By Author | [ A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z | Other Symbols ] |
By Title | [ A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z | Other Symbols ] |
By Language |
Download this book: [ ASCII ] Look for this book on Amazon Tweet |
Title: Nuovi versi Author: Betteloni, Vittorio Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Nuovi versi" *** NUOVI VERSI DI VITTORIO BETTELONI CON PREFAZIONE DI GIOSUÈ CARDUCCI BOLOGNA NICOLA ZANICHELLI MDCCCLXXX L'EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI ESERCITERÀ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI PREFAZIONE Chi si ricorda piú della poesia italiana di dieci o undici anni sono? o, meglio, chi si ricorda piú dell'Italia d'avanti il 1870? Il nostro secolo corre — corra anche la frase — a rotta di collo; e poi fra i noi d'oggi e i noi di ieri caddero valanghe da fermare e far ritorcere ben altri fiumi che delle rime e dei versi. I bimbi che nacquero in quell'anno non han per anche pubblicato, ch'io sappia, le loro disillusioni in elzevir; ma a quell'anno noi pensiamo con un sentimento faticoso di lontananza, con in cuore la esclamazione manzoniana, _tanto secol vi corse sopra!_ E pure vivevamo anche allora. Che ardore anzi di vita fra il 67 e il 70! _Forti eran essi e combattean co' forti._ Dopo Mentana, l'assettamento finale della nazione con Roma capitale pareva a tutti, confessiamolo, prorogato. In aspettando, quelli che volevano andar piano o non volevano andare del tutto pensavano fosse tempo di raccogliersi, di misurare la via fatta e da fare, e intanto riposarsi un poco pigliando un rinfresco di letteratura. — Oh un po' di letteratura! — parevano raccomandarsi: — l'Italia è stufa di tanta politica: rivuole della letteratura, magari delle accademie. — Quelli che volevano andar forte — Che riposo — rispondevano — o che rinfresco? Volete della letteratura? Combatteremo anche in versi, anche in prosa, a vostra scelta. — E si ricominciò da una parte, dopo tanti anni, a discorrere di cose letterarie, con certa gravità spolverata a nuovo per l'occasione, ma sotto quell'ombra con chiacchiere e vogliuzze come di donnine incinte. Le appendici e le rassegne critiche parevano diventate altrettante cliniche d'ostetricia. Il teatro italiano è anche nato o è da nascere? A che punto è il concepimento del romanzo italiano? Il _pondo ascoso_ che balza in quella bella rotondità alpigiana sarebbe per avventura la prosa italiana moderna? E alla poesia moderna italiana chi scioglierà il _grembo doloroso_, un prete, un avvocato o un professore? Ma l'embrione almeno di una lingua viva c'è o non c'è in Italia? Per l'appunto: tanto per non venir meno alle gloriose tradizioni, si ricominciò proprio da capo; si ricominciò dalla lingua. Veramente non si ricominciò: quando mai l'Italia, da che Dante le tagliò lo scilinguagnolo col Vulgare Eloquio, ha smesso di guardarsi la lingua? Ora avvenne che una bella mattina di maggio la nazione si svegliò tutta spaventata, che non aveva piú lingua. L'onorevole Broglio, lombardo, pensò provvedere commettendo all'onorevole Giorgini, lucchese, il dizionario dell'uso fiorentino. Io non discuto intenzioni e competenze: noto singolarità di casi: tanto piú che le erbaiole di Firenze pareano aver soggezione dei nuovi Teofrasti. Erano tempi difficili: l'impero napoleonico faceva le crepe da tutti i lati, la Germania fiottava, il socialismo bolliva: pure l'Italia si divertí a scoprire che Benedetto Varchi e il cavalier Salviati non furono, almeno in teorica, fiorentini a bastanza: il ribobolo trionfò per piú mesi fra il dirugginío del macinato: lo stornello sbirichinò fra l'inchiesta su la regía dei tabacchi e il processo Lobbia: quei di Buffalora venivano a gargarizzare il loro _iú_ nelle acque del Mugnone: Calandrino non ebbe mai come in quegli anni il culto che a parer mio gli è dovuto dalle maggioranze, almeno quando s'infatuano per le questioni inutili. Intanto il Manzoni, dopo messo il campo a rumore con la lingua e con la prosa, tornava a fare de' versi. Già, de' versi; ma in latino, e alle anatre, alle anatre dei giardini di Milano: _Fortunatæ anates, quibus aether ridet apertus_ _Liberaque in lato margine stagna patent!_ Libertà d'acqua stagnante nella largura d'un giardino pubblico bene spallierato e ben pettinato: gli auspicii per la lingua e la prosa moderna erano rassicuranti. Pure, l'anarchia e la ribellione che l'onorevole Menabrea giunse a contenere in piazza, l'onorevole Broglio non dico la sguinzagliasse ma certo non poté infrenarla nei libri. Della prosa non voglio parlare. Ma il Prati, che in quegli anni s'era messo a comporre anch'egli versi latini, die' fuori anche un libro dell'Eneide tradotto con tanta foga (per dispetto, credo, ai fiorentinismi lombardi) di latinismi, che né meno basterebbe a ripararli _Nel fluente suo vel la dia Lacena_ di Vincenzo Monti. E pubblicò l'_Armando_, ove latinismi e neologismi e motti e riboboli disfrenava di pari, mescolando epopea e commedia, romanzo e lirica: l'_Armando_, nel quale fra le retoriche del dubbio d'Amleto con l'annesso teschio, fra le declamazioni di Fausto e li sghignazzamenti di Mefistofele in pasticcio di Strasburgo, fra le pose di Caino e di Manfredo con la fusciacca al vento — i tre ponti dell'asino della scuola romantica scettica —, scorrevano rivi di poesia tali che l'Italia non ne aveva da piú anni veduto scendere di piú limpidi e freschi dal suo Parnaso. Il qual Parnaso fu troppo tosato di piante dai falsi classici sí che possa oramai avere acque correnti, se bene è vero che i romantici ci hanno scavato qua e là delle cisterne per la conserva del sentimento e dell'_humour_. Il _canto d'Igea_ nella seconda parte dell'_Armando_ è ciò che di piú sanamente classico ha prodotto la poesia del tempo nostro in Italia. Ludovico Tieck, il piú stravagante e il piú logico dei romantici di Germania, dopo i grotteschi del _Kaiser Octavianus_ e della _Genoveva_, finiva con rimettere in scena una tragedia di Sofocle. Giovanni Prati, il solo veramente e riccamente poeta della seconda generazione dei romantici in Italia, coronava l'ultima opera di quella scuola con una ode che somiglia a un coro di Sofocle. Di passaggio: io mi ostino a servirmi di queste parole, _romantici_ e _romanticismo_, _classici_ e _classicismo_, se bene un falso buon gusto tutto italiano vorrebbe non si pronunziassero piú: come se, omettendo le parole, le cose non restassero, come se avesser ragione i bambini, quando, tappandosi gli occhi, credono sfuggir cosí alla vista o alla conoscenza altrui. Del resto, se tali denominazioni siano bene applicate in tutto, se siano bene, cioè storicamente, intese fra noi, come, per esempio, in Germania, io non debbo dire: ripeto che designano due fatti. Il Prati anche chiudeva la prefazione all'_Armando_ — nobile richiamo alla dignità dell'arte e al rispetto degli artisti, proprio nel punto che l'Italia cominciava a dare troppi segni d'una irrefrenabile inclinazione al materialismo dei subiti guadagni e dei godimenti inferiori — chiudeva, dico, la sua prefazione con questa _ultima parola, per rendersi benevoli e grati i lettori_ «Il mio non è un libro politico.» Fin d'allora si cominciava a predicare il bando della politica dalla letteratura. E il Prati parlava in buona fede: in lui _il nome che piú dura e piú onora_ non ha bisogno d'amminicoli politici. Ma altri predicavano perché a loro dispiaceva che non a tutti piacesse la politica che piaceva a loro. E intanto i partiti seguitavano a spingere e a sollevare, com'è naturale, lo scrittore che usciva dalle loro file e il libro che faceva i loro interessi. I moderati veri, che in fine hanno da essere conservatori se qualche cosa vogliono moderare, trovarono il loro poeta in Giacomo Zanella. Per quelli che invocavano e aspettano l'accordo della libertà con la fede, del progresso col dogma, dell'Italia con la Chiesa, Giacomo Zanella era l'uomo. Ai superstiti dell'antica Italia, agli eredi delle antiche idee, ai riformisti, ai neoguelfi, egli prete ricordava e rinnovava i bei tempi nei quali il prete era parte integrante della società italiana. L'abate italiano, riformista e mezzo-giacobino col Parini, soprannuotato col Cesarotti e col Barbieri alla rivoluzione, che s'era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel carbonarismo del 21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e bandito il _Primato d'Italia_ e il _Rinnovamento_, che aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll'Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo per il santo peccato del patriottismo; l'abate italiano viveva, e viva ancora a lungo e onorato, in Giacomo Zanella, ridotto in certe proporzioni, migliorato in altre parti. La poesia dell'abate Zanella usciva dai seminari; ma da quei seminari veneti _alquanto mondanetti_, illustrati dalla filologia del Forcellini, dall'estetica del Cesarotti, dalle grazie (un po' adipose, a dir vero) del Barbieri. L'abate Zanella aveva cominciato esercitandosi con gli altri chierici in gare di traduzioni da Ovidio e da Orazio; ma poi aveva tradotto anche dello Shelley, e mostra di saperlo apprezzare con larghezza e forza di giudizio, tutt'altro che da seminario. Rifiorivano ne' suoi versi le belle tradizioni della scuola classica: il Mascheroni, didascalico, vi s'era fatto lirico: il Parini lirico vi appariva ammorbidito e piú ortodosso: l'elegiaco e moralista Pindemonte, smessa la cipria con la quale era solito ballare in gara al celebre Picche, pareva aver curato con un trattamento scientifico certa debolezza di nervi presa nell'ambiente poetico inglese del regno di Giorgio III, e s'era un po' riscaldato e imbrunito alla primavera del 1848. Oltre di ciò, nelle poesie dell'abate Zanella gli accordi e le conciliazioni fra la ricerca scientifica e l'autorità del dogma, fra il pensiero moderno e l'eternità della fede, fra il sentimento nuovo irrequieto e le regole dell'arte tradizionale, erano, ingenuamente, sinceramente, candidamente, proseguite, volute, credute raggiungere. E a volte la trepidazione dell'uomo sottomesso che pure ha scòrti i misteri dell'essere era resa con umiltà di affanno, in armonie non dal profondo strazianti ma di gemente tranquillità, dal poeta che rialzava gli occhi al cielo. E la gioia della pace ritrovata in cotesto alzare degli occhi suonava amabilmente modesta, quasi accorata. Tale contenuto poetico fu il calmante aspettato e richiesto, e fu annunziato a grandi voci da molta gente a modo, massime in Toscana e nella Venezia. Del resto, quando mai la poesia odierna aveva trovato un'ornamentazione di gusto cosí corretto per le feste di famiglia, per le parate dell'industria e per i trionfi del tecnicismo? Quando mai da molti anni la breve snella arguta strofe classica era stata carezzata e liberata al volo con tanta abilità facilità e grazia? Dei detrattori dell'abate Zanella chi ha o chi troverà altrove nelle rime d'oggi lo spirito lirico, che ondeggia circonvolgendosi con un mite rumore di marina lontana nelle volute meravigliosamente delineate marcate e colorite della _Conchiglia fossile_? Le poche volte che l'abate Zanella toccò in versi il tasto della politica, la corda gli rispose stridula o molle. La poesia politica in quegli anni fu di parte democratica. Giulio Uberti su i primi del 71 radunava, non le fronde sparte, gli sparti suoi dardi: dardo chiama Pindaro il verso che alto e fulgido vola. La poesia dell'Uberti, una ed uguale nella sostanza, attesta nello svolgimento formale le vicende del sentimento e del gusto italiano lungo i primi cinquanta anni del secolo: proceduta dal classicismo pariniano, erasi riposata nel classicismo manzoniano, pur riflettendo alquanto dal colorito del Byron e forse anche di Vittore Hugo, non senza i fondacci d'un po' di quel gergo mistico che il romanticismo politico aveva introdotto nella poesia e nella eloquenza. Con tutto ciò il poeta bresciano, in forza della coerenza intima dell'anima sua, rimane originale. Uno spirito alfieriano pervade quelle forme e le fissa in atteggiamenti quasi scultorii. Gli ultimi versi, quelli scritti nel 70, ci voleva la passione politica degli uni e la facilità senza gusto degli altri per trovarli mirabili. Ma l'Italia, quando sarà passato questo strabocco di latte inacetito d'Arcadia, ricorderà, piú che non faccia ora, le quattro odi, _Napoleone_, _Washington_, _Garibaldi_, _Mazzini_, cosí magnanime di sensi, cosí dense di concetti e di imagini, cosí alte d'intonazione: ricorderà, ripensando agli anni gloriosi. Se altro ricorderà l'Italia della poesia politica d'allora, io non so. So che quelli eran bei giorni. Felice Cavallotti, il lirico della _Bohême_ (vollero chiamarsi, con umiltà d'imitazione sbagliata, _Bohême_, essi affaccendati sempre fra i duelli le sommosse e le carceri), in prigione _mudava_ a drammaturgo, e covava l'_Alcibiade_ e il _Tirteo_, a dispetto di quelli che s'erano impuntati a farci passare per una manica di ignoranti. Di me, per esempio, che nel turbine democratico mi gettai non so se dai promontorii del classicismo o dalle secche della filologia romanza, poteano aver ragione quando dicevano — È roba questa non da critica, ma da procuratore del re —; ma erano molto candidi quando giuravano, sempre per bandire la politica dall'arte, ch'io non sapevo la grammatica. Piú lepido un terzo, che, a proposito del _Satana_ riprodotto o ricitato a ogni momento dai giornali del partito, mi paragonava al Trabucco col suo corno. Oh, bei giorni eran quelli! Distanti dalla poesia democratica e distinti dai seguitatori del Prati dell'Aleardi e dello Zanella, stavano in disparte tre o quattro, i quali parevano, che che alcuno di loro affermasse in contrario, cercare e seguitare l'arte per l'arte. Erano il Tarchetti, lo Zendrini, il Praga. Se non che Iginio Tarchetti, per gli intendimenti d'alcuno de' suoi racconti, raccostavasi ai democratici. Ma ci voleva quell'ambiente, o, meglio, quella mancanza d'ossigeno, per proclamare la grandezza dei racconti del povero Tarchetti. Si scambiava il contenuto e l'intento per l'arte: si diceva — Non c'è forma, la prosa è brutta, ma il romanzo c'è ed è bello —; come se senza forma arte ci sia, come se una trovata o un episodio o un frammento sia il romanzo, come se, scrivendo male, si scriva bene. Ci furono paragoni con Vittore Hugo e col Balzac. Eh via, ragazzi! Ma io non voglio parlare di prosa. A proposito dei versi del Tarchetti, il buon Domenico Milelli, che ne fa di incomparabilmente migliori, uscí una volta a dire che nell'anima di lui erano fuse due grandi anime, quella dell'Heine e quella del Leopardi. Non mai fu nominato cosí in vano il nome di Dio; ma tali bestemmie sono conseguenze di quel sentimentalismo estetico che al Lamartine faceva trovare piú genio in una lacrima che in tutti i poemi del mondo. Il Tarchetti visse povero, e morí giovine. Me ne duole; e mi adiro con chi non gli die' lavoro o il lavoro non compensò: forse anche mi adiro con la società che lascia morire di fame uomini d'ingegno e d'animo quale il Tarchetti. Ma per ciò devo dire che quella robetta è poesia? No: io dico che l'ammirazione pel sonetto _Ell'era cosí gracile e piccina_ è una miserabile prova del rammollimento di cervello a cui quella che il Proudhon chiamava _scrofola romantica_ avea condotto la gente. Ma il Tarchetti non pretendeva molto a poeta. Chi ci pretendeva con tutte le intenzioni e con tutto lo studio era Bernardino Zendrini. Molte buone parti aveva lo Zendrini: anzi tutto, conoscenza franca, se bene qua e là frastagliata di lacune e pregiudizi, delle letterature straniere, e con ciò intelligenza delle cose nostre anche vecchie, rispetto, almeno in teorica, alla tradizione nazionale, vivido ingegno osservatore, idee chiare determinate ardite, e una grande smania di fare e di riuscire. Ma in lui l'uomo sopraffaceva l'artista; o forse l'artista e l'uomo si nuocevano l'un l'altro e cospiravano a fargli far male. Leggero, irrequieto, sprezzante, provocatore (dico lo scrittore, e anche l'uomo per quanto traspariva dalla scrittura: del resto non conobbi né di persona né per lettera mai lo Zendrini), non avea la forza muscolare e la pienezza sanguigna pari alla mobilità nervosa; onde la sproporzione quasi continua nell'opera sua fra l'intenzione e l'atto, fra il volere e l'operare, fra l'idea e la forma. Tale disuguaglianza di forze e la preoccupazione del critico e polemista turbavano le percezioni del poeta e gli rendevano tremante lo spirito e lo stile. Voleva mostrare gentilezza di affetti, e dava in ismancerie: voleva apparire ingenuo, e cascava in bambocciate: voleva riuscire spiritoso, ed erano smorfie: voleva osare una sprezzatura o di pensiero o di stile, e gli scappava uno scarabocchio: voleva provocare i rischi dell'arte, e dava un tuffo nel grottesco e nello sgarbato. Le cose sue originali meglio riuscite (_I due tessitori_, _Monotonia_, _La poesia non muore_, ecc.) rientrano per la concezione e per la forma nel ciclo della poesia anteriore, della seconda generazione dei romantici. Quando volle fare qualcosa di nuovo, di vero, di famigliare, riuscí affettato, freddo, falso; non riuscí, in somma. Ma con la forza di volontà perseverante, col sentimento che aveva di rispetto per l'arte, l'avrebbe finalmente, io credo, spuntata. Gli bisognava, per ciò, contenersi, vincersi, rafforzarsi, curare i nervi; ed egli lo sentiva e lo voleva. Io ebbi a vedere, non per volontà sua, i lavorii di rifacimento ond'egli torturò e su i margini e nelle carte interfogliate le prime due stampe della traduzione di Heine. È un lavoro mirabile di pazienza e buon giudizio, che gli fa perdonare le sciattezze e le durezze incredibili del primo tentativo. In fatti nella terza edizione ci sono parecchi pezzi rifatti di pianta, e tanto in meglio, che meritano di esser recati ad esempio di buona versione, e insieme sono documenti, nelle trasformazioni subíte, della meditazione e dell'esercizio che occorre al lavoro dello stile, se pure in Italia v'è ancora chi badi allo stile. Povero Zendrini! egli mancò all'arte, quando, forse quietato, stava per rinnovellarsi. Questo avere a parlare tuttavia di morti, e morti di fresco, è spiacevole, e mi è, lo so, pericoloso in faccia ai lettori. Ma che ci ho che fare io se sono morti? Magari fossero vivi! Combatteremmo ancora. _L'uom s'affronti con l'uom: pugna è la vita._ Parliamo, dunque, con quella conscienziosa e meditata libertà e schiettezza della quale gl'italiani han troppo bisogno, parliamo anche di Emilio Praga, il quale nel 70 aveva già, si può dire, compiuta la sua ascensione in poesia. Quelli che allora affettavano non parlarne, quelli che inorridivano alle sue stramberie, quelli che aborrivano la sua indifferenza d'artista dirimpetto alle questioni politiche e sociali, quelli che allora scrivevano azzurro (cioè turchino di Prussia, qualità inferiore), quelli ora vociano innanzi a tutti e piú di tutti il _realismo_ e la _originalità_ sconfinata di Emilio Praga. Povero Praga, realista lui? lui inzuppato, anzi ammalato, d'idealismo? lui che d'idealismo morí? Realista lui? coi languori delle fantasticherie, con la vaporosità nella linea, con la indeterminatezza dell'espressione, con l'astrattezza e la stranezza bizzarra e senza scopo delle metafore? Egli nella terza generazione dei romantici fu piú poeta di tutti; ma in lui piú che in tutti covò la malattia ereditaria, sin che scoppiò d'un tratto in quel temperamento amabilmente femmineo; e fu tifo fulminante. L'originalità del Praga! Sí certo, il Praga ebbe una originalità, ma non quella che dite voi! Avete letto Vittore Hugo, il Heine, il Baudelaire? Ma quello che voi nelle poesie del Praga proclamate di piú era già nell'Hugo, nell'Heine, nel Baudelaire. Se non che le trovate e le scappate dell'Heine egli le allunga e stempera un po' lombardamente. Ma della tinta dell'Hugo ebbe colorite fin le intime fibre della sua poesia, come dicono che le ossa delle bestie che hanno pasciuto la robbia si trovino chiazzate di rosso. Ma del Baudelaire ripete non pure le innaturalezze e le irragionevolezze cercate ad effetto, non pure le bruttezze stupide (dico cosí perchè è proprio cosí), ma le mosse e le flessioni del verso, ma i metri ed i ritornelli. Quello fu il periodo acuto della malattia; poi successe la polmonite, e il poeta finí ripiagnucolando le solite nenie. E aveva fatto a volte di sí belle cose! La sua originalità è quel trillo di lodola, è quel fresco d'acqua corrente per una selva di castagni, quella immediata e lieta e sincera percezione della natura, quella bonomia arguta tra di campagnuolo e di pittore, che si sente, si vede, si ammira in alcune sue prime e piú ingenue poesie. Al Tarchetti, allo Zendrini, al Praga il settanta chiuse le porte; le aprí ad Arrigo Boito, il quale fu un po' di quella brigata, se bene egli proceda piú direttamente dal romanticismo fantastico di Germania. Fu di quella brigata anche Vittorio Betteloni, sí per la consuetudine d'amicizia sí per alcuni intendimenti d'arte; ma egli dal romanticismo o fantastico o sentimentale uscí presto, se mai vi s'era avvolto, e uscí tutto. Vittorio Betteloni pubblicò nel 1869 il suo libro _In primavera_. Ne parlarono con molto calore gli amici del poeta e alcuni dei fogli letterari d'allora; ne sparlarono con rimpianti su le speranze male spese, i maestri e dilettanti della poesia da parrucchieri. Ma il libro non fece, fuor dei cerchi degli amici, gran viaggio: a Bologna non arrivò: io lo lessi solo nel 75 in Verona. _Habent sua fata libelli._ Il settanta schiacciò insieme a tante cose grosse e malvage anche quel povero libretto innocente, o _di sua preda lo coverse e cinse_. Ma chi consigliò il Betteloni di venir fuori con tali versi nel 69, quando le sale eleganti erano tutte ancora impregnate di aleardismo, quando nelle strade fremeva a mezz'aria la poesia politica, quando, al di là della letteratura officiale o d'opposizione, fra tanta ardenza di parti e di questioni in casa e tanta trepidazione di turbini al di fuori, a pena si facevano badare le accese audacie del Praga piú come un babau pei borghesi che come baleni di arte nuova? Ma molti di cotesti versi il Betteloni gli aveva scritti fin dal 63, nel fresco mattino della giovinezza, e non voleva tenerli lí a muffire che perdessero stagione. Oggi che abbonda, a quello che pare, la voglia di leggere versi è un peccato non si legga o non si rilegga la _Primavera_ del Betteloni, che è dei migliori libri di poesia usciti fra noi in questi ultimi anni e il solo libro _di giovinezza_ uscito da molti anni in Italia. Con ciò io non vo' riuscir a dire che il Betteloni sia maggiore o miglior poeta d'un altro, o che la sua sia poesia piú vera (è il termine di moda) della poesia d'un altro. Per me il porre la questione su 'l piú o il meno d'ingegno di due o piú poeti o scrittori è un esercizio troppo sublime o troppo accademico sí che abbia a perdervi tempo la gente che ha da far qualche cosa. Su la maggiore o minor verità ed efficacia della rappresentazione poetica non sarebbe per avventura inutile studiare e discutere, quando la questione fosse posta avanti bene e ragionevolmente. Ognuno, del resto, fa quella poesia che vuole; ognuno si mette in quella luce in quel riflesso in quell'ombra di verità che gli piace: cotesto è il suo diritto. Il suo dovere poi è di far bene, tenendosi in quella luce in quel riflesso in quell'ombra di verità che si è scelto. _Ognuno_ dissi; e intendevo ognuno che è poeta e si è educato artista. Per la canaglia che perpetra strofe un po' di Melikoff non guasterebbe. Il Betteloni fu, come accennai, il primo in Italia a uscire del romanticismo, pur componendo in lirica il romanzo di un giovine dai venti ai vent'otto anni; romanzo, s'intende, d'amore, anzi delle tre età, come egli dice, dell'amore, l'età dell'oro, l'età dell'argento, l'età del bronzo. Quel giovine, che è poi il Betteloni stesso, non è propriamente sentimentale; e pure nessuno dei nostri poeti moderni, oso dirlo, ha rappresentato o verseggiato il primo amore con quella rugiadosa freschezza che il Betteloni nel _Canzoniere dei vent'anni_ (età dell'oro). Quando la ragazza popolana lo pianta per un bel pezzo di marito della sua condizione, egli non fa il Werther né il Don Giovanni: ideale per altro resta un po' sempre, con una vena di malinconia che serpeggia tra le sue immaginazioni burlone e le sue bonarie malignità. Persevera buon ragazzo, se bene piú allegro, nel canzoniere _per una crestaina_ (età dell'argento), che poi si risolve a lasciare, perché un giovine come lui, di buona famiglia, ha da sposare una signorina con della dote, che tormenti il piano e storpi il francese. Il terzo canzoniere, cinquanta sonetti _per una signora_ (età del bronzo), della quale il poeta s'è innamorato senza sapere che fosse maritata e la quale non sa che egli sia innamorato di lei, finisce cosí: E lascia poi che da te lunge io sia, Che solitario la mia fiamma esali Nel vapor di innocente poesia. Qui i don Giovanni trionfatori e violatori della grammatica e della prosodia accuseranno subito un gran puzzo d'idealismo e d'arcadia. No veramente. Uno, prima di tutto, può dell'amore e della vita in generale avere un ideale assai alto senza ch'ei professi per nulla l'idealismo convenzionale; e questo, fra gente seria ed onesta, non importerebbe né meno avvertirlo. Come scrittore poi, il Betteloni ha della realità un senso squisitissimo, e il ridicolo dei contrasti e delle contraddizioni fra la mobilità dello spirito appassionato o accaldato e la immobilità seria delle cose ei sa coglierlo e renderlo con quella bontà comica che è l'anima dell'_umore_ di buona lega. _In primavera_ è, come dissi, un libro di giovinezza; e per ciò la passione, la passione, s'intende, colpevole o viziosa, non c'entra, o almeno non vi regna. Il poeta da prima descrive e canta l'amore, prorompimento inconscio, scarlattina dell'anima a diciannove anni; poi il piacere di fare all'amore con una bella e allegra creatura, di passeggiare e ballare con lei, di ascoltare le sue ciarle e suoi dispiaceri e le bizze su quello che è il suo contorno il suo piccolo mondo. Da ultimo l'amor vero, anzi a certi momenti la passione, si prova a metter fuori la punta, ma è la punta dell'ala. Perocchè l'autore sa reprimere e vincere la passione, un po' per sentimento di dovere, ma piú anche per certa schiva ritrosia di poeta e per affezione alla serena quiete dell'arte. To', o non può anche darsi? Sarebbe bella che, perchè viviamo nell'età dei rammollimenti sentimentali o sensuali e delle eccitazioni nervose, nel secolo del caffè e dell'alcoolismo, non ci fosse piú uno che sapesse resistere a una passione e vincerla, non sapesse infrenare la inferiore animalità, senza guaire, senza contorcersi, senza mostrare le sue piaghe alle stelle, con la forza, con la dignità, con la decenza d'un uom fatto bene. L'effetto che vi produce il libro del Betteloni è questo, che voi prendete in affezione il poeta perchè è naturalmente buono, e poi lo stimate perchè è sensato e vero. La verità di quella poesia risulta da piú ragioni, di fatto e di arte. Il Betteloni prima di tutto rappresenta ed esprime proprio sé stesso, senza esagerazioni e senza caricature: non dico senza qualche carezza, ché non sarebbe credibile. È un giovine della vecchia borghesia benestante e bene educata, con una vena d'originalità non chiassosa, col ticchio dell'arte, con l'intiera libertà e signoria di sè. Nulla dunque del Byron e del Leopardi, e nulla né pure del De Musset. Non direi parimente, nulla del Heine, perchè la posizione poetica, nelle prime due parti almeno de' due canzonieri, si rassomiglia assai; e il colpo di sole del Heine anche il Betteloni l'ha avuto, ed in pieno; ma soltanto, parmi, del Heine dell'_Intermezzo lirico_ e del _Ritorno_. Se non che a mano a mano la coloritura heiniana è assorbita o assimilata, e il poeta italiano a forza di riflessione riesce solo sé stesso. Perché una qualità notevole del Betteloni poeta è questa: che egli non si ferma alla superficie, senso o sentimento che sia, come per lo piú i nostri; e né meno si abbandona alle troppo comode volate della _réverie_ e del _sehnsucht_ (vocaboli che non si possono tradurre in italiano né pure a un di presso, tanto le affezioni che e' significano, almeno nella sistematica convenzione moderna, sono aliene dalla nostra natura); ma discende in sé stesso, e arriva a cogliere nella percezione e nella coscienza le ragioni ultime e le variazioni e le forme intime del fenomeno psicologico e fantastico; ragioni e forme che, idealizzate nella riflessione artistica, di particolari che erano divengono generali, e sono il nerbo della rappresentazione poetica: che se in quel passaggio la caratteristica individuale del poeta non va perduta, allora è il caso dell'originalità soggettiva. E questo è il caso del Betteloni. Il quale, per esempio, è il solo, credo, dei poeti odierni italiani, che abbia osato mettere dentro i suoi versi il proprio nome e cognome. Ma come bene! Fra l'altre una volta egli sogna, sogna soltanto, di suonare alla porta del villino della donna amata e non amante: sogna di trovarla come desidererebbe meglio; ma c'è il medico e il pievano, che al vederlo battono le mani: Ecco il quarto, ecco il quarto per il _tre sette_. E si giuoca. Ma il giuoco dovrà pur finire, ma gli importuni se ne anderanno, ed egli rimarrà solo con lei. A un tratto s'abbuia, e brontola il temporale. Il medico e il pievano si levano su per partire. Egli duro. Ma la signora _in atto di tutta gentilezza e cortesia_ gli dice: O signor Betteloni, anch'ella presto S'affretti a casa e pel cammin piú corto, Ché per via non la colga un tempo tale. Leggendo questi versi, altri me ne rifiorivano in mente, d'un concittadino antico del Betteloni, di Catullo, che anch'egli amava di mettere spesso e bene ne' suoi versi il suo nome: Quaeso, inquit, mihi, mi Catulle, paulum Istos; commode enim volo ad Serapim Deferri. Minime, inquii puellae. Questa è verità italiana. Perchè, a dir vero, la verità di certi veristi sarà di qual paese piaccia meglio ai lettori o all'autore, ma verità italiana non è di certo: ora la verità, per esser verità vera, ha da essere anche locale, e quella dei su lodati veristi di locale, cioè d'italiano, non ha nulla, nè meno la lingua; ché lingua italiana non può chiamarsi quella miseria di cento linfatiche parole con le quali quella povera gente si arrapina a rattoppare gli sdruci delle sue versioni da qualche poeta francese di terzo o quarto ordine. Ora il Betteloni non solo seppe percepire il vero della vita odierna italiana con elezione d'artista, ma lo seppe verseggiare con lingua varia abbastanza se non sempre finissima, con stile sempre suo e spesso accurato. Io dissi a dietro che nessuno fra noi aveva _cantato_, direbbe un'accademico, io dirò _commemorato in poesia_, il primo amore con la freschezza del Betteloni. Non mi disdico, pur ripensando alle terzine del Leopardi: quella del Leopardi è passione speciale, in certe condizioni, stupendamente sentita e resa; mentre il primo amore del Betteloni è il caso generale, che tutti gli anni si rinnova, a cui tutti, se non fummo ceppi o peggio, ci siamo trovati. Giudichino i lettori. Poi ti tenevo dietro piano piano, Com'è costume dei novelli amanti, Pur di scorgerti solo da lontano, Senza parere agli occhi dei passanti: E tu con atto cauto e sospettoso, Per non mostrar che a me ponessi mente, Volgevi a mezzo il capo tuo vezzoso, Ad or ad or, non molto di sovente; Ma non molto di rado tuttavia, Temendo pur che addietro io fossi troppo, O non pigliassi a caso un'altra via, O in qualche amico non facessi intoppo. Quindi arrivata, ancor sul limitare Il piede soffermavi un breve istante, Là t'arrestavi a rapida guardare S'io pur non ero tuttavia distante; Poscia, fatte le scale in un momento, Al terrazzo accorrendo t'affacciavi; Io ti venivo innanzi, lento, lento, Tu col sorriso allor mi salutavi. È proprio cosí che erano fatte le nostre amanti, ahimè di venti e piú anni fa! Salvo che noi allora eravamo o troppo classici o troppo romantici, e, anche dato avessimo avuto la grazia e la naturalezza del poeta veronese, non ci sarebbe mai passato per la testa che si potesse in italiano far dei versi graziosi e naturali come i seguenti, mentre pure le cose dette in quei versi le sentivamo, le vedevamo, le notavamo anche noi. E sí che Catullo lo sapevamo quasi a mente; Catullo, che, dove non è sporco o troppo alessandrino, poteva e può esser maestro di poesia vera a noi e ad altri: tant'è vero che nulla di nuovo c'è sotto il sole e in arte non c'è progresso: quello che il volgo scambia per progresso è la modificata rinnovazione di certe fasi nei cicli ritornanti. E' fu in piazza di Santa Caterina Ch'io d'amor le parlai la prima volta, Era l'ora che il sole ornai declina, Ora dolce e raccolta. Cinto d'intorno è il loco d'alte piante Dove a fatica si conduce il sole, Dove l'aria s'infosca un'ora innante Che in Lungarno non suole. Or io che avea da qualche dí osservato Com'ella per di là venia sovente, Là per tre sere postomi in agguato, L'incontrai finalmente. Ella arrossisce e affretta il piè veloce, Io me le accosto, me le faccio ai panni, Pur me ne trema l'anima e la voce, Oh vent'anni! oh vent'anni! Parlare a lei! ma s'ella s'offendesse D'uom che volger le ardisce la parola, Se l'ale che nasconde ella schiudesse, Nume che all'uom s'invola! Roseo mister di grazia e di bellezza Tutto sgomento innanzi a te son io, M'avventuro all'impresa all'arditezza Di trovarmi con Dio! Ella pur non s'offende e porge ascolto; Mentre parlo mi guarda, si dipinge Di grazïosa meraviglia in volto, Non conoscermi finge. Cari quegli occhi intenti e menzogneri, Mamma indarno a mentir sí ben v'apprese; Occhi, mi sorrideste in atto ieri Troppo, troppo cortese! Io però tiro avanti; e piú coraggio Piglio da ciò, che il piede ella rallenta, Ch'ella alfin sosta, che quel mio linguaggio La fa piú sempre attenta. E davvero facondo allor mi faccio; Tutto le dico il dolce sentimento Ch'ella m'ispira, tutto, non le taccio Nulla di quel che sento. Ella stupisce e credermi non vuole; Con interrotte voci esce talora; Chinando il capo, delle mie parole Il nettare assapora. E il nastro del grembiule in man si prende, Giocando se lo attorce al roseo dito, Mentre il suo cor dalle mie labbra pende Trepidante e smarrito. Rileggendo questi versi, mi sento attorno come il triste profumo d'un mazzetto di rose appassite in un cassetto di legno. Sono forse le memorie che quest'alito di poesia veramente giovenile la risentire nel cuore? Per non dare un tuffo nel sentimento, mi rifugio nella lingua; rifugio e scampo antico a noi italiani dal pericolo di pensar vero e di parlar sinceri. _Ora dolce e raccolta_, indovino che cosa vuol dire, ma non giurerei che quelle parole lo dicessero chiaro e netto. _Fare intoppo in uno_, temo sia una frase a rimembranza sbagliata: _dar d'intoppo_ è di qualche classico, della lingua parlata è _intoppare_. _Un'ora innante_, _indarno_, _poscia_, _ella sosta_, se oramai non sono locuzioni accademiche, certo in quello stile non vanno; e il _pié veloce_ è troppo eroico per una ragazzina. Di sí fatte mende nella dizione del Betteloni ce n'è. Ma del resto la lingua sua poetica di quanto è superiore per proprietà, e anche per certa ricchezza, a quel gergo d'idioti cenciosi ed ebri che erutta spropositi nei cento mila versi, piaghe settimanali di questa dolcissima _terra de' fiori e de' carmi_. E la ragione è che la lingua il Betteloni l'ha studiata anche nei classici e sui classici s'è anche educato un tantino lo stile. Tant'è: la tradizione letteraria, in una poesia che comincia con Dante, non si deve, né si potrebbe, anche volendo, interrompere: siate rivoluzionari quanto volete, avrete, per quello che è verità e audacia d'espressione, da imparar sempre qualche cosa da Dante, per esempio, e dal Pulci, dinanzi alla cui luce le vostre frasi faranno l'effetto di lumi a mano a mezzogiorno. Vero è che bisogna distinguere fra classici e classici. Il Betteloni professa di avere appreso nel Poliziano e nell'Ariosto _il lesto far disimpacciato e schietto_, e il Poliziano e l'Ariosto erano designati dallo Zendrini fra gli antesignani della sua idea di stile in poesia. La scelta non poteva esser migliore. Infatti l'impasto di lingua che ci vuole per la poesia del vero, l'Italia l'ebbe piú specialmente, salvo sempre le grandi eccezioni del trecento, in quel tratto di tempo che va da Masaccio alla morte del Vinci, quando la giovine arte del rinascimento s'informò tutta, o quasi tutta, al vero umano: l'ebbe non pur nel Poliziano e nell'Ariosto, ma nel Pulci nel Medici ne' minori autori di farse di ballate di rime popolari, ed è, con pochissime differenze e non in peggio, quella stessa lingua un cui rivoletto si credè scoprire con fastidioso spirito accademico nei soli rispetti cosí detti del popolo toscano. Altro e miglior esempio del valore lirico del Betteloni è la canzone della crestaia e del sole, dove la fusione del reale col fantastico, del sentimento umano e del panteistico senso della natura, del linguaggio che discorre e della favella che canta, della frase che colorisce e della strofe che vola, è riuscita in piccole proporzioni a meraviglia. La giovinetta presso Dell'alta invetrïata Siede cucendo, spesso La maestra la guata, E in soggezion la tiene; Che se non fosse questo, Il lavoro molesto Non andrebbe assai bene. Or primavera invade Penetra tutte cose; Passa dall'ampie strade Nelle dimore ascose; Anco nell'officina Della fanciulla mia Il Sol trova la via Traverso la vetrina. Balza a lei sul lavoro Vispo e disturbatore E con le dita d'oro Picchia al suo giovin core; Poscia lusinghe arcane Comincia a bisbigliare: Voglia di lavorare Già piú a lei non rimane. «Io sono il Sol di maggio, Che a venire t'invito A farmi, o bella, omaggio Nel mio regno fiorito: All'aperto io soggiorno Sopra il colle vitato, Sull'ondeggiante prato D'erbe novelle adorno. Vo per gli orti a diletto; Sulle aiuole mi sdraio; Serba a me l'augelletto Il trillo suo piú gaio... Non hai hai, bimba, un amante, Che un giorno a me ti meni, Ne' regni miei sereni, Fra delizie cotante?» — «Deh, mio leggiadro Sole, Volentieri io verrei, Ma la mamma non vôle; L'amante ce l'avrei, Ma il cuore me ne geme, Star mi tocca a sedere, Delle giornate intere, A metter cenci insieme. Dalle porte sovente Esco, è vero, di festa; Ma c'è allor troppa gente Che i piú bei fior calpesta; E un augellin non s'ode, E non poss'io provare A correre, a saltare, Come il desío mi rode. Ho voglia tutto un giorno, Sia nel prato o sul colle, Di scorrazzare intorno; E poi nell'erba molle D'avvoltolarmi alfine; Far di belle cantate, Far di belle risate, Che non abbian piú fine. E vorrei coglier fiori, E farfalle inseguire, E dell'acque i romori Stare un poco a sentire; Mangiar frutta e non manzo, Di rosse fraghe un cesto, E che ciliege il resto Fosse del nostro pranzo. Tanto io n'avrei desio Che piú non trovo loco: Vorrei l'amante mio Farlo ammattire un poco; Dove andar non pensasse Ed io tosto avvïarmi, E che i nidi a pigliarmi Sui pini arrampicasse.» — E dire che l'Aleardi, il quale pure era stato banditore ardente alle prime poesie dello Zendrini, l'Aleardi si scandalizzò di questa roba e piangeva sul figliuol prodigo. Se non che il poeta della crestaina avea fatto, a dir vero, di peggio: O bella, un dí t'ho vista Entrar dal tabaccaio, E anch'io facendo vista Che m'occorresse un paio Di sigari v'entrai; Là per la prima volta ti parlai. A questo punto non vi sto a dire che i Romei parrucchieri gli negarono a dirittura il saluto. E le Giuliette, quando s'avvennero a leggere, Si stava assai benino Un tempo alla _Regina_, Buona cucina, Ottimo vino... T'avrei del fritto scelti I piú dolci pezzetti, E per te i petti Al pollo svelti... buttarono il libro e ricorsero all'acqua di Colonia. Sfido io, poverette! erano avvezze a una goccia di rugiada entro una foglia di rosa per tutto pasto. Io non dico, del resto, che coteste sieno le cose piú belle del canzoniere del Betteloni, e non nego che in quel canzoniere ci siano delle lungaggini prosaiche e certe interpolazioni non d'ottimo gusto, e qualche bizzarria a freddo, e un po' d'esagerazione sistematica, che, sia pur del naturale, offende l'arte. Ma a chi si dolesse di tali difetti il Betteloni può, per rifargli la bocca, offrire sonetti come questi: Quassú nel lago nostro un'alga cresce Che quanto ha lungo il gambo è in acqua immersa; Solo con poche foglie in alto ell'esce; Ma, se a luglio su questo il ciel non versa Stilla di pioggia, in guisa tal le incresce, Che a dissetarla tanta e cosí tersa Onda che intorno ell'ha piú non riesce, E langue e inaridisce e va sommersa. Io sono in abbondanza d'ogni bene, Ma sul mio cor stilla dal ciel non scende; Ahi l'amor tuo, leggiadra, a me non viene! Quindi langue lo spirto e mal contende Al gorgo che lo affonda in basse arene... E il fango immenso sovra me si stende. ————— Quand'ella passa io tremo e m'abbandona Ogni fermezza: un sibilo leggero Mettono le sue vesti, il qual mi suona Pur come scherno meritato e vero. Quinci la fantasia fra sé ragiona «O vaghe vesti cui s'affida intero Il segreto gentil di sua persona, Vesti cui non si cela alcun mistero, Parte ditemi almen di questo arcano, Soave arcano, ch'è fra voi nascosto E dietro al qual la mente io sforzo invano.» Ahi! non rispondon quelle, e con piú cura Stringonsi al vago corpo, e di quel posto Traggon partito e de la lor ventura. Nel 75 il Betteloni pubblicò tradotto in ottava rima il piú bello episodio del _Don Giovanni_ di Byron, l'Aidea. La scelta del soggetto e del metro è già un indizio di ottimo gusto e un segno di virtuoso ardimento. E qui gli soccorse in buon punto lo studio messo nell'Ariosto; la cui elegante disinvoltura e la mirabile volubilità io non dirò che il Betteloni abbia raggiunta, ché sarebbe troppo, anche perché fra altre ragioni io non credo si possa con la lingua d'oggi e nella poesia moderna raggiungere. Nè dirò che perfettissima sia nell'_Aidea_ la dizione, che qualche neologismo, qualche durezza, qualche ineleganza non si sarebbe potuta evitare. Ma dico senza dubbio che questa del Betteloni è delle migliori versioni poetiche moderne, ed è la miglior versione in ottava rima che abbia l'Italia, da quella in poi della _Pulcella_ fatta dal Monti; che non è poco, chi ripensi la maggior varietà e difficoltà del poema byroniano e la signorile felicità del verseggiare di Vincenzo Monti. Forse maggior fatica dee aver posto il Betteloni nella traduzione dell'_Assuero_ di Roberto Hamerling, ch'ei diè nel 76: e certo in quella foltezza quasi metallica di poesia descrittiva il verso sciolto italiano, per vigorosa industria del traduttore, trionfa di nuovi atteggiamenti a prova col giambico tedesco. Ma io non lo consiglierei a mettere i suoi begli anni in quella sorta di lavori. Finisca il _Don Giovanni_, e basta. Ora il Betteloni si ripresenta all'Italia artista sul proprio con questi _Nuovi Versi_. Io auguro al valente e modesto poeta dai lettori intelligenti quella onesta attenzione e accoglienza, che le prime liete prove, le fatiche poi durate nell'arte, e il rispetto all'arte, e la serietà degl'intendimenti, e la matura originalità dell'ingegno, gli promettono e gli meritano. GIOSUÈ CARDUCCI. NUOVI VERSI IDEALE Come arrivarti, o idolo Fatal che sì m'attiri? Sei tu sogno o fantasima Di mente che deliri? Non hai quaggiù tu stanza, Nè forma nè sostanza Fuor che nel mio pensier? Pure io non sono a pascermi Di vacue larve avvezzo, O se già fui, le imagini Or cancellai da un pezzo, Che ignara fantasia Pinse alla mente mia Nel tempo suo primier. Ebbi varcato i limiti D'adolescenza appena, E non cercai nell'etere De' versi miei la scena; Cercai soggetto al canto Fra gli uomini soltanto Presso e dintorno a me. Forse non più tra gli uomini, Che tra le donne invero... Or quell'ingenuo palpito Più in me destar non spero; Ma nell'immenso vano, Fuori del senso umano, La poesia non è. Sol la natura e il vario Gioco di nostra vita A rallegrarci, a piangere, A poetar ci invita; E là ti celi, o mio Bello e tremendo iddio, Ch'io vo cercando invan. In vaghe forme e labili Bensì m'appari spesso, Ma come io credo giungerti, Tu fuggi al tempo stesso: Così crudel miraggio Per corsa e per viaggio Non meno è a noi lontan. Nei mille aspetti scorgerti Della natura io credo. Talor nelle più tenui Parvenze pur ti vedo; In valli oppur sui monti, Nell'alba e nei tramonti, In riva ai laghi e al mar, Di bimbi e vaghe femine Nel riso e nello sguardo, Nei tre color siderei Dell'italo stendardo; E qual così scoprirti In vario aspetto, udirti In vario suon mi par. Nel primo che alle vergini Accento strappa amore, Nel primo ancor che al pargolo Accento insegna il cuore, In ogni suon che molce L'anima, la tua dolce Voce udir sembra a me. Ma degli insurti popoli Nel grido, e nel concento Dell'inclite vittorie La tua gran voce sento, E più il mio cor l'intese Quando il gentil paese Pianse l'onesto re.[1] Ma che mi val l'ingenito Amor di ciò che è vero. Di ciò che è bello e nobile, Se ad esso il magistero Pari non è dell'arte, Se far le oscure carte Specchio di quel non so? Così sfinge adorabile Mi avvolge di possenti Misterïosi fascini; Ma delle renitenti Forme ch'io sogno e adoro L'alto segreto ignoro, Nè inter mai lo saprò. Mi lambe intanto gl'intimi Precordi un tetro foco, Ond'io mi crucio, ed essere Non può che di me gioco Faccia così una mera Imagine, chimera Fantastica, ideal. Diva Beltà ch'io medito Tu un sogno sol non sei; Così potessi io giungerti; Stringermi a te vorrei In sì possente laccio Ch'io ti morissi in braccio Facendomi immortal. TRAGEDIA UMILE[2] IL PROLOGO Una fanciulla sedicenne e ignara Degli inganni d'Amore a lui si diede, Che sedurla si piacque Sotto sembianze di gentil garzone. Ed or che il testimone Ella del proprio errore in grembo porta, Per vergogna e dolore Insoffribil la vita le si rende, Ed in funesti entusiasmi assorta, L'atro braciere accende, Sè stessa offrendo a morte e di sè stessa Il frutto, il dolce frutto. All'umile sua stanza innanzi tutto Tura gelosamente ogni pertugio; Di poi sul proprio letticciuol distesa, Chiude gli occhi in attesa: Pure durante il terribile indugio, Mentre ancor poco a viver le rimane, S'odono mormorar fra le pareti Del cor di lei segreti Accenti in bocca di persone arcane. VOCE DELLA VITA La dolce vita io sono, Il bene immenso, il dono Supremo che Natura all'uom concede. Come in capo a un eroe donne amorose Versan nembi di rose, Così con ricca mano I lieti giorni io verso. Però lo spirto ha insano Chi precipita a morte Prima del tempo e volontario; a morte, Che sollecita ahi troppo da sè stessa Incontro all'uom s'affretta. VOCE DELLA FANCIULLA Menzognera è la vita e frodi tesse, Come quaggiù ogni cosa; Ingannevoli son le sue promesse, A imagine di fiori Fra cui la serpe è ascosa. Omai quaggiù nulla mi resta fuori Che amarezze e vergogna; E perciò appunto che a la morte agogna, Non è il mio spirto insano. VOCE DELLA VITA Non incolpar la vita Di tua crudel sventura O vergine tradita: L'uman consorzio pose Dissidio tra sue leggi e la natura; Al contatto dei sessi il rito impose, Senza del quale è colpa Il natural desio, E il sen fecondo, orgoglio Di tutte donne e lor somma dolcezza, Torna per te in cordoglio Ed in onta che il cuore e i dì ti spezza. VOCE DELLA FANCIULLA Deh non foss'io di donna Stata mai concepita, Oppur come che sia, Morta fossi da pria Di conoscerti, o Vita! VOCE DELLA VITA Non dir così, fanciulla; D'ogni miseria è peggior cosa il nulla; Te l'invito dei sensi E del tenero cuore, Te l'ignoranza dei maschili inganni Indussero in amore, Onde il mio spirto esulta, Ma per lo qual seguendo sua ragione, Di cui poco a me cale, La gente ahimè t'insulta. Quindi il genio fatale Dalla tua razza accusa, Che danni da se stessa a sè procura; Non la gioconda vita E la gentil natura, Perocchè bello e dolce sopratutto È il respirar le lucid'aure e il blando Raggio del sole e calcar l'alma terra, Destare affetti e averne, e il molle frutto D'amor cogliere amando. VOCE DELLA FANCIULLA Me nessun ama, e nessun amo io stessa. VOCE DELLA VITA A torto, a torto pensi; Il tuo figlio amerai; Nè dubitar che tosto il giorno arrivi Che saprà amarti egli medesmo; immensi Gaudi e conforti avrai Finalmente da lui, Che la gioia miglior dell'esser vivi È dar la vita altrui. VOCE DELLA FANCIULLA Il dar la vita altrui Sommo è per me dolore, Com'è nascer da me somma sventura. Come pianta nociva il fiore e il frutto Detestati matura, Così dappoichè madre s'interdice Essere a me, felice Non sarà il figliuol mio, Chè con la vita l'onta Da me riceve, nè battesmo alcuno La tetra original macchia deterge. VOCE DI UNO SPIRITO Io son lo spirto che le membra un giorno Abiterà, che adesso Il tuo grembo prepara: Perchè, o madre, mi uccidi? Perchè, perchè la cara Vita mi togli pria che darla intera? VOCE DELLA FANCIULLA La vita non ti diedi Finor, però nulla ti tolgo. Vedi Come del viver nostro ignaro sei, Sospettando ch'io privi Te della vita, mentre ancor non vivi! VOCE DELLO SPIRITO Più che ai lamenti miei, Ti fai sorda a te stessa, Perocchè certo e per tua prova sai, Come la madre intenta Il figliuol proprio assai Pria che prodotto al giorno Nelle viscere sue viver si senta; Le molte pene del suo stato altera Sopporta e non si duole, Perchè le fan testimonianza vera Che palpitante prole Già pria di nascer nel suo grembo ha vita. Che più? sol perchè avverti Che io ti palpito in seno a me procuri E a te stessa la morte. VOCE DELLA FANCIULLA Non è ver, non è vero; Crudel così mi fanno, Se pur crudel io sono, Ahimè, l'amore e l'onor mio traditi. Io morte cerco e spero Per nostro minor danno, Per fuggir vitupero Ed estinguer sotterra il mio dolore. VOCE DELLA VITA Sommo danno è perir, dacchè la tomba Non ha conforti; e molti n'ha la vita, Per quanto dura sia. VOCE DELLO SPIRITO A te l'infanzia mia Gioie molte e soavi Darà in compenso ai gravi Travagli del tuo stato Misero e disprezzato; Ma fatto grande poi, Coll'opra e il valor mio Saprò d'utile affetto Di calma e di rispetto Colmare i giorni tuoi. VOCE DELLA FANCIULLA Ahimè gli stenti di quaggiù malnoti Ti sono e le durezze e l'aspra guerra, Spirto che ancor, dove non so, ma certo Molto alberghi lontan dall'umil terra; Nei pelaghi tu nuoti Del mistero infinito e poco esperto Sei di questo fatale E duro scoglio, ove nascendo approda L'infelice mortale. Ferrea necessità, tosto che nato, Ti prenderà quaggiuso. E converrà che dal mio petto escluso O tu sia presto, o che la dolce infanzia, Ahi la tua dolce infanzia, Da me, da me, dalla tua madre istessa Derelitta ed inferma L'inedia il freddo e l'ignominia apprenda. Che se a tal prova durerà la ferma Tempra e la tua natura, Non isperar ch'altra miglior ventura Adulto poi t'attenda: Il vile stato e la fatica rude E il comun sprezzo e le ferine brame Che il ben degli altri immeritato accende E alfin la fame, ahimè l'abbietta fame Il tuo spirto già stanco inaspriranno, E sul tuo labro e nel tuo core acerbi Sdegni per me porranno, E per l'orrenda vita Che or tu vuoi che ti serbi. VOCE DELLO SPIRITO Come soldato in guerra, Armi e valore in terra Pari alla dura lotta Che egli quaggiù sostiene L'uom da Natura ottiene. VOCE DELLA VITA Sacro dono è la vita, e l'uomo assume Virtù nascendo che di poco a un nume Inferïor lo rende. VOCE DEL TERRORE Nè spavento infinito il cor t'assale, O giovinetta frale, Che l'ombra eterna affronti? Impallidisce il forte All'aspetto di morte, e tu non tremi? Tutto, ben sai, non cessa Cogli aneliti estremi; Lurida fossa attende La tua persona bella, E sul molle tuo sen crescerà l'erba Tetra: ma pene orrende Al tuo spirto che a viver si ribella Il Creator riserba. VOCE DELLA VITA Quando la Vita invece Gli anni migliori appresta A te di giovinezza, E di bellezza a cui si farà molto Omaggio e molta festa, Di non comun bellezza T'adorna il seno e il volto. VOCE DEL TERRORE Ma nell'orrida fossa ogni tuo vezzo Turpe lezzo corrompe, E una turba v'irrompe Di mostruosi insetti, Che la leggiadra spoglia Dividono fra loro. Peggio ancor del tuo spirito, che doglia Incessabil costringe... Non odi il pianto acuto Ch'esce dal fiero loco? E dei castighi eterni Già non discerni il foco?.. VOCE DELLA FANCIULLA Ahimè! chi mi soccorre? Un artiglio di ferro il cor mi preme, Che respirar mi toglie, e sento insieme Fuso piombo che corre Nelle mie fauci ardenti; Chi per tal modo m'incatena al duro Giaciglio ch'io non possa Solo un po' sollevar l'ossa dolenti E rivolgere il fianco? Ancor vivere io voglio... io giovin sono... Aita! aita! io manco. Ahimè quali funeste Larve passan dinanzi agli occhi miei, E che voci son queste Di cui m'arriva il suono Terribile? Morir più non vorrei... Chi mi soccorre! Aita! CANTO DELLA MORTE Oh fanciulla dolente A te soccorro io stessa: Grande io sono e possente; Pure la ferrea sorte E al mio voler sommessa, Però ch'io son la Morte. Io la suprema aita Sono, o fanciulla, in terra; Chi stanco della vita A me fidente viene, Sicuro porto afferra E sacra pace ottiene. Ma il pavido mortale, Che raramente è saggio, Giudica a torto e male L'opra ch'io compio, e chiama Stolto, anzi vil coraggio Quel che m'invoca e brama. Egli da me rifugge E orribil m'affigura; Se reo malor lo strugge, Ancor di me che arrivi Teme, e di così dura Esistenza lo privi. Stolto! solo il dolore Ispiri a lui temenza, Che, re sinistro, l'ore E i giorni suoi governa... La vita è sofferenza, La morte è calma eterna. Ma all'uom la calma incresce, E a lui soffrir più giova Che baldo e giovin cresce. Lo intendo io ben, l'intendo; Faccia del viver prova, Io più tardi l'attendo; Se pria l'ardor che ha in seno Però me non provòchi. Se pria però in terreno Sparso d'umana clade, Anch'egli fra non pochi Nei lacci miei non cade: Chè spesso l'uomo insano E involontario affretta L'opera di mia mano; Nè vale il gran terrore, Che in mio poter nol metta Stoltezza assai peggiore. Ma tu che in tua sventura Il nume mio propizio T'invocavi sicura, Domar sappi a tua volta La tema e il pregiudizio Della tua razza stolta. Non ti colga spavento: Dove il mio bacio io posi Ogni dolore è spento: L'umana indole cessa E lieti e dolorosi Sensi muojon con essa. L'amplesso mio racchiude Virtù così efficace Ch'ogni uman senso esclude; Gioia o dolore umano Al cor reso incapace Quindi urterebbe invano. È un singolar concetto Il gaudio eterno o il pianto Di ciò che reso inetto Al gaudio e al pianto invece Si tramuta frattanto Con incessante vece. Vieni fanciulla; posa In seno a me la testa; Nelle mie braccia ascosa L'arcano sonno avrai Da cui non si ridesta Occhio a pianger più mai. A me dunque abbandona, A me che ti sto innante, La misera persona; Celami in sen la faccia, Dormi siccome infante Nelle materne braccia. L'EPILOGO. Siccome infatti il pargolo subisce Della canzon materna il molle incanto, E lento s'assopisce; Così il funereo canto, Che alla fanciulla dentro il cuor risuona, Di letale sopor tutta l'invade, E a poco a poco in braccio della morte Addormentata cade. Or poi che il giorno cresce, E le vicine sue fannosi accorte Ch'ella, siccome usava, ancor non esce, Picchiano all'uscio, invano. Allora alfin la porta Si atterra, e si discopre Che la fanciulla è morta. Narra il giornal con poche e indifferenti Parole il mesto caso, Nella cronaca urbana, Ma al poeta solingo fra le genti Nessuno sfugge benchè lieve aspetto Della miseria umana; Ei l'umil grido intende Dell'infima sventura, Che il suon del mondo affaccendato copre, E la tragedia oscura Per opera di lui nota si rende. PARALLELO Quando ero fanciulletto Soleva a me di belle Mirabili novelle Narrar la cameriera, Mentre la sera mi poneva a letto. Il padre mio non era Contento che di storte Idee m'empisse, e forte Garria la donna, e spesso; Ma fu lo stesso, e non mutò maniera. O padre, io ti confesso Che avean gran senso molte Di quelle fole incolte C ui tu non davi fede. Di ciò s'avvede il tuo figliuolo adesso. Un monelluccio il piede Entro la selva pose, Questo fra l'altre cose Narrava a me la fante. Tra fosche piante il bimbo oltre procede. Di mostri hanno sembiante Quelle e gli fan paura; Cade la notte oscura; Ode tra l'ombre nere Urlo di fiere il fanciullin tremante. Or sì che assai piacere Avrebbe in casa essendo! Ma più dal bosco orrendo Uscir non sa frattanto Ahimè, nè il pianto egli sa più tenere. Un lumicin soltanto Gli appar lontan lontano; Ed ei con subitano Coraggio a quel s'avvia, E andando spia se gli si fa più accanto. Ch'ivi un palazzo sia Già imagina il fanciullo, Che pien d'ogni trastullo Sia quel lucente loco, Pien d'ogni gioco e d'ogni ghiottornia. Or s'allontana il foco Bugiardo ora s'appressa; Egli d'andar non cessa; Ma il bosco è ognor più nero, Sul reo sentiero ei manca a poco a poco. Del picciol passeggiero La storia allor m'empia D'alta malinconia; Quasi un presentimento Dal triste evento aveva il mio pensiero. Ed or che intendimento Ho dell'umana vita, E da un bel po' compita Ho l'età di ragione, Ma un fanciullone tuttavia mi sento; Or nello scabro agone Io pure il piede ho messo; Sono smarrito io stesso Nella crudel foresta, Che il piè m'arresta, e al mio tornar s'oppone: Che ostacoli m'appresta In cento forme strane: Dell'urlo d'inumane Belve e di serpi orrende Sonar s'intende l'ombra alta e funesta. Bensì al mio sguardo splende Il fatuo lume arcano: Ahi ma lo seguo invano! Spesso una stilla amara Mi si prepara in cuore e al ciglio ascende. Nè arride più la cara Speranza a me, l'amena Speranza; e già la lena Ogni di più vien manco, E il cuore stanco a rassegnarsi impara. Perocchè presto il fianco Io deporrò nel suolo, Quando non potrò un solo Passo più fare avanti. Se delle urlanti belve allora il branco Non vien le agonizzanti Mie membra a porre in brani, Ricopriran le inani Foglie della foresta L'umile testa mia; nè dei vaganti Futuri per la mesta Selva scoprir nessuno Saprà dove, tra il bruno Oblio, giacque il mio petto In terra stretto. Or la mia storia è questa; Ma essendo io fanciulletto. Di fole altre parecchie Empire a me le orecchie Solea la cameriera, Quando la sera mi poneva a letto. NATALE Io lascio andare il _masso che dal vertice_ Con tutto quel che gli vien dietro poi; Ma non posso negar che a me gradevole Molto Natal non torni e i gaudi suoi. Volge dell'anno la stagion più rigida, E non c'è cosa allor che più diletti, Come in panciolle al focolar domestico Sedere fra le donne e i fanciulletti. Solennizza Natale i dolci vincoli Che in culla il primo laccio hanno di rose, Nè può la tomba stessa ognor dissolverli, La tomba che dissolve tutte cose. I figliuoli già adulti oggi convengono Degli antichi parenti alla dimora; Vien a depor sulle ginocchia ai suoceri Il nuovo nato la fiorente nuora. Re della festa è il pargoletto; portano Le testoline bionde oggi migliore E più sacra corona che il Pontefice Non desse a Carlomagno imperadore. Dagli occhi lieti e dalle auguste picciole Mani e dal labbro d'un bel riso adorno Grazie dispensa il re piccino ai sudditi, Che gli son tutti ad ammirarlo intorno. Le teste calve e le canute curvansi Più innanzi a lui profondamente; gli avi L'adorano in ginocchio e di lui godono Fare un tiranno e farsi lor suoi schiavi. Certo falso non è, chi ben sa intendere, Che per amor di sì gentil fattura, Misterïoso per lo immenso spazio Un cantico di gloria invii Natura. Falso non è, che il rude istinto pieghino I compagni dell'uom fidi animali Quasi in favor sovente delle tenere Creature di quello inconscie e frali. E re certo e bifolchi e i grandi e gli umili Con senso egual d'amore e di rispetto Della recente culla appiè si chinano Come a un altar soave e benedetto. Là del futuro il mister sacro adorano; Perchè in picciole membra e in pochi lini Là si cela talor chi un dì rivolgere Potrà di interi popoli i destini. Dunque le culle festeggiamo, e il mistico Germe dell'avvenir che si nasconde Dentro i piccioli cuori inconsapevole, Dentro le teste ricciutelle e bionde. Oggi s'allegri ogni famiglia: il fervido Riso della festante ingenua prole Sperda ogni infausta cura, al par di nebbia Cui sperde il raggio di nascente sole. Infelice la casa ove dissidio, Miseria o mal costume agli innocenti Figli defrauda il gaudio che s'addoppia Ripercosso nell'animo ai parenti. Più infelice la casa ove il connubio Sterile siede, o dove tutto tace Perchè frugò la cieca Morte il florido Nido colla man sua scarna e rapace. PER UNA IGNOTA Molto mi piace, è ver; ma mentirei Se dicessi che proprio mi par bella; Pur non so qual lusinga arcana è in lei, Ch'io ricercata ho indarno in questa e in quella. D'altronde io non so ancor se sia costei Maritata oppur vedova o zitella; Bensì a udirla e a vederla penserei Che niuna esser le può cosa novella. Comunque sia, fra pochi giorni spero, Se in fallaci speranze non si culla L'animo mio, saper quale mistero Sia questa donna oppur questa fanciulla, E allor dirò... cioè, forse davvero Appunto allora io non dirò più nulla! BRINDISI — Nera bottiglia io t'amo, e tu ispirato M'hai sempre una fiducia senza par; Tu m'hai l'aria d'un picciolo curato, E a te spesso io mi soglio confessar. Cura non ho, nè dubbio alcun mi piglia Ch'io non lo venga innanzi a te a depor; Tu se' il curato mio, nera bottiglia, Tu sei, nera bottiglia, il confessor. Sgorga dalla tua bocca un'eloquenza Confortatrice d'ogni mio pensier; Tu m'esorti alla santa pazienza, Tu m'esorti alla fede e al buon voler. Quando l'onda eloquente in sen mi versi, Monto in siffatto ardor di carità Per li simili miei, che i peggior versi Leggo di lor con tutta umanità. Leggo i più ladri versi; e pure io tento In punte escandescenze non uscir; Tutto al più molto presto m'addormento, Senza la prima pagina finir. Ma questo e nulla appetto della fede Che dalla bocca tua discende in me; Nera bottiglia, chi al tuo dio non crede, Quegli un gran peccator davvero egli è. Quando il divo tuo spirto in cor m'infondi, L'Italia mia mi sembra un regno tal, Ch'io credo che non possa nei due mondi Esserci a questo un altro regno egual. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Beviamo, amici! Ogni men bella cosa Traverso il biondo ed il purpureo vin, Appar d'oro dipinta oppur di rosa, Ha splendor di topazio o di rubin. Lettor, ch'io non conosco, e tuttavia Poichè mi leggi sei sì caro a me, Se t'imbatti a passar da casa mia, Entra, c'ho una bottiglia ancor per te. _Marzo 1878._ FANTASIME Nella notte talora io dall'insonnia Spinto e dal caldo delle stanze scendo, E sovra l'erba nereggiante e soffice O passeggio o mi stendo. Dorme la villa e la campagna; il sibilo Stizzoso ascolto delle ree zanzàre, O d'un villano ad or ad or percotemi Il gagliardo russare. Ma poichè son poeta, io so prescindere Dall'aspre realtà di questa terra; Ecco uno stuol gentile di fantasime Intorno a me si serra. Quell'ombre care quinci e quindi balzano Da ogni zolla più verde e più fiorita: Di fior natura han forse estinte — d'angelo Ebber natura in vita. Oh! di mia gioventù vezzose, ingenue Illusïoni, che già vive un giorno E palpitanti d'uno spirto etereo, M'eravate d'intorno; Che come donne innamorate, stringermi Al seno usaste in portentoso amplesso, E che m'avete, all'orecchio parlandomi, Tanto e tanto promesso; Ora morte voi siete e più del gaio Bisbiglio vostro non s'allieta il core; Bensì talor l'ombre di voi m'appaiono, Che già foste il mio amore. L'imagin vostra innanzi allo spettacolo Di cosa che i miei sensi meglio avviva, L'imagin vostra ecco m'appar di subito Siccome forma viva: Per via, dinanzi al fiume od all'occiduo Sole o alla luna o a stelle in ermo colle O a una donna o, com'or, sotto le tenebre E su fiorite zolle. Oh venite, venite! ripetetemi I vostri dolci ingannevoli accenti!... Una allor mi s'accosta e pian mi mormora: — Di me te ne rammenti? — O ti rammento sì, bella, adorabile Fata che l'avvenir mi popolavi Di favolosi amori, e donne e vergini Nelle braccia mi davi! Dice un'altra: — Di me serbi memoria, Che ti cingea di sempre verdi allori, E il tuo nome faceva in tutta Italia Ir famoso e anche fuori? Susurra un'altra: — Ed io che farti ascendere Seppi al poter. Seppi più volte farti Ministro della Istruzione Pubblica E delle Belle Arti! — E un'altra ancora: — Ed io che usai soccorrere A tue strettezze e seppi riempire A te le tasche degli incalcolabili Scudi dell'avvenire! — — Ed io, ed io! — parecchie altre soggiungono; O sì di tutte, e siete più di cento, Oh di mia gioventù compagne amabili, Di tutte mi rammento. Venite ancor, venite a me! ch'io credere Tuttavia possa a voi per brevi istanti, Che mi parlate di poter, di gloria, Di ricchezze e d'amanti. Sì, come un dì, venite ed ingannatemi: Fate ch'io possa toccarvi con mano... Ma troppo è tardi; ombre vezzose, a stringervi Io mi affatico invano. La rozza realtà mi tocca stringere, La rozza realtà che mi circonda: Ahimè a quest'ora io mal riesco a illudermi; So che è notte profonda. Bensì un livido lampo senza requie Dell'orizzonte s'agita ai confini, Facendo il volto impallidire agli aurei Astri eterni e divini. Alcuni lumi piccioli si scorgono Giù per la valle che alta notte ingombra; Cani latrar lontanamente s'odono Quà e là dentro quell'ombra. La locusta riempie col monotono Suo verso i solchi, stridon le zanzàre Inviperite, e dal vicin tugurio S'ode il villan russare. Manda la coccoveggia dai comignoli Il singulto che all'uom suona fatale; Passa nell'aer nero una precipite Forma ed un suono d'ale. A letto, a letto! e tu, Sonno, soccorrimi, Sonno, a noi di Natura almo presente, Sonno, della serena ed impassibile Morte gentil parente. PER UN AMICO ESTINTO (ANTONIO CAUMO JUNIOR) SONETTI I. Mesto regno dell'ombre, a cui lo stolto Mortal senza terror l'occhio non piega, E poichè sa che là il suo passo è volto, Lunga almeno la via dal Ciel si prega; Non io così da te ritorco il volto, Nè il fango della terra il piè mi lega Tanto, che a te non mova alacre e sciolto, O arcana landa, onde tornar si niega. Bensì tutto m'inonda ancor la vita; Ma come in alpe, mentre il sol c'è sopra, Miriam la valle pur tra nebbie ascosa; Miro io così laggiù l'ombra infinita, E prima ancor che il mio bel dì si copra, Spingo lo sguardo entro l'occulta Cosa. II. E se Amor non m'inganna o Poesia, Ch'empion di larve spesso e cuore e mente, Quel mondo ignoto, ecco subitamente Albeggia agli occhi della mente mia. E come a notte per campestre via, Sotto la luna par lontanamente, Ch'ivi fra nebbie d'indistinta gente La contrada animata a un tratto sia; Così vegg'io nella crepuscolare Ombra del regno arcano, erranti e meste Forme fra cui molte a me note e care; Onde più che terror provo desio Di quel regno nel qual mi precedeste, O miei congiunti, o amici, o padre mio! III. Dove tu pur fra gli ultimi venuti, Dolce amico, affrontasti il grande arcano, E là parmi veder che tu con mano M'accenni anco una volta e mi saluti: Più ancor, m'illudo o il tuo grido lontano Meco si lagna perch'io non t'aiuti? Certo m'illudo e in ciechi spazi e muti Tendo l'orecchio e spingo il guardo invano. Tutto è mistero. Il sepolcrale orrore D'alta speme vestir m'è gran dolcezza; Ma il tuo cenno, il tuo grido è nel mio cuore; Là sol tu serbi ancor le usanze umane, Là che intero tu vivi ho sol certezza, Nel cuor mio, finchè a lui vita rimane! _Dicembre 1875._ INSONNIA Misterïosi spiriti L'arcano mondo serra; Nascosti son nell'aria, Sono nascosti in terra; Misterïosi spiriti L'arcano mondo serra. Quando a notte mi corico, Da un pezzo ho per costume Il mio giornal di leggere; Poscia smorzare il lume, E cheto cheto attendere Il sonno è mio costume; Ma in quella vece giungere Altri suole più spesso; Al mio letto uno spirito Pian piano si fa presso, Irrequïeto spirito Che mi visita spesso. Io lo sento accostarmisi; Stende su me le mani, Ed ecco tosto fluidi Concitati ed arcani Sopra i miei nervi scendere Sento da quelle mani. Io più non trovo requie, Acre smania m'assale; Su questo fianco volgermi O sopra quel non vale, E quanto più m'adopero Tedio maggior m'assale. Di mostruose imagini Prende il buio i colori; Io gli occhi stringo e intendere Mi par strani rumori; Ond'ha suoni il silenzio, Come il buio ha colori. Misterïosi spiriti Racchiude il mondo arcano; In terra son, nell'aria, Sono nell'oceàno; Misterïosi spiriti Racchiude il mondo arcano. Lo spirto dell'insonnia Accanto a me s'asside, Cose disaggradevoli Nell'orecchio mi stride; L'insonnia, ahimè! l'insonnia Al letto mio s'asside. A lei non è dell'anima Alcun segreto ignoto, A lei del cor non celasi Il più leggero moto, A lei del capo l'ultimo Pensier non resta ignoto. Sa tutto, ed instancabile Il tutto mi ripete; Ma fra le cose sciegliere Suol essa le men liete; Spiega, commenta, esagera Il mal che mi ripete. Lento venir sull'aere Il suon dell'ore intendo, Penso di nuovo leggere, Il lume riaccendo; Lente frattanto battere Ecco le tre già intendo. Il sonno allor di subito Mi sembra che mi pigli; Mi ricompongo immobile, Ma con più fieri artigli, Par ch'anzi allor l'insonnia Quasi folle mi pigli. Spine in letto mi semina E mi avvoltola in quelle; Dura il crudel martirio Finchè duran le stelle; L'insonnia sol dipartesi Al dipartir di quelle; All'alba sol, lasciandomi Franto fino a le dita; Sopra il guancial precipita La testa intorpidita, Finchè vien tardi a scuotermi Il sol coll'auree dita. Misterïosi spiriti L'arcano mondo serra; Celati son nell'aria, Sono celati in terra, Misterïosi spiriti L'arcano mondo serra. REALISMO Ebbi una volta i miei vent'anni anch'io. Di sogni d'oro e d'ideali splendidi Popolato era allor l'animo mio, Come a ciascuno avviene in età simile. Anco una bella amante aveva allora, Una leggiadra e graziosa femmina. Accanto a lei sino a tardissim'ora Mi trattenni una notte. Oh notte eterea! Coricati eran tutti, ed a lei stessa Scender fu forza i chiavistelli a mettere, Poichè uscito io mi fui, chè compromessa Si sarebbe chiamando alcun domestico. Era il ciel di zaffiro, e l'alta intera Luna splendea, colà d'intorno un pallido Lume alternando alla grand'ombra nera Che le case facean sbarrate e tacite. Solo andavo per via, nè voglia alcuna Di coricarmi avea, perchè nell'anima Della recente mia somma fortuna Mi duravan tuttor l'ebbrezza e il giubilo. Oh adorabile donna! E tutto assorto In tal pensiero e in estasi dolcissima, Cheto arrivai dove dell'umil porto I due bracci entro il lago un po' si spingono. Colà del molo in sull'estremo sasso A sedere mi posi e penzolavano I piedi miei sull'onda, ch'ivi abbasso Alle pietre battea con lieve murmure. Luccicante era il lago e tutto piano, Se non che a macchie qua e là increspavasi, E dentro molli nebbie da lontano Lento parea nel curvo ciel confondersi. Dietro stava il villaggio, e i colli e il monte Girando a par d'anfiteatro, un rigido Tono mettean sul cerulo orizzonte, Come d'opaco aspro metallo fossero. Una blanda stanchezza i sensi miei Lusingava frattanto, e a tutto l'essere Mio pareva in allor mescersi a quei Grandi silenzi arcani ed alla requie Solenne d'ogni cosa, ond'esso intorno Dovunque circonfuso era e sentivasi... Pur dell'amata donna e dell'adorno D'un fior molle suo crine il grato effluvio M'era ai panni rimasto, ed alle nari Talor saliami lieve, impercettibile, Ma non così però che in me dei cari Vezzi di lei, degli atti suoi, del trepido Abbandonarsi la memoria intiera Non ridestasse a un tempo e la delizia Del fruir tutto ciò, quasi com'era Stato dianzi or tornasse anco a succedere. Sol mi pareva in elemento adesso Fatto d'argentea luce e di silenzio E di calma infinita il nostro amplesso Non so ben come arcanamente compiersi. E m'era avviso, mentre in dolce laccio Stretto io tenevo l'adorata femmina, Di sentirmi salir, cullato in braccio D'alcun ignoto iddio, su dentro l'etere. Ben la natura stessa allor, cred'io, In questo m'inducea grande e fantastico Sogno, dove sembrava all'esser mio Lentamente passar, tra molli gaudi, Dall'amplesso finito allo infinito Di tutte cose amplesso, ed ivi sciogliersi Come in non so qual mar che senza lito, Alto ondeggia, lontano, azzurro, splendido. Giurabacco, ch'io mai non ero asceso A più ideale altezza! — Ed allor eccoti, Mi venne a un tratto un certo suono inteso, Qual d'un'aura compressa nell'erompere. Tosto a quel suon dal sogno mi riscossi, E mirando la spiaggia, ivi ebbi a scernere Un uomo accoccolato, il qual levossi Presto, e partiva i panni indi assettandosi. Bene io compresi allor: costui venuto Era a far ciò, che il dirlo non e lecito, Appunto là, dov'io da presso, muto Ammirando, ed assorto in placida estasi Dinanzi allo spettacolo di quella Notte che invano or or tentai descrivere, Versavo in grembo alla sublime e bella Natura tutto quanto era in me d'anima. Ma la Natura, ahimè, bella e sublime E non meno crudele, e alfin di vacui Inganni austera correttrice, all'ime Realità di subito con ferrea Mano m'avventa, e dai sognati cieli Dello ideale mi richiama all'umile Verità delle cose, e senza veli Mi dimostra la terra, ond'io sollecito Quindi mi levo e volgo afflitto in mente Come il bello ed il brutto accanto vadano: Il bello è un matto sogno assai sovente, Ma non già il brutto un sogno mai suol essere! PICCOLO MONDO IDILLIO DOMESTICO 1870-77 _Nihil sanctius quam domus._ CIC. I. Fu a mezzo ottobre, quando si fan gialle Le foglie, e al primo soffio che diserra Il monte su la valle Cascano in folla a terra; Fu a mezzo dell'ottobre disadorno, Che a la modesta villa, Dov'ebbero tranquilla Dimora i padri miei, feci ritorno. Dopo l'assenza di molt'anni al loco Feci ritorno dell'infanzia mia; Partii fanciullo e poco Men che adulto or venia: Nessuno ravvisarmi avria saputo, Ma gli antichi cipressi Vidermi appena, ch'essi Mossero il capo in segno di saluto. Furon dinanzi del cancel piantati Da non so quale de' miei vecchi stessi Que' due vecchi cipressi; E là come soldati Stan da gran tempo a guardia del mio tetto, E mi conobber tosto, Perchè ai lor piè deposto Io soleva giocar da pargoletto. II. Le scale ascesi e penetrai le stanze Che gran tempo di passi e voci umane Furon mute, e ove leggonsi le usanze D'un'età spenta in quel che ne rimane. Il padre mio che preferì altra sede, Presso quel lago ch'ei descrisse in rima, Là morir scelse, e non aveva prima Più da molt'anni qui rimesso il piede. O alti stipi addossati a la parete, Seggioloni, erti letti e mense gravi, O vecchi arredi a cui le meste o liete Vicende e i sensi noti fur degli avi; Io vi ammiro in silenzio, e quasi provo Vergogna d'esser io vostro padrone, Chè il serio aspetto vostro assai m'impone, E pur meschino in faccia a voi mi trovo. III. Volontier ci si indugia accanto al foco, Nella lunga autunnal rigida sera, Massime in vecchie case, ove fan poco Schermo le imposte contro la bufera; Io la serata intera Spendo con gran diletto Dinanzi al caminetto. Danzan le fiamme sugli enormi alari Volubili e scherzose e suonan liete, La stanza empiendo di giocondi e vari Riflessi, mentre sovra la parete Si movono inquiete L'ombre e i profili neri Dei mobili severi. Vecchie pareti, a cui nessuna è ignota Di tante cose innanzi a voi compiute, Se per narrarmi dell'età remota Voi cessaste un momento d'esser mute, Forse d'aver sapute Quelle cose, mi pare, Che a me potria giovare. Forse m'illudo, nè dir cosa nuova Voi potreste, ch'io pria non la sapessi; Che l'umana vicenda si rinnova, Ma poco muta, e gaudii a noi concessi Furo e dolori stessi In alto e in umil stato, Oggi e per lo passato. IV. Ma forse in tutto nemmen questo è vero; Nè certo or fa cent'anni i nostri vecchi Si davano pensiero D'argomenti parecchi, Ch'oggi il cuore e la mente Vanno struggendo a noi, povera gente! Le manìe metafisiche discese Anco non eran nell'Italia allora; La scïenza politica, com'ora, Non era ancor palese A ciascheduno, fino al mio barbiere, Cose che non parrebbe, e pur son vere. Il sentimentalismo umanitario (Ahimè, che versi scrivere mi tocca!) Ch'oggi a tanti la penna empie e la bocca Di sonante frasario Non era noto allor... ma un tal soggetto Mi guasta il verso e il sangue e però smetto. Pur tinto è ognun di noi, qual più qual meno Di questa lebbra, e come tutti io stesso; Onde nel fior degli anni miei l'ameno Tempo autunnale spesso Vo' sprecando nell'egre ed affliggenti Malinconie delle moderne menti. Già non degli avi miei questo avvenia. Oh dolci autunni antichi! Innanzi al giorno Il mio buon nonno uscia Di casa ed ascoltando in alto e intorno Se di buona passata indizio c'era, S'affrettava pel colle all'uccelliera. Detta la messa che il nipote accorto Serviagli, il prete (uno, anche due talora Vestivano in mia casa i sacri panni; Questo era l'uso allora: L'ultimo io stesso lo conobbi; è morto L'ottimo vecchio appunto or fa vent'anni;) Detta dunque la messa, anch'egli il prete Tosto accorreva col nipote allato A veder se frattanto nella rete Molti augelli avean dato. Così in parte venia la mattinata Lietamente impiegata. Poi s'attendeva a por la copiosa Vendemmia dentro i tini con saggezza, O in acconcia maniera Alla stura attendeasi, o ad altra cosa, Ch'ora io dir non saprei con sicurezza, Ma ch'util certo e dilettevol era. Per tal guisa in tranquille opere oneste Spendeano il giorno gli avi, Nè lo studio era l'ultima tra queste, E il libro non di sogni irriti o pravi Suscitatore, alle solinghe e lente Passeggiate compagno era sovente. La serata oltremodo era gioconda: Gli augelli il mattin presi, unti e arrostiti, Eran su la rotonda Polenta molle in lunghe e fitte schiere Per la cena imbanditi, E colmo del vin nuovo era il bicchiere. Convenivan gli amici intorno all'otto. Allora spesso il conversar festoso Da scoppio fragoroso Di risa era interrotto. Ma in disparte raccolti, aspri, accigliati. Giocavano al tresette i più attempati. Si ballava talor, ma d'improvviso, Senza apparato: i giovani eleganti Meglio ne' modi assai che nel vestire; Le donne adorne solo di sorriso, Senza trine o brillanti; E ognuno a mezzanotte era a dormire. V. Ahimè! da queste cose Son trascorsi molt'anni: Il padre mio gli affanni Del viver suo nascose In solitudin tetra, Finchè sotto la pietra D'un sepolcro si pose. Da lunga età la stanza De' gai ritrovi è muta, Nè un passo più si muta Nella sala ove usanza Ebbero de' miei padri Le spose i piè leggiadri Movere in lieta danza. E il tempo indarno sfida Sul granaio il panciuto Multicorde liuto, Che ai balli un dì fu guida; Or confortabilmente Il topo sapïente La prole sua v'annida. De' topi indi la prole Porta dall'istrumento Che l'annidò il talento Del danzatore, e suole Laddove furo i gravi Minuetti degli avi Menar le sue carole. Il vento spesso viene Di musical romore Ottimo esecutore, E al ballo bordon tiene; Da solo fa le veci Non d'una, ma di dieci, All'uopo, orchestre piene. La canna del camino Gli serve di trombone Con che il basso compone, E forma il vïolino Fischiando agli usci fessi, E tra i vetri sconnessi Aprendosi il cammino. Io che non là da presso Dormo, ma il sonno ho lieve Mi sveglio al suono in breve, Benchè arrivi sommesso: I vecchi ai noti lochi Tornano ai balli e ai giuochi — Penso allor fra me stesso. — Certo nell'alta notte, Alle lor feste i vecchi Tornan che da parecchi Anni furo interrotte: — Accenti odo, segrete Voci in sì gran quïete Come non so prodotte. Son l'avole amorose Che lasciano i mariti A bofonchiare uniti, E il nipote bramose Cercando van con orme Furtive s'egli dorme Nelle stanze più ascose. Pendono sul mio letto Spiando attente attente Qual abbia se avvenente O se illegiadro aspetto Colui ch'unico resta Di lor stirpe modesta, Colui ch'è il lor diletto. Cenno col dito fanno Che ognuna zitta stia, Che sturbato io non sia; Così a mirar mi stanno; Molte vorrian baciarmi, Ma per non isvegliarmi Quel piacer non si danno. Mi guardo io ben d'aprire Gli occhi. Le care donne, Le mie povere nonne Non san che di dormire Solo per arte io fingo, Ch'io veglio e gli occhi stringo Per non farle fuggire. VI. Ma i morti sono morti e non ritorna Nessun di lor per quanto l'alma vita E la casa ove nacque abbia gradita E la sua stirpe ch'ivi ancor soggiorna. Ahimè l'avole mie son tutte morte, E giacciono incomposte ossa a quest'ora Nel suol costrette, non che sian talora Per venirmi a veder giammai risorte. Ma quai vapor ch'estiva notte aduna, Piglian vaghi e fantastici sembianti, Quasi d'arcani spirti in cielo erranti Al novo raggio di crescente luna; Così le pie memorie che man mano Desta in me la dimora di mia gente Antica, al raggio dell'accesa mente Vita pigliano e voce e aspetto arcano. Molto io t'amo o modesta antica villa Che fosti ai miei placida stanza e amena, Dove nacque alcun d'essi, oppur serena Vita condusse, o morte ebbe tranquilla. O buona casa, o vecchia casa io t'amo, Sebben cadente sei, laonde il saggio Muratore a consiglio e del villaggio Il fabbro spesso e il legnaiuolo io chiamo. Molte misure e ovunque son da noi Prese su te, ch'io far di te vorria La miglior casa che dintorno sia, E non sol riparare ai danni tuoi. Vorrei che il passeggiere il bianco e bello Aspetto tuo mirasse da lontano, E che sosta facesse il buon villano Per vagheggiarti innanzi del cancello. Ma assai fu detto e nulla s'è conchiuso Co' mie' architetti, e tu mi sei rimasta Vecchia, o mia casa, molto vecchia e guasta, Qual d'esser da gran tempo hai preso l'uso. Noi non potemmo intenderci al postutto; Mi ci vorrebber venti mila lire, C'intenderemmo allor, non c'è che dire, Ma non ci son purtroppo, e questo è il tutto. — VII. Ma il moto urge e governa Ogni terrestre cosa; Sol la Vicenda eterna È in terra, e mai non dorme E mai non si riposa Dal mutar nomi e forme. Tutto quaggiuso muta E nulla pêre intanto: L'uom, l'opra sua compiuta, Sotterra il genitore Raggiunge, ma per tanto L'umanità non muore. Il suolo ampio nasconde Genti morte infinite, Più assai che in selva fronde Non copran esso il verno: Ma di fronde e di vite È il riprodursi eterno. Ravviva il sacro Aprile L'albero irrigidito E dà virtù gentile Al seme che si trova Dentro terra smarrito, E messi e fior rinnova. E Amor ripara il danno Che dal recar non cessa Morte ogni dì dell'anno; E la culla prepara Pur nella casa istessa Ond'esce or or la bara. Quante abitaron genti Questo mio colle aprico?.. Io sotto ai fondamenti D'un muro che atterrai Stretti nel suolo antico Molti giacer trovai. Pria che il muro costrutto Certo fur là sepolti, Ed era quel ridutto Per vetustà a cadere; Figuriamci se molti Anni doveano avere! Chi fossero è mal noto: Narrasi che un convento Fu qui in tempo remoto; Nulla s'oppon che quelli Scheletri nel trecento Non fosser fraticelli. O buoni e saggi frati, Che qui viveste e siete Morti qui e sotterrati, Chieggovi umil perdono Se a romper la quiete Vostra venuto io sono. D'ogni cosa mortale La varia vece e questa. Così alla monacale Famiglia è poi successa Qui la mia gente onesta Nell'egual sede istessa. Ma dei frati di pria, La cui folla s'ignora, E della gente mia, Che di padre in figliuolo Tre secoli dimora Qui tenne, resto io solo. Pur l'avvenir son io; Io sono il germe ascoso, E attendo il maggio mio. Ma come sulla rasa Gleba, l'infruttuoso Verno or mi siede in casa. VIII. Scrive la Sand che la miglior stagione D'abitar la campagna è il verno; io dico Il ver non ho codesta opinïone, Eppur son della villa un grande amico. Alla campagna io duro Fino ad anno avanzato, Ma quando è giallo il prato, L'albero spoglio, oscuro Il cielo, il giorno breve Men peggio assai mi pare, Quando viene la neve, A Milano abitare. Triste è abitar nel verno la campagna: Bigia e folta la nebbia ai colli siede, Lenta inesausta pioggia intorno bagna Per quanto spazio abbraccia l'occhio e vede. Che si fa, lungo il giorno, Se non che sol l'infesta Noia portar da questa Seggiola a quella intorno? Nè il mutar stanza o loco, O seggiola o lettura Soltanto mi procura Ch'io muti noia un poco. Tedio eguale mi rode il giorno intero, Nè se il tempo è miglior m'annoio meno, Correndo via per questo o quel sentiero, Ch'ora è sì triste, e vidi già sì ameno. Al sole ch'è malato Certo il gelo è molesto, E si corica presto, Poichè s'è tardi alzato. Con braccia scarne aiuto Chiede il gelso, e il cipresso Trema per freddo acuto Nel suo mantello istesso. Cascan le trine argentee crepitando Giù dalle siepi dove fruga il vento; E via dal fosco pian di quando in quando Mover mi sembra un suono di lamento: Dice quel mesto suono: Poeta a che ti stai? Della Natura ormai Chiuse le feste sono. Invan le giaci in seno E amor di lei ti move; È morta o poco meno; Cerca tue gioie altrove. Afflitto mi rincaso e penso io pure Di rituffarmi tosto allegramente Fra le tumultuose e dolci cure E fra i piacer de la città frequente: Chè certo sarei stolto Se fra questo squallore Tener volessi il fiore Degli anni miei sepolto, Mentre una molle egizia Danzatrice brunetta, Che fu già mia delizia, A Milano m'aspetta. Quando Amneris con la celeste Aida Pel vago Radamés venne alle prese, Quella danzar mirai tra preci e grida Del sommo Phtà nel tempio, e amor mi prese. Io so che nelle braccia Ell'ha tutto l'ardore Del sol d'Egitto e in core, Quando stretto m'allaccia; E or mentre i dolci istanti Ch'ebbi da lei rammento, I tizzi schioppettanti Con le molle tormento; Ma non così s'avviva e dà scintille Il fuoco presso cui passo la sera, Quanto il mio cor s'accende e di ben mille Sfavillanti pensier l'anima intera Si riempie, com'io Sovvengomi di lei... Oh pazzo ben sarei Se in città, vivaddio, Non ritornassi tosto! Il verno qui mi scaccia, E là ho sì dolce posto Fra quelle care braccia! Ma popolare la deserta stanza Di larve benchè liete a me non giova, Mentre di queste la real sostanza Molto lontana ora da me si trova. Più di me niuno apprezza La virtù portentosa D'imaginarsi cosa Qual più l'alma accarezza: Ma la sera invernale Ha spazio sufficiente Per darvi un piacer tale A lungo e largamente, E serba tanto spazio tuttavia Da annoiarvi di poi senza confine; Nè di bei sogni allegra compagnia Fa che siate men soli alla fin fine. Pertanto io sono solo, Fuorchè alle serramenta Percote e si lamenta, Ovver passando a volo Biascia parole amare L'aquilone irritato Perchè nol lascio entrare A scaldarmisi allato. Solo son io: bensì chiamare io posso In aiuto il fattor, uom dotto e saggio, E lasciar tutta arrovesciarmi addosso, Come fecondatrice acqua di maggio, L'illustre agricoltura, Che in suo cervel s'addensa, Pari a nuvola intensa Sui monti, che assicura Le messi esauste al sole; Se pur grandin non sia, Che nulla invece suole Lasciare in cortesia. Ma col verno non val saggezza o cura; Sterile è il verno e a pormi l'alma in fiore Or ci vuole ben altra agricoltura Che non sia quella del saggio fattore. Solo, solo son io; Tu stesso, o picciol cane, Posi or l'ossa lontane, O Fido, amico mio, Che sdraiato sovente Al foco e a me dappresso Russavi chetamente; M'hai lasciato tu stesso. Morto purtroppo sei, matto compagno De' miei trastulli un dì, che vecchio e stanco Adesso il giorno inter m'eri al calcagno, E tutta sera mi dormivi a fianco. Bello non fosti, è vero; Can da pagliaio, onesto Vissuto se' in modesto E piccolo mestiero: Sordo eri or poi; ma un giorno, Lesto ad ogni romore, Fama ottenevi intorno D'ottimo abbaiatore. Or tu pure se' morto, e un'amarezza Grande io sento di ciò, come se un molto Fedele amico, a cui l'anima è avvezza, Stato mi fosse d'improvviso tolto. Nè di te cosa alcuna Or viva più rimane, O buono ed umil cane? Nè in qualche stella o luna Più vive il saldo affetto Che ti brillò nel fondo Occhio finchè negletto Passavi in questo mondo? Altra vita alcun premio a te non serba Dell'util opra tua, nè guiderdone Di tue virtù modeste in meno acerba Sorte e in altra miglior condizïone? Misero in vita e in morte, O mio povero cane! Quante son bestie umane Che han di te miglior sorte: Non ti valgono in vita, E tuttavia defunte Trovan gioia infinita Nel paradiso assunte! IX. Poggi e valli d'un nembo di verzura, E d'alma luce e bionda Il divo maggio inonda L'aura turchina e pura, Nella quale s'immerge schiamazzando La pazzerella rondine; Io tosto, messa ogn'altra cura in bando, Salgo alla villa antica E a la natura amica Conforto e oblio domando Della città che m'ha seccato assai Co' suoi costumi pessimi. La danzatrice egizia che adorai Volle aver più mariti; Son nostri e vecchi riti, Nè ancor mi ci addestrai. Ma questo è nulla: a fin di carnovale. Per troppo al gioco perdere, (Fin su i capegli alto il rossor mi sale) Restai corto a quattrini, Onde a certi strozzini, Per farla meno male In giorni a lesinar poco opportuni, Duopo mi fu ricorrere. Oh del viver civile acri e importuni Bisogni! — Basta, intorno All'ultimo soggiorno Che in città feci, alcuni Guai vi dirò me l'hanno reso amaro. Ora i campi mi accolgono. Maggio tripudia, e tu del tempo avaro Compensami, o Natura; Sanami d'ogni cura, E il verdeggiante e caro Grembo mi schiudi ove riposo io prenda... E il raccolto dei bozzoli Fa ancor che abbondi, e che ben lo si venda. X. Io dall'uom non rifuggo, e meno ancora Dalle donne se belle e sagge sono; Ma domando perdono, La compagnia degli alberi talora Sotto più d'un aspetto Mi dà maggior diletto. Mai, per esempio, non s'udì che avesse Il pero a sdegno il suo non vil mestiere Di fare delle pere, E ch'egli a un tratto il cedro si credesse, Come dell'uom si vede Che sovente succede. Chi nano e storto nespolo sarebbe O sorbo sciocco o frutto anche peggiore, Fra noi pretende onore D'ananasso o di dattero che crebbe Orgoglio d'oasi amene; Pretende e spesso ottiene. O vanità malnate, o stroppi intenti, O bassezze del picciolo mortale, O invidie abbiette, o male E pettegole lingue, o brute menti Io vi aborro vi aborro, Però ai campi ricorro. In campagna per tempo ogni mattina, Se nuvolo non è si leva il sole; Codesto avvenir suole Anco in città, ciascun se lo indovina. Ma chi concluder osa Che sia l'istessa cosa? Come ogni vel donna al marito in faccia Toglie e si mostra in sua bellezza intera, Ad un'egual maniera D'ogni vapor tosto che il sol s'affaccia D'orïente alla soglia, La terra si dispoglia. Di baci il sol, fervido eterno sposo, E di tremule gemme il sen le inonda, E l'abbraccia e feconda Con mille raggi e mille, in glorïoso Miracoloso amplesso. Al tempo istesso Si desta il tutto e portan l'aure intorno Suoni indistinti, a guisa di messaggio Col quale in lor linguaggio Tutte le cose dannosi il buongiorno; Ed io che a questo attendo Occulti fatti apprendo. Chiede l'olmo se bene ha riposato Alla vite; il frumento aureo sospira Sommessamente e gira Il capo in atto estatico e beato Perchè la molle brezza Lo molce e lo accarezza. Il giovinetto augello alto la lieta Canzone della vita all'aure invia; Quel non ha la mania Ond'è tocco fra noi più d'un poeta, Che disinganni e danni Sogna e piange a vent'anni. Senza pretesa aver che dal _Fanfulla_ O dall'_Antologia_ siano lodate, Come ogni nostro vate Pretende s'egli fa cosa da nulla, Le cicale fan versi Sugli alberi diversi. I fioretti del prato arcani accenti Van susurrando, e narransi fra loro I propri sogni d'oro Onde infiniti traggono argomenti: Ma il pino, ahimè, crollando Va il capo a quando a quando. Il papavero lungo e scimunito Si pavoneggia in abito scarlatto, E a la modesta a un tratto Margarituccia avventa un motto ardito, Che tutta in sè raccolta Lo sciocco non ascolta. Ma fra noi, Margarite e Ortensie e Rose, Tutta la flora femminile, ovvero Il calendario intero Porge le orecchie sue poco sdegnose Ai papaveri spesso Che ci stan fitti appresso. XI. Ma poi che il sol più eccelso a mezzo il giorno Fiamme dardeggia intorno, E fatta l'atmosfera E tutta intera Un infinito incendio, Il villanel dal mieter si riposa Sotto la pianta ombrosa: D'un solco s'accontenta, Là s'addormenta E insetti invan lo pungono: Cheta lo sugge la zanzàra e sozze Mosche fan chiasso e nozze Sopra il suo volto bruno; Ei spesso alcuno Schiaffo s'avventa e scuotesi; Non si desta però; con moto eguale Scende il suo petto e sale Ch'ei mostra ignudo, e i denti Bianchi e lucenti Fra le sue labbra appaiono. Or se anch'io nel più fresco nascondiglio Della mia casa piglio Libro o giornal fra mano, Un subitano Sopor tutto mi domina. Sull'ora calda in villa è dolce, è bello Stiacciare un sonnerello; Poi s'ha più lena a rudi Opere e studi... E anche meglio si desina. O eterni numi e santi, a voi non piaccia Mai che altra vita io faccia Da questa mia tranquilla Ch'io meno in villa, Del mondo imbuscherandomi. Vita mia, tu se' fatta della lieta Fatica del poeta, E d'ozio il più sereno; Oh così almeno Durassi un mezzo secolo! Or poscia il carro sul finir del giorno, Fa dai campi ritorno Carico dei covoni, Ed i coloni Tutti presso lo seguono. Lento in fondo alla corte il carro passa; Più giù si stende bassa La valle e quindi il colle Sorge, che il molle Roseo tramonto imporpora. Come in un nido, in cima al tremolante Acervo è la festante Frotta dei fanciulletti: I buoi gl'insetti Con la coda si scacciano; Col pungolo in ispalla e ignudo il piede Primo il bifolco incede, E le spigolatrici Dalle pendici Cantando ultime scendono. XII. Tutto spira l'idillio, e sol mi manca Fillide bruna o Clori bionda e bianca Perchè l'egloga io tessa. Ma quelle stan nei libri: nel contado Al bel sesso non è che assai di rado Vera beltà concessa. Ben tu fosti leggiadra, o gaia e svelta Fanciulla che Diana avrebbe scelta Volontieri a compagna, Quando in età più d'oggi assai felice, Ella correa succinta cacciatrice Il bosco e la montagna. Bella eri tu davvero, Anna. Sul colle Come giovine pioppo il fine e molle Tuo corpo m'appariva. Ed avea quel tuo corpo adolescente D'una frutta anco acerba il prepotente Invito e l'attrattiva. Ma d'ingenue malizie e di baleni Avevi i lunghi e verdi occhi ripieni, Come zingara ispana; E spesso il vento allegro e libertino Giocava nel tuo crin sciolto e corvino E nella tua sottana. Bella eri tu: dritta sugli erti solchi Irridevi ai coloni ed ai bifolchi, Alcuna tua canzone Lieta intonando; in fiamme era ponente, Tu spiccavi sul cielo incandescente Come una visione. Bella tanto eri tu che si potea Rassomigliarti a una silvestre Dea: Ma più che Dea tu eri; Una donna eri tu dolce e vezzosa, Che divide coll'uom, sorella e sposa, I dolori e i piaceri. E a te valse, fanciulla, il vago aspetto Che avventurate nozze un giovinetto T'offerse imprevedute; Ahi! ma ufficio di sposa e più di madre Presto avvizzì le tue membra leggiadre E il fior di tua salute. Or tu quando m'incontri ancor sorridi: Ma da' precordii tuoi, come da nidi Augelletti irrompenti, Più non iscoppian le vivaci note, Nè più l'eco dei poggi ripercote Le risa tue frequenti. Oh gioconde vendemmie! ti sovviene? In lunga fila, con le ceste piene Dell'uva, dal vigneto Scendono le ragazze barcollanti Pel grave peso, e suona l'aer di canti E di schiamazzo lieto. Versan poi l'uva entro l'ammostaruola (Bada, i toscani dicono la cola) Finchè ce ne può stare. Su vi balza a piè nudi un garzon tosto; Ecco in pioggia minuta il roseo mosto Incomincia a colare. Come son colme le bigoncie, il tino L'uva ammostata accoglie, e ne fa vino In sette od otto giorni. E ciascun giorno vasi empie novelli; Oh ricchi giorni speranzosi e belli, Di cento gioie adorni. E la diurna opra finita a sera, Uomini e donne, la brigata intera In corte si raduna A novellar pel fresco, dopo cena; Cantan sull'aia e ballano, e serena Ride con lor la luna. XIII. Così inoltra l'autunno, e il verno attende Dietro l'alpe trentina ancor per poco; Ma l'aquilon già scende, E via con gran clamore, Altisonante araldo, in ogni loco Trapassa a volo e annunzia il suo signore. Già piove spesso e le giornate intere. Più non olezza dei recenti fieni, Come all'estive sere, Ma si fa giallo il prato. A rivederci a quest'altr'anno, o ameni Giuochi sull'erba; or troppo là è bagnato. Or bisbigli non più di nidi occulti Fra le pallide foglie e i rami neri, Ma del vento i singulti; Fredda è la sera e lunga, Si sta chiusi in salotto volentieri, Finchè di coricarsi il tempo giunga. Torna del San Martino allor la state; La caccia delle allodole le brevi Tepide mattinate Ne allegra, e il dolce arrosto Ne rallegra le sere, e insiem vi bevi Il vin ch'hai fatto del miglior tuo mosto. L'autunnali mestizie il nuovo vino Tempera in parte, e affatto poi le scaccia, Se appunto un bel mattino Alcun rude mercante Lombardo appare a cui quel vino piaccia, E che tutto lo compri in poco istante. Oh del bel sole estremi e dolci raggi! Oh scampanìo che annunzia le gioconde Sagre giù pei villaggi, Che nella valle stanno! Oh tristezza gentil che a noi s'infonde Da quest'ultime gioie, ahimè, dell'anno! Tu novembre, tu se' come colui Che troppo tardi al bel convito arriva, E poco tocca a lui. Natura a te non serba Che alcun raggio di sole, e non coltiva Per te che grami fiori e inutil erba. Ma come sopra il tuo breve orizzonte Fosche nubi tu addensi e mesto sei, Così sulla mia fronte, Ch'io nella man sostengo, Foschi dubbi s'addensano ed a miei Casi pensando in triste modo io vengo. Che faccio io qui nell'uniforme vita? Fra non intere gioie e non interi Affanni intorpidita Si culla inutilmente L'anima — e ciò mi piacque infino a ieri; Oggi invece mi tedia orribilmente. Pur come fuor della finestra invano L'occhio tendo e null'altro io vedo in giro Che nebbia ai monti e al piano Solitudine bieca, Così nel mio futuro io nulla miro Fuorchè landa deserta, e nebbia cieca. Che valse a me d'alcun mio dotto errore Empire il dì solingo, e della notte Sprezzare il don migliore E consumar gran parte, Chino le membra tormentate e rotte Su libri avari e su infeconde carte? Che mi valse o varrà? L'Italia amena Fin nell'insigne cattedra imbandisce Spesso ai ciuchi l'avena; E dell'eguale alloro, Tanto ad un suo poeta il serto ordisce, Quanto a celar gli orecchi lunghi a loro. Ma non da te l'ufficiai premio attesi, O bell'arte dei carmi, che dal padre Io fanciulletto appresi. Per natural talento Cerco dar forme al pensier mio leggiadre, Di ciò sol, se riesco, assai contento. Che sperar più? Spento è nel vate il dio; Neppure il vate stesso anzi più esiste: Che importa? Un uom son io, Nè d'esser più mi cale; Benchè d'esserlo ognun faccia le viste, Non è sì facil cosa essere tale. Se non che ratti, ahimè, volano gli anni! Muore novembre e il verno gli succede; Ma poi ripara ai danni Primavera gentile. Non così avvien di noi, chè più non riede Quando fiorì una volta il nostro aprile. Io rifeci la casa a poco a poco, Che fu de la mia gente antico nido; Or più non move il fioco Suono dell'età spenta Da queste mura, ma il giocondo grido Dell'avvenir parmi che intorno io senta: «Or che rifatto è il nido, a che la bella Sposa non meni e la dimora antica Dei padri di novella Famiglia non allieti?» — Così intorno m'ascolto in voce amica Susurrar le domestiche pareti. «Bada a' tuoi casi finchè in tempo sei; Piglia una bella giovine in isposa, Fa all'amore con lei, Ed abbi dei figliuoli; Aver donna e fanciulli è degna cosa D'ogni uom dabbene, e guai quaggiuso ai soli! Miseri a lor che per non darsi cura D'una famiglia, solitari stanno! Voi per goder Natura, Voi per soffrir compone, E la vita è nel gaudio e nell'affanno, Non nell'ignavia che a nulla s'espone. Folle se tu di sdruccioli e di piani Versi tutta la vita occupar vuoi. Non isfuggir gli umani Più comuni destini: Fa d'esser pria buon uomo, e sii da poi Buon poeta, se proprio in ciò t'ostini.» — Così talor nella stagione immite Odo sonarmi queste voci in cuore Fra le ringiovanite Mie domestiche mura. Oh solitudin tetra, oh eterno amore, Oh voci della santa alma Natura! — XIV. Però accadde a me pur, nè più nè meno, Di prender moglie (adesso Già già quattro anni volgono); E senz'altro con lei pigliato il treno, Venimmo il giorno istesso Al nido mio domestico. La stanza nuzïal bianca e raccolta Mi parve un tempio arcano; Quivi sorgeva il talamo Simile a un'ara in veli sacri avvolta, Dov'abbia un sovrumano Soave rito a compiersi. Calava il giorno: il pranzo era allestito; Di lumi e assai di fiori E di cristalli splendido Era il salotto inver, ma l'appetito Non venne a far gli onori Della gioconda tavola. La giovanetta sposa incerta e mesta Per la madre lasciata, Poco recossi al roseo Labbro; io stesso badavo, in gran tempesta D'amor, con la posata Sulla tovaglia a incidere. Per finger calma cose indifferenti Io dicevo alla sposa, Che sorrideami languida; Ma nelle vene mi correan torrenti Di lava impetuosa, E la voce tremavami. Alla fanciulla affetti molti e vari Urtavano il bel seno: Certo la inquïetudine D'esser così lontana da' suoi cari, Sola di notte, in pieno Poter d'un baldo giovine, Che le dicea d'amarla e la copria Di veëmenti baci; E al tempo istesso il giubilo D'esser con lui; di sposa l'allegria, E trepide vivaci Curiosità virginee. Poi sul terrazzo uscimmo. Ivi la bruna Valle tacea; ma il fiume Mandava un lene murmure; Da vaghe stelle e da la tersa luna Piovea candido lume Entro gli spazi ceruli. Oh sacra Notte, che proteggi il pio Dolce rito d'amore! La taciturna vergine Posò il capo sul destro omero mio, E le sentivo il core Tumultuoso battere. Io le cingea col braccio la persona Flessibile, sovente La chioma aurea baciandole; Palpitando sentìa la casta e buona Fanciulla in sen repente Desii nuovi agitarsele. Ed ecco allor da un grande accoramento Di non so che d'arcano Io mi lasciavo cogliere, Quasi che di mestizia e di sgomento Ogni solenne umano Gaudio misto abbia ad essere. La fautrice Notte indi con dura Brezza già ne pungea A rientrar spingendone: Ci ammiccavano gli astri e la Natura Tutta di noi parea Compiacersi e sorridere. XV. A questo carme, cui principio diedi Triste al deserto focolar dappresso, Io lietamente pongo fine appiedi D'una culla sedendo invece adesso. Ivi riposa il figliuol mio bambino Il qual come tra nevi arcano fiore, Tra i lini appar del candido lettino Che a lui compon la madre ebbra d'amore. Primogenito mio, che dalla intensa Gioia d'un novo amor fosti concetto, E non alfine poi dalla melensa Abitudine ahimè del comun letto; O primizia d'amor che la vitale Origin bella hai nelle fibre impressa, E in ogn'atto, e nel riso senza eguale, E in tutta in tutta la persona stessa; Bello come la madre e roseo e biondo, Cui l'anima pensosa tuttavia Della paterna stirpe all'occhio in fondo Tra la nebbia infantil s'apre la via; Putto che avrebbe Raffael sul seno Posto alla Vergin sua più bella e pura, Vegeto, vispo, sorridente, pieno Dei miglior doni che può dar Natura; Pargoletto gentil, che il nome porti Del mio nobile padre e sei mio figlio, Onde il passato e l'avvenir conforti, Verso i quali man triste io levo il ciglio; Se giusta forma io dar m'affido a questi Affetti miei t'offendo e stolto sono, E quantunque or tu dorma (e nol sapresti Pur vegliando) ti chieggo ancor perdono. Ma finchè tu riposi e insiem talora Sorridi e mormorando alcun accento Ricordi i giuochi tuoi sospesi or ora, Mentre io qui seggo a vigilarti attento, I pensier miei s'affollano d'intorno Al tuo bel volto, e ai biondi ricci sparti, E pigliano del verso il metro adorno Per spontanea virtù, nel vagheggiarti. Che se tu desto sei, forma migliore Io trovo, forma di carezze e baci, Alla soave poesia che in cuore Mi mettono le tue grazie vivaci: Ben so che tu non sei dal ciel disceso, Nè un angioletto fosti pria che nato; Voi per fingere gli angeli hanno preso I pittori a modello e v'han copiato, Voi figliuoli dell'uom piccioli e belli; Poi mutando la causa nell'effetto Non inventati a imagin vostra quelli, Ma voi creati a immagin loro han detto. Ma io che non ci tengo al sovrumano, Qual sei più t'amo, dolce creatura Di nostra razza, bel fanciullo umano, Nato per opra di gentil natura. Per le ingenue tue grazie e i tuoi sereni Occhi la gloria di quaggiù si mostra, Se è ver che d'altro tu quaggiù non vieni Luogo più eccelso della terra nostra. O Natura di cui supremo è intento La vita, innanzi a te bacio la terra Che l'uom calpesta altero, e a te stromento È di quanti prodigi il mondo serra, Mi prostro innanzi a te, saggia e possente Natura, e movo a te calda preghiera; Questa, che al figliuol mio vita recente Donasti tu, fa ch'egli compia intera; E allorchè fatto adulto e di sè stesso Sicuro alfine l'ultimo saluto Ei mi rivolga, al letto mio dappresso, Non parrà a me che indarno io sia vissuto. CATASTROFE C'era una volta un mesto cavaliero, Assai mesto davvero: Solo abitava in un vecchio castello, Sulla riva del mare: Solea ciascun augello E ciascun fior che lo vedea passare Di lui meravigliare: Tanto della persona trascurato, Discinto e spettinato, Uscia talor per la contrada intorno. Pure sedea più spesso, Quanto era lungo il giorno, Nella sua stanza, col capo dimesso, Tutto chiuso in sè stesso. Prima del tocco non andava a letto. Dinanzi al caminetto Solea d'inverno consumar le sere; Ci si obliava ancora Per delle notti intere, E tu invano la voce alzavi allora, Onda del mar sonora. Ed ecco in notte procellosa e nera, Di mezzo alla bufera, Tra il fulminìo che scoppia orrido e fitto, Un grido l'aere fende: Balza il garzone ritto, E un'angoscia infinita il cor gli prende, Com'ei quel grido intende. E si picchia alla porta. Oh non invano Picchi, o vezzosa mano! Ei corre al saliscendi e tutto l'alza. Ed alto a lungo il tiene. Or seminuda e scalza Una donna che appena si sostiene Su per le scale viene. Egli è in cima di queste, e dal suo canto Tace e fa lume intanto. «Io son qui per morire ai piedi tuoi, Per chiederti perdono... Tu ancor bene mi vuoi... Se ti lasciai per altri in abbandono, Mira in che stato or sono!» — Questo disse la donna, ed ei rispose: «Ahimè! di queste cose Penetrato son io profondamente. Voi siete assai malata, E fu molto imprudente L'arrischiarvi a sì lunga passeggiata In notte sì arruffata. Veniste in legno?.. Oh come sulle spalle Non buttarvi uno scialle?.. Bisogno avrete di dormire, io credo; Ho un sol letto e piccino Ch'io volentier vi cedo. Berreste pria qualcosa? Un centellino Di rumme? un po' di vino?..» — Come udì queste cose la fanciulla Non osò dir più nulla, Ma sull'indifferente alzando gli occhi Timida e sbigottita, S'accasciò sui ginocchi E chinando la testa illanguidita Passò di questa vita. Il cavalier che al caso inaspettato Non era apparecchiato, Pur vedendo la bella creatura Venire a un tratto meno, Con improvvisa cura Su lei gittossi e d'alta ambascia pieno Tentolle i polsi e il seno. Ella era morta, ed egli non sostenne Di viver oltre, e venne Alla finestra, e si buttò di sotto. Com'era naturale Egli ebbe il collo rotto. Amor, per quanto il salto sia mortale Già non impresta l'ale. Badino a ciò i Signori e le Signore Che or fossero in amore. Che se fede al mio dir non si rifiuta, Codesto è il mio parere: Amore è febbre acuta. Badate a voi: non facile è sapere Quel che ne può accadere! STORIA D'OGNI DÌ _Si quoties homines peccant sua fulmina mittat_ _Iupiter, exiguo tempore inermis erit._ OV. TRIST. 2, 33. Sull'imbrunir costà sotto le piante Va passeggiando il giovine elegante. Il bel garzone aspetta A quanto pare: Ecco arrivare Allor la giovinetta, La giovinetta ch'egli appunto attende; Ei senz'altro a braccetto se la prende. A braccetto la prende e se ne vanno: Confidenze leggiadre insiem si fanno: Anco si son diretti, E senza fine, Amabili occhiatine E sorrisetti. Sono così dov'ella sta venuti: Quivi indugiano un pajo di minuti. Quivi indugiano un pajo di minuti: Fra lor si fanno teneri saluti: Si tengono le mani; Egli sommesso Dice: «A domani, All'ora e al luogo istesso.» Peggio, avanzando oltre la soglia il piede Vuole abbracciarla; ella resiste e cede. Passa del tempo, e siamo in carnevale. Si fa in teatro un baccano infernale. Colà bizzarre genti In frenesia; Luce, strida, armonia, Colà a torrenti. Questa cosa si chiama il veglïone, E ci van mascherate le persone. Le persone ci vanno mascherate; Due ne conosco che ci sono andate. Ella è con lui venuta In questo loco: Ella è perduta, O ci manca assai poco. Cheta, cheta di casa ell'è sfuggita, Per qui venire ove piacer l'invita. Niun la conosce, ed ammirata è molto. Snella, succinta, in rosea seta il volto, E il mento s'incortina In velo fosco. Io ti conosco, O bella mascherina; Tu sei la bimba che a cercar l'amante Venia, sei mesi fa, sotto le piante. Passa del tempo; ed ecco all'ospedale, Venire una fanciulla che sta male. Ella sta mal di parto, E partorisce. Come imbrunisce Il novellino parto In quattro cenci con bel garbo è posto, E con bel garbo ai Trovatelli esposto. Non senza essere stata in fin di vita Di puerperio ella è pertanto uscita. Provò le doglie, Or le cure leggiadre E della madre Il gaudio le si toglie. Peggio ancora; di casa l'han cacciata, E l'amante da un pezzo l'ha piantata. Ma perchè il giovin caro, e a te posticcio Sposo alfin s'è levato il suo capriccio, E di quel ch'indi è nato, Or non gli cale, Col virginale Il fior non è passato Di tua bellezza, e se co' piè vezzosi Premi la terra, irrompono altri sposi. Bensì l'hanno di casa anche bandita, Ed è pel duolo e pei digiuni attrita, E non può lavorare, E non servire: Or come fare? Ella non vuol morire. Nè manca gente di sì buon volere, Che a lei si presti con tutto il piacere. Passa altro tempo ed ecco in luogo ascoso, In luogo arcano, ch'io nomar non oso, Viene a brillar novella Un'altra stella, Più di tutte gioconda E invereconda. Ella passò da pria di mano in mano. Per venir poscia al luogo ascoso e arcano. La sua pratica intanto d'avvocato Il bravo giovanotto ha terminato. Di lui molto si spera: È dotto, esperto, E farà certo Un'ottima carriera. Se sol per caso una fanciulla ei guata Gode la mamma, e tiensene onorata. Or come avvien, dich'io, ch'ei prende moglie Che già la stanza nuzïal l'accoglie, E non il tetto piomba, E non la terra Gli si diserra In improvvisa tomba?... Ahimè non basta il peccatuccio ignoto, Ci vuol ben altro a farmi un terremoto! Finir solennemente la ballata Io sperai con la casa ruinata, Col suol che si sprofonda E l'empio inghiotte Seduttore in profonda Eterna notte... — Ma! che volete? assai di rado avviene Ciò che ai poeti meglio si conviene. NEL CHIOSTRO Una donna nel fior degli anni suoi, Ahimè! zitella e monaca, Ratta trapassa e muta i corridoi Del chiostro, e nel solingo Tempio, con piè guardingo Trepidando s'insinua. L'agita da più giorni un senso arcano, Profondo, indefinibile, Contro del quale ogni cilicio è vano. Or costei della chiesa Sul duro suol prostesa Le ginocchia si logora. A lungo prega e si percote il seno. Dai vetri alti e d'imagini Sacre dipinti, un mite raggio pieno Di calmi effetti scende Nel loco, e più lo rende Misterioso ed intimo. Quivi penetra pur di maggio il molle Fiato ed il misto effluvio Voluttuoso delle aperte zolle E degli alberi in fiore, E d'augelli in amore Uno schiamazzo gaio. Male a codesto irromper di Natura, Del chiostro mal s'oppongono E del tempio le enormi e fredde mura. Le voci e il gran respiro Del maggio nel ritiro Più segregato arrivano. E ricercan le fibre e il seno oppresso Di quella orante pallida, A cui langue sul labbro e in cuore adesso La fervida preghiera; E la pupilla nera Alza ella intorno, e palpita. E contro un'arca sepolcral che sorge Quivi appresso marmorea Preme la fronte, e tenta se a lei porge, Ch'arde in non so qual tetra Fiamma, se quella pietra Porge a lei refrigerio. Giacea dentro quell'arca seppellito Un guerrier morto giovine. Ed il corpo di lui v'era scolpito Sopra, in tutta armatura, Qual di viso e statura Fu durante il suo vivere. Giacea supino e rigido in arnese Di marmo e non d'acciaio; Chiuse nel guanto avea le mani e stese In croce sovra il petto; Ritti dal duro letto I piedi suoi s'ergevano. Era il suo volto bello e sorridente; Una sottil lanuggine Ombreggiava il suo labbro adolescente, Su cui di fanciullezza Le grazie, alla fierezza Del cavaliere univansi. E a quel volto e a quel labbro ad ora ad ora Cupidamente il trepido Occhio volgea l'incerta donna, e ancora Venia di quando in quando Quel viso accarezzando, Senza quasi avvedersene. Ed ecco il sol posarsi su quel viso Con un suo raggio roseo, Che sembrò dargli vita all'improvviso, La vergine su quelle Giovani labbra e belle Chinossi allor, baciandole. Tenne costà sopra l'altar Maria Gli occhi dimessi e immobili; Ella sposa, ella madre compatia. Ma un Santo scarmigliato, Ch'ivi sul muro a lato, Si struggeva di tedio, Pensò che avria pur volentieri tanto Mutata ei la cospicua Condizione sua d'insigne Santo, Coll'uomo che così scôrse Esser baciato, e forse Dannato era in perpetuo. Sul duro sasso che ha virile aspetto Inconscia ella ed immemore Frattanto illividisce il labbro e il petto In baci e strette vane. A lungo ella rimane Così in quel suo delirio. Folle è dunque costei? Certo io non credo. Bensì nel cuor le fervono Venticinqu'anni; e il bel natio corredo Di sue forze vitali Non valser monacali Veglie e digiuni a toglierle. A lei la vita entro le vene abbonda D'ottimo sangue turgide; E di quel sangue la precipit'onda Menava un novo senso, Un desiderio intenso Di gioie indefinibili. Pure ignorava, e nella mente oscura Larve ambigue ondeggiavanle, Come ondeggian le nubi ed han figura Ambigua in notte nera, Allor che la bufera Lenta nel ciel s'accumula. E incerta ansia turbava e indefinita Temenza quella misera; Nè a calmarla valea della sua vita Le durezze addoppiare, Nè supplice all'altare L'intero giorno spendere. Perocchè eterna legge è di Natura Che la fiorente e giovane Donna d'amor la prima e dolce cura Dall'uom fervido apprenda, E non ritrosa ascenda, Benchè pudìca, il talamo. E del compagno i men sereni giorni Irradii coll'ingenuo Riso; di grazie la sua casa adorni; Il desco suo circondi Di rosei capi biondi; — E ognor vita ripulluli. ODE AL VINO Quando tarda è la notte, e sopra il foglio Langue il mio capo e il petto Stanco mi chiede, s'io cessar non voglio Pure una volta, e a letto Ridurmi finalmente, io bevo un mezzo Bicchier di vino allora, Che tosto mi ristora, E sveglio tuttavia mi tiene un pezzo. Sveglio mi tiene, e un lieto ardore in seno M'infonde, e di fantasmi Ilari e vispi ho tosto il cervel pieno E il cuor d'entusïasmi, I quali in ozio lento e taciturno Del sigaro col blando Fumo io vado esalando Entro il cheto e solenne aere notturno. Bene a ragion ti finse, a parer mio, L'ingenuo tempo antico, O amabile liquor, dono d'un dio Molto dell'uomo amico. Della vita operosa a questo mondo Tu sei celeste aita; Tu della stanca vita Sei conforto, anzi meglio oblio profondo. Tu forte e generoso il braccio e il cuore Ecciti ad alte imprese; Tu il fiacco affranchi, e sei di nuovo ardore Al prode ognor cortese. Dal nettareo tuo bacio a morte vola La gioventù esultante, Che, a vendicarsi, innante Con molta morte altrui la sua consola. Tu benigno e soave in cor discendi D'artisti e di poeti, E negli esausti seni riaccendi Gli estri fecondi e lieti. Tu gli armi di coraggio e noncuranza Contro la plebe inetta, Che un senso altero affetta, Ch'esser vuole disprezzo ed è ignoranza. Tu animator della fulgente mensa, I lauti e molti doni Che la natura e l'arte ivi dispensa D'alta allegria coroni. Tu gli astii antichi allora e i bronci sciogli, Più stringi l'amicizia, Lo scherzo e la letizia Fai che in petto e sul labbro a ognun germogli. Ma più grato talora a cena in fido Salottino elegante, O a merenda sull'erba in verde lido E sotto ombrose piante, Fra due che amor soli e vicini asside, Tu complice secondi L'opera, e ti profondi All'uno e all'altra, e lieto amor ne ride. Ti prodighi al garzone, ed alla bella Spesso le labbra irrori; Egli facondo e audace è fatto, ed ella Sente inusati ardori. Tu dall'un canto e amor dall'altro a prova Sì bene ordite il laccio, Che non sa come, e in braccio Del giovine la bella alfin si trova. O elisir della vita e del piacere! Trar non può il vulgo insano D'altro liquor le gioie tue sincere; Ma quegli di sua mano S'attossica, che ad altro assai più ardente Liquore il labbro accosta, E poi che men gli costa A questo più che a te corre sovente. Io lo compiango, e da compianger meno Colui non parmi, al quale Dissetarsi convien d'altro veleno, Che sol con te d'eguale Ha il nome, e non da tralci adusti cola, Ma d'artificii è fatto, E dee chi a berlo è tratto Foderata di rame aver la gola. Non io così; chè sovra il colle avito Io medesimo assisto Alla vendemmia, e a tutto il gaio rito Di varie opere misto, Pel qual tu poi dal romoroso tino Zampillerai ben tosto, Fatto di torbo mosto, Terso, vermiglio e spumeggiante vino. E ch'indi ognor tu sia più terso e puro Ancora avverto io stesso, Finchè l'anno compito e tu maturo, Provvedo io pur che messo In bottiglie tu sia, dove ti renda Degno un altr'anno alfine Che su dalle cantine Alla tavola lieta e al labbro ascenda. Tu gioia allora e orgoglio mio tu sei! Oh! ma ben più di questo: Se corsero finora i giorni miei Liberi e d'ogni infesto Pondo immuni, che all'uom duro bisogno Impone, io ciò ti deggio; Però t'adoro e inneggio Pubblicamente a te, ne mi vergogno! Più che all'ingegno mio (nè qui discuto Se ciò sia giusto o ingiusto) Della facile vita io son tenuto Al tralcio d'uve onusto, E a te che quindi, almo liquor, distilli, Sul breve colle aprico, De' miei retaggio antico, E asil di studiosi ozii tranquilli, Sì, o mio buon vino, a te che il mercatante Lombardo molto apprezza, A te solo degg'io se nè abbondante Vitto, nè l'agiatezza Manca a miei cari: se non è chi'io sudi Ora in uffici ingrati, E invece a non pagati Dedicar mi potei leggiadri studi; Se a Destri nè a Sinistri io mai non chiesi Il più lieve piacere; Se libero ai caduti e ai novi ascesi Dir posso il mio parere, Se onoranze da lor nè lucri agogno Ciò a te soltanto io deggio; Però t'adoro, e inneggio, O vino, al nome tuo, nè mi vergogno! _Settembre 1876._ PIOGGIA DI MAGGIO Precipita giù giù sulla campagna Una pioggia diffusa ed incessante; Luccican sotto l'onda che le bagna L'erbe, le siepi e le chiomate piante. L'alta malinconia che dal ciel viene Copre la valle, e la gioconda festa Ch'ivi nel maggio il color verde tiene Oggi appare in sembianza oscura e mesta. Ozioso sull'uscio io sto mirando Al lontano orizzonte in nebbia avvolto, E crepitar la pioggia, flagellando Le terse ghiaie e l'ampie fronde ascolto. Così dentro di me piove a distesa; Son gli orizzonti della mente mia Velati anch'essi, e un vago in cor mi pesa Senso di non so qual malinconia. Ma dalla pioggia grande e dalle meste Sembianze onde si copre oggi Natura, Nova beltà ritragge e miglior veste Di vaghi fiori e di gentil verdura. Dalle tristezze sue così potesse L'anima annuvolata e il tetro core Ritrar di carmi più gioconda messe, Vestir di poesia novo splendore! LA STRADA Non c'è che dire, un'eccellente strada: La migliore ch'io m'abbia conosciuta; Chi su ci va, gli par che in letto vada, Tanto è piana, ben fatta e ben tenuta. D'ambo le parti un'irta siepe e bianca Per molta polve la costeggia, e il piano Oltre quella s'estende a ritta e a manca Triste a veder da presso e da lontano. Nè una casa per via, che a sè comunque L'occhio richiami, per gran tratto appare: Solitudine siede intorno ovunque: Ciò è seccante davvero a lungo andare. Ecco, o eccellente strada, o al passeggiere Comodissima strada e ben costrutta, S'io t'ho a dir veramente il mio parere, O bella strada mia, tu sei pur brutta! Sovente in orlo alla deserta via Sorge una croce e reca triste avviso, Ch'ivi un fatto di sangue si compia, Ch'ivi talun fu derubato e ucciso. Penso: se a me seguisse un caso eguale! Non dirò ucciso, ma se almen foss'io Quivi aggredito! È certo; o bene o male Scosso assai ne sarebbe il tedio mio. Ma non c'è dubbio; or son le vie sicure; Io ben so che nei ladri non ci casco; Io di false, romantiche paure, Di liceale poesia mi pasco. Torniamo al sodo; io realista sono. Cuoce la cena a casa mia. La moglie Piacente, ed ambo i rosei bimbi sono Stanchi già d'aspettarmi in sulle soglie. Ed io sto a far per via con sì bel gusto Il poeta romantico! e le reni Al cavallo non frusto e non rifrusto, Perchè fra i cari miei tosto mi meni! MENDICANTI CAMPESTRI Viene la curva vecchierella tremula In sulla soglia mia A dir l'ave maria Chiedendo l'elemosina. Non è in cucina alcun che a lei sollecito Rechi adunque qualcosa? Perchè la bisognosa Vecchietta fate attendere? Povera donna! — Può d'altronde accorgersi Che senza guardia è il posto, Entrarvi di nascosto E una posata prendersi. Viene anco il vecchio scarmigliato e pallido A dir l'ave maria Sopra la soglia mia Chiedendo l'elemosina. Povero vecchio, presto soccorretelo! Mentre aspettar lo fate Forse le inferriate Delle finestre studia. Studia qual sia la più vetusta e logora... Non si sa mai: diurno Mendico ei vien — notturno Ladro potrebbe riedere. MIRAMAR (_Note di viaggio_) Benchè egli fosse un arciduca austriaco, Che il diavolo mi porti s'io non caccio Dentro il mio scartafaccio Quattro versi d'encomio Pure a costui, che fece un così bello Elegante castello Su queste balze inospiti. Se della sanguinaria, ma non tragica Razza d'Asburgo nacque, egli al postutto Di ciò non venne istrutto Da pria, nè potea sciegliere: La Natura da pria non si consiglia Con noi di qual famiglia Ci garbi meglio nascere. Io d'altra parte di costui non m'occupo Se non perchè egli fu poeta e artista. Da un tal punto di vista Cosa migliore io giudico Ch'ei di regal nascesse, benchè infesto Sangue, più che d'onesto Sangue di pizzicagnoli. E infatti buon per lui, chè lo spettacolo Grande dell'arte non gli fè difetto Fino da pargoletto, Quando alle prime imagini Che ci mostra la vita, il cor s'informa, E ne riceve norma, Che gli anni non cancellano. Buon per lui, cui fu tutta innanzi l'ampia Terra dischiusa, ancor fanciullo essendo, L'oceano e lo stupendo Emisfero d'America. Fanciullo avventurato! Al compimento Del suo più baldo intento Non si frappose ostacolo. Più avventurato ancor, chè dello artistico Ingegno egli poteva il grande appello Tutto ascoltar: del Bello Comporsi un culto, e tempio Farne la casa sua, poich'egli senso Ebbe del Nume, e censo Più di re che di principe. Così questa ei potea villa incantevole E il fatato giardino e il picciol porto, Così per suo diporto Crear potea l'idillio Non di parole, ma di marmi, e sulla Ripa inamena e brulla Far che fiorisse l'oasi. Ma fu qui appunto fra la verde e amabile Poesia ch'e' si venne a poco a poco Creando in questo loco, Qui fu che il gentilizio Morbo del sangue principesco invase Lui pure, e il persuase Che re il volesse un popolo. Io non so quale illusïon vi domini, O prosapie d'antichi vïolenti, Ch'abbian da voi le genti La salvezza e il benessere. Razza di lupi or tutti siete agnelli. E pel ben dei fratelli Vi condannate al solio. Ma questa illusïon nessuno illudere Può al giorno d'oggi più. Sotto le umane Parole stan le arcane Bramosie del dominio. Tu, sciagurato Max, tu della moglie Le ambiziose voglie Non sapesti reprimere. Così da questo di serene gioie Cheto nido, affidati al dubbio evento, Correste a perdimento. Ella il senno smarriane; Tu da sedizïoso avventuriero Trattato fosti; e invero Fu il modo spiccio e semplice. Io lodare non voglio i tuoi carnefici. Ma un lor diritto usarono. Sicuro, Il più crudele e duro Dei lor diritti. Mescerti Tu non dovevi a quelle quistioni. Se fecer da padroni In casa lor, ben fecero. Qual funesta malia te alle blandizie Dell'arte nato tristamente colse, E il cor gentile avvolse E il tuo leggiadro spirito Entro l'ambage occulta e disleale Di questa imperiale Tua sciagurata insania? Vero sarebbe forse che giustizia Domini l'empia storia, e il Fato attenda, Ma senza dura ammenda Non lasci quaggiù compiere Infame opera alcuna? Ignoto è il tutto, Senonchè peggior lutto E peggior onta cogliere, Non poteva la tua razza colpevole: La feroce tua madre il pianto apprese Delle madri che rese Furono, ahimè, per opera Di piombo e di capestro, e pei consigli Di lei, orbe dei figli Devoti all'egra patria. Di dolore e di sdegno alto ulularono Il borgo imperïale e per cotanta Vergogna dei settanta Arciduchi le squallide Case; ma più che la tua morte, offese Il modo, onta palese D'Austria, ed invendicabile. Sì lunghe braccia ella non ha che arrivino Oltre cotanto mar, la truce e abbietta Austrïaca vendetta; Nè là può in laccio stringerle Sopra i nemici suoi, come per norme Antiche, nel deforme Imperio era abitudine. Ma adesso io non farò della retorica. Noi vendicati fummo e con usura. Se giaci in sepoltura Tu invendicato, credere Non potrai che di ciò molto m'affanni. Sol che nel fior degli anni Tu sia morto rincrescemi. Perocchè fosti un cuor gentile e nobile: E non foss'altro questo loco il prova, Che vaga opera e nuova Fu di poeta e principe. Ma poema maggior laggiù sognasti, E la tragedia andasti Ahi, col tuo sangue a scrivere! Qui a me frattanto ridono impassibili Arte e Natura; e sol talor si sente Rompere d'occidente Siccome un secco e rapido Crepitar di moschetti in questo loco, Ma certamente è gioco Della scherzevol aura. ALLA SIGNORA L. C. P. NEL SUO GIORNO NATALIZIO (25 DICEMBRE) Amabil donna, il cui spirto gentile Non credo che sei lustri oggi saranno, Tra le voci del gaudio e dell'affanno, Prese leggiadra veste femminile; Donna che or or conobbi, e nel virile Petto, omai schivo d'ogni dolce inganno, Culto m'induci tal che più d'un anno Non già maggior, far nol potrìa simìle; Questo bel giorno tuo, festeggio teco; L'are diserto del nascente Iddio Ed al tuo nume grazïoso io reco Tutti i miei doni e inter l'omaggio mio; Nè l'Uom ch'è in Cristo irato esser può meco, Se pel tuo nume, ogni altro nume obblio. LICENZA LA ROCCA DI GARDA AD EMILIA S'io salgo il ripido colle che domina Di Garda gli umili tetti, e col bellico Nome anco appellasi di rocca, subito Quivi m'appar l'imagine Tua bella, e balzano memorie gaie Quasi dagli alberi, come un dì usarono Le ninfe, e simile tu a Dea, l'amabile Coro sembri dirigere: Perocchè indizio di te qui al memore Pensiero affacciasi dovunque; e l'eremo Spoglio, e la rustica casa, e le complici Piante di te mi parlano. Dell'adorabile tuo nume è l'aere Qui pieno, e intendere parmi il tuo picciolo Grido là erompere dov'eri solita Per gioco a me nasconderti: Tosto a sorprenderli venivo, e scoppio Di baci fervidi mescevo all'ilari Tue risa. — Oh risero qui molto i giovani Amori nostri e corsero Qui vispi e liberi di freno, ai taciti Recessi scandalo forse, che avevano D'altri spettacoli men lieto esempio: Perchè qui surse ai secoli Di ferro il vigile manier, che carcere Fu d'Adelaide. L'occhiuta invidia Di Berengario qui fece chiudere La giovinetta vedova Di re Lotario, finchè l'astuzia D'un umil chierico seppe sottrarnela. Dal capo roseo discese a toglierle Otton la benda funebre, E fu l'Italia poder del Cesare Tedesco. Oh il chierico s'ero io medesimo E tu Adelaide, non io pel sassone Letto t'avrei dal carcere Sottratta, o vedova gentil. — Ma brucano Le capre or l'arida gramigna ov'erano Le torri e i solidi muri che sparvero: Seppe all'età resistere Il nome, l'unico nome. Alla valida Rocca succedere fu visto l'eremo Di poi. Si mostrano tuttor le squallide Celle e il brev'orto annessovi Ma niun più v'abita, ma niun le picciole Aiuole semina sparse di triboli, E i ragni tendono la tela ai putridi Palchi che già ruinano: Sotterra gli ultimi frati dimorano. Di questi in cambio, qui far la monaca E il frate lecito fu a noi per celia. Te ne rammenti? dimmelo. Così passarono rocca e cenobio. Ma non quest'ampio divo spettacolo Passò di ceruli flutti, e il sol aureo, E il mite e limpid'aere, E il lido e i floridi colli. Immutabile Tu se', o vaghissima Natura; mutano In breve secolo le umane misere Cose. Passò dell'empia Forza il dominio, passò il dominio Del pregiudizio cieco; passarono Le rocche e gli èremi. Non il dominio Di voi belli femminei Occhi per volgere d'eterni secoli Si potrà spegnere, chè inestinguibile In voi la provvida Natura colloca Virtù che amore irradia. Or non più a bellici strumenti destansi Qui gli echi o a nenie sacre, nè in seguito Ridesterannosi; ma spesso i taciti Pini soavi aneliti, Sospiri e murmure di baci ascoltano; Perocchè assidui gli amori alternansi, E qui ad accoglierli nido propizio Natura parve erigere. FRAMMENTO EPICO Già Bruto essendo col proprio esercito ai liti Dell'Ellesponto giunto, pria ch'egli passasse d'Abido, A tarda notte, sedeva siccome era usato Nel padiglione suo, sepolto in profondo pensiero. Posava il campo nell'ombra e nel grande notturno Silenzio; ma quasi d'alto le complici stelle Piovessero influssi maligni, correva l'arcano Senso di non so quale sgomento nell'aëre tetro. Mandava intanto la lampada gli ultimi guizzi Su quel vigilante capo, cui stretto più intorno Facevasi il cerchio di luce e le tenebre ognora Più fitte, siccome dai lati e di mezzo alle pieghe Del cortinaggio basso surgessero, oppure di terra. Ma non a ciò dava mente egli cui nulla premeva Se non l'alto, ahi! dubbio fato imminente di Roma. Quand'ecco un suono — lieve, indefinibile suono — Udire gli parve, ond'alzò di subito il capo Che reggea fra le mani, con gli occhi nel buio indagando: E veduto gli venne, tra il fosco orrore notturno Costà sulla soglia tremendo in aspetto ed immane Di membra un ignoto. Pria sbigottimento l'assalse; Ma come colui vide zitto ed immobile starsi. Gli chiese chi fosse. Tosto il fantasma rispose: «Sono il mal genio tuo. Bruto; rivedrai me a Filippi.» Senza tema il duce: «Ti rivedrò, disse, a Filippi.» — Quella parvenza allora, quasi mescendosi all'ombre Ond'era uscita, tosto di Bruto agli sguardi si tolse. Poco appresso pertanto Bruto con Cesare essendo Venuto a battaglia, nel pian di Filippi lo vinse. Ma quivi ad un novo scontro accingendosi poscia, E d'azzuffarsi già stando gli eserciti in atto, Ancora ecco a Bruto subito surse dinanzi L'orribile spettro che non fe' motto. Laonde Presago il duce dello ineluttabile Fato, Come si venne all'armi scagliossi nel mezzo alla mischia, Libera cercando morte sull'aste nemiche. Se non che invano per quanto fu lungo il fatale Giorno la disillusa vita il magnanimo espose. Sol poichè quasi sè stesso incolume vide Per gioco, allorquando tutti giacéangli dintorno Gli amici estinti, già essendo l'esercito in fuga, Sol finalmente allora lento dal campo si tolse Anch'egli, e dopo non molto in isquallido loco E deserto giunto, quivi imprecando all'inane Virtù che nulla vale sul ferreo Destino, tenendo L'elsa del brando a terra, e nel petto rivolta la punta, Gittovvisi contro, trafitto sul suolo cadendo. Dall'ampia ferita tosto lo spirito eruppe Disdegnoso e salse, lento solvendosi in alto, Nel tacito aere azzurro, solenne, infinito. CONCLUSIONE AL VERSO O verso piccioletto, Aspide maledetto, Lo sai ch'io ti detesto, Perfido serpentello, Che come il tarlo infesto Mi trapani il cervello? Benchè t'allinei dritto E immoto allor che scritto In pubblico tu appari, Angue non c'è che pari A te i disgiunti anelli Dimeni, e si ribelli, E si contorca pria Che tu sul foglio a viva Forza confitto sia. Ma tu sei forte e bello, O verso o serpentello, Che adesso io malediva. Io ti detesto e t'amo: Ora di te vorrei Disfarmi, ora in delirio D'amor t'invoco e chiamo. Tu a un tempo il mio martirio, E la mia gioia sei. A chi ti scalda in seno Come al villan succede, Tu lo ferisci al cuore. E se però non muore, Pur contro il tuo veleno Invan rimedio chiede. Ma chi alle forme belle Soltanto e all'apparenze Ti giudica, il perverso Umor, le renitenze Dell'indol tua ribelle Ignora, o picciol verso. Quando pel mondo il nido Tu lasci ove nascesti, O vago serpe infido, Di molle musco odori, E delle gemme vesti Gli splendidi colori; E vellicando i sensi Col morso tuo sottile. Metti nel sen gli intensi Affetti ed il gentile Filtro nel sangue infondi Dei sogni tuoi giocondi. Ma noi che tanta parte Gittiam di nostra vita Per educarti a questa Grande e difficil arte, Che all'uom fa men molesta La via trita e ritrita; Noi, maledetto verso, Ti conosciamo a fondo, Vediam siccome in terso Vetro ogni tuo difetto, Che non discerne il mondo, O verso maledetto. Io notte e dì mi vengo Accapigliando teco; Ma la fatica spreco; Piegarti al mio pensiero Assai di rado ottengo, O indocil serpe altero. Pullula il mio cervello D'un popolo di larve, Ma come a te le affido, O picciol verso infido, L'illusione sparve, Esso non è più quello. Però di te m'offendo Spesso e ti faccio in brani Colle mie stesse mani. Ahimè, nè forse intendo Che solo il vizio ond'io T'accuso è vizio mio. La scimmia un dì si scorse Dentro lo specchio, e offesa Di sua bruttezza resa Da quello, su vi corse E il ruppe al tempo istesso, Quasi colpevol esso Fosse se brutta ell'era. Ad un egual maniera Cadon gli sdegni miei Su te verso innocente, Che sol d'un impotente Estro lo specchio sei. INDICE PREFAZIONE Pag. 1 Ideale » 3 Tragedia umile » 9 Parallelo » 27 Natale » 33 Per una ignota » 37 Brindisi » 39 Fantasime » 43 Per un amico estinto » 49 Insonnia » 55 Realismo » 61 Piccolo mondo » 67 Catastrofe » 117 Storia d'ogni dì » 123 Nel chiostro » 129 Ode al vino » 135 Pioggia di Maggio » 141 La strada » 143 Mendicanti campestri » 147 Miramar » 149 Alla signora L. C. P. » 157 LICENZA: La rocca di Garda » 161 Frammento epico » 167 CONCLUSIONE: Al verso » 173 _Finito di stampare il dì 30 Marzo MDCCCLXXX nella tipografia di Nicola Zanichelli in Modena._ NOTE: [1] Questi versi sono del 1878. [2] Non intesi in nessun modo giustificare con questi miei versi un fatto luttuosissimo, del quale purtroppo sì frequente esempio danno le odierne condizioni della società e della vita. Elevando a fantasmi poetici i sentimenti d'una fanciulla che muore asfissiandosi e facendo parlare a ciascuno il proprio linguaggio come l'educazione e lo stato della fanciulla stessa me lo faceva supporre, volli soltanto rappresentare un accidente assai comune a dir vero, ma non meno tremendo, sotto forma di breve dramma sentimentale, a scopo puramente artistico e non punto morale nè filosofico. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Nuovi versi" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.