dodici mila lire all'anno, venne in Bastia, e come
prima giunto vi fu, mandò circolari ai Corsi, per cui gli esortava con
dolci parole a ritornare sotto il dominio della repubblica e chiamava
dispotico e tirannico il governo sotto di cui viveano. Nè risparmiando
alcuna ingiuria contro Paoli, gli ammoniva a non fidarsene,
avvertendoli che sotto colore di libertà ei voleva farsi padrone e
tiranno della patria. Ma le esortazioni del Matra non sortirono effetto
d'importanza.

Allora fu pubblicato un decreto, con cui il doge, i procuratori e
governatori della repubblica si esprimevano, che avendo determinato di
dare alla Corsica i contrassegni più sicuri della paterna amorevolezza
con cui la riguardavano, e del sincero desiderio che nudrivano di
vederla una volta tranquilla e felice, erano entrati in deliberazione
di spedire in quel regno una deputazione con tutte le più ampie facoltà
onde promuovere e fermare i mezzi d'una stabile pacificazione. Facevano
quindi sapere a tutti gli abitanti, che senza distinzione od eccezione
alcuna sarebbero tutti restituiti nella grazia della repubblica
loro sovrana per mezzo di un generale indulto su tutto ciò che per
l'addietro era accaduto. Gli assicuravano ancora della mente della
repubblica di contribuir ad assodare la loro tranquillità e felicità
col mezzo di tutte quelle grazie e concessioni che avessero potuto
valere, non solamente a spiegare e confermare le antiche, ma ancora
a stabilire una retta ed inviolabile amministrazione della giustizia
civile e criminale ed a proteggere il commercio. Finalmente, dopo avere
invitato tutti i soggetti più ragguardevoli del regno, non meno che
tutte le altre persone a cooperare a fine sì giusto, proibivano (ed era
questo il più riflessibile dell'editto) a chiunque premesse la grazia
loro, di recare il menomo danno o disturbo tanto alle persone quanto ai
beni dei Corsi.

Non migliore successo del Matra ebbero i sei senatori che in Corsica
si trasferirono deputati per tale comandamento della repubblica, ed
affinchè trovassero modo con offerte e con lusinghe di mansuefare
quella gente furibonda, e di fare che un lume di pace finalmente
rallegrasse quelle travagliate sponde. Insuperabile impedimento alla
concordia vi era ed in ciò consisteva, che i Corsi a niuna condizione
volevano consentire che di assoluta libertà e franchezza non fosse,
cioè di compiuta sovranità, condizione da cui Genova costantemente
abborriva, quantunque più desiderio che possanza avesse per eseguire
ciò a che i suoi pensieri innalzava. O fosse sciocchezza di qualche
Corso, o artifizio de' senatori e del Matra, desiderosi di seminar
sospetto, una partita di Corsi offerse a Paoli la dignità di doge. Ma
egli con grandissimo sdegno udì la proposta e col rifiuto dimostrò come
fosse alieno dall'ambire il principato sopra la patria.

Perdette in quest'anno la repubblica di Venezia il suo doge Francesco
Loredano, ma risarcì la perdita nel mese di maggio coll'elezione
di Marco Foscarini. Eccellente natura, studii profondi, assidue
meditazioni lo posero assai per tempo in istato d'incamminarsi alla
gloria per vie diverse. Giovinetto, approfittò della scuola del padre,
seguendolo nelle varie legazioni in cui impiegollo la repubblica,
e dopo che fu tornato in patria, divise il tempo ed i pensieri fra'
più onorifici impieghi e le scienze e le arti, eloquentissimamente
poi scrivendo la Storia della Letteratura Veneziana. La incorrotta
giustizia nel reggimento dei patrii magistrati, la saggia prudenza
nell'amministrazione dei pubblici affari, la grandezza della mente, la
vastità delle cognizioni e la dirittura dell'animo non solo furono in
lui ammirate ed applaudite da' suoi concittadini, ma riscossero ancora
l'ammirazione e l'applauso nelle corti di Savoia, di Vienna e di Roma,
dove con superbo e quasi regio apparato fu ambasciatore. Fatto poscia
savio del consiglio, cavaliere e procuratore di San Marco, poco prima
di essere innalzato al ducal trono, diè chiarissime prove del suo
attaccamento alla repubblica e del suo retto e saggio modo di pensare.

Erasi fin dall'anno precedente manifestata in Venezia fra patrizii
una forte scontentezza per la soverchia autorità che voleasi su di
lor usurpata dai tre inquisitori di Stato; scontentezza appalesata col
non lasciare che fosse eletto alcuno per formare l'anno susseguente il
supremo tribunale detto consiglio dei dieci. Cotale ritardo d'elezione
d'un magistrato sì alle forme della repubblica necessario, e nel quale
comprendeansi due, e alle volte tutti e tre i detti inquisitori,
fece che si proponesse quella di cinque correttori per riformare e
modificare le leggi e l'autorità dello stesso consiglio de' dieci;
ed uno di tali correttori fu appunto il procuratore Foscarini. Tra
i quattro suoi colleghi era disparità d'opinione, duo volendo che
fossero aboliti gli inquisitori, due volendoli continuati. Le sessioni
del maggior consiglio, che dovea esser giudice assoluto dell'alta
quistione, erano state pel corso di più mesi d'esito sempre incerto
e non senza concitazione degli animi e studio di parti. Finalmente
nel mese di marzo, vedendosi che il maggior numero inchinava
all'abolizione, il Foscarini, nemico d'ogni novità nella costituzione
della patria, e prevedendo che simile abolizione cagionerebbe o almeno
accelerare potrebbe la rovina della medesima, salito in bigoncia là
dov'era accolto il maggior consiglio: «Aprite, esclamò, aprite, o
cittadini, queste finestre, guardate dalle medesime il popolo che
ansioso sta aspettando l'esito delle vostre deliberazioni. Non crediate
già ch'egli si trovi raccolto nel cortile di questo palagio per
aspettar con una placida indolenza il risultato di questo giudizio;
ma stassene colà palpitando ed angoscioso per intendere qual esser
debba il suo destino e quello della sua posterità. Egli aspetta se
deve ritornare dalla moglie e dai figliuoli per consolarli con la
nuova della loro sicurezza e tranquillità, o pure col doloroso avviso
di dover abbandonare questo terreno dove son nati, e portar altrove
le loro sostanze e le loro vite; giacchè in Venezia nè le une, nè
le altre sono più sicure. Aprite, cittadini, aprite queste finestre,
e se potete, restate indifferenti a questo spettacolo.» Il successo
nel veneto comizio corrispose pienamente all'energico e sentimentoso
slancio dell'oratore. Fu limitata entro men lati confini l'autorità
degl'inquisitori, ma solennemente confermata, e due mesi dopo,
l'eloquentissimo suo sostenitore si vide eletto e coronato doge di
Venezia.



    Anno di CRISTO MDCCLXIII. Indizione XI.

    CLEMENTE XIII papa 6.
    FRANCESCO I imperadore 19.


Nella scarsezza di materia che all'annalista offre il presente anno,
sarà da riferirsi la transazione seguita tra i re di Francia e di
Spagna e quello di Sardegna, perchè questo fosse compensato del non
asseguito regresso nel ducato di Piacenza.

Il quarto articolo preliminare del trattato d'Aquisgrana portava che
gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla fossero ceduti, come in fatti
furono, all'infante don Filippo, riservato però il diritto di regresso
agli attuali possessori, che in quel tempo erano l'imperadrice regina
degli Stati di Parma e Guastalla, ed il re di Sardegna per quello di
Piacenza; titolo di reversione principalmente fissato pel caso in cui
l'infante don Filippo fosse passato al trono di Napoli, o morto fosse
senza successione mascolina. Verificatosi il primo caso, per essere
il re di Napoli passato alla corona di Spagna, e quindi don Filippo a
quella delle Due Sicilie, il re sardo a questo si rivolse, per ottenere
ciò che considerava come suo. Don Filippo diresse cotali istanze prima
al fratello suo, re di Spagna, indi al re di Francia suo suocero;
e quest'ultimo, per distornare i torbidi che potessero insorgere,
scrisse di suo pugno al re di Sardegna, che se non si fosse trovato in
possesso della città di Piacenza e del suo territorio sino alla Nura
nella maniera divisata nel trattato d'Aquisgrana, avrebbe ottenuto un
equivalente.

Tale impegno fu dal re di Francia partecipato alla corte di Spagna
per concertare d'accordo le misure capaci di conservare all'infante
don Filippo tutti i suoi Stati e render paghe le giuste domande del
re sardo; ma possibil non essendo trovare un territorio che a questo
ultimo servisse di compenso senza pregiudizio d'altre potenze, si
obbligavano i re di Francia e di Spagna di far godere al re di Sardegna
quella stessa rendita annuale, di cui goduto avrebbe se fosse stato
attual possessore della città e del territorio di Piacenza. La rendita
netta fu per tanto di comune consenso ridotta a trecento ventotto mila
lire di Francia, ed il capitale relativo, in somma di otto milioni
duecento mila lire della stessa moneta, venne assentato sul palazzo
della città di Torino al quattro per cento. E volendo finalmente
il re Cristianissimo risarcire il re di Sardegna della privazione
delle rendite di quella parte del Piacentino che giace di qua della
Nura, dalla morte del re di Spagna Ferdinando VI sino ai 10 di marzo
del presente anno, si obbligò di far pagare al re sardo altre cento
settantantasei mila trecento trentatrè lire nello spazio di due anni;
così rimanendo definitivamente composta l'insorta vertenza.

Dopo la breve ducea di dieci mesi terminò di vivere a Venezia Marco
Foscarini; e di lì a pochi giorni gli fu dato a successore Alvise
Mocenigo, personaggio di somma dignità e prudenza, stato ambasciatore
a Parigi, a Roma ed a Napoli, intimo amico del cardinale Fleury, e
carissimo a Benedetto XIV.



    Anno di CRISTO MDCCLXIV. Indiz. XII.

    CLEMENTE XIII papa 7.
    FRANCESCO I imperadore 20.


Continuavano sempre a travagliarsi in Corsica le cose a piccole
fazioni. In quasi tutte le parti dell'isola si guerreggiava, ma
principalmente in Furiani, assaltato da Matra e validamente difeso
da' Paolisti. Finalmente Matra, conoscendo di non potere far frutto,
tornò a Genova col commissario Sauli, che aveva ceduto il luogo al
vicereggente Speroni.

La repubblica ormai disperava della sottomessione de' Corsi. Nè le
forze, nè le lusinghe, nè i maneggi erano valsi. Paoli sormontava
d'ardire e di potenza, e quello che Genova non aveva potuto ottenere
su' principii del prode e provvido tenente corso, da Napoli venuto
con non altro che col suo nome e coll'ardente desiderio di servire la
patria, assai meno poteva sperar di conseguire presentemente che il
capitano generale dei sollevati aveva assuefatto al suo freno i suoi
paesani insofferenti di ogni altro, che aveva dato tante prove di
perizia di guerra e di prudenza di Stato, e che già per parecchi anni
aveva resistito contro le insidie de' partigiani e contro le forze
dell'antica signoria. Alla sua voce, la Corsica quasi tutta concorde
ed unanime si muoveva, e le armi minacciosa e fiera contro Genova
brandiva: di bocche da fuoco, di ferree punte erano tutti quei lidi
orridi ed ispidi.

Non potendo da sè, Genova pensò di usare soldati forastieri. Sperava
con tale mezzo di venire ad un aggiustamento che discreto e ragionevole
fosse. Questo era un ultimo sperimento ch'essa voleva fare, il quale,
se, secondo l'aspettazione, non succedesse, aveva in animo poi di
abbracciare un partito, per cui i Corsi, se non sarebbero più stati
di lei, di loro medesimi non sarebbero nemmeno. Amava meglio vedere la
Corsica in balia altrui, che signora di sè medesima.

A dì 7 di agosto fu sottoscritto in Compiegne tra la Francia e la
repubblica un trattato per cui si concluse che approderebbero in
Corsica sette battaglioni franzesi, e prenderebbero le stanze loro
in Bastia, Aiaccio, Calvi e San Fiorenzo. Non già verrebbero per far
guerra ai Corsi, che anzi da amici li tratterebbero, ma solamente per
difendere quelle piazze, ed impedire che di esse non s'insignorissero.
Verrebbero anche come portatori di pace, avendo il conte di Marbeuf,
che guidare li doveva, ordine di persuadere un accomodamento, e facoltà
di concluderlo. Arrivarono in fatti, e nelle destinate piazze si
posarono. Da quel momento in poi la Corsica non fu più di Genova che di
nome.

Gravissima carestia percosse in questo anno la parte meridionale
dell'Italia. Napoli si trovò più volte in necessità di combattere
sedizioni popolari dal caro del pane prodotte; Roma, più povvidente,
mandò suoi commessi in più parti, e quindi fe' sì che il popolo se non
abbondantemente, almeno sufficientemente fosse provveduto.



    Anno di CRISTO MDCCLXV. Indizione XIII.

    CLEMENTE XIII papa 8.
    FRANCESCO I imperadore 21.
    GIUSEPPE II imperadore 1.


Genova, che sola per molti anni sentiva in Italia il peso della guerra,
mentre il rimanente della penisola godeva d'una calma invidiabile,
Genova fu debitrice alla geografica sua situazione di vedersi scelta
ad accogliere nel suo seno due gran principesse, cioè la infante
Maria Luigia figliuola del re di Spagna, destinata sposa all'arciduca
Leopoldo d'Austria e l'infante Luigia di Parma, contemporaneamente
destinata al talamo del reale principe d'Austria, figlio dello stesso
re di Spagna. Ma la gioia di queste accoglienze fu presto conversa in
lutto per la morte in quel mentre accaduta in Alessandria dell'infante
don Filippo di Parma, padre dell'una e zio dell'altra delle dette
principesse, rapito dal vaiuolo nel suo quarantacinquesimo anno. A lui
succedette l'infante don Ferdinando, suo figliuolo, allora in età di
quattordici anni.

Dopo il tristo caso, la principessa spagnuola procedette ad Innspruck,
dove fu accolta dall'imperial corte, e quindi congiunta al suo sposo
colla nuzial benedizione loro impartita dal principe di Sassonia,
vescovo di Frisinga e Ratisbona. Ma anche colà la attendeva nuova
scena di dolore. In mezzo alle feste, agli spettacoli, alle luminarie,
ai plausi popolari, che per ogni canto annunziavano il giubilo comune
per sì lieto avvenimento, morte rapì nel suo cinquantesimosettimo anno
l'imperatore Francesco I. Era il 18 di agosto.

Tutti i paesi da Francesco governati piansero la sua morte, perchè
dotato di bontà, di affabilità, di clemenza, ebbe sempre in vista come
oggetto primario la felicità degli Stati suoi, la tranquillità de' suoi
popoli, la prosperità delle scienze, delle lettere, delle arti e del
traffico, ed a sua lode si disse altresì che in mezzo alle gravissime
cure dell'impero in tempi sovente turbati ed in mezzo alle politiche
agitazioni, degnossi talvolta egli stesso di occuparsi delle scienze
più utili, e particolarmente d'incoraggiare i progressi delle scienze
fisiche.

Già nel giorno 27 di marzo del precedente anno era stato eletto re dei
Romani il suo primogenito Giuseppe; questi adunque succedette al padre
nel trono germanico e negli Stati austriaci ereditarii, e nominato fu
tosto dalla madre correggente degli Stati austriaci. Di là a pochi
giorni, granduca di Toscana fu dichiarato il di lui fratello, il
quale dalla funesta Innspruck si pose, colla gran duchessa sua novella
consorte, in viaggio per Firenze, accompagnato sino a Sterginau dal
fratello, nuovo imperadore.

Così ambe le perdite sofferte dall'Italia venivano ad essere riparate;
ma Clemente XIII non trovava compenso alle sue, che specialmente
riguardavano ai Gesuiti.

Non appartiensi a questi Annali un minuto ragguaglio delle querele
e delle contestazioni che verso l'anno 1760 suscitaronsi in Francia
relativamente ai religiosi di questa compagnia. Promosse si erano varie
lagnanze contra que' regolari, che determinato avevano il parlamento
ad esaminare le loro costituzioni, non meno che i titoli del loro
stabilimento in Francia, disamina che il re stesso erasi riserbata.
Proposta s'era intanto da que' magistrati l'appellazione, detta _come
di abuso_, da molte bolle, molti brevi e molte costituzioni riguardanti
i Gesuiti, e condannati eransi ad essere abbruciati: vietato erasi
parimente all'ordine di ricevere alcun membro, ed anche di continuare
nel pubblico insegnamento. Il clero di Francia, chiamato ad esporre
il suo sentimento sull'utilità relativa di detti regolari, sul
loro insegnamento, sulla loro interna condotta, suggerito aveva di
modificare i suoi regolamenti. Il re Luigi XV, che amante mostravasi
della concordia, aveva quindi proposto un modello di riforma, che
presentato erasi al pontefice ed al generale de' Gesuiti medesimi. Ma
questi rispose che esistere doveano essi quali erano, o piuttosto non
esistere, _aut sint ut sunt, aut non sint_. Il pontefice prestossi alle
viste medesime di quel superiore; ed il re lasciò il corso libero alle
contestazioni, e cominciò egli stesso dall'ordinare che chiuse fossero
le scuole gesuitiche. Il parlamento quindi, rinnovando l'appellazione
dalle bolle, da' brevi e da qualunque regolamento concernente quella
società, vietò da prima ai Gesuiti di portare l'abito dell'ordine
e di vivere sotto l'obbedienza de' loro superiori, e poscia, nel
1764, ordinò che dentro otto giorni i Gesuiti uscissero del regno,
qualora non giurassero di rinunziare all'istituto loro. Sulla fine di
quell'anno stesso, il re, aderendo al voto di tutti i parlamenti del
regno, pronunciò l'abolizione totale de' Gesuiti in Francia.

A tal colpo Clemente XIII, che aveva a sè medesimo persuaso la
conservazione de' Gesuiti toccare la coscienza, perchè li teneva
utili alla religione ed alla Chiesa, rotto il silenzio, pubblicò, il 7
gennaio di quest'anno, la bolla _Apostolicum_, che confermava i Gesuiti
in tutti i loro privilegii, giustificandoli su tutte le accuse, e per
capacità, zelo e servigio con somme lodi innalzandoli.

Se mai altra bolla si sparse rapidamente nel mondo, questa fu presto
in mano di tutti, specialmente in Francia, dove levò altissimo
rumore. Denunziata quindi al parlamento, verso la metà di febbraio, il
parlamento stesso emanò un decreto, con cui rimase la bolla soppressa
e proibita, con espressa inibizione di accettarne per l'avvenire
verun'altra, se non fosse accompagnata del regio beneplacito. Ed
in Portogallo, fatta la bolla soggetto di molte discussioni, uscì
finalmente fuori un rescritto o decreto del re, col quale veniva
dichiarata di niun effetto rispetto a' suoi dominii e regni,
proibendone qualunque esemplare non solo riguardo al non poterne fare
uso alcuno, ma ordinando eziandio che tutte le copie si dovessero
consegnare al così detto tribunale dell'inconfidenza. Dichiarò inoltre
il re eguale intenzione e volontà riguardo a tutti gli altri brevi
e scritture della medesima natura che non avessero ottenuto prima la
reale approvazione; ordine sovrano che fu registrato in forma di legge
nella segreteria, indi pubblicato nella gran cancelleria della corte e
del regno.

In Corsica, Marbeuf cominciò ad usare il ministero di pace, promettendo
da parte del re Luigi fermezza e sicurtà ai patti di concordia
che con Genova fossero stipulati. Varii negoziati s'intavolarono
tanto in Corsica con Paoli e col colonnello Buttafuoco da parte del
Marbeuf, e dal conte della Tour du Pin, che per la Francia e per
Genova trattavano, quanto a Versaglies, dove per questo fine della
Tour du Pin e Buttafuoco si condussero. L'affare si maneggiò, come
già altre volte, senza effetto, perchè si diede in quel perpetuo
intoppo, che i Corsi volevano la loro independenza, e Genova non la
voleva consentire. In fatti gl'isolani domandavano lo Stato libero e
sovrano, e la possessione di tutte le piazze, che i Genovesi ancora
tenevano. Chiedevano inoltre che la Capraia e Bonifazio fossero loro
dati in feudo, obbligandosi di pagare a Genova, per ricognizione della
feudalità, un tributo annuale di quaranta mila lire, che era quanto i
Genovesi, siccome essi stessi affermavano, ricavavano ogni anno dalla
Corsica. Per maggior dimostrazione della dipendenza feudataria di que'
due luoghi, i Corsi offerivano di mandare ogni dieci anni uno de' loro
primarii personaggi a chiedere l'investitura. Promettevano altresì di
consentire ai Genovesi il libero commercio e senza pagamento di dazii
in tutte le terre e mari di Corsica.



    Anno di CRISTO MDCCLXVI. Indiz. XIV.

    CLEMENTE XIII papa 9.
    GIUSEPPE II imperadore 2.


L'Italia, fatta dalla natura delizia dell'Europa, godea pur essa delle
delizie della pace, nè il rimbombo de' suoi bronzi guerrieri interruppe
in quest'anno i giulivi spettacoli che ne contrassegnarono quasi tutti
i giorni, se non fosse in sul mare presso le lontane coste dell'antica
Libia.

In questo silenzio di avvenimenti maggiori, crediamo di dover
consegnare in queste carte la memoria delle circostanze che
accompagnavano il pagamento dell'annuo tributo solito a contribuirsi
alla santa Sede dai sovrani delle Due Sicilie, e consistente in un
cavallo bardato, detto chinea, ed in sette mila ducati del regno.
Ogni anno, la vigilia de' Santi Apostoli, portavasi il ministro
plenipotenziario del re al portico della basilica vaticana, e
colà, presentando al pontefice la chinea, e pagando il denaro al
tesoriere della camera apostolica, proferiva in latino una formola
già stabilita, e che in lingua italiana così sonava: «N. (il nome
del re), mio clementissimo signore, manda a vostra santità questo
cavallo decentemente ornato, ch'io presento in nome di lui, e sette
mila ducati, per solito tributo del regno di Napoli, pregando Dio
Ottimo Massimo che vostra santità possa per molti anni riceverlo pel
bene e vantaggio della cristianità e per l'accrescimento della santa
nostra cattolica fede. Sono questi i voti di sua maestà ed i miei
proprii umili e ferventissimi.» Al che il papa rispondeva: «Riceviamo e
volontieri accettiamo questo censo dovuto a noi ed alla Sede apostolica
pel diretto dominio del nostro regno delle Due Sicilie di qua e di là
del Faro. Al nostro carissimo figlio nel Signore N. preghiamo da Dio
salute, ed a lui, ai popoli e vassalli diamo l'apostolica benedizione,
in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.»

La Toscana, che per quasi trenta anni era stata governata da un privato
delegatovi dal granduca Francesco, che faceva la sua residenza a
Vienna come imperator di Germania, prestò questo anno, nel dì ultimo
di marzo, con vera espansione d'animo, il giuramento di fedeltà ad
un sovrano proprio, all'arciduca Leopoldo, di cui presagiva il beato
reggimento. Ed in fatti il novello granduca tutte volse le sue cure a
render florido il proprio Stato, e fin da questi primordii die' opera
al miglioramento delle maremme di Siena, a quello della moneta, a
far prosperare la marineria, a sistemare le regole della giustizia. A
Livorno, dove fu splendidamente e giulivamente accolto, visitò tutto,
animò tutto, e pose la prima pietra alla fabbrica d'un gran quartiere
per la marineria. Finalmente fece aprire una strada che da Pistoia
arrivasse sino a' confini del Modonese, strada tante volte indarno
disegnata e che tornava a reciproco vantaggio degli abitanti de' due
Stati.

Nè men sollecito del nuovo sovrano di Toscana nel promuovere la
circolazione e libertà del commercio fu il giovinetto monarca delle
Due Sicilie. L'audacia dei corsari barbareschi infestava continuamente
le spiaggie della Calabria e delta Sicilia, non che il rimanente
dell'Italia. Per porre una volta freno alla loro insolenza, e
provvedere ad un tempo e tutelare la tranquillità del commercio, stimò
il re opportuno di conchiudere sull'importante oggetto un trattato con
la Francia, e fare che intanto rimanessero interrotte e sospese ne'
porti di quel regno le visite de' bastimenti napoletani e siciliani,
e lo stesso si osservasse nei porti delle Due Sicilie riguardo alle
navi franzesi. E scopo essendo della negoziazione il francare ed
assicurare il commercio in quelle parti principalmente dove sarebbe
stato più esposto agl'insulti dei Barbareschi, così, attendendo
che si concludesse, fece il re di Napoli gettare in acqua sei nuovi
sciabecchi, due galere e quattro galeotte, affinchè, mettendosi a
corseggiare, coprissero, e difendessero le costiere dei proprii Stati,
ed inseguissero i legni dei pirati, ordinando nel tempo stesso che nel
porto di Napoli stessero sempre parate una galera ed una galeotta,
quella a difesa del porto stesso, questa per recarsi ovunque la
chiamasse il bisogno.

Già la Francia aveva anch'essa nel Mediterraneo una squadra di vascelli
comandati dal principe Beauffremont. Con questa fece egli una visita
alle piazze di Barbaria, e prima a quella d'Algeri, che da alquanti
mesi avea perduto il vecchio suo beì, ed il cui successore, Mahomet
Effendi, ostinatissimamente ricusava qualsiasi componimento colla
Spagna e coi Napoletani. Ma ben lo persuase la comparsa della squadra
franzese, come si persuasero ancora gli altri beì di Tunisi e di
Tripoli; a tal che il principe Beauffremont ottenne quanto desiderava
ed avuta promessa solenne che sarebbero rispettati i legni delle due
nazioni, oltre a quelli che spiegavano bandiera franzese, se ne tornò a
Tolone, lieto della sua corsa e della felice riuscita.

Dopo la vista della squadra franzese, il beì di Tripoli n'ebbe
un'altra per parte de' Veneziani. Erano seguiti a danno di varii legni
mercantili di questa repubblica gravi e frequenti insulti in onta alla
fede dei trattati da circa due anni fermati tra la repubblica stessa
e le reggenze africane. Ora, risoluto il senato a non più sofferirne
la mala fede, ed a trarne solenne vendetta, fu messa alla vela una
squadra sotto gli ordini del cavaliere Giacomo Nani, il quale, non
sì tosto schierò nel porto di Tripoli le sue navi e fece sonare i
cannoni, vide a bordo della propria nave il beì, presto a dargli tutte
le convenevoli soddisfazioni ed a pattuirvi quelle condizioni che
fossero state di aggradimento del veneziano senato. Furono dunque dalla
reggenza sborsate rilevanti somme per salvarsi dal giusto risentimento
della repubblica, e, restituiti tutti i bastimenti stati predati, volle
in oltre il beì che fossero severamente gastigati i rais o capitani
che aveano insultata la bandiera di Venezia; e se non era il console
della repubblica che caldamente s'interpose per mitigare l'asprezza
ed il rigore dei minacciati gastighi, avrebbero avuta mozza la testa.
Fra' patti convenuti fu principalmente questo: che i limiti oltre i
quali passare non potessero i legni corsari si dovessero estendere
per l'avvenire dal capo di Santa Maria sino a quello della Sapienza;
dal che ne derivò un doppio vantaggio, perchè, rimovendosi dalle foci
dell'Adriatico le corse di que' Barbari, rimanevano nel tempo stesso
difese le coste del regno di Napoli, e meglio protetto il commercio
delle altre nazioni.



    Anno di CRISTO MDCCLXVII. Indiz. XV.

    CLEMENTE XIII papa 10.
    GIUSEPPE II imperadore 3.


Essendosi rotte le pratiche a ragione di quello scoglio insuperabile
dell'indipendenza, i Corsi, condotti da Achille Murati, fecero una
fazione improvvisa sopra l'isola Capraia, antico membro del loro regno,
e se ne impadronirono, successo, che siccome molto afflisse i Genovesi,
così diede non poca allegrezza ai Corsi, che concepirono migliore
speranza, e più sicuramente augurarono dello stabilimento della loro
libertà.

L'incomoda ed oggimai troppo lunga tenzone ora pende al suo fine.
Era manifesto ad ognuno che Genova si trovava inabile a ritornare i
suoi antichi sudditi all'obbedienza. Quarant'anni di sforzi inutili,
oltre le antiche perturbazioni, che tanto travaglio le avevano dato,
bene dimostravano che la ribellante isola ero per lei perduta. Non
erano valse le tregue, non le paci, non le armi; Genovesi e Corsi
non potevano vivere insieme se non come esteri gli uni verso gli
altri e non più come nel medesimo ordine misti ed associati. Il valor
guerriero dei Corsi, il valore e la prudenza di Paoli si dimostravano
insuperabili ed invincibili dalla potenza genovese. E in ciò recava
eziandio un gran momento l'avere Paoli riunito in concordia tanti
animi discordi, cosa che sin allora non si era veduta. Oltre a questo,
quell'uomo aveva saputo ordinare una libertà più ancora fondata sulle
leggi che sulle forti inclinazioni d'una gente rozza e quasi ancora
selvaggia; e colla libertà introduceva la civiltà. Le quali cose tutte,
mentre somministravano più efficaci mezzi di resistenza, rendevano agli
uomini più cara la causa corsa. Il secolo stesso la favoriva, e Genova
vinta diveniva anche odiosa. Già i popoli cominciavano a maravigliarsi
che quella Genova stessa che nel 1746 con sì generoso e forte animo
si era rivendicata in libertà, ora tanto odio esercitasse contro una
nazione del pari forte e generosa, ed ostinatissimamente affettasse
l'assoluto dominio. L'opinione dava favore alla Corsica; ciò non era
nascosto a coloro che reggevano la repubblica, e già entravano nei
supremi magistrati nuovi pensieri.

Col medesimo passo nascevano le voglie forestiere. Vi era chi
voltava a suo profitto I'impotenza di Genova. La Corsica, piena
di abitatori forti e guerrieri, situata in opportuno luogo tra la
Francia e l'Italia, copiosa di generi preziosi, felice per foreste
stupende, sicura per porti spaziosi e comodi, molto piaceva a chi
coll'Inghilterra gareggiava di possanza marittima nel Mediterraneo.
Vecchio pensiero era questo: i soldati a parecchie fiate mandati
nell'isola, tante diligenze, tanti amorevoli consigli, il tante volte
interporsi a dolcezza tra i Corsi vinti e gli sdegnati signori, ciò
era per allettare i popoli, per assuefarli ai volti, alla favella,
all'imperio di Francia. Brevemente, la Francia agognava la Corsica.

Ciò non ostante, pareva poco generoso procedere il divenire da
ausiliario padrone, ma confidava nella necessità, che avrebbe sforzato
i Genovesi ad offerirsi. E un accidente impensato, mettendoli in
maggiore travaglio ed in qualche disgusto colla Francia, fece piegare
il contrasto a quel segno dov'ella mirava. Il re di Spagna aveva in
aprile di quest'anno espulsi i gesuiti da' suoi regni: e il papa, a
cui parevano in troppo grande numero, perciocchè sommavano a parecchie
migliaia, non avea permesso che si ricovrassero nello Stato pontificio.
La Spagna ricercò ed ottenne da Genova che avessero ricetto in Corsica,
e quivi furono destinate per loro seggio le piazze dove i Franzesi
tenevano presidii.

I Genovesi, in ciò compiacendo alla Spagna, avevano dispiaciuto alla
Francia, che anch'essa aveva pochi anni innanzi espulsi gl'Ignaziani
da' suoi dominii, sì che poco mancò che per questa cagione non si
partisse dall'amicizia di Genova. Con acerbissime parole se ne lagnò
col senato, protestando che ne avrebbe fatto giusti risentimenti; ed
in fatti il re mandò ordine a Marbeuf che tosto sgombrasse dalle piazze
dove entrati fossero i Gesuiti.

Non così tosto vide Marbeuf a comparire in Algaiola, Calvi ed Aiaccio
gli ospiti che la Spagna espelleva, che, uniformandosi alla volontà
del re, le lasciò, ritirando i passi verso Bastia e San Fiorenzo.
Subitamente Algaiola venne in potere dei nazionali; per poco anzi
stette che Calvi non vi venisse, come vennevi la città di Aiaccio, e la
cittadella stessa, la quale, battuta aspramente dai Corsi e ridotta in
grandissima necessità di viveri, già stava in sul punto di darsi. Così
i Genovesi, per aver dato ricovero agli esuli di Spagna, sdegnarono
la Francia, e perdettero parecchi forti ed importanti luoghi; chè i
soldati franzesi cessero il luogo ai monaci spagnuoli. Esuli erano
questi religiosi, e per tale titolo meritavano che alcuno cura ne
prendesse; ma quivi portavano un fatale pregiudizio. Veramente i Corsi
se ne prevalevano, nè mai furono così vicini al conseguimento totale
dei loro pensieri e di arrivare a quella franchigia che, fin allora
stata sanguinosa e torbida, speravano finalmente di vedere felice,
lieta e sicura.

Mentre la fortezza di Aiaccio stava in grave pericolo, e nelle altre
terre ancor tenute da' Genovesi si trepidava, pervenne avviso che tra
Marbeuf e Paoli era stata conchiusa una sospensione di offese da durare
insino a che, compiti i quattro anni di soggiorno stati stipulati, i
Franzesi dovessero fare la loro partenza dall'isola, il qual termine
era di pochi mesi lontano. La Francia minacciosamente affermava di non
voler acconsentire ad alcuna prolungazione: assai, diceva, essersi
travagliata per quella disordinata Corsica; facessero i Genovesi da
sè, e come potevano e come l'intendevano colle loro proprie forze
terminassero l'antica lite.

I Gesuiti intanto instavano perchè fosse loro permesso d'introdursi
nell'interno del regno per fabbricarvi a loro spese chiese e collegi
e adoperarsi allo ammaestramento della gioventù. Paoli ed il supremo
consiglio inclinavano a contentarli; ma i professori dell'università
con molta costanza si opposero, onde furono loro proibite non solamente
le fabbriche, ma ancora l'internarsi nella isola senza un passaporto di
Paoli.

Se non che, acconciatesi frattanto le cose tra Spagna e Roma, i Gesuiti
tornarono nello Stato pontificio, dove ebbero pur ricetto quelli del
regno delle Due Sicilie e dell'isola di Malta, in questo medesimo anno
espulsi, quivi alimentati della pensione dai rispettivi sovrani loro
assicurata.



    Anno di CRISTO MDCCLXVIII. Indizione I.

    CLEMENTE XIII papa 11.
    GIUSEPPE II imperadore 4.


Genova si accorse finalmente che bisognava veder la fine di un tormento
che la teneva impedita e dolorosa già quasi da un mezzo secolo:
soggiogare quei forti e pertinaci isolani da sè non poteva, e colla
Francia più non lo sperava. Il mondo aspettava di vedere un'Olanda nel
mezzo del Mediterraneo; sorse in quella vece una nuova provincia di
Francia.

Ai 15 di maggio, dopo di essersi agitate molte pratiche, si fermò
finalmente a Versaglies tra la Francia e Genova un accordo appartato
da' Corsi, per cui si stipulò che la repubblica cedeva alla Francia
il regno di Corsica comprese le fortezze, le artiglierie ed ogni
attrezzo militare, con patto però che per le artiglierie e gli
attrezzi militari, secondo la stima che se ne farebbe dai periti, il re
corrispondesse in denaro l'equivalenza;

Che la sovranità del regno apparterrebbe sempre alla repubblica;

Che agli antichi proprietarii, mostratene le identità, si restituissero
tutti i beni confiscati;

Che i Corsi fossero veri sudditi della Francia tutto il tempo che
l'isola possederebbe;

Che la Francia fosse obbligata a mantenere in Corsica sedici
battaglioni;

Che guarentirebbe la repubblica dai corsari turchi e corsi, acciocchè
la bandiera genovese potesse liberamente trafficare ne' suoi mari.

Che il re desse libero possesso della Capraia a Genova.

Si sparse prima un certo rumore; poi si ebbe certo avviso del trattato.
Quindi si udirono novelle che nei porti della Provenza si allestiva
un armamento per portare i nuovi battaglioni nell'isola, cui doveva
condurre e governare il marchese di Chauvelin, tenente generale.
Arrivarono finalmente avvisi, siccome già nel porto d'Aiaccio erano
sbarcati due battaglioni del reggimento di Bretagna.

A tal annunzio gl'isolani si commossero a gravissimo sdegno; la
padronanza di loro medesimi vedevano in grandissimo pericolo, la
libertà parimente, tanto sangue inutilmente sparso, spenti i lunghi
desiderii, gli antichi costumi, la nativa lingua stessa andava in
dileguo. Bene non isfuggiva loro che la potente mano della Francia
avrebbe procacciato la quiete nelle loro città e campagne, e protetto
le navigazioni per l'esercizio del commercio: ma i popoli che mirano
alla franchigia, non misurano la felicità dalla quiete nè dalla
ricchezza; ma stimano pazzamente felicità suprema il travagliarsi nelle
faccende pubbliche, il maneggiarsi come pare e piace.

Chiamata Paoli in fretta la nazione a parlamento, fecesi la consulta in
Corte a dì 22 di maggio; e quivi il generale favellò con temperatissime
parole non disgiunte da dignità e fermezza. Sdegno destossi nelle
anime feroci che altamente deliberarono. Fu quindi decretato che si
crescesse numero ai soldati regolari, che in ogni luogo uniformemente
si ordinasse la milizia, che in ogni pieve si annotassero le armi
da fuoco, e chi fosse atto a portarle, le pigliasse, e difendesse la
patria; che i beni sì mobili che stabili e le mercanzie ed ogni altro
fondo fruttifero pagassero una nuova tassa del quattro per migliaio,
e quanto la tassa gettasse, tutto s'impiegasse nella bisogna della
guerra; che il clero secolare la decima pagasse di tutti i benefizii,
ed i regolari cento lire per convento; che fossero vietate le tratte
delle biade; che si ordinassero più severe forme di giustizia; che
tutte le persone civili non impiegate in servizii pubblici dovessero
uscirne a campo per guardia del generale. E chiamavano sacro quel
denaro, sacri quei battaglioni, quell'impeto sacro.

Quindi parlarono alla gioventù di Corsica, e le infiammative parole
trovarono in tutti un'ottima volontà verso la patria. Udivansi pei
piani e pei monti grida commiste, un fracasso d'armi, un suonar di
corni: tutta la silvestre Corsica si moveva, e nel periglioso cimento
si avventava.

In questo aspetto ed in mezzo a tanta concitazione, i Franzesi, portati
sulle navi dalla Provenza pervennero sui lidi corsi, e sbarcarono
a Bastia, Calvi, Aiaccio, Bonifazio e San Fiorenzo. Consegnate loro
dai Genovesi le piazze, le artiglierie e le munizioni, fu levato da
Bastia lo stendardo della repubblica, e postolo sulle navi, non senza
solennità, il trasportarono col commissario generale a Genova. Fu
inalberata su tutte le cime la bandiera franzese.

Ora, prima dei lutti, vengono le feste. I Bastiesi, come se temessero
che gli altri Corsi abbastanza già non gli odiassero, ne fecero
delle belle e grandi, sì che al loro dire e fare parve che già
svisceratamente amassero il re di Francia. Cantossi con molta pompa
nella franzese Bastia l'inno delle grazie la mattina; la sera poi
rallegrò la città una splendida luminaria; il palazzo pretorio tutto
risplendette di doppieri all'uso veneziano; sul finestrone di mezzo si
leggeva la seguente iscrizione:

                              LVDOVICO XV
                    FRANCORVM, NAVARRAE ET CVRSORVM
                          REGI CHRISTIANISSIMO
                        AVCTIS IMPERII FINIBVS,
                    TRANQVILLITATE PVBLICA ASSERTA,
                       AVGVSTO, PACIFICO, FELICI
                   MAGISTRATVS POPVLVSQVE BASTIENSIS
                           FAVSTIS AVSPICIIS
                              PLAVDEBANT.

Poi sulla destra dello stemma reale, anch'esso circondato di lumi, si
vedeva un sole risplendente col motto: _Imbres et nubila vincit_. Sulla
sinistra, la Bastia col rimanente della Corsica e tre gigli col motto:
_Et Cyrno crescite flores_.

Che cosa pensassero i Corsi di queste dimostrazioni, non è punto
necessario che con parole si scriva.

Fermi poi questi primi bollori, dalle feste si fece passo alle
finzioni, dalle finzioni poscia alle battaglie. Il duca di Choiseul,
ministro del re, scrisse a Paoli, notificandogli che i soldati di
Francia non avrebbero dato veruna molestia allo nazione, che il
marchese di Chauvelin, tosto che fosse in Corsica pervenuto, si sarebbe
con esso lui accordato, affinchè con buona armonia passassero le cose,
che il re accoglieva l'isola sotto l'ombra sua, e prendeva cura della
sua felicità. Poi si mandò fuori voce che per certi rispetti si farebbe
un po' di guerra, ma senza danno della nazione, perchè le soldatesche
regie adoprerebbero di concerto con le corse.

I Corsi, che tenevano l'armi in mano, non sapevano che dirsi, ed
erano da varii pensieri agitati. Li tolse finalmente dal dubbio
un'intimazione fatta da Marbeuf a Paoli: tenere lui ordine dal re
di fare che tra Bastia e San Fiorenzo fossero e restassero liberi
i passi. Nello stesso tempo si lasciò intendere che voleva che gli
fossero cedute le scale dell'isola Rossa, Algaiola, Macinaio e Gornali.
Il Corso, che vedeva essere perciò fatto incominciamento di guerra,
rispose col sangue avere acquistato que' luoghi, col sangue volerli
conservare: bene accorgersi che si voleva privare la nazione della
libertà, frutto di tanta guerra.

Ora doveva il mondo giudicare se i Corsi, poichè al ferro si veniva,
nell'imprender guerra contro la potente Francia, più imprudenti o più
prudenti fossero, più temerarii o più coraggiosi. Ripromettevansi i
Franzesi di soggiogarli; i Corsi si ripromettevano di poter sostenere
quella libertà per cui combattevano fin già da otto lustri: Paoli e
Corsica uniti insieme si credevano invincibili.

Non così tosto Paoli si avvide, per l'intimazione fatta da Marbeuf
e da altri segni che la Francia alle cagioni di Genova e per suo
pro veniva a trovare la Corsica coll'armi, e sopra di sè pigliava
la guerra, fu reso capace ch'era venuto il tempo di fare gli ultimi
sperimenti; laonde applicò il pensiero a prender modo alle difese
e ad ordinare quanto per la conservazione della libertà in così
estremo caso abbisognasse. Pose in arme tutte le milizie, aggiunse
nuovi soldati ai reggimenti d'ordinanza; formò campi mobili, mise
in forte tutti i luoghi capaci di munizione, e stabilì in somma ogni
cosa a valida propugnazione e conservazione dello Stato. E la nazione
tutta consentiva con lui: correvano i Corsi ad offrirsi con volontà
prontissima. Quelli che militavano ai servigi di Francia, chiesta
licenza, si acconciarono volonterosamente a quelli della loro nazione.
Narrano che per tanta concitazione, Paoli avesse cinquanta mila uomini
tra pagati dallo Stato, o dalle provincie, o dalle pievi, o dai comuni,
o da sè medesimi.

Paoli aveva sua stanza a Murato con la sua eletta schiera dei mille,
aggiuntevi alcune altre: il suo fratello Clemente alloggiava ad Oletta
con cinque mila.

Stando le cose in questi termini, si venne al paragone dell'armi.
Correndo il dì 30 di luglio, i Franzesi andarono alla fazione dello
strigarsi le strade tra Bastia e San Fiorenzo. A questo fine, per
incontrarsi sul mezzo, partirono Marbeuf dalla prima di dette piazze,
ed il maresciallo di campo Grandmaison dalla seconda. Grandmaison
spinse i Corsi con molto sangue, poi fu respinto con molto sangue
anch'esso. Ingrossò i soldati, vinse in una trincea quarantadue Corsi,
che si lasciarono tagliare tutti a pezzi piuttosto che arrendersi, e
marciò verso le vie più strette. Combattuto e combattendo si avanzava,
volendo passare alla conquista di Olmetta e di Nonza.

Marbeuf nel medesimo tempo, partendo da Bastia, s'era avvicinato alle
montagne, cacciatosi davanti con uccisione e presura di molti tutte
le piccole squadre del nemico, che fecero pruova di contrastargli
il passo. Già era pervenuto verso Barbaggio, e già a Patrimonio
s'accostava: assalse le due terre, e da ambe fu ribattuto con molto
sangue. Volle impadronirsi della sommità di Montebello, e fu lo sforzo
indarno. Così successero i fatti di guerra all'ultimo di luglio ed al
primo di agosto. Ai 2, Marbeuf si avventò con più poderose forze contro
Barbaggio e Patrimonio. Fuvvi un caldissimo combattere alla seconda di
queste terre, che presa e ripresa più volte, dimostrò quanto valorosi
fossero ed assalitori e difenditori, ma finalmente cesse in potestà di
Francia. E i Franzesi ottennero più facilmente Barbaggio, loro restando
da superarsi la forte terra di Furiani, dove reggevano le milizie
Nicodemo Pasqualini e Gian Carlo Saliceti, e la torre di Biguglia.

Intanto, per la perdita di Patrimonio e di Barbaggio, quasi tutta
la provincia del Capo Corso venne in potere dei Franzesi, i quali,
possedendo anche la pieve di Sisco, s'impadronirono di Nonza, di Brando
e di Erbalunga. Solo ostavano Furiani e Biguglia, onde sicuramente non
possedessero il Capo Corso.

Giunse in questo mentre in Corsica il marchese di Chauvelin
soprattenuto fino allora in viaggio per infermità; nè giunse solo,
ma con nuovi soldati, specialmente colla legione reale. Volendo usare
l'impressione che credeva avere fatto nella nazione i primi conflitti
sull'istmo per cui si va nell'interno del Capo Corso, pubblicò patenti
regie, nelle quali parlava il re Luigi: avergli la repubblica di
Genova trasmesso la sovranità dell'isola; tanto più volentieri averla
accettata, quanto più bramava di procurare felicità a' suoi nuovi
sudditi, ai suoi cari popoli di Corsica: volere che si posassero i
tumulti che da tanti anni gli agitavano; voler mantenere le promesse
per la forma del governo della nazione; sperare che la nazione, godendo
i vantaggi della protezione sua, sarebbe per sottomettersi, e non lo
ridurrebbe alla necessità di trattarla come ribella; ammonirla che
se nell'isola continuassero qualche confusione torbida e mista o la
pertinace disobbedienza, ne risulterebbe la distruzione d'un popolo da
lui con tanta compiacenza nel numero de' suoi sudditi adottato.

Così parlò il re Luigi, nuovo sovrano, ai Corsi; e quindi parlò
Chauvelin, che siccome i Corsi Franzesi erano, così comandava che
nissun Corso con altra bandiera stesse a navigare fuorchè colla
Franzese, ed ogni comandante, padrone, capitano o maestro di nave
venisse a levare da lui le nuove patenti e la bandiera bianca.

Come ebbero parlato il re e Chauvelin, parlarono i Corsi; cioè per
loro il generale ed il consiglio supremo. S'assembrarono a Casinca,
s'accordarono, scrissero le loro ragioni e querimonie; ma vane furono
le querele, vani i preghi, vane le rimostranze: ai loro instanti
desiderii si opponeva una lunga e ben considerata e bene ponderata
risoluzione.

In settembre si venne novellamente in sul menar le mani ed al
combattere le ostinate battaglie. I Franzesi combatterono col solito
valore, ma i soldati soli; i Corsi pugnarono con eguale valentia, ma
le donne ed i fanciulli con essi. La disciplina prevalse al numero, i
Franzesi conquistarono la provincia del Nebbio, ritiratisi i due Paoli,
non isbandati, ma congregati, ai luoghi più sicuri verso le montagne di
Tenda e di Lento, per non mettere a cimento tutta la somma delle cose
in una giornata campale e giudicativa. Sottomesso il Nebbio, i soldati
di Chauvelin si scagliarono contro Furiani e Biguglia, e prima questa,
poi quella, più sopraffatte che vinte, cedettero.

Infrattanto sbarcato era in Calvi il colonnello Buttafuoco, che venia
di Francia desideroso che l'isola a buone condizioni si acconciasse con
chi più poteva. Gridava pace, la resistenza vana stimava, predicava la
sommessione per forza più acerba che per voglia. Ne scrisse a Paoli
che allora era in alloggiamento a Rostino; avvertendo che quelli che
vogliono sopravvincere perdono, e pregandolo che impiegasse ogni suo
uffizio, usasse l'autorità ed il credito per fare che i popoli di
queto alla Francia si assoggettassero. Ebbe risposta, ma non quale la
desiderava, imperocchè Paoli gli diceva: avere i Corsi fatta una giusta
presa d'armi, volere la libertà, averla a note indelebili ne' loro
animi scolpita, lui volergliela conservare; per sè non combattere, ma
per tutti; tal essere il dover suo; volgesse poi la fortuna le sorti
della Corsica come volesse, o che a libertà la destinasse od a servitù.

In questo mezzo tempo arrivarono nuovi soldati di Francia, sforzo pur
troppo grande per una Corsica, ma da cui si vedeva manifestamente che
il re Luigi aveva ad ogni modo fisso il pensiero nella conquista. Paoli
temè de' deboli, chiamò in sussidio la religione, e fe' replicare ai
capi il giuramento del 1764, che qui sotto si trascrive, quantunque in
esso si leggano alcune espressioni che più non si appropriano al caso
presente.

«Noi giuriamo, e prendiamo Dio per testimonio, che vogliamo piuttosto
morire che fare alcun trattato colla repubblica di Genova, e di nuovo
sottometterci al suo dominio. Se le potenze dell'Europa, e soprattutto
la Francia, non hanno pietà di noi, e vogliono contro di noi armarsi e
tentare di abbatterci, rispingeremo la forza colla forza. Combatteremo
come disperati, che hanno risoluto di vincere o di morire, sino a che
siano affatto abbattute le nostre forze, e l'armi ci cadano di mano.
Allora la nostra disperazione c'incoraggerà ad imitare i Sagontini,
vale a dire, ci getteremo piuttosto nelle fiamme che sottometterci al
giogo insopportabile dei Genovesi.»

Tale giuramento, fatto quattro anni innanzi contro Genova, ora il
voltavano contro la Francia.

Alle raccontate fazioni ed esortazioni s'infiammavano vieppiù da
ambe le parti gli spiriti, e con maggior calore si ricominciarono le
battaglie. I Franzesi, condotti dal marchese d'Arcambal, passato il
Golo ed entrati in Casinca, occupato avevano il Vescovato, Venzolasca,
Oreto e la Penta, passo di grande importanza, perchè apre l'adito ai
monti; ai quali progressi, cedendo alla forza sopravanzante, s'erano
sottomessi la pieve di Tavagna, alcuni paesi d'Orezza ed una parte
della Casinca. Non mai ebbero i Franzesi più fondata speranza di
terminare felicemente la loro impresa, come dopo l'acquisto della
Casinca e di Tavagna, paesi di gran momento, perchè da essi sono solite
a prendere esempio le altre popolazioni marittime delle parti orientali
dell'isola; e, ciò che più favoriva il loro proposito, era che i popoli
di quelle terre, spaventati dall'aspetto sinistro delle cose, da sè
medesimi si davano e correvano all'obbedienza.

I capi di Corsica videro il pericolo, e non se ne sgomentarono.
Per isturbare quegli acquisti a' Franzesi, adunaronsi in Rostino,
rassegnarono tutti gli uomini abili all'armi tanto delle pievi vicine
quanto di quelle prossime a Corte, e ragunatili, deliberarono di
scendere alla riconquista de' luoghi perduti. Uomini erano fortissimi
di cuore, infiammatissimi ne' desiderii; e per vieppiù accenderli,
Paoli loro parlò, conchiudendo il caldissimo discorso con queste
parole: «Di Sampiero ricordatevi, e me seguite; vittoria vi prometto,
ed avrete vittoria.»

Così detto, Paoli trasse una pistola, e, sguainata la spada, si mosse
il primo, verso la sottoposta Casinca avventandosi. Il seguitarono
avidissimi del nemico sangue, e: «Moriamo, moriamo per la Corsica
(gridavano), moriamo pel duce nostro, moriamo per la libertà.» E così
gridando e fremendo, calavano con le robuste piante da quegli aspri
gioghi.

Si fecero avanti per due strade, l'una più su per piombare sopra
Orezza, l'altra sotto, per a Sant'Antonio, onde accennare contro il
Vescovato. Mescolaronsi ferocemente Franzesi con Corsi; cedevano ora
questi ora quelli alternamente vincitori o vinti. Il fine fu che i
Corsi riacquistarono Penta superiormente, Venzolasca inferiormente.

L'acquisto della Penta diede loro più grande ardimento. Perciò, passato
il Golo, guadagnarono paese sulla sinistra del fiume, presero Murato
e ricuperarono buona parte del Nebbio superiore. Fecero in Murato
una ricca preda, togliendo a Grandmaison, posto in fuga, i bagagli,
le tende e due pezzi di cannone. Di tal maniera furono compressi i
Franzesi nel Nebbio, che già i loro nemici si approssimavano a San
Fiorenzo; tornati alla Corsica Barbaggio, Patrimonio e Furinole.

I Franzesi s'erano fatti forti a Loreto con animo di allargarsi
vieppiù. I Corsi, per turbar loro i disegni, andarono a sloggiarli, a
fine di spazzare tutta la Casinca. Per ben sette ore durò l'assalto
della terra, cui finalmente più non potendo i difensori sostenere,
perchè continuamente arrivava a Paoli nuova gente delle montagne,
cessero e fecer opera di ritirarsi, lasciando, non solamente Loreto
ma ancora Vescovato ed altri luoghi di quella provincia, per cercar
ricovero oltre il Golo contro la furia corsa, che li perseguitava.

Fuggivano i Franzesi inseguiti ed incalzati da' Corsi, i quali, siccome
abili imberciatori, ne facevano grande scempio. Molto anzi maggiore
danno avrebbero patito, se i loro persecutori, irritati contro di
que' popoli che di volontà si erano dati, non si fossero messi in sul
saccheggiare il paese, di maniera che la ruina de' Corsi che s'erano
sottomessi fu al tutto la loro salute; però lasciando in potere de'
vincitori quattro cannoni.

L'avveduto Clemente Paoli, prevedendo che i fuggitivi sarebbero
concorsi al ponte del lago Benedetto, per ivi passare il fiume,
corse avanti, e l'occupò; il che pose in quasi totale disperazione i
vinti. Arrivati al fiume, e vedutolo gonfio ed alto, si arrestarono.
Sopraggiungevano a torme i Corsi animati dal furore, dal numero, dalla
vittoria: fecero i Franzesi qualche testa, ma ormai vedevano l'ultimo
loro eccidio, se non passavano. Misersi all'acqua, le onde furiose
li trasportavano, i Corsi furibondi li saettavano con le archibugiate
giuste, molti perirono affogati, molti coi corpi trafitti dalle palle,
mescolando il loro sangue colle acque del fiume, e fiume funesto fu il
Golo pei Franzesi in quel terribile punto: seicento soli si ridussero
a salvamento sulla sinistra sponda, e drizzarono i passi verso il borgo
di Mariana.

Desideravano i Franzesi di conservare in loro potestà quel borgo come
terra che poteva facilitare di nuovo il passo del Golo, e per essere
quasi antibaluardo di Bastia. Ondechè non così tosto vi pervennero,
che si diedero a fortificarlo, cingendolo d'ogni intorno di terrapieni
e fossi, e chiamando da Bastia nuove provvisioni di artiglierie e di
munizioni così da guerra che da bocca.

Ma i Corsi quella terra ad ogni costo occupare volevano, sì perchè
credevano necessario, a maggiore fracassamento del nemico, di seguitare
l'impeto della vittoria, e sì ancora perchè la possessione di Mariana
dava loro facoltà di andar a romoreggiare sin sotto le mura di Furiani
e di far accorti i Bastiesi che ancora a loro spavento ondeggiavano in
aria le insegne del Moro.

Paoli s'infiammò, incalzò, corse; i compagni le sue pedate seguitavano
sonando. Quindi, per far maggiore l'oste sua vincitrice, comandò
a Mario Cottoni che venisse da Aleria, a Giannantonio Arrighi da
Corte, a Giulio Serpentini da terra del Comune; e in fatti giunsero
sull'imbrunire, verso notte, a Mariana, e ne occuparono le pendici
esteriori; poi fecero una circondazione, e scavarono ed ammontarono
la terra d'ogni intorno. L'assaltarono da presso, da lontano
l'assediarono; Saliceti, Grimaldi, Raffaelli, Agostini da Ponente,
Gafforio, Gavini da Levante si posarono vicini alla terra e senza
tregua l'infestavano colle artiglierie. Gli altri si alloggiarono più
alla larga, per impedire le vettovaglie e gli aiuti; Clemente Paoli
alla strada che porta al Nebbio, Serpentini alla Serra, Pasqualini
presso a Luciana per guardare quelle alture, il generalissimo poi
in Luciana per essere in pronto di sopravvedere ogni cosa da quella
eminenza, e di soccorrere ove abbisognasse.

Chauvelin, avuto avviso del pericolo de' suoi che se ne stavano serrati
in Mariana, si deliberò immantinente di accorrere in aiuto, movendosi
da Bastia con tre mila uomini bene armati. Siccome poi era pratico
capitano, volendo dar favore al suo movimento anche da un'altra parte,
mandò comandando a Grandmaison che, da Oletta scendendo, venisse a
battere le strade verso Mariana, sperando per tal modo di mettere i
Corsi in mezzo. Mosse in fatti Grandmaison e affrettava verso Mariana
i passi; ma i nazionali, che avevano avuto avviso dell'intenzione e
del movimento, s'interposero di mezzo tra San Fiorenzo e il Borgo,
alloggiandosi alle strette delle alture di Rutali in così grosso
numero, che il Franzese stimò che non fosse bene di venire ad un
cimento di troppo eccessivo pericolo. Per la qual cosa, non che
tentasse di sloggiarli, se ne ritornò e rimase in Oletta, senza che
perciò Chauvelin, non ostante che perduto avesse la speranza della
sua cooperazione, volesse deporre il pensiero di dar l'assalto a chi
assaltava Mariana, credendosi da sè solo bastante a compir l'impresa, e
nel suo disegno secondato da Marbeuf, ch'era con lui.

Si aperse il dì 9 d'ottobre, che dovea vedere una grave contesa fra
due forti nazioni. Distribuite le vicende, i Franzesi andarono alla
fazione divisi in tre parti: Marbeuf assalì con un impeto incredibile
le trincee dei Corsi; il conte di Narbona si scagliò con non minor
valore contro la terra; e quelli stessi che la terra custodivano,
saltando fuori dal loro ripostiglio, urtarono dalla loro banda chi
gli assediava. In questi sanguinosi fatti e Franzesi e Corsi fecero
cose degne di guerrieri impavidi e valentissimi, bene gli uni e gli
altri sostenendo il nome che portavano, sì che l'asprissimo conflitto
durò per ben dieci ore. Marbeuf, contuttochè con tutte le forze si
travagliasse, non potè ottenere l'intento di cacciare l'inimico dalle
trincee; imperciocchè con quanto vigore urtava, con altrettanto era
riurtato, nè il corso volle cedere al valore franzese. Dal suo lato
Narbona avea giù fatto qualche progresso, perchè, assalite furiosamente
le sei case fortificate dai Corsi, tre ne avea recato in suo potere e
tempestava tuttavia contro le tre altre che restavano a superarsi. Ma
in quel fatale momento essendo stato obbligato a soprastare alquanto,
perchè gli mancavano le scuri per ispaccare ed i petardi per rompere,
si trovò esposto a così grave e fitto bersaglio, che, disperando del
fine, e ribattuto violentamente indietro da quei di dentro, lasciò
l'impresa e retrocesse verso il Marbeuf, il quale ancor esso si era
ritirato indietro dall'assalto. Quanto a quella colonna degli assediati
uscita del suo ricinto, con tanto furore e tale tempesta fu dai Corsi
investita che restò tagliata a pezzi tutta, salvo dodici o quindici,
che ebbero per bella fortuna il poter rinserrarsi nelle mura.

Ultimamente Chauvelin, veduto l'esito infelice de' suoi tentativi,
chiamò a raccolta, e viaggiando fra le tenebre della notte, in quel
mentre sopraggiunta, si ritirò al campo di Santa Maria dell'Orto ed
a Bastia. L'ebbero i nazionali seguitato, e come gli avevano ucciso
molta gente nella battaglia, così molta glie ne trafissero a morte
nella ritirata. Sommò il numero de' suoi morti intorno a cinquecento,
e in assai maggior numero furono i feriti. Lo stesso Marbeuf toccò una
ferita nella spalla, il colonnello del reggimento di Rouergue in una
gamba, il colonnello del reggimento sassone nel ventre. Gli assediati
in Mariana, ch'erano in numero più di cinquecento, perduta ogni
speranza di soccorso, si arresero, e furono condotti a Corte. A questo
modo Paoli vinse Chauvelin.

Ricevettero i Franzesi in questo fatto una gran percossa. In balìa dei
vincitori rimasero intorno a due mila archibusi, tre cannoni di bronzo,
dodici casse di polvere, diciassette mila cartocci ed altri militari
stromenti ed attrezzi.

La vittoria di Mariana diede maggior animo ai Corsi per modo che
vieppiù a loro medesimi persuasero che Paoli fosse il guerriero
nato per fondare la loro libertà. E veramente nei preparamenti e
nella condotta della battaglia il generale corso dimostrò un'arte
squisitissima; nè i suoi Corsi gli mancarono di assistenza, perchè con
un valore, anzi con una ostinazione estrema combatterono.

La stagione diveniva ormai sinistra, nè più si poteva campeggiare
all'aperto, condizione favorevole ai Corsi, contraria ai Franzesi, per
esser quelli avezzi a quel cielo e contentarsi di poco per vivere,
mentre l'insolito clima domava questi, nè potevano le provvisioni
abbondare alle squadre isolate, posciachè i Corsi, attentissimi ad
ogni mossa, velocissimi di natura e per esercizio, e conoscitori
perfettissimi d'ogni strada più nascosta, sopravvenivano agevolmente ed
improvvisamente e arraffavano le vettovaglie o le tenevano impedite.

Il generale di Francia, vedendo la necessità di cessare dalla guerra
pei tempi avversi, e desiderando di distribuire in istanze invernali
più comode i soldati, s'ingegnava di allargarsi; nell'esecuzione del
quale proposito succedevano spesse ed aspre zuffe fra i due popoli
nemici, cotanto l'uno contro l'altro instizziti. E fra le altre una
ve ne fu tra i Franzesi comandati dal conte di Coigny, che voleva
impadronirsi di Murato, ed i Corsi che impedire ne lo volevano, nella
quale, colto il giovane Franzese in un'imboscata, benchè forte fosse
e valorosamente si difendesse, rimase morto per una palla d'archibuso
che lo colpì. Morto Coigny, i suoi compagni ritrassero i passi a tutta
fretta, seguitati senza posa dai Paolisti, che gl'incalzavano colle
sciabole, cogli stiletti e colle baionette, sì che in questa piuttosto
battaglia giusta, che piccola scaramuccia, perì la metà di loro,
diciassette uffiziali parte morti, parte feriti, e con essi moltissimi
gregarii.

In quest'anno furono i Gesuiti espulsi dallo Stato di Parma, tra il
quale e la corte di Roma allora più grave contestazione si accese,
che, per aver avuto termine nel seguente anno, a quello differiamo il
tenerne parola, anche per non interromperne il filo incominciato che
abbiasi una volta a tesserne l'istoria. Se non che gioverà fin d'ora
notare che, presa parte in quella contesa dalle case di Borbone, il
re di Francia fece, a danno della santa Sede, occupare il contado
avignonese, e quello di Napoli mandò le sue truppe ad impossessarsi, in
pregiudizio della medesima, dei ducati di Benevento e Pontecorvo.



    Anno di CRISTO MDCCLXIX. Indizione II.

    CLEMENTE XIV papa 1.
    GIUSEPPE II imperadore 5.


In Corsica, la guerra dell'anno precedente con quel fatto che abbiam
riferito quasi finì, riposandosi i guerrieri ne' loro alloggiamenti
d'inverno. La prospera fortuna de' Corsi contro una Francia, e lo
estremo valore da loro mostrato in tanti bellicosi incontri tenevano
maravigliate le nazioni, le quali generalmente a quel forte popolo
fortunato destino desideravano. Paoli soprattutto era sulle lingue
e sulle penne di tutti, e il chiamavano forte, felice e generoso;
lui gli antichi esempi di Grecia e di Roma rinovellare predicavano,
ed i moderni d'Inghilterra e d'Olanda, e quegli stessi della recente
Genova; la Corsica appellavano bene avventurosa per averlo prodotto,
bene avventurosa per averlo a guida; ammiravano quelle inclite rocche
in mezzo alle acque del Mediterraneo sorgenti, e pubblicavano dare la
combattente isola felice augurio, felice esempio all'Italia e al mondo
tutto quanto.

Nuovi rumori, che da Tolone si udivano, tenevano i Corsi in qualche
ansietà delle cose future, e gli avvertivano che non erano ancora
pervenuti al fine delle loro fatiche. In fatti, già si sentiva che in
quel porto si travagliavano grandi apparati di guerra, si allestivano
e mettevano all'ordine buon numero di bastimenti, si raccoglievano
soldati destinati alla conquista, fanti per la maggior parte, non
essendo i campi dell'isola atti a ricevere cavalli ed a maneggiarvisi
guerra di cavalleria. Non isfuggiva a nissuno che la Francia, avendo
assunto l'impresa di sottomettere quell'isola ed al reame aggiugnerla,
non era per restare al di sotto, nè per tirarsi indietro per nissuna
difficoltà che sorgesse, poichè troppo abbietta cosa le sarebbe paruta,
a lei così grande, così forte e di tanto grido in guerra, di essere
sgarata e fatta stare da quattro isolani. Le pareva incomportabile,
che la piccola Corsica osasse d'alzarle la fronte contro, e quasi a
freno tenere la volesse. Perciò soldati a soldati aggiungeva, armi ad
armi; Tolone gli accoglieva, e da quel porto già stavano minacciosi
per partire e per rinforzare la guerra nella renitente isola. Chauvelin
aveva scritto che se non erano trenta mila di quella gioventù franzese,
sarebbero indarno, ed in pari tempo, per salute inferma, e forse per
l'infelicità de' suoi tentativi, aveva chiesto licenza. Gli venne
surrogato il conte di Vaux, del quale pel buon nome di cui godeva,
si sperava che avrebbe governata la guerra più virtuosamente e più
felicemente dei suoi antecessori.

A così potente apparecchio, che indicava l'estrema volontà di Francia,
l'estremo cimento della fortuna, molto si sollevarono gli animi in
Corsica. Alcuni temevano, credendo l'impresa loro perduta; altri, più
oltre procedendo, accusavano Paoli d'ambizione e dello scellerato
pensiero di voler vedere la ruina della sua patria, piuttosto
che scendere dal grado a cui era stato esaltato; altri finalmente
cominciavano in cuor loro ad interporre una servitù quieta ad una
libertà turbolenta e tempestosa. Tali erano le opinioni, tali i
dissidii: questi pensieri nascevano, quando pel silenzio dell'armi
si trovarono i sangui raffreddi nell'inverno. Ma i più di gran lunga
pertinacemente perseveravano nel loro proposito: gli sviscerati per
la libertà, per lei morire volevano, e in Paoli, come in suo sincero
e forte sostenitore, confidavano. Videro il pericolo, e cercando
con salute d'incontrarlo, tennero nel mese di aprile nel convento
di Casinca una generale consulta, e quell'assemblea di guerrieri, di
pastori, di pecorai, di cacciatori, di religiosi ancora decretò:

Ognuno dai sedici ai sessant'anni si armasse in guerra, e chiamato, vi
andasse con quaranta cariche da schioppo;

Un terzo stesse sui campi a fronte del nemico, sinchè gli venisse la
muta di un altro terzo; potendo però, se ne scadesse bisogno, gli altri
due terzi avviarsi insieme, e col primo andare alla guerra;

I bestiami si ritirassero da' piani ai monti alti e sicuri, col
privilegio di nissun pagamento pel pascolo;

Che i poveri ma valorosi, i quali colle loro famiglie dovessero per
cagion del nemico ritirarsi nell'interno del regno, avessero le spese
dal pubblico;

Che tutti gli ecclesiastici, non in cura d'anime, dovessero concorrere
alla comune difesa colle loro persone, e si ordinassero in corpo per
tenere certi posti, onde le schiere de' secolari potessero meglio ed in
maggior numero travagliarsi nelle fazioni alla campagna.

Viveva ancora nella nazione corsa, se non in tutti, certamente ne'
più, quando il suo supremo magistrato ordinò queste cose, quell'acceso
spirito, per cui per tanti anni aveva a Genova contrastato ed ora
la spingeva a resistere alla Francia. I fatti forse le divenivano
contrarii, ma con estremo ardore all'estremo cimento si andava
preparando. Per la qual cosa di buon grado accettò le sovrane
deliberazioni; nissuno si ristette; chi per l'età poteva, chi per
l'esempio, tutti davano l'opera loro prontissimamente. I guerrieri,
nel corso abito involti e dal corso valore spinti, calpestavano il
suolo verso le terre sopra di cui il nemico insisteva, e ferocemente
le armi brandivano. I vecchi, i decrepiti stessi, in quell'estremo
pericolo della Corsica, parevano rinvigorirsi, e le membra, che ormai
abbisognavano più di riposo che di travaglio, esercitavano alle opere
faticose da lungo tempo dismesse. Le donne ancora non isgomentatesi,
anzi incoraggitesi a quello aspetto terribile delle cose, quai novelle
Amazzoni, alcune in femminili vesti avvolte, altre accinte in abito
virile, qua e là armate correvano, e cogli uomini gareggiavano di
coraggio e di furore. I fanciulli stessi, che fin dalla culla aveano
succiato rabbia contro Genova, ora, voltandola contro la Francia,
davano a conoscere, negli esercizii militari travagliandosi coll'armi,
che i germi, non che le piante adulte, erano di quel vitale succo
imbevuti e pregni.

Mentre così la Corsica tutta si commoveva e si avventava coll'armi, e
in sè medesima forte strepitava in ogni parte di grida, giunsero nuove
che il conte di Vaux, generalissimo di Francia, era ai 2 di aprile
arrivato in San Fiorenzo, e che genti sopra genti, armi sopra armi, nel
medesimo porto ed in Bastia ed in Calvi, sbarcava sulla terra corsa,
sbarcava grandissimo apparecchio d'uomini valorosi e bene ordinati
contro uomini infiammati e cui muoveva piuttosto la volontà propria
che la regolata disciplina. La causa della famosa isola era urtata da
urto possente, e se non la salvavano le montagne, gli stretti passi e
la longanimità di gente povera e al poco contenta, sembrava impossibile
che a così grande sforzo reggere potesse.

Ai gravissimi avvisi che i Franzesi cotanto ingrossavano la guerra,
Paoli insorse, ed a quella estrema pruova gli animi dispose e le armi.
Già si vedeva che se una forza soprabbondante il chiamava a ruina, non
da vile, ma da forte perire voleva, e volta la mente alla posterità,
nella posterità si consolava.

Trasse Paoli fuori il terzo della nazione, ed ordinò che gli altri
due stessero pronti al muoversi; i volonterosi compagni schierando
e ponendo in ordine a Casinca ed in altri luoghi di frontiera, donde
sboccando i Franzesi potevano far impeto. Li raccolse alle insegne;
ne fece rassegna e mostra, ed aveano sembianza di soldati provati, non
fatti tumultuariamente. In quel momento istesso gli attillati e odorosi
vagheggioni delle famose città di Francia e d'Italia marciavano in
femminili e molli tresche, e forse dei pecorai di Corsica si burlavano;
ma i buoni europei guerrieri ammiravano quelle alte anime, e molti,
allettati dal portentoso grido, fra gli altri lord Pembroke, furono
presenti alla mostra solenne, ed a quei devoti uomini auguravano sorte
felice.

Dall'altra parte il capitano franzese che voleva essere mutatore di
quello stato, uscito ancor esso a campo fuori di Bastia, aveva raccolto
i suoi sulla spiaggia di San Nicola, e gli andava ordinando alle vicine
battaglie. Stupivano che rozzi paesani si fossero posto in animo di
resistere ad una Francia.

Grande arte, grande perizia mostrò de Vaux. Allievo di Maillebois,
e, come egli, esercitato nelle guerre di Corsica, i luoghi sapeva,
e conosceva le forti e le deboli parti del nemico. Reggeva meglio
di ventidue mila soldati, ben provveduti d'ogni cosa alle militari
fazioni confacente, e più ancora di coraggio. Accampossi col grosso
dell'esercito ad Oletta, colla sinistra appoggiata alla bassa Tuda,
e colla destra, distendendosi verso la regione più piana, accennando
a San Fiorenzo. Le due ali erano, l'una sotto il governo del marchese
di Arcambal, che teneva la destra, l'altra dal conte di Marbeuf, che
stava sulla sinistra, quella per ispazzare il paese verso le parti
superiori del Nebbio, questa per sottometterlo dalla parte di Borgo
e Mariana verso la costa marittima. Una schiera appartata, retta dal
signor di Narbona, aveva posto l'alloggiamento a Monte Nebbio, vicino a
Borgognano, per tenere in freno i Corsi dell'Oltremonte. Col medesimo
intento un altro corpo col marchese di Luker stava a sopraccapo di
Montemaggiore, Calenzano e Rapalle per fare che i Corsi della Balagna
accorrere non potessero in aiuto di Paoli.

I Corsi, disposti a mettersi alla stretta dei fatti d'armi, s'erano
ordinati a fronte dell'esercito franzese di maniera che sulla sinistra
loro, partendo da San Pietro, San Gavino e Sorio, terre del Nebbio, e
procedendo verso la destra, si distendevano, passando per Olmetta, fino
a Borgo in poca distanza da Mariana. Il principale loro sforzo era in
Olmetta, ed era creduta il più stabile fondamento della loro resistenza
una catena di monti, le cui sommità avevano con trincee ed artiglierie
fortificate, e che corrono da Val di Bervinco al monte Tenda. Paoli ed
il suo fratello Clemente alloggiavano in Murato, punto medio di tutta
la circonferenza, e che avevano voluto fortemente presidiare, perchè
di là potevano vedere, sopravvedere e provvedere subitamente quanto
occorresse. Saliceti, Cottoni, Serpentini ed altri valorosi capi li
secondavano chi sull'ala destra e chi sulla sinistra. E a questo modo i
due campi nemici stavano a petto l'uno dell'altro.

De Vaux conosceva che, per meglio dispensare l'ordine della guerra,
e più facilmente rompere il renitente nemico, fosse maggior profitto
salire sino a Corte, perchè essendo quella città metropoli del regno,
e situata verso i sommi gioghi, fra il Cismonti e l'Oltramonti,
l'acquistarla avrebbe dato, siccome giudicava, spavento ai Corsi, e nel
medesimo tempo procurato facilità per iscendere nell'Oltramonti sopra
Aiaccio. A questo aveva fermo l'animo ed indirizzava i suoi pensieri;
ma per condurgli ad effetto, aveva a fare con Corsi, con fiumi e con
montagne, se non che il confortavano l'animo suo forte, l'uso di guerra
che aveva ed il valore de' suoi soldati.

Andando il dì 5 di maggio, si moveva alla fazione, ed in cotal modo il
fece. Principale suo intendimento era di guadagnare le alture di San
Nicolao, donde, si accenna sulla sinistra a Bigorno, e quindi al basso
Golo sulla destra al monte Tenda, superato il quale acquistava l'adito
a Ponte Nuovo sul Golo, e più lungi, passato il fiume, a Corte. Credeva
che per questa via il nemico fosse più agevole ad essere fracassato.
Ordinò primieramente, per tenerlo in inganno di quanto ei volesse
fare, che Arcambal e Marbeuf, colla parte delle genti che avevano in
custodia, facessero un gran tempestare sulle due estremità. Stimando
poi che i Corsi accampati a Sorio, San Gavino e San Pietro potessero,
infestando l'ala destra, turbare i movimenti ed interrompere le strade
per San Fiorenzo, aveva dato ordine che sui luoghi più opportuni si
assettassero fortificazioni estemporanee e si munissero d'artiglierie.

Così fatto come pensato, De Vaux, parendogli ormai che il tempo
fosse da spenderlo in operare, ed esplorato bene l'inimico, andava
all'esecuzione del suo disegno. Ognuno fece il debito suo virilmente
e combattessi con molta gara. I Corsi, dato mano alla difesa,
contrastarono con sommo valore: i Franzesi con non minor valore gli
assaltarono. Stette alcun tempo dubbia la fortuna; ma finalmente
prevalse la disciplina al combattere incomposto, e l'onore delle
insegne all'amore della patria. De Vaux percosse finalmente con
tal impeto nel nemico che lo cacciò da Olmeta, lo cacciò ancora da
Vallecalde, ed in fine accostassi a Murato.

Mentre le cose in tal fortuna si governavano da Vaux, Marbeuf
combatteva felicemente anch'esso. Impadronitosi di Borgo e d'Ortale,
e passato co' suoi cavalli il fiume, quasi tutta occupava la Casinca.
Murato stesso non resse alla forza franzese, e i due Paoli, quantunque
con costanza quasi sovrumana contrastato avessero, erano rimasti
perdenti, e furono stretti a ritirarsi, pervenendo a Rostino non senza
disegno e speranza di poter ristaurare la fortuna cadente, poichè i
Corsi più dispersi che distrutti tendevano a raccozzarsi, ed i luoghi
erano ardui a passarsi pei Franzesi. I vincitori riuscirono, secondo il
desiderio loro, a San Nicolao, tutto il Nebbio e tutto il paese sino al
campo di San Nicolao restando sottomesso alle armi della Francia.

Non vi fu nè indugio nè quiete, volendo il Franzese usare l'impressione
prodotta dalla vittoria. Marciò sopra Leuto velocemente, e il prese non
ostante che i Paolisti acremente gliene contrastassero l'acquisto. I
soldati spediti e presti di de Vaux pervennero fino a Pontenuovo.

Non era compita la prosperità, se non isloggiava il nemico dalla foce
di san Giacomo, perciocchè questo passo situato fra mezzo le cime del
monte Tenda signoreggia dall'alto la Pietralba e la valle d'Ostriconi,
ed è stimato la chiave della provincia di Balagna. I Corsi, che
conoscevano l'importanza di quel sito, con ogni estremo sforzo il
difesero, nè cessero se non quando, ingrossati oltre misura i Franzesi
sopravanzarono talmente di forze, che non più coraggio, ma temerità,
anzi follia sarebbe stato il più lungamente contrapporsi.

I vincitori già si scagliavano correndo contro Sorio e San Pietro,
quando uno scoppiar d'archibusi ed un fischiar di palle, che d'ogni
intorno dalle rocce e dai boschi uscivano, li fece accorti che i Corsi
avevano ripreso animo e voleano ricuperare quella fatale bocca di
San Giacomo. Ma i Franzesi con tanta forza si spinsero innanzi, che,
rendendo vano lo sforzo del nemico, se la conservarono.

Non erano ancora al fine delle loro fatiche in questa parte, perchè i
tenaci isolani si raccozzarono novellamente in numero di tre mila, e
assaltarono, sempre a quell'importante sito accennando, con incredibile
vigoria i Franzesi, cui in quel luogo reggeva il signore Durand
d'Ogny. I fieri seguaci della testa di Moro si vedevano con mirabile
intrepidezza salire le ripide balze esposti al furioso bersaglio del
nemico, e noiati massimaniente dalle artiglierie che gl'imberciavano, e
ad ogni momento squarciavano e straziavano le membra loro. Non timore,
non esitazione mostrarono: superate le più ardue ripe, s'aggrappavano
alle radici delle trincee franzesi, e si affaticavano di salirvi
sopra: la rabbia loro era immensa; appiè delle trincee sorgevano
monti dei loro corpi estinti. D'Ogny ostava tuttavolta con tutto il
valore e tutta l'arte d'un ottimo guerriero, ma sarebbe in fine dalla
furia corsa rimasto sforzato, se Arcambal, e Viomenil, e Boufflers, e
Campenne non fossero accorsi a prestissimi passi da San Nicolao e da
altri luoghi circostanti per aiutarlo. Tanti rinforzi ed un furioso
urto dettero perduta la speranza ai Corsi di poter espugnare quel sito,
e gli sforzarono finalmente a dare indietro non senza maraviglia da'
Franzesi stessi concetta dell'estrema bravura degl'isolani.

Fu questo uno dei più grossi cimenti a cui vennero nimichevolmente fra
di loro l'armi franzesi e corse. Ma uno più feroce ancora si apprestava
da cui pendeva la terminazione del litigio ed il destino dell'isola.
Paoli, che ancora era potente in sui campi, s'era ritirato in Bostino,
dove col vivido pensiero andava immaginando modo di far risorgere
la fortuna che inclinava. Vennero chiamati di suo ordine sotto la
condotta del Saliceti ad unirsi con lui mille buoni soldati di quelli
che, non avendo potuto ostare in Casinca a Marbeuf, s'erano tirati
indietro verso il monte Sant'Angelo e Sant'Antonio della Casabianca;
e stimando che fosse meglio assalire che l'essere assalito, sboccò per
Ponte Nuovo, varcando alla sinistra del Golo, e con quante genti aveva
potuto congregare s'ingegnava di allargarsi a destra ed a sinistra. Suo
divisamento era di arrampicarsi su per le balze che ivi costeggiano
il fiume, e guadagnare le cime dei monti che, continuandosi ed
innalzandosi verso Lento, aggiungono più su a Costa ed a Canavaggia, e
sono attinenti al monte Tenda ed alla bocca di San Giacomo. Pericoloso
riusciva il pensiero pei Franzesi, attesochè, se Paoli avesse ottenuto
l'intento, gli avrebbe da quella bocca cacciati, ed acquistato facoltà
di tagliar fuori la loro ala destra, e, per conseguenza, di ferirli per
fianco.

Già era sulle alture pervenuto, già arditissimamente combattendo aveva
superato Lento, e battendo s'incamminava alla volta di San Nicolao
e di Murato superiore. Se altra colonna da lui mandata ad assalire
Canavaggia avesse incontrato il medesimo successo, il suo accorto
pensiero avrebbe avuto effetto; ma essendosi il nemico fatto forte in
Canavaggia, i Corsi da questa parte si sforzarono indarno.

Questo fatto di Canavaggia diede la guerra perduta ai Corsi. Là cadde
la fortuna di Corsica, là tutte le fatiche di Paoli diventarono vane, e
là franzese la Corsica divenne.

I Franzesi l'aura che spirava favorevole a piene vele ricevendo, si
calarono precipitosamente da Canavaggia, e occuparono Pontenuovo,
insigne scaltrimento di guerra. Caso fatale ai miseri Corsi fu questo,
perciocchè gli scesi da Canavaggia investirono sul sinistro fianco
coloro che con Paoli s'erano condotti a Lento, ed intieramente gli
sbaragliarono e sbarattarono. Tanto più grave fu lo scompiglio e la
fuga, che sparse fra di loro la spaventosa voce, ed era vera, che
Pontenuovo era in poter del nemico, e che più niuno scampo restava
a chi combatteva sulla sinistra del male avventuroso fiume. Paoli,
che aveva munito di qualche fortificazione la testa del ponte sulla
destra, arrivato fra mille e varii pericoli sul luogo, tentò bene di
racquistarlo, ma fu sbattuto da quel suo sforzo, e gli venne fallito il
pensiero. I Corsi assaliti inaspettatamente sul fianco ed alle spalle,
non sostenuta la impressione del nemico si precipitarono verso il ponte
per ripassarlo; ma, invece del varco aperto, il trovarono chiuso, ed
i Franzesi che con le baionette in canna li trafiggevano. Miserabile
fu quell'orrendo mescolamento, miserabile lo scempio fatto degli
scompigliati: i più furono morti, non pochi si annegarono nel fiume,
avendo tentato di scampare per questa via dall'empito della Francia
vincitrice; alcuni tra sani e feriti si nascosero fuggendo nei boschi,
fra le roccie e per le folte macchie. Quattro mesi dopo il ferale
evento si vedevano ancora le gocce del sangue rappreso sul funesto
ponte; scoprivansi qua e là per le campagne Corsi morti di ferite,
e che meglio avevano amato perire abbandonati dagli uomini e dalla
fortuna che ricorrere per salute ad un nemico che tanto detestavano.
Quattro specialmente di questi miseri e forti guerrieri furono sopra
una deserta roccia trovati tutti sanguinosi e morti in atto di tenersi
strettamente abbracciati, atto certamente preso a posta per dare
insieme l'ultimo sospiro e l'ultimo respiro alla perduta patria.

Nel tempo stesso che queste cose succedevano nel mezzo, Marbeuf,
varcato coll'ala sinistra il Golo, sottometteva tutta la Casinca, ed
Arcambal sulla destra conquistava la Balagna.

In mezzo a tanta ruina, Paoli, lasciato il fratello Clemente a
Morosaglia, perchè quanto potesse ritardasse l'impeto, si ridusse
vicino a Corte, dove tentava di raccorre e riordinare i pochi
avanzi delle sue sconfitte genti; nuovi aiuti eziandio per sua possa
convocando. Ma de Vaux, che non voleva temporeggiare quella fortuna, ma
piuttosto colla celerità del tutto domarla, venne avanti precipitoso,
ed, appressatosi a Clemente, il cacciò di Morosaglia, e cacciò eziandio
Pasquale da Corte; laonde questa famosa metropoli venuta in mano
altrui, il castello solo resistette, ma per pochi giorni, e quegli
aspri monti tutto all'intorno di forestieri suoni echeggiavano. Paoli,
più ancora doloroso che scoraggiato, si ritirò di Vivario.

De Vaux, che aveva saputo vincere, seppe ancora usare bene la vittoria.
Per tirare a sua voglia i renitenti, usò bene le parole, usò bene i
fatti. Con quelle, mandate fuora per un bando pubblico, minacciò con
castighi, allettò coi perdoni col fine di rompere qualche testa di
resistenti, se ancora alcuna ve ne rimanesse.

Queste minacce contro chi ancora alla fortuna di Francia resistere
volesse, le lusinghe a chi si arrendesse, giunte alla fatale rotta di
Pontenuovo, operarono sì che i popoli cominciarono a mancare della
prima caldezza; e vedendo di non poter più fare alcuna cosa buona,
si misero a fare tumultuazioni in ogni luogo, protestando di volere
conformarsi ai desiderii di chi più poteva, e di cercar ricovero
nel grembo della Francia. Molti correvano alle stanze dei generali
franzesi, certificandoli della loro sommissione ed obbedienza; altri,
più oltre procedendo, e combattendo coll'armi in mano i loro cittadini,
crescevano potenza a chi già tanta ne aveva e per sè medesimo e per
la vittoria acquistata. Così gli odii domestici si aggiungevano agli
esterni, e la civil guerra alla forestiera.

In mezzo a tanta desolazione, e ricevuta una così spaventevole
ruina, i Corsi fecero ancora qualche resistenza nell'Oltramonti,
principalmente nella provincia di Vico e nella Conarca; ma il conte di
Narbona, accorrendo con sufficienti forze, dissolvette quel gruppo,
e le provincie soprannominate, come anche quella di Aiaccio, ridusse
a devozione. Nel Cismonti de Vaux stesso personalmente si avanzava
vincendo. Fece sua la provincia d'Alesin, e già s'incamminava a
Portovecchio, non solamente per sottomettere il paese, ma ancora, e
principalmente, per intraprendere Paoli e gli altri Corsi fuggitivi,
essendogli pervenuto avviso, che fossero per imbarcarsi in quel porto
per far vela verso la Toscana.

Desiderava Paoli di far prova di sostenere la fortuna cadente con
mostrare il viso, facendosi forte nelle due streme provincie d'Istria e
della Rocca. Ma non trovando nelle popolazioni volontà conforme a' suoi
desiderii, e giunta essendo la piena franzese sino a Bonifazio, ultima
parte dell'isola che di poco spazio dalla Sardegna si disgiunge; la
Corsica fu di Luigi.

Paoli ed i suoi compagni, poichè si videro perduti e la patria
sommessa, nè sperando nè volendo i perdoni e le grazie, presero
consiglio di concorrere tutti a Portovecchio, dov'erano due navi
inglesi, una per disegno offerta a Paoli ad ogni futuro accidente da
un virtuoso inglese per nome Smith, l'altra a caso, che portato aveva
molti ufficiali corsi, i quali erano venuti offrendo ingegno e mano in
quell'ultimo bisogno alla patria cadente.

Queste due navi furono opportuno sussidio ai Corsi che all'esilio
andavano. Ma non era senza pericolo l'impresa dello scampare. Due
sciabecchi franzesi stanziavano alla bocca del porto, facendo le
viste di voler trattenere ogni nave o navicella che uscisse. Tutti
principalmente gelosi di salvare Paoli, l'Inglese generoso non aveva
pace se prima non lo salvava. La necessità ed i pii desiderii aguzzano
l'intelletto: gli amici dell'andantesi capitano trovarono modo di
adattarlo in una cassa, che collocarono in fondo della sentina, come se
merci contenesse. Paoli in sentina e in cassa fu un tremendo caso.

La mattina del 15 giugno questa nave salpò da Portovecchio, lo strano e
prezioso carico con sè portando, e quelle luttuose terre abbandonando.
Riconobbero i Franzesi il legno, e in ogni canto il frugarono. Qual
cuore fosse allora di Paoli e dell'Inglese che a sua salute intendeva,
ognuno il comprenderà; ma, non avendo avverato che vi fosse il
cercato Corso, nè trovatasi alcuna cosa sospetta, nol molestarono e lo
lasciarono andare.

L'altra nave, che non fu da' Franzesi investigata, portò via Clemente
Paoli, Giulio Serpentini, Giancarlo Saliceti, Nicodemo Pasqualini,
conte Gentili, Carlofrancesco Giafferri, Carlo Raffaelli, Francesco
Petrignani, con molti altri uffiziali, preti, religiosi e pochi
soldati; in tutti sommavano al numero di trecento quaranta.

Esuli arrivarono a Livorno, ma ve gli accolse la pietà e l'ammirazione.
Guardavano principalmente Paoli, e vedutolo e trattatolo così benigno,
si maravigliavano come in lui annidasse così prode guerriero; e bene
ora comprendevano come egli avesse voluto e quasi potuto dirozzare una
nazione ancora rozza, e addottrinarla ignara.

Mancando per avverso destino a Paoli gli applausi de' suoi concittadini
in patria, gli abbondavano in Italia quelli dei Toscani, degl'Inglesi,
anzi de' Franzesi stessi. Andò dal cavaliere Dick, console
d'Inghilterra a Livorno, il quale a grande onore l'accolse, e l'aiutò
d'ogni più lieto ed utile servigio. Partitosi quindi e pervenuto a
Firenze, fece riverenza al granduca Pietro Leopoldo, da cui molto fu ed
accarezzato ed onorato, e gli promise ed accertollo, che la sua Toscana
gli sarebbe sempre amico e sicuro ricovero tanto a lui quanto a tutti
coloro che sopravvivendo all'eccidio della patria, sarebbero venuti a
cercarvi pace, riposo e sicurezza.

Paoli partissi, e se ne andò a Londra, non senza però aver prima
lasciato, sugli avanzi dell'andata fortuna e su altre rimesse che
aspettava da Inghilterra, un assegnamento sufficiente a favore dei
suoi compagni che in Toscana aveano fermato le stanze, facendone
soprantendente suo fratello Clemente.

Terminata la conquista, e ricomposta tutta l'isola all'obbedienza di
Francia, il generale de Vaux ne partì, lasciandovi Marbeuf, a cui il
re Luigi, dandogli il titolo di commissario regio, aveva commesso la
cura di quietare gli umori, comporre le faccende civili ed ordinare il
governo in quella nuova possessione.

La Francia, divenuta arbitra della isola, per conciliarsi gli animi
e tenere in fede quella nazione volubile, guerriera, e che malissimo
volentieri pativa la servitù, die' principio ad accarezzarla. Sapeva
che una delle principali cagioni per cui gli uomini di maggiori
qualità, che poi tirarono con sè i popoli, avevano concetto tanto mal
umore contro Genova, si era, ch'essa non aveva mai voluto riconoscere
in Corsica una nobiltà, se non al modo ch'essa l'intendeva, e non
come i magnati corsi la desideravano, essendo a questi paruto che
la repubblica volesse una nobiltà di grado troppo inferiore alla
sua. Per la qual cosa uno de' primi pensieri di Marbeuf, affinchè i
Corsi ricevessero più volentieri l'imperio di Francia, fu quello di
pubblicare un editto del re, per cui si statuiva che sarebbe in Corsica
una nobiltà, e si numeravano le pruove che occorreva di fare a ciascuno
che di lei voleva essere parte, e vago si dimostrava di essere donato
della gentilizia. Presentarono i titoli, e le principali famiglie
furono ascritte a nobiltà; soli esclusi i discendenti di Michelangelo,
Gianantonio e Francesco Ornano, che avevano a tradimento ucciso il
tanto amato Sampiero; esclusione richiesta da tutti gli altri che alla
nobiltà aspiravano, e che lor fece altissimo onore.

Murbeuf, a termini delle lettere regie, convocò in Bastia pel 25
settembre 1770 l'assemblea della nazione. Volle il re che tanto in
questa, quanto in quelle assemblee che in avvenire convocherebbe o
permetterebbe, intervenissero i deputati divisi in tre ordini o stati,
quello della Chiesa colla prima preminenza, quello della nobiltà colla
seconda, e quello del terzo stato nell'ultimo luogo. Volle eziandio
ed ordinò che i deputati ecclesiastici, oltre i vescovi, gli eletti
de' capitoli ed i provinciali degli ordini religiosi de' serviti,
degli osservanti, de' riformati, dei cappuccini, de' domenicani,
de' missionarii, fossero eletti da pievani raccolti in assemblea di
ciascuna provincia; que' della nobiltà in simili assemblee da' nobili,
e que' del terzo stato pure in simili assemblee da' podestà e padri de'
comuni.

Diremo qui, per non dirlo altrove, che i deputati congregati in
parlamento il giorno predestinato udirono primieramente gratissime
parole da Marbeuf, enumerando i benefizii che intendeva di fare, sì
che i Corsi, solo che il volessero, pervenire potevano a qualunque
maggiore grado di felicità e di dignità, di cui le più nobili nazioni
si vantano, e pregando ed ammonendo adunque che cessassero gli odi e le
divisioni, e pensassero e considerassero che non più piccoli isolani da
tutto il mondo segregati, ma erano parte d'un tutto, grande, possente,
glorioso: e terminava che assai si rallegrerebbe e nel cuor suo
godrebbe, se innanzi al re Luigi dire potesse: «I Corsi la corona di
Francia amano, ed al benigno loro signore grati e riconoscenti sono.»

Quando Marbeuf ebbe posto fine al suo discorso, i Corsi giurarono
in nome del re. Toccando gli Evangeli, giurarono di essere bene e
fedelmente sottomessi al re di Francia, di riconoscersi per suoi veri
e legittimi sudditi, di non mai portar l'armi contro il suo servizio,
di non ricevere nè doni nè pensioni di alcun altro principe e potenza
nemica del re, di rivelare quanto a cognizione loro venisse contro del
servizio regio, di obbedire a chi mandasse per reggere ed amministrare
l'isola.

Seguitarono gli statuti, regolaronsi prudentemente le faccende
economiche, giudiziali, militari, ecclesiastiche, queste ultime per
quanto riguardava la giurisdizione rispetto alla potestà temporale.
Nè fu posta in dimenticanza l'università di Corte, fondata da Paoli,
di cui la consulta domandò la conservazione. Si udirono poscia le
domande delle province, delle pievi, de' comuni, savie per la maggior
parte e tutte amorevolmente udite. Addomandarono specialmente che
fosse permesso di stendere gli atti in italiano, e di procedere avanti
i tribunali nella medesima lingua materna e naturale dell'isola. Fu
risposto che quanto al presente il facessero pure, ma desiderare il
re che la lingua franzese divenisse famigliare ai Corsi, com'era agli
altri sudditi, e la consulta ne prescrivesse il termine.

Intanto i nuovi signori munirono di nuove fortificazioni Calvi e
Bastia, acciocchè i Corsi, avendole come un freno in bocca, non si
rimutassero d'animo, e non potessero più ravvolgersi, come pel passato,
fra i tumulti e le rivoluzioni.

Le cose si avviarono in ogni luogo alla franzese; e in questa guisa
finì la iliade della Corsica.

In quest'anno, la notte tra il 2 e il 3 febbraio, passò da questa vita
agli eterni riposi Clemente XIII. Era questo pontefice fornito delle
doti più degne della tiara; intenzioni pure, una pietà sincera, una
carità ardente, i primi anni del suo pontificato non sono soggetti
a rimproveri nè indegni d'encomio; e se a questi non corrisposero
pienamente gli ultimi suoi anni, coloro che si fecero a biasimarlo
attribuiscono la variazione della sua condotta a' consiglieri
differenti che lo diressero.

Trattavasi di eleggere il successore di Rezzonico; il che non era di
facile esecuzione. Gli Spagnuoli davano l'esclusiva a tutti i cardinali
che avevano avuto parte nel breve contro Parma, di cui diremo in
appresso, ed erano sedici. Di più, la Spagna non voleva consentire
a nissun papa che non fosse per sopprimere la società de' Gesuiti.
Choiseul, ministro di Francia, appoggiava con tutta l'autorità del
re Luigi la volontà degli Spagnuoli, la qual cosa riduceva la scelta
tra cinque o sei, nel numero de' quali erano i cardinali Stopani e
Fantuzzi. Ma la partita de' cardinali zelanti, come li chiamavano,
che volevano la conservazione di quella società, non consentivamo
all'esaltazione nè di Stopani nè di Fantuzzi, perciocchè troppo
apertamente s'erano spiegati di volere l'estinzione dei Gesuiti. Il
cardinale Ganganelli, quantunque fosse stimato di setta giansenistica,
s'era però meno fervidamente dimostrato alieno di que' religiosi, ed
alcuni anzi credevano che gli avrebbe conservati. Dall'altra parte i
Borboni, che intieramente Ganganelli conoscevano, il portavano come
capace di venire alla risoluzione ch'essi tanto desideravano: fu
anzi affermato da alcuni, ch'egli avesse dato promessa formale, se
papa divenisse, di estinguere la compagnia. Adunque tra per queste
cose e pel timore che la noia di star serrati in conclave troppo si
prolungasse, cosa che si vedeva virisimile pe' grandi contrasti che
vi erano dentro, e perchè la chiusura già da più di due mesi durava,
aderendo i cardinali avversi a' Gesuiti, non ripugnando la maggior
parte de' zelanti, Ganganelli fu eletto papa il 18 maggio. Dalla quale
elezione tutta la cristianità fu eretta a nuova speranza. Amò chiamarsi
Clemente, XIV di questo nome.

Ma prima di narrare le condizioni della Chiesa, al momento
dell'esaltazioe del nuovo pontefice, n'è d'uopo riferire le cose di
Parma, delle quali abbiam toccato al chiudersi del precedente anno.

Filippo, duca di Parma, Piacenza e Guastalla, a cui consigliava
Guglielmo Dutillot, sendosi accorto che per gli acquisti fatti dalle
mani morte per quelli che ogni giorno andavano facendo, e per quelli
finalmente che, quantunque ancora pendenti, fossero in possessione
altrui, dovevano col tempo necessariamente in loro ricadere una
prodigiosa quantità dei migliori e più fertili terreni de' suoi Stati
era e sarebbe sempre più venuta in potestà di simili persone di mano
morta, aveva pubblicato, ai 25 d'ottobre del 1764, per provvedere a
così grave sconcerto, una prammatica:

Che fosse proibito, statuì egli, a qualunque persona di qualsivoglia
stato, grado e condizione il vendere, donare, cedere, o in qualsivoglia
altro modo trasferire o alienare, nè in proprietà, nè in usufrutto, sia
per atto fra vivi o per disposizione di ultima volontà, compresa altra
successione intestata, in mani morte beni sì mobili che stabili, luoghi
di monte, censi attivi, azioni e ragioni di qualunque somma o valore;

Che dal superiore decreto fossero però eccettuati i lasciti limitati
alla sola vigesima parte del patrimonio di chi donasse o testasse, con
ciò però che il lascito per una sola volta si facesse, e sorpassare
non dovesse il valore di scudi trecento di Parma, e fosse in denaro
contante, e non altrimenti.

Che i crediti appartenenti alle mani morte ed ipotecati su stabili in
nissuna altra maniera soddisfare si potessero che coll'obbligare il
creditore alla vendita degli effetti ipotecati, ed il ritratto per la
somma del credito, se il creditore impiegare lo volesse, si dovesse
investire in luoghi di monte delle comunità suddite del ducato;

Che fossero vietate le locazioni perpetue od a lungo tempo a favore
delle mani morte;

Che parimente fossero vietati alle mani morte tutti gli acquisti che
ad esse si devolvessero in virtù di livelli, enfiteusi, reversioni,
e simili altre cause, e quando ad esse devoluti fossero per antiche
disposizioni, si fossero obbligate ad investirgli in persona laica
con giusto prezzo di vendita, ed il prezzo investir si potesse in
luoghi di monte, restando il possesso del fondo totalmente devoluto
presso l'erede dell'ultimo investito col solo obbligo di corrispondere
l'antico canone;

Che tale legge reggesse non solo le disposizioni da farsi, ma eziandio
le già fatte, se non ancora verificate;

Che mani morte non fossero riputati gli ospedali degl'infermi e degli
esposti;

Che le rinunzie da farsi da qualunque persona che volesse professare
in qualunque religione, convento, monastero, conservatorio, ritiro o
congregazione, o fossero esplicitamente, o quando no, s'intendessero
per legge abdicative ed estintive, cosicchè la successione, come se la
persona rinunziante non esistesse più fra i viventi, potesse e dovesse
passare in chi di ragione si doveva;

Che, oltre a ciò, i residui dei livelli o vitalizii riservatisi
dai professi non si potessero esigere, e per virtù della legge si
riputassero condonati;

Che ogni qualunque atto contrario alle disposizioni precedenti
fosse irrito, nullo ed in niun modo da attendersi dai tribunali e
giudici, e proibito fosse ai notai di rogarlo; riservata però alla
suprema autorità del principe la facoltà di concedere esenzioni a
chi ricorresse, quando per circostanze particolari il giudicasse
conveniente.

La raccontata legge dispiacque grandemente alle comunità religiose,
e sorto un grave bisbiglio ne' conventi, mandarono le loro lagnanze e
ricorsi a Roma. Anche gli ecclesiastici secolari se ne rammaricarono,
parendo loro che siccome nel secolo fra i parenti viveano, e fra di
loro ed i laici non v'era altra differenza, se non quella ch'essi
esercitavano il ministero divino, così ingiusta troppo e dura cosa
fosse, ch'ei fossero privati di quei benefizii che la società procura a
chi vive nella società.

Il duca Ferdinando, che era a Filippo succeduto, pubblicò, rispetto
a questi ultimi, cioè agli ecclesiastici secolari, ai 15 di giugno
del 1767, una sua volontà, per cui essi furono abilitati a succedere
alle eredità dei loro ascendenti e collaterali sino al quarto grado,
ed a fare acquisti di beni stabili, di censi, di fitti perpetui e di
altri annui redditi, sì veramente che si obbligassero, pei beni di
nuovo acquisto, di soddisfare a tutti i carichi pubblici, di non farne
alienazione a favore di alcuna mano morta, e di non declinare pei detti
beni il foro laicale. Il principe volle altresì che le successioni
devolute ai detti ecclesiastici, per disposizione di qualche persona
estranea o ad essi congiunta oltre il quarto grado, fossero irrite,
e si avessero per nulle e di nessun effetto. La quale irritazione e
nullità si intendesse anche estesa agli atti meramente lucrativi ed
alle cessioni e donazioni, ancorchè rimuneratorie e corrispettive.

Un grave abuso s'era introdotto nell'assetto delle contribuzioni di
certi beni ecclesiastici nel ducato di Parma. Certi beni, i quali
al tempo della formazione del catasto, per appartenersi a persone
laiche, erano stati allibrati e gravati, essendo in progresso di
tempo passati in mano di persone e corpi che pretendevano esenzione od
immunità, avevano la detta esenzione ed immunità ottenuta. Dal che,
fra gli altri inconvenienti, era succeduto quello che la rata delle
pubbliche gravezze spettante a tali beni, era andata tutta a cadere
sopra i restanti beni accatastati con doppio ed intollerabile aggravio
dei possessori; abuso non solamente lesivo dell'equità e giustizia
naturale, ma anche contrario alle leggi fondamentali del ducato,
secondo le quali trovavasi espressamente prescritto che i beni una
volta accatastati passar dovessero col loro carico e colla qualità di
tributarii in qualunque persona o corpo, ancorchè immune ed esente per
qualsivoglia causa o titolo fosse; legge stata eziandio riconosciuta
e confermata dai sommi pontefici Adriano VI, Clemente VII e Paolo III,
quando furono signori di Parma e Piacenza.

Per ovviare ad un tanto disordine, il duca Filippo, a ciò movendolo
sempre il Dutillot, già aveva ordinato, per legge promulgata
espressamente ai 13 di gennaio 1765, che quei beni che nei citati
catasti, per essere descritti ed allibrati in testa di laici o di
persone o corpi sottoposti alla giurisdizione laicale, erano stati
obbligati ai carichi pubblici, e che, per passaggi di successione, di
donazione o d'altro titolo si ritrovavano allora o per l'avvenire si
troverebbero in mano di persone o corpi che pretendessero privilegii,
immunità ed esenzioni, dovessero aversi e si avessero per tributarii ed
alle gravezze pubbliche così ordinarie come straordinarie sottoposti,
come se tuttora si appartenessero ai rispettivi loro autori, in testa
dei quali stati erano descritti ed allibrati.

Nel medesimo tempo però il principe volle che restassero immuni
ed esenti i beni che negli ultimi catasti erano stati descritti ed
allibrati con privilegio di esenzione ed immunità in favore delle
chiese o di altre opere pie ecclesiastiche. Dichiarò inoltre immuni
ed esenti tutti i patrimonii semplici, non solo già costituiti, ma
anche da costituirsi in avvenire a favore degli ecclesiastici secolari
promossi e da promuoversi agli ordini sacri, purchè non eccedessero i
limiti della tassa sinodale da verificarsi innanzi i tribunali.

Perchè poi quanto aveva ordinato con maggiore esattezza sortisse il suo
effetto, il duca creò un'intendenza sovrana, sopra i luoghi pii e sopra
tutti i corpi cadenti sotto il nome di mani morte; uffizio del qual
magistrato era di sopravvedere e provvedere che la volontà del principe
fosse eseguita.

Nè alle narrate deliberazioni si rimasero i pensieri del Dutillot e
del duca di Parma. Avevano i popoli supplicato al duca, e pregatolo di
far considerazione quanto restassero offesi dalla soverchia libertà per
cui si traevano fuor del dominio, e specialmente nelle curie di Roma,
i litigii così dei secolari come degli ecclesiastici. Lamentavansi i
popoli parimenti, ed al duca supplicarono, perchè vi rimediasse, che i
benefizii e le pensioni ecclesiastiche dai diplomi romani si dessero
a persone straniere con esclusione degl'indigeni; dal qual abuso
segnatamente venivano a sentir danno moltissime chiese parrocchiali,
anche quelle che rendite sufficienti per sè medesime non avendo pel
decente esercizio del culto divino, erano sovvenute dalle liberalità
dell'erario pubblico.

Le quali cose e supplicazioni bene considerato dal duca Ferdinando,
ed avutovi riguardo, pubblicò, ai 13 di gennaio 1768, un editto, per
cui comandò che, senza averne prima ottenuto il sovrano beneplacito,
nissun suo suddito, o mediato o immediato, o secolare o ecclesiastico,
o collegio od università, compresi i conventi e le famiglie religiose
dell'uno e dell'altro sesso, senza la menoma eccettuazione, si ardisse
di trarre o di esser tratto a contestare e sostenere, in qualunque
grado d'istanza, liti giudiziali in alcun tribunale estero, compresi
anche quelli di Roma, per qual si fosse causa, anche ecclesiastica e
relativa a beni, ragioni, diritti e preminenze di qualunque sorte;

Che nissuno nemmeno si ardisse, senza il mentovato beneplacito, di
ricorrere a principi, governi e tribunali esteri, nè per ragione
di beni, azioni, preminenze e diritti di qualunque sorta, nè per
conseguire ne' suoi Stati benefizii, pensioni ecclesiastiche, commende,
dignità o cariche con annessa giurisdizione di qualunque grado o
prerogativa;

Che i benefizii ecclesiastici curati e non curati, compresi anche i
concistoriali, le pensioni, abbazie, commende, dignità e cariche di
annessa giurisdizione, qualunque fossero, non potessero conseguirsi che
da sudditi nazionali, e ciò ancora nemmeno senza il previo beneplacito
dell'autorità sovrana;

Che senza la regia permissione dell'esecuzione nissun giudice o
tribunale, tanto laico quanto ecclesiastico, s'ardisse di eseguire qual
si volessero scritti, ordini lettere, sentenze, decreti, bolle, brevi e
provvisioni di Roma, e di qual si fosse podestà o curia estera;

Che qualunque atto contrario alla presente sovrana disposizione che da
qualche disubbidiente venisse fatto, fosse irrito e nullo e da aversi
in nissuna considerazione, con ciò eziandio che i disubbidienti fossero
severamente puniti anche in via economica, per la loro disubbidienza
verso le principali massime di buon governo e le più rilevanti leggi
dello Stato.

Un complesso di tali leggi e provvisioni in un breve corso d'anni
accettate e promulgate nel ducato di Parma e Piacenza dimostravano
evidentemente quanto quel governo fosse risoluto a sradicare gli abusi
che in materie giurisdizionali e nelle disposizioni regolatrici dei
beni e delle persone ecclesiastiche erano trascorsi. Ma queste erano
percosse fatali all'autorità romana, e di tanto maggior rammarico
quanto che le medesime deliberazioni andavano prendendo piede, e già
l'avevano preso in altri Stati, non che dell'estero, dell'Italia, e
pareva che fosse una tempesta che si volesse allargare in ogni luogo.
In termini difficili il pontificato si trovava; la resistenza lo
metteva in necessità di usare mezzi che l'opinione di molti riprovava,
e niuna cosa reca più grande pregiudizio ad una podestà, qualunque ella
sia, che fare deliberazioni non obbedite. Dall'altro lato, il non fare
risentimento accennava che esso abbandonasse quelle massime che per
tanti secoli aveva seguitato. A tale estremo passo gli era mestieri di
fare scelta tra il procedere pieghevole e prudente di Benedetto ed il
fare rigido ed inflessibile di alcuni altri papi. Clemente XIII non
era di natura intrattabile, e sarebbesi forse inclinato od a qualche
concessione od almeno a qualche mezzo termine di conciliazione; ma
troppo fu e consigliato e sollecitato ad opporre il pontificale petto,
ed a farsi forte contro di questa nuova tempesta.

Adunque, ai 20 di gennaio dell'anno scorso, il papa pubblicò la sua
sentenza, e contro i commettitori di quanto era contrario alla immunità
ecclesiastica ed ai diritti legittimi della sedia apostolica usò l'armi
pontificali. Toccate primieramente tutte le disposizioni del duca che
giudicava contro i diritti e le immunità della Chiesa, e reso conto
dei mezzi di pacificazione da lui inutilmente usati; investendosi
della sua pontificale autorità, scriveva che poichè speranza più non
v'era di stornare con la pazienza e la dolcezza i colpi terribili
intentati all'autorità della santa Sede e della Chiesa, credeva essere
giunto alla fine quel tempo, in cui egli vendicar doveva le libertà
ecclesiastiche così violentemente offese affinchè nissuno potesse
dargli la taccia d'aver tradito il suo dovere. Dichiarava pertanto
nulli, di niun valore, temerarii ed abusivi i sopraddetti atti,
decreti, editti, prammatiche, come usciti da mano di persone che non
avevano nissuna autorità di formarli. Dichiarava egualmente nulli e
di niun valore tutti quelli che dalle medesime persone in avvenire
uscire potessero; proibiva finalmente a' suoi venerabili fratelli ai
vescovi di quei ducati, ed a qualunque altro di conformarvisi. Oltre a
tutto questo, posciachè ad ognuno era notorio che tutti quelli i quali
avevano partecipato nella formazione, pubblicazione o esecuzione delle
ordinanze medesime, erano incorsi in tutte le censure ecclesiastiche,
così dichiarava che da queste censure non potessero essere liberati,
nè riceverne l'assoluzione, eccettuati i casi di pericolo di morte, se
non da lui stesso, o dal pontefice che dopo di lui sedesse. Dichiarava
altresì che, a volere che l'assoluzione data in pericolo di morte
fosse salutare e valida, era condizione indispensabile che, passato
il pericolo, gli assolti ritrattassero e disfacessero quanto avevano
fatto di attentatorio alle immunità ecclesiastiche; le quali cose non
facendo, rimarrebbero alle medesime pene sottoposti. Voleva finalmente
che, siccome era notorio che le sue presenti pontificali lettere
incontrerebbero pur troppo delle difficoltà, per essere pubblicate
ed affisse con sicurezza negli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla,
le pubblicazioni fatte nei luoghi soliti di Roma annodassero quelli
ai quali appartenevano, come se fossero loro state nominatamente e
personalmente intimate.

Parlossi altamente e fecesi un rumore grande pel mondo cattolico, così
delle risoluzioni del duca di Parma, come del monitorio del papa; ed in
mezzo ai molti discorsi, il duca Ferdinando, confortato dal Dutillot,
primieramente con suo editto del 13 di marzo 1768 proibì severamente
il monitorio in tutti i suoi Stati. Poi a dì 6 del seguente aprile
presentò, per mezzo dei ministri delle tre corone di Francia, Spagna
e Due Sicilie, al papa una rimostranza de' suoi ministri, in cui e
contro la pontificia decisione protestava, e, le sue ragioni adducendo,
dimostrava che le prammatiche e gli editti, di cui si trattava, avevano
fondamento nel diritto sovrano e nella incontrastabile utilità dello
Stato.

S'infiammarono dall'una parte e dall'altra gli spiriti. Uscirono
alla luce scritti moltiplici, alcuni in favore di Roma, molti in
favore di Parma. E siccome il papa, nel principio del suo monitorio,
aveva chiamato col nome di _suoi_ i ducati di Parma e Piacenza, si
riandarono le antiche cose, per conoscere quale fosse o non fosse la
sovranità della Sedia apostolica su di quella bella e doviziosa parte
d'Italia. Questi sostenevano che Parma e Piacenza fossero anticamente
parte dell'esarcato, e, per conseguenza, devolute con le altre città
di quell'antico Stato alla santa Sede; che i pontefici le avevano
senza contrasto possedute come vere e legittime possessioni della
Sede medesima; che i trattati posteriori, per cui s'erano variate le
sorti delle due città e date in mano di altri lignaggi principeschi
non avevano potuto cambiare la natura delle cose, nè aver la Sede
apostolica mai consentito alle mutazioni di signoria, ma anzi sempre
protestato contro le medesime. E venendo alle disposizioni del
duca Ferdinando contenute nelle prammatiche ed editti, dei quali si
contentava il merito, dicevano essere evidente ch'essi avevano posto
la falce nella messe altrui, ed intaccato enormemente i diritti della
potestà ecclesiastica. Se v'era abuso, esclamavano, non avere mai Roma
ricusato di darvi riparo coi principi secolari intendendosi, nè esser
ella per ricusare; ma essere nel tempo medesimo evidente che l'utilità
e nemmeno la necessità non danno il diritto, e che quando il mandato
non c'è, tutto quello che si fa è irrito, invalido e nullo, nè fare
si può senza ingiuria di colui al quale il fare si aspetta; se la
contraria dottrina prevalesse, si turberebbero tutte le giurisdizioni e
il mondo ritornerebbe nel caos, e la umana società si dissolverebbe.

I difensori di Parma non se ne stettero oziosi, e pubblicarono parecchi
scritti, fra i quali si notarono principalmente quelli di Giambattista
Riga, Piacentino, avvocato fiscale del duca. Del supremo dominio
parlando, asserirono che non mai la santa Sede l'aveva posseduto, e che
era favola di menti o non sane o ignoranti o bugiarde il pretendere che
Parma e Piacenza fossero anticamente membri dell'esercato di Ravenna,
perciocchè era notorio che furono sempre città soggette ai Lombardi,
o libere colle proprie leggi, o appartenenti al ducato di Milano.
Quanto alla immunità ecclesiastica, i difensori del duca allegavano
che quanto è vero che il governo della Chiesa in ciò che riguarda
le cose meramente spirituali è ed esser deve libero e independente
dall'autorità temporale; tanto da un'altra parte è certo che la potestà
che la Chiesa esercita sopra alcune cose temporali, come sono appunto
i beni della terra e le eredità e le successioni, è una concessione
de' principi, che essi possono o modificare o regolare, od anche
sopprimere, quando ciò per l'utilità dello Stato fosse richiesto; e
citando a sostegno dello loro opinioni santo Agostino, san Girolamo,
santo Ambrogio, continuavano a dire che nuova non era nella Chiesa la
prammatica del duca, e che esso non aveva fatto altro che imitare altri
principi, e queglino stessi dei quali la Chiesa sommamente si lodava.

A questo modo gareggiavano fra di loro e si davano l'un l'altro molte
brighe la corte Romana ed il duca di Parma; ma nissun di loro si
dipartì dalle prese risoluzioni, e tanta fu la prudenza del governo
del principe secolare, che nissun grave inconveniente nacque nel ducato
per l'interdetto messo sopra gli esecutori della sua volontà, nè pure
originandosi quelle turbazioni di alcuni ordini religiosi che parte
contristarono, parte sdegnarono Venezia ai tempi del suo interdetto.

Con tanta maggior franchezza il duca procedeva in questa bisogna che
le altre corti borboniche, le quali per un trattato del 1761, che
chiamarono il patto di famiglia, s'erano fra di loro collegate ad
ogni bene e ad ogni male, ed a conformità, anzi unità di consigli,
avevano preso focosamente a favorirlo. In fatti, non così tosto il
monitorio del papa era pervenuto a loro notizia, non si contentarono di
sopprimerlo ne' loro Stati, ma richiesero fortemente il papa della sua
rivocazione, la quale non avendo potuto ottenere, vennero finalmente
a determinazioni più rigorose e più efficaci. Il re di Francia, come
si è già detto al finire dell'anno precedente, fece occupare da' suoi
soldati, condotti dal marchese di Rochechouart, la città di Avignone
ed il contado Venosino; poi mandò commissarii del parlamento di
Provenza a prenderne possessione in suo nome, e ricevere il giuramento
di fedeltà, come di paese già annesso alla sua corona, dai consoli,
sindaci ed abitanti. Dal canto suo il re di Napoli pose le mani addosso
nel medesimo modo a Benevento, mandandovi soldatesche e commissarii, e
diceva che Benevento era suo, come il re Luigi d'Avignone e del contado
affermava.

Siccome poi ai Borboni non isfuggiva che la durezza del pontefice
procedeva principalmente dai consigli de' Gesuiti, che già avevano
cacciati da' loro Stati, e da quelli del cardinale Torrigiani, suo
ministro di Stato, prelato tutto dedito a que' padri, addomandarono
con molto calore ch'egli la compagnia di Gesù interamente sopprimesse.
Ma Clemente, che prestava molta fede alle loro parole, ed a cui
rincresceva di privare anche in Italia di quel sussidio la santa
Sede, giacchè negli altri regni della cristianità l'aveva perduto,
fermò l'animo e resse alle istanze, nè si lasciò volgere ai desiderii
de' principi. Dalla quale sua fermezza procedette che le cose
non si addomesticarono nè col duca di Parma, nè coi principi suoi
consanguinei, finchè Clemente XIII visse. Ei conservò il suo monitorio,
Parma i suoi ministri, Francia Avignone, Napoli Benevento, Spagna i
suoi risentimenti.

Oltre a questi disturbi di Parma, gravi e veramente pericolose erano
per altre parti le condizioni della Chiesa al momento dell'esaltazione
già detta del Ganganelli.

Non poco sdegno nudriva Giuseppe re di Portogallo contro di Roma,
per vedere ancora in piè gl'Ignaziani che tanto egli odiava. Vi era
anche in quel reame pericolo di scisma, cioè di separazione dalia
santa Sede, minacciando il re di creare un patriarca in Lisbona per
l'esercizio della suprema autorità pontificale, e di non avere più
altra comunicazione col pontefice romano che quella delle preghiere.

Non minori minaccie faceva la Spagna, la quale continuamente fulminava
contra i Gesuiti e con sinistre voci protestava che se di loro come
desiderava sentenziato non fosse, verrebbe a qualche risoluzione
funesta a Roma.

La Francia riteneva Avignone, come si disse di sopra, e grandi
risentimenti faceva sì per l'oltraggio fatto al duca di Parma colla
scomunica, e sì per le lunghezze che il papa andava framettendo per
conformarsi ai desiderii di Spagna ed a' suoi proprii per la domandata
soppressione.

Per le narrate cose il duca di Parma irritatissimo anch'egli si
dimostrava, e consigliato da ministri savii e fermi, faceva le viste di
non temere i fulmini del Vaticano.

Non riceveva la Sedia apostolica minori molestie dal re di Napoli, il
quale, oltrechè perseverava nello appropriarsi Benevento e Pontecorvo,
si spiegava eziandio di volere più avanti nello Stato ecclesiastico
allargarsi; e da riforma in riforma procedendo, dava a divedere che,
poichè il papa non voleva fare avrebbe fatto egli. In somma le immunità
ecclesiastiche continuavano ad andare in ruina nel regno. Il re,
considerati gli abusi che nascevano dalla riscossione delle decime
ecclesiastiche, le abolì intieramente, ordinando che l'erario regio
supplirebbe con una conveniente pensione in favore di que' curati, ai
quali, per la soppressione delle decime, restasse una congrua minore
di centotrenta ducati. Andava anche un giorno più che l'altro tarpando
l'ali alla nunziatura, con ridurre molte cause miste all'autorità
ordinaria dei tribunali regi. Queste mosse principalmente davano
Tanucci e Carlo di Marco.

Venezia, senza ricorrere all'autorità pontificia, di propria volontà
riformava le comunità religiose: lo spirito del Sarpi in lei sempre
viveva; nè valse a Clemente XIII che da Venezia sortito i natali
avesse per poter la novella tempesta schivare. Benchè in grazia di
lui avesse cassato il decreto, emanato già per risentimento delle
decisioni intorno ad Aquileia, che proibiva gli abusi di certe dispense
e delle indulgenze che per denaro si concedevano, non si rimase però
che qualche secreto rancore gli animi dei padri ancora non alterasse,
e non si manifestasse con rigori di dazii e di gabelle sui confini
contro i sudditi dello stato ecclesiastico. Ma più specialmente
nell'anno addietro il senato avvertì che le ricchezze del clero erano
divenute tanto esorbitanti che di grave scandalo riuscivano ai privati
e di molto danno al pubblico, però che le mani morte possedevano una
rendita quasi eguale a quella dello Stato. Quindi prese rigorose e
valide misure tanto sui beni de' cherici che sopra le persone loro;
ma noi potè fare senza che il papa gravemente se ne risentisse. Ed
in fatti con un suo breve dell'8 ottobre di quell'anno si lamentò
colla repubblica ch'ella avesse, oltrepassando i termini dei proprii
campi, posto i piedi in su quelli d'altrui, e sotto specie di regolare
interessi attinenti allo Stato, si fosse fatto lecito d'intaccare la
giurisdizione ecclesiastica; e dopo noverate ad una ad una le cose che
teneva illecite, «alzava la paternale voce, e la repubblica ammoniva
che da tali perniziose e scandalose determinazioni recedesse.» Rispose
il senato, e stette fermo nelle sue risoluzioni: il papa nuovamente
esclamava con altro suo breve del 17 dicembre sempre dello stesso anno,
ed, al senato le parole indrizzando, l'avvertiva che, recate dalle di
lui lettere nuove ferite al suo paterno cuore, dovea di nuovo parlare,
di nuovo ammonire, pregare, lamentarsi, biasimare. Ricevuto il breve
del papa, il senato non si rattenne in silenzio; ma non si rimosse
da quanto ordinato aveva, nè il pontefice venne al passo estremo
di pronunziare l'interdetto contro la repubblica; e come tal era la
condizione sua che il consentire gli pareva impossibile, il contrastare
senza frutto, le cose in quello stato si rimasero.

La Polonia stessa, che sempre era stata devotissima alla santa Sede,
mossa dall'universale consentimento e da quell'influsso contrario
che contro Roma si spandeva, cominciava a vacillare ed i privilegii
della nunziatura diminuiva, e poneva un freno alla volontà della curia
romana.

Alle quali cose se vogliamo aggiungere quello spirito filosofico
che d'ogni intorno spirava, e che metteva in dubbio non solamente le
prerogative della Sedia apostolica, ma ancora le verità stesse della
fede, si verrà conoscere a quale e quanta tempesta avesse ad ostare il
nuovo pontefice, ed in qual pericoloso frangente si avvolgesse.

Stava il mondo in grandissima aspettazione di vedere a quali consigli
si atterrebbe, e quali mezzi userebbe Clemente XIV per rivolgere in
meglio le disposizioni dei principi. Il cedere e il non cedere in tali
congiunture può essere ugualmente di danno, quello, perchè mette le
cose domandate per perdute, questo, perchè mette pericolo che se ne
perdano delle maggiori. Nè si ha nemmeno certezza che il concedere
faccia moderazione in chi domanda; imperciocchè il più delle volte
succede che più si dà e più si domanda. Contuttociò Ganganelli vedeva
evidente la necessità di contentare i principi, perchè, se di soverchio
si contrastasse loro, era da temersi che dessero della scure sulla
radice stessa dell'autorità pontificia, cosa alla quale gli scritti
dei filosofi e dei giansenisti stessi gagliardamente spingevano. Il che
ottimamente considerato, principiò a dare segni di quanto voleva fare.
Nominò suo segretario di Stato il cardinale Pallavicino, personaggio
grato alle potenze; scrisse ai monarchi lettere pacifiche ed amorevoli.

Lieti augurii eran questi, che già una causa speciale e viva
aveva fomentati, il viaggio, cioè, in Italia in quest'anno fatto
dall'imperatore Giuseppe. Vide Napoli, Roma e Firenze, vide la sua
Milano. Padre de' popoli più che re in ogni luogo si dimostrava,
il povero, più che il ricco in cale aveva, non abborriva dalle
tortuose scale ed anguste, nè aveva a schifo gli umili tugurii; il
più bell'ornamento di cui un possessore di regni possa far mostra,
portava seco; imperciocchè l'accompagnavano la semplicità del costume,
l'affabilità del discorso, la bontà dell'animo, e meglio amava sentirsi
chiamare benefico che augusto. La sua vivida mente in ogni occorrenza
appariva; figliuolo buono ed ingegnoso d'ingegnosa e buona madre.
Amava i dotti, e viaggiando gli accarezzava come stelle, fra la volgare
oscurità onorandoli. Pio ancora lo vedevano i popoli e religioso, dal
che argomentavano che non per tiepidezza di fede, ma per ardore del
ben fare richiamava a nuovi ordini le cose giurisdizionali e la vita
de' chierici. Le accoglienze che generalmente i popoli gli facevano,
e particolarmente gli ecclesiastici, erano segno manifesto del quanto
fossero cambiati i tempi da quelli di _Barbarossa_. Quando visitò
Roma, l'accompagnava il suo fratello Leopoldo, granduca di Toscana.
Nè l'uno nè l'altro si fecero, come il Medici, canonici di San Pietro.
Correva il tempo dell'interregno per la morte di Rezzonico, ed avanti
l'esaltazione del Ganganelli, il sacro collegio, che allora governava
la città, l'accolse con ogni più lieta e festevole dimostrazione,
deputando per complimentarlo ed accompagnarlo entro quelle festose
mura i principi Conti, Borghese, Aldobrandini, Doria, Barberini,
di Bracciano, di Piombino. Come prima in cospetto della città era
comparso, i principi deputati, avendo con esso loro il governatore di
Roma, con graziose parole l'avevano onorato; offrirongli la guardia
svizzera, che ricusò. Gli si diedero festini magnifici nelle case
di Bracciano, Corsini, Santacroce e Salviati: tutto era magnifico
e bello, ma il più magnifico e più bello era la semplicità del
fare e del favellare. Maravigliosa fra le altre fu la festa datagli
dall'ambasciatore di Venezia; ad onoranza e a disegno, imperocchè a
quel tempo Giuseppe vivesse con qualche amarezza verso la repubblica.

I due fratelli visitarono con divozione e maraviglia il famoso tempio
ben degno del principe degli apostoli, tempio d'una monarchia che
pensiero fu di un repubblicano. Desiderarono di vedere il conclave, che
a que' dì si teneva per l'elezione del nuovo papa; si apersero loro le
porte. Giuseppe domandò quando la elezione si farebbe, ed i cardinali
risposero aspettarsi i cardinali dall'estero; ed interrogando poscia
qual fosse il conclave che aveva durato più lungo tempo, gli venne
risposto, quello di Benedetto XIV, che più di sei mesi soprastette a
far l'elezione; al che soggiunse: «Or bene poco importa che il conclave
duri anche un anno, purchè nominiate un pontefice simile al Lambertini
che fu amico a tutti.»

«Mi vien voglia, dice uno storico illustre, di raccontare i presenti
che il sacro collegio ed il governatore di Roma fecero a Leopoldo,
simili a quelli di Giulio II, che mandò un carico di presciutti e
buoni vini al parlamento d'Inghilterra per renderselo benevolo; tre
piatti di vitella mongana adorni di fiori e nastri; di vini del paese
otto casse; di vini forastieri fruttati dalle Canarie, da Malaga, da
Cipro, sedici barili; di rosolii due; di pesci delicati, come storioni,
ombrine, tre; di zucchero, di zuccherini, di caffè, di cioccolata,
buona quantità, con frutti, confetti di ogni sorta prugnole, cedrati,
poponi, olive; e v'erano anche due statue di butirro alte ciascuna un
palmo: poi pavoni, fagiani, galline rare acconce in gabbia, presciutti,
mortadelle ed altri salumi preziosi. Questi pel gusto, i seguenti per
l'intelletto: dodici tomi in foglio di viste e prospettive di Roma con
parecchi quadri di mosaico e di tappeti istoriati oltremodo belli.
Vennero quindi i presenti più speciali di Roma, reliquie incassate
in oro del peso di sedici libbre con grande numero di pietre preziose
incastonatevi. Anche Giuseppe ebbe i suoi doni, e furono reliquie.»

Ai 17 di marzo i tre prelati deputati scrissero lettere all'imperatrice
madre, in nome del conclave, notificandole, avere il sacro collegio
esultato di tutta allegrezza, vedendo fra le mura di Roma e nel grembo
degli elettori del pontefice i suoi due figliuoli augusti. Narrarono
quanta fosse stata la pietà loro e la venerazione verso le cose sante;
dimostrarono quanto il sacro consesso desiderasse e quanto sperasse
ch'ella degnasse proteggere e crescere lo splendore e le prerogative
degli ordini religiosi, e conservare i diritti, le possessioni
e dominii della Chiesa. Testimoniarono infine, niuna cosa più
ardentemente desiderare che una pace inviolabile ed una perfetta unione
tra il clero ed i principi cattolici.

Partissi Giuseppe da Roma, poi dall'Italia, lodato e venerato anche da
coloro che di lui e delle sue intenzioni sospettavano. Ma i suoi detti
e fatti restarono nella memoria degli uomini, come segni e pegni di un
più felice avvenire.

Nello Stato di Milano regolaronsi le cose delle mani morte a foggia
di quanto erasi fatto in Parma ed a Venezia, ed istessamente quanto
riguardava agli ordini religiosi. Levata poi l'imperatrice Maria
Teresa di mano all'inquisizione ogni facoltà sui libri, avvocò a sè le
cause a questa materia relative, e statuì che la censura dei libri si
appartenesse ai magistrati da lei deputati.

Anche in Parma, oltre alle cose più sopra discorse, il duca,
lamentandosi, in sul limitare stesso d'un decreto, che una potestà
straniera esercitata da' claustrali sotto titolo d'Inquisizione del
santo Officio, si fosse ne' suoi Stati introdotta, volle ed ordinò che,
come morto fosse lo inquisitore di Parma, le cause dovessero giudicarsi
da' vescovi, e nissuno più si ardisse, altro che essi, ingerirvisi.
Poco appresso mori l'inquisitore, i vescovi assunsero il carico;
promessa loro dal principe, ove abbisognasse, l'assistenza del braccio
secolare. I detenuti nelle carceri del santo Officio furono dichiarati
tenersi prigioni a nome del duca sin che fossero le loro cause spedite,
dato anche ai vescovi il comandamento d'informare la potestà secolare
delle loro sentenze. E nel medesimo tempo il duca regolò i conventi,
espulse i religiosi forestieri, salvo chi per età o per merito o
per dottrina si meritasse di dimorare. Delle confraternite e luoghi
pii ordinò che, secondo l'utilità, fossero o soppressi o riformati o
incorporati.

Il marchese Tanucci e Carlo di Marco, ministri del re di Napoli, lo
movevano a statuire, come statuì, che i conventi che non potevano
mantenere dodici frati fossero soppressi, e i frati distribuiti in
altri conventi, con obbedienza di tutti verso gli ordinarii; che
nissuno prendesse l'abito claustrale prima di ventun anni, nissuno
professasse prima dei venticinque; che le rendite dei conventi fossero
depositate nel banco di Napoli a benefizio ed uso dei conventi
per quella rata che sarebbe creduta necessaria; che le cause loro
in prima istanza si giudicassero dui vescovi, e in appello da un
tribunale supremo instituito dal re; che i conventuali forastieri
tornassero nei loro paesi; che i benefizii e le dispense di affinità si
conferissero dai vescovi; delle rendite delle confraternite, cappelle,
congregazioni, una parte restasse assegnata al culto divino, e
dell'altra il re disponesse per opere pie; soprantendesse un magistrato
apposta creato dal re alle rendite dei vescovati, e se dei più ricchi
qualche cosa soprabbondasse, si ripartisse tra le chiese povere ed i
vescovi meno facoltosi.

In Toscana, in cui, sino dal 1751, per opera del reggente
Richecourt, del senatore Rucellai e di Pompeo Neri, si erano fatte
varie ordinazioni nella materia delle mani morte ed in quella
dell'inquisizione, specialmente intorno alle carcerazioni, ai castighi
e alla censura dei libri, in quest'anno, per un ordine del granduca
Pietro Leopoldo, i soldati andarono per le città, e tutti i rifuggiti
dalle chiese levarono, e li portarono nelle carceri della giustizia
civile; in pari tempo il granduca stesso scrivendo a Roma, gli uomini
nefarii non contaminare più col loro feroce aspetto le sedi di Dio,
essere nelle carceri ordinarie condotti, ma stare e vivere per loro
l'immunità, sospendersi contro d'essi, per rispetto dell'antico asilo,
la mano regia, nè la giustizia ricercarli dei commessi delitti. E i
rei per verità puniti non erano, ma per la sua deliberazione ciò almeno
aveva il buon principe conseguito che, chiusi in carceri sicure, quei
tormenti della società non potevano più uscire a spaventarla. Poscia
pel futuro Leopoldo decretò che i rifuggiti, in qualunque luogo si
fossero ricovrati o di qualsivoglia delitto colpevoli, salvo i falliti
di buona fede, ne venissero levati dai soldati della mano regia, per
essere condotti innanzi ai tribunali ordinarii, e castigati secondo
che avessero meritato. Solo per rispetto dei sacri luoghi, e per
conciliare quanto dalla giustizia era richiesto colla deferenza verso
la Chiesa, statuì che si moderassero le pene, e chi fosse incorso
in quella di morte si avesse solamente dieci anni di carcere, e chi
avesse meritato dieci anni di carcere, fosse punito con cinque, e così
in proporzione fossero tutte le altre pene dimezzate. Quindi proibì
il flagellarsi in pubblico, il castrare i fanciulli; soppresse la
bolla _In Coena Domini_; vietò ai conventi d'avere carceri senza la
approvazione del principe, e che le permesse si visitassero da deputati
laici. E (per non tornare più su questo argomento) ordinò negli anni
appresso che nissun forestiero più abitasse ne' chiostri toscani; che
i voti religiosi non si pronunziassero prima di ventiquattro anni;
che gli ordini mendicanti non ricevessero più novizii innanzi che
pervenuti fossero all'età di sedici, od anche di diciotto anni; che
si sopprimessero i conventi di minor numero di dodici religiosi; che
i preti secolari soli, massimamente i curati, e non più i religiosi
addetti ai conventi, potessero predicare per le campagne; che gli
ordinarii soli regolassero e sopravvegghiassero i conventi delle
monache, ed a niun modo potessero intromettersene i religiosi dei
conventi; che i conventuali aiutassero nel ministerio divino i parrochi
ed a loro fossero soggetti; che le congreghe ricche sopperissero alle
povere; che nuove parrocchie sorgessero là dove ne fosse bisogno.

Al terminare di quest'anno, rendutosi fatalmente celebre in Francia, in
Olanda, in Germania, in Inghilterra per le inondazioni di fiumi e di
torrenti, pur la Italia ebbe a patirne di straordinarie e gravissime
per le insolite colmate del Tevere, del Panaro, del Tagliamento ed
altri che, ingrossati a dismisura, con furia sterminatrice dai letti
traboccarono. Le acque del mare due volte inondarono Venezia, e
contaminarono con gravissimo danno quelle che ivi si conservano nelle
cisterne o venute dalle pioggie o portate dal continente ad uso de'
suoi abitatori.

E nella seconda di tali allagazioni, spirando impetuosissimo un vento
lungo le spiaggie dell'Istria, il mare sconvolto sgominò un lungo
tratto del lito, e trasportando altrove sabbia, cespugli e quanto altro
ivi era, lasciò scoperti gli avanzi e le rovine di un'intera antica
città che conserva ancora la disposizione delle strade interne, le
fondamenta e le muraglie delle abitazioni, portici, colonne, pavimenti
di musaico e cento altri vestigii di un'ampia e ricca popolazione che
stendevasi per due miglia incirca fra Umago e certo vecchio e sfasciato
castello già chiamato Sipar.

Mentre dissotterravansi rovine morte, seppellivansi i vivi. In
una parte dei bellunesi monti, sfasciatasi un'alta montagna detta
Piz d'improvviso, andò a piombare sopra la soggetta popolazione,
schiacciandone le capanne, i bestiami ed oltre a cinquanta persone,
rimaste prima sepolte che morte.



    Anno di CRISTO MDCCLXX. Indizione III.

    CLEMENTE XIV papa 2.
    GIUSEPPE II imperadore 6.


Giunto in quest'anno il solito momento di promulgare la bolla _In Coena
Domini_, tanto dispiacente ai sovrani, Clemente XIV se ne astenne,
omissione, la quale, quanto più insolita era, tanto maggiore argomento
ne prendevano gli uomini per giudicare delle future operazioni del
pontefice. Già s'era riconciliato col Portogallo che accettò un nunzio,
accettazione che il re non aveva mai voluto consentire finchè durarono
le differenze.

Quanto a Venezia, col suo costume di andare a seconda, e bene persuaso
che in quell'età male con gli anatemi si conseguivano i fini della
Chiesa, lasciò portare la cosa al tempo. Quindi avvenne che i conventi
si andarono negli Stati della repubblica spopolando, per modo che
vicina se ne vedeva l'ultima fine. Passati tre lustri, il senato
permise le vestizioni a sedici anni e le professioni a ventuno.

Per prima risoluzione nelle cose di Parma, Ganganelli sospese l'effetto
del monitorio, e ribenedì il duca. Della quale benigna sentenza diede
subito notizia al re di Francia, con isperanza che Luigi il ritornasse
in possesso d'Avignone. Ma così questo sovrano come gli altri della
famiglia borbonica persistevano nel loro proposito, ancorchè il duca
di Parma si sforzasse con ogni buon uffizio e diligenza di muoverli
ad una intiera riconciliazione colla santa Sede. La cagione della loro
renitenza era, ch'essi volevano la soppressione dei Gesuiti.

Finalmente il papa avendo fatta nel 1773 questa gravissima
deliberazione, Roma restò del tutto riconciliata coi principi; onde
accadde (il che tutto vuol dirsi a compimento dell'incominciata
narrazione) che nel mese di marzo dell'anno susseguente 1774, a ciò
sempre confortando il duca di Parma, ella fu rimessa nella possessione
di Benevento e d'Avignone. Le quali cose avvenute, si fecero grandi
feste in Roma; cantossi solennemente l'inno delle grazie in presenza
di tutti i cardinali, e la sera vi si ordinò una luminaria assai bella
e magnifica, come sono tutte quelle che sogliono rallegrare una città
quale Roma è, che così nell'alta come nell'umile fortuna seppe sempre
tener grado e ritrarre di grandezza. Cotal fine ebbe il molesto litigio
tra Roma e Parma, il quale, incominciato da deboli principii, portò poi
con sè assai più gran soma che uomo credere avesse potuto.

Non un altro litigio, ma un trattato tra la santa Sede ed il re di
Sardegna, il cui fine era di tor via certi abusi, che avevano la loro
origine nell'asilo dato ai malfattori ne' luoghi sacri, fu pur questa
un'opera del buono e prudente Ganganelli, il quale era solito dire, nè
senza contentezza, che alla perfine la Chiesa conserverebbe ciò che per
diritto divino era suo, e perderebbe ciò che i potentati della terra
le avevano dato, e che cagione per lei era di tante querele, di tanti
risentimenti, di tante molestie, e così ancora di tanti scandali e
discordie tra i fedeli: memorande parole, memoranda la sentenza!

Benevola fu la volontà di Ganganelli verso il re Carlo Emmanuele, o
piuttosto verso i suoi popoli; ma da quanto ancora restò degli abusi
in materia di asilo, si potrà argomentare dell'enormità di quanto
esisteva e dell'assurdità del principio sul quale la facoltà dell'asilo
era fondata; imperocchè non solamente dannoso alla società, ma ancora
empio e ridicolo sia il dire, che sia rispetto e venerazione verso
la casa di Dio, ch'essa procuri sicurezza a chi meriti la galera o la
forca, e divenga tana, donde i malfattori, come da luogo d'insidia, si
avventino a rubare ed ammazzare gli onesti cittadini, ai quali lo Stato
è debitore di sicurezza e di salute.

Già sin dai tempi di Benedetto XIV si era aperta una pratica intorno
agli asili tra il pontefice e il re, desiderando il principe di
moderarne gli abusi, donde procedevano grandissimi sconcerti nel
paese nè essendo meno desideroso il capo della Chiesa di rimediarvi.
In fatti, Benedetto aveva già con sua istruzione mandata al cardinale
Merlini, arcivescovo d'Atene, nunzio e ministro apostolico a Torino,
moderato molte cose che all'uso di cui si tratta s'aspettavano. Ma,
malgrado di tale moderamento, nascendo ancora inconvenienti di non
poca importanza, di nuovo il re aveva richiesto la santa Sede, che a
più efficaci risoluzioni devenisse. Questa pratica maneggiava in Roma
il conte di Rivera quando, già morto essendo Benedetto, era Clemente
XIII in sua vece stato al seggio pontificale assunto. Andava Clemente
in questa faccenda assai più a rilento che il benevolo e facile suo
predecessore; perocchè delle cose di questo mondo più colla pietà
che colla prudenza giudicava. Ciò non ostante, il Rivera già l'aveva
indotto ad utili concessioni, e si speravano maggiori moderazioni per
viemmaggiormente facilitare il corso della giustizia, quando Clemente
da questa vita n'andò ad abitare fra i più. Ripresersi i negoziati
sotto Clemente XIV, i quali finalmente vennero a conclusione sul
principiare dell'anno presente.

Clemente decretò e pregò il re che fosse contento delle seguenti
risoluzioni:

Conciossiacosachè si veda che la principale cagione donde nascono gli
abusi sia quella che gli uomini di mala vita si ardiscono di rizzare
sulle antiporte, atrii e porticali delle chiese, tugurii, frascati,
capannucce, baracche ed altre simili casucce ad uso non solamente
di ricovero sicuro e stabile, ma ancora per serrarvi e nascondere
armi d'ogni sorte, riporvi i frutti dei loro latrocinii, introdurvi
femmine scandalose, uscirne ad assaltare i viandanti, ed impunemente
commettere altri eccessi, donde risultano, e un grave pregiudizio
della tranquillità pubblica, e la profanazione manifesta dei luoghi
santi; resta comandato ai vescovi ed ai rettori delle chiese di far
sgombrare incontanente dai detti antiporti e simili luoghi le baracche
e casucce, tanto nocive al ben pubblico, quanto indecenti per la maestà
dei templi; restando loro anche ingiunto d'impedire che nuove non vi
s'innalzino; e se nuove si innalzassero, tosto abbiano cura che si
demoliscano.

Per maggiormente facilitare la necessaria purgazione di quest'infame
genia, o diminuire almeno il numero delle loro nefandità, ordinò anche
il pontefice che fosse facoltà ai vescovi di trasferire i rifuggiti
da un asilo all'altro, e se i trasferiti abusassero una seconda volta
dell'asilo, perdessero la protezione della Chiesa, e fossero arrestati
dovunque si trovassero. E perchè i vescovi ciò fare potessero con
maggior facilità, volle che non fosse necessario un regolare processo,
ma solamente un atto di coscienza informata per trasferire un rifuggito
da un asilo all'altro, stando però sempre fermo che per privarlo, in
caso di recidiva, del beneficio dell'asilo, fosse richiesto il regolare
processo. Dichiarò altresì che le cause di privazione di asilo per
abuso fossero il rubar di nuovo, il nascondere i furti, il ricettare
femmine di mala vita, l'insultare ed offendere i viandanti, il celare
chiavi false, grimaldelli ed altri simili stromenti di ladri.

Stante poi che alcuni delitti sono cotanto gravi che in niun caso debba
chi commessi gli ha trovare ricovero e scampo ne' luoghi sacri, resta
decretato, scrisse il pontefice, che, oltre i commettitori di delitti
atroci già esclusi dall'asilo pei decreti dei precedenti pontefici, del
beneficio dell'asilo in niuna maniera godere potesse chi pei principi
forastieri soldati arrolasse, chi avesse falsificato il sigillo e le
lettere apostoliche o regie, chi a mano armata rubasse cosa che per
la somma, secondo le leggi comuni o municipali, meritasse la pena
di morte, chi l'onore delle donne violasse, rapisse le oneste e non
consenzienti.

Atteso poi eziandio che per bolla di Clemente XII era stato assicurato
l'asilo ai minori di vent'anni, allorchè commesso avessero omicidii
atroci, e che da qualche tempo negli Stati del re si moltiplicavano
per mano dei detti minori di età delitti di simil fatta, così il
pontefice espresse la sua volontà che a tali giovani ricovero niuno
fosse dato nei sacri luoghi, e se dentro vi si rifuggissero, tosto
si consegnassero al braccio secolare, volendo e prescrivendo che
per omicidii atroci s'intendessero il parricidio, il fratricidio,
l'ussoricidio, l'assassinio per tradimento, l'assassinio a ghiado, o
che insidia vi fosse o che non vi fosse, l'omicidio per rissa quando
dopo la rissa trascorse fossero sei ore, o fosse brutale, e senza
ragione suscitata si fosse dalla parte del delinquente la rissa.

Finalmente abbiano i vescovi, Clemente statuì, facoltà di estrarre
dall'asilo, e consegnare al braccio regio chi alcuno con pericolosa
e mortale ferita offeso avesse, anche innanzi che ne fosse seguita la
morte del percosso, con ciò però che se le ferite fossero state date
per necessità di difesa o per caso fortuito, o se ancora il ferito
non morisse nel termine prefinito dalle leggi, il reo dovesse venir
restituito alla chiesa.

Le quali lettere e disposizioni pontificie avendo il re ricevute, molto
con lettere regie ringraziò il pontefice del suo volere condiscendente.
Rimedio valido fu, ma non sufficiente. Quanto ancor rimase di queste
franchigie della Chiesa per procurare asilo ai malfattori, recava
ancora gravissimo danno, poscia che la mano della giustizia era in
molti casi impedita dal ghermire chi lo meritava, ed in altri casi la
prontezza del procedere, cotanto necessaria per reprimere e frenare i
facinorosi, si cambiava in indugiamenti perniciosissimi. Oltracciò, gli
ordini religiosi, pretendendo di non essere soggetti alla giurisdizione
degli ordinarii, ed essendo l'esecuzione delle volontà del papa
commessa ai vescovi, avvenne che i ribaldi si ricoveravano negli atrii
delle chiese o nei chiostri dei conventi, dove, per non poter esser
giunti dall'autorità vescovile, sicuri vivevano, e donde uscivano per
rubare e per bruttarsi le mani di sangue. Così distrutta od almeno
moderata una immunità, un'altra più forte e più pertinace sorgeva.



    Anno di CRISTO MDCCLXXI. Indizione IV.

    CLEMENTE XIV papa 3.
    GIUSEPPE II imperadore 7.


Povero di avvenimenti si presenta quest'anno, e poche cose e di non
grave importanza ne porge da ricordare.

Giunto, alla metà d'ottobre, in Italia l'arciduca Ferdinando,
sposossi nella metropolitana di Milano a Maria Ricciarda Beatrice
d'Este: maritaggio che diede motivo a molte gioconde e liete feste.
Ma quella che vogliam notare si è il matrimonio di trecento garzoni
con altrettante donzelle per munificenza de' regi sposi celebrato
nella basilica di Santo Stefano maggiore della detta città, con doti
proporzionate al grado di chi le dava, e convitati tutti quanti a lauto
banchetto, rallegrato dal suono di musici strumenti, ed illustrato
dalla presenza de' benevoli arciduchi.

A Parma, alcuni moti popolari richiamarono la vigilanza del duca.
Arrestate molte persone di grado, ed anche ecclesiastiche, furono
esiliate; in pari tempo un ducal editto comandava un raddoppiamento
di forza armata a quiete della città, la dispersione de' gruppi
d'oltre a sei persone, la ricerca e la punizione degli autori d'atti
o discorsi sediziosi od insolenti. Intanto giunto in Parma, col
titolo di consigliere di Stato del re di Spagna, il marchese di Liano,
l'ottimo Dutillot, che da quasi vent'anni con altissimo senno regolava
le bisogna del ducato, partì per Madrid prima che il presente anno
cadesse, e di là poi recandosi in Francia, dov'era nato, poco tempo
dopo terminò la gloriosa vita.

Avviatesi in Corsica le cose alla franzese, non per questo sedaronsi
gli animi, e travolto il primo intendimento, criminose rendevansi le
fazioni, tanto contro i Franzesi occupatori del paese quanto contro
gli stessi compatriotti, cui i facinorosi percuotevano con omicidii,
saccheggi e disordini d'ogni fatta. Il governo franzese, che vedeva
la somma difficoltà di guadagnare a sè una nazione non punto concorsa
a prendersi in collo il giogo del suo dominio, nulla pretermise per
rendere men gravi le catene, e tutte le vie cercava di ridurre l'isola
ad uno stato di qualche calma. Trasportato in Corsica non picciol
numero di famiglie franzesi, principalmente ne' luoghi che per le
vicissitudini e pel lungo durar della guerra aveano ad un tempo perduto
gli abitatori ed i coltivatori delle terre; eretti nuovi villaggi;
accomodate le strade principali; aggiunte nuove fortificazioni a Corte,
all'isola Rossa, e migliorate quelle d'Aiaccio e di altre piazze forti,
sempre munendole di buoni e numerosi presidii; tra queste e altre
simili provvidenze, e più di tutto per mezzo di quella efficacissima
insinuazione che deriva dall'assoluta ed invincibile necessità,
cominciò a vedersi nell'isola quella quiete che da molti anni n'era
sbandita.



    Anno di CRISTO MDCCLXXII. Indizione V.

    CLEMENTE XIV papa 4.
    GIUSEPPE II imperadore 8.


Si sono precedentemente vedute le diverse mosse che Clemente XIV dava
per corrispondere con opportuna condiscendenza ai desiderii d'una gran
parte de' principi cattolici. Ma il più duro scoglio che superare
si dovesse per metter pace tra il sacerdozio e il principato e far
tornare amici i rappresentanti della potestà secolare era severamente
la controversia intorno a' Gesuiti. Instavano acerbamente i principi
per la soppressione; e siccome diffidavano della corte romana, così
sospettavano, non già che Ganganelli li favorisse, che anzi sapevano
che li disfavoriva, ma che per qualche fine più nascosto amasse di
tirare il negozio in lungo, e forse di farlo dileguare per istanchezza.
Quando Monino di Spagna, Almada di Portogallo, Bernis di Francia,
Orsini di Napoli incalzavano, soleva rispondere che il lasciassero pur
fare; che il negozio era grave, e il volea considerare maturamente;
ch'egli era il padre comune de' fedeli, soprattutto dei religiosi; che
non poteva distruggere un ordine di tanta fama nel mondo senza avere
ragioni che appresso a tutti i fedeli, e massimamente appresso a Dio,
il giustificassero.

Debole conforto aveva la combattuta compagnia nel patrocinio del re di
Sardegna, già per mortale infermità vicino a lasciare questo mondo;
poichè intanto nello Stato romano a molti segni si conosceva che il
pontefice aveva la mente avversa da' Gesuiti, e come si approssimasse
la loro ultima fine. Ganganelli non amava di vederli, nemmeno di
salutarli, quando incontrati gli facevano riverenza. Erano loro negate
le udienze, e le decisioni favorevoli s'indugiavano, le contrarie
si affrettavano. Il seminario romano retto da' Gesuiti a Frascati,
conservatorio magnifico, ma allora indebitato, fatto prima esplorare
da tre visitatori, che aspramente ed alla traversa fecero l'ufficio,
restò poscia soppresso, tempo un mese per ritirarsene ai padri, e data
licenza ai pensionarii ed agli studenti di andarsene. Presesi anche
possesso a nome del papa del sontuoso palazzo ch'essi avevano a Tivoli,
e che si apparteneva al medesimo seminario. L'argenteria e gli altri
mobili preziosi dati in custodia ai monti di pietà, vendute intanto le
provvisioni.

Oltre il seminario, i Gesuiti possedevano in Frascati un collegio, al
quale, perseverando Clemente nel medesimo rigore, toccò la medesima
sorte che al seminario. Già presaghi di quanto doveva avvenire, non
accettavano più novizii, e non vestivano gli accettati. Si trattava di
tor loro a Loreto l'uffizio di penitenzieri che esercitavano; perchè
s'erano conceputi sospetti, e si temeva che volessero far sorgere umori
torbidi contra ciò che si andava preparando.

Rigide commissioni furono date al cardinale Malvezzi arcivescovo di
Bologna, e rigido esecutore trovarono. Visitò per ordine supremo del
papa i collegi della compagnia in tutta la diocesi; non ne fu contento
e non voleva essere. Biasimò gli studii, biasimò la disciplina, molte
cose trovò in disordine. Sospettò delle confessioni, sospettò degli
ammaestramenti, prese risoluzioni conformi ai sospetti. Sospese gli
esercizii de' Gesuiti nelle feste di Pasqua, chiuse le scuole, serrò,
portandone le chiavi, tutte le congregazioni che da loro prendevano
regola e norma. Nè ciò bastando, vennero da Roma nuovi ordini: che il
rettore della casa di Bologna mandasse incontanente alle loro famiglie
tutti i Gesuiti della diocesi, eccettuati solamente quelli che avevano
fatto il quarto voto, e che nissun convento li potesse ricevere
sotto pena di scomunica; che fosse proibito a' Gesuiti d'insegnare il
catechismo in pubblico, proibito d'addottrinare nelle chiese, proibita
l'assistenza ai prigionieri, proibiti il ministerio dell'ordine di San
Gabriele e gli esercizii di Sant'Ignazio. Nè qui ancora si terminarono
le tribolazioni di Bologna. I Gesuiti novizii, cacciati dalla città,
eransi riparati alla campagna nel seminario vescovile. Fu intimato a
quelli dello Stato veneto che svestissero l'abito gesuitico; la qual
cosa ricusando essi di fare, arrivarono soldati che gli sforzarono. Gli
altri, o maestri o allievi, mandati chi a Modena, chi altrove.

Compiti i rigori, vennero le angherie. Ciò con dannabile consiglio,
perchè vestiva la sembianza di persecuzione e di cupidità. Male in
queste cose si mescola la gola del fisco; ma la camera apostolica era
inesorabile quando di denaro si trattava. Malvezzi domandò al collegio
gesuitico di Santa Lucia mille scudi per le spese della visita. I
Gesuiti supplicarono al papa perchè giustizia facesse e temperasse
i rigori dell'arcivescovo. Ne venne aspra e minacciosa risposta. A
Ferrara le medesime cose successero per ordine di Roma e per opera del
Cardinal Borghese. La tempesta soffiava contro gl'Ignaziani in tutto lo
Stato romano. A Roma stessa continuavano a precipitare, rigidezza vi si
usava contro i pericolanti padri. Si vietò loro l'accesso al monastero
di Santa Maria dei Funari, a cui si trovava annesso un ospizio di
zitelle fondato da Sant'Ignazio: ne avevano la direzione spirituale; il
papa sospettoso ebbe per bene che fosse loro tolta.

Quantunque Clemente da lungo tempo si fosse prefisso nell'animo di far
fine alla compagnia, tuttavia, acciò non si credesse ch'egli facesse un
giudizio precipitoso, o venisse per filo e per timore dei principi ad
un atto tanto solenne, aveva ormai tre anni temporeggiato. Creò anzi,
per dimostrare di voler considerare la cosa con maggiore diligenza, una
congregazione di cinque cardinali, Zelada, Casali, Caraffa, Corsini
e Marefoschi, con ordine di bene pesare le cose e a lui fedelmente
riferirle.



    Anno di CRISTO MDCCLXXIII. Indiz. VI.

    CLEMENTE XIV papa 5.
    GIUSEPPE II imperadore 9.


Finalmente il Vaticano fulminò. Il dì 21 di luglio del presente anno
vide distrutta l'opera di Paolo III, le radici di più di due secoli
svelte; tante magnifiche fonti d'istruzione e di educazione nei due
mondi chiuse; tante ricchezze in mani aliene mandate; la più forte
milizia di Roma annientata e dispersa; ma vide ancora, e il disse
un papa, la cui sentenza ognuno doveva e deve credere ed avere per
irrefragabile ed inappellabile, vide, si dicea, la cessazione di non
pochi disordini, e la pace del sacerdozio coll'impero.

In quel dì, 21 luglio, fatale pei figliuoli d'Ignazio, papa Clemente
XIV dalla suprema cattedra l'atta sentenza pronunziò, con acconce
parole al mondo favellando. Molte cose essendogli state addotte
ed avendo discusse, il santo padre, per aiuto, come disse, e per
ispirazione del divino Spirito, e spinto così dalla necessità del
proprio uffizio, come dal rispetto che aver dovea alla tranquillità e
quiete dalla cristiana repubblica, persuaso inoltre che, la società
di Gesù non poteva più partorire quei copiosi frutti pei quali
era instituita, convinto eziandio che finchè ella esistesse, pace
nella Chiesa nè vera nè lunga essere potrebbe, mosso finalmente ed
incalzato da cagioni che le leggi della prudenza all'ottimo governo
della Chiesa universale somministravano, e cui nel cuor sepolte
profondamente serbava, pronunziò che fosse estinta e soppressa la
sopraddetta società di Gesù; che fosse soppresso ed abrogato ogni suo
ufficio, ministerio ed amministrazione, ogni casa, ogni scuola, ogni
collegio, ogni ospizio e luogo qualunque, in qualunque provincia, reame
o dominio si trovassero; che fossero abrogati ed annullati i suoi
statuti, regole, pratiche, decreti, costituzioni, anche quelli che
per giuramento, autorità apostolica o altrimenti confermati fossero;
che fossero egualmente annullati e cassi tutti e ciascun privilegio e
indulto sì generale che speciale, e cassi ed annullati s'intendessero,
e come se nel presente suo breve a parola per parola fossero inseriti,
e qualunque fossero d'altronde le formole, la clausole, i decreti,
in cui si contenessero o come fossero concepiti. Per la qual cosa,
seguitò ordinando, volle e decretò che fosse estinta per sempre ogni
autorità del generale dei Gesuiti, dei provinciali, dei visitatori e
di qualsivoglia altro così nello spirituale come nel temporale; che
ogni loro giurisdizione ed autorità fosse intieramente negli ordinarii
trasmessa; che fosse alla società proibito il ricevere novizii e il
dare l'abito; che quelli che fossero accettati, ai voti nè semplici nè
solenni essere non potessero ammessi; che i presenti novizii fossero
incontanente e senza alcun indugio licenziati; che per nissun titolo o
privilegio o ragione coloro che già con voti semplici fossero astretti,
ed a niun sacro ordine iniziati, esser non potessero agli ordini
maggiori promossi.

Decretando la soppressione della compagnia, il santo padre non omise
di statuire quanto agl'individui riguardasse: che coloro, sentenziò
adunque, i quali fossero solamente vincolati dai voti semplici, e
non entrati negli ordini sacri, si intendessero pienamente liberati
dal vincolo dei voti, e rientrassero nel secolo per fare quella vita
che alla loro vocazione, forze e cognizioni di sè medesimi meglio
convenisse; ma quelli che già fossero stati promossi agii ordini
sacri, o entrassero in qualche ordine approvato dalla santa Sede, o
nel secolo vivessero come semplici preti o cherici, ben inteso però che
tenuti fossero all'obbedienza e sottomessione intera e totale verso gli
ordinarii de' luoghi; quando poi alcuno di costoro non fosse provveduto
d'alcun benefizio, se gli assegnasse, sulle rendite della casa o
collegio che abitava, un onesto sostentamento. Quanto a quelli fra i
professi e promossi agli ordini sacri, i quali d'onesto sostentamento
non fossero provveduti, o niun luogo avessero che potessero eleggere
per domicilio, o per età, o per salute inferma, o per qualche altra
giusta e grave scusa, opportuno non istimassero lasciare la casa o
collegio della società, potessero restarvi, con ciò per altro che in
nissuna maniera potessero ingerirsi nell'amministrazione della casa o
collegio, vestissero l'abito dei cherici secolari, ed intieramente si
sottomettessero all'ordinario del luogo; con ciò però eziandio che non
mai in nissun caso confessare potessero e predicare a quei di fuori.
In ordine poi a quelli che come preti secolari vivessero nel mondo, i
vescovi, conosciuta la loro capacità e bontà di costumi, potessero o
investirli o privarli della facoltà di confessare e predicare. Se poi
alcuno fra i soppressi padri imprendesse ad insegnare la gioventù, o di
qualche collegio divenisse maestro o di qualche scuola, sì il potesse
fare purchè non s'ingerisse del governo ed amministrazione della casa,
ed alieno di dimostrasse da quelle dispute e dottrine, da cui solevano
nascere gli odii, le discordie e le turbazioni.

Annullati e cassi nel modo sopraddetto gli stati e privilegii della
società, Clemente dichiarò volere che quelli fra i socii che come preti
eletto avessero il vivere nel mondo, godessero di tutti i benefizii e
prerogative che appartenevano ai loro consimili, non mai stati astretti
a vita claustrale fra la società.

Comandò poscia a tutti ed a ciascuno dei Gesuiti soppressi, e così a'
cherici tanto regolari quanto secolari, che non mai senza licenza del
pontefice romano si ardissero parlare o scrivere nè della soppressione
nè delle forme, regole, costituzioni e governo dell'annullata società,
e nei medesimo tempo proibì a tutti ed a ciascuno di offendere, per
occasione della soppressione, sotto pena di scomunica o in voce o
in scritto, o nascostamente o palesemente, con ingiurie, soprusi,
villanie, beffe, scherni, o qualunque altra maniera di disprezzo qual
si volesse persona, molto meno gli antichi membri della compagnia.

Raccomandata in ultimo luogo la pace a tutti, e domandato a' principi
cristiani il braccio forte per l'esecuzione della sua volontà nella
bolla della soppressione espressa, il pontefice protestò volere che
essa sortisse il suo pieno ed intero effetto, non ostante tutte
le costituzioni ed ordinazioni apostoliche, anche quelle che dai
concilii generali emanate fossero, non ostante ancora la regola
dell'irrevocabilità del diritto acquistato e qualunque altro statuto,
pratica, privilegio e concessione fatta o data, alle quali tutte egli
derogava, e voleva che si avessero per nulle e di niun valore, e se
come mai state non fossero date o fatte. Per maggior cautela poi e
sicurezza che quel che ordinato avea puntualmente si eseguisse, diede
l'autorità dell'esecuzione alla congregazione dei cinque cardinali
e dei due prelati antecedentemente già nominati, volendo che in via
sommaria e senza contestazione o forma o giudizio, anche per mezzo
dell'inquisizione, procedessero contro le persone di qualsivoglia
stato, grado, qualità e dignità fossero, le quali ritenessero,
serbassero o celassero libri, scritture, mobili o suppellettili
qualunque che alla soppressa società si fossero appartenute. E
potessero anche obbligarle a svelare le nascoste cose colle censure
ecclesiastiche, e con tutt'altra pena, con cui piacesse alla
congregazione di castigarle.

Per tal modo l'edifizio innalzato da Paolo III fu demolito da Clemente
XIV. A queste deliberazioni seguitarono ferme esecuzioni. Ai 16
d'agosto, in sul far della notte, i prelati Macedonio e Alfani, membri
della congregazione più sopra accennata, andarono alla casa professa
del Gesù; il prelato Sersale al collegio romano di Sant'Ignazio;
il medesimo prelato Alfani al noviziato di Sant'Andrea; l'avvocato
Zacheri, prosegretario della congregazione dei vescovi e regolari, alla
penitenzieria di San Pietro; l'avvocato Dionigi, auditore del cardinale
Caraffa, all'ospizio dei Portoghesi in Trastevere; il prelato Archetti,
al Collegio germanico; il prelato Riganti al collegio greco; il prelato
Passionei al collegio scozzese; l'abbate Foggini, teologo del cardinal
Corsini, al collegio degl'Inglesi; finalmente il prelato Della Porta
al collegio maronita: gli accompagnavano compagnie di soldati corsi.
Occupatisi dai soldati tutti gli aditi, e postisi tanto dentro quanto
fuori delle nominate case, ciascun prelato deputato, assembrati e
chiamati in cospetto loro i religiosi della comunità, lessero loro per
bocca di notari, che seco loro avevano condotto per questa bisogna,
le lettere del mandato, di cui erano dal pontefice investiti, poscia
la bolla che l'istituto sopprimeva. Quindi procedettero a mettere
i sigilli su gli archivii, sulla ragioneria ed altri depositi o
d'argenterie o di provvisioni. Le quali cose fatte ed eseguite, i
deputati se ne andarono, lasciando sul luogo i soldati, affinchè i
sigilli si conservassero intatti e fermi, ed i religiosi guardassero.
Il giorno seguente i religiosi soppressi cessarono le loro scuole ed
ogni altra funzione. Le loro chiese furono chiuse, eccetto quelle del
Gesù, di Santo Apollinare, in cui furono posti ad ufficiare cappuccini,
minori osservanti e preti secolari, con proibizione di farlo essi
Gesuiti pubblicamente, e nemmeno di farsi vedere nelle sagrestie.

Il medesimo giorno essendosi adunata la congregazione dei cinque
cardinali negli appartamenti della Rota al Quirinale, mandò ordine
che il padre Ricci, superiore generale dei Gesuiti, fosse trasferito
dalla casa professa al collegio inglese: il quale ordine fu messo ad
esecuzione la sera, condotto e scortato il Ricci dai soldati al luogo
destinato in una carrozza del cardinale Corsini, il quale, siccome
persona di bontà, nè troppo avversa ai Gesuiti, il dimane gli mandò
offerendo cioccolato, caffè ed altri simili delicature di cibi. A tale
umile stato era ridotto un uomo che poc'anzi reggeva una compagnia
ricchissima e potentissima in tutte le provincie cristiane dei due
mondi, e che nato egli medesimo in una famiglia per antichità, per
dignità e per beni di fortuna risplendente, ogni altra cosa piuttosto
doveva augurarsi, che questa di dovere cibarsi dei cibi altrui. Dopo
tre mesi poi venne, per le imprudenze di alcun suo amico servato in
castel Santo Angelo. Gli assistenti del generale furono anch'essi dalla
forza soldatesca sostenuti chi in una casa, chi un'altra.

Ancorchè la bolla della soppressione de' Gesuiti fosse da tutti
aspettata, poichè non s'ignoravano nè le istanze de' principi, nè
che il papa già da lungo tempo biecamente li guardava, nè gli atti
rigorosi che erano stati usati contro di loro nelle principali città
dello Stato ecclesiastico, fu ciò, non ostante, con molta maraviglia e
quasi stupore in Roma ricevuta. Alcuni avevano creduto che il papa non
si sarebbe osato di dare un così gran passo, e di venire ad una tanta
deliberazione, che stimavano poter riuscire di grave pregiudizio alla
santa Sede. Altri si erano persuasi che si sarebbe trovato per ripiego,
siccome n'era corso voce, di riformare solamente la società, non di
estinguerla. Non si sa per quale proposito, ma certo è bene che il
ministro di Spagna aveva in ultimo scritto alla sua corte pregando che
della riformazione si contentasse. Ma era venuta risoluta risposta, che
attendesse pure alla soppressione, e d'altro non gli calesse, perchè
sapeva bene il re quel che si faceva.

Ora in quella Roma solita a fare ed udire tanti discorsi sulle
operazioni dei papi, si parlava diversamente, e secondo i diversi
umori della deliberazione di Ganganelli. Chi le era contrario e per
amore de' Gesuiti parlava, andava facendo varii commenti, ed aspre
parole a pensieri aspri annestava. Dall'altra parte i difensori del
papa non tacevano, nè i loro discorsi erano meno acerbi di quelli degli
avversarii. Lungo sarebbe il riportare il molto che fu detto, ridetto
e contraddetto in Roma, poi negli altri paesi intorno alla soppressione
dei Gesuiti. Intanto per ogni luogo si andava sfasciando l'edifizio da
papa Paolo eretto.

I principi cattolici accettarono la bolla di Clemente quanto alla
soppressione; ma rispetto ai beni della compagnia, che il papa aveva
desiderato che si applicassero ad opere pie ecclesiastiche, i sovrani
dichiararono che vi mettevano su la mano regia, e ne avrebbero fatto
quell'uso che più vantaggioso avrebbero stimato allo Stato ed alla
religione. Fecero anche qualche riserva in ordine a quelle clausole
della bolla che contrarie fossero ai diritti della sovranità ed alle
leggi ed usi del paese. Nominatamente la repubblica di Venezia aveva
bensì accettato la bolla, ma colla condizione che fosse salva in tutto
la condizione dei vescovi, salvi i diritti sovrani, le leggi ed il
costume della repubblica, ed esclusa intieramente la comminatoria della
scomunica. Il decreto del senato investì il patriarca della facoltà
di eseguire il breve, quanto alla parte spirituale, con ciò però che
nulla facesse senza l'assistenza di un senatore delegato. Volle altresì
che il senatore prendesse possesso dei beni gesuitici a nome della
repubblica, che si usasse ogni dolcezza coi religiosi soppressi, e che
agli altri ecclesiastici si anteponessero così per le messe quotidiane
come per gli altri esercizii spirituali.

Parimente i serenissimi collegi di Genova s'impadronirono per decreto
espresso di tutti i latifondi, di tutti i mobili ed immobili, di
tutte le rendite, di tutti i capitali in oro ed argento, vasellame,
libri, vasi sacri ed ornamenti che ai Gesuiti appartenevano, o di cui
godevano, e così pure delle loro case, collegi e chiese che esistevano
o fossero per esistere negli Stati della repubblica, ordinando ad una
deputazione composta di tre senatori e quattro nobili di prenderne
reale ed effettivo possesso, e di usare a questo fine tutti i mezzi che
sarebbero necessarii.

Allo stesso modo adoperarono gli altri sovrani d'Italia; il re
di Napoli specialmente con molta condiscendenza verso la volontà
del pontefice, il re di Sardegna con qualche amaro motto verso il
breve, non perchè della soppressione non si soddisfacesse, ma per la
disposizione del papa di voler dare una destinazione determinata ai
beni dei religiosi soppressi, parendogli, come a Venezia ed a Genova
era paruto, che ciò toccasse le prerogative della sovranità temporale.
Già regnava in quel momento sul Piemonte, in luogo di Carlo Emmanuele
III, morto ai 20 di febbraio del corrente anno, il suo successore e
figliuolo Amedeo III.

In ogni parte ebbe luogo l'umanità verso i vietati padri, nè
soggiacquero ad altri rigori, se non quelli che derivavano dal tenore
stesso della bolla. Solamente nella Valtellina, come prima vi si ebbe
notizia della bolla di soppressione, il popolo si sollevò a furore, e
li cacciò via con grida e minacce, mettendo anche a sacco i loro beni,
case, chiese e collegi.

Nella Germania cattolica il breve ebbe facile esecuzione, se si
eccettui la città di Augusta, di cui il principe vescovo scrisse a
Clemente, esservi i Gesuiti giudicati necessarii per utilità della
religione, e però il pregava di contentarsi che seguitassero a vivere
in comunità. Il papa non se ne soddisfece, e, maneggiando il negozio
con prudenza, ottenne finalmente quel che desiderava, ed Augusta
uniformossi al breve.

Ma la volontà del pontefice diede in intoppo nella Slesia per
l'opposizione del re di Prussia. Eranvi in quella provincia Gesuiti, a
cui era commessa l'educazione della gioventù cattolica. Il re non volle
che il breve vi fosse mandato ad effetto, e conservò que' padri nella
direzione delle scuole con salvezza de' loro beni, case e collegi.

Tra le ricerche fatte con estrema diligenza tanto da' commissarii
apostolici in Roma quanto da' deputati de' principi nelle varie
provincie d'Europa, e la minaccia della scomunica contro chi ritenesse
le proprietà de' Gesuiti, non poche ricchezze si rinvenirono in arnesi,
gioie, vasi così sacri come ad uso mondano, ed altre masserizie di gran
valore. Rinvennesi eziandio una certa quantità di denaro contante;
ma questa parte non riuscì all'aspettazione universale, essendosi
ritrovata di gran lunga minore delle enormi somme che nelle riposte
gesuitiche od in conservo presso i loro banchieri gli uomini si erano
dati a credere essere accumulati; conciossiacosachè fosse voce che
occultato avessero e messo in salvo più di ducentocinquanta milioni di
franchi.

Noi abbiamo di sopra accennato siccome al 20 di febbraio del presente
anno il re Carlo Emmanuele III di Sardegna aveva abbandonato la
vita, correndo l'anno settuagesimo secondo della sua età. Guerriero
abile, amministratore diligente, principe d'ottimo costume, sarebbe
per ogni parte da lodarsi, se in certe cose anche buone il volere
far troppo non si voltasse in vizio. Lasciò del suo regno memorie
notabili. Oltre ad altri benefizii, la Sardegna riconosce da lui la
fondazione delle due università di Cagliari e di Sassari; e se da
lodarsi era il pensiero di aprire que' fonti di utili sussidii in
una contrada che molto abbisognava, ugualmente da lodarsi fu il modo
con cui fu mandato ad effetto. Assegnaronsi ai professori emolumenti
ragguardevoli per que' tempi, e sotto un principe piuttosto scarso che
assegnato nello spendere, non furono certamente di poco momento. Fecesi
diligente ricerca de' migliori e più dotti uomini, tanto nazionali
quanto esteri per condurli ad insegnare nelle due novelle università.
Si ordinò una buona disciplina per gli studenti, un acconcio metodo
d'insegnamento per le scuole, una conveniente norma pegli studii. La
Sardegna a nuova vita scientifica e letteraria sorgeva, e si rendeva
manifesto che quell'antica terra era anch'essa feconda di felici
ingegni. Giambattista Simon arcivescovo Turriano, Giannantonio Cossù,
Giuseppe Cossù, Francesco Carboni, Francesco Maria Corongiù, Salvatore
Mameli, Giuseppe Valentino, ed i Cetti ed il Gemelli, con molti altri,
le scienze e le lettere nella famosa e per troppo lungo tempo dagli
Spagnuoli negletta isola nobilitarono.

Nè devesi defraudare della meritata lode il re per aver dato un
migliore ordinamento ai monti frumentarii, o granatici, come si
chiamavano in Sardegna, che per opera delle antiche corti, cioè
assemblee generali degli Stati, avevano avuto principio. Erano questi
monti frumentarii depositi destinati a sovvenire, accomodandoli per via
di prestanze gratuite o di modico interesse di denari, gli agricoltori
che da per sè non potevano, per mancanza di fondi, sementare le terre.
Ma siccome avviene nelle umane istituzioni, anche le migliori, o per
difettive ordinazioni sul principio o per abusi nel progresso, questi
repositorii non corrispondevano più alle intenzioni de' fondatori, e
si erano deviati dall'uso e dall'utile per cui stati erano istituiti.
Per ritirare verso il suo principio una instituzione utilissima in un
paese dov'erano ancora molte terre incolte, ordinò il re, cui erano
ministri o consiglieri un Bogino, un Lodovico Costa della Trinità, un
Vittorio Lodovico des Hayes, ordinò, a ciò movendolo principalmente la
sentenza del Costa, che in ciascun luogo, per ristringere le cose sotto
uniforme regola, vi fosse un magistrato d'uomini eletti così fra gli
ecclesiastici come fra i laici (pensiero accomodato, perchè gli uni e
gli altri avevano antichi diritti), i quali il locale monte avessero in
governo; e perchè l'amministrazione con norma certa ed ordine stabile
procedere potesse, per la ordinazione medesima furono statuiti i doveri
di ciascuno, e le forme del governare, ed il modo dello spartimento de'
frumenti, della riscossione de' crediti, del rendimento delle ragioni.
Di grado in grado, affinchè più occhi la medesima cosa guardassero,
salivano gli ufficii; in ogni diocesi fu creato un magistrato
diocesano, al medesimo modo composto di ecclesiastici e di laici, ma
dal vescovo presieduto, datagli la cura d'invigilare sui magistrati
locali. Si fece poi provvisione che gli uni e gli altri, cioè ed
i magistrati locali ed i diocesani, sopravvegliasse un magistrato
supremo, che in Cagliari sedeva, ed a cui furono chiamati i principali
uffiziali della corona, le prime voci d'ogni stamento ed altre persone
che per zelo dimostrassero avere graziosa volontà verso i monti, e
per pratica sapessero giovarli. Al buon pro loro usaronsi eziandio
le servitudini, e ad opportuni ordini corrisposero conformi effetti.
Diedesi con molto zelo opera ai lavori gratuiti comandati da chi
per feudalità di chiesa o di spada ne aveva il diritto, i magistrati
sopra i monti con ardore ed intelligenza li disponevano, accrebbersi i
capitali, diminuissi il merito delle prestanze, con maggiore agiatezza
vissero i coloni, molte terre, per lo innanzi sterili ed infeconde,
divennero fertili e fruttifere, e produssero in pro della meglio
amministrata isola copia d'ogni buona sostanza. Tanto potè una buona
volontà regolata da buon giudizio! Moltiplicossene la popolazione della
Sardegna, onde si può affermare che Carlo Emmanuele sia stato il più
provvido e benefico sovrano che da molti secoli indietro ella avuto
avesse.

Carlo Emanuele non era uomo da lasciarsi trasportare dal secolo,
posciachè i pensieri proprii non con istraniere forme, ma da sè
formava; e nemico era di qualunque novità che non gli fosse paruta
utile e buona per ogni parte. Ingegno molto riflessivo aveva, tanto
forse eccessivo nella prudenza, quanto lontano dalla temerità. Tardo
era nel determinare, tenacissimo nella cosa deliberata. Giusto era, e
delle feudali cose sanamente pensava; ma, lento nel toccarle per timore
di scrollare l'edifizio sociale di cui erano parte; pure si mosse.
Erano in Savoia le mani morte a guisa dell'antico reame di Borgogna,
di cui il primitivo dominio della casa di Savoia fu membro. Queste mani
morte, ch'erano di due sorti, o delle terre o delle persone, ei regolò
primieramente nel 1762, senza troppo conseguire il fine che desiderava,
e poi definitivamente nel 1771, con grandissimo utile degli uomini e
delle cose.

Lodano alcuni Carlo Emanuele per aver dato miglior sesto alle
costituzioni de' suoi Stati, opera già incominciata da suo padre.
Certamente egli è in ciò da lodarsi, perchè ne risultò maggiore
uniformità nell'amministrazione e nella giustizia, ma è da biasimarsi
di non aver cancellato da que' codici i vestigii dei tempi barbari che
non in picciol numero li contaminavano, massime circa lo stato delle
persone ed i processi e giudizii criminali. Per essi si vedeva che le
dolci dottrine che accennavano a miglioramenti nel governo dei principi
verso i popoli, principalmente negli ordini giudiziali, poco o nulla
avevano ancora penetrato, nè udite erano in piazza Castello della
nobile e generosa Torino.

Crudo non era punto Carlo Emmanuele, ma la tenacità della sua natura
il teneva ch'egli quelle riforme, anche salva l'autorità regia,
nelle leggi operasse che non che l'umanità, ma ricercavano ancora la
giustizia e la religione. Già nei vicini regni e nei lontani un più
benigno influsso andava consolando gli uomini, ed a migliori speranze
chiamandoli; il Piemonte, a guisa delle rocche che il circondano,
immobile durava, nè mostrava d'inchinarsi ai piacevoli venti. Già un
Luigi, due Ferdinandi, un Giuseppe, un Leopoldo le condizioni degli
uomini da loro governati ammollivano, ed a benefiche voci prestavano le
orecchie; ma Carlo Emmanuele ai generosi esempi poco si moveva, quasi
unicamente contento al travagliarsi intorno all'amministrazione, nella
quale certamente molto valeva.

Gli studii si fomentavano, purchè non uscissero da un disegnato e
stretto cerchio. Nissuna vita nuova, nissun impulso, nissuna scintilla
d'estro fecondatore; un aere grave pesava sul Piemonte, e i respiri
impediva. Lo stesso vivere tanto assegnato del principe faceva che la
consuetudine prevalesse sul miglioramento, e che nissuno dall'usato
sentiero uscisse, ancorchè più facili, più utili e più dilettevoli
strade di sè medesime facessero mostra in luoghi vicini.

Dai duri lidi fuggivano Lagrange, Alfieri, Denina, Bethollet, Bodoni,
e fuggendo dimostravano che se quella era per natura una feconda terra,
aveva un gretto agricoltore. Carlo Emmanuele e Bogino si martorizzavano
sui conti, e le generose aquile, sdegnose di quel palustre limo, a più
alti e propizii luoghi s'innalzavano. Francia, Italia, Inghilterra,
Prussia i nobili rampolli accoglievano, ed essi sopra alieni campi
fruttificavano: Luigi Federico, Ferdinando, Leopoldo pagavano il debito
di Carlo Emmanuele e del suo successore.

Tuttavia è da terminarsi quanto di Carlo Emmanuele fu detto colle
parole che un valente scrittor franzese, il signor Mimaut, antico
console generale di Francia in Sardegna, lasciò in una Storia che
ai giorni nostri pubblicò di quell'isola, riportandole quali le ha,
nelle sue storie, tradotte il chiarissimo Botta: «Se mai tempo felice
e prospero fuvvi per la Sardegna, certo fu quello del regno di Carlo
Emmanuele III. Fu questo principe, succeduto a suo padre nel 1730, il
migliore ed il più grande re che la casa di Savoia illustrato abbia. Ei
godrà nella memoria degli uomini di una gloria tanto più pura, quanto
che per benefizii e per virtù se l'acquistò, e per le sue fatiche a
niun'altra cosa mirò che alla felicità de' suoi popoli. Non isfuggì
a quest'eccellente principe, cui guidavano i savii consigli del conte
Bogino, suo primo ministro, uno dei più abili statisti del tempo, suo
Sully e suo Colbert, di quanta importanza per lui fosse la possessione
di un'isola pur troppo dai suoi antichi signori avuta in non cale;
perciò egli con più particolare amore amolla e coltivò.»

Non così tosto il re Carlo Emmanuele era passato da questa vita
all'altra, che il re Vittorio Amedeo, suo successore, si era con
tutta la famiglia condotto alla Veneria, donde non ritornò a Torino
se non dopo alcuni giorni; ma prima che vi giungesse, aveva mandato
pel cavaliere di Morozzo, ministro degli affari interni, domandando
al Bogino che dismettesse la carica di ministro della guerra e di
Sardegna, conservatogli però lo stipendio e le pensioni di riposo;
della quale carica fu investito il conte Chiavarina, segretario del
gabinetto del re. Il marchese di Aigleblanche, della casa di san
Tommaso, fu chiamato ministro degli affari esteri con soprantendenza
degli archivii. Gli fu, dopo alcun tempo, surrogato il conte di Perone,
e il conte Corte fu chiamato ministro degli affari interni in cambio
del Morozzo. Il cardinale delle Lance, uomo di un fare generoso e
grande, ma delle prerogative di Roma zelantissimo, il quale grande
elemosiniere della corona era, domandò licenza, e l'ebbe, ed in suo
luogo fu sostituito il Rovà, arcivescovo di Torino.



    Anno di CRISTO MDCCLXXIV. Indiz. VII.

    CLEMENTE XIV papa 6.
    GIUSEPPE II imperadore 10.


Godeva il papa anzi prospera salute che no; poichè e di complessione
robusta era, e le sue naturali forze non erano state consumate da
vita intemperante e licenziosa; che anzi era sempre vissuto assegnato
e parco, siccome a' suoi moderati desiderii si confaceva. Per tal
modo si andava avanzando verso la più vecchia età, quando in uno di
quei giorni della settimana santa del corrente anno, dopo di aver
pranzato, si sentì in un subito una commozione nel petto, nello
stomaco e nel ventre, come se compreso fosse da un freddo interno. Ne
restò con istupore, essendo cosa insolita; ma pure, siccome quello
che d'animo forte e costante era, attribuendo quell'insulto di male
a caso fortuito, si riebbe, e a poco a poco si rasserenò. Tuttavia
fu principio di un'infermità che era per rompere il filo della sua
vita; imperciocchè gli si cominciò ad arrocar la voce, e per questa
ragione, stimandosi che fosse afflitto di catarro, fu deliberato che
per la cappella che dovevasi tenere nella basilica di San Pietro il
giorno di Pasqua se gli mettesse un capannone o bussola per ricovero
nel sito della cappella. Precauzione inutile, perchè gli si vide dopo
alcuni giorni infiammata la bocca e la gola, quindi seguitare vomiti
interrotti, ed eccessivi dolori nel ventre; le orine gli si impedirono,
gli s'infievolirono le gambe, perdeva le forze, ed ogni giorno più
si rendeva manifesto che il suo mortale corpo si andava disfacendo.
Mormoravasi che di veleno si morisse. Forse egli stesso sel credeva,
tanto era stato subito il male, e tanti erano i sospetti che regnavano.
Certa contadina del paese di Valentano, Bernardina Beruzzi, che altri
chiamavano Peronchini, famosa profetessa, aveva predetto la morte del
Ganganelli ad insistito sulla predizione, come se esser dovesse effetto
d'una trama. Ganganelli non era uomo da lasciarsi spaventare da simili
baie fatte per dar pasto agli sfaccendati su per i trivii e su per le
piazze, e Bernardina teneva in quel concetto che meritava, cioè di una
sciocca o d'una furba. Ma da un'altra parte, conoscendo quanto sotto
dolci spoglie certa gente nascondesse d'odio e di vendetta, provvedeva
a sè medesimo, e la propria salute con tutti i mezzi più prudenti
procacciava. Scrissero che furongli trovate pillole contro i veleni. La
vitale forza interna mancava, stante che un umore litigginoso, ch'era
solito sfiorirgli alla pelle, quell'anno non uscì.

Già la morte si avvicinava. Successe un po' di calma, come suole
avvenire poco innanzi che l'uomo sia venuto all'ultimo confine della
vita, come se Dio avvertire volesse i mortali di pensare ai fatti loro
in quell'estremo momento. Già i famigliari si rallegravano, come se
il loro signore a sanità tornasse. Ma la calma era preceditrice della
morte. Ricomparirono in un subito i funesti segni, e la mattina de'
22 settembre Ganganelli esalò la forte anima, rendendola a colui che
gliel'aveva data.

Fu sparato il cadavere. Trovaronsegli lividori nelle intestina, la
pelle ancor essa illividita ed in alcuni luoghi nera; tutta la salma
rendeva un fetore insopportabile. Crebbero i romori che il santo padre
fosse stato avvelenato, non già perchè le apparenze dell'esplorato
cadavere ciò dimostrassero, perciocchè si osservano anche nei morti
senza veleno e da morti naturali tolti da questa vita, ma perchè gli
uomini si erano mattamente dati a credere che colui che aveva soppresso
i Gesuiti non di morte naturale, ma di tossico dovesse morire. Gli
uni affermarono l'attossicamento per certo, gli altri con eguale
asseveranza il negarono. Del resto, è da credere che dal detto al fatto
ci sia una gran distanza, nè si vede che i medici che il cadavere hanno
tagliato abbiano dichiarato avervi trovato sostanza velenosa, cosa che
sola avrebbe potuto levar via ogni dubbio.

La morte di Clemente increbbe a tutti coloro che amavano di vedere
la sincera religione unita alla paterna sopportazione. Papa unico
il chiamavano, papa quale ad un secolo scrutatore ed inquieto si
conveniva. Sono parecchie cose al mondo che più colla bontà si
acquistano che colla ragione; perocchè niuno è che la bontà non ami, ma
la ragione ha spesso per nemico chi ella convince.

Tutti i sovrani avevano in venerazione Clemente; nè solo i cattolici,
ma ancora quelli di religione diversa. Federigo di Prussia, fra gli
altri, assai del buono e spiritoso papa si soddisfaceva, ed amava
di contentarlo. Da lui impetrò che il vescovo di Breslavia potesse
visitare una parte de' suoi diocesani, agevolezza che non aveva mai
potuto ottenere da' predecessori. «Che buon papa, che buon papa
ha Roma,» diceva Federigo, e il diceva da vero, non per malizia,
quantunque malizioso fosse.

Il nome di Clemente era in onore in Inghilterra. Vedevansi a Londra
frequenti, così ne' luoghi pubblici come nelle case dei privati, i
busti di questo pontefice. Le quali cose quando gli venivano riferite,
ei rispondeva: «Volesse pur Dio che ciò che fanno per la persona, il
facessero per la religione!» In somma in quel paese, tanto abbondante
d'uomini sensati, tanto era nominare Ganganelli quanto Lambertini, due
papi simili per dottrina, per saviezza, per bontà, per ingegno.

Nè minori sentimenti di rispetto e d'affetto nodriva per Ganganelli
l'imperadrice di Russia, la quale gli scrisse lettere molto onorevoli
per impetrare un vescovo cattolico a regola e consolazione de' prelati
e religiosi del rito romano che abitavano ne' suoi Stati.

Dicono che l'egregia fama di Clemente fosse anche penetrata sino a
Costantinopoli, e che il soldano molto l'onorasse. Fu anzi tramandato
alla memoria che il sovrano de' Turchi abbia detto un giorno parlando,
all'ambasciatore di Venezia: «Se tutti i vostri papi fossero come
quello che presentemente avete, i nostri patriarchi greci non si
mostrerebbero tanto dalla corte di Roma alieni. Egli è un saggio che
molto sa e rettamente procede, e non fia che ai più lo somiglino le età
future.»

I Turchi, i protestanti, i Russi, gli Inglesi stessi, tanto odiatori
del papato, lodavano quel papa che altri con malediche penne lacerava.
Le lodi stesse dei dissidenti gli erano imputate a delitto, come se
la durezza e la cupidigia de' due papi della famiglia de Medici e di
alcuni altri non avessero partorito abbastanza amari frutti per la
Chiesa cattolica, e specialmente per la sede di Roma.

Clemente, assunto al pontificato, aveva seguito il suo consueto
costume quanto alla vita privata, da umile fraticello vivendosi qual
era stato, ma nelle udienze e funzioni pubbliche non mancava in lui
la magnificenza. Molto ancora si studiava di abbellire la sua Roma.
Promosse ed ingrandì l'opera già cominciata da Lambertini, di adunare
in un museo che ancora oggidì del suo nome di Clemente si chiama,
preziosi residui dell'antichità. Raccolse i già noti, trovonne in quel
fecondo suolo degl'ignoti, e tutti collocava in luogo appropriato,
a maraviglia dei curiosi, ad istruzione degli studiosi delle belle
arti. Parve che l'antica terra alle generose intenzioni del pontefice
sorridesse; imperciocchè, tentata, versava fuori in copia le opere
preziose degli scarpelli de' secoli passati. Le reliquie della nostra
religione, i residui della pagana ad un tempo adunava. Gli uomini di
gentilezza informati o di studio desiderosi di ciò il commendavano
molto; ma divenne argomento di nuova accusa dall'altro lato,
biasimandolo i suoi nemici dello aver mescolato le cose sacre colle
profane, come se un museo d'antichità fosse una chiesa. Piacevagli
visitare sovente quelle onorande depositerie de' nostri antichi padri;
piacevagli mostrarle egli stesso in persona ai forestieri che la sempre
gloriosa Roma visitavano, e fra le maraviglie che vi si vedevano, il
buon pontefice stesso non era la minore. Ebbe particolare cura della
libreria del Vaticano, cui in singolar modo adornò di stampe, di testi
a penna, di medaglie: crebbe a' suoi tempi per gli sforzi suoi, crebbe
per generosità del cardinal Passionei, suo amico, ed a lui molto
somigliante, il quale l'arricchì della sua. Gentili spiriti nudriva
allora Roma, come sempre; ma questa volta erano dati loro liberi e
fecondi cambi da chi reggeva.

Anche all'utilità Ganganelli mirava. Non omise il pensiero de' porti
d'Ancona e Civitavecchia, pei quali ordinò utili riparazioni. Provvide
alla comodità delle strade, in ogni parte dell'amministrazione de'
pubblici invigilava, più da padre di famiglia procedendo che conosceva
le necessità dal mondo.

Ma che dirassi di quella sua deliberazione per cui proibì la castratura
de' fanciulli, infame usanza, che disonorava la Italia e cambiava un
piacere divino, voglio dire quello del canto, in un dolore angoscioso
per chi aveva ancora viscere d'umanità. Così comandò, così ottenne; ma
tante erano le radici dell'orribile costume, che ripullulò; e se il
cielo non aiuta la nobile provincia, temo che lungo tempo ancora sia
per durare. Quei che dovrebbero non lo biasimano, i padri dei miseri
fanciulli non l'abborriscono, e vi è ancora chi si diletta di sì
crudele snaturato scempio.

Ganganelli fu papa in tutto assai diverso da' più. Ebbe in dispregio il
nepotismo, nè alcuno de' suoi trasse a dignità, e meno al cardinalato.
A quelli che gli raccomandavano i parenti, rispondeva che tutti li
portava in cuore, gli amava, ma che se ricchi non erano, neppure non
erano poveri, ed abbastanza ricco stimava chi con moderate sostanze,
moderati desiderii aveva. Non volle empire l'ambizione di nissuno. I
suoi parenti prediletti erano i poveri, tirando sempre mai sopra di sè
i loro affanni, e a loro con giudizio e discrezione soccorrendo per
non farli viziosi. In somma, ei sarebbe stato papa di perfetta fama
appresso a tutti, se non avesse soppresso i Gesuiti. Questo solo gli
procurò amarezze in vita, riprensione dopo morte.

Languiva intanto nel suo carcere il Ricci. Nè dalle lettere intercette
nè dalle risposte da lui date ne' costituti del processo che gli fu
fatto negli ultimi mesi dell'anno 1773 e ne' primi del presente nè da
altro suo andamento risultò che egli si fosse stimato ancora investito,
dopo la soppressione pronunziata dal papa, di quell'autorità che aveva,
essendo generale della compagnia, esercitato, nè che avesse nascosto
grosse somme di denaro, siccome il mondo aveva creduto. Non venne in
luce alcun suo reato particolare, nè fu interrogato sulle massime ed
artifizii che imputavansi alla compagnia e da' quali si fece derivare
la sua soppressione. Gli esami s'indrizzarono piuttosto sui fatti
personali del carcerato che sulla natura e sugli atti della società.

Invecchiava intanto ed all'ultima sua fine si avvicinava. Volle prima
di morire fare una protesta tanto sulla innocenza propria, quanto su
quella della compagnia:

«L'incertezza del tempo, scrisse di proprio pugno, in cui a Dio piaccia
chiamarmi a sè, e la certezza che un tal tempo sia vicino, attesa
l'età avanzata, e la moltitudine, la lunga durata e la gravità de'
travagli troppo superiori alla mia debolezza, mi avvertono di adempire
preventivamente i miei doveri, potendo facilmente accadere che la
qualità dell'ultima malattia m'impedisca di adempirli nell'articolo di
morte.

Pertanto, considerandomi sul punto di presentarmi al tribunale
d'infallibile verità e giustizia, qual è il solo tribunale divino,
dopo lunga e matura considerazione, dopo avere pregato umilmente il
mio misericordiosissimo Redentore e terribile giudice a non permettere
ch'io mi lasci condurre da passione, specialmente in una delle ultime
azioni della mia vita, non per veruna amarezza d'animo, nè per verun
altro affetto o fine vizioso, ma solo perchè giudico esser mio dovere
di rendere giustizia alla verità ed all'innocenza, faccio le due
seguenti dichiarazioni e proteste:

Prima. Dichiaro e protesto che l'estinta compagnia di Gesù non ha dato
motivo alcuno alla sua oppressione. Lo dichiaro e protesto con quella
certezza che può moralmente aversi da un superiore bene informato della
sua religione.

Seconda. Dichiaro e protesto ch'io non ho dato motivo alcuno, neppure
leggierissimo, alla mia carcerazione. Lo dichiaro e protesto con quella
somma certezza ed evidenza, che ha ciascuno delle proprie azioni.
Faccio questa seconda protesta solo perchè necessaria alla riputazione
dell'estinta compagnia di Gesù, della quale ero preposito generale.»

Esposto poi che non intendeva che, in vigore di queste sue proteste,
potesse giudicarsi colpevole avanti Dio veruno di quelli che avevano
recato danno alla compagnia di Gesù o a lui, continuò dicendo:

«E per soddisfare al dovere di cristiano, protesto di avere sempre col
divino aiuto perdonato e di perdonare sinceramente a tutti quelli che
mi hanno travagliato e danneggiato, prima cogli aggravii fatti alla
compagnia di Gesù e con le aspre maniere usate coi religiosi che la
componevano: poi colla estinzione della medesima e circostanze che
accompagnarono l'estinzione; e finalmente colla mia prigionia e con
le durezze che vi sono state aggiunte, e col pregiudizio annesso della
riputazione; fatti che sono pubblici e notorii a tutto il mondo. Prego
il Signore di perdonare prima a me per sua mera pietà e misericordia
e per i meriti di Gesù Cristo i miei moltissimi peccati, e poi di
perdonare agli autori e cooperatori dei sopraddetti mali e danni; ed
intendo di morire con questo sentimento e preghiera in cuore.»

Le quali cose scritte, Ricci terminò la sua scrittura pregando, e
scongiurando qualunque la vedrebbe, di renderla pubblica a tutto
il mondo per quanto potesse. Di ciò pregò e scongiurò per tutti i
titoli di umanità, di giustizia e di carità cristiana che possono a
ciascheduno persuadere l'adempimento di questo suo desiderio e volontà.



    Anno di CRISTO MDCCLXXV. Indiz. VIII.

    PIO VI papa 1.
    GIUSEPPE II imperadore 11.


Geloso e importante negozio era il dare a Clemente un successore che a
Roma ed al mondo cattolico si convenisse. I sovrani stavano attenti,
acciò non fosse promosso alla cattedra pontificale un cardinale, di
cui si potesse sospettare che fosse per rimettere in vita l'estinta
compagnia. Ognuno prevedeva che, stante lo spirito del secolo, un
papa che sentisse del severo, non sarebbe piaciuto; e bene avea detto
il grande Lambertini, quando delle contingenze dei tempi parlando,
si lasciò uscir di bocca le seguenti parole: «Questo è tempo da
appiattarsi e da dar del buono. Fortunati noi, se, dopo di avere
tanto gridato contro i quattro articoli del clero di Francia del 1682,
vedremo che i popoli se ne contentano e si ristanno e non vanno più
oltre.»

Da' un altra parte la parsimonia del fraticello di Sant'Arcangelo
pareva fuori di proposito in un secolo in cui la vita interiore era
quasi ridotta al niente, e tutta esteriormente si mostrava. Parve ad
ognuno che nel cardinale Angelo Braschi si accoppiassero le qualità che
si desideravano. Molto splendore nella persona e nel procedere aveva, e
sebbene fosse debitore della sua esaltazione alla porpora cardinalizia
ai Gesuiti, essendovisi molto adoperato ai giorni della sua potenza
il generale Ricci, la natura sua ne l'allontanava. Aveva eziandio voce
di persona dabbene, avendo maneggiato parecchi anni con rettitudine le
faccende dalla camera, e siccome voce aveva, così era veramente persona
dabbene.

Queste considerazioni, oltre i voti fermi a sua voglia che aveva per
l'aderenza dei principi, gli procuravano tanto favore, che quasi con
tutti i voti fu in un non lungo conclave chiamato papa, il dì 14 del
mese di febbraio del presente anno.

Poche assunzioni di pontefici cagionarono tanta allegrezza nei popoli,
massime nel romano, di quella d'Angelo Braschi, il quale, come è
noto, elesse il nome di Pio VI. Auguravano, considerando l'indole sua
generosa, che pace per la religione, larghezza ed abbondanza per Roma
vi sarebbe. Felicissimi principii che ebbero funestissimo fine, non già
per colpa sua, ma dei tempi.

Dopo la creazione di Pio si parlava tuttavia con molto calore dei
Gesuiti. Erano gli uomini particolarmente attenti al vedere che fosse
per avvenire del generale Ricci, che sempre stava rinchiuso in castel
Sant'Angelo con molta diligenza. Il nuovo papa, piuttosto per timore
che i principi si lamentassero se Ricci liberasse, che per inclinazione
o sentenza propria, seguì a tenerlo in cattività, procurandogli però
tutte quelle agevolezze e comodi che in una prigione l'uomo carcerato
può sperare. I principi avevano gelosia che se l'antico capo della
società proscritta divenisse libero, la raggroppasse e integrasse, se
non in forma aperta, almeno in segreta.

Ma Ricci il 19 novembre riceveva il santo viatico in occasione della
sua ultima malattia, e, nell'atto di riceverlo, le medesime proteste
e dichiarazioni ripeteva che avea fatte l'anno innanzi, e che furono a
lor luogo riportate.

Preso il santo viatico, Ricci dopo due giorni passò da questa all'altra
vita. Pio VI volle onorare morto colui che non aveva potuto liberare
vivo. Per ordine suo gli furono fatte, il dì 26 di novembre, solenni
esequie, non già nella parrocchia del castello dove solitamente si
uffiziava pei morti in quelle carceri, ma nella chiesa di San Giovanni
de' Fiorentini, chiesa della sua patria.

Il vescovo di Comacchio celebrò le esequie e predicò Ricci come
martire. Il cadavere fu portato la sera alla casa professa, dove venne
sepolto fra le ossa dei suoi predecessori.

Un singolar ragionamento si è fatto intorno al Ricci dagli avversi
agl'Ignaziani che porta il pregio di qui riportare. «Chi attentamente,
dicevano, le proteste e dichiarazioni del Ricci, scritte del resto con
tanto maggiore forza quanto più spirano semplicità e mansuetudine,
considererà, giudicherà certamente, che siccome i fatti sui quali i
principi fondarono le loro querele contro la compagnia di Gesù ed il
papa la sentenza dell'estinzione, erano notorii a tutto il mondo, e
però a nissun modo si potevano o si possono recare in dubbio, così o
Ricci non gli stimava riprensibili o dannabili, il che dimostrerebbe
una larghezza di coscienza veramente maravigliosa e oltre ogni misura
temeraria; o, volendo farli tenere per falsi, mentiva agli uomini
e a Dio in quel momento stesso in cui era vicino di comparire alla
presenza di colui che non si lascia dalle bugie e dagl'inorpellamenti
ingannare.»



    Anno di CRISTO MDCCLXXVI. Indiz. IX.

    PIO VI papa 2.
    GIUSEPPE II imperadore 12.


I lieti augurii del nuovo pontificato cominciarono in principio di
quest'anno a smentirsi per una contesa insorta colla corte di Napoli,
che presagire in vece fece a molti la procellosa condizione del
pontificato medesimo. Con suo speciale decreto fu dal re Ferdinando
IV abrogato il costume antico di quella corte di presentare ogni
anno con grande solennità una chinea al papa, il che come un omaggio
riguardavasi dovuto in ricognizione della corona di Sicilia. E colla
chinea presentavasi una cedola di dodici mila ducati, che parimenti
come tributo ricevevasi, e da quel re fu collo stesso decreto
ordinato che tale somma si offrirebbe come semplice limosina. Si
ristabilì tuttavia la concordia tra le due corti, e la ceremonia della
presentazione della chinea continuò ad adempirsi nella vigilia di
San Pietro dal contestabile Colonna, che nominato era ambasciatore
straordinario di Napoli per quella solennità. Se non che la
presentazione facevasi in un modo consentaneo soltanto agli artifizii
politici consueti, perchè, mentre l'ambasciatore offeriva il donativo
come limosina ai santi Apostoli Pietro e Paolo, il papa la riceveva
come tributo di vassallaggio per la corona di Sicilia.

Un'illustre cerimonia fu in quest'anno rinnovata sul Campidoglio
romano. Fin dall'anno 1341, Francesco Petrarca, pieno di meriti,
era stato dal favore del principe Stefano Colonna portato a vedersi
fregiata la fronte della poetica corona nel luogo stesso ove un tempo
incoronavansi colla stessa fronda gli sterminatori degli uomini.
Nel 1595, eguale onore, per mezzo e colla cooperazione del cardinale
Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, apparecchiavasi all'immortale
Torquato quando invida la morte il tolse al meritato trionfo. Il
cavaliere Bernardino Perfetti, celebre verseggiatore sanese, che con
impareggiabile facilità improvvisava versi italiani, e versi pieni di
sugo, e non di sole frasche, come si esprime il sommo Muratori (tom.
VII, col. 521), fu nel 1725 incoronato di alloro, per protezione di
Violante di Baviera, vedova gran principessa di Toscana. Quest'anno,
una donna di Pistoia, Maddalena Morelli Fernandez, in Italia conosciuta
sotto il nome di Corilla Olimpica, divenuta famosa pel dono dei versi
estemporanei, era stata coronata nel serbatorio dell'Accademia di
Roma con grande applauso di quei dotti accademici. Ma o che di ciò
non paga fosse la Toscana Saffo, o che i suoi ammiratori nol fossero,
alle istanti sollecitazioni del custode dell'Arcadia presso il governo
romano, ed ai maneggi del principe Gonzaga di Castiglione, conseguì
ella l'ambito onore di essere coronata solennemente nelle sale stesse
del Campidoglio. Dal che una grande scissura sorse tra i letterati, ed
in seno della stessa accademia, gli avversi alla donna, o i più severi,
o i più invidiosi, quell'atto chiamando una profanazione dell'alloro
al Petrarca ed al Perfetti donato, al Tasso destinato. Le satire e
le ingiurie fioccarono da varie parti, e produssero processi e rovine
dei meno prudenti; in mezzo al quale trambusto, la coronata poetessa,
uscendo del Campidoglio al suono dei fischi degli avversarii più sonori
degli applausi de' benevoli, dovette allontanarsi da Roma, scortata da
gente armata, per non trovarsi esposta a maggiori dileggi e ad oltraggi
ancora.

Altra mercede intanto dava la Superba Genova ad un suo cittadino.
Il doge Giambatista Cambiaso, decesso nel 1773, aveva a proprie
spese, che sommavano ad alcuni milioni di quella moneta, costrutta la
pubblica magnifica e spaziosa strada che al commercio apriva libera la
comunicazione tra quella capitale e la Lombardia austriaca. Fece dunque
la repubblica collocare nel salone del gran palazzo della signoria una
statua di marmo rappresentante questo suo cittadino e principe, che
fosse ad un tempo gloria di lui e monumento della civica riconoscenza.



    Anno di CRISTO MDCCLXXVII. Indiz. X.

    PIO VI papa 3.
    GIUSEPPE II imperadore 13.


Già da circa quattro anni regnava sul Piemonte il re Carlo Emmanuele.
Dalle mutazioni al suo avvenimento succedute, e già al proprio luogo
riferite, i Piemontesi si auguravano miglior condizione, non tanto
perchè così suole avvenire in ogni cambiamento di signore, quanto
perchè il nuovo re aveva voce d'uomo generoso e molto lontano dal
procedere stretto e scarso del padre. Diede anche alcuna contentezza
ai popoli il vedere allontanato dai consigli della corte il cardinale
delle Lance di cui si conosceva l'eccessiva dipendenza da Roma;
onde sperarono che le ragioni della potestà laica sarebbero meglio
preservate, e si fosse per vivere con qualche maggiore larghezza
rispetto alle pratiche della esterior disciplina, le quali, quando
con soverchio rigore ristrette sono, fanno gli uomini più ipocriti che
religiosi.

Solamente dava noia il conoscersi l'umore guerreggevole, di cui
Vittorio era dominato, e l'usare prodigalità, come ei faceva,
principalmente verso i suoi soldati; prodigalità che ogni termine di
larghezza oltrapassava. Onde accadde che per lo spendio eccessivo si
fusero e scialacquarono le sostanze pubbliche, ed in breve tempo restò
esausto il tesoro lasciato pieno dal padre, che la fama affermava
sommare a dodici milioni di lire piemontesi. Il debito pubblico
s'accrebbe di tal maniera, che, quando vennero i tempi grossi, la
monarchia ne restò sobbissata ed oppressa.

Ma nel corso del suo vivere ed usare prodigalmente Vittorio, siccome
generoso era, molte opere degne di memoria lasciò, e di utilità non
poca; imperciocchè e l'accademia delle scienze, che per lo innanzi era
semplice e privata società fondata da quei tre sommi uomini Lagrange,
Saluzzo e Cigna, con decreto reale approvò; e fondò la specola e
l'accademia di pittura e di scoltura. Fra le opere utilissime da lui
promosse debbesi annoverare quella d'avere, acciocchè i cadaveri più
non si seppellissero nelle chiese, eretto fuori della città, in riva il
Po, il cenotafio. Da lui deve eziandio Torino riconoscere il beneficio
d'essere illuminata la notte.

Nè è da tacersi che, dando ascolto ad uomini chiari per dottrina e
gelosi della prosperità del paese, ei creò l'accademia agraria, da
cui non poco pro sorse per la coltivazione dei campi, principale
fonte di ricchezza per quella subalpina regione. Agli uomini dotti e
zelanti della buona coltivazione de' campi aggiunse mezzi insoliti di
fertilità, con condurre canali d'acque irrigatrici ne' luoghi che più
ne abbisognavano. Fra gli altri è da ricordare quello che da rimpetto a
Cuorgnè conduce l'acque limpidissime dell'Orco a Chivasso; per la qual
bisogna ei fu d'uopo cavare in molta lunghezza due monti, opera che non
senza maraviglia si vede in essere anche a' dì nostri nel territorio di
San Giorgio Cavanese.

Quindi poscia, entrando in ciò che più gli andava a genio, con nuovo
modo ordinò le soldatesche, modo che, come troppo complicato, non
ebbe l'approvazione degli uomini periti di milizia. Alzò la fortezza
di Tortona, cavò il porto di Nizza, la strada dalla capitale a quella
marittima città a maggiore comodo ridusse, alle fortificazioni di
Villafranca migliore forma procacciò, sussidio inutile, poichè un
urto tremendo venne di fuora, e le radici di dentro erano difettose.
Mancò il denaro, principale nervo della guerra, e soprabbondarono
smoderatamente le soldatesche, da cui, contuttochè buone fossero
e valorose, non potè salvarsi lo Stato; che anzi in certo modo
l'oppressero, pel numero stesso nocquero e la macchina sfondarono.

Del rimanente, Vittorio Amedeo fu principe di buono ed alto animo, nè
gli dispiacevano i generosi pensieri. Lasciò che nella università di
Torino da professori egregi s'insegnassero le dottrine che la potestà
temporale dagli abusi della spirituale preservavano, ancorchè il
cardinale delle Lance alcuna volta lo sgridasse; e taluno ricorda che,
volendo un famoso libero muratore fondare in Torino una di quelle sue
congreghe, e domandatane la permissione al re Vittorio gli rispose:
«Lasciatemi stare, che il cardinale mi sgrida; non voglio brighe
coi preti. Oh, va, ed abbi pazienza, che anch'io l'ho.» Dilettavasi
della conversazione de' letterati, e si faceva spesso venire avanti
l'abbate Morando, prete acerbo, ma che scriveva libri a dilungo con
qualche novità, e fra quegli ori il faceva sedere, e parlava con lui
di lettere, e tratto tratto apriva il forzierino, e dava doppie d'oro
all'abbate, che poi sen andava molto ben contento. Tal era Vittorio.

Per la sua natura benigna e generosa, questo principe era fatto per
ordinare utili riforme e cambiare il male in bene. Forse le avrebbe
fatte in un tempo massimamente in cui suonava tanta fama di quelle
che Giuseppe e Leopoldo andavano facendo in Lombardia ed in Toscana,
se non fosse stato ritenuto da una nobiltà superba ed imperiosa,
nè tanto disposta all'obbedienza delle inclinazioni soldatesche. Il
buon uomo non capiva in sè dal piacere, quando vedeva i suoi soldati
schierati, e più ancora quando li faceva vedere ai principi che il
venivano visitando, a Paolo di Russia, a Gustavo di Svezia e Ferdinando
di Napoli. Nè poca noia sentì, quando Paolo gli disse che i fucili
de' suoi soldati erano, non so se troppo lunghi o troppo grevi, o per
sè stessi o per le baionette, onde i colpi, per la stanchezza delle
braccia troppo abbassandosi, andavano verso terra, e non potevano bene
ammazzare la gente. Non poteva sopportare che i suoi soldati fossero
criticati. In somma soldato era ed amava i soldati, e portava il collo
piegato a guisa di Federigo di Prussia. Infelice, che non prevedeva
che oltr'Alpi un tale sobbisso di guerra si andava preparando che, i
proprii soldati soperchiando, avrebbe condotto lui, il suo Stato e la
sua casa in perdizione!

Erasi bensì Clemente XIV riconciliato destramente colla corte di
Portogallo, ma ricuperato non aveva tuttavia il potere di cui la romana
corte godeva in Lisbona al cominciare nel pontificato di Clemente
XIII. Si sospettava da alcuni che la controversia fosse ravvivata
dal marchese di Pombal, da altri, che opera fosse del partito de'
Gesuiti, il quale ancora si agitava dopo la soppressione loro. Tornato
era bensì un ambasciatore portoghese in Roma, e un nunzio apostolico
era egualmente passato a Lisbona; ma eretto erasi in quella città un
tribunale che ristringeva ne' più angustissimi limiti la giurisdizione
della corte di Roma, e que' diritti che i papi in quel regno per lungo
tempo conservati avevano con grandissima gelosia. In quest'anno morto
essendo il re Giuseppe I, la regina Maria esiliato aveva il Pombal, e
abolito il tribunale destinato a frenare la pontificia autorità, al
quale dovevano presentarsi tutti gli atti alla nunziatura relativi.
Non fu dunque se non sotto il pontificato di Pio VI, e precisamente in
questo tempo, che tutti i diritti della nunziatura furono ristabiliti,
e che con una specie di trattato si venne ad un'aperta concordia tra le
due corti.

Dopo le cose maggiori, non farà dispiacere il trovare in questi Annali
registrate alcune altre glorie dell'Italia nostra. Padova e Bologna in
due differenti secoli avevano veduto un singolare spettacolo. Lucrezia
Elena Cornaro Piscopia nel 1678 era stata decorata della laurea
dottorale di filosofia nell'università di Padova alla presenza di un
numero grande di dotti, di nobili veneziani e di altri gran signori
ivi concorsi da tutta Italia per sì estraordinaria funzione. Lo stesso
onore del dottorato ebbesi in Bologna nel 1732 pel suo gran sapere
e pe' talenti suoi sommi Laura Bassi, alla presenza de' cardinali
Lambertini e Polignac. Ora anche Pavia vide in quest'anno premiarsi il
merito d'una valorosa giovanetta. Maria Pellegrina Amoretti d'Oneglia,
sostenuti rigorosi esami in quella università, ricevette la dottoral
corona in legge, vera ed estrema ammirazione destando in ognuno colla
profonda sua dottrina in tutti i rami della giurisprudenza.



    Anno di CRISTO MDCCLXXVIII. Indiz. XI.

    PIO VI papa 4.
    GIUSEPPE II imperadore 14.


Tutti i principi, tutti gli Stati d'Italia studiavansi a gara di
aumentare, in seno alla pace, la ricchezza territoriale de' loro
sudditi, promuovendo regolarmente la agricoltura ed il traffico.
Regnava, come ognun sa, sulla Lombardia l'imperatrice Maria Teresa,
e colle più savie leggi, coi più opportuni regolamenti promoveva essa
pure la prosperità di quella provincia. Nè deve omettersi, tra le più
gloriose imprese del suo regno, il compimento dato allora alla grande
opera del censimento della Lombardia medesima.

Il papa sembrava che emular volesse a quegli sforzi generosi, e
studiavasi a trarre le provincie della Chiesa dallo stato di languore
nel quale da più secoli giacevano relativamente al traffico ed
all'agricoltura. Il desiderio ardente di rendere alla coltivazione
un gran numero di terreni incolti e deserti l'idea gli suggerì di
asciugare con immenso spendio le paludi Pontine. Il disegno n'era già
stato conceputo più volte, le operazioni relative erano state proposte
dal celebre Eustachio Zanotti; ma, morto questi senza poterle eseguire,
Pio adottati ne aveva con calore i suggerimenti. Credettero alcuni
che la brama egli nudrisse di segnalarsi e rendersi immortale con una
impresa, nella quale riusciti non erano Martino V, Sisto V e molti
altri pontefici, senza dire de' Romani e de' Goti che nel difficile
esperimento gli avevano preceduti; furono altri d'avviso che, riducendo
a coltivamento quella immensa pianura, disegnasse già di formarne
un bellissimo principato pe' nipoti. È d'uopo però notare, dice il
ch. Bossi, contro il parere di varii storici, massime oltramontani,
ingannati sovente da false relazioni, che per più anni dopo il suo
innalzamento non volle mai il pontefice usare di alcuna compiacenza,
nè, molto meno, di alcuna distinzione verso i nipoti suoi, e solo per
le replicate istanze del cardinale Giraud s'indusse a chiamarli in
Roma da Cesena, dove per lungo tempo lasciati gli aveva. Il disegno
dell'asciugamento delle paludi Pontine di qualche tempo prevenne
adunque il supposto nepotismo di questo papa. Non potè egli però ne'
primi anni del suo regno attendere a quel grande lavoro, nè gli fu
tampoco dato, di compierlo interamente benchè dopo il 1780 già fosse
aperto un grandioso canale per condurre al Mediterraneo le acque che
da prima impaludavano, e formata fosse già a canto a quel canale una
strada magnifica, che framezzo alle paludi medesime guida i viaggiatori
a Terracina. Non è di questo luogo l'investigare le cagioni per cui
quell'opera grandiosa non fu condotta al suo termine, o almeno ad
un risultamento che proporzionato fosse alle immense somme in essa
profuse; ma la storica verità domanda che si annunzii quello come
uno de' tentativi più nobili, più grandiosi e più profittevoli allo
Stato pontificio, e come un'impresa che, sebbene non compiuta, renderà
tuttavia immortale il nome di quel pontefice.

Di tutte le cose che dette si sono da scrittori imprudenti, e sovente
ignoranti o parziali, intorno all'opera soprammentovata, opera degna
dei secoli dell'antica Roma, da notarsi è come la più giusta, la
riflessione fatta da alcuni che, per ridonare alla coltivazione ed
alla prosperità lo Stato ecclesiastico, cominciare dovevasi dal render
salubre e dal popolare la campagna di Roma, la quale, forse senza lo
sborso di somme eccessive, si sarebbe potuta rendere uno dei paesi più
ricchi e più fertili dell'Italia, se ai coltivatori soltanto si fosse
accordata piena libertà di comperare e di vendere; principio, senza del
quale non si risveglia la operosità e l'industria d'una nazione, ma che
direttamente si opponeva al modo di accivimento della moderna Roma, ed
ai politici regolamenti che concernevano al commercio de' grani. Cosa
ella è assai facile da comprendere che con questi politici impedimenti
formata non si sarebbe, anche colla perfezione delle opere, una fertile
provincia nelle paludi Pontine.

E poichè si parla delle imprese di Pio riferibili a questi tempi,
non voglionsi tacere nè la sagrestia di San Pietro in Vaticano, nè
il museo Pio-Clementino, grandiosi monumenti al suo genio dovuti. Il
più gran tempio che sulla terra sia mancava di quest'accessorio che
gli fosse corrispondente; e se neppur questo corrispose al concetto
desiderio, restandone infinitamente inferiore per la proporzione,
non fu colpa della magnificenza di Pio, ma sì bene dello scarso
ingegno dell'architetto, il quale, avendo sopraccaricato l'edifizio
di decorazioni, scolture, pitture, dorature, attirossi quel detto
di Apelle: «Non valendo a farlo bello, il fece ricco.» Il museo era
stato principiato da Clemente XIV e compiuto con pari magnificenza che
squisitezza. Pio VI vi aggiunse due bracci che, andando a terminare
in un atrio di forma circolare, per esso aprivano un passaggio alla
celebre libreria Vaticana. Stupende per numero e per qualità le cose
quivi dal pontefice in questo preziosissimo museo adunate, troppo in
lungo ne trarrebbe il solo annoverarne le principali, sicchè meglio
stimiamo il tacerne, che il dirne meno che si convenga.

In quest'anno Leopoldo di Toscana manda sue navi a trafficare al
Malabar ed alla China; riceve un ambasciatore dell'imperador di
Marocco, e con esso stringe con un trattato la pace; un altro trattato
col papa determina i confini dei rispettivi Stati, sempre perturbati
dall'incerto corso del torrente Chiana.

In quest'anno mancò a vivi quella Laura Bassi, del cui dottorato in
Bologna dicemmo nell'anno precedente: avea dettato filosofia dalla
cattedra nella patria università; l'era stata coniata una medaglia;
e lasciava inedito un poema epico sulle ultime guerre d'Italia. Mancò
eziandio Giambatista Piranesi, intagliatore ad acqua forte ed a bulino
esimio, gloria e splendore dell'arte in Italia.



    Anno di CRISTO MDCCLXXIX. Indiz. XII.

    PIO VI papa 5.
    GIUSEPPE II imperadore 15.


Nissuna transazione politica d'importanza abbiamo ad annoverare
in quest'anno, se non fosse la neutralità stretta dalle potenze
marittime d'Italia e della rimanente Europa nell'occasione che i
Franzesi e gli Spagnuoli moveansi a sostenere gli sforzi delle colonie
inglesi di America contro la madre patria. Prevedeasi che questa
guerra avrebbe prodotti molti inconvenienti, ed arrecato non picciol
disturbo all'italiano commercio. Abbracciarono dunque, principalmente
il granduca di Toscana, il re di Napoli e la repubblica di Venezia,
una rigorosa neutralità, ed emanarono editti che, manifestandola ai
rispettivi sudditi, prescriveano le regole alle quali quell'atto gli
obbligava. Venne poi Caterina II, e propose ai popoli dell'Europa che
non erano in guerra una neutralità armata, a fine di proteggere il
commercio delle nazioni neutre da ogni attacco od insulto per parte
delle potenze belligeranti. Secondo tale proposizione, le navi neutre
devono godere di navigazione libera, anche da un porto all'altro,
sulle coste delle potenze in guerra; tutti gli effetti appartenenti ai
sudditi di queste hanno a considerarsi come liberi, tosto che sieno sur
un bordo neutro, eccetto le merci stipulate contrabbando: conservando
in mezzo al rumore dell'armi la neutralità più esatta, le nazioni
neutre trattano come pirati tutti i bastimenti delle nazioni in guerra
che tentassero qualche violenza contro le navi mercantili sotto la loro
bandiera.

Senza l'ire degli elementi, che nell'anno precedente travagliarono
molte parti della Toscana; senza i danni per le eccessive acque patiti
da Parma e da Genova pur percossa da grave incendio; senza Bologna che
in quest'anno fu spaventata, pel corso di ben otto mesi, da frequente
terribile tremuoto che la minacciava dell'ultima rovina; senza lo
scoppio della polveriera di Civitavecchia, accesa da un fulmine,
la quale in gran parte guastò la città e la fortezza: il Vesuvio
presentossi a' Napoletani in uno aspetto che, a memoria d'uomini,
non s'era veduto l'eguale. Per tre bocche ne' primi giorni d'agosto
l'ignivoma montagna sfogava le viscere ardenti mandando fuori tre
torrenti di lave infuocate e vampe di fiamme guizzanti e sanguigne.
Ad un'ora della notte dell'8 di quel mese, dietro un tremendo
scoppio, ecco che squarciatosi il monte, dei tre spiragli si forma una
spaventosa voragine. Mai ad occhio umano non si offerse spettacolo più
infernale. Vedevasi dall'ampia apertura l'interno del monte, ma non
vedevasi in esso che un'ardentissima massa di vorticoso fuoco. Salivano
le fiamme più alto del monte più d'un miglio, e giù quindi scorreva la
lava, che pareva dover tutto incendiare e distruggere. Resina e Portici
si credettero sepolti ed inceneriti. Quale a pien meriggio illuminate
Napoli e tutta la costa. La cenere ed i sassi, che con orribile impeto
e fracasso gettava l'enorme cratere, molto lungi andarono e sino a
Nola pervennero. Guai ad Ottaiano, dal cratere del Vesuvio lontano tre
miglia! rischiava di essere seppellito co' suoi dodici mila abitanti
sotto le pietre, come furono in altri tempi Ercolano, Stabia, Pompei,
solo un'ora di più che l'eruzione durasse. Allentava il furore;
cessava. Con tutto ciò immensi furono i danni che soffersero tutte le
terre e ville d'intorno. Napoli si vide piena di spaventati contadini
che correvano in folla a cercare in essa un asilo. Denso il fuoco e
caliginoso giunse a coprire tutto il Largo del castello di Napoli;
ma le pietre infuocate incendiarono interi boschi, sprofondarono i
tetti, la campagna fino ad un palmo di altezza coprirono. Tra queste
pietre se ne trovarono sino di novecento libbre, e di spumosa materia
essendo, immensa superficie presentavano. Le ceneri, quai gruppi di
nubi dal vento agitate, oltre a Benevento e sino in Puglia a scaricarsi
andarono. I danni in questa trista occasione risentiti furono calcolati
a trecento mila ducati.

Da un'altra parte, la grossa terra di Bagolino poco distante da
Brescia, terra di tre mila anime, frequente di fucine e fornaci, arse
tutta in men di poche ore, con morte d'oltre a cinquecento persone,
quali dal fuoco consunte, quali dal fumo soffocate.

Fu in quest'anno abolito in Modena il santo uffizio dell'inquisizione.

Accaduta, dopo sedici anni di ducea, la morte del doge di Venezia Luigi
Mocenigo, gli fu sostituito il cavaliere Paolo Renier. Dotto nella
lingua greca e latina, istrutto a fondo nella storia antica e moderna,
di memoria straordinaria fornito, animato parlatore ed energico, a
queste qualità univa una somma perizia nel maneggio degli affari. Con
tutti cotali vantaggi o dalla natura avuti o coll'arte acquistati e
coll'applicazione, non godette per qualche tempo della stima universale
de' suoi concittadini; imperciocchè, sospettato di favorire sottomano
il malcontentamento de' patrizii, manifestatosi principalmente nel
1762, e di cui abbiamo a suo luogo fatto parola, perdette gran parte di
quella considerazione, di cui precedentemente godeva. Se non che, da
quel sagace ed accorto uomo ch'egli era, tenne fermo nella burrasca,
e seppe rivolgere per modo a suo pro le condizioni del tempo, che,
eletto ambasciatore alla corte di Vienna, passò poi a quella di
Costantinopoli, che gli tornò vantaggiosissima per molti riguardi.
Tornato in patria, ed eletto doge, pervenne a riguadagnare l'opinione
pubblica interamente, quei medesimi avversando che pareva avesse un
tempo favoreggiati.



    Anno di CRISTO MDCCLXXX. Indiz. XIII.

    PIO VI papa 6.
    GIUSEPPE II imperadore 16.


Contrassegna quest'anno la morte di una gran donna. L'imperatrice Maria
Teresa, dopo la morte del suo consorte Francesco I e la elevazione del
figliuol suo Giuseppe, dimesso non aveva mai il lutto; e sebbene una
parte attiva pigliato avesse nello smembramento della Polonia, e col
trattato del Teschen dell'anno precedente avesse accresciuto gli Stati
suoi con porzione della Baviera, gran parte tuttavia delle pubbliche
cure aveva all'imperatore Giuseppe lasciato. Data agli esercizii della
più solida pietà, vide ella tranquillamente avvicinarsi il supremo
giorno, e morì in Vienna il 29 di novembre di quest'anno. Come ad
alcuni Romani imperatori dato si era il nome glorioso di padre della
patria, così madre della patria taluno la chiamò: certa cosa è che
essa, massime negli ultimi anni del suo regno, non fu sollecita che
di spargere i benefizii sui poveri, sulle vedove e sugli orfani, e
dichiarò perfin, morendo, che se alcuna cosa fatta aveva degna di
riprensione, certamente consapevole non n'era, imperocchè sempre
avesse avuto in vista il bene e la prosperità de' suoi sudditi.
Regnato per lo spazio di quarant'anni, e amato sempre la verità e
la giustizia, Maria Teresa talvolta lagnata erasi che nelle elezioni
ingannata si fosse e che male intese o peggio ancora eseguite le sue
intenzioni state fossero. Ad essa si attribuisce la massima, espressa
fino dal tempo in cui regnava il padre suo Carlo VI, non esservi che
il piacere di compartire grazie e far del bene ai sudditi che render
possa sopportabile il peso di una corona. Gli Stati d'Italia ad essa
appartenenti non mai furono tanto felici e tranquilli quanto sotto il
suo reggimento; tra le lodi tribuite a quella sovrana, l'ultima non
fu certo quella che esattamente voleva essere di tutto informata; che
ai piccioli come ai grandi aperto voleva l'accesso alla sua persona,
e tutti ascoltava con clemenza, le grazie concedendo o il motivo
allegando del rifiuto, senza promesse illusorie, senza mendicati
ripieghi, e senza alcuna di quelle vaghe frasi ed incerte che lo stile
alcuna volta adornano, ovveramente sfregiano dei potenti. Fu detto
da un autor franzese che vivendo seguiti avesse gl'insegnamenti da
Marc'Aurelio lasciati intorno ai doveri dei regnanti. Morendo, i figli
Giuseppe e Leopoldo sul trono lasciava.

Nè a caso si è nominato Leopoldo di Toscana; aveva egli l'animo a
ridurre a migliore stato le leggi; gli accidenti anche lo sforzavano.
I conventi dei frati, sottratti, in vigore degli ordini ecclesiastici
che prima delle riformazioni da lui fatte erano ancora in osservanza,
dalla giurisdizione degli ordinarii, da Roma unicamente per mezzo
dei loro generali dipendevano. I conventi poi delle monache dai frati
ricevevano la direzione spirituale. Queste condizioni riuscivano di non
poca molestia a chi sui luoghi la Chiesa governava e lo Stato. I frati
come indipendenti erano, così divenivano anche sbrigliati ed il quieto
vivere delle famiglie e del pubblico turbavano.

Sorgevano poi gravi inconvenienti nei conventi delle monache,
conciossiachè, introdottavisi la corruttela dei costumi, non vi
era disordine che non vi si commettesse. Il lezzo di dentro rendeva
odore fuori, i buoni si scandalizzavano, gli inclinati al male si
corrompevano. Maligni esempi uscivano da quei luoghi, che santi
dovrebbero essere e santi stimarsi. I vescovi non avevano autorità di
porvi rimedio. Da Roma venivano ripari lenti e si mandavano le cose
in lungo, domandandosi processi, informazioni, interrogatorii sopra
ciò che ognuno pur troppo per vero conosceva. Accusava esagerazioni
da parte di chi si lamentava, e supponeva mala volontà e calunnie. La
curia poi portava, specialmente ai tempi di Rezzonico, e poi morto
Ganganelli, mal animo a chi reggeva la Toscana per le riformazioni
che vi erano state fatte in certi ordini toccanti la disciplina
ecclesiastica. Le cose andavano di male in peggio, sicchè giunsero
ad un estremo tale che la pazienza e l'ulteriore sopportazione in chi
governava sarebbero state colpa: anzi erano in tale disposizione che si
dubitava che non fossero più atte a ricevere alcuna medicina.

Erano in Pistoia due conventi di monache domenicane retti dai religiosi
del medesimo ordine; quelli di Santa Caterina e di Santa Lucia.
Tristo nome avevano già da qualche tempo; il popolo ragionava di certe
brutture che vi si commettevano: incerte voci erano, ma che pure, per
la perseveranza, indicavano esservi alcuna radice di verità. Lo dice
Scipione Ricci vescovo di Pistoia, nei suoi scritti.

Pervennero a notizia di Leopoldo, il quale ordinò all'Alamanni, vescovo
in quei giorni, di Pistoia, che si recasse subito in mano la direzione
spirituale di tutti i conventi delle domenicane di quella città. Nel
tempo stesso proibì, sotto pena di carcere, ai domenicani di entrarvi.
Ma le donne non vollero obbedire. Incominciarono a dire che non
volevano riconoscere nè il vescovo per loro superiore, nè i confessori.
Poi, levando sempre più il viso, allegavano che papa Pio V il santo
aveva pronunciato la scomunica contro chi fra i claustrali ad altro
superiore obbedisse che a quello dato per autorità della santa Sede.
Tanta era la loro contumacia, che quelle, le quali in articolo di morte
si trovavano, amavano meglio morire senza confessione che confessarsi
al confessore mandato dal vescovo.

Se ne scrisse a Pio VI pontefice: rispose essere calunnie, e che non
voleva approvare la violazione delle legislazioni dei due conventi. Si
lamentò anzi che quello fosse un addentellato di Leopoldo per usurpare
in altri conventi e generalmente in tutti l'autorità della santa Sede.

Allora il granduca scrisse lettere circolari ai vescovi della Toscana,
ordinando che ciascuno di loro e tutti con unanime consentimento
addomandassero al papa, che i conventi, nissuno eccettuato, dalla
direzione dei frati si sottraessero ed alla dipendenza spirituale degli
ordinarii si sottomettessero. I prelati condiscesero ai desiderii di
Leopoldo; le episcopali domande arrivarono al Vaticano; Leopoldo stesso
mandò le sue istanze, e Pio pregò che quella deliberazione abbracciasse
dalla quale sola si poteva sperare la riforma degli abusi ed il
ritiramento delle cose religiose verso il loro principio e verso la
buona ed esemplare disciplina.

Il pontefice, per quel sospetto che aveva che ci covasse sotto
e calunnia e disegni a pregiudizio della santa Sede, udì poco
favorevolmente le petizioni di Toscana. Rispose a ciascun vescovo
attendessero pure a mandargli i processi e le informazioni, poi
vedrebbe ciò che convenisse farsi. Ma siccome il granduca insisteva con
pressa, così il papa trovò il mezzo termine di dare facoltà ad alcuni
vescovi toscani di governare, come delegati apostolici, col freno
spirituale i conventi che in deformi consuetudini fossero trascorsi,
e che i frati avessero o turbato o corrotto. Quanto alle religiose
sregolate di Santa Caterina di Pistoia, Ippoliti, che in quei dì
sedeva vescovo di quella città, le fece trasferire nel convento di
San Clemente di Prato, che pure al governo dei domenicani soggiaceva.
Quelle di Santa Lucia, prive del fomento delle consorti di Santa
Caterina, si assoggettarono, e diventarono, se non migliori, almeno più
caute.

In quest'anno il Ricci successe all'Ippoliti nel governo della diocesi
di Pistoia, di cui la città di Prato era membro. Colla medicina di
Pistoia credevasi di aver rimediato a tutte le piaghe, e che l'intero
ovile fosse a sanità ricondotto. Ma vana fu l'aspettazione, posciachè
in Prato maggiore contaminazione si scoperse. Due monache di Santa
Caterina di questa città, una nobile pratese di anni cinquanta, l'altra
di altra nobile famiglia pur di Prato, di anni trentotto, viveano già
da molti anni immerse ne' più gravi disordini.

Gli empi dogmi e le perverse consuetudini non avevano però tanto potuto
celarsi, non già dalle ree femmine, che non se ne infingevano, ma dai
superiori ecclesiastici che desideravano sopire senza scandalo una
cosa cotanto detestabile, che fuora le lingue non ne favellassero, e
quel luogo che santo ed intemerato doveva essere, empio e sacrilego
non chiamassero. Il vescovo Ricci ed il granduca Leopoldo, ai quali
queste cose infinitamente dispiacevano, avevano preso risoluzione,
correndo gli anni 1778, 1779 e 1780, di osservar bene quegli andamenti,
e di accertarsi anche per processi informativi, affinchè, mandate a
Roma le informazioni, la congregazione dei cardinali sopra i regolari
ed il pontefice stesso non potessero aver cagione di sopportare e non
provvedere.

Intanto, per allontanare da Santa Caterina ogni occasione di corruttela
e di scandalo, le due monache, per ordine sovrano, furono trasferite
a Firenze, per esservi chiuse nel conservatorio di San Bonifacio, dove
occupate in opere manuali avessero altro che pensare. Tuttavia non vi
diventarono migliori; però dagli ordini del conservatorio era impedito
ch'elleno con le parole e con l'esempio le innocenti creature che colà
entro convivendo contaminassero.

In questo mentre si andava fra i consiglieri del papa considerando
ciò che fosse a farsi per ravviare le cose di Toscana. Trattavasi se
convenisse, inchinandosi alle domande di Leopoldo e di Ricci, dare al
vescovo ogni necessaria facoltà, perchè potesse ritornare all'ordine,
alla purità ed alla pace Santa Caterina con tutti gli altri monasteri
di domenicane che nella sua diocesi si trovavano. Roma aveva gravi
risentimenti contro il granduca e il suo vescovo prediletto, a
cagione delle riforme che già avevano fatte e quelle che annunziavano
di voler fare. Specialmente poi acerbo animo portavano a Ricci per
avere pubblicato un monitorio contro la divozione del cuore di Gesù.
In questo mezzo il cardinal Palavicino, segretario di Stato di papa
Pio, cagionevole di salute essendo, si era condotto a cambiar aria,
lasciando il carico delle faccende al cardinale Rezzonico.

Quest'ultimo cardinale, più simile allo zio, che fu papa, che prudente
ad accomodarsi ai tempi che correvano, benaffetto ai gesuiti, ostava al
Ricci. Pio VI, che pur i gesuiti, autori della divozione del cuore di
Gesù, non amava, e che quanto Ricci quella divozione dannava, siccome
d'animo alto e risentito era, e gelosissimo dell'autorità e dignità
della Sede pontificia, si dimostrava anche alieno così dal vescovo di
Pistoia, come dal granduca, anzi da tutta la casa austriaca, da cui
allora riconosceva la diminuzione delle romane prerogative.

I domenicani, grandemente avversi in altri tempi ai gesuiti, nella
congiuntura presente ai medesimi si unirono, perchè vedevano che una
cattiva nominanza si solleverebbe contro il loro ordine, se il papa
con un solenne atto facesse vedere al mondo che le colpe d'alcune
domenicane e di alcuni dei domenicani erano conformi alla verità. Tra
gesuiti e domenicani fecero un così forte agitare alla corte, che il
papa, non che consentisse a dare le facoltà domandate al vescovo di
Pistoia, gli scrisse lettere acerbissime, tassandolo d'imprudenza per
aver sollevato questi romori in tempi tanto calamitosi per la Chiesa.
In quanto poi alle due religiose, prescrisse che fossero innanzi al
tribunale dell'inquisizione tradotte, per essere da lui, secondo che
meritavano, castigate.

Il granduca, a cui stava a cuore l'onor del vescovo pistoiese ed
il suo, e che non voleva che la potestà secolare fosse dichiarata
incompetente per provvedere ai disordini che succedevano nei conventi,
e di cui la fama, uscendo fuori, scandalizzava i popoli, scrisse in
termini molto risentiti a Roma, facendo intendere che non mai avrebbe
consentito che le due monache fossero date in potestà del santo
uffizio. Minacciò poi apertamente che se il governo pontificio si
fosse ancora peritato al sommettere i conventi delle monache di Toscana
all'autorità spirituale dei loro ordinarii, avrebbe provveduto egli di
propria autorità alle corruttele che vi erano pullulate.

Ad un tratto così risoluto il papa, rispondendo al granduca, gli fece
sapere che delle due monache deliberasse pure ciò che più conveniente
stimasse. Nello stesso tempo conferì ai vescovi del granducato, e
particolarmente a quel di Pistoia, le facoltà che gli erano state
domandate. Che anzi il pontefice, il quale le buone cose amava, quando
gli adulatori nol tentavano in proposito della grandezza e della
dignità della Sede pontificia, scrisse lettere di amara riprensione
al generale dei domenicani, per non avergli fatto conoscere la verità
sugli accidenti scandalosi di Prato.

In quest'anno Modena abolì nelle procedure criminali la tortura.



    Anno di CRISTO MDCCLXXXI. Indiz. XIV.

    PIO VI papa 7.
    GIUSEPPE II imperadore 17.


Giuseppe II, erede di tutti gli Stati della casa d'Austria per la
morte della madre, come per quella del padre, era, quindici anni
prima, salito sul soglio imperiale, dalla natura dotato d'un capitale
straordinarissimo di penetrazione, e ricco di molte e molte cognizioni
ne' diuturni suoi viaggi acquistate, tutti i suoi pensieri, tutte le
cure al bene ed alla prosperità dei sudditi rivolse. Nuove forme ai
giudizii, con nuovo codice civile e criminale; generosa protezione alle
scienze ed alle lettere; nuove manifatture e nuove arti introdotte;
aperti nuovi canali al commercio, ed ingrandite e ristaurate a comodo
dei viandanti le pubbliche vie; sistemata infine ed ordinata ne' suoi
stati la pubblica economia.

Ardeva però l'imperadore di vivissimo desiderio d'incarnare prontamente
coll'esecuzione quelle vaste idee di riforme ecclesiastiche che da
gran tempo aveva concette e gustate. Già da più di venti anni, in
tutti i governi, e principalmente in quelli d'Italia, lo spirito di
riforma in questa parte di esterior disciplina erasi con non poca
solennità manifestato. Venezia, Genova, Parma, Modena e Napoli aveano
posta la falce nel campo. Ora, scorsi appena diciotto giorni da che
mancata era l'imperadrice Maria Teresa, pubblicò Giuseppe la prima sua
provvisione intorno alle persone che si davano allo stato claustrale.
Essergli, diceva, noto per esperienza che quelli che abbracciano
la vita religiosa, dispongono sovente de' loro beni a favore delle
case e comunità in cui entrano; or comandare lui che nissun novizio
o religioso che testare o stipulare qualunque atto di ultima volontà
prima della professione dei voti volesse, non potesse, sotto qualunque
pretesto, disporre di più di mille ducento fiorini in favore di dette
case e comunità.

Tre mesi dopo questo, diede fuori l'editto che concerneva a tutti gli
ordini frateschi: che tutte le case religiose negli Stati austriaci
sussistenti dovessero, comandava, rinunziare totalmente e per sempre ad
ogni unione, dipendenza o connessione con altre cose religiose estere o
con esteri superiori; al contrario, tutti i regolari austriaci essere
governati e diretti dai provinciali rispettivi, sotto l'ispezione ed
autorità de' vescovi, dovessero: le medesime disposizioni altresì alle
comunità delle femmine si estendessero, e sotto pena della deposizione,
avessero le superiore per l'avvenire a dipendere soltanto ed
esclusivamente dal clero degli Stati dell'imperadore, tanto in affari
ecclesiastici come nelle temporali bisogna.

Immediatamente a questo editto ne seguitò un altro, col quale
ordinavasi che quanti religiosi di qualunque sesso chiedessero
di essere dispensati da' fatti voti, ai rispettivi ordinarii, per
riportarne la bramata dispensa, le istanze loro rivolgessero: vietati,
in pari tempo, tutti i voti tanto temporanei come condizionati, se
fatti prima dell'età permessa per la vestizione, cioè ventun anni per
le donne, venticinque pegli uomini.

Intimato a tutti gli eremiti di deporre il lor abito romitico, venne
Giuseppe contemporaneamente in sull'abolire diversi monasteri d'ambi
i sessi. Tutte le case religiose, tutti i monasteri ed ospizii sotto
qualsivoglia nome di certosini e camaldolesi, come pure di monache
carmelitane, francescane, cappuccine o di Santa Chiara, rimasero
soppressi ed aboliti generalmente in tutta l'estensione degli Stati
austriaci. Allora fu che non poche monache, o non persuase di passare
in altri istituti dal sovrano approvati, o di trasferirsi fuori degli
Stati austriaci, fecero ritorno, in Italia, nelle paterne case.

Avendo esso principe giudicato necessario che le bolle, i brevi, i
decreti emanati da Roma, per l'influenza che avevano sugli affari dello
Stato, prima della pubblicazione, a lui ogni volta e senza eccezione
nissuna fossero presentati per ottenere il beneplacito, pratica già in
uso in moltissimi altri Stati cattolici, prescrisse a tutti i vescovi
ed arcivescovi de' suoi Stati che tutti gli ordini pontificii sì in
forma di breve, decreto, costituzione, o in forma altra qualunque
si fosse, indirizzati al popolo, a comunità tanto ecclesiastiche che
secolari, oppure a private persone, relativi a collazioni di benefizii,
pensioni, onori, potestà, diritti, od anche in materie dogmatiche o
di disciplina, dovessero, avanti la pubblicazione, presentati essere
alla reggenza civile d'ogni provincia con una copia autentica stesa
da pubblico notaio del paese, ed accompagnata da suppliche, affine di
essere poi della sovrana approvazione muniti.

Convinto Giuseppe II, come egli si esprimeva, de' perniciosi effetti
della violenza alle coscienze fatta, e de' vantaggi essenziali che
una vera tolleranza cristiana procura alla religione ed allo Stato,
credette bene di determinare, riguardo a questo punto, alcune regole.
Fosse permesso l'esercizio privato della loro religione a tutti i
sudditi protestanti, sia della confessione elvetica, sia di quella di
Augusta, in qualunque luogo degl'imperiali Stati. Sapessero eglino che,
nelle elezioni e collazioni di cariche civili, il principe riguardo
alcuno non avrebbe alla differenza della religione, ma unicamente,
come s'era sin allora fatto senza sinistro effetto nel militare, la
probità; la capacità, la buona condotta degli aspiranti valuterebbe.
Ne' matrimonii contratti tra persone di religione diversa, se il marito
cattolico fosse e la moglie protestante, i figli e maschi e femmine la
religione del padre seguissero; se il marito protestante e la moglie
cattolica fosse, i figli maschi seguissero la religione del padre, le
femmine quella della madre. Purchè osservasse le leggi municipali e le
sovrane ordinazioni, e la quiete pubblica non disturbasse, nissuno,
Giuseppe comandava, fosse mai assoggettato per motivo di religione a
pene pecuniarie o corporali qualunque; prescritto a tutti i magistrati
e giudici di ricordare a' cattolici la carità e l'amor fraterno,
di astenersi dalle parole ingiuriose, dalle offese, da' pungenti
rimproveri contro coloro che la ventura non ebbero di nascere in grembo
della cattolica Chiesa.

Aveva già l'imperatore con altro editto annunziato a' suoi sudditi
che, trovandosi eglino nel caso di dover chiedere per oggetto di
matrimonio una dispensa sopra uno od altro impedimento canonico, non
a Roma domandar la dovessero, ma bensì al rispettivo arcivescovo, da
cui, mediante il pagamento di modica tassa di cancelleria, concessa
sarebbe; ingiunto ai parochi, tanto delle campagne come delle città, di
non congiungere in matrimonio coppia veruna di sposi, se dispensa altra
qualunque fuor di quella del rispettivo ordinario gli presentasse.
Qualche tempo dopo, oltre alcune condizioni prescritte ai vescovi
intorno alle dette dispense, ordinò, che chi bisogno ne avesse, prima
di cercarle ai vescovi, la permissione dal sovrano impetrarne dovesse.

Contenendo il pontificale romano un giuramento che i vescovi, all'atto
della loro consacrazione, al papa fanno, l'imperatore emanò un suo
decreto, con cui intendeva di non ricusare il placito alle bolle
spedite da Roma agli arcivescovi e vescovi nuovamente eletti, ma vi
aggiungeva la condizione espressa che nè il prelato consacratore
nè il prelato consacrato non venissero autorizzati nè a ricevere
nè a prestare il detto giuramento se non nel senso dell'ubbidienza
cattolica, e non altrimenti. Ordinò quindi che i nuovi eletti, prima
di essere consacrati e prima di quel giuramento ordinario al papa
immediatamente dopo la nomina od elezione altro prestarne dovessero
tutto speciale di fedeltà all'imperadore, in presenza del governatore e
de' due più anziani assessori del luogo; giuramento che, sottoscritto
dal nuovo o vescovo o arcivescovo, dai tre testimoni suddetti, e
spedito originalmente al sovrano, conteneva una promessa assoluta
dell'eletto di comportarsi verso l'imperadore, suo solo legittimo
sovrano, principe e signore, da fedel suddito e vassallo, non
facendo e non permettendo scientemente che fatta fosse direttamente o
indirettamente cosa alcuna che pregiudiciale essere potesse e contraria
alla persona di Sua Maestà, alla sua augusta casa, allo Stato o ai
diritti della sovranità; con inoltre la promessa di ubbidire senza
tergiversazione a tutti i decreti, leggi ed ordini dell'imperadore, di
fargli osservare da' suoi inferiori col dovuto rispetto, e di cercare e
procurare in ogni occasione la gloria ed il vantaggio del sovrano e de'
suoi Stati. Alcuni vescovi eletti e non consecrati, questo decreto come
ad essi ingiurioso e tendente a renderne sospetta la fede riguardando,
supplicarono all'imperadore di dispensarli dal nuovo giuramento di
fedeltà ad essi prescritto, proferendo in quella vece di più non
prestare al papa nè l'antico nel pontificale riportato e nelle bolle
inserito, nè verun altro; e lo imperadore volentieri la proposizione
accettò.

Ed altre leggi ed altre provvidenze il saggio principe impartì nelle
materie ecclesiastiche, le quali non si poteva che nella novità non
cagionassero scrupoli e dubbiezze; il perchè non giorno forse passava
che al trono alcuno non si presentasse a chiedere spiegazioni.

Ma nel corso di tali riforme e novazioni un avvenimento di natura
diversa disgustò l'imperadore. Per uso antico nella romana corte
stabilito, alla morte di ciascuno de' principali monarchi cattolici
d'Europa, Austria, Francia, Spagna e Portogallo, rendevansi dai
papi nella pontificia cappella con grande solennità gli ultimi onori
all'estinto, di cui il santo padre stesso tesseva il funebre elogio.
Non era però esempio che onore siffatto stato fosse reso alle regine
o alle imperadrici che regnato non avevano se non congiuntamente ai
mariti; ma l'imperatrice Maria Teresa, regina di Boemia, d'Ungheria
e di tanti altri regni e Stati, era caso nuovo e meritava speciale
riguardo. Il papa consultò i suoi maestri di ceremonie, e questi gli
esposero di non aver trovato, per diligentissimi esami, che a donne
solenni funerali nella pontificia cappella stati mai fatti fossero.
E non consideravano che, dopo introdotto quell'uso, nissuna sovrana
cattolica era in Europa stata nel caso di reggere da sè i popoli,
come retti gli aveva Maria Teresa. Corse allora voce che il cardinale
Herczam, ministro cesareo a Roma, ne facesse formale istanza, e sotto
gli occhi del papa gl'inconvenienti mettesse che dal non fare insorgere
potevano; eppure si sentisse dal pontefice rispondere ch'ei derogare
dall'usato ceremoniale non poteva. E così fu. Se questo rifiuto non
influì ad accelerare i disegni di riforma, ed a farli rapidissimamente
gli uni agli altri succedere, questo però fu il tempo in cui
l'imperadore ordinò la soppressione del collegio ungarico di Bologna,
e la partenza da quella città di tutti quei nazionali suoi sudditi
obbligati ad andarne a studiare nelle università di Buda o di Pavia.

Non bisogna chiudere la narrazione degli avvenimenti di quest'anno
senza registrare la morte, il dì 27 di maggio accaduta, di Giambatista
Beccaria, fisico egregio, a cui la scienza va debitrice di molti
progressi, specialmente nel ramo della elettricità.



    Anno di CRISTO MDCCLXXXII. Indiz. XV.

    PIO VI papa 8.
    GIUSEPPE II imperadore 18.


Le amarezze tra il papa e i due principi austriaci Giuseppe e Leopoldo,
non tanto che si raddolcissero, tendevano un giorno più che l'altro
a maggiore disgusto per le riformazioni ch'essi tuttavia andavano
nelle materie ecclesiastiche tanto nei Paesi Bassi e nel Milanese,
quanto nella Toscana facendo. Le cose battevano massimamente, come
si è veduto, nel volere che i conventi, riguardati inutili, si
sopprimessero; che i sussistenti non avessero più nessuna dipendenza
dai loro generali di Roma, ma fossero al vescovo della diocesi
sottomessi; che per certo dispense per matrimonio a Roma più non si
ricorresse, ma dagli ordinarii fossero concedute; che certe pratiche
pompose di culto esteriore si annullassero; che, per quanto fare
si potesse, nissuno ecclesiastico ozioso se ne stesse, ma o per
sè medesimo od in sussidio dei parrochi nel divino ministero si
esercitasse; che le dottrine della giurisdizione suprema del papa sui
principi temporali più non s'insegnassero; che nelle università fosse
vietato di dare i giuramenti, secondo la forma prescritta da Alessandro
VII, e che le bolle _Vineam_ ed _Unigenitus_ dovessero aversi per nulle
e di niun effetto; che niun'altra professione di fede fosse permessa se
non quella di Pio IV; che silenzio perpetuo vi fosse sulla costituzione
contro i giansenisti, tanto nelle scuole private, quanto nelle
pubbliche.

Tutte queste ed altre provvisioni, aggiunte alle risoluzioni già prese
intorno alle mani morte mettevano in grande apprensione il pontefice e
chi lo consigliava.

Pio adunque, a cui romoreggiava d'ogni intorno così fiera tempesta,
essendo disposto a tentare ogni fortuna per tornare la santa Sede nella
sua dignità e prerogativa, ancorchè di Leopoldo maggiormente temesse,
fece risoluzione di indirizzarsi a Giuseppe, presumendo che, ove il
fratello maggiore si fosse piegato a più amorevoli pensieri, il minore
non si sarebbe indugiato a seguirne l'esempio. Oltre a ciò, che un
papa viaggiasse per andar a visitare un imperatore, era accidente più
conforme alla dignità che se si fosse mosso alla volta di un principe
di minore grado e potenza. Il pontefice persuadeva a sè medesimo che
non invano veduto avrebbe nella sua Vienna Giuseppe, che non in vano
sarebbe stata la gita del capo supremo della Chiesa, che non invano
avrebbe in età già avanzata corso paesi a lui tanto insoliti e lontani.
Deliberossi pertanto a voler vedere l'imperatore nella capitale stessa
del suo vasto impero. Grande attenzione, pari aspettazione era sorta
nel mondo per le recenti deliberazioni dei due fratelli austriaci, ma
più grandi ancora furono e l'attenzione e l'aspettazione quando udissi
un caso già da più secoli inudito, che ad un così lungo viaggio si
accingesse un romano pontefice.

Ovunque egli passava, concorrevano i popoli divoti per venerarlo; i
principi dal canto loro gli rendevano i dovuti onori. Alta cagione il
moveva. Chi maggiore pietà che congnizione delle storie aveva, augurava
lieto fine dell'insolita andata. Ma chi più dentro sentiva nelle
umane cose, queste consolatorie speranze non accettava, credendo che
il papa nulla potrebbe appuntare coll'imperadore. Costoro ragionavano
che Giuseppe, non per capriccio, ma molto pensatamente e di proposito
deliberato venuto era alle sue deliberazioni, e che per ciò da esse per
nissuna dimostrazione romana si dipartirebbe.

Pio fu accolto a Vienna con ogni maggiore segno di riverenza. Se
gli diede stanza nel palazzo imperiale, spesse volte l'imperatore
il visitava, i popoli se gli presentavano riverentemente avanti per
onorarlo, i soldati stessi, così comandando il principe, al sommo
sacerdote con le loro militari maniere s'inclinavano. Onde si vedeva
che la maestà religiosa vinceva la forza. Se in chiesa con la sua
pontificale pompa ufficiava, pieni erano i sacri luoghi di fedeli
che dal pontefice romano le spirituali grazie attendevano. Se dalla
imperial magione si affacciava, o andava per le vie della sovrana
città, ognuno alla venerabile sua persona o nel segreto suo pensiero
od anche colle aperte voci applaudiva. Nella più intima parte della
Germania trionfava Pio per l'aspetto della persona, per la riverenza
della religione, per portare in fronte quel nome di Roma, già prima
sede del mondo per l'armi, ora prima sede della cristianità per la
religione.

Quanto più l'imperadore stava fermo nel non volere cambiar proposito
e nel ricusare i desiderii del papa, tanto più si mostrava fervente
nella religione. Pio stesso con gravissime parole in un concistoro
pubblico tenuto nel palazzo imperiale a dì 19 di aprile il lodò;
con somma contentezza, disse, avere veduto da vicino l'imperiale
maestà, con somma contentezza avere abbracciato l'imperatore stesso,
quell'imperadore ch'egli cotanto stimava, cortese e facile averlo
sempre trovato ogni volta che pel debito del suo pastorale ufficio
di alcuna cosa il richiedeva; essere stato da lui nell'augusto suo
domicilio accolto, con ogni maniera di generoso servimento trattato;
maraviglia e consolazione avere sentito nel vedere la sua somma
divozione verso Dio, l'altezza del suo spirito, l'attenzione indefessa
ai negozii del principato; ciò consolare la sua paterna affezione, ciò
ricompensarlo della fatica presa per così lungo viaggio; consolarsi
ancora e dolce compenso trovare nel vedere quella magnifica città, nel
vedere i popoli concorsi, mentre ancora per via veniva, per onorarlo,
onde bene argomentato aveva che ancora intatte ed incorrotte erano la
pietà e la religione; non essere pertanto per cessare mai di lodare un
così religioso imperadore, non mai cessare di ricordarlo nelle preci
sue, non mai cessare d'implorare dal grande Iddio (che chi da lui non
si scosta, sempre sostenta e regge), acciocchè ed imperadore e popoli
nel santo proposito in cui erano, aiutasse sempre e confermasse.

Pio aveva vinto colla presenza e colla dignità i popoli, ma non potè
vincere l'imperadore. Nè le sue lodi, nè le istanze ebbero valeggio di
svolgere l'austriaco principe dal suo proponimento, e il pontefice fu
pur troppo chiaro della di lui mente volta a continuare nelle riforme.

Crescendo le molestie della santa Sede, manifestavansi per ogni dove
acerbi segni. La Toscana, Milano, l'alta Germania insorgevano; che
anzi Giuseppe avendo in questo tempo appunto messo la mano sui beni
ecclesiastici, così dei regolari come dei secolari, e lamentandosene il
pontefice, l'imperadore rispose risentitamente, che sapeva ben egli ciò
che si faceva, e che una divina voce in sè medesimo sentiva, la quale i
suoi imperiali decreti gl'inspirava e dettava.

Un mese erasi Pio soffermato a Vienna, donde partendo e prendendo
via per Augusta, Innspruck, Bressanone, Bolzano e Roveredo, giunse
ai confini del veneto dominio, dove, incontrato dai deputati della
repubblica, l'accompagnarono in Verona al convento dei domenicani di
Santa Anastasia, in cui albergò. Veduta l'arena, veduti gli altri
veronesi monumenti, avviavasi per Vicenza e per Padova a Venezia,
accolto sopra un ricco bucentoro, accompagnato dal patriarca e da'
prelati, incontrato dal doge e dalla signoria, da per tutto onorato,
da per tutto festeggiato, e padre comune salutato. Nel convento
dei domenicani, superbamente addobbato a spese del pubblico, prese
la stanza; pontificò nell'aggiacente chiesa de' Santi Giovanni e
Paolo, all'immenso devoto popolo accorso da superba tribuna la papale
benedizione impartì. Da questa magnifica Venezia partitosi, giungeva il
dì 13 del mese di giugno nella sua Roma.

Paolo, figliuolo di Caterina II imperadrice di Russia, dall'augusta
madre mandato, in compagnia della granduchessa sua consorte, a
restituire a Giuseppe II la visita che questi fatta le aveva nella
sua residenza di Pietroburgo, da Vienna passò a vedere l'Italia, sotto
il nome di conti del Nord, che aveano gl'imperiali coniugi per questo
viaggio assunto. Gli accolsero Roma e Napoli, Firenze, Modena e Milano,
e la nostra Venezia gli accolse in isplendida e regia ospitalità, nel
che non solea restare a niun altro potentato seconda. Magnifiche feste
in teatro, caccia di tori al chiaror delle faci nella gran piazza di
San Marco, e lo spettacolo singolare di queste adriache spiaggie,
la regata, con altri non meno brillanti che graditi trattenimenti
segnalarono i dieci giorni che gli ospiti illustri qui fermarono il
piede.

Ma mentre i principi veniano in Napoli accolti e festeggiati, la città
di Ortona, parte di quel regno, situata in riva al mare Adriatico,
nell'Abbruzzo Citeriore, si subissò. Posta sopra un monte assai
alpestre, formando una specie di penisola, in un terreno di tufo più
volte già smotato, venne a scoscendersi una parte del poggio, sì che un
buon terzo della città piombò tutto in un tratto in mare, nel rovinio
ammazzando più di due mila persone. Nel dì 25 di febbraio, un'ora
prima di sera, quasi in tutta l'estensione della città, incominciò
a distaccarsi dalle fabbriche la terra; alle tre della notte tutto
ciò che prima era colle apparve una voragine spaventevole. Il terreno
coperto dalla neve a quei giorni caduta precipitò velocissimo in mare.
Nessun riparo fermar poteva gli ulteriori danni. Gli abitanti, rimasti
attoniti a tanto inaspettato disastro, si diedero tutti alla fuga.

In quest'anno l'imperadore Giuseppe II abolì in tutti i suoi Stati,
quelli di Italia compresi, la pena di morte. Contemporaneamente in
Toscana abolivasi l'inquisizione.

Due figli di Apollo in quest'anno morte rapiva all'Italia; Metastasio e
Farinelli; famoso poeta quello, questo cantore famoso.



    Anno di CRISTO MDCCLXXXIII. Indiz. I.

    PIO VI papa 9.
    GIUSEPPE II imperadore 19.


Nissuna regione del mondo fu mai tanto tormentata quanto l'estrema
parte d'Italia, che ora il regno delle Due Sicilie comprende. Gli
uomini in ogni tempo l'afflissero, ora con guerre intestine, ed ora
con guerre esterne, e spesso ancora con mutazioni di stirpi regie, a
cui pareva che quel bel paese non fosse cosa da lasciarsi ad altri. La
natura poi lo straziò ora con incendii spaventevoli di monti, ed ora
con terremoti più spaventevoli ancora.

Sonvi sul globo terracqueo alcuni luoghi, dove da tempi antichissimi
la natura è già sfogata, che è quanto dire, che le forze sue,
superati tutti gli ostacoli, hanno indotto quello Stato che a loro più
consentaneo è: questi luoghi, quanto ai fenomeni naturali, godono di
maggiore tranquillità. In altri paesi poi la natura, per così dire,
sforzantesi e rabbiosa ancora si travaglia, e tra mezzo a perturbazioni
ed a ruine tende a sormontare quanto le si oppone per arrivare al suo
stato di quiete.

Ora l'estrema parte d'Italia che al mezzodì si volge è una di quelle
che non hanno ancora ottenuta quella quiete, e la van cercando. Quindi
è che nelle sue viscere interne regna tuttavia una gran discordia,
che fuori a noi si scopre con fiamme spaventose, con eruttamenti
maravigliosi, con macigni liquefatti, con terremoti, con marimoti, con
aeremoti, che danno a temere che sia venuta la fine dell'esistenza,
non che del riposo, e pure altro non sono che avviamento alla quiete.
La natura non conosce tempo; per lei nè anni nè secoli vi sono, e
di noi si ride, a cui incresce il morire. Noi non vedremo la quiete
della Magna Grecia nè delle siciliane sponde, ma tempo verrà ch'esse
l'avranno, e la stessa condizione acquisteranno, che già nelle più
parti di questo nostro globo si osserva. Non so però perchè così tardi
ella vi sia per arrivare, scrive un famoso storico che trascriviamo, e
perchè contrada così magnifica e così bella, forse la più magnifica e
la più bella di tutte, e perchè uomini così sensitivi e così immaginosi
abbiano a soffrire un così luogo travaglio. Se castigo di Dio è, non
vedo ch'essi abbiano peccato più degli altri; se necessità di fortuna,
bisognerà confessare, che siccome sempre cieca ella è, così ella è
sovente ingiusta.

Racconterò, seguita il lodato storico, cose stupende, e tali, che
dubito che da nessuna penna degnamente raccontare non si possano;
una provincia intera sconvolta, molte migliaia d'uomini in un sol
momento estinti, i sopravviventi più infelici dei morti; la terra, il
cielo, il mare sdegnati; ciò che la natura ha fatto di più sodo, in
ruina; ciò che per la sua sottigliezza toccare non si può tanto impeto
acquistare, che, le toccabili cose furiosamente urtando, rovesciò;
ciò che mobile e grave è, fuori del consueto nido sboccando, guastare
ed abbattere quanto per resistere a più leggeri elemento solamente
stato era construtto; i fati d'Ercolano, i fati di Pompei, e forse
peggiori perchè più subiti, a molte città apprestarsi, non soffocate
ed oppresse, ma stritolate e peste; una faccia di terre le più amene
e ridenti del mondo cambiata subitamente in ultima squallidezza ed
orrore; orribili fetori di cadaveri putrefatti non riscattabili fra
l'immense ruine, orribili effluvii di acque stagnanti nel loro corso
d'accidenti straordinarii interrotte, orribili malattie da spaventi,
da stenti, da moltiplici infezioni prodotte, abissi aperti, città
subbissate od inabissate, monti scoscesi, valli colmate, fiumi e
fonti scomparsi, nuovi comparsi, polle di mota da aperte voragini
scaturienti; un istinto d'animali bruti il futuro male preveggenti,
una sicurezza d'uomini, cui la ragione è meno provvida dell'istinto;
un salvar di fanciulli con morte delle madri, un preservar di padroni
per fedeltà di servi, un aiutar d'infelici per bontà di governo, per
umanità di signori, per carità di preti; vittime per casi strani o
quasi non credibili dall'ultimo eccidio scampate; una cieca fortuna,
un impeto ineluttabile, un grido di morte uscito dalla terra per
sotto, dal cielo per sopra, dal mare per lato, spaziare dappertutto,
ed ogni cosa rompere, ogni cosa spaventare, ogni cosa in ruina ed in
isconquasso precipitare; gl'incendii uniti alle ruine, e le fiamme
consumare ciò che al furore degli altri elementi era avanzato. — A ciò
tutte le superstizioni più stravaganti che caggiono in menti smosse,
tutte le furberie di chi delle sciocche superstizioni e dei solenni
terrori si pasce ed in suo pro gli converte; a ciò ancora pentimenti
fugaci di uomini malvagi, rapine contro miseri, insulti contro
benefattori, abbandoni di chi soccorso chiedeva e pietà; il mondo
morale, come il mondo fisico in disordine; ciò che doveva intenerire
i cuori, e farli dell'umana miseria conoscenti, vieppiù indurarli ed
aspri ed inesorabili farli; gente scelleratissima con opere nefande
dimostrare che la cupidigia del rubare e l'infame sfogamento della
libidine sopravanzavano, e soffocavano la compassione e lo spavento.
Maravigliosa terra di Napoli che sempre dimostrasti essere in te
estremo il bene, estremo il male, nè dal consueto stile poterti
ritrarre nemmeno la natura orrida e sconvolta: quello dinota eroismo,
questo una spaventevole ostinazione.

È impossibile seguire più innanzi nella sua stupenda narrazione del
fatto lo storico illustre che a parte a parte lo descrisse; ma verrem
da lui traendo ciò che i tratti principali della tremenda catastrofe
possa mettere dinanzi alla mente.

Alla state fervidissima dell'anno 1782 era succeduto nelle Calabrie un
autunno piovosissimo, nè cessò lo smisurato acquazzone nel susseguente
gennaio; che anzi vieppiù per questo conto imperversando il cielo,
caddero nell'anzidetto mese pioggie così disoneste e dirotte e
precipitose, che la terra calabra, massime quella così detta della
Piana, restò altamente danneggiata, non solamente pegli allagamenti dei
fiumi, ma ancora per essere stati i terreni viemmaggiormente ammelmati
e fatti capaci di dissoluzione. Cotale perturbazione della natura
presagiva calamità ancor maggiori, ma niuno si dava a temere che esse
fossero per arrivare al totale discioglimento della contrada. Avevano
altre volte quei popoli simili pioggie e simili innondazioni vedute,
ma, dal guasto dei superficiali terreni e dal danno delle ricolte in
fuori, da altri maggiori disastri non restarono afflitti.

Intanto era il nuovo anno giunto al principio di febbraio, mese per
fatal destino funesto alla Magna Grecia, e specialmente alla Calabria;
perciocchè in esso piombò la fatale ruina sopra i distretti Ercolanense
e Pompeiano sotto il consolato di Regolo e di Virginio; in esso fu
conturbata, alcuni secoli avanti, la Sicilia e distrutta Catania;
in esso nel duodecimo secolo sommosse dai tremuoti non solamente la
Sicilia, ma eziandio le Calabrie. Il principio più fatale che la fine,
poichè al quarto od al quinto giorno di lui accaddero quegli scroscii
della natura.

Correva appunto il quinto giorno di febbraio di quest'anno, ed il
giorno era giunto alle diecinove ore italiane, vale a dire, in quella
stagione, un poco più oltre del mezzodì. Nell'aria non appariva alcun
segno straordinario. Rare e quiete nubi a luogo a luogo il cielo
velavano. Nè il Vesuvio nè l'Etna buttavano; Stromboli non più del
solito. Sentivasi il freddo, ma non oltre l'usato; il consueto aspetto
stava sopra le calabresi cose. Eppure la terra in sè medesima chiudeva
un insolito furore. O fossero fuochi, o fossero vapori potentissimi che
scarcerare si volessero, quella ordinaria calma dovea fra brevi momenti
turbarsi per dar luogo ad un rumore e ad uno scompiglio orrendo. Gli
uomini nol presentivano, e senza tema le ore fra i soliti diletti o
fra le solite fatiche andavano passando. Ma non gli animali bruti,
che inquieti, fastidiosi, spaventati, col correre, col tremare, col
gridare, mostravano che alcuna terribil cosa si andava avvicinando, ed
aspettavano.

Così un'arcana natura con ispaventosi presentimenti avvertiva del
pericolo chi poco o nulla evitare il poteva, mentre di lui conscii non
faceva quelli che pel lume della ragione fuggirlo, se non in tutto,
almeno in parte saputo avrebbero.

Trascorso era il giorno 5 di febbraio di pochi minuti oltre il mezzodì
quando udissi improvvisamente nelle più profonde viscere della terra
un orrendo fragore; un momento dopo la terra stessa orribilmente si
scosse e tremò. In quel momento medesimo cento città, o non furono più,
o dalla primiera forma svolte, quasi informi ammassi di spaventevoli
ruine giacquero. In quel sempre orribile e sempre lagrimevole e sempre
di funesta rimembranza momento, più di trenta mila umane creature
rimasero ad un tratto morte e sepolte. Quale passo da tanta quiete a
tanto spavento! Quale conversione da tanta allegrezza a tanto pianto!
Quale differenza da tante vite a tante morti!

Non fu breve la cagione dell'orrenda catastrofe: perciocchè scossesi e
tremò la terra colla medesima veemenza e fremito ai 7 febbraio, ai 26
ed ai 28, e finalmente ai 18 di marzo una violentissima scossa avvertì
i Calabresi che i loro spaventi e dolori non erano ancora giunti al
fine, e che, per iscampare dalla morte, su quel suolo infido altro
rimedio non vi era che quello di fuggire; ed assai lontano fuggire,
posciachè l'ira del cielo sopra di loro non era ancora esausta. Il
gravissimo urto di marzo scompigliò, ruppe e rovesciò quanto ancora
era rimasto intiero ed in piè, se pure ancora alcuna cosa intiera e
sulle fondamenta rimasta era. Giunsesi la disperazione al terrore: ad
ogni momento credevano quei miserandi popoli che la terra, spaccandosi
in abisso, gl'inghiottisse tutti. Quelli di febbraio esercitarono
principalmente il loro furore sopra le città più vicine al Faro;
l'ultimo su quelle che verso lo strangolamento d'Italia tra i golfi di
Sant'Eufemia e di Squillace sono poste.

Le raccontate scosse squassarono con violentissime urtate la terra, ma
fra di quelle non vi fu mai quiete perfetta. Di quando in quando alcune
scosse minori si sentivano, e fra di loro un perpetuo ondeggiamento, un
andare e venire più o meno manifesto della terra, come se ella divenuta
fosse fiottosa, e per cui non pochi travagliavano di quel molesto male
che affligge ne' viaggi marittimi coloro che non vi sono avvezzi.

Fatale fu questo terremoto non solamente per la violenza delle
concussioni, ma ancora, e forse più, per la diversità e moltiplicità
de' moti impressi alla terra. Fuvvi il moto subsultorio, cioè dal
basso all'alto, come se qualche orrendo fomite battesse o picchiasse
o punzecchiasse l'esterna crosta per farsi via da uscir fuora, in
quella guisa stessa che un colpo dato con un grosso martello sotto
una tavola orizzontale farebbe. Fuvvi il moto di sbalzo, come se una
porzione della terra a modo di fionda i soprapposti corpi in alto
scagliasse. Fuvvi il moto vertiginoso, come se la terra in sè medesima
si rivoltasse ed una vertigine imprimesse a ciò che toccava, moto che
fu il più pericoloso di tutti, e che atterrò molti edifizii che retto
avevano ad altri moti, e le superficie de' corpi converse, mettendo
le superiori sotto, le inferiori sopra. Fuvvi il moto ondulatorio,
il più solito ne' terremoti, e per lo più da Oriente verso Occidente
andava. Fuvvi finalmente un moto di compressione dell'alto al basso,
per cui i terreni si abbassavano, e, come a dire, si insaccavano,
e più fortemente compressi si assodavano. Dal disordine de' moti si
argomentava che disordinata fosse la cagione, e che guerra vi fosse
sotto, come vi era sopra. Non è da tacersi punto che più sonoro era
il fragore, che chiamavano _rombo_, spaventevole nunzio di estreme
sciagure, e più forti erano le scosse che susseguitavano, onde maggiore
danno seguitava un maggiore spavento.

Or chi potrebbe ridire la varietà degli accidenti in tanto sconquasso?
Monteleone, nobile ed antica città, che mostra qualche residuo di muri
ciclopei, restò altamente offeso dalla percossa, sì che i più suntuosi
templi, i più vasti edifizii, come le più umili case, furono rotti
e scomposti, ed ancora che i più atterrati non fossero, diventarono
nondimeno inabitabili. Maggiore fu la desolazione di Mileto, dove,
oltre le case, che tutte patirono infiniti danni, restò da cima a
fondo irreparabilmente infranto e inabissato il magnifico tempio della
Trinità; tetto, mura, campanile, altari, andarono tutti in un monte
di rottami. Tropea fu percossa dal terremoto, ma in grado minore.
Meno ancora restò offeso il poco lontano villaggio di Parghelia,
villaggio singolare non per grandezza nè per ricchezza di edifizii,
ma per industria dei terrazzani, troppo diversa dalla rilassatezza
che in non poche parti della Calabria regnava. Soriano, andato esente
dal terremoto del 5 febbraio, restò desolato da quello del 7; nè vi
rimase orma degli edifizii di terra pigiata, che nel paese chiamano
terraloto, e da cui la massima parte della città si formava. Lieta,
anzi lietissima era la strada da Soriano a Jerocarne, siccome quella
che ombreggiata era e vagamente sparsa di ulivi, di castagni, di
quercie e di viti, ed ora divenne un miscuglio commisto di ruine.
Tanto sovvertimento patirono i terreni! Si screpolarono, aprironvisi di
profonde fessure. Ma le fessure immobili non erano; ora si serravano
impetuosamente, combaciandosi di nuovo gli orli, ora si riaprivano,
disgiungendosi quelli novellamente. Le fenditure, e così in questo
luogo come in ogni altro, pigliavano diverse forme, ma le più in cotale
modo s'informavano, che parecchie da un solo centro aperto anch'esso
partendo, a guisa di raggi se ne allontanavano. Talvolta usciva da
queste spaccature una fanghiglia cretacea spremuta a forza, come
pare, dai più interni ripostigli della terra. E di questa fanghiglia
altri ed altri eziandio erano i modi. Dalle grandi e vaste spaccature
usciva copiosissima, e le vicine campagne allagava. Ne restavano
intrisi i rottami, intrise le ruine, intrisi gli alberi e i sassi.
Sovente accadea che non da fenditure saltava fuori, ma da certe conche
circolari; che sul terreno cavo si formavano; e dal centro delle
medesime, piuttosto che da altre parti, scaturiva.

Tale fu la natura degli accidenti di questo terremoto, che piuttosto
acqua o creta nell'acqua disciolta sorsero dalle profonde viscere
del travagliato globo che fuoco od altre sostanze che la presenza
dall'igneo elemento manifestare sogliono; cosa che riuscì contraria
alla opinione di molti che credono da fuochi sotterranei ingenerarsi i
terremoti.

Successe poco lungi da Soriano nei terreni del fra Ramondo, del
Covolo e del fiume Caridi una gran rovina ed una inondazione di fango:
giardini, due case rurali, un oliveto, due monticelli sdrucciolarono,
il Caridi scomparve, si aprirono voragini, sgorgò acqua in copia,
giacquero gli alberi in varie guise fra quell'incomposta congerie,
sfortunatamente sepolte dall'orrendo scoscendimento alcune umane
creature. Alcuni giorni appresso ricomparve il Caridi, ma in altro
letto, nè puro o limpido come prima, ma limaccioso e torbido.

Il più atroce tormento di chi restava sepolto vivo, ed in molti uomini
e donne ciò si osservò, sempre fu la sete. Usciti dal carcere rovinoso
non altro domandavano, non altro agognavano che bere, e sull'acqua per
dissetarsene cupidissimamente si gettavano. Tant'era il rovello che
li tormentava, che, perchè dall'improvviso e troppo copioso uso della
bevanda non ricevessero mortale danno, uopo era ministrarla loro con
regola e misura.

Tra le disgrazie di molti illustri luoghi, di molte nobili città che
raccontare non possiamo, però che il tempo e lo spazio ne sospingono,
non possiamo tacere di Polistena, vaga città sulle sponde del
Jerocarne, che non fu più, demolita di maniera, che i tetti rimasero
innabissati e le fondamenta cacciate fuora dal loro sotterraneo cavo:
tutta sotto sopra fu messa, nè mai più informe ammassamento di rottami
si presentò agli occhi degli uomini spaventati che quello della
distrutta Polistena. «Quando da sopra una eminenza, scrive il Dolomieu
nella versione del Botta, io vidi le ruine di Polistena, quando io
contemplai i mucchi di pietre che non hanno più alcuna forma, nè posson
dare più idea di ciò che era quel luogo, quando io vidi che nissuna
casa era sfuggita dalla distruzione, e che tutto era stato livellato al
suolo, io pruovai un sentimento di terrore, di pietà, di raccapriccio,
e per alcuni momenti le mie facoltà restarono sospese.» Le case
precipitarono nel fiume, i grossi muri del convento dei domenicani si
sfasciarono ed in grandi massi rovinarono. Dalla parte de' cappuccini
si avvallò il terreno, in varii luoghi largamente si sfesse, tutto il
paese all'intorno sino a piè del monte tre miglia distante si screpolò.
Un momento solo del 5 febbraio precipitò e soffocò negli abissi più di
due mila Polistenesi, fra sei mila che erano. I sopravviventi, erranti
e miseri, non solo case più non avevano, ma nemmeno fra quella informe
ruina le riconoscevano: a stento il luogo dell'antica e distrutta sede
accertavano.

Terranuova divenne in pochi istanti un vano nome; il suolo stesso ove
posava, non solo cangiò forma, ma non fu più. «Un gemito indistinto,
così scrivono gli accademici di Napoli, un gemito indistinto, un
terribile fragore, e una densa nube di polve ascose tra la più compiuta
annichilazione l'enorme strage che indistintamente si fece degli uomini
e dei bruti.» Aveva la terra nel suo fiorito stato due mila abitatori;
solo quattrocento dalla catastrofe scamparono.

Trapasseremo senza arrestarci le ruine, gli sconvolgimenti,
l'annichilamento di Molochiello, di Casalnuovo, di Oppido, di Santa
Cristina, di Scilla, di Reggio, di cent'altri e villaggi e casali
e città; trapasseremo eziandio gl'infiniti casi compassionevoli e i
molti singolari casi e venture e disavventure dell'orrendo disastro
non per la prima volta avvenuto in paesi che bugiardi ed insidiosi
si potrebbero chiamare, posciachè per la bellezza ed amenità loro
allettano a spiagge infide e piene di mortali pericoli: un sole
benefico, chiari rivi scendenti dai poco lontani Apennini, freschezza
di siti all'ombra degli aranci, dei gelsi, dei limoni, dei fichi, dei
cedri, dei granati e della pampinosissima vite, fanno che quivi sieno i
luoghi forse i più dilettevoli della terra. Ma sono giardini d'Alcina;
la natura vi fu ad un tempo madre e matrigna.

Ma fra le quasi infinite avventure e disavventure che dobbiam
tralasciare, non possiamo astenerci dai trascrivere dallo storico più
volte lodato alcuni casi che più degli altri potranno interessare il
lettore.

«La compassione ch'io sento, scrive egli adunque, m'invoglia di
raccontare il caso di due madri infelici all'ultima ora sotto le ruine
codotte, ma non sole. Rovinò sopra di loro un tetto, rovinò la povera
casa. L'una aveva seco un figliuolo di tre anni, l'altra stringeva al
petto un bambino di sette mesi. Nella estrema sciagura, in quel fondo
di morte, la materna tenerezza non le abbandonò, anzi si accrebbe.
Curvaronsi contro i cadenti sassi, e fecero del dosso arco sopra le
innocenti creature. Istinto era, amore di madre era, ma frutto altresì
di compassionevole illusione; perciocchè incontro ai rovinanti massi
qual corpo di donna resistere potea? Morirono, e con esse i non salvati
fanciulli. Chi fu mai più infelice al mondo di quelle misere e desolate
madri? Furono trovate nell'attitudine descritta; e con le braccia
avvinte ai figli l'una accanto all'altra, esse coi corpi pieni di
lividori e di putrida gonfiagione, essi seccati e smunti. Or chi potrà
dire quanto dolore regnato abbia in quell'oscuro speco?

«Delle raccontate donne un'altra meno infelice, quantunque
infelicissima sia stato, tutta la Calabria in ammirazione converse.
Sette giorni intieri stette fra le ruine sepolta, nè alcun cibo o
bevanda ebbe. Funne estratta esanime e moribonda. Come prima racquistò
l'imperio dei sensi, _acqua_, gridò, _acqua, acqua io voglio_. Tant'era
la sete che la straziava. Disse che nella tenebrosa caverna prima
una infernale sete la struggeva, poscia perdè ogni sentimento di sè
stessa. La da così vicina morte scampata donna visse ancora alcun tempo
sovvenuta dalla pietà del pubblico.

«Simile caso avvenne ad una donna di Cinquefrondi, villaggio poco
distante te da Polistena, e dal sommo all'imo distrutto. Fu tratta viva
dopo sette giorni di sepoltura, ma con due figliuolini, che seco aveva,
morti.

«Quanto sopportar possa in casi straordinarii l'animale natura, ancora
più ne diede testimonianza un gatto, che, appiattatosi per asilo in
un caldaio, il quale il peso dei rottami sostenne, vi stette quaranta
giorni senza cibo di sorte alcuna. Il trovarono come giacente in
placido sonno. Appoco appoco si riebbe, ed alcuni anni ancora visse,
delizia del padrone.

«Quale fosse lo spaventevole capriccio del terremoto, egli scrive in
altro luogo, seppeselo il padre maestro Agazio, priore del carmine di
Jerocarne, il quale per questi luoghi viaggiava, quando più il flagello
v'infuriava. Spaventato volle fuggire; ma ecco un piede incepparsi
in un crepaccio che subito si serrò. S'affaticò di ritirarlo, ma
spese la fatica indarno. Mise grandi stridori, chiamò aiuto con alte
grida, in quella desolata solitudine nissuno comparve, e tuttavia il
piè stava stretto da quella straordinaria tanaglia. Credeasi morto,
attaccato com'era a quel fatale e strano ceppo. Ma ecco in un subito
per un nuovo urto di terremoto aprirsi il ceppo, spalancarsi la fauce
e dargli libertà e vita. Il povero religioso arrivò al convento tutto
sganganato, e più morto che vivo. Ognuno si maravigliava della stupenda
ventura, ed egli a stento la poteva raccontare; tanto era oppresso
dall'anelito e dalla paura!»

E altrove: «Era una casa ad uso d'osteria lontana forse a trecento
passi dal Solì. L'abitavano l'oste per nome Giovanni Aquilino, la
sua moglie ed una nipote di tenera età. Eranvi per accidente quattro
avventori. Giovanni se ne stava russando sul letto, siccome quello che
avvinazzato era e cotto bene, le due donne attendevano agli uffizii
di casa, gli avventori giuocavano alle carte. Ed ecco la casa intera
prender viaggio verso il Solì, nè fermarsi se non quando al suo letto
pervenne. Quivi l'urto fece ch'ella si disfece ed in frantumi andò.
L'ostessa rimase, come trovavasi, seduta, e dalla paura in fuori non
ebbe male alcuno. L'oste a maladetta forza si svegliò, e smaltito il
vino, pianse la perduta fortuna; la misera fanciulla schiacciata morì.
Morirono pure gli avventori venuti a giuocare sulle sponde dell'ameno,
ma infedele Solì.

«Uno sbalzo di terremoto aveva sepolto fra le ruine della sua casa
l'abbate Taverna, medico di Terranuova. La polvere lo soffocava, la
grandine dei piombanti sassi lo martellava, si credeva morto, quando
un'altra urtata di terremoto lo scarcerò, fuora il trasse e dal
pericolo lo scampò, per lo strano caso restò allibbito e intronato
lungo tempo; finalmente tornò del tutto in sè, e dilettavasi nel
raccontare come il terremoto l'avesse condotto vicino a morte, e
come l'avesse salvato. La famiglia dei Zappia ebbe un caso comune col
Taverna; sepolti da una spinta di terremoto, dissepolti da una altra.

«Anche nella desolata Terranuova successe una mirabile sopportazione
di un animale bruto. Nella casa dei Tutini, che rimase tutta infranta
e distrutta, una cagna fra le ruine incarcerata visse per tredici dì
senza alimento alcuno, e senza avere mai potuto lambire nè pure una
stilla d'acqua. Uscì, toltigli i rottami d'intorno, viva e magra, e
soprammodo sitibonda.

I terreni rimasero tutti lacerati da crepacci e da fenditure. Alcune
di queste fenditure avevano otto palmi di profondità, altre tredici,
altre venti, ed anche di più; varia era la larghezza, ma nissuna
maggiore di quattro palmi. Parevano quasi tutte fatte a taglio netto
e successivo, ma con direzione confusa, varia e indistinta a segno
che non ammettevano ordine alcuno, nè dove fosse il loro principio e
dove la fine non si poteva accertare. Sopra un alto monte rimpetto a
Terranuova, ma sulla opposta sponda del Solì, s'ergeva un villaggio
per nome Molochiello. Questo infelice paesetto fu devastato in modo
che pochi ed informi vestigii rimasero della sua esistenza. Una parte
di lui precipitossi a destra, l'altra a sinistra, nè più altro suolo
vi rimase del sito su cui giaceva che una fettolina a schiena d'asino,
così acuta, che non vi si poteva su camminare. Videsi in questo luogo
un orrido e non più udito spettacolo; che nel fianco del monte reciso
come a perpendicolo pendevano ammassate le reliquie dei cadaveri
riposti nei sepolcri, i quali, per lo squarcio avvenuto nei fianchi
delle rupe, rimasero scantonati e per metà divisi.

Un Antonio Avati contadino stava sur un castagno recidendone i rami,
quando arrivò la devastazione. Il castagno si mosse, e con placido
corso scese verso il fiume Marro per più di trecento passi. Fermossi
finalmente intoppandosi giù nel vallone. Scuotessi Arati, e salvo sulla
ripa saltò.

La rustica casa di Grazia Albanesi, moglie di Giuseppe Zema, viaggiava
anch'essa giù per lo monte. Aveva Grazia un bambino di poca età, che
giaceva forse placidamente dormendo in una rozza culla fra meschine
fasce avvolto. L'infelice madre restò affogata ed oppressa sotto le
smisurate moli e della propria casa e delle altre fabbriche e del
terreno e della creta che giù rovinavano dalla rupe di Molochiello.
Credessi che con lei fosse morto il bambino. Già erano trascorsi
tre giorni dal fatale avvenimento, quando da coloro che andavano
fra le ruine raccogliendo gli avanzi della loro sepolta e scarsa
suppellettile, furono uditi alcuni oscuri vagiti. Alzarono a speranza
i pietosi animi, smossero, scavarono, trovarono la misera ed innocente
creatura nella sua culla cinta di fango e fra orrendi frantumi involta.
Rea era la stagione, il freddo aspro assai, la pioggia dirotta.
Estrassero il bambino vivo da quell'informe spelonca così com'era,
rauco dal pianto, conquiso dalla fame e dalla sete, assiderato dal
freddo, dimagrato al sommo; così usci vivo dal sepolcro inusitato della
madre. Il presero, il fomentarono, con prudenza il dissetarono, con
prudenza ancora lo sfamarono. Salvo in somma il resero, ma non tanto
che non portasse nello smunto viso e nel debole corpicino, finchè
visse, i segni dell'andato patimento. Siccome morta era la madre, una
zia materna prese cura dell'orfano così stranamente preservato da una
stranissima ventura. Gli accademici di Napoli non senza maraviglia il
videro.»

Sino a questo passo furono raccontate le disgrazie di molti illustri
luoghi, di molte nobili città; or si diranno quelle di colei che tutte
e per antichità e per grandezza e per altezza di fama le avanza.
La magnificenza non più che l'amenità non preservò dalla cagione
inesorabile e furibonda.

Siede Messina sulla terra sicula, alto elevandosi quale regina
del famoso stretto che da lei il suo nome prende. Celebre ai tempi
antichi, celebre nel medio evo, e celebre ancora nelle moderne età,
fa testimonio, che quivi all'industria degli abitanti, alla fertilità
del suolo, alla benignità del cielo si aggiunge un quieto e necessario
rifugio a chi sen va navigando sur un mare sopra misura tempestoso, e
troppo spesso da furie disordinate perturbato. La natura rabbiosa qui
pose Scilla e Cariddi, scoglio e voragine infami per tanti naufragii, e
quivi la provvida natura pose il porto di Messina al pari di qualunque
altro più famoso che al mondo sia, ampio, profondo, sicuro, atto a
ricettare come le più piccole ed umili barche, così le più grosse
e magnifiche navi. Fu città cara a' Normanni, cara agli Svevi, cara
agli Aragonesi, onde sorse piena di sontuosi edifizii e corredata di
tutti quei comodi della vita che alle città principali di un reame
si appartengono. A così alto grado salì una volta la sua potenza, che
e grossissimo commercio faceva, e numerose armate sui mari spingeva,
e del primato dell'isola con la stessa popolosa Palermo contendeva,
ed alcun tempo il tenne. Per le guerre civili poi e pei rivolgimenti
politici e per le ribellioni, ed ancora pel crescere progressivo
dell'emula città, cadde in più basso stato, ma non però tale che
illustri segni non serbi, e per popolazione e per magnificenza di
edifizii, della grandezza antica. La natura e gli uomini l'avevano
fatta grande e graziosa; gli uomini poscia per le discordie, la natura
pei terremoti la mandarono in declinazione; e da sè medesima diversa la
fecero.

Tremarono e rovinarono le Calabrie, Scilla e Reggio a rincontro di
Messina poste, parte fracassate, parte sommerse giacquero. Il profondo
mare non interruppe la mortale causa. Tanto essa era entro le più cupe
e più profonde viscere della terra nascosta! Successero nell'infelice
Messina cose tali che Scilla e Cariddi non ne starebbono al paragone.
Sino dai primi giorni di febbraio vi comparvero, ancorchè fuor di
stagione fosse, quei _cicirelli_, pesci del genere delle sfirene, che
sono a quelle spiaggie tristo annunzio di tremuoto. La veduta di questi
allora insoliti pesci cominciò a turbare i Messinesi, i quali qualche
grave caso ne augurarono, ma però non sospettavano di così spaventosa
ruina della loro città.

Altri segni sorgevano dell'imminente tempesta e di funesto avvenire.
Il mare in quello stretto, che dal Peloro trascorre lungo l'aspetto di
Messina, è commosso da un flusso quotidiano, cui gli abitanti chiamano
marea, e con vocabolo corrotto rema. Due volte al giorno le acque sono
solite a gonfiarsi ed a correre verso settentrione nel Faro, e due
volte ricorrono nel mare Siculo verso Ostro. Fremono sì quando vanno e
vengono, ma non tanto che nei tempi ordinarii diventino tempestose. Tal
era ed è il consueto tenore con cui nello stretto di Messina procede
quel vorticoso mare.

Ma quando l'anno giunse ai primi di febbraio, principiò ad alterarsene
l'usato andamento: «Le maree, narrano gli accademici di Napoli, non
erano esattamente regolari da sei in sei ore; torbida, fremente e
oltre il costume feroce divenne la vorticosa Cariddi, e spesso anche
allorquando parea meno agitato il volume delle acque, si osservò
crescere repente il tortuoso giro di quel vortice, che quei naturali
appellano _carofalo_, e la rema, quasi confusa e interrotta nella
sua direzione, o arrestarsi per poco o sull'onda seguace rialzarsi, o
aprirsi in mormorante e rapidissima concentrica voragine.

A ciò si univa un insolito oscuro fremito, che quasi si approssimava
a un profondo e lontano muggito; e ciò o precedeva alla repentina
conturbazione delle correnti, o vi si accompagnava o la susseguiva. E
per ultimo, siccome al ritorno della rema dal Peloro l'onda escrescendo
si alzava oltre all'ordinario livello, e talvolta attentava di risalire
su i segni terminali della sponda selciata, così all'uscir del porto
e nel rientrare le anguste gole del Faro, lo sbassamento sovente n'era
fuor dell'usato tumultuario, vorticoso ed eccessivo.»

La sponda selciata di cui qui si parla, altro non era che una petraia o
seguenza di sassi ordinatamente posti che per difesa contro gl'impeti
del mare e per termine tra il mare medesimo e la susseguente pianura,
scorre per tutto il circuito del porto, e ne forma l'orlo estremo o
sia il margine internamente. Questo orlo selciato, ornato vagamente di
fontane e di statue, i Messinesi chiamano panchetta, dietro la quale
succede un ampio stradone, e in fondo di esso si ergeva un eminente e
maestoso casamento, o continuazione di graziosi e nobili edifizii che
facevano di sè bellissima mostra a chi veniva dal porto l'inclita città
visitando.

Dal mare venivano gli augurii, venivano anche dal cielo. Il sole tinto
di pallida luce in pieno meriggio, un aere ora quieto, ora repente
turbato, ora di nuovo quieto con un'afa noiosa che rendeva i corpi
gravi ed affannosi; cupi suoni che di lungi venivano, ma non bene
si sapeva donde; un volare incerto degli uccelli, un tremar degli
animali, uno schiamazzar di galline, e massimamente di oche, un urlar
di cani straordinario alcuna cosa fuor dell'usato protendevano, la
natura trovarsi in qualche penoso travaglio significavano, e gli animi
riempivano di stupore e di terrore.

Fra tutto questo apparato di luttuosi segnali nei primi giorni di
febbraio principiò la terra a tremolare, come di sè medesima più sicura
non fosse, e, come il mare, farsi ondeggiante volesse. Ma il tremolio
non cresceva in iscosse, muoveasi la terra, ma stavano gli edifizii.
I Messinesi, usi ai tremuoti, per così dire, volgari, non credevano,
quantunque spaventati fossero, che la leggiere trepidazione avesse a
cambiarsi in furor tale, che la città ne dovesse andar in sobbisso.
Implorarono l'aiuto divino, le sacre pissidi esponevano, inni sacri
cantavano, facevano processioni, i luoghi aspergevano coll'acqua
benedetta, ed accendevano i lumi all'adorato seggio dove si conserva
la lettera autografa che la Vergine scrisse ai Messinesi: reliquia
da essi tenuta preziosissima, e con grandissima divozione onorata.
Ma la natura, che aveva accesa nei profondi recessi di quelle terre
qualche immensa fornace, od ammassata qualche sterminata quantità di
acque, le quali in quei monti tendevano a squilibrarsi, non patì che la
potentissima cagione fosse defraudata de' suoi terribili effetti.

Ai 5 di febbraio, poco appresso l'infausta ora del mezzodì, la piccola
ondulazione degenerò subitamente in un orribile e generale rivolgimento
del mare, dell'aria e della terra. Udironsi frequenti sotterranei
muggiti; pruovaronsi ad ora ad ora ed a precipizio confusi e forti
scuotimenti del suolo. Ora in su si spingeva, come se di sotto all'insù
fosse percosso da potentissime spuntonate; ora s'avvallava come se una
voragine se gli fosse aperta sotto; orizzontalmente oscillava, ora
dava sbalzi di traverso, ora, quel che fu il moto pessimo di tutti,
si rivolgeva in giro, come se fosse portato da vertigine. Brevemente,
una tempesta per tanti lati e talmente succussoria infuriò, che non fu
maraviglia che così gravi e così numerosi guasti siano accaduti; bensì
è maraviglioso che tutta la città, almeno nella sua parte inferiore,
dove maggiormente la sofferente natura travagliò, non sia stata messa
a soqquadro intieramente ed in ruina. Moltissime porzioni del teatro
marittimo, cioè del casamento sovraddescritto, che il porto orna e
nobilita, diroccarono, questa a brani a brani, quella a sfasciumi più
grossi, quest'altra per un muro giù e un altro su, onde come spaccate
dall'alto al basso apparivano. Non si udivano in quelle ferali ore che
muggiti della terra convulsa, invocazioni di supplicanti, lamenti di
moribondi, scroscii e rimbombi di case e palazzi che si discioglievano
in ruine. «A dì così tremendo, scrivono gli accademici, a dì così
tremendo sopravvenne notte più infausta. Verso le ore sette e mezzo
la terra fu presa da tale e sì profondo scuotimento, che parve tutta
intesa a fendersi o a rovesciarsi e nabissare; e quindi la pallida e
tremante popolazione, tra il muggito della terra, il fremito de' venti
e il fragore del mare, sentì percuotersi dal rimbombo prodotto dalla
orrenda e quasi universale ruina de' tempii, de' casamenti volgari e
degli edifizii più vasti e più vistosi, ed ecco in qual modo fu portato
a più compiuto termine quel danno che s'era tra essi nel giorno e nella
sera cominciato a produrre.»

Non uno, ma tutti gli elementi congiurarono a ruina della città
dominatrice del Faro. Rovinate le case e rotti i focolari, il fuoco
non trovando più nè pascolo regolare, nè uscite consuete, s'appiccò
alle materie diroccate, e divampando con orribile incendio andava
serpendo e bruciando quanto era rimasto intero, sia che in piè ancora
si sostenesse, sia che a terra già sbalzato giacesse. La fiamma
divoratrice si estese con rapido corso da uno in altro luogo, e tale
spazio guadagnò, e tale acquistò irreparabile forza, che per sette
giorni ogni opera fu vana per estinguerla. Molto prezioso mobile arso,
molte sostanze o di ricchi negozianti o di nobili famiglie incenerite.

«Quindi a molti infelici, seguono a scrivere gli accademici, a'
quali riuscì facile lo scampare dal precipizio de' sassi, toccò la
disperata sorte di rimanere vittime delle fiamme. Orribile cosa
a mirarsi! Chi cercava di guadagnare l'altura de' tetti, chi si
affaticava per arrampicarsi alle travi; chi, ora ad una e ora ad
un'altra finestra affacciandosi, misurava col guardo l'altezza delle
mura, per gettarvisi, e ne rifuggiva spaventato dall'evidente pericolo
della caduta. Ma finalmente tutti videro approssimarsi la morte,
invocando invano, coll'errare di qua o di là, il desiderato soccorso,
impossibilitati a fuggire per le scale già dirute, ed ugualmente
privi di coraggio e di modo onde o gettarsi dall'alto o ricevere da'
cittadini, dagli amici o da' parenti un aiuto qualunque in mezzo alla
medesima loro situazione.»

L'incendio infuriava. Oltre allo scompiglio delle cadenti mura e
il terrore e la fuga de' cittadini, che impedivano le azioni dello
spegnere, un irresistibile alimento aveva la fiamma nella furiosa
bufera, che chiamarono aeremoto, la quale, quando più la terra
si scrollava ed il fuoco imperversava, soffiava terribilmente con
direzione incerta, anzi con buffi vorticosi e disordinati. Una casa
de' Ceraselli, già percossa e conquassata dal terremoto, fu dal vento
svelta, di lancio gettata, e sparsa in frantumi sopra il suolo. Pareva
veramente che quivi ed in que' momenti il mondo, sottosopra andando,
fosse arrivato alla sua fine.

Col fuoco, coll'aria, colla terra i Messinesi avevano a fare. Ma il
mare non s'indugiò a concorrere colla sua vasta mole a loro distruzione
e morte. Sollevossi quella mortifera e devastante inondazione, frutto
del marimoto di cui abbiamo, favellato e che ai Scillitani diede tanto
spavento ed arrecò gli ultimi danni. Lo smisurato e furiosissimo fiotto
con incredibile violenza entrò a turbare il tranquillo letto del porto,
superò la panchetta, traboccò fra di essa ed i grandi edifizii del
teatro marittimo, e tutto quello spazio allagando, di arena e di marino
fango il coverse. Aprissi in tale modo ed in que' funesti momenti
una scena di mostruosa e multiforme rivoluzione di natura, e si trovò
chiuso ogni passo alla fuga ed allo scampo.

Troppo lunga e noiosa narrazione sarebbe il numerare tutti i luoghi o
nabissati o infranti. Basterà il dire che i tempii più ragguardevoli
furono o sconquassati o altamente lesi o lievemente percossi. Oltre la
ruina de' begli edifizii del teatro marittimo, moltissimi casamenti
nobili, graziose stanze di magnati, abbellite da tutte le arti
più industri, furono o posti a soqquadro intieramente o gravemente
maltrattati. Le fabbriche delle opere pubbliche non incontrarono sorte
migliore. Una parte del grande spedale fu ridotta in pessimo stato.
Il palazzo reale rotto e diroccato in più parti, il seminario una
congerie informe di sassi, la parte maggiore del convitto di educazione
un ammasso di ruine, l'archivio della regia udienza sepolto sotto i
rottami, la porta dell'Assunzione quasi disfatta, il palazzo senatorio
screpolato tutto ed in parte diroccato, e di quasi tutte le case, che
più o meno offese restarono, tetti di peso divelti da' loro appoggi e
sbalzati in aria, poi caduti a sfasciarsi e stritolarsi del tutto in
terra; il convento de' teresiani, uno de' più danneggiati. La cupola
della chiesa del Purgatorio arrandellata di piombo sui tetti d'una casa
vicina. Mirabile fu il vedere il campanile del duomo tagliato, per così
dire, per filo d'altezza, e una metà rimasta in piè, l'altra diroccata
a terra, come se spaccato dalla cima alla base da una potente scure
stato fosse.

Tra mezzo a così rovinoso tumulto e scroscio poco più di settecento
persone in così popolosa città perirono; imperocchè, ai primi insulti
del terremoto, i cittadini fuggirono precipitosamente e al disteso
sui campi liberi alla campagna, dove, alzato avendo tende e baracche,
attendevano a dimorarvi sino a tanto che quell'insolito furore si fosse
estinto. Così l'immagine della vita s'era trasportata fuori; morte,
silenzio e solitudine regnavano in Messina. L'uomo sentiva raccapriccio
ed orrore per le desolate contrade della vasta città trascorrendo, dove
nè anima vivente vedeva che movesse, nè suono sorgere che le orecchie
gli percuotesse, udiva, se non quello d'alcune porte o finestre ancora
attaccate ai muri e dal vento sbattute come in abbandonato e deserto
edifizio. Avresti detto una città percossa e devastata dalla peste.

Ai 5 di febbraio non vi fu mai riposo compito dal terremoto,
scuotendosi continuamente ora con maggiore scrollo ora con minore il
suolo. Bene successe ai Messinesi la prudenza in appresso; imperocchè
ai 28 di marzo, come in Calabria, così ancora in Messina, preceduta da
molte scossette, venne una scossa violenta che parve che quello fosse
l'ultimo giorno per la città già cotanto desolata e deserta. Novelle
grida di stupore e di terrore si alzarono allora di sotto le tende e le
baracche, grida commiste di uomini e di donne, di vecchi e di fanciulli
cui pietà prendeva degli antichi abituri. Non poche spaccature di terra
si aprirono in Messina, ma non però di quella lunghezza e profondità
che si osservarono nella Piana di Monteleone. Alcuni narrano che
da queste aperte bocche usciti fossero aliti ferventi e di fetore
sulfureo; ma con migliore osservazione fu accertato che piuttosto
chimere d'immaginazioni percosse deggiono stimarsi, che testimonianze
d'uomini prudenti ed amatori della verità. La prossimità dell'Etna
spirava queste fole, sembrando al volgo che un terremoto ed un così
estremo conquasso avvenire non potessero senza che quel colossale e
rabbioso monte vi avesse parte e cagione ne desse. Ma fatto sta, che,
se egli operò di sotto, non operò di sopra, nè con fuochi o con aliti o
con fumi la sua immensa forza manifestò.

Fuvvi altresì chi s'immaginò avere sentito impresse di calore le acque
accavallate sui lidi nel momento del terribile marimoto; ma anche
questa fu una chimera di mente inferma. Bene è vero che le fontane
e i pozzi per alcuni giorni si disseccarono; il che aggiunse miseria
all'estremo travaglio prodotto dalle altre cagioni. Il terreno sotto
la panchetta e del contiguo stradone parve infangarsi e divenir
molliccio, ma però non eruttò melma. Forse la cagione che dalle
profondissime interiora della terra procedeva, quivi fu meno attiva che
nella Calabria, e non ebbe sufficiente forza per ispingere sino alla
superficie le fanghiglie, e produrre quei vomiti di materia cretacea.

Le spaventevoli catastrofi accaddero fra popoli di fantasia vivissima
e molto dediti alla religione, la quale nelle menti rozze e poco
illuminate degenera facilmente in superstizione. Onde non è a
maravigliare se nei paesi percossi si osservarono cose singolari:
apparizioni straordinarie, predizioni portentose, e cerimonie e riti
stupendi. Tre giorni dopo il fine del disastro, fatta una processione,
cantarono l'inno delle grazie: ringraziavano, abbenchè fossero senza
pane, senza roba e senza tetto; lodevole radice di pietà anche nella
miseria.

I costumi, ciò nondimeno, non erano nè diventarono migliori; che
anzi, come a segni non menzogneri apparve, peggiorarono e nel pessimo
diedero. Fra tanti dolori, una sfrenata cupidigia del far suo quello
d'altrui i feri animi di quei popoli dominava. Come ogni cosa era in
confusione, così adoperarono come se credessero che ogni cosa fosse
comune, e ciascuna di tutti; nè la compassione per altri nè il proprio
pericolo valevano per ritenergli che in abbominevoli latrocinii non
si precipitassero. Userem le parole del Dolomieu, siccome quelle
che pingono al vivo la condizione di quel tempo, e dimostrano quale
creatura sia l'uomo quando è sciolto dal freno delle leggi, quantunque
Dio minacci e colla sua terribil voce faccia sentire che pronto e
presto è il castigo.

«Mentre una madre scapigliata, scrive l'egregio Franzese quale nelle
sue Storie il traduce il Botta, e coperta di sangue andava domandando
alle ruine stesso ancora fumanti il figliuolo, cui, mentre nel grembo
il portava fuggendo, le aveva tolto la caduta di una rovinosa trave;
mentre un marito affrontava una morte quasi certa per ritrovare una
diletta sposa, si vedevano mostri con faccie d'uomini precipitarsi in
mezzo a muri traballanti, bravare il pericolo più orrendo, calpestar
uomini mezzo sepolti che di pietà e di aiuto gli richiedevano, per
andar a saccheggiare la casa del ricco e soddisfare ad una cieca
cupidigia. Costoro spogliavano vivi tanti infelici, i quali avrebbero
loro date le più generose ricompense, se al lagrimevole caso loro
avessero prestato una mano soccorritrice. Io ho alloggiato a Polistena
nella baracca d'un galantuomo che fu seppellito nelle ruine della
sua casa, le sole gambe scoperte per aria: il suo domestico gli tolse
le fibbie d'argento, e se ne andò via senza volergli dare aiuto per
disseppellirlo. Generalmente il popolo della Calabria ha mostrata una
depravazione incredibile di costumi nel mezzo agli orrori de' tremuoti.
La maggior parte degli agricoltori era all'aperto nelle campagne
quando successe la scossa dei 5 febbraio, e accorsero subito nei paesi
ingombri di polvere, non per prestare soccorso, ma per saccheggiare.»

Sin qui il veridico Dolomieu; ma direm cosa ancora più orrenda e pur
anco vera, ed è che questi uomini spietati, se soli erano ed in deserti
luoghi, rubavano e lasciavano in vita i miserabili sepolti senza
punto nè delle loro grida, nè delle loro strida curarsi; ma quando
temevano che alcuno li vedesse o gente sopraggiungesse, ammazzavano o
calpestavano, soppozzando o con rottami acciaccando coloro, cui rubato
avevano, più crudi in ciò che l'orrido flagello che allora la patria
sobbissava. Nè età, nè sesso, nè memoria di benefizii valevano per
fare che quelle spietate tigri s'impietosissero. Tutti soffocavano,
purchè chi soffocato era, avesse cosa che utilmente pel rubatore
gli potesse venir tolta. Fieri esempi massimamente d'ingratitudine
sorsero. I servitori i padroni, i coloni i proprietarii spogliarono.
Ciò facevano per istinto, ciò facevano per un barbaro raziocinio.
Credevano che la fortuna avendo tutto sconvolto, e tutti nella medesima
sciagura involti, e la condizione del ricco uguagliata a quella del
povero, avesse lasciato i beni in preda alla forza ed a benefizio del
primo occupante. Quindi è facile a comprendersi qual barbaro governo
si facesse, nei primi dì dell'orribile percossa, delle leggi, delle
sostanze, della santa religione, della sacra umanità. Orride cose
faceva la natura, ancor più orride ne facevano gli uomini.

Nè vuol tacersi che la sporca lussuria trovò anche luogo fra tante
angosce, fra tante ruine. Fu una peste peggiore del rubare, perchè
quella era mescolata colla speranza, questa accompagnata dalla
disperazione. Nè tacere pur devesi che chi doveva meno partecipare
in queste sporcizie, non meno degli altri dentro vi s'immerse,
e nell'universale dissoluzione fu provato che sventura non rompe
libidine.

Pronta e di breve tempo fu la distruzione, ma il ristaurare tante ruine
e l'emergere da tanto conquasso, il ricuperare quanto s'era perduto fu
opera di più lunga fatica e di maggiore momento. Ond'è che si videro
le popolazioni fuggite alla rabbia del terremoto in punto di perire
per la mancanza dei sussidii al vivere necessarii. La stagione era
in quel mentre d'assai e oltre l'usato inclemente, regnando sempre
pioggie molestissime e un freddo anzi rigido che no. Le ingiurie del
tempo tormentavano i miseri scampati, li tormentava ancora più la
fame. Tutti i generi, che al vestire dell'uomo ed a cibarlo servono,
erano stati o distrutti o sotto le rovinate fabbriche sepolti. L'olio
quasi tutto miseramente a terra sparso: sparsesi o perdessi la più
gran parte del vino o per la rottura delle botti o per lo sprofondarsi
delle volte. Quel vino poi che potè essere preservato, nelle sue più
intime parti corrotto, non acquistò mai più nè la sua vigoria nè la
sua purità. L'aceto stesso fiacco e privato del suo spirito e del suo
gusto divenne. La medesima tempesta annientò le biade che nei granai
erano riposte. Dissotterrossi in progresso di tempo il grano che nelle
fosse all'uso del paese si conservava; ma di niuna utilità fu, perchè
fracido si estrasse e d'ingrato odore o ciò fosse per l'acqua che per
le insolite fessure in quei penetrali aveva trovato la via, o per altri
influssi sorti dalle parti più interne e più basse, da cui la naturale
economia dei grani fosse stata contaminata e guasta.

Nè solo mancarono i generi, ma ancora le officine e gli artifizii,
per cui si ammorbidavano ed all'uso degli uomini atti e confacenti si
rendevano. La pallida fame incrudelì per ogni parte, e fu la prima e
la più terribile seguace del terremoto. Nè modo v'era in quel punto di
rimediarvi. Le strade giacevano così altamente ingombre di rottami e
di ruine, che il portare le vitali derrate dai paesi ove abbondavano a
quelli a cui mancavano, era opera difficile, anzi in quei primi momenti
d'impossibile esecuzione. Arrogevasi all'universale disgrazia che
essendosi o guasti i fonti per la corruzione delle acque o disseccati
per avere le polle interne preso altre vie, negavano all'afflitta
popolazione il solito refrigerio; e quando non pioveva più, chi presso
ai fiumi non abitava, sperimentava quanto fosse crudo il tormento della
sete.

Da tanti stenti, da tanti strazii, da tanti dolori, da tanti terrori si
generarono con una marcigione orribile malattie mortali, massimamente
di febbri di mal costume, per cui era tolto di vita chi da tanti rischi
di morte già era scampato. La fame, la sete, i perpetui lamenti di chi
era rimasto storpio o ferito, o di chi da ferale febbre era consumato
ed arso, il tetro aspetto dei cadaveri insepolti o chiusi sotto le
rovine, donde altro segno di sè non davano che un incomportabile
fetore, o gettati sui roghi ad incenerirsi, formavano un misto tale,
che da lui altro non poteva nascere che l'ultima desolazione e la
totale dissoluzione della società. Che leggi, quai magistrati, o qual
lume di ragione, o qual impulso di sentimento potevano resistere a
cruciamenti che piuttosto erano quelli, per così dire, delle anime
dannate, che di creature nella luce di questo mondo ancora viventi?

Umanità e religione si scossero in così fatale momento; non mancarono
gli umani provvedimenti. Sorse alla voce di tanti miseri il governo
del re Ferdinando, e prontamente con animo da beneficenza compreso, e
con mezzi quanto potè più efficaci a quegli estremi bisogni accorse.
Elesse al pio ufficio uomini che sapevano e volevano secondarlo, un
Pignatelli in Calabria, un Caracciolo in Sicilia. La fame, la mala
consigliatrice fame più d'ogni altra necessità pressava; alla fame
adunque per le prime provvidero. Nè fredda o lenta, ma accesa e
spronata fu la benignità di chi comandava e di chi obbediva. Soccorsero
con mandar generi di vitto prestamente nei luoghi più danneggiati,
innumerabili braccia al racconcio delle terre lavorando. Si fecero
incontanente assettare molini e forni, ed, antivedendo qualche nuovo
conquasso, ordinarono, là dove l'opportunità era maggiore, conserve
di grani, di farine, di biscotto, onde, ad ogni tristo accidente che
sopravvenisse, potesse essere in pronto il compenso. Non solamente
nei primi dì della fatale sventura, ma per molto tempo ancora una
moltitudine quasi innumerabile d'uomini affamati e per fame languenti
furono sostentati dai soccorsi che dalla mano regia provenivano.
Provvidesi eziandio, poichè malizia umana è così grande che fa negozio
della miseria altrui, con ordini adatti e severissimi, che siccome i
commestibili si somministravano, così ancora il loro trasporto da un
luogo all'altro, e l'acquisto sul luogo fosse agevole, retto e non
incomodo nè al venditore nè al compratore. L'annona regia largiva il
vitto, la supellettile, le vesti; l'erario il denaro. Per ogni lato,
per ogni canale scorreva il fiume della beneficenza sopra gl'infelici
percossi. Il governo faceva da sè e per sè, ma non tralasciò il
pensiero di raccomandare ai baroni che pronta ed amorosa cura avessero
dei loro vassalli. Quanto alle città regie, cioè quelle che, esenti da
baronaggio essendo, alla sola autorità del re soggiacevano, furono loro
dall'erario pubblico, per quel medesimo fine di soccorrere chi pativa,
distribuiti larghi sussidii.

L'immensa forza che aveva conquassato la terra, aveva eziandio la
sopraffaccia sua sconvolta tutta e coperta di ruine. Ondechè la
maggiore difficoltà che s'incontrava nel condurre a compimento il
pietoso ufficio era appunto la malagevolezza delle strade, come già
più sopra abbiamo osservato. Quasi isolate erano le città, isolati i
villaggi. Ad un male così grave sopperire non potevano le languenti
braccia dei Calabresi superstiti, nè l'animo afflitto, nè il numero
scemato. Misersi in opera le compagnie provinciali che nuovamente, non
a questi usi di sciagura, erano state ordinate. Fu loro comandato che
nella ulteriore Calabria gissero ed in pro degl'infelici abitatori a
sgombrar terre, a sollevar rottami, a racconciare strade, ad inalveare
fiumi, a prosciugar paludi, a dar corso a stagni si adoperassero. Le
soldatesche mani quivi non a micidiale, ma a conservatrice opera con
provvidissimo consiglio mandate, molto volentieri vi attesero. Deposti
i fucili e le sciabole, presero in mano vanghe, uncini, picconi, zappe,
funi, e racconciarono coll'arte ciò che la natura aveva stravolto e
scomposto. Quanti cadaveri trassero dai muti abissi, quanto prezioso
mobile dai rovinati edifizii, quanto oro, quanto argento, quanti nobili
arredi tra il fango, i sassi ed ogni lordura giacenti!

«Dicasi senza sospetto, scrivono i lodati accademici di Napoli, dicasi
senza sospetto di adulazione; fu mirabile cosa a vedere i tardi nipoti
de' valorosi Bruzii e degl'industri abitatori di tal parte della Magna
Grecia comportarsi con tale e sì costante intrepidezza e fedeltà,
che non può abbastanza lodarsene il coraggio, con cui si esposero
a sì difficile impresa, la rassegnazione colla quale si prestarono
ai comandi di que' prodi uffiziali che in tanto penoso impegno ne
diressero le operazioni, e l'ottima fede colla quale religiosamente
custodirono tutto ciò che essi dalle ruine disotterrarono. Si videro
in brevi giorni sgombrate le più vaste ruine, riaperte le strade e
facilitati i modi, onde potersi la sbandata gente riunire e sovvenirsi
a vicenda. Ritornarono al bene e al comodo della popolazione gli ori,
gli argenti, le suppellettili, i commestibili e que' generi di prima
necessità che non erano stati o guasti o distrutti.»

Speciale ordine dal principe e da chi la benefica sua volontà eseguiva,
ebbero questi pietosi e forti soldati di avere cura principalmente di
rinvenire e conservare le scritture, onde si regolavano gl'interessi
e lo stato delle famiglie. Come a loro fu comandato, così fecero.
Impedissi a questo modo uno scompiglio, una crudele confusione che
sarebbe stata d'infiniti danni e di acerbi sdegni troppo feconda
cagione.

Fra di queste benefiche operazioni che un paese vasto ed una numerosa
popolazione a novella vita chiamavano, una tristissima vista rendeva
funesti gli animi. Disotterravansi a luogo a luogo, a ora a ora dai
diroccamenti e dai dirupamenti gli ammaccati cadaveri. Sorgevano
pianti di chi riconosceva i suoi più cari, compassione e smarrimento
era in tutti. Vedendoli, contemplandoli, ognuno comprendeva quanto
fosse grande il calabrese ed il siciliano infortunio. Rotti erano
i corpi estinti in varie ed orribili guise, molti sformati talmente
e dall'antico aspetto tanto diversi, che più non si riconoscevano.
Putivano per putredine: un infame odore anticorriero e seme di mortali
malattie per le città e per le campagne si diffondeva. Al quale fomite
d'aere pestilenzioso maggiore forza era aggiunta dalla puzza che usciva
dai sepolcri stati sommossi, aperti e scoperti dalla violenza del
terremoto. Vedevansi per gli spaccamenti e scosci dei monti scendere
i cadaveri per lo innanzi chiusi nei loro avelli, o sul suolo stesso
sconvolto apparire in sembianze orrende. Il pericolo era grave che i
morti ammazzassero i vivi. Ebbesi dai magistrati regii nel miserabile
frangente, cura della salute pubblica.

Per provvidenza generale ordinarono ciò che per provvidenze particolari
già si era fatto in alcuni luoghi. Vollero che si accendessero i roghi
per dovunque abbisognasse, e che i cadaveri vi si incenerissero.
Abborriva sulle prime il volgo da un ufficio che siccome insolito
era, così ancora crudele ed inumano gli pareva. Ma tra per promesse,
persuasioni e comandamenti si venne a termine che il salutare editto
si mettesse ad esecuzione. All'odore putredinoso si mescolava l'odore
delle carni e delle ossa arse: il che cagione era di sommo ribrezzo ed
abbominazione.

Per andare all'incontro di così molesto senso, e per resistere ai
fatali effetti del fetore, si bruciavano nel medesimo tempo materie
odorose in grandissima copia, onde una densa e perpetua nube di profumi
la tristissima scena avviluppava, e meno orribile la rendeva.

Rivolsero anche il pensiero a chiudere le squarciate fauci dei sepolcri
con ampie e ferme masse di materiali atti ad impedire il velenoso fiato
che dalla putrescenza ne usciva.

Questi consigli e provvedimenti sortirono l'effetto desiderato nelle
Calabrie, ma non sì però che un influsso mortifero non le desolasse,
e molti fra i più non mandasse. Ma la salutare efficacia se ne
conobbe in que' luoghi, dove con maggiore diligenza furono mandati ad
esecuzione; imperocchè o le popolazioni ne furono preservate del tutto,
o il morbo con minore veemenza v'incrudelì, o più breve durata ebbe.
Per le prudenti e forti deliberazioni del vicerè di Sicilia Domenico
Caracciolo, Messina ne restò intieramente esenzionata. Vi si piansero
morti pel furore della terra e del mare, ma non per la forza delle
malattie.

Terminati i fieri e crudi disastri, rimase lungo tempo nei popoli
stupore, terrore ed orrore. Chi per gl'infelici luoghi viaggiava,
vedeva uomini che a manifesti segni dimostravano essere stati tocchi
da uno straordinario furore d'elementi e da un immenso infortunio.
Oltracciò, ad ogni tratto si temeva che la potente e rabbiosa natura
delle Due Sicilie di nuovo si mettesse in travaglio, e quanto aveva
lasciato intero o non intieramente distrutto rompesse e disciogliesse.
Una densa e fetente nebbia ingombrò per parecchi mesi, non solamente
il teatro di tante tragedie, ma ancora tutta l'Italia con parte della
Francia e della Germania.

A dì 29 d'aprile del presente anno cessò di vivere Bernardo Tanucci,
ministro napoletano. Da qualunque lato si guardi il lungo politico
aringo corso da Tanucci, indarno si cerca quale cosa potuto abbia
servire di fondamento all'alta riputazione in cui levossi da vivo e che
nol lasciò dopo morte.

La setta popolare e l'uso di recare le cose a maggior vantaggio dei più
prevalevano. Il secolo si volgeva principalmente contro i residui degli
ordini feudali, contro gli abusi, se mai ce ne fossero, e le esenzioni
del clero, contro i privilegii, di cui la nobiltà ed il clero stesso
godevano. A migliore egualità si volevano le cose tirare; a maggiore
dignità si andava la natura umana riducendo.

Vivo esempio del secolo era l'imperadore Giuseppe. Ora il vediamo
visitare di nuovo l'Italia con quel solo apparato che la virtù ed il
ben volere gli davano. Partito dall'imperiale residenza di Vienna nel
dì 6 dicembre, passato per Mantova, Parma e Modena, e tre giorni a
Firenze col fratello granduca trattenutosi, a Roma sull'ora del mezzodì
del dì 23 di tale mese inaspettatamente arrivò. Vide Roma e Pio, a cui
disse restituirgli la visita. Per soddisfare ai curiosi di queste cose,
si dica, ch'ei portava l'abito schietto dei suoi ufficiali, bianco con
mostre di velluto rosso; per abitazione aveva la casa del cardinale
Herezam, suo ministro; per tavola, quella d'un albergo vicino a piazza
di Spagna. La vigilia di Natale assistette ai primi vespri in San
Pietro, poi vi udì il mattutino e la messa di mezza notte. Erasegli
apparecchiato un magnifico inginocchiatoio con cuscini e tappeti di
velluto e d'oro; ma in quel luogo ed avanti il cospetto di colui che
il più alto adegua agl'imi, il ricco seggio ricusando, inginocchiossi a
terra, come se uno del popolo fosse, ed a terra prostrato pace al mondo
e felicità pe' suoi popoli pregò. In mezzo alle romane grandezze umile
e modesto si mostrò, grandezza più grande di tutte. Il dì seguente
poi recossi alla messa solenne cantata dal papa con tanta maestà,
con tanta pompa e con tale concorso di popolo, che vincitrice in quel
giorno veramente appariva la cattolica religione. Gustavo di Svezia
stesso, che con Giuseppe d'Austria a que' dì ai sublimi riti assisteva,
maravigliato restonne e tocco. Non era già uomo da convertirsi, ma da
considerare, come fece, con quanta maggiore efficacia delle protestanti
la religione cattolica possa con le sue pompe esteriori operare a pietà
e riverenza verso Dio, ed amore e beneficio verso gli uomini.

Giuseppe visitava Roma, e salutato di nuovo il pontefice, partì per
Napoli, onde vedervi quell'ameno e grande paese, il re Ferdinando, la
regina Carolina e la duchessa di Parma, sua sorella, alla quale portava
particolare affezione. Spezialmente poi desiderava di conversare coi
sommi filosofi che allora Napoli abitavano ed illustravano. Grandi
balli, grandi festini, e soprattutto grandi cacce vi si facevano. Di
ciò Giuseppe si dilettava, ma non vi aveva capriccio. Per sollievo
di spirito, non per tenore di vita que' piaceri prendeva. Meglio si
dilettava di vedere Filangeri, meglio di visitare gli ospedali e gli
ospizii, meglio di ammirare quel dilettoso clima, quella potente natura
che indicano dover pure chi vi regge fare per chi vi abita quanto essi
hanno fatto; e che certo gli abitatori vi sarebbero felicissimi. Grande
disparità era in tutti i paesi tra la bontà della natura ed il rigore
delle instituzioni, ma in nessun luogo più grande che in Napoli.



    Anno di CRISTO MDCCLXXXIV. Indiz. II.

    PIO VI papa 10.
    GIUSEPPE II imperadore 20.


Continuando a trattenersi in Napoli, il principe austriaco vide ancora
molto volontieri Carlo di Marco, come veduto avrebbe Tanucci, morto
l'anno precedente[1], per opera de' quali principalmente a migliore
condizione s'incamminavano ogni giorno le cose del regno. Vide anche
volontieri Acton, che delle cose marineresche principalmente aveva
cura, e che allora, non essendo ancora nati tremendi furori in esteri
paesi, non era ancora acceso di que' furori egli stesso che il resero,
alcuni anni dopo, cotanto diverso ed acerbo.

Già s'erano fatte in Napoli, e si andavano preparando deliberazioni che
di non poco contentamento riuscivano al sovrano di Vienna. Abolivansi
i privilegii baronali, i comuni si proteggevano, gli ordini giudiziali
si miglioravano, si voleva che i giudici motivassero le sentenze. Molto
si faceva, eppure molto ancora restava da farsi. Ciò quanto al civile
e lo economico; quanto alle cose di giurisdizione mista, si procedeva
anche, ma con lodevole prudenza, a riforme. Le appellazioni a Roma
furono tolte, e soppresso il tribunale della nunziatura, soppresso del
tutto il tribunale dell'inquisizione. Già si parlava di sopprimere
i conventi stimati inutili; già si pensava di far dipendenti dagli
ordinarii e troncar loro ogni dipendenza da' generali di Roma: già un
Michele Torcia aveva presentato alla suprema giunta della Calabria uno
scritto, per cui provava che i claustrali costavano alla nazione più
di nove milioni di ducati all'anno, onde molti, tra per la condotta,
l'inscienza, le maniere e l'enorme prezzo, erano ormai venuti a noia a
tutti. Quelli che fra di loro di buoni studii erano nudriti e di retti
costumi informati, i quali non erano pochi, non bastavano per lavare le
note che sulle spalle di quegli altri erano state impresse.

Grati suoni venivano anche a Giuseppe dalla Sicilia. Domenico
Caraccioli, marchese di Villamarina, uomo di alto spirito e d'animo
volto a benefizio dei popoli, governava col grado di vicerè quell'isola
sino dal 1781. Personaggio era che molte regioni avendo peragrate, e
molte cose vedute in Francia e in Inghilterra, e di purgato intelletto
essendo, di suo proposito si moveva, e da sè medesimo sanamente
deliberava. Ma, oltre la capacità e volontà propria, si consigliava
col Napolitano Saverio Simonetti uomo di non mediocre valore, e che,
stato prima luogotenente della sommarìa in Napoli, era poi stato eletto
segretario di Stato per la grazia e per la giustizia. Quanto di bene
in Sicilia si fece a que' tempi, da questi due uomini riconoscere si
debbe, ma forse ancora più dal Simonetti che dal Caracciolo; imperocchè
il primo, siccome più prudente, più consigliatamente procedeva; mentre
il secondo, siccome più focoso, dava qualche volta negli scogli che non
sapeva nè voleva evitare.

Erasi già stabilito da' ministri di Napoli che il tribunale
dell'inquisizione anche in Sicilia con un modo pacifico, e senza
che il papa molto se ne risentisse, si sopprimesse; quest'era il non
provvedere le cariche degli inquisitori a misura che venivano vacando.
In fatti, vacato uno degli inquisitori, non aveva avuto surrogazione,
e vacato anche il secondo, non si pensava a dargli un successore.
Il supremo inquisitore Ventimiglia acerbamente si lamentava,
rappresentando che fosse meglio annullare del tutto il tribunale
che lasciarlo sprovveduto d'inquisitori; perciocchè, se dannoso era
stimato, la soppressione faceva l'effetto che si desiderava, e nissun
bisogno vi era di aggiungervi lo scherno, col lasciare le cariche
vacanti. Caraccioli, presa occasione da questa rappresentanza, instò
presso il governo supremo di Napoli, affinchè il tribunale finalmente
fosse tolto. In fatti, vi fece passare una provvisione, per cui fu
espedita l'abolizione del tribunale.

Imperfetti erano certamente gli ordini del parlamento di Sicilia,
ma pure servivano, massimamente per le tasse, di salutare freno al
governo. Il Caracciolo applicò l'animo a migliorarli. Grande vizio era
nel modo con cui si formava la deputazione del regno, la quale, fra
una tornata e l'altra del parlamento sedendo, alla perfetta esecuzione
delle leggi sancite vegliare doveva; conciossiachè accadesse che
essendo i baroni di grande potenza, risultava per l'ordinario ch'ella
fosse quasi tutta composta di baroni, o di qualche cadetto nobile.
Dal che procedeva che piuttosto agl'interessi di chi più poteva che
a quelli di chi poteva meno si avesse riguardo. Il buon vicerè, per
andare all'incontro di un così grave disordine, e ridurre quella forma
politica al suo primiero e più utile instituto, ordinò che sempre
alla deputazione fossero eletti quattro ecclesiastici pel braccio
ecclesiastico, quattro baroni pel braccio baronale, e quattro deputati
delle città libere pel braccio demaniale. Per tale ordinamento si
videro assunti alla deputazione ed ecclesiastici e gentiluomini in
compagnia de' baroni; cosa che fu di grande contento ed utilità ai
Siciliani.

Il parlamento in ciò giovava, che la Sicilia non venisse molto
aggravata dalle contribuzioni, ma portava con sè l'inconveniente che i
pesi fossero a rovescio ripartiti; perchè i baroni, pretendendo certe
ragioni di esenzione, alleggerivano i feudi ed aggravavano gli allodii.
Per la qual cosa il vicerè ed il suo savio consigliere Simonetti
proposero che i beni si allibrassero, e tutti, nissuno eccettuato,
a proporzione del loro valore, ai pubblici pesi soggiacessero. Ma i
baroni, che si sentivano percuotere nell'interesse, fecero in Napoli
un tale contrasto, che per lungo tempo all'utile e giusto pensiero
si soprassedette. Il loro principale argomento in ciò consisteva,
che le esenzioni e privilegii, di cui ora si trattava di privarli,
non erano punto a titolo gratuito, ma bensì un contraccambio ed un
compenso di certi obblighi speciali ch'essi soli avevano verso la
corona, massimamente ai tempi di guerra contratti. Protestavano essere
ingiusto giudizio il venire accomunati da una parte e restare gravati
dall'altra.

Tutto l'andamento di Caraccioli fu quello di abbattere i privilegi
baronali e la feudalità. Quindi aveva sempre caro di proteggere i
vassalli contro i baroni, e quelli fra i magistrati, che in pro dei
primi e contra i secondi giudicavano le cause, accarezzava. Per lo che
suscitati i popoli a quel favorevole vento, generalmente si muovevano
contro i diritti dei rispettivi baroni, e innanzi a' tribunali quasi
ogni giorno risuonavano querele contro i diritti proibitivi di caccia,
di forni, di fattoi, di pedaggi, di dogane interne, dei pagamenti
detti di terraggio e terraggiuolo, e di simili altre angherie odiose
per l'origine, pregiudiziali per gli effetti. Il commercio in fatti e
l'agricoltura per essi sommamente pativano, e la libertà dell'operare
nelle cose necessarie alla vita ne restava grandemente offesa. Non
disformi alle querele erano le sentenze, per le quali quasi sempre i
signori ne andavano con la peggio, onde appoco appoco un nuovo diritto
pubblico più conforme alla egualità si andava creando, e le gravezze
dei popolani si allentavano.

Caraccioli, uno dei primi baroni del regno, seguitava il suo genio,
e l'umor suo contro i baroni sfogava; non però per amarezza, ma per
l'utilità comune il faceva. Stabilì che il mero e misto imperio da
nissuno potesse esercitarsi, se non da chi ne mostrasse il titolo,
e parimente volle che nissuno dei baroni potesse partecipare nella
elezione dei giurati, cioè ufficiali del comune, se il titolo autentico
di poter ciò fare non esibisse. Abolì anche in amendue i casi ogni
forza di consuetudine; e siccome i più per consuetudine piuttosto che
per titoli scritti mostrabili quelle potestà esercitavano, ne seguitò
che furono obbligati di cessarle, non senza grave risentimento degli
antichi signori, a' quali pareva strano di non essere più delle antiche
ragioni e consuetudini investiti. Così i popolani divennero meno
gravati, ed i comuni più liberi; imperciocchè il principale nemico
della libertà dei comuni fu sempre, non già l'autorità regia, ma la
feudalità.

I vicerè di Sicilia erano soliti a fare delle circolari, monumenti
durabili del loro governo. Celebri furono a' suoi tempi quelle del
Caracciolo. Molte utili riforme vi si leggevano. Ai 15 di settembre
restrinse la così detta mano baronale, che valeva a fare l'esenzione
dei proventi territoriali e dei livelli, e prescrisse che i baroni non
potessero procedere a carcerazioni od altri atti simili nè di per sè,
nè per via di fatto. Ai 10 di gennaio poi dell'anno seguente, diciamolo
qui, giacchè siamo a questa, ordinò che i baroni non si potessero
ingerire nell'amministrazione delle università baronali, nè nel peculio
che amministravasi dai giurati. Un pensiero utilissimo ebbe nel mese
di ottobre del medesimo anno 1785, e fu che stabilì che i vassalli
non fossero più obbligati a lavorare i terreni dei loro baroni: il che
distruggeva i comandati, ossia certe servitudini di persone e di gleba.

Dalle narrate riformazioni ciascuno può conoscere quanto il male fosse
grave in Sicilia a cagione di quegli sconcii ordini feudali. Piacquero
all'universale dei popoli, il nome di Caraccioli fu celebrato dai
Siciliani, come di proprio ed alto benefattore; chi più poteva per
l'opinione, chi più poteva per le braccia, con somme lodi l'esaltavano.
I magistrati, i forensi, le persone di lettere l'egregio vicerè
favorivano, e dai risentimenti dei baroni il difendevano. Il popolo
poi, massimamente i contadini, e generalmente tutti i vassalli, si
dimostravano pronti a tener lieto e sicuro colui che le fatiche più
profittevoli e la vita più dolce aveva lor procurato. Quindi era
nato che i Siciliani si erano divisi in due parti, e venuto l'uso di
chiamarsi vicendevolmente col nome o di caracciolesco o di baronale.

Tutta la Sicilia co' suoi pensieri Caraccioli abbracciava, ma speciale
cura si dava di Palermo. Al dì primo di aprile vi pose la prima pietra
del camposanto; lodevole risoluzione. Ma spiacque dove fu stabilito,
per esser quello stesso presso la chiesa di Santo Spirito, là dove
appunto ebbero principio i vesperi contro i Franzesi. Adornò e rese più
regolare la piazza pubblica del mercato. Volle, ma non potè condurre
a termine il suo intento di aprire due giorni per settimana un mercato
pubblico per l'annona.

Tali erano le virtù di Caraccioli, le quali chiaramente splendevano
dentro e lontano da Palermo, ma non senza qualche ombra dentro.
Quelli che da vicino il vedevano, ed ogni giorno a fare con lui
avevano, non si soddisfacevano dell'impeto e dell'imprudenza con cui
trattava le faccende, ancorchè, come già abbiamo accennato, Simonetti
in qualche modo il ritenesse. Disgustò anche il popolo di Palermo,
perchè aveva voluto riformare le feste di Santa Rosalia, e perchè
ostentava una certa miscredenza e disprezzo delle cose sacre. Non
volle fare il voto solenne per l'immacolata Concezione della Vergine,
e motteggiava sovente sopra le cose riputate più rispettabili. Queste
erano imprudenze ed errori, le seguenti scandali e sconcezze indegne
dell'uomo e del grado. Invitava alla sua mensa le ballerine e le
cantatrici, e con esse conversava più famigliarmente che si convenisse.
Accadde ancora che, fatta venire una compagnia di comici franzesi,
invitò al teatro i vescovi.

Non minore dispiacere arrecava nè minore molestia dava ad ognuno
la protezione, con cui favoreggiava i delatori ed i fiscali, onde
e le calunnie e le avare investigazioni turbavano le famiglie, e le
proprietà incerte o gravate mantenevano. Questa fu una brutta peste
che contaminò l'amministrazione di quel famoso vicerè, e lo rese meno
commendabile ai contemporanei ed ai posteri. Nè vuolsi tacere che assai
subito e sensitivo era verso chi il riprendeva, ed è noto in Sicilia
ch'egli perseguitò acerbamente coloro che avevano fatto una satira
contro di lui, uomo grande per umanità, non grande per sopportazione;
virtù che ricerca maggior signoria di sè medesimo, e che Caraccioli non
aveva.

L'imperadore Giuseppe sentì, essendo ancora in Napoli, farsi o
prepararsi dal vicerè tante generose riformazioni in Sicilia; ne
riceveva non poca allegrezza. Poscia, lasciato Napoli, verso la sua
Milano s'incamminava. Ebbe a Roma nuove e prolungate conferenze col
pontefice, da solo a solo, nissun cardinale, nissun prelato, nissun
domestico ammesso ai segretissimi colloqui.

Ai 20 di febbraio l'austriaco principe arrivava a Milano. In Torino ora
si riscaldava ora si raffreddava il grido della sua venuta. Vittorio
Amedeo di Sardegna desiderava che la sua città visitasse. Mandò il
marchese Balbis, pregando acciò venisse. Furono tra l'inviato del re e
lo imperatore molte cose parlate, ma nissuna conclusa. Per non vedere
quelle sponde del Po, l'Austriaco si scusò colla brevità del tempo:
il duca del Chiablese, fratello di Vittorio, fu mandato a Milano per
onorarlo.

Giuseppe fu nella capitale della Lombardia ciò che era stato altrove,
ma essendo fra i suoi popoli, con le mani ancor più piene di grazie per
dar riparo alla vita dei miseri. Visitò quindi Pavia e la sua famosa
università, a cui egli e la sua madre augusta tanto lustro, tanti
nobili professori, tanti utili sussidii di scienze avevano procacciato.
Era a quei tempi Pavia una vera italica Atene. Ognuno, crediamo, di
questo parere sarà, quando dirassi che Scarpa, Spallanzani, Gregorio
Fontana, Volta, Scopoli, Franck, Presciani, Tamburini, Mascheroni
e tanti altri illustri uomini la studiosa gioventù alle fonti del
sapere abbeveravano. Quivi l'imperatore, come in gratissimo seggio,
si rallegrava. Tutti quei virtuosi sacerdoti delle muse amorevolmente
accolse, e tutti quei preziosi repositorii di libri, dei parti dei tre
regni, curiosamente esaminò ed accrebbe, tutti quei ticinesi popoli
coi detti ed ancora più coi fatti rallegrò e consolò. Veduta al suo
cospetto la facoltà di teologia, così le disse: «Attendete pure ad
insegnare i dogmi semplicemente, e non istate a mescolarvi questioni
inutili, commenti oscuri, sofisticherie scolastiche. Le superflue
parole non ad altro servono che a suscitare gli odii ed a soffocare
i principii del vero cristianesimo. Sia chiara e schietta la fede,
benigna e tollerante la carità: sia Cristo la nostra face, Cristo il
nostro amore; le oziose ed acerbe disputazioni lasciamo a chi mal vede,
a chi mal sente, a chi mal ama.»

Così parlato, e poco ancora dimoratosi nell'antica sede del regno
lombardo, sede recente di più fortunati influssi, quell'amorevole padre
dei popoli a Milano tornò; poscia, valicate le Alpi, sulle sponde del
Danubio si ricondusse. Lasciò in Italia immortale memoria de' suoi
benefizii, ed un fratello condegno imitatore delle sue virtù.

Tutto il tempo che Giuseppe, di Napoli partito fermossi in Italia,
Gustavo di Svezia si trattenne a Napoli. Parea che i due sovrani non
avessero gran piacere di trovarsi insieme in alcun luogo. Per tanto,
restituitosi il re di Svezia a Roma il dì 10 di marzo, vi rimase sino
al 19 di aprile, i maggiori riguardi al capo della Chiesa cattolica
dimostrando, e colle maniere cortesi ed affabili la benivoglienza dei
Romani conciliandosi. Andato una mattina a vedere il museo, vi trovò
come a caso il pontefice, e, trattenendosi seco in conversazione presso
a due ore, formò il soggetto d'un bellissimo quadro del celebre pittore
franzese Gagneraux.

Assistendo alle funzioni della settimana santa, veramente magnifiche
nella principal chiesa dell'universo, non si potè, che pieno di
ammirazione non si manifestasse avere i protestanti il torto nel
criticare la pompa delle cattoliche funzioni; poichè, essendo ai popoli
la religione necessaria, era ben fatto circondarla con tutto ciò che
può renderla agli occhi umani rispettabile ed augusta.

Non per tanto, temendo quel monarca che i suoi popoli, della setta
di Lutero seguaci, nol credessero disposto rinnovellar l'esempio dato
un secolo prima dalla regina Cristina, e assicurarli volendo del suo
attaccamento al culto del proprio paese anche in mezzo alla cattolica
Italia, pose la romana tolleranza ad uno stranio cimento. Ordinò che
fosse alla meglio preparata una cappella nella sala del palazzo che
abitava, ed ivi assistette divotamente ad un discorso assai lungo del
barone di Taube, vescovo svedese, suo primo predicante e cappellano
di corte, accorso da Stoccolma a Roma per adempire ai doveri del suo
ministero, e alla celebrazione delle cerimonie pasquali secondo la
confessione di Augusta, e con i cavalieri, con tutta la gente della
sua comitiva e con altri luterani forestieri che trovavansi a Roma,
la cena conforme ai riti di detta confessione ricevette, alla funzione
ammettendo quante d'ogni classe persone vollero concorrervi.

Mandò in dono Gustavo al papa le medaglie dei sovrani e degli uomini
più insigni in diversi tempi dalla Svezia prodotti; ed essendo andato
a visitare il collegio di Propaganda, fu a lui offerto un omaggio che
indarno sarebbesi cercato ed ottenuto in qualunque altro paese: il suo
elogio in versi, stampato in quarantasei diversi linguaggi antichi e
moderni. La sorpresa del re fu viva, e soprattutto vivamente espressa.

Congedatosi Gustavo da Pio, per la via di Firenze e Parma giunse a
Venezia il giorno 3 di maggio, e Venezia con la solita sua splendidezza
delizioso e grato rese al monarca il suo soggiorno, con regate e
balli i più sontuosi. Di qui partito, passando per Milano e Torino in
Francia, al suo regno affrettatamente il richiamarono le vicissitudini
della Danimarca.

Già da quindici anni il granduca Leopoldo felicitava la Toscana.
Non solo la Italia, ma l'Europa tutta ammirava la saviezza delle sue
leggi, e applaudiva all'affetto dei sudditi pel sovrano. Ne abbiam
fatto più d'un cenno negli anni precedenti, non meno che delle riforme
tanto nel civile quanto nell'ecclesiastico da lui fatte. Ma ciò non
ostante, e quantunque delle cose ecclesiastiche sia per presentarsi
altrove l'occasione di parlare, non può tacersi delle forme politiche,
le quali, secondo che alcuni scrivono, egli voleva dare alla felice
provincia. Narrano adunque ch'egli avesse in animo di statuire, per
suprema legislazione dello Stato, quanto segue:

Che alla creazione della legge dovesse intervenire il voto del granduca
e quello della nazione;

Che la legge dovesse consegnarsi al granduca per l'esecuzione; perciò
fosse investito dell'autorità e del comando della forza, siccome per la
legge constituita veniva ordinato;

Che la nazione rappresentata fosse dalle assemblee comunitative, dalle
provinciali e dalla generale;

Che la petizione fosse libera ad ogni individuo maschio sopra ai
venticinque anni davanti alle assemblee comunitative del luogo di suo
domicilio, ma per oggetti meramente locali e compresi nelle facoltà dei
magistrati delle medesime comunità;

Dall'aggregato di varie comunità si formasse il distretto o circondario
provinciale, e che quivi tener si dovessero le assemblee provinciali;

Che le assemblee provinciali composte fossero dai deputati delle
rispettive comunità, e che appresso loro fosse libera la petizione, ma
soltanto per oggetti risguardanti l'intera provincia;

Come nelle assemblee comunitative si dovevano sentire le petizioni
delle rispettive comunità e quelle dei particolari comunisti, così
si dovessero anco discutere e passare al partito dei voti, e poi le
ammesse consegnare ai deputati, perchè le presentassero alle assemblee
provinciali, per quindi discutersi e mandarsi a partito partitamente;

Che dalle assemblee provinciali si eleggessero deputati per intervenire
all'assemblea generale, e ad essi si consegnassero tutte le petizioni
che vi erano state ammesse o decretate come voto provinciale, e
così venissero abbracciate tanto le petizioni comunitative quanto le
provinciali;

Che i deputati provinciali formassero l'assemblea generale, che dovesse
adunarsi senza intimazione o invito in determinato tempo ogni anno, e
risedere prima in Pisa, poi in Siena, poi in Pistoia, e finalmente in
Firenze, incominciando la volta ogni quattro anni;

Che per Livorno si stabilisse una norma particolare;

Che le assemblee in tutte tre i gradi fossero pubbliche;

Che la legge si potesse promuovere dalle assemblee generali, e dovesse
ricevere la sanzione del granduca, come egli la poteva proporre
all'assemblea, e col voto di quella la legge venisse creata;

Che il conto generale delle finanze si dovesse esaminare in pubblico
nell'assemblea generale, ed il ministro delle finanze dovesse produrlo
e dare tutte le notizie o spiegazioni occorrenti;

Che al medesimo modo esaminare si dovessero i conti comunitativi e
provinciali;

Che gli aumenti di stipendio agl'impiegati dello Stato dovessero
passare per due voti concordi, e così parimente le pensioni e
gratificazioni per titoli degni di straordinaria ricompensa;

Che qualunque impiegato di qualunque grado al servizio dello Stato che
fosse dichiarato di non avere la soddisfazione del pubblico, si dovesse
dimettere, e non si potesse altrimenti impiegare; ma che per tale atto
dovesse concorrere il voto unanime della piena assemblea generale senza
bisogno del voto regio;

Che tutte le nomine degl'impiegati appartenessero alla prerogativa
regia, e però tutte dal granduca si facessero;

Che parimenti di prerogativa regia fossero le nomine ai vescovati
e la collazione dei benefizii ecclesiastici di padronato regio o
comunitativo;

Che medesimamente i gradi e gli onori da darsi agli uffiziali della
milizia fossero parte della prerogativa regia;

Che finalmente la medesima prerogativa regia abbracciasse tutto ciò che
non era contrario alla legge fondamentale della costituzione;

Che gl'impiegati al servizio della corte o dello Stato non potessero
essere ammessi a sedere nelle assemblee nazionali, e neppure i
pensionarii, ma che ai medesimi non venisse interdetto il diritto di
petizione; fu anche spiegato che non cadessero sotto questa censura
gl'impiegati al servizio della comunità.

Giova andare avanti in queste disposizioni di Leopoldo siccome sono
da alcuni raccontate. Voleva bensì che la prerogativa di far grazia
fosse riservata al granduca, ma solamente per diminuire o commutare
le pene afflittive corporali ai delinquenti già condannati, ma non già
le pecuniarie. Intendeva e voleva che fosse intieramente nel granduca
soppressa la facoltà di rompere le sentenze dei tribunali nelle cause
civili, e per tale modo veniva estirpato quell'enorme abuso, che ancora
viveva e vive in certe monarchie, di violare a favore o pregiudizio
di questo o di quello le decisioni della giustizia. Non sono da
trasandarsi le parole veramente auree, se vere sono, che Leopoldo
scrisse nel preambolo di questa sua legge constitutiva:

«Che solo un despota imbecille o malvagio può credersi superiore alla
legge; ch'ella è fatta per regolare i diritti tra privati, e che il
far nascere la legge in grazia di una parte non è altro che un abuso di
potere, o l'effetto d'imprudenza di volubilità o di ignoranza di quei
giudici che introdussero questa nuova specie di grazia, che non può
aver luogo senza un torto o un'ingiuria verso dell'altra parte, a cui
la legge in quel momento sta in favore.»

Seguono alcune sicurtà, perchè in ogni tempo la costituzione salva ed
intatta conservare si potesse;

Che i successori al trono dovessero accettare e promettere l'osservanza
della costituzione prima di assumere l'autorità e la corona;

Che i principi della famiglia regnante non potessero essere investiti
di benefizii ecclesiastici di padronato regio, nè ammessi ad impieghi a
servizio dello Stato, o civili fossero o militari;

Che lo stesso interdetto abbracciasse espressamente anche i principi di
famiglie regnanti estere;

Che la truppa fosse tutta civica, nè che si potessero fabbricare
fortezze, e quelle che già esistevano non potessero contenere
artiglierie, nemmeno in forma di conserva.

Che le assemblee non solo potessero, ma dovessero esser guardiane della
costituzione, ed obbligate fossero a denunziare le infrazioni ed a
contrastarle, regolando in quali modi ed in quali forme speciali per
tali casi essi dovessero procedere.

La pretesa suprema legge continuava dicendo: che non si potessero
creare feudi, e quelli che venissero a decedere, non si potessero più
conferire;

Che la libertà del commercio fosse un articolo di legge costitutiva,
e che ad essa in nissuna maniera si potesse derogare, nè che limitare
si potesse, nemmeno a tempo, nè direttamente nè indirettamente, nè con
imposizioni o tasse, od altro qual si volesse vincolo o restrizione;

Che non si potesse creare debito pubblico nè per lo Stato, nè
provinciale, nè comunitativo oltre di quello che già vi fosse;

Che neppure alcun debito creare si potesse sul patrimonio della corona,
che si dichiarava inalienabile, indivisibile e incapace d'ipoteca.

Che, oltre i beni attribuiti a questo patrimonio, fosse instituito un
supplemento sull'erario pubblico pel decorso mantenimento del granduca
e della famiglia; ma che tale supplemento fisso fosse, nè mai aumentare
si potesse;

Che lo Stato non potesse mai essere obbligato a supplire nè alle
doti, nè alle spese pel mantenimento delle principesse, nè per lo
stabilimento e promozioni dei principi della famiglia;

Che fosse proibito dalla costituzione il vendere o il dare in appalto
le tasse, gabelle od imposizioni quali fossero o quali si volessero,
e che parimente fosse dalla costituzione vietato il concedere in
privativa alcun mercimonio o manifattura, neppure col profitto
dell'erario.

Quanto poi alla legge politica rispetto agli altri Stati, non era
fuggito dall'animo a Leopoldo il desiderio che la Toscana fosse in
perpetua neutralità con le nazioni anche barbaresche così per mare come
per terra, qualunque i tempi fossero, o quali le contingenze. Per la
qual cosa stabilì:

Che non si potessero stipulare alleanze offensive nè difensive, o
ricevere protezione o assistenza da potenze estere, e, molto meno,
somministrare oltre i termini, della neutralità, che dal granduca erano
stati chiaramente prescritti;

Che il territorio non si potesse ingrandire con l'acquisto di nuovi
Stati; nè cederne o cambiarne parte alcuna.

Parve a Leopoldo, seguono a narrare, che per Livorno, porto di mare,
scala di tanta mercatura, stanza e passaggio di tanti forastieri, in un
particolare modo statuire si dovesse. Vogliono pertanto che ordinasse
che la comunità di Livorno fosse esclusa dalle assemblee provinciali;
dal che conseguitava, che esclusa anche fosse dall'assemblea generale;
ma perchè le restasse qualche politico vincolo col rimanente della
Toscana, e i suoi bisogni fossero conosciuti, ed ai medesimi provvedere
si potesse, le furono lasciate le assemblee comunitative ed il diritto
di petizione. Le domande mandate e vinte per partito delle assemblee
comunitative di quella città dovevano mandarsi per mezzo di un oratore
espresso, ma senza voce deliberativa, all'assemblea generale per
esservi discusse e poste a partito.

Leopoldo decretò eziandio che, affinchè la pacifica Toscana, come
pacifica era, così ancora paresse, si sopprimesse ogni vestigio di
apparato di guerra marittima, salve soltanto le barche armate di sanità
e di esplorazione ed altri servigi fra le isole e la costa. Dal quale
decreto venne interamente annullata quella pazzia del correre armata
mano dei cavalieri di Santo Stefano contro i seguaci di Maometto, che i
detti cavalieri potevano bensì irritare, ma non ispegnere. Contuttociò,
per sicurezza di quell'emporio di Livorno e delle terre di marina,
pensò che utile e necessaria cosa fosse di farvi stanziare qualche
soldatesca stabile, massime di bombardieri e, come adesso si dice, di
artiglieri o cannonieri, e conservarvi o innalzarvi alcuna fortezza.

Tali erano, siccome narrano, i pensieri di Leopoldo circa il modo con
cui egli intendeva di costituire la Toscana.



    Anno di CRISTO MDCCLXXXV. Indiz. III.

    PIO VI papa 11.
    GIUSEPPE II imperadore 21.


Intesa a questi giorni più di mezza Italia alle riformazioni d'ogni
genere nella pubblica cosa, ebbe Venezia a mettere per qualche tempo in
esercizio la sua saviezza, per divertire possibilmente le conseguenze
d'un avvenimento che alla fine costrinse la repubblica ad impugnare le
armi sul mare.

Nel marzo 1781 alcuni negozianti tunisini noleggiarono nel porto
d'Alessandria un bastimento veneziano per trasportare a Tunisi le loro
merci. Or pretendeano costoro che il legno dovesse dare tantosto alla
vela, non ostante una malattia sopraggiunta al capitano che impedivagli
assolutamente di partire, e, senza voler udir ragione, tanto quei
Tunisini insistettero che il console veneziano residente in Alessandria
dovette obbligare il figliuolo del capitano a mettersi in mare in vece
del padre.

Coll'equipaggio adunque di otto marinai veneziani e diciotto Tunisini
proprietarii del carico, imbarcossi il giovane pel suo destino; ma,
fatto ch'ebbe circa un sessanta miglia, si avvide che nel bastimento
era la peste. Volle tornarsene indietro ad Alessandria; ma i Tunisini
a viva forza l'astrinsero a progredire nel viaggio sino al porto
di Sfax, ove pel contratto doveva approdare. Se non che erano in
tragitto periti dieci Tunisini e tre marinai, e gli abitanti di Sfax,
del male accortisi, coll'armi in mano respinsero il capitano col suo
legno infetto, il solo favore accordandogli di due marinai, a prezzo
smisuratissimo, quantunque poco nel mestiere valenti.

Rigettato così dalla forza, e costretto a rimettersi in mare, il
capitano approdò a Malta. Quivi ancora, informata la deputazione
di sanità che il bastimento era attaccato dal contagio, mandò
proibendogli il porto, ed intimandogli che, se non fosse immantinenti
partito, avrebbesi senza remissione abbruciato il naviglio con tutto
l'equipaggio. Indarno furono le protestazioni e le proferte del
capitano di far lunga e rigorosa contumacia; indarno chiese il soccorso
d'alcuni marinai, senza i quali impossibile gli tornava ogni movimento,
quantunque esibisse di pagargli sino a dugento scudi per ciascuno:
le leggi inesorabili della pubblica salute gli stavano contro, ed ei
vide ardere sotto i proprii occhi il bastimento, salvo l'equipaggio,
cui peraltro non fu permesso di toccar terra che affatto ignudo, e
sommergendosi prima nell'acqua. Circostanza da notarsi in questo luogo
si è, che malgrado tutte le precauzioni dai Maltesi prese, i Tunisini,
sbarcando, seco portarono sopra bacili di rame tutto il denaro che si
trovavano, ed in appresso diedero ad intendere al loro dey, non essersi
il capitano preso alcun pensiero di loro, nè aver adoperato lui mezzo
di sorta per impedire l'arsione del bastimento. La quale relazione fece
che il dey pretendesse obbligata la repubblica di Venezia a pagare i
danni da' suoi sudditi patiti, mentre, per lo contrario, aveva ella
il diritto che indennizzati fossero i sudditi suoi del danno che lor
proveniva dalle mosse cui fu il capitano dai Tunisini forzato nelle
narrate circostanze.

Il dey che allora in Tunisi regnava fece sopra di ciò pressanti
rimostranze al console veneziano; ma ossia che sentisse la debolezza
delle sue ragioni e gli imponesse la forza della repubblica, oppure
che qualche altro motivo il consigliasse, si tacque, nè finchè visse
parlò di tali sue pretensioni. Ma, morto lui, il figliuolo che gli
succedette le mise di nuovo in campo, e dichiarò al console che si
sarebbe rotta la pace, se a lui ed a' suoi sudditi data non fosse
intiera soddisfazione. Ed insistendo il dey con tutta la tenacità
nel suo proposito, determinò la repubblica d'inviargli, per farla
finita, il suo capitano delle navi con proposizioni ragionevolissime e
coll'aggiunta di regali per la sua esaltazione. Ma questi sentimenti di
moderazione per parte della repubblica non fecero effetto; che anzi il
dey, invece di prestarsi ai termini di giustizia ed equità, produsse
nuove pretensioni, fra le quali una era quella che altri Tunisini
domandavano risarcimento di certi effetti che trovavansi sopra un
bastimento veneziano saltato in aria nel porto di Tunisi, avendovisi
appreso fortuitamente il fuoco.

Per quanto incompetenti, irragionevoli ed ingiuste cotali pretensioni
fossero, non uscivano dal circolo dell'insaziabile avidità della
barbara nazione che le metteva in mezzo, nè dai principii da essa
professati, che la forza sia la suprema ragione e giustizia in ogni
cosa. Intanto eccessi di un'altra natura ferirono direttamente la
dignità della repubblica. Non solo rovesciarono coi modi più insultanti
gli stemmi del veneziano consolato, ma e il suo capitano delle navi
spedito a Tunisi e la sua comitiva durarono molta fatica a sottrarsi
al tumulto della plebe, che furibonda gl'inseguiva nel momento che
tornavano alle navi. Abbattere lo stemma, insultare il pubblico
messo ed intimarsi solennemente dal dey alla repubblica la guerra fu
tutt'uno.

Sdegnato il senato all'iniquo modo di procedere, elesse a capitano
straordinario delle navi il cavaliere Angelo Emo. Quest'uomo sommo, ben
a ragione chiamato l'ultimo de' Veneziani, ricreatore della veneziana
marineria, salpò con breve flotta dalla patria nel precedente anno, a
Cattaro ed a Corfù rinforzandosi di legni da guerra, di soldati e di
gente di mare. Giunto colla sua squadra a Tunisi, s'impadronì subito
d'una tartana armata e riccamente carica ai Tunisini appartenente; e
quindi, esaminati i luoghi della costa, lasciò l'almirante a bloccare
l'ingresso principale del porto, ed ei coi rimanenti legni si volse a
bombardare Susa, città sessanta miglia da Tunisi discosta. Il vivissimo
bombardamento, per diciassette giorni e diciassette notti continuato,
atterrò molti e i più notabili edifizii della città, molti pure
spegnendo dei suoi difensori ed abitanti, sagrificati alle ostinate
barbarie del dey, che non volle la rinovazion della pace.

Avendo la veneziana squadra svernato a Trapani, tornò in quest'anno
dopo la metà di luglio sulle coste d'Africa, ripigliò il bombardamento
di Susa che durò sino al 4 di agosto, non permettendo il mare sempre
agitato di spingere più innanzi le guerriere operazioni, ed i bassi
fondi anzi consigliando a portare altrove lo sforzo. Giace sulla costa
di Barbaria, entro il golfo di Zerbi, la città di Sfax, dipendente dal
regno di Tunisi. Benchè circondata da bassi fondi che non permettono
di accostarvisi ai vascelli da guerra, benchè alcune isole sorgan
fra quelli che più pericolosa ne rendono la navigazione, benchè sino
allora avessero cotali ostacoli impedito ai legni delle altre potenze
di penetrare in quel ricinto, Emo tentò di conquiderla, ancorandosi
in distanza, e di quivi slanciandole contro più di cinquanta bombe,
che, cadendo per la maggior parte entro le mura, insegnarono per la
prima volta a que' barbari a temere pur essi que' globi fulminanti da'
quali si credeano sicuri. Ma non corrispondendo l'effetto pienamente
alle mire del comandante, pensò altra via di tornar loro del tutto
vano lo schermo di quella sirti, da' proprii navigli, congiungendone
le vuote botti, traendo, novella sua invenzione, un navile atto a dar
sui _querquenci_ e sulle secche il saggio e l'esempio di quel modo di
marittima offesa contro le rocche in terra, che, imitato poi e tratto a
termini di grandezza per mezzi infinitamente maggiori dal lord Exmouth
sotto Gibilterra, riuscì nondimeno a quella stessa fine, con immenso
apparato di forze, a cui Emo con forze tanto rimesse e parche il
condusse, di vincere no o distruggere que' corsali, ma di rintuzzarli.

Impietositosi però l'Emo ai casi di una popolazione tanto, per
l'ostinatezza del capo, sofferente, volle generosamente fare al dey
grave rappresentanza in una sua lettera, significandogli eziandio come
la repubblica fosse disposta a dargli quelle dimostrazioni di affetto
che in varie occasioni avea date al dey di lui genitore e predecessore,
qualora si determinasse ad approfittare della clemenza del veneto
senato. Commosso il dey alla generosa dichiarazione, fece sapere
all'Emo che intavolato avrebbe proposizioni di pace, qualora avesse
a trattare con lui solo, rimanendo con due soli legni, e licenziando
il rimanente. Rispose il Veneziano che poteva bensì far ritirare la
squadra, ma che delle condizioni della pace era del senato il decidere.
A questo pertanto inviò per espresso le proposizioni del dey, e mandata
la squadra parte a Trapani e parte a Corfù, passò egli a Malta, per
attendervi le risposte di Venezia, concessa frattanto ai Tunisini una
tregua di quaranta giorni.

Lasciò il senato al suo capitano la libertà di conchiuder la pace,
escluso però qualunque esborso o patto di denaro, e fissato che per
le gabelle i bastimenti veneziani non avessero a pagare se non il tre
per cento come i Franzesi pagavano, e non il cinque dal dey imposto;
che se a questi tali condizioni non aggradissero, rinnovasse Emo, il
senato comandava, le ostilità al più tardi nell'anno nuovo. Fu allora
mormorato che questa guerra, la quale durò sei anni ancora, avrebbe
potuto, appena sorta, terminarsi col sagrifizio di qualche denaro per
saziare l'avidità di quel principe africano, sacrifizio infinitamente
minore a quello d'una guerra di mare sì dispendiosa e tanto lunga.
E taluni ancora, sospettosi o maligni, vollero colpare della
continuazione d'essa lo stesso Emo, che non poteva, dicevano, vedersi
ozioso in patria, amava l'agitazione ed il movimento, e godea l'animo
in comandare, padrone assoluto, una flotta sul mare. Meschini di loro!
che non sapeano, o di sapere dispettavano, quanta mente, qual cuore in
Angelo Emo fosse, e qual giudizio di lui era per dare la storia che i
giudizii del volgo non imita. «Angelo Emo visse esemplare di costumi
e di repubblicana temperanza. Che aspirasse a farsi il Pisistrato
della sua patria altro indizio addurre non saprebbe la calunnia che
quell'arte in lui somma di rendere idolatre di sè le genti commessegli,
di far che i timori e le speranze tutte nel duce loro riponessero, ed
in sè rivelato loro, quasi diremmo, presente, rimuneratore, all'unità
ridotto venerassero l'aristocratico reggimento da cui gli uomini più
ripugnano. Comunque sia, la caligine di congetture non offusca lo
specchio della storia. Emo visse e morì terso di macchia; ma certamente
palese e quasi vocazione fu in esso la brama di ringiovanire la
vecchia patria: e di fatto, quella parte di cui sembra che prima uopo
era ravvivare in città sedente sul mare, la naval possa, con tanta
saldezza di vita rinnovò, che quando la patria omai più non era, opima
spoglia la rinvenne e tutta vita per anche chi ad usurparla mandò quel
guerriero che usando fin d'allora del diritto ferreo della fortuna e
dell'armi, nel 1796, Venezia rimeritava dell'ospitalità dandole morte.»
(_Castelli._)



    Anno di CRISTO MDCCLXXXVI. Indiz. IV.

    PIO VI papa 12.
    GIUSEPPE II imperadore 22.


Abbiam detto di quello che Leopoldo granduca di Toscana volea
fare; ora è d'uopo toccare quello ch'ei fece. Questo principe, il
quale, al dire d'uno storico esimio, non si potrà mai tanto lodare
che non meriti molto più, mostrò quanto possa per la felicità de'
popoli una mente sana congiunta con un animo buono e tutto volto a
gratificare all'umanità. Solone fece un governo popolare e torbido,
Licurgo un governo popolare e ruvido, Romolo un governo soldatesco e
conquistatore; fece Leopoldo un governo quieto, dolce e pacifico, tanto
più da lodarsi dell'aver concesso molto quanto più poteva serbar tutto.

Erano prima di Leopoldo le leggi di Toscana parziali, intricate,
incomode, improvvide, siccome quelle che in parte erano state fatte ai
tempi della repubblica di Firenze, tumultuaria sempre e piena di umori
di parti, e parte fatte dopo, ma non consonanti con le antiche, le
quali tuttavia sussistevano. Altre ancora erano per Firenze, altre pel
contado, queste per Pisa, quelle per Siena, poche o nissune generali.
Sorgevano incertezze di foro, contese di giurisdizione, lunghezze
di affari, un tacersi per istracchezza dei poveri, un procrastinare
a posta de' ricchi, ingiustizie facili, ruine di famiglie, rancori
inevitabili. Erano altresì leggi criminali crudeli o insufficienti,
un commercio male favorito, un'agricoltura non curata, un suolo
pestilenziale, possessioni mal sicure, debito pubblico grave, dazii
onerosissimi.

A tutto pose rimedio il buon Leopoldo. Annullò i magistrati o
superflui, o poco proficui, o privilegiati, e tra questi quello delle
regalie, togliendo in tal modo qualunque prerogativa che sottraesse ai
tribunali ordinarii quelle cause che percuotevano l'interesse della
corona. Esentò i comuni dai fori privilegiati; li rendè liberi nel
governo dei loro beni, diede loro facoltà non solamente di esaminare,
ma ancora di giudicare dell'opportunità delle pubbliche gravezze
per modo che il corpo loro venne a formare nel granducato a certi
determinati effetti una rappresentanza nazionale. Condonati, oltre a
ciò, dei debiti verso l'erario, e soddisfatti dei crediti, sorsero a
grande prosperità; crebbela ancor più il miglioramento del catasto.

Soppressi adunque i privilegii individui e i fori privilegiati, corpi
e persone acquistarono equalità di diritti quanto alla giustizia. Tali
furono gli ordini civili introdotti da Leopoldo. Circa i criminali
annullò altresì ogni immunità e parzialità di foro; abolì la pena
di morte, abolì la tortura, il crimenlese, la confisca dei beni,
il giuramento de' rei; statuì, le querele doversi dare per formale
istanza, e dovere stare il querelante per la verità dell'accusa;
restituirssersi i contumaci alla intregrità delle difese; del ritratto
delle multe e pene pecuniarie, cosa degna di grandissima lode, si
formasse un deposito separato a beneficio di quegli innocenti che
il necessario e libero corso della giustizia sottopone talvolta
alle molestie di un processo, ed anche del carcere, non meno che
per soccorrere i danneggiati per delitti altrui; il che fondò, cosa
maravigliosa, un fisco che dava invece di togliere; le pene stabili
proporzionate al delitto. Nè contento a questo, diè carico di scrivere
un novello codice toscano all'auditor di ruota Vernaccini ed al
consigliere Ciani, uomini l'uno e l'altro, i quali non solo volevano
e sapevano, ma ancora credevano potersi far bene e utilmente in queste
faccende delle leggi, il che non si dice senza ragione a questi nostri
dì, in cui da alcuni vorrebbesi insegnare che la miglior legislazione
che sia è quella dei tempi barbari.

Fu l'effetto conforme alle pie intenzioni; poichè fu in Toscana una
vita felicissima dopo le novità di Leopoldo: i costumi non solo buoni,
ma gentili; i delitti rarissimi, nè sì tosto commessi che puniti; le
prigioni vuote, ogni cosa in fiore. Così questa provincia, che già
aveva dato al mondo tanti buoni esempi, venuta in podestà d'un principe
umanissimo, diè ancor quello di un corpo di leggi temperato di modo che
nè il governo maggiore sicurezza, nè i popoli potevano maggior felicità
desiderare.

A questo medesimo fine contribuirono non poco i nuovi ordini di
Leopoldo rispetto all'agricoltura ed al commercio. Rendè i coloni
liberi dalle vessazioni, le terre dalle servitù, moderò la facoltà
di instituir fidecommissi, riunì la facoltà del pascolo al dominio,
onde fu distrutta l'antica legge del pascolo pubblico, per cui
veniva impedito ai possessori ed ai coloni di cingere di stabili
difese i terreni, e costretti erano a lasciarli in preda al bestiame
inselvatichito, con grandissimo guasto delle ricolte. Nacquero
da questa provvisione effetti notabilissimi, che e le ricolte si
migliorarono, ed i bestiami si addomesticarono.

Considerato poi quanto gli appalti generali dei dazii fossero molesti
ai popoli e gravi ai governi buoni, Leopoldo gli abolì. Molte privative
ancora furono tolte, quella della vendita dei tabacchi, dell'acquavite
e del ferro; a tutti si diè facoltà di cavar miniere; le gabelle sui
contratti, e la regalia della carta bollata si moderarono. Sapevasi
Leopoldo che tutte queste riforme avrebbero diminuito le entrate
dell'erario. Pure non se ne rimase, movendolo il ben pubblico più
che il vantaggio del fisco. Ciò non ostante, assai meno diminuirono
che s'era creduto; perchè la prosperità del paese e la più attiva
circolazione dei generi, che ne risultarono, supplirono in gran parte
quello che si perdeva. Mirabile argomento che la prosperità dei popoli
prodotta dallo svincolo, non la gravezza delle imposte, è la maggior
fonte che sia della ricchezza dell'erario.

Si aggiunsero le dogane interne soppresse, nuove strade aperte, canali
scavati, porti e lazzaretti o nuovi o ristorati, fatto sicuro a Livorno
agli esteri lo esercizio della religione, aboliti i corpi delle arti e
le matricole, surrogati agli impedimenti premii, facilità ed esenzioni,
massime in benefizio delle arti della seteria e del lanificio, parti
essenzialissime del commercio di Toscana. La libertà delle tratte,
mediante un modico dazio rispetto alle sete, tanto operò che se il
provento loro in Toscana montò, nel 1780, solamente a libbre cento
sessantatre mila cento settantotto; montò nel 1789, diciamlo in questo
luogo, a ben trecento mila.

Ma, per parlar di nuovo del governo delle terre, non solo Leopoldo
lo migliorò d'assai migliorando la condizione dei coloni, ma rendè
ancora coltivabili quelle che per infelicità di suolo si trovavano
incolte. Così la val di Chiana, così quella di Nievole, ricche ed
ubertose terre; così in gran parte il capitanato di Pietrasanta, e le
frontiere del litorale livornese e pisano, usando, secondo i luoghi,
appositamente tagli, colmate, argini, canali, furono per opera sua
liberate dall'acque, ridotte a sanità e restituite alla coltivazione.
Ma opera di molto maggior momento e di quasi insuperabile difficoltà
fu il prosciugamento delle maremme sanesi a tal termine condotto
che si aveva speranza di totale perfezione. Sono le maremme sanesi
un vastissimo padule che dai confini della provincia di Pisa sino a
quelli dello Stato ecclesiastico si distende, lungo il mare, lo spazio
di circa settanta miglia, e per larghezza dentro le terre da cinque o
sei fino a quindici o diciotto. La pianura di Grosseto è la parte più
considerabile di queste maremme. Sono in questi luoghi i terreni non
sommersi tanto fecondi, quanto l'aria vi è infame e pestilenziale.

Sotto Ferdinando I de Medici erasi già in parte conseguito l'intento,
e parecchi paduli a stato coltivabile ridotti. Trascurate poi le
opere da' suoi successori, ritornarono le terre e l'aria a peggior
condizione di prima. Ma non così tosto fu assunto Leopoldo, che pensò
alle maremme. Mandovvi il padre Ximenes, mandovvi Ferroni e Fantoni,
matematici di chiaro nome e dell'idraulica intendentissimi. Già la
pianura di Grosseto o, per meglio dire, la palude di Castiglione,
ambedue parti principalissime delle maremme, eransi ridotte a stato
tollerabile. Speravasi meglio, anzi il finale intento: usavansi
le colmate per le acque dell'Ombrone e della Bruna, introdotte ai
tempi delle torbe; usavansi canali e cateratte in più opportuni siti
trasportate.

Oltre a ciò, Leopoldo, mosso dal pensiero che le popolazioni scarse
fanno l'aria insalubre, le abbondanti sana, allettò con premii ed
esenzioni tanto i paesani quanto i forestieri, principalmente gli
abitatori dell'agro romano, a fermare la sede loro nella maremma.
Pagassesi dell'erario il quarto del prezzo delle nuove case ai
fondatori, dessersi terre o gratuitamente od a basso prezzo od a
carico di livelli od in enfiteusi; dessesi anco denaro a prestito, e
sicuro asilo a chi vi si venisse a ricoverare. Per questo crebbe la
popolazione, ed i terreni si coltivarono, e l'aria risanò. Peggiorarono
poi le opere per le difficoltà dei tempi; pure rimangono, e forse
ancora lungo tempo rimarranno nelle maremme sanesi i vestigii della
generosità di Leopoldo.

Nè minor lode meritano gli ordinamenti di questo giusto e magnanimo
principe circa il debito dello Stato. Più di tre mila luoghi di monte
furono cancellati, restituiti i capitali ai creditori col ritratto dei
beni venduti spettanti a regie e pubbliche aziende, impiegando a questo
uso anche i capitali provenienti dalla dote e contraddote della regina
sua moglie, ed altri costituenti parte del patrimonio suo privato. In
tal modo si spense in gran parte il debito che tanto gravava l'erario:
così, mentre in altri luoghi d'Italia il debito dello Stato montava
continuamente non per altro fine che per crear soldatesche, in Toscana,
per opera di Leopoldo, il debito medesimo si estingueva per fondarvi un
governo dolce, quieto per sè, sicuro pei vicini.

Nè per questo tralasciavansi provvedimenti di utilità o di ornamento;
perciocchè nel tempo medesimo sorgevano scuole per ogni ceto,
conservatorii, case di rifugio e di ricovero, ospizii ed ospedali,
e gli studii di Pisa e di Siena meglio si ordinavano; nuovi palazzi
fondavansi, gli antichi si abbellivano, nuovi passeggi si aprivano, le
librerie si arricchivano, il gabinetto di fisica s'accresceva, ed un
orto botanico si piantava.

Tra mezzo a tutto questo il principe, siccome quello che giusto
era e sincero, non volle starsene oscuro. E però fe' pubblicare la
dimostrazione per entrata e per uscita delle rendite dello Stato: in
questo quasi specchio dell'economia di Toscana vedonsi ed i risparmii
fatti e le imposizioni moderate ed il denaro convertito in cause
pietose di sollievo o d'ornamento pubblico.

E qui sarebbe da continuare il discorso intorno alle cose
ecclesiastiche; ma siccome ebbero compimento nell'anno seguente, così a
quello differiremo il tenerne parola.



    Anno di CRISTO MDCCLXXXVII. Indiz. V.

    PIO VI papa 13.
    GIUSEPPE II imperadore 23.


Le riforme fatte in Toscana da Leopoldo nelle ecclesiastiche discipline
furono materia di molta gravità, e che destò molto grido e molta
aspettazione di uomini sì in Italia che fuori di essa. Gli antichi
Toscani, più propensi a dar ricchezze ai conventi che alle parrocchie,
lasciarono quelli ricchi, queste povere. Leopoldo convocò in quest'anno
un'assemblea dei vescovi di Toscana, proponendo loro cinquantasette
punti; tutti relativi alla riforma dell'ecclesiastica disciplina.
Molti si accordarono, altri si modificarono, altri si serbarono a tempi
migliori.

Il principe, avuto il parere di alcuni ecclesiastici di non poco
nome, stabilì le parrocchie dessersi a concorso, s'aumentassero i
redditi loro; veruna tassa più non pagassero ai vescovi forestieri,
annullassersi le pensioni di qualunque sorte sopra i benefizii curati,
permutassesi la destinazione dei fondi vincolati ad usi religiosi
e indifferenti, o poco utili, ed il provento di tali capitali in
aumento delle scarse congreghe dei parochi più bisognosi s'impiegasse;
con questo ed in compenso di tali concessioni i rettori delle cure
dall'esazione delle decime e da altri emolumenti di stola desistessero;
i parrochi alla residenza obbligati fossero; niuno più di un benefizio
godere potesse, ancorchè semplice, massimamente se residenziale fosse;
tutti i sacerdoti che benefizio residenziale avessero, fossero alla
chiesa, ove era fondato, incardinati, e tutti i sacerdoti semplici,
alla chiesa parrocchiale dove abitassero, e ciò con dipendenza dal
paroco, ed obbligo di aiutarlo nel pio suo ufficio; i benefizii tanto
di collazione ecclesiastica, quanto di nomina regia, a chi servito
avesse od attualmente servisse la chiesa, solo ed unicamente si
conferissero; i regolari ed i canonici dal paroco dipendessero, e ad
aiutarlo in tutto che abbisognasse obbligati fossero; alla sussistenza
degli ecclesiastici o poveri od infermi provvedessesi; i romiti,
salvo quelli che utili fossero, abolissersi; tutte le compagnie,
congregazioni e confraternite sopprimessersi: a tutte sostituissersi
le sole compagnie di carità; le chiese, oratorii, refettorii e stanze
delle compagnie soppresse ai parrochi gratuitamente si consegnassero;
i religiosi regolari dal vescovo dipendessero; l'abito non vestissero
prima dei diciotto anni, non professassero prima dei ventiquattro;
le religiose non prima dei venti vestissero, non prima dei trenta
professassero; il tribunale del santo ufficio s'annullasse; gli
ordini di Roma tutti si assoggettassero al regio consenso, prima che
pubblicarsi ed eseguirsi potessero; s'intendesse abolito il privilegio
degli ecclesiastici di tirar i laici al foro loro, e nelle cause
criminali in tutto e per tutto ai laici parificati fossero; le cure
ecclesiastiche e delle cause meramente spirituali conoscessero, e pene
puramente spirituali definissero; gli ordinarii ogni due anni il sinodo
diocesano, per conservare la purità della dottrina e la santità della
disciplina, convocassero.

Queste deliberazioni del principe Toscano, ancorchè molestissime
alla santa Sede, pareva che non toccassero la sostanza stessa di
quell'autorità spirituale pontificia, che già da più secoli i papi
avevano piena ed intiera.

Ma a quelle deliberazioni non si rimase Scipione Ricci, vescovo di
Pistoia, che aveva già opinato nell'assemblea dei vescovi di Toscana
acciò si ampliassero le facoltà, non che de' vescovi, de' parochi,
volendo che gli uni e gli altri avessero voce deliberativa ne' sinodi
diocesani. Statuì poi nel suo sinodo, avere il vescovo ricevuto da
Cristo immediatamente tutte le facoltà necessarie al buon governo della
sua diocesi, nè potersi le facoltà medesime od alterare od impedire, e
poter sempre e dovere un vescovo nei suoi diritti originarii ritornare
quando lo esercizio loro fu per qualsivoglia cagione interrotto, se il
maggior bene della sua chiesa il richiegga. Le quali proposizioni ed
altre ancora diedero assai mal suono, per guisa che Pio VI come erronee
ed anche come scismatiche alcuni anni dopo le condannò. Aggiunse il
Ricci alcune altre dottrine che parvero e temerarie ed alla santa Sede
ingiuriose: essere una favola pelagiana il limbo de' fanciulli; un solo
altare dover esser in chiesa secondo il costume antico; la liturgia ed
esporsi in lingua volgare e ad alta voce recitarsi; il tesoro delle
indulgenze essere trovato scolastico, chimerica invenzione lo averlo
voluto applicare ai defunti; la convocazione del concilio nazionale
esser una delle vie canoniche per terminar le controversie circa la
fede ed i costumi. In fine sommamente dolse a Roma quella proposizione
del sinodo pistoiese, per la quale i quattro articoli statuiti dal
clero gallicano nell'assemblea del 1682 si approvarono, e questa
particolarmente Pio VI con una sua bolla cassò e dannò come temeraria,
scandalosa ed alla santa Sede ingiuriosa.

Le dottrine del sinodo pistoiese levarono un gran rumore in Italia,
massimamente quando furono condannate a Roma. Scritti senza numero vi
si pubblicarono, quali in favor di Roma, quali in favor di Pistoia.
Allegavasi da' Romani incominciare a por piede in Italia le eresie
di Lutero; da' difensori del Ricci, un salutar freno incominciarsi e
porre agli abusi. Gli ultimi, tra perchè pretendevano ai discorsi loro
parole di semplicità e di parsimonia, e perchè inclinavano a favore de'
più, molto s'avvantaggiavano sugli avversarii loro ed andavano ogni dì
maggior favore acquistando.

Queste ferite tanto più addentro andavano a penetrare nel cuor del
pontefice, quanto più nel regno stesso di Napoli le medesime o poco
dissomiglianti dottrine si professavano. Pareva, ed ai principi
massimamente, che le dottrine che in Toscana prevalevano, non solo la
disciplina ristorassero, ma ancora la potenza temporale alla libertà
ed alla indipendenza da' romani pontefici restituissero. Perlochè con
piacere si abbracciavano, con celerità si propagavano, con calore si
difendevano. Ma nel regno delle Due Sicilie erano alcuni particolari
motivi per cui le medesime dottrine, che suonavano parole tanto
gradite di libertà e d'indipendenza, fossero dal governo medesimo
più volonterosamente ed accettate e difese. Da quanto si è venuto ne'
precedenti anni discorrendo si vede che colà pure i medesimi tentativi
si facevano che nella Lombardia austriaca ed in Toscana circa alla
disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore, come si disse, a
cagione delle controversie politiche con Roma. Composte aveva Pio VI,
al cominciamento del suo regno, o almeno acchetate le controversie
che sussistevano colla corte di Napoli; ma ben tosto si rinnovarono
più ardenti, e forse contribuì ad accenderle l'intolleranza del nunzio
pontificio, il quale ancora in quest'anno in Napoli trovavasi. Perdette
Roma il tributo della chinea, nè giovarono a ristabilirlo le erudite
allegazioni del cardinale Borgia ed altri scritti d'ordine della romana
corte pubblicati; ed il cardinale Buoncompagni, a Napoli spedito per
rivendicare almeno in parte il diritto di nomina ai vescovadi del regno
che quel sovrano erasi arrogato, nulla potè ottenere. Sembrava che la
corte volesse liberarsi da quella specie di tutela sotto la quale i
precedenti pontefici aveanla tenuta: scritti giurisdizionali fortissimi
pubblicavansi in quel regno, ed apertamente attaccavasi la pontificia
autorità; nè quelle contese cessarono se non allorchè un più importante
avvenimento, il cominciare, cioè, della rivoluzione di Francia, tutta
attrasse ed assorbì l'attenzione dell'Europa; vorticoso nembo che già
ci si vien facendo sopra.



    Anno di CRISTO MDCCLXXXVIII. Indiz. VI.

    PIO VI papa 14.
    GIUSEPPE II imperadore 24.


Comincia quest'anno colle convulsioni della natura che desolarono gli
Stati del pontefice. Rimini varie scosse ne sentì successivamente,
a brevi intervalli, una più forte dell'altra. Scrollarono molti
edifizii, e quelli che in piedi rimasero davano nelle soffitte e nelle
pareti segni della potenza del terremoto; chiese e palagi, oggetti
spaventevoli di compassione. Gli abitanti atterriti e dal terrore
inseguiti, fuggiano per le piazze, uscian dalla città all'aperta
campagna, asilo cercando anche dove men sicuro asilo era. Molti caddero
vittima del disastro. Lungo tempo i tremebondi Riminesi soggiornavano
sotto le tende, anche nelle crude notti dell'invernal stagione. E Pio
VI, padre e signore, ad accorrere in sollievo de' suoi sudditi, de'
suoi figli, inviando loro non meno pronti che generosi soccorsi.

I due vulcani di Napoli e di Sicilia, se colle eruzioni straordinarie
non cagionarono grandi danni, sommo spavento destarono. Nell'Etna fu
maggiore che non nel 1779: l'arena e le pietre caddero sino sulla città
di Messina, sulle campagne adiacenti, su quelle dell'opposta Calabria,
sopra tutte le isole circostanti, e sino in Malta. Nè il Vesuvio volle
esser da meno: nel tempo stesso cominciò a gettar fiamme, e scorrendo
la lava lateralmente nel vallone che divide quella montagna dall'altra
di Somma, portò il terrore nell'anima degli abitatori della più
deliziosa parte dell'Italia.

Volle il re di Napoli mettere in piedi una rispettabile marineria:
trentadue legni da guerra, tra navi, fregate, corvette, brigantini e
galeotte, senza contare gli sciabecchi, gli ebbe costruiti ne' due
arsenali di Napoli e Castellamare, trovandosi egli continuamente
presente ad affrettare ai lavori.

Con queste forze gli venne fatto di reprimere le piraterie dei
Barbareschi che pareva avessero preso di mira particolarmente i legni
mercantili napoletani. Erano coloro in quest'anno usciti a corseggiare
più forti e più numerosi del solito, sotto pretesto di doversi, come
tributarii, unire alla flotta ottomana contro i Russi. A maggior
sicurezza, il re conchiuse un trattato di commercio e di navigazione
coll'imperatrice Caterina II, soprattutto pei porti russi sul mar Nero,
co' quali erasi stabilito un traffico proficuo ad ambe le nazioni.

Nè soli i Barbareschi abusavano dell'occasione della guerra tra i
Turchi ed i Russi, onde insultare persino quelle nazioni colle quali
erano in pace le loro reggenze; meno non ne abusavano alcuni altri
Europei, dandosi alla pirateria con bandiera russa. Se non che, a porvi
un argine, sorse Caterina con provvidenze opportune; e la repubblica
di Venezia, però che non erasi ancor potuta conchiudere coi Tunisini
la pace, faceva dal suo capitano delle navi Angelo Emo, di cui abbiam
detto, battere colla poderosa sua squadra di ottanta legni armati
le acque del Mediterraneo, perchè rispettata fosse la veneziana
neutralità, protetto il commercio, tolto di mezzo qualunque disordine.

A dì 31 di gennaio passò di questa vita in Roma, nell'età di
sessantasette anni, Carlo Odoardo della regal casa Stuarda, figliuolo
di Giacomo III e nipote di Giacomo II, re d'Inghilterra, della cui
impresa, a ricovrare il regno intesa, il sommo Muratori espose le
vicende nell'anno 1745.



    Anno di CRISTO MDCCLXXXIX. Indiz. VII.

    PIO VI papa 15.
    GIUSEPPE II imperadore 25.


Nuova era apresi in quest'anno alla storia. Prima però di chiudere con
adequato discorso quella che sin qui trascorremmo, e di apparecchiarci,
colla esposizione dello stato d'Italia nel punto dal quale partiremo
per percorrere la novella, vogliamo notare in questo luogo alcun fatto
di minore importanza, ma che tuttavia merita d'essere ricordato in
questi Annali.

Fece molto parlare di sè sul finire di quest'anno un uomo singolare;
vogliam dire il conte Alessandro Cagliostro. Sotto di questo nome
un avventuriere si è acquistata non tenue celebrità. Non è noto
particolarmente che per alcuni libelli, sempre sospetti di parzialità,
e pel processo fattogli a Roma. Ma l'ignoranza e le contraddizioni de'
compilatori non permette di credere ad essi gran fatto maggiormente.
Comunque sia, riferiremo succintamente i principali fatti narrati nel
processo. Cagliostro nacque, dicono, a Palermo, il dì 8 di luglio
1743, da genitori di mezzana condizione, ed il suo vero nome era
Giuseppe Balsamo. Dopo una gioventù burrascosa non poco, e dopo molte
gherminelle, come quella che fece ad un orefice nominato Marano, al
quale cavò sessanta oncie di oro colla promessa di dargli un tesoro
sotterrato in una grotta, custodita dagli spiriti infernali, lasciò
la sua città natia, e cominciò a viaggiare. Visitò successivamente la
Grecia, l'Egitto, l'Arabia, la Persia, Rodi, l'isola di Malta, ed in
quei viaggi strinse amicizia col dotto Althotas, ch'egli ci ha dipinto
come il più saggio degli uomini; ma lo perdè a Malta, dove fu bene
accolto dal gran maestro che gli diede commendatizie per Napoli. Di
Napoli andò a Roma. In questa città conobbe la bella Lorenza Feliciani,
colla quale si unì in matrimonio. Da Roma gl'inquisitori della sua
vita gli fanno scorrere pressochè tutte le città d'Europa sotto i nomi
diversi di Tischio, di Melissa, di Belmonte, di Pellegrini, d'Anna, di
Fenice, di Harat e di Cagliostro, vivendo ora del prodotto delle sue
composizioni chimiche, ora di giunterie, più sovente del vergognoso
traffico che faceva delle bellezze della sua sposa. L'apparizione
più brillante di questo personaggio singolare fu quella che fece a
Strasburgo ai 19 di settembre 1780. Sarebbe difficile l'esprimere
lo entusiasmo ch'egli destò in quella città e di far conoscere i
moltiplicati atti di beneficenza onde parve che lo giustificasse.
La Borde non conosce termini abbastanza forti per dipingere il conte
Cagliostro. Nelle sue Lettere sulla Svezia, ei lo qualifica come uomo
ammirabile per la sua condotta e per le sue vaste cognizioni. «La
sua fisonomia, dice, annunzia lo spirito, esprime l'ingegno; i suoi
occhi di fuoco leggono nel fondo degli animi. Sa pressochè tutte le
lingue dell'Europa e dell'Asia, la sua eloquenza sorprende e rapisce,
anche in quelle cui parla men bene.» «Ho veduto, prosegue dicendo,
questo degno mortale in mezzo ad una sala immensa, correre di povero
in povero, medicare le schifose piaghe di tutti, mitigarne i mali,
consolarli colla speranza, dispensar loro i suoi rimedii, colmarli di
benefizii, alla fine caricarli de' suoi doni, senz'altro scopo fuor
quello di soccorrere l'umanità sofferente. Tale spettacolo incantatore
si rinuova tre volte ogni settimana; più di quindici mila infermi gli
devono l'esistenza.» A sì fatte testimonianze di La Borde si possono
aggiungere le lettere scritte al pretore di Strasburgo nel 1783 da
Miromesnil, da Vergennes, dal marchese di Segar, colle quali si chiede
l'appoggio dei magistrati in favore del nobile straniero, ne' termini
più favorevoli per esso. Tali tratti, è d'uopo confessarlo, non si
confanno colla orrida pittura che di Cagliostro ha fatto l'autore
della sua Vita, il quale lo mostra come l'infimo de' mariuoli ed il più
abbietto degli uomini. Ai 30 di gennaio 1785 il conte di Cagliostro,
che aveva già fatto un viaggio a Parigi, ritornò in essa capitale ed
alloggiò nella via San Claudio presso il baloardo. In quell'epoca si
tramava, o piuttosto, come dice egli medesimo, era già nata la famosa
baratteria della collana. Gl'intimi vincoli del conte col principe
Luigi di Roano, fortemente implicato in tale faccenda, dovevano fargli
temere per la sua propria libertà; ma fatto forte della sua innocenza,
s'oppose alle istanze de' suoi amici, i quali lo stimolavano a lasciar
Parigi. In fatti venne arrestato il dì 22 di agosto e chiuso nella
Bastiglia. La contessa di La Motte l'accusò «d'aver ricevuto la collana
dalle mani del cardinale, e di averla fatta in pezzi onde ingrossarne
l'occulto tesoro d'una facoltà inudita.» La accusa era un assurdo.
Cagliostro rispose con una memoria che fu dai Parigini ricevuta con la
sollecitudine che inspirava il personaggio. In tale memoria, di cui
si attribuisce la compilazione ad un magistrato celebre, Cagliostro,
senza appagare pienamente la curiosità del lettore, esce in alcuni
tratti del romanzo della sua vita, e dà ad intendere che la sua
nascita, quantunque sconosciuta, è illustre. Cita, affermando di
averli frequentati, i personaggi più eminenti dell'Europa, ed invoca
la loro testimonianza: nomina i banchieri che in tutte le città gli
somministrarono denaro, ma senza far conoscere la sorgente delle sue
ricchezze. La sentenza del parlamento del 31 di maggio 1786 assolse
il principe Luigi e Cagliostro dalle accuse contro di essi intentate;
ma entrambi furono esiliati. Cagliostro si ritirò in Inghilterra ivi
soggiornò circa due anni; passò da Londra a Basilea, indi a Bienne,
ad Aix, in Savoia, a Torino, a Genova, a Verona, e da ultimo andò
a Roma, dove fu arrestato il 27 di dicembre del presente anno e
trasferito nel castello Sant'Angelo, in un con sua moglie. Volendo
qui dire quant'è da dirsi di costui: gli fu fatto il processo e venne
condannato a dì 7 del mese di aprile 1791, siccome in esercizio
di libero muratore. La pena di morte, a cui era motivo siffatto
delitto, fu commutata in una prigione perpetua. Dicesi che sia morto
l'anno 1795 nel castello di San Leo. Sua moglie era stata anch'essa
condannata a perpetua clausura nel convento di Sant'Apollinare.
Furono spacciate sul conte Cagliostro parecchie favole, le quali altro
fondamento non hanno che la preoccupazione o le opinioni particolari
di chi le ha divulgate, gli uni lo tengono per uomo estraordinario,
per un vero facitor di prodigii; altri non veggono in lui che un
accorto ciarlatano. Gli si attribuiscono cure maravigliose e senza
numero; sembra nulladimeno evidente che il suo sapere in medicina
fosse estremamente limitato. Ugualmente che tutti i partigiani delle
dottrine ermetica e paracelsica, faceva grand'uso d'aromi e di oro.
Fu Cagliostro, caduto sotto le investigazioni della inquisizione, fu
tenuto per membro dei muratori templarii, ed attribuita la continua sua
opulenza ai moltiplici soccorsi che dalle diverse logge dell'ordine
gli provenivano. L'autore già citato della sua vita gli dà il vanto
dell'instituzione d'una società di muratori che si dicono egiziani,
la quale, s'egli fedelmente la avesse descritta, non sarebbe stata
che una meschina ciarlataneria, inetta a trappolare un istante l'uomo
meno assennato. Una pupilla o colomba, cioè una fanciulla nello stato
d'innocenza, messa dinanzi una caraffa, ma riparata da un paravento,
otteneva per la imposizione delle mani del gran cofto, la facoltà di
comunicare cogli angeli, e in quella caraffa vedeva qualunque cosa
volevi che vedesse. Finalmente uno scrittore de' nostri giorni, l'abate
Fiard, non dubitò di far Cagliostro uno spirito del tenebroso impero e
di associarlo con Mesmer, Pinetti, ed altri, all'infernale coorte. Il
cavalier Bossi, nella sua Istoria d'Italia, dopo esposte e confutate
le opinioni che intorno a Cagliostro correvano, conchiude: «Certo
è che giudicato fu egli secondo le massime del santo ufficio, e reo
supposto di avere sparso erronee opinioni e praticati gl'insegnamenti
delle scienze occulte, fu condannato a morte...... sebbene osservassero
alcuni che commesso non avea delitti, nè sparse tampoco le opinioni
condannate, nel territorio di coloro che costituiti si erano suoi
giudici.»

Morto in quest'anno il doge di Venezia Paolo Renier, gli fu dato
a successore Lodovico Manin, cavaliere e procurator di san Marco,
stato podestà di Vicenza, di Verona, di Brescia, e mostratosi nelle
magistrature interne d'indefessa attività e di vivo zelo pel pubblico
interesse fornito. Se nel suo particolare gli venne data nota di tanta
parsimonia che mal si addiceva alla sua opulenza, però che fosse il più
ricco uomo di Venezia, nelle pubbliche rappresentanze spiegò l'apparato
più nobile e più pomposo della magnificenza e della grandezza. Notarono
gli oziosi che de' cento venti dogi che a Venezia furono, il primo e
l'ultimo portarono lo stesso nome di Paolo, non volendosi nella serie
contare il Manin, che nella dignità in fatti non morì, avendo veduta
la caduta dell'insigne repubblica, e mancato poi a' vivi privato e da
parecchi negletto.

Ed eccoci alla nuova era storica, della quale abbiam detto in principio
del presente anno. Se non che, prima d'entrare nel difficile arringo
ne pare di dover chiudere il tratto sinora percorso con opportuno
discorso sulle scienze e sulle lettere, non che sulle arti, che sì
gran parte sono della gloria d'Italia nostra. Un celebrato storico
diede di queste parti un suo giudizio, nel quale, sebbene in tutto
non consentiamo, crediamo però pregio dell'opera il presentarlo tale
e quale ai nostri lettori, i quali, se in qualche luogo il troveranno
disforme dalle sentenze che in proposito sono corse, bel campo avranno
a quei raffronti, a quelle disposizioni, a que' paralleli da' quali
l'istruzione risulta. Dice egli adunque:

«Nessuna età mai promise tanta felicità agli uomini quanto il secolo
decimottavo, prima che una feroce tempesta lo turbasse. Quanto fra gli
uomini di utile, di grazioso, di grande si trovava, tutto allora era o
si travedeva. Le volontà benevole, gl'intelletti illuminati, le lettere
in onore, le scienze in progresso. Dirò brevemente di ognuno di questi
fonti di beneficenza e di gloria. I nostri figliuoli, conoscendo l'aria
prima che respirammo e quali fummo e ciò che volemmo, non saranno,
credo, verso i loro padri di gratitudine avari.

L'Italia per le scienze naturali a nissuna delle nazioni che più le
coltivavano era inferiore, ad alcune superiore. E per parlare della
Francia specialmente che allora per questa parte dell'umano sapere più
d'ogni altra aveva onorata nominanza, sotto certi rispetti l'Italia
le cedeva, sotto altri la superava. Cedevale per lo splendore e per
l'eloquenza; il grande Buffon in questa parte chi eguagliare potrebbe?
Superavala per l'indagine scrupolosa, per l'esattezza delle ricerche,
contenti gl'Italiani di dire agli altri ciò che la natura diceva loro,
e temperandosi dai commenti; sistemi ed ipotesi, della cui fugace
indole già insin dai tempi suoi quel famoso italiano, a cui niuno fu
eguale, parlò, dico il buono, dotto ed eloquente Cicerone. Ciò che
io qui affermo, ad ognuno sarà manifesto che vorrà considerare, quale
Buffon e quale Spallanzani fossero. Dottissimi ambedue e diligentissimi
scrutatori della natura, venerandi ambedue sacerdoti della scienza,
ma uno dedito più all'immaginazione che all'osservazione, l'altro più
a questa che a quella, onde il tempo che sa bene scerner la realtà
dalle chimere, non poche cose riformò nelle opinioni del naturalista
franzese, poche o nissuna in quelle del naturalista italiano. Ma
sebbene non mediocri pregi d'eloquenza Spallanzani avesse, a niun
modo il suo fare si potrebbe paragonare con quel largo fiume che
spandeva con la sua inimitabil penna colui, cui tutte le nazioni
onoravano, cui la morte si pianse con universale cordoglio, cui la
memoria tanto valse nei cuori irritati dei nemici della Francia,
nel 1814, che Swartzemberg, che gli guidava, mandò spontaneamente
salvaguardia al piccolo Monbard, solo perchè stato era seggio di colui,
cui, benchè morto fosse, credeva degno di arrestare armi ed armati.
Potenti ossa di Buffon, pacifica vittoria, memorando temperamento dai
furori guerreschi, ugualmente onorevole e per chi l'inspirava e per
chi l'ordinava! I cannoni di Napoleone perdevano, le ossa di Buffon
vincevano.

«Buffon abbelliva, Spallanzani diceva semplicemente: _La cosa sta
così_: ma l'uno certamente e l'altro onore delle loro patrie, ornamento
del mondo. Io veramente ammiro nel naturalista, cui Scandiano produsse
e Pavia albergò, il genio italiano che, ancorchè abbondi di fantasia,
di verità pure e di realtà si pasce.

«Il lume della fisica primieramente in Italia tanto splendeva quanto
presso ad alcun'altra nazione, e forse per certe parti di lei, come,
per cagion d'esempio, l'idraulica e la meccanica, era ita più avanti.
Forse ancora per la elettricità, massimamente per le fatiche del padre
Beccaria, professore in Torino, ebbe più profonde e più sane nozioni di
qualunque altra, ricevuti ciò non per tanto i primi semi dall'estero.

«Ciò sulle prime, ma poscia tanto si innalzò che le altre nazioni
a' suoi fonti vennero abbeverandosi. Il caso fece trovare a Galvani
un fecondo pensiero; egli stesso colle sue sollecite investigazioni
il fecondò. Levossene un alto grido nel mondo. L'inventore credè che
fosse una legge animale e che perciò più a fisiologia che a fisica si
appartenesse. Ma era uscito da Como un sublime ingegno che a fisica
lo rivocò, dimostrando che gli effetti prodotti sugli animali altro
non erano che una parte, una derivazione della generale fisica legge.
Dire quanto pensasse e quanto scrivesse Volta impossibile sarebbe
alla mia stanca e tarpata penna; ma mi consolo pensando che bisogno
non è ch'io lo dica. Qual parte della terra v'ha che nol sappia e nol
dica e maraviglia non ne senta? Per Volta l'Italia andava nell'impero
delle scienze ogni giorno alcuna conquista facendo: il suo nome stesso
nel possente stromento impresso farà memoria nelle future età, quanti
miracoli un modesto uomo, imperocchè tanto modesto fu Volta quanto
ingegnoso e dotto, scoprisse nel chiuso seno dell'arcana natura, ed ai
maravigliati ed attenti uomini gli rivelasse.

«Se delle scienze matematiche vogliamo parlare, si vedrà che, tacendo
anche di tanti altri che a Pavia, a Firenze, a Roma, a Napoli ed a
Palermo fiorivano, il solo Lagrange dimostrava, che per la scienza
delle quantità astratte l'Italia non era sfruttata e degna ancora
appariva di quella regione di cui erano usciti Galileo e Sarpi. Nè
di Gugliemini tacerò, il quale trovò modo di pruovare con fisico
sperimento che la terra si muove.

«Quanto alle scienze chimiche, il cui imperio tanto incominciava a
dilatarsi innanzi che sorgesse il sole dell'ottantanove, gl'Italiani
più dagli altri impararono che agli altri insegnassero, quantunque
valenti chimici fra di loro a Torino, Pavia, Venezia e Napoli
sorgessero. La Francia in questa parte splendeva di un lume, senza
pari, e i nomi di Lavoisier, Berthollet, Fourcroy, Guyton-Morveau
saranno immortali.

«Ma non è senza opportunità il notare in questo luogo che se uomini
sommi allora la feconda Francia illustravano, veri e santi oracoli
del mondo, nella scienza che....... compone, scompone e ricompone le
sostanze, il volgo correva dietro cupidamente alle pazzie ed alle
chimere di un Cagliostro, di un San Martino e di un Mesmer. Questi
credeva con le boccette del primo di poter vivere almeno trecento anni;
quest'altro teneva per fermo di poter leggere, come si diceva di San
Martino, a trapasso di muro; un terzo finalmente, di Mesmer seguace,
con un poco di sale rotto in una bigoncia, e con certi alti smorfiosi
fatti da un impostore, si persuadeva di poter guarire da tutte le
malattie. Ed ecco un altro sicofanta, o sicofantessa che si fosse,
che conosceva e guariva tutti i mali solo con guardare le orine e far
dal suo tripode ricettacce, dopo di averle guardate. Ciò succedeva in
Parigi, e sì che si vedevano concorrere alla porta della sicofantessa
ogni mattina uomini e donne, cocchi e barelle con le ampolluzze e con
gli utelli pieni di orina per farla vedere alla pitonessa e portarne
poscia a casa i precetti. Queste materie poco si videro in Italia e non
vi fecero frutto, e la cagione si è che i Parigini sono tutto Ateniesi,
graziosi uomini in verità, mentre negl'Italiani, sebbene anch'essi
sappiano dell'Ateniese, c'è mescolato un po' di Spartano, voglio
dire che amano ragguardare dentro la midolla delle cose. Poi sono più
maliziosi, e sanno bene squadrare e guardare in viso gl'impostori.

«Le scienze morali seguitavano in Italia l'inclinazione comune, con
più felici augurii a miglior stato avviandosi. Una gran differenza ciò
non per tanto si osserva tra quanto vi succedeva in questo proposito e
ciò che in altri paesi si vedeva; questa era che quegl'Italiani stessi
che ardentissimi erano nel risecare dalla pianta religiosa ciò che
d'eccessivo e d'illegittimo vi aveva......... aggiunto, persistevano
però nelle credenze cattoliche lontani dagli scherni e dall'incredulità
che altrove regnavano. Volevano un'emendazione, non una distruzione.

«Le scienze economiche spiegavano pure anche esse i loro fiori nella
bene generativa penisola. Della quale cosa ognuno sarà persuaso, se
vorrà avvertire agli utili scritti di Genovesi e Galiani di Napoli e di
Fabbroni di Firenze. Questi alti ingegni, del bene comune aumentatori,
eziandio si differenziavano da certi economisti forestieri; perciocchè
non a chimere impossibili a ridursi in pratica nè ad astruse teorie
andavano dietro, ma cose palpabili trattavano e che, se vere erano in
ragione, utili erano anche in esperienza. Oltre a questi maestri per
iscritto, era allora in Italia un economista pratico che quanto essi
nelle loro benefiche lucubrazioni pensavano riduceva all'atto, e questi
fu Leopoldo di Toscana. Seppelo la Toscana stessa, che a più fiorente
stato pervenne.

«Sommo, anzi singolar pregio della Italia a que' tempi fu la scienza
della penalità, merce di quel........ mandato fuori da Beccaria.
Chi la umanità ama, chi ama la giustizia, debbe con perpetue lodi
innalzare quest'uomo immortale. La Italia l'onorò, l'onorarono le
nazioni forestiere, e da lui tutte riconobbero un bene immenso fatto
nella parte più cruda e terribile dell'umana legislazione. Orrende
piaghe sanò. Quattro grandi lumi, oltre i minori, splendevano allora
in Italia, uno in Napoli, uno in Firenze, un terzo in Milano e Pavia,
un quarto in Parma. Quelle erano veramente scuole patrie, quelli sodi
beneficii, che tutto l'edificio sociale con amica luce rischiaravano,
fecondavano, miglioravano. Così voleva allora il cielo che seguisse.

«Se poi vogliam voltare il discorso alle lettere, vedremo che, se poche
parti se ne eccettuano, la letteratura italiana era spenta, nè altro
più non era che una servile e sconcia imitazione della letteratura
francese. La storia, la maggior parte delle opere teatrali, le novelle,
i romanzi i poemi stessi rendevano un odore franzese, e tanta distanza
passava dallo scrivere che a que' tempi era prevalso in Italia, a
quello che vi si usava due secoli innanzi, quanta veramente si scorgeva
tra le cose scritte nell'ignorante medio evo a quelle, cui mandarono
alla luce gli autori del decimo quarto e decimosesto secolo. Parlo
solamente della distanza che tra l'un modo e l'altro s'interponeva, non
già dell'effetto, perchè allora si andò dal male al bene, adesso si
andava dal bene al male. Nei bassi tempi vi era speranza, perchè non
vi era corruzione di età decrepita, e solamente si vedeva che l'arte
era bambina; ma nella seconda metà del secolo decimottavo, quasi ogni
speranza si trovava estinta; perciocchè la medesima legge governa le
cose morali che le fisiche, cioè che si può andare dall'infanzia alla
virilità, non già dalla decrepitezza all'adolescenza, ed il pomo acerbo
può diventar maturo, il fracido non torna più a sanità, ma si disfà.
Tal era, generalmente parlando, l'italiana letteratura a' tempi che
videro fanciulla l'età presentemente canuta. A stento e se non con
molto stomaco si possono leggere oggidì le cose che vi si scrivevano.
Servilità ne' pensieri, servilità nella lingua. Come le scarpette delle
donne, così ancora i concetti e le frasi dei letterati venivano bell'e
formati da Parigi.

«In mezzo alla foresteria si era introdotto un altro nauseoso vizio,
e quest'era una certa leziosaggine, una certa delicatura, e quasi
direi smanceria, che faceva credere che la letteratura italiana fosse
divenuta imbelle e non più da uomini, ma da donne. Concettuzzi fioriti,
frasi leccate, nissuna forza, nissuna naturalezza, nissun maschio,
nissun sincero pensiero; ogni cosa scritta come se fosse alla presenza
della donnetta che si acconciava. La _toaletta_, come dicevano, e
il _sofà_, ed è miracolo che non abbiano detto il _budorio_ per dire
il _boudoir_, e le braccia ben _tornite_, pure come dicevano, della
innamorata, e i suoi pedini e le dituzze, e le descrizioni al minuto
del prendere il cioccolate, senza nemmeno dimenticare il colore de'
confetti che vi s'immergevano, od altre simili inezie andavano per gli
scritti de' più. Chi avrà letto il Roberti, e l'Algarotti, e Pietro
Chiari e le commedie del principe di Sangro, e quelle del Villis, saprà
da sè stesso ciò che voglio dire.

«Il male si accrebbe per l'autorità di un uomo cui la natura aveva dato
un ingegno smisurato, e che poteva essere il ristauro, e pure fu quasi
del tutto la ruina dell'italiana letteratura. Parlo del famoso poeta
padovano, del Cesarotti. Dio mi guardi dal proferire la bestemmia che
costui fosse imbelle; che anzi ingegno più virile e più vivido del
suo da lungo tempo la natura non aveva in Italia procreato. Ma volle
farsi singolare con una poesia parte gonfia, parte leccata, traducendo
il vero o finto Ossian. Le leziosaggini per la sua Bragela, ed il
suo lanciare pel suo Fingallo, ed altri eroi così tremendi pel nome
come pei fatti, corruppero talmente la poesia italiana, che più forma
alcuna non conservava di sè medesima. Quanto poi alle sue prose, egli
era un molinista tale in lingua, che ogni franzese parola o frase per
lui era buona, purchè una desinenza italiana le applicasse. Egli fu
un gran Busembaum per la lingua. Questi scandali dava Cesarotti, egli
che per la sublimità dell'ingegno avrebbe potuto a sublimi e sincere
opere italiane dare origine. E veramente si vede, che là dove puro
voleva ed italiano essere, il che non di rado ancora gli succedeva,
tali lumi mandava fuori che non uscirono mai maggiori dalla penna dei
più rinomati scrittori del bel secolo. Ma il consueto suo andare era
corrotto, e fu questo il tracollo.

«Le cose parevano doversi tenere per perdute, e nulla si poteva più
sperare da chi si tagliava i nervi da sè. Fortunatamente, mentre
Cesarotti ed altri, che di lui il vizio non l'ingegno avevano,
gettavano, come se a contanti pagati fossero, feccioso limo nelle
pure e limpide acque dell'Arno, il cielo, che non voleva che il fiore
italico si spegnesse, mandò quattro uomini a vivificarlo; questi furono
Parini, Metastasio, Goldoni ed Alfieri.

«Parini fu il primo a ritirare la trascorsa letteratura italiana verso
il suo principio, ed a ritirarla, nel tenero, al fare petrarchesco, nel
forte, al dantesco; ma più veramente ancora per la natura sua sapeva
di Dante che del Petrarca. Sublimi e pretti pensieri aveva, sublime e
pura lingua usava, un terribile staffile maneggiava. Le _toalette_,
e i _sofà_, e i ventagli, ed i letticciuoli morbidi rammentava non
per lodarli, ma per fulminarli. Grande e robusto uomo fu costui,
nella satira il primo, nella lirica ancora il primo. Ei fe' vedere e
dimostrò che senza le nebbie caledoniche, senza le smancerie galliche,
e consistendo nella vera lingua e nel vero stile italiano si potevan
creare opere in cui colla purità si trovava congiunta l'energia. Più
che poeta, più che sacerdote d'Apolline fu, posciachè fu maestro di
virtù, ed i molli costumi ad una virile robustezza ridusse: l'eunuca
età a più maschi spiriti eresse. Tanto potenti furono i suoi detti,
tanto potenti i suoi scritti!...............

..... Forse, chi sa, un giorno verrà quando gl'Italiani avran dimesso
il mestiere del voler fare i pedissequi dei forestieri........... in
cui maggiormente il suo esempio ed i suoi altissimi versi frutteranno.
Eglino intanto debbono aver cara ed onorata sempre la memoria del
Parini, di quel Parini che dal lezzo li sollevò, e dalle insipide
erbe purgò il sentiero che mena all'eletto monte, dove la virtù e le
divine suore albergano. Parini, poscia Alfieri, spensero la letteratura
delle inezie; ed i descrittori delle scene di taverna, e di qualche
monasteruzzo, mercè le illustri fatiche di quel grande Milanese,
peneranno ad allignare.

«In nissun autore osservasi un così puro fiore, una così perfetta
fragranza delle tre letterature madri, quanto in Metastasio, e niuna
traccia, quantunque in mezzo alla corruttela che già cominciava
ad ammorbare, vivesse, in Lui si ravvisa di moderna foresteria.
L'anima sua nitida e dolce a ciò il portava, l'essere Romano forse vi
contribuiva; conciossiacosachè o che i letterati romani siano vissuti
divisi dai forestieri più che gli altri Italiani, o che la natura
romana più fortemente resista al piegarsi alle influenze altrui, o che
quella lingua tanto scolpita che parlano, italiani pensieri e italiane
immagini e forme più profondamente nelle menti loro imprima, o che
finalmente quel ravvolgersi continuamente fra le romane antichità,
che i concetti e la grandezza antica ad ogni momento loro ricordano,
sel facciano, certo è bene ch'essi più di ogni altro si tennero
lontani così dalle gonfiezze del secolo decimosettimo, come dal
loglio forestiero che veniva mescolandosi col grano d'Italia. La quale
cosa tanto è più da osservarsi quanto che Roma si trova fra Toscana
e Napoli, dove, dopo la metà del secolo ultimo, quel loglio aveva
messo più profonde barbe, ed erasi in isconcia guisa moltiplicato.
Chi Metastasio legge, beve a pieno vaso senza alcuna mescolanza di
stranezza la grazia greca, la maestà latina, la eleganza italiana.
Col chiaro, amabile ed armonioso suo stile, colla naturalezza dei
pensieri e dei sentimenti, col contrasto nitidissimo delle passioni,
non feroci e barbare, ma alte e generose, e tali quali a popoli
civili, non a Caraibi, o ad Uroni, o a quelle bestie del medio evo si
convengono, diede a divedere che stando nei confini delle letterature
madri della meridionale Europa, si può e muovere fortemente gli affetti
e, mantenendo la sincerità del gusto italiano, innalzare gli animi.
Certamente, mai nissun autore fu tanto Italiano quanto Metastasio.
Possente argine fu contro il contagio forestiero, possente rimedio
per risanare i corrotti. La quale salutare operazione con tanto
maggior efficacia fece, che pel genere delle sue composizioni e per
la chiarezza del suo stile egli andava per le mani di tutto il mondo.
Che anzi non solamente su i regi teatri i suoi drammi si cantavano,
ma eziandio sulle scene innalzate dai comuni o dai particolari si
recitavano, e pochi erano i villaggi, non che le città che ogni anno,
massime nell'autunno, non udissero alcuna opera del poeta romano
recitata da uomini colti, e talvolta ancora da uomini di villa, a cui
poco altro sapere era venuto che quello di saper leggere e scrivere.
Il concorso a queste rappresentazioni era grande, ed il piacere che gli
astanti provavano, maraviglioso. Attori e spettatori si immedesimavano,
e degli eroici costumi dell'antichità si dilettavano, e per essi di
migliori sentimenti s'informavano...............

Ciò pruova che il Metastasio era veramente autore italiano, poichè
tanto agli italiani andava a sangue. Ciò pruova ancora che il vero fine
delle rappresentazioni teatrali è d'invaghire l'uomo del bello ideale
ed eroico onde ritrarlo dal pensare e dal sentire abietto e plebeo, e
più avvicinarlo a quell'alto scopo per cui Dio l'ha creato. Il quale
effetto se alcune moderne composizioni facciano, lascio al lettore il
giudicare.

Ma, seguitando a parlare del Metastasio, per giudicar bene che cosa ei
fosse e quel che far si volesse, e' non bisogna supporre, come alcuni
fanno, che intenzione sua fosse di scrivere tragedie, dando al nome di
tragedia la significazione che volgarmente gli si dà. Imperocchè ei
non volle già comporre tragedie da recitarsi, ma drammi da cantarsi,
quantunque assai acconciamente ancora recitare si possano, ed in essi
non di rado si trovino scene che nella più vera e sublime tragedia
si confarebbero. Ma resta sempre che, scrivendo per la musica, egli
soggiaceva a parecchie necessità che la sua libertà impacciavano, e che
dalle esigenze o del compositore della musica, o de' cantanti, o dalle
consuetudini teatrali stesse di que' tempi derivavano. Maravigliosa
cosa è come fra tanti lacci produrre potesse scene da cui nasceva una
così potente mossa d'affetti.

Di questo poeta parlando, pel quale principalmente si fa manifesto che
la sublimità dei pensieri e dello stile possono stare con la semplicità
e con la chiarezza, cade in acconcio il discorrere dello stato in cui
si trovava la musica al tempo in cui viene a terminarsi la nostra
presente storia. Pare a me, ed anzi certo sono, ch'ella pervenuta
fosse a quel grado di perfezione, sopra il quale nulla più resta nè
da desiderare nè da aggiungere, ed al quale qualche cosa aggiungendo,
si va verso la corruzione. Ciò dal conservatorio di Napoli e dagli
ammaestramenti di Durante principalmente riconoscere si dovea. Era quel
conservatorio, come quasi il cavallo troiano, da cui uscivano, non già
uomini armati per incendere e distruggere le città, ma divini ingegni
da eccellenti maestri informati, che per l'Italia, loro felice patria,
poi per estere regioni portando andavano ciò che più l'anima molce ed
innalza, e dalle tristi cure che l'umanità tanto spesso affliggono
la solleva ed allontana. Non romorosi o abbaruffati componimenti
erano, ma per ciascun pezzo un'idea madre, un'idea architettonica,
alle quali le altre, come ancelle ad una regina, per darle maggiore
risalto e farla campeggiare, servivano. La stessa armonica simmetria ed
acconcia corrispondenza di tutte le parti si scorgeva nella totalità
del componimento, di maniera che non solamente si vedeva che era una
creazione dello stesso spirito, ma eziandio che al medesimo soggetto si
apparteneva. La semplicità e la unità cotanto raccomandate da Orazio,
e in ciascuna parte e nel tutto si osservavano, e con loro congiunta
una tale leggiadria, una tale grazia, una tale eleganza che a sentirgli
era un vero incanto, e l'uomo provava una dolcezza inestimabile.
Pareva che egli da queste terrene cose disciolto, ed in migliore mondo
trasportato, di angelica natura si vestisse.

Nè complicati o meccanicamente laboriosi erano i mezzi, di cui quei
divini ingegni si servivano per produrre così maravigliosi effetti.
Semplicissimi erano e, quasi direi, invisibili questi mezzi. Al mirare
que' loro spartiti, assai poche note vi si vedevano, onde quasi pareva
che vi fossero effetti senza causa. Ma la causa appunto più forte ed
operosa era, perchè più semplice era e sapeva batter bene in quella
parte del cuore che abbisognava. Ed io mi ricordo di avere letto nel
dizionario di musica del Rousseau un fatto mirabile, ed è dove racconta
il terribile effetto che sempre faceva su gli ascoltanti (credo, se ben
mi ricordo, nel teatro di Ancona) un recitativo solamente accompagnato
da poche note del violoncello; irresistibile era quest'effetto, onde
ognuno al solo suo approssimarsi, già si sentiva commosso e subitamente
impallidiva come se da una incognita e possente causa compreso e domato
fosse. Quella era veramente musica italiana, possente per semplicità,
per grazia, per verità; la melodia padrona, l'armonia serva, l'armonia
che non fa effetto se non quando imita la melodia, i mezzi meccanici
lasciati a chi callose orecchie ed insensibile cuore ha. Chi sa che
siano Omero, Virgilio, Raffaello d'Urbino, facilmente intenderà ciò
ch'io voglio dire. Ed Omero, Virgilio, Raffaello si erano trasfusi in
Paisiello e in Cimarosa ed in tanti altri compositori di quel tempo,
che veramente si può e dee chiamare l'età dell'oro per la musica.

La maestria e la vera arte non consistono nel far monti di note e di
strani e ricercati accordi, ma nell'inventare motivi nuovi, graziosi,
adatti all'effetto che si vuole esprimere, e questi accompagnare con
accompagnamenti che gli aiutino, non gli soffochino. Il quale modo
di comporre, siccome di maggior effetto, così ancora di maggiore
difficoltà è; conciossiacosachè assai più difficile bisogna sia
l'inventar cose ideali, cioè i motivi (dono dato dal cielo a pochi) che
il raccappezzare cose corporee, cioè gli accordi. Di gran lunga maggior
numero di motivi nuovi, cui i maestri chiamano di prima intenzione, e
perciò maggiore difficoltà superata ed assai maggiore e più eccelsa
facoltà creatrice havvi nella sola Nina di Paisiello o nel solo
Matrimonio segreto di Cimarosa che in tutte le opere insieme anche del
più fecondo compositore de' giorni nostri. È vero che non vi è tanto
fracasso, cioè tanti mezzi meccanici; ma i divini dove sono? Questa è
una età pessimamente corrotta: nel morale vuole la forza, nella musica
il fracasso. I compositori sono diventati servi delle orchestre, le
quali sempre vogliono sbracciarsi per fare un gran romore e far vedere
che sanno sonare le difficoltà, ed eseguire il concerto, i cantanti
sono soffocati ed obbligati di strillare, ed il pubblico, che ha
perduto il cuore ed è divenuto tutto orecchie, applaude;.....

Altra è la musica istromentale, altra la vocale. La voce umana è la
vera e naturale espressione delle passioni; gli istrumenti sono mezzi
artificiali li quali possenti non sono se non in quanto imitano la
voce umana, e più o meno possenti sono, secondochè più o meno a lei
si avvicinano o da lei si discostano. Questa è la ragione per cui quel
gemere di violino ne fa uno strumento potentissimo. Onde non solamente
contro l'effetto fa, ma ancora contro natura chi con gl'istrumenti
soffoca la voce invece di secondarla ed aiutarla.

Io fui amico, ed egli a me, e molto me ne pregio, di un gentilissimo
maestro italiano. Compostasi da lui alcun tempo vera musica italiana,
piena di verità, di soavità, di grazia, come, per esempio, i suoi
bellissimi notturni sulle parole di Metastasio, una delle più
dolci cose che siano uscite da un cuore dolcissimo, si diede poi
a ingarbugliarsi con mescolare con eccessiva proporzione, musica
istromentale colla vocale. E Paisiello per Milano passando per andar
a Parigi ai cenni di Napoleone, sentita quella sua musica nodosa e
strepitosa, e, postagli la mano sulla spalla, gli disse: «Bonifazio,
lascia stare la musica tedesca.» (Il tarantino Anfione parlava della
musica vocale[2].) Il grazioso uomo mi disse con quella sua giovenil
voce che sempre ebbe: «Me la sono attaccata all'orecchio;» ma non se la
attaccò. Veramente il buon Bonifazio, oltre ad altre sue composizioni
alla tedesca, aveva composto la musica per un dramma a Torino, la
quale, malgrado di un gran miagolare di bassi che vi aveva fatto, non
ebbe alcun buon successo; felicissima vena, se mai una fu al mondo, e
veramente correggiesca, da un poco sano metodo di comporre guastata.

«La poesia e la prosa erano parecchie volte degenerate in Italia, e da
quasi cinque secoli avevano a più maniere di degenerazioni soggiaciuto.
La musica sola, da' suoi principii al suo apice gradatamente
ascendendo, sempre simile a sè medesima era proceduta, vero e sincero
frutto italico dimostrandosi. Tanto crebbe, che finalmente al punto
di perfezione pervenne, allor quando Cimarosa e Paisiello colle
loro mirabili melodie incantavano il mondo. Il secolo decimottavo
dopo il cinquanta fu per la musica ciò che il decimosesto fu per
la pittura, quando con le loro divine rappresentazioni Raffaello e
Michelagnolo pruovavano che la Grecia s'era in Italia trasportata. A
ciò contribuì Metastasio co' suoi dolcissimi versi, e, secondochè gli
affetti portavano, qualche volta ancora tremendi, ma pur sempre dolci.
Vincendevolmente i musici coi loro soavi o tremendi accenti al fare
di Metastasio ed all'imperio ch'egli sulle anime acquistato aveva,
contribuirono. Musica era la poesia di Metastasio, poesia la musica dei
napolitani maestri. Gli orfeiani miracoli si rinnovavano a quel tempo;
persino i sassi si muovevano, se per essi intendiamo i duri e silvestri
cuori.

«Quando io dico che la musica era a' quei dì alla sua perfezione
giunta, non intendo già che, rotte alcune consuetudini teatrali,
non si potessero impinguare le musiche delle opere drammatiche con
maggiore numero di pezzi di nervo; che ciò si poteva acconciamente ed
utilmente fare; ma solamente voglio dire che il metodo del comporre i
pezzi, che si usava allora, era il vero ed il più perfetto che si possa
immaginare, e che il dipartirsene è un andare verso la corruzione. Ciò
è così vero che nelle musiche meccaniche, che si odono e si ostentano
oggidì, e che sono veramente come il pesce pastinaca, che non ha nè
capo nè coda, o come quella testa d'uomo con collo di cavallo da Orazio
sul principio della sua poetica descritta, i pezzi che fanno maggiore
effetto e più nel cuore s'imprimono e più nella memoria si serbano,
sono appunto quelli che al fare dell'antica musica da noi rammentata
si ravvicinano ed in quello stile si ravvolgono. Il muovere i cuori
è il vero ufficio della musica, non quello di assordare le orecchie,
e perchè appunto il primo effetto può fare, fra le divine arti fu
collocata, ed i poeti le loro più alte composizioni incominciavano
cantando. I filosofi stessi immaginarono che le celesti sfere
muovendosi, suoni rendevano e concenti facevano.

«Il principal fine delle arti è veramente il muovere gli affetti, e
nissuna più gli muove e forse nemmeno altrettanto della musica. Per
me, oltre la dolcezza che ne pruovo, giudico della bontà di un pezzo
dal sentirmi mosso ad accompagnarlo col gesto, perchè allora veramente
espressione d'affetto è; che se a quel gestire invitato non sono,
subito concludo che quella non è musica, ma solamente rumore di corde o
fischio di legno. Io detesto coloro che vogliono disonorare la musica
col ridurla da un'arte liberale che ella è, ad un'arte meccanica. I
maestri sterili, cioè incapaci di trovar motivi nuovi, sono appunto
quelli che danno nel fracasso: manca in loro la divina favilla, e per
ciò fanno ciò che i venti sanno fare nelle elci cave.

«Tornando adunque al Metastasio, dico ed affermo ch'egli fu un
principale sostegno del gusto italiano, e che per lui stette che
l'italiana letteratura il suo naturale aspetto del tutto non perdesse
ed al basso ed allo straniero non scendesse e trascorresse.

«I soggetti che trattava, cavati i più dalla veneranda antichità,
facevano che la Grecia e l'antica Roma nella novella Roma risorgessero.
Al quale effetto eziandio con non poca efficacia conferivano gli
studii dell'archeologia che nella città regina sempre avevano fiorito e
tuttavia fiorivano. Chi non conosce le opere dell'immortale Visconti,
di quell'uomo singolarissimo che univa un giudizio sano con una
erudizione immensa, due cose che negli eruditi non sovente congiunte
si vedono, stante che questo genere di letterati sono per l'ordinario
creduli nella fantasia che gli tocca?

«Oltre i vestigii dell'antica Roma, che la nuova ancora adornano, e
lo zelo con cui il Visconti ed i suoi compagni ed allievi questa parte
della scienza coltivavano, a maggior ardore sollecitavano gli studiosi
di lei le scoperte che in Ercolano si andavano facendo. Risuonava
in ogni luogo il grido della città sepolta e dissepolta, ed a quella
parte con somma avidità s'indirizzavano gli animi, studii certamente
innocenti ed utili, poichè a pacatezza ed a grandezza tendevano ed
invitavano. Napoli, il cui suolo tante ritrovate ricchezze in questo
genere versava, non pretermise di coltivare la scoperta vena, anzi
con tutte le forze l'esplorò e l'avanzò. Oltre le munificenze regio
che alle spese dei lavori sopperivano, il re, a ciò muovendolo il
Caracciolo, il quale, nel 1786, era stato richiamato dalla Sicilia per
reggere in Napoli la segreteria degli affari esteri, aveva nel 1787
ordinato che fosse ritornata in pristino l'antica accademia d'Erodano,
chiamandovi uomini egregi per zelo e per dottrina, l'abbate Galiani,
Niccolò Ignarra, Mattia Zarillo, Giambatista Basso Bassi, Francesco
Lavega, Francesco Daniello, Emmanuele Campolongo, Domenico Diodati,
Saverio Gualtieri, Michele Arditi, Andrea Federici, Gaetano Carcani,
Saverio Mattei, Carlo Rosini, e quel Pasquale Baffi, che, dodici anni
dopo, tratto da questi studi pacifici a più tempestose cure, fu poi
specchio di tanta virtù e segno di così estrema disavventura. Il re
dolcemente parlò nel preambolo del suo decreto: desiderare, disse,
procurare ai suoi popoli ogni sorta di beni e di vantaggi, nè in altro
migliore modo saper ciò fare che col dar favore alle scienze ed alle
belle arti. Con queste dolcezze si preambolava in quelle volcaniche
terre ai crudi ed orrendi spettacoli che poscia le spaventarono ed
insanguinarono.

«Terza colonna del buon gusto italiano fu Carlo Goldoni. Quest'uomo
insigne parlava al popolo colle sue commedie scritte in istile
semplice e chiaro, il quale, abbenchè non sia notabile per eleganza
toscana, è nondimeno generalmente scevro dalla infezione forestiera.
Grande energia non aveva, nè di sali abbondava, o piuttosto i suoi
sali erano senza punte; perciocchè i motti ed i frizzi non possono
sorgere da quella lingua generale italiana ch'egli usava, ma solamente
da un dialetto. Ma molto maestrevolmente sapeva ei condurre le
passioni, e stringere e sciorre i nodi delle sue commedie. Siccome
tutto è naturalezza in lui, così venne in fastidio altrui quando
le esagerazioni dei grandi lanciatori di sentimenti e le caricature
flebili dei romanzieri inondarono il teatro. Ma stante che questa era
una malattia fuori di natura, fugace fu l'invasamento, ed odo con somma
contentezza che le commedie del Goldoni sono novellamente divenute care
al popolo italiano; il che veramente è segno di guarigione.

«Portato dal suo genio, costretto dalle sue condizioni, ei troppe cose
scrisse, e pel troppo scrivere diede talvolta nello slombato. Pure
si può con verità asserire, che fra tante sue commedie, dieci almeno
ve ne sono che toccano la perfezione e possono stare a paragone di
qualunque altra scenica composizione di questo genere di cui si vantano
le altre nazioni. Alcune poi da lui scritte in dialetto veneziano sono
da commendarsi non solamente per gli altri comuni pregi, ma ancora pel
brio, pei motti, per le arguzie, per le lepidezze, per le piacevolezze
e generalmente per lo stile festevole e gaio con cui le seppe condire.
Chi le legge sente un sollucheramento tale che non può essere maggiore,
ed uguaglia quello che l'uom pruova leggendo la Mandragora del
Macchiavello, o la Trinuzia del Firenzuola. Dal che si dimostra, che
se uguale vivacità non si rinviene nelle altre sue commedie, ciò non
da inettitudine d'ingegno, ma bensì dalla lingua che usava, proviene.
Tanto è vero che i dialetti soli possono dare il vero stile della
commedia! e se la Madragora e la Trinunzia tanto diletto ci danno, ciò
è perchè sono scritte nel dialetto toscano; che se colla pretesa lingua
generale d'Italia si vestissero, o in lei si traducessero, insulse e
noiose diventerebbono. Da ciò si vede che bel guadagno abbiano fatto
gl'Italiani coll'aver ricusato il dialetto toscano, anzi gridatogli
la croce addosso, come se ridicolo e degno di scherno fosse. Bene
con migliore senno si sono adoperati i Francezi, che hanno dato la
cittadinanza nella loro lingua generale al dialetto parigino per modo
che parte indivisibile di lei è divenuto; ond'è che i Franzesi possono
facilmente aver la buona commedia. Le piacevolezze parigine sono tali
in tutta la Francia mentre le piacevolezze toscane non sono intese o
sono schernite nelle altre parti d'Italia che Toscana non sono. Questo
è un male gravissimo, e che non è più atto a ricevere medicina, donde
nasce che gl'Italiani difficilmente possono avere la vera e buona
commedia che da tutta l'Italia sia intesa, prezzata e gustata. S'era
cercato un rimedio nei Zanni o bergamaschi o bresciani o veneziani
o bolognesi o piemontesi o milanesi o toscani o napolitani; rimedio
insufficiente, per verità, ma pure in certo modo rimedio. Ma anche
questo i moderni dottori nel loro alto sussiego, come se il ridere
fosse delitto, hanno sbandito.

«Goldoni fu autore, se altro mai, popolare; e lo scuotere che
faceva, non da acerba ed indecente satira o da sentimenti eccessivi
in alcun genere, imperò che ei fu castigatissimo, derivava, ma dal
toccare quella parte dell'animo che nella natura tranquilla e nobile
si ritrova. Ei fu principal cagione per cui il popolo italiano non
s'invaghì di certi scrittori di Italia che non erano contenti se
con pensieri forestieri non pensavano, se con lingua servile non
scrivevano. Ei fu principale operatore, onde la corruzione dai sommi
non scendesse agl'imi, e che il popolo si contenne nei confini del
vero, sincero e pretto italianismo. Ei fece maggior benefizio che il
mondo non crede.

«Dopo le malattie viene per l'ordinario il medico che le guarisce. La
leziosaggine che era prevalsa negli scritti, e la effeminatezza che
era entrata nei costumi fra gli alti e mezzani gradi della società
italiana, non ebbero più acerbo nè più forte nemico d'Alfieri. I tre
primi che abbiamo nominati, persuadevano gli animi e coll'esempio
allettavano affinchè al buon sentiero si riparassero; ma l'astigiano
poeta con una terribile sferza gli sforzava. Le debolezze e le
gonfiezze non avevano posa con esso lui, che d'animo gagliardo era,
e che se al sublime facilmente andava, il procedere più oltre e
precipitare nelle gonfiezze impossibile gli era. Vena sufficiente, anzi
abbondante aveva, ma non soprabbondante, onde in superflui rivi non si
spandeva. Ciò procedeva dalla gran forza per cui l'oggetto stringeva e
che padrone del tutto nel rendeva. Le foresterie poi aveva in odio così
per qualche avversione contro le persone che il rese sempre acerbo,
e non di rado ingiusto, come per amore verso le lettere italiane. Ma
siccome, usando fra i nobili piemontesi, egli era stato cresciuto ed
allevato negli usi, pensieri e fogge franzesi, e che poco innanzi che
a scrivere nell'italiana lingua si accingesse, più di franzese sapeva
che d'italiano, così è manifesto che, massime nei suoi primi scritti, a
stento dallo scrivere francescamente si allontanava; ed a gran fatica
al gusto italiano si avvicinava. Della quale pendenza pochi segni
per verità restarono nelle sue composizioni in versi, ma non pochi
in quelle di prosa, in cui si veggono mescolati spesse volte eleganti
fiorentinismi con isconci gallicismi.

«Ora questo grande Alfieri in tre modi giovò all'Italia, primamente
collo aver ritratto dai costumi femmenili, in ciò compagno di Parini,
chi n'era magagnato; secondamente coll'aver composto vere tragedie
e creato lo stile tragico italiano che prima di lui non si aveva;
terzamente coll'aver innamorata la nazione di sentimenti più alti e più
forti. La lunga pace di cui ella aveva goduto, poichè di lungi aveva
solamente sentito romoreggiare le armi, l'uso dei sonettuzzi e delle
novellette del sofà, la privazione in questo intervallo di tempo di una
forte apostolica voce che gli stimolasse, aveano talmente anneghittito
coloro che più per l'esempio potevano fra gl'Italiani, che nè
Metastasio, nè Goldoni, nè Parini, quantunque molto avessero operato,
erano stati bastanti a destargli onde più sonnacchiosi non fossero e
mogi. Uno sdegno acerbo, un'ira feroce, una ferrea ed indomabile natura
era richiesta alla grande redenzione. Sorse allora, come per sovrumana
provvidenza, la possente voce d'Alfieri che intuonò dicendo: Italiani,
Italiani:............................... lasciate i giardini, correte
alle zolle; lasciate l'ombra, andate al sole; vigili le notti passate,
le donne come compagne, non come signore accettate, i fanciulli non
nelle acque odorose, ma nei freddi e puri laghi, ma nell'onde stesse
del terribile Stige tuffate; indurate i corpi al dolore, indurategli
alla fatica....

«Così andava per gl'italiani campi Vittorio Alfieri, moderno Dante,
Petrarca redivivo gridando. Furono i suoi detti come il lucente
specchio a Rinaldo. Visto i molli abiti e gl'imbelli costumi,
sorse vergogna, vergogna senso di risorgente natura, vergogna
segno di rinascente virtù...................................
.......................... A tale sacerdozio fu chiamato Alfieri, e
bene il compì.

«Bene il compì ancora colle sue tragedie; per mezzo loro, non con le
brache del medio evo, ma colla romana toga volle vestire gl'Italiani.
Tal è il loro fine ed effetto. Quanto all'arte, io trovo che elle
sono sempre energiche e profonde, come son nei passi più patetici le
tragedie inglesi, altrettanto regolari quanto sono sempre le franzesi,
ma che nel medesimo tempo fuggono le cose plebee che troppo spesso
contaminano le prime, nè mai danno nelle insulsaggini cortigiane che di
soverchio snervano le seconde. Beltà greca, beltà romana, e quanto vi
è di più alto nell'uomo, sempre e puramente splendono nelle alfieriane
tragedie, nè altro di moderno hanno se non la lingua in cui sono
scritte.

«Quanto alle passioni che dall'autore sono poste in opera, io non le
chiamerò nè antiche nè moderne, perciocchè elle sono di tutti i tempi,
nè credo che gli antichi altrimenti amassero od odiassero, sperassero
o temessero di quello che noi altri moderni facciamo. Quando io vedrò
nascere gli uomini senza occhi e senza naso, crederò che sono cambiate
le passioni. Voglio dire che siccome la natura esteriore ha le sue
leggi immutabili, così le ha ancora l'interiore. Ciò dimostra eziandio
il grande effetto che le tragedie, di cui trattiamo, producono in
Italia quando bene recitate sono. La quale cosa succedere non può se
non quando le passioni rappresentate fanno correlazione e consentono
con quelle degli spettatori.

«Dal medesimo fatto nasce anche questo corollario, che non è punto
bisogno per iscuotere le anime di dare nel famigliare e nel plebeo;
nè io posso consentire con coloro i quali vorrebbono sbandire il bello
ideale. Non solo non posso accettare la loro opinione, ma me n'incresce
e sommamente me ne dolgo; perchè l'uomo solo è capace di creare colla
sua fantasia il bello ideale, e questa è la più magnifica prerogativa
ch'egli abbia e che dagli altri animali bruti principalmente lo
distingue. Parte anzi di questo bello ideale, ideale non è, nè tanto è
trista la umana natura che in alcuni tempi non abbia prodotto uomini
e fatti eroici e del tutto sopra l'uso volgare. Adunque questo bello
ideale veramente esiste e il rappresentarlo non è vizio. Quando però
egli in fatto eziandio non esistesse, bisognerebbe ancora crearlo
coll'immaginazione per rendere gli uomini migliori; posciachè niuna
cosa è che tanto sublimi l'uomo e dalla mondana feccia il ritragga
quanto la viva rappresentazione della natura eroica. Se il diventar
migliore è vizio, concorderò con gli avversarii che il bello ideale
ed eroico si cancelli e da ogni umano parto si rimuova, e che prosa e
poesia si ravvolgano nel lezzo di quanto il mondo ha di più sciocco, di
più goffo, di più vile, di più basso.

«Dicono alcuni che le scene plebee, siccome naturali, allettano
e divertono, e dal solo effetto che producono, qualunque ei sia,
giudicano del merito delle composizioni teatrali. Sì certamente, le
scene plebee e quelle della dimessa natura allettano e divertono;
anche Pulcinella in piazza alletta e diverte, e se uom uscisse per le
vie con le brache a rovescio, anch'egli alletterrebbe e divertirebbe.
Per questo s'han a proscrivere i maestri dell'alta virtù? per questo
da bandire i dimostratori d'una natura più sublime, più dignitosa,
più bella? Il teatro non ha da essere solamente divertimento, ma
debb'essere scuola, scuola da informar gli uomini alla virtù, da
accendergli di sdegno contro il vizio, da sollevargli dal terreno lezzo
alla celeste purità, da nodrire l'angelica favilla ch'è in lui, da
rompere la indegna scorza che la soffoca e comprime. Se alcune moderne
composizioni o piuttosto slavature facciano questi effetti, lascio che
giudichi il lettore. L'andar terra terra non può riuscir ad altro che
al lasciarci terra terra.

«Ora chi mai meglio dell'Alfieri seppe pingere al vivo queste
allettatrici scene di un mondo migliore? Chi mai diede maggiormente
questi stimoli ad innalzarsi come aquile in un puro firmamento?
Certamente nissuno. Chi mai meglio di lui seppe fare la ipotiposi
delle miserie che nascono per fato contro gli innocenti, o di quelle
che materialmente caggiono su gli uomini malvagi? Certamente nissuno.
Chi mai meglio di lui trovò le vie per muovere od a compassione
od a terrore? Certamente nissuno. Nè ciò fece con mezzi plebei o
meccanici, mezzi usati da chi sterile l'immaginazione ed il cuore
secco ha, ed oltre le consuetudini del volgo non sa innalzarsi, ma
colla rappresentazione vera delle alte umane passioni, nè mai volle
trasportare le bettole sulle tragiche scene. Brevemente, e coi soggetti
che sceglieva e col modo col quale li trattava, chiamava continuamente
gl'Italiani a più sublimi regioni. Il tenergli rasenti le paludi
ripugnava al suo generoso e forte animo, ripugnava alla virtuosa
missione cui s'era addossata. Se animi forti più nella seconda metà
del secolo decimottavo che nella prima sorsero in Italia, da Alfieri
massimamente debbesi riconoscere il beneficio. Ciò non fecero pe' tempi
loro e per le loro nazioni nè Shakspeare, nè Racine, nè Schiller, che
semplici autori tragici furono, certamente sommi, ma non maestri di
alto pensare e di alto fare, non caldi sacerdoti della loro patria per
sollevarla e farla amare, come il poeta italiano fu. Solo ad Alfieri
ed a Sofocle ciò fu dato, ma maggiore merito acquistò l'Italiano che il
Greco............................ .....................................
Tali sono le obbligazioni che gl'italiani hanno ad Alfieri, e bene in
Santa Croce di Firenze l'Italia piange sulla sua tomba.

«Evvi chi pretende che i caratteri de' personaggi d'Alfieri sono tirati
ed esagerati. Certo sì sono per chi va e vuole andar terra terra; e chi
smaccato, e snervatello, e sdolcinato, e molle..... è, non vada dove
si rappresentano. Chi grida contro le alferiane tragedie, e dell'alto
fare di questo sommo tragico si dinoccola, e delle slavature moderne
si diletta, non è degno............, imperocchè nel suo freddo cuore
nissuna scintilla di generoso italiano fuoco v'è. La nobile Italia,
quanto alla letteratura.... è, per opera di alcuni spiriti, non so
se mi debba dire più ambiziosi o più servili, immersa in chimere
stillate da sottilissimi lambicchi ed in un mare di foresterie.....
Costoro corrompono la sanazione fatta dai quattro sommi uomini di cui
trattiamo. La sola differenza che passa tra i servi d'oggidì ed i servi
della seconda metà del secolo decimottavo in ciò consiste, che questi
desumevano lingua, stile e pensieri da una sola fonte di foresteria,
quelli gli desumono da due o tre..... ......................... Oh,
quando mi porterà la fama il desiato suono che gli Italiani, deposta
l'ennucheria, creano da sè e non vanno più in cerca d'idee d'oltremare
ed oltremonti! Oh Alfieri, Alfieri dove sei? Per me io credo, anzi
certo sono, che finchè si va pel sentier delle scimie, non vi può
essere.... nè letteratura, nè lingua italiana.

«Dello stile d'Alfieri quindi favellando, diremo che in esso due
qualità si ravvisano, la novità e, con pochissime eccettuazioni,
la purezza; la quale purezza non di rado va sino all'eleganza.
Prima dell'Alfieri non aveasi stile tragico. Le tragedie scritte
nel decimosesto secolo sono, per rispetto dello stile, così deboli
ed imperfette che senza noia non si possono nè leggere nè sentire.
Questa parte fu la meno lodevole di quel secolo, che in tutte le altre
a così grande altezza si sollevò. Maffei diede un passo più avanti
verso l'eletta maniera, ma restò a mezza strada, contento allo avere
piuttosto indicato che fatto; poco o nulla si fece dopo il Maffei
che una nuova vena aprisse. L'Italia giaceva, quanto alla tragedia,
in grado inferiore a comparazione delle altre nazioni. Alcuni anzi
affermavano, non essere la lingua capace di stile tragico.

«Queste bestemmie andavano pel mondo quando levossi dal Piemonte
subitamente un grido, esservi nato un grande poeta. Ad alcun debole
sperimento successero compiute vittorie. A nobili pensieri vidersi
congiunte nobili parole, e la pietà e il terrore eccitarsi con voci
ora compassionevoli, ora terribili, ma tutte italiane, non cavate
dai romanzi francezi o dal vocabolario della plebe. Brevità vi si
scorge, e più ancora fa pensare che non dice, onde nasce che le
alfieriane tragedie ricercano abili attori. Sublime è lo stile,
ma molto diversamente dal lirico e dall'epico procede; essa è una
sublimità tutta sua e di novità perfetta. Certamente nissuno scrittore
ebbe mai, se Dante si eccettua, uno stile tutto suo proprio e di suo
genere quanto Alfieri. Nissun prima di lui avrebbe potuto sospettare
che la italiana lingua potesse in quel suono parlare. L'esempio
d'Alfieri pruova ch'ella è capace di rendere tutti i suoni senza
che sia necessario andare accattando vocaboli e frasi da lingue
forestiere. Grande era in questo la servilità degli scrittori italiani;
profondo il male; una forte scossa era richiesta per iscuoternegli e
guarirgli. Alfieri questa scossa diede, ed ei solo forse era capace
di darla. Diedela col tenace volere, diedela coll'ostinato studio,
diedela con quell'alta capacità del fare che dal cielo aveva sortito.
Da lui impararono gl'Italiani quanto possa una volontà forte e
l'amore di una lingua che per esprimere qualunque affetto a nissuna è
seconda. La purificazione della lingua non potè Alfieri intieramente
effettuare, perchè all'inondazione dei libri forestieri successe poscia
l'inondazione delle persone forestiere che la principiata guarigione
interruppe, ed anzi la dannosa consuetudine raffermò. Ma pure i semi
da lui gettati fruttificarono, e, mercè sua, resta ancor acceso l'amore
della bella lingua, e gl'Italiani dalle caligini levandosi, ai puri ed
intemerati antichi candori s'innalzeranno.»

Ora in quella innondazione delle persone forestiere dall'illustre qui
sopra indicata, accennata si trova la novella era d'Italia della quale
al principio del presente anno abbiamo toccato e la causa donde ebbe
a derivare. Noi la percorreremo quest'era, con quelle che vi furono
inondazioni di eserciti forestieri, arsioni di città, rapine di popoli,
devastazioni di provincie, sovvertimenti di Stati, e fazioni, e sette,
e congiure, ed ambizioni crudeli, ed avarizie ladre, e debolezze di
governi effeminati, e fraudi di reggimenti iniqui; e sfrenatezze di
popoli scatenati, con eguale sincerità raccontando le cose liete, utili
e grandi che fra tanti lagrimevoli casi si operarono. Ma perchè possa
essere appieno apprezzata la compassionevol trama di tanti accidenti di
cui la memoria sola ancora ci sgomenta, forza è segnare il punto donde
si parte, e bene chiarire le cagioni donde la spinta ne venne.

L'Europa conquistata dai re barbari fu data in preda ai capitani loro,
uomini e terre cadendo in potestà di questi. Così se ai tempi romani le
generazioni erano partite in uomini liberi e schiavi, ai tempi barbari
furono divise in conquistatori e servi: tale è l'origine degli ordini
feudali. Teodorico, re dei Goti, moderò una tal condizione coll'avere
instituito i municipii; poi gli ecclesiastici diventati ricchi fecero
ordine e mitigarono, dividendola o contrastandola, l'autorità feudale;
così sorsero gli ordini, o stati, o bracci, che si voglian nominare
della nobiltà, del clero e dei comuni. Carlo V gli spense nella Spagna,
ma non potè nelle isole d'Italia; i Borboni li conservarono in Francia,
servendosene più o meno, secondo i tempi. Nell'Italia, divisa in tanti
Stati e sì spesso preda di principi forastieri che, a fine di tenerla,
accarezzavano pochi potenti per assicurarsi dei più, l'autorità
municipale, se si eccettuano alcune antiche repubbliche, si mantenne
più ristretta, la feudale più larga. Ciò quanto allo Stato; rispetto
poi ai particolari, restavano ancora non pochi vestigii dell'antico
servaggio, tanto circa le cose, quanto circa le persone. Di questi,
alcuni andarono in disuso per opinione de' popoli o per benignità
de' feudatarii; altri furono aboliti dai principi; dei superstiti, il
secolo di cui abbiamo veduto il fine, volea l'annullazione.

Nè in questo si contenevano i desiderii dei popoli. Volevasi una
egualità quanto alla giustizia e quanto ai carichi dello Stato; nella
quale inclinazione concorrevano non solamente coloro ai quali questa
equalità era profittevole, ma eziandio la maggior parte di quelli
che si godevano i privilegii. Dire poi, come alcuni hanno scritto e
probabilmente non creduto, che si volesse una equalità di tutto ed
anche di beni, fu improntitudine d'uomini addetti a sette, soliti
sempre a non guardar quel che dicono, purchè dicano cose che possano
infiammare i popoli e farli correre alle armi civili. Queste erano
le quistioni dei diritti; e sarà da quinc'innanzi cosa luttuosa al
pensarci e degna di eterne lagrime che col progresso di tempo siansi
alle quistioni medesime mescolate certe altre astrattezze e sofisterie
che insegnarono alla moltitudine il voler fare da sè, quantunque si
sapesse che la moltitudine commette il male volentieri e si ficca anche
spesso il coltello nel petto da sè: tanto i moti suoi sono incomposti,
i voleri discordi, le fantasie accendibili, e tanto ancora sopra di lei
possono più gli ambiziosi che i modesti cittadini.

L'ordine ecclesiastico era già trascorso, non già nel dogma che sempre
rimase inconcusso, ma bensì nella disciplina. Dolevansi che gli utili
operai della vigna del Signore fossero poveri, mentre gli altri, se
vivevano nella ricchezza, della quale talora anche abusavano, dolevansi
essere i primi insufficienti per numero o per mala distribuzione delle
cariche, i secondi troppi; dolevansi di certe pratiche religiose che
si parevano più utili a chi le promoveva che decorose pel divin culto,
mentre per queste era pur troppo scemato maestà e frequenza alle più
gravi e necessarie solennità della Chiesa: con che davasi a dire agli
empi ed agli accattolici.

Ma ben altri discorsi si facevano, massimamente in Italia, i quali
tutti nascevano da quella inclinazione del secolo favorevole ai più.
Era stata soppressa la società di Gesù. Vedeva il sommo pontefice
Clemente XIV che lo spegnere i Gesuiti era un privare la evangelica
vigna della più efficace cooperazione che si avesse; con tutto ciò non
potè resistere alle esortazioni ed alle minaccie di tanti principi
potenti di forze, e più formidabili per concordia. Pure stette
lungo tempo in forse; finalmente consentì, poi fra breve si pentì.
Ma seguitonne maggior effetto che il papa ed i principi non avevano
creduto; poichè ne sorse più viva nel corpo della Chiesa la parte
popolare. Parlossi di doversi ridurre alla semplicità antica la Chiesa
di Cristo; allargare l'autorità dei vescovi e dei parrochi; scemar
quella del pontefice sommo. Le querele che risuonarono già fin dai
tempi antichissimi contro Roma, rinnovellavansi ed andavano al colmo.
Le dottrine di Porto-Reale si diffondevano; coloro che lo mantenevano
erano in molta autorità presso il popolo, perchè risplendevano, non per
oro nè per corredi, ma per dottrina, per austerità di costumi e per una
certa semplicità di vita che ai non accetti altamente imponevano.

Inclinazioni di tal sorte piacevano a più principi; e queste massime
trovavano disposizioni favorevoli nell'opinione dei popoli, e però
più profonde radici mettevano. Così uno spirito stesso e circa le cose
civili e circa le ecclesiastiche andava insinuandosi a poco a poco in
tutte le parti del corpo sociale. Ciò non ostante, se molti pensavano
a riforme, niuno pensava a sovvertimenti; nè alcuno ambiva di far
da sè, ma ognuno aspettava dal tempo e dalla sapienza dei principi
temperamento alle cose e compimento a' desiderii.

Venendo a' particolari, in proposito di riforme sarebbe da cominciare
da un nome imperiale, da Giuseppe II. Ma e di lui, e delle sue virtù,
e delle azioni sue abbiano già detto quanto può forse bastare negli
anni precedenti; il perchè basterà qui il riepilogare in brevi parole
il già detto. Molto viaggiò Giuseppe, non per pompa, ma per conoscere
le istituzioni utili e i bisogni dei popoli; i casolari dei poveri
più aveva in cale che gli edifizii dei ricchi; nè mai visitava il
bisognoso, che nol consolasse di parole ed ancor più di fatti. Protesse
con provvide leggi i contadini dalle molestie dei feudatarii, opera già
incominciata dalla sua madre augusta Maria Teresa; gli ordini feudali
stessi voleva estirpare, e fecelo. Volle che si ministrasse giustizia
indifferente a tutti; là creava spedali, ospizii, conservatorii ed
altre opere pie; qua fondava università di studii; i giovani ricchi
d'ingegno e poveri di fortuna in singolar modo aiutava. Ai tempi suoi
e per opera sua lo studio di Pavia sorse in tanto grido che forse
alcun altro non fu mai sì famoso in Europa. Lo studio medesimo empiè
di professori eccellenti in ogni genere di dottrina, cui favoriva con
premii, e non avviliva colla necessità dell'adulazione. Nè contento a
questo, fondò premii per gli agricoltori diligenti, ed aprì novelle vie
al commercio per nuove strade, per nuovi porti, per abolizione delle
dogane interne; non mai in alcun altro paese o tempo furono in così
grande onore tenuti, come in Italia sotto Giuseppe, gli scienziati che
sollevano ed i letterati che abbelliscono la vita incresciosa e trista.
Mandovvi altresì, qual degno esecutore de' suoi consigli, il conte
di Firmian, sotto la tutela del quale la Lombardia Austriaca venne a
tanto fiore che stiam per dire che in lei verificossi la favolosa età
dell'oro. Quanto alle instituzioni ecclesiastiche, dichiarò Giuseppe
la religione cattolica dominante, ma volle che si tollerassero tutte;
comandò ai vescovi che niuna bolla pontificia avessero per valida,
se non fosse loro dal governo trasmessa; statuì che gli ordini dei
religiosi regolari non dai loro generali residenti a Roma, ma bensì
dal superiore ordinario, cioè dal vescovo, dipendessero; abolì i
conventi che gli parvero inutili, lasciando sussistere fra le monache
solamente quelle che facevano professione di ammaestrar le fanciulle;
eresse nuovi vescovati, accoppionne altri; fondò poi un numero assai
considerabile di parrocchie, sollecito della instruzione di tutti i
fedeli.

Anco di Leopoldo di Toscana abbiamo narrato quanto bisognava e sì di
recente che il tenerne nuovamente discorso sarebbe oziosa replica.
Ma non così degli altri italiani Stati, intorno a' quali, ben che
qua e colà siasi all'evenienza parlato, rendesi di tutta necessità
divisare a parte a parte la loro attuale condizione, senza che, niuna
concatenazione avrebbero i fatti che verranno in appresso.

Essendo il re Carlo di Borbone salito sul trono di Spagna nel 1750,
cedè il regno delle Due Sicilie a Ferdinando IV, suo figliuolo
secondogenito, costituito allora nella tenera età di nove anni. Creata
prima di partire la reggenza, pose per moderatore della giovinezza
del nuovo re il principe di San Nicandro, il quale, privo di ogni
sorte di lettere, non potendo insegnare altrui quello che non sapeva
egli medesimo, insegnò al regio alunno la pesca, la caccia ed altri
cotali esercizii del corpo. Di questi si invaghì Ferdinando che
ne prese poi in tutti i tempi di sua vita grandissimo diletto. Ma
crebbe poco instrutto di ciò che importa alla vita civile ed al
governo degli Stati; pure amava chi sapeva e di consigliarsi con
loro. Piacque alla fortuna, qualche volta pure favorevole ai buoni,
che a quei tempi avesse grandissima introduzione e principal parte
nei consigli napolitani il marchese Tanucci, uomo dotto, di libera
sentenza, mantenitor zelante delle prerogative reali ed avverso alle
immunità, massime in materie criminali. Dava il re facile orecchio
alle parole sue; però il governo del regno procedeva con prudenza e con
dolcezza. Speravasi qualche moderazione al dispotismo feudale, che in
nissuna parte d'Italia erasi conservato più gravoso che in quel regno,
principalmente nelle Calabrie. I baroni, possessori dei feudi, nemici
egualmente dell'autorità regia e del popolo, quella disprezzavano,
questo aggravavano. Oltre i soliti bandi della caccia, della pesca,
dei forni, dei mulini, essi nominavano i giudici delle terre, essi i
governatori delle città; per loro erano le prime messi, per loro le
prime vendemmie, per loro le prime ricolte degli olii, delle sete e
delle lane; per loro ancora i dazii d'entrata nelle terre, i pedaggi,
le gabelle, le decime ed i servigi feudali. In somma erano i popoli
vessati, l'erario povero, l'autorità regia manca. Sì fatte enormità,
tanto discordanti dal secolo, non potevano nè sfuggire a Tanucci, nè
piacere ad un re di facile e buona natura. Però con apposite leggi
furono moderate. Inoltre Tanucci chiamò i baroni alla corte; il che fu
cagione che, raddolciti i costumi loro, diventarono più benigni verso i
popoli.

Quanto agli Stati esteri, questo ministro, amico a tutti, pendeva
per la Francia: ciò spiacque a Carolina d'Austria, fresca sposa di
Ferdinando. Fu dimesso Tanucci, e surrogati in suo luogo, prima il
marchese della Sambuca, poi Acton.

Pure le salutari riforme si continuarono; parecchi privilegi baronali
furono aboliti, i pedaggi soppressi, migliori speranze nascevano
dell'avvenire. Gli animi si mostravano disposti. Aveva Filangeri
filosofo pubblicato i suoi scritti, nei quali non sapresti dire se
sia maggiore la forza dell'ingegno o l'amore dell'umanità. Erano con
incredibile avidità letti e con grandissime lodi celebrati da tutti.
Sorse allora universalmente un più acceso desiderio di veder lo Stato
ridotto a miglior forma. Volevasi una libertà civile più sicura, una
libertà politica maggiore, una tolleranza religiosa più fondata. Nè
a questa inclinazione dei popoli contrastava il governo non ancora
insospettito della rivoluzione di Francia.

Nel regno di Napoli specialmente più si desideravano le riforme,
perchè maggiori radici avevano messe le generose dottrine, massime fra
i legisti. Gran confusione ancora era nelle leggi: vivevano tuttavia
quelle degli antichi Normanni, viveano quelle dei Lombardi, nè le leggi
dei due Federici, nè le aragonesi, nè le angioine, nè le spagnuole, nè
le austriache erano del tutto dimesse. Quindi niun diritto in palese,
nè niuna lite terminabile. La gravità del male faceva più desiderare il
rimedio, principalmente negli ordini giudiziali, per le dette ragioni
imperfettissimi.

Ma queste cose meglio si conoscevano per dottrina che per esperienza;
desideravasi qualche saggio pratico della utilità loro. Aveva il re,
mentre viaggiava in Lombardia, visitato le cascine, per cui tanto
sono celebrate le pianure del Parmigiano e del Lodigiano. Piaciutegli
opere tali, ne fondò una a San Leucio, luogo poco distante da Caserta.
La colonia cresceva. Gli amatori delle riforme tentarono Ferdinando,
dicendo che poichè era stato il fondator di San Leucio, fossene
anche il legislatore; e l'ottennero facilmente. Statuì il re delle
leggi della colonia, per cui venne a crearsi nel regno uno Stato
indipendente, di cui solo capo era il re. Dichiarossi la colonia
indipendente dalla giurisdizione ordinaria, e solo soggetta ai capi
di famiglia ed agli anziani di età; gli atti appartenenti alla vita
civile, massime al matrimonio, reggevansi con forme e regole speciali,
ogni cosa in conformità delle dottrine di Filangeri. Con queste
leggi particolari prosperava dall'un canto continuamente la colonia,
dall'altro il re vieppiù se n'invaghiva, e vedutone il frutto in
pratica, diventava ogni dì meno alieno da quei pensieri che gli si
volevano insinuare. Appoco appoco si distendevano nel popolo, ed il
desiderio di nuovi ordini andava crescendo, parendo ad ognuno che
quello che per l'angustia del luogo era fino allora utile a pochi,
sarebbe a tutti, se con la debita moderazione a tutti si estendesse.

Questi consigli tanto più volentieri udiva Ferdinando, quanto più
coloro che glieli porgevano erano i più zelanti difensori contro
chiunque dell'autorità e dignità sua. Già s'era Tanucci dimostrato
molto operativo intorno alle controversie romane. Già, per consiglio
suo, erasi soppresso il tribunale della nunziatura in Napoli, a cui
erano chiamate in appello avanti il nunzio del papa tutte le cause
nelle quali qualche ecclesiastico avesse interesse; fu anche troncato
ogni appello a Roma. Era Tanucci stato anche autore che la corona di
Napoli, e non la santa Sede, nelle vacanze dei benefizii nominasse
i vescovi, gli abbati e gli altri beneficiati, che la presentazione
della chinea il giorno di san Pietro in un'offerta di elemosina si
cangiasse, che il nuovo re non s'incoronasse per evitar certe formalità
che si usavano fin dai tempi dei re Normanni, e che la sovranità romana
sul regno indicavano. Per consiglio suo medesimamente s'era diminuito
il numero dei religiosi mendicanti, e soppressa la società di Gesù.
Parlossi inoltre di rendere i regolari indipendenti dai generali loro
residenti a Roma, e d'impiegar una parte dei beni della Chiesa per
allestire un navilio sufficiente di vascelli da guerra.

Tutte queste novità non si potevano mandar in esecuzione senza querele
dalla parte di Roma; infatti elle furono molte. Così sorsero nel regno
molti scrittori a difesa della libertà e della indipendenza della
corona. I fratelli Cestari risplendevano fra i primi: si accostò a loro
il vescovo di Taranto; ma vivi soprattutto si dimostrarono coloro che
desideravano un governo più largo, proponendosi in tal modo e ad un
tempo medesimo di difendere la dignità della corona, e di combattere le
prerogative feudali. Ciò andava a' versi a Ferdinando non in pace con
Roma; però ogni giorno più si addomesticava con loro, e li vedeva e gli
udiva più volentieri. S'aggiunse che Carlo di Marco, uno dei ministri
del re, uomo di non poca dottrina, dava lor favore, per quanto spetta
alle controversie con Roma.

Tale era lo Stato del regno di Napoli, in cui si vede, come abbiamo
già altrove notato, che i medesimi tentativi si facevano che nella
Lombardia Austriaca ed in Toscana circa la disciplina ecclesiastica,
ma con maggior ardore, a cagione delle controversie politiche con
Roma. Rispetto poi alle riforme nelle leggi civili, vi s'era anche
incominciato a por mano, ma con minor efficacia, perchè Acton non se
n'intendeva e ripugnava; ed il re, occupato ne' suoi geniali diporti,
amava meglio che altri facesse, che far da sè. Da ciò nasceva che gli
umori non si sfogavano, ed il negato si appetiva più avidamente.

La Sicilia, parte tanto essenziale del regno di Napoli, si reggeva
con leggi particolari. Da tempi antichissimi ebbe un parlamento
di tre camere dette bracci, ch'erano gli ordini dello Stato. Una
chiamavasi braccio militare, o baronale; in questo sedevano i signori
che avevano in proprietà loro popolazioni almeno di trecento fuochi.
L'altra intitolavasi braccio ecclesiastico; entravano in questo tre
arcivescovi, sei vescovi e tutti gli abbati, ai quali il re conceduto
avesse abbazie. La terza aveva nome camera demaniale; era composta dai
rappresentanti di quelle città che non appartenevano ai baroni, e che
demaniali si chiamavano, cioè del dominio del re. Perciocchè due sorte
di città avea la Sicilia, baronali e libere; le prime erano quelle
che stavano soggette ad un barone, le seconde quelle che dipendevano
immediatamente dal re, e si reggevano con le proprie leggi municipali.
Accadeva spesso che un solo barone avesse più voti in parlamento,
per essere feudatario di più terre. Lo stesso accadeva, e per la
medesima ragione, degli ecclesiastici; lo stesso ancora dei deputati
delle città, dando più città il mandato ad una persona medesima.
Capo del braccio baronale tenevasi il barone più antico di titolo,
dell'ecclesiastico l'arcivescovo di Palermo, del demaniale il pretore
della medesima città: adunavasi anticamente il parlamento ogni anno.
Prima di Carlo V faceva le leggi, dopo venne ridotto a concedere i
donativi.

Da questo si vede che il nervo principale del parlamento siciliano
consisteva ne' baroni, perchè più ricchi erano e più numerosi. Ma ben
maggiore era la potenza loro nelle terre, a cagione de' privilegi
feudali. Rimediovvi in parte Caraccioli, vicerè; pure i vestigii
feudatarii v'erano ancora gravi. Del resto, le opinioni del secolo poco
avevano penetrato in quella isola; ma quello che non dava l'opinione il
potevano dare facilmente gli ordini dello Stato.

Questa che abbiamo raccontata era la condizione del regno delle
Due Sicilie verso l'anno 1789; ma poco diversa appariva quella
del ducato di Parma e Piacenza, dove, come a Napoli, regnava la
famiglia de' Borboni di Spagna. Anche in questi luoghi vedevasi
sorta una maggior perfezione del vivere civile, e le contese con la
Sedia apostolica pel medesimo fine delle investiture avevano aperto
il campo ad investigazioni del solito effetto. Quando l'infante
don Filippo governava il ducato, era in lui grande l'autorità del
Franzese Dutillot, il quale, nato di poveri parenti in Baiona, era
salito per la virtù sua al grado di primo ministro. Era stato appunto
mandato Dutillot dalla corte di Francia al duca Filippo, acciocchè lo
consigliasse intorno agli affari che correvano con la corte di Roma,
temendosi che, in quella nuova possessione del ducato, ella volesse
dare qualche sturbo in virtù de' diritti di superiorità sovrana che
pretendeva in quello Stato. Per verità, se grande fu la fede che la
Francia ed il duca Filippo ebbero in Dutillot, non furono minori la sua
destrezza e la prudenza. Chiamò a sè i più famosi ingegni d'Italia,
tra i quali non è da tacersi il teologo Contini, uomo dottissimo
nelle scienze canoniche, ed il Turchi, cappuccino di molte lettere,
di notabile eloquenza; e tanto per opera di Dutillot si dirozzarono i
costumi di quella bella parte di Italia, e tanto vi prosperarono le
buone arti, che il regno di don Filippo ebbe fama del secolo d'oro
di Parma. Certo, città nè più colta nè più dotta di Parma non era
a que' tempi, nè in Italia nè forse anche altrove. Crearonsi, per
consiglio del Paciaudi, a questo fine chiamato da Roma, più perfetti
ordini nell'università degli studii, un'accademia di belle arti, una
magnifica libreria; e perchè con gli ordini buoni concorressero i buoni
insegnamenti ed i buoni esempi, vennervi, chiamati da diversi paesi,
oltre Paciaudi e Contini, anche Venini, Derossi, Bodoni, Condillac,
Millot, Pageol. Fra i buoni esempi Dutillot medesimo non era degli
ultimi, scoprendosi in lui decoro, facondia, cortesia, e tutte quelle
parti che a perfetto gentiluomo si appartengono: arricchivasi al tempo
stesso ed abbellivasi il ducato per manifatture o fondate o ristorate,
per edifizii, per istrade, per pubblici passeggi. Così passò il regno
di don Filippo assai facilmente sotto la moderazione di Dutillot.

Morto poi nel 1765 il duca Filippo, e devoluto li ducato nel duca
Ferdinando, ancor minore d'età, Dutillot continuò a governare lo Stato
con la medesima sapienza. A questo tempo sorse una grave controversia
tra il governo del duca e la corte di Roma; imperciocchè, avendo il
duca mandato fuori una sua prammatica intorno alle mani morte, ed un
editto che le obbligava al pagamento delle gravezze pubbliche, il papa
Clemente XIII pubblicò in Roma un breve monitorio, con cui dichiarò
nulle quelle ordinazioni sovrane di Parma, come provenienti da autorità
non idonea a farle, e lesive deil'immunità ecclesiastica, ammonendo
eziandio che tutti coloro che cooperato vi avevano erano incorsi
nelle censure ecclesiastiche, da cui non potessero essere assolti
in nissun caso, eccettuato in punto di morte, se non da lui stesso o
dal pontefice che dopo di lui sulla cattedra di san Pietro sedesse.
Dutillot difese con non ordinaria franchezza e prudenza il diritto
sovrano del duca, alla quale difesa diedero non poco favore molti
scritti pubblicati da uomini dotti in tale proposito.

Questi accidenti concitarono contro Dutillot l'odio e le arti della
parte avversaria già entrata molto addentro nella buona grazia del
giovinetto principe. Ciò non ostante, in tutto il tempo in cui questo
fu minore di età, non perdè il ministro dell'autorità sua. Quando poi,
giunto all'età di diciotto anni, assunse il governo, s'indrizzarono
i suoi pensieri ad altro fine. Perchè, congedato Dutillot, il
principe si governò intieramente al contrario di prima. Il tribunale
dell'inquisizione fu istituito in Parma, ma mostrò mansuetudine; nè
aspro fu il reggimento del duca; le tasse assai moderate. Era molesto
a molti il rigore eccessivo che si usava per far osservare certe
pratiche di esterior disciplina: in questo i popoli non potevano dire
del principe che altro suono avessero le sue parole ed altro i fatti;
poichè ei dava le udienze in sagrestia, ei cantava coi frati in coro,
egli addobbava gli altari, ei suonava le campane, egli ordinava i
santi nel calendario dell'anno. Mentre il duca pregava, il popolo si
erudiva, nè Parma perdette il nome che si era acquistato di città dotta
e gentile.

Sedeva a questi tempi, come già sappiamo, sulla cattedra di san Pietro
il sommo pontefice Pio VI, destinato dai cieli a sostenere il colmo
della prospera e dell'avversa fortuna. Il suo antecessore Clemente
XIV, da povero fraticello salito, per le virtù sue, alla grandezza
del papato, aveva in tanta sublimità conservato quella semplicità di
costumi e quella modestia di vita, alle quali nella solitudine dei
chiostri s'era avvezzato. Ciò parve a molti, in una Roma, nel primo
seggio della cristianità, cosa altrettanto intempestiva e pericolosa
quanto era in sè lodevole e virtuosa. Il perchè i cardinali, morto
Clemente, elessero papa il cardinal Braschi, che già fin quando era
tesoriere della camera apostolica aveva mostrato in tutte le azioni non
ordinario splendore. Veramente erano in lui, forse più che in altr'uomo
de' suoi tempi, molto notabili l'eccellenza delle forme, la facondia
del discorso, la finezza del gusto, la grandezza delle maniere,
procedendo in ogni affare con tanta grazia giunta a tanta maestà, che
e la venerazione verso la persona sua, ed il rispetto verso la Sede ne
venivano facilmente conciliati. Queste erano le qualità di papa Pio.
Circa i costumi, e' furono, non che non meritevoli di riprensione,
degni di lode; e certe voci corse in questo proposito, piuttosto alla
malvagità de' tempi che seguirono, che a verità debbonsi attribuire.

Ognuno crederà facilmente che un pontefice di tal natura doveva
altamente sentire dell'autorità sua e delle prerogative della Sedia
apostolica. Nè mancavano incentivi a queste inclinazioni. Covava allora
fra' cardinali più dotti, più operativi, più esperti, un disegno d'una
suprema importanza per l'Italia, e quest'era di ridurla unita sotto un
governo confederato, di cui fossero parte tutti i principi italiani,
e capo il sommo pontefice. Principal autore di questo consiglio era il
cardinal Orsini, uomo di natura piuttosto strana che no, ma dottissimo
in materia canonica, ed assai caldo zelatore delle prerogative romane;
se ad altri pareva che Gregorio VII avesse troppo detto e troppo
fatto, pareva all'Orsini ch'ei non avesse nè detto nè fatto abbastanza.
Pure, siccome da cosa nasce cosa, se il pensiero dell'Orsini circa la
lega italica fosse stato ridotto in atto, avrebbe partorito effetti
importanti, e dai papi potuto nascere la salute d'Italia.

Ma non potendo Pio allargare, come avrebbe voluto, nè il dominio nè
l'autorità, perchè l'opinione era contraria, cercò di acquistar fama
di splendido sovrano. Debbesi per prima e principal opera mentovare il
prosciugamento delle paludi Pontine, se non a final termine condotto,
certamente per la maggior parte eseguito con ispesa tanto enorme
rispetto a Stato sì angusto, con costanza tanto mirabile che pochi
esempii si leggono nelle storie degni di egual commendazione. Quattro
fiumi, l'Amazeno, l'Uffente, la Ninfa e la Teppia non trovando sfogo al
mare verso Terracina, sono principalmente cagione dell'impaludamento.
Rapini, ingegnere di grido, preposto da Pio alle opere, cavata la linea
Pia, condusse le acque al mare pel portatore di Badino, cavò l'antico
fiume Sisto, alveò l'Uffente e l'Amazeno. S'abbassarono le acque, si
scoversero i terreni, i colti si mostrarono dov'erano le paludi, la via
Appia restituita ai viandanti. Tale fu l'opera egregia di Pio VI.

Non dismostrossi minore l'animo del pontefice negli ornamenti aggiunti
all'antica Roma. Edificò la famosa sagrestia a lato alla chiesa di
San Pietro, opera certamente di molta magnificenza, ma forse di troppo
minuta e troppo vaga architettura, se si paragona al grandioso stile
della basilica di Michelangelo. Dolsersi anche non pochi, che, per
fondare questo suo edifizio, abbia il papa ordinato che si atterrasse
l'antico tempio di Venere, al quale Michelangelo aveva avuto tanto
rispetto, che solo il toccarlo gli era paruto sacrilegio. Bellissimo
pensiero di Pio altresì fu quello di persuadere come aveva fatto
già, fin quando esercitava l'ufficio di uditore del camarlingo, a
papa Clemente, di ornar il Vaticano con un sontuoso museo, il quale
poi condotto a maggior grandezza da lui dopo la sua esaltazione,
fu chiamato Pio-Clementino. Lo arricchì con gran numero di statue,
busti, bassorilievi ed altre anticaglie di gran pregio. Come nobile
fu l'intento suo nel fondar il museo, così nobile del pari fu il suo
consiglio di volerne tramandare con eccellente rappresentazione di
scritture e di figure la memoria ai posteri. Nè fu meno commendabile
l'esecuzione; imperciocchè, affidatane la cura, quanto alle figure, a
Lodovico Mirri, e quanto ai commenti, ad Ennio Quirino Visconti, ne
sorse quella bella descrizione del Museo Pio-Clementino, una delle
opere più perfette che in questo genere sieno.

Così cresceva Roma sotto Pio in bellezza ed in isplendore ogni giorno;
così, visitata dai più potenti principi d'Europa, lasciava in loro
riverenza e maraviglia; i popoli mossi da sì sontuosi apparati non
rimettevano di quella venerazione che avevano sempre avuto verso
la Sedia apostolica. Quanto alle nuove dottrine filosofiche, che
parlavano tanta umanità, poche radici avevano messe in Roma; non che
i gentili pensieri non vi fossero graditi, ma perchè gli autori loro,
mescolando, come facevano, tempi dissomigliantissimi, ed attribuendo
a certi effetti cagioni non vere, troppo in sè stessi si compiacquero
di condannar le romane cose. Tal era Roma, tanto sempre a sè medesima
conforme, ritraendo sempre in ogni fortuna di quella grandezza che per
ispecial privilegio del cielo pare in lei congenita e naturale.

Mentre così in varie parti d'Italia più o meno si cancellavano per
benefizio dei principi o per ammaestramento dei buoni scrittori, la
vestigia che i tempi barbari avevano lasciato nelle instituzioni dei
popoli e che evidentemente vi si procedeva verso un vivere sociale più
generoso e più mite, poco o nissun cambiamento si osservava in altre
parti della medesima provincia. La monarchia piemontese era la più
ferma di tutte le monarchie, poichè in lei non si videro mai, come in
tutte le altre, o rovine nella casa regnante o rivoluzioni di popoli.
Del quale privilegio, se si vorrà ben dentro considerare, apparirà
prima e principal cagione, essere la potestà assoluta del principe
giunta con un uso moderato della medesima. Poi mancavano le occasioni
della ambizione dei potenti; perciocchè trovandosi il Piemonte posto
tra la Francia e l'Austria, altro non avrebbe partorito l'ambizione
di un potente, anche fortunata, che render sè ed il paese suddito o
dell'una o dell'altra; nè mai chi avesse voluto imitare un duca di
Braganza avrebbe potuto venir a capo della sua impresa. S'aggiunse
che i principi di Savoia governarono sempre gli eserciti loro da loro
medesimi, nè potevano sorgere capitani di gran nome che potessero, non
che distruggere, emulare la potenza dei principi.

Da questo e dagli eserciti molto grossi nacque la maravigliosa
stabilità della monarchia piemontese. Ne procedette, oltre a ciò, in
quello Stato un'opinione generale stabile, che, da generazione in
generazione propagandosi, rendè questa monarchia somigliante, alle
repubbliche, nelle quali se cangiano gli uomini, non cangiano le
massime nè le opinioni. Adunque gli ordini antichi si erano conservati
intieri; le opinioni nuove poco vi allignavano.

Ciò non ostante, alcuni segni, sebben deboli, di cambiamento
si ravvisavano negli Stati del re di Sardegna, massimo circa la
ecclesiastica disciplina. Imperciocchè, tolte dal re Vittorio Amedeo II
le pubbliche scuole ai gesuiti, e fornita l'università degli studii di
ottimi professori, incominciarono le dottrine dell'antichità cristiana
a diffondersi. I tre bibliotecarii dell'università, Pasini, Berta e
Pavesio, uomini di molto sapere e pietà, promossero lo studio delle
opere scritte dai difensori di quelle dottrine, e Vaselli ne arricchì
la libreria del re.

Regnava Vittorio Amedeo, terzo di questo nome, principe di animo
generoso, di vivo ingegno e di non ordinaria perizia nelle faccende di
stato. Contaminava la sua buona natura un amore eccessivo della gloria
militare: quindi ordinò e mantenne in piè un esercito grosso fuor di
misura; il che rovinò le finanze che tanto fiorivano a tempi di Carlo
Emmanuele suo padre, sparse largamente nella nazione la voglia delle
battaglie, e diè favor eccessivo e potenza ai nobili soli ammessi a
capitanar le soldatesche. Ognuno voleva essere, ognuno imitar Federigo
re di Prussia. Certamente, se immortali lodi si debbono a Federigo per
aver difeso il suo reame contra tutta la Europa, gran danno ancora
le fece per avervi introdotto coll'esempio suo un eccessivo umor
soldatesco, ed aver messo su eserciti. Gli altri potentati, o per
fantastica imitazione, o per dura necessità, furono costretti a far
lo stesso; poi venne la rivoluzione di Francia che dilatò questa peste
ancor di vantaggio, poi sorse Buonaparte che la portò agli estremi, ed
altro non mancherebbe alla misera Europa, per aver la compita barbarie,
se non che ella facesse marciare, a guisa degli antichi Galli e Goti,
coi combattenti anche i vecchi, le donne ed i fanciulli.

Ma, tornando a Vittorio, tanto era in questa bisogna infatuato che
soleva dire ch'ei faceva più stima d'un tamburino che d'un letterato,
benchè poi riuscisse miglior che di parole; perciocchè i letterati
accarezzava e premiava, ed usava anche con loro molto famigliarmente.
Ma le armi prevalevano; quindi non solamente fu dissipato il tesoro
lasciato da Carlo, ma i debiti dello Stato, non ostante che le
imposizioni si aggravassero, tanto s'ammontarono che sommavano in
questo anno a meglio di cento milioni di lire piemontesi, che sono
più di cento milioni di franchi. Le cariche civili ed ecclesiastiche
conferivansi solo ai nobili ed agli abbati di corte. Ad una generazione
di magistrati integerrimi e capaci, e di vescovi santi e dotti,
successero qualche volta magistrati e vescovi poco atti a ben reggere
gli uffizii loro.

Pure fiorivano le scienze; fiorivano anche, ma non tanto, le lettere.
Quanto alle contese circa l'ecclesiastica disciplina fra il romano
pontefice ed i principi di casa austriaca, il re Vittorio avea, per
amor di quiete, ordinato che mai non si parlasse o scrivesse nè pro
nè contro la bolla _Unigenitus_, nè mai si trattasse dei quattro
capitoli della Chiesa gallicana; che anzi, siccome questi articoli
erano apertamente insegnati e costantemente difesi nell'università di
Pavia dopo le riforme fattevi da Giuseppe II, aveva, a petizione del
cardinale Gerdil, proibito che i sudditi suoi andassero a studiare
in questa università. Ma tali opinioni più pullulavano quanto più si
volevano frenare.

Se la monarchia piemontese era la più ferma delle monarchie, la
repubblica di Venezia era la più ferma delle repubbliche. Coloro, i
quali, credono essere le repubbliche varie e turbolente, potran vedere
nella veneziana una repubblica più quieta di quante monarchie sieno
state al mondo, eccetto solo quella del Piemonte. Passò gran corso
di secoli senza turbazioni; fu percossa da potentissime nazioni,
da Turchi, da Germani, da Franzesi; trovossi fra guerre atroci, fra
conquiste di popoli barbari, fra rivoluzioni orribili di genti; Roma
stessa fulminava contro di lei. Pure conservossi non solo salva in
mezzo a tante tempeste, ma nemmeno ebbe bisogno di alterar gli ordini
antichi. Tanto perfetti erano i medesimi, e tanto s'erano radicati
per antichità! Pare che più sapiente governo di quel di Venezia non
sia stato mai, o che si riguardi la conservazione propria, o che si
miri alla felicità di chi obbediva. Per questo non vi sorsero mai
parti pericolose; per questo certe nuove opinioni non vi si temevano.
Solo pareva meritevole di biasimo quel tribunale degl'inquisitori di
Stato, per la segretezza e per la crudeltà dei giudizii; pure era volto
piuttosto a frenare l'ambizione dei patrizii che a tiranneggiare i
popoli. Nè sola Venezia ebbe inquisitori di tal sorte, perchè i governi
che non gli hanno per legge stabile, se li procurano per abuso; e non
sapresti se muovano più al riso o allo sdegno certuni che tanto rumore
hanno levato contro il tribunale suddetto, e che anche presero pretesto
da lui di distruggere quell'antica repubblica. Del resto la provvidenza
di lei era tale che e l'umanità vi trovava luogo, e le gentili
discipline vi si proteggevano. Ma la lunga pace vi aveva ammollito gli
animi, e se vi rimanevano gli ordini buoni, mancavano uomini forti per
sostenerli. Diminuita la potenza turchesca, e composte a quiete le cose
d'Italia, perchè accordate, rispetto al ducato di Milano ed al regno
di Napoli, tra Francia, Austria e Spagna, posò intieramente le armi la
repubblica, e credette colla sola sapienza civile potersi preservar
salva ne' pericoli, che radi ancora si rappresentavano. Ma vennero
certi tempi strani, in cui la sapienza civile non poteva più bastare
senza la forza, troppo rotti e troppo enormi dovevano essere i moti;
la sapienza civile stessa era venuta in derisione. Così Venezia verso
l'anno presente stimata da tutti, temuta da nissuno, se era capace di
risoluzioni prudenti, non era di risoluzioni gagliarde; l'edilizio
politico vi stava senza puntello: una prima scossa il doveva far
rovinare.

Assai diversa da questa mostravasi, quanto al vigore degli animi, la
condizione della repubblica di Genova. Nissun popolo si è veduto meno
da' suoi maggiori degenerato del genovese. Fortezza d'animo, prontezza
di mente, amore di libertà, attività mirabile, civiltà ancor mista
con qualche rozzezza, ma da mollezza esente; un osare con prudenza, un
perseverare senza ostinazione, ogni cosa insomma ritragge ancora in lui
quel popolo che resistè ai Romani, battè i Saracini, pose agli estremi
Venezia, distrusse Pisa, conquistò Sardegna, produsse Colombo e Doria,
cacciò dalla sua città capitale i soldati forastieri; e se i destini
in questi ultimi tempi non fossero stati tanto contrarii alla misera
Italia, forse i Liguri avrebbero lasciato al mondo qualche bel saggio
di valore e di virtù. Ma parlossi d'indipendenza colla oppressione e di
libertà colla servitù, e gli animi distratti fra dolci parole e tristi
fatti, non poterono nè accendersi al bene, nè vendicarsi del male. Era
in Venezia un acquetarsi abituale alla sovranità dei patrizii, perchè
era non solamente non tirannica, ma dolce, e perchè era da principio
presa e non data. Era in Genova un vegliare continuo, una gelosia
senza posa nell'universale verso la sovranità de' nobili, non perchè
tirannica fosse, ma perchè era stata non presa da chi comandava, ma
data da chi obbediva. La lunga quiete aveva fatto posar gli animi in
Venezia: le sette, la fazioni e le parti, ora rompendo in manifesta
guerra civile, ora sottomettendo la patria ai forestieri, avevano
mantenuto in Genova gli animi forti e le menti attente. Era nel paese
veneziano gran ricchezza con ampio territorio e fertile; era nel
Genovesato gran ricchezza con angusto territorio e sterile; perciò là
si poteva conservare l'acquistato posando, qua bisognava conservarlo
operando. Era in Venezia chiuso ai plebei il libro d'oro; era in Genova
aperto, possente stimolo a chi aveva avuto più amica la natura che
la fortuna. Sicchè non dee far maraviglia, se risplendeva Venezia più
per delicatezza di costumi che per forza, e se, pel contrario, era più
cospicua in Genova la forza che la delicatezza. Quanto alle opinioni,
quelle relative allo Stato poco sapevano di cambiamento, quelle
relative alle ecclesiastiche discipline, assai. Quindi Porto Reale era
in favore e molto largamente si pensava. Tal era Genova, non cambiata
dai secoli, e le antiche querele sulla natura de' suoi abitatori al
molto amor patrio suo non gradito ai forastieri piuttosto che a verità
debbonsi attribuire.

Se Venezia dimostrava quanto possa per la felicità de' popoli e per
la stabilità degli Stati l'aristocrazia temperata dal costume; se
Genova c'insegnava quanto possa pel medesimo fine la maniera stessa di
governo temperata dal costume e dalla gelosia del popolo; dimostravalo
Lucca con l'uno e con l'altro, e di più col freno di una sottile
investigazione sul procedere tanto dei nobili quanto dei popolari.
Era in Lucca quest'ordine, che chiamavano _discolato_, e rappresentava
l'antico ostracismo d'Atene e la censura di Roma, che quando alcuno,
o nobile o popolano si fosse, trascorreva i limiti della modestia
civile o de' costumi buoni, tosto tenevasi discolato, scrivendo ciascun
senatore il suo nome in sur una polizza; e se venticinque polizze il
dannavano in tre discolati successivi, ei s'intendeva mandato a confine
o in esilio. Tenevasi il discolato ogni due mesi: il che era gran
freno agli uomini ambiziosi e scorretti. Pure, siccome sempre il male è
vicino al bene, quella continua e minuta inquisizione, col timore che
ne nasceva, rendeva di soverchio gli uomini sospettosi e guardinghi;
perfino l'onesta piacevolezza era sbandita dal conversare lucchese, ed
una terra oltre ogni creder dolce e gioconda era abitata da gente grave
e contegnosa.

Nè minor gelosia era verso i giudici; quindi si chiamavano dall'estero;
poi, deposto il magistrato, si sottomettevano a sindacato o, vogliam
dire, ad esame: seduti in luogo pubblico, poteva ognuno accusarli di
gravame; commissarii espressi tenevano registro, e facevano rapporto
al senato, che giudicando assolveva o condannava. Così erano in Lucca
giudizii integerrimi, primo e principal fondamento alla contentezza de'
popoli.

Ma se vi si dava ad ognuno il suo, vi si largiva il necessario al
bisognoso; perchè a chi voleva aprir traffichi, o era stato danneggiato
dalle stagioni, si fornivano o danari dall'erario o generi dai
magazzini del comune. Così mite provvido e largo era il reggimento
di Lucca. Così ancora facilmente si vede che nei paesi d'Italia non
soggetti agli ordini feudali, erano state ordinate la giustizia e la
franchezza, non impronte e superbe favellatici come in altri paesi,
ma fondate su buoni statuti, sull'assenza di eserciti esorbitanti,
sulla modestia di chi reggeva, sulla natura sottile ad un tempo ed
assennata degl'Italiani. Che poi questi ordini fossero perfetti per
fondare una compita franchigia, nissuno s'ardirà di dire. Ma dove sia
questo genere di perfezione, niuno il sa; poichè nè anche vuol credersi
che sia dove le soldatesche sterminate possono conquistare e recare a
servaggio, non che la patria, una ed anche più parti dei mondo. Che se
poi solo ed unicamente si volesse giudicare della bontà de' governi,
argomentando dall'infrequenza de' delitti, certamente si affermerebbe
i governi di Venezia, di Genova, di Lucca e di Toscana, essere stati
i migliori. Va con questi, se però non è superiore per bontà, quello
della repubblica di San Marino. Vive da dodici secoli la repubblica
di questo nome appena nota al mondo per fama. Quivi virtù senza fasto,
quiete senza tirannide, felicità senza invidia; quivi nobiltà solo per
chiarezza di natali, non per diritti oltraggiosi, nè per privilegii, nè
per desiderio di dominazione; quivi popolo occupato ed industrioso, e
come fra i nobili temperati, così nè irrequieto nè tirannico. Fortunate
sorti, per cui, tolta l'ambizione dalle due parti, solo rimasero gli
effetti conservatori della società. Rovinavano per lunghi anni intorno
a San Marino i regni, rovinavano le repubbliche, si straziavano gli
uomini per civili e per esterne guerre: sul Titano monte perseverarono
i Sammariniani in tranquillo stato ed amici di tutti: dall'alto e dal
sereno miravano le tempeste. Volle l'ambizione moderna introdursi in
quei placidi recessi, ma fu l'opera indarno, come sarà a suo luogo
raccontato: l'inveterato e dolce aere resistette al pestilenziale
soffio. Un consiglio di sessanta nominato primitivamente da' capi di
tutte le famiglie adunati in generale congresso, o, vogliam dire, a
parlamento, e che chiamavano aringo, poi rinnovellato da sè stesso a
misura delle vacanze, e due consoli semestrali col titolo di capitani
del comune reggono lo Stato. Hanno i capitani la facoltà esecutiva;
avevano anche anticamente, a norma degli antichi consoli di Roma, parte
della giudiziale, ma questa poi cesse ad uomini chiamati dall'estero
dal consiglio sotto nome di podestà; rimase ai capitani l'ufficio di
paciali. Sono i capitani, e così ancora i podestà, per gli atti del
loro uffizio soggetti al sindacato, che è il modo della legge delle
obbligazioni, o, come dicono i Franzesi, della risponsabilità, trovato
dagl'Italiani per la guarentigia dei dritti. L'equalità civile consola
San Marino, i costumi il conservano, la povertà sicuro scudo contro i
forastieri. Nulla ei desidera negli altri, nulla gli altri desiderano
in lui, perchè i buoni hanno a schifo i vizii, la quiete non piace ai
turbolenti, nè la libertà ai corrotti.

Regnava in Modena il duca Ercole Rinaldo d'Este, ultimo rampollo
d'una casa da cui l'Italia riconosce tanti benefizii di gentilezza, di
dottrina e di lettere, come se fosse ordinato dai cieli che non solo
ogni reggimento italiano, ma ancora ogni sangue sovrano, eccetto quel
di Piemonte, dovessero andare spenti nei calamitosi tempi che vedemmo.
Era il duca Ercole principe degno de' suoi maggiori, se non che forse
la sua strettezza nello spendere era tale che sapeva di miseria. Pure
dubitar si potrebbe se tale qualità in lui si debba a vizio od a virtù
attribuire; perchè se dagli eventi giudicar si dovesse e dalla natura
sua, ch'era previdentissima, sarebbe degno anzi di lode che di biasimo.
Certo era in lui maravigliosa la previdenza, e non saprebbesi se i
posteri crederanno, perchè ciò solo a rinomati filosofi fu attribuito,
quando si dirà che il duca Ercole con chiaro ed evidente discorso
predisse, parecchi anni prima del presente anno il sovvertimento di
Francia e la rovina d'Europa. Aggiunse con voce ugualmente profetica
che la Francia perderebbe la sua preponderanza, che tutte le potenze
si sarebbono collegate contro di lei, e che nissuna l'avrebbe aiutata.
Principe buono ed avverso agli ordini feudali, affermava ch'essi erano
più funesto flagello all'umana generazione, che la guerra e la peste,
nè mai comportò ai nobili le insolenze. Principe religioso, seppe tener
in freno anche il clero, perchè e voleva intiero il dominio de' suoi,
e si ricordava di Ferrara. Fiorirono meravigliosamente a tempo suo le
lettere in quella parte di Italia: finì la casa d'Este simile a lei,
nell'antico costume perseverando.

Ora, per raccogliere in poco discorso quello che siamo andati
finora largamente divisando, si vede che se apparivano in Italia
desiderii di riforma, non apparivano semi di rivoluzione; che questi
desiderii risguardavano parte lo Stato politico, parte la disciplina
ecclesiastica; principalmente un'evidente impazienza vi era sorta
di quanto rimaneva degli ordini feudali. Più principi mostrarono di
volere, e mandarono ad effetto non poche riforme; il che fece nascere
generalmente desiderio e speranza di veder condotta a compimento la
macchina delle istituzioni sociali. Tutte queste cose assecondava
la filosofia tanto squisita di que' tempi, non quella turbolenta e
sfrenata che non si intende come alcuni chiamino filosofia, ma quella
che desiderava maggior moderazione ne' potenti e maggior felicità nei
deboli. In ciò volle supplire la filosofia, e fecelo, finchè uomini
senza freno, di lei troppo enormemente abusando, empierono il mondo di
sterminii e di sangue. A questo, erano in alcuni luoghi della penisola
uomini rozzi, ma forti, in altri uomini gentili, ma deboli; di nuovo,
in alcuni armi deboli, ma opinioni tenaci, in altri armi forti, ma
eccessive, e, per questo medesimo che eccessive erano, non sufficienti.
Del resto, se erano in Italia desiderii buoni, non erano ambizioni
cattive; non solo non vi si aveva speranza, ma nè anco sospetto di
rivoluzione, e gli italiani hanno natura tale, che, se van con impeto,
maturano con giudizio.

Tale era Italia quando, giunto il secolo verso l'anno 1789 che andiam
discorrendo, si manifestarono in Francia, provincia solita a muovere
co' suoi moti tutta l'Europa, inclinazioni e cambiamenti di grandissimo
momento. Destarono queste novità diverse speranze e diversi timori
in Italia, secondo la diversità degli ingegni e delle passioni. In
questi crebbero le speranze, in quelli i timori; in alcuni cominciarono
a sorgere le ambizioni: i principi si ristettero dalle riforme per
sospetto, i popoli più le desideravano per esempio: tutti credettero
che per la vicinanza de' luoghi, per la frequenza del commercio, per la
comunanza delle opinioni, novità di una suprema importanza avverrebbero
di qua, come già erano avvenute di là de' monti. Ma è d'uopo entrare
in qualche particolarità sulle rivoluzioni in Francia, loro cagioni ed
effetti, per comprendere quello che ne derivò pegli altri paesi.

Le mutazioni fatte in Italia da principi eccellenti non partorirono che
bene; quelle fatte da un principe giusto e buono in Francia non solo
non fruttificarono quel giovamento ch'ei s'era proposto, ma originarono
ancora orribili disgrazie. Della qual differenza chi voglia investigar
le cagioni, avrà a considerar in primo luogo le opinioni ed i costumi
che prevalevano a quei tempi in quel regno, poi le leggi che il
governavano, e finalmente lo stato dell'erario.

Quello spirito di benevolenza verso l'umana generazione, il quale
era prevalso in Europa a questi tempi, aveva messo più profonde e più
larghe radici in Francia che in qualsivoglia altra provincia, sì perchè
dalla Francia medesima, quasi da fonte principale, derivava, sì perchè
la civiltà degli uomini in questo paese era molt'oltre proceduta,
e sì finalmente perchè, essendo essi d'indole volubile, fan nascere
spesso le mode ed i tempi, ed i tempi poscia li governano. Così era
allora tempo d'umanità; e siccome questa è una nazione che, per la
prontezza della mente e per la grandezza dei concetti, dà facilmente
negli estremi così nel bene come nel male, e sempre si governa
coi superlativi, così questa universale benevolenza era diventata
eccessiva, estendendosi anche a certi fini che toccano la radice del
governo, e ciò non senza pericolo dello Stato; poichè, se è necessario
allettar gli uomini con l'amore, è anche necessario frenarli col
timore, più potendo in loro l'ambizione e le altre male pesti, che non
la gratitudine.

In tale disposizione d'animi non solo erano divenuti più che non
fossero mai stati odiosi i residui degli ordini feudali, ma ogni
leggier freno che dal governo venisse era riputato duro e tirannico.
Da questo procedeva che con riforme utili si desideravano anche riforme
disutili o pericolose.

Queste opinioni recavano possente incentivo da quelle che s'erano
formate e sparse ai tempi della ultima guerra d'America, sì
opportunamente intrapresa e sì generosamente condotta dalla Francia:
esser doni volontarii le contribuzioni dei popoli; dover essi e
della necessità loro e della quantità giudicare; esser la nobiltà non
necessaria, anzi pericolosa allo Stato; il re capo, non sovrano; il
clero consiglio, non ordine, e richiamavanlo alla semplicità antica; la
religione dover esser libera. A questo aggiungevasi una tale tenerezza
per gli oppressi, che, se mancavano i veri, si cercavano i supposti,
per isfogar la piena di tanto amore, poichè ogni punito ed ogni imposto
riputavansi oppressi, ed un gran di sale che si pagasse, faceva sì che
si gridava tirannide. Le ambizioni si mescolavano alle dolci affezioni,
ed alcuni fra i popolani, vedendosi favoriti dall'opinione; volevano
diventar potenti, con salire alle dignità ed alle cariche dello Stato.

Queste erano le improntitudini popolari; ma la ferita era ancor più
grave, e più dentro penetrava nelle viscere dello Stato; conciossiachè
coloro fra i nobili che avevano militato in America, eransi lasciati
ridurre sì per l'esempio, e sì ancora sospinti da un'illusione
benevola, credendo che un'americana pianta potesse portar buoni frutti
in un terreno europeo non adatto ad opinioni più favorevoli ai popoli
che non alla corona; ed, oltre alla egualità dei diritti, desideravano
l'introduzione di qualche ordine popolare nell'antica costituzione del
regno. Piacevano loro le forme della costituzione d'Inghilterra. Ciò
mise discordia fra la nobiltà, poichè alcuni fra i nobili opinavano
per la novità, alcuni per le antiche cose, e così s'indeboliva questo
propugnacolo della corona in un tempo in cui ella ne aveva più bisogno.

Ma i più fra quelli dei nobili che o per coscienza o per interesse
perseveravano nelle massime antiche, e rimanevano fedeli alla corona,
tale quale era durata tanti secoli, davano novella forza, certo per
orgoglio mal misurato, alla potenza popolare che sorgeva; imperciocchè
e più insolenti si mostravano nelle ville e castelli loro, e più
duramente esigevano gli abborriti diritti feudali, credendo con
maggior forza doversi tener quello che si temeva di perdere. Ciò tanto
maggiormente si osservava, e tanto maggior odio creava, che quella
parte dei nobili che inclinavano a novità, avevano i medesimi ordini
o intieramente dismessi o grandemente moderati, ed i restanti con
molta mansuetudine riscuotevano. L'odio saliva alla corona, perchè
questi nobili arroganti erano appunto quelli che facevano maggior
dimostrazione in favor delle prerogative e della potenza regia.

Nè queste erano le sole cagioni di novità. Certo è che i vizii
maggiormente allignano fra i grandi che fra il popolo, tale essendo
la natura umana, che tanto più si corrompe, quanto ha più modi di
corrompere e di corrompersi, nè bastano le gentili dottrine a raffrenar
questo impeto, poichè esse meglio servono di scusa che di freno. Quindi
era in Francia sorta fra i ricchi una tale dissolutezza di costumi,
che ne fu tolto alle persone loro quel rispetto che già avea tolto ai
loro diritti l'opinione. L'ozio, il lusso, i piaceri lascivi, i piaceri
infami erano giunti al colmo; nè alcuno era contento alla condizione
sua, che, nata l'ambizione, niuno voleva stare, ognuno voleva salire,
ed ogni modo era riputato buono, o di pecunia accattata e di meretrice
compra, o di bugia o di calunnia. Tanta era stata la mala efficacia
dei tempi della reggenza! Il vizio s'era introdotto nella corte stessa,
nè bastava, non dirò a sanar gli animi, ma a contenerli, l'esempio del
re, per verità di costumi integerrimi. Ma siccome i popoli credono che
le corti s'informino sul modello dei re, così i Franzesi, vedendo una
corte scostumata, rimettevano ogni giorno più di quell'amore che in
tutti i secoli hanno portato ai re loro.

Il perverso influsso era tale che ne furono contaminati anche coloro
che dovrebbero avere in sè più di sacro e di venerando; il perchè
scemava fra i popoli il rispetto verso la religione. In tal modo la
potenza, separatasi prima dalla virtù, separossi anche dal rispetto,
suo principal fondamento; la virtù medesima, sbandita dalla città e
dalle curie, ricoverossi fra i modesti presbiterii dei parrochi e fra
gli umili casolari dei contadini. Dal che ne nacque più forza alla
potenza popolare; perciocchè credessi là esser la buona causa dov'era
la virtù, e la cattiva dov'era il vizio.

A questo si aggiungeva che a gran pezza l'entrata non pareggiava
l'uscita dello Stato, deplorabile frutto dei concetti smisurati di
Luigi XIV, del voluttuoso vivere di Luigi XV, e del profuso spendere
della corte di Luigi XVI, ancorchè questo principe se ne vivesse per
sè molto parcamente. Questo difetto nell'entrata era giunto a tale sul
finire del 1786, ch'era per nascere una gran rovina, se presto non vi
si rimediava.

In cotal modo scomposte le cose, passata la forza dell'opinione dai
nobili ai popolari, dai ricchi ai poveri, dai prelati ai curati,
e mancato il denaro, principal nervo dello Stato, si vedeva, che
ove nascesse un primo incitamento, un grande sovvertimento sarebbe
accaduto. Nè la natura del re, dolce e buona, era tale che potesse dare
speranza di potere o allontanare o indirizzare con norma certa ed a
posta sua gli accidenti che si temevano.

Qui nacque un caso degno veramente di eterne lagrime, e pur non raro
nelle memorie tramandate dagli storici. Tanto è la natura umana sempre
più consentanea a sè stessa nel male che nel bene, e tanto sono cupe
le ambizioni degli uomini. Volevasi da tutti, come opinione portata
dai tempi, e come cosa utile e giusta, un'equalità civile, un'equalità
d'imposte, una sicurezza delle persone, una riforma negli ordini
giudiziali, una maggior larghezza nello scrivere. Era il re inclinato
ad accomodar le cose ai tempi, per quanto la prudenza e le prerogative
della corona, tanto salutari in un reame vasto ed in una nazione vivace
e mobile, il comportassero. Ma una setta composta principalmente dai
parlamenti, dai pari del regno, dai prelati più ragguardevoli, dai
nobili più principali, e secondata da un principe del sangue, del
quale se fu biasimevole la vita, fu ancor più lagrimevole il fine,
preoccuparono il passo, e vollero farsi capi e guidatori, dell'impresa.
In questo il pensier loro era di cattivarsi con allettattive parole
la benevolenza del popolo, e diminuire, con l'aumento della propria,
l'autorità della corona. Forse i primi e i principali autori di questo
disegno miravano più oltre, velando con parole denotanti amore di
popolo pensieri colpevoli di mutazioni nella famiglia regnante.

Quale di questo sia la verità, i capi di questa setta si prevalsero
molto opportunamente per arrivare ai fini loro, di un errore commesso
dal governo, il quale diede occasione alla resistenza loro e fu primo
principio di quel fatale incendio che arse prima il reame di Francia,
poi propagatosi per tutta Europa, vi trasse tutto a scompiglio ed
a rovina. Il re, in vece di cominciar l'opera dalle riforme tanto
desiderate del popolo, poi ordinar le tasse, volle principiare a por
le tasse, poi le riforme. Quindi l'amore cominciò a convertirsi in
odio; la setta nemica alla corona se ne prevalse. Adunque, avendo
egli pubblicato due editti, uno perchè si ponesse un'imposta sopra
le terre, l'altro perchè si ponesse una tassa sulla carta bollata,
il parlamento di Parigi, non solo fortemente protestò, ma, ancora più
oltre procedendo, ordinò che chiunque recasse ad effetto i due editti
fosse riputato reo di tradimento e nemico della patria. Questo era il
momento d'insorgere da parte del governo, e di dar forza alla legge,
e di aggiungere al tempo stesso qualche editto contenente riforme
e giuste per sè e desiderate dal popolo: ciò avrebbe preoccupato il
passo. Ma egli, rimettendo dall'opera sua, lasciò andar non eseguiti
i suoi editti. Quindi crebbe l'ardire del parlamento, che, volendo
usar l'occasione di guadagnarsi la grazia del popolo a diminuzione
dell'autorità regia, passò ad abbominare con pubbliche scritture e con
parole infiammative le incarcerazioni arbitrarie; poi statuì, annuendo
ad una convocazione degli Stati generali, non essere in facoltà sua, nè
della corona, nè di tutti due uniti insieme trar denaro dal popolo per
via di tasse; la sola volontà del re non bastare a far la legge, nè la
semplice espressione di questa volontà poter costituire l'atto formale
della nazione; essere necessario, a volere che la volontà del re debba
trarsi ad effetto, ch'essa sia pubblicata secondo le forme prestabilite
dalla legge; tali essere i principii, tali i fondamenti della
costituzione franzese; sapere il parlamento che si volevano sovvertire
i diritti pubblicati, per istabilire il dispotismo; la libertà comune
essere in pericolo; ma non volere nè poter a tali rei disegni dar
la mano, anzi volere opporsi, nè mai permettere che gli essenziali
diritti dei sudditi fossero conculcati e messi al fondo; poi, rivoltosi
al re, gl'intimò non isperasse di poter annullare la costituzione,
concentrando il parlamento nella sola sua persona.

Rispose risentitamente il re, che quello che s'era fatto, s'era fatto
secondo gli ordini fondamentali dello Stato; non s'intromettessero in
affari di governo, perchè di ciò non avevano autorità di sorte alcuna;
ch'erano i parlamenti del regno di Francia corti di giustizia abili
solo a giudicare in materie civili e criminali, ma non avere autorità
nè legislativa nè amministrativa; la volontà del re non potersi senza
pericolo nè senza un nuovo e funesto cambiamento nella constituzione
del regno soggettare a quella dei magistrati; se ciò fosse,
cambierebbesi la monarchia in aristocrazia di magistrati; badassero a
far il debito loro come giudici, e lasciassero il governo delle cose
pubbliche a chi per antica consuetudine e per costituzione l'aveva in
mano; considerassero quante leggi erano state fatte in ogni tempo dai
re di Francia, non solo senza il consenso, ma ancora contro la volontà
dei parlamenti; la registrazione non essere approvazione, ma solo
autenticazione, nè altro in questo fare i parlamenti, che le veci di
notai del regno; che quest'erano le forme, questi i precetti, ai quali
e' si dovevano conformare, e se nol facessero, si li costringerebbe.

Tal era la contesa nata in Francia fra il re ed i parlamenti circa le
prerogative e l'autorità della corona. Intanto ogni pubblico affare era
soprattenuto, perchè i parlamenti di provincia, come quello di Parigi,
o avevano cessato di per sè stessi l'ufficio, o erano dall'autorità
regia sospesi. Volle il re rimediare colla creazione della corte
plenaria, ma proruppe il parlamento in un'asprissima protesta;
protestarono i pari del regno; il clero stesso titubava.

Intanto uomini faziosi d'ogni genere, o stimolati espressamente
dei capi della parte dei parlamenti, o valendosi acconciamente
dell'occasione offerta dalla resistenza loro per macchinar novità,
andavano spargendo in ogni luogo semi di discordia e di anarchia.
Tumultuavasi a Grenoble, a Rennes, a Tolosa e in altre sedi di
parlamenti; orribili scritture uscite in Parigi chiamavano tiranno
il re, distruttore dei diritti del popolo, oppressore crudelissimo,
esortavansi le genti a levarsi, a disvelare e punir gli oppressori.

Avendo il re trovato, invece d'appoggio, opposizione e resistenza
nei parlamenti, nella nobiltà e in una parte del clero, dovette
necessariamente voltarsi verso il popolo, e fondar l'autorità sua
sulla potenza dei più, giacchè i pochi lo abbandonavano. Così era
fatale che le prime occasioni delle enormità che seguirono siano state
date da coloro ai quali più importava di evitarle, e che ne furono
alla fine le miserabili vittime. Adunque fu chiamato ministro il
Ginevrino Necker, e con lui altri personaggi consentanei al tempo. Si
sperava bene, il popolo esultava. Convocaronsi i notabili del regno,
convocaronsi gli stati generali. Prevalse in sul bel principio la
parte popolare, siccome quella, in favor della quale operavano i tempi.
Decretossi da prima, del qual consiglio fu autore Necker, fosse doppio
il numero dei deputati del terzo stato; poi sedessero i tre ordini,
non separatamente, ma in comune, poi si deliberasse, non per ordini,
ma per capi, il che diede del tutto la causa vinta ai popolari. Gli
ordini uniti presero il titolo di assemblea nazionale. Erano portati al
cielo: non si parlò più dei parlamenti, quantunque eglino con opportune
scritture si fossero sforzati di riguadagnarsi quel favore che per un
nuovo empito popolare s'era voltato all'assemblea.

L'assemblea nazionale, ottenuta la superiorità del terzo stato, abolì
l'inequalità delle imposte, poi i privilegii della nobiltà, poi quelli
del clero, poi la nobiltà ed il clero; ed aboliti la nobiltà ed il
clero, s'incamminava ad indebolire talmente l'autorità regia, ch'ella
non fosse più che un'ombra vana. Il benefizio della equalità era
solamente apprezzato dai buoni; i tristi usavano l'occasione dello
indebolimento del governo. I faziosi dominavano: l'autorità regia non
li poteva frenare, perchè scema di potenza e d'opinione; l'autorità
popolare non ardiva perchè parlavano in nome ed in favor del popolo. In
ogni luogo, sedizioni, incendii e rapine, morti funeste e modi di morte
più funesti ancora, uomini mansueti divenuti crudeli; uomini innocenti
cacciati dai colpevoli; uomini benefici uccisi dai beneficiati. Virtù
in parole, malvagità in fatti. Novelle strane si spargevano ogni
giorno, e quanto più strane, tanto più credute, e tosto si poneva
mano nel sangue o ad ardere i palazzi; nè il sesso nè le età si
risparmiavano; ad ogni voce che si spargesse, il popolo traeva, massime
in Parigi. In mezzo a tutto questo, atti sublimi di virtù patria e di
virtù privata, ma insufficienti pel torrente insuperabile e contrario.
Nè si vedeva fine agli scandali, perchè l'argine era rotto, e fin dove
avesse a trascorrere questo fiume senza freno, nissuno prevedeva.

In fine, dopo molti e varii eventi, l'assemblea con una cotal
costituzione che teneva poco del regio, meno ancora dell'aristocratico,
molto del democratico, rendè il re un nome senza forza; poi venne
l'assemblea legislativa, che il depose; poi il consesso nazionale che
l'uccise. Intanto uccisi o intimoriti i buoni, impadronitisi della
somma delle cose i tristi, la nazione franzese, non trovando più riposo
in sè stessa, minacciava, qual mare ingrossato dalla tempesta, di uscir
da' proprii confini, e di allagare con rovina universale l'Europa.



    Anno di CRISTO MDCCXC. Indizione VIII.

    PIO VI papa 16.
    LEOPOLDO II imperadore 1.


A dì 20 del mese di febbraio del presente anno cessò di vivere in
Vienna, nell'età di quarantanove anni, l'imperatore Giuseppe II,
dopo che i suoi eserciti impadroniti eransi di Belgrado, ed ebbe a
successore il fratel suo granduca di Toscana, sotto il nome di Leopoldo
II, principe filosofo e pacifico, che, sollecitato da una parte dalla
corte di Prussia, dall'altra dal bisogno de' suoi popoli, non tardò a
staccarsi dalla Russia ed a conchiudere una pace parziale coi Turchi.

In più luoghi di questi Annali si è accennato qual fosse il carattere,
quale l'indole, quale la condotta di Giuseppe. Tuttavia porta il pregio
di riferire un brano della Storia d'Italia del cavalier Bossi che in
questo modo riassume l'argomento:

«Abbiamo già notato come in mezzo ad uno zelo ardentissimo per lo
bene e la prosperità de' suoi popoli, non fosse stato dalla opinione
pubblica secondato ne' suoi vasti disegni d'innovazione e di riforma,
tanto nel sistema civile, quanto nell'ecclesiastico. Si dissero
talvolta troppo minuti i suoi regolamenti, troppo precipitose le
sue risoluzioni, soventi volte revocate o modificate, si dissero
troppo gigantesche le sue idee, le quali forse tendevano, al pari di
quelle di Caterina II, a cacciare i Turchi dall'Europa; ma sebbene la
riconoscenza de' popoli pari forse non si mostrasse alla sollecitudine
da esso impiegata nel procurare i loro vantaggi, glorioso nome lasciò
egli per la saviezza di molte leggi e di molti interni regolamenti,
per le sue grandiose istituzioni, per i suoi tentativi medesimi,
sempre diretti alla pubblica utilità ed allo stabilimento dell'ordine,
e grandissima lode ottenne per le sue virtù domestiche, per la sua
affabilità mantenuta costantemente anche col più minuto popolo, per
il disprezzo da esso mostrato verso il lusso e la vana ostentazione,
per il suo allontanamento dai pubblici omaggi, per la sua vita frugale
e laboriosa, per un infaticabile ardore di veder tutto egli stesso
e di informarsi di tutto, per la sua beneficenza verso i più miseri
e per l'attenzione sua continua nello indagare e nel ricompensare
il merito anche nascosto. Gli stranieri, forse più giusti dei di lui
sudditi medesimi, pubblicarono a gara i tratti segreti, o gli aneddoti
più gloriosi della sua vita, i quali provano l'elevatezza della di
lui mente e la professione continua delle massime filantropiche più
virtuose. Un problema politico assai curioso e singolare potrebbe
proporsi: quale andamento, cioè, pigliato avrebbe la rivoluzione
franzese, e quali ne sarebbero stati i risultamenti pegli altri Stati,
e specialmente per l'Italia, se Giuseppe II non fosse stato da immatura
morte colpito.»

Intanto, agli accidenti di Francia, cadevano nelle menti degli uomini
degli altri paesi di Europa varii pensieri. Da principio, quando solo
si trattava della opposizione nata fra il re ed i parlamenti, era sorta
un'aspettazione tuttavia scevra da timore. Ma quando vi si aggiunsero
le insolenze popolari, le rapine e le uccisioni continue, quando si
distrussero, e più ancora quando si schernirono i diritti sopra i quali
erano fondati gli ordini delle monarchie d'Europa, quando s'insultò
il re, quando mani scellerate cercarono la regina per ucciderla,
cominciò alla maraviglia a mescolarsi il timore. Finalmente quando alle
incredibili enormità si aggiunsero quelle compagnie raunate in Parigi
ed affratellate in tutta la Francia, le quali apertamente dichiaravano
volere, con portar la libertà, come dicevano, fra gli altri popoli,
distruggere i tiranni (che con tal nome chiamavano tutti i re),
il timore diventò spavento. Veramente uomini a posta scorrevano la
Germania, massime i Paesi Bassi, e pretendendo magnifiche parole a rei
disegni, insidiavano ai governi, ed incitavano i popoli a cose nuove:
si temeva che, per le sfrenate dottrine tutte le provincie s'empissero
di ribellione. Si aveva anche in Italia avuto odore di tali mandatarii;
i sospetti crescevano ogni giorno. Dava ancora maggior fondamento di
temere il sapersi che si trovavano in tutti i paesi non solo uomini
perversi, i quali pei malvagi fini loro desideravano far novità nello
Stato, ma ancora uomini eccellenti, che levati a grandi speranze dalle
riforme già fatte in que' tempi dai principi, e credendo potersi dare
una maggior perfezione al vivere civile, non erano alieni dal prestar
orecchie alle lusinghevoli parole. Il pericolo si mostrava maggiore in
Germania ed in Italia per la vicinanza de' territorii, per la facilità
e la frequenza del commercio con la Francia, e per la comunanza delle
opinioni.

Tal era la condizione de' tempi. In Italia, il re di Sardegna,
trovandosi il primo esposto, per la prossimità de' luoghi, a tanta
tempesta, aveva più che ogni altro principe cagione di pensare a
provvedere al suo Stato. Del che tanto maggiore necessità il premeva,
che non gli era nascosto che nella parte de' suoi dominii posta oltre
l'Alpi le nuove opinioni si erano largamente sparse, e ch'ella poco
attamente si poteva difendere dagli assalti franzesi, quando si venisse
a rottura di guerra con la Francia. Sapeva di più che i suoi Stati
erano principalmente presi di mira da quella compagnia di propagatori
di scandali che s'era unita in Parigi, secondochè sfacciatamente uno di
loro, favellando in pubblico, aveva predicato.

Per la qual cosa, veduto il pericolo imminente, coloro i quali
reggevano i consigli della corte di Torino, ristrettisi con gli
ambasciatori e ministri degli altri principi d'Italia, rappresentarono
loro che i casi avvenuti nel desolato reame di Francia davano giusta
cagione di timore per la quiete d'Italia; che l'assemblea nazionale,
acciocchè i principi europei non potessero voltare i pensieri loro
agli affari di Francia, pensava, per mezzo di seminatori di scandali
e di ribellione, a turbar la quiete altrui; che già i mali semi
incominciavano a sorgere, stantechè, sebbene fosse stato continuo il
vigilare del governo e continue le provvidenze date, non s'erano potute
evitare le compagnie segrete, ed anche alcuni, quantunque leggieri,
moti nel popolo; che tali ingratissimi effetti si dimostravano più
o meno nelle altre parti d'Italia; che, per verità, attentamente si
affaticavano in ogni luogo i principi per estirpare queste occulte
radici, per chiudere i passi ai malvagi mandatarii, per iscoprir le
congreghe segrete, per allontanar le turbazioni; ma non ravvisarsi
quale de' due alfine avesse a restar superiore, o la vigilanza de'
governi o la pertinacia de' novatori, se non si prendevano nuove e
più accomodate risoluzioni; che la necessità dei tempi richiedeva
che i principi d'Italia si stringessero in una lega comune a quiete e
difesa comune; poichè quello che spartitamente non avrebbero potuto
conseguire, lo avrebbero ottenuto per l'efficacia e pei soccorsi
comuni. Aggiunsero, che, per verità, questo disegno era già loro
venuto in mente da un pezzo, di tanta opportunità egli era; ma che
gli aveva ritratti dal proporlo il sapere, che Giuseppe, imperador
d'Alemagna, pareva volersi condurre ad assaltar con l'armi nel proprio
loro covile que' nemici della umanità e della religione; che ora,
cambiate le circostanze per la morte di Giuseppe, e volti i pensieri
di Leopoldo, suo successore, piuttosto a preservare e conservare il
proprio che ad assalire l'alieno, avvisavano esser tempo opportuno
di ordinare e di stringere i vincoli di una comune difesa; che già il
fuoco era vicino a consumare la Savoia; che il Piemonte era in procinto
di ardere; e chi avrebbe potuto prevedere le calamità d'Italia, se
non si spegnevano queste prime faville? che però, visti i pericoli sì
gravi e sì imminenti, il re giudicava doversi, più presto il meglio,
stringere una lega fra tutti i potentati d'Italia, non già diretta a
danno altrui, ma solo a preservazione propria, a tenersi guardati l'un
l'altro dalle insidie dei mandatarii franzesi, a mantener la quiete
negli Stati, a parteciparsi vicendevolmente le notizie sulle faccende
presenti, e ad aiutarsi con l'armi e coi denari, ove nascesse in questo
luogo od in quello qualche turbazione. Nè pretermisero i ministri sardi
di spiegar meglio quali dovessero essere i membri della lega, nominando
particolarmente il re loro signore, l'imperadore d'Alemagna, la
repubblica di Venezia, il papa, il re di Napoli ed il re di Spagna, per
la parte di Parma. Il re di Sardegna s'era chiarito per alcune pratiche
segrete della mente de' re di Napoli e di Spagna che acconsentivano
ad entrare nella lega; il papa vi si accostava ancor esso, come
quello che ardeva di sdegno a cagione delle innovazioni effettuate in
Francia circa gli interessi spirituali e temporali della religione.
Solo la repubblica di Venezia se ne stava sospesa, considerando
quanto questa lega, ancorchè apparisse pacifica e veramente difensiva,
avrebbe fatto ingrossar l'armi in Italia, e chiamato forti eserciti
di Alemagna, se le cose venute all'estremo avessero necessitato
l'esecuzione: cosa sempre, e non senza cagione, detestata da quella
repubblica. S'aggiungeva, che non avendo essa pur testè voluto
collegarsi con Giuseppe contro il Turco, naturale ed eterno nemico
dello Stato suo, del qual rifiuto ne aveva anche avuto le male parole
da quell'imperatore in Trieste, pareva enorme al senato lo stringersi
ora in alleanza con Leopoldo suo successore in un'impresa evidentemente
dirizzata, quantunque sotto parole velate, contro la Francia, amica
vera e necessaria della repubblica. Nè grande era il timore del senato
delle nuove massime franzesi; poichè la natura italiana molto eminente
negli Stati veneti efficacemente si opponeva alla loro propagazione;
poi le consuetudini da tempi antichissimi radicate nell'animo de'
popoli, e l'amore che portavano al loro governo, non consentivano; ma
erano continue e forti le istanze del re di Sardegna e degli altri
alleati, acciocchè il senato si risolvesse, perchè, se non avevano
molta fede nell'armi venete, avevano gran bisogno del nome e de' denari
della repubblica.

Miravano tutte queste pratiche ad introdurre in Italia le medesime
deliberazioni ch'erano state prese in Germania dall'Austria e dalla
Prussia dopo la morte di Giuseppe e l'assunzione di Leopoldo. Erasi
Leopoldo collegato con Federico Guglielmo di Prussia a sicurezza
comune contro gli appetiti immoderati di Caterina di Russia e contro le
vertigini della Francia. Ma questa congiunzione tendeva a difendersi,
non ad offendere; i trattati di Pavia e di Pilnitz, in cui si suppose
essere poi stata stipulata la guerra e lo smembramento della Francia,
furono trovati e menzogne politiche per apporre a Leopoldo risoluzioni
guerriere ed ostili che non lece, e per istimolare a maggior empito i
Franzesi, che già con tanto empito correvano.

Primo a risentire in Italia i danni della rivoluzione franzese fu il
papa. Una commozione in Avignone accaduta, e cui tornarono indarno
tutte le pratiche del vicelegato pontificio per sedare, non meno
che quelle d'uno special commissario colà dal papa spedito, terminò
colla dichiarazione della propria indipendenza che gli Avignonesi
fecero, in pari tempo a grandi istanze, chiedendo d'essere incorporati
alla repubbica franzese. Così cessò dopo quattro secoli e mezzo la
dominazione pontificia in Avignone.



    Anno di CRISTO MDCCXCI. Indizione IX.

    PIO VI papa 17.
    LEOPOLDO II imperadore 2.


Nel mese di marzo di quest'anno divenne Venezia albergo di molti
principi, che vi si trovarono uniti tutti ad un tempo stesso, cioè
l'imperatore Leopoldo II, sotto il nome di conte di Burgau, il re
e la regina di Napoli, il nuovo granduca e la nuova granduchessa di
Toscana, gli arciduchi Carlo e Leopoldo, palatino d'Ungheria, preceduti
dall'arciduca Ferdinando e dall'arciduchessa sua moglie. Se durante
la loro dimora festeggiati fossero gl'illustri personaggi, non è da
domandarsi a chi già sa con che magnificenza, con che splendidezza la
veneziana repubblica accogliesse nella sua capitale, ospiti graditi,
i principi ed i sovrani esteri. Balli, accademie, luminarie, regate,
e cent'altri passatempi, tutti sontuosi e ogni giorno svariati, si
succedevano l'uno all'altro, quasi direbbesi, senza interruzione. Al
che se aggiungasi lo spettacolo veramente imponente della città, regina
del mare, in sè medesima, colle cospicue sue fabbriche, colla sua
singolare configurazione, non dubitare si può che gli augusti ospiti
non avessero dal soggiorno loro avuto sommo piacere.

Partiti da Venezia essi principi, si avviarono verso la Toscana. Già
a nome del nuovo granduca Ferdinando III era stato dal consiglio di
reggenza preso il possesso del granducato. Leopoldo si trattenne per
alcuni giorni a Firenze, ed allora fu veduta a pubblicare l'opera,
che già altrove accennammo, intitolata: _Il governo della Toscana
sotto il regno di Leopoldo_. Con irrefragabili documenti da tale opera
risultava che nell'anno 1765, epoca dell'avvenimento al trono del
granduca Leopoldo, l'entrate pubbliche del granducato montavano ad
otto milioni novecento cinquantotto mila seicento ottantacinque lire
di Firenze, e nell'anno 1789, ultimo del suo regno, ascesero a dieci
milioni cento novantasette mila seicento cinquantaquattro lire: aumento
tanto più ragguardevole e degno di maggior encomio, che Leopoldo, come
abbiam veduto, avea scemato le pubbliche contribuzioni e tolto via
non pochi aggravii, sì che tutto fu effetto della maggior industria,
della popolazione maggiore e del più esteso commercio della Toscana.
Tanto accrescimento di rendite, tranne quattro milioni che si trovarono
in essere nel 1789, fu dal buon principe speso tutto a sollievo dei
proprii sudditi o per ristorarli da calamità, o per proteggere le arti
e promuovere l'industria ed ogni ramo di pubblica utilità.

Il vescovo di Pistoia Scipione Ricci, contro il quale erano nell'anno
precedente scoppiate sommosse, prima in Pistoia stessa, poi a Prato
e nel rimanente della diocesi, dovette fuggire, e gli stessi capitoli
delle due cattedrali si dichiararono contro di lui. Si presentò egli
a Leopoldo; partito lui, presentossi al successore Ferdinando; ma le
sue riforme furono abbandonate; e Ricci, non potendo rientrare nella
diocesi, dove tutti gli animi erano esacerbati, rinunziò al vescovato,
tale risoluzione partecipando al papa con una lettera, in cui
protestava della sua devozione e sommissione, ed alla quale Pio VI si
piacque rispondere in modo affettuoso.

Il re e la regina di Napoli da Firenze passarono a Roma. In tre
abboccamenti dal re avuti col papa, gettaronsi i primi fondamenti della
concordia, che non potuta conchiudersi nel congresso a Castellone,
tenuto tra il cardinale Campanelli e l'Acton, primo ministro del
re, ebbe effetto nei maneggi di Napoli, in resultato dei quali fu
convenuto: ogni nuovo re, salendo al trono, pagasse cinquecento mila
ducati in forma di pia offerta a San Pietro; godesse egli la nomina a
tutti i vescovati; nominasse il papa a tutti i benefizii subalterni,
purchè l'elezione sopra sudditi regnicoli cadesse; in quanto alle
sedi episcopali, il papa eleggesse fra i tre candidati che la corte
proponesse; in avvenire alla corte di Roma per le cause matrimoniali si
ricorresse; per questa volta il pontefice tutte le dispense, concesse
dai vescovi napolitani, confermasse; con questo, la cerimonia della
chinea per sempre cessasse.



    Anno di CRISTO MDCCXCII. Indizione X.

    PIO VI papa 18.
    FRANCESCO II imperadore 1.


Quella inesorabil morte che la temuta falce ruota a cerchio ciecamente,
mietendo le vite dei monarchi non meno che quelle de' più meschini
mortali, tolse del mondo un gran principe; Leopoldo imperadore morì
il dì 10 di marzo del presente anno in età di soli quarantaquattro
anni. L'immatura perdita, che in Europa diede luogo alle più strane
conghietture, fu dai più saggi attribuita ad una dissenteria che
da lungo tempo lo travagliava, all'uso troppo frequente di aromati
irritanti, ed all'indebolimento che le continue e gravissime
occupazioni portato avevano al di lui temperamento. Giunto al trono
imperiale dalla Toscana, questo principe vi aveva portato i medesimi
principii, le medesime viste, il medesimo zelo per l'avantaggio
dei sudditi, e dato aveva al suo regno uno splendore che tanto più
singolare riusciva quanto più difficili erano i tempi, angosciose le
circostanze. Collegato erasi egli destramente coll'Inghilterra, affine
di frenare l'ardore delle conquiste di Caterina II ed accelerare
la pace tra quella sovrana e la Porta; ricuperata aveva in parte la
autorità sua sovra i Paesi Bassi, contratta un'alleanza colla Prussia,
e assicurati tutti i rami dell'amministrazione della vastissima
monarchia, e tutto questo in due soli anni. Tra le sue doti più
singolari fu commendata la sua affabilità; nel di lui palazzo ammesso
era il povero ugualmente che il ricco; nella Toscana, destinati
aveva tre giorni della settimana, solo per ascoltare le domande
degl'infelici, e passato alle sede dell'impero, ancora lasciava libero
l'accesso a chiunque alla di lui persona, e pochi giorni perfino avanti
la sua morte dato aveva pubblica udienza. Il dolore, che provato aveva
la Toscana alla sua partenza, divenne, alla epoca della morte di lui,
comune a tutta la monarchia, e pochi principi lasciarono al pari di lui
vivo il desiderio ne' sudditi e gloriosa dovunque la rimembranza.

Morto Leopoldo, ed assunto al trono il suo figliuolo Francesco,
principe giovane ed ancora nuovo nelle faccende, i negozii pubblici
si piegarono a diverso fine. Caterina di Russia, la quale, visto
il procedere temperato di Leopoldo e di Federigo Guglielmo, si era
costituita pubblicamente, volendo pur muovere qualche cosa in Europa,
la protettrice dell'antico governo di Francia, dimostrava con molte
protestazioni volerlo ristaurare. Molte cose diceva continuamente
Caterina ed insinuava destramente nell'animo dei principi, massime di
Francesco II e di Federigo Guglielmo. Nè mancarono a sè medesimi in
tale auguroso frangente i fuorusciti franzesi, e più i più famosi ed i
più eloquenti, i quali erano indefessi nell'andar di corte in corte, di
ministro in ministro, per raccomandar la causa del re, la causa stessa,
come affermavano, dell'umanità e della religione. A queste instigazioni
l'imperatore Francesco, che giovane d'età avea già assaggiato la guerra
all'assedio di Belgrado, deposti i pensieri pacifici di Leopoldo, e
non dando ascolto ai ministri, nei quali aveva suo padre avuto più
fede, accostossi ai consigli di quelli che, consentendo colla Russia,
lo esortavano ad assumere l'impresa ed a cominciar la guerra. Dal
canto suo, Federigo Guglielmo, principe di poca mente, ma d'indole
generosa, impietositosi alle disgrazie della casa reale di Francia,
e ricordandosi della gloria acquistata da Federigo II, si lasciò
persuadere, e postosi in arbitrio della fortuna, corse anche egli
all'armi contro la Francia.

Noi non descriveremo nè la lega che seguì tra la Russia, l'Austria
e la Prussia, nè il congresso di Magonza, nè la guerra felicemente
cominciata e più felicemente terminata nelle pianure della Sciampagna:
quest'incidenza troppo ci allontanerebbe dall'Italia. Incredibile era
l'aspettazione degli uomini in questa provincia, e ciascuno formava in
sè varii pensieri secondo la varietà dei desiderii e delle opinioni. Il
re di Sardegna, spinto sempre dalla brama di far chiaro il suo nome per
le imprese d'armi, stimolato continuamente dai fuorusciti franzesi, che
in grandissimo numero s'erano ricoverati ne' suoi Stati, e lasciandosi
tirare alle loro speranze, aveva meglio bisogno di freno che di sprone.
Intanto non cessava di avviar soldati, armi e munizioni verso la Savoia
e nella contea di Nizza, parti del suo reame solite a sentir le prime
percosse dell'armi franzesi, e donde, se la guerra dal canto suo fosse
amministrata con prospero successo, poteva penetrar facilmente nelle
viscere delle province più popolose e più opime della Francia. Nè
contento alle dimostrazioni, ardeva di desiderio di venirne prestamente
alle mani, persuadendosi che le soldatesche franzesi, come nuove e
indisciplinate, non avrebbero osato, non che altro, mostrar il viso
a' suoi prediletti soldati. Ma o che l'Austria e la Prussia abbiano
creduto di terminar da sè la bisogna, marciando sollecitamente contro
Parigi, o che credessero pericoloso pel re di Sardegna lo scoprirsi
troppo presto, lo avevano persuaso a temporeggiare fino a tanto che
si fosse veduto a che termine inclinasse la guerra sulle sponde della
Marna e della Senna.

La subitezza di Vittorio Amedeo e la lega dei re contro la Francia
diedero non poco a pensare al senato veneziano, e lo confermarono
vieppiù nella risoluzione presa di non pendere da nissun lato,
quantunque la corte di Napoli gli facesse frequenti e vivissime
istanze, affinchè aderisse alla lega italica. Ma prevedendo le ostilità
vicine anche dalla parte d'Italia, il che gli dava sospetto che navi
armate di potenze belligeranti potessero entrare nel golfo e turbar i
mari, e forse ancora che altri potentati d'Italia, non forti sull'armi
navali, gli domandassero aiuti per preservar i lidi dagl'insulti
nemici, ordinò che le sue armate, che, ritornate dalla spedizione
contro Tunisi, stanziavano nelle acque di Malta e nelle isole del mar
Ionico, se ne venissero nell'Adriatico. E veramente essendo stato
richiesto poco dopo dai ministri cesareo e di Toscana che mandasse
navi per proteggere Livorno ed il litorale pontificio, rispose di aver
deliberato di osservar la neutralità molto scrupolosamente: la qual
deliberazione convenirsegli e per massima di Stato e per interesse dei
popoli.

Il re di Napoli, stimolato continuamente dalla regina e dal debito del
sangue verso i reali di Francia, andava affortificandosi coll'armi
navali e terrestri; ma non si confidava di scoprirsi apertamente,
perchè sapeva che una forte armata franzese era pronta a salpare dal
porto di Tolone; nè era bastante da sè a difendersi dagli assalti di
lei, nè appariva alcun vicino soccorso d'Inghilterra, non essendosi
ancora il re Giorgio chiarito del tutto, se dovesse continuar nella
neutralità o congiunger le sue armi con quelle dei confederati. Perciò
se ne giva temporeggiando con gli accidenti. Solo si apparecchiava a
poter prorompere con frutto in aperta guerra quando fosse venuto il
tempo, e teneva più che poteva le sue pratiche segrete.

Il granduca di Toscana, principe savio, stava in non poca apprensione
pei traffici di Livorno; però schivava con molta gelosia di dar
occasione di tirare a sè la tempesta, che già desolava i paesi lontani
e minacciava i vicini.

Il papa non poteva soffrire indifferentemente le novità di Francia in
materia religiosa. Ma l'assemblea costituente, astutamente procedendo,
ed andando a versi alla natura di lui alta e generosa, protestava
volersene star sempre unita col sommo pontefice, come capo della Chiesa
cattolica, in quanto spetta alle materie spirituali. Chiamavanlo padre
comune, lo salutavano vicario di Dio in terra. Queste scaltre lusinghe
venute da un'assemblea di cui parlava e per cui temeva tutto il mondo,
avevano molta efficacia sulla mente del pontefice, e già si lasciava
mitigare. Ma succedette all'assemblea costituente, la quale, benchè
proceduta più oltre che non si conveniva, aveva nondimeno mostrato
qualche temperanza, l'assemblea legislativa ed il consesso nazionale,
che, disordinatamente usando la potestà loro, diedero senza freno in
ogni sorta di enormità. Pio VI, risentitosi di nuovo gravissimamente,
fulminò interdetti contro gli autori delle innovazioni, e condannò
sdegnosamente le dottrine dei novatori circa le materie religiose.
Allora fu tentato dallo imperadore d'Alemagna e dai principi d'Italia
che seguitavano le sue parti. Nè fu vana l'opera loro; perchè il
pontefice, parendogli che alla verità impugnata della religione,
alla necessità contraddetta delle discipline, ed alla dignità offesa
della Sedia apostolica fosse congiunta la sicurezza dei principi e la
protezione degli afflitti, ministerio vero e prediletto del successore
di Cristo, prestò orecchio alle nuove insinuazioni, ed entrò volentieri
nella lega offensiva contro la Francia.

La repubblica di Genova fu poco tentata dagli alleati o per disegni
che si facevano sopra di lei, o perchè la credevano troppo dipendente o
troppo vicina della Francia. Dimostrossi neutrale con un gran benefizio
dei sudditi, che, tutti intenti al commercio di mare con la Francia,
navigavano sicuramente nelle acque della riviera di ponente.

Così erano in Italia nel corso del presente anno timori universali;
armi potenti ed aperte con un'accesa voglia di combattere in Piemonte;
preparamenti occulti in Napoli; desiderio di neutralità in Toscana;
armi poche ed animo guerriero in Roma; neutralità dichiarata nelle
due repubbliche. Queste erano le disposizioni dei governi; ma varii
si dimostravano gli umori dei popoli. In Piemonte per la vicinanza
le nuove dottrine si erano introdotte, e quantunque non pochi
per le enormezze di Francia si fossero ritirati, alcuni ancora vi
perseveravano. In Milano le novità avevano posto radice, ma molto
rimessamente, siccome in terreno molle e dilettoso. In Venezia, per
l'indole molto ingentilita dei popoli, gli atroci fatti avevano destato
uno sdegno grandissimo, e poco si temevano gli effetti dell'esempio,
massime con quel tribunale degl'inquisitori di Stato, quantunque fosse
divenuto più terribile di nome che di fatto. Gli Schiavoni ancora
servivano di scudo, siccome gente aliena dalle nuove opinioni, e
fedelissima alla repubblica. In Napoli covava gran fuoco sotto poca
cenere, perchè le opinioni nuove vi si erano molto distese e il cielo
vi fa gli uomini eccessivi. In Roma, fra preti che intendevano alle
faccende ecclesiastiche, ed un numero esorbitante di servitori che a
tutt'altro pensavano che a quello che gli altri temevano, si poteva
vivere a sicurtà. In Toscana, provincia dove sono i cervelli sottili
e gli animi ingentiliti, poco si stimavano i nuovi aforismi, e la
felicità del vivere vi faceva odiar le mutazioni. In Genova poi erano
molti e fortemente risentiti gli umori; ma siccome vi si lasciavano
sfogare poco erano da temersi, ed i rivolgimenti non fanno per chi vive
sul commercio.

La Francia intanto venuta in preda ad uomini senza freno e senza
consiglio, vedendo la piena che le veniva addosso, volle accoppiare
all'armi le lusinghevoli promesse e le disordinate opinioni. Però i
suoi agenti sì pubblici che segreti riempivano l'Italia della fedeltà
del governo loro e delle beatitudini della libertà. Affermavano non
voler la Francia ingerirsi nei governi altrui; voler esser fedele coi
fedeli, rispettare chi rispettava. Queste erano le parole, ma i fatti
avevano altro suono; imperciocchè e cercavano di stillare le nuove
massime nell'animo dei sudditi con rigiri segreti, mostravano loro il
modo di unirsi, loro promettevano aiuti di consiglio, di denaro e di
potenza, e, tentando ogni modo ed ogni via, si sforzavano di scemar
la forza dei governi, con torre loro il fondamento della fedeltà dei
sudditi.

Chi raccontasse ciò che allegavano le due contrarie parti, quantunque
dicesse cose enormi, ma non tali che di più enormi ancora non se ne
facessero, farebbe vedere quanto sieno intemperanti gli uomini quando
sono mossi da passioni politiche; imperciocchè l'una parte errava
per aver portato troppo oltre le riforme, l'altra per averle fatte
degenerare in eccessi enormi pel contrasto da loro fatto anche alle più
utili e giuste; gli uni per aver posto le mani nel sangue, gli altri
per volervele porre. In mezzo a tutto, le parole dei novatori avevano
più forza sull'animo dei popoli che quelle dei loro avversarii, perchè
i popoli sono sempre cupidi di novità; poi coloro che si cuoprono col
velame del ben comune, hanno più efficacia di quelli che pretendono
i privilegii. Laonde l'Europa era piena di spaventi, e si temevano
funesti incendii per ogni parte.

Intanto, essendo accesa la guerra fra l'Austria e la Francia, l'una
e l'altra di queste potenze applicavano l'animo alle cose d'Italia;
la prima per conservare quello che vi possedeva, la seconda per
acquistarsi quello che non possedeva, od almeno per potervi sicuramente
avere il passo, col fine di andar a ferire sul fianco il suo nemico.

Dall'altro lato, il governo di Francia aveva spedito agenti segreti
e palesi per domandare, parte con minaccie, parte con preghiere, ai
governi d'Italia o lega o passo o neutralità. Fra gli altri Ugo di
Semonville fu destinato ad andare a specular lo cose in Piemonte
ed a tentar l'animo del re, affinchè negli accidenti gravi che si
preparavano si dimostrasse favorevole alla Francia. Aveva carico di
proporre a Vittorio Amedeo di collegarsi con la Francia e di dare
il passo agli eserciti franzesi perchè andassero ad assaltare la
Lombardia Austriaca; con ciò la Francia gli guarentirebbe i suoi
Stati, raffrenerebbe gli spiriti turbolenti in Piemonte ed in Savoia,
cederebbe in potestà di lui quanto si sarebbe conquistato con l'armi
comuni in Italia contro l'imperadore. Il re si era risoluto a non
udire le proposte, sì perchè temeva, nè senza ragione, d'insidie,
sì perchè la sua congiunzione con l'Austria già era troppo oltre
trascorsa. Infatti già calavano Tedeschi dal Tirolo, e s'incamminavano
a gran passo verso il Piemonte. Il perchè, giunto essendo Semonville
ad Alessandria, fu spedito ordine al conte Solaro governatore che nol
lasciasse procedere più oltre, anzi gl'intimasse di tornarsene fuori
degli Stati del re, usando però col ministro franzese tutti quei
termini di complimento che meglio sapesse immaginare. Solaro, uomo
assai cortese ed atto a tutte le cose onorate, eseguì prudentemente gli
ordini avuti. Tornossene Semonville a Genova.

Il fatto fu gravissimamente sentito a Parigi. Il giorno 15 settembre
di questo anno, Dumourier, ministro degli affari esteri, favellando
molto risentitamente al consesso nazionale del governo di Piemonte, e
lamentandosi con apposito discorso dell'affronto fatto alla Francia
nella persona del suo ambasciatore in Alessandria, concluse doversi
dichiarar la guerra al re di Sardegna. Quivi levossi un rumore
grandissimo; chè le parole di despota, di tiranno, di nemico del genere
umano andarono al colmo. In somma fu chiarita solennemente la guerra
tra la Francia e la Sardegna.

Di già il giorno 10 dello stesso mese il consiglio esecutivo
provvisorio aveva spedito ordine al generale Montesquiou, cupo
dell'esercito, che raccolto nell'alto Delfinato minacciava la Savoia,
di assaltar questa provincia, e cacciate l'armi piemontesi oltremonti,
di usare quelle maggiori occasioni che gli si offrirebbero. Questo fu
il primo principio di tutti quei mali che patì Italia per tanti anni,
e che empierono tutto il corpo suo di ferite che non si potranno così
facilmente sanare.

Il re di Sardegna, come prima fu incominciata la guerra tra la Francia
e le potenze confederate di Germania, aveva con grandi speranze fatto
notabili apparecchi in Savoia e nella contea di Nizza. Ma le vittorie
dei Franzesi nella Sciampagna cambiarono le condizioni della guerra,
ed il re, invece di conquistare i paesi d'altri, dovette pensare a
difendere i proprii. Erano le sue condizioni assai peggiori di quelle
dei Franzesi; poichè nei due paesi contigui in cui si doveva far la
guerra, la Savoia parteggiava pei Franzesi, il Delfinato non solo
non parteggiava pei Piemontesi, ma loro era anche nimicissimo; che
anzi questa provincia si era mostrata molto propensa alle mutazioni
che si erano fatte e si facevano; sicchè i Franzesi avevano favore
andando avanti, sicurezza andando indietro; il contrario accadeva ai
Piemontesi.

Non ostante tutto questo, i capi che governavano le cose del re
di Savoia, se ne vivevano con molta sicurezza. Soli coi fuorusciti
franzesi che loro stavano continuamente intorno, non vedevano ciò che
era chiaro a tutto il mondo: improvvidi, che non conobbero che male con
le ire e con la imprudenza si reggono i casi umani.

Il cavaliere di Colegno, comandante di Ciamberì, oltre la sua credulità
verso i fuorusciti e verso un generale di Francia che, per ispiare,
il veniva a trovare in abito e sotto nome di prete irlandese, con
duro governo asperava i popoli, soffio imprudente sur un fuoco
che già si accendeva. Assai miglior animo aveva il conte Perrone,
governator generale della Savoia, ma in mezzo a tanti sfrenati non
aveva quell'autorità e quel credito che in sì pericoloso accidente si
richiedevano; ed anch'egli dava fede alle novelle del prete irlandese.
Il cavaliere di Lazari governava l'esercito; capitano certamente poco
atto a sostenere le guerre vive dei Franzesi.

Adunque, tali essendo le condizioni della Savoia, nel mese di settembre
si aperse la via alle future calamità. I capi dell'esercito, vivendo
sempre nella solita sicurezza, nè potendo credere sì vicino un assalto,
invece di allogar le truppe in pochi luoghi, ma forti, ed ai passi,
le avevano sparse qua e là senza alcun utile disegno, talmente che
ed erano inabili al resistere al nemico ovunque si appresentasse, ed
incapaci a rannodarsi subitamente dove gli assaltasse.

Il prete irlandese stava loro a' fianchi, e raccontava loro le più
gran novelle dei mondo, ed ei se le credevano. I fuorusciti franzesi,
che pure incominciavano a temere, dimandarono se vi fosse pericolo;
risposero del no; e mordevano il conte Bottone di Castellamonte, il
quale, essendo intendente generale della Savoia, da quell'uomo fine e
perspicace ch'egli era, avendo bene penetrate le cose, aveva domandato
soldati al governatore per iscorta al tesoro che voleva far partire
alla volta del Piemonte. Certo impossibil cosa era il difendere la
Savoia, massime dopo le disgrazie de' confederati; non istanziavano in
questa provincia più di nove in dieci mila soldati; ma siccome erano
buoni, così, se fossero stati retti da capitani pratici, e posti ai
passi opportuni, avrebbero almeno fatto una difesa onorata e ritardato
l'impeto del nemico. Ma agli sparsi mancò l'ordine; il riunirli fu
impossibile in accidente tanto improvviso.

Intanto il generale Montesquiou, avuto comandamento d'incominciar
la guerra, dal campo di Cessieux, dove alloggiava con l'esercito
raccolto, in cui si noveravano circa quindici mila combattenti, gente
se non molto disciplinata, certo molto ardente, andò a porsi agli
Abresti, donde spedì ordine al generale Anselmo, che, passato il
Varo, assaltasse nel tempo medesimo la contea di Nizza, presidiata
da genti poco numerose, che obbedivano al conte Pinto. Queste mosse
doveva anche aiutare dalla parte del mare il contrammiraglio Truguet,
il quale, partito da Tolone con un'armata di undici legni de' più
grossi ed alcuni più sottili, e due mila soldati di sopraccollo, se ne
giva correndo le acque di Villafranca sino al golfo di Juan, pronto a
sbarcar le genti ovunque l'opportunità si fosse scoperta.

Montesquiou, lasciati prestamente gli Abresti, se ne venne con tutto
l'esercito a posarsi al forte di Barraux vicino a due miglia dalle
frontiere della Savoia, donde disegnava di dar principio alla guerra.
Era suo pensiero di assaltare col grosso dell'esercito Chapareillan,
o Sanparelliano, che si voglia dire, ed il castello delle Marcie, per
poscia camminar velocemente alla volta di Ciamberì. Nel medesimo tempo,
per tagliar il ritorno al nemico, spediva due grosse bande, delle
quali una, radendo la riva sinistra del fiume Isero, doveva chiudere il
passo di Monmeliano, e l'altra dal Borgo d'Oisans, valicando gli aspri
monti che dividono la valle della Romanza da quella dell'Arco, serrare
al tutto la strada della Morienna; nel qual caso tutto l'esercito
piemontese sarebbe stato o preso ai passi, o poca parte se ne sarebbe
potuta salvare per le strade aspre e difficili della Tarantasia. Se
non che, una piena improvvisa dell'Isero, che, rotti i ponti, non
permise il passo, e la quantità delle nevi cadute molto per tempo sugli
altissimi monti del Galibiero, resero senza effetto queste due ultime
fazioni.

I Piemontesi, svegliati finalmente dal suono dell'armi franzesi,
tentarono di fortificarsi con artiglierie presso Sanparelliono agli
abissi di Mians, donde tempestare pensavano di traverso con palle sul
passo per mezzo d'artiglierie poste sul castello delle Marcie. Ma a
questo non ebbero tempo; le artiglierie non erano ancora ai luoghi
loro, quando la notte del 21 settembre, tirando venti orribili, e
cadendo una grossissima pioggia, il generale Laroque, a ciò destinato
dal generale Rossi, partito con grandissimo silenzio dal campo di
Barraux, se ne marciò contro Sanparelliano con una forte schiera.
E come disegnava, così gli riuscì di fare; s'impadronì in mezzo a
quella oscurità improvvisamente della terra, e, se non fosse stato il
tempo sinistro, avrebbe anco presa quella mano di Piemontesi che la
difendevano. Ma, avuto a tempo sentore dell'approssimarsi del nemico,
si ritirarono a salvamento.

Perduto Sanparelliano con gli abissi di Mians, i capi Piemontesi, privi
di consiglio, abbandonarono frettolosamente i castelli delle Marcie, di
Bellosguardo, di Aspromonte e la Madonna di Mians. Così le fauci dalla
Savoia vennero da quel lato in poter de' Franzesi. Ma Montesquiou,
usando celeremente la vittoria, e prevalendosi della rotta del nemico,
si spinse avanti dal castello delle Marcie con due brigate di fanteria,
una di dragoni e venti bocche da fuoco, alle quali fece tener dietro
come retroguardo da due altre brigate di fanteria, una di cavalleria,
parimente con molti cannoni. Così tagliò e divise in due l'esercito
piemontese; una parte fu costretta a ritirarsi verso Anecì, l'altra
verso Monmeliano: gli rimase la strada per Ciamberì, capitale della
provincia. Ma già il terrore ne aveva cacciato i regi; e sì grande fu
la subitezza dello spavento loro, che i Franzesi, temendo d'insidie,
non s'ardirono di entrar incontanente nella città che se ne stette
posta in propria balìa alcuni giorni. In sì pericoloso passo non vi fu
tumulto, non insulto, non saccheggio di sorte alcuna, tanta è la bontà
e la civiltà di quel popolo: vi arrivarono i Franzesi; furonvi accolti
con tutte quelle dimostrazioni di allegrezza che portavano le opinioni.

Montesquiou andava molto cauto nello spignersi avanti, perchè non
avendo ancora avuto notizia dell'assalto che doveva dare Anselmo
a Nizza, e vedendo la celerità incredibile delle genti sarde nel
ritirarsi, dubitava ch'elleno marciassero velocemente a quella banda
per opprimere l'esercito che militava sotto quel generale. Si spargeva
ancor voce che i Piemontesi, forti di sito e provveduti di munizioni da
guerra e da bocca, si erano fermati alle montagne delle Boge o Bauge,
che separano Ciamberì dall'Isero, per ivi fare una testa grossa, e
passarvi l'inverno. Però deliberossi di sostare alquanto per ispiar
meglio le cose e per aspettare che portassero i tempi dal canto delle
Alpi marittime. La rotta de' soldati reali fece cadere in mano de'
Franzesi dieci cannoni, quantità grande di polvere, di palle, di casse
e d'altri arnesi da guerra, con magazzini pienissimi di foraggi e di
vettovaglia.

Dalla parte di Nizza non dimostrarono i capi piemontesi miglior
consiglio nè miglior animo che in Savoia. Conciossiachè non così tosto
ebbero avviso che Anselmo aveva passato il Varo, fiume che divide i
due Stati, la notte del 23 settembre, dandosi precipitosamente alla
fuga, abbandonarono la città di Nizza, e già davano mano a votare
con grandissima celerità quanto si trovava nel porto di Villafranca.
I Franzesi, usando prestamente il favore della fortuna, corsero a
Villafranca; e minacciato di dare la scalata, il comandante si diede
a discrezione con ducento granatieri, ottimi soldati, ed alcune bande
di milizie, lasciando in preda al nemico cento pezzi d'artiglieria
grossa, una fregata, una corvetta e tutti i magazzini reali. Così
la parte bassa della contea di Nizza venne in poter dei Franzesi con
incredibile celerità e facilità. Solo si teneva ancora pel re il forte
di Montalbano, ma poco stante si arrese ancora esso a patti. A queste
vittorie contribuì non poco l'ammiraglio Truguet con la sua armata,
che, dando diversi riguardi ai Piemontesi, gli teneva in sospetto
d'assalti da ogni banda, e loro fece precipitar il consiglio di
ritirarsi dal littorale.

Anselmo, avuta Nizza, Villafranca e Montalbano, si spinse avanti per
la valle di Roia, e non fece fine al perseguitare se non quando arrivò
a fronte di Saorgio, fortissimo castello che chiude il passo da quelle
parti, ed è come un antemurale del colle di Tenda. Ma, alcuni giorni
dopo, le genti piemontesi, avuto un rinforzo d'un grosso corpo di
Austriaci, ed assaltato con molto impeto il posto di Sospello, se ne
impadronirono. Nè molto tempo vi dimorarono, perchè, ritornato Anselmo
col grosso di tutto l'esercito, se lo riprese, e di nuovo Saorgio
divenne l'estremo confine dei combattenti.

Queste spedizioni dei Franzesi nella provincia di Nizza costarono poco
sangue; perchè la ritirata dell'esercito sardo fu tanto presta, che
non successero che poche e leggieri avvisaglie; nè i conquistatori
si scostarono dai termini della umanità e della moderazione. Assai
diverso da questo fu il destino dell'infelice Oneglia; poichè,
accostatasi l'armata del Truguet a quel lido, e mandato avanti un
palischermo per negoziare, gli furon tirate le schioppettate, per le
quali furono uccisi o feriti parecchi, caso veramente deplorabile, e
non mai abbastanza da biasimarsi. Però l'armata franzese, accostatasi
vieppiù, e schieratasi più opportunamente che potè; cominciò a trarre
furiosamente contro la città. Quando poi, per il fracasso, per la
rovina, per le ferite e per le morti, l'ammiraglio credè che lo
spavento avesse fatto fuggire i difensori, sbarcò le genti che aveva
a bordo, le quali, unite ai marinai, s'impadronirono della città,
e la posero miserabilmente a sangue, a sacco ed a fuoco. Questa fu
mera vendetta dei violati messaggieri di pace: Oneglia, luogo di poco
profitto, fu dai Franzesi abbandonata, e l'armata loro, toccata Savona,
e posatasi alquanto nel porto di Genova, se ne tornò poco tempo dopo a
Tolone.

Essendosi oramai tanto avanzata la stagione che non si potea
guerreggiare se non con molto disagio, si posarono dalle due parti
l'armi tutto l'inverno, attendendo a far apparecchi più che potevano
gagliardi per tornar sulla guerra con frutto tosto che il tempo
s'intiepidisse. In mezzo a questo silenzio dell'armi nulla decorse che
sia degno di memoria, se non la differenza del procedere dei Savoiardi
e de' Nizzardi verso i Franzesi, avendo i primi mostrato molta
inclinazione per loro e desiderio di accomodarsi alle foggie del nuovo
governo: al contrario, i secondi fecero pruova di molta avversione e di
volersene rimanere nei termini del governo antico.

Pervenuta a notizia di Montesquiou la conquista di Nizza, si mise in
sul voler cacciar del tutto le genti sarde dalla Savoia. A questo fine
ordinò a Rossi che, cacciandosi avanti le truppe del re, le spingesse
fino al Cenisio per la Morienna, ed a Casabianca fino al piccolo San
Bernardo per la Tarantasia: il che eseguirono con grandissima celerità,
e quasi senza contrasto da parte del nemico. Anzi è da credere che se
Montesquiou, invece di soprastarsi, come fece, per aspettar le nuove di
Nizza, fosse dopo la conquista di Ciamberì camminato con la medesima
celerità, si sarebbe facilmente impadronito di queste due sommità
delle Alpi con grande suo vantaggio, e con maggiore speranza di andar
a ferire, alla stagione prossima, il cuore stesso del Piemonte, tanta
era la confusione delle genti regie. Aix, Annecì, Rumillì, Carouge,
Bonneville, Tonon e le altre terre della Savoia settentrionale,
abbandonate dai vinti, riconobbero l'imperio dei vincitori. Così questa
provincia venne tutta in potestà dei Francesi. La quale possessione per
quell'inverno fu loro assicurata dalle nevi strabocchevolmente cadute
sui monti, le quali indussero da questa banda la medesima cessazione
dall'armi, ed anche più compiuta, che era prevalsa nelle Alpi
marittime.

In cotal modo un paese pieno di siti forti, di passi difficili, di
torrenti precipitosi, fu perduto pel re di Sardegna, senza che nella
difesa del medesimo si sia mostrato consiglio o valore. Del qual
doloroso caso si deve imputar in parte il re medesimo, per aversi
voluto scoprire, a cagione de' suoi pensieri tanto accesi alla guerra,
molto innanzi che gli aiuti austriaci arrivassero in forza sufficiente
e per aver dato il più delle volte i gradi militari a coloro che più
miravano a comparire, che ad informarsi dell'arte difficile della
guerra. Certamente error grande fu quel di Vittorio di metter l'abito
militare ad ogni giovane cadetto che si appresentasse, e di mandarli
sulle prime alla guerra, come se l'arte della guerra ed il rumor
dei cannoni non fossero cose da far sudare e tremare anche i soldati
vecchi. I nobili poi ci ebbero più colpa del re, pel disprezzo, non
saprebbesi se dire ridicolo od assurdo, in cui tenevano i Franzesi.
Pure fra di loro non pochi erano che, modesti e valorosi uomini
essendo, detestavano i male avvisati consigli, e sentivano sdegno
grandissimo della vergogna presente.

La rotta di Savoia, già sì grave in sè stessa, fu anche accompagnata da
accidenti parte terribili, parte lagrimevoli. Pioggie smisurate, strade
sprofondate, carri rotti, soldati alla sfilata parte armati, parte no,
gente fuggiasca di ogni grado, di ogni sesso e di ogni età, terribili
apparenze e di cielo e di uomini e di terra. Ma fra tutti movevano
compassione grandissima i fuorusciti franzesi, i quali, confidandosi
nelle parole dei capitani regi, eransi soprastati a Ciamberì fino
agli estremi, ed ora cacciati dalla veloce furia che loro veniva
dietro, non potevano nè stare senza pericolo; nè fuggire con frutto,
imperciocchè a chi mancava il danaro per povertà, a chi la forza per
infermità, a chi le bestie ed i carri per trasferirsi, perchè non se
ne trovavano per prestatura nè amichevole nè mercenaria, ed in tanto
scompiglio era venuto meno il consiglio di prevedere e di provvedere.
Spettacolo miserando era quello che si vedeva per le strade che portano
a Ginevra ed a Torino, tutte ingombre di gente caduta da alti gradi in
un abisso di miseria. Erano misti i padri coi figliuoli, le madri con
le figliuole, i vecchi con i giovani, e fanciulle tenerissime ridotte
fra i sassi e il fango a seguitar i parenti loro caduti in sì bassa
fortuna. Vi erano vecchi infermi, donne gravide, madri lattanti e
portanti al petto le creature loro certamente non nate a tal destino.
Nè si desiderò la virtù o la carità umana in sì estremo caso perchè
furono viste spose, figliuoli, fratelli, servidori non proscritti voler
seguitare nelle terre strane, anche a malgrado dei parenti e padroni
loro, gli sposi, i padri, i fratelli ed i padroni, posponendo così la
dolcezza dell'aere natìo alla dolcezza del ben amare e del ben servire:
secolo veramente singolare, che mostrò quanto possono fra l'umana
generazione la virtù ed il vizio, l'una e l'altro estremi. Ma se era il
viaggiar crudele, non era miglior lo starsi; alberghi pieni o niuni in
quelle rocche, bisognava pernottar al cielo, e il cielo era sdegnato,
e mandava diluvii di pioggie. A questo, soldati commisti che fuggivano
sbanditi, armi sparse qua e là, un tramestio d'uomini sconsigliati, un
calpestio di bestie, un rumor di carrette, un furore, un dolore, una
confusione, un fremito, aggiungevano grandissimo terrore e grandissima
miseria. Quanti si sono visti cresciuti ed allevati in tutte le
dolcezze di Parigi, ora non trovar manco quel ristoro che a gente nata
in umil luogo abbonda nel corso ordinario della vita! Quanti gravi
magistrati, dopo avere ministrato la giustizia nei primi tribunali
del nobilissimo reame di Francia e vissuto una vita integerrima,
ora travagliosamente incamminarsi ad un esiglio, di cui non potevano
prevedere nè il modo nè il fine! Quante nobili donne, che pochi mesi
prima speravano di dar eredi a ricchissimi casati nei palazzi dei
maggiori loro, ora vicine a partorire, fra lo squallore di tetti
abbietti ed alieni, a padri venuti in povertà figli più poveri ancora!
Quante fanciulle, richieste prima da principi, non sapere ora nè a
qual rifiuto andassero nè a qual consenso! Quanti capitani valorosi
ed invecchiati nella milizia, ora che per la fralezza dei corpi loro
avevano più bisogno del riposo e dello stato, mancati il riposo e lo
stato, raminghi sotto cielo straniero, cacciati correr da quei soldati
medesimi, ai quali avevano e l'onore ed il valore insegnato! Erano le
strade, per donde passavano, piene di gente instupidita a sì miserabile
caso, ed intenerita a tanta disgrazia. E spesso trovarono sotto gli
umili tugurii più ristoro e più consolazione che non s'aspettavano.
Così per molti dì e molte notti su per le vie di Ginevra e di Torino
la tristissima comitiva mostrò quanto possa questa cieca fortuna nel
precipitare in fondo chi più se ne stava in cima. Eppure in mezzo a
tanto lutto la natura franzese era tuttavia consentanea a sè medesima.
Imperciocchè uscivano dagli esuli non di rado e canti e risi e
piacevolezze tali, che pareva piuttosto che a festa andassero, che a
più lontano esiglio. Vedevansi altresì uomini gravissimi o galoppanti
sulla fangosa terra, o dentro o dietro le carrozze stanti, recarsi
con le cappellature acconce, e con croci e con nastri, e con altri
segni dell'andata fortuna: tanto è tenace ciò che la natura dà che la
sciagura non lo toglie! Ma giunti i miseri fuorusciti in Ginevra ed
in Torino, non si può spiegare quanto fosse il dire, il guardare ed il
pensare degli uomini. Grandi cose aveva rapportato la fama di Francia;
ma ora ai più pareva che il fatto fosse maggior del detto; chi andava
considerando quel che potesse fare una nazione furibonda che usciva dai
proprii confini; che il valore de' suoi soldati, e chi la contagione
delle sue dottrine sostenute da tanta forza. Chi pensava alla vanità
di coloro che l'avevano predicata vinta, e chi all'imprudenza di
coloro che l'avevano provocata potente. Meglio sclamavano fora stato
il lasciarla lacerare da sè stessa, che il riunirla con le minaccie;
meglio ammansarla, che irritarla: tutti poi affermavano esser venuti
tempi pericolosissimi, essere minacciata Elvezia; essere minacciata
Italia; già già titubare la società umana in Europa.

A Torino tutti questi discorsi si facevano, ed altri ancor più gravi.
Intanto gli esuli facevano pietà, e con la pietà nasceva il terrore.
Tutta la città era contristata e piena di pensieri funesti. Ma tanta
era la fermezza della fede dei Piemontesi nel loro re, che pochi
pensavano a novità; alcuni desideravano qualche riforma nel reggimento
civile e politico dello Stato; tutti volevano la conservazione della
monarchia, ed i peggiori tratti che si udivano contro il governo, più
miravano ad ammenda che a satira.

Il governo mosso da accidente tanto improvviso e tanto pericoloso,
poichè cominciaronsi a sgombrare i primi timori, andava maturamente
pensando a quello che fosse a farsi. Il cantone di Berna fu richiesto
d'aiuto, ma senza frutto; l'Austria fu richiesta ancor essa, e con
frutto. Laonde reggimenti tedeschi arrivarono a gran giornate dalla
Lombardia in Piemonte, e s'inviavano prestamente alle frontiere,
massime verso il colle di Tenda. Addomandossi denaro in presto a
Venezia, che ricusò, fondandosi sulla neutralità. Si spedirono corrieri
per rappresentare il caso in Inghilterra, in Prussia ed in Russia.
Allegavasi essere il re solo guardiano d'Italia: se si rompesse
quell'argine, non sapersi dove avesse a distendersi quell'enorme
piena; starsi di buon animo il re, ma ove mancavano le forze proprie,
abbisognar gli aiuti altrui. Cercavasi anche di scusare le rotte di
Nizza e di Savoia, con dire che quei passi non erano difendevoli se
non con grossi eserciti; le forze che s'erano inviate essere state
sufficienti non solo per difendere, ma ancora per offendere, senza
le disgrazie di Sciampagna; dopo queste non poter più bastare nè
anco a difendere; per verità: essere stata troppo presta, ed anche
disordinata, la ritirata; ma doversi attribuire alla imprudenza di
chi comandava; essere i soldati buoni e fedeli, parato Vittorio a non
mancare a sè medesimo nè alla lega; solo richiedere che, come egli era
l'antiguardo, così non fosse lasciato senza retroguardo; e siccome egli
era esposto il primo alle percosse del nemico comune, così lo potesse
fronteggiare con gli aiuti comuni.

Tutte queste cose rappresentate con parole appropriate avevano gran
peso. Ma la Prussia, quantunque perseverasse nell'alleanza, cominciava
a pensare a' casi suoi, siccome quella che, essendo lontana dalla
voragine, aveva minori cagioni di temere. Bensì l'Austria, che già
ardeva ne' suoi proprii Stati, per preservare il resto, procedeva con
sincerità, e si risolveva a mandar soccorsi gagliardi in Piemonte.
L'Inghilterra, che aveva serbato certa sembianza di neutralità
sino alla morte di Luigi XVI (21 gennaio 1793), dopo questa orrenda
catastrofe s'era scoperta del tutto, e licenziato da Londra Chauvelin,
ministro plenipotenziario di Francia, si preparava alla guerra. Però
diede buone speranze al re promettendo denari ed efficace cooperazione
con le sue armate sulle coste del Mediterraneo. Intanto in Piemonte
si compivano i numeri delle compagnie, si ordinava la milizia, si
creavano nuovi luoghi di monti, si gettavano nuovi biglietti di
credito, si coniavano monete che scapitavano più della metà del valor
loro edittale, pessimo, ma non sempre evitabile rimedio dei mali. Nel
punto medesimo si provvedevano le fortezze poste ai passi dell'Alpi
con ogni genere di munizioni, e si affortificavano le cime del Cenisio
e del piccolo San Bernardo. Con questo, usando dell'opportunità
della stagione, che andò freddissima, e fatti tutti i preparamenti
necessarii, si aspettava con incredibile ansietà da tutti qual
fosse per essere al tempo nuovo l'esito delle battaglie, dalle quali
dipendeva il destino d'Italia e del mondo.



    Anno di CRISTO MDCCXCIII. Indiz. XI.

    PIO VI papa 19.
    FRANCESCO II imperadore 2.


La ritirata così subita delle genti regie dalla Savoia e dal contado
di Nizza, e la cacciata a forza degli eserciti tedeschi dalle terre
franzesi verso il Reno, diedero molto a pensare agli alleati. Tra per
questo e l'andar sempre più crescendo a cagione delle vittorie e di più
feroci istigamenti l'appetito delle cose nuove e la furia delle menti
in Francia, eglino s'accorsero che assai più dura impresa si avevano
per le mani di quanto avevano a sè medesimi persuaso. Bande tumultuarie
ed indisciplinate, come le chiamavano, avevano vinto eserciti
floridissimi; capitani di poco o nissun nome avevano superato per arte
militare generali che erano in voce de' primi per tutte le contrade
dell'Europa. Coloro ancora, i quali si erano concetto nell'animo di
piantar facilmente le insegne della lega sulle mura di Parigi e di
Lione, a mala pena potevano difendere i dominii proprii dagli assalti
di un nemico poco prima disprezzato ed ora vittorioso ed insultante.

Ciò nondimeno i confederati non vollero ristarsi, sperando che,
coll'andar più cauto, poichè si era conosciuto di quanto fosse capace
quella furia franzese, e coll'accrescer le proprie forze e con l'unione
di aliene, si potesse mutar la fortuna e compensar le perdite passate
coi guadagni avvenire. Tal è la costanza delle menti tedesche che
più e meglio ancora che l'impeto le fa riuscire ad onorate imprese.
L'Austria ed il Piemonte, siccome più vicini al pericolo, procedevano
con animo più sincero della Prussia, la cui congiunzione con la lega
già forse incominciava a vacillare. L'Austria massimamente applicava
i pensieri alla preservazione de' suoi Stati in Italia, ai quali già
si era avvicinata la tempesta, e che sono parte tanto principale della
sua potenza. Perlochè si preparavano con molta diligenza tutte le
provvisioni necessarie alla guerra, tanto negli Stati austriaci quanto
nel Piemonte, e si tentava ogni rimedio per impedire la passata de'
Franzesi. Perchè poi i popoli provocati da quelle lusinghevoli parole
di libertà e di uguaglianza, non solamente non si congiungessero
con coloro che procuravano la turbazione d'Italia, e non facessero
novità, ma ancora sopportassero di buona voglia tutto quell'apparato
guerriero, e non si ristessero a tanto romor d'armi, usavansi i mezzi
di persuasione. Il più potente era la religione: spargevansi sinistre
voci: essere i Franzesi nimici di Dio e degli uomini, conculcare la
religione, profanare i templi, perseguitare i sacerdoti, schernire i
santi riti, contaminare i sacri arredi, e, facendo d'ogni erba fascio,
proteggere gl'increduli ed uccidere i credenti. I vescovi, i preti, i
frati intendevano accesamente a queste persuasioni; se ne accendevano
mirabilmente gli animi del volgo.

Parte essenziale de' disegni della lega erano le deliberazioni del
senato veneto. L'imperadore, conghietturando che il terrore cagionato
dall'invasione di Savoia e di Nizza, e quell'insistere così vicino
sulle frontiere del Piemonte d'un nemico audace, e che mostrava tanta
inclinazione alle cose d'Italia, avessero mosso e disposto il senato a
piegarsi alla sua volontà, aveva con efficacissime parole dimostrato
che era oramai tempo di non più provvedere con consigli separati, e
di pensare di comune accordo alla salute comune. Rappresentavagli,
non isperasse preservare lo Stato, se quel diluvio di gente sfrenata,
valicati i monti, inondasse Italia; voler fare, e per sè e per gli
sforzi contemporanei del suo generoso alleato il re di Sardegna,
quanto fosse in potestà sua per allontanare da quel felice paese tanta
calamità; ma esser feroci i Franzesi, e gli eventi di guerra incerti;
vano pensiero essere il credere che chi fa spregio dell'umanità e
conculca ogni legge divina ed umana rispetti la neutralità; disprezzare
i Franzesi la neutralità, ed amar meglio un nemico aperto che un amico
dubbioso; avere egualmente in odio le aristocrazie che le monarchie, ed
il prestar fede alle protestazioni amichevoli loro essere un volersi
ingannare da per sè stesso. E dopo molte e molte convincentissime
ragioni e dimostrazioni: Questo è, aggiunse l'imperadore, l'estremo
de' tempi; il sorger di tutti solo poter essere la salute di tutti;
il mancar di un solo, la rovina di tutti. Pensasse adunque il senato
e maturamente considerasse la necessità de' tempi, l'infedeltà della
Francia, la fede della Germania, la lega proposta, gli aiuti offerti,
e l'avvenire, che già già incalzava e premeva, o felice o funestissimo
per sempre.

Il senato veneto, che per la sua prudenza sempre seppe bene conoscere
i tempi, ora male misurandoli, e volendo applicare ad un male
nuovo rimedii antichi, rispose che la repubblica, sempre moderata e
temperante, voleva esser amica a tutti, nemica a nissuno; che tale
mansueto procedere era sempre stato a grado di tutti i principi,
e sperava dover essere per l'avvenire, massime nella presente
controversia tanto piena di difficoltà e d'incertezza; che, quanto a'
sudditi, non aveva timore alcuno di novità, stante che conosceva e la
fede loro e la vigilanza de' magistrati; che ammirava bene la costanza
dello imperadore e de' suoi alleati in un affare di tanto pericolo, ma
che finalmente si persuadeva che Sua maestà imperiale, considerando
bene, secondo la prudenza sua la natura del governo veneto, avrebbe
conosciuto non dovere lui allontanarsi da quella moderazione che
l'aveva preservato salvo per tanti secoli; ricever somma molestia di
non poter deliberare altrimenti; esser parata la repubblica a dar il
passo alle genti tedesche, a sovvenir i confederati di quanto potesse
consistere con la neutralità; ma procedere più oltre, e soprattutto
implicarsi in guerre con altri, non comportar la fede, la costanza e la
consuetudine della repubblica.

Ma, moltiplicando sempre più gli avvisi de' progressi fatti da'
Franzesi nel ducato di Savoia e nel contado di Nizza, fu ben necessario
il pensare a provveder quello che la stagione richiedeva; e se non si
voleva impugnar l'armi per fare una guerra estrema, bisognava bene
considerare quanto fosse a farsi per preservare la repubblica dagli
assalti forestieri e da' tumulti cittadini.

Per la qual cosa, convocato straordinariamente il senato, vi si pose in
consulta quali fossero i provvedimenti da farsi per conservare salva
la repubblica nell'imminente pericolo dell'invasione dei Franzesi in
Italia. Francesco Pesaro, procurator di San Marco, uomo, il quale,
e per sè e pel seguito della sua famiglia, era in grandissima fede
appresso ai Veneziani, e di cui sarà spesso fatta menzione in questi
Annali, dal suo seggio levatosi e stando, ognuno attentissimo a
udirlo, parlò con gravissimo discorso in favore della neutralità
armata, conchiudendo ..... «io opino che si fornisca l'erario, che si
allestisca il navilio, che si levino le cerne, e che alcun polso di
Schiavoni sia chiamato a tutelare le cose di terra ferma. A questo io
penso che si debba dichiarare alle potenze belligeranti che il senato,
costante sempre nel suo procedere pacifico, vuol conservarsi fedele ed
amico a tutti, e che i moderati apparecchi d'armi mirano piuttosto e
solamente a conservazione di pace che a dimostrazione di guerra.»

Grande impressione fecero nella mente del senato le parole gravemente
dette dal Pesaro, nelle quali concorrevano amplissimamente tutti i
fondamenti che nel deliberare le imprese principalmente considerare
si devono. Al contrario, parlò con singolare eloquenza il savio del
consiglio Zaccaria Vallaresso per la neutralità disarmata, e la sua
orazione fu udita con grande inclinazione dalla più parte dei senatori,
soliti a godersi da lungo tempo le dolcezze della pace. Lo stesso
Pesaro, quantunque fosse uomo di molta virtù e di svegliati pensieri,
si lasciò svolgere dalla eloquenza dell'avversario e venne nella
opinione della neutralità disarmata. Però ne fu presa con unanime
consenso la deliberazione, solo contraddicendo, come dicesi, il savio
di terra ferma Francesco Calbo. Da questa prima cagione sorse la rovina
della repubblica, e se per l'oscurità e l'incertezza degli eventi umani
non si potrebbe affermare che il consiglio contrario l'avrebbe condotta
a salvamento, e se veramente era destinato dai cieli ch'ella perisse,
certo è almeno che sarebbe perita onoratamente e con fine degno del suo
principio.

Le medesime deliberazioni fece la repubblica di Genova per la
vicinanza di Francia, per l'integrità de' traffici e pel timore del
re di Sardegna. Avevano gli alleati qualche più fondata speranza in
Corsica. Erasi ridotto in questa sua antica patria il generale Paoli,
richiamatovi dall'assemblea costituente: godevasi quietamente il
restituito seggio, quando uomini feroci misero, sotto nome di libertà,
ogni cosa a soqquadro in Corsica come l'avevano messa in Francia.
Sdegnossene Paoli; sepperlo i confederati. Con lettere e con parole
esortatorie lo stimolarono non permettesse che la sua patria fosse
preda di uomini sfrenati; si ricordasse del nome suo, avvertisse essere
i Franzesi queglino stessi nemici contro i quali aveva sì generosamente
combattuto; considerasse avere allora i medesimi voluto opprimere la
libertà del suo paese con introdurre uno Stato civile, ora volervi
introdurre uno stato disordinato e barbaro; pensare quanto fosse
pietoso il liberare da gente crudele popoli che adoravano il glorioso
suo nome; desse mano di nuovo a quelle armi generose, esortasse,
levassesi, combattesse; essere in pronto nuova gloria, nuova libertà,
nuove benedizioni di popoli.

Queste insinuazioni già da lungo tempo tentavano l'animo di Paoli, il
quale veramente non poteva sopportare lo stato nuovo, ma l'importanza
del fatto prima di muoversi era che l'Inghilterra si chiarisse
delle sue intenzioni; e di comune consentimento fu deliberato che si
aspettasse la guerra dell'Inghilterra, solo intanto si tenessero gli
animi disposti.

Il re di Sardegna più speciale conforto riceveva, oltre il denaro
che gli veniva dalla Gran Bretagna, dall'accessione della Spagna;
era evidente che quante forze la Francia avesse mandato alla volta
de' monti Pirenei, di tante avrebbe scemato quelle che mandava per
le Alpi; sicchè Spagna e Piemonte, quantunque lontani, concorrevano,
combattendo, ad un medesimo fine.

A tutte queste speranze se ne aggiungeva un'altra assai viva, e
quest'era che, presentandosi grossi gli alleati sulle province
meridionali della Francia, vi sarebbero nati a favor loro, e contro
l'autorità del governo parigino, movimenti d'importanza. L'aspettare
che sorgessero novità favorevoli alla lega nelle provincie più vicine
alla Spagna ed all'Italia, non era certamente senza fondamento. La
soppressione dei traffici, nata a cagion della guerra, vi aveva dato
occasione a non poca mala contentezza, e l'enormità commesse a Parigi,
operando nelle menti più sane, vi avevano un grandissimo odio concitato
contro i commettitori di tanti scandali; ai più feroci poi pareva
oggimai troppo lungo che non si desse mano a far sacco e sangue. Questi
nuovi pensieri buoni e cattivi massimamente pullulavano in Marsiglia ed
in Lione, città grosse, emule a Parigi, ricche per commercio in pace,
ed ora povere in guerra, e se il nome del re di Sardegna era molto mal
gradito nella prima, era udito con più benigne orecchie nella seconda.

Tutte queste disposizioni non s'ignoravano dagli alleati massime per
mezzo della corte di Torino che usava un'arte grandissima nello spiare
e nello accordarsi segretamente in Savoia ed in Nizza sì coi magistrati
che coi capi dell'esercito. Queste trame parte si sapevano, parte si
presumevano dai giacobini. Quindi le mutazioni dei capi dell'esercito
erano frequenti, e siccome era rotta ed improvvida la natura loro, così
spesso punivano gl'innocenti od esultavano i rei. I supplizii poscia
e le confische, producendo abbominazione nei popoli, operavano che
sempre più quell'avversione che hanno naturalmente i Franzesi contro
i forastieri, che vogliono metter mano e piede nelle cose e nelle case
loro, si diminuisse, e con essa gli ostacoli alla disegnata invasione;
poichè tal era il terror delle mannaie, che i più preponevano la
servitù forastiera alla tirannide cittadina. Ordinavano l'imperatore ed
il re di Sardegna in tal modo i pensieri della guerra; nuovi reggimenti
tedeschi arrivavano in Piemonte; quelli che appartenevano all'armatura
leggiera, come Croati, Panduri e simili, s'avviavano alle montagne.
Gli squadroni più gravi e la cavalleria stanziavano nelle pianure più
vicine. Erano poi siffattamente ordinati, che le truppe piemontesi,
come più pratiche dei luoghi, e più snelle di natura, guernivano le
Alpi; alle quali, come abbiam detto, s'accostavano le genti leggieri
dell'imperatore; mentre le genti grosse austriache, stanziando nei
luoghi bassi, contenevano i popoli e si tenevano pronte a marciare
ovunque il nemico fosse riuscito a sboccare. Mandò l'imperatore a
reggere l'esercito confederato in Piemonte il generale Devins.

Era Devins uomo di buona mente, e salito pel valor suo dagl'infimi
gradi della milizia fino ai supremi, aveva in ogni occasione mostrato
la sua eccellenza nell'arte della guerra.

Devesi qui interrompere il filo della narrazione di questi preparamenti
e di questi maneggi per raccontare un fatto enorme accaduto in Roma
in sull'entrare del presente anno, il dì 13 di gennaio, e che in
appresso aggiunse gravezza ai fati papali. Un Basseville, segretario
della legazione di Francia, o per imprudenza propria, come alcuni
stimano, nel voler promuovere troppo vivamente le opinioni del tempo,
di cui era infatuato, o per un sorgere spontaneo dei Romani a cagione
dell'odio che portavano ai repubblicani, come altri credono, fu
crudelmente ammazzato a furia di popolo, con alcuni altri individui
della medesima nazione. Fu incesa anche nel medesimo fatto parte dei
palazzi dell'Accademia di Francia e del console franzese. Quantunque
il governo pontificio non vi avesse colpa, e che anzi avesse fatto in
quel subito accidente quanto per lui s'era potuto per frenare la rabbia
di chi voleva contaminar Roma con un sì grave misfatto, venne tempo in
appresso che importava ai repubblicani che glielo imputassero, e da lui
alla ferocia del romano governo argomentando, protestavano di volerne
fare condegna vendetta.

Intanto alcune pratiche segrete s'erano appiccate fra la corte di
Torino e gli aderenti al nome regio in Lione ed in Provenza, il cui
fine era di accordare i modi che si dovevano usare, perchè i disegni
che si macchinavano a benefizio comune avessero la loro esecuzione. E
siccome si faceva maggior fondamento sui Lionesi, più centrali di sito,
più vicini alla Germania, fonte e nervo principale della guerra, e più
tenaci di proposito che i Provenziali, così coi primi massimamente
si tenevano questi trattati. Quando i negozii si avvicinavano alla
conclusione, il signor di Precy, mandato dai Lionesi, andò egli
medesimo nascostamente a Torino per quivi accordarsi su quanto si
trattava: l'imperatore ed il re si offerivano parati a secondare i
suoi disegni con le forze loro. Intervenne Precy a molte consulte,
ed egli e Devins non tardarono d'entrare nella medesima opinione,
cioè, che, lasciata una parte dello esercito sulle Alpi marittime,
per tener a bada il nemico da quelle parti, il principale sforzo sì di
Tedeschi che di Piemontesi si dirizzasse contro la Savoia per quindi
marciare a Lione. Certamente disegno nè più conforme agli accidenti
nè di più probabile esecuzione non s'era mai concetto di questo; ma
il re Vittorio, mosso da un desiderio più generoso che considerato,
non vi volle acconsentire. Era egli gravissimamente sdegnato contro i
Savoiardi, siccome quelli che avevano accettato con amore i Franzesi,
e lui, con quella legione degli Allobrogi ordinata dal medico Doppet,
asperavano coi fatti, e più ancora l'asperavano con gli scherni e
per l'eccessive cose che dicevano contro di lui; mentre assai diverso
era il procedere dei Nizzardi, i quali, più alieni di natura, di mala
voglia sopportavano il nuovo imperio, e continuamente infestavano i
Franzesi, facendo loro, con bande sparse, tutto quel maggior male che
potevano.

Queste inclinazioni considerate dal re Vittorio, non volle mai udire
con pacato animo che si desse mano a liberare dalla tirannide franzese
prima i secondi che i primi. Ogni ora gli pareva mille anni che i
suoi fedeli di Nizza non tornassero al grembo suo, mentre per castigo
sopportava più volontieri che i popoli di Savoia continuassero a
gustare di quanto sapessero i Franzesi, non considerando ch'ei li
castigava di quanto essi più desideravano. Devins e Precy interposero
grandissima diligenza per persuadere il loro desiderio al re, ma
non avendo potuto vincere la sua ostinazione, si fermarono in questo
pensiero, che, munite le frontiere della Savoia con truppe sufficienti
per frenare il nemico, ed anche per ispingersi più oltre, secondo le
occasioni, si assaltasse la contea di Nizza col grosso dell'esercito,
come prima il tempo avesse condotto la opportunità di tentar l'impresa.

Questa fu la prima origine, questo il seme delle calamità innumerabili
e della variazione di quasi tutte le cose che poco dopo seguirono.
Devins continuamente si lamentava che il re di Sardegna gli avesse
tolta l'occasione di far chiaro il suo nome con una onorata e grande
vittoria.

Mentre tutte queste cose si sollecitavano per gli alleati, i Franzesi
pensavano ai modi di resistere alla piena che veniva loro addosso,
e le deliberazioni loro parte miravano la guerra, parte i negoziati,
parte le corruttele. Quanto alla guerra, si consigliarono di preporre
ai due eserciti, dell'Alpi e d'Italia, un solo generale, acciocchè, per
l'unità dei pensieri potesse più efficacemente conseguire il medesimo
fine; ed a ciò scelsero un uomo non solo di provato valore, ma ancora
di provata fede, Kellerman, che aveva testè combattuto i Prussiani
con molta gloria sulle sponde della Marna. All'aprirsi della stagione,
componeano l'esercito cinquanta mila soldati, buoni per la disciplina,
ottimi per valore, terribili per la rabbia. Kellerman, recatosene
in mano il governo, siccome il nemico principalmente minacciava di
prorompere sulle ali estreme della troppo larga frontiera, così sulla
Savoia e su Nizza, determinossi a porre il campo grosso in un sito
mezzano, a Tornus, posto nella valle di Queiras, per essere ad un di
presso ugualmente discosto da Nizza e da Ciamberì, e vi mandava le
genti, l'armi e le vettovaglie. Ma la difesa era difficile, perchè
gli alleati occupavano tuttavia la sommità delle Alpi su tutta la
frontiera, e potevano con facilità e vantaggio calare nelle parti più
basse, e cacciarne i Franzesi, combattendoli dall'alto. Per ovviare a
questo pericolo, il generale franzese dispose con lodevol arte le sue
genti nelle valli della Savoia superiore che accennano per istrade
più facili all'Italia. Così munì Termignone e San Giovanni nella
Morienna; Moutiers nella Tarantasia, e per maggior sicurezza allogò un
grosso corpo a Conflans. Nelle Alpi marittime, ove i Piemontesi e gli
Austriaci insistevano con grandissimo vantaggio, Kellerman, distendendo
l'esercito dalla Roia sino ai fonti della Nembia, aveva munito tutte le
cime accessibili delle montagne, e posto il campo in mezzo, sul monte
Fogasso. Quanto all'ala sua sinistra, dove il pericolo era maggiore
per la facilità dei varchi e per la vicinanza della città di Nizza,
alla quale principalmente miravano gli alleati, oltre le stanze solite,
aveva collocato un grosso squadrone, come squadra di riscossa, sul
monte Boletto.

Questi erano i preparamenti guerrieri di Francia; le arti politiche
furono le seguenti. Tentarono la Porta Ottomana, affinchè si aderisse
alla repubblica contro l'Austria e contro Venezia, ma fu senza
frutto. Tentarono Venezia, promettendole grossi e pronti aiuti, ed
ingrandimento di Stato a pregiudizio dell'imperadore; ma il senato
perseverò nella neutralità, offerendo a' Franzesi quelle medesime
agevolezze negli Stati veneti che erano state concedute alle potenze
confederate.

Parte principalissima della lega, tra per forza de' suoi eserciti e
per la situazione del suo dominio, era certamente il re di Sardegna.
Adunque i capi del governo franzese assai volentieri piegarono l'animo
a provare se potessero con promesse guadagnarsi la sua amicizia. A
questo fine furono introdotti alcuni negoziati segreti tra un agente di
Robespierre, per parte della Francia, ed il conte Viretti, per parte
del re. Ma il re, che animoso era, e sapeva anche del cavalleresco,
non volle mai udire pazientemente le proposte di fare collegazione con
Francia, nè accettare le speranze che gli si proponevano, aggiungendo
parole, certo molto prudenti, che non si voleva fidar de' giacobini.
Così, rifiutati del tutto i consigli quieti, sorse più ardente
l'inclinazione alla guerra.

Mentre così andavano i repubblicani di Francia lusingando i potentati
d'Italia per conciliarsi l'amicizia loro, non cessavano per uomini a
posta e per mezzo de' loro giornali, che pure, malgrado della vigilanza
de' governi ad interromperli, si insinuavano nascostamente in ogni
luogo, a spargere mali semi ne' popoli, con invasarli dell'amore
della libertà ed imitarli a levarsi dal collo il giogo degli antichi
signori. Queste instigazioni non restavano senza effetto, perchè di
quella libertà nella lontana Italia si vedevano soltanto le parole,
e non bene se ne conoscevano i fatti. Le parti nascevano, le sette
macchinavano accordi, le fazioni tumulti. Ma non fia senza utilità
il particolarizzare gli umori che correvano a que' tempi in Italia,
acciocchè i posteri possano distinguere i buoni da' tristi, conoscere
i grandi inganni e deplorare le debolezze fatali. Adunque in primo
luogo gli uomini si erano generalmente divisi in due parti, quelli che
parteggiavano pei governi vecchi, detestando le novità, e quelli che,
parteggiando pe' Franzesi, desideravano mutazioni nello Stato. Fra i
primi alcuni così opinavano per fedeltà, alcuni per superbia, alcuni
per interesse. Erano i fedeli i più numerosi, fra i quali chi per
tenerezza verso le famiglie regnanti, e questi erano pochi, chi per
bontà di giudizio o per esperienza delle azioni umane, il numero de'
quali era più largo, e chi finalmente per consuetudine, e questi erano
i più. Fra i superbi osservavansi principalmente i nobili che temevano
di perdere in uno stato popolare l'autorità ed il credito loro. Tra
questi, oltre i nobili, mescolavansi anche non pochi popolani che
volevano diventar nobili od almeno tenere i magistrati. Per interesse
poi abborrivano lo stato nuovo tutti coloro che vivevano del vecchio,
e questi erano numerosissimi; a costoro poco importava la equalità
o la non equalità, la libertà o la tirannide, solo che si godessero
o sperassero gli stipendii. Si aggiungevano alcuni prelati ricchi
ed oziosi, per interesse, i preti popolari e buoni, per amor della
religione. In tutti poi operava un'avversione antica contro i Franzesi,
nata per opera de' governi italiani sempre sospettosi della potenza di
quella nazione e del suo appetito di aver signoria in Italia.

Di tutti quelli che fino a qui siamo andati descrivendo, alcuni erano
utili ai governi, alcuni disutili, alcuni dannosi, ned è mestieri
che si vengano individuando, che ognun se li vede. Ma i dannosi erano
gli ambiziosi, i quali credevano di render più sicuro lo Stato loro
coll'esagerarlo, e si proponevano di far argomento di gran fiducia con
mostrar maggiore insolenza. Il frenarli non pareva buono ai governi,
perchè temevano e di alienar coloro di cui avevano bisogno, e di
mostrar debolezza ai popoli. L'odio di costoro principalmente mirava
contro gli uomini della condizione mezzana, nei quali supponevano
dottrine per lettura, orgoglio per dottrine, autorità col popolo
per contatto. Gli uni chiamavano gli altri ignoranti, insolenti,
tiranni, gli altri chiamavano gli uni ambiziosi, novatori, giacobini,
e tra mezzo ad ire sì sfrenate, non trovando gli animi moderazione,
ed introdotta la discordia nello Stato, si preparava l'adito ai
forastieri.

Ora, per dire di coloro che inclinavano a' Franzesi, od almeno
desideravano che per opera loro si facessero mutazioni nello Stato,
diremo che per la lettura de' libri de' filosofi di Francia era sorta
una setta di utopisti, i quali, siccome benevolenti ed inesperti
di queste passioni umane, credevano esser nata un'era novella, e
prepararsi un secol d'oro. Costoro, misurando gli antichi governi
solamente dal male che avevano in sè, e non dal bene, desideravano le
riforme. Questa esca aveva colto i migliori, i più generosi uomini,
e siccome le speculazioni filosofiche, che son vere in astratto,
allettavano gli animi, così portavano opinione che a procurar
l'utopia fra gli uomini non si richiedesse altro che recare ad atto
quelle speculazioni, persuadendosi, certo con molta semplicità, che
la felicità umana potesse solo e dovesse consistere nella verità
applicata. Queste radici tanto più facilmente e più profondamente
allignavano quanto più trovavano un terreno bene preparato a riceverle
ed a farle prosperare, massime in Italia, a cagione della memoria delle
cose antiche. Chi voleva essere Pericle, chi Aristide, chi Scipione,
e di Bruti non v'era penuria; siccome poi un famoso filosofo franzese
aveva scritto che la virtù era la base delle repubbliche, così era
anche nata la moda della virtù. Certamente non si può negare, ed i
posteri devonlo sapere, che gli utopisti di que' tempi per amicizia,
per sincerità, per fede, per costanza d'animo e per tutte quelle
virtù che alla vita privata si appartengono non siano stati piuttosto
singolari che rari. Solo errarono perchè credettero che le utopie
potessero essere, perchè si fidarono di uomini infedeli e perchè
supposero virtù in uomini che erano la sentina de' vizii.

Costoro, così affascinati com'erano, offerivano fondamento a' disegni
de' Franzesi, perchè avevano molto seguito in Italia; ma fra di loro
non tutti pensavano allo stesso modo. I più temperati, ed erano
il maggior numero, avvisavano non doversi muovere cosa alcuna, ed
aspettavano quietamente quello che portassero i tempi. Altri più audaci
opinavano doversi aiutar l'impresa co' fatti, e però si allegavano,
tenevano congreghe segrete, ed avevano intelligenze in Francia,
procedendo a fine di un bene immaginario con modi degni di biasimo.

A tutti questi, come suol avvenire, s'accostavano uomini perversi,
i quali celavano rei disegni sotto magnifiche parole di virtù, di
repubblica, di libertà, di uguaglianza. Di questi alcuni volevano
signoreggiare, altri arricchire; gli avidi, gli ambiziosi eran
diventati amici della libertà, e nissun creda che altri mai abbia
maggiori dimostrazioni fatto d'amor di patria, che costoro facevano.
Essi soli erano i zelatori, essi i virtuosi, i patriotti, ed i poveri
utopisti eran chiamati aristocrati; accidenti tutti pieni di un
orribile avvenire; imperciocchè non solamente pronosticavano mutazioni
nello Stato vecchio, ma ancora molto disordine nel nuovo.

A tutte queste sette, all'una o all'altra delle quali s'erano accostati
anche per lo più gli ecclesiastici, si aggiungeva quella degli
ottimati, la quale, avida anche essa del dominare, e nemica ugualmente
all'autorità reale ed all'autorità popolare, sperava che in mezzo alle
turbazioni potesse sorgere la sua potenza. Costoro nè aiutavano nè
disaiutavano la potenza reale che pericolava, ed aspettavano la loro
esaltazione dalla potenza popolare che loro era nemica.

Tal era la condizione d'Italia; i buoni esperti volevano la
conservazione per previdenza di male, i buoni inesperti volevano la
novità per isperanza di bene, i malvagi desideravano rivoluzioni per
dominare e per succiarsi lo Stato; il clero stesso ondeggiava; dei
nobili alcuni erano fedeli e temperati, altri fedeli ed insolenti,
e per l'insolenze loro operatori che nascessero male inclinazioni
nel popolo: altri finalmente poco fedeli, ma prudenti, aspettavano
quietamente le occasioni: in mezzo a tutte queste inclinazioni
s'indebolivano continuamente i fondamenti dello Stato; pure la massa
dei popoli perseverava sana, ed avrebbe potuto essere di grande
appoggio a chi avesse saputo usarla prudentemente e fortemente.

Narrati i preparamenti, le trame e le speranze di ambe le parti, ora
si descriveranno gli accidenti che portò seco la fortuna dell'armi:
nel che si dovrà sempre tenere a mente che in quest'anno intenzione dei
Franzesi non era di farsi strada in Italia per forza se non nel caso in
cui la fortuna avesse loro scoperto occasioni molto favorevoli; perciò
disegnavano di starsene sulla guerra difensiva, mentre dall'altro
canto gli alleati volevano ad ogni modo, usando l'offensiva, penetrare
nell'interno della Francia.

I Franzesi, prevedendo una guerra vicina coll'Inghilterra e la Spagna,
e volendo usare la breve signoria che restava loro nel Mediterraneo,
avevano ordinato una spedizione contro l'isola di Sardegna. Posta
in ordine un'armata nel porto di Tolone, composta di ventidue navi
da guerra, fra le quali se ne noveravano diecinove grosse di fila;
per combattere in terra ed usar le occasioni che si appresentassero,
vi aveva il governo di Francia imbarcato sei mila soldati atti a
combattere nelle battaglie stabili di terra. Questa mole guerriera
dovevano seguitare molte navi da carico, per imbarcarvi i frumenti e
trasportargli in Francia. Il governo di sì fiorita spedizione fu dato
all'ammiraglio Truguet; laonde, trovandosi ogni cosa in pronto, ed
appena giunto il presente anno, l'armata franzese, salpando da Tolone
se ne veleggiava con vento prospero verso Sardegna; vi giunse prima
del finir di gennaio, ed il dì 24 del medesimo mese pose l'ancora,
mostrando un terribile apparato, nel porto di Cagliari; nè ponendo
tempo in mezzo, l'ammiraglio mandò un uffiziale con venti soldati a
far la chiamata alla città. Qui nacque il medesimo caso già deplorato
di Oneglia, cioè che i Sardi, veduto avvicinarsi il palischermo sul
quale era inalberata la nuova insegna dei tre colori, trassero sì, che
l'uffiziale e quattordici soldati restarono morti, e la più parte degli
altri feriti. L'ammiraglio pose mano a fulminare ed a bombardare la
piazza con tutto il pondo delle sue artiglierie. Nè i difensori se ne
stettero oziosi; spesseggiando coi colpi e traendo con palle di fuoco
contro le navi franzesi, sostenevano una ferocissima battaglia. Questo
assalto durò tre giorni con poco danno de' Sardi, ma con gravissimo
dell'armata franzese, della quale una nave grossa arse, e due andarono
a traverso. Le altre, o rotte sconciamente nel corpo, o lacerate
negli arredi, a stento potevano mareggiare. In questo mentre, oltre il
presidio che combattè egregiamente, massime i cannonieri, arrivarono
i montanari, che si erano mossi quando dall'alto avevano veduto
avvicinarsi l'armata nemica; ed ora essendo stati distribuiti ai luoghi
più opportuni, minacciavano di rincacciare e di uccidere chiunque
si attentasse di sbarcare; memorabile esempio di fedeltà civile e di
virtù militare. E in fatti, quanti sbarcarono, o restarono uccisi, o,
costretti dai montanari, si ricoverarono precipitosamente alle navi.
Così restò vana la fatica ed il desiderio dell'ammiraglio di Francia.
Perderono i Franzesi in questo conflitto circa seicento buoni soldati.
Dal canto dei Sardi, cinque solamente furono uccisi, pochi feriti. Nè
Cagliari ricevè danno proporzionato a tanto bersaglio; solo i sobborghi
situati di sotto e più vicini al mare patirono. L'ammiraglio, veduto
che gl'isolani, ne' quali aveva posto la principale speranza, non
solamente non avevano fatto movimento in suo favore, ma ancora avevano
validamente combattuto contro di lui, disperato dell'evento, si allargò
nel mare lontano dalla portata delle batterie, quantunque tuttavia
stanziasse ancora con le sue navi, così lacere com'erano, per qualche
tempo nelle acque del golfo di Cagliari. Ma poco stante non essendo
senza sospetto di ammutinamento nei suoi soldati, come suole avvenire
nelle disgrazie, e levatasi una furiosa tempesta, se ne andò di nuovo a
porre nel porto di Tolone, dove l'attendevano casi ancor più tremendi.

Mentre in tal modo una guerra viva s'era accesa e presto spenta sulle
coste di Sardegna, le cose della Corsica non passavano quietamente:
la perdita medesima dell'impresa di Cagliari diede fomento a coloro
che, scontenti del governo di Francia, macchinavano di rivolgere
lo Stato. Mosso dall'odio antico e dalle ingiurie recenti, andava
Paoli sollevando ed armando le popolazioni, massimamente ne' luoghi
montuosi ed inaccessi. Al qual disegno gli preparavano la strada la
chiarezza del suo nome, la venerazione in cui lo avevano i Corsi, le
esorbitanze dei repubblicani. E le sue esortazioni producevano un
effetto incredibile. I montanari, mossi alle voce del mantenitore
della libertà corsa, calavano in folla, pronti a combattere sotto
le sue insegne contro gl'intemperanti repubblicani. Le stesse città
principali di Corte e di Aiaccio, mutato l'ordine pubblico, accettavano
il nuovo governo, rivocavano dal consesso nazionale di Francia i loro
deputati, chiamavan o Paoli generalissimo delle genti, ribandivano i
fuorusciti, restituivano il clero nella pristina condizione, e, fatto
un grosso di mille dugento soldati bene armati, s'impadronivano delle
riposte pubbliche, ed assaltavano le genti della repubblica. I soldati
repubblicani, sorpresi da tanto tumulto e ad impeto tanto improvviso,
fatto prima un poco di testa nei luoghi più forti, si ritirarono nelle
fortezze di Bastia e di San Fiorenzo. Era sorta intanto la guerra tra
la Gran Bretagna e la Francia, accidente di sì supremo momento per ambe
le parti. Ne pigliavano nuovi spiriti quei Corsi che aderivano a Paoli
e detestavano il nome di Francia.

Intanto, per dar forma al governo nuovo e ricompor quello che il
disordine dei popoli tumultuanti aveva scomposto, Paoli aveva adunato
una consulta che, procedendo secondo i tempi, gli conferiva potestà
di fare quanto credesse necessario alla conservazione della libertà
ed alla salute del popolo. Nel tempo medesimo bandiva, sotto pena di
morte, i commissarii di Francia, Casabianca, Saliceti ed Arena.

Il consesso nazionale, udite queste novità, risentitamente deliberando
decretava, essere cassa la consulta di Corsica, si arrestasse Paoli e
si conducesse alla sbarra dell'assemblea, fossero Casabianca, Saliceti
ed Arena investiti di qualunque suprema facoltà per rinstaurar lo
Stato e castigar i ribelli; il general Lacombe Saint-Michel contro i
ribelli marciasse. Obbediva Lacombe; nel medesimo tempo i commissarii
del consesso fulminavano con gli scritti e con le parole contro Paoli
e contro coloro che a lui si aderivano. Aggiungevano alle esortazioni,
che ai Corsi dirigevano, parole terribili e gonfie, secondo il
solito, minacciando castigo inevitabile, e confische, e morti a chi
contrastasse.

Raggranellati quei Corsi che per un motivo o per l'altro tenevano
per Francia, ed adunati, come meglio potè, i suoi soldati, Lacombe
era uscito dai forti; dall'altra parte, insisteva Paoli colle genti
collettizie. Ne sorgeva tra quelle rupi una guerra minuta e feroce;
ne' giusti incontri prevalendo le genti disciplinate di Lacombe, nella
guerra sparsa vantaggiando le genti di Paoli; e se non pareva che fosse
possibile che i Franzesi sforzassero i Corsi nei luoghi alpestri, non
si vedeva dall'altro canto come i Corsi potessero sforzare i Franzesi,
forti per disciplina e per artiglierie, nelle pianure e nelle terre che
occupavano sul lido.

Mentre in cotal modo le sorti della Corsica pendevano incerte, si
scopersero improvvisamente sulle sue coste più di venti navi inglesi
da guerra, le quali faceveno opera per intraprendere quelle che
si avviavano all'isola. Poscia, appoco appoco accostatesi al lido,
infestavano con bombe e con palle i luoghi che Paoli assaltava dalla
parte di terra; poste anche sul lido alcune genti, ed unite con le
schiere di Paoli, rendevano molto difficile la difesa a' Franzesi. Per
la qual cosa Lacombe, abbandonata l'isola, si ritirava a Genova sul
principiare di maggio. Rimanevano in mano dei Franzesi, Bastia, Calvi
e San Fiorenzo, ma non soprastettero ad entrare sotto le devozione del
vincitore. Così tutta la Corsica, dopo di aver obbedito al freno di
Francia per lo spazio di venticinque anni, venne, non saprebbesi dire
se in potestà propria o in potestà dell'Inghilterra.

Cacciati i Franzesi dall'isola, vi fu creato un governo per mezzo
di provvisione che intieramente dipendeva da Paoli e dalla parte
contraria alla Francia; l'autorità dei municipii fu ordinata secondo
le forme antiche. Paoli si accorgeva che questa condizione, siccome
transitoria, poteva terminarsi in molte maniere; però desiderava di
stringere, sì per fare un destino certo alla sua patria, e sì ancora
per metterla in grado di resistere ai tentativi della Francia sì vicina
e sì potente. Da un altro lato era pensiero dell'Inghilterra, per le
medesime ragioni, e per avere un piè fermo nell'isola, tanto opportuna
a' suoi traffici, a' suoi arsenali ed alla sua potenza, che si venisse
ad un partito determinativo. A questo fine Paoli applicò l'animo a
sollecitare il re della Gran Bretagna, acciocchè, ordinato un governo
libero in Corsica, ne pigliasse protezione, e il difendesse dagli
assalti della Francia: gratissimo suono all'Inghilterra. Da questo
seguitarono gli accidenti che si vedranno nell'anno seguente.

La guerra sorta coll'Inghilterra e colla Spagna e le armate loro
che erano giunte, o frappoco si attendevano nel Mediterraneo, erano
occasione di molesti pensieri ai Franzesi che occupavano la contea di
Nizza; laonde Brunet, che a quel tempo l'esercito in questi luoghi
governava, si risolvette a tentare qualche impresa di momento prima
che i confederati si fossero fatti forti nei mari vicini. Il fine di
questo moto era di cacciare i Piemontesi, dalle sommità e prender per
sè quei vantaggio che allora si trovava in mano del nemico. Partitosi
adunque sul principiar di maggio dalla Scarena, si dirizzava verso
i monti. E, siccome l'esercito piemontese era padrone di tutte le
creste, così gli fu d'uopo dividere le sue genti in moltiplici assalti.
Erano i Piemontesi sotto la condotta dei generali Colli e Dellera;
siccome avevano avuto intesa della mossa del nemico, così se ne
stavano apparecchiati per ributtarlo. Adunque, preparati gli uomini
e le armi dall'una parte e dall'altra, andavano, il dì 8 giugno, i
Franzesi all'assalto con un valore e con una furia incredibile; nè la
difficoltà dei luoghi, nè il calore della stagione, che era smisurato,
nè la tempesta di palle che fioccavano loro addosso, non li poterono
rattenere che non giungessero fin sotto le trincee, colle quali sul
sommo dei gioghi si erano i Piemontesi fortificati. Tanto fu l'impeto
loro, che tutti i posti furono sforzati, salvo quello di Raus, sotto il
quale si combatteva ostinatissimamente. Arrivarono i repubblicani con
un'audacia inestimabile fin sotto le bocche delle artiglierie italiane;
ma quanti arrivavano, tanti erano uccisi. Continuò la battaglia con
molto valore da ambe le parti con poco danno dei Piemontesi e con
gravissimo danno dei Franzesi, i quali rinfrescando continuamente con
nuovi rinforzi i combattenti, sostenevano quel duro scontro; ma in
questo punto i capi regii, veduta l'ostinazione del nemico, mandarono
al capitano Zin piantasse le artiglierie in un giogo vicino, e di là
lo fulminasse sul fianco. Il quale consiglio, opportuno per sè, fu
con tanta arte e con sì gran valore eseguito da Zin, che percossi i
repubblicani di costa, e raffrenata la temerità loro, abbandonarono
precipitosamente l'impresa, ritirandosi e lasciando i fianchi di quelle
montagne miseramente cospersi dei cadaveri de' compagni loro. In questo
fatto mostrarono i Franzesi il solito valore impetuoso e sconsiderato;
i Piemontesi, massimamente gli artiglieri ed il reggimento provinciale
di Acqui, che difendea le trincee di Raus, arte e costanza. Perdettero
i primi in questo fatto meglio di quattrocento buoni soldati tra morti,
feriti e prigionieri; negli altri assalti dati in questo medesimo
giorno circa trecento. Ne perdettero i secondi in tutta la giornata
circa trecento con due cannoni e molti arnesi da guerra. Ma tale era
l'importanza del colle di Raus, che i repubblicani, non isbigottiti
all'infelice successo della battaglia dell'8, lo assaltarono di nuovo
il dì 12 dello stesso mese con ben dodici mila soldati risolutissimi a
voler vincere. Ma nè il numero, nè il valor loro poterono operar tanto
che non fossero una seconda volta con gravissima perdita risospinti.
Così fu conservato in poter dei Piemontesi il forte posto di Raus,
dal quale intieramente pendevano gli accidenti della guerra in quelle
parti.

La fazione tanto sanguinosa di Raus aveva singolarmente raffrenato
l'audacia de' repubblicani e dato occasione agli alleati di sollevar
l'animo a più alte imprese. Se ne fecero allegrezze in Piemonte, e si
argomentava che la fuga di Savoia e di Nizza dalla mala condotta de'
capi, non da mancanza di valore ne' soldati si doveva riconoscere.

Da un altro lato i repubblicani accusarono i capi loro di tradimento.
Kellerman, avute le novelle de' fatti avversi accaduti nell'Alpi
marittime, si era condotto a Nizza per sopravveder le cose, e per
mettere in opera que' rimedii che i tempi richiedessero. Il pericolo
maggiore era quello che l'esercito alleato, facendo punta verso il
Varo, si ficcasse in mezzo, nel qual caso sarebbe stato forza evacuare
prestamente tutta la contea. Considerato bene il tutto, fe' munire
accuratamente i posti che accennavano sulla estremità dell'ala sinistra
dell'esercito dell'Alpi marittime; e ciò col fine di tener aperte le
strade a poter comunicare con le genti che tenevano il campo di Tornus,
per mezzo delle alture della Tinea, e nel tempo medesimo di stare
all'erta ed in buona guardia di quanto potesse sopraggiungere dalla
valle di Stura, per qualche passo de' gioghi sommi che coronano le Alpi
da quelle parti, e soprattutto dal colle delle Finestre, pel quale il
varco è molto più agevole.

A riscontro Colli e Dellera avevano fortificato di vantaggio e munito
di genti fresche il colle di Raus, sul quale insisteva l'ala dritta
dell'esercito loro, e distendendosi su per quelle cime fino al forte
di Saorgio, avevano speranza non solamente di resistere, ma ancora di
conseguire qualche onorata vittoria.

L'arrivo delle armate inglesi nel Mediterraneo, dando maggior animo
agli Stati d'Italia che già si erano dichiarati, diede anche occasione
di manifestarsi a coloro che, più per timore che per desiderio di
neutralità, se n'erano stati fino allora ad osservare. Per la qual
cosa il re di Napoli, scoprendosi intieramente, chiudeva i porti a'
Franzesi, e si obbligava a fornire alla lega di sei mila soldati, con
grosse navi da guerra e molte minori. Il papa medesimamente, che aveva
causa particolare di temere de' Franzesi, armava e prometteva di dar
gente; ma Venezia, Genova e Toscana persistevano nella neutralità.
Però gl'Inglesi, per farle venire ad una deliberazione terminativa,
aggiunsero alla presenza delle navi i negoziati politici; mostrarono in
questi trattati, massimamente con Genova e Toscana, tanta arroganza,
che già fin d'allora ebbe l'Italia un saggio, e potè prendere augurio
di quello che i forastieri le preparavano.

Un Harvey, ministro d'Inghilterra a Firenze, scriveva a Seristori,
ministro del granduca, dopo un superbo preambolo: sapesse il granduca
che l'ammiraglio Hood avea comandato che un'armata inglese con una
parte della spagnuola sarebbero venute a Livorno per vedere quello che
sua altezza volesse farsi; sapesse inoltre sua altezza, e ciò l'Harvey
dichiarare per bocca dell'ammiraglio Hood e in nome del re suo signore,
che se in termine di dodici ore ella non aveva cacciato da' suoi Stati
De La Flotte, ministro di Francia, e gli altri suoi aderenti, l'armata
avrebbe assaltato Livorno. Badasse bene sua altezza a quello che si
facesse, poichè solo mezzo di prevenire l'inimicizia d'Inghilterra
era di eseguire puntualmente e subito quanto ora le si domandava, cioè
cacciasse La Flotte, e con quel governo regicida di Francia rompesse;
facesse causa cogli alleati.

Con tanta insolenza Harvey favellava ad un sovrano indipendente, ad un
principe di casa austriaca; con altrettanta rimproverava ad altrui un
Inglese di aver ucciso un re. Rispose assai rimessamente Seristori che
il granduca aveva dato ordine che De La Flotte ed i suoi aderenti, fra
cui Chauvelin e Fougère, se ne partissero di Toscana il più presto che
fosse possibile; ma non si scoprì quanto allo accostarsi alla lega ed
al romper guerra alla Francia.

Le stesse minacce furono fatte e nel medesimo tempo dal ministro
inglese Drake ai Genovesi; ed alle minacciose ed inconvenienti
parole si aggiunsero fatti più minacciosi e più inconvenienti ancora.
Imperciocchè, trovandosi la fregata franzese la Modesta a stanziare nel
porto di Genova, fu improvvisamente assalita da due navi inglesi, che
le si erano a questo fine poste a lato, e presa con uccisione di non
pochi marineri che vi si trovarono a bordo.

Parve a tutti questo fatto, com'era veramente, di pessimo esempio; e
se prima si temevano le insolenze franzesi in uno stato così vicino,
ora più si temevano per la violata neutralità. In fatti non così tosto
si ebbe a Nizza notizia di questo attentato che i rappresentanti del
popolo, Robespierre giovane e Ricard, pubblicarono uno sdegnosissimo
scritto che conchiudeva che Genova si risolvesse incontanente a
voler essere o amica degli amici o nemica de' nemici della società
oltraggiata nelle persone de' repubblicani franzesi; protestavano
poscia al popolo genovese che se il senato tardasse a risolversi ed
a punire con giusto ed esemplare castigo gli autori di un delitto
commesso nel suo porto e sotto le bocche delle sue artiglierie, sarebbe
stimato ostilità, e la repubblica avrebbe di per sè fatto quanto
crederebbe necessario per vendicarsi di una sì orribile violenza.

Le medesime acerbe parole fece poco tempo dopo Robespierre maggiore
contro Genova, favellando alla tribuna del consesso nazionale; e
così il governo di Genova, stretto da due necessità, non sapeva a
qual partito appigliarsi. Pure, siccome il non risolversi era peggio
che risolversi, tutto bene ponderato, il senato deliberò di starsene
neutrale, aggiungendo in risposta, che molto gl'incresceva di non poter
deliberare altrimenti, ma che la necessità dei tempi non ammetteva
altra risoluzione. Quanto poi al fatto della Modesta, se ne stette sui
generali.

Il senato veneziano fu nuovamente tentato a questi tempi. Era
residente in Venezia per parte dell'Inghilterra il cavaliere Worsley,
personaggio non tanto rotto quanto Hervey e Drake, ma pure intentissimo
a procurare gl'interessi dei confederati. Questi, o fosse la natura
sua più temperata, o comando del re, che portasse maggior rispetto
a Venezia più potente, che a Toscana ed a Genova più deboli, fece
modestamente le sue rappresentanze al senato, favellando piuttosto
per modo di consiglio che di richiesta. Pregava pertanto ed esortava
caldamente il senato che fosse contento di allontanare da Venezia
quella occasione di scandali, quella sentina di mali, quella radice
di corruttele dell'ambasceria franzese. Concludeva che se il senato
consentisse a licenziare l'ambasceria, e se vietasse ai Franzesi le
tratte d'armi e di vettovaglie dagli Stati della repubblica, sarebbero
gli alleati contenti, che nel resto conservasse la sua neutralità, e
che, in caso di guerra dalla parte di Francia, se gli assicurerebbero
gli Stati con tutte le forze della lega; che già fin d'allora gli si
offerivano le armate d'Inghilterra e di Spagna, ordinate di modo che
ne fossero preservati da ogni insulto. Queste parole terminò dicendo,
porgere lui alla repubblica da parte del re suo signore, che glielo
comandò di bocca propria; porgerle per mandato del ministro Pitt;
porgerle ancora per mandato espresso dell'imperatrice di tutte le
Russie, dell'imperatore d'Austria e del re di Prussia. Si riscuotesse
adunque e prendesse quelle deliberazioni che a tempi tanto pericolosi,
a richieste tanto efficaci, ad offerte tanto generose ed alla salute
stessa della repubblica si convenivano.

Il senato veneziano, non mai solito ad appigliarsi a partiti
precipitosi, e credendo che la forza della Francia, quantunque
disordinata per la discordia, fosse formidabile per la rabbia, e
capace di fare qualche sbocco in Italia, volendo altresì conservare
salvi i traffichi di mare, rispose gravemente, voler serbare intera la
neutralità, non poter risolversi a licenziare lo incaricato d'affari di
Francia Jacob, ma che solamente il chiamerebbe incaricato della nazione
franzese, non della repubblica.

Worsley non fece altra dimostrazione e continuò a starsene a Venezia,
dove continuamente biasimava i discorsi superbi di Harvey e di Drake al
granduca ed a Genova.

La cupidità del gran mastro dell'ordine di Malta alla guerra
non essendo più raffrenata dal timore dei Franzesi a cagione
dell'intervento degl'Inglesi nel Mediterraneo, prese animo di
manifestare più apertamente quello che già da lungo tempo sentiva
rispetto agli affari di Francia; imperciocchè, recandosi in ciò
esortatore il re di Napoli, aveva comandato, che tutti gli agenti
franzesi se ne uscissero dall'isola e che i porti fossero chiusi a
qualunque nave franzese sì pubblica che privata, finchè durasse la
presente guerra: pubblicato inoltre che non sarebbe mai per accettare
ad incaricato d'affari chiunque a lui si mandasse da quella repubblica,
ch'ei non doveva, nè poteva, nè voleva conoscere.

In cotal modo, essendo sorta la guerra tra la Francia e l'Inghilterra
e, comparse le armate inglesi nel Mediterraneo, si ravvivavano le
speranze dell'Austria e della Sardegna in Italia, furono serrati ai
Franzesi tutti i porti del Mediterraneo e dell'Adriatico, salvo i
Veneziani ed i Genovesi, si aggiunsero alle forze della lega quelle
della Chiesa e di Napoli, e l'aspettazione degli uomini divenne tanto
maggiore quanto più vedevano che se dall'un dei lati si era cresciuta
nuova forza ai confederati, dall'altro cresceva a proporzione la
concitazione ed il furore in Francia.

Oggimai si aprivano le occasioni agli accidenti importanti, ai quali
da lungo tempo tendevano i consigli dei confederati rispetto alle
provincie meridionali della Francia. La cacciata fatta dal consesso
nazionale e la proscrizione della setta girondina, come la chiamavano,
diè cagione a coloro che la seguitavano ed a coloro che od amavano la
libertà, conculcata dagli sfrenati giacobini, o s'intendevano con gli
alleati per rinstaurare il governo regio, di collegarsi, di correre
all'armi, e di far tumulti e sollevazioni. Già le città di Bordò,
di Mompellieri e di Nimes tumultuando mostravano con quanto sdegno
avessero ricevuto le novelle del cacciamento dei deputati loro: ma
l'importanza del fatto consisteva nella grossa città di Lione, che era
stata la mira di tutte le pratiche segrete tenute già da qualche tempo
tra i capi della lega a Torino ed i capi degli scontenti. Congiuntisi
nelle sue mura Biroteau ed alcuni altri capi dei girondini di minor
nome con Precy, commossero alle armi tutta la città e pubblicarono
manifesti contro la tirannide del consesso nazionale.

Non è di questi Annali il narrare particolarmente l'oppugnazione di
Lione, che poco tempo dopo seguì, e che fu uno dei fatti più memorabili
di quest'anno, sì pel valore e la ostinazione d'ambe le parti, e sì per
l'immanità dei vincitori. Ma come prima i Lionesi erano insorti contro
l'autorità di chi reggeva, i Marsigliesi si erano levati ancor essi a
rumore. Impazienti di starsene chiusi fra le mura, e raccolti sotto le
insegne in numero assai notabile, si dirizzarono al soccorso di Lione.
Non avevano i Lionesi trovato nei popoli circonvicini quell'aderenza
che avevano sperato; e i Marsigliesi vantavansi di esser capaci da
sè soli di vincer la impresa e di salvar Lione. In fatti già avevano
varcato il fiume Duranza, e con ischiamazzo infinito erano entrati in
Avignone; e quivi commesso ogni male, già si avviavano verso le regioni
superiori del Rodano.

Nel tempo medesimo s'incominciavano a colorire i disegni degli
alleati. I Piemontesi congiunti con qualche nervo di Austriaci, erano
calati grossi dal monte Cenisio e dal piccolo San Bernardo a fine
d'invadere la Morienna e la Tarantasia; anzi una parte di quelli che
scendevano dall'ultimo dei detti monti, avuto il passo per le terre
del Vallese, si drizzavano ad occupare il Faussigny col pensiero di
fare spalla all'impresa di Tarantasia e di rannodarsi verso la terra
di Conflans, per quindi marciare, se la fortuna si mostrasse a tale
segno favorevole, sino a Lione. Tutte queste genti militavano sotto il
governo del duca di Monferrato, figliuolo del re, principe ottimo per
mente e per costume e molto amato dai popoli per la natura sua facile e
mansueta.

Dall'altra parte il re di Sardegna si era condotto col grosso
dell'esercito nella contea di Nizza, molto confidente di avere a
conseguir presto, con ricuperar un paese amato sopra tutti e che gli
era stato occupato da un nemico odiatissimo, una piena e gloriosa
vittoria. Era suo intendimento di calarsi per le sponde del Varo a fine
di obbligare i Franzesi ad evacuar la contea, o di tagliarli fuori
dalla Provenza se non l'evacuassero. Aveva il re compagno a questa
impresa il duca d'Aosta, suo figliuolo secondogenito, principe molto
ardente in questo bisogno contro chi allora signoreggiava la Francia e
che sempre aveva dimostrato pensieri alieni dalla pace. Questo era il
principale sforzo che i confederati volevano fare; e così quel nembo
che poco innanzi pareva dovesse tutto scagliarsi contro la Italia dalla
Francia, ora si rivoltava contra la Francia dall'Italia.

Udite tutte queste cose, Kellerman accorreva prestamente in Savoia,
dove venuto al campo dei suoi, posto all'ospedale presso Conflans,
alloggio principalissimo in quelle circostanze, ebbe con la sua
presenza e con le sue esortazioni tanto inanimato i soldati che
si mostrarono prontissimi a mettersi a qualunque pericolo anzichè
abbandonare il luogo commesso alla fede loro. Nel tempo stesso fe'
venire dal campo di Tornus una grossa schiera, in gran parte di buona
ed audace gente; e stantechè il pericolo era oltre ogni dire grave,
aveva, costretto dall'estrema necessità, chiamato dal campo di Lione
un'altra squadra e mandata nel Faussigny, che si trovava del tutto
privo di difensori. A questo si aggiunse ch'ei fece la chiamata alle
guardie nazionali della Savoia e del dipartimento vicino dell'Isero,
acciocchè facendo un po' di retroguardo agli stanziali, dessero loro
coraggio e potessero, in caso d'infortunio, ristorar la fortuna della
guerra. Per maggior sicurezza ordinava che si facessero trincee al
passo di Barreaux, molto importante alla sicurtà del Delfinato, e
che si munissero di artiglierie, avvisando che con quel sospetto da
fianco, gl'Italiani non si sarebbero arditi di correre fino a Lione.
Egli poi, a motivo di poter sopravvedere bene le cose, si venne a
porre al castello delle Marcie, luogo centrale a cui accennavano le tre
divisioni delle sue genti.

Dall'altro lato e più sotto Kellerman avea spedito con tutta
celerità il generale Carteau con un buon nervo di gente, ordinandogli
riacquistasse il passo di Santo Spirito, cacciasse i Marsigliesi da
Avignone, gli rincacciasse sulla riva sinistra della Durunza, non
passasse il fiume, solo attendesse a proibire al nemico lo scorrazzare
sulla destra. Ma Carteau varcava, e fu salute mentre doveasene
attendere la rovina; imperciocchè i Marsigliesi, invece di assaltarlo
e buttarlo nel fiume, cosa agevole, si diedero disordinatamente alla
fuga. Carteau, usando l'occasione, voltossi con tutte le sue forze
contro Aix, di cui s'impadronì; poi, senza frappor tempo in mezzo,
marciò contro Marsiglia, capo e fomite principale di quella guerra;
o tanto fu il terrore concetto dai Marsigliesi, che, fatta niuna
difesa della città loro, la diedero in mano del vincitore. L'infelice
Marsiglia, pagando troppo fiero scotto della sua imprudenza, fu posta
miserabilmente a sacco, e vi furono commesse opere al tutto degne di
quei tempi ferocissimi.

La presa di Marsiglia nocque ai Lionesi che per questa cagione si
trovarono soli esposti a tutto lo sforzo dei repubblicani; ma le
immanità commessevi giovarono ai disegni della lega in Provenza; poichè
per iscamparne, Tolone udì con maggiore inclinazione le proposte degli
alleati, e diede sè ed il porto in mano dell'ammiraglio d'Inghilterra
Hood, desiderando che l'autorità del re Luigi si restituisse e la
costituzione dell'89 si accettasse.

I repubblicani già tanto feroci vieppiù s'inferocirono all'accidente
di Tolone. Esortazioni ardenti, minacce precipitose posero in
opera per far correre i popoli al riscatto. Nè fu l'effetto minore
dell'intento; perchè, tra soldati bene ordinati e gente tumultuaria,
s'adunò tosto intorno alle mura di Tolone un esercito giusto di circa
quaranta mila soldati. Dalla parte loro gli alleati vollero confermar
con la forza quello che la fortuna aveva loro conceduto. Spagnuoli,
Napolitani e Piemontesi furono portati a presidiare i forti di Tolone;
gli altri potentati d'Italia li fornivano di vettovaglie; il papa
stesso somministrava armi e munizioni. Così con grandissimo ardore si
combatteva sotto le mura di Lione e di Tolone, nelle montagne della
Savoia e di Nizza.

Non indugiò molto spazio la fortuna a mostrare a qual parte volesse
inclinare. I Piemontesi calati dal Cenisio e dal San Bernardo
vincevano, e se si fossero spinti avanti con quella celerità che i
tempi richiedevano, avrebbero acquistato una compiuta vittoria. Ma se
ne stettero a soprastare; l'indugio diè comodità agli avversarii di
rannodarsi ed ai popoli di aiutarli. Kellerman li ricacciò di posto
in posto, sì che in fine si ritirarono al San Bernardo, da dove un
mese prima erano discesi con tanta speranza di vittoria. Rimaneva pei
repubblicani che i regi si cacciassero dalla Morienna, e Kellerman
colle sue disposizioni vinse anche questo punto, perchè l'esercito del
re, pressato da ogni banda, si ritirò ordinatamente al Cenisio.

Tale fu l'esito dell'assalto dato alla Savoia dalle genti del re di
Sardegna nell'autunno di quest'anno, e per tale modo fu esclusa la lega
dalle sue speranze in queste parti; che se il disegno dei confederati
fosse riuscito, e Lione liberato, totale sarebbe stata la mutazione
delle cose d'Europa. Ma intanto i miseri Lionesi, udita la ritirata
dell'esercito e, privi di quest'ultima speranza, furono costretti a
rimettersi in potere dei repubblicani. Il mondo sa con quale immanità
sia stata trattata quella città sì nobile e sì generosa.

Dall'altra parte e nel medesimo tempo in cui i Piemontesi assaltavano
la Savoia, s'erano mossi con forte apparato contro Nizza. Da principio
la fortuna si mostrava loro favorevole; ma, arrivati a Giletta, e
assaltato il dì 18 ottobre con grande impeto il ponte, furono duramente
risospinti, e con perdita sì grave che questo fatto, giunto alle
sinistre novelle che si ebbero in quel punto di Savoia e di Lione,
terminò la guerra di quest'anno in quelle parti.

Intanto sempre più si stringeva l'oppugnazione di Tolone, alla
quale era concorso l'esercito vincitore di Lione e la guernigione
di Valenciennes, piazza forte in Fiandra che gli alleati avevano
espugnato. Già parecchie onorate fazioni si erano combattute con varia
fortuna nelle quali mostrarono ambe le parti quanto potesse il valore
congiunto con l'odio, e quanto a ciascuna premesse il conservare o
l'acquistare una piazza di tanto rilievo. Eransi posti gl'Inglesi a
presidiare i forti rizzati sulla stanca, i Piemontesi stavano a guardia
sulla dritta.

Gli oppugnatori s'erano accampati per modo che Dugommier,
generalissimo, avesse carico di far forza verso occidente, Lapoype
assaltasse verso levante, e parte di queste genti, stanziando
principalmente alla Valletta, si distendesse sì verso mezzo giorno
che una corona di schiere armate e di cannoni cingeva Tolone tutto
all'intorno. L'importanza della difesa dal canto degli alleati
consisteva nel forte Malbousquet fidato alla guardia degl'Inglesi
e nel ridotto da questi fatto vicino al forte. Ma i Franzesi già
s'erano impadroniti delle eminenze opposte al forte ed al ridotto; e
preso anche per assalto il forte dei Pommets, da tutti tali punti con
numerose artiglierie continuamente infestavano gl'Inglesi.

Ohara, generalissimo d'Inghilterra, veduto che il nemico dal suo posto
sopraeminente al Malbousquet non solo infestava il forte, ma, poste
le artiglierie in luogo molto opportuno, per opera massimamente del
luogotenente colonnello d'artiglieria Bonaparte, giovane di virile
spirito, arrivava coi tiri insino all'arsenale; e prevedendo che se
non si cacciavano da quel nido i Franzesi, bisognava pensar ad altro
che a stare a Tolone, sì deliberò di dar loro l'assalto. Ed, uscito
il 3 di novembre con sei mila soldati, la fortuna fu loro sul primo
incominciare seconda. Ma all'avviso di tanto sinistro accorso Dugommier
con un grosso di soldati agguerritissimi, cacciò gl'Inglesi in fuga
manifesta e con tanta foga, che i vincitori non si arrestarono se non
se alle palizzate del forte Malbousquet, e stette per poco che non vi
entrassero alla mescolata coi vinti. Fu in questo incontro gravemente
ferito e fatto prigioniero Ohara ch'era accorso per rannodare i suoi.

Questa fazione tanto sanguinosa diede molto a pensare agli alleati, non
li lasciando senza timore sull'esito della guerra accesa sotto le mura
di Tolone; e i repubblicani, mostrandosi pronti a mettersi ad ogni più
grave pericolo per conquistar quella città: si risolveva Dugommier a
dar l'assalto da tutte le bande.

Adunque, posta essendo ogni cosa in pronto, il dì 14 dicembre i
Franzesi si avviavano all'assalto. Gli alleati, che sapevano che da
quel fatto doveva risultare non solo la conservazione o la perdita
di Tolone, ma ancora la riputazione delle armi e l'acquisto d'Italia,
con grandissimo ardire gli aspettavano. Feroce fu l'assalto, feroce la
difesa; la fortuna si mescolò spesso col valore; ora prevaleva la furia
al coraggio, ora il coraggio alla furia; ora la sicurità dei luoghi
faceva inclinare le sorti a favore degli assaltatori, ora l'audacia,
per verità non credibile se non fosse vera, le voltava a favor degli
assaltatori: stette un pezzo dubbia la battaglia; già le difese erano
lacere dall'un canto, già dall'altro i gioghi dei monti ed i parapetti
delle batterie inglesi apparivano cospersi di cadaveri franzesi, e
nonostante non cessava l'ostinazione delle parti; che anzi i sangui
che ribollivano rendevano gli uomini più accaniti e continuamente si
dava mano al tuonare, al ributtare, al ferire da presso e da lontano.
Prevalse la fortuna di Francia; i forti tutti caddero in mano dei
repubblicani.

L'espugnazione de' forti rendeva impossibile agli alleati il tenere più
lungamente Tolone: conciossiachè i repubblicani potevano fulminarvi
dentro, e spazzando i due seni sperperare all'estremo le flotte
confederate. Deliberaronsi a vuotare; ma prima vollero fare tutto quel
maggior male che poterono. Posto mano adunque alle faci, appiccarono
il fuoco alle navi che non potevano trasportare con loro ed a tutte le
opere preziose di marineria di cui Tolone abbondava. In questo Sidney
Smith, uomo più atto alle imprese rischievoli che alle grandi, con
molta industria ed attività si adoperava. Ardevano le navi, ardevano le
armerie, ardevano gli arsenali; nella città medesima le case ardevano.
Breve ora distruggeva opere, cui l'industria umana aveva penato lungo
tempo a compire.

Ma compassionevole spettacolo era quello de' Tolonesi, i quali
costretti ad abbandonare la patria loro per non cader nelle mani di
gente sdegnata, accorrevano in tutta fretta alle navi, conducendo con
esso loro le donne, i fanciulli, e le suppellettili più preziose che in
tanto precipizio avevano potuto raccorre. Tra questi alcuni annegavano
per la fretta, altri erano straziati dalle artiglierie de' loro
compatriotti o da quelle degl'Inglesi. Così tra il fuoco, il fumo, il
tuonare, lo scompiglio delle navi che andavano e venivano, le minaccie
de' soldati da terra che fuggivano, lo strepito de' soldati da mare
che volevano metter ordine e regola dov'era disordine e confusione,
le grida disperate di coloro che si spatriavano, era un dolore, un
terrore, una miseria che si possono meglio con la mente immaginare
che con le parole descrivere. Dieci mila Tolonesi, disperando della
pietà del vincitore, accettato l'esilio, si ricoveravano alle navi, non
sapendo nè dove nè quando avessero a terminarsi le miserie loro. Tre
giorni e tre notti durò la lagrimevole tragedia. Finalmente le flotte
confederate, tirandosi dietro le navi rapite di Francia, i giorni 18
e 19 dicembre si ricoverarono nelle vicine isole Iere, che sono le
antiche Stecadi. Il giorno 20 poi, e poichè tutti si erano ridotti a
salvamento, vuotato il forte Lamalgue che ne avea protetto la ritirata,
lasciarono la misera terra intieramente a discrezione de' repubblicani:
entraronvi fieri e minacciosi.

Arsero nell'incendio tolonese acceso dagl'Inglesi quindici navi grosse
di fila; arsero sei fregate, con molti altri legni minori. Rapirono e
s'appropriarono gli Inglesi la grossissima nave di cento venti cannoni
chiamata il Commercio di Marsiglia, col Pompeo ed il Potente, l'uno
e l'altro di settantaquattro, e con le fregate la Perla, l'Aretusa,
l'Aurora, il Topazzo e non pochi altri legni minori. I Sardi se ne
portarono la fregata l'Alceste; i Napolitani il brigantino l'Imbroglio,
gli Spagnuoli la piccola Aurora, esile preda a comparazione di quella
d'Inghilterra.

Queste furono le spoglie di Tolone rapite dagli alleati. E non era poco
per l'Inghilterra l'aver distrutto il navilio di una nazione emula, che
ai tempi floridi aveva combattuto con lei dell'imperio dei mari, e che
tuttavia avrebbe potuto tener in pendente la fortuna del Mediterraneo.
Così perì Tolone, città nobile e ricca, e sede principale della
marineria franzese.

I rappresentanti del popolo, Barras, Freron, Robespierre giovane e
Saliceti scrissero il dì 21 dicembre al consesso nazionale, essere
Tolone in potestà della repubblica.



    Anno di CRISTO MDCCXCIV. Indiz. XII.

    PIO VI papa 20.
    FRANCESCO II imperadore 3.


L'infelice riuscita delle due imprese di Lione e di Tolone, la cattiva
prova fatta dai Marsigliesi, e la poca dipendenza che trovavano
nelle regioni del Rodano superiore i seguaci del re, dimostrarono ai
confederati quanto fosse fallace l'opinione di aver nella popolazione
e nella efficacia del nome reale un principale appoggio ai disegni
che si avevano posto in mente di voler mandare ad esecuzione. Però
si persuasero facilmente che non nelle parole ma nei fatti, non nelle
armi altrui ma nelle proprie dovevano fondare le loro speranze. Tal era
diventato l'ardore degli animi in Francia, e tanto vi erano le menti
stravolte, che il parlar loro in nome del re, il che era cagione una
volta che obbedissero volonterosamente, ora a maggior disubbidienza
li concitasse. E siccome era divenuto necessario che si cambiassero i
mezzi di far loro guerra, così ancora si vedeva che si dovevano cambiar
i fini della medesima: poichè se gridare il nome del re, in vece di
giovare, nuoceva, era vano il conquistar le terre in nome di lui. Ciò
diè maggior ragionevolezza al conquistare per sè. Pareva necessario
torre per la risecazione di territorii forza ad una nazione potente
per sè stessa, potentissima per concitazione. Questi pensieri si
rivolgevano per la mente de' confederati, i quali finalmente vennero
in questa risoluzione, che quello che in Francia si conquistasse, con
certe condizioni si serbasse. Così la guerra, che prima era solamente
politica, cambiava di natura diventando guerra politica e territoriale.
Per tali condizioni dopo molti e lunghi negoziati fu concluso in
Valenciennes il dì 21 di maggio del presente anno tra l'Austria e la
Sardegna un trattato, nel quale inoltre prometteva il re di fare ogni
maggiore sforzo e dal canto suo prometteva l'imperatore di mandar in
Italia il più gran numero di genti potesse, oltre le ausiliarie che fin
dal principio della guerra aveva mandato a congiungersi con l'esercito
reale in Piemonte; che i due eserciti unitamente e coi medesimi
consigli combattessero; che quello del re intendesse specialmente
alla difesa dei monti e dei passi tanto verso la Savoia, quanto verso
il contado di Nizza; che le genti imperiali non si spartissero in
piccole schiere, ma stessero congiunte in grosso corpo, sempre pronto
ad operare fortemente e ad assaltare, congiuntosi con l'esercito
regio, il nemico ove questi arrivasse ad aprirsi il varco in Piemonte;
e che finalmente il medesimo esercito imperiale mettesse mano per
prima cosa e innanzi che si conducesse in Piemonte, ad arrestar il
nemico sulla riviera di Genova, affine di guarentire ed assicurare il
Milanese; fosse il barone Devins generalissimo tanto di questo corpo
di truppe imperiali, quanto di quello che già militava in Piemonte;
avesse l'arciduca governator generale della Lombardia austriaca facoltà
di trattare ed accordare immediatamente tutto quanto all'esecuzione
del presente trattato si appartenesse, e di spiegare ogni cosa e di
rimuovere gli ostacoli che fossero per difficoltare la impresa.

I Franzesi i quali per la propagazione delle opinioni loro avevano
entrature segrete nelle pratiche più recondite dei principi, avevano
subodorato quello di che si trattava, e però si deliberarono di
prevenire con la solita celerità ed impeto le risoluzioni degli
alleati. Adunque prima che la stagione diventasse più benigna, e che il
nemico si fosse svegliato alle difese, i generali repubblicani, tanto
quelli che reggevano le genti adunate nella Savoia e nel Delfinato,
quanto quelli che custodivano la contea di Nizza, si deliberarono di
fare uno sforzo contemporaneo contro i luoghi occupati dai regii su
tutta la fronte, principiando dal piccolo San Bernardo insino alla
costiera del Mediterraneo. Ma siccome era d'uopo dall'un dei lati
assalire i posti occupati dal nemico, dall'altro entrare nel territorio
d'una potenza neutrale, così là usarono le armi e qua le persuasioni;
le une e le altre mezzi ugualmente efficaci per arrivare ai fini loro.
Abbiamo già raccontato con quanto sdegno fossero state ricevute dal
governo franzese le novelle dell'attentato commesso dagl'Inglesi contro
i Franzesi nel porto di Genova, e le minacce con le quali ei proruppe
non solamente contro gl'Inglesi per aver fatto, ma ancora contro il
governo genovese per aver lasciato fare. La repubblica di Genova si era
composta per questo fatto in quattro milioni di tornesi. Così sedate
le ire e restituita la buona amicizia fra le due repubbliche, volendo i
Franzesi usare le opportunità del territorio genovese per assaltare gli
Stati del re, cercarono di coonestare il disegno loro con un adeguato
manifesto, scritto da Nizza, il dì 30 marzo, dai rappresentanti del
popolo Robespierre giovane, Ricard e Saliceti.

Alle benigne parole succedevano ben tosto apparati terribili. Erano i
Franzesi ragunati in numero di ben sedici mila, sotto la condotta del
generale Dumorbion, verso il principio di aprile, nel territorio di
Mentone, città del principato di Monaco, vicina all'estremo confine
del genovesato; e non volendo più porre tempo in mezzo a colorire i
disegni loro, mandarono la notte del 6 dello stesso mese il generale
Arena a Ventimiglia, dicendo al governatore che la Francia chiedeva
che le si consentisse il passo, che l'esercito della repubblica già
si avvicinava, che presto comparirebbe sotto le mura di Ventimiglia. A
queste intimazioni rispondeva il governatore Spinola, protestando della
violata neutralità; ma vano era il protestare contro una risoluzione
irrevocabile presa da chi più poteva. Compariva per la prima volta il
dì 6 aprile sul territorio italiano l'esercito repubblicano di Francia
in aspetto squallido e misero, ma con sembiante magnanimo e quale si
conviene ai vincitori. Precedeva Arena con la vanguardia, a cui teneva
dietro col retroguardo il generale Massena, destinato a sollevarsi da'
più bassi gradi della milizia ai più sublimi, ed a divenir uno dei più
periti e famosi capitani che abbiano acquistato nome nelle storie.
Occupata la città di Ventimiglia, i repubblicani, per viemmeglio
assicurarsi, posero un presidio nel castello; al quale atto, essendo
piuttosto da nemico che da amico, ed oltrepassando i limiti del passo,
caldamente, ma invano, s'era opposto il governatore genovese; ma
avendone poscia fatto forti querele coi rappresentanti Robespierre
e Salicetti, ritirossene il presidio franzese, lasciando di nuovo il
castello in potere dei Genovesi.

Intanto, proseguendo i Franzesi l'impresa loro, una parte, voltatasi
alla sinistra, s'impossessava del marchesato di Dolceacqua, cacciatone
un picciol presidio piemontese che vi stava a guardia, l'altra,
marciando sul litorale, s'incamminava alla volta di San Remo col
pensiero di andar ad occupare Oneglia; il che era il principal fine
di questa fazione. Al tempo medesimo un'altra grossa schiera, salendo
per quei monti alti e dirupati, aveva cacciato i Piemontesi dal colle
delle Forche, ed anche occupato le vicine alture di Dolceacqua, per le
quali si apre una strada, quantunque molto stretta ed alpestre, verso
Saorgio. Nè contenti a questo i Franzesi, muovendosi sulla stanca di
Nizza, si erano fatti padroni di tutti i posti fin oltre Breglio,
i quali erano come i primi propugnacoli a guarentire la importante
fortezza di Saorgio. Lo stesso colle di Raus, dove le genti regie
avevano, non era ancora scorso un anno, combattendo con molto valore,
acquistato una gloriosa vittoria, veniva in poter dei vincitori, per
modo che Saorgio, perdute tutte le difese esteriori, si trovava esposto
ad essere assalito da vicino. Nonostante, essendo forte per natura e
per arte, assai ardua fatica sarebbe riuscita ai repubblicani quella
d'impadronirsene per oppugnazione, con assaltarlo da fronte.

Mentre in tale guisa stava Saorgio in grave pericolo, marciavano
i repubblicani sul lido verso Oneglia. Era Oneglia un posto di non
poca importanza; annidavano in quel porto corsari arditissimi che
interrompevano i traffichi di mare con grave danno dei Franzesi
alloggiati in Nizza, che niun altro mezzo avevano di vettovagliarsi se
non per le navi genovesi che loro portavano i frumenti. Oltre a questo,
la strada non era nè lunga nè difficile per andar ad assaltare Ormea
e Garessio, terre grosse, per le quali si apre l'adito alle pianure
del Piemonte. Finalmente era Oneglia il solo spiraglio che fosse
rimasto al re di Sardegna a poter comunicare prontamente e sicuramente
coll'Inghilterra, massimamente con le flotte inglesi, che già erano, o
fra breve si aspettavano nelle acque del Mediterraneo. Sapevano queste
cose coloro che reggevano le armi regie, e perciò avevano risoluto
di fare una testa grossa sulle alture di Sant'Agata. Radunato tutto
quel maggior numero di genti che per loro si poteva in tanta pressa, e
poste le artiglierie nei luoghi più opportuni, aspettavano con animo
costante l'affronto. Ma nè il numero dei soldati, nè i provvedimenti
militari erano tali, che potessero arrestare il corso ad un nemico
che sopravanzava per la moltitudine ed era fatto più audace per le
vittorie. La battaglia fu aspra. I Franzesi, partiti da San Remo, ed
occupato Porto Maurizio, salivano all'erta di Sant'Agata con ardore
inestimabile; non meno forte fu la resistenza dei Piemontesi, massime
delle artiglierie, le quali, traendo a punto fermo, facevano una
strage incredibile nelle file dei Franzesi. Questi, veduto il danno, e
stimando che nissun altro modo avevano di espugnare quel forte posto,
che la celerità, spintisi avanti prontissimamente, e condotti alcuni
pezzi di artiglierie minute in luoghi prima creduti inaccessibili,
e traendo a scheggie contro i Piemontesi, che ancor essi fulminavano
nella stessa forma, tanto fecero che questi, soppressati dal numero,
e sorpresi all'ardire del nemico, si ritirarono non senza qualche
disordine da quel sito eminente, che con molto valore avevano difeso.
Poscia, squadronatisi di nuovo, si ridussero al ponte di Nava,
lasciando Oneglia, che più non si poteva difendere, aperta all'impeto
del vincitore. Gli abitatori, mossi dal romore delle armi, e nei
quali la ricordanza delle uccisioni e dei saccheggi fatti ai tempi
di Truguet aveva messo un grandissimo spavento, lasciata la città
abbandonata e deserta, si erano ritirati ai luoghi alpestri e chiusi.
Vi entrarono i repubblicani; e qui, per fare testimonianza al vero, è
debito raccontare come, modestamente governandosi, e' si astennero dal
por mano nelle sostanze altrui, portarono rispetto alle cose sacre, e
nissun segno dando nè della petulanza repubblicana, nè dell'insolenza
militare, acquistarono nome d'uomini moderati e civili. La qual cosa
tanto è più da notarsi, quanti a quei tempi in Francia correvano esempi
degni di ogni più truculenta barbarie, ed essi medesimi si trovarono
all'estremo di ogni fornimento al vivere umano necessario. Trovarono in
Oneglia dodici bocche da fuoco, magazzini pieni di vettovaglia, bestie
da soma a poter servire ai bisogni loro in quelle guerre alpestri.
Pubblicarono che i fuggitivi si ripatriassero sotto pena di confisca,
promettendo a tutti che tornassero intiera sicurezza nelle persone e
nelle proprietà. Nè contenti alla possessione di Oneglia, spedivano
una squadriglia di soldati ad impossessarsi di Loano, terra anch'essa
con piccolo porto situata in su quella marina ed appartenente al re di
Sardegna.

Quantunque questa fazione fosse di importanza per le bisogna loro verso
il mare, non bastava però a compire l'altro disegno d'impadronirsi dei
sommi gioghi dei monti: s'accorgevano che insino a tanto che quelle
altissime cime fossero in mano dei regi, e massime il ponte di Nava,
passo forte, al quale si erano attestati con munirlo di trincee e di
artiglierie, e cui erano accorsi a difendere quindici centinaia di
Austriaci, la vittoria conseguita non avrebbe avuto il suo compimento.
Massena, già vincitore di Santa Agata e di Oneglia, fu destinato a
questa fazione. Andò all'assalto del ponte di Nava con otto mila
soldati scelti, e tanto e così subito fu l'impeto loro, che nè i
luoghi oltre ogni dire difficili, nè le trincee fatte dai regi, nè le
artiglierie loro governate con molta maestria poterono operare che i
repubblicani non riuscissero vincitori. Massena, per non dar respitto,
e per far parere la cosa più grave ancora che non era, mandò fuori un
bando coi soliti blandimenti e minaccie.

Superato il ponte di Nava, corsero i repubblicani contro il borgo
di Ormea, che, abbandonato dai difensori, venne in potere degli
assalitori, colle artiglierie grosse e minute e colle munizioni
da guerra e da bocca; gran quantità di panni singolarmente utili
al vestire dei soldati; undici centinaia di prigionieri resero più
cospicua questa vittoria. Seguitarono Garessio e Bagnasco la fortuna
del vincitore, sicchè altro impedimento non restava a superarsi dai
repubblicani, ormai penetrati nella valle del Tanaro, perchè non si
spandessero nel Piemonte, che la fortezza di Ceva, alla quale fecero la
intimazione. Il generale Argenteau, che la governava, rispose volerla
difendere sino all'estremo.

I Franzesi, conquistata Oneglia ed i luoghi importanti pe' quali
potevano andar a ferire il cuore del Piemonte, pensarono ad assicurarsi
di altri posti di uguale momento, sì per dar timore da diverse parti
al nemico, e sì per assicurarsi la possessione di quello che già
avevano conquistato. Nel che mostrarono tanta perizia nelle cose
militari e tanto ardimento, che l'Europa ne restò piena di maraviglia
e di terrore. Imperciocchè non solo fu loro d'uopo combattere con
soldati valorosi, ma ancora con le nevi, coi ghiacci, con le rupi,
coi precipizii, in tempi asprissimi per la stagione. Opera non solo
ardua, ma impossibile, si credeva quella di superare il piccolo San
Bernardo, non che ai tempi invernali, nella stagione propizia. Ma non
si ristettero gli audaci repubblicani: prima del terminar d'aprile, il
generale Bagdelone, dopo di avere serenato due giorni sulle nevi delle
più alte cime de' monti, con soldati disposti a morire di disagio,
non che di ferite, piuttosto che non arrivare ai fini loro, assaltò
improvvisamente tre forti ridotti che i Piemontesi avevano costrutto
sul monte Valesano a difesa del sommo giogo del San Bernardo, e dopo
breve contrasto se ne impadroniva; quindi, voltate le artiglierie,
ond'erano muniti, contro la cappella del San Bernardo, dove i regii
avevano il campo più grosso, facevano le viste di fulminarla. Fu forza
allora ai Piemontesi di ritirarsi, lasciando in mano de' nemici un sito
che fu prima perduto che si pensasse di poterlo perdere. Nè i Franzesi
arrestarono il corso loro; anzi, spingendosi avanti, cacciarono a furia
i Piemontesi all'ingiù di quelle rupi fin più là della Tuile, della
quale si impadronirono. Per questo moto fu messa in sentore tutta la
valle d'Aosta, e già si temeva della capitale della provincia. In quel
mentre accorse prontamente il duca di Monferrato, che, dopo di avere
raccolte con sè tutte le milizie e tutte le genti regolari che in sì
grave tumulto potè, e spintosi avanti, frenò il corso delle cose che
precipitavano.

Tentarono nel medesimo tempo e pei medesimi motivi i repubblicani
parecchie altre fazioni nelle Alpi. Varcavano, non arrestati nè da'
turbini nè dalle nevi altissime, il monte della Croce, e riuscendo
all'improvviso sopra il forte di Mirabacco, difeso da pochi invalidi,
se ne impadronirono facilmente. Poscia, scendendo per la valle di
Lucerna, occuparono Bobbio ed altre terre superiori della medesima
valle, minacciando Pinerolo di prossimo assalto. Ma anche qui si
fecero dal governo le convenevoli provvisioni per modo che, assaliti
valorosamente i Franzesi dai regii nella terra del Villars, furono
costretti a ritirarsi ai sommi gioghi. Passato altresì il monte
Ginevra, si calarono sino a Cesana, e s'insignorirono della grossa
terra d'Oulx, dove posero una taglia enorme; ma dopo di avere
presentito la fortezza d'Icilia, che si trovava munitissima, si
ritirarono di nuovo ai luoghi alti e scoscesi, contenti all'aver
romoreggiato con l'armi loro per quelle valli alpestri, ed all'aver
fatto diversione efficace alla guerra di Oneglia. Colla medesima
fortuna sforzarono il colle dell'Argentiera ed il passo delle
Barricate, pel quale si apre l'adito nella valle della Stura. Fu questa
fazione di non poca utilità alle genti di Francia, perchè per lei
spianò la strada all'esercito d'Italia a potersi comunicare con quello
delle Alpi.

Il fatto d'armi di maggior rilievo, e per la sua grandezza e pel
valore mostrato da ambe le parti, successe sulle altissime cime del
monte Cenisio. Ne avevano i Piemontesi munito la eminenza con molte
e grosse artiglierie e con trincee e con ridotti. Tre principalissimi
massimamente parevano rendere sicuro quel passo, de' quali uno chiamato
de' Rivetti guardava il borro a destra dell'eminenza; il secondo detto
della Ramassa, e che stava in mezzo, s'affacciava alla salita della
Ramassa, che è la strada solita a farsi dai viaggiatori; finalmente
il terzo posto alla destra de' regii, il quale, avuto il nome di
un valente generale italiano che militava ai soldi dell'Austria,
chiamavasi ridotto di Strasoldo, aveva le bocche delle sue artiglierie
volte verso una selva di spessi e folti virgulti che poteva da quella
parte facilitare la salita agli assalitori. Erano tutti questi posti
presidiati da soldati agguerriti e da cannonieri abilissimi. Tutti
avevano gran fede nel barone Quinto, soldato di molto valore e di
provata esperienza, che li comandava: così il luogo, l'arte ed il
valore promettevano la vittoria. Ma i Franzesi, soliti a que' tempi
a tentare piuttosto l'impossibile che il difficile, erano confidenti
di riuscirne con vantaggio. Il generale Dumas, fatto convenire a
Laneburgo una schiera di soldati pronti a mettersi a qualunque più
pericoloso cimento, gli aveva provveduti di quanto era richiesto a
far riuscire vittoriosa la repubblica da quel terribile incontro.
Era corsa la stagione fin verso la metà di maggio: in sul finir del
giorno, perciocchè splendeva la luna, givano i repubblicani all'assalto
divisi in tre parti: Dumas medesimo per la strada maestra contro il
ridotto della Ramassa; il capitano Cherbin addosso al ridotto de'
Rivetti; Bagdelone per al ridotto Strasoldo. Non così tosto i regii
si accorsero dell'approssimarsi del nemico, che diedero mano a trarre
con l'artiglieria e con l'archibuseria. Ne nacque in mezzo a que'
dirupi una battaglia orribile, resa ancor più spaventosa per l'ombre
della notte che oscuravano le forre più basse, pel lume sinistro che
spandevano ad ora ad ora le artiglierie, e per l'eco che in quelle cave
montagne rispondeva orribilmente da vicino e da lontano al rimbombar
loro così spesso e così strepitoso. I quali spavento e fracasso sempre
più crescevano quanto più si avvicinavano i Franzesi ai ridotti regii;
poichè, non isbigottiti punto dalla feroce difesa nè dal numero dei
loro morti e feriti, sempre più s'accostavano, posponendo il non
vincere al morire. Già si combatteva da vicino ai due ridotti de'
Rivetti e della Ramassa, e pendeva dubbia la vittoria; con pari evento
e valore si combatteva al ridotto di Strasoldo, nè si sapeva ancora
a chi dovesse rimanere il dominio delle Alpi, quando Bagdelone con
la sua squadra, uscito felicemente fuori da tutti gl'impedimenti,
massime da alcuni luoghi precipitosi che gli si pararono davanti,
strada facendo, si scoperse alle spalle del ridotto medesimo, e diè con
questa ardentissima mossa principio alla vittoria de' suoi. Superato
il ridotto Strasoldo, non vi era più speranza di poter conservare i
Rivetti e la Ramassa. Furono pertanto abbandonati con molta fretta da'
difensori, pressati impetuosamente da Cherbin e da Dumas, che già,
prima della rotta de' regii a stanca, erano in procinto di entrare,
superato ogni ostacolo, in que' forti. In cotal modo le difese rizzate
sull'estremo confine d'Italia vennero in poter dei Franzesi, non senza
però che il valore italiano avesse fatto di sè fierissima mostra.

Questa vittoria riuscì ai repubblicani tanto utile e preziosa quanto
era stata difficile e pericolosa. Per la subita ritirata dei regii,
acquistarono i Franzesi tutte le artiglierie dei ridotti che erano
fioritissime, con alcune altre che vicine stanziavano per gli scambii,
molta moschetteria, e munizioni sì da guerra che da bocca in quantità
considerabile. Morirono pochi, rispetto alle gravità del fatto,
dall'una parte e dall'altra; circa otto cento prigionieri ornarono la
vittoria dei repubblicani. Non fecero i Franzesi fine al perseguitare
se non quando il nemico si fu ridotto a Susa. In tal modo la Ferriera e
la Novalesa vennero a divozione dei repubblicani. Perduto il Cenisio,
tutta la difesa del Piemonte per quella strada era ridotta nel forte
della Brunetta, che fondato sul vivo macigno, e provveduto d'armi
e di munizioni, era impossibile ad essere superato. Nè i Franzesi
si attentarono di combatterlo; poichè, contenti all'essere divenuti
signori del passo alpestre del Cenisio ed all'aver messo spavento
coll'armi loro sulle rive della Dora riparia, nè essendo in numero
sufficiente a poter tentare cosa di importanza più oltre la Novalesa,
se ne stettero quieti aspettando quel che la fortuna si recasse avanti
nelle altre parti dove ardeva la guerra.

Dalla parte della Liguria non era compiuta la vittoria dei Franzesi,
nè potevano impadronirsi della sommità delle Alpi, finchè restava sotto
l'imperio del re la fortezza importante di Saorgio. Ma tal era il sito
di lei, e così sicuro per arte e per natura il luogo dov'era fondata,
che non potevano avere speranza di conquistarla per oppugnazione.
Voltarono dunque il pensiero ad insignorirsene per assedio: al che
per togliere ogni facilità, i capitani del re, e fra i primi Colli,
avevano diligentemente fortificato le cime dei monti che dividono il
Genovesato dalla valle della Roia, massime il passo principale di colle
Ardente. Ivi si aspettava una sanguinosa battaglia. Infatti i Franzesi,
dopo di essere stati respinti con molto valore in un primo incontro,
si appresentarono alla batteria il dì 27 aprile, ed incominciarono un
furiosissimo combattimento. Durò molte ore il conflitto; finalmente
i Franzesi, spintisi avanti grossi ed impetuosi contro il ridotto di
Felta, se ne impadronirono; la qual cosa fu occasione che tutti quei
passi, e principalmente quello del colle Ardente, fossero ridotti in
potestà loro. Morirono in questo fatto parecchi soldati di nome e di
valore d'ambe le parte, e fra essi il capitano Maulandi, italiano,
nel quale non saprebbe dirsi se fosse maggiore il valor militare, o la
modestia civile, o l'amore dell'umanità, o l'ingegno, o la letteratura.

La vittoria del colle Ardente diè campo ai Franzesi di calarsi per la
via della Briga alle spalle di Saorgio sulla strada maestra che porta
al colle di Tenda. Certamente essendo quel forte munitissimo, avrebbe
potuto agevolmente difendersi insino a che la fame non costringesse il
presidio a far quello a che la forza non l'avrebbe necessitato. Aveva
Colli, ritirandosi più frettolosamente che poteva verso il colle di
Tenda, ordinato al cavaliere di Sant'Amore, comandante della fortezza,
resistesse più lungamente che potesse, e non cedesse la piazza se non
quando se ne avesse avuto il comandamento da lui; perchè l'intento
suo era di ritornare con maggior nervo di forze a soccorrerla. Ma il
cavaliere, o che credesse nella occorrenza presente, e per lo effetto
dell'essere i Franzesi calati sulla strada maestra tra Saorgio ed
il colle di Tenda, fosse impossibile al Colli di mandargli avviso, o
per altra meno nota cagione, la dette, con patto che fossero salve le
sostanze e la vita, e sotto fede di restar prigioniero di guerra con
tutti i suoi soldati. Condotto a Torino, e quivi processato in un con
Mesmer comandante di Mirabocco, furono entrambi condannati a morte
da un consiglio militare, e passati per l'armi sulla spianata della
cittadella; col quale giudizio, se giusto, certamente anche rigoroso,
volle il governo dar terrore ai novatori e credenza ai popoli, che il
tradimento avea procurato la vittoria al nemico.

Rimaneva ai Franzesi per compir l'opera che si impadronissero del colle
di Tenda, sommo apice delle Alpi marittime; nè s'indugiarono a questa
impresa, volendo prevalersi dello scompiglio dei regii e del favor
della vittoria. Per la qual cosa, seguitando con celerità, assaltarono
i Piemontesi che facevano le viste di voler difendere il colle; e con
molta audacia e perizia occupando i Franzesi l'uno dopo l'altro i posti
eminenti sulla faccia del monte, i Piemontesi, abbandonata dopo debole
difesa la cresta in balia del nemico, si ritirarono a Limone, terra
posta alle radici del colle dalla parte del Piemonte.

Tutte queste fazioni, molto perniziose allo Stato del re, tanto maggior
terrore creavano, quanto incominciavano a pullularvi in qualche parte
le male erbe nate dai semi di Francia. Fecersi congiure contro lo Stato
da uomini condotti da illusioni funeste, ma che niun mezzo avevano di
arrivare ai fini loro. Presesi dei capi l'ultimo supplizio; degli altri
si giudicò più rimessamente; moderazione degna di grandissima lode in
mezzo a tanti sdegni ed a tanti terrori.

Vittorio, perduta la metà degli Stati e le principali difese
dell'Alpi, faceva continui provvedimenti per preservarsi dall'estrema
rovina. Avendo fede nei sudditi, ordinò che tutti, di qualunque
grado o condizione si fossero, purchè abili all'armi, avessero a
procurarsi armi e munizioni sì da guerra che da bocca per giorni
quattro, e si tenessero pronti a marciare al primo tocco di campana
a martello; fossero retti e divisi in isquadroni da ufficiali
di sperimentata capacità; se la spedizione più di quattro giorni
durasse, somministrassersi munizioni dalle armerie, e viveri dai
magazzini del regno; i nobili ed i facoltosi ne fornissero a chi ne
mancasse; sostentasse il pubblico le famiglie degli accorsi, ove ne
abbisognassero; gli ufficiali civili stessi, se il caso della mossa
arrivasse, si unissero allo stormo; premierebbersi coloro che meglio
avessero combattuto pel re e per la patria.

Questo stormo non poteva esser di molto momento alla vittoria; che
anzi avrebbe piuttosto potuto nuocere che giovare, se non fosse
stato secondato da forti squadre di gente stanziale usa alle guerre
ed ai pericoli. Per la qual cosa si provvedevano di nuove reclute i
reggimenti sì stabili che provinciali; ma questi rimedii non bastando
alla salute del regno, instantemente si ricercarono i generali
austriaci che, fatti uscire dalle stanze invernali i soldati loro,
prontamente verso il Piemonte che pericolava gl'indirizzassero. Il
conte Oliviero Wallis, tenente maresciallo, preposto dall'imperatore
a tutte le genti che avevano le stanze nel ducato di Milano,
conformandosi alle richieste, mandò in Piemonte sollecitamente
nell'aprile tutte quelle che avea disponibili, e che unite componevano
un esercito di venti mila soldati. Si sperava di poter rintuzzare con
queste l'audacia dei repubblicani, e di frenar l'impeto loro insino
a tanto che un esercito ancor più forte accorresse di Germania in
Piemonte, a norma del trattato di Valenciennes. Inoltre muniva il re di
genti e di provvisioni fresche la Brunetta, Fenestrelle, Demonte, Ceva,
Cuneo ed Alessandria. Perchè poi in tanto e sì straordinario bisogno
non mancassero l'armi e le munizioni, nè potendo i mezzi ordinarii
supplire, ordinava che si raccogliesse il salnitro in tutte le case
di Torino, e si portassero alla zecca ed all'arsenale le campane non
necessarie al culto. Pure il terrore era grande. I ricchi, massime i
nobili, non quelli che militando seguivano le insegne reali, ma gli
oziosi ed i cortigiani, si apparecchiavano, certo con poco generoso
consiglio verso la patria loro, ad andarsene in paesi stranieri, con
sè le cose più preziose trasportando. Per andar all'incontro delle
ignominiose fughe, mandava fuori il re una legge che sotto pena di
confiscazione di beni le proibiva, con questo altresì che i beni
confiscati si incorporassero alla corona.

Fu anche giudicato che, per prevenir le congiure, fosse necessario
di soffocarne i semi e sbarbarne le radici. Perlochè si ordinava che
fossero proibite tutte le adunanze segrete, anche le letterarie, ed
anche i casini. Così in quell'estremo frangente si preparavano le armi,
si spartivano i cittadini perchè non congiurassero, si univano perchè
combattessero.

Le fazioni tanto favorevoli ai Franzesi diedero molto a pensare ai
governi italiani. Laonde il re di Napoli si risolveva a fare maggiori
sforzi in favore dei confederati: indirizzava alla volta della
Lombardia, parte per terra, parte per mare, dieciotto mila soldati
tra fanti e cavalli, acciocchè fossero presti ai bisogni della lega.
Per bastar poi al dispendio che sì considerabili apparecchiamenti
richiedevano, aveva comandato pagassero i baroni, i nobili ed i ricchi
cento venti mila ducati il mese; il restante, per non aggravare i
popoli dell'inferior condizione, fornirebbe l'erario; pagassero i beni
ecclesiastici una tassa del sette per centinaio; portassersi alla
zecca gli ori e gli argenti delle chiese che non fossero necessarii
al culto, obbligandosi il re a corrispondere un merito del tre e mezzo
per centinaio del valore; alcuni ordini di frati si sopprimessero, e il
patrimonio loro si assegnasse all'ospedale degl'incurabili.

Erano pronte le genti a marciare verso l'Italia superiore, quando si
scoperse la congiura di Napoli, che tendeva, siccome portò la fama,
a cambiare il governo regio ed a fare una rivoluzione nel regno.
Questo fatto grave in sè stesso, e reso ancor più grave dalle menti
accendibili e tanto magnificatrici dei Napolitani, trattenne le truppe,
proponendo il governo la salute propria a quella altrui. Si aggiunse
che i corsari sì franzesi che algerini infestavano i litorali del
regno, con rapire i bastimenti mercantili sul mare; gli ultimi a volta
a volta sbarcavano anche sulle coste delle Calabrie per rubare, e per
far peggio eziandio che rubare.

Anche il pontefice che fra tutti i principi era forse quello che
procedeva con più sincerità, faceva guerrieri provvedimenti. Presidiò
con navi armate i porti del Mediterraneo, armò le fortezze, pose
su' luoghi più sospetti del littorale sufficienti guardie, ordinò
magazzini, ospedali e nuove regole per la milizia. In questi suoi
pensieri dell'armare tanto più volentieri s'infiammava, quanto più
sapeva essere i repubblicani molto sdegnati contro di lui per quel
fatto enorme di Basseville, accaduto in Roma sull'entrare dell'anno
precedente, e che abbiamo a suo luogo raccontato.

Non così tosto pervennero in Venezia le novelle delle prime vittorie
dei repubblicani sulle Alpi, e del loro ingresso nel territorio
genovese, i capi del governo, veduto avvicinarsi il pericolo, tennero
fra di loro molte consulte per deliberare quello che fosse a farsi
in una occorrenza di tanta importanza, contendendo aspramente tra
di loro le due parti contrarie, e quella, sostenuta dal procurator
Pesaro, al quale si aggiunse il suo fratello Pietro, uomo anch'egli
di molta autorità, che insisteva perchè la repubblica si armasse, e
quella che credeva più pericoloso l'armarsi che il fidarsi. Sorse
in senato un'aspra contesa, discrepando con parole veementi dalla
volontà del Pesaro la parte contraria, nella quale mostravano maggior
ardore Girolamo Giuliani, Antonio Ruzzini, Antonio Zeno, Zaccaria
Valaresso, Francesco Battaglia, Alessandro Marcello primo, sclamando
tutti che l'armarsi non era possibile, non a tempo, inutile. Dopo
molte contese fu vinto il partito posto dal Pesaro con centodiciannove
voti favorevoli e sessantasette contrarii. Decretossi, chiamassersi le
truppe, sì a piedi che a cavallo, dalla Dalmazia, perchè venissero ad
assicurare la terra ferma; le reclute degli Schiavoni si ordinassero,
le cerne in Istria si levassero, le leve in terra ferma per riempiere i
reggimenti italiani si facessero, le compagnie dalle quarantotto alle
cento teste, quelle degli Schiavoni alle ottanta si accrescessero;
finalmente l'erario con le tasse si riempisse. Volle inoltre il senato
che si rendessero sicure con le navi della repubblica le navigazioni
sul golfo infestato da corsari africani e franzesi. A questo modo
aveva il senato prudentemente e fortemente deliberato. Ma i savii del
consiglio, ai quali apparteneva l'esecuzione del partito vinto dal
Pesaro, essendo la maggior parte di contraria sentenza, tanto fecero,
scusandosi con la penuria delle finanze, che, eccettuata una massa di
sette mila soldati, nissun effetto ebbe la deliberazione del senato,
sclamando sempre in contrario il procurator Pesaro, e continuamente
accusando in pubblico come in privato l'improvvidenza degli uomini ed
il destino che perseguitava, senza che vi fosse speranza di salute, la
sua diletta ed infelice patria.

Intanto, come se le spie senza le armi valessero, aveva la repubblica
mandato a Basilea il conte Rocco Sanfermo, acciò spiasse e mandasse
quello che gli venisse fatto di scoprire in quella città finitima di
Francia, ed in cui concorrevano, siccome in terra neutrale, amici e
nemici di ogni sorta. Sanfermo, o che fosse spaventato egli, o che
volesse spaventare gli altri, scriveva continui terrori a Venezia:
d'un Gorani destinato dal governo di Francia ad essere stromento a
far rivoluzione in Italia; poi certe ciance d'un Bacher, segretario
della legazione franzese in Basilea; poi d'un Guistendoerffer, che da
Parigi gli riferiva che la Francia faceva grandissimi disegni sulla
Italia, che già vi aveva per oro intelligenze da per tutto, anche a
Venezia, per modo che già erano a quei della salute pubblica obbligati
personaggi di eminente condizione, e fra di loro alcuni de' destinati
dal governo a sopravvedere ed a scoprire le trame di Francia; che
Venezia non si assalirebbe, ma s'insidierebbe, perchè stimata nemica
per queste e per queste altre ragioni. Le quali novelle, che avrebbero
incoraggito per un generoso risentimento animi valorosi, intimorirono
i molti, e furono cagione che le deliberazioni della repubblica in que'
tempi difficili sentissero meglio di debolezza che di prudenza.

Accrebbe le difficoltà una causa generosa. Erasi il conte di Provenza,
fratello di Luigi XVI re di Francia, fuggendo il furore de' nemici
della sua casa, riparato in Torino. Ma essendo i repubblicani, tanto
avidi del suo sangue, comparsi prima sulle cime delle Alpi, poscia
sull'aprirsi delle valli, e già insistendo sulle pianure del Piemonte
in atto minaccievole, stimò bene di allontanarsi da quella tempesta,
e di andarsene, fidandosi nella integrità del senato, a cercar asilo
sulle terre della repubblica veneta. Seguitavano il principe, che sotto
nome incognito si chiamava il conte di Lilla, parecchi fuorusciti di
Francia, tra' quali principalmente si notavano il duca d'Avaray ed il
conte d'Entraigues. Il senato veneto, pietosamente risguardando ad un
tanto infortunio, sebbene presentisse le molestie che glie ne sarebbero
venute da chi aveva la somma delle cose in Francia, accolse umanamente
ne' suoi Stati il conte, solo desiderando ch'ei se ne vivesse
privatamente, nè desse luogo di sospettare al governo di Francia con
pratiche ch'ei poteva tentare se fosse stato in propria balìa posto, ma
non doveva, trovandosi in grado di ospite in casa altrui. Ai desiderii
del senato veneto si conformarono le intenzioni del conte di Provenza,
il quale, in tanta depressione di fortuna, non solo serbò la costanza
di uomo generoso, ma ancora si propose di non commettere atti, da'
quali potessero seguir danno o pericolo agl'interessi altrui. Volle
egli far la sua dimora in Verona; del quale desiderio essendo stato
fatto consapevole il senato, mandava al suo rappresentante, trattasse
il conte a quella guisa che ricercavano le sue virtù e la sventura da
cui era combattuto: riconoscesse anche in lui ne' colloqui privati la
altezza del grado; ma pubblicamente si astenesse dall'usare verso di
lui di quegli atti, co' quali si sogliono riconoscere i principi. Nella
quale emergenza il rappresentante con tanta destrezza si maneggiò, che
ed il conte ne restò soddisfatto, e non diede fondati motivi al governo
di Francia di querelarsi: il che però, siccome suole avvenire che i
forti usano la vessazione come i deboli il sospetto, non impedì punto
le querele nè in Francia, nè in Basilea, nè in Venezia da parte del
robespierrano governo e de' suoi agenti; che se mai i Veneziani ebbero
bisogno di destreggiarsi, che certo n'ebbero bisogno in ogni tempo,
e sepperlo anche fare, certamente si fu nell'occorrenza presente. In
somma usarono un atto molto pietoso, del quale con tanto maggior lode
debbonsi riconoscere i popoli, quanto esso era anche pericoloso. Qual
frutto ne abbiano conseguito, vedremo a suo tempo.

La veneta repubblica non era ancora giunta agli affanni estremi. Era
stato destinato dalla congregrazione della salute pubblica, con titolo
d'inviato a Venezia, Lallemand, per lo innanzi console di Francia a
Napoli. Scrivendo Giovanni Jacob, incaricato d'affari, uomo buono e
molto dissimile da' tempi, al serenissimo principe il dì 13 novembre,
manifestava che, per l'elezione del Lallemand, cessava il suo mandato.
Furono in questo proposito molti e varii i dispareri nelle consulte
venete, opinando alcuni che il nuovo ministro si accettasse, mantenendo
altri la contraria sentenza. Instavano i ministri delle potenze estere
acciocchè non si accettasse, allegando l'esempio del Noel, che poco
tempo innanzi era stato rifiutato dalla repubblica. Prevalse l'opinione
favorevole all'accettazione.

Di tutti i governi d'Italia, nissuno, eccetto il piemontese, riceveva
maggiori molestie del genovese, e nissuno ancora in mezzo a così
estrema difficoltà dimostrò maggiore o dignità o costanza. Già abbiamo
narrato il fatto della Modesta. Non omise la signoria di fare gravi
risentimenti al governo inglese: fu risposto per i generali. Intanto
ne successe un altro, che offese anche più direttamente la dignità e
l'independenza dello Stato. Appresentavansi in cospetto della signoria
Francesco Drake, ministro d'Inghilterra, e Don Giovacchino Moreno,
almirante del re Cattolico, che con parte della sua flotta stanziava
nel porlo di Genova, e con parole superbe e in termini eccessivi
dettavano alla repubblica leggi contro la Francia, intimando in fine
che, se non consentisse, chiuderebbero i suoi porti, impedirebbero ogni
suo commercio con Francia e co' paesi da Francia occupati.

Questa prepotenza inglese, dicesi inglese, perchè lo Spagnuolo, udite
le rimostranze de' Genovesi, se n'era ritirato, tanto era più odiosa
quanto Drake non aveva mandato di farla, ed obbediva meglio ad un
furioso talento che ai comandamenti del suo governo. La signoria di
Genova, serbata la dignità e non omesse le rimostranze, fece opera di
mostrare al ministro del re Giorgio quanto lontane dal diritto fossero
le sue deliberazioni, replicatamente e della libertà dell'onesto
traffico e dell'indipendenza della nazione richiedendolo. Ma Drake,
che meglio mirava all'utile o allo sdegno, che al giusto o alla
temperanza, non volle punto piegarsi alle domande della repubblica, ed,
abbandonando Genova, si ritrasse a Livorno, con aver prima dichiarato,
essere i porti genovesi, massimamente quel di Genova, chiusi per
entrata e per uscita, e che le navi che vi entrassero, o ne uscissero,
sarebbero predate dagl'Inglesi e poste al fisco.

Il fatto della Modesta, l'insolenza dell'assedio, il perseguitare
le navi genovesi che entravano nel porto fin sotto il tiro delle
artiglierie del molo avevano concitato a gravissimo sdegno quel
popolo vivace ed animoso per modo che il nome inglese vi era divenuto
odiosissimo, e quando gli uffiziali delle navi venivano in Genova
per le bisogne loro, erano a furia di popolo insultati con parole e
minacciati con fatti peggiori delle parole. Anzi usando i Genovesi di
quei tempi di portare sui cappelli la nappa nera, che è pure l'insegna
degl'Inglesi, uomini di ogni età e di ogni condizione sdegnosamente
a chi la portava la laceravano, con ogni maniera di disprezzo e di
furore calpestandola e vilipendendola. Le donne stesse, per l'ordinario
lontane da queste improntitudini politiche, mosse dall'esempio comune,
stracciavano le nappe e le schernivano con ogni strazio.

Queste cose accadevano in Genova. Quando poi i Franzesi, passati i
confini, erano venuti con l'esercito sulle terre della repubblica,
crebbero a dismisura le molestie; perchè e Tilly, ministro di Francia,
vieppiù imperversava, ed i zelatori dello stato nuovo s'accendevano. I
consigli pensarono a' rimedii. Mandarono dicendo ai potentati d'Europa,
essere seguita l'invasione non solo senza alcuna partecipazione
loro, ma ancora contro la volontà espressa; e non mettessero punto
in dubitazione, stessero pur confidenti che la repubblica, sempre
consentanea a sè medesima ed al retto ed all'onesto, non sarebbe mai
per dipartirsi da quanto la sincera neutralità e l'animo non inclinato
nè a questa parte nè a quella richiedevano. Circa lo stato interno e la
sicurezza della città, ordinavano le milizie cittadine, e chiamavano
più grossi corpi di gente assoldata a stanziare nella capitale;
munivano più acconciamente la fortezza di Savona, serravano la bottega
di Morando speziale ch'era ritrovo consueto dei novatori più ardenti e
più arditi.

Tali erano le tribolazioni di Genova. S'aggiunsero altre non minori.
Era, siccome si è narrato, venuta la Corsica in potestà degl'Inglesi.
Hood ammiraglio, Elliot ministro plenipotenziario d'Inghilterra, Paoli
generale di Corsica vollero temperare il dominio forastiero con qualche
moderazione di leggi; modellarono una costituzione; mancava il consenso
dei popoli; adunossi una dieta o congresso generale nella città di
Corte; approvò la costituzione.

L'ordinamento della Corsica disordinava Genova. Non così tosto Hood
e Drake si rendettero sicuri della possessione dell'isola, che Paoli
mandava fuori un manifesto di guerra in nome del governo e della
nazione corsa contro la repubblica di Genova. Pubblicava, rammentate
prima le ingiurie fatte ai Corsi dai Genovesi, che la Corsica intimava
la guerra a Genova. Esortava quindi i Corsi, armassero navi in guerra,
corressero contro i bastimenti genovesi; avessero gli armatori facoltà
di appropriarsi non solo le navi genovesi, ma ancora, cosa certamente
enorme, le merci genovesi che si trovassero a bordo di bastimenti
neutrali; i Genovesi presi fossero condotti nell'isola come schiavi,
e si condannassero a lavorar la terra; finalmente si pagassero cento
scudi di premio per ogni capo di tali schiavi che fosse condotto a
Bastia. Non è certo da maravigliare che Paoli, nemicissimo per natura
ai Genovesi, e mosso dai risentimenti antichi, abbia dato in questi
eccessi; ma che gl'Inglesi, signori allora di Corsica, che potevano in
Paoli quel che volevano, e che erano, o si vantavano di essere civili
ed umani uomini, gli abbiano tollerati, e forse instillati, con lasciar
anche scrivere in fronte di un manifesto europeo le parole di schiavo e
di schiavitù, niuno sarà che non condanni. Intanto arditissimi corsari
corsi correvano il mare, e portando per insegna la testa di Moro coi
quarti d'Inghilterra e con patenti spedite da Elliot, facevano danni
incredibili al commercio genovese, e peggio ancora che il manifesto non
portava.

Finalmente udì l'Inghilterra le querele dell'innocente repubblica; ma
insidiosa e non piena fu la riparazione. Ordinava che l'assedio di
Genova si levasse; ma nel tempo stesso statuiva che i corsari corsi
avessero facoltà di predare i bastimenti genovesi, o di qualunque
nazione, che andassero o venissero dai porti di Francia, e le merci
loro ponessero al fisco, e gli uomini non più come schiavi, ma come
prigionieri di guerra si arrestassero, secondo l'uso delle nazioni
civili.

Pareva che la condizione di Genova con la Gran Bretagna fosse divenuta
più tollerabile; al tempo stesso i termini in cui viveva colla Francia
si miglioravano; perchè, morto Robespierre, era stato richiamato Tilly,
mandandosi in iscambio un Villard, che più moderatamente procedeva.

Ma la guerra non lasciava quietare la malarrivata Genova. L'accidente
seguito della occupazione d'una parte della riviera di Ponente ed i
progressi dei Franzesi insino a Finale, davano timore che potessero,
per la via del Dego e del Cairo, sboccare in Piemonte. Per preservare
questa provincia finchè giungessero le genti tedesche stipulate nel
trattato di Valenciennes, tutte le truppe austriache, già chiamate, si
adunavano nei contorni di Alessandria e di Acqui. Poscia, veduto che i
Franzesi s'ingrossavano verso Loano e Finale, si riducevano più vicino.
Sommavano a dodici mila combattenti tra fanti e cavalli: queste erano
le squadre della vanguardia e del grosso dell'esercito; il retroguardo
stanziava al Dego. Ivi avevano le artiglierie grosse, i magazzini ed
i forni ad uso di spianar pane per tutto l'esercito. In questi posti
attendevano ad affortificarsi con trincee e ridotti, massimamente al
monte di Santa Lucia ed a levante di Vermezzano sopra la strada del
Cairo, e finalmente su certe eminenze che dominavano la Bormida sopra
la pescaia del Mulino. Oltre di ciò, alcuni reggimenti piemontesi che
alloggiavano in un campo a Morozzo marciavano verso Millesimo col fine
di congiungersi cogli Austriaci che difendevano il paese del Cairo.

Dall'altra parte i Franzesi, udito di questo moto, ed avendo
anche presentito che l'esercito imperiale si volesse impadronire
improvvisamente di Savona, deliberarono di prevenire l'uno e l'altro
con assaltare gli Austriaci nel loro campo di Dego. Perlochè l'esercito
loro grosso di quindici mila combattenti, fatto uno sforzo, avea
sloggiato la vanguardia austriaca da varii posti, seguitandola sino
sulle alture che stanno a sopraccapo del Cairo, le quali occuparono,
la notte del 20 settembre, principalmente quelle che signoreggiavano
il castello. La quale cosa vedutasi dai generali austriaci Turcheim e
Colloredo, prevalendosi dell'oscurità della notte, ritirarono le genti
loro verso il campo di Dego. Avviarono altresì più dietro a Spigno
l'artiglieria grossa, serbando con loro la leggiera ch'era fiorita e
numerosa.

Era il dì 21 settembre imminente una battaglia. La mattina molto per
tempo avevano i generali austriaci ordinato le genti loro, partendole
in due parti, delle quali una, ch'era l'antiguardo, occupava le
alture del Colletto fino alla Bormida, seguitando pel Pianale sino a
Montebrile sopra la valle di Carpezzo. Avanti al passo di Colletto, per
cui si va a Rocchetta del Cairo, stavano, come guardia avanzata, una
quadriglia di Ulani: il passo medesimo munivano due bocche da fuoco
governate dai volontari. Al piano e verso il mezzo dell'antiguardo,
trentasei pezzi di artiglieria guardavano il passo, sei sul monte
Lucia, gli altri sulla ripa del fiume sopra il mulino. Il grosso della
battaglia si distendeva dal monte del Bosco sopra Pollovero e le alture
di Brovida. Un battaglione di Croati schierato sul monte Cerreto dava
sicurezza all'ala sinistra; uno di cacciatori posto sul monte Vallaro
alla destra.

Wallis, supremo generale austriaco, arrivato al campo poco innanzi
che incominciasse la battaglia, operò che alcuni battaglioni
dell'antiguardo venissero a rinforzare il grosso dell'esercito, il
quale finchè fosse intero, non avrebbe potuto il nemico avere vittoria.

Stando le cose in questi termini dal canto degli Austriaci, ivano
i Franzesi all'assalto condotti dal generalissimo Dumorbion, dai
generali Massena e Laharpe, e dal generale di artiglieria Buonaparte.
Erano le genti loro divise in tre schiere: la prima, seguitata da
cinquecento soldati a cavallo, e passando per la strada alla Rocchetta
del Cairo, andava ad assaltare gli Austriaci posti al Colletto. La
seconda, passando pel convento di San Francesco del Cairo, assaltava
i cacciatori che difendevano il monte Vailaro; poi, fatto un branco
di sè, composto di valentissimi soldati, lo mandava contro il colle
di Vignarolo, il quale superato, diveniva la strada più facile per
superare anche quello del monte Vallaro. Era l'intento della terza,
radendo i poggi che dominano la strada del Cairo e della Rocchetta,
riuscire alla cresta sinistra del Colletto. Già la prima schiera,
che era quella di mezzo, venuta per la Rocchetta, aveva costretto
la guardia avanzata a cedere il passo, e bersagliava di fronte con
grandissimo furore il posto del Colletto. A tanto assalto ad ora ad
ora gli ordini degl'imperiali si rompevano, ma pel valore loro tosto
si rannodavano: i due cannoni facevano grande strazio dei Franzesi.
La seconda colonna, sforzato, non senza una valida resistenza degli
Austriaci accorsi in aiuto del Pinale, il passo del Vignarolo, gli
assaltava al monte Vallaro e sulle alture della Bormida, ed al primo
tratto li disordinava; ma essendo venute in soccorso loro altre
due squadre mandate dal Wallis, gli Austriaci, con nuova vigoria
combattendo, fin oltre Vignarolo la ributtavano. La terza schiera,
che costeggiava a sinistra i monti, trovato un corpo d'Austriaci che
s'era posto in agguato nel castello rovinato della Rocchetta, e che
ricevette in quel punto un rinforzo di genti fresche, fu anch'essa
costretta a dare indietro. Così la vittoria sulle due ali inclinava a
favor degl'imperiali; ma l'importanza del fatto consisteva nel posto
del Colletto assaltato e difeso con mirabile costanza. Le fanterie
dei Franzesi non avendo potuto sforzare questo passo, la cavalleria
si fece avanti e diè per modo la carica alla cavalleria austriaca,
ch'essa, non fatta lunga resistenza, si ritirava ordinatamente di là
del Colletto, proteggendo anche la ritirata dei fanti, e conducendo
seco i due cannoni; e ciò forse per allettare tanto la cavalleria
dei repubblicani, che, condottasi nella valle di Pollovero, potesse
essere bersagliata, con evidente vantaggio, di fianco e di fronte
dalle batterie di Santa Lucia e del Pinale. Ma i Franzesi accortisi
dell'insidia, non si avventurarono. Intanto gli Austriaci, o perduto
per forza o abbandonato per arte il sito del Colletto, si ritirarono
grossi e minacciosi ai loro sicuri ripari del monte di Santa Lucia e
dell'argine del Mulino. Scesero i Franzesi dal Colletto nella pianura,
e già si erano inoltrati, accostandosi il sole al suo tramontare, sin
presso ai Zingani, sopra la foce del Pollovero, quando le batterie
di Santa Lucia e del Pinale cominciarono a fulminarli con orribile
fracasso. Dalla parte loro, anch'essi facevano ogni sforzo per superar
quei passi: nel tempo medesimo si combatteva sulle due ali estreme
dell'uno e dell'altro esercito. Nè fu fatto fine a tanta battaglia e
strage se non quando, sopraggiunta la notte, i Franzesi furono forzati
a ritornarsene oltre il Colletto, dond'erano venuti, per iscostarsi
dall'impeto delle artiglierie d'Austria, che non cessavano di trarre.
Perdettero in questo fatto i Franzesi meglio di seicento buoni soldati,
gli Austriaci meglio di settecento, fra i quali alcuni uffiziali di
nome.

Sforzossi ciascuna delle parti di tirare a sè la fama della vittoria
e dell'onore di questo giorno difficile ed importante; non ostante
gli Austriaci, o che temessero che per le piene autunnali la Bormida
interrompesse loro le strade a poter comunicare con Acqui, dov'erano
le riposte dell'esercito, ovvero che avessero avuto avviso, come fu
scritto, che un corpo franzese partito di Savona fosse per riuscir loro
alle spalle, e per tal guisa mozzar loro la strada, la notte del 22,
abbandonate lor forti posizioni, si ritirarono con tutte le bagaglie
e con tutte le artiglierie in Acqui. Nel che si dee notare la falsità
degli avvisi che ricevevano gli Austriaci; perchè e nissun corpo
franzese era a quei giorni in Savona, e tutti i Franzesi eransi adunati
per fare un grosso sforzo a Dego, e nissuna altra schiera notabile di
loro si trovava da Nizza sino a Savona. Questa falsità di avvisi, quale
ne fosse la cagione, operò molto efficacemente in tutti i fatti della
presente guerra, e fece rovinare molte imprese dell'armi imperiali.

Frattanto i Franzesi, temendo di qualche insidia, nè potendo recarsi
a credere che gli avversarii si fossero ritirati, dubitando anzi di
essere assaliti in sul far del giorno, molto posatamente e con ogni
cautela entrarono nel Dego. Ma quando si accorsero che quello che
non potevano sospettare era vero, vi si confermarono, e diedero mano
a vuotare e trasportare ai luoghi sicuri della Liguria i magazzini
dell'esercito tedesco, pieni di farine, avena, pane e strame. Nè
contenti i repubblicani all'aver fatte proprie le sostanze del
pubblico, diversamente da quello che in Oneglia avevano operato,
infestarono quelle dei privati, saccheggiando le case di coloro che per
timore le avevano abbandonate, consumando o disperdendo i vini ed ogni
altra grascia o vettovaglia, ardendo la casa del feudatario, guastando
le vigne portanti uve delicatissime, distruggendo una quantità di
bestiame sì grosso che minuto, dimostrando in somma con ogni proceder
loro quanto fossero dissomiglianti i fatti dalle parole, tristo
presagio dei mali ancor più gravi che si preparavano all'infelice
Italia.

L'esercito di Francia, dimoratosi tre giorni sul territorio del
Dego, si ritrasse poscia pel sospetto che gli davano le genti accorse
dal campo di Morozzo, e pei tempi sinistri, nel Genovesato, dove si
fortificava, principalmente a Vado, aspettando che la stagione nuova
gli facesse facoltà di tentare fazioni di maggior momento.

In mezzo a queste battaglie degli uomini, non vuolsi lasciare di far
menzione della trentesima eruzione del Vesuvio, accaduta la sera del 15
giugno, violentissima e spaventosa, che colla lava rovinò quasi tutta
la torre del Greco, e non poco danno recò a Resina, in tutto il paese
sollevandosi all'altezza di venti in trenta piedi. Poche case rimasero
intatte, e molte persone perirono.



    Anno di CRISTO MDCCXCV. Indiz. XIII.

    PIO VI papa 21.
    FRANCESCO II imperadore 4.


Erasi la fortuna, sul finire del precedente anno, mostrata favorevole
alle armi dei repubblicani non solamente dalla parte d'Italia,
ma eziandio, e molto più, verso la Spagna, i Paesi Bassi e quella
parte della Germania che si distende sulla riva sinistra del Reno:
che anzi in questi ultimi paesi tanta era stata la prosperità loro,
che, cacciati al tutto gli eserciti inglesi, olandesi, prussiani
ed austriaci, si erano fatti padroni del Brabante, dell'Olanda e di
tutta la Germania di là dal Reno, sì fattamente che, minacciando di
varcar questo fiume, niuna cosa lasciavano sicura sulla destra sponda.
Tante e così subite vittorie davano timore che la confederazione si
potesse scompigliare, e che alcuno degli alleati pensasse ad inclinar
l'animo ai Franzesi, anteponendo una pace qualunque ad una contesa
molto incerta nell'esito. A questo si aggiungeva che il reggimento
introdottosi in Francia dopo la morte di Robespierre mostrava e più
moderazione verso i cittadini e maggior temperanza verso i forastieri;
dannando le immanità dei governo precedente; protestando di non
consentire a turbar la pace altrui se non quando altri turbasse la
sua. Ogni cosa anzi inclinava ad un quieto e regolato vivere: solo
dava fastidio quel nome di repubblica, che potea, col linguaggio
che tenevano i Franzesi negli scritti e nelle parole, partorir col
tempo variazioni d'importanza. Non ostante, essendosi le cose ridotte
in Francia a maggior moderazione, si era il pericolo di presenti
turbazioni allontanato, e si dubitava che cresciuto dall'un de' lati
il terrore dell'armi franzesi, diminuito dall'altro il pericolo delle
forsennate suggestioni, prevalesse in alcun membro della lega la
volontà di procurar i proprii vantaggi con danno di tutti o di alcuno
dei confederati. Massimamente non si stava senza apprensione che
la Prussia facesse pensieri diversi dai comuni, e già se ne aveano
alcuni segni, e quanto peso un tal caso fosse per arrecare nelle cose
d'Europa, è facile vedersi da chi conosce e la sua potenza e la sede
de' suoi reami. Si temeva pertanto che l'inverno, il quale, acquetando
l'operare, risveglia il deliberare, potesse condurre qualche negoziato
col fine di porre discordia nella lega, e che, ove la stagione propizia
al guerreggiare fosse tornata, le armi dei Franzesi avessero a fare
qualche grande impeto, con insinuarsi nelle viscere di uno o di più dei
rimanenti alleati. Ma già aveano i Franzesi verso Germania acquistato
quanto desideravano; perchè signori dell'Olanda, signori delle
provincie germaniche poste di là dal Reno, a loro non rimaneva altra
cagione di condursi a far guerra sulla sponda destra di quel fiume, se
non quella di sforzare con continuate vittorie l'imperator d'Alemagna a
conoscere la repubblica loro ed a concluder la pace con lei. Ma sarebbe
stato il cammino lungo, e forse non sicuro; poichè l'Austria era sempre
formidabile, massime se si venissero a toccare gli Stati ereditarii.
Perlochè avvisavano potersi assaltare con minor pericolo e col medesimo
frutto da un'altra parte.

Quanto alla Spagna, i Franzesi non ponevano l'animo a volervi fare
un'invasione d'importanza, sebbene se ne fossero aperta la strada; ed
anzi credevano che, per costringerla alla pace, un romoreggiare sui
confini bastasse. Inoltre, salito pel favor della regina ad immoderata
potenza il duca d'Acudia, avvisavano i Franzesi, accortissimi nel
pesare le condizioni delle corti straniere, che il duca pensasse
piuttosto a solidare la sua autorità, allontanando, con un accordo, un
pericolo gravissimo, che a mantenere la integrità della fama del nome
spagnuolo e quanto richiedeva in quella occorrenza tristissima di tempi
la dignità della corona di Spagna.

Restava l'Italia, alla quale si prevedeva che si sarebbe, piuttosto
che in altro luogo, voltato il corso delle armi franzesi: per questo
avevano i repubblicani con infinito sforzo superate le cime delle Alpi
e degli Apennini; per questo ordinato ai passi l'esercito vincitore di
Tolone; per questo allettato con promesse e lusinghe il re di Sardegna;
per questo adulato Genova, addormentato Venezia, convinto Toscana
e turbato Napoli; per questo risarcivano a gran fretta i danni di
Tolone, con crearvi un navilio capace ad operare con forza sulle acque
del Mediterraneo; per questo stillavano continuamente nei consigli
loro, come, quando, per quale via e con quali mezzi dovessero assaltar
l'Italia. Era la penisola in quest'anno la principal mira dei disegni
loro, perchè speravano, per la debolezza e disunione de' suoi principi,
poterla correre a posta loro, perchè, malgrado delle funeste pruove
fatte in ogni età, il correre questa provincia è sempre stato appetito
principalissimo dei Franzesi. Conculcate poi l'armi austriache in lei,
precorrendo la fama della conquista di una sì nobile regione, speravano
che l'Austria spaventata calerebbe presto agli accordi.

Sì fatti disegni, non solamente non celati, ma ancora manifestati
espressamente, perchè meglio nascesse il timore, operavano in
differenti guise nella mente de' principi italiani. Il re di Sardegna,
ridotto in estremo pericolo, perduti oggimai i baloardi delle Alpi;
e trovandosi con l'erario consumato da quell'abisso di guerra, aveva
grandissima difficoltà del deliberare sì della pace che della guerra,
se però non è più vero il dire che altro scampo più non avesse che
aperto gli fosse, se non di pruovare se forse l'armi, che sempre
sono soggette alla fortuna, avessero a portare nel prossimo anno
accidenti per lui più favorevoli. Per la qual cosa deliberassi di non
separare i suoi consigli da quelli de' confederati, e di continuare
piuttosto nella amicizia austriaca già pruovata e consenziente alla
natura del suo governo, che di darsi in braccio ad un'amicizia non
pruovata e contraria ai principii della monarchia. Gli pareva anche
odioso ed indegno del suo nome il rompere gli accordi di Valenciennes
così freschi, e prima che si fosse sperimentato che valessero o non
valessero alla salute del regno. Per verità, l'Austria, commossa dal
pericolo imminente che i Franzesi, superate le Alpi ed annientata la
potenza sarda, inondassero l'Italia, non differiva le provvisioni
per procurar l'esecuzione de' patti di Valenciennes; perchè oramai
non si trattava soltanto della salute d'un alleato, ma bensì della
propria; laonde si dimostravano dalla parte della Germania ogni di
più efficaci movimenti, le genti tedesche ingrossavano in Piemonte,
e già componevano un esercito giusto e capace di tentare, unito al
piemontese, fazioni di importanza. Adunque il re, posto dall'un de'
lati ogni pensiero d'accordo con un nemico che più odiava ancora che
temesse, allestiva con ogni diligenza l'armi, i soldati e le munizioni.
Nè potendo lo Stato, e scemato di territorio e conculcato dalla guerra,
sopperire al dispendio straordinario co' mezzi ordinarii, e trovandosi
oppressato dalla necessità di danari, si diede opera a vendere, in
virtù di una bolla pontificia, trenta milioni di beni della Chiesa;
venderonsi i beni degli ospedali con dar in iscambio luoghi di monte;
ponessi con accatto sforzato sulle professioni liberali; accrebbersi le
gabelle del sale, del tabacco e della polvere da schioppo, ed ordinossi
un balzello per capi. Le quali imposte, che dimostravano l'estremità
del frangente, rendevano i popoli scontenti; ma però, gettando somme
considerabili, aiutavano l'erario a pagar soldati, esploratori e
il resto. Così tra le gravi tasse, le provvisioni straordinarie, le
leve sforzate e il romore delle armi sì patrie che straniere, sospesi
i popoli tra la speranza ed il timore, aspettavano con grandissima
ansietà i casi avvenire.

Le vittorie de' repubblicani sui monti, che davano probabilità
ch'eglino avessero presto ad invadere l'Italia, confermando il
consiglio de' savii in Venezia nella risoluzione presa di mantenere la
repubblica neutrale e poco armata, avevano indotto al tempo medesimo
il granduca di Toscana a far nuove deliberazioni, con trattar accordo
con la repubblica franzese, e con tornarsene a quella condizione di
neutralità, dalla quale sforzatamente, e solo coll'aver licenziato
il ministro di Francia, s'era allontanato. Aveva sempre il granduca,
in mezzo a tutti que' bollori, conservato l'animo pacato e lontano da
quegli sdegni che oscuravano le menti rispetto alle cose di Francia;
non già che egli approvasse le esorbitanze commesse in quel paese, che
anzi le abborriva, ma avvisava che infino a tanto che i repubblicani si
lacerassero fra di loro con le parole e coi fatti, avrebbero lasciato
quietare altrui, e che il combatterli sarebbe stato cagione che si
riunissero a danni di chi voleva essere più padrone in casa loro
che essi medesimi. Ma poichè senza colpa sua, e pei cattivi consigli
d'altri, i Franzesi, non che fossero vinti, avevano vinto altrui per
modo che oramai questa sede d'Italia da tanti anni immune dagli strazii
di guerra era vicina a sentire le sue percosse, pareva ragionevole
che il granduca s'accostasse a quelle deliberazioni che i tempi
richiedevano, e che erano conformi sì alla natura sua quieta e dolce,
e si agl'interessi della Toscana. Oltre a ciò, il porto di Livorno era
divenuto, poichè erano chiusi dalla guerra quei di Francia, di Genova
e di Napoli, il principale emporio del commercio del Mediterraneo.
Quivi gl'Inglesi concorrevano col loro numeroso navilio sì da guerra
che da traffico; quivi i Franzesi ed i Genovesi, o sotto nome proprio o
sotto nome di neutri, a fare i traffici loro, massimamente di frumenti,
che trasportavano nelle provincie meridionali della Francia. Levavano
gl'Inglesi grandissimi rumori per cagione di questi aiuti procurati
dalla neutralità di Livorno; ma il granduca, preferendo gli interessi
proprii a quelli d'altrui, non si lasciava svolgere, e sempre si
dimostrava costante nel non voler serrare i porti ai repubblicani.
Nè contento a questo, con molta temperanza procedendo, ordinava che
fossero aperti i tribunali a' Franzesi, e venisse fatta loro buona
e sincera giustizia, secondo il diritto e l'onesto. Avendo poi anche
udito che alcuni falsavano la carta monetata di Francia, diede ordine
acciò sì infame fraude cessasse, e ne fossero castigati gli autori;
cosa tanto più laudabile che appunto nel medesimo tempo uomini perversi
in paesi ricchissimi e potentissimi, per l'infame sete dell'oro, e
forse per una sete ancor peggiore, compivano opera sì vituperosa, non
nascostamente, ma apertamente. Così le mannaie uccidevano gli uomini a
folla in Francia, così la guerra infuriava in Piemonte, così lo Stato
incrudeliva in Napoli, così i falsari contaminavano la Inghilterra,
mentre l'innocente Toscana ministrava giustizia a tutti, nè si piegava
più da una parte che dall'altra.

Ma, divenendo ogni ora più imminente il pericolo d'Italia, pensò il
granduca che fosse oramai venuto il tempo di confessare apertamente
quello che già eseguiva con tacita moderazione, sperando di meglio
stabilire in tal modo la quiete e la sicurtà di Toscana. Per la
qual cosa deliberossi al mandare un uomo apposta a Parigi, affinchè
fra i due Stati si rinnovasse quella pace che più per forza che per
deliberazione volontaria era stata interrotta. Molte furono le querele
che si fecero in que' tempi di questa risoluzione, e della scelta del
conte Carletti ad eseguirla destinato; ma il tempo non tardò a scoprire
che quello che il granduca ebbe fatto per solo amore de' sudditi,
il fecero altri principi assai più potenti di lui. Ma era fatale che
in quella volubilità di governi franzesi quest'atto del granduca non
preservasse la Toscana dalle calamità comuni, perchè vennero i tempi in
cui la forza e la mala fede ebbero il predominio: l'innocenza divenne
allettamento non scudo.

Fecero i repubblicani al conte Carletti gratissime accoglienze sì per
acquistar miglior fama e sì per allettar altri principi a negoziare
con quel governo insolito e terribile. Debole era il granduca a
comparazione di Francia; ma era pei Franzesi di non poco momento
che un principe d'Europa riconoscesse quel loro nuovo reggimento,
e concludesse un accordo con lui; perchè, superata quella prima
ripugnanza, si doveva credere che altre potenze, seguitando l'esempio
di Toscana, si sarebbero più facilmente condotte a fare accordo ancor
esse. Perlochè fu udito con facili orecchie il conte a Parigi, ed
appena introdotti i primi negoziati, fu concluso, il dì 9 febbraio,
tra Francia e Toscana un trattato di pace e di amicizia, pel quale il
granduca rivocava ogni atto di adesione, consenso od accessione che
avesse potuto fare con la lega armata contro la repubblica franzese,
e la neutralità della Toscana fu restituita a quelle condizioni in cui
era il dì 8 ottobre del 1793.

Giunte in Toscana le novelle della conclusione del trattato,
si rallegrarono grandemente i popoli, massime i Livornesi, per
l'abbondanza dei traffichi, e con somme lodi celebrarono la sapienza
del granduca Ferdinando. Bandissi la pace con le solite forme, ma a
suon di cannoni in Livorno in cospetto dell'armata inglese, che quivi
aveva le sue stanze. Pubblicò Ferdinando un suo manifesto, conchiudendo
volere ed ordinare che il trattato con Francia si eseguisse, e l'editto
di neutralità, pubblicato nel 1778 dalla sapienza di Leopoldo, si
osservasse. Perchè poi quello che la sapienza aveva accordato i buoni
ufficii conservassero, chiamò Ferdinando il conte Carletti suo ministro
plenipotenziario in Francia. Introdotto al cospetto del consesso
nazionale, acconciamente orava; rispondeva il presidente con magnifico
discorso; infine, perchè non mancasse alle lusinghevoli parole quel
condimento dell'abbracciata fraterna, come la chiamavano, gridossi
romorosamente l'abbracciata, e l'abbracciata fu fatta, plaudendo i
circostanti. Andossene Carletti molto ben lodato ed accarezzato. Così
verificossi con nuovo esempio l'indole dei tempi, che portava gioie
corte e vane, dolori lunghi e veri.

E poichè si hanno a raccontare dolci parole e tristi fatti, non è da
passar sotto silenzio le dimostrazioni non dissimili con le quali si
procedette col nobile Querini, destinato dalla repubblica veneziana
ad inviato appresso al consesso nazionale di Francia. Avevano coloro
che nei consigli di Venezia prevalevano sperato di solidar veppiù lo
stato della repubblica col mandar a Parigi un personaggio d'importanza,
acciocchè con la presenza e con la destrezza dimostrasse esser vera
e sincera la determinazione del senato di volersene star neutrale.
Perlochè, adunatosi il senato sul principiar di marzo, trasse inviato
straordinario in Francia Alvise Querini, in cui non sapresti se
stato sia maggiore o l'ingegno, o la pratica del mondo politico, o
l'amore verso la sua patria; che certo tutte queste cose erano in lui
grandissime.

Adunque, arrivato Querini a Parigi, ed introdotto onoratamente al
consesso nazionale, e vicino al seggio del presidente postosi, con
bellissimo favellare disse, cittadino di una repubblica dai tempi
antichissimi fondata per la necessità di fuggire i barbari e pel
desiderio di vivere tranquilla, avere ora nuova cagione di gratitudine
verso la sua patria per averlo destinato ministro appresso ad una
repubblica che appena nata già riempiva il mondo colla fama delle sue
vittorie. Qual cosa, in fatti, poter essere a lui più lusinghiera,
quale più gioconda, di quella di comparire in cospetto del nazionale
consesso di Francia a fine di confermar la amicizia che il senato e la
repubblica di Venezia alla repubblica franzese portavano? Sperare la
conservazione di questa antica amicizia: sperarla, desiderarla, volerla
con tutto l'animo e con tutte le forze sue procurare, e stimarsene
fortunatissimo; recarsi ancora a felicità sua, se, al mandato della sua
cara patria adempiendo, meritasse che in lui avesse il consesso fede,
e se conceduto gli fosse di vedere che il consesso medesimo, fatto
maggiore di sè, e benignamente agli strazii dell'umanità risguardando,
con generoso consiglio dimostrasse aver più cura della pace che della
guerra, ed il frutto di tante vittorie aver ad essere il riposo di
tutti.

Orava in risposta il presidente dicendo, felicissimo essere alla
repubblica franzese quel giorno in cui compariva avanti a sè l'inviato
della illustre repubblica di Venezia; poter vedere il nobile Querini
in volto ai circostanti i segni della contentezza comune; antica essere
l'amicizia tra Francia e Venezia, ma anticamente aver vissuto la prima
sotto la tirannide dei re, ora dover l'accordo esser più dolce, perchè
libera dal giogo; avere avuto pari principio le due repubbliche:
sorta la veneziana fra le tempeste del mare, fra le persecuzioni dei
barbari; pure fra tanti pericoli avere acquistato onorato nome al
mondo per la sua sapienza e pei suoi illustri fatti; avere spesso le
querele dei re giudicato, spesso l'Occidente dai Barbari preservato:
similmente sorta la Franzese fra le tempeste del mondo in soqquadro;
gente più barbara dei Goti avere voluto distruggerla, usato fuori
le armi, dentro le insidie, chiamato in aiuto la civile discordia,
ma tutto stato essere indarno: la libertà avere vinto: non dubitasse
pertanto Venezia, che siccome pari era il principio e pari l'effetto,
così sarebbe pari l'amicizia; avere la generosa Venezia, allora quando
ancora stava la gran lite in pendente, accolto l'inviato della franzese
repubblica onorevolmente; volere la Francia grata riconoscere con
procedere generoso un procedere generoso, e siccome la sua alleata
non aveva dubitato di commettersi ad una fortuna ancor dubbia, così
godrebbe sicuramente i frutti d'una fortuna certa: avere potuto la
Francia, quando aveva il collo gravato dal giogo di un re, ingrata
essere ed ingannatrice, ma la Francia libera, la Francia repubblicana
riconoscente essere e leale, e con tanto miglior animo riconoscere
l'obbligo, quanto il benefizio non era senza pericolo: andasse pur
sicura Venezia e si confortasse che la nazione franzese nel numero de'
suoi più puri, de' suoi più zelanti alleati sarebbe: quanto a lui,
nobile Querini, se ne gisse pur contento che la franzese repubblica
contentissima si reputava di averlo per ministro di una repubblica
amica, e che di pari estimazione in Francia goderebbe di quella che
già si era in Venezia acquistata; i desiderii di pace essere alle
due repubbliche comuni; confidare, sarebbero presto con la quiete
universale d'Europa adempiti.

Per tal modo si vede che per testimonio del presidente
Lareveillere-Lepaux, che orava, Venezia era generosa, libera, amica di
Francia. Pure poco tempo dopo coloro che sottentrarono al governo ed un
soldato la distrussero, chiamandola vile, schiava e perfida.

Giunte a Venezia le novelle della cortese accoglienza fatta al
Querini, si rallegrarono vieppiù coloro che avevano voluto fondar lo
Stato piuttosto sulla fede di Francia che sull'armi domestiche, e si
credettero di aver in tutto confermato lo impero della loro antica
patria.

Dalla parte d'Italia, dov'era accesa la guerra, incominciavano a
manifestarsi i disegni dei Franzesi. Doleva loro l'acquisto fatto
della Corsica dagl'Inglesi, e desideravano racquistarla. Oltre a ciò le
genti accampate sulla riviera di Ponente travagliavano per una estrema
carestia di vettovaglia; importava finalmente che il nome e la bandiera
di Francia si mantenessero vivi nel Mediterraneo. Fu allestita con
incredibile celerità a Tolone una armata di quindici grosse navi di
fila con la solita accompagnatura delle fregate e di altri legni più
sottili. Genti da sbarco e viveri in copia vi si ammassarono; usciva
nei primi giorni di marzo, e postasi nelle acque delle isole Iere,
aspettava che il vento spirasse favorevole all'esecuzione dei suoi
pensieri.

Il vice-ammiraglio inglese Hotham, che stava in sentore a Livorno con
una armata in cui si noveravano quattordici grosse navi di fila, tutte
inglesi, ed una napolitana, con tre fregate inglesi e due napolitane,
avuto subitamente avviso dell'uscita dei Franzesi, pose tosto in alto
per andar ad incontrare il nemico, e combatterlo ovunque il trovasse.
Dall'altra parte, uditosi dall'ammiraglio franzese Martin, al quale
obbediva l'armata, che gl'Inglesi solcavano il mare per combattere
con lui, lasciate le onerarie all'isole Iere, sciolse animosamente
le ancore ancor egli, risolutosi al commettere alla fortuna delle
battaglie l'imperio del Mediterraneo. Incominciò a dimostrarsegli con
lieto augurio la benignità della fortuna, perchè avendo l'Hotham, tosto
che ebbe le novelle del salpar dei Franzesi, spedito ordine alla nave
il Berwick, che stanziava a San Fiorenzo di Corsica, acciò con tutta
celerità venisse a congiugnersi con lui verso il capo Corso, essa,
abbattutasi per viaggio nell'armata franzese, fu fatta seguitare dal
vascello ammiraglio il Sanculotto (con questi pazzi nomi chiamavano
i Franzesi di quell'età le navi loro) e da tre fregate, per modo che,
combattuta gagliardamente, fu costretta ad arrendersi in cospetto di
tutta l'armata repubblicana, che veniva via a vele gonfie per secondare
i suoi che già combattevano; sì mal concio però uscendo dal feroce
contrasto il Sanculotto che ritirossi per forza nel porto di Genova
e poco poscia in quello di Tolone. Intanto arrivarono le due armate
l'una al cospetto dell'altra nel giorno 13 marzo. Quivi incominciò
la fortuna a voltarsi contro i Franzesi, perchè separata da una forte
buffa di vento dalla restante armata la nave il Mercurio, per questi
accidenti si trovarono i Franzesi al maggior bisogno loro con due
navi di manco, delle quali il Sanculotto, essendo a tre palchi, era la
principale speranza della vittoria. Godevano gl'Inglesi il vantaggio
del vento, sicchè fu spinta l'armata della repubblica verso il capo di
Noli, seguitandola gl'Inglesi per modo di caccia generale. In questo,
tra pel mareggiare, ch'era forte a cagione del vento assai fresco, e
per la forza dell'artiglierie inglesi che già si erano approssimate,
perdè il vascello il Caira gli alberi di gabbia, e perseguitato dalla
fregata l'Incostante e dal vascello l'Agamennone, si difese bensì
gagliardamente, soccorso da' suoi sino a notte, ma per la difficoltà
del muoversi continuando tuttavia a rimanere troppo più vicino agli
Inglesi che la salute sua non richiedesse, come anche la nave il
Censore che l'aveva aiutato. Questi accidenti, parte inevitabili, parte
fortuiti, furono cagione che la mattina del 14 fossero queste due
navi nuovamente assaltate. Contrastarono esse con tanto valore, che
gl'Inglesi non poterono venire così tosto a capo del disegno loro di
rapirle. Chiamarono in soccorso l'Illustre ed il Coraggioso, ma furono
anche queste tanto lacerate dalla furia delle cannonate repubblicane,
che la prima, non più abile a governarsi, fu arsa, la seconda andò
per forza a ritirarsi nel porto di Livorno. Ma finalmente le due navi
della repubblica, non potendo pel silenzio dei venti essere aiutate
dal grosso dell'armata, calata la tenda, si arrenderono. Continuava
agl'Inglesi il benefizio del vento; alla fine, essendosi messa una
brezza leggiera anche pei Franzesi, se ne prevalsero, solo per altro
per ritirarsi con minor danno che possibil fosse da quel campo di
battaglia oramai più pericoloso che glorioso. La quale mossa riuscì
poco ordinata nè conforme alla volontà dell'ammiraglio; ma un cattivo
consiglio fu compensato da un valore inestimabile, sì che gl'Inglesi
medesimi ne restarono maravigliati. Assicurò per allora questa vittoria
le cose di Corsica a favor degl'Inglesi.

Questa fu la battaglia del capo di Noli, nella quale fu pari da
ambe le parti il valore, ma maggiore dalla parte degli Inglesi la
perizia e l'ubbidienza dei capitani minori. Così fu sturbata ai
Franzesi l'impresa di Corsica, diventarono i nemici loro padroni del
Mediterraneo, le provincie meridionali di Francia penuriarono vieppiù
di vettovaglie, i repubblicani sulla riviera di Ponente furono a tali
strette ridotti, che se si mostrarono mirabili nel vincere i pericoli
della guerra, più ancora diedero maraviglia nel superare gli stimoli
della fame.

In questo mentre si ebbero le novelle della pace conclusa tra la
repubblica franzese e il re di Prussia, accidente gravissimo e che
diede molta alterazione agli alleati, sì per l'opinione come per
la diminuzione di forze che a loro ne veniva. Non potè però fare
che l'imperator d'Alemagna ed il re di Sardegna non rimanessero in
costanza; anzi cominciando a manifestarsi in Piemonte gli effetti del
trattato di Valenciennes, pel grosso numero di Tedeschi che vi erano
arrivati, malgrado l'alienazione della Prussia, alzarono la mente a più
importanti pensieri, colla speranza di cacciar del tutto i repubblicani
dalla riviera di Genova. Per la qual cosa avviate le genti loro verso
il Cairo, dal quale i Franzesi si erano ritirati, ed occupata la
sommità dei monti, già inclinavano a qualche fatto memorabile.

Erano in tal modo ordinati i confederati, che l'ala loro sinistra
guidata dal generale Wallis faceva sembiante di volersi impadronire di
Savona, e di assaltare i Franzesi che si erano fortificati al ponte
di Vado: il mezzo, dov'era presente il generalissimo Devins, e che
era il nervo principale, minacciava di voltarsi al cammino dei siti
molto importanti di San Giacomo e di Melogno; la destra, che obbediva
al generale Argenteau, dava a dubitare che, con impeto improvviso
avanzandosi, andasse a riuscire a Finale. Una grossa squadra di
cavalleria piemontese stanziava presso a Cuneo, pronta a passar le Alpi
o gli Apennini ove la fortuna aprisse qualche adito alla vittoria.
Corpi sufficienti di truppe, massime piemontesi, munivano le valli
di Stura, di Susa e d'Aosta sotto la condotta dei duchi d'Aosta e di
Monferrato. Davano gran forza a tutte queste genti i Barbetti, come
li chiamavano, i quali, gente piuttosto da strada che da milizia,
nascondendosi spediti e leggieri nei luoghi più ermi e precipitosi
delle nizzarde montagne, erano assai pronti a spiare le mosse
dell'inimico, a sorprendere le vettovaglie, e ad uccidere, spesso anche
crudelmente, gli spicciolati. Usavano somma barbarie nel difendere la
regia causa; nè i comandamenti del re, che desiderava di metter ordine
e moderazione fra di loro, bastavano per frenar appetiti così smoderati
e disumani.

Dall'altra parte i Franzesi governati dal Kellerman erano molto intenti
alle provvisioni per resistere ai confederati, quantunque l'esercito
loro non pareggiasse di numero quel della lega. La loro ala dritta,
sotto l'imperio di Massena, stanziava colla estremità sua a Vado,
e distendendosi pei monti arrivava insino alla valle del Tanaro.
Quivi incominciava la parte mezzana, che pel colle di Tenda andava a
congiungersi sul Gabbione con la sinistra che muniva i colli di Raus e
delle Finestre, e le valli della Vesubia e della Tinea.

Era Savona sito di molta importanza sì per l'opportunità del porto,
sì pel suo castello munitissimo. L'una parte e l'altra, non portando
rispetto alla neutralità di Genova, desideravano d'impadronirsene
o per insidia o per una battaglia di mano. Fuvvi sotto le sue
mura un'abbaruffata fra i repubblicani, che vi erano venuti, e i
confederati, che li volevano pigliare: rifulse in questo fatto la
virtù del governatore Spinola, che serbò la neutralità e la piazza,
costringendo le due parti a levarsene.

A questa incomposta avvisaglia successero assai tosto battaglie
grossissime. Vedevano i confederati essere loro di somma importanza
lo scacciare i repubblicani dalla riviera di Genova, perchè, se a
ciò non riuscissero, la Lombardia austriaca sarebbe sempre stata in
grave pericolo, e la difesa del re di Sardegna, non che difficile,
quasi impossibile. Assai lunga era la fronte dell'esercito franzese:
il romperlo in mezzo era un vincerla tutta. Si risolvettero adunque a
fare impeto principalmente contro i monti di San Giacomo e di Melogno,
onde riuscisse loro di tagliar fuori l'ala dritta dei Franzesi dalle
due altre parti. Pensarono altresì ad assaltare fortemente il luogo
di Vado, dove i repubblicani s'erano molto fortificati, perchè, se la
fortuna fosse stata per loro anche qui propizia, si sarebbe allargato
subitamente lo spazio dove gl'Inglesi potevano approdare. Pertanto
gli Austriaci assalirono con grandissimo valore il posto di Vado,
già inclinando verso il suo fine il mese di giugno; risposero con
eguale virtù i Franzesi guidati da Laharpe, e tanto fecero che non si
piegarono punto, anzi ributtarono valorosamente il nemico, più valoroso
ed impetuosissimo. Questo fu uno dei fatti della presente guerra per
cui si devono accrescere le laudi dei Franzesi pel valor dimostrato e
per la perizia del saper prendere i luoghi e dell'usar le occasioni;
ma non con pari fortuna combatterono sui monti di San Giacomo e di
Melogno; perchè una grossa schiera di Austriaci condotti da Devins
assaltava impetuosissimamente tutti i posti che munivano le alture
del primo: varii furono gli assalti, varie le difese, molti i morti,
molti i feriti da ambe le parti; durò ben sette ore la battaglia,
nè ben si poteva prevedere quale avesse a prevalere, o la costanza
austriaca o la vivacità franzese, avvegnachè quegli alpestri gioghi
già fossero contaminati di cadaveri e di sangue. Finalmente declinò
la fortuna dei Franzesi; gli Austriaci, che prevedevano che da quella
fazione dipendeva tutto l'evento della ligustica guerra, fatto un
estremo sforzo, riuscirono, cacciatone di viva forza gli avversati,
sulla sommità del monte. Con pari disavvantaggio procedevano le cose
dei Franzesi a Melogno, custodito solamente da due battaglioni. Lo
attaccava Argenteau con cinque mila soldati fioritissimi, e dopo breve
contrasto facilmente se lo recava in mano. Come prima ebbe Kellerman
avviso della perdita di Melogno, mandava Massena con un grosso di
quattro battaglioni valentissimi a far opera di ricuperarlo; il che era
non di somma, ma di estrema importanza. Usarono i soldati di Massena
molto opportunamente d'una nebbia assai folta; ma furono rigettati con
le artiglierie e con le baionette, non senza aver perduto buon numero
di valenti soldati. Questo rincalzo non tolse loro tanto di speranza,
che non tentassero un secondo assalto: Massena medesimo, al solito
rischievole guidatore di qualunque più difficile impresa, reggeva
i passi loro, ed avendoli divisi in tre colonne, comandava alle due
estreme ferissero l'inimico sui due fianchi; alla mezzana percuotesse
di fronte l'altura pericolosa. Marciavano molto confidenti della
vittoria; ma la nebbia fece sì che le colonne laterali si accozzassero
alla mezzana per modo che in vece di tre assalti si ridussero a
darne un solo sulla fronte. Questo cangiò del tutto la condizione
della battaglia, perchè gl'imperiali, combattendo per diritto da quei
ripari sicuri con tutte le artiglierie loro, obbligarono prestamente
i repubblicani a ritirarsi, non senza strage, ai luoghi d'ond'erano
venuti. S'aggiunse a questo che gli Austriaci s'impadronirono del passo
dello Spinardo, altro sito importante che dava loro maggior facoltà di
rompere e spartire in due l'esercito di Francia. Occupato San Giacomo
e Melogno, salirono gl'imperiali facilmente sui monti che stanno
imminenti a Vado, donde poterono bersagliare i Franzesi, che tuttavia
vi avevano le stanze. Perlochè questi, disperati pei sinistri occorsi
di poter conservare questo luogo, chiodati ventidue cannoni e due obici
che non potevano trasportare, si ritirarono. Entrarono tosto in Vado
gli Austriaci, e poservi di presidio il reggimento Alvinzi.

Mentre tutte queste cose si facevano sulla riviera di Genova,
succedevano parecchie battaglie su tutte le creste degli Apennini e
dell'Alpi con vario evento; volendo e Franzesi e Piemontesi aiutare con
questi assalti lontani le maggiori battaglie del Genovesato.

Kellerman, vedendo che per l'occupazione fatta dagli alleati de' siti
più importanti verso Savona, le sue stanze in que' luoghi non erano
più sicure, e che la sua ala dritta correva pericolo d'essere tagliata
fuori dalle altre, tirò con molta prudenza e singolare arte indietro la
troppo lunga fronte de' suoi. Per tal modo Finale e Loano, abbandonati
dai repubblicani, vennero in potere degl'imperiali.

La ritirata de' Franzesi da Vado era necessaria per la salute loro,
ma fu loro da un altro canto di grandissimo incomodo a cagione della
mancanza delle vettovaglie, perchè i corsari vadesi e savonesi con
bandiera austriaca correvano continuamente il mare, tanto che a
mala pena alcune navi più sottili d'Idriotti, sguizzando la notte
o pel favor di venti prosperi, riuscivano ad approdare, sussidio
insufficiente a sollevare tanta carestia. Per privare viemmaggiormente
le navi neutre della comodità di farsi strada ai lidi di Francia ed
alla parte della riviera occupata dai Franzesi, aveva il generale
austriaco armato nel porto di Savona certe grosse fuste che portavano
venti cannoni; e v'erano giunte due mezze galere e quattro fuste
napolitane, ed a tutti questi legni minori faceano ala le fregate
inglesi. Per tutto questo nacque una penuria incredibile nel campo
franzese, e già si ripromettevano i confederati che i repubblicani,
indeboliti dalla fame, pensassero oramai a ritirarsi da tutta la
riviera. Ma i Franzesi, non mostrandosi meno costanti nel sopportare
l'estremità del vivere, di quanto fossero stati valorosi ne' fatti
d'arme, continuavano ad insistere dal Borghetto e dal Ceriale, in atto
minaccioso e fiero. Il che vedutosi da' capi della lega, estimando
che, ove la fame non bastava, bisognava usar la forza, assalirono con
numero e con valore le posizioni nuove alle quali i repubblicani si
erano riparati. Sanguinose battaglie ne seguitavano, in cui ora gli
uni ed ora gli altri restavano superiori: la somma fu, che, non essendo
venuto fatto agli alleati di sloggiar i Franzesi, perdettero il frutto
di tutta l'opera, perchè il non superare que' luoghi era un perdere
tutto il frutto del trattato di Valenciennes. Così le sorti d'Italia si
arrestarono ed ebbero il tracollo sul piccolo ed ignobile scoglio del
Borghetto.

Intanto le cose vieppiù s'allontanavano dalla temperanza in Napoli.
Eranvi nate sì pel famoso grido della rivoluzione di Francia, sì per le
istigazioni segrete di alcuni agenti di quel paese, sì per l'esempio e
le esortazioni degli uomini venuti sull'armata dell'ammiraglio Truguet,
che aveva visitato il porto di Napoli nel 1793, e sì finalmente per le
inclinazioni de' tempi, opinioni favorevoli alla repubblica. Alcuni
giovani con molta imprudenza la professavano; altri meno imprudenti,
ma più inescusabili, si adunavano e facevano congreghe segrete a
rovina del governo. Notarono i discorsi, seppersi le trame: il governo
insorgeva a freno de' novatori. Il ministro Acton, conosciuti gli
umori, si studiava, come i favoriti fanno, di andare a seconda, con
rappresentare continuamente all'animo della regina, già tanto alterato,
congiure e tentativi di ribellioni pericolose. Creossi una giunta sopra
le congiure. Furonvi eletti il principe Castelcicala, il marchese Vanni
ed un Guidobaldi, antico procurator di Teramo, uomini disposti, non
solo a far giustizia, ma ancora ad usar rigore. Emmanuele de Deo ed
alcuni altri rei furono puniti coll'ultimo supplizio; alcuni carcerati,
alcuni confinati. Ciò era non solo diritto, ma ancora debito dello
Stato; ma si crearono gli uomini sospetti, parte per indizii più o
meno fondati, parte anche senza indizii, mescolandosi le emulazioni
e gli odii particolari là dove non era nè reità nè indizio di reità.
Le carceri si empierono. Era un terrore universale; il familiare
consorzio era contaminato dalla paura de' delatori. Diceva Vanni,
già confinata in carcere una gran moltitudine, pullulare tuttavia
nel regno i giacobini; abbisognare arrestarsene ancora venti mila; nè
si ristava: i carcerati si moltiplicavano. Fu imprigionato Medici, e
se nol salvava l'integrità del giudice Chinigò, sarebbe caduto sotto
la macchina orditagli da Acton per gelosia, e privato il regno di un
uomo di non ordinaria perizia negli affari di Stato. Duravano già da
molto tempo le pene insolite, nè rimetteva il rigore. I popoli prima
si spaventavano, poi s'impietosivano, finalmente si sdegnavano, e ne
facevano anche qualche dimostrazione. Pensossi al rimedio. Siccome
Vanni principalmente era venuto in odio all'universale, così fu
dimesso ed esiliato da Napoli; gratitudine degna del benefizio. Ciò non
ostante, la asprezza non cessò del tutto, se non quando Napoli venne a
patti con Francia.

Frattanto non si confermava l'imperio inglese in Corsica, parte per
l'inquietudine naturale di quella nazione, parte perchè i partigiani
franzesi vi erano numerosi, parte finalmente perchè i popoli, scaduti
dalle speranze, si erano sdegnati, e gridavano aver solo cambiato
padrone, non peso. Oltre a ciò, grande era tuttavia il nome di Paoli
in Corsica, e coloro che più amavano l'indipendenza che l'unione con
gl'Inglesi, voltavano volentieri gli animi a lui, come a quello che
avendo contrastato l'acquisto della Corsica ai Franzesi, poteva anche
turbarlo agl'Inglesi. Erano pertanto sorti parecchi rumori in alcune
pievi di qua da' monti, massimamente ne' contorni d'Aiaccio; ed il
male già grave in sè induceva ogni giorno maggior timore; alcuni già
gridavano apertamente il nome di Francia: si temeva una turbazione
universale, se prontamente non vi si provvedesse. Per la qual cosa
il vicerè Elliot, avvisato prima diligentemente in Inghilterra quanto
occorreva, mandò fuori un bando esortatorio.

Nè le sue esortazioni restarono senza effetto, non già sulle
popolazioni mosse, perchè a popolo mosso bisogna parlar co' fatti,
e non con le parole, ma bensì su quelle d'oltremonti, che eleggevano
volentieri di stare sotto l'imperio d'Inghilterra. Laonde, ordinate
alcune squadre, furono mandate ad aiutare nelle pievi licenziose
le esortazioni del vicerè. Oltre a tutto questo, Paoli, o cagione o
pretesto che fosse di questi rumori, fu chiamato in Inghilterra dal re,
il quale, perchè la chiamata fosse più onesta, gli aveva scritto, la
presenza sua in Corsica fare i suoi amici troppo animosi; se ne venisse
pertanto a respirare aere più tranquillo in Londra; rimunererebbe la
fede sua, metterebbelo a parte della propria famiglia. Paoli, obbedendo
all'invitazione, se ne giva a Londra, trattenutovi con due mila lire di
sterlini all'anno. Visse fino all'ultimo più accarezzato che onorato.
Così finì Pasquale Paoli, nome riverito nella storia, e che sarebbe
molto più, se non fosse nata la rivoluzione franzese.

Gli avvertimenti del vicerè, le mosse dei soldati corsi ai soldi
d'Inghilterra, la partenza di Paoli, ed insieme i benigni ordini venuti
da Londra furono di tanta efficacia, che i comuni sollevati, deposte le
armi, tornarono all'ubbidienza. Così fu ristorata, se non la concordia,
almeno la pace in Corsica, non sì però che, per l'infezione delle
parti, non vi fossero molti mali semi, che avevano a partorire fra
breve effetti notabili a pregiudizio degl'Inglesi in quell'isola.

Qualche moto anche accadde in questi tempi in Sardegna, principalmente
in Sassari, città vicina alla Corsica. Il popolo sollevato domandava
gli stamenti, che non sono altro che gli stati generali di Sardegna;
domandava i privilegii conceduti dai re d'Aragona; domandava i patti
giurati nel 1720. Sassari mandò i suoi deputati a Torino, perchè,
moderatamente procedendo, i diritti ed i desiderii dei Sardi al re
rappresentassero.

Dieronsi ai deputati buone parole, e forse qualche cosa più che
buone parole. La missione loro non partorì frutto e se ne partirono
disconclusi. Intanto furono i tumulti di leggieri sedati, componendosi
di nuovo il vivere nella solita quiete, con grande contentezza del
re, che molto mal volontieri aveva veduto contaminarsi la difesa di
Cagliari dalle sollevazioni di Sassari. Fadda, Mundula ed Angioi, capi
e guidatori di quei moli, si posero con la fuga in salvo.

In questo mezzo tempo si udirono importantissime novelle da Basilea,
essere la Spagna, partendosi dalla confederazione, condiscesa, il dì
22 luglio, alla pace con la repubblica franzese; il quale accidente
tanta efficacia doveva avere in Italia, principalmente negli Stati
del re di Sardegna, quanta ne aveva avuto negli affari di Germania, e
principalmente in quei dell'Austria, la pace conchiusa tra la Francia
e la Prussia; i repubblicani vincitori dei Pirenei potevano facilmente
voltarsi contro l'Italia per farvi preponderare le forze franzesi.
Mossi poi anche i parigini reggitori da quel loro perpetuo appetito
d'invadere l'Italia, col diventar padroni del Piemonte per la pace,
del Milanese per la guerra, erano stati operatori che s'inserisse
nel trattato con la Spagna il capitolo, che la repubblica franzese,
in segno di amicizia verso il re Cattolico, accetterebbe la sua
mediazione a favore del regno di Portogallo, del re di Napoli, del re
di Sardegna, dell'infante duca di Parma e degli altri Stati d'Italia,
a fine di concordia tra la repubblica e questi principi. Ulloa,
ministro di Spagna a Torino, fece l'ufficio, proferendosi a mediatore
tra la repubblica ed il re Vittorio. Offeriva la conservazione e la
guarentigia dei proprii Stati, se consentisse a starsene neutrale e a
dar il passo ai Franzesi verso l'Italia. Offeriva la possessione del
Milanese, se si risolvesse a collegarsi con la repubblica. Mescolaronsi
al solito speranze di acquisti di territorii più contigui, se cedesse
l'isola di Sardegna alla Francia.

Udiva il re Vittorio molto sdegnosamente le proposizioni della Spagna,
e sulle prime dichiarò di voler continuare nell'alleanza con l'Austria.
Ma perchè fu più pacatamente considerata la cosa, o che s'inclinasse
ai patti o che solo si volesse aver sembianze d'inclinarvi, si convocò
il consiglio, al quale furono chiamati molti uomini prudenti ed altri
assai pratici delle militari faccende. Erano per deliberare intorno ad
un soggetto gravissimo e da cui dipendeva questo punto: se il Piemonte
avesse a conservare la signoria di sè medesimo o da cadere in servitù
dei forestieri. Era presente a questo consiglio il marchese Silva,
figlio d'uno Spagnuolo, console di Spagna a Livorno. Pratico delle cose
del mondo per molti viaggi in Europa, massimamente in Russia, dov'era
stato veduto amorevolmente dall'imperatrice Elisabetta, pratico delle
cose militari per lungo studio ed esperienza, avendo anche scritto
trattatti sull'arte della guerra, condottosi finalmente agli stipendii
della Sardegna, era il marchese da tutti stimato e riverito. Chiesto
del suo parere in sì pericoloso caso, parlò con singolare franchezza,
e, discorse tutte le presenti sorti delle cose, conchiuse.... «Io
porto opinione che la pace sia assai più sicura della guerra, ed alla
pace vi conforto, e la chiamo, e la bramo, ora che le forze che ancor
vi restano ve la possono dare onorevole e sicura; che se aspettate
l'ultima necessità, fia la pace infame, fia distruttiva, fia congiunta
con servitù intiera ed insopportabile. Se altro partito miglior di
questo vi sovviene, avrei caro udirlo; ma qualunque ei sia, non istate
più indugiando, che il tempo pressa, l'occasione fugge, e il pericolo
sovrasta. Or vi spiri benigno il cielo, e vi faccia deliberar sanamente
a salvazione del generoso Piemonte ed a preservazione della nobile
Italia.»

Questo discorso, porto da un uomo pratico di guerra, di natura molto
veridica, congiunto di amicizia col generale austriaco Strasoldo, fece
non poco effetto negli animi dei circostanti, dei quali una parte
inclinava agli accordi, quantunque tutti avessero la volontà aliena
dai Franzesi. Ma sorse a contrastar questa inclinazione il marchese
d'Albarey, il quale, sebbene fosse di indole pacifica e d'animo
temperato, essendo stato operatore del trattato di Valenciennes,
e fondandosi sulle considerazioni politiche, opinava doversi nella
guerra e nella fede data all'Austria perseverare. E le parole sue,
che furono gravi ed abbondanti, vere in sè stesse, non restarono senza
effetto, meno perchè vere erano che perchè gli animi non avevano per
una anticipata risoluzione alcuna inclinazione alla concordia. Per
la qual cosa, posta in non cale la mediazione di Spagna, e tagliata
ogni pratica, deliberossi di continuar nella guerra contro la Francia,
e non si partire dall'alleanza con l'Austria. Certamente il partito
era pieno di molta dubbietà; perchè non vi era minor pericolo nelle
suggestioni che nelle armi repubblicane, e si temevano con molta
ragione gli effetti che avesse a portar con sè la presenza de' Franzesi
in Piemonte. Laonde la risoluzione fatta non è se non da lodarsi, non
perchè più sicura fosse, ma perchè, in pari pericolo da ambe le parti,
ella era più onorevole.

Giungeva intanto il tempo che doveva mostrare se quell'armi che non
senza grave fatica e stento avevano potuto contrastare ai Franzesi
divisi tra Spagna ed Italia, potessero resistere all'impeto loro unito,
ed indirizzato a voler fare la conquista delle italiane contrade.
Già fin dal principio di quest'anno si era deliberato nei consigli
di Francia di voler passare con l'armi in Italia. Uno dei principali
confortatori a quest'impresa era Scherer, riputato fra i buoni generali
di Francia per le pruove fatte recentemente da lui nelle guerre
di Germania e di Spagna. Si rinfrescavano vieppiù questi pensieri
dopo la pace di Spagna, e parendo che quegli che ne aveva fatto il
disegno più accomodato capitano fosse per mandarlo ad esecuzione, fu
egli preposto all'esercito d'Italia, restando Kellerman a governare
solamente le genti alloggiate nelle Alpi superiori. Concorrevano
intanto i soldati repubblicani dai Pirenei agli Apennini, e con loro
parecchi guerrieri di nome. Inchinava omai la stagione all'inverno, e
trovandosi gli alleati riparati a luoghi forti per natura e per arte,
a tutt'altro pensavano fuori che a questo, che i repubblicani, massime
privi, com'erano di cavallerie, con poche e piccole artiglierie, e
ridotti in una insopportabile stretta di vettovaglie, avessero animo di
assaltarli. Ma i soldati della repubblica, usi a vincere le difficoltà
che più insuperabili si riputavano, ed astretti anche dall'ultimo
bisogno ad aprirsi la via per mare e per terra verso Genova, dalla qual
sola potevano sperare di trarre di che pascersi, non si ristettero, ed
opponendo un coraggio indomabile all'asprezza del tempo, alla mancanza
dell'armi, alla carestia del vivere, ad un nemico più numeroso di loro,
abbondante d'armi e di munizioni, fortificato in luoghi già per sè
stessi malagevoli, si deliberarono di voler pruovare se veramente il
valore vince la forza, e se l'audacia è padrona della fortuna. Così si
preparava la battaglia di Loano, assai famosa pel valore mostrato dai
soldati repubblicani e per la perizia dei generali loro, specialmente
di Massena, che ebbe la principal gloria di questo fatto.

Era la fronte dei Franzesi in tal modo ordinata, che, posando con
l'ala dritta sulla rocca del Borghetto bagnata dal mare, e passando
per Zuccarello e per Castelvecchio, dov'era la battaglia, andava con la
sinistra a terminarsi sui monti che sono in prospetto di quelli della
Pianeta e del San Bernardo per alla via verso Garessio. Reggevano la
destra Scherer ed Augereau, la mezza Massena, la sinistra Serrurier.
I confederati stavano schierati di modo che l'ala loro da mano
manca, governata, da Wallis, occupava Loano, la battaglia, condotta
da Argenteau, Roccabarbena, e la destra, composta in gran parte di
Piemontesi e retta da Colli, si stendeva sui monti della Pianeta e
del San Bernardo. Parendo a Devins che tutti questi siti forti non
bastassero ad assicurarlo, aveva, come guardie avanzate, fatto tre
campi forti, due innanzi Loano, un terzo, per sicurezza della mezzana,
più in su, a Campo di Pietra. Ma come prudente capitano, prevedendo
gli accidenti sinistri, aveva munito di gente e d'artiglierie, non
solamente Bardinetto e Montecalvo, ma ancora più dietro, qual ultimo
presidio e schiera soccorrevole, i monti di Melogno e di Settepani. Per
tal modo si vede che Devins aveva ottimamente preveduto donde doveva
venire il pericolo, e provvedutovi ancora efficacemente. Separava i due
eserciti una valle profonda, il cui fondo bagna il piccolo fiumicello
che corre tra Loano ed Albenga. Il giorno 17 novembre, per riconoscere
i luoghi e per assaggiar l'inimico, Massena commise al generale Charlet
che assaltasse il posto di Campo di Pietra, il quale, sostenuto
un furioso urto, si arrese. Questa fazione, terribile presagio di
battaglie più gravi, ed indizio probabile di quanto i Franzesi avevano
in animo di fare, non tenne tanto avvertito Arganteau, che pensasse a
starsene avvisatamente. Era la notte del 22 novembre quando Massena,
raunati i suoi, così lor disse: «Soldati, il ricordare valore a voi,
fora piuttosto ingiusta diffidenza che giusto incoraggiamento; bastò
sempre per animarvi a vincere il mostrarvi dove fosse il nemico. Ora,
quantunque più numeroso di voi, si è riparato alle rupi, confessando
in tal modo coi fatti più che con le parole, che ei non può stare
a petto vostro. Ma che rupi o quali precipizii possono trattenere i
soldati della repubblica? Voi vinceste le Alpi, voi gli Apennini già
più volte, e costoro, nuovi compagni vostri, vinsero i Pirenei: vinsero
essi i soldati di Spagna, voi vinceste quei di Sardegna e dell'Imperio;
ma Sardegna ed Imperio continuavano ad affrontarvi; però voi un'altra
volta vinceteli, voi fugateli, voi dissipateli, e fia la vittoria
vostra pace con l'Italia, come fu la vittoria loro pace con la Spagna.
Questi ultimi re, non ancora fatti accorti dalle sconfitte, osano, con
l'armi impugnate, stare a fronte della repubblica; ma voi pruovate loro
con le opere, che nissun re può stare armato contro di noi; e poichè
aspettano lo estremo cimento, fate che esso sia l'estremo per loro.»

Era Massena piccolo di corpo, ma di animo e di volto vivacissimo, e
perciò abile ad inspirar impeto nel soldato franzese, già per sè stesso
tanto impetuoso. Perciò, alle sue parole maravigliosamente incitati,
givano con grandissimo ardimento per quei dirupi, essendo la notte
oscurissima e fatta più oscura da un tempo tempestoso. Era intento
di Massena, così accordatosi con Scherer, di urtare nel mezzo dei
confederati, di romperlo, e, separando gli Austriaci dai Piemontesi,
di farsi strada ad un tempo a calarsi alle spalle dell'ala sinistra,
che avrebbe dovuto od arrendersi o fuggire alla dirotta. Dovevano
secondare questa fazione a diritta Scherer con un assalto forte contro
Loano; Serrurier con un assalto più molle contro il San Bernardo.
Appariva appena il giorno dei 23 novembre che Massena assaliva da due
bande con una foga incredibile il campo di Roccabarbena. Accorrevano
a questo accidente impensato gli uffiziali tedeschi ai luoghi loro, e
già trovavano qualche titubazione e scompiglio nella loro ordinanza.
La qual cosa dimostra l'inconsiderazione d'Argenteau, che, non
avendo presentito, com'era facile, quella tempesta, aveva permesso
che gli uffiziali si allontanassero dai loro soldati. S'aggiunse
un altro infortunio, e fu che Devins, afflitto da grave malattia, e
reso inabile al comandare, si era condotto, instando la battaglia,
da Finale a Novi, con lasciare la direzione suprema dell'esercito a
Wallis. Intanto ardeva la zuffa a Roccabarbena. Laharpe e Charlet,
che davano la batteria, con molto valore insistendo tanto fecero,
che, superata ogni resistenza, cacciarono il nemico che si ritirava,
andando a farsi forte a Bardinetto. Qui nacque un nuovo e terribile
combattimento; perchè i confederati, riavutisi da quel primo terrore,
vi si difendevano gagliardamente, e dal canto suo fulminava con
tutte le sue forze Massena, giudicando che dalla prestezza del
combattere dipendesse del tutto la vittoria. Finalmente, dopo molte
ferite e molte morti da ambe le parti, prevalsero i repubblicani;
entrati forzatamente in Bardinetto, uccisero quanti resistevano,
presero quanti non poterono fuggire, e s'impadronirono di tutte le
artiglierie. Ritiraronsi sconcertate e sconnesse le reliquie dei
confederati per luoghi erti e scoscesi verso Bagnasco sulla sinistra
sponda del Tanaro. Nè bastando all'intento ed all'impeto smisurato di
Massena l'acquisto di Bardinetto, mandava a Cervoni s'impadronisse di
Melogno, ed al colonnello Suchet pigliasse Montecalvo, luogo arido e
quasi inaccessibile. Ebbero queste due fazioni il fine che Massena si
era proposto; in tal modo non solo fu prostrata tutta la mezzana dei
confederati, ma fu fatto abilità ai Franzesi di calarsi verso il mare
alle spalle dell'ala sinistra. Il quale fatto coi precedenti fece del
tutto piegar le sorti in favor dei repubblicani. Ma perchè la sinistra
dei confederati non ricuperasse quello che la mezzana avea perduto,
Scherer, fatto dar dentro fortemente ai tre monticelli fortificati
avanti Loano ed alla forte terra di Toirano, li superava. Nei quali
fatti, aiutati anche da tiri di alcune navi franzesi che si erano
accostate al lido tra Loano e Finale, acquistarono buon nome i generali
Augereau e Victor. Allora, tra per questo e per essersi Suchet,
ricevuto un rinforzo di tre grossi battaglioni mandati da Scherer,
calato correndo alle spalle loro, si ritirarono i confederati verso
Finale, seguitati dai repubblicani a pressa a pressa. Serrurier, vedute
le vittorie della mezzana e della destra parte de' suoi, insisteva più
vivamente contro il fianco destro del nemico, e cacciatolo da tutti
siti, lo costringeva a ripararsi nel campo trincierato di Ceva, dove
giungevano altresì lacerati e sbaragliati i residui della squadra
d'Argenteau, generale che fu cagione principale di questa rotta, per
imprevidenza prima del fatto, e per la nissuna avvedutezza nè costanza
nel combattimento. Così l'ala sinistra dei confederati si ritirava
non senza scompiglio, e seguitata dai Franzesi, sul litorale verso
Savona, la mezzana del tutto rotta se n'era fuggita, la destra più
intera si era accostata al forte di Ceva. Scese intanto la notte e
conchiuse l'affannoso giorno. Sorse con lei un temporale orribile
misto di pioggia dirotta e di grandine impetuosa: serenarono i Franzesi
nei luoghi conquistati. Ma non così tosto appariva l'alba del giorno
seguente, che, condotti da Augereau, si misero di nuovo a seguitare
velocemente quella parte dei confederati che si ritirava pel litorale,
e già la giungevano, con far molti prigionieri. Nè qui si contenne
l'infortunio dei vinti; perchè Massena, che stava continuamente alla
vista di tutto, avvisando quello che era, cioè che il nemico, dopo di
essere passato per Finale, volesse ritirarsi pel monte San Giacomo, era
comparso improvvisamente a Gora sul ciglione della valle del Finale, e
da una parte mandava una prima squadra ad assaltare il cadente nemico,
dall'altra ne spediva una seconda, affinchè occupasse celeremente
San Giacomo. In questo modo la sinistra degli alleati, per la rotta
improvvisa della mezzana, pressata da fronte, sul fianco ed alle
spalle, non aveva altro rimedio che la sollecita fuga; alla quale quei
luoghi montagnosi, pieni di tragetti e di sentieri reconditi davano
molto favore. Chi si potè salvare andò a formar la massa in Acqui, dove
i capi attendevano a raccorre e riordinare le compagnie dissipate;
chi non potè, cadde in balia del vincitore. Tutte le artiglierie,
gran parte delle bagaglie e delle munizioni, il carreggio quasi tutto,
rendettero più lieta la fortuna dei repubblicani. Andavano a svernare
in Vado ed in Savona, padroni del tutto della riviera di Ponente, e
minacciando con la presenza vicine calamità all'Italia.

Oscurarono lo splendore di questa vittoria le ruberie, i saccheggi, e
perfino i violamenti delle miserande donne commessisi dai repubblicani
sul genovese territorio. Levossene un grido per tutta Italia che
aspettava gli estremi danni. Volle Scherer frenare tanto furore;
pubblicava che farebbe morire chi continuasse; prese anche l'ultimo
supplizio de' più rei; ma non udivano l'impero dei capitani, e nè
le minacce nè i supplizii spegnevano la scellerata rabbia. Non gli
scusava, perciocchè nissuna cosa può scusare sì eccessive enormità,
ch'eran stremi d'ogni vettovaglia e d'ogni fornimento, come l'esser
forniti abbondantemente d'ogni cosa necessaria al vivere di soldato
aggravava la colpa dei loro avversarii, che non si stettero immuni
da sì fatte colpe. Così l'Italia, lacerata dagli amici, lacerata dai
nemici, in preda al furore degli uni, in preda al furore degli altri,
«mostrava quale sia la condizione di chi alletta con la bellezza e non
può difendersi con la forza.»



    Anno di CRISTO MDCCXCVI. Indiz. XIV.

    PIO VI papa 22.
    FRANCESCO II imperadore 5.


A questo tempo avendo i collegati provato con molto danno loro qual
dura impresa fosse l'affrontarsi con quegli audaci repubblicani
di Francia, si consigliarono di voler dimostrare inclinazione alla
concordia e porre avanti alcune proposizioni d'accordo, sì per avere
più giustificata cagione di continuar a combattere, se i repubblicani
ricusassero, e sì per aver comodità di respirare e di aspettare il
benefizio del tempo, se accettassero. Per la qual cosa pensarono a
tentare la disposizione del direttorio di Francia, con introdurre
qualche negoziato a Basilea, città neutrale, e già famosa per le due
paci di Prussia e di Spagna. Siccome poi l'Inghilterra era l'anima
di tutta la mole, così da questa ed a nome di tutti procedettero le
proferte. Scriveva il dì 8 marzo del presente anno Wickam, ministro
d'Inghilterra appresso ai cantoni Svizzeri, a Barthelemi, ministro
di Francia, ch'egli aveva comandamento di fargli a sapere che la sua
corte desiderava di restare informata se la Francia aveva inclinazione
a negoziare con sua maestà e co' suoi alleati, a fine di venirne ad
una pace generale stipulata con giusti e convenienti termini; se a
ciò si risolvesse la Francia, mandasse ministri ad un congresso in
quel luogo che più sarebbe stimato conveniente da ambe le parti.
Desiderava altresì sapere quali fossero i generali fondamenti della
concordia che piacesse al direttorio di proporre, affinchè si potesse
esaminare se fossero accettabili, finalmente, se i mezzi proposti, non
fossero accettati, quali altri avesse a proporre per trovare qualche
modo d'onesta composizione. Questa proposta, la qual era del tutto
conforme ai modi soliti a usarsi fra i principi, nè avea in sè cosa
che potesse offendere l'animo del direttorio, fu molto risentitamente
udita da lui, e diede principio a quel costume dottorale e loquace di
quei governi repubblicani ed imperiali di Francia di voler insegnare
in casa altrui, come se meglio non conoscesse i fatti proprii chi li
governa di chi non li governa; ed altresì a quell'uso affatto insolito
e veramente enorme di dar consigli o ad un amico o ad un nemico, e di
convertire in cagion di guerra il rifiuto di seguitarli. Il direttorio
comandava a Barthelemi che rispondesse, desiderare lui la pace, ma
desiderarla giusta, onorevole e ferma; avrebbe udito volontieri le
proposte, se quel dire di Wickam, di non aver autorità di negoziare,
non desse sospetto intorno alla sincerità inglese. E qui veniano
le parole dottorali all'Inghilterra, dopo cui terminava; convenirsi
alla sincerità del direttorio il palesare apertamente a quali patti
ei potrebbe consentire agli accordi; vietare la costituzione della
repubblica che niun paese di quelli che erano stati incorporati
al suo territorio da lui si scorporasse; delle altre conquiste si
negozierebbe. Qui parimente ebbe principio quel metodo veramente
incomportabile, usato dai governi che per venti anni l'uno all'altro
succedettero in Francia, di volere che una legge politica interna
diventasse legge politica esterna, ed obbligatoria pei forestieri.

Rispose l'Inghilterra, anche a nome di tutti i confederati, non poter
consentire ad una condizione tanto insolita, nè altro mezzo restare se
non quello di continuare in una giusta e necessaria guerra. Così non
si seguitò più questo ragionamento, e svanirono le speranze di pace
concette dalle proferte di Basilea.

Ognuno aveva gli occhi volti al re di Sardegna, il quale, già perduto
mezzo lo Stato e prostrate le difese del restante, si vedeva vicino ad
essere prima condotto all'ultima rovina che la guerra incominciasse
pure a romoreggiare sui confini de' suoi alleati. Conoscevano questi
la costanza del re, ma dubitavano che nel prossimo urto dell'armi,
se le battaglie fossero riuscite infelicemente ed i repubblicani si
facessero strada nel cuor del Piemonte, si sarebbe forse alienato da
loro. Tentarono dunque il re, ammonendolo che si dichiarasse pel caso
d'un sinistro di guerra. Ridotto a queste strette, rispose animosamente
Vittorio che correrebbe con loro la medesima fortuna, che persisterebbe
nella fede, che non sarebbe per abbandonar la sua congiunzione; non
dubitassero che i fatti non fossero per corrispondere alla prontezza
dell'animo.

L'Austria intanto, veduto che i tempi estremi erano giunti per lei in
Italia, mandava a governare le genti, invece del Devins, più prudente
che ardito capitano, il generale Beaulieu, il quale, quantunque già
molt'oltre con gli anni, era animoso, vivace, ed abile per questo di
stare a fronte di quella furia franzese che meglio si può vincere col
prevenirla che coll'aspettarla. Ma quantunque fossero in Beaulieu
le qualità più necessarie in un buon capitano, mancava in lui la
cognizione dei luoghi, non avendo mai guerreggiato in Italia, nè portò
con sè tante forze quante sarebbero state necessarie. Oltre a ciò,
sebbene quando fu chiamato generalissimo in Italia, gli fosse stato
promesso che sarebbe rivocato Argenteau, che, per difetto o d'animo o
di mente, era stato cagione d'infelici eventi nella riviera di Genova,
nondimeno l'aveva trovato ancora, non senza sdegno, non solo presente
all'esercito, ma ancora rettore d'una forte divisione di soldati: il
che a lui, che era consideratore delle cose future, diede sinistro
presagio. Nè Beaulieu medesimo era tale che potesse convenientemente
governare capitani e genti di diverse lingue e di diverse nazioni,
tenendo più del guerriero che del cortigiano, per guisa che, più temuto
che amato dai suoi e dai forastieri, era piuttosto obbedito per forza
che per volontà. Nè i nobili piemontesi, che sentivano molto altamente
di loro medesimi, lo avevano a grado. E Colli, che reggeva sovranamente
l'esercito regio ed al quale non mancava nè perizia nè virtù militare,
non vivea concorde col capitano austriaco. Questo fu cagione che,
contuttochè i due generali operassero di concerto, nei partiti dubbii
però, dove aveva gran parte la propria opinione, l'uno non secondava
l'altro, nè l'altro l'uno, quanto la gravità del caso avrebbe
richiesto.

Erano per tale guisa ordinati i confederati, che la loro ala sinistra,
partendo dalla vicinanza di Serravalle, si distendeva fino alla
destra sponda della Bormida; quivi incominciava il corno sinistro
de' Piemontesi, che si prolungava fino alla Stura, appoggiandosi
coll'estremità del corno destro alla forte città di Cuneo. Ma siccome
quello di cui stavano in maggior gelosia gli Austriaci, erano le
possessioni loro in Lombardia, così si erano molto ingrossati nei
contorni di Alessandria e di Tortona; ed avrebbero desiderato, per
maggior sicurezza delle cose aver in mano la fortezza di Tortona
stessa; e ne fecero anche richiesta; ma ciò fu loro con la solita
costanza dinegato dal re, il quale, ancorchè posto nell'ultima
necessità, volle non ostante, quanto potè, in propria balìa
conservarsi. Tal era adunque la condizione de' tempi, che il re di
Sardegna combatteva per la salute sua, e ne andava tutto lo Stato,
l'imperador di Alemagna per le sue possessioni del Milanese e del
Mantovano, il re di Napoli per la preservazione d'Italia, il papa
per l'autorità della santa Sede e per l'incolumità della religione;
Venezia sperava nella neutralità con armi, Toscana nella consanguinità
coll'Austria e nell'amicizia colla Francia; Parma e Modena, nè in pace
nè in guerra, dipendevano in tutto dagli accidenti.

Risoluzione principalissima de' reggitori franzesi era di far potente
impresa per invadere l'Italia, ed a questo fine indirizzavano tutti
i pensieri loro. A questo si muovevano non solo per desiderio di
pascere l'esercito in un paese ricco ed ancora intatto, ma eziandio
per la speranza che alla fama di un tanto fatto, e per lo scompiglio
che ne sarebbe nato tanto in Italia quanto in Germania, si sarebbero
manifestati a favor loro in tutte od in alcune corti d'Europa
cambiamenti di importanza. Più special fine loro in tutto questo era di
costringere l'imperatore alla pace, per facilitar la quale, speravano
di trovar in Italia per la forza delle armi compensi ad offerire a
quel principe in iscambio de' Paesi Bassi, che ad ogni modo voleano
conservare incorporati alla Francia; imperciocchè si avvedevano che
ove fosse la casa d'Austria, tanto nobile e tanto potente, sforzata
alla pace con la repubblica, non solo i potentati minori, ma anche i
più grossi sarebbero facilmente venuti ancor essi agli accordi. Al qual
primario disegno subordinavano tutti i pensieri e tutte le risoluzioni
loro: del modo, o fosse di forza o fosse di fraude, non si curavano.

Siccome quando si vuol perdere qualcheduno, ei s'incomincia a
fargli proposte disonorevoli, per la speranza di rifiuto, pretesto
di ostilità, così i Franzesi uscirono con richiedere Venezia che
scacciasse da' suoi Stati il conte di Lilla, il quale sotto tutela
del diritto delle genti, e sotto quella ancor più sacra dello
infortunio, se ne riposava solitariamente a Verona. Poco importava
al governo repubblicano di Francia che il conte se ne stesse negli
Stati veneziani, che anzi gl'importava che vi stesse piuttosto che
altrove; perchè, se era pericoloso per quel governo che dimorasse in
paese non solamente neutrale, ma ancora alieno dal tentar novità in
favore di lui, assai più pericoloso sarebbe stato, se si fosse condotto
od all'esercito del principe di Condè o negli Stati delle potenze in
guerra con la Francia. Ma la domanda di farlo uscire era appicco di
querela, non testimonio di timore. Quantunque il conte di Lilla, dopo
la morte di Luigi XVII, avesse assunto la dignità reale, e fosse in
grado di re tenuto da' fuorusciti franzesi, dal ministro di Spagna
Lascasas, dal ministro di Russia Mardinof e dal ministro d'Inghilterra
Macarteney, che appresso di lui era stato mandato appositamente dal re
Giorgio, il senato veneto non l'aveva mai riconosciuto pubblicamente
nè trattato da re; che anzi interpose ogni diligenza, perchè, mentre
sul territorio della repubblica dimorasse, non usasse apertamente atti
che l'autorità sovrana dinotassero. Al che il conte rispose con nobile
condiscendenza, vivendosene assai ritirato in una villa del conte di
Gazola; nel quale contegno tanto egli abbondava, che nè pubblicò con
le stampe della veneta repubblica, nè datò di Verona il manifesto che
fece, nella sua esaltazione, alla nazione franzese; che se poi nelle
sue azioni segrete ed in privato teneva pratiche, che certo teneva, per
ricuperare l'antico seggio de' suoi maggiori, non si vede come ciò si
potesse imputare alla repubblica di Venezia.

Gran maraviglia farebbe in questo caso, se non si sapessero le cagioni,
lo sdegno del direttorio di Francia; perchè, mentre superbamente
comandava al senato veneto che allontanasse da' suoi dominii il
conte di Lilla, sopportava molto pazientemente che l'ambasciador di
Spagna Lascasas riconoscesse il conte come re di Francia, e con lui,
come col re di Francia, di affari pubblici trattasse: il che era di
ben altra importanza che il dare ricovero ad un principe infelice e
perseguitato. Ma la Spagna era più potente di Venezia. Scriveva dunque,
il primo marzo del presente anno, in nome e per ordine del direttorio,
il ministro degli affari esteri Carlo Delacroix al nobile Querini in
Parigi, che poichè Luigi Stanislo Saverio non aveva dubitato di operare
in qualità di re di Francia sul territorio della repubblica di Venezia,
si era reso indegno all'asilo concedutogli dalla umanità del senato:
richiedeva pertanto e domandava fossene privato, e gli si desse bando
da tutti i territorii veneziani.

Posto in senato il partito se dovesse la repubblica adempiere
la richiesta del governo franzese, ancorchè il procurator Pesaro
generosamente contrastasse, ricordando con parole gravissime alla
repubblica la bruttezza del fatto e l'antica generosità di Venezia,
fu vinto con cento cinquanta sei voti favorevoli e quaranta sette
contrarii. Orarono in questo fatto contro l'opinione del Pesaro i savii
del consiglio Alessandro Marcello, Nicolò Foscarini e Pietro Zeno,
rappresentando che la pietà verso un principe forestiero non doveva più
operare negli animi dei padri che la carità verso la patria. Brutta
certamente e vituperosa deliberazione del senato fu questa, nè ad
alcun modo scusabile e tanto meno quanto si vedeva chiaramente che il
vituperio non avrebbe bastato a partorir salute.

Si commise al tribunale degl'inquisitori di stato l'esecuzione del
partito dal senato preso. Delegossi a far l'ufficio il segretario
Giuseppe Gradenigo ed il marchese Carlotto. Introdotti nelle stanze
del conte, che per uomo a posta era stato avvisato da Venezia dal
conte d'Entraigues del successo delle cose, ed al cospetto suo venuti,
eseguirono quello che dalla signoria era stato loro comandato. A tale
annunzio rispose gravemente: partirebbe, ma per forza; gli si portasse
intanto il libro d'oro, che ne cancellerebbe di sua mano il nome dei
Borboni; se gli restituisse l'armatura di Enrico IV, suo glorioso
avolo, data in dono alla repubblica. Nè parendogli più dignità il
dimorar più lungamente in un dominio che per debolezza obbediva ai
comandamenti degli uccisori del suo fratello, se ne partiva senza
dilazione, e sotto nome di conte di Grosbois si condusse all'esercito
dei Franzesi fuorusciti a Friburgo in Brisgovia. Innanzi però che
partisse, fece mandato al ministro di Russia appresso al senato,
acciocchè in vece sua cancellasse sul libro d'oro il nome dei Borboni,
e l'armatura di Enrico in deposito ricevesse. Al tempo medesimo gli
rammentava, che per l'affezione e la fede che aveva posta in lui, gli
affidava quanto di più caro e di più prezioso aveva, e quest'era il
ritratto del re suo fratello. Gli ricordava infine e gli raccomandava
i suoi sudditi fedeli, particolarmente il conte di Entraigues, che nel
dominio dei Veneziani rimanevano.

Intanto per gli uffizii fatti per ordine del senato dai ministri
veneziani presso le corti d'Europa, massimamente presso l'imperatrice
delle Russie, che con più caldezza degli altri procedeva in favore del
conte, si acquetò il negozio del libro d'oro e dell'armatura di Enrico.

Oggimai si avvicinano le calamità d'Italia. «La tirannide sotto nome
di libertà, la rapina sotto nome di generosità, un concitare i poveri
ed uno spogliare i ricchi, un gridare contro la nobiltà pubblicamente
ed un adularla privatamente, un far uso degli amatori della libertà e
disprezzarli, un incitarli contro i re ed un perseguitarli per piacere
ai re, il nome di libertà usato come mezzo di potenza, non come mezzo
di felicità, un lodarla con parole ed un vituperarla coi fatti, le
più sante cose antiche stuprate per derisione o per ladroneccio, le
più sante cose moderne fatte vili da un'orribile accompagnatura, un
rubar di monti di pietà, uno spogliar di chiese, un guastar palazzi di
ricchi, un incendere casolari di poveri, ciò che la licenza militare
ha di più atroce, ciò che l'inganno ha di più perfido, ciò che la
prepotenza ha di più insolente.... conculcata hanno e desolata in
fondo la miseranda Italia. Nè più si vanti ella dell'esser bella, o il
giardino dell'Europa, o, come la chiamavano, la terra classica delle
arti; poichè tali doti, se pur vere sono, che pur troppo sono, non la
fecero segno di rispetto, ma sì di preda e di derisione.»

Era risoluzione irrevocabile del governo franzese in quest'anno di
tentare le cose d'Italia, di aprirvisi l'adito forzatamente, e di
correrla con eserciti vittoriosi. Erano i pensieri maturi, le vie
spianate, le armi pronte, gli animi de' soldati accesi, la fame stessa
che li tormentava sugli sterili Apennini, gli stimolava a far impeto in
un paese abbondante in fatto, abbondantissimo per fama. A reggere tanta
mole, poichè, giusta l'opinione di quel governo, dall'esito dell'armi
usate in Italia dipendeva in tutto la fortuna dell'europea guerra,
mancava un generale capace di mente, invitto d'animo e d'audacia pari
alle difficoltà che si prevedevano. Fecero adunque avviso di mandare
la magnifica impresa al generale Buonaparte, giovane già in nome di
buon guerriero per le cose fatte a Tolone e nella riviera. Presentendo
egli, per la vastità e la forze dell'animo suo, quello che fosse capace
di fare, quantunque di natura superbissima ed insofferente fosse,
non cessava di sollecitare e d'infestare con tenacissima perseveranza
e con preghiere continue il direttorio, affinchè gli commettesse la
condotta dell'italiana guerra. Militavano anche a suo favore alcuni
motivi segreti che si spiegheranno in progresso, i quali, se non
sarebbero piaciuti a Carnot ed a Lareveillère Lepeaux, quinqueviri, che
gl'ignoravano, piacevano a Barras, altro quinqueviro, che sotto specie
di repubblicano forte nutriva pensieri del tutto diversi. A questo
si aggiunse un matrimonio ch'ei fece grato a Barras, sposandosi con
Giuseppina, d'età maggiore di lui, e moglie che era stata di Alessandro
Beauharnais.

Adunque a Buonaparte, giovane d'ingegno smisurato e di cupidità
ardentissima di dominio fu commessa da chi reggeva la Francia, in
iscambio di Scherer, del cui ingegno frutto era il primo disegno
d'invadere l'Italia, l'opera di conquistare l'Italia. Nè così tosto
ei giunse al governo dell'esercito, che mostrò quanto fosse nato
per comandare; imperciocchè, quantunque più giovine di tutti i suoi
predecessori, si compose in maggior dignità, e, non dimesticandosi con
nissuno, pareva non più il primo fra gli uguali, ma bensì il superiore
fra gl'inferiori. A questo si acconciarono facilmente Massena, Augereau
e gli altri capitani di maggior grido. Quindi nacque che i nodi
dell'esercito viemmaggiormente si ristrinsero, furono i soldati più
pazienti all'ubbidire, l'ordine più stabile, il concerto più perfetto.
Era l'esercito finito di ben cinquanta mila combattenti, poveri sì di
arnesi e penuriosi di vettovaglie, ma abbondanti di coraggio e forti di
volontà: quel lusinghevole pensiero di correre come signori d'Italia
li rendeva ancor maggiori di loro medesimi, e già abbracciavano colle
speranze la possessione di lei. Mandava il direttorio al nuovo capitano
franzese quanto volesse, purchè battesse l'Austriaco, il separasse dal
Piemontese, sforzasse Genova a dar denaro e la fortezza di Gavi; se
Genova non desse Gavi per amore, lo prendesse per forza; instigasse
i malevoli del Piemonte, acciocchè o generalmente o particolarmente
insorgessero contro l'autorità regia: ciò per forza o per arte subdola;
quel che segue per sete di rapina, conciossiacchè mandavagli facesse
una subita correria contro la casa di Loreto, onde ne fosse Italia
atterrita, rapite le ricchezze ed involati i voti appesi da' fedeli
in tanti secoli: tanto era smisurata in quel governo la cupidità del
rapire e del fare di ogni erba fascio.

Reggevano l'ala dritta, che si distendeva insino a Voltri, Laharpe
con Cervoni, la battaglia Buonaparte con a dritta Massena ed a
sinistra Augereau, finalmente l'ala sinistra, che stava a fronte de'
Piemontesi, Serrurier, congiunto con Rusca, uomo di smisurato valore.
Disegnava il generale repubblicano di far impeto contro la mezzana
schiera de' confederati, acciocchè, rotta che ella fosse, potesse
entrar di mezzo fra gli Austriaci ed i Piemontesi: conseguito questo
intento, i primi si sarebbero ritirati nell'Oltre-Po, i secondi,
rincacciati nell'angusta pianura loro, avrebbero, come credeva,
facilmente accettato gli accordi, separandosi dalla confederazione
dell'imperadore. A questo fine, e sapendo che grandissima gelosia
avevano gli Austriaci della loro sinistra, perchè la larga e comoda
strada della Bocchetta accennava Milano, aveva ordinato a Cervoni
occupasse con un corpo grosso Voltri. Oltre a questo, fece marciare
da Savona un'altra forte squadra verso la montagna di Nostra Signora
dell'Acquasanta, strada che mette direttamente alla Bocchetta; e questa
squadra conduceva con sè molti pezzi di artiglierie sì grosse che
minute.

Adunque erano giunti i tempi fatali per l'Italia. Beaulieu, precipitoso
ed audace capitano, presentendo il disegno del nemico, poichè non si
raffreddava, anzi cresceva ogni giorno il romore delle preparazioni
franzesi, si era deliberato a prevenirlo. Aveva egli assembrato in
Sassello una grossa schiera composta di dieci mila Austriaci e quattro
mila Piemontesi, bella e fiorita gente, col pensiero di dar dentro nel
mezzo della fronte francese, e, dopo di averlo fracassato, riuscire
a Savona, con che egli avrebbe separato il nemico in due parti, e
presa tutta quella che stanziava a Voltri e nei luoghi circostanti.
Non pertanto, per interrompere alle genti di Voltri la facoltà di
accostarsi a tempo del conflitto in aiuto della mezzana, si era
risoluto ad assaltar questa terra. Il dì 10 aprile, circa le tre
pomeridiane, givano i Tedeschi all'assalto di Voltri con sei mila fanti
e quattro bocche da fuoco. Alcune navi da guerra inglesi secondavano lo
sforzo loro con ispessi tiri dal mare vicino. Non potendo i Franzesi
rispondere a tanti assalti, furono rotti, diventarono i Tedeschi
padroni dei posti sopraeminenti a Voltri, e se avessero incominciato
la battaglia più per tempo, tutta la forza franzese di Voltri sarebbe
stata o morta o presa; ma sopraggiunse la notte, dell'oscurità della
quale opportunamente valendosi i repubblicani, si ritiravano a Varaggio
ed alla Madonna di Savona.

In questo mezzo tempo Argenteau e Roccavina non erano stati a bada;
anzi, mossisi da Sassello, assaltarono grossi ed impetuosi le trincee
estemporanee fatte dai Franzesi a Montenotte. Difendeva i Franzesi la
fortezza del luogo, favoriva i Tedeschi il maggior numero; gli uni
e gli altri infiammava un incredibile valore: stava in mezzo, qual
premio al vincitore, l'innocente l'Italia. Si combattè coi cannoni,
coi fucili, con le spade, con le mani. Maravigliavansi i Franzesi a
sì feroce assalto; maravigliavansi i Tedeschi a sì lunga resistenza.
Finalmente, dopo molto sangue, riuscirono questi ad entrare per bella
forza dentro le due trincee più basse, e se ne impadronirono. Rimaneva
a conquistarsi la terza; contro di lei voltarono i Tedeschi tutto
l'impeto dell'armi loro vittoriose. Qui sorse una battaglia tale che
poche di simil fatta, per la virtù dimostrata dagli assalitori e dagli
assaliti, sono tramandate dalle storie. Incominciavano a sormontare
gl'imperiali, trovandosi assai più grossi, e già sul ciglione medesimo
della trincea si combatteva asprissimamente da vicino. Ma in questo
forte punto il collonnello Rampon, sotto la custodia del quale era la
trincea, a patto nessuno sbigottitosi a quell'orribile fracasso, che
anzi tanto più infiammandosi nel suo coraggio quanto più era grave
il pericolo, animosissimamente rivoltosi a' suoi soldati, fece lor
prestare quel bel giuramento che fia eterno nelle storie, di non cedere
se non morti. Il valor dei Franzesi diventò più che sprezzo di morte, e
con tanta pertinacia, con tanta ostinazione, con un menar di mani tanto
tremendo combatterono, che ributtati, furiosamente da ogni assalto i
Tedeschi, sopravvenne la notte, senza che eglino potessero conquistare
la trincea tanto contrastata e tanto importante. Gli uni e gli altri,
sull'armi loro posando, aspettavano la luce del seguente giorno, che
doveva in un nuovo conflitto definire la spaventevole contesa. Ma il
generalissimo Buonaparte, nella notte stessa, con pari celerità ed
arte mandò a tutta fretta un rinforzo da Savona a Montenotte, il quale
non solamente rinfrancò gli spiriti dei difensori della trincea, ma
diede agio a Rampon di empiere di soldati a destra ed a sinistra le
boscaglie. Al tempo stesso comandò a Laharpe, andasse avanti con tutta
l'ala diritta, e snodasse minutamente l'ala sinistra dalla mezzana
degli alleati. E per rendere vieppiù la vittoria certa, ed arrivare
al fine principale di tutto il disegno, marciava egli medesimo con
due forti colonne, sperando di sgiungere la mezzana governata da
Argenteau e da Roccavina dalla destra retta da Colli. Spuntava appena
l'aurora del giorno 11, che Argenteau, senza prima aver fatto esplorare
le boscaglie, iva baldanzoso all'assalto; ma non era ancora il suo
antiguardo arrivato vicino alla trincea, che venne assalito ai fianchi
da una tempesta di moschetti, che procedeva dai soldati imboscati, e da
un'impetuosa scaglia lanciata dal ridotto. A tale sanguinoso intoppo
s'arrestarono, titubarono, si disordinarono, diedero indietro le sue
genti: Roccavina ferito gravemente, lasciato il campo di battaglia,
andava a ricoverarsi in Acqui. Pure v'era speranza, con qualche
rinforzo e dopo respiro, di ricominciar la batteria; ma ecco arrivare
infuriando dall'un canto Buonaparte, dall'altro Laharpe. Fu allora
forza ai confederati di ritirarsi piucchè di passo per non essere posti
negli estremi, ed il forzato loro movimento fece riuscir ad effetto
il pensiero di Buonaparte dell'aver voluto separare i Piemontesi dai
Tedeschi. Morirono nella battaglia di Montenotte meglio di due migliaia
di buoni soldati dalla parte dei confederati; circa tre mila tra
feriti e sani vennero come prigionieri in poter del vincitore. Dalla
parte dei repubblicani pochi furono i prigionieri, molti i feriti, più
di un migliaio incontrarono la morte. Ma perchè quello che avevano
i repubblicani conseguito, cioè la separazione degl'imperiali dai
regii, non venisse loro guasto per una nuova riunione, il che poteva
venir fatto finchè i confederati stavano più su nella valle della
sinistra Bormida a Millesimo che nella valle della Bormida destra, dove
stanziavano a Dego ed a Magliani, era necessario cacciarli più sotto
nella prima. Quindi nacque pei Franzesi la necessità di dar l'assalto
al posto di Magliani e d'impadronirsi di Millesimo.

Il secondo di questi fini fu conseguito da Augereau, il quale per viva
forza superò i passi dei monti che dividono le due valli. Era alla
guardia della sinistra Bormida il vecchio, ma prode generale Provera
con un corpo franco austriaco e quindici centinaia di granatieri
piemontesi. Posto egli in molto pericolosa condizione, volle con
sano consiglio ritirarsi a mano manca verso gli Austriaci; ma gli
venne impedito il viaggio dalla Bormida che, cresciuta per pioggie
abbondanti, correva torbida ed impetuosa. Fece allora l'animosa
risoluzione di salirsene in cima al monte, dove siede il vecchio
castello di Cosseria, ed ivi senza artiglierie, senza munizioni, senza
sussidio alcuno di cibo o di acqua attendeva a difendersi. Augereau
che conosceva ottimamente che fin tanto che quel freno del castello di
Cosseria fosse in mano del nemico, non era possibile di consuonare co'
suoi verso il centro e la destra, si accinse a fare ogni sforzo per
superarlo. Tre volte andarono i repubblicani all'assalto, altrettante
furono risospinti con immenso valore dagli assaltati. Pernottarono i
Franzesi a mezzo monte. Ma era sitibonda all'estremo la guernigione;
chiedeva Provera quant'acqua bastasse ai feriti; la negava Augereau.
Arrivava il giorno 14 aprile: la fame e la sete operarono ciò che la
forza non aveva potuto; diessi la piazza ai vincitori. Ai medesimo
tempo Rusca cacciava i Piemontesi da San Giovanni di Murialto, e la
vittoria di Cosseria abilitava Augereau a superare Montezemo; il che
diè facoltà ai Franzesi di spiegar la bandiera loro nella valle del
Tanaro, ed indusse Colli alla necessità di correre a difender Ceva e
Mondovì.

Queste cose succedevano a sinistra dei repubblicani; ma altre di
maggiore importanza preparava la fortuna in mezzo e a destra.
Quantunque gli alleati avessero toccato una grave sconfitta a
Montenotte, le sorti loro avrebbero potuto facilmente risorgere, perchè
nè erano perduti d'animo, nè mancavano di passi forti a cui potessero
ripararsi: massimamente insino a tanto che la strada del Dego non
era libera al nemico, non temevano ch'ei potesse fare un'impressione
d'importanza in Piemonte. Laonde applicarono l'animo a farsi forti per
quella strada; dall'altra parte i Franzesi pensavano a sforzarla. Gli
Austriaci in numero di circa quattro mila soldati, ai quali si erano
accostati i due reggimenti piemontesi della Marina e di Monferrato, si
fortificarono a questo fine sui monti di Magliani ed altri, facendovi
un ridotto munito d'artiglieria e grande abbattuta d'alberi. Diedero
loro tempo due giorni i Franzesi a fornire le loro fortificazioni in
quei luoghi eminenti e difficili. La principal difesa degli alleati
consisteva nel ridotto di Maglioni, che stava a ridosso del castello
del medesimo nome.

I repubblicani, per aprir quella strada che i confederati avevano
serrata, comparivano alle due meridiane del dì 13, minacciosi e grossi
di quindici mila combattenti, facendosi avanti sino alla Rocchetta
del Cairo, ad un miglio distante di Dego. Quivi si spartirono in
tre colonne che si accostarono ai siti occupati dai confederati. Ma
non furono questi fatti che minaccie, tentativi per iscoprir bene il
sito e la forza del nemico. A questo fine appunto Buonaparte, giunto
che fu al Colletto, fece trarre d'una forte cannonata, per prender
notizia del nemico, sperando che gli alleati, credendosi assaliti,
e rispondendo, lo avvisassero dei luoghi dove si trovavano, il che
gli riuscì come aveva sperato. Ma l'urto dei due forti nemici doveva
succedere nel dì 14, nel quale i repubblicani, risoluti di venire al
cimento, si spartirono, come innanzi, in tre parti. Le molte mosse
loro erano con molta maestria di guerra pensate, e furono altresì
con molto valore eseguite. Riuscì terribile l'urto al Poggio ed alla
Sella; vi morirono molti buoni corpi da ambe le parti. Saliva di fronte
la mezzana, ma posatamente per aspettare l'effetto dell'assalto dato
sui due fianchi. I Franzesi, dopo un combattimento sostenuto quinci e
quindi con molta ostinazione, riuscirono finalmente ad aver vittoria
sui due lati, cacciando i nemici loro dal Poggio e da Monterosso. Si
fece allora avanti la mezzana ed entrò forzatamente, nel castello di
Magliani dove uccise i soldati di Giulay, che tutti vollero piuttosto
morire che cessar di combattere. Restava il ridotto di Magliani,
principale propugnacolo degli alleati, dal quale tempestavano con una
furia incredibile di palle e di scaglie. Fu quivi assai dura l'impresa
pei repubblicani, perchè i confederati, maravigliosamente inferociti,
traevano spessissimamente a punto fermo, e solo a cento passi di
distanza. Finalmente dopo tre ore di sanguinosissima battaglia, e
solamente verso la sera, venne fatto ai Franzesi, che accorrevano
contro il ridotto da tutte le bande, d'impadronirsi di quel forte
sito, cacciatine a forza i difensori. Si precipitarono allora gli
alleati nella valle delle Cassinelle per guadagnar prestamente la
strada per a Pareto; ma i Franzesi li seguitarono a corsa, e quella
colonna che s'era spartita al principio del fatto dalla destra schiera,
che se ne stava ai Pini, scagliossi ancor essa siffattamente contro
i fuggiaschi, che ne furono quasi tutti o morti o presi: tutti anzi
sarebbero stati sterminati, se i due reggimenti piemontesi della Marina
e di Monferrato, fatto un po' di testa al monte Scazzone, non avessero
fatto ala a coloro che fuggivano, cacciati dalla furia franzese che
gl'incalzava. Perdettero gli alleati in questa battaglia meglio di due
mila soldati tra morti, feriti e prigionieri; i repubblicani poco più
di duecento. Ma grave perdita pei primi fu quella che susseguitò, del
castello di Cosseria, perchè stretto già Provera, come abbiam detto,
dalla sete e della fame, perduta la speranza d'ogni aiuto poichè
vide dall'alto la sconfitta de' suoi, non indugiò più ad arrendersi.
Argenteau, invece di soccorrere i difensori di Magliani coi cinque
o sei mila soldati che avea seco a Pareta, il che avrebbe potuto
facilmente cambiare la fortuna della giornata, li mandò a far massa ad
Acqui.

Questa fu la battaglia che meglio di Magliano, che di Millesimo, si
chiamerebbe, perchè a Magliano concorsero le principali forze delle due
parti, e nel luogo medesimo succedette il più forte conflitto. La notte
che seguì il giorno della battaglia, il tempo stato nuvoloso, diventò
piovoso; piovve a rotta verso l'alba. Tra per questo e per pensare i
Franzesi a tutt'altro, fuorchè il nemico vinto avesse a prendere così
tosto nuovo rigoglio ad assaltarli, si guardavano negligentemente,
e solo cinque a seicento vegliavano alla difesa delle trincee. Ed
ecco appunto che in sul far del giorno il colonnello Wukassovich,
accompagnato dal luogotenente Lezzeni, con un corpo di circa cinque
mila soldati compariva improvvisamente alla vista di Magliani. Aveva
Argenteau, perduta la battaglia di Montenotte, ordinato a Wukassovich
venisse tosto a raggiugnerlo al Dego ed a Magliani; ma per poca mente,
che anche la sventura gliela faceva girare, gli aveva indicato per la
mossa un giorno più tardi di quello che avesse in animo, dimodochè
il colonnello, invece di arrivare al dì 14, che forse avrebbe vinto
la battaglia, arrivava il 15. Non ostante che con sua gran maraviglia
avesse veduto, strada facendo, la fuga de' suoi, e che il nemico aveva
occupato Magliani, si risolveva a dar dentro risolutamente, e già
urtava il castello ed il ridotto. Risentitisi a sì improvviso accidente
i Franzesi, muovevansi a corsa verso il ridotto per difenderlo; ma
nè ebbero tempo di schierarsi, nè di apparecchiare le artiglierie, e
quel forte sito, che con tanta fatica e sangue avevano conquistato,
ritornava, quasi senza contrasto, in potestà dei confederati, in un con
le artiglierie che munivano i luoghi, e con molta strage dei Franzesi,
che si diedero alla fuga.

Massena, a così fortunoso caso riscossosi e gettatosi al piano, frenava
primieramente l'impeto dei suoi che fuggivano verso il Colletto; poi
ordinatili di nuovo in tre colonne, come nella battaglia del dì 14,
li conduceva all'assalto. Ma se Massena non era capace di timore, non
era nemmeno Wukassovich: qui la battaglia divenne orrenda. La sinistra
era alle mani con le guardie avanzate austriache, che si difendevano
con singolare ardimento; la mezzana pativa assai, perchè i Tedeschi
fulminavano dal ridotto, e già i soldati stanchi e impauriti si
nascondevano per le case. La destra medesimamente trovava un feroce
rincalzo. Massena, veduto titubare i suoi, mandò avanti la squadra di
ricuperazione, e postata dietro alla mezzana, impediva che coloro che
davano indietro passassero il Grillero. La colonna di mezzo, da lui
incoraggita e dagli altri generali, già arrivava fin sotto al ridotto;
ma uscitine impetuosamente gli Austriaci, la urtarono e rincacciarono
sino al castello. La sinistra ancor essa era stata risospinta con
grave perdita; la destra non faceva frutto; già il quarto assalto
era riuscito vano. Arrivava in questo punto con sei mila soldati
Laharpe. Novellamente si raccozzavano, si riordinavano, si muovevano,
si serravano contro il nemico; nè ciò ancor bastava a piegare la
costanza austriaca. Dopo tanti rincalzi e tante stragi, incominciavano
i Franzesi a dubitare della battaglia. Buonaparte, che vedeva
l'importanza del fatto, accorreva coi soldati vincitori di Cosseria,
e con impeto unito menava i suoi ad un ultimo assalto. Puntarono
acremente la destra e la sinistra sui fianchi; la mezzana, ingrossata
e rinfrescata, assaliva di fronte. Urtati da tante parti, continuavano
gli Austriaci a combattere; cacciati dal ridotto, combattevano dalle
case; cacciati dalle case, combattevano dalle boscaglie; finalmente
cacciati anche da queste e pressati da ogni banda, minacciosi e
rannodati si ritiravano.

Perdettero gli Austriaci in questa battaglia, tra morti, feriti e
prigionieri, sedici centinaia di buoni soldati con tutte le artiglierie
loro; ma non fu nemmeno senza sangue pei Franzesi la vittoria. Tra
morti feriti e prigionieri, mancarono più di ottocento soldati.
Argenteau errò in molti modi, e nella battaglia di Montenotte e dopo di
lei, e massimamente in quella di Magliani, per modo che ei fu costretto
di combattere con una parte delle sue forze contro la maggior parte
di quelle del nemico. Sollevossi fra l'austriaca gente un romore ed
uno sdegno grandissimo contro di lui; accusandolo tutti dell'infelice
successo delle battaglie di Loano, di Montenotte e di Magliani, delle
quali la prima preparò la strada, le altre l'apersero alla conquista
d'Italia. Beaulieu il fece arrestare e condurre a Mantova, poi a
Vienna, perchè fossevi preso dell'error suo da un consiglio di guerra
debito giudizio. Ma il nome di Wukassovich rimarrà nella memoria dei
posteri a giusto titolo glorioso, come di uno de' migliori guerrieri
de' nostri tempi.

Lo splendore della vittoria franzese fu oscurato dal furore del
sacco. Molti fra i repubblicani, non perdonando nè a cosa sacra, nè a
profana, riempivano i paesi di terrori e di fughe. Queste enormità, che
tanto contaminavano il nome di Francia, abbominavano molti generali,
abbominavano i soldati buoni; ma quelli non potevano impedirle coi
comandamenti, nè questi con l'esempio. Serrurier, Chambarlac, Maugras,
Laharpe ne mossero gravissime lagnanze, e tanto si concitarono, che,
per non più vedere e dover comportare sì abbominevoli eccessi, chiedean
licenza a Buonaparte generale di potersene ire; soprattutto esclamavano
contro gli scellerati amministratori, che ridotti avevano i soldati
dell'italica oste od a farsi ladri ed assassini od a morir di fame.

Seguitando la narrazione dei fatti, dopo la vittoria di Magliano,
insistendo velocemente Buonaparte nei prosperi successi, era venuto
a capo del suo pensiero di separare gli Austriaci dai Piemontesi;
nel che tanto più facilmente riuscì, che nè Beaulieu si curò molto
di starsene unito a Colli, nè Colli a Beaulieu, perchè alcuni semi
di discordia già erano prima dei raccontati fatti tra di lor sorti,
e, come suole accadere nelle disgrazie, gli Austriaci accusavano i
Piemontesi di non avergli aiutati, i Piemontesi davano il medesimo
carico agli Austriaci. Finalmente premeva più a Beaulieu l'accorrere
alla difesa del Milanese, a Colli a quella del Piemonte. Di questa
dissidenza dei capi accortosi Buonaparte, quantunque gli fosse stato
ingiunto di perseguitar piuttosto gli Austriaci che i Piemontesi, si
risolveva serrarsi addosso agli ultimi, sperando di costringere fra
breve il re di Sardegna alla pace, per voltarsi poscia, assicuratosi
alle spalle, con maggiore speranza di vittoria alla conquista della
Lombardia. Voltò adunque il capitano di Francia del tutto i pensieri
a voler vedere quello che fosse per partorire in Piemonte la presenza
dei repubblicani. Due erano i modi che voleva usare; la forza, con
perseguitar da vicino co' suoi soldati vittoriosi le reliquie delle
truppe reali; l'astuzia, col tentar di far muovere i popoli con le
parole di libertà contra l'autorità del re. A questo era disposto per
sè e comandato dal direttorio, che tentasse per ogni mezzo di dare
spirito ai novatori, e tanto più ciò facesse quanto più si ostinasse il
Piemonte a voler perseverare nella sua congiunzione con la lega e nella
guerra. Adunque ordinato ogni cosa, e collocato un grosso corpo nei
contorni del Dego per appostar gli Austriaci, acciocchè non tentassero
nulla a suo pregiudizio, si avviava verso Ceva, contro cui aveva già
mandato con molte forze Augereau e Serrurier.

Erasi Colli, dopo l'infelice successo della giornata di Maglioni,
e dopo che pel fatto di Cosseria era stato obbligato di lasciar
al nemico la possessione di Montezemo, ridotto coi Piemontesi nel
campo trincerato che per difesa della fortezza di Ceva era stato
ordinato alla Pedagiera ed alla Testa-nera, sito che signoreggia la
fortezza. Assaltò Buonaparte impetuosamente questo campo; gli fu anche
virilmente risposto; durò la battaglia molte ore con molto sangue da
ambe le parti, nè vi fu modo di far piegare i regii che, con valore
difendendosi, respingevano costantemente il nemico. Succedeva questa
fazione il 16 aprile. Pernottarono repubblicani e regii ai luoghi
loro; ma il giorno seguente, ingrossatisi molto i primi, rinfrescarono
l'assalto più forte di prima, nel quale, sebbene animosamente si
difendessero i regii, temendo Colli di essere spuntato da' lati,
lasciato un grosso presidio nella fortezza, ritraeva le genti, con
andar ad alloggiarle in sito molto opportuno là dove la Cursaglia
mette nel Tanaro. Occuparono, fatta questa ritirata, i repubblicani
subitamente la città di Ceva, nè così tosto l'occuparono che vi
fecero grosse tolte di pane, e posero taglie di denaro. Attaccarono
i repubblicani superiori di numero l'esercito regio ne' campi della
Niella e di San Michele, ma non poterono sloggiarlo, pel duro contrasto
che vi fece. Al 20 massimamente si combattè con molto sangue: pure
stettero fermi alla pruova i Piemontesi per modo che Serrurier si
ritirava assai malconcio e disordinato. In fine quel valoroso Massena,
il quale, nato suddito del re, più di tutti operò per abbattere la
sua potenza, passato, la notte del 21, il Tanaro a guado presso Ceva,
aveva occupato Lesegno. Dall'altra parte Guyeu e Fiorella, essendosi
fatti padroni del ponte della Torre, mettevano Colli in pericolo di
essere circondato da' repubblicani alle spalle: il che avrebbe condotto
quell'esercito, ultima speranza della monarchia piemontese, ad una
estrema rovina. Per lo che, levato il campo occultamente alle due
della notte, e conducendo seco tutte le artiglierie e le bagaglie, si
incamminava frettolosamente, ma ordinatamente, alla volta di Mondovì.
Il seguitarono velocemente i repubblicani, ed il raggiunsero a Vico,
dove allo spuntar del giorno seguì la battaglia che i Franzesi chiamano
di Mondovì. Ma non fu battaglia giusta, che intento di Colli non era di
darla, ma solo di ritardar tanto il perseguitante nemico che potesse
condur in salvo le artiglierie ed il bagaglio, come potè conseguire,
mettendo ne' luoghi sicuri dietro l'Ellero ed il Pesio le armi grosse
e tutti gl'impedimenti. Ritirossi poscia in un forte alloggiamento
oltre la Stura, con Cuneo alla destra e Cherasco alla stanca. In tale
modo un umile fiume, un esercito valoroso, ma vinto, e due piazze,
una forte, l'altra debole, restavano soli impedimenti a' Franzesi,
onde non inondassero tutto il Piemonte, e non sventolassero le insegne
repubblicane sotto le mura della città capitale di Torino.

L'audace Buonaparte, non contento se prima non avesse rotto ogni
resistenza, usava l'estrema forza e l'estrema astuzia. Minacciava
dall'un canto di varcar la Stura, dall'altro impadronitosi d'Alba
per mezzo di Laharpe, città posta sulla riva del Tanaro sotto la
foce della Stura, era in grado di passare il primo di questi fiumi e
di correre alle spalle de' Piemontesi. Oltre di questo, per rizzare
a spavento del governo una prima bandiera di ribellione, aveva
operato, e l'ottenne anche facilmente, che alcuni abitatori di Alba,
instigati principalmente da Bonafons, fuoruscito piemontese venuto
coi repubblicani, ed a cui erasi accostato un Ranza, uomo dabbene,
nè senza lettere, ma cervello disordinato, facessero un movimento
contro l'autorità regia, mandando fuori bandi di volersi costituire
in repubblica. Nè contenti a questo Bonafons e Ranza, procedendo
immoderatamente, mandavano altri bandi repubblicani al clero del
Piemonte e della Lombardia, siccome pure ai soldati Napolitani e
Piemontesi. Adunque, e per questi romori, e per esser padrone il nemico
del passo del Tanaro in Alba, e per essere Cherasco in sè stesso poco
difendevole, temendo Colli di essere assaltato alle spalle, lasciato
Cherasco, si ritraeva, per sicurezza di Torino, alle stanze di
Carignano.

Ora era giunto il re di Sardegna a quell'estremo punto, in cui o
far doveva una risoluzione magnanima, o sottoporre il collo ad un
nemico insolente e ad un governo disordinato e del tutto diverso
dal suo. Adunossi in tanto precipizio di cose il consiglio, al
quale assistettero il re ed i principi reali, con tutti i ministri
dello Stato. Drake, ministro d'Inghilterra a Genova, trasferitosi a
Torino, ed il marchese Gherardini, ministro d'Austria, temendo che
in agitazione sì grave il re fosse per separare i suoi consigli da
quei della lega, e desiderando sommamente di interrompere questa
cosa, non avevano mancato all'uffizio loro, con tenerlo continuamente
sollecitato, perchè voltasse il viso alla fortuna e stesse in fede,
molte e molte cose rappresentandogli, e conchiudendo, considerasse
bene quanto da lui richiedessero Italia ed Europa, nè consentisse che
in lui più potesse un romor repentino che i veri interessi del suo
reame. Dimostravasi Vittorio Amedeo costantissimo a voler continuare
nella fede data: difenderebbe Torino sino all'ultimo, o andrebbe
ramingo, se così fortuna volesse, non consentirebbe a pace con un
nemico odiosissimo. Il secondava nella medesima sentenza il principe
di Piemonte, nel quale, come primogenito regio, doveva pervenire il
regno, non per motivi di Stato soltanto, ma sì ancora di religione,
parendogli, come a principe religiosissimo, troppo abbominevole
aver per amici coloro che stimava eretici e nemici di Dio; temeva
la propagazione de' principii loro anche in Piemonte, ed abborriva
una pace ancor più rea verso gli uomini. Ma dal cardinale Costa,
arcivescovo di Torino, personaggio, nel quale risplendevano ingegno,
dottrina ed amor singolare di lettere e di letterati, fu ragionato
in contrario, «essere il pericolo della ribellione imminente, la
necessità più forte della fede; il cacciare i Franzesi dal Piemonte
del tutto impossibile; meglio avergli amici che nemici; ponendo
anche l'Austria di eguale potenza della Francia, esser questa vicina,
quella lontana; riuscir più facile ai Franzesi l'invadere il Piemonte,
che agli Austriaci il preservarlo; potere l'Austria, come lontana,
perseverare nella guerra; dovere il Piemonte pensare ai casi suoi;
nella supposizione favorevole diventerebbe il Piemonte campo di guerra,
pieno di ruberie, di devastazioni e di uccisioni; e se già a mala pena
si poteva resistere a' Franzesi, come si sarebbe potuto resistere ai
Franzesi stessi ed ai sudditi tumultuanti a perdizione del regno?....
Sperar la guerra tanto felice ch'ella reintegrasse il re delle perdute
Savoia e Nizza per la forza dell'armi, esser piuttosto fola da infermi
che argomento d'uomini ragionevoli; all'incontro potere i Franzesi, dal
canto de' quali allora stava la probabilità della vittoria, e volere
ed offerire nel conquistato Milanese grassi ed adequati compensi:
sì certamente essere infido quel franzese governo, ma poter tendere
maggiori insidie in guerra che in pace, perchè la guerra fa le insidie
lecite, la pace le fa infami; variare consiglio il savio al variare
degli eventi, e poichè la fortuna aveva addotto un accidente, non
che straordinario, maraviglioso, doversi anche fare una risoluzione
straordinaria. Loderebbonla gli uomini prudenti, benedirebbonla i
sudditi fatti immuni dalle esorbitanze incomportevoli della guerra;
assai e pur troppo essersi fatto per mantenere la fede promessa;
dimostrarlo il sangue sparso, dimostrarlo le innumerevoli morti,
dimostrarlo le desolate campagne assai essersi soddisfatto all'onore,
ora doversi soddisfare all'esistenza.»

A questa sentenza del consigliar la pace era stato tirato l'arcivescovo
per lume proprio e per un conforto dell'avvocato Prina, Navarese, quel
medesimo che, d'ingegno acutissimo, d'animo duro, e bel parlatore e
maestro singolare del comandare, piacque poi tanto per infelice suo
destino a Buonaparte. Il favellare di un uomo tanto grave e tanto
pratico delle cose del mondo, qual era il cardinale Costa, commosse
tanto e sì maravigliosamente gli animi degli ascoltanti, che fu fatta
quella risoluzione che, sottraendo la monarchia piemontese da una
dipendenza verso l'Austria, la fece vera e reale serva della Francia.
Allora veramente, e non più tardi, perì il reame di Sardegna, allora, e
non più tardi, perì la monarchia piemontese.

Spedironsi pertanto a fretta verso Genova il conte Revello ed il
cavaliere Tonso, con mandato di negoziar della pace con Faipoult,
ministro della repubblica franzese. Al tempo medesimo fu fatto mandato
a Colli di domandare, ed al conte Delatour e marchese della Costa di
accordare una sospensione di offese col generale repubblicano; ma non
avendo Faipoult facoltà di negoziare, i commissarii s'incamminarono
tostamente alla volta di Parigi, affine di stabilire la pace e
l'amicizia con la repubblica. Intanto scrittosi da Colli a Buonaparte
si sospendessero le offese, rispose nè potere nè volere, se prima non
gli si davano due delle tre fortezze di Cuneo, di Alessandria e di
Tortona. Consentiva il re per la prima e per l'ultima, e di più per
Ceva, che, oppugnata gagliardamente, con ugual gagliarda si difendeva.
Adunque l'estremo momento essendo giunto, in cui l'antichissima
monarchia de' Piemontesi doveva, cessando d'esser padrona di sè
medesima, cadere in servaggio altrui, fu accordata in Cherasco la
tregua tra Buonaparte dall'un lato, Latour e della Costa dall'altro,
con questo che i repubblicani occupassero Cuneo il dì 28 aprile,
Tortona non più tardi del 30, la fortezza di Ceva subito dopo gli
accordi; restassero i Franzesi in possesso dei paesi conquistati oltre
la Stura ed il Tanaro; fosse fatto facoltà ai corrieri di passare
pel Cenisio per a Parigi; comprendessersi nella tregua i soldati
dell'imperadore che erano ai soldi del Piemonte; durasse sino a
cinque giorni dopo la conclusione dei negoziati di Parigi. Siccome poi
Buonaparte tesseva un grande inganno a Beaulieu per farsi comodo il
passo del Po, così stipulava che l'esercito di Francia potesse passare
il fiume sopra Valenza. Queste furono le tristi condizioni della
tregua, alle quali succedettero poco stante le condizioni più tristi
ancor della pace.

A tale accordo si rallegrarono i novatori, s'avvilirono i ligii, si
scoraggiano i leali, si spaventarono i popoli, si sdegnarono i soldati;
spaventossene l'Italia, maravigliaronsene i potentati d'Europa.
Volle anzi in questo la fortuna, solita ad addurre casi strani, che
le novelle della debolezza del governo regio, che tanto disordinava
le cose comuni, spedite con grandissima celerità a Pietroburgo, vi
arrivassero prima della circolare scritta dal re, per cui affermava
la sua costanza di voler perseverare nella guerra essere inconcussa;
delle quali novelle non sapendo l'agente di Sardegna, visitava il conte
Ostermann, ministro degli affari esteri dell'imperatrice Caterina, la
circolare rappresentandogli, la quale leggendo Ostermann, dava segni
di maraviglia, di dispetto e di sdegno, servendosi anche, parlando del
re, di parole che non voglionsi riportare. La somma fu, che squadernò
in viso all'agente lo spaccio che conteneva le novelle della tregua,
sdegnosamente dicendo che i confederati sapevano ottimamente che la
fortuna della guerra avrebbe potuto portare che i Franzesi penetrassero
in Piemonte; che non ostante avevano confidato che il re, ad imitazione
dei gloriosi suoi antenati, serbando la medesima costanza, avrebbe
loro osservato le cose promesse; che la lega non avrebbe pretermesso di
soccorrerlo; che finalmente, se avessero i confederati potuto credere
che a un primo impeto ei fosse per mancar d'animo e per posar le
armi, avrebbero fatto altri pensieri, e provveduto in altra guisa alla
sicurezza ed agl'interessi degli Stati loro.

Infatti non si vede quale sì inevitabile necessità dovesse condurre
il governo regio ad una risoluzione tanto pregiudizievole e tanto
inonorata. Di quello poi che fosse a farsi in così grave frangente
testimonio irrefregabile è Buonaparte medesimo, che soleva dire che
se il re di Sardegna gli avesse tenuto il fermo solamente quindici
giorni, ei sarebbe stato costretto a rivarcar i monti per ritornarsene
là dond'era venuto. Mancò adunque il governo regio a sè medesimo,
non mancarono i popoli, e manco i soldati al governo; e se Vittorio
Amedeo II, già signori i Franzesi di quasi tutto il Piemonte, e già
oppugnanti con ottanta mila soldati, fornitissimi di cavalleria e
di grosse artiglierie, la capitale del regno, non disperò delle sue
sorti; anzi finalmente con una subita e gloriosa vittoria ricuperò lo
Stato; stupiranno i posteri che Vittorio Amedeo III, intero ancora lo
Stato suo in Italia, intere le fortezze, intero l'esercito al primo
romoreggiare d'un quaranta mila Franzesi, difettosi di artiglierie,
massime grosse, difettosi di cavalleria, senza denaro per pagare, nè
magazzini per pascere i soldati, si sia sbigottito nell'animo e dato
subitamente in preda a coloro che con una pace a lui pregiudizievole
non altro fine avevano se non di costringere l'Austria ad una pace
utile a loro.

Avendo adunque fermate le armi col re, acconce le condizioni del
Piemonte e posto in sua balia quel primo Stato d'Italia, il che
gli alleggeriva il bisogno di tenersi truppe alle spalle, innalzava
Buonaparte l'animo ad imprese più grandi; e perchè l'esercito non
gli mancasse sotto, mandava fuori un bando che merita di essere
attentamente considerato per rilevar l'indole del nuovo capitano
di Francia: «Ecco, diceva, o soldati, che in quindici giorni avete
vinto sei battaglie, preso trenta stendardi, cinquantacinque cannoni,
parecchie fortezze, quindici mila prigioni; avete ucciso dieci mila
nemici, conquistato la parte più ricca del Piemonte, vinto battaglie
senza cannoni, varcato fiumi senza ponti, marciato viaggi senza scarpe,
passato notti senza tetti, sostenuto giorni senza pane. Le falangi
repubblicane, i soldati soli della libertà capaci sono di sì virili
sopportazioni; rendevi la patria grazie dell'acquistata prosperità;
vincitori di Tolone, le vittorie del 93 presagiste; vincitori delle
Alpi, più fortunate guerre presagiste; non più fra sterili rupi,
non più fra monti inaccessibili, ma nella ricca Italia avrete a far
guerra; ecco che gli eserciti, che testè vi assalivano con audacia,
fuggono con terrore al cospetto vostro; ecco trepidar coloro che si
facevano beffe della miseria vostra; ma se avete operato cose grandi,
restanvene maggiori a compire. Non ancor sono Roma e Milano in poter
vostro, ancora insultano alle ceneri dei vincitori dei Tarquinii
gli assassini di Basseville; altre battaglie avete a vincere, altre
città ad espugnare, altri fiumi a varcare; forse alcuno di voi si
ritragge? Forse sulle cime dei superati monti ama tornarsene per esser
quivi di nuovo segno delle ingiurie di una soldatesca di schiavi?
No, i vincitori di Montenotte, di Millesimo, di Digo e di Mondovì
bramano tutti di portar più oltre la gloria del nome franzese; tutti
vogliono una pace utile alla patria; tutti desiderano alle paterne
mura tornarsene, tutti quivi con militare vanto dire: _Ancor io mi fui
dell'esercito conquistatore d'Italia. _Promettovi, amici, ed a voi per
ciò mi lego, che dell'Italia vittoria avrete; ma frenate, per mia fè,
gli orribili saccheggi, sovvengavi che siete liberatori del popolo,
non flagello; non contaminate con la licenza le vittorie nè il nome
vostro; non contaminate la fama dei fratelli morti nelle battaglie.
Io sarò freno a tanto vituperio; vergognereimi al reggere un esercito
indisciplinato; ogni scellerato soldato, che con gli oltraggi e col
ladroneccio oscurerà lo splendore dei vostri fatti, fia da me, senza
remissione alcuna, dato a morte.»

Questo favellare di un capitano vittorioso a soldati vittoriosi,
a Franzesi massimamente tanto avidi di gloria d'armi, partoriva un
effetto incredibile: coll'immaginare, già facevano loro la Germania
lontana, non che l'Italia vicina. Quel mostrar poi di voler frenare
il sacco, era molto astuto consiglio per dare sicurtà ai popoli,
spaventati da una fama terribile e da fatti più terribili ancora.

Rivoltosi poscia ai popoli d'Italia, mandava lusinghieramente, venire
il franzese esercito per rompere i ceppi loro; essere il popolo
franzese amico a tutti i popoli; accorressero a lui confidentemente,
lealmente, securamente; serberebbe intatte le proprietà; la religione,
i costumi, fare i Franzesi la guerra da nemici generosi; solo averla
coi re.

Quali sentimenti producessero siffatti incentivi, coloro sel pensino
che sanno quanto operi la forza congiunta a magnifiche parole: nè è
da far maraviglia se queste guerre vive dei Franzesi di tanto abbiano
prevalso ad ogni altro genere di guerra.

Possente aiuto a far la guerra da fronte era la quiete alle spalle.
Arrivarono le novelle desideratissime essersi conclusa la pace il dì
15 maggio fra la repubblica e il re. Furono le condizioni principali:
cedesse il re alla repubblica la possessione del ducato di Savoia e
della contea di Nizza; oltre le fortezze di Cuneo, Ceva e Tortona,
mettesse in potestà dei repubblicani Icilia, l'Assietta, Susa, la
Brunetta, Castel-Delfino ed Alessandria, od in luogo suo, ed a piacere
del generale di Francia, Valenza; smantellassersi a spese del re Susa
e la Brunetta, nè alcuna nuova fortezza potesse rizzare per quella
frontiera; non desse passo ai nemici della repubblica; non sofferisse
ne' suoi Stati alcun fuoruscito o bandito franzese; restituissersi da
ambe le parti i prigionieri fatti in guerra; abolissersi ed in perpetua
dimenticanza mandassersi i processi fatti ai querelati per opinioni
politiche; a libertà si restituissero e dei beni loro posti al fisco
si redintegrassero; avessero facoltà, durante il loro quieto vivere,
o di starsene senza molestia negli Stati regii o di trasferirsi là
dove più loro piacesse; dei paesi occupati dai Franzesi conservasse il
re il governo civile, ma si obbligasse a pagare le taglie militari,
ed a fornir viveri e strame allo esercito repubblicano; disdicesse
l'ingiuria fatta al ministro di Francia in Alessandria.

Fatta la pace e domate le forze regie, aveva Buonaparte diminuito
considerabilmente la potenza della lega in Italia. L'esercito
austriaco, congiunto coi soldati di Napoli e con qualche parte di
Tedeschi testè arrivata dal Tirolo, si trovava solo esposto a tutto
l'impeto dei repubblicani, ai quali veniva a congiungersi gente
fresca, che dall'Alpi e dagli Apennini a gran passi calava, allettata
dalla fama di tante vittorie. La mira principale e tutta l'importanza
dell'impresa del generale della repubblica erano d'impadronirsi di
Milano: al qual fine due strade se gli appresentavano, di passare il
Po a Valenza, o di varcarlo sotto la foce del Ticino. Appigliossi al
secondo partito, il quale, oltre la maggior sicurezza che aveva in sè,
dava opportunità di metter taglie al duca di Parma, il quale, sebbene
subito dopo la tregua di Cherasco fosse stato esortato ad accordarsi
con Francia da Ulloa ministro di Spagna a Torino, non vi aveva voluto
consentire.

Adunque, risolutosi del tutto Buonaparte a voler varcare il Po tra le
foci del Ticino e dell'Adda, il che dovea anche dar timore a Beaulieu
di vedersi tagliar fuori dal Tirolo, con arte veramente mirabile,
oltre la condizione del passo di Valenza inserita nella tregua fatta
a Cherasco, dava voce che voleva passare a Valenza, e richiedeva
continuamente il governo sardo di barche pel valenziano passo, là
mandando carri, là artiglierie, là soldati, e facendovi intorno
una continua tempesta. Beaulieu, udita la tregua, tentate per una
soprammano inutilmente le fortezze di Alessandria e di Tortona, perchè
vi fu ributtato da' presidii piemontesi che vi stavano vigilanti, aveva
passato il Po a Valenza, ardendo tutte le barche che nelle vicine rive
si ritrovavano. Condottosi sulla sinistra sponda con tutto l'esercito
e proprio e napolitano, stava attento ad osservare quello che fosse
per partorire l'astuzia e l'ardire dell'avversario. Ma, quantunque
sperimentato ed accorto capitano fosse, si lasciò prendere agl'inganni
del giovane generale della repubblica; perciocchè fece concetto che
veramente questi avesse lo intento di varcare a Valenza. Per la qual
cosa si era alloggiato tra la Sesia ed il Ticino, affortificandosi per
fare due prime teste grosse sulle rive dell'Agogna e del Terdappio,
e rendendosi forte massimamente su quelle del Ticino. Siccome poi la
città di Pavia, posta sul Ticino, vicino al luogo dove si mette nel
Po e dov'è un ponte, gli dava sospetto, l'aveva munita sulle rive
del fiume di trincee e di artiglierie. Per questi medesimi motivi
aveva lasciato con poche guardie la sinistra del Po, non solo fra il
Ticino e l'Adda, ma ancora fra la Sesia ed il Ticino. Ecco intanto
che Buonaparte, sicuro oggimai di conseguire il fine che si era
proposto, mandava una mano di veloci soldati, comandando facesse due
alloggiamenti per giorno, verso Castelsangiovanni. Seguitava egli
medesimo più che di passo con tutte le genti, mentre le sue artiglierie
continuavano a fulminare, per non lasciar cader l'inganno, dalle rive
di Valenza. Il colonnello Andreossi e lo aiutante generale Frontin
spazzavano con cento soldati di cavalleria tutta la riva destra del
Po insino a Piacenza, recando anche in poter loro alcune barche, le
quali navigavano alla sicura sul fiume, portando riso, ufficiali e
medicamenti destinati agl'Imperiali.

Usando adunque celeremente l'occasione favorevole aperta dall'arte
del generale loro, i Franzesi colla vanguardia composta di cinque mila
granatieri e quindici centinaia di cavalli, varcavano felicemente, il
dì 7 maggio, su quelle barche medesime e sopra alcune altre che loro
si offersero preste a Piacenza, il fiume, e con allegrezza indicibile
afferravano la sinistra sponda. Seguitava a veloci passi Buonaparte,
per tale guisa che il dì 8 quasi tutto l'esercito aveva posto piede
sulle milanesi sponde.

Non così tosto ebbe udito Beaulieu le novelle del precipitarsi i
Franzesi verso il basso Po, che spediva una grossa banda a Fombio,
terra posta rimpetto a Piacenza sulla sinistra del fiume, per
impedire, se ancora fosse a tempo, il passo ai repubblicani. Egli
intanto ritirava le genti sull'Adda, sì per serbarsi aperte le strade
al Tirolo, e sì per munire Mantova di gagliardo presidio. Avvisava
ancora che finchè il grosso de' suoi, che, malgrado delle sconfitte,
era tuttavia formidabile, si conservasse intiero sulle rive di questo
fiume, pericolosa impresa sarebbe pei Franzesi il correre a Milano.
Perlochè si avviava colla maggior parte delle genti a Lodi per guardar
il ponte, che ivi apre il varco dalla destra alla sinistra del fiume.
Mandava altresì una forte squadra, principalmente di cavalleria, a
Casal Pusterlengo, affinchè, passando per Codogno, fosse in grado di
servire come retroguardo alla schiera di Fombio, e di soccorrerla,
ove bisogno ne fosse. Pavia intanto, abbandonata da' suoi difensori,
non si reggeva più che con la guardia urbana. Bene erano considerati
i disegni di Beaulieu, ma la prestezza franzese gli ebbe guasti; i
soldati mandati a Fombio, benchè con veloce viaggio fossero accorsi,
arrivarono non più per contrastare il passo al nemico, ma solo per
combattere il medesimo, che già era passato. Buonaparte, che con la
solita sagacità prevedeva che quella testa grossa di Austriaci, se le
desse tempo di essere soccorsa poteva disordinare i suoi pensieri, si
deliberava ad assaltarla senza dilazione. Occupavano gli Austriaci la
terra di Fombio, in cui avevano fatto in fretta e munito di venti pezzi
d'artiglieria alcune trincee; i cavalli, la maggior parte napolitani,
che in questa fazione si portarono egregiamente, battevano la campagna.
La moltitudine delle sue genti permetteva a Buonaparte di allargarsi e
di assaltar da diversa parte la terra, solo mezzo perchè il combattere
fosse breve e felice. Adunque spartiva i suoi in tre bande; la prima
col generale Dallemagne doveva assaltar Fombio sulla sinistra, la
seconda, condotta dal colonnello Lannes, dar dentro sulla destra, e
finalmente il generale Lanusse con la mezzana aveva carico di attaccar
la battaglia sulla mezza fronte della piazza per la strada maestra. Fu
forte l'incontro, forte ancora la difesa. Gli Austriaci combattevano
valorosamente e per natura propria e per la speranza del soccorso
vicino. Finalmente prevalsero, non prima però che non fosse stato
fatto molto sangue, l'impeto, la moltitudine e l'audacia de' Franzesi.
Andavano gl'imperiali in rotta, ed abbandonato Fombio, si ritiravano
a gran fretta a Codogno, con lasciar ai vincitori non poca parte delle
bagaglie, trecento cavalli, circa cinquecento tra morti e prigionieri;
e sarebbe stata più grave la perdita, se la cavalleria napolitana,
condotta massimamente dal colonnello Federici, uffiziale di gran
valore, serrandosi grossa ed intera alla coda, ed urtando di quando in
quando gagliardamente il nemico, non avesse ritardato l'impeto suo, e
fatto abilità ai disordinati Austriaci di ritirarsi.

Usando i repubblicani la fortuna propizia, seguitavano i confederati
ed occupavano Codogno. In questo mentre sopraggiunse la notte. Aveva
Beaulieu avuto le novelle del passo de' Franzesi e del pericolo de'
suoi assaltati in Fombio. Comandava pertanto a cinque mila eletti
soldati corressero da Casal Pusterlengo per la strada di Codogno
in soccorso di Fombio, credendo che i suoi tuttavia in quest'ultima
terra si sostenessero. Fu questo un molto audace comandamento, e che
poteva rompere i disegni al generale della repubblica, se fosse stato
secondato dalla fortuna. In fatti arrivavano i Tedeschi nel buio della
notte sopra i Franzesi all'improvviso, e sbaragliate le prime guardie,
seminarono terrore e disordine in Codogno; anzi, spingendosi oltre,
s'impadronirono di parte della terra. Accorreva al subitaneo rumore
Laharpe, e, postosi a guida d'un reggimento fresco, marciava per
rinfrancare la fortuna vacillante. L'avrebbe anche fatto, se nel bel
principio di quella mischia, colto nel petto da una palla mortale, non
fosse stato tolto subitamente di vita. Soldato di compito valore, ma
ancora più di compita virtù, amato da tutti in vita, pianto da tutti in
morte.

L'accidente sinistro di Laharpe sgomentò di modo i repubblicani,
che le sorti loro avevano del tutto il tracollo, se non arrivava
frettolosamente il generale Berthier, che con la sua presenza tanto
fece che rinfrancò gli spiriti e riordinò le schiere sbigottite
e disordinate. Spuntava intanto il giorno: i Tedeschi, nell'ardir
loro moltiplicando, perchè già si credevano in possessione della
vittoria, si allargavano sulle ali per circondare il nemico. Ma già
si erano riavuti i Franzesi; i Tedeschi medesimi, veduto al lume del
giorno che i nemici, superiori assai di numero, facevano le viste
di assaltarli, pensarono al ritirarsi: il che fecero, prima in buon
ordine e regolatamente, poscia disordinati e rotti, instando acremente
i Franzesi, oramai consapevoli dei loro vantaggi. La schiera tutta
sarebbe stata condotta all'ultimo termine, se per la seconda volta la
cavalleria napolitana non le faceva scudo alla ritirata. Perdettero in
questo fatto i Tedeschi quasi tutto il bagaglio, non poche artiglierie
lasciate nei fossi della terra, molti prigionieri fra i dispersi.
Tenevano loro dietro a gran passo i repubblicani, e s'impadronivano di
Casale, mentre i residui degl'imperiali si ricoveravano a Lodi, dov'era
giunto con tutte le sue forze Beaulieu, e dove voleva pruovare per
l'ultima volta, se, obbligando il fortunato emulo suo a fare un moto
eccentrico verso destra per venirlo ad assaltare a Lodi, gli venisse
fatto di rompere quell'ascendente che aveva, e trasportare in sè il
favore della volubile fortuna. A Lodi adunque in un ultimo cimento si
doveva combattere della salute di Milano, della conservazione della
Lombardia, del destino delle reliquie ancora potenti delle genti
imperiali.

Aveva ottimamente il capitano austriaco collocato la sua retroguardia,
sotto guida del colonnello Melcalm, suo parente, in Lodi, comandandogli
che resistesse quanto potesse, ed, in caso di sinistro, si ritirasse
sulla sinistra del fiume. Intanto, per assicurare il passo del
ponte, molte bocche da fuoco situava all'estremità di lui presso la
sinistra sponda, per modo che direttamente l'imboccavano e spazzare
potevano. Nè parendogli che questo bastasse alla sicurezza di quel
varco importante, munì la riva sinistra con venti pezzi d'artiglierie
grosse, dieci sopra, dieci sotto al ponte, le quali coi tiri loro
battendo in crociera, parevano rendere il passo piuttosto impossibile
che difficile. Gli Austriaci, cui nè tante rotte nè una ritirata di sì
lungo spazio non avevano ancora disanimato, se ne stavano schierati
sulla sinistra riva, pronti a risospingere l'inimico disordinato dal
passo del ponte, se mai contro ogni credere l'avesse effettuato.

Ed ecco arrivare Buonaparte impaziente delle guerre tarde, che, veduti
i preparamenti del nemico, e sloggiatolo da Lodi con un assalto presto,
si risolveva, correndo il dì 10 di maggio, a far battaglia sul ponte,
quantunque tutti i suoi non fossero ancora quivi raccolti. I generali
suoi compagni, che vedevano l'impresa molto pericolosa, fecero opera di
sconfortarnelo, rappresentandogli la fortezza del luogo, la stanchezza
dei soldati, le genti menomate dalle battaglie e minorate dalla
lontananza di molte schiere valorose. Ma egli, che ne sapeva più di
tutti, che voleva quel che voleva, e che era, nonchè liberale, prodigo
del sangue dei soldati purchè vincesse, persisteva a voler dar dentro,
e tosto si accingeva alla pericolosissima fazione. Fatto adunque venire
a sè un nodo di quattro mila granatieri e carabine, gente rischievole,
usa al sangue, pronta a mettersi ad ogni sbarraglio, diceva loro con
quel suo piglio alla soldatesca: «Vittoria chiamar vittoria; esser
loro quei bravi uomini che già avevano vinto tante battaglie, fugato
tanti eserciti, espugnato tante città; già temere il nemico, poichè già
dietro ai fiumi si ritirava: credersi quel Beaulieu, già tante volte
vinto, che il breve passo di un ponte arrestar potesse i repubblicani
di Francia; vana presunzione, vana credenza; aver loro passato il Po,
re dei fiumi, arresterebbeli l'umile Adda? Pensassero essere questo
l'ultimo pericolo; superatolo, in mano avrebbero la ricca Milano;
dessero adunque dentro francamente, sostenessero il nome di soldati
invitti; guardarli la repubblica grata alle fatiche loro, guardarli
il mondo maravigliato ed atterrito alla fama di tante vittorie: qui
conquistarsi Italia, qui rendersi il nome di Francia immortale.»

Schieraronsi, serraronsi, animaronsi, contro il ponte marciarono. Non
così tosto erano giunti, che li fulminavano un tuonare d'artiglierie
d'Austria orrendo, una grandine spessissima di palle, un nembo
tempestoso di schegge. A sì terribile urlo, a sì duro rincalzo, alle
ferite, alle morti, esitavano, titubavano, si arrestavano. Se durava un
momento più l'incertezza, si scompigliavano. Pure il valor proprio ed
i conforti dei capitani tanto gli animarono, che tornavano una seconda
volta all'assalto: una seconda volta sfolgorati cedevano. Vistosi dai
generali repubblicani il pericolo, ed accorgendosi che quello non era
tempo di starsene dietro le file, correvano, a fronte Berthier il
primo, poi Massena, poi Cervoni, poi Dallemagne, e con loro Lannes
e Dupas, e si facevano guidatori intrepidi dei soldati loro in un
mortalissimo conflitto. Le scariche delle artiglierie tedesche avevano
prodotto un gran fumo che avviluppava il ponte; del quale accidente
valendosi i repubblicani, e velocissimamente il ponte attraversando,
riuscirono, coperti di fumo, di polvere, di sudore e di sangue, sulla
sinistra sponda. Spingeva oltre Buonaparte subitamente i restanti
battaglioni; ma le fatiche loro non erano ancora giunte al fine, nè la
vittoria compita, perchè gl'imperiali ordinati sulla riva, facevano
tuttavia una ostinatissima resistenza. Tuonavano le artiglierie,
calpestavano i cavalli, la battaglia, siccome combattuta da vicino,
più sanguinosa. Già correvano pericolo i Franzesi di essere rituffati
nel fiume, ed obbligati a rivarcare con infinito pericolo il ponte con
sì estremo valore conquistato, quando opportunamente giunse con la sua
eletta squadra Augereau, che, udito l'avviso della battaglia orribile,
a gran passi dal Borghetto in aiuto de' suoi compagni pericolanti
accorreva. Questa giunta di forze in momento tanto dubbio fece del
tutto sormontare la fortuna franzese. Beaulieu, abbandonato il bene
contrastato ponte, si ritirava prestamente con animo di andarsi a
porre sul Mincio per serbare le strade aperte al Tirolo e per assicurar
Mantova con un grosso presidio.

Di pochi prigionieri nella ritirata loro furono gl'Imperiali scemi;
bensì perdettero nel fatto due mila cinquecento soldati tra morti
e feriti, quattrocento cavalli, gran parte delle artiglierie. Grave
fu anche la perdita dei Franzesi, i morti, i feriti, i prigionieri
passando i due mila. La ritirata dei confederati assicurò i
repubblicani delle cose di Lombardia, e pose in mano loro Pavia,
Pizzighettone e Cremona: la imperial Milano, priva ormai di difesa,
tanto solamente indugiava a venir sollo l'imperio repubblicano, quanto
tempo abbisognava ai repubblicani per arrivarvi. Mescolaronsi a questi
gloriosi fatti i saccheggi e le devastazioni.

Giunte a Milano le novelle del passo del Po, e dell'abbandonarsi da
Beaulieu la frontiera del Ticino, vi sorse un grande sbigottimento,
poichè vi si prevedeva che poca speranza restava di conservare la
città sotto la devozione dell'Austria. Erano gli animi di tutti, come
in una popolazione ricca allo approssimarsi di soldatesche nuove non
conosciute, e forse anche troppo conosciute. Mancavano nel Milanese le
cagioni di mala soddisfazione, e quindi nasceva che, sebbene i popoli
siano generalmente amatori di novità, e non conoscano il bene se non
quando lo hanno perduto, non si manifestavano nella felice Lombardia
segni di future e spontanee rivoluzioni. Ognuno anzi temeva per sè,
per le famiglie, per le sostanze. Sapevano i Milanesi che pochi erano
fra loro i zelatori di novità, e questi pochi ancora quieti e rimessi
secondo la natura del paese; ma apprendevano che ove i repubblicani vi
avessero posto sede, da tutta Italia vi concorressero o gli scontenti
dei governi regii o gli amatori della repubblica, e con mezzi nuovi
ed insoliti vi partorissero accidenti ignoti e forze terribili. Per la
qual cosa vi si viveva in grande spavento.

L'arciduca Ferdinando si risolveva a lasciar quella sede per andarsene
nella sicura Mantova, o, quando i tempi pressassero di vantaggio, nella
lontana Germania. Desiderando però, prima di partire, provvedere alla
quiete dei popoli, ordinava, con editto del 7 maggio, che i cittadini
abili all'armi si descrivessero ed in milizia urbana si ordinassero.
A dì 9, creava una giunta con autorità di fare quanto al governo si
appartenesse, ed a questa giunta, come a capo supremo dello Stato,
voleva che i magistrati minori obbedissero. L'ordine giudiziale a far
l'ufficio suo continuasse.

Avendo per tal guisa l'arciduca provveduto alle faccende, se ne partiva
il medesimo dì 9 di maggio alla volta di Mantova, avviandosi dove già
era arrivata la sua famiglia. L'accompagnavano personaggi di nome,
fra' quali il principe Albani ed il marchese Litta. Una moltitudine di
persone di ogni grado, di ogni età e di ogni sesso, fuggendo la furia
dei repubblicani, abbandonate agli strani le case loro, correvano
a ricoverarsi sulle terre veneziane, destinate ancor esse, e molto
prossimamente, alla medesima ruina. Seguitava in Milano un interregno
di tre giorni.

Buonaparte intanto, espeditosi per la vittoria di Lodi di quanto più
pressava nella guerra, e già stimando Milano in sua potestà, mandava
Massena a farsene signore. In questo mentre mandavano i magistrati
municipali i loro delegati ad offerire la città a Buonaparte che si
trovava alle stanze di Lodi, pregandolo di usare mansuetudine verso
un popolo in ogni tempo quieto, nemico a nissuno, confidente nella
generosità dei Franzesi. Rispose benignamente, porterebbe rispetto
alla religione, alle proprietà, alle persone. Il giorno 14 di maggio
entrava Massena con una schiera di dieci mila soldati valorosissimi.
L'incontravano al Dazio di porta Romana i municipali. Disse, per
mescolare qualche temperamento alla fierezza dell'armi, che sarebbero
salve la religione, le proprietà. Arrivarono il giorno dopo nuovi
corpi di truppa; ogni parte piena di soldati. Incominciossi l'opera
d'oppugnar il castello, a cui si erano riparati gli Austriaci.

Arrivavano intanto i repubblicani, sì finti come sinceri, i quali, o
allettati dalla fama o costretti dalla necessità, fuggendo lo sdegno
dei signori loro, correvano, come in sede propria e di salute nella
città conquistata. A costoro si univano i repubblicani milanesi, ed
intendevano a far novità. Fra tutti questi gli utopisti, servi di
un'opinione anticipata e di un dolce delirio andavano sognando una
perpetua felicità. Di costoro si faceva beffe Buonaparte, stimandogli
uomini da poco, scemi e, come sarebbe a dire, pazzi. V'erano poi
quei patriotti che amavano lo stato libero per ambizione: di questi
il generalissimo facevane maggiore stima, perchè, come diceva, erano
gente che aveva polso, e, per poco che si stimolassero, avrebbero
servito mirabilmente a' suo disegni. Finalmente quei patriotti, i
quali amavano le novità per le ricchezze, e, sperando di pescar nel
torbido, gridavano ad alte e spesse voci libertà, non frequentavano mai
le stanze di Buonaparte, ma amavano molto aggirarsi fra i commissarii
e gli abbondanzieri dell'esercito, dei quali diventavano sensali e
mezzani.

Fecero grandi allegrezze tutti questi generi di patriotti, in
sull'entrar dei Franzesi, di luminarie, di balli, di festini; ma per
quella servile imitazione di cui erano invasati verso le cose franzesi,
e che fu la principal cagione della servitù d'Italia, piantarono
altresì alberi di libertà, vi facevano intorno canti, balli, discorsi,
ed altre simili tresche. Poscia, acciocchè non mancasse quel condimento
delle congreghe pubbliche per aringarvi intorno a cose appartenenti
allo Stato, le fecero a modo di Francia, ed in loro chi aringava con
maggior veemenza, più era applaudito.

Entrava in Milano il vincitor Buonaparte, non già con semplicità
repubblicana, ma con fasto regale, come se re fosse: l'accolsero con
grida smoderate i patriotti e parte del popolo, solito a fare come gli
altri fanno. Innumerabili scritti si pubblicarono, in cui sempre più si
lodava Buonaparte che la libertà: mostrossi, per dir il vero, in questo
molto schifosa l'adulazione italiana. Fra i patriotti, chi lo chiamava
Scipione, chi Annibale; il repubblicano Ranza il chiamava Giove. I
buoni utopisti, quando lo vedevano, piangevano di tenerezza. Queste
dimostrazioni egli si godeva tanto in pubblico quanto in privato; ma
augurava male degl'Italiani.

Intanto vedeva il mondo una cosa maravigliosa. Un soldato di
ventott'anni, un mese innanzi conosciuto da pochi, avere con un
esercito sprovveduto e non grosso superato monti difficilissimi,
varcato grossi e profondi fiumi, vinto sei battaglie campali, disperso
eserciti più potenti del suo, soggiogato un re, cacciato un principe,
acquistato il dominio di una parte d'Italia, apertasi la strada alla
conquista dell'altra, convertiti in sè stesso gli occhi di tutti gli
uomini di quell'età. Sapevaselo Buonaparte; l'anima sua ambiziosa
maravigliosamente se ne compiaceva. Ma perchè l'aspettativa che aveva
desta di lui non si raffreddasse, e per farsi scala a cose maggiori,
mandava fuori, il 20 maggio, un discorso molto infiammativo a' suoi
soldati:

«Soldati valorosi, diceva, voi piombaste, come torrente precipitoso,
dalle Alpi e dagli Apennini; voi urtaste, voi rompeste nel corso vostro
ogni ritegno. Il Piemonte, oggimai libero dell'austriaca dipendenza,
spiega i naturali suoi sentimenti di pace e d'amicizia verso la
Francia. Vostro è lo Stato di Milano: sventolano all'aura su tutte le
alte cime della Lombardia le repubblicane insegne: i duchi di Parma e
di Modena alla generosità vostra sono del dominio che ancora lor resta
obbligati. Dov'è l'esercito che testè con tanta superbia v'insultava?
Ei non ha più riparo contro al coraggio vostro. Nè il Po, nè il Ticino,
nè l'Adda poterono un sol giorno arrestarvi. Vani furono i vantati
baluardi d'Italia, vani i gioghi inaccessibili degli Apennini. Sentì
la patria infinita allegrezza delle vostre vittorie; vuole che ogni
comune le celebri: i padri, le madri, le spose, le sorelle, le amanti,
de' fausti eventi vostri si rallegrano e si stimano dell'avervi per
congiunti fortunatissime. Sì per certo, o soldati, assai faceste;
ma forse altro a fare non vi resta? Diranno di voi i contemporanei,
diranno i posteri, che abbiam saputo vincere, non usare la vittoria?
Accuseranci dell'aver trovato Capua in Lombardia? No, per Dio no,
che già vi veggo correre alle vincitrici armi, già veggo sdegnarvi ad
un vil riposo, già sento i giorni passati senza gloria esser giorni
perduti per voi. Orsù, partiamne; restanci viaggi frettolosi a fare,
nemici ostinati a vincere, allori gloriosi a cingere, crudeli ingiurie
a vendicare. Tremi chi accese le faci della civil guerra, tremi chi
uccise i ministri della repubblica, tremi chi arse Tolone, tremi chi
rapì le navi; già suona contro a loro in aria una terribile vendetta.
Pure stiansi senza timore i popoli: siamo noi di tutte le nazioni
amici, specialmente siamo dei discendenti di Bruto, degli Scipioni, di
tutti gli uomini grandi che impreso abbiamo ad imitare. Ristorare il
Campidoglio, riporvi in onore le statue degli eroi, per cui tanto è
famoso al mondo, destar dal lungo sonno il romano popolo, torlo alla
schiavitù di tanti secoli, fia frutto delle vittorie: acquisteretevi
una gloria immortale, cangiando in meglio la più bella parte d'Europa.
Il popolo franzese libero, rispettato dai popoli, darà all'Europa una
pace gloriosa, che di tanti sofferti danni, di tante tollerate fatiche
ristorerallo. Ritornerete allora fra le paterne mura; i concittadini, a
dito mostrandovi, diranno: _Fu soldato costui dell'esercito d'Italia_.»

Questo tremendo parlare empiva di spavento Italia; ognuno aspettava
accidenti terribili.

Conquistato il Piemonte, conculcato il re di Sardegna, e posto il piede
nella città capitale degli Stati austriaci in Italia, si apparecchiava
Buonaparte a più alte imprese. Suo principal desiderio era di passar
il Mincio, e, cacciando le genti tedesche oltre i passi del Tirolo,
vietare all'imperatore che non mandasse nuovi aiuti per ricuperare le
provincie perdute. Intanto le sue vittorie avevano aperta l'occasione
al governo di manifestare il suo intento circa il modo di procedere
verso alle potenze italiane, e congiunte d'amicizia con la Francia, e
neutrali, e nemiche. La somma era, che facendo traffico del Milanese,
con darlo in preda, secondochè per le occorrenze dei tempi meglio si
convenisse, o al re di Sardegna o all'imperatore, si taglieggiassero
i principi d'Italia, e da loro quel maggiore spoglio di denaro e di
altre ricchezze che possibil fosse si ricavasse. Nè in questo mostrava
il direttorio maggior rispetto agli amici che ai nemici. Nella quale
risoluzione egli allegava per pretesto e la guerra fatta e l'amicizia
finta e la necessità di assicurare l'esercito.

Voleva prima di tutto che si conquidesse ogni reliquia dell'esercito
alemanno, e che intanto si consumasse il Milanese, sì per pascere i
soldati e sì per farlo meno utile a chi si dovesse o dare o restituire;
se ne cavasse denaro, e sino i canali e le opere pubbliche fossero un
po' tocche dalla guerra. Poi si corresse contro il granduca di Toscana,
e si occupasse Livorno, confiscandovi le navi e le proprietà inglesi,
napolitane, portoghesi e di altri Stati nemici della repubblica,
sequestrandovi le proprietà dei sudditi loro; e se il granduca si
opponesse, si dicesse perfidia, e sì allora si trattasse la Toscana
come se fosse alleata dell'Inghilterra e dell'Austria.

Grande rapacità fu questa veramente, ed incomportevole e barbara,
poichè, se erano in Livorno proprietà d'Inghilterra o d'Inglesi e di
altri nemici della repubblica, eranvi in vigore della neutralità di
Toscana, che la Francia stessa aveva e riconosciuta ed accordata col
granduca. Questa fu la ricompensa che ebbe Ferdinando di Toscana da
quei repubblicani di Parigi, che pure pretendevano sempre alle parole
loro la sincerità e la grandezza, dello avere, primo fra tutti i
potentati d'Italia, e riconosciuta la repubblica e fatta la pace con
lei, e dato lo scambio, per istanza del Direttorio, al suo ministro
conte Cartelli, cui sostituì il principe don Neri Corsini.

Era Genova stata straziata dalle armi franzesi e dalle avversarie, e
poteva avere speranza, ora che la sede della guerra si era allontanata
da' suoi confini, di vivere più quietamente. Ma i tempi erano tali che
dove mancavano le cagioni s'inventavano i pretesti, ed il fine era
non di rispettare i neutri deboli, ma di molestargli e di mettergli
in preda. Adunque per quella cupidità di voler trarre denaro da
Genova, si cominciò ad insorgere contro il governo genovese. Scriveva
con una insolenza incredibile Buonaparte al senato, ch'era Genova il
luogo donde partivano gli uomini scellerati, che, datisi alle strade,
intraprendevano i carriaggi ed assassinavano i soldati franzesi; che da
Genova un Girola mandava ai feudi imperiali ribellanti armi e munizioni
da guerra pubblicamente, ed ogni giorno i capi degli assassini
accoglieva ancor bruttati di sangue franzese; che parte di questi
orribili fatti succedevano sul territorio della repubblica; che pareva
che essa col tacere e col tollerare approvasse opere tanto scellerate;
che il governator di Novi proteggeva i commettitori di tanti alti
barbari; perciò arderebbe i comuni dove fosse ucciso un Franzese;
voleva che il governatore di Novi si cacciasse, come Girola da
Genova: arderebbe infine le case tutte in cui gli assassini trovassero
asilo; punirebbe i magistrati trasgressori della neutralità che egli
osserverebbe bene e puntualmente, ma volere che la repubblica di Genova
non fosse rifugio di gente malandrina; e di egual tuono, e vieppiù
soldatescamente accendendosi, scriveva al governatore di Novi.

Rispondevano il senato ed il governatore stando in sui generali, perchè
lo attribuire a sè medesimi opere tanto nefande non era nè verità nè
dignità, ed il non soddisfare ad un soldato vittorioso e sdegnato,
era pericolo. Certo è bene che per quelle strade si commisero contro i
Franzesi opere di molta barbarie; ma questi omicidii ed assassinamenti,
di cui con tanta ragione Buonaparte si querelava, non già solamente sul
territorio genovese accadevano, ma ancora, e molto più, sul territorio
piemontese. Eppure non fece il generale di Francia che un leggier
risentimento e nissuna minaccia contro il re di Sardegna, poichè contro
di lui non aveva quel fine che contro Genova aveva.

A queste minaccie soldatesche succedevano le prepotenze parigine.
Comandava il direttorio a Buonaparte s'impadronisse o di queto o
per forza di Gavi, a fine di assicurare l'esercito alle spalle, e di
conservarsi la strada della Bocchetta aperta da Genova a Tortona; col
qual medesimo pensiero già s'era impadronito della fortezza di Vado:
il che quale rispetto sia per la neutralità, ciascuno potrà giudicare.
Poscia voleva che come prima l'esercito repubblicano occupato avesse il
porto di Livorno, occupasse anche la Spezia, ed ivi quanti bastimenti
appartenessero a potentati nemici alla Francia mettesse in preda.
Nè contento a questo, dimenticando tutto l'accaduto, comandava a
Buonaparte che domandasse nuovamente vendetta e nuovi milioni di
contanti per la straziata Modesta, ed operasse che coloro che si erano
mescolati in tale fatto fossero come traditori della patria dannati;
oltre a ciò, voleva e comandava che si confiscassero e si dessero in
mano della repubblica tutte le proprietà pubbliche appartenenti ai
nemici, e sotto sicurtà di Genova si sequestrassero tutte quelle che
a sudditi di potentati nemici spettassero; cacciasse Genova da' suoi
territorii tutti i fuorusciti franzesi; fornisse bestie da tiro e da
soma, carriaggi e viveri, e si dessero in contraccambio polizze del
ricevuto da scontarsi alla pace generale.

Passando ora da Genova a quella primogenita, come la chiamavano,
repubblica di Venezia, siccome cresceva nei vincitori con le vittorie
la cupidigia dell'oro e del dominare, incominciarono a dire che
volevano che fosse trattata non da amica, ma solamente da neutrale,
sotto colore di certi pretesti vecchi che già sussistevano, poichè non
era cambiata la condizione delle cose fra le due repubbliche, quando
nell'ingresso del nobile Querini se gli fecero tante carezze. Tra
questi pretesti il primo e principale era il passo dato ai Tedeschi pei
territorii veneziani. Poi, prosperando vieppiù la fortuna dell'armi
repubblicane in Italia, insorse il direttorio, con volere che Verona
desse grossa somma di denaro a prestito, a motivo ch'ella aveva
accolto nelle sue mura Luigi XVIII. Finalmente, cacciato del tutto
Beaulieu oltre Mincio, voleva ed imperiosamente comandava che Venezia
prestasse dodici milioni, e si voltasse in ricompensa questo debito
alla repubblica batava, che era debitrice di questa somma, a norma de'
freschi trattati, alla Francia. Voleva, oltre a ciò, e comandava che
si consegnassero alla repubblica tutti i fondi de' potentati nemici che
fossero in Venezia, principalmente quelli che spettavano personalmente
al re d'Inghilterra, ed inoltre si dessero alla Francia tutte le navi
sì grosse che sottili, ed altre proprietà di nemici che stanziassero
nei porti veneziani.

Quanto al papa, se volesse trattar di accordo, si esigesse da lui,
imponeva il direttorio, per primo patto che ordinasse subito preci
pubbliche per la prosperità e la felicità della repubblica; nel che
faceva il direttorio gran fondamento, per l'autorità che aveva la Sedia
apostolica sulla opinione dei popoli sì franzesi che italiani. Si venne
quindi in sul toccar il solito tasto del danaro, intimando che desse
venticinque milioni. Si comandasse al tempo medesimo al re di Napoli,
che se pace volesse, badasse a cacciar dai suoi Stati gl'Inglesi e
gli altri nemici della repubblica, mettesse in poter suo tutte le
navi loro che nei napolitani porti fossero sorte, e loro vietasse
d'entrarvi nemmeno con bandiera neutrale. Pei potentati minori,
correndo la fama che avessero ricchezze, voleva il repubblicano governo
che si scuotessero bene i duchi di Parma e di Modena, ma il primo meno
rigidamente del secondo, per rispetto del re di Spagna, col quale era
congiunto di sangue. Lallemand, ministro di Francia a Venezia, esortava
che si conculcasse, si pugnesse, si travagliasse per ogni guisa il
modenese duca a fargli dar denaro, perchè ne aveva molto, ed era avaro;
e più si scuoterebbe, e più contanti darebbe.

Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva
all'Italia dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto
la principal sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse
a quelle dolci parole di umanità e di libertà che dai repubblicani
di quei tempi si andavano sino a sazietà spargendo, ordinava il
direttorio, a petizione di Buonaparte, che si comandasse nei patti
d'accordo a principi vinti, dessero in potere dei vincitori, perchè
nel museo di Parigi fossero condotti, quadri, statue, testi a penna,
ed altri capi dell'esimie arti, usciti di mano ai più famosi artisti
del mondo, affermando esser venuto il tempo in cui la sede loro doveva
passare da Italia a Francia e servire d'ornamento alla libertà. Brutta
certamente ed odiosa opera fu questa dell'avere spogliato l'Italia di
preziosi ornamenti; ma lo spoglio piaceva ad alcuni per l'amor della
gloria, ad altri perchè potessero essere sotto gli occhi modelli
tanto perfetti di natura abbellita dall'arte; imperciocchè in quei
tempi erano sortiti in Francia, massimamente in pittura, artisti di
gran valore, i quali ed ammiravano e sapevano imitare lodevolmente
gli esempi italiani: e con questo ancora Buonaparte, pe' suoi fini,
lusingava la Francia.

In Italia poi i repubblicani, non i buoni, ma i malvagi, indicavano
le opere preziose da rapirsi; i più dolci andavansi confortando con
la speranza che l'Italia, siccome quella che ancora era feconda, ne
avrebbe prodotto delle altre ugualmente preziose; i più severi poi,
trasportando nelle moderne repubbliche l'austerità delle antiche, se
ne rallegravano, predicando che la libertà non aveva bisogno di queste
preziosità, e che pane e ferro dovevano bastare a chi repubblicano
fosse.

Ma il direttorio, a suggestione sempre di Buonaparte, che sapeva
quel che si faceva, voleva che se le opere più insigni delle arti
servivano d'ornamento ai trionfi della repubblica, gl'ingegni celebri
li lodassero, avvisandosi che non sarebbe accagionato di barbarie,
se coloro che da lei per costume, per ingegno e per sapere erano i
più lontani, si facessero lodatori delle imprese dei repubblicani, a
danno ed a spoglio dell'Italia. Voleva conseguentemente ed imponeva al
suo generale che ricercasse e con ogni modo di migliore dimostrazione
accarezzasse gli scienziati ed i letterati d'Italia; ed il generale
recava ad effetto l'intento del direttorio, parte per vanagloria, parte
per astuzia, come mezzo e scala alle future ambizioni.

Or ecco in qual modo i raccontati comandamenti, che finora erano
solamente intenzioni, siano stati ridotti in atto.

Non così tosto ebbe Buonaparte passato il Po a Piacenza, che sorse
una trepidazione nella corte di Parma tanto maggiore quanto il duca
aveva rifiutato l'accordo con Francia, che il ministro di Spagna in
Torino gli era venuto offerendo con qualche intesa del generalissimo,
come prima i Franzesi erano comparsi nella pianura del Piemonte.
Non solamente una parte del ducato era venuta sotto la devozione dei
repubblicani, ma ancora il restante, non avendo difesa, era vicino, e
solo che il volessero, a venire in poter loro; nè si stava senza timore
che seguisse anche qualche turbazione. In tanta e sì improvvisa ruina
prese il duca quel partito che solo gli restava aperto, del tentare
di assicurar gli Stati con un accordo, che, quantunque grave e duro
dovesse riuscire, sarebbe, ciò nonostante men grave che la perdita di
tutto il dominio. Domandava il vincitore superbamente l'accordo che
ponesse fine alla guerra, e con l'accordo denari, vettovaglie e tavole
dipinte di estremo valore.

Adunque in primo luogo fu consentita una tregua con mediazione del
ministro di Spagna il dì 9 maggio in Piacenza. Non aveva il duca
armi nè fortezze da dare, ma si obbligava di pagare in pochi giorni
sei milioni di lire parmigiane, che sono a un di presso un milione e
mezzo di franchi, e di più a fornire quantità esorbitanti di viveri
e di vestimenta pei soldati. Si obbligava, oltre a ciò ad allestire
due ospedali in Piacenza, provveduti di tutto punto, ad uso dei
repubblicani. Consegnerebbe finalmente venti quadri dei più preziosi,
fra i quali il San Girolamo del Correggio.

Mandava pertanto Buonaparte Cervoni a Parma, perchè ricevesse i denari
ed i quadri, e vigilasse onde le condizioni della tregua si eseguissero
puntualmente. Stretto il duca da tanta necessità, mandava le ducali
argenterie alla zecca, perchè vi si coniassero, ed il vescovo le
sue. Così, usato ogni estremo rimedio, e raggranellato denaro da ogni
parte, satisfaceva Ferdinando alle condizioni della tregua. Intanto i
fuorusciti parmigiani e piacentini, ritiratisi a Milano, laceravano il
duca con incessanti scritture, dal che riceveva grandissima molestia.

Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di
Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte dei suoi tesori,
il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come
se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per
servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza che disposto per
la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta
il vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace
Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano
le instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto
dì nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse,
oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente
di altri due milioni: di più, fra quarantotto ore rispondessero del
sì o del no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero
dal ducale governo la diminuzione di un milione nei generi da
somministrarsi e dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano
quindici quadri dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa
di pagare a contanti quanto abbisognasse loro, passando per gli Stati
del duca.

Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e
donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta
l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e
queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima
che partisse, con surrogar loro magistrati ed uomini o partigiani
o dipendenti da Francia; e di procacciar denaro e fornimenti che
l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual
cosa, in luogo della giunta di Stato, creava la congregazione generale
di Lombardia, ed al consiglio dei decurioni surrogava un magistrato
municipale in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di
grande stato, Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini,
Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato ed a lui si
riferivano gli affari più gelosi e più segreti.

Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte
sulla conquistata Lombardia una gravezza di venti milioni di franchi,
e faceva abilità ai commissarii e capi di soldati di torre per
forza i generi necessarii, con ciò però che dessero polizze del
ricevuto accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni.
Intenzione sua era che cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati
e sui corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa
dall'intenzione l'esecuzione; ma i ricchi, sì perchè si sentivano
gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con
insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti e licenziavano
i servitori, chè poco bene disposti in sè per natura vecchia, ed
avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel popolo,
massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle il
magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente
abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni
dovessero continuar a pagare i salarii ai servitori. Ma fu il rimedio
insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo,
perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate
di generi d'ogni specie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi
ai generali, ai commissarii, ai comandanti, agli uffiziali, talmente
il costringevano, che non era più padrone di sè medesimo, stanziava
un'imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari
quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi milanesi. Non
parlasi dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo
i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse
diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare,
consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè
a grandi e replicate vittorie era congiunta un'opinione politica
ardentissima e molto diversa da quella dei popoli, fra' quali egli
viveva. Il che sia detto generalmente, perchè molti uffiziali, o per
gentile educazione o per bontà di natura, si portavano e dentro e fuori
delle case del popolo conquistato in tale guisa che si conciliavano la
benevolenza d'ognuno. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli
erano le tolte sforzate di generi che per uso dei soldati o proprio
alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villerecci luoghi,
liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva e a chi non aveva,
e così agli amici come ai nemici del nome franzese. Aggiungevansi le
minaccie e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire
l'uomo che i cattivi fatti. Ciò rendeva i Franzesi odiosi, ma più
ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi o per le
opinioni parteggiavano pei Franzesi. Nè il popolo discerneva i buoni
dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che
tutti aiutavano l'impresa di una gente che, venuta per forza nel loro
paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Adunque lo sdegno
era grande; la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi
nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli.
A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca e gli
ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano
nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il
dominio franzese in Italia; che questa terra era pur tomba ai Franzesi,
che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le
loro cacciate o gli eccidii; quindi eccitavano all'armi, quindi dicean
calar dalle tirolesi rupi nuovi eserciti imperiali, quindi spargevano
voler i Franzesi fare per forza una leva di gioventù lombarda per
mandarla, con le genti franzesi incorporandola, alla guerra contro
l'imperatore; e per quanto si sforzassero i magistrati di persuadere ai
popoli il contrario, vieppiù nella concetta opinione si confermavano.
In mezzo a tutti questi mali umori successe a Milano un fatto veramente
enorme che li fece traboccare e crescere in grandissima inondazione.

Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano, o
gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti
e gioie di grandissimo valore. Si aggiungevano, come si usa, capi di
minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano a doti di fanciulle
povere. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà non solo
perchè era segno di fede pubblica, ma ancora perchè le cose depositate
la maggior parte appartenevano a persone o per condizione o per
accidente bisognose. Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede
nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie
di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel
monte e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio che
là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo.

Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire che non si
fosse portato più rispetto alle proprietà de' poveri che a quelle
de' ricchi, il che in parte era anche vero. Le quali cose, giunte
all'insolenza militare, allo strazio che si faceva nelle campagne,
alle improntitudine dei patriotti, partorirono una indegnazione tale
che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro
non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di
far un moto contro i Franzesi. Nè fu la città stessa di Milano esente
da questa turbazione; perciocchè, facendo i repubblicani non so quale
allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a
sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche
fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il
quale, frenato l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio.

Ma le cose non passarono sì di queto ne' contorni di Milano,
massimamente verso la porta Ticinese, perchè viaggiando e Franzesi e
patriotti italiani, o soli o con poca compagnia, per quelle campagne, e
non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservarli, furono
da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano
uccisioni ancor maggiori ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più
grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In
Binasco principalmente l'ardore contro i Franzesi e contro i giacobini,
come li chiamavano, era giunto agli estremi; e credendosi i Binaschesi
ogni più crudele fatto lecito, ammazzavano quanti Franzesi o Italiani
partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso,
molti, anzi una squadra non piccola di Franzesi, furono barbaramente
trucidati da quella gente.

A questo molo di Binasco, terra posta a mezzo cammino fra Milano e
Pavia, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi de' Tedeschi,
che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del
Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia. Chi poi
non accorreva per la speranza de' soccorsi tedeschi, che non pochi
sapevano esser vana, il facevano per la voce che s'era levata fra la
gente tumultuaria che i Franzesi si avvicinassero per mettere a sacco
Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero
della libertà, si erano sollevati la mattina del 23 maggio, e correvano
la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza.
Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le truppe sollevate: suonavano
precipitosamente in Pavia le campane a martello; rispondevano, con
grandissimo terrore di tutti, quelle della campagna. Nascondevansi i
patriotti, perchè il popolo li chiamava a morte: pure, più temperato
in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini
quieti serravano a furia le porte. I soldati di Francia segregati erano
presi; i rimanenti, non più di quattrocento fanti, male in arnese,
la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoverarono
nel castello, dove, per mancanza di vitto, era certamente impossibile
che si potessero difendere lungo tempo. Arrivarono in questo punto i
contadini, e, congiuntisi coi cittadini, aggiungevano furore a furore.
Alcuni fra i più ricchi, o che temessero per sè o che volessero aiutare
quel moto, mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri
mangiari in quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi,
i tristi trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di
pesar con giusta lance le cose, non vedendo a comparire da parte alcuna
soccorsi in favore degli avversarii, davansi in preda all'allegrezza,
e concependo speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro,
non solo la liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardia
e di tutta l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale
franzese Haquin; nè così tosto ebbe messo il piede dentro le mura, che,
minacciato nella persona, fu condotto per forza al palazzo del comune,
dove già era una banda grossa di soldati franzesi, che disarmati ed
incerti della vita e della morte, se ne stavano del tutto in balìa
di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto da' municipali, che
ogni sforzo facevano per sedare quel cieco impeto. Ma finalmente il
popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e, trovato Haquin, lo
volevano ammazzare; i municipali, facendogli scudo de' corpi loro, il
preservavano, benchè ferito di baionetta in mezzo alle spalle. Mentre
alcuni si adoperavano per la salute del generale, altri si ingegnavano
di salvar la vita de' Franzesi; nè riuscì vano il benigno intento
loro. Bene fece poi Haquin ufficio di gratitudine a Buonaparte, che,
ritornata Pavia a sua devozione, gli voleva far ammazzare come autori
della ribellione, raccomandandogli e con istanti parole pregandolo
perdonasse a uomini già vecchi, a uomini più abili a pregare il popolo
concitato che a concitar il quieto.

Intanto si viveva con grandissimo spavento in Pavia non già perchè
vi si temessero dai più i Franzesi, avendo la rabbia tolto il lume
dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano che quella furia,
per trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio
della misera città. Così passarono le due notti dai 23 ai 25; ma già si
avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata impresa, quando più la
moltitudine, per la dedizione del presidio ricoverato in castello, si
credeva sicura della vittoria. Era giunto il 25 maggio, quando udissi
improvvisamente un rimbombar di cannoni, prima di lontano, poi più da
presso; e via via più spesseggiando il romore, dava segno che qualche
gran tempesta si avvicinasse dalle parti di Binasco.

Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto
a Lodi, con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto
Beaulieu, quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco
e di Pavia. Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza,
perchè questi incendii più presto si spandono che non si estinguono,
tornossene subitamente indietro, conducendo con sè una squadra eletta
di cavalli ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in
Milano, considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato
ostinazione uguale alla rabbia, o forse, volendo risparmiare il
sangue, si deliberava a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo
di Milano, affinchè con l'autorità del suo grado e delle sue parole
procurasse di ridurre a sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto,
applicando l'animo a far sicuro colla forza quello che le esortazioni
non avrebbero per avventura potuto operare, rannodava soldati e li
teneva pronti a marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già
incontrati per via i Binaschesi, facilmente li rompevano, facendone
una grande uccisione. Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da
diverse bande il fuoco, l'arsero tutto.

Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e, fattosi al balcone
del municipale palazzo, orava istantemente alle genti che si erano
affollate per ascoltarlo. Con grande ardore parlava, desiderosissimo
di salvar la città; ma più poteva in chi lo ascoltava un feroce
inganno che le persuasive parole. Gridarono non doversi dar orecchio
all'arcivescovo, esser dedito ai Franzesi, esser giacobino; e così
su questo andare con altre ingiurie offendevano la maestà del dabben
prelato. Adunque non rimaneva più speranza alcuna alla desolata terra;
le matte ed inferocite turbe, accortesi oggimai che lo sperare aiuti
estranei era vano, e che i Franzesi giù stavano loro addosso, chiusero
ed abbarrarono le porte, ed empierono tutto all'intorno le mura d'armi
e di armati. Ma ecco arrivare a precipizio il vincitor Buonaparte ed
atterrare a suon di cannoni le mal sicure porte. Fessi in sulle prime
una tal qual difesa; ma superando fra breve le armi buone e le genti
disciplinate, abbandonavano frettolosamente i difensori le mura, e
ad una disordinata fuga si davano. Fuggirono per diverse uscite i
contadini alla campagna; si nascondevano i cittadini per le case.
Restava a vedersi quello che il vincitor disponesse; aspettava Pavia
l'ultimo eccidio.

Entrava la cavalleria della repubblica, correva precipitosamente,
trucidava quanti ne incontrava: cento sollevati in questo primo
abbattimento perirono. Entrava per la milanese porta Buonaparte,
e postovisi accanto con le artiglierie volte contro la contrada
principale, traeva a furia dentro la città. Quivi fra il romore dei
cannoni, fra le grida dei fuggenti e dei moribondi, fra il calpestio
dei cavalli, fra lo strepito delle case diroccanti, tra il fremere
dei soldati infiammatissimi alla ruina della terra, era uno spettacolo
spaventevole e miserando; ma se periva chi andava per le vie, non era
salvo chi si nascondeva per le case. Ordinava Buonaparte il sacco; dava
Pavia in preda ai soldati.

Non ci fermeremo a narrare il tenore di questa tremenda esecuzione.
Nel giorno 23, nella susseguente notte, nel dì 24, le soldatesche,
avventate di natura ed irritate alla morte dei compagni, non si
ristavano, e vi commisero opere non solo nefande in pace, ma ancora
nefande in guerra. Erano in pericolo le masserizie, erano le persone;
e le persone quanto più dilicate ed intemerate, tanto più appetite ed
oltraggiate dagli sfrenati saccheggiatori. Tal era l'universale dei
soldati; ma non sono da dimenticare i pietosi ufficii fatti da molti
soldati franzesi in mezzo alla confusione sì fiera e sì orribile. Non
pochi furono visti che, abborrendo dalla licenza data da Buonaparte,
serbarono le mani immuni dall'avaro saccheggiare, altri, più oltre
procedendo, fecero scudo delle persone loro ai miserandi uomini ed
alle miserande donne, chiamati a preda od a vituperio dai compagni
loro; sì che sorsero risse sanguinose fra gli uni e gli altri in sì
strana contesa, pietosa ad un tempo e scellerata. Quali si affaticavano
per rinsensare le donne svenute, e riconfortarle; quali anche, vinti
dalla compassione, tornavano indietro a far la restituzione delle
rapite suppellettili. Nè si dee passare sotto silenzio che se si
fece ingiuria alle robe ed alla continenza, non si pose però mano al
sangue. Parte anche essenziale di questo fatto fu l'immunità data alle
case dell'università, che pur avevano molti capi di pregio anche per
soldati. Questo benigno riguardo si ebbe per comandamento dei capi.
Più mirabile fu ancora la temperanza de' capitani subalterni, ed anche
dei gregarii medesimi, che portando rispetto al nome di Spallanzani
e di altri professori di grido, si astennero, o pregati leggiermente
od anche non pregati, dal por mano nelle robe loro. Tanto è potente
il nome di scienza e di virtù anche negli uomini dati all'armi ed al
sangue.

Finalmente il mezzodì del giorno 26, siccome era stato ordinato da
Buonaparte, pose fine al sacco. Contento il vincitore a quel che aveva
fatto, non incrudelì di soverchio contro i presi colle armi in mano
ancora grondanti di sangue franzese: uno solo fu fatto passare per
l'armi in sul primo fervore in Pavia; poi altri tre, che, portati
all'ospedale, già vi stavano, per le ferite avute, col mal di morte.
Calaronsi dai campanili le campane, disarmaronsi le popolazioni,
ordinossi che la prima terra che strepitasse, sacco, ferro e fuoco
avrebbe.

Buonaparte, passato il moto di Pavia, che aveva interrotto i suoi
pensieri, s'indirizzava di nuovo a colorire gli ultimi suoi disegni
sulla riva sinistra del Mincio, per guisa che, essendo padrone dei
ponti di Rivalta, di Goito e di Borghetto, aveva facilmente accesso
sulla destra. Ora si avvicinavano gli estremi tempi della repubblica
veneziana. La tempesta di guerra, stata finora lontana da' suoi
territorii, doveva tra breve scagliarvisi, e due nemici adiratissimi
l'uno contro l'altro erano pronti a combattervi battaglie, che ogni
cosa presagiva aver a riuscir ostinate e micidiali. Vedeva il senato
che la terra ferma, quieta allora da ogni perturbazione, sarebbe
presto divenuta sedia di guerra, perchè sapeva che i Franzesi si erano
risoluti d'andar ad assalire il loro nemico dovunque il trovassero, e
che ambe le parti avendo a combattere fra di loro, avrebbero l'una e
l'altra per primo pensiero di procacciarsi i proprii vantaggi anche a
pregiudizio della neutralità veneziana.

Non avevano pretermesso i pubblici rappresentanti di Brescia e di
Bergamo d'informare diligentemente il governo di quanto accadeva sui
confini, e del pericolo che ogni giorno si faceva più grave; ma le
instanze loro restarono senza frutto, perchè ed il tempo mancava ed
i partigiani della neutralità disarmata tuttavia prevalevano nelle
consulte della repubblica. Ma stringendo ora il tempo, e desiderando
il senato che in un caso di tanta, anzi di totale importanza le cose
di terraferma fossero rette con unità di consigli, aveva tratto a
provveditor generale in essa Nicolò Foscarini, stato ambasciadore
a Costantinopoli, uomo amatore della sua patria e di sana mente, ma
di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso; del che
diè tosto segno, perchè nell'ingresso medesimo della sua carica già
si mostrava pieno di spaventi e di pensieri sinistri. Diessi, come
moderatore a Foscarini, il conte Rocco Sanfermo, con quale prudenza
non si vede, perchè Sanfermo parteggiava piuttosto pei Franzesi, ed
era in cattivo concetto presso i Tedeschi per essere stata la sua
casa in Basilea il ritrovo comune dei ministri di Prussia, di Spagna
e di Francia, quando negoziavano fra di loro la pace. Avuto così grave
mandato, se ne veniva il provveditor generale a fermar le sue stanze in
Verona vicina ai luoghi dove aveva primieramente a scoppiare quel nembo
di guerra. L'accoglievano i Veronesi molto volentieri, e gli fecero
allegrezze, considerando che la sua presenza avesse pure ad operar
qualche frutto a salute loro. Ma non conoscevano i tempi; il senato
medesimo non li conosceva; perchè l'operare in tanta sfrenatezza di
principii politici, ed in un affare in cui dalle due parti vi andava
tutta la fortuna dello Stato, che si sarebbe portato rispetto al retto
ed all'onesto, e che un magistrato privo d'armi potesse fare alcun
frutto, era fondamento del tutto vano.

Ripigliando ora il filo delle imprese di Buonaparte, era suo pensiero,
per rompere le difese del Mincio, di dar sospetto a Beaulieu ch'egli
volesse, correndo per la sponda occidentale del lago di Garda, occupare
Riva, e quindi gettarsi a Roveredo, terra posta sulla strada che
dall'Italia porta al Tirolo. Perlochè, passato l'Olio ed il Mela,
poneva gli alloggiamenti in Brescia, donde ad arte faceva correre le
sue genti più leggieri verso Desenzano; anzi, procedendo più oltre,
mandava una grossa banda, condotta da Rusca, fino a Salò, terra a mezzo
lago sulla sua destra sponda. Per nutrire vieppiù nel nemico la falsa
credenza che sua sola intenzione fosse di sprolungarsi sulla sinistra
per correre verso le parti superiori del lago col fine suddetto di
mozzar la strada agli Austriaci per al Tirolo, aveva tirato sul centro
e sulla destra le sue genti indietro per guisa che, invece di star
minacciose sulla destra del Mincio, si erano fermate alcune miglia
lontano dal fiume nelle terre di Montechiaro, Solfarino, Gafoldo e
Mariana, e le teneva quiete negli alloggiamenti loro.

Era Brescia possessione dei Veneziani. Però volendo Buonaparte
giustificare questo atto del tutto ostile verso la repubblica, perchè
gli Austriaci avevano passato pei territorii veneti, ma non occupato
le terre grosse e murate, mandava fuori da Brescia, il dì 29 maggio,
un bando, promettitore, secondo il solito, di quello che non aveva in
animo di attenere; tra le altre cose dicendo: passare i Franzesi per
le terre della veneziana repubblica, ma non essere per dimenticare
l'antica amicizia da cui erano le due repubbliche congiunte; non
dovere il popolo avere timore alcuno; rispetterebbesi la religione,
il governo, i costumi, le proprietà; pagherebbesi in contanti quanto
fosse richiesto; pregare i magistrati ed i preti informassero di questi
suoi sentimenti i popoli, affinchè una confidenza reciproca confermasse
quell'amicizia che da sì lungo tempo aveva congiunto due nazioni fedeli
nell'onore, fedeli nella vittoria.

Come Beaulieu ebbe avviso avere i repubblicani occupato Brescia,
pose presidio in Peschiera, fortezza veneziana situata all'origine
dell'emissario del lago di Garda; poichè temeva che Buonaparte non
portasse più rispetto a Peschiera che a Brescia, ed era la prima,
se fosse stata bene munita, principale difesa del passo del Mincio.
Bene aveva il colonnello Carrera, comandante, rappresentato al
provveditor generale la condizione della piazza, domandato soldati,
armi e munizioni, avvertito il pericolo dell'indifesa fortezza in
tanta vicinanza di soldati nemici. Ma Foscarini, che aveva più paura
del difendersi che del non difendersi, aveva trasandato le domande
del comandante. La quale eccessiva continenza gli fu poi acerbamente
rimproverata da Buonaparte, il quale affermava che se il provveditor
generale avesse mandato solamente due mila soldati da Verona a
Peschiera, sarebbe stata la piazza preservata.

Occupatasi Peschiera dagli Alemanni, vi fecero a molta fretta
quelle fortificazioni che per la brevità del tempo poterono. Intanto
Buonaparte, sicuro di aver ingannato il nemico, si apparecchiava a
mettere ad esecuzione il suo disegno, ch'era di sforzare il passo
del Mincio a Borghetto. Non era stato il generale austriaco senza
sospetto di ciò, quantunque, per le dimostrazioni del suo avversario,
avesse ritirato parte dello sue genti ai luoghi superiori. Però
aveva munito il ponte con le opportune difese, avendo ordinato che
quattro mila soldati eletti si trincerassero sulla destra alla bocca
del ponte, e che sulla sponda medesima diciotto centinaia di cavalli
stessero pronti a spazzare all'intorno la campagna ed a calpestare chi
s'accostasse. Il resto delle genti alloggiava sulla sinistra accosto
al ponte per accorrere in aiuto della vanguardia, ove pericolasse.
Muovevansi improvvisamente, la mattina del 29 maggio, i repubblicani da
Castiglione, Capriana, Volta, e s'indirizzavano al ponte di Borghetto.
Successe una battaglia forte, perchè gli Austriaci, già tante volte
vinti, non si erano perduti d'animo, anzi, valorosamente combattendo,
sostenevano l'impeto dei Franzesi. Restavano superiori sulla prima
giunta, perchè, non essendo ancora arrivate tutte le genti di Francia,
la vanguardia, che prima aveva ingaggiato la battaglia, cominciava
a crollare e ritirarsi. Ma sopraggiungendo squadroni freschi,
massimamente cavalli ed artiglierie, furono gli Austriaci risospinti,
nè, potendo più resistere alla moltitudine che gli assaltava virilmente
da tutte le parti, abbandonata del tutto la destra del fiume, si
ricoveraron sulla sinistra, guastato un arco del ponte, perchè il
nemico non li potesse seguitare. Ma erano le battaglie dei Franzesi
di quei tempi più che d'uomini. Ed ecco veramente che il generale
Gardanne, postosi a guida d'una mano di soldati coraggiosissimi, si
metteva in fiume, non curando nè la profondità di esso, perciocchè
l'acqua gli arrivava infino a mezzo petto, nè la tempesta delle
palle che dall'opposta riva si scagliavano: già varcava ed alla
sinistra sponda si avvicinava. A tanta audacia, il timore occupava gli
Austriaci; si ricordarono del fatto di Lodi, rallentarono le difese,
e fu fatto abilità ai repubblicani non solo di passare a guado,
ma ancora di racconciare il ponte. La qual cosa diede la vittoria
compiuta ai Franzesi; e, come l'ebbero, così l'usarono; perchè,
avendo passato, si davano a perseguitar l'inimico, sì per romperlo
intieramente e sì per impedire, se possibil fosse, che gittasse un
presidio dentro Mantova, fortezza di tanta importanza. Ma Buonaparte,
che sapeva bene e compiutamente far le cose sue, per tagliar la strada
al nemico verso il Tirolo, aveva celeremente spedito Augereau contro
Peschiera, comandandogli che s'impadronisse a qualunque costo della
fortezza, e corresse a Caslelnuovo ed a Verona. Così, impossibilitati
a ricoverarsi in Mantova ed a ritirarsi in Tirolo, gl'imperiali
sarebbero stati in gravissimo pericolo. Beaulieu, che aveva pe' suoi
corridori avuto avviso dell'intenzione del nemico, conoscendo che,
poichè i repubblicani avevano passato il Mincio, non poteva più avere
speranza di resistere, aveva del tutto applicato l'animo al ritirarsi
ai passi forti del Tirolo; nè per lui si poteva indugiare, perchè
il tempo stringeva. Laonde, introdotto in Mantova un presidio di
dodici mila soldati con molte munizioni sì da bocca che da guerra,
s'incamminava con presti passi alla volta di Verona. Gli convenne ancor
fare, per dar tempo a' suoi di raccorsi, una testa grossa e sostenere
una stretta battaglia tra Villeggio e Villafranca, sulla sponda di un
canale largo e profondo che congiunge le acque del Mincio con quelle
del Tartaro. Infatti, mentre si combatteva a riva del canale, Beaulieu
faceva spacciare prestamente Peschiera e Castelnuovo, e, per tal modo,
raccolto in uno tutto l'esercito, si difilava velocemente, avendo
la notte interrotto la battaglia del canale, verso l'Adige: quindi,
passato questo fiume a Verona, guadagnava i luoghi sicuri del Tirolo.
Augereau trionfante e minaccioso entrava nell'abbandonata Peschiera.

Questa fu la conclusione della guerra fatta da Beaulieu in Italia, da
cui si rende manifesto, che se le armi franzesi di tanto riuscirono
superiori alle sue, debbesi, non a mancanza di valore ne' soldati
dell'imperatore attribuire, ma bensì all'arte ed all'astuzia militare,
per cui il giovine generale di Francia di sì gran lunga superò il
vecchio generale d'Alemagna.

S'incominciavano intanto a manifestare i maligni segni di quel veleno
che il direttorio e Buonaparte nutriano contro la repubblica di
Venezia, meno forse per odio che per utile: il che per altro è più
odioso. Due erano i principali fini a cui si tendeva: il primo che
l'esercito acquistasse per sè tutti i mezzi di perseguitar l'inimico
e d'impedire il suo ritorno; era il secondo di turbare lo stato
quieto della repubblica veneziana, perchè pel presente si aprissero
le occasioni di vivervi a discrezione, e per l'avvenire sorgessero
pretesti di disporne a lor grado. All'uno e all'altro fine conduceva
acconciamente l'occupazione di Verona, perchè il suo sito, dove sono
tre ponti, è padrone del passo dell'Adige, ed è, a chi scende dall'Alpi
Rezie, principale impedimento a superarsi. Da un'altra parte l'acquisto
di una piazza tanto principale non poteva farsi da' Franzesi senza un
grande sollevamento d'animi in quelle provincie.

Adunque al fine d'impossessarsi di Verona indrizzò Buonaparte, dopo la
vittoria di Borghetto e la presa di Peschiera, i suoi pensieri; e però
incominciò a levare un rumore grandissimo e ad imperversare, sclamando
che Venezia, per aver dato ricovero nei suoi Stati al conte di Lilla,
si era scoperta nemica alla Francia, e che l'aver lasciato occupare
Peschiera dagl'imperiali dimostrava la parzialità del governo veneziano
verso di loro. E così, tempestando e moltiplicando ognora più nello
sdegno e nelle minacce, affermava volersene vendicare. Di tratto in
tratto prorompeva anzi con dire che non sapeva quello che il tenesse
che non ardesse da capo in fondo Verona, città, soggiungeva, tanto
temeraria che si era creduta capitale dell'impero franzese. Nel che
intemperantemente ed assurdamente alludeva al soggiorno fattovi dal già
detto conte di Lilla, pretendente alla corona di Francia; soggiorno pel
quale soltanto credettero i Veronesi aver fatto opera pia, dando dentro
le loro mura ricovero ad un principe perseguitato ed infelice.

Quanto al fatto di Peschiera, dal già detto intorno al suo stato
non difendevole, si vede se potessero i Veneziani in un caso tanto
improvviso impedire che i Tedeschi vi entrassero. Bene sapeva egli cosa
vi fosse in fondo di tutto questo, stantechè scriveva al direttorio,
il dì 7 giugno, che Beaulieu aveva vituperosamente ingannato i
Veneziani, avendo solamente domandato il passo per cinquanta soldati,
e che con questo pretesto si era impadronito della terra. Ma queste
querele faceva in primo luogo per accennare, come abbiamo detto, a
Verona, nella quale, per esser munita di tre fortezze ed assicurata
da una grossa banda di Schiavoni, non poteva entrar di queto senza il
consenso de' Veneziani; in secondo luogo per fare dar denaro a Venezia,
conciossiachè scriveva egli al direttorio il dì suddetto in proposito
di questo medesimo fatto di Peschiera, a bella posta avere aperto
questa rottura, perchè, se volessero cavar cinque a sei milioni da
Venezia, sì il potessero fare.

Gl'imperversamenti e le minacce di Buonaparte pervennero alle orecchie
del provveditor generale Foscarini, che le udì con grandissimo
terrore. E però, per dare al generale repubblicano le convenienti
giustificazioni che dalla sua bocca propria e non da quella di altrui
voleva udire, si mise in viaggio col segretario Sanfermo per andarlo
a visitare a Peschiera. Giunto al cospetto del giovane vincitore, e
ristrettosi con esso lui e con Berthier, protestava ed asseverava,
avere sempre la repubblica veneta ed in ogni accidente seguitato i
principii della più illibata neutralità. Rispondeva minacciosamente
Buonaparte, il quale non voleva esser convinto, ma bensì intimorire,
che male aveva corrisposto Venezia all'amicizia della Francia, che i
fatti erano diversi assai dalle parole, che per tradimento avevano i
Veneziani lasciato occupar da' Tedeschi Peschiera, il che era stato
cagione che egli avesse perduto mille e cinquecento soldati, il cui
sangue chiamava vendetta; che la neutralità voleva che si resistesse
agli Austriaci; che se i Veneziani non bastassero, sarebbe egli
accorso; che doveva la repubblica con le sue galere vietar loro il
passo pel mare e pei fiumi; che in somma erano i Veneziani amici
stretti degli Austriaci. Quindi, trascorrendo dalle minacce alla
barbarie, rimproverava con asprissime parole ai Veneziani l'aver dato
asilo negli Stati loro ai fuorusciti franzesi ed al conte di Lilla,
nemico principale della repubblica di Francia; procedendo finalmente
dalla crudeltà alle menzogne, sclamava che prima del suo partire
aveva avuto comandamento dal direttorio di abbruciar Verona, e che
l'abbrucierebbe; che già contro di lei marciava con cannoni e mortai
Massena; che già forse le artiglierie di Francia la fulminavano, e che
già forse ardeva; che tal era il castigo che i repubblicani davano pel
ricoverato conte di Lilla; che aspettava fra sette giorni risposta da
Parigi per dichiarar la guerra formalmente al senato; che Peschiera
era sua, perchè conquistata contro gli Austriaci; che di tutte queste
cose aveva informato il ministro di Francia in Venezia, quantunque,
aggiungeva, queste comunicazioni diplomatiche tenesse in poco conto,
acciocchè il senato ne ragguagliasse.

Spaventato in tal modo l'animo del provveditore, stette Buonaparte un
poco sopra di sè; poscia, come se alquanto si fosse mitigato, soggiunse
che della guerra e di Peschiera aspetterebbe nuovi comandamenti dal
direttorio; sospenderebbe per un giorno il corso a Massena, ma il
seguente si appresenterebbe alle mura di Verona; che se quietamente
vi fosse accettato e lasciato occupar i posti da' suoi soldati,
manterrebbe salva la città ed avrebbero i Veneziani la custodia
delle porte; i magistrati il governo dello Stato; ma che se gli
fosse contrastato l'ingresso, sarebbe Verona inesorabilmente arsa e
distrutta.

Queste arti usava Buonaparte, il dì 31 maggio, per ottenere
pacificamente il possesso di Verona; dal che si vede qual fede prestar
si debba al suo manifesto dato da Brescia il dì 29 del mese medesimo, e
quale fosse la sincerità delle sue promesse.

Da queste insidie e da queste minacce si rendeva chiaro quali
dovessero essere le deliberazioni del provveditor veneziano; posciachè,
prescindendo anche dagli oltraggi, quel dire di voler arder sul fatto
una città nobilissima del veneziano territorio, quell'affermare che fra
sette giorni poteva venir caso ch'ei dichiarasse formalmente la guerra
a Venezia, della verità o falsità della quale affermazione non poteva
a niun modo il provveditore giudicare, non solo rendevano giusta, ma
ancora necessaria una subita presa d'armi dal canto de' Veneziani.
Quello era il momento fatale della veneziana repubblica, quello il
momento fatale d'Italia e del mondo; e se Foscarini avesse avuto
l'animo e la virtù di Piero Capponi, non piangerebbe Venezia il suo
perduto dominio, non piangerebbe Italia il principale suo ornamento,
non piangerebbe il mondo tante vite infelicemente spente per fondare il
dispotismo di un capitano.

Ma Nicolò Foscarini, invece di gridar campane, come Pietro Capponi,
corse, pieno di paura, a Verona, e diede opera che gli Schiavoni, nei
quali consisteva la principal difesa, l'abbandonassero, e che così
i magistrati come i cittadini ricevessero pacificamente i soldati di
Buonaparte.

Come prima si sparse in Verona che i Franzesi vi sarebbero entrati per
alloggiarvi, vi nacque nelle persone di ogni condizione e grado uno
spavento tale che pareva che la città avesse ad andare a rovina. Più
temevano i nobili che i popolani, perchè sapevano che i repubblicani li
perseguitavano. Il popolo, raccolto in gran moltitudine sulle piazze
e per le contrade, pieno di afflizione e di terrore, accusava la
debolezza di Foscarini e le perdute sorti della repubblica. Lo stare
pareva loro pericoloso, l'andarsene misero. Pure il pericolo presente
prevaleva, e la maggior parte fuggivano. Fu veduta in un subito la
strada da Verona a Venezia impedita da lungo ingombro di carrozze, di
carri e di carrette che le atterrite famiglie trasportavano con quelle
suppellettili che in tanta affoltata avevano a molta fretta potuto
raccorre. Nè minor confusione era sull'Adige fiume; perchè insistevano
i fuggiaschi occupati nel caricare sulle navi a tutta pressa le
masserizie più preziose dei ricchi, e gli arnesi più necessarii dei
poveri: navigavano intanto a seconda per andar a cercare in lidi più
bassi, od oltre le acque del mare, terre non ancora percosse dalla
furia della guerra.

Entrarono il dì primo giugno i Franzesi in Verona. Quivi Buonaparte
lodava l'aspetto nobile della città, i magnifici palazzi, le spaziose
piazze, i templi, le pitture, insomma ogni cosa, e più di tutto
l'arena, opera veramente mirabile dei Romani antichi. Si rendevano
anche padroni di Legnago e della Chiusa. A Verona non solo occuparono
i ponti, ma ancora le porte e le fortificazioni. Nè così soltanto
mancavasi al convenuto; ma contro alle promissioni fatte nel manifesto
di Brescia, di voler pagare in contanti tutto che si richiedesse
in servigio dei soldati, si facevano, nelle campagne testè felici
del Bergamasco, del Bresciano, del Cremasco e del Veronese, tolte
incredibili che, non che si pagassero, non si registravano; seguivano
mali tratti e scherni ancor peggiori; nè le cose rapite bastavano
od erano d'alcun frutto, perchè si dissipavano con quella prestezza
medesima con cui si rapivano. Quindi era desolato il paese, nè
abbondante l'esercito, nè mai si fece un dissipare di quanto all'umana
generazione è necessario così grave e così stolto come in questa
terribil guerra si fece. I popoli intanto, vessati in molte forme,
e cadendo da una tanta agiatezza in improvvisa miseria, entravano in
grandissimo sdegno e si preparavano le occasioni a futuri mali ancor
più gravi.

A questo tempo si udirono le novelle della dedizione del castello
di Milano; il comandante austriaco Lamy, perduta per le vittorie
di Buonaparte ogni speranza di soccorso, si arrese a patti il dì
29 giugno, salve le robe e le persone, eccettuati solo i fuorusciti
franzesi, che dovevano essere consegnati ai repubblicani. Fu questo
acquisto di grande importanza ai Franzesi, perchè era il castello come
un freno ai Milanesi, e molto assicurava le spalle ai repubblicani.

La ruina sotto dolci parole si propagava in altre parti d'Italia;
perchè, trovandosi Buonaparte, per le vittorie di Lodi e di Borghetto,
e così per la ritirata di Beaulieu alle fauci del Tirolo, sicuro alle
spalle e sul sinistro fianco, voltò l'animo ad allargarsi sul destro,
chè quivi ricche e fertili terre l'allettavano. Restavano, oltre a ciò,
a domarsi il papa ed il re di Napoli e ad espilare il porto di Livorno.
Per la qual cosa, spingendo avanti le sue genti, dopo l'occupazione di
Modena, s'incamminava alla volta di Bologna, città forte più d'ogni
altra d'Italia, piena d'uomini forti e generosi, e che, conoscendo
bene la libertà, non la misurava nè dalla licenza nè dal servaggio
forastiero.

Aveva il senato di Bologna anticonosciuto che per la vittoria di
Lodi diveniva il generale franzese signore di tutta la Lombardia.
Però, desiderando di preservare il Bolognese dalle calamità che
accompagnano la guerra, aveva a molta fretta, dopo di aver creata
un'arrota d'uomini eletti con autorità straordinaria, mandato a Milano
i senatori Caprara e Malvasia coll'avvocato Pistorini, acciò, veduto il
generalissimo, il pregassero d'aver per raccomandata la patria loro.
Al tempo medesimo il sommo pontefice, spaventato dall'aspetto delle
cose, siccome quegli che nell'approssimarsi dei repubblicani vedeva
non solo la ruina del suo Stato temporale, ma ancora novità perniciose
alla religione, specialmente se come nemici allo Stato pontificio si
accostassero, aveva commesso al cavaliere Azara, ministro di Spagna
a Roma, che già era intervenuto alla composizione con Parma, andasse
a Milano e procacciasse di trovar modo d'accordo con quel capitano
terribile della repubblica di Francia. Era Azara molto benignamente
trattato da Buonaparte, e perciò personaggio atto a far quello che
dal pontefice gli era raccomandato. Furono dal generale umanamente
uditi i senatori di Bologna: parlaronsi nei colloqui segreti di molti
gravi discorsi, il fine dei quali tendeva a slegare i Bolognesi dalla
superiorità pontificia, a restituire quel popolo alla sua libertà
statuita, già com'è noto da ognuno, fin dai tempi della lega lombarda,
e ad impetrare che i soldati repubblicani, passando pel Bolognese, vi
si comportassero modestamente. Questi erano suoni molto graditi ai
popoli di quel territorio: Buonaparte, che sel sapeva, promise ogni
cosa e più di quanto i deputati avevano domandato; sì che partironsi
molto bene edificati di lui, e se ne tornarono a Bologna. Intanto
le sue genti marciarono. Comparivano il 18 giugno in bella mostra
e con aria molto militare poco distante da Bologna dalla parte di
Crevalcuore. Nel giorno medesimo una banda di cavalli condotta da
Verdier entrava, come antiguardo, in Bologna, e, schieratasi avanti
il palazzo pubblico, faceva sembiante d'uomini amici e liberali. Il
cardinal Vincenti legato, non prevedendo che fosse giunta al fine in
quella legazione l'autorità di Roma, avvisava il pubblico dell'arrivo
dei Franzesi e della buona volontà mostrata dai capi. Esortava che
attendesse quietamente ai negozii; comandava che rispettassero i
soldati; minacciava pene gravi, anche la morte, secondo i casi, a chi
con parole o con fatti gli offendesse. Entrava poi il seguente giorno
la retroguardia; arrivavano alla notte Saliceti e Buonaparte.

Era Bologna stata spogliata del dominio di Castelbolognese, terra
grossa situata oltre Imola, e fondata anticamente dai Bolognesi
desiderosissimi di ricuperare quell'antica colonia; nè alla
ricongiunzione ripugnavano i castellani medesimi. Buonaparte, informato
dai deputati di questi umori, come prima arrivava a Bologna, restituiva
il possesso di Castelbolognese, ed aboliva ogni autorità del papa,
reintegrando i Bolognesi nei loro antichi diritti di popolo libero ed
indipendente. Nè ponendo tempo in mezzo, comandava al cardinal Vincenti
legato se ne partisse immantinente da Bologna. Indi, chiamato a sè il
senato, a cui era devoluta l'autorità sovrana, gli significava che,
essendo informato delle antiche prerogative e privilegii della città
e della provincia, quando vennero in potere dei pontefici, e come
erano stati violati e lesi, voleva che Bologna fosse reintegrata della
sostanza del suo antico governo. Ordinava pertanto che l'autorità
sovrana al senato intiera e piena ritornasse; darebbe poi a Bologna,
dopo più matura deliberazione, quella forma di reggimento che più al
popolo piacesse, e più all'antica si rassomigliasse: prestasse intanto
il senato in cospetto di lui giuramento di fedeltà alla repubblica
di Francia, ed in nome e sotto la dipendenza di lei la sua autorità
esercesse: i deputati dei comuni e dei corpi civili il medesimo
giuramento in cospetto del senato giurassero.

Preparata adunque con grande sontuosità la sala Farnese, e salito sur
un particolare seggio, riceveva Buonaparte il giuramento de' senatori;
quindi si accostarono a prestarlo, presente sempre il generale di
Francia, i magistrati sì civili che ecclesiastici: il che fece in tutta
Bologna una gran festa, grata al popolo, perchè nuova e con qualche
speranza, grata al senato, perchè da servo si persuadeva d'esser
divenuto padrone, non badando che se era grave la servitù verso il
papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi signori.

Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro.
Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano
i popoli, pure se ne acquetavano, perchè sapevano che bisogna bene
che i soldati vivano del paese che hanno; solo si sdegnavano dello
scialacquo, nè potevano tollerare di dar materia ai depredatori, chè i
soldati e gl'Italiani ugualmente rubavano. Poco stante successe, come
a Milano, un fatto enorme, che dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto
che si portava alle proprietà. Imperciocchè, poste violentemente
le mani nel monte di pietà, lo espilavano per far provvisione,
come affermavano, allo esercito. Solo restituirono i pegni che non
eccedevano la somma di lire ducento. Ma, temendo gli autori di tanto
scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da
tante schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si
togliessero l'armi ai cittadini.

I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto
prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni,
il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio,
finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli
ambasciadore di Bologna. Creato dà vincitori a Ferrara un municipio
d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione
di scudi romani in contanti e di trecento mila in generi. Queste
angherie sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara;
ma non le potè tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza
da Imola; perchè, concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro
i conquistatori, si sollevarono gridando guerra contro i Franzesi.
Concorsero nel medesimo moto coi Lughesi altre terre circonvicine, e
fecero una massa di popolo molto concitata e risoluta al combattere.
Augereau, come ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa
squadra di cavalli e di fanti. Comandava intanto pubblicamente avessero
i Lughesi a deporre l'armi e ad arrendersi fra tre ore, e chi nol
facesse fosse ucciso. Aveva in questo mezzo il barone Cappelletti,
ministro di Spagna, interposta sua mediazione; ma fu sdegnosamente
rifiutata da que' popoli più confidenti di quanto fosse il dovere in
armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi venire per
la ostinazione loro al cimento dell'armi, i Franzesi si avvicinavano
a Lugo partiti in due bande, delle quali una doveva far impeto dalla
parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La vanguardia, che
marciava con troppa sicurezza, diede in un'imboscata, in cui restarono
morti alcuni soldati. Nonostante, volendo il capitano franzese lasciar
l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a Lugo per
trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta; narra
anzi Buonaparte che i sollevati, fatto prima segno all'uffiziale che
si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione de' messaggi di
pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i Franzesi ed i
sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le parti con molto
valore. Finalmente i Lughesi, rotti e dispersi, furono tagliati a
pezzi, con morte d'un migliaio di loro, avendo anche perduto la vita in
questa fazione ducento Franzesi. Fu quindi Lugo dato al sacco; condotte
in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni cosa fu posta a
sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato. Furono terribili le pene date dai
repubblicani ai sollevati, ma non furono più moderate le minacce che
seguitarono. Comandava Augereau che tutti i comuni si disarmassero e le
armi a Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore
fosse ucciso; ogni città o villaggio dove restasse ucciso un Franzese
fosse arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Franzese fosse
ucciso, e la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso;
chi facesse adunanze di gente armata o disarmata fosse ucciso.

Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto ne' feudi imperiali prossimi
al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Franzesi.
Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il
rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale
Lannes con un buon nerbo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì
Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce e pel
terrore de' supplizii.

Le vittorie de' repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia,
l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo
spavento Roma. Ognuno vedeva che resistere era impossibile, e
l'accordare pareva contrario non solo allo Stato, ma ancora alla
religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si
poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni che
un vincitore acerbo per sè, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe
dal pontefice richiesto.

Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore de' suoi consiglieri e del
popolo serbava tuttavia la solita costanza, avea commesso al cavaliere
Azara ed al marchese Gnudi andassero a rappresentarsi a Buonaparte e
procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo
loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte,
in nome e per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo
ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà perchè non
gli era nascosto che l'imperadore, finchè teneva Mantova, non avrebbe
omesso di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi Stati in
Italia, e che però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo
verso l'Italia inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni,
a frenar l'impeto delle sue armi contro lo Stato pontificio. Laonde
concludeva il dì 23 giugno una tregua coi due plenipotenziarii del
papa, in cui fu stipulato che il generalissimo di Francia e i due
commissarii del direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio
che il governo franzese aveva verso sua maestà il re di Spagna,
concedevano a sua santità una tregua da durare infino a cinque giorni
dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in
Parigi fra i due Stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un
plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse, a
nome del pontefice, gli oltraggi e i danni fatti a' Franzesi negli
Stati della Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i
debiti compensi alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione
di opinioni politiche si liberassero; i porti del papa a tutti i
nemici della repubblica si chiudessero, ai Franzesi si aprissero;
l'esercito di Francia continuasse in possessione delle legazioni di
Bologna e Ferrara, sgombrasse quella di Faenza; la cittadella d'Ancona
con tutte le artiglierie, munizioni e vettovaglie si consegnasse
a' Franzesi; la città continuasse ad esser retta dal papa; desse il
papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi, statue, ad elezione
de' commissarii che sarebbero mandati a Roma; specialmente i busti
di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si dessero; oltre
a questo, cinquecento manoscritti, ad elezione pure de' commissarii
medesimi, cedessero in podestà della repubblica; pagasse il papa ventun
milioni di lire tornesi, de' quali quindici milioni e cinque cento
mila in oro od argento coniato o vergato, e cinque milioni e cinque
cento mila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno milioni
suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle tre
legazioni; il papa desse il passo ai Franzesi ogni qual volta che ne
fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero.

Questi furono gli articoli patenti del trattato di tregua concluso tra
Pio VI ed i capi dei repubblicani in Italia. Quantunque fossero molto
gravi, parve nondimeno un gran fatto che si fosse potuto distornar
da Roma un sì imminente pericolo: fecersi preci pubbliche per la
conservata città. Intanto non lieve difficoltà si incontrava per mandar
ad effetto il capitolo delle contribuzioni. Non potendo l'erario già
tanto consumato dalla guerra, sopperire, faceva il papa richiesta degli
ori e degli argenti sì delle chiese come dei particolari, e quanto si
potè raccorre a questo modo, e di più il denaro effettivo che infino
dai tempi di papa Sisto V si trovava depositato in Castel Santangelo,
fu dato per riscatto in mano dei vincitori. S'aggiunse che il re di
Napoli, vedendo avvicinarsi quel nembo a' suoi Stati, aveva ritirato
sette mila scudi di camera che erano depositati nel tesoro pontificio,
come rapresentanti il tributo della chinea, e che la camera apostolica
non aveva voluto incassare, perchè il re aveva indugiato a presentare
al tempo debito la chinea. Una così grossa raccolta di denaro coniato
produsse un pessimo effetto a pregiudizio della camera apostolica e
dei privati, il quale, fu che le cedole, che già molto scapitavano,
perdettero viemmaggiormente di riputazione. Così solamente ad un primo
romore di guerra e sul bel principio d'una speranza di pace, le cose
pubbliche tanto precipitarono in Roma, che già vi si provavano gli
estremi d'una guerra lunga e disastrosa.

La presenza dei Franzesi negli Stati pontificii aveva bensì atterrito
i sudditi, ma non gli aveva fatti posare, e si temevano ad ogni tratto
nuove turbazioni. Per la qual cosa il papa, esortato dal generale
repubblicano, e mosso anche dall'interesse dei popoli, raccomandava
con pubblico manifesto e comandava ai sudditi, trattassero con tutta
benignità i Franzesi, come richiedevano i precetti della religione, le
leggi delle nazioni, gl'interessi dei popoli e la volontà espressa del
sovrano.

Tutte queste cose faceva il pontefice in confermazione dello Stato.
Intanto o perchè la cessazione delle armi si convertisse in pace
definitiva, o perchè con una dimostrazione efficace di desiderar di
conchiuderla, si pensasse di aspettare con minori molestie occasione
di risorgere, si inviava dal pontefice a Parigi l'abate Pieracchi con
mandato di negoziare e di stipulare la pace.

Eransi udite con grandissima ansietà a Napoli le novelle delle vittorie
dei repubblicani sul Po e sull'Adda, ma alla ansietà succedeva il
terrore quando vi si intese la rotta totale dei Tedeschi e la loro
ritirata verso il Tirolo. L'impressione diveniva più grave quando i
soldati di Buonaparte, occupato Reggio e Modena, nè, nulla più ostando
che entrassero nell'indifesa Romagna, si vedeva il regno esposto
all'invasione. Laonde il re, volendo provvedere con estremi sforzi ad
estremi pericoli, perchè, o fosse solo o dovesse secondare le armi
imperiali, gli era necessità di usare tutte le forze, ordinava che
trenta mila soldati andassero ad alloggiar ai confini verso lo Stato
ecclesiastico; ma perchè si facesse spalla e retroguardo a tanta gente
con altre squadre d'uomini armati, comandava che si tenessero pronte
a marciare e di tutto punto si allestissero, ed in corpi regolati si
ordinassero tutte le persone abili alle armi, la qual massa avrebbe
aggiunto quaranta mila combattenti. Perchè poi si usassero coloro che
consentissero di buona voglia ad accorrere alla difesa del regno,
dava loro privilegii e speranza di ricompense onorevoli. Volendo
poi favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali le forze
temporali, scriveva ai vescovi ed ai potentati del regno lettere
circolari, con cui gli ammoniva e con parole patetiche gli esortava
dicendo, che la guerra, che già da tanto tempo desolava l'Europa, e
nella quale già tanto sangue e tante lagrime si erano sparse, era non
solamente guerra di Stato, ma di religione; che i nemici di Napoli
erano nemici del cristianesimo; e, così proseguendo, esortassero
adunque, conchiudeva, i popoli ad impugnar le armi contro un nemico
a cui niuna legge era sacra, niuna proprietà sicura, niuna vita
rispettata, niuna religione santa; contro un nemico che, dovunque
arrivava, saccheggiava, insultava, opprimeva, profanava i tempi,
atterrava gli altari, perseguitava i sacerdoti, calpestava quanto di
più sacro e più reverendo ha ne' suoi dogmi, ne' suoi precetti e ne'
suoi sacramenti divini lasciato alla Chiesa sua Cristo Salvatore.

Così parlava il re ai vescovi ed ai prelati del regno. Rivolgendosi
poscia ai sudditi, con espressioni molto instanti gli ammoniva,
dicendo, sarebbero vincitori di questa guerra se a loro stesse a cuore
difendere sè stessi, il re, i tempi, i ministri del Signore, le mogli,
i figliuoli, le sostanze. Dio è con voi, esclamava, Dio vi proteggerà
contro le armi barbare.

Ma perchè in tempi di tanta costernazione vieppiù per l'amore
della religione s'infiammassero i popoli alla difesa, in un giorno
prestabilito si conduceva il re, accompagnandolo una gran moltitudine
di popolo, alla basilica, dove, toccando gli altari e stando tutti tra
la riverenza e lo spavento, intentissimi ad ascoltarlo, con fervorose
parole orando, depose sulla sacra mensa le reali divise, come in
custodia del sommo Iddio.

Queste dimostrazioni producevano effetti incredibili in quel popolo.
Certamente, se le mani fossero state tanto pronte all'operare quanto
erano le menti ad immaginare, si sarebbero veduti da Napoli effetti
notabilissimi a salute di tutta Italia.

Partiva Ferdinando da Napoli, indirizzando il viaggio agli
alloggiamenti di Castel di Sangro, di San Germano, di Sora e di
Gaeta; fuvvi accolto con segni di grandissima allegrezza dai soldati.
Intanto il rumore delle occupate legazioni e le ultime strette in
cui era caduto il pontefice avevano indotto nei consiglieri del re la
credenza che l'accordare fosse più sicuro del combattere. Perlocchè
non aspettando pure che il papa patteggiasse in definitiva pace, nè
consentendo a trattar degli accordi coi repubblicani di concerto con
lui, mandavano al campo di Buonaparte il principe Belmonte Pignatelli,
affinchè negoziasse una sospensione di offese, proponendosi d'inviarlo
poscia a Parigi a concluder la pace col Direttorio. Buonaparte, fatte
sue considerazioni su Mantova che ancor si teneva, e sulla stagione
calda che oggimai si avvicinava, udiva con benigne orecchie le proposte
del principe. Il 5 di giugno si concluse tra il generale e lui un
trattato di tregua, con cui si stipulava che cessassero le ostilità
tra la repubblica ed il re delle Due Sicilie; le truppe Napolitane,
che si trovavano unite a quelle dell'imperatore, se ne separassero
e gissero alle stanze nei territorii di Brescia, Crema e Bergamo; si
sospendessero le offese anche per mare, ed i vascelli del re al più
presto dalle armate inglesi si segregassero; si desse libero passo ai
corrieri respettivi tanto per le terre proprie e conquistate dalla
repubblica quanto su quelle di Napoli. Fatto l'accordo, andarono i
Napolitani, lasciati gl'imperiali, alle destinate stanze. Così il papa
fu solo lasciato nel pericolo dal governo di Napoli, che pure testè
aveva mostrato tanto ardore per la difesa della religione, convenendo,
senza che prima la necessità ultima fosse addotta, con coloro che poco
innanzi aveva chiamati nemici degli uomini e di Dio.

In questo mezzo tempo si spogliavano dall'accorto vincitore di statue,
di quadri, di manoscritti preziosi, di oggetti appartenenti a storia
naturale Parma, Pavia, Milano, Bologna e Roma. A questo fine aveva
mandato il Direttorio in Italia per commissarii Tinette, Barthelemi,
Moitte, così Thouin, Monge e Berthollet, acciocchè procedessero alla
stima ed allo spoglio; dal quale ufficio, così poco onorevole per
la patria loro, non si sa come, benchè l'abbiano temperato con molta
moderazione, non rifugisse al tutto l'animo loro.

Si avvicinavano intanto i tempi dei rei disegni del Direttorio contro
l'innocente Toscana. Intendevasi, col comparire armati in questa
provincia, spaventare maggiormente il pontefice ed il re di Napoli.
Ma i principali fini loro in ciò consistevano che si cacciassero
gl'Inglesi da Livorno, vi si rapissero le sostanze dei neutri, vi si
ponessero il segno ed il modo di far muovere la vicina Corsica contro
gl'Inglesi che la possedevano; ingegnandosi poi d'onestare il fatto col
pretesto che gl'Inglesi tanto potessero in Livorno, che il granduca più
non avesse forza bastante per frenargli, e dovere la repubblica con le
sue forze andare a liberarlo da tale tirannide.

Per la qual cosa, come prima ebbe il generalissimo posto piede
in Bologna e confermatovi il suo dominio, metteva ad effetto la
risoluzione di correre contro la Toscana per andarsene ad occupare
Livorno. Era suo intento di fare la strada di Firenze per mettere
maggiore spavento nel papa; del che avendo avuto avviso il granduca,
mandava a Bologna il marchese Manfredini ed il principe Tommaso
Corsini, perchè facessero di dissuaderlo dall'impresa, od almeno
da lui questo impetrassero, che piuttosto per la via di Pisa e di
Pistoia che per quella di Firenze si conducesse. Negava il generale
repubblicano la prima richiesta, consentiva alla seconda. Perlochè
non indugiandosi punto, e con la solita celerità procedendo, perchè il
sorprendere improvvisamente Livorno era l'importanza del fatto, già era
arrivato con parte dell'esercito a Pistoia. Dal qual suo alloggiamento
manifestava, il 26 di giugno, le querele della repubblica contro il
granduca e la sua risoluzione di correre contro Livorno.

Rispondeva gravemente il principe, non soccorrergli alla mente
offesa alcuna contro la repubblica di Francia o contro i Franzesi:
l'amicizia sua essere stata sincera, maravigliarsi del partito preso
dal Direttorio; non opporrebbe la forza, ma sperare che, avute più
vere informazioni, sarebbe per rivocare questa sua risoluzione; avere
dato facoltà al governatore di Livorno per accordare le condizioni
dell'ingresso.

Marciavano intanto i Franzesi celeremente verso Livorno condotti dal
generale Murat, comparivano, passato l'Arno presso a Fucecchio, con una
banda di cavalli alla Port'a Pisa. Come prima gl'Inglesi ebbero avviso
del fatto, massimamente i più ricchi, lasciato con prestezza Livorno,
trasportavano sulle navi, che a cotal fine erano state trattenute nel
porto, tutte le proprietà loro: poi, quando i repubblicani arrivavano
sotto le mura di Livorno, una numerosa conserva di sessanta bastimenti
tra piccoli e grossi e sotto scorta di alcune fregate, salpava da
Livorno verso la Corsica indirizzandosi. Entravano col solito brio ed
aspetto militare i Franzesi. Poco dopo entrava Buonaparte medesimo,
contento all'avere scacciato da quel porto tanto opportuno gli odiati
Inglesi, e confidente che fra breve gli scaccerebbe eziandio dalla
Corsica, sua patria. Furonvi teatri, applausi, luminarie, non per
voglia, ma per ordine e per paura.

Incominciavano le opere incomportabili. Si staggivano le napolitane
sostanze, si confiscavano le inglesi, le austriache, le russe:
s'investigavano i livornesi conti per iscoprirle: si disarmavano i
popoli, si occupavano le fortezze, e, per far colme le insolenze, si
arrestava Spanocchi, governatore pel granduca. Si scuotevano al tempo
stesso fortemente i negozianti affinchè svelassero le proprietà dei
nemici, ed eglino, per lo men reo partito, offerirono cinque milioni
di riscatto. Le conquistate merci si vendevano con molte fraudi e
da coloro che stavano sopra alla vendita con grande discapito della
repubblica conquistatrice che vinceva i soldati altrui e non poteva
vincere i ladri propri.

Questi furono i rubamenti di Livorno; accidenti più gravi sovrastavano
al granduca. Era intenzione di Buonaparte, siccome scrisse al
Direttorio, di torgli lo Stato, a cagione ch'egli era principe di casa
austriaca; e perchè il tradimento avesse in sè tutte le parti di un
atto vituperoso, mandava pur al Direttorio, che conveniva starsene
quietamente nè dir parola che potesse dar sospetto della cosa sino
a che il momento fosse giunto di cacciar Ferdinando. Mentre in tal
modo si espilavano dai repubblicani le proprietà dei nemici loro in
Livorno, gl'Inglesi, signori del mare, serravano il porto ed impedivano
il libero commercio. Livorno fiorente e ricco, divenne in poco tempo
povero e servo.

Nè a questo si rimasero i repubblicani: perchè, usando l'opportunità,
invasero i ducati di Massa e Carrara ed occuparono tutta la Lunigiana,
chiamando i popoli a libertà e sforzandogli a grosse contribuzioni
di denaro. Erano questi paesi caduti per eredità dalla casa Cibo, che
li possedeva anticamente, nella figliuola del duca di Modena sposata
all'arciduca Ferdinando, governatore di Milano. Non si era dal conte di
San Romano, quando concluse la tregua per Modena, patteggiato per Massa
e Carrara; per questo il generale della repubblica li trattò da nemico.

Il terrore delle armi repubblicane aveva spaventato tutta Italia; ma,
parendo a chi le reggeva che ciò non bastasse a perfetto servaggio,
stavano attenti i ministri del Direttorio presso i diversi potentati
italiani nello spiare e nel rapportare il vero ed il falso a
Buonaparte, continuamente rappresentandogli i principi della penisola
non solamente come avversi alla Francia, ma ancora come macchinatori
indefessi di cose nuove contro i Franzesi; nel che avevano per
aiutatori, non che i pessimi fra gl'Italiani, anche personaggi di
nome, offuscati il lume della ragione dalla gloria guerriera del
generalissimo della repubblica.

Intanto agli occhi degli agenti di Francia le chimere diventavano
corpi, le visite congiure, i gemiti stimoli a ribellione, i desiderii
delitti, ed era l'Italiano ridotto a tale che se non amava il suo
male, era riputato nemico. Il papa, secondochè scrivevano questi
spaventati o spaventatori, Venezia, il re di Sardegna, il granduca di
Toscana, la repubblica di Genova, tutti conspiravano contro la Francia,
tutti s'intendevano coll'Austria, tutti prezzolavano gli assassini
per uccidere i Franzesi. Buonaparte, che non era uomo da lasciarsi
spaventare da questi rapporti, fatti o per adulazione o per paura,
era uomo da valersene come di pretesto per peggiorar le condizioni
dei principi vinti e per giustificare contro di loro i suoi disegni.
Gl'Italiani intanto, in preda a mali presenti e segno a calunnie
facili, perchè venivano da chi più poteva, non avevano più speranza.

Ma già le cose di Lombardia non mediocremente travagliavano, e la
condizione dei repubblicani in Italia diveniva di nuovo pericolosa.
Aveva l'imperatore ardente disposizione di ricuperare le belle e ricche
sue provincie, non potendo tollerare che fossero scorporate da' suoi
dominii. Aveva egli adunque applicato l'animo a voler ricuperare il
Milanese; nè indugiandosi punto affinchè l'imperio de' suoi nemici
non si solidasse, la rea stagione non sopravvenisse, Mantova non
cedesse, aveva voltato con grande celerità al Tirolo tutte le genti che
stanziavano nella Carintia e nella Stiria. I Tirolesi medesimi, gente
armigera e devota al nome austriaco, fatta una subita presa d'armi, si
ordinavano in reggimenti armati alla leggiera; nè questo bastando alla
difficile impresa, si ricorreva ad un più forte sussidio: conciossiachè
l'imperatore ordinava che trenta mila soldati, gente eletta e veterana
che militavano in Alemagna, se ne marciassero velocemente verso il
Tirolo per quivi congiungersi con le reliquie delle genti d'Italia e le
altre sopraddette; erano circa cinquanta mila. Perchè poi ad un'oste
tanto grossa e destinata a compire una sì alta impresa non mancasse
un capitano valoroso, pratico e di gran nome, mandava a governarla
il maresciallo Wurmser, guerriero di provato valore nelle guerre
germaniche. Stavano gli uomini in grande aspettazione di quello che
fosse per avvenire, essendo vicini a cimentarsi due capitani di guerra,
dei quali uno era forte, astuto ed attivo, l'altro forte, astuto
e prudente. Nè gli eserciti rispettivi discordavano; perchè nè la
costanza tedesca era scemata per le sconfitte, nè il coraggio franzese
aveva fatto variazione pel tempo. Oltre a questo se erano ingrossati
gl'imperiali, anche i repubblicani avevano avuto rinforzi notabili
dall'Alpi.

Era il maresciallo Wurmser giunto, sul finire di luglio, in Tirolo, e
tosto dava opera al compire l'impresa alla virtù sua stata commessa,
scendendo in Italia per la strada più agevole che da Bolzano per Trento
e Roveredo porta a Verona; ma il principal suo fine era di liberar
Mantova dall'assedio, donde, fatto un capo grosso, potesse o starsene
aspettando o correre subitamente contro il Milanese. E sapendo che
i Franzesi erano segregati in diversi corpi, gli uni separati dagli
altri per molto spazio, per modo che in breve tempo non avrebbero
potuto rannodarsi, si deliberava a spartire i suoi in tre schiere: la
prima sotto guida del generale Quosnadowich, doveva assaltare Riva
e Salò, dove stava a guardia il generale Sauret coi generali Rusca
e Guyeux, ma che però non aveva forze sufficienti per resistere. La
mezza schiera o la battaglia, condotta dal maresciallo, s'incamminava
alla volta di Montebaldo per potere, scendendo vieppiù, assaltare
il nervo dei repubblicani tra Peschiera e Mantova. La sinistra,
confidata al generale Davidowich, scendeva per Ala e Peri a Dolcè,
dove, fatto un ponte, varcava l'Adige con intento di concorrere più da
vicino all'opera della schiera Wurmseriana. Ma una parte di quest'ala
sinistra, guidata dal generale Mezaros, continuando a scendere
per la sinistra sponda del fiume, s'indrizzava verso Verona, donde
potea, secondo le occorrenze, o condursi per Villafranca a Mantova
o, non discostandosi dall'Adige, marciare a Portolegnago. Di tutte
le parti dell'esercito franzese, quella di Massena, che aveva i suoi
alloggiamenti a Verona, a Castelnuovo e luoghi adiacenti, si trovava
in maggior pericolo, perchè là appunto si dovevano accozzare tutte le
forze austriache sulla sinistra del lago.

Era giunto al suo fine il mese di luglio, quando in tale modo ordinati
marciavano gl'imperiali all'impresa loro. Già erano vicini alle
prime scolte dei Franzesi, che questi, dispersi tuttavia nei diversi
campi loro, principalmente in quello che cingeva Mantova, non avevano
ancora fatto moto alcuno per mettersi all'ordine di resistere a quella
nuova innondazione del nemico. Ma per verità Buonaparte poco poscia
con mirabile maestria si riscosse dal pericolo in cui si trovava.
Assaltavano gli Austriaci ferocemente l'antiguardo di Massena,
governato dal generoso e buon Joubert, che era ai passi di Brentino
e della Corona. Fu fortissima e lunga la difesa contro un nemico, che
molto superava di numero. Finalmente furono quei forti passi sforzati
dagli Austriaci, che, ritirandosi Joubert e Massena verso Castelnuovo,
marciavano contro la Chiusa e Verona. Da un'altra parte Quosnadowich,
urtato Sauret, che custodiva Salò, l'aveva vinto non però senza una
valorosa resistenza, quantunque i Franzesi in questo luogo fossero
deboli e non pari a tanto peso. S'impadronivano gli Austriaci di Salò
dopo la fazione, e quivi risplendeva chiaramente la virtù di Guyeux,
il quale, circondato da ogni banda dal nemico, elesse, piuttosto
che arrendersi, di gittarsi dentro una casa, dove, sebbene già gli
mancassero le munizioni sì da guerra che da bocca, si difendè con
incredibile fortezza due giorni. Occupato Salò, correvano i Tedeschi
a Brescia, e se ne impadronivano. I vinti si ritiravano a Lonato e
a Desenzano. Avanzavasi intanto minacciosamente Wurmser medesimo e
già si avvicinava alle cercate rive del Mincio. Così avevano le cose
franzesi fatto una grandissima variazione, ed erano cadute in grave
pericolo prima che Buonaparte avesse mosso un soldato per opporsi a
tanta ruina. Gli giunsero al tempo medesimo le novelle della rotta di
Sauret e della ritirata di Massena. Ordinava incontanente ad Augereau,
che già marciava verso Verona per frenar l'impeto, se ancor fosse in
tempo, di Mezaros, tornasse indietro prestamente, venisse a Roverbella,
rompesse i ponti di Portolegnago, ardesse i carrelli dei cannoni più
grossi, trasportasse dai magazzini quanto in sì subito tumulto potesse.
Arrivava Augereau a Roverbella; scoverse in tutti una grande confusione
mista ad un gran terrore. Vi giungeva ancora Buonaparte al quale
Augereau rivoltosi, con parole animosissime il confortava; ed egli con
un'arte e con un vigore non comune ordinava quanto alla difficoltà
del tempo si convenisse. Avvisandosi che non poteva combattere con
vantaggio se non unito, e che anche unito non era abbastanza forte
per cimentarsi con l'esercito tedesco intero, se gli desse tempo di
rannodarsi, come evidentemente Wurmser aveva in pensiero di fare, si
risolveva a raccorre le sue genti in uno, per correre così grosso
contro una parte sola del nemico, innanzi che questa avesse potuto
congiungersi con le compagne, perchè la speranza, che non aveva di
vincerle unite, l'aveva di vincerle separate.

Nè poteva stare lungamente in dubbio, quale delle due parti de'
Tedeschi, della mezzana o della destra, ei dovesse assaltare; e fatte,
le sue considerazioni, si risolveva Buonaparte a far impeto contro
di Quosnadowich, che, vincitore di Salò e di Brescia, turbava ogni
cosa a Desenzano, a Lonato, a Ponte-San-Marco, a Montechiaro, e già
si accostava per congiungersi con Wurmser; il che se gli fosse venuto
fatto, sarebbe stato la ruina de' repubblicani. Perlochè chiamava a sè
tutte le sue genti, anche quelle che stavano a campo sotto Mantova,
anteponendo con mirabile consiglio il perdere le artiglierie che
servivano all'oppugnazione della piazza al perdere l'esercito. Ordinate
ed eseguite in men che non si potrebbe credere tutte queste mosse,
mandava a corsa considerabili rinforzi a Sauret, perchè ricuperasse
Salò e liberasse Guyeux, che tuttavia si difendeva valorosamente.
Comandava a Dallemagne assaltasse il nemico a Lonato e cacciasselo;
imponeva ad Augereau lo rompesse a Ponte-San-Marco ed a Brescia, e,
verso Salò voltandosi, ajutasse Sauret, e facesse opera di tagliare il
ritorno a Quosnadowich. Faceva anche attaccare con una grossa banda
un corpo forte di Austriaci che custodiva Desenzano a riva il lago.
Ebbero tutti questi assalti, ancorchè fossero molto sanguinosi, quel
fine che Buonaparte si era proposto: entrarono vincitori Sauret in
Salò, Dallemagne in Lonato ed in Desenzano, Augereau in Montechiaro
ed in Brescia. Quosnadowich, veduto che era alle mani con la maggior
parte degli avversari, che non aveva nuove che Wurmser accorresse in
suo aiuto e che temeva che il nemico, correndo a Riva, gli tagliasse il
ritorno verso il Tirolo, si ritirava con passi frettolosi a Gavardo.
Per tal modo Buonaparte coi suoi movimenti celeri ed ottimamente
ordinati, sbaragliava in poco tempo un'ala intiera di Wurmser, che gli
aveva già fatto molto male ed avrebbe potuto fargliene un maggiore,
se si fosse allargata, come aveva intenzione, nelle pianure verso il
Milanese. Intanto, per assicurare i luoghi abbandonati da Augereau, vi
surrogava Massena con tutto il suo corpo di truppe.

Mentre tutte queste cose si preparavano e si facevano sulla destra
loro, gli Austriaci s'impossessavano di Verona, Wurmser entrava con un
grosso corpo ed in sembianza di vincitore in Mantova. Il presidio a
gran festa guastava le trincee fatte da' Franzesi e tirava dentro le
mura meglio di centoquaranta pezzi di grosse artiglierie, che dalla
cittadella di Ancona, dal forte Urbano, dal castello di Ferrara vi
avevano condotto per battere la piazza. Wurmser, avuta questa vittoria,
sapendo i primi prosperi successi di Quosnadowich ed ignorando i
sinistri, dava opera securamente a raccorre vettovaglie e bestiami per
provvedere del fodero necessario quella importante fortezza. Ma gli fu
breve la sicurezza; conciossiachè gli sopravvennero bentosto le novelle
de' disastri accaduti a Quasnodowich. Considerato adunque che quello
non era tempo da starsene, usciva da Mantova e se ne giva alle stanze
di Goito, correndo la campagna co' suoi corridori fino a Castiglione.
Era stato preposto alla guardia di questa terra da Buonaparte il
generale Valette, che, veduto comparire il nemico, sbigottitosi con
pochezza d'animo inescusabile, abbandonava il posto ed andava con la
sua guardia fuggiasca a seminar paura fra i repubblicani, che erano in
possesso di Montechiaro. Questo accidente improvviso fece cader l'animo
a Buonaparte, che quasi volea ritirarsi sul Po; ma appresentatosi
ad una mostra di soldati, quando questi videro il capitano loro,
con atti di vivezza, di giubilo e d'estro franzese, con lietissime
grida il confortavano a star di buon animo, a fidarsi in loro: li
conducesse pure alla battaglia; ed esclamando: Viva Buonaparte, viva la
repubblica, facevano eccheggiare i colli di Castiglione di quel rumore
festivo. _Or bene sia_, disse Buonaparte, _accetto il felice augurio;
domani vedrete in viso il nemico._

In questo mezzo Quosnadowich, conoscendo di quanta importanza fosse il
fare ogni sforzo per congiungersi con Wurmser ad un impeto comune, od
almeno di consuonarvi per una diversione, usciva di nuovo in campagna,
e, prostrato Sauret, che gli stava a fronte, e fattosi signore di Salò,
velocemente scendeva con forze poderose verso Lonato; ed essendosi
già il suo antiguardo, condotto dal generale Ocksay, impossessato di
questo luogo, le cose divenivano pericolosissime pei repubblicani. In
questo forte punto Massena arrivava col suo antiguardo vicino a Lonato,
e volendo ricuperare quel sito, in cui consisteva la somma della
fortuna, perchè se gli Alemanni vi si mantenevano, si difficoltava
molto l'impedire la unione di Quosnadowich con Wurmser, mandava il
generale Pigeon, ma non con gente a sufficienza, ad assaltare Ocksay.
Fu durissimo l'incontro: Pigeon non solamente rotto e vinto, ma
perdè tre pezzi di artiglierie leggeri, e venne prigioniero in mano
degli Austriaci. Udito il caso, accorrevano Massena e Buonaparte
per rimediare alla fortuna vacillante. Ordinava il generalissimo un
grosso squadrone assai fitto e mandava a serrarsi addosso al centro
del nemico, il quale insuperbito per la prima vittoria e credendo non
solo di vincere, ma ancora di prendere tutto il corpo repubblicano,
distendeva le sue ali con pensiero di cingere i soldati di Buonaparte.
Questa mossa, debilitando il mezzo della fronte, diè del tutto la
vittoria ai Franzesi; imperciocchè mentre Massena raffrenava l'impeto
dell'ali estreme degli imperiali con mandar loro incontro quanti
feritori alla leggera potè raccorre, Buonaparte con quel fitto
squadrone dava dentro alla mezza schiera. Faceva ella una viril
difesa non senza grave uccisione de' repubblicani; ma finalmente,
non potendo più reggere a sì impetuoso assalto, sbaragliata cedeva
il campo, ritirandosi verso il lago, principalmente a Desenzano. Fu
liberato Pigeon; si riacquistarono le perdute artiglierie. I Franzesi
seguitavano gli Austriaci a Desenzano, e gli avrebbero condotti
all'ultimo fine, se non era che, sopravvenendo con aiuti mandati da
Quosnadowich il principe di Reuss, li metteva in salvo col condurgli a
luoghi sicuri verso Salò.

Mentre queste fazioni succedevano sulla sinistra dei Franzesi,
Augereau, che non voleva che Castiglione fosse perduto, perchè quel
sito era il principal impedimento alla unione delle diverse parti
dell'esercito tedesco, indirizzava le sue genti al riacquistarlo; ma
già i Tedeschi l'avevano munito con un forte presidio, conoscendo
l'importanza della terra, con farvi alloggiare una grossa banda di
soldati ch'era l'antiguardo di Wurmser governato dal general Liptay.
Il castello, i colli vicini ed il ponte erano guerniti di molti e buoni
soldati tanto più confidenti in sè medesimi, quanto Wurmser, spuntando
da Guidizzolo si avvicinava con tutte le sue genti. Ordinava Augereau
per modo i suoi, che il generale Beyrand assalisse il corno sinistro
degli Austriaci, e per assicurare vieppiù questa parte, comandava al
generale Robert facesse un'imboscata per riuscire alle spalle degli
Alemanni. Verdier con un grosso nervo di granatieri era per assaltare
nel mezzo il castello di Castiglione, e nella parte superiore il
generale Pelletier si apparecchiava ad urtare la destra del nemico. Ma,
per provvedere meglio ad ogni caso fortuito, ordinava Buonaparte che
la schiera di ultima salute, condotta dal generale Kilmaine, andasse ad
unirsi ad Augereau, perchè fosse più fortemente sostenuta la battaglia.
Si incominciava a menar le mani molto virilmente da ambe le parti, era
il dì 3 di agosto. Dopo un'ostinata difesa, Liptay, non potendo più
reggere, si ritirava; ma qualunque fosse la cagione, ripreso animo,
ritornava alla battaglia più animoso di prima. Già, con incredibile
valore combattendo, rendeva dubbia la vittoria, quando Robert uscendo
fuori dall'imboscata, a gran furia l'assaliva. Questo urto improvviso
disordinò tanto gli Alemanni, che si ritiravano, lasciando la terra
di Castiglione in potestà dei Franzesi. Ebbe in questo punto Liptay
qualche rinforzo delle prime truppe di Wurmser che arrivavano. Per la
qual cosa si fece forte al ponte e continuava tempestare con singolar
costanza. Il contrasto diveniva più sanguinoso di prima, si combatteva
fortemente su tutta la fronte. Finalmente i Franzesi, spintisi avanti
con la solita concitazione, e non essendo ritardati nè dagli urti
che ricevevano sul ponte, nè dalla fama che già tutta l'oste tedesca
fosse arrivata, conquistarono il ponte: il che sforzò gl'imperiali
a ritirarsi. Ma già i Franzesi, seguitando il favor della fortuna,
rompevano, tant'era la pressa che quivi facevano Beyrand e Robert,
l'ala sinistra degli Austriaci, e l'avrebbero anche conculcata del
tutto se una batteria posta opportunamente sopra di un poggio vicino
non avesse raffrenato l'impeto loro. Ciò fu cagione che tenendo ancora
gli Austriaci la posizione loro dietro Castiglione, impedirono ai
Franzesi d'inoltrarsi nella pianura che separava l'ala destra dalla
sinistra degl'imperiali, e si crearono abilità di sostenere nel
medesimo luogo, due giorni dopo, un'altra ostinata battaglia.

Nondimeno le sorti d'Italia stavano ancora in pendente. Wurmser aveva
raccolto tutte le sue genti e si apparecchiava ad ingaggiare una
nuova battaglia. Aveva venticinque mila soldati di pruovato valore;
gli schierava per forma che la sinistra si appoggiasse all'eminenza
di Medolano, la destra si distendesse fino a Solfarino. Buonaparte
ancor egli aveva fatto opera che tutti i suoi venissero a congiungersi
insieme per sostenere un cimento tanto pericoloso. Già la più gran
parte era raccolta fra la terra di Castiglione e la fronte dei
Tedeschi, e per tal modo l'ordinava che l'ala sinistra guidata da
Massena potesse assaltare la destra del nemico, Augereau con la mezzana
desse dentro al mezzo, e finalmente Verdier con le fanterie e Beaumont
coi cavalli urtassero la sinistra. Aveva poi comandato alle schiere
di Serrurier, che era sotto la cura di Fiorella e stava alle stanze
sulle rive del Po a Bozzolo e Marcaria, camminasse celeremente verso
Castiglione e ferisse di fianco la punta sinistra degl'imperiali;
consiglio molto a proposito. Nè parendo per la sagacità sua a
Buonaparte che questi preparamenti bastassero, s'indirizzava a Lonato
per vedere se fosse possibile di far venire altre genti da quella terra
al tempo principale.

Quivi successe un caso molto mirabile, secondochè narrò Buonaparte e
ripeterono tutti gli storici di quei tempi e dei tempi posteriori, e
questi fu, che il generale di Francia, andando a Lonato con persuasione
di trovarvi i suoi, ed avendo con esso lui solamente una squadra
di dodici centinaia di soldati, vi trovasse invece un corpo tedesco
grosso di quattro mila combattenti tra fanti e cavalli con non pochi
pezzi di artiglieria. Era Buonaparte in gravissimo pericolo, e già il
comandante alemanno gl'intimava si arrendesse. Ma egli, accorgendosi
che in accidente tanto improvviso, dove non valeva la forza, l'audacia
doveva supplire, al Tedesco con sicuro volto rivoltosi, gli disse,
maravigliarsi bene ch'ei tanto presumesse di sè medesimo, che si
ardisse di chiamar a resa Buonaparte vittorioso nel suo principal
campo stesso e cinto da tutto il suo esercito: andasse e da parte
sua al suo generale recasse, che se subito non si arrendesse ed in
poter suo disarmato non si desse, pagherebbe con la morte il fio di
tanta temerità. Erasi, come narrano gli storici, accorto Buonaparte,
raccogliendo nella sua mente tutti i fatti di quei giorni, che quella
squadra fosse la gente fuggiasca di Desenzano, che avendo trovato i
passi di Salò chiusi da Guyeux, o andasse errando a caso o si sforzasse
di raggiungere il corpo principale di Wurmser. Vogliono che i Tedeschi
intimoriti, deposte le armi, si arrendessero a discrezione.

Comunque fosse di questo fatto, che il Botta contro tanti storici
degni di fede si sforza di mettere in dubbio; tutte queste fazioni,
quantunque di gran momento non avevano ancora intieramente giudicato
la fortuna delle armi fra i due potenti emoli, e restava ancora a
determinarsi in una battaglia campale se le speranze dall'imperatore
d'Alemagna poste nella virtù di Wurmser e tutto quello sforzo per la
ricuperazione d'Italia, avessero a riuscire o fruttuosi o vani. Erasi,
come abbiam narrato, il maresciallo austriaco accampato tra Medolano
e Castel Venzago a fronte di Castiglione, tra la qual terra e le sue
genti se ne stavano schierati i Franzesi. Erano i soldati delle due
parti stanchi dai lunghi viaggi e dalle frequenti battaglie, e però,
sebbene a fronte gli uni agli altri si trovassero, il giorno 4 agosto,
nissun motivo fecero per affrontarsi. Piaceva l'indugio a Buonaparte,
perchè attendeva alcune genti fresche e perchè principalmente sperava
che Fiorella, in cui era posta la più forte speranza della vittoria,
arrivasse in luogo donde potesse partecipare al combattimento. La
mattina del giorno seguente, appena aggiornava, essendo giunto il tempo
che Buonaparte si era prefisso come conveniente alla sua impresa, e
non movendosi gli imperiali, disposti piuttosto ad aspettare che a dar
la carica, comandava ad Augereau ed a Massena, che assaltassero il
nemico; ma essendo suo intento che solo s'ingaggiasse la battaglia,
ma non si tentasse per ancora di sforzare l'inimico, ordinava loro
che, dato il primo urto, e tosto che gli Austriaci uscissero dal campo
per seguitarli, si ritirassero. La cosa successe come il capitano
franzese l'aveva ordinata; perchè, non sì tosto si era incominciato a
menar le mani, gli Alemanni, che si sentivano forti, saltando fuori
degli alloggiamenti, urtavano gagliardamente i Franzesi, che fatto
un po' di resistenza, si tiravano indietro. Dalla qual mossa, molto
a proposito fatta, prendendo animo Wurmser, andava distendendo l'ala
sua destra verso Castel Venzago con intenzione di circuire la sinistra
dei Franzesi retta da Massena e di dar la mano a Quosnadowich, di cui
non sapeva la rotta. Quest'era appunto il desiderio di Buonaparte;
la fortezza di Peschiera, ch'era in suo potere, l'assicurava sul suo
fianco sinistro, e Fiorella stava in procinto di arrivare sul campo
di battaglia contro la punta sinistra dei Tedeschi. Or mentre Massena
ed Augereau sostenevano l'urto degli Austriaci a stanca ed in mezzo,
mandava Buonaparte Verdier ad assaltare le trincee erette sul colle di
Medolano. Ma perchè questo assalto riuscisse meno sanguinoso nel fatto
e più felice nel fine, ordinava che il colonnello Marmont, soldato
molto pratico a governar le artiglierie, posti venti pezzi grossi
nella pianura di Medole, fulminasse quel ridotto nemico. Rispondevano
furiosamente dal colle di Medolano le artiglierie austriache e ne
seguitava un sanguinoso combattimento. In mezzo a tanto rimbombo si
faceva avanti con singolar valore Verdier, a cui era compagno Beaumont.
Perveniva Verdier al ridotto, e dopo un'asprissima contesa e molto
sangue se ne impadroniva. Al tempo medesimo Beaumont, precipitandosi a
corsa verso il villaggio di San Canziano dietro la estremità sinistra
degl'imperiali, che già vacillava trovandosi spogliata di quel
principale fondamento del ridotto, accresceva terrore ai fuggiaschi e
lo dava ai contrastanti. Nè questo bastando a dare l'ultima stretta,
arrivava, tanto bene aveva Buonaparte disposte le cose, in questo punto
stesso Fiorella coi soldati di Serrurier, che dando dentro incontanente
ai nemici, che non se l'aspettavano, gli sforzava a rotta manifesta.

Wurmser, per ristorare la battaglia, vi mandava in fretta la cavalleria
che urtando Beaumont e Fiorella, frenava per qualche tempo l'impeto
loro. Ma Buonaparte, veduto che era giunto il momento di vincere, fè
caricare con tutto lo sforzo di Massena e di Augereau l'ala destra e
la mezzana dei Tedeschi. Spediva altresì in fretta alcuni rinforzi a
Fiorella, il quale anche acquistava nuove forze per l'accostamento
successivo delle sue genti. Diventava allora la battaglia generale
su tutta la fronte. Fuvvi che fare assai pegli Austriaci alla torre
di Solfarino, che virilmente assalita, fu anche virilmente difesa.
Prevalse infine del tutto la fortuna repubblicana, perchè Massena
pressava con vantaggio dal canto suo il nemico, Augereau lo vinceva
a Solfarino, Verdier, Marmont, Beaumont e Fiorella lo perseguitavano
rotto e disordinato a Cavriana. Così tutto l'esercito alemanno, parte
rotto, parte intiero si ritirava al Mincio; il quale fiume, prestamente
varcato a Veleggio, e la stanchezza dei perseguitatori li preservarono
da maggior danno.

Questa vittoria di Castiglione poneva di nuovo l'Italia in mano di
Buonaparte; perchè Wurmser, quantunque non fosse scoraggiato dalla
fortuna contraria, ridotto a poche genti, non poteva più contendere col
fortunato suo emolo dell'imperio di questa contrada, destinata ormai ad
essere preda dei combattenti o serva dei vincitori.

Buonaparte, conseguita con tant'arte e con tanta fortuna sì gloriosa
vittoria, si risolveva a perseguitar celeramente le reliquie del
suo avversario, sì perchè non voleva dargli tempo di rifarsi, e sì
perchè in aura sì favorevole gli tornavano in mente i vasti pensieri,
già molto tempo da lui spiegati al Direttorio, di voler andar ad
assaltare, valicando i monti del Tirolo, il cuore della Germania, per
conculcarvi del tutto, congiunto che fosse con Moreau e Jourdan che
guerreggiavano sul Reno, la potenza avversaria. Le fresche vittorie,
ed il terrore per esse concetto dai popoli e dai soldati nemici, era
occasione favorevole a così gran disegno. Perlochè si accingeva a voler
tosto passare il Mincio, per veder quello che preparasse la fortuna
sulla sinistra sponda contro il capitano dell'Austria. A questo fine
faceva trarre furiosamente da Augereau con le artiglierie contro
Valeggio per dare in questo luogo riguardo al nemico, mentre Massena
sbaragliava, secondandolo Victor virilmente, Liptay, che fu costretto
a ritirarsi a Rivoli. Wurmser, veduto da questo fatto che non era più
tempo d'aspettare a ritirarsi in Tirolo, rinfrescata di nuove genti
Mantova, si metteva in viaggio per salire per la valle dell'Adige. Il
seguitavano Massena, Augereau e Fiorella. Si appresentava quest'ultimo
alle porte di Verona con animo di entrarvi per perseguitare gli
Austriaci. Chiedeva Fiorella le si aprissero. Il provveditore veneto
che temeva che se due nemici, tanto sdegnati l'uno contro l'altro
e nel bollor del sangue dei fatti recenti, si azzuffassero dentro
le mura, ne sarebbe sorto qualche grande sterminio, rispondeva, che
le aprirebbe, passate due ore. L'intento suo era di dar tempo agli
Austriaci di sgombrare, acciocchè Verona non diventasse campo di
battaglia. Buonaparte sopraggiunto fulminava le porte coi cannoni ed
entrava vincitore. Successero alcune sparse zuffe coi Tedeschi, non
senza terrore dei Veronesi. Ma i repubblicani, mostrando moderazione,
eccettuate alcune ingiurie fatte nell'oscurità della notte,
conservarono la terra intatta.

Entrato per tal modo in Verona il generalissimo di Francia, ed animati
di nuovo i suoi con un manifesto, li conduceva alle fazioni del
Tirolo. Salendo egli contro Wurmser, Sauret contro Quosnadowich e il
principe Reuss, dovevano entrambi raccozzarsi in su quel di Roveredo
per andarsene poscia ad occupar Trento, metropoli del Tirolo italiano.
Furono da Sauret cacciati gli Austriaci da tutti i posti sul lago;
dal canto suo Buonaparte, superati, mentre Vaubrissi alloggiava in
Torbole, tutti i siti forti, compariva in mostra vittoriosa in cospetto
di Roveredo. I Tedeschi, già rotti a Mori, e spaventati da un furioso
assalto di Rampon in Roveredo, abbandonarono frettolosamente la terra
con andare a posarsi nel sito fortissimo che chiamano il Castello
della Pietra o di Caliano. Speravano, se non di arrestare l'impeto
del nemico in questo luogo, almeno di starvi forti tanto che potessero
ogni cosa mettere in sicuro alle spalle. Ma quei presti repubblicani
ebbero assai presto superati tutti gli ostacoli che e la natura del
sito e l'arte del nemico aveva loro opposto. Imperciocchè il generale
Dammartin, allogate con incredibile fatica alcune artiglierie in un
luogo creduto per lo innanzi inaccessibile, donde feriva di fianco, ed
i feritori alla leggiera, destrissimi ed animosissimi, arrampicatisi
per luoghi dirupati e precipitosi, togliendo sicurezza a quel forte
passo, tempestavano contro i difensori molto furiosamente. Vedutosi
da Buonaparte il successo di queste cose, comandava a tre battaglioni
di disperato valore, dessero dentro a precipizio senza trarre alla
forra che conduce al castello, e questo assaltassero. Nè fu meno pronta
l'esecuzione di quanto fosse risoluto il comandamento; perchè, messisi
i battaglioni a quello sbaraglio, in meno tempo che uomo concitato a
presti passi farebbe, passarono la forra, menando grande strage degli
Alemanni, che cedendo allo audacissimo nemico si ritirarono a gran
fretta in Trento. Nè credendosi sicuri, ritiraronsi più oltre sulla
destra del Lavisio su la strada per a Bolzano. Tale fu l'esito della
battaglia di Roveredo, combattuta il dì 4 settembre. Vi perdettero gli
Austriaci con venticinque cannoni, tre in quattro mila soldati morti,
feriti o prigionieri. Dei Franzesi pochi mancarono per la speditezza
del fatto.

Perduto il forte sito di Calliano, restava Trento senza difesa. Infatti
il 5 settembre entravano i Franzesi vittoriosi, prima Massena, poi
Vaubois, di fresco venuto dalla Toscana al campo. Divenuto Buonaparte
signore di Trento, veniva tosto in sulle lusinghevoli parole,
dichiarando volere che la città e principato di Trento fossero per
sempre liberati dalla superiorità tedesca e posti in libertà. Del
rimanente poco importava al generale della repubblica lo stato de'
popoli trentini; bensì gli premeva di sollevare con dolci discorsi i
popoli della vicina Germania, affinchè tumultuando contro i principi
loro, gli rendessero facile l'impresa di congiungersi coi soldati di
Ferino mandati avanti da Moreau con questo intento.

Gli rompeva questi disegni l'antico Wurmser, il quale, invece di
difendere per que' luoghi alpestri del Tirolo con le reliquie de'
suoi i passi della Germania, deliberassi, con animoso e ben ponderato
consiglio, di voltarsi di nuovo all'Italia, sperando che per la sua
presenza inopinata in queste provincie, aggiuntovi qualche rinforzo
che testè gli era giunto dal Norico, avrebbe potuto farvi qualche
variazione, od almeno ritirarsi al sicuro nido di Mantova. Qualunque
avesse ad essere, o prospero od avverso l'esito di questa fazione,
bene era certo l'effetto di tirare nuovamente Buonaparte in Italia e
di stornare per questo mezzo quella terribile tempesta dalla nativa
Germania. Adunque il maresciallo, già fin quando si combatteva a
Roveredo ed a Calliano, s'incamminava, scendendo a gran passi, per
la valle Brentana, intento suo essendo di congiungersi a Bassano con
gli aiuti che, venuti dal Norico, si erano ridotti ad aspettarlo in
quella città. Si era persuaso che il suo avversario, udita la strada
presa da lui, non solamente deporrebbe il pensiero di assaltar la
Germania, ma ancora scenderebbe a gran passi a seconda dell'Adige per
andar a far argine a quel nuovo impeto nelle vicinanze di Verona.
Effettivamente Buonaparte, abbandonata l'impresa di Germania, si
rivoltava verso l'Italia, ma bene non prese la via dell'Adige,
anzi sprolungata per la valle medesima della Brenta la destra de'
suoi, seguitava frettolosamente le genti Alemanne. Erano guidatori
principali di questi soldati, secondo il solito, que' due folgori
di guerra Massena ed Augereau. Marciarono tanto speditamente che
giunsero gl'imperiali a Primolano e li vinsero con presa di molti
soldati. Si combattè poscia a Cismone, si combattè a Selagno, e
sempre felicemente pe' Franzesi. Già quel nembo era vicino a scoccare
contro Bassano dov'era il corpo principale di Wurmser. L'assaltarono
correndo Augereau a sinistra, Massena a destra, e tosto il ruppero, con
grande ammirazione e sconforto di Wurmser, che si era confidato nella
fortezza di quel passo posto alla sboccatura della valle della Brenta.
Ora nissun altro partito restava al maresciallo d'Austria, poichè sì
presti l'avevano sopraggiunto i Franzesi, se non quello di ritirarsi
per far pruova di guadagnare le sicure muraglie di Mantova. Adunque,
velocemente marciando e velocemente ancora seguitato da' repubblicani,
passava l'Adige a Porto Legnago, batteva Massena a Cerea, Buonaparte
a Sanguineto, entrava coi soldati tutti sanguinosi, ma con aver fatto
sanguinosa la vittoria anche al nemico, dentro i ripari della forte
Mantova.

Questo fu il fine dell'impresa di Wurmser in Italia e del poderoso
esercito che vi condusse. Ne fu afflitta la Germania, ne fu lieta
la Francia, e pendè di nuovo incerta l'Italia del destino che la
aspettasse; perchè nè Mantova era piazza che si potesse facilmente
espugnare, nè l'imperador d'Alemagna era tale che non fosse per fare
un nuovo sforzo per riconquistare le rive tanto infelicemente feconde
dell'Adda, del Ticino e del Po.

Siede Mantova, città antica e nobile, in mezzo ad un lago che il fiume
Mincio forma, ed in tre parti si divide, separate una dall'altra da due
ponti. Ma non tutta la città è circondata da acque libere e correnti;
conciossiachè il Mincio, a stanca verso la cittadella precipitandosi,
lascia i terreni a dritta o del tutto scoperti o di poche acque velati,
ma limacciosi tutti ed ingombri di erbe e di canne palustri. Questa è
la palude che si dilata e circuisce in gran parte le mura. Oltre poi
le acque e la palude, le principali difese di Mantova consistono nella
cittadella, nel forte San Giorgio, ne' bastioni di porta Pradella e di
porta Ceresa, ed in altri propugnacoli, che da luogo a luogo sorgono
tutti all'intorno nel recinto delle mura, e finalmente nelle trincee
del Te del Migliaretto.

Tutte queste difese fanno la fortezza di Mantova, ma più ancora l'aria
pestilente, che, massimamente a' tempi caldi, rende quei luoghi infami
per le febbri e per le molte morti, e fa le stanze pericolosissime,
principalmente ai forastieri non assuefatti alla natura di quel cielo.
Non è però che nel complesso delle dette fortificazioni non vi sia una
parte di debolezza, perchè nè la cittadella nè il forte San Giorgio
sono tali che possano resistere lungo tempo ad una valida e regolata
oppugnazione; ed a porta Pradella, non meno che nelle mura a mano manca
di porta Ceresa sono altri tratti difettosi. Sapevanselo i Franzesi
quanto a questo ultimo tratto, che prima dell'arrivo di Wurmser
avevano assaltato questa parte, e già tanto si erano condotti avanti,
che, aperta la breccia, stavano in punto di entrarvi. A tutto questo
pensando Buonaparte, era venuto nell'opinione, che in venti giorni di
trincea aperta si potesse prender Mantova; ed era pur solito a dire,
ed ei se n'intendeva, che con sette mila soldati, stante la difficoltà
delle sortite per la strettezza degli argini, e la facilità di tenerli
dagli assedianti guardati, se ne possono bloccar dentro Mantova venti
mila.

Era giunto, come abbiam narrato, il maresciallo Wurmser in Mantova
con un grosso corpo di genti avanzate alle stragi di Castiglione e di
Bassano. Questo sussidio, mentre dava maggior forza alla guernigione
già stanca da molte battaglie e da troppo frequenti vigilie,
induceva nondimeno una più grande necessità di vettovaglia. Difettava
particolarmente di erba e di strame per pascere i cavalli, che erano,
rispetto ai fanti, in numero assai considerabile. Adunque il capitano
austriaco, vedendosi potente per la moltitudine dei soldati, massime
di cavalleria, sortiva spesso con grosse cavalcate a foraggiare alla
campagna, il che tanto più facilmente poteva fare quanto più, essendo
tuttavia padrone della cittadella e di San Giorgio, avea le uscite
spedite, senza essere obbligato a restringere le genti in lunghe
file per passare i ponti o gli argini. Queste cose infinitamente
nuocevano a Buonaparte, il quale sapendo che l'Austria non avrebbe
omesso di mandare nuovi soldati in Italia, desiderava di venirne
presto alle strette per aver Mantova in mano sua anzichè gli aiuti
arrivassero. A questo fine, essendo giunto alla metà del suo corso
il mese di settembre, comandava a' suoi andassero all'assalto di San
Giorgio, perchè quello era il principale sbocco degli Austriaci alla
campagna. Nel tempo medesimo il generale Sahuguet dava l'assalto alla
Favorita, sito fortificato dagli Austriaci e posto a tramontana tra San
Giorgio e la cittadella. Attraversò questi disegni il vivido e sagace
Wurmser; perchè, cacciatosi di mezzo con la cavalleria, e represso
l'impeto dei repubblicani, gli sbaragliava. Ma l'audace Buonaparte
non era uomo da interrompere i suoi pensieri per un piccolo tratto
di fortuna contraria. E però avvisandosi che il suo avversario, fatto
confidente dalla prosperità della fazione, cercherebbe ad allargarsi
viemmaggiormente nella campagna, volendo nutrire in lui questa baldanza
nuova, ritirava i suoi più lontano dalla piazza. Eransi gli Austriaci
ingrossati, coll'intenzione di conservarsi libera la campagna, a San
Giorgio ed alla Favorita; avevano anzi spinto molto avanti le loro
guardie fuori degli alloggiamenti. Ordinate le cose sue con opportuni
comandamenti ad Augereau, a Sahuguet, a Pigeon, ed a quel pronto e
valoroso Massena, fu l'industria e la virtù del generale di Francia
aiutata dal benefizio della fortuna; perchè Wurmser essendosi di
soverchio allargato nella campagna, come Buonaparte prevedeva, non
fu difficile a Pigeon di congiungersi con Sahuguet ad interrompere le
strade fra San Giorgio e la Favorita, ed Augereau arrivava tempestando
a rompere l'ala dritta degl'imperiali. Il maggior danno fu quello
recato da Massena; poichè fu tanto forte l'impeto suo, che prostrando
ogni difesa, entrava per viva forza in San Giorgio, e se ne faceva
padrone. Nè in alcun modo soprastando, per non corrompere colla
tardanza il corso della fortuna favorevole, metteva anche in suo potere
il capo del ponte che dal sobborgo porta alla città. A questo modo
gli Austriaci rotti e dispersi, parte furono presi o morti in numero
di circa tre mila, e parte si ritirarono fuggendo alla cittadella:
perdettero venti bocche da fuoco. Questa fazione, avendo posto in poter
dei Franzesi i luoghi più opportuni all'ossidione e fiaccando l'ardire
degli Austriaci, restrinse molto la piazza; e sebbene di quando in
quando il generale dell'imperio, condotto dal proprio coraggio e tirato
anche dalla necessità, per fuggire la molestia della fame, facesse, per
andar a saccomano, sue sortite, non si affidava però più di correre
così liberamente la campagna, il che rendè in breve tempo le sue
condizioni peggiori; perciocchè cominciava a patire maravigliosamente
di vettovaglia. Già sorgevano segni di mala contentezza che obbligavano
Wurmser a star vigilante così dentro come fuori. Munivano i Franzesi
con fossi e con trincee il conquistato San Giorgio, e dimostravano
grandissima confidenza d'entrar presto in Mantova.

Eransi nell'isola di Corsica maravigliosamente sollevati gli animi a
cagione delle vittorie dei Franzesi in Italia: il quale moto tanto si
mostrava più grande, quanto più alla contentezza dei prosperi successi
dell'armi si aggiungeva quella che principalissimo operatore fosse quel
Buonaparte, che, quantunque mandato in tenera età a crearsi in Francia,
era peraltro nato e cresciuto fra di loro. Questi umori erano anche
ingrossati dalle insolenze degl'Inglesi e dalle taglie che avevano
poste. Queste erano le cagioni, per cui la parte franzese in Corsica
andava ogni dì acquistando nuove forze e nuovo ardire, mentre la
inglese perdeva continuamente di forza e di riputazione: già il dominio
d'Inghilterra vi titubava. Queste cose si sapevano da Buonaparte; e
siccome quegli che era sempre pronto ad usare le occasioni, aveva
posto piede in Livorno, non solamente col fine di serrare questo
porto agl'Inglesi, ma ancora per muovere la Corsica a danno loro.
Laonde indotto in isperanza di poter tosto farvi rivoltar lo Stato
a favore della Francia, aveva mandato a Livorno, aspettando tempo di
insorgere più vivamente, un colonnello Bonelli, Corso, con alcuni altri
soldati del medesimo paese, e, provvedutolo di denari, d'armi e di
munizioni, gli comandava andasse in Corsica, e con la presenza e con
le esortazioni desse speranza di maggiori sussidii. Era il passaggio
di mare assai pericoloso per le navi inglesi che continuamente il
correvano; ma Buonaparte, confidando nell'opera di Sapey, un Delfinate
molto sagace ed attivo, che aveva il carico di quel passo, gliene
commetteva l'impresa. A questi primi principii, crescendo vieppiù le
speranze del felice fine, mandava a Livorno, perchè fossero pronti a
salpare, i generali Gentili, Casalta e Cervoni, nativi dell'isola, e
che potevano pel credito e dipendenza loro aiutare l'impresa. Preponeva
ad essa, come capo, Gentili, uomo d'intera fama e savio per natura e
per età. I Corsi fuorusciti per intenzione di Buonaparte concorrevano
a Livorno e si ordinavano in compagnie. Una compagnia di ducento, più
attivi e più animosi degli altri, doveva essere il principal nervo dei
conquistatori di Corsica. S'aggiungevano alcuni pezzi d'artiglierie di
montagna e cannonieri pratichi per governarli. Erano vicine a mutarsi
in pro della Francia le sorti della patria di Buonaparte.

Avevano molto per tempo gl'Inglesi avuto avviso di tutti questi
preparamenti, e stavano vigilanti nell'impedire il passo del mare.
Nè parendo loro che ciò bastasse alla sicurezza dell'isola dopo il
perduto Livorno, applicarono l'animo al farsi signori di Porto-Ferraio,
terra forte e principale dell'isola d'Elba. Pervenuto sentore di
questo tentativo a Miot, ministro di Francia a Firenze, richiedeva
con viva instanza dal gran duca, desse lo scambio al governatore di
Porto-Ferraio, sospetto, secondo l'opinione sua, di essere aderente
agl'Inglesi; ricercandolo altresì mettesse in quel forte un presidio
sufficiente ad assicuravelo; e voleva finalmente che si aggiungessero
ducento soldati franzesi. Soddisfece alla prima domanda il principe,
scambiando il governatore; ma fondandosi sulla neutralità, legge
fondamentale della Toscana, accettata dalla repubblica di Francia,
e confermata da tutte le potenze amiche e nemiche, non consentì al
rimanente.

Intanto non portarono gl'Inglesi maggior rispetto a Porto-Ferraio,
che i Franzesi a Livorno portato avessero. S'appresentavano il dì 9
di luglio in cospetto di Porto-Ferraio, con diciassette bastimenti
che portavano due mila soldati; richiesero la piazza. Scriveva il
vicerè di Corsica al governatore, volere occupare Porto-Ferraio,
perchè i Franzesi avevano occupato Livorno, e macchinavano di occupare
anche Porto-Ferraio; ma non volere, negando con le parole quello che
faceva coi fatti, solito costume di quella perversa età, offendere
la neutralità. I capi della flotta poi minacciavano, se non fossero
lasciati entrar di queto, entrerebbero per forza.

Avute il granduca queste moleste novelle, comandava al governatore,
protestasse della rotta neutralità, negasse la dimanda, solo cedesse
alla forza. Ma già gl'Inglesi, procedendo dalle minaccie ai fatti,
erano sbarcati sulle spiaggie d'Acquaviva, e, per sentieri montuosi
marciando, erano giunti in cima al monte che sta a ridosso del forte
di Porto-Ferraio; quivi piantarono una batteria di cannoni e di obici
con le bocche volte verso la città. I soldati scendendo da quei siti
erti e scoscesi nella strada che dà l'adito alla lerce, stavano pronti
ad osservare quello che vi nascesse dentro, per le intimazioni e
presenza loro. Mandava Orazio Nelson da parte del vicerè di Corsica
intimando al governatore, volere gl'Inglesi Porto-Ferraio e i forti
per preservarli dai Franzesi; porterebbe rispetto alle proprietà, alle
persone, alla religione; se ne andrebbero, fatta la pace o cessato il
pericolo dell'invasione; se il governatore consentisse, entrerebbero
pacificamente; se negasse, per forza. Adunava il governatore gli
ufficiali, i magistrati, i consoli delle potenze, i capi di casa
più principali, acciocchè quello che far si dovesse deliberassero.
Risolvettero di consentimento concorde, che si desse luogo alla forza,
protestando di alcune condizioni; le quali accettate, entrarono nella
toscana isola gl'inglesi. Poco dopo s'impadronirono anche dell'isola
Capraia, di Stato Genovese.

In questo mezzo tempo bollivano le cose nella partigiana Corsica
perturbata da grandissimi accidenti, ed andavano a versi di Buonaparte.
Bonelli, condottosi nell'isola e spargendo voci di prossimi aiuti
e detestando la superiorità inglese, e spargendo ogni dove faville
d'incendio e turbando ogni villa, ogni villaggio, massime sui
monti vicino a Bastia ed a San Fiorenzo, aveva adunato gente che
apertamente resisteva al dominio del vicerè. A Bastia, sendovi ancora
presenti gl'Inglesi, una congregazione di patriotti, o piuttosto
di partigiani di Buonaparte e di Saliceti, nemicissimi del nome di
Paoli e d'Inghilterra, avevano preso tanto ardire, che addomandarono
al vicerè la libertà dei carcerati, e scrissero a Saliceti, già
avesse Bastia in luogo di città franzese. Vedutosi da Saliceti
e da Gentili che quello era il tempo propizio per restituire la
patria loro alla Francia, mandarono innanzi Casalta, con una banda
di fuorusciti corsi, affinchè, arrivando a Bastia, aiutasse quel
moto, cagione probabile di cambiamento. Fu opportuno il disegno,
non fu infelice il successo; perchè giungeva sul finire di ottobre
Casalta e sbarcava le sue genti, alle quali vennero a congiungersi i
partigiani in grosso numero. Occuparono i poggi che dominano Bastia.
Intimava Casalta agl'Inglesi, che tuttavia tenevano il forte, si
arrendessero; quando no, li fulminerebbe. Sopravvennero intanto le
novelle che gran tumulti nascevano in tutta l'isola contro il nome
britannico. Gl'Inglesi pertanto si risolvevano ad abbandonare quello
che più non potevano conservare; e precipitando gli indugi dal forte
di Bastia, lo spacciarono prestamente, e si ricondussero alle navi;
ma perdendo, scontratisi con Casalta, cinquecento prigionieri, e i
magazzini; dei cannoni parte trasportarono, altri chiodarono. A tale
fatto i tumulti crescevano, gli alberi della libertà si piantavano.
Intanto guadagnava Casalta, non però senza difficoltà, le fauci di
San Germano, per cui si apre la strada da Bastia a San Fiorenzo, ed
arrivava improvvisamente sopra quest'ultimo luogo cacciandosi avanti
gl'Inglesi fuggiti da San Germano. Diedero tostamente opera a vuotare
la piazza; vi entrarono con segni d'incredibile allegrezza i Corsi
repubblicani. Tuttavia l'armata inglese stava sorta sull'ancore poco
distante da San Fiorenzo in prospetto di Mortella; i soldati avevano
fatto un forte alloggiamento sui monti a ridosso di Mortella medesima,
non che volessero continuare nell'intenzione di conservare la Corsica,
ma solamente per acquare, vettovagliarsi, e raccorre gli sbrancati
sì magistrati del regno che soldati, che per luoghi incogniti e per
tragetti arrivavano ad ogni ora, fuggendo il furore corso che li
cacciava. Partiva frattanto da Livorno Gentili, conducendo con sè nuove
armi e munizioni, ducento soldati spigliatissimi, trecento fuorusciti
di Corsica. Arrivato a Bastia, dato riposo alla truppa, squadronati
nuovi Corsi che accorrevano, si metteva in viaggio per a San Fiorenzo
con animo di cacciar gl'Inglesi da quell'ultimo nido di Mortella.
Urtava l'oste britannica, ne seguitava una mischia mortalissima:
fuggirono finalmente gl'Inglesi, ricevendo per viaggio molti danni, e
si ridussero, prestamente camminando e tutti sanguinosi, alle navi.
Conseguito quest'intento, saliva Gentili sopra certi monti, donde
speculando vedeva l'armata inglese che continuava a starsene con
l'ancore aggrappate in poca distanza: preparava una forte batteria per
fulminarla. Non aspettarono l'ultimo momento; che anzi, date le vele ai
venti, si allargarono in alto mare alla volta di Gibilterra, lasciando
tutta l'isola in potestà di coloro che la vollero restituire all'antica
madre di Francia. Al tempo stesso abbandonarono gl'Inglesi le testè
conquistate isole d'Elba e Capraia brevissimo frutto di violata
neutralità.

Fatte tutte queste cose, arrivava Saliceti in Corsica con facoltà
di perdonare. Parlava ai Corsi con benigne e incitate parole,
conchiudendo: «giurate sull'are vostre, e per l'ombre dei compagni
morti nelle battaglie a difesa della repubblica, giurate odio eterno
alla monarchia.» I quali violenti parlari, che producevano frutti
conformi, dimostravano quanto gli uomini si soddisfacciano meglio delle
esagerazioni che della temperanza.

Fertilissimo di avvenimenti, e tutti di sommissima importanza, è
quest'anno e chi volesse registrarli giorno per giorno come apparvero
sulla scena, produrrebbe una confusione da non potersi così agevolmente
strigare. Miglior consiglio sarà dunque il tendere più fila e venirle
seguendo di mano in mano, ripigliando i tempi secondo l'opportunità,
come si è fatto finora, perchè da ciò la narrazione acquisterà quella
chiarezza e quella connessione che altrimenti le mancherebbero all'in
tutto.

Le vittorie dei repubblicani in Italia erano splendidissime; l'avere
ridotto a condizione servile il re di Sardegna, ad accordi poco
onorevoli quel di Napoli ed il papa, l'avere non solo vinto, ma
anche spento due eserciti nemici, l'essere disarmata la repubblica di
Venezia, l'aver cacciato dalla Corsica gl'Inglesi col solo sventolar
di una bandiera, davano argomento che la potenza franzese metterebbe
radici in Italia e che questa provincia sarebbe per cambiare e di
signori e di reggimento. Queste condizioni erano cagione che sorgessero
ogni dì nuovi partigiani a favore del nuovo stato contro il vecchio. E,
vedute tante vittorie, si accostavano a voler secondare le mutazioni
molti uomini savii e prudenti, i quali opinavano che, poichè la forza
aveva partorito movimenti di tanta, anzi di totale importanza, era
oramai venuto il tempo del non dover lasciare portar al caso sì gravi
accidenti; che anzi era debito di ogni amatore della patria italiana
di mostrarsi e di dar norma con l'intervento loro, per quanto fra
l'operare disordinato dell'armi possibil fosse, a quei moti che
scuotevano fin dal fondo la tormentata Italia. Si persuadevano che
se era scemato il pericolo delle armi avversarie, era cresciuta la
necessità di soccorrere alla patria coi buoni consigli; credevano male
accetti essere ai popoli gl'Italiani intemperanti che avevano prevenuto
o troppo ardentemente o troppo servilmente secondato i primi moti dei
Franzesi, e però non doversi a loro abbandonare la somma delle cose.

Questa fu un'epoca seconda nelle rivoluzioni di Italia, in cui
uomini prudenti per la necessità dei tempi vennero partecipando delle
faccende pubbliche. In questo concorsero e nobili e popolani, e dotti
ed indotti, e laici ed ecclesiastici, desiderando tutti di cavare da
quelle acque tanto torbide fonti puri e salutari per la patria loro.
Tra costoro non tutti pensavano alla stessa maniera; perciocchè alcuni
amavano i governi spezzati, altri desideravano l'unità d'Italia: fra
i primi si osservavano i più attempati, fra i secondi i più giovani;
i primi moderavano, i secondi incitavano; i primi più manifestamente
operavano, i secondi più nascostamente, ed i Franzesi chiamavanli la
lega nera, e di essa i capi dell'esercito avevano più paura che del
nemico.

Quanto al reggimento interno di ciascuna parte o di tutta Italia,
amavano i più, fra coloro di cui parliamo, la repubblica, ma la
volevano ridurre al patriziato, instituito con la moderazione della
potenza popolare prudentemente ordinata, governo antico all'Italia.
A questo consiglio si opponevano le operazioni disordinate dell'armi,
l'assurdo capriccio de' Franzesi di quei tempi di voler applicare il
modo del loro governo a tutti i paesi che conquistavano, la volontà
di Buonaparte, finalmente gl'Italiani servili imitatori delle cose
d'oltremonti ed incapricciti ancor essi de' governi geometrici. Ma
quegli altri confidavano che la società si sarebbe fermata al governo
patrizio misto di democrazia.

Questi sentimenti principalmente sorgevano nell'Emilia, e più
particolarmente in Bologna, ma non potevano impedire che la fazione
democratica, pazza e servile imitatrice di quanto si era fatto in
Francia, non vi producesse una grande inondazione. Nè essa operava
da sè, quantunque ne avesse voglia, ma suscitata a bella posta dagli
agenti di Buonaparte e dal direttorio. Il duca di Modena solo e
senza amici, e, quel che era peggio, ricco o in voce di essere, si
trovava esposto ai tentativi di questi uomini fanatici e sfrenati; nè
rimaneva, per la forza delle opinioni e degli esempi che correvano,
fedele disposizione ne' popoli. Furono le prime mosse date da Reggio,
città scontenta, per le emulazioni con Modena, del governo del duca.
La notte del 25 agosto vi si levarono improvvisamente a romore i
partigiani della democrazia. Era il presidio debole, i magistrati
timidi, l'infezione grande. Laonde, senza resistenza alcuna crescendo
il tumulto, in poco d'ora fu piena la città di lumi, di canti
repubblicani, di voci festive del popolo, di un gridar continuo
di guerra al duca. Piantarono il solito albero, inalberarono le
tricolorite insegne. La mattina nissun segno era in piede del ducale
governo: i soldati del duca, impotenti al resistere, se ne tornarono
di queto a Modena. Si accostarono ai primi motori uomini riputati per
ricchezze e per dottrina per dar norma a quell'impeto disordinato.
Condotto a fine il moto, crearono un reggimento temporaneo con torma
repubblicana, moderarono l'autorità del senato, instituirono magistrati
popolari, descrissero cittadini per la milizia. Questi erano i disegni
interni. Ma, desiderando di rendere partecipi i vicini di quanto
avevano fatto, mandavano uomini a posta nel contado, in Lunigiana ed
in Garfagnana, acciocchè, parlando e predicando, muovessero a novità.
Inviarono Paradisi e Re ad affratellarsi, come dicevano, coi Milanesi.
L'importanza era di far muovere Modena. Nè in questo mancarono a
sè stessi i Reggiani, perchè spacciarono gente attiva a sollevare
con segrete insinuazioni e con incentivi palesi quella città. Tanto
operarono, che già una banda di novatori, portando con sè non so che
albero, il volevano piantare in piazza; gridavano accorruomo e libertà.
Ma fu presto il governo ad insorgere contro quel moto, e fatta andare
innanzi la soldatesca con le armi, risospingeva i libertini non senza
qualche uccisione. Rendè Ercole Rinaldo da Venezia solenni grazie a'
Modenesi per la conservata fedeltà. Pagherebbe, aggiunse, del suo gran
parte delle contribuzioni, scemerebbe le gravezze de' comuni.

Questo intoppo interruppe i pensieri di Buonaparte. Ma egli, che non
voleva che gli fossero interrotti, fece con la forza propria quello
che le reggiane non avevano potuto. Per la qual cosa mandava fuori un
manifesto da Milano, pieno di querele contro il duca: non avere pagato
ai tempi debiti le contribuzioni di guerra; starsene tuttavia lontano
dagli Stati; lasciare interi gli aggravii di guerra ai sudditi, nè
volervi partecipar del suo; avere somministrato denari ai nemici della
repubblica; incitare i sudditi con perniciose arti e per mezzo di genti
contro Francia; avere vettovagliato Mantova a pro degli Austriaci.
Dichiarava pertanto non meritare il duca più alcun favore dalla
Francia; essere annullati i patti della tregua; l'esercito italico
ricoverare sotto l'ombra sua, e ricevere in protezione i popoli di
Modena e di Reggio; chiunque offendesse le proprietà ed i diritti de'
Modenesi e de' Reggiani sarebbe riputato nemico di Francia. Buonaparte
non era uomo da minacciare con le parole prima che eseguisse coi
fatti. E però, non ancora comparso il manifesto, già i suoi soldati
s'impadronivano del ducato. Due mila entravano in Modena, prendevano la
fortezza, sconficcavano le case, cacciavano i soldati, afferravano le
insegne, chiamavano i popoli a libertà. Al medesimo tempo occupavano
Sassuolo, Magnano ed altre terre del dominio ducale, facendo variare
lo Stato e ponendo mano in tutto che al pubblico si appartenesse. Pure
le allegrezze furono molte; piantossi l'albero, cantossi, ballossi;
furonvi conviti, teatri, luminarie. Fatte le allegrezze, si venne alle
riforme: annullaronsi i magistrati vecchi, crearonsi i nuovi, giurossi
alla repubblica di Francia; dello stato politico si aspettavano i
comandamenti di Buonaparte.

Or si torni alle cose di Bologna, che non era vacua nè di sospetti
nè di fatiche. Aveva il senato fatto, per conservarsi lo stato,
quanto pei tempi abbisognava, cattivatosi il generale repubblicano,
fatto restituir Castelbolognese, promesso riforme. Ma l'aristocrazia
era odiosa ai più ardenti instigatori, la democrazia trionfava.
Perlochè voci subdole si spargevano contro gli aristocratici; li
chiamavano tirannelli; il popolo sempre era di mezzo, e lo dicevano
sovrano. Imperversavano gridando che, scacciato quel tiranno del
papa, così lo chiamavano, era mestiero scacciare anche que' tiranni
de' senatori, e tutto dare in balìa del popolo sovrano; il popolo
adombrava, perchè non sapeva che cosa tutto questo si volesse
significare; i capi repubblicani volevano consuonare con Modena e
con Reggio. Vide il senato il tempo tempestoso per le condizioni
tanto perturbate del paese, e volle rimediarvi con dare speranze
di riforme, non accorgendosi che se il resistere alla piena era
impossibile, il secondarla era insufficiente. Pubblicava si creasse
una congregazione d'uomini dotti e probi, affinchè proponessero un
modello di costituzione consentanea ai tempi, ma conforme a quel
modo di reggimento che sussisteva in Bologna prima della signoria
de' pontefici. Non parve compito il disegno, perchè quell'antica
forma non piaceva, ed i nominati della congregazione si tacciavano
d'aristocrazia. La verità era, che niuna forma buona, se non la
democratica, pareva a coloro che menavano più romore. Compariva intanto
il modello della costituzione tutto democratico e, secondo il solito,
levato di peso dalla costituzione franzese, ma contenente altre parti:
si abolisse la tortura, si moderassero le pene, si abbreviassero i
processi.

Adunaronsi i comizii nella chiesa di San Petronio; il fine era di
accettare o rifiutare la costituzione. Per voti concordi nominarono
presidente Aldini avvocato raccolto il partito, trovossi avere
squittinato quattro cento ottantaquattro; quattro cento trentaquattro
pel sì, cinquanta pel no. Bandì il presidente, il popolo bolognese
avere accettata la costituzione. Intuonossi l'ambrosiano canto, al
tempo stesso udissi un suonar di campane, un dar nei tamburi, una
musica guerriera, un cantar repubblicano per tutta Bologna. Godeva il
popolo; la notte fuochi artificiali, luminarie, teatri, e quanto si usa
fare dai popoli nelle grandi allegrezze.

Nè con minore caldezza procedevano le faccende in Ferrara. Vi si
creavano i magistrati popolari; vi si bandiva la repubblica. Mandavano
deputati a Buonaparte per ringraziarlo, ai Milanesi per affratellarsi;
tutta l'Emilia commossa.

In questo mentre arrivava Buonaparte a Modena. Concorrevano in folla
i popoli per vederlo, Ferraresi, Bolognesi, massime Reggiani, che in
questi moti con maggiore ardenza camminavano. La sua presenza in Modena
fruttava altro che parole. Chiamati a sè i primi, fece loro intendere,
con un'arte esortatoria che era in lui molto efficace, si unisse tutta
l'Emilia in una sola repubblica, e si facesse forte sull'armi. Questi
consigli trovavano disposizioni conformi in popoli esaltati. Però si
adunavano, il dì 16 ottobre, in Modena ventiquattro deputati per parte
di Ferrara, venti per Modena, venti per Reggio. Decretava il consesso,
tutta l'Emilia in una sola repubblica sotto protezione della Francia
si unisse; la nobiltà feudataria si abolisse; fossero salve e sicure
a tutti i pacifici uomini le proprietà; un magistrato si creasse
che avesse carico di levare, ordinare, armare quattro mila soldati a
difesa comune; un altro congresso di tutta l'Emilia si tenesse il dì
27 dicembre; questo secondo congresso statuisse la costituzione che
avesse a reggere la nuova repubblica. Questo muoversi dei Cispadani
all'armi molto piaceva a Buonaparte, perchè serviva di esempio ai
Milanesi, che la medesima volontà non dimostravano. In fatti questi
ultimi, per non parer da meno, offerirono dodici mila soldati. Già si
dava opera a Milano ad ordinare la legione lombarda, in cui entrarono
Italiani di ogni provincia, e la legione polacca, in cui si scrissero
molti Polacchi, o disertori o fuorusciti, e parte anche uomini raccolti
in tutta Germania. I Reggiani più infiammati non si contentarono nè
delle parole nè delle mostre. Dato dentro ad una squadra d'Austriaci
usciti per fazione militare da Mantova, e tagliati fuori dai Franzesi,
li facevano prigioni a Montechiarugolo, non senza fatica e sangue da
ambe le parti. Presentarongli in una modenese festa trionfalmente a
Buonaparte, gratissimo dono, perchè ed agguerriva gl'Italiani e li
faceva intingere contro lo imperatore.

Tutte queste cose affliggevano e spaventavano il pontefice, che si
vedeva restar solo esposto alle percosse delle armi repubblicane. Aveva
fatto quanto per lui si era potuto per adempire le condizioni, ancorchè
gravissime fossero, della tregua. La pace che si trattava a Parigi non
veniva a conclusione. Voleva il direttorio che il papa recedesse da
qualunque lega contro Francia; negasse il passo ai nemici, il desse
ai Franzesi; serrasse i porti agl'Inglesi; rinunziasse a Ferrara, a
Bologna, a Castro, a Benevento, a Ronciglione, a Pontecorvo; proibisse
l'evirazione dei fanciulli. Quanto alla religione, il direttorio
richiedeva che il papa rivocasse qualunque scritto od atto emanato
dalla santa Sede rispetto alle faccende ecclesiastiche di Francia
dall'89 in poi. Posto il partito dal pontefice, opinò con consentimento
unanime il collegio dei cardinali, doversi rifiutare tutte le pratiche,
non potersi accettare i patti, alla forza si resistesse colla forza.
Quando così deliberarono, già sapevano essere in ordine una terza mossa
austriaca per l'Italia, e per questa cagione speravano di aver seco
congiunte le armi imperiali.

Sapeva Pio VI a quale pericolo sottoponesse sè medesimo e tutto lo
Stato ecclesiastico col rifiutar la pace. Perciò non ometteva alcuno di
quegli aiuti che pei tempi confermare lo potessero. Scriveva un breve
a tutti i principi cattolici, col quale, gravissimamente favellando,
gli esortava a non abbandonare dei sussidii loro la santa Sede in
così imminente pericolo; corressero, ammoniva, in soccorso di quella
religione che con tanta pietà professavano, e che era cagione che i
sudditi con tanto amore e soggezione a loro obbedissero; dimostrando
quindi di quanto danno fosse minacciata, sorgessero adunque, esortava,
accorressero, pruovassero aver cura di quanto ha posto il cielo quaggiù
di più sociale, di più salutevole, di più sacro; darebbe egli, tanto
vicino al pericolo, l'esempio della costanza, nè potere o il romore di
sì perniziosa guerra o l'età sua oramai cadente, o le instigazioni dei
mali affezionati tanto operare, ch'egli non sorgesse con animo invitto
a difesa di quella religione che, scesa da Cristo Dio pel ministero
dei santi Apostoli sino a questi miseri tempi incorrotta e pura, doveva
parimente ai posteri pura ed incorrotta tramandarsi.

Queste voci mandava ai principi cattolici il pontefice ottuagenario,
primo sostenitore, e con le parole e con l'esempio, dell'autorità e
della dignità dei principi.

Non aveva il re di Napoli intermesso per mezzo del principe di
Belmonte Pignatelli i suoi negoziati a Parigi, ora con più vivezza
procedendo, ora allungando il dichiararsi, secondochè gli accidenti
d'Italia succedevano o più prosperi o più avversi alle armi franzesi.
Lo stimolavano dall'un de' lati l'Austria e l'Inghilterra a mantenersi
in fede; dall'altro il ritraeva il timore dei Franzesi saliti in tanta
potenza. Il direttorio, che si accorse dell'arte, volle stringere;
ma in tal fatto meritossi riprensione dell'aver tacciato, accennando
alle tergiversazioni del principe di Belmonte, d'infame nota la fede
italica, come la chiamò; perchè niun vede come si possa accusare una
nazione dell'infedeltà de' suoi governi, e nemmeno vede come le arti
usate dal principe napolitano, ora di stringere, ora di allargarsi,
possano chiamarsi arti fedifraghe e da chiamarsi con nome odioso;
perciocchè di simili arti usarono tutti i governi in tutti i loro
negoziati politici, e la Francia stessa le usò in ogni tempo, e più
ancora a quei del direttorio. L'udire poi accusarsi la fede italica
come infedele da coloro che a bella posta cercavano lite ai principi
italiani per cavarne denaro e per distruggerli, non si potrà certamente
senza sdegno comportare da chi, libero da ogni anticipata opinione
essendo, è solo amatore del giusto e dell'onesto.

Intanto, tra per la mediazione di Spagna e per le nuove che ogni
dì più si moltiplicavano del venire i Tedeschi verso l'Italia, fu
concluso fra la Francia e Napoli un trattato di pace il dì 10 ottobre,
molto onorevole, secondo i tempi, al re; perchè nè gli si comandava
di serrare del tutto i porti alle potenze nemiche della repubblica,
nè gli s'imponeva l'obbligo di scarcerare i mescolati in congiure. Le
principali condizioni furono: che il re rinunziasse a qualunque lega
coi nemici della Francia; si mantenesse puntualmente in neutralità con
le potenze belligeranti; vietasse l'entrata nelle sue marine alle navi
armate in guerra di esse potenze, così franzesi, come di altre nazioni,
se più di quattro fossero; si restituissero tutti i beni sì mobili che
stabili sequestrati e confiscati, tanto in Francia, quanto nel regno,
a motivo della presente guerra; si stipulasse un trattato di commercio;
avesse luogo nella pace la repubblica batava.

Anche la tregua tra la Francia e Parma si convertiva in accordo, per
verità non troppo superbo pel duca, per la protezione in cui l'aveva
la Spagna, sicchè la pace gli recò minor danno che la tregua: accidente
insolito, perchè le paci del direttorio erano per l'ordinario peggiori
delle tregue.

Udissi a questi giorni la morte (16 ottobre) di Vittorio Amedeo III,
re di Sardegna, principe che avrebbe avuto in sè tutte le parti che
in un reggitore di popoli si possono desiderare, se non fosse stata
quella smania di guerra che notte e dì il tormentava. Quindi consumò
l'erario per mantenere i soldati, ed i soldati consumarono il paese: lo
soggettarono anche alla forza, che sarebbe stata intollerabile, se la
natura buona del principe e le vecchie abitudini di governo regolato
non l'avessero temperata. Restano e sempre resteranno le memorie
delle onorate cose fatte da lui in pace e nel riposo de' suoi popoli;
ma fatalmente Vittorio Amedeo lasciò morendo un regno servo che avea
ricevuto intero, un erario povero che aveva ereditato ricchissimo, un
esercito vinto che gli era stato tramandato vittorioso. Così le sue
virtù, che furono molte e grandi, non partorirono pe' suoi sudditi
tutto quel benefizio che promettevano.

Successe nel regno a Vittorio Amedeo III Carlo Emmanuele IV di questo
nome, principe ammaestrato in molte belle discipline, ornato di tutte
le virtù che in uomo capir possono, e devotissimo alla religione.
Ma con l'animo ottimo aveva il corpo infermo; perciocchè pativa
straordinariamente di nervi, e questo male, al quale non era rimedio,
gli rappresentava spesso di strane fantasie, che il facevano parere
assai diverso da quello ch'egli era veramente. Essendo gli Stati del
re frapposti tra Francia ed Italia, e provveduti tuttavia di buone
armi, sebbene infelicemente usate, molto importava alla prima di averlo
per amico; perciò il direttorio nissuna cosa lasciava intentata per
congiungerselo in amicizia stabile per un trattato di alleanza. Si
aggiungeva la tenerezza di Buonaparte pel re, cui fu sempre primario
intendimento di trasportare il dominio del re dal Piemonte nello
Stato di Milano, e d'incorporare alla Francia il Piemonte e l'isola di
Sardegna. Questo pensiero stesso ei si volgeva in mente, quando più
con le istigazioni tentava di accalorare lo spirito repubblicano in
Milano. Ma non andava a grado del direttorio, o fosse che non avesse
ancor deposto il pensiero di restituire, se bisognasse, il Milanese
allo imperatore, o fosse che per una tal quale ambizione di repubblica
credesse che con tante vittorie potesse alzar l'animo a maggiori
cose, con fondare una nuova repubblica negli Stati dell'imperatore in
Lombardia. Amava meglio di compensare il re a spese di Genova. Ambidue
cercavano con queste speranze di adescar tanto Carlo Emmanuele, ch'ei
venisse a concludere con la repubblica la confederazione. E siccome
queste pratiche non si potevano tenere tanto segrete che le altre
potenze non le subodorassero, confidavano che l'imperatore intimorito
si sarebbe più facilmente inclinato a fare la volontà della repubblica.
Ma il re non volle a questo tempo consentire al trattato, perchè gli
pareva che, se congiunto fosse in lega difensiva ed offensiva con
Francia, sarebbe stato costretto a volgere le sue armi contro il papa,
al quale sapeva che i repubblicani macchinavano allora di far guerra,
nè gli poteva sofferir l'animo di offendere il capo della Chiesa che
non gli aveva fatto alcuna ingiuria.

In questo mentre Carlo Emmanuele aveva chiamato ai consigli dello
Stato, invece del conte d'Hauteville, il cavaliere di San Damiano di
Priocca. Inoltre, avendo il direttorio ripudiato il conte di Revel,
come fuoruscito franzese, dall'ambasciata di Parigi, il re gli aveva
surrogato il conte Balbo, uomo di alto lignaggio, di molte lettere e
di non poca dottrina. Del rimanente, quanto al politico, era il conte
piuttosto amatore di mettere l'Italia in Piemonte, che il Piemonte in
Italia, ed aveva ottimamente conosciuto di che qualità fosse la libertà
di quei tempi. Arrivato come ambasciatore di Sardegna a Parigi, gli
furono date gratissime parole; ed egli, siccome quello che era accorto
e buon conoscitore degli uomini, si mise tosto in sul negoziare, non
disperando di trovar modo di far servigi importanti al re fra quei
repubblicani amatori di denaro e di nomi illustri. Intromesso al
cospetto del direttorio, disse non essere mai stato il re suo signore
nemico a Francia nè al governo di lei; tempi fatali avergli posto
in mano l'armi.... non aver mai cessato di desiderare la pace....
consigliarlo il rispetto dell'interesse suo, che era quello stesso del
suo popolo, che restasse affezionato alla Francia: naturale adunque
essere, soggiungeva, l'amicizia dei due Stati; avere lui carico di
nudrirla; e perchè nissuna cattiva impressione restasse, avere carico
di disdire i fatti accaduti in Piemonte contro l'ultimo ambasciatore
di Francia; presentare le sue credenziali; vedrebbero per loro quanta
fede avesse il re posta in lui; stimerebbe meritarla, se quella del
direttorio meritasse.

Rispose magnificamente il presidente, la moderazione del principe
del Piemonte (quest'era la qualità di Carlo Emmanuele prima della sua
assunzione) avere preparato la strada alla stima del popolo franzese
verso il re; accrescersi la contentezza del direttorio alle nuove
protestazioni; renderebbe il governo di Francia amicizia per amicizia;
desiderare che l'esempio di un re amatore della pace piegasse tutti i
nemici della repubblica ad accettarla; rallegrarsi il popolo franzese
per le vittorie acquistate ad assicurazione della sua libertà, ma
vieppiù essere per rallegrarsi, quando tutte le nazioni vivessero
in amicizia con lui; non conoscere la repubblica l'astuzia politica;
stipulare i trattati con lealtà, osservarli con fede, difenderli con
coraggio; soddisfarsi il direttorio al vedere che il re l'avesse eletto
a nutritore di concordia, sperare si sforzerebbe in adempir bene il
quieto mandato.

Tali furono i vicendevoli parlari tra Francia e Sardegna. Quantunque
il re non potesse amare un governo che l'opprimeva, la sua amicizia
politica verso di lui era nondimeno sincera, perchè credeva che ciò
importasse alla salute ed agl'interessi del suo reame. Dall'altro lato
il direttorio mostrava il viso benigno al re, per aver seco congiunte
le sue armi, sebbene avesse disegni di distruzione del governo regio in
Piemonte.

Ma quel che faceva ricercare il re della sua amicizia in questo momento
cagionava il pericolo della repubblica di Genova. Vennesi pertanto
in sui cavilli e sulle superbe parole. Ricominciaronsi le querele
pel fatto della Modesta già composto tante volte. Esortava Faipoult
Buonaparte a venire armato a Genova per cacciare dai magistrati gli
avversi a Francia, a bandirli, a cambiare le forme delle deliberazioni
del governo.

Mandava la signoria all'alloggiamento di Buonaparte Francesco Cattaneo,
uno dei più gravi e più riputati cittadini della repubblica, affinchè
s'ingegnasse di mitigare quella superbia; ma si tirava più su colle
richieste: serrassero, imponeva, tutti i porti agli Inglesi, sei mila
Franzesi il golfo della Spezia occupassero, apprestasse la repubblica
quanto abbisognasse alla Francia; venti milioni pagasse a compenso dei
danni inferiti dagl'Inglesi e dagli Austriaci sui mari; per impedire
l'entrata agl'Inglesi nel porto di Genova, un presidio franzese la
lanterna munisse, gli abitatori della Polcevera si disarmassero. Il
senato, siccome quello, a cui le condizioni parevano intollerabili,
mandava con autorità d'inviato straordinario a Parigi Vincenzo Spinola
patrizio veduto volontieri dagli agenti franzesi. Si faceva lo Spinola
avanti, parte con le parole, parte con fatti più efficaci delle parole.

Intanto il dì 11 settembre venivano gl'Inglesi ad un fatto che
fece precipitar Genova alla parte franzese. Nelson, viceammiraglio
d'Inghilterra, rapì sulla spiaggia di San Pier d'Arena una nave
franzese: fu il caso tanto improvviso, che nè le artiglierie della
Lanterna furono a tempo di romperne il disegno. Faipoult, usando
l'occasione, ed acceso in gravissima indegnazione, domandava che
Genova, dal cui porto era uscito Nelson per quella prepotente fazione,
intercludesse i porti agl'Inglesi e desse, in compenso della nave
rapita, in mano di Francia tutte le navi loro sorte ne' suoi porti:
quando no, sarebbe tenuta del fatto verso la repubblica.

Le insolenze d'Inghilterra e le minaccie di Francia fecero facilmente
andar innanzi la mutazione nelle deliberazioni di Genova. Per la
qual cosa, tacendo o poco contrastando nelle consulte coloro che
inclinavano alla parte inglese, sorse più potente la parte franzese.
Però fu risoluto nel consiglio grande, ed approvato nel piccolo, che
si chiudessero tutti i porti ai bastimenti inglesi sì da guerra che da
commercio; si ritenessero quelli che nei porti stanziassero.

Il serenissimo governo, datosi tutto alla parte del nome franzese,
pubblicava, per giustificare la sua deliberazione, un manifesto,
in cui, raccontate tutte le ingiurie ricevute, da poi che aveva
incominciato la guerra, dagl'Inglesi, concludeva che poichè la lunga
pazienza ed i frequenti ricorsi erano stati indarno, nè alcuna speranza
si aveva che gl'Inglesi fossero per venirne a termini più temperati,
si era risoluto ad escludere infino a nuova deliberazione dai porti
genovesi le navi britanniche, la presenza delle quali, sotto colore
di non adempita neutralità per gli altrui fatti violenti, aveva dato
occasione a tanti incomodi ed a tanti pericoli.

Intanto si stipulava, il dì 9 ottobre, a Parigi tra il direttorio ed
il plenipotenziario Spinola una convenzione, con la quale si fermarono
le condizioni, a norma delle quali i due Stati dovevano vivere tra di
loro. L'accettarono i Genovesi, sperando che con lei sarebbe confermato
lo Stato. L'accettarono il direttorio e Buonaparte, perchè procurava
loro denaro. Fu convenuto fra i due Stati che il decreto del governo
di Genova, per cui si serravano i porti agl'Inglesi, avesse la sua
esecuzione fino alla pace; proibisse Genova il soccorrere di viveri
e di munizioni gl'Inglesi; presidiasse sufficientemente i porti; se
non potesse, la Francia la servirebbe di presidii; se la Gran Bretagna
intimasse la guerra a Genova, la difenderebbe la Francia; annullasse
Genova i processi fatti ai sudditi per opinioni, discorsi o scritti
politici; i nobili processati nel grande e nel piccolo consiglio
si redintegrassero; la Francia promettesse di conservar intero il
territorio della repubblica, di agevolarle la pace con le potenze
barbaresche, di far libere e franche le terre vincolate per dritti
di feudo all'impero germanico; i Genovesi accettassero la mediazione
della Francia per comporre le loro differenze colla Sardegna; pagassero
alla Francia, per prezzo dell'amicizia e della conservazione dei
territorii, due milioni di franchi, e le facessero un prestito di altri
due milioni. Furono i due milioni di taglia estratti dal banco di San
Giorgio, i due del prestito pagati dai più ricchi.

Genova debole e lacerata da due nemici potenti fu obbligata a comporsi
con uno di loro: il che non fu la sua salute. Venezia anch'essa tra
due nemici potentissimi, ma più forte, più padrona di sè medesima,
più tenace nella neutralità, non volle comporsi, nè ciò fu la sua
salvezza. Bisogna premettere che principal mira del governo di
Francia, alla quale tutte le altre subordinavansi, era sempre la pace
con l'imperatore non solamente per la sua potenza, ma ancora per la
dignità e pel grado. Parevagli che, ove Francesco avesse accettato le
condizioni, la repubblica riconosciuta da un tanto principe sarebbesi
bene radicata e, per così dire, naturata in Europa. Sola l'Inghilterra
sarebbe rimasta nemica; ma non avendo più speranza di muovere l'Europa
contro la Francia, si conghietturava che anch'essa sarebbe sforzata di
venire agli accordi. Chiaro appariva che dalle condizioni dell'Italia,
essendo già i Paesi-Bassi austriaci posti in possessione della Francia,
pendeva principalmente la pace con l'imperatore. A questo principal
fine dirizzando i suoi pensieri il direttorio, aveva mandato in Italia
il generale Clarke, personaggio molto dipendente da Carnot, col mandato
di veder vicino le cose e di fare convenienti proposte all'Austria. Era
Clarke uomo molto atto a questo atto, non solo per la sua destrezza,
ma ancora perchè detestava, e sapevasi, le esagerazioni dei tempi.
Inoltre egli pare che il direttorio, od almeno qualche membro di lui,
avesse concepito sospetto di pensieri ambiziosi in Buonaparte, e però
si era risoluto a mandare in Italia un uomo, quale gli sembrava Clarke,
molto fidato, affinchè investigasse ed accuratamente rapportasse
gli andari del generale italico. Del che o accortosi o sospettando
Buonaparte, quando se lo vide comparire innanzi, siccome quegli che non
amava gl'imperii dimezzati, gli disse a viso scoperto che se veniva ad
accordarsi con lui, il vedrebbe volentieri, e l'accetterebbe; quando
no, se ne poteva tornare. Questa insolenza o non seppe il direttorio,
o saputa, per lo meno male, la passò. Clarke, che uomo accorto era,
avvisò facilmente dov'era e dove aveva a rimanere la potenza; si
piegava perciò facilmente, e da inviato del governo divenne fidato
di Buonaparte. Da quel punto nacque fra ambidue quella benevolenza e
quella intrinsichezza che si mantennero in tanti e sì diversi tempi ed
in tante rivoluzioni d'uomini e di cose.

Ma venendo al mandato politico di Clarke, quantunque ei dovesse
principalmente indrizzarsi all'imperatore, fece opera per viaggio
di racconciar le faccende colla Sardegna. Offeriva, in nome della
repubblica, di dare al re Genova co' suoi territorii con patto ch'egli
cedesse alla Francia l'isola di Sardegna e si unisse in lega con la
repubblica, obbligandosi a congiungere all'esercito italico un numero
determinato di soldati. Disordinò anche questo pensiero il rifiuto di
Carlo Emmanuele del voler entrare in questa lega; perchè, come già
rapportammo, detestava grandemente di voltar le sue armi contro il
papa. Allora fu fatto il trattato con Genova, col quale il direttorio,
non potendo più farla cosa del re, la fece cosa sua.

A questo succedeva ne' consigli dei reggitori della Francia un
altro disegno per opera principalmente di Buonaparte; ma alle loro
proposizioni se ne stava dubbiosa l'Austria, perchè non aveva ancora
perduto la speranza di ricuperare per forza d'armi gli Stati d'Italia;
questi negoziati correndo prima delle ultime rotte di Wurmser.
Però Clarke e Buonaparte, non ostante le vittorie contro Wurmser,
insistevano sempre maggiormente.

Conoscendo il direttorio la renitenza dell'Austria, aveva mosso, per
vincerla, altre pratiche lontane, per le quali sperava di operare che
il timore superasse a Vienna ogni ostacolo. Dipendeva intieramente
la Spagna, pei consigli e per la autorità del principe della Pace,
dalla Francia. Dipendeva anche da lei per la necessità delle cose
la Porta Ottomana. Venne adunque il direttorio in pensiero, condotto
da quel suo fine principalissimo di aver amicizia con l'imperadore,
di far proposizioni di lega difensiva tra la Spagna, la Porta
Ottomana, la Francia e la repubblica di Venezia contro l'Austria:
presumeva il direttorio, oltre il timore da darsi all'imperadore, che
Venezia, stante la costanza del senato a volersene star neutrale,
avrebbe ricusato d'entrar nella lega, e però che se gli sarebbe
porta più colorita cagione di pigliarsi la repubblica. Il Reis
Effendi, favellando a Costantinopoli col dragomanno di Venezia, si
era lasciato intendere che in quel totale sovvertimento d'Europa il
senato veneziano non poteva e non doveva più starsene isolato e da
sè, ma sì consentire a quelle congiunzioni che per la sicurtà dei
suoi Stati fossero necessarie, e che nissuna congiunzione migliore
poteva essere che un'alleanza con la Porta, la Francia e la Spagna.
Poco dopo Verninac, ministro di Francia a Costantinopoli, avuto un
segreto colloquio con Ferigo Foscari, bailo della repubblica, gli
aveva significato le medesime cose, protestando della amicizia della
sua repubblica verso quella di Venezia, e non solamente promettendo
sicurtà per tutto il territorio veneto, ma ancora dando speranza di
considerabile ingrandimento. Infine, in qualità di persona pubblica
procedendo, l'ambasciatore dava al bailo uno scritto, acciocchè lo
tramandasse al senato, in cui veniva ragionando che la repubblica
franzese, oltremodo tenera della quiete generale e della preservazione
degli Stati contro gli altrui disegni ambiziosi, si era risoluta a
non istarsene da sè, in mezzo all'Europa commossa; che a questo fine
desiderava congiungere a quella d'altrui tutta la forza sua; che
confidava che i governi interessati sarebbero disposti a secondarla;
che sperava che specialmente il senato veneto si mostrerebbe pronto
a concorrere a questo fine; che perciò proponeva al senato per mezzo
del bailo e per comandamento espresso del direttorio un'alleanza fra
le due repubbliche. Quindi, più apertamente spiegandosi, dicea sue
ragioni, perchè si avesse ad accettare la lega che il direttorio veniva
proponendo. Non avendo il bailo mandato per trattare una sì importante
materia, rispondeva pe' generali, offrendosi solamente di trasmettere
lo scritto di Verninac al senato.

Le medesime mosse diedero a Madrid il principe della Pace ai nobili
Bartolammeo Gradenigo e Almorò Pisani, a Parigi il ministro degli
affari esteri Lacroix al nobile Alvise Querini, finalmente a Brescia
Buonaparte al provveditor generale Francesco Battaglia. Quest'era
un concerto per maggiormente muovere la repubblica. Ma il senato non
avendo ancora deliberato, perchè i savi non gli avevano participato
affare di tanta importanza, il 27 settembre, quando appunto più
vive bollivano le pratiche di Clarke, si appresentava in Venezia al
serenissimo principe con un memoriale il ministro di Francia Lallemand,
col quale, annunziando che la repubblica franzese, desiderosa di
stringersi vieppiù in amicizia con l'antica sua amica la repubblica
di Venezia, le proponeva di nuovo per mezzo suo quello che già le era
stato proposto e da lui medesimo e da altri ministri di Francia, cioè
un'alleanza a difesa ed assicurazione de' suoi Stati; e caldamente
ragionando in acconcio della proposta, seguitava: offerirle il
direttorio la alleanza del popolo franzese; essere questo popolo,
fatto potentissimo per le sue vittorie in grado di dare al mondo, e
per quiete sua, quell'aspetto che gli piacerebbe, stipulerebbe patti
proficui e nobili per una nazione alleata; obbligherebbe tutte le sue
forze a difenderla, se i suoi vicini si attentassero di molestarla;
le mandasse il senato un negoziatore a Parigi, si concluderebbe un
trattato ad unione de' due popoli fondato sulla sincerità e sulla buona
fede, sole basi della politica franzese; già prepararsi la pace del
continente, già esser vicine a definirsi le sorti d'Italia; ogni cosa
dovere sperar Venezia congiunta in alleanza con Francia.

In tale modo instava con molta pressa Lallemand in cospetto del
serenissimo principe, e per aprir l'adito alle future cose, aggiungeva
altri discorsi ancora ed altri motivi, cui aiutava presso al senato
il provveditore Battaglia, il quale, non si sa bene perchè, si era
discostato, accettando le nuove, dalle antiche consuetudini del governo
veneziano.

Grave al certo deliberazione era questa e che importava alla somma
tutta della repubblica; perchè se da una parte si vedeva, che il
collegarsi con la Francia in mezzo a tanta vertigine di cose avrebbe
necessariamente condotto Venezia per sentieri insoliti, non mai battuti
da lei, e pieni d'un dubbioso avvenire, dall'altra il non collegarsi
poteva portare con sè una immediata pernicie; ed in questo non si era
infinto il ministro di Francia, avendo accennato a quale pericolo si
esporrebbe Venezia se a starsene scollegata e da sè continuasse. Questa
materia fu maturamente esaminata in una consulta di tutti i savi di
collegio, e, sebbene la sentenza in cui entrarono sia stata da molti
biasimata e da alcuni allegata come pretesto valevole di fare a Venezia
quello che le fu fatto; come se uno Stato independente fosse obbligato,
sotto pena di eccidio, di opinare come uno Stato forastiero vorrebbe
che opinasse, non si dubita di affermare che fu giusta, onorevole e
conveniente ai tempi. Concludevano adunque che se la fortuna franzese
preponderante non permetteva che si pendesse di più verso l'Austria,
la maggior fede dell'Austria non permetteva che si pendesse di più
verso la Francia. Pensarono finalmente, che se era destinato da' cieli
che la repubblica perisse, doveva ella perire piuttosto innocente che
rea, piuttosto per violenza altrui che per colpa propria, piuttosto con
compassione che con biasimo del mondo, e senza che ne fosse diminuita
la maestà del suo nome.

Serbando l'antica consuetudine di Venezia, come opinarono i Savi così
fu approvato dal senato, che signora di sè medesima, e da ogni vincolo
libera, si serbasse la repubblica. Rispondeva il senato gravemente a
Lallemand, che grate ed accette gli erano le dimostrazioni amichevoli
fatte dal governo della repubblica franzese, che appunto per queste
stesse disposizioni amichevoli sperava il senato che il direttorio
non avrebbe voluto condurlo a deliberazioni che verrebbero a produrre
effetti contrari all'intento; che per antico instituto la repubblica
di Venezia, lontana dall'ambizione e solita a temperare sè medesima,
aveva riposto il fondamento dell'esser suo politico nella felicità
e nell'affezione de' sudditi e nella sincera amicizia verso tutti
i potentati di Europa; del quale giusto ed immacolato procedere si
erano sempre, malgrado degl'inviti e delle sollecitazioni contrarie
in vari tempi fatte, essi potentati mostrati contenti; che per esso
ancora era stata la quiete conservata ai veneti dominii con utile
costante e contentezza inestimabile dei sudditi; che questa condotta
del senato, confermata dal corso di tanti secoli felici, non poteva
abbandonarsi senza incontrare inevitabilmente il pericolo di guerra;
che erano le guerre calamitose a tutte le nazioni, ma assolutamente
insopportabili al senato pel suo amore paterno verso i sudditi, per
la costituzione fisica e politica de' suoi Stati e per la sicurezza
delle nazionali navigazioni. Alle quali cose s'aggiungeva il pericolo
funesto di sconvolgere le basi del proprio governo, senzachè derivar
ne potesse alcun rilevante appoggio alle grandi nazioni alle quali
egli strettamente si unisse. Terminava il suo grave ragionamento con
dire, sperare che il direttorio, conosciuta la ingenuità e la verità
di queste considerazioni, le avrebbe per accette e non sarebbe per
alienare l'animo, nè in qualunque evento, dalla innocente Venezia, da
Venezia risoluta a conservare con ogni studio l'amicizia con Francia.

Rifiutata dal senato l'alleanza, con la Francia, restava a considerarsi
se non sarebbe stato utile e sicuro alla repubblica il collegarsi con
l'Austria. Ma a tutte le considerazioni prevalsero i consigli quieti,
perchè il senato non voleva pendere più da questa parte che da quella
e non voleva soverchiamente irritare contro di sè i repubblicani già
padroni di buona porzione de' suoi territorii. Nondimeno, poichè non
era da credere che l'Austria si tirasse indietro, potendo in mezzo
alla fortuna avversa l'accessione di Venezia aver recato peso nella
somma delle facende militari, se i Veneziani avessero congiunto le loro
armi con quelle dell'imperatore, massimamente quando erano queste cose
ancora minacciose e forti, avrebbero i Franzesi potuto ricevere grave
danno.

Ma patti pieni di molta sicurtà venne offerendo a questo tempo
medesimo a Venezia una potenza forte per proteggerla, lontana per
non darle ombra; la Prussia. Il barone di Sandoz-Rollin, ministro
plenipotenziario di Prussia a Parigi, in un abboccamento avuto col
nobile Querini, si fece avanti dicendo che con dolore infinito vedeva
la condizione del senato e delle venete provincie divenute campo e
bersaglio di una crudele guerra; lodò il consiglio del senato dello
aver saputo conservare in mezzo a tanto turbine e con tanto costo la
sincera neutralità; che migliore contegno non poteva nè immaginare
nè tenere il senato: soggiunse poi però che non doveva il senato
aspettare i tempi sprovveduto d'amici e collegato con nissuno, nè
abbandonare gl'interessi dello Stato ad un avvenire certamente molto
incerto e probabilmente tempestoso; che il governo che facevano i
Franzesi delle terre veneziane, con aver violato le leggi le più
sante della neutralità, poteva facilmente dar pretesto agli altri di
turbare l'attuale quiete e sicurezza della repubblica; che perciò gli
pareva, che la prudenza del senato il dovesse indurre a premunirsi
di qualche sostegno valevole a guarentire le sue possessioni contro
qualunque tentativo. Detto tutto questo, passava Sandoz-Rollin a
dire che ei credeva che la sola potenza con la quale la repubblica
avrebbe utilmente e sicuramente potuto stringersi in alleanza, fosse
la Prussia, perchè gl'interessi politici del re tanto erano lontani da
quei di Venezia, che il senato non poteva a modo nissuno sospettare
ch'ei volesse una tale alleanza procurarsi per qualche sua mira
particolare; che anzi era la Prussia la sola potenza che potesse
conservare l'incolumità e l'integrità dei dominii veneti; che a lui
pareva, tale essere l'opportunità e la necessità di questa alleanza,
che non fosse nemmeno da tenersi segreta; perchè la casa d'Austria non
poteva recarsi a male che la repubblica cercasse di guarentirsi dai
sinistri effetti delle correnti cose. Insistè finalmente il prussiano
ministro affermando, che doveva il senato con la sapienza e prudenza
sua internar la vista in un avvenire che non si poteva ben prevedere
qual fosse per essere, poichè fatalmente la presente guerra poteva aver
dato motivo a più d'uno di chiamarsi scontento dei Veneziani e di recar
loro col tempo qualche grave molestia.

Questo parlare e questa proferta tanto secondo il bisogno potevano
essere la salvazione di Venezia, ed ogni motivo di Stato concorreva a
far deliberare che si accettasse. Ben si era fino allora consigliato
il senato, seguitando il suo antico costume, di non congiungersi nè
con questa nè con quella parte; ma certamente fu pur troppo timorosa
risoluzione quella di non aver voluto accettare la lega tanto
necessaria e tanto opportunamente esibita dalla Prussia; abbenchè, come
trovasi scritto, questo rifiuto non sia stato colpa del senato, ma sì
piuttosto degl'inquisitori di Stato, checchè a ciò fare li movesse,
e dei savii, che avuto il dispaccio del Querini, nol rappresentarono,
avendo da loro medesimi deliberato di scrivergli che non entrasse in
questo trattato.

Intanto si laceravano dai belligeranti i sudditi veneziani con ogni
maniera di più immoderata barbarie. Pretendendo parole soavi di
amicizia, rapivano nei miserandi territorii veneti, non solo per
necessità, ma anche per capriccio, non solo per forza, ma anche con
violenze, non solo con comando ma anche con ischerno, le vite, l'onore
e le sostanze di coloro che amici chiamavano. Quello poi che era
involato per forza era profuso per iscialacquo; il paese desolato,
i soldati sì vincitori che vinti si consumavano per mancamento di
ogni genere necessario; chi per ufficio o per grado aveva debito di
provvedere ai soldati e di ritirarli dalia barbarie, si arricchiva;
il perchè si vedevano capi ricchi, soldati squallidi. Le case
s'incendevano, gli alberi fruttiferi si atterravano, le ricolte
preziose si sperdevano da questi sfrenati. Pubblicavansi dai generali
ordini e regole per frenare tanta rabbia; ma vano era il proposito,
perchè quando si veniva alla esecuzione, si andava molto rimessamente,
essendo i capi intinti. A questo tempo medesimo gli eserciti di
Francia governati sul Reno da Moreau e da Jourdan, assai diversi erano
dal buonapartiano per moderazione e per rispetto ai vinti. In fatti
venne in Italia dal Reno la schiera di Bernadotte, che temperatamente
portandosi, e con maggior disciplina delle altre procedendo, era
cagione che a gara le città italiche in presidio la chiamassero. Per
questo le compagne la chiamavano la schiera aristocratica, e vi furono
delle male parole e dei peggiori fatti in questo proposito. Di tante
enormità si lamentava il veneziano senato con tutti e da per tutto; le
giustissime querele non facevano frutto.

Nè meglio erano rispettate da coloro che accusavano Venezia di
non esser neutrale, le sostanze pubbliche che le private. Verona
massimamente era segno della repubblicana furia. Vi rompeva a capriccio
suo Buonaparte le porte delle fortificazioni, toglieva per forza le
chiavi della porta di San Giorgio all'ufficiale veneto, portava via
dalle mura le artiglierie di San Marco, poneva le sue là dove voleva,
prendeva l'armi, prendeva le munizioni ammassate nell'armeria e nelle
riposte veneziane, demoliva i molini, ardeva le ville della campagna
quando credeva che a' suoi bisogni importasse; occupava finalmente
i forti, vi ordinava mutazioni e lavori e vi piantava le insegne
franzesi. Chiodava poi a Porto-Legnago le artiglierie veneziane,
tagliava i ponti levatoi, rompeva i ponti del fiume; occupava
forzatamente il castello di Brescia, e postovi presidio, a grado suo il
fortificava. Quindi, mandato innanzi a Bergamo Cervoni per ispiare e
per sopravvedere i luoghi, quantunque nessuna strada fosse aperta per
quelle valli a calate di Tedeschi, occupava improvvisamente con sei
mila soldati la città ed il castello di Bergamo, dove attese, come a
Brescia, a fortificarsi. Involava, armata mano, una cassa dell'arciduca
di Milano depositata in casa del marchese Terzi sul territorio
bergamasco; e finalmente levava le lettere dalle poste veneziane,
aprendole per vedere che cosa portassero.

Considerando l'aspro governo fatto degli Stati veneziani, non si sa con
qual nome chiamare l'enormità di quel Rewbel, uno dei quinqueviri di
Parigi, il quale si lamentava che i Veneziani non amassero i Franzesi.

Trattati a questo modo gli Stati della repubblica di Venezia,
apparivano interamente mutati da quello che erano prima che quella
feroce illuvie li sobbissasse. Intanto gli atroci fatti inasprivano
gli animi e gli riempivano di sdegno parte contro il senato, come se
senza difesa desse in preda i popoli a nemici crudeli, porle contro
i commettitori di tanti scandali. Da tutto questo ne nacque, che le
popolazioni della terra ferma, tocche da quel turbine insopportabile,
domandavano al senato ordini, armi e munizioni per difendersi con la
forza da coloro, presso ai quali l'amicizia era mezzo, non impedimento,
al danneggiare. Il senato piuttosto rispettivo che prudente cercava di
mitigar gli animi, e quanto all'armi, andava temporeggiando, sperava
che qualche caso di fortuna libererebbe i dominii da ospiti tanto
importuni, e perchè temeva che chiamati i popoli all'armi, non fosse
più padrone di regolare e frenare i moti incominciati, con grave
pregiudizio e pericolo della repubblica.

Peraltro non così tosto il senato ebbe avviso delle minacce fatte
da Buonaparte il di 31 maggio in Peschiera al provveditor generale
Foscarini, si accorse che non vi era più tempo da perdere per
apprestar le difese, non già per la terra ferma quasi tutta disarmata
ed occupata dai repubblicani, ma almeno pel cuore stesso della
repubblica, con assicurare tutte le parti dell'estuario con armi sì
terrestri che marittime. Si è narrato, come il generale repubblicano
avesse affermato, con modi peggio che amichevoli, che aveva ordine
dal direttorio di ardere Verona e d'intimare la guerra ai Veneziani.
A tale gravissimo annunzio, pervenuto celerissimamente per messo
apposta spedito da Foscarini, si adunava il senato a tutta fretta e
con voti unanimi decretava, si comandasse al capitano del golfo che
si riducesse tosto con tutta l'armata della repubblica nelle acque
di Venezia; si levassero incontanente in Istria, in Dalmazia ed in
Albania in quanto maggior numero si potessero le cerne ed ai veneziani
lidi si avviassero; i reggimenti stessi già ordinati, che avevano
le stanze in quelle province, senza indugio alla volta di Venezia
s'indrizzassero; si chiamassero nelle acque dell'Istria tutte le navi
che si trovavano nell'Ionio sotto il governo del provveditor generale
da mare e con queste anche le due destinate a portare il nuovo bailo
della repubblica a Costantinopoli. Queste deliberazioni furono prese il
dì primo di giugno. Siccome poi l'unità dei consigli è il principale
fondamento dei casi prosperi, così trasse il senato, il dì 2 dello
stesso mese, provveditor delle lagune e lidi Giacomo Nani, dandogli
autorità e carico di armare nel modo che più acconcio gli paresse tutto
l'estuario. Gli diede per luogotenente Tommaso Condulmer, affinchè
avesse cura particolare delle navi sottili allestite per custodia dei
lidi e delle bocche dei fiumi. Ebbero queste provvisioni del senato
presto effetto; perchè in poco tempo si videro fortificati e presidiati
i posti principali di Brondolo, Chiozza, Portosecco, San Pietro
in Volta, San Nicolò di Lido, Malamocco. A Brondolo specialmente,
dove mettono foce i fiumi Adige, Canalbianco e Brenta, furono fatti
stanziare i bastimenti più sottili. Già arrivavano, siccome quelle
che erano state mandate con molta sollecitudine, in Venezia e nei
circonvicini luoghi le soldatesche del mare Ionio, dell'Albania, e
della Dalmazia; piene ne erano le case, pieni i conventi dei lidi,
piene le isole vicine alla metropoli. Perchè poi l'erario potesse
bastare a questo nuovo stipendio, fu posta una tassa sui beni stabili
di Venezia e del dogado a cui diedero il nome di _casatico_. Per cotal
modo Venezia, spinta dalla vicina guerra, si apprestava a difendere
l'estuario, nel quale consisteva la vita della repubblica.

Un famoso storico franzese dei nostri tempi, lasciandosi trasportare ad
una parzialità tanto più degna di riprensione quanto è diretta contro
il misero, si lasciò uscir dalla penna, troppo incomportabilmente
scrivendo, che queste provvisioni del senato veneziano furono fatte
prima delle minaccie dei Franzesi. Al che un altro non men famoso
storico italiano giustamente si oppone in questo modo: «Eppure è
chiaro e manifesto a chi vorrà solamente riscontrare le date che le
provvisioni medesime furono fatte dopo ed a cagione delle minaccie
intimate da Buonaparte al provveditor generale Foscarini: imperciocchè
minacciò Buonaparte il dì 31 maggio, deliberò il senato il dì primo e
secondo di giugno. Il perchè l'allegazione dello storico è contraria
alla verità, e crudele a Venezia; che se poi egli pretendesse che
Venezia, sentite le mortali minaccie di Buonaparte, non doveva armarsi,
staremo a vedere s'ei dirà che la Francia non doveva armarsi sentite
le minaccie di Brunswick e di Suwarow. Quanto poi ai sommi geografi
così franzesi come italiani, i quali sostengono l'opinione del citato
storico, saria bene che ci dicessero quale maggiore distanza vi sia,
o qual maggiore difficoltà di strade tra Peschiera e Venezia che tra
Parigi e Roano. Saria anche bene che ci dicessero, caso che nascesse
oggi in Roano un accidente che minacciasse di totale ruina lo Stato
della Francia, se il governo non delibererebbe in proposito il dimane
a Parigi. Veramente quando l'uomo vuol impugnare la verità conosciuta,
diventa ridicolo...........

«Il medesimo storico, a fine di pruovare la parzialità de' Veneziani
verso l'Austria, narra come non così tosto dimostrò l'imperatore
desiderio che la repubblica non conducesse a' suoi stipendii il
principe di Nassau, il governo veneziano se ne rimase. Ma la verità è,
che il consiglio di condurre il principe fu dato dal provveditor delle
lagune Nani, e che questo consiglio era già stato rifiutato, non già
dal senato, al quale non fu mai riferito dai Savi, ma sibbene dai Savi
medesimi, molto innanzi che l'imperator d'Austria manifestasse il suo
desiderio. Ma volontieri mi sono io indotto a parlare di questo fatto,
perchè quando anche fosse vero, che è falso, non si vede come per una
condiscendenza di Venezia verso l'imperatore si dovesse venire alla
distruzione di lei.»

Al tempo stesso in cui il senato ordinava l'apparato militare delle
lagune, temendo che la Francia s'insospettisse con credere ch'ei
pensasse di portar più oltre di una legittima difesa, in caso di
assalto, i suoi provvedimenti, scriveva un dispaccio al governo
franzese, col quale andava esponendo che mentre la repubblica di
Venezia se ne viveva tranquilla all'ombra della più puntuale neutralità
e della sincera e costante sua amicizia verso la repubblica Franzese,
erano gli animi del senato rimasti vivamente trafitti dal colloquio
avuto dal generale Buonaparte col provveditore generale Foscarini, dal
quale si poteva argomentare un'alterazione nell'animo del direttorio
contro Venezia; che dal canto suo il senato si persuadeva di non aver
dato occasione a tale alterazione: che era conscio specialmente di non
meritare alcun rimprovero per l'occupazione di Peschiera contro di cui
non era restato alla repubblica disarmata e solo fondantesi sulla buona
fede delle nazioni sue amiche, altro rimedio che la più ampia e solenne
protesta e la più efficace domanda della restituzione, siccome infatti
non aveva omesso nel momento stesso di fare; potere lo stesso generale
Buonaparte rendere testimonio dello aver trovato inermi e tranquille le
città veneziane, e della prontezza con la quale i governatori veneziani
ed i sudditi somministravano, anche in mezzo alle angustie dei viveri,
quanto era necessario al suo esercito. Aggiungeva a tutto questo
il senato, essere suo costante volere il conservare la più sincera
amicizia colla Francia, e pronto a dare quelle spiegazioni ed a fare
quelle dimostrazioni dei sentimenti proprii, che fossero in suo potere
per confermare quella perfetta armonia che felicemente sussisteva fra
le due nazioni.

Frattanto il ministro Lallemand, e questa fu una nuova ingiuria fatta
a Venezia, domandava al senato perchè ed a qual fine si apprestassero
quelle armi, come s'ei non sapesse che il perchè erano le minacce di
Buonaparte a Foscarini, e che il fine era il difendersi in una guerra
che lo stesso Buonaparte aveva dichiarato dover fare fra pochi giorni a
Venezia. Si maravigliava inoltre il ministro che simili apprestamenti
guerrieri allora non si fossero fatti quando instavano presenti gli
Austriaci sul territorio della repubblica, come se egli non sapesse,
che l'Austria non aveva mai minacciato di guerra Venezia come la
Francia per mezzo di Buonaparte aveva fatto. Richiedeva finalmente
si cessassero quelle armi dimostratici di una diffidenza ingiuriosa e
contraria agl'interessi ed alla dignità della repubblica Franzese; il
che significava che si voleva far guerra a Venezia, e che non si voleva
ch'ella si difendesse.

Rispondeva pacificamente il senato, le armi che si apprestavano essere
a difesa, non ad offesa; voler solo tutelare l'estuario, non correre la
terra ferma; pacifica esser Venezia, volere vivere amicizia con tutti;
in mezzo ad opinioni tanto diverse, a discorsi tanto infiammativi,
a moltitudine sì grande di forastieri che abbondavano nella città,
dovere il governo pensare alla quiete ed alla sicurezza del pubblico: a
questo fine essere indrizzati i nuovi presidii ed a fare che, siccome
l'intento suo era di non offendere nissuno, così ancora nissuno il
potesse offendere: sperare che il governo franzese meglio informato
dei veri sensi della repubblica, deporrebbe qualunque pensiero ostile
contro di lei e persevererebbe, ora che la Francia tanto era divenuta
potente, in quella stessa amicizia che il senato le aveva costantemente
ed a malgrado di tutte le suggestioni ed instigazioni contrarie
conservata, quando la Francia medesima era pressata da tutte le potenze
d'Europa; che finalmente pel senato non istarebbe che un sì desiderato
fine si conseguisse: a questo tutti i suoi pensieri, a questo tutti i
suoi consigli, a questo tutte le sue operazioni dirizzare.

Mostravasi il ministro di Francia appagato della risposta, avendo
affermato a Francesco Pesaro, destinato dalla repubblica a conferire
con esso lui sulle facende comuni, ch'egli era grato al senato per la
gentile e soddisfacente risposta fattagli; ch'ella non poteva essere
nè più sincera nè più appagante; che incontanente l'aveva spedita
a Buonaparte, e che sperava che una sì solenne manifestazione dei
pubblici sentimenti avesse ad essere una pruova irrefragabile di quanto
egli aveva sempre rappresentato: insomma egli si chiamava contento
intieramente e tranquillo. A questo modo parlava Lallemand il 10
luglio; eppure questo medesimo giorno egli scriveva al ministro degli
affari esteri a Parigi, che il senato armava gli stagni col fine di far
odiar dal popolo i Franzesi; che il generale Buonaparte, richiesto di
rimborsi, aveva con ragione risposto che i Franzesi erano entrati nei
diritti dei Ferraresi sopra i paesi della repubblica, e che avevano
per cosa propria Peschiera, Brescia e gli altri luoghi occupati. Tanta
poi è la forza della verità anche in coloro che vorrebbero servire ad
interessi contrarii, che il medesimo Lallemand, scrivendo pochi giorni
dopo a Buonaparte, affermava che era verissimo che il governo veneziano
si era mostrato molto avverso alla rivoluzione franzese ed aveva
nutrito con molta cura nel cuore dei sudditi l'odio contro i Franzesi;
ma che in quel momento era vero del pari che sincere erano le sue
protestazioni di neutralità e di buona amicizia verso la Francia; che
le male impressioni lasciavano poi luogo alla considerazione de' suoi
veri interessi; che quanto all'armare, quantunque dubbiosi potessero
essere i motivi, pareva a lui che, tale qual era, non potesse far
diffidare della fede veneziana; che troppo le armi apprestate erano
deboli da dare giustificata cagione di temere; che con gli occhi suoi
proprii vedeva, che i preparamenti che si facevano, non avevano altro
fine che di custodire le lagune ed i lidi vicini, e che insomma tutto
quell'apparato non aveva in sè cosa che fosse ostile contro la Francia.
Quest'era il testimonio di Lallemand che ocularmente vedeva. Pure
gridossi per questo medesimo fatto dell'armamento delle lagune, guerra
e distruzione a Venezia. Così Venezia, segno di tanti inganni, se
armava era stimata nemica, se non armava, perfida; i tempi tanto erano
perversi che anche in chi conosceva la verità, si annidava la calunnia;
la pace non le era più sicura della guerra, nè la guerra della pace;
l'estremo fatto già la chiamava.

Tali erano i pensieri e le opere di Buonaparte e del direttorio verso
la repubblica di Venezia; ma questi insidiosi disegni furono interrotti
da una nuova calata d'armi imperiali in Italia.

Sempre più si scoprivano i pensieri del vincitore generale della
repubblica indiritti a turbare tutta l'Italia. Si è già descritto, come
per quel principal fine dell'aver la pace coll'imperadore il direttorio
di Parigi e Buonaparte, mandato Clarke, offerivano patti di diversa
natura ora all'imperadore medesimo, ora alla repubblica di Venezia,
ora a quella di Genova, ed ora al re di Sardegna. L'Austria, inquieta
per le calamità a cui era stata sottoposta, non si mostrava aliena se
non di conchiudere, almeno di negoziare, e per questo aveva mandato a
Vicenza il generale San Giuliano, acciocchè si abboccasse con Clarke.
Anche l'Inghilterra, mossa dal pericolo dell'imperadore e dalla forza
della repubblica franzese, che ogni di più pareva insuperabile, si era
piegata, benchè mal volontieri, a voler trattare, ed aveva mandato
a questo fine lord Malmesbury in Francia. Tutti pretendevano voci
di voler rimuovere tanto incendio dalla Europa afflitta e di aver a
cuore lo stato salutifero dell'umanità. Ruppero questi negoziati le
vittorie dell'arciduca Carlo in Germania, che compensarono le sconfitte
di Beaulieu e di Wurmser in Italia. Imperò gli alleati si fecero più
renitenti, e di nuovo convenne venire al cimento delle armi. Solo
la Sardegna, che era ridotta piuttosto in potestà della Francia che
nella propria, aveva concluso un trattato di lega difensiva, avendo
il re costantemente ripugnato ad una lega offensiva a motivo della
guerra imminente col papa; il quale trattato il direttorio non volle
ratificare.

Adunque il direttorio, trovata tanta fermezza nell'Austria,
nell'Inghilterra e nel papa, che continuamente si preparava alla
guerra, e dubitando che questo modo potesse estendersi più oltre,
perchè non si fidava di Napoli, si consigliava di voler provare se il
timore delle rivoluzioni potesse sforzare i potentati a far quello che
il timore dell'armi non aveva potuto.

A questo fine erano indirizzati i moti dell'Emilia e le instigazioni di
Trento. Ma, per parlar de' primi, si voleva da Buonaparte che a quello
che da principio aveva potuto parere frutto disordinato della guerra
succedesse uno stato regolato ed un assetto più giusto di costituzione.
Anche sperava il generalissimo di accendere con questo allettativo
d'independenza talmente que' popoli già di per sè stessi tanto
accendibili, che un fanatismo politico avesse a pareggiare gli effetti
di quell'ardore religioso che per difesa propria il pontefice facea
sorgere in Italia contro i conquistatori.

Erasi inditto il congresso de' quattro popoli dell'Emilia, Modenesi,
Reggiani, Bolognesi, Ferraresi il dì 27 dicembre, malgrado di
Buonaparte, che avrebbe desiderato che più presto si adunassero per
dar cagione di temere al papa in tempo, in cui bollendo ancora le
pratiche, non aveva ancora il pontefice rifiutato la pace. Convennero
in Reggio i legati dei quattro cispadani popoli, trentasei Bolognesi,
venti Ferraresi, ventidue Modenesi, ventidue Reggiani. Avevano
mandato amplissimo di fare quanto alla salute della repubblica si
appartenesse; l'unione massimamente de' quattro popoli in un solo stato
procurassero. Grande era il calore, grande l'entusiasmo di quegli
spiriti repubblicani. Ordinarono, ad alta voce, non a voti segreti
si squittinassi. Poi fecero una congregazione d'uomini eletti dalle
quattro provincie, affinchè proponessero i capitoli della unione.
Fu l'unione accettata con tutti i voti favorevoli. Accrebbero la
giubbilazione gli uomini deputati di Lombardia Milanese venuti ad
affratellarsi; erano Porro, Sommariva, Vismara da Milano, Visconti da
Lodi, Gallinetti da Cremona, Mocchetti da Casalmaggiore, Lena da Como,
Beccaria da Pavia. Orarono conforme all'occasione; fu fatto risposta da
Facci presidente con gratissime parole.

Aprivansi in questo le porte del consesso; il reggiano popolo, bramoso
di vedere e di udire, lietamente entrava. Gravemente Fava da Bologna
a nome della congregazione degli uomini eletti intorno all'unione de'
quattro popoli favellava. Chiamarono di nuovo con segni d'inudita
allegrezza la cispadana confederazione, chiamarono la unità della
repubblica. Fu piena la città di giubbilo; credevano che quel giorno
fosse per essere principio di felici sorti. Ed ecco in mezzo a tanta
allegrezza sopraggiungere l'aiutante generale Marmont, mandato da
Buonaparte ad incitare ed a sopravvedere. Introdotto al cospetto del
congresso, gli applausi, le grida, le esultazioni montarono al colmo.
Postergata la dignità, tanta era l'ardenza, avevano i legati piuttosto
sembianza di energumeni che di uomini gravi chiamati a far leggi.

L'entusiasmo de' Cispadani piaceva a Buonaparte, perchè sperava di
cavarne denaro, gente armata, spavento al papa. Infatti aveva il
congresso statuito, che una prima legione italica si formasse; nè
questa truppa oziosamente si ordinava: correvano gli uomini volentieri
sotto le insegne; il generalissimo gli squadronava e faceva reggere da'
suoi ufficiali. Ma se dall'un lato egli era contento della disposizione
degli animi nella repubblica Cispadana, dall'altro non si soddisfaceva
della composizione del congresso; perchè avrebbe voluto vedere in lui,
per quel suo intento di far paura al papa, nobili, preti, cardinali ed
altri cittadini di maggior condizione, che patriotti fossero stimati;
e quantunque alcuni e nobili e preti vi sedessero, non era il numero
nè il nome di quella importanza ch'egli desiderava. Per questo, si
lamentava che Garreau e Saliceti, commissarii del direttorio, gli
guastassero i suoi disegni, procedendo con soverchio calore in queste
instigazioni, e chiamando al reggimento dello Stato uomini di poca
entità, o troppo risentitamente repubblicani. Spesso ei si querelava
con questi commissarii e gli ammoniva con forti riprensioni, ma essi,
se non apertamente, almeno nascostamente continuavano ad incitare ogni
sorte di persone.

Scriveva il congresso il di 30 dicembre a Buonaparte, essersi
i cispadani popoli costituiti in repubblica, e ne lo invocava
padre, protettore. A queste lettere, ricevute con lieta fronte dal
conquistatore, rispondeva egli, aver udito con molto contento l'unione
delle quattro repubbliche, ma inculcare loro soprattutto d'ordinarsi
alle armi, perchè senza la forza le leggi non valgono. Il congresso
annunziava quindi ai popoli la creazione della repubblica, lodando
Francia, lodando Marmont, lodando Buonaparte vincitore.

L'esempio della Cispadana partoriva mutazioni notabili in Lombardia;
perchè i Milanesi, non volendo parer da meno che i popoli dell'Emilia,
facevano un moto, correndo sulla piazza ed intorno allo albero della
libertà affollandosi, gridavano sovranità e independenza, e volevano
costituirsi in repubblica Traspadana. Ma Baruguay d'Hilliers, generale
che comandava alla piazza di Milano e che conosceva la mente di
Buonaparte, ne faceva carcerare gli autori principali, che erano i
patriotti più ardenti.

Intanto ogni dì più cresceva lo squallore dei soldati vincitori
d'Italia, tanta era la voragine, non diremo della guerra, ma dei
depredatori. Per rimediarvi andava Buonaparte immaginando nuovi modi
per trar denaro dai popoli già sì grandemente smunti ed impoveriti;
scosse l'Emilia, scosse la Lombardia; traeva le intime sostanze dalle
viscere delle nazioni: pure il peculato era più forte di queste estreme
fonti di denaro.

In fatti i rubatori, gente fraudolenta ed avara, erano una peste
invincibile. Buonaparte che, per la mancanza delle cose necessarie,
vedeva in pericolo le sue operazioni, ne arrabbiava: li chiamava
ladri, traditori, spie; ora ne faceva pigliare uno, ora cacciare un
altro; ma nulla giovava. L'Italia pativa, i soldati pativano, gli
amministratori infedeli trionfavano. «Potè, sclamava dispettosamente
Buonaparte, il marasciallo di Berwick far impiccare l'amministratore
supremo del suo esercito, perchè vi erano mancati i viveri, ed io non
potrò in mezzo all'Italia, paese di tanta abbondanza, quando i miei
soldati sono perniciosi e stremi di ogni cosa, spaventar con le opere,
perchè le parole non giovano, questo nugolo di ladri?» Così dentro sè
stesso si rodeva; ma eran novelle, perchè l'oro d'Italia si dispensava
anche a Parigi; perciò i rubatori erano indenni. Riempiva Buonaparte
di querele Italia e Francia; intanto andava a ruba l'Italia. Cuocevano
infinitamente a lui gli infiniti e in infinite guise diversificati
ladronecci, e faceva formare ai rei gravissimi processi dalle diete
militari, instando perchè fossero dannati a morte, a motivo, come
diceva, che non erano ladri ordinari, ma tali che con le malvagie opere
loro interrompevano il corso alle vittorie, od erano almeno cagione
che con più sangue si acquistassero. Ma si lamentava che vi fossero in
queste diete dei segreti maneggi onde i rei se ne andavano od assoluti
o condannati a pene nè proporzionate al delitto nè capaci di spaventare
i compagni.

Or è da far passaggio dall'avarizia degl'involatori al furore degli
armati: incominciarono le armi a suonare più orribilmente che
prima sulle italiane terre. Non aveva il direttorio pretermesso
alcun ufficio per inclinare l'imperadore alla pace: Buonaparte
scriveva all'imperadore Francesco, che s'ei non si risolvesse alla
pace, colmerebbe, per ordine del direttorio, il porto di Trieste e
guasterebbe tutte le sue possessioni dell'Adriatico. Ma i prosperi
successi dell'arciduca Carlo in Germania avevano ridesto nell'Austria
la fiducia di sostenere le cose d'Italia, ed anzi di riconquistare gli
Stati perduti; però non volle consentire agli accordi.

Il fondamento di questo nuovo moto era Mantova. Non era ignoto a Vienna
che il presidio era ridotto all'estremo, e che solo si sosteneva per
la costanza veramente maravigliosa dell'antico Wurmser. Nè solo il
maresciallo vinceva con l'animo invitto l'urto delle armi nemiche,
ma ancora la minaccia barbara e vile fattagli dal direttorio, che
se non desse la piazza in mano della repubblica, sarebbe, quando si
arrendesse, condotto a Parigi e giudicato qual fuoruscito franzese.
Vide l'Austria che non era tempo da aspettar tempo, e che il pericolo
di Mantova ricercava prestissima espedizione; perciò adunava con
celerità ammirabile un nuovo esercito di più di cinquanta mila
combattenti, pronto a calare per mettere di nuovo in forse la fortuna
franzese che già tanto pareva stabile e sicura. Di tanta mole si
mandavano venticinque mila soldati freschi nel Tirolo e nel Friuli,
e, tanto era l'ardore loro, che davano speranza di vittoria. Infatti
nelle battaglie che poco dopo seguirono, combatterono non solo con
valore, ma ancora con furore, siccome quelli che erano cupidi, non
solo di ricuperare i paesi perduti, ma ancora di scancellare l'offesa
fatta alle armi imperiali dalle precedenti sconfitte. L'emolazione
altresì verso i soldati di Germania operava efficacemente nelle
menti loro e le vittorie dell'arciduca gli stimolavano. Fu posto al
governo di queste fiorite genti il generale d'artiglieria Alvinzi, già
pratico delle guerre d'Italia e nel colmo della riputazione; e siccome
quegli che era di natura pronta e speditiva, si sperava che fosse per
allontanare da sè ogni lentezza. Alvinzi ordinava che una parte guidata
da Davidowich scendesse dal Tirolo con venti mila soldati, e conculcati
i Franzesi che colà stanziavano alla difesa dei passi, se ne venisse a
sboccare per Castelnuovo fra l'Adige e il Mincio. Egli poi con trenta
mila combattenti venuti dalla Carniola e dal Cadorino, si proponeva
di varcare il Tagliamento, la Piave e la Brenta, combattendo i
repubblicani ovunque li trovasse, e quindi varcato, il fiume più grosso
dell'Adige, dove l'occasione migliore si appresentasse, di congiungersi
con Davidovich e di marciare unitamente alla liberazione di Mantova.
Già varcati con fatica incredibile i monti della Carniola e traversati
torrenti grossi ed impetuosi, erano, quando il mese di ottobre si
avvicinava al suo fine, giunti gl'imperiali sulle sponde della Piave, e
si accingevano a dar principio alla terza guerra.

Non erano a tanta mole pari pel numero i Franzesi, perchè certamente
non passavano i quaranta mila noverati gli assediatori di Mantova.
A questi nondimeno debbonsi aggiungere gl'Italiani ed i Polacchi
ordinati a Milano e nella Cispadana, che, sebbene Buonaparte non se ne
servisse nelle battaglie giuste, erano a lui di grandissima utilità ed
accrescevano la sua forza, perchè tenevano i presidii nelle piazze,
contenevano il papa, e facevano il paese sicuro infino alla Romagna
ed al Veneziano. Trovavansi allora i Franzesi raccolti nelle stanze,
perchè Kilmaine con otto mila soldati stava attorno a Mantova, Augereau
con altrettanti custodiva le sponde dell'Adige; Massena, sempre il
primo ad essere esposto alle percosse del nemico, alloggiava sulla
Brenta, Vaubois assicurava il Tirolo con dieci mila soldati. In fine,
una schiera di riserbo, in cui si noveravano circa tre mila soldati tra
fanti e cavalli, era distribuita negli alloggiamenti di Brescia sotto
la condotta dei generali Macquart e Beaumont.

Aveva Buonaparte comandato a Vaubois, impedisse ad ogni modo il passo
a Davidowich, e volle che, ancorchè inferiore di forze, non aspettasse
il nemico, ma lo andasse ad assaltare nei proprii alloggiamenti:
soprattutto il cacciasse dei luoghi tra il Lavisio e la Brenta. Egli
intanto si apprestava ad arrestare con Massena ed Augereau l'impeto di
Alvinzi che, già arrivato sulle rive della Brenta ed avendola passata,
faceva le viste di volersi incamminare verso Verona. Guyeux, obbedendo
agli ordini di Vaubois, assaltava San Michele, terra posta al Livisio,
con intento, se la battaglia riuscisse prospera, di correre contro
Newmark. Fu grande la resistenza che incontrava: tre volte andarono
alla carica con grandissima animosità i Franzesi, e tre volte erano
con grave uccisione risospinti. Era la fazione di grande importanza,
perchè dall'esito dipendeva la conservazione o la conquista del Tirolo,
e soprattutto la congiunzione o non congiunzione delle due schiere
alemanne, capo principalissimo dei disegni fermati a Vienna per la
ricuperazione d'Italia. In fine, fattosi dai Franzesi un ultimo sforzo,
entravano in S. Michele e se ne impadronivano.

Bene auguravano i Franzesi dei fatti loro in Tirolo, ma non fu loro
ugualmente favorevole la fortuna a destra verso Segonzano; il che
interruppe tutti i pensieri loro, e da vincitori diventarono vinti.
Aveva bene Fiorella espugnato il castello di Segonzano; ma, non avendo
sloggiato prima l'inimico da Bedole, questi, scendendo improvvisamente,
lo assaliva sul fianco destro ed alla coda, talmente che fu commessa
non poca strage dei suoi, e fu costretto a ritirarli più che di passo
verso Trento. S'aggiunse che Davidowich medesimo, udite le novelle
dell'assalto dato ai Franzesi, si era calato col grosso de' suoi a
soccorrere la vanguardia; di modo che non fu lasciato altro scampo ai
repubblicani, se non volevano essere tagliati tutti fuori ed a pezzi,
che quello di ritirarsi più sotto, lasciando, dopo breve contrasto
sotto le mura, la città stessa di Trento in balia degli antichi
signori. Successe questo fatto a' 2 di novembre; due giorni dopo
entrava Davidowich in Trento.

Vaubois, dopo di aver combattuto infelicemente a Segonzano, andava a
porsi alla bocca delle strette di Calliano, alloggiamento intorno al
quale si era persuaso, per la sua fortezza, doversi fermare l'impeto
de' vincitori. Tenevano in guardia questo forte luogo quattro mila
soldati eletti, che aspettavano confidentemente l'incontro del nemico.
Marciava Davidowich, sospinto dalla prosperità della fortuna, grosso
e minaccioso, dopo l'occupazione di Trento, all'ingiù dello Adige.
Avrebbe potuto, invece di assaltar di fronte quel luogo tanto munito
di Calliano, girato prima alla larga per le eminenze, scendere poscia
e riuscire per la valle di Leno alle spalle del nemico. Ma qual si
fosse la cagione, amò meglio venirne alle mani in una battaglia giusta.
Combattessi il giorno 6 di novembre con incredibile audacia e vario
evento da ambe le parti, sforzandosi gl'imperiali di superare il
passo: restarono i repubblicani superiori, fu l'assalto degli Alemanni
infruttuoso. Ricominciavasi il giorno 7 una ferocissima battaglia,
in cui, come fu il valore uguale da ambe le parti, così fu varia la
fortuna. Venne verso le 5 ore della sera il castello di Bezeno in poter
de' Croati; il presidio, parte preso, parte tagliato a pezzi. Poco
stante cedeva anche il castello della Pietra; ma di nuovo i Franzesi se
ne impadronivano e di nuovo ancora lo perdevano. Con lo stesso furore
si combatteva ne' luoghi più bassi verso Calliano, e fu quel forte
passo, preso ripreso, perduto riconquistato più volte, ora da questi,
ora da quelli. Era tuttavia dubbia la vittoria, quando improvvisamente
udissi fra i Franzesi un gridare, salva, salva, per cui ad un tratto si
scompigliava tutto il campo e si metteva in rotta. Non si perdeva per
questo d'animo Vaubois, e raccolti meglio che potè i suoi, e calatosi
vieppiù per le rive dell'Adige, andava ad alloggiare ne' siti forti
della Corona e di Rivoli. Roveredo intanto e tutte le terre circostanti
tornarono sotto la devozione dell'antico signore. Questa fu la seconda
battaglia di Calliano, non inferiore alla prima, nè a nissuna, pel
valore e per l'ostinazione mostrata da ambe le parti.

Questa vittoria avrebbe potuto partorire la ruina de' repubblicani, se
Davidowich tanto fosse stato pronto a seguitare il corso della fortuna
prospera, quanto erano stati valorosi i suoi soldati al combattere.
Ma per una tardità o negligenza certamente inescusabile, se ne stava
più di dieci giorni alle stanze di Roveredo, con lasciare quasi quiete
l'armi, e non si moveva per alle fazioni del Mincio se non quando la
fortuna, per la perizia e velocità di Buonaparte, aveva già fatto una
grandissima variazione tra la Brenta e l'Adige.

Erasi il generalissimo Alvinzi fatto signore del passo della Brenta
con occupare Bassano, Cittadella e Fontaniva, ed avendo avuto avviso
delle prime vittorie di Davidowich nel Tirolo, aveva ordinato che i
suoi varcassero il fiume. Buonaparte, confidando di compensare con
la celerità quello che gli mancava per la forza, aveva fatto venire
a sè, oltre le schiere tanto valorose di Massena e di Augereau,
le guarnigioni di Ferrara, Verona, Montebello e Legnago. Era suo
pensiero di assaltare Alvinzi, di romperlo, e, camminando quindi con
somma celerità per la valle verso le fonti della Brenta, di riuscire
alle spalle di Davidowich, e di sgombrare per tal modo e al tempo
stesso l'Italia ed il Tirolo dalla presenza degli Austriaci; pensiero
certamente molto audace e da non venir in capo che a lui, che tutto
era, per la gioventù e pel vigor d'animo, coraggio e prestezza. Urtava
Augereau Quosnadowich, Massena Provera: ne nasceva il dì 6 novembre una
sanguinosa zuffa. Dure furono le prime italiche battaglie, ma questa
è stata molto più: il valore degno della fama austriaca e franzese.
Quosnadowich, benchè, dopo perduto e ripreso più volte il villaggio
delle Nove, finalmente il perdesse del tutto, seppe tanto acconciamente
postarsi che si mantenne unito e rendè vano ogni sforzo del suo animoso
avversario. Ma dall'altro lato non si combattè tanto felicemente per
Provera contro Massena; perchè, sebbene l'Austriaco non fosse rotto,
sentissi nonostante tanto gravemente pressato, che stimò miglior
partito il ritirarsi sulla sinistra del fiume, rompendo anche il ponte
di Fontaniva, acciocchè il nemico nol potesse seguitare. Fessi notte
intanto; l'oscurità e la stanchezza pose fine al combattere che fu
mortalissimo; perchè tra morti, feriti e prigionieri desiderò ciascuna
delle parti circa quattro mila soldati.

Il non aver potuto rompere gl'imperiali in questo fatto, diè a
pensare a Buonaparte, il quale in fine, fatte sue considerazioni,
si deliberava a levar il campo dalle rive della Brenta per andarlo a
porre su quelle dell'Adige nel sito centrale di Verona. Per la qual
cosa il dì 7 novembre molto per tempo mosse l'esercito verso Vicenza,
e non fece fine al ritirarsi se non quando arrivò sotto le mura di
Verona. Il seguitavano il giorno medesimo i Tedeschi; ed Alvinzi,
cui erano pervenute le desideratissime novelle della vittoria di
Calliano, ordinate varie mosse per dare diversi riguardi al nemico, ed
apprestata eziandio quantità grande di scale, come se fosse per dare
la scalata a Verona, già aveva mosso la vanguardia, e fatta posare
nell'alloggiamento di Caldiero più vicino alla città.

Minacciato Buonaparte a stanca ed alle spalle da un generale
vittorioso, a fronte da un generale, se non vittorioso, almeno più
forte di lui, aveva tutti i partiti difficili. Ma non istette lungo
tempo in pendente, perchè sapeva che i consigli timidi fanno i Franzesi
meno che femmine, i generosi più che uomini. Si risolveva dunque a
voler pruovare la fortuna a Caldiero. Il giorno 12 novembre, non così
tosto aggiornava andavano i repubblicani all'assalto. Già Augereau
aveva conquistato Caldiero; già Massena si distendeva a sinistra ed
aveva circuito la punta dritta degli Alemanni, quando il tempo, che
già era freddo e piovoso, si cambiava improvvisamente in minutissima
grandine, che spinta da un vento di levante assai gagliardo, percuoteva
nel viso i Franzesi e gl'impediva di vedere e di combattere con
quell'ordine e con quel valore che si richiedevano. Le cose erano in
grave pericolo; già pareva disperata la fortuna franzese; ma Buonaparte
spinse innanzi a combattere la sessagesimaquinta, che fin allora aveva
tenuto in serbo; rinfrescava ella la battaglia e la teneva sospesa
fino alla sera, instando però sempre gl'imperiali grossi ed ordinati.
Finalmente, pruovato grave danno, levandosi i repubblicani con tutto
l'esercito da Caldiero, si ritraevano di nuovo a Verona.

Era a questo tempo caduta in grande declinazione e fatta molto
pericolosa la condizione de' repubblicani. Poteva Davidowich prostrare
improvvisamente i campi della Corona e di Rivoli e romoreggiare
alle spalle di Buonaparte, mentre Alvinzi, grosso e vittorioso,
lo assalirebbe di fronte, ed il manco che potesse avvenire era la
liberazione di Mantova, scopo principale di tanti pensieri. L'animo
stesso di Buonaparte, avvegnachè tanto vigoroso e forte fosse, da
tristi pensieri annuvolato ed in gran malinconia venuto, incominciava
a diffidar della vittoria. Ma se si era perduto in certo modo d'animo,
non aveva perduto la mente e tosto trovava modo di riscuotersi; al che
gli aprirono occasione le lentezze avversarie. Ebbe egli in questo
ultimo punto un pensiero, si vede come da un solo concetto spesso
pendano i destini degl'imperi, dal quale nacque inopinatamente la sua
salute e quella de' suoi.

Aveva Alvinzi, dopo la giornata del 12, in mano sua tutto il destino
della guerra; ma, invece di correre contro il nemico declinante e di
non dargli respitto, soprastava inoperoso due giorni nelle stanze
di Caldiero a deliberare intorno a quello che fosse a farsi. Ora
Buonaparte, usando assai maestrevolmente l'occasione, ordinava una
mossa, che convertendo del tutto le sorti, fece che siccome Alvinzi era
padrone della guerra, dopo fosse Buonaparte; ed il generale tedesco,
che poteva dare l'indirizzo alle fazioni militari, come conveniente
gli fosse paruto, fu costretto ad obbedire a quello che fosse per dare
il generale franzese. La notte adunque del 13, ordinava Buonaparte, e
questo fu il pensiero salutifero, a Massena e ad Augereau, varcassero
con tutte le genti loro l'Adige a Verona, corressero frettolosamente
la destra del fiume fino a Ronco, quivi il rivarcassero sopra un
ponte estemporaneo di piatte, e, passando per Arcole e per San
Bonifacio, sovraggiungessero improvvisamente addosso a Villanova,
alloggiamento principale degl'imperiali. Riuscirono improvvisi e senza
che gl'imperiali sentore ne avessero, a Ronco i repubblicani, e tosto
fatto un ponte, varcarono. S'incamminava Massena a Porcile, Augereau
s'addirizzava verso Arcole; l'uno e l'altro dovevano ricongiungersi
per marciare unitamente contro Villanova. La natura del paese pose
impedimento all'esecuzione dell'intiero intento di Buonaparte, ma però
non tanto che ei non conseguisse una somma e gloriosa vittoria, e con
essa il principal fine del suo proponimento; per giovare al quale erasi
deliberato, subito dopo il ributtamento di Caldiero, di far venire al
campo principale tre mila soldati di quelli che stavano sopra l'assedio
di Mantova. In fatti era il giorno medesimo in cui Massena ed Augereau
avevano varcato l'Adige a Ronco, che fu il 15 del mese, arrivato a
Verona Kilmaine, con la sua schiera dei tre mila. Utile pensiero nè
ultimo fu questo a conseguire la vittoria.

Intanto Augereau già era alle prese col nemico al ponte d'Arcole.
Avevano gli Austriaci reso l'accostarsi difficile e micidiale. I
primi repubblicani che si affacciarono, furono da un'immensa grandine
di palle e di scaglia sfragellati. Disordinati e titubanti si
allontanavano i Franzesi da un luogo di sì grave tempesta. Ma i capi,
che sapevano di qual momento fosse e che l'impeto in tal caso era più
sicuro dell'indugio, gli ricondussero allo sbaraglio; e per fargli
andare avanti si fecero essi medesimi guidatori delle colonne. Ma nè
il nobile coraggio loro potè operare in modo che si superasse quel
mortalissimo intoppo: i granatieri stessi, scelta ed invitta gente,
cedettero. Ricordavasi in questo punto Augereau del ponte di Lodi, e
dato, di mano ad un'insegna, si piantava in mezzo al ponte, invitando
i compagni a seguitarlo. Il seguitavano laceri e sanguinosi come
erano. Ma i Tedeschi gli sfolgoravano novellamente per tal maniera,
che tra morti e feriti l'abbattuta fu in poco d'istante sì grande
che i superstiti spaventati, ed Augerau medesimo a tutta fretta si
ritiravano. Seguitava un silenzio nelle genti, segno di scoraggiamento;
già i capi temevano che succedessero grida assai peggiori del silenzio.
Pressava il tempo; la fortuna di Francia inclinava ad una fatale
rovina. Nè poteva dubitarsi che Alvinzi, subito che avesse avuto avviso
del fatto, non fosse per venire con tutta la sua mole in aiuto de'
suoi; e come potevano sperar i repubblicani di superar tutti quando una
sola e piccola parte si mostrava insuperabile? Queste cose riandava
in mente Buonaparte, nè curando la vita, nè curando la sicurezza
dell'esercito in sì estremo frangente, venuto là dove i più animosi
lo potevano udire, disse loro ad alta voce: _Or non siete voi più i
soldati di Lodi? or dov'è il vostro coraggio?_

Questo parlare di Buonaparte a Franzesi non potava non partorire
un grandissimo effetto; si rianimavano anche i più timorosi: tutti
gridavano, comandasse pure, li guidasse alla battaglia. Cominciava
a sperar bene, si avventava egli il primo, attorniato dai principali
verso il formidabil ponte. Ma primachè si muovesse al cimento fatale,
comandava a Guyeux, che se ne gisse a varcar l'Adige al passo di
Albaredo, ed evitato per tal modo l'Alpone, desse dentro alla impensata
al fianco sinistro d'Arcole. Egli intanto, smontato da cavallo, e
dato di mano ad un'insegna, e postosi in capo alla stretta fila,
che sull'argine insistendo, si avviava al ponte, animava i suoi a
seguitarlo. Nè furono lenti, anzi coi corpi loro serrandosi attorno a
lui, i granatieri massimamente, coraggiosi per indole, furibondi per
la resistenza, già facevano tremare coi tiri e col calpestio numeroso
la destra sponda del contrastato ponte. Procedeva avanti quel globo
formidabile; già metteva piede sul ponte, quando gli sopraggiunse
adosso da fronte e dai fianchi un nugolo sì fitto di tedesche palle,
tanto grosse quanto minute, che rotto e trafitto nelle più vitali
parti, fu costretto a dare frettolosamente indietro. Sboccavano
allora gli Austriaci dal ponte, e seguitando la vittoria, menavano con
l'armi corte e bianche, strage di coloro che scampati alla furia delle
artiglierie e degli archibusi si ritiravano. In quella feroce mischia
era Buonaparte, per esortazione de' suoi rimontato a cavallo, e già
cedeva all'impeto del nemico, quando un furioso caricare di scaglia
rotti avendo, lacerati ed uccisi tutti coloro che gli stavano intorno,
trovossi solo esposto al furore di tutte le armi nemiche. Ma il
generale Belliard, accortosi del fatto, coi granatieri amatori del loro
capitano supremo, voltato subitamente il viso e dato uo forte rincalzo
ai Tedeschi, gli ributtavano di nuovo fino al ponte e impedivano
un caso ponderosissimo; ricondotto Buonaparte dai soldati pieni di
allegrezza ad un sicuro alloggiamento.

Non così tosto aveva Alvinzi avuto le novelle di un fatto tanto
straordinario che costretto ad obbedire a quel nuovo corso di guerra,
che con tanta audacia e perizia aveva il suo avversario aperto,
dirizzava sei battaglioni di fanti sotto la condotta di Provera a
Porcile, e quattordici battaglioni di fanti con sedici squadroni
di cavalleria fidati a Mitruski a San Bonifacio per alla via di
Arcole. Viaggiavano queste nuove schiere con molta prestezza, mentre
si combatteva al ponte, e qualunque avesse a riuscire l'effetto
della presenza loro sul campo di battaglia, già si comprendeva, che
Buonaparte avea conseguito il suo intento di rompere ad Alvinzi il
disegno di conquistare Verona e di unirsi con Davidowich.

Mentre in tal modo si combatteva ad Arcole ed a Porcile, dove Provera
avea incontrato Massena che lo risospinse fin oltre Porcile stesso,
erasi Guyeux, passato l'Adige ad Albaredo e comparso improvvisamente
sotto le mura d'Arcole nel punto stesso in cui i difensori n'erano
usciti per dar addosso alla risospinta schiera di Augereau, reso
padrone facilmente della terra. Ma gli Austriaci, che ne conoscevano
l'importanza, si muovevano col grosso delle loro forze da San Bonifacio
e prestamente la ricuperavano. Già annottava: Buonaparte, perduta ogni
speranza di acquistare Arcole in quel giorno, e temendo, giacchè era
vicino lo esercito tedesco, di essere condotto a mal partito in mezzo
all'oscurità della notte, riduceva tutte le sue genti sulla destra
dell'Adige, lasciando solamente la duodecima alla guardia del ponte e
la sessagesima quinta alloggiata in un bosco a destra dell'argine per
cui si va ad Arcole.

Sorgeva appena il giorno 16 novembre, quando e Franzesi e Tedeschi
givano di nuovo con animi infestissimi ad incontrarsi. Fu come quello
del giorno precedente durissimo l'incontro dell'armi, combattendosi
assai virilmente da ambe le parti. Fu il primo Massena a far piegare
la fortuna in favore dei repubblicani risospingendo Provera sin
dentro Porcile; il generale Robert assaltava i Tedeschi sull'argine
di mezzo, e molti ne buttava nel pantano. Nè se ne stava Augereau
ozioso; che anzi, opponendo valore a valore, già aveva risospinto gli
Alemanni fin dentro ad Arcole e dava nuovo assalto al ponte. Ma quivi
accadeva quello che era accaduto prima; che con tal furia menarono le
mani gl'imperiali, condotti da Alvinzi medesimo, che i Franzesi se ne
tornarono indietro dopo di aver patito un orribile macello. Parecchie
volte andava alla carica Augereau, altrettante era costretto a cedere
con istrazio maggiore.

Finalmente la sorte declinante della battaglia faceva accorto
Buonaparte di quel che avesse a fare: si metteva alla opera del far
gettare in copia fascine nell'alveo dell'Alpone verso la sua foce,
con isperanza che avrebbero fatto un sodo sufficiente, perchè i suoi
soldati potessero passare a man salva. Ma riusciva vano l'intento,
perchè la corrente dell'acqua diveniva per quell'ostacolo tanto
impetuosa, che il passare si trovò più difficile di prima. In questo
mentre Alvinzi, volendo usar la occasione della diminuzione d'animo
prodotta necessariamente nel nemico da tanti e sì mortali ribadimenti,
usciva grosso da San Bonifacio, con intento di pruovare se gli venisse
fatto di cacciar i Franzesi nell'Adige, od almeno costringerli a
ripassare il ponte di Ronco. Ma fu pronto al riparo Buonaparte, e con
alcune artiglierie piantate da lui in un luogo opportuno, faceva stare
addietro i Tedeschi. Sopraggiungeva in fine la seconda notte, che
faceva sosta al sangue ed alle morti.

Si avvicinava il giorno in cui doveva definirsi a chi dei due possenti
nemici avesse a rimanere la possessione d'Italia. Non isbigottitosi
Buonaparte a tante infelici pruove, usando l'oscurità della notte e la
cessazione dell'armi, aveva fatto dar opera all'edificar del ponte con
cavalletti ed assi sopra l'Alpone in poca distanza dal luogo dove mette
nell'Adige. Si erano accorti i Tedeschi del disegno, e però, la mattina
del 17, erano usciti di Arcole con intenzione di rituffare la duodecima
nell'Adige. Ma le artiglierie franzesi trassero sì aggiustatamente che
fu fatto abilità ai soldati di Buonaparte di racconciar il ponte, di
conservare la duodecima e di varcare. Andavasi adunque alla battaglia
terminativa.

Incominciava a colorirsi il disegno di Buonaparte: le cose succedevano
come egli le aveva ordinate; perchè Provera non potè far frutto da
Porcile, Augereau varcava l'Alpone, e la sessagesima quinta, condotta
da Robert, rincacciava, marciando sull'argine, i Tedeschi sino al
ponte d'Arcole. Ma gl'imperiali si scagliavano poi con tanto impeto
contro di lei, che non solo fu risospinta fin là donde si era mossa,
ma, disordinatamente fuggendo, già aveva dato indietro fino al ponte
di Ronco. Seguitavano i Tedeschi questa parte di Franzesi che fuggiva,
credendo di possedere la vittoria, mentre ella effettivamente già loro
usciva di mano; imperciocchè Massena, che sapeva bene corre i tempi
ed usarli con vigore, compariva improvvisamente sulla destra loro, la
diciottesima li percuoteva di fronte, Gardanne, uscito dall'agguato in
cui se ne stava, gli urtava sul fianco sinistro. Tanti contemporanei
assalti disordinava la schiera tedesca, di cui parte si ritirava più
che di passo verso Arcole, parte fu spinta nella palude vicina, dove
divenne miserabile bersaglio e dell'artiglieria e dell'archibuseria di
Francia.

Alvinzi manteneva tuttavia la battaglia contro Augereau che, varcato
il ponte, si era condotto sulla sinistra dell'Alpone; ned era facile
a Buonaparte di sforzarlo, quando gli sovvenne uno stratagemma, e
fu di mandare una compagnia di soldati a cavallo, acciocchè girando
velocemente dietro il fianco degli austriaci, andasse a romoreggiar
loro alle spalle con le trombe e con quel maggiore strepito che
potesse. Un luogotenente Ercole, cui fu dato questo carico, lo condusse
con quella celerità ed avvedutezza che meglio si potevano desiderare.
Certo è intanto che, o che il romore improvviso di quest'Ercole o gli
altri casi del conflitto sel facessero, gli Austriaci incominciavano a
declinare manifestamente, ed infine a cedere il campo, se non con fuga,
almeno con ritirata molto presta. Occupavano con infinita allegrezza i
Franzesi il tanto combattuto Arcole e vi pernottavano. Ritirava Alvinzi
le sue genti ad Altavilla, poscia a Montebello sul Vicentino.

La battaglia d'Arcole pose per allora in sicuro la fortuna franzese
in Italia. Aveva bene Davidowich, calatosi da Ala il dì medesimo in
cui Buonaparte vinceva ad Arcole, rotto e fugato Vaubois da Corona,
poscia da Rivoli; scacciatolo dai monti di Campara con presa di undici
cannoni e di due mila prigionieri, fra i quali si noveravano Fiorella e
Lavallette; finalmente minacciato di riuscire alle spalle di Verona e
di correre al riscatto di Mantova. Ma quello che sarebbe stato fatale
ai Franzesi se fosse stato effettuato sei giorni avanti, non poteva
partorire se non la ruina di Davidowich, effettuato essendo a questo
tempo. E infatti, non così tosto ebbe Buonaparte vinto ad Arcole,
che si rivoltava con le sue schiere vincitrici contro Davidowich, e,
trovatolo a Campara, lo debellava. Si conduceva l'Austriaco prima
a Dolcè, poi ad Ala, seguitato velocemente dai Franzesi che lo
danneggiarono nella retroguardia. Essendo diventati novellamente i
Franzesi padroni di tutto il Veronese, e la stagione correndo molto
sinistra, condussero i due avversarii i soldati loro alle stanze.
Fermossi Davidowich in Ala, Alvinzi in Bassano con la vanguardia a
Vicenza ed a Padova, ed il grosso sulle rive della Brenta. Stanziò
Buonaparte nel Veronese, rimandata però la schiera di Kilmaine al campo
di Mantova per istringere viemaggiormente l'assedio, della piazza che,
siccome priva dell'aiuto d'Alvinzi, credeva aver tosto a venir in sua
possanza.

Le armi infelicemente usate dall'Alvinzi non avevano tanto sbigottito
l'imperatore, che non confidasse di poter soccorrere con frutto le
cose d'Italia. Perocchè le sue genti erano tuttavia quasi intere, e
la devozione dei popoli grande, e la somma della guerra consisteva in
una vittoria, alla quale la volubile fortuna avrebbe, quando meno si
pensava, potuto aprire il varco.

Il pontefice che volea piuttosto incontrare una guerra pericolosa che
accettare condizioni inonorate e contrarie alla purità delle fede;
Napoli che se fortuna voltasse il viso più benigno a coloro ai quali
fino allora era stata avversa, non si dubitava che non fosse per mutar
fede, confortavano l'Austria a fare un nuovo sforzo anche prima che la
stagione si fosse intiepidita. Solo dava timore la piazza di Mantova,
che si sapeva essere ridotta agli estremi. Ma Wurmser non indugiava
a torre in questo proposito ogni dubbio: assaltava i giorni 19 e 25
novembre con quasi tutto il presidio i repubblicani a Sant'Antonio
ed alla Favorita, ed, avendoli fatti piegare, predava ed introduceva
dentro la piazza non poca quantità di viveri; ed avendo poi avuto
avviso che erano arrivate nel porto alcune barche cariche di munizioni
da bocca ad uso dei Franzesi, usciva nuovamente molto grosso l'11 e 14
dicembre, e le predava: prezioso sussidio alla sue affamate genti.

L'imperatore, cui era gravemente spiaciuta la tardità di Davidovich,
lo richiamava e gli dava lo scambio nel principe di Reuss. Malgrado
l'infelice successo della guerra testè terminata con la sconfitta
d'Arcole, serbava fede ad Alvinzi, il quale si deliberava a nuovi
disegni, e che, per arrivare a' suoi, fini aveva cinquanta mila
combattenti, se non tutti sperimentati, almeno tutti ardenti.
Maravigliosa cosa è il pensare come l'Austria, dopo tante rotte, abbia
potuto raccorre in sì breve tempo un esercito sì grosso. Ma dal Reno
erano venuti più di tre mila soldati, quattro mila dall'Ungheria:
gli altri Stati ereditarii fornivano a proporzione. Risplendè
principalmente la fedeltà e l'ardore dei Viennesi, perchè quattro
mila giovani delle prime famiglie, lasciati, in sì grave pericolo
della patria, gli agi e le morbidezze, e prese le armi, accorrevano
bramosamente fra le nevi del Tirolo, e fra i veterani dell'esercito
al voler riconquistare al loro signore la perduta Italia; e benchè i
maligni si facessero beffe di questa gente, giovinastri chiamandoli e
ciamberlani, si vide alla pruova ch'erano valenti soldati.



    Anno di CRISTO MDCCXCVII. Indiz. XV.

    PIO VI papa 23.
    FRANCESCO II imperatore 6.


Erasi il generale repubblicano ingrossato per nuove genti venute di
Francia: nonostante non arrivava il suo esercito al novero di quello
d'Alvinzi, perchè, passando quarantacinque mila non arrivava ai
cinquanta. L'aveva egli spartito in cinque, schiere principali, una
delle quali, governata da Serrurier, teneva il campo sotto Mantova;
l'altra con Augereau stanziava a Verona, distendendosi verso le regioni
inferiori dell'Adige; la terza, retta da Massena, alloggiava pure in
Verona, ma spingeva le sue genti innanzi per sopravvedere quello che
fosse per annunziare la guerra dalle sponde della Brenta; la quarta,
che obbediva a Joubert, surrogato a Vaubois, guardava le fauci del
Tirolo, avendo il campo alla Corona, a Rivoli e nei luoghi intermezzi;
la quinta finalmente, quale corpo di ricuperazione, e per assicurare la
destra del lago, aveva le sue stanze a Brescia, Peschiera, Desenzano,
Salò e Lonato.

Da tutto questo si può conoscere che Buonaparte si era persuaso che
lo sforzo dei Tedeschi avesse a indirizzarsi contro Verona; ma però,
siccome astuto e prudente capitano, aveva ordinato i suoi per forma,
che, se la tempesta si scagliasse dal Tirolo, fossero in grado di
resisterle, perchè e Joubert era grosso di dieci mila soldati, ed
Augereau e Massena potevano arrivare prestamente in soccorso di lui
a Verona. Il primo a dar le mosse alla sanguinosa guerra che siam per
vedere fu Provera, che, partito da Padova il dì 7 gennaio, si dirizzava
verso Bevilacqua, terra posta sul rivo che chiamano la Fratta. Era
in Bevilacqua il generale Duphot con una squadra che servia come
antiguardo al presidio di Porto Legnago. Il dì 8 sul far del giorno il
principe Hohenzollern marciava contro Bevilacqua difesa da un picciolo
castello; trovato per istrada un grosso corpo repubblicano, che gli
voleva far contrasto, dopo un aspro combattimento lo fugava. Al tempo
medesimo il colonnello Placseck sulla sinistra s'impadroniva del posto
di Caselle, e sulla destra un capitano Giulay occupava i passi di
Merlara e di San Salvaro. Frattanto i Franzesi si erano rinforzati a
Bevilacqua; ma assaliti in diverse parti dagli Alemanni, fu loro forza
di pensare al ritirarsi, e si ridussero a Bonavigo, ed a Porto Legnago,
non senza grave danno. Conseguiti questi primi vantaggi, confidava
Provera di poter presto passar l'Adige tra Ronco e Porto Legnago. Era,
quando seguirono queste prime battaglie, Buonaparte a Bologna, intento
ad ordinar la guerra contro il papa, e non così tosto ne ebbe avviso,
che, giudicando bene del tempo, comandava a due mila soldati, che
già aveva indirizzato contro gli Stati della Chiesa, retrocedessero e
gissero a congiungersi con Augereau, che difendeva le rive dell'Adige
assaltate da Provera.

Buonaparte, poichè tanto stringeva il tempo, e le cose se gli
dimostravano pericolose, condottosi celeremente, e soprastato alquanto
al campo di Mantova per ordinar quello che fosse a farsi in tanto
pericolo, s'avviava a Verona la mattina del 12, dove trovava Massena
alle mani coi Tedeschi venuti a Bassano. Trovavasi l'antiguardo di
Massena a San Michele, poco distante da Verona, quando, assalito dai
Tedeschi, fu costretto a ritirarsi. Ma Massena, uscito fuori con tutti
i suoi, attaccava la battaglia che fu molto aspra e sanguinosa; rimasto
il campo ai Franzesi.

Non insistevano maggiormente gl'imperiali, contenti all'aver fatto
credere al nemico che lo volessero assalire fortemente e grossi in
questa parte. Si ritraevano per iscaltrimento indietro alle montagne;
anzi una parte, guidata da Quosnadowich, si conduceva celeremente e
con molta prestezza per la valle della Brenta a rinforzare Alvinzi
in Tirolo. Nè qui si arrestavano gli Austriaci, perchè sulle due ali
estreme Provera varcava l'Adige il dì 13, non senza molta difficoltà.
Alvinzi sforzava le strette della Corona con avere obbligato Joubert
a ritirarsi sull'alloggiamento forte e fortificato di Rivoli. Pendeva
in tal modo incerto Buonaparte del vero intento dell'avversario;
nè sapendo a qual parte volgersi, se ne stava tuttavia a Verona,
aspettando che il tempo e più aperte dimostrazioni degli Austriaci gli
dessero maggior lume. Nè tardava ad essere appagato del suo desiderio;
perchè, in primo luogo, un Veronese, amatore dei Franzesi e congiunto
d'antica amicizia con Alvinzi, si era segretamente condotto a Trento
per visitarlo, ed ivi soprastato essendo tre giorni, ebbe trovato modo
di copiare tutto il disegno di guerra del generale austriaco, il quale
disegno, tornatosene a Verona, consegnava ad un Pico, Piemontese, che
incontanente lo dava in mano del generalissimo di Francia. Giungevano,
in secondo luogo, lettere espresse di Joubert, che portavano quanto
grossi fossero comparsi gli Austriaci alla Corona.

Buonaparte allora, solito a spingere con incredibile celerità sempre
innanzi le occasioni, comandava a Massena corresse con tutta la sua
schiera a Rivoli più prestamente che potesse. Lo stesso ordine mandava
a Rey, che se ne stava alle stanze di Desenzano e di Lonato. Egli poi,
la notte medesima del 15, si incamminava frettolosamente a Rivoli per
ivi sostenere la fortuna vacillante. Alvinzi aveva ordinato talmente i
suoi, che una parte urtasse contro il forte passo di San Marco occupato
dalla vanguardia di Joubert, e che è la chiave di chi scende dal Tirolo
verso Verona; l'altra, condotta da Liptay, girasse sui monti per andar
a ferir alla schiena il rimanente corpo di Joubert, che alloggiava in
Rivoli. Un'altra colonna grossa di quattro mila soldati, e governata
dal generale Lusignano, girando più alla larga, doveva riuscire più
alle spalle dei Franzesi per la valle del Tasso. Arrivava intanto
Quosnadowich e romoreggiava alla sinistra dell'Adige. Aveva infatti
Alvinzi con un urto gagliardo acquistato il passo di San Marco. Ma non
era ancora spuntato il giorno 14, che Buonaparte già ingrossato dalle
genti più leggieri di Massena, aveva dato dentro a San Marco, e dopo
un grave conflitto se n'era impossessato. Si accorgeva allora Alvinzi
che i suoi pensieri erano stati penetrati, e che, invece di avere a
combattere col solo Joubert, gli era forza di sostenere l'impeto della
maggior parte dell'esercito repubblicano. Ciò cambiava le sue sorti.
Tuttavia, non diminuendo per questa difficoltà della speranza di
vincere, ed essendo già presente il nemico, non aveva più comodità di
cambiare l'ordine incominciato della battaglia, e dovette far fronte
con mosse non acconcie ad un caso inaspettato.

Già si combatteva asprissimamente dalle due parti alle cinque della
mattina, e siccome gli Austriaci, per ordine del loro generale,
puntavano massimamente contro la sinistra dei Franzesi, per secondare
le colonne che giravano alle spalle, così quest'ala franzese ed anche
la mezzana pativano grandemente, e già, crollandosi, si ritiravano
indietro disordinate. Pareva la fortuna inclinare a favore dei
Tedeschi; mosso Buonaparte dall'estremo pericolo, comandava a Berthier
sostenesse l'inimico in mezzo. Egli poi accorreva alla sinistra,
che tuttavia sempre più piegava e pericolava. Sosteneva Berthier un
urto ferocissimo. Questo sforzo e la terribile trigesimaseconda, che
arrivava, ristoravano in questo luogo la battaglia che inclinava. Ma la
sinistra continuava a cedere del campo: era sempre il rischio estremo,
quando ecco arrivare a gran tempesta Massena, ed entrare su questa
parte nella battaglia. Quivi risvegliatasi in lui la solita caldezza,
e combattendo con grandissimo valore, fe' strage orribile del nemico,
e ricuperò alcuni dei siti perduti sulle eminenze. Mentre Massena
reintegrava la fortuna e guadagnava del campo a sinistra, il mezzo e
la destra dei repubblicani acremente incalzati si ritiravano, e già
gli Austriaci erano in punto d'impadronirsi dell'eminenza di Rivoli
ch'era, a chi l'avesse in poter suo, la vittoria della giornata. In
questo momento compariva sulle alture Liptay, e mettendosi alla scesa,
già era vicino a ferire l'ala sinistra dei repubblicani. Quest'era il
momento determinativo della fortuna. Benchè Alvinzi si trovasse colle
schiere divise, perchè le aveva ordinate piuttosto a circondare che a
combattere, tuttavia, spingendosi avanti con mirabile coraggio, avevano
recato in poter loro il fatal Rivoli; ma Buonaparte, veduto che poteva,
per la separazione delle colonne nemiche, riunire i suoi in un grosso
corpo senza pericolo, il fece, e ricuperava con breve battaglia Rivoli.
Spinsero di nuovo avanti i Tedeschi, e dopo, una mischia spaventevole,
se lo pigliavano una seconda volta. Buonaparte, che vedeva stare ad un
punto la fama e la fortuna sua, comandato a Berthier che trattenesse
con la cavalleria i Tedeschi nel piano che fra le alture a sinistra e
Rivoli a destra si apre, acciocchè non potessero aiutare i difensori di
Rivoli, adunava in un solo sforzo tutti gli squadroni che potè raccorre
in quel momento, ed uniti e grossi li conduceva contro Alvinzi,
occupatore per la seconda volta del contrastato passo. Là erano le
sorti d'Italia e di tutta la guerra, là di Mantova si definiva. Mai più
ostinatamente o più coraggiosamente come in questo fatto si combattè.
Ebbero l'uno assalto e l'altro felice fine pei buonapartiani, perchè
Berthier frenava il nemico nel piano, e Joubert, cacciato a forza il
nemico da Rivoli, se ne impossessava.

Intanto già si era per modo accostato Liptay, che incominciava a
percuotere l'ala sinistra de' Franzesi non ancor del tutto rimessa in
ordine dal precedente scompiglio; e tra per questo e per Lusignano,
che già si approssimava, a grande repentaglio eran ridotte le franzesi
sorti. Ma le ristorava, secondo il solito, quel Massena, che sforzava
Liptay a ritirarsi e ricovrare a Caprino. Prevedendo poi l'arrivo di
Lusignano, andava a porre alcune sue genti su certi colli pei quali
si poteva riuscire dietro a Rivoli. A questo modo la fortuna, che sul
principio e per parecchie ore aveva inclinato a favor degl'imperiali,
voltato il viso, guardava propizia i repubblicani, per opera
principalmente di Buonaparte. Rimaneva Lusignano, che poteva ancor
disordinare la vittoria, se non avesse avuto con la rotta di lui la
sua perfezione. Infatti compariva, già erano le nove della mattina, con
terribile mostra, dopo di aver varcato i monti, nella terra di Pesena,
e già s'incamminava più sotto, verso Affi. Nè il frenava il presidio
alloggiato a Rocca di Garda; ma dopo un grosso affronto a Calcina,
aveva continuato il suo viaggio, e già pervenuto sul monte Fiffaro a
fianco ed alle spalle di Rivoli, rendeva dubbia la vittoria.

Mentre così in una battaglia già tante volte vinta e perduta stavano
ancora sospese le sorti, arrivava Rey, che, come abbiamo narrato, per
ordine di Buonaparte veniva da Desenzano e Lonato in luogo donde già
poteva essere di sussidio a' suoi. Velocemente marciando, superati i
monti di Cavaglione colla rotta de' Croati, che li guardavano, aveva
trovato modo di aprirsi la strada fino a Massena. Si avventavano allora
tutti ad un tempo contro Lusignano, Massena da una parte, Mounier
dall'altra, Rey alle spalle per forma che, attorniato da tutte le
bande, soperchiato dal numero soprabbondante de' nemici, fu costretto
a cedere, deponendo l'armi e dandosi con tutti i suoi prigionieri in
poter de' repubblicani. Dava questo fatto piena vittoria a Buonaparte,
il quale, ritirandosi tutta la restante oste d'Alvinzi rapidamente
verso la parte più alta e più aspra del Tirolo, ed avute le novelle
dell'accostarsi di Provera a Mantova, con celerità eguale a quella con
cui aveva camminato da Verona a Rivoli correva da Rivoli a Mantova,
conducendo con sè Massena e la sua schiera, tanto sicuro fondamento
alle vittorie.

Intanto Joubert, al quale partendo aveva dato il carico di perseguitar
l'inimico, mandava sui monti a sinistra Murat coi soldati più veloci,
i quali, dato dentro negli Austriaci, li rompevano con grande terrore.
Fu generale la sconfitta, e, se si eccettuino dieci battaglioni ed
otto squadroni che il giorno innanzi aveva Alvinzi spedito a Bassano
per assicurare quel passo, nissun reggimento si ritirava che intero ed
ordinato fosse. Entrava poi Joubert in Trento con bella e lieta mostra
guerriera.

Spente le speranze dell'Austria nei campi di Rivoli, si ravvivavano
alcun poco, ma per breve tempo, nelle regioni vicine a Mantova. Erasi
Provera accostato all'Adige coll'intento di varcarlo per accorrere
prestamente al sussidio di Mantova. Simulava, per ingannare Augereau
che stava schierato sull'altra riva, ora accennando a Ronco, ora a
Porto Legnago. Ma finalmente, gittatosi improvvisamente ad Anghiari, e
fatto star indietro con le artiglierie i Franzesi che dall'opposta riva
lo oppugnavano, vi piantava il ponte, e varcava, come abbiam detto,
il giorno 13 di gennaio. Non così tosto ebbe Provera effettuato il
passo, che, chiamate a sè le bande spartite, marciava velocemente alla
volta di Mantova; perciocchè nella celerità era riposta la vittoria.
Passava per Cerea, Sanguineto e Nogara: alloggiava in questa ultima
terra la notte del 14. Il dì 15, continuando a viaggiare molto per
tempo e prestamente, passato Castellara, compariva in cospetto di San
Giorgio, sobborgo di Mantova. Il seguitavano più che di passo Guyeux ed
Augereau, e sebbene non potessero giungere il corpo principale, davano
nondimeno addosso al retroguardo, e tutto lo ridussero, armi, soldati
e munizioni, in potestà loro. Tuttavia era ancor Provera grosso di
più di cinque mila soldati. Ma Buonaparte, con celerità, unica quasi
nelle storie, marciando, arrivava contra di lui la notte del 15, e da
ogni parte il circondava. Splendeva il giorno 16: Wurmser e Provera
assaltavano la Favorita e Sant'Antonio. Fu tanto impetuoso l'assalto
del maresciallo, che Dumas posto alla guardia di Sant'Antonio fu
costretto a piegare, lasciando le trincee in mano dei Tedeschi. Mandava
Buonaparte un rinforzo di genti fresche a Dumas, con le quali potè
raffrenare l'impeto del nemico, ma non tanto che Wurmser non arrivasse
sino in cospetto della Favorita; già anzi si accingeva ad assaltar
alle terga i repubblicani che guardavano quelle fortificazioni. Ma non
era passato con la medesima felicità l'assalto dato alla fronte della
Favorita da Provera, perchè, ributtato aspramente da Serrurier, che
stava dentro, non potè far frutto. Wurmser, combattuto validamente da
Victor venuto con le genti da Rivoli, temendo di esser tagliato fuori
da Miollis, che poteva uscire da San Giorgio, ed assalito a mano manca
da Massena, si riduceva prontamente in Mantova.

I Franzesi, liberati dagli assalti di Wurmser, stringevano
viemmaggiormente Provera. Percuotevanlo a fronte Serrurier, a stanca
Victor, a destra Miollis, e già tempestando alle spalle Augereau,
che arrivava da Castellare, gli faceva segno che l'arrendersi era più
sicuro del combattere. Pure perseverava, volendo, se la malvagità della
fortuna lo sforzava a depor le armi, averle almeno usate da guerriero
franco e valoroso. Finalmente, costretto dalla forza sopravanzante,
chiedeva i patti, e gli otteneva. Fecero conspicua la vittoria meglio
di cinque mila prigionieri, dei quali non poca parte erano i volontarii
di Vienna. Grave ed importante vittoria, perchè Mantova restava senza
rimedio; tutta l'Italia in balia dei repubblicani: di una parte erano
padroni per la presenza, dell'altra pel terrore.

Combatterono gli Austriaci in tutte le fazioni raccontate con molto
valore; nè si può negare che i disegni dei capitani loro fossero bene
ordinati; ma mancarono di effetto, primieramente perchè penetrati,
secondariamente per l'incredibile celerità di Buonaparte e de' suoi
soldati. Perdettero gl'imperiali in tutte le descritte battaglie,
inclusa quella di Provera, tra morti, feriti e prigionieri circa venti
mila soldati, con sessanta bocche da fuoco e ventiquattro bandiere.
Tutti i volontarii viennesi furono o morti o presi. Scriveva Buonaparte
essere mancati de' suoi, tra morti e feriti, solamente due mila; ma
furono assai più, e se si noveravano i prigionieri, che però montavano
a poca gente, fu perdita di più di sei mila soldati.

In modo tanto misero si terminava il quarto sforzo dell'Austria a
difesa e a ricuperazione de' suoi Stati italiani. Ma Buonaparte non
era di natura tale che volesse lasciare l'opera imperfetta. Per la
qual cosa, risolutosi a non dar posa al nemico, se non quando ei fosse
giunto in luoghi del tutto insuperabili, e volendo anche avere un
campo più largo a cibare i soldati nelle veneziane pianure, si spingeva
oltre, perseguitando le reliquie dei vinti, i quali, incalzati da tutte
le parti, più non ebbero altro rimedio che di ritirarsi, come fecero,
alle regioni più rotte e quasi del tutto chiuse appresso a Bolzano. I
soldati dell'imperatore, abbandonate intieramente le rive della Brenta,
e financo le sue sorgenti, si riposarono nelle invernali stanze,
avendo la fronte loro distesa dai luoghi più alti della riva destra
del Lavisio, passando per le fonti della Piave vicino a Cadore e per la
sinistra di questo fiume fino alla sua foce. Quivi stavano aspettando
ciò che fossero per portare con sè la stagione migliore e la fortuna
fino allora vittoriosa dello arciduca Carlo, che già si vociferava
avere ad essere fra breve capo dell'esercito italico. I Franzesi,
signori di Bassano e di Treviso, attendevano anch'essi, essendo, pel
sopravvenire della vernata, divenuti i tempi sinistri, dall'un de' lati
a riposarsi, dall'altro a ridurre in potestà loro Mantova, a soggezione
il papa.

Buonaparte, conoscendo che dopo la rotta tanto compiuta degli
Austriaci, era Mantova divenuta sua certa preda, si voltava
incontanente contro il pontefice per condurre a fine con l'armi quello
che aveva incominciato col terrore per la rivoluzione di Modena e
delle due legazioni di Bologna e di Ferrara. Era entrato in Roma uno
spavento grande dopo la sconfitta degl'imperiali; se ne stava dubbio il
pontefice del partito che avesse ad abbracciare. Pure si deliberava a
mostrar il viso alla fortuna, perchè con un vincitore fantastico forse
la pace non sarebbe stata peggiore dopo che prima del combattimento.
Colli dava speranza di poter opporsi con qualche frutto, prendendo i
luoghi e fortificando gli alloggiamenti. Fors'anche credeva Pio che
Buonaparte non si sarebbe ardito di precipitar Roma agli estremi.
Oltre a tutto questo, non si ingnorava pel pontefice che, quantunque
il governo da Francia fosse divenuto tanto potente per le armi, una
debolezza interna il rendeva vacillante, e questa consisteva nelle
credenze cattoliche, che per le persecuzioni e per le disgrazie, erano
ripullulate in Francia: il che rendeva necessario il venire ad una
composizione con Roma.

I consiglieri del Vaticano si prevalevano dell'efficacia di queste
opinioni, e si mettevano al fermo di non voler accettare le condizioni
proposte dal direttorio. Ma a Buonaparte, che ora obbediva al suo
governo ed ora no, piaceva la guerra col pontefice, per ampliazione di
fama, malgrado le dolci parole che indirizzava ora al cardinal Mattei,
ora al pontefice medesimo. E se si considerano le scritture in numero
quasi infinito che ogni giorno si pubblicavano nei paesi conquistati
contro il papa e contro le romane cose, non si potrà in alcun modo
dubitare dei pensieri sinistri che il generale repubblicano nutriva
contro Roma. Anzi procedeva tanto oltre in questo la sfrenatezza,
che sul gran teatro di Milano, a ciò stimolando i capi franzesi che
comandavano in questa città, si dava un ballo in cui erano sconciamente
scherniti il papa ed i cardinali. Costoro adunque, che per tutti i
modi s'ingegnavano d'ingannare e di distruggere il papa, si recavano
poi a male ch'egli tentasse di assicurarsi per mezzo di un'alleanza
coll'Austria. Una lettera che il cardinal Busca, segretario di Stato,
scriveva al prelato Albani mandato dal papa a Vienna, ed intrapresa da
Buonaparte, dava occasione al generalissimo di levar rumore.

Buonaparte, usando la occasione della lettera intercetta, e liberato
dal timore delle armi austriache, sdegnosamente dichiarava a Bologna:
essere rotta la tregua col papa; si apparecchiava a fargli la guerra.
Allegava, avere il pontefice ricusato l'esecuzione de' capitoli ottavo
e nono della tregua; gridato la crociata contro i Franzesi; mandato le
sue genti a minacciar Bologna; intavolato un trattato con l'Austria;
condotto generali ed ufficiali austriaci al suo soldo; ricusato
di rispondere alle proposizioni di Cacault, ministro di Francia a
Roma. Delle quali cose si può dire che se Buonaparte pretendeva che
il pontefice fosse in condizione ostile contro i Franzesi, aveva
ogni ragione, ed anche aveva ragione di correre alle armi contro il
pontefice, giacchè il pontefice se ne stava armato contro Francia.
Ma accusarlo di non aver mandato ad esecuzione certi capitoli della
tregua, non può esser altro se non una seduzione d'intelletto o un
abuso di forza; perchè que' capitoli in ciò consistevano: che il
pontefice desse milioni di denari e vettovaglie ai repubblicani. Ora
il trattato proposto o, per meglio dire, imposto dal direttorio al
pontefice, non essendo stato accettato, non si sa comprendere com'ei
dovesse somministrar mezzi al suo nemico di nuocere a sè medesimo.
Delle altre accuse date a Pio questo si può affermare, che, poichè
l'immoderanza del direttorio avea fatto la pace impossibile, e la
guerra inevitabile, non solo poteva, ma doveva usare ogni modo per
restare assicurato delle cose contro la prepotenza altrui.

Intanto Buonaparte intendeva alle sue preparazioni: circa venti mila
soldati stavano pronti a correre contro il papa; e fra i buonapartiani
erano molti soldati italiani delle due repubbliche transpadana e
cispadana. Buonaparte richiamava da Roma Cacault. Erano nell'oste
destinata a far la guerra al papa cinque legioni di fanti franzesi,
due di cavalli, tre battaglioni di fanti lombardi, altrettanti di
cispadani, con pochi cavalleggieri delle due repubbliche. Comparivano
inoltre due compagnie di fanti polacchi, raccolte di disertori e
prigionieri austriaci: questo fu il primo principio di quella legione
polacca che condotta da Dombrowsky, si acquistò poscia nome nelle
guerre italiche. Adunato il generalissimo tutte queste genti in
Bologna, le spingeva oltre contro lo Stato ecclesiastico, partite
in tre schiere, alle quali aveva preposto Victor, testè fatto chiaro
per la vittoria della Favorita. Guidava la prima Lannes, la seconda
Fiorella, la terza La-Salcette. Ordinavasi una banda di corridori e
feritori alla leggiera, che, composta di Lombardi, aveva, sotto il
colonnello Robillard, carico di sopravvedere il paese ed ingaggiare le
prime battaglie. Marciavano il dì primo febbraio; occupata facilmente
Imola, si avviavano alla volta di Faenza per combattere i pontificii
che stavano accampati sulle rive del Senio. Tenevano Lannes e Fiorella
la strada maestra per a Castelbolognese, La-Salcette i colli a
destra. L'intento loro era d'assaltar di fronte il nemico, e nel tempo
medesimo, esplorando i luoghi sul fiume, riuscirgli alle spalle. Ma
siccome Buonaparte più temeva i popoli che i soldati, così mandava
fuori un bando, parte amichevole, parte minaccioso, col quale dall'un
canto annunziava alle terre pacifiche pace ed amicizia, dall'altro alle
ostili rigore e vendetta.

Intanto a Mantova l'infelice battaglia della Favorita aveva persuaso a
Wurmser che, per la carestia de' viveri, la dedizione era inevitabile.
Ciò nonostante, quel suo invitto animo non ancora si sgomentava,
deliberato a patire qualunque estremità, prima di arrendersi. Eppure
le cose sue erano ridotte in angustissimo luogo: il presidio scemato
per morti frequenti, infievolito da febbri mortalissime gli ospedali,
le case tutte piene di soldati moribondi, chi non inabilitato
dalla malattia, inabilitato dalla disperazione; la ultima fame già
tormentava, oggimai erano consumati tutti gli alimenti, gl'infermi
si moltiplicavano ogni momento, mancavano per loro i rimedii. A tale
era giunta la penuria della piazza, che un uovo si vendeva uno scudo,
un pollo quattro, e non se ne trovava; solo pane era di saggina, sola
carne di cavallo, fresca e poca pei ricchi, salata e poca pei poveri.
Si appiccavano i morbi dai soldati ai cittadini: era in ogni luogo uno
squallore, un fetore, una miseria, che male si potrebbe con le parole
descrivere. Ecco intanto arrivare le acerbe novelle a Wurmser, essere
state predate sul lago trentadue barche cariche di vettovaglie, che
Alvinzi, quand'era in possessione delle rive, aveva inviato in soccorso
della travagliata Mantova. Questo accidente, che toglieva al capitano
dell'Austria la speranza con la quale si sostentava nella estremità
della fame, il fece accorto che gli era oggimai necessità di mandar a
prendere accordo co' Franzesi, poichè certamente il poteva fare senza
macchia dell'onor suo. Mandò dunque dicendo a Serrurier che darebbe
la piazza con certe condizioni che non volle il generale repubblicano
consentire, parendogli troppo alte; pure finalmente si convenne tra
Wurmser e Serrurier in questa sentenza: darebbe il maresciallo ai
Franzesi la città, la fortezza e la cittadella; uscirebbe il presidio
onoratamente secondo gli usi di guerra, deporrebbe le armi fuori
della barriera, restasse prigioniero fino agli scambii; uscisse libero
Wurmser, e con lui liberi i suoi aiutanti, duecento soldati a cavallo,
cinquecento altre persone a sua elezione; solo contro la Francia per
tre mesi non militassero; gissene securamente il presidio a Gorizia
per Legnago, Padova e Treviso; curassersi umanamente i malati ed i
feriti; fosse data venia a ciascuno delle cose fatte, e niun Mantovano
potesse esser ricerco, nè molestato per opinioni o per fatti a favor
dell'imperadore: condizioni onorate conformi all'onorata difesa.

Usciva Wurmser circondato da' suoi liberi soldati: ammiravano in
lui la fortezza e la volontà egregia con un corso di fortuna troppo
indegnamente contraria. Debbonsi lodare i vincitori che con più cortese
dimostrazione il vecchio prode ed infelice guerriero onorarono.
Buonaparte stesso non ommise di esaltare il guerriero austriaco,
scrivendo al direttorio, con altre cose, avere con intento proprio
voluto dimostrare la franzese generosità verso il vecchio Wurmser,
generale di settant'anni, segno d'avversa fortuna, d'animo invitto.
Così Mantova, combattuta dalla forza e dalla fame, venne in potestà
della repubblica.

Torniamo ai travagli ch'erano in Roma. L'esercito pontificio si
era, come abbiam narrato, accampato sulla destra dei Senio, pronto
a difendersi, non ad offendere. Avevano i soldati del pontefice, in
numero di sei in sette mila fanti e cinquecento cavalli, munito il
ponte del Senio sopra e sotto con buoni ridotti e con quattordici pezzi
di artiglieria. Un altro pezzo assicurava il ponte medesimo che guarda
quasi per diritto la strada di Faenza. Avevano pur fatto un fosso
ed altre fortificazioni ancora. Il generale di Francia, come prima
giunse ad un quarto di miglio da Caslelbolognese, arrestava il passo
a Lannes ed a Fiorella, e mandava avanti Junot con un buon reggimento
di cavalleria ad ordinarsi in battaglia a sinistra della strada vicino
al ponte, ma oltre il tiro delle artigliere pontificie. Robillard
schierava, non fitti, ma larghi, duecento feritori alla leggiera lungo
il fiume sulla riva sinistra. Voleva Victor che costoro facessero
opera di passare a qualche agevole guado, poichè pei tempi secchi era
il fiume guadoso in molti luoghi. Non così tosto si affacciarono al
fiume, che pioveva loro addosso una tempesta di palle; già piegavano:
ma incuorati dai capi, erano tutti soldati di Lombardia, tornavano al
cimento, e non solamente sostenevano quel duro bersaglio, ma cacciatisi
nel fiume, che correva molto rapido, il passarono. Del quale ardimento
sbigottiti i soldati del papa, abbandonavano il fosso per ricoverarsi
nei ridotti; al che tanto più volontieri ne vennero, quanto più Victor,
accortosi del fatto, e non volendo lasciar soli al pericolo i primi
feritori, aveva ordinato alla quinta dei leggieri che varcasse ancor
essa. Ma i pontificii, siccome il fosso era stato scavato per diritto
e perpendicolarmente ai ridotti, nè l'avevano munito con le necessarie
traverse, si trovavano esposti a tutto il bersaglio dei feritori
nemici; il che li fece disordinare e sbigottire vieppiù. In questo la
cavalleria del papa, mossa da uno spavento repentino, si metteva in
fuga. Victor, conosciuto che quello era il tempo buono per vincere,
mandava a dar la carica al ponte due compagnie di Lombardi, due di
Polacchi. Non contrastarono più a lungo le truppe pontificali il passo,
e si ritirarono con grave disordine e precipitosamente a Faenza. Non
poterono tostamente seguitarle i repubblicani per la difficoltà delle
strade.

Superato il Senio, s'appresentavano i repubblicani alle porte di
Faenza, le quali atterravano coi cannoni, ed entrarono nella terra
abbandonata dal presidio pontificio. Fu notabile in Faenza, città
nobile e ricca, la moderazione del vincitore; conservò intatte ed
inviolate le proprietà e le persone; anzi Buonaparte, fatti venire a sè
i preti ed i frati, li confortava a star di buona voglia, dimostrando
volere che da tutti la religion si rispettasse ed i suoi ministri si
beneficassero. Davansi facilmente, discorrendo i Franzesi per tutto il
paese come folgore, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia,
quantunque il passo di quest'ultima fosse munito di buoni difensori.
Si era Colli tirato indietro fino ad Ancona, sperando di poter quivi
fare qualche resistenza. Prevedendo intanto il pericolo della Casa di
Loreto, intorno alla quale non ignorava i pensieri rapaci manifestati
già fin dal principio dell'anno precedente dal direttorio, aveva
spacciatamente comandato che, posti sui carri gli arredi e le reliquie
più preziose, s'indrizzassero alla volta di Roma. Stava Colli accampato
sulla Montagnola con cinquemila soldati e sette pezzi di buone
artiglierie. Ordinava Victor agl'Italiani ed ai Polacchi andassero
all'assalto: le genti grosse, girando a destra, facevano sembianza di
voler riuscire alle spalle dei pontificii. Fu debole la difesa, perchè
i soldati di Colli, spaventati dalla rotta precedente, si ritirarono in
gran fretta: appena Colli fu a tempo di vuotare Ancona e la cittadella.
Se ne impadronirono i repubblicani. Il generale della Chiesa, come
prima potè raccorre i soldati disordinati, anduva a porre il campo tra
Foligno e Spoleto. La Marca, tutto il ducato di Urbino, eccettuata la
metropoli, la più gran parte dell'Umbria venivano sotto l'obbedienza
della repubblica. Espilavasi Loreto. La statua della Madonna, con
alcuni altri capi più singolari trascelti dai commissari Monge,
Villetard e Moscati, si avviavano alla volta di Parigi. Del resto si
mostrava assai continente Buonaparte, minacciando morte ai soldati
che facessero sacco. Piantava Victor il suo principale alloggiamento a
Foligno.

Andando tanto impetuosamente in precipizio lo Stato pontificio, un
alto terrore assaliva Roma. Già pareva ai Romani che quel primo seggio
della cristianità dovesse andare a sacco ed a fuoco. L'erario, le
suppellettili preziose, le lauretane ricchezze si avviavano a gran
pressa verso Terracina. Nè i ricchi se ne stavano, perchè ancor essi
incamminavano le suppellettili più nobili e più care, e così le persone
al medesimo viaggio. In mezzo a sì grave precipizio, uscivano ad ora ad
ora, come suol accadere in simili casi, voci più spaventose ancora, che
già i nemici fossero alle porte, e chi diceva di averli uditi, e chi di
averli veduti. Raddoppiavansi il terrore, le grida, la confusione, la
fuga: pareva ad ognuno che già spenta fosse ogni salute, che già Roma,
l'antica madre, rovinasse.

In caso tanto lagrimevole e spaventoso, potendo i Franzesi a volontà
loro correre per tutto lo Stato ecclesiastico, non era più luogo
ad altra deliberazione se non di piegarsi a quella dura necessità.
Si mostrava costante il pontefice nel non voler consentire a quelle
condizioni che nel modello del trattato imposto dal direttorio erano
a lui parute contrarie alle dottrine della sedia apostolica ed alla
consuetudine della Chiesa. Quanto agl'interessi temporali, preponendo
il titolo della salvezza di Roma a qualunque altro rispetto, si
preservasse con opportune concessioni, sclamava, la città; alla
concordia con Buonaparte si provvedesse. Aveva sempre il generale della
repubblica veduto molto volontieri il cardinale Mattei: parve mediatore
opportuno a piegare lo sdegno del vincitore. Cresceva tuttavia il
pericolo, cresceva il terrore. Destinava il pontefice quattro legati
al generale; il cardinale Mattei, monsignor Galeppi, il duca Luigi
Braschi, il marchese Camillo Massimi; concludessero ad ogni modo la
pace, salva però la religione e la sedia apostolica. Incontravano per
viaggio il corriere portatore delle lettere di Buonaparte al cardinale:
erano molto benigne, recatrici di tregua, promettitrici d'accordo;
questa fu la consolazione di Roma. Arrivarono i legati a Tolentino,
dove Buonaparte aveva le sue stanze. Accolti con dimostrazioni cortesi
dal generale, si restringevano tostamente con lui a negoziare in una
faccenda che oggimai non aveva più in sè difficoltà di importanza,
perchè nè Buonaparte voleva toccare lo spirituale, nè il papa aveva
più, pel terrore e per l'estremità del caso, arbitrio del temporale,
essendo già posto in balia del vincitore.

Si concludeva il giorno 19 febbraio a Tolentino il trattato di pace
fra il papa e la repubblica di Francia. Si obbligava il pontefice a
recedere da qualunque lega segreta o palese contro la repubblica; a
non dar soccorsi nè d'armi, nè di soldati, nè di viveri, nè di denaro,
nè di navi a chi nemico ne fosse; a licenziare i reggimenti nuovi;
a serrare i porti ai nemici di Francia, ad aprirgli ai Franzesi; al
cedere alla Francia Avignone, il contado e le dipendenze; al cedere
ugualmente le legazioni di Bologna e di Ferrara, con ciò però che
non vi si facessero novità pregiudiziali alla religione cattolica;
al consentire che la città, la cittadella ed il territorio d'Ancona
sino alla pace si depositassero in mano della repubblica. Oltre a
questo si obbligava il papa a pagare fra un mese ai Franzesi quindici
milioni di tornesi, dieci in contanti e cinque in diamanti; fra due
mesi altrettanti, parte pure in pecunia numerata, parte in diamanti.
Consentiva inoltre a somministrare ottocento cavalli, bestie da tiro
altrettante, buoi, bufali ed altri animali dello Stato della Chiesa;
a dare i manoscritti, i quadri, le statue pattuite nel trattato di
Bologna; a disapprovare la uccisione di Basseville, ed a pagare pel
ristoro dei danni alla famiglia dell'ucciso trecento mila tornesi; a
liberare i prigionieri per cause di Stato; a restituire ai Franzesi la
scuola delle arti in Roma; volle finalmente il vincitore, e consentiva
il papa, che il trattato fosse obbligatorio per lui e pei successori
nella cattedra di San Pietro per sempre.

Così finiva la romana guerra.

Il generale fortunato, domati i grandi, volle far mostra di onorare
e rispettare i piccoli. Mandò, trovandosi agli alloggiamenti di
Pesaro, a dì 7 febbraio, Monge a certificare la repubblica di San
Marino della fratellanza ed amicizia della repubblica franzese.
Andò Monge sulla cima del monte Titano. Introdotto in cospetto dei
padri, disse, enfaticamente parlando, dappoichè Atene, Tebe, Roma
e Firenze avevano perduto la libertà, quasi tutta l'Europa essere
venuta in servitù; solamente in San Marino essersi ricoverata la
libertà; ma pur finalmente il popolo franzese, del proprio servaggio
vergognandosi, essersi vendicato in libertà: l'Europa, posti in non
cale i proprii interessi, posti in non cale gl'interessi del genere
umano, essere corsa all'armi contro di lui; la civil guerra avere
aiutato la forestiera; pure essersi avventato lui alle frontiere,
avere debellato i suoi nemici: avere trionfato, venuti i suoi eserciti
in Italia, avervi vinto quattro eserciti austriaci, recatovi la
libertà, acquistatosi gloria immortale quasi fin sotto gli occhi della
sanmarinese repubblica; avere la repubblica di Francia, abborrente dal
sangue, offerto pace, ma averla anche offerta indarno; perseguitare
intanto i suoi nemici, passare presso a San Marino per perseguitarli;
ma vivessero sicuri che Francia era amica a San Marino. A questo passo
veniva Monge offerendo alla repubblica da parte del generalissimo
territorii di stati vicini. Troppo squisito e magnifico parlare e
troppo inconveniente offerta era questa a quegli uomini semplici ed
ammisurati; nè si sa perchè Monge, che uomo temperato era anch'egli,
la facesse. Il torre e l'accettare erano ugualmente brutti e pericolosi
per una repubblica che era vissa sì lunga età innocente e pura da quel
d'altrui. Buonaparte venne poscia in sull'offerire egli stesso: darebbe
quattro cannoni, darebbe fromenti; riceverebbe in sua protezione
San Marino, e farebbe portar rispetto ovunque e quandunque a' suoi
cittadini.

Rispose il consiglio, accetterebbe i cannoni volontieri, accetterebbe
anche i fromenti, ma pagandoli; dei territorii contento agli antichi,
non volerne nuovi; solo pregare qualche maggior larghezza di commercio,
e di ciò richiedere l'eroe invincibile. Il seguito fu che i cannoni
non furono dati e che non si parlò più di San Marino. Continuò nella
solita quiete e libertà; continuò a rispettare i diritti degli uomini
senza vantarli, il che è meglio che il vantarli, senza rispettarli;
continuarono dall'altra parte intorno al felice monte gli strepiti e la
licenza dei popoli e dei soldati.

Rimoveva Buonaparte appoco appoco le sue genti dallo Stato
ecclesiastico: poscia si conduceva a Bologna intento a nuove imprese,
perchè già l'Austria un'altra volta ingrossava.

Due pensieri operavano massimamente a questo tempo nella mente di
Buonaparte, sicuro ormai di poter fare, o buon grado o mal grado del
suo governo, ciò che più volesse. Siccome la fortuna tanto se gli era
dimostrata prospera, così intendimento suo era, posti in non cale i
pensieri del re di Sardegna, di creare un nuovo Stato in Lombardia,
acciocchè egli fosse della sua potenza e del suo nome testimonio
perpetuo. Ma il direttorio, che aveva anche capriccio in questo nuovo
Stato, desiderava tuttavia temporeggiarsi pel desiderio che aveva
della pace coll'imperadore. Si proponeva oltre a ciò Buonaparte,
solito a fabbricare ne' suoi concetti grandissimi disegni, tostochè si
diminuisse l'asprezza della stagione, di varcare con tutto l'esercito
le Alpi Giulie e di far sentire le sue armi nel cuore della Germania,
a fine di obbligare l'imperadore alla pace, pensiero che già aveva
concetto fin dai tempi delle sue prime vittorie in Italia, e che solo
era stato interrotto dalla meravigliosa costanza dell'Austria nel
sostituire nuovi eserciti ad eserciti vecchi. Confortavano massimamente
questa sua deliberazione la singolarità e la grandezza dell'impresa,
l'avere a cimentarsi con l'arciduca Carlo, fratello dell'imperadore,
che aveva di recente combattuto vittoriosamente le armi repubblicane
sulle sponde del Meno e del Reno, e che era stato preposto, come ultima
speranza, all'esercito italiano. In questo poi era suo intento di
affrettarsi, sì perchè, credendo di poter fare da sè, non voleva che
Moreau, calandosi per le rive del Danubio, lo aiutasse, e sì perchè
aveva a cuore di assaltare l'arciduca innanzi che le genti di nuova
leva, che già marciavano, avessero ingrossato le reliquie dei vinti.
A condurre a fine queste fazioni abbisognava principalmente di non
lasciarsi nissun sospetto alle spalle, e questo fine conseguiva col far
rivoluzione nei paesi veneti.

Con questi pensieri si accostava Buonaparte alla guerra d'Alemagna.
Reggeva cinquanta mila soldati fioritissimi e veterani tutti
dell'esercito italico, ed a questi si erano congiunti venti mila venuti
dal Reno, sotto la condotta di Bernadotte. Gli aveva per tal modo
distribuiti nelle stanze, che l'ala sinistra, governata da Joubert e
grossa di più di venti mila soldati molto agguerriti, guardava i passi
del Tirolo; la mezza schiera condotta da Massena alloggiava a Bassano;
l'ala destra, alla quale presiedeva Buonaparte stesso e che aveva un
novero di trenta mila soldati, alloggiava nel Trevigiano sino alle rive
della Piave. Così con le tre schiere sovrastava Buonaparte ai tre passi
che dall'Italia danno l'adito all'Alemagna.

Animava i suoi soldati per fargli star saldi alle nuove prove:
badassero, diceva, che già avevano vinto quattordici campali battaglie,
settanta minori, preso più di cento mila prigionieri, conquistato
cinquecento cannoni leggieri, due mila grossi, piatte per quattro
ponti; si ricordassero, avere senza spesa del pubblico vissuto un anno,
mandato trenta milioni all'erario; per loro avere il museo di Parigi
acquistato quanto di più bello avea penato trenta secoli l'antica
e la moderna Italia a produrre; le più belle contrade dell'Europa
essere in potestà della repubblica; a loro obbligate della libertà
la Lombardia e la Cispadana repubbliche; vedere per la prima volta
l'Adriatico le franzesi insegne; là oltre e poco distante mostrarsi
la Macedonia antica; i re di Sardegna e di Napoli, il papa, il duca di
Parma, abbandonata la lega, avere ricerco l'amicizia della repubblica;
gl'Inglesi cacciati da Livorno, da Genova, da Corsica essere testimoni
del loro valore; molto essersi per loro fatto, molto ancora restare
a farsi; meritassero l'affezione della patria confidente nel loro
coraggio; solo tra tanti nemici stare in piè ed in armi l'imperadore;
gissero dunque, esortava, la pace cercando nel cuore stesso degli
Stati ereditarii d'Austria; vedrebbero popoli valorosi; la religione
onorassero, i costumi rispettassero, le proprietà proteggessero.....
Voci molto incitatrici erano queste agli animi di soldati valorosi,
vincitori, e che, non conoscendo qual fosse in tanta contesa il dritto,
il giusto e l'onesto, non altro suono conoscevano che quello delle
armi.

Dalla parte dell'Austria, che mal volontieri si disponeva a lasciare
del tutto le cose d'Italia abbandonate, le faccende passavano con
maggior moderazione, ma non con minore coraggio, se si guardano
le risoluzioni di chi reggeva lo stato; imperciocchè, oltre le
reliquie de' soldati vinti, si mandavano alla volta della Carintia,
della Carniola e del Friuli circa trenta mila delle genti del Reno,
nuove leve si ordinavano negli Stati ereditarii, la nazione ungara
volonterosamente accorreva in aiuto del sovrano pericolante. Una massa
di soldati vecchi e nuovi alloggiava a Salisburgo pronta a correre
ai passi dell'Alpi; un campo si ordinava a Neustadt come antemurale
alla capitale dello impero. Confortava l'oste il pensiero dell'avere
a guidatore e capo delle nuove imprese l'arciduca Carlo, principe
amatissimo, che recentemente aveva dato segni di non mediocre perizia e
di singolare ardimento nelle guerre d'Alemagna.

Alloggiavano nel Trentino, nel paese di Feltre e nella Marca
Trivigiana, distendendo la fronte loro dai monti di Bormio insino
alla foce della Piave. Ritirava sul principio di febbraio l'arciduca
il grosso sulla sinistra riva del Tagliamento, e lo alloggiava nel
Friuli e nella Carintia, lasciando tre schiere sulla fronte descritta.
Trovavasi Liptay con una di esse a guardare lo spazio che corre dalla
frontiera de' Grigioni a Salorno, terra posta sulla sinistra dell'Adige
sopra al Lavisio, e per tal modo stava a difesa del superiore Tirolo.
Spiegava la seconda le sue ordinanze da Salorno a Feltre a traverso i
monti che spartono le acque dell'Adige da quelle della Piave. Obbediva
questa al freno di Lusignano, ed era pronta a venire al cimento
con que' soldati rischievoli di Massena. Finalmente il principe di
Hohenzollern con sette mila soldati custodiva il paese da Feltre
scendendo per la sinistra della Piave fin dove ella mette in mare.
Fermava l'arciduca il suo principal alloggiamento in Udine, capitale
del Friuli, perchè sapeva che il più forte sforzo dell'inimico si
doveva indirizzare verso Gorizia.

Il primo a dare il segnale delle nuove battaglie fu il generale di
Francia: il 10 marzo si muoveva con la sua destra e con la mezzana
schiera. Era suo primario intendimento di entrar framezzo agli Alemanni
per modo che l'ala loro destra restasse separata dalle altre. Perciò
aveva ordinato, che il principale sforzo di questa prima mossa fosse
fatto dalla mezzana, che raunata sulle rive della Piave obbediva a
Massena: nè mancava Massena del debito suo; perchè non così tosto
si mosse, che gli Austriaci, abbandonata la fronte del Cordevole ed
i luoghi più bassi, andavano a porsi in sito forte oltre Belluno, a
fine di propulsare il nemico, se tentasse d'inoltrarsi nella valle di
Cadore. Seguitavali tostamente il Franzese, e, quantunque Lusignano con
grandissimo valore si difendesse, prevalendo i repubblicani di numero,
fu alla fine obbligato, non giovandogli nè l'avere ordinato i suoi in
globo per aprirsi il passo alla salute, nè un bravo menar di baionette,
a por giù l'armi con tutta la sua schiera, e a darsi in potestà dei
vincitore. Per tal modo meglio di seicento soldati, Lusignano con
loro, vennero in poter de' Franzesi; ma fu maggiore il numero degli
Austriaci uccisi in quell'ostinato conflitto. Al tempo medesimo
Serrurier e Guyeux varcavano la Piave a Vidor e ad Ospidaletto, ed
occupato Conegliano e Sacile, si avvicinavano al Tagliamento. Aveva
l'arciduca munito la sponda sinistra di questo, piuttosto impetuoso
torrente che giusto fiume, di trincee con averle afforzate con
artiglierie. Stanziava anche numerose torme di cavalleggieri pronte a
ributtare l'inimico ove passasse, ma queste erano meglio dimostrazioni
per ritardare che per arrestare l'inimico, perchè le acque del
Tagliamento, non ancora sciolta le nevi sui monti, si potevano guadare
in molti luoghi. Per la qual cosa i Franzesi, schivando i passi
muniti, riuscivano facilmente sulla sinistra. Fuvvi qualche incontro
di cavalleria assai brava, ma i fanti tedeschi fecero poca resistenza
quando la cavalleria dei repubblicani, varcato il fiume, gli ebbe
assaltati. Al contrario i primi fanti franzesi che avevano passato,
percossi vigorosamente dalla cavalleria tedesca, avevano contrastato
con molta forza.

Passato il Tagliamento ed assicurato Buonaparte sulla sinistra per
la vittoria di Massena, che già da Cadore, valicando dai fonti della
Piave a quei del Tagliamento, si accostava con presti alloggiamenti
alla Ponteba, si stendeva per tutto il Friuli, cacciandosi avanti verso
il Lisonzo le armi austriache che, debolmente combattendo, facilmente
gli cedevano del campo. Già le fortezze di Palmanova e di Gradisca, e
già Gorizia erano in poter suo venute. Quindi allargandosi a destra
s'impadroniva di Trieste abbandonato dai suoi difensori, e fatta
una subita correria sopra Idria, faceva sue quelle ricche miniere
d'argento vivo, bottino ricchissimo, ma non tanto quanto portò la
fama. Verso sinistra, procedendo altresì molto risolutamente, prendeva
Cividale e s'incamminava a Chiavoretto, perchè voleva consuonare con
Massena nel carico che questi aveva d'impossessarsi dell'importante
passo della Ponteba. Grande era questo suo pensiero; conciossiachè se
Massena guadagnava il passo della Ponteba, poi quello di Tarvisio,
che gli succede, gli sarebbe venuto fatto di spuntare il fianco
destro dell'arciduca, di separarlo da Kerpen e da Laudon, d'impedire
i rinforzi che dal Reno gli pervenivano, e forse ancora di giungere
a Clagenfurt sulla strada per a Vienna innanzi che il generalissimo
austriaco vi arrivasse.

Ma prima che si raccontino le importanti fazioni che ne seguirono,
necessaria cosa è il descrivere come le cose passassero tra Joubert
da un canto e Liptay, Kerpen e Laudon dall'altro, nel Tirolo. Come
prima ebbe avviso Joubert dei prosperi fatti accaduti nel Friuli, si
metteva all'ordine per eseguir le imprese che alla fede ed al valor suo
aveva Buonaparte raccomandate. Varcava il Lavisio il dì 20 di marzo,
nonostante che i cacciatori tirolesi posti ai passi con ispessi tiri
ogni opera facessero per impedirlo: urtava Kerpen che aveva un forte
campo sulle alture di Cembra, cercando di accerchiarlo a sinistra
per Cavriana. Al tempo stesso per la strada di Bolzano e a destra
marciarono Delmas e Baraguey d'Hilliers. Fu valida, ma non lunga la
difesa, pel timore che ebbe Kerpen di essere circuito sulla destra
della sua fronte, però con celeri passi si ritirava a San Michele,
donde gagliardamente anche combattuto dai Franzesi, viemmaggiormente
indietreggiando, andava a porsi più sopra a Bolzano. Entravano
successivamente, benchè non senza nuove battaglie e molto sangue, i
Franzesi in Salorno, in Peza ed in Newmarket. La ritirata tanto presta
di Kerpen poneva in grave pericolo Laudon, che alloggiava sulla destra
dell'Adige, perciocchè le raccontate fazioni accadevano sulla sinistra.
Nè i Franzesi trasandavano la occasione; anzi varcato il fiume ai ponti
di Salorno e di Newmarket, assalivano Laudon nel suo campo di Tranen e
lo rompevano con uccisione di molti, e con circa novecento prigioni e
parecchie artiglierie prese. Dopo questa rotta, che faceva impossibile
a Laudon di ricongiungersi con Kerpen, non ebbe altro rimedio che di
cercar ricovero nelle parti superiori della valle di Merano. Quivi
stette aspettando che la fortuna gli offerisse nuova occasione di
risorgere.

Seguitavano i Franzesi il corso della fortuna vincitrice, ed urtato
Kerpen, che aveva fatto un forte alloggiamento alla Chiusa, lo avevan
sloggiato e percosso di modo che, abbandonato anche Brissio, pensava a
ritirarsi a Sterzing, luogo molto scosceso, stretto, rotto, difficile e
posto nelle montagne del Brenner presso al sommo giogo dell'Alpi, dove
si spartono le acque dell'Adige e dell'Inn, ultima difesa d'Alemagna
contro chi viene dalle terre d'Italia. I Franzesi lo assaltavano
audacemente in quel fortissimo alloggiamento, fu dura e sanguinosa la
battaglia; furono costretti a tornarsene indietro. Joubert adunque si
fermava a Brissio, dove poteva a suo grado o stare osservando le cose
del Tirolo o marciare per Bruneck e Toblach a Linz, e di là fino a
Villaco per trovarvi Buonaparte. Ma non tardava a fare la fortuna che
quello che era elezione per lui, diventasse necessità.

Chiamava Laudon i Tirolesi all'armi, li chiamava Kerpen: secondava
con ardenti esortazioni l'opera loro il conte di Lerback, personaggio
di grande autorità e molto potente nelle cose del Tirolo. I bellicosi
abitatori di quelle montagne al suono di voci tanto gradite correvano
all'armi bramosamente contro i conculcatori della patria loro; nè il
sesso nè l'età si rimanevano, perchè furono veduti e vecchi e donne
e fanciulli, dato di mano alle armi che il caso od il furore parava
loro davanti, mettersi in piè per difendere le antiche ed amate
sedi loro. Nè la stagione sinistra, nè le alte nevi, nè i grossi ed
impetuosi torrenti, nè ogni disagio di guerra o di vettovaglia gli
impedivano. Passava tant'oltre questo improvviso tumulto, che sul
principiar di aprile, risuonando quelle valli d'ogni intorno d'armi
e di grida guerriere, meglio di ventimila combattenti erano in pronto
contro quella gente venuta da lontani paesi per conquistarli. Intanto
i generali tedeschi, che sapevano che le moltitudini disordinate
sono piuttosto preda che danno ad un nemico bene ordinato, avevano
distribuito in battaglioni giusti quella massa tumultante, e
mescolatovi per dar polso e regola alcuni drappelli di regolari.
Principale fondamento facevano nell'opera di costoro, perchè questi
popoli accorsi, sapendo il paese, potevano acconciamente ferire alla
leggiera, opprimere i traviati, mozzar le strade, riuscire improvvisi
alle spalle, bersagliare da lungi e da luoghi erti, soprapprendere le
bagaglie, impedire la vettovaglia, insomma fare ogni cosa, avanti, a'
fianchi e addietro, sospetta e pericolosa.

Kerpen e Laudon, fatti forti da questo accalorato stormo, ed ingrossati
anche da qualche battaglione di regolari venuti dall'esercito Renano,
si consigliavano di voler cacciare del tutto dal Tirolo i repubblicani.
Con questo pensiero Laudon calava minacciosamente da quei luoghi alti
e dirupati ed andava a battere a mezza strada fra Brissio e Bolzano,
col fine di tagliar il ritorno ai Franzesi, alle parti dissottane
dell'Adige. Gli riusciva l'intento, perchè assaltate con impeto le
vanguardie franzesi, le faceva piegare e s'impadroniva di Bolzano.
Fatto poscia più audace dal fortunato successo, saliva per le rive
dell'Adige per congiungersi con Kerpen e per istringere vieppiù
Joubert, che tra l'una schiera e l'altra stanziava a Brissio. Occupava
la Chiusa, poi Steben, tanto ritirandosi i Franzesi più in su quanto
più avvicinava Laudon; già Brissio medesimo pericolava. Nè se ne
stava neghittoso in questo mezzo tempo Kerpen, perchè calando con le
sue genti miste di Tirolesi e di Tedeschi da Sterzing, rincacciava i
repubblicani fin sotto le mura di Brissio. Per questo molto a Joubert
accerchiato da tre parti non rimaneva più altro scampo che a levante
per la valle del Puster, poscia per quella della Drava fino a Villaco.
Partitosi da Brissio il dì 5 aprile, e ritardato l'impeto di Kerpen
che lo voleva seguitare, con aver rotto il ponte sull'Eisac, arrivava
il giorno 8 a salvamento a Linz, dove trovava alcuni squadroni di
cavalleria che il generalissimo, geloso di quel passo mandava ad
incontrarlo. Poscia, marciando sollecitamente in giù per la riva della
Drava, e rotte alcune squadre collettizie all'Ospedale, che volevano
serrargli il passo, conduceva ad effetto a Villaco la congiunzione
dei due eserciti. Ma Laudon non si ristava; che anzi cacciando
all'ingiù dell'Adige i Franzesi, entrava vittorioso in Trento e
Roveredo, s'allargava anche sulle sponde del lago a Torbole ed a Riva.
Questa mossa, che già faceva sentir il romore delle armi tedesche
nella pianura trapposta tra l'Adige ed il Mincio, partoriva effetti
importanti.

La guerra si avvicinava sugli estremi confini d'Italia per opera di
Massena ad un evento terminativo per quanto spetta alla difesa degli
Stati ereditari d'Austria. Già per la molta importanza del passo
della Ponteba, aveva comandato l'arciduca a Ocskay che lo custodiva,
ostinatamente il difendesse. Confidando nel valore de' suoi, veniva
in pensiero di sopraccorrere con forze superiori contro Massena e
di conculcarlo prima che Buonaparte avesse tempo di soccorrerlo. Il
quale intento se avesse avuto il suo effetto, l'arciduca avrebbe
fatto a Buonaparte quello che Buonaparte voleva fare a lui, cioè
separare l'ala sua destra dalle genti del Tirolo che erano la sua
sinistra. A questo fine ebbe tostamente il generale austriaco adunato
alcune truppe già venute dal Reno, e comandava al tempo medesimo
ai generali Gontreuil e Bajalitsch, marciassero risolutamente a
Tarvisio per a Ponteba; li seguitava di pari passo, conducendo con
sè le artiglierie più grosse. L'accidente era importante, il momento
fortunoso. Già marciava l'arciduca quasi sicurato della vittoria;
ma quando più confidava di un prospero fine, gli sopravvenivano le
novelle, certamente ingratissime, che Ocskay, non facendo alla Ponteba
contro Massena quella sperienza che si aspettava di lui, si era tirato
indietro fino a Tarvisio, che anzi, velocemente seguitato dal nemico,
aveva anche abbandonato Tarvisio, ritirandosi più che di passo verso
Wurtzen. Quest'accidente tanto impetuoso fece precipitar l'arciduca ai
rimedi: comandava ad Ocskay che tornasse incontanente e cacciasse i
repubblicani da Tarvisio. Ma il suo intento non ebbe effetto, perchè
Ocskay, accelerando il cammino, era già arrivato a Wurtzen, terra
troppo più lontana che abbisognasse, perchè ei potesse giungere a tempo
alla fazione. Non si perdeva di animo per tanto sinistro l'arciduca,
e, non lasciata indietro diligenza od opera alcuna, pensava a ricuperar
col valore quello che la timidità aveva perduto. A questo fine ordinava
a Gontreuil e Bajalitsch, seguitassero a marciare e restituissero ad
ogni modo alle armi austriache il passo di Tarvisio. Tanto velocemente
marciò il primo, guidatore dell'antiguardo, che, valicato il colle di
Ober-Preth, urtava valorosamente in Tarvisio cacciavane i repubblicani,
e perseguitandoli, li respingeva fin oltre al villaggio di Salfnitz,
e se fosse stato presto Bajalitsch ad arrivare per fermare i suoi
nella battaglia, l'impresa aveva il suo compimento. Ma egli, o fosse
ritardato dai luoghi aspri o dagli impedimenti delle artiglierie che
voleva condurre con sè, non potè arrivare a tempo alla fazione, per
modo che il seguente giorno che fu ai 23 di marzo, Massena, raccolti
ed adunati i suoi, e già prevalendo di forze contro Gontreuil, rimasto
solo, dava dentro, prima a Salnitz, poscia a Tarvisio, e da ambi i
luoghi cacciava gl'imperiali. Nè valsero il valore di Gontreuil, che fu
molto notabile, nè quello delle sue genti che combatterono virilmente,
nè la presenza dell'arciduca medesimo che era accorso e fece in questa
battaglia le veci non meno di esperto capitano che di animoso soldato,
ad arrestare il corso della fortuna contraria; perchè non solamente
fu rotto e ferito Gontreuil, ma fu cagione che rotto ancora fosse
poco dopo Baialitsch che arrivava; conciossiachè Massena vittorioso,
rivoltosi contro questa seconda colonna, le dava l'assalto sui confini
di Raibel. Al tempo medesimo Guyeux, che si era impossessato per una
battaglia di mano del forte passo della Chiusa di Plezzo, accostatosi
ancor esso, l'assaliva alla coda. La schiera, urtata da tutte le parti
da un nemico vittorioso, ridotta ad un'estrema lassezza pel camminare
frettoloso su per quei monti, nè avendo speranza di soccorso, deposte
le armi, si arrendeva.

Perduta la speranza di offendere, pensava il generale dell'Austria
ad ordinar le difese in modo che fosse fermato quel precipizio, e
fatto abilità alle genti stanziali del Reno di arrivare, alle leve
di Croazia, di Bosnia, d'Austria e di Ungheria d'ordinarsi, ed al
campo di Neustadt di fortificarsi. Schierava a questo fine il generale
Seckendorf sulla strada di Lubiana, acciocchè intendesse alla difesa
della Carniola e delle rive dalla Sava; quest'era l'ala sua sinistra.
Alloggiava il generale Mercantin sulle sponde della Drava per sicurezza
di Clagenfurt; quest'era la mezza schiera. Finalmente il principe di
Reuss, col generale Keim con l'ala destra avevano fermato le loro genti
a San Vito e nella valle della Mura. Per tal modo si guardavano i tre
principali aditi per cui si va dall'Italia nel cuore delle possessioni
austriache in Alemagna. Sperava l'arciduca, abborrendo dal lasciarsi
stringere a far giornata, che questi preparamenti di difesa, le genti
del Reno che giungevano, i popoli che tumultuavano tutt'intorno,
avrebbero dato cagione di pensare a Buonaparte, e frenato la sua
audacia del volersi internare negli Stati ereditarii. Ma il capitano di
Francia, che voleva pure che le sue armi romoreggiassero in Alemagna,
parte per amore di gloria, parte per isperanza che chi parteggiava
per la pace a Vienna si mostrerebbe tanto più vivo quanto più ei fosse
vicino, non si rimaneva, che anzi spingendosi avanti, e già congiunto
con lui Joubert, entrava vittorioso in Villaco, Lubiana e Clagenfurt.
Così non restava a superarsi più altro ostacolo di luoghi a Buonaparte,
perchè sulle sponde del Danubio vicine a Vienna facesse sentire la
impressione delle sue armi, che la falda settentrionale delle Noriche
Alpi, che la Drava dalla Mura dividono, debole impedimento per la
facilità dei passi.

La guerra d'Italia, che prima era picciola parte dei disegni franzesi,
era divenuta, per tanto segnalate e tanto efficaci vittorie, parte
principalissima; ed inaspettatamente il far forza all'imperadore, che
si sperava pel direttorio dall'Alemagna, sorse dall'Italia; opera
certamente che il direttorio medesimo, nè nissun governo, nè niuna
persona al mondo, se non forse Buonaparte, avrebbe potuto, non che
credere, immaginare, quando poco più di un anno avanti si combatteva
nella riviera di Ponente sotto l'umile scoglio di Borghetto.

Giunto a Clagenfurt, ed, avuto avviso che i partigiani della pace
a Vienna facevano efficace opera per venire ai fini loro, pensava
di usare il terrore impresso, perchè la parte loro prevalesse nelle
consulte dell'imperadore. A questa deliberazione fu anche indotto
dal sospetto di quello che potesse accadere alle sue spalle; perchè,
sebbene il senato veneziano fosse debole, erano i popoli della
terraferma gagliardi per lo sdegno concetto alle conculcazioni fatte
dai repubblicani e minacciavano di far novità contro di loro. Al
che erano anche incitati dalle rivoluzioni di Bergamo e di Brescia
accadute per istigazioni segrete e palesi dei Franzesi e dei loro
partigiani. Da un altro lato aveva Buonaparte sentito i primi romori
di Kerpen e Laudon nel Tirolo e già la Croazia minacciava Trieste.
Nè non gl'importava il simulare il desiderio della pace; perciocchè,
se la pace seguiva a modo suo, otteneva l'intento, se non seguiva,
sarebbe paruta la guerra opera dell'ostinazione altrui. Scriveva
adunque il dì 31 marzo all'arciduca, l'Europa, sanguinosa desiderar la
pace, desiderarla ed averne fatto dimostrazione il direttorio: «Voi
foste, diceva all'arciduca, il salvatore dell'Alemagna, siate anche
il benefattore dell'umanità: anche vincendo non potrete fare che non
ne sia lacerata l'Alemagna; se questa mia proposta fosse per divenir
cagione che la vita di un uomo solo si salvasse, bene sarei io più
contento della meritata corona civica, che della fama acquistata in
ulteriori vittorie.»

Rispondeva l'arciduca, fare la guerra per debito, desiderare la pace
per inclinazione; a nissuno più che a lui star a cuore la felicità dei
popoli, ma non aver mandato per trattare intorno ad una faccenda di
tanta importanza ed a sè non competente; aspetterebbe i comandamenti
del suo signore. Data la risposta, mandava gli avvisi a Vienna, già
molto turbata per l'avvicinarsi del nemico.

Buonaparte intanto si faceva con prestezza avanti, sperando di far
certo con la vittoria quello che tuttavia era incerto. Ma l'arciduca,
che si era messo al fermo di voler temporeggiare, fuggendo la necessità
del combattere, si tirava indietro, solo ritardando con grosse fazioni
del retroguardo il perseguitar del nemico. Ritraevasi da San Vito, da
Fraisach, da Newmarket; ritraevasi ancora da Unzmarket sulla Mura e
da Judenburgo. Occupava Buonaparte i luoghi abbandonati, e si vedeva
avanti le acque che dall'estrema falda dei norici monti se ne corrono
per la dritta del Danubio; già le mura dell'antica ed invitta Vienna
erano vicine a mostrarsi a' suoi soldati vincitori.

Ma già da Vienna, ancorchè la condizione di Buonaparte fosse divenuta
pericolosa per la subita comparsa di Laudon nella campagna di
Brescia, per l'arrivo d'un colonnello Casimiro a Trieste mandatovi
dall'arciduca, e per essere sul mezzo della fronte lo arciduca
medesimo grosso e rannodato e con tutte le popolazioni all'intorno che
dimostravano animo stabile nella divozione verso l'antico signore;
arrivavano, all'alloggiamento di Judenburgo i generali Belegarde
e Meerfelt con mandato di sospendere le offese e di comporre le
differenze. Uditi benignamente dal generale di Francia, si accordarono,
il giorno 7 aprile, che si sospendessero da ambe le parti le offese
per sei giorni. Poi, scoprendosi sempre più inclinato Buonaparte a
volere condizioni vantaggiose per l'Austria con offerire compensi, fu
prolungata la tregua insino a che fossero accordati i preliminari di
pace che, secondo il corso di quei negoziati, si vedevano non lontani.
Infatti, essendosi dato perfezione a tutte le pratiche, si venne fra
i plenipontenziari rispettivi alla conclusione dei preliminari nella
terra di Leoben, il dì 18 del medesimo mese. Alcuni dei capitoli furono
palesi, altri segreti. Fra i primi contenevasi, cedesse l'imperador
alla Francia i Paesi-Bassi, riconoscesse le frontiere della repubblica
quali le avevano le leggi franzesi definite, consentisse alla creazione
d'una repubblica in Lombardia. Parlavasi nei segreti dei compensi
da darsi all'imperadore; ma, essendosi stipulato che Mantova si
restituisse all'imperadore medesimo, il direttorio non volle consentire
questa condizione, certamente gravissima in sè stessa, e per gli
effetti che portava con sè. Il rifiuto del direttorio fe' sorgere nuovi
negoziati, pei quali finalmente fu consentita Mantova alla repubblica
traspadana o lombarda che la si voglia nominare.

Già precedentemente si è veduto che Bergamo era stato occupato da
Buonaparte come istrumento potente a volgere a sua devozione l'animo
dei popoli della terraferma veneta. Fu del tutto violento il modo e
contrario a tutti gli usi della neutralità. Entrarono i repubblicani
in Bergamo, Baraguey d'Hilliers li guidava, con cannoni ordinati a modo
di guerra, con le micce accese, s'impadronirono delle porte, recaronsi
in mano le artiglierie veneziane, intimarono al podestà Ottolini,
facesse sgombrar dalla terra tutte le truppe venete; se nol facesse
userebbero la forza. In tale guisa s'insignorirono di Bergamo coloro
che accusavano Venezia della violata neutralità. Ma questo non era
che il principio ed il fondamento delle trame che si ordivano. Erasi
per opera di Buonaparte creata in Milano una congregazione segreta,
nella quale entravano in gran numero i repubblicani italiani, ed il cui
fine era di operare rivoluzioni nel paese veneziano. Alcuni Franzesi
vi erano mescolati che intendevano ai medesimi fini. Tra questi, un
Landrieux, capo dello stato maggiore di cavalleria, era stato eletto
dalla congregazione qual operator principale a turbare le cose venete.

Ma Landrieux, o che egli avesse per onestà di natura realmente in
odio queste opere pestifere, o che per motivo meno sincero, come ne lo
sospettò Buonaparte, avesse occulto intendimento con gl'inquisitori di
stato di Venezia, fe' sapere, o per mezzo loro o immediatamente, ad
Ottolini, che, ove una persona fidata a Milano mandasse per conferir
con lui, le svelerebbe cose che massimamente importavano alla salute
della repubblica veneziana. Mandava il segretario Stefani; trovava
questi in Milano un avvocato Serpieri, romano, trovava Andrieux,
che alloggiavanlo segretamente in casa Albani: affermava Landrieux
a Stefani, essere onest'uomo, per questo avere in abbominio le
rivoluzioni; già averne impedito una in Ispagna, voler impedire
quella dello Stato veneto: avere fra un mese ad esser pace con
l'Austria se fosse impedita la rivoluzione degli Stati veneziani, nel
caso contrario, non esservi più modo di conciliazione; abbracciare
Buonaparte nell'ambizione sua la sovranità d'Italia. Soggiungeva poscia
che la rivoluzione dello Stato veneto era opera della congregazione
segreta di Milano; dovere aver principio in Brescia, poi dilatarsi in
Bergamo e Crema; uomini apposta, seminatori di denaro e di ribellione,
essere sparsi fra i contadini delle valli, matura non essere ancora la
trama, avere ad essere fra otto o dieci giorni: erano i 9 di marzo.
Trattenessesi, esortava, in Milano Stefani, svelasse il tutto per un
procaccio fidato a Battaglia, provveditore straordinario di Brescia;
perchè, affermava, impedita la rivoluzione in Brescia s'impedirebbe
anche negli altri luoghi. Trovava modo Stefani di tornare a Bergamo;
ebbe raccontato il fatto ad Ottolini. Scriveva il podestà prestamente
al provveditore straordinario Battaglia. Ma i congiurati, forse per
avere avuto sentore o lingua degli avvisi dati da Landrieux, furono più
presti a fare, che Ottolini e Battaglia ad impedire.

Era la mattina del 12 marzo, quando un moto insolito si manifestava
in Bergamo; i congiurati chiamavano il popolo a libertà; predicavano,
aiutare i Franzesi l'impresa; fermavansi tratto tratto ai capi
delle strade, poi di nuovo marciavano; guardie franzesi raddoppiate
alle porte, cannoni condotti dal castello in piazza, due rivolti
al palazzo; interrogato il comandante franzese dal podestà che
cosa volesse significare questo, accusava pattuglie insolite di
soldati veneziani e della sbirraglia. Erano in Bergamo due compagnie
di cavalleria croata, due di fanti d'oltremare, tre d'Italiani,
forse, con tutto questo, trenta sbirri; non montavano fra tutti a
quattrocento; i Franzesi quattromila, se non mentivano le polizze,
perchè per altrettanti forniva i viveri la provincia. Di quei pochi,
col castello in mano, con tutte le artiglierie in suo potere, temeva
il comandante. Insomma nasceva il romore, atterriti gli amatori dello
Stato vecchio, imbaldanziti gli amatori del nuovo. Lefevre, comandante
per Francia, fatti chiamare a sè i deputati alle provvisioni, intimava
loro, avessero a sottoscrivere il voto per la libertà ed unione del
Bergamasco alla repubblica Cispadana: se nol facessero, andrebbe
la vita. In questo mezzo, due uffiziali repubblicani, l'Hermite e
Boussion, presiedevano ai voti per la libertà ed unione alla Cispadana.
Sottoscrivevano alcuni per amore, molti per forza. Era un andare e
venire, una confusione, un trambusto incredibile. Scendeva la notte
intanto e rendeva più terribile l'aspetto delle cose. In questo mentre
si creava il municipio; toglievano i repubblicani lo stendardo veneto
che ancora sventolava sulle mura del castello. Era ancor libero
Ottolini; instava presso a Lefevre, comandante, della santità dei
neutri ammonendolo. Ma Lefevre, deposta in tutto la visiera, faceva
udire questo suono che il popolo di Bergamo era libero, che per
questo egli aveva fatto torre lo stendardo veneto; che le intraprese
lettere del podestà (queste erano le lettere con le quali Ottolini
mandava agl'inquisitori di stato la nota dei congiurati, e che erano
state intercette ed aperte da Lefevre) gli servivano di regola; che
però egli, Ottolini, avesse a sgombrare tosto da Bergamo; quando no,
il manderebbe carcerato a Milano. Mentre il comandante minacciava
Ottolini, sopraggiungevano l'Hermite e Boussion, e con loro i conti
Pesenti ed Alborghetti, in divisa e nappa franzese. Di bel nuovo
intimavano ad Ottolini, partisse subito o sarebbe mandato a Milano.
Partiva il podestà alla volta di Brescia, lasciando Bergamo in potere
dei novatori; i soldati veneti, prima disarmati poi mandati a Brescia.

Il nuovo magistrato municipale mandava fuori un manifesto per
informare, come diceva, il popolo sovrano, che i municipali erano
entrati in ufficio. Scriveva quindi il giorno medesimo in nome del
popolo sovrano di Bergamo alla repubblica Cispadana, avere Bergamo
conquistato la libertà, desiderare collegarla con quella della
Cispadana; l'accettassero in amicizia, dessergli quella del popolo
cispadano.

Pubblicavansi frequenti scritti, parte seri, parte faceti,
parte schernevoli sul lione di San Marco, sui piombi di
Venezia, sugl'inquisitori di Stato, sulla tirannide di Ottolini,
sull'aristocrazia, sull'oligarchia e simili altre parole greche: strana
occupazione di menti nel condannare in altri ciò che era in sè.

Quivi non si rimanevano le disgrazie della repubblica veneziana.
Rivoltato Bergamo, volevano far mutazione a Brescia per vieppiù
stabilire nella devozione altrui quelle provincie. Non aveva omesso
Ottolini, quando era ancora in ufficio, d'informare il provveditore
straordinario Battaglia della trama che si macchinava contro di questa
città, e gli aveva mandato i nomi dei congiurati, dei quali non si era
punto ingannato, consigliandolo ad aspettare che tutti fossero uniti,
il che doveva accadere, secondo gli avvisi di Landrieux, il 21 del
mese, e ad arrestarli e ad ucciderli. Inoltre, il rappresentante veneto
a Milano Vincenti scriveva continuamente al provveditore straordinario,
stesse avvertito, perchè la congiura era vicina ad aver effetto: si
armasse, non si fidasse del comandante franzese del castello di Brescia
perchè s'intendeva coi congiurati. Tutte queste cose turbavano l'animo
del provveditore, e lo tenevano sospeso; non sapeva a qual partito
appigliarsi; le artiglierie in mano de' Franzesi; il castello poteva
fulminare la città. Scriveva Battaglia a Buonaparte, col quale aveva
qualche entratura d'amicizia, macchinarsi in Brescia, contro lo Stato,
da gente scellerata sotto nome di protezione franzese; e stantechè
tutte le artiglierie venete erano in poter suo, richiederlo che lo
accomodasse di sei ad otto, perchè si potesse difendere; richiederlo,
oltre a ciò, vietasse ai soldati lombardi il passo per la città,
frenasse chi si vantava della protezione di Francia. Dei cannoni
nulla rispondeva Buonaparte; dei Lombardi e del frenare rescriveva,
non doversi perseguitare gli uomini in grazia delle loro opinioni,
non essere delitto se uno inclinava più ai Franzesi che ai Tedeschi,
come se in questo caso si trattasse tra Franzesi e Tedeschi, e non tra
ribelli ed uno stato al quale egli aveva tolto i mezzi di difesa; e
come se ancora si trattasse di opinioni e non di fatti e di congiure
contro lo Stato. Desiderava finalmente di vedere il provveditore.
Accrescevano il pericolo ed il terrore i moti di Bergamo. Le cose si
avvicinavano all'estremo fine.

Ecco la sera del 17 marzo arrivare improvvisamente le novelle, essere
giunti a Cocaglio circa sessanta ufficiali franzesi condotti da un
Antonio Nicolini, Bresciano, aiutanti di Kilmaine, ed impedire il passo
ad una squadra di cavalleria che da Brescia mandava il provveditore
a Chiari. S'aggiungevano poco stante altri perturbatori, perchè
una massa di circa cinquecento tra lombardi e bergamaschi, guidati
da capi franzesi, si erano congiunti coi primi, ed armati con due
cannoni, certamente avuti da' Franzesi, perciocchè portavano lo stemma
imperiale d'Austria, viaggiavano verso Brescia. La mattina del 18 già
erano vicini: il comandante di Francia faceva in questo punto aprir
le cannoniere del castello che miravano ai palazzo. Dei congiurati,
quasi tutti nobili, chi si era ritirato in castello, chi andato
all'incontro de' lombardi, e chi sparso in vari luoghi eccitava il
popolo a ribellarsi. Voleva Mocenigo podestà che si armassero i soldati
della repubblica e con la forza si resistesse ai ribelli; Battaglia
titubava per paura dei Franzesi, de' nobili e di tutto: certo il
minor male che si possa dire di lui è che ebbe paura. La somma fu, che
sottomessi gli amatori dell'antica repubblica dal popolo tumultuante,
dalla gente armata che veniva di fuori, dalla connivenza manifesta dei
repubblicani di Francia, dall'attitudine minacciosa del castello pronto
a fulminare; poche, chiuse, ed ordinate a non resistere le soldatesche
veneziane, fu in poco d'ora Brescia ridotta in potestà de' novatori.
Cercavano Mocenigo per maltrattarlo; ma non fu trovato, ch'era fuggito.
Arrestarono Battaglia, e per poco stette che non lo uccidessero. Lo
serravano poscia in castello, dov'era custodito da soldati franzesi.

Udivansi con grandissimo terrore le novelle di Bergamo e di Brescia
a Venezia. Scriveva il senato le sue querele al ministro Lallemand;
le scriveva al nobile Querini in Francia. Si rispondeva che non si
sapeva capire, che i Franzesi non s'ingerivano, che la Francia era
amica a Venezia, che qualche cosa si doveva pur dare alla natura delle
soldatesche. Ma la importanza era in Buonaparte, divenuto padrone della
somma delle cose in Italia. Però mandava il senato appresso a lui i due
savi del collegio, Francesco Pesaro e Giambattista Corner, affinchè
gli dimostrassero quanto offendessero la neutralità e la sovranità
della repubblica le cose accadute in Bergamo ed in Brescia per opera
de' comandanti franzesi, e quanto fossero contrarie alle protestazioni
di amicizia che la repubblica di Francia continuamente ed anche
recentemente aveva fatte a quella di Venezia. Oltre a ciò di nuovo ed
asseverantemente protestassero dell'incorrotta fede e della costante
amicizia del senato verso la Francia; stringesserlo a disapprovare
pubblicamente la condotta de' comandanti delle due città ribellate
ed a restituire i due castelli, fonti evidenti della ribellione;
richiedesserlo infine che consentisse che il senato con le armi in
mano rimettesse sotto la obbedienza i ribelli. Trovato in Gorizia il
generale repubblicano, espostogli il fatto da' legati, rispondeva, non
abbastanza ancora essere sicure le sorti della guerra, perchè potesse
restituire alla repubblica i castelli occupati: potrebbe il senato fare
quanto gli sarebbe a grado per sottomettere i ribelli, purchè le genti
franzesi e gl'interessi loro non ne fossero offesi: del comandante di
Bergamo, perchè questi più di quel di Brescia si era mescolato nella
rivoluzione, ordinerebbe fosse condotto a Milano e processato; sarebbe,
se colpevole, castigato: allegava, essere sincera la fede della Francia
verso Venezia. Trapassando poscia più oltre, si offeriva ad usare le
proprie forze per ridurre i novatori a devozione del senato, e che ove
ne fosse richiesto, il farebbe. Toccava finalmente che sarebbe bene che
Venezia più strettamente si congiungesse in amicizia colla Francia.

Ma mentre affermava Buonaparte, essere in potestà del senato il fare
quanto gli parrebbe conveniente per ridurre allo ordine i ribelli,
pubblicava Landrieux a Bergamo, forse volendo ricoprire, con mostrar
severità i sospetti, che potevano concepirsi di lui dai repubblicani di
Francia e d'Italia, che nissuna gente armata sarebbe lasciata entrare
nè in Brescia nè in Bergamo, e che se alcuna vi si appresentasse,
questa avrebbe assalito, come nemico, con tutte le sue forze. Le cose
però da più alta sede pendevano che da Landrieux, perchè visitato a
Parigi dal nobile Querini uno dei cinque del direttorio, e dettogli,
che poichè i Franzesi protestavano non volersi mescolare nel governo
interno delle città venete, doveva riuscire cosa indifferente al
direttorio se il senato rimettesse nel dovere i Bergamaschi, rispondeva
risolutamente il quinqueviro, non lo sperasse e che finchè fossero in
Bergamo truppe franzesi, non l'avrebbe mai il direttorio permesso. E
terminava dicendo, che infine non toccava alla repubblica di Venezia a
comandare alla Franzese, e che vedeva bene che i discorsi del Querini
dimostravano che il governo veneto non si fidava della lealtà del
direttorio, ma che se così fosse, avrebbe potuto farlo pentire. Da
ciò si vede quale concetto si dovesse fare della condiscendenza di
Buonaparte.

Alle gravissime proposte del capitano di Francia si scuotevano i
legati, parendo loro cosa enorme, pericolosa e di pessimo esempio, che
soldati forastieri si adoperassero per tornare a devozione i ribelli
della repubblica. Per la qual cosa negavano l'offerta, restringendosi
con dire che, poichè i castelli erano in mano dei Franzesi e servivano
di appoggio ai turbatori dell'antico Stato, ragion voleva, acciocchè si
pareggiassero le partite, ch'ei facesse qualche dimostrazione pubblica
per disapprovare i moti che si erano suscitati. Al che non consentendo
rispondeva, che in mezzo all'ardore di quelle nuove opinioni che molto
avevano aiutato le sue armi, sarebbe certamente incolpato se ora si
dimostrasse avverso a coloro che si erano scoperti fautori del nome
e delle massime di Francia; che solo a ciò fare si sarebbe piegato,
quando il direttorio precisamente comandato glie l'avesse. Tornava
poscia sul parlare di più stretti vincoli d'amicizia colla Francia,
proponendo per esempio il re di Sardegna, ed affermava esser questo il
mezzo migliore per frenar le rivoluzioni. Rispondevano i legati della
repubblica, volere il senato l'amicizia di Francia; dell'alleanza
risolverebbe quando, ritratta l'Europa da quell'immenso disordine
e ricomposta in questo Stato, potrebbe con sicurezza di consiglio
deliberare. A queste parole si alterava gravemente il vincitore: poi
tornando sulle antiche querele, acerbamente rimproverava ai Veneziani
il ricovero dato al conte di Provenza ed al duca di Modena, e l'aver
ricettato i tesori di Modena e d'Inghilterra; a questo passo dimostrava
voglia di por mano su di questi tesori; il che palesava quanto fosse in
lui lo sprezzo della neutralità.

Mentre il generalissimo di Francia, parte accarezzava, parte minacciava
a Gorizia i legati di Venezia, lusinghiere parole pubblicava Kilmaine,
generale che reggeva la Lombardia, biasimando il comandante di Bergamo.
Ma come i fatti rispondessero alle parole di Kilmaine, o vere o
finte che fossero, perchè la lettera che gli si attribuisce è di data
incerta, il dimostrava pochi giorni dopo la rivoluzione di Crema, opera
non solo certa, ma anche evidente delle truppe Franzesi. Occupavano
violentemente la città, e, distrutta per la forza e per l'inganno
l'autorità sovrana di Venezia sopra Crema, se ne givano affermando che
i Franzesi erano buoni amici della repubblica di Venezia. Creavasi il
municipio, piantavasi l'albero, ballavavisi intorno, appiccavasi una
fune al collo del Lione di San Marco come se fosse tempo da ridere;
facevasi la luminaria, gridavasi libertà. Il podestà fu lasciato
partire senza offesa.

Le rivoluzioni di Bergamo, di Brescia e di Crema facevano sorgere
nuovi pensieri tanto nei capi franzesi, quanto nel senato veneziano,
così come ancora fra i sudditi che si conservavano fedeli. Vedevano i
primi che l'accessione di quelle tre principali città d'Oltremincio era
di somma importanza ai loro ulteriori disegni. Principale fondamento
ad ogni moto era Brescia, città ricca, popolosa, abbondante d'uomini
fieri e bellicosi. Quivi pur accorrevano Dombrowski co' suoi Polacchi,
Lahoz co' suoi Italiani, e davano incentivi con le parole, animo con
le forze, esempio con l'ordinate schiere. Pavesi, Lodigiani, Milanesi,
Bergamaschi, Napolitani vi arrivavano continuatamente, chi con lingue
pronte per orare, chi con penne per iscrivere, chi con armi per
combattere. La sollevazione, l'impeto, la concitazione andavano al
colmo; le minacce e gli scherni che facevano contro i patrizi erano
incredibili. Già si persuadevano, che alla loro prima giunta dovesse
andar sossopra tutta ed a ruina la veneziana repubblica. Lahoz,
Gambara, Lecchi ed un Mallet, generale di Francia, anch'egli mescolato
in questi moti, trionfavano.

Preparata la strada alla rivoluzione delle altre parti della terraferma
veneta situate sulla destra del Mincio, per mezzo massimamente
della potente Brescia, innalzavano i sollevati l'animo a maggiori
cose, proponendosi di turbare anche i paesi posti sulla riva destra
dell'Adige, principalmente Verona tanto importante per la sua grandezza
e per essere passo del fiume. Mentre ne tramavano gl'inganni, non
erano le cose sicure pei Franzesi, che tuttavia si trovavano a fronte
dell'arciduca sulle rive del Tagliamento. Il capitano Pico, che aveva
anche avuto al medesimo tempo carico da Buonaparte di macchinare in
Verona contro i Veneziani, gli rappresentava che il moto di lei sarebbe
riuscito pericoloso e di esito molto incerto, stantechè l'arciduca
gli stava ancora davanti molto poderoso: esortava pertanto, aspettasse
tempo più propizio. Rispondeva, gisse pure e sommuovesse Verona. Nè in
Brescia stavano oziosi i novatori rispetto a quella città.

Le insidie ordite per ribellar Verona erano venute a notizia del
governo veneto, non solamente per le dimostrazioni tanto palesi
dei Bresciani sollevati, ma ancora per segreti avvisi di alcuni fra
quegli stessi che macchinavano. Pensava pertanto al rimedio contro
sì grave pericolo. Vi mandava, con dar voce di cagioni diverse dai
sospetti, parecchi reggimenti di Schiavoni; vi mandava due provveditori
straordinarii, Giuseppe Giovanelli, giovane animoso e prudente, e
Nicolò Erizzo, uomo di natura molto calda ed amantissimo del nome
veneziano. Ma perchè le radici della forza erano nel paese, dava
facoltà amplissima al conte Francesco degli Emilii, personaggio
ricchissimo e di molto seguito, acciocchè armasse la gente del
contado, promettesse e desse soldi, ogni e qualunque cosa che in poter
suo fosse, facesse per isventare le macchinazioni dei repubblicani.
Accettava volentieri il carico il conte Emilii, e tra per l'autorità
del suo nome e l'efficacia delle sue ricchezze faceva non poco frutto,
soldando gente, provvedendo armi, ammassando munizioni, traendo a sè
buoni e cattivi per tenere in piedi la insidiata repubblica. Faceva
compagni alla sua impresa il conte Verità ed il conte Malenza co'
suoi due figliuoli, uomini anch'essi molto infiammati nel difendere
l'antico dominio dei Veneziani. Il secondavano efficacemente i preti ed
i frati con le esortazioni loro, alle quali maggior forza accrescevano
lo strazio testè fatto del papa, e lo spoglio di Loreto: gli animi,
già infieriti per tante ingiurie, di maggior veleno s'imbevevano per
l'oltraggiata religione. Accresceva lo sdegno lo orribile governo
che facevano delle provincie le truppe repubblicane, sì quelle che
stanziavano, come quelle che viaggiavano. Vieppiù inaspriva i popoli
una ingiustizia manifesta, perchè i bagagli rapiti dai Tedeschi in
guerra erano fatti pagare dai comuni.

Dava nuovo animo ai Veronesi il fatto di Salò; perchè andata contro
questa terra una grossa squadra di Bresciani, mista di Polacchi e di
qualche Franzese, fu rotta con non poca strage dai Salodiani aiutati
dagli abitatori della valle di Sabbia. Queste erano le masse ordinate
dall'Ottolini ai tempi del suo ufficio in Bergamo. Lodevole esempio
di fedeltà e di ardire dava nello fazione di Salò il provveditore
Francesco Cicogna. I prigioni fatti a Salò, che arrivarono a più di
cento, furono condotti a trionfo per Verona; i sudditi, carcerati
come rei di Stato. La vittoria dei Salodiani rinvigoriva gli animi
sbigottiti in tutta la terra ferma. Armavansi a gara i popoli e
protestavano della fede loro verso il senato. E questo moto fu apposto
a delitto ai Veneziani dai Franzesi e da' lor partigiani.

Le insidie contro Venezia alle raccontate cose non si rimanevano. I
moti della terraferma erano spontanei e solo cagionati dalla rabbia
concetta dai popoli infastiditi delle insolenze e sdegnati dalle
ingiurie dei forastieri. Perciò il senato li poteva qualificare come
opera non sua e sempre protestare, quanto spetta alla direzione dei
governo, della perfetta neutralità. Ma i capi delle rivoluzioni in
Italia, secondando il talento proprio, e, credendo di far cosa grata
al generalissimo, pensarono di fabbricare una menzogna, ed apponendo
un atto falso ad uno dei magistrati più principali, far in modo che il
governo veneziano egli medesimo paresse colpevole di ree instigazioni
contro i Franzesi. Inventarono adunque e pubblicarono un manifesto
attribuendolo a Battaglia, provveditore straordinario per la repubblica
in terra ferma, col quale si stimolavano i popoli a correre contro i
Franzesi e ad ucciderli. Fu questo manifesto composto per opera di un
Salvadori, novatore molto operativo di Milano e rapportatore palese e
segreto di Buonaparte, poi caduto in miseria tale che, gittatosi in
fiume a Parigi, terminò con fine disperato una vita poco onorevole.
Tornando al manifesto, fu egli stampato in un giornale che si scriveva
in casa del Salvadori da patriotti molto migliori di lui, ma portati
ancor essi dalla illusione e dalle vertigini di quell'età. Quantunque
astutamente gli sia stata apposta la data del 20 marzo, uscì veramente
al 5 aprile, tempo opportuno perchè Buonaparte arrivato a Judenburgo
a questo tempo, e già fatto sicuro della pace con l'imperadore, non
aveva più timore delle masse veneziane. Non daremo nè il manifesto nè
le parole gravissime nelle quali in tale proposito proruppe uno storico
famoso; ma dobbiam dire che il manifesto si spargeva in copia dai
patriotti e dai capi franzesi, massimamente da Landrieux. Nè credendo
i macchinatori di questa fraude, che tutto l'operato fin qui bastasse,
perchè i popoli vi prestassero fede, Lahoz, capo e guida di tutte le
genti Lombarde e Polacche, gli avvertiva con bando pubblico che la
neutralità era stata rotta dai tradimenti di Battaglia, il quale,
soggiungeva, si era pazzamente persuaso che «Voi altri contadini,
privi in tutto di arte militare, sareste, i vincitori dei Franzesi,
la prima nazione dell'universo pel coraggio e la scienza della guerra.
Sappiate adunque che il generale Buonaparte ha ordinato che Battaglia
sia messo in ferri ed impiccato; che saranno pure impiccati coloro che
v'inciteranno alla ribellione; le vostre case saranno arse, le famiglie
desolate; uscite d'errore e presto; deponete le armi, portatele al
comando di Brescia, mandategli deputati; quando no, perirete tutti.»

Queste ingannevoli dimostrazioni si facevano dagli autori stessi del
manifesto per far vedere ai popoli ch'ei fosse vero; e que' ferri e
quelle forche erano trovati bugiardissimi, perchè Battaglia, trovandosi
allora in Venezia, non era in podestà loro nè di farlo arrestare nè di
farlo impiccare. Allontanava da sè Battaglia l'infamia del manifesto
con ismentirlo; lo smentiva solennemente il senato. Ma nulla giovava;
perchè i tempi erano più forti delle protestazioni.

Rivoltate le regioni d'oltre Mincio dall'antico dominio de' Veneziani,
era spianata la strada alla distruzione di quel nobile ed innocente
Stato. Restava che le condizioni divenissero tanto sicure rispetto agli
Austriaci, che si potesse senza pericolo mandar fuori quello che già da
lungo tempo si era il generalissimo nell'animo concetto. A questo gli
dava occasione la tregua sottoscritta coi legali dell'imperadore il dì
7 aprile a Judenburgo. Ed in fatti non così tosto l'ebbe firmata, che
incominciò le dimostrazioni ostili contro i Veneziani; il che mandò
ad esecuzione in varii modi, ma che tutti tendevamo al meedesimo fine.
Primieramente mandò il suo aiutante Junot con amare condizioni a fare
un violento ufficio a Venezia non senza grave ferita alla dignità
della repubblica. Arrivato Junot, altieramente richiedeva per parte
del generalissimo di essere udito incontanente in pien collegio dal
serenissimo principe. Correvano allora i giorni santi; era il sabbato,
in cui per antico costume non sedevano i magistrati, intenti in quel
giorno a celebrar nelle chiese i divini misteri. Ne avvertivano Junot;
ma egli, giovane impaziente mandato da un giovane impazientissimo,
insisteva dicendo o l'udissero subito o appiccherebbe le cedole della
guerra ai muri. Credettero i padri che il derogare all'uso antico fosse
minore scandalo di quanto era capace di commettere quel soldato, e
consentirono ad udirlo la mattina del sabbato. Introdotto in collegio,
dov'erano adunati il doge, i suoi sei consiglieri, i tre capi della
quarantia criminale, i sei savi grandi, i cinque di terraferma ed i
cinque agli ordini, leggeva una lettera che scriveva Buonaparte al doge
il dì 9 aprile da Judenburgo, ed era questa: «Tutta la terraferma della
serenissima repubblica di Venezia è in armi: in ogni parte sollevati ed
armati gridano i paesani morte ai Franzesi; molte centinaia di soldati
dell'esercito Italico già sono stati uccisi, invano voi disapprovate
le turbe raccolte pei vostri ordini. Credete voi che nel momento in
cui mi trovo nel cuore della Germania, io non possa far rispettare
il primo popolo dell'universo? Credete voi che le legioni d'Italia
sopporteranno pazientemente le stragi che voi eccitate? Il sangue de'
miei compagni sarà vendicato: a sì nobile ufficio sentirà moltiplicarsi
a molti doppii il coraggio ogni battaglione, ogni soldato franzese.
Con empia perfidia corrispose il senato di Venezia ai generosi modi
usati da noi con lui. Il mio aiutante, che vi reca la presente, è
portatore o di pace o di guerra. Se voi subito non dissolvete le masse,
se non arrestate e non date in mia mano gli autori degli omicidii, la
guerra è dichiarata. Non è già il Turco sulle frontiere vostre, nissun
nemico vi minaccia, d'animo deliberato voi avete inventato pretesti
per giustificar le masse armate contro l'esercito: ma ventiquattr'ore
di tempo e non saran più: non siamo più ai tempi di Carlo VIII. Se,
contro il chiaro intendimento del governo franzese, voi mi sforzate
alla guerra, non pensate per questo che, ad esempio degli assassini che
voi avete armati, i soldati franzesi siano per devastar le campagne del
popolo innocente e sfortunato della terraferma. Io lo proteggerò, ed
egli benedirà un giorno sino i delitti che avranno obbligato l'esercito
franzese a liberarlo dal vostro tirannico governo.»

Qui non è bisogno d'aggiugner discorsi per giudicare di così fatta
intimazione. Solo si debbe avvertire che i paesani, che difendevano il
loro sovrano, non si sarebbero mossi e non avrebbero ucciso i soldati
franzesi se gl'insidiatori non avessero seminato la ribellione. Del
resto alcuni pur troppo furono uccisi, ma non a centinaia come la
solita gonfiezza ebbe allegato. Ridotto il principe di sì antica e
nobile repubblica a condizione tanto abbietta, rispose pacatamente,
delibererebbe il senato; avere sempre nodrito sentimenti di lealtà e
di amicizia verso la nazione franzese. Intanto le crudeli calunnie,
l'incredibile insulto, le disgrazie imminenti avevano riempito l'animo
de' circostanti di orrore e di terrore.

Acerbe lettere scriveva il dì medesimo del 9 aprile il generalissimo
a Lallemand: non potersi più dubitare che lo armarsi de' Veneziani
non avesse per fine di serrare alle spalle l'esercito di Francia;
non aver mai potuto restar capace del come Bergamo, città fra tutte
le altre degli Stati di Venezia dedita al senato, si fosse armata
contro di lui; meno ancora potuto comprendere come per calmare quel
piccolo ammutinamento abbisognassero venticinque mila armati, nè perchè
quando si era Pesaro abboccato con lui in Gorizia, avesse rifiutato la
mediazione di Francia per ridurre ad obbedienza i paesi sollevati; gli
atti dei provveditori di Brescia, Bergamo e Crema, in cui si affermava
essere la sollevazione opera de' Franzesi, esser bugie inventate a
disegno per giustificare in cospetto dell'Europa la perfidia del senato
veneziano; avere il senato usato la occasione in cui egli, inoltratosi
nelle fauci della Carintia, aveva a fronte il principe Carlo, per
mandar ad effetto una fraude che sarebbe priva d'esempio se non fossero
quelle ordite contro Carlo VIII ed i Vespri Siciliani; essere stati i
Veneziani più accorti di Roma, poichè avevano usato il momento in cui
i soldati erano alle mani con gli Austriaci; ma non aver ad essere i
Veneziani più fortunati di Roma; la fortuna della repubblica Franzese,
stata a fronte di tutta Europa, non si romperebbe nelle lagune
veneziane.

Dette queste cose, annunziava le accuse contro i Veneziani: avere una
nave veneziana, a fine di tutelare una conserva tedesca, combattuto
la fregata franzese la Bruna; essere stata arsa la casa del console
a Zante, insultato il console stesso; averne mostrato allegrezza
il governatore; dieci mila paesani armati e pagati dai senato aver
ucciso tra Milano e Bergamo cinquanta Franzesi; piene essere, malgrado
delle promesse di Pesaro, di soldati Verona, Padova e Treviso;
arrestarsi in ogni luogo gli amici della Francia; gridarsi per ogni
parte morte ai Franzesi; furibondi i predicatori pubblicare da ogni
cattedra la volontà del senato, stimolare contro la Francia; vera
ed effettiva condizione di guerra essere tra Francia e Venezia;
saperlo Venezia stessa, che altro modo non trovava di giustificarsi,
che il disapprovare con parole quelle masse che coi fatti armava e
pagava: domandasse adunque Lallemand, conchiudeva, a Venezia, che
risolutamente rispondesse se avesse pace o guerra con Francia: se
guerra, partisse incontanente; se pace, domandasse che i carcerati per
opinione e di non altro rei che di amare i Franzesi, fossero rimessi
in libertà; che tutti i presidii, salvo gli ordinarii quali erano sei
mesi prima, uscissero dalle piazze di terraferma; che tutti i paesani
si disarmassero e si riducessero alla condizione di un mese prima;
provvedesse il senato, che le cose fossero in terraferma tranquille e
sicure, e non pensasse solo alle lagune: gl'incenditori della casa del
console a Zante si punissero, e la casa si ristorasse a spese della
repubblica; il capitano, che aveva combattuto la Bruna, si punisse,
ed il costo della conserva nemica, protetta contro i patti della
neutralità, si rimborsasse: quanto alle turbazioni di Bergamo e di
Brescia, offerisse la mediazione della Francia per ridur di nuovo le
cose allo stato quieto.

Faceva Lallemand l'ufficio, i comandamenti di Buonaparte al senato
rappresentando. Rispondeva per bocca del doge il senato a Buonaparte:
«Nella somma amaritudine che ha sentito il senato nel conoscere dalle
vostre lettere avere l'animo vostro concetto sinistre impressioni
sulla ingenuità della nostra condotta, ci riesce di qualche conforto
il vederci aperta la via di poterle pienamente dileguare con le
pronte e precise nostre risposte. Vuole il senato ed ha sempre voluto
vivere in pace ed amicizia con la repubblica di Francia, e piacergli
in questo punto ratificare solennemente questa sua risolutissima
volontà. Nè potrebbe certamente una così aperta e così solenne
dichiarazione venir oscurata da accidenti, che con lei non hanno
correlazione alcuna: poichè, sorta la fatale e del tutto inaspettata
rivoluzione nelle città nostre oltre Mincio, la fede e l'amore delle
popolazioni le fece correre spontaneamente all'armi col solo intento
di frenar la ribellione, e di respingere le violenze dei sollevati.
A questo unico fine implorarono esse dal proprio governo assistenza e
presidii; che se in tanto turbamento di cose sorsero alcuni accidenti
disgustosi, alla confusione inevitabile debbono unicamente non alla
volontà del governo attribuirsi. Tanto è alieno da essi il senato
che, per allontanare anche il più rimoto pericolo, ha con recente
manifesto comandato ai sudditi, che contro i sollevati non istessero
ad usar le armi, se non nel caso della propria difesa. Ma essendo noi
su tale argomento disposti a secondare con le opportune risoluzioni
i vostri desiderii, bene conoscerà l'equità vostra che al tempo
medesimo diventa necessario che l'amore volontario delle popolazioni
fedeli verso di noi e la comune nostra tranquillità siano guarentite
da insulti esterni e da perturbazioni interne. Vuole ed è pronto il
senato a soddisfarvi dell'altra richiesta, per castigo e consegna di
coloro che han commesso uccisioni sulle persone dei vostri soldati, e
sarà per noi diligentemente ordinato che siano conosciuti, arrestati,
secondo i meriti loro, castigati. Per conseguire più acconciamente ed
a contentezza d'ambe le parti tutti i raccontati effetti, mandiamo
due legati a voi, dai quali intenderete la somma compiacenza nostra
e quanto grato ci sarebbe, che voi interponeste l'efficace vostra
autorità verso il vostro governo per ricondurre all'ordine ed al
primiero stato le città d'oltre Mincio che si sono da noi allontanate.
Con questo vi confermiamo di nuovo e protestiamo la costanza e la
sincerità dei nostri sentimenti verso la vostra repubblica, in un
con la molta osservanza in cui abbiamo la vostra illustre e riputata
persona.»

Deputava il senato per alleggerire i sospetti e per intrattenere
Buonaparte dall'estremo fato della patria, Francesco Donato e Leonardo
Giustiniani. Intanto funeste novelle, consentanee all'aspetto delle
cose presenti ed annunziatrici di ultima ruina, arrivavano da Vienna
e da Parigi. Simili cose scriveva il nobile Querini pur da Parigi,
ma come se velate da maggior dissimulazione alle orecchie sue
pervenissero; perchè ora erano minacciose le parole del direttorio
ed ora dolci; ora accusava Venezia ed ora la scusava; e da tante
ambagi niuna cosa certa poteva ritrarre l'ambasciatore veneto, se
non che si macchinava qualche gran trama contro la repubblica. Ma
perchè non mancasse alcuna lagrimevole condizione in così grave e così
vicino pericolo, fu provato da gente vendereccia di sottrarle denaro
sotto promessa di salute. Un certo Viscovich, di nazione Dalmata, si
appresentava al nobile Querini, dicendo che era in mano sua il salvare
la repubblica; che in quel punto stava deliberando il direttorio
se convenisse spegnere le rivoluzioni della terraferma con dar mano
forte al senato, o di condurle a compimento con dare fomento ed aiuto
ai ribelli; che due Direttori erano in favore della repubblica, due
contro, il quinto in pendente; che quello era il tempo di spendere
per la salute comune; che ove il senato volesse dar sette milioni di
franchi, Venezia sarebbe preservata; che di presente abbisognavano
seicentomila franchi pel direttore titubante con altri centomila pei
beveraggi agl'intromettitori. Rispondeva Querini, non avere autorità
di obbligare il pubblico per tanta somma. E brevemente, pressato poi
dal Viscovich, che la cosa era alle strette, che quello non era tempo
da perdere, che se non prometteva, in quel giorno stesso si statuiva la
morte della repubblica, si lasciava tirare al dir del sì per somma sua
divozione verso la patria e sottoscriveva biglietti per seicentomila
franchi sopra Pallavicini di Genova, con patto che stessero in deposito
finchè non avesse in sua mano una lettera scritta dal direttorio a
Buonaparte, intimatrice del dover frenare i faziosi della terraferma e
ridurre le città sotto il dominio. La lettera non potè avere Querini;
bensì gli fu consegnata una carta col titolo in fronte e con la marca
del direttorio esecutivo e sottoscrizione del segretario di Barras, per
cui si affermava, che la lettera del descritto tenore era stata scritta
dal direttorio a Buonaparte. Fu il trattato approvato dal governo a
Venezia: mandavasi al console di Genova, s'intendesse con Pallavicini
perchè obbedisse le cambiali del Querini. Stava in aspettazione
l'ambasciadore di quello che avesse a succedere: ma, vedendo le cose
della terraferma andar sempre di male in peggio, richiedeva Viscovich
della restituzione dei biglietti. Negava il Dalmata la restituzione.
Furono presentati a Querini nel mese di luglio in Venezia, dopo il
cambiamento dello Stato, acciocchè ne effettuasse il pagamento: li
protestava; fu carcerato ed esaminato per ordine del direttorio per
querela di aver voluto corrompere il governo franzese. Questa fu
veramente un'arte cupa; perchè se vi fu corruzione, e certamente in
qualcuno fu, ella non andò già da Querini ad altri, ma da altri a
Querini.

Intanto un accidente, frutto di una vituperevol fraude da una parte,
accompagnato da un'estrema crudeltà dall'altra, famoso al mondo per
l'importanza sua e pel paragone di un altro fatto rinomato nelle
storie, era vicino a sorgere nella principale città della veneta
terraferma. Abbiamo già raccontato come i repubblicani si erano
messi in punto di far rivoltare contro il senato lo Stato veneto.
Insidiarono principalmente Verona. I suoi agenti non lasciavano alcuna
cosa intentata, e la popolazione veronese contaminavano con promesse
agli avidi, con istimoli agli ambiziosi, con mostra di libertà, con
abbominazione di tirannide agli amatori del vivere libero. Il senato,
all'incontro, avendo avuto sentore anzi certezza delle trame di
Verona, vi aveva mandato, come già dicemmo, provveditori straordinari,
uomini di fede e di virtù, con un forte polso di genti schiavone. Vi
arrivavano oltre a ciò i villani dei contorni, ai quali erano state
messe in mano le armi: erano una massa considerabile. Stavano anche
le parti vigilanti, l'una per impedire gli effetti delle suggestioni
e delle sommosse d'oltre Mincio, l'altra per aiutarli. Gli animi
infiammati dall'un canto, arrabbiati dall'altro, insospettiti tutti,
si mostravano pronti non solo ad usare le prime occasioni gravi, ma
ancora a prorompere per le più leggieri, ed una voce, un suono, un
segno che uscisse, potevano partorir una generale commozione. In tanta
concitazione reciproca le cagioni potevano nascere egualmente dall'una
e dall'altra parte.

Era debole il presidio franzese in Verona nè atto per sè a tanta mole:
ma si sperava nei maneggi segreti e nell'opera de' novatori, ed, oltre
a ciò, incominciava a scoprirsi nel Padovano la schiera di Victor. Si
accostava inoltre Lahoz coi Lombardi e Polacchi, accostavansi le masse
repubblicane di Brescia e di Bergamo ed il forte presidio di Mantova
poteva dare da luogo vicino nervo all'impresa. Intanto il capitano
Carrere, comandante di Verona, soldato amantissimo della repubblica,
ma probo e religioso, vedendo il pericolo, tratteneva ogni Franzese
che da Francia venisse o in Francia ritornasse, per modo che riuscì
a raccorre circa ottocento soldati. Arrivavano poco stante duecento
Cisalpini, valorosa gente capitanata in gran parte da Franzesi ed
assai disposta a secondarli. Già segni annunziatori di quanto doveva
succedere si spargevano per le campagne; erano in ogni luogo minaccie,
mischie ed uccisioni. Incessantemente si predicava, volere i Franzesi
fare una rivoluzione per impadronirsi delle sostanze de' popoli, e
singolarmente del monte di pietà, dov'erano grandissime ricchezze.
Succedevano in Verona stessa ad ogni momento minaccie tra Franzesi e
Schiavoni, succedevano altercazioni frequenti tra Franzesi e Veronesi,
ed allora gli Schiavoni si allontanavano. Godeva il provveditore nel
vedere animi sì pronti e tante difese apprestate; raccomandava l'ordine
e la quiete, comandava non offendessero persona; solo stessero armati
e pronti. Preparavansi i magistrati a propulsare qualunque assalto; il
generale Balland, surrogato a Kilmaine nel governo militare di Verona,
sollevato d'animo a tanti romori, scriveva al provveditore, esortandolo
a provvedere che i disordini cessassero. Rispondeva il Veneziano che il
farebbe, sempre anzi averlo fatto, ma toccava rimproverando i maneggi
degl'insidiatori, mandati a posta per sommuovere le provincie.

Era il dì 17 aprile, secondo giorno di Pasqua, quando, alle ore quattro
meridiane, scoppiava ad un tratto la terribil sollevazione veronese.
Incominciava da insulti e da minori fatti da' soldati veneziani e da'
Veronesi armati, contro le guardie franzesi sparse in varii luoghi
della città. Il comandante Carrere, veduto quanto il tempo fosse
minaccioso, ristringeva i suoi sulla piazza d'armi, pronto a correre
dove bisogna fosse. In cotal guisa stava armato e raccolto lo spazio
di un'ora, quando Balland fece trarre, erano le cinque della sera,
qual segno di guerra, cannonate da' castelli. A quel rimbombo si
conduceva spacciatamente Carrere con la sua schiera nel Castel-Vecchio,
contro il quale già combattevano i Veronesi dalle case vicine. Il
rumore inaspettato delle artiglierie franzesi diè cagione di credere
ai Veronesi già tanto infiammati che fosse intenzione di Balland di
trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono punto; perchè poco dopo
traeva furiosamente contro il palazzo pubblico, che ne fu lacero
e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le creste del
palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento lo aspetto della
città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro i
Franzesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare di
campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla cosa.
Dei Franzesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli, massime
al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma non fu
senza pericolo, perchè rabbiosamente li seguitava il popolo che li
voleva ammazzare e bersagliandoli dalle finestre con palle, con sassi,
con ogni sorta d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e mortale. Il
furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora i vecchi,
le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un sangue odiato
le ingiurie ed i patimenti. Molti de' Franzesi in tal modo fuggenti
restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito. Chi
non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza ne' più
segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano
loro sicure; perciocchè non pochi, rottasi da' padroni la ospitalità,
vi restarono miseramente uccisi. Alcuni furono gittati ne' pozzi,
altri trafitti da' pugnali, altri risospinti fuori delle porte,
perchè fossero segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida
orribili, fra il rimbombo delle artiglierie dei castelli, fra i tocchi
incessanti del suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori
dell'esercito, molte donne, molti fanciulli, molti erano ammalati in
Verona, e questi furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte
da un popolo che pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le
ingiurie, le ruberie, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro
di lui contaminato il nome di Francia. Ma la pressa, le minaccie, la
crudeltà, che il cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanta
infinita barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati
alcuni furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere,
nè la debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un
ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei
quali null'altra cosa di uomo restava che il volto. Se per assenza
di vittime pareva un poco acquetarsi il furore, tosto si riaccendeva
più fiero di prima ove fosse scoperto un Franzese; e di nuovo si dava
mano alle stragi. Non in meno pericolosa condizione si ritrovavano i
patriotti o veronesi o forastieri: che anzi maggiore contro di loro
si mostrava la rabbia del popolo che con più diligenza li cercava, e
quanti potè aver nelle mani, tanti uccise. Ma i più si erano ricoverati
ne' castelli, altri conficcati ne' nascondigli passarono fra la
speranza ed il timore parecchi giorni.

Ma non tutto fu barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi
Veronesi, ed il conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi
degli insorti, conservarono, nascondendoli, a molti Franzesi, la vita,
atto tanto più degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui
correvano pericolo della propria. Spargevasi intanto per le campagne il
grido del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici
accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio
furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida
e le stragi ricominciavano, nè cessarono le uccisioni se non quando
non vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si
veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli Ebrei, oltre
l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già
i fondachi del pubblico pericolavano; e non fu poco che i provveditori
potessero impedire che coloro i quali sì ferocemente combattevano per
Venezia le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Correva il
sangue per le case, correva per le contrade, i castelli tuonavano, gli
Schiavoni infuriavano: anzi uniti al popolo, volevano dar l'assalto a
quei nidi, come dicevano, dove si erano confinati i tiranni d'Italia.

Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni,
avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli
animi veronesi nè il trarre continuo dei castelli il comportavano, ma
frenare la barbarie ed introdurre ordine e misura là dov'era solamente
confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero,
che per poco il popolo non l'aveva per sospetto e si proponeva,
posposta l'autorità di lui, di voler fare da sè. Importava intanto
l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte
che tuttavia si trovavano in possessione dei Franzesi. Il maggior
presidio era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilii,
che alloggiava nella terra di Castel Nuovo con due pezzi di cannone,
seicento Schiavoni, due mila cinquecento contadini, e fronteggiava
un grosso corpo di Franzesi e d'Italiani affinchè non corressero
contro Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente
in suo aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il
presidio, recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con
tutti i suoi, il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso
della porta Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio
il conte Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare
liberamente e soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli
Emilii, assalivano i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente
il Vecchio, e più fortemente dentro di essi si difendevano i Franzesi,
certi essendo, che in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati
morti i non combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la
possessione dei luoghi, ma ancora la salute e la vita loro.

Il maggior propugnacolo che avessero era il castello montano di San
Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto
un grosso alloggio a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a battere
quel castello; che anzi, più oltre procedendo, avevano piantato due
cannoni in San Leonardo, donde per essere il sito sopraeminente al
castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Franzesi
uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivano
stragi, incendii, ruine. I villici avevano di volontà propria spedito
corrieri al generale austriaco Laudon; Balland aveva dato avviso a
Chabran, a Brescia, ed a Kilmaine, in Mantova; Victor medesimo era
stato da lui avvertito del pericolo: anche da Bologna s'accostava una
schiera per istringere la città combattente. Giovanelli, considerato il
nembo che da ogni parte gli veniva addosso, aveva aperto una pratica
d'accordo con Balland, la quale però non ebbe effetto, perchè il
generale di Francia richiedeva, per prima ed indispensabile condizione,
che i villani deponessero le armi, si riaprissero le strade alle
comunicazioni dello esercito, il presidio veneziano alle poche genti
di prima si riducesse. Non erano alieni i magistrati della repubblica
dallo accettar queste condizioni; ma le turbe di campagna, tuttavia
infiammate, non volevano a patto nissuno udire che avessero a deporre
le armi: viemmaggiormente s'infuriavano.

Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa che
rappresentavano essere mescolata con la causa dello Stato la causa
della religione. Generavano i discorsi loro effetti incredibili.
Stupivano massimamente e s'infiammavano le genti ad uno spettacolo
maraviglioso che sorse in mezzo a quella avviluppata tempesta, e questo
fu di un frate cappuccino che predicava ogni giorno sulla piazza,
stando attentissimo il popolo affollato ad ascoltarlo. Le parole
sue, dette e replicate più volte, destavano negli animi già tanto
concitati degli ascoltanti uno sdegno incredibile. Provocavansi gli
uni gli altri; già i castelli stessi parevano debole ritegno al loro
furore. Mentre tanto disperatamente si combatteva in Verona, succedeva
in Venezia un caso pieno di insolenza ad un tempo e di crudele
risentimento.

Aveva il senato comandato, seguendo un antichissimo istituto ed a
cagione dei romori presenti, che nissuna nave forestiera, che fosse
armata, potesse entrare nell'estuario; il quale divieto era stato
significato a tutti i ministri delle potenze estere residenti in
Venezia, ed il Franzese ne aveva come tutti gli altri avuto notizia.
Eranvisi uniformati gl'Inglesi stessi, parendo a tutti giusta e
conveniente cosa, com'era veramente, che non si dovesse turbare con la
presenza d'armi forastiere la sede del governo. Ma ecco la sera del 20
aprile avvicinarsi al Lido di san Nicolò un legno armato in forma di
corsaro con intenzione evidente di entrar nel porto. Si scoverse legno
Franzese condotto dal capitano Laugier. Domenico Pizzamano, deputato
alla custodia del Lido, gli mandava significando il divieto del senato
e lo esortava a non rompere una legge sovrana, alla quale l'Inghilterra
medesima aveva obbedito. Il capitano, o per insolenza propria o
altrimenti che fosse, non curando le esortazioni del Pizzamano e
seguitando il suo cammino, sforzava la bocca del porto e vi poneva
l'ancora con violazione manifesta d'una legge veneziana in Venezia.
Mentre passava per la bocca, traeva di nove colpi di cannone, come
per salutare, secondo gli usi di mare, la bandiera veneziana; pensiero
veramente strano del volere, con pubblica dimostrazione, render onore
ad una potenza nel momento stesso in cui sotto gli occhi del suo
principe la sua sovranità si oltraggiava, ed una sua principalissima
legge apertamente si violava. Il tiro dei cannoni franzesi, giunto
alla violenta entrata nel porto, diè motivo di credere al comandante
veneziano che si covasse qualche macchinazione o dentro o fuori.
Perilchè, allestiti ancor esso i suoi cannoni, traeva rendendo fuoco
per fuoco, contro il legno franzese. Era da arrestarsi il legno, ed
obbligarlo, senza fargli altro danno, ad uscir del porto. Ma le cose
non si rimasero a queste prime dimostrazioni, nè poteva essere che più
oltre non procedessero a cagione degl'incredibili sdegni che allora
passavano tra una nazione e l'altra; imperciocchè trovatosi Laugier
tra legni di Schiavoni, gente avversa al nome di Francia e devota a
Venezia, assaltavano con grandissima forza e con arma bianca la nave
del capitano franzese, nella quale sfogando, troppo più che all'umanità
si converrebbe, l'odio loro, commettevano atti di un'estrema ferocia.
Morirono in questa sanguinosa avvisaglia cinque Franzesi, fra i
quali il capitano medesimo: otto restarono feriti; che anzi se gli
ufficiali degli Schiavoni non avessero frenato il furore dei soldati
loro, i marinari del legno sarebbero stati fino all'estremo uccisi.
Il legno divenne preda degli assalitori. Lodava il senato con pubblico
decreto Pizzamano e gli ufficiali; largiva di un caposoldo i gregari;
mandava un sunto del fatto ai legati Donato e Giustiniani acciocchè
il rappresentassero a Buonaparte, temendo, non senza cagione, che da
altri gli fosse annunziato con esagerati rapportamenti. Il ministro
di Francia, mostrandosi sdegnato, ricercava il senato che cercasse
Pizzamano, arrestasse i complici, restituisse gli arnesi, risarcisse
il legno. Restituissi, risarcissi; delle carcerazioni si soprassedette
fino alla risposta di Buonaparte.

Terrore era in Venezia e terrore in Verona. Le cose in quest'ultima
si avvicinavano da un funesto mezzo ad una funesta conclusione.
Combattevano tuttavia i Veronesi col medesimo ardore; ma appunto
perchè questo ardore era estremo, si doveva temere che non tardasse
a raffreddarsi. Già i Franzesi ingrossavano tutto all'intorno.
S'accostava Kilmaine venuto da Mantova. Chabran compariva sotto le
mura verso la porta di San Zeno; le prime squadre di Victor arrivavano
in luogo donde presto potevano cooperare alla vittoria. La tregua di
Judenborgo toglieva ogni speranza di Laudon. Si risolvevano adunque
i provveditori a venire a parlamento, prima con Balland per mezzo
del colonnello Beaupoil; ma la pratica non ebbe perfezione, perchè
il popolo non volle udire che avesse a depor l'armi e non fossero
esclusi i Franzesi dai castelli; poi con Chabran, col quale andava
ad abboccarsi fuori della porta San Zeno il provveditore Giovanelli.
Erano col primo il generale Chevalier e Landrieux, col secondo il conte
degli Emilii, il conte Giusti ed un Merighi, personaggio molto amato
dai Sanzenati. Pervenivano intanto le novelle che Lahoz con una banda
di tre mila soldati tra Italiani e Polacchi, al soldo della repubblica
Cisalpina, aveva tra Peschiera e Verona conseguito una vittoria contra
le leve campagnuole di quel distretto.

Fu l'abboccamento pieno di risentimento da ambe le parti. Rimproverava
Chabran a Giovanelli i villani armati per disegno espresso del governo
veneto contro i Franzesi, quando stavano a fronte di un nimico potente;
che per questo era stato costretto Buonaparte a far la tregua; che i
Veneziani se ne pentirebbero. Aggiungeva Landrieux (e qui ognuno pensi
da sè), che i rei disegni del senato contro i Franzesi erano pruovati
dal manifesto di Battaglia. Rispondeva Giovanelli allegando l'amicizia
de' Veneziani dimostrata a tante pruove; solo essersi armati i sudditi
per amore verso il principe e per opporsi ai ribelli apertamente
incitati e protetti dai Franzesi; l'intervenzione dei Franzesi in
tutti questi moti viemmaggiormente dimostrarsi da ciò che i turbatori
della pace pubblica si ricoveravano in casa del generale Balland come
in luogo di sicurezza; quando la città era quieta, avere contro di
lei tratto, prima a polvere, poscia a palla i castelli; per questo
aver voluto i Veronesi difendere le sedi loro e vendicare il loro
principe in tale violenta guisa oltraggiato. Passavano dai risentimenti
ai negoziati; non si trovava modo di concordia. Chabran sdegnato
minacciava che entrerebbe per forza, arderebbe e saccheggerebbe Verona.
Già s'impadroniva di San Leonardo, con che assicurava il castello
San Felice: già batteva fortemente la porta di San Zeno, dove solo il
fosso il separava dal corpo della piazza. Instavano al tempo medesimo i
castelli contro la porta di San Giorgio; e dal Castel-Vecchio uscivano
spesso i Franzesi con gran terrore e ruina dei cittadini. Kilmaine
si approssimava da Mantova, sbaragliando le turbe armate che gli
contrastavano il passo. Già il rumore della victoriana schiera ormai
vicina si udiva nella desolata città. I primi corridori di Lahoz si
facevano vedere alle porte esteriori del Castel-Vecchio, e niuna cosa
poteva impedire che vi entrassero.

Ebbersi in quel momento le novelle dei preliminari di pace; il qual
accidente faceva abilità a Buonaparte di correre con tutto il suo
esercito contro lo Stato Veneziano. Accresceva il terrore la sconfitta
delle genti stanziali governate dal Maffei, e che poste alla Croce
Bianca ed a San Massimo vietavano da quella parte il passo al nemico.
Da tutto questo si vedeva che era già vinta Verona quando ancora
combatteva. Perlocchè i provveditori pensarono ad accordarsi ad ogni
modo. Convenivasi nelle seguenti condizioni: deponessero i villani
l'armi e sgombrassero da Verona; i Franzesi la occupassero; tutte
le armi e munizioni si dessero in mano loro; fossero consegnati in
castello, come ostaggi per la sicurtà dei patti, Giovanelli, Erizzo,
Giuliari, Emilii, il vescovo Maffei, i quattro fratelli Miniscalchi,
Filiberi, i due fratelli Carlotti, San-Fermo e Garavetta: eseguiti i
capitoli si rendessero gli ostaggi. Volevano i provveditori aggiugnere
il capitolo che fossero salve le vite e le proprietà dei Veronesi,
delle truppe e dei capi loro; ma Kilmaine, ch'era sopraggiunto,
non volle ratificarlo. E però, sebbene fossero accettati gli altri
capitoli, si rendeva Verona quasi a discrezione. La qual cosa vedutasi
dai provveditori, si deliberarono di ritirarsi a Padova, lasciando che
i magistrati municipali, quanto fosse in poter loro, alla salute di
lei provvedessero. Fu grande in questi negozii il dolore e lo spavento
dei provveditori; perchè non solamente vedevano una popolazione fedele
al nome veneziano abbandonata a discrezione di un nemico offeso,
ma udivano anche parole espresse e funeste della vicina distruzione
della repubblica; perciocchè Beaupoil, dalle solite ambagi uscendo, ed
almeno più sincerità degli altri mostrando, disse apertamente, che la
repubblica di Venezia aveva sussistito bastantemente per quattordici
secoli, e che conveniva adattarsi ai tempi.

Entravano i Franzesi nella sanguinosa Verona. Ci è forza raccontare un
fatto orribile, e quest'è che i patriotti italiani, che pretendevano
parole di libertà e d'indipendenza alle imprese loro, cercavano
diligentemente, secondando il furore dei capi dei repubblicani di
Francia, per le case gli autori della resistenza veronese, e trovati,
li davano loro in mano perchè fossero percossi coll'ultimo supplizio.
Scoprivano fra gli altri il frate cappuccino e lo consegnavano ai
percussori. Gli trovavano in casa la predica, la quale, siccome pareva
scritta in istile più polito che a cappuccino si appartenesse, veniva
attribuita al vescovo di Parma Turchi, che era allora in grido di
predicatore eccellente. Creossi un consiglio militare per giudicarlo.
Sostenne il frate in cospetto de' suoi giudici la medesima sentenza che
aveva sostenuto predicando. Condannato nel capo, incontrò la morte con
quella medesima costanza con la quale aveva vissuto. Conservò la storia
il nome di questo forte Italiano, quantunque per la malvagità dei tempi
sia stata la sua morte piuttosto apposta ad ignominia che ad onore.
Si chiamava frate Luigi da Colloredo; e dopo la venuta dei Tedeschi
gli fu posta nella sua chiesa dei cappuccini una lapide tramandatrice
ai posteri della sua eroica costanza. Furono con lui condotti a morte
i conti Francesco degli Emilii, Verità e Malenza, con alcuni altri di
minor nome. Tale fu l'esito della veronese sollevazione: la chiamarono
le pasque veronesi a confronto dei vespri siciliani; ma se ugualmente
crudi ne furono gli effetti, bene le cagioni ne furono peggiori; perchè
a Verona si aggiunse la perfidia alla tirannide.

Era la città esposta alla vendetta del vincitore. Le si toglievano
le armi; seguitavano minaccie crudeli e fatti peggiori; si viveva
dai soldati a discrezione; fu espilato il monte di pietà; le più
preziose gioie mandate al generalissimo. Gridavano i popoli a fatti
tanto sacrileghi; Buonaparte ordinava, si restituissero i pegni di
minor prezzo, ma fu indarno, perchè i più erano involati, e chi fu
preposto alla bisogna, per render meno, ne accoppiava due in uno; nè
si perdonava alle doti delle figliuole povere, perchè anche queste
furono preda dei rapitori. Il commissario di guerra Bouquet, eletto
commissario sopra il monte, fu carcerato e condotto in Francia per
esser processato, ma non si udì mai di pena, o perchè fosse innocente
o che altro si fosse. Decretava Buonaparte, pagasse Verona centoventi
mila zecchini, e di più cinquanta mila per capo-soldo ai soldati dei
castelli, risarcisse i danni dei soldati e degli ospedali, i cavalli
dei Veronesi si dessero alle artiglierie ed alla cavalleria; ancora
desse Verona nel più breve spazio fornimenti da vestire i soldati in
quantità considerabile; gli ori e gli argenti sì delle chiese che del
pubblico si confiscasse in pro della repubblica; i quadri, gli erbarii,
i musei tanto del pubblico, quanto dei particolari fossero ancor essi
posti al fisco della repubblica; i privati che meritassero di esser
fatti indenni, si compensassero coi beni dei condannati.

Ma già la espilazione, prima che si eseguisse per ordine, era stata
mandata ad effetto per disordine. Scriveva Augereau, la confusione
dei poteri, l'esercizio abusivo fattone da parecchi uffiziali
superiori aver colmo l'anarchia e la dissipazione; infatti il monte
di pietà di Verona, in cui erano più di cinquanta milioni di preziose
suppellettili, e così ancora quel di Vicenza (Lahoz aveva fatto
rivoltar Vicenza) essere stati con tale prestezza vuotati, che gli
espilatori impazienti all'indugio dell'aprir le porte, le avevano
sforzate; e vero fu, quantunque Augereau non lo scriva, che vi
entrarono con le scuri e coi sacchi. Sapere, continuava a scrivere,
che Victor aveva fatto arrestare il commissario Bouquet, autore di
questo dilapidare; non dubitare che se si venisse a processo contro
di lui, non mettesse in compromesso cittadini che erano nei superiori
gradi dell'esercito; non essere le campagne in miglior condizione della
città; gl'incendii, i furti, le rapine generali e particolari fatte
d'arbitrio e senza legale autorità, avere spopolato parecchi villaggi e
ridotto famiglie ad errare disperatamente alla ventura; giunta essere
a tal colmo questa peste, che uffiziali adescati dall'amor del sacco
si erano fatti comandanti di piazza da sè medesimi, ed avevano commesso
atti, cui la giustizia, l'onore e la severità della disciplina militare
condannavano; gli arbitrii di Verona essere ancora più orribili; tolte
sforzate esservi state fatte per iscritto fino a franchi sessanta mila,
e negate le ricevute; rubatevi per otto giorni intieri le botteghe;
regnarvi il terrore; esservi cessato ogni commercio; essere Verona
deserta; alcuni uffiziali essersi impadroniti di merci spettanti a'
negozianti sotto colore che calasser per l'Adige; le migliori case
saccheggiate attestare il furore dei saccheggiatori. Nissuno più
di lui, continuava Augereau, odiare i Veneziani, nissuno più di lui
desiderar di vendicare il sangue franzese; ma nissuno più di lui odiare
l'ingiustizia e la persecuzione; se i Franzesi erano stati rei di
ingiustizia e di persecuzione, a lui toccare il consolar i Veneziani, a
lui toccar fare ch'essi dimenticassero ch'erano obbligati d'una parte
dei loro mali a' suoi compatriotti. Fatte queste querele, richiedeva
Augereau da Buonaparte, moderasse le contribuzioni, ne rendesse il
contado partecipe.

Giunte a Buonaparte le novelle di Verona e del Lido, dava in un
grandissimo sdegno, con acerbissime parole lamentandosi del sangue
franzese sparso e protestando volerne aver vendetta. Adunque scriveva
al ministro Lallemand queste furiose parole: «S'insultano a Venezia
i colori nazionali, e voi vi siete ancora! Pubblicamente vi si
assassinano i Franzesi, e voi vi siete ancora! Per me, io dichiaro e
protesto non voler udire proposta di conciliazione se prima non sono
arrestati i tre inquisitori di stato ed il comandante del Lido: si
carcerino, e poi venite a trovarmi.»

Faceva Lallemand l'ufficio. La serva Venezia arrestava i tre
inquisitori ed il comandante; posersi in fortezza in una delle isole
della laguna: gli avvogadori del comune incominciavano a far loro il
processo. Liberavansi (perchè anche questo esigeva il generalissimo)
i carcerati per opinioni o fatti politici, fra gli altri i ribelli di
Salò, Verona, Bergamo, Brescia e Padova. Partivane Lallemand, partivano
i Franzesi; solo restava Villetard, segretario della legazione, come
agente eletto ad operare la mutazione di governo.

Viaggiavano intanto i due legati Francesco Donato e Leonardo
Giustiniani alla volta degli alloggiamenti di Buonaparte. Il trovarono
in Gradisca: introdotti, escusavano la repubblica: aver voluto Venezia
amicizia colla Francia repubblicana già prima che gli eserciti di
lei inondassero l'Italia; averla riconosciuta quand'era pericolo il
riconoscerla: avere costantemente rifiutato ogni proposta fattale dai
confederati a' danni della Francia; avere aperto spontaneamente agli
eserciti di lei, e senza che a ciò fosse astretta da alcun trattato
com'era con l'imperatore gli Stati suoi; averle fatto copia delle sue
fortezze, delle armi, delle munizioni; avere obbligato i sudditi a
somministrare per somme grandissime quanto fosse necessario al vivere
dei soldati, ed avere in questo anche sopperito l'erario. Come esser
probabile, affermavano, che uno Stato illanguidito da danni sì gravosi,
consumato da dispendii sì enormi, mutilato per l'alterazione di tante
città, volesse far guerra alla Francia tanto potente, ora ch'ella
avea obbligato alla pace quasi tutta l'Europa? Volere il veneziano
governo la pace, ma bene non volerla i sediziosi ed i ribelli, perchè
trovavano nella guerra immensi profitti ed il compimento dei loro
fatali disegni: da ciò derivare le tante invenzioni di supposti fatti,
le carte false, come quella di Battaglia, le gelosie dei comandanti
franzesi, l'alterazione dei popoli. Del rimanente, non venir loro per
muover querele, ma bensì per purgarle, e fare tutte quelle opere che si
appartenevano all'incorrotta fede: ad ogni sua richiesta pruoverebbero
tutti i sospetti dei comandanti essere opera dei raggiri e delle fraudi
dei sollevati: rispetto poi all'avvenire, esser pronto il senato a
punire i rei d'assassinio, purchè gli fossero dati indizii dei fatti,
dei luoghi e delle persone: essere ugualmente pronto ad accettar la
mediazione per ridurre le città ribellate all'obbedienza, e a disarmare
i sudditi, purchè si disarmassero anche le popolazioni sollevate e si
preservassero le fedeli dagl'insulti loro.

Non valsero le escusazioni o le profferte a vincere il generalissimo.
Rispose che volea che tutti i carcerati si liberassero, anche quei di
Verona, perchè erano addetti a Francia; che non voleva più piombi, ed
anderebbe egli a romperli; che non voleva più inquisizione, barbarie
dei tempi antichi; che le opinioni dovevano esser libere; che i
Franzesi erano stati assassinati in Venezia e nella terraferma, e che
i Veneziani gli avevano fatti assassinare; che i soldati gridavano
vendetta e ch'ei la doveva fare; che bene aveva il senato tante spie
che bastassero per potere scoprire i rei; che se il senato non aveva
mezzi per frenare i popoli, era imbecille e non doveva più sussistere;
che non voleva alleanze con Venezia nè progetti; che voleva comandare;
che non temeva gli Schiavoni; che sarebbe andato in Dalmazia; che
insomma; se il senato non puniva i rei, non cacciava il ministro
d'Inghilterra, non disarmava i popoli, non liberava i prigionieri,
non eleggeva tra Francia ed Inghilterra, egli intimerebbe la guerra a
Venezia; che al postutto i nobili di provincia dovevano partecipare
all'autorità suprema; che il governo veneziano era vecchio e doveva
cessare; ch'ei sarebbe un Attila per lo stato veneto; se non avevano
altro a dire, se n'andassero.

Udivano per soprassoma delle angustie loro in questo tempo i legati le
novelle del fatto del Lido e con accomodate parole il rappresentarono
a Buonaparte. Rispondeva che non li voleva vedere, che non li voleva
udire, bruttati com'erano di sangue franzese, se prima non gli davano
in mano l'ammiraglio, il comandante del Lido e gl'inquisitori di
Stato. Aggiungeva, che erano mentitori per aver cercato di colorir con
menzogne un fatto atroce: se gli togliessero d'avanti, sgombrassero
tosto dalla terraferma; quando no, avrebbero a far con lui.

Adunque dichiarava il dì 2 maggio la guerra a Venezia. Avere, intimava,
il governo veneto usato la occasione della settimana santa, mentre
l'esercito franzese era impegnato nelle fauci della Stiria, per mettere
in armi e col fine di tagliargli le strade, quaranta mila Schiavoni;
mandar Venezia armi e commissarii straordinarii in terraferma,
arrestare gli amici di Francia, fomentare i nemici; risuonare la
piazza, i caffè, ogni luogo pubblico di male parole, di mali fatti
contro i Franzesi; chiamarvisi giacobini, regicidi, atei; avere ordine
i popoli di Padova, Vicenza e Verona di armarsi a stormo per rinnovare
i Vespri Siciliani; gridare gli ufficiali veneti che si aspettava al
Lione veneto di verificare il proverbio, che l'Italia fosse la tomba
dei Franzesi; predicare i preti dai pulpiti, gli scrittori con le
stampe la crociata; assassinarsi in Castiglione dei Mori; assassinarsi
sulle strade postali da Mantova a Legnago, da Cassano a Verona;
impedire i soldati Veneti il libero passo alle truppe della Francia;
suonarsi campana a martello a Verona; trucidarvisi i convalescenti;
assaltare i Veronesi con l'armi in mano i presidii franzesi ritirati
ai castelli; ardersi la casa del console a Zante; trarsi da una
nave veneziana contro la fregata di Francia la Bruna per salvare una
conserva austriaca; fumare il Lido di Venezia del sangue del giovine
Laugier: per tutte queste cose voleva ed ordinava, che il ministro di
Francia partisse da Venezia; che gli agenti di Venezia sgombrassero
dalla Lombardia e dalla terraferma; che i suoi generali trattassero
come nemiche le truppe veneziane ed atterrassero il Lione di San Marco
da tutte le città della terraferma.

La dichiarazione di guerra fatta da Buonaparte non pareva poter bastare
per arrivare al fine del cambiar la forma del governo veneziano.
Per arrivarvi aveva con tanto veementi parole intimorito i legati
veneziani, toccato loro il capitolo del cambiamento di governo: a
questo medesimo fine aveva ordinato a Baraguey d'Hilliers che si
accostasse coi soldati alle rive dell'estuario e d'ogni intorno
tempestasse, come se volesse farsi strada alla sede stessa della
repubblica: a questo fine ancora Villetard e gli altri repubblicani
rimasti a Venezia menavano un rumore incredibile contro l'aristocrazia,
esaltavano la democrazia, accennavano che il solo mezzo di placare
lo sdegno di Buonaparte era di ridurre il governo democratico: a
questo fine altresì dai medesimi continuamente si animavano e si
concitavano contro le antiche forme gli amatori di novità, ed eglino,
confortati dall'aspetto delle cose ai disegni loro tanto favorevoli,
più apertamente insidiavano e minacciavano lo Stato: al medesimo
intento finalmente si spargevano ad arte voci di congreghe segrete, di
congiure occulte, d'armi preparate. Il terrore era grande, le fazioni
accese, i malvagi trionfavano; dei buoni i più ristavano per timore
dell'avvenire, volendo accomodarsi al cambiamento che si vedeva in
aria; pochi coraggiosi procuravano la salute della repubblica.

Non ostante tutto questo, le trame ordite facevano poco frutto nel
senato in cui sedeva la somma dell'autorità, perchè egli era, o
per prudenza o per consuetudine o per ostinazione, risoluto a voler
perseverare nelle massime dell'antico Stato; già aveva ordinato che
diligentemente e fortemente si munisse l'estuario. Prevedevano i
novatori che, ove fosse commesso al senato di proporre alterazioni
negli antichi ordini della costituzione al consiglio grande, in cui
si era investita la sovranità e dal quale solo simili alterazioni
dipendevano, non mai il senato vi si sarebbe risoluto. Per la qual cosa
coloro che indrizzavano tutti questi consigli segreti, si deliberarono
di trovar modo per evitare l'autorità del senato, allegando che ad
accidenti straordinarii abbisognavano rimedii straordinarii. I savi
attuali, dei quali Pietro Donato aveva qualche entratura con Villetard,
operarono in modo che si facesse un'adunanza insolita nelle stanze
private del doge, la sera del 30 aprile. Interveniva il doge Manin,
i suoi consiglieri, i tre capi delle quarantie, i savii attuali, i
savii di terraferma, i savii usciti ed i tre capi del consiglio dei
Dieci. Si trattava in questa adunanza di ciò che si convenisse fare
in sì luttuosa occorenza per la salute della repubblica. Il principal
fine era di rappresentar le cose in maniera che il consiglio grande
autorizzasse l'alterazione degli ordini antichi.

Il doge, venezianamente favellando, cominciava il suo discorso in
questi termini: «La gravità e l'angustia delle presenti circostanze
chiama tutte elle a proponer il miglior mezzo possibile per presentar
al supremo maggior conseio el stato nel qual se trovemo per le notizie
che sta sera ne avanza Alessandro Marcello, savio de settimana. Prima
peraltro ch'elle fazza palese la loro opinion, le abbia la bontà de
raccoglier brevemente quel che xe per espornerghe el cavalier Dolfin.»

Assumendo le parole il cavalier Dolfin, ragionava che fosse molto a
proposito alle cose della repubblica l'obbligarsi Haller, col quale
egli aveva amicizia ed era, secondo ch'egli opinava, molto innanzi
nello animo di Buonaparte, per mitigare il vincitore. La quale proposta
dimostra a quanto abbassamento fosse condotta quell'antica e gloriosa
repubblica; poichè ero parere di uno de' principali statuali, già
ambasciadore in Parigi, che si aspettasse la sua salute in sì ponderoso
momento dall'intercessione di un pubblicano.

Non erano ancora gli animi de' circostanti tanto abietti che non
deridessero la vanità del partito posto dal Dolfin. Seguitavano
diversi pareri. Voleva Francesco Pesaro che non si alterasse a modo
alcuno la costituzione e si facessero le più efficaci risoluzioni per
difender fino all'estremo quell'ultimo ridotto della potenza veneziana.
Disputava dall'altra parte Zaccaria Vallaresso, si desse autorità ai
legati di trattare con Buonaparte dell'alterazione degli ordini. Mentre
si stavano esaminando i partiti posti, ecco per Tommaso Condulmer,
soprantendente alle difese dell'estuario, arriva novelle che già i
Franzesi dalle rive dell'estuario tentavano di avvicinarsi a Venezia.
Parve si udisse il romor de' cannoni. Si suscitava gran terrore fra
gli adunati; il serenissimo principe, tutto paventoso, più volte e su
e giù per la camera passeggiando, lasciava intendere queste parole:
«Sta notte no semo sicuri neanche nel nostro letto». Per poco stava che
per suggerimento di Pietro Donato ed Antonio Ruzzini non si cedesse e
non si trattasse della dedizione. Vinceva peraltro ancora in questo la
fortuna della repubblica; perchè opponendosi gagliardamente al partito
Giuseppe Priuli e Nicolò Erizzo, si mandava al Condulmer resistesse
alla forza con la forza. Non ostante, operando il timore e le instanze
dei novatori, fu preso partito che il doge medesimo esponesse al
maggior consiglio la condizione della repubblica; proponesse la facoltà
di alterar la costituzione, si convocasse il maggior consiglio il dì
seguente, primo di maggio. Fatta questa risoluzione, e mentre ella
tuttavia si stava dal segretario Alberti distendendo, il procurator
Pesaro lagrimando disse in dialetto veneziano queste parole: «Vedo
che per la mia patria la xe finia; mi no posso sicuramente prestarghe
verun aiuto; ogni paese per un galantomo xe patria; nei Svizzeri se pol
facilmente occuparse.» Poi cesse da Venezia.

Era la mattina del primo maggio, quando la repubblica veneta doveva
cadere da per sè stessa. Era il palazzo pubblico circondato per ogni
parte da genti armate, i cannoni presti, le micce accese, apparato
insolito da tanti secoli in quella quieta repubblica. Custodivano, per
antico rito gli arsenalotti le interiori stanze del palazzo; i capi
di strada pieni di uomini in armi. Si maravigliava il popolo, ignaro
della cagione, a quel romor soldatesco; la città tutta occupava un
grandissimo terrore; quei luoghi medesimi che per sapienza di governo,
per benignità di cielo, per fortezza di sito erano stati sempre
pieni di gente, allegrissima per natura, civilissima per costumi, ora
risuonava d'armi e d'armati, e quelle armi e quegli armati accennavano,
non a salvamento, ma a distruzione della patria.

Convocati i padri al suono delle solite campane e adunatisi in maggior
consiglio, rappresentava con gravissime parole il doge la funesta
condizione a cui era ridotta la repubblica; e dopo ch'ebbe nel patetico
suo discorso annoverate le vicissitudini precorse; «Cedessero adunque,
cedessero, esortava, ad una necessità ineluttabile, e poichè l'estremo
de' tempi era giunto, in quell'estremo tempo pensassero che meglio
era recidere qualche ramo, sebbene essenziale, che l'albero tutto;
che cosa di poco momento era una modificazione, purchè si conservasse
la repubblica; che bisognava, a guisa di provvidi marinari, far getto
di una parte del carico per salvare la nave. Li pregava pertanto e
scongiurava, per quanto avessero cara la patria, per quanto avessero
care le famiglie, per quelle mura stesse tanto magnifiche e tanto
dilette, per la nobile Venezia, per la salute di lei, per quanto aveva
in sè di dolce, di augusto e di reverendo un'antica congiunzione
d'amore e d'interessi, udissero benignamente quello ch'erano per
proporre alla sapienza loro i savii, a fine di far abilità ai zelanti
legati eletti a trattare col supremo dispositore delle cose franzesi
in Italia, di qualche alterazione negli ordini fondamentali della
repubblica.»

Queste compassionevoli parole del doge ingenerarono terrore, dolore
e pianto negli ascoltanti. Favellava nella medesima sentenza Pietro
Antonio Bembo, che fu poi uno de' municipali eletti da Villetard. Posto
il partito e raccolti i voti, fu approvato con 598 favorevoli e 21
contrarii. Lodava il doge la virtù del maggior consiglio, esortava ad
aver costanza, a non disperare della repubblica, a tener credenza del
partito deliberato; poscia tra il dolore, la mestizia ed il terribile
aspetto dell'avvenire si scioglieva il consiglio.

Il capitano in tanto perseguitava Venezia. Calava Buonaparte dalle
noriche Alpi e la circuiva d'ogni intorno. Villetard l'insidiava
dentro. Ma in tanta depressione di spiriti e viltà d'animi, costanza
somma mostrava in Treviso, in cospetto del generalissimo, Angelo
Giustiniani, provveditore di quella provincia, mentre sdegnato quegli
accusava i Veneziani di perfidie, di tradimenti, di assassinii;
minacciava sterminio, domandava il sangue di Pesaro, degl'inquisitori,
del comandante del Lido.

Intanto i macchinatori non si ristavano in Venezia, non contenti al
cambiamento parziale autorizzato dal consiglio grande. Spargevano
voci insidiose, non potersi resistere, dovere lo Stato accomodarsi
al secolo con un totale cambiamento negli ordini primitivi; potere
Venezia vivere ancora gloriosa lungo tempo; antiquate essere le sue
forme, alcune inutili, alcune dannose, alcune ridicole; popolo, popolo
vuol essere; non patriziato, non aristocrazia; la ragione aver a
governare gli Stati; i diritti essere per natura uguali, dover essere
uguale l'autorità; nuovi secoli sorgere alla rigenerata umanità; nuova
libertà nascere, non di pochi potenti, comandanti a molti schiavi,
ma di tutti sovrani comandanti a nessuno schiavo. Quindi la cosa
ritraevano a Venezia: detestavano Pietro Gradenigo, lodavano Baiamonte
Tiepolo; i piombi, i molinelli, il canale Orfano con frequenti discorsi
memoravano, gl'inquisitori di Stato abbominavano. Capi a costoro
erano un Giovanni Andrea Spada, di fresco uscito dai piombi, antico
daziero, e, come troviamo scritto, antico esploratore e rapportatore
degl'inquisitori, ed un Tommaso Pietro Zorzi, di professione droghiere.
Seguitavano, ma più celatamente e più con desiderii dimostrati che
con opere attive, un Gallino da Padova, un Giuliani da Desenzano,
un Sordina da Corfù, finalmente un Dandolo da Venezia, uomo assai
chiaro per fama, per dottrina, per eloquenza e per un certo splendore
d'animo e di corpo che molto il rendevano osservabile. S'aggiungevano,
come suol avvenire, donne amatrici d'una politica libertà che non
intendevano; ma siccome elle avevano l'animo volto al bene, così
formavano nelle facili fantasie loro una immagine di libertà piena di
ogni bene, spoglia di ogni male.

Ma trattando di coloro che tenevano lo Stato, alcuni per debolezza non
erano capaci di risoluzione generosa ed obbedivano al tempo. Altri
per ambizione o per opinione secondavano il moto. S'accostavano ai
promotori di novità, parte ingannati, parte ingannatori; non pochi
altri che credevano che una mutazione nelle forme politiche avesse a
ritrar la repubblica da quell'abisso in cui era precipitata. Aveva
contrastato a tutti questi gagliardamente Francesco Pesaro; poi
quando cesse dalle faccende della patria, anzi dalla patria stessa,
contrastava la maggior parte dei savi di terraferma, fra di loro più
animosi mostrandosi e più vivi Giuseppe Priuli e Nicolò Erizzo.

Principalissimo fondamento ai disegni dei novatori era Villetard,
segretario del ministro di Francia, il quale, sebbene fosse stata dal
generalissimo intimata solennemente la guerra ai Veneziani, continuava
a starsene come persona pubblica a Venezia; ed anzi teneva alzato
alla sua porta lo stemma della repubblica di Francia, testimonianza
sensibile della rotta irregolarità di quei tempi e della debolezza
del governo veneziano. Era Villetard giovane molto infiammato nelle
opinioni di quei tempi, ma d'animo integerrimo: i suoi maneggi in
Venezia piuttosto da un grande errore di mente che da perversità di
cuore procedevano; le geometrie politiche gli avevano stravolto lo
intelletto.

Adunati ed ordinati in tal modo tutti gli amminicoli di distruzione,
restava ad ordinarsi il modo di usargli, perchè sortissero l'effetto
proposto; del che i capi non istavano lungo tempo in forse. Villetard,
Donato e Battaglia continuamente istavano presso il governo, acciocchè
riformando gli ordini e riducendoli alla forma democratica, pensasse
finalmente alla salute sua. Spaventavano rapportando che il numero
degli scontenti e dei novatori era incredibile, che cresceva ogni dì
più, che già erano sedici mila, che già si congiurava alla rovina dello
Stato, e molte altre cose aggiungendo.

Tutte queste rapportazioni partorivano effetti maravigliosi in animi
ammolliti da lunga pace ed insoliti a sì terribili rimescolamenti.
I raggiratori, veduto il tempo propizio e temendo che la riforma si
arrestasse a mezza strada, e che solo il governo si allargasse, ma non
scendesse fino alla forma democratica, si misero in sul fare maggiori
spaventi e in sul volere che del tutto il patriziato si abolisse.
Di questo negozio arrivavano cenni da Milano, dove Buonaparte si
era condotto coi due legati veneti, ai quali era stato aggiunto per
terzo Alvise Mocenigo. Recavano le Milanesi novelle, la salute della
repubblica consistere nella abolizione del patriziato e nella creazione
della democrazia pura. Di questo scrivevano i veneti legati; di questo
quell'Haller che si era fatto da pubblicano uomo di Stato. Perchè poi
non mancasse a questa fraude anche la parte del ladroneccio, si dava
voce che sei mila zecchini di beveraggio, senza dir per chi, avrebbero
fatto gran forza. Adunque tra gli spaventi e le speranze, tra le
minaccie e le promesse, si piegava la consulta del doge, e con lei il
maggior consiglio, il dì 4 di maggio, ad ampliare il mandato ai legati,
acciocchè potessero consentire all'annullamento del patriziato ed alla
creazione della democrazia. Fu anche fatto abilità al savio cassiere
di rimettere all'ebreo Vivante, perchè li trasmettesse a Milano,
i sei mila zecchini in tante paste d'oro e d'argento che ancora si
ritrovavano nella zecca.

Avendo Venezia ceduto, vieppiù insorgevano i repubblicani. Non si
soddisfacevano del tutto del mandato fatto ai legati di consentire
al cambiamento totale della forma del governo; desideravano che il
maggior consiglio di per sè stesso rinunziasse alla sovranità, abolisse
il patriziato e creasse la democrazia. Pareva questa mutazione più
solenne e più sicura. Desideravano al tempo stesso di occupare co'
soldati franzesi Venezia, e far apparire che l'occupazione di una
città tanto nobile e tanto importante in Europa fosse spontaneamente
chiamata da dentro, non violentemente prodotta da fuori. In questo si
proponevano mille altri fini di non poco momento, ed erano l'entrare
di queto, l'avere intiero ed intatto l'arsenale e tutto che fosse del
pubblico, il poter volgere tutte le forze del territorio veneto contro
l'imperatore, se la pace non si effettuasse, e contro l'Inghilterra,
che tuttavia perseverava in condizione ostile. Per la qual cosa, mentre
Villetard e chi operava con lui tendevano insidie al governo in Venezia
per ispegnerlo, Buonaparte negoziava molto apertamente fra i conviti e
le feste un trattato coi legati della repubblica in Milano.

All'indurre il gran consiglio a cambiare lui medesimo la forma del
governo, ed all'introduzione di un presidio franzese indirizzavano
Villetard ed i Veneti che il secondavano, tutti i loro pensieri. Per
questo si rendeva necessario il privare Venezia delle sue difese con
disarmare i legni e con allontanare gli Schiavoni che vi alloggiavano
in numero di circa dodicimila. Per questo Morosini, che aveva il
carico di preservare quell'antica sede della sua patria, spargeva che i
congiurati crescevano di numero e di forza, che oggimai non si potevano
più frenare, che nuovi soldati abbisognavano. Intanto da persone
apposta si accusava la fede degli Schiavoni, si affermava, voler loro
fare un moto per saccheggiare. Dava favore a questi spaventi Condulmer,
affermando non essere le difese apprestate nelle lagune abili ad
arrestare i Franzesi, ove si risolvessero a passarle per assaltar
Venezia; già esser grossi a Mestre, già da Fusina minacciare, già
Brondolo e Chioggia pericolare dalle armi loro.

Quando più operava nell'animo dei patrizii il terrore, parendo ai
congiurati che fosse il momento propizio, si appresentavano per
suggestione di Villetard, alle camere del doge Spada e Zorzi, facendo
una gran pressa di essere uditi per cosa che, come dicevano, importava
alla salute della repubblica. Furono destinati ad udirli Pietro Donato
e Francesco Battaglia, e quindi, sulle loro rapportazioni, ad intendere
dal segretario di Francia quello che vero fosse dei detti di Spada e
di Zorzi. Tornati riferivano, Villetard, non per modo di richiesta, ma
di consiglio, avere dimostrato, importare alla salute della repubblica
che si abolisse nel giorno stesso il patriziato, s'instituisse la
democrazia e di più le seguenti condizioni si effettuassero: si
carcerasse il conte d'Entraigues, agente del re Luigi, e tutti i
suoi ricordi si dessero in mano del generalissimo; si liberassero i
carcerati per opinione; gli Schiavoni partissero; si surrogasse una
guardia nazionale; si pubblicasse un manifesto per voce del governo; si
creasse un municipio di trentasei Veneziani di ogni classe; le città
di terraferma e delle isole venete s'invitassero a mandar deputati in
Venezia a fine di comporvi un consesso generale di governo temporaneo;
tutti i delitti politici si condonassero; vi fosse libertà di stampare,
sì veramente che del passato nè quanto alle persone nè quanto al
governo non si parlasse; si chiamassero i Franzesi a presidiar la
città con quattromila soldati, ed occupassero l'arsenale, il castello
Sant'Andrea, Chioggia e tutte le isole circonvicine che fossero a
grado del generalissimo; con questo l'assedio si togliesse; la guardia
nazionale custodisse la camera ed altri posti d'onore. Il doge Manin
fosse presidente del municipio, Andrea Spada vicepresidente; Querini
si richiamasse da Parigi; si mandassero deputati a Buonaparte per
annunziar la nuova forma del governo; si spacciasse col fine medesimo
alle repubbliche Batava, Cispadana, Transpadana e Genovese.

Accordati tutti questi capitoli fra i deputati della consulta del
doge ed il segretario di Francia, che altri ne volea aggiungere, ma fu
dissuaso da Battaglia, restava che il maggior consiglio gli approvasse.
Per questo Donato e Battaglia avevano persuaso a Villetard, il quale
voleva che senza soprastamento si mettesse mano all'opera, aspettasse
tre o quattro giorni, affinchè potessero fare le pratiche necessarie
per indurre il maggior consiglio alla risoluzione. Incominciavano il
maneggio con le solite promesse e coi soliti spaventi; fra le altre
insidie si mandava attorno una lettera di Haller, apportatrice delle
risoluzioni di Buonaparte, che cessassero i diritti ereditarii, che
si creasse la democrazia, che si fondasse il governo rappresentativo:
se nol facessero volontariamente, verrebbe egli a farlo per forza. Di
notte tempo Spada svegliava all'improvviso Battaglia, e gli mostrava
la lettera, la mattina molto per tempo la recava alla signoria.
Intanto gli Schiavoni, sola sicurezza contro gli assalti e forastieri
ed interni, erano stati fatti imbarcare, e già se ne stavano sulle
navi aspettando il vento prospero per alla volta di Zara; le lagune
disarmate da Condulmer.

Era il giorno 12 di maggio destinato da chi regge queste umane cose
alla distruzione della veneta repubblica. Era adunato il maggior
consiglio, gli arsenalotti, ma pochi, il custodivano; le navi
difenditrici ritirate dall'estuario si accostavano vuote al lido; si
vedeva un avviluppamento degli ultimi Schiavoni che s'imbarcavano;
il popolo atterrito, nè ben sapendo che significassero que' tristi
presagi, si raccoglieva in folla intorno al palazzo: i congiurati
di dentro discorrevano per ridurre il maggior consiglio a spegnere
l'antico governo; i congiurati di fuori spargevano mali semi. Aiutava
le fraudi loro la risoluzione del primo maggio favorevole al modificare
le antiche forme. La setta democratica trionfava.

Orava il doge pallido e tremante sui pericoli presenti: parlava delle
congiure, de' desiderii di Buonaparte, dell'inutile resistenza,
e delle promesse date, se si riformasse: proponeva in fine il
governo rappresentativo. Mentre si stava deliberando, ecco udirsi
improvvisamente alcune scariche d'archibusi fatte per festa e per forma
di saluto nell'atto del partire dagli Schiavoni, che nel sottoposto
canale s'imbarcavano; rispondevano ugualmente per festa e per forma
di saluto coi tiri loro i Bocchesi alloggiati a San Zaccheria. Un
subito spavento prendeva gli adunati padri; credettero che fossero
i congiurati intenti ad ammazzare il doge e tutto il ceto patrizio,
siccome ne era corsa fama per le congiure; si aggiravano per la
sala privi d'animo e di consiglio. Gridavano confusamente e con gran
pressa, parte, parte, che in lingua veneziana significava, squittinisi,
squittinisi. Posto il partito, si vinceva con 512 voti favorevoli,
20 contrari, 5 non sinceri. A fine di preservare incolumi, diceva il
decreto, la religione, le vite e le sostanze degli amatissimi sudditi
della città di Venezia, e di allontanare l'imminente pericolo di
novità violente, ed altresì sulla fede che fossero i giusti riguardi
avuti verso il ceto patrizio, e verso tutti i partecipi dello Stato,
e con questo che la sicurtà della zecca e del banco fosse guarantita,
conforme ai partiti già presi il primo e quarto giorno di maggio;
accettava il maggior consiglio il governo rappresentativo, purchè a
questo fossero conformi i desiderii del generalissimo di Francia; ed
importando che in nissun modo senza tutela la patria comune restasse,
si faceva carico ai magistrati di provvedervi. A questo modo i patrizii
veneti dell'antichissima loro autorità si dispogliarono, non con
dignità in una tanta disgrazia, ma minacciati da due sudditi di oscuro
nome ed aggirati da due colleghi infedeli; non per armi perirono nè
per assalto di un nemico aperto, ma per fraude di amici disleali. Non
mancò il popolo al governo, ma il governo al popolo, e morì una pianta
con le radici buone, perchè era la testa guasta; nè ebbero i patrizi
il conforto dello aver perduto lo Stato per virtù superchiata, perchè
coraggio non mostrarono e la cautela fu vizio. Epperò se i buoni ebbero
compassione a Venezia pel destino, la biasimarono per debolezza; i
tristi la schernirono. Ma certamente esempio terribile fu; il caso di
Venezia turbò allora tutto il gius pubblico d'Europa.

Poichè i patrizii ebbero preso il partito di rinunziare all'autorità
propria e di rimettere lo Stato nelle mani di Buonaparte, tale un
timore gli assalse in quelle stanze piene tuttavia delle immagini
de' loro forti antenati e di quanto fu da essi fatto di grande e
di glorioso sì in pace che in guerra, che, non sapendo più nè dove
restassero nè dove gissero, si abbandonarono, come perduti ad ogni
affetto più disperato. Si ritraevano alcuni alle stanze private del
doge che, tutto smarrito, aveva dato ordine che di tutti i ducali segni
si dispogliassero: altri usciti all'aperto per ritirarsi alle case
loro, lagrimando e gridando: Non è più Venezia, non è più San Marco,
facevano uno spettacolo miserabile in mezzo alle turbe affollate,
che ancora non ben sapevano chè alla patria sovrastasse. I novatori,
che pensavano essere avvenuto quello che aspettavano, trepidando
dall'allegrezza gridavano: Viva la libertà. Ma il popolo, che prima
era stato incerto, nè poteva recarsi nell'animo tanta abbiezione
dalla parte de' patrizii, saputo il fatto, si accendeva di una furia
incredibile ed incominciava minaccioso a fare una gran tumultuazione,
chiamando unitamente il nome di San Marco. Cresceva la folla, a cui si
erano fatti compagni pochi Dalmati non ancora imbarcati. Accorrevano
le donne, i vecchi ed i fanciulli. Cominciavano le turbe rabbiose a
correre gridando e schiamazzando. Ma non può il popolo sollevato star
lungo tempo sui generali, anzi tosto dà nei particolari o d'amore
o d'odio. Correva alle case d'un pizzicagnolo che aveva fatto certe
dimostrazioni a favor di uno uscito dai piombi, ed, in men che non si
dice, sperdeva e rompeva ogni mobile: poi trovatagli una nappa di tre
colori addosso gliela conficcava in fronte; già uno Schiavone stava
in atto di mozzargli il capo, quando il mal arrivato, per iscampo
della vita, prometteva di palesare i rei della congiura. Nè così tosto
usciva dalla sua bocca il nome di qualcuno, che una mano di popolo
partiva per mettere a sacco la casa del nominato. Saccheggiavansi per
tale modo Zorzi, Gallino, Spada, Zatta libraio. Fu avuto rispetto ai
palazzi de' ministri, anche a quello di Francia. Villetard, non sapendo
fino a qual termine potesse trascorrere quel furor popolare, si era
nascosto dal ministro di Spagna: là scriveva a quel governo ch'egli
medesimo aveva distrutto, che frenasse quell'impeto. Poi egli e Donato,
ai quali più d'ogni altro importava il calmar quel furore, facevano
opera che si adunassero alcune compagnie di soldati italiani, e ne
presidiavano il ponte di Rialto. Vi conduceva Bernardino Renier due
cannoni, coi quali tratto ed ucciso tre o quattro popolani, poneva fine
a quello incomposto accidente. Usavano Villetard, Donato e Battaglia la
occasione, e, preparato e mandato il navilio a Mestre, la notte del 16
al 17 maggio, levavano, sotto il comandamento di Baraguey d'Hilliers,
quattro mila soldati franzesi. La mattina molto per tempo si scoprivano
schierati sulla piazza di San Marco soldati ed armi forastiere non mai
viste in Venezia da quindici secoli. Creossi il municipio, si promisero
cose che non si attennero, lusingossi con le parole, gravitossi coi
fatti, e tanto si continuò l'inganno che la ricca e potente Venezia
rimase spogliata del tutto ed inerme.

Avevano Buonaparte ed i legati veneziani, ai quali, come si è narrato,
erano state ampliate le commissioni, in Milano le preste novelle degli
accidenti di Venezia, specialmente della rinunzia fatta nel giorno 12
dai patrizi e della dissoluzione dell'antico governo aristocratico.
Evidente cosa era, che avendo cessato di sussistere chi aveva dato
il mandato, non vi era più luogo nè a negoziati nè a conclusione di
trattato. Ciò nondimeno le pratiche si continuarono pei loro fini,
tanto per parte dei Veneziani come del generalissimo. Adunque si
stipulava da ambe le parti il giorno 16 maggio in Milano un trattato
di pace e di amicizia tra la repubblica Franzese e la Veneziana:
cessassero tra di loro tutte le offese; rinunziasse da parte sua il
gran consiglio al suo diritto di sovranità, ordinasse la annullazione
dell'aristocrazia ereditaria, riconoscesse la sovranità dello Stato
consistere nella universalità dei cittadini: a tutte queste cose
consentisse con patto che il nuovo governo guarentisse il debito
pubblico, il vivere dei patrizi poveri, le provvisioni a vita: la
repubblica Franzese concedesse, siccome n'era stata richiesta, una
schiera di soldati a Venezia, acciocchè vi conservasse intero l'ordine
e la tranquillità, vi tutelasse le persone e le proprietà, procurasse
la esecuzione delle prime risoluzioni del governo nuovo; questi soldati
partissero da Venezia tostochè il nuovo governo dichiarasse non averne
più bisogno; le altre truppe franzesi sgombrassero gli altri territorii
veneti, tostochè la pace del continente fosse conchiusa: si facesse
sollecitamente il processo agl'inquisitori di Stato, ed al comandante
del Lido; la repubblica Franzese perdonasse ad ogni altro Veneziano.
Questi erano i capitoli mostrabili: i segreti contenevano altri
effetti importanti: si accorderebbero le due repubbliche pel cambio di
territorii, la Veneziana pagasse alla Franzese tre milioni di tornesi,
somministrasse una valuta di altrettanti in arnesi di marineria,
le desse tre navi di fila con due fregate fornite di tutto punto,
consegnasse a' commissarii a ciò destinati venti quadri, e cinquecento
manoscritti a scelta del generalissimo: la repubblica Franzese si
interponesse a pace comune tra la Veneziana e la reggenza di Algeri.

Di tale forma furono i capitoli del trattato concluso in Milano tra
Buonaparte e i Veneziani. A loro fu aggiunto quest'altro, che le due
parti ratificassero nel più breve spazio il trattato. Il ratificarono
in fatti i municipali di Venezia, persuadendosi, non si vede come nè
perchè, che tutta l'autorità della repubblica e del maggior consiglio
in loro fosse investita. Negava Buonaparte la ratificazione, allegando
essere da parte dei mandatarii veneziani cessato il mandato, perchè era
estinto il mandatore.

La forza aveva insidiato Venezia, le chimere di una libertà fallace le
diedero il tracollo. La medesima forza e le chimere medesime usando
contro Genova, la si tirava ancor essa all'ultimo eccidio. Laonde,
non ancora terminata, ma già prossima a terminarsi la tragedia di
Venezia, scriveva Buonaparte, a Faipoult, ministro di Francia a Genova,
ed operatore attivo dei disegni franzesi, che la rovina di Venezia
doveva partorire necessariamente la rovina di Genova. Sapeva che il
governo genovese non avrebbe gagliardamente contrastato, quantunque
in lui fosse più vigore che in quello di Venezia, sì perchè alcuni dei
senatori erano abbacinati dai fantasmi dei tempi, e sì perchè nel ceto
medio era molta opinione contraria, credendo molti che la democrazia
fosse da anteporsi all'aristocrazia, come se democratici fossero i modi
di reggimento politico indotti in Italia in quei tempi. Aggiungevansi
i capitali genovesi investiti in gran parte in Francia, ed i traffichi
tra Francia e Genova frequentissimi, cose molto tenere e capaci a far
calare i Genovesi ad un primo rumore d'armi. Infine pei passi frequenti
delle genti di Francia sulle riviere, erano sorte in esse le opinioni
nuove. Savona titubava e per questo e per le antiche emulazioni. Alcune
fortezze e molti siti del Genovesato erano in mano dei buonapartiani.
Nè a questo contento il direttorio, aveva operato che Rusca e Serrurier
appoco appoco e sotto altri colori le schiere loro accostassero a
Genova, e che l'ammiraglio Brueys comparisse con navi grosse e sottili
nelle acque delle riviere.

Genova pericolava; ma molte erano le insidie interne. Spargevansi
artifiziosamente voci che la Francia voleva dare la riviera di Ponente
al re di Sardegna, e si affermava che una tale calamità sola si poteva
allontanare con ridurre il governo a forma più consimile a quella
di Francia. Queste voci Faipoult, magnificando la fede della sua
repubblica e quasi sdegnandosi, asseverava essere false e calunniose.
Buonaparte ed egli richiedevano nuovi prestiti di parecchi milioni
alla signoria, consumata ed odiosa ai popoli se li concedesse, accusata
d'inimicizia verso Francia se li negasse. Il farla vile fu anche parte
dell'insidia: perchè un consiglio militare franzese, adunatosi nella
sede stessa della repubblica, processava e condannava al bando da tutti
i territorii di Genova il marchese Agostino Spinola, come reo delle
turbazioni sorte contro i Franzesi nei feudi imperiali. Non era più
sovranità dove un tribunale forestiero dannava un cittadino: mancava
col buon concetto la forza dello stato. Nè l'opera dei novatori di
dentro si trascurava. A questi erano capi alcuni Genovesi, alcuni
forastieri: fra i primi osservabile era massimamente lo speziale
Morando, uomo precipitoso e di estremi pensieri; fra' secondi più
vivo e più operativo si mostrava un Vitaliani da Napoli. Erano costoro
favoriti da Faipoult più nascostamente per la sua qualità pubblica, da
Saliceti, a questi fini venuto a Genova, più apertamente. Vociferava
Saliceti, doversi, poichè l'aristocrazia in Venezia si era spenta,
spegnere anche quella di Genova. I novatori, sicuri omai dello
esito, si adunavano, s'indettavano, s'accordavano, s'apprestavano;
più il termine si avvicinava e più palesemente operavano. Avvertito
il governo, creava inquisitori di Stato con ampia facoltà, e per
opera loro carcerava Vitaliani. Se ne risentiva gravemente Faipoult;
richiedeva la sua indennità come di Franzese, perchè addetto
all'ambasciata. La signoria essendo sforzata, rimetteva il Napolitano
in libertà. Vitaliani e Morando con somma attività si adoperavano.
A loro si faceva compagno un Filippo Doria, o per ambizione o per
opinione. Si pruovava all'estremo caso ad insorgere; gl'inquisitori
di Stato facevano carcerare due dei più audaci e temerarii novatori,
sperando che il timore potesse frenare quella gente incitatrice.
Fu indarno, poichè tanto favore l'aiutava dentro e fuori. Questa fu
scintilla a suscitare ad incendio il fuoco che covava. Non così tosto
giungeva ai congiurati la novella della carcerazione dei compagni, che
furiosamente dato alle armi, e proprie od a questo fine apprestate in
casa Morando, ed avendo Morando medesimo con Vitaliani e con Filippo
Doria a guida, facevano improvvisamente, era il giorno 21 maggio, un
tumulto terribile. Si rallegrava Faipoult che la rivoluzione nascesse
in Genova per opera dei Genovesi, perchè in quella rivoluzione
ei voleva ben essere, ma non parere. Venuti a lui due legati del
senato, Gian Luca Durazzo e Francesco Cataneo, il pregavano che
facesse dimostrazione di non secondare i novatori, ed operasse che
la frenesia dei giornali milanesi contro Genova cessasse. Dava loro
la volta sotto sulla prima richiesta, speranza per la seconda. Si
metteva poscia sull'esortargli a riformare essi medesimi lo Stato ed
a biasimarli dei tridui e delle novene come di dimostrazioni dirette
ad odio dei Franzesi: cercava di temporeggiare, perchè gli accidenti
di Venezia finissero. I congiurati con ischiamazzi orribili e con
grida spaventose, cantando a tratto la marsigliese, s'incamminavano
al palazzo ducale. Aggiungevansi per istrada, come suole avvenire,
nuovi congiurati, e fra il popolo i più tristi e chi più ambiva il
sangue o il sacco. A tanto rumore si adunava una calca incredibile
fra quelle strette vie di Genova; serravansi a furia le botteghe; i
buoni fuggivano, od erano tratti dalla tempesta. La folla tumultuosa
giunta al palazzo, dov'era raccolto il senato, con minacciose grida
addomandava i carcerati. Rispondevano con molta costanza i padri, a
buona ragione sostenersi, si farebbe giustizia, fra breve paleserebbero
al popolo l'intento loro. I sollevati avrebbero voluto sforzare il
palazzo; il vietavano le guardie; si rimanevano perchè in quel primo
impeto non avevano nè armi sufficienti, nè accordo, nè numero che
bastasse. Riscaldati dal vino e dalle cose fatte, passavano la notte
fra l'allegrezza dei piaceri presenti e la cupidigia dei tumulti
avvenire.

Sorgeva ai 22 l'alba che doveva addurre a Genova un giorno
funestissimo. Prorompevano dai ritrovi loro i congiurati, e, ad ogni
passo ingrossandosi per l'accostamento di nuovi compagni, facevano
una turba assai numerosa, con non pochi Lombardi ed alquanti Franzesi
ancora. Il senato senza difese pel caso improvviso, si era perduto
d'animo ed aspettava invece di operare.

Il popolo fedele al principe non si moveva. Andando loro il moto a
seconda, i sollevati ardivano cose maggiori ed orrende. Traevano alle
prigioni della Malpaga, sentina infame d'indebitati e di falliti,
e rotte le porte non senza qualche violenza sanguinosa, e liberati
ed armati i prigionieri, se li facevano compagni ai disegni loro.
Cresceva il furore. Impadronitisi della darsena, davano la libertà
ai condannati, e poste loro l'armi in mano correvano con l'infame
satellizio di ladri e d'assassini a disfare uno dei più illustri
governi del mondo.

Fatto indi concorso sulla piazza, e preso maggior animo da quei primi
successi, bandivano con allegria e romore incredibile, essere spenta
l'aristocrazia, Genova libera, i poveri esenti da' tributi, cassi gli
antichi magistrati, creati i nuovi. Ma ancora temevano le porte in
mano del governo, i popoli di Bisagno e della Polcevera deditissimi al
nome del principe ed all'antica repubblica. Però, credendo non esser
compiuta l'opera se allo aver acquistato l'interno non aggiungevano
l'assicurarsi delle porte e delle mura, spedivano, a ciò consigliati
da Morando e da Doria, i più audaci ed i meglio armati ed occupar
l'arsenale, il ponte reale, la lanterna, le porte di San Tommaso e di
San Benigno. Il che veniva agevolmente fatto, sorpresi essendo e pochi
i difensori.

Intanto s'era il senato raccolto timoroso e non pari tanto estremo.
Consultavano discordi, statuivano spaventati. Mandavano legati
a Faipoult, perchè lo pregassero s'interponesse a concordia ed
offerissero riforme negli ordini antichi. Piaceva la profferta al
Franzese, per essergli aperta l'occasione, e, condottosi al senato,
con efficacissime parole esortava i padri, cedessero al tempo,
s'accomodassero al secolo, riformassero lo Stato, verso gli ordini
democratici l'allargassero, questa sola via di salute restare.
Stanziavano, si traessero quattro patrizi, i quali, convenendo con
quattro deputati del popolo, fra di loro accordassero come e quanto la
forma antica dovesse scendere alla democrazia. S'eleggevano i patrizii,
gli eletti del popolo non comparivano; riuscì vano il tentativo. La
massa de' novatori infuriata correva al ducale palazzo e contro di lui
piantava un cannone, sforzandosi di entrarvi; ma cessava vedutolo ben
custodito. Tuttavia pareva che più rimedio non vi fosse per reprimere
la ribellione.

Ma ciò che non aveva fatto il senato senz'animo e senza forza, il
faceva il popolo. Si adunava, correndo da ogni lato, principalmente
dal porto, una gran massa di popolo minuto, carbonari, e facchini
massimamente, ed opponendo allo improvviso grida a grida, nappe a
nappe, armi ad armi, rendevano dubbia una vittoria che già pareva
certa. Facevano risuonare per tutta la città voce festose ad un tempo e
minacciose. Gli amatori del governo antico, siccome quelli che avevano
a combattere coi libertini bene armati, anche di artiglierie a cagione
della presa dell'arsenale, avvisavano d'impadronirsi dell'armeria,
nella quale essendo entrati, distribuite a ciascuno l'armi, con ardore
inestimabile si mettevano a correre contro la parte contraria. A loro
si accostavano i soldati regolari rimasti fedeli alla repubblica, e fra
questi alcuni che sapevano maneggiar le artiglierie. Si attaccava una
battaglia asprissima, dove i padri combattevano contro i figliuoli, i
fratelli contro i fratelli, ed il suono delle armi civili, già da lungo
tempo insolito, si udiva da lungi ne' più segreti recessi de' liguri
Apennini. Durava la battaglia parecchie ore; prevaleva finalmente
la parte del senato, ricuperati, non senza molta fatica e sangue,
dagli uomini fedeli a lui tutti i posti. Il quale fatto saputosi da'
Morandiani, era cagione che precipitosamente abbandonassero l'impresa.
La maggior parte fuggirono o nelle private case si nascosero: i più
animosi, ristrettisi insieme, si facevano sforzatamente strada al ponte
reale, che si teneva ancora per loro mediante il valore di Filippo
Doria. Li seguitavano i vincitori, e s'accendeva a questo ponte una
battaglia ostinatissima, combattendo dall'un dei lati la disperazione,
dall'altro il furore, ed il numero ognor crescente delle genti. Erano
finalmente oppressi i Morandiani con ferite e morte di molti: morì
Doria medesimo. Usavano i vincitori molta crudeltà come nelle guerre
civili: il cadavere di Doria fu lunga pezza ludibrio a quegli uomini
infieriti.

In mezzo a quella furia perirono parecchi Franzesi, parte mescolati coi
sollevati, parte non mescolati. Ciò fu in mal punto, perchè Buonaparte
ne prese occasione per disfare il governo. Si vegliava la notte fra il
dolore de' morti, il terrore de' vivi: s'accendevano i lumi alle case
da chi per gioia, da chi per paura, perchè i carbonari minacciavano. Il
senato vincitore per opera altrui, di nuovo si adunava per consultare
sulle turbate cose. Mostravasi Giacomo Brignole doge al popolo,
da cui era veduto e salutato con grandissimi segni di allegrezza.
Faipoult, veduto che la forza de' novatori era stato indarno, tornava
sull'esortare e più accesamente di prima insisteva sulla necessità
delle riforme.

Si stava intanto per la signoria in grandissima apprensione del come
l'avrebbe sentita Buonaparte. Gli scriveva il doge in nome del senato
lettere molto sommesse di rammarico e di scusa pei Franzesi uccisi.
Arrivavano, portate da Lavallette, aiutante del generalissimo, risposte
funestissime: non potere, scriveva, la repubblica franzese tollerare
gli assassinii e le vie di fatto di ogni sorte commesse contro i
Franzesi in Genova da un popolo senza freno, suscitato da coloro che
avevano fatto ardere la Modesta e maltrattare i Franzesi cittadini:
se fra ventiquattr'ore i carcerati non si liberassero, se coloro che
il popolo contro di loro avevano provocato non si carcerassero, se
la feccia di quel popolazzo non disarmasse, aver vissuto la genovese
aristocrazia e partirsi da Genova il ministro della repubblica: stare
la vita de' senatori per quella de' Franzesi in Genova, tutto lo Stato
per le proprietà loro. Del resto tale fu la forza della verità che
Faipoult attestava ed affermava a Buonaparte, che il governo genovese
aveva fatto in quell'accidente quanto per lui si era potuto per
evitar i disordini; che in facoltà sua non era di comandare a coloro
che, non che gli obbedissero, gli comandavano ed il difendevano; che
delle uccisioni de' Franzesi i patriotti erano stati cagione per aver
inalberato i tre colori; che senza questa insolenza democratica, nissun
Franzese avrebbe perduto la vita; che i democrati soli avevano messo
in pericolo i Franzesi; ch'essi avevano fatto oltraggio alla repubblica
Franzese per aver usurpato i suoi colori nazionali: ch'essi finalmente
avevano operato pazzamente per l'impeto sregolato, infamemente per
l'apertura delle carceri e delle galere.

Quest'era la condizione di Genova: il senato sbigottito, e servo della
moltitudine, e diviso per le opinioni, tra il non poter inveire contro
il popolo perchè lo avea salvato, ed il dover inveire perchè gli agenti
del direttorio gridavano vendetta. La moltitudine armata, fatta la
buona opera di redimere il principe, prorompeva, come suole, in opere
ree, oltraggiando e manomettendo gli onesti cittadini, solo perchè gli
aveva per sospetti. Già la casa di Morando spogliata da capo a fondo,
incomiciavano a spogliar le case con solo degl'innocenti, ma ancora
dei benemeriti. Ogni cosa piena di terrore. Insisteva più acerbo che
mai Faipoult, perchè si scarcerassero i Franzesi, si arrestassero
gli uccisori, si dichiarasse non aver i Franzesi avuto parte nella
ribellione. Infuriava Lavallette e secondava Faipoult. Affermava che
i carbonari erano stati pagati perchè uccidessero i Franzesi, e che
per ordine espresso erano stati assassinati. Orrore, dolore, terrore
prendeva i senatori alla richiesta. Resistevano in prima, poi, spinti
dall'ultima necessità, arrendendosi facilmente quei della parte
franzese, a loro malgrado consentirono.

Il fine principale a cui miravano tutte le arti, gli spaventi e
le minacce, non era punto la liberazione di pochi carcerati, nè
l'incarcerazione di pochi magistrati. Volevasi la mutazione. Perilchè,
vintesi dagli agenti repubblicani le prime domande, insorgevano con
maggior calore, richiedendo il senato riducesse lo stato a forma più
democratica e facesse abilità ai legati che si volevano mandar al
generalissimo, di accordar con lui il cambiamento che si desiderava;
e alla richiesta aggiungendo rappresentazioni, considerazioni ed
esortazioni calorosissime.

Cotali esortazioni fortissime in sè stesse, operavano gagliardamente.
Pure trovava non poca difficoltà; perchè molti dei senatori vedevano
in quei reggimenti democratici, non amore nè gratitudine per la
rinunziazione dei privilegii, ma scherni e persecuzione, nè cambiando
era andare dall'aristocrazia alla democrazia, ma bensì dal dominio
consueto al dominio di una parte prepotente. Atterriva anche l'esempio
di Venezia, che già si vedeva non avere, pel cambiamento fatto, trovato
nè la libertà nè la concordia. Così si stava in pendente, e come accade
nei casi dubbii e pericolosi, si amava lo stare solo perchè lo stare
era consueto.

Mentre si deliberava nel piccolo consiglio di quanto si dovesse fare in
quella occorrenza di suprema anzi di unica importanza per la patria,
comparivano le prime squadre di Rusca, le quali, sparsesi prima per
la Polcevera, si distendevano poscia insino alle porte di Genova. Si
udiva eziandio che Serrurier poco lontano succedeva con le sue, e che
da Cremona si muovevano nuovi soldati per dar rinforzo a Rusca ed a
Serrurier ove da per sè non bastassero. Erasi alcuni giorni innanzi
appresentata alla bocca del porto l'armata di Brueys; ma per la istanza
del Senato e per la tempera del popolo, che non l'avrebbe lasciata
entrare quietamente, aveva Faipoult operato, che l'ammiraglio se ne
tornasse verso Tolone. Sebbene però quell'armata si fosse ritirata, si
sapeva che andava volteggiandosi ora a vista ed ora poco lontana dalla
riviera di ponente, e poteva dare animo e fare spalla facilmente ai
novatori della riviera ed a quei della metropoli. Nè fu l'esito diverso
dal prevedere; perchè tra la presenza di Rusca nella Polcevera, alcune
squadre di soldati franzesi sparsi nella riviera e la prossimità di
Brueys, si tumultuava in vari luoghi, non senza sangue; gli abitanti
delle ville e delle montagne combattevano acremente i novatori. Ciò
nonostante questi ultimi erano rimasti superiori in Savona, e già in
essa e nel Finale e nel porto Maurizio avevano piantato l'albero che
chiamavano della libertà. Il senato, minacciato da una setta potente
nella sua sede medesima, attorniato da soldati forastieri, lacerato
dalla guerra civile, stretto continuamente dagli agenti di Francia, che
sempre parlavano dello sdegno del direttorio e di Buonaparte, non aveva
più libertà di deliberare.

Cedevano i padri, perchè il contrastare era impossibile. Statuivano, si
riformerebbe lo Stato; la mutazione, quantunque in termini generali, al
popolo si annunzierebbe. Mandavano poi legati a Buonaparte, con facoltà
di accordare con lui la forma futura degli ordini politici, i nobili
Michiel Angelo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gerolamo Serra. Partivano i
deputati per Montebello, alloggiamento di Buonaparte. Partivano anche,
conseguito l'intento, per alla volta medesima Faipoult e Lavallette,
per informare il generale dell'adempimento delle commissioni loro,
e per consigliarlo intorno alle persone che per gl'interessi della
Francia si convenisse introdurre nel nuovo reggimento.

Il doge, i governatori ed i procuratori della repubblica avvertivano
del fatto il pubblico; esortando se ne vivessero intanto quieti e non
corrompessero con moti inopportuni un'occasione dalla quale dipendevano
il riposo e la felicità di tutti. Spedivano al tempo stesso il nobile
Stefano Rivarola a Parigi, comandandogli in una faccenda di tanto
momento per la repubblica s'ingegnasse con ogni possibil modo di fare,
che la forma antica il meno che fare si potesse si alterasse e la
integrità dei territorii in sicuro si ponesse.

Il direttorio di Francia era per le cose d'Italia piuttosto servo che
padrone di Buonaparte, e però a Montebello piuttosto che a Parigi si
doveva definire il destino di Genova. Quivi consuonando i pensieri di
Buonaparte, che la somma delle cose si confidasse non a gente fanatica
e spaventevole ai re, ma bensì ad uomini temperati e savii, che o per
necessità consentivano al cambiamento o volevano la democrazia mista
con leggi, non pura e senza leggi, con quelli dei legati, ed anche
la volontà del vincitore non essendo contrastabile, non fu lungo il
negoziare, e a dì 5 giugno si concludeva un accordo per mezzo loro tra
la repubblica di Francia e quella di Genova, pei principali capitoli
del quale si statuiva: che il governo rimettesse alla nazione, così
richiedendo la felicità della medesima, il deposito della sovranità
che gli aveva confidato; ch'ei riconoscesse la sovranità stare nella
universalità dei cittadini; che l'autorità legislativa si commettesse a
due consigli rappresentativi, uno di trecento, l'altro di cencinquanta
consiglieri; che la potestà esecutiva fosse investita in un senato
di dodici e a cui presiedesse un doge; il doge ed i senatori dai
consigli si eleggessero; ogni comune avesse ad esser retto da ufficiali
municipali, ogni distretto da ufficiali distrettuali; le potestà
giudiziali e militari, e così pure le divisioni dei territorii secondo
il modello da farsi in una congregazione a posta si ordinassero, con
ciò però che la religione cattolica salva ed intera si serbasse; i
debiti dei pubblico si guarentissero; il porto franco ed il banco di
San Giorgio si conservassero; ai nobili poveri, per quanto possibil
fosse, si provvedesse; che ogni privilegio per abolito si avesse; che
intanto si creasse un reggimento temporaneo di ventidue, ed a cui il
doge presiedesse; che questo reggimento prendesse il magistrato il
dì 14 di giugno. Statuisse delle indennità dei Franzesi offesi nei
giorni 22 e 23 maggio; finalmente la repubblica perdonasse a tutti che
l'avessero offesa nei giorni suddetti, e mantenesse l'integrità dei
territorii della repubblica genovese.

Mandava Buonaparte questi capitoli al doge con lettere portatrici
di dolci parole mostrando, molta affezione verso la repubblica e
consigliando fossero savi, fossero uniti e non dubitassero della
protezione della Francia. Eleggeva al reggimento temporale Giacomo
Brignole, doge, ed altri soggetti a lui piacenti, e col pensiero, non
solamente di dare autorità ad uomini prudenti e lontani da voglie
estreme, ma ancora, mescolando uomini di diverse condizioni, di
mostrare che la sovranità non cadeva già in pochi, ma bensì in tutti,
cosa che avrebbe dovuto far quietare, contentando le ambizioni, molli
mali umori. Ma nelle rivoluzioni le ambizioni sono incontentabili,
e come se le faccende pubbliche potessero maneggiarsi continuamente
dalla moltitudine, il restringerle in pochi magistrati era riputato
aristocrazia; gli esclusi gridavano tirannide, gente pericolosissima
perchè pretendeva parole d'amore di patria.

Incominciava appena a farsi giorno, che già le piazze e le contrade
erano piene di gente, accorrendo da una parte il popolo tratto dalla
novità del caso, dall'altra i libertini portati dall'allegrezza e dal
desiderio di far certe dimostrazioni che credevano libertà; ed era
uno spettacolo mirabile il vedere tutta quella città mossa a gioia,
che, ancora non faceva un mese, si era veduta mossa a sangue. «Viva
la libertà, muoia l'aristocrazia, viva Francia, viva Buonaparte,»
gridavano le genovesi voci; in ogni angolo piantavansi gli alberi della
libertà; i balli, i canti ed i discorsi che si facevano loro intorno
erano eccessivi. Morando era fuori di sè dalla contentezza, sebbene
non del tutto si soddisfacesse dei membri del governo temporaneo,
parendogli aristocrati anzi che no. Vitaliani predicava. I nobili o
si nascondevano nelle più segrete case o fuggivano dalla città, e ne
avevano ben anche il perchè; che ad un primo trarre il popolo mosso e
stimolato dai novatori più vivi, gli avrebbe manomessi.

La servile imitazione verso la tragicomedia della rivoluzione franzese
dominava; ed ecco una calca di gente trarre con grida al ducale
palazzo, i patriotti li guidavano, con animo di levarne il libro
d'oro, infame catalogo, come dicevano, volume esecrato dell'antica
aristocrazia. La plebe, rotte a forza le porte dell'archivio, se lo
portava con incredibili scede e giullerie sulla piazza dell'Acquaverde,
e quivi, acceso un fuoco, lo ardeva, e le grida e le risa e gli
scherni furono molti. Ardevano col libro d'oro anche la bussola del
doge e l'urna dove s'imborsavano i nomi dei senatori pegli squittinii.
Vi si aggiunsero altri stemmi gentilizii raccolti a furia di popolo
da diversi luoghi; poi piantavano sulle ceneri delle reliquie
aristocratiche, come dicevano, il solito fusto, e gli applausi e le
musiche e i discorsi andavano al colmo.

Arso il libro d'oro, trascorreva il popolo, ed anche i carbonari vi si
mescolavano, ad un atto assai più biasimevole, e questo fu di rompere
ed atterrare la statua di Andrea Doria, che per memoria ed onore delle
sue virtù e de' suoi meriti verso la patria, i Genovesi antichi avevano
eretto nella corte del palazzo ducale. Dalle ingiurie si trapassava ad
insolenze criminose; perchè, sospettando che fossero ancora sostenuti
nelle carceri alcuni fra coloro che erano stati arrestati nei giorni
22 e 23 maggio, vi correvano a folla, ed, avendole sforzate, davano
comodità di fuggirsi a parecchi malfattori contaminando a questo modo
il nuovo governo con lo stesso fatto col quale avevano già assaltato
l'antico; tristi principii di libertà e di stato civile.

Come prima ebbero i nuovi magistrati preso l'ufficio, mandavano fuori
un manifesto, ringraziando Buonaparte della benevolenza mostrata
verso la repubblica, lodando i privilegiati della rinunziazione dei
privilegii, commendando i preti dello aver usato l'autorità loro a
stabilimento della libertà; invitavano i popoli della riviera ad unirsi
e ad affratellarsi con Genova; esortavano tutti a vivere quieti e
concordi. Venivano a congratularsi ed a parlare encomii dell'acquistata
libertà le città principali delle riviere; l'allegrezza si diffondeva;
la fratellanza e la concordia fra le varie parti della dizione genovese
parevano pigliar radice. Accresceva l'allegrezza il sentire che i
feudi imperiali avevano fatto dedizione di sè medesimi a Genova e
mandato deputati. Poi, per esser allora odioso quel nome di feudi,
li chiamavano Monti Liguri. Erano volontieri accettati nella società
genovese, lodati e ringraziati i deputati.

Ordinavasi intanto il corpo municipale di Genova, soggetto molto
geloso. Prendevano i municipali il magistrato il dì primo luglio con
non mediocre apparato, e non mancavano i soliti discorsi. Ma l'affare
più importante che si esaminava nelle consulte genovesi, era quello
di formar il modello della nuova costituzione. Perlochè, conformandosi
ai patti di Montebello, creava il governo la stabilita congregazione,
chiamando e dalla città e dalla riviera e d'oltremonti uomini di
riputato valore. S'adunavano bene spesso, ma servilmente procedendo,
modellavano alla franzese e secondo i comandamenti di Buonaparte.
Serra, un di loro, s'intendeva col generalissimo ed aveva più dominio
degli altri. N'era imputato dai patriotti che incominciavano a
mostrarsi mal soddisfatti di lui, chiamandolo aristocrata. Piacevano a
Buonaparte quasi tutti i pensieri di Serra, e, come se fossero suoi, ne
scriveva lettere al governo genovese.

Incominciavano a prepararsi i semi delle future discordie. Si faceva
principio della religione, non che toccassero le opinioni dogmatiche,
ma soltanto la disciplina. I popoli confondevano l'una coll'altra; i
chierici non che li disingannassero, li mantenevano nel falso concetto.
Comandava il governo che non fosse lecito ai vescovi di promuovere,
senza sua licenza, alcuno agli ordini sacri, se non coloro, che, già
suddiaconi o diaconi essendo, desiderassero ricevere il diaconato o il
pretato, e parimente, senza suo beneplacito, nessuno potesse, o uomo o
donna si fosse, vestir l'abito di nessuna regola di frati o di monache;
ordinamenti presi in mala parte dai più, perchè la setta contraria al
nuovo Stato se ne prevaleva. Poi decretava che ogni cherico, o regolare
o secolare che si fosse, se forastiero, dovesse fra certo termine e con
certe condizioni uscire dai territorii. Parevano questi stanziamenti
molto insoliti; ma bene più insolito e più strano appariva quell'altro
precetto, col quale si ordinava che uomini deputati dal governo a
tempo e dopo i divini uffici predicassero la democrazia alle genti. Fu
questo un gran tentativo; non succedeva bene, perchè in molti luoghi
i deputati non fecero frutto, in altri furono scherniti, in alcuni
scacciati. Si sollevarono universalmente gli animi religiosi contro
questa novità: i nemici dello Stato crescevano.

Questo quanto alla religione; si moltiplicavano per altre ragioni
gli sdegni. Oltrechè con gl'incessabili discorsi e scritti non si
lasciavano mai quietare i nobili, fu preso decreto, che si mandasse
a Parigi, come ministro della repubblica, l'avvocato Boccardi, e
si richiamasse Stefano Rivarola: si richiamasse ancora Cristoforo
Spinola, ministro a Londra: se non obbedissero, i beni loro fossero
posti al fisco, intanto si sequestrassero. L'atto rigoroso offendeva
i nobili; vieppiù gli animi s'inasprivano. Questo era riprensibile;
ma bene del tutto intollerabile fu un altro atto, con cui si ordinava
che i principali autori della convenzione fatta a Parigi da Vincenzo
Spinola, per la quale la repubblica si era obbligata a pagare quattro
milioni di tornesi alla Francia, fossero tenuti in solido a restituire
la detta somma all'erario, e se non la restituissero, fossero i beni
loro posti al fisco. Erano in questa faccenda interessate le principali
famiglie, specialmente i Doria, i Pallavicini, i Durazzo, i Fieschi,
i Gentili, i Carega, gli Spinola, i Lomellini, i Grimaldi, i Catanei,
personaggi che tiravano con loro una dipendenza grandissima. Ciò faceva
maggiormente inviperire gli animi degli scontenti, i quali, vedendo di
non trovare dopo la mutazione alcun riposo nè per le sostanze nè per
le persone, pensavano a vendicarsi; non che si consigliassero di far
congiure o moti popolari perchè troppo erano sbigottiti a voler ciò
tentare, ma spargevano ad arte voci sinistre nel popolo, ed aspettavano
le prime occasioni per insorgere. Mescolavano il falso col vero: vero
era che il generalissimo aveva domandato parecchi milioni pel vivere
delle sue genti: questo anzi era stato uno dei principali motivi della
mutazione. Il governo poi, trovandosi ancor debole in quei principii
e non avendo altre radici che i discorsi vani dei democrati e il
patrocinio forastiero, andava lento alle tasse, e perciò aveva trovato
il rimedio di quell'ingiusto balzello. A tutto questo si aggiungevano
le rapine dei Barbareschi tanto più moleste, quanto più si aveva avuto
la speranza data espressamente che, cambiato il reggimento, la Francia
avrebbe tutelato dagli assalti dei Barbari le navigazioni dei Genovesi.

Motivo potente di malumore era altresì quello che due generali
franzesi, Casabianca e Duphot, fossero venuti a reggere e ad ordinare
i soldati, segno certo essere perita l'indipendenza. Ciò significava
inoltre che Buonaparte, o non si fidava dei Genovesi, o gli stimava
inabili alle cose militari: dal che nasceva che chi pensava altamente,
si teneva mal soddisfatto. Udivasi che si voleva si smantellassero le
fortezze di Savona e di San Remo, soli propugnacoli dell'indipendenza
verso Francia. Vedevano anche levarsi dalle porte della metropoli
i cannoni, il che interpretavano come voglia di aprir l'adito più
facile e più sicuro ai forastieri per invadere il cuore stesso della
repubblica. Gridavano, doversi insorgere contro reggitori fatti servi
dei forastieri. I nobili, i preti e gli aderenti loro, che non erano
pochi, fomentavano questi mali umori. Frano allora i reggitorii divisi
in due sette, dell'una delle quali compariva capo Serra, dell'altra
Corvetto, Ruzza e Carbonara; quello per un reggimento più stretto e
pendente all'aristocrazia: questi s'intendevano meglio con Faipoult,
alcuni per ambizione, altri a buon fine, credendo che, poichè i cieli
avevano destinato che i Franzesi divenissero padroni di Genova, miglior
partito era per arrivar a bene il vezzeggiarli che l'aspreggiarli,
perchè, volere o non volere, i Franzesi dominavano. Ma la maggior
dipendenza di questa parte verso Francia, dall'un canto la faceva
odiosa, dall'altro la rendeva dipendente, più che non sarebbe stato
necessario, dai democrati più ardenti, i quali non amavano Serra, anzi
il chiamavano tiranno e nuovo duca di Orleans. Questi semi pestiferi
erano pullulati, ne prendevano animo i nemici della mutazione e si
apprestavano a far novità. Già si udivano sinistri suoni dalle valli
di Bisagno e di Polcevera. Era la cagione od il pretesto la nuova
costituzione, violatrice, come spargevano, della religione, e che, come
si era data intenzione, si doveva accettare il dì 14 settembre. Per far
posare gli animi, annunziavano essere prorogata l'accettazione, e si
torrebbe quanto potesse offendere la coscienza dei fedeli.

In questo mezzo tempo Corvetto e Ruzza erano stati mandati a Buonaparte
per consultar con lui degli articoli che avevano fatto adombrare i
popoli. Ma gli umori popolari più presto si muovono che s'arrestano.
Dava loro l'ultima pinta di essersi fatto arrestare tanto in città
quanto nel contado alcuni nobili che si credevano pericolosi; cinque
Durazzi, due Doria, due Pallavicini, tre Spinola, un Ferrari, uomini
per nome e per ricchezza di molta dipendenza. Incominciavano il dì 4
settembre a tumultuare le popolazioni di Bisagno. Suonavano le campane
a martello, i curati esortavano e guidavano i sollevati, si facevano
adunanze nelle ville dei nobili, poi, crescendo il numero ed il furore,
armati di armi diverse ma con animi concordi, fatta una gran massa,
s'incamminavano infuriati verso la capitale. Duphot con una squadra
di Franzesi e di democrati andava loro all'incontro; il principal
nervo consisteva nelle artiglierie, di cui i sollevati mancavano.
Seguitava una mischia molto aspra in Albaro. Prevalevano finalmente
l'arte e la disciplina, contro il numero ed il furore: andavano in fuga
i sollevati; alcuni furono presi, altri in mezzo alla mescolata fuga
crudelmente uccisi. Tornavano i soldati di Duphot in Genova vincitori,
sanguinosi e non senza preda.

Non ancora del tutto spenta la sedizione di Bisagno, un nuovo rumore di
guerra già si faceva sentire nella Polcevera. Gli abitatori di questa
valle, mossi dall'esempio dei Bisagnani e dalle instigazioni di alcuni
ecclesiastici, si levavano ancor essi in gran numero e correvano contro
la capitale. Accostatisi a loro non pochi degli avanzati alle stragi di
Binasco, la moltitudine armata s'impadroniva per una battaglia di mano
del forte della Sperona; poi, più avanti procedendo, occupava tutto
il secondo cinto delle mura, restando solo esente la batteria di San
Benigno. Una prima squadra di soldati liguri e franzesi mandata in quel
primo tumulto contro di loro, vedutigli bene armati e bene fortificati,
se ne rimaneva e tornavasene. Poi si negoziava e si fermava un accordo.
Ma ecco che dai più ardenti Polceverini si spargeva che i giacobini
erano gente infida, e che solo avevano promesso il perdono per meglio
far le vendette. Novellamente s'inferocivano, e, prese impetuosamente
le armi, assaltavano il posto principalissimo di San Benigno. In questo
punto Duphot, vincitore di Albaro, che per l'indugiarsi del trattato,
aveva avuto tempo di raccorre e di ordinare tutti i suoi, aiutato
fortemente dal colonello Seras, soldato molto animoso, traversava la
città e correva contro la turba degli insorti. Seguitava una feroce
mischia, come di guerra civile. Combattevano valorosamente Duphot e
Seras, vecchi soldati: non resistevano meno valorosamente i paesani,
nuovi soldati; durava quattro ore la battaglia; furono non pochi i
morti, non pochi i feriti; superava infine la veterana disciplina: i
paesani scacciati dai posti, voltavano le spalle e seguitati con molta
pressa dai repubblicani, perdevano gran gente. Cinquecento, essendo
presi, empievano le carceri di Genova.

La fama della doppia vittoria di Albero e di San Benigno, e le forze
mandate sedavano i moti, che già erano sorti a Chiavari ed in altre
terre della riviera di levante, come altresì nei feudi imperiali,
o Monti Liguri che si voglian nominare. Ogni cosa si ricomponeva in
quiete, ma per terrore, non per amore; truce e minacciosa, non lieta e
consenziente.

Avuta la vittoria, si pensava alla vendetta. Creavasi un consiglio
militare, perchè nelle forme più pronte e più sommarie avesse a
giudicare i ribelli. Sette ad otto, ma di oscuro nome, dannati a
morte tingevano col sangue loro il suolo dell'atterrita Genova: non
pochi erano mandati al remo. Si apprestava il destino medesimo ad
altri. Faipoult avvertiva Buonaparte che si dannavano soltanto gli
ignobili: mettevagli in sospetto Serra; chiamavalo uomo pericoloso,
dissimulatore, ambizioso: stimava la quiete del pubblico in pericolo,
finchè Serra stesse al governo. I due Serra, giuntosi Gerolamo col
fratello, dal canto loro accusavano Faipoult e Duphot di essersi fatti
protettori di una parte turbatrice e pervertitrice di ogni buon ordine
politico, e d'impedire che la quiete tornasse in Genova. Niuno altro
mezzo di salute e di riposo esservi, dicevano, che quello di mandar via
Duphot, e di contenere nelle funzioni del suo ufficio Faipoult; senza
ciò nascerebbero necessariamente la debolezza dello Stato, l'anarchia,
i disordini, il sangue. Per tal guisa gli animi si invelenivano; ed era
vero che Faipoult addomandava imperiosamente al governo che annullasse
il decreto, pel quale aveva ordinato che la commissione militare
terminasse al più presto le sue operazioni. Addomandava oltre a ciò che
i nobili carcerati, anche innocenti, quali ostaggi si conducessero nel
castello di Milano.

In questo arrivava a Genova con nuovi soldati mandati da Buonaparte,
a cui le turbazioni genovesi davano sospetto, il generale Lannes, il
quale, non curandosi nè di governo nè di Faipoult, nè di preti nè di
frati, nè di nobili nè di plebei, nè di patriotti nè di aristocrati, e
solo alla forza mirando, si alloggiava alla soldatesca nella città e se
ne faceva padrone.

Intanto i legati, accordatisi con Buonaparte intorno ai cambiamenti
della costituzione della repubblica Ligure, la conducevano a compimento
e, lui permettente, era pubblicata. Fossevi un consiglio dei giovani,
uno degli anziani, e un direttorio; dividessesi la repubblica in
quindici dipartimenti; dei magistrati giudiziali, distrettuali e
municipali si statuisse a modo di Francia. Fu questo un modello tutto
franzese; e insomma la genovese costituzione fu data, non presa. Pure
fra le armi serrate ed i soldati apprestati fu sottoposta ai comizii
popolari. L'approvavano cento mila voti favorevoli, diciassette mila
contrarii. Facevansi feste, cantavansi inni, erano nel teatro allegrie
assai. Nominavansi i due consigli e dai consigli il direttorio.
Eleggevansi a questo Luigi Corvetto, Agostino Maglione, Niccolò
Littardi, Ambrogio Molfino, Paolo Costa; creavano Corvetto presidente.
Sul principiare dell'anno seguente prendevano il magistrato tutti i
nuovi ordini e s'instituiva la costituzione. Poi, partitosi Faipoult,
gli veniva sostituito un Soltin. A questo modo periva l'antica
repubblica di Genova, feroce, animosa, sanguinosa ed impaziente.

Periva per mano dei vincitori Genova, perchè ricca e con pochi
soldati; si conservava il Piemonte, perchè povero e con soldati.
Essendo ancora le cose dubbie coll'imperatore, importava alla Francia
l'avere in suo favore i soldati del re se di nuovo si dovesse tornare
sull'armi. Poi, quantunque il direttorio molto l'avesse in odio,
Buonaparte se ne compiaceva, invaghito per indole propria dei governi
assoluti ed allettato dalle adulazioni dei nobili piemontesi. Pure
non era possibile che le massime che correvano, i rivoltamenti della
vicina Genova, i giornali, le predicazioni, le trame di Milano non
partorissero in Piemonte effetti pregiudiziali alla quiete dello Stato.

Quanto prima fu fermata la tregua di Cherasco tra la Francia ed il
Piemonte, i ministri del re ed il re medesimo, anteponendo la salute
dello Stato all'inclinazione propria, posero ogni cura nel nodrire
l'amicizia con Francia, ed a questo fine indirizzavano tutti i
loro pensieri. La principale difficoltà a superarsi però in questo
consisteva, che si persuadesse al direttorio che il re per interesse
proprio doveva star aderente colla Francia, e che la Francia, anche per
interesse proprio, doveva avere per aderente il re.

A questo fine, e perchè un trattato di alleanza si stipulasse, aveva,
come già si è narrato, Carlo Emmanuele mandato suo ambasciadore a
Parigi il conte Balbo. Perchè poi potesse il conte più facilmente
entrar di sotto, aveva fra le mani molto denaro. Del che molto
sagacemente valendosi, si aveva acquistato molta entratura. Poi
facendosi avanti con progetti politici, massimamente di ordinamenti
delle cose italiane, insisteva e dimostrava, esser necessario
contentare il re di Sardegna, compensargli con nuovi acquisti Savoia
e Nizza, farlo insomma polente e grande; ma perchè non fosse scemata
autorità alle sue parole, come d'uomo che parlasse per sè, aveva
operato che Franzesi de' primi, coi quali si era accordato, queste
medesime cose per bocca e come per motivo proprio rappresentassero.
Per tal modo si proponeva al direttorio, fra gli altri, per mossa
del Balbo, ma per mezzo di Franzesi che avevano parte nello Stato,
un ordinamento per l'Italia superiore, pel quale l'Austria sarebbe
stata od intieramente esclusa dall'Italia, desiderio principale della
Francia, o frenata in quei termini che le si stabilissero per la pace.
L'ambasciatore piemontese, avendo trovato la materia tenera, e volendo
dimostrare che con la grandezza del re era congiunta la sicurtà e il
benefizio di Francia, procedeva più innanzi forse poco prudentemente,
perchè in ciò andava a ferire l'edifizio prediletto di Buonaparte.
Argomentava, e certamente con verità, che le nuove repubbliche italiane
non potevano di per sè stesse sussistere. Necessaria cosa essere
adunque che si compensassero al re le perdite fatte, e che se gli
assicurassero gli Stati; il che meglio e più fermamente non si poteva
fare che col metterlo in possesso della Lombardia.

Queste piemontesi insinuazioni erano astutissime, siccome quelle che
sempre toccavano quel tasto prediletto alle orecchie de' Franzesi tanto
desiderosi della declinazione dell'Austria in Italia e dell'aumento
della potenza propria. Perciò erano udite volontieri, non già dal
direttorio, sempre invasato dai suoi pensieri di rivoluzione, ma da
chi stava allato a lui e molto con lui poteva. Le avvalorava anche
con sue lettere Buonaparte. Scriveva egli al ministro degli affari
esteri, male conoscersi i popoli Cisalpini a Parigi; non portar la
spesa che si facessero ammazzare quaranta mila Franzesi per loro;
errare il ministro in pensando che la libertà potesse far fare gran
cose ad un popolo, come affermava, molle, superstizioso, commediante e
vile; volere il ministro ch'egli, Buonaparte, facesse miracoli, ma non
saperne fare; non avere nel suo esercito un solo Italiano, se non forse
quindici centinaia di piazzaruoli raggranellati a stento sulle piazze
di diverse città d'Italia, ribaldaglia piuttosto atta a rubare che
a far guerra; il re di Sardegna solo con un suo reggimento esser più
forte di tutta la Cisalpina; non permettesse, che qualche avventuriere,
o forse anche qualche ministro, gli desse a credere che ottanta mila
italiani fossero in armi; bugiardi essere i giornalisti parigini,
bugiarda la opinione in Francia rispetto agl'italiani: se i ministri
cisalpini gli dicessero, aggiungeva Buonaparte, ch'egli avesse allo
esercito più di quindici centinaia de' loro e più di due mila destinati
a mantenere il buon ordine in Milano; rispondesse loro che dicevano
bugia, e gli sgridasse, che lo meritavano; certe cose esser buone
a dirsi ne' caffè e nei discorsi, ma non ai governi; romanzi esser
quelle, che son buone a dirsi ne' manifesti e ne' discorsi stampati;
doversi ai governi parlare di un altro suono, perchè le falsità gli
sviano, e le male strade li fan rovinare; non l'amore degl'italiani per
la libertà e per l'equalità aver aiutato i Franzesi in Italia, ma sì
la disciplina dello esercito, il valore de' soldati, il rispetto per la
repubblica, il contenere i sospetti, il castigare gli avversi; aver ad
essere un abile legislatore quello che potesse invogliar dell'armi i
cisalpini; esser loro una nazione snervata e codarda: forse col tempo
si ordinerebbe bene la loro repubblica infino a metter su trenta mila
soldati di tollerabil gente, massime se conducessero qualche polso di
Svizzeri, ma per allora non vi si poter far su fondamento. Nè maggior
capitale potersi fare de' patrioti cisalpini e genovesi; doversi aver
per certo, che se i Franzesi se ne gissero, il popolo gli ammazzerebbe
tutti. Adunque, concludeva, se ausiliarii di niun conto sono e Genovesi
e cisalpini, nissun miglior partito restare alla Francia, per avere un
ausiliario buono in Italia a diminuzione della potenza austriaca, che
stringere amicizia col re di Sardegna e fermare con lui un trattato di
alleanza.

Infatti un trattato di tal sorte tra Francia e Sardegna già si era
negoziato quando ancora l'imperadore combatteva in Italia e tuttavia
erano gli eventi della guerra dubbii. Infine era stato concluso il dì
5 aprile da parte della Francia pel generale Clarke, da quella della
Sardegna pel ministro Priocca. I primi e principali capitoli erano,
fosse l'alleanza offensiva e difensiva prima della pace del continente,
solamente difensiva dopo; non obbligasse il re a far guerra ad altro
principe che all'imperadore di Germania, ed il re se ne stesse neutrale
colla Inghilterra; guarentivansi reciprocamente le due parti i loro
Stati d'Europa e si obbligavano a non dar soccorso ai nemici sì esterni
che interni; fornisse il re nove mila fanti, mille cavalli, quaranta
cannoni; obbedissero questi soldati al generalissimo di Francia,
partecipassero nelle taglie poste in sui paesi vinti in proporzione del
numero loro; quelle poste sugli Stati del re cessassero; niuna parte
potesse fare accordo col nemico comune se non comune: si stipulasse
un trattato di commercio; la repubblica di Francia, come più possibil
fosse, avvantaggiasse alla pace generale, o del continente, le
condizioni del re di Sardegna.

Questo trattato conteneva una condizione principalissima e di tutto
momento pel re, e quest'era la guarentigia degli Stati contro i nemici
sì esterni che interni, gli uni agli altri pericolosi, i primi per la
forza, i secondi per quella sequela delle cose milanesi e genovesi.
Restava che i consigli di Francia ratificassero il trattato, perchè
già il direttorio l'aveva approvato. Qui sorsero parecchie cagioni
d'indugio, prima da parte del governo regio, che desiderava che la
ratificazione fosse susseguente alla pace con Roma, e che il suo
ministro a Vienna ne fosse uscito e condotto in salvo; poi per parte
della Francia, perchè a questo tempo stesso erano stati fermati i
preliminari di Leoben; e siccome la principal condizione dell'alleanza
consisteva nel far guerra di concerto contro l'Austria, pareva che il
ratificare ed il pubblicare il trattato potesse sturbare le pratiche
di fresco aperte con l'imperadore. Ma il re, sentiti i preliminari di
Leoben, insisteva ostinatissimamente per la ratificazione, perchè aveva
timore delle turbazioni interne, e sospettava, giacchè lo imperadore
era sceso agli accordi, che il direttorio si ritirasse da lui e si
stipulassero ne' sorti negoziati cose contrarie ai suoi interessi.
Temeva di restar solo esposto ai risentimenti dell'Austria, tanto più
formidabili, quanto egli con maggior sincerità e calore si era gettato
dalla parte franzese. Per questo Balbo usava ogni opera a Parigi, e con
ragioni forti e con mezzi più forti ancora che le ragioni, acciocchè
il trattato si appresentasse per la ratificazione dal direttorio ai
consigli. Secondava Buonaparte con le lettere i tentativi del conte.

Alle cose dette da Buonaparte, rispondeva dal canto suo Carlo Maurizio
di Talleyrand, non volere il direttorio ratificare il trattato
conchiuso col re di Sardegna, per molte ragioni che venia specificando.
Ma o che Balbo avesse trovato modo di ammollire queste durezze, forse
mostrate appunto perch'ei trovasse modo di ammollire, o che le cose
di guerra pressassero, e prevedesse il direttorio una nuova rottura
coll'Austria, il trattato d'alleanza con Sardegna era mandato dal
direttorio ai consigli, e questi il ratificarono.

Mentre così il governo repubblicano di Francia studiava modo di usare
le forze del re di Sardegna durante la guerra e di distruggerlo
durante la pace, i semi venuti di Francia e pullulati con tanto
vigore in Milano ed in Genova, incominciavano a partorire i frutti
loro in Piemonte. Principiavasi dalle congiure segrete, procedevasi
alle ribellioni aperte. Davano incentivo a queste mosse, oltre le
opinioni de' tempi, le condizioni infelici di quel paese; imposizioni
gravissime, quantità esorbitante di carta monetata che scapitava del
cinquanta per cento, moneta erosomista anch'essa in copia eccessiva
e disavanzante del dieci per cento; a questo i gravami de' soldati
repubblicani, o di stanza nel paese, o di passo, le leve di genti, sì
pei regolari che per le milizie, molto onerose, l'orgoglioso procedere
de' nobili, certamente intempestivo, stantechè da esso principalmente
nasceva la mala contentezza de' popoli e contro di loro specialmente
si dirizzavano le opinioni. A tutto questo non portava rimedio nè la
natura temperata del re, nè la santità della regina, nè i consigli
prudenti de' ministri. Era la quiete di Torino raccomandata al conte
di Castellengo, uomo tanto deforme di corpo quanto svegliato d'animo.
Della nobiltà non si curava, de' re poco, della libertà si rideva,
della non libertà parimenti, i patriotti perseguitava piuttosto
per vanagloria dell'arte che per opinione. Un Bonino, cameriere del
marchese di Cravanzana, ed un Pafio, materassaio, furono sostenuti
come di aver voluto assaltare a mano armata il re sulla strada per
alla Veneria a fine di fare una rivoluzione. Credevano trovar molta
gente; non trovarono nissuno. Intanto l'astio delle due parti vieppiù
s'inacerbiva. Insolentivano i soldati regi a Novara con lacerar di
forza certe nappe d'oro che i giovani Novaresi portavano sui cappelli:
fuvvi qualche tumulto e qualche ferita. Tumultuava il popolo a Fossano,
pretendendo il caro de' viveri, faceva oltraggio alle case del conte
di San Paolo, uomo dotto e buono, ma lo chiamavano usuraio: poi i
sollevati prendevano certi cannoni; il che non era più tumulto per le
vettovaglie, ma ribellione: a Torino s'incominciava a gridar il nome di
libertà, preso principio dalla bottega d'un panattiere che non voleva
vender pane. Questi erano cattivi segni d'un peggior avvenire; ed
appunto in Genova era nata la rivoluzione. Accresceva il terrore ed il
livore un caso molto lagrimevole: che un medico Boyer con un compagno
Berteux si arrestavano come rei di congiure. Era Boyer giovane virtuoso
e di famiglia ornata ancor essa di tutte le virtù che possano capire in
mortali uomini. Amici e nemici piangevano le sue disgrazie: tanto amore
lasciava nell'estremo supplizio.

I tumulti intanto si dilatavano. Già Racconigi, Carignano, Chiari e
Moretta, terre vicine a Torino, contro il dominio regio si muovevano.
In Asti soprattutto succedeva un fatto terribile, perchè fatti prigioni
i mille cinquecento soldati regi che vi stanziavano, insignorivansi
intieramente non solo della città, ma ancora del castello. Molti
altri luoghi vi aderivano. Al tempo medesimo nella già tentata Novara
prevalevano i regi, ma più per insidia che per onorevole vittoria.
Poi i soldati correndo alla scapestrata, incominciavano a mettere a
sacco le case di coloro che erano in voce di desiderar le novità; poi
saccheggiavano le case degli aristocrati, e stava per poco che la città
non andasse tutta a ruba.

Così con varia fortuna ardeva la guerra civile in Piemonte, accesa
dal popolo pel timore delle vettovaglie, dai novatori per amore di
libertà o per odio dei nobili, dai nobili per fede verso il re o per
odio ai novatori. Si trepidava in ogni luogo, perchè in ogni luogo
si faceva sangue o si temeva che si facesse. Già si sospettava di
Torino; ma otto mila fanti e due mila cavalli, chiamati in fretta per
sussidio della regia sede e posti a campo sullo spaldo della cittadella
minacciosamente, erano mantenitori di quiete. Ed ecco sulle porte
stesse della città regia udirsi un rumor confuso d'armi e d'armati:
erano i Moncalieresi, che levatisi a rumore e sovvertita in Moncalieri
l'autorità regia, già si mostravano sulle rive del Sangone con animo
d'andar più oltre a tentar Torino. Sogliono i popoli sollevati nei
primi impeti loro, prima che i tristi abbiano fatto i lor maneggi per
tirare le cose a sè, ricorrere e far capo a personaggi autorevoli
per dottrina e per virtù. Viveva a questi tempi in Moncalieri un
uomo dottissimo e tanto buono quanto dotto, Carlo Tenivelli, autore
elegante di storie piemontesi. Questi, alieno dalle opinioni dei tempi,
avverso per natura a quanto venia di fuori, ed oltre a ciò di costume
molto indolente e non curante, non avendo attività alcuna se non per
iscrivere istorie, non aveva a niun modo mente a muover cose nuove, e
molto meno quelle che si assomigliassero alle franzesi. Devoto alle
casa di Savoia, dedito, anche con singolare compiacenza, ai nobili,
non era uomo, non che a fare, sognar rivoluzioni. Suonavano l'armi e le
grida tutto all'intorno, e dentro della mossa Moncalieri, che Tenivelli
non se ne addava, tutto con la mente immerso nelle solite lucubrazioni.
Ma i sollevati lo andavano a levare di casa e per forza il portavano in
piazza, senza che egli ancora si avvedesse che cosa volesse significare
tanta novità. Insomma condottolo sulla piazza e fattolo montar sulle
panche, gli dicevano: «Fa, Tenivelli, un discorso in lode del popolo,»
ed egli, che eloquentissimo era, faceva un discorso in lode del popolo:
poi gli dicevano: «Tenivelli, tassa le grasce che son troppo care,»
ed ei tassava le grasce con tanta bontà, con tanta innocenza, che vien
le lagrime in pensando al fine che il fato gli apprestava. Tassate le
grasce ed usatosene anche copiosamente dai sollevati, s'incamminavano,
come dicemmo, verso il Sangone per alla volta di Torino.

In sì pericoloso frangente, in cui quasi tutto il Piemonte romoreggiava
per la guerra civile e che il suono dell'armi contrarie si udiva perfin
dalle mura della real Torino, il governo non si perdeva d'animo. Il
giorno stesso in cui Moncalieri si muoveva contro Torino, creava il re,
con un'apposita legge, giunte militari, le quali con l'assistenza dei
giudici ordinarii sommariamente e militarmente giudicassero i ribelli.
Poi premendo che si mettesse tosto il piede su quelle prime faville
di Moncalieri, il che era più facile e più pronto per la vicinanza
e pel gagliardo presidio che alloggiava nella capitale, ordinava ai
soldati andassero contro i ribelli e li vincessero. Non poterono i
sollevati sostenere l'impeto delle compagnie regie ed in poco d'ora si
disperdettero; tornava Moncalieri sotto la consueta divozione.

Il buon Tenivelli, non solo non pensando, ma nemmeno sospettando
che quel che aveva fatto fosse male, non che delitto, se ne veniva
quietamente a Torino, e quivi tornava sui soliti studi, come se gli
accidenti di Moncalieri fossero cose dell'altro mondo o di un altro
secolo. Ma gli amici gli dicevano: «Tenivelli, che hai fatto? o fuggi
o ti nascondi, se no tu sei morto.» Non la sapeva capire: tornava
nella solita astrazione. In fine il nascondevano in casa di un soldato
urbano, che faceva professione di libertà: il soldato, per prezzo
di trecento lire, il tradiva. Fu arrestato, condotto a Moncalieri e
condannato a morire dalla giunta militare. Lettagli la sentenza, non
cambiava nè viso nè parole. Condotto sulla piazza di Moncalieri, gli fu
rotto l'intemerato petto dalle palle soldatesche.

Continuavano intanto nelle città sommosse gl'insulti al governo regio.
Il re, per rimediare ad un male tanto pericoloso e per temperare
un furore che ogni ora più andava crescendo, comandava, volendo dar
adito al pentimento e forza contro i renitenti, che si perdonassero
le offese a chi ritornasse alla quiete ed alla fedeltà, e che i
sudditi si armassero contro i ribelli. Riusciva questo rimedio utile
per l'effetto, feroce per l'esecuzione. Sanguinosa era per ogni parte
la terra del Piemonte. Siccome poi per pretesto principale di tanti
movimenti sfrenati si allegava la carestia dei viveri, ed anche era
andata la stagione molto sinistra pel grano e per le biade, si facevano
provvisioni sull'annona, e, fra le altre, che nissuno potesse negar
grano o qualunque biada al pubblico, ove la volesse comprare al prezzo
comune.

Oltre la scarsezza, principal cagione del caro che si pruovava,
era il disavanzo dei biglietti di credito verso le finanze e della
cartamoneta, e così ancora quello della moneta erosa ed erosomista,
gli uni e le altre cresciute in quantità soprabbondante, vera peste
del Piemonte. Si sforzava il governo, premendo i tempi, a rimediare
ad un pregiudizio sì grave con obbligare infino alla somma di cento
milioni ai possessori dei biglietti i beni degli ordini di Malta, di
San Maurizio e Lazzaro, e quei del clero sì secolare che regolare,
eccettuati i benefizi vescovili e parrocchiali. Nè questo bastando
a tanta pernicie, diminuiva poco dopo il valore della moneta erosa
ed erosomista e al tempo medesimo creava, con autorità del papa, una
tassa di cinquanta milioni sul clero; ed altre cose ancora ordinava
a queste consonanti. Miravano cotali provvedimenti alle rendite dello
Stato ed al far tollerabile il vitto del popolo: altri se ne facevano
per mansuefar le opinioni, buoni in sè perchè giusti, ma insufficienti
perchè i novatori a niuna cosa che venisse dal re, volevano star
contenti.

Con tali consigli sperava di poter fare appoggio allo Stato che
pericolava. Ma due rimedii assai più efficaci di questi gli apprestava
il cielo che voleva che la monarchia piemontese non cadesse se non
dopo che avesse provato tutte le amarezze di una lunga e penosa
agonia. Fu il primo l'aiuto dai propri soldati, l'altro l'amicizia
di Buonaparte. Le truppe regie virilmente combattendo e condotte dal
conte Frinco, ricuperavano Asti. Già Biella, Alba, Mondovì, Fossano e
Racconigi nell'antica obbedienza rimettevano: già Carignano, Moretta
ed altri luoghi vicini a Torino ritornavano per forza al consueto
dominio, e, già non si aveva più timore che le valli di Pinerolo
abitate dai Valdesi, sulle quali non si stava senza qualche sospetto,
tumultuassero; solo alcune teste di novatori più ostinati o più
coraggiosi facevano qua e là qualche resistenza. Ma toglievano loro
intieramente l'animo le lettere di Buonaparte scritte al marchese di
San Marsano mandato a Milano ad implorare aiuto alle cose pericolanti,
e che a considerato fine furono pubblicate dal governo regio. Il
generalissimo scriveva di essere parato a fare quanto sapesse il re,
desiderare per assicurarne la quiete, e lo avvertiva che già aveva
fatto arrestare quel Ranza, promovitore di scandali in Piemonte co'
suoi scritti.

Le lettere di Buonaparte partorirono l'effetto che se ne aspettava.
I novatori, già rotti dai soldati regi ed ora caduti dalle speranze
degli aiuti di Francia, posarono interamente. Domati i democrati,
si faceva passo dalle battaglie ai suplizii: erano giusti, perchè
contro i ribelli, ma sì frequenti che pareano piuttosto vendetta che
giustizia. Di quattordici si prendeva l'estremo supplizio a Biella;
di più di trenta in Asti; nè Moncalieri stava senza sangue, oltre
quel di Tenivelli. Vidersi più di dieci giustiziati a Racconigi; poi
si soprastava per intercessione del principe di Carignano, dolente
di veder quella sua terra piena di sangue. Notossi fra i giustiziati
un giovine Goveano, di natali onesti ed apparentato con famiglie di
buona condizione. A questo tratto fu molto biasimato, anzi lacerato
il governo, come di una cosa enorme, e questa fu che il re, avendo
ordinato che si perdonassero ed in dimenticanza si mandassero i fatti
di Racconigi, fu il supplizio susseguente al perdono. A Chiari le palle
soldatesche ammazzarono venti persone in un giorno. Tanti supplizii
frenavano pel presente, preparavano rivoluzioni per l'avvenire;
avrebbero raffermo uno Stato intatto, indebolivano uno Stato scosso,
insidiato e circondato da ogni parte da esempi pestiferi.

La moltiplicità dei supplizii non isvoglieva gli animi dall'infelice
Boyer, perchè chiaro per la santità dei costumi, chiaro per le
dipendenze della famiglia, faceva tutta la generazione intenta a lui.
Una giunta mezzana tra militare e civile il processava. S'offerivano
testimonii pronti al carcere per le difese. Non furono ammessi,
perchè si sospettava che amassero meglio servire alle amicizie ed alle
opinioni che alla verità. Pure quello aver negato le difese parve cosa
incomportabile. Castellango fra i giudici, Priocca fra i ministri,
opinavano per la mansuetudine, il primo perchè gli pareva che il
sangue di quel giovane non importasse, il secondo per questo stesso ed
anche per compassione. Fu Boyer col suo compagno Berteux sentenziato
a morte, e ambedue giustiziati sugli spaldi della cittadella. La morte
sua contristava tutta la città e la rendeva attonita e paventosa lungo
tempo.

Buonaparte vincitore desiderava che un testimonio solenne si fondasse
in Italia, il quale, oltre gli scritti, che morti sono, tramandasse
ai posteri la memoria viva de' suoi illustri fatti e del suo valore.
Questo era, come si è narrato, uno Stato nuovo, che fosse a lui
obbligato della sua origine e della sua conservazione. Oltre a ciò,
non essendo ancora le cose della pace del tutto ferme, poichè ad ogni
momento si poteva prorompere nuovamente all'armi, voleva che sorgesse
in mezzo alle monarchie d'Italia e contro l'imperatore medesimo
una repubblica che, fondata sui principii nuovi, desse loro cagione
continua d'inquietudine. Parevagli ancora che la fondazione della nuova
repubblica avesse nella opinione dei popoli a compensare la distruzione
di una vecchia, e che la Cisalpina potesse in lui cancellare il biasimo
incorso per la Veneziana. Forse in questo, come alcuni pensarono,
oltre la gloria e le minacce, covava un pensiero più recondito nel
caso in cui, per opera o di altrui o sua, venisse a mutarsi la forma
del governo in Francia, riducendosi di nuovo all'antica, cioè alla
monarchia; poichè quel nuovo Stato italiano avrebbe potuto divenire per
esso lui o asilo o ricompensa.

Per le quali cose, come prima ebbe fermato i patti di Leoben e dato
ordine a quanto più pressava nel suo esercito, se n'era tornato a
Montebello, donde poteva e svegliar le pratiche della pace e dar moto
alle faccende cisalpine. Continuavano nella Cisalpina le provocazioni
di moti incomposti nei paesi circonvicini, le quali erano o palesi
nei giornali, nei ritrovi politici, nelle condotte ai soldi cisalpini
di soldati piemontesi, austriaci, polacchi, papali e napolitani, che
nelle legioni lombarda e polacca si descrivevano, o segrete per gli
uomini mandati a posta, per lettere, per arti di ogni sorta, in cui
vivamente si travagliavano i fuorusciti di ogni contrada d'Italia,
massimamente i Piemontesi ed i Napolitani, i primi pericolosi, per la
natura tenace, i secondi pericolosi per la natura loquace. Le cose
che si scrivevano a quei tempi in Milano contro il re e contro il
papa, sarebbe lunga faccenda raccontare. Erano esorbitanze pazze e
stravaganti, l'esagerazione stessa serviva di rimedio. Ma era in Milano
un motivo assai più efficace, e quest'era un ritrovo pubblico, che
chiamavano società di pubblica instruzione, dove con appositi discorsi,
si ammaestravano i popoli, che concorrevano ad ascoltare, nelle nuove
dottrine, e donde scritti innumerevoli partivano al medesimo fine e
nella Cisalpina largamente si diffondevano. Apparivano e risplendevano
molto principalmente in questo ritrovo politico uomini dotti e leali
operatori per fin di bene, ma servi ancor essi delle illusioni dei
tempi. In un discorso, e basti dir di questo, di un giovane dotto,
che aveva l'animo buono e come buono non sospettava in altrui quel
male che non aveva in sè, esposti prima con molto acume i modi con
cui gli uomini s'aggregavano primitivamente in società, favellava
egli la domenica dei 7 maggio, paragonando le antiche epoche colla
presente, descrivendo la libertà siciliana data da Timoleonte ed
esortando gl'Italiani a vivere lontani dall'ozio e dalle discordie,
con queste voci la sua orazione terminava: «Conosci, o popolo, la tua
forza; la lega che dagl'Italiani si organizzò contro Brenno e contro
il Barbarossa, te ne darà l'idea vantaggiosa. Vivi alla libertà, a
quella libertà che, abbandonate le amene sponde del Ceso e del Peneo
e fermatasi per qualche secolo sulle mal sicure rive del Tebro, dopo
essere stata sì lungamente ne' boschi, e ne' deserti nascosta, comparve
di nuovo per grandeggiar sulla Senna e per brillar con successo intorno
al Po, da dove tutto scorrerà un giorno il bel paese, _che Apennin
parte e 'l mar circonda e l'Alpe_.»

Quali effetti partorissero questi incentivi in Piemonte e nel
Genovesato, si è già raccontato. Il ducato di Parma, a grave stento si
manteneva per la protezione di Spagna, alla quale per allora la Francia
non voleva pregiudicare. Continuava la Toscana nel suo tranquillo
stato, sebbene la presenza dei soldati repubblicani, la pressa insolita
per le contribuzioni, e le arti cisalpine vi avessero prodotto qualche
impressione. Lucca, corrotti con denari e fattisi benevoli alcuni
agenti repubblicani dei primi, si manteneva negli ordini antichi,
non senza grandissime querele dei patriotti cisalpini che quella
aristocrazia ardentemente detestavano. Del resto si contaminava Roma
stessa, dove si scoversero congiure per cambiar lo Stato, ed in cui si
mescolarono Franzesi ed Italiani, nobili e plebei, cristiani ed ebrei.
Condotti dall'occupamento del secolo, avevano parlato molte cose e
nessuna operato, per modo che Giuseppe Buonaparte, che a quei tempi
sedeva in Roma, gli ebbe a chiamare Bruti in pensiero, femminelle in
atto. Certo non avevano nè seguito sufficiente, nè mezzo di esecuzione.
Nondimeno il pontificio governo se ne sbigottiva e gli animi si
sollevavano. A Napoli covavano crudi fatti sotto velame quieto; oltre a
ciò mandavansi truppe di soldati verso le frontiere romane: il governo
macchinava ingrandimento; e voleva per sè e domandava con molta istanza
ai Franzesi Fermo ed Ancona in Italia, Corfù, Cefalonia e Zante nella
Grecia. Le quali richieste erano non senza riso udite dal direttorio
e da Buonaparte, più inchinati a sovvertire gli Stati deboli che ad
ingrandirli. Nella Valtellina, provincia suddita ai Grigioni, nascevano
più che parole o congiure o desiderii; i popoli vi tumultuavano a
mano armata, protestando voler essere uniti alla Cisalpina. Fuvvi
qualche sangue: poi dai Grigioni e dai Valtellini fu fatto compromesso
nella repubblica Franzese. Pronunziò Buonaparte il lodo, stante che
non erano comparsi a dir le loro ragioni i legati dei Grigioni che
avessero i popoli della Valtellina a divenir parte della cisalpina.
Per tale sentenza Chiavenna, Sondrio, Morbegno, Tirano e Bormio, terre
principali di quella valle con tutti i distretti, sottratte dalla
divozione di gente tedesca si congiungevano con gente italiana. Così
dalla parte d'Italia si apriva ai repubblicani la strada nelle sedi
più recondite delle nazioni elvetiche, grande aiuto ai disegni che si
avevano.

Buonaparte intanto, al quale piacevano le dicerie dei patriotti per
sommuovere gli Stati altrui, ma non erano ugualmente a grado per
fondare un suo governo, perchè sapeva che con modi di simil forma non
si reggono i popoli, aveva applicato l'animo ad ordinare la Cisalpina
con una costituzione regolare. Erasi fino allora retta la Lombardia
col freno d'una amministrazione generale, potestà non solo serva del
generalissimo, ma ancora di qualunque più sottoposto commissario o
comandante, ed il raccontare tutte le sue condiscendenze sarebbe lunga
bisogna. Non era padrona dei tempi, ma i tempi la dominavano. Quello
non era governo nè civile, nè libero, nè comune; ma bensì un reggimento
incomposto, difforme ed a volontà di forastieri; perciò era veduto non
senza disprezzo e indegnazione dei popoli.

Buonaparte, ch'era solito a gettar via gli stromenti, che per servir
lui erano divenuti odiosi, si risolveva a far mutazione. Avendo dato
vita alla Cisalpina nei patti di Leoben, le volle dar ordine con
leggi a Montebello. Primieramente creava una congregazione di dieci
personaggi rinomati per sapienza e per costume, a cui commetteva il
carico di formare il modello della costituzione cisalpina. Fra essi
notavasi il padre Gregorio Fontana, uomo maraviglioso per la profondità
e vastità delle dottrine, e certamente fra i dotti dottissimo.
Buonaparte interveniva spesso alla congregazione. Pareva che dovesse
sorgere qualche gran fatto da un Buonaparte e da un Fontana. Ne usciva
una copia della costituzione franzese con poche mutazioni e di niun
momento. Restava che quello che si era fatto in nome, si recasse in
atto. Eleggeva Buonaparte quattro cisalpini al direttorio; furono
quest'essi: Serbelloni, Moscati, Paradisi, Alessandri. Siccome poi non
si potevano così presto eleggere i rappresentanti che nei due consigli
legislativi dovevano sedere, creava Buonaparte quattro congregazioni,
l'una di costituzione, l'altra di giurisprudenza, la terza di finanze,
la quarta di guerra, composte d'uomini, se non tutti, certamente la
maggior parte, migliori dei tempi. Conservassero, voleva, il mandato
infino a che fossero creati ed entrassero in ufficio i consigli
legislativi. Finalmente per compir quanto ai supremi ordini politici
dello Stato si apparteneva, il capitano di Francia chiamava ministro di
polizia Porro, di guerra Birago, di finanza Ricci, di giustizia Luosi,
di affari esteri Testi. Al tempo medesimo nominava secretario del
direttorio Sommariva.

Tessuto con parole di molta superiorità pubblicava un manifesto da
servir per principio alla cisalpina repubblica. Destinavasi il dì 9
luglio ed il campo del Lazzaretto fuori di Porta Orientale, vasto e
magnifico, al pubblico e solenne ingresso della Cisalpina repubblica.
Accorrevano chiamati alla solennità piena di tanti augurii i deputati
di tutti i municipii, di tutti i drappelli delle guardie nazionali,
di tutti i reggimenti assoldati dalla repubblica. Era, nei giorni
che precedevano la festa, in tutta la città una folla ed un andar
e venire di popoli contenti; pareva che non solo la nobile Milano,
ma ancora tutta l'Italia a nuovo destino andasse. Aprivasi alle ore
9 del destinato giorno il campo della confederazione (che così dal
fatto chiamarono il Lazzaretto), e vi accorrevano giulivamente ed a
pressa meglio di quattrocento mila cittadini. Suonavano le campane a
gloria, tiravano i cannoni a festa; innumerevoli bandiere tricolorite
col turchino o col verde sventolavansi all'aria, e le grida e il
tumulto e le esultazioni per l'infinita contentezza andavano al
colmo. I democrati non capivano in sè dall'allegrezza e dicevano le
più strane cose del mondo. Pareva, ed era veramente un gran passo da
quella vita morta di una volta a quella viva d'adesso; la magnifica
Milano, città di per sè stessa e per naturale indole allegrissima,
ora tutta più che fatto non avesse mai, sin dall'intimo fondo suo si
commoveva e si rallegrava. Entrava nel campo il direttorio coll'abito
verde ricamato d'argento alla cisalpina: il seguitavano i magistrati
e gli uomini eletti della città; gli uni e gli altri magnifico
spettacolo. Nel punto dell'ingresso spesseggiavano vieppiù con le salve
le artiglierie, i popoli applaudivano, le bandiere si sventolavano:
celebrava l'arcivescovo sull'altare apposito la messa; in questo mentre
a quando a quando rimbombavano le artiglierie. Dopo il santo sacrificio
benediva l'arcivescovo ad una ad una le presentate bandiere. Seguitava
un concerto strepitosissimo e pure melodioso d'inni, di suoni, di _viva
repubblicani_. Sorgeva in mezzo l'altare della patria; aveva sui lati
inscrizioni secondo il tempo: sopra, un fuoco acceso simboleggiatore
dell'amore della patria; a' piedi urne con motti dimostrativi del
desiderio, e della gratitudine verso i soldati franzesi morti nelle
cisalpine battaglie per la salute della repubblica. Quest'erano
le cisalpine allegrezze e cerimonie. Assisteva Buonaparte seduto
in ispecial seggio alla testa, al quale, come a vincitore di tante
guerre ed a fondatore della repubblica, riguardavano principalmente
i popoli circostanti. Nè piccola parte dello spettacolo erano gli
uomini delegati di Ferrara, di Bologna, dell'Emilia, di Mantova stessa,
ancorchè non ancora fosse unita alla repubblica, venuti ad esser
presenti a quella solennità, non solo inconsueta, ma non vista mai nel
corso dei secoli, grande testimonianza d'amore e di concordia italiana.

Serbelloni, presidente del direttorio, dal luogo suo levatosi, e sopra
un più elevato seggio postosi, fatto silenzio in mezzo agli adunati
popoli favellava, e giunto a quel passo: «Accendiamoci di un amor
santo di patria, giuriamo concordemente di viver liberi o di morire:
il direttorio della Cisalpina repubblica lo giura il primo e ve ne dà
l'esempio,» sguainata la spada ed i suoi colleghi levati i cappelli,
ad alta voce giuravano. Giuravano al tempo stesso gli uomini deputati,
giuravano i capi de' reggimenti, giurava l'adunato popolo intiero: i
viva, le grida, i plausi, il batter delle mani, il lanciare i cappelli,
lo sventolar delle bandiere facevano uno spettacolo misto, romoroso ed
allegro.

Ciò detto, continuava orando il presidente, «manterrebbe col sangue e
con la vita, se fosse d'uopo, il direttorio la costituzione e le leggi.
Sovvengavi, terminava, o cittadini, sovvengavi che questa terra che
abitiamo, è la terra de' Curzi, degli Scevola, de' Catoni; imitiamo
quelle grandi anime, in ogni umano caso imitiamole e lascino ogni
speranza di vincerci i nostri nemici, e insieme la Europa si accorga
che qui l'antica Roma rinasce.»

Qui ricominciavano i plausi ed i cannoni strepitavano. A questo modo
s'instituiva la repubblica Cisalpina, mandata da un principio che
pareva eterno ad un dubbio e corto avvenire. Furonvi tutto il giorno
corsi di carri e di cavalli, suoni, balli, festini in ogni canto, poi
la sera bellissime luminarie sì dentro che fuori del teatro. Insomma
fu una grande e solenne allegrezza; e queste feste non in altra città
del mondo riescono tanto liete e tanto magnifiche, quanto nella bella e
splendida Milano.

Perchè poi la memoria di un giorno tanto solenne nella mente de'
posteri si conservasse, decretava il direttorio, che si rizzassero nel
campo della confederazione ad onore di ciascuna schiera dello esercito
franzese otto piramidi quadrangolari; sur un lato di ciascuna piramide
si scolpisse un segno eterno della gratitudine e dell'amicizia del
popolo cisalpino verso la repubblica Franzese e l'esercito d'Italia;
s'inscrivessero su due altri lati i nomi di que' forti uomini che
avevano dato la vita per la patria loro e per la libertà cisalpina
nelle battaglie; che lo ultimo lato si serbasse intatto per iscolpirvi,
ove fosse venuto il tempo, i nomi di quei prodi cittadini, che
fortemente combattendo avrebbero procurato col sangue loro salute e
libertà alla patria cisalpina.

Contaminava l'allegrezza de' patriotti l'essersi fatta serrare dal
direttorio la società di pubblica instruzione. Si trovò pretesto
dell'essere contraria agli ordini della constituzione.

Continuava ad usare Buonaparte la autorità suprema. Nominava i
giudici, gli amministratori de' distretti o de' dipartimenti, o que'
dei municipii. Si faceva poi più tardi ad eleggere i membri dei due
consigli, cioè del consiglio grande o de' giovani, e del consiglio de'
seniori o degli anziani.

I popoli all'intorno, che se ne vivevano o con governi temporanei
e tumultuarii, veduto le forme più regolari e più promettenti della
Cisalpina, e quell'affezione particolare che il capitano invitto le
portava, si davano a lei l'uno dopo l'altro. Bologna, Imola e Ferrara
furono le prime a mostrar desiderio dell'unione, le due ultime più
ardentemente per invidia a Bologna, la prima più a rilento per la
memoria dell'antica superiorità. La giunta bolognese titubava; ma
tanti furono i maneggi de' patriotti più accesi e l'intromettersi de'
cisalpini, che ne fu vinta la sua durezza, ed accedeva anche essa alla
prediletta repubblica; accostamento di grandissima importanza, perchè
era Bologna città grossa e piena d'uomini forti e generosi. Unite le
legazioni, pensava Buonaparte a compire il direttorio; vi chiamava per
quinto un Costabili Containi di Ferrara.

Principalmente accrebbe la grandezza cisalpina la unione della forte
Brescia, membro tanto principale della terraferma. Fu tratto presidente
del consiglio grande Fenaroli, nativo di questa città, il quale, avuta
principal parte nelle precedenti mutazioni, si mostrava molto ardente
per la conservazione dello Stato nuovo.

Mantova, perchè ancora di destino incerto, se ne stava in pendente di
quello che si avesse a fare. Ma poi quando si seppe che pel trattato
di Campoformio l'Austria si spogliava della sua sovranità sopra
di lei, s'incorporava con animo pronto anch'essa alla Cisalpina. I
Cisalpini poi, fatto di per sè stessi impeto nell'Oltre-Po piacentino,
consentendo facilmente i popoli, l'aggregavano alla loro società.

Ampliata la repubblica per tutte queste aggiunte, Buonaparte le
divideva in venti dipartimenti con Milano, città capitale. Per tal modo
in men che non faceva cinque mesi dappoichè era stata creata, in questa
larghezza si distendeva la Cisalpina che conteneva in sè la Lombardia
austriaca, i ducati di Mantova, di Modena e di Reggio, Massa e Carrara,
Bergamo, Brescia coi territorii loro, la Valtellina, e le tre legazioni
di Bologna, di Ferrara e dell'Emilia, parte del Veronese e l'Oltre-Po
piacentino. Poco dopo, Pesaro, città della Romagna, fatta mutazione, si
dava alla Cisalpina.

L'unione delle legazioni alla Cisalpina aveva in sè non poca
malagevolezza, perchè questi popoli, soliti a vivere sotto il
dominio della Chiesa, ripugnavano alle innovazioni che loro pareva
che fossero state fatte nelle cose attinenti alla religione. Questa
mala contentezza si era vieppiù dilatata quando si domandarono i
giuramenti ai magistrati. Fu loro imposto di giurare osservanza
inviolabile alla constituzione, odio eterno al governo dei re, degli
aristocrati ed oligarchi, di non soffrire giammai alcun giogo straniero
e di contribuire con tutte le forze al sostegno della libertà ed
uguaglianza e alla conservazione e prosperità della repubblica. Per
mitigare le impressioni contrarie concette dal popolo, intendevano i
magistrati alle persuasioni, ma come d'uomini la maggior parte troppo
debiti alle nuove opinioni, elle facevano poco frutto. Tentaronsi
gli ecclesiastici, e fra gli altri il cardinale Chiaramonti, vescovo
d'Imola, che poi fu papa sotto nome di Pio VII. Il suo testimonio e le
sue esortazioni, come d'uomo di vita integerrima e religiosa, erano di
molto momento. Pubblicò egli adunque il giorno del Natale del presente
anno 1797 una omelia, in cui parlava ai fedeli della sua diocesi parole
di tanta soavità, che, dette com'erano da un uomo così eminente per
dignità e così venerato per la santità dei costumi, calmavano gli
spiriti raddolcivano i cuori, e preparavano radici al nuovo Stato.

Ordinata la Cisalpina, restava che le potenze amiche alla Francia la
riconoscessero in solenne modo come potentato europeo. Vi si adoperava
Buonaparte cupidamente, recando a gloria propria che non solo vivesse
la creazione sua, ma ancora assumesse la condizione di vero Stato. In
questa bisogna il mezzo più facile era anche il più efficace; quest'era
che la Francia riconoscesse quella sua figliuola primogenita, come la
chiamavano.

A questo fine mandava il direttorio cisalpino per suo ambasciatore a
Parigi un Visconti. Fu veduto a Parigi molto volentieri ed in pubblica
udienza, presenti tutti i ministri di Francia e gli ambasciadori
delle potenze amiche, il dì 27 agosto, solennemente udito. Parlava
magnificamente de' benefizii della repubblica Franzese, della
gratitudine della Cisalpina; esprimeva unico e primo desiderio de'
cisalpini essere il farsi degni della illustre nazione franzese; di
loro non potere aver ella amici nè più affezionati nè più fedeli;
comune avere le due repubbliche la vita, comuni gl'interessi, comune
ancora dover avere la felicità, nè senza i Franzesi volere o potere
essere i cisalpini felici; le vittorie del trionfatore Buonaparte già
aver procurato pace e quiete alla Cisalpina; desiderare che la Francia
ancor essa quella pace si godesse e quella felicità gustasse che le sue
vittorie e la sublime di lei costituzione le promettevano. Queste cose
scritte in franzese, poi tradotte in pessimo italiano ne' giornali dei
tempi, diceva Visconti. A cui magnificamente, ed anche tumidamente,
secondo i tempi, rispondeva il presidente del direttorio, piacere alla
repubblica Franzese la creazione e l'amicizia della Cisalpina; non
dubitasse che viverebbe libera e felice lungo tempo. Poi parlava di
serpenti che mordevano Buonaparte, quindi di maschere portate prima poi
deposte dai ministri delle due repubbliche. Sapere il direttorio che
quest'uomini velenosi e perfidi volevano distruggere la libertà sulla
terra; ma la Francia esser sana e forte, e fortificarsi ogni giorno più
per una corona intorno di popoli liberi e governati da leggi consimili.
Appresso parlava il presidente di moderazione e di temperanza, non
di quella degli animi vili e timorosi, ma di quella degli animi ben
composti e forti. «Stessero pur sicuri i cisalpini, conchiudeva, e
confidassero nelle grandezza e nella lealtà della nazione franzese,
nel coraggio e nel valore de' suoi soldati, nella rettitudine e nella
costanza del direttorio: niuno più acceso, niuno più ardente desiderio
avere il direttorio di questo, che i cisalpini vivessero felici e
liberi.»

Un parlare tanto risoluto sbigottiva le potenze minori che, o già
serve all'in tutto della repubblica di Francia, o da lei interamente
dipendenti, non avevano altra elezione che quella di obbedire.
Per la qual cosa non esitavano i re di Spagna, quei di Napoli e di
Sardegna, il granduca di Toscana, la repubblica Ligure ed il duca
di Parma a mandar ambasciatori o ministri o simili altri agenti a
Milano, acciocchè tenessero bene edificato e bene inclinato quel
nuovo Stato tanto prediletto a Buonaparte. In questo ancora ponevano
l'animo allo investigare in mezzo a tante gelosie ed a tanti timori
quello che succedesse a Milano in pro od in pregiudizio degli stati
loro; perchè a Milano si volgevano allora le sorti di tutti gli Stati
d'Italia. Perciò i patriotti gridavano che questi ministri erano
spie per rapportare, stromenti per subornare. Li laceravano con gli
scritti, gli oltraggiavano con le parole, talvolta ancora coi fatti li
maltrattavano; esorbitanze insopportabili. Principalmente i fuorusciti
delle diverse parti d'Italia raccolti in gran numero in Milano, non
si potevano tenere. Buonaparte se ne sdegnava e dava loro spesso sulla
voce, e talvolta sulle mani; ma essi ripullulavano e straboccavano più
molesti da un altro lato, per forma che non vi era requie con loro.

Introdotti al direttorio Cisalpino oravano i ministri esteri con parole
di pace e di amicizia, a cui non credeva nè chi le diceva nè chi le
udiva.

Esitava il papa il mandare un ministro, perchè gli pareva chi i
Cisalpini avessero posta la falce nella messe religiosa. Ma dettesi
certe parole da Buonaparte, e fattogli un motivo addosso dai Cisalpini
che armatamente si erano impadroniti della fortezza di San Leo e
minacciavano di andar più avanti con l'armi pericolose e coi manifesti
più pericolosi ancora, si piegava ancor egli. L'Austria, secondo la suo
dignità, volendo indugiare, non s'inclinava a mandar un ambasciatore
a Milano, allegando, ciò che era vero, che la Cisalpina, anche come
già si trovata costituita legalmente in repubblica ordinata, non era
Stato franco e independente, perchè e le sue fortezze erano in mano dei
Franzesi ed i comandanti Franzesi pubblicavano di propria autorità in
tutta la Cisalpina e nella sede stessa di Milano ordini e manifesti,
ed anzi i magistrati nissun ordine e manifesto pubblicavano se non dopo
che fossero veduti ed appruovati dai comandanti franzesi.

Accettati i ministri delle potenze estere, aveva il direttorio
cisalpino mandato i suoi agenti politici a sedere presso le potenze
medesime. Vedevano Torino, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Parma i
legati cisalpini. Bene pe' suoi fini avea scelto gli uomini suoi la
Cisalpina, perchè erano tutti, o la maggior parte, giovani di spiriti
vivi ed accesi nelle opinioni che correvano, ma pure, se non prudenti,
almeno astuti e senza intermissione operativi. Solo Marescalchi, di
famiglia principalissima di Bologna, che era stato mandato ambasciadore
a Vienna, non faceva frutto, perchè l'imperadore non l'aveva voluto
riconoscere nella sua qualità pubblica.

Soprastava ad arrivare il ministro di Francia a Milano, non perchè
non fosse il direttorio franzese amico, ma perchè l'inviato doveva
arrivarvi con molta materia apprestata.

Chiamava intanto Buonaparte, oramai vicino ad aver compito con gli
ordinamenti politici quell'opera che con le armi aveva fondato, i
legislatori cisalpini, centosessanta pel consiglio grande, ottanta per
quello degli anziani. Onorati uomini vi risplendevano per sapere, per
antichità, per ricchezze, per amore di libertà. A questi aggiungeva
Francesco Gianni, giovane di singolare spirito poetico dotato e
cantor suo favoritissimo. Era il poeta nato in Roma; ma la Cisalpina,
considerato, tali furono le parole della legge, che il cittadino
Francesco Gianni aveva principalmente applicato i poetici suoi talenti
a celebrare il genio della libertà italiana ed encomiare l'invitta
armata franzese, con che nelle attuali circostanze si veniva a vieppiù
promuovere lo spirito pubblico, gli dava con solenne ed apposita legge
la naturalità.

I consigli radunati ardentemente procedendo, si accostavano alle
opinioni dei democrati più vivi, il che dall'un dei lati dispiaceva
a Buonaparte a cagione della natura sua inclinata allo stringere,
dall'altro gli piaceva per dar timore alle potenze nemiche.

Ordinata al modo che abbiam narrato la Cisalpina, il capitano vincitore
scriveva le seguenti parole per ultimo vale a' suoi popoli: «Il dì
21 novembre fia pienamente in atto la vostra costituzione; e saranno
altresì organizzati il vostro direttorio, il corpo legislativo, il
tribunale di cassazione e le altre amministrazioni subalterne. Voi
siete fra tutti i popoli il primo che senza fazioni, senza rivoluzioni,
senza stragi, libero divenga. Noi vi demmo la libertà; voi sappiate
conservarla. Voi siete, trattone solo la Francia, la più popolata, la
più ricca repubblica; vi chiama il destin vostro a gran cose in Europa;
secondate le vostre sorti con far leggi savie e moderate, con eseguirle
con forza e con vigore; propagate le dottrine, rispettate la religione.
Riempite i vostri battaglioni, non già di vagabondi, ma sì di cittadini
nudriti nei principii della repubblica ed amatori della sua prosperità.
Imbevetevi, che ancor ne avete bisogno, del sentimento della vostra
forza e della dignità che ad uomo libero si appartiene. Divisi fra di
voi, domi per tanti anni da un'importuna tirannide, voi non avreste
mai potuto da voi stessi conquistare la libertà, ma fra pochi anni
potrete anche soli difenderla contro ogni nemico qual ch'egli sia;
proteggeravvi intanto contro gli assalti dei vostri vicini la gran
nazione; col nostro sarà lo Stato vostro congiunto. Se il popolo
romano avesse usato la sua forza, come la sua il franzese, ancora sul
Campidoglio si anniderebbero le romane aquile, nè diciotto secoli di
schiavitù e di tirannia avrebbero fatte vili e disonorate le umane
generazioni. Per consolidare la libertà vostra e mosso unicamente dal
desiderio della vostra felicità, io feci quello che altri han fatto per
ambizione e per la sfrenata voglia del comandare. Io feci la elezione
di tutti i magistrati e sonmi messo a pericolo di dimenticare l'uomo
probo con posporlo all'ambizioso; ma peggio sarebbe stato, se aveste
fatto voi stessi le elezioni, perchè gli ordini vostri non ancora erano
compiti. Fra pochi giorni vi lascio. Tornerommene fra di voi, quando
un ordine del mio governo od i pericoli vostri mi richiameranno. Ma
qualunque sia il luogo a cui siano ora per chiamarmi i comandamenti
della mia patria, questo vi potete promettere di me che sono e sempre
sarommi ardente amatore della felicità e della gloria della vostra
repubblica.»

Queste dolci parole del capitano invitto molto riscaldavano gli animi.
Quest'erano le operazioni palesi di Buonaparte: altre, uguale anzi
di maggiore importanza se ne stava macchinando in segreto. Erano a
quei tempi al mondo quattro cose che a tutte le altre sovrastavano,
la gloria molto risplendente di Buonaparte, il timore che avevano i
re che quella repubblica Franzese non li conducesse tutti a ruina, la
repubblica franzese stessa fondata in una nazione che per la natura
sua non può vivere in repubblica, e finalmente una casa di Borbone,
esule sì, ma con molte radici in Francia, fatte ancor più tenaci e
più profonde per le enormità dell'insolita repubblica. Si desiderava
pertanto e dentro della Francia da non pochi uomini temperati, e fuori
da tutte le potenze, che la repubblica si spegnesse ed il consueto
reggimento, per quanto gl'interessi nuovi permettessero, col mezzo
dei Borboni si ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire
coll'armi civili della Vandea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa,
perchè la nazione franzese, che forte ed animosa era, non aveva voluto
lasciarsi sforzare, si pensava che i maneggi segreti, le promesse, le
corruttele e le adulazioni potessero avere maggior efficacia.

Da ciò, di passo in passo e di mena in mena, vennero quelle risoluzioni
del direttorio che resero tanto famoso il dì 18 fruttidoro, anno
V della repubblica, o il 4 settembre del presente anno. Per esse
si carceravano ed in istrane e pestilenziali regioni si mandavano
Barthelemi, Pichegru e gli altri capi della congiura. Alcuni, e
fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei cercatori, trovarono
in forastiere terre scampo contro chi li chiamava a prigione ed a
morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale, affortificatosi
il direttorio coll'esclusione dei dissidenti e coll'unione dei
consenzienti e fattosi padrone dei consigli, recava in sua mano la
somma delle cose e pareva che vieppiù avesse confermato la repubblica.

Tornato vano questo tentativo, i confederati si gettarono ad un altro
cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile
repubblica. Volgevansi a Buonaparte, e gli venivano dicendo le cose più
incalzanti. Le esortazioni lo muovevano; ma da Borboni a repubblica ei
non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in dispregio,
ed anche la felicità o le disgrazie umane troppo nol toccavano.
Bensì, siccome quegli che sagacissimo era e di prontissimo intelletto,
avvisava in un subito che quello che gli si offeriva, poteva aprirgli
la strada all'altissime sue mire. Si mostrava pertanto disposto a fare
quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo di favorirsi del
consentimento e cooperazione altrui per arrivare alla potestà suprema
di Francia.

Dato in tal modo intenzione ai confederati, aveva procurato la libertà
al conte d'Entraigues, ministro molto fidato di Luigi XVIII, fatto già
arrestare in Trieste e condurre gelosissimamente custodito nel castello
di Milano, e mandato in Russia, dove l'imperadore Paolo, succeduto alla
sua madre Caterina, piegavasi con divenire molto meno acerbo verso
la Francia. Al tempo stesso i negoziati di Udine e di Montebello si
fecero assai più morbidi per modo che non tardarono ad avvicinarsi
alla conclusione. Tutti i disegni molto gli arridevano e quantunque
fosse uomo di natura molto coperta e di pensieri cupissimi, tuttavia si
lasciava di quando in quando uscir di bocca certi moti, che disvelavano
la sua intenzione e le fatte macchinazioni.

Frattanto la necessità in cui si trovava il direttorio di rammollire
con un solenne fatto i risentimenti nati in Francia per la terribile
rivoluzione del 4 settembre operava di modo che, rimosse da ambe
le parti tutte le difficoltà, si veniva il giorno 17 ottobre alla
conclusione nella villa di Campoformio di un trattato di pace in
cui fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica
Franzese si avesse i Paesi Bassi; che lo imperatore consentisse che
le isole venete dell'Arcipelago e dell'Ionio, e così ancora tutte le
possessioni della veneta repubblica in Albania, cedessero in potestà
della Francia; che la repubblica Franzese consentisse che l'imperadore
possedesse con piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la
Dalmazia, le isole venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro e tutti
i paesi situati fra i suoi stati ereditarii ed il mezzo del lago di
Garda, poi la sinistra sponda dell'Adige insino a Porto Legnago, e
finalmente la sinistra sponda del Po; che la repubblica Cisalpina
comprendesse la Lombardia austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il
Cremasco, la città e fortezza di Mantova, Peschiera e tutta la parte
degli Stati veneti, che è posta a ponente e ad ostro dei confini
sovraddescritti; che si desse nella Brisgovia un conveniente compenso
al duca di Modena; che finalmente i potenziarii di Francia e d'Austria
convenissero in Rastadt per accordare gl'interessi dell'impero
d'Alemagna.

A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza
pe' quali l'imperadore consentiva che la Francia acquistasse certi
territorii germanici infino al Reno, e dalla parte sua prometteva la
Francia di adoperarsi acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominii
una parte del circolo di Baviera.

Fatto il trattato di Campoformio ed ordinata a suo modo la Cisalpina,
se ne partiva Buonaparte dell'Italia per andare a Rastadt. Quale
e quanto da quella diversa la lasciasse che nel suo primo ingresso
la aveva trovata, facilmente concepirà colui che nella mente andrà
riandando i compassionevoli casi già raccontati. Le difese delle Alpi
prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora servo; una repubblica
di Genova, prima independente per istato, ricca per commercio; ora
disfatto ed in licenze convertito l'antichissimo governo, fatta
provincia e sensale di Francia; un duca di Parma, ingannato dalle
speranze di Spagna e taglieggiato da genti oscurissime; un duca di
Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa, schernito e spogliato;
un regno di Napoli, poco sicuro e per poca sicurezza crudo;
un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del mondo e gran parte
della civiltà moderna, condotta all'ultimo fine, prima dagl'inganni,
poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di Firmian cambiato
in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri, tributario di
governo forastiero, e là dove una volta addottrinavano le genti con
dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria ed i Verri, farla da
maestri i Beauvinais ed i Prelli. A questo, le opere di Tiziano e di
Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze di soldati strani; una
lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti gl'ingegni
volti alla adulazione; le ambizioni svegliate, le virtù schernite,
i vizi lodati, e, per giunta, il che fu il pessimo de' mali, uomini
virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per forza o
per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage de'
tempi. In tanto male, nissun lume di bene; perchè nè a quali governi
avessero a dar luogo si vedeva, perchè i fondamenti privati erano
corrotti, i fondamenti pubblici estranei, e, se fosse mancata o la mano
franzese o la potenza tedesca, nissuno poteva congetturare che cosa
fosse per sorgere, di modo che non si scorgeva se la indipendenza non
fosse per diventare condizione peggiore della servitù. Così corrotte le
speranze e cambiati i tempi erano succeduti ai benefizii di Giuseppe,
di Leopoldo, di Beccaria e di Filangeri una rapina incredibile, una
tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un dolore acerbissimo
di vedere allontanato quel bene ch'essi avevano tanto vicino e tanto
soave alle menti nostre rappresentato. In somma fu la bella Italia
contaminata, e peggio, che chi le faceva le membra rotte e sanguinose,
le lacerava anche la fama.

Ora, tornando alla pace conchiusa, restava che le stipulazioni
di Campoformio circa Venezia si recassero ad effetto. Ma prima di
raccontare la consegna fatta di quella città, è indispensabile andar
brevemente rammemorando quali accidenti, quali umori, quali disegni
sorgessero nelle varie parti dell'antico Stato veneto e nella metropoli
stessa innanzi che i capitoli di Campoformio si pubblicassero, e
dappoichè, spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto
il nuovo, al quale non si sa qual nome dare.

Non così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi
fra di loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano
alle parti, chi seguitando i modi dei democrati franzesi più ardenti
a' tempi delle rivoluzioni, e chi accostandosi a pensieri più miti
e più temperati; quelli si chiamavano da alcuni veri patriotti, da
altri giacobini; questi presso alcuni avevano nome di veri amatori
della libertà, presso altri, di aristocrati. Seguitavano queste parti
i Veneziani, pochi con que' primi consentendo, molti, fra' quali
i nobili, per lo minor male si accostavano ai secondi. Sedevano i
municipali, pubblicamente nella sala del gran consiglio, dove le
discussioni e le contese erano grandi tra l'una parte e l'altra, e
trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione. Così Venezia,
anche posta al giogo forastiero, parteggiava; tutti però in questo
consentivano, ch'ella intiera si conservasse.

Perciò, come prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano
delegati e lettere a tutte le città del dominio veneto, dando loro
parte della felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia,
ed invitandole ad accomunarsi ed incorporarsi con esso lei. Ma i
patriotti della terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime
mire che si attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna e
dominatrice, avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Anzi una
nimistà generale, piuttostochè desiderio di unione, prevaleva in tutta
la terraferma contro Venezia. Poichè poi gli odii già tanto intensi
vieppiù si invelenissero, li rinfiammavano, non solo colle parole, ma
ancora con gli scritti: Victor generale, che aveva le sue stanze in
Padova, esortava con lettere pubbliche e con parole molto veementi i
municipali di questa città a far atterrare le insegne di San Marco ed a
diffidarsi de' municipali di Venezia.

I democrati, facevano quello, e più di quello a che gli aveva esortati
Victor. E appoco appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia,
si lacerava senza posa il suo nome nelle gazzette cisalpine; anzi i
Padovani trascorrevano tant'oltre, che si consigliarono di voler torre
ai Veneziani l'uso delle acque dolci dei loro territorii, cosa che solo
contro ad un nemico, e forse nemmeno a chi fosse nemico in guerra, non
si sarebbe usata.

Diminuiva Venezia, ad onta delle orazioni democratiche del Giuliani
e del Dandolo, di riputazione, ma ancor più di potenza, essendole
occupati o sotto spezie di sicurezza di stati, o sotto spezie di
amicizia, i suoi dominii verso levante. Veniva di leggieri fatta
l'occupazione, perchè gl'Istriotti a quelle novità democratiche non
s'erano potuti accomodare, ed ancorchè fossero affezionati al nome
veneziano, si piegavano facilmente all'obbedienza austriaca, perchè
l'imperio franzese, sotto il quale era caduta l'antica patria loro,
stimavano odioso.

Mentre queste cose succedevano nell'Istria, sanguinosi accidenti
atterrivano la Dalmazia. Erano i popoli di questa provincia avversi
per antica consuetudine al nome franzese, e delle nuove opinioni per
lontananza e per poco commercio di lettere molto alieni. Erano anche
giunte a loro con veri e forti colori dipinte le espilazioni e le ruine
d'Italia, onde all'odio antico si veniva a congiungere uno sdegno
recente. A questo si aggiungeva che i soldati della loro nazione,
che in Venezia ed in Verona ed in altre piazze venete erano stati di
presidio, si ricordavano della poca stima, anzi delle derisioni, che
verso di loro avevano usato i repubblicani, troppo intemperanti della
vittoria. Udite poi le veneziane cose e come e quanto i municipali
di Venezia trascorressero nelle opinioni e nei costumi nuovi, si
erano concitati a gravissimo sdegno, dichiarando apertamente che non
avrebbero più comportato che s'ingerissero nelle loro faccende. Già
minaccie annunziatrici di crudeli fatti sorgevano in ogni luogo contro
gli aderenti o veri o supposti dei reggimenti nuovi. I primi a muoversi
furono i villani ed i montanari di Traù e di Sebenico, i quali, scesi
a furia commettevano atti di estrema barbarie; ucciso il Dalmata
che fungeva le veci di console di Francia con tutta la sua famiglia;
saccheggiate le case dei deputati eletti dai municipali di Venezia
ad ordinare a modo nuovo la Dalmazia, ed i lor parenti perseguitati e
parte uccisi. La mala usanza si propagava dal continente nelle isole
vicine, ed ogni luogo era pieno di terrore, di ferite, di uccisioni e
di sangue.

Partivano da Trieste e da Fiume alla volta di Zara quattro mila
soldati imperiali e vi giungevano parte sul finire di giugno, parte al
cominciar di luglio. Accettavano i Zaratini lietamente gli Austriaci
a sicurtà contro l'anarchia: giuravano fede all'imperatore tutti i
magistrati e circa due mila soldati veneti che si trovavano in quella
fortezza per presidio. Dopo Zara restava che si occupasse il rimanente
della provincia. Casimiro, capitano di nome pel fatto della presa di
Trieste, occupava Spalatro, Clissa e Singo, per terra; per mare entrava
Roccavina in Sebenico, dov'era accolto con molta allegrezza, perchè
la ferocia dei villani scesi dalla montagna vi aveva più che altrove
infuriato, e ad ogni ora faceva le viste d'infuriare vieppiù. Scendeva
quindi dai monti con una mano di Ungari di Transilvani, il conte di
Warstensleben, e si univa a Roccavina, e così insieme occupavano i siti
importantissimi delle Bocche di Cattaro. La Dalmazia tutta e l'Albania
veneta entravano sotto il dominio dell'imperatore. A questo modo si
andava sfasciando appoco appoco l'antichissimo imperio dei Veneziani.

A novità di tanto momento si risentivano i municipali di Venezia e
facevano istanze presso Buonaparte e il direttorio, domandando che
la Francia intercedesse, perchè l'antico dominio si restituisse.
Querelavasene con Buonaparte Battaglia, imperciocchè è da sapersi
che quest'antico provveditore di Brescia era stato chiamato da
Buonaparte ai municipali veneziani, acciocchè appresso a lui risiedesse
quale ministro loro. Querelavasi anche gravemente Sanfermo mandato
dai municipali, anche per opera di Buonaparte, a sedere presso
il direttorio di Parigi. Ne ottenevano entrambi buone parole: non
dubitassero, o che la Francia sforzerebbe con le armi l'Austria a
rilasciare le provincie occupate, o procurerebbe coi trattati che
Venezia con nuove possessioni si compensasse, ora dando speranza
che i paesi della terraferma, anche quei d'oltre Mincio, le si
restituirebbero, ed ora che le sarebbero date in compenso le legazioni.

Era necessario che le isole del Levante veneto venissero in potestà dei
Franzesi. Per la qual cosa Buonaparte aveva operato che con accordo
dei municipali si facesse una spedizione di forze navali e terrestri
a Corfù, isola per la grandezza e la fortezza molto principale in
quelle spiagge; e perchè una forza preponderante vi fosse, ed anche
perchè vi erano fornimenti di marineria di molta importanza, aveva,
per mezzo del direttorio, dato ordine che al tempo medesimo da Tolone
l'ammiraglio Brueys si avviasse all'isola stessa con la sua armata.
Erano a quei tempi le isole del Levante veneto rette con dolce e giusto
freno dal nobile Vidiman, fratello del municipale, il quale aveva
con tanta efficacia e senza alcuno sforzo, ma solamente pel suo buon
naturale operato che quelle immaginazioni greche tanto vivaci e mobili,
malgrado delle parole incentive che suonavano da Francia e da Italia,
fermamente si conservassero affezionate al nome veneziano. Quando poi
incominciavano ad arrivare a Corfù i romori del cambiamento succeduto
a Venezia, ancorchè grandissima molestia ne ricevesse, siccome
quegli che per opinione e per consuetudine era dedito all'antica
repubblica, nondimeno pensando che, se era perduto lo stato vecchio,
gli rimaneva, se non una patria, almeno un paese al quale era suo
debito servire, s'ingegnava con ogni sforzo di calmare gli spiriti per
farli perseverare nella loro fede ed affezione verso Venezia, qualunque
avesse ad essere il suo destino. Nel che faceva grandissimo frutto a
cagione dell'amore che generalmente gli era portato.

Finalmente per la via di Otranto gli pervenivano lettere dei municipali
di Venezia, che recavano le novelle della rivoluzione, dell'essersi
distrutta l'aristocrazia ed allargato il governo alla democrazia.
Aggiungevano, nominerebbe un dì il popolo i suoi rappresentanti;
ma che intanto, per impedire la cessazione dei magistrati, si era
creato nei municipali un governo a tempo; avrebbero i municipali gli
abitatori delle isole e dei luoghi del Levante in luogo di fratelli;
manderebbero due commissarii per metter all'ordine il nuovo Stato;
Vidiman sarebbe il terzo; verrebbero con una forte armata e con sei
mila soldati. Tacevano se i soldati avessero ad essere veneziani o
franzesi. Preparasse adunque, esortavano, con la prudenza e destrezza
sua gli animi; spiasse bene e raffrenasse coloro che fossero di
genio aristocratico; usasse a quiete di tutti l'opera delle persone
prudenti e religiose di ogni rito; soprattutto impedisse, che gli
uomini inquieti e torbidi prorompessero in qualche discordia o tumulto;
in lui riposarsi, terminavano, con animo tranquillo i municipali
ed intieramente rimettersi nella fermezza, nell'avvedutezza, nella
temperanza e nella esperienza sua. In sì solenne e tanto terminativo
accidente di quanto egli aveva di più caro e più onorato su questa
terra, adunava Vidiman i primarii magistrati sì civili che militari, e
leggeva loro il municipale dispaccio, esortandogli alla sopportazione
ed all'obbedienza. Furonvi rammarichi ed alte querele; ma mostrarono
rassegnazione, ignari ancora a che cosa li serbassero i fati.

Frattanto si facevano a Venezia gli apparecchi necessarii per la
spedizione di Levante. Intendeva il direttorio al far uscire da
Venezia, col fine d'impadronirsene, quella parte d'armata veneziana,
che sull'ancore se ne stava nel porto. Perilchè si appresentava
Baraguey d'Hilliers con tutti gli ufficiali franzesi da mare che
dovevano governare l'armata, in una solenne adunata, ai municipali, con
parole melliflue protestando dell'amicizia del direttorio, chiamando
la repubblica col suo nuovo governo sorella, e promettendo che tutte le
forze franzesi si adoprerebbe perchè ella fosse restituita alla antica
sua grandezza. Si destinava a governar le genti da terra il generale
Gentili. Obbediva l'armata al capitano di nave Bourdé. Molte navi atte
a trasportar soldati l'accompagnavano, empiute di Franzesi la maggior
parte della settuagesimanona. Volle Buonaparte, poichè si trattava di
andar in Grecia, che s'imbarcasse Arnauld, letterato di grido, in cui
aveva il generalissimo posto molta fede per avere i rapporti sulle
antichità dei paesi, sui costumi e sulle leggi dei popoli.

Sapevano i municipali a quali angustie fosse ridotto Vidiman a Corfù
per la mancanza del denaro, e credendo anche allettare i popoli, se
arrivando i primi agenti della mutata Venezia, portassero con sè danaro
per dar le paghe già da tanto tempo corse, imbarcavano a governo degli
amministratori che mandavano nelle isole, sei mila zecchini.

Appariva il dì 28 giugno nel porto de' Corfiotti l'armata apportatrice
dei soldati stranieri. Vidiman e gl'isolani molto si maravigliarono
al vedere insegne ed uomini franzesi in luogo d'insegne e d'uomini
veneziani. Suonavano a festa il dì 29 gli stromenti da guerra; i
nuovi repubblicani sbarcavano. Venivano i magistrati a far riverenza
agl'insoliti signori.

Non così tosto ebbe Gentili sbarcato le sue genti, che le alloggiava
nella fortezza, e così recava in sua mano la facoltà di fare a sua
volontà qualunque cosa ei volesse. Poi s'impadroniva dei magazzini
del pubblico e di tutte le artiglierie ch'erano belle ed in numero
considerabile.

A Gentili succedeva Bourdé, che poneva le mani addosso ai magazzini di
mare ed a sei navi di fila e tre fregate veneziane. Gentili intanto i
sei mila zecchini mandati da Venezia recava in suo potere per dar le
paghe a' suoi soldati ed agli amministratori venuti con lui.

Posto il piede e confermato il dominio franzese nell'isola principale
di Corfù, mandavano Gentili e Bourdé forze di terra e da mare a prender
possesso di Cefalonia e di Zante, e dell'isola più lontana di Cerigo.
Poi Gentili ed Arnauld, fattisi dar liste di candidati dai primarii
abitanti, creavano i municipali di Corfù, fra i quali nominavano
Vidiman, già spogliato di ogni altra autorità.

A Venezia dominava con imperio assoluto Baraguey d'Hilliers, parte da
sè, parte in conformità degli ordini di Buonaparte. Alloggiava in casa
Pisani con fasto grande e con carico gravissimo di quella famiglia;
i municipali non deliberavano se non sentito lui; i posti principali
erano custoditi dai Franzesi; i municipali, chi per forza, chi per
prudenza, chi per adulazione, servivano a Baraguey. Villetard, siccome
giovane e confidente, si travagliava per ordinare il nuovo governo
democratico, ed in ciò si trovava posto in difficile condizione; perchè
gli spogli scemavano autorità alle sue parole, e pareva a tutti, come
era veramente, che cattivo principio di libertà fosse quello che si
vedeva. S'incominciava a dar mano alle opere gentili insino a tanto
che arrivasse tempo al toccare le più utili. Quanto di più bello e
più prezioso avevano prodotto gli scarpelli od i pennelli o le penne
greche, latine ed italiane era rapito dagli strani amici. Le gallerie,
le librerie, i templi, i musei sì pubblici che privati diligentemente
si scrutavano e violentemente si sfioravano.

Il palazzo pubblico di Venezia fu dei più preziosi ornamenti espilato.
Con pari rabbia fu la galleria privata dei nobili Bevilacqua di
Verona da mani violente tocca e spogliata. Le opere di Bassano, di
Paolo Veronese, di Tiziano, di Tintoretto, di Pordenone, di Bellini,
di Mantegna, tanto care ai Veneziani e per bellezza propria e per
essere di mano di artisti paesani, dai luoghi loro deposte se ne
andavano ad ornare forestieri e lontani lidi. Molte statue di bassi
rilievi antichi, sì di marmo che di bronzo, di grandissimo pregio,
e tre vasi etruschi di egregio lavoro erano tolti dalla libreria
pubblica di Venezia e dalla galleria Bevilacqua. Nè i camei, opere
preziose, si risparmiavano, e fra di loro quello tanto famoso che
rappresentava Giove Egioco. Sessantanove medaglie greche o romane
erano levate dai privati musei dei Muselli e dei Verità di Verona.
Dei manoscritti, con grandissimo dolore degl'Italiani, dalla sola
libreria di Venezia più di duecento greci o latini o italiani o arabi,
o in carta pergamena, o carta usuale o in carta di seta, saziavano le
voglie dei repubblicani d'oltramonti. Sentivano la comune spogliazione
le librerie pregiatissime dei monasteri di Venezia, di Treviso e di
San Daniele in Friuli, dai quali atti delle mani vincitrici mancarono
settantasei testi a penna preziosissimi. Alle medesime espilazioni
andavano soggette le stampe tenute tanto care degli Aldi, la
Magontina nominatamente, opera del 1459, le quali con somma gelosia
si custodivano nelle librerie di Venezia, Treviso, Padova, Verona e
san-Daniele. Queste preziosità erano state tolte dalle interiori mura
dei templi, dei musei e delle librerie. Restava il più bello e più
glorioso segno della grandezza veneziana, che sull'anteriore faccia del
principal tempio di Venezia dimostrava quale fosse stato anticamente
il valore di questa generosa nazione. I cavalli di bronzo, opera, come
si narra, di Lisippo, dati prima in dono a Nerone da Tiridate, re
di Armenia, poi trasportati da Costantino a Bisanzio, e conquistati
finalmente pel valore dei Veneziani congiunti ai Franzesi, ch'ebbero
in sorte altre costantinopolitane spoglie, e mandati a Venezia dal
doge Pietro Ziani, accrescevano, involati essendo, il dolore pubblico
della gente veneziana. Spiaceva al letterato Arnauld che questi cavalli
restassero a Venezia: spiacevagli altresì che i leoni conquistati dal
valore del Morosini nel Pireo continuassero a starsene nella sede
loro, segni della veneziana gloria. Ne gli spiacque e ne scrisse
a Buonaparte. Cavalli e leoni furono per suo comandamento condotti
in Francia. Il che venne fatto in cospetto dei Veneziani con tanto
dolore loro che, instupidite le menti, parevano piuttosto attonite
che dolorose. Alcuni dicevano e tuttavia dicono che questi spogli si
eseguivano in virtù del trattato di Milano. Ma Buonaparte non aveva
voluto ratificare questo trattato, e perciò la Francia lo doveva aver
per nullo. Che se poi ad ogni modo si voleva aver per valido, bel modo
di eseguirlo certamente era quello di mandar ad effetto tutte le sue
peggiori condizioni contro Venezia e di non osservar quelle che erano
in suo favore.

Non solo gli ornamenti e le ricchezze veneziane si trasportavano, ma
quelle ancora commesse alla fede dei neutri avidamente s'involavano.
Erasi il duca di Modena, come si è detto, fuggendo la furia dei
repubblicani, ricoverato in Venezia; poi giù romoreggiando le armi
loro d'ogn'intorno, e prevedendo la dedizione, s'era per sua sicurezza
ritirato sulle terre d'Austria. Ma lasciava un suo tesoro, perchè
credeva, in ciò scostandosi dalla sua solita provvidenza, che o
non sarebbe scoverto, o se scoverto, sarebbe tenuto inviolato per
la neutralità del luogo. Occupata Venezia dai Buonapartiani, gli
agenti del direttorio ebbero sentore del deposito, e parendo loro che
fosse lor venuto un bel destro, alla fama di quei zecchini nascosti
tostamente si calavano e circondato improvvisamente con soldatesche
armate il palazzo in San Pontaleone, dove aveva abitato il duca,
cercarono il tesoro, in ogni parte diligentemente investigando. Ciò
fu indarno; perchè era stato deposto in casa del ministro d'Austria.
Perlochè fatto armata mano improvviso insulto contro di essa, e
ricercato in ogni canto, trovarono il denaro e via se lo portavano;
furono, come portò la fama, circa duecento mila zecchini. I Modenesi
erano venuti a Venezia per averselo; ma ei furon novelle. Gli agenti li
serbarono, dissero, per la cassa militare.

Le espilazioni delle opere d'ingegno si effettuavano con grande
apparato di soldati, perchè, sebbene fossero i piè dei Veneziani
in ceppi, si temeva che ad un bel levarsi il popolo prorompesse
e rivendicasse alla patria, con qualche solenne precipizio
degl'involatori, le gloriose spoglie. Accresceva il timore il
pensare che le rapine di Venezia rinfrescavano la memoria delle altre
rapine d'Italia. Per ogni lato si fremeva nel vedere questi spogli.
Pubblicavasi a questi giorni in Italia con le stampe un libro che
aveva in titolo: _I Romani in Grecia_, e che fu generalmente creduto
opera di un Barzoni. In questo scritto l'autore, sotto spezie dei
Romani in Grecia simboleggiando i Franzesi in Italia, eccitava i
popoli italiani allo sdegno, alla vendetta, alla rivendicazione.
Ne riceveva molta molestia il generalissimo, e ne cercava per ogni
dove l'autore e le copie. Ma più il perseguitava e più era letto.
Villelard istesso il chiamava pieno pur troppo di allusioni veridiche
sui ladronecci commessi da alcuni individui indegni del nome franzese.
Girava attorno lo scritto al momento degli spogli, e siccome quello
che accusava i municipali del caro del pane, che paragonava l'Italia
ad un vasto cimitero tutto squallido e bruttato d'infiniti cadaveri, e
che stimolava i popoli a correre armati contro i Franzesi, partoriva un
effetto incredibile.

Cercavasi intanto di coprire con segni di allegrezza le apparenze
tristi e funeste. Correva il dì della Pentecoste, quando la piazza di
san Marco si vedeva tutt'addobbata a festa pel piantamento dell'albero
della libertà. Avevano eretto a capo della piazza dalla parte opposta
a San Marco un'ampia loggia a cui si saliva per due scale laterali
ornate di vaghi fiori e di arbusti odoriferi. Da ambi i lati della
loggia sorgevano due adorni palchi con colonne, con ghirlande, con
insegne repubblicane. Quivi dovevano sedere i musici della cappella
ducale. Due altre logge adorne e belle si vedevano in mezzo alla
piazza e davanti alle procuratie, con orchestre pure a lato. Gli archi
delle procuratie e così ancora la chiesa di San Marco comparivano
alla vista dei circostanti carchi ed adorni di festoni tricolorati.
Steso a terra in mezzo della piazza giaceva il fusto ancor fronzuto
dell'albero. Ed ecco alle diciassette italiane comparire con solenne
comitiva di tutti i suoi ufficiali Baraguey d'Hilliers. L'incontravano
i municipali. Quindi poscia essendosi congiunti col corteggio del
generale, si ordinavano a processione. Le campane tintinnavano, gli
strumenti suonavano, i democrati dall'allegrezza gridavano. Intanto
giva la processione; soldati italiani precedevano, seguitavano due
fanciulli vagamente vestiti, poi una coppia di un giovane e di una
giovane che si dovevano sposare, poi un vecchio ed una vecchia con
istromenti d'agricoltura. Veniva dietro la guardia nazionale in
addobbo; indi Baraguey in addobbo ancor esso; i consoli delle nazioni,
e i magistrati sì civili che militari e i capi delle arti coi simboli
delle arti loro. Mostravansi alla coda del corteggio, seguitati da
musica militare, i municipali. Toccavano i due fanciulli il fusto
ed in un batter d'occhio fra le grida ed i suoni festivi era rizzato
nelle sue radici in mezzo alla piazza: sopra le radici deponevano i due
vecchi i rurali strumenti. Compariva in questo una berretta rossa sulla
punta dell'albero, e la moltitudine applaudiva. Le orchestre suonavano,
le musiche militari rispondevano, le campane rimbombavano, i cannoni
tuonavano, le tricolorite bandiere si sventolavano. Fatto silenzio,
orava lo arciprete Valier municipale, con magnifiche parole commendando
la generosità franzese e la rigenerazione veneziana. Poscia entrati
in San Marco, cantavano l'inno delle grazie e facevano il maritaggio
del giovane e della giovane. Uscito il corteggio di San Marco ed in
piazza tornatosi, dove promiscuamente e Franzesi e Veneziani intorno
all'albero già ballavano, ardevano il libro d'oro e le insegne ducali;
in quel mentre orava enfaticamente l'abate Collalto. Continuossi a
ballare il giorno, ballossi ancora la notte; si recitava in musica una
bella e magnifica opera nel bellissimo teatro della Fenice.

Per tal modo si piantava l'albero in Venezia da Baraguey d'Hilliers.
Al tempo stesso Bernadotte proibiva con animo sincero che in Udine
si piantasse. Guyeux, al contrario, metteva una taglia di centomila
lire sur un piccolo comune del Padovano sotto pretesto che l'albero vi
fosse stato tagliato; doloroso avviluppamento di accidenti strani in
proposito di un medesimo fusto figurativo.

Continuava Buonaparte a mostrarsi propenso ai Veneziani. Dimostrava
non potere per le molte e gravi faccende che il travagliava, visitare,
come desiderava, per sè stesso Venezia; ma mandarvi la donna sua,
perchè in lei vedessero i Veneziani, così appunto si spiegava, quanta
fosse l'affezione che loro portava. Veniva la moglie in Venezia: le
adulazioni dei repubblicani di quei tempi sì veneziani che franzesi
furono oltre misura. Traevano per comandamento del generalissimo i
cannoni a festa e ad onore di privata donna. Accolta nella sala dei
municipali era segno d'applaudisi infiniti: deputavano due di loro
ad intrattenerla ed a farle onoranza. Furonvi feste, balli, canti,
allegrezze d'ogni sorta: alla Giudecca una gran cena, al canal grande
una luminaria; nè mancovvi la regata, spettacolo gradito dei Veneziani.
Dandolo e gli altri municipali trionfavano e sempre stavano accanto
alla donna e dal suo volto pendevano. Solo Giuliani repubblicano se
ne stava bieco ed alla traversa. Infine, dimoratasi quattro giorni, il
quinto se ne partiva con assai ricchi presenti.

Non ostante tutte le promesse e le dimostrazioni favorevoli, coloro che
avevano in mano la somma delle cose in Venezia, trattavano di unirsi
strettamente alle città di terraferma, che, come si è narrato, molto
ripugnavano al dominio veneziano. Laonde operavano che le principali
mandassero deputati a Bassano per trattar dell'unione. Vi mandava
Verona un Monga, Padova un Savonarola, Brescia un Beccalozzi: vi
mandava Venezia Giuliani, perchè essendo natio di Desenzano, si sperava
che potesse più facilmente conciliarsi ed accomunar i dissidenti.
Non arrivavano i deputati di Udine, perchè Bernadotte impediva che
deputasse. Vi mandava Buonaparte Berthier affinchè presiedesse il
congresso. Vi furono molte parole e contenzioni. Verona voleva esser
capo della terraferma, Padova andava alla medesima volta, i Bassanesi
piuttosto a' Padovani aderivano che ai veronesi, i vicentini piuttosto
ai veronesi che ai padovani, Treviso stava in favor de' veneziani, i
deputati d'Oltremincio propendevano verso la Cisalpina. Però Berthier,
disciogliendo il congresso, pubblicava che circa l'unione i deputati
non s'erano potuto accordare.

Riuscito vano questo tentativo, pensavano i Veneziani a ricercare
il direttorio e Buonaparte della unione loro alla Cisalpina; ne
facevano anche inchiesta formale al direttorio cisalpino. In questo
mentre si era concluso il trattato di Campoformio, che abbiamo più
sopra riferito; Buonaparte se ne tornava a Milano. Di colà egli
scriveva a Villetard: pel trattato di pace essere i Franzesi obbligati
a vuotare la città di Venezia, e perciò potersene l'imperadore
impadronire; ma non doverla vuotare che venti o trenta giorni dopo
le ratificazioni; potere tutti i patriotti che volessero spatriarsi,
ricoverarsi nella repubblica Cisalpina, in cui godrebbero de' diritti
di cittadinatico; avere facoltà per tre anni di vendere i beni loro;
essere indispensabile di creare un fondo, il quale potesse alimentare
quelli fra i patrioti che si risolvessero a lasciar il paese loro
e non avessero facoltà sufficienti per vivere; essere la repubblica
Franzese parata a soccorrerli se ne avessero bisogno, con la vendita
de' beni d'allodio che possedeva nella Cisalpina; esservi a Venezia
molte munizioni navali o di guerra e di commercio che appartenevano
al governo veneziano; essere indispensabile che la congregazione
di salute pubblica (quest'era una congregazione di municipali), le
trasportasse più presto il meglio, a Ferrara, perchè quivi potessero
essere vendute in pro dei fuorusciti; quanto fosse per esser utile alle
opere navali di Tolone, tosto s'imbarcasse per Corfù e se ne facesse
stima, onde del ritratto si soccorressero i fuorusciti; i cannoni e le
polveri si vendessero alla Cisalpina; accordassesi Villetard con un
Roubault e con un Forfait e con la congregazione di salute pubblica
per vedere a qual pro si potessero condurre una nave ed una fregata
recentemente disarmate, otto galeotte, sei cannoniere, un argano da
inalberare, le piatte, il Bucintoro e le barche dorate, i barconi, i
palischermi grossi e sei navi da guerra, sei fregate, sei brigantini,
sei cannoniere e tre galere sui cantieri.

Aggiungeva Buonaparte a Villetard, badasse bene a tre cose: la prima
lasciar nulla che potesse servire all'imperadore per creare un navilio;
la seconda, trasportare in Francia quanto fosse utile alla nazione;
la terza usare quanto si vendesse nel miglior modo possibile, perchè
più fosse profittevole ai fuorusciti: insomma ogni altra opera facesse
che il tempo e l'occorrenza richiedessero per assicurare le sorti de'
Veneziani che si volessero ricoverare in Cisalpina: finalmente fosse
suo obbligo di pensare, di concerto con la congregazione di salute
pubblica e co' deputati delle città di terraferma, alla salute de'
fuorusciti loro.

Avuto Villetard questo mandato, nella sala delle adunanze recatosi, ai
municipali favellava, e gli esortava, in nome anche di Buonaparte, che
ordinassero quanto era necessario, perchè Venezia sottentrasse intera e
salva al nuovo dominio. Serrurier, accettata da Buonaparte la suprema
autorità in Venezia ed il mandato di far la consegna, svaligiati
prima, secondo i comandamenti avuti, i fondachi pubblici del sale e
del biscotto, spogliato avarissimamente l'arsenale, rotte o mutilate le
statue bellissime che in lui si miravano, fatto salpare le grosse navi,
affondate le minori, rotte a suon di scuri le incominciate, arso in S.
Giorgio il Bucintoro per cavarne le dorature, rovinata e deserta ogni
cosa che allo stato appartenesse, consegnava agli Alemanni la città
di Venezia. Francesco Pesaro riceveva, come commissario imperiale, i
giuramenti.

Gli eccidii si moltiplicavano, continuavasi a spogliar Roma in virtù
del trattato di Tolentino; nella qual bisogna con molta efficacia si
travagliavano i commissari del direttorio. E perchè non mancasse in
mezzo agli spogli l'adulazione, essendo venuto a notizia loro che la
moglie di Buonaparte desiderava per sè alcune belle statue di bronzo,
le comperarono, e con le involate, a grado di lei incassarono. Saputisi
dal papa il desiderio e la compera, ne pagava tosto il prezzo, perchè
la donna se le avesse senza costo. Oltre a ciò apparecchiava una
collana di preziosi camei, perchè fosse offerta da sua parte alla
signora.

Il romano erario era casso pel pagamento delle contribuzioni stipulate
nel trattato di Tolentino; le romane cedole scapitavano de' due terzi
per centinaio, e non v'era fine al disavanzo che ogni dì cresceva: ogni
cosa in iscompiglio, si avvicinava la dissoluzione. Sapevaselo Cacault,
ministro del direttorio, e per questo non voleva che si facesse una
rivoluzione violenta per ispegnere il governo papale, ma bensì che si
lasciasse andare di per sè stesso alla distruzione. I democrati non
incitava Cacault, nè aveva partecipazione delle loro macchinazioni,
perchè gli stimava gente dappoco e credeva che il popolo non li
volesse. Bensì ricercava il papa della libertà dei carcerati; il che
veniva in grande diminuzione della reputazione del governo pontificio.
Crescevano la penuria ed il caro delle vettovaglie; i popoli male si
soddisfacevano. A questo contribuivano non poco le tratte dei grani,
che il papa era sforzato a concedere ad alcuni fra gli agenti sì civili
che militari della repubblica. Il papa, oltre la sua età cadente,
si trovava infermo di paralisia. S'aggiungevano spaventi come se il
cielo fosse sdegnato contro Roma. La polveriera del Castel Sant'Angelo
s'accendeva la vigilia di San Pietro con orribile fracasso; furonvi
molte morti e parecchi edifizii rovinati.

S'incominciavano i cavilli, annunziatori di distruzione: in pena
di guerra non si volle che il pontefice conducesse a' suoi soldi il
generale Provera, su cui aveva fatto disegno. Alle cagioni politiche,
le quali operavano contro il papa, se ne aggiungeva una di natura molto
singolare, e quest'era il pensiero nato in Francia, del voler fondare
la religione naturale che col nome di teofilantropia chiamavano.

Era a Cacault succeduto nell'ufficio di ministro di Francia a Roma
Giuseppe Buonaparte, fratello maggiore del generale, uomo di natura
assai rimessa, ma siccome indolente e debole, così facile a lasciarsi
aggirare da chi voleva piuttosto fare che aspettare la rivoluzione.
Per la qual cosa era la sua casa piena continuamente di novatori,
ai quali dava segrete speranze, però che aveva dal suo governo avuto
mandato espresso di mutar lo Stato in Roma, pur facendo le viste di non
parervi mescolato. Ma siccome nè era soldato, nè d'indole risoluta,
mandarono per dargli spirito ed aiutarlo a perturbar Roma i generali
Duphot, e Sherlock. Aveva il governo papale avviso delle trame che si
macchinavano; e però faceva correre, principalmente di nottetempo, da
spesse pattuglie la città e teneva diligentissime guardie.

S'avvicinava quest'anno al suo fine quando nasceva in Roma un caso
funestissimo, dal quale scorsero improvvisamente con precipitosa piena
quelle acque che già tanto soprabbondando, minacciavano di allagare.
La notte del 27 dicembre i soldati urbani, incontrando un'affollata di
democrati armati, ne sorse una mischia confusa; un democrato fu morto,
due urbani feriti. Il sangue chiama sangue, il terrore già dominava la
città. L'ambasciatore Giuseppe di ciò informato, rispondeva, farebbe
che i suoi non si mescolassero in quei tumulti; ma non giovava, perchè,
o il volesse egli o nol volesse, si adunavano il dì 28 nella villa
Medici circa trecento democrati. Era fra di loro Duphot, e con la
voce e coi gesti e coll'alzar il cappello gli animava a novità, e le
facevano. Bande di fanti e di cavalli li disperdevano. Correvano al
palazzo Corsini, dove aveva le sue stanze l'ambasciatore di Francia,
d'onde chiamavano ad alta voce la libertà e gridavano di volerne
piantar le insegne sul Campidoglio.

Roma tutta si spaventava. Mandava il papa contro quella gente fanatica
i suoi soldati, i quali, prese le strade per al palazzo Corsini,
rincacciavano verso di esso a luogo a luogo i resistenti novatori.
Fra quella mischia i ponteficii traendo d'archibuso ferivano alcuni
democrati. Il terrore gli occupava: cercavano rifugio nel palazzo
dell'ambasciatore, ne empievano il cortile, gli atri, le scale. Si
fermavano, così comandati essendo, i soldati del pontefice per rispetto
a quell'asilo fatto sicuro dal diritto delle genti. I democrati
intanto, prevalendosi della sicurezza del luogo con parole e con gesti
agl'irati soldati insultavano. Non si poterono frenare, entrarono
con l'armi impugnate nel cortile. Nasceva una mischia, un gridare,
un fremere misto che meglio si può immaginare che descrivere. Indarno
mostravasi l'ambasciatore. Preso allora Duphot da empito sconsigliato,
siccome quegli che giovane subito ed animoso era, sguainata la spada,
si precipitava dalle scale e messosi coi democrati, gli animava a
voler scacciare i soldati pontificii dal cortile. In tale forte punto
i dragoni viemmaggiormente inferociti, traevano. Morivano parecchi
furiosi, ne riportava Duphot una ferita mortale, per cui dopo morì.

Scriveva risolutamente l'ambasciatore al cardinale segretario di Stato,
comandasse ai soldati che si ritirassero dai contorni del palazzo.
Rispondeva rappresentando quanto fosse difficile la condizione in cui
versava il governo del papa. Fuvvi chi, tentando di mitigare l'animo
dell'ambasciatore, voleva indurlo a far uscire dalla sua sede i nemici
del governo; alla quale richiesta non solamente non volle acconsentire,
cagionando che essi l'avevano preservato contro una nuova tragedia
Basvilliana, ma ancora più sdegnato che mai, rescriveva mandando al
cardinale una lista coi nomi degli assassini di Basville che dicea
abitare in Roma tuttavia, comparire alla luce impunemente. Il governo
di Roma rispondeva di nuovo che coloro che l'ambasciatore notava nella
sua lista o in Roma non dimoravano o erano stati per esami giuridici e
per sentenze solenni conosciuti innocenti.

Si turbava fortemente a queste parole l'ambasciatore, e, chiesti
i passaporti, protestava di volersene partire, il che era segno di
guerra. Quindi, non avuto riguardo alle offerte di satisfazione che gli
si facevano, nè alle preghiere del papa, nè deponendo il pensiero di
fare una dimostrazione ostile, tutto sdegnato, o che il fosse o che il
facesse, se ne partiva pei cavalli delle poste in tutta fretta verso
Toscana. Giunto a Parigi, rapportato il fatto nel modo più conforme
al suo intento ed a quello del direttorio, stimolava la Francia alla
guerra contro Roma.

Ordinava il pontefice rimedii spirituali di preghiere, di digiuni,
di penitenze, per ovviare alla ruina imminente. Parigi intanto veniva
fulminando: il sangue di Basville e di Duphot chiamar vendetta; doversi
disfare quel nido di assassini; l'ultima ora esser giunta della romana
tirannide; a quest'opera d'umanità esser serbata la Francia; vedrebbe
il mondo quanto avesse la repubblica a cura i suoi cittadini che vivi
li proteggeva, uccisi li vendicava. Tali erano le amplificazioni dei
tempi, e le turbe seguitavano. Il direttorio, imputando a disegno
espresso del pontefice ciò che era l'effetto fortuito di provocazioni
straordinarie, mandava comandando a Berthier, marciasse incontenente
con tutto l'esercito a passi presti contro Roma.



    Anno di CRISTO MDCCXCVIII. Indiz. I.

    PIO VI papa 24.
    FRANCESCO II imperatore 7.


Avutosi da Berthier il comandamento di marciare incontanente con tutto
lo esercito a passi presti contro Roma, quantunque se ne vivesse molto
di mala voglia per essergli venute a noia le rivoluzioni, si metteva in
assetto per mandarlo ad esecuzione. Commesso l'antiguardo a Cervoni,
gli comandava che si alloggiasse in Macerata: dava il governo della
battaglia a Dalemagne per modo che d'un solo alloggiamento si tenesse
discosto dall'antiguardo. Alloggiava il retroguardo a Tolentino con
Rey, con mandato di osservare le bocche d'Ascoli per le quali si va
nel regno di Napoli, e di far sicure le strade degli Appenini fra
Tolentino e Foligno. Lasciava finalmente con grosso presidio in Ancona
Dessolles, con avvertimento di sopravvedere con bande sparse il paese
e tenerlo purgato dai contadini Urbinati che, portando grande affezione
alla sedia apostolica, erano sempre inchinati a far moto in suo favore.
Metteva alle stanze di Rimini quattro mila Polacchi sotto la condotta
di Dombrowski, e con questi anche le legioni cisalpine, le quali
nissuna cosa santa ed inviolata avendo, commisero atti di cui quei
popoli si erano mossi a grandissimo sdegno: le avrebbero anche condotte
all'ultima uccisione se non fosse sopraggiunto Berthier coi soldati di
Francia. Così il sacco e la rapina erano usati in Italia non solamente
dai forastieri, ma ancora dagli Italiani.

Incamminandosi alla distruzione del governo pontificio, mandava fuori
Berthier da Ancona, il dì 29 gennaio, un manifesto, in cui tra le
altre cose diceva che un esercito franzese movevasi ora contro Roma,
ma che solo si muoveva per punire gli assassini del prode Duphot, per
punire quegli assassini medesimi ancora rossi del sangue dell'infelice
Basville, per castigar coloro che si erano arditi disprezzare il
carattere e la persona dell'ambasciatore di Francia; che la Francia
sapeva, essere il popolo romano innocente di tanta immanità e perfidia:
che l'esercito franzese il terrebbe indenne e sicuro da ogni oltraggio.
Poscia, rivoltosi ai soldati, gli ammoniva ed avvertiva che il popolo
romano non si era mescolato nelle scelleraggini di chi li riggeva,
l'amassero pertanto, il proteggessero; sapessero che la repubblica
comandava loro che rispettassero le persone, le proprietà, i riti ed i
templi di Roma; darebbesi pene asprissime a chi si dasse al sacco.

Ciò detto, moveva le schiere al destino loro. Le genti repubblicane,
preso Loreto e commessovi qualche sacco, posto a taglia Osimo che si
era levato a favor del papa, varcati prestamente gli Appenini, alla
appetita Roma si approssimavano. Era in questo estremo punto l'aspetto
della città vario e per ogni parte pericoloso; alcune condizioni
riguardavano le passate cose, alcune le presenti; generavansi sette ed
umori molto diversi. Il trattato di Tolentino aveva tolto al papa gran
parte della riputazione e della riverenza che prima gli portavano. Il
vedere poi la magnifica Roma spogliata dei suoi ornamenti più preziosi
partoriva sdegno ne' popoli non solamente contro gli spogliatori,
ma ancora contro il pontefice; giudicando essi sempre dagli effetti
e non dalle cagioni. Trovavasi inoltre il pontefice ridotto alla
necessità, per le stipulazioni del trattato, d'aggravare con nuove
tasse i sudditi, a fine di poter bastare alle somme esorbitanti ch'era
tenuto di sborsare alla repubblica. Quindi, speso tutto il tesoro di
San Pietro, si era dovuto por mano negli ori ed argenti dei privati,
gittar nuove cedole con maggiore scapito così delle vecchie come delle
nuove, ed ordinare una tassa del cinque per centinaio su tutti i beni.
Di più si venne alla vendita del quinto dei beni ecclesiastici, il
che parve grande attentato contro le immunità ecclesiastiche, e questa
rivoluzione fu molto dannosa al pontefice, perchè gli tolse il favore
di coloro sui quali principalmente si fondava la sua potenza. Le casse
piene di gentilezze antiche, quelle che contenevano i denari estorti
con tanta difficoltà dal pubblico e dal privato, da Roma continuamente
partendo e la sembianza e il fatto di uno spoglio indefesso ai Romani
rappresentando, accrescevano la mala contentezza e rendevano il papa
spregiato ed odioso. Nè era nascosto che le gioie stesse per la valuta
di parecchi milioni erano state poste in balia del vincitore. Per le
angustie dell'erario aveva il papa molto rimesso da quelle pompe e
da quella magnificenza con le quali era stato solito vivere. Mancato
questo splendore, si cambiava l'affetto in disprezzo.

In tanta mutazione d'animi le antiche querele si rinnovavano. I
servitori soprattutto, di cui tanto abbonda Roma, diminuiti i salarii,
si lamentavano e facevano, sfrenati, un parlare perniziosissimo.
Si arrogevano i discorsi dei politici e degli amatori dell'antica
disciplina della Chiesa, gridavano quelli contro il governo di preti
inesperti, ed affermavano doversi lo Stato commettere al freno di
uomini prudenti e conoscitori delle umane cose; se Roma spirituale
periva, vociferavano, doversi almeno salvare Roma temporale. I secondi
dimostravano dannosa la potenza terrena dei pontefici; esser tempo
di ridurre i costumi trascorsi della Chiesa alla semplicità antica,
e la potenza dei papi ai limiti primitivi. Le dottrine pistoiesi,
mostrandosi più spacciatamente, acquistavano maggior credito ed i
fautori loro nutrivano speranza che lo Stato della Chiesa si avesse
a ridurre in similitudine ai tempi che furono prossimi a quelli degli
Apostoli.

Ma i democrati, che non amavano meglio una religione riformata che
uno stato regolato, confortati da apparenze tanto nemiche al papa,
ed avendo ardente desiderio della vittoria de' Franzesi, pigliavano
novelli spiriti, e, più vivamente operando, minacciavano prossima la
ruina al reggimento antico. Sentivano e vedevano i raggiratori della
turbata Roma queste cose, ma meglio desideravano che potessero porvi
rimedio. Pure mandavano fuori provvisioni contro lo sparlare, ma il
tempo era più forte di loro e la proibizione accresceva la licenza.
Così lo stringere e l'allentare il freno era parimente esiziale al
papa, crollavasi lo Stato già prima che Francia gli desse la ultima
spinta. Il pontefice, abbandonato da que' primi rumori da quasi tutti
i cardinali, trovava un debole conforto di parole nel cardinale
Lorenzana, protettore del reame di Spagna, nel principe Belmonte
Pignatelli, mandato a lui dal re di Napoli, e finalmente nel cavaliere
Azzara, ministro di Spagna. Vedutasi dal papa la ruina inevitabile,
ordinava ai capi de' suoi soldati, facessero nissun moto di resistenza,
e si ritirassero con quel passo con cui i Franzesi si avvicinavano;
pensava alla quiete di Roma, ingrossando il presidio; perchè non voleva
che l'anarchia precedesse la conquista.

Il dì 10 febbraio molto per tempo si mostravano i repubblicani
sui romani colli: ammiravano una tanta città. Tagliavano trincee,
piantavano cannoni. Per accordo stipulato per parte del papa da
Azzara e da alcuni cardinali, entravano nella magnifica Roma il
giorno medesimo e, fatto sloggiare dal Castel Sant'Angelo il presidio
pontificio, l'occupavano. Pretendevano anche, condotti da Cervoni,
i principali posti della città. Poi, accompagnato da' suoi primi
ufficiali e scortato da grosse squadre di cavalleria, entrava il dì
11 trionfando Berthier. Al tempo medesimo i manifesti promettitori
di rispetto alle persone, alle sostanze, ai riti, alla religione si
affiggevano su per le mura. Alloggiava Berthier nel Quirinale, mandava
Cervoni al Vaticano per far riverenza al pontefice, assicurandolo
della persona e dell'antica sovranità. Scriveva il dì medesimo del
suo ingresso a Buonaparte, che un terrore profondissimo occupava
Roma, e che lume nissuno di libertà appariva da nessun canto; che
un solo democrata era venuto a trovarlo offrendogli di dar libertà
a due mila galeotti. Dava speranze e faceva promesse d'aiuto ai
novatori, piuttosto per ordine che per voglia. Queste promesse e
questi incitamenti sortivano lo effetto; il giorno 15 di febbraio,
correndo l'anniversario della incoronazione del pontefice, che a quel
dì medesimo compiva ventitrè anni di regno, si levava subitamente per
tutta Roma un moto grandissimo di gente che chiamava la libertà, e,
mossa fin su quel primo principio da servile imitazione, traendo seco
non so qual fusto di pino, s'incamminava a calca verso Campo Vaccino.
La folla, le grida, la veemenza crescevano ad ogni passo. Molti
correvano per vedere, alcuni per aiutare, nissuno per contrastare,
perchè le pattuglie repubblicane che giravano, impedivano ogni
moto contrario. Giunta che fu quella immensa frotta dirimpetto al
Campidoglio, crescendo vieppiù le grida e lo schiamazzo, a fronte
del famoso colle rizzava l'albero con una berretta in cima, e
viemmaggiormente infiammandosi a tale vista, gridava _libertà,
libertà_! nè contenti a questo, i capi givano ad alta voce interrogando
gli astanti, se volessero viver liberi: risuonava tutto Campo Vaccino
del sì. Seguitavano capi a domandare: È _volontà questa del popolo
Romano?_ Di nuovo risuonava il Campo Vaccino del sì. Cinque notai
richiesti rogavano l'atto, siccome il popolo romano sovrano e libero
aveva vendicato i suoi diritti, che libero e franco si dichiarava, che
al governo del papa rinunziava, che in repubblica voleva libero vivere
e libero morire. Qui le grida, gli strepiti, il gittar dei cappelli,
l'abbracciarsi, il confortarsi, il pianger della gioia, il rider
per pazzia che sorsero, non son cose che da umana penna si possano
agevolmente descrivere. Poi i motti contro i preti, contro i cardinali,
e le ipotiposi sui vizii della corte romana andavano all'eccesso. Gli
atti e gli scherzi che si fecero, non sono da raccontarsi.

Rogato l'atto, si eleggevano dal popolo convocato uomini a posta
perchè l'atto medesimo portassero a Berthier e gli raccomandassero la
novella repubblica. Eravi solennità: entrava a guisa di trionfatore
per la porta del Popolo il generale di Francia, con magnifico
corteggio dietro ed intorno di splendidi ufficiali e di cento cavalli
eletti da ciascun reggimento. Suonavano con grandissimo strepito gli
stromenti della musica militare; l'affollato popolo applaudiva. Non
così tosto compariva alla porta del Popolo, che era presentato di una
corona dai capi in nome del popolo romano. L'accettava, protestando
ch'ella di ragione apparteneva a Buonaparte, le cui magnanime imprese
avevano preparato la libertà romana. Salito in Campidoglio bandiva la
repubblica Romana solennemente, la riconosceva in nome della Francia,
lodava la libertà, chiamava i Romani figliuoli di Bruto e di Scipione.
Queste cose si facevano veggendo ed udendo dalle stanze del deserto
Vaticano il canuto ed infermo pontefice. Erano tutto il restante giorno
e la seguente notte canti, balli e rallegramenti di ogni forma.

La Cisalpina repubblica a questi sovvertimenti si rallegrava; scriveva
il direttorio nella solita lingua servile, per mezzo del presidente,
ai legislatori cisalpini mille esagerazioni. Queste erano le poesie, o,
per parlare con Buonaparte, i romanzi dei tempi.

Fra mezzo a tanta ruina continuava a starsene nelle sue stanze del
Vaticano papa Pio VI con qualche apparato di sovranità. Ma in quello
stato di Roma non poteva più un papa sussistere, nè per lui, per
la dignità, nè pei repubblicani per la sicurezza. In oltre, l'opera
del direttorio doveva consumarsi intiera. S'incominciavano a mandar
carcerati in Castel Sant'Angelo, o confinati nelle proprie case, alcuni
cardinali ed altri personaggi di nome e d'autorità. Toglievasi quindi
dal Vaticano la guardia svizzera con dolore vivissimo del pontefice,
che non se ne poteva dar pace; vi surrogavano la guardia franzese.
E qui la verità vuol che si dica che il venerando Pio, ridotto in
caso di sì estremo abbassamento, non andava esente da parte di alcuni
repubblicani di Francia da scherni tali che l'ammazzarlo sarebbe
stato poco maggiore mancamento. Agli scherni succedeva l'esilio:
Cervoni, avutone comandamento da Berthier, introdottosi nelle stanze
del pontefice, in nome della repubblica Franzese gl'intimava che
si dispogliasse della sovranità temporale. Rispondeva Pio, avere la
sua temporale sovranità ricevuto da Dio e per libera elezione degli
uomini; non potere nè volere rinunziarvi; alla età sua di ottant'anni
potersi bene fare mali grossi, ma non lunghi; essere parato a qualunque
strazio; essere stato creato papa con piena potestà; volere, per quanto
in lui fosse, papa morire con piena potestà; usassero la forza, poichè
in mano l'avevano, ma avvertissero che se avevano in poter loro il
corpo, non avevano parimenti l'animo, il quale, in più libera regione
spaziando, di accidenti umani non temeva; esservi un'altra vita per lui
oggimai vicina, in lei nulla gli empi, nulla i prepotenti potrebbero.

Restava, poichè l'animo non avevano potuto vincere, che vincessero il
corpo. Il pubblicano dell'esercito, che al suono delle romane finanze
era prestamente accorso, appresentatosi al pontefice, gl'intimava,
tempo due giorni, da Roma si partisse. Rispondeva Pio, non potere
resistere alla forza; ma volere che il mondo sapesse che sforzato il
proprio gregge abbandonava.

Il dì 20 febbraio sforzavano i repubblicani il papa a partire. Lasciava
Pio l'antica sede, cui non era per rivedere più mai. L'accompagnavano
solamente, miserande reliquie di corte tanto sontuosa, oltre alcuni
addetti ai servigi domestici, monsignor Incio Caracciolo di Martina,
suo maestro di camera, e l'abbate Marotti, professor di retorica
del collegio romano, suo segretario eletto. Uscito da porta Angelica
s'incamminava verso Toscana. Lo scortavano e guardavano diligentemente
soldati repubblicani a cavallo. Accorrevano dai luoghi vicini e
dai lontani i popoli riverenti ad inchinare il pontefice cattivo:
muovevanli a rispetto ed a compassione la dignità, l'età, la malattia,
la sventura. Per tal modo, vecchio, infermo e prigioniero lasciava
Pio Roma, caso non più veduto dappoichè Borbone ne cacciava Clemente;
lasciava Roma cui aveva abbellito con opere magnifiche e che doveva
fra breve essere spogliata di quanto la durezza dei patti Tolentiniani
vi aveva lasciato d'intero e d'intatto; lasciava Roma, già padrona
per opinione del mondo, ora serva per opinione e per baionette di
nuove repubbliche. Singolare città che o padrona o serva, o magnifica
o saccheggiata, ebbe sempre per destino di provare i due estremi
in cui gli umani casi si concludono. Trovava il pontefice ricovero,
contuttochè sempre gelosamente fosse custodito, nel convento degli
Agostiniani di Siena, e confortato negli ossequii del granduca e nelle
lettere consolatorie scrittegli da tutta la cristianità. Il tentavano
spesso i repubblicani perchè rinunziasse alla potestà temporale; il
che egli costantissimamente sempre ebbe negato. Per questa cagione
si ordinava che strettamente si custodisse, e se gli restringeva la
facoltà di veder gente; rigore tanto più da condannare quanto più
non era di nessun frutto, ed aveva per fine una rinunzia per forza.
Succedeva poscia un caso spaventoso, che tremava per terremoto il
convento, come se Dio volesse provare sino all'ultimo la costanza del
desolato pontefice. Distrutta parte della casa, gli fu forza sloggiare;
raccolto prima nel palazzo Venturi, poi nella villa Sergardi, si
riduceva finalmente ad abitare nella Certosa di Firenze. Ma la sua
presenza sul continente, particolarmente in paese sì vicino a Roma,
dava sospetto ai repubblicani. Perlochè ordinavano che si trasportasse
in Cagliari di Sardegna. Ma, tra per le rappresentazioni delle persone
benigne che continuavano ad avergli affezione, e per la ritrosia del re
di Sardegna che abborriva dal divenir custode di un papa, era infine
Pio lasciato stare nella Certosa infinochè, venuti in Italia tempi
pericolosi pei repubblicani, lo trasferivano in Francia.

Roma, priva del pontefice, perdeva anche per sacco, parte violento,
parte frodolento, le sostanze, e gli ornamenti più preziosi dello
Stato. Nè in questo gli spogliatori portavano più rispetto alle sacre
che alle profane cose, alle private che alle pubbliche, nè le rapine
avevano termine che con le stanze dei repubblicani. Cominciava lo
spoglio da alcuni capi sì militari che civili; scendeva per l'esempio
nei soldati. Solo incorrotti si mantennero la maggior parte degli
ufficiali di mezzo, i quali ne fecero un solenne risentimento. Giravano
nello Stato romano ventisette milioni di cedole; fu ridotto al quarto
il valore loro; ma questa legge savissima in sè stessa, fu crudele
perchè promulgata subito dopo che gli agenti del direttorio avevano
speso per le loro provvisioni sì pubbliche che private tutta quella
copia di cedole che avevano trovato nelle casse papali; e fu anche
aggiunto che se ne stampassero in fretta in fretta per altri sei
milioni e si gittassero nel pubblico.

Oltre le cedole, le romane finanze consistevano in una quantità di beni
assai considerabile, che appartenevano allo Stato, e questi in nome
della repubblica franzese occupavano i suoi agenti. Poi ponevansi al
fisco della repubblica i beni del collegio della Propaganda, quelli
del Sant'Officio e dell'Accademia ecclesiastica, le paludi Pontine
e le tenute della Camera apostolica. Ciò spettava agli stabili; ma i
mobili non si risparmiavano: qui fuvvi non confiscazione, ma sacco.
Quanto di più nobile e più prezioso adornava i palagi del Vaticano e
del Quirinale fu involato. Fu la cupidigia degli agenti del direttorio
veramente barbara.

Fu, come il Vaticano, spogliato Montecavallo, fu spogliato Castel
Gandolfo, fu spogliata la nobil sede di Terracina. Come gli arnesi
più squisiti, così il più misero vasellame di cucina furono involati,
nè più risparmiati i sacri che i profani arredi. Passava il sacco dai
palazzi dello Stato e del papa a quelli de' suoi parenti, ed anzi a
que' di coloro, o principi romani o cardinali che si fossero, che più
si erano dimostrati costanti nel far argine alle dottrine che avevano
servito di mossa e tuttavia servivano di fondamento alla rivoluzione.
Il palazzo della città, quei del principe e del cardinale Braschi,
quello del cardinale di York furono con eguale avarizia depredati.
Soprattutto miseramente guasto e devastato fu quello della villa
Albani, di cui era signore il cardinale e principe di questo nome.
Quanto in lui si trovava di più prezioso per materia e per lavoro,
fu tocco e rapito dalle avare mani dei forastieri. Il giardino stesso
dell'Albani fu guasto e deserto, gli aranci e le altre piante odorose
o rare vendute a vil prezzo. La rapacità che si usava in Roma e nei
contorni si dilatava in tutto lo Stato romano, ed ogni sostanza sì
pubblica che privata era posta a mercato. Nè dal sacco andarono esenti
le chiese appartenenti alla nazione spagnuola ed austriaca, sebbene
una alleata, l'altra amica della repubblica vivessero a quel tempo. Al
sacco succedevano le tasse, le quali qualche volta si convertivano in
sacco segreto assai più vile del primo. Erano enormi, ma vi era modi di
riscatto nascosti, e qualche volta a bella posta si mettevano perchè i
modi del riscatto si usassero. Si tassava la sola famiglia Chigi di più
di dugento mila scudi; l'incisore Volpato di più di dodici mila, e fra
dodici ore avesse a pagargli. Talvolta si minacciavano le confische per
aver denaro; talvolta si addomandava denaro per avere o quadri o statue
od altre simili gentilezze preziose. Per tal modo Roma, già consumata
dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei
repubblicani.

Non ostante tanti spogli e tante rapine, se ne viveva l'esercito
bisognoso di ogni cosa, e mentre le cassette piene di cose preziose
che appartenevano agli agenti del direttorio, s'incamminavano alla
volta di Francia, o segretamente od anche apertamente, perchè a tale
di sfrontatezza si era venuti, i soldati non avevano le paghe corse
da molti mesi, e laceri e scalzi, e privi di ogni bene, accusavano
l'ingordigia di coloro che, preposti al vitto ed al vestimento loro,
credevano dover convertire in benefizio proprio le ricchezze dei
paesi conquistati con le fatiche e col sangue loro. Ciò produsse una
gran lite degli uffiziali subalterni, ai quali stava a cuore l'onore
di Francia, ed infinitamente cuocevano i raccontati disordini contro
Massena, surrogato a Berthier, e cui imputavano di molte estorsioni
fatte, come dicevano, in tutti i paesi italiani venuti sotto il di lui
governo, massimamente nel Padovano, e contro Huller, cui principalmente
accusavano delle italiane espilazioni e della franzese miseria.

Massena intanto era uscito di Roma ordinando, lasciato solamente un
presidio di tre mila soldati in Castel Santo Angelo ed in altri luoghi
forti, che tutto l'esercito il seguitasse, così sperando di scioglier
quel nodo degli ufficiali contro di lui. Ma quelli insistevano;
scrivevano a Berthier, ripigliasse il freno delle genti; protestavano
a Massena, non volergli più obbedire. Pensò dunque a ritirarsi, e,
lasciato il governo a Saint-Cyr e a Dallemagne, se ne andava in Ancona.

I Romani, osservato lo scompiglio delle genti franzesi ed essendo
sdegnati per tante vessazioni, nè potendo più oltre portare sì
dura servitù, perchè oramai un popolo di quasi due milioni d'anime
era ridotto alla fame, tentavano un movimento più temerario che
considerato. I primi a romoreggiare furono i Trasteverini, gridando:
_Viva Maria_. Avviatisi verso San Pietro in grosso numero, uccidevano
una guardia franzese, s'impadronivano di Ponte Sisto e delle strade
che mettono capo in esso. Al tempo medesimo le campagne tumultuavano;
Velletri, Albano, Marino, Cività di Castello si muovevano; la mossa
era grave. Già i Franzesi erano uccisi alla spicciolata, e già
le più grosse squadre si trovavano in pericolo. Ma essendo gente
valorosa, usa all'armi ed ai tumulti improvvisi, poste dall'un de'
lati le dissensioni loro, muovendoli il pericolo comune si ordinavano
tostamente alle battaglie contro quei popoli spinti piuttosto da
furore che da disegno bene ordinato. Vial muovevasi contro la gente
tumultuaria di Roma, Murat contro quella del contado. Fu fatto in
queste battaglie molto sangue, perchè i Franzesi coi loro squadroni
agguerriti combattevano virilmente, ed i Romani, mossi da furore e
da zelo religioso, menavano ancor essi le mani aspramente. Infine,
prevalendo la disciplina e l'opera delle artiglierie bene governate
dai repubblicani, di cui mancavano i Romani, acquistarono i primi
con molta preponderanza il vantaggio. Dispergevansi gli avversarii
e si nascondevano chi per le case e chi per le campagne. Fecero i
contadini, ritiratisi ai monti, una testa grossa, ma Murat, penetrando
coi soldati armati alla leggiera in quei riposti ricoveri, gli
sperperava. Di centocinquanta prigioni, parte furono mandati al remo,
parte giustiziati con le palle soldatesche. Roma, piena di terrore,
d'orrore e di sangue, lagrimosamente si querelava. Si toglievano con
diligente cura le armi ai popoli. Accagionaronsi, come fautori di
questo moto, i cardinali ed altri prelati sospetti di affezione verso
il papa. S'intimò ai primi, o rinunziassero alla dignità cardinalizia
o andassero carcerati. Rinunziarono Antici ed Altieri; ricusarono
Antonelli, Giuseppe Doria, Borgia, Rovenella, la Somaglia, Carandini,
Archetti, Mauri, Mattei; fu dato bando ai due ultimi dalle terre della
repubblica romani. Gli altri, prima posti in carcere, poi condotti a
Cività Vecchia ed imbarcati su navi sdruscite, furono mandati a cercar
ricovero in paesi stranieri. Il cardinal Rezzonico, come infermo di mal
di morte, fu lasciato stare: Albani che più d'ogni altro desideravano
di avere in poter loro, fu fatto correre dai cavalli leggieri, che
il seguitavano, ma giunse a salvamento nel regno. In questo modo
quanto avea la Chiesa cattolica di venerando per età, per dignità, per
dottrina, era disperso e calpestato.

Gli accidenti romani fin qui narrati sapevano di tumulto e di
confusione, siccome quelli che succedevano sulle prime alla militare
conquista. Restava che la oppressione e la servitù si ordinassero
sotto ingannevole forma di governo regolare, come se fosse intento
dei conquistatori di fare scherno alla libertà e di metterla in
odio a tutti coloro che l'amavano. A questo fine aveva il direttorio
mandato a Roma quattro suoi commissarii, che furono Faipoult, Florent,
Daunon e Monge, uomini che facevano professione di amore la libertà.
Deliberarono fra di loro di dar una costituzione alla repubblica
Romana. Ed ecco pubblicarsi un corpo di costituzione, il quale altro
non era che sotto nomi romani la costituzione franzese; imperciocchè
sotto nome di consolato, di senato, di tribunato, di tribunale di
alta pretura e di alta questura, vi era un direttorio, un consiglio
degli anziani, un consiglio dei giovani, un tribunal di cassazione,
e commissarii dei conti. A questi si aggiungevano gli altri fastidii
servili delle amministrazioni centrali per ciascun dipartimento della
repubblica, e di una amministrazione centrale per ogni cantone. Si
noveravano otto dipartimenti, del Tevere, del Cimino, del Circeo, del
Clitunno, del Metauro, del Musone, del Trasimeno, e del Tronto: avevano
per capitali Roma, Anagni, Viterbo, Spoleto, Macerata, Sinigaglia,
Perugia e Fermo. Erano questi i magistrati; le leggi come quelle di
Francia. Dalle leggi passava l'imitazione insino agli abiti; perchè
i magistrati furono ordinati vestirsi alla franzese, mutato solo pei
consoli, senatori e tribuni il color rosso in nero; la forma simile a
quella dei quinqueviri, degli anziani, dei cinquecento di Francia.

Si crearono consoli per la prima volta Liborio Angelucci ed Ennio
Quirino Visconti da Roma, Giacomo Dematteis da Frosinone, Panazzi e
Reppi da Ancona. Ma variarono molto nella breve vita della repubblica
Romana i consoli, perchè si scambiavano ad un primo capriccio del
generale o del commissario di Francia. Fu instituito segretario del
consolato un Bassal, il quale già mandato da Buonaparte a fomentare
la rivoluzione di Venezia, se n'era venuto a fomentar quella di Roma.
Chiamaronsi ministri un Torriglioni, un Camillo Corona, un Mariatti, un
Bremond franzese.

I quattro commissarii inserirono però nella costituzione romana questo
capitolo, che si avesse a fare al più presto un trattato d'alleanza
tra la repubblica Romana e la Franzese, il quale sino a che fosse
ratificato, tutte le leggi fatte dai due corpi legislativi romani
non potessero essere nè pubblicate nè eseguite senza l'approvazione
del generale franzese che stava al governo di Roma; e che il generale
medesimo potesse di sua propria autorità fare tutte quelle leggi che a
lui paressero necessarie, conformandosi non ostante alle instruzioni
del direttorio. E questa, oltre gli spogli, le tasse violenti, ed il
rimanente, era la libertà di Roma.

Era nella costituzione un capitolo che ordinava di giurar odio alla
monarchia, fedeltà ed attaccamento alla repubblica. Papa Pio aveva
udito dal suo ritiro della Certosa di Firenze che il governo della
repubblica esigeva questo giuramento da tutto il clero e dai parrochi
di Roma. Volendo per regola delle coscienze definire questa materia,
e parendogli che non si convenisse ai ministri della religione il
giurar odio ad alcuna forma di governo, scrisse un breve a monsignor
Passeri, vicegerente di Roma, ammonendolo, non esser lecito prestar
puramente e semplicemente il giuramento suddetto, ed ordinandogli
di notificare agl'intimati questa sua decisione pontificia e di
avvertire che la eseguissero. Ma siccome, continuava a discorrere,
interessava anche moltissimo che la repubblica fosse persuasa
della rettitudine delle massime del clero di Roma relativamente
al repubblicano governo, conformi in tutto agl'insegnamenti della
cattolica religione, così statuiva che ciascuno potesse con sicura
coscienza giurar fedeltà e soggezione alla repubblica che attualmente
comandava, essendo stato unanime insegnamento dei santi Padri e
della Chiesa che sia dovuta fedeltà e subordinazione a chi, secondo
la varietà dei tempi, ha in mano le redini del governo, o sia a chi
attualmente comanda. Definì inoltre che ciascuno potesse giurare di
non prendere parte in qualsivoglia congiura, trama o sedizione pel
ristabilimento della monarchia e contro la repubblica: e potesse
altresì giurare odio all'anarchia, essendo questa uno stato di
disordine. Finalmente deliberò che si potesse giurare fedeltà ed
attaccamento alta costituzione, salva per altro la cattolica religione.
Pensava papa Pio che i magistrati della repubblica non avrebbero
rigettato questa formola, giacchè era in tutto conforme, come si
esprimeva, all'atto del popolo sovrano del 15 febbraio del presente
anno, con cui il popolo riunito innanzi a Dio ed al mondo tutto,
con un sol animo ed una sola voce aveva dichiarato, voler salva la
religione quale di presente venerava ed osservava, cioè la religione
cattolica. Ma partito da Roma monsignor Passeri e succedutogli nella
carica di vicegerente l'arcivescovo di Nassanzio, quest'ultimo di
propria autorità e contro le intenzioni del papa, diede una seconda
instruzione per cui i professori del collegio Romano e della Sapienza
si credettero autorizzati a prestare, come fecero, il giuramento
tale quale era prescritto dalla costituzione, solo facendo qualche
protestazione a voce. Udì gravemente il papa quest'accidente, e
rescrivendo all'arcivescovo, lo ammonì di nuovo delle sue intenzioni,
gli comandò richiamasse la seconda instruzione, e si lamentò che per
essa e per l'esempio dei professori soprannominati sembrasse che Roma,
già maestra di verità, si fosse fatta maestra dell'errore. Savie,
prudenti e conducenti alla quiete dello Stato erano queste sentenze
di Pio. Intanto questa faccenda dei giuramenti, per l'ordinario tanto
gelosa, si rammorbidì facilmente, sì per la prudenza del papa come per
la sopportazione dei magistrati della repubblica, nè produsse, come si
temeva, o movimenti o persecuzioni d'importanza.

Creata la repubblica Romana, si spegneva l'Anconitana, la quale non era
stata mai altro che un appicco contro il papa. I suoi territorii, salvo
San Leo, si incorporarono alla Romana.

Il dì 20 marzo, si celebrava nella vastissima piazza del Vaticano la
confederazione della repubblica Romana a guisa di quella che fu da
noi già descritta della Cisalpina. Furonvi archi trionfali, sinfonie,
illuminazioni, canti, balli; magnifica festa, ma con molto schiamazzo e
molte satire alla Romanesca. Saliva con grande apparato sul Campidoglio
Dallemagne, chiamava i senatori, apriva il senato, spiegava al vento
la romana bandiera. Poi instituiva il tribunato, quindi i consoli
sulla piazza del Vaticano; bandiva la costituzione, dichiarava Roma
libera; i consoli dall'alto della scalea giuravano. Si coniava, poscia,
pure romanescamente al solito, la medaglia adulatoria, bella assai e
con questi motti: _Berthier restitutor urbis; e Gallia salus generis
humani_.

Qui sarebbero da descrivere alcune maggiori cose per cui mutossi
inopinatamente lo Stato d'Europa, quel d'Africa turbossi, le ottomane
spade chiamaronsi ad insanguinar l'Italia, ed il dominio di questa
combattuta parte d'Europa passò da Francia a quello che di nuovo
lo combatterono: ma non ci è dato che toccar di volo i principali
fatti. Concluso il trattato di Campoformio, si riposava la Francia in
pace con tutte le potenze del continente, ed, oltre a ciò, aveva per
alleate la Spagna, il Piemonte, le Cisalpina, l'Olanda. Le vittorie
conseguite, il nome de' suoi generali, il valore e la costanza de' suoi
soldati, avevano dato timore a tutti. Per la qual cosa, quantunque
tutti vedessero mal volentieri confermarsi in Francia, cioè nel
centro dell'Europa, principii contrarii alla natura dei governi loro,
contenuti dal timore, nissuno ardiva di muoversi ed aspettavano tempi
migliori. Perciò la Francia, non avendo nissun sospetto vicino al
continente, poteva voltar tutte le sue forze verso l'Inghilterra. A ciò
fare ella si trovava molto ben provveduta d'armi, di navi, di capitani,
d'alleanze, e di quanto potea condurre a prospero fine una spedizione.

In questa condizione di tempi i ministri d'Inghilterra, Pitt
principalmente, guida allora e indirizzatore dei consigli di quel
reame, conobbero il pericolo in cui erano, anche perchè non pochi
nell'Inghilterra medesima avevano accettato i principii della
rivoluzione franzese ed avrebber potuto secondare i Franzesi. Però,
avendo potentissima occasione di muoversi, si mettevano all'ordine
per ovviare a tanto precipizio, tentando con ogni sforzo di accendere
un novello incendio di guerra sul continente con istimolar di nuovo
le potenze alle cose di Francia, alle ragioni aggiungendo offerte di
denari ed aiuti di genti.

A queste istigazioni l'Austria rispondeva, che quantunque debilitata,
era per insorgere di nuovo e correre all'armi se la Russia consentisse
a voler anche essa venire efficacemente a parte della contesa e la
spalleggiasse con pronti aiuti. La Russia tentata rispondeva che si
accosterebbe volentieri alla lega, quando l'Inghilterra l'assicurasse
della Turchia. Gli Inglesi allora ed a questo fine tentarono il governo
Ottomano. Rispondeva il sultano che per l'antica unione della Porta con
quel paese non voleva pruovare le armi contra la Francia, nè collegarsi
con loro che muovevano.

Non potendo adunque i ministri di Inghilterra venire a capo
dell'intento loro di seminar nuove discordie, si voltavano ad altre
arti, mandando agenti a Parigi con le mani piene d'oro per muover la
Francia contro sè medesima. Costoro con discorsi infiniti voleano
distogliere il direttorio dall'impresa d'Inghilterra e portarne
le viste sopra paesi più lontani, per allontanare gli ambiziosi,
Buonaparte specialmente, che poteva al direttorio dar ombra, e
indicavano come opportuna conquista l'Egitto. Speravano gli autori
di queste insinuazioni che l'assaltare la Francia l'Egitto avesse ad
essere per lei cagione di nimicizia col sultano, la qual nimicizia era
il fondamento principale di tutte queste nuove macchinazioni.

Questi discorsi andavano molto a versi del direttorio. Ma dall'altra
parte i medesimi agenti andavano tentando l'animo di Buonaparte, le più
seducenti cose del mondo ripetendogli. Piacque la proposta al giovane
capitano, il quale, sebbene fosse giusto e sagace estimatore degli
uomini e delle cose in ogni altra faccenda, sentiva, ciò non ostante,
un poco del romanzesco quando si trattava di guerra e di gloria
militare.

In tale forma accordate le cose, s'incominciava a disporre gli animi in
Francia ad una impresa tanto straordinaria. Vi si parlava dell'Egitto
come della terra promessa, della prosperità del commercio, della
scoperta delle antichità, dei progressi della civiltà, del cacciamento
degl'Inglesi dall'Indie, della padronanza di quelle ricche sponde
del Gange. Allignavano facilmente questi pensieri in Francia, perchè
la nazione, animosa per indole propria, era a quei tempi talmente
accesa, che qualunque più alto e difficoltoso fatto le pareva di
facile esecuzione, e la difficoltà stessa le era sprone e speranza.
Talleyrand leggeva all'Istituto uno scritto composto con singolare
eleganza e maestria, con cui dimostrava e l'importanza dell'Egitto e
l'utilità della sua possessione. Si dava voce, ch'egli stesso fosse per
essere mandato ambasciadore straordinario presso la Porta Ottomana per
ispiegar bene a quel governo i pensieri della Francia rispetto alla
spedizione d'Egitto e per mantener tuttavia salva l'antica concordia
fra i due Stati. Furono anche spediti dispacci indirizzati a lui a
Costantinopoli come se già fosse partito ed avviato a quella volta.

Intanto con grandissimo apparato si provvedevano le cose necessarie
alla spedizione. Concorrevano sì da Francia che da Italia, uomini,
navi, armi e provvisioni di ogni sorta a Tolone, dove si era condotto
Buonaparte per sopravvedere e sollecitare. Era egli poco innanzi stato
tratto membro dell'Instituto e con tale qualità ne' suoi dispacci
s'intitolava, volendo conciliarsi gli animi degli scienziati e dei
letterati di Francia che aveano grande autorità nelle faccende e
si mostravano molto invidiosi del dominio militare. Voleva altresì
che gli uomini si persuadessero che quantunque soldato ed uso alle
guerre, era nonostante protettore della civiltà e di chi la fomenta.
Ciò importava anche alla spedizione in un paese antico, fonte del
sapere. Imbarcaronsi pel medesimo fine alla volta dell'Egitto molti
scienziati di chiaro nome in Francia. Ma l'Inghilterra dall'un de'
lati favoreggiando Buonaparte e sollecitando le sue passioni più
vive, dall'altro nutrendo gli smisurati desiderii ed i sospetti del
direttorio, aveva riuscito ad un fine molto utile per lei, quello di
metter discordia tra la Francia e la Turchia, d'abilitar la Russia
ad unirsi all'Austria, di aprir la occasione all'ultima di levarsi a
nuova guerra, di sviare dai proprii lidi una gran tempesta, di privar
la Francia de' suoi migliori capitani e soldati, di avventurare in mari
lontani il potente naviglio franzese, ed in somma di fare in modo che
l'Europa tutta si turbasse di nuovo con grandissimi movimenti. Questa
fu una delle opere più memorabili di Guglielmo Pitt.

Salpava l'armata franzese che portava con sè tante sorti, avviandosi
verso Levante. S'appresentava sul principio di giugno in cospetto della
degenerata Malta. Portava forti armi e corruttele ancor più forti.
Chiedeva il generale repubblicano l'entrata sotto pretesto di fare
acqua: gli fu risposto, entrasse, ma con due navi soltanto. Finse di
averla per male, e sbarcato nella cala San-Giorgio, servendogli di
guida i fuorusciti Maltesi, antichi cavalieri che Buonaparte aveva
condotto seco, assaltava le opere esteriori delle fortificazioni.
Fu debolissima la difesa; nè i cannoni entro i luoghi loro, nè le
munizioni piene, nè i soldati confidenti. La Valletta poteva ancor
tenersi per la fortezza del luogo, ancorchè le difese non fossero
apprestate; ma da una parte le corruttele operavano, dall'altra le
femmine, i fanciulli, i fuggitivi di ogni grado e di ogni condizione,
che dalle campagne si erano ricovrati in città all'apparire del
nemico, facevano un gran terrore. Si diede sotto la mediazione di
Spagna, con questi patti; rimettessero i cavalieri dell'ordine di San
Giovanni Gerosolimitano ai Franzesi la città di Malta, rinunziando in
favore della repubblica di Francia alla proprietà ed alla sovranità
ch'essi avevano su quella isola e su quelle di Gozo e Camino; usasse
la repubblica la sua autorità presso il congresso di Rastadt, perchè
il gran maestro, sua vita durante conseguisse un principato almeno
uguale a quello ch'ei perdeva; e di più essa repubblica si obbligasse a
dargli per sostentazione della sua vita, una pensione di trecento mila
franchi annui e due anni anticipati della pensione per compenso del suo
mobile; avessero i cavalieri franzesi della repubblica una pensione
di settecento franchi, i sessagenari di mille; facesse la repubblica
ufficio presso la Ligure, la Cisalpina, la Romana e l'Elvetica,
perchè i cavalieri liguri, cisalpini, romani e svizzeri ottenessero la
medesima promissione; conservassero i proprii beni in Malta; procurasse
la repubblica presso tutti i potentati d'Europa, che i beni dell'ordine
fossero conservati ai cavalieri di ciascuna lingua; la religione si
serbasse salva ed intatta.

Il dì 12 giugno furono posti in poter dei Franzesi alcuni forti,
il dì 13 i rimanenti. Venuto Buonaparte in possessione di un'isola
tanto importante, ad onta delle proteste contro la dedizione fatte
dal gran priorato di Malta ed altri cavalieri dell'ordine adunati a
Pietroburgo, vi creava un governo temporaneo, di cui fe' capo Bosredon
di Ransijat. Poi veniva agli esilii ed alle espilazioni. Bandiva i
cavalieri dall'isola, e fra essi Hompesch, gran maestro, che se ne andò
in Germania a vivere una vita ignota, perchè onorata non la poteva più
vivere.

Quasi al tempo stesso l'isola di Gozo si arrendeva al generale Reyner,
mandatovi a posta da Buonaparte. Poscia il generalissimo, partendo
dall'espilata isola con tutta l'armata, si avviava a' suoi destini
d'Egitto, lasciato Malta al governo di Vaubois, tanto onorato uomo
quanto valoroso. La conquista di Malta, tanto conforme alle sorti fino
allora continuate della repubblica di Francia e di Buonaparte, empiè di
maraviglia l'Europa, di timore la Germania, di spavento Napoli. Solo
gl'Inglesi che avevano il navilio intero e d'invitta fama, non se ne
sgomentarono; anzi dimostrando animo maggiore, quanto più grave era il
pericolo, si preparavano al gran contrasto.

Giunto Buonaparte sui lidi d'Egitto e con tutta felicità sbarcatovi,
s'impadroniva di Alessandria: poscia con pari felicità procedendo
s'insignoriva dei luoghi più importanti e più forti di quella contrada.
Troppo lontana è dalle cose d'Italia l'egiziana guerra per esser qui
narrata; ma vuolsi ricordare la battaglia navale d'Abukir, poichè per
lei si cambiò lo stato d'Italia e fu avvenimento tanto grave per tutta
l'Europa.

Correva il giorno primo d'agosto; destinato dal cielo ad una delle
più aspre e più terminative battaglie che il furore degli uomini
abbia mai fatto commettere e di cui vi sia memoria nei ricordi delle
storie, pieni, per altro di tanti spaventevoli accidenti. Noveravansi
nell'armata inglese tredici navi, ciascuna di settantaquattro cannoni,
cui si trovavano congiunti il Leandro di cinquanta cannoni una fregata
di trentasei; in somma mille e quarantotto cannoni. Tutto questo
navilio governavano meglio di otto mila eletti marinai.

Erano nell'armata di Francia una nave grossa, stanza dell'Almirante,
tre di ottantaquattro, nove di settantaquattro, una fregata di
quarantotto, una di quarantaquattro, due di trentasei: insomma mille
e novanta cannoni per armi, circa dieci mila e novecento marinai per
governo. Aveva il supremo governo di tutto questo fiorito navilio
l'ammiraglio Brueys, capitano delle faccende navali espertissimo e
d'animo non minore della sua perizia; ed aveva contro il viceammiraglio
Nelson. Azzuffaronsi, combatterono ferocemente, peritissimamente si
mossero. Era lo spettacolo orrendo; i Franzesi, che si trovavano in
terraferma, ansii del fine, che tanto grave era per la patria loro,
ascesi sui luoghi più alti, prospettavano l'augurosa battaglia. Così
la specola e le torri d'Alessandria, così i terrazzi e le logge di
Rosetta, e la torre di Abul-Maradu, distante un tiro di cannone
da questa città erano piene di repubblicani, paventosi a quello
che vedevano ed a quello che udivano. Al tempo stesso gli Arabi si
erano sparsi sul lido, condutti parte dalla contentezza di vedere i
repubblicani, cui molto odiavano in sì grave pericolo, parte dalla
speranza di avergli a svaligiare, quando cercassero di ricoverarsi a
terra. Pareva che non si potesse aggiungere terrore ad uno spettacolo
già tanto spaventevole pel rimbombo di tante e sì grosse artiglierie;
ma s'era fatto notte e la scena fu piena di ancor maggiore spavento.
Prevalse la fortuna inglese.

Dei Franzesi mancarono in questa battaglia tra morti, feriti e
prigionieri circa otto mila, fra i quali i morti sommarono a quindici
centinaia. Furono i feriti e i prigionieri dall'ammiraglio inglese,
sotto fede di non guerreggiare contro l'Inghilterra fino agli scambii,
liberati e mandati in Alessandria. Perdettero gl'Inglesi fra feriti
ed uccisi circa novecento soldati, fra quali molto desiderarono
un Wescott, capitano della nave il Maestoso. Dall'esito di questa
battaglia nacquero altre sorti in Europa.

La rivoluzione di Roma e la presa di Malta, per cui i repubblicani si
erano acquistati grandissima facilità di perturbare il regno di Napoli,
avevano dato cagione di temere al re Ferdinando, che il governo di
Francia avesse fatto pensieri sinistri anche su quella estrema parte
di Italia; nè era certamente verisimile, che la smania d'innovare e
di spogliare i paesi, che tanto sfrenatamente aveva turbato Genova,
Milano, Venezia, Roma, fosse per arrestarsi ai confini dello Stato
romano. Ciò non isfuggiva al direttorio, e per tal motivo avea
timore che il re di Napoli facesse qualche risoluzione precipitosa
contro di lui. Pertanto, siccome quello che voleva temporeggiare per
vedere quale via fosse per pigliare la spedizione d'Egitto e qual
effetto partorirebbe sui principi d'Europa e sul governo ottomano,
aveva mandato ambasciatore a Napoli Garat, letterato di molto grido
in Francia, per rendere il re persuaso che l'amicizia della Francia
verso di lui era sincera e cordiale. Ma il patto stesso era contrario
alle parole, perchè, sebbene Garat fosse di dolce e pacifica natura,
aveva, ciò non ostante, molto capriccio sulle rivoluzioni di quei
tempi, parendogli che all'ultimo avessero a produrre qualche gran
benefizio all'umanità. Era anche in questo un altro particolare per
cui il direttorio, se avesse avuto animo più civile, e Garat mente
meno illusa, avrebbero dovuto quello non dare, questo non accettare
il carico di Napoli, dove regnava Carolina d'Austria. Certo è bene
che il suo arrivo dispiacque grandemente alla regina; e da un altro
lato i novatori molto si confortavano nei pensieri loro di mutar lo
Stato, perchè egli aveva nome di essersi mescolato nella rivoluzione
di Francia. Favellava Garat nel suo ingresso al re parole di pace, di
filosofia, di umanità; favellava per verità molto tersamente, siccome
accademico. E sì solenne e squisito parlare teneva l'ambasciatore Garat
ad un re che, secondochè egli narrava, d'altro non si dilettava che
di pesca, di caccia e di lazzaroni. Ferdinando, che non s'intendeva di
queste squisitezze accademiche, stava come attonito e non sapeva come
uscirgli di sotto.

Fatto il complimento al re, se n'andava il giorno seguente, che fu il
9 di maggio, l'ambasciatore a complire e con la regina, favellandole
dei desiderii di pace del direttorio, dei pensieri buoni e delle virtù
di Giuseppe e di Leopoldo suoi fratelli, come se le riforme fatte
nello stato politico da questi due principi eccellenti, ed anzi gli
ammaestramenti pieni di umanità e di dolcezza dati alle genti dai
filosofi franzesi che l'ambasciatore chiamò maestri di Giuseppe e di
Leopoldo, avessero che fare con le sfrenatezze dei repubblicani di
Francia a quel tempo.

Queste cose sapeva e queste sentiva Garat, poichè niuno più di lui
ebbe i desiderii volti a pro degli uomini; ma non s'accorgeva, perchè
forse l'ambizione il trasportava, che quando regna la tirannide,
migliore e più onorevole partito è per un filosofo di ficcarsi in
un deserto, che comparire qual messo di tiranni. Intanto si passava
dai complimenti ai negoziati, ingannandosi le due parti a vicenda;
perchè contuttochè le dimostrazioni fossero pacifiche da ambi i lati,
nissuna voleva pace, ed ambedue aspettavano il tempo propizio per
correre all'armi, nè il direttorio voleva lasciare quelle napolitane
prede, nè il re di Napoli poteva tollerare che la democrazia sfrenata
romoreggiasse a' suoi confini. Sapeva il direttorio che il re si era
molto sdegnato, dappoichè Berthier e l'incaricato d'affari a Napoli
l'avevano richiesto con insolente imperio che cacciasse da' suoi regni
tutti i fuorusciti corsi, licenziasse il ministro Acton, desse il passo
ai soldati della repubblica per Benevento e Pontecorvo che volevano
occupare a benefizio, come dicevano, di Roma; si confessasse il re
feudatario della repubblica Romana, ed a lei pagasse, come al papa,
il solito tributo annuale, e soddisfacesse finalmente senz'altra mora
dei soldi corsi di detto tributo. Negava il re le superbe proposte,
solo consentiva a non più ricettare i fuorusciti. Il direttorio,
volendo mitigare la amarezza e lo sdegno concetto da Ferdinando per
le insolenze de' suoi agenti, aveva dato carico a Garat di racconciare
la cosa. Perlocchè si venne ad un accordo pel quale si stipulò, che i
Franzesi ritirerebbero parte delle loro genti dai confini napolitani,
che la repubblica Romana desisterebbe dalle sue richieste, che
Benevento e Pontecorvo, per amor della pace, si depositerebbero in
mano del re; ma il re non si fidando dalle dimostrazioni d'amicizia
più sforzate che spontanee di coloro che contro la fede data o
conquistavano per forza o sovvertivano per inganno, aveva con ogni
più efficace modo armato il suo reame. E le sue provvisioni recate
ad effetto non senza qualche calore dal canto dei popoli, accrebbero
il numero dell'esercito sino in ottanta mila soldati. E siccome il
dispendio per mantenere un'oste sì numerosa era gravissimo, così il
governo aveva posto mano nelle rendite ecclesiastiche, accresciuto
certi dazii, e perfino raccolto le argenterie delle chiese non del
tutto necessarie alla celebrazione dei riti religiosi. Già le truppe si
avviavano ai confini, e un gran corredo di artiglierie si era mandato
a guernire le fortezze, principalmente quelle dell'Abruzzo. Quantunque
poi l'ambasciatore Garat non cessasse d'inculcare al direttorio che
i soldati napolitani, per bene armati e bene vestiti che fossero,
sembravano piuttosto gabellieri o frodatori che buoni soldati, non se
ne stava il direttorio senza apprensione, trovandosi privo in Italia
de' suoi migliori soldati e del suo miglior capitano, e non sapendo a
qual partito sarebbe per appigliarsi l'Austria, che di nuovo diventava
minacciosa e renitente. Garat, o che solo volesse scoprire le vere
intenzioni del re o che credesse intimorirlo, gl'intimava, non senza le
solite parole superbe, che disarmasse e riducesse l'esercito allo stato
di pace. Dispiacquero e la domanda e la forma di lei; se ne dolse il
napolitano governo al direttorio addomandandolo del richiamo di Garat.
Aggiunse ch'egli si era mescolato coi novatori, dando loro promesse e
stimoli troppo poco convenienti alla qualità di ambasciatore.

Il direttorio, che non era ancor ben sicuro delle cose di Egitto e
d'Europa, richiamava Garat, mandando in iscambio Lacombe Saint-Michel,
con mandato che temporeggiasse ed accarezzasse; poi, quando fosse
venuto il tempo, fortemente insistesse perchè Napoli cessasse da ogni
preparamento ostile e si rimettesse nuovamente nella condizione di
pace. Dal canto suo il re che non vedeva fra tante cupidigie e tante
fraudi altra salute per lui che l'armi, non solo non cessava da loro,
ma ogni giorno vieppiù le aumentava. A questo, dopo avute le novelle
di Egitto, tanto più volentieri e più pertinacemente si risolveva,
quanto più non gli era ignoto che la Francia era contro di lui molto
sdegnata per aver fatto solenni dimostrazioni di allegrezza alla fama
della vittoria acquistata dagl'Inglesi ad Abukir. Ferdinando stesso
era andato ad incontrar sul mare Nelson vittorioso, quando se ne venne
a Napoli per racconciar le navi rotte nella battaglia: ed il condusse
al suo palazzo a guisa di trionfatore fra l'accolta moltitudine, che
non cessava di gridare: _Viva Nelson! Viva l'Inghilterra!_ Poi gli fece
copia, a racconcio delle navi, delle sue armerie ed arsenali.

In questo mezzo tempo le macchinazioni inglesi avevano sortito
l'effetto loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi
avevano avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni
delle corti europee presso al Divano avevano per modo operato, che la
Porta Ottomana si era scoperta nemica della Francia e le aveva intimato
la guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di
tutta Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la
Francia. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore avea fondato,
cessato il terrore si accostava alla sua ruina.

Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre
a questo che tutte le genti franzesi che allora erano in Italia
raccolte insieme non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che
i repubblicani già inferiori di numero erano dispersi qua e là ne'
presidii della Cisalpina, dello Stato veneto, del Piemonte e della
Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter
far la guerra da sè con frutto contro la Francia, senza aspettare il
tempo in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria
e la Russia, avrebbero potuto venire in soccorso. A ciò vieppiù il
confortavano e le flotte confederate della Russia e della Turchia, che
venivano contro gli occupatori delle isole veneziane, e la presenza
di Nelson, incitatore e sperato coadiutore alla guerra, e Malta
ribellatasi dai Franzesi, e la cupidigia di aver Fermo con alcune altre
terre della Marca, e la speranza d'aversi a liberare dalle pretese
della santa Sede pel benefizio della sua ristaurazione in Roma.

Il re, risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Franzesi quello
a che sapeva ch'ei non potevano consentire, e questo fu sgombrassero da
tutti gli Stati pontificii, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva
ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e
l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni
stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il
direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente
colle principali potenze d'Europa, rispose risolutamente di non poter
consentire alle domande, giudicando benissimo che l'inchinarsi a tali
condizioni era peggio di perdere tre battaglie campali. Per la qual
cosa pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto
ai confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi
sdegnato per la occupazione dello Stato Romano e di Malta, bandiva al
mondo aver preso le armi per allontanare da' suoi dominii ogni danno
e pericolo, per restituire il patrimonio della Chiesa al suo vero e
legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi
l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non
volere muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla
sicurezza ed all'onore della religione.

Dalle parole trapassava tosto ai fatti; partito l'esercito in
tre parti, marciava alla volta delle romane terre. Era venuto per
consigliare il re nelle faccende di guerra il generale austriaco Mack,
mandato a questo fine dall'imperatore Francesco. Aveva egli in tale
modo ordinato l'assalto dei nemici, che la più grossa schiera condotta
da lui medesimo avendo con sè il principe ereditario di Napoli, per
la strada degli Abruzzi se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si
mostrasse favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di
una cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era
stata rimandata a rinforzare Corfù minacciata dalle armi ottomane
e russe. Era suo intento che questa schiera tagliasse il ritorno
ai Franzesi verso la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata
dal re, che aveva con sè per moderatore Colli, aveva carico di far
impeto direttamente contro Roma serbata espressamente al trionfo del
re Ferdinando. Ma pensiero di colui che aveva ordinata tutta questa
macchina militare, era altresì di tagliare la strada ai Franzesi
per la Toscana. Fu quest'opera commessa ad una terza schiera sotto i
comandamenti del generale Naselli; la parte più grossa di lei posta
su navi inglesi e portoghesi governate da Nelson, s'incamminava ad
occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo distante dalle genti
che accennavano a Roma, si era dato opera che la minor parte che
obbediva al conte Ruggero di Damas, fuoruscito franzese, radendo i
lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare quei luoghi della
Toscana che portano il nome di Presidii. Per tal modo ordinato il
disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet, nelle mani
del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in quelle
parti, aveva con sè poche genti; nè certamente bastevoli a far fronte
a tanta moltitudine, se i soldati napolitani fossero stati pari a'
suoi per perizia e per valore; conciossiacchè non avesse con lui che
cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni,
due compagnie artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila
soldati. Erano per verità alcuni reggimenti italiani, ma ei aveva sopra
di loro poco fondamento.

Il dì 23 novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già la
schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane
che le si pararono avanti, si avvicinava a Terni. Mandava Championnet
domandando a Mack qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra
contro Francia. Rispondeva questi con troppo maggior alterigia che
se gli convenisse. Replicava modestamente Championnet. Intanto non
vedendosi, pel picciol numero de' soldati sparsi in luoghi lontani,
pari al resistere a tanta piena nè a custodire tanta larghezza di
paese, raccoglieva i suoi e li mandava a far capo grosso a Civita
Castellana. Ma, udendo che i Napolitani erano stati ricevuti in
Livorno, che Viterbo e Civitavecchia si levavano a rumore, che Ruggiero
di Damas arrivava sui confini fra lo Stato ecclesiastico e la Toscana,
soprattutto sentendo che Mack, sebbene valorosamente e non senza grossa
strage de' regi combattuto dal generale Lemoyne, s'era impadronito di
Fermo e già accennava ad Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in
su per le vie del Tevere, e piantò i suoi alloggiamenti in Perugia,
perchè temeva che il generale napolitano gli tagliasse le strade
dell'Apennino, per cui poteva avere il suo ricovero sulle terre della
Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva tutte le sue sparse genti e vi
trasferiva anche il governo romano che aveva abbandonato per la forza
di quell'accidente improvviso, la sua sede, lasciando Roma sicura preda
de' regi. Trovarono qualche aderenza di popolo nello Stato pontificio,
come era accaduto a Viterbo ed a Civitavecchia; ma generalmente poco si
muovevano; anzi in alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono
virilmente in favor de' Franzesi e diedero loro campo di ridursi a
salvamento. Entrava Ferdinando trionfando in Roma il dì 29 di novembre,
il seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano
i primi capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita
rapidamente sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità che
dall'amore, gli fece feste e rallegramenti d'ogni sorta: le romane e le
napoletane grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Ma non
andò gran pezza che si accorsero come avessero cambiato di signore e
non di servitù. Si incominciava intanto a trascorrere in vituperii, ed
in fatti peggiori de' vituperii, contro coloro che avevano seguitato
il governo nuovo, chiamandoli il popolo atei e giacobini. I vituperii
poi ed i mali trattamenti trascorrevano, come suol avvenire in simili
casi, dai nocenti agl'innocenti, e si manomettevano i giacobini per
odio pubblico, i non giacobini per odii privati. S'incominciava a
far sangue e a demolir case. S'interpose Ferdinando e fe' cessare i
tumulti. Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed
autorevoli, che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli,
il marchese Massimi ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il
romano, non stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il
prezzo del pane; il che fece una grande allegrezza.

Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i
Napolitani che i Franzesi. Portarono le logge del Vaticano dipinte da
Raffaello, risparmiate ed anche rispettate dai Franzesi, lungo tempo
le vestigia della barbarie delle soldatesche napolitane. Nè i quadri
si risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti fuggiti alla rapacità
degli agenti del direttorio. Da tale enormità nacque che il popolo
cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti dei partigiani
del papa diventavano partigiani franzesi. Tali erano le opere
napolitane in Roma, ma poco durarono, perchè era fatale che in quella
nobile e sventurata Roma un dominio insolente in brevissimo giro di
tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti vedremo
in progresso.

Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo dominato in Liguria
ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi dominare per l'alleanza,
condizione peggiore della prima, se gli sfrenati modi non si cambiano,
perchè quella comporta per sè ogni cosa, questa dovrebbe avere
moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì 29 di marzo, per forza
dall'ambasciatore ordinario Visconti, volontieri dall'ambasciatore
straordinario Serbelloni, un trattato d'alleanza fra le due repubbliche
Franzese e Cisalpina, i cui principali capitoli furono i seguenti: che
la repubblica Franzese riconosceva come potenza libera ed indipendente
la Cisalpina e le guarentiva la sua libertà, la indipendenza e
l'abolizione di ogni governo anteriore a quello che attualmente la
reggeva; che vi fosse pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi
fosse alleanza, e che la Cisalpina stesse così per le difese come per
le offese a favore della Francia; che la Cisalpina, avendo domandato
alla Franzese un corpo che fosse bastante a conservare la sua libertà,
indipendenza e quiete, e così pure a preservarla da ogni insulto da
parte de' suoi vicini, si era convenuto fra le due repubbliche, la
Francia manterrebbe nella Cisalpina, per tanto tempo per quanto non
fosse altrimenti convenuto ventidue mila fanti, due mila cinquecento
cavalli, cinquecento artiglieri sì a piè che a cavallo, e che la
Cisalpina pagasse alla Franzese ogni anno dieciotto milioni di franchi;
che obbedissero queste genti, e così ancora quelle della Cisalpina,
ai generali franzesi. L'ambasciatore Visconti, siccome quegli a cui
pareva che questo trattato significasse tutt'altra cosa piuttosto che
alleanza ed indipendenza, non li voleva consentire. Ma ebbe ad udire
dal ministro di Francia il suono di queste parole, che la repubblica
Franzese avendo creato la Cisalpina, poteva anche distruggerla se
volesse. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e sottoscrisse
il trattato.

Arrivato questo accordo in Cisalpina vi sorse uno sdegno grandissimo:
i consigli legislativi nol volevano ratificare. Tuttavia promesse
e minaccie operavano in modo che i consigli ratificarono, non
senza però molti discorsi contrarii e molta discordia. Gli amatori
dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori nascevano nella
repubblica. Si aggiunse che i due quinqueviri Moscati e Paradisi e
nove dei consigli legislativi che più degli altri si erano versati al
trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal direttorio di Francia.
Di più si fe' dire e stampare che fossero fautori dell'Austria e
nemici della Francia; delle quali allegazioni si può dire ch'è dubbio
se sieno o più ridicole o più false. Ma la persecuzione non si rimase
alle parole, perchè alcuni degli oppositori furono anche carcerati. Si
conturbavano le menti a questi eccessi; si temevano cose peggiori.

In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina, mandato dal
direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvè, giovane di
spirito e che faceva professione di amare la libertà.

Si sollevavano gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta
un ministro di Francia presso quello Stato nuovo, ed ognuno si stava
ansiosamente aspettando che cosa portasse. Fu l'ingresso di Trouvè
al direttorio cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della
Francia magnificamente, della Cisalpina amorosamente. Rispondeva
all'ambasciatore di Francia con pensieri adulatorii e lingua italiana
sucidissima il presidente del direttorio Constabili; il linguaggio
stesso disvelava la debolezza degli animi la servitù dello Stato.

Scriveva sulle prime, cioè il dì 30 maggio, Trouvè a Birago, ministro
degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per modo che
il governo cisalpino facesse rivoluzioni rigorose contro i fuorusciti
franzesi che si erano ricoverati nel territorio cisalpino; rispose
il cisalpino ministro all'ambasciatore di Francia, che il direttorio
cisalpino purgherebbe la terra della libertà da quegli uomini immorali,
come li qualificava per consuonare alle frasi del ministro franzese,
contaminati ed ipocriti.

Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciatore nella sua mente
e per sè e per comandamento di chi il mandava. Tra per l'opposizione
tanto gagliarda che era sorta nei consigli contro il trattato
d'alleanza, e per la condotta che tenevano i libertini sinceri,
operando che l'odio contro i Franzesi moltiplicasse ogni giorno,
divenne certo pel direttorio che se non domava quei partigiani tanto
risentiti di libertà e d'indipendenza, la sua superiorità in Cisalpina
sarebbe sempre stata incerta e vacillante. Parve adunque che fosse
arrivato il tempo per la Francia di aggravar la mano e di porre il
freno, perchè per la pace fatta con l'imperadore d'Austria essendo
passata la stagione di fomentar le rivoluzioni in Lombardia, pensava
che alla sicurezza sua in Italia, così in pace come in guerra, si
appartenesse di farsene un appoggio introducendosi un vivere più quieto
e che più piacesse ai più ricchi e notabili cittadini. Per la qual cosa
Trouvè fece in casa sua un'adunanza segreta in cui si esaminarono i
cambiamenti da farsi nella costituzione cisalpina. Era il progetto di
ridurla a forma più aristocratica con diminuire il numero dei consigli,
e così ancora quello dei dipartimenti e dei magistrati distrettuali. Si
voleva altresì accrescer forza al direttorio, perchè si era non senza
ragione osservato, che egli si trovava nella costituzione molto impari
ai due consigli e quasi schiavo loro. Con questo si voleva frenare
la libertà della stampa e serrare i ritrovi politici, per la quale e
pei quali i pensieri buoni si facevano cattivi per la esagerazione, i
cattivi peggiori per l'impeto.

Ebbero i democrati ardenti avviso del disegno da un Montaldi
rappresentante, che, chiamato alle congreghe segrete nè approvandole,
aveva svelato ogni cosa al consiglio dei giovani. Il rumore fu
grande; le parole nei ritrovi non ancora chiusi, gli scritti nelle
gazzette non ancora frenate, erano in gran numero. Grande impressione
massimamente fece nel pubblico una orazione che sotto il nome supposto
di Marco Ferri, fu composta, data segretamente alle stampe e sparsa
copiosamente in ogni parte della Cisalpina da un giovane piacentino,
che aveva già stampato in Milano molte cose con non poca lode. Grave
e forte orazione era questa; sì che sentendo molto gravemente Trouvè
il fatto, condottosi in pompa al direttorio, il richiedeva con parole
aspre ed imperiose dell'arresto dell'autore dell'orazione, per avere,
come diceva, insultato la repubblica di Francia. Gii fu risposto
non trovarsi in Milano i caratteri di tale stampa, esser venuta di
fuori; cercherebbero, farebbero, non si dubitasse; ma se la passarono
con parole, perchè il direttorio non ancora riformato amava il moto
dell'oratore. Intanto rimostrarono i consigli legislativi, rimostrò il
direttorio, mandando anche un uomo a posta a Parigi. Vi andò eziandio
espressamente il generale Brune, che era succeduto a Berthier, per
rimostrare, perchè gli piacevano i governi più popolari e faceva
professione di amatore ardente di libertà.

Tutto fu indarno; Trouvè, al quale il direttorio portava molta
affezione, mandava ad effetto le accordate deliberazioni. La notte del
30 agosto chiamava in sua casa centodieci rappresentanti, che non erano
la metà di tutti: leggeva la nuova costituzione e le nuove leggi. Le
approvarono, chi per amore e chi per forza, perchè aveva intimato loro
che tale era risolutamente la volontà del direttorio di Francia, e
che se non l'accettasse di buon grado, lo avrebbe eseguita per forza.
Non ostante alcuni ricusarono e sdegnati si ritirarono. Il giorno
seguente l'opera si recava ad esecuzione. Le soldatesche circondavano
la sede dei consigli, ributtavano con le baionette i rappresentanti
non eletti dalla riforma, cacciavano dal direttorio Savoldi e Testi;
si surrogavano Sopransi e Luosi; i rappresentanti renitenti scacciati
dai consigli; Fantoni, Custodi, Borghi, capi degli altri, posti in
carcere. La forza predominava. Fece Trouvè la nuova costituzione e
finalmente dichiarò, parendogli di aver operato abbastanza e bene
solidato l'imperio franzesein Lombardia, rimettere di nuovo l'autorità
legislativa nei consigli. In tale guisa venne fatta una riforma negli
ordini della Cisalpina, buona in sè, viziosa pel modo. Ed ecco una
scena; una gran turba seguitava Ranza gridando: «Che vuol Ranza, che
scartafaccio è quello?» Lo scartafaccio era la costituzione disfatta
da Touvè, che Ranza vestito a lutto andava a seppellire nel campo del
Lazzaretto.

Brune, ch'era tornato a Milano, si mostrava scontento. Il direttorio
che lo voleva mitigare, richiamava Trouvè, dandogli scambio con
Fouchè. Le assemblee popolari che chiamavano i comizii, accettavano
la costituzione di Trouvè. I democrati non se ne potevano dar pace,
ma tra l'accettare e il non accettare non era differenza; la forza
forestiera reggeva lo Stato. Non piacquero al direttorio nè Fouchè
ne Brune. Mandava a Milano Jubert, invece di Brune, Rivaud invece
di Fouchè, strano inviluppo di uomini e di leggi tante volte mutate
in pochi mesi da chi reggeva il mondo con la forza e la forza col
capriccio. Non si mescolava Jubert, uomo generoso e magnanimo,
nelle riforme. Ricominciava Rivaud l'opera di Trouvè. La notte del
7 dicembre cingeva con soldatesche il corpo legislativo, che stava
deliberando sulle macchinazioni che si ordivano. Poi la mattina
le baionette straniere cacciavano a forza i legislatori eletti da
Brune, rimettevano in carica il direttorio Adelasio, Luosi e Sopranzi
cacciati da lui. Fu imprigionato Visconti; frenata la stampa, serrati
i ritrovi; minacciaronsi i fuorusciti napolitani di espulsione, i
democrati cisalpini di carcere, se non moderassero le lingue e gli
scritti. Divenne Rivaud padrone della Cisalpina. I democrati lo
volevano ammazzare, e dipingevano nei loro scritti contro di lui non
sapresti che coltello di Bruto; ma non fu nulla. In questa guisa la
Cisalpina, tra la rabbia dei democrati, le speranze degli aristocrati
la prepotenza delle soldatesche forastiere, il timore di tutti, se ne
stava aspettando i nuovi assalti dell'Austria.

Delle raccontate mutazioni fatte in Cisalpina per modo sì violento
levarono un grandissimo romore in Francia coloro che, o sedendo
nei consigli legislativi o con le stampe addottrinando il pubblico,
contrastavano al direttorio; e i cambiamenti stessi, fatti per forza
di soldatesche, diedero molto a pensare ai Cisalpini e generalmente a
tutti gl'Italiani. Si persuasero facilmente che la Francia tutt'altra
cosa voleva piuttostochè l'indipendenza loro, e che, dalle parole in
fuori, ch'erano veramente magnifiche, essi erano destinati a servitù.
Allora s'accorsero ch'era per loro diventato necessario, seppure liberi
e indipendenti volevano essere, il camminare con le proprie gambe, e
por mano essi stessi a quello che per opera dei forastieri non potevano
sperar d'acquistare. Sorse in quel punto specialmente una setta, la
cui sede principale era in Bologna, e che siccome da Bologna, come
da centro, spandeva a guisa di raggi tutto all'intorno negli altri
paesi d'Italia le sue macchinazioni, così fu chiamata Società dei
Raggi. Voleano costoro la libertà e l'indipendenza d'Italia contro e a
dispetto i di tutti, e queste cose vigorosamente tramavano ed i semi ne
spargevano; ma vennero poco dopo i tempi grossi e le rotte dei Franzesi
per le quali tutti questi intendimenti diventarono vani. Nondimeno
le operazioni di Lahoz, che in progresso si leggeranno, furono, come
immediato effetto, così piccola parte di questa vasta macchinazione.

Passando ora alle cose di Sardegna, il re, serrato da ogni parte dalle
armi di Francia, aveva posto l'unica speranza nella sincerità della
sua fede verso il direttorio; non che nel più interno dell'animo non
desiderasse altre condizioni, perchè impossibile è che l'uomo ami
il suo male, ma vedeva che era del tutto in potestà dell'oppressore
il sovvertire i suoi Stati prima solo che l'Austria il sapesse.
Così la repubblica di Francia voleva la distruzione del re, sebbene
s'infingesse del contrario, ed il re voleva serbar fede alla
repubblica, quantunque altri desiderii avesse. Reggeva il Piemonte il
re Carlo Emmanuele IV, principe religiosissimo e di pacata natura, ma
poco atto a destreggiarsi in un secolo tanto rotto e sregolato.

In mezzo agli umori che regnavano in Italia per formarne, mutati
gli ordini politici in Piemonte, una sola repubblica, come alcuni
bramavano, o veramente due, dell'una delle quali fosse capo Milano,
dell'altra Roma, era arrivato l'ambasciatore di Francia Ginguenè a
Torino. Era Ginguenè uomo di tutte le virtù, ma molto incapriccito
in su quelle repubbliche, non vedendo bene alcuno se non negli Stati
repubblicani. Di fantasia vivacissima ed essendosi poi molto nodrito
degli scrittori italiani, e specialmente di Macchiavelli, si era egli
dato a credere che l'Italia fosse piena di Macchiavelli e di Borgia,
ed aveva continuamente la mente atterrita da immagini di tradimenti, di
fraudi, di congiure, di assassinii, di stiletti e di veleni. Con questi
spaventi in capo, veduto prima il ministro Priocca in cui scoverse,
come diceva, non so che di perfido al ridere, faceva il suo primo
ingresso al re. Solito alle accademie, solito ai discorsi al direttorio
e del direttorio, poichè l'età fu ciarliera oltre ogni credere,
si aveva Ginguenè apparecchiato un bello e magnifico discorso, non
considerando che quello non era uso di corte in Torino, e che se gli
apparati di lei sono magnifici, il re se ne vive con molta modestia.
Traversate le stanze piene di soldati bene armati e di cortigiani
pomposi, entrava Ginguenè in abito solenne e con una sciabola a
tracollo nella camera d'udienza dove si trovò solo col principe. Stupì
l'ambasciator repubblicano in vedendo tanta semplicità nel sovrano del
Piemonte. Avrebbe dovuto, siccome pare, deporre il pensiero di recitare
il discorso, perchè e le adulazioni ed i rimproveri erano ugualmente,
non chè intempestivi, inconvenienti. Pure, ripreso animo, il recitava
al re.

Al discorso squisitissimo del repubblicano non rispose il re, non
essendo accademico. Bensì venne sull'interrogare del buon viaggio
e della buona salute dell'ambasciatore; poi toccò delle infermità
proprie, e della consolazione che trovava nella moglie, ch'era sorella
di Luigi XVI re di Francia. A questo tratto ripigliando Ginguenè le
parole, disse che ella aveva lasciato in Francia memorie di bontà
e di virtù. Si allegrava a queste lodi della regina il piemontese
principe, e mettendosi anch'egli sul lodarla, molto affettuosamente
spaziò nel favellare delle virtù e della bontà di lei. Poi seguitando
venia dolendosi del mancar di prole: Non ne ho, diceva, ma mi consolo
per la virtuosa donna. Ritiratosi dalla reale udienza l'ambasciator di
Francia, e, sebbene fosse molto acceso sulle opinioni repubblicane di
quei tempi, si sentì non pertanto assai commosso ed intenerito a tanta
bontà, semplicità e modestia del sovrano del Piemonte.

Frequentavano la casa dell'ambasciatore di Francia i desiderosi di
novità in Piemonte, i quali, standogli continuamente a' fianchi, gli
rapportavano le più smoderate cose del mondo, mescolando il vero col
falso sulle condizioni del Piemonte e sulla facilità di operarvi la
rivoluzione; e siccome questi rapporti andavano a' versi delle sue
opinioni, così egli se li credeva molto facilmente. Per la qual cosa
sentiva egli sempre sinistramente del governo, e, volendo tagliarvi i
nervi, insisteva con istanza presso il direttorio, acciocchè sforzasse
il re a licenziare i suoi reggimenti svizzeri, che tuttavia conservava
a suoi soldi.

Mentre da una parte l'ambasciator di Francia dava animo ai novatori,
vedendoli volentieri e dando facile ascolto ai rapportamenti loro, e
dall'altra voleva che si disarmasse il re con licenziare gli Svizzeri,
i mali semi producevano in Piemonte frutti a sè medesimi conformi.
Sorgevano in più parti moti pericolosi suscitati da gente audace
con intendimento di rivoltar lo Stato. Il più principale pel numero
e pel luogo ed il più pericoloso si mostrava in Carrosio dove erano
concorsi oltre un migliaio i fuorusciti piemontesi. Circa due mila
soldati liguri, partitisi improvvisamente dai soldi della repubblica,
ed usciti da Genova senza ostacolo, andarono ad ingrossare a Carrosio
la squadra dei Piemontesi. Capi principali del moto erano uno Spinola,
nobile, Pelisseri e Trombetta popolani, gente oltre ogni modo ardita ed
intenta a novità. Un Guillaume ed un Colignon franzesi erano con loro.
Nissuno pensi che uomini incitatissimi abbiano mai pubblicate cose più
immoderate contro i re di quelle che costoro mandarono fuori contro
quel di Sardegna.

Dalle parole passavano ai fatti e con infinita insolenza procedendo,
svaligiavano i corrieri del re con tor loro i dispacci. Fatti poscia
più audaci dal numero loro che ogni giorno andava crescendo, marciarono
armata mano contro Serravalle, la quale combattuta vanamente ed
assaliti gagliardamente dalle genti regie, se ne tornavano con la
peggio. Parecchi altri assalti diedero alla medesima fortezza con
esito ora prospero ed ora avverso. Così la guerra civile ardeva sulle
frontiere del Piemonte.

Si moltiplicava continuamente il dispiacere che riceveva il re dalle
sommosse democratiche; infatti il prenunzio di romori di verso la
Cisalpina non riuscì vano: un corpo assai grosso di repubblicani
Piemontesi, non senza intesa del governo cisalpino e del generale
Brune, in Pallanza, sul lago Maggiore adunatosi, minacciava d'invasione
l'alto Novarese, e faceva le viste di volersi calare, se trovasse
l'adito facile e la fortuna propizia, fino a Vercelli. Reggevano come
capi principali questo moto Seras, originario del Piemonte, ma ai
soldi di Francia ed aiutante di Brune, ed un Lèotaud franzese, con un
Lions franzese ancor esso, aiutante di Lèotaud. Si scopriva la fortuna
favorevole ai primi loro conati; s'impadronirono della fortezza di
Domodossola; vi trovarono alcuni cannoni, opportuno sussidio per loro,
e se li menarono per servirsene contro le truppe della parte contraria.
Una terza testa di repubblicani armati era discesa da Abriez nelle
valli Valdesi, e già aveva occupato Robbio ed il Villard, ed accennava
a Pinerolo.

Trovavasi il governo regio travagliato da tutte le parti, e temeva che
il cuore stesso del Piemonte, che tuttavia perseverava sano, avesse a
fare qualche movimento contrario. Amico nissuno aveva se non lontano
ed inabile ad aiutarlo; i vicini, cioè la Francia, la Cisalpina e la
Liguria, sotto specie di amicizia, ordivano la sua ruina, fomentando
i moti. Pure intendeva all'onore se alla salute più non poteva, e
faceva elezione, giacchè si vedeva giunto alfine, di perire piuttosto
per forza altrui che per viltà propria. Pubblicava il re in mezzo a
sì rovinosi accidenti un editto, in cui, mostrando fermezza d'animo
uguale al pericolo, diè a vedere che maggior virtù risplende in chi
serba costanza a difender sè stesso nelle avversità, che in chi assalta
altrui con impeto nelle prosperità.

Non ignorava però il re che la rabbia e la ostinazione delle opinioni
politiche non lasciano luogo alle persuasioni. Laonde, facendo
maggior fondamento sulle armi che sulle parole, aveva mandato sul
lago Maggiore parecchi reggimenti di buona e fedele gente, affinchè
combattessero i novatori dell'alto Novarese, e, ritogliendo dalle loro
mani Domodossola, la restituissero al dominio consueto. Medesimamente
mandava truppe sufficienti contro gl'insulti dei Carrosiani. Pinerolo
si empiva di soldati per frenare e spegnere l'incendio sorto nelle
valli dei Valdesi.

Ma il fondamento di tutto consisteva nel modo in cui la repubblica
di Francia sentirebbe queste piemontesi sommosse; perchè s'ella le
fomentava, era impossibile il resistere. A questo fine insisteva
fortemente il ministro Priocca presso a Ginguenè, acciò dichiarasse
qual fosse veramente negli accidenti presenti l'animo del governo
franzese. Gli estremi lamenti che ei faceva sentire della cadente
monarchia piemontese, non erano certo segni di animo doppio e non
sincero; che anzi la sincerità era tale, che non solamente induceva
persuasione nella mente, ma ancora muoveva vivamente il cuore.

Rispose Ginguenè con sincerità e con parole degne, non di lui, ma
del direttorio; ed al suo dire aggiungeva rimprocci sul modo con cui
il governo piemontese reggeva i suoi popoli, favellando degli abusi
che gli scontentavano, dei rigori usati, dell'angustia delle finanze,
del caro dei viveri, della insopportabile gravezza delle imposizioni.
Concludeva che i moti di sedizione non portavano con sè alcun pericolo,
se niuna radice avessero nella propensione dei popoli; ma che bene era
da temersi, che i Piemontesi, la nobiltà in fuori, desiderassero esito
felice alla impresa dei sollevati: chè però esortava preoccupassero il
passo e prevenissero la rivoluzione col dare spontaneamente al popolo
tutto che si prometteva dalla rivoluzione.

In mezzo a tante angustie del governo regio, Ginguenè, come se
desiderasse torgli non solo la forze, ma ancora la mente ed il
tempo di deliberare sulle faccende più importanti, non cessava di
travagliarlo con importune richieste, muovendolo a ciò fare parte i
comandamenti del direttorio, parte i proprii spaventi. Chiedeva perciò
ed instantemente ricercava Priocca, operasse che il re cacciasse da'
suoi Stati i fuorusciti franzesi, ed ancora proibisse, sotto pena di
morte gli stiletti e le coltella. Voleva altresì, e minacciava il re se
nol facesse, che disperdesse i Barbetti che infestavano le strade ed
assassinavano i Franzesi. Schermivasi Priocca con ottime ragioni, ed
affermava che il governo regio, per quanto stava in lui, fosse molto
vigilante a render sicuri i Franzesi in Piemonte, e quello che diceva
anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno che, secondo
gli umori o alla prima favola raccontata all'ambasciator di Francia dai
democrati che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a domandare
anche con termini molto imperativi, la liberazione degl'incolpati. Tra
questi è famoso il fatto di un Ricchini, detto per soprannome Contino,
che Ginguenè a nome del direttorio richiese solennemente al re, ed il
re lo satisfece dell'effetto, dandogli incontanente e senza difficoltà
l'uomo accusato d'assassinio di un Franzese.

I terrori di Ginguenè erano anche fomentati dalle esorbitanze dei
democrati più ardenti, i quali, veduto che i Franzesi a tutt'altro
pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler
camminare da sè ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandoli
di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, presa occasione
d'un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i ministri
che si trovavano alle stanze in Torino, si misero a dire le cose più
smodate che uomo immaginarsi possa. Nè contenti alle parole mandarono
attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguenè. Egli
era espresso in questa forma: «Popoli della terra, e voi massimamente
patriotti ed amici sinceri della libertà e dell'umanità, ascoltate le
mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i diritti degli uomini
in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno che a loro
voleva opporsi, ella ha rovesciato il suo trono, ella ha disperso
tutte le forze dei confederati di Europa, ch'erano accorsi in suo
aiuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti perchè ha trovato
dappertutto uomini che e conoscerono la giustizia della sua causa, e
non esitavano a dichiarirsi per lei contro la tirannide. Si era la
Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti
i popoli e promettendo di aiutar quelli che com'ella portassero odio
ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo
ch'ella si è proposto è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna
stima i popoli, i tiranni soli le stanno a cuore. Ella se ne sta
tranquillamente rimirando le carnificine dei patriotti, e si rallegra
del trionfo dei despoti. Gli agenti che manda presso a loro per
compiacere al loro orgoglio e per istringere gli empi nodi della loro
amicizia, invece di vestirsi a lutto per la morte degli amici della
libertà, celebrano feste scandalose e bevono nelle medesime coppe dei
tiranni. Il sangue di coloro che amici della libertà si protestano,
scorre a rivi e dilaga sovra una terra fatta per esser emola della
patria loro. Ciò non ostante e' non si risolvono ad abbandonarli. Gli
splendori del trono li rendono spettatori insensibili dell'orribile
ecatombe immolata a piè della tirannide. E col nome di amici dei popoli
si chiamano! Col nome di amici dei popoli si chiamano essi, cui la
guerra civile con tutte le sue orribilità non turba, essi che l'oro dei
tiranni corrompe! Popoli della terra ascoltate le voci d'un uomo che è
spettatore di tante scelleraggini e che ne pruova un dolore orribile.
Ardete le dichiarazioni fraudolente dei diritti dell'uomo ch'eglino vi
hanno portato. Chiudete gli occhi alla luce che risplende dal tempio
della libertà, fate lega coi vostri tiranni, servite ai capricci loro,
abbracciate sinceramente la causa loro, o perirete. La Francia non
atterra più troni; essa li difende: essa vuol fare ammenda dell'insulto
fatto alla tirannia: con una mano opprime i popoli ai quali per suo
proprio interesse dà la libertà, dall'altra tutela i tiranni che
divorano i popoli servi. Le spoglie degli uni e degli altri appena
bastano a saziare l'immensa sua cupidigia. Popoli, ancora un lustro, e
non vedrete più nella deserta Europa, salvo che in Francia, che tiranni
e ruine.»

Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato e principalmente diretto
contro Ginguenè, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto
la mente inferma, del cammino a cui si andava con questi amatori
della libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse
aspettare. Intanto tutta l'ambasceria di Francia ne era mossa a rumore.
Ginguenè prese contegno con Cicognara; poi ne scriveva al direttorio,
con molta istanza pregandolo operasse efficacemente col direttorio
cisalpino affinchè Cigognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in
ciò andarvi la salute della Francia.

L'ecatombe mentovata nello scritto fu quella della battaglia combattuta
tra Gravellona ed Ornavasso, nella quale prevalendo alla fine i
regi prima perdenti, i repubblicani assaliti di fronte e da tergo e
soprafatti dal numero soprabbondante degli avversarii che su quel punto
si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono in rotta, nè fu più
possibile ai capi di rannodarli. Centocinquanta repubblicani perirono
nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori. Cento
furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo la
battaglia, in poter dei regi. I superstiti furono condotti nel castello
di Casale, dove si fecero loro i processi militarmente; trentadue
condannati a morte.

In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi.
Mancava al cupo ravviluppamento dei tempi che si accagionassero
dal governo di Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di
essero loro medesimi gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguenè con
instanti parole descritto al suo governo i supplizii dei Piemonte.
Il direttorio, che poteva veramente intromettersi per umanità, amò
meglio mescolarvi le accuse e l'inganno. Scriveva il dì 17 maggio
Taleyrand a Ginguenè, che i moti d'Italia, quelli soprattutto ch'erano
sorti in Piemonte, mostrandosi con sembianza minacciosa e molto
pericolosa, era venuto il direttorio in una risoluzione definitiva;
che sapeva il direttorio di certa scienza che si era ordita una
congiura col fine di far assassinare tutti i Franzesi in Italia; che
sapeva ugualmente che moti sediziosi si fomentavano a questo fine in
ogni parte, acciocchè i soccorsi di Franzesi essendo addomandati al
tempo medesimo in luoghi diversi, le loro forze per la spartizione
si indebolissero e fosse per tal modo fatto abilità agli assassini
di ucciderli. Sapeva finalmente che non contenti al dare compimento
a sì scellerato proposito, volevano ancora imputarlo a coloro che si
credevano amici della Francia, affinchè la morte loro si rendesse più
sicura. In tanta complicazione, come diceva, di preparati delitti,
faceva Taleyrand sapere a Ginguenè che il direttorio aveva risoluto
di salvare e l'Italia e i Franzesi e gli amici della repubblica dai
mali che loro sovrastavano; gl'intimava pertanto che si appresentasse
al governo del re, della orribile cospirazione favellando tanto
evidentemente tramata dalle potenze straniere e nemiche della Francia,
e dimostrasse volere il governo franzese risolutamente ch'ella e
per cagioni e per pretesti intieramente fosse diradicata; volere che
prima di tutto offerisse il governo del re indulto leale ed intiero a
tutti i sollevati sì veramente che le armi deponessero, ed alle case
loro ritornassero; volere che il re adoperasse le sue forze contro i
Barbetti che desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti
i mezzi per fare che le strade tra Francia e Italia fossero libere
e sicure. A queste condizioni, e per allontanare il timore che le
repubbliche Cisalpina e Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe
il direttorio la sua autorità, perchè si mantenessero in quiete.
Ordinerebbe anzi a Brune che apertamente ed espressamente comandasse
ai sediziosi che disolvessero le bande loro e si ricomponessero nel
riposo. Caso importante ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro
di Francia, le anzidette condizioni, perchè tanti giudizii arbitrarii,
tanti supplizii crudeli contro uomini raguardevoli per virtù e per
dottrina, e che solo parevano essere stati condotti alla ora estrema,
perchè erano amatori della repubblica Franzese, non permettevano
che si proponesse indugio. Se il governo sardo non accettasse le
condizioni offerte, si renderebbe manifesto esser lui, non più vittima,
ma complice delle sedizioni, cui fomenterebbe in segreto fingendo di
temerle in palese. Del resto badasse bene Ginguenè a non chiamare mai i
sediziosi patriotti, ma sì sempre amici della Francia.

Fece Ginguenè molto efficacemente il dì 24 di maggio l'ufficio. Vi
aggiunse di per sè parecchie parti. Ma parendo allo ambasciatore che lo
sforzare il re a perdonare ai ribelli e di chiamare amici di Francia
coloro che macchinavano contro il suo Stato, forse anche contro la
sua vita, non bastassero a costituirlo in compiuta servitù, voleva
ed instava presso al direttorio che la Francia doveva avere piena ed
assoluta autorità in Piemonte, che per propria sicurezza ella doveva
forzare il re a cambiare i suoi ministri ed a richiamare il conte Balbo
da Parigi affermando essere lui l'agente di tutta la confederazione
d'Europa in quella capitale.

Il governo piemontese stretto da sì vive istanze e mosso da sì gravi
minaccie, ordinava il dì 25 di maggio, che si sospendessero sino a
nuovo ordine i processi non dei condannati, e si soprassedesse alle
pene dei Franzesi che si fossero mescolati nelle ribellioni.

Intanto il dì 26 di maggio alle 4 della mattina i fossi di Casale
grondavano sangue. Lèotaud, aiutante del generale Fiorella, e Lions
aiutante di Lèotaud, ambedue franzesi di nascita, ma non di servizio,
con otto altri, parte forastieri, parte Piemontesi, che, per aver
combattuto nella battaglia di Ornavasso erano stati condannati a morte,
soggiacquero all'estremo supplizio. Fu accusato il governo piemontese,
per questo caso, di studiata barbarie; perciocchè diedero veramente
a pensare l'ora insolita dei supplizii e la tardità della staffetta
apportatrice a Casale dell'ordinato soprastamento: soffermossi nove
ore in Torino. Certamente i condannati erano rei; ma pur troppo atroce
fu la deliberazione dello avere a bella posta ritardato le novelle ed
accelerato i supplizii affinchè la salute arrivasse quando già morte
spaziava. Levò Ginguenè pe' due Franzesi morti gravissime querele,
minacciò il governo piemontese, scrisse a Parigi, ch'era oggimai
tempo di purgar la Francia dal dire calunnioso che si faceva, ch'ella
tollerasse le carnificine dei Franzesi e degli amici loro per forza
dell'oro mandato a Parigi al conte Balbo.

Disfatto il nido dei repubblicani di Pallanza per la vittoria
d'Ornavasso, restavano i Carrosiani, che divenivano ogni giorno più
molesti. Non ignorava il governo piemontese che i moti di Carrosio
avevano più alte radici che quelle dei repubblicani piemontesi, perchè
Brune e Sattin segretamente e palesemente li fomentavano. Tuttavia, non
volendo mancare al debito degli Stati, si era deliberato di mostrar
il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo estremo delle armi
contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio, poichè gli era forza
traversare il territorio ligure, aveva rappresentato a quel governo
che i suoi nemici non avevano potuto condursi a Carrosio senza passare
pel territorio della repubblica; che lo stesso facevano per venir ad
invadere il territorio piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di
Gavi; che quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica,
come neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio
i nemici di sua maestà che ne abusavano per offenderla, tanto meno
dar loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o
dissipargli ella medesima o dare alle genti regie quel passaggio stesso
ch'ella dava a' suoi nemici.

Rispose la repubblica che non consentirebbe mai a dare il passo; solo
prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e
di allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due
parti. Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani
ad ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più
condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio ligure
per andar ad assaltare i regi ed intraprendevano le vettovaglie, che
per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e
svaligiavano i corrieri.

Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto,
il mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo
Cacherano d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza
qualche perizia militare. Avvertiane il governo ligure, avvertiane
l'ambasciatore di Francia, avvisando che solo fine della spedizione era
di cacciare i sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo
dominio, di dar quiete a' suoi Stati.

Sentì sdegnosamente l'ambasciatore questa mossa d'armi, e rescrivendo
al ministro Priocca, intimava facesse incontanente, se ancor fosse
tempo, fermar le genti che marciavano contro Carrosio, perciocchè non
fosse possibile di assaltar quella terra senza violare il territorio
ligure, la qual violazione non poteva non portar con sè gravi e
pericolosi accidenti.

Il re, stretto da tanti nemici ed oppresso da chi doveva aiutarlo, non
si perdeva d'animo, volendo che il suo fine fosse se non felice, almeno
generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la ragione
avesse che fare nel dominio della forza. I soldati regi, attraversato
il territorio ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio
e si facevano padroni della terra. Poscia per maggior sicurezza,
munirono di guardie tutte le alture circostanti.

A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano
si risentirono gravemente; le cose che scrissero sono piuttosto
pazze che stravaganti; ma Sottin non si restava alle parole, anzi,
accesamente appresso al direttorio ligure instando, operò di modo
che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nimico della
repubblica e ad intimargli la guerra. Or mentre Sottin spingeva la
repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguenè voleva impedire che
egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima instanza Priocca
a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo degli effetti di
questa discordia. Rispondeva il ministro facendo proposizioni che non
dispiacevano all'ambasciatore, il quale mandava il suo secretario a
Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo piemontese,
non aspettate le intenzioni di Brune, volendo o per amare di concordia,
o per timore di Francia gratificare all'ambasciatore, aveva operato
che le truppe si ritirassero da Carrosio e ritornassero nei dominii
piemontesi oltre i confini liguri. Per la ritirata dei regi non
cessavano le ostilità; anzi i Liguri, venuti avanti coi novatori
piemontesi sotto la condotta del generale Siri, s'impadronirono, dopo
violento contrasto della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i
Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti, si erano fatti
signori di Loano.

Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per fare calare il re
a quello che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille
spaventi. Già Ginguenè, parlando con Priocca, aveva tentato per ogni
modo di spaventarlo. Affermava che in ogni parte appariva segni di una
feroce congiura contro i Franzesi in Italia; che già Napoli armava;
che già lo imperatore empiva gli Stati veneti di soldati; che in ogni
parte il fomentavano sedizioni, che in ogni parte con infiammative
predicazioni si stimolavano i popoli contro i Franzesi; che questo
fuoco covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era
l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica
Franzese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di
Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato
d'affari d'Inghilterra? ch'essi potevano dar denari al re, dei quali
che uso egli facesse bensì sapeva; che i fuorusciti franzesi, che
le macchinazioni dei preti, che le parzialità dei magistrati, che il
parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Franzesi della gente
in ufficio, non lasciava luogo a dubitare che qualche gran macchina si
ordisse contro la Francia.

A così gravi accuse rispondeva il ministro, non per persuadere
l'ambasciator di Francia, poichè sapeva che non era persuadevole,
ma per purgare il suo signore delle note che gli si opponevano; e
conchiudeva, che sarebbe stato meglio e più onorevole per la Francia
lo spegnere il governo regio, innocente di tutti i carichi che gli si
davano non con altro fine che con quello di perderlo, di quello sia il
martirizzarlo. Arrivavano per maggiore spavento lettere del ministro
degli affari esteri di Francia a Ginguenè che manifestavano uno sdegno
grandissimo pei rigori usati, come pensava, contro i sollevati.

In mezzo a tanti terrori erano Priocca e Ginguenè venuti alle strette
per negoziare sulle condizioni dell'indulto, che il direttorio per
pacificare il Piemonte voleva che concedesse ai sediziosi. Avrebbe
l'ambasciator di Francia desiderato maggiore larghezza. Ma Priocca,
che aveva avuto avviso dal Balbo da Parigi di quanto il governo
franzese esigesse, non volle mai consentire ad allargarsi, e convenne
con Ginguenè nelle seguenti condizioni: che il perdono comprendesse
solamente i delitti politici anteriori e non gli estranei alla
sedizione; non guardasse nel futuro, e in modo alcuno non impedisse
il governo di usare la sua potenza a mantenimento della quiete; che in
terzo luogo i perdonati si allontanassero dal Piemonte con aver tempo
due anni a vendere i loro beni, ed in nissun modo, nè con pretesto
alcuno ripigliassero le armi contro il re.

Brune, al quale Ginguenè aveva annunziato le condizioni dell'indulto,
e che evidentemente mirava più oltre che alle servitù del re verso
la Francia, non si mostrò contento; che anzi le medesime aggravando,
voleva che si domandasse la consegnazione quale deposito, in mano
dei Franzesi, della cittadella di Torino. Voleva inoltre che il re
licenziasse i suoi ministri, che si negoziasse per lo scambio di
Carrosio e pei compensi dovuti alla repubblica Ligure. Quanto alla
cittadella, domandassela Ginguenè, e se la domanda gli ripugnasse,
domanderebbela egli.

Non abborrì l'animo di Ginguenè da sì insolente proposta, benchè se ne
potesse esimere, tanto più che gli era pervenuto comandamento espresso
da Parigi di non aggravar le condizioni e di stipularle tali quali il
governo glie le aveva mandate. Insistè adunque con apposita scrittura
appresso il ministro Priocca, notificando che Brune si era risoluto
a non accettar le condizioni; e aggiungendo di proprio capo molte
esagerazioni sulle cose correnti, conchiudeva che in tale condizione di
tempi, e per sicurezza sì del presente che dell'avvenire una sicurtà
era necessaria, e quest'era la cittadella di Torino; che questo gran
preliminare desiderava la Francia dal Piemonte, utile per ogni lato,
dannoso per nissuno; che questa fede del Piemonte appianerebbe la
strada a buona concordia: che i democrati armati deporrebbero le armi,
vedendo l'indulto guarentito da tale atto; poserebbero la Cisalpina
e la Ligure repubblica, e sarebbe la quiete dello Stato stabilmente
confermato.

Persistettero Ginguenè e Brune nel volere la cittadella, sebbene
il ministro Taleyrand scrivesse di nuovo all'ambasciatore che le
condizioni non si dovevano aggravare, che la sana politica, la
sicurezza, la gloria e gl'interessi del popolo franzese, stante la
disposizione d'animo dei potentati d'Europa verso la repubblica, ciò
richiedevano dalla Francia; che per questa cagione e per avere Sottin
trasgredito questi ordini l'aveva il direttorio richiamato da Genova
e soppresso la carica d'ambasciatore presso la repubblica Ligure. In
fatti era stato Sottin richiamato per essersi mostrato troppo acceso
nello spingere i Liguri alla guerra contro il re di Sardegna. Alla
quale deliberazione del direttorio aveva non poco contribuito con le
sue istanze e diligenza il conte Balbo a Parigi.

A così strana domanda si commosse il governo piemontese, e, già certo
del suo destino, elesse di favellare onoratamente, giacchè combattere
felicemente non poteva contro una forza tanto soprabbondante. Mandò
primieramente il marchese Colli a Milano affinchè facesse opera
con Brune che rivocasse la superba domanda. Poscia Priocca scriveva
all'ambasciator di Francia parole che potrebbero servir di esempio ai
governi ridotti agli estremi casi da chi fa suo dritto la forza.

Brune che fomentava le sollevazioni contro il re per ridurlo agli
estremi spaventi perchè rimettesse in sua mano la cittadella di Torino,
non voleva a modo niuno udire che ella non gli si consegnasse: ed
ora spaventando con minaccie di nuove ribellioni, ed ora allettando
con isperanze di quiete, se si acconsentisse alla sua domanda,
perseverava tenacissimamente nel suo proposito. Invano rappresentavano
instantemente in contrario i ministri che in un caso tanto grave ed
in cui il generale non aveva avuto da Parigi comandamento alcuno, si
rimetterebbero volentieri in arbitrio del direttorio. Si risolvettero
finalmente a consentire, in ciò mostrando una debolezza inescusabile
a quella condizione che toglieva al re le ultime reliquie della sua
dignità e della sua independenza.

Stipulavasi il dì 28 giugno a Milano fra Brune da una parte ed il
marchese di San Marsano dall'altra un accordo, i principali capitoli
del quale erano i seguenti: che i Franzesi occupassero il 3 di luglio
la cittadella di Torino; che il presidio franzese di lei non potesse
mai passare armato per la città; che il parroco si rispettasse, e
liberamente e quietamente potesse esercitare il suo ufficio, nè fosse
lecito ad alcuno insultare o cambiare quanto si appartenesse alla
religione; che il governo franzese si obbligasse a cooperare alla
quiete interna del Piemonte, nè direttamente, nè indirettamente desse
soccorso o protezione a coloro che volessero turbare il governo del
re; che Brune con atto pubblico ordinasse e procurasse con ogni mezzo
che in suo potere fosse, che le cose quietassero sulle frontiere del
Piemonte; che in fine usasse il generale tutta l'autorità e tutti
i mezzi suoi, perchè ogni ostilità da parte della repubblica Ligure
cessasse, la Cisalpina da ogni aggressione si astenesse; e la buona
vicinanza e l'antico assetto di cose si ristaurassero. Per tutto
questo si obbligava il re a perdonare agli amici di Francia sollevati,
a consentire che ritornassero a vivere sotto le sue leggi; se a ciò
non si risolvessero, potessero godere i loro beni, o disporne a loro
talento; che farebbero finalmente ogni opera, perchè il viaggiar per le
strade del Piemonte fosse a tutti libero e sicuro.

Per condurre, ad effetto l'accordo di Milano pubblicava il re patenti
d'indulto a favore dei sollevati, Brune da Milano il dì 6 luglio
pubblicava altre cose, al fine delle quali esortava ed ammoniva tutti
gli amici dei Franzesi, che a ciò condotti dalle ingiurie, dalle
minacce e dalle persecuzioni della parte contraria, avevano prese
le armi per difendere la vita e l'onore, deponessero queste armi e
tornassero alle sedi loro, dove troverebbero sicura e quieta vita.
Circa quelli poi, minacciava, che tenute in niun conto queste solenni
ed amichevoli esortazioni, si adunassero a far corpi armati, non
dipendenti dagli ordini dell'esercito franzese o dalle truppe dei
governi d'Italia, gli chiamerebbe nemici della Francia, partigiani
dell'Inghilterra, autori di sedizioni e come gente di tal fatta li
perseguiterebbe.

A dì 3 di luglio entravano i Franzesi condotti da Kister nella
cittadella di Torino, essendone uscito al tempo stesso il reggimento
di Monferrato che la presidiava. Fuvvi dolore pei fedeli, festa pei
novatori, sdegno per chi abbominava le violenze e le fraudi. Le curiose
donne ed i galanti giovani concorrevano volentieri, essendo il tempo
bellissimo, a vedere quest'ultimo sterminio della patria loro. Così,
contro la data fede e contro ogni rispetto sì divino che umano, viveva
il re di Sardegna sotto le bocche dei cannoni repubblicani di Francia.

Al fatto della cittadella i ministri di Russia e di Portogallo e
l'incaricato di affari d'Inghilterra instarono appresso ai sovrani
loro per aver licenza di ritirarsi da Torino, allegando essere Carlo
Emmanuele non più re di Sardegna, ma servo di Francia e l'ambasciator
franzese vero e reale sovrano del Piemonte.

Comandava il direttorio ai Liguri, per mezzo di Belleville, incaricato
d'affari a Genova, cessassero le ostilità: quando no, gli avrebbe per
nemici. Obbedirono molto umilmente. Comandava nel tempo stesso, per
mezzo di Ginguenè, al re sotto pena di guerra, cessasse dall'armi. Si
uniformava Carlo Emmanuele allo intento, non senza però lamentarsi
e protestare con forti e generose parole contro quella insolente
imperiosità del direttorio. Cessò intanto la guerra sui confini; solo i
regi fecero ancora alcune dimostrazioni per ricuperare Loano ed altri
paesi perduti nella contesa precedente; le quali sarebbero troppo
minuta e fastidiosa narrazione.

Ma è ben d'uopo raccontare un fatto orribile in sè, orribile per le
cagioni, e forse ancora più orribile per gli autori. Erano i Piemontesi
nemici del nome reale tornati a stanziare ed a far massa a Carrosio
da poi che il re, per gratificare alla repubblica, aveva ritirato le
sue genti da quella terra. Quivi ebbero, non che sentore, certo avviso
da quelli stessi che più intimamente assistevano ai consigli segreti
di Brune, dell'accordo che si trattava tra Francia e Sardegna per
la rimessa della cittadella e per la quiete del Piemonte. Nè parendo
loro che quello fosse tempo da perdere, perchè se seguiva l'accordo
ogni speranza di poter turbare il Piemonte diveniva vana per essere
obbligati a risolvere le loro masse, si deliberarono di prevenir il
divieto col fare un moto, il quale confidavano avesse ad allargare se
non tutto almeno parte considerabile del Piemonte. Era il fondamento
di questa macchina, che i repubblicani di Carrosio si muovessero
improvvisamente verso Alessandria, gli ufficiali del generale Menard,
che comandava a tutte le truppe franzesi in Piemonte avevano loro
dato speranza che le truppe repubblicane di Francia che stanziavano
in quella città si accosterebbero loro ad impresa comune contro il
re. Non dubitavano che un moto di tanta importanza, accresciuto dalla
fama della congiunzione delle armi di Francia, non voltasse sossopra
tutte lo provincie che bevono le acque del Tanaro; il che, giunto
all'occupazione della cittadella di Torino, persuadeva ai novatori che
anche le provincie del Po si leverebbero a cose nuove: una compiuta
vittoria aspettavano in tutto il Piemonte. Era stato l'indulto
pubblicato in Torino il lunedì, secondo giorno di luglio, ed il giorno
seguente erano i Franzesi entrati nella cittadella.

La mattina del 5 molto per tempo uscirono i sollevati, ed in numero
di circa mille, e passando vicino a Tortona, senza che i Franzesi
che presidiavano la piazza facessero alcun motivo per impedirli,
marciavano alla volta di Alessandria, e già comparivano alla Spinetta,
alle ore cinque e mezzo della mattina. La fazione sarebbe stata molto
pericolosa, se Solaro, governatore di Alessandria, non avesse avuto
avviso anticipato di quanto doveva seguire. Ma un prete Castellani, il
quale, per essere intervenuto nelle congreghe segrete dei novatori, era
consapevole di ogni cosa, l'aveva fatto avvertito. Per la qual cosa,
Solaro, che era uomo da saper fare, aveva ordinato un'imboscata alla
Spinetta, collocando circa cinquecento buoni e fedeli fanti e cento
cavalli tra la Spinetta e Marengo sotto la condotta del conte Alciati
di Vercelli, capitano, siccome molto dedito al re, così anche molto
avverso ai novatori. Ebbe il disegno del prudente governatore il suo
effetto; imperciocchè uscendo i regi all'impensata dall'agguato, e con
repentino romore assaltando ai fianchi ed alle spalle i repubblicani,
che a tutt'altra cosa pensavano piuttosto che a questa, li ruppero
facilmente, togliendo loro due cannoni e bestie da soma cariche di
non poche munizioni. I soldati regi, salvo nel primo impeto della
battaglia, si portarono lodevolmente, non uccidendo gl'inermi e
gli arrendentisi; ma si erano a loro mescolati gli abitatori della
Fraschea, gente fiera di natura ed avversa al nome franzese ed a
coloro che l'amavano. Costoro, crudelmente procedendo, ammazzavano e
spogliavano chiunque veniva loro alle mani. La crudeltà loro era venuta
in abbominio agli ufficiali ed ai soldati regi che si sforzavano,
sebbene con poco frutto, di moderare il loro furore. Nè la barbarie si
ristette alla battaglia: nella sparsa e precipitosa fuga essendosi i
vinti repubblicani nascosti chi qua chi là per le selve, pei vigneti
e per le campagne feconde di biade, erano spietatamente ed alla
spicciolata uccisi dai Frascheruoli. Ad ogni momento si udivano per
quei luoghi folti, spari annunziatori della morte dei repubblicani.
Durò ben due giorni questa piuttosto caccia che battaglia, e piuttosto
carnificina che uccisione. Perirono seicento: morì fra loro uno Scala,
giovane di natali onesti e di molta virtù, e che non ebbe altro difetto
se non di opinioni false ed esagerate in materia di libertà.

Fu accusato a quei tempi Brune dello aver suscitato questo moto
per far rivoltare gli Stati del re. Allegossi avere lui indugiato
a bella posta sino al 6 del mese a pubblicare i suoi ordini per la
risoluzione delle masse dei sollevati, mentre a ciò fare già insin
dal giorno dell'accordo fatto con San Marsano si era obbligato. Fu
accusato Menard dell'avere incitato con promesse di aiuto delle sue
genti i sollevati, poi dell'averli traditi col rivelare al governo
regio ciò che macchinavano; cosa troppo enorme e non credibile, neanco
in quei tempi, se si considera la natura di Menard. Certo è bene
che gli ufficiali che stavano ai fianchi sì di Brune che di Menard
spendevano presso i sollevati il nome loro per far credere che questi
due generali secondassero il movimento che si voleva fare. Quanto
a Brune, egli è certo che con parole forti e sdegnose risolutamente
negava ogni partecipazione in questo tentativo. Fu accusato il governo
regio dell'avere, dopo consentito per forza all'indulto, in tale
modo ordinato gli accidenti, che gli fosse fatto facoltà di versare
a suo piacere il sangue a copia, ed affermossi che il governator
d'Alessandria Solaro l'abbia secondato in sì orribile proposito. Della
qual cosa gli autori di sì perversa opinione pigliavano indizio da
questo, che l'indulto pubblicato ai 2 in Torino, non fu pubblicato
se non ai 6 in Alessandria, quando già erano seguite le uccisioni.
Scrissene molto risentitamente Ginguenè a Priocca. Rispondeva
risolutamente il ministro che anche alle orecchie sue erano pervenute
certe cose pur troppo dolorose, le quali gli avevano dato a conoscere,
perchè il picciol corpo dei sollevati si fosse con tanta confidenza
condotto tanto avanti, e che se in questa faccenda vi era perfidia,
certamente non era dalla parte del re; parole terribili e pregne di
cose molto sinistre.

L'occupazione della cittadella di Torino per parte delle genti
repubblicane di Francia, che doveva, secondo i trattati, esser cagione
di concordia fra le due parti e di sicurtà pel Piemonte, partorì
al contrario maggiori sdegni, e per poco stette ch'ella non facesse
sorgere una sanguinosa battaglia tra i Franzesi ed i Piemontesi nel
grembo stesso della real Torino. Soleano i Franzesi sul battere della
diana vespertina suonare, accogliendosi sui bastioni di verso la città,
ogni giorno le loro arie repubblicane, e non si astenere nè anco da
quelle che tutto il mondo conosceva essere state composte in ischerno
e derisione del re ai primi tempi della rivoluzione. Mescolavansi in
mezzo a questi suoni, cosa più vera che credibile a chi non conoscesse
i tempi, nella cittadella medesima voci o motti ingiuriosi al re.
Aveva il governo della fortezza l'aiutante generale Collin, il quale,
siccome quello che faceva professione di repubblicano vivo, e teneva
pratiche coi novatori che ad ogni ora lo infiammavano, si mostrava
molto indulgente nel permettere a' suoi soldati queste intemperanti
dimostrazioni. Ne nasceva che ogni sera accorrevano da tutte le parti
ad ascoltare quelle musiche strane i curiosi per scioperio, i novatori
per disegno e si faceva calca presso alle mura della cittadella. Il
governo, sforzato a provvedere alla quiete ed alla salute del regno,
mandava soldati per prevenire ogni scandalo, ma essi, udendo il
vilipendio che si faceva del loro sovrano, a grandissima rabbia si
concitavano ed a mala pena potevano frenar sè stessi che non venissero
ai fatti. Così all'ire cittadine si mescolavano l'ire soldatesche, ed
un nembo funestissimo era vicino a scoppiare sul Piemonte.

L'intemperanza repubblicana non si rimaneva ai suoni ed ai canti:
appunto il giorno dopo delle querele di Priocca, cioè il 16 settembre,
o che fosse sola imprudenza giovanile o disegno espresso, come si
credè con maggiore probabilità, dei novatori, massimamente di quei
più arditi che dipendevano dal fomite cisalpino, si venne ad un
fatto mostruoso che riempì di terrore tutta la città, e poco mancò
che di uccisione ancora la riempisse. Verso le ore quattro meridiane
una vergognosa e schifa mascherata usciva dalla cittadella. Era una
tratta di tre carrozze, nelle quale si trovavano femmine vivandiere
travestite alla foggia delle dame di corte, ed ufficiali mascherati
ancor essi alla cortigiana secondo gli usi di Torino, con abiti neri,
con grandi parrucche, con borse nere a capelli, con lunghe spade, con
else d'acciaio, pure nere, e con piccioli cappelli sotto il braccio,
tutto alla foggia della corte; dietro le carrozze lacchè abbigliati
parimente all'uso del paese. Perchè poi lo scherno fosse ancor più
evidente, precedevano altri uffiziali vestiti in farsetto bianco con
bacchette di corrieri: scortavano tutta questa mascherata quattro
usseri franzesi, comandati da un ufficiale. Erano fra gli ufficiali
mascherati il vicegerente ed il segretario di Collin. Andavano attorno
per tutti i canti, poi si aggiravano su tutte le passeggiate: i
corrieri con mazzate, gli ussari con piattonate si facevano sgombrar
davanti le brigate. Comparve la mascherata avanti alla chiesa di San
Salvario sulla passeggiata del Valentino all'ora in cui il popolo stava
divotamente intento alla benedizione, essendo giorno di domenica. Gli
usseri, crosciando nuove piattonate, sforzavano, non senza romore,
i circostanti a scostarsi dalla chiesa: il popolo s'accendeva di
sdegno. Posta in tal guisa ogni cosa a romore con uno scherno tanto
indecente della corte e dei costumi nazionali del Piemonte, le maschere
imprudentissime ritornavano sotto i viali della cittadella, dov'era
la solita passeggiata frequentissima di popolo. Quivi i mascherati a
guisa di corrieri, da insolenze gravi ad insolenze ancor più gravi
trascorrendo, con le mazze loro abbatterono per terra tre vecchie
donne, affinchè fosse sgombrata prestamente la strada alle carrozze
della mascherata: al tempo medesimo gli usseri menavano piattonate
forti a tutti che incontravano. La musica concitatrice nel tempo stesso
dalla cittadella suonava e risuonava. Allora non vi fu più modo al
furore che dal popolo passò ai soldati. Erano questi in grosso numero
in Torino o nelle vicinanze; perciocchè il re, per non essere del
tutto a discrezione dei repubblicani, aveva raccolto i suoi intorno
alla sua regia sede; il che come disegno gli fu poscia imputato dai
repubblicani. Udironsi in questo mentre archibusate, prima rare, poi
moltiplicate: il popolo spaventato con una calca incredibile fuggiva;
i soldati piemontesi, cui niun comandamento poteva più frenare,
accorrevano a furore; alcuni soldati franzesi restarono uccisi. Lo
spavento, il furore, la vendetta occupavano le menti d'ognuno. I
Franzesi, che alloggiavano nella cittadella, udito il romore delle armi
e dai fuggenti il pericolo dei compagni, precipitosamente già uscivano
armati e pronti a far battaglia contro i regi. Una estrema ruina
sovrastava, presente il re, alla reale Torino.

In questo punto il generale Menard, che non per ufficio, ma per
accidente si trovava in Torino, veduto che se più si procedesse, vi
andava la salute dei Franzesi, la salute dei Piemontesi, correva in
mezzo a' suoi, comandava a Collin che non si movesse, e con le sue
esortazioni, con le sue minaccie, con l'autorità del suo grado tanto
operava, che fece fermare e tornare in cittadella i repubblicani,
impedì che traessero, soppresse i suoni concitatori, e frenò un impeto,
il cui fine, s'ei non fosse stato presente, sarebbe stato funestissimo.
Il governatore non tralasciò uffizio, perchè il furore improvviso
dei soldati piemontesi si raffrenasse, e diede ordine perchè se ne
tornassero alle loro stanze. Così fu salvata la capitale del Piemonte
dalla generosità di Menard e dalla moderazione di Thaon di Sant'Andrea.

L'ambasciatore di Francia, che nell'ora del tumulto se ne stava
villeggiando sopra la collina di Torino, ebbe subito avviso
dell'accidente, e pregato dal ministro Priocca, della sicurtà di lui
e di tutta la sua famiglia promettendo, tornava la sera del medesimo
giorno. Da quell'uomo diritto e dabbene ch'egli era, quando non
isviato dai soldati fanatici, si dimostrò molto sdegnato contro Collin,
condannando con forti parole la sua condotta e la schifosa mascherata.
Poi per opera di lui fu Collin rimosso dal governo della cittadella e
surrogato Menard, non senza grande contentezza del governo piemontese.
Queste cose faceva Ginguenè sano; ma aggirato di nuovo dai novatori,
tornò nel suo male, ed ingannandosi novellamente, incolpava il governo
regio di congiura per ammazzare tutti i Franzesi il giorno stesso
che si era fatta la mascherata; e, troppo facilmente condiscendendo
ai desiderii di Brune, di nuovo tormentava Priocca: addomandava con
insolente istanza che il re licenziasse tutti i suoi ministri e nuovi
ne creasse in luogo loro; intorno a che molti furono i contrasti, i
quali finalmente però terminarono con la dichiarazione che il re non
voleva fare cambiamenti, poichè non li poteva fare con giustizia.

Dalle precedenti narrazioni si raccoglie che le cose tra l'ambasciatore
di Francia ed il governo del Piemonte erano giunte al punto estremo, nè
alcun termine di concordia si vedeva possibile. Continuamente instava
Ginguenè presso al direttorio per la rimozione del conte Balbo. Da
un'altra parte il conte presso al direttorio medesimo continuamente
instava acciocchè chiamasse Ginguenè. Questi chiamava Balbo spargitor
d'oro, seminatore di corruttele, agente operosissimo e pericoloso
di tutta la lega europea contro la Francia. Balbo chiamava Ginguenè
uomo buono e stimabile per le sue qualità private, ma cervello pieno
di fantasmi lontani dal vero, corrivo al prestar fede alle follie
ed alle calunnie dei novatori, accademico importuno, ambasciatore di
penna intemperante e di natura tale che non lasciasse pur respirare un
momento quel governo che avesse a fare con lui. Arrivarono in questo
mentre le novelle della mascherata e della domanda fatta da Ginguenè
della espulsione dei ministri. Si prevalse destramente e con molta
istanza Balbo de' due accidenti, come già si era prevalso della domanda
della cittadella. Per la qual cosa, giuntovi eziandio che Taleyrand
sapeva che la nuova confederazione contro la Francia si preparava,
ma non era ancora matura, e però voleva allontanar le cagioni di
nuovi scandali, prevalse l'ambasciator piemontese. Fu Ginguenè per
decreto del direttorio del 24 settembre richiamato dalla sua carica
di ambasciatore. Gli fu sostituito d'Eymar, uomo piuttosto non senza
lettere che letterato, amatore dei letterati e di natura dolcissima, ma
non d'animo tale che si potesse maneggiare con la fermezza necessaria
in tempi tanto tempestosi.

Gli altri fatti si apprestavano all'Italia. Mentre con maggiori
dimostrazioni di fede e di amicizia era l'ambasciatore Balbo
accarezzato da tutti i ministri e massimamente da Taleyrand in Parigi,
mandava il direttorio il generale Joubert, surrogato a Brune, in
Italia, con ordine di spegnere la potenza della casa di Savoia e di
far rivoluzione in Piemonte. Joubert sul suo primo arrivare, vedendo
che i tempi stringevano, non frappose indugio a mandar ad effetto ciò
che gli era stato commesso. Ma prima di venire ad una deliberazione del
tutto ostile, mandava a Torino l'aiutante generale Munier con ordine di
richiedere il re che desse incontanente i dieci mila soldati, a' quali
era obbligato per trattato d'alleanza, e li mandasse a congiungersi coi
Franzesi, ed, oltre a ciò, che rimettesse in mano di lui l'arsenale di
Torino, domanda di estremo momento, per essere l'arsenale situato nella
città stessa e vicino alla cittadella.

Rispose che darebbe incontanente i dieci mila soldati: mandò il giorno
stesso della richiesta gli ordini perchè si adunassero; spedì un
ufficiale a Milano, perchè consultasse col generalissimo intorno al
modo del marciare dell'esercito piemontese verso il franzese, e del
servire insieme l'uno con l'altro. Quanto all'arsenale, si espresse
non poterlo consegnare, perchè la domanda non era conforme al trattato
d'alleanza; avere spacciato a Parigi un uomo apposta affinchè questo
emergente si accordasse col direttorio.

Non contentandosi Joubert delle risposte, e di quali si sarebbe
contentato non si vede, si risolveva a mandar ad esecuzione quello
che gli era stato comandato. L'importanza del fatto in ciò consisteva
che la possessione della cittadella si rendesse sicura in mano dei
repubblicani. Perlochè il generalissimo vi mandava a governarla il dì
27 novembre il generale Grouchy in iscambio di Menard, ch'era stimato
od aborrente per natura da sì gravi ingiurie o non alieno dal favorire
gl'interessi del re. Mirava il direttorio a far rinunziare il re di per
sè stesso senza che si venisse all'esperimento dell'armi. Ma dubitando
che l'apparato della forza non bastasse a muover l'animo di Carlo
Emmanuele, si usò anche la astuzia. Per la qual cosa non sì tosto era
Grouchy giunto a Torino, che con tutte le arti procurava di sapere per
mezzo dei democrati del paese e di quanti altri potesse adescare, quali
fossero le intenzioni del re e dei ministri, e soprattutto quali mezzi
di difesa avessero. Nè abborrirono gli agenti del direttorio sapendo
quanto Carlo Emmanuele fosse dedito alla religione, dal tentar mezzi
insoliti di sedizione con volersi insinuare presso al suo confessore,
affinchè l'esortasse alla rinunzia. Nè solo l'abdicazione procuravano,
ma volevano che il re per l'atto stesso della sua rinunzia ordinasse
ai Piemontesi ed a' suoi soldati che non si muovessero ed obbedissero
al governo temporaneo che sarebbe instituito. Riuscì il generale di
Francia, che sul primo giungere si era tenuto nascosto, a procurarsi
segrete intelligenze con uomini d'importanza; ma il tentativo della
confessione non ebbe effetto per la rettitudine del confessore.
Moltiplicavansi intanto le bocche da fuoco contro la città: il
terrore cresceva; chiamava il governo i reggimenti sparsi a difendere
Torino, ed eglino con presti passi accorrevano: i fati sovrastavano
e chiamavano a rovina e la reggia e i popoli e il Piemonte. Già i
repubblicani ordinati da Jubert marciavano a distruggere un re tante
volte assalito con ingiurie, di cui con fraude avevano occupato la
fortezza difenditrice de' suoi tetti e de' suoi penetrali stessi, ed al
quale altro fondamento non restava consolativo ma insufficiente, che la
fede dei soldati e la devozione dei popoli. Pubblicava Joubert il dì 5
dicembre queste parole.

«La corte di Torino ha colmo la misura ed ha mandato giù la visiera:
da lungo tempo gran delitti ha commesso; sangue di repubblicani
piemontesi fu versato in copia da questa corte perfida: sperava il
governo franzese, amatore della pace, con mezzi di conciliazione
rappacificarla, sperava ristorar i mali di una lunga guerra, sperava
dar quiete al Piemonte con istringere ogni giorno più la sua alleanza
con lui: ma fu Francia vilmente ingannata delle sue speranze da una
corte infedele ai trattati. Per la qual cosa ella comanda oggi al suo
generale di non più prestar fede a gente perfida, di vendicar l'onore
della grande nazione, e di portar pace e felicità al Piemonte: per
questi motivi l'esercito repubblicano corre ad occupare i dominii
piemontesi.»

Nel mentre che Joubert così parlava, Victor e Desoles, raunatisi
con le schiere loro nelle vicinanze di Pavia, ad Abbiategrasso ed
a Buffalora, passato il Ticino, si avviavano a Novara, nella quale
entrarono per uno stratagemma militare di soldati nascosti in certe
carrette. Presa Novara, spingevano le prime squadre insino a Vercelli.
L'aiutante generale Louis s'impadroniva di Susa, Casabianca di Cuneo,
Montrichard di Alessandria, sorprendendo in ogni luogo i soldati regi,
facendone prigionieri i governatori. Avuta Alessandria, Montrichard
s'incamminava ad Asti, donde, spingendosi più avanti, andò a piantare
gli alloggiamenti sulla collina di Superga, che da levante signoreggia
la capitale del regno. In questo mezzo tempo ordinava Grouchy, che
gli ambasciatori di Francia e della Cisalpina si ricovrassero nella
cittadella, il che tostamente eseguirono, tolte prima dalle loro case
le insegne delle loro repubbliche. Poi penuriando la cittadella di
munizioni, massimamente di proietti poichè intenzione dei repubblicani
era di voltar sotto sopra e d'incendiar Torino se l'esercito francese
fosse obbligato di rendersene padrone per forza, operarono di modo
che si trasportasse di nascosto dall'arsenale nella fortezza armi e
munizioni d'ogni genere, procurandosi in tale modo le armi del re per
combatterlo e distruggerlo. Era di non poca importanza pei repubblicani
che in loro potere recassero Chivasso terra munita di un forte
presidio e per cui Victor doveva passare per venirsene da Vercelli
a Torino. A questo fine e per obbedire al generalissimo mandava
Grouchy segretamente una colonna di buoni soldati, i quali arrivati
inopinatamente sopra Chivasso ed aiutati dai soldati di nuova leva, che
qui per accidente alloggiavano, l'occuparono facilmente. Rovinava tutto
ad un tratto e per ogni parte lo stato del re, usando i repubblicani
per sorpresa contro di lui gli estremi della guerra, quantunque ancora
il governo loro non l'avesse dichiarata.

Intanto si continuava nelle dissimulazioni. Scrivevano al governator
di Torino assicurandolo che quanto si faceva solo si faceva per modo
di cautela e che se per questo si attentasse di por le mani addosso
ad un solo amatore di libertà o francese o piemontese che si fosse,
incendierebbero la città e farebbero che di lei pietra sopra pietra
non rimanesse. Il governo pubblicava un manifesto con cui esortava
gli abitatori a restarsene quieti, chiamava i Franzesi gli alleati
più fedeli che si avesse, affermava che niuno nissuna cosa aveva a
temere da loro. Mentre si appiccava questo manifesto sui muri, ecco
giungere le novelle, che già erano prese Novara, Susa, Chivasso,
Alessandria, che già Torino era stretto da ogni parte da gente nemica,
che già le truppe regie sorprese ed assaltate all'impensato erano state
disarmate e poste in condizione di prigioniere. Vide allora il re che
ogni speranza era spenta, che i fati repubblicani prevalevano, ch'era
perduto il regno, che mille anni di dominio della sua reale casa erano
giunti al fine. Restava, poichè perdeva la potenza, che non perdesse
l'onore; volle che i posteri sapessero che periva innocente. Pubblicava
adunque Priocca il 7 decembre le sue ultime parole; ma anche le sue
generose, le giuste sue difese gli vennero poco dopo interdette ed
anzi imputate a delitto da chi non solo abusava della forza propria, ma
ancora si sdegnava dalle ragioni altrui.

Intanto perchè si venisse a conclusione si moltiplicavano le arti e gli
spaventi; si parlava che a nissun'altra condizione sarebbero i Franzesi
contenti che all'abdicazione. Cedesse al fato, nè v'era modo da ostare,
giacchè Carlo Emmanuele era chiamato a distruzione dal suo alleato.
L'atto di abdicazione fu accordato e stipulato il dì 9 di dicembre in
Torino, per parte della repubblica dal generale Clauzel, e per parte
del re da Raimondo di San Germano, personaggio di molta, anzi di unica
autorità appresso di lui. Non si soddisfecero i repubblicani di torgli
lo stato, ma vollero anche amareggiarlo obbligandolo a ritrattarsi
pubblicamente del manifesto del giorno 7, ed a mandar Priocca in mano
loro alla cittadella, come sigurtà di non resistenza e come testimonio
di ritrattazione. Vollero eziandio, essendosi persuasi che il duca
d'Aosta fosse mosso da avversioni eccessive contro di loro e capace di
venire a qualche tentativo d'importanza, che anch'esso sottoscrivesse
l'abdicazione. Per questa cagione si vede sul fine dell'atto, dopo
il nome di Carlo Emmanuele quello di Vittorio Emmanuele con queste
parole: _Io prometto di non dare impedimento all'esecuzione di questo
trattato._

Fu in buon punto pel re e per tutta la sua famiglia, che Grouchy
e Clauzel con tanta pressa lo avessero sforzato alla rinunzia;
conciossiacosachè aveva il direttorio comandato che fossero condotti
in Francia, compiacendosi nel pensiero di mostrare ai repubblicani,
come a guisa di trionfo, un re e molti principi debellati e cattivi.
Ma Taleyrand, al quale se piacevano le opere astute non piacevano
le giacobiniche, aveva mandato a Joubert, innanzi che spedisse gli
ordini del direttorio, che sforzasse presto il re alla rinunzia, non
imponendo la condizione della cattività dei reali. Da che ne seguitò
che avevano già fatta la rinunzia e già erano arrivati a Parma, quando
pervenne a Joubert gli spacci per la cattività loro. Clauzel, che aveva
richiesto sui primi negoziati la persona del duca d'Aosta come ostaggio
per la osservanza dei patti e qualche timore del suo nome, udite le
rimostranze del re e della regina, facilmente se ne rimase: il che fu
cagione che il re il presentasse della celebre tavola di Gerardo Dow,
in cui è dipinta con tanta maestria la idropica.

Accordossi nell'atto dell'abdicazione che il re rinunziava alla
sua potestà, e comandava ai Piemontesi che obbedissero al governo
temporaneo da instituirsi dal generale di Francia; comandava altresì a'
suoi soldati che come parte dell'esercito franzese si sottomettessero
al generale medesimo; disdiceva il manifesto del giorno 7 e mandava il
suo ministro Damiano di Priocca nella cittadella: che il governatore
della città si conformasse alla volontà del comandante della
cittadella; che fosse sicura la religione, sicure parimente le persone
e le proprietà; che i Piemontesi che desiderassero spatriarsi, il
potessero fare liberamente con facoltà di portarsene il loro mobile e
di vendere gli stabili, e che i Piemontesi fuorusciti che volessero
ripatriarsi, medesimamente il potessero fare e ricuperassero tutti
i diritti loro; potesse liberamente il re con tutta la sua famiglia
ritirarsi in Sardegna; finchè in Piemonte fosse, si conservassero
i suoi palazzi e le sue ville libere; gli si dessero i passaporti e
scorta mezza franzese e mezza piemontese; se il principe di Carignano
eleggesse di rimanersi in Piemonte o di andarsene, sì liberamente il
potesse fare, con godersi e con disporre de' suoi beni; incontanente si
suggellassero gli archivii e le casse dell'erario; non si accettassero
nei porti della Sardegna le navi delle potenze nemiche di Francia.

Creava Joubert un governo che per modo di provvisione ed insino a tanto
che i tempi permettessero un assetto definitivo, reggesse il Piemonte.
Vi chiamava per un primo decreto Favrat, Botton di Castellamonte, San
Martino della Motta, Fasella, Bertolotti, Bossi, Colla, Fava, Bono,
Galli, Braida, Cavalli, Bandisone, Rossi, Sartoris; per un secondo,
Cerise, Avogadro, Botta, Chiabrera, Bellini. Erano uomini d'onorate
qualità ed i più splendevano egregiamente o per dottrina, o per virtù,
o per altezza di cariche o per nobiltà di natali, e molti per tutte
queste qualità insieme, nè erano certamente degni di governare in tempi
sì miseri la patria loro; sì che in breve non per colpa propria, ma dei
tempi, perdettero presso i compatriotti loro la confidenza, presso i
forastieri l'amicizia.

Grouchy, conseguita una tanta mutazione sforzava i soldati Piemontesi
a giurare in nome della repubblica Franzese: il che fecero piuttosto
sbalorditi dal caso che per volontà deliberata. Damiano di Priocca
andava a porsi in cittadella in potestà dei repubblicani; Priocca,
esempio d'animo forte, di mente sana, di sincerità singolare e d'una
fede inalterabile; uno degli uomini dei quali l'Italia e l'umanità più
si debbono pregiare.

Abbandonava il re, abbandonavano i reali di Piemonte la gloriosa sede
degli antenati loro. Era la notte, fra le 9 e le 10 della sera, oscura
e piovosa; occupava la città un alto terrore: scendevano al lume dei
doppieri le scale, ed usciti dalla porta che dà nel giardino e quivi
in carrozza montati, per l'altra porta ch'è tra le due del palazzo e
del Po, alla strada maestra di verso Italia pervenivano. Lasciava il
re nelle abbandonate stanze per una continenza che mai non si potrà
abbastanza lodare e per debito di religione, come protestava, le gioie
preziose della corona, tutte le argenterie e settecento mila lire
in doppie d'oro. Alcuni fra i principi piangevano; il re e la regina
mostravano una grandissima costanza. Scortavangli ottanta soldati a
cavallo franzesi, altrettanti piemontesi; gli accompagnavano fino a
Livorno di Piemonte. Condussersi gli esuli principi in Parma, poi in
Firenze: quivi furono accolti dal granduca come si conveniva al grado,
alla parentela ed alla disgrazia. Fu suggellato il palazzo reale
dal commissario del direttorio Amelot, e dall'architetto Piacenza,
architetto del re. Ma alcuni giorni dopo, rotti i suggelli da uomini
rapacissimi, furono portate via le gioie e le altre suppellettili
preziose, alle quali Carlo Emmanuele per la sua illibatezza e sincerità
aveva, partendo, portato rispetto.

Così ruinò la casa reale di Savoia. Nè sapremmo se si abbia a
raccontare l'intimazione di guerra fatta il dì 12 dicembre dal
direttorio, quando già la guerra non solo era stata fatta, ma anche
terminata con la distruzione dell'autorità regia in Piemonte.

Partito il re da Livorno di Toscana in sull'entrare del 1799, arrivava
il 3 di marzo, in cospetto di Cagliari. Quivi, vistosi in potestà
propria, volle fare manifesto a ciascuno e pubblicò solennemente, come
altamente ed in cospetto di tutta Europa ei protestasse contro gli
atti, per forza dei quali era stato costretto ad abbandonare i suoi
territorii di terraferma, ed a rinunziare per un tempo all'esercizio
della sua potenza. Accoglievano i Sardi, come ben si conveniva,
con dimostrazioni di rispetto e d'amore l'esule stirpe di Emmanuele
Filiberto.

Mentre la sede antica dei re di Sardegna diveniva preda dei
repubblicani, le sorti della parte meridionale d'Italia, tentate dal
re di Napoli, partorivano accidenti insoliti e terribili. Non aveva
il generale Mack trovato nello Stato romano quel seguito, che si era
concetto con la speranza, poichè l'essersi ritirati, ma interi, non
rotti, i Franzesi, e la fama ancor fresca del loro valore, davano
timore, che ove fossero ingrossati, si precipitassero di nuovo alle
offese con danno estremo di coloro, che troppo vivamente si fossero
scoperti contro di loro. Il terrore poi concetto per le infelici pruove
fatte contro i medesimi in parecchie parti d'Italia, massimamente il
caso spaventoso di Verona, teneva sospeso l'animo d'ognuno, impediva
che si movesse cosa alcuna contro i repubblicani, e frenava i popoli
desiderosi di prorompere. Si aggiungeva che sebbene i Romani odiassero
i Franzesi, non amavano però i Napolitani, e pareva loro di uscire
da una servitù abbominata per sottentrare ad un'altra forse non
meno odiosa. Tutte queste cose non erano nascoste a Mach, e però
argomentando che la guerra era piuttosto incominciata di nome che di
fatto, e che se con qualche fazione importante, in cui si venisse al
sangue, non dimostrava che le mani fossero tanto forti quanto le lingue
pronte, il tempo avrebbe presto condotto una mutazione di fortuna,
si deliberava ad andare all'incontro delle armi repubblicane. Del che
tanto maggiore necessità gli sovrastava, quanto Championnet raccoglieva
genti in fretta e continuamente si ingrossava.

Avendo adunque avuto avviso che con felice navigazione era Naselli
sbarcato a Livorno e Ruggero di Damas ad Orbitello, si muoveva a
tentare la fortuna delle battaglie, eleggendo di far impeto contro
l'ala destra dell'esercito franzese che, governata dal generale
Macdonald, da Terni si distendeva fin verso Nepi, Cività castellana e
Monterosi.

Marciava Mack, divisi i suoi in cinque schiere, il dì 5 dicembre, da
Baccano contro i repubblicani, mentre al tempo stesso ordinava un moto
verso Civitaducale per tener in rispetto i Franzesi da quella banda.
Prevaleva di gran lunga di numero, conducendo quaranta mila soldati
contro un nemico, che se arrivava agli otto mila, non li passava,
poichè in questo numero consisteva l'ala destra dei repubblicani.
Sboccava la prima schiera Napolitana verso Nepi, la seconda, insistendo
sull'antica via romana, verso Rignano, la terza verso Santa Maria di
Falori, schiere destinate tutte a combattere sulla destra sponda del
Tevere. La quarta aveva il carico d'impadronirsi di Vignanello per
guadagnare la terra d'Osta, e quivi varcare il fiume. Finalmente per
fare un po' di spalla a destra a tutte queste genti, la quinta schiera
dei regi marciava contro a Magliano, e già aveva traversato il Tevere
al passo di Ponzano.

I Franzesi, sentita prestamente la venuta del nemico, non si fermarono
ad aspettarlo, ma siccome quelli che stimavano sè stessi da quegli
uomini valorosi che erano e tenendo in poco conto le genti napolitane,
uscirono incontanente ad incontrarle. I capi poco dubitavano della
vittoria, perchè oltre il provato valore dei soldati, sapevano che gli
assalti dei Franzesi, per la natura pronta dalla nazione, sono sempre
più fortunati che le difese.

Non fu l'esito diverso dalle speranze. Kellerman, figliuolo del
vecchio generale di questo nome, contuttochè sulle prime trovasse un
duro incontro, ruppe la prima napolitana schiera, cacciolla infino a
Monterosi, e quivi rompendola di nuovo, tagliava a pezzi i valorosi,
disperdeva i codardi. Non procedettero con maggior riputazione le cose
dei Napolitani dalle altre parti: il colonnello Lahure ruppe la schiera
di Rugnano, sebbene sulle prime avesse perduto del campo; perchè
Macdonald con pronti aiuti soccorrendolo, lo ebbe tostamente abilitato
alla vittoria. S'incontrava la schiera che giva all'assalto di Santa
Maria di Falori, in una squadra polacca capitanata dal generale
Kniazewitz e che aveva con sè una legione romana, che aveva alzate
le bandiere della repubblica. Polacchi e Romani valorosissimamente
combatterono: i Napolitani andarono in volta, non senza grave
perdita d'uomini, d'armi e di bagaglie. Il generale Maurizio Mathieu
affrontava, così avendo ordinato Macdonald, la quarta schiera, la
quale cedendo si ricoverava nella terra di Vignanello forte per sito
e cinta di buone mura. Si difendevano i Napolitani virilmente, sapendo
che questa fazione era di grandissima importanza; erano anche aiutati
dai terrazzani, nemicissimi del nome franzese. Ma Mathieu tanto fece
con le armi e con le minaccie, che sforzava i Napolitani a lasciar
la terra libera al vincitore. Entraronvi i Franzesi trionfando, non
senza qualche licenza, come di gente vincitrice ed irritata. Acquistato
Vignanello, correva Mathieu ad assicurare il ponte di Borghetto.

Restava la quinta schiera che camminava verso Magliano; ma udite le
infelici novelle delle compagne, se ne tornava, senza aver combattuto,
per Ponzano, al principale alloggiamento dell'esercito regio. Così
pel valore delle sue genti e per l'arte egregia con la quale le mosse,
venne fatto a Macdonald di variare lo stato della guerra e di riuscir
vincitore da un assalto molto pericoloso.

Ma, non ostante le battaglie combattute infelicemente dal generale
napolitano sulla destra riva del Tevere, la guerra non era ancora
vinta; perchè da una parte il conte Ruggiero di Damas venendo da
Orbitello si avvicinava, dall'altro rimanevano ancora sulla sponda
sinistra del fiume ai Napolitani genti superiori per numero ai loro
nemici. Per la qual cosa Mack, non disperando ancora delle sorti, si
accingeva a fare un nuovo sforzo sulla sponda medesima, il cui fine
era di rompere la schiera di mezzo di Championnet; il che avrebbe
disgiunto le due ali franzesi. Ebbe il generale franzese sicuro e
pronto avviso dell'intento del suo avversario. Laonde per resistere
a quel nuovo impeto e non si commettere se non con vantaggio alla
fortuna, ristringeva i suoi ed affortificava con nuove genti i
luoghi di Contigliano e di Magliano. Poi fe' ritirare Macdonald da
Civitacastellana, solo lasciato un presidio nel forte di Borghetto
affinchè quivi validamente difendesse il passo del fiume. Finalmente
chiamava il generale Lemoine, che oltre l'Apennino sotto il freno di
Duhesme combatteva contro il cavaliere Micheroux, generale del re, ad
occupare Civitaducale e Rieti, la prima città del regno, la seconda,
dello Stato romano.

Le cose succedevano a prima giunta prosperamente ai Napolitani;
conciossiachè, sebbene per opera di Mathieu fossero stati scacciati da
Magliano, che già avevano conquistato, una loro schiera di gran polso,
sotto guida del generale Moesk, si era, cacciatone di forza i Franzesi,
impadronita di Otricoli, e già faceva correre da' suoi cavalleggieri
la strada per a Narni. La guerra diveniva pericolosa pei Franzesi. Ma
non perdutisi punto d'animo si risolvevano al combattere, e provarono
tostamente che nelle battaglie più può l'ardire che la prudenza;
poichè Mathieu, per comandamento di Macdonald, assaltò furiosamente i
Napolitani in Otricoli, e, quantunque valorosamente si difendessero, li
vinse con perdita di due mila soldati, di cinquecento cavalli, di otto
cannoni e di tre bandiere. Diedero in questo fatto pruove di singolar
valore i Polacchi e fu ferito in una gamba un Santacroce, principe
romano, che combatteva per la repubblica. Ritirossi Moesk colle
reliquie de' suoi a Calvi, dove per la fortezza del sito si poteva
sostenere e fare ancor dubbia la vittoria. Ma lo stesso Mathieu, già
vincitore di tanti fatti per valore di questa napolitana guerra mandato
da Macdonald, vincitore ancor esso dei fatti medesimi per perizia,
occupate le eminenze che stanno a sopraccapo alla terra e minacciato
aspramente Moesk se non si arrendesse, il costringeva, aiutato anche
dalla presenza di Macdonald sopraggiunto in quel frangente, alla
dedizione. Questo fatto ruppe ad un punto tutte le speranze cui Mack
aveva concetto di poter durare nello Stato romano, e lo fece accorgere
che niun altro scampo gli restava che quello di ritirarsi con presti
passi nel regno. Già il re, udite le sinistre novelle ed abbandonata
Roma, si era avviato prima a Caserta, poscia a Napoli; Mack, raccolti
più prestamente che potè tutti i suoi, andava a Capua, in cui sperava
di difender Napoli, giacchè non aveva potuto difendere Roma nè a
Calvi nè a Cantalupo. Entravano i Franzesi vittoriosi in Roma, donde
diciassette giorni prima erano partiti non vinti. Tornaronvi i consoli
ad occupare le perdute sedi.

Le cose dei Napolitani non avendo fatto sulla destra del Tevere quella
resistenza che il conte Ruggiero aveva sperato, gli era divenuto
impossibile di congiungersi con la sua schiera sinistra. Rifulse in
sì estremo accidente la virtù del conte; poichè, non isgomentatosi
punto, se ne continuava a marciare con sette mila soldati da Baccano
verso Roma. Championnet attonito a caso tanto improvviso, mandava
il suo aiutante Bonami a sapere che cosa volesse dir questo. Gli fu
risposto dal conte che voleva passare, o per amore o per forza, per
ritornare nel regno; ed ottenuto un indugio dal nemico per trattare
un accordo, avvisando che Bonami non aveva dato tempo per altro
motivo che per far accorrere nuove genti, levava, più tacitamente
che poteva, il campo, incamminandosi più che di passo alla volta di
Orbitello. Giunto alla Storta, vi fu il suo retroguardo combattuto
dai repubblicani, ma difesosi virilmente, acquistava facoltà del
continuare virilmente. Calava intanto a far le sue condizioni più
pericolose Kellermann da Borghetto. Incontratisi repubblicani e regi a
Toscanella, si travagliavano con un conflitto molto aspro. Il conte,
con tuttocchè fosse ferito gravemente da una scheggia in una gamba,
continuava a combattere valorosamente; i Napolitani incoraggiti
dall'esempio del loro capo, si difendevano anch'essi con molta
costanza; nè si spiccarono dalla battaglia se non quando per l'arrivo
delle cavallerie di Kellermann, era divenuta disuguale. Intanto non
aveva omesso il conte mentre col retroguardo arrestava l'impeto dei
repubblicani, di accostarsi vieppiù coll'antiguardo e col grosso della
schiera ad Orbitello. Queste due squadre nella cercata terra essendo
giunte tostamente, vi s'imbarcarono sulle navi napolitane che quivi le
attendevano. Restava che si conducesse a salvamento il retroguardo,
che era furiosamente seguitato dai Franzesi; ma non così tosto il
conte col retroguardo medesimo vi entrava, che chiuse le porte sul
viso al nemico, faceva le viste di volersi difendere. Si appicava
intanto una pratica tra di lui e Kellermann, per la conclusione della
quale fu fatto abilità al conte d'imbarcarsi con tutte le sue genti
solo lasciando in mano ai Franzesi le artiglierie. Viterbo vinta ed
occupata dal vincitore, pagò le pene d'aver anteposto lo Stato antico
e dispotico allo Stato nuovo e tirannico. Ciò nonostante non vi furono
più vendette esorbitanti, ed il giovane Kellermann vi si portò più
moderatamente che i tempi non comportassero.

Riconquistata Roma ed atterriti i Napolitani, pensava Championnet ad
assicurarsi ed ampliare la vittoria; ed ancorchè non avesse un esercito
bastante pel numero dei soldati a conquistare il regno, tuttavia
considerato il lor valore il terrore dei vincitori e la forza delle
opinioni favorevoli, che da lungo tempo e largamente vi si erano sparse
e che ora più potentemente operavano per la vicinanza dei Franzesi e
per la sconfitta dell'esercito regio, si risolveva a tentar l'impresa.
A questo fine era necessario di debellare Capua, ultimo propugnacolo
di Napoli per la fortezza della città, per la profondità delle acque
del Volturno e per avervi Mack adunato tutte le genti ancora forti
se non per valore, almeno per numero. Adunque il generale della
repubblica spartiva i suoi in due principali schiere, delle quali
la sinistra governata da Macdonald, correndo pei luoghi superiori e
più vicini agli Apennini doveva varcare il Garigliano ai passi del
Castelluccio e di Coprano, e al tempo stesso dare facoltà alle genti
di Duhesme e di Lemoine di congiungersi con lui a sforzo comune contro
Capua. La seconda schiera sotto la condotta di Rey, radendo il lido,
s'incamminava verso Terracina, con pensiero di acquistare, strada
facendo, Gaeta per una battaglia di mano, poi comparire sotto le mura
della desiderata Capua. Nè l'esito fu diverso del disegno, perchè
Macdonald e Rey, superati tutti gli ostacoli, arrivavano alla designata
oppugnazione sulle sponde del Volturno.

Precipitavano a gran rovina le cose del regno non essendosi mostrato
in sua difesa valore nissuno, se si eccettua il caso del conte
Ruggiero. Duhesme e Lemoine, ai quali andava avanti come speculatore
ed apritor di strade quell'arrischiato condottiere Rusca, sui sinistri
gioghi dell'Apennino insistendo, travagliavano più per gli assalti
improvvisi delle popolazioni mosse a rumore ed armate d'ogni sorta
d'armi, che per le battaglie delle genti regolari. Tuttavia a poco
a poco prevaleva il valore regolato. Lemoine acquistava Aquila, dove
trovava munizioni da bocca in abbondanza; poi si conduceva a Sulmona,
con intenzione di aspettar quivi Duhesme, che più vicino correva
le sponde dell'Adriatico. Grave intoppo ai disegni di Duhesme era
Pescara, città che con la sua fortezza situata in luogo eminente
dominava tutto il pian paese all'intorno, e la sola strada a riva il
mare per la quale possono passare le artiglierie. Due mila soldati la
presidiavano, ma non fecero miglior pruova dei difensori di Gaeta;
perchè come prima i soldati della repubblica si mostravano sulle
alture che stanno a sopraccapo al ponte di Pescara, e le altre truppe a
Pianelle ed a Cività di Penna, il comandante pensò alla dedizione dando
in mano dai Franzesi quel luogo tanto forte per arte e per natura, e
tanto importante alla sicurezza del regno. Vi trovavano i vincitori
armi e munizioni in copia. Acquistata Pescara, procedeva Duhesme a
congiungersi, per la strada di Popoli, con Lemoine a Sulmona, donde,
varcato il sommo giogo dell'Apennino, condussero entrambi tutta l'ala
sinistra sotto le muraglie di Capua. Così non solo erano in veemente
movimento le cose di Napoli, ma ancora cominciavano a precipitare a
manifesta rovina.

Naselli, lasciato Livorno, perchè oltre la sconfitta dei regi, aveva
udito che Serrurier con una mano di soldati della repubblica già aveva
occupato Lucca e si apparecchiava ad andarlo e combattere, imbarcate le
genti sulle navi apprestate, veleggiava alla volta del Garigliano.

Non erano senza fortezza i nuovi allogiamenti di Mack. Posto il campo
col grosso de' suoi nella pianura di Caserta, per modo che fosse
abile a difendere il passo del Volturno, aveva fatta Capua sicura
con un presidio di dieci mila soldati. Tra per questi e le genti del
campo, aveva ancora un novero di combattenti superiore a quello dei
Franzesi, e se avesse avuto e migliori soldati o più fedeli capitani o
minore capriccio in una certa squisitezza d'arte che gli faceva sempre
moltiplicare i casi fortuiti con allargar troppo il campo, poteva ancor
tenere la fortuna in pendente. Bene l'evento dimostrò che Capua si
poteva difendere e si perdè, non per forza, ma per accordo.

Ma già i casi di Napoli diventavano più forti di tutte queste
condizioni unite insieme. Il ritorno tanto subito del re, le novelle
sinistre che ad ora ad ora pervenivano, l'aver perduto in più breve
tempo quello che in breve tempo si era acquistato, le dedizioni tanto
importanti d'Aquila, di Pescara e di Gaeta, l'avvicinarsi continuo dei
nemico al cuore stesso del regno, i soldati o dispersi o fuggitivi, che
per escusazione propria magnificavano le cose, l'arrivo stesso di Mack
in Napoli venutovi per consultare sulle ultime speranze, rinnovando la
memoria delle vittorie dei Franzesi in Italia e il terrore delle armi
loro rinfrescando, avevano prodotto un grande abbattimento di animo
in chi sapeva, rabbia e disperazione in chi non sapeva. Titubavano i
consiglieri di Ferdinando sul partito che fosse a prendersi, alcuni
propendendo ad armare il popolo, altri opinando ch'egli avesse a
tostamente ritirarsi oltre il Faro. Intanto il volgo, fattesi alcune
istigazioni, anche da parte del governo, si armava da sè: la città
fra il terrore ed il furore aveva un aspetto molto sinistro e, come
si usa in simili casi, le voci popolari già accusavano di tradimento i
ministri. S'incominciava a por mano nel sangue degli avversarii o veri
o supposti del governo regio, poi si trascorse in quello degli amici.
Un Alessandro Ferreri, corriero per gli spacci, mandato con lettere a
Nelson, che con alcuni suoi vascelli stanziava nel porto di Napoli,
restò ucciso a furia di popolo sul molo; il suo cadavere sanguinoso
tratto a forza sotto le finestre della reggia, fu mostrato al re,
gridando orrendamente i feroci uccisori e l'invasata moltitudine che
gli accompagnava: _Muoiano i traditori, viva la santa fede, viva il
re_. Già non vi era più freno. L'orrore concetto per la fatta uccisione
del corriero aveva persuaso a Ferdinando, che tralasciando anche la
forza franzese che si avvicinava, non poteva più rimanersi a Napoli
con dignità. S'aggiunse che Mack non confidando di poter far guerra
con quei soldati, che peraltro quanto potessero valere avea dimostrato
l'esempio del conte Ruggiero, consigliava un accordo.

Tutte queste considerazioni, e forse più ancora il timore di qualche
congiura per opera dei novatori, essendo la rabbia loro grandissima
pei sofferti supplizii, fecero prevalere la sentenza di coloro che
consigliavano che il re si ritirasse in Sicilia.



    Anno di CRISTO MDCCIC. Indizione II.

    PIO VI papa 25.
    FRANCESCO II imperadore 8.


Fatta la deliberazione di abbandonar Napoli, si mandò tosto ad
esecuzione, non senza terrore e confusione, come suole in simili
accidenti. L'ultima notte dell'anno antecedente imbarcarono sulle navi
inglesi e portoghesi ch'erano sorte nel porto, il mobile più prezioso
dei palazzi di Caserta e di Napoli, le gioie della corona, il tesoro
di San Gennaro, in cui erano meglio di venti milioni coniati ed oro
ed argento vergati in quantità: a queste ricchezze si aggiunsero le
singolarità più preziose di Ercolano.

Imbarcati i denari e le suppellettili, creava Ferdinando suo vicario
il principe Pignatelli con facoltà amplissime, anche di conchiudere un
accordo coi Franzesi, col consentire all'occupazione di Napoli, purchè
la città salva ed incolume si conservasse. S'imbarcava Ferdinando
la notte medesima sulla nave di Nelson con Acton, Hamilton ed i
cortigiani.

Il giorno seguente, non avendo ancor salpato pei venti contrarii, sorse
uno spettacolo miserabile; poichè fatte uscir prima le navi Napolitane,
sì grosse che sottili, che potevano mareggiare, fece Nelson appiccare
il fuoco alle altre, fra le quali campeggiava il Guiscardo grossa
nave di settantaquattro cannoni. Arsero in cospetto del re che di non
lontano luogo rimirava il fumo ed il fuoco che le proprie sue forze
consumava. Si abbruciarono anche con disegno espresso le barche armate
della costa di Posillipo ed i magazzini dell'arsenale: la rabbia civile
consumava le opere egregie della pace. Fu nella città desolata dolore e
terrore per la partenza della reale famiglia. Il volgo sollevato mandò
deputati a pregar Ferdinando affinchè restasse, proferendo le sostanze
e le vite a difesa ed a conservazione sua; ma fu negata ai deputati
la presenza di lui dagl'Inglesi. Nulla più restava da trasportare e
da ardere: la dolorosa flotta salpava il dì 2 gennaio, infelice per
l'aspetto terribile di Napoli che ancora agli occhi dei naviganti
appariva; più infelice pei venti avversi che poco dopo la percossero.
Fu lungo e travaglioso il tragitto: accrebbe il dolore, la mestizia e
il dolore la morte del principe Alberto, figliuolo del re, fanciullo
di sette anni, che in mezzo alle furiose burrasche rendè l'ultimo
spirito nel grembo stesso della già tanto addolorata madre. Finalmente
le sbattute e travagliate navi afferravano Palermo: le dimostrazioni
amorevoli dei Siciliani mitigarono l'amarezza concetta per l'esilio e
per la fresca perdita del morto figliuolo.

La partenza del re fu in mal punto per l'infelice regno, perchè già la
fortuna si mostrava più propizia alle sue armi. Erano, non senza gravi
difficoltà per le popolazioni armate che loro contrastavano il passo,
Duhesme e Lemoine giunti al campo sotto le mura di Capua. Intanto
le popolazioni medesime crescevano di numero, di forze e di furore,
e già facendo in ogni luogo suonare le armi e le grida di vendetta,
niuna cosa lasciavano sicura alle spalle dei Franzesi. La rabbia loro
era incredibile, e commettevano contro i repubblicani che viaggiavano
alla spicciolata, atti di ferità più bestiale che inumana. Già Itri,
Fondi e Sessa erano in poter dei sollevati, già San Germano si muoveva
a stormo; già Teano, alloggiamento principale di Championnet, era
stato assaltato e preso; già Piedimonte sul sommo giogo dell'Apennino
pericolava; una massa di popoli incitatissimi s'avvicinava al
Garigliano e non lasciava alcuna speranza ai repubblicani in picciol
sito oramai ristretti. Mandava Championnet ad incontrar la Rey, il
quale avendo combattuto più valorosamente che prosperamente, fu fatto
tornare con grave perdita frettolosamente nel campo. Il prospero evento
aggiunse nuova furia a quelle genti sdegnate e crudeli: spintesi avanti
assaltarono il ponte che i Franzesi avevano fabbricato sul fiume,
sel presero, e più oltre procedendo, nel parco di riserva rapirono le
artiglierie, fracassarono i carretti, trasportarono quante munizioni da
guerra poterono. Per tale guasto, le cartucce di provvisione vennero
mancando ai Franzesi, già le vettovaglie mancavano, nè vi era modo di
andar alla busca per pascere l'esercito, perchè i sollevati inondavano
le campagne; il vigore delle menti con gli stromenti di difesa mancava.
Da un altro lato, la popolosissima Napoli si muoveva, apprestandosi a
correre da Garigliano in aiuto di Capua e dell'esercito che ancor la
difendeva. Nè è da passarsi sotto silenzio che la virtù dei Franzesi,
oltre il suono dell'armi dei sollevati, che romoreggiavano tutto
all'intorno, incominciava ad indebolirsi per un'infelice pruova testè
fatta contro Capua. Avendo dato Macdonald un furioso assalto alla
piazza, ne era stato respinto con danno gravissimo. Ciò dava loro a
temere che i soldati napolitani incominciassero ad agguerrirsi. Si
aspettavano d'ora in ora alla foce del Garigliano le genti tornate da
Livorno, che dando animo e forza alle turbe stormeggianti sulla destra
del fiume, avrebbero fatto un pericoloso assalto a tergo dei Franzesi,
mentre sboccando Mack da Capua, gli avrebbe assaliti in viso. Per la
qual cosa con un esercito a fronte che si ostinava a voler difendere
una città ed un passo tanto abili ad esser difesi, con gli Abruzzesi ed
i Campani alle spalle, con la poderosa Napoli in cospetto, rimaneva ai
Franzesi poca speranza di salute.

La debolezza del vicario Pignatelli aperse una via di scampo ai
Franzesi che già incominciavano a disperarsi. S'aggiunse il poco animo
di Mack. Perì Napoli per mano di coloro ai quali maggior debito pesava
di difenderla. Arrivavano in quell'ora, tanto pregna di dubbio avvenire
pei Franzesi, agli alloggiamenti di Championnet il principe di Milano
ed il duca di Gesso, che, mandati dal vicario, venivano chiedendo un
accordo. Mostrò sulle prime Championnet qualche durezza, conosciuta
la timidità di chi reggeva Napoli, e volendo mostrare abilità al
combattere; infine pregato da coloro che dovevano minacciare, venne
ad un accordo con loro, del quale le principali condizioni furono,
che si sospendessero le offese sino alla ratificazione delle due
parti: se una ricusasse di ratificare, ricominciassero le offese dopo
avviso anticipato di tre giorni; Capua si consegnasse in mano dei
Franzesi; l'esercito di Francia occupasse il paese alla destra dei
laghi napolitani sino alla foce dell'Ofanto; si serrassero i porti
alle navi nemiche della repubblica; non si riconoscessero le opinioni;
pagasse il re alla repubblica dieci milioni di tornesi, cinque in
cinque giorni, e cinque in dieci; fossero aperte le strade ad ambe le
parti pel commercio. Non piacque quest'accordo a nissuna delle parti,
perchè il re negò la ratifica e mandò Pignatelli, tornato in Sicilia
pel sollevamento di Napoli che or ora racconterassi, nella fortezza di
Girgenti.

I Napolitani affermarono essere stata un'insidia di Acton, nemico di
Pignatelli, dell'averlo messo, partendo, in quella vertigine, acciocchè
vi perisse. Mostrossi il direttorio sdegnato contro Championnet come di
accordo vile. Ma piacque il trattato a Championnet, perchè con quello
e salvava l'esercito e si procurava abilità d'intendersela coi novatori
per far del tutto sovvertir Napoli e convertirlo in repubblica. Infatti
alcuni fuorusciti napolitani che aveva seco, incominciarono a tenere
pratiche segrete coi loro compagni di Napoli, per modo che il generale
franzese era per l'appunto informato di quanto alla giornata vi
avvenisse.

Mali semi sorgevano, si aspettava la occasione. Una cagione che
dipendeva dal trattato della tregua, fe' trascorrere le acque mosse,
ma in verso contrario. Un Arcambal commissario franzese era andato
a Napoli per levarvi il denaro pattuito; il volgo se n'accorse.
S'incominciò a mormorare, poi a gridare, poi a minacciare; si trascorse
finalmente agli sdegni e sorse in tutta la città fra i lazzaroni un
tumulto ed un rumore incredibile. Uscivano furibondi dai nascondigli
loro, correvano per le contrade e per le piazze, s'armavano a vicenda,
l'un l'altro stimolando, tutti gridavano! _Muoiano i traditori; viva
San Gennaro, viva la santa fede, viva il re_. Avidi di far sangue
già facevano pruova di manomettere Arcambal; ma trovò modo di porsi
in salvo. Fece Pignatelli qualche provvisione per frenare quel cieco
impeto; ma il rimedio fu peggior del male, perchè il volgo, vieppiù
inferocito a quel ritegno, trascorse in maggior furore chiamando
a morte e Pignatelli e Mack e i soldati e tutti che governavano,
accusandoli di tradimento. I lazzaroni occupavano i castelli Nuovo,
Sant'Elmo e del Carmine: indi correvano all'armeria, dove prese e
distribuite fra di loro le armi, s'indirizzavano ad opere maggiori.
Pignatelli e Mack pensarono che quello non fosse più tempo da starsene
a Napoli e fuggirono, il primo in Sicilia, il secondo all'alloggiamento
di Championnet. La guardia urbana fu disarmata. Dell'esercito che
da Capua consegnata ai Franzesi se ne veniva alla volta di Napoli,
parte sbandatosi cercò ricovero in mezzo ai Franzesi, parte sotto il
governo del duca di Salamandra, si unì alla plebe commossa gridando:
Viva la patria, viva Napoli, viva il re. Fatti più arditi dal numero
e dall'impeto assaltarono rabbiosamente la guardia franzese al ponte
Rotto, e parte la ruppero, parte l'uccisero. Protestò Championnet
per questo fatto che i Napolitani avessero rotto la tregua ed
aperto l'adito alle ostilità. Fuggiti Pignatelli e Mack, una licenza
senza freno dominava Napoli sconvolta. In ogni parte erano assalti,
depredazioni, incendii e morti. Fulminavano i cannoni dai castelli,
fulminavano ai capi delle strade. Fra le grida dei moribondi, fra le
minaccie degli uccisori, si udivano cosa che ad ognuno recava maggior
terrore: _Viva San Gennaro, viva la santa fede_. Durò gran pezza il
tumulto spaventevole.

Stanco finalmente di far bottino e sangue, l'impazzato volgo avvisò di
crearsi un capo che gli ordinasse e difendesse. Elessero il principe
Moliterni. Prima cosa diede opera a piantar certe forche smisurate in
parecchi luoghi con minaccia che impiccherebbe chiunque si muovesse
senza suo ordine. Poi creava ufficiali municipali e capi del popolo,
ed attendeva con manifesti e con bel comparire in pubblico a calmare
quegli spiriti infieriti ed a dar qualche sesto alle cose.

Ed ecco spargersi subitamente voce, marciare i Franzesi contro Napoli,
già esser giunti ad Aversa. Fu Moliterni a parlamento con Championnet
nei campi d'Aversa. Riportonne che il generale di Francia non voleva
udire proposta alcuna d'accordo, se prima non se gli dessero in mano
i castelli e non si togliessero le armi a chi non fosse soldato. Per
poco stette che non facessero Moliterni a pezzi gridandolo a furore
assassino e traditore. Nè più volendo udire capo di sorta, meno
ancora Moliterni, tornarono in sul saccheggiare ed in sull'uccidere
più fieramente che prima. Uccisero il duca della Torre, uccisero suo
fratello Clemente Filomarino, maltrattarono Zurlo già ministro delle
finanze. Nè più guardavano ai forestieri che ai nazionali; trucidarono
un fuoruscito tolonese; trucidarono un ufficiale di marina inglese:
facevansi della barbarie gioia.

Ma Moliterni non secondava più le intenzioni del popolo, tendendo
i suoi andamenti ad affidare Napoli alla presenza ed al patrocinio
dei Franzesi, verisimilmente perchè credeva che quello fosse il solo
modo di salute che restasse. Per arrivare a questo suo fine, aveva
introdotto nel castello Sant'Elmo molti de' suoi aderenti e molti
ancora che parteggiavano per la repubblica, ed inoltre, armandone
quanti più gli venne fatto d'armare, gli aveva distribuiti nei luoghi
più opportuni. Avvisavano Championnet e Moliterni che il vincere i
lazzaroni in Napoli tanto numerosi, coraggiosi ed arabbiati sarebbe
stato piuttosto impossibile che difficile. Perciò Moliterni propagava
ad arte fra l'acceso volgo l'opinione ch'era necessario andar ad
assaltare i Franzesi che venivano contro Napoli, con dire che il piccol
numero loro sarebbe facilmente oppresso dalla sopravanzante moltitudine
del popolo. Come era ordito il disegno, così riuscì l'effetto. Usciva
il popolo, più impetuoso che esperto di battaglie, a combattere contro
i Franzesi, che per la speranza di Sant'Elmo e di trovare in Napoli
parte forte in favor loro, ordinati si avvicinavano. Si affrontarono le
due parti tra Aversa e Capua; ne seguitava una mischia molto tremenda.
Prevalevano i Franzesi per le armi e per l'ordine, prevalevano i
Napolitani pel numero e pel furore. Durò per ben tre giorni con variati
eventi la battaglia. Le artiglierie di Francia fulminando in quelle
spesse squadre, vi menavano uno scempio orribile ed atterravano le file
intiere. Rimettevansi i lazzaroni e più aspramente di prima menavano
le mani, cercando di avvicinarsi e di venire alle strette col nemico,
per fare con lui battaglia manesca. Le artiglierie li guastavano da
lontano, le baionette da vicino; ma le morti non gl'intimorivano, anzi
piuttosto gl'infierivano. Nei due primi giorni, ruppero parecchie volte
i repubblicani, ma questi, come destri e sperimentati soldati, tosto
si rannodavano. Nè la notte arrecava riposo; perchè se al chiaro più
si udivano le grida de' combattenti, al buio più si udivano quelle
degli straziati; e pure nè anche di notte si perdonava alle ferite
ed alle morti. Ned era guerra in un sol luogo, ma guerra dappertutto
e dappertutto si versava sangue o per uccisioni agglomerate fra
corpi grossi o per uccisioni spicciolate fra masse vaghe ed erranti
e fra guerrieri isolati. Continuavano a Napoli le carnificine, vi si
aggiungeva furore a furore. Fumavano al tempo stesso le incenerite
terre d'Abruzzo, del Sannio e della Campania, che la rabbia di guerra e
la soldatesca rabbia avevano agli ultimi e più miserandi casi ridotte.
Nuovi vesperi siciliani e nuove vendette di vesperi siciliani si
agitavano. Non mai i Franzesi si trovarono ridotti a sì duro passo,
nè mai con tanta valenzia sostennero un urto di guerra. Infine un
fortunato consiglio fece sopravanzare i repubblicani. Championnet
mandava Lemoine e Duhesme a ferire con truppe fresche, sbrigatosi testè
dagl'impacci dei monti, il fianco destro dei combattenti lazzaroni,
i quali, affievoliti dalla fatica e dalla strage, andarono in volta
sparsi e sanguinosi riparandosi in Napoli.

Mentre nel raccontato modo si combatteva, Moliterni recatosi in mano
non solamente il castello di Sant'Ermo, ma ancora quello dell'Uovo,
vi aveva inalberato il vessillo tricolorato in segno di pace e di
possessione verso Championnet. Ma quando i lazzaroni superstiti alla
passata uccisione videro sventolare su quei due forti le odiate
insegne, tosto tornarono sui furori, e di nuovo prese le armi, si
accingevano a voler impedire ai Franzesi la possessione. Nè si rimasero
alle minaccie, perchè impetuosamente contrastavano ai repubblicani
l'ingresso. Pendeva tuttavia in bilico la fortuna, quand'ecco calare
dai castelli Moliterni con le sue genti ad assaltar alle spalle coloro
che lor capo lo avevano creato. Seguitava un durissimo combattimento
fra i popolani ed i repubblicani, finchè questi superarono del
tutto gli avversarii, cinti e bersagliati da tutte le bande. Allora
i Franzesi, benchè i lazzaroni ancora in quest'ultimo frangente
fortificassero le strade con isteccati e combattessero dalle case con
ogni sorta d'armi, si fecero forzatamente strada fino al palazzo reale
e l'occuparono. Poco poscia un'altra squadra di Franzesi, preceduti
da novatori del paese, s'introdussero per forza nella contrada
principale di Toledo e se ne fecero signori. Tuttavia combattevano
ancora sparsamente i lazzaroni con pericolo di sacco e d'incendio;
il castel del Carmine appresentava un duro intoppo a superarsi. Per
risparmiare il sangue e terminar totalmente quelle moleste battaglie
con altro che con armi, uomini astuti, per suggerimenti dei novatori,
insinuarono ai lazzaroni che saria bene mandar a sacco il palazzo
del re. A tale suono, questi uomini privi di tanti compagni uccisi, e
straziati essi medesimi da tante ferite ricevute in difesa del re (cose
strane ma vere) si calarono, e rinunziando alle armi, misero in preda
le reali spoglie. Restava che il castello del Carmine cedesse. Si venne
all'assalto, perchè il presidio non volle mai udire parole d'accordo.
Ostinatamente vi si difesero; pure infine il forte cesse in poter dei
repubblicani: la sanguinosa Napoli tutta era in potestà loro.

Il generale della repubblica, fatto sicuro dell'acquisto di Napoli
per l'occupazione dei castelli, mandava al pubblico ch'egli frenava
i suoi soldati, desiderosi di vendicare il sangue de' compagni morti
nelle battaglie combattute contro gente prezzolata; che sapeva essere
i Napoletani un popolo buono, e che bene nel cuor suo si doleva degli
strazii sofferti da lui: però rientrassero in sè stessi, esortava,
deponessero le armi in Castelnuovo e con queste conserverebbe la
religione, le proprietà e le persone salve ed intatte: al tempo stesso
arderebbe le case e darebbe a morte coloro che contro i Franzesi
usassero le armi: se la tranquillità tornasse, dimenticherebbe il
passato e restituirebbe la felicità a quelle ridenti contrade. Partorì
questo manifesto l'effetto che Championnet se n'era promesso; Napoli fu
ridotta in tranquillo stato, perchè tutti quietarono chi per timore dei
Franzesi e chi per timore del volgo.

Ma siccome non bastava mettere in calma la metropoli, ma ancora
abbisognava ordinare lo Stato, creava Championnet un governo, a
cui chiamava venticinque persone, la più parte risplendenti o per
dottrina, o per virtù, o per natali, o per tutte queste qualità
congiunte insieme; uomini tutti sinceri d'opinione, continenti da quel
d'altrui, e quanto degni di esser vissuti ai tempi antichi, tanto
inabili a governar la nave dello Stato in tempi tanto tempestosi.
Partironsi, secondo il solito, in congregazioni, le quali avevano la
potestà esecutiva, mentre tutti insieme collegialmente uniti usavano
la legislativa. Fu diviso il regno, pure secondo il solito costume
servile, in undici dipartimenti. Quindi crearonsi i distretti, poscia
i municipii, ogni cosa a norma delle fogge franzesi: tutto questo
chiamossi repubblica Partenopea.

Ma prima di raccontar le cose del nuovo governo di Napoli fatte colle
più oneste intenzioni, necessario è descrivere come Championnet,
dabben uomo se non ingegnosissimo, oprò per solidare l'impresa del
regno. Volendo far di Napoli altro che quello che si era fatto di
Roma, intendeva non solo a fondare la nuova repubblica, ma ancora a
farle sostegno non della forza, ma dell'amore. Chiamato il popolo a
parlamento nella chiesa di San Lorenzo, bandiva solennemente in nome
del governo franzese e della grande nazione la libertà e l'indipendenza
degli Stati napoletani, rinunziava ad ogni ragione di conquista, solo
si riservava la facoltà di mettere per una volta una contribuzione
militare per dare a' suoi soldati i soldi corsi di sei mesi. Fu la
contribuzione di settantacinque milioni compresi dieci per la sola
città di Napoli e contado; taglia assai grave, ma che avrebbero
i popoli portato volontieri, se non fossero al tempo stesso stati
costretti a dare il vitto ed il vestito a quei medesimi soldati che
già pagavano. Sapendo poi quanto importassero in quei popoli ardenti
le opinioni attinenti alla religione, mandava una guardia d'onore a San
Gennaro. Non ammetteva il cardinale Zurlo Capece arcivescovo di Napoli,
a ciò esortato dal governo, e il faceva anche volentieri, di confortare
con lettere pastorali i popoli ad obbedire alle nuove potestà. Queste
cose mitigavano le opinioni contrarie e vieppiù confermavano le quiete.

Aboliva il governo i diritti feudatarii ed i fidecommessi e preparava
per mezzo della congregazione legislativa la costituzione che avesse
a reggere la repubblica. Fu questa costituzione opera specialmente
di Mario Pagano, ed in mezzo alla imitazione servile degli ordini di
Francia, vi si vedevano alcuni ordini nuovi di non poca importanza e
di utilità evidente. Fuvvi principalmente l'autorità censoria commessa
ad un tribunale di cinque; fuvvi anche l'eforato. Degni anche di
commendazione furono gli ordini proposti per le scuole pubbliche,
i quali, mutati i soggetti d'insegnamento, potrebbero utilmente
accettarsi anche nelle monarchie. Queste cose trovava Mario Pagano nel
suo ingegno; il resto il copiava dalla costituzione franzese, dando
in tal modo a conoscere e la capacità della sua mente e la servilità
dei tempi. Nè deve essere passato sotto silenzio il ragionamento
che si leggeva preposto al modello della costituzione; opera in cui
tutto l'acume dei greci ingegni si discopriva, atti sempre a pruovare
principii astratti con astrattezze maggiori.

Le astrattezze lusingavano gli uomini, le realtà gli sdegnavano;
colpa parte di Championnet, parte dei tempi. Era Championnet di natura
buona, ma non aveva nervo tale che potesse frenare i suoi, già avvezzi
alla licenza negli Stati romani e cisalpini: onde gl'insulti alle
persone, anche ai magistrati, massime municipali, e le tolte violenti
erano frequenti. I popoli si sdegnavano. A questo si aggiungevano le
intemperanze dei democrati più ardenti. I baroni, come aristocrati,
come li chiamavano, erano o scherniti con dileggiamenti, o provocati
con ingiurie, o nelle tasse sforzate con brutti arbitrii aggravati; il
che gl'inimicava, e, siccome quelli che avevano una grande dipendenza,
sì per le loro ricchezze e sì per l'effetto degli ordini feudatarii,
procuravano con arti e con istigazioni nemici potenti e numerosi alla
nuova repubblica.

Seguitava a tutte queste un'altra peste ed era quella dei ritrovi
politici, in cui giovani infiammatissimi ed invasati delle nuove
opinioni si adunavano a ragionare pubblicamente di cose appartenenti
allo Stato. Nè i mali prodotti in Francia da simili ritrovi li
rendevano più savii, perchè con la medesima veemenza parlavano. Nè
procedeva che per le immoderate cose che vi si dicevano, i popoli si
alienavano. Peggio poi che non era cosa che gli energumeni, violenti in
tutti i paesi, violentissimi in Napoli, non dicessero per istravagante
ed eccessiva che si fosse, contro il governo proprio e contro coloro
che il componevano. Il che toglieva agli uomini dello stato con la
riputazione anche la potenza. Quando prevale il costume che gli uomini
più eccellenti sono stimati perfidi, vili, corrotti e tirannici, solo
perchè occupano le cariche dello Stato e tengono i magistrati, ogni
regola diviene impossibile e lo Stato diviene preda degli ambiziosi.

Tal era la condizione del governo napolitano, che odiato dagli
aristocrati, biasimato dai democrati, oppresso dai Franzesi, non aveva
modo nè di riputazione nè di forza per operare, non che il bene della
repubblica, alcun bene che fosse. Restava ai reggitori di Napoli un
solo conforto, e quest'era la presenza di Championnet, sempre pronto,
per quanto fosse in lui, a frenare la licenza de' suoi ed a secondare
gli sforzi di coloro che più avevano in animo l'ordinare un buono
Stato che il signoreggiarlo. Accadde che il direttorio di Francia
aveva mandato a Napoli per soprantendere ai frutti della conquista,
una commissione civile di cui era capo quel Faipoult già mescolato
nelle rivoluzioni genovesi. Come prima ei giungeva a Napoli, stimando
che quanto ai diritti di conquista ed alle esazioni Championnet fosse
stato troppo indulgente, pubblicava un editto con cui dannando quanto
il generale aveva fatto, affermava che niun altro magistrato che la
commissione civile aveva potestà di por le tasse, e che chi le pagasse
in tutt'altra cassa che in quella della commissione, male pagherebbe.
Poscia, più oltre procedendo, ordinava che in proprietà di Francia
erano caduti per conquista tutti i beni appartenenti alla famiglia
reale, spiegando che in esso diritto cadevano non solamente quanto
il re possedeva, come palazzi, ville, caccie e simili; ma ancora i
beni Farnesiani che erano di proprietà privata di Ferdinando, quei
dell'ordine di Malta, i costantiniani, i gesuitici, quei destinati alle
pubbliche scuole, i beni stessi dei banchi, che altro non erano che
un deposito dei denari dei particolari, e tutte le casse pubbliche, e
fino anche i decorsi delle contribuzioni. Così da Napoli si richiedeva
un gran dispendio per l'esercito e al tempo stesso gli si toglieva
ogni fonte di rendite per cui potesse supplire. Sdegnossi Championnet
all'ardimento del commissario e lo cacciava soldatescamente di Napoli.
Era discordia tra i Franzesi, discordia fra i Napolitani: tutti
venivano in dispregio: il terrore delle armi solo sosteneva lo Stato.

Preparavasi in questo mentre un accidente molto grave contro i
Napolitani. Era Championnet venuto in disgrazia del direttorio,
e perchè non contento all'aver rincacciato dallo Stato romano i
Napolitani, avesse subitamente, non aspettati nuovi comandamenti,
invaso il regno di Napoli, mentre esso direttorio desiderava di
temporeggiare, e perchè si apparecchiava a fare una spedizione in
Sicilia per torre al re quell'ultima parte de' suoi dominii; il quale
intento toccava certi tasti molto reconditi del ministro Taleyrand,
sì che questi, accennando col direttorio in un luogo col pretendere il
motivo che bisognasse frenare quello spirito ambizioso di Championnet,
e battendo veramente in un altro, aveva operato che il direttorio
rivocasse il generale. Prese allora Macdonald il governo supremo dei
Franzesi; tornò Faipoult in Napoli ad estenuare i poveri Partenopei.

Mentre si travagliava con poco frutto nella capitale per la repubblica,
moti di grandissima importanza accadevano nelle provincie. Non amavano
i baroni il nuovo Stato, manco ancora i Franzesi, e siccome tutti
avevano bande di bravi che da loro dipendevano, uomini audacissimi, ed
alcuni facinorosi, le spingevano a tentare rivoluzioni contro coloro
che dominavano. Gli ecclesiastici, che non ignoravano che, sebbene
fossero vezzeggiati in quei principii del governo, erano da lui veduti
malvolentieri, con le maggiori persuasioni che potessero pruomovevano
le inclinazioni contrarie. Molti soldati vecchi del re, non essendosi
voluti accomodare al dominio dei nuovi signori, si erano ritirati
nei luoghi più lontani ed inaccessi; quivi attendevano a fomentare
discordie e sollevazioni. A questi si accostavano molti altri uffiziali
e soldati dell'esercito regio, i quali, dopo di essersi dimostrati
pronti a servire i repubblicani, da loro non curati o per necessità
o per la penuria dell'erario, o perchè non se ne fidassero, si erano
sdegnosamente partiti e condottisi nelle provincie, quivi con le parole
incendevano e con la presenza animavano le popolazioni ad insorgere.
Tutti questi erano anche confortati da qualche corpo di gente armata
che, dopo l'occupazione di Napoli, o si erano ritirati interi od
erano mandati dalla Sicilia appunto con l'intento di sostenere quei
moti che si manifestavano sulla terra ferma in favore della potestà
regia. A questi motivi tanto potenti si aggiungevano i romori che
correvano delle armate turche e russe che dovessero fra breve arrivare
nell'Adriatico con grossi soccorsi di gente da sbarco in favore de'
regii. Questi aiuti, parte veri, parte ancora esagerati dalla fama,
mirabilmente infiammavano i popoli a proseguire i disegni che già
avevano concetti.

Dimostravano quanto fossero deboli nelle provincie i fondamenti del
governo nuovo i successi avuti nelle terre d'Otranto e di Bari da
alcuni fuorusciti Corsi, che sulle prime avevano maggior desiderio
di fuggire che di combattere: ma il moto si fece d'importanza:
accorrevano buoni e cattivi, nobili, plebei, laici, ecclesiastici, e
da un accidente fortuito nasceva un gran fondamento a far risorgere
l'autorità del re.

Quasi al tempo stesso sbarcava con poche genti a Reggio di Calabria
il cardinal Ruffo, al quale il re aveva dato facoltà amplissime,
chiamandolo suo vicario. Il secondavano il preside della provincia
Winspear e l'uditor Fiore. Questo debole principio in poco spazio
di tempo cresceva a dismisura e produceva un moto che fu cagione
di accidenti di grandissimo momento. Primieramente nella ulteriore
Calabria, per le aderenze che la sua famiglia vi aveva, trovava
il cardinale molto seguito: poi qualche nervo di truppa reale si
aggiungeva, e finalmente chi voleva il re o le vendette o il sacco,
a lui cupidamente si accostava. Guadagnò prima le campagne, poscia le
terre aperte, finalmente le murate e tanto crebbe la sua potenza, che
presi Mileto, Monteleone e Catanzaro, riduceva in poter suo tutta la
Calabria ulteriore. Il cardinale Zurlo Capece, arcivescovo di Napoli,
lo scomunicava, ed egli scomunicava l'arcivescovo. Nè contenendosi
nelle parole, anzi, seguitando il corso favorevole della fortuna,
assaltava Cosenza, capitale della Calabria esteriore, e quantunque ella
fosse una forte sede di repubblicani, dopo una battaglia assai feroce
se ne impadroniva. Prese, non senza una ostinata difesa, Rossano, prese
Paola, bellissima città di Calabria, la prese e l'arse per l'animoso
contrasto fattovi dai repubblicani; quest'era la pessima delle guerre
civili. Ruffo prevaleva; il terrore l'accompagnava e gli dava in mano
tutte le Calabrie insino Matera. Quivi si congiunse con de Cesare,
sommovitore della provincia di Bari.

Tumultuando le Calabrie, non si mostravano le provincie, anche le più
vicine a Napoli, più quiete; gente sfrenata guidata da capi ancor più
sfrenati, commettevano, sotto specie di voler rinstaurare il governo
regio e difendere la religione, atti della più eccessiva barbarie. Uno
Sciarpa, antico soldato, uomo tanto audace quanto feroce, aveva posto
a romore le rive del Sele, tempestando fin sotto alle mura di Salerno.
Dalla parte della Campania era sorto in Sora un moto pericolosissimo,
suscitato specialmente da un Mammone Gaetano, prima mulinaro, poi capo
dei sollevati di Sora. Commise costui opere indegnissime. Dall'altra
parte dell'Apennino incrudeliva Proni con le sue Abruzzesi bande,
risorto a nuovo furore, perchè Duhesme e Lemoine si erano condotti
sotto le mura di Capua e di Napoli. Ma la più pericolosa e più
importante sommossa, dopo quella del cardinale ardeva nella Puglia, sì
perchè era molto grossa per sè, sì perchè a lei si erano congiunti gli
Abruzzesi, sì perchè alle abruzzesi rive avevano adito le armate russe,
ottomane ed inglesi, e sì perchè la Puglia per la feracità delle sue
terre nodriva la popolosa Napoli.

A questo modo, nonostante la gloriosa vittoria di Championnet, da
Napoli in fuori e da alcune rare terre nelle provincie, in cui i
repubblicani si difendevano piuttosto con valore smisurato che con
isperanza di vincere, tutto il paese si era commosso a favore del
re, quantunque i modi che si usavano non fossero degni nè del re nè
di alcun altro governo che sia al mondo. Pressavano massimamente le
cose della Puglia per motivo delle vettovaglie. Inoltre diminuivano i
Franzesi, per tanto ardimento dei popoli, continuamente di riputazione,
ed ogni giorno più si rendeva necessario che con qualche nuovo e
segnalato fatto mostrassero, che non era cessato in loro per le delizie
di Napoli il valore.

Per la qual cosa erasi deliberato Championnet (queste cose accadevano
prima della sua partenza) a fare due spedizioni, una contro la
Puglia, l'altra contro la Calabria, commettendo la prima alla fede
ed al pruovato valore di Duhesme, la seconda al generale Olivier.
Accompagnava Duhesme, da parte del governo napolitano con una legione
napolitana ma con le compagnie ancor non piene, il conte Ettore di
Ruvo, giovane d'incredibile ardire, d'animo feroce e capace di tentare
qualunque difficile e pericolosa impresa. Dopo varie vicende, era
venuto con Championnet, e per mezzo suo fu facilitata la conquista del
regno, massimamente quella della capitale. Ora il governo napolitano,
conoscendo la natura indomabile e irrequieta di quest'uomo, che sempre
pasceva l'animo di pensieri smisurati e si mostrava più inclinato a
comandare che ad obbedire, il mandava con Duhesme in Puglia, dove erano
le sue terre, sotto colore che trovandosi in paese proprio e pieno
di parenti e d'amici, vi facesse gente. Fecevi gente in verità e per
pagarla, poichè ai mezzi non guardava, ma solo al fine, e neanche se
questo fosse giusto o no, che ciò poco gl'importava, pose taglie e
fece depredazioni incredibili, non considerando nè come nè contro chi,
o repubblicani o regi che si fossero: soldati e denari per pagargli,
questo solo voleva. Il governo aveva qualche sospetto di lui: eppure
era il solo uomo capace di puntellare quello Stato cadente: l'avrebbe
anche fatto, ma forse per sè, non per la repubblica.

Accompagnava Olivier per alla volta della Calabria uno Schipani,
piuttosto repubblicano ardente, che buon soldato, e non di natura
tale che potesse star a fronte dell'audace Sciarpa e dell'astuto ed
animoso cardinale. Partivano Duhesme ed il conte Ettore: marciavano
cauti per paura d'agguati e di assalti improvvisi in un paese
sollevato; marciavano spigliati e divisi per ispazzare largamente
il paese: con loro marciavano i consigli militari, sempre pronti a
dannare a morte gli autori delle sollevazioni. Molti presi furono
incontanente uccisi. Così dall'un canto Duhesme ed il conte Ettore
incrudelivano coi supplizii contro i regi, dall'altro Sciarpa, Mammone
e Ruffo incrudelivano anche coi suplizii contro i repubblicani.
Le ire erano crudeli, le vendette terribili; le ire chiamavano
le vendette, le vendette le ire. Marciava Duhesme spartito in due
colonne. Vinte parecchie città, si deliberava ad andare all'assalto
di San Severo, perchè distrutto quel nido principale, sperava che
gli altri si sottometterebbero. Erano i regi in San Severo grossi
di dodici mila combattenti fra soldati vecchi e gente collettizia.
Prese le stanze sopra un monte fecondo di ulivi, dominavano tutta la
pianura sottoposta, che avevano assicurata con cavalleria e cannoni
piantati contro la stretta, che alla pianura medesima apriva l'adito.
Accorgendosi i regi che i repubblicani si distendevano a sinistra
per assaltarli di fianco e alle spalle, si calarono con grandissimo
ardire ed attaccarono con loro una sanguinosissima battaglia. Durò
lunga pezza, con grave uccisione da ambe le parti, perchè il valore
era uguale nei due eserciti nemici, e se prevalevano i regi di numero,
prevalevano i repubblicani in perizia. Infine andarono i primi in
volta, e già al punto stesso il generale Forest arrivava alle loro
spalle. Allora fuvvi piuttosto carnificina che uccisione. Tre mila
soldati vi perdettero la vita: tutti o la più parte l'avrebbero
perduta, se una moltitudine di donne e di fanciulli in abito squallido
e lugubre, miserando spettacolo, non fosse venuta a chiedere umilmente
ed istantemente al vincitore la vita dei padri, dei mariti e dei
figliuoli loro. Piegavasi Duhesme a misericordia, quantunque fosse
molto sdegnato, e comandava che cessassero le ferite e le morti.

La fama della vittoria di San Severo ridusse all'obbedienza le contrade
vicine, aperse anche le strade per Pescara, cosa di molta importanza
pei Franzesi. Intanto licenziato Championnet, aveva Macdonald assunto
il governo, e non solo Duhesme era stato richiamato dalla Puglia,
ma ancora gli fu comandato che ritirasse le genti appresso Napoli.
Le quali cose saputesi dai regii, inondavano di nuovo la provincia
e tagliavano le strade dalla Puglia a Napoli. Fu ben forza allora,
se non si voleva che Napoli affamasse, il pensare a riconquistare le
terre perdute ed a rompere quella testa di regii, che si era adunata
in Trani. Era Trani, come anche Andria, munita con fortificazioni
vecchie e nuove; pieno tutto d'uomini armigeri, rabbiosi e risoluti a
difendersi. S'incamminava l'assalto da Andria: ad estremo pericolo era
per succedere estrema barbarie.

Incominciò la battaglia con furor civile da ambe le parti; gli
assalitori combattevano con egregio valore, ma con non minore animo si
difendevano gli assaliti, nè i primi facevano frutto di momento. Già
venivano alle scale, cimento per essi molto pericoloso, quando il tirar
di un obice atterrava la porta di Andria. Precipitaronsi i Franzesi;
a loro si accostavano i napolitani. Continuarono ciò non ostante a
difendersi furiosamente da tutte le case i regi. Non venne la città
intieramente in poter dei repubblicani se non dopo che tutte le case,
le contrade, le piazze furono piene di cadaveri e di sangue. Nè tante
morti nè tanto sangue bastarono: non fu contento il destino se non alla
distruzione totale della misera terra. Sei mila Andriotti furono in
poco d'ora mandati a fil di spada, la città intiera data alle fiamme; i
vecchi, le donne, i fanciulli, e nè anche tutti, furono risparmiati.

Trani tuttavia si teneva pei regi, nè lo sterminio d'Andria
gl'intimoriva. Città con bastioni, con un forte, con otto mila
difensori usi alle armi, accesi dalla rabbia civile e religiosa, pareva
piuttosto atta a pigliarsi per assedio che per assalto. Ma il tempo
stringeva, ed i repubblicani, sì franzesi che napolitani, erano pronti
a qualunque più pericolosa fazione. Andavano dunque all'assalto di
Trani. I regi, essendosi accorti del disegno, si assembrarono grossi
ad aspettarli al luogo minacciato. Ardeva la battaglia e succedevano
molte morti, senza frutto alcuno per l'esito del fatto, da ambe le
parti. In questo mezzo tempo i difensori, tutti intenti a tener lontani
dalle mura gli assalitori, indebolirono le difese di un fortino situato
a riva il mare: della quale occasione prevalendosi i repubblicani, se
ne impadronirono e voltarono i loro cannoni contro la città. Questo
grave accidente sconcertò le difese: già i repubblicani, non senza però
molto scempio loro, saliti sulle mura facevano inchinar la fortuna a
loro favore. Tuttavia i regi continuavano a difendersi ostinatamente,
essendo come in Andria, ogni casa ed ogni contrada fortezza.
Finalmente sparso molto sangue in una pertinacissima difesa i regi
abbandonavano il forte, e si davano a correre alle navi, che nel porto
erano allestite per fuggire. Ma nemmeno in queste trovarono scampo;
poichè i Franzesi, avendo preveduto il caso, avevano armato alcune
navi che vietarono loro il passo. Alcune delle regie furono prese per
assalto, altre andarono a traverso sulla spiaggia. Chi fuggiva sul
lido era senza misericordia e remissione alcuna ucciso dai trionfanti
repubblicani. Fu la bella città di Trani, come Andria, data al sacco
ed alle fiamme: de' suoi abitatori, quelli che o portavano o potevano
portar armi, mandati a fil di spada. Quietava, ma non del tutto, la
Puglia per queste vittorie.

Schipani mandato a combattere i sollevati ed a sopire le cose di
Calabria, non solo non vi fece frutto, ma ancora vi nocque, perchè e
conflisse infelicemente ed irritò con parole ed atti repubblicani molto
estremi le popolazioni, non che troppo incrudelisse, ma perchè troppo
provocasse. I sollevati di questa provincia ebbero facoltà d'unirsi
con le bande del cardinale Ruffo, sicchè, pochi luoghi eccettuati, le
Calabrie e la terra di Bari sollevata a rumore impugnavano coll'armi
in mano la recente repubblica. Nè i Franzesi potevano porvi rimedio,
perchè non si fidando degli Abruzzi, nè della Campania, e nè anco della
città stessa di Napoli, nè bastantemente forti di numero essendo,
pensavano piuttosto a mantenersi nella capitale che a conquistare
le provincie. Schipani, tentato invano le Calabrie, se ne giva a
far la guerra contro i sollevati di Sarno, che più vicini a Napoli
tumultuavano. Ma i popoli lo combatterono per guisa che fu costretto
ad andarsene. Vi si condussero i Franzesi; saccheggiarono Lauro, poi
se ne tornarono ancor essi, non vinti, ma più inviperiti i Sarnesi ed
i Lauriani. Si unirono questi ai sollevati delle vicine contrade di
Salerno; e di già una grandissima necessità stringeva la capitale del
regno. Accresceva il pericolo l'avere gli Inglesi occupato, non senza
un valoroso fatto di Francesco Caracciolo che li combattè per molte
ore, le isole d'Ischia e di Procida, che per essere situate alle bocche
del golfo di Napoli, ne danno la signoria a chi le tiene. Così ardeva
la sollevazione contro il governo nuovo nella maggior parte del regno,
s'incominciava a temere che l'impresa di Championnet fosse stata più
imprudente che audace. Opere di estrema barbarie furono commesse da
ambe le parti alla Fratta ed a Castelforte, perchè prima i regii poscia
i repubblicani vi uccisero spietatamente ogni corpo vivente, e le cose
e gli edifizii tutti distrussero ed arsero. Guerra crudelissima era
questa, siccome portava la qualità dei tempi, l'indole ardentissima
degli abitanti e la natura sempre estrema delle opinioni politiche e
religiose. Si vedevano padri combattere contro i figliuoli, figliuoli
contro i padri, fratelli contro i fratelli, e per fino mariti contro le
mogli e mogli contro i mariti. Per atterrire chi atterriva, Macdonald
mandava fuori, a dì 4 marzo un aspro e furioso decreto, nuovo esempio
del quanto le rivoluzioni stravolgano gli uomini.

Il pericolo delle sollevazioni popolari contro i governi repubblicani
instituiti in Italia e contro i Franzesi, si accresceva vieppiù dalle
sommosse che, nate ora in un luogo ed ora in un altro, travagliavano
lo Stato romano. Tumultuavano i popoli di Terni e dei luoghi vicini
ed impedivano le strade fra Terni e Spoleto; già Rieti pericolava.
Civitavecchia si era ribellata contro i nuovi signori; durò un pezzo
il generale Merlin a sottometterla, ancorchè con palle infuocate la
combattesse. Stroncone e Alatri parimente rumoreggiavano; Orvieto
anch'esso aveva fatto mutazione ed ostinatissimamente si difendeva
contro i repubblicani. L'incendio si dilatava; ogni luogo era o mosso
con le armi impugnate o poco sicuro anche nella quiete.

Nonostante i pericoli che correvano, il direttorio di Francia, o non
curandoli o facendo sembianza di non curarli, si era risoluto a far
mutazioni nel governo di Napoli. Arrivava in Napoli Abrial, commissario
del direttorio, il quale, prevalendosi dei buoni si sforzava di
consolare gli uomini afflitti dai tempi tristi. Tentò riforme nelle
finanze e fecene di lodevoli. Gli ordini giudiziali molto migliorava;
gli ordini politici, non avendo il mandato libero, stabiliva a modo
di Francia, non avuto alcun riguardo al modello della costituzione
proposto dalla congregazione napolitana e di cui abbiamo di sopra
parlato. Creò fra gli altri un direttorio; imitazione servile. Ma
quel che l'ordine aveva in sè di cattivo, correggeva con le persone:
chiamovvi Ercole d'Agnese, Ignazio Ciaia, Giuseppe Abbamonti, Giuseppe
Albanesi, e Melchior Delfico, uomini tutti migliori dei tempi e di non
ordinaria virtù.

Diede ancora Abrial prova notabile, tacendo le altre, dell'animo suo
civile, quando Macdonald mandava i suoi soldati a ridurre agli ultimi
casi Sorrento, patria di Torquato Tasso, che in quelle Sarniane e
Salernitane rivoluzioni si era levata a romore contro i Franzesi;
imperciocchè operò col generale che la casa dei discendenti dei poeta,
quando la terra fosse presa d'assalto, salva ed intatta si conservasse.
Vollero riconoscere la conservata salute, offrendo a Macdonald, perchè
non sapendo di Abrial, a lui riferivano, il ritratto del Tasso dipinto
dal vivo, come si credea, da Francesco Zuccaro. Il ricusava Macdonald,
facendo certa la salvata stirpe dell'autore primo del benefizio, ed
essa, l'immagine del porta salvatore ad Abrial offerendo, pagava con
segno di gratitudine unico al mondo, un immenso benefizio. L'accettava
di buon animo Abrial e molto caro se lo serbava, dolce e pietosa
conquista.

Restava che i due fiori d'Italia, Lucca e Toscana, si guastassero.
Entrava sul principiare del presente anno in Lucca, accompagnato da
quattrocento cavalli, Serrurier: tosto pubblicava le solite lusinghe.
Il fine primo ma non primario dell'invasione lucchese era il prestito
di due milioni di franchi che dai Lucchesi si richiedeva pei servigi
dell'esercito: poi si voleva venire alla mutazione del governo, benchè
le parole suonassero in contrario. Già Lucca era serva, poichè l'antico
governo stesso non poteva più pubblicare ordine alcuno se non approvato
da Serrurier. Miallis succedeva a Serrurier; poi i repubblicani vi
s'ingrossavano. Infine, stimolata dalla presenza loro, verso la metà
di gennaio tumultuando la parte democratica, condotta da un Cotenna,
addomandava l'abolizione della nobiltà e l'instituzione dello Stato
popolare; non v'era modo di resistere per le insidie cittadine e
forastiere.

Si restrinsero i nobili per consultare, piuttosto atterriti che
deliberanti, e, cedendo al tempo, stanziarono che fosse abolita la
nobiltà, che il popolo lucchese riassumesse la sovranità, che dodici
deputati si eleggessero per ordinare una costituzione democratica
secondo il modello di quella che reggeva Lucca prima della legge
Martiniana. Furono eletti, la maggior parte nobili. I democrati pazzi
non vollero udire parole italiche; però fecero accettare le forme
franzesi. Nacquero adunque nella mutata Lucca, come in Francia, a
Milano, a Genova, a Roma, i due consigli col direttorio. Incominciossi
a dar mano a spogliar l'erario di denaro, le armerie d'armi, i
granai di vettovaglie; in poco d'ora i frutti dell'antica e mirabile
provvidenza lucchese furono dissipati e guasti. Quindi sorsero le
parti, perchè chi voleva vivere Lucchese e chi unito alla Cisalpina. Si
aggiunsero le solite tribolazioni di dover vestire, pascere alloggiare,
pagare i soldati forastieri che andavano e venivano o stanziavano,
ora Liguri, ora Cisalpini, ora Franzesi, con molte altre molestie,
accompagnature insolenti del dominio militare. Brevemente, la fiorita
ed intemerata Lucca divenne sentina di mali e ne fu desolata.

Instituitosi dal generale di Francia in Piemonte, dopo l'espulsione
del re, un governo che non si saprebbe con qual nome chiamare, si
conobbe tostamente che le recenti mutazioni non erano grado dei
popoli. I soldati massimamente non si potevano accomodare, perchè
ed erano avversi per le passate instigazioni ai soldati Franzesi, e
questi in grado di vinti tenendoli, non li trattavano da compagni.
Si aggiungevano le solite insolenze, che infiammavano a rabbia un
popolo poco tollerante delle ingiurie. Vi era dunque in Piemonte
quiete apparente e sostanza minacciosa. Grande scapito aveva patito
il governo e per lo spoglio del palazzo del re, non da' Piemontesi, e
per aver mandato i capi di famiglia di primaria nobiltà come ostaggi,
e pei biglietti di credito, perchè prima promise di non risecarne il
valore, e poi il risecava di due terzi, il che fu grave ferita a coloro
che li possedevano. Sobbissava il Piemonte sì pei debiti, nè poteva
bastare alle spese. S'aggiunse la voragine intollerabile dei soldi,
del vestito, del cibo, delle stanze, dei passi pei soldati forastieri.
Rovinava a precipizio lo Stato: in tre mesi, sebbene si estremassero
le spese pei servigii piemontesi, si spesero tra in pecunia numerata
ed in sostanze meglio di trentaquattro milioni. A qual fine si andasse,
nissuno il sapeva: la desolazione e la solitudine erano imminenti.

Quest'erano le finanze: lo stato politico non era migliore. Già
abbiamo detto in parte ciò che rendeva il governo poco accetto.
Seguitava che i municipali di Torino, imitando quei di Parigi ai
tempi della rivoluzione, l'emulavano e traevano con sè molto seguito.
A questo erano stimolati da alcuni repubblicani franzesi, i quali si
lamentavano di non aver avuto dal governo piemontese quelle ricompense
che credevano esser loro dovute; del che i loro aderenti del paese
aspramente si dolevano, tacciando il governo d'ingratitudine.

I musei intanto e le librerie si spogliavano rapivasi la tavola Isiaca,
rapivansi i manoscritti di Pirro Ligorio e quanto si credeva poter
ornare il magnifico Parigi a detrimento della scaduta Torino. In mezzo
a tutto questo mandava il governo l'avvocato Rocci ed il conte Laville
deputati a Parigi, perchè ringraziassero il direttorio della data
libertà, il tenessero bene edificato ed esplorassero qual fosse il suo
pensiero intorno alle sorti future del Piemonte.

Abolivansi i fedecommessi, abolivansi le primogeniture, facendo di ciò
vivissime istanze i cadetti delle famiglie nobili, ma la esecuzione
fu sospesa dal direttorio di Francia per opera del conte Morozzo, che
si era condotto espressamente a Parigi. Abolivansi anche i titoli di
nobiltà e furono arsi pubblicamente sulla piazza del castello.

Intanto le sette, per l'incertezza delle sorti piemontesi, si
moltiplicavano e s'inasprivano. Chi voleva esser Franzese, chi
Italiano, chi Piemontese. Si viveva in queste incertezze, quando
arrivava da Parigi l'avvocato Carlo Bossi, uno degli eletti al governo.
Egli adunque avendo avuto l'intesa da Joubert, da Taleyrand e da
Rewbell, uno dei quinqueviri, di ciò che il direttorio voleva fare del
Piemonte, e parendogli che miglior consiglio fosse l'essere congiunto
con chi comandava che con chi obbediva, si era deliberato a proporre
in cospetto del governo il partito della unione con la Francia.
Seguì tosto l'effetto, perchè avendo parlato con singolare eloquenza,
da quell'uomo d'ingegno piuttosto mirabile che raro ch'egli era, e
confermato il suo favellare con raziocinii speciosissimi, perciocchè
nell'una e nell'altra parte valeva moltissimo, vinse facilmente il
partito; non avendovi nissuno contraddetto, perchè alcuni non vollero,
altri non seppero, stantechè la proposta era inaspettata. Accettatosi
dal governo il partito dell'unione, furono tentati al medesimo fine
i municipali di Torino. Vi aderirono volontieri. La deliberazione
della capitale fu di grandissima importanza, perchè, essendo conforme
a quella del governo, facilmente tirava con sè tutto il paese. Si
mandarono commissarii nelle provincie a far gli squittini per le
unioni. I popoli non l'intendevano e certamente ripugnavano. Ma
l'autorità del governo e la presenza dei Franzesi facevano chiarire
i magistrati in favore. Mandavansi a Parigi per portar i suffragi
Bossi, Botton di Castellamonte, e Sartoris, uomini di celebrato valore
e di gran fama in Piemonte; ma vissuti, discordi a Parigi, produssero
discordia nella patria loro.

Questa risoluzione del governo lo scemò di riputazione, perchè il
popolo non amava l'imperio dei forastieri; gl'Italiani si adoperavano
per farlo vieppiù odioso. Fu anche non cagione, ma occasione di un moto
più feroce e ridicolo che nobile e pericoloso nella provincia d'Aqui.
Dieci mila sollevati, compromessi molti luoghi, si disperdevano e della
loro imbecillità pativano i danni Strevi, Aqui, ed altri comuni ancora.

Avuto il suffragio dell'unione, e conoscendo il direttorio di Francia
che il governo del Piemonte, per aver perduto la riputazione, gli
era divenuto uno stromento inutile, vi mandava Musset con qualità di
commissario politico e civile, affinchè vi ordinasse il paese alla
foggia franzese. Arrivato, tutte le ambizioni e di nobili e di plebei
si voltavano a lui, ed ei si serviva dei gallizzanti, temeva degli
Italici. Fece i soliti spartimenti del territorio, creò i tribunali,
i magistrati distrettuali e municipali secondo gli ordini usati in
Francia. Per riordinar le finanze tanto peggiorate, chiamava a sè
Prina, che molto ed anche troppo se n'intendeva. S'ingegnava di sopire
le passioni accese, perchè era uomo buono, ma l'incendio era troppo
grave; già nuovi nembi, che s'ingrossavano verso settentrione, dando
timori e svegliando nuove speranze, infiammavano viemmaggiormente le
passioni già tanto accese.

Così, come abbiam raccontato, eran condizionati Napoli e Piemonte.
Meglio Genova e Milano si mantenevano per aver governi più ordinati,
ma più la prima che il secondo, perchè l'amor della adulazione verso i
forestieri vi era minore. Roma era straziata continuamente da uomini
avari e da importune mutazioni in chi governava. Dappertutto erano
apparecchiate le occasioni alla tempesta, che già si avvicinava ai
confini d'Italia.

Le arti dell'Inghilterra, delle quali abbiamo altrove parlato,
partorivano gli effetti che da loro si erano aspettati, e già
tutt'Europa novellamente si muoveva a danni della Francia e dei nuovi
Stati che ella aveva creato. Aveva l'Austria mandato un forte esercito
in Italia, alloggiandolo sulle sponde dell'Adige e della Brenta. Al
tempo stesso aveva operato che la parte che nei Grigioni inclinava
a suo favore la chiamasse a preservar il paese dall'invasione dei
Franzesi. Vi aveva pertanto mandato nuovi battaglioni per occupar
quelle montagne, per modo che le sue prime guardie si estendevano da
una parte sino ai confini della Svizzera, dall'altra sino a quei della
Valtellina. Omessi i generali vinti, commetteva l'imperadore Francesco
il governo militare a pruovati capitani, a Bellegarde nei Grigioni, a
Melas in Italia; era con lui Kray, guerriero che si era acquistato buon
nome nelle guerre germaniche e molto amato dai soldati. In tal guisa
l'Austria si preparava alla guerra.

Ma il fondamento principale di tutta l'impresa erano i soldati di
Paolo imperadore, che, già lasciate le fredde rive del Volga e del
Tanai, marciavano alla volta della Germania ed erano destinate a fare
con gli Austriaci uno sforzo contro l'Italia. Conduceva questi soldati
tanto strani il maresciallo Suwarow, capitano uso, per l'incredibile
suo ardimento, a rompere piuttosto che a schivare gli ostacoli della
guerra. A tutta questa mole, già di per sè stessa tanto grave, si
aggiungevano le forze marittime dell'Inghilterra, della Russia, e
della Turchia, le quali, l'Adriatico dominando ed il Mediterraneo
correndo, potevano effettuare sulle coste di Italia subiti trasporti e
sbarchi, abili a disordinare i disegni dei capitani della repubblica.
Nè, come abbiam veduto, era l'Italia sana rispetto ai Franzesi, perchè
infiniti sdegni vi erano raccolti, sì per la contrarietà delle opinioni
attinenti allo Stato od alla religione, e sì per le offese recate dal
nuovo dominio.

Dall'altro lato era intento del direttorio di far guerra con tre
eserciti, dei quali il primo condotto da Jourdan avesse carico, varcato
il Reno di assaltare la Baviera, che s'era accostata alla lega, il
secondo governato da Massena negli Svizzeri, facesse opera di cacciare
gli Austriaci dai Grigioni, d'invadere il Tirolo, e, camminando avanti,
di dar mano a Jourdan dall'una parte, dall'altra a Scherer in Italia.
Era stato proposto alle genti italiche il generale Scherer, vincitore
di Loano. Questo terzo esercito, spingendosi anch'esso avanti, doveva,
passate le Alpi Giulie e Noriche, congiungersi coi due precedenti per
conquistare gli Stati ereditarii. Aveva con sè congiunti i Piemontesi
ed i Cisalpini. Joubert, che era per lo innanzi generalissimo, e
molto capace per l'ingegno, l'ardire e l'esperienza di governar questa
guerra, aveva chiesto licenza, ed il direttorio, che riteneva in tutte
le cose le solite sospizioni, temendo di lui, molto volentieri glie
l'aveva conceduta. Compariva Scherer, non senza parigino fasto; il che
rendeva più notabile la semplicità del vivere di Joubert e lo squallore
dei soldati. Ciò fece anche sospettare che le opere del peculato
avessero peggio che prima a ricominciare: ognuno stava di mala voglia.

Non ostante le ostili dimostrazioni, la guerra non era ancor rotta fra
le parti, perchè il direttorio, prima di risentirsi dell'avvicinarsi
dei Russi, aspettava che la fortezza di Erebrestein venisse in poter
suo. L'Austria stava attendendo, per non trovarsi a combatter sola,
mentre poteva combattere accompagnata, che le genti russe alle sue
si congiungessero. Finalmente dopo un lungo assedio, costretto dalla
fame, Erebrestein si dava ai repubblicani. Insorse incontanente il
direttorio, e mandò dicendo all'imperator d'Alemagna, che se i Russi
non fermassero i passi contro la Francia e dagli Stati imperiali non
retrocedessero, l'avrebbe per segno di guerra: la corte imperiale
diè risposte ambigue e si temporeggiava per dar comodità ai soldati
di Paolo di arrivare. Conobbe la cosa il direttorio, e però si
determinava del tutto allo guerra, volendo prevenire quello che
l'Austria aspettava. Per la qual cosa Scherer altro non attendeva, per
dar principio alle ostilità che l'udire che Jourdan e Massena avessero
fatto il debito loro sul dorso germanico delle Alpi. Sentite le novelle
del passo effettuato sul Reno del primo, e dello aver combattuto il
secondo prosperamente, non senza però sanguinosissime battaglie, nei
Grigioni, si risolveva a non più porre tempo in mezzo per assaltare il
nemico.

Credeva il direttorio, avvicinandosi la guerra contro l'Austria, non
si poter fidare del granduca Ferdinando di Toscana, e perciò si era
risoluto di cacciarlo da' suoi Stati. A questo fine, toccato prima
che avesse dato asilo al papa e passo ai Napolitani, ed affermato che
s'intendesse segretamente coi confederati ai danni della repubblica,
Scherer ordinava che il dominio di Francia s'introducesse in
Toscana. Così il direttorio stringeva nelle sue mani tutta l'Italia
a quel momento stesso in cui era vicino a perderla tutta. Partitosi
inaspettatamente il generale Gaultier da Bologna, dove aveva le stanze,
entrava nella felice Toscana, e il dì 25 di marzo, conducendo con
sè un grosso corpo di cavalleria con qualche nervo di fanteria e col
solito corredo di artiglierie e di salmerie, faceva, qui trionfatore,
il suo ingresso armato per la porta di San Gallo nella pacifica città
di Firenze. Così la sede di civiltà divenne occupata da insolite e
forestiere soldatesche.

I trionfatori disarmavano i soldati toscani, s'impadronivano delle
fortezze, del corpo di guardia, del palazzo vecchio e delle porte.
Al tempo medesimo Miollis, assaltata ed occupata Pisa, se ne andava a
Livorno, e quivi, disarmate le truppe del granduca, poneva presidio nei
forti, guardie sul porto, mano sui magazzini inglesi e napolitani. Un
Reinhard, commissario del direttorio, recava in sua potestà la somma
delle cose, ed ordinava che i magistrati continuassero a fare gli
ufficii in nome della repubblica franzese. Disfatto dai repubblicani
il governo di Toscana, partiva per Vienna con tutta la sua famiglia
il granduca, e gli fu dato facoltà dagli occupatori del suo Stato di
portar con sè parte del mobile del palazzo Pitti, e alcuni capi di
pittura e scultura notabili. Il caso strano mosse, non tutti, ma parte
dei Toscani: piantarono i soliti alberi sulle piazze, fecero discorsi,
gridarono libertà; pure non si fecero tanti schiamazzi come altrove.

Il dominio dei Franzesi in Toscana cominciò da opere spietate. Gli
esuli Franzesi, o preti o laici che fossero, che sotto il placido
dominio di Ferdinando si erano ricoverati, furono senza remissione
cacciati. Restava papa Pio che, vecchio, infermo ed ormai vicino
all'ultimo termine della vita, se ne stava assai riposatamente nella
Certosa di Firenze. Quest'ultima quiete gli turbarono i repubblicani,
sforzandolo a partire alla volta di Parma, e poi fin oltre in Francia
al tempo stesso della partenza di Ferdinando. Partiva il canuto
e cadente pontefice, poco conscio di sè per l'infermità e per la
disgrazia, molto salutato dalle pietose e meste popolazioni. Strada
facendo, era chiuso nelle fortezze, poi venne serrato in Brianzone,
finalmente trasportato in Valenza del Delfinato: quivi condusse
nell'esilio una vita, che con tanto apparato di maestà e di potenza
aveva incominciato. L'accompagnò sempre lo Spina, che fu poi cardinale,
dolce e pietoso ufficio.

Ad uno spettacolo compassionevole succedeva uno spettacolo orrendo. I
Franzesi, partiti in tre schiere, affrontavano vigorosamente, il dì
26 di marzo, i Tedeschi sulle sponde dell'Adige. Ad un punto preso,
tutte tre schiere andavano alla fazione loro, e già la battaglia
ardeva con molta uccisione per ambe le parti da Legnago fin oltre
Bussolengo. Al primo romore delle armi era corso il presidio di Legnago
governato dal colonnello Skal ad occupare le mura e la strada coperta;
le guardie esteriori già si urtavano coi Franzesi, ai quali davano
favore i fossi, le siepi, e gli alberi che ingombravano il terreno. Si
combatteva con grandissimo valore dai Franzesi e dai Tedeschi sotto
le mura di Legnago, presso Anghiari, ed a San Pietro per la strada
di Mantova. Combatterono i repubblicani felicemente a San Pietro,
infelicemente ad Anghiari, con fortuna pari a Legnago; ma la fortezza
del luogo sosteneva gli avversarii. Urtarono genti fresche i Franzesi
in parecchi luoghi, ma principalmente a San Pietro, dov'erano più
forti e già vittoriosi, e superata finalmente la forte ed ostinata
resistenza loro, li costrinsero a piegare ed a ritirarsi oltre Anghiari
e Cerea verso il Tartaro. Vinto Montrichard a Legnago con perdita
di circa due mila soldati, gli Alemanni si mettevano al punto di
seguitarlo. Ma sopraggiunte a Kray erano le novelle che Victor e Hatry,
battute aspramente le terre di Santa Lucia e di San Massimo, si erano
impadroniti della prima e si sforzavano di occupare fermamente la
seconda, dalla quale, entrati a viva forza già sette volte, altrettante
erano stati risospinti. Così in questa parte stava la battaglia in
pendente per l'acquisto di Santa Lucia dall'un de' lati e per la
conservazione di San Massimo dall'altro. Tuttavia si continuava a
combattere; un terrore profondo occupava Verona, non sapendo i Veronesi
qual fine fosse per avere quel lungo ed aspro combattimento e molto
temendo dei Franzesi per le ingiurie antiche e nuove. A questo stato
dubbio sotto le mura di Verona, s'aggiunse la rotta toccata dalle genti
Alemanne sull'ala loro destra, governata dai generali Gottersheim ed
Esnitz; il che fece fare nuovi pensieri a Kray, distogliendolo del
tutto dal seguitare i repubblicani oltre l'Adige verso Mantova. Era il
sito di Pastrengo e Bussolengo munitissimo per molte fortificazioni,
che consistevano in due ridotti, in frecce, trincee di campagna e teste
di ponti. Urtarono i Franzesi con tanto impeto tutte queste opere, che,
sebbene gli Austriaci vi si difendessero virilmente, le sforzarono. Il
caso fu tanto subito che questi ultimi non poterono rompere i ponti di
Pastrengo e di Polo, per modo che i repubblicani acquistarono facoltà
di passar l'Adige e di correre per la sinistra sua sponda contro Verona
e quella parte degl'imperiali che aveva le stanze sulla strada verso
Vicenza.

Al tempo stesso in cui Delmas e Grenier vincevano a Bossolengo,
Serrurier, più oltre e più su distendendosi a stanca aveva cacciato i
Tedeschi dai monti di Lazise, in ciò aiutato efficacemente dal capitano
di fregata Sibilla e dal luogotenente Pons colle navi sottili, con le
quali custodivano il lago di Garda. Mentre si combatteva sull'Adige,
i Franzesi assaltavano Wukassovich sulle frontiere del Tirolo sopra
il lago di Garda. Già si erano fatti padroni di Lodrone, ed avevano
guadagnato molto spazio oltre i laghi di Iseo e d'Idro. Ma infine
vennero in ogni parte respinti. Non così tosto ebbe Kray inteso la
rotta della sua ala destra, che, lasciato un presidio sufficiente
in Legnago, s'incamminava a presti passi a Verona, per preservarla
dal gravissimo pericolo che le sovrastava. Vi arrivava il 27 e 28, e
l'assicurava.

I due eserciti, stanchi dal lungo combattere, pieni di morti e di
feriti, convennero di sospendere le offese un giorno per dar sepoltura
ai primi e cura ai secondi. Continuavano i Franzesi in possessione
della riva sinistra dell'Adige, ed era forza o che i Tedeschi ne li
cacciassero, o ch'essi cacciassero i Tedeschi di Verona. Se cadeva
Verona, era vinta la guerra pei primi, e Suwarow avrebbe potuto
arrivare senza frutto. Se i Franzesi erano cacciati dalla riva sinistra
era vinta la guerra per gli Austriaci. Sovrastava adunque agli uni
e agli altri la necessità del combattere. Adunque alle dieci della
mattina del 30 marzo, i Franzesi condotti da Serrurier, passato sugli
acquistati ponti il fiume in grosso numero, assaltarono Esnitz e
Gottesheim, ai quali già si era congiunto Froelich. Un'altra parte di
repubblicani condotta da Victor s'innoltrava verso i luoghi superiori
della valle ed in Montebaldo verso la Chiusa e Rivole, coll'intento di
occupare i monti, ai quali si appoggiavano i Tedeschi e di guadagnare
la strada di Vicenza. Avevano i Franzesi del Serrurier, assaltando
con un impeto grandissimo, guadagnato molto campo, e già insistevano
sopra Parona, luogo distante ad un miglio e mezzo da Verona. In questo
pericoloso momento, Kray mandava fuori otto mila soldati, e, partitigli
in tre colonne, li sospingeva ad urtare i Franzesi. Ne sorse un
combattimento molto fiero, in fin del quale prevalsero gli Austriaci,
ed i Franzesi pensarono al ritirarsi non senza qualche dissoluzione
nelle ordinanze. In questo fatto, per frenare l'impeto del vincitore
e dar campo ai vinti di ritirarsi, prestò opera egregia la cavalleria
piemontese. Restava che si potesse ripassare a salvamento il fiume;
una parte passò; ma Kray, avendo occupato i ponti con la cavalleria
e rottili per mezzo dei granatieri di Korber, Fiquelmont e Weber,
tagliò la strada ai superstiti che, deposte le armi, vennero in suo
potere. Quasi tutta la parte che era salita ai monti fu in questa guisa
superata e presa.

Risultava dalle due battaglie di Verona che gli Austriaci passarono
l'Adige a portar guerra sulla sua destra sponda. Dal canto suo Scherer
si era accampato dietro il Tartaro, tra Villafranca e l'Isola della
Scala, attendendo a fortificarsi ed a riordinare i suoi; aveva fermato
il suo campo principale a Magnano. Ma le sue condizioni divenivano
ogni ora peggiori; perchè il nemico incominciava a romoreggiargli sui
fianchi ed alle spalle con truppe armate alla leggera. Wukassowich,
sceso dal Tirolo tra il lago di Garda e l'Iseo, minacciava Brescia,
oltrechè il colonnello San Giuliano mandato da Wukassowich aveva
spazzato tutto il campo tra la destra dell'Adige ed il lago di Garda,
per modo che il navilio, che i Franzesi avevano sul lago, era stato
costretto a cercar ricovero sotto le mura di Peschiera. Da un'altra
parte Klenau, partitosi dall'ala sinistra austriaca con soldati
corridori era comparso sul Po, aveva messo a rumore le due sponde,
precipitato in fondo le navi franzesi e costretto i repubblicani a
rifuggirsi o in Ferrara o in Ostiglia.

Si trovava adunque il generalissimo di Francia in grave pericolo,
ed aveva tanto più forte cagione di temere, quanto il suo esercito,
scemato per le perdite fatte nelle giornate precedenti, era divenuto
di numero inferiore a quello d'Austria. Oltre a tutto questo non
isfuggiva a Scherer che Suwarow, ritardato solamente dalle pioggie
insolite che avevano fatto gonfiare oltremodo i fiumi ed i torrenti,
si accostava; il che avrebbe del tutto fatto prevalere il nemico, se
prima dell'arrivare del Russo non ristorava la fortuna cadente. Per
tutto questo, nè mancando anche d'animo per sè medesimo, si risolveva a
cimentarsi di nuovo col nemico, sperando che Magnano avrebbe restituito
le cose perdute a Verona.

Dall'altro canto il generale austriaco, non fuggendo di tentar la
fortuna da sè solo, agognava ancor esso la battaglia, perchè non voleva
dar tempo al nemico di riordinarsi e riaversi dall'impressione delle
rotte precedenti, nè lasciar raffreddare l'impeto de' suoi, tanto più
imbaldanziti delle vittorie recenti, quanto più le avevano acquistate
mentr'era ancor fresca la memoria delle sconfitte. Forse ancora Kray
nel più interno dei suo animo desiderava una nuova battaglia per
operare che per suo mezzo la guerra fosse del tutto vinta innanzi che
arrivassero il generalissimo Melas ed il forte maresciallo di Paolo.

Ivano all'affronto i due nemici divisi in tre schiere, il dì 5 aprile.
Sorgeva una fierissima battaglia; benchè i Franzesi fossero inferiori
di numero, guadagnarono nondimeno, valorosissimamente combattendo,
del campo, e facevano piegar l'inimico. Serrurier, sospinto prima
ferocemente da Villafranca, fatto un nuovo sforzo e riordinati i suoi,
se ne impadroniva. Delmas si spingeva ancor esso avanti; Moreau il
seguitava con uguale prudenza e valore, Victor e Grenier sforzavano San
Giacomo e vi si alloggiavano.

Volle Kray rompere Moreau con aver fatto girare un grosso corpo a
fine di attaccar il Franzese alle spalle, ed al tempo medesimo urtava
impetuosamente Delmas. Questa mossa ottimamente pensata poteva trarre
a duro passo Moreau s'ei non fosse stato quell'esperto capitano che
egli era; ma risolutosi incontanente su quanto gli restava a fare in
sì pericoloso accidente, invece di camminare direttamente; si voltava
con grandissima audacia a destra, ed assaltava sul destro fianco
coloro che disegnavano di assaltarlo alle spalle. Per questa mossa gli
Austriaci furono rotti e fugati verso Verona, a cui si accostavano
Delmas e Moreau con le altre due schiere compagne; già il terrore
assaliva la città. Pareva in questo punto disperata la battaglia pei
Tedeschi; ma Kray ordinava a nove battaglioni del retroguardo che si
spingessero avanti, condotti dal generale Lattermann, ed urtassero
il nemico, tre da fronte a sinistra, cinque di fianco. Fu quest'urto
dato con tanto ordine ed impeto che i Franzesi, svelta loro di
mano per forza la vittoria, se ne andarono rotti in fuga. A questo
decisivo passo ordinarono Scherer e Moreau un po' di retroguardo che
loro restava, quest'era l'ultima posta, e mandatolo contro il nemico
insultante, non solamente ristoravano la fortuna della battaglia, ma
ancora rompevano del tutto la mezzana schiera degl'imperiali e fugivano
Keim fin quasi sotto alle mura di Verona. Restava un ultimo rimedio a
Kray; quest'erano i restanti battaglioni del retroguardo. Serraronsi
i freschi battaglioni alemanni, adoprandosi virilmente Lusignano sui
Franzesi con un incredibile furore. Non piegarono i repubblicani,
ma s'arrestarono: nasceva un urtare, un riurtare tale che pareva che
più che uomini tra di loro combattessero. Stette lungo spazio dubbia
la vittoria e già, checchè la fortuna apparecchiasse ad una delle
parti, era per ambedue salvo l'onore. Finalmente la costanza tedesca
prevalse all'impeto franzese: i repubblicani furono piuttosto che
cacciati, svelti dal campo di battaglia. Rotto l'argine, precipitaronsi
impetuosamente contro i vinti i vincitori e ne fecero una strage
grandissima. La schiera di Serrurier, che si era conservata intera e
tuttavia teneva Villafranca, fu costretta a mostrar le spalle al nemico
non senza scompiglio nelle ordinanze pel caso improvviso, lasciando il
fardaggio, le artiglierie ed i feriti in poter del vincitore. Non fu
fatto fine al perseguitare se non quando sopraggiunse la notte. Durò
la battaglia dalle ore sei della mattina sino alle sei della sera. Il
valore vi fu uguale da ambe le parti; la vittoria utilissima alle armi
imperiali. Spianò Kray col suo valore la strada alle vittorie di Melas
e di Suwarow.

Scherer, scemato il numero de' suoi, scemato altresì l'animo loro
per le sconfitte, dopo di aver fatto alcune dimostrazioni, come se
volesse fermarsi sul Mincio, si deliberava a ritirarsi sulla sponda
destra dell'Adda, per ivi fare opera, se ancora possibil fosse, di
arrestar l'inimico e difendere la capitale della Cisalpina. A questa
deliberazione, piuttosto inevitabile che volontaria, dava motivo la
grande superiorità del nemico, accresciuto dalle forze russe, per
guisa che sommava a settanta mila combattenti, non noverati quelli
di Wukassovich e di Kleneau, mentre il suo, tolti i presidii ch'era
obbligato a lasciare a Mantova ed in Peschiera ed in altre fortezze
di minor importanza, non passava i venti mila. Si levavano i popoli a
calca al suono delle vittorie tedesche e dell'arrivo dei Russi, gente
strana e riputata d'invincibil valore. Queste sommosse molto mutavano
gl'imperiali, perchè intimorivano gli avversarii, tagliavano le strade,
e davano spiatori utilissimi ai nuovi conquistatori. Esse erano più o
meno forti, secondo le varie inclinazioni dei luoghi, ma molto romorose
nel Polesine e nel Ferrarese. Grandi tempeste ancora si levavano contro
i Franzesi nel Bresciano e nel Bergamasco: Wukassowich vi trovava molto
seguito.

Arrivati i Franzesi sulle sponde dell'Adda fiume assai più grosso
e di rive più dirupate che il Mincio e l'Oglio non sono, vi si
alloggiavano, ordinandovisi nel modo che giudicavano poter arrestare
il corso alla fortuna del vincitore. Intanto una gran mutazione si
era fatta nel governo supremo dell'esercito. I soldati repubblicani,
stimandosi invincibili, perchè non soliti ad esser vinti, avevano
concetto un grandissimo sdegno contro Scherer, di tutte le loro
disgrazie accagionandolo. I meno coraggiosi si erano anche perduti di
animo, e questo sbigottimento di mano in mano si propagava: l'immagine
della Francia già si appresentava alla mente dei più, e quelle terre
italiane diventavano loro odiose. Le subite ed estreme mutazioni dei
Franzesi davano a temere ai capi per modo, che dubitavano aver presto
a contrastare non solamente col nemico, ma ancora con la cattiva
disposizione dei proprii soldati. Già si mormorava contro Scherer, ed
il meno che dicessero di lui era, che non sapeva la guerra. Certo,
essendo tanto declinato del suo credito, ei non poteva più oltre
governar con frutto, e la confidenza ed il coraggio dei soldati per
niun altro modo potevano riaccendersi che con quello di mutar il capo
e di surrogargli un generale amato da loro e famoso per vittorie.
Videsi Scherer queste cose e, conformandosi al tempo, rinunziò al
grado, con rimetterlo in mano di Moreau e con pregare il direttorio che
commettesse in luogo di lui la guerra al capitano famoso per le renane
cose. Piacque lo scambio: Scherer, confidate le sorti franzesi al suo
successore, se ne partiva alla volta di Francia.

Recavasi Moreau in mano il governo di genti vinte e quando già poca
o niuna speranza restava di vincere. Sapeva egli che il difendere
lungo tempo le rive dell'Adda contro un nemico tanto potente non
era possibile: ma andò considerando che il cedere senza un nuovo
sperimento la capitale della Cisalpina, che aveva i suoi soldati
congiunti co' suoi e che era alleata della Francia, gli sarebbe stato
di poco onore; ed oltre a ciò voleva, con ottenere qualche indugio,
dar tempo al munire di provvisioni le fortezze del Piemonte. In questo
mezzo arrivarono alcuni aiuti venuti di Francia, del Piemonte e dalla
Cisalpina. Per tutto questo deliberossi di voltare il viso al nemico
e di provare se la fortuna fosse più favorevole alla repubblica sulle
sponde dell'Adda che su quello dell'Adige.

Arrivava Suwarow a fronte del nemico e, senza soprastare, si risolveva
a combatterlo. Divideva, come i Franzesi, i suoi in tre parti;
commetteva la prima, che marciava a destra, al generale Rosemberg,
che aveva con sè Wucassovich, guidatore dell'antiguardo. Questa parte
aveva il carico di aprirsi il varco in qualche luogo vicino al lago.
La seconda, cioè la mezzana, guidata da Zopf e Ott, doveva far opera
di passare in cospetto di Vaprio, e d'impadronirsi di questa terra.
Finalmente la terza che camminava a sinistra, commessa al valore del
generalissimo austriaco Melas, andava porsi a campo a Triviglio contro
l'alloggiamento principale dei Franzesi a Cassano. Franzesi e Russi,
nuovi nemici, eccitavano l'attenzion dal mondo.

Serrurier, dopo di aver combattuto e respinto con sommo valore i Russi
condotti dal principe Bagrazione, che avevano assaltato la testa
del ponte di Lecco, aveva, ritirandosi per ordine di Moreau verso
il centro, lasciato alcune reliquie di un ponte di piatte rimpetto a
Brivio, per cui egli si era trasferito oltre il fiume. La notte del
26 aprile Wukassovich di queste reliquie presentemente valendosi, ed
avendo riattato il ponte, varcava e s'insignoriva di Brivio, dove non
trovava guardia di sorte alcuna. Passato, correva Wukassovich la vicina
contrada, e non trovava vestigia di nemico, se non se ad Agliate e
Carate. Ciò nonostante, molto pericolava la sua squadra, se le altre
non avessero passato nel medesimo tempo. Andava Suwarow accompagnato
da Chasteler, generale dell'imperatore Francesco, capitano audacissimo
e di molta esperienza, sopravvedendo i luoghi per trovar modo di
passare all'incontro di Trezzo. Pareva anche agli ufficiali, che
soprantendevano l'opera delle piatte e del passare i fiumi, il varcare
impossibile per la rapidità e profondità delle acque, e per la natura
rotta e scoscesa delle grotte. Tuttavia non disperava dell'impresa
Chasteler; però, fatto lavorar sollecitamente i suoi soldati nel
trasportar le piatte e le tavole necessarie, tanto s'ingegnò che
alle tre della mattina del 27 mandava a pigliar luogo sulla destra
un corpo di corridori che vi si appiattavano, senza che i Franzesi
se ne accorgessero, e poco poscia passava egli stesso con tutte le
genti della mezzana schiera armata alla leggiera. Parve cosa strana
a Serrurier, il quale, udito del passo conseguito da Wukassovich,
marciava per combatterlo, e si trovava a Vaprio. Ma raccolti
subitamente i suoi, anche quelli ch'erano fuggiti da Trezzo, ingaggiava
la battaglia col nemico, non bene ancor sicuro della possessione
della destra riva. Piegava al durissimo incontro l'antiguardo dei
confederati, e sarebbe stato intieramente sconfitto, se non arrivava
subitamente al riscatto con tutta la sua schiera l'Austriaco Ott.
Si rinfrescava la battaglia più aspra di prima tra Brivio e Pozzo.
Mandava Victor alcuni reggimenti dei più presti in aiuto di Serrurier,
il quale, valorosissimamente instando, già era in punto di acquistare
la vittoria, quando giungevano in soccorso di Ott le genti di Zopf,
e facevano inchinar la fortuna in favor degli alleati; perchè, dopo
un sanguinoso affronto, cacciarono i Franzesi da Pozzo, e li misero
in fuga. Ingegnossi Grenier di raccozzare a Vaprio le genti rotte, ma
indarno, perchè, assaltato dagli Austriaci e Russi, fu rotto ancor esso
ed obbligato a ritirarsi frettolosamente. Era accorso Moreau in questo
pericoloso punto, ma la sua presenza non valse a ristorare la fortuna
della battaglia. Per questa fazione fu Serrurier respinto all'insù ed
intieramente separato dalle altre parti dell'esercito.

Mentre nel raccontato modo si combatteva fra le due schiere superiori,
Melas, che, sebbene fosse già molto innanzi cogli anni, era nondimeno
uomo di gran cuore, assaltava col fiore de' suoi granatieri la testa
di ponte sul canale Ritorto, e, ad onta che ne fosse parecchie volte
ributtato, superava tutti gl'impedimenti e si rendeva padrone del
passo. Istessamente fece del ponte sull'Adda, testa molto fortificata,
dove i soldati freschi dei confederati, spingendosi avanti sui
cadaveri dei loro compagni, che quasi pareggiavano il parapetto,
con le baionette in canna superarono il passo, e fecero strage del
nemico. Moreau, che in questa orribile mischia si era mescolato coi
combattenti, comandava a' suoi, che, abbandonato e rotto il ponte,
si ritirassero. Ristorava prestamente Melas il ponte, ed una nuova ed
ugualmente aspra battaglia ingaggiava coi repubblicani, che, animati
dalla presenza e dai conforti del loro generalissimo, virilmente si
difendevano. Ma già tutte le schiere superiori erano o separate o volte
in fuga, e già, oltre la schiera di Melas, una novella squadra urtava i
Franzesi per fianco; già Moreau medesimo era in pericolo d'esser preso
dai vincitori, che il cingevano d'ogni intorno.

Pure, pel disperato valore de' suoi soldati, che amavano meglio
perdere la vita che il loro capitano, Moreau si riscattava da
quel duro passo, e, perduta intieramente la battaglia, e lasciato
Milano sicura preda ai confederati, gli parve di condurre a presti
passi l'esercito sulla destra sponda del Ticino. Melas e Suwarow si
ricongiunsero a Gorgonzola. Così si vede che nissuna speranza di salute
restava a Serrurier. Fu assaltato dai due corpi uniti di Rosemberg
e di Wukassowich. Si difendeva con un valore degno di lui e de' suoi
soldati; e, sebbene il combattimento fosse tanto disuguale pel numero,
tanto fece che si condusse intero a Verderia, e quindi, affortificatosi
con molta prestezza ed arte, attendeva a difendersi. Ma essendosi
finalmente accorto dal continuo ingrossar del nemico dell'infelice
successo della battaglia sulle altre parti, e tempestando da tutte le
bande le artiglierie nemiche sopra uno spazio assai ristretto, chiese i
patti e li conseguì molto onorevoli.

La vittoria di Cassano, che compiva quelle di Verona e di Magnano, e
faceva tanto crescere il nome imperiale in Italia, recò in poter degli
alleati tutta la Lombardia ed il Piemonte.

Le genti russe, più affaticate delle austriache per lungo viaggio,
si riposarono dopo la battaglia. Fu commessa la cura a Melas di
condurre quelle dell'imperatore Francesco in Milano, già vinto prima
che occupato. Importava altresì che un paese austriaco fosse dagli
Austriaci ritornato alla consueta obbedienza. Vivevasi in Milano con
grandissima sospensione d'animi, perchè i reggitori della repubblica,
con tutti gli addetti ed aderenti loro, non avevano altra speranza
in tanta mutazione di fortuna, che quella di salvarsi esulando in
Francia. I partigiani del governo antico sollevavano gli animi a grandi
speranze, e si promettevano nella depressione altrui l'esaltazione
propria. Ognuno pensava od a fuggire la tempesta che sovrastava, od
a farla fruttificare in suo pro. Sapevano i capi della repubblica
quale ruina sovrastasse, ma le cattive novelle si celavano al volgo,
ed inorpellate cose dicevano, ora di vittorie franzesi, ora di
alloggiamenti insuperabili da loro fatti, ora di fiumi impossibili a
varcarsi, ora di mosse maestrevoli e sicure eseguite dai repubblicani,
ora di una apprestata per arte e prossima ruina di tutte le genti
imperiali: questa fama nutricavano diligentemente e con ogni studio.
Con questo falso corrompevano il vero; i popoli si confondevano. In su
questo, ecco arrivare a porta Orientale dalla parte di Cassano soldati
repubblicani alla sbandata, carri di feriti, fastelli di munizioni
e di bagaglie, armi sanguinose, ogni cosa retrograda. Principiava il
popolo a fare discorsi ed adunanze: la sera cresceva il terrore degli
uni, l'ansietà degli altri. Partivano, scortati da qualche squadra
di cavalleria, alla volta di Torino i direttori della repubblica
Marescalchi, Sopransi, Vertemati-Franchi, e con loro quasi tutti coloro
che, o nei gradi fossero o no, avevano maggiormente partecipato del
governo repubblicano. Portò il direttorio con sè denaro del pubblico,
di cui una parte mandava a Novara; venne poco dopo in potere degli
alleati.

Arrivava il vincitore Melas il dì 28 aprile in cospetto della città.
Gli andavano incontro sino a Cresenzano l'arcivescovo ed i municipali.
Poco dopo entrava trionfando, accorrendo il popolo in folla, e con
lietissime grida salutandolo. Cresceva ad ogni momento la calca;
pareva che tutta la città si versasse a vedere ed a salutare le insegne
dell'antico signore. La sera si accesero i lumi alle case, si fecero
cantate, balli, fuochi d'allegrezza. La bontà del popolo milanese
risplendette in questo importante fatto: non fece ingiuria nè minaccia
ad alcuno. Ma quando arrivò la gente del contado, s'incominciarono le
persecuzioni contro i giacobini, o veri o supposti, e andò a sacco il
palazzo del duca Serbelloni. Per frenar il furore di questi uomini
facinorosi in paese tanto reputato per dolcezza degli abitatori,
l'amministrazione temporanea, che si era creata, esortava il popolo
ad astenersi da ogni ingiuria, ed a non contaminare con insolenze
e persecuzioni la allegrezza comune. Avvisava inoltre che chi non
obbedisse sarebbe gastigato. Volendo Melas ed il commissario imperiale
Castelli dare maggior nervo a queste esortazioni, avvertivano che al
governo solo si apparteneva la punizione de' rei, e che chi s'arrogasse
vendette private o turbasse il pubblico sarebbe senza remissione punito
militarmente. A questo modo si frenarono in Milano le intemperanze
popolari. Arrivava intanto Suwarow; il riguardavano come un nuovo uomo:
disse all'arcivescovo essere venuto a rimettere la religione in fiore,
il papa in seggio, i sovrani in onore. Soggiunse ai municipali venuti
a fargli riverenza, che li vedeva volentieri; che solo desiderava che
come suonavano le parole loro, così avessero i sentimenti.

Restavano a compirsi da Suwarow due imprese, secondo che il
consigliasse il procedere dell'avversario; o di premere a destra per
disgiungere i Franzesi di Italia da quei della Svizzera, o d'incalzare
sulla stanca, passando il Po per impedire la congiunzione di Macdonald
con Moreau. Dal canto suo Moreau, essendo ridotto il suo esercito a
quindici mila combattenti, stava in dubbio a quale parte gli convenisse
condursi; perchè o doveva egli pensare a tenersi accosto alle Alpi
per consentire con Massena che continuava a combattere aspramente
in Isvizzera, o al piegarsi sulla destra del Po per dar la mano a
Macdonald. Elesse questo secondo partito. Conduceva dunque lo esercito
nei contorni d'Alessandria, alloggiandolo in un sito molto forte. Per
tal modo non abbandonava del tutto le pianure, e si teneva la strada
aperta verso gli Apennini. Per la qual deliberazione del capitano di
Francia fu necessitato Suwarow a fermare la guerra tra la destra del Po
e la catena di questi monti.

Venute in mano degli alleati Peschiera, Pizzighettone ed il castello
di Milano, rimanevano in favor dei Franzesi Mantova, intorno alla
quale, siccome piazza di maggiore importanza, Kray si affaticava, e
con Mantova tutte le fortezze del Piemonte. Ingrossati gli alleati
dai corpi che avevano oppugnate le fortezze conquistate, e fatti
animosi delle sollevazioni dei popoli in loro favore, si accostavano
a Moreau coll'intento di cacciarlo per forza da quel forte nido in cui
si era ricoverato. Passarono i confederati, massimamente Russi, il dì
11 maggio, il Po a Bassignana; ma tentata invano con dimostrazioni
parziali e con romoreggiare all'intorno l'ala sinistra di Moreau,
avvisarono di far pruova se, minacciando sulla destra, il potessero
sforzare alla ritirata. S'ingaggiava una battaglia molto viva, dopo
cui tornando intero e minaccioso Moreau nel suo sicuro alloggiamento,
dimostrava ch'era ancor vivo, e che gl'infortunii presenti non gli
avevano tolto nè la mente nè la fortezza d'animo.

Oramai la guerra che gli romoreggiava tutto all'intorno lo sforzava
a far nuove deliberazioni. I popoli si erano levati a calca contro i
repubblicani: commettevansi crudeltà, saccheggi, uccisioni. Le terre
astigiane grondavano sangue, quasi in sul cospetto di Moreau. Pensava
egli alla salute de' suoi: vedendo piena troppo grossa, e che non era
più tempo di aspettar tempo, passando per Asti, Cherasco e Fossano, e
lasciate ben guardate Alessandria e Tortona, andava a porsi alle stanze
di Cuneo, per avere le strade libere verso Francia pel colle di Tenda
o per la valle d'Argentera. Da Cuneo il generale della repubblica,
lasciatovi un forte presidio, si conduceva, essendo oggimai stremo di
gente, sul destro dorso degli Apennini

Partiti i Franzesi, ciò fu cagione che l'amministrazione del Piemonte
creata da Moreau, passando per Torino, andasse a far capo in Pinerolo,
perchè le valli dei Valdesi, vicine a questa città, ed abitate da
popoli quieti e nemici di ogni scandalo, davano un adito sicuro a
ripararsi in Francia. Per la partenza medesima dei soldati di Francia
si moltiplicavano a dismisura in Piemonte le sommosse popolari. La
rabbia politica, il zelo, come pretendevano, della religione, spesso
ancora l'amore del sacco e gli odii privati producevano questi effetti,
cui venne ad accrescere un manifesto mandato da Suwarow ai Piemontesi
dalle sue stanze di Voghera, incitandogli alle armi. Atroci falli
seguitavano le parole.

Frattanto Suwarow intendeva l'animo all'acquisto di Torino, perchè,
essendo città capitale, si stimava che la possessione di lei, facendo
risorgere l'immagine del regno, inviterebbe i popoli a tornare
all'antica obbedienza. Oltre a questo, importavano agli alleati il
suo sito, molto accomodato alla guerra, e la copia delle artiglierie e
delle munizioni che vi si trovava ammassata. Non aveva potuto Moreau,
per la debolezza delle genti che gli restavano, lasciar in Torino un
presidio sufficiente, e, dalla guarnigione della città in fuori, non
vi era forza che potesse preservar la città, quantunque fosse cinta di
mura forti ed ordinate secondo l'arte a difesa. Arrivava Wukassovich
con genti regolari e turbe paesane; faceva la chiamata. Rispondeva
Fiorella volersi difendere. Principiava dai monte dei Cappuccini e
dar la batteria; e non facendo frutto con le palle, provò le bombe.
S'accesero alcune case vicine alla porta di Po. In questo punto la
guardia urbana apriva la porta. Entrarono a furia i soldati corridori
di Wukassovich: gli accompagnavano, cosa di grandissimo spavento, le
turbe infami di Branda-Lucioni, famoso capo di briganti. Salvaronsi
frettolosamente in cittadella i pochi soldati repubblicani che
alloggiavano in città, dei quali alcuni furono presi, altri uccisi.
Già Torino non era più in potere di Francia, ma non era ancora in
poter d'Austria del tutto, perchè su quel primo giungere le truppe
contadinesche dominavano, uccidevano, davano il sacco; ed insomma
la città piena di spavento aspettava qualche gran ruina, e, se i
confederati non fossero stati presti ad accorrere ed a frenare questi
uomini furibondi, sarebbero forse avvenuti mali peggiori di quelli che
si temevano.

Quando i tumulti che avevano conquassato il Piemonte alcun poco
restarono, entrava, a guisa di trionfatore, il generalissimo Suwarow.
Andava in sul giungere nella chiesa metropolitana di San Giovanni per
ringraziare Iddio dell'acquistata vittoria. Intanto Fiorella, che
governava la cittadella, traeva con le artiglierie; i confederati
traevano contro di lui; era vicino un altro sterminio. Infine le
due parti convennero, perchè altrimenti la sede del re ne andava in
subbisso, che i confederati non assalterebbero la cittadella dalla
parte della città, ed i Franzesi non infesterebbero la città dalla
cittadella. Era Suwarow continuamente veduto e corteggiato dai nobili;
i più savii consigliavano la moderazione, gli altri il rigore.

Il Russo, quantunque fosse di natura molto risentita, ed anzi acerba,
massime in queste faccende di Stato, più volentieri udiva i primi che i
secondi, perchè giudicava secondo la ragione, non secondo la parzialità
del luogo o i desiderii di vendetta. Chiamava a sè il marchese Thaon di
Sant'Andrea, e gli dava carico di riordinare i reggimenti del re; ed il
marchese pubblicava un suo manifesto, e alle sue parole senza tardità
i soldati si raccoglievano. Poi Suwarow, consigliandosi col marchese
medesimo e con gli altri capi del governo regio, creava, per dar forma
alle cose sconvolte, un governo interinale sotto nome di consiglio
supremo, insino al ritorno del re.

Vedeva il consiglio che per confermare lo Stato del re, principalmente
nella capitale, si rendeva necessario l'espugnare la cittadella;
perchè non solamente ella era di sicurtà grande al Piemonte, ma non
si giudicava nemmeno onorevole l'avere quel morso in bocca nella sede
stessa della potestà suprema: laonde, acciocchè la faccenda camminasse
con maggior diligenza, si offerse a far le spese dell'oppugnazione. Il
dì 13 giugno principiarono i confederati a lavorare al fosso ed alla
trincea della prima circonvallazione. Non mancarono gli assediati a sè
medesimi nel volere impedire colle artigliere che i nemici tirassero a
perfezione la trincea. Ma questi con le solite arti affaticandosi, ed
aiutati con molto fervore dai contadini, che niuna fatica o pericolo
ricusavano, apprestarono le batterie, e la mattina del 18 diedero mano
a bersagliare la fortezza. Prodotti gravissimi danni, faceva Keim, che
da Suwarow aveva avuto carico di questa oppugnazione, la intimata alla
piazza. Fiorella rispondeva, volersi tuttavia difendere. Il bersaglio
ricominciava più forte che per lo innanzi, e continuava sino al mezzodì
del 19. La caserma, i magazzini, la casa stessa del governator Fiorella
ardevano, una conserva di polvere aveva fatto scoppio; le casematte,
per esservi trapelata molta acqua, non offerivano rifugio. Morti erano
la maggior parte dei cannonieri; le batterie scavalcate, i parapetti
distrutti; la piazza ridotta senza difese d'artiglieria. Già la seconda
circonvallazione si cavava a gittata di pistola dalla strada scoperta,
e gli oppugnatori la continuavano con la zappa per modo che già erano
vicini a sboccare nel fosso.

Il perseverare nella difesa sarebbe stato piuttosto temerità che
valore; perciò Fiorella trattò della resa. Si fermarono, il dì 20, i
capitoli, pei quali si pattuì che il presidio uscisse con gli onori di
guerra; che deponesse le armi; che avesse libero ritorno in Francia
coi cavalli e colle bagaglie; che desse fede di non servire contro i
confederati sino agli scambi; Fiorella e gli altri ufficiali maggiori
fossero, come prigionieri di guerra fino agli scambi, condotti in
Germania. Uscirono i vinti in numero di circa tre mila; entrarono
i vincitori il dì 22. Ottenuta la cittadella, se ne giva Keim ad
ingrossare sulle sponde della Bormida Suwarow, al quale la fortuna
stava preparando nuove fatiche e nuovi trionfi. Fecersi in Torino
molti rallegramenti civili, militari e religiosi per la riacquistata
cittadella. Ne pigliarono i regi felici augurii. Mandava Suwarow
pregando il re, acciocchè se ne tornasse nel regno ricuperato. Ma
l'Austria, che aveva altri pensieri, attraversava questo disegno.

La guerra, che insanguinava le terre italiche, non risparmiava le
greche. Ma noi non potremo dilungarci dalle cose nostre per narrare
come le isole del mare Ionio ed altre terre circostanti, tolte
sotto specie di amicizia dai repubblicani di Francia all'imperio dei
Veneziani, venissero per forza d'armi sotto quello dei Turchi e dei
Russi. Il termine fu, che dopo i fortunosi casi di questa guerra, piena
di fatti altri alti e generosi, altri crudeli ed atroci, il consiglio
generale di Corfù, convocato dai confederati, secondo gli ordini
antichi, decretava che si ringraziasse santo Spiridione, e con annua
processione si onorasse; si ringraziassero i comandanti russo e turco
e l'ammiraglio d'Inghilterra Orazio Nelson; si ringraziassero Paolo I,
Giorgio III, Selim III. Fu data la somma del governo non solo di Corfù,
ma ancora di tutte le isole e territorii ionici, ad una delegazione
di sei nobili. In tale forma si visse a Corfù finchè dai confederati
fuvvi ordinato governo stabile di repubblicani sotto tutela della
Porta Ottomana. A questo modo, per opera, prima dei Franzesi, poi dei
confederati, fu alienato per sempre dall'imperio d'Italia all'imperio
degli oltramontani o degli oltremarini il dominio del mare Ionio,
che Venezia avea saputo conservare per tanti secoli contro tutte le
forze dell'impero dei Turchi. Venuto Corfù in poter dei confederati,
divenne ricovero sicuro a coloro, cui cacciava dall'Italia la presenza
dei repubblicani. Vennervi le principesse esuli di Francia: vennervi
i cardinali Braschi e Pignatelli, il principe Borghese, i marchesi
Gabrielli e Massimi, il cavalier Ricci e molti altri personaggi. Le
flotte russa e turca andarono ad altre fazioni nell'Adriatico e nel
Mediterraneo, le quali siamo per vedere in progresso.

Come prima ebbe Moreau il governo supremo dell'esercito italico, avea
applicato i suoi pensieri a far venire sul campo delle nuove battaglie
le genti che sotto l'impero di Macdonald custodivano il regno di
Napoli. Per la qual cosa aveva speditamente mandato a Macdonald che
partisse da Napoli con tutto l'esercito, solo lasciasse presidio nei
castelli, nelle piazze più forti, e con esso lui venisse prestamente a
congiungersi, determinando il luogo della congiunzione dei due eserciti
nei contorni di Voghera. A questo fine, volendo dar mano più presto
che fosse possibile alle genti vincitrici di Napoli, e considerato che
Macdonald, per essere le strade del littorale della riviera di Levante
troppo difficili e da non dar passo alle artiglierie, era necessitato a
camminare fra l'Apennino e la sponda destra del Po; e temendo che fosse
troppo debole a sostener l'impeto dei corpi sparsi dei confederati,
che prevalevano di cavalleria nelle pianure di Bologna e di Modena,
avea mandato Victor con la sua schiera ad incontrarlo sui confini
della Toscana e del Genovesato. Partiva Macdonald, accompagnandolo
Abrial, da Napoli, lasciati presidii franzesi, sebbene deboli, nei
castelli di Napoli e nelle fortezze di Gaeta, di Capua e di Pescara.
Grave e difficile carico gli era addossato, ma del pari glorioso, se il
portasse a felice fine. Viaggiava con molto disfavore dei paesi per cui
gli era necessità di passare, perchè le popolazioni sollevate a cose
nuove, stavano in armi e pronte a contrastargli il passo. Tumultuava
il regno sulle sponde del Garigliano, tumultava lo Stato romano, e da
Roma in fuori non v'era luogo che fosse sicuro ai Franzesi. Tumultuava
la Toscana molto furiosamente, già sì pacifica e dolce. Le strade, che
davano il passo da una parte all'altra degli Apennini, specialmente
Pontremoli, sito di non poca importanza, erano in possessione dei
collegati. Nè egli aveva cavalleria bastante a spazzare i paesi, a
procacciarsi le notizie, a far vittovaglie, a difendersi dagli assalti
improvvisi. Nè è dubbio che l'impresa di Macdonald non fosse delle più
malagevoli ed ardue che capitano di guerra sia stato mai obbligato di
fornire.

Si metteva in via, diviso il suo esercito in due parti. Marciava
la destra guidata da Olivier accosto agli Apennini con l'intento di
riuscire per la strada di San-Germano, Isola, Ferentino, Valmontone e
Frascati, verso Roma. La sinistra, condotta da Macdonald, seguitava
verso la capitale medesima dello Stato romano la strada più facile
della marina. Erano con questa le più grosse artiglierie e le
principali bagaglie. Fu la prima necessitata a combattere, non senza
molto sangue, parecchie volte per condursi al suo destino. San-Germano
si oppose con le armi; fu preso per forza e saccheggiato. Isola si
persuase di poter arrestare con genti tumultuarie soldati regolari,
agguerriti e bene armati: assaltarono i Franzesi, dopo di aver ricerco
gl'Isolani del passo la terra: si difesero i terrazzani con tale
ostinazione che un accanito combattimento durava già più di sei ore,
e non se ne prevedeva il fine. All'ultimo, cacciati di casa in casa a
viva forza, si ritirarono, lasciando la città in mano degli assalitori,
i quali, sdegnati all'antica nimistà degl'Isolani, allo aver tratto al
messo mandato avanti per trattare l'accordo del passo, e alla tanto
ostinata resistenza, per cui non pochi dei loro erano stati morti,
mandarono la terra a ruba ed a sangue. Quanti poterono aver nelle mani,
tanti ammazzarono. Entrati nelle case, uccisi prima gli abitatori,
facevano sacco. Poi si diedero in sul bere di quei vini generosi, per
modo che il furore della presente ebbrezza, congiunto col furore della
precedente battaglia, li fece trascorrere in opere abbominevoli. Nè più
davano retta ai loro ufficiali o generali, che li volevano frenare, che
alla ragione od alla umanità. Sorse la notte; era una grande oscurità,
pioveva a dirotto. Gl'infuriati repubblicani, dato mano alle facelle,
incesero la città, che in poco d'ora fu da sè stessa tanto disforme che
non era più che un ammasso spaventevole di sangue, di fango e di ruine.

Passarono i Franzesi a Veroli senza difficoltà, passarono a Ferentino
ed a Valmontone; finalmente congiuntisi entrarono il dì 16 maggio del
presente anno 1799 nelle sicure stanze di Roma. Quivi Macdonald, dato
animo con promesse e con discorsi, lasciate per marciare più spedito
le artiglierie e gl'impedimenti più gravi, e guernite di presidii le
piazze di Civitavecchia, di Ancona e di Perugia, s'incamminava alla
volta di Toscana. Era in questa provincia succeduta una mutazione
grandissima; eccettuati i luoghi in cui i Franzesi insistevano coi
presidii, tutti gli altri si erano voltati in favor degli alleati, con
gridare il nome di Ferdinando. Ma questa mutazione si era fatta con
tanto tumulto, con tanto furore e con tanta ferocia, che tutt'altre
cose si sarebbero aspettate dai Toscani che queste.

La sede principale della sollevazione erano Arezzo e Cortona, le
quali il sito rendeva sicure. Arezzo si era con ogni miglior modo
fortificata, anzi ogni edifizio era fortezza. Numerose squadre di
gente venuta dal contado e variamente armata custodivano le porte, e
curiosamente e diligentemente esaminavano chi entrava e chi usciva.
Movevansi sospetti ad ogni tratto in mezzo a quei contadini infuriati
per voci date, o a ragione o a torlo, di giacobino. Era lo stare
cattivo, il viaggiare peggiore. Tuttavia questi uomini, tanto sfrenati
contro i Franzesi e contro coloro che avevano o che parevano aver
odore di essi, mostravansi obbedienti, al nome di Ferdinando. Erasi
in mezzo a questi tumulti creato in Arezzo un magistrato supremo, in
cui entravano preti, nobili e notabili; uomini nè sfrenati nè feroci,
ma non potevano impedire il furore del popolo; solo s'ingegnavano di
dargli regola e legge. Questa fu la mossa di Arezzo, alla quale, come
quasi un antiguardo, consuonava quella di Cortona. In grave pericolo
si mettevano, perchè le cose dei Franzesi erano ancora in essere,
e potevano risorgere, e Macdonald pensava a passare per la Toscana.
Pure Arezzo si salvò, Cortona pagò qualche fio; l'una e l'altra furono
cagione che il nome di Ferdinando risorgesse in Toscana innanzi che i
confederati vi arrivassero. Fu Cortona messa a dura prova da' Polacchi
venuti di Perugia; ma si difese sì valorosamente, che gli assalitori se
ne rimasero, avviandosi a Firenze. Venne poscia una colonna franzese
molto forte, ch'era l'antiguardo di Macdonald. Cortona si arrese
con patto che fossero salve le sostanze e le persone; il che fu loro
osservato.

Avrebbe desiderato Macdonald, che arrivava verso il finir di maggio a
Siena, sottomettere Arezzo, e gli faceva l'intimazione. Mandò contro
gli Aretini un bando terribile. Ma tutto fu indarno: gli Aretini
non si sbigottirono; il Franzese non si accinse a domarli, però che
volea camminar veloce all'impresa. Si mosse Albiano, terra vicina al
Genovesato, a sollevazione contro i Franzesi, non senza commettere i
soliti atti di crudeltà. Andarono i Franzesi, saccheggiarono ed arsero
la terra. Simili spaventi succedevano in altre parti della Toscana:
ogni cosa sconvolta e sanguinosa. Marciava spedito al suo destino
Macdonald, e perchè non avesse intoppi di ammutinamenti di truppe per
mancanza dei soldi, Bertolio, che come ambasciadore di Francia reggeva
a posta sua Roma, e Reinhard come commissario la Toscana, trovarono
molti estremi di raccor denaro.

Erano a questo tempo le genti dei confederati molto sparse. Una
grossa parte attendeva all'oppugnazione di Mantova: Klenau correva
il Ferrarese ed il Bolognese; il principe Hohenzollern il Modenese;
Otto stava sugli Apennini, massime a Pontremoli; Bellegarde, venuto
dai Grigioni, circondava d'assedio Alessandria e Cortona; Suwarow e
Keim alloggiavano in Piemonte per dar sesto al governo, per ridurre a
devozione alcune valli delle Alpi, e per osservare a che fine volesse
Moreau incamminare le sue operazioni, o verso Cuneo o verso la riviera
di Ponente. Guerra troppo spicciolata era questa, mentre Macdonald
se ne veniva intero da Napoli, e Moreau poteva tornare più grosso da
Francia.

Moreau, dato voce che avesse avuto rinforzi di Francia, e che
maggiori ne dovesse ricevere, essendo anche a quel tempo arrivata nel
Mediterraneo una flotta franzese proveniente da Brest con qualche
battaglione da sbarco, era andato a piantare i suoi alloggiamenti
presso a Savona per accennare contro Suwarow in Piemonte; poi,
speditamente marciando, si era condotto a Genova, verso la quale faceva
concorrere le sue genti. Queste mosse apertamente indicavano in Moreau
il pensiero di congiungersi con Macdonald, che già era arrivato in
Toscana; nè Suwarow le poteva ignorare. Ciò nondimeno, ei se ne stava
a consumarsi intorno alle fortezze ed alle montagne piemontesi. Ma
non istette lungo tempo ad accorgersi che se per valore ei non era
inferiore agli avversarii, gli avversarii lo avanzavano per arte.
Già Victor, camminando per la riviera di Levante, appariva vicino
a congiungersi con Macdonald, e già gli avvisamenti dei generali di
Francia si approssimavano al loro compimento. Macdonald s'incamminava
alle accordate fazioni, per le quali si prometteva l'assicurazione
d'Italia. L'ala sua dritta, condotta da Montrichard, marciava contro
Bologna; la sinistra si conduceva nella valle del Taro. Victor faceva
il suo alloggiamento in Fornuovo. Dambrowski s'incamminava a Reggio.
Macdonald si era calato col grosso dell'esercito per la valle del
Panaro, e inoltrato sino al casino Brunetti a piccola distanza do
Modena. Moreau dal suo lato si era ingrossato sulla Bocchetta col
pensiero di correre contro Cortona ed Alessandria. Già aveva mandato,
per dar la mano più verso il piano e più da vicino a Macdonald, il
generale Lapoype con una schiera di Liguri a Bobbio.

Queste mosse dei capitani della repubblica fecero accorti i
generali de' due imperi ch'era loro mestiero di rannodarsi con molta
prestezza, a tale strettezza essendo condotte le cose, che un giorno
solo d'indugio poteva aprir l'occasione di una totale vittoria ai
Franzesi. Per la qual cosa Kray, che stringeva Mantova, convertita
la oppugnazione in assedio, andava a porsi con dieci mila soldati
a Borgoforte sulla riva del Po, rompendo tutti i ponti. Un grosso
di queste genti passarono anche il Po per fare spalla a Klenau ed a
Hohenzollern, ch'erano in pericolo d'essere pressati da Macdonald. Il
principale sforzo del generale franzese accennava contro Hohenzollern;
però Klenau se gli accostava sulla destra. Per tal modo Montrichard
colla destra dei Franzesi andava a ferire Klenau, il grosso
Hohenzollern, Victor con la sinistra Otto, e tutto il pondo della
guerra si riduceva nei ducati di Modena e di Parma. Ma i raccontati
rimedii usati dagli alleati non erano bastanti per distornare la
tempesta, perchè Macdonald solo era più forte di Klenau, Hohenzollern
ed Otto uniti insieme; Moreau assai più di Bellegarde.

Adunque l'importanza dell'impresa era posta nell'esercito proprio
di Suwarow, che insisteva in Piemonte. Se lo vide il generalissimo
di Paolo, e si mise senza indugio a correre con prestissimi passi a
Piacenza, sperando di poter combattere Macdonald prima che si fosse
congiunto con Moreau, e di arrivare a tempo perchè il Franzese non
rompesse del tutto le schiere unite dei tre generali austriaci. Intanto
fortemente già si combatteva sulle rive del Panaro. Il giorno 10 giugno
succedeva un grosso affronto tra i soldati armati alla leggiera delle
due parti, ed i Franzesi furono costretti a ritirarsi con grave perdita
verso le montagne. Si combattè il giorno seguente con uguale ardore da
ambe le parti, e la terra di Sassuolo rimase in poter dei Tedeschi.
Non erano questi moti di molta importanza, e dimostravano piuttosto
un ardore inestimabile di combattere in ambe le parti che un evento
terminativo di battaglie. Ma il 12 giugno fece Macdonald un motivo
assai più grosso per isbrigarsi da quei corpi nemici, che, sebbene
meno grossi de' suoi, il molestavano e gl'impedivano il passo a' suoi
disegni ulteriori. Ordiva per tal modo la forma della fazione che
Hohenzollern ne venisse non solamente rotto, ma ancora impossibilitato
al ritirarsi.

Fecero egregiamente i Franzesi l'opera del loro perito ed audace
capitano. Fu la zuffa sostenuta con grandissimo valore dai Franzesi e
dai Tedeschi, e durò molte ore; i cavalli massimamente andarono alle
prese parecchie volte, e sempre se ne spiccarono laceri e sanguinosi.
Le fanterie vennero replicatamente alla pruova delle baionette. La
sinistra ala dei repubblicani riusciva nell'intento, perchè, cacciati
i Tedeschi ed occupata la strada che dà a Reggio, s'intrometteva
fra Hohenzollern e Otto. La mezza schiera medesimamente del generale
tedesco, dove egli medesimo combatteva animando i suoi, fu obbligata a
piegare e lasciare, fuggendo, Modena in potestà del vincitore. Sarebbe
stato tutto questo corpo austriaco, secondo il disegno ordito dal
generale franzese, circondato o preso se Montrichard avesse vinto sulla
destra come Macdonald aveva sulla mezza e sulla sinistra. Ma Klenau,
non aspettando che il nemico venisse a lui, era uscito a combattere,
ed aveva rotto i repubblicani. La resistenza di Klenau fu la salute
di Hohenzollern; perchè questi, trovate le strade aperte, si ritirava
alla Mirandola; poi, non credendosi sicuro sulla riva sinistra del Po,
venuto a San Benedetto e quivi lasciato un piccolo presidio, varcava
sopra un ponte di barche a San-Nicolò per andarsene ad aspettare
sulla sinistra quello che i fati portassero. Klenau, vittorioso,
poi vinto per le nuove genti mandate da Macdonald contro di lui, si
condusse celeremente alle sue prime stanze di Cento; poscia vieppiù
dilungandosi, andò a posarsi a Vigarano della Mainerba, sito poco
distante da Ferrara. Già Ferrara era piena di spavento, e Klenau vi
faceva provvisioni d'armi e di munizioni, come se il nemico fosse fra
breve per arrivare.

Perdettero gli Austriaci in tutte le raccontate fazioni quindici
centinaia di prigionieri è forse pari numero, tra morti e feriti.
Dei Franzesi mancarono, fra morti e feriti, circa un migliaio; pochi
vennero in poter de' vinti. Macdonald fu ferito non da Tedeschi
nè nella mischia, ma dopo la vittoria da' Franzesi del reggimento
Bussy che militava sotto le insegne austriache. Cinquanta di questi
vollero aprirsi il varco con le armi in mano a traverso i nemici per
raggiungere i compagni; e riuscirono, ridotti da cinquanta a sette.

Era la sorte d'Italia in pendente e doveva fra breve giudicarsi.
Marciava celeremente Macdonald per unirsi a Moreau; Moreau mandava,
come già fu detto, una squadra di Liguri sotto il governo di Lapoype
a Bobbio, perchè servisse di scala alla congiunzione. Egl'intanto si
apparecchiava a sboccare con tutto il suo esercito dalla Bocchetta
per andar all'incontro di Macdonald. Suwarow marciava a gran passi
da Torino per trovare o Moreau o Macdonald innanzi che fra di loro si
fossero congiunti.

Erasi Macdonald, dopo i fatti d'armi combattuti contro Hohenzollern,
condotto in Piacenza, nella quale era entrato il dì 15 di giugno.
Quindi gli si era accostato Victor, che, mandato da Moreau ad
ingrossare l'esercito del compagno, era arrivato al suo destino.
Macdonald, volendo prevenire il nemico e romperlo prima che fosse
fatto più grosso, nè forse sapendo che Suwarow già fosse arrivato con
l'esercito sul campo, incominciava la guerra. Trovavasi il generale
tedesco Otto, come antiguardo, alloggiato fra la Trebbia ed il Tidone.
In questo antiguardo urtando Macdonald, lo sforzava a ritirarsi, a
passar il Tidone ed a correre fino a Castel San Giovanni, inseguendolo
passo passo i cavalleggieri della repubblica. Ma Otto, indietreggiando,
aveva fatto abilità alle prime genti di Suwarow d'arrivare correndo
in suo soccorso; imperciocchè primamente Melas, udito il pericolo
di Otto, aveva celeremente spinto avanti la schiera di Froelich,
che sostenne la impressione dei Franzesi; poscia sopraggiunse
opportunamente la vanguardia russa, e tutte queste genti insieme
unite fecero un tale sforzo che i repubblicani, quantunque con molta
costanza contrastassero, furono rincacciati sulla destra del Tidone.
Sopraggiunse la notte: cessavasi per poche ore dagli sdegni e dalle
ferite. Erano i due eserciti separati dal torrente Tidone.

Avevano i due forti capitani della repubblica e dell'impero preparato,
durante la notte, i soldati loro alla battaglia: erano le due parti
ostinate alla vittoria o alla morte. Comandava Suwarow a' suoi
che venissero in sul primo scontrarsi all'arma bianca, non dessero
quartiere a nissuno e scannassero gridando _urrà, urrà_. Ma nel fatto i
soldati mostrarono maggiore umanità del loro generale. Era l'esercito
repubblicano schierato sulla sinistra della Trebbia, più vicino a
questo fiume che al Tidone. Dalla parte sua Suwarow aveva ordinato
l'esercito per guisa che fosse diviso in quattro parti. Passato il
giorno 18 di giugno il Tidone a guazzo, venivano avanti gli alleati
ad affrontare i repubblicani, che stavano preparati a ricevere l'urto
loro. Avevano i primi fatto pensiero di urtare principalmente la
sinistra del nemico; Bagrazione guidava la vanguardia; ma, essendo
la campagna piena di fossi e di siepi, non arrivava se non tardi al
cimento. I Franzesi, vedutolo a venire, impazienti di aspettarlo, si
scagliarono furiosamente contro di lui. L'impeto loro fu tale che
già i soldati del principe si crollavano e sarebbero anche andati
in rotta s'ei non fosse stato presto a soccorrerli, ordinando una
fortissima carica di cavalleria. Ne seguitò che non solo la fortuna
della battaglia si ristorò dal canto degli alleati, ma ancora i
Franzesi erano rincacciati fino agli alloggiamenti loro. Il quale
accidente veduto da Macdonald, mandava alcuni reggimenti di Victor che
frenarono Bagrazione, e facevano di nuovo piegare la fortuna in loro
favore. In questo punto Rosemberg muoveva Schweicuschi in soccorso di
Bagrazione, e per l'impeto di tante genti si attaccava in questa parte
un'asprissima battaglia che durò molte ore. Al tempo stesso Forster con
la sua vanguardia, composta massimamente di Cosacchi e di uno squadrone
austriaco, si attaccava con la vanguardia repubblicana, e, dopo un
ostinato conflitto, la sforzava a piegare. Sopravvenne il colonnello
Lawarow con alcune compagnie, ed urtando a forza la vanguardia
franzese che già si ritirava, la ruppe. L'impeto delle genti rotte, che
disordinate urtarono nel centro dei repubblicani, lo scompigliarono,
sforzandolo a ritirarsi, acremente perseguitato, oltre la Trebbia.

Macdonald, che vedeva che in questo fatto andava la fama propria e la
fortuna della battaglia, rannodò i suoi di nuovo, facendo in questo
tutte le veci di capitano esperto, valoroso e forte. Indi, bene
ordinato e di nuovo confidente, marciava al riscatto della battaglia.
Ne sorse una mischia molto feroce: Forster era molto pressato, e
sarebbe eziandio stato vinto se Froelich, veduto il caso, non gli
avesse mandato nuove genti in soccorso. Questo avviso di Froelich
ristorò la pugna dalla parte degli alleati; la fortuna si pareggiava.
Sulla destra dei Franzesi, cioè verso il Po, si combatteva anche
egregiamente per la repubblica e per l'impero. Così durò lunga pezza
la battaglia, succedendo molto strazio e molte morti da ambe le
parti. Vinse finalmente la fortuna dei confederati, che prevalevano di
fanterie e di cavalleria. Fu rotto Dambrowski sulla sinistra, Macdonald
sul centro, Olivier sulla destra: tutti furono obbligati a cercar
ricovero, straziati dalle ferite e bruttati di sangue, sulla destra
della Trebbia. Era il campo di battaglia orrido e doloroso a vedersi:
in ogni parte uomini e cavalli morti o moribondi; in ogni parte gemiti
e spaventi; in ogni parte armi e munizioni rotte e sparse; gli arbusti
gocciavano, la Trebbia menava sangue. Sopraggiunse la notte, che
rinvolse nelle sue ombre la miseranda strage, gli sdegni ancor vivi
delle tre forti schiatte, e la cupidigia non ancora satolla d'umano
sangue.

Era intento di Suwarow d'ingaggiare il seguente giorno una nuova
battaglia, perchè voleva rompere del tutto quella testa di repubblicani
innanzi che Moreau gli romoreggiasse alla spalle. Pensava medesimamente
Macdonald, per la sua pertinacia insolita ad esser vinta od a piegarsi,
di assaltare alla nuova luce quel nemico che già per due volte aveva
tentato con tanto danno de' suoi e con sì poco frutto.

Intanto le sorti di Francia in Italia andarono in precipizio.
Risolutosi Macdonald a non aspettare di essere assaltato, ma ad
assaltare, muoveva alle 11 della mattina del 19 di giugno le sue genti
contro l'esercito imperiale. Era l'ordinanza dei due nemici la medesima
che ne' giorni precedenti. Con singolare intrepidezza passarono i
repubblicani la Trebbia, ancorchè fossero aspramente bersagliati dalle
artiglierie nemiche sì grosse che minute, principalmente da quelle
che ferivano a scaglia. Nissuno creda che maggior valore nelle più
aspre battaglie si sia mostrato mai di quello che in questa mostrarono
e Franzesi, e Polacchi, e Russi, ed Austriaci. Senza scendere ai
particolari è da notare che bene fu combattuta questa battaglia dalle
due ale dell'esercito franzese sul principio, male sulla fine; il
che fu cagione che se esse si ritirarono intiere sulla destra della
Trebbia, la mezza vi si ricoverò fuggendo disordinata e rotta.

Avevano i Franzesi passato il fiume, ed essendosi ordinati sulla
sponda sinistra assaltavano con l'antiguardo loro il nemico: ma
questi, bravamente resistendo, li rincacciava. Venuta la seconda fila
repubblicana in soccorso della prima, rinfrescava la battaglia, che fra
breve divenne orribile. Impazienti l'una parte e l'altra di combattere
di lontano, vennero tosto alle prese con le baionette: fu quest'urto
tanto micidiale sostenuto quindi e quinci con un valore inestimabile.
Quando pei cadenti, feriti o morti qualche spazio vuoto appariva nelle
file, i viventi vi si gettavano e facevano battaglia con le sciabole,
e quando non potevano con le sciabole, la facevano coi graffi, coi
morsi e coi cozzi. Non fu questa battaglia generale, ma miscuglio
di duelli fatti corpo a corpo, nè si vedeva chi avesse ad essere il
primo a ritirare il passo. Ma mentre la fortuna stava per tale modo
in pendente, ecco arrivare a corsa un reggimento di Tedeschi che
diede animo ai Russi, lo scemò ai Franzesi; caricando e smagliando la
cavalleria che fiancheggiava la schiera di Montrichard. Un reggimento
di fanti leggieri, preso spavento da questo accidente, cesse fuggendo
disordinatamente; la fuga e lo scompiglio invasero tutta la schiera, nè
Montrichard ebbe potestà di rannodarla, malgrado che se ne desse tanto
pensiero e molto vi si sforzasse. La rotta di Montrichard fu cagione
del doversi ritirare Victor; perchè Suwarow, accortosi della favorevole
occasione, che la fortuna ed il valore de' suoi gli avevano aperta,
si cacciava dentro ai luoghi abbandonati col suo corpo di riserbo,
ed assaliva il generale franzese per fianco. Pensò allora Victor al
ritirarsi sulla destra riva, e il fece ordinatamente, per quanto
quell'accidente improvviso il comportava. Così tutta la mezza dei
repubblicani, parte rotta intieramente, parte poco intera e fieramente
seguitata dalla cavalleria nemica, si era ritirata a salvamento oltre
quel fiume che con tanta speranza di vittoria aveva poche ore prima
passato.

Sopraggiunse la notte: era estrema la stanchezza dei combattenti;
fuvvi riposo, se non d'animi, almeno di corpi. Pensava Suwarow, tosto
che aggiornasse, di perseguitar il nemico, Macdonald di ritirarsi,
quantunque a ciò di mala voglia e costretto dal parere dei compagni
si risolvesse, perchè avrebbe desiderato di fare una quarta volta
esperienza della fortuna; tanto si era ostinato in questa faccenda
del combattere. Per la qual cosa, lasciato sulla sponda del fiume
alcune genti delle più spedite per occultare al nemico la sua partita,
s'incamminava celeremente col restante esercito, prima che la luce
illustrasse l'italiche contrade, alla volta di Parma. Dal canto suo
Suwarow, come prima vide sorgere l'aurora, passava il fiume per dar
l'assalto al nemico ne' suoi propri alloggiamenti. Nè avendolo trovato
ed accortosi della sua levata, si mise tosto a perseguitarlo, egli per
la strada vicina ai monti, Melas per la prossimana al Po. Giunsero i
Russi a Zema il retroguardo franzese governato da Victor e l'assalirono
con molto valore e con ugual valore fu loro risposto dai Franzesi,
cosa maravigliosa dopo gli infortuni recenti: la sola diciassettesima
dovè darsi prigioniera. Dall'altro lato i Tedeschi arrivarono addosso
ai Franzesi presso a Piacenza, e ne fecero molti prigionieri, massime
feriti, fra i quali notaronsi principalmente Rusca, Salm e Cambray.

Avrebbe voluto Suwarow seguitare più oltre i repubblicani; ma udiva
ad un tratto che Moreau, uscito dal suo sicuro nido di Genova,
era sboccato dalla Bocchetta, minacciava trarre a mal partito gli
assediatori di Tortona e di Alessandria. Deliberossi pertanto a
tornarsene indietro, dando carico a Otto, a Hohenzollern ed a Klenau
che perseguitando facessero a Macdonald tutto quel maggior male che
potessero.

Restava a Macdonald un'impresa difficile a compirsi; quest'era di
ritirarsi a salvamento in Toscana, per poter quindi per la riviera
di Levante condurre le sue genti all'unione di Genova con quelle di
Moreau. Ei ne venne, ciò nonostante, a capo con uguale e perizia e
felicità. Ordinava a Victor che salisse per la valle del Taro, e che,
varcati i sommi gioghi dello Apennino, calasse per quello della Magra
nel Genovesato. Egli poi con la sinistra, ora combattendo alle terga,
ora sul fianco sinistro, ed ora di fronte, e sempre animosamente e
felicemente più che da vinto si potesse sperare, se ne viaggiava alla
volta di Bologna per condursi di nuovo a Pistoia. Disperse le genti
leggieri di Hohenzollern e di Klenau, che gli volevano contrastare
il viaggio, passò per Reggio e per Rubiera, passò per Modena, che
pose a grossa taglia, mandò presidii a Bologna ed al forte Urbano:
poscia salendo s'internava nelle valle del Panaro ed arrivava al
suo alloggiamento di Pistoia. Poco stettero Bologna ed il forte ad
arrendersi ai confederati. Nè il generale franzese voleva pei disegni
avvenire e per le molte sollevazioni dei popoli fermarsi in Toscana.
Perlochè, chiamate a sè le guernigioni di Livorno e dell'isola
d'Elba, che avevano capitolato, e poste sulle navi per a Genova le
artiglierie e le bagaglie, si avviava per la strada di Lucca alla
volta dei territorii Liguri, e quivi conduceva a salvamento i suoi
stanchi soldati. Poi stanco egli stesso dalle fatiche e dalle ferite,
se n'andava a Parigi piuttosto in sembianza di vincitore che di vinto
per lo smisurato valore dimostrato. Con l'esercito di Macdonald si
ritirarono ancora le genti franzesi che tenevano Firenze; tutta la
Toscana tornava all'obbedienza di Ferdinando.

Il giorno medesimo, in cui Macdonald combatteva sulle rive del Tidone,
Moreau scendeva con circa venticinque mila soldati dalla Bocchetta,
e passando per Gavi e Novi, fatto anche sicuro dalla fortezza di
Serravalle, che si trovava in potere de' suoi, se ne giva all'impresa
di divertire i confederati dalle offese di Tortona, che già pericolava,
essendo stata aspramente bersagliata da bombe ai giorni precedenti.
Il giorno 18 assaltava gli Austriaci nel campo loro sotto Tortona,
e, quantunque si difendessero da uomini forti, tuttavia, prevalendo
i Franzesi in numero, furono costretti a cedere, e perdettero San
Giuliano, disordinati e rotti ritirandosi oltre la Bormida.

Questa, vittoria liberava Tortona dall'assedio, e fu fatto abilità
a Moreau di rinfrescarla di viveri e di munizioni. Scaramucciossi il
giorno 19 ed il 20 sulle rive della Bormida. Il 21, messosi Bellegarde
all'ordine, raccolte quante genti potè dal campo sotto Alessandria e
da altre terre vicine, facendo stima non piccola di questo moto, nè
volendo che Moreau si alloggiasse in quei luoghi, mandava Seckendorf
con un grosso antiguardo ad assaltar i repubblicani sulla destra del
fiume. Attaccossi Seckendorf con Grouchy a San Giuliano. Accorreva
Bellegarde, accorreva Moreau. Divenne allora molto aspro il conflitto:
da ambe le parti si facevano gli ultimi sforzi per uscirne con la
vittoria. Alfine Grouchy, serrandosi addosso con molto impeto agli
Austriaci, li rompeva e gli sforzava ad andarsene frettolosamente a
cercar ricovero sulla sponda sinistra della Bormida. Quivi Moreau ebbe
le novelle dei sinistri accidenti della Trebbia. Perlochè conoscendo
che per allora non restava speranza di far risorgere la fortuna, e che
la sola strada che gli rimanesse aperta per riparo del suo esercito
era quella di ritirarlo prestamente là donde era venuto, condottosi con
frettolosi passi per la strada di Novi e di Gavi a Genova, spartiva i
soldati nelle stanze di Voltri, Savona, Vado e Loano. Munì Genova con
un sufficiente presidio; la strada di sboccar di nuovo nelle pianure
tortonesi gli rimaneva libera pei forti di Gavi e di Serravalle.
Oltre a ciò aveva per maggior sicurezza ordinato un forte campo con
trincee tra la Bocchetta e Serravalle che aveva raccomandato alla fede
del marchese Colli, assunto al grado di generale ed a lui congiunto
d'amicizia. Le altre valli dei monti Apennini, per le quali si aprono
le strade delle piauure bagnate dalle acque del Po, furono anche dal
generale di Francia fortificate e munite con buoni presidii.

Tale fu la ruina ed il precipizio delle cose dei Franzesi in Italia
che non ancora trascorsi quattro mesi da quando la guerra aveva avuto
principio in questo anno, perdute sette battaglie campali e le fortezze
di Peschiera e di Pizzighettone, il castello di Milano, la cittadella
di Torino, perduta tutta l'Italia da Napoli fino al Piemonte, la
cadente loro fortuna altro sostegno più non aveva che i gioghi dei
monti liguri ed alcune fortezze. Conoscevano gli alleati che l'impero
d'Italia non si rimarrebbe in mano loro sicuro se non quando tutte
quelle fortezze conquistate avessero. Ma principale pensier loro era
quello dell'acquisto di Mantova e delle fortezze del Piemonte. Per
la qual cosa non così Moreau si era riparato nel suo sicuro seggio
di Genova, che i confederati andarono col campo alla cittadella
d'Alessandria con potentissimi apparecchi, sperando per l'efficacia del
batterla, ch'ella avesse presto, quantunque molto fosse forte per arte,
ad essere sforzata alla dedizione.

Era dentro Alessandria un presidio di circa tre mila soldati sottomessi
al generale Gardanne, soldato che, pel suo valore in queste guerre
italiche, era tostamente salito dai minori gradi della milizia ai
maggiori. Risolutosi egli a difendersi fino agli estremi, animava
continuamente il presidio con la voce e con la mano, sopravvedeva
ogni cosa, ordinava con somma diligenza quanto fosse necessario alla
difesa. Dal canto suo Bellegarde niuna diligenza o fatica risparmiava
per venire a capo dell'espugnazione. Aveva con sè venti mila soldati
tra Austriaci e Russi, più di centotrenta pezzi d'artiglierie assai
grosse, con obici e mortai in giusta proporzione. Si convenne da
ambe le parti che gli alleati non molesterebbero la fortezza dal lato
della città e che ella la città in nissun modo offenderebbe. Scavata
ed alzata la prima trincea di circonvallazione, fece Bellegarde la
chiamata a Gardanne. Rispose, essergli stato comandato che difendesse
la fortezza e volerla difendere. La folgoravano con tiri spessissimi
centotrentanove cannoni, quarantacinque obici, cinquantaquattro mortai.
Nè se ne stava Gardanne ozioso, fulminando ancor esso con tutto il
pondo delle sue artiglierie. Ma la tempesta scagliata dagli alleati fu
sì grande che in poco d'ora, o per proprio colpo o per riverberazione
ruppe la maggior parte dei letti delle artiglierie, sboccò le restanti,
uccise non pochi cannonieri, arse una caserma ed una conserva di
polvere con orribile fracasso: tacque per un tempo o debolmente trasse
la piazza. Usarono gli assedianti l'accidente, e si spinsero avanti coi
lavori; tentava Gardanne di impedirgli. Ciò non ostante tanto fecero
che si condussero fin sotto ai bastioni. Sorgevano i segni della vicina
dedizione. Già erano alzate le batterie per battere in breccia, già le
scale pronte, già le artiglierie della piazza più non rispondevano. Di
tanti, quattro cannoni soli si mantenevano in grado di trarre; le armi
missili, oggimai consumate tutte, mancavano; un assalto al nascente
giorno si preparava; una presa di soldati fortissimi trascelti a questo
mortale ufficio già stavano pronti ad eseguirlo: le ruine stesse delle
mura facilitavano la salita. Il resistere più lungo tempo sarebbe
stato per Gardanne, non che temerità verso la fortuna, crudeltà verso
i soldati; però inclinando l'animo alla concordia, chiese ed ottenne
patti molto onorevoli il dì 21 luglio. Uscisse il presidio con tutti i
segni d'onore che danno i vincitori ai vinti; si conducesse negli stati
ereditarii e vi stesse fino agli scambi; avesse Gardanne facoltà di
tornarsene in Francia sotto fede di non militare contro i confederati
sino allo scambio. Fu celebrata la conquista d'Alessandria con ogni
maniera di pubblica dimostrazione.

Non si era ancora acquetata l'allegrezza concetta per la conquista
d'Alessandria dai collegati, ch'ebbero occasione d'un'altra maggiore
prosperità per l'espugnazione di Mantova. Avea Buonaparte due anni
innanzi conquistato questa fortezza piuttosto col consumarla per
carestia di viveri che con lo sforzarla per oppugnazione. La domò
Kray piuttosto per forza che per assedio, perciocchè si arresero i
repubblicani alle armi imperiali, quando ancora avevano nelle conserve
loro di che cibarsi ancora per lungo tempo; ma le mura sfasciate ed il
cinto della piazza rotto li costrinsero in breve a quella risoluzione
cui il fare ed il non fare tanto importava a loro ed agli alleati.
Si era Kray, già fin quando Suwarow era arrivato al supremo governo
dell'esercito, messo intorno a Mantova, ma non si era fatto molto
avanti con le trincee, perchè non aveva forze sufficienti a circuire
ed a sforzare una piazza di tanta vastità e difesa da una guernigione
di dieci mila soldati. Ma quando, dopo le rotte di Macdonald, Suwarow
fatto più sicuro ebbe mandato novelle genti all'assedio per forma
che l'esercito di Kray ascendeva, se non passava, il novero di
quaranta mila soldati, il generale tedesco, nel quale non si poteva
desiderare nè maggior animo nè miglior arte, si accinse a voler fare
quello che fino allora avea solamente accennato. Trovossi egli in
grado di fulminare la piazza con più di seicento bocche da fuoco.
Nè stette lungo tempo in dubbio circa la elezione del dove far la
breccia per aprirsi l'adito dentro la piazza, se il nemico, ostinato
oltre il dovere resistesse, perchè la parte di porta Pradella gli
si appresentò tostamente come la più debole. Ma a volere che gli
approcci si potessero fare più facilmente, si rendeva necessario per
gli oppugnatori l'impadronirsi del torrione e del mulino di Ceresa.
Quindi, senza starsene ad indugiare, alzarono le serrature del Paiolo;
il che fu cagione che le acque del canale di questo nome, trovando uno
scolo più facile, si abbassarono nelle parti superiori, e fu fatto
abilità a Kray di spingersi avanti con le trincee contro la piazza.
Spesseggiavano i Russi con tiri contro la cittadella, gli Austriaci
contro San Giorgio. Ma la principale tempesta veniva da Osteria Alta,
dai siti vicini alla strada per a Montanara, da Belfiore, da Casa
Rossa, da Paiolo, da Valle e da Spanavera; quivi il generalissimo
d'Austria avendo piantato le più grosse e più numerose artiglierie, per
battere o per diritto o per fianco l'opera a corno di porta Pradella,
i bastioni della porta medesima, il bastione di Sant'Alessio, con le
fortificazioni dell'isola del Te e del Migliaretto.

Mentre con tanto fracasso e con sì viva tempesta fulminava Kray la
parte più debole della piazza, tempesta alla quale gagliardamente
anche rispondevano gli assediati, intendeva ad approssimarsi con
le trincee all'opera a corno di porta Pradella. Un numero grande di
guastatori, di zappatori e di palaiuoli insistevano a scavare e ad
ammontar terra. In breve tempo compirono, quantunque gli assediati
facessero ogni sforzo per isturbarli, la prima parallela: poi con gli
approcci o con le traverse avvicinandosi, piantarono sei batterie.
Già i confederati erano arrivati a compire la seconda parallela, e da
questa con maggior furore scagliavano nella piazza il giorno palle, la
notte bombe: era infinito il terrore della città. Molti assalti e molti
vantaggi diedero indi abilità al corpo principale degli assedianti
d'avvicinarsi del tutto all'opera a corno, dove sull'orlo stesso dello
spalto gli Austriaci scavarono ed alzarono la loro terza circondazione.
Non potendo più resistere, i Franzesi se ne ritirarono. Accortisi
gl'imperiali dell'accidente, entrarono, vi si alloggiarono e voltando
dal bastione acquistato, come da luogo più vicino, l'artiglierie
contro la porta Pradella, se alcuna cosa ancora vi era rimasta
intera, questa disfecero e rovinarono: già battevano in breccia. La
tempesta continuava da ogni lato: più di dieci mila o palle o bombe si
lanciavano ogni giorno contro la straziata Mantova; non si era mai per
lo innanzi veduta una oppugnazione tanto vigorosa e tanto violenta.

Tuttavia la guernigione, benchè assottigliata dalle stragi, indebolita
dalle malattie, consunta dalle fatiche, ridotta a poco più di quattro
mila abili alla battaglia, certo a gran pezza non più pari a tanta
bisogna, tuttavia non pensava ancora a chiedere i patti e perseverava
nelle difese, quando di tanto strazio increbbe a Kray. Mandava dentro
il colonnello Orlandini, offerendo patti d'accordo onorevoli, e
certificando a Latour-Foissac, comandante della piazza, la sconfitta
delle genti franzesi sulla Trebbia e l'essersi Moreau del tutto
ritirato per ultimo ricovero oltre i gioghi dell'Apennino. Adunò
Latour-Foissac una dieta militare: tutti convennero in questo, che
fosse necessità pel presidio di dare la piazza. Fu fermato l'accordo
a' 28 di luglio; i capitoli di maggior momento furono i seguenti:
onoratissimamente ad uso di guerra uscisse la guernigione; avessero i
gregari facoltà di tornarsene in Francia sotto fede sino agli scambi:
il comandante e gli ufficiali, soggiornato tre mesi negli Stati
ereditarii, avessero facoltà di tornare nei paesi loro; i Cisalpini,
Svizzeri, Piemontesi e Polacchi avessero come Franzesi a stimarsi, e
come tali fossero trattati; avessero i Tedeschi cura degli ammalati e
dei feriti; dessersi tre carri coperti al generale, due agli ufficiali;
perdonerebbesi la vita ai disertori austriaci.

Entrarono i confederati il dì 29 nella lacerata Mantova, e per questa
espugnazione fu dimostrato al mondo che per viva forza si può espugnare
in pochi giorni. Trovarono più di seicento bocche da fuoco, altre armi
in abbondanza, magazzini ancor pieni di vettovaglia. Successe tosto
alla dedizione di Mantova quella di Serravalle.

Le rotte d'Italia e la presa di tante fortezze, massimamente quella di
Mantova, avevano maravigliosamente sollevato gli animi in Francia, nè
potevano restar capaci, siccome quelli che ancora avevano la memoria
fresca di tante vittorie, del come soldati sì sovente ed in tanti
segnalati fatti superati dai repubblicani fossero adesso e tutto ad un
tratto divenuti sì forti, che avessero a venir a buon fine di qualunque
fazione che tentassero contro Francia. Chi accusava l'oro corrompitore,
chi i tradimenti per opinione. Si accusava Scherer, si accusava
Latour-Foissac, si accusava Fiorella, si accusava Becaud, comandante
che era stato del castello di Milano; nè trovava animi meglio inclinati
verso di lui il valoroso Gardanne. Se non si dava carico di tradimento
a Moreau, gli si dava quello dell'amministrare la guerra non con quella
vigorìa che era richiesta alla repubblica. Gli ambiziosi accagionavano
il direttorio delle calamità presenti e facevano ogni opera per
espugnarlo, e insomma tanto si travagliarono con le parole e con gli
scritti, e col subornare e col sobillare, che tre quinqueviri furono
cambiati, surrogati nei seggi loro tre altri. Stettero contenti i
zelatori alcuni giorni, forse un mese; poi ricominciarono a gridare
contro i surrogati più fortemente di prima. Ma intanto, su quei primi
calori dei nuovi quinqueviri sorsero nuove speranze; chè applicarono
l'animo a riscaldare l'affezione della repubblica, l'amore del nome
franzese, la ricordanza dei gloriosi fatti. Per tal modo diveniva, ogni
giorno più la materia ben disposta; delle quali favorevoli inclinazioni
valendosi, mandavano alle frontiere in Isvizzera, in Savoia, nel
Delfinato, nelle Alpi Marittime, nella Liguria, quante genti regolari
poteano risparmiare dei presidii interni. Poi per procurar nuove radici
alle genti veterane, ordinavano nuove leve in ogni parte. I soldati
nuovi marciavano volontieri, perchè le sconfitte recenti e le vittorie
passate, con la necessità di mantener illibato il nome franzese,
con accesi colori si rappresentavano dalle gazzette, dagli oratori,
dai magistrati: poi le bellezze d'Italia maestrevolmente anche si
dipingevano.

Questi tentativi su quegli animi pronti efficacemente operavano, e già
Francia si moveva confidente contro la lega europea. Pensiero era di
assaltare al tempo stesso e Svizzera e Piemonte e Italia. A tanta mole
erano richiesti capitani valorosi e di gran fama. Già nella Svizzera
Massena animosamente combatteva contro l'arciduca Carlo. Restava che
agli eserciti che dovevano far impeto contro il Piemonte e contro
l'Italia venissero preposti generali di nome, accetti ai soldati,
accetti agl'Italiani. Championnet e Joubert più di tutti maggiormente
lodavansi di queste condizioni. Furono eletti.

De' due eserciti che il direttorio aveva intenzione di mandare contro
gli alleati in Italia, il primo, governato da Championnet, aveva
carico di minacciar il Piemonte superiore e preservare le fortezze
di Cuneo e Fenestrelle: il secondo più grosso doveva accennare,
per le strade massimamente del Cairo e della Bocchetta, verso il
Piemonte inferiore, con intento di liberar Tortona dall'assedio e di
combattere su quel fianco gli alleati, donde poteva, se la fortuna si
mostrasse favorevole, facilmente aprirsi il cammino sino a Milano. Era
intenzione che questi due eserciti in uno e medesimo tempo calassero
verso i luoghi a cui erano per volgersi; ma Championnet non aveva
ancora messo insieme tante genti che fossero abbastanza a così grave
bisogno, e quelle che aveva raccolto, la maggior parte soldati nuovi
essendo, ignoravano l'arte ed il romore della guerra. Perlochè non
poteva sperare di essere in grado di dar principio così presto, come
sarebbe stato necessario, alle armi. Da un'altra parte Joubert aveva
l'esercito pronto e capace di combattere; erano in lui i forti veterani
di Moreau e di Macdonald, con altri reggimenti usi alla guerra della
Vandea, stati trasportati dalla flotta di Brest nel Mediterraneo.
Arrivava questo esercito a quaranta mila soldati, agguerriti uomini ed
infiammatissimi nel voler vincere. Nè mancavano i sussidii necessarii,
perchè abbondavano di artiglierie e munizioni; solo desideravano un
maggior nervo di cavalleria. Temevano che Tortona, che dopo la perdita
di Alessandria era il solo forte che potesse facilitare la strada ai
repubblicani per Milano, non venisse in poter dei confederati, che con
forti assalti la straziavano. Per la qual cosa, sebbene Championnet
non potesse ancora concorrere alla fazione, Joubert si era deliberato
a mostrarsi alle falde degli Apennini verso Tortona per combattere in
battaglia campale il nemico, e, se ciò non gli venisse fatto, sperava
almeno che la fortuna gli aprirebbe qualche occasione per soccorrere
Tortona. Già era arrivato al campo. Trovatosi con Moreau, che se ne
dovea partire per andare al governo della guerra del Reno: «Generale,
gli disse, io vengo generalissimo di questo esercito, ed ecco che il
primo uso ch'io voglio fare della mia autorità, quest'è di comandarvi
che restiate con noi, e che governiate le genti come supremo duce voi
medesimo: ciò mi fia caro oltremodo. Sarommi il primo ad obbedirvi
e ad adoprarmi qual vostro primo aiutante.» Tant'era la venerazione
che il giovane generale aveva per l'anziano, e tanta la temperanza
del suo animo. Ciò fu cagione che Moreau restasse ed aiutasse col suo
consiglio il compagno negli accidenti sì ponderosi che si preparavano.
Le genti venute da Napoli con Macdonald e l'antico esercito di Moreau
si calavano la maggior parte per la Bocchetta; le venute frescamente da
Francia s'incamminavano per Dego e Spigno verso Aqui. Bellegarde fece
qualche resistenza per quelle erte rupi; ma si ritirò, prima dai più
alti luoghi per forza, poi dai più bassi per ordine di Suwarow, che,
prevalendo di cavalleria, voleva aspettare i repubblicani al piano.
Entrarono questi in Aqui: il mandarono a sacco per vendetta di compagni
uccisi dai sollevati, quando Victor si ritirava ai monti liguri.

Quando l'ala sinistra dei Franzesi, di cui abbiam favellato, e che
era governata dal generale Perignon, col quale militavano Grouchy,
Lemoine e Colli, fu arrivata a lato e sulla fronte della mezzana e
della destra, ordinava Joubert il suo esercito ed il disponeva agli
ulteriori disegni. La mezzana obbediva a Joubert; la destra era
commessa al valore del generale Saint Cyr, che aveva con sè Vatrin,
Laboissiere e Dambrowski. Questa ultima scesa dalla Bocchetta arrivava
per Voltaggio e Gavi sino a Novi, donde cacciava gli Austriaci. Faceva
intanto una fazione contro Serravalle per mezzo del generale polacco,
il quale occupò la città, ma non potè entrar nel forte. La mezzana
alloggiava sulla strada che da Genova porta ad Alessandria per Ovada
nella valle d'Orba, spingendosi oltre insino a Capriata. La sinistra
aveva le sue stanze verso Basalazzo. Così l'oste di Francia, nella
quale si noveravano circa quaranta mila soldati, si distendeva dalla
Bormida sin oltre alla Scrivia, signoreggiando le tre valli della
Bormida, dell'Erro ed Orba, del Lemmo e Scrivia. Nè contento Joubert
alla fortezza naturale di quei luoghi erti e montuosi, con trincee, con
fossi e con batterie di cannoni, piantate nei siti più acconci alle
difese, gli affortificava. Per tal modo i Franzesi sovrastavano dai
monti alla sottoposta pianura.

Aveva dalla parte sua Suwarow ordinato le genti per forma che l'ala sua
dritta, composta massimamente di quei Tedeschi che Kray aveva condotto
dal campo di Mantova dopo la resa della piazza, e da lui medesimo
governata, si distendeva nei campi vicini a Fresonara: la mezzana,
a cui soprantendeva il generalissimo col generale Derfelden, e quasi
tutta consisteva in soldati russi, alloggiava in Pozzuolo all'incontro
di Novi. Finalmente la sinistra, in cui era il nervo dei granatieri
austriaci e si trovava retta da Melas, stanziava a Rivalta, col fine
di fare che i repubblicani non gli potessero impedire la ricuperazione
di Tortona, e di combattere d'accordo coi compagni, se d'uopo ne
fosse: erano nel novero di circa settanta mila soldati. Apparivano
l'uno all'altro molto vicini i due eserciti nemici, nè la battaglia
poteva differirsi, battaglia ardentemente desiderata da Joubert sì per
ardimento proprio, sì per comandamento del direttorio, che volea che
non si stesse ad indugiare, per far inclinar del tutto le sorti dall'un
de' lati in quell'aspra guerra. Ma in una dieta convocata a posta
pullulò grande varietà di opinioni. Una parte, alla testa dei quali era
il generalissimo, voleano dar dentro immediatamente e menare le mani;
l'altra conchiudeva i suoi ragionamenti sostenendo che miglior partito
era l'aspettar il nemico ne' proprii alloggiamenti, che l'andarlo ad
assaltare ne' suoi. Prevalse nel consiglio questa sentenza: raffrenava
Joubert i suoi spiriti, e si riduceva, quantunque mal volentieri, a
questa deliberazione, di aspettare che il nemico venisse a tentarlo
negli apprestati alloggiamenti.

Variavano anche molto gli animi fra gli alleati intorno a quello che
loro convenisse di fare. I generali austriaci, non soliti a commettersi
all'arbitrio della fortuna, dissuadevano la battaglia. Ma le loro buone
ragioni non furono capaci a Suwarow, che si consigliava piuttosto con
l'ardire che con la prudenza, e che per le vittorie dell'Adda e della
Trebbia era venuto in grandissima confidenza di sè medesimo: opinava
perciò diversamente, nè poteva pazientemente udire che si fuggisse il
combattere, e che il vincere fosse posto in dubbio e differito. Molte
ragioni adduceva egli e conchiudeva doversi per onore, per debito, per
sicurezza, dar dentro ed affrontare senza indugio l'inimico; perchè il
tempo dava forza ai repubblicani, e qualche improvvisa fazione avrebbe
soccorso Tortona.

A tali parole di quel vecchio risolato, vittorioso, nudrito nelle armi
e negli esercizii della guerra, s'acquetarono i generali austriaci,
e fu deliberata quella battaglia, in cui si contenevano tutte le
sorti future dell'Italia. Appena era sorto il giorno 15 agosto,
che i confederati givano all'assalto. Kray fu il primo a ingaggiar
la battaglia con l'ala dei Franzesi, in cui il generalissimo della
repubblica si trovava. Fu l'urto gagliardo, nè meno gagliardo il
riurto. Molto sangue già si era fatto di lontano in questo primo
congresso fra le truppe leggieri, molto sangue si faceva per conflitto
delle genti più grosse; piegavano i soldati corridori di Francia.
Joubert sotto speranza di rimetterli, si spingeva innanzi con le
fanterie, gridando con la voce ed accennando col braccio, _avanti_,
_avanti_. Quivi una palla mandata, dicesi, da un esperto cacciatore
tirolese venne a por fine con una onorevole morte ad una delle vite
più onorevoli che sieno state mai, ed a troncare le speranze degli
amatori dell'indipendenza italiana. Fu percosso Joubert in mezzo del
cuore, e senza poter mettere altra voce se ne morì. Recavasi Moreau
in mano il governo dell'esercito. Non isbigottiva il funesto caso i
Franzesi, che già si trovavano sul fervor della battaglia; che anzi,
aggiungendo a valore furore e desiderio di vendetta, fecero pruove
stupende e per sempre memorabili. Sforzavasi Kray, con cui militava
anche Bellegarde, parecchie volte affrontando valorosissimamente il
nemico, di sloggiarlo; ma sempre fu con perdita gravissima di morti
e di feriti rincacciato: pareva disperata da questa parte la fortuna
degli alleati. Nè con migliore augurio combattevano sul mezzo.
Aveva Suwarow mandato Bagrazione ad attaccar di fronte i Franzesi
nel loro alloggiamento di Novi; ma si sforzò invano il principe,
costretto anzi a tornarsene indietro sanguinoso e vinto. Mandava
Suwarow, che pure la voleva spuntare, invece del generale respinto, ad
assaltar una seconda volta Novi con una più grossa schiera Derfelden
accompagnato da Miloradowic; ma quantunque l'uno e l'altro virilmente
si adoperassero, non poterono venir a capo dell'impresa loro, e furono,
come il primo ferocissimamente ributtati, tanta era la fortezza degli
alloggiamenti franzesi, e tanto il valore che i difensori mostrarono
in questa ostinata battaglia. Al primo sparare delle artiglierie e
dell'archibuseria di Francia, andarono a terra o morti o rotti più di
mille soldati di Russia.

Ma Suwarow non era uomo da sgomentarsi per quell'atroce accidente, ed
anche pensava ch'egli solo era stato pertinace a voler la battaglia.
Si faceva egli medesimo innanzi da Rivalta con tutta la squadra di
riscossa, avventandosi contro il conteso Novi. S'attaccò di nuovo la
battaglia tra Russi e Franzesi più furiosa di prima: il coraggio era
uguale da ambe le parti, la strage maggiore da quella dei Russi, perchè
i Franzesi combattevano da luoghi più sicuri, i Russi all'aperto.
Tuttavia si spinsero avanti con tanto singolare intrepidezza,
che, puntando con le baionette, costrinsero a piegare una legione
repubblicana. Ma accorsi i compagni, e rifatto, siccome quelli che
erano esperti ed usi a simili casi, tostamente il pieno, rincacciarono
i Russi, che da questa animosa fazione non ritrassero altro che
ferite e morti. Animava Suwarow anche con pericolo della vita, in
sì fitto bersaglio, i soldati, e nuovamente mandava alla carica gli
squadroni ordinati e stabiliti. Ma non per questo cedevano i Franzesi;
che anzi tanto più fieramente si difendevano quanto più fieramente
erano assaltati. Melas intanto, con la sua sinistra schiera spintosi
avanti, era venuto alle mani col nemico. Ma i repubblicani pur sempre
prevalevano, nè muro tanto fu saldo mai in niuna battaglia, quanto
i petti dei Franzesi in questa. Il generalissimo di Russia dal canto
suo, quanto più duro incontro trovava, tanto più si ostinava a volerlo
superare. Ordinava a Kray, a Bellegarde, a Derfelden, a Rosemberg, a
Bagrazione, a Miloradowich, a Melas, raunassero le schiere, e sì di
nuovo a fronti basse percuotessero l'inimico. Il percossero; furono
con orribile macello ributtati e voltati in fuga manifesta. Già da più
di otto ore si combatteva; la fronte dell'esercito di Francia tuttavia
si conservava intera; gl'imperiali, se non rotti del tutto, certo
disordinati ed in volta. Già si vedeva che la forza, la quale sola
aveva voluto usare Suwarow, non aveva bastato a smuovere i repubblicani
dai loro alloggiamenti. I confederati cominciavano a starne con molta
dubitazione; già i Russi, fuggendo da quella terribile tempesta,
traevano con sè, quantunque quel vecchio robusto ed ostinato fieramente
contrastasse, il generalissimo loro.

I generali austriaci intanto, dei quali questo accidente perturbava
molto gli animi, e per cui quel conflitto era di estrema importanza
pei dominii del loro signore, si studiavano a trovare qualche modo,
poichè dove la forza non vale, vi abbisogna l'arte onde rinfrancare la
fortuna afflitta. Ebbe in questo pericoloso punto Melas un fortunato
pensiero che comprovò ch'egli era non solo d'animo invitto a non
lasciarsi sgomentare in mezzo a tanto fracasso ed a tante morti, ma
ancora di mente serena e di perfetto giudizio. Secondollo volentieri
Suwarow, sperando che per arte altrui si salverebbe quello che o per
eccessiva imprudenza o per eccessivo coraggio aveva egli perduto.
Fece Melas avviso che non fosse impossibile di circuire l'ala destra
dei repubblicani, e di riuscir loro alle spalle, al che dava facilità
la possessione di Serravalle. Per la qual cosa, volendo mandare ad
effetto questo intento, lasciata solamente la prima fronte de' suoi
a combattere contro i repubblicani, tirò indietro le altre squadre,
alle quali ne aggiunse alcune altre testè arrivate da Rivalta. Fatto
un grosso di tutte queste genti, erano otto battaglioni di granatieri,
sei battaglioni di fanti, gli uni e gli altri austriaci, sollecitamente
marciava sulla sinistra sponda della Scrivia ascendendo. Liberò
d'assedio Serravalle; occupò Arquata. Perchè poi in mezzo a quella
confusione di battaglia non si aprisse l'occasione al nemico, che già
il tentava, di far correre una picciola squadra sulla destra del fiume
sino a Tortona, comandava al conte Nobili che se ne andasse a Stazzano
con una sufficiente squadra, e frenasse i Franzesi. Già era Melas
giunto tra Serravalle e Novi, quando divideva i suoi in tre colonne,
la prima con Froelich e Lusignano, perchè assaltasse la punta dell'ala
destra dei Franzesi, la seconda, condotta da Laudon, che si sforzasse
di spuntare e di circuire quella estremità medesima dell'esercito
repubblicano; la terza, governata dal principe di Lichtenstein, che
girasse più alla larga, arrivasse alle spalle dei Franzesi e troncasse
loro la strada da Novi a Gavi. Intanto Suwarow, rannodate alla meglio
le sue truppe disordinate, rinfrescava la battaglia. Lusignano, ferito
di palla e di taglio, fu fatto prigione; tutta la colonna di Froelich
pericolava; ma accorreva Laudon e recavasi in mano la vittoria. Nè
potè Moreau, quantunque molto vi si affaticasse, riordinare i suoi
a sostenere l'impressione dell'inimico. Questo fu il momento ed il
combattimento decisivo della giornata. Piegarono sempre più i Franzesi;
gli Austriaci, perseguitandoli, gli scacciarono, sebbene non senza
grave strage dal canto loro, dal forte alloggiamento che avevano sulle
alture dietro e a fianco di Novi. I fuggiaschi vi si ripararono: ma
assaltata al tempo stesso questa città dai Russi, fu da loro presa di
viva forza a colpi di cannone che atterrarono le porte. I vincitori
vi commisero molta e crudele uccisione, facendo man bassa ugualmente
su chi si arrendeva e su chi non si arrendeva. Mentre così Melas
vinceva con la sua prima e seconda colonna, e vincendo apriva anche
il varco della vittoria a Suwarow, la sua terza, giunta sui gioghi
di Monterosso, era riuscita sulla strada che da Novi porta a Gavi,
e per tal modo aveva tagliato ai repubblicani la strada del potersi
ritirare per la Bocchetta. Già era, quando queste cose succedevano,
il giorno trascorso fino alle sei della sera, e, per conseguente,
durava lo stupendo combattere già più da dieci ore. Vinta l'ala
destra ed il centro dei repubblicani, non restava più per essi alcun
modo di ristorare la fortuna della giornata; però fece Moreau andar
attorno i suoni della ritirata. In questa guisa, per una ordinazione
maestrevole del generale austriaco, fu tolta ai Franzesi la vittoria,
che già tenevano in mano, di una lunga, grave, ostinata e terminativa
battaglia.

Tagliato il ritorno per Gavi, furono costretti i Franzesi a ritirarsi
per la strada meno facile di Ovada. Marciavano prima ordinatamente;
un accidente inopinato cambiò subitamente l'ordine in disordine,
la ritirata in fuga. Fecero i generali Perignon, Grouchy, Colli,
Partonneaux quanto per valorosi soldati si poteva per rannodare le
genti loro sconvolte e spaventate, ma furono le loro fatiche sparse
indarno. Pieni di spavento, ed incapaci di udire qual comandamento che
si fosse, fuggivano a tutta corsa i repubblicani a destra, a stanca,
e dove più il terrore che il consiglio li portava. Furono i generali
suddetti feriti gravemente di arma bianca, e tutti fatti prigionieri. I
gregarii, che per la fuga non si poterono salvare, furono per la rabbia
concetta nella battaglia, e per comandamento di Suwarow, tutti uccisi
inesorabilmente dai Russi: orribile macello da aggiungersi a quello di
Novi!

Finalmente i repubblicani giunsero a salvamento ai sicuri ricetti delle
montagne genovesi. Niun campo di battaglia fu mai tanto spaventoso
quanto questo pel sangue sparso, per le membra lacerate, pei cadaveri
accumulati. Ne fu l'aria infetta; orribile tanfo durò molta pezza:
spaventevoli terre fra Alessandria, Tortona e Novi, prima infami per
gli assassinii, poscia contaminate dalle battaglie.

L'assedio di Tortona, ora stretto, ora allargato più volte, secondo
che i confederati ebbero comodità di adoperarvi le forze loro, o
necessità di usarle altrove, s'incamminava dopo la vittoria di Novi al
suo fine. Vi stava dentro il colonnello Gast, il quale con forse due
mila Franzesi si difendeva molto virilmente. Fino dai primi giorni di
luglio si erano cominciate dal conte Alcaini, uomo veneziano ai servigi
d'Austria, a cui Suwarow aveva dato il carico dell'espugnazione, le
trincee. Ma la bisogna lentamente procedeva per la resistenza degli
assediati, per la natura del suolo, e per essere state le opere
interrotte dalle vicine battaglie. Nondimeno, soprantendendo ai lavori
della oppugnazione un ingegnere Lopez, fu tirata a perfezione nei primi
giorni di agosto la prima trincea di circonvallazione. Ma si faceva
poco frutto contro la piazza, perchè, stante il suo sito eminente,
piuttosto con le bombe che con le palle si poteva espugnare. Laonde,
continuando a lavorare indefessamente gli oppugnatori, tanto fecero che
vennero a capo di ordinare la loro seconda trincea, e questa armarono
di numero grande di cannoni e di mortai. Non si sbigottiva per questo
Gast, perchè ed era uomo di gran cuore, e le casematte di grosse e
triplicate volte non cedevano a quella orribile tempesta. Ciò non
ostante, un guasto considerabile fu fatto dalle bombe negli artiglieri
e nelle artiglierie della fortezza. I Franzesi con arte e costanza
somma le riattavano, e continuavano a tuonare contro gli assalitori.
Si vedeva che molta fatica e molto sangue bisognava ancora spendere per
espugnare Tortona. Ma per la giornata di Novi non vedendo Gast speranza
di poter più allungare la difesa, convenne di arrendersi, se infra un
certo tempo non fosse soccorso. Stipulossi adunque il dì 22 agosto fra
le due parti un accordo, pel quale si sospesero per venti giorni le
offese, obbligandosi il Franzese a dare la piazza, se nel detto termine
l'esercito non arrivasse a liberarlo; uscirebbe a tempo pattuito la
guernigione con armi e bagagli, con le bandiere all'aria, col suono dei
tamburi; deporrebbe le armi sulla piazza di San Bernardino, e per la
più breve se n'andrebbe in Francia sotto fede di non militare contro
gli alleati per quattro mesi. Il dì 11 settembre non essendo comparso
aiuto da nissuna parte, uscivano i repubblicani dalla fortezza,
entravanvi gl'imperiali.

Venne Suwarow in molta allegrezza per l'acquisto di Tortona, perchè il
faceva sicuro della guerra genovese, e si vedeva aver ricuperato al
nome del re quasi tutti i dominii del Piemonte, oggimai liberi dalla
presenza dei repubblicani. Ora i principali suoi pensieri si volgevano
ad assicurare il Piemonte superiore dalle armi franzesi con rompere la
forza di Championnet e con espugnar Cuneo. Ma il compimento di queste
fazioni lasciava a Melas ed a Kray, perchè egli se ne partiva con tutte
le genti russe per alla guerra elvetica.

Partito Suwarow dalle terre italiche, ne fu molto diminuita la
forza dei confederati in Piemonte. E però non poterono i capitani
dell'imperator Francesco, innanzi che arrivassero nuovi rinforzi
dagli Stati ereditarii, tentar cosa d'importanza. Solo attendevano a
conservare gli acquisti fatti, e si apparecchiavano, quando gli aiuti
fossero giunti, alla oppugnazione di Cuneo, piazza molto forte, e che,
per essere vicina alle frontiere di Francia, è molto facile a venir
difesa e soccorsa dai Franzesi. Dall'altra parte primo pensiero dei
repubblicani era il conservare la possessione di Cuneo, e tribolare
talmente il nemico intorno a lui, che ne nascesse una grave diversione
in favor di Massena che aveva a fronte nella Svizzera l'arciduca
Carlo, e presto avrebbe non solamente Suwarow con le genti vincitrici
d'Italia, ma ancora Korsakow, ch'era vicino ad arrivare con nuovi
squadroni di Russi. Ma l'aver voluto distendersi in una fronte tanto
lunga con poche forze fu cagione che la guerra, che doveva esser
grossa, si cangiò in guerra minuta e fastidiosa, con moltiplicate
scaramucce ed affronti, che niuno effetto, non solamente terminativo,
ma nemmeno d'importanza potevano partorire. Sarebbe troppo molesta
narrazione il raccontar tutto: la somma fu che il forte di Santa
Maria, che sta a difesa del golfo della Spezia, e soggetto principale
di contesa, finalmente cadde in potestà degl'imperiali; il quale
accidente aperse libero l'adito alle navi di Inghilterra in quel
magnifico seno di mare, e fece facoltà agli Austriaci d'inoltrarsi
di nuovo fino assai prossimamente, sentendosi sicuri alle spalle, a
Genova, donde la poterono cingere di assedio, quando, alcun tempo dopo,
le armi imperiali vennero a romoreggiarle intorno, anche dalla parte
d'Occidente.

Le medesime minute fazioni tribolavano e repubblicani e imperiali sulla
Scrivia e sulla Bormida, ed ancor più gli abitatori del paese, che si
trovavano fra quelle due genti per loro strane, e l'una contro l'altra
infuriate. Melas ponderate tutte le cose che accadevano, lasciando
Kray alla guardia dei paesi in cui la Scrivia e la Bormida infondono
le loro acque, andava a posarsi nei contorni di Bra con circa trenta
mila soldati abili a campeggiare in quelle facili pianure. Era questo
suo alloggiamento non senza fortezza, siccome quello che, posto tra
il Tanaro e la Stura, si mostrava opportuno a sopravvedere i moti che
potessero fare i Franzesi da Mondovì, di cui erano in possessione,
dal colle di Tenda e dalle valli della Stura e di Pratogelato, che
massimamente accennavano a quel luogo come a centro comune. Suo
intendimento principalissimo era di guarentire il Piemonte, e di
trovar modo di combattere felicemente nelle battaglie che aspettava,
per andare a porre il campo sotto Cuneo. Nè i Franzesi ricusavano il
cimento. Aveva Championnet, in cui, dopo la partenza di Moreau andato
alle guerre del Reno, era investita l'autorità, suprema sopra tutte le
genti che si distendevano dalla Magra per tutto il circuito, dei liguri
Apennini e delle Alpi sino alla Dora Baltea, chiamato a sè la schiera
di Victor, annestandola alla sua destra ala verso Mondovì. Al tempo
stesso ordinava che si accostasse al suo fianco sinistro per Pinerolo e
per Saluzzo una squadra di genti venute dall'Alpi Cozie, e condotta dal
generale Duhesme.

Tutte queste genti unite insieme componevano un esercito quasi pari
in numero a quello di Melas: la guerra, fin allora sparsa e vaga, si
riscontrava in un solo punto, e tutto lo sforzo si riduceva nelle
vicinanze di Fossano e di Savigliano: sulle rive della Stura era
per definirsi quest'ultimo atto dell'italiana contesa ed il destino
di Cuneo. Ardevano l'una parte e l'altra di venir alle mani: il
che era da lodarsi dal lato di Melas, perchè assai gl'importava di
combattere prima dell'arrivo di Duhesme, ma non parimente dal lato di
Championnet, che doveva indugiarsi insino a tanto che la congiunzione
di Duhesme avesse avuto intieramente il suo effetto. L'uno esercito
nel momento stesso si avventava contro l'altro il dì 9 novembre.
I primi ad attaccarsi furono Grenier ed Otto. Combatterono ambidue
tra Savigliano e Marene con estremo valore, essendo il coraggio e la
perizia militare uguali da ambe le parti. Fu lunga e forte e variata
la mischia; gli uni con gli altri parecchie volte si mescolarono. Ma
prevalendo gli Austriaci per le cavallerie (a questo fine appunto Melas
aveva tirato il suo avversario sui campi aperti) furono finalmente
i Franzesi costretti a ritirarsi a Savigliano, e di là cacciati, a
retrocedere, incamminandoli a Genola. Le cose succedettero diversamente
tra Esnitz e Victor. Uscito il primo da Fossano, aveva assaltato il
secondo a Genola; ma il Franzese gli rispose con tanta gagliardia, che,
quantunque il Tedesco per tre volte desse furiosamente la carica, ne
fu sempre risospinto con grave danno, e fino sforzato a ritirarsi più
che di passo dentro le mura di Fossano; donde poi uscendo di nuovo,
per usar l'occasione, acquistava Genola, e perseguitava continuamente
Victor alle spalle. Melas, raccolti i suoi, non volendo dar posa al
nemico in su quel fervore della vittoria, assaltava Lavaldigi, e, dopo
un lungo conflitto, se ne impadroniva. Ritiravansi i Franzesi parte a
Centallo, parte a Marozzo. In questo mentre giungeva Duhesme sul campo
in cui si era combattuto sul principio della battaglia, e trovato
Savigliano con debole presidio, se ne rendeva padrone, poi marciava
per combattere Marene. Diveniva la sua mossa molto pericolosa pei
Tedeschi, e se fosse stata fatta qualche ora prima, sarebbe stata per
loro pregiudiziale all'estremo. Ma già erano talmente in possessione
della vittoria, che fu loro agevole il portar rimedio contro
quell'improvviso accidente. Ordinava Melas al generale Sommariva che
andasse a combattere Duhesme. Potè egli giungerlo, quantunque il giorno
già inclinasse, e lo costrinse, fattasi dal generale franzese breve
resistenza, perchè aveva ricevuto le novelle della rotta dei compagni,
a ritirarsi fino a Saluzzo.

Avevano gli Austriaci in mano loro la vittoria; restava che l'usassero.
Il giorno seguente sforzarono a darsi un grosso squadrone lasciato
a Ronchi, indi una schiera più grossa che stanziava a Murazzo.
Avrebbe voluto Melas correre sulla destra della Stura per dar addosso
a Lemoine; ma inteso che i Franzesi avevano fatto due campi, con
intenzione di preservare Cuneo, condusse le sue genti vincitrici contro
quei nuovi alloggiamenti del nemico; i Franzesi, non aspettandolo, si
ritirarono ai monti. Se non che, premendo a Melas di fargli allargar
da Cuneo, perchè l'oppugnazione della piazza non gli potesse venire
sturbata, li perseguitava da tutte bande; li cacciava sino all'erto
giogo di Tenda, occupava le Barricate e l'Argentiera, Dronero, e
sforzava Duhesme e tornarsene nella valle d'Icilia, alle radici del
monte Ginevra. Restava che gli Austriaci togliessero ai Franzesi
Mondovì, dove si erano riparati Victor, Lemoine e Championnet. Riuscì
lor la fazione, perchè, sloggiati i Franzesi sforzatamente da due
subborghi e dalle eminenze che dominano la città, l'abbandonarono,
ritirandosi ai luoghi più alti della valle del Tanaro. Occuparono i
Tedeschi, sempre ritirandosi i Franzesi, Garessio, Ormea, e si spinsero
avanti fino al ponte di Nava, ch'è il passo più difficile e quasi la
chiave della strada che porta su quelle alture. Per tal guisa i varii
corpi di Championnet, che, partendosi da diversi punti di una larga
periferia, eran venuti a concorrere, quasi come in centro comune,
nelle vicinanze di Fossano e di Savigliano, dopo la battaglia ivi
combattuta, che alcuni chiamano di Fossano, altri di Genola, dispersi,
e l'uno dall'altro discostandosi di nuovo, si allargarono, ed ai
punti medesimi della periferia ritornarono. Ritirossi il capitano del
direttorio, Championnet, a Nizza, dove, tra varie cagioni di cordoglio
e l'infezione di una malattia gravissima, che quasi a guisa di peste
infuriava, passò da questa all'altra vita.

Travagliavansi gli Austriaci intorno a Cuneo, piazza forte e di molta
importanza pel suo sito. Conoscevano questa importanza i generali
dell'imperatore, e però, sebbene la stagione già divenisse sinistra
alle opere di oppugnazione, si accinsero all'impresa, sperando di
compensar con le forze soprabbondanti la contrarietà del tempo.

Obbediva il presidio al generale Clement. Sommava il numero di due mila
cinquecento soldati, ma disanimati per le sconfitte e pel desiderio
di tornarsene in Francia, parendo loro disperate le cose d'Italia;
oltre a questo, non era bene provvista la piazza di munizioni nè da
bocca nè da guerra, perchè e per le ingordigie solite e per l'angustia
dei tempi non era stata mai sufficientemente empiuta. Ciò nonostante,
Clement, non perdutosi d'animo, fece quello che per capitano valoroso
si poteva, a fine di sturbare le opere del nemico, ora sortendo
a combattere, ed ora fulminando con tutte le artiglierie contro
coloro che si affaticavano alle trincee. Ma tanti erano i soldati
dell'Austria, e tanti i paesani accorsi, che in brevissimo tempo fu
condotta a perfezione la prima parallela e vi si piantarono diciannove
batterie pronte a bersagliare gli assediati. Tirarono con tanto
impeto il 2 dicembre, che i difensori furono obbligati ad abbandonare
le opere esteriori, ritirandosi di tutto allo interno della piazza.
Al tempo stesso arse una conserva di polvere con orribile fracasso,
e schiantò fin dalle fondamenta un ridotto. Usarono gli assalitori
l'occasione, facendo, la notte che seguì, un alloggiamento nelle ruine,
ed attendendo a tirar avanti la seconda trincea di circonvallazione.
Ma già un altro magazzino scoppiava, le case vicine ardevano, il
fuoco, rapidamente distendendosi, minacciava generale incendio. Nè vi
era modo o volontà di spegnerlo, perchè i soldati stavano sulle mura
a combattere, i cittadini spaventati non avevano più consiglio; la
tempesta mandata continuamente dal nemico accendeva l'intero; tanta
era la quantità che soprabbondevolmente gittava Lichtenstein di palle,
di bombe e di granate reali. Mandarono i Cunesi, pregando che avesse
compassione di loro, od almeno risparmiasse le case, posciachè eglino
non combattevano. Rispose non farsi alcun divario, quando si oppugnano
le piazze, fra chi combatte e chi non combatte: capitolasse il
Franzese; cesserebbe la tempesta.

Vedeva Clement la necessità della dedizione, perchè già la fortezza
era straziata, la breccia si preparava, nissun soccorso gli appariva
da nissuna parte, ed erano mancati tutti i fondamenti del difendersi.
Chiese perciò i patti e gli ottenne. Fu stipulato ai 5 dicembre che la
guernigione uscisse onorevolmente al modo di guerra, che deponesse le
armi sullo spalto, che fosse condotta sotto scorta, come prigioniera,
negli Stati ereditarii, che si avesse cura degli ammalati e dei feriti:
erano ottocento. A questo modo fu domato per forza, in men di dieci
giorni, Cuneo, che aveva vinto la gara contro le forze di Francia nel
1691 e nel 1744.

La presa di Cuneo e la stagione avversa ebbero posto fine alla guerra
nella superiore Italia, e sgravarono gli eserciti confederati di molte
fatiche. Tuttavia, sebbene il Piemonte fosse governato in nome del
re, non si consentì mai ch'ei vi tornasse, nè che il duca d'Aosta vi
comparisse.

Intanto molto doloroso fu questo anno alla famiglia reale di Sardegna
per mali veri e per le speranze vane; perchè morì a Cagliari l'unico
figliuolo del duca d'Aosta, al quale, dopo la morte del padre, spettava
la corona; passò anche da questa vita in Algheri di Sardegna il duca
di Monferrato, fratello del re, giovane di ottima natura e di costumi
dolcissimi.

Ma dobbiamo tornare alle cose del regno di Napoli, dove gli accidenti
sono fierissimi e pieni di sangue.

Ferdinando, Carolina, Acton eransi ritirati in Sicilia, lasciando
Napoli in mano dei Franzesi che badavano ai fatti loro ed ai
Napolitani, amatori di libertà che sognavano la repubblica. Ma non
se ne stava il governo regio senza speranza che le sue cose avessero
presto a risorgere, perchè non ignorava la forte lega, che si era
ordita in Europa contro la Francia, e sapeva che i dominii dei Franzesi
nei paesi forastieri, massimamente in Italia, sono sempre brevi. Egli
medesimo si era congiunto per trattati d'alleanza con le potenze che
facevano o volevano far la guerra ai Franzesi. Già fin dall'anno ultimo
l'aveva stipulato con l'Austria; aveva anche il re contratto amicizia
con la Gran Bretagna, e Nelson vittorioso molto confortava le siciliane
speranze; medesimamente un trattato erasi concluso con l'imperadore
Paolo di Russia. Perchè poi quella repubblica franzese, che era per
sè stessa una tanto strana apparenza, avesse a produrre nel mondo
accidenti ancor più strani, il re Ferdinando aveva fatto alleanza coi
Turchi, con avergli il Gran Signore promesso che manderebbe, ad ogni
sua richiesta e senza alcun suo aggravio, dieci mila Albanesi in suo
aiuto: a questo dava favore e facilità la conquista di Corfù fatta
dai Russi e dai Turchi, quando appunto gli aiuti loro erano divenuti
più necessarii al re Ferdinando. Era arrivato il tempo propizio a
conquistare il regno per la ritirata di Macdonald da Napoli. Non aveva
la repubblica messo forti radici nel regno, sì pel duro dominio dei
repubblicani di Francia, sì per le astrazioni di quelli di Napoli, e sì
finalmente per gl'ingegni mobili dei Napolitani.

Sperava adunque Ferdinando negli aiuti degli alleati e nelle
inclinazioni dei popoli. Per conservarsi la grazia dei primi, aveva
in Sicilia tenuto Acton in istato, per muovere i secondi mandato Ruffo
in Calabria. Già abbiamo narrato come il cardinale, creato l'esercito
con gli aderenti proprii, poi ingrossato coi nemici dei repubblicani,
aveva mosso a rumore e ricondotto all'obbedienza le due Calabrie quasi
tutte, la terra d'Otranto, la terra di Bari ed il contado di Molise.
Erano accorsi con le bande loro al cardinale Proni, Mammone, Sciarpa,
Fra Diavolo, Decesari, gente ferocissima. Un'altra mossa popolare era
sorta che molto aiutava il cardinale per istigazione del vescovo di
Policastro, contro il governo repubblicano, la quale, su le rive del
Mediterraneo correndo, minacciava Salerno e Napoli. Anche il conte
Ruggiero di Damas correva le campagne con uomini speditissimi, e
sollevava a furore quelle popolazioni tanto facili ad essere concitate.

Il cardinale, vedutosi forte, elevava l'animo a maggiori imprese.
Perlochè, volendo torre alla capitale del regno quel pingue granaio
della Puglia, e facilitare anche in quelle spiaggie gli sbarchi dei
Turchi e dei Russi, s'incamminava contro Altamura, perchè, andando
all'impresa di Puglia, non voleva lasciarsi dietro quel seggio di
forti repubblicani. Fattosi sotto le mura, ed intimata la resa, gli fu
risposto arditamente da quei di dentro che niun'altra risposta volevano
dare se non d'armi. Diede il cardinale furiosamente la batteria,
e quantunque gli Altamurani virilmente si difendessero, aperta la
breccia, vi entrarono i cardinalizii per estrema forza, e recarono
in mano loro la terra. Qui, le cose che successero mettono tanto
raccapriccio a descrivere che non si vuole raccontarle; solo diremo
che se Trani ed Andria furono sterminate dai repubblicani, con uguale
immanità fu esterminata la miseranda città d'Altamura. Usossi il ferro,
usossi il fuoco, e chi più incrudeliva e mescolava gli scherni, le
risa, gli orribili oltraggi alla crudeltà, era miglior tenuto: queste
erano le opere dell'esercito che col nome di cristiano s'intitolava. Ad
uguale sterminio fu condotta la città di Gravina, prossima ad Altamura,
e posta sulla strada per la Puglia.

Conseguita la vittoria d'Altamura, andava il cardinale a porre le sue
stanze ad Ariano nel Principato ulteriore. Quivi le città principali
di Puglia, spaventate dal caso d'Altamura e di Gravina, spente le
insegne della repubblica, e seguitando scopertamente il nome del re,
concorrevano coi deputati loro a giurare obbedienza. Tutto lo stato
della repubblica ruinava, e ritornavano con grandissimo impeto della
fortuna a Ferdinando tutte le terre e le fortezze principali. Solo
Foggia, capitale, assai fiorente e ricca, popolosa e piena di amatori
dello stato democratico, ancor si teneva; ma l'essere tornata tutta
la provincia alla devozione del re diede facilità ai Russi, Inglesi ed
Ottomani di sbarcare, come fecero, sulle rive del golfo di Manfredonia
nel novero di circa mille quattrocento condotti dal cavaliere
Micheroux; marciarono contro Foggia, e la ridussero in poter loro.
Correva un giorno di fiera quando vi entrarono: i popoli, spaventati al
vedere quelle genti strane, che avevano nome di valorose e di feroci,
sparsero tosto le triste novelle pei paesi circonvicini. Il terrore
dominava, e se qualche luogo era rimasto fedele alla repubblica, questo
concorreva prestamente con gli altri all'obbedienza verso il vincitore.

Parte dei soldati forastieri si congiunsero col cardinale in Ariano,
e parte andarono a trovare sulle rive del Mediterraneo il vescovo di
Policastro, che aveva combattuto infelicemente contro i repubblicani.
Venne con questa seconda schiera Micheroux medesimo, che, valorosamente
guerreggiando pel suo signore, aveva in odio la ferocia delle turbe
indisciplinate, e si sforzava, ancorchè fosse indarno, di frenarle. I
rinforzi condotti da Micheroux rendettero superiori i regi; anzi tanto
s'avvantaggiarono, che, non ostante che i repubblicani con frequenti
e forti battaglie cercassero di arrestarli, arrivarono, conquistati i
passi importanti d'Eboli e di Campistrina, sotto le mura di Salerno, e
se ne impadronirono. Già tutte le provincie avendo obbedito o per amore
o per forza alla i fortuna del vincitore, la guerra si avvicinava a
Napoli. Il cardinale, per istringerla, era venuto, calandosi da Ariano,
a porsi a Nola, mentre Micheroux erasi alloggiato a Cardinale. Eransi
anche i regi fatti padroni della Torre del Greco. Da un'altra parte,
Aversa, rivoltatasi dalla repubblica, aveva chiamato il nome del re.
Questo accidente interrompeva le strade da Napoli a Capua, in cui
Macdonald, partendo, aveva lasciato un presidio di due mila soldati.
La medesima ubbidienza seguitava l'Abruzzo, perchè Proni, sollevato
prima l'Abruzzo superiore, dove, ad eccezione di Pescara, in cui si
era rinchiuso il conte Ettore di Ruvo, ogni cosa veniva in poter suo,
scendeva a far levare l'inferiore. Veramente tanto vi fece con la
forza e con le persuasioni, che l'autorità regia vi fu ristaurata sino
prossimamente a Gaeta, munita di un presidio franzese. Per tal guisa
furono tagliate tutte le strade tra Napoli e Roma. In questo mentre
comparivano le navi inglesi in cospetto, e mostrarono ai repubblicani
che la strada del mare era loro interdetta come quella di terra, e
che nissun'altra speranza rimaneva loro, se non quella di un disperato
valore, poichè nella clemenza del vincitore non potevano in modo alcuno
fidare. Avevano innanzi agli occhi il prospetto di Procida isola,
nido allora d'immanità orribilissime. S'aggiungeva a spavento dei
repubblicani che in Napoli s'era scoperta una congiura in favore del
re.

In estremo tanto pericoloso, in cui non si trattava più di vincere o
di perdere, ma di vivere o di morire, il governo della repubblica ed i
repubblicani facevano ora più ora meno di quanto i tempi richiedessero.
I sospetti intanto, anche fra gli uomini della stessa parte, come
avviene nelle disgrazie, davano il tracollo allo stato già cadente. Fu
proposto che un magistrato di censura si creasse, che avesse diritto
e carico di scrutinare i membri del direttorio e quei del corpo
legislativo, e chi fosse stimato sospetto cassasse, e proponesse in
luogo loro cittadini puri ed incorrotti. Fu creato il magistrato:
questi creavano, quelli cacciavano, il governo era in mano loro.
Instituissi intanto un tribunale, il cui ufficio fosse di giudicare il
crimenlese, e di cui fu nominato presidente Vincenzo Lupo: entrarono
con lui i repubblicani più vivi.

Decretava il direttorio che quando tirassero tre volte i cannoni dei
castelli, chi a guardia nazionale od a ritrovi politici non fosse
ascritto, incontanente si ritirasse alle sue case sotto pena di morte,
e sotto la medesima pena serrasse le finestre. Ai tiri medesimi
le guardie nazionali, o chi fosse addetto ai ritrovi, tostamente
accorresse al quartier generale: i quinqueviri, i legislatori, i
ministri andassero ai seggi loro, e chi nol facesse fosse ammazzato.
Queste cose si facevano con terrore infinito della città. Ma i
repubblicani più vivi e quelli che avevano in odio ed in sospetto
ogni freno ed ogni governo viemmaggiormente s'infierivano. Quelli del
ritrovo fermato nella casa dell'accademia dei nobili si spinsero ad
eccessi condannabili, facendo cacciar dalle cariche quelli che lor
non piacevano, sì che venne a regnare un'orribile anarchia. Poi, per
far vedere che, se atterrivano gli altri, non avevano paura essi,
immaginarono un registro, dove tutti, come membri dell'adunanza,
avessero a scrivere i nomi loro. Questo registro divenne poscia, quando
i regi si fecero padroni di Napoli, un libro di morte, perchè trovato,
furono giudicati senza remissione tutti coloro che l'avevano segnato
coi loro nomi.

In questo mentre niuna cosa lasciavano intentata per infiammare
il popolo; sbattezzarsi chi avea nome Ferdinando, e prender nomi
repubblicani; recitarsi le tragedie di Alfieri e le più forti, e spesso
interromperle un predicatore a commentarle; poi un altro a dire che
bisognava ammazzar tutti i tiranni: le napolitane grida andavano al
cielo; fuori poi i discorsi erano ancor più strani che nel teatro.
Eleonora Fonseca scriveva un monitore, giornale in cui pubblicava
continuamente vittorie di repubblicani, sconfitte di regi, arrivi
di flotte soccorritrici di Francia. La società detta filantropica
ammaestrava i lazzaroni per far loro capire che dolce e bella cosa
fosse la repubblica. Fin la religione usavano, le predicazioni, le
preci; fin la protezione di san Gennaro.

Ma i rimedii riuscivano insufficienti senza le buone armi. In questo
i repubblicani avevano molta fede in Mantonè, ministro della guerra,
uomo di animo fortissimo, repubblicano gagliardo, e che appunto
pel suo coraggio smisurato errò; egli era, per mandato del governo,
ordinator supremo di quanto s'appartenesse all'armi ed alla difesa
della repubblica. Chiamò a sè gli ufficiali e soldati che erano stati
ai servigi del re; ma, non potendo l'erario bastare a tanto dispendio,
poneva mano a rimedii straordinarii. I doni d'oro ed argento coniato o
vergato, procurati da due gentildonne molto ragguardevoli, le duchesse
di Cassano e di Popoli, bastarono ad ordinar tre legioni di veterani,
che, rette da Schipani, da Ettore di Ruvo e da un Belpuzzi, marciavano
contro Sciarpa, Proni e Ruffo. Per sicurezza poi di Napoli, Mantonè
ordinava meglio la guardia urbana, e tentava ogni via di accalorarla
in favore della repubblica. Basetta primo generale, secondo Gennaro
Serra, terzo Francesco Grimaldi e Antonio Pineda, uomini valorosi; alla
fede del generale Federici commessa la custodia di Napoli, a quella
di Massa Castelnuovo, al principe di Santa Severina Castel dell'Uovo.
Buoni ordinamenti erano questi, ma la guerra più forte di loro; nè
Mantonè, o che non sel credesse egli pel gran coraggio che aveva, o
che s'infingesse per non ispaventare, non aveva fatto provvedimenti
più gagliardi. Si persuadeva che le legioni create fossero bastanti
a frenare i regi nelle provincie, e ritornarle sotto l'obbedienza del
governo popolare.

Ebbe la guerra assai diverso successo; perchè Belpuzzi conoscendo
la impossibilità di far fronte ai regi, abbandonata l'impresa, se
n'era ritornato a Napoli. Ferocemente aveva combattuto negli Abruzzi
Ettore di Ruvo, ma assalito ed attorniato da un numero di nemici
molto superiore, fu costretto a cercar ricovero contro il furor dei
sollevati dentro le mura di Pescara, Schipani, rotto da Sciarpa, per
ultimo rifugio si era ritirato a Napoli. Così Ruffo, vincitore in ogni
parte, inondando con le sue genti tutto il paese all'intorno, si era
avvicinato alla capitale. Vide allora Mantonè che i moti del cardinale
erano per risolversi non in romori, ma in effetti, che la fortuna
minacciava, e che i rimedii ordinarii più non bastavano.

Creata per custodia di Napoli una legione di fuorusciti calabresi, i
quali, perchè parteggiavano per la repubblica, cacciati a furia dalle
case loro per le armi di Ruffo, si erano riparati nella capitale,
uomini fieri, bellicosi, arrabbiati per le ingiurie recenti, e che se i
loro compatriotti militanti col cardinale si mostravano disposti a far
cose enormi pel re, essi erano risoluti a farne per la repubblica delle
ugualmente enormi; poi, detto al principe di Roccaromana che creasse
un reggimento di cavalieri nei contorni di Napoli, partiva Mantonè
stesso da Napoli con sei mila soldati, non senza esimio apparato per
impressionar quel popolo, di cui l'immaginare è tanto forte. Abbellì
quella partenza la liberazione dei prigionieri fatti da Macdonald
nella conquista di Castellamare, provveduti ancora perchè potessero
ritornare, come loro fosse a grado, alle patrie loro.

Mantonè, condotte le repubblicane squadre alla campagna, sbaragliava
e fugava facilmente i corridori dell'esercito regio; ma quando più
oltre si fu spinto, si accorse che per lui nè pe' suoi altro scampo non
restava se non quello di tornarsene prestamente là dond'era venuto.
Il suo ritorno in Napoli costernava le genti: per ultima speranza
aspettavano quello che fosse per partorire il valore di Schipani; ma
ebbero tosto le novelle ch'egli, per aver udito la ritirata di Mantonè,
si era condotto alla Torre dell'Annunziata, combattuto quivi aspramente
dai Russi, dai regi e da una parte de' suoi soldati medesimi mutatisi
a favore del re, era stato preso, dopo di aver veduto lo sterminio
quasi intero de' suoi compagni. Sentissi a questo momento ancora che
Roccaromana aveva bene levato ed ordinato il reggimento di cavalli,
ma che invece, di farlo correre in aiuto dei repubblicani, lo aveva
condotto al cardinale, dal quale aveva avuto le grate accoglienze.
Il precipizio era evidente. Decretava il direttorio essere la patria
in pericolo. Ritiravasi col corpo legislativo ai castelli Nuovo e
dell'Uovo; quel di Sant'Elmo, più forte, e che dominava Napoli, era in
mano del presidio franzese lasciatovi da Macdonald: un terrore senza
pari occupava le menti. La legione Calabra sola non si spaventava,
perchè dal vivere al morire, purchè si vendicasse, non faceva
differenza. Parte stanziava in Napoli, parte presidiava il castello di
Viviena, per cui Ruffo doveva passare per venire a dar l'assalto alla
città dal lato del ponte della Maddalena.

Udissi tutto ad un tratto nella spaventata Napoli un romore come di
tuono; tremò la terra; pure il Vesuvio non buttava: veniva dal forte
di Viviena. Lo aveva il cardinale con tutte le sue forze assaltato;
si difesero i Calabresi, non come uomini, ma come lioni. Pure i regi,
combattendolo da tutte parti con l'artiglieria, l'avevano smantellato,
e non una, ma più, brecce e piuttosto una ruina di tutte le mura apriva
l'adito ai vincitori. Entraronvi a forza ed a furia: gente disperata,
ammazzava gente disperata, nè solo i vinti perivano. Nissuno s'arrendè,
tutti furono morti; date, a chi gli uccideva, innumerevoli morti.
Restavano una mano di pochi: la rabbia li trasportava; feriti ferivano,
minacciati ferivano, ammoniti dell'arrendersi, ferivano. Pure l'estrema
ora giungeva. Anteponendo la morte di soldato alla morte di reo, nè
soffrendo loro l'animo di venir in forza di coloro che con tanta rabbia
abborrivano, un Antonio Toscano, che li comandava, e che già stava con
mal di morte per le ferite e pel sangue sparso, strascinossi a stento a
carpone al magazzino delle polveri, e con uno stoppaccio acceso postovi
fuoco, mandò vincitori, vinti e rovinate mura all'aria. Tutti perirono:
questa fu la cagione del tuono e dello spavento di Napoli.

Ruffo, espeditosi dall'intoppo del forte, passava e si accingeva a dar
l'assalto alla capitale da tre bande. I repubblicani carcerarono come
ostaggi alcuni sospetti, e condussero in Castel nuovo ed in Castel
dell'Uovo un fratello del cardinale, ed i parenti degli ufficiali
dell'esercito regio. Passarono per le armi i fratelli Bacher con
quattro lazzaroni mescolati in congiure. Poi partiti in tre schiere,
se ne givano contro Ruffo: Writz li conduceva alla Maddalena,
Bassetta a Foria, Serra a Capodimonte. Caracciolo con le navi sottili
accostatosi al lido, batteva di fianco le genti del re. Animavansi con
vicendevoli conforti l'un l'altro, e così diedero dentro ai regi: sorse
una furiosissima zuffa alla Maddalena, luogo del principale sforzo:
repubblicani e regi eleggevano piuttosto il morire che il cedere.

I repubblicani, massimamente quei Calabresi inferociti, non punto
sbigottitisi alla morte di Writz, loro prode e fedele capitano,
continuavano a menar le mani ed a tener lontani dalle dilette mura le
genti regie. Dal canto loro Bassetta e Serra ottimamente facevano il
debito loro. Non inclinava ancora la sorte da alcun lato, quand'ecco
sorgere grida di _viva il re_ alle spalle dei democrati. Erano una
moltitudine di lazzaroni che, stimolati dai partigiani del governo
regio, si levarono a rumore. Rivoltaronsi addosso a loro i repubblicani
e gli ammazzarono tutti. Ma Ruffo, usando l'occasione che gli si era
aperta, perchè i nemici assaliti alle terga avevano rimesso dalle
difese, entrava il 13 giugno per viva forza ed inondava la città, solo
a lui contrastando quei Calabresi indomabili. Quivi il raccontare
le cose che seguirono parrà certamente impossibile, se si si farà a
considerare quella rabbia immensa, le ingiurie fatte, il sangue sparso,
il sangue caldo, la natura estrema di quei popoli, l'immanità della
più parte dei combattenti da nissuna civiltà temperata. Primieramente
il castello del Carmine, che domandava i patti, fu preso per assalto
e tutto il presidio senza pietà passato a fil di spada. Carnificina
più grande e più orribile si faceva per le contrade. Vi si uccidevano
gli uomini a caccia per diletto, come se fossero stati fiere; nè età,
nè sesso, nè condizione, nè grado si risparmiavano. Uccidevansi i
repubblicani per odio pubblico, i non repubblicani per odio privato;
nè quei carnefici si contentavano di uccidere, che ancora voleano
tormentare, e varii erano i generi delle morti, uno più crudo e più
orribile dell'altro. Godevano i barbari, a guisa di veri cannibali,
e facevano le loro tresche, le loro grida, le loro danze festevoli
intorno alle vittime. Vedeva Ruffo queste cose, e non volle o non potè
frenarle. Cercavano e chi era reo e chi era innocente di repubblica,
scampo a furore tanto barbaro. Chi fuggiva in abito di donna, e questo
ancora nol salvava; chi fuggiva sotto cenci da lazzarone, e non si
salvava. Ma quelli a cui la fortuna aveva aperto uno scampo per le
contrade gliel toglieva per le case; poichè i padroni ne li cacciavano,
sapendo che, se li ricettassero, le case loro sarebbero saccheggiate ed
incese ed essi uccisi. Vidersi fratelli chiuder le porte ai fratelli,
spose agli sposi, padri a' figliuoli. Risospinti dalle case, i miseri
perseguitati si nascondevano nelle fogne, donde di notte tempo e di
soppiatto uscivano, cacciati dalla fame e dalla puzza. Se ne accorsero
i lazzaroni; si mettevano in agguato alle bocche, come se aspettassero
fiere al varco, e quanti uscivano, tanti ammazzavano. Felice chi moriva
senza tormenti! Durò lo stato orribile due giorni. Infine si risolvè il
cardinale, o perchè la umanità finalmente il movesse, o perchè volesse
attendere all'assedio dei castelli, fazione impossibile a tentarsi in
tanto scompiglio a frenare il furore de' suoi; Napoli, atterrita per le
morti, diventò lagrimosa pei morti.

Restavano ad espugnarsi i castelli; a questo espugnazione applicò
l'animo il cardinale, piantando le batterie. Veduto il pericolo, i
repubblicani ch'erano dentro a Castel dell'Uovo si accordavano con
quelli di Castel Nuovo e di Sant'Elmo per fare tutti uniti una fazione
notturna contro la batteria di Posilippo, eretta a percuotere il Castel
dell'Uovo, il più importante pel suo sito. Dopo un infelice errore
che scambiaronsi gli amici per nemici, e ne sorse con parecchie morti
molto spavento, finalmente riconosciutisi, e ripreso animo, se ne
andarono con incredibile audacia alla fazione; e tanto fu l'ardire e
la prestezza loro che, uccise le guardie, e sopraggiungendo improvvisi
alla batteria, la presero, arsero i carretti, chiodarono i cannoni, e
tornarono sani e salvi al castello.

La fazione della punta di Posilippo, la ferocia dei repubblicani
calabresi, l'atto disperato del comandante di Viviena ed il coraggio
smisurato dimostrato in tutti i fatti dai democrati avevano dato
molto a pensare a Ruffo, il quale si era persuaso che senza molto
sangue e forse senza lo sterminio di tutta la città non avrebbe poluto
riuscire a fine della sua impresa. Considerate e maturamente ponderate
tutte le cose che allora accadevano, stimando che non si convenisse
mettere i repubblicani nell'ultima disperazione, si deliberarono
gli alleati ad offerir loro patti, perchè i castelli e la città
si conservassero salvi, e fosse rimesso il pericolo che sovrastava
al navilio d'Inghilterra per la flotta di Brest già comparsa allo
stretto di Gibilterra. Il cardinale, per mezzo di Mejean, comandante
per Francia del castello di Sant'Elmo, col quale aveva avuto qualche
pratica, mandò dicendo ai repubblicani che, se volessero patteggiare,
vi si sarebbe volentieri risoluto. Rappresentò loro Mejean quello che
era vero, cioè che oramai ogni difesa era inutile, e che migliore e più
savio partito era il serbar la vita a tempi migliori per la repubblica,
che il perire senza frutto per lei: accettassero i patti, esortava,
che loro si venivano offerendo. I repubblicani, consultato fra di
loro, inclinarono l'animo al partito più ragionevole, e, risolvendosi
al trattare, proposero in un modello scritto le condizioni per mezzo
delle quali promettevano di lasciare castel Nuovo e Castel dell'Uovo,
non potendo stipulare per Sant'Elmo, come in potestà di Francia.
Parvero sulle prime al cardinale le condizioni superbe, e penava al
ratificarle. Infine, stringendo il tempo, temendo vieppiù della vita
dei suoi congiunti, e moltiplicando gli avvisi dell'avvicinarsi della
flotta franzese, con pari consentimento degli alleati, si risolvette ad
accettarle. Furono queste: fossero Castel Nuovo e Castel dell'Uovo dati
in potere dei comandanti del re delle Due Sicilie e de' suoi alleati il
re d'Inghilterra, l'imperatore di tutte le Russie e la Porta Ottomana,
e così parimente ad essi fossero consegnate le munizioni da guerra
e da bocca, con le artiglierie ed altri arnesi che si trovassero nei
forti; uscisse il presidio onorevolmente a modo di guerra; le persone
e le proprietà sì mobili che stabili di ognuno che si appartenesse ai
due presidii si serbassero salve ed inviolate; potessero le persone
medesime ad elezione loro imbarcarsi sopra bastimenti di tregua che
loro sarebbero forniti, per essere trasportate a Tolone, o potessero
ancora rimanersi in Napoli, dove nè esse nè le famiglie loro potessero
a modo niuno essere molestate; le medesime condizioni fossero e
s'intendessero concedute a tutti coloro fra i repubblicani che nelle
battaglie succedute fra loro e le truppe del re o de' suoi alleati
fossero stati fatti prigionieri; l'arcivescovo di Salerno, i cavalieri
Micheroux e Dillon, ed il vescovo d'Avellino detenuti nei castelli
si consegnassero al comandante di Sant'Elmo, e vi restassero come
ostaggi, insino a tanto che si avessero le novelle certe dell'essere i
repubblicani arrivati a Tolone; tutti gli altri ostaggi o prigioni per
ragion di Stato si rimettessero in libertà, tosto che la capitolazione
fosse sottoscritta; non isgombrassero i repubblicani dai castelli se
non quando ogni cosa fosse presta all'imbarcarli.

Fu la capitolazione approvata e sottoscritta dal cardinal Ruffo in
qualità di vicario generale del regno, da un Kerandy per l'imperadore
di tutte le Russie, da un Bonjeu per la Porta Ottomana e da un Foote
pel re d'Inghilterra. Non s'indugiò a dar mano all'esecuzione dei
patti. Da una parte gli ostaggi nominati dai repubblicani si condussero
in Sant'Elmo, dall'altra entrarono i regi nei due castelli. Il
cardinale a nome del re, e come vicario generale del regno di qua dal
Faro, pubblicò per tutto il reame un editto, per cui perdonava ogni
colpa e pena ai repubblicani, promettendo piena ed intera salute a
tutti coloro che restassero, e facoltà d'imbarcarsi per Marsiglia a
tutti quelli che amassero meglio, lasciando la patria, andarsi vivere
in lontane e forastiere contrade. Mandava espressamente il trattato a
Pescara, in cui tuttavia si teneva Ettore di Ruvo, affinchè cedesse la
piazza a Proni, e se ne venisse con tutti i suoi a Napoli, scortato per
sua sicurezza dai regi.

I repubblicani intanto s'imbarcavano. Due navi portatrici di quei di
Castellamare, avendo avuto facoltà di uscire, già erano arrivati a
salvamento nel porto di Marsiglia; le altre aspettavano la facoltà
medesima e i venti prosperi. In questo punto ecco arrivare Nelson:
aveva egli udito, essere la flotta franzese ricoverata ne' suoi
porti; trovandosi per questo esente da timore, passato prima per
Palermo, e levatone il re, il ministro Acton, Hamilton, ambasciatore
d'Inghilterra, ed Emma Liona, sua donna, avea voltate le vele verso i
lidi d'Italia. Non così tosto dalla sanguinosa Napoli si scoprirono
le navi d'Inghilterra, che il cardinale mandava a Nelson deputati
per informarlo delle cose fatte e dei patti stipulati. Rispose
l'ammiraglio, non doversi il trattato concluso coi ribelli mandare ad
esecuzione, se prima il re non lo avesse approvato, risposta veramente
incomportabile per mille ragioni. Di tale risoluzione fu molto dolente
il cardinale, che non voleva essere distruggitore delle sue promesse,
e per fare che la fede data si osservasse, andò egli medesimo a bordo
della nave dell'ammiraglio, con efficacissime parole esortandolo a
consentire; ma l'Inglese, come se temesse che l'umanità e la fede
contaminassero le vittorie, non si lasciò piegare; anzi non potendo
rispondere agli argomenti ed alla facondia del cardinale, scusandosi
con dire che non sapeva la lingua italiana, prese la penna e scrisse
da vittorioso la crudele sentenza. E perchè ognuno sappia il quanto
di vituperio sia stato mescolato in queste sanguinose rivolture, non
si vuol omettere di dire che Emma Liona era presente quando Nelson
contrastava al cardinale e ordinava le uccisioni. Nelson, trapassando
dal detto al fatto, ed entrando nel porto con la flotta, dichiarava
prigionieri i repubblicani usciti in virtù della capitolazione dai
castelli, sì quelli che già si erano imbarcati e non ancora partiti,
e sì quelli che non peranco si erano riparati alle navi. Perchè poi
dubbio alcuno non potessero avere del destino che gli aspettava, li
fece incatenare due a due e riporre in fondo alle navi. Nè contento
di tenerli, li lasciava bersaglio ad ogni oltraggio, e stremava loro
i viveri. Pure noveravansi tra di loro uomini, se si eccettuano le
opinioni ed i fatti politici, in cui consisteva la colpa loro, molto
ragguardevoli per dottrina, per linguaggio e per virtù. Bastava bene
ammazzarli, senza trattarli come vili assassini di strada. A tanto di
barbarie si è lasciato trasportare un ammiraglio d'Inghilterra. Il re,
che era sul vascello inglese il Fulminante, non soffrendogli l'animo di
vedere i supplizii che si preparavano, se tornava in Sicilia. Rimase il
campo libero a chi voleva sangue.

Conquistati i castelli di Castel Nuovo e di Castel dell'Uovo,
attesero gli alleati all'acquisto di Sant'Elmo, il quale, oppugnato
gagliardamente qualche giorno, venne in mano loro, essendosi il
comandante Mejean arreso a patti. Stipulossi fra le due parti che la
guernigione franzese sarebbe prigioniera di guerra del re e de' suoi
alleati; che non servisse contro di loro finchè non fosse scambiata;
che sotto fede si conducesse sopra bastimenti regi in Francia. Quanto
ai sudditi del re che si trovavano nel forte, si convenne che si
consegnassero in mano degli alleati: brutto sfregio alla fama di Mejean
che doveva lasciare che gli alleati quegli uomini da immolarsi si
prendessero da per sè stessi, non obbligarsi col suo nome sottoscritto
a consegnarli. Si aggiunse a patti crudeli una esecuzione più crudele.
I repubblicani, travestiti a modo di soldati franzesi, per istare alla
fortuna, se non fossero riconosciuti di salvarsi, essendo riconosciuti,
ed anzi indicati da chi li doveva preservare, vennero in poter di
coloro che tanto agognavano il sangue loro; spettacolo miserabile che
commosse a compassione molti degl'inimici.

Si arrendevano in questo all'armi regie Capua e Gaeta, non fatta difesa
alcuna d'importanza. Così tutto il regno tornò all'antica divozione,
ma rotto, sanguinoso, pieno d'incendii, di rapine, di sdegni e di
vendette. Incominciavansi i supplizi, l'infuriata plebe imitava;
l'uccidere per tribunali era accompagnato dall'uccidere per anarchia.
Non ad età si perdonava, non a sesso, non a grado. Un Fiori, un
Guidobaldi, un Damiani, un Sambuci, e massimamente uno Speciale, già
stato ordinatore dei supplizii di Procida, erano gli strumenti della
barbarie.

Mario Pagano, al quale tutta la generazione riguardava con amore e
con rispetto, fu mandato al patibolo dei primi: era visto innocente,
visto desideroso di bene; nè filosofo più acuto, nè filantropo più
benevolo di lui mai si pose a voler migliorare questa umana razza e
consolar la terra. Errò, ma per illusione, ed il suo onorato capo fu
mostrato in cima agl'infami legni, sede solo dovuta ai capi di gente
scellerata ed assassina. Non fece segno di timore, non fe' segno di
odio. Morì qual era vissuto, placido, innocente e puro. Il piansero
da un estremo all'altro d'Italia con amare lagrime i suoi discepoli,
che come maestro e padre, e più ancora come padre che come maestro il
rimiravano. Il piansero con pari affetto tutti coloro che credono che
lo sforzarsi di felicitare l'umanità è merito, e lo straziarla delitto.
Non si potrà dir peggio dell'età nostra di questo che un Mario Pagano
sia morto sulle forche. Domenico Cirillo, medico e naturalista, il cui
nome suonava onoratamente in tutta l'Europa, non isfuggì il destino di
tempi tanto sinistri. Se gli offerse la grazia, purchè la domandasse,
non perchè virtuoso, dotto e da tutto il mondo onorato fosse, ma perchè
aveva servito della sua arte Nelson ed Emma Liona. Rispose sdegnato,
non volere domandar grazia, e poichè i suoi fratelli morivano, voler
morire ancor esso; nè desiderio alcuno portar con sè di un mondo
che andava a seconda degli adulteri, dei fedifragi, dei perversi. La
costanza medesima che mostrò coi detti mostrò coi fatti; perì per mano
del carnefice, ma perì immacolato e sereno. Francesco Conforti, per
dottrina nelle scienze morali e canoniche a nissuno secondo, a quasi
tutti il primo, uomo che una lunga vita aveva vissuto o nelle sue
segrete stanze a studiare, o sulle pubbliche cattedre ad insegnare,
fe' testimonio al mondo col suo miserando fine che niuna cosa è più
inesorabile della rabbia civile, e che la gratitudine non ha luogo
fra gli sdegni politici. Preso e legato dagli sbirri in Capua, gli
diè di mano il boia in Napoli. Vincenzo Russo, giovane singolarissimo
per altezza d'animo e per eloquenza e per umanità, portò con gli altri
supplizio del buon volere in tempi malvagi; dopo gli strazi, infiniti
che nella sua prigione furono fatti di lui, e che sopportò con costanza
ineffabile, fu dato in preda al carnefice. Non mutò volto, non fe'
atto alcuno indegno di lui; serbò non solo la equalità dell'animo, ma
ancora la serenità. Nè giovò a Pasquale Baffi la dolcezza incredibile
della sua natura, la straordinaria erudizione, l'essere uno dei primi
grecisti del suo tempo, nè l'avere pubblicato una traduzione col
testo dei manoscritti greci di Filodemo trovati sotto le ceneri di
Ercolano. Letterato di primo grado, fu dannato anch'egli all'ultimo
supplizio da chi non aveva altre lettere che del saper sottoscrivere
una sentenza di morte. Fu Mantonè, antico ministro di guerra, condotto
alla presenza di Speciale, e quante volte era interrogato da lui, tante
rispondeva: «Ho capitolato.» Avvertito apprestasse le difese, rispose:
«Se la capitolazione non mi difende, avrei vergogna di usare altri
mezzi.» Condannato a morte, camminava col capestro al collo, in mezzo
a' suoi compagni, con fronte alta e serena, tra sdegnoso e generoso.
Salite, senza mutare nè viso nè atto, le fatali scale, dimostrò che
l'uomo, quantunque percosso dalla fortuna, è più forte di lei, e che
non lo spaventa la morte. I raccontati supplizi, siccome d'uomini,
partorirono maraviglia insieme e pietà in coloro che non ancora di
ogni affetto umano si erano dispogliati; ma più maraviglia che pietà:
il seguente, siccome di donna, mosse più a pietà che a maraviglia;
pure a grandissima maraviglia strinse i circostanti. Eleonora Fonseca
Piementel, donna ornata d'ogni genere di letteratura, ed ancor più
di virtù, da Metastasio lodata, fu condannata a perder la vita sulle
forche piantate in piazza del mercato.

Non tutti i condannati morirono sul patibolo, ma chi più crudelmente
chi meno. I casi d'un Velasso, d'un Fiani destan raccapriccio ed
orrore. Un Pasquale Battistessa, impiccato e portato in chiesa, ivi diè
segni di vita. Rapportato il compassionevole caso a Speciale, mandò
dicendo, il finissero: come Speciale aveva comandato, così fu fatto.
Narransi qui storie d'uomini o di fiere?

Morirono in Napoli per l'estremo supplizio, e tutti con invitto
coraggio, Ignazio Ciaia, Ercole d'Agnese, cittadino di Francia,
ma originario di Napoli, Giuseppe Logoteta, dotto e virtuoso uomo,
Giuseppe Albanese, Marcello Scotti, letterato eruditissimo ed autore
del catechismo de' marinai, un Troisi, sacerdote piissimo e dottissimo,
con molti altri, ornamento e fiore delle napolitane contrade. Fu anche
affetto con l'ultimo supplizio Ettore di Ruvo, condotto, come abbiam
detto, da Pescara a Napoli sotto fede del cardinale. Morì qual era
vissuto, indomito, animoso ed imperturbabile.

La terra di Napoli era fumante di sangue, le acque del mare ne furono
parimente penetrate e tinte. Il principe Francesco Caraccioli, primo
onore e primo lume della napolitana marineria, amato dal re, stimato
dal mondo, dopo più di otto lustri impiegati ai servigi del regno, fece
ancor esso una compassionevole fine. Scoperto da un suo domestico,
fu condotto, legate le mani al dorso, e indegnamente maltrattato da
villani ferocissimi, a Nelson, che tuttavia stanziava nel porto di
Napoli. Convocava l'ammiraglio incontanente al bordo della sua nave
il Fulminante un consiglio militare, a cui diede facoltà ed ordine di
giudicare, se Francesco Caraccioli fosse reo di ribellione contro il
re delle Due Sicilie per avere combattuto la fregata napolitana la
Minerva. Allegò l'accusato per discolpa, averlo fatto per forza, ma
nol potè pruovare. Dannavanlo il consiglio a morte. Nelson comandava
s'impiccasse all'antenna della Minerva, il suo corpo si gettasse
al mare. Il misero principe pregava, dicendo, essere vecchio, non
aver figliuoli che fossero per piangere la sua morte, per questo non
desiderare la vita: solo pesargli il morire da malfattore; pregare, il
facessero morire da soldato. Le compassionevoli preghiere non furono
udite. Volle il condannato pregare d'intercessione la donna che era a
bordo del Fulminante; ma Emma Liona non si lasciò trovare. Il capestro
adunque, come piacque all'Inglese, strangolò il principe Caraccioli;
il suo corpo gettato al mare. Così fu mandato a morte da Nelson un
principe napolitano, prima suo antico compagno in pace, poi suo nemico
generoso in guerra; ed il giudizio di morte venne da una nave del re
Giorgio.

Grande fu la strage nella capitale, sì pei giudizii, sì per la rabbia
popolare. Non fu minore nelle provincie: perironvi in modo sempre
violento, spesso crudele, quattro mila persone, quasi tutte eminenti
o per dottrina o per lignaggio o per virtù; carnificina orribile.
Pure ne tocca raccontare un altro caso. Domenico Cimarosa, cui tutta
la generazione proseguiva con infinito amore per le sue mirabili
melodie, cui chiunque non era straniero alla delicatezza del sentire,
era obbligato di tanti affetti soavi pruovati, di tante tristi ed
annuvolatici cure scacciate, non trovò grazia appo coloro che reggevano
le cose di Napoli con le ire, e le ire coi supplizii. Pregato, egli
aveva composto la musica per un inno repubblicano. Venuta Napoli in
mano dei sicarii, furono primieramente le sue case saccheggiate, anzi
il suo gravicembalo, fonte felicissimo di canti amabili, gittato per
le finestre a rompersi sulle dure selci; poi egli medesimo cacciato
in prigione, dove stette ben quattro mesi, e vi sarebbe stato ancora,
se i Russi ausiliarii del re non fossero giunti a Napoli. Saputo il
caso, e non avendo potuto ottenere dal governo napolitano, al quale
l'avevano domandata, la sua liberazione, generale ed ufficiali corsero
al carcere, e l'italico cigno liberarono. Così in una Italia, in una
Napoli, la salute venne a Cimarosa dall'Orsa.

Essendo caduta nelle due estremità d'Italia la potenza dei Franzesi,
restava ancor in poter loro la romana repubblica, ma non sì che non
si vedesse vicina la inevitabile rovina loro anche in questa parte.
Suonavano dentro e d'intorno le armi dei confederati o regolari o
collettizie. Avevano gli Aretini, sempre infiammati nell'impresa loro
contro i Franzesi, in ciò secondati anche dai Cortonesi, avendo le due
città in così grave occorrenza posto in disparte le antiche emulazioni,
fatto un moto importante sulle rive del Trasimeno, e sforzato Perugia
ed il suo forte alla dedizione. A questo modo si erano posti in
mezzo, onde i Franzesi rimasti alla guardia di Roma e dei luoghi
circonvicini non potessero più comunicare coi loro compagni, che se ne
stavano assediati in Ancona. Lo Stato romano quasi tutto tumultuava,
e tornava all'obbedienza pontificia. Furonvi al solito uccisioni,
rapine, ingiurie a uomini e a donne, con tutte le altre pesti indotte
dai popoli mossi a romore. Da una altra parte nè Froelich, che aveva
nella Romagna il governo delle genti, nè il re di Napoli, dopo la
ricuperazione del regno, avevano trasandato le romane cose. Ad essi
accostavansi gl'Inglesi con qualche squadra di genti da terra e con
navi condotte dal capitano Trowbridge nelle acque di Civitavecchia.

Adunque la repubblica romana era chiamata a ruina da tutte le parti. Nè
il generale Garnier, che ne stava alla custodia, perduto avendo ogni
speranza di soccorso, e mancando di genti, poteva resistere a tanta
piena. Froelich faceva impeto in primo luogo contro Civitacastellana,
ed avendola occupata, facilmente si incamminava a Roma dalla parte
bassa, salivano i Napolitani, condotti da un Burcard, Svizzero, e
turbavano tutto il paese sulla riva sinistra del Tevere. Erano con
loro gl'Inglesi di Trowbridge, che, procurata prima la resa di Capua
e di Gaeta, se ne venivano alla conquista di Roma. Usciva Garnier
alla campagna, piuttosto per non capitolare senza combattere, che
per combattere per vincere. Fuvvi un duro e lungo incontro tra i
repubblicani sì franzesi che romani da una parte, e i Napolitani
dall'altra, presso a Monte rotondo. Ritiraronsi i Napolitani ai luoghi
più alti e montuosi. Non erano ancora i soldati di Garnier riposati
dalla fatica della battaglia di Monterotondo, che li conduceva contro
Froelich; ma, sebbene con molto valore combattesse, fu costretto a
ritirarsi nelle mura di Roma, restando in suo potere le sole fortezze
di castel Sant'Angelo, Corneto, Tolfa e Civitavecchia. Questo fatto
diè cagione di risorgere anche ai Napolitani dall'altra parte.
Perlochè, riavutisi dalla rotta di Monterotondo, s'avviarono di nuovo
contro Roma. Posero gli Austriaci le loro prime guardie alla Storta,
i Napolitani a Portaromana ed a Pontemolle. Consideratosi da Garnier
il precipizio delle cose, e pensando che il cedere a tempo sarebbe
non solamente la salute de' suoi, ma ancora quella dei repubblicani
di Roma, che avevano seguitato la fortuna franzese, aveva introdotto
una pratica d'accordo con Trowbridge, quale fu condotta a perfezione e
sottoscritta da ambe le parti il dì 25 settembre.

Le principali condizioni furono le seguenti: uscissero i Franzesi
da Roma, Civitavecchia, Corneto e Tolfa con ogni onore di guerra;
serbassero le armi, non fossero prigionieri di guerra; si conducessero
in Francia od in Corsica; i Napolitani occupassero castel Sant'Angelo
e la Tolfa, gl'Inglesi Corneto e Civitavecchia; i Romani che volessero
imbarcarsi coi presidii franzesi, e trasportar le proprietà loro, il
potessero fare liberamente, e quei che rimanessero, e che si fossero
mostrati affezionati alla repubblica, non si potessero riconoscere
nè delle parole nè degli scritti nè delle opere passate, e fossero
lasciati vivere quietamente, sì veramente che vivessero quietamente e
secondo le leggi. Penò qualche tempo Froelich a consentire all'accordo;
commise ancora qualche ostilità; ma finalmente vi accomodò l'animo,
e voltate le bandiere verso l'Adriatico, se ne giva all'assedio di
Ancona, sola piazza che nello stato romano ancora si tenesse pei
repubblicani. S'imbarcarono i Franzesi a Civitavecchia, e con essi
tutti coloro fra' Romani che stimarono più sicuro lo esilio che il
commettersi ad un governo provocato con tante ingiurie.

Burcard occupò primo la città, poscia vi venne don Diego Naselli, dei
principi d'Aragona, mandato da Ferdinando con potestà suprema militare
e politica, per ridurre a qualche sesto le cose scomposte dalla
rivoluzione, innanzichè il governo pontificio vi fosse restituito.
Creò un superiore magistrato con titolo di suprema giunta del governo;
aggiunse un tribunale di giustizia sotto il nome di giunta di Stato,
ufficio del quale fosse che la quiete dello Stato non si turbasse, e
chi la turbasse fosse castigato. La suprema giunta notò i beni venduti
ai tempi della repubblica come nazionali, ed abrogò le vendite fatte,
riserbando agli spossessati il ricorso pei compensi: contenne il
libero scrivere, frenò la licenza del vestire sì degli uomini che delle
donne, e richiamò ai luoghi loro le suppellettili rapite o vendute del
Vaticano e delle chiese, rimborsando però il valore a chi le avesse
comperate. Inibì l'ingresso e la dimora in Roma a tutti che avessero
avuto cariche nella repubblica, e bandì da tutto lo Stato romano i
cinque notai capitolini, che avevano rogato l'atto della sovranità
del popolo e della deposizione del sommo pontefice. Oltre a ciò, i
beni dei repubblicani furono generalmente sequestrati, poi confiscati:
gran numero di coloro che avevano partecipato nel governo precedente,
dopo di essere stati esposti ad infinite vessazioni ed insulti, furono
gettati in carcere. Violavasi così la capitolazione; del resto, non si
fece, come a Napoli, sangue, moderazione degna di molta lode. Ma la
sfrenatezza delle soldatesche napolitane suppliva in questo, perchè,
oltre al rubare nelle botteghe e nelle strade, il giorno come la
notte, uccisero anche parecchie persone che vollero difendersi dalla
loro rapacità. Questi delitti andavano impuniti. Roma, offesa dai
Napolitani, era compresa da un altro terrore.

Le vittorie di Kray e Suwarow avevano posto in mano degli alleati la
valle del Po, quelle di Ruffo e le mosse dei sollevati di Toscana,
tolto al dominio dei Franzesi e dei repubblicani il regno di Napoli,
lo Stato romano e la Toscana. Sulla destra degli Apennini, altra sedia
non avevano più i Franzesi che Genova con la riviera di Ponente, sulla
sinistra Ancona. Conservavano gelosamente i repubblicani il Genovesato,
perchè, siccome prossimo ai loro territorii, poteva facilmente servir
loro di scala al racquistarsi il Piemonte e l'Italia. Ma Ancona tanto
lontana non poteva più avere speranza di far frutto importante, ed il
volervisi tenere più lungo tempo era piuttosto desiderio di buona fama
e gelosia di onore, che pensiero di arrecar qualche momento nelle sorti
della guerra. Tuttavia non si smarriva d'animo il generale Monnier,
che stava al governo della piazza con un presidio che, tra Franzesi,
Cisalpini e Romani, non passava tre mila soldati, e forse nemmeno
arrivava a questo numero. La piazza, la quale, ancorchè munita di
una forte cittadella, non ha in sè molta fortezza per essere dominata
dalle eminenze vicine, era, per la diligenza usata da Monnier, divenuta
fortissima: non si poteva venir agli approcci della piazza, se prima
non erano sforzate le fortificazioni esteriori, effetto difficile a
conseguirsi per la natura dei luoghi.

Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati.
Una flotta turca e russa, governata dall'ammiraglio Woinowich, e
comparsa nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto,
perchè nuovo fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui
lidi circonvicini. Quest'era la flotta che, già vincitrice di Corfù,
intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sulle italiche terre coi
Turchi e coi Russi i Barbari dell'Epiro. Quivi veniva pure un navilio
sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra ed infestare
le spiaggie marittime. Dalla parte del regno, gli abitatori delle
rive del Tronto si erano levati a romore, ed, accompagnati da qualche
nervo di genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di
stringere il presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della
Romagna, tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro
e Fano, voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta
importanza. Sinigaglia stessa titubava. Niuna cosa più restava sicura
ai repubblicani che le anconitane muraglie.

Eransi le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da sè stesse, ma
s'aggiunse loro, sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del
generale cisalpino Lahoz. Era Lahoz stato stromento potente ai Franzesi
per turbare l'antico stato d'Italia. Amico al generale Laharpe, aveva
militato con lui, e, com'egli, nodriva l'animo volto a libertà. Mutò
poi linguaggio e fatti, sì che Montrichard, a cui era subordinato,
risapendone i maneggi, e veduta l'importanza del caso, gli toglieva
l'autorità sul dipartimento del Rubicone, mandando Hullin per
arrestarlo. Ma Lahoz, avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si
era schivato, e mandando fuori apertamente quello che si aveva concetto
nell'animo, gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro
Francia.

A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva
combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle che Froelich
conduceva dallo Stato romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le
squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a
destra dei monti che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del
Tronto per quivi abboccarsi con Donato de Donatis, alle bande del quale
molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano
per condottieri i nobili Sciaboloni, Cellini e Vanni. L'arrivo di un
generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano molto
confortava questi capi, perchè speravano che per opera di lui quelle
genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito
regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie,
le rendeva sperimentate negli usi del muoversi, del marciare, del
combattere. Concorrevano cupidamente tratti dal nome suo gli Abruzzesi,
e fecero massa tale che da Ascoli passando per Calderola, Belforte,
Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano con guardie non
interrotte fino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal modo tutto il
paese all'intorno d'Ancona.

Monnier, non volendo lasciarsi ristringere nella piazza, usciva
fuori alla campagna per combattere fazioni che non potevano portare
che danno per lui, perchè aveva poche genti e non modo di ristorare
i soldati perduti con nuovi, mentre i collegati, per avere i mari
aperti e le popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente
aggiungere genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa
risoluzione di Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a
distruzione d'uomini e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente
la licenza. Ascoli, Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro ed
altre città della Marca, belle tutte e magnifiche, prese e riprese per
forza parecchie volte, ora dall'una delle parti ed ora dall'altra,
pruovarono quanto la licenza militare ha in sè di più atroce e di
più barbaro. Finalmente successe quello che era impossibile che non
succedesse, cioè che, moltiplicando sempre più le genti collettizie di
Lahoz e le regolari de' collegati, e venute in mano loro Jesi, Fiume,
Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro, Osimo, Castelfidardo e perfino
Camurano, terra posta a poca distanza da Ancona, fu costretto Monnier
a serrarvisi dentro ed a far difesa dei suoi le mura fortificate di
lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo in mezzo, s'impadronirono
della montagnola, donde più oltre procedendo, tosto piantarono una
batteria di diciassette cannoni, con la quale bersagliavano il forte
dei Cappuccini, il monte Gardetto e la cittadella.

Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizii della cittadella,
restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso,
ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare
contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le
tre navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyraud,
il Laharpe e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur
un'ancora alla bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte
Pelago, se ne era fatto padrone, e qui con trincee si approssimava a
monte Galeazzo; che anzi, fatto un subito impeto contro di esso, vi
si era alloggiato; ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva
ricacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano
le condizioni dell'anconitana guerra, nè si vedea che gli alleati
potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si
difendevano egregiamente, e di que' di fuori, i Russi erano pochi, i
Turchi ed i sollevati, per l'imperizia loro e la mala altitudine dei
loro istrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della
piazza.

Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich coi suoi Tedeschi, e rendeva
tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si alloggiava
in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro il monte
Galeazzo, confidando anche, per mandarlo ad esecuzione, nell'aiuto dei
collettizii di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel posto, di
battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella presa di
questa eminenza consisteva principalmente la vittoria di Ancona. Due
volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte ne
era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo
conosciuto che finalmente se stesse più lungamente padrone di monte
Pelago e delle trincee che vi aveva fatte e che si distendevano verso
monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi la
possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte
del 9 ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si
combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il
ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere.
Ma un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi
di Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in
viso i combattenti, quando Lahoz, impaziente di quella lunga battaglia,
usciva dall'alloggiamento e dava addosso agli assalitori. Siccome
poi era uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a
caricar l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico
fedele, ora suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro
l'altro, sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad
Italiani. Ed ecco in questo un soldato cisalpino prender di mira Lahoz
conosciuto, e ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i
repubblicani addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo,
gli tolsero le armi ed il pennacchio, che a guisa di trionfo portarono
in Ancona. Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se
non fossero stati presti i sollevati a soccorrerlo.

Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si
ritirava il Franzese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel
nemico una impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz
all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il
dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo, si andò prima dell'ultima
ora rammaricando e giustificando della sua condotta, finchè passava da
questa all'altra vita.

Froelich, piantate le artiglierie in luoghi opportuni, e con esse
battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne
insignoriva. Poi, procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava
al monte Gardetto. Poscia, usando il favore di questa vittoria, dava
il dì 2 di novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito e correva
anche contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano
le porte di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore,
e cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere
quanto potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e
coraggio proprio e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora
dagli assalti i collegati, solo battevano con le artiglierie la
piazza. Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella,
rompevansi le artiglierie degli assediati, la piazza già difettava
di vettovaglie; Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del
monte Gardetto. Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il
generale Skal, portatore delle sinistre novelle de' repubblicani rotti
in tutta Italia, specialmente della novità di Napoli, di Roma e di
Toscana.

Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi e la dignità della sua
patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare,
protestando però volere solamente arrendersi alle armi austriache,
non a quelle dei Russi o dei Turchi o dei sollevati. Patti onorevoli
seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore
di guerra, avesse segurtà di passare in Francia per dove volesse, fino
agli scambi non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una
guardia d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno, di
qualunque nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in
Ancona, o fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro
potesse essere riconosciuto o castigato od in qualunque modo molestato
nè per fatti nè per scritti nè per parole in favore della repubblica,
e chi volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia,
il potesse fare liberamente. Fu e sarà questa capitolazione egregio
e perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così
fra tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano
di Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani e quelli che si erano aderiti
ai Franzesi: tutti gli altri ottennero, o almeno domandarono, la
salvazione di coloro che combattendo o consentendo coi Franzesi,
avevano con tanta cecità contro di sè concitato l'odio degli antichi
signori.

Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi ed i Russi si diedero
al sacco; quelle misere terre, già conculcate e peste da sì lunga
guerra prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio
dopo di lei. Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa
natura, faceva castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori: il
che accrebbe i mali umori e le cause di disunione che già correvano.

Intanto era il direttorio costituito in assai difficile condizione.
Bollivano molte parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui.
La nazione franzese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor
più impaziente per la memoria delle vittorie, dava imputazione per
appagamento proprio a' suoi reggitori delle rotte ricevute e della
perduta Italia. Molteplici querele si muovevano in ogni parte contro
di loro, e il meno che si dicesse era che non sapevano governare.
Quell'impeto ch'era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era per le
ultime rotte svanito. Dominava nei consigli legislativi, secondo
il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per
arrivare ai seggi del direttorio. I soldati nuovamente descritti non
marciavano, i veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti,
le contribuzioni non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile
lacerava le provincie occidentali; chi voleva le opinioni estreme, chi
le mezzane; molti, che sapevano molto bene quello che si volessero, e
molti ancora che nol sapevano, desideravano una mutazione. Nè questa
mutazione era evitabile, perchè nissun governo può resistere in Francia
alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello scrivere e del parlare.
La fazione soldatesca, che mal volentieri sopportava che il paese
fosse retto dai togati, ed alla quale nissun governo piace se non il
soldatesco, guardava intorno se qualche bandiera chiamatrice di novità,
ed alla quale potesse, come a centro comune, concorrere, all'aria si
spiegasse, proponendosi di sottomettere, prima il governo col nome
della libertà, poi il popolo col nome di gloria. Tutte queste cose
vedevansi gli uomini savii, nemici della licenza; vedevanle i faziosi,
amici della tirannide, e tutti pensavano al ridurle ai disegni loro.

In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri
il nome di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto
dai forastieri. Per mille discorsi, nasceva in Francia un desiderio
accesissimo del capitano invitto. Ognuno come redentore il guardava,
ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste
affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo
splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e
da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva ch'ei fosse per fare
ciò che ciascuno desiderava. Insomma, la materia era ben disposta a
ricevere le buonapartiane impronte.

Adunque, già fin da quando si erano udite le prime sciagure d'Italia,
era sorto fra i desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare
Buonaparte dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente,
e si mandò ad effetto quando portò la fama essere morto Joubert,
combattendo nella battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes
quinqueviro, Barras quinqueviro, i generali superstiti dell'esercito
italico, eccettuato Massena, il quale non era punto affezionato
a Buonaparte, ed i fratelli Giuseppe e Luciano Buonaparte. Molto
accomodato a' suoi fini era il procedere di Luciano, che, allettando
con le parole, chiamava a sè ed al nome del suo fratello i gelosi della
libertà e della gloria franzese, i desiderosi della libertà italica,
i cupidi delle spoglie italiche. Viaggiavano le vele, erano quelle di
un bastimento greco, portatrici dei desiderii comuni verso l'Egitto,
correndo la state, del presente anno. L'avviso fu ed accetto ed
opportuno.

Buonaparte, che conosceva ottimamente, per la sua mente pronta e vasta,
per la perizia somma nelle faccende di Stato, e per la cognizione
profonda che aveva di questa umana razza, quanto piena fosse la fortuna
che si parava davanti, e quanto fosse propizia l'occasione di condurre
ad effetto i suoi pensieri smisurati, parendogli eziandio che un mezzo
opportuno gli si offerisse di sottrarsi dall'Egitto, dove le cose sue
cominciavano a declinare, cupidissimamente si avviava alle sue nuove
e straordinarie sorti. Salpava dagli egiziani lidi, conducendo con
sè i suoi compagni più fidati di guerra, perchè aveva bisogno delle
mani e delle armi loro; i dotti ed i letterati più famosi, perchè si
voleva servire, come di aiuto molto potente, della autorità, delle
lingue e degli scritti loro. Arrivava improvviso a Frejus: improvviso
ancora, disprezzate le leggi di sanità, perchè non voleva che la fama
del suo arrivo si raffreddasse, partendo, giungeva nel volubilissimo
Parigi, che bramosamente lo aspettava. Non occorre raccontare le
allegrezze che si fecero in tutta Francia quando si sparse la voce del
suo ritorno; basta che le genti corsero a lui da ogni parte, come a
trionfatore, a salvatore e redentore; già Francia era sua, quantunque
uomo privato e generale senza esercito fosse. Lione soprattutto
tripudiava per un'insolita allegrezza, città ancor sanguinosa per
l'imperio poco anzi spento dei truculenti giacobini, sdegnata per le
leggi soldatesche che contro di lei tuttavia vigevano. Toccò, passando,
i tasti più teneri; favellò di pace, di prospero commercio, di ferite
civili da racconciarsi da un giusto e mansueto governo. I Lionesi
contenti speravano ed amavano. A Parigi, ogni opinione, ogni affezione
si voltava a lui: dava buone parole a tutti, ma insomma pendeva al
moderato, sapendo che tal era il desiderio universale.

Cacciò Buonaparte a punta di baionette i consigli legislativi, cacciò
il direttorio; i soldati pagati dal governo si voltarono contro il
governo: ebbe paura sulle prime, poi fece paura agli altri. Conosce
Europa il dì 9 novembre, da cui poteva nascere un vivere moderato e
largo, e che non pertanto partorì un reggimento duro, tirato, dispotico
e soldatesco.

Pace dentro, pace fuori, parvero a Buonaparte i più forti fondamenti
della sua potenza: i Franzesi, stanchi ed afflitti da sì lunghe
guerre, pace soprattutto desideravano, purchè disonorata non fosse,
del che non temevano con Buonaparte capo. A questi fini indirizzava
egli principalmente i suoi pensieri. Speciale intoppo alla cittadina
concordia gli parevano, ed erano veramente, gli spiriti esagerati, i
quali, non potendo per ambizione riposare sotto alcuna potestà, nemmeno
possono quando sono giunti essi alla potestà suprema, posciachè,
tirannicamente procedendo, decimano prima i popoli, poi sè medesimi,
e tutti i fondamenti dello Stato fan rovinare; non gli era ignoto
che il nome di costoro era odioso in Francia; perciò fece avviso che
molto fosse, per operare a fine di concordia, il cacciare questi
commettitori di scandali, di risse e di sangue: per la qual cosa,
senza rimanersene ai formali giudizii, nè differendo contro di loro
i rimedii severissimi, gli allontanava, confinandoli in terre estreme
o forestiere. Purgata la Francia da questi uomini turbolenti, pensava
al ribandire dal lungo esiglio coloro che avevano seguitate le parti
del re, od almeno destato le esorbitanze che ai tempi più acerbi della
rivoluzione si erano commesse in Francia. Pochi furono eccettuati dal
clemente editto, piuttosto per lasciare un appicco a nuove grazie,
che per altro fine. Rientravano gli esuli, se non sotto i tetti
propri, se non nei beni loro posti al fisco, ma a rivedere i monti,
i fiumi, le valli e l'aere natio: il che era pur parte di felicità.
Gradivano infinitamente queste cose agli amatori del nome reale, e ne
auguravano delle maggiori. Della contentezza loro godeva il consolo,
volendo arrivare alla dominazione assoluta coll'appoggio dei regi e de'
repubblicani. In questi pensieri tanto più volentieri si confermava,
quanto non dubitava che sarebbero andati a grado delle potenze europee,
siccome quelle che vi vedevano l'intenzione data da lui nei campi di
Leoben e di Campoformio, di voler rimettere i Borboni, desiderio primo
e principale dei principi, massimamente dell'imperadore Paolo. Sperava
che con questi mezzi acquisterebbe pace con l'Europa, e tanta potenza
in Francia che potesse senza pericolo finalmente scoprirsi dello
aver preso il dominio per sè, non per altri. Il reggimento statuito
da lui in Francia, di cui parti principalissime erano il senato ed
il corpo legislativo, non gli dava apprensione, perchè del senato lo
assicuravano le ricchezze, del corpo legislativo le ambizioni. L'avere
poi ridotto le amministrazioni delle provincie ad uno invece di molti,
fece gli ordini meglio eseguiti, l'erario pingue: ogni cosa volgeva
alla monarchia. Correndo i soldi, i magistrati obbedivano, i soldati
marciavano: tutti benedicevano il consolo.

A tutti questi maneggi gran momento arrecavano gli scienziati ed i
letterati, siccome quelli che avevano molta autorità sui popoli,
massimamente in Francia, dove erano uniti in certa specie di
congregazioni, non per legge, ma per uso. Per la qual cosa il consolo
gli accarezzava, gli arricchiva, gl'ingrandiva.

Grande flagello, da che aveva principiato la rivoluzione, era
sempre stata la guerra della Vandea, nella quale con infinito furore
combattendo e repubblicani e regi, avevano sterminato popolazioni
intere, desolati paesi altre volte fioritissimi, commesso quello che
solo commettono nelle civili discordie, e forse neanco in queste, gli
uomini arrabbiati gli uni contro gli altri. La forza non l'aveva potuta
spegnere, perchè irritava; le tregue nemmeno, perchè mal fide: ormai
si nominava guerra interminabile. S'accorgeva il consolo quanta grazia
acquisterebbe fra i popoli, se pacificasse quelle terre rosse di tanto
sangue franzese: applicovvi l'animo; venne a capo dell'impresa. Fra
il terrore del suo nome, l'apparato de' suoi soldati, le promesse di
osservare la fede, le speranze segretamente date di voler procedere
più oltre, vennero i capi della Vandea ad una onesta composizione:
la concordia tornava sulle rive dell'insanguinato Ligeri; Parigi
maravigliato vedeva i capi della vandeese guerra. Ammiravano i popoli
il consolo pacificatore, uguale nel far le guerre, uguale nel far le
paci.

Forti amminicoli a quanto macchinava pensava che fossero gli uomini di
Chiesa tanto maltrattati dal direttorio. Volle racquistarli. Diè patria
ai preti fuorusciti, libertà ai carcerati, sicuro vivere ai nascosti.
Queste cose faceva apertamente, molto altre prometteva segretamente.
Si aggiunse che onorò con pietosi uffizii Pio VI, papa morto, che aveva
perseguitato vivo. Il suo favellare maravigliosamente piaceva a coloro
che sentivano ancora di religione, massimamente ai ministri di lei.
Già non solo vincitore e riformatore generoso del governo di Francia,
ma ancora instaurator pio dell'antica sua religione il chiamavano.
Vacando il trono pontificale per la morte di Pio VI, eransi a questo
tempo adunati i cardinali in conclave a Venezia per intendere alla
elezione del nuovo pontefice. Temeva il consolo che si cercasse un
pontefice troppo avverso agl'interessi di Francia e proprii; perciò
andava moltiplicando ne' suoi segni di affezione verso la religione,
e nutriva con grandi speranze i ministri di lei. Si poteva facilmente
pronosticare da questi primi favori ch'ei volesse venirne, quanto
alle faccende ecclesiastiche, ad ordini legittimi e definitivi. Ciò
era cagione che i cardinali raccolti in Venezia non disperassero di
Francia, e non consentissero ad innalzare al pontificato un cardinale
che si fosse dimostrato troppo contrario a lei.

Ma primo ed universale desiderio della Francia, tanto rotta e
sanguinosa, era la pace. Questa inclinazione assecondava il consolo,
non che sperasse di ottenerla con tutti, ma l'offerirla a tutti gli
pareva conferente a' suoi pensieri. Stimava che a' suoi fini molto
valesse e fosse molto ricercata dalle cose presenti, se non la pace,
la offerta almeno della pace all'Inghilterra. Scriveva una molto bene
elaborata lettera al re Giorgio. Rispose acerbamente per bocca del
ministro Grenville il re Giorgio. A questo modo furono abbandonati
i ragionamenti della concordia tra Francia ed Inghilterra. Pure ciò
consegui il consolo, che la continuazione della guerra s'imputasse non
a lui, ma al re Giorgio.

Erano tra Francia ed Inghilterra odio vivo, interessi diversi,
vicinanza gelosa, pace difficilissima: molto diverse condizioni
passavano tra Francia e Russia; A questa non fu avaro di promesse e
di protestazioni Buonaparte; Paolo si lasciava muovere; il consolo,
per fargli dar volta intieramente, pagava, provvedeva di tutto punto
e rimandava liberi al loro signore i soldati russi fatti prigionieri
nelle guerre di Svizzera e di Olanda. Parve atto generoso ed arra
conveniente dei disegni avvenire. Da tutte queste cose mosso il sovrano
di Russia, voltando lo sdegno, siccome quegli che era subito nelle
sue risoluzioni, da Francia contro Inghilterra, il riceveva nella
sua amicizia, e si riduceva alla sua volontà, dichiarando non volere
più partecipare nella lega, e richiamava in Russia le sue genti che
ancora stanziavano in Germania. Poscia, accendendo vieppiù le speranze
dategli, rinnovava contro la potenza marittima dell'Inghilterra i patti
della lega del Nord, cacciava da Pietroburgo gli agenti del re Giorgio,
imputando agl'Inglesi l'esito infelice della spedizione d'Olanda.
Così Paolo, scostandosi dall'amicizia d'Austria e d'Inghilterra, si
precipitava in quella di Francia.

Rappacificatosi Buonaparte coll'imperatore Paolo, pensava a confermarsi
l'amicizia della Prussia. Non gli accadde di sforzarsi molto in
queste faccende, perchè ottenne facilmente che Federico Guglielmo,
perseverando nell'amicizia fermata a Basilea, consentisse alle ultime
mutazioni fatte in Francia, e lui come capo del governo franzese
riconoscesse.

L'Austria restava sul continente contro la Francia. Tentava il consolo
l'animo dell'imperatore Francesco, offerendogli di tornare alla
capitolazione di Campoformio con quel di più che si negozierebbe per
sicurezza delle monarchie e delle possessioni austriache in Italia.
Ripugnava l'Austria al rinunziar del tutto ai frutti delle ultime
vittorie, nè si fidava punto delle promesse di Buonaparte. In questo
mezzo si accostarono le istigazioni dell'Inghilterra, molto intenta
a difficoltare queste pratiche, perchè vedeva nel mondo quieto la
sua ruina. Offeriva denaro e cooperazione sulle coste di Francia.
Per le quali cose, e considerato altresì che i veterani di Buonaparte
erano periti o di peste in Egitto, o di ferro in Italia, si risolveva
Francesco a ricusare la concordia. Godeva Buonaparte parimente
dell'offerta e della rifiutata pace, perchè non aveva sincero desiderio
di convenire coll'Austria. Così, fermando la maggior parte del mondo in
suo favore, confermava in Francia i contenti, cattivava gli scontenti,
e parte con fatti, parte con isperanze, conseguiva che l'universale
dei Franzesi amasse il suo governo, desiderasse la sua grandezza, e
volentieri si disponesse a fare quanto si bramasse: precipitavano i
popoli a tutte le sue volontà. Tutta Francia correva alle nuove sorti,
e se Buonaparte generale l'aveva fatta gloriosa in guerra, tutti
confidavano che Buonaparte consolo la farebbe e gloriosa in guerra e
felice in pace.

Quanto alla guerra, ottimamente considerati furono i suoi consigli:
mandava nuove genti, quasi tutte veterane, a Moreau, confermato da
lui al governo dei Renani, il quale doveva sostenere il pondo degli
Austriaci in Germania. Dall'altro lato, avendo sempre più i pensieri
accesi alla ricuperazione d'Italia, inviava in Liguria Massena, acciò
facesse pruova di tener lontano il nemico dalle frontiere di Francia, e
conservasse il possesso di Genova, fino a tanto che egli medesimo con
un forte esercito arrivasse nelle pianure d'Italia. Congregava molti
soldati veterani e molti nuovi in Digione, donde pensava, secondochè
gli mostrasse il tempo e le occasioni, o di condursi in Germania, se
Moreau abbisognasse del suo aiuto, od in Italia, se il generale dei
Renani combattesse felicemente. Di questo aveva grande speranza per
la perizia di Moreau e la fortezza delle genti accolte sotto a lui.
Per la qual cosa il suo principale intento era di condurre le genti
adunate in Digione, che col nome di esercito di riserva chiamava
nei campi d'Italia, pieni ancora della fama di tante sue vittorie. A
questo modo adunque ordinava la guerra contro l'Austria, che nel corno
destro estremo guidasse i repubblicani Massena, nel sinistro Moreau,
nel mezzo prima Berthier, poi egli stesso. Certamente nè più pruovati,
nè più eccellenti, nè più famosi capitani di questi non erano mai
stati al mondo, e da loro aspettavano gli uomini maravigliati fatti
maravigliosi.

Essendo la guerra imminente gridava con la vincitrice voce Buonaparte
ai suoi soldati:

«Quando promisi la pace, in nome vostro la promisi; voi siete quegli
uomini medesimi che conquistaste l'Olanda, il Reno, l'Italia, voi
quegli stessi che, già vicini, forzaste alla pace la spaventata
capitale nemica. Soldati, avete voi ora ben altro carico che quello
di difendere le frontiere vostre: ite, invadete, conquistate i nemici
territorii. Voi foste già tutti a molte guerre, voi sapete che, per
vincere, e' bisogna soffrire: in poco d'ora non si possono ristorare
i danni d'un cattivo governo. Dolce sarammi, a me, primo magistrato
della repubblica, il poter dire alla Francia attenta: Questi sono
i più disciplinati, i più bravi sostegni che si abbia la patria.
Sarò, soldati, quando sia venuto il tempo, sarò con voi. Accorgerassi
l'Europa che voi siete quella valorosa stirpe che già tante volte a
maraviglia la costrinse.» Così, aggiungendo impeto a valore, faceva
uomini fortissimi alle battaglie.

L'esercito italico, afflitto dalle disgrazie, titubava; i soldati
rompevano i freni dell'obbedienza: già la stagione si rendeva propizia.
Buonaparte vincitore mandava loro dicendo: «Non odono le legioni le
voci dei loro ufficiali; lasciano, la diecisettesima sopra tutte, le
insegne. Adunque son morti tutti i bravi di Castiglione, di Rivoli, di
Newmarket? Avrebbero essi eletto il perire piuttosto che abbandonar
le insegne. Voi parlate di provvisioni manche: che avreste fatto,
se, come la quarta e la vigesimaseconda leggiere, la diciottesima
e la trigesimaseconda grosse, fra deserti, senza pane, senz'acqua,
a mangiar ridotte carni di sozzi animali, trovati vi foste? La
vittoria, dicevano, ci darà pane, e voi disertate le insegne! Soldati
dell'esercito italico, un nuovo generale vi governa; quando più
splendeva la gloria vostra, ei fu sempre il primo fra i primi. In lui
fidatevi; con lui andrete a nuove vittorie. Sarammi, così comando, dato
conto di quanto ogni legione farà, massime la diciasettesima leggiera
e la sessagesimaterza grossa: ricorderannosi della fede che già ebbi in
loro.»

Queste parole maravigliosamente accendevano quegli animi valorosi. Era
l'esercito italico, in cui si noveravano poco più di venticinque mila
soldati, distribuito nelle stanze in modo che la destra, governata
dal generale Soult, da Recco in riviera di Levante sino a Cadibuona e
Savona si distendeva: presidiava Gavi e Genova, in cui alloggiava, il
generalissimo Massena. La sinistra, che obbediva al generale Suchet,
custodiva la riviera di Ponente da Vado sino al Varo, con presidii
posti nei principali luoghi e nei sommi gioghi delle Alpi marittime;
fronte certamente troppo lunga per potersi guardare convenientemente
con sì poche genti. Ma Genova necessitava i consigli dei Franzesi,
perchè importava ai disegni ulteriori del consolo ch'ella si tenesse
lungamente, e voleva Massena conservarvi un campo largo per le tratte
delle vettovaglie, di cui penuriava, il che l'aveva fatto risolvere a
non cedere le riviere se non quando a ciò fosse sforzato.

Da un'altra parte Melas, abbenchè fosse guerriero avveduto e
sperimentato, e forse appunto perchè era, non poteva persuadere a
sè medesimo che le genti raccolte in Digione fossero una tempesta
che avesse a scagliarsi contro l'Italia. Non misurava egli bene la
prontezza di Buonaparte, nè la docilità dei Franzesi a scorrere là dove
il nome suo e la sua voce li chiamavano. Laonde ei se ne viveva troppo
alla sicura su quanto potesse succedere alle spalle e sul suo destro
fianco.



    Anno di CRISTO MDCCC. Indizione III.

    PIO VII papa 1.
    FRANCESCO II imperadore 9.


Gli Austriaci, che molto prevalevano in numero a Massena, erano
per modo alloggiati, che tutto il territorio ligure fasciando, da
Sestri di Levante per le sommità degli Apennini opposte a quelle
che occupavano i Franzesi, si distendevano fino al colle di Tenda.
Governavano a sinistra Otto, poi, seguitando a destra, Hohenzollern, il
generalissimo Melas, Esnitz, e finalmente sulla estrema punta destra
Morzin. Accingendosi Melas ad invadere il Genovesato, mandata prima
una grida ai Genovesi piena di generose parole, aveva condotto il
grosso de' suoi alle stanze delle Cercare, intendimento suo essendo di
spingersi avanti, cacciando gli avversarii dai sommi gioghi a Savona,
per separare e disgiugnere in tale modo l'ala sinistra dei Franzesi
dalla mezza e dalla destra che combatteva nella riviera di Levante.
Ottenuto il quale intento, gli si spianava la strada, essendo questo
l'ultimo fine de' suoi pensieri, a serrare Massena dentro Genova ed a
costringerlo alla dedizione.

Spuntava appena il giorno 6 aprile che i Tedeschi, partendo dalle
Cercare divisi in tre schiere, s'incamminavano alle ordinate fazioni.
La mezzana, condotta da Mitruschi, marciando per Altare e per Torre,
si avvicinava a Cadibuona, posto molto fortificato dai Franzesi, e
chiave e momento principale di tutta quella guerra. Il generale San
Giuliano colla sinistra faceva opera d'impadronirsi di Montenotte, per
quinci accennare contro Sassello, dove alloggiava un grosso corpo di
repubblicani. Finalmente la destra, che obbediva ad Esnitz ed a Morzin,
passando per le Mallare ed avvicinandosi alle fonti della destra
Bormida, aveva carico di sforzare i passi del monte San Giacomo.

Si combattè da prima da ambe le parti molto valorosamente a Torre,
avendo gli Austriaci il vantaggio del numero, i Franzesi del luogo.
Finalmente superarono i primi quell'antiguardo, e tutto lo sforzo
si ridusse sotto le trincee di Cadibuona. Quivi fu molto duro
l'incontro, e la battaglia si pareggiò lungo tempo; ma finalmente
fe' dare il crollo in favore dell'armi imperiali la mossa di un
valoroso battaglione di Reischi, il quale, assaltate di fianco le
trincee, costrinse i repubblicani alla ritirata, non senza tale
disordine delle ordinanze, che, se non fosse stato presto Soult a
sopraggiungere con aiuti freschi, sarebbero stati condotti a molta
ruina. Ma non potè nemmeno la presenza e l'opera di Soult ristorare
la fortuna; perchè gli Austriaci, seguitando l'impeto della vittoria,
obbligarono il nemico a ricoverarsi al monte Aiuto, munito ancor
esso di qualche fortificazione. Volle Melas torre quel nuovo ricetto
al nemico: mandò all'assalto Lattermann e Palfi, che, fortemente
urtando da lato e da fronte, sloggiarono i Franzesi da quel forte
sito, e se ne impadronirono. Fecero i repubblicani una nuova testa
a Montemoro: Melas, combattendoli da fronte, e girando loro alle
spalle ed ai fianchi, e dando perciò loro timore di essere tagliati
fuori, li costrinse a dar indietro, col ritirarsi disordinatamente
a Savona. Seguitaronli, pressandoli molto alla terga, i vincitori, e
con essi alla mescolata entrarono nella città. Soult, non istandosene
ad indugiare, introdotta nella fortezza quanta vettovaglia potè in
quell'improvviso e pericoloso accidente, si ritirava a Varaggio.
Riuscirono molto micidiali questi incontri alle due parti: i Franzesi
patirono di vantaggio, trovandosi in minor numero.

Frattanto Esnitz aveva assaltato monte San Giacomo custodito da Suchet,
che virilmente vi si difese qualche tempo; ma, vincendo gli Austriaci
in varii punti, entrarono vittoriosi in Vado. Suchet per le terre
di Finale, Gora, Bardino, la Pietra e Loano indietreggiava fino a
Borghetto. Nè meno felicemente si era combattuto per gli Austriaci in
riviera di Levante ed alla Bocchetta; perchè Otto, assaltando i diversi
posti, aveva costretto i Franzesi alla ritirata. La Sturla sotto,
il Bisagno sopra separavano in fine i due nemici, e gli Austriaci
dall'eminenza del monte delle Fascie vedevano ed erano veduti da
Genova.

Fortissimo era l'alloggiamento dei Franzesi alla Bocchetta e molto
ardua la sua espugnazione, avendo voluto assicurarsi di quella
strada facile ed aperta contro il nemico che venisse dai piani della
Lombardia. Gli assaltava Hohenzollern coi due reggimenti di Kray e
d'Alvinzi condotti dal generale Rousseau, e l'una dopo l'altra, non
senza però molto contrasto e sangue, si recava in mano, conquistando
tutte le trincee e le artiglierie che le guernivano. Per la quale
fazione acquistarono gli Austriaci il passo delle valle della Polcevera
con la facoltà di stringere più da vicino Genova. Rannodaronsi i
Franzesi a Pontedecimo.

Massena, che prevedeva che non avrebbe potuto tenersi lungamente
in Genova, se gl'imperiali fossero troppo vicini alle mura, perchè
più presto gli sarebbero mancate le vettovaglie, fece pensiero di
allargarsi. Siccome poi era uomo generoso e d'animo invitto, non
contentandosi al volersi acquistare un campo più largo, benchè
fosse molto inferiore pel numero dei soldati al nemico, si delibera
a far opera di rompere gli Austriaci sulle alture di sopra Savona,
per ricongiungersi con l'ala governata da Suchet. Ma l'evento della
guerra ed il destino di Genova erano per giudicarsi sulla riviera
di Ponente. Marciava Massena inferiormente più accosto al mare per
assaltar Montenotte, Soult superiormente e a destra per impadronirsi
di Sassello, quindi del monte dell'Armetta, poi di Mioglio e del ponte
Invrea. Quivi avrebbe potuto unirsi a Massena venuto da Montenotte,
per indi marciare uniti verso il Cairo, confidando anche di trovarvi
Suchet. Soult, combattendo il nemico, restava superiore, nè più
altro impedimento gli restava a superare per arrivar al compimento
del suo disegno per al Cairo, se non se i posti di Moglio e di ponte
Invrea. Vi sarebbe anche riuscito, se la fortuna si fosse scoperta
tanto favorevole a Massena quanto si era scoperta a lui. Ma le cose
succedettero sinistramente nella parte condotta dal generalissimo;
poichè Melas in questo pericoloso punto, non turbata la mente nè
diminuito l'animo, si appigliava prestamente ad un partito; ed
avvisando che l'evento della battaglia pendeva appunto dalla schiera
di Massena, e che se gli fosse venuto di obbligarla a ritirarsi rotta
e sconquassata, sarebbe stato obbligato Soult a tornare addietro, la
fazione riuscì come l'aveva preveduta. Assaltati i Franzesi da ultimo
con molta forza a Cogoletto; bersagliati al punto stesso dagl'Inglesi
accostatisi al lido colle loro barche armate di artiglierie; finalmente
venne a precipitarsi contro di loro la cavalleria austriaca. Pressati
da tutte bande, non poterono resistere, e disordinati si ritirarono
precipitosamente ad Arenzano, ma piuttosto per modo di posata che
d'alloggiamento stabile.

Massena, non credendosi sicuro in questa terra, si ritirava più
indietro fino a Voltri, soltanto per aspettarvi Soult, che percossi
in vano con assalto ponte Invrea e Mioglio, e udito il caso sinistro
di Massena, si ritirava a presti passi. Infatti si raccozzarono i due
generali della repubblica a Voltri. Melas, riunite tutte le sue forze,
ne li cacciava, e perseguitandoli aspramente con faci accese, perchè
era sopraggiunta la notte, li costringeva a varcare la Polcevera sul
ponte di Cornigliano, a ripararsi del tutto dentro le mura di Genova ed
a desistere da qualunque assalto alla campagna.

Mentre che le cose dell'armi procedevano in questa forma a Voltri,
Otto aveva ricacciato Miollis dai monti Cornua e delle Fascie, per
modo che il francese, impotente al resistere, aveva preso partito di
ritirarsi nella valle del Bisagno e sulla destra sponda della Sturla.
Così Massena privato della campagna si era ridotto a difender Genova
ed i luoghi più vicini. Intanto le frontiere della repubblica sull'Alpi
Marittime restavano esposte all'impeto tedesco.

Piantava il generalissimo d'Austria il suo alloggiamento in Sestri di
Ponente; ma non volendo lasciar indebolire la fama dei recenti fatti,
nè dare tempo a Suchet di ricevere rinforzi, si accingeva a cacciare
per forza il generale di Francia da tutta la riviera di Ponente.
Vinselo in una fazione improvvisa a Torìa: recatosi in mano il colle
di Tenda, il minacciava alle spalle e sul fianco sinistro. Suchet,
ch'era capitano esperto, avendo fatto quanto per lui si poteva con le
poche forze che gli restavano, per ritardare il corso al nemico, si
ritirava sulle terre dell'antica Francia oltre il Varo. Il seguitava
l'Alemanno, ed impossessatosi di tutta la contea di Nizza, compariva
sulla sinistra del fiume. La principale forza dei Franzesi era a San
Lorenzo. Vennero quivi ad annodarsi alcuni reggimenti, sebbene deboli,
di regolari; chiamavano le guardie nazionali della Provenza. Aveva
Suchet provveduto che un telegrafo piantato sul forte di Montalbano lo
informasse ad ora ad ora delle mosse di Melas. Ciò fu cagione che non
così tosto il Tedesco faceva un apparecchio, il Franzese si apprestasse
a combatterlo. Intanto si combatteva aspramente sulle rive del Varo.
Due volte i Tedeschi assaltarono con singolare audacia il ponte; due
volte furono con uguale valore risospinti. In tal modo con somma sua
lode, ed utilità grande della repubblica difendeva Suchet il territorio
di Francia, e secondava l'opera immensa concetta dal consolo.

Già il canuto e vittorioso Melas si accorgeva che era caduto
nell'insidia tesagli dal giovane guerriero, e che, non che fosse tempo
di conquistar la Provenza lasciatagli a bella posta quasi in preda, gli
era forza pensare di conservar, se ancora potesse, l'Italia. Erangli
giunti i primi avvisi del calarsi Buonaparte dalle Pennine Alpi: ebbe
sulle prime il fatto in poco conto; errò nel credere che il consolo
fosse uomo da comparir debole sulle sommità delle Alpi; avrebbe anzi
dovuto persuadersi che dov'era Buonaparte, là fosse tutta la fortuna
della guerra, là covasse la rovina sua. Mandava sui primi romori una
schiera in Piemonte pel colle di Tenda; ma quando s'accorse che se la
fama era stata grande, il fatto era più grande ancora, si risolveva
a torsi velocemente da quell'estremo ed infruttuoso campo, dove
combatteva per condursi in quei luoghi nei quali vincitore avrebbe
a fare con vincitore. Ordinava Melas ad Esnitz, che aveva lasciato
alla guerra contro Suchet, prestamente si tirasse indietro, e venisse
a raggiunger Otto, che instava contro Genova, se Genova ancora si
tenesse, o lui stesso nei piani d'Alessandria, se la capitale della
Liguria già avesse ceduto all'armi d'Austria. Ritiravasi Esnitz,
seguitavalo velocemente Suchet. Serratogli il passo pel Genovesato, si
riparava l'Alemanno per la valle di Ormea nelle piemontesi contrade; il
Franzese, spintosi avanti, stringeva il castello di Savona.

A questo tempo consisteva la guerra in due accidenti principalissimi:
l'assedio di Genova e la scesa di Buonaparte in Italia: l'uno
era strettamente congiunto all'altro. Otto faceva ogni sforzo per
impadronirsi della piazza, bramando di poter correre alla guerra
definitiva nei campi d'Alessandria. Massena, che per coraggio e per
l'arte de' suoi ufficiali e dei patriotti fuorusciti del Piemonte,
che andavano e venivano a portar novelle, traversando con estremo
pericolo loro gli alloggiamenti dei Tedeschi, era bene informato di
quanto accadesse sulle Alpi Pennine, desiderava, più lungamente che
possibil fosse tenerla per la ragione contraria. Nacquero da questa sua
ostinazione fatti molto memorandi e tali che raramente si leggono nei
ricordi delle storie. La città capitale della Liguria, posta a guisa di
anfiteatro, donde ella fa magnifica mostra, sul dorso dell'Apennino tra
la Polcevera e il Bisagno, è chiusa da due procinti di mura, uno più
largo, l'altro più stretto. Sono questi due procinti muniti di bastioni
e di cortine consenzienti alla natura del luogo, aspra, scoscesa
e disuguale. Le difese di Genova, quando stava in propria balia,
bastavano, perchè con un breve assedio non si poteva prendere, i lunghi
erano impossibili per le emulazioni delle potenze.

Consistevano le difese vive di Massena in dieci mila soldati franzesi;
aveva con sè Soult, Gazan, Clauzel, Miollis, Darnaud. Accostavansi
a queste forze circa due mila Italiani di nazione diversa, ordinati
da Massena in corpo regolare sotto la condotta di un Rossignoli
Piemontese, uomo di natura molto generosa e di gran cuore. Le
corroborava la guardia nazionale di Genova, fedele, parte per amore
di Francia, parte per odio ai nemici, parte per paura del sacco,
se qualche accidente contrario alla quiete sorgesse. Queste genti
unite insieme non componevano certamente un presidio sufficiente
per un sì vasto circuito. Inoltre vi si viveva in molta apprensione
per le vettovaglie, massime di grani. Gl'Inglesi, governati da Keit,
impedivano le provvisioni di Corsica e di Marsiglia.

La forzo che investiva Genova era molto varia. Il principal nervo
consisteva in Tedeschi; ma con essi andavano congiunte torme numerose
di villani sì Genovesi delle due riviere, che Monferrini, i quali,
non mossi da alcun desiderio buono, ma dall'odio, dalla vendetta e
dall'amor del sacco, erano accorsi alle voci di un Azzeretto, uomo
ch'era stato incomposto e rotto quando militava coi Franzesi, ed ora
si mostrava incomposto e rotto militando coi Tedeschi. Nè piccolo
momento recavano alla oppugnazione le navi inglesi e napolitane, non
con solamente intraprendere i viveri sul mare, ma ancora coll'aiutare,
fulminando le spiaggie, gli sforzi degli Austriaci, principalmente
verso il Bisagno, dove i luoghi avevano contro il mare minore difesa
che verso la Polcevera. Fece Otto, che soprantendeva all'assedio,
il dì 23 aprile, una grossa fazione sulla sinistra della Polcevera.
Il reggimento di Nadasti, cacciati prima i Franzesi da Rivarolo,
si impadroniva anche di San Pier d'Arena. Ma uscito Massena colla
vigesimaquinta, li rincacciava. Sapevano gli assalitori che la parte
più debole della piazza era verso levante; però si deliberarono a darvi
un assalto, tentando di occupar le eminenze. Il dì 30 aprile, prima che
aggiornasse, givano all'assalto da quella parte, e per consuonar con
tutti quei moti, Otto attaccava Rivarolo a ponente. Riuscirono a buon
fine quasi tutti gli assalti dei Tedeschi, ed era un gran pericolo pei
Franzesi, perchè, se avessero conservati i luoghi conquistati, Genova
non aveva più rimedio. Massena si metteva al punto di rimettere la
fortuna. Mandava Soult al conquisto del monte dei Due Fratelli, Daruaud
al rincalzo di Grottesheim, Miollis contro Santa Tecla e Quezzi.
Vinsero tutti. Massena infaticabile, invitto, impaziente, animato dal
prospero successo, usciva nuovamente alla campagna il dì 11 maggio. Il
suo fine era di cacciar i Tedeschi dal monte delle Fascie. Soult recava
in sua mano, dopo una battaglia molto feroce, il conteso monte. Nol
conservarono lungamente i repubblicani, perchè Hohenzollern e Frimont,
mandati da Otto, il ricuperavano. Massena intanto raccoglieva i viveri
alla campagna, breve ed insufficiente ristoro. Volle quindi acquistare
il monte Creto; i Tedeschi fortificati stavano a diligente guardia.
Fu furioso l'assalto, valorosa la resistenza; pure andava superando
la fortuna dei Franzesi, quando sopravvenne un temporale grossissimo;
abbuiossi l'aria, straordinariamente piovve; i combattenti sforzati
a ristarsi. Rasserenato il cielo, ricominciarono a menar le mani;
l'accidente diè tempo ad Hohenzollern d'arrivare con genti fresche:
ruppe i repubblicani, e gli sforzò a tornar dentro le mura. Combattessi
in questa fazione con incredibile rabbia a corpo a corpo: fu Soult,
mentre animosamente confortava i suoi alla carica, ferito sconciamente
nella gamba destra e fatto prigione.

Questa infelice spedizione pose fine al sortire di Massena; perchè,
perduti i suoi migliori soldati, era troppo indebolito per uscire
alla campagna. Pure tanto ancora gli restava di forza che gli alleati
nol potessero sforzare; ma quello che le armi degli avversarli non
potevano, operava la fame. Keit per mare non lasciava entrar viveri,
Otto per terra; le provvisioni fatte scarse, le scarse dissipate.

Fuvvi fame prima che mancassero i viveri: prima si scorciarono
i cibi, poi si corruppero, infine si mangiarono i più schifi e
sozzi, non solo i cavalli ed i cani, ma ancora i gatti, i sorci,
i pipistrelli, i vermi, e beato chi ne aveva. Eransi gli Austriaci
impadroniti dei molini di Bisagno, di Voltri e di Pegli, nè si poteva
più macinare. Rimediossi per un tempo coi molini a mano, con quei
del caffè massimamente, perchè erano presti; l'accademia consultò
dei migliori: s'inventarono ingegni, ruote e molini nuovi. Con certi
più grossi un uomo solo poteva macinare uno staio di grano al giorno.
In ogni strada, su per ogni bottega si vedevano girar molini. Nelle
case private, fra le adunanze famigliari, si macinava; le donne il
facevano per vezzo. Infine mancò del tutto il grano: cercaronsi
altri semi per supplirvi. Quei di lino, di panico, di caccao, di
mandorlo furono i primi; riso ed orzo più non se ne trovava. Gli
stritolati e strani semi, prima abbrustoliti, poi misti col miele e
cotti parvero delicatura. Rallegravansi i parenti e gli amici con chi
avesse potuto sostentare un giorno di più sè e la famiglia con lino,
o panico, o tre granelli di caccao. La crusca, materia tanto ribelle
alla nutrizione, si macinava ancora essa e cotta con miele serviva di
cibo, non per ispegnere, ma per ingannare la fame; le fave stimate
preziosissime; felice non chi viveva, ma chi moriva. Erano i giorni
tristi per la fame e per le lamentazioni degli affamati; le notti
più tristi ancora per la fame e per le spaventate fantasie. Mancati i
semi, pensossi alle erbe. I romici, i lapazi, le malve, le bismalve,
le cicorie salvatiche, i raperonzoli diligentemente si ricercavano
e cupidamente, come piacevolezze di gola, si mangiavano. Si vedevano
lunghe file di gente, uomini d'ogni condizione, donne nobili e donne
plebee, visitare ogui verde sito, massime i fertili orti di Bisagno e
le amene colline di Albaro, per cavarne quegli alimenti cui la natura
ha solamente alle ruminanti bestie destinati. Sopperì un tempo il
zucchero: zuccheri rosati, zuccheri violati, zuccheri canditi, ogni
maniera di confetti andavano attorno, rivenditori e rivenditrici
pubblicamente li vendevano, con fiori e con serti gli eleganti loro
cestellini adornando: erano spettacolo in mezzo a quei volti pallidi,
scarni e moribondi. Tanto possente cosa è l'immaginazione dell'uomo
che si compiace in abbellire eziandio quanto havvi di più lagrimevole
e di più terribile; rimedio di provvidenza che non ci vuol disperati.
Basta: e' furono viste donne e gentil donne, nutritesi con sorci la
mattina, mangiarsi tregge delicate la sera. L'aspetto della miseria
estrema non ispegne la malvagità in chi è malvagio; del che troppo
manifesto e troppo orribile esempio si ebbe in quelle ultime strette
di Genova; conciossiachè uomini privi d'ogni senso di umanità, per un
vile guadagno, non abborrirono dal mescolar gessi in luogo di farine
nei commestibili che vendevano, per modo che non pochi avventori ne
restarono avvelenati, morendosene con dolori mescolati di fame e di
veleno.

Durante l'assedio, ma prima della fine ultima, una libbra di
riso si pagava lire sette, una di vitello quattro, una di cavallo
soldi trentadue, una di farina lire dieci o dodici, le uova lire
quattordici la serqua, la crusca soldi trenta ciascuna libbra. Poi,
venendo maggiore la stretta, una fava si vendeva due soldi, un pane
biscotto di oncie tre dodici franchi, e non se ne trovava. Maggiori
agevolezze dei particolari non vollero Massena nè gli altri generali;
apparecchiavano come i plebei; lodevole fatto, e molto efficace a fare
star forti gli altri a tanta sventura. Poco cacio, legumi rari erano
quanto nutrimento si dava a chi languiva per malattia o per ferite
negli ospedali. Uomini e donne tormentate dalle ultime angosce della
fame e della disperazione empievano l'aria dei loro gemiti e delle
loro strida. Talvolta, così gridando, e le fameliche viscere con le
rabbiose mani di lacerare tentando, morti per le contrade cadevano.
Nissuno gli aiutava, perchè ognuno pensava a sè; nissuno anche a
loro abbadava, perchè la frequenza aveva tolto orrore al fatto. Pure
alcuni tra gli spasimi e stridi spaventevoli, e con iscosse e contorte
membra davano l'ultimo sospiro in mezzo alle popolari folle. Fanciulli
abbandonati da parenti morti o da parenti disperati imploravano con
atti con pianti e con voci miserabili, la pietà di chi passava. Nissuno
gli aiutava ed aveva di loro compassione, perchè il dolore proprio
aveva spento il compassionare l'altrui. Razzolavano quelle innocenti
creature bramosamente nei rivoletti delle contrade, nelle fogne, negli
sfoghi dei lavatoi, per vedere se qualche rimasuglio di bestia morta o
qualche avanzo di pasto di bestia vi si trovasse, e trovatone, se lo
mangiavano. Spesso chi si corcava vivo la sera, era trovato morto la
mattina, i fanciulli più frequentemente degli attempati. Accusavano
i padri la tarda morte, ed alcuni con le proprie mani violentemente
se la davano. Ciò facevano i cittadini, ciò facevano i soldati. Dei
Franzesi, alcuni, anteponendo la morte alla fame, da per sè stessi si
ammazzavano, altri le armi a terra sdegnosamente gettavano, protestando
non più esser abili, per la perduta forza, a portarle. Altri, una
disperata dimora abbandonando, nel nemico campo se ne andavano,
Inglesi ed Austriaci di quella pietà e di quei cibi richiedendo, che
tra Franzesi e Genovesi più non ritrovavano. Crudo poi ed oltre ogni
dire orribile spettacolo era quello dei prigionieri di guerra tedeschi
ditenuti su certe barcacce sorte nel porto; perchè la necessità ultima
delle cose aveva operato che ad essi nutrimento di sorte alcuna già
da alcuni giorni non si compartisse. Mangiarono le scarpe loro, le
pelli dei soldateschi zaini; già con occhi torvi guardavano se non
avessero a mangiarsi i loro compagni. Si venne a tale, che si tolsero
loro le guardie franzesi, perchè si temette che, sforzati del famelico
furore, non si avventassero contro di loro, e sbranatele, non se le
divorassero. Tanta era la disperazion loro, che tentarono di forar le
barche per andar a fondo, amando meglio perire affogati dalle acque
che straziati dalla fame. S'aggiunse, come accadde, alla orrenda fame
la mortalità pestilenziale. Febbri pessime le genti all'altra vita
con morti spessissime si portavano sì negli ospedali del pubblico,
sì negli ultimi casolari dei poveri, e sì nei superbi palazzi dei
ricchi. Mescolavansi sotto il medesimo tetto i generi delle morti: chi
moriva arrabbiato dalla fame, chi stupido dalla febbre, chi pallido
per difetto di nutritiva sostanza, chi livido per petecchiali macchie.
Niuna cosa esente da dolore, niuna da paura; chi viveva, o aspettava
la morte o vedeva morire i suoi. Tal era lo stato dell'una volta ricca
ed allegra Genova, del quale il pensier peggiore era questo, che il
soffrir presente non poteva riuscire ad alcun utile suo.

Era rotta la costanza di tutti: solo Massena non si piegava, perchè
aveva la mente fissa nel pensiero di aiutar la impresa del consolo e
di serbare intatta la fama acquistata di guerriero indomabile. Infine,
venendogli onorevoli proposte da Keit, e non potendo più bastare
quei sozzi e velenosi cibi che per due giorni, tanta era l'estremità
del vivere, inclinava l'animo ad un accordo, ma più da vincitore che
da vinto. Si accordarono (volle Massena che l'accordo s'intitolasse
convenzione, non capitolazione, e fu forza compiacerlo della sua
domanda) che uscisse Massena, che uscissero i suoi ufficiali e soldati,
in numero di circa otto mila, liberi della fede e delle persone loro;
per la via di terra potessero tornare in Francia, e chi non potesse per
terra, fosse trasportato dagl'Inglesi per mare ad Antibo o nel golfo di
Juan; i prigionieri tedeschi si restituissero, nissun potesse essere
riconosciuto pei fatti passati, e chi se ne volesse andare, fosse in
libertà di farlo; dessersi viveri, si avesse cura degl'infermi; Genova
a' dì 4 giugno si consegnasse alle forze austriache ed inglesi.

Infatti il nominato giorno le prime occuparono la porta della Lanterna,
le seconde la bocca del porto. Poi entravano trionfando con tutto
l'esercito Otto, con tutta l'armata Keit. I democrati più vivi se
ne andarono coi Franzesi. Suonaronsi le campane a festa, cantaronsi
gl'inni, accesersi i fuochi dai partigiani per amore, più ancora dagli
avversi per paura, tutto secondo il solito. Ricomparvero in copia il
pane, le carni, gli ortaggi, le grasce, e chi vi si abbandonò senza
freno, in quel primo fervor della fame, se ne morì. Pruovaronsi i
villani dell'Azzeretto a porsi in sul sacco contro i democrati, come
dicevano, perchè saccheggiavano anche gli aristocrati; ma Hohenzollern,
posto a guardia della città da Otto, con militare imperio li frenava.
Creava il capitano tedesco una reggenza imperiale e reale; frenava la
reggenza le vendette prossime a prorompere, comandamento lodevole;
veniva sul toccar le borse, comandamento inevitabile, ma duro nella
misera Genova.

Buonaparte intanto, cambiatore di sorti, si avvicinava. Aveva il
consolo con meravigliosa celerità ed arte adunato il suo esercito di
riserva a Digione, donde accennava ugualmente al Reno ed all'Italia.
Ma avendo Moreau combattuto prosperamente in Germania contro Kray, gli
fu fatto abilità di condursi su quei campi in cui tuttavia vivevano
i segni e le memorie delle sue fresche vittorie; cosa che gli era
cagione di somma incitazione, perchè la gloria lo stimolava, ed era
sicuro di trovarvi forti aderenze. Adunque, mentre Melas se ne stava
martirizzandosi contro le sterili rocche dell'estrema Liguria, si
avvicinava Buonaparte alle Alpi, tutto intento alle fazioni d'Italia.
Varii, molti e potenti modi aveva di condurre a prospero fine la sua
impresa: i soldati prontissimi a volere qualunque cosa egli volesse,
generali esperti e valorosi, artiglierie formidabili, cavalleria
sufficiente. Aveva apprestato, per pascere i soldati sull'erme
solitudini delle Alpi, biscotto in grande abbondanza, e per tirar su e
giù, secondo i casi, le artiglierie per quei sentieri rotti, stretti
ed ingombri di nevi e di ghiacci, certi carretti a modo dei traini
sdrucciolevoli che si usano in quei paesi per iscendere dai nevosi
gioghi. Nè questo fu il solo trovato di Buonaparte e di Marmont,
che soprantendeva alle artiglierie, per facilitar loro il passo per
luoghi fino allora alle medesime inaccessi, perchè scavarono, a guisa
di truogoli, tronchi d'alberi grossissimi, a fine di potervele posar
dentro, come in un letto proprio, e per tal modo trasportarle a dorso
di muli a traverso le montagne. Denaro sufficiente aveva rammassato per
le necessità de' suoi fin oltre l'Alpi; poi, si confidava nell'Italia.
Per muovere le opinioni degl'Italiani, aveva chiamato a sè la legione
italiana capitanata da un Lecchi, la quale, fuggendo il furore nemico
per le rotte di Scherer, si era riparata in Francia, bella e buona
gente. Per conoscere poi i luoghi, conduceva con sè gl'Italiani che più
ne erano pratici; e siccome l'intento suo era di varcare il gran San
Bernardo, così si consigliava specialmente con un Pavetti di Romano nel
Canavese, giovane di natura molto generosa, e che in queste bisogna con
molto affetto camminava.

Grande e magnifico era il disegno di Buonaparte per riconquistar
l'Italia. Suo proponimento era di varcare col grosso dell'esercito
il gran San Bernardo, col fine di calarsi per la valle di Aosta
nelle pianure piemontesi. Ma perchè altre genti con questa parte
consuonassero, e, giunte al piano, potessero e muovere i popoli a
romore contro il nemico e congiungersi con lui a qualche importante
fatto, aveva ordinato che il generale Thureau, pei passi dei monti
Cenisio e Ginevra, con una squadra di tre in quattro mila soldati si
calasse a Susa; al tempo medesimo comandava al generale Moncey che
pel San Gottardo scendesse a Bellinzona con una eletta schiera di
circa dodici mila soldati. Imponeva infine al generale Bethancourt che
facesse opera di varcare il Sempione, e di precipitarsi per Domodossola
sulle sponde del lago Maggiore. Siccome poi non ignorava quali e
quante difficoltà ostassero al passo di un grosso esercito pel gran
San Bernardo, commetteva ad un corpo di circa cinque mila soldati che
passasse il piccolo San Bernardo, ed andasse a raccostarsi col grosso
nella valle di Aosta. Tutte le raccontate genti insieme unite sommavano
circa a sessanta mila combattenti. Così il consolo, tutta la regione
dell'Alpi abbracciando che si distendeva dal San Gottardo al monte
Ginevra, minacciava invasione al sottoposto piano del Piemonte e della
Lombardia.

Lusingati, per la città loro passando, con discorsi di umanità, di pace
e di civiltà quei Ginevrini tanto ingentiliti, se ne giva il consolo
alla stupenda guerra. Erano le genti già adunate tutte a Martigny di
Vallese sul Rodano, terra posta alle falde estreme del San Bernardo.
Guardavano con maraviglia e con desiderio quelle alte cime. Parlava
loro Berthier, quartiermastro, ed il suo parlare di gloria e di
Buonaparte infinitamente infiammava quegli animi già da per sè stessi
tanto incitati e valorosi. Partivano il dì 17 maggio da Martigny per
andarne a conquistar l'Italia. Maraviglioso l'ardore loro, maravigliosa
l'allegria, maraviglioso ancora il moto ed il fervore delle opere.
Casse, cassoni, truogoli, obici, cannoni, carretti ruotati, carrelli
sdrucciolevoli, carrette, lettiche, cavalli, muli, bardature, arcioni,
basti da bagaglie, basti da artiglierie, impedimenti di ogni sorte,
e fra tutto questo soldati affaticantisi ed ufficiali affaticantisi
al par dei soldati. S'aggiungevano le risa e le canzoni: i motti, gli
scherzi, le piacevolezze alla franzese. Non a guerra terribile, ma a
festa, non a casi dubbii, ma a vittoria certa pareva che andassero.
Il romore si propagava da ogni banda: quei luoghi ermi, solitarii, e
da tanti secoli muti, risuonavano insolitamente e ad un tratto per
voci liete e guerriere. L'esercito strano e stranamente provvisto,
al malagevole viaggio saliva per l'erta alla volta di San Pietro fin
dove giunge la strada carreggiabile. Pure spesso erte ripidissime,
fosse sassose, capi di valli sdrucciolanti si appresentavano; i carri,
i carretti, le carrette pericolavano. Accorrevano presti i soldati a
braccia, sostenevano, puntellavano, traevano, e più si affaticavano
e più mettevano fuori motti, facezie e concetti, parte arguti, parte
graziosi, parte frizzanti: così passavano il tempo e la fatica. I
tardi Vallesani, che erano accorsi in folla dalle case, o piuttosto
dai tugurii e dalle tane loro, vedendo gente sì affaticata e sì
allegra, non sapevano darsi pace; pareva loro cosa dell'altro mondo.
Invitati e pagati per aiuto, il facevano volentieri. Ma più bisogna
faceva un Franzese che tre Vallesani. Così arrivarono i repubblicani
a San Pietro, Lannes con la sua schiera il primo, siccome quello
che per l'incredibile ardimento il consolo sempre mandava, lui non
solo volente, ma anche domandante, alle imprese più rischievoli e
più pericolose. Quivi si era arrivato ad un luogo in cui pareva che
la natura molto più potesse che l'arte od il coraggio; perciocchè da
San Pietro alla cima del gran San Bernardo, dov'è fondato l'eremo dei
religiosi a salute dei viaggiatori in quei luoghi d'eternale inverno,
non si apre più strada alcuna battuta. Solo si vedono sentieri stretti
e pieghevoli su per monti scoscesi ed erti. Rifulse la pertinacia
del volere e la potenza dell'umano ingegno. Quanto si rotolava, fu
posto ad essere tirato, quanto si tirava ad essere portato. Posersi
le artiglierie grosse nei truogoli, i truogoli negli sdruccioli, e
dei soldati, chi tirava, chi puntellava, chi spingeva: le minute sui
robusti e pratici muli si caricarono. Così se Gian Giacopo Triulzi
montò e calò con grosse funi di roccia in roccia per le barricate nella
stagione più rigida dell'anno le artiglierie di Francesco I, tirò
Buonaparte quelle della repubblica sui carri sdrucciolevoli e sulle
bestie raunate a questo intento. Seguitavano le salmerie al medesimo
modo tirate e portate. Era una tratta immensa: in quelle volte di
ripidi sentieri ora apparivano, ora scomparivano le genti: chi era
pervenuto all'alto vedeva i compagni in fondo, e con le rallegratrici
voci gl'incoraggiava. Questi rispondevano, ed al difficile cammino
s'incitavano. Tutte le valli all'intorno risuonavano.

Fra le nevi, fra le nebbie, fra le nubi apparivano le armi
risplendenti, apparivano gli abiti coloriti dei soldati; quel miscuglio
di natura morta e di natura viva era spettacolo mirabile. Godeva
il consolo, che vedeva andar le cose a seconda de' suoi pensieri,
e soldatescamente parlando a questo ed a quello, che in ciò aveva
un'arte eccellente, gl'induceva a star forti ed a trovar facile quello
che era giudicato impossibile. Già s'avvicinavano al sommo giogo, ed
incominciavano a scorgere l'adito che, in mezzo a due monti altissimi
aprendosi, dà il varco verso la più sublime cima. Salutarono, qual fine
delle fatiche loro, con gioiose voci i soldati, e con isforzi maggiori
intendevano al salire. Voleva il consolo che riposassero alquanto: _Di
cotesto non vi caglia_, rispondevano, _badate a salir voi, e lasciate
fare a noi_. Stanchi facevano dar nei tamburi, ed al militare suono si
rinfrancavano e si rianimavano. Infine guadagnarono la cima, dove non
così tosto furono giunti, che l'uno con l'altro si rallegrarono, come
di compiuta vittoria. Accrebbe l'allegrezza il vedere mense appresso
all'eremo rusticamente imbandite per opera dei religiosi, provvidenza
del consolo, che aveva loro mandato denari all'uopo. Ebbero vino,
pane, cacio; riposaronsi fra cannoni e bagaglie sparse, fra ghiacci
e nevi agglomerate. I religiosi s'aggiravano fra i soldati con volti
dipinti di sedata allegrezza: bontà con forza su quel supremo monte
s'accoppiava. Parlò Buonaparte ai religiosi della pietà loro, di voler
dare il seggio al papa, quiete e sostanze ai preti, autorità alla
religione: parlò di sè e dei re modestamente, della pace bramosamente.
I romiti buoni, che non avevano nè cognizione, nè uso, nè modo, nè
necessità dell'infingere, gli credevano ogni cosa. Quanto a lui, se
tratto da quella aria, da quelle quiete, da quella solitudine, da
quella scena insolita, si lasciasse piegare a voler fare per affezione
quello che faceva per disegno, niuno il sa, nè si ardirebbe giudicare;
perchè da un lato efficacissima era certamente l'influenza di quella
pietà e di quei monti, dall'altro tenacissima incredibilmente e
sprezzatrice delle umane cose la natura di lui. Fermossi a riposare nel
benigno ospizio un'ora.

Quando parve tempo, comandava si partisse. Voltavano i passi là dove
l'italico cielo cominciava a comparire. Fu difficile e pericolosa la
salita, ma ancor più difficile e pericolosa la discesa; conciossiachè
le nevi tocche da aria più benigna incominciavano ad intenerirsi e
davano malfermo sostegno. Oltre a ciò, la china vi era più ripida che
dalla parte settentrionale. Quindi accadeva che era lento lo scendere,
e che spesso uomini e cavalli con loro, sfuggendo loro di sotto le
nevi, nelle profonde valli erano precipitati, prima sepolti che morti.
Incredibili furono le fatiche ed i pericoli: poco s'avvantaggiavano.
Impazienti del tardo procedere, ufficiali, soldati, il consolo stesso,
scegliendo i gioghi dove la neve era più soda, precipitosamente si
calavano, sdrucciolando fino ad Etrubles. Era un pericolo, eppure era
una festa; tanto diletto prendevano, e tante risa facevano di quel
volare, di quell'essere involti chi in neve grossa e chi in polverio
di neve. Quelli che erano rimasti al governo delle salmerie arrivarono
più tardi per gl'incontrati ostacoli. Riuniti ad Etrubles, gli uni con
gli altri si rallegravano dell'esser riusciti a salvamento, e guardando
verso le gelate e scoscese cime che testè passato avevano, non potevano
restar capaci del come un esercito intero con tutti gl'impedimenti
avesse potuto farsi strada per luoghi orribilmente disordinati da
sconvolgimenti antichi, e potentemente chiusi da perpetui rigori
d'inverno. Ammiravano la costanza e la mente del consolo, delle
future imprese felicemente auguravano. Pareva loro che a chi aveva
superato il San Bernardo, ogni cosa avesse a riuscire facile e piana.
Intanto le aure soavi d'Italia incominciavano a soffiare: le nevi si
squagliavano, i torrenti s'ingrossavano, le morte rupi si ravvivavano
e si rinverdivano. I veterani conquistatori riconoscevano quel dolce
spirare; gridavano: Italia; con discorsi espressivi ai nuovi la
descrivevano; nei veterani si riaccendeva, nei nuovi si accendeva un
mirabile desiderio di rivederla e di vederla; l'esperienza ricordava
il vero, la immaginazione il rappresentava e l'ingrandiva, le volontà
diventarono efficacissime: già pareva a quegli animi forti ed invaghiti
che l'Italia fosse conquistata; solo pensavano alle vittorie, non alle
battaglie.

La vittoria consisteva nella celerità; perciocchè quegli alpestri
luoghi erano sterili, il passo del San Bernardo difficile, nè si
doveva dar tempo a Melas di arrivare al piano prima che l'esercito vi
arrivasse. Importava altresì che il romore già sparso della ritornata
dei Franzesi non si rallentasse. Perciò il consolo si calava tostamente
per la sponda della Dora, e con assalti di poca importanza dati
all'antiguardo condotto da Lannes, mandato avanti a speculare il sito
del paese, s'impadroniva facilmente della città d'Aosta e della terra
di Chatillon. Ma un duro intoppo era per trovare nel forte di Bard,
posto sopra un sasso eminente, che, come chiave, serra la strada in
quella stretta gola che quivi forma, restringendosi, la valle. Il fatto
pruovò che un umile sasso poteva divenire ostacolo ad una gran fortuna.
Fatta la chiamata, rispose coraggiosamente il Tedesco, non voler dare
la fortezza. S'avvicinarono i Franzesi; entrarono facilmente nella
terra di Bard, posta sotto al forte; poi andarono all'assalto; ricevuti
con ferocia, abbandonarono l'impresa. Rinnovarono parecchie volte la
batteria, ma sempre con poco frutto. Si sdegnavano i capi e di una
infinita pazienza si travagliavano, nel vedere che una piccola presa
di gente, poichè il presidio non sommava che a quattrocento soldati, ed
un'angusta roccia interrompessero il corso a tante vittorie.

Già sorgevano i primi segni della penuria. Pensavano al rimedio, e
nol trovavano. Batterono la rocca dalle case della terra, batterono
con un cannone tirato sul campanile; ma essendo il luogo ben difeso
e di macigno, non facevano frutto. Avvisarono se potessero passare
continuando il forte in possessione dell'inimico. Fabbricarono con
opera molto maravigliosa una nuova strada; varcarono gli uomini
sicuramente, con nuovo strattagemma, varcarono le artiglierie.
S'accorgeva il castellano dell'arte usata dagli avversarii, e folgorava
con grandissimo favore fra il buio della notte, ma la oscurità da
una parte, la celerità dall'altra furono cagione che i repubblicani
patirono poco danno in questa straordinaria passata; con tutte le armi
allestite e pronte si apprestavano ad inondare il piemontese dominio.
Poco stante Chabran, divallatosi dal piccolo San Bernardo, costringeva
alla dedizione il comandante di Bard, salvo l'avere e le persone, e con
fede di non militare fino agli scambi.

Mentre a questo modo il grosso dei soldati di Francia sboccava per
Ivrea, non erano state oziose le genti più lontane, anzi, concorrendo
dal canto loro all'adempimento del principale disegno, erano pervenute
ai luoghi ordinati dal consolo. Era Bethancourt sceso dal Sempione e
fattosi padrone di Domodossola. Moncey, venuto a Bellinzona, accennava
a Lugano ed alle sponde del Ticino e dell'Adda. Thureau poi, più
prossimamente romoreggiando alla capitale del Piemonte, era comparso
a Susa, e, camminando più avanti, s'era mostrato ad Avigliana, avendo
fatto una buona presa di nemici che si erano provati a serrargli il
passo dall'erto ed eminente sito sul quale stava, prima della guerra,
fondata la fortezza inespugnabile della Brunetta. Tale tempesta da
tutte parti sovrastava per l'invitto pensiero del consolo a quel
tratto di paese che si comprende fra la Dora Riparia e l'Adda. Ma il
principale sforzo sorgeva da Ivrea. Ordito pertanto il suo disegno, lo
mandava ad esecuzione.

Temendo gli Austriaci di Torino, avevano accostato un antiguardo al
ponte della Chiusella, a dirittura del quale avevano piantato quattro
bocche da fuoco, per non lasciar guadagnare questo passo al nemico.
Essendo questo ponte molto stretto e lungo, dura impresa era il
superarlo. Avvicinatosi Lannes, ordinava ai più valorosi il passassero
velocemente. Fecerne pruova; ma i cannoni tedeschi fulminarono sì
furiosamente a scaglia, e dai fianchi i feritori leggieri tempestarono
con sì fatta grandine, che i Franzesi tornarono indietro laceri e
sanguinosi. Nuovamente cimentatisi, nuovamente perdevano. Rinnovò due
altre volte la pruova Lannes, e due altre volte ne uscì con la peggio.
Ostinavasi, ma non aveva rimedio. Pavetti allora, che ottimamente
conosceva i luoghi, perchè la battaglia si commetteva quasi sotto alle
mura di Romano, sua patria, fece accorto il generale di Francia che a
sinistra del ponte era un passo facilmente guadoso. Guadò con felice
ardimento il fiume: si mostrava improvviso sulla destra del nemico, che
costretto a dar indietro, lasciò libero il ponte. Nè miglior esito ebbe
uno sforzo fatto da Keim con la cavalleria, nel piano che si frappone
tra Romano e i colli di Montalenghe; onde fu aperta la strada a Lannes
sino a Chivasso, dove trovò conserve considerabili di vettovaglie,
opportuno ristoro alle sue stanche genti.

Avendo conseguito Lannes l'intento di far correre Melas a Torino,
volgeva improvvisamente le insegne a mano manca, e camminava con
passo accelerato a seconda della sinistra del Po alla volta di Pavia.
Tutto lo sforzo dei Franzesi accennava a Milano. Marciavano Murat,
Boudet e Victor contro Vercelli; marciava sull'istessa fronte più
basso Lannes e superiormente spazzava il paese la legione italiana di
Lecchi, che da Chatillon di Aosta per la via di Grassoney camminando,
era venuta a Varallo, poi ad Orta, donde aveva cacciato il principe
di Loano, che vi stava a presidio con una mano di Tedeschi. Tutta
questa fronte di un esercito bellicoso, spingendosi avanti, guadagnava
Vercelli, dove passava la Sesia; poi contrastava invano Laudon che
era accorso, entrava in Novara e si apprestava a varcar il Ticino.
L'ala sinistra intanto ingrossava per essersi Lecchi congiunto a
Sesto Calende con Bethancourt disceso da Domodossola. Laudon, postosi
a Turbigo, intendeva ad impedire il passo del fiume; ma Murat, che
guidava l'antiguardo, dato di mano a certe barche lasciate a Galiate,
guadagnava la sinistra sponda, e cacciava da Turbigo, non senza però
qualche difficoltà, il generale tedesco. Al tempo medesimo la sinistra
ala si rinforzava vieppiù per la giunta delle genti di Moncey, che
venute sui laghi di Lugano e di Como, avevano incontrato Lecchi a
Varese.

Per queste mosse ottimamente eseguite come erano state ottimamente
ordinate, già era la capitale della Lombardia posta in potestà dei
Franzesi. Entrava in Milano il dì 2 di giugno con le più elette schiere
Buonaparte vincitore. Non siam per raccontare le allegrezze che vi si
fecero, perchè nelle rivoluzioni il governo ultimo è sempre stimato il
peggiore, il nuovo il migliore.

Riordinava Buonaparte la Cisalpina repubblica. Volle che i riti della
religione cattolica pubblicamente si celebrassero e la religione si
rispettasse, e chi il contrario facesse severamente, anche con la
pena di morte se il caso lo richiedesse, fosse punito; che fossero
salve le proprietà di tutti; che i fuorusciti rientrassero, che i
sequestri si levassero, che le cedole si abolissero e valor di moneta
più non avessero. Lasciati in Milano questi fondamenti della sua
potenza, applicava di nuovo i pensieri alla guerra, che quantunque bene
principiata fosse, non era ancora terminata. Melas sulla destra del Po
si conservava tuttavia intiero, nè sapeva il consolo ancora che Massena
fosse stato costretto a cedere in Genova alla fortuna dei confederati.
Per questo motivo, credendosi più sicuro di quanto egli era veramente,
aveva fatto correre da' suoi il Lodigiano, il Cremonese, il Bergamasco,
il Cremasco; poi suo intento era di passare subitamente il Po; ed in
questo modo mozzare a Melas ogni strada al ritirarsi. Lannes frattanto,
per una subita correria, aveva preso Pavia: trovovvi munizioni
abbondanti da bocca, e quantità considerabile d'armi.

Melas, che, per la perdita di Milano, aveva conosciuto quanto la sua
condizione fosse pericolosa ed il nemico forte, avvisandosi che il suo
scampo non poteva più venire se non da una battaglia risoluta e da una
vittoria piena, voleva tirar la guerra nei contorni di Alessandria,
per cagione dell'appoggio che quivi aveva della cittadella e del forte
di Tortona. Venuto adunque in Alessandria, chiamava a sè Esnitz,
mandava Otto a Piacenza, affinchè s'ingegnasse d'impedire il passo
del fiume ai Franzesi. Ma Murat fu più presto di Otto; passava e
s'impadroniva di Piacenza. Al medesimo punto Lannes varcava a Stradella
e si poneva a campo a San Cipriano. Otto ritirava i suoi a Casteggio
ed a Montebello. Combattessi in questi due luoghi il dì 9 giugno una
battaglia asprissima, segno ed augurio di un'altra assai più aspra, più
famosa e più piena di futuri accidenti. Urtarono i Franzesi condotti da
Watrin con grandissimo impeto i Tedeschi, fu loro risposto con uguale
costanza; vario fu per molte ore l'evento. Finalmente gl'imperiali
restarono superiori per opera massimamente della cavalleria. Watrin
si ritirava rotto e sanguinoso, e sarebbe stata perduta la battaglia
pei Franzesi, se non fossero sopraggiunti battendo i generali
Chambarlhac e Rivaud, quindi lo stesso Lannes con una grossa squadra
di buoni soldati, ch'entrando impetuosamente, come sempre soleva,
nella battaglia, sforzava il nemico a piegare, e cacciandolo del
tutto da Casteggio, l'obbligava a ritirarsi a Montebello. Quivi
Otto più fiero di prima rinnovava la battaglia, e faceva di nuovo le
sorti dubbie; che anzi le sue già principiavano a prevalere, quando
Buonaparte, che era sopraggiunto, ordinava a Victor caricasse con sei
battaglioni la mezzana schiera del nemico. In questo punto divenne
furiosissimo l'incontro. Durò un pezzo il combattimento di fuoco e di
ferro. All'ultimo arrivarono sugli estremi del campo i generali Geney
e Rivaud, e fecero inclinare la fortuna in favore di Francia, perchè
per le mosse loro si trovava Otto quasi circondato da ogni banda. Si
ritirava in Voghera. Questa fu la battaglia di Casteggio che durò dalle
sei della mattina fino alle otto della sera.

Superata l'asprezza delle Alpi con arte e costanza, corsa la
Lombardia con prestezza, fatto risorgere il nome di Cisalpina in
Milano, sollevati a gran cose gli animi dei popoli con una impresa
inusitata, restava che per una determinativa battaglia i presi augurii
si adempissero, e si confermasse in Buonaparte il supremo seggio di
Francia e l'imperio assoluto d'Italia. Assai presto fu l'acquisto di
questo paese fatto da Kray, Suwarow e Melas; restava che si vedesse
se il capitano di Francia non fosse abile a riconquistarlo più presto
ancora. Aveva Melas, come abbiamo narrato, raccolti i suoi nel forte
alloggiamento tra la Bormida ed il Tanaro sotto le mura di Alessandria.
Grosso di circa quaranta mila soldati, fornitissimo di artiglieria,
fiorito di cavallerie sceltissime, provvisto di veterani, era molto
abile a combattere di tante sorti. Nè mancava in lui l'ardire o l'arte,
nè la memoria delle recenti vittorie. Sapeva altresì di quanto momento
fosse la battaglia che soprastava.

Dall'altra parte il consolo combatteva su quelle italiche terre, già
piene di tanta sua gloria; i suoi ufficiali, giovani, confidenti e
valorosi, con incredibile ardimento andavano al confermare i gloriosi
destini di Francia; i soldati, alcuni veterani, molti nuovi, non
avevano tanto uso di battaglie quanto i Tedeschi, ma l'ardore e la
confidenza supplivano a quanto mancasse nell'esperienza. Di numero
erano inferiori agli avversarii, e di cavallerie e di artiglierie.
Giravano adunque assai dubbie le sorti.

Il dì 14 giugno alle cinque della mattina, Melas varcava, fulminando
l'augurosa Bormida. Esnitz coi fanti leggieri e col maggior nervo
delle cavallerie, movendosi a sinistra degl'imperiali, marciava contro
castel Ceriolo per la strada che porta a Sale, perchè intento del
generalissimo austriaco era di riuscire alle spalle dei Franzesi da
quella parte per tagliargli fuori da Pavia e da Tortona, donde avevano
corrispondenza con le altre loro genti alloggiate sulla sponda sinistra
del Po. Keim coi soldati di più grave armatura muoveva l'armi contro il
villaggio di Marengo, per cui passa la strada per Tortona; quest'era
la schiera di mezzo. Una terza, che era la destra, sotto la condotta
di Haddick, con un grosso di granatieri ungari guidati da Otto, doveva
fare sforzo, seguitando la destra sponda della Bormida all'insù, per
riuscire a Fregarolo, e consentire verso Tortona con la mezzana. Si
prevedeva, e quest'era il pensiero delle due parti, che si sarebbe
conteso massimamente della possessione di Marengo, perchè quello era
il sito, alla conservazion del quale indirizzavano i Franzesi tutti i
loro movimenti. Precedeva le camminanti squadre d'Austria un apparato
formidabile di artiglierie, che, furiosamente tuonando, significavano
quanto duro e quanto micidiale fosse per essere l'incontro. A tanto
impeto non erano i Franzesi pari in quel primo tempo della battaglia,
perchè Monnier si trovava lontano a destra, Desaix a sinistra.

Adunque tutte le difese loro consistevano nella schiere di Victor, che
occupava assai grossa Marengo, ed in quella di Lannes, che aveva la sua
sede a destra della strada di Tortona. A queste genti si aggiungevano
circa novecento soldati della guardia del consolo, i cavalli condotti
dal giovane Kellermann, quei di Champeaux, e finalmente quelli di cui
aveva il governo Murat: i primi facevano spalla ai fanti di Victor,
i secondi a quei di Lannes, ed in ultimo i terzi, posti sulla punta
estrema a destra di tutta la fronte, custodivano la strada che accenna
a Sale. Così l'ordinanza dei Franzesi, partendo dalla Bormida, e da
lei scostandosi obbliquamente, e passando per Marengo, si distendeva
sin verso a Castel-Ceriolo. Keim incontrava Gardanne mandato da Victor
a Pietrabuona, piccolo luogo posto tra Marengo e la Bormida, e con
una forza prepotente lo prostrava. Si ritiravano disordinatamente le
reliquie verso Marengo. Sarebbero anche state intieramente circondate
e prese se Victor non avesse tosto mandato Chamberlhac a riscattarle.
Vennero avanti i Tedeschi ed ingaggiarono con Victor una battaglia
orribile: commiservi ambe le parti fatti di stupendo valore. Piegò
finalmente la fortuna in favor di coloro che avevano più numerose
genti e più fiorite artiglierie: entrava vittoriosamente Keim in
Marengo. Non per questo si era Victor disordinato; che anzi grosso,
intiero e minaccioso novellamente si schierava dietro Marengo. Venne
a congiungersi a lui sulla destra sua punta Lannes, il che fece
rinfrescare la battaglia più feroce di prima. S'attaccò Keim con
Lannes, Haddich con Victor, e chi considererà la natura sì di quei
generali che di quei soldati, si persuaderà facilmente che mai in
nissuna battaglia sia stato speso più valore e maggior arte che in
questa. Secondava potentemente l'urto di Lannes contro Keim Champeaux
co' suoi cavalli, nella quale mischia gravemente ferito passò di questa
vita alcuni giorni dopo. Kellermann con la sua squadra aiutava anche
efficacemente Victor, cariche a cariche continuamente aggiungendo
e moltiplicando. Ciò non ostante, Victor, per essere entrato nella
battaglia il primo, e per avere Gardanne molto patito nell'affronto di
Pietrabuona, stanco e diradato cedè finalmente il luogo e si ritirò,
quanto più potè prestamente e non senza qualche moto disordinato, a San
Giuliano. Lannes allora, nudato sul suo sinistro fianco dell'appoggio
di Victor, fu costretto rinculare ancor esso; il che diede cagione
a Keim di guadagnare vieppiù del campo e di credersi sicuramente
in possessione della vittoria. Frattanto Esnitz coi fanti leggieri
aveva occupato castel Ceriolo, e coi cavalli si andava allargando col
pensiero di mostrarsi alle spalle delle due schiere repubblicane che
indietreggiavano; il quale disegno se avesse avuto effetto, dava senza
dubbio alcuno la vittoria agl'imperiali.

Solo rimedio a tanto pericolo aveva il consolo nei novecento soldati
della sua guardia e nei cavalli di Murat, certamente non capaci a
far fronte alla numerosa cavalleria d'Esnitz. Mandava adunque avanti
i novecento. L'Alemanno, quantunque gli avesse circondati da ogni
banda, non li potè mai rompere, o che egli non abbia fatto tutto
quello che poteva, o che i novecento abbiano fatto più di quello che
potevano. Questa mollezza o errore di Esnitz e questo valore dei
consolari diedero comodità a Monnier di arrivare da Castel Nuovo,
donde, chiamato dal consolo veniva, a prestissimi passi. S'incontrava
egli arrivando con le genti di Esnitz; sebbene elleno da tutte le
parti il circondassero, si aperse una strada, aiutato gagliardamente
dai consolari. Il generale Cara-San-Cyr, cacciati i Tirolesi da
Castel-Ceriolo, se ne faceva padrone, e tostamente con tagliate e
barricate vi si affortificava. Dievvi dentro Esnitz per ricuperarlo,
e non gli venne fatto; pure la fortuna li favoriva, perchè aveva in
questo punto obbligato alla ritirata i consolari e l'altra parte
dei soldati di Monnier. Ma, invece di seguitare alla dilunga i
cedenti, si ostinava all'acquisto di Castel-Ceriolo. Cara-San-Cyr
sempre il respinse, e tanto il tenne lontano, che ora Cara-San-Cyr
fu salvamento de' suoi, come prima erano stati i novecento; questi
diedero tempo a Monnier di arrivare, egli il diede a Desaix. Melas
in questo, volendo usare l'occasione favorevole che la fortuna gli
parava davanti, aveva spinto innanzi la sua ala destra, massimamente
i cinque mila Ungari, affinchè andassero a disfare quella nuova testa
che i Franzesi mostravano di voler fare a San Giuliano. Pareva che a
questo effetto bastassero Keim vincitore ed Esnitz mezzo vinto e mezzo
vincitore. Ma, per assicurarsi meglio del fatto, e per provvedere ai
casi dubbii che Desaix, arrivando, avrebbe potuto arrecare, mandava di
lungo spazio avanti i cinque mila, dei quali, come di corpo autore di
vittoria, aveva preso il governo Zach, quartiermastro di tutto il campo
austriaco.

Erano le cinque della sera; già da più di dieci ore si combatteva:
gli Austriaci vincitori si rallegravano; tenue speranza e solo in
Desaix rimaneva ai Franzesi. Il consolo stesso, che aveva concepito
il mirabile disegno di questa seconda invasione d'Italia, stava
perplesso. Mentre fra molto timore e poca speranza si esitava, ecco
arrivare al consolo le novelle che la prima fronte della deseziana
schiera compariva a San Giuliano. Determinavasi subitamente; altro uomo
ch'egli, in fortuna quasi disperata com'era quella in cui si trovava,
si sarebbe servito della forza che arrivava solamente per appoggio
della ritirata. Ma l'audace consolo la volle usare per rinnovar la
battaglia e per vincere. Metteva l'esercito in nuova ordinanza per modo
che da Castel-Ceriolo obbliquamente distendendosi sino a San Giuliano,
alloggiava Cara-San-Cyr sul luogo estremo a destra, poi a sinistra
verso San Giuliano procedendo, Monnier, quindi Lannes, poi finalmente
in quest'ultima terra a cavallo della strada per Tortona Desaix. I
cavalli di Kellerman a fronte, e fra Desaix e Lannes avevano il campo.
Non avendo fatto Esnitz co' suoi fanti e cavalleggieri contro l'ala
destra de' Franzesi quell'opera gagliarda e quel frutto che Melas
aspettava da lui, aveva il generalissimo d'Austria mandato i cinque
mila Ungari condotti da Zach control l'ala sinistra, sperando che
questo nodo di genti fortissime l'avrebbero potuta rompere e tagliarle
la strada verso Tortona.

La colonna di cinque mila, in cui si conteneva tutto il destino della
giornata, in sè medesima ristretta, baldanzosamente marciava contro i
Deseziani. Desaix, lasciatala approssimare senza trarre, quando arrivò
a tiro, la fulminava con le artiglierie che Marmont aveva collocato
sulla fronte, poi scagliava contro di lei tutti i suoi. A quel duro
rincalzo attoniti sulle prime si fermarono gli Ungari: poi, ripreso
nuovo animo, qual mole grossa ed insuperabile, marciavano. Nè le genti
franzesi, siccome più leggieri, quantunque tutto all'intorno vi si
affaticassero, li poterono arrestare. Era questo un caso simile a
quello di Fortenoy. Desaix, che punto non si era sbigottito a quel
pericolo, postosi a fronte de' suoi, stava sopravvedendo il paese
per iscoprire se gli accidenti del terreno gli potessero offrire
qualche vantaggio, quando ferito in mezzo al petto da una palla di
archibuso, si trovò in fine di morte. Sottentrava al governo, invece di
Desaix, Boudet. Non si perdè questi d'animo per sì amaro caso, non si
perdettero di animo i suoi soldati; che, anzi stimolando quegli uomini
già di per sè stessi valorosi il desiderio di vendetta, con incredibile
furia si gettarono addosso ai cinque mila. Nè gli Ungari cedevano: era
un combattere asprissimo e mortalissimo. Già piegavano i repubblicani,
disperate parevano le sorti; volle la fortuna che la salute di Francia
nascesse prossimamente dall'estrema rovina. Era Kellermann, destinato
al gran riscatto. Effettivamente, mentre Boudet instava ancora da
fronte, quantunque rinculasse, Kellermann dal consolo commesso,
assaltava con tutto il pondo de' suoi cavalli il sinistro fianco
dell'ungara mole, e siccome quella era spartita in manipoli, tra l'uno
e l'altro ficcandosi, totalmente la disordinava. Snodata, perduti gli
ordini tra sè medesima e coi Franzesi intricata e ravviluppata, non le
restava più nè disegno nè modo di difendersi. Laonde, insistendo sempre
più valorosamente contro di essa Kellermann e tornando alla carica
Boudet rianimato dal favorevole caso, fu costretta a darsi intiera,
deposte le armi, al vincitore. Così quello che non avevano potuto fare
nè le fanterie nè le artiglierie fecero le cavallerie, al contrario
di quanto successe in Fontenoy, dove le artiglierie fecero quello
che le fanterie e le cavallerie non avevano potuto fare. Il sinistro
caso degli Ungari fe' superar del tutto la fortuna de' Franzesi;
perchè, spingendosi avanti, si serrarono addosso ai nemici privi di
quel principale sostegno, e li costrinsero alla ritirata, con grave
sbaraglio ed uccisione. Pensò tostamente Melas a far dare il segno
della raccolta per andarsi a ritirare vinto là dond'era la mattina
partito con tanta speranza di vincere: solo fece una testa grossa a
Marengo per dar tempo alle ritirantesi squadre di arrivare. Ricoverossi
oltre la Bormida: riassunsero i Franzesi gli alloggiamenti che avevano
occupati prima della battaglia.

A questa battaglia, che cambiò le sorti d'Europa, e la fece andare
pel medesimo verso per quattordici anni, principali operatori della
vittoria furono Cara-San-Cyr per aver preso e conservato Castel
Ceriolo, Victor per avere fortemente combattuto a Marengo contro Keim,
Boudet per aver opposto un duro intoppo alla mole ungara, finalmente, e
soprattutto, quell'accorto e prode Kellermann, che, usando il momento
opportuno, non dubitò di dar dentro co' suoi cavalli a quella massa
intera e grave che solo col peso pareva che fosse per prostrare quanto
le si parasse davanti. Si rallegravano i compagni del glorioso fatto
con lui, ma, venuto in cospetto del consolo, questi con la solita aria
di sussiego e superiorità parlando, nè informandosi punto di quanto
era successo, gli disse: _Avete dato anzi una bella carica che no_.
Sdegnato il giovane guerriero, rispose: _Bene godo che la prezziate,
giacchè vi mette la corona in capo_. Il consolo, che non amava l'essere
scoperto prima che si scoprisse egli, l'ebbe per male, e sempre
dimostrò l'animo alieno dal figliuolo del maresciallo.

Rimaneva ancora dopo la battaglia al generalissimo d'Austria forza
bastante a resistere lungo tempo nel forte sito in cui si era
riparato. Ma o che il terrore concetto per la recente rotta o l'arti
di Buonaparte, che continuamente protestava voler aderire ai patti di
Campoformio, e ridurre i paesi dipendenti da lui a forma di governo
più tollerabile e meno minacciosa pei principi, sel facessero, non si
mostrò renitente, e chiese i patti. Furono gloriosi per la Francia,
stupendi per l'Europa. Sospendessersi fino a risposta da Vienna le
offese; l'imperiale esercito se ne gisse a stanziare tra il Mincio,
la Fossa Maestra ed il Po; occupasse Peschiera, Mantova, Borgoforte, e
sulla destra del fiume Ferrara; medesimamente ritenesse la possessione
della Toscana: il repubblicano possedesse il paese fra la Chiesa,
l'Oglio e il Po; il tratto tra la Chiesa ed il Mincio fosse esente
dai soldati d'ambe le parti; le fortezze di Tortona, di Alessandria,
di Milano, di Torino, di Pizzighettone, d'Arona e di Piacenza si
consegnassero ai repubblicani; Cuneo ancora, i castelli di Ceva e di
Savona, Genova ed il forte Urbano cedessero in loro possessione: niuno
per opinioni dimostrate o per servigi fatti agli Austriaci potesse
essere riconosciuto o molestato; i Cisalpini carcerati per opinioni
politiche si rimettessero in libertà; qual fosse la risposta di Vienna,
le ostilità, se non dopo avviso di dieci giorni, non si potessero
ricominciare; durante la tregua niuna delle parti potesse mandar gente
in Germania. Tali furono i patti conclusi in Alessandria. La tregua,
prolungata più volte di comune consenso di dieci in dieci giorni,
fu finalmente per nuova ed espressa convenzione accordata fino al 23
novembre.

Buonaparte, vincitore di Marengo, aveva in sua mano le sorti d'Europa
liete o tristi, la pace o la guerra, la civiltà o la barbarie, la
libertà o la servitù dei popoli: gloria civile l'aspettava uguale alla
guerriera; ma l'ultima ed un desio fiero ed indomabile di comandare non
lasciarono luogo alla prima. Fu ricevuto a Milano qual trionfatore. Il
chiamavano uomo unico, eroe straordinario, modello impareggiabile, con
tutte quelle altre lodi che l'adulazione meglio sapeva inventare; con
pari adulazione rispondeva Francia. Parlò a Milano molto di pace, molto
di religione, molto di lettere, molto di scienze. Creovvi una consulta,
una commissione di governo. V'aggiunse un ministro straordinario di
Francia, chiamando a questa carica un Petiet, ch'era stato ministro
di guerra ai tempi del direttorio. Riapriva l'università di Pavia
stata chiusa; ordinava stipendii onorevoli ai professori; vi chiamava
i più riputati, i più dotti, i più virtuosi uomini. Fiorì vieppiù per
questi ordini l'università; pareva rinascessero i tempi di Giuseppe;
ma il dominio militare, in cui si viveva, avvertiva i popoli che l'età
era diversa. Non accarezzava più gli amatori ardenti di rivoluzioni,
anzi da sè gli allontanava; chiamava a sè coloro che erano in voce di
aristocrati, purchè fossero di natura moderata e ricchi e di buona
fama. Melzi, Aldini, Birago, il dottor Moscati, Scarpa, il vescovo
di Pavia, Gregorio Fontana, Marescalchi, Mascheroni molto volontieri
vedeva. Del resto, quantunque il procedere paresse più civile, e
le sembianze più oneste, il prendere e il dilapidare era lo stesso;
ricominciò la Cisalpina a travagliare del male antico.

Riordinata la Cisalpina, se ne tornava il consolo in Francia. Passò,
per Torino; alloggiò in cittadella; non si lasciò vedere, non volendo
lasciarsi tirare alle promesse per rispetto di Paolo, che sempre
favoriva il re. Anzi fu certo che, sebbene avesse l'animo molto alieno,
aveva nondimeno, dopo la battaglia di Marengo, offerto l'antico seggio
a Carlo Emmanuele, purchè nuovamente rinunziasse alla Savoia ed alla
contea di Nizza. Tornò altresì sull'antico pensiero, per potersi serbar
il Piemonte, che appetiva con grandissimo desiderio, di dare al re la
Cisalpina, sì veramente che rinunziasse al Piemonte. Le quali proposte
non furono accettate dal principe, parte per motivi di religione,
parte per non voler concludere senza il consentimento dei suoi alleati,
di Paolo massimamente e dell'Inghilterra; nè pur volendo dar appicco
all'Austria, nel caso che le cose di Francia nuovamente sinistrassero,
acciocchè ella s'impadronisse del Piemonte. Non ostante le proferte ed
i negoziati, creava in Piemonte, come in Cisalpina, non per terminare,
ma per minacciare, una consulta ed una commissione di governo, a cui
chiamò molti uomini riputati per dottrina e per pacatezza d'opinione.
Creava ministro straordinario presso a questo governo prima il generale
Dupont, poi, per riconoscere i meriti del vincitore di Fleurus,
Jourdan.

Era a questo tempo l'aspetto del Piemonte oltre ogni dire miserabile:
una estrema carestia, un rapir di soldati lo avevano messo in estrema
penuria. I Piemontesi non sapevano più nè che cosa sperare, nè che cosa
temere, nè che cosa desiderare. I biglietti di credito, che sempre
più scapitavano, lunga e luttuosa peste del paese, avevano posto in
confusione tutti gli averi. Penò molto la consulta, quantunque in lei
abbondassero gli avvocati dotti e sottili, ad assestar questa faccenda,
e quando si assestò, nissuno contento, ancorchè la legge fosse giusta.
Questa fu gran radice di mali umori. Nè gran momento di sventura non
recava il peso gravissimo del dover mantenere i soldati di Francia, sì
quelli che passavano, come quelli che stanziavano: peso da non poter
esser portato dalle finanze piemontesi. S'aggiungevano i comandamenti
fantastici; perchè ora si voleva che una fortezza piemontese si
demolisse a spese del Piemonte, ed ora che la medesima si riattasse:
ora s'addomandavano i piombi della cupola di Superga, il che, prima
cosa, avrebbe fatto rovinar l'edifizio per le acque, ed ora si voleva
che si demolissero i bastioni che sopportano il giardino del re, opera
inutile, perchè la città era già tutto all'intorno smantellata. Se non
era la costanza di chi governava ad opporvisi, Superga ed il giardino,
gradito passeggio dei Torinesi, perivano. Chi domandava denari pel
vivere dei soldati, chi pel vestito, chi per gli ospedali, chi per
le artiglierie, chi pei passi, chi per le stanze; erano le richieste
capricciose, i consumi eccessivi, le finanze impotenti; ogni cosa in
travaglio e confusione.

Altri tormenti, oltre i raccontati, travagliavano i Piemontesi e
rendevano impossibile ogni buon governo; questi erano l'incertezza
delle sorti future. Sorgevano e s'inviperivano le sette. Chi voleva
essere Franzese, chi Italiano, chi Piemontese. Gli amici si odiavano, i
nemici si accordavano, nessun nervo di opinione. Accrebbe l'incertezza
ed i mali umori un atto del consolo, con cui diede il Novarese sì
alto che basso alla Cisalpina. La sinistra novella sollevò gli animi
maravigliosamente in Piemonte, perchè si pensò che Buonaparte volesse
restituire il rimanente al re. Il governo protestò: il consolo, che
sapeva ciò che si faceva, si maravigliava che si temesse, che si
protestasse. Pure non si scopriva; i timori, le sette e le angustie del
governo crescevano. Era segno il Piemonte ad ogni più fiera tempesta.

Fra sì funesta intemperie, ebbe il governo che allora, sotto nome
di commissione esecutiva, surrogata alla commissione di governo, era
composto di Bossi, Botta e Giulio, un consolativo pensiero, e questo fu
di stanziar beni di una valuta di cinquecento mila franchi all'anno a
benefizio dell'università degli studii, dell'accademia delle scienze,
del collegio e di altre dipendenze, ordine veramente benefico e
magnifico, di cui solo si trovano modelli negli Stati Uniti d'America
per munificenza del congresso, com'erano in Polonia per munificenza
dell'imperatore Alessandro.

Fu questo conforto piccolo pei tempi, perchè le disgrazie sormontavano.
Continuossi a vivere disordinatamente, discordemente, servilmente,
famelicamente in Piemonte, finchè venne il destro a Buonaparte
d'incamminarlo a più certo destino.

Le sorti di Genova erano del pari infelici, parte pei medesimi motivi,
parte per diversi. Per la capitolazione d'Alessandria, abbandonava
Hohenzollern Genova, non senza aver prima, per comandamento di Melas,
esatto dai sessanta negozianti più ricchi un milione, come diceva, in
presto ad uso dei soldati. I Franzesi, condotti da Suchet, entrarono
nella desolata città il dì 24 giugno. Quante sventure e quanti dolori
abbiano in sè queste frequenti mutazioni di dominio, ciascuno può
giudicare. Trattaronla i Franzesi duramente, come se fosse sana ed
intera.

Il consolo, come in Cisalpina ed in Piemonte, creava una commissione
di governo con tutte le potestà, salvo la giudiziale e la legislativa;
creava una consulta colla potestà legislativa; creava finalmente presso
il governo ligure un ministro straordinario, chiamandovi il generale
Dejean. Nella presa del magistrato sorsero le solite adulazioni,
maggiori però da parte del ministro straordinario che del governo.
Più certo e più chiaro era il destino di Genova che quel di Piemonte;
perciocchè la Francia prometteva independenza. Ciò fu cagione che fosse
maggior forza nel governo ligure che nel piemontese, e che le parti
avverse meno si ardissero di contrastargli.

Erano quei della commissione di governo uomini pacifici e dabbene.
Pure, mossi dalle grida dei democrati, stanziarono una legge
d'indennità, della quale il minor male che si possa dire è, ch'era
contraria ai capitoli d'Alessandria. Si risarcissero dai briganti e
nemici della patria (così chiamavano i fautori dell'antico stato) i
danni ai danneggiati; se non avessero di che risarcire, risarcissero
per loro i comuni; radice pericolosa era questa di enormi arbitrii.

Con questi accidenti si viveva il governo povero, obbligato a sopperire
allo Stato ed ai soldati forestieri: Keit dominava i mari e serrava i
porti; Genova, sempre in servitù o periva di fame o periva per ferro;
contristava vieppiù la città, venuta a crudeli strette per la forza,
la malattia pestilenziale che, non che cessasse, montava al colmo.
Due mila perirono in un mese. Brevemente, le condizioni dei tre Stati
contermini era questa; in Piemonte fame, peste di carta pecuniaria,
incertezza di avvenire; in Cisalpina abbondanza di viveri, erario
sufficiente, maggiore speranza, se non di stato libero, almeno di stato
nuovo; in Genova fame, peste e povertà d'erario. Nel resto, in tutti
tre servitù; i governi, fattori di Francia.

Sospinti dalle gravi combinazioni della guerra italica, non si è
fatto fin qui menzione d'un fatto importantissimo, e che avrà non meno
importanti conseguenze. I cardinali, già adunati, come si è detto, in
conclave a Venezia per intendere alla elezione del successore a Pio VI,
nel dì 13 marzo del presente anno assunsero al pontificato il cardinale
Gregorio Barnaba Chiaramonti, vescovo d'Imola, che sotto il nome di
Pio VII fu, nel giorno 21 di detto mese, incoronato nella chiesa di
San Giorgio Maggiore di quell'unica città. Così la fortuna preparava a
Buonaparte il più efficace fondamento che potesse desiderare a' suoi
disegni, fondamento più potente delle armi, più potente della fama;
poichè il consolo confidava di ridurlo ai suoi pensieri con accarezzar
la religione. Ciò produsse effetti di grandissima importanza.

Ricevettero i Romani con molte dimostrazioni di allegrezza le novelle
della creazione del pontefice. Erano in servitù dei Napolitani:
speravano che il signore proprio avesse a liberarli dal signore alieno.
Partiva papa Pio il dì 9 di giugno da Venezia e dopo travagliosa
navigazione arrivava ai 25 a Pesaro. Mandati avanti con suprema
autorità per ricevere lo Stato dagli agenti del re Ferdinando e per
dare qualche assetto alle cose sconvolte, i cardinali Albani, Roverella
e della Somaglia, entrava in Roma il terzo giorno di luglio in mezzo
alle consuete allegrezze dei Romani.

Provvide alla Chiesa con la creazione di nuovi pastori, allo Stato
con quella di nuovi magistrati; ridusse ogni cosa, quanto possibil
fosse, alla forma antica. Fu mansueto l'ingresso, mansueto il possesso;
i partigiani della repubblica salvi. Stanziò che i beni venduti al
tempo del dominio franzese alla camera apostolica tornassero, salvo il
rimborso del quarto, ai possessori. Nè molto tempo corse che, volendo
provvedere dall'un de' lati alla camera, dall'altro all'interesse
dei comuni e dei particolari, tolse alcune tasse, ne pose di nuove.
Volle che i comuni si liberassero dai debiti, sulla camera pontificia
trasferendoli, salvo i debiti contratti per l'annona e gl'interessi
corsi dei debiti anteriori; liberava i comuni dai luoghi di monte,
sullo Stato investendogli, ma al tempo medesimo statuiva che, finchè
l'erario non fosse ristorato, solo i due quinti dei frutti dei monti
si pagassero. Comandava che i quattro quinti si corrispondessero ai
possessori dei monti vacabili, e che i luoghi di monte sì perpetui
che vacabili fossero esenti da ogni qualunque tassa o contribuzione.
Aboliva le gabelle privilegiate, quali quelle dei bargelli, del bollo
estinto, dei cavalli morti, o le trasferiva a benefizio dei comuni.
L'opera poi delle contribuzioni indirizzava a più generale ed uniforme
condizione: creava due tasse, abolito ogni privilegio e consuetudine
antica che fosse contraria. Chiamò l'una reale e l'altra dativa.
Quattro erano le parti della prima; un terratico di paoli sei per
ogni centinaio di scudi d'estimo pei fondi rustici, una imposizione
di due paoli per ogni centinaio di scudi di valuta sui palazzi e case
urbane, un balzello di scudi cinque sui cambii per ogni centinaio di
frutti, una contribuzione di valimento, che doveva sommare alla sesta
parte di tutte le rendite dei capitali naturali e civili, rustici ed
urbani sopra coloro che consumassero le loro rendite fuori di Stato.
La dativa consisteva nella gabella del sale sforzato, in quella della
mulenda o macinato, ed in quella di tre paoli per ogni barile di vino
che s'introducesse in Roma, salva la esenzione pei padri di dodici
figliuoli e pei religiosi mendicanti. Buoni ordini furono questi,
fatti anche migliori dal benefizio di aver cassa del tutto la carta
pecuniaria.

Non omise il consolo di considerare le romane cose. Prevedeva
che come la pace coi re era per lui grande mezzo di potenza, così
maggiore sarebbe la pace con la Chiesa. Quando poi seppe che il
cardinale Chiaramonti era stato esaltato al supremo seggio, concepì
maggiori speranze, perchè il conosceva fornito di pietà sincera, e
però più facile ad essere tirato. Era gran cosa quella che veniva
offerendo il consolo, perchè il ristorare la religione cattolica in
Francia importava non solamente la restituzione di un gran reame alla
santa Sede, ma ancora la conservazione pura ed intatta degli altri;
conciossiachè non era da dubitare che se la Francia avesse perseverato
nell'andare sviata in materia di religione, anche gli altri paesi
sarebbero stati, o tardi o tosto, contaminati dall'esempio. Per la
qual cosa papa Pio VII prestava benigne orecchie a quanto il consolo
gli mandava dicendo. Adunque, tentati prima gli animi da una parte e
dall'ultra, si venne poscia alle strette del negoziare, e finalmente
alla conclusione, come sarà a suo luogo raccontato.

Buonaparte dominava la terra, Nelson il mare. Dopo la vittoria di
Aboukir, comparve questi colla vincitrice armata davanti a Malta, già
bloccata, e tolse, se alcuna ancor restava, ogni speranza di redenzione
ai Franzesi assediati. Fece più volte, ma invano Nelson, la chiamata
a Vaubois, che la comandava. Incominciava a patire maravigliosamente
di vitto, d'abiti, di denaro; le malattie si moltiplicavano. Non
per questo rimetteva Vaubois della solita costanza, nè allentava
la diligenza delle difese. Per provvedere ai cambii, costrinse i
principali isolani a dargli carte d'obbligo da scontarsi in Francia
alla pace generale, e con queste pagava i soldati. Per vestirli, si
fe' dare tele e drappi; per pascerli, farine; spianava pane, obbligava
gl'isolani a venir levare le farine da lui, moltiplicava i conigli ed
il pollame, per modo che molto tempo bastarono. Infieriva lo scorbuto;
il combattevano col coltivare a molta cura nei luoghi più acconci
gli ortaggi. Un Nicolò Isvard di Malta, maestro di musica, componeva
opere, e recitavano, e cantavano, e ballavano. Pure la fame pressava.
Provavasi il governatore a mandar in Francia per soccorso il Guglielmo
Tell; ma i vigilanti e lesti Inglesi se lo pigliarono. Stava attento,
e provvedeva con mirabile accortezza a tutti gli accidenti. Fecero
i Maltesi di fuori congiure con quei di dentro: Vaubois le scopriva;
davano assalti, e li risospingeva; pruove mirabili di chi si moriva
di fame e di morbo. In cospetto degli assediati, tre navi tolonesi,
cariche di tre mila soldati e di munizioni sì da bocca che da guerra,
venivano in potere di Nelson. Ogni giorno, anzi ogni ora, la fame
cresceva. Mandava fuori le bocche disutili; gl'Inglesi, barbaramente,
come se vi fosse pericolo di vicino soccorso, le rincacciavano.
Parecchi morirono di fame sotto le mura, gli altri, più morti che vivi,
furono di nuovo ricettati dai Franzesi. Prevedeva Vaubois avvicinarsi
l'ultima fine. La fame sopravanzò il valore. Vennesi a resa, ma
onorevole, il dì 5 settembre.

Mentre l'Inghilterra, che già per la possessione di Gibilterra aveva
la chiave del Mediterraneo, si sforzava di acquistarvi una stanza
sicura con l'espugnazione di Malta, ordinavano concordemente la Russia
e la Porta Ottomana le condizioni delle possessioni ioniche. A questo
modo le veneziane isole arrivarono, in mezzo a tante guerre, ad una
condizione non solo tollerabile, ma buona, ed in lei vissero parecchi
anni assai felicemente; vennero poi nuove guerre e nuove ambizioni
nuovamente a turbarle.

La sospensione delle ostilità non rallentava gli apparecchi di guerra
nè dall'una parte nè dall'altra. Buonaparte, che, mentre si combatteva
in Germania ed in Italia, non aveva mai intermesso di ordinar nuove
genti, ne aveva già adunato un numero di non poca importanza, e le
mandava ad ingrossare ora l'esercito germanico ed ora l'italico. Un
grosso corpo specialmente ne aveva rannodato, il quale posto sotto la
condotta di Murat, e stanziando nei contorni di Digione, accennava ad
ambedue. Dal canto suo l'Austria non ometteva di levar nuovi soldati,
massimamente dall'Ungheria, e gli inviava a rinforzar quelli che
alloggiavano ai confini. L'esercito vinto a Marengo si conservava
tuttavia intero, ed era pronto a contendere di nuovo della vittoria.
Ma non piccolo fondamento alle future cose faceva la corte di Vienna
sulle mosse di Toscana, che, posta pei capitoli d'Alessandria fuori del
dominio franzese, e conseguentemente in quello dell'Austria, seguitava
i desiderii dell'imperatore.

Grande odio annidava ancora in Toscana contro i repubblicani,
perchè e troppo oltre era trascorso, nè si cessava di fomentarlo.
Al medesimo fine indirizzava gli animi la reggenza creata in nome
del duca. Il marchese Sommariva, mandato perchè desse forma a quelle
masse incomposte, le ingrossasse e le armasse, con indefessa attività
attendeva a compir l'ufficio che gli era stato commesso. Quelle genti,
siccome quelle che non avevano nè ubbidienza nè ordine, ed erano mosse
da odio contro i repubblicani, ruppero i confini, e romoreggiando sui
monti che dividono la Toscana dal Bolognese e dal Modenese, vi facevano
molti insulti. Questi moti diedero qualche apprensione ai repubblicani.
Per la qual cosa, usando l'occasione, non solamente richiedevano la
Toscana e Sommariva che frenassero e punissero i violatori dei confini,
ma ancora dissolvessero le masse dei contadini armati. Non fece
Sommariva risposta che piacesse, e continuava a scorrere il paese a suo
piacimento. Ciò diede occasione, muovendolo anche l'esca di Livorno, al
consolo di far risoluzione di occupare sforzatamente la Toscana.

A questo fine mandò comandando a Dupont, varcasse prestamente gli
Apennini e s'impadronisse di Firenze; a Monnier, andasse a combattere
e a disfare in Arezzo quel nido infesto di sollevati; a Clement,
marciasse più sotto, e Livorno in poter suo recasse. Nè fu diverso
l'esito dalle intenzioni; perchè il primo occupava facilmente la
capitale della Toscana, e l'ultimo partendosi da Lucca, arrivava a
Livorno, dove pose le mani adesso a cinquanta bastimenti inglesi e
ad una quantità grandissima di frumenti. Le cose non successero di
questo dalla parte di Arezzo. Gli Aretini si difendevano virilmente.
Fu presa d'assalto il 19 di ottobre, con moltissimo sangue. Seguitava
una strage, una insolenza, un sacco tale, quale si doveva aspettare da
soldati irritati per ingiurie nuove, che avevano risuscitata la memoria
delle antiche. Il terrore concetto pel caso di Arezzo fe' risolvere in
gran parte le masse toscane. Sommariva si ritirava nel Ferrarese.

Le cose si volgevano novellamente a guerra tra Francia ed Austria. Non
aveva voluto l'imperatore ratificare ai preliminari di pace stipulati
a Parigi il dì 8 luglio tra il conte San Giuliano ed il ministro
Taleyrand. Stimolava a questi giorni instantemente l'Inghilterra
l'imperadore alla guerra, perchè, avendo rifiutato la pace, abborriva
dal restar sola contro la Francia, nè poteva ancora accomodar l'animo
al pensiero che i Paesi Bassi avessero a restare in possessione della
potenza emola a lei: offeriva adunque sussidii di denaro ed aiuti
di forze dalla parte di Napoli. Dall'altra parte l'imperadore non
sapeva risolversi ad abbandonar la possessione di Mantova, parendogli
che fossero mal sicuri i suoi nuovi acquisti in Italia finchè quella
fortezza fosse in potestà di uno Stato dipendente intieramente dalla
Francia. Quantunque poi si trovasse privato della forte cooperazione
dell'imperadore Paolo, giustamente confidava di poter fare fortunata
guerra da sè stesso, ricordandosi delle recenti vittorie di Verona e
di Magnano, e considerando che si era perduta la giornata di Marengo un
sol momento, dopo ch'era stata vinta sei ore, nè per difetto di valore
ne' suoi soldati.

Erano gli eserciti avversi ordinati a questo tempo nel seguente modo.
Al germanico di Francia condotto da Moreau stava a fronte il germanico
d'Austria governato da Kray; all'italico di Francia che obbediva a
Brune, l'Italico d'Austria cui era proposto Bellegarde. Fra i due e per
congiungere l'uno coll'altro, si trovavano posti in mezzo nei Grigioni
un franzese governato da Macdonald, nel Tirolo un austriaco capitanato
da Hiller. Così Moreau con Kray, emoli antichi, Macdonald con Hiller,
Brune con Bellegarde avevano a combattere.

La sollevazione del paese toscano che aveva obbligato Brune a smembrar
parte delle sue forze ed a mandarle oltre il suo fianco destro, aveva
debilitato il restante. Laonde pensò il consolo a mandarvi nuove
genti, con comandare a Macdonald, che, lasciati grossi presidii nei
Grigioni, si calasse prima dai Grigioni nella Valtellina, poscia dalla
Valtellina sulle sponde dell'Oglio e dell'Adige, quello per rinforzar
Brune dove alloggiava, questo per riuscire alle spalle di Bellegarde,
ed obbligarlo a ritirarsi indietro dalla fronte del Miurio, dove allora
aveva le sue stanze. Aspro e difficile comandamento era questo del
consolo; ciò non ostante, non si perdeva d'animo Macdonald, stimolando
il fatto del San Bernardo, e volendolo emulare. L'antiguardo condotto
da Baraguey d'Hilliers, siccome quello che era e partito più presto
e più vicino a quei monti, parte varcando la Spluga, parte il monte
dell'Ora, riusciva, non senza aver superato ostacoli gravissimi,
sulla destra a Chiavenna, sulla sinistra a Sondrio. Acquistava per tal
modo Baraguey l'impero della Valtellina, e facilitava la strada allo
scendere di Macdonald. I Valtellini, al veder comparire quelle genti,
si maravigliavano, come se venissero dal cielo; tanto pareva loro
impossibile che elleno per quei luoghi ed in quella stagione (novembre)
fossero passate. Restava l'opera più difficile a compirsi a Macdonald.

Arrivato a Tusizio, donde si sale al monte eternamente incappellato di
nevi e di ghiacci, pareva che la natura fosse divenuta insuperabile.
Tanto erano alte le nevi, tanto chiusa la strada, già di per sè
stessa sdrucciolevole, stretta, rotta e precipitosa; pure, come al
San Bernardo, si posero le artiglierie sui traini, le provvigioni sui
muli; marciavano, ma con difficoltà grandissima. Arrivava l'antiguardo
condotto dal generale Laboissiere al villaggio di Spluga; donde restava
a salirsi l'erta precipitosa che porta al sommo giogo. Mettevansi
in viaggio, e con penosi passi ed infinito anelito procedendo, alla
bramata cima già si approssimavano, quando ecco levarsi un levante
furiosissimo, che, innalzando un immenso nembo di nevosa polvere e
negli occhi dei soldati gettandolo, rendeva impossibile ogni passo.
La forza della veemente bufera furiosamente soffiando sul dorso
delle nevi ammonticchiate sopra quegli sdrucciolenti gioghi, levava
un'orribile sommossa di neve, che con incredibile velocità e fracasso
sulle sottoposte valli piombando, portò con sè a precipizio quanto le
si era parato davanti. Trenta soldati precipitati nell'abisso perirono;
gli altri atterriti, le strade chiuse. Aggiunse la sopravvegnente
notte nuovo orrore al fatto: tornarono a Spluga. Laboissiere, che,
separato da' suoi, precedeva con le guide, a male stento e quasi morto
aggiungeva alla cima; trovovvi benigno ospizio appresso ai religiosi,
che, come quei del San Bernardo, attendono con pietà sì eroica alla
salute dei viaggiatori.

Pareva disperata l'impresa, e sarebbe stata, se non fosse arrivato
Macdonald, il quale, spinto da ardente desiderio di emolare il consolo,
e prevedendo che lo stare importava la distruzione per la mancanza
dei viveri, con accesissime esortazioni tanto fece, che le stanche ed
atterrite genti di nuovo s'incamminavano. Precedevano quattro forti
buoi a pestar le nevi: seguitavano quaranta palaiuoli ad appianarle
ed a fare il sentiero: i zappatori, venendo dopo, l'assodavano; due
compagnie di fanti a destra ed a sinistra perfezionavano pel sicuro
passo ciò che ancora si trovava imperfetto. A questi s'attergavano
le altre genti, fanti e cavalli; le artiglierie, le bestie da soma
viaggiavano alla coda; questo era l'antiguardo. Arrivata sulla cima
all'ospizio, con infinita allegrezza si ricongiungeva col salvato
Laboissiere. Poi seguitando il cammino per la pianura del Cardinello,
giungeva a campo Dolcino. Allo stesso modo varcavano il dì 2 e 3 di
dicembre due altre squadre di fanti, di cavalli e d'artiglierie; il
tempo freddo e sereno, le nevi indurite in ghiaccio facilitavano il
passo. Solo alcuni soldati, per la forza di quell'insolito rigore,
o morivano gelati o, perdute le estremità, con le membra monche
restavano. Crudo era il viaggio, ma con isperanza di terminarlo
felicemente, quando il dì 4 (rimaneva a varcarsi il retroguardo in
cui si trovava Macdonald) si levava una spaventevole bufera, che
e gli uomini col soffio violentissimo arrestava e sotto monti di
lanciata neve li seppelliva, ed ogni traccia che fatta si fosse di
strada intieramente scassava. La disperazione entrava negli animi:
le guide, uomini del paese, atterrite, attestavano l'impossibilità
del passare, e l'opera loro ricusarono. Era per perire Macdonald
sotto monti di neve come era perito Cambise sotto monti di arena.
Ma vinse la virtù sua e dei compagni: queste sono opere piuttosto
da giganti che da uomini. Incoraggiò le guide, incoraggiò i soldati.
Accorreva e gridava: «Franzesi, ha l'esercito di riserva vinto il San
Bernardo, vincete voi la Spluga: superate per gloria vostra quello
che la natura ha voluto fare insuperabile: i destini vi chiamano in
Italia; ite e vincete, prima i monti e le nevi, poscia gli uomini e
l'armi.» La lunga tratta delle squadre desolate riprendeva il cammino.
Imperversava vieppiù la bufera: spesso le guide piene di un alto
terrore tornavano indietro, spesso gli uomini sepolti, spesso dispersi,
spesso la stretta foce della sublime valle si trasformava in monte di
neve; là era un muro bianco e sodo, dove prima era l'aperta; chiusa
ogni strada. S'aggiungeva un freddo intensissimo, maggiore quanto più
si saliva e che gli animi attristava e prostrava, e le membra, con
renderle inutili, aggrezzava. Le nevose ed estemporanee mura spesso
si rinnovavano, l'inesorabile inverno spaziava largamente e dominava;
le Rezie Alpi in atto di sorbirsi gli audaci Franzesi. Rifulse in
tanto estremo caso mirabilmente quanto possa questa portentosa umana
natura; perchè, non restandosi Macdonald nè i suoi a quel mortale
pericolo, aprivano ciò ch'era chiuso, spianavano ciò ch'era montuoso,
rompevano ciò che era ghiacciato, assodavano ciò che era cedevole,
sgretolavano ciò che era sdrucciolente, coprivano o riempivano ciò
che era abisso. Per tale modo, quantunque un rovinoso inverno li
chiamasse a distruzione ed a morte, l'inverno vincevano, e contrastando
a quanto hanno di più terribile e di più insuperabile i furibondi
elementi, riuscivano nella Valtellina valle a salvamento. Rallegravansi
dell'acquistata vita l'uno con l'altro, perchè si erano creduti
morti; godevasi Macdonald il raccolto frutto dell'invitta costanza.
Imprese son queste che paiono impossibili, e più a coloro che le hanno
effettuate. Non le crederebbe la posterità, se il secolo nostro, tanto
abbondante raccontatore, non una, ma cento testimonianze non fosse
per tramandarne; nè ricorda alcuna storia o antica o moderna fatto più
maraviglioso o più erculeo di questo.

Sebbene la prima parte dell'impresa fosse compita, restavano da
effettuarsi le due altre che avevano anch'esse gran momento di
difficoltà; quest'erano il passo dalla Valtellina nella valle
Camonica, cioè dalle acque dell'Adda a quelle dell'Oglio, ed il passo
dalla Valtellina nel Trentino, cioè delle acque dell'Adda a quelle
dell'Adige. Apriva il primo il monte Priga, il secondo il monte Tonale.
Non ebbe prospero fine il tentativo contro quest'ultimo, perchè gli
Alemanni vi si erano fortemente trincierati, e sebbene Macdonald due
volte con grande vigoria li combattesse, aiutati dalla stagione, dalla
fortezza del sito e dal proprio valore, il risospinsero.

Da un'altra parte sortiva esito felice il passo della Priga.
Traversato, non senza gravi difficoltà e pericoli, quell'aspro monte,
vedevano i repubblicani le acque dell'Oglio, e, passato Breno, si
raccoglievano a Pisogna, terra posta sulla settentrional punta del lago
d'Iseo, cui l'Oglio con le sue acque forma e nudrisce. Vi trovavano la
legione italiana di Lecchi e vettovaglie fresche, provvidenza di Brune,
che ve le aveva mandate a ristoro di quelle stanche ed eroiche genti.

Erasi sul fine di novembre disdetta la tregua e denunziate le ostilità
da una parte e dall'altra; ma non si venne tosto alle mani in Italia,
perchè Brune non voleva principiar la guerra innanzi che Macdonald,
occupato allora nel passo dei monti, fosse venuto a congiungersi
con lui. Nè stava senza timore che il suo fianco destro pericolasse,
stantechè Dupont, dopo la conquista della Toscana, era ritornato con la
maggior parte delle truppe al campo principale, lasciato solamente in
quel paese Miollis con tre o quattro mila soldati. Oltre a ciò il re
di Napoli, stimolato dagl'Inglesi, e volendo cooperare con l'Austria,
aveva radunato un esercito campale sotto la condotta del conte
Ruggiero di Damas; il quale, traversato lo Stato pontificio, già si
avvicinava alla Toscana. Perciò il generale di Francia stava aspettando
che Macdonald si accostasse, e che i soldati novelli, che già erano
arrivati in Piemonte, gli pervenissero. Nè meno desiderava indugiar la
guerra Bellegarde, volendo aspettare che Laudon e Wukassowich fossero
scesi dal Tirolo. Inoltre, trovandosi alloggiato in sito forte per
natura e per arte, amava meglio essere assaltato che assaltare.

Avvicinandosi oggimai la fine dell'anno, ed essendo giunto Macdonald
sui campi donde poteva cooperare con Brune, e volendo il generalissimo
secondare i movimenti di Moreau in Germania, che con armi prospere
minacciava il cuore dell'Austria, si deliberava a dar principio
alle ostilità: assaltati impetuosamente i corpi che Bellegarde aveva
posto alle stanze sulla destra del Mincio, gli sforzava a rivarcare
il fiume. Restava ch'egli medesimo il passasse, difficil opera,
perchè gli Austriaci, forti di numero e di sito, si erano risoluti
a difendere gagliardamente il fiume. Erano i Franzesi partiti in tre
schiere. Fece Brune pensiero di varcare al passo di Mozambano, perchè
quivi le rive essendo meno paludose, facilitavano l'accostarsi ed il
combattere più fermamente ne' luoghi occupati. Perchè poi il passo gli
riuscisse più facile, avvisò d'ingannar il nemico col fargli credere
ch'ei lo volesse passare più sotto tra la Volta e Pozzuolo. Correva il
giorno 25 dicembre, cui il generalissimo di Francia aveva destinato
al passaggio del Mincio. Fu il primo Dupont a mandar ad effetto la
fazione che gli era commessa, d'ingannare, cioè, il generale tedesco,
però contentandosi di una dimostrazione sulla riva sinistra, senza
prendervi alloggiamento stabile, senza ingaggiare battaglia giusta.
Passava primieramente coi soldati leggieri sulle barche trovate a
caso, poi, accomodate le piatte, costruiva il ponte e varcava con la
maggior parte delle genti. S'impadroniva, dopo breve contrasto, della
terra di Pozzuolo, e, senza aver rispetto alle condizioni delle cose,
vi fermava le sue stanze; felice ad un tratto ed infelice pensiero. Ne
sorse un gravissimo pericolo; perchè Brune, avendo trovato le strade
molto sinistre, non potè mettersi all'impresa il giorno 25: il che
fu cagione che Bellegarde, che alloggiava col grosso a Villafranca,
terra poco lontana, corse subitamente con tutto il pondo de' suoi
contro Dupont. Si difese virilmente il Franzese, ancorchè Bellegarde
si fosse scoperto con quasi tutto il suo esercito in battaglia; fecero
i suoi soldati quanto in accidente sì pericoloso per uomini valorosi
si poteva fare. Ma tanto preponderava il nemico, che già Dupont, non
essendo potente a resistere col suo corpo solo, cedeva e si vedeva
vicino ad essere rituffato nel fiume, portando in tal modo la pena
dell'aver preso animo, contro gli ordini del capitano generale, di
fermarsi a far grossa battaglia sulla riva opposta del fiume. Sarebbe
adunque stata l'ala destra dei Franzesi conquisa intieramente e rotta,
se non fosse giunto improvvisamente un non pensato soccorso. Suchet,
che dall'eminenza della Volta scopriva quanto Dupont fosse pressato dal
nemico, consigliandosi piuttosto con la necessità dell'accidente che
con gli ordini di Brune, perciocchè il generalissimo gli aveva ordinato
che andasse ad aiutare il passo di Mozambano, frettolosamente marciava
al mal auguroso Pozzuolo. L'arrivo di Suchet, ristorava la fortuna
della giornata oramai perduta. Tuttavia gli Austriaci, grossi e sicuri
sul destro fianco, facevano una battaglia forte e molto ostinata. Tre
volte s'impadronirono di Pozzuolo, e tre volte ne furono risospinti.
Infine fu costretto Bellegarde a tirarsi indietro a Villafranca,
lasciando i repubblicani in possessione di Pozzuolo. Patì molto in
questa battaglia, nè però senza strage fu la vittoria dei Franzesi.
Il seguente giorno, come aveva destinato, passava Brune il fiume a
Mozambano per guisa tale che tutto l'esercito di Francia si trovava
condotto sulla sinistra del Mincio.

Bellegarde, considerato il successo della fazione di Pozzuolo, nè
volendo avventurarsi a battaglie campali in quelle facile largura
tra il Mincio e l'Adige, ancorchè molto prevalesse di cavalleria,
accomodava le sue deliberazioni agli esiti delle cose, e ritirava
le genti sulla sinistra dell'Adige, solo lasciando sulla destra
alcuni corpi, non per signoreggiare il paese, ma soltanto per meglio
difendere il passo del fiume. Brune, fatto più ardito dalla vittoria,
applicava l'animo a cacciare l'avversario oltre Verona, ed a far
sentire l'impressione dell'armi franzesi nel Vicentino, nel Padovano e
nel Trivigiano. Per la qual cosa, avvicinandosi col grosso all'Adige,
mandava Moncey con un corpo sufficiente verso Corona e Rivoli, affinchè
serrasse la strada a Laudon ed a Wukassovich, che già scendevano dal
Tirolo, e nel caso in cui eleggessero di rivoltarsi là dond'erano
venuti, li perseguitasse anche all'insù. Sapeva che Macdonald,
procedendo pei monti superiori, ed entrando dalla valle dell'Oglio in
quella del Mela, da questa in quella della Chiesa, e pervenendo alla
superior coda del lago di Garda, si proponeva di riuscire per montagne
scoscese e rotte sopra a Trento. La quale mossa, se avesse avuto il
suo effetto, Laudon e Wukassovich, combattuti sopra da Macdonald,
sotto da Moncey, non avrebbero più avuto scampo. Succedeva felicemente
il pensiero di Brune, rispetto al passo del fiume, perchè facilmente
gli veniva fatto di varcarlo a Bussolengo, luogo già tanto famoso pei
successivi passaggi, ora dei Franzesi, ora di Tedeschi. Bellegarde,
informato del viaggio di Macdonald, aveva fatto debole dimostrazione
per impedire il transito ai repubblicani, e si ritirava, lasciato
solamente nel castello di San Felice di Verona un presidio, che poco
dopo si arrese sulle rive del Brenta. Al tempo stesso accortosi quanto
la guerra fosse pericolosa a Laudon ed a Wukassovich, aveva loro
comandato che risalissero più presto che potessero l'Adige, e per la
valle della Brenta con frettolosi passi venissero a congiungersi con
lui nei contorni di Bassano.

In questo punto pervennero le novelle che dopo la vittoria di
Hohenlinden, guadagnata da Moreau contro l'arciduca Giovanni, era
stata conclusa a Steyer il giorno 25 dicembre una tregua tra il
generale franzese e l'arciduca Carlo. Propose Bellegarde a Brune un
trattato simile di sospensione di offese; ma, esigendo, conforme alle
istruzioni, che gli si cedesse, oltre Peschiera, Ferrara, Ancona e
porto Legnago, anche Mantova, il trattato non potè aver effetto, e si
continuò la guerra.



    Anno di CRISTO MDCCCI. Indizione IV.

    PIO VII papa 2.
    FRANCESCO II imperadore 10.


Le cose pressavano molto nel Tirolo. Moncey e Macdonald intendevano
a serrare da ogni parte Wukassovich e Laudon, per impedir loro la
facoltà del ritirarsi. Ma il primo, alloggiato superiormente al
secondo, e prestamente obbedendo a Bellegarde, entrato per Pergine
nella valle del Brenta, schivava il pericolo, e sicuramente per la
sponda di questo fiume camminava alla volta del suo generalissimo;
il secondo, pel contrario, si trovava in molto ardua condizione,
imperciocchè già si era condotto tanto innanzi, che era disceso fin
sotto a Roveredo, e non poteva più tornare indietro per Trento innanzi
che Macdonald vi arrivasse. Era, oltre a ciò, aspramente combattuto da
Moncey dalla parte inferiore, per modo, che cacciato all'insù da un
sito all'altro, aveva anche abbandonato al vincitore la possessione
di Roveredo. Al tempo stesso Macdonald, superata la resistenza che
Davidowich con un po' di retroguardo di Wukassovich aveva fatto a
Trento, s'impadroniva di questa ultima capitale del Tirolo italiano.
Era dunque tolto ogni scampo a Laudon per la strada maestra, nè altra
speranza gli restava che quella di condursi, per le strette ripide
e malagevoli di Cadonazzo, a Levico. Ma illuso Moncey colla notizia
d'una tregua, frettolosamente marciando per approfittar dell'inganno,
a Levico arrivava a salvamento, donde calando con viaggio prospero, si
avvicinava a Bellegarde. Diede Moncey all'insù di Roveredo, Macdonald
all'ingiù da Trento: incontraronsi fra le due città i due generali
della repubblica, dolenti ambidue dell'essere stati ingannati. Restava
a Macdonald che compisse un'altra parte del suo disegno, piacendogli le
imprese grandi ed audaci: quest'era di montar l'Adige sino a Bolzano
ed a Brissio, poi di entrare nella valle della Drava per uscire alle
spalle di Bellegarde, e tagliargli la strada al suo ricetto d'Austria.
Infatti, già era arrivato col suo antiguardo a Bolzano, combattendovi
gagliardamente il generale Auffenberg, che vi stava a difesa con
quattro mila soldati; non la guerra, ma la pace impedì a Macdonald
l'esecuzione del suo animoso disegno.

Eransi Wukassovich e Laudon ricongiunti con Bellegarde, che ancora
poteva tener in pendente la fortuna, ma non volle più avventurare le
sorti, avendogli interrotto la speranza le novelle allora pervenute
della sospensione di Steyer. Per la qual cosa si ritirava dal Brenta,
riducendosi sulle sponde del Piave. Il perseguitava Brune: era il fine
della guerra. A petizione del generale d'Austria, si concluse, il dì
16 gennaio, a Treviso un trattato di tregua coi capitoli seguenti: si
sospendessero le offese; le due parti non potessero rompere il trattato
se non dopo quindici giorni di disdetta; le piazze di Peschiera
e di Sermione, i castelli di Verona e di Legnago, la città e la
cittadella di Ferrara, la città e il forte d'Ancona si consegnassero
ai Franzesi; Mantova restasse bloccata dai repubblicani ad ottocento
braccia dallo spalto, con facoltà al presidio di procacciarsi viveri
di dieci in dieci giorni; i magistrati austriaci si rispettassero;
la tregua durasse trentatrè dì, compresi i quindici; nissuno per
fatti od opinioni politiche potesse essere molestato. Non piacque al
consolo l'accordo di Treviso, perchè non giudicava a suo proposito che
l'Austria possedesse Mantova. Fu forza cedere, e, per un nuovo accordo
fatto a Luneville, fu quella principalissima fortezza data in mano dei
Franzesi.

La sospensione di Treviso ridusse alle strette il re di Napoli,
perchè per lei potevano i Franzesi più espeditamente attendere alla
ricuperazione dei paesi perduti. Il conte Ruggiero, volendo cooperare
con Bellegarde, si era mosso coi Napolitani, e, traversato lo Stato
romano era, andato in Toscana, alloggiandosi in Siena. Dall'altro
lato il marchese Sommariva con qualche squadrone di Tedeschi e coi
fuorusciti aretini s'era ancor egli fatto avanti, ed aveva levato
a rumore le parti superiori del granducato. Al quale moto sollevati
gli Aretini, siccome quelli che mal volentieri sopportavano il nuovo
dominio, di nuovo erano corsi all'armi, ed avevano condotto in grave
pericolo Miollis, che con poche genti custodiva la Toscana. Messi in
confusione e sconquasso i confini, si incamminavano Sommariva da una
parte, il conte Ruggiero dall'altra all'acquisto di Firenze, dove
il generale franzese aveva la sua principale stanza. Queste cose
accadevano sul principiare del presente anno. Disperando Miollis,
perchè si sentiva più debole pel poco numero de' suoi soldati, misti
di Franzesi, Cisalpini e Piemontesi, di far fronte ad un tratto ai due
nemici, s'appigliò prudentemente al partito di combatterli separati,
usando celerità. Marciavano primieramente contro i Napolitani, condotti
dal conte. Guidava il generale Pino l'antiguardo di fanti cisalpini
e di cavalli piemontesi. Affrontava tra Poggibonzi e Siena una grossa
colonna di cinque o sei mila fanti napolitani, e valorosamente urtando
con le baionette, li voltava in fuga. Volle il conte far testa in
Siena; ma Pino, guidato dal proprio valore, da quello de' suoi, dal
fervore della vittoria, dava dentro incontanente, e, fracassate
coi cannoni le porte, vittoriosamente vi entrava. Ritirossene il
conte; poi fece opera di rannodarsi sui poggi vicini; ma pressando
viemmaggiormente i Cisalpini ed i Piemontesi, fu costretto ad
abbandonar tostamente i territorii toscani, ritirandosi in quei di Roma
per l'oscurità della notte.

Il marchese, udito il sinistro caso del conte, ritraeva prestamente i
passi, e giva a ricoverarsi in Ancona. In tal modo Miollis per valore
de' suoi e per la provvidenza propria riduceva di nuovo in arbitrio di
Francia le cose di Toscana, e teneva in timore il sinistro fianco di
Bellegarde.

Queste erano le condizioni di Toscana quando, conclusa la sospensione
di Treviso, nella quale non fu compreso il re di Napoli, le cose del
regno restarono esposte a grandissimo pericolo; perchè Murat, siccome
gli era stato comandato dal consolo, già venuto con le nuove reclute in
Italia, s'incamminava a gran passi contro la Toscana e la Romagna per
invadere il regno. Ai soldati di Murat s'accostava al medesimo fine una
forte squadra dell'esercito vittorioso di Brune: ogni cosa cedeva alla
riputazione della vittoria. Il resistere pel re era impossibile, la sua
ruina certa. La salute, caso da non essere presentito, gli venne dal
settentrione.

Carolina regina, donna di mente forte, e che non dava molta fede alle
matte credenze ed alle parole gonfie, si era risoluta, voltando tutto
l'animo alle speranze russe, e non isperando in altro modo congiunzione
con Francia, di andar a Pietroburgo per pregare l'imperatore Paolo ad
intromettersi, come mediatore, tra il consolo e Ferdinando. Piacque
la fede a Paolo: già rappattumato col consolo, mandava in Italia il
generale Lewashew, affinchè s'intromettesse a concordia fra le due
potenze. Si soddisfece Buonaparte del procedere di Paolo, perchè
secondava i suoi fini. Venne per parte del re il cavaliere Micheroux a
trovare Murat a Foligno: non istettero a negoziar lungo tempo, essendo
le due parti sommamente desiderose di convenire, una per piacere a
Paolo, l'altra per paura di Buonaparte. Fu dunque il dì 18 febbraio
accordata tra Francia e Napoli, con corroborazione dell'autorità
della Russia, una tregua, principali capitoli della quale furono che
i soldati regi sgombrassero dallo Stato romano; che i repubblicani
occupassero Terni, ma che la Nera non oltrepassassero; che tutti
i porti di Napoli e di Sicilia si serrassero contro gl'Inglesi e
contro i Turchi; che ogni comunicazione cessasse tra Porto-ferraio e
Porto-longone nell'isola d'Elba fintantochè gl'Inglesi non avessero
sgombrato da Porto-ferraio; che Dolomieu si liberasse dalle carceri di
Messina; che si restituissero gli ufficiali ed i generali franzesi;
che si obbligasse il re ad udire favorevolmente le raccomandazioni
di Francia per coloro che fossero o banditi o carcerati per opinioni
politiche.

Ebbe questo trattato subito effetto: vuotò il conte Ruggiero il
territorio della Chiesa; prevenendo le istanze del consolo, aboliva
tribunali straordinarii, e condonava ogni pena pel crimenlese. Murat,
tra per vanagloria d'entrar qual liberatore in Roma e per adescare
ai futuri disegni, venutovi dentro e concorrendo a lui il popolo, si
condusse a far riverenza al pontefice.

Ogni cosa si componeva a concordia. Negoziavasi a Luneville per
l'Austria dal conte Luigi Cobentzel, per la Francia da Giuseppe
Buonaparte, l'uno e l'altro avendo mandato e possanza di concludere.
Dopo qualche contenzione, pigliarono forma che il trattato definitivo
di pace fosse sottoscritto il dì 9 di febbraio. I capitoli principali
quanto all'Italia furono quelli stessi del trattato di Campoformio,
solo variossi pei confini: l'Adige, principiando dove sbocca dal Tirolo
infino alla sua foce, fosse confine tra la Cisalpina e gli Stati
d'Austria; la destra parte di Verona, e così quella di Portolegnago
spettassero alla Cisalpina, la sinistra all'Austria; si obbligava
l'imperatore a dare la Brisgovia al duca di Modena in ricompensa dal
perduto ducato; rinunziasse il granduca alla Toscana ed all'isola
d'Elba, e la Toscana e l'isola si dessero all'infante duca di Parma: il
granduca si ricompensasse con Stati competenti in Germania; conoscesse
e riconoscesse l'imperatore le repubbliche cisalpina e ligure, e
rinunziasse ad ogni titolo, sovranità e diritto sopra i territori della
Cisalpina; consentisse all'unione dei feudi imperiali colla repubblica
ligure. Del Piemonte nulla si stipulava.

Il re di Napoli, ridotto alla necessità di obbedire alla forza lontana
di Paolo ed alla vicina di Buonaparte, si quietava anche col consolo,
convenendo in un trattato di pace a Firenze, il dì 28 di marzo,
sottoscritto per parte di lui da Micheroux, per parte della Francia
da Alquier. Convenissi come nella tregua, e di vantaggio che il re
rinunziasse primieramente e per sempre a Porto-longone ed a quanto
possedesse nell'isola d'Elba; secondamente cedesse alla Francia, come
cosa propria e da farne ogni voler suo, gli Stati dei Presidii ed
il principato di Piombino; ancora perdonasse ogni delitto politico
commesso fino a quel giorno; restituisse i beni confiscati, liberasse
i detenuti, potessero gli esuli tornare nel regno sicuramente, e fosse
loro restituita ogni proprietà; da ambe le parte si dimenticassero le
offese.

Le cose si fermarono anche con nuova composizione con la Spagna,
essendosi stipulato un trattato a Madrid, il dì 21 marzo, da Luciano
Buonaparte per parte di Francia, e dal principe della Pace per parte di
Spagna. S'accordarono le due parti che il duca di Parma rinunzierebbe
al ducato in favore della repubblica di Francia; che la Toscana si
darebbe al figliuolo del duca col titolo di re; che il duca padre si
compenserebbe con rendite e con altri Stati; che la parte dell'isola
d'Elba che apparteneva alla Toscana spetterebbe alla Francia, e che la
Francia ne ricompenserebbe il re di Etruria collo Stato di Piombino;
che la Toscana s'intendesse unita per sempre alla corona di Spagna; che
se il re d'Etruria morisse senza prole, succedessero i figliuoli del re
di Spagna.

Così, in men che non fa un anno, ogni ostacolo cedette ai buonapartiani
fatti. Poscia, essendo in tutti, parte pei medesimi, parte per
diversi rispetti la medesima intenzione alla pace, composte tutte le
controversie, il consolo contrasse amicizia coll'imperatore Paolo,
s'accordò coll'imperatore Francesco, e rialzò la Francia da bassa ad
eminente fortuna.

Le cose della religione cattolica erano in gran disordine in Francia.
L'assemblea costituente aveva interrotto la unione con la sedia
apostolica, rispetto alla instituzione pontificia dei vescovi,
qual era stata accordata tra Leone X e Francesco I, e tolto i beni
alla Chiesa, con appropriargli alla nazione. I governi che vennero
dopo, massimamente il consesso nazionale, non solamente distrussero
gli ordini statuiti dall'assemblea, ma spensero ancora ogni ordine
religioso, perseguitarono i ministri della religione, ed alcuni
anche sforzarono, cosa nefanda, a rinegare il proprio stato e le
proprie opinioni. Il direttorio continuò a perseguitare i preti, ora
confinandoli nell'esilio, ora serrandoli nelle prigioni, e sempre
impedendo loro, massime ai non giurati, che liberamente e pubblicamente
celebrassero i riti divini. Era quindi nato un desiderio in Francia
di veder ristorati i riti della religione cattolica, e molti Franzesi
in questo desiderio tanto più s'infiammavano, quanto più difficile
sembrava la reintegrazione. Buonaparte non era uomo da non vedersi
queste cose, meno ancora da non usarle per edificare la sua potenza
e per arrivare a' suoi fini smisurati. Adunque, divenuto libero dai
pensieri, che più nella mente sua pressavano, della guerra, applicava
viemaggiormente l'animo al negoziare col papa, col fine di venirne
con lui ad un aggiustamento in materia religiosa. Alcuni accidenti
aiutavano queste pratiche, altri le disaiutavano. Dava favore al
consolo un concilio nazionale di vescovi giurati che, dipendentemente
da un altro tenuto nel 1797 con suo consentimento espresso era per
adunarsi in Parigi il dì di San Pietro. Non solamente ei non impediva
che questi vescovi parlassero, ma gl'incitava anche a parlare,
quantunque fossero giurati e contrarii a quella pienezza di potestà che
i papi sostengono spettarsi alla Sedia apostolica. Da un'altra parte la
romana curia ardentemente impugnava le loro dottrine. Le disputazioni,
come accade, s'inasprivano.

Queste contese teologiche molto piacevano al consolo, e gli
dimostravano una grande opportunità, perchè non dubitava che il
papa, temendo ch'ei non fosse per gettarsi in grembo agl'impugnatori
della santa Sede, avrebbe mostrato più docilità nel concedere ciò che
desiderava; perciò questi umori non solo favoriva, ma incitava. Questi
erano gli accidenti favorevoli al consolo; ma per natura e per uso e
per massima amava egli molto più il governo stretto e monarcale del
papa che il governo largo e popolare degli avversarii, e gli pareva
che gli ordini papali, rispetto alla potestà unica ed universale,
fossero un grande, utile e maraviglioso pensamento. Chiamava i
giansenisti gente di molta fede e di ristretti pensieri; nè gli pareva
che la costituzione del clero, siccome cosa antiquata e cagione di
molte disgrazie, si potesse utilmente rinfrescare. Un nuovo e vivace
pensiero, e più conforme ai desiderii dei popoli, gli pareva che
abbisognasse.

Da un'altra parte cadevano in questa materia molte e gravi difficoltà.
La principale forza del consolo era posta ne' suoi soldati, e non
istava senza timore che quell'apparato religioso, al quale da sì lungo
tempo erano disavvezzi, e quel comparir di preti, che avevano e con
fatti perseguitato e con motteggi lacerato, non paresse avere agli
occhi loro qualche parte di ridicolo, cosa di somma importanza in
Francia. Temeva altresì in quei primi principii la setta filosofica,
nemica al papa, assai più potente di quella che impugnava la larghezza
dell'autorità pontificia. Egli aspettava dalla prima gran favore e gran
sussidio. Ma più di tutto questo travagliava l'animo suo la faccenda
dei beni della Chiesa venduti dai precedenti governi; perchè l'ottenere
dal papa la confermazione di queste vendite era di sommo momento, e
sapeva che il pontefice ripugnava al fare in questo proposito alcuna
espressa dichiarazione. Pure la tranquillità dei possessori era
fondamento indispensabile della sua potenza. Non pochi dei giurati
erano di gran nome e di qualche autorità, e il consolo li voleva
vezzeggiare; ma l'impetrare dal papa che non solamente gli assolvesse
e nel grembo suo li riaccettasse, ma ancora, come desiderava, che ai
primi seggi della gallicana Chiesa li sollevasse, appariva intricato
e malagevole argomento. La medesima difficoltà sorgeva per gli
ecclesiastici della parte contraria che avevano conservato i seggi loro
anche ai tempi dell'esilio, ed ai quali non avrebbero forse voluto
rinunziare, parte per insistenza nelle antiche opinioni, parte per
affezione alla famiglia reale di Francia.

Nè mediocre impedimento alla definizione del trattato recava il
capitolo della celebrazione dei riti cattolici; perciocchè, essendo i
medesimi andati in disuso da sì lungo tempo, non era senza pericolo
di scandalo, in mezzo a popolazioni infette di usi e di opinioni
contrarie, il volere che tutto ad un tratto pubblicamente e secondo
tutti gli usi della Chiesa si celebrassero: si temeva che nascessero
enormità, dalle quali i fedeli ricevessero maggiore offensione che
edificazione. Ripugnava adunque il consolo, malgrado che il papa
insistesse per ogni larghezza di culto pubblico, a questa condizione,
volendo indugiare a tempo più propizio i desiderii di Roma.

Nonostante tutte queste malagevolezze in un negozio di tanta
importanza, essendo nelle due parti grandissimo desiderio di convenire,
mandava Pio VII a Parigi il cardinale Ercole Consalvi, suo segretario
di Stato, Giuseppe Spina, arcivescovo di Corinto, ed il padre Caselli,
teologo consultore della santa Sede. Dal canto suo dava il consolo
facoltà di trattare e di concludere a Giuseppe Buonaparte, a Cretet,
consigliere di Stato, ed a Bernier, curato di San-Lodo d'Angeri. Da
questi si venne, il dì 15 luglio, al trattato definitivo tra la santa
Sede e la repubblica di Francia, atto piuttosto di unica che di molta
importanza, poichè per lui si restituiva alla Chiesa cattolica una
parte nobilissima d'Europa, e si ridava la pace a tanti uomini di
coscienza timorata e pia.

Confessatosi dal governo franzese che la religione cattolica,
apostolica e romana era professata dalla maggior parte dei Franzesi, e
confessatosi altresì da Sua Beatitudine che dalla sua reintegrazione in
Francia era per derivarle un grande benefizio ed un grande splendore,
convennero e stipularono le due parti, che la religione cattolica
apostolica e romana avrebbe libero e pubblico esercizio in Francia, a
quelle regole conformandosi che il governo giudicherebbe necessarie per
la quiete dello Stato; s'accorderebbero la santa Sede ed il governo
ad ordinare una nuova circoscrizione delle diocesi; esorterebbe il
pontefice i vescovi titolari a rinunziare alle sedi loro, e, se nol
facessero, con la elezione di nuove titolari provvederebbe, nominerebbe
il consolo tre mesi dopo la pubblicazione della bolla di sua Santità,
gli arcivescovi ed i vescovi secondo la nuova circoscrizione, e
conferirebbe il papa l'instituzione canonica secondo le regole
costituite per la Francia innanzi che il governo vi si cambiasse; le
sedi vescovili, che in progresso vacassero, ugualmente con nominazioni
fatte dal consolo si riempissero, e l'instituzione canonica, conforme
al capitolo precedente, dal papa si conferisse; giurassero i vescovi
e gli altri ecclesiastici, prima dell'ingresso loro, fedeltà alla
repubblica, e promettessero di svelare qualunque trama contraria
allo Stato; pregassero nelle chiese per la repubblica e pei consoli;
i vescovi non potessero fare nuove circoscrizioni di parrocchie nè
nominare parochi se non a beneplacito del governo; le chiese non
vendute si restituissero ai vescovi. Dichiarava inoltre il papa, avuto
riguardo alla pace ed alla reintegrazione della religione in Francia,
che nè egli, nè i suoi successori non sarebbero mai per molestare gli
acquisitori dei beni ecclesiastici alienati, e che, per conseguente,
la proprietà di essi beni, i diritti e le rendite annessivi, fossero
e restassero incomutabilmente in loro, nei loro eredi e negli aventi
causa da essi. Obbligossi il governo di Francia a dare congrui
assegnamenti ai vescovi ed ai parrochi, e provvedere che i fedeli di
Francia potessero legare alle chiese per benefizio della religione.
Confessò e riconobbe il papa, essere nel consolo gli stessi diritti e
prerogative, di cui appresso alla sedia apostolica godevano gli antichi
sovrani di Francia. Se accadesse che un consolo cattolico arrivasse
al seggio supremo in Francia, i suoi diritti e prerogative, e così
ancora la forma delle elezione dei vescovi si regolassero per un nuovo
accordo.

Concluso il concordato, dissolveva tostamente il consolo, non avendone
più bisogno, il concilio nazionale di Parigi. Così gli sforzi dei
vescovi e preti giurati, per astuzia del consolo servirono alla
reintegrazione dell'autorità papale piena in Francia.

Questa convenzione mandata a Roma per la ratifica del papa, vi destò
gravi e pertinaci controversie. I teologi più stretti e più dediti alle
massime della curia romana apertamente biasimavano i plenipotenziari
dello avere troppo largheggiato nelle concessioni e grandemente offeso
i diritti e le prerogative della Chiesa cattolica. Il papa medesimo,
siccome quegli che molto timorato era e delle prerogative della santa
Sede zelantissimo, se ne stava in forse non sapendo risolversi al
ratificare. Deliberò, prima di risolversi, di consigliarsi coi teologi
più dotti di Roma: richiese del parer loro il cardinal Albani e frate
Angelo Maria Merenda dei predicatori, commissario del sant'Officio.
S'accordarono ambidue che il papa, salva coscienza, potesse ratificare.

Stante adunque le dilucidazioni date dal cardinale e dal commissario,
non soprastette più lungamente Pio VII a dare il suo assenso e ratificò
il concordato. Scrisse al tempo stesso brevi ai vescovi titolari,
acciocchè alle sedi loro rinunziassero. Alcuni rinunziarono; la maggior
parte, massimamente quelli che si erano riparati in Inghilterra,
ricusarono. Dei giurati, Primat, le Blanc di Beaulieu, Perrier, Lecoz,
Saurin, supplicato al papa che loro perdonasse e nelle sedi destinate
dal consolo gl'instituisse, impetrarono.



    Anno di CRISTO MDCCCII. Indizione V.

    PIO VII papa 3.
    FRANCESCO II imperadore 11.


Rimossi tutti gl'impedimenti, pubblicava il consolo il giorno di Pasqua
del presente anno il concordato. Scriveva ai vescovi una circolare in
cui con parole asprissime ingiuriava i filosofi: poi rivolgendosi ai
Franzesi col solito stile discorreva che da una rivoluzione prodotta
dall'amor della patria erano sorte le discordie religiose, e per esse
il flagello delle famiglie, gli sdegni delle fazioni, le speranze
dei nemici; uomini insensati aver atterrato gli altari, spento la
religione; per loro avere cessato quelle divote solennità, in cui l'un
l'altro aveva per fratello, in cui tutti sotto la mano di Dio creatore
di tutti, si stimavano fra di loro uguali; per loro non udire più i
moribondi quella voce consolatrice che chiama i cristiani a miglior
vita; per loro Dio stesso parere sbandito dalla natura; dipartimenti
distrutti dall'ire religiose, forastieri chiamati a danni della patria,
passioni senza freno, costumi senz'appoggio, sciagure senza speranza,
dissoluzione di società: sola religione avere potuto portarvi rimedio;
averlo lui voluto, averlo nella sapienza sua voluto il pontefice,
averlo i legislatori della repubblica approvato: così essere sorto
il concordato, così spenti i semi delle discordie, così svanire gli
scrupoli delle coscienze, così superarsi gli ostacoli della pace.
Dimenticassero, esortava, i ministri della religione le dissensioni,
le disgrazie, gli errori; con la patria la religione li riconciliasse;
con la patria li ricongiungesse; i giovani cittadini all'amore delle
leggi, all'obbedienza dei magistrati informassero: consigliassero,
predicassero, inculcassero che il Dio della pace era peranco il Dio
degli eserciti, e che, impugnate l'armi sue insuperabili, combatteva a
favor di coloro che la libertà della Francia difendevano.

Grande allegrezza ricevettero i fedeli in Francia per la reintegrata
religione; gioinne anche maravigliosamente Roma: ma non fu il
contento del pontefice senza amarezze; conciossiachè il consolo aveva
accompagnato la pubblicazione del concordato con certe regole di
disciplina ecclesiastica sotto forma di decreto che, secondo taluni,
offendevano le prerogative della santa Sede, o ristringevano l'autorità
dei vescovi, o difficoltavano l'ingresso allo Stato ecclesiastico. Le
quali regole, quantunque potessero parer giuste e necessarie sì per
la sicurezza della potestà temporale come pel buon ordine dello Stato,
ed usate già dai tempi antichi non solamente in Francia, ma ancora in
altri paesi d'Europa, e massimamente in Italia, rendevano mal suono; ma
il consolo ne aggiunse un'altra veramente intollerabile, perchè toccava
la giurisdizione, e questa fu, che i vicarii generali delle diocesi
vacanti continuassero ad usare l'autorità vescovile anche dopo la morte
del vescovo, e fino a tanto che successore non avesse.

Se ne dolse il papa, e non punto calse al consolo ch'ei se ne dolesse.
Orava in concistoro Pio VII, descrivendo con singolare facondia i
negoziati introdotti, le stipulazioni fatte, lo stato della Francia.
Quindi instò perchè gli articoli si riformassero; ma il consolo che,
ottenuto il concordato, voleva essere padrone della Chiesa, non che la
Chiesa fosse di lui, rispondeva ora con sotterfugi, ora con minaccie,
nè mai il pontefice potè venire a capo del suo intendimento. In tale
conformità continuarono le faccende religiose in Francia, finchè nuove
condiscendenze del pontefice e nuove ambizioni del consolo mandarono
ogni cosa in ruina ed in conquasso. A questo modo travagliava Roma con
Francia; nè noi abbiam creduto d'interrompere il filo della narrazione
per riferire altri fatti, de' quali ora riprenderemo il discorso.

Intanto cambiamenti notabili fin dal varcato anno erano accaduti in
Piemonte. Aveva il consolo voglia di serbar questo paese per sè, ma
indugiava al risolversi, ed occultava cautamente le sue intenzioni.
Aveva anzi veduto volentieri il marchese di San Marsano mandato a
Parigi per negoziare della restituzione del Piemonte. Le incertezze
e le ambagi del consolo, le offerte palesi fatte al re dopo la
battaglia di Marengo e la presenza del marchese a Parigi tenevano in
pendente l'opinione dei popoli in Piemonte, e toglievano ogni modo
di buon governo. Ognuno guardava verso Firenze, Roma o Napoli, dove
abitava, ora in questa, ora in quella, il re Carlo Emmanuele. Sorsero
le sorti fatte più certe della Cisalpina e della Liguria, mentre si
tacquero quelle del Piemonte, onde chi sperava pel re ebbe cagione di
più sperare, chi temeva, di più temere. In tali intricate occorrenze
avvenne di verso Borea un caso di grandissima importanza, perchè nella
notte del 13 marzo 1801 morì di morte violenta Paolo, imperadore
di Russia; della quale non così tosto fu avvisato il consolo, che
trovandosi libero dalle instanze di lui, e volendo preoccupare il
passo alle intenzioni di Alessandro suo figliuolo e successore, fece un
decreto, mettendovi una data anteriore, il quale, sebbene ancora non
importasse la unione definitiva del Piemonte alla Francia, accennava
però manifestamente che sua volontà fosse che l'unione si effettuasse:
costituiva il decreto il Piemonte secondo gli ordini di Francia.
Sperava che Alessandro, trovata all'assunzione sua la cosa fatta, non
difficilmente sarebbe per consentirvi. Importava il decreto dato ai 2
d'aprile del 1801, che il Piemonte formerebbe una divisione militare
della Francia, che fosse partito in sei dipartimenti, che le leggi
della repubblica, rispetto agli ordini amministrativi e giudiziali, vi
si pubblicassero ed eseguissero, che le casse al primo giugno fossero
comuni, che un amministrator generale con un consiglio di sei reggesse;
che Jourdan restasse eletto amministrator generale. Si crearono sei
dipartimenti, dell'Eridano, poi detto del Po, con Torino, di Marengo
con Alessandria, del Tanaro con Asti, della Sesia con Vercelli, della
Dora con Ivrea, della Stura con Cuneo. Mandava Jourdan a Parigi per
ringraziare e promettere obbedienza deputati. Furono veduti molto
volontieri, massime i nobili, perchè il consolo li voleva allettare.

Intanto il consolo si studiava a conciliarsi l'animo di Alessandro
ed a congiungerselo in amicizia; e, siccome astutissimo ch'egli era e
sprofondato in tutte le arti di Francia, d'Italia e d'Egitto, avendo
udito che il novello imperadore era di natura generosa, e tendente
al governare gli uomini piuttosto con dolcezza che con severità, se
gli mise intorno da tutte le parti tentandolo. E ai dolci suoni,
alla magnificenza e giocondità delle parole, come benevolo, si
calava Alessandro. Quindi il consolo, fatto sicuro dell'amicizia
di Russia, insorgeva, e mentre Alessandro si pasceva di speranze
lusinghiere, ei dava mano alla realtà, incamminandosi al dominio
del mondo. Cominciando dal Piemonte, che stimava essere necessario
congiungersi per avere senza impedimenti di mezzo la signoria
d'Italia, comandava che il decreto dei 2 d'aprile fosse in ogni sua
parte mandato ad effetto. L'Austria pei patiti danni, la Inghilterra
per la lontananza, nè consentirono, nè contrastarono. Arrivarono a
Torino i commissarii parigini ad ordinar lo Stato, chi per le finanze,
chi pel fisco, chi pel lotto, chi per le poste, chi per gli studii,
chi pei giudizii. Voleva il consolo ridurre lo Stato alla forma di
monarchia; i repubblicani in Francia, eccettuati i più furibondi che
aveva confinati in carcere o banditi in lidi lontani, il secondavano.
Quanto ai repubblicani italiani, due mezzi gli si paravano davanti,
o di vezzeggiarli come quei di Francia, o di spegnerli, non già
coll'ammazzarli, perciocchè sapeva che l'età non comportava sangue, ma
col torre loro l'autorità e la riputazione. Elesse quest'ultimo; al che
diede anche favore la ricchezza degli avversarii, che mandavano doni,
presenti e denari nelle corrotte Tuilerie, il che era cagione che a
quello, a che di propria volontà inclinava, fosse anche stimolato da
altri.

Buon procedere sarebbe stato questo quanto all'utile se mai non
avessero potuto arrivare i tempi grossi, ma non al contrario, perchè
per esso si perdevano gli amici e non si acquistavano i nemici; ma il
consolo sempre aspettava prosperità. Restava Jourdan ch'era stimato
repubblicano. Deliberossi a torre anche questo capo ai repubblicani,
quantunque ei si fosse portato molto rimessamente con loro; partì
Jourdan lodato dal consolo, desiderato dai Piemontesi. Arrivava Menou
in Torino, in luogo di Jourdan. Raccontare le lepidezze e gli arbitrii
che vi fece questo Menou, sarebbe troppo lunga bisogna, e forse troppo
più piacevole che la gravità della storia comporti. A questa guisa
passarono i tempi fra i Subalpini infino alla unione definitiva:
partigiani di Francia perseguitati, partigiani di Sardegna accarezzati,
partigiani d'Italia usati come stromenti di calunnie e di vendette, il
giardino del re difformato da una sucida baracca ad uso d'una Turca.
A questo modo incominciava il promesso legale dominio del generoso e
sfortunato Piemonte.

Il consolo teneva il Piemonte per Menou, la Toscana per Murat.
Voleva, come a suo cognato, aprire a Murat l'adito alle grandezze;
nè Murat era di cattiva natura, solo aveva poco cervello e l'animo
molto vanaglorioso: per questo, quantunque fosse buono, si piegava
volontieri alle voglie del consolo, quali elle si fossero. La parte
dell'esercito che egli governava, mandata primieramente in Italia
per rinforzare l'ala destra di Brune e per alloggiare in Toscana,
fu, dopo la pace di Luneville, mandata nello Stato romano, con star
pronta ad assaltare il regno di Napoli. Conclusa poi la pace, entrava
nel regno fino a Taranto, in nome dal re, per isforzare il governo
ad osservar il trattato ed i perdoni verso i novatori, in fatto per
minacciar gl'Inglesi e per vivere a spese del regno. Quanto allo
Stato romano, concluso il concordato, Murat ritirava le genti che
vi aveva, in Ancona, per tener quel freno in bocca al pontefice;
si coloriva il fatto col pretesto degl'Inglesi. Così gl'Inglesi
occupavano quanto potevano in Italia e nelle sue isole per impedire,
come dicevano, il predominio e la tirannide dei Franzesi, questi
facevano lo stesso per impedire, come protestavano, ii predominio e
la tirannide degl'inglesi; fra entrambi intanto l'Italia non aveva
nè posa nè speranza. Murat girando per Toscana e stando in Firenze,
ed ora andando a Pisa, ed ora a Livorno ed ora a Lucca, riceveva in
ogni luogo come cognato del consolo, onorevoli accoglienze; cagione
per lui d'incredibile contentezza. Si mostrava cortese ed affabile con
tutti, nè amava le rapine, manco il sangue; purchè il lodassero, se
ne veniva contento. Pure trascorse ad un atto, nel quale non si sa se
sia o maggior barbarie, o maggior ingratitudine, o maggiore insolenza.
Comandava con bando pubblico che tutti gl'Italiani, erano la maggior
parte Napolitani, esuli dalle patrie loro per opinioni politiche,
dovessero sgombrare dalla Toscana, e ritornare ne' proprii paesi, in
cui, secondochè affermava, potevano, in virtù dei trattati, vivere vita
sicura e tranquilla: chi fosse contumace a questo comandamento, fosse
per forza condotto ai confini ed espulso.

Murat contento di comandar in Toscana, fu contentissimo d'instituirvi
un re. Era l'infante principe di Parma arrivato in Parma, dove stava
aspettando i deputati del novello regno. Vennervi a complimentarlo e
riconoscerlo come re di Etruria, quest'era il titolo che gli si dava,
Murat, Ippolito Venturi, Ubaldo Feroni. Assunse il nome di Lodovico I;
nominò suo legato a ricever il regno Cesare Ventura. Murat annunziando
l'assunzione di Lodovico, parlava di civiltà e di dottrina ai Toscani,
lodava i Medici ed i Leopoldi, esortava i regnicoli ad avere i Franzesi
in luogo di un popolo amico. Cesare Ventura prendeva possesso del
regno. Favellarono nella solennità Francesco Gonella, Tommaso Magnani,
Orlando del Benino. Vidervisi due donne complimentate da Gian Batista
Grisoni, l'una sorella del consolo, l'altra vedova del ministro di
Spagna. Venne Lodovico a Firenze, resse con dolcezza, le leopoldiane
vestigia calcando.

Era tempo di costituzioni transitorie, fatte non perchè durassero,
ma perchè servissero di scala ad altre. Mandava il consolo, qual suo
legato, Salicetti a riformar Lucca, oppressa dall'impero dei forastieri
e straziata dalle discordie civili. Parve bello ed acconcio trovato
per ritrarre i paesi, a satisfazione delle potenze, verso i loro
ordini antichi, l'introdurre nei nuovi nomi i vecchi. Cominciavasi
a parlar di aristocrazia per far passo alla monarchia. Costituiva
Salicetti la repubblica di Lucca con un Collegio o Gran Consiglio di
duecento proprietarii più ricchi e di cento principali negozianti,
artisti e letterati: avesse questo consiglio la facoltà di eleggere i
primi magistrati. Fossevi un corpo d'anziani con la potestà esecutiva;
presiedesselo un gonfaloniere eletto a volta dai colleghi, una volta
ogni due mesi: un consiglio amministrativo, nel quale gli anziani
entrassero, e quattro magistrati di tre membri ciascuno, esercesse le
veci di ministri: proponessero gli anziani le leggi e le eseguissero;
una congregazione di venti eletti dal collegio le discutessero e le
statuissero; rappresentasse il gonfaloniere la repubblica, le leggi
promulgasse, gli atti degli anziani sottoscrivesse. I cantoni del
Serchio con Lucca, del Littorale con Viareggio, degli Apennini con
borgo a Mozzano componessero la repubblica. Per la prima volta trasse
Salicetti i magistrati supremi. Ordini buoni erano questi, ma il tempo
li guastava.

Le sorti della Toscana erano congiunte con quelle di Parma. Essendo
il duca padre mancato di vita, cesse la sovranità del ducato nella
repubblica di Francia. Mandava il consolo il consiglier di Stato Moreau
di Saint-Mery ad amministrarlo. Resse Saint-Mery, che buona e leale
persona era, con benigno e giusto freno. Era egli, se non letterato,
non senza lettere ed amatore sì di letterati che d'opere letterarie:
ogni generoso pensiero gli piaceva. Solo procedeva con qualche vanità,
e siccome le vanità particolari sono intollerabili alle ambizioni
generali, venne in disgrazia del consolo, nè potè costituire in Parma
ordini stabili.

Due qualità contrarie erano nel consolo, pazienza maravigliosa nel
proseguire cautamente anche pel corso di molti anni, i suoi disegni,
impazienza di conseguire precipitosamente il fine quando ad esso
approssimava. Riconciliatosi col papa, quieta l'Austria, ingannato
Alessandro, confidente della pace coll'Inghilterra, si apparecchiava a
mandar ad effetto ciò che nella mente aveva da sì luogo tempo concetto
e con tanta pertinacia procurato. Voleva che le prime mosse venissero
dall'Italia, perchè temeva che certi residui di opinioni e di desiderii
repubblicani in Francia non fossero per fargli qualche malgiuoco
sotto, se la faccenda non si spianasse con qualche precedente esempio.
Deliberossi adunque prima di scoprirsi in Francia di fare sue sperienze
italiane, confidando che gli Italiani, siccome vinti, avrebbero l'animo
più pieghevole. Così con le armi franzesi aveva conquistato Italia,
con le condiscendenze italiane voleva conquistar Francia. Sapeva che
le cose insolite allettano tutti, spezialmente i Franzesi nati con
fantasia potente. Perciò volle alle sue italiane arti dare pomposo
cominciamento.

Spargevansi ad arte dai più fidi in Cisalpina voci che la repubblica
pericolava con quei governi temporanei; che era oggimai tempo di
costituirla stabilmente e come a potenza independente si conveniva;
che ordini forti erano necessarii perchè diventasse quieta dentro,
rispettata fuori; che niuno era più capace di darle questi necessari
ordini di colui che prima l'aveva creata, poi riscattata; non potersi
più lei costituire con gli ordini dati dall'eroe Buonaparte del 1797,
perchè avviliti dalla invasione, ricordatori di discordie, sospetti
per democrazia ai potentati vicini. Aver pace Europa, averla Italia:
non doversi più la felice concordia turbare con ordini incomposti;
volersi vivere in repubblica, ma non troppo disforme dai governi
antichi conservati in Europa; sola potenza essere la Cisalpina
in Italia che a favor di Francia stando, fosse in grado di tener
in equilibrio l'Austria tanto potente per l'acquisto de' dominii
veneziani, nè essere la repubblica per acquistare la forza necessaria,
se non con leggi conducenti a stabilità: varii essere gli umori,
gl'interessi, le opinioni, le abitudini delle cisalpine popolazioni,
nè Veneziani, Milanesi, Modanesi, Novaresi, Bolognesi nel medesimo
desiderio concorrere, nè la medesima cosa volere; rimanere i vestigii
dell'antiche emolazioni: parti separate e non consenzienti non poter
comporre un corpo unito e forte, se un governo stretto, se una mano
gagliarda in uno e medesimo volere non le costringessero: richiedere
adunque un reggimento nuovo, concorde e virile la pace d'Europa,
richiederlo la quiete della Cisalpina, richiederlo le condizioni felici
alle quali era chiamata.

Mentre questi semi si spargevano nel pubblico, Petiet coi capi della
Cisalpina negoziava affinchè i comandamenti imperativi del consolo
avessero a parere desiderii e supplicazioni spontanee dei popoli.
Maturati i consigli, a Parigi pel disegno, a Milano per l'esecuzione,
usciva un decreto della consulta legislativa del governo: ordinava
che una consulta straordinaria si adunerebbe a Lione in Francia, e suo
ufficio sarebbe ordinare le leggi fondamentali dello Stato ed informare
il consolo intorno alle persone che nei tre collegi elettorali
dovessero entrare: sarebbe l'assemblea composta dei membri attuali
della consulta legislativa, da quei della commissione, eccettuati tre
per restare al governo del paese, da una deputazione di vescovi e di
curati, e dalle deputazioni dei tribunali, delle accademie, della
università degli studii, della guardia nazionale, dei reggimenti
della truppa soldata, dei notabili dei dipartimenti, delle camere di
commercio. Sommò il numero a quattrocento cinquanta. Risplendeanvi un
Visconti, arcivescovo di Milano, un Castiglioni, un Montecuccoli, un
Opizzoni, un Rangoni, un Melzi, un Paradisi, un Caprara, un Serbelloni,
un Aldrovandi, un Giovio, un Pallavicini, un Moscati, un Gambara, un
Lecchi, un Borromeo, un Triulzi, un Fantoni, un Belgiojoso, un Mangili,
un Cagnoli, un Oriani, un Codronchi, arcivescovo di Ravenna, un
Belissomi, vescovo di Cesena, un Dolfino, vescovo di Bergamo. Andarono
a Lione, chi per amore, chi per forza, chi per ambizione: grande
aspettazione era in Cisalpina; in Francia le menti attentissime. Pareva
un fallo mirabile che una nazione italiana si conducesse in Francia
per regolare le sue sorti. Il governo cisalpino esortava con pubblico
manifesto i deputati; gissero a fondare gli ordini salutari della
repubblica in mezzo alla maggior nazione, in cospetto dell'autore e del
restitutore della Cisalpina; nissuno l'ufficio ricusasse; mostrassero
con le egregie qualità loro, quanto la cisalpina nazione valesse: a lei
amore e rispetto conciliassero; ogni pretesto di calunnia togliessero;
nel lionese congresso livor nissuno, parzialità nissuna recassero;
al mondo disvelassero, buonamente, nobilmente, affettuosamente
verso la patria procedendo, esser loro quei medesimi Cisalpini che
nell'inevitabile tumulto di tante passioni, nell'avviluppamento di
tante vicende, nell'alternativa di politici eventi tanto contrarii,
mai non attesero a vendette, a discordie, a fazioni, a persecuzioni,
a sangue: pruovassero che non invano aveva il cisalpino popolo nome
di leale e di buono; pruovassero che se a sublime grado fra le nazioni
erano destinati, a sublime grado ancora meritavano d'essere innalzati;
dovere a sè stessa dei propri ordini restare la Cisalpina obbligata;
solo sè medesima potrebbe accagionare, se tanti lieti augurii, se tante
concepite speranze fossero indarno.

Questi nobili sentimenti verso la cisalpina patria e questa
rinunziazione di ogni affetto parziale ed interessato predicava un
Sommariva, presidente del governo. Trovarono in Lione il ministro
Talleyrand, che aveva in sè raccolti tutti i pensieri del consolo;
trovarono Marescalchi che riconosciuto da Francia per ministro degli
affari esteri della Cisalpina, guardava dove accennasse in viso
Taleyrand, e il seguitava. L'importanza era che vi fosse sembianza
di discutere liberamente quello che già il consolo aveva ordinato
imperiosamente. Già aveva sparso sue ambagi: volere la felicità della
Cisalpina, volere consigliarsi con gli uomini savi di lei; niuna cosa
più desiderare che la independenza e la salute sua; amarla come sua
figliuola prediletta, stimarla principal parte della sua gloria; l'arte
allignava, bene si disponeva la materia. Partivansi i deputati in
cinque congregazioni che rappresentavano i cinque popoli, esaminassero
la costituzione già data dal consolo per Petiel a Milano, e come per
leggi organiche si potesse mandar ad esecuzione.

Discutevasi a Lione dai mandatarii; la licenza soldatesca straziava
intanto i mandatori, un inesorabile governo con le tasse li conquideva.
Dolevansi e delle perdute sostanze e degli innumerevoli oltraggi e
della durissima servitù: le grida degli straziati a Milano furono
soffocate dalle grida dei festeggianti a Lione. A Lione si discorreva
e si obbediva. Allungato il farne pubblica dimostrazione quanto
potesse parere dignità e sufficienza di discussione, arrivava il
consolo: era l'11 gennaio. Lionesi e Cisalpini a gara accorrevano.
Era spettacolo grande a chi mirava la scorza, compassionevole a chi
dentro, perchè là si macchinava di spegnere per legge la libertà che
già innanzi era perita per abuso. Ognuno maravigliava la dolcezza e la
semplicità del consolo: pareva loro che fossero parte di grandezza; le
adulazioni sorgevano. I repubblicani, se alcuno ve n'era, si rodevano,
ma s'infingevano non tanto per non esser tenuti faziosi, quanto per
non esser tenuti pazzi o sciocchi; che già con questi nomi cominciava
a chiamarli l'età. Buonaparte metteva mano all'opera; chiamava i
presidenti delle congregazioni e con loro discorreva intorno alla
costituzione: ora approvava, ora emendava, ora domandava consiglio.
Contradditor benigno e docile alle risposte, pareva che da altri
ricevesse quello che loro dava. Chi conosceva l'intrinseco, ammirava
l'arte; chi l'ignorava, la modestia. Infine dai discorsi permessi si
venne alla conclusione comandata: fu approvata la costituzione; parve
buono e fondamentale ordine quello dei collegi elettorali: nominolli
per la prima volta il consolo su liste doppie presentate dalle
congregazioni.

Ma non s'era ancor toccato il principal tasto, per cui mezza Italia era
stata fatta venire in Francia. Meno una costituzione che un esempio si
aspettava dagl'Italiani. Trattavasi di nominare un presidente della
Cisalpina. Importava la persona, importava la durata del magistrato:
a Buonaparte non piacevano i magistrati a tempo. Fu data l'intesa ai
cisalpini perchè il chiamassero capo della repubblica e gli dessero
il magistrato supremo di presidente per dieci anni, e potesse essere
rieletto quante volte si volesse. Avevano queste due deliberazioni
qualche malagevolezza, parte coi Cisalpini, parte colle potenze per la
evidente dipendenza verso Francia, se il consolo fosse padrone della
Cisalpina. Importava anche il confessare che niun cisalpino fosse
atto a governare: alcuni andavano alla volta di Melzi. I ministri di
Buonaparte fecero diligenze coi partigiani, ora lodando Melzi, ora
asseverando che avrebbe grande autorità nei nuovi ordini. Ebbero le
arti il fine desiderato. Appresentaronsi con la deliberazione fatta i
Cisalpini al consolo, nella quale era tanta adulazione di lui e tanta
depressione di loro medesimi, che non è da credere che nelle storie
vi sia un atto più umile o più vergognoso di questo. Confessarono, e
si forzarono anche di pruovare con loro ragioni, a tanto di viltà eran
ridotti, che nissun Cisalpino era che idoneamente li potesse governare.
Gradì il consolo nelle umili parole i proprii comandamenti; disse
che domani fra i convocati cisalpini in pubblica adunanza sederebbe.
Accompagnato dai ministri di Francia, dai consiglieri di Stato, dai
generali, dai prefetti e dai magistrati municipali di Lione, fra le
liete accoglienze ed i plausi festivi dei Cisalpini, in alto seggio
recatosi, così loro favellava: «Hovvi in Lione, come principali
cittadini della Cisalpina repubblica appresso a me adunati; voi mi
avete bastanti lumi dato, perchè l'augusto carico a me imposto, come
primo magistrato del popolo franzese e come primo creator vostro,
riempire io potessi. Le elezioni dei magistrati io feci senza amore
di parti o di luoghi; quanto al supremo grado di presidente, niuno ho
trovato fra di voi che per servigi verso la patria, per autorità nel
popolo, per sceveramento di parti abbia meritato ch'io un tal carico
gli commettessi. Muovonmi i motivi da voi prudentemente addotti: ai
vostri desiderii consento. Sosterrò io, finchè fia d'uopo, la gran
mole delle faccende vostre. Dolce mi sarà fra tante mie cure l'udire la
confermazione dello Stato vostro e la prosperità dei vostri popoli. Voi
non avete leggi generali, non eserciti forti; ma Dio vi salva, poichè
possedete quanto li può creare, dico popolazioni numerose, campagne
fertili, esempio da Francia.» (Versione del Botta.)

Questo favellare superbo fu da altissimi plausi e di Franzesi e
di Cisalpini seguitato. La servitù era dall'un de' lati mitigata
dall'imperio sopra i forastieri, dall'altro amareggiata dal vilipendio;
pure lietissimamente applaudivano i servi doppii, come se onorati
e liberi fossero. Dimostrarono desiderio che la repubblica, non più
cisalpina, ma italiana si chiamasse, cosa molto pregna, massimamente in
mano di Buonaparte. Consentì facilmente il consolo. Riprese, adulando,
le parole Prina Novarese, il quale, essendo di natura severa ed
arbitraria, molto bene aveva subodorato il consolo, ed il consolo lui.

Chiamarono gl'Italici ad alla voce il consolo presidente per dieci
anni, e rieleggere si potesse. Ebbe Melzi luogo di vicepresidente.
Era Melzi uomo generoso, savio, molto amato dagl'Italiani: pendeva
all'assoluto, ma piuttosto per grandezza che per vanità.

Restava che si ordinasse la costituzione: cominciossi dagli ordini
ecclesiastici. Fosse la religione cattolica, apostolica e romana
religione dello Stato: ciò non ostante, i riti acattolici liberamente
si potessero celebrare in privato; nominasse il governo i vescovi,
gl'instituisse la santa Sede; nominassero i vescovi ed instituissero
i parrochi, il governo gli appruovasse: ciascuna diocesi avesse
un capitolo metropolitano ed un seminario; i beni non alienati
si restituissero al clero; si definissero le congrue in beni pei
vescovi, pei capitoli, pei seminarii, per le fabbriche, fra tre mesi;
si assegnassero pensioni convenienti ai religiosi soppressi; non
s'innovassero i confini delle diocesi; per gl'innovati si domandasse
la approvazione della santa Sede; gli ecclesiastici delinquenti con
le pene canoniche fossero dai vescovi puniti; se gli ecclesiastici
non si rassegnassero, i vescovi ricorressero al braccio secolare;
se un ecclesiastico fosse condannato per delitto, si avvisasse il
vescovo della condanna, acciocchè quanto dalle leggi canoniche fosse
prescritto potesse fare: ogni atto pubblico che o i buoni costumi
corrompesse, od il culto o i suoi ministri offendesse, fosse proibito;
niun parroco potesse essere sforzato da nissun magistrato a ministrare
il sacramento del matrimonio a chiunque fosse vincolato da impedimento
canonico. A questo modo fu ordinata la Chiesa italiana nella lionese
consulta. Alcuni capi, ancorchè forse laudabili e sani, toccavano la
giurisdizione ecclesiastica, e sarebbe stato necessario, l'intervento
del pontefice. Nondimeno con acconcio discorso a nome di tutto il
clero italico assentiva lo arcivescovo di Ravenna, assentimento
non necessario se l'autorità civile aveva dritto di fare quello che
fece, non sufficiente, se l'intervento dell'autorità pontificia era
necessario. Ma il consolo su quelle prime tenerezze di amicizia col
papa non aveva timore.

Quanto agli ordini civili, i tre collegi dei possidenti, dei dotti
e dei commercianti erano il fondamento principale della repubblica:
in loro era investita la autorità sovrana. Ufficio dei collegi fosse
nominare i membri della censura, della consulta di Stato, del corpo
legislativo, dei tribunali di revisione e di cassazione, della camera
dei conti. Ancora accusassero i magistrati per violata costituzione
e per peculato; finalmente i dispareri nati tra la censura ed il
governo per accuse di tal sorte definissero. Sedessero i possidenti in
Milano, i dotti in Bologna, i commercianti in Brescia: ogni biennio si
adunassero.

Magistrato supremo era la censura: componessesi da nove possidenti,
di sei dotti, di sei commercianti: sedesse in Cremona: desse per sè
e giudicasse le accuse date per violata costituzione e per peculato;
cinque giorni dopo la fine delle adunanze dei collegi si adunasse;
dieci giorni, e non più, sedesse. Ordine buono era questo, ma l'età
servile il rendeva inutile.

Fosse il governo della repubblica commesso ad un presidente, ad
un vicepresidente, ad una consulta di Stato, ai ministri, ad un
consiglio legislativo. Avesse il presidente la potestà esecutiva, e il
vicepresidente nominasse: fossero i ministri tenuti d'ogni loro atto
verso lo Stato.

Uffizio della consulta fosse l'esaminare ed il concludere le
instruzioni pei ministri presso le potenze e l'esaminare i trattati.
Potesse nei casi gravi derogare alle leggi sulla libertà dei cittadini
ed all'esercizio della costituzione: provvedesse in qualunque modo alla
salute della repubblica. Se dopo tre anni qualche riforma giudicasse
necessaria in uno o più ordini della costituzione, sì la proponesse ai
collegi, ed i collegi definissero.

Avesse il consiglio legislativo facoltà di deliberare intorno ai
progetti di legge proposti dal presidente, e di consigliarlo sopra
quanti affari fosse da lui richiesto.

Il corpo legislativo statuisse le leggi proposte dal governo, ma non
discutesse nè parlasse: solo squittinasse.

Tali furono i principali ordini della costituzione dell'Italiana
repubblica, forse i migliori, massime i tre collegi ed il magistrato di
censura, che Buonaparte abbia saputo immaginare.

Letta ed accettata la costituzione, se ne tornava il consolo, traendo a
calca e con acclamazioni il popolo, nel suo palazzo. Poscia, ricevute
le salutazioni degl'Italici e nominati i ministri, si avviava,
contento del successo del suo italiano sperimento, al maraviglioso e
maravigliato Parigi.

Fecersi molte allegrezze nell'italiana repubblica per la data
costituzione e per l'acquistato presidente. Le adulazioni montarono
al colmo. Presersi solennemente i magistrati secondo gli ordini
nuovi; Melzi, prendendo il suo, parlò magnificamente del consolo,
modestamente di sè, acerbamente dei predecessori: toccò principalmente
delle corruttele. Intanto i soldati si descrivevano, ed i buoni
reggimenti si ordinavano. Prina, ministro di finanza, talmente rendè
prospera la rendita dello Stato, che, nonostante il tributo annuo che
pagava alla Francia, erano le casse piene, i pagamenti agevoli. Le
lettere e le scienze fiorivano, ma più le adulatorie che le libere.
Buon modo avea trovato Buonaparte presidente perchè gli scrittori
non facessero scarriere: questo fu di arricchirli e di chiamarli
ai primi gradi. Pareva loro un gran fatto, ed accettando il lieto
vivere, tacevano o adulavano. Tuttavia qualche volta il mal umore gli
assaliva, e negl'intimi simposii loro si sfogavano e si divertivano a
spese del presidente di Parigi. Il sapeva e ne rideva, perchè non li
temeva. Insomma la letteratura servile, le finanze prospere, i soldati
ordinati, l'independenza nulla.

Fra tutto questo sorgevano opere di singolare maguificenza: il
foro Buonaparte, come il chiamavano, fondessi nel luogo dove prima
s'innalzavano le mura del castello di Milano. Fu questo un maraviglioso
disegno che molto ritraeva della romana grandezza. Diessi mano al
finirsi il duomo di Milano da tanto tempo imperfetto, e tanto fu
promossa l'opera, che in poco d'anni vi si fece più lavoro che in
parecchi secoli. Da ogni parte si acquistava la bellezza. Tutte queste
cose e quel nome di repubblica italiana singolarmente allettavano i
popoli della penisola. Così vissesi qualche tempo in lei, finchè nuovi
disegni di Buonaparte l'incamminarono a nuovi pericoli ed a nuovi
destini.

A questo nome di repubblica Italiana ed all'esserne Buonaparte fatto
capo, si insospettarono giustamente le potenze, massimamente l'Austria,
alla quale stavano per le sue possessioni più a cura le italiane cose.
L'imperadore Alessandro stesso, che già aveva concetto qualche sinistra
impressione per la grande autorità che il consolo si era arrogata nella
Svizzera, vieppiù si allontanava da lui pei risultamenti della lionese
consulta, e le cose della Russia con la Francia già si scoprivano in
manifesta contenzione. Il consolo, che non voleva essere arrestato
a mezzo viaggio, tentò di mitigare questi mali umori col pubblicare
una scrittura, con la quale si sforzava di mostrare che la Francia,
conservando l'italiana repubblica, non aveva preso troppo per sè, nè
tanto quanto avevano per sè stessi preso gli altri potentati.

Genova sentiva ancor troppo pel recente governo di democrazia: volle il
consolo venirne alla solita scala dell'aristocrazia. Il supplicarono
affinchè desse loro una costituzione: consentiva facilmente. I
governatori di Genova lietamente annunziavano le felici novelle ai loro
concittadini; nè lo scritto dei reggitori genovesi disteso in lingua
e stile assai più purgato che le sucide scritture cisalpine, toscane e
napolitane, era, quanto alla forma, senza dignità.

Importava la costituzione, che un senato reggesse con potestà esecutiva
la repubblica; presiedesselo un doge; dividessesi in cinque magistrati,
il magistrato supremo, quello di giustizia e legislazione, quello
dell'interno, quello di guerra e mare, quello di finanza. Trenta membri
il componessero. Ufficio suo fosse presentare ad una consulta nazionale
le leggi da farsi, eseguire le fatte; eleggesse il doge sopra una lista
triplice presentata dai collegi.

Il doge presiedesse il senato ed il magistrato supremo: stesse in
carica sei anni; rappresentasse, quanto alla dignità ed agli onori,
la repubblica; sedesse nel palazzo nazionale; la guardia del governo
gli obbedisse; un delegato del magistrato supremo in ogni suo atto
l'assistesse.

Fosse il magistrato supremo composto del doge, dei presidenti degli
altri quattro magistrati e di quattro altri senatori; il senato gli
eleggesse; gli si appartenesse specialmente l'esecuzione delle leggi
e dei decreti; pubblicasse gli ordini e gli editti che credesse
convenienti; tutti i magistrati amministrativi a lui subordinati
s'intendessero; reggesse gli affari esteri; avesse facoltà di rivocare
i magistrati da lui dipendenti, di sospendere per sei mesi i non
dipendenti, anche i giudici dei tribunali; provvedesse alla salute sì
interna che esterna dello Stato; vegliasse che la giustizia rettamente
e secondo le leggi si ministrasse: sopravvegghiasse alle rendite
pubbliche, agli affari ecclesiastici, agli archivii, alla pubblica
instruzione; comandasse all'esercito. Questo ordine del magistrato
supremo rappresentava nella nuova costituzione l'antico piccolo
consiglio, che i Genovesi chiamavano consiglietto; in lui era tutto il
nervo del governo. L'autorità del doge era, come negli antichi ordini,
piuttosto onorifica che efficace.

Questo era il governo della repubblica ligure. Restava a dichiararsi in
qual modo si attuasse. Stanziò il consolo che vi fossero i tre collegi
dei possidenti, dei negozianti, dei dotti, dai quali ogni potestà
suprema, o politica, o civile, o amministrativa, come da fonte comune
derivasse. Eleggessero ogni due anni i collegi un sindacato di sette
membri: in potestà del sindacato fosse censurare due membri del senato,
due della consulta nazionale, due di ogni consulta giurisdizionale,
due di ogni tribunale, e chi fosse censurato, immantinente perdesse la
carica. Le giurisdizioni o distretti nominassero ciascuno una consulta
giurisdizionale; le consulte giurisdizionali i membri della consulta
nazionale eleggessero: sedesse in questa la potestà legislativa.

Il dì 29 giugno entrava in ufficio il nuovo governo in cospetto di
Saliceti, ministro plenipotenziario di Francia. Orò Saliceti con parole
acconce, ma in aria al solito e teoretiche.

Ringraziato dal senato, il consolo rispondeva: amare la Francia i
Liguri, perchè in ogni fortuna avevano i Liguri amato la Francia;
non temessero di niuna potenza, la Francia gli aveva in tutela;
dimenticassero le passate disgrazie, spegnessero gli odii civili,
amassero la costituzione, le leggi, la religione; allestissero un
navilio potente, ristaurassero l'antica gloria del nome ligure;
sarebbesi sempre delle prospere cose dei Liguri rallegrato, delle
avverse contristato.

Decretava il senato che a Cristoforo Colombo, per avere scoperto
un nuovo mondo, ed a Napoleone Buonaparte, per avere pacificato
l'universo, due statue marmoree, una a ciascuno nell'atrio del palazzo
nazionale s'innalzassero. Oltre a questo i Sarzanesi, supplicarono
il governo fosse loro lecito fondare nella loro città un monumento a
memoria della famiglia Buonaparte, che in lei, come affermavano, aveva
avuto origine. Fu udito benignamente il supplicare dei Sarzanesi, e
concessa loro volentieri la facoltà del monumento.

Mentre Menou trasordinava in Piemonte, i reali di Sardegna andavano
esuli per l'Italia. Il re Carlo Emmanuele, deditissimo alla religione,
perseguitato da fantasmi malinconici, ed avendo per le sofferte
disgrazie in poco concetto le cose umane, si deliberò di rinunziare
al regno, acciocchè, da ogni altra mondana sollecitudine rimoto,
solamente ai divini servigi ed alla salute dell'anima vacare potesse;
rinunziazione senza fasto, che dimostrò al mondo che se l'ambizione
è tormento a sè stessa, la moderazione rende felice l'uomo così negli
alti come negli ultimi seggi. Per la rinunziazione di Carlo Emmanuele
venne il regno in potestà di Vittorio Emmanuele, suo fratello, che
allora dimorava nel regno di Napoli.

Il consolo, che aveva indugiato ad unire formalmente il Piemonte alla
Francia, venne finalmente a questa deliberazione, non perchè Alessandro
consentisse, ma perchè le cose sue colla Russia già tendevano a
manifesta discordia. Avvisava il consolo che fra quegli umori già tanto
mossi il non unire il Piemonte non ristorerebbe l'amicizia, l'unirlo
non accrescerebbe l'inimicizia. Per la qual cosa decretava, il dì 14
settembre, il suo senato, che i dipartimenti del Po, della Dora, di
Marengo, della Sesia, della Stura e del Tanaro fossero e s'intendessero
uniti al territorio della repubblica franzese. Principiò l'unione del
Piemonte la sequela delle italiane aggiunte. Si fecero per la unione
allegrezze in Piemonte, dai nobili volontieri, perchè per le carezze
del consolo e di Menou vedevano che il dominio interrotto dalle
intemperanze democratiche di nuovo veniva loro in mano, dal popolo non
senza sincerità, perchè sperava che col reggimento legale fosse per
cessare il dominio incomposto del capitano d'Egitto.



    Anno di CRISTO MDCCCIII. Indizione VI.

    PIO VII papa 4.
    FRANCESCO II imperadore 12.


Continuossi a vivere qualche tempo in Italia, eccettuata la parte
veneta, dal Piemonte fino a Napoli con due governi, l'uno di nome,
l'altro di fatto. In Piemonte piuttosto Menou che Buonaparte regnava,
in Parma piuttosto Buonaparte che Saint-Mery, a Genova piuttosto il
consolo che il senato, in Roma piuttosto il consolo che il papa, in
Toscana piuttosto Murat che Lodovico, in Napoli piuttosto Napoleone
che Ferdinando. Rotte e superbe erano spesso le intimazioni a tutti
questi italiani governi. Solo Menou faceva quel che voleva, e dominava
a suo arbitrio. Il consolo gli comportava ogni cosa, e solo che
l'Egiziano gli toccasse ch'erano democrati coloro che si querelavano,
tosto l'approvava ed il lodava. Pagava il Piemonte le tremende ambagi
d'Egitto. Gli altri obbedivano, chi per paura, chi per le ambizioni.

A questo tempo (27 maggio) morì di febbre acuta il re Lodovico
d'Etruria. Per la sua morte fu devoluto il trono nell'infante di Spagna
Carlo Lodovico, del quale, per essere minore d'età, fu commessa la
reggenza alla vedova regina, Maria Luisa.

Ma qual regno fosse devoluto all'infante bene dimostrarono i
comandamenti pubblicati nel tempo della sua assunzione da Murat in
Livorno, dando questa città, come dichiarata d'assedio, nel governo
dei suoi soldati. Mandava inoltre il generale buonapartico truppe a
Piombino ed in tutto il litorale toscano per impedire ogni pratica
cogl'Inglesi, arrestava gl'Inglesi, prendeva le loro navi sorte
nel porto, e molestava, co' suoi corsari che uscivano da Livorno, i
traffici inglesi. Queste cose faceva, perchè, dopo breve pace, era
sorta nuova guerra con la Gran Bretagna.

Prendeva, in mezzo a queste insolenze forastiere, nel mese di agosto
(il dì 29), possessione del regno Carlo Lodovico, sotto tutela della
regina madre. Giurarono fedeltà il senato fiorentino, i magistrati,
i deputati delle principali città. Furonvi corse di cocchi, emblemi,
luminarie, fuochi artificiali e le solite poesie elogistiche.



    Anno di CRISTO MDCCCIV. Indizione VII.

    PIO VII papa 5.
    FRANCESCO II imperadore 13.


Ordinate col consentimento del papa le faccende religiose in Francia,
si rendeva necessario che il consolo le acconciasse coll'intervento
pontificio nell'Italia; imperciocchè il pontefice non aveva tralasciato
di muovere querele intorno alle deliberazioni prese senza che la
potestà sua fosse, non che consenziente, richiesta, nell'italiana
costituzione. Il consolo, per un suo gran fine, voleva gratificare al
papa. Per la qual cosa, dopo alcune pratiche tenute a Parigi tra il
cardinal Caprara, legato della santa Sede, e Ferdinando Marescalchi,
ministro degli affari esteri della repubblica italiana, fu concluso,
il dì 16 settembre dell'anno precedente, in nome del pontefice e del
presidente un concordato, l'importar del quale fu quasi del tutto
conforme al concordato di Francia.

Ma bene ne ampliò le condizioni a favore della potestà secolare Melzi
vicepresidente. Decretava, ai primi di febbraio del presente anno, che
la facoltà di vestire e di ammettere alla professione religiosa fosse
ristretta agli ordini, conventi, collegi, monasteri, che per instituto
fossero dediti all'istruzione ed educazione della gioventù, alla cura
degl'infermi, o ad altri simili ufficii di speciale e pubblica utilità;
che per vestire o far professione religiosa individuale, e per la
promozione agli ordini sacri il beneplacito del governo si richiedesse;
che la libera comunicazione dei vescovi colla santa Sede non importasse
nè devoluzione di cause da trattarsi in via contenziosa avanti i
tribunali, nè dipendenza alcuna dall'autorità spirituale nelle cose di
privata competenza dell'autorità temporale; che le bolle, i brevi ed i
rescritti della corte di Roma non si potessero recare in uso esteriore
e pubblico senza il beneplacito del governo; che solamente i sacerdoti,
gl'iniziati negli ordini sacri, i cherici ammessi nei seminarii
vescovili ed i vestiti o professi negli ordini religiosi fossero
esenti dal servizio militare; che il governo non darebbe mano forte per
l'esecuzione delle pene esterne ordinate dall'autorità ecclesiastica
per correggere gli ecclesiastici delinquenti e gli appellanti dalle
medesime, se non se in caso di abuso manifesto, ed osservati sempre
i confini ed i modi della rispettiva competenza; finalmente, che la
vigente disciplina della Chiesa nella sua attualità, salvo il diritto
della tutela e giurisdizione politica, si mantenesse.

Queste disposizioni sentì molto gravemente il pontefice, e vivamente se
ne dolse col presidente. Egli si temporeggiava alle risposte, nè dava
nè toglieva speranza di ammendazione. Intanto quantunque il concordato
italico, e massime il decreto del vicepresidente, fossero più accetti a
certuni che a certi altri, servirono, ciò non ostante, a tranquillare
le coscienze timorate del popolo, il quale, avendo sempre perseverato
nella fede e nella riverenza verso il papa, vedeva mal volentieri le
dissensioni con Roma, ed ora della ristorata concordia si rallegrava.

Ma già i bilustri pensieri del consolo si avvicinavano al loro
compimento. Glorioso per guerra, glorioso per pace, nissun nome nè
negli antichi, nè nei moderni tempi alle allucinate generazioni pareva
uguale al suo. Ancora spesseggiava il suono nelle bocche degli uomini
e fresca era negli animi la memoria delle sue maravigliose geste in
Italia e prima e dopo le egiziache fatiche. Mirabili cose si dicevano
ed ancor più si scrivevano.

Il consolo, non abborrendo dal proposito di ridurre in servitù una
nazione che con una piena di tanto amore si versava verso di lui,
pensò esser arrivato il tempo di dar compimento a' suoi disegni.
Perciò, allettati gli amatori del nome reale con la patria, i soldati
coi donativi, i preti col concordato, i magistrati con gli onori, il
popolo coi comodi, si accinse ad appropriarsi la parola di quello di
cui già aveva la sostanza, accoppiando in tal modo il supremo nome alla
suprema potenza. Restava che i repubblicani assicurasse: il fece con
l'uccisione del duca d'Enghien. Diè le prime mosse il tribunato: il
senato non s'indugiò a seguitare, parte per paura, parte per ambizione:
il dì 18 maggio chiamava Napoleone Buonaparte imperator dei Franzesi.

Questo atto, ancorchè inaspettato non fosse, empiè di maraviglia
il mondo. I reali si accorsero che Buonaparte non era uomo, come
aspettavano, che volesse fare il Monk; i repubblicani videro che non
era uomo da voler fare, come si promettevano, il Cincinnato. Poi i
reali dimenticarono tosto la realtà, i repubblicani la repubblica, e
gli uni e gli altri trassero cupidamente agl'imperiali allettamenti.
Pochi dall'una parte e dall'altra si ristarono. Delle potenze
d'Europa, l'Inghilterra, che non s'era mai ingannata sulle qualità
di Buonaparte, contrastava, ma invano; contrastava anche invano il
lontano ed ingannatosi Alessandro; la Turchia, per timore della Russia,
si peritava; l'Austria taceva; la Prussia, che tuttavia continuava
ad ingannarsi, non solamente aveva consentito, ma ancora esortato.
Questo era stato uno dei principali fondamenti dell'ardimento di
Napoleone. Luigi XVIII, re di Francia, che fino a questo tempo,
forse per qualche speranza, aveva più temperatamente che degli altri
governi franzesi parlato e scritto di Buonaparte, a questo estremo
atto di assunzione di potenza, per cui ogni aspettazione di buon fine
era tolta, grandemente risentendosi, con gravissime parole contro
l'usurpazione fin dall'ultimo settentrione, dove esule da' suoi
regni se ne stava, protestò. Il Piemonte si confortava della perduta
independenza per l'unione con chi comandava; Genova ingannata sperava
almeno di conservare l'antico nome; la repubblica italiana, giacchè era
perduta la libertà, si prometteva almeno la potenza; la Toscana, che
meglio di tutti giudicava delle faccende presenti, non sapeva nè che
sperasse nè che temesse; bene si doleva che i leopoldiani tempi fossero
perduti per sempre; Napoli, già servo il regno di qua dal Faro, stava
in dubbio se almeno potesse conservar libero quello oltre il Faro. Il
papa era spaventato dalla grandezza di Napoleone; ma egli il confortava
con le promesse, con le adulazioni, ed ancor più con le richieste;
imperciocchè, vedendo che, poichè alle antiche consuetudini se ne
tornava, non aveva titolo legittimo, nè volendo ammettere la dottrina
della sovranità del popolo perchè l'ammetterla era un confessare
che chi faceva poteva disfare, ed ei non voleva essere disfatto, il
pontefice con grandissime istanze, non purgate da qualche minaccia,
richiedeva che a Parigi se ne venisse per consecrarlo imperatore.
Parevagli che la consecrazione del papa gli desse nella opinione degli
uomini quello che per altre parti gli mancava. Era certamente un gran
fatto che il capo supremo della Chiesa, in età già grave, in istagione
sinistra, a lontana e straniera terra se ne andasse per legittimare
con la santità del suo ministerio quello che tutti i principi d'Europa
chiamavano o apertamente o occultamente una usurpazione. Per indurre il
papa a questa deliberazione, Napoleone gli prometteva, che se già molto
aveva fatto a benefizio della religione e della santa Sede in Francia,
molto più era per fare, ove il papa consentisse alla consecrazione.
Si trovava il pontefice da queste domande molto angustiato, perchè
dall'una parte desiderava di satisfare a Napoleone, sperando di farne
nascere tratti profittevoli alla religione; dall'altra il confermare
con la efficacia del suo ufficio gli effetti della prepotenza militare,
gli pareva duro e disonorevole consiglio.

Tutte le cose però molto bene e maturamente considerate, e co' suoi
cardinali parecchie volte ponderate, implorato anche l'aiuto divino,
siccome quegli che pienamente da lui ripeteva ogni evento o prospero od
avverso, si deliberava a voler fare quello che da tanti secoli non si
era veduto che alcuno fatto avesse. Per la qual cosa, risolutosi del
tutto a voler posporre al benefizio della religione ogni altro umano
riguardo, convocati i cardinali il dì 29 ottobre, con queste gravi ed
affettuose parole loro favellava:

«Da questo medesimo seggio, venerabili fratelli, noi già vi
annunziammo, siccome il concordato con Napoleone imperadore dei
Franzesi, allora primo console, era stato da noi concluso: da
questo stesso vi partecipammo la contentezza, che aveva ripieno il
nostro cuore nel veder volte novellamente, per opera del concordato
medesimo, alla cattolica Religione quelle vaste e popolose regioni.
D'allora in poi i profanati tempi furono aperti e purificati, gli
altari riedificati, la salvatrice croce innalzata, l'adorazione del
vero Dio restituita, i misteri augusti della religione liberamente
e pubblicamente celebrati, legittimi pastori a pascere il famelico
gregge conceduti: numerose anime dai sentieri dell'errore al grembo
della felice eternità richiamate, e con sè stesse e col vero Dio
riconciliate: risorse felicemente, da quella oscurità in cui era stata
immersa, alla piena luce del giorno in mezzo ad una rinomata nazione la
cattolica religione.

A tanti benefizii esultammo, e le esultazioni nostre a Dio nostro
Signore dall'intimo del nostro cuore porgemmo. Questa grande e
maravigliosa opera non solamente ci riempiva di gratitudine verso quel
potente principe che usò tutto il potere e l'autorità sua per fare il
concordato, ma ancora ci spingeva, per la dolce ricordanza, ad usare
ogni occasione che si aprisse per dimostrargli tale essere verso di
lui lo animo nostro. Ora questo medesimo potente principe, il nostro
carissimo figliuolo in Cristo Napoleone imperadore dei Franzesi, che
con le opere sue sì bene ha meritato della cattolica religione, viene
a noi significandoci, ardentemente desiderare di essere coi santi
olii unto, e dalle mani nostre l'imperiale corona ricevere, acciocchè
i sacri diritti, che sono in così alto grado per collocarlo, siano
col carattere della religione impressi, e più potentemente sopra di
lui le celesti benedizioni appellino. Richiesta di tal sorte non solo
chiaramente la Religione sua e la sua filiale riverenza verso la Santa
Sede dimostrata, ma siccome quella che accompagnata è da espresse
dimostrazioni e promosse, dà speranza che sia la fede sacra promossa,
e che siano le dolorose ingiurie riparate, opera che già ha egli con
tanta fatica e con tanto zelo in quelle fiorite ragioni procurato.

Voi vedete pertanto, venerabili fratelli, quanto giuste e gravi
siano le cagioni che ad intraprendere questo viaggio c'invitano.
Muovonci gl'interessi della nostra santa religione, e muoveci la
gratitudine verso il potente imperadore, muoveci l'amore verso
colui che, con tutta la forza sua adoperandosi, ebbe in Francia alla
cattolica religione libero e pubblico esercizio procurato, muoveci
il desiderio che d'avanzarla viemmaggiormente in prosperità ed in
dignità ci dimostra. Speriamo altresì, che quando al cospetto suo
giunti saremo, e con lui volto a volto favelleremo, tali cose da
esso a benefizio della cattolica Chiesa, sola posseditrice dell'arca
di salvazione, impetreremo, che giustamente con noi medesimi
dello avere a perfezione condotto l'opera della nostra santissima
religione congratularci potremo. Non dalle nostre deboli parole tale
speranza concepiamo, ma dalla grazia di colui di cui, quantunque
immeritatamente, siamo il Vicario sopra la terra, dalla grazia di
colui che per la forza dei sacri riti invocato essendo, nei bene
disposti cuori dei principi discende, specialmente quando padri dei
popoli si mostrano, specialmente quando alla eterna salute intendono,
specialmente quando di vivere e di morire veri e buoni figliuoli della
cattolica Chiesa deliberano. Per tutte queste cagioni, venerabili
fratelli, e l'esempio seguitando di alcuni nostri predecessori,
che, la propria sede lasciando, in estere regioni per promuovere
la religione e per gratificare ai principi che della Chiesa bene
meritato avevano, peregrinarono, ci siamo ad intraprendere il presente
viaggio deliberati, avvengadiochè da tale risoluzione avessero dovuto
allontanarci la stagione sinistra, l'età nostra grave, la salute
inferma. Ma non fia che a tali impedimenti ci sgomentiamo, solo che
voglia Iddio farci dei nostri desiderii grazia. Nè fu il negozio, prima
che si risolvessimo, da ogni parte ed attentamente non considerato.
Stemmo dubbii ed incerti un tempo; ma con tali assicurazioni si fece
incontro ai desiderii nostri lo imperadore, che ci rendemmo certi,
essere il nostro viaggio a pro della religione per riuscire. Voi ciò
sapete che su di ciò a voi chiesi consiglio; ma per non preterire
quello che ogni altra cosa avanza, sapendo benissimo che, conforme
al detto della divina Sapienza, le risoluzioni dei mortali, anche
di quelli che per dottrina e per pietà più riputati sono, di quelli
altresì, il cui parlare quale incenso alla presenza di Dio sen sale,
sono deboli e timide ed incerte, le nostre fervorose preghiere al Padre
di ogni sapere indirizzammo, instantemente richiedendolo che ci sia
fatto abilità di solo fare quello che a lui piacer possa, solo quello
che a prosperità ed incremento della sua Chiesa tornare prometta.
Ecci Dio, il quale coll'umile nostro cuore tante volte supplicammo,
al quale nel suo sacro tempio le supplici nostre mani alzammo, dal
quale e benigna udienza ed aiuto propizio in tant'uopo implorammo,
testimonio che niun'altra cosa vogliamo, o niun'altra intendiamo,
che alla gloria ed agli interessi della cattolica religione, alla
salute delle anime, all'adempimento dell'apostolico mandato a noi,
quantunque immeritevoli, commesso. Di questa medesima sincerità nostra
voi stessi, venerabili fratelli, a cui tutto apersi, siete testimonii.
Adunque quando un negozio sì grande con l'aiuto della divina assistenza
vicino è a compirsi, qual vicario di Dio, Salvator nostro, operando,
questo viaggio, al quale tante e sì ponderose cagioni ci confortano,
imprenderemo.

Benedirà, speriamo, il Dio d'ogni grazia i nostri passi, ed in questa
epoca nuova della religione con uno splendore di accresciuta gloria si
manifesterà! Ad esempio di Pio VI di riverita memoria, quando a Vienna
d'Austria si condusse, abbiamo, venerabili fratelli, provveduto che
le curie e le audienze siano e restino, secondo il solito, aperte;
e siccome la necessità del morire è certa, il giorno incerto, così
abbiamo ordinato, che se durante il viaggio nostro a Dio piacesse
di ritorci a lui, si tengano i pontificii comizii. Infine da voi
richiediamo, voi instantemente preghiamo che vi piaccia per noi sempre
quell'affezione medesima conservare che finora ci mostraste, e che, noi
assenti, l'anima nostra all'onnipotente Iddio, a Gesù Cristo nostro
Signore, alla gloriosissima sua Vergine madre, al beato apostolo
Pietro, acciò questo viaggio e felice sia nel corso e prospero nel
fine, raccomandiate. La quale cosa, se come speriamo, dal fonte di bene
impetreremo, voi, venerandi fratelli, che di ogni consiglio nostro e di
ogni nostra cura foste sempre partecipi fatti, della comune contentezza
ancora voi parteciperete e tutti insieme nella mercè del Signore
esulteremo e ci rallegreremo.»

Giunto il pontefice sulle franzesi terre, fu per ordine
dell'imperatore, ed ancor più per la pietà dei fedeli, in ogni luogo
con riverenza veduto. A Parigi, anche quelli che non credevano nè al
papa nè alla religione si precitavano a gara alla sua presenza, per
esprimergli con parole sentimenti di rispetto. Incoronava Napoleone il
dì 2 dicembre. Napoleone consecrato diè nel campo di Marte solennemente
le imperiali aquile a' suoi soldati: le antiche insegne della
repubblica, che avevano veduto le renane, italiche, egiziache vittorie,
lasciate nel fango.

Andarono i magistrati ed i capi dell'esercito a rendere omaggio
all'incoronato loro signore. Cervoni, antico compagno, vedendolo
non più così scarso del corpo come era una volta, con esso lui della
prospera salute si rallegrava. Si, rispose il sire, ora sto bene.

Mentre pel concordato con Francia aveva il pontefice dato sesto alle
faccende religiose di quel regno, un altro pensiero mandava ad effetto,
dal quale confidava che dovesse risultare molto benefizio alla Sedia
apostolica; e siccome per l'accordo fatto con Napoleone aveva posto
freno alla setta filosofica, così con un'altra deliberazione voleva
medicare dalle radici il male che vedeva provenire dalla setta che
l'impugnava, pretendendo le massime e gli usi della Chiesa primitiva.

Erasi sparsa voce: spenti i gesuiti, per questo appunto esser nate
le rivoluzioni, per questo la rovina de' reali seggi, per questo
imperversare una libertà scapestrata, per questo l'anarchia dissolvere
ogni buon ordine, perchè era stata soppressa la società loro; per
questo la filosofica e la giansenistica piena avere tutto allagato: a
sì potenti e sì ostinati nemici, i re soli senza il papa, nè il papa
solo senza i re, nemmeno i re ed il papa insieme congiunti non poter
resistere, se non s'accosta l'opera aiutatrice e tanto efficace dei
gesuiti: sedurre la filosofia gli animi ardenti ed allegri con torre il
freno alle passioni, sedurre il giansenismo gli animi ardenti e rigidi
con un'apparenza di santimonia e di austerità: non essere padroni i
re dell'ammaestrare i giovani a seconda dei pensieri loro; non esser
padrone il papa di piegar uomini male ammaestrati: necessario esser
l'aiuto di coloro che radici buone sanno porre negli spiriti, e di
quanto gli spiriti concepiscono e di quanto le mani fanno, possono
essere e sono diligentemente informati: cospirare il volgo contro i
potenti, doversi accordare i potenti per resistere al volgo; nè un modo
qualunque al grand'uopo poter bastare; richiedersi il più alto, il più
stretto, il più generale: soli a questo fine valere i gesuiti; doversi
loro chiamare ad instaurazione della società sciolta, a salute dei
principi pericolanti, a rannodamento dell'Europa disordinata: o gesuiti
o rivoluzioni, nè altro modo di salvamento trovarsi che in loro.

A tali vociferazioni, che in quest'anno diffondevansi ogni giorno
più, supplicava il re Ferdinando di Napoli il papa, acciocchè,
per ammaestrare la gioventù del suo reame nelle rette e salutevoli
dottrine, come diceva, vi riinstaurasse, siccome già in Russia aveva
fatto, la compagnia di Gesù. Il pontefice facilmente gliene consentiva:
un Gabriello Gruber la ordinava. Così fu principiata la risurrezione
dei gesuiti; e fu osservato che fu principiata da un re, attivo
cooperatore della soppressione, e da un papa uscito dai benedettini,
avversi ai gesuiti.

Le toscane cose, che nell'anno precedente lasciammo non poco sinistre,
vieppiù turbava un insolito e doloroso accidente: conciossiachè sorse
in sul finire dell'autunno del presente anno nella egregia città di
Livorno una pestifera infermità, alla quale diede occasione, siccome
pare, la state che trascorse in quest'anno, sotto il dominio continuo
di venti austriali, oltre solito calda e piovosa. La quale infermità,
da alcuni chiamata febbre gialla, da altri vomito nero, nomi l'uno
e l'altro che a lei molto bene si confanno pei segni strani che
l'accompagnano, incominciò ad infierire nelle parti più basse, più
fitte e più sucide della città per modo che a questi toglieva la vita
in sette giorni, a chi in cinque, a chi in tre, ed a chi ancora nel
breve giro di un giorno. Dire quali e quanti fossero gli effetti che in
chi ella s'appiccava ingenerasse, fora materia assai lunga e difficile,
perchè chi assaliva ad un modo e chi ad un altro, ed era molto
proteiforme. Pure sormontavano sempre i due principali segni, che il
corpo, massimamente il busto, e prima e dopo morte, giallo divenisse, e
certo sozzume nero a guisa della posatura del caffè in copia lo stomaco
recesse. Nè più facilmente nei cagionevoli che nei sani s'accendeva
il mortale morbo, perciocchè si vedevano spesso giovani gagliardi
passarsene dallo stato il più florido di salute fra brevissimo tempo
in fine di morte. Nè uno era nei diversi tempi l'aspetto del morbo,
tre particolarmente notandosene: in sul primo, poco aveva che dalle
solite ardenti febbri il differenziasse; l'insulto primo accompagnava
un ribrezzo di freddo, massimamente lungo il dorso ed alla regione dei
lombi; doleva acerbamente il capo, ma più alle tempia ed alla fronte
che altrove, dolevano in singolar modo le membra alle giunture; gli
occhi accesi e come pieni di sangue, duri e presti i polsi; la pelle
ardeva di calore intensissimo, nè godeva l'ammalato del benefizio del
ventre o delle orine. Augurio funesto erano principalmente un molesto
senso alla forcella dello stomaco ed una inclinazione al vomitare.
Questo primo tempo concludeva una grande insidia, per modo che quando
più pareva al malato, ai parenti ed agli amici vicina la guarnigione,
più vicina era la morte. Tutto il mortifero apparato s'attutiva ad
un tratto, e, cessata la lebbre, se un leggiero sudore ed una somma
debolezza si eccettuavano, sano si mostrava il corpo, ed a perfetta
salute inclinante. Ma ecco improvvisamente e dopo il breve spazio di
poche ore, sorgere nuova e più fiera tempesta; che la molestia della
bocca dello stomaco diveniva dolore acerbissimo, e dalla regione del
ventricolo a quella del fegato si estendeva; nè il toccare queste
parti, ancorchè leggerissimo fosse, era a modo alcuno sopportabile
all'ammalato. Abboriva da ogni cibo e da ogni bevanda; gli occhi rossi,
gialli si facevano: gialle ancora le orine, e giallo il corpo; la
faccia ed il collo più di ogni altra parte il giallore vestivano. Lo
stomaco impaziente vomitava ogni presa vivanda, benchè leggerissima
fosse; ovvero pretta bile o bile mista a vermini buttava.

A questo si aggiungevano oppressione ai precordii, sospiri frequenti,
purgamenti del corpo fetidissimi, liquidi e come color di cenere. Nè
regola certa più restava ai medicanti per giudicar del male, perchè i
polsi ad ogni momento variavano; ora tardi, ora celeri, ora piccoli,
ora spiegati, ora urtanti, ora languidi, ora depressi, mostravano che
se insorgeva qualche volta natura, invano ancora insorgeva, superando
la prepotente forza del morbo. In mezzo a tanto tumulto, come se
chi era per morire meglio dovesse vedere la sua morte, libera si
conservava la mente ed intiera. Succedeva tantosto l'ultimo tempo più
vicino a morte, in cui tremavano le membra, i reciticci divenivano
non più di muchi o di bile, ma di materia nera, fetidissima, come di
sangue putrefatto e marcio. Trasudava anche, e spesso in gran copia,
dalle gengive e dalle fauci questo nero sangue; e così ancora dalle
narici e dal fondamento dell'utero copiosamente usciva: ogni cosa si
volgeva a putredine ed a mortificazione. Bruttavano la pelle o macchie
nere a guisa di piccoli punti, o larghi lividori a guisa di pesche,
massimamente in quei luoghi a cui si appoggiava il corpo. Facevano
la bocca disforme ed orrida, le labbra turgidissime e nere; gli occhi
lagrimosi e tristi ogni vivo lume perdevano; quindi il delirio od il
letargo fra le convulsioni ed un mortale freddo di membra la vita
troncavano. Chi moriva nel primo, chi nel secondo, chi nel terzo
tempo. Ma quando prima la malattia invase, più morivano nel primo che
nell'ultimo; più nell'ultimo che nel primo, ma non molti, quando già
trascorsi essendo circa due mesi, o fosse per l'abitudine dei corpi,
o fosse per la diminuzione delle cagioni, già era stata ammansita la
ferocia del funesto influsso. Pessimi presagii erano la violenza della
prima febbre, i dolori acutissimi delle membra, massime al petto,
l'affanno sommo, la prostrazione delle forze, il vomito pertinace e
nero, il comparire sulle prime il giallore; il chiudersi la via delle
orine, il singhiozzo: ottimi, la moderata febbre, il vomito raro e
mucoso senza putridume, il giallore tardo, la traspirazione libera,
il corpo lubrico, ma di bile, non di sangue, e il non tremare e il
non prostrarsi. Per le orine trovava per l'ordinario via la natura
a discacciare il veleno mortifero; imperciocchè, quando copiose ed
intensamente gialle fluivano, annunziavano l'esito felice. Ma non
una era la maniera del guarire; conciossiachè si è veduto l'uscire
improvvisamente e copiosamente sangue dalla bocca e dalle narici
chiamare inaspettatamente a vita chi già pareva preda d'inevitabil
morte. Furono viste femmine guarite dal correre improvviso di
mestrui abbondanti; fu visto lo sconciarsi della concetta creatura
ed il copioso versarsi del sangue, che ne conseguitava, redimere la
sofferente madre dalla fine imminente. Crudo era il male e nimicissimo
alla vita; funeste vestigia, anche già quando se n'era ito, nei
corpi lasciava: lunghe, tristi, penose si vedevano le convalescenze;
chi restava stupido lungo spazio, chi tremava, chi, spaventato da
funeste fantasime, passava malinconici i giorni, spaventose le notti,
miserabili segni che stata era vicina la morte. Strana ed orrida
contaminazione di corpi, che spesso, oltre le raccontate alterazioni,
insolite apparenze induceva: a questo veniva in odio l'acqua, come
se da cane arrabbiato morso fosse; a quello la vista si pervertiva,
o doppio o più grande del solito vedendo; a quest'altro gonfiavano
straordinariamente le parotidi: a chi venivano bollicine piene di
umore corrosivo in pelle, ed a chi pioveva sangue dagli orecchi.
Escoriavasi la pelle, come se dal fuoco bruciata fosse, in quei luoghi
dove la suffusa bile si spargeva: trascolava dai vescicatorii una linfa
intensamente verde, simile piuttosto al sugo di cicoria che ad altro,
la quale sì caustica e sì pungente natura aveva, che la pelle delle
toccate membra dolorosamente infiammava, e tostamente cancrenava. Più
feroce infierì il male contro le donne. Ma le gravide quasi tutte, che
prese ne furono, morirono: i fanciulli passarono quasi tutti indenni.
L'intemperanza di ogni genere, specialmente il darsi al bere eccessivo
del vino e degli spiriti, ed il gozzovigliare ed il trascorrere nei
cibi cagionavano e più certa malattia e più certa morte.

Ogni cosa poi sozza così dentro come fuori; imperciocchè negli sparati
cadaveri le narici si vedevano imbrattate di nero sangue, e la morta
bocca recere ancora, tanto n'era pieno il corpo, quel sucidume nero
e fetido che nelle ultime ore della vita da lei pioveva. Pieno ancor
esso e zeppo e gonfio di questo medesimo putridume infame e nero si
trovava il ventricolo, roso, oltre a ciò, da serpeggiante cancrena,
e rosi gl'intestini; la rete, chiamata dai medici omento, rosa del
tutto, mostrava quanta forza di distruzione l'orribile malore avesse.
Un fluido rosso e giallastro, come di bile mista a sangue, il cavo
torace ingombrava; e sangue nero e putredinoso tutti aveva pieni i
polmoni, cospersi ancor essi di macchie livide e cancrenose; livido
ed infiammato il setto traverso; livida e di corrotto sangue piena la
milza; livido, molle, putredinoso e di colore come se cotto fosse, il
fegato, sul quale, e così sul ventricolo, pareva essersi specialmente
scagliata con tutti i suoi effetti più tremendi la pestilenza. Insomma,
o putridume sanguinolento, o sangue nero, o infiammazione vicina a
sfacelo, o distruzione intiera di parti in ogni luogo e nelle più
vitali viscere si discoprivano. Nè perchè la funesta corruttela tali
mortiferi effetti producesse, lungo tempo richiedevasi che anche in
coloro, i quali nel breve spazio di ventiquattr'ore restavano morti,
si scorgeva che uno sfacelo universale, che un'aura venefica aveva il
corpo tutto invaso ed allo stato di morte ridotto; che tale vide, tale
descrisse con singolar medica maestria questa esiziale infermità il
dottor Palloni, mandato dal toscano governo a vedere se alcun senno od
umano provvedimento contro la medesima valesse. Nè solamente i visceri
che più vicini e concorrenti all'opificio della digestione, quali sono,
per esempio, il fegato ed il ventricolo, ma ancora i più segreti e più
lontani erano da lei tocchi e contaminati; posciachè la vescica, che
serve di ricettacolo alle orine, vuota si rinveniva, e di striscie
sanguinose listata; il cerebro stesso, fonte principale di vita,
ed i suoi proteggitori invogli col sozzo aspetto di vasi sanguigni
strapieni, e con le cavità bruttate di un fluido sviato e giallastro,
alla vista si appresentavano. Corrotta era la bile, e sparsa per tutto
il corpo dei miseri contaminati. Pessimi il quinto e settimo giorno;
pure notati di morti frequenti anche il primo, il secondo e il terzo:
in alcuni, ma rari, indugiò la morte insino al decimoterzo od al
decimoquarto.

Varii furono gli argomenti usati dai medici per domare la dolorosa
infermità; ma i più semplici, come suole, riuscirono anche i più
vantaggiosi. Tenere il ventre libero col calomelano e con la gialappa,
buono; buono promuovere il sudore; buonissime le limonee con qualche
piccola dose di tartaro emetico; utili i fomenti caldi, in cui fosse
stata cotta senape. Nè mancò di sovvenire efficacissimamente agli
ammalati l'acido nitrico, massimamente quando si usava in sulle
complessioni deboli, e quando, essendo già molt'oltre trascorso il
male, le emorragie, il vomito nero ed altri segni la incominciata
dissoluzione del corpo indicavano. Deteriorava pei vescicatorii la
condizione degli ammalati; pure giovarono in qualche caso applicati
alla regione del sottoposto ed infestato fegato. Le orine soppresse,
la digitale purpurea giovava. Ma forte e sopra tutti supremo rimedio
mostrossi l'aria pura, e spesse volte rinnovata, dalla quale tanta era
la efficacia, che per lei, anche a piccola distanza, si distruggeva la
venefica qualità ed il fomite stesso del male.

Dall'altro canto si vedeva che per l'aria pregna di esalazioni animali
si trasportava da uomo a uomo facilmente il morbo, e più fieramente
l'infettato tormentava. Serve di argomento a compruovare questo
accidente che le contrade più piene d'immondizie e meno ventilate della
città, e le case dei poveri furono le più miseramente contaminate.
Al contrario, le contrade spaziose e le case comode, pulite, e
di aria aperta e libera, o andaronne esenti, o non peggiorovvi,
o non vi appiccossi da corpo a corpo la corruzione; che anzi nel
contaminato individuo si contenne, gli assistenti, i parenti, i
medici, i ministri di Dio immuni lasciando. La qual cosa questa
malattia dalle altre contagiose febbri, e specialmente dalla peste
di Egitto, differenzia, il cui veleno largamente e lontanamente si
appicca. Nè in contado si propagava, abbenchè continuamente infinite
persone ed infinite mercanzie da contrada a contrada, e dalla città
nei contado si trasportassero e si diffondessero. Nè l'uomo sano,
ancorchè nella vicinanza degli ammalati vissuto fosse, mai ad altri
la infezione, se prima egli medesimo tocco dalla malattia stato non
fosse, comunicava; nè per gl'individui sani delle contaminate famiglie,
nè per gli arnesi loro, nè per le altre suppellettili delle case
giammai fuori la corruzione si avventava; e sì pure che le monete, le
carte, le merci tutte in continuo giro ed in un indistinto commercio
dentro e fuori della città versavano. L'abitudine, per un mirabile
e non conosciuto artifizio dei nostri corpi, al malefico influsso
gradatamente avvezzandoli, li salvava. Infatti, pel funesto male che
tanti fra la minuta gente toglieva di vita, un solo ministro di Dio,
tre soli ministri di salute perirono, quantunque e gli uni e gli altri
frequentissimamente e con tutta cura agl'infettati assistessero. E
quanta fosse la forza del rinnovato aere a domare l'acume del veleno,
confermò visibilmente il provvedimento dato da chi reggeva l'ospedale
di San Jacopo, il quale, quasi a riva il mare situato, ed ottimamente
a salute edificato, di un'aria libera, sfogata e purissima godeva;
conciossiachè non così tosto gl'infetti, ancorchè languidi, oppressi e
già quasi vinti fossero dalla malattia, la soglia di quel salutifero
edificio toccavano, ed in lui riposti erano, che i vitali spiriti
in loro si rinvigorivano mirabilmente, e dalle angosce più crudeli
subitamente ad un confortevole stato passavano. Toscano pregio fu
rimedio all'inquilino morbo; perchè oltre alla purezza procurata
dell'aria, la pulitezza delle case, la nettezza delle vestimenta,
la mondezza dei corpi, qualità tanto eminenti nel toscano paese,
sovvennero agl'infermi, e per sanarli bastarono le consuete abitudini.
Nè anco in così nemico tempo si scoverse quel fine crudele di schifare
e di fuggire gl'infetti per acquistare salute: a tutti rimasero i
debiti sussidii, o per la carità dei parenti, o per l'amorevolezza
degli amici, o per la pietà dei cherici, o per la provvidenza del
pubblico; dei quali vantaggi devono i Livornesi o ad una maggiore
civiltà o a più celesti inspirazioni restare obbligati.

Adunque se, oltre una naturale disposizione dei corpi a restare
contaminato dal morbo, abbisognavano e la vicinanza o il contatto
dell'uomo ammalato, o delle robe che a suo uso avevano servito nel
corso della malattia, se l'aria stagnante e chiusa e zeppa d'animali
effluvii la dava, se l'aria aperta e sfogata o l'allontanava o
l'aleggiava, se le persone sane, benchè vissute in prossimità
degl'infetti, e le merci da loro tocche, solo che al puro e ventilato
aere esposte fossero, l'infezione fuori della città non trasportavano,
e se finalmente il medesimo aere ventilato e puro il malefico
fomite presso al suo fonte stesso, cioè all'ammalato, distruggeva
ed annientava, si deduce che o l'accidente mortifero di Livorno,
quantunque avesse in sè raccolti tutti i segni di quel morbo che alcuni
febbre gialla, altri vomito nero appellano, era nondimeno molto dal
medesimo diverso, opinione non verisimile, perciocchè i segni indicano
identità di natura, o che il terrore e la mossa immaginazione l'hanno
in altri paesi fatto parere diverso da quello ch'egli è veramente,
tassandolo di contagio, quando veramente contagioso non è, a modo delle
malattie che i medici chiamano specialmente con questo nome, come, per
cagion d'esempio, la peste d'Egitto. Nè dimoreremci a dire com'egli
in Livorno stato fosse recato; perchè se il vi recasse, come corse
fama, un bastimento venuto da Vera-Crux, è incerto, siccome ancora è
incerto se da altro contagio qualunque, o se da mera disposizione del
cielo piovoso e caldo, come alcuni credono, e pare più verisimile,
ingenerato e sorto fosse. Certo è bene ch'ei fu contaminazione schifosa
ed abbominevole, e che funestò per numerose morti Livorno, spaventò le
città vicine, tenne lunga pezza dubbiosa ed atterrita l'Europa per la
fama delle provincie devastate in America. Queste cose si son volute
raccontare con quella semplicità che s'è potuto maggiore, acciocchè
la nuda verità meglio servir potesse a far conoscere, per forza di
comparazione, la natura ed i rimedii di un male che omai minaccia di
voler accrescere la soma di tutti quelli che già pur troppo affliggono
la miseranda Europa.



    Anno di CRISTO MDCCCV. Indizione VIII.

    PIO VII papa 6.
    FRANCESCO II imperadore 14.


Pareva, e fu anche solennemente e con magnifiche parole detto da
Napoleone e da Melzi, che gli ordini statuiti in Lione per l'Italia
fossero per essere eterni; ma non erano corsi due anni, che già
manchi, insufficienti, non conducenti a cosa che buona e durevole
fosse, si qualificarono. Importava a chi s'era fatto imperatore che
re ancora si facesse. Erano, non senza disegno, stati invitati gli
Italici a condursi a Parigi, per cagione di assistere in nome della
repubblica alle imperiali cerimonie ed allegrezze. Vi andarono Melzi
presidente, i consultori di Stato Marescalchi, Caprara, Paradisi,
Fenaroli, Costabili, Luosi, Guicciardini; i deputati dei collegi e
dei magistrati, Guastavillani, Lambertenghi, Carlotti, Dambruschi,
Rangone, Galeppi, Litta, Fe, Alessandri, Salimbeni, Appiani, Busti,
Negri, Sopransi, Valdrighi. L'imperatore si lasciò intendere che il
chiamassero re, e condannassero gli ordini lionesi: disponendosi la
somma delle cose non solo con un comando, ma ancora con un cenno di
Napoleone, il fecero volontieri; Melzi, appresentandosegli il dì 17
marzo con gli altri deputati in cospetto di Napoleone salito sul trono
nel castello delle Tuillerie, in tali accenti favellava:

«Voi ordinaste, o sire, che la consulta di Stato e i deputati della
repubblica italiana si adunassero, e l'affare il più importante
pe' suoi destini presenti e futuri, cioè la forma del suo governo,
considerassero. Al cospetto vostro io m'appresento, o sire, per compire
appresso a voi l'onorevole carico d'informarvi di quanto ella fece e
di quanto ella desidera. Primieramente l'assemblea, molto bene ogni
cosa considerando, venne in questa sentenza, che l'impossibile è,
se troppo non si vuole dagli accidenti dell'età nostra discordare,
le attuali forme conservare. Ebbero le lionesi constituzioni tutti i
segni di ordini provvisorii: accidentali furono, perchè agli accidenti
dei tempi fossero rispondenti, nè in sè alcun nervo avevano, per cui
gli uomini prudenti e durata e conservazione promettere si potessero.
Non che la ragione, l'evidenza stringono urgentemente a cambiarla.
La quale cosa concessa e confessata vera, come vera è realmente,
la via da seguitarsi semplice diventa e piana; i progressi delle
cognizioni, i dettami dell'esperienza, la monarchia constituzionale,
la gratitudine, l'amore, la confidenza il monarca ci additano. Voi
conquistaste, o sire, voi riconquistaste, voi creaste, voi ordinaste,
voi sino a questo dì l'italiana repubblica governaste; quivi ogni
cosa le vostre geste, la vostra mente, i vostri benefizii rammenta: un
unico desiderio poteva essere fra di noi; un unico desiderio è sorto.
Noi non preterimmo di maturamente considerare quanto nelle future
cose la profonda sapienza vostra indicava; ma per quanto gli alti e
generosi pensieri vostri coi nostri più bramati interessi si accordino,
facilmente abbiamo a noi medesimi persuaso che le condizioni nostre
tanto ancora non sono mature che possiamo aggiungere a quest'ultimo
grado della politica independenza. L'italiana repubblica, così porta
l'ordine naturale delle cose, deve ancora per qualche tempo restare
impressa della condizione degli Stati novellamente creati. Un primo
nembo, quantunque leggiero, che l'aere oscurasse, sarebbe per lei
d'affanni e di timore cagione. Nella qual condizione, quale maggior
sicurezza, quale più fondata speranza di felicità potrebbe ella, sire,
che in voi trovare? Voi siete ancora necessaria parte di lei. Solo
nell'alta sapienza vostra sta, solo a lei s'appartiene il vedere il
preciso termine della dependenza tra le gelosie esterne e i pericoli
nostri. Interrogati amorevolmente, rispondiamo sinceramente. Questo è
il desiderio nostro che a voi significhiamo, questa la preghiera che a
voi indirizziamo, che vi piaccia quelle costituzioni darne, in cui i
principii già da voi pubblicati, dall'eterna ragione richiesti, alla
quiete delle nazioni necessarii, statuiti siano e confermati. Siate
contento, o sire, di accettare, siate contento di compire le preghiere
e i desiderii dell'italica consulta. Per questa mia bocca istantemente
tutti ve ne ricercano e ve ne scongiurano. Se voi benignamente ci
esaudite, agl'Italiani diremo, che voi con più forte legamento vi siete
alla conservazione, alla difesa, alla prosperità dell'italiana nazione
congiunto. Così è, sire, voi voleste che l'italiana repubblica fosse,
ed ella fu: fate ora che l'italiana monarchia sia felice, e sarà.»

Terminato il favellare, e fattosi avanti Melzi, l'atto dell'italiana
consulta espresse: il governo della repubblica italiana fosse monarcale
ed ereditario; Napoleone I re d'Italia si dichiarasse; le due corone di
Francia e d'Italia in lui solo, non ne' suoi discendenti o successori,
potessero esser unite: insino a tanto che gli eserciti franzesi
occupassero il regno di Napoli, i Russi Corfù, gl'Inglesi Malta, le
due corone non si potessero separare; pregassesi Napoleone imperatore
passasse a Milano per ricevere la corona e statuire leggi definitive
pel regno.

Rispose Napoleone, aver avuto sempre il pensiero di creare libera e
independente la nazione italiana; dalle sponde del Nilo avere sentito
le italiane disgrazie; essere, mercè il coraggio invitto de' suoi
soldati, comparso a Milano, quando i suoi popoli d'Italia ancora il
credevano sulle spiaggie del mar Rosso; ancora tinto di sangue, ancora
cosperso di polvere, sua prima cura essere stata l'ordinare l'italiana
patria; chiamarlo gl'Italiani a loro re; volere loro re essere, volere
questa corona conservare, ma solo fintantochè gl'interessi loro il
richiedessero; deporrebbela, quando fosse venuto il tempo, sopra un
giovane rampollo volontieri, al quale, del pari che a lui, sarebbero a
cuore la sicurezza e la prosperità dei popoli italiani. Nè questa fu la
sola dimostrazione ch'ei fece in questo proposito.

Entrò il giorno seguente l'imperatore in senato. Taleyrand, ch'era
uomo molto ambidestro, e capace di pruovar questa con molte altre cose
ancora, pruovò che per allora l'unione della corona d'Italia a quella
di Francia era necessaria. Lessesi l'accettazione; poi Napoleone prese
a favellare pretendendo parole di moderazione e di temperanza.

«Noi vi chiamammo, o senatori, disse, per darvi a conoscere tutto
l'animo nostro intorno agli affari più importanti dello Stato. Potente
e forte è l'impero di Francia, ma più grande ancora la moderazione
nostra. L'Olanda, la Svizzera, l'Italia tutta, la Germania quasi tutta
conquistammo: ma in fortuna tanto prospera misura e modo serbammo. Di
tante conquistate provincie quello solo ritenemmo che necessario era
a mantenerci in quel grado d'autorità e di potenza, nel quale fu la
Francia posta. Lo spartimento della Polonia, le provincie tolte alla
Turchia, la conquista delle Indie e di quasi tutte le colonie hanno,
a pregiudizio nostro, dall'uno de' lati fatto ir giù la bilancia:
l'inutile rendemmo, il necessario serbammo, nè mai le armi per vani
progetti di grandezza, nè per amore di conquiste impugnammo. Grande
incremento alla fertilità delle nostre terre avrebbe recata l'unione
dei territorii dell'italiana repubblica: pure, dopo la seconda
conquista, l'independenza sua a Lione confermammo; ed oggidì, più
oltre ancora procedendo, il principio della separazione delle due
corone statuiamo, solo il tempo di lei, quando senza pericolo pei
nostri popoli d'Italia effettuare si possa, assegnando. Accettammo,
e sulla nostra fronte l'aulica corona dei Lombardi posammo: questa
rattempreremo, questa ristaureremo, questa contro ogni assalto,
finchè il Mediterraneo non sia restituito alla condizione consueta,
difenderemo, e questo primo italico statuto a poter nostro sano e salvo
conserveremo.»

Creava l'imperatore Eugenio Beauharnais, figliuolo dell'imperadrice
sua moglie, principe, poi, suo figliuolo adottivo chiamandolo, vicerè
d'Italia il nominava. Creava Melzi guardasigilli del regno. Decretava,
andrebbe a Milano, e la corona reale la domenica 26 di maggio
prenderebbe.

Messosi in viaggio con grandissimo seguito di cortigiani, perchè
voleva far illustre questa sua gita con apparato molto magnifico
e piucchè regio, e festeggiato con grandissimi onori per tutta
Francia, arrivava Napoleone, il dì 20 aprile, a Stupinigi, piccola
ed amena villa dei reali di Sardegna, posta a poca distanza da
Torino. Quivi concorsero a fargli onoranza i magistrati: Menou verso
di lui umilissimo si mostrava. Vennero a trovarlo i deputati di
Milano per fargli omaggio, re loro, rigeneratore loro, padre loro
chiamandolo. Rispose amorevolmente, gli avrebbe in luogo di figliuoli:
raccomandò loro fossero virtuosi, l'attiva vita, la patria e l'ordine
amassero. Dell'ordine parlava per dar contro ai giacobini. Terminò
minacciosamente, dicendo che se alcuno avesse concetto gelosia pel
regno d'Italia, avere una buona spada per disperdere i suoi nemici.

Visitato Moncalieri, corse la collina di Torino: esaminata Superga,
entrò trionfalmente nella reale città. Abitò il palazzo del re con
molto studio e diligenza a questo fine restituito e addobbato dal
conte Salmatoris. Correvano i popoli piemontesi a vedere l'inusitato
spettacolo. Arrivava in questo mentre papa Pio a Torino, tornando di
Francia. Fu fatto alloggiare nella reggia con Napoleone: stettero molte
ore ristretti insieme; Pio sperava, Napoleone lusingava, pubblicamente
stretto accordo mostravano. Visitò le pubbliche singolarità: parlò con
facilissima loquela di musica, di medicina, di leggi, di pittura; volle
vedere la tavola d'Olimpia pinta da Revelli, pittore di nome. Lodò
l'opera, ma notò qualche difetto. Il papa festeggiato, anche da Menou
Abdallah, se ne partiva alla volta di Parma.

Dai discorsi civili si venne alla rappresentazione dell'armi. Volle
Napoleone vedere i gloriosi campi di Marengo, e quivi simulare
una sembianza di battaglia. Rizzossi un arco trionfale sulla porta
d'Alessandria per Marengo con gli emblemi delle italiche, germaniche,
egiziache vittorie. Sul campo stesso del combattuto Marengo l'imperial
trono si innalzava. Compariva Napoleone in una carrozza molto
splendida, e tirata da otto cavalli. Stavano i soldati schierati,
molti memori delle portate fatiche in questi stessi marenghiani campi:
Franzesi, Italiani, Mamelucchi, sì fanti che cavalli; s'accostavano le
guardie nazionali, tutte in abito ed in bellissimo ordine disposte;
magnifica comparsa poi facevano le guardie d'onore milanesi venute a
Marengo per onoranza del nuovo signore. Stavano appresso gli uffiziali
di corte, i ciamberlani, le dame, i paggi e molti generali in abiti
ricchissimi. Splendeva il sole a ciel sereno: i raggi, ripercossi
e rimandati in mille differenti guise da tanti ori, argenti e ferri
forbiti, facevano una vista mirabile. Una moltitudine innumerevole di
popolo era concorsa; l'alessandrina pianura risuonava di grida festive,
di nitriti guerrieri, di musica incitatrice. Napoleone glorioso, venuto
sul trono e postovi l'imperatrice a sedere, scendeva dall'imperiale
cocchio e, montato a cavallo, s'aggirava per le file degli ordinati
soldati. Le grida, gli applausi, i suoni d'ogni sorta più vivi e più
spessi sorgevano ed assordavano l'aria. Terminate la rassegna e la
mostra, iva a sedersi sull'imperiale seggio ancor egli, essendo in lui
conversi gli occhi della moltitudine, tutti imperadore o vincitore di
Marengo con altissime voci salutandolo. Seguitava la battaglia simulata
fra due opposte schiere, moderando le mosse e gli armeggiamenti
Lannes, che dopo i nuovi ordini imperiali era stato creato maresciallo.
Durò dalle dieci della mattina sino alle sei della sera con diletto
grandissimo di Napoleone; la quale terminata, dispensò a parecchi
soldati o magistrati le insegne della legione d'onore, creata da lui
novellamente. Sceso poscia dal trono, gettava le fondamenta d'una
colonna per testimonianza alle future genti della marenghiana vittoria:
ivi si fermarono le gloriose ricordanze.

Arrivava Napoleone con tutti i grandi della corona, il dì 6 di maggio,
a Mezzana Corte sulla sponda del Po, dove, passato il fiume sopra
estemporaneo bucintoro fra le innumerevoli acclamazioni dei popoli,
che sulle opposte rive tripudiavano, sulle terre del suo italico regno
entrava. L'aspettavano in solenne pompa, il ricevettero, il lodarono
il prefetto dell'Olona, il guardasigilli Melzi, il maresciallo Jourdan,
che stava al governo dei soldati franzesi alloggiati nel regno italico.

Giunto a Pavia, fece sua stanza nel palazzo del marchese Bolla, ad uso
di palazzo imperiale destinandolo. Guardie d'onore, studenti addobbati,
folle di popolo, arazzi spiegati, fiori sparsi, lumi accesi, applausi
infiniti testificavano l'allegrezza dei Pavesi. Vide volontieri
l'università, che l'ebbe con discorso limpido e puro di parole e
di stile non isconveniente al soggetto, per voce del rettore e dei
professori decani, lodato.

Fu magnifico l'ingresso di Napoleone in Milano. Entrava per la porta
ticinese, a cui fu dato il nome di Marengo. Gli appresentarono i
municipali le chiavi posate sopra un bacile d'oro. Dissero esser
le chiavi della fedel Milano; i cuori averseli già da lungo tempo
acquistati. Rispose, servassero le chiavi; credere amarlo i Milanesi,
credessero lui amarli. Pervenuto, traendo e gridando lietissimamente
una foltissima calca di popolo, al duomo, il cardinal Caprara
arcivescovo, fattosegli incontro sulla soglia, giurava rispetto,
fedeltà, obbedienza e sommessione, augurava conservazione di sì gran
sovrano, invocava gl'incliti protettori della magnifica città Ambrogio
e Carlo, acciocchè a lui ed a tutta la sua famiglia salute piena e
contentezza perenne dessero. Terminate le cerimonie del tempio, il
palazzo dei duchi ornato a festa e tutto esultante per l'acquistata
grandezza accoglieva il novello re.

Ed ecco che, saputo ch'era andato a Milano per la corona, il venivano
a trovare i deputati dell'italiche e dell'estere città. Vennevi
Lucchesini portatore dei prussiani onori: recava da parte del re
Federico l'aquila nera e l'aquila rossa a Napoleone; fregiatosene
il sire, compariva con esse al cospetto de' suoi schierati soldati.
Vennevi Cetto, inviato di Baviera; Beust, inviato dell'arcicancelliere
dell'impero germanico; Alberg mandato da Baden, Benvenuti balì mandato
dall'ordine di Malta: mandovvi il montagnoso Vallese il landmanno
Augustini; mandovvi l'adusta Spagna il principe di Masserano, Lucca un
Contenna ed un Belluomini, Toscana un principe Corsini ed un Vittorio
Fossombroni: tutti venivano ad onoranza ed a raccomandazione appresso
al potente e temuto signore.

Maggior materia era sotto i deputati della ligure repubblica. Aveva
mandato il senato genovese Durazzo doge, cardinale Spina arcivescovo,
Carbonara, Roggieri, Maghella, Fravega, Balbi, Maglione, Delarue,
Scassi, senatori. A loro maggiori carezze e più squisiti onori si
facevano. Studiavansi il ministro Marescalchi ed il cardinale Caprara
a soddisfar loro con mense, con udienze, con complimenti. Le medesime
gentilezze usavano i ministri di Francia: ad ogni piè sospinto veniva
dato dell'altezza serenissima al doge, e di ambasciatori straordinarii
ai senatori. Il signore stesso sempre li guardava con viso benigno,
e si allargava con loro in melliflue parole. Brevemente, fra tanto
festeggiare non erano i liguri legati la minor parte della comune
allegrezza. Ammessi all'udienza del signore, il videro sereno e lieto.
Con esso lui dell'acquistato imperio si rallegrarono, il commercio
della prediletta Liguria instaurasse supplicarono. Rispose umanamente,
conoscere l'amore dei Liguri; sapere aver soccorso gli eserciti
di Francia in tempi difficili; non isfuggirgli le angustie loro;
prenderebbe la spada, e li difenderebbe; conoscere l'affezione del
doge, vederlo volentieri, veder volentieri con lui i liguri senatori:
andrebbe a Genova; senza guardie come fra amici v'andrebbe. Dopo
l'udienza furono veduti ed accarezzati dall'imperatrice e da Elisa
principessa, sorella di Napoleone, sposata ad un Bacciocchi, creato
principe anch'egli. Tutti mostravano dolce viso ai liguri legati nella
napoleonica corte.

Presa in Monza la ferrea corona, e non senza solenne pompa a Milano
trasportata, si apriva l'adito all'incoronazione. La domenica 26 di
maggio, essendo il tempo bello ed il sole lucidissimo, s'incoronava
il re. Precedevano Giuseppina imperatrice, Elisa principessa in abiti
ricchissimi: ambe risplendevano di diamanti. Seguitava Napoleone,
portando la corona imperiale in capo, quella del regno, lo scettro
e la mano di giustizia in pugno, il manto reale, di cui i due grandi
scudieri sostenevano lo strascico, indosso. L'accompagnavano uscieri,
araldi, paggi, aiutanti, mastri di cerimonie ordinarii, mastro
grande di cerimonie, ciamberlani, scudieri pomposissimi. Sette dame
ricchissimamente addobbate portavano le offerte; ad esse vicini con
gli onori di Carlo Magno, di Italia e dell'impero procedevano i grandi
ufficiali di Francia e d'Italia, ed i presidenti dei tre collegi
elettorali del regno. Ministri, consiglieri, generali accrescevano la
risplendente comitiva. Ed ecco Caprara cardinale affaccendatissimo
e rispettoso in viso, col baldacchino e col clero accostarsi al
signore, e sino al santuario accompagnarlo. Sedè Napoleone sul trono,
il cardinale benediceva gli ornamenti regi. Saliva il re all'altare,
e presasi la corona, ed in capo postalasi, disse queste parole: _Dio
me la diede, guai a chi la tocca_. Le divote volte in quel mentre
risuonavano di grida unanimi di allegrezza. Incoronato, givasi a
sedere sopra un magnifico trono alzato all'altro capo della navata.
I ministri, i cortigiani, i magistrati, i guerrieri l'attorniavano.
Le dame specialmente, in acconce gallerie sedute, facevano bellissima
mostra. Sedeva sopra uno scanno a destra Eugenio, vicerè, figliuolo
adottivo. A lui, siccome a quello a cui doveva restare la suprema
autorità, già guardavano graziosamente i circostanti. Onorato e
speciale luogo ebbero nell'imperial tribuna il doge ed i senatori
liguri: stavano con loro quaranta dame bellissime e pomposissime;
Giuseppina ed Elisa in una particolar tribuna rispondevano. Le volle,
le pareti, le colonne sotto ricchissimi drappi si celavano, e con
cortine di velo, con frange d'oro, con festoni di seta s'adornavano.
Grande, magnifica e maravigliosa scena fu questa, degna veramente della
superba Milano. Cantossi la solenne messa; giurò Napoleone: ad alta
voce gridossi dagli araldi: «Napoleone I, imperatore dei Franzesi e re
d'Italia è incoronato, consecrato e intronizzato; viva l'imperatore e
re.» Le ultime parole ripeterono gli astanti con vivissime acclamazioni
tre volte. Terminata la incoronazione, andò il solenne corteggio a
cantar l'inno ambrosiano nell'ambrosiana chiesa. La sera, Milano tutta
festeggiava; fuochi copiosissimi s'accesero, razzi innumerevoli si
trassero, un pallone areostatico andava al cielo: in ogni parte canti,
suoni, balli, tripudii, allegrezze. A veder tante pompe, si facevano
concetti d'eternità: già gli statuali si adagiavano giocondamente sui
seggi loro.

Mentre con lusinghe e con onori s'intrattenevano in Milano il doge ed
i liguri legati, per un concerto con gli aderenti più fidi, un gran
fatto si tramava. Sollevavasi a cose nuove la travagliata Liguria. Vi
si spargevano prima parole, poi aperti discorsi, intorno alla necessità
dell'unione con Francia. Allegavasi da uomini prezzolati nelle liguri
provincie, allora essere stata perduta l'independenza quando fu fatta
la rivoluzione; d'allora in poi essere stata sotto diversi nomi e
reggimenti diversi Genova serva; aver lo Stato più pesi che portar
possa da sè; poterli portare facilmente congiunto con Francia; sperarsi
invano che il potente non manomettesse il debole; di ciò manifeste
testimonianze aver dato i forastieri venuti quali come amici, quali
come alleati; ripugnare la natura umana, sempre superba, ai moderni
desiderii, nè la giustizia regnare in chi troppo può; essere cangiate
le sorti d'Europa; preponderare oltremodo la Francia; già abbracciare
e stringere da ogni parte, pel Piemonte unito e per l'italico regno
obbediente, l'esile Liguria: che starsi a fare; che non si domandava
l'unione a Francia? Giacchè non si può più comandare da sè, savio
consiglio essere il comandare con altrui; le umili genovesi insegne non
rispettarsi sui mari dai barbari buttati fuori dalle caverne africane,
rispettarsi le franzesi, i napoleonici segni avere a render sicuri i
liguri navili: così una sola deliberazione politica esser per fare ciò
che le antiche armi della repubblica più non potevano. A queste parole
si aggiungevano le adulazioni sulla felice condizione di esser posti
al freno di Napoleone eroe. Le giurisdizioni domandavano l'unione con
Francia, supplicava il senato, Napoleone la decretasse.

Avendo le arti sortito l'effetto loro, comparivano al cospetto
dell'imperatore in Milano, il dì 4 di giugno, i liguri legati. Girolamo
Durazzo doge, tutto pallido e sgomentato, orava in umili parole;
le quali dette, e porti i suffragii del ligure popolo al signore,
rispondeva Napoleone: essere da lungo tempo venuto a parte delle
faccende dei Liguri; a buon fine sempre averle indirizzate; essersi
accorto che per loro era impossibile che qualche cosa degna dei padri
loro facessero; l'avara Inghilterra chiudere a piacer suo i porti,
infestar i mari, visitar le navi; le africane rapine andare ognora più
discendo; essere servitù nell'independenza ligure; essere necessità ai
Liguri di unirsi a un popolo potente; adempirebbe i loro desiderii, gli
unirebbe al suo gran popolo volontieri, memore dei servigii prestati;
tornassero nella loro patria; visiterebbeli fra breve, suggellerebbe la
felice unione in Genova.

Lessersi i voti. A cagione che la Liguria non ha forza sufficiente
per mantenere la sua independenza, che gl'Inglesi non riconoscono
la repubblica, che chiuso è il mare dai barbari, la terra dalle
dogane, supplicare il senato all'imperatore e re, la Liguria al suo
impero unisse. Seguitavano le condizioni; si soddisfacesse dallo
Stato ai creditori liguri come a quei di Francia; si conservasse il
porto franco di Genova; nell'accatastare, si avesse riguardo alla
sterilità delle terre liguri ed al caro delle opere; si togliessero
le dogane e le barriere tra la Francia e la Liguria; si descrivessero
i soldati solamente all'uso di mare; si regolassero per modo i dazii
sugl'introiti e sulle tratte, che i proventi e le manifatture della
Liguria ne sentissero beneficio; le cause sì civili che criminali
si terminassero in Genova, od in uno dei dipartimenti più vicini
dell'impero; gli acquistatori dei beni nazionali fossero indenni e
sicuri nel possesso e nella piena proprietà di loro.

Napoleone, desiderando mitigare la acerbità del fatto con un uomo
di temperata e prudente natura, mandava a Genova il principe Lebrun,
arcitesoriere dell'impero, perchè lo Stato nuovo ordinasse a seconda
delle leggi franzesi.

Restava che con le feste si celebrasse la perduta patria. Arrivava
Napoleone il dì 30 di giugno a Genova. Tutta la città si muoveva per
vederlo. Veniva dalla Polcevera: l'incontrava la cavalleria a Campo
Marone; le campane suonavano a gloria, i cannoni rimbombavano, le
fregate e i legni minori sorti nel porto esultando mareggiavano: chi
traeva alle ambizioni, si componeva nei sembianti; le genovesi donne
attentamente il guardavano per giudicare di che cosa sapesse; del
popolo, chi si maravigliava, chi diceva arguzie da marinaro. Michel
Angelo Cambiaso, creato sindaco da Lebrun, s'appresentava con le
chiavi: Genova, superba per sito, essere ora superba per destino,
disse: darsi ad un eroe; avere gelosamente e per molti secoli custodito
la sua libertà; dì ciò pregiarsi; ma ora molto più pregiarsi, le chiavi
della città regina in mano di colui rimettendo che, savio e potente
più d'ogni altro, valeva a conservargliela intatta e salva. Rispose
benignamente; restituì le chiavi. Spina, cardinale arcivescovo, sulla
soglia della chiesa di San Teodoro aspettandolo, col sacro turibolo
l'incensava. Luigi Corvetto, presidente del consiglio generale,
venuto alla presenza del signore, favellava, avere lui liberato il
buon popolo di Genova, averlo in figliuolo adottato; essere quivi in
mezzo a' suoi figliuoli; dimenticare il genovese popolo le passate
calamità; ogni altro affetto in questo solo affetto comporsi dell'amore
dell'imperadore e re; per questo essere i Genovesi sudditi deditissimi;
per questo i doveri più sacri affortificarsi dalle affezioni più
dolci; non isdegnasse, pregava, la semplicità delle parole loro; eroe,
sovrano e padre, in buon grado accettasse il tributo dell'ammirazione,
dell'amore e della fedeltà loro. Poscia a nome proprio e di Bartolammeo
Boccardi, uomo di non mediocre ingegno e stato sempre dedito alla parte
franzese, Luigi Corvetto medesimo pregava felicità per la sua patria,
chiamando Napoleone più grande di Cesare, e confortandolo a cambiare
l'antica cesarea divisa in quest'altra: _venni, vidi, felicitai_.
Piacque la squisita lusinga: Luigi Corvetto fu creato consigliere
di Stato. Bene ne occorse ai Liguri che, perduto l'antico nome,
trovarono in Corvetto chi affettuosamente gli amava, chi prudentemente
li consigliava, e chi utilmente presso il signore gli avvocava, non
a sdegni e ad antichi rancori in tempi tanto solenni servendo, ma
solamente al benefizio de' suoi compatriotti riguardando.

Alloggiava Napoleone al palazzo Doria a quest'uopo diligentissimamente
preparato. Terminati i complimenti, si veniva alle feste. Incominciossi
dal mare. Faceva magnifica mostra un tempio che di Nettuno o Panteon
marittimo chiamarono: eretto sopra un tavolato di navi, senza però
che ciò apparisse, perciocchè pareva fondato sopra un verdeggiante
suolo, se ne andava sulle marine acque per forza d'ignoti ordigni
galleggiando. Una gran cupola aveva per colmo, sedici colonne d'ordine
ionico il sostentavano, le immagini de' marini dei l'adornavano. Sulle
due facce interna ed esterna della cupola si leggeva un'inscrizione,
parto del pad. Solari, la quale significava, i Liguri augurare a
Napoleone imperadore e re lo impero del mare, come già si aveva quello
della terra. Opera bella ed ingegnosa fu questo tempio; sopra di lei,
condotta che fu in mezzo al porto, sedeva Napoleone i circostanti
festeggiamenti rimirando. Quattro isolette, che rappresentavano quattro
giardini chinesi adorni di palme, cedri, limoni, melaranci, rinfrescati
da zampilli d'acque limpidissime, coperti da una cupola listata di più
colori ed ornata da quantità mirabile di campanelli, che messi in moto
dal continuo aggirarsi della macchina, con dolce concerto tintinnavano
continuamente, giravano con morbide giravolte, ora qua ora là a
galla ondeggiandosi. Un numero innumerabile di battelli, burchietti,
schifetti, liuti, gondolette in varie guise ed elegantemente ornate
facevano che alla instabilità del mare nuova instabilità di barche
e di vele si aggiungesse, e mille variati aspetti ad ogni momento
agli occhi dei risguardanti si raffigurassero. S'apriva la regata, o
vogliam dire gara di navi in numero di sei: partite dalle tre porte
di mare, due da ciascuna con velocità meravigliosa contesero della
vittoria; vinse la bandiera del ponte di Spinola: gli applausi e le
grida festose montavano al cielo. Fecesi notte intanto: diventò più
bello lo spettacolo. Lumiere di cristallo, che fra le colonne del
galleggiante tempio stavano sospese, subitamente accese, gittavano
sulle incostanti acque, che con lampi di vario colore li rimandavano,
raggi di abbondante e rallegratrice luce. Le cupolette dei giardini,
anch'esse illuminate, consentivano con la sopravanzante luce del
tempio. Fuochi in aria a forma di stelle, secondochè insegna Vitruvio,
si volteggiavano intorno al tempio ed ai quattro giardini chinesi. Le
agili barchette, posti fuori anch'esse i lumi loro, facevano apparire
giri, guizzi e baleni, che con la piena luce del tempio e delle
isolette da un canto si confondevano, dall'altro a chi d'in sulle
spiaggie di lontano mirava, l'oscurità della notte con l'immagine
d'innumerevoli e vaganti stelle temperavano. Alla dolce vista
consuonava un soave ascoltare: imperciocchè dalle chinesi isolette
uscivano suoni e concerti giocondissimi, mandati fuori dai petti e
dagli appositi strumenti di musici vestiti alla chinese. Al tempo
stesso le mura della città risplendevano per un'immensa luminaria; i
palazzi e le case quasi tutte avevano anch'esse i lumi a festa: tutto
l'anfiteatro della superba Genova con maraviglioso splendore rispondeva
ai marini splendori. La torre della lanterna, accesasi ad un tratto da
innumerevoli lumi con bel disegno ordinati, trasse a sè gli occhi dei
festeggianti spettatori, che con intense grida applaudirono. Accrebbe
la maraviglia, che ben tosto prese a buttar fuoco dalla cima a guisa
di vulcano, come se veramente vulcano fosse. Nè i fuochi artificiati
furono la parte meno notabile del magnifico rallegramento; poichè due
bellissimi templi di fuoco sorsero improvvisamente dalle due punte
dei moli, ed altri fuochi, con mirabile artifizio apprestati, ora si
tuffavano nelle acque, ed ora, più vivi che prima fossero, ne uscivano.
Così fra il molle ondeggiare, il vago risplendere, il giocondo suonare
nasceva una scena, a cui niuna può essere pari in dolcezza ed in
grandezza.

Stette in queste allegrezze Napoleone sino alle dieci della sera:
poi, sceso dal marino tempio, se ne giva al magnifico palazzo di
Girolamo Durazzo, dove trovò nuovi e squisiti onori. Diessi un festino
sontuoso a Napoleone nel palazzo pubblico. Intervennero Giuseppina
di Francia, Elisa di Piombino. Fu allegra la festa. Cantossi l'inno
ambrosiano nella cattedrale di San Lorenzo. Quivi giurarono nelle
parole dell'imperatore l'arcivescovo ed i vescovi. Poi dispensò le
insegne della Legion d'onore, più eccelse a Durazzo, Cambiaso, Celesia,
Corvetto, Serra, Cattaneo, arcivescovo Spina: presentò con dorate gioie
Cambiaso, Durazzo, Corvetto, Gentile. Comandò che si restituisse la
statua di Andrea Do- ria, atterrata dai giacobini. Contento indi se ne
tornava Napoleone al suo imperiale Parigi.

Rimase al governo di Genova il principe Lebrun, il quale,
temperatamente, secondo la natura sua procedendo, diede norma allo
Stato nuovo riducendolo alla forma di Francia. Ordinò con prediletto
pensiero l'università degli studii; vedeva i professori volontieri:
tra il bene operare ed il buon ricompensare cresceva lo zelo in chi
ammaestrava ed in chi era ammaestrato; l'università genovese diventò
fiorente. Passarono alcuni mesi tra l'introduzione degli ordini
franzesi e l'unione alla Francia: finalmente, orando Regnault di
San Giovanni di Angely, decretava, il dì 4 ottobre, il senato che i
territorii genovesi fossero uniti al territorio di Francia. A questo
modo finì uno dei più antichi Stati, nonchè d'Italia, d'Europa.
Gl'inorpellamenti non mancarono nella bocca di Regnault; fra tutti fu
lepidissimo il suo trovato, che la Francia distruggeva l'indipendenza
di Genova (questo appunto significavano le sue parole), perchè
l'Inghilterra non la rispettava. Fu lieto il principio: per la potenza
di Napoleone, tornarono in patria i Genovesi schiavi della crudele
Africa.

La repubblica di Lucca anch'essa periva. Die' primieramente Piombino
ad Elisa sorella; poi Lucca e Piombino a Bacciocchi ed Elisa. Fossevi
in Lucca un senato: soldati non vi si scrivessero, ma tutti fossero
soldati; tassa e tributo nessuno vi si pagasse, se non per legge. Le
cariche, salve le giudiziali, non si potessero conferire se non ai
Lucchesi; principi di Lucca fossero Bacciocchi ed Elisa. Andavano al
possesso il dì 8 luglio.

Avviava Napoleone Parma all'unione con Francia: le leggi franzesi
vi promulgava; già le ambizioni parmigiane si voltavano alla fonte
parigina; Moreau di Saint-Mery secondava l'imperadore piuttosto per
piacere a lui che a sè, perchè amava il comandare assai più che a
modesto ed attempato uomo si convenisse; ma dolce era il cielo, dolci
gli abitatori, dolce il comandare.

Mentre con trionfale pompa scorreva per l'Italia Napoleone e
gl'italiani Stati rovinavano, tornava nella sua romana sede il
pontefice Pio. Parlò agli adunati cardinali, il 16 di giugno, delle
cose fatte e delle cose sperate, molto benefizio per la religione e per
la romana Chiesa dal suo parigino viaggio promettendosi. Ordinate le
faccende religiose in Francia, aveva desiderato di compor quelle che
più vicino a lui avevano romoreggiato, e gettato anzi lunghe radici in
tutte le parti d'Italia: quest'erano le differenze tra la santa Sede
e Ricci, vescovo di Pistoia. Dopo varie lettere e dichiarazioni, che
Roma non soddisfecero, nuove protestazioni di obbedienza e di fede fece
il vescovo, e le mandò al pontefice, quando, passando per Firenze,
se ne andava in Francia all'incoronazione. Ma papa Pio, tornando da
Parigi, e ripassando per la capitale della Toscana, fece sapere a
Ricci che l'abbraccierebbe volontieri, se prima volesse sottoscrivere
una dichiarazione. Ricci, stretto dai tempi, e temendo che il rifiuto
gli fosse apposto a pertinacia, sottoscrisse. L'aspettavano il papa
e la regina nel palazzo Pitti; il pontefice gittossegli al collo,
l'abbracciava, e fattoselo sedere accanto a lui, molto l'accarezzava,
della presa risoluzione con esimie espressioni commendandolo. Passate
le prime caldezze, consegnava il vescovo nelle mani del pontefice
un altro scritto; approvò Pio la seconda dichiarazione, affermando,
non dubitare della purezza cattolica di Ricci; e ne farebbe fede al
concistoro. Ciò detto, con nuove dimostrazioni accarezzava il vescovo.
Scrissegli Pio da Roma lunghe ed affettuose lettere; il lodò nelle
allocuzioni del concistoro. A questo modo Pio, vittorioso di Napoleone,
trionfava anche di Ricci, due avversarii potenti, uno per la forza
dell'armi, l'altro per la forza delle opinioni.

Mentre il pontefice s'ingegnava di confermare la potenza novellamente
riacquistata, nuove ferite si apprestavano alla sanguinosa Europa.
L'assunzione di Napoleone al trono imperiale di Francia aveva sollevato
gli animi di tutti i potentati, e dato loro giusta cagione di temere
nuovi sovvertimenti e nuova servitù. Solo la Prussia se ne contentava
e se ne rallegrava, perchè credeva che più stabile fondamento
all'ingrandimento de' suoi Stati fosse la nuova potenza di Napoleone,
che l'antica dell'Inghilterra e della Russia. Due cose massimamente
si scorgevano nell'esaltazione ed incoronazione di Napoleone: era la
prima che per loro si veniva a torre ogni speranza del veder restituiti
i Borboni; l'altra, che, avendo acquistato l'autorità imperiale, aveva
ridotto in mano sua maggiore forza a far muovere i popoli della Francia
dovunque egli volesse; nè che fosse per usarne moderatamente da nissuno
si confidava, manco dall'Austria. Oltre a questo, si pensava che non
fosse prudente di dar tempo a Napoleone, onde mettesse radici sul
suo imperio. Si portava opinione che i repubblicani di Francia e gli
amatori del nome borbonico a quell'imperiale capriccio di Napoleone
si fossero risentiti e divenuti meno inclinati ad aiutarlo, quando si
venisse ad una nuova mossa d'armi. Si conosceva ch'egli non era uomo
da non usare efficacemente la sua fresca potenza per solidarla, e
che se gli desse tempo sarebbe stato, non che difficile, impossibile
a frenarlo. Nè egli pel desiderio ardentissimo del comandare, troppo
s'infingeva. Il suo procedere già era da imperatore d'Occidente. Questo
voler significare, argomentavano, quegli onori di Carlo Magno offerti
il giorno dell'incoronazione tanto a Parigi quanto a Milano, questo
la corona ferrea dei Lombardi, questo i motti che metteva fuori già
fin d'allora, che l'Italia fosse vassalla del suo impero. Aggiungevasi
nella mente dell'imperator Alessandro alcune ragioni particolari di
tenersi mal soddisfatto dell'imperator Napoleone, delle quali la
principale consisteva nell'uccisione del duca d'Enghien, giovane
di sua età, e da lui specialmente conosciuto ed amato. Da questi
motivi era sorto nelle principali potenze d'Europa il desiderio di
una nuova collegazione a difensione comune ed a conservazione degli
antichi Stati contro la Francia, il cui fine era o di accordarsi
con Napoleone, se qualche termine di buona composizione a benefizio
dell'indipendenza dei consueti sovrani con lui si potesse trovare,
o di venire con esso lui al cimento dell'armi, quando ancora era
tenero su quel suo sovrano seggio. Nè l'Inghilterra mancava a sè
stessa, non solo per l'antica nimicizia, ma ancora pel pericolo che
pareva sovrastare al cuore stesso del suo Stato; conciossiachè avesse
Napoleone raccolto un esercito molto grosso sulle coste della Picardia
e della Normandia, minacciando d'invasione i tre regni. Nè era privo
di un sufficiente navilio, avendo allestito, oltre alle grosse navi
da guerra, una quantità considerabile di legni minori. Secondavano le
intenzioni dell'imperatore con celere grandissimo i popoli di Francia
con profferte di danari e di navi. Guglielmo Pitt, che a questo tempo
reggeva i consigli del re Giorgio, aveva questo moto in poco concetto,
conoscendo che pel prepotente navilio d'Inghilterra difficile era
l'approdare, più difficile l'acquistare piè stabile nell'isola prima
che le sorti fossero definite. Ciò non ostante l'apparato di Francia
travagliava la nazione ed interrompeva i traffici. Per la qual cosa
intendeva con tutto l'animo a suscitar nuovi nemici e ad ordinare una
nuova lega contro Francia. A questo fine, e già fin dal mese di aprile,
era stato concluso a Pietroburgo tra la Russia e l'Inghilterra un
accordo, col quale si erano obbligate ad usare i mezzi più pronti ed
efficaci per formare una lega generale, e che, per conseguire questo
intento, adunassero cinquecentomila soldati, non compresi i sussidii
d'Inghilterra; il fine fosse d'indurre o costringere il governo di
Francia alla pace e ad una condizione in Europa, in cui nissuno Stato
preponderasse sopra gli altri: evacuasse Napoleone l'Annoverese e la
settentrionale Germania, rendesse independenti l'Olanda e la Svizzera,
restituisse il re di Sardegna con qualche accrescimento il territorio,
desse sicurezza al re di Napoli, sgombrasse da tutta Italia, compresa
l'isola d'Elba. Già la Svezia e l'Austria erano entrate in questa lega.
Prima però che all'aperta rottura si venisse, sì per vedere se ancora
qualche modo di questa composizione vi fosse, e sì per aver comodità
di fare i necessarii apprestamenti e di dar tempo agli aiuti di Russia
di arrivare, si deliberarono gli alleati a mandare a Parigi il barone
di Novosiltzoff, perchè le proposte loro vi recasse, e di un accordo
conforme l'imperator Napoleone sollecitasse.

Già era l'inviato dei confederati giunto a Berlino, quando
sopraggiunsero le novelle dell'unione di Genova all'imperio di Francia,
accidente contrario alle dichiarazioni di Napoleone ed agl'interessi
dell'Austria in Italia. Arrestossi a tale improvvisa notizia
Novosiltzoff, donde, fatto sapere all'imperadore Alessandro il fatto,
era tostamente richiamato a Pietroburgo. Per questo medesimo accidente,
e pel caso di Lucca, che poco dopo si seppe, l'Austria più strettamente
si congiungeva con la Russia.

Incominciarono i discorsi politici soliti a precedere le guerre, e dai
discorsi si vedeva che poca speranza restava di pace: nè Napoleone
era uomo capace di disfare per minaccie ciò che aveva fatto, nè
l'Austria si voleva tirar indietro dalle sue risoluzioni, sapendo
che Alessandro già aveva avviato verso i suoi confini due eserciti,
ciascuno di cinquanta mila soldati. Insorgeva adunque più vivamente
ed a Napoleone rappresentava il suo desiderio d'amicizia con Francia,
di pace con tutta Europa; ma essersi violato per gli ultimi accidenti
d'Italia il trattato di Luneville, promettitore d'indipendenza per
l'italiana repubblica; essersi con nuove rovine di stati independenti
spaventata l'Italia: non dovere una sola potenza arrogarsi il diritto
di regolare da sè gli interessi delle nazioni con esclusione delle
altre; richiedere la Francia dell'osservazion dei patti; richiederla
della dignità e dei diritti dell'altre potenze; offerire a norma delle
condizioni stipulate alla concordia, offerirla ora che con le armi
ancora non si contendeva, offerirla quando già si combattesse, e sempre
essere parata a convenire, salvi i trattati conclusi e l'independenza
delle nazioni.

Seguitarono queste protestazioni altri discorsi da ambe le parti.
Intanto le armi si apprestavano. L'imperadore di Francia, che con
la celerità aveva sempre vinto, vedendo la nuova lega ordita contro
di lui e la guerra inevitabile, stando coll'animo riposato dal canto
della Prussia, ordinò incontanente all'esercito raccolto sulle coste
di Francia verso l'Inghilterra marciasse in Alemagna, soccorresse alla
Baviera minacciata dalla Austria, ributtasse la forza colla forza. Poco
dopo, descritti nuovi soldati, si avviava egli medesimo verso i campi
d'Alemagna, sapendo quanto mole della guerra fossero il suo nome ed il
suo valore. Dal canto suo l'Austria commetteva all'arciduca Ferdinando,
giovane animosissimo, l'esercito germanico, dandogli per moderatore
della sua gioventù il generale Mack.

Dalla parte d'Italia, le condizioni delle cose militari erano le
seguenti. L'Austria, considerato quanta efficacia fosse per avere
il nome dell'arciduca Carlo, lo aveva preposto all'esercito italico,
schierato sulle rive dell'Adige. I forti passi del Tirolo erano dati in
guardia all'arciduca Giovanni con una grossa schiera, congiungitrice
de' due eserciti germanico ed italico. Si era fatto disegno che a
queste forze si accostasse, sbarcando in qualche parte d'Italia, un
grosso aiuto di Russi e d'Inglesi, che allora erano raccolti nelle
isole di Corfù e di Malta. Ma Napoleone, contuttochè principal cura
avesse delle cose di Germania, non pretermise quelle d'Italia; e poichè
seppe che l'arciduca Carlo era stato posto al governo della guerra,
avendo più fede nella fortuna di Massena che in quella di Jourdan,
surrogava il capitano italico al capitano germanico. Mandava intanto
nuovi soldati, per modo che tra Franzesi ed Italiani Massena aveva
un esercito fiorito ed uguale pel numero all'alemanno, che sommava
circa ad ottanta mila soldati. Stavasi Massena alloggiato sulla destra
dell'Adige, pronto a tentare il passo, come prima fosse dato il segno
delle battaglie. L'imperadore di Francia, che in tutte le sue guerre,
poco curandosi delle estremità, ed amando le guerre grosse piuttosto
che le sparse, badava sempre al cuore, perchè sapeva che a chi n'andava
il cuore ne andavano anche le estremità, fece, disegno d'ingrossare
sull'Adige con mandarvi quella parte che sotto Gouvion di Saint-Cyr
alloggiava nel regno di Napoli. Il che, perchè con sicurtà potesse
eseguire, aveva con sue pratiche e per mezzo del marchese del Gallo,
ambasciatore del re a Parigi, indotto Ferdinando a sottoscrivere
un trattato di neutralità. S'obbligava per questo trattato il re
a starsene neutrale durante la presente guerra, a respingere colla
forza ogni tentativo fatto contro la sua neutralità, a non permettere
che alcuna truppa nemica sbarcasse, o ne' suoi regni entrasse, a non
ricettare ne' suoi porti alcuna nave nemica, a non commettere i suoi
soldati o le piazze ad alcun ufficiale o russo od austriaco o di altra
potenza nemica, ed in questo capitolo s'intendessero anche compresi i
fuorusciti franzesi: il che particolarmente accennava al conte Ruggiero
di Damas. Dalla parte sua Napoleone, fidandosi, come si spiegava,
nelle obbligazioni e promesse del re, consentiva a sgomberare il regno
dei suoi soldati, ed a consegnare i luoghi occupati agli ufficiali
napolitani. Si obbligava, oltre a ciò, e prometteva di conoscere ed
avere per neutrale nella guerra presente il regno delle Due Sicilie.
Saint-Cyr marciava verso l'Adige.

I discorsi, secondo il solito, procedevano le armi; moderati dal canto
dell'arciduca, più vivi da quello del capitano napoleonico. Quando poi
già le armi suonavano in Alemagna, e già la Baviera era invasa dagli
Austriaci, il principe Eugenio, vicerè d'Italia, pubblicava con parole
molto aspre contro l'Austria la guerra.

Già si combatteva aspramente in Germania, quando ancora si riposava
dalle armi in Italia, imperciocchè, a petizione dell'arciduca, che
desiderava, prima di combattere, sapere a qual via s'incamminassero
gli accidenti della guerra germanica, si era fatto tra lui e Massena
un accordo, perchè le offese non si potessero cominciare prima del 18
ottobre.

Ma già vincevano le napoleoniche stelle. L'imperatore dei Franzesi
arrivando in Alemagna innanzi che gli Austriaci avessero avuto tempo
di riuscir oltre i passi della Selva Nera e di fortificarli, ed innanzi
che i Russi giungessero in aiuto loro, si avventava, in ciò mostrando,
oltre la celerità, una grandezza di militari concetti straordinaria,
contro il nemico tante volte vinto. Trovossi Mack in pochi giorni cinto
da ogni parte, segregato da Vienna, ridotto dentro le mura di Ulma.
Aveva vinto Napoleone una prima battaglia a Vertinga, una seconda a
Gunsborgo. Per tal guisa non solamente furono serrati gli Austriaci, ma
fu ancora Mack separato dall'arciduca Giovanni.

Spuntava appena il giorno 18 ottobre, termine della tregua, che sapendo
già Massena essersi venuto alle mani in Germania con prospero successo
de' suoi compagni, si deliberava a cominciar la guerra. Alle quattro
della mattina, dando due assalti uno sotto l'altro sopra Verona, si
accingeva a sforzare sul mezzo il passo.

Imponeva a questo fine a Duhesme ed a Gardanne che assaltassero
il ponte: era murato e rotto; ma Lacombe Saint-Michel, generale
d'artiglieria, con un petardo, esponendosi a grave pericolo, perchè
i Tedeschi fulminavano dalla riva sinistra, rompeva il muro, ed il
generale Chasseloup con pari valore riattava il ponte. Passarono i
soldati annali alla leggiera; ma fortemente pressati dai Tedeschi,
correvano grandissimo pericolo. Non tardò Gardanne a venire in soccorso
loro col grosso delle sue compagnie, e rinfrescò la battaglia. Si
combattè con molto valore e con vario successo da ambe le parti.
L'arciduca, che aveva il suo campo a San Martino, mandò tostamente
nuovi soldati in soccorso de' suoi, donde nasceva un più vivo e più
generale combattere; Duhesme ancor egli era passato con tutta la
sua schiera. Per quel giorno non fu compiuta pei Franzesi, ancorchè
avessero il vantaggio, la vittoria, e fu loro forza tornarsene ad
alloggiare sulla destra del fiume, conservando però in poter loro la
signoria del ponte.

Massena, o che il ritenesse il forte sito dell'arciduca, o che volesse
aspettare che Saint-Cyr l'avesse raggiunto, o che desiderasse, prima
di cacciarsi avanti, udire i fatti ulteriori della Germania, se ne
stette più giorni senza fare alcun movimento d'importanza. In questo
gli sopraggiungono desideratissime novelle: avere tutto l'esercito di
Mack, salvo una piccola squadra fuggita sotto la condotta dell'arciduca
Ferdinando, deposto le armi, ed essersi dato, il dì 17 ottobre, vinto
e cattivo in mano di Napoleone: il che importava l'annichilazione
quasi intiera delle forze austriache in Alemagna. Cambiavansi le sorti
dell'italica guerra. Fu l'arciduca obbligato a debilitarsi con mandar
parte de' suoi in aiuto dell'imperio pericolante. Sgomentaronsene i
Tedeschi, presero animo i Franzesi. Massena, udito il maraviglioso
caso d'Ulma, si risolveva, senza frappor tempo in mezzo, ad assaltare
l'avversario nel suo forte alloggiamento di Caldiero. Il giorno 29
ordinava il passo del fiume. Duhesme e Gardanne, passato il ponte, si
erano allargati a destra; Seras, passato più sopra, seguitava ad altro
disegno le falde dei monti, ed occupando le alture di val Pontena,
che signoreggiavano il costello di San Felice, che con le artiglierie
aveva molto noiato i Franzesi al passo del ponte, aveva obbligato i
Tedeschi a sgombrare da Veronetta. Ciò diede abilità ad altre squadre
di passare, massimamente ai cavalli, per modo che gli Austriaci,
cacciati da tutti i siti, e perfino da San Michele, si ritirarono con
grave perdita, sempre però animosamente combattendo, oltre San Martino.
I Franzesi pernottarono in Vago. Si risolveva l'arciduca a far fronte
a Caldiero. Si ordinava la mattina del giorno 30 alla battaglia,
distendendosi in siti diligentemente fortificati, e tenendo in serbo
la cavalleria ed un grosso corpo di ventiquattro battaglioni di
granatieri.

Il generale di Francia aveva partito i suoi in tre schiere, con un
grosso ordinato alle riscosse, e che stava accampato in poca distanza
alle spalle. Massena, avendo inteso che le fazioni ordinate di Seras e
di Verdier avevano avuto il fine ch'egli si era proposto, si deliberava
ad attaccare la battaglia. Non immoreremo a descrivere questo fatto,
che fu egregiamente combattuto da ambe le parti, ma il fine fu che i
Tedeschi, lasciando la vittoria in potestà di chi poteva più di loro,
cedettero, del campo e si ritirarono alle batterie che l'arciduca aveva
piantato sopra le eminenze che torreggiano oltre Caldiero.

Mentre si combatteva a Caldiero, aveva l'arciduca mandato a sua destra
verso i monti una colonna di cinque mila soldati sotto la condotta
d'Hillinger col proposito di circuire e di combattere i Franzesi alle
spalle. Ne nacque un grave accidente a danno delle forze austriache,
poichè Seras, che assai forte marciava su quelle medesime terre, oltre
procedendo ed intromettendosi tra Hillinger e l'arciduca, tagliò fuori
la squadra segregata, e la ridusse alla necessità di arrendersi.

Il fatto di Caldiero, la calamità d'Hillinger, gli ordini
dell'imperatore suo fratello non lasciarono più luogo ad elezione
nell'arciduca. Per la qual cosa la notte del primo novembre principiò
a tirarsi indietro per la strada di Vicenza; poi, continuando con arte
a cedere del campo, conduceva le sue genti, più intere che le perdite
prime e la presta ritirata potessero permettere, sulle sponde della
Sava, ponendosi alle stanze di Lubiana. Il seguitarono velocemente i
Franzesi: raccolsero alcuni corpi, ma piccoli, di sbrancati e grossi
magazzini di viveri, principalmente in Udine e Palmanova. A questo modo
i fertili paesi della terra ferma veneta, conquistati di nuovo dalle
armi vincitrici di Napoleone, furono tolti all'Austria. Solo la città
di Venezia restava in poter dei Tedeschi.

Era in questo mezzo tempo arrivato da Napoli Saint-Cyr. Massena,
trovandosi in necessità di seguitare a seconda l'arciduca nelle
montagne della Carniola e della Carintia, non voleva, per timore di
qualche sbarco di Russi e d'Inglesi, lasciare senza difesa i lidi
veneziani. Ordinava pertanto a Saint-Cyr che si allargasse e custodisse
le spiaggie dalle bocche dell'Adige sino a Venezia. Questa provvidenza
ebbe felice successo, non contro i tentativi di mare, che nessuno
fu fatto, ma contro uno di terra. Occupato Ney il Tirolo tedesco, e
insignoritosi del Tirolo italiano; costretto Augereau il generale
Yellacich alla dedizione; un grosso di sette mila fanti e mille
cavalli, sotto la condotta del principe di Roano, forzato a calarsi
per le sponde della Brenta verso i piani bagnati da questo fiume,
incontratosi a Castelfranco con Saint-Cyr, dopo un furioso conflitto,
fu obbligato ad arrendersi. Dopo questo fatto Massena, sicuro alle
spalle, vieppiù inoltrava la sua fronte, e fermava gli alloggiamenti
in Lubiana, ritiratosene l'arciduca per internarsi nella Croazia, e di
là nel principato di Sirmio in Ischiavonia, tra la Drava e la Sava. I
soldati di Massena e di Ney si congiunsero a Villaco ed a Clagenfurt:
i due eserciti di Francia, germanico ed italico, si congregarono alle
future imprese sul Danubio.

Aveva Ferdinando di Napoli, siccome si è narrato, stipulato la
neutralità; ma quando appunto la guerra si definiva in favor di Francia
in Germania e nell'Italia superiore, essendo già corso oltre il suo
mezzo il mese di novembre, arrivavano nel golfo di Napoli due navi
inglesi con molte onerarie, sopra le quali erano quindici mila soldati,
dodici mila Russi venuti da Corfù, tre mila Inglesi venuti da Malta.
Sbarcarono soldati, armi e munizioni tra Napoli e Portici, annunziando,
venire non solo per proteggere il regno, ma ancora per correre verso
Italia superiore in aiuto degli Austriaci. Non fece il re, non bene
considerando quel che potesse portare seco il tempo futuro, alcuna
dimostrazione nè protesta per impedire lo sbarco di queste genti
nemiche a Francia. L'ambasciator di Napoleone, viste le insegne del
nemico, molto acerbamente si risentiva, e, calati gl'imperiali stemmi
dalla fronte del suo palazzo, richiedeva il re dei passaporti, e
l'infedele terra (come diceva) abbandonando, se ne partiva alla volta
di Roma. Per mitigarlo, mandava fuori il governo un editto, per cui
prometteva ai Franzesi, Italiani, Liguri e ad altre nazioni unite
all'impero franzese, che sarebbero le proprietà loro ed i traffici
sicuri e salvi. Fu la dimostrazione indarno, perchè non solo nissuna
protestazione conteneva contro il moto dei confederati, ma nemmeno
mostrava alcun dispiacere di quello che la Francia avea sentito sì
acremente. Gli effetti che ne seguitarono, e che per molti anni tolsero
al re la possessione del regno di qua dal Faro, saranno fra breve
raccontati.

Vinceva Napoleone nei campi d'Austerlitz una campale battaglia. Vinti
i Russi ausiliarii, fu l'Austria costretta a consentire ai patti.
Si fermarono a Presborgo in Ungheria il dì 26 dicembre. Consentiva
l'imperatore di Alemagna e d'Austria a tutte le unioni dei territorii
italiani; riconosceva le risoluzioni prese dall'imperator di Francia
rispetto a Lucca ed a Piombino; riconosceva l'imperator di Francia
come re d'Italia con ciò però che, seguita la pace generale, le due
corone, a seconda delle promesse fatte dall'imperator Napoleone,
l'una dall'altra fossero separate, nè mai in perpetuo potessero esser
riunite; dava in potestà dell'imperatore medesimo di Francia tutti
gli Stati dell'antica repubblica di Venezia a lui ceduti pel trattato
di Campo Formio, e consentiva che fossero uniti al regno d'Italia;
riconosceva ancora nei duchi di Vittemberga e di Baviera la qualità
ed il titolo di re; cedeva a quest'ultimo, oltre parecchi paesi, i
principati di Brissio e di Bolzano, le sette signorie di Voralberga e
parecchi altri paesi sulle rive del lago di Costanza; dal canto suo
l'imperator Napoleone guarentiva l'interezza dell'impero d'Austria,
consentiva che Salisborgo, già dato all'arciduca Ferdinando di Toscana,
al medesimo imperio si unisse, e si obbligava ad intromettersi appresso
al re di Baviera, perchè cedesse Visborgo all'arciduca in compenso di
Salisborgo.



    Anno di CRISTO MDCCCVI. Indizione IX.

    PIO VII papa 7.
    FRANCESCO II imperadore 15.


Si mandava ad effetto il trattato del 26 dicembre. Venezia e gli
antichi suoi territorii, dopo otto anni di dominio austriaco, tornavano
sotto quello di Francia. Venne Law Lauriston a prenderne possesso da
parte del re d'Italia. Il dì 19 gennaio arrivarono in Venezia i soldati
di Napoleone; li comandava Miollis. Arrivava il dì 5 di febbraio in
Venezia Eugenio vicerè, testè sposato ad Amelia di Baviera. Fecersi i
soliti rallegramenti.

A questo tempo rinfrescavansi le napolitane ruine. Napoleone vittorioso
pensava a soddisfare all'ambizione ed alla vendetta. Già sull'uscire
del precedente anno aveva pubblicato, parlando a' suoi soldati, queste
parole:

«Da dieci anni io feci quanto per me si potè per salvare il re di
Napoli e da dieci anni ei fece quanto per lui si potè per perdersi.
Dopo le battaglie di Dego, di Mondovì e di Lodi, deboli forze gli
restavano per resistermi: fidaimi nelle sue parole, anteposi la
generosità alla forza. Risolvè poscia Marengo la seconda lega: aveva
il re, di tutti il primo, incominciato la guerra: da' suoi alleati
abbandonato a Luneville, solo e senza difesa rimase. Implorò perdono,
gliel concedei. Voi, a Napoli già vicini, avevate in poter vostro il
regno: i tradimenti io sospettava, le vendette poteva fare: novella
generosità amaimi; che sgombraste il regno, ordinarvi; la terza volta
restommi della salute sua la casa dei reali di Napoli obbligata.
Perdonerò io la quarta ad una corte senza fede, senza onore, senza
ragione? No; ceda dal regno la napolitana famiglia: non può ella
col riposo d'Europa, coll'onore della mia corona sussistervi. Ite,
marciate, precipitate nell'onde quei deboli battaglioni dei tiranni del
mare, seppure a loro basterà l'animo di aspettarvi; ite, e mostrate
al mondo come da noi si puniscano gli spergiuri; ite e fate ch'egli
presto s'accorga che nostra è l'Italia, che il più bel paese della
terra ha ormai gettato via dal collo il giogo d'uomini perfidissimi:
ite, e mostrate che è la santità dei trattati vendicata, che sono le
ombre de' miei soldati, sopravvissuti ai naufragii, ai deserti, a cento
battaglie ed alle uccisioni nei porti della Sicilia, mentre tornavano
dall'Egitto, placate e paghe. Guideravvi mio fratello; partecipe della
mia potenza, partecipe dei miei consigli, in lui fidatevi, come io in
lui mi fido.»

A queste aspre parole del terribile vincitore di Austerlitz tenevan
dietro consenzienti fatti. Giuseppe fratello con esercito poderoso
marciava contro il regno; gli aveva dato Napoleone, conoscendolo
irresoluto e solito a lasciarsi portare dalla volontà degli altri,
per compagno e sostenitore de' suoi consigli Massena. Pruovossi
Ferdinando di stornare la tempesta con mandar Ruffo cardinale appresso
allo sdegnato signore per iscusare il fatto dello sbarco. Mostrossi
Napoleone inesorabile; preparava reali seggi ai fratelli; voleva
formare in ogni luogo Stati dipendenti intieramente da lui.

Quando pervennero a Ferdinando le novelle della volontà di Napoleone,
si ristrinsero insieme i suoi consiglieri per deliberare su quanto
la necessità del caso richiedesse. Ma la partenza dei Russi per
Corfù, con corriero espresso comandata dall'imperatore Alessandro,
rendè necessaria anche quella degl'Inglesi, che passarono in Sicilia,
lasciato Ferdinando nell'ultima ruina.

Lasciava Ferdinando la real sede il dì 23 gennaio, in Sicilia
ritirandosi. Così finiva allora il suo regno.

Partito Ferdinando sul vascello reale l'Archimede, fu lasciata una
reggenza composta dal generale Naselli, dal principe di Canosa, da don
Michelagnolo Cianciulli e da don Domenico Sofia. Era la città paventosa
delle cose avvenire; si temeva del popolo, dei Franzesi, dei Calabresi.
Accrebbe il terrore un grave tentativo dei carcerati al serraglio, che,
se avesse avuto effetto, Napoli sarebbe andata a rovina. Marciavano
intanto i Franzesi alla conquista. Giuseppe, fulminato vendetta
contro la corte, e promesso dolcezza al popolo se si sottomettesse,
velocemente viaggiava contro la capitale. Correva a destra a riva il
mare Regnier, nessuno ostacolo in nessun luogo incontrando, salvo
in Gaeta, piazza forte di sito, e custodita dal principe di Assia,
capitano valoroso. Intimata la resa, rispose negando. Assaltarono i
Franzesi il bastione di Sant'Andrea, e se lo presero, non senza sangue.
L'altra parte si difendeva egregiamente; ma essendo i napoleoniani
grossi, lasciate genti all'oppugnazione, passarono. Massena a sinistra
senza impedimento alcuno camminando, poichè Capua già si era data,
arrivava al 14 di febbraio sotto le mura dell'appetita città. Si
arresero castel Nuovo, castel dell'Uovo, castel del Carmine e castel
Sant'Elmo. Entrava Duhesme il primo con una scelta fronte di soldati
leggieri sì fanti che cavalli.

Faceva il dì seguente il suo ingresso Giuseppe a cavallo con molto
seguito di generali e con tutte le ordinanze in bellissima mostra.
Smontò al palazzo reale; trovollo squallido, e spogliato dai fuggitivi.
Addì 16, visitava la chiesa di san Gennaro; udita la messa di Ruffo
cardinale, presentava il santo con doni, primizie del futuro regno.
Tornatosi nella regia sede, dava le udienze ai magistrati, vedeva con
viso benigno la reggenza di Naselli; ma tosto la cassava, per crearne
un'altra: fecene capo Saliceti. Per far denaro, si mantennero le tasse
vecchie, se ne imposero delle nuove; per far sicurezza, si tolsero le
armi ai cittadini, e si venne sul suono di far morire soldatescamente
chi le portasse.

Intanto le Calabrie non quietavano. Si era il duca di Calabria
accostato, con un corpo di soldati uscito con lui da Napoli, al conte
Ruggiero, che con una squadra riempiuta di soldati siciliani, tedeschi,
napolitani, e con qualche misto di raunaticci, parte buona, parte
pessima, aveva fatto un alloggiamento fortificato sulle rive del Silo
nel principato di Salerno. Arso il ponte, schierava i suoi sulla riva.
Parve il caso d'importanza; vi fu mandato Regnier. Andò il Franzese
all'assalto, mandò i Napolitani in rotta, perseguitò i vinti fino a
Lagonero. Rannodaronsi i regi a Campotenese; venne loro sopra Regnier,
il dì 9 marzo e con un forte assalto li risolvette facilmente in fuga.
A stento salvossi il conte con mille soldati tra fanti e cavalli. Il
Franzese vittorioso s'inoltrava nella Calabria Ulteriore: occupava
Reggio, muniva di presidio la fortezza di Scilla, posta alla punta
d'Italia, dove è più vicina alla Sicilia, il che dava freno e sospetto
agl'Inglesi che in Messina si erano raccolti a difesa dell'isola.

Da un'altra parte Duhesme, oltratosi nella Basilicata, cacciava i
nemici da Bernarda e da Torre, ed entrava in Taranto, città opportuna,
pel suo sito, ad accennare ugualmente a Corfù ed alla Sicilia. Alcuni
rimasugli dei vinti si erano rannodati a Castrovillari, ma, combattuti
da Regnier, furono dispersi.

Sbaragliati i regolari, sorgevano, parte per la mutazione del governo,
parte per gl'istigamenti di Sicilia, parte per amore della vendetta,
parte per cupidigia del sacco, in diverse parti della Calabria, bande
collettizie di soldati spicciolati e di uomini facinorosi che mettevano
la provincia a terrore, a ruba ed a sangue. In questi orribili
ravvolgimenti perdeva chi aveva, acquistava chi non aveva; i buoni
solamente perivano, gli scellerati trionfavano. La ferocia di uomini
quasi ancora selvaggi era stimolata da uomini feroci per consetuedini;
il male si appiccava e dominava in ogni parte. Spargevansi voci che
la regina fomentasse questi moti: i Franzesi ed i partigiani loro
accrescevano questi romori, e davano loro più credito collo intento di
seminare viemmaggiormente rancori ed odii contro quel governo che da
loro era stato cacciato. Da questi accidenti nasceva che non solamente
il desiderio di Ferdinando diminuisse continuamente nelle popolazioni
quiete e negli uomini facoltosi, ma ancora con minor avversione si
vedesse il dominio dei Franzesi.

Questi rumori non ignorava Napoleone. Però, giudicando che fosse
arrivato il momento propizio per mandar fuori quello che si aveva
giù da lungo tempo concetto, nominava Giuseppe re delle Due Sicilie.
Annestava la solita condizione, che le due corone di Francia e di
Napoli non potessero mai essere posate sul medesimo capo.

La creazione del re Giuseppe fu sentita con qualche allegrezza in
Napoli: furonvi luminarie, spari, feste, teatri, canzoni, sonetti, al
solito; e di questi sonetti chi ne aveva più fatto per Carolina, più
ne faceva per Giuseppe. Vi furono anche non insolite, ma indecenti
cose: rivoltamenti di animi. Ruffo cardinale esultando ricevè Giuseppe
sotto il baldachino; il marchese del Gallo, ambasciatore di Ferdinando
a Parigi, il divenne di Giuseppe, poi incontanente suo ministro degli
affari esteri; il duca di Santa Teodora, ambasciatore di Ferdinando
in Ispagna, accettò carica in corte di Giuseppe. La Turchia stessa,
cui Napoleone avea voluto torre quel granaio dell'Egitto, adulava: il
giorno dell'assunzione di Giuseppe, il suo inviato in Napoli cacciò
fuori sulla fronte del suo palazzo, in mezzo a certa lumineria, questo
motto in lingua turca e franzese: _L'Oriente riconosce l'eroe del
secolo._

Le vittorie e di Lagonero e di Campotenese, avendo rotto le forze regie
in Calabria, tutto il paese era venuto, salvo alcuni moti incomposti, a
divozione dei Franzesi. Solo Gaeta e Civitella di Tronto resistevano.
Poca speranza restava al re di far frutto, sebbene sapesse che non
mancavano mali semi contro il nuovo signore, se gl'Inglesi, sbarcando
sulle terre calabresi, non avessero somministrato qualche forte
soccorso di battaglioni ordinati. Ma grandemente ripugnava ad una
spedizione in terraferma Stuart, che, essendo succeduto a Craig nel
governo de' soldati britannici in Sicilia, continuava a starsene nelle
stanze di Messina. Gli pareva che il principal fine degl'Inglesi fosse
la conservazion della Sicilia. Ma era a questo tempo giunto in Sicilia
un uomo a cui piacevano le imprese avventurose; questi era Sidney
Smith, che, arrestata la fortuna prospera di Buonaparte in Oriente, si
era persuaso di poterla arrestare in Occidente. Stimolato dalla propria
natura, dalle preghiere di Ferdinando e dalle instigazioni della
regina, continuamente esortava Stuart alla fazione. Ma la prudenza
dell'uno superava l'audacia dell'altro, e niuna cosa si risolveva. Si
deliberava Sidney a fare qualche sforzo da sè colle forze marittime
per far vedere a Stuart che la materia era meglio disposta ch'ei non
credeva. Per la qual cosa partiva dalla Sicilia con qualche nave grossa
da guerra e molte annorarie, con intento d'andar a visitare le coste di
Napoli.

Vi scoperse inclinazioni favorevoli, ma non sufficienti, perchè
potessero fare da sè. Tornossene in Sicilia: con intente esortazioni
tanto fece, che il prudente Stuart si lasciò muovere a tentare qualche
fatto su quella tribulata e tumultuosa terra. Sbarcava sul principiar
di luglio con circa cinque mila soldati sulle coste del golfo di
Sant'Eufemia: chiamava, ma con poco frutto, le popolazioni a levarsi.
Stava sospeso, stante la freddezza dei popoli, se dovesse tornare
alle navi, o persistere sulla terraferma, quando gli pervennero le
novelle, che Regnier con un corpo di circa quattro mila soldati aveva
posto il campo a Maida, terra distante dieci miglia dal mare. Udì al
tempo stesso che una nuova schiera di tre mila soldati accorreva in
soccorso di Regnier, perciocchè la nuova della venuta degl'Inglesi già
si era sparsa nelle vicinanze. Si deliberava pertanto ad assaltare il
nemico innanzi che il soccorso si fosse congiunto con esso lui. Forte
e quasi inespugnabile era il sito di Regnier, e se si avesse aspettato
l'inimico, la sua vittoria sarebbe stata certa. Ma o nel proprio valore
troppo confidando, o di quello del nemico troppo debolmente giudicando,
consentì al commettere all'arbitrio della fortuna un'impresa certa,
e scese, varcato il fatale fiume Amato, che gli stava alla fronte,
nella pericolosa pianura. Arrivavano in questo mentre i tre mila; il
quale accidente accrebbe nei Franzesi l'opinione del vincere. Si fece
dalla sua parte avanti l'esercito d'Inghilterra: le due emole nazioni
venivano al cimento.

Incominciò la battaglia, correva il dì 6 luglio, dall'affronto
incomposto e sparso dei soldati armati alla leggiera; poi si venne
alla zuffa delle genti grosse. Trassero poche volte con gli archibusi:
mossi dall'emulazione, ed impazienti del combattere da lontano, si
avventarono colle baionette in canna gli uni contro gli altri. La
mischia era spaventosa; vivi erano i Franzesi, stabili gl'Inglesi.
Dopo varii accidenti, la battaglia si facea pericolosa per questi,
quando un nuovo reggimento partito da Messina, e testè sbarcato a
Santa Eufemia, arrivò sul campo, e posto dietro un po' di riparo che
il terreno offeriva, fece fronte ai cavalli franzesi che incalzavano, e
coi tiri spesseggiando, non solamente arrestò l'impeto loro, ma ancora
li costrinse alla ritirata più rotti che interi. Dopo questo fatto, i
soldati di Regnier si posero in fuga sconposti e sbaragliati, cercando
ciascuno salute senza ordine e norma, come meglio avvisava. Fu compiuta
la vittoria degli Inglesi. Dei dispersi, che furono un grosso numero,
molti venuti in mano dei Calabresi, furono crudelmente ammazzati:
alcuni, condotti cattivi al cospetto di Stuart, salvi restarono.

La vittoria di Maida die' nuova cagione ai Calabresi di levarsi a
romore: ad uso barbaro ammazzavano quanti venivano loro alle mani. I
Franzesi, dal canto loro irritati contro uomini che a nissun uso civile
attendevano, saccheggiavano ed ardevano tutte le terre che loro si
scoprivano contrarie, uccidendo i terrazzani, e nissun rispetto avendo
o al sesso o all'età. La Calabria tutta fumava d'incendii e di sangue.
Furono i Franzesi obbligati a sgombrarne.

Il trionfo di Maida poco durava. Si ingrossavano di nuovo i
napoleoniani; gli assassinii erano cattivo fondamento; il capitano
d'Inghilterra si ritirava in Sicilia, solo lasciando un presidio nel
forte di Scilla, di cui s'era impadronito.

Si accalorava l'oppugnazione di Gaeta. Già per molti mesi l'aveva
virilmente difesa il principe d'Assia: vi morirono molti buoni
Franzesi, fra gli altri il generale Vallelongue. Il principe ferito
gravemente fu portato in Sicilia. Si diede la fortezza, che già,
aperta una breccia molto grande nel muro della cittadella, i terribili
granatieri di Francia erano pronti all'assalto, il dì 18 luglio.

La resa di Gaeta avvantaggiò le condizioni dei Franzesi nel regno. La
forte schiera che l'aveva oppugnata andava a ricuperare le Calabrie;
e stantechè il nome di Massena era di molto terrore, gli fu dato il
governo della spedizione. Perchè un uomo terribile avesse podestà
terribili, decretava Giuseppe, fossero e s'intendessero le Calabrie in
istato di guerra; i magistrati civili e militari obbedissero a Massena;
creasse commissioni militari pei giudizii, ed i giudizii si eseguissero
senza appello in ventiquattro ore; i soldati vivessero a carico dei
paesi sollevati; i beni degli assassini e dei capi dei ribelli si
ponessero al fisco; i beni degli assenti ancor essi si confiscassero;
chi, non essendo ascritto alla guardia provinciale, fosse trovato con
armi, si desse a morte; i conventi che non dichiarassero i religiosi
complici si sopprimessero. Andava Massena alla spedizione: seguitarono
dalle due parti crudeltà inusitate. Durò lunga pezza la carnificina;
pure i napoleoniani per la disciplina e per gli ordinati disegni
prevalevano. Il terrore e le uccisioni frenarono, non quietarono la
provincia; semi orrendi vi covavano, che ora in questo luogo ora in
quell'altro ripullulavano, e facevano segno che più potevano l'odio
e la rabbia che i supplizii; nè mai potè Giuseppe venir a capo dei
sollevamenti calabresi, ancorchè osasse rimedii asprissimi, e qualche
volta anche dolcezza coi perdoni. Vedremo poi che se la dolcezza
mescolata con la crudeltà non fece frutto per pacificare le Calabrie,
una crudeltà pura il fece: feroce razza di Calabria che non potè
costringersi alla quiete, se non con lo sterminio.

Risoluzioni infedeli, atti soperchievoli, guerra barbara insanguinavano
una costa dell'Adriatico; simili accidenti insanguinavano l'altra.
Erano le Bocche di Cattaro il più sicuro ricovero che si avessero
i naviganti nell'Adriatico, state cedute alla Francia pel trattato
di Campo Formio, con tempo di sei settimane ad esserne messo in
possessione. Spirato il termine, e non comparsi gli ufficiali
di Francia a prenderne possessione, un agente di Russia, col
quale concordavano, siccome Greci, gran parte dei Bocchesi e dei
Montenegrini, selvaggi abitatori delle vicine montagne, sollevò
il paese, predicando che, poichè il tempo buono della consegna
era trascorso, i Franzesi erano scaduti, ed il paese padrone di sè
stesso. I comandanti austriaci di Castel Nuovo e degli altri forti la
intendevano ad un altro modo, e volevano serbare la fede. Arrivava in
questo mentre il marchese Ghisilieri, commissario d'Austria, per fare
la consegnazione; ma non che il suo mandato eseguisse perchè già i
Franzesi si approssimavano, consentì a sgombrar il paese, lasciandolo
in potere de' natii, dei Montenegrini e dei Russi. Sgombrarono di
malavoglia i comandanti austriaci, e sdegnosamente anche protestarono
della violazione dei patti. Nè meno sdegnosamente udì Vienna il
fatto: fu il marchese condannato a carcere perpetuo in una fortezza di
Transilvania.

La fede violata a Cattaro die' occasione a fede violata in Ragusi.
I napoleoniani, non potendo più occupare Cattaro, s'impadronirono di
Ragusi, nessuna ragione contro quella pacifica ed innocente repubblica
allegando, ma solamente il pretesto di preservarla dalle scorrerie
dei Montenegrini. Certo i soldati napoleonici difesero Ragusi, dicesi
la città, perciocchè i Montenegrini saccheggiavano il territorio; ma
Napoleone spense la repubblica, congiungendola all'italico regno:
singolar modo di preservazione. Sorse una guerra varia. Lauriston,
tenuto in assedio in Ragusi dai Montenegrini, era soccorso da Molitor,
che li vinceva, risospingendoli ai loro nidi delle montagne. Pure
stavano ancora minacciosi ed infestavano con ispesse correrie il
paese, quando Marmont, con astuzia militare avendogli indotti a venire
al piano, con istrage grandissima prostrava tutte le forze loro.
Guerra orribile fu questa: i Montenegrini ammazzavano i prigioni e
gittavano le lor teste tronche fra le file dei compagni inorriditi; i
napoleoniani perseguitavano sui monti loro i Montenegrini, e quando non
li potevano avere, per essersi nascosti nelle tane, ne li cacciavano
con fuoco e fumo, come se fiere fossero, per uccidersi.

Cantava queste vittorie con gloriose promulgazioni, secondo la natura
sua, Dandolo, che era per Napoleone provveditore generale della
Dalmazia.

Il re Federico sentiva i frutti della tenuta condotta. Vinta l'Austria
per avere la Prussia imprudentemente serbata la neutralità, insorgeva
Napoleone a vincere la Prussia dopo l'Austria. Usò le insidie, le
insolenze e le usurpazioni per farla vile agli occhi del mondo; poi
assalti più aperti per farla risentire, non dubitando di vincerla.
Invase l'Annover, ed operò ch'ella lo accettasse in proprietà,
dono funesto per la riputazione, funesto per gli effetti. Offese la
Germania nel caso del duca d'Enghien: non risentissi la Prussia. Portò
pazientemente il re l'incoronazione italica, l'unione di Genova, il
fatto di Lucca, le non attenute promesse al re di Sardegna: portò
pazientemente la carcerazione dei legati d'Inghilterra sui territorii
germanici, le taglie poste sulle città anseatiche, le violazioni
delle terre d'Anspach e di Bareit. Di mezza Germania si faceva signore
Napoleone per la confederazione del Reno. Non ci allungheremo in altri
fatti; ma nuovi soldati napoleonici marciavano in Germania. Conobbe il
re con quale amico avesse a fare, e corse alle armi; corse altresì al
ferro Napoleone.

Vinse la fortuna di Napoleone. Fu la Prussia prostrata a Jena, fu
prostrata a Maddeborgo ed a Perenslavia. Berlino, capitale del regno,
le fortezze tutte, dominando uno scompiglio ed un terrore estremo,
vennero in poter del vincitore. Questo fine ebbero le armi animosamente
mosse dal re Federico per istimolo proprio e per quelli di Alessandro
di Russia. Arrivava Alessandro imperatore con le sue schiere in aiuto
del vinto amico; ma Napoleone soprastava di ardire, di forza e d'arte.
Fu asprissima la battaglia di Eylau e di esito incerto. Incrudelita la
stagione, ritiraronsi i Franzesi di qua della Vistola, i Russi di là
della Pregel.



    Anno di CRISTO MDCCCVII. Indizione X.

    PIO VII papa 8.
    FRANCESCO I imp. d'Austria 2.


Intiepiditosi il tempo, si avventavano gli uni contro gli altri
Franzesi e Russi: varii furono i combattimenti; sanguinosi tutti.
Infine sui campi di Friedland conflissero con ordinanza piena i due
nemici (14 giugno). Quivi cadde la fortuna russa. Napoleone vincitore
ai confini di Alessandro sovrastava; addomandava Alessandro i patti.
Narrano che i due imperatori nelle conferenze più segrete fra di loro
si spartissero il mondo. Quale di questo sia la verità, convennero
sulle sponde del Niemen in trattato, il dì 7 di luglio; riconobbe
Alessandro il nome e l'autorità regia in Giuseppe Napoleone come re di
Napoli, ed in Luigi Napoleone come re d'Olanda; consentì che un regno
di Vestfalia si creasse, ed in Girolamo Napoleone, fratello minore di
Napoleone, s'investisse; accordò che un ducato di Varsavia si creasse,
e duca ne fosse Federico Augusto di Sassonia; riconobbe la renana
confederazione; stipulò per articolo segreto che le Bocche di Cattaro
si sgombrassero dai Russi e si consegnassero in potestà di Napoleone.
Convenne infine che sette isole ioniche cedessero in possessione del
medesimo.

I fatti di guerra di Napoleone superavano per grandezza quanti siano
stati mandati alla memoria dei posteri, e già lui temeva ed adorava
il mondo. Non v'era più luogo all'adulazione; perchè le lodi, per
ismisurate che fossero, parevano minori del vero; nè i poeti più
celebri, quantunque con ogni nervo vi si sforzassero, potevano
arrivare a tanta altezza. Un mezzo solo gli restava per accrescere la
gloria acquistata; questa era di usarne moderatamente; ma amò meglio
dilettarsi, provando quant'oltre potesse trascorrere la viltà degli
uomini. Lasciando le adulazioni franzesi e d'altre nazioni, solo si
dica delle italiane. A questo fine erano stati chiamati a Parigi i
deputati del regno italico. Gamboni, patriarca di Venezia, favellava,
introdotto all'udienza nell'imperial sede di Saint-Cloud, con
servilissimo discorso al signore.

Rispose, gradire i sentimenti de' suoi popoli d'Italia; con piacere
averli veduti combattere valorosamente sulla scena del mondo; sperare
che sì fausto principio avrebbe consenziente fine. In questo luogo
venne in sul dire che le donne italiane dovevano allontanare da
sè stesse gli oziosi giovani, nè permettere che più languissero
negl'interni recessi, e comparissero al cospetto loro se non quando
portassero cicatrici onorevoli. Soggiunse poscia, vedrebbe Venezia
volentieri; sapere quanto i Veneziani l'amassero.

Accarezzato dai monaci del Cenisio, festeggiato dai Torinesi testè
liberati da Menou, al quale era succeduto, come governator generale,
il buon principe Camillo Borghese, arrivava Napoleone trionfante nella
reale ed accetta Milano. Le feste furono molte: i soldati armeggiavano,
i poeti cantavano, i magistrati lusingavano. Trattò Melzi molto
rimessamente, perchè non ne aveva più bisogno; perchè poi fosse meglio
rintanato, il creò duca di Lodi.

Ed ecco che Napoleone arrivava a Venezia (29 novembre). Luminaria
per tutta la città; di notte il canal grande chiaro come di giorno;
la piazza di San Marco più chiara del canale; regata, balli, teatri,
plausi di voci e di mani. Si mostrò lieto e contento in volto. Tornato
a Milano il dì 6 dicembre udiva i collegi, ed i collegi parlava. Accusò
gli antenati, parlò di patria degenere dalla antica, affermò molto
aver fatto per gli Italiani, molto più voler fare; ammonilli, stessero
congiunti con Francia; ricordò loro che da quella ferrea corona si
ripromettessero l'independenza.

Corsa trionfalmente la Lombardia, nuovi italici pensieri gli
venivano in mente e li mandava ad esecuzione. Aveva, a cagione che
il principe reggente di Portogallo si era ritirato dal voler fare
contro gl'Inglesi, per un trattato sottoscritto a Fontanablò ai 27 di
ottobre con un ministro di Spagna, tolto il Portogallo a' suoi antichi
signori, che vi erano ancora presenti, e dato in potestà di nuovi.
Per esso si accordarono la Francia e la Spagna, che la provincia del
Portogallo tra Mino e Duero colla città di Porto cedessero in proprietà
e sovranità del re d'Etruria, ed egli assumesse il nome di re della
Lusitania settentrionale; che l'Algarve si desse al principe della
Pace con titolo di principe dell'Algarve; che il Beira ed il Tramonti e
l'Estremadura di Portogallo si serbassero sequestrate sino alla pace;
che il re d'Etruria cedesse il suo reame all'imperator dei Franzesi;
che un esercito napoleonico entrasse in Ispagna, e congiunto con lo
spagnuolo occupasse il Portogallo. I Braganzesi, avuto notizia del
fatto, e non aspettata la tempesta, s'imbarcarono per Brasile sopra
navi proprie ed inglesi.

Il dì 22 novembre i ministri di Francia e di Spagna, nelle stanze di
Maria Luisa regina reggente di Toscana entrando, le intimarono essere
finito e ceduto a Napoleone il suo toscano regno, e che in compenso
le erano assegnati altri Stati da goderseli col suo figliuolo Carlo
Lodovico. Significava la regina ai suoi popoli essere la Toscana ceduta
all'imperator Napoleone; ad altri regni andarsene: ricorderebbesi
con diletto del toscano amore, rammaricherebbesi della separazione,
consolerebbesi pensando, passare una nazione sì docile sotto il
fausto dominio di un monarca dotato di tutte le più eroiche virtù,
fra le quali, per usare le stesse parole che usò la regina, dette così
com'erano alla segreteriesca, fra le quali campeggiava singolarmente la
premura la più costante di promuovere ed assicurare la prosperità dei
popoli ad esso soggetti. Non seguitò la regina in Toscana le vestigie
leopoldiane, anzi era andata riducendo lo Stato a governo più stretto.
Arrivò il generale Reille, il dì 11 dicembre, a pigliar possesso
in nome dell'imperatore e re; i magistrati giurarono obbedienza;
cassaronsi gli stemmi di Toscana; rizzaronsi i napoleonici: arrivava
Menou egiziaco a scuotere le toscane genti; Napoleone trionfatore,
tornando a Parigi, tirava dietro le sue carrozze quelle di Maria Luisa
e di Carlo Lodovico.

La natura rotta e precipitosa di Menon mitigava in Toscana una
giunta creata dal nuovo sovrano e composta di uomini giusti e buoni,
fra i quali era Degerando, solito sempre a sperare, a supporre e
a voler bene. Avevano il difficile carico di ridurre la Toscana a
forma franzese. Erano in questa bisogna alcune cose inflessibili,
alcune pieghevoli. Si noveravano fra le prime gli ordini giudiziali,
amministrativi e soldateschi: furono introdotti nella nuova provincia
senza modificazione; degli ultimi non potevano i Toscani darsi pace,
parendo loro cosa enorme che dovessero andare alle guerre dell'estrema
Europa per gl'interessi di Francia, o piuttosto del suo signore. Si
adoperava la giunta, non senza frutto, a fare che la nuova signoria
meno grave riuscisse. Primieramente la tassa fondiaria, opinando in ciò
molto moderatamente Degerando, fu ordinata per modo che non gettasse
più del quinto nè meno del sesto della rendita. Non trascurava la
giunta le commerciali faccende. Pel cielo propizio, volle tirarvi
la coltivazione del cotone, e per migliorar le lane, diede favore al
far venire pecore di vello fino nelle parti montuose della provincia
sienese. Delle berrette di Prato, dei cappelli di paglia, degli
alabastri e dei coralli di Firenze e di Livorno, parti essenziali
del toscano commercio, con iscuole apposite, con carezze e con premii
particolar cura aveva. Domandò a Napoleone che permettesse le tratte
delle sete per Livorno, provvedimento utilissimo, anzi indispensabile,
per tener in fiore le manifature dei drappi e la coltivazione dei
gelsi nella nuova provincia. Richiese anche dal signore che concedesse
una camera di commercio a Livorno a guisa di quella di Marsiglia,
acciocchè i Livornesi potessero regolare da sè, e non per mezzo dei
Marsigliesi, le proprie faccende commerciali: non solo buona, ma
sincera e disinteressata supplica fu questa della giunta, perchè dava
contro Marsiglia. Per queste deliberazioni si mirava a conservar salvo
il commercio del Levante con Livorno.

I comodi di terra pressavano nei consigli della giunta come quei di
mare. Supplicava all'imperadore aprisse una strada da Arezzo a Rimini,
brevissima fra tutte dal Mediterraneo all'Adriatico, ristorasse quella
da Firenze a Roma per l'antica via Appia, dirizzasse quella da Firenze
a Bologna pei Bisenzio e pel Reno, terminasse finalmente quella che
insistendo sull'antica via Laontana, da Siena porta a Cortona, Arezzo
e Perugia. Nè gli studii si ommettevano; consiglio degno del dotto
e dabbene Degerando. Ebbero quei di Pisa e di Firenze con tutti i
sussidii loro ogni debito favore: ebberlo le accademie del Cimento,
della Crusca, del Disegno, dei Georgofili: feconda terra coltivava
Degerando, e la feconda terra ancora a lui degnamente rispondeva.

Quando poi arrivava gennaio, cessava la giunta l'ufficio, dato da
Napoleone il governo di Toscana ad Elisa principessa, granduchessa
nominandola. La qual Elisa, o per natura o per vezzo, simile piuttosto
al fratello che a donna, si dilettava di soldati, gli studii e la
toscana fama assai freddamente risguardando. A questo modo finì la
toscana patria.

Similmente ed al tempo stesso Napoleone univa all'imperio il ducato
di Parma e Piacenza dipartimento del Taro chiamandolo. Restavano ai
Borboni di Parma le speranze del Mino e del Duero.

La servitù si abbelliva. In questo Napoleone fu singolarissimo. Opere
magnifiche, opere utilissime sorgevano. Milano massimamente di tutto
splendore splendeva. La mole dell'ambrosiano tempio cresceva; il foro
Buonaparte ogni giorno più grandeggiava; Eugenio vicerè fomentava i
parti più belli dei pittori, degli scultori, degli architettori; la
corte promuovitrice di servitù era anche pruomovitrice di bellezza.
Nuovi canali si cavavano nuovi ponti s'innalzano nuove strade si
aprivano. Nè le rocche nè i dirupi ostavano; l'umana arte stimolata
da Napoleone, ogni più difficile impedimento vinceva. Sorsero sotto il
suo dominio e per sua volontà due opere piuttosto da anteporsi che da
pareggiarsi alle più belle ed utili degli antichi Romani; queste sono
le due strade del Sempione e del Cenisio, le quali, aprendo un facile
adito tra le più inospite ed alte roccie dall'Italia alla Francia,
attesteranno perpetuamente all'età future, in un colla perizia ed
attività dei Franzesi, la potenza di chi sul principiare del secolo
decimonono le umane sorti volgeva.



    Anno di CRISTO MDCCCVIII. Indizione XI.

    PIO VII papa 9.
    FRANCESCO I imp. d'Austria 3.


Era arrivato il tempo in cui i disegni napoleonici dovevano colorirsi a
danno del re di Spagna. Il mettere discordia nella famiglia reale, il
far sorgere sospetto nel padre del figliuolo, dispetto nel figliuolo
verso il padre, il seminar sospetti sopra la coniugal fede della
regina, e al tempo stesso accarezzare chi era soggetto dei sospetti,
e farne strumento alle macchinazioni, il contaminar la fama di una
principessa morta, accusar un principe di Spagna d'insidie, perchè più
amava la Francia che la Spagna, fare che a Madrid e ad Aranjuez ogni
cosa fosse sospetto di fraudi e di tradimenti, e la quiete e confidente
vita del tutto sbandirne, queste arti produssero il mal frutto. La
subitezza spagnuola le ruppe, col far re Ferdinando e dimetter Carlo;
ma Napoleone ravviava le fila: l'accidente stesso d'Aranjuez, che
parea dovere scompigliar ogni trama, gli diede occasione a mandarla ad
effetto. Trasse con le lusinghe il re Carlo in suo potere a Baiona;
restava che vi tirasse il re Ferdinando, ed il vi tirò. Rallegrossi
allora dell'opera compita. Costrinse il padre ed il figliuolo a
rinunziare al regno in suo favore, mandò il padre poco libero a
Marsiglia, il figliuolo prigione a Valenzay: nominò, ribollendo in lui
la cupidità dell'esaltazione de' suoi, Giuseppe re di Spagna, Murat re
di Napoli. Sorsero sdegnosamente gli Spagnuoli contro le ordite cose, e
combatterono i napoleoniani.

Napoleone, obbligato a mandar soldati contro Spagna, ed a scemargli
in Germania, temeva di qualche moto sinistro. Una nuova dimostrazione
dell'amicizia di Russia gli parve necessaria. Fatte le sue
osservazioni, otteneva che Alessandro il venisse a trovare ad Erfurt.
Quivi furono splendide le accoglienze pubbliche, intimi i parlari
segreti: stava il mondo in aspettazione e timore nel vedere i due
monarchi, allora potenti sopra tutti favellare insieme delle supreme
sorti. Chi detestava l'imperio dispotico di Napoleone, disperava
della libertà d'Europa, perchè, essendo le due volontà preponderanti
ridotte in una sola, non restava più nè appello, nè ricorso, nè
speranza. Chi temeva dell'insorgere progressivo della potente Russia,
abborriva ch'ella fosse chiamata ad aver parte in modo tanto attivo
nelle faccende di Europa; conciossiachè le abitudini più facilmente
si contraggono che si dismettano, ed anche l'ambizione del dominare
non si rallenta mai, anzi cresce sempre ed è insanabile. Rotto era e
capriccioso il procedere di Napoleone, e però da non durare, mentre
l'andare considerato e metodico della Russia dava più fondata cagione
di temere. Le scene di Erfurt erano per Napoleone più di apparato che
di arte, per Alessandro più di arte che di apparato.

Giovacchino Murat, nuovo re di Napoli, annunziava la sua assunzione
ai popoli del regno: avergli Napoleone Augusto dato il regno delle
Due Sicilie, due primi e supremi pensieri nodrire, esser grato al
donatore, utile ai sudditi; volere conservar la costituzione data
dall'antecessore; venire con Carolina, sua sposa augusta, venire col
principe Achille, suo reale figliuolo, venire co' figliuoli ancor
bambini, commettergli alla fede, all'amore loro; sperare farebbero
i magistrati il debito loro; in esso consistere la contentezza dei
popoli, in esso la sua benevolenza.

Principiarono le napolitane adulazioni. Il consiglio di Stato, il
clero, la nobiltà mandarono deputati a far riverenza ed omaggio a
Giovacchino re. Il trovarono a Gaeta; in nome suo giurarono. Napoli
intanto esultava. Inscrizioni, trofei, statue, archi trionfali,
ogni cosa in pompa. Una statua equestre, rizzata sulla piazza del
mercatello, rappresentava Napoleone augusto. Un'altra sulla piazza del
palazzo raffigurava, sotto forma di Giunone, Carolina regina. Perignon,
maresciallo di Francia, lodato guerriero, appresentava, il dì 6 di
settembre, a Giovacchino le chiavi di Napoli. Generali, ciamberlani,
scudieri, ufficiali, soldati, chi con le spade al fianco, chi con
le chiavi al tergo, ed un popolo numeroso e moltiforme, chi portando
rami d'alloro e chi di ulivo. Firrao cardinale col baldacchino e con
gli arredi sacri riceveva Giovacchino sulla porta della chiesa dello
Spirito Santo: condottolo sul trono, a tal uopo molto ornatamente
alzato, cantava la messa e l'inno ambrosiano. Terminata la ceremonia,
per la contrada di Toledo piena di popolo, a cui piaceva la gioventù
e la bellezza del nuovo re, andava Giovacchino a prender sede nel
real palazzo. Pochi giorni dopo, incontrata dal re a San Leucio,
faceva lieto e magnifico ingresso Carolina regina; risplendeva, come
lo sposo, di tutta gioventù e bellezza. Guardavano la venustà delle
forme, miravano il portamento dolce ed altero, cercavano le fattezze di
Napoleone fratello: gridavanla felice, virtuosa, augusta.

Furono felici i primi tempi di Murat. Occupavano tuttavia gl'Inglesi
l'isola di Capri, la quale, come posta alla bocche del golfo, è freno
e chiave di Napoli dalla parte del mare. La presenza loro era stimolo
a coloro che non si contentavano del nuovo stato, cagione di timore
agli aderenti, e ad ogni modo impediva il libero adito con manifesto
pregiudizio dei traffici commerciali. Pareva anche vergognoso che un
Napoleonide avesse continuamente quel fuscello negli occhi, da parte
massimamente degl'Inglesi, tanto disprezzati. Aveva Giuseppe, per la
sua indolenza, pazientemente tollerato quella vergogna: ma Giovacchino,
soldato vivo, se ne risentiva, e gli pareva necessario cominciar
il dominio con qualche fatto d'importanza: andava contro Capri. Vi
stava a presidio Hudson Lowe con due reggimenti accogliticci d'ogni
nazione, e che si chiamavano col nome di reale Corso e di reale Malta.
Erano nell'isola parecchi siti sicuri, le eminenze di Anacarpi, ed il
forte maggiore con quelli di San Michele e di San Costanzo. Partiti
da Napoli e da Salerno, e governati dal generale Lamarque, andavano
Franzesi e Napolitani alla fazione dell'isola. Posto piede a terra per
mezzo di scale uncinate, non senza grave difficoltà perchè gl'Inglesi
si difendevano risolutamente, s'impadronirono d'Anacarpi: vi fecero
prigioni circa ottocento solduti del reale Malta. Conquistato Anacarpi,
ch'è la parte superiore dell'isola, restava che si ricuperasse
l'inferiore. Dava ostacolo la difficoltà della discesa per una strada
molto angusta a guisa di scala scavata nel macigno, dentro la quale
traevano a palla ed a scaglia i forti, specialmente quello di San
Michele. Fu forza alzar batterie sulle sommità per battere i forti:
l'espugnazione andava in lungo. Arrivavano agli assediati soccorsi di
uomini e di munizioni dalla Sicilia. Ma la fortuna si mostrava prospera
al Napoleonide, perciocchè i venti di terra allontanavano gl'Inglesi
dal lido. Il re che stava sopravvedendo dalla marina di Massa,
fermatosi sopra la punta di Campanella, e veduto il tempo propizio,
spingeva in aiuto di Lamarque nuovi squadroni. Gl'Inglesi, rotti già
in gran parte e smantellati i forti, si diedero, il dì 2 di ottobre, al
vincitore. L'acquisto di Capri piacque ai Napolitani, e ne presero buon
augurio del nuovo governo.

Erano nel regno baroni, repubblicani e popolo. I baroni al nuovo
re volontieri si accostavano, perchè si contentavano degli onori,
nè stavano senza speranza di avere od a ricuperare gli antichi
privilegi, perciocchè, malgrado delle dimostrazioni contrarie, i
Napoleonidi tendevano a questo fine, od almeno ad acquistarne di
nuovi. I repubblicani erano avversi a Giovacchino, non perchè fosse
re, che di ciò facilmente si accomodavano, ma perchè si ricordavano
che gli aveva cacciati e fatti legare come malfattori in Toscana. Dava
anche loro fastidio la vanità incredibile di lui, siccome quegli che
indirizzava ogni suo studio e diligenza a vezzeggiare chi portasse un
nome feudatario. Per questo temevano che ad un bel bisogno li desse
in preda a chi desiderava il sangue loro; ma egli con qualche vezzo
se li conciliava, perchè avevano gli animi domi dalle disgrazie. Il
popolo non meglio di Giovacchino si curava che di Giuseppe; si sarebbe
facilmente contentato del nuovo dominio, purchè restasse tutelato dalle
violenze dei magnati ed avesse facile e quieto vivere. Ma Giovacchino,
tutto intento a vezzeggiare i baroni, trascurava il popolo, il quale,
vessato dai baroni e dai soldati, si alienava da lui. Era anche segno
che volesse governare con assoluto imperio il tacere della costituzione
che si credeva aver voluto dare Giuseppe in sul partire. Inoltre ordinò
che si scrivessero i soldati alla foggia di Francia. Ciò fe' sorgere
mali umori negli antichi possessori dei privilegi; nè meglio se ne
contentava il popolo, perchè gli pareva troppo insolito. Siccome poi
le province non quietavano, e che massimamente le Calabrie, secondo
il solito, imperversavano, scrisse le legioni provinciali, una per
provincia, ordine già statuito da Giuseppe, ma da lui rimessamente
eseguito. Così tutto in armi; chi non le portava come soldato pagato,
era obbligato a portarle come guardia non pagata.

Narra un storico famoso che Giovacchino, come soldato, comportava ogni
cosa ai soldati, e ne nasceva una licenza militare insopportabile.
«Seguitava anche questo effetto, che il solo puntello che avesse alla
sua potenza, erano i soldati e che nessuna radice aveva nell'opinione
dei popoli. Le insolenze soldatesche moltiplicavano. Non solo ogni
volontà, ma ogni capriccio d'un capo di reggimento, anzi di un
ufficiale qualunque, dovevano essere obbediti come se fossero leggi:
chi anzi si lamentava era mal concio, e per poco dichiarato nemico
del re. Molto e con ragione si erano doluti i popoli delle insolenze
dei baroni, ma quelle dei capitani di Giovacchino erano maggiori.
Rappresentavano i popoli i loro gravami, domandando proiezione
ed ammenda. Ma le soldatesche erano più forti delle querele, e si
notava come gran caso che chi si era lagnato non fosse mandato per
la peggiore. Nascevano nelle provincie un tacere sdegnoso ed una
sopportazione desiderosa di vendetta. Nè in miglior condizione si
trovava Napoli capitale. La guardia reale stessa, che attendeva
alla persona di Giovacchino, oltre ogni termine trascorreva. Nessuna
quiete, nessun ordine poteva essere pei cittadini, nè nel silenzio
della notte nè nelle feste del giorno, perchè, solo che un ufficiale
della guardia il volesse, tosto turbava con importuni romori, minaccie
ed insolenze i sonni ed i piaceri altrui. Il re comportava loro ogni
cosa. I mandatarii dei magistrati civili, che si attentavano di
frenare sì biasimevoli eccessi, erano dai soldati svillaneggiati,
scherniti e battuti; e sonsene veduti di quelli che arrestati, per
aver fatto il debito loro, dalle sfrenate soldatesche, e condotti
sotto le finestre del palazzo reale, furono, veggente il re, fatti
segno d'ogni vituperio.» Niega un annalista che la scontentezza dei
popoli dalla licenza, che Giovacchino accordava ai soldati, sorgesse.»
Una severa disciplina, dice egli, una cieca subordinazione trionfava
nei reggimenti napolitani, ai quali non devesi addebitare un qualche
eccesso commesso nella guerra, che civile ardeva nella Calabrie.» Ma
noi, che in quel torno di tempo avemmo a visitare quelle contrade
possiamo asserire che, tollerante o no il re, la licenza della
soldatesca era molta, e molto se ne risentivano le popolazioni.

Comunque di ciò sia, i mali umori prodotti da tutte queste cause davano
speranza alla corte di Palermo che le sue sorti potessero risorgere
nel regno di qua del Faro. Infuriava tuttavia la guerra civile nelle
Calabrie, nè gli Abbruzzi quietavano. Erano in questi moti varie parti
e varii fini: alcuni di coloro che combattevano contro Giovacchino e
che avevan combattuto contro Giuseppe, erano aderenti al re Ferdinando;
altri amatori della repubblica. Tacciasi di coloro, e non erano pochi,
che solo per amor del sacco e del sangue avevano l'armi in mano.

Non sarà forse narrazione incresciosa a chi leggerà questi annali, se
si racconterà come e per qual cagione la setta dei Carbonari a questi
tempi nascesse; quella setta che negli anni più a noi vicini tanti
scompigli cagionò nell'italiana penisola ed a sì gran repentaglio pose
la sicurezza degl'individui, l'ordine e la quiete degli stati. Alcuni
dei repubblicani più vivi, ritiratisi, durante le procedure usate
contro di loro, nelle montagne più aspre e nei più reconditi recessi
dell'Abruzzo e delle Calabrie, avevano portato con sè un odio estremo
contro il re, non solamente perchè loro avverso era stato, ma ancora
perchè era re. Nè di minore odio erano infiammati contro i Franzesi,
sì perchè avevano disfatto la repubblica propria e quelle d'altrui,
sì perchè gli avevano anche perseguitati. Non potevano costoro
pazientemente tollerare che in cospetto loro, nonchè di Ferdinando,
di Giovacchino, nonchè di Giovacchino, di regno si favellasse. Così
tra aspri dirupi e nascoste valli vivendosi, gli odii loro contro
i re tutti e contro i Franzesi fra immense solitudini continuamente
infiammavano. Ma sulle prime isolati ed alla spartita vivendo, nessun
comune vincolo li congiungeva, intenti piuttosto ad arrabbiarsi
che a vendicarsi. Gl'Inglesi, che custodivano la Sicilia, ebbero
notizia di quest'umore, ed avvisarono che fosse buono per turbare
il regno contro i Franzesi. Pertanto gli animarono a collegarsi fra
di loro, affinchè con menti unite concorressero ai medesimi disegni
e creassero nuovi seguaci. Per accenderli promettevano gl'Inglesi
qualche forma di costituzione. Sorse allora la setta dei carbonari,
la quale acquistò questo nome, perchè ebbe la sua origine e si mostrò
la prima volta nelle montagne dell'Abruzzo e delle Calabrie dove si
fa una grande quantità di carbone. Molti ancora fra questi settarii
sapevano ed esercevano veramente l'arte del carbonaio. Siccome poi non
ignoravano che, a voler tirar gli uomini, niuna cosa è più efficace
che le apparenze astruse e mirabili, così statuirono pratiche e riti
maravigliosi. Principal capo ed instigatore era un uomo dotato di
sorprendente facoltà persuasiva che per nome si chiamava Capobianco.
Avevano i carbonari quest'ordine comune coi liberi Muratori, che gli
ammessi passavano successivamente per varii gradi fino al quarto; che
celavano i riti loro con grande segretezza; che a certi statuiti segni
si conoscevano fra di loro; ma in altri particolari assai diversi
erano i carbonari dai liberi muratori: conciossiachè siccome il fine
che questi ostentano è di beneficare altrui, di banchettare sè stessi,
così il fine di quelli era tutto politico. Avevano i carbonari nel
loro procedere assai maggiore severità dei liberi muratori, poichè non
mai facevano banchetti, nè mai fra canti e suoni si rallegravano. Il
loro principal rito in ciò consisteva: che facessero vendetta, come
dicevano, dell'agnello stato ucciso dal lupo, e per agnello intendevano
Gesù Cristo, e pel lupo i re che con niun altro nome chiamavano se non
con quello di tiranni. Sè stessi poi nel gergo loro chiamavano col
vocabolo di pecore, ed il lupo credevano essere il monarca sotto il
quale vivevano. Opinavano altresì costoro che Gesù Cristo sia stato la
prima e la più illustre vittima della tirannide, e protestavano volerlo
vendicare con la morte dei tiranni. Così come adunque i Liberi muratori
intendono a vendicar la morte del loro Iramo, i carbonari intendevano a
vendicare la morte di Cristo. In questa setta entravano principalmente
uomini del volgo, sulla immaginazione dei quali gagliardissimamente
operavano, con vivi colori rappresentando la passione e la morte di
Cristo; e quando nelle loro congreghe i riti loro adempivano, avevano
presente un cadavere tutto sanguinoso, che dicevano essere il corpo di
Gesù Cristo. Quale effetto in quelle napolitane fantasie sì terribili
forme partorissero, ciascuno sel può considerare. Erano i segni loro
per conoscersi vicendevolmente, quando s'incontravano, oltre alcuni
altri, il toccarsi la mano, ed in tale atto col pollice segnavano una
croce nella palma della mano l'uno dell'altro. Quello che i liberi
muratori chiamavano loggia, essi baracca chiamavano, e le assemblee
loro col nume di vendite distinguevano, ai carbonari alludendo, i
quali, scendendo dalle montagne, andavano a vendere il carbone loro pei
mercati in pianura. Sentivano, come abbiamo detto, molto fortemente di
repubblica: niun altro modo di reggimento volevano che il repubblicano,
ed in repubblica già si erano ordinati apertamente nelle parti di
Catanzaro sotto la condotta di quel Capobianco che abbiamo sopra
nominato. Odiavano acerbamente i Franzesi, acerbissimamente Murat per
esser Franzese e re, ma non per questo erano amici di Ferdinando;
perchè piuttosto non volevano re. Nata prima nell'Abruzzo e nelle
Calabrie, questa peste propagata si era nelle altre parti del regno;
e perfino nella Romagna avevano introdotto le pratiche loro e creato
consettarii. In Napoli stessa pullulavano: non pochi fra i lazzaroni
della segreta lega micidiale erano consapevoli e partecipi.

Vedendo Ferdinando che la potenza dei carbonari era cosa d'importanza,
si deliberava, a ciò massimamente stimolato dagl'Inglesi, di fare
qualche pratica, acciocchè, se possibil fosse, concorressero co'
suoi proprii aderenti al medesimo fine, ch'era quello di cacciar i
Franzesi e di restituirgli il regno. Principale mezzano di queste
pratiche era il principe di Moliterno, che tornato d'Inghilterra,
dove si era condotto per proporre a quel governo che dichiarasse
l'unione e l'indipendenza di tutta Italia, se vi voleva far frutto
contro i Franzesi, le quali proposte non volle l'Inghilterra udire,
non fidandosi del principe per essere stato repubblicano, si era
in Calabria fatto capo di tutti gli antichi seguaci del cardinal
Ruffo, e vi teneva le cose molto turbate contro Giovacchino. Parlava
efficacemente. Pareva Moliterno personaggio atto a questi maneggi
coi carbonari, perchè ai tempi di Championnet era stato aderente
della repubblica, ed anzi per questa sua opinione proscritto dalla
corte di Napoli. I carbonari, sì perchè erano aspramente perseguitati
dai soldati di Murat, sì perchè Moliterno sentiva di repubblica, e
sì finalmente perchè molto si soddisfacevano di quella condizione
d'Italia, prestavano favorevoli orecchie alle proposte del principe.
Ciò, nonostante, stavano di mala voglia, e ripugnavano al venire ad
un accordo con gli agenti regi. Per vincere una tale ostinazione, il
governo di Palermo dava speranza ai carbonari che avrebbe loro dato una
costituzione libera a seconda dai desiderii loro. Per questi motivi, e
massimamente per questa promessa, quanto assurda ed impossibile ognun
sel vede, consentirono ad unirsi con gli aderenti del re a liberazione
del regno dai Franzesi. A queste risoluzioni vennero la maggior parte
dei carbonari; ma i più austeri, siccome quelli che abborrivano da
ogni qualunque lega con coloro che stavano ad un servizio regio,
continuarono a dissentire, e questa parte discordante fu quella che
ordinò quella repubblica di Catanzaro che abbiamo sopra nominato.

L'unione dei carbonari coi regi diede maggior forza alla parte di
Ferdinando in Calabria; ma dal canto suo Giovacchino, in cui non era la
medesima mollezza che in Giuseppe, validamente resisteva, massime nelle
terre murate, cooperando alla difesa i soldati franzesi guidati da
Partonneaux, i soldati napolitani e le legioni provinciali. Ogni cosa
in iscompiglio: la Calabria non era nè del re Ferdinando, nè del re
Giovacchino; le soldatesche ed i sollevati ne avevano in questa parte
ed in quella il dominio. Seguitavano tutti gli effetti della guerra
disordinata e civile; incendii, ruine, saccheggi, stupri, e, non che
uccisioni, assassinii. I fatti orribili tanto, più si moltiplicavano
quanto più, per l'occasione della guerra fatta nel paese, uomini di mal
affare d'ogni sorta, banditi, ladri, assassini, a cui nulla importava
nè di repubblica nè di regno, nè di Ferdinando nè di Giovacchino, nè di
Franzesi nè d'Inglesi, nè di papa nè di Turco, ma solo al sacco ed al
sangue intenti, dai più segreti rispostigli loro uscendo, commettevano
di quei fatti dai quali più la umanità abborrisce, e cui la storia più
ha ribrezzo a raccontare. Così le Calabrie furono da questo momento
in poi e per due anni continui fatte rosse da sangue disordinatamente
sparso finchè lo spavento cagionato da sangue ordinatamente sparso le
ridusse a più tollerabile condizione.



    Anno di CRISTO MDCCCIX. Indizione XII.

    PIO VII papa 10.
    FRANCESCO I imp. d'Austria 4.


Le ruine si moltiplicavano: la Spagna ardeva, l'Italia e la meridional
parte della Germania sotto l'imperio diretto di Napoleone, l'Austria
perplessa, la Prussia serva, la Russia devota, la Turchia aderente,
la terraferma europea tutta obbediente a Napoleone o per forza o per
condiscendenza. Un solo principe vivente nel cuor dell'Italia, debole
per soldati, forte per coscienza, resisteva alla sovrana volontà.
Napoleone, spinto dalla ambizione e acciecato dalla prosperità, aveva
messo fuori certe parole sull'imperio di Carlo Magno, suo successore
nei diritti e nei fatti intitolandosi, come se gl'impiegati di Francia,
che da lui traevano gli stipendii, avessero potuto, imperadore
dei Franzesi chiamandolo, dargli il supremo dominio e l'effettiva
possessione, non che della Francia, di tutta la Italia, di tutta la
Germania, di quanto insomma componeva l'imperio di Occidente ai tempi
di quel glorioso imperadore.

Adunque con quell'insegna di Carlo Magno in fronte si avventava contro
il papa. Non poteva pazientemente tollerare che Roma, il cui nome
tant'alto suona, non fosse ridotta in sua potestà, e gli pesava che
ancora in Italia una piccola parte fosse che a lui non obbedisse. Dal
canto suo il papa si mostrava renitente al consentire di mettersi in
quella condizione servile, nella quale erano caduti, chi per debolezza
e chi per necessità, quasi tutti i principi di Europa. Così chi aveva
armi, cedeva, chi non ne aveva, resisteva. Pio VII, non che resistesse,
fortemente rimostrava al Signore della Francia, acerbamente dolendosi
che per gli articoli organici e pel decreto di Melzi fossero stati
due concordati guasti a pregiudizio della sedia apostolica, ed anche
a violazione manifesta dei concilii e del santo Vangelo stesso. Si
lamentava che nel Codice civile di Francia, introdotto anche per
ordine dell'imperadore in Italia, si fosse dato luogo al divorzio tanto
contrario alle massime della Chiesa ed ai precetti divini. Rimproverava
che in un paese cattolico, quale si protestava essere ed era la
Francia con legge uguale si ragguagliassero la religione cattolica e le
dissidenti, non esclusa anche l'ebraica, nemica tanto irreconciliabile
della religione di Cristo.

Di tutte queste cose ammoniva l'imperadore, dell'esecuzione delle sue
promesse a pro della cattolica religione richiedendolo. Ma Napoleone
vincitore delle maggiori potenze, non era più quel Napoleone ancor
tenero ne' suoi principii. Per la qual cosa, volendo ad ogni modo
venir a capo del suo disegno di farsi padrone di Roma, o che il papa
vi fosse o che non vi fosse, mandava dicendo al pontefice, che essendo
egli il successore di Carlo Magno, gli stati pontifizii, siccome quelli
che erano stati parte dell'impero di esso Carlo Magno, appartenevano
all'impero franzese; che se il pontefice era il signore di Roma, egli
ne era l'imperadore, e che a lui, come a successore di Carlo Magno,
il pontefice doveva obbedienza nelle cose temporali, come egli al
pontefice la doveva nelle spirituali; che uno dei diritti inerenti alla
sua corona era quello di esortare, anzi di sforzare il signore di Roma
a fare con lui e co' suoi successori una lega difensiva ed offensiva
per tutte le guerre presenti e future; che il pontefice, essendo
soggetto all'imperio di Carlo Magno, non si poteva esimere dall'entrare
in questa lega e dall'avere per nemici tutti coloro che di lui
Napoleone fossero nemici. Aggiungeva, che se il pontefice a quanto da
lui si esigeva non consentisse, aveva egli il diritto di annullare la
donazione di Carlo Magno, di spartire gli Stati pontifizii e di dargli
a chi meglio gli paresse; che nella persona del pontefice separerebbe
l'autorità temporale dalla spirituale; che manderebbe un governatore
con potestà di reggere Roma, e che al papa lascerebbe la semplice
qualità di vescovo di Roma.

Queste estreme intimazioni fatte al pontefice, che non aveva dato
a Napoleone alcuna cagione di dolersi di lui, e che anzi con tutta
l'autorità sua l'aveva aiutato a salire sul suo seggio imperiale,
dimostravano in chi le faceva una risoluzione irrevocabile. Rispondeva
il pontefice, e troppo seriamente rispondeva alle allegazioni di
Napoleone, perchè niuno meno le stimava che Napoleone stesso. Instava
adunque minacciosamente l'imperatore col pontefice, entrasse nella
confederazione italica coi re d'Italia e di Napoli, e per nemici avesse
i suoi nemici, e per amici gli amici. Ma avendo il papa costantemente
ricusato di aderire, si era ridotto a richiedere che il pontefice
facesse con lui una lega difensiva ed offensiva, e medesimamente
tenesse i suoi amici per amici, i suoi nemici per nemici: quando no,
lo stimerebbe intimazione di guerra, avrebbe il papa per nemico, Roma
conquisterebbe.

Allora, esposto il papa Pio con gravissime querele l'animo suo a
Napoleone, andava protestando, che se per gli occulti disegni di Dio
l'imperatore volesse consumare le sue minaccie, impossessandosi degli
Stati della Chiesa a titolo di conquista, non potrebbe sua Santità a
tali funesti avvenimenti riparare, ma protesterebbe come di usurpazione
violenta ed iniqua. L'imperatore perseverò nel dire che a questo
principio mai non consentirebbe, che i prelati non fossero sudditi del
sovrano, sotto il dominio del quale son nati, e che intenzion sua era
che tutta l'Italia, Roma Napoli e Milano, facessero una lega offensiva
e difensiva per allontanare dalla penisola i disordini della guerra.
Questa sua ostinazione corroborava col pretesto che la comunicazione
non doveva e non poteva essere interrotta per uno Stato intermedio
che a lui non si appartenesse tra i suoi Stati di Napoli e di Milano.
Inoltre voleva e comandava che i porti dello Stato pontificio fossero e
restassero serrati agli Inglesi. Rimostrò nuovamente il papa; e quanto
al serrare i porti agl'Inglesi, sebbene fosse da temersi che ciò non
potesse essere senza qualche pregiudizio dei cattolici che abitavano
l'Irlanda, l'avrebbe nondimeno il pontefice consentito, per amor della
concordia, all'imperatore.

Napoleone, al quale sempre pareva che la corona imperiale fosse
monca, se non fosse padrone di Roma, si apprestava a disfar quello
che aveva per tanti secoli durato fra tante rivoluzioni e di Italia e
del mondo. Perchè poi la forza fosse aiutata dall'arte, accompagnava
le sue risoluzioni con parole di umanità e di desiderio di libertà
per la potestà secolare. Quindi instantemente richiedeva, anche
con la solita minaccia di privarlo della potenza temporale, se non
consentisse, il papa che riconoscesse in lui il diritto d'indicare
alla santa Sede tanti cardinali franzesi, quanti bastassero perchè il
terzo almeno del sacro collegio si componesse di cardinali franzesi.
Se il papa consentiva, acquistava Napoleone preponderante autorità
nelle deliberazioni, e massimamente nelle nomine dei papi; se ricusava,
avrebbe punito alla nazione franzese che egli le negasse ciò che per la
sua grandezza credeva meritarsi, punto questo che all'imperatore molto
caleva. Non potere, rispose il pontefice, consentire ad una domanda
che vulnerava la libertà della Chiesa ed offendeva la sua più intima
costituzione, e ciò dimostrava con sane e sante ragioni.

Non si rimaneva l'imperatore dalla presa deliberazione; mandò di nuovo
dicendo al papa, o gli desse il terzo dei cardinali o si piglierebbe
Roma. Tentato di render Pio odioso ai Franzesi, il volle far
disprezzabile al mondo. Imperiosamente intimava al pontefice, cacciasse
da Roma il console del re Ferdinando di Napoli. Rispondeva Pio, ch'egli
non aveva guerra col re, che il re possedeva ancora tutto il reame di
Sicilia, che era un sovrano cattolico, e che egli non sarebbe mai per
consentire a trattarlo da nemico, cacciando da Roma coloro che a Roma
il rappresentavano.

L'appetita Roma veniva in mano di lui. Se vi fu ingiustizia nei
motivi, fuvvi inganno nell'esecuzione. Si avvicinavano i napoleoniani
all'antica Roma, nè ancora confessavano di marciare contro di lei.
Pretendevano parole di voler andare nel regno di Napoli: erano sei
mila; obbedivano a Miollis. Nè bastava un generale per un papa:
Alquier, ambasciatore di Napoleone presso la santa Sede, anch'egli
vi si adoperava. Usava anzi parole più aspre del soldato. Era
giunto il mese di gennaio 1808 al suo fine, quando Alquier mandava
dicendo a Filippo Casoni, cardinale segretario di Stato, che sei
mila napoleoniani erano per traversare, senza arrestarvisi, lo Stato
romano: che Miollis prometteva che passerebbero senza offesa del paese,
e che il generale era uomo di tal fama che la sua promessa doveva
stimarsi certezza. Mandava Alquier con queste lettere l'itinerario
de' soldati, dal quale appariva che veramente indirizzava verso il
regno di Napoli il loro cammino, e non dovevano passare per la città.
Pure si spargevano romori diversi. Affermavano questi che andassero a
Napoli, quelli che s'impadronirebbero di Roma. Il papa interpellava
formalmente, per mezzo del cardinal segretario, Miollis, dicesse e
dichiarasse, apertamente e senza simulazione alcuna, il motivo del
marciare di questi soldati, acciocchè Sua Santità potesse fare quelle
risoluzioni che più convenienti giudicherebbe. Rispondeva, aver mandato
la norma del viaggio dei soldati, e sperare che ciò basterebbe per
soddisfare i ministri di Sua Santità. Il tempo stringeva: i comandanti
napoleonici marciando, e detti i soliti motti e scherni sui preti,
sul papa e sui soldati del papa, minacciavano che entrerebbero in
Roma, e l'occuperebbero. Novellamente protestava il papa, fuori delle
mura passassero, in Roma non entrassero; se il facessero, l'avrebbe
per caso di guerra, ogni pratica di concordia troncherebbe. Già tanto
vicini erano i napoleoniani, che vedevano le mura della romana città.
Alquier tuttavia moltiplicava in protestazioni col santo padre,
affermando con osservazione grandissima che erano soltanto di passo
e non avevano, nessuna intenzione ostile. I napoleoniani intanto,
arrivati più presso, assaltarono armata mano, il dì 2 febbraio, la
porta del popolo, per essa entrarono violentemente, s'impadronirono del
castel Sant'Angelo, recarono in poter loro tutti i posti militari, e
tant'oltre nell'insolenza procederono, che piantarono le artiglierie
loro con le bocche volte contro il Quirinale, abitazione questa
del pontefice. Perchè poi niuna parte di audacia mancasse in questi
schifosi accidenti, Miollis domandava, per mezzo di Alquier, udienza al
santo padre; ed avendola ottenuta, si scusò con dire che non per suo
comando le bocche dei cannoni erano state volte contro il quirinale
palazzo, come se l'ingiuria fatta al sovrano di Roma ed al capo della
cristianità consistesse in questa sola violenza che certamente era
molto grave. Della occupazione frodolenta ed ostile di Roma, ch'era
pure l'importanza del fatto, non fece parola.

Gli oltraggi al papa si moltiplicavano. L'accusavano dell'aver dato
asilo nei suoi Stati a Napolitani briganti, ribelli, congiuratori
contro lo Stato di Murat; per questo, affermavano, aversi occupata
Roma; il papa stesso accagionarono di connivenza. Alquier già ne fece
querele; del rimanente voleva, non so se per pazzia o per ischerno,
che il papa avesse e trattasse ancora come amiche le truppe che
violentemente avevano occupato la sua capitale e la sede del suo
governo, e fatto contro il pacifico ed inerme suo palazzo quello che
contro le fortezze nemiche ed armate solo si suol fare. A questo tratto
non potè più contenere sè medesimo il pontefice: sdegnosamente scrisse
all'ambasciatore napoleonico, non terrebbe più per amici quei soldati
che, rompendo le più solenni promesse, erano entrati in Roma, avevano
violato la sua propria residenza, offeso la sua libertà, occupato la
città ed il castello, voltato i cannoni contro la propria abitazione,
e che inoltre con intollerabile peso si aggravavano sopra il suo erario
e sopra i suoi sudditi. A questo aggiungeva che, essendo privato della
sua libertà, e ridotto in condizione di carcerato, non intendeva più
nè voleva negoziare, e che solo allora si risolverebbe a trattare delle
faccende pubbliche con Francia, che sarebbe restituito alla sua piena e
sicura libertà.

Le amarezze del papa divenivano ogni giorno maggiori. Il comandante
napoleonico intimava ai cardinali napolitani, nel termine di
ventiquattr'ore partissero da Roma, tornassero a Napoli. Se nol
facessero, gli sforzerebbero i soldati. Quindi l'intimazione medesima,
termine tre ore a partire, fu fatta dal soldato medesimo ai cardinali
del regno italico. Risposero stare ai comandamenti del pontefice;
farebbero quanto ordinasse. A tanto oltraggio il pontefice, quantunque
in potestà di altrui già fosse ridotto, gravemente risentissi. Scrisse
ai cardinali, non potere Sua Santità permettere che partissero:
proibirlo anzi a tutti ed a singoli in virtù di quella obbedienza che a
lui giurato avevano.

La sovranità del papa a grado a grado dai violenti occupatori si
disfaceva. Commettevano il male, non volevano che si sapesse. Soldati
napoleoniani furono mandati alla posta delle lettere, dove, cacciate le
guardie pontifizie, ogni cosa recarono in poter loro. Al medesimo fine
invasero tutte le stamperie di Roma per modo che nulla, se non quanto
permettevano essi, stampare si potesse.

Tolta al papa la forza civile, si faceva passo di togliergli la
militare. Incominciossi dalle arti con subornare i soldati, le
napoleoniche glorie e la felicità degli imperiali soldati magnificando.
Pochi cessero, i più resisterono. Riuscite inutili le instigazioni,
toccossi il rimedio della forza. I soldati furono costretti alle
insegne napoleoniche, e mandati prima in Ancona, poscia nel regno
italico per essere ordinati secondo le forme imperiali.

Restava il santo padre nel suo pontificale palazzo con poche guardie,
piuttosto ad onore che a difesa. Vollero i Franzesi che quest'ultimo
suo ricetto fosse turbato dalle armi forastiere, non contenti se
non quando il sommo pontefice fosse in vero carcere ristretto.
Andavano, il dì 7 aprile, all'impresa del prendere il pontificale
palazzo; si appresentavano alla porta: il soldato svizzero, che vi
stava a guardia, rispose che non lascerebbe entrare gente armata,
ma solamente l'ufficiale che le comandava. Parve soddisfarsene
il capitano napoleonico: fatti fermar i soldati, entrava solo; ma
non così tosto fu lo sportello aperto, e l'ufficiale entrato, che,
aggiungendo la sorpresa alla forza, fece segno a' suoi che entrassero.
Entrarono; volte le baionette contro lo Svizzero, occuparono l'adito.
Si impadronirono, atterrando romorosamente le porte delle armi delle
papali guardie, i più intimi penetrali invasero.

Di tanti eccessi querelavasi gravissimamente il pontefice con Miollis;
ma le sue querele non muovevano il generale, che anzi, negli eccessi
moltiplicando, faceva arrestare da' suoi soldati monsignor Guidebono
Cavalchini governator di Roma, ordinando che fosse condotto a
Fenestrelle, fortezza alle fauci delle Alpi sopra Pinerolo.

A questi tratti il pontefice, fatto maggiore di sè medesimo, in istile
grave e profetico, a Napoleone le sue parole rivolgendo: «Per le
viscere, diceva, della misericordia di Dio nostro, per quel Dio che è
cagione che il sole levante venne dall'alto a ritirarsi, esortiamo,
preghiamo, scongiuriamo te, imperadore e re Napoleone, a cambiar
consiglio, a rivestirti dei sentimenti che sul principiar del tuo regno
manifestasti; sovvengati che Dio è re sopra di te; sovvengati ch'ei non
rispetterà la grandezza di uomo che sia; sovvengati ed abbi sempre alla
mente tua davanti, ch'ei si farà vedere, e presto, in forma terribile;
perchè quelli che comandano agli altri saranno da lui con estremo
rigore giudicati.»

Napoleone, cieco, e dal suo inevitabile destino tratto, non attendeva
alle spaventevoli o fatidiche voci del pontefice. Decretava, il dì
2 aprile dello scorso anno, che, stantechè il sovrano attuale di
Roma aveva costantemente ricusato di far guerra agl'Inglesi, e di
collegarsi coi re d'Italia e di Napoli a difesa comune della penisola;
stantechè l'interesse de' due reami e dell'esercito d'Italia e di
Napoli esigevano che la comunicazione non fosse interrotta da una
potenza nemica; stantechè la donazione di Carlo Magno, suo illustre
predecessore, degli Stati pontifizii, era stata fatta a benefizio della
cristianità, non a vantaggio dei nemici della nostra santa religione:
stante finalmente che l'ambasciatore della corte di Roma appresso a
lui aveva domandato i suoi passaporti; le provincie d'Urbino, Ancona,
Macerata e Camerino fossero irrevocabilmente e per sempre unite al
suo regno d'Italia; il regno italico, il dì 11 maggio, prendesse
possessione delle quattro provincie, vi si pubblicasse ed eseguisse il
codice Napoleone: fossero investite nel vicerè amplissime facoltà per
l'esecuzione del decreto.

Il giorno stesso del 2 di aprile, l'imperatore, conoscendo quanti
prelati natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del
pontefice, e volendo privare il santo padre del sussidio di tanti
servitori ed amici, decretava che tutti i cardinali, prelati, ufficiali
ed impiegati qualsivogliano appresso alla corte, di Roma, nati nel
regno d'Italia, fossero tenuti, passato il dì 25 di maggio, di ridursi
nel regno; chi nol facesse avesse i suoi beni posti al fisco; i beni
già si sequestrassero a chi non avesse obbedito il dì 5 di giugno.

Nè solo la violenza del voler torre i servidori al papa si usò contro
coloro ch'erano nati nel regno italico, ma ancora contro quelli che,
sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano ufficii spirituali in quel
regno.

Eugenio vicerè, con solenne decreto del 20 maggio spartiva, le quattro
provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone e del Tronto
chiamandoli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata,
il terzo Fermo. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi
territorii un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente: due
consiglieri di Stato.

Si esigevano nelle provincie unite i giuramenti di fedeltà
all'imperatore, di obbedienza alle leggi e costituzioni. Il pontefice,
che non aveva riconosciuto l'usurpazione, non consentiva ai giuramenti
pieni. Da questo conflitto tra armi ed opinioni sorse nelle Marche,
una volta sì prospere e felici, un disordine ed una infelicità
dolorosissima.

Pubblicava Pio una solenne protesta, la quale così terminava:

«Stante adunque che per le ragioni finora raccontate egli è chiaro
e manifesto che per forza di un attentato enorme i diritti della
romana Chiesa sono stati dall'ultimo decreto di Napoleone violati, e
che una ferita ancor più profonda è stata a noi ed alla santa Sede
fatta, acciocchè tacendo non paia ai posteri che noi l'iniquissimo
delitto commesso con violazione di tutte le regole della rettitudine e
dell'onore, quanto pure merita, non abbiamo, il che sarebbe perpetua
vergogna nostra, a sdegno e ad abborrimento avuto, di nostro proprio
moto, di nostra certa scienza, di nostra piena potenza dichiariamo, e
solennemente e in miglior modo protestiamo, l'occupazione delle terre
che sono nella marca d'Ancona, e l'unione loro al reame d'Italia,
senza alcun diritto e senza alcuna cagione per decreto dell'imperatore
Napoleone fatte, ingiuste essere, usurpate, nulle. Dichiariamo altresì
e protestiamo nullo essere e di niun valore quanto fino ad oggi si è
fatto per esecuzione del detto decreto, e quanto potrà essere d'ora
in poi sulle terre medesime da qualunque persona fatto e commesso:
vogliamo inoltre e dichiariamo che anche dopo mille anni, e tanto
quanto il mondo durerà, quanto vi si è fatto e quanto sarà per farvisi,
a patto niuno possa portar pregiudizio o nocumento ai diritti sì di
dominio che di possessione sulle medesime terre, perchè sono e debbono
essere di tutta proprietà della nostra santa Sedia apostolica.»

Così Pio, venuto in forza altrui, parlava a Napoleone, e contro di lui
protestava. Così ancora Napoleone, dopo di aver carcerato i reali di
Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna,
usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto
lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene
a visitarlo in Erfurt; Francesco d'Austria vi mandava il generale
Saint-Vincent (27 settembre 1808).

Ma era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità, e
già l'Austria, non abborrendo dall'entrare in nuovi travagli, e
dall'abbracciar sola la guerra, si mise in sull'armare. Si doleva
Napoleone dei romorosi apparecchi, affermando non pretendere
coll'imperatore d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco
essere a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli austriaci
ministri, e non so quale viennese setta, bramosa di guerra, come la
chiamava, e prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a
Francesco l'avere conservato la monarchia austriaca quando la poteva
distruggere; gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dalle
armi. Ma l'Austria non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui
che aveva incarcerato i reali di Spagna. La confederazione renana, la
distruzione dell'impero germanico, Vienna senza propugnacolo per la
servitù della Baviera, Ferdinando cacciato di Napoli, il suo trono dato
ad un Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta,
la Toscana congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata
cagione all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno
esser capace che a lei altro partito restasse che armi o servitù. Solo
le mancava l'occasione: la offerse la guerra di Spagna, all'impresa
della quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che
quello era l'ultimo cimento, faceva apparati potentissimi.

Un esercito grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca
Carlo in Germania. Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale
perseverava nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse
favorevole a questo primo conato, si aveva in animo di attraversare
la Selva Nera e di andar a tentare le renane cose. Per aiutare questo
sforzo, ch'era il principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo,
stanziava con un corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccar nella
Franconia, tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima
speranza poi aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei
Tirolesi, sempre affezionati al suo nome e desiderosi di riscuotersi
dalla signoria dei Bavari. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di
questo vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con
un'oste assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni,
giovane di natura temperata e di buon nome presso agl'Italiani.

A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore.
Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà
della quiete. Ma, da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non
ingannandosi punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato
della mala disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si
preparava alla guerra, con mandar in Germania ed in Italia quanti
soldati poteva risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò
nondimeno Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva,
stava meglio armato e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar
egli medesimo alla guerra germanica, perchè vedeva che sulle sponde
del Danubio erano per volgersi le difinitive sorti, e che nessun altro
nome, fuorichè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo.
Quanto all'Italia, diede il governo della guerra in questa parte
importante al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald.

L'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino. L'arciduca
Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe avanti, e chi
resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo il dì 9 aprile
del presente anno al medesimo modo intimò la guerra Broussier che colle
prime guardie custodiva i passi della valle di Fella. Preparate le
armi, pubblicavansi i discorsi.

Addì 10 di aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca,
varcata la sommità dei monti al passo di Tarvasio, e superato, non però
senza qualche difficoltà per la resistenza dei Franzesi, quello della
Chiusa, si avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante
corredo di artiglierie e di cavalleria passava l'Isonzo, e minacciava
con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei napoleoniani. Fuvvi un
feroce incontro ai ponte di Dignano, perchè quivi Broussier combattè
molto valorosamente. Ma, ingrossando vieppiù nelle parti più basse
gli Austriaci che avevano passato l'Isonzo, Broussier si riparò, per
ordine del vicerè, sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, andò
il principe a piantare il suo alloggiamento a Sacile sulla Livenza,
attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere,
sì quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano
dal Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le
fortezze di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi,
eccetto quelli che venivano dalle parti superiori del regno Italico
e dalla Toscana, si deliberava ad assaltar l'inimico innanzi ch'egli
avesse col grosso della sua mole congiunto le altre parti che a lui si
avvicinavano.

Erano i Franzesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras
e Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo,
Broussier a sinistra: le fanterie e le cavallerie del regno Italico
formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i
Tedeschi; correva il dì 16 aprile: destossi una gravissima contesa nel
villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie volte
cacciati e rincacciati: i soldati italiani combatterono egregiamente.
Pure restò Palsi in potere dell'arciduca: e già i Tedeschi minacciosi
colla loro sinistra fornitissima di cavalleria insistevano; la destra
de' Franzesi molto pativa; Seras e Severoli si trovavano pressati con
urto grandissimo ed in grave pericolo. Sarebbero anche stati condotti
a mal partito, se Barbon dal mezzo non avesse mandato gente fresca in
loro aiuto. Avuti Seras questi soldati di soccorso, preso nuovo animo,
spinse avanti con tanta gagliarda, che, pigliando del campo, scacciò
il nemico non solamente da Palsi, ma ancora da Porcia, dove aveva il
suo principale alloggiamento. L'arciduca, veduto che il mezzo delle
fronte franzese era stato debilitato pel soccorso mandato a Seras, vi
dava dentro per guisa che per poco stette non lo rompesse intieramente.
Ma entrava in questo punto opportunamente nella battaglia Broussier,
e riconfortava i suoi che già manifestamente declinavano. Barbou
eziandio si difendeva con molto spirito. Spinse allora l'arciduca tutti
i suoi battaglioni avanti: la battaglia divenne generale su tutta la
fronte. Fu la zuffa lunga, grave e sanguinosa, superando i Tedeschi di
numero e di costanza, i Franzesi d'impeto e di ardire. Intento sommo
degli Austriaci era di ricuperar Porcia; ma, contuttochè molto vi si
sforzassero, non poterono mai venirne a capo.

Durava la battaglia già da più di sei ore, nè la fortuna inclinava.
Pure finalmente rinfrescando sempre più l'arciduca con nuovi aiuti la
fronte, costrinse i napoleoniani a piegare, non senza aver disordinato
in parte le loro schiere e ucciso loro di molta gente. E se la notte,
che sopraggiunse, non avesse posto fine al perseguitare del nemico,
avrebbero i Franzesi e gl'Italiani provato qualche pregiudizio molto
notabile.

Dopo l'infelice fatto, non erano più le stanze di Sacile sicure al
principe vicerè. Per la qual cosa si ritrasse, seguitato debolmente
dai Tedeschi, sulle sponde dell'Adige. Quivi vennero a congiungersi con
lui i soldati di Lamarque, che già stanziavano nelle terre veronesi, e
quelli che sotto Durante dalla Toscana erano venuti. Nè piccola cagione
di dare novelli spiriti ai napoleoniani fu l'arrivo di Macdonald. Fu
egli veduto con allegra fronte, ma con animo poco lieto da Eugenio, che
stimava aver a passare in lui la riputazione di ogni impresa segnalata.

Passò l'arciduca la Piave, passò la Brenta, tutto il Trivigiano,
il Padovano e parte del Vicentino inondando. Assaltava in questo
mentre Palmanova, ma con poco frutto; tentò con un grosso sforzo il
sito fortificato di Malghera per aprirsi la strada alle lagune di
Venezia, ma non sortì effetto. Si apprestava non ostante ad andar a
trovare il nemico sulle rive dell'Adige, sperando di riuscire nella
superiore Lombardia, dominio antico de' suoi maggiori. Non trovò
nelle regioni conquistate quel seguito che aspettava. Vi fu qualche
moto in Padova, ma di poca importanza: si levarono anche in arme gli
abitatori di Crespino, terra del Polesine, e fu per loro in mal punto,
perchè Napoleone, tornato superiore per le vittorie di Germania,
fortemente sdegnatosi, li suggellò all'imperio militare ed alla pena
del bastone per le trasgressioni. Supplicarono di perdono. Rispose,
perdonare, ma a prezzo di sangue: dessero, per esser immolati, quattro
di loro. Per intercessione del vicerè, che tentò di mollificare
l'animo dell'imperadore, fu ridotto il numero a due; questi comprarono
coll'ultimo supplizio l'indennità della patria.

Intanto l'arciduca Carlo aveva occupato la Baviera, e col suo grosso
esercito s'incamminava alla volta del Reno. Ogni cosa pareva su quei
primi principii dar favore allo sforzo dell'imperatore Francesco. Ma
parte molto principale era la sollevazione dei Tirolesi.

Il giorno stesso in cui l'arciduca Carlo aveva passato l'Inn, e
l'arciduca Giovanni le strette di Tarvisio, i Tirolesi, mossi da una
sola mente e da un solo ardore, si levarono tutti improvvisamente in
armi, e diedero addosso alle truppe bavare e franzesi che nelle terre
loro erano poste a presidio. Fecero capo al moto loro un Andrea Hofer,
albergatore a Sand nella valle di Passeira. Non aveva Andrea alcuna
qualità eminente, di quelle, cioè, alle quali il secolo va preso:
bensì era uomo di retta mente e d'incorrotta virtù. Vissuto sempre
nelle solitudini dei tirolesi monti, ignorava il vizio ed i suoi
allettamenti. Allignano d'ordinario in questa sorte di uomini due doti
molto notabili: l'amore di Dio e l'amore della patria: l'uno e l'altro
rispondevano in Andrea. Per questo la tirolese gente aveva in lui posto
singolare benevolenza e venerazione. Non era in lui ambizione; comandò
richiesto, non richiedente. Di natura temperatissima, non fu mai
veduto nè nella guerra sdegnato, nè nella pace increscioso, contentò al
servire od al principe od alla famiglia. Vide vincitori insolenti, vide
incendii di pacifici tugurii, vide lo strazio e la strage de' suoi; nè
per questo cessò dall'indole sua moderata ed uguale: terribile nelle
battaglie, mite contro i vinti, non mai sofferse che chi le guerriere
sorti avevano dato in sua podestà, fosse messo a morte; anzi i feriti
dava in cura alle tirolesi donne, che e per sè e per rispetto di Hofer
gli accomodavano d'ogni più ospitale sentimento.

Adunque la nazione tirolese, al suo antico signore badando, ed avendo
a schifo la signoria nuova, uomini, donne, vecchi e fanciulli da
Andrea Hofer ordinati e condotti, insorsero, e dalle più profonde
valli e dai più aspri monti uscendo, fecero un impeto improvviso
contro i Bavari ed i Franzesi. Assaltati in mezzo a tanto tumulto i
Bavari in più luoghi, non poterono resistere, e perduti molti soldati
tra morti e cattivi, deposero le armi, erano circa dieci mila, in
potestà del vincitore rimettendosi. Nè miglior fortuna incontrò un
corpo di tre mila napoleoniani, franzesi e bavari, che in soccorso
degli altri arrivava sotto le mura di Vildavia. Quindi quante squadre
comparivano alla sfilata o degli uni o degli altri, tante erano
sottomesse dai sollevati. Nè luogo alcuno sicuro nè ora vi erano
per gli assalitori; perchè da ogni parte, e così di notte come di
giorno i Tirolesi, uscendo dai loro reconditi recessi, e viaggiando
per sentieri incogniti, siccome quelli che ottimamente sapevano il
paese, opprimevano all'improvviso gl'incauti napoleoniani. Fu questa
una guerra singolare e spaventosa; conciossiachè al romore dell'armi
si mescolava il rimbombo delle campane che continuamente suonavano a
martello, e le grida dei paesani sclamanti senza posa: In nome di Dio!
In nome della santissima Trinità! Tutti questi strepiti uniti insieme,
e dall'eco delle montagne ripercossi facevano un misto pieno d'orrore,
di terrore e di religione. Camminavano i vinti, erano una moltitudine
considerabile, per la strada di Salisburgo verso il cuore dell'Austria.

I Tirolesi vincitori sulle terre germaniche, passate le altezze
del Breuver, vennero nelle italiane, e mossero a rumore le regioni
superiori a Trento. Propagavasi il rumore da valle in valle, da monte
in monte, e la trentina città stessa era in pericolo. Certo era che
quando l'arciduca Giovanni fosse comparso sulle rive dell'Adige,
la massa tirolese sarebbe calata a fargli spalla, il che avrebbe
partorito un caso di grandissima importanza per tutta Italia: questo
era il disegno dei generali austriaci. L'imperatore Francesco, sì
per aiutare la caldezza di questo moto, e sì per dimostrare che non
aveva mandato in dimenticanza quelle popolazioni tanto affezionate,
mandava in Tirolo Chasteler, un generale per arte e per valore fra'
primi dell'età nostra, acciocchè nelle cose di guerra consigliasse
Hofer. Mandava altresì, come s'è notato, un capo di regolari, usi
alle guerre di montagna, sotto la condotta di Jellacich, capitano
esperto e conoscitore del paese. — Come prima le insegne ed i
soldati dell'Austria comparvero, sentirono i Tirolesi una contentezza
incredibile. Entrarono gli imperiali a guisa di trionfo; tante erano
le dimostrazioni di allegrezza che i popoli facevano loro intorno.
Le campane suonavano a gloria le artiglierie e le archibuserie
tiravano a festa; i vincitori popoli applaudivano, abbracciavano, si
abbracciavano, erano pronti a ristorare i soldati d'Austria con le più
gradite vivande di quei monti: giorni felicissimi per l'eroico Tirolo.

Ma qui finirono le prosperità dell'Austria; poichè nel colmo più alto
delle sue maggiori speranze, Napoleone fatale, giunto sulle terre
germaniche, recatosi in mano il governo della guerra, vinse in pochi
giorni tre grandissime battaglie a Taun, ad Abensberga, ad Eckmül.
Per questi accidenti, fu costretto l'arciduca Carlo a ritirarsi
sulla sinistra del Danubio, e restò aperta la strada sulla destra ai
napoleoniani per Vienna.

Quando pervennero all'arciduca Giovanni le novelle delle perdite del
fratello, si accorse, e vi ebbe anche comandamento da Vienna, che
quello non era più tempo da starsene a badare in Italia, e che gli era
mestiero accorrere in aiuto della parte più vitale della monarchia.
Ordinava dunque il suo esercito, che già era trascorso oltre Vicenza,
alla ritirata, solo proponendosi di fare qualche resistenza ai luoghi
forti per poter condurre in salvo le artiglierie, le munizioni e
le bagaglie, opera difficile in vero, e pericolosa con un nemico
tanto svegliato e precipitoso. Ritiravasi l'arciduca, perseguitavalo
Eugenio. Fuvvi qualche indugio alla Brenta per la rottura dei ponti.
Fermaronsi gli Austriaci sulle sponde della Piave, e si deliberarono
a contendere il passo. Erano alloggiati in sito forte. Si apprestavano
i Franzesi al passo, sforzandosi di varcare a quello di Lovadina, che
è il principale. Nonostante che i Tedeschi furiosamente tempestassero
con le artiglierie poste nei luoghi eminenti, Dessaix venne a capo
dell'intento. Poi passò il vicerè sopra e sotto a Lovadina con la
maggior parte dell'esercito. Ordinò tostamente i soldati sotto il
bersaglio stesso dei nemici, che con palle e cariche continue di
cavalleria l'infestavano. Pareggiossi la battaglia che continuava
con grandissimo furore da ambe le parti, perchè i Franzesi volevano
sloggiare gli Austriaci dalle alture, gli Austriaci volevano rituffar
i Franzesi nel fiume. Non risparmiavano nè il principe nè l'arciduca
in questa terribile mischia a fatica od a pericolo, ora come capitani
comandando, ed ora come soldati combattendo. Era il conflitto tra la
Piave e Conegliano; fossi profondi munivano la fronte tedesca. Diedero
dentro i Franzesi. Dopo ostinato affronto i soldati dell'arciduca
furono costretti a piegare: la fortuna si scopriva in favore del
principe. Si ritirarono gli Austriaci non senza disordine nelle
ordinanze, a Conegliano. Poi, pressando vieppiù il nemico, cercavano
salvamento in Sacile. Fu molto grossa questa battaglia, e molto vi
patirono i Tedeschi; dei napoleoniani mancarono tra morti e feriti
circa tre mila.

Continuava l'arciduca a ritirarsi, il principe a seguitarlo. Passò
il Franzese facilmente la Livenza, difficilmente il Tagliamento.
Inondando i napoleoniani con la cavalleria il piano e le valli,
scioglievano l'assedio di Osopo e di Palmanova. Divise il vicerè i
suoi in due parti, mandando la prima alla volta dei passi di Tarvisio
verso la Carintia, la seconda sotto la condotta di Macdonald verso
la Carniola. L'uno e l'altro disegno riuscirono a quel fine che il
capitano di Francia si era con ciò proposto, imperocchè alla sinistra
Serras si congiungeva con le prime scolte dell'esercito germanico, e
Macdonald sulla destra aveva occupato, passando per Monfalcone e Duino,
Trieste. Da questo luogo si era incamminato verso la Carniola per
impadronirsi di Lubiana, città capitale, cooperare con Marmont, che a
gran passi veniva dalla Dalmazia, e quindi, per la strada maestra che
da Lubiana porta a Gratz, condursi in quest'ultima città col fine di
essere in grado di menar nuovi soldati a Napoleone. L'arciduca Carlo
teneva ancora il campo grosso e minaccioso. Trovava Macdonald un duro
intoppo in Prevaldo, ma parte di fronte assaltandolo, e parte girando
ai fianchi, l'acquistava. Colla medesima arte d'accennare ai fianchi
ed alle spalle constringeva alla dedizione quattro mila Austriaci che
difendevano Lubiana, e vi entrava trionfando. Acquistata tale vittoria,
se ne giva, lasciati in Carniola presidii sufficienti, a Gratz. Quivi
fermossi aspettando che Marmont lo venisse a trovare dalla Dalmazia.
Questi, vinta una fiera battaglia a Gospitz, si aprì con tale vittoria
facile le strade, perchè, da un incontro in fuori ch'egli ebbe col
retroguardo nemico ad Octopsch non gli fu più oltre contrastato il
passo. Occupò successivamente Segna e Fiume, e trovati i compagni in
Istria, si incamminava a gran giornate a Gratz. A questo modo tutto
l'antico Illirio venne in potestà di Francia. Il vicerè, raccolte tutte
le squadre, e solo lasciate le guernigioni necessarie nei luoghi più
opportuni, passava i monti di Somering, e per la valle della Raab verso
il Danubio calandosi, andava a farsi partecipe delle imprese del padre.

Il giorno 14 di giugno, anniversario della vittoria di Marengo,
vinceva il principe Eugenio sotto le mura di Raab una grandissima
battaglia contro l'arciduca Giovanni, che saliva per le sponde del
Danubio in aiuto del suo fratello Carlo. Il dì 7 di luglio periva la
mole austriaca nei campi di Vagram. Quivi fu poi prostrato l'arciduca
Carlo, e Napoleone divenne padrone di quell'antica e grande monarchia.
Si trovò facilmente forma di concordia per la situazione d'una delle
parti: consentì l'imperadore Francesco a condizioni durissime di
pace. Il dì 14 ottobre si stipulava in Vienna, per lo stabilimento
delle cose comuni, dal signor di Champagny per parte di Napoleone, e
dal principe di Lichtenstein per parte di Francesco, il trattato di
pace. Cedeva lo imperadore Francesco all'imperadore franzese, oltre
molti altri paesi in Germania ed in Polonia, la contea di Gorizia, il
territorio di Monfalcone, la contea e la città di Trieste, il ducato
di Carniola con le sue dipendenze nel golfo di Trieste, il circolo di
Villaco nella Carintia con tutti i paesi situati sulla riva destra
della Sava dal punto in cui questo fiume esce dalla Croazia fin
dove tocca le frontiere della Bosnia, nominatamente una parte della
Croazia provinciale, sei distretti della Croazia militare, Fiume ed
il litorale ungherese, l'Istria austriaca col distretto di Casina,
Piccino, Buccari, Buccarizza, Porto re, Segna e le isole dipendenti
dai paesi ceduti, e tutti gli altri territorii qualsivogliano situati
sulla destra del fiume, il filo delle acque del quale avesse a servire
di limite fra i due Stati: perdonasse Napoleone ai Tirolesi, Francesco
ai Polacchi: l'Austria cessasse ogni relazione con l'Inghilterra.
Napoleone fece inserire nel trattato un capitolo, per cui l'Austria si
obbligava a cedere all'imperadore Alessandro di Russia nella parte più
orientale dell'antica Galizia un territorio che contenesse quattrocento
mila anime, non inclusa però la città di Brodi.

L'Austria, percossa da tanto infortunio, quietava por la pace, ma
era dolorosa la sua quiete. Oltre la scaduta potenza, l'infestava
l'insolenza del vincitore, e la aggravavano le grossissime imposizioni.
Soli i Tirolesi non cedevano al terrore comune, e con l'armi in mano
continuavano a difendere quel sovrano, che già deposte per forza le
sue, aveva per forza dato molte nobili parti del suo dominio e loro
stessi in potestà del vincitore. Il principe Eugenio dalle sue stanze
di Villaco gli esortava a posare, ma invano. Più volte combattuti dai
Franzesi, dai Sassoni e dai Baveri, più volte batterono, e più volte
anco battuti, più volte risorsero. Vinti, si ritiravano alle selve
impenetrabili, ai monti inaccessibili; vincitori, inondavano le valli,
e furiosamente cacciavano il nemico. Vinti, erano trattati crudelmente
dai napoleoniani: vincitori, trattavano i napoleoniani umanamente; e
siccome gente religiosa, vinti, con grandissima divozione pregavano
dal cielo miglior fortuna alla patria; vincitori, coi medesimi segni il
ringraziavano. E' furono visti, dopo di avere superato con incredibile
valore i soldati di Lefevre, e restituito a libertà coloro che si
erano arresi, scorrente ancora il sangue e presenti i cadaveri dei
compatriotti e dei nemici, gettarsi tutti al punto stesso, dato il
segnale di Hofer, coi ginocchi a terra ed in tale pietosa attitudine
tra lacrimosi e lieti rendere grazie a Dio dell'acquistata vittoria.
Eccheggiavano i monti intorno dei divoti e allegri suoni mandati fuori
dai religiosi e santi petti. Infine, sottentrando continuamente genti
fresche a genti uccise, abbandonati da tutto il mondo, anzi quasi
tutto il mondo combattendo contro di loro, cessarono i Tirolesi, non
dal volere, ma dal potere, e nei montuosi ricetti loro ricovratisi,
aspettavano occasione in cui più potesse la virtù che la forza. Il
bavaro dominio si restituiva nel Tirolo tedesco: cedè l'italiano in
possessione del regno italico.

Sul finire del presente anno 1809 Andrea Hofer si ritirava con tutta la
sua famiglia ad un povero casale fra montagne e nevi altissime, dolente
per la patria, tranquillo per sè. Ma i Franzesi erano sitibondi del
suo sangue. Perciò, fattolo con tutta diligenza cercare e ricercare,
riuscì di trovarlo nel suo recondito recesso. Batterono alla porta i
soldati; era la notte del 27 gennaio del 1810. L'aperse Hofer: veduto
ch'era venuto in forza altrui, con semplicità e serenità mirabile:
«Son io, disse, Andrea Hofer; sono in poter di Francia: fate di me
ciò che vi aggrada: ma vi piaccia risparmiare la mia donna ed i miei
figliuoli; sono eglino innocenti, nè dei fatti miei obbligati.» Così
dicendo, diessi in potestà loro. Condotto a Bolzano, ultimo destino gli
soprastava. Le palle soldatesche ruppero in Mantova il patrio petto di
Andrea, lui, non che intrepido, quieto in quell'estrema fine.

Acquistata tanta vittoria dall'Austria, veniva a Napoleone in mente
l'antica cupidigia di Roma. Decretava, il dì 17 maggio di quest'anno
in Vienna stessa queste cose: Considerato che quando Carlo Magno
imperadore dei Franzesi, e suo augusto antecessore, diede in dono ai
vescovi di Roma parecchi paesi, glie li cedesse loro a titolo di feudo
col solo fine di procurare sicurezza a' suoi sudditi, e senza che per
questo abbia Roma cessato di esser parte del suo impero considerato
ancora che da quel tempo in poi l'unione delle due potestà spirituale
e temporale era stata, ed era ancora fonte e principio di continue
discordie; che pur troppo spesso i sommi pontefici si erano serviti
dell'una per sostenere le pretensioni dell'altra, e che per questo
le faccende spirituali, che per natura propria sono immutabili, si
trovarono confuse con le temporali sempre mutabili a seconda de' tempi;
considerato finalmente, che quanto egli aveva proposto a conciliazione
della sicurezza de' suoi soldati, della quiete e della felicità
de' suoi popoli, della dignità e della integrità del suo impero
colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato proposto
indarno, intendeva voleva ed ordinava che gli Stati del papa fossero
e restassero uniti all'impero franzese; che la città di Roma, prima
sede della cristianità e tanto piena d'illustri memorie, fosse città
imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali;
che i segni della romana grandezza, che ancora in piè sussistevano,
a spesa del suo imperial tesoro fossero conservati e mantenuti; che
il debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del
papa si amplificassero fino a due milioni di franchi, e fossero esenti
da ogni carico e prestanza; che le proprietà e palazzi del santo
padre non fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse e a nessuna
giurisdizione o visita, ed, oltre a questo, godessero d'immunità
speciali; che finalmente una consulta straordinaria il 1.º di giugno
prendesse possessione a suo nome degli Stati del papa, ed operasse che
il governo, secondo gli ordini della costituzione, vi fosse recato in
atto il primo giorno del 1810; nè mettendo tempo in mezzo, chiamava,
il giorno stesso del 17 maggio, alla consulta Miollis, creato anche
governator generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo,
e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino.

A questo modo veniva Roma in potestà immediata di Napoleone, ed
i papi, dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del
dominio temporale. Ad atto così grave ed insolito sclamava Pio, e
con la sua pontificale voce a tutto il mondo gridava. E il giorno
appresso, in cui mandava fuori le sue lamentazioni, fulminava la
scomunica contro l'imperator Napoleone e contro tutti coloro che con
lui avessero cooperato all'occupazione degli Stati della Chiesa,
e massimamente della città di Roma. Fulminò altresì l'interdetto
contro tutti i vescovi e prelati sì secolari che regolari, i quali
non si conformassero a quanto aveva statuito circa i giuramenti e le
dimostrazioni pubbliche verso il nuovo governo.

Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo
a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare
di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte e murare gli aditi del
Quirinale, acciocchè non si potesse pervenire nelle interne stanze sino
alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio.
Informarono i napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa e
della fulminata sentenza; pregarono, ordinasse che avessero a fargli.
Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni:
quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro
comando trovò duri esecutori. Andarono la notte del 5 luglio sbirri,
manasdieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali e soldati
alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i masnadieri
ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera, dov'era più basso,
ed entrati, aprirono la porta ai soldati, parte genti d'armi, parte
di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i
cardini, rompevansi i muri: il notturno rumore di stanza in stanza
dell'assaltato Quirinale si propagava; le facelle accese accrescevano
terrore alla cosa. Svegliati a sì grande ed improvviso fracasso,
tremavano i servitori del papa; solo Pio imperterrito si mostrava.
Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di quello
del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato fede
al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed
ecco arrivare i soldati, atterrate o fracassate tutte le porte, alla
stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta
degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio il mondo
della violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo
grado e della sua dignità. Entrò per forza nella pontificia camera il
generale di gendarmeria Radet, cui accompagnava un certo Diana, che
per poco non aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato
in una congiura contro di Napoleone. Radet, pensando agli ordini
dell'imperadore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i due
milioni, rivocasse la scomunica, altrimenti sarebbe preso e condotto
in Francia. Ricusò non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior
forza, il pontefice la proferta. Poi disse perdonare a lui, esecutore
degli ordini; bene maravigliarsi che un Diana, suo suddito, si ardisse
di comparirgli avanti, e di fare alla dignità sua tanto oltraggio;
ciò non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il
rifiuto, trapassava a protestare, dichiarando nullo e di niun valore
essere quanto contro di lui, contro lo Stato della Chiesa e contro la
romana Sede aveva il governo franzese fatto e faceva; poi disse essere
parato; di lui facessero ciò che volessero; dessergli pure supplizio e
morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo
passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ciò
solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori
del suo palazzo ed ai soldati che non avevano abborrito dal mescolarsi
con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli offeriva
Radet desse il nome dei più fidi cui desiderasse aver compagni al suo
viaggio. Diedelo; nessuno gli fu conceduto. Fugli per forza svelto dal
grembo Bartolommeo Pacca cardinale. Poi fu con presto tumulto, condotto
assiepandosegli d'ogni intorno le armi soldatesche, nella carrozza che
a questo fine era stata apparecchiata, e con molta celerità incamminato
alla volta di Toscana. Solo era con lui Radet. Mentre gl'indegni fatti
notturnamente si commettevano nel pontificale palazzo, Miollis, sorto
a vegliare la impresa, se ne stava ad udire i rapporti che ad ogni
momento gli pervenivano, nel giardino del contestabile passeggiando.

Stupore ed orrore occuparono Roma quando, nato il giorno, vi si sparse
la nuova della commessa enormità. Portavano i carceratori il pontefice
molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama.
Trasmettevansi l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il
captivo e potente Pio. Quel di Genova temendo qualche moto in Riviera
di levante, l'imbarcava sur un debole schifo che veniva da Toscana.
Addomandò il pontefice al carceratore se fosse intento del governo di
Francia di annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava
nelle apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni
non galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per
le soldatesche, a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocità
di volo. A Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli
per partire con maggiore celerità che non era venuto. Lasso dall'età,
dagli affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone
il voleva vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio: Adunque starommi
questa notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il
Cenisio: gl'italiani popoli, non avendo potuto per la velocità venerare
il pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i
luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri li chiamavano
per isventura, sacri per dignità, sacri per santità. Pacca fedele fu
mandato, come se fosse un malfattore, nel forte di Pierrechateau presso
a Bolley. Fu lasciato il papa fermarsi qualche giorno a Grenoble, poi
messo di nuovo in viaggio. Come se altra strada non ci fosse, fu fatto
passare a Valenza di Delfinato, stanza di morte di Pio VI, atto tanto
più incivile quanto non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza
di Provenza il condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia
a Savona. Ma celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro
che presenti vedevano il pontefice, niuno sapeva; perchè delle lettere
dei privati poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, nè dove
andasse. I Franzesi con la medesima riverente osservanza l'onoravano,
con cui lo avevano onorato gl'Italiani: il trattarono i prefetti dei
dipartimenti con sentimento e rispetto: così aveva comandato Napoleone.

Napoleone vincitore tornava in Francia nella imperial sede di
Fontainebleau. I deputati italiani già l'aspettavano per le adulazioni.
Moscati, orando pel regno italico, ringraziò delle date leggi;
Zondadari cardinale, per la Toscana, della data Elisa. Per Roma vi fu
maggior magniloquenza. Braschi, oratore della città dei sette colli,
favellò degli Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre Tevere.

Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro
antenati; passerebbe le Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso
loro; gl'imperatori franzesi suoi predecessori avergli scorporati
dall'impero e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi
popoli non ammettere più alcuna divisione. Sotto le medesime leggi,
sotto il medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia; del resto,
aver loro bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio,
e volerlo usare a benefizio loro: ciò non ostante non intendere che
alcun cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo
primogenito della Chiesa, non voler uscire dal suo grembo; non avere
mai Gesù Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranità
temporale: la romana sede essere la prima della cristianità, essere il
vescovo di Roma capo spirituale della Chiesa, lui esserne l'imperadore:
voler dare a Dio ciò ch'è di Dio, a Cesare ciò ch'è di Cesare.

Intanto in Roma francese, la romana consulta, come prima prese il
magistrato, pensò alla sicurezza del nuovo Stato, sapendo quanti mali
umori e quante avverse opinioni covassero: parve bene spiare sul bel
principio i pensieri più segreti degli uomini: ordinava la polizia:
creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo carico.
Ciò quanto ai detti ed ai fatti segreti; quanto agli scritti, anche
segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e
data al direttore della posta di Francia. Nè la cosa fu solo in nome;
perchè con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere
che s'indirizzavano a Savona dov'era il papa. Si usava in questo un
rigore eccessivo. Importava che, a confermazione della quiete, si
unisse la forza alle notizie, nè potendo i soldati di Francia essere in
ogni luogo, si crearono le guardie, urbane in Roma, provinciali nelle
provincie, legioni chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il
conte Francesco Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi uomini furono
buoni per impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal
affare, che infestavano l'agro romano e le vicinanze stesse di Roma.
Trapassossi a partire il territorio, con fare due dipartimenti, di cui
chiamarono l'uno del Tevere e l'altro del Trasimeno; nominaronsene
a tempo i due prefetti, un Giacone ed un Olivetti. Trassersi gli
ufficiali municipali; furono le elezioni di gente buona e savia;
faceva la consulta presto, ma faceva anche bene. Ostava alla nuova
amministrazione dei comuni l'ordine del buon governo, il quale, creato
da Sisto V ed attuato da Clemente VIII, aveva l'ufficio di amministrar
i comuni, nè senza grande utilità loro. La consulta l'abolì,
sostituivvi le forme franzesi. Il consiglio municipale di Roma chiamò
senato; elessevi personaggi di gran nome, i principi Doria, Albani,
Chigi, Aldobrandini, Colonna, Barberini, i duchi Altieri, Braschi,
Cesarini, Fiano. Braschi fu nominato maire, o vogliam dire sindaco
di Roma. Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere,
anche nella città imperiale e libera di Roma. Nè le leggi civili e
criminali di Francia si omettevano; che anzi, per ordinazione della
consulta, si promulgavano sì quanto alle persone, sì quanto alle cose,
sì quanto ai diritti, e sì quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato
presidente della corte di appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e
profonda, di non ordinaria letteratura, e di giudizii e di stato molto
intendente. Chiamato consigliere di Stato a Parigi, vi diede saggi di
quell'uomo dotto e prudente ch'egli era.

Le casse intanto più di ogni altra cosa premevano; Janet ne aveva cura.
Conservò la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo
di franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad
un milione, ed il dazio della mulenda, che si estimava ad una valuta
circa di cinquecento mila franchi. Tra il lusso dei primi magistrati,
la miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non
poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Pure buon uso faceva
la consulta di una parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone,
e da lui impetrò anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro
alla duchessa di Borbone parmense ed a Carlo Emmanuele re di Sardegna,
che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della
religione; nobile atto e da non tralasciarsi negli annali.

La parte più malagevole del romano governo era l'ecclesiastica: aveva
il papa, già fin quando le Marche erano state unite al regno italico,
proibito i giuramenti; confermò questa proibizione per lo Stato romano
nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone
del giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una
disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficoltà nel giurare
la fedeltà; dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola
di fedeltà, perchè credevano che importasse di riconoscer l'imperador
Napoleone come loro sovrano legittimo: al che giudicavano di non poter
consentire, non avendo il papa rinunziato. Imprendeva a giustificare
i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta, uomo di gran sapere e di
maggior ingegno. Sani ed irrefregabili erano i principii del Dalpozzo
quanto all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano
di giurarla al nuovo Stato, e di più di giurare di non partecipare
mai in nessuna congiura e trama qualunque contro di lui, così un
governo giusto e buono avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone
esigeva il giuramento di fedeltà, sì perchè gli pareva che un tal
giuramento implicasse la riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal
modo effettivamente, come abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e
gl'intimati, sì perchè voleva fare scoprire i renitenti, per avere un
pretesto di allontanarli da Roma, dove li credeva pericolosi. Vi era
in questo troppa scrupolosità da una parte, troppo rigore dall'altra:
la materia aveva in sè molta difficoltà. La romana consulta procedeva
cautamente. Operando alla spartita, cominciò dai vescovi. Altri
giurarono, altri ricusarono. Aveva il vescovo di Tivoli giurato; ma
pentitosi, fece pubblicamente la sua ritrattazione: i gendarmi se lo
pigliarono, ed in Roma carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i
non giurati, suonando loro d'ogni intorno le armi dei gendarmi, chi
in Francia, chi a Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono
condotti. Fu anche portato via da Roma, come non giurato e troppo
devoto al papa, un Bacolo veneziano, vescovo di Famagosta, uomo
molto nuovo e di natura facetissima, che dava una gran molestia alla
polizia. Spedita la faccenda dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti
i canonici. Molti giurarono, molti ancora non giurarono; i gendarmi
si affacendavano. Molto maggiore difficoltà avevano in sè i giuramenti
dei curati, massimamente di quei di Roma, uomini d'innocente vita e di
evidente vantaggio dei popoli, non solamente pei sussidii spirituali,
ma ancora pei temporali.

Rappresentò la consulta, che in questo opinava saviamente, che
s'indugiasse. Napoleone mandò loro dicendo che voleva i giuramenti da
tutti, ed obbedissero. Delle province la maggior parte ricusarono: i
gendarmi se li portarono. Dei Romani, i più si astennero: i renitenti
portati via, e se infermi ed impotenti all'esilio, serrati in San
Callisto.

A questo tempo furono soppressi nello Stato romano i conventi sì di
religiosi che di religiose, i forestieri mandati al loro paese, i
paesani sforzati a depor l'abito.

Intendeva la consulta a consolare la desolata Roma. Ciò s'ingegnava di
fare ora con ordinamenti convenienti al luogo, ora con ordinamenti non
convenienti, e sempre con animo sincero e buono. Pensava alle scienze,
alle lettere, all'agricoltura, al commercio, alle arti. Ordinò che
con denaro del pubblico si procacciassero gli stromenti necessarii
alla specola del collegio romano; condusse a fine i parafulmini della
basilica di San Pietro, stati principiati da papa Pio; ebbe speciale
cura delle allumiere della Tolfa e delle miniere di ferro di Monteleone
nell'Umbria. Gente perita, denaro a posta addomandava; due artieri
Romani mandava alla scuola delle mine, due a quella della veterinaria,
due a quella delle arti e mestieri in Francia, semi di utili scienze
nell'ecclesiastica Roma.

Temevasi che la presenza dei Franzesi in Italia, massimamente in
Toscana e nello Stato romano, giunta a quella loro lingua tanto snella
e comoda per gli usi famigliari, avesse a pregiudicare alla purezza
ed al candore dall'italiana favella; timore del tutto vano, perciocchè
quale cosa si potesse ancora corrompere in lei, non si vede. Tuttavia
Napoleone, il quale, unendo Toscana e Roma alla Francia, vi aveva
introdotto negli atti pubblici l'uso della lingua franzese, aveva già
fin dall'anno ultimo decretato premii a chi meglio avesse scritto in
lingua toscana. La consulta di Roma, a fine di cooperare con quello
che l'imperatore aveva comandato, a ciò muovendola Degerando, statuiva
che la lingua italiana si potesse in uno con la franzese usare negli
atti pubblici; benevola, ma strana permissione in Italia. Volle altresì
che l'accademia degli Arcadi si ordinasse in modo che e la letteratura
italiana promuovesse e la lingua pura ed incorrotta conservasse, con
premii a chi meglio l'avesse scritta o in prosa o in versi; Arcadia
sedesse sul Gianicolo, nelle stanze di Sant'Onofrio. Ordinamento
conforme alla fama antica, alle influenze del cielo, alla natura
degli uomini, alle romane usanze fu quello dell'accademia di San Luca,
chiamata, per conforto di Degerando, a più magnifico stato. La consulta
le dava più cospicui sussidii, l'imperator più convenienti stanze, e
dote di cento mila franchi.

La ruina universale aveva addotto la ruina della Propaganda, con avere
o del tutto annientato parte delle rendite, o ritardato la riscossione
delle sussistenze: si aggiunse la rovina del palazzo devastato nel
1800. Adunque ella sussisteva piuttosto di nome che di fatto quando
Napoleone s'impadronì di Roma; poi i frutti dei monti non si pagavano,
la computisteria, per comandamento imperiale, sotto sigilli, gli
archivi portati a Parigi. Volle Degerando rimetterla in istato, e che
si aprissero intanto i pagamenti: l'imperatore stesso aveva dichiarato
per senatoconsulto, volere la sua conservazione, e doterebbela
coll'erario imperiale. Ma distratto primieramente dai gravi pensieri
delle sue armi, poscia dai tempi sinistri che gli vennero addosso, non
potè nè ordinare la macchina, come era necessario, nè far sorgere a
propagazione degl'interessi politici quello zelo che per amore della
religione, per le esortazioni dei papi e per la lunga consuetudine era
sorto nei membri della congregazione ai tempi pontificii. Così sotto
Napoleone ella non fu di alcuna utilità nè per la religione nè per
la politica: solo le sue ruine attestavano la grandezza dell'antico
edifizio e la rabbia degli uomini che l'avevano distrutto.

Le opere di musaico, peculiar pregio di Roma, perivano; perchè pei
danni passati poco si spacciavano, ed anche mancavano i fondi per
le spese degli smalti e degli operai. La principale manifattura che
serviva di norma alle altre era attinente a San Pietro, e si sostentava
con le rendite della sua fabbrica: per le necessità dei tempi, mancando
la più gran parte delle rendite, non che il musaico si conservasse,
pericolava la basilica. Fu proposto di commetterlo all'erario
imperiale; ma perchè Napoleone non si tirasse indietro, fu d'uopo
alla consulta d'inorpellare le cose con dire che il musaico pagato
dall'imperatore non servirebbe più solamente ad obbedire San Pietro,
ma che protetto dal più grande dei monarchi adornerebbe il palazzo
del principe ed i monumenti dell'imperial Parigi. A questi suoni
Napoleone si calava e pagava. Restava che, poichè s'era provveduto
all'opera, si avesse cura degli operai. Essendo la lavoreria loro
addossata al colle del Vaticano ed in parte sotterranea, e perciò molto
malsana, troppo spesso infermavano e sovente il vedere perdevano.
Oltre a ciò, gli armadii e gli scaffali, in cui si conservavano gli
smalti, infracidivano, le tele dipinte che si portavano a copiarsi,
dall'umidità si guastavano. A questo modo era testè perito con
rammarico di tutti un bel quadro del pittore Camucini. Decretò la
consulta trasportassersi gli opificii nelle stanze del santo Ufficio.

Concedutosi dall'imperatore un premio di duecento mila franchi ai
manifattori di Roma, volle la consulta che fossero spartiti a chi
meglio filasse o tessesse la tela o la lana, a chi meglio conducesse
le opere dei merletti, a chi meglio addensasse i feltri, a chi meglio
conciasse le pelli, a chi meglio stillasse l'acquavite, a chi meglio
lavorasse di maioliche, o di vetri, o di cristalli, o di carta, a chi
più e miglior cotone raccogliesse sulle sue terre, a chi piantasse più
ulivi, a chi ponesse più semenza di piante utili.

I musei espilati ai tempi torbidi ora con cura si conservavano: i
preziosi capi d'arte che adornavano i conventi, ed erano molti e
belli, diligentemente si custodivano. Fu anche creata a conservazione
loro dalla consulta una congregazione di uomini intendenti e giusti
estimatori, che furono Lethier pittore, Guattani, de Bonnefond,
l'abbate Fea e Toffanelli, conservatore del Campidoglio.

Conservando Roma odierna si poneva mente a scoprire l'antica: almeno
così desiderava la consulta; la Francia potente e ricca poteva fare. Si
ordinarono le spese del cavare nei luoghi promettenti. Sarebbesi anche,
come pare, fatto gran frutto, se i tempi soldateschi non avessero
guastato l'intenzione.

Discorreva Napoleone di volere visitar Roma sua. Se, di fatto, non
voleva andarvi, l'essere aspettato faceva a' suoi fini: la consulta
pensava al trovar palazzi che fossero degni dell'imperatore.
Castelgandolfo le parve acconcio per la campagna, il Quirinale per
la città, il Quirinale grande e magnifico per sè, sano per sito e con
bella apparenza da parte di strada Pia: ogni cosa all'imperiale costume
si accomodava. Nè la bellezza o la salubrità si pretermettevano.
Disegnavano di piantar alberi all'intorno, di aprir passeggiate,
specialmente alla piazza del Popolo da riuscire a Trinità del monte,
di trasportare i sepolcri fuori delle mura, di prosciugar le paludi. Le
pontine massimamente pressavano nei consigli imperiali. Prony Franzese,
Fossombroni Italiano, idraulici di gran nome e di scienza pari al nome,
le visitavano e fra loro consultavano. Si fece poco frutto a cagione
dei tempi contrarii; e, se le pontine non peggiorarono sotto il dominio
franzese, certo non migliorarono.

Così vivevasi a Roma; con un sovrano prigioniero a Savona, con un
sovrano prepotente a Parigi, con dolori presenti, con isperanze
avvenire, diventata provincia di Francia, non poteva nè conservare
le forme proprie, nè vestirsi delle aliene; tratta in contrarie
parti, lagrimava e si doleva; nè poteva la consulta, quantunque vi si
affaticasse, di tante percosse consolarla e racconfortarla.



    Anno di CRISTO MDCCCX. Indizione XIII.

    PIO VII papa 11.
    FRANCESCO I imp. d'Austria 5.


Era venuto a noia a Carolina di Sicilia, che voleva a giusta ragione
comandare da sè, il dominio degl'Inglesi; nè sperando di riconquistare
il regno di terraferma, desiderava almeno di essere padrona di
quello che le restava. Napoleone aveva penetrato il suo desiderio,
e per mezzo di pratiche le persuase ch'era pronto a secondare le sue
intenzioni. Vennesi ad un negoziato tra l'imperatore e la regina, il
fine del quale era che il re aprisse i porti di Sicilia ai soldati
di Napoleone, e permettesse che gli occupassero, sì veramente che
l'imperatore aiutasse il re a cacciar gl'Inglesi dalla Sicilia. Mentre
questi negoziati pendevano, entrò in Murat il desiderio di conquistar
la Sicilia, sperando che la durezza di quel governo, procurandogli
aderenze negli scontenti, gli aprirebbe la occasione di far frutto
con le spalle loro. Già le troppe franzesi si erano condotte nella
Calabria Ulteriore: al che aveva consentito Napoleone per dar gelosia
agli Inglesi, acciocchè non potessero correre contro Corfù. Ad esse
si erano accostati i Napolitani; la costa di Calabria da Scilla a
Reggio piena di soldati. Vi concorrevano altresì le forze navali del
regno, non senza aver prima combattuto onorevolmente contro le navi
d'Inghilterra, che, per vietar loro il passo, le avevano assaltate
nel golfo di Pizzo, al capo Vaticano e sulle spiaggie di Bagnara. Si
ingiungeva a tutti i comuni posti pel litorale del Mediterraneo che
somministrassero legni armati in guerra per l'impresa di Sicilia. Murat
spesso imbarcava e spesso anche sbarcava le genti per addestrarle.
Ognuno credeva che la spedizione si tenterebbe. Ma siccome il nerbo
principale della spedizione consisteva nei Franzesi, così aveva anche
Murat pregato l'imperatore, affinchè ordinasse che eglino cooperassero
co' suoi Napolitani alla fazione. Napoleone, che a questo tempo
negoziava con la regina, rispose nè approvando nè disdicendo, contento
al moto, o che riuscisse o che solo spaventasse. Nessun ordine mandò
a' suoi, acciocchè si congiungessero con quei del re. Ma Gioacchino,
acceso per sè stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Sicilia, e
persuadendosi di trovarvi gran seguito e facile mutazione, volle tentar
la fazione da sè e con le sole sue forze. Cinque mila Napolitani,
fra i quali era il reggimento reale corso, partivano di nottetempo
dalle vicinanze di Reggio e di Pentimela, e si avviavano alla volta
di Sicilia con intento di approdare tra Scaletta e Messina. Al tempo
stesso Murat, standosene sulla reale scialuppa riccamente addobbata,
dava opera ad imbarcare le genti franzesi, come se anch'elleno
dovessero andare alla conquista, ancorchè sapesse, ed esse meglio
di lui, che non si attenterebbero. Ma avevano consentito ad aiutar
l'impresa con un poco di romore e con quelle vane dimostrazioni.
Sbarcarono nel destinato luogo i Napolitani condotti dal generale
Cavagnac; ma non così tosto posero piede sulle terre siciliane, che
invece di correre uniti a qualche fatto importante, si sbandarono per
vivere di sacco. La qual cosa veduta dai paesani e dalle milizie,
accorsero con le armi ed in folla, ed oppressero facilmente quegli
uomini sfrenati e dispersi: chi non fu morto fu preso; alcuni dei
presi, uccisi per la rabbia civile. Accorrevano gl'Inglesi al romore
dalle stanze di Messina, ma arrivarono quando già la vittoria era
compita. Dopo questo fatto, che non fu senza diminuzione della
riputazione del re, deposta, non senza querela contro Napoleone, la
speranza concepita, ritirava Gioacchino i soldati verso Napoli, e
con pubblico scritto annunziava essere terminata la spedizione di
Sicilia, il che era verissimo. Ma rimasero nell'Ulteriore Calabria
miserabili vestigia del furore delle soldatesche. Tra il guasto fatto
per accampare e quello degli scorazzamenti per le campagne, ne furono
guastate vaste tenute di ulivi e di viti, sole ricchezze che il paese
si avesse. Così il regno di là dal Faro non fu conquistato, quello di
qua desolato.

Intanto i negoziati tra Napoleone e Carolina non poterono tanto restar
segreti che non venissero a cognizione degl'Inglesi: ne intrapresero
anche le lettere certissime. Ciò fu cagione che Carolina a loro, e
principalmente a lord Bentinck, mandato in Sicilia a confermarvi
il dominio della gran Bretagna, tanto venisse in odio, che, per
allontanarla del tutto dalle faccende, la confinarono in una villa
lontana a qualche miglio da Palermo, e poco dopo la obbligarono anche
a partir di Sicilia, accidente molto singolare e strano che sarà
raccontato a suo luogo.

Partito l'esercito, i facinorosi della Calabria, di nuovo uscendo dai
loro ripostigli, ripullulavano, ed ogni cosa mettevano a ruba ed a
sangue. Niuna strada, non che maestra, rimota, niun casale sparso, niun
casale riposto erano più sicuri. Divisi in bande, e sottomessi a capi,
si erano spartite le provincie. Carmine Antonio e Mescio infestavano
coi loro seguaci Mormanno e Castrovillari; Benincasa, Nievello,
Parafanti e Gosia il distretto di Nicastro ed i casali Cosenza; Boia,
Giacinto Antonio ed il Ticiolo, la Serra stretta ed i borghi Catanzaro;
Pannese, Massotta e il Bizzarro le rive dei due mari e l'estremità
dell'Ulteriore Calabria. Spaventò il Bizzaro specialmente e lungo
tempo la selva di Golano e le strade di Seminara a Scilla. Questi
erano gli effetti delle antiche consuetudini e delle guerre civili
presenti. Si temeva che alle prima occasione i capi politici contrarii
al governo, i carbonari massimamente ed i loro aderenti, di nuovo
prorompessero a moti pericolosi. Si sapeva che i carbonari, sempre
nemici dei Franzesi, quantunque se ne stessero quieti, fomentavano
non le ruberie e gli assassinii, che anzi cercavano di frenarli, ma
la incitazione e l'empito, per voltarlo, quando che fosse, contro
quella nazione che tanto odiavano. Si rendeva adunque per ogni parte
necessario a Murat l'estirpar del tutto quella parte dei facinorosi di
Calabria, e lo spegnere, se possibile fosse, la setta tanto importuna
dei carbonari. Varii per questo fine erano stati i tentativi ai tempi
di Giuseppe, varii altresì ai tempi di Murat, ma sempre infruttuosi,
non tanto per la forza della parte contraria e per la difficoltà dei
luoghi, quanto pei consigli spartiti e la mollezza delle risoluzioni.
A ciò fare era richiesto un uomo inesorabile contro i malvagi, ed
un'autorità piena per punirli. Un Manhes generale, aiutante di campo
di Murat, che già aveva con singolare energia pacificati gli Abbruzzi,
parve al re uomo capace di condurre a buon fine l'opera più difficile
delle Calabrie. Il vi mandò con potestà di fare come e quanto volesse.
Era Manhes di aspetto grazioso, di tratto cortese, non senza spirito,
ma di natura rigida ed inflessibile, nè strumento più conveniente
di lui poteva scegliere Gioacchino per conseguire il fine che si
proponeva. Arrivava Manhes nelle Calabrie, a questo solo disposto, che
le Calabrie pacificasse; del modo, qualunque ei fosse, non si curava:
ciò si pose in pensiero di fare e fece, ferocia a ferocia, crudeltà a
crudeltà, invidia ad invidia opponendo. Primieramente considerò Manhes
che l'operare spartitamente avrebbe guastato il disegno; perocchè i
facinorosi fuggivano dal luogo in cui si usava più rigore, in quello in
cui si procedeva più rimessamente: così, cacciati e tornati a vicenda
da un luogo in un altro, sempre si mantenevano. Secondamente, andò
pensando che i proprietarii, anche i più ricchi, ed i baroni stessi,
che vivevano nelle terre, ricoveravano, per paura di essere rubati e
morti, questi uomini barbari. Dal che ne nasceva, che se non si trovava
modo di torre loro questi nascosti nidi, invano si sarebbe operato
per ispegnerli. Si aggiungeva, che la gente sparsa per le campagne,
per non essere manomessa da loro, dava ad essi, non che ricovero,
vettovaglie, e così fra il rubare, il nascondersi ed il vagare, era
impossibile il sopraggiugnerli. Vide Manhes convenirsi, che con qualche
mezzo straordinario, giacchè gli ordinarii erano stati indarno, si
assicurassero gli abitatori buoni, i briganti s'isolassero. Da ciò
ne cavava quest'altro frutto, che i giudizii sarebbero stati severi,
operando contro i delinquenti l'antica paura ed i danni sopportati.
Ferro contro ferro, fuoco contro fuoco abbisognava a sanare tanta
peste, e medicina di ferro e di fuoco usò Manhes. Per arrivare al
suo fine, quattro mezzi mise in opera, notizia esatta del numero dei
facinorosi comune per comune, intiera loro segregazione dai buoni,
armamento dei buoni, giudizii inflessibili.

Chi si diletta di considerare le faccende di Stato ed i mezzi che
riescono, e quelli che non riescono, vedrà nelle operazioni di questo
prudente e rigido Franzese, quanto i mezzi suoi quadrassero col fine, e
ch'ei non andò per le chimere e le astrazioni, come fu l'uso dell'età.
Ordinò che ciascun comune desse il novero de' suoi facinorosi, pose
le armi in mano ai terrazzani, partendogli in ischiere, fe' ritirare
i bestiami e i contadini a borghi più grossi, che erano guardati
da truppe regolari, fe' sospendere tutti i lavori di agricoltura,
dichiarò caso di morte a chiunque che ai corpi armati, da lui non
essendo ascritto, fosse trovato con viveri alla campagna, mandò fuori
a correrla i corpi dei proprietarii armati da lui, comune per comune,
intimando loro fossero tenuti a tornarsene coi facinorosi o vivi o
morti. Non si vide più altro nelle selve, nelle montagne, nei campi,
che truppe urbane, che andavano a caccia di briganti, e briganti
che erano cacciati. Quello che rigidamente aveva Manhes ordinato,
rigidamente ancora si effettuava. I suoi subalterni il secondavano,
e forse non con quella retta inflessibilità ch'egli usava, ma con
crudeltà fantastica e parziale. Accadevano fatti nefandi: una madre,
che ignara, degli ordini, portava il solito vitto ad un suo figliuolo
che stava lavorando sui campi, fu impiccata. Fu crudelmente tormentata
una fanciulla, alla quale furono trovate lettere indiritte ad uomini
sospetti. Nè il sangue dei carboneri si risparmiava. Capobianco loro
capo, tratto per insidia, e sotto colore di amicizia nella forza, fu
ucciso. Un curato ed un suo nipote, entrati nella setta, furono dati a
morte, l'uno veggente l'altro, il nipote il primo, lo zio il secondo.
Rifugge l'animo a chi già tante orrende cose raccontò, dal raccontare
i modi barbari che contro di loro si usavano. I carbonari, spaventati
dalle uccisioni, perocchè molti di loro perirono nella persecuzione, si
ritirarono alla più aspra montagna.

I facinorosi intanto, o di fame, per essere il paese tutto deserto e
privo di vettovaglie, perirono, o nei combattimenti, che contro gli
urbani ferocemente sostenevano, morivano, o, preferendo una morte
pronta alle lunghe angosce, o da sè medesimi si uccidevano, o si davano
volontariamente in preda a chi voleva il sangue loro. I dati o presi,
condotti innanzi a tribunali straordinarii composti d'intendenti delle
provincie, e di procuratori regi, erano partiti in varie classi, quindi
mandati a giudicare dai consigli militari creati a posta da Manhes.
Erano o strangolati sui patiboli, o soffocati dalla puzza in prigioni
orribili: gente feroce e barbara, che meritava supplizio, non pietà.
Nè solo si mandavano a morte i malfattori, ma ancora chi li favoriva,
o poveri, o ricchi, o quali fossero o con qual nome si chiamassero;
perciocchè, se fu Manhes inesorabile, fu anche incorruttibile. Pure,
per opera di chi aveva natura diversa dalla sua, si mescolavano a
giuste pene fatti iniqui. Succedevano vendette che fanno raccapriccio a
raccontare. Denunziati dai facinorosi, che per ultimo misfatto usavano
mortali calunnie, alcuni innocenti furono presi e morti. Talarico
di Cartopoli, capitano degli urbani, devoto e pruovato servitore del
nuovo governo, accusato, per odio antico, da un facinoroso, piangendo
ed implorando tutti la sua grazia, fu dato a morte. Parafanti donna,
per essere, come si disse, stata moglie del facinoroso di questo nome,
arrestata con tutti i suoi parenti, e dannata con loro all'ultimo
supplizio, perì. Posti in fila del destinato giorno, l'infelice donna
la prima, i parenti dietro, preti e boia alla coda, marciavano in una
processione, che non si saprebbe con qual nome chiamare. Eransi poste
in capo ai dannati berrette dipinte a fiamme, indosso vesti a guisa di
San-Benito; cavalcavano asini a ritroso ed a bisdosso. A questo modo
si accostavano al patibolo: quivi una morte crudele pose fine ad una
commedia fantastica ed orribile. Nè davano solamente supplizii coloro
che a ciò fare erano comandati, ma ancora i paesani, spinti da rabbia e
da desiderio di vendetta, infierivano contra i malfattori; insultavano
con ischerni ai morti, straziavano con le unghie i vivi, dalle mani
togliendoli dei carnefici per ucciderli. Furono i Calabri facinorosi
sterminati da Manhes fino ad uno. Chi non morì pei supplizii, morì per
fame. I cadaveri di molti nelle vecchie torri, o negli abbandonati
casali, ed anche sugli aperti campi si vedevano spiranti ancor
minaccie, ferocia e furore; la fame gli aveva morti. Dei presi, alcuni
ammazzavano le prigioni prima dei patiboli. La torre di Castrovillari
angusta e malsana videne perire nell'insopportabile tanfo gran
moltitudine.

La contaminazione abbominevole impediva ai custodi l'avvicinarsi;
i cadaveri non se ne ritiravano, la peste cresceva, i moribondi
si brancolavano per isfinimento o per angoscia sui morti, i
sani sui moribondi; e sè stessi, come cani, con le unghie e coi
denti laceravano. Infame pozza di putrefatti cadaveri diventò la
costrovillarese torre; sparsesi la puzza intorno, e durò lunga
stagione; le teste e le membra degl'impiccati appese sui pali di
luogo in luogo rendettero lungo tempo orrenda la strada da Reggi a
Napoli. Mostrò il Crati cadaveri mutilati a mucchi; biancheggiarono
e forse biancheggiano ancora le sue sponde di abbominevoli ossa.
Così un terrore maggiore sopravanzò un terror grande. Diventò la
Calabria sicura, cosa più vera che credibile, sì agli abitatori che
ai viandanti; si apersero le strade al commercio, tornarono i lavori
all'agricoltura, vestì il paese sembianza di civile, da barbaro ch'egli
era. Di questa purgazione avevano bisogno le Calabrie; Manhes la fece;
il suo nome saravvi e maledetto e benedetto per sempre.



    Anno di CRISTO MDCCCXI. Indizione XIV.

    PIO VII papa 12.
    FRANCESCO I imp. d'Austria 6.


Aveva Napoleone per mezzo del concordato confermata la sua potenza, sì
soddisfacendo al desiderio dei popoli, e sì tenendo con l'imperio degli
ecclesiastici in freno la parte contraria alla quale non piaceva quella
sua immoderata cupidigia di dominare. Restava che la religione romana
stessa domasse con la depressione dell'autorità pontificia: aveva in
ciò un desiderio molto ardente, siccome quegli che era impaziente di
ogni potenza forte che a lui fosse vicina. A questo fine, occupate
le Marche, si era avvicinato alla pontificia sede di Roma, e sotto
colore delle cose di Napoli, mostrava spesso i suoi soldati agli
attoniti Romani. A questo fine ancora aveva occupato la romana città,
e trasportato il papa in condizione cattiva a Savona, retribuzione
certamente indegna di tanti benefizii.

Era arrivato papa Pio prigione a Savona il dì 15 agosto del 1809, se
per caso o pensatamente, perchè quello era giorno festivo di Napoleone,
ognuno giudicherà. Gli furono date sull'arrivare le stanze in casa di
un Sansoni sindaco della città. Accorrevano d'ogni intorno i popoli
per vedere il pontefice. Pure gli agenti imperiali osservavano che, o
fosse timore o fosse opinione, era quivi la moltitudine meno fervorosa,
e minore il fanatismo, così il chiamavano, mostravasi verso il sovrano
pontefice, che in Francia, e che la presenza del papa cattivo non
alterava punto la obbedienza verso il governo.

Sino a che si comandasse altrimenti, erano vietate le udienze al
papa, ed a nessuno si permetteva che gli favellasse, se non presenti
le guardie; su quanto facesse nelle interiori stanze, diligentemente
si vigilava e sopravvigilava; le lettere che scriveva e quelle che a
lui si scrivevano, copiavansi e si mandavano a Parigi. Se ne viveva
il pontefice nel suo savonese carcere con molta semplicità, nè mai si
mostrava sdegnato, quantunque avesse tante cagioni di sdegnarsi.

Desiderava Napoleone che il senatoconsulto dell'unione dello Stato
romano al suo impero sortisse il suo effetto anche per consentimento
del papa. Per la qual cosa gli agenti imperiali continuamente e con
esortazioni vivissime cercavano di muoverlo, acciocchè rinunziasse
al dominio temporale, accettasse i milioni, abitasse il palazzo
arcivescovile di Parigi. Certamente pareva a que' tempi la potenza
di Napoleone inconquassabile; le paci di Tilsit e di Vienna, il nuovo
matrimonio, l'esercito invitto, vincitore, innumerabile la fondavano.
Niuna speranza rimaneva al pontefice di risorgere, il sapeva, il
credeva, il diceva; ma vinse la coscienza: ricusò Pio le imperiali
proposte.

Ma ecco oggimai avvicinarsi il tempo in cui la sua virtù doveva essere
messa a più duri cimenti. Posciachè si era tentato di spaventarlo coi
soldati, di osservarlo con le spie, di sgomentarlo con la segregazione,
di scuoterlo con le minaccie, si faceva passaggio ad assalirlo con le
dottrine e con le persuasioni di coloro che, o per antica amicizia o
pel carattere di cui erano vestiti, si credeva potessero avere molta
autorità nelle sue deliberazioni. In questo mezzo tempo, per intimorire
il papa e farlo consentire a quanto si desiderava con dargli sospetto
che, se non consentisse, tuttavia si farebbe, erasi convocato un
concilio ecclesiastico a Parigi, a cui furono proposti certi quesiti,
acciocchè li dichiarasse.

Intanto Napoleone, costretto dalla necessità, perchè la vacanza
delle sedi episcopali turbava la coscienza dei fedeli, essendo a ciò
consigliato da coloro che appresso a lui trattavano delle faccende
ecclesiastiche, si deliberava ad usare un rimedio che poteva dargli,
secondo che credeva, tempo ad aspettar tempo e conclusione definitiva
delle differenze nate con la santa Sede. Voleva dunque che i capitoli
delegassero l'autorità vescovile ai nominati dall'imperatore; ma
per questo era d'uopo che i vicarii, già eletti dai capitoli stessi
all'atto della vacanza, rinunziassero: però che non vi potessero essere
due delegati. A questo fine indirizzava i pensieri il governo; dal che
nacquero accidenti di non poca importanza, come quelli del cardinale
Maury nominato alla Sede di Parigi, e quello del vescovo Osmond eletto
a quello di Firenze.

Dalle opposizioni del papa provennero nuove minaccie, e alle minaccie
seguitavano i fatti, poichè dall'abitazione pontificia fu sbandito ogni
apparato esteriore, tolte le carrozze, tolti i servitori, soppresso
ogni segno di rispetto, interdetti penna ed inchiostro; usate tutte le
cautele per mutare il papa, e per fare che nissuno sapesse o dicesse o
facesse altro che quello che piaceva al governo.

L'imperatore, veduto che le persuasioni, nè le minaccie, nè gli
spaventi, nè le strettezze non avevano potuto piegare l'animo del
pontefice, e credendo, per le opinioni dei popoli, di non potere da sè
e senza che gli estremi mezzi prima si fossero tentati, fare questa
gravissima mutazione che i vescovi di Francia e di tutti i paesi
sudditi a lui più non ricevessero la instituzione canonica dalla Sede
apostolica, si era risoluto ad usare più efficacemente il sussidio del
concilio ecclesiastico adunato in Parigi. Inoltre, a ciò consigliato
e stimolato principalmente dal concilio stesso, si era deliberato a
convocare un concilio nazionale a Parigi, acciocchè considerasse la
necessità presente, e proponesse i mezzi di rimediarvi. Il concilio
decideva i quesiti secondo le mire del governo, i romani teologi
contraddicevano a quelle decisioni, e le discussioni erano infinite.

Già il disegno ordito contro un papa carcerato era pronto a colorirsi:
i soldati e le spie facevano l'opera loro in Savona, i prelati si
accingevano a farla da Parigi. Erano quindici o cardinali o arcivescovi
o vescovi. Comandava il governo che mandassero una deputazione a
muovere il papa a Savona. Il concilio nazionale convocato a Parigi
pel dì 9 giugno del presente anno, parte ancor egli della macchina per
intimorire il papa, stava pronto a proporgli i termini d'accordo voluti
dal governo.

Il papa, assalito e conquiso da ogni parte, ritirandosi dalla sua
risoluzione di non voler trattare se prima non fosse libero, incominciò
a manifestare le sue intenzioni; ed insomma, tentato in tutte le guise,
e separato dal consorzio del mondo, promise di venire ad un accordo,
il cui importare fosse questo: che sua santità, considerati i bisogni
ed i voti delle chiese di Francia e l'Italia a lui rappresentati dai
deputati, e deliberatosi a mostrare con un nuovo atto la sua paterna
affezione verso le chiese medesime; darebbe l'instituzione canonica ai
soggetti nominati da sua maestà con le forme convenute nei concordati
di Francia e del regno d'Italia; che si piegherebbe ad estendere
con un nuovo concordato le medesime disposizioni colle chiese di
Toscana, di Parma e di Piacenza; che consentirebbe che s'inserisse
nei concordati una clausola, per la quale prometterebbe di spedir le
bolle d'instituzione ai vescovi nominati da sua maestà in un certo
determinato tempo, che egli stimava non poter esser minore di sei
mesi; e caso ch'ella differisse più di sei mesi per altri motivi
che per quelli dell'indegnità personale dei soggetti, investirebbe,
spirati i sei mesi, della facoltà di dare in suo nome le bolle il
metropolitano della chiesa vacante, o, mancando lui, il vescovo più
anziano delle provincie ecclesiastiche. Aggiunse, che sua santità a
queste concessioni aveva inclinato l'animo per la speranza concetta nei
colloqui avuti coi vescovi deputati, che elleno fossero per appianar
la strada ad accordi, che ristorerebbero l'ordine e la pace della
Chiesa, e restituirebbe alla santa Sede la libertà, la independenza e
la dignità che le si convenivano. Fu aggiunto allo scritto contenente
queste promesse del pontefice, i deputati affermarono per consenso di
lui, il papa per sorpresa, un capitolo concepito in questi termini:
Che i diversi aggiustamenti relativi al governo della Chiesa ed
all'esercizio dell'autorità pontificia, sarebbe materia di un trattato
particolare che sua santità era disposta a negoziare tostochè a lei
fossero restituiti i suoi consiglieri e la sua libertà. Ma il pontefice
protestò il giorno appresso contro questa giunta, che i vescovi
deputati consentirono facilmente a cassarla dallo scritto che da Torino
mandarono al ministro.

Grande allegrezza sorse, per le agevolezze promesse dal pontefice,
negl'imperiali palazzi, in cui si stava aspettando con molto desiderio
quello che fosse per partorire l'andata dei prelati a Savona.
L'imperadore, domato in parte il papa, si spinse avanti a soggiogarlo
del tutto. Insorse adunque con maggiori richieste, volendo che quanto
nelle istruzioni date ai deputati aveva ordinato, avesse il suo effetto
per modo che nessuna eccezione di vescovi si potesse fare, il papa
rinunziasse al dominio temporale, e se ne tornasse servo a Roma, e se
ne andasse più servo ancora ad Avignone, ed accettasse lo stipendio. A
questo fine si deliberava di usare il concilio. Mandò primieramente al
pontefice alcuni cardinali, non già i neri, ma i rossi, e di questi nè
anco tutti, ma solo quelli che gli parvero meno alieni dal secondare le
sue intenzioni, Roverella, Dugnani, Fabrizio Ruffo: grande fondamento
poi faceva principalmente sul cardinal Baiana, siccome quello che
era molto entrante e di risoluta sentenza, e sempre era stato nel
concistoro consigliatore di deliberazioni quieto verso lo imperatore.
Aggiunse monsignor Bertazzoli, arcivescovo in partibus di Edessa,
timida ed accomodante persona, congiunto per antica famigliarità col
pontefice ed in grandissima fede e favore appresso di lui.

Così Napoleone minacciava, Baiana parlava risolutamente, Bertazzoli
persuadeva con preghiere e con lagrime. Intanto il ministro dei culti
comandava che nessuna persona che fosse al mondo, salvo i mandatarii,
il prefetto e Lagorsse gendarme, potesse parlare al papa. Intanto il
concilio di Parigi faceva un decreto conforme alle ultime promesse
del santo padre; portasse a Savona una deputazione del concilio,
acciocchè il papa ratificasse e desse un breve conforme. Vide i
deputati umanamente e volentieri il papa: ottennero facilmente il dì
20 settembre, il breve che approvava il decreto conciliare: le sedie
arcivescovili e vescovili più di un anno non potessero vacare; lo
imperatore nominasse, il papa instituisse; se fra sei mesi non avesse
instituito, il metropolitano od il più anziano instituissero essi. Solo
ai notati capitoli aggiunse il seguente: Che se, spirati i sei mesi,
e se alcuno impedimento canonico non vi fosse, il metropolitano o il
più anziano, innanzi che instituissero, fossero obbligati a prendere
le informazioni consuete, e ad esigere dal consecrando la professione
di fede e tutto che dai canoni fosse richiesto. Volle finalmente
che instituissero, in nome suo espresso, e in nome di colui che suo
successore fosse, e tantosto trasmettessero alla sedia apostolica gli
atti autentici della fedele esecuzione di queste forme.

Se non che quanto maggiore si mostrava la condiscendenza del pontefice,
tanto più si domandava, e tutti si serrarono addosso al prigioniero,
acciocchè consentisse alle altre richieste dell'imperadore. A tutta
la tempesta che gli faceva intorno, domandava primieramente il papa
la sua libertà: al che rispondevano i deputati conciliari, ch'egli era
libero. Del giuramento, del rinunziare ai vescovi di Roma, del tornare
a Roma o dello andar ad Avignone in qualità di suddito, con fermezza
grandissima negava. Napoleone, veduto che non si approdava a nulla,
volle pruovare se una solenne e subita minaccia potesse far effetto,
e comandato ai deputati di farla, quelli la facevano. Ma i prelati
partirono disconclusi. Per ultimo cimento, e per ordine risoluto del
ministro dei culti, il prefetto, venuto in cospetto del pontefice, gli
fece gravemente nuove rimostranze ed ammonizioni. Indarno.



    Anno di CRISTO MDCCCXII. Indizione XV.

    PIO VII papa 13.
    FRANCESCO I imp. d'Austria 7.


Le minacce di lontano non avendo prodotto impressione, si volle far
pruova se da vicino fossero più fruttuose. Deliberossi l'imperatore a
tirarlo in Francia, dove potesse vederlo e stringerlo egli medesimo.
La segretezza parve più sicura della pubblicità, la notte più del
giorno. Diessi voce che Lagorsse, capitano di gendarmi, che doveva
accompagnar il papa cattivo nel suo viaggio, fosse venuto in disgrazia
dell'imperatore, e che il principe Borghese il chiamasse a Torino per
udire da lui gl'imperiali comandamenti. La notte del 9 giugno 1812 era
scurissima per accidente; al tocco della mezzanotte, messosi addosso
una sottana bianca, un cappello da prete in capo, la croce vescovile
in petto, lui non ripugnante, anzi serbando serenità, spingevano il
capo della cristianità nella carrozza apprestata e l'incamminavano alla
volta di Alessandria. Spargevano che fosse il vescovo di Albenga che
andasse a Novi. Niuna cosa cambiata in Savona: ogni giorno, e durò ben
quindici dopo la partenza, i magistrati andavano in abito al palazzo
pontificale per far visita al pontefice come se fosse presente; i
domestici preparavano le stanze, apparecchiavano la mensa, andavano
al mercato per le provvisioni, cuocevano le vivande: Fenestrelle in
vita se parlassero. Le guardie vigilavano al palazzo; i gendarmi
attestavano a chi il voleva udire e a chi nol voleva, avere testè
veduto il papa con gli occhi loro o nel giardino, o nel terrazzo, o
in cappella: Suard, luogotenente di Lagorsse, che era consapevole del
maneggio, compiangeva il povero Lagorsse per aver perduto la grazia
dell'imperadore. Chi non sapeva parlava; chi sapeva non parlava:
ma si voleva che niuno parlasse. Insomma già era il pontefice a
dugento leghe, che ancora si credeva che fosse in Savona. Tanto erano
perfettamente orditi i disegni! Arrivava il pontefice il dì 20 giugno a
Fontainebleau: poco dopo vi arrivava anche Napoleone.

Regnava in Napoli Gioacchino, in Sicilia Carolina. Molto operava
Napoleone nel regno di qua dal Faro per la sua potenza, molto
gl'Inglesi in quello di là dal Faro per la presenza: molti e varii
furono effetti ed in chi regnava di nome ed in chi regnava di fatto.
Era Gioacchino tutto intento a turbare le cose di Sicilia sì colle
dimostrazioni guerriere, sì colle instigazioni e con le spie. Carolina
dal canto suo, in ciò aiutata dagl'Inglesi, si era in tutto dirizzata
a questo disegno che la dominazione dei napoleonidi nel regno di
terraferma mal quieta e mal sicura rendesse. Tentavano principalmente
i napoleonidi Messina per la vicinanza ed importanza del luogo. Vi
avevano segrete intelligenze con alcuni uomini d'umile condizione, il
cui fine era di operare moti contrarii al governo. I congiurati, come
gente di basso Stato, non avevano alcuna dipendenza d'importanza; ma
si temeva ch'essi fossero gli agenti di uomini più potenti. Per la qual
cosa, per iscoprire fin dove il vizio si stendesse, il governo mandava
da Palermo sul luogo un marchese Artali, uomo non solo inclinato a
fare quanto il governo volesse, ma capace ancora di far degenerare la
giustizia in sevizia. Terribile fu il suo arrivo, terribile la dimora.
Gridarono i Messinesi; venne avviso della tragedia a Giovanni Stuart,
generale dei soldati britannici. Mandò un lord Forbes a visitare le
segrete dolorose; gli diede per compagni parecchi chirurghi per sanare
le vestigia impresse dal furore del carnefici. Seppesi queste cose il
governo del re Giorgio: gliene fu fatta anche fede indubitata. Se non
dei tormenti, bene gli calse dell'odio che ne veniva contro il governo
siciliano e contro l'Inghilterra: indebolivasene la difesa dell'isola.
Di gran momento era agl'Inglesi la conservazione della Sicilia sì per
sè medesima come pel sito opportuno a difendere Malta ed a percuotere
nel cuore del regno di Napoli. Pensarono ai rimedii. I Siciliani, che
con molta allegrezza avevano veduto la corte venire in Sicilia nel 1798
ora, mutatisi intieramente, alla medesima erano avversi. Incominciavano
gl'Inglesi ad accorgersi che avevano a fare con un alleato, il quale,
dopo di aver procurato odio a sè, il procurava anche a loro. Già se
ne gettavano motti aperti nei giornali di Londra: il governo stesso
pensava ai rimedii. Il fine era questo, che si togliesse la autorità
ai ministri che se l'erano arrogata, e che la parte popolare si
accarezzasse si conciliasse, si fortificasse.

Ma prima che gl'Inglesi comandassero si sperava in un rimedio
domestico: quest'era il parlamento siciliano. Lo aveva il re convocato
nel 1810. Aveva Medici dato molte speranze di questo parlamento, come
se fosse per essere molto liberale di sussidii, donativi li chiamano in
Sicilia. Era Medici uomo molto ingegnoso ed inframettente, nè mancava
di ardimento: perciò, sempre confidente in quanto imprendesse a fare,
sperava di volgere a suo grado il parlamento. Ma nelle sue pratiche
errò in due modi: perchè, credendosi sicuro de' due bracci demaniale ed
ecclesiastico, omise di accarezzare il baronale più potente di tutti,
ed, oltre a questo, usò l'opera di certe persone, le quali, avvegnachè
fossero dotate di singolare abilità, erano nondimeno venute in odio
ai popoli, perchè nel parlamento del 1806 si erano adoperate con molto
calore, acciocchè si aumentassero i dazi. I baroni, con alla testa il
principe di Belmonte, fecero tra di loro un'intelligenza per isturbare
i disegni al ministro. L'esito fu che il parlamento concedesse un
piccolo aumento di donativi, ma interpose tante difficoltà alla
distribuzione e riscossione loro, che fu impossibile di esigerli.
I Siciliani, secondo la natura dei popoli che sempre pagano mal
volontieri, e peggio, quando sono entrati in opinione che chi maneggia
il denaro loro lo sperge, alzarono voci di plauso in tutta l'isola a
favor dei baroni: pel contrario, con discorsi acerrimi laceravano il
nome di Medici e di coloro che nel parlamento l'avevano secondato.

Fu molto memorabile il parlamento siciliano del 1810, perchè i baroni
volontieri e con singolar lode consentirono ad una riforma nei feudi,
che recava loro, quanto alle rendite, notabile pregiudizio; perchè
fu ordinato un censo o catasto delle terre che, sebbene imperfetto,
diede non pertanto qualche utile norma nella faccenda intricatissima
della distribuzione dei dazi, e perchè si migliorarono anche gli ordini
giudiziali, cosa in quei tempi di estrema necessità per la frequenza
intollerabile che era invalsa dei furti e delle rapine.

Ma intanto le tasse a mala pena si riscuotevano, ogni cosa in ruina.
Per ultimo rimedio si chiamava un secondo parlamento. Diede maggiore
agevolezza nel riscuotere le tasse; negò più grossi donativi: ogni
promessa o minaccia della corte indarno; i baroni non si lasciarono
piegare nè alle lusinghe delle parole, nè alle profferte di onori; lo
Stato periva, ei bisognava uscirne. Trovaronsi due rimedi: pagassesi
una tassa dell'un per centinaio sul valsente di tutti i contratti,
stromenti e carte private che si facessero dai particolari; si
vendessero alcuni beni appartenenti a luoghi pii. Non fu consentaneo
alle speranze l'effetto dei due decreti, perchè, secondo gli umori
mossi e l'opinione avversa, i rimedii si cambiavano in veleni.

Questa condizione non era tale che lungo tempo potesse durare senza
variazione. Il governo non rimetteva dal solito procedere; i baroni
instavano, nè erano uomini da non usar bene il tempo; gl'Inglesi ci
mettevano la mano, perchè vedevano che gli andamenti di chi reggeva
precipitavano le cose in favor dei Francesi per la mala soddisfazione
dei popoli, e giacchè avevano pruovato che i consigli dati al governo
non avevano prodotto frutto, si erano risoluti a prevalersi della
nuova inclinazione di animi che era sorta. Tutti volevano comandare,
chi per superbia, chi per interesse, chi per desiderio di regolate
leggi. In questo nacque un accidente, dal quale doveva avere la sua
origine il cambiamento delle siciliane sorti. Fecersi avanti i baroni,
e si appresentarono con una rimostranza al re, supplicandolo della
rivocazione de' due decreti come contrarii alla costituzione siciliana
fino allora inviolata nel diritto di porre le contribuzioni. Portarono
la medesima rimostranza alla deputazione del regno, la quale, dal
parlamento eletta, sedeva, secondo i siciliani ordini, tra l'una
tornata e l'altra del parlamento. Il governo non solamente non si piegò
a questo assalto dei baroni, ma persuase ancora al re che li facesse
arrestare e condurre in luogo dove fosse loro mestieri di pensar ad
altro piuttosto che a rimostrare. Furono arrestati, condotti in varie
isole, serrati in prigioni diverse, e trattati con sevizia cinque dei
primarii baroni del regno. Parlossi anche nelle più segrete consulte
che si uccidessero; ma Medici contraddisse, allegando che un fatto
tanto grave sarebbe certamente occasione di rivoluzione.

Queste cose davano gran sospetto agl'Inglesi, perchè nulla di certo si
potevano promettere da un moto popolare, nè maggior fede avevano nel
governo. Adunque, non potendo più comandare col governo, nè fidandosi
del popolo, si vollero pruovare, ristringendosi coi baroni, di
comandare per mezzo loro.

A questo fine, richiamato a Londra lord Amherst, ambasciatore
d'Inghilterra alla corte di Palermo, mandarono in sua vece
lord Bentinck, uomo di natura molto risoluta; pretendeva parole
di libertà. Non così tosto pervenne in Palermo, che si mise a
negoziare strettamente con la regina, ammonendola dei pericoli che
correvano, rappresentandole la necessità di cambiar di condotta, e
proponendo la riforma degli abusi introdotti nell'amministrazione
e nella costituzione del regno. Insisteva principalmente affinchè
si rivocassero i due decreti e si richiamassero dalle carceri e
dall'esilio i cinque baroni. Aggiungeva che se non si uniformasse ai
desiderii dell'Inghilterra, ei direbbe e farebbe gran cose. Risentissi
la regina a quel parlare, e gli disse apertamente di non voler farsi
serva di chi era mandato a farle riverenza non a comandarle. Sentissi
Bentinck toccar sul vivo, perchè veramente aveva avuto dal re Giorgio
potestà di consigliare, non di comandare. Tuttavia non si tirava
indietro, e con pertinacia contrastando, disse che se non aveva mandato
a ciò, lo andrebbe a cercare; e come disse, così si metteva in punto
di fare. Tuttavia scese a nuovo abboccamento; ma non si potè venire
ad alcuna conclusione, per forma che l'ambasciatore disse per ultima
risposta: O costituzione o rivoluzione. Nè interponendo dilazione,
partì, andò a Londra, e in tre mesi tornò con mandato amplissimo. Ma
i ministri d'Inghilterra, avvisandosi che le parole non basterebbero,
diedero a Bentinck podestà suprema sopra tutte le truppe inglesi
raccolte nell'isola, acciocchè quello che pei concilii non potesse,
colla forza il potesse. L'ambasciatore parlò, minacciò; la regina si
ritirava ad un suo casino poco distante dalla città. L'evento finale
si avvicinava, si rompevano le trame napoleoniche in Sicilia, la parte
inglese trionfava. Bentinck, recatosi in mano la somma dell'autorità,
operò primieramente che Ferdinando re, sotto colore di malattia,
rinunziasse alla potestà reale ed investisse di lei pienamente il
principe ereditario suo figliuolo con titolo di vicario generale del
regno. Bentinck fu eletto capitan generale della Sicilia, accoppiando
in tal modo in sè l'imperio militare e sopra i soldati del re Giorgio e
sopra quelli del re Ferdinando.

Atti primi e principali del nuovo reggimento furono il richiamare i
baroni carcerati, il licenziare i ministri del precedente governo,
l'abolire il dazio dell'un per centinaio, il chiamare ministri Belmonte
degli affari esteri, Villarmosa delle finanze, Aci della guerra e
marina. Indi puniti pochi più in odio al popolo, mandavansi i rimanenti
in dimenticanza.

Intanto il principe vicario convocava il parlamento. Era il mandato dei
membri, provvedessero che la Sicilia avesse un buono e libero governo,
rimediassero agli abusi, creassero nuovi ordini di costituzione. I
baroni avevano maggior autorità degli altri. Bentinck era accesissimo
in questo, che promulgassero libertà e statuti generosi in ogni luogo.
Incominciossi dagli ordini supremi della costituzione. Statuirono che
la religione cattolica, apostolica, romana fosse la sola religione
del regno; che il re la professasse; quando no, s'intendesse deposto;
la potestà legislativa fosse investita nel solo parlamento, e solo il
parlamento ponesse le tasse; i suoi decreti approvati dal re avessero
forza di legge; l'approvare od il vietare del re in questa forma
si esprimesse: Piace al re, o: Vieta il re; la potestà esecutiva
fosse investita nel solo re, e sacra ed inviolabile la sua persona;
i giudici avessero intiera indipendenza dal re e dal parlamento: i
ministri fossero tenuti di ogni atto, e fosse in facoltà del parlamento
l'esaminarli, il processarli, il condannarli per crimenlese; due camere
componessero il parlamento, una dei comuni o dei rappresentanti del
popolo, l'altra dei pari del regno; i rappresentanti fossero eletti
dal popolo a norma di certe forme prestabilite; fosse pari del regno
chiunque avuto seggio nel braccio ecclesiastico o baronale, o chiunque
il re chiamasse a tale dignità; stesse in facoltà del re il convocare
il parlamento, ma fosse obbligato a convocarlo ogni anno; la nazione
desse al re dote splendida, e con ciò i beni della corona cedessero in
amministrazione della nazione; niun siciliano potesse essere turbato nè
nelle proprietà, nè nella persona, se non conforme alle leggi sancite
dal parlamento; s'instituissero forme giudiziali peculiari pei pari del
regno; la camera dei comuni sola avesse facoltà di proporre i sussidii,
o vogliam dire i donativi, il parlamento vedesse quali e quante parti
della costituzione della Gran Bretagna convenissero alla Sicilia, ed
esse ad utilità comune si accettassero.

Questi furono i capitoli principali della costituzione siciliana circa
agli ordini primitivi dello Stato. A questi si aggiunse una maraviglia
non senza molta parte di gratitudine per certi capitoli aggiunti,
essendone posto il partito dei baroni: il fecero per generosità
d'animo, il fecero per conciliarsi i popoli. Offerirono spontaneamente,
e fu dal parlamento statuito che il sistema feudatario fosse e restasse
abolito in Sicilia, con tutte le sue conseguenze.

Giubilavano i Siciliani dell'ottenuta libertà, la generosità dei
baroni ed i nuovi ordini con somme lodi esaltando. Restava che il
re, cioè il principe vicario, appruovasse. Fuvvi qualche soprastare.
Duro pareva a chi regnava lo spogliarsi dell'autorità; infine tanto
operarono Bentinck, il parlamento ed i segni dell'impazienza popolare,
che il principe vicario dichiarò piacergli i capitoli. La regina si
ritirava a Castelvetrano, terra distante sessanta miglia da Palermo,
finchè nell'anno seguente, lasciando la Sicilia, portata dai venti e
dall'avversa fortuna in istrani e barbari lidi, potè infine con disagi
incredibili rivedere la sua Vienna, riabbracciare i parenti e respirare
l'aere natio, donde solo poteva sperar conforto. Ma non fu lungo il
sollievo, perchè, presa da subita malattia, passò poco tempo dopo da
questa all'altra vita.

Mentre Guglielmo Bentinck dominava in Sicilia, Eduardo Pellew
signoreggiava i mari Mediterraneo ed Adriatico. Era la terra in mano
ad un solo, il mare in mano ad un solo. Nacquero accidenti ora in
questo mare, ora in quell'altro, ma di poco momento per la superiorità
tanto notabile di una delle parti, e la depressione dell'altra.
Predarono gl'Inglesi già sino dal 1811 molte onerarie al capo
Palinuro. Nell'Adriatico poi, per istringere il presidio di Ragusi,
s'impadronirono, presso a Ragonizza, di una conserva di navi, anch'esse
cariche di vettovaglie. Fatto di maggiore importanza è una battaglia
navale combattuta aspramente nelle acque di Lissa, una delle isole
antemurali della Dalmazia. Vinse la fortuna britannica: le fregate
franzesi la Corona e la Bellona vennero in potere degl'Inglesi; la
Flora si condusse in salvo, la Favorita andò di traverso. Per questa
fazione Lissa cadde in potestà degl'Inglesi. Vi fecero una stanza ferma
ed un nido sicuro, dove e donde poteva ritirarsi ed uscire a dominar
l'Adriatico.

Già i fatti assalivano Napoleone; la ambizione, che mai non dormiva in
lui, gli toglieva l'intelletto. Come la Francia, la Germania, l'Italia
non poteva capirgli nell'animo che di tutta Europa signore non fosse.
La Russia e l'Inghilterra gli turbavano i sonni, quella amica poco
sincera, questa nemica costantissima. Parevagli che due grandi imperii,
quali erano il suo e quel di Alessandro, non potessero sussistere
insieme nel mondo. Questi pensieri tanto più gli turbavano la mente,
quanto più prevedeva che non poteva domar l'Inghilterra, se prima
non domasse la Russia. Per questo e per altri ancor più vasti disegni
ambiva di soggiogarla, confidando che il vincerla gli metterebbe in
seno l'imperio del mondo.

Dall'altro lato la Russia, che vedeva il cimento inevitabile, pensava
che il più presto sarebbe il meglio; mezzo mondo era vicino a marciare
in guerra contro mezzo mondo, i due imperii apprestavano le armi con
tutte le forze loro.

Risolutisi i due potenti imperatori al venirne al cimento delle armi
ed al contendere fra di loro dell'imperio del mondo, cominciarono,
come si usa, a gareggiar di parole, allegando l'uno contro l'altro
piccoli fatti, certamente molto abbietti e molto indegni di tanta
mole. Essi sapevano il motivo vero della guerra: tutto il mondo se lo
sapeva; questo era la impossibilità del vivere insieme sulla vasta
terra. Napoleone, come più impaziente e più ambizioso, tirandolo il
suo fato, assaltava primo il 23 e 24 giugno. Infierì la guerra in
regioni rimotissime: desolò prima le sponde del Boristene, poi quelle
del Volga: combatterono i Russi a Smolensco, combatterono a Borodina
sulla Masewa: era fatale che sui confini dell'Asia perisse la fortuna
napoleonica: arse Mosca, immensa città, cagione e presagio di casi
funesti. Una rotta toccata a Murat avvertiva Napoleone che il nemico
si faceva vivo, e che quello non era più tempo di starsene in fondo
delle Russie. Gli restava l'elezione della strada al ritirarsi.
Pensò di ridursi, passando per Calug e Tuia, a svernare nelle
provincie meridionali della Russia: vennesi al cimento terminativo di
Malo-Yaroslavetz, in cui mostrarono un grandissimo valore i soldati
del regno italico. Quivi perirono le speranze di Napoleone, quivi si
cambiarono le sorti del mondo, quivi rifulse principalmente la virtù
di Kutusof, generalissimo di Alessandro. Napoleone, ributtato con
ferocissimo incontro, fu costretto a voltarsi di nuovo alla desolata
strada di Smolensco; il russo gelo spense l'esercito: pianse e piangerà
eternamente la Francia, piange e piangerà l'Italia il suo più bel fiore
perduto.



    Anno di CRISTO MDCCCXIII. Indizione I.

    PIO VII papa 14.
    FRANCESCO I imp. d'Austria 8.


Al suono delle rotte napoleoniche, la Prussia insorgeva e si vendicava
cupidissimamente in libertà. Napoleone ritornava nella sua sede di
Parigi. Murat, sbalordito da accidenti tanto straordinarii, abbandonato
l'esercito, se ne veniva a Napoli; presene il governo Eugenio vicerè.
Aveva Murat mala satisfazione di Napoleone, ed era maravigliosamente
commosso contro di lui, perchè gli aveva attraversato i suoi disegni
sopra la Sicilia, e perchè non gli era ignoto ch'egli aveva negoziato
col siciliano governo di cose pregiudiziali al suo dominio napolitano.
Dall'altra parte gl'Inglesi si erano deliberati a pretendere ed a
mettere fuori certe voci: che oggimai, cioè, era venuto il tempo di
dare all'Italia l'essere independente. Bentinck, o tentativamente o
sicuramente che sel facesse, si spiegava di questo disegno con parole
incitatissime, e dimostrava la Gran Bretagna parata a secondarlo.
Conosceva Gioacchino tutti questi umori. Per questo, tornando da Mosca,
passò dove più che in altri paesi d'Italia questi desiderii si erano
accesi, e si mise a fare gran promesse. Bentinck, conosciuto l'uomo,
e volendo turbare fin dalla bassa Italia le cose a Napoleone, il
confortava ad assumere le insegne di campione dell'italica franchigia.
Insinuazioni consimili facevansi ad Eugenio, perchè da Napoleone si
distaccasse; e non senza frutto. Tanto poi si era fatto per l'attività
del vicerè, che si era creato un esercito giusto, composto parte di
Franzesi raccolti dai presidii e dagli iscritti dell'Italia franzese,
parte di soldati del regno, alcuni veterani, molti novelli. Il vedere
queste genti dava qualche sicurtà ai popoli, se non di vincere,
almeno di negoziare, e non si disperava dello stato franco. La
tempesta intanto di verso il mare e di verso il Tirolo e l'Illirio si
avvicinava.

Aveva l'imperadore Francesco, che in grandissima prontezza si era
allestito alla guerra, mandato un forte esercito in cui si noveravano
meglio di sessanta mila buoni soldati ai confini per modo che cingeva
tutto il regno italico da Carlsbad di Croazia insino al Tirolo.
Obbedivano tutte queste genti al generale Hiller, uomo di grande
sperienza per esser già molto oltre con gli anni e vecchio ancora di
milizia. Militavano con lui non pochi generali di nome, tra' quali
principalmente si notavano Bellegarde e Frimont, capitani esperti
nelle italiche guerre. Mandava fuori Hiller un suo militare manifesto,
con cui, descritte primieramente le forze e le vittorie della
lega, esortava gl'Italiani «a levarsi contro il tiranno a generale
liberazione dell'Europa conquassata sì lungamente da tanti movimenti
ed a cooperazione di poderosi eserciti che accorrevano in aiuto loro da
ogni banda.»

Questo era il nembo che minacciava il regno italico dai paesi di
settentrione e di oriente. Verso ostro i confini non gli erano sicuri,
perchè gli alleati, facendo grande fondamento sulle sollevazioni dei
popoli, si erano accordati, che mentre gli Austriaci l'assalterebbero
dalla parte loro, gl'Inglesi, o con soldati proprii, o con soldati
d'ogni paese, massimamente Italiani raccolti in Malta ed in Sicilia, o
finalmente con qualche mano di Austriaci, infesterebbero i due litorali
dell'Adriatico, tanto dalla parte della Dalmazia e dell'Istria, quanto
da quella di Italia. Intendevano anche a percuotere nei lidi italiani,
entrando per le bocche del Po per far diversione in favore dello sforzo
principale che calava dalle Alpi Rezie, Giulie e Noriche. Avevano anche
speranza, sebbene il vedessero incerto e titubante, che Gioacchino
di Napoli si sarebbe congiunto a loro; e le forze del re di Napoli
erano di grande momento perchè andavano a ferire il regno italico a
fianco ed alle spalle, e dove aveva minor difesa, perchè nissuno anche
previdentissimo, avrebbe potuto immaginare questo, che Gioacchino di
Napoli fosse un giorno per muovere l'armi contro l'italico regno.

Nè dovevano restare senza disturbo le sponde del Mediterraneo, perchè
gli Inglesi, essendo ormai certi delle intenzioni di Gioacchino, si
proponevano di far impeto con quei loro soldati multiformi e racimolati
da ogni paese, nella Toscana, provincia che credevano non senza ragione
avversa al nuovo Stato, e desiderosa di tornare all'antico. Venivano
con loro Bentinck e Wilson generale colle loro pubblicazioni di libertà
e d'independenza. Avevano essi trovato non saprebbesi che bandiere
con suvvi scritto il motto _Indipendenza d'Italia_, e dipinte due mani
che si toccavano in segno di amicizia e di colleganza. A questo modo
suonava di ogn'intorno un forte nembo al regno italico.

Il vicerè forbiva ancor egli le sue armi. Aveva circa sessanta mila
soldati, nei quali erano i veterani italiani venuti di Spagna, i
soldati di nuova leva e la guardia reale italiana, bella e valorosa
gente; sommavano gl'Italiani circa ad un terzo. I Franzesi anch'essi,
o raccolti prestamente dai presidii, o chiamati dalla Spagna con
celeri passi accorrevano al sovrastante pericolo. Li partiva in tre
principali schiere: la prima, che obbediva a Grenier, aveva le sue
stanze sulle rive del Tagliamento e dell'Isonso, terre tante volte
ancora gloriosamente conquistate dai Franzesi; la seconda, retta da
Verdier, alloggiava a Vicenza, Castelfranco, Bassano e Feltre. La
terza, quest'era la Italiana, posava a Verona ed a Padova: la governava
Pino. Una parte di essa, sotto l'obbedienza dei generali Lecchi e
Bellotti, era mandata a custodire l'Illirio, la cavalleria stanziava
a Treviso; per vigilare intanto agli accidenti del Tirolo, parte
che dava grandissima gelosia, una schiera di soccorso alloggiava in
Montechiaro; quando poi divenne il pericolo più imminente, fu mandata
sotto il governo di Giflenga a combattere in Tirolo contro un corpo di
Austriaci condotto dal generale Fenner. Secondavano tutto questo sforzo
dalla Dalmazia, ma piuttosto per difendere che per offendere, pel
piccol numero dei soldati, i presidii, la maggior parte italiani, di
Zara, Ragusi e Cattaro. Ora, diventando ad ogni momento la guerra più
imminente, pensò il vicerè a spingersi più innanzi, andando a porre il
campo principale ad Adelsberga, terra poco distante dalla sponda destra
della Sava, sulla strada per a Carlsbad di Croazia e per a Lubiana di
Carniola. Al tempo stesso, allargandosi sulla sinistra, mandava una
forte squadra a custodire i passi di Villaco e di Tarvisio, avendo
avviso che Hiller, fatto un assembramento molto grosso a Clagenfurt,
minacciava di farsi avanti, sì per isforzare quei forti paesi, e sì
per condursi, montando per le rive della Drava, alle regioni superiori
dell'affezionato Tirolo.

Gli Austriaci, cingendo con largo circuito tutta la fronte
dell'esercito italico, avevano un grandissimo vantaggio, il quale ed
all'occorrenza presente ed alla natura sempre circospetta molto bene si
conveniva. Sicura era la loro destra pei fatti succeduti in Germania,
ed ultimamente per l'adesione della Baviera alla lega dei principi
uniti contro Napoleone. In questo ancora molto momento recavano i
Tirolesi pronti ad insorgere contro il nuovo dominio, e la inclinazione
loro rendeva sicuro il loro paese alle forze austriache e dava sospetto
al vicerè, perchè potevano offenderlo a mano manca ed alle spalle.
Nè meno avvantaggiata condizione avevano gli Austriaci sulla loro
sinistra, posciachè sapevano che le popolazioni dalmate e croate erano
pronte a sorgere contro i presenti dominatori.

Correvano i Dalmati, inclinava verso il suo fine agosto, contro i
presidii, i Croati contro gl'Italiani. Zara, Ragusi e Cattaro tenuti da
deboli guernigioni, romoreggiando nimichevolmente i popoli d'intorno
e tenendo infestato la campagna, cedettero facilmente. Una presa di
Croati, avvalorata da qualche battaglione di Austriaci, urtando contro
Carlsbad, facilmente se ne impadroniva. Gli Austriaci ed i Croati, più
oltre procedendo, s'insignorirono di Fiume, ritiratosene il generale
Janin, impotente a resistere. I Croati, ch'erano stati arrolati sotto
le insegne franzesi, dai loro signori segregandosi, ritornavano alle
antiche insegne di Austria. Mentre a questo modo felicemente si
combatteva per gli Austriaci verso lo Adriatico, mandavano grossi
squadroni verso il Tirolo. Giunto a Brixen, scendevano per le rive
dell'Adige con intento di andar a battere nelle veronesi e nelle
bresciane regioni. Al tempo stesso veniva alle mani nel mezzo: fu
preso e ripreso Grinborgo con molto sangue da ambe le parti. Sorse un
gravissimo contrasto a Villaco, e dopo un feroce combattere, in cui la
città fu presa e ripresa parecchie volte, e finalmente arsa per opera
dei Tedeschi, i Franzesi rimasero vincitori. Gli Austriaci, seguitando
il consiglio loro, si allargavano sulle corna. Trieste, preso e ripreso
più volte, venne in potestà loro; già tutta l'Istria loro obbediva.
Dalla parte superiore, precipitandosi dalle Alpi Tirolesi minacciavano
di far impeto contro Belluno, e più alle spalle le armi loro suonavano
nelle regioni vicine a Trento. Conoscendo ed usando il vantaggio
avevano passato la Sava a Grinborgo ed a Ramansdorf, per dove facevano
sembianza di condursi per Tulmino nelle regioni superiori del Friuli.
Anche contro Villaco preparavano un grande assalto.

Non era più in potestà del vicerè il resistere. Avevano gli avversarii
maggior numero di soldati ed i popoli amici; erano al vicerè minori
le forze ed i popoli avversi. Ritirandosi adunque, fermossi prima
sull'Isonzo qualche giorno, poscia sulla Piave, combattendo sempre
valorosamente, sempre inutilmente. Le stanze della Piave non si
potevano conservare. Già gli Austriaci, scesi a Bassano, vi avevano
fatto una testa grossa, ed insistendo alle spalle, davan timore di
estrema rovina al vicerè, se presto non si ritirasse. Fu infatti
costretto a combattere a Bassano una battaglia molto grave. Durò
due giorni, il 31 ottobre ed il primo novembre. Vinse la fortuna
franzese ed italiana. Entrarono i vincitori, e pernottarono nella
sanguinosa città. Acquistò Eugenio facoltà di ritirarsi più quietamente
sull'Adige; marciava indietro, parte per Padova, parte per Vicenza,
andando ad alloggiarsi a Verona ed a Legnago.

Sulle veronesi sponde incominciavano a manifestarsi fra gl'Italiani
mali semi contro il vicerè, che, già insino in Prussia dopo le
disgrazie di Russia, si era lasciato uscir di bocca parole di cattivo
concetto verso gl'italiani generali. Nè il suo disprezzo nelle semplici
parole contenendosi, era trascorso sino agli atti: delle quali cose
tenendosi eglino molto offesi, avevano appoco appoco sparso una mala
contentezza fra i soldati, dal che ne seguivano nel campo sinistre
mormorazioni, ed anche atti aperti di sdegno contro il principe.

Intanto non rimetteva in Eugenio il desiderio di farsi famoso in
guerra. Corse in Tirolo, vi fece fazioni onorate, ma senza frutto;
liberò Brescia dal nemico, ma indarno; ruppelo in una grossa e bene
combattuta battaglia a Caldiero, ma tornossene poco dopo là dond'era
venuto: il nemico, che era stato rincacciato fin oltre all'Alpone,
venne fra breve a rinsultare San Michele di Verona. Appena la fronte
dell'Adige, fiume grosso e munito sotto dalla fortezza di Legnago,
sopra dai castelli di Verona, si poteva tenere.

Ecco un secondo nembo approssimarsi al Po, nè fia l'ultimo a
raccontarsi, ancorchè sia prossimo il fine della tragedia. Aveva
il generale austriaco Nugent combattuto virilmente in Croazia ed in
Istria contro gl'Italiani che occupavano quella parte del regno. Ma
quivi ogni cosa era oggimai divenuta sicura a lui, sì per la ritirata
di Eugenio, come perchè le fortezze di Lubiana e di Trieste si
erano arrese all'armi tedesche. Sola restava dell'antico austriaco o
veneziano dominio in mano del vicerè la città di Venezia. Per la qual
cosa Nugent, messosi sulle navi a Trieste, era venuto a sbarcare a
Goro con una grossa mano di accogliticci; poi si spingeva tostamente
innanzi e s'impadroniva di Ferrara. Quivi correva il paese coi suoi
soldati leggieri, chiamando in ogni luogo i popoli a sollevazione.
L'importanza del fatto era che si congiungesse con le schiere d'Austria
che, venute col grosso dell'esercito, già si erano condotte a Padova.
A questo fine, Nugent, passato il Po con una parte de' suoi, e preso
alloggiamento in Crespino, si era accostato all'Adige. Dall'altro
canto Bellegarde, generalissimo succeduto ad Hiller, per consentire
coi movimenti di Nugent, aveva avviato a Rovigo una presa di tre mila
soldati sotto la condotta del generale Marshall.

Come prima il vicerè ebbe avviso del tentativo di Nugent, aveva
speditamente mandato un corpo sotto il governo del generale Decomby
a Trecenta, acciocchè facesse opera d'impedire la congiunzione delle
due squadre nemiche. Al tempo stesso Pino, che governava Bologna,
assembrava quante genti poteva e le spingeva avanti alla guerra
ferrarese. Ripresesi Ferrara, ma indarno pegli accidenti che seguirono.
Aveva bene Decomby cacciato Marshall da Rovigo con non poca strage, e
costretto a ritirarsi a Boara padovana. Ma gli Austriaci continuamente
ingrossavano coll'intento di congiungersi con Nugent, che tuttavia era
in possessione di Crespino. Mandava perciò il vicerè nuovi aiuti col
generale Marcognet verso il basso Adige, acciocchè cooperassero al fine
comune con Decomby. Uscirono i Tedeschi da Boara padovana; Decomby e
Marcognet gli assaltavano. Sorgeva un ostinata zuffa: combatterono i
Franzesi felicemente a destra, infelicemente a sinistra; si ritirarono
i Tedeschi nel loro sicuro nido di Boara padovana; ma colto il
destro che offerivano loro la notte e la mala guardia a cui stavano
i Franzesi, con un impeto improvviso li ruppero e li costrinsero
a ritirarsi prima a Lendinara ed a Trecenta, poi a Castagnero.
Riacquistarono Rovigo: fu tolto ogni impedimento alla congiunzione
di Nugent e di Marshall. Nugent, fatto sicuro per la congiunzione,
s'incamminava a Ravenna, e da Ravenna a Forlì.

Ora trovavasi Gioacchino di Napoli molto perplesso, e siccome
le novelle di Germania, di Francia e d'Italia giravano fauste od
infauste, si appigliava a questa parte ed a quella, a questo partito
ed a quell'altro. Molto in lui poteva il desiderio di conservare il
suo reale seggio, molto la paura di Napoleone. Perciò procedendo con
la sua naturale varietà, aveva negoziato ora coll'Austria, ora con
Bentinck, ora con Eugenio, qualche volta con tutti insieme, nè si
accorgeva che tutti il conoscevano. Intanto, già sicuro dell'Austria
e dell'Inghilterra, ma non ancora sicuro di sè medesimo, si avviava
verso l'Italia superiore. Già occupava Roma, già occupava le Marche,
nè ancora l'animo suo scopriva. Pretendeva parole di amicizia verso
il regno italico. Lasciato passare in Ancona ed in Roma amichevolmente
dai presidii franzesi, gettava gioconde e pacifiche parole di Francia e
di Napoleone. Infine, veduta la ritirata del vicerè, udite le novelle
dell'avvicinarsi i confederati molto grossi al Reno per invadere la
Francia, ed aspettato Bentinck oramai vicino a tempestare in Toscana,
rimossa finalmente ogni dubitazione, si risolveva a scoprirsi del
tutto ed a fare quello che il mondo non avrebbe potuto pensare e di
che si perturbò più d'ogni altra cosa Napoleone. Fermava i suoi casi
con l'Austria, stipulando con lei un trattato. Bellegarde annunziava
pubblicamente agl'Italiani la congiunzione di Gioacchino con la
lega. Gioacchino, scoprendosi nemico in quei paesi dov'era entrato e
stato accolto come amico, sforzava il generale Barbon, che custodiva
in nome di Francia la fortezza di Ancona, e Miollis che teneva
castel Sant'Angelo, alla dedizione. Tutto lo Stato romano veniva
all'obbedienza dei Napolitani.



    Anno di CRISTO MDCCCXIV. Indizione II.

    PIO VII papa 15.
    FRANCESCO I imp. d'Austria 9.


Le forze preponderanti di Bellegarde, i progressi di Nugent sulla
sponda destra del Po, l'accostamento del re di Napoli alla lega e la
presenza delle sue numerose schiere del Modenese toglievano al vicerè
ogni possibilità di conservare gli alloggiamenti dell'Adige. Fatti
pertanto gli apprestamenti necessarii, si tirava indietro, e andava
a porsi alle stanze assai più sicure del Mincio. Il dì 8 febbraio
usciva ottimamente ordinato a campo per combattere in una campale
battaglie Bellegarde. Ogni schiera, passato il fiume, correva ai luoghi
destinati, quando la fortuna, per un accidente improvviso, ridusse il
disegno bene ordinato ad un moto disordinato. Nel momento stesso in cui
Eugenio si proponeva di assalire Bellegarde sulla sinistra del Mincio,
si era Bellegarde risoluto ad andar a trovare Eugenio alla destra.
L'esito però fu che Bellegarde fu costretto a tornarsene sulla sinistra
del Mincio, ma intero e ristretto; il che obbligò anche il vicerè a
ritirarsi con tutta la sua forza sulla destra.

Intanto Eugenio si accorgeva che non era più in sua facoltà d'indugiar
a soccorrere alle cose d'oltre Po, che, per la invasione dei Napolitani
diventavano ogni ora più difficili. Munita già di qualche maggiore
fortificazione Piacenza, vi mandava con qualche aiuto di nuove genti
Grenier. Formava l'antiguardo del nemico Nugent co' suoi Tedeschi,
Istriotti ed Italiani; il retroguardo Gioacchino coi suoi Napolitani.
Come primo Grenier arrivava, rincacciava con forte rincalzo all'ingiù
Nugent, e la sforzava a tornarsene più che di passo al Taro. Nugent
però, sperando di arrestarne l'impeto, si era fermato con tre mila
soldati a Parma. Il Franzese, urtando la città da ogni parte, vi
entrava per viva forza, ritirandosene a tutta fretta colla minor parte
de' suoi soldati il Tedesco. Il re di Napoli, tornato più grosso, e
sforzato finalmente il passo del Taro, già si avvicinava a due miglia
da Piacenza. Quivi l'arrestavano, non la forza degli avversarii, ma più
alte e più strepitose sorti.

Pellew e Bentinck comparivano in cospetto di Livorno: avevano molte
e grosse navi con sei mila soldati da sbarco, italiani, siciliani,
inglesi. Il governatore vuotò la città per patto; vi entrarono
gl'Inglesi il dì 8 marzo. Suonavano le armi, suonavano le parole;
si scrivevano i manifesti, si sventolavano le bandiere dell'italiana
independenza. Bentinck in questo si mostrava molto acceso, Wilson il
secondava.

Ma l'Inglese, siccome quegli che era uomo audace ed operoso, tosto
giungeva alle parole i fatti. Ebbe avviso a Livorno che Genova si
guardava solamente da due mila soldati; abbondava d'armi e di munizioni
navali; si accingeva ad espugnarla. Giunta a Sestri di Levante,
udiva che nuovo soccorso era entrato a custodir Genova per forma che
il presidio sommava a sei mila soldati: presidio insufficiente alla
vastità delle fortificazioni, ma bastante a rendergli molto dura la
impresa; il reggeva Fresia. Dal modo onde si era questi apparecchiato
conseguitava che era a Bentinck necessità di insignorirsene per un
assalto vivo. A questo ordinava i suoi, che mostravano un grandissimo
ardire ed una prontezza incredibile a fare quanto egli volesse.
Succedevano i fatti a secondo de' suoi pensieri. Non volendo il
presidio dei forti Tecla e Richelieu aspettare l'ultimo cimento, si
arrese a patti. Gli assediati, vedendo che, per la perdita di quei
forti, correvano pericolo di esser presi alle spalle, fecero avviso
di ritirarsi del tutto dentro le mura, lasciando le difese esteriori
in potere dei confederati. Già per opera di Bentinck si piantavano le
batterie per fulminare la città. In questo, ad accrescere il terrore,
arrivava sopra Genova Pellew con tutta la sua armata, attelandosi
a fronte di Nervi. Ai piccoli cannoni di Bentinck si aggiungevano i
grossi e le bombarde di Pellew per modo che allo assalto che si vedeva
imminente, ogni cosa presagiva un successo prospero a chi assaltava. Si
venne in sul convenire: Fresia si arrese il dì 18 aprile.

Bentinck, acquistata la possessione di Genova, faceva sorgere
speranze di franco stato nei Genovesi. Ordinava pertanto un governo
preparatorio, ed i motivi pubblicamente per lui detti suonavano che,
stantechè i soldati d'Inghilterra retti da lui avevano scacciato
dalle terre di Genova i Franzesi, e che importava che alla quiete ed
al governo dello Stato si provvedesse, considerato ancora che a lui
pareva che universale desiderio della nazione genovese fosse il tornare
a quella antica forma alla quale era stata sì lungo spazio obbligata
della sua libertà, prosperità e indipendenza, voleva ed ordinava che
quello che i popoli genovesi desideravano, si risolvesse in atto e si
mandasse ad effetto.

Già tutta l'Italia era sottratta dallo imperio di Napoleone: solo
restava la parte che si comprende tra il Mincio, il Po e le Alpi. Ma la
somma delle cose per lei si aveva piuttosto a decidere sulle rive della
Senna che su quelle del Po. Infatti, come prima pervennero in Italia
le novelle della presa di Parigi e della rinunziazione di Napoleone,
pensò il vicerè a pattuire per la sicurezza delle genti franzesi, nè
si conveniva che, poichè i Borboni, ai quali erano le potenze amiche,
si trovavano reintegrati in Francia, i Franzesi combattessero contro
di loro. Inoltre desiderava il vicerè, con facilitare le condizioni ai
Borboni ed ai potentati, avvantaggiare le proprie, e fare in modo che
gli alleati usassero contro a lui meno inimichevolmente la vittoria.
A questo fine uscito di Mantova, si abboccava con Bellegarde, l'uno e
l'altro accompagnati da pochi soldati. Convennero che si sospendessero
le offese per otto giorni; che intanto i soldati franzesi che
militavano col vicerè, passate le Alpi, ritornassero nelle antiche sedi
di Francia; che le fortezze di Osopo, Palmanova, Legnago, la città
di Venezia si consegnassero in mano degli Austriaci; che gl'Italiani
continuassero ad occupare quella parte del regno che ancora era in
poter loro; che fosse fatto facoltà ai delegati del regno di andar a
trovare i principi confederati per trattare di un mezzo di concordia,
e che se i negoziati non riuscissero a felice fine, le offese tra gli
alleati e gli Italici non potessero ricominciare se prima non fossero
trascorsi quindici giorni da che i primi si fossero scoperti delle
intenzioni loro.

La convenzione di Schiarino Rizzino, che in questo luogo appunto si
concluse il dì 16 aprile, spegneva del tutto il regno italico. Perchè,
segregati i Franzesi dagli Italiani, nasceva una tale disproporzione
di forze tra gl'Italiani ed i Tedeschi, che quel patto, il quale dava
quindici giorni d'indugio alle ostilità, era indarno.

Il vicerè, acconce le cose sue, già faceva pensiero di ritirarsi negli
Stati del re di Baviera, col quale era congiunto di parentado pel
patrimonio della principessa Amalia. Ma ecco arrivar novelle, o vere
o supposte, che Alessandro imperatore consentirebbe a conservargli il
regno, sì veramente che i popoli il domandassero. Accettava Eugenio
le liete speranze: fecersi brogli, cominciossi dall'esercito ridotto
in Mantova. L'intento parte ebbe effetto e parte no; ma l'importanza
consisteva in Milano capitale. Viveva in questo momento il regno
diviso in tre sette; alcuni desideravano il ritorno dell'Austria con
niuna o poca differenza dall'antica forma; gli altri pendevano per
l'independenza, ma chi ad un modo, chi ad un altro; conciossiachè chi
l'amava, con avere per re il principe Eugenio, e chi l'amava, con avere
per re un principe di altro sangue, specialmente austriaco; questa era
la parte più potente.

Dopo molti e caldissimi dibattimenti, decretava il senato che si
mandassero tre legati a' confederati, supplicandoli, ordinassero che
cessassero le offese; domandassero i legati che il regno d'Italia fosse
ammesso a godere dell'independenza promessa e garantita dai trattati;
testificassero quanto il senato ammirasse le virtù del principe vicerè,
e quanta gratitudine del suo buon governo avesse.

Seppesi la deliberazione. Fece la parte contraria, che abborriva
dal nome di Eugenio, un concerto. Entraronvi i capi principali delle
armi, le case più eminenti di Milano; si aggiunsero i negozianti più
ricchi, e fra gli scienziati e letterati i meno paurosi. Domandavano
che si convocassero i collegi elettorali. Era il 20 aprile, quando,
essendo il senato raccolto nella sua solita sede, una gran massa di
gente, gridando, a lui traeva: era il cielo nuvoloso e scuro, pioveva
leggiermente, un'apparenza sinistra spaventava gli spiriti tranquilli.
I commossi non ristavano. Eravi ogni generazione di uomini, plebe,
popolo, nobili, operai, benestanti, facoltosi. Le donne stesse, e
delle prime partecipavano in questo moto. Era tutta questa gente volta
a bene, ed il male, non che l'avesse fatto, non l'avrebbe neppure
pensato. Ma, come suole, incominciavano ad arrivare e da Milano e
dal contado uomini ribaldi che volevano tutt'altra cosa piuttostochè
l'independenza. Queste parole scritte andavano attorno: «Hanno la
Spagna e l'Alemagna gittato via dal collo il giogo dei Franzesi;
halle l'Italia ad imitare.» Tutti gridavano: «Noi vogliamo i collegi
elettorali: noi non vogliamo Eugenio.» Fuggirono i senatori partigiani
del principe; il senato si disciolse. Entrò il popolo a furia nelle
sue stanze, e tutto con estrema rabbia ruppero e lacerarono. Gridossi
da alcuni uomini di mal affare mescolati col popolo: «Melzi, Melzi,»
e già si mettevano in via per andarlo a manomettere. Un amico di lui
gridò «Prina:» era Prina più odiato di Melzi, ed ecco che corsero
a Prina, e flagellatolo prima crudelmente, l'uccisero, con insultar
anco al suo sanguinoso cadavere lungo tempo. Cercarono di Meiean e di
Damay; non li trovarono. La folla frenetica, messe le mani nel sangue,
le voleva mettere nelle stanze. Già le case si notavano, già le porte
si rompevano, già le suppellettili si recavano; la opulenta Milano
andava a ruba. A questo passo i possidenti ed i negozianti, ordinata la
guardia nazionale, frenarono i facinorosi e preservarono la città.

Il vicerè, che tuttavia sedeva in Mantova, uditi i moti di Milano
indispettitosi, diè la fortezza in mano degli Austriaci. Partiva indi
per la Baviera, le italiche ricchezze seco portando.

I collegi elettorali, adunatisi, crearono una reggenza. Decretarono
che le potenze alleate si richiedessero dell'indipendenza del regno, di
una costituzione libera, e di un principe austriaco, ma indipendente.
Si appresentarono i legati a Francesco imperatore a Parigi. Esposte
le domande, rispose, anche lui esser Italiano, i suoi soldati avere
conquistata la Lombardia: udrebbero a Milano quanto loro avesse
a comandare. Entrarono gli Austriaci in Milano il dì 28 aprile:
Bellegarde ne prendeva possessione in nome dell'Austria il 23 di
maggio. Così finì il regno italico.

Continuava Genova in potestà d'Inghilterra. Il congresso di Vienna
decretò, dover Genova cedere in potestà del re di Sardegna.

Così l'Italia, dopo una sanguinosa e varia catastrofe di venti anni,
si ricomponeva a un di presso nello stato antico. Tornava Vittorio
Emmanuele in Piemonte, Francesco in Milano, Ferdinando in Toscana, Pio
in Roma; passò Parma dai Borboni agli Austriaci; conservò Gioacchino
il real seggio di Napoli, ma per non durare; le italiane repubbliche
ebbero fine; solo fu conservato l'umile San Marino. Cedè Venezia a
Francesco, Genova a Vittorio.



    Anno di CRISTO MDCCCXV. Indizione III.

    PIO VII papa 16.
    FRANCESCO I imperad. d'Austria 10.


Mentre Napoleone Buonaparte, evaso il dì 26 di febbraio dall'isola
d'Elba, che gli era stata data in sovranità, faceva il solenne suo
reingresso, addì 21 del seguente marzo, nella capitale della Francia,
Gioacchino di Napoli, prevedendo di non potersi a lungo sostenere
sul reale suo seggio col beneplacito delle potenze alleate, pensò di
muoversi con le sue schiere verso l'alta Italia, chiamando da per tutto
gl'Italiani ad unirsi a lui a fine di rendere la patria independente.
Oppose l'Austria imponentissime forze all'ardito tentativo del
Napoleonide, il quale, vinto dagli avversarli, abbandonato da'
suoi, perdette il regno, in cui fu redintegrata l'antica dinastia.
Gioacchino, la notte del 19 al 20 maggio, in compagnia di Manhes
generale e di qualche altro, imbarcatosi, andò in Francia, dove fu male
accolto. Si risolvette allora a passare in Corsica; e quivi ebbe avviso
delle condizioni sotto le quali l'imperatore Francesco gli concedeva
generosamente un asilo ne' suoi Stati. Ma correndogli intorno molti
fuorusciti che l'avevano servito a Napoli, egli s'imbarcò, la notte del
28 settembre, con essi ad Ajaccio, per irrompere nella Calabria. Ma il
dì 13 ottobre trovò a Pizzo la morte.

Intanto era, il dì 8 di agosto, caduta Gaeta, e con essa tutto il regno
tornò sotto il dominio dell'antico signore, il quale, sbarcato già
a Baia il dì 5 di giugno, fece in appresso il trionfale suo ingresso
nella esultante Napoli.

Ceduta nel congresso di Vienna l'isola dell'Elba al granduca di
Toscana, le armi sue costrinsero alla resa la fortezza di Portoferraio,
che ancor si teneva, e quindi dell'intera isola presero possessione il
dì 6 di settembre.

Napoleone, partito per l'isola di Sant'Elena il 26 luglio, vi giunse
nel dì 13 ottobre seguente.



    Anno di CRISTO MDCCCXVI. Indizione IV.

    PIO VII papa 17.
    FRANCESCO I imperad. d'Austria 11.


Due soli avvenimenti meritano di essere notati nel presente anno.

Francesco d'Austria venne nei primi mesi a visitare il nuovo suo regno
d'Italia, che aveva assunto il nome di Lombardo-Veneto per conoscere
da sè i bisogni dei popoli, cui voleva ammessi a godere dei frutti
d'una saggia amministrazione. All'ordine della Corona di ferro, già
instituito sotto il precedente regno, diede l'Augusto imperatore nuovi
statuti, fissando il numero dei cavalieri a cento; cioè venti della
prima, trenta della seconda e cinquanta della terza classe, in tal
numero non compresi i principi della casa imperiale.

L'altro fatto degno di ricordanza si è la restituzione alle italiane
città tutte degli oggetti d'arti e di scienze stati loro in varii tempi
rapiti. I trattati ultimi di Parigi avevano obbligata la Francia a
restituire una preda che senza il più grave insulto alla proprietà ed
all'onor nazionale, non dovea essere fatta all'Italia. Roma, Firenze,
Bologna, Venezia, Torino ebbero più delle altre a rallegrarsi dell'aver
ricuperato un numero prodigioso di produzioni dell'ingegno de' loro
figli, che le rendono superiori per questo conto a qualunque più ricca
città del mondo.



    Anno di CRISTO MDCCCXVII. Indizione V.

    PIO VII papa 18.
    FRANCESCO I imperad. d'Austria 12.


In mancanza di verun avvenimento politico da registrarsi in quest'anno,
diremo la morte del celebre medico Eusebio Giacinto Valli di Toscana.
La passione di più sapere e di rendersi utile all'umanità aveva indotto
quest'uomo singolare a disastrosi viaggi per le quattro parti del
mondo. Fatte in Egitto e a Costantinopoli varie sperienze sopra sè
stesso relativamente al veleno pestilenziale, recossi all'Avana, ove
infieriva la febbre gialla. Quivi, presa la camicia di un marinaio
morto di tal malore, se ne stropicciò il volto, il petto, le mani,
le braccia e le coscie, fiutandola indi come un fiore, e finalmente
ponendosi a contatto del cadavere. Era molto contento della sua
sperienza. A mensa si sentì spossato, per aver corso, diceva. Chiese
del vino, mezzo, secondo lui, per conoscere se avesse acquistato la
malattia. Manifestossi in fatti, e in tre giorni lo spense.



    Anno di CRISTO MDCCCXVIII. Indiz. VI.

    PIO VII papa 19.
    FRANCESCO I imperad. d'Austria 13.


Un trattato, stipulato a Parigi, nel decorso anno, precisamente il dì
10 giugno, fra le corti d'Austria, di Spagna, di Francia, della Gran
Bretagna, di Prussia e di Russia, e pubblicato nell'anno presente,
stabilisce i futuri destini dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla,
che alla morte dell'arciduchessa Maria Luigia, passeranno in tutta
sovranità all'infante di Spagna Maria Luisa, e sua discendenza
mascolina.



    Anno di CRISTO MDCCCXIX. Indiz. VII.

    PIO VII papa 20.
    FRANCESCO I imperad. d'Austria 14.


In mezzo alla profonda pace onde fruiva in quest'anno l'Europa, altro
avvenimento non ne occorre da notare fuor quello che l'imperatore
Francesco di Austria con la consorte e la figlia si recò a Milano e
quivi unitosi all'altra figliuola Maria Luigia, passò nella Toscana,
dove con grandiose feste lietamente lo accolse il suo fratello
granduca.



    Anno di CRISTO MDCCCXX. Indiz. VIII.

    PIO VII papa 21.
    FRANCESCO I imperad. d'Austria 15.


In molte contrade dell'Europa non lievi sciagure cagionò lo spirito
esaltato dei popoli. Ogni angolo ne fu commosso, e pe' due anni
successivi rimase turbata l'universale tranquillità. Nel dì primo
gennaio fu dato il segnale d'allarme in Cadice, dove la forza armata
promulgò la antica costituzione delle Cortes, mentre nello stesso
giorno il fatto medesimo si avverava nell'isola di Cuba. In poco
tempo l'incendio si apprese a tutta la Spagna, sicchè la costituzione
fu nel dì 10 marzo pubblicata in nome del re anche in Madrid. Grave
reazione ne venne per parte dei così detti assolutisti; e ad egual
sorte soggiacque il Portogallo che avea imitato l'esempio della nazione
vicina.

Ma in un'altra estremità d'Europa manifestossi col massimo calore
il genio costituzionale: nel regno di Napoli. La notte del primo al
2 del mese di luglio, la maggior parte del reggimento di cavalleria
Reale Borbone, di presidio a Nola, abbandonate le stanze, inalberò una
bandiera tricolore su cui leggevasi scritto: _Viva la costituzione_.
Imitarono il fatto le provincie vicine, non tanto per parte delle
truppe regolari, quanto delle milizie. Giunte di ciò le nuove a Napoli,
furono subito spediti in varie direzioni corpi di truppe capitanate dai
generali Carascosa e Nunziante; ma intanto molte squadre di paesani,
armati in varie guise, eransi alleate coi costituzionali, e le stesse
truppe reali, unitesi alle altre, eressero nuovo vessillo col moto:
_Viva il re, viva la costituzione_, e coi tre colori adottati dalla
setta dei carbonari.

Manifestandosi in appresso disposizioni consimili anche in altri
reggimenti, il re Ferdinando stimò prudenza il pubblicare, nel dì 6,
una grida, diretta agli abitanti del regno delle Due Sicilie, nella
quale annunziava, sarebbesi sollecitamente pubblicate le basi della
nuova costituzione. Trionfo tale fu preludio di colpo più decisivo:
pubblicarono la costituzione spagnuola, alla quale, nel giorno 13
prestò giuramento il re, unitamente al duca di Calabria, vicario
generale ed erede della corona, al principe di Salerno, alla giunta
provvisionale, ai ministri, ai pubblici impiegati ed alle truppe.
Dichiarata legge dello Stato, parve che l'espediente avesse reso la
calma a quella parte meridionale dell'Italia. Già sino dal giorno 7
avea Ferdinando, atteso lo stato di sua salute, eletto a suo vicario
generale il principe ereditario, il quale, assuntosi il carico, scese
ad appagare i voti della nazione, confermando la costituzione di
Spagna, salvo le modificazioni che la rappresentanza nazionale avesse
trovato d'introdurre per adattarla alle circostanze locali.

Le faville dell'incendio propagavansi in Sicilia, la quale mirava
a svincolarsi dalla soggezione a Napoli. Pertanto, il 16 di luglio,
gli ammutinati in Palermo, commessi molti disordini, s'impadronirono
dell'arsenale, armandosi quindi in massa. Ne sorse una mischia
sanguinosa colle truppe del presidio composto di quattro in cinque mila
soldati. Ma nel giorno seguente, facendo i campagnuoli causa comune co'
Palermitani, i regi rimasero vinti, mentre dalle finestre i cittadini
gli opprimevano, gettando loro addosso olio ed acqua bollente, pietre,
e qualunque cosa lor giungesse alle mani. Quattro mila vittime caddero
in questo fatto, per imperizia e imprevidenza del luogotenente generale
Naselli. Molti edifizii, in ispecie gli archivi e le carceri, furono
preda delle fiamme. Naselli si salvò sulla reale feluca il Tartaro,
di dove elesse una giunta provvisionale ad essa, con una grida del 17
luglio, commettendo il governo dell'isola.

Come pervenne la molesta notizia a Napoli, il duca di Calabria,
nella sua qualità di vicario generale del regno, imprese con gli
scritti e con l'armi a sedare la insurrezione, mandando in Sicilia
il generale Florestano Pepe, al quale, dopo grave e micidiale
combattere, riuscì, giovato dal potere del principe di Paternò sul
cuore del popolo palermitano, a stabilire, nel dì 5 ottobre, che le
truppe napolitane occupassero i forti, ed il dì 6 prendessero posto
al Molo ed intorno alla città. Contuttociò il popolo di Palermo
spiegava la sua inquietudine e l'odio contro gli occupatori. Il
generale in capo, d'accordo con la giunta, potè a poco a poco ridurre
tutti i male intenzionati al dovere, e avendo riconosciuto essere la
popolare sommossa stata tutta prodotta da non pochi oligarchi, che il
napolitano freno disdegnavano, procedette a disarmare i meno inquieti,
ad arrestare i facinorosi, e quindi a costringere i più fervidi che,
trovandosi isolati, si consigliarono a deporre le armi; e con tal modo
fu resa la pace all'isola che per molto tempo rammenterà questa breve
sì, ma funestissima insurrezione.

Contemporaneamente anche i Beneventani si ardirono di seguire l'esempio
dei confinanti: ma il governo di Napoli ordinò espressamente ai
popoli tutti di non prestare aiuto nè diretto nè indiretto a quella
popolazione, non volendo dare motivo di doglianze alla Santa Sede, in
cui potestà era Benevento tornata.

Il parlamento di Napoli in questo mentre teneva sue sessioni, e
spendeva il tempo a cambiare i nomi alle provincie del regno, quelli
volendo repristinare che portavano i loro abitatori al tempo della
repubblica romana. Non pensavano che le principali potenze non
avrebbero permesso che si dicesse che una nazione in Italia avea
imposto al suo re una costituzione. Infatti, congregatosi a Tropau un
congresso di ministri, ivi giunsero, nei primi giorni di novembre,
gl'imperadori d'Austria e di Russia ed il re di Prussia per meglio
discutere le cose di Napoli. L'imperadore Francesco d'Austria scrisse
al re di Napoli, sul finire del mese stesso, una lettera, con la quale
non solo gli dava contezza che il congresso si sarebbe trasferito a
Lubiana, ma lo invitava, a nome ancora degli altri potenti ed illustri
suoi alleati, e recarvisi in persona, per trattare degl'interessi più
cari del suo regno.

Partì di Napoli il re il 13 di dicembre sul vascello inglese il
Vendicatore, e giunse a Lubiana il 14 del successivo gennaio, avendo
già manifestato, con sue lettere da Livorno, ai sovrani riuniti in
congresso ed a quei di Francia ed Inghilterra i proprii sentimenti
sopra gli avvenimenti del napolitano regno.

È notabile il presente anno per l'eccessivo freddo che al suo terminare
regnò in tutta Europa; e più ancora per la morte di Giorgio III, re
d'Inghilterra, accaduta il dì 30 gennaio, e per l'assassinio del duca
di Berry commesso la notte del 13 al 14 febbraio dal sellaio Luigi
Pietro Louvel.



    Anno di CRISTO MDCCCXXI. Indizione IX.

    PIO VII papa 22.
    FRANCESCO I imperad. d'Austria 16.


Quantunque numerose forze fossero dalla Germania calate in Italia
per essere pronte ad eseguire quanto sarebbesi dai sovrani accolti
in congresso a Lubiana risoluto, s'accrebbero nella penisola le
turbolenze. Decretavasi nella lubianese adunanza, numerosissima,
poichè, oltre ai monarchi già ricordati, tutti i principi d'Italia vi
si fecero rappresentare ed il duca di Modena vi assistette in persona,
di porre un termine al germe costituzionale di Napoli, per togliere
agli altri popoli l'esempio di costringere i sovrani a pattuire con
essi. Ma il governo di quella meridional parte d'Italia, preseduto
dal principe ereditario e vicario generale del re, poneasi in istato
di difesa, e minacciava di resistere a qualunque forza straniera che
si fosse presentata per distruggere l'opera che da essi medesimi si
fondava sopra non troppo solide basi, giacchè nulla di giovevole alla
nazione vi faceva quel partenopeo parlamento.

Fatte intanto palesi le risoluzioni delle potenze alleate, numeroso
esercito austriaco varcava il Po, e per varie strade si dirigeva alla
volta di Napoli, sotto il comando del feld-maresciallo Frimont. Con
grande circospezione marciavano le falangi, mentre una sorda voce
annunziava che, appena avessero attaccato i Napolitani, una pressochè
generale sollevazione in Italia, e specialmente negli Stati papali
e nel Piemonte, le avrebbe condotte a certa rovina. Il generale
Frimont, con suo manifesto dotato da Padova, fece conoscere per tutto
ove passava quali fosser le mire della sua spedizione. Una lettera
del re di Napoli, diretta a suo figlio reggente del regno, e fatta
pubblica, avvisò i Napolitani del quanto avessero a temere, se non si
rimettevano ciecamente nelle braccia del loro monarca, arrendendosi
alle forze tedesche. In una dichiarazione mandata fuori da Lubiana, e
resa pubblica in tutti i possibili modi, eransi espressi gli alleati
sovrani che «se, contro ogni calcolo ed a grave rammarico dei monarchi
alleati, questa bene intenzionata impresa, lontana da qualunque mira
ostile, avesse a degenerare in una guerra formale, o la resistenza
d'una implacabile fazione e delle compassionevoli vittime della sua
frenesia venisse prolungata per un tempo indeterminato, allora sua
maestà l'imperadore di Russia, inalterabilmente fedele a' suoi alti
principii, alla sua intima convinzione della necessità di reprimere
male sì grande, fedele a que' nobili e costanti sentimenti di amicizia
di cui ha dato nuovamente tante inestimabili ripruove, associerà i suoi
combattenti a quelli dell'Austria.»

O fosse il timore di vedersi piombare addosso la mole armata de' due
imperii, o che l'editto del re Ferdinando e le grida del generale
austriaco, che avevano già circolato pel regno, avessero diviso gli
animi e tolto il coraggio, o qual si voglia altra causa, forse propria
dall'incostante carattere di quella popolazione, che sel facesse,
piccola fu la resistenza che nel giorno 7 di marzo e ne' tre successivi
presentarono le truppe napolitane comandate dal generale Guglielmo
Pepe, meno ancor delle milizie, le quali, sole pugnarono; ma, vedutesi
abbandonate dai soldati stanziali, si dettero a vergognosa fuga.
In quei tre giorni gli Austriaci superarono le gole d'Antrodoco, si
resero padroni degli Abbruzzi e della strada che dall'Aquila conduce a
Sulmona, e quindi a Napoli. Inoperoso era stato il general Carascosa,
mentre la destra dell'esercito era alle prese con gl'imperiali; laonde
la truppa più disciplinata, più agguerrita, e quella che chiamavasi
scelta, tutta sotto gli ordini di lui, nemmeno si mosse dalle sue
stanze. Adunatosi, alla novella di tali fatti, il parlamento nel giorno
12, si deliberò a pregare il duca di Calabria, vicario generale del
regno, di spedire un messaggio al re, per presentare in suo nome,
un atto di rispetto e di sommissione al monarca. Infatti, fu a tanto
uffizio mandato il generale Fardella a Firenze, ove sino dal 9 marzo
era giunto da Lubiana il re Ferdinando.

Era Ferdinando a fatto di quanto accadeva, ed avea avuto notizia e dei
progressi degli Austriaci e della seguita occupazione di Capua. Accolto
pertanto il generale Fardella, lo rispediva a Napoli con sue lettere al
principe reggente, nelle quali rimproverava gli autori della resistenza
e della violazione del territorio papale, dov'eransi dalle truppe
del generale Pepe cominciate le ostilità. Ma mentre giungeva, era il
24 marzo, l'esercito austriaco entrava per convenzione in Napoli, e
metteasi in possesso di tutti i forti. Fu il principe di Salerno che
volò a recare la felice novella al re suo padre, il quale già aveva
antecipatamente chiamato un governo provvisionale che sino a nuova
sua disposizione assumesse la cura delle cose del regno. Così restò
sciolto il parlamento, incarcerati tutti i membri che lo componevano.
Un editto fulminante pubblicava in Napoli contro i settarii, a nome del
re, il marchese di Circello, presidente del provvisional governo, col
quale, innumerevoli essendo i proscritti, molti si diedero alla fuga,
e furono in contumacia condannati allo ultimo supplizio, ed altri vi
soggiacquero in fatto, mentre altri ancora od erano puniti di esilio o
di galera o di prigione: promessi, per ordine del tribunale di polizia,
mille ducati a chiunque avesse arrestato uno dei designati quali autori
principali della rivoluzione. Il dì 26 marzo anco la piazza di Gaeta si
arrese agli Austriaci, essendo stato il comandante Begani minacciato
d'essere trattato da ribelle in una co' suoi soldati, ove non cedesse
la fortezza. Questo infausto moto produsse adunque al napolitano popolo
soltanto spese enormi, proscrizioni e morti ignominiose. Il generale
Pepe potè sottrarsi a tanti guai, perchè il principe reggente, che
l'aveva in particolare affezione, lo fece allontanare dal regno.

Il re Ferdinando, rientrando nella sua capitale il dì 15 maggio, vi
fu ricevuto tra le acclamazioni d'una popolazione solita a festeggiar
l'ingresso di tutti coloro che destinati sono dalla Provvidenza a
governarla, e con sua notificazione si espresse di voler riformare gli
abusi e purificare tutti i dicasteri, perchè più non avesse nutrimento
l'idra rivoluzionaria. Infatti, molti e molti furono i generali ed
ufficiali dimessi, non pochi gli arrestati, ed in tutti i dipartimenti
non vedevansi che riforme, mutazioni e dimissioni.

Ma la Sicilia non avea dimostrato quella sommissione che gli stati
di qua del Faro, sì nel tempo del regime costituzionale e sì quando
presentaronsi gli Austriaci per entrare nel regno. I due partiti
erano sempre in fermento e fu d'uopo d'un grosso numero di soldatesche
forastiere, le quali, unite ai regi, poterono ricondurvi l'ordine. È
bensì vero che in quella isola minore fu la ricerca che si fece dei
perturbatori dell'ordine pubblico e dei fautori della costituzione,
onde più presto sedaronsi gli animi e più presto obbedienti si
piegarono agli ordini del comandante austriaco e de' regi magistrati.
Una convenzione fu finalmente conchiusa fra sua maestà l'imperadore
d'Austria e il re delle Due Sicilie, nel dì 18 ottobre, e ratificata
l'8 del gennaio susseguente nella quale, a ristabilimento dell'ordine
in tutto il regno, stipulavasi che un esercito austriaco in esso
stanzierebbe sino alla totale pacificazione e al riordinamento delle
cose, a tutto carico e spesa del napolitano erario.

Contemporaneamente ai primi passi sui confini napolitani, una sommossa
scoppiava, per parte delle truppe, nel Piemonte, e segnatamente in
Alessandria, nel dì 8 marzo. Questa voglia di novità si diffuse anco
in parte nella guernigione di Torino ed in altri reggimenti sparsi
in varie città degli Stati Sardi. Gli studenti, i quali, per avere
sino dal dì 11 di gennaio resistito alla truppa in un conflitto
nel quale erano rimasti feriti diciotto loro compagni, aveano avuto
severo gastigo, si unirono ai rivoltosi, e l'esempio loro fu da molta
gioventù seguitato, facendo per ogni dove udire le grida di _viva la
costituzione_. Tutti coloro che per delitti politici erano stati in
varie parti del regno, pochi giorni prima arrestati e tradotti nelle
carceri di Torino, furono posti in libertà. Il re Vittorio Emmanuele,
dal cui animo non era mai uscito il divisamento di sottrarsi alle gravi
cure dello Stato, dopo lungo consiglio, per non mancare agl'impegni
contratti con le alte potenze nel congresso di Vienna e di Tropau,
creò reggente del regno il principe di Carignano, che pubblicò un
editto, annunziando i poteri conferitigli dal re e l'abdicazione di
lui al trono in favore del fratello Carlo Felice, il quale da Modena,
ove in quel mentre si trovava, notificò ai popoli del regno, avere
lui assunto l'esercizio della regia podestà, e non riconoscere allora
nè mai cambiamento alcuno nella forma del reggimento. Nel dì 14 fu
promulgato l'atto, e la formula del principe reggente relativa a tale
promulgazione terminava con le parole: _Giuro altresì di esser fedele
al re Carlo Felice_.

A Genova intanto l'ordine pubblico non era stato alterato; ma il dì 21
di marzo, avendo quel governatore pubblicato la dichiarazione del nuovo
re Carlo Felice, la popolazione, siccome quella che portava opinione
doversi anche in Genova promulgare la costituzione, cominciò a dubitare
della veracità del documento, e ad avere per equivoche le espressioni
del governatore relative al principe, che suonavano di questo tenore:
«S. A. S. il principe di Carignano mi ha fatto conoscere che, mosso
dai sentimenti di onore e fedeltà che lo distinguono, si è pienamente
confermato a quanto nella prelodata dichiarazione viene ingiunto.»
Formaronsi pertanto degli attruppamenti che si diressero al palazzo
del governatore. Accolse egli alcuni dei capi, cercò calmarli, ma non
rimasero paghi. Verso sera crebbe il tumulto, e disarmati alcuni corpi
di guardia, con quelle armi la folla s'avviò a Banchi. Intanto i posti
principali erano stati occupati dai soldati, e collocati sulle mura
due cannoni, a dominio di tutta la strada verso Banchi, ove sorgeva
appunto il palazzo del governatore. L'attitudine delle truppe e due
sole cannonate a polvere poterono disperdere gli ammutinati, e la notte
passò tranquilla. Ma la mattina appresso due colpi a scaglia tirati,
non si sa come nè perchè, dal medesimo posto militare, ferirono due
soldati sotto la loggia e due altri individui; del che esacerbaronsi
molto gli animi, e fin dall'alba del dì 23 udivansi dappertutto alti
gridori, accresciuti dalla sparsa voce che il governatore se ne fosse
la notte fuggito, il che non era. Le cose correvano a questo modo
quando le nuove di Torino mutarono la scena. Sorse una confusione
orribile. Fu creduto che l'editto del governatore non fosse leale; i
nemici di lui avvaloravano il sospetto; molti del popolo si unirono
agli stanziali che aveano abbandonato i posti e le caserme: la
moltitudine entrò nel palazzo, e impadronitasi del governatore, avrebbe
su d'esso sfogato l'odio antico se il generale d'Ison e alcuni altri,
accorrendo in suo aiuto, non l'avessero di colà sottratto per condurlo
in sicuro nel palazzo ducale. Se non che per istrada si svenne, ed
allora trasportato in casa Sciaccaluga in Campetto, emanò poco stante
un decreto col quale eleggeva una commissione di governo conferendole
irrevocabilmente tutti quei poteri che erano in lui, e così rimase
alquanto calmata la città.

Continuavano i rumori insurrezionali in Torino. A Novara, Voghera,
Vercelli ed Alessandria, le truppe discordi erano sempre in procinto di
venire tra loro alle mani. La discordia si propagava tra i liberali;
e molti affezionati alla causa regia, abbandonavano il Piemonte. Ma
l'esito delle cose di Napoli disanimò i capi del partito, i quali
da altro canto vedevansi vicini ad essere attaccati dai Tedeschi
comandati dal generale Bubna, che s'era fatto precedere da una grida
onde i liberali si erano vieppiù costernati. Raffreddossi l'ardore che
aveva il primo moto inspirato nel petto degli amatori della novità,
e il seducente e lusinghiero manifesto del conte di Santa Rosa valse
a mantenere il coraggio in chi già si consideravo esposto a tutte le
forze austriache, stante la sommissione totale del regno di Napoli.

Infatti, il conte di Bubna, informato che gl'insorti soldati piemontesi
movevansi verso Novara contro quelli che, rimasti fedeli al re,
militavano sotto il generale La Torre, si deliberò a prestare a
questo capitano il suo aiuto. Laonde, varcato, la notte del 7 all'8
di aprile, il Ticino, e fatta promulgare la grida che dicemmo, il dì
8 la vanguardia tedesca già era dinanzi a Novara. Nel mezzo tempo,
vedendo il principe Carlo Alberto le proteste del duca del Genovese e
la parte attiva che in quelle faccende prendeva il gabinetto austriaco,
notificò in uno suo editto che rinunziava alla reggenza, e abbandonando
l'esercito si ritirò in Toscana, ove poco stante si riparò anche la
sua consorte, figlia di quel granduca. Allora l'esercito si elesse a
capo il marchese di Caraglio, e senza lasciarsi abbattere, si dispose
a resistere agl'imperiali. Ostinato fu il combattimento dato dentro la
stessa Novara; ma i rivoltosi furono costretti a cedere, inseguiti sino
a Vercelli. Questo esercito, che ne' giorni antecedenti ogni ora più
ingrossava, ed era venuto da Torino per indurre i dissenzienti a fare
con esso causa comune, da che si sentì privo di valido appoggio, andò
del continuo scemando, sì che si ridusse al breve numero di cinque mila
soldati. Si mosse il generale Ansaldi, che comandava in Alessandria,
con parte dei suoi in soccorso di Novara; ma fu costretto a rimanersi,
perchè minacciato da una forte colonna austriaca, e che da Piacenza
marciava a Voghera e Tortona; e quindi udita la perdita dei compagni
a Novara, e considerando che quantunque la piazza d'Alessandria ben
provveduta fosse di ogni sorta di munizioni e capace di resistere a
lungo assedio, pure poteva alla fine priva di soccorsi trovarsi al
caso di rimaner vittima con tutti i suoi seguaci, senza utile del suo
partito che sino da quel momento potea dirsi annichilato; con trecento
studenti, alquanti soldati e dragoni, il conte di San Marzan, il conte
Santa Rosa, e molti uffiziali, si diresse verso Genova, dov'ebbe coi
suoi seguaci tutto lo agio d'imbarcarsi per le coste di Spagna, stante
la premura del colonnello Rapello della guardia nazionale genovese,
cui erano stati perciò dati ordini segreti. Con tale evasione, il dì 11
aprile, fu restituita la tranquillità a quelle contrade ancora.

Calmate le cose, il duca del Genovese Carlo Felice, previa rinunzia
del suo regio fratello, assunse il titolo di re e lo esercizio della
potestà suprema. Nel dì 4 di giugno andò ad abboccarsi in Lucca con
esso suo fratello Vittorio, ivi pur ricevendo le chiavi della città
di Alessandria cadute in potere delle armi austriache, e per ordine
dell'imperadore Francesco consegnategli dal generale conte di Bubna.
È noto che il già re Vittorio Emmanuele pregò il suo successore a non
usar il rigore contro i complici della rivolta, volendo considerare
cotale sommossa più come un resultato delle idee del giorno che di
mal animo verso il legittimo sovrano. Pochi adunque furono quelli che
soggiacquero alla morte.

Terminarono finalmente tutte cotali vicissitudini del regno di
Sardegna con una convenzione sottoscritta in Novara il 24 luglio
dai plenipotenziarii piemontesi ed austriaci e con la quale venne
in sostanza fermato: che un corpo austriaco di dodici mila uomini, e
sotto la guarentigia delle alte potenze, rimarrebbe a disposizione di
sua maestà sarda per mantenere, di concerto con le proprie truppe, la
tranquillità interna del regno; corpo da poter essere aumentato ad ogni
richiesta della sua maestà: occuperebbe esso corpo la linea militare di
Stradella, Voghera, Tortona, Alessandria, Valenza, Casale e Vercelli.

In Toscana seguivano, il dì 7 di aprile, gli sponsali tra il granduca
Ferdinando e la principessa Maria Ferdinanda di Sassonia, con giubilo
di quei popoli, i quali nel loro monarca ammiravano il padre e l'ottimo
principe, al loro unanime grido facendo eco i profughi napolitani,
romani e piemontesi, che sotto l'egida delle leggi di lui trovavano
asilo e protezione, essendo che negli Stati per lui governati ricoverò
di essi il massimo numero.

Il dì 5 maggio morì a Sant'Elena Napoleone Bonaparte.



    Anno di CRISTO MDCCCXXII. Indizione X.

    PIO VII papa 23.
    FRANCESCO I imperad. d'Austria 17.


Gli Stati di Napoli di qua dal Faro, o fosse la presenza di numerosi
presidii tedeschi, o la vigilanza della polizia, che senza posa
preveniva tutte le combriccole che di soppiatto si tenevano, godevano
d'una quiete da molto tempo insolita. I masnadieri e gli assassini del
continuo perseguitati e senza remissione puniti. Ma così non era in
Sicilia, ove le opinioni continuavano ad essere in guerra fra loro, e
le falangi alemanne potevano a stento reprimere nelle vicinanze delle
città popolose il brigantaggio. Frequenti erano gli assassinii e gli
omicidii: le carceri rigurgitavano di sospetti, di rei e di prevenuti.
Fecersi le vendette private quasi più che altrove sentire, e fu
d'uopo a' magistrati d'una fermezza particolare per giungere nel corso
dell'anno a rendere la pace alle famiglie, la quiete a' cittadini, la
sicurezza ai viandanti.

La condizione critica nella quale da molto tempo trovavasi la Spagna,
consigliò i monarchi ad unirsi in congresso a Verona, dove convennero
gl'imperatori d'Austria e di Russia, i re di Prussia e delle Due
Sicilie, il re e la regina di Sardegna, il granduca di Toscana con suo
figlio, la duchessa di Parma, il duca di Modena ed il principe reale
di Svezia, le altre potenze mandato avendo i loro plenipotenziarii.
Le risoluzioni di questo congresso non solamente furono notificate
all'Europa con una circolare dei monarchi alleati diretta a tutte le
loro rispettive legazioni e rese pubbliche, ma ben anche portate ad
esecuzione con la guerra nell'anno dopo fatta alla Spagna. Per quelle
conferenze maggiore concordia risultò tra le alte potenze unite nella
sacra alleanza, e tutte le loro misure furono più specialmente dirette
a sopire ogni germe di novità negli ordini di pubblico reggimento, e
viemmaggiormente solidare il principio della legittimità nei troni.

Il dì 13 ottobre morì a Venezia Antonio Canova.

E qui, alla morte di questo sommo ingegno, onor delle arti belle e del
suolo natio, qui in mezzo alla profonda pace e tranquillità dell'Italia
deponiamo la penna per non ripigliarla mai più in trattazioni
tanto superiori alle nostre forze, e nelle quali solo una eccessiva
condiscendenza ci ha impegnato.


  FINE DEGLI ANNALI.



NOTE:


[1] Non so per quale svista l'egregio Botta faccia da Giuseppe II
vedere il Tanucci morto otto mesi prima che il principe austriaco si
fosse recato a Napoli: forse fu per desiderio di lui.

[2] Musica _tedesca_ suol dirsi quella nella quale predomina l'armonia
alla melodia, quest'ultima invece signoreggiando nella musica che
diciamo _italiana_.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Annali d'Italia, vol. 8 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750" ***

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