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Title: Collezione dell'opere del Cavaliere Conte Alessandro Volta - Tomo I, Parte I
Author: Volta, Alessandro
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Collezione dell'opere del Cavaliere Conte Alessandro Volta - Tomo I, Parte I" ***


   [Illustrazione: ALESSANDRO VOLTA]

                               COLLEZIONE
                               DELL'OPERE

                             DEL CAVALIERE
                         CONTE ALESSANDRO VOLTA

                            PATRIZIO COMASCO

         _Membro dell'Istituto Reale del Regno Lombardo Veneto,
          Professore Emerito dell'Università di Pavia, e Socio
                delle più illustri Accademie d'Europa._

                            TOMO I. PARTE I.



                                FIRENZE
                  NELLA STAMPERIA DI GUGLIELMO PIATTI
                              _MDCCCXVI._



                     ALL'ALTEZZA IMPERIALE E REALE

                                   DI

                            FERDINANDO TERZO

                      PRINCIPE IMPERIALE D'AUSTRIA
                 PRINCIPE REALE DI UNGHERIA E DI BOEMIA

                           ARCIDUCA D'AUSTRIA

                          GRANDUCA DI TOSCANA

                              &c. &c. &c.


                           VINCENZIO ANTINORI



Altezza I. e R.


_Mentre l'amore per le Fisiche Scienze e pel decoro della nostra Italia
mi spinge a pubblicare riunite le Opere di uno dei suoi più celebri
Fisici, la riconoscenza, per tacere di ogni altro motivo, m'invita
a fregiarne la collezione coll'Augusto nome dell'A. V. I. e R., che
destinata al Trono di questa provincia dell'Italia medesima ov'ebbe già
cuna ogni Fisica disciplina, ha con un nuovo tratto di quella Clemenza
che sì la distingue, voluto contribuire in gran parte a facilitare la
riunione di questi classici lavori._

_Infatti senza che l'A. V. avesse avuta la degnazion di accordarmi la
facoltà d'estrarre dai differenti Giornali della ricchissima e scelta
sua Biblioteca le varie Memorie del Professore Alessandro Volta, io
non avrei mai potuto porre sott'occhio agli Amatori delle Scienze
Fisiche riunite le interessanti osservazioni e scoperte di questo
insigne Sperimentatore, che avendo grandemente estesa la scienza della
Elettricità, ed inventato uno dei più mirabili, ed utili strumenti,
forma luminosissima epoca nella Storia della Fisica particolare,
e lascia il desiderio che ciascun ramo di questa scienza, vantar
possa un genio, egualmente attivo e penetrante che lo spinga a tale
altezza di cognizioni alla quale abbiamo veduto giungere ai dì nostri
l'Elettricismo._

_Poichè l'ammirazione per un sì grand'uomo, e il nobil talento di
cooperare alla gloria d'Italia, hanno certamente indotto l'A. V. I. e
R. ad approvare, questa mia impresa, a niuno più giustamente che all'A.
V. offrir posso la presente Collezione._

_Accolga dunque l'A. V. I. e R. questo sincero contrassegno della mia
profonda gratitudine, col quale mentre confermo la giustissima comune
opinione dell'innata di Lei Clemenza, provvedo altresì all'onore della
mia Nazione che per volger d'anni, e di politiche sinistre vicende
non cessa di esser mai sempre di rari e pellegrini ingegni produttrice
feconda._



PREFAZIONE


L'Italia situata sotto un Celo temperato e puro fu sempremai feconda
d'ingegni sublimi, valevoli ad inventare e perfezionare qualsiasi
scienza od arte liberale. Sebbene si sia trovato alcun tempo, in
cui l'Europa tutta fu ingombrata dalle tenebre dell'ignoranza; non
pertanto ella ricevè sempre qualche debil raggio di luce, per cui
sovra l'altre nazioni elevar si potesse. Ma non sì tosto comparve in
questa bella Firenze la celebre Accademia del _Cimento_ sorta dalle
ceneri ancor calde del nostro divin Galileo, che dessa con la maniera
di sperimentare risvegliò i talenti degli stranieri popoli, e come
maestra additò loro il vero sentiero che seguir doveano nelle fisiche
discipline. Di quì pur sorsero i Viviani, i Castelli, i Torricelli,
i Redi, che con le loro esperienze insegnarono la vera maniera di
consultare e d'interrogar la Natura evitando maisempre di sostituire i
loro sogni al maestoso silenzio della medesima. Il genio invero dello
sperimento, che come cantò il nostro Alighieri[1]

    »Esser suol fonte ai rivi di vostre arti»

pare che tralucesse in questo bel paese nei tempi ancora i più remoti e
si stimasse il fondamento d'ogni cognizione.

Riconobbero dunque gl'Italiani fin dall'età più tenebrose dello spirito
umano, che le due maestre del vero sapere erano l'_Osservazione_ e
l'_Esperienza_. Dietro a queste con sicurezza avanzandosi pervennero
non solo ad aggrandire le Matematiche discipline, l'Astronomia, a far
risorgere la Meccanica, l'Idrostatica fin dopo l'inventore Archimede
neglette e quasi poste in oblio, ma ancora ad estendere le Fisiche
cognizioni, perlochè assai rami delle scienze naturali doverono
all'Italia il loro lustro e perfezionamento.

Uno di questi si fu al certo l'Elettricità, che dopo essere stata
sistemata e formatone un ramo novello della Fisica dall'Americano
Beniamino Franklin, per cui s'ebbe un'epoca distinta e gloriosa
nell'istoria della medesima, sortì il di lei più grande avanzamento dai
celebratissimi sperimentatori Italiani. Ed invero non solo in Italia
si riconobbe e fu posta in tutto il di lei chiarore l'Elettricità
così detta _Vindice_ mercè de' due valenti Fisici Cigna e Beccaria, ma
ancora fu scoperta la vera di lei sorgente e natura dal nostro Fisico
Alessandro Volta.

Questi col suo ingegnoso sistema dell'_Attrazione del foco elettrico_,
non meno che con le sue penetranti vedute sopra l'_Atmosfere
elettriche_ rese completa e perfetta la bella Teoria del Filosofo
Americano. Desso coll'invenzione di nuovi strumenti fece avanzar
tant'oltre lo studio dell'Elettricità che in nessun altro tempo mai.
Così quei fenomeni elettrici prodotti dalle nostre macchine, che furono
una volta un puro ed inesplicabile divertimento e passatempo, si resero
una seria occupazione per i Fisici, e di tutto inoggi si diè ragione
e s'appagò l'umano intendimento. Per la qual cosa se il Filosofo di
Filadelfia s'acquistò gloria per essere stato il primo a sistemare
e presentare una sì bella Teoria di questa scienza, non minore ne ha
riscossa l'Italiano Volta mostrando tanto di valore nell'aggrandire
ed estendere sì lungi i di lei limiti; così che dir si possa a buona
ragione aver'ei formato e formar tuttora nella scienza elettrica l'onor
d'Italia, come il nostro La-Grange lo formò non ha guari di tempo nelle
Matematiche discipline.

I fenomeni che vengono compresi nell'Elettricità detta _Vindice_ da
Beccaria, ed a miglior ragione chiamata _Permanente_ o _Indeficiente_
da Volta, sono la parte della scienza elettrica la più complicata e
forse ancora non ben conosciuta da molti, quale invero può dirsi da
questo felicemente sviluppata.

Vero si è, com'è ben noto ai Fisici, che le prime idee di questo
ramo d'Elettricità ce le presentarono i Padri Gesuiti del Pekino
fin dall'anno 1755 col fenomeno loro occorso della Bussola nautica.
Imperocchè applicando essi una lastra di vetro elettrizzata mercè
della confricazione sopra il vetro che servia di coperchio alla
medesima s'imbatterono ad osservare maravigliosi effetti, quali
divennero ben presto, come vedremo, il germe delle cognizioni, che
dipoi s'acquistarono sopra di essa. Queste sperienze furono non solo
pubblicate, ma ancora felicemente ripetute dal celebre Fisico Epino[2].

Sappiamo ben'anco che l'Inglese Symmer promosse non poco questo
genere di sperimenti, indotto dalle scintille che s'incontrò a vedere
nel cavarsi le calze di seta, e da altri fatti che ebbe in sorte di
osservare con le medesime[3]; che l'Ab. Nollet s'esercitò, lodevolmente
sopra questo genere d'esperienze sostituendo alle calze di seta i
nastri della medesima sostanza[4]. Ma fin'allora lo spirito umano non
avea fatto alcun progresso nella scienza elettrica. Questi fatti della
Natura rimasero come isolati; e sebbene si ripetessero gli sperimenti
di tanto in tanto, tuttavolta non si rendea ragione, nè si scorgeano le
conseguenze, onde dedurne una ben fondata spiegazione.

Sorse però il Turinese Dottor Cigna, il quale incominciò a spandere
non poca luce sopra somiglianti fenomeni, e finalmente produsse
un'esperimento, quale si è quello di avvicinare ad una picciola lastra
di metallo bene isolata un nastro elettrizzato[5], i di cui effetti,
attentamente esaminati dal sublime ingegno di Volta, si resero tanto
fecondi, che dettero origine alle più luminose scoperte, per cui s'aprì
vasto campo, onde spaziarsi e progredir potesse il Fisico nella scienza
elettrica.

Così avvertito dagli esperimenti dei Symmer e dei Cigna il Padre
Giovan Batista Beccaria Piemontese, nelle cui mani sembrò che prendesse
nuovo aspetto questo ramo di Fisica, dapoichè per mezzo delle di lui
replicate osservazioni ed esperienze sortì maggiore aggrandimento la
scienza dell'_Elettricità atmosferica_, s'illustrarono viepiù le belle
vedute dei Franklin, dei Canton, degli Wilke e degli Epini sopra le
_Atmosfere elettriche_, avvertito, io dissi, osò penetrare in questo
mistero elettrico. S'imbattè da primo ad osservare che due corpi così
detti _Idioelettrici_, come pure un _Idioelettrico_ ed un _Deferente_
allorchè veniano elettrizzati contrariamente, esercitavano fra loro
la medesima azione di due _Deferenti_ in egual modo disposti; che la
sola differenza, e questa notabile, consisteva in una certa _adesione_,
che quei presentavano dopo essersi attratti in ragion della somma
delle loro elettricità contrarie. Or ei si pensava che nella di loro
unione seguisse una reale e total perdita delle proprie elettricità,
e che nella separazione de' suddetti corpi ne succedesse il riscatto
delle medesime. A questa proprietà novellamente scoperta, per cui se
vengano separati i due accennati corpi riacquistano, com'ei si credea
dal disgiungimento l'elettricità smarrita nella loro congiunzione,
o per dir così, rivendicano la perduta elettricità volle dare il
nome di _Elettricità Vindice_. Quest'opinione rimase vittoriosamente
combattuta da Volta, il quale rintracciò la vera causa di un'apparenza
sì maravigliosa.

I fenomeni della Natura sono perlopiù esposti egualmente agli occhi
di tutti sopra il gran Teatro dell'Universo. Scarso è il numero di
quei che s'arrestano a prestar la loro attenzione, ed assai più scarso
di quei che sviluppar ne possono tutte le conseguenze; perlochè sono
sicuramente degni d'ammirazione e di lode quei rarissimi ingegni
sublimi, ai quali nulla sfuggendo possono confrontare una serie di
fatti con occhio penetrante osservati, e dedurne le Teorie più luminose
e le più utili per la specie umana. L'oscillazioni di una lampada
erano state osservate, come tuttogiorno s'osservano da ognuno. Ma
era riservato al Genio sublime del nostro Galileo il fondar sopra di
questo semplicissimo fatto la Teoria de' Penduli, divenuta cotanto
interessante per la misura del tempo non meno che per la ricerca delle
leggi della Gravitazione. Così lo sperimento del soprallodato Cigna
fu quello che risvegliò l'ingegno creatore di Alessandro Volta a fare
una serie di scoperte così collegate insieme, che una veramente si diè
la mano con l'altra. Ed invero una scoperta quante fiate ha prodotto
nuovi fatti più rimarchevoli, ed è stata la sorgente di Teorie le più
grandiose nelle Scienze naturali? Questo celebre Fisico richiamò ad un
rigoroso esame la spiegazione data da Beccaria riguardo al fenomeno
dell'_Elettricità Vindice_. Riconobbe una forza d'attrazione, giusta
la dottrina del Filosofo Americano, fra le molecule che compongono i
corpi dell'Universo e quelle del fluido elettrico; che una porzione
del medesimo ritrovasi in essi secondo la loro natura, quale nominò
_Fuoco nativo_[6]. Quindi volgendosi il nostro Volta a considerare
l'_Ammosfere elettriche_ ossia, come ei dice, l'_Applicazione del
fuoco elettrico_[7], da cui dedusse la bella Teoria della _capacità
de' Conduttori_[8], ravvisò che quella proprietà di cui godono tutti i
corpi _Idioelettrici_ cioè di ritenere in se quasi irretito il fluido
una volta accumulato nè agevolmente spogliarsene nè trasfonderlo
in altri, lo che è proprio de' soli _deferenti_, somministrava la
vera spiegazione di questo fenomeno. Così riconobbe che rimanea
come _applicato_ un corpo qualunque eziandio posto a contatto con un
_Coibente_ fatto elettrico; che non sì tosto s'estinguea l'elettricità
di questo, ma che bensì andava menomandosi con assai lentore e dopo
lunga pezza; che si rendea contraria l'elettricità del suddetto corpo
situato in contatto. Osservò ben anco l'adesione di questi due corpi
allorchè si trovavano uniti, per cui separar non si poteano tra loro
senza alcuna benchè picciola difficoltà, lo che, come diè conto a
Beccaria con lettera, in cui si riscontrano i germi delle di lui Teorie
e scoperte posteriori[9], indicava sicuramente l'esistenza delle due
elettricità contrarie. Avvertito adunque da questi fatti da esso con
occhio sagace osservati stimò meglio e con tutta ragione di nomarla non
più _Vindice_ ma bensì _Elettricità Permanente_ o _Indeficiente_.

Nè quì fermossi, come abbiamo accennato, il celebre nostro
Fisico, ma ravvolgendo nella di lui mente tutte le conseguenze
che dedur si poteano dall'esperimento del soprallodato Cigna si
condusse all'invenzione di quel mirabile strumento così detto da
lui _Elettroforo perpetuo_ ossia Macchina elettrica portatile e
sempre attiva. Inventato che ebbe l'_Elettroforo_ comechè dotato
d'inesprimibile avvedutezza s'approfittò dell'aumento di capacità che
discernea poter ricever lo _Scudo_ del medesimo, detto dipoi _Piatto
collettore_, ponendolo a contatto non più con un perfetto _Coibente_,
ma bensì con un _semicoibente_; ed ecco che tosto tra le di lui mani ne
nacque il _Condensatore_.

Con questo divino strumento pervenne a sorprendere e misurare quella
picciolissima elettricità che si fuggia ai nostri sguardi e ci si
rendea affatto insensibile. Mercè di questo tanto s'avanzò lo spirito
umano nell'estendere i limiti della scienza e nell'acquistar nuove
cognizioni intorno all'elettricità ammosferica, che ebbe origine la
tanto celebrata _Meteorologia elettrica_ del medesimo.

Non contento dell'invenzione del suo _Condensatore_ si voltò a
correggere e perfezionare non solo gli _Elettrometri_ di Saussure,
di Cavallo e di Henly, ma ancora pervenne a rendergli comparabili.
Accoppiò al di lui _Elettrometro_ ridotto cotanto sensibile anco alla
minima Elettricità il poc'anzi ritrovato _Condensatore_. Con questi
strumenti da esso medesimo inventati o perfezionati s'elevò al Celo
ad esaminare non tanto le Nubi tempestose, ma ancor fu il primo ad
applicare sulla cima del filo di metallo che servia di esploratore
dell'elettricità ammosferica, la fiamma della candela, sperimentata
già per uno de' più eccellenti Conduttori dai Dufay, dai Watson e dai
la Tour. Con la fiamma potè richiamare ed a se condurre l'elettricità
_reale_ dell'ammosfera e non quella di _pressione_ o, come ei la
dice, _accidentale_ del filo metallico che spesse fiate s'infinge e si
maschera come un acquisto reale, lochè non è. Con questa potè esplorare
l'elettricità ammosferica non solo de' tempi procellosi, delle Nebbie,
delle Pioggie, ma ancora sorprendere e misurare quella del Cel sereno.
Ma se Franklin fu il primo ad assicurarci dell'elettricità delle Nubi
tempestose e del Fulmine; se Monnier facendo un passo più avanti
scoprì l'elettricità dell'Ammosfera e dubitò di un certo periodo
giornaliero; se Beccaria determinò con maggior precisione questo
periodo, riconobbe l'elettricità _positiva_ dell'aria ed assoggettò
a certe leggi l'andamento e le vicende della medesima; Volta però fu
quello che ne rintracciò la di lei vera sorgente. Imperocchè col suo
pregiabilissimo strumento, ossia col di lui _Condensatore_ giunse con
gran sorpresa dei due gran luminari della Francia, volli dire Lavoisier
e la Place, ad additare il fonte e l'origine di quest'elettricità.
Dimostrò loro ad evidenza che l'acqua ed altre sostanze trasformandosi
in vapore acquistavano una maggior capacità per il fluido elettrico,
com'era noto che l'acquistano per il calorico. Per la qual cosa nel
momento della loro trasformazione il vapor resultante si arricchiva
del medesimo fluido elettrico a spese dei corpi evaporanti e di quei
che erano a contatto, quali rimaneano elettrizzati _in meno_, e seco
lo portavano ad impregnarne l'ammosfera e le Nubi. Quindi è che svelò
in un tempo l'origine dell'elettricità ammosferica _positiva_ nata
dal condensamento di questi vapori medesimi; non menochè con la Teoria
dell'ammosfere elettriche pervenne ad illustrare la causa, che induce
elettricità contrarie in due Nuvole tra loro vicine.

È assai ben noto come i Mahon ed i Coulomb s'applicarono ad indagare la
legge che la Natura osserva nell'attrazioni e repulsioni elettriche;
che dessi e massime il Fisico francese computando le picciole forze
sulla di lui Bilancia di _torsione_ convennero generalmente esser
quella medesima che esercita nella _Gravitazione_ universale, per
cui si regge e si conserva l'armonia di questi Globi rotanti intorno
al sole e si forma questo bel planetario sistema architettato
dall'Onnipotenza Divina. Osò pure il nostro Volta di penetrare in
questo sacrario della Natura, non abbarbagliato dall'altrui autorità,
ma schiarito dalla sicura scorta dell'osservazione e dell'esperienza.
Calcò altra via più diretta e spedita e tanto s'inoltrò che pervenne
a scorgere i limiti ai quali s'estendeva la detta legge. Riconobbe
che dessa, in quanto all'elettricità, applicar si potea soltanto
ad un _deferente_ elettrizzato, il qual s'andasse avvicinando ad un
corpo di natura simile, che comunicasse costantemente colla terra.
Ritrovò parimente in questo caso che se il corpo divenuto elettrico
s'aumentava di diametro o di gradi di carica veniva ancor l'attrazione
ad aumentarsi non in ragion semplice, ma bensì nella diretta dei
quadrati dei diametri o dei gradi di carica. Non pervenne mai a
riscontrar simiglianti leggi, sebben provasse e riprovasse con tutta
la di lui sagacità in altri fatti e soprattutto nelle repulsioni
elettriche delle quali eragli assai ben nota l'incostanza. La ragione
poi, conforme anch'essa alla dottrina dell'Ammosfere elettriche, con
cui avvalorò tutti questi resultamenti si è quella, che a misura o
dell'avvicinamento o dell'aumentazione dei diametri o dei gradi di
carica, il corpo comunicante col suolo diradava o condensava il fluido
elettrico secondo che l'Elettricità del corpo eccitato era _positiva_ o
_negativa_.

Finalmente con il solito di lui occhio penetrante, a cui niuna cosa si
fugge, per quanto leggiera sia, si rivolse ad osservare attentamente
la repulsione di due corpi in simil guisa elettrizzati, e da alcuni
picciolissimi fatti da esso a fondo bene indagati dedusse che ella era
soltanto apparente e non punto reale; lochè ben'anco avea dichiarato il
celebre nostro Beccaria[10]. Per la qual cosa vana ed inutile sarebbe
ogn'altra Ipotesi quantunque si voglia ingegnosa, ne più farebbe di
mestieri moltiplicar gli agenti della Natura mostrandosi assai valevole
a spiegare tutti i fenomeni elettrici la bella Teoria di Franklin.

Ma se il nostro Fisico s'inalzò tanto sovra gli altri mercè delle
soprallodate scoperte, si rese ancora immortale nell'aver sorpresa la
Natura in quel celebre fatto dell'Elettricità sviluppata dal semplice
contatto di due diverse sostanze _deferenti_; per lo che ne sarà fatta
come di altri suoi ingegnosi ritrovamenti laudevol ricordanza nel
progresso di questa pregiabilissima collezione.

                                                                G. B.



DE VI ATTRACTIVA IGNIS ELECTRICI

AC PHAENOMENIS INDE PENDENTIBUS

AD JOANNEM BAPTISTAM BECCARIAM

_DISSERTATIO EPISTOLARIS_



DE VI ATTRACTIVA IGNIS ELECTRICI


Cum primum incidi in egregium opus, quod de Electricitate Artificiali
atque Naturali inscripsisti, ac primo pariter Franklinianam theoriam
mira sane sagacitate a Te illustratam didici, existimare coepi tum
motus electricos, tum etiam plura alia inter praecipua electricitatis
phaenomena, vi alicui attractivae referri posse. Opinionem hanc meam
Cl. Nolleto significabam jam inde ab anno 1763, quo tempore nulla adhuc
experimenta institueram. At ille difficillimum sibi quidem videri
phaenomena electrica eo deducere, ut notis Newtonianae attractionis
legibus apprime consentiant; quod quidem neminem adhuc praestitisse
affirmabat[11]. Neque vero re magis attenta animum abjeci; quin imo
cum postea opportuna instrumentorum supellectile instructus phaenomena
eo usque detecta ad trutinam revocarem, eorumque leges, prout theoria
Frankliniana postulat, firmiter stare experimento compertum haberem;
nonnulla occurrebant animo attractionis indicia, praeter electricos
motus; caetera vero eidem principio haud valde absona videbantur: quae
scilicet explicationi inde erutae non aegre se praeberent. Et vero
indicia attractionis, nec ea spernenda, mihi offerebat vitrum, cujus ea
est aptitudo, ut quantum ignis in una ejus facie congeritur, tantundem
ex facie opposita discedere nitatur.

Haec ego conjectabam tunc temporis: at et novum experimentorum genus
prodiit, per quod late campus patet; et nova accesserunt reperta, uti
profecto est _Electricitas Vindex_, quam Tibi potissimum acceptam
referimus: quae omnia, siquidem cum meo principio attractionis
consentiunt; imo ex ipso sponte fluunt, ceu totidem consectaria, rem
mihi plane conficere videntur. Equidem hoc ipsum scribebam tibi, Vir
clarissime, duobus circiter abhinc annis, perlecta dissertatione illa
tua ad Franklinium: nempe arbitrari me e principio attractionis non
tantum electricos motus, sed et plura alia phaenomena oriri debere:
attractionem scilicet idipsum efficere in vitro, ut excessui, qui uni
ejus faciei inducitur, defectus respondeat in facie adversa: insuper et
hoc praestare, ut _facies vitri post explosionem denudata vindicet sibi
electricitatem quam habuit ante explosionem_; quod est electricitatis
vindicis principium. Erat mihi quidem in animo rem totam quamprimum
explanare; sed cum nunc ad alia me contulissem, nunc etiam otio plus
aequo indulsissem, usque in hoc tempus res est protracta. Ut vero nulla
amplius interponeretur mora, libellus tuus de _Athmosphaera Electrica_
nuperrime editus, mihique, quod summopere gratum habeo, transmissus,
effecit: enim vero experimenta, pulcherrima illa quidem, quae illic
proferuntur, analoga sunt iis, quae ipse capiebam ad evincendum eandem
legem attractionis aeque in corporibus deferentibus locum habere, ac
in vitro; et principia, quae ibidem statuis, satis accedunt ad meam
attractionis theoriam, licet vocabulum hocce attractionis nondum
usurpaveris.

Propositum mihi est itaque ostendere vim quamdam attractivam ignis
electrici prorsus admitti debere; tum quod vis hujusmodi ubique se
prodat, tum quod ea posita praecipua electricitatis phaenomena nullo
negotio explicentur. I. nempe patet, cur corpora diversimode electrica
mutuo se petant. II. inspecta earum virium, quas attractivas vocant,
natura, atque indole; ac rationibus potissimum ex analogia petitis
ducti, conjectare possumus quae in caussa sint, ut vitrum, sulphur,
serica etc. ope affrictus nunc ignem alienum hauriant, nunc exuantur
suo, prout illo, vel hoc corpore fricantur. Hinc et pro novorum
quorumdam tentaminum successu lux quaedam affulget. III. ratio apparet,
cur ignis, qui in una vitri facie cumulatur, tantundem ignis nitatur
dispellere ex facie opposita: et vice versa ignis, qui ex una hauritur,
tantundem alliciat ad alteram: quod non in vitro tantum, sed in
corporibus omnibus coercentibus aeque locum habere compertum est. IV.
evidens est eandem legem extendi debere ad corpora etiam deferentia
(habita tantummodo ratione, quod haec facillime permeat ignis
electricus, illa non item): huc nempe redeunt experimenta illa omnia,
ac theoremata circa electricam athmosphaeram, que singulari libello
nuper protulisti. V. demum ipsa se prodit, quae apto sane vocabulo, ac
rem proxime exhibente _Vindex Electricitas_ a Te appellatur.

Haec si praestitero, nonne praecipua electricitatis phaenomena,
eaque e penitiore loco educta, explanabuntur? Nonne magna Physicae
accessio fiet, cum ad unicum attractionis principium jam reducantur
theoriae Franklinianae principia, pauca illa quidem ac simplicia,
sed quae ulteriorem caussam requirunt ac simplicissimam, qua invicem
connectantur; reducantur, inquam, principia Frankliniana una cum iis
quae Tibi addenda visa fuerunt? At singula fuse persequi, prout res
postulare videtur, non est hujus loci: abunde faciam, si specimen
tantum exhibuero, contentus aliis latiorem viam praemonstrasse.

Cum dico attractionem fluidi electrici ubique se prodere, satis
intelligis, Vir Clarissime, quid mihi velim: nempe jam non insistere
universali illi attractioni, quae est massae proportionalis, et
decrescit in ratione duplicata distantiarum: qua nimirum et corpora
adducuntur in centrum, et Planetae in eorum orbitis continentur.
Praeter generalem hanc vim, quae iccirco generalia phaenomena edit,
cujusque legibus constat Macrocosmum, alia attractionum genera
deprehenduntur in corporibus quibusque, ac in eorum partibus, quae
ideo specificas proprietates in iis inducunt, unde et particularia
phaenomena oriuntur. Et vero harum virium existentiam, vel sola luminis
refractio evincit; ubi illud, caeteris omissis, notatur, radios jam
tunc prope corporum superficiem deflecti, antequam eam attingant. Sed
et alia quamplurima suppetunt exempla harum virium: ut in corporibus
perfecte laevibus, quae mutuo adhaerent vi pondus athmosphaerae longe
excedente: et in duabus aquae guttis, quae ad minimam distantiam sitae,
primo apicem extendunt invicem, quo se contingant; tum in unam coeunt:
et in suspensione fluidorum in tubis capillaribus; sive quod adhuc
melius visitur, in ascensu accelerato guttae olei inter duas laminas
vitreas: ne quid dicam de operationibus Chemiae, cujus nulla est pars,
in qua praeter inertiam massae, et specificam gravitatem, alia virium
mutuarum genera non ubique se prodant, et vel invitis incurrant in
oculos; quod quidem vel in sola postrema quaestione Opticae Newtoni
abunde patet, ubi tam multa virium mutuarum indicia, atque argumenta
proferuntur[12].

Differunt autem hae vires, ut supra innuimus, ab attractione
universali, eo quod nec sint massae proportionales, nec legem servent
decrementi in ratione duplicata distantiarum; sed ut plurimum in exigua
a contactu distantia evanescant: generaliter variae admodum leges in
diversis corporibus obtineant; ita ut difficillimum sit eas assequi in
aliquibus, in singulis prorsus impossibile. Nonnulli tamen ex iis, qui
Newtonianam Philosophiam excoluerunt, uti _Keil_ et post eum _Freind_,
leges quasdam, ac theoremata statuerunt non sine successu.

Sunt quos tam multiplex attractionum genus, tam variae leges
deterreant, quique propterea censeant omnes has vires, quas vocant
immechanicas, prorsus a Philosophia eliminandas. Fatentur hi quidem
in caussarum investigatione generalia quaedam esse principia,
quorum ulterior ratio neutiquam peti potest, quocum perventum est
acquiescendum sane; at principia hujusmodi volunt numero pauca. Anne,
inquiunt, tot attractionum species habebuntur ut naturae principia,
quot phaenomena inde pendentia recensentur; cum pro singulis singulae
ferme leges condantur? Verum haec difficultas tota evanescet, si
consideretur vires has tam varias in corporibus, tamque diversis
legibus obnoxias minime esse primaria principia, sed ex elementorum
compositione consurgere. Concipi enim potest duo tantum vel tria virium
genera indita esse particulis primordialibus, his videlicet, quae
_Prima Naturae_ vocari possunt; vel si malimus genus unum vis certis
quibusdam legibus agentis, quae a sola distantia pendeant. Porro mirum
quam variae vires existere possint in massulis compositis etiam primi
ordinis; ex varia nempe particularum positione: quid vero dicendum de
massis secundi, vel tertii ordinis, omniumque inferiorum, cum numerus
combinationum in infinitum excrescat? Anne dubium supererit vires
omnes ex uno eodemque principio consurgere posse, quae nobis ob oculos
versantur, quantumvis leges, quibus illae agere videntur prodigiose
differant? Certe Boscovichius[13] principiis corporum, quae illi sunt
puncta indivisibilia, unam tantum virium legem tribuens, quam per
quamdam curvam asymptoticam exprimit; et generalem magnorum corporum
attractionem inde petit, ostendens quomodo sit massae proportionalis,
et inverse ut quadratum distantiae, et caetera attractionum genera in
minoribus corporibus, et in minoribus distantiis facili applicatione
deducit.

At quoquomodo se res habeat, illud mihi in praesentiarum sufficit,
si constet vires attractivas in corporibus revera existere; meque
clarissimorum hominum exemplo tueri, dum naturalium quorumdam effectuum
explicationem inde peto; eorum scilicet, qui ab impulsu, sive a notis
legibus minime proveniunt.

Plurima igitur sunt corpora sive solida, sive fluida, in quibus vis
attractiva manifesto satis indicio se prodit: postremae hujus classis
exemplum sane luculentum perhibet lux, ut supra innuimus, quam magna
attractiva vi praeditam phaenomena omnia praedicant. Quidni igitur
et ignis electricus vi polleat sua? Videtur in aliquibus corporibus
majorem hujus ignis copiam inesse, in aliis minorem; licet hoc fluidum
valde sit elasticum: quod quidem argumento est diverse diversa corpora
attrahere, ac ab ipsis appeti ad habendam quamdam saturitatem. At
nullibi vis haec mutua clarius deprehenditur, ac magis in oculos
incurrit, quam in motibus electricis. Nam vel hi motus efficiuntur
pressione alicujus fluidi, vel nullam aliam agnoscunt caussam, praeter
allatam: vim nempe attractivam ignis electrici. Porro si effectus
essent alicujus fluidi; vel istud fluidum esset ipse ignis electricus,
vel aer; cum nullum aliud adsit, quod in subsidium possit vocari. Ignem
vero electricum imparem esse hisce motibus incursu suo ciendis, et Tu,
Praestantissime Vir, invictis argumentis ostendisti, et ipse confirmare
conatus sum in epistola altera superiore anno ad Nolletum conscripta,
quam et Tibi notam feci. Illud vero rem conficit, quod est Theoriae
Franklinianae fundamentum: ignem electricum una tantum directione
moveri. Quis enim non videat motus diversos levium bracteolarum, nunc
accessus, nunc recessus respectu ejusdem corporis electrici, a fluido
inde erumpente minime effici posse?

At dicent aerem idipsum efficere, ut corpora diversimode electrica se
mutuo petant (cui unico principio redigi posse motus omnes electricos,
tum accessionis ad invicem, tum discessionis ostendi in memorata
epistola), concipi quodam modo potest: ignis enim electricus, qui
ex uno corpore erumpens in aliud ingreditur, interpositum aerem
natura impermeabilem vel disjicit, vel summopere dilatat; quo fit
ut circumfusus aer elasticitatis vi motus, dum ad supplendum vacuum
inter duo haec corpora inductum accurrit, ipsa ad invicem appellat.
Hanc opinionem, quam experimenta in vacuo desumpta suadere videntur,
a Te amplexam videram in Epistolis ad Beccarium: quid nunc de eadem
sentias, non queo satis colligere; nec video quam aliam _attractionum,
discessionum, cohaesionum caussam omnino mechanicam_ proferre possis,
uti in primo Specimine novorum quorumdam in re electrica experimentorum
anno 1766 pollicitus es.

Interea mihi quidem persuasum est rem nequaquam in aere ita se habere;
proinde nec illi adscribendum esse, quod duo corpora diversimode
electrica urgeat, atque unum alteri apprimat. Nec desunt argumenta,
eaque potissimum ab experimentis desumpta, quibus hoc evincam; utque
caetera omittam, illud referri meretur, quod nempe motus electrici
non in aere tantum, sed et in fluidis omnibus coercentibus, uti ex.
gr. est oleum, aeque locum habent. Porro si accessus duorum corporum
diversimode electricorum, dum in aere innatant, efficeretur pressione
ipsius aeris eo modo se restituentis; idem obtineret et dum haec
corpora in oleo merguntur, quod est medium similiter coercens: nempe
ignis electricus, dum ex uno ex his corporibus mersis trajicit in
aliud, interpositum fluidum disjiceret, dilataret, vacuum induceret:
consequenter alia pars fluidi in ejus locum succedens, corpora secum
traheret, atque ad accessum adigeret. At re quidem vera corpora in oleo
mersa se attrahunt, quin aliquid tale animadvertamus in hoc fluido;
quod tamen aliquomodo sub sensus caderet si ita se res haberet. Alia
igitur est eorum motuum caussa.

Quod autem spectat ad experimenta, quae probant motus electricos in
vacuo vel plane interire, vel saltem aegre obtineri, id cuinam caussae
sit referendum, mox videbimus.

Iam ergo nil aliud superest, nisi ut vim attractivam fluidi electrici
agnoscamus, eique id muneris tribuamus, ut corpora inaequaliter
electrica determinet ad mutuum accessum. Hoc autem qua ratione fiat,
facile patet, si concipiatur corpus quodcumque praeter portionem hanc
fluidi, quae ipsi naturaliter competit, ut inter hoc idem corpus, et
caetera, cum quibus communicat, habeatur quaedam respectiva saturitas,
adhuc vi aliqua absoluta pollere, qua novum usque ignem appetit, et
ab ipso appetitur. Huc usque nil novi erit; nam cum vis haec residua
sit undique aequalis, non est cur seu ignis electricus, seu corpora
cogantur respectivum statum mutare, quoad aequilibrium perstat. Iam
vero demamus hocce aequilibrium, ac consideremus corpus aliquod excessu
electricum, in quod nempe major pars fluidi congesta est: quid inde
consequetur? Corpora circumquaque posita, nequidem aere excepto,
ignem hunc redundantem ad se trahent pro sua quaeque vi, et invicem
ab illo trahentur. Ut autem vi huic attractivae obtemperetur, vel
ipsa corpora circumposita ad corpus electricum properabunt, vel ignis
ipse ex hoc ad illa se cito transferet. Videtur quidem primo aspectu
ignem electricum potius vi attractivae parere debere, ipsumque magis
ad corpora accedere, quam haec ad illum, utcumque levia ea sint, cum
ignis electricus incomparabiliter levior sit, atque immani mobilitate
praeditus. At rem intimius perspicienti contrarium videbitur: illud
enim est considerandum, quod interpositione aeris, qui est medium
coercens, efficitur ne ignis ipse ex corpore redundante in alia corpora
ad quamdam distantiam sita, liberrime transcurrat; quare haec potius,
si satis levia sint, ad corpus electricum advolabunt; et hoc vicissim,
si satis libere pendeat, nisui ignis redundantis obsequendo, cui est
quodammodo alligatum, versus illa porrigetur.

Quod in corpore per excessum electrico observavimus, idem omnino
evenire debere respectu corporis electrici per defectum, satis
ostendit: imo generaliter patet, duo corpora, quae comparatis eorum
viribus copiam ignis non habeant respondentem, sive, quod eodem redit,
quorum unum excessum habeat respectu alterius, ad mutuum accessum
determinari debere pro majori, vel minori, quae intercedit differentia:
quae unica lex est, ad quam generaliter motus omnes electrici
referuntur; nam et in corporibus eadem electricitate praeditis, quid
aliud, quaero, produnt mutuae discessiones, nisi accessum ad corpora
extra se posita (aerem etiam considero) respective inaequalia?

Iam hinc intelligitur cur in machina pneumatica aere summopere
rarefacto, motus electrici vel nulli obtineantur, vel admodum debiles.
Ratio est, quia ignis in corpore electrico redundans, cum et particulas
corporum non electricorum attrahat, et invicem attrahatur, debet ipse,
in medio non resistente, ad haec corpora potius se conferre, utpote
qui summa prae illis mobilitate praeditus sit, ac liberrime fluat, quam
haec ad illum accedere. Uno verbo res huc omnino refertur: duo corpora
diversimode electrica nequaquam se invicem petunt, quod particulae
unius corporis absolute attrahant particulas alterius; sed quod haec
attractio unice existit inter particulas unius corporis deficientis,
atque ignem corporis redundantis; quo fit, ut vel ipsum hoc fluidum
ubi minus coarctatur, in spatio scilicet non resistente, unice se
effundat in partem, in quam tendit; vel ubi medium aliquod coercens
huic effluxui impedimento est, idem ignis una secum trahat corpus, cui
inhaeret, ac veluti alligatur, dum tempore ipso pro ea vi corpora extra
se posita similiter ad se accedere cogit: quod et rationi apprime, et
experimentis consentaneum est.

Cum ergo phaenomena omnia motuum electricorum, quae aliter conciliari
nullo modo possunt, ex posito principio attractionis sponte fluant,
nonne hoc principium amplectendum erit, atque uti vera illorum caussa
considerandum? Nisi forte illud absonum videatur, uti hic quidem
viro, quod miror, satis experto visum fuit; vim hanc attractivam
ignis electrici ad tam magnam distantiam extendi; exempla enim, quae
proferuntur attractionum inter particulas corporum, eas vires produnt,
quae nonnisi in minimis distantiis agunt. Motus vero electrici longe
differunt, cum observemus quandoque distantiam duorum, vel trium pedum,
minime obstare quominus filum erigatur ad catenam.

At futilis haec quidem objectio: vulgatum enim est illud _plus minus
non variat speciem_. An licet assignare limites, ultra quos vis
attractiva particularum extendi nequit? Qui ergo erunt hi limites? An
si positio particularum corpus componentium plurimum confert, ut in
hoc vires resultent plus, vel minus agentes; ea nequit esse positio in
minimis fluidum electricum componentibus, quae maxime faveat, ut vis
hujus attractiva ad satis notabile intervallum pertingat? Deinde nec
illud omnino verum: exempla nobis tantum suppetere attractionum, quae
in minimis distantiis agant. Extat exemplum sane luculentum in Magnete
chalybem ad plures pedes attrahente[14]. Tandem difficultas omnis
evanescet, si consideremus nequaquam opus esse, ut vis attractiva ignis
electrici ad tam magnam distantiam se extendat, ut est intervallum,
quod inter duo corpora, quae se mutuo petunt, intercedit; ignis enim
redundans expandit se circa corpus electricum excessu, ac quamdam
athmosphaeram efformat: quare concipi potest filum ex. gr. ad duos
pedes a catena situm, non ita longe distare a limite, quo se extendit
athmosphaera catenae; imo tunc solum persentire vim attractivam, cum
hunc limitem jam prope pertingit.

Videndum nunc an ex attractione, quam inter fluidum electricum, et
particulas cujuslibet corporis observavimus, ratio peti possit, cur
quaedam affrictu ignem suum impertiantur, quaedam hauriant alienum;
ac ferme omnia nunc hauriant, nunc impertiantur, pro diversa nimirum
ipsorum constitutione, et corporum, cum quibus fricantur: satis enim in
praesens habeo, si haec, et omnia quae huc pertinent, felicius hac via
explicentur, quam alia quacumque hypothesi hucusque excogitata.

Ac primo illud mihi nunc demum plane constat: dum corpus aliquod, ut
sulphur, de suo amittit, neutiquam hoc provenire ex eo, quod major
copia ignis electrici illi naturaliter inhaereat; itemque dum aliud
corpus, puta vitrum, alienum ignem haurit, hoc ideo evenire, quod
in illo naturaliter deficiat: quae olim mihi sententia fuerat. Nam
experimenta illa omnia, quae postmodum capiebam circa serica, docebant
me, eandem taeniam diverse affici a diversis corporibus deferentibus,
in quibus tamen ignis electricus aequaliter est diffusus; nec id
solum, sed, quod magis mirabar, eandem taeniam frustulo sive ligneo,
sive metallico nunc impertiri, cum nimirum ejus lateri, quod erat
laevigatum, taenia affricaretur, nunc accipere ex ipsomet ligno, vel
metallo, cum videlicet fricaretur parte ejus valde aspera. Tandem
experimenta longe plurima, ac clariora, quae super hac re instituebas,
Vir sollertissime, ut totam electricitatis historiam augeres, uti
comprobarunt nec vitrum semper accipere a corporibus deferentibus, nec
sulphur semper dare, caetera vero, ut serica, pili felis etc. plurimum
variare; ita ostenderunt has omnes varietates a minimis pendere
circumstantiis, neutiquam ab ipsa corporum intrinseca natura.

Majorem in uno, quam in alio corpore elasticitatem, calorem etiam
intensiorem in illud frictione inductum, posset quis censere ignem
electricum irritare, ac versus eam partem extrudere, ubi una, vel
altera ex praedictis caussis, vel etiam ambo minus vigent. Verum, ut
illud concedam, tum elasticitatem, tum calorem non parum quandoque
conferre, ut electricitas existat ex affrictu vividior; inde tamen
non infertur eas corporum affectiones caussam esse efficientem ut
ignis electricus ex hoc in illud corpus se congerat; fieri enim potest
ut alteri caussae diversae prorsus naturae adjumento tantum sint.
Experientia autem quaestionem finit. Etenim compertum habemus, dum
diversa corpora fricantur, nec illud, quod majore pollet elasticitate,
nec illud, in quo major caloris gradus affrictu invalescit, nec vero
illud, in quo haec simul concurrunt, ignem suum semper impertiri; nam
et quandoque hujusmodi corpora accipiunt a minus elastico, minusque
calescente.

Iam vero nullam aliam video rationem tam varia effecta conciliandi
cum viribus corporum prementibus, sive mechanicis. Alia igitur ineunda
est via: alia caussa prorsus ab his diversa investiganda. Quae impulsu
fieri concipi nullo modo potest, quid vetat ad principium attractionis
referre, quandoquidem vires hujusmodi, ut ubique, sic peculiariter
in fluido electrico existere jam liquet, et haec omnia phaenomena, de
quibus nunc quaestio est, harum virium indoli optime respondent?

Igitur mihi persuasum est, dum corpus aliquod, puta sulphur, ex
affrictu partem ignis nativi amittit, nequaquam hoc corpus impulsu
agere in hunc ignem, veluti si particulae sulphuris eo motu vibratorio
concitae, coarctatis porulis, contentum in iis fluidum exprimerent; sed
ideo portionem hujus fluidi dimittere, quod in sulphure ita confricato
vis attractiva detrimentum patiatur. Eodem plane modo evenit in vitro,
ut hauriat ignem extraneum, nempe a manu: nullam enim concipio vim,
quae ignem a manu extrudat; sed hunc ignem allicit ad se vitrum,
cui affrictus id confert, ut vis attractiva in eo valde intendatur.
Electricitas vero in corporibus ita confricatis tum se prodit, cum
primum, cessante ipso affrictu, eadem, quae ante obtinebat, attractio,
hoc est idem gradus intensitatis, incipit restitui.

Sedenim quid caussae est ut affrictus mutationem hanc pariat virium
attractivarum? Recolendum est quod superius dixi: in massulis
compositis leges virium consurgere a diversa positione particularum
primigeniarum: nempe cum hae vires particularum pendeant a distantiis,
et in Systemate quidem Boscovichiano in minimo insensibilique
spatio plures habeantur transitus ex repulsivis in attractivas, et
iterum in repulsivas, patet ex varia ratione, qua hae particulae
disponuntur invicem, sic ut vires vel se collidant, vel conspirent,
diversas admodum vires resultare debere in corporibus, tum respectu
intensitatis, tum distantiae, ad quam pertingunt, tum rationis
decrementi etc.

Haec igitur si ob oculos habeantur, an erit mirandum, quod dispositione
particularum immutata in aliquo corpore immutentur et vires, ita
ut intendatur vel remittatur attractio hujus corporis erga fluidum
electricum? Porro affrictum in particularum dispositione perturbationem
parere, manifestum est; ac quidem talis ea videtur, quae virium
mutationi inducendae maxime est apta; minimae enim partes eae sunt,
quae dum succutiuntur, novum statum, seu novam respectivam positionem
acquirunt.

Equidem quinam ille minimarum partium motus sit, quo attractio
minuitur, ut in sulphure, quinam ille, quo augetur, ut in vitro, etsi
definire non licet, eo quod intimum cujusque textum non perspiciamus,
satis tamen pro re nostra habemus, si illud in genere pateat, haec
diversa a diverso motu praestari posse. Patet autem et illud: vitrum,
sulphur, serica diverse affici debere, prout diversis corporibus
fricantur; imo et ab iisdem, prout nempe fricantur superficie nunc
aspera, nunc laevi etc. diversos enim pro mutatione utcumque parva
motus excitari necesse est: sed haec mutatio dispositionis in
particulis, distantiae videlicet etiam indiscernibilis, quot quantaque
virium discrimina inducere possit, quis non videat? Iam ergo mirari
desinamus sulphur, ceram signatoriam etc. quae chartae nudae, sicuti
et corporibus fere omnibus dant, accipere a charta inaurata: nimirum _a
tantula superficiei crassitie pendere electricitatis contrarietatem_.

Quod autem dicebam: electricitatis signa in corporibus fricatis
apparere, quod attractio ope affrictus sive aucta, sive imminuta,
statim ac affrictus cesset incipiat pristino statui se restituere,
id facile admodum concipitur. Cum vitrum ex. gr. frico manu, muto
naturalem dispositionem particularum vitrum constituentium; ea autem
nova positio, quae inducitur, vi illius attractivae magis favet; quare
portionem ignis electrici extrahit a manu. Mox vero ut partes vitri
discedunt a manu, sublata pressione, pristinum statum recuperare
nituntur; quare illo auctu, quod vi attractivae accesserat, iterum
pereunte, ignis redundans incipit effluere.

Eadem est ratio in sulphure manu, aut lamina metallica fricato:
ut nempe post affrictum electricitatis signa edat. Quod autem
electricitatem praeseferat contrariam, sive defectus, id ex eo
proficiscitur, quod dispositio particularum, quam affrictus inducit in
sulphure, minus faveat vi ejus attractivae, unde ignis proprii jacturam
pati debet; ut vero cessante attritu, ac naturali partium dispositione
se restituente, pristina quoque vis redeat, amissum ignem sibi
vindicat, qui iccirco ad sulphur confluere incipit.

Dixi ignem a vitro adeptum _incipere_ inde effluere; similiter
_incipere_ confluere ad sulphur quod amiserat: nam nec ignis in
illo excessivus, effluit illico totus, nec ignis deficiens in hoc,
momento temporis in integrum suppletur; sed haec paullatim tantum,
et successive fiunt: quod verosimillimum sit, nonnisi paullatim,
et successive fieri restitutionem particularum tum in vitro, tum in
sulphure ita fricato. Satis autem hoc est ad intentum: ut nempe signa
excessus in vitro, defectus in sulphure, statim ac affrictus cessat,
se prodant. Quin etiam haec signa ipsa sunt, quae docent tam vitrum
tractu temporis indigere, ut totum ignem deponat, quem assumpserat,
quam sulphur, ut illo prorsus reficiatur, quem amiserat; nam haec
corpora licet repetitis vicibus explorentur, signa electrica usque et
usque nova satis diuturne edunt. Caeterum ni ita se res haberet, facile
ostendi posset, quod corpora frictione nullatenus evaderent electrica;
ignis enim, qui in vitro ex. gr. cumulatur a manu fricante, reflueret
totus in digitos, ubi desinit fricari. Quod si fit electricum, tenendum
est quod supra dicebam: hunc ignem _incipere_ tantum effluere. Sed
haec iterum in medium proferre, quae alibi fusius exposui, cum Tibi
tentamina a me facta circa serica scriberem, supervacaneum fortasse
videbitur.

At nullane erit alia caussa praeter affrictum, quae vires attractivas
corporum respectu fluidi electrici vel augeat, vel imminuat? Nonne
plures adsunt viae, queis motus minimarum partium excitentur? Ubi autem
hi motus reperiantur, ibi et mutari positiones, et vires attractivas
vel intendi vel remitti oportere, unde et ignem electricum eas pati
vicissitudines, quas supra vidimus, facile ex iisdem principiis
deducitur.

Porro est et alia caussa, quae (nisi ambas uno nomine designare
malimus) frictioni aequivalet. Notum est rudem quamcumque percussionem
eadem omnino praestare ac affrictus. Innumera experimenta, quae ad
hanc rem faciunt, non vacat recensere: sed neque inutiliter faciam, si
hoc unum proferam. Laminam vitream probe siccam abs igne malleo ligneo
(charta inaurata obducto melius evenit) percutio semel quo validius
fieri potest, id unum nempe cavens ne diffringatur: electricitas
existit aliqua in utraque superficie, sed admodum debilis; ea tamen
repetitis ictibus adeo invalescit, ut bracteolae metallicae ad quatuor,
et ultra pollices sitae arrigantur, advolent etc. interdum et penicilli
conspiciantur, et crepitus exaudiantur. Hoc autem maxime notatu dignum,
quod non solum pars illa vitri, quae percussioni mallei subjecerat,
electricitatem nacta est; sed aliae partes circumpositae, quandoque et
illae, quae tres pollices distant a loco percussionis, bracteolas satis
sensibiliter attrahunt: quae res cum meo principio apprime consentit;
dispositio enim particularum non solum iis in punctis immutatur, ubi
habetur percussio; sed et in adjacentibus, quoad nimirum succussio
satis valida pertingit: hinc virium mutatio; hinc effectus respectu
fluidi electrici, qui hanc mutationem consequuntur.

Mirarer ni hic instaret aliquis, ac illud a me intelligere vellet:
num, in solutionibus, fluidorum mixtionibus, effervescentiis,
conflagrationibus etc. quae ad Chemiam pertinent, cum minimarum etiam
particularum textus tot tantisque modis innovetur, viresque mutuae
tam insigniter mutentur, ut nunc intensius, nunc remissius agere, ipso
demum oculis perspiciamus, num, inquam, in his chemicis operationibus
ignis electricus quidquam patiatur, quodque principiis a me positis
consentaneum est, electricitas aliqua exsurgat: quae si revera
exsurgit, cur ergo signa nullatenus se produnt?

Equidem mihi persuasum est in omnibus hisce motibus, seu corporum
alterationibus ignem electricum diverse affici, ipsumque varias
vicissitudines subire: nempe confluere quo vis attractiva intensior
evadit. Verum cum electricitatis phaenomena tunc solum habeantur,
ut supra vidimus, cum viribus se restituentibus ignis electricus ad
pristinum statum regreditur; si iste regressus insensibili quodam modo
fiat, eo quod vires lente admodum restituantur, patet nulla haberi
posse electricitatis signa sensibilia. Atqui hic casus videtur esse
eorum motuum, quos chimicos dicimus. Hac ratione facile intelligitur,
cur, licet intestini hi motus insigniorem inducant particularum
mutationem, proinde et virium mutuarum discrimen sane notabilius,
quam affrictus; nihilo tamen minus hic affrictus electricitati
excitandae sit multo magis idoneus. Etenim in vitro ex. gr. momento
temporis, quo vis urgens pressionis cessat, sive contactus corporis
prementis aufertur, illico existit conatus particularum in vitro se se
restituendi; qui conatus utique est satis magnus; proinde et effectus
satis sensibiles edit. Contra in motibus, qui non tam ab externa
caussa, quam a mutuarum virium actione ortum ducunt. Hic enim vis illa
quodammodo intrinseca, quae particularum mutationem induxit, nequaquam
illico aufertur; sed cum usque praesens sit, necesse est ut a vi
contraria destruatur; quod, ut dixi, videtur fieri non posse nisi per
gradus insensibiles.

Sed et aliae esse possunt circumstantiae, quae electricitatem
manifestari signis sensibilibus vetant, ac in hujusmodi tentaminibus
diligentiam omnem eludunt. Licet enim ex. gr. vasa rite sejungere
(_isolare_) curemus, num cavere possumus quin effluvia, quae a
corporibus ita cruciatis jugiter effunduntur, ac saepe in tam immani
copia, ut vel in oculos incurrant, communicationem aliquam inducant,
omnemque electricitatem, si quae forte exsurgit, citius disperdant?
Aer etiam athmosphaericus, utcumque purus; quin et caetera corpora,
quae cohibentia dicimus, nequaquam perfecte adeo cohibent, ut debilem
aliquem electricitatis gradum in se recipere nequeant. Igitur non est
mirandum irrito eventu haec succedere. Quanquam nec illud affirmare
prorsus auderem, nulla unquam in chemicis hisce operationibus obtineri
posse electricitatis signa sensibilia. Quae ipse hactenus institui
super hac re tentamina, pauca admodum sunt: plura si ineam, eaque
accuratiora, uti quidem est animus, non utique despero rem mihi
aliquando ex voto succedere posse. Neque vero solus ego sum, qui
hujusmodi experimentis, utpote quae plurimum lucis afferre possint,
curam impendere decreverim; nam et Tu, Vir sollertissime, ante aliquot
annos huc animum adieceras, ut inlelligeres _quanta parte ii motus,
quos chimicos dicunt, igne electrico efficerentur_. Dolendum tamen est,
si quae inde detexeris, ea nos adhuc latere.

Illud hic postremo loco addendum censeo, quod non parum ad rem nostram
facit: nimirum si ponatur ignem electricum his vicissitudinibus esse
obnoxium ob diversam tantummodo positionem particularum corpora
constituentium, jam non incongrue ex eodem principio Naturalis
Electricitas peti potest: facilis nempe explicatio occurrit cur,
et unde haec ortum ducat. Quis enim non concipiat alterationes,
tum quae accidunt corporibus supra tellurem positis, tum quae in
athmosphaera contingunt, sive in moleculis ipsiusmet aeris, et
corporibus etherogeneis in hoc innatantibus, quorum omnium positiones,
textus etc. tam saepe immutantur, vires respectivas pariter immutare
debere; proinde ignem nunc e tellure in aerem, ac nubes, nunc ex
his in tellurem confluere; mox viribus se restituentibus iterum ad
pristinum statum regredi etc. quod est plane consonum systemati tuo
de Electricitate Terrestri-Athmosphaerica? Porro tentamina, quae supra
proposuimus circa chemicas operationes, eadem sunt, quae lucem maximam
et huc afferre possunt: quo tamen nihil de iis constet, ne ego quidem
aliquid pro certo constituere ausim; sed quae ad hanc rem protuli
conjectationum loco haberi volo.

Latum sane campum aperuimus principio attractionis, qua ignem
electricum pollere contendo. At mirum quam latius adhuc patebit, si
idem principium ad vitrorum theoriam, caeteraque huc pertinentia
deducatur. Sancitum est igitur: _ignem, qui in una vitri facie
cumulatur tantundem ignis ex adversa facie expellere_, et vice versa
_ignem qui ex una facie hauritur aequalem portionem allicere ad
faciem sibi oppositam_. Hanc legem phaenomenorum, quam in vitro primum
Franklinius statuit, alii vero post eum in quibusdam aliis corporibus
itidem locum habere invenerunt, hanc demum proprietatem esse eorum
omnium, quae _cohibentia_ dicimus nunc plane ostendisti, Vir sollerti
ingenio, summaque in experiendo dexteritate praedite.

Iam vero haec phaenomena non solum, si jam supponatur vis attractiva
ignis electrici, cum hac conciliari possunt; sed ita attractionis
indolem praeseferunt, hujusque caussae effectus unice se produnt, ut
vel per hoc solum necessario illa admitti deberet, posito etiam quod
nec adessent argumenta aliunde petita, nec indicia alibi suppeterent.
Quare hic non conjectare tantum, sed plenius demonstrare, quae
proferam, sane confido.

Sed neque hic necessarium duco ostendere nullam ex his hypothesibus,
quae hucusque excogitatae fuerunt, explicare quomodo hoc fiat, ut
ignis in una vitri facie congestus nitatur dispellere ignem ex facie
opposita, et vice versa; quod enim commenti sunt nonnulli de porulis
vitri, eorumque figura, quam arbitrarium sit, sin minus absurdum, satis
per se patet. Quinimo illud generaliter asserere non vereor: neutiquam
concipi posse ignem, qui in una facie cumulatur, ignem nativum e facie
opposita vere expellere, sive reali impulsu in hunc agere; quandoquidem
constat illum ignem excessivum nulla tenus substantiam vitri permeare.

Ut ergo ad rem nostram deveniamus recolenda sunt ea, quae de vi
attractiva ignis electrici ab initio statui: nimirum corpora omnia
eam ignis quantitatem possidere, quae viribus respectivis respondet,
unde habeatur naturalis saturitas. Saturitatem autem dixi, non quod
corpus quodcumque ulteriorem ignem absolute attrahere nequeat, (vim
enim quamdam excedentem eis tribuo: quam quidem vim absolutam corpus in
statu naturali positum ostendit, cum aliud corpus excessive electricum
attrahit); sed quod vis haec residua in omnibus aeque pollens undique
libretur, ac proinde nullos edat effectus: quare non absolutam
saturitatem, sed _saturitatem respectivam_ vocabimus. Porro vim hanc,
qua corpora ignem electricum attrahunt, ac ab illo attrahuntur, ad
sensibilem distantiam extra corporum superficies pertingere, facile
concedi posse ostendi. His positis: si copia ignis electrici alicui
corpori superaddatur, facile patet ignem in eo redundantem, sive omne
id quod est supra respectivam saturitatem, transmitti debere corporibus
aliis, cum quibus communicat, ut nempe virium stet aequilibrium. Id ita
evenire in corporibus omnibus deferentibus jam constat: at nec diversa
est ratio in _coercentibus_, si illud solum attendatur et haec corpora
eam ignis dimittere copiam, quae est supra naturalem saturitatem. Una
est differentia, quod in illis, nec ulla pars superveniente igne prae
caeteris redundans, nec ulla egrediente deficiens est effecta; sed
omnes aeque imbutae reperiuntur, eo quod ignis liberrime excurrens
sese aequaliter distribuere potuerit; in his vero, quae nullatenus
permeat (exemplum sit in lamina vitrea), ignis superveniens soli
illi superficiei A, quae catenae objicitur debet inhaerere, ibique
consistere; portio vero ignis, quae propter hunc novum adventum dimitti
prorsus debet, ne videlicet lamina vitrea plus possideat, quam vires
omnes hujus corporis simul sumptae exigunt ad habendam naturalem
saturitatem, portio haec, inquam, ignis nonnisi a superficie opposita
B discedere potest, hujusque superficiei, ut ita dicam, impensis unice
suppeditari. Inde fit ut illa vitri facies A inveniatur redundans,
haec B deficiens. Porro analogum evenire in vitro dum facies A machinae
objecta spoliatur: nimirum tantundem ignis appeti a facie B ut habeatur
illa saturitas: itemque excessum ignis adventitii, quod intimam vitri
massam pervadere nequeat, soli huic superficiei B limitari, ut et
defectum respondentem soli alteri A, facile est pervidere.

At dicent aliqui, si unaquaeque superficies vitri portione ignis
instruitur, quae suis viribus respondet, quid faciei B intererit, si
copia ignis quae pertinet ad oppositam superficiem A vel augeatur,
vel minuatur? Quaecumque huic acciderint, nonne illa in eodem statu
manere perget, contenta respectivam portionem fluidi possidere? Num
ex mutatione, quae inducitur superficiei A, vires in B mutari possunt?
Porro mutantur: quis enim illud generaliter non intelligat, cum ignis
in vitro adventu novi accumulatur, totam hanc copiam ignis sic auctam
minus attrahi debere a summa virium, quae ex omnibus particulis vitri
simul sumptis exsurgit, sive quod eodem redit, easdem vires, quae datam
tantum portionem ignis naturaliter postulant, copiae huic excedenti
retinendae minus sufficere; contra dum in eodem vitro pars nativi ignis
exhauritur, imminuta naturali copia, vires, quae e particulis vitri
simul sumptis resultant, praepollere, ac pares esse novo igni sibi
comparando? Quod autem dicebatur, unamquamque superficiem ea portione
ignis contentam esse debere, quae sibi naturaliter competit, quidquid
aliunde superficiei adversae contingat: id quam ineptum: Enimvero
quaeque superficies non est consideranda ac si esset solitaria,
nihilque commune habens cum superficie opposita: idest ac si una
ab altera independenter ageret. Nam haec independentia pro viribus
attractivis esse nequit, ubi vires hae particularum quarumcumque ad
majorem se extendant distantiam, quam esse possit crassities illius
corporis, sive spatium, quod inter oppositas superficies intercedit.
Quare crassities laminae vitreae exigua propemodum respectu distantiae,
ad quam vis ea pertingit, qua ignis electricus, ac particulae hujus
corporis se mutuo attrahunt, obstare nequit, quominus superficies una
influat in alteram, ac mutatio virium illius, mutationem pariter in
hanc determinet.

Iterum igitur consideremus vitrum, dum in unam ejus faciem A, quae
catenae objicitur, novus usque ignis congeritur: vis attractiva,
quae unice impendebatur in ignem nativum, debet necessario ad hunc
quoque novum converti; ac proinde remissior erga illum evadere. At non
solum vis attractiva debilitatur in superficie vitri A, quam ignis
hic superveniens immediate contingit; sed et in superficie opposita
B: nam cum hocce fluidum superadditum non multum distet a particulis
hanc superficiem B componentibus, ac intra harum sphaeram activitatis
reperiatur, debent et hae pro sua quaeque vi, ac pro distantia in illum
agere; consequenter qua parte alibi insumuntur, eo remissiores evadere,
atque impares fieri igni nativo, quem antea sibi firmiter inhaerentem
complectebantur, adhuc retinendo. En quomodo superventu novi ignis in
A, minuatur attractio in B erga ignem nativum; quem iccirco corporibus
deferentibus impertitur; siquidem haec corpora viribus adhuc integris
ignem hunc magis ad se attrahunt.

Contrarii exempli eadem est ratio. Dum a superficie A ignis extrahitur,
vires particularum in vitro, quae jejunae, ut ita dicam, evaserunt,
novum ignem jam plane expostulant, quo saturentur: hunc autem ignem
appetunt non solum particulae superficiei A, quae vere est exhausta,
verum etiam particulae superficiei B; nam et ipsae in novo hoc statu
non amplius ea portione ignis contentae esse possunt, qua antea
contentae fuerant, tunc scilicet cum partem virium suarum impenderent
in eum etiam ignem, qui residebat in superficie A.

Haec nisi clare pateant, vereor ne quidquam sit ex iis, quae mihi certo
constant, quod et aliis constare unquam possit: uti nec illud: quod non
solum vitrum, sed corpora omnia coercentia iisdem legibus subjiciuntur,
dum fiunt electrica, necessario consequi ex meis principiis: item
consectarium esse, quod vitrum, aliaque corpora, caeteris paribus,
aptiora sint huic experientiae, quo minorem habent crassitiem; quo enim
proximior est superficies B superficiei A, vires particularum hujus,
intensius agunt in ignem illi pertinentem.

Initio cum hanc vitrorum theoriam excogitassem, quam supra exposui,
non tantum in eam inquirere, quam (ut et mihi, et aliis si qui erant
harum rerum curiosi, plausibilior evaderet) ipsam exemplo illustrare
curabam, quod quidem satis luculentum in Magnete inveni. Suspendebam
lapidi pondus ferri, ultra quod sustinere nequiret: si dein aliud
ferrum eidem lapidi satis prope admovebatur, primum illud decidebat.
Quare hoc? Nisi quia vires magnetis, quae primo ponderi sustentando
pares erant, dum in id unum intenderent, nunc cum et in hoc alterum
impendantur, illud partim deserunt. Placuit igitur imitari quodammodo
ea, quae in vitro accidere vidimus. Sumebam tenuem laminam ex chalybe,
quae magnetica vi probe esset imbuta, observabamque ut supra, vim,
qua ima ejus facies pondus satis magnum elevabat, multa ex parte
concidere, prout alteri faciei superiori aliud ferrum applicabam. Iam
si utramque faciem laminae chalybeae tot frustulis ferri onerabam, quot
utrinque sustinendis par esset; tum perjucundum mihi erat observare,
nova aliqua ferri massa faciei A superaddita, frustula aliquot, quae
haerebant faciei B, sibi relicta decidere; contra demptis aliquibus
frustulis ex eadem facie A, faciem B vim novam acquirere attrahendi:
uti revera nova frustala ferri, si quae objicerentur, ad se rapiebat.
Iterum jucundius hoc idem experimentum accidebat, utpote quod veluti
oculis subjiceret, quae in vitro respectu fluidi electrici obtinent,
si lamina chalybea non massis rudibus ferri, sed scobe ferrea utrinque
induebatur, quanta scilicet opus esset, ut saturaretur; tum si cumulum
scobis ferreae minuebam in facie A, illico cumulus in facie B augmentum
inhiabat: nimirum ubi huic nova scobs admoveretur, hanc ad fe trahebat;
et vice versa, si cumulo in A superaddebam, attenuabatur cumulus scobis
in B, diffluebatque: quae omnia prorsus analoga esse his, quae fluido
electrico vitro inhaerenti obveniunt, quis non videat? Porro illa in
magnete, attractionis vi erga ferrum contingere, non est dubitandum;
quidni igitur et haec phaenomena in vitro e simili caussa, vi nempe
attractiva hujus corporis erga ignem electricum, orientur[15]?

At undenam existit explosio? Qui fit, ut ignis in una vitri facie
congestus, tanta vi in faciem deficientem irrumpat? Videtur enim
si illa constent, quae de vi attractiva, ac de naturali saturitate
constituta sunt, nullam esse rationem tam repentini hujus effluxus;
nam cum excessui in una superficie respondeat defectus in altera,
adhuc vitrum ea fluidi quantitate donatur, quae viribus simul sumptis
competit, seu quae ad habendam saturitatem requiritur: quid autem
interest utrum hoc, an illo modo haec saturitas obtineat? Verum ut
concedamus (quod tamen neque absolute concedi potest) vires attractivas
minime exigere, ut ignis in una vitri facie cumulatus irruat ea vi
versus aliam faciem, unde aequalis portio hausta fuit; hoc tamen
elasticitas hujus fluidi omnino expostulat: quam elasticitatem, vim
nempe qua ignis electricus aequalem ubique densitatem servare inhiat,
ego semper agnovi, cujusque, licet illud hoc in loco mihi unice
proposuerim, ut quaererem quaenam ea sint, quae vis attractiva parit
in phaenomenis electricis, minime tamen sum oblitus. Sed de modo, quo
explosio contingit, deque iis, quae inde consequuntur, infra dicendum
erit, cum de Electricitate Vindice agetur.

Ex his, quae hucusque sunt tradita, illud manifesto eruitur, quod supra
tantum innui: nimirum haec omnia venire in corporibus cohibentibus,
minime vero in traducentibus, quod in his, ex. gr. in lamina metallica,
ignis, qui in unam superficiem a catena injicitur, nequaquam illic
consistit, ut in superficie laminae vitreae contingit, sed intimam
illius massam pervadens aequaliter ubique se distribuit. Quod si casus
habeatur, in quo huic corpori accessio fiat aliqua ignis, quin in
hoc corpus vere ineat, inque sinum recipiatur (qui casus habetur, ubi
lamina metallica B catena A ad quamdam distantiam admovetur), tunc idem
plane intercedere debere inter duo haec corpora, laminam, et catenam,
quod inter unam et alteram vitri faciem intercedit, prorsus contendo.
Ignis enim redundans in catena, quamvis ob interpositum aerem non
intret in corpus B, huic tamen censendus est quodammodo pertinere,
ob exiguam distantiam, ultra quam vires attractivae se extendunt.
Nos autem hunc ignem, qui non intrat in corpus B, sed satis accedit,
ut viribus attractivis in illud agere possit, expedito vocabulo
_applicari_ dicemus. Iam vero ignis extraneus, qui corpori cuicumque
applicatur, minuere attractionem totalem particularum hujus corporis
erga ignem nativum, ostensum est; quare ex eodem principio debet lamina
B amittere ex proprio, fierique electrica per defectum. Hos autem sic
accidere compertum habemus; ac experimenta ea omnia, quae in memorata
dissertatione de _Atmosphaera Electrica_ protulisti, huc redeunt. Lubet
hic praecipua singillatim persequi, quo clarius innotescat ea e meo
principio sponte fluere.

Igitur si corpus B sejunctum, ac nullatenus electricum admoveo catenae
A, sistens illud ad quamdam ab hac distantiam; cum digitum admoveo ipsi
B, ignis ex hoc effunditur in digitum, quod ignis redundans catenae,
quique circa ipsam efformat athmosphaeram electricam, _applicatur_
corpori B: hoc itaque auctu remissior evadit summa virium ipsius
corporis B erga ignem nativum; qui iccirco a digito integram vim
habente attrahitur. Fac nunc removeam corpus B a corpore A: mirum non
est, si jam ab eodem digito admoto, vel a quocumque corpore ignem ad se
alliciat; imo evidens est ipsum reperiri debere in naturali defectu, eo
quod ex una parte ignem suum amiserit, ex altera jam nunc destituatur
igne redundante catenae A. Sive planius: cum corpus B stabat prope
catenam A, etsi partem ignis nativi effudisset in digitum, tamen cum
excessus catenae illi applicatus componeretur cum naturali defectu,
ignis summae virium corporis B adhuc respondebat, idest obtinebat
saturitas; quae saturitas non amplius obtinet, remoto excessu catenae;
unde naturalis indigentia in corpore B, quod minime compensetur,
jam omnino necesse est ut se prodat. Postquam vero attrectatione
corporis B ita a catena remoti, pars ignis in illud immissa est, quae
deficiebat, si iterum admoveatur catenae, facile est pervidere, quod
iterum superabundabit; dempto hoc excessu, si denuo removeatur, iterum
naturalem defectum ostendet; et sic deinceps. Porro et illud manifestum
est, eadem obtingere debere, si loco removendi corpus B a catena, ipsam
hanc sustulero, vel dempsero omnem electricitatem; quippe quod nihil
aliud requiritur ad hoc, ut corpus B signa prodat indigentiae, nisi ut
deseratur ab igne redundante catenae, qui illi applicabatur.

At quomodo concipi potest ignem, qui a catena effluit, atque electricam
athmosphaeram efformat, applicari corpori B, quin in illud vere ineat;
maxime cum mutua sit particularum hujus corporis cum igne attractio?
Iam dixi aerem interpositum hoc fluidum coercere: nam licet et ipse
aer igne hoc redundante catenae ad aliquod spatium imbui non prorsus
renuat; liberum tamen motum summopere impedit, nec sinit fluere quo
vellet: videmus enim aerem et aegre accipere, et quem accepit non
minori difficultate dimittere.

En igitur quam ego voco _applicationem_ ignis catenae corpori B: cum
nempe corpus istud satis catenae accedit, vel in ejus athmosphaera
mergitur, ut ignis redundans ipsius catenae possit in illud vi
attractiva agere; satis vero non accedit, ut maxima pars hujus ignis
possit stratum aeris perrumpere, ac liberam sibi viam sternendo in
ipsum corpus B ingredi: nam nec hic ego attendo, si exigua ignis pars
ingrediatur, pars nimirum, quae ab ipso aere athmosphaeram electricam
efformante, lente in illud deponi potest.

Caeterum, quid pluribus opus est, ut demonstremus potiorem partem ignis
redundantis in catena, nequaquam transmeare in corpus B aliquanto
dissitum? Nonne ex hoc satis patet, quod, licet hoc corpus B ita
dissitum communicet cum solo, tota ferme electricitas manet in catena,
atque diu vigere pergit; quae quidem illico evanesceret, si continuo
ignis redundans in corpus B transfunderetur? Nonne demum tunc solum
ignem sibi viam aperire videmus, cum corpus B valde fit proximius
catenae, atque ita ut se ferme contingant? Tunc enim scintillae
existunt vividissimae, manifesta effusionis indicia, atque si hoc
corpus B communicet cura solo, electricitas illico in catena evanescit.

Iam ergo illud I. constat: corpus B ad aliquam a catena distantiam
situm, ignem suum amittere, non quod ignem redundantem catenae excipiat
in sinu suo, ac veluti imbibat; sed quod hic excessus ipsi corpori B
tantummodo praesens sit, eique applicetur: quo nomine applicationis
mutuam virium actionem me intelligere, jam non semel dixi. II. et
hanc esse caussam, cur idem corpus B, cum primum removetur a catena,
portionem ignis amissae aequalem repetat: quia nempe destituitur
hoc igne redundante in catena, quem secum una abducere nequivit, sed
ipsi catenae inhaerentem, ac ab aere quodammodo alligatum relinquere
oportuit.

Quod ad hoc secundum spectat, nulli erit dubitationi locus, si
demonstretur, hoc idem corpus B nullum, postquam semotum est a catena,
ostendere defectum, quando eidem catenae ita fuit proximum, ut nihil
impedimento esset, quominus ignis redundans in illud transire posset,
atque ad intima pervadere: in hoc enim casu, cum quantum ignis effudit,
tantundem aliunde hauserit, et hunc in sinu suo receptum, in quemcumque
demum locum transferatur, servet, perinde est ac si nihil amiserit.

Dico corpus B catenae admotum usque ad contactum, cum inde abstrahitur,
nullum praeseferre defectum, sed in statu naturali reperiri, utut
idem corpus apte attrectando, tunc cum catenae esset contiguum, ignem
ex illo hauserimus. Hoc ita intelligendum volo: nam si corpus B, quo
tempore catenam contingebat, nullatenus fuerit attrectatum, in hoc
casu, non solum post divulsionem non erit deficiens, sed insuper,
ut omnibus jamdiu constat, electricum excessu deprehendetur, eo quod
portionem satis notabilem ignis redundantis catenae dumtaxat receperit,
quin aliquid de suo amiserit. Quid vero ubi idem corpus B nec catenam
probe contingit, nec ipsum satis apte attrectatur? Scilicet conjicere
dabitur ex majori vel minori a catena distantia, a perfectiori vel
imperfectiori attrectatione, quae et qualia se prodent electricitatis
signa: clare enim liquet, quod si corpus B ita proximum fuit, ut
adhuc plus a catena acceperit, quam in digitum aliquanto remotiorem
effuderit, electricitatem pro hac differentia excessivam ostendet;
contra si facilior extiterit trajectio ignis ex corpore B in digitum
proximius admotum, quam ex catena paullo remotiore in corpus B, pro hac
differentia electricitas defectiva in ipsomet B apparebit. Rem autem
ita se habere experientia testis est.

Ex his pronum est colligere, cur, etsi duo haec corpora, nimirum
catena, et corpus B, eodem modo prorsus respective se habeant, ac se
habet facies _A_ laminae vitreae ad faciem alteram _B_, tamen illorum
ope nequeat explosio ita valida obtineri, ut in hac lamina vitrea
habetur. Etenim lamina vitrea hoc habet commodi, ut nullum prorsus
admittat e superficie _A_ ad superficiem _B_ ignis transitum, siquidem
vel illa exigua vitri crassities omnem aditum intercludit; eodem autem
tempore minima inter unam et alteram superficiem distantia existat,
quo fit, ut vires superficiei _A_ se extendant ad _B_, et invicem quam
intense agant. Contrarium evenit in corpore B: nam si exiguo tractu
distet a catena, non potest in hac ignis valde cumulari, quin in illud
etiam magna pars hujus ignis ineat, superata nempe interpositi aeris
resistentia. Debet ergo non ita prope accedere: tunc vero quo magis
distat, eo minor est actio, quam ignis in catena redundans exerit in
ipsum corpus B; ac proinde minorem ex hoc ignis nativi copiam disjicit.

Caeterum et haec explosio catenae cum corpore B, nihil, ut innui,
quoad substantiam differt ab explosione duarum facierum vitri: vi
tantum differt, idest eorumdem prorsus effectuum magnitudine: quae
differentia non facit, ut alterius generis sit censenda. Re enim vera
quid in explosione vitri accidit, quod et hic contingere non videamus?
Dum vitrum exploro admotis digito manus dexterae superiori faciei _A_
redundanti, ac digito laevae imae faciei _B_ deficienti, scintilla ex
_A_ init in digitum dexterae sibi admotum, eodemque tempore e digito
laevae similis scintilla exsilit in objectam faciem _B_. Idem prorsus
evenit, dum digito laevae proxime respiciente corpus B ad debitam
a catena distantiam situm, tum digito dexterae tento ipsam catenam:
dum enim ex hac prodit scintilla digitum pervadens, alia scintilla
et digito laevae init in corpus B. Quod si non ita valide quatior,
ut in explosione vitri probe electrici; at et digiti mihi punguntur,
et sensus quandoque ultra manum ad brachium producitur, quae est
sane aliqualis commotio. Uno verbo eam persentisco commotionem, quam
tempestate minus sicca, e vitro parum electrico obtinere datum est.
Insuper illud in vitro observatur: ignem redundantem in una facie
irruere in aliam faciem deficientem tramite brevissimo; quo fit, ut in
allato exemplo, etiamsi ima vitri facies communicet cum solo, tamen
ignis in hanc faciem deficientem non ex solo ineat, sed potius ex
digito laevae illi quamproxime admoto. Rursus et in altero experimento
corporis B catenae admoti, eadem obtinet lex: nam si dextera exploro
catenam, interim digito laevae ipsi corpori B quamproxime admoto,
quamvis hoc communicet cum solo, nihilo tamen minus ignis electricus ex
digito init in hoc corpus B: uti ego quidem pluries sum expertus.

Iam Tu perspicies, Vir Clarissime, nequaquam opus esse, ut
exempla contrariae electricitatis in medium proferam. Ex quo enim
consideravimus quid in corpore B eveniat, dum vicissim admovetur, ac
removetur a catena, sive a quocumque corpore electrico per excessum,
facile hinc conjicere licet, quid eidem corpori B contingere debeat,
dum admovetur machinae, sive corpori cuilibet defectu electrico. Nempe
liquet, quod sicuti ignis electricus ad corpus B pertinens, dum illi
insuper ignis redundans in catena applicaretur, licet non intraret,
toto illo excessu augebatur, unde ipsum corpus B ignem proprium, ne
quid ultra saturitatem haberetur, effundebat, mox expetendum, cum nempe
excessu illo catenae destitueretur; ita hic idem ignis, qui naturaliter
competit corpori B, eo quod tendat versus machinam deficientem, sive
illi applicetur, etiam sine vero transitu, toto illo defectu machinae
minuetur: quare ut instauretur, habeaturque saturitas, corpus B
extraneum ignem ad se alliciet, mox iterum dimittendum, statim ac nempe
defectu machinae laborare desinat. Cum igitur ex uno aliud itidem
facili deductione inferatur, mihi quidem vitio non est vertendum,
si, ut brevitati consulam, saepius etiam in progressu exempla tantum
desumere ab electricitate excessiva, satis duxero.

Sed redeamus, unde paullo discessimus. Dixi corpus B non ita proxime
admovendum esse catenae, ad hoc ut habeantur signa contrariae
electricitatis tunc cum removetur; sed ad mediocrem distantiam ab
illa sistendum: aliter enim efficeretur, ut vel tota, vel maxima
pars ignis redundantis, ex hac in illud libere ingrediens, repararet
defectum, qui in corpore B existere debuisset. Hoc quidem evidentissima
ratione demonstrasse mihi videor. Objici tamen posset. I. nec illud
generaliter verum esse: corpus B, si proximius steterit corpori
cuicumque electrico, ut etiam illud contigerit, nequaquam adipisci
contrariam electricitatem, quam esset adeptus, si in majori distantia
constitisset; compertum est enim corpus B admotum vitro, sulphuri,
tibiali serico, vel alio hujus generis corpori, quod frictione
evaserit electricum, admotum, inquam, usque ad contactum, si digito
prius exploretur, tum removeatur, ab hac divulsione contrariae
electricitatis signa prodere satis sensibilia. II. Experimenta esse,
quae demonstrant ignem redundantem corporis electrici nullatenus
ingredi corpus aliud, licet et hoc et illud ex genere sint deferentium,
et quidem se contingant. Hujusmodi est experimentum sane pulcherrimum,
quod Tu capiebas, et ipse saepius iteravi eodem plane successu. Si
in cilindrum metallicum, vacuum, satis altum, diametri etiam plurium
pollicum, ima parte clausum, rite sejunctum, ac electricum a catena
(puteum electricum dicis) demittatur globulus lamina metallica
obductus, stamini serico appensus, ita ut fundum putei contingat, dein
caute eodem stamine serico extrahatur, nulla, vel exigua propemodum
electricitate imbutum invenimus, signa ab illo frustra desiderantur;
quae tamen satis sensibilia ederet, si pars ignis in puteo redundantis
ad illum globulum fuisset transmissa, dum hujus fundum tangeret.

Postremae huic difficultati ut occurram, ajo primum: ex eo quod in
aliquo casu, in quo circumstantiae valde mutatae apparent, ignis
redundans in corpore deferente nequaquam ineat in aliud corpus
similiter deferens (uti videlicet contingit in experimento mox allato),
perperam infertur, neque permeare debere in aliis casibus numero
longe pluribus, ubi hic contactus habetur: ut cum catenae, vel etiam
exteriori ejusdem putei faciei ipsum hunc globulum objicio. Quamobrem
ut meum constet principium, satis superque habeo, si in experimentis
omnibus supra allatis, in quibus corpus B admotum primo catenae ad
debitam distantiam, atque attrectatum, contrariam electricitatem
nanciscebatur, dum postea removeretur; tunc vero haec contraria
electricitas non obtinebat, cum idem corpus B nimis proxime admotum
fuerat, ac usque ad contactum, satis, inquam, pro re mea habeo, si
in iis omnibus casibus constet, corpus B attactu catenae, ignem ex ea
redundantem revera haurire debuisse, atque in se recipere.

Caeterum singularis hujusce experimenti putei electrici, in promptu
ratio est: nempe caussa assignari potest, et ea quidem e meis
principiis petita, cur globulus in puteum satis alte demissus ignem
redundantem non exceperit. Concipiamus hunc globulum in cavitate
putei demersum, undique athmosphaera electrica, sive igne redundante
ipsiusmet putei circumvestiri: hoc autem est, quod dico _applicationem_
ignis. Iam vero ostensum est, toto hoc excessu augeri debere summam
ignis proprii, sive portionem, quae illi globulo in statu naturali
competit: ne quid nempe supra vel infra saturitatem habeatur. Quare
hic globulus media hac applicatione ignis redundantis, se habebit ut
corpus vere electricum excessu, imo aeque electricum ac puteus ipse. Id
si ita est: quemadmodum nulla est ratio, cur ignis transfluat e corpore
redundante in aliud similiter redundans; ita neque ulla erit, cur ex
interna putei facie ignis ineat in globulum, qui sola illa applicatione
jam aeque redundans evasit.

Si quis iterum instaret, cur haec ita se habeant in casu tantum, quod
globulus a corpore electrico undique cingatur, minime vero cum hic
idem globulus uni catenae lateri quamproxime admovetur, vel extimae
faciei ejusdem putei; patet enim et hic globulum excessu illo, qui est
in corpore electrico, si vera constent quae tradidi, augeri debere;
unde pariter non est, cur ignis redundans ex illo corpore in hunc
globulum ineat, responderem valde absimilem esse rationem. Etenim
concipiamus globulum, cum primo accedit ad catenam, hujus excessu sibi
tantum applicato, aeque, ac illa est, evadere electricum. Hoc probe:
sed quid inde? Iam liquet, quod res eodem loco diutius non consistet:
ignis enim nativus, qui in globulo novo hoc accessu redundans evasit,
qua via pateat effundetur, nempe vel in corpora deferentia, si haec
adsint, sin minus in aerem etiam non redundantem se explicabit, quoad
hic patitur: qui propterea ignis nativus dum effunditur, id efficit,
ut globulus nequaquam in eadem cum catena electricitate manere pergat;
adeoque locus fit igni e catena provenienti, ut in intima illius
globuli viscera succedat. Contra in memorato exemplo putei, globulus
in illo satis alte demersus, usqueadeo aequilibratur cum puteo, idest
aeque ac puteus pergit esse electricus excessu, eo quod ignis proprius
globuli nequeat se ullatenus explicare in aerem jam aeque redundantem,
quo in interna putei cavitate circumvestitur; ac proinde neque loco
cedere, ut in ipsum globulum ignis putei introducatur. Porro ignis
nativus e globulo se se explicabit, statim ac corpus aliquod deferens
propeipsum demittatur, vel statim ac aperto jam puteo[16], ad aerem non
redundantem, ac liberum aditus pateat; ac tunc quo de suo effundet, eo
vicissim ex igne redundante putei intus excipiet.

Cum ergo dubium non sit, ignem redundantem corporis excessu electrici
intromitti in corpus B quodcumque, si hoc illi quamproxime admoveatur,
vel contingat, dummodo nihil obstet, quominus hoc idem corpus B capax
sit novum hunc ignem intra se recipiendi, recte illud assumebam: hunc
ignis transitum in caussa esse, cur corpus B, statim ac a catenae
contactu removetur, signa electricitatis defectivae nequaquam edat;
quae porro ederet, si antea non ad contactum usque fuisset admotum,
sed ad debitam a catena distantiam constitisset, quae scilicet huic
transfusioni impedimento esse potuisset.

Haec autem patet intelligi debere tantummodo de corporibus
deferentibus, in quibus ignis electricus liberrime excurrens, ullo
nec impedimento coercitus, nec mora retardatus, ex uno in aliud corpus
illico traduci potest: scilicet intelligi debere, cum corpus B catenam,
vel corpus quodcumque deferens ac electricum contingit; non vero cum
idem corpus B contingit corpora coercentia, ut vitrum, sulphur, et
id genus alia, quae si electrica sint excessu, ignem redundantem non
illico deponunt, neque itidem, si contraria electricitate polleant,
ignem alienum, quo defectus instauretur, ictu oculi admittunt; sed
aegre et paullatim hoc praestant, adeout nonnisi post multum tempus
integre se restituant: quod alibi nec semel dictum est; hic autem
iterum innuere libet, ut pateat quam vim habeat illud, quod primo
loco objiciebatur; nempe corpus B, etsi quam proxime admoveatur
vitro, sulphuri, serico, quae frictione, vel aliter sint electrica,
licet etiam ad contactum deveniat, tumque exploretur; nihilo tamen
minus contrariae electricitatis signa edere satis sensibilia, statim
ac ab hoc contactu removetur. Enim vero quis non videat experimentum
hujusmodi roborandae meae theoriae, atque ampliandae esse aptius, quam
infirmandae? Expendamus haec paullo diligentius.

Cum corpus B vitrum electricum tangit, totus quidem ignis redundans
vitri, eidem corpori B superadditus, tantundem ignis nativi ex hoc
discedere cogit, ne quid supra saturitatem habeatur; veruntamen
hic ignis excessivus vitri non init totus in dictum corpus B, sed
aliqua ex parte tantum: pars reliqua, quae quidem est notabilis, illi
dumtaxat applicatur, eo quod vitro veluti irretita, nequeat se tam
cito extricare. Atqui et haec pars solummodo applicata, ut toties
observatum, tantundem ignis proprii disjicit e corpore B. Nonne igitur
evidens est, hoc idem corpus naturalem defectum persentire debere,
statim ac avulsum a vitro, hac parte ignis redundantis destituitur,
quae ipsi vitro adhuc pergit inhaerere? Uno verbo: quod accidere
vidimus duobus corporibus deferentibus, quorum unum est electricum,
alterum non ita, si ita accedant, ut spatium aliquod adhuc intercedat,
id ipsum evenit duobus corporibus, deferenti uno neque electrico,
alteri coercenti et electrico, ubi etiam ad contactum usque accedant.
Sicuti enim respectu illorum interpositus aer impedimento est, ne ignis
ex uno in aliud protinus effundatur; ita horum respectu, licet duo haec
corpora se mutuo contingant, adhuc tamen ignis redundans alterius vere
impeditur ex ipsa coercentium natura, hoc est ex ipso difficili motu,
quem ignis electricus obtinet in corporibus hujus generis.

Hujus autem motus impediti ignis electrici in corporibus coercentibus,
sive naturaliter residentis, sive vi intrusi, credo equidem, post
ea quae superius sunt observata, a nemine argumenta desiderari.
Quod si quis adhuc instaret, ac a me convinci peteret, satis illi
haberem experimento hoc ipso, quod nobis ante oculos versatur, cuique
analysi aliqua persequendo curam impedimus, comprobare, rem ita se
habere. Etenim si laminae vitreae probe electricae lamella metallica
applicetur, eique apte jungatur; haec autem lamella attrectetur ad
tempus, quo nempe libera sternatur via igni in vitro redundanti se
se explicandi quantum potest; nihilominus ut haec lamella metallica a
contactu avellitur, portionem satis notabilem ignis redundantis adhuc
vitro inhaerentem reperimus, unde signa electrica in illo reviviscere
videre est.

Iam vero haec signorum reviviscentia, eadem illa est, quam tibi,
Vir Cl., _Vindicem Electricitatem_ appellare placuit, ad quam jam
vides, quomodo mea principia veluti manu me deduxerint. Haec itaque
quamvis ab experimentis hucusque recensitis, legibusque phaenomenorum,
quae constanter obtinere vidimus, nihil prorsus differat; tamen cum
novorum illorum tentaminum sit veluti basis, quae admirationem maximam
postremis hisce temporibus visa sunt ingerere: cum Tu hanc provinciam
impense excolueris, idque feliciter admodum, nec sine magno fructu
praestiteris, ut omnia phaenomena hujusmodi ad unam classem redigeres,
quantumvis longe dissita viderentur, haec, inquam, Electricitas Vindex
aliquanto fusius pertractari meretur.

Porro allatum exemplum, in quo electricitatem vindicem obtinere
vidimus, probe expensum, ad ulteriora nos deducet, ubi iidem prorsus
sunt effectus, licet magnitudine longe distent. Iterum igitur sumamus
laminam vitream[17] frictione electricam, eique applicemus bracteolam
metallicam sic, ut se mutuo osculentur; tum exploremus hanc bracteolam:
ignem hauriemus: consummata attrectatione, signa conticescent;
bracteola arcte vitro adhaerebit. Iam ne censeas electricitatem omnem
periisse in vitro, hoc est ignem redundantem penitus ab illo exhaustum;
nequit enim vitrum conceptum ignem tam brevi tempore effudisse. Retinet
ergo adhuc portionem, et quidem satis notabilem. At si ita est, cur
ergo nulla hujus excessus signa apparent? Unde est quod aequilibrium
obtinere videtur? Scilicet hic excessus absolutus vitro inhaerens,
cum lamellae metallicae applicaretur, tantundem ignis nativi ex hac
disjecit (et quid aliud esse potuerunt tot scintillae, quae haustae
fuerunt ab ipsa bracteola dum tentaretur, siquidem ignis ipse in vitro
redundans tam cito, tamque alacriter effluere nequaquam potest?). Fit
inde, ut hoc excessu absoluto vitri, cum absoluto defectu lamellae
se componente, adhuc aequilibrium obtineat, idest in iis duobus
corporibus una junctis, habeatur quantitas ignis, quae respondet summae
eorum virium. Signa ergo electricitatis haberi non possunt. Porro et
esse, et diutius perseverare in vitro excessum absolutum, in lamella
vero defectum, vel illud evincit, quod haec corpora satis valide,
ac constanter invicem adhaerent: vidimus enim hanc esse proprietatem
corporum diversimode electricorum, ut mutuo se petant. Quod si, uti
nulla exterius edunt signa, sic itidem nullam haberent absolutam
electricitatem, sed tam vitrum, quam lamella, ea donarentur ignis
portione, quae cuique in statu naturali competit, undenam haec mutua
adhaesio? Sed jam divellamus a lamina vitrea hanc bracteolam metallicam
(hanc vero staminibus sericis divellamus, ne quam habet electricitatem
amittat): num difficile erit pervidere quid inde accidere debeat?
Utraque manifestabit electricitatem suam absolutam, nempe vitrum
excessum, bracteola metallica defectum: signa, inquam, se prodent
excessus in vitro, quod hic excessus non amplius componatur cum aequali
defectu lamellae metallicae; itidemque signa defectus dabit haec
lamina, quod jam non amplius componatur cum excessu vitri. Iam postquam
attrectando hanc laminam metallicam a vitro divulsam, ignem in illam
immisimus, qui deficiebat, si iterum eam applicemus eidem vitro, iterum
excessu hujus sibi applicato, tantundem ignis nativi effundet, ubi
digito exploretur; post hoc, obtento aequilibrio, signa conticescent.
Rursus divellatur, rursus haec amissum ignem exposcet; et sic deinceps
usque adeo, donec ignis redundans vitri, qui effluere non cessat, utut
aegre et paullatim, penitus evanuerit; quod quandoque ad horas, si
omnia sint siccissima, produci potest.

Iam vero, si quis volens effecta denotare, nempe alternam hanc signorum
reviviscentiam, quam in allato exemplo observavimus, dicat: faciem
vitri, post aptam attrectationem lamellae metallicae sibi adhaerentis,
illico a divulsione hujus indusii, seu dum _denudatur vindicare sibi
electricitatem, quam habuit ante_ attrectationem, non ego quidem
repugnabo, dummodo conveniamus haec signa electrica reviviscere, non
quod per denudationem electricitas absoluta vitri, ut ita dicam, de
novo cudatur, hoc est ignis excessivus in illud denuo inmittatur;
sed quod incipiat nunc solum apparere, seu signa edere, ille idem
ignis redundans, qui antea cum aequali defectu laminae sibi proxime
adhaerentis compositus, nullatenus se prodebat. Quo sensu illud
_vindicare electricitatem_ optime usurpatum accipio.

His electricitatum vicissitudinibus, quas uni tantum faciei vitri
accidere vidimus, illas quoque congruere, quae duabus faciebus
unius vitri, vel vitris duobus simul junctis obtingunt, dum ad
Batavicam explosionem adiguntur, a quocumque rem vel mediocriter
perspiciente facile arguetur; idipsum vero tibi, Vir spectatissime,
luce clarius patebit, utpote qui principium illud supra observatum
constitueris: _faciem vitri post explosionem dum denudatur vindicare
sibi electricitatem, quam habuit ante explosionem_; atque ad hoc
unum, omnia hujus generis phaenomena reducere aggressus sis. Equidem
hoc tanto cum successu praestiteras, ac jam plane confeceras, ut
nihil aliud desideraretur, nisi ut principii ejusdem caussa ipsa
demum innotesceret. Modo autem, cum hanc caussam jam ipse protulerim,
nonne proposito satisfecisse censendus sum, quin peculiaria in hac re
tentamina ad trutinam sint revocanda? Unum tamen, vel alterum in medium
proferre, prorsus inutile non duco iccirco, quod hinc magis magisque
elucebit, quomodo non in generalioribus tantum, sed et in singillatim
expensis principiorum meorum applicatio optime cedat.

Sit igitur vitrum, utrinque rite indutum tenui lamella metallica,
vel charta inaurata. Admoveatur superior ejus facies catenae, ut
inde excipiat ignem redundantem; facies vero ima amittat nativum,
prout theoria postulat. Iam cum facies vitri, seu potius indusia
attrectantur simul ambo, existit explosio, eo quod ignis in facie
superiore redundans irrumpat in faciem imam deficientem. Verum enim
vero non ex ipsa facie vitri superiore, sed ex indusio A huic faciei
contiguo, ignis effunditur; itidemque non in ipsam imam vitri faciem
vere init, sed in indusium B huic faciei inhaerens se se recipit,
ibique consistit. Etenim uti vidimus ignem redundantem a vitro aegre
deponi, ac successive tantum, eo quod motus in illo retardetur: ita
haec eadem motus retardatio vetat, ne ignis adveniens, in partem ipsam
vitri deficientem tam cito introducatur. Atqui haec explosio momento
temporis fit. Liquet igitur tam repentem ignis eruptionem, nonnisi
ex igne proprio indusii A in indusium B se conferente, ibique demum
consistente, proficisci. Quid autem determinet ignem proprium ab illo
foras mitti, atque in hoc sese recipere, satis constat, cum jam toties
repetitum fuerit, ignem nativum indusii A evadere debere redundantem,
per simplicem applicationem ignis excessivi faciei vitri sibi
contiguae, licet nempe hic ignis excessivus in idem indusium A vere
non intret: eademque ratione ignem nativum indusii B evadere debere
deficientem, per simplicem applicationem defectus faciei vitri itidem
contiguae, idest etiam sine reali transitu hujus ignis nativi ex eodem
B in hanc faciem vitri.

Iam vero quid est aliud explosio, quam amissio facta ab indusio A
portionis ignis proprii, sive absolutus defectus in illo inductus,
ut hic defectus componatur cum excessu absoluto, qui in facie vitri
ipsi indusio A adhaerente perseverat; itemque adeptio novi ignis
facta ab indusio B, sive absolutus excessus in ipsomet B inductus
ad hoc, ut compensetur defectus absolutus, qui pergit inesse faciei
vitri respectivae? Ex hoc probe intelligitur, quomodo post explosionem
obtineat aequilibrium unius faciei vitri ad alteram, quoad unaquaeque
pergit esse induta, nempe pergit cum respectivo indusio compensari,
adeoque signa utrinque conticescant. Male igitur argueret quis, si ex
hoc ipso, quod signa exterius nullatenus se prodant, inferret discrimen
nullum esse inter indusium A et faciem vitri respectivam, ac inter
indusium B et faciem sibi respondentem: nullam videlicet inesse nec
faciebus vitri, nec indusiis singulis absolutam electricitatem, sed
omnia jamnum in statu naturali reperiri. Enim vero electricitatis adhuc
in vitro utrinque residentis, excessus in facie superiore, defectus in
inferiore, status autem contrarii in respectivis indusiis, valida horum
indusiorum eidem vitro adhaesio, argumento est. Quod si, ut hoc iterum
innuam, tum ambae facies vitri, tum indusia ambo, nullam illico post
explosionem praeseferrent absolutam electricitatem, sed, ut contendunt,
in statu naturali omnino reperirentur, an censes, quod haec adhaesio
obtineret?

Quare illud jam constat: aequilibrium foris tantum apparere, et haberi
reapse ob hoc, quod electricitas absoluta unius cujusque faciei vitri,
suppleatur ab electricitate absoluta contraria respectivi indusii;
consequenter dum haec corpora contrariis electricitatibus praedita
in se invicem inhiant, totas vires in hoc unice exerant, nihil extra
edant. Sed et hoc exterius aequilibrium turbabitur, alterutram faciem
vitri denudando, vel ambas. Si enim indusium A divello, jam tunc
facies vitri denudata absolutae suae electricitatis excessus signa
dabit, quod hic excessus non amplius componatur cum absoluto defectu
illius indusii A (quod quidem indusium vere deficiens deprehenditur,
si staminibus sericis divulsum fuerit). Insuper autem hic excessus,
qui jam sibi relinquitur in facie denudata, tantundem ignis nitetur
dispellere ex opposita facie vitri adhuc induta, ut respondens defectus
in ea inducatur, prout vel ipsa theoria Frankliniana postulat; unde et
haec ipsa facies induta, quatenus pergit ignem reapse effundere, signa
electricitatis excessivae prodet. Quae ut juxta principia a me posita
intelligantur, tenendum est: ignem hunc excessivum faciei denudatae,
media applicatione, hoc est viribus suis attractivis id efficere, ut
ignis in facie opposita adhuc induta, qui ignis antea (habita ratione
respectivi indusii, cum quo haec facies vitri componitur) neutiquam vel
excedebat, vel deficiebat, jam nunc superfluat, ideoque dimitti prorsus
velit. At quandoquidem verbis tuis ad hoc ipsum explicandum videtur
commodius uti posse, haec et ipse lubens usurpabo, ac dicere expediet:
electricitatem excessivam, quae existit solitaria in facie denudata,
_praepollere in faciem adversam_, sive hanc _determinare_, ut abeat in
electricitatem absolutam sibi contrariam.

Iam si postquam haec ima facies, apta indusii attrectatione, reapse se
spoliavit, atque in electricitatem absolutam defectivam abiit, facies
illa superior, quae fuerat denudata, iterum induatur, tum indusia simul
ambo attrectentur, explosio habebitur eadem ratione, ac ubi primo
Batavicum experimentum tentatum fuit. Nunc vice versa, si indusio A
faciei superioris suae sedi relicto, alterum imae faciei B divellatur,
jam facies haec ima vitri denudata, electricitatem suam defectivam
signis manifestabit, quod non amplius hic defectus componatur cum
excessu indusii B (quod quidem indusium rite divulsum vere excessu
electricum deprehenditur): eadem autem ratione hic defectus faciei
denudatae, quod renuat solitarius esse, praepollebit in faciem
adversam, eamque determinabit ut abeat in electricitatem absolutam
contrariam, nempe ut alliciat ad se ignem extraneum, quo respondentem
excessum sibi comparet. Hoc obtento, si iterum induatur facies ima
denudata, et utrinque vitrum attrectetur, iterum ut supra explosio
existet. Demum si divellantur indusia simul ambo, utraque facies
electricitatem sibi contingentem ostendet, indusia electricitatem
respectivae faciei contrariam.

Ex his pronum est delabi ad ea consideranda, quae accidunt duobus
vitris, cum uno alteri superposito tentamina instituuntur. Quare non
multum hic immorabor, cum omnia eidem se se praebeant explicationi,
si consideretur alterum ex his vitris esse indusium alterius, seu
illius vice fungi. Est vero aliquid et in his, quod singulare fortasse
videri posset. Nimirum cum duo vitra simul juncta, extimis faciebus
induta, quorum unum accipit electricitatem a catena, alterum cum
solo communicat, separantur ante explosionem, ambae facies illius,
quod a catena fiebat electricum, excessum praeseferunt, ambae facies
alterius vitri, defectum: videtur enim quod ignis immissus in faciem
extimam primi, debuisset tantundem disjicere ex facie intima ipsiusmet
vitri, et in intimam congerere secundi, unde extima hujus facies cum
solo communicans, spoliaretur, uti reapse spoliari videmus. Quare
a divulsione vitrum superius extima tantum facie electricitatem
excessivam prodere deberet, altera vero, quae fuit intima, defectivam;
vitrum inferius facie illa, quae fuit intima excessivam, extima,
defectivam. Sed anne opus erit illud iterum hunc in locum afferre:
ignem nequaquam ita facile e vitro se explicare, ut in aliud corpus
ineat? Quod si de quocumque corpore hoc est dicendum, quanto magis in
hoc casu? Qui enim poterit ignis ex intima superioris vitri facie in
intimam faciem inferioris se congerere, aut quanta ex parte? Adde quod
nec vehementer ad hunc transitum sollicitatur; satis enim quodammodo
pro viribus mutuis, seu pro respectiva saturitate habetur, si ignis
nativus intimae faciei vitri superioris, qui redundans evasit additione
ignis facta extimae faciei ipsiusmet vitri, applicetur intimae faciei
vitri inferioris, ad hoc ut ab extima hujus facie discedat pars ignis
ferme aequalis illi, quae in extimam faciem dicti vitri superioris
congesta est: nempe parum refert, dummodo excessus extimae faciei vitri
superioris non existat _solitarius_, sed quoquomodo determinet defectum
absolutum in altero vitro inferiore, cum quo compositus aequilibrium
obtineat. Quare cum duo haec vitra divelluntur, nec facies intima
vitri superioris, signa dabit electricitatis defectivae, nec intima
inferioris vitri, excessivae, eo quod has electricitates absolutas,
contrarias electricitatibus extimarum facierum, si non nihil, at parum
certe, nec plene assequi valuerint; imo facies intima vitri superioris
et ipsa excessus signa prodet, eo quod in hanc faciem praepolleat
excessus extimae faciei ipsiusmet vitri, eamque determinet ad
electricitatem absolutam contrariam sibi plenius comparandam; itemque
facies intima vitri inferioris et ipsa signa defectus prodet, quod in
hanc faciem praepolleat defectus absolutus faciei extimae (quae nativum
ignem suum in solum disjecit), eamque determinet ad excessum absolute
respondentem sibi comparandum.

Caeterum et pro multiplici adjunctorum varietate, dum videlicet vel
ante, vel post explosionem duo haec vitra separantur; dum unum, vel
alterum tantummodo attrectatur, in facie induta, vel in facie denudata;
dum ambo attrectantur; vel dum etiam neutrum; dum attrectatio non
consummatur, et alia sexcenta, facile est pervidere quid accidere
debeat, ac pro singulis hisce casibus eventa tuto praenuntiare, si illa
rite teneantur, quae superius sunt constituta. Ut et quae ex inversione
vitrorum ambo, vel vitri tantum praepollentis, miranda prorsus visa
sunt, nimirum electricitates in contrarias abire, ultro se prodent; imo
horum admirabilitas prorsus evanescet, si illud attendatur, quod jam
innui, cum duo vitra junguntur, alterum alterius esse quoddam veluti
indusium.

Haec omnia ordine, quo ipse unum post aliud deducebam, exposui; nec
dubito quin eadem arcto inter se nexu cohaerere jam sit perspicuum.
Ut autem idipsum, universa ex uno eodemque principio sponte fluere,
iterum dare eluceat, haud erit ineptum ea, quae ad modum pertinent, quo
electricitas corporibus quibuslibet communicatur, inverso nunc ordine,
sed et strictius persequi, ac omnia, quae jam sunt dicta, veluti in
unum colligere.

Igitur dum corpus deferens B catenam tangit, ignis redundans ex hac
in illud init, pro ratione suae capacitatis; hinc electricitatem
et ipsum excessivam adipiscitur, si non communicet cum solo; si
communicet nullam. Si autem idem corpus B tangat faciem vitri
similiter excessu electricam, vel aliud corpus quodcumque ex his, quae
coercentia dicimus, jam ignis redundans hujus corporis electrici,
eo quod motus in eo retardetur, non utique magna ex parte in illud
B vere ingreditur, licet summopere tendat; nihilo tamen minus,
cum eidem corpori B praesens usque sit, ac quodammodo applicetur,
nequit vis mutua attractiva actionem suam non exerere. At quo major
vis particularum corpus B constituentium novo huic igni attrahendo
impenditur, eo remissior evadere debet igni nativo retinendo. Fit
inde, ut pars hujus ignis nativi, quae debitae saturitati jamnum
superfluit, plane respuatur, seu ut accuratius loquar, tendat ad
corpora non redundantia, ubi vis attractiva plus viget. Et quidem hanc
tendentiam, tum hic, tum illic, mutui accessus, adhaesiones etc. satis
evincunt. Quo igitur corpus B, vel cum solo communicans, vel aliquomodo
attrectatum, jacturam facit ignis proprii, recte illud dicimus abire
in electricitatem absolutam defectivam, contrariam electricitati
excessivae corporis coercentis, cui adhaeret: quam electricitatem
defectivam hoc corpus B reapse prodit signis omnibus, statim ac a
corpore coercente divellitur; ipsum autem corpus coercens, ut par
est, adhuc suum excessum praesefert. Atque huc omnia reducuntur, quae
faciebus vitri, earumque indusiis contingere vidimus. Porro si ob id
solum, quod impediatur transitus ignis e corpore coercente in corpus B,
quin virium mutuarum actio impediatur, efficitur, ut hoc idem corpus B
de suo amittat, ac in electricitatem absolutam defectivam abeat, idem
eveniet quodcumque id demum sit, quod hunc transitum remoretur, vim
mutuae attractionis non eludat: nempe si corpus B admoveatur corpori
electrico etiam deferenti, dummodo illud non contingat, ast aliquod
intercedat stratum aeris coercendo igni idoneum; sed nec ea distantia
sit, ultra quam mutua hujus ignis cum particulis corporis B tendentia
pertingere non valeat. Atqui evenit prorsus: re enim vera corpus B
corpori A excessu electrico admotum, quin ita proxime respiciat, ut
ignis trajectio obtineat, cogitur abire in electricitatem defectivam
illi contrariam, quam ubi primum removetur prodit; ac quidem prout
magis vel minus, caeteris paribus, vires mutuae agere potuerunt.
Et huc iterum omnia reducuntur, quae circa atmosphaeram electricam
a Te sunt prolata. Tandem si haec constent, idem prorsus erit, si
transitum ignis ex uno in aliud corpus deferens non interpositus aer
remoretur, sed ipsa unius ejusdemque corporis coercentis vel exigua
crassities impedimento sit, ne ignis in una facie cumulatus in aliam
se transferat: nempe quae facies est redundans coget alteram abire in
electricitatem absolutam sibi contrariam, eoque facilius, quo tenuior
fuerit crassities hujus corporis coercentis, adeoque vires mutuae
duarum facierum intensius agere valeant. Atqui rem ita se habere, in
vitro primum, deinde et in corporibus omnibus, quae ex genere constant
coercentium, jamdiu innotuit.

Iam nihil aliud superesset, nisi ut difficultatibus quibusdam
occurrerem, quas expositae hactenus theoriae, praecipue quod spectat ad
electricitatem vindicem, objici posse, jam quasi prospicio. Sed nonne
satius erit hanc provinciam minime aggredi, donec quae, et qualia sint,
quae ab hominibus harum rerum peritis, ac fortasse etiam a te, Viro
de re electrica optime merito, mihique ante omnes probatissimo, reapse
objiciantur, non accepero? Ad haec, ne longius quam par est excurram,
epistolae huic satis, ut video, prolixae supremam manum imponere
cogor. Et hic quidem vereor, ne nimis multa congesserim, cum utique
paucioribus Tibi opus fuisset, ut principia mea tuis itidem non valde
absona teneres, ac ipse consectaria felicius deduceres. Hoc equidem
persuasum habebam; hinc et prima tantum innuere initio decreveram;
verum ut et quibusdam aliis, qui hanc meam theoriam flagitabant, ipsi
autem novissima haec electricitatis vindicis reperta, ac principia
potissimum a Te constituta nec probe noverant, morem gererem, ipsam
hanc theoriam, cum jam ad rem accessissem, paullo fusius explanare
opportunum duxi. Felix ipse porro, si et Tibi, et illis non ingratum
fecero! Vale.

  Dabam Novo-Comi 18 Aprilis 1769.



NOVUS AC SIMPLICISSIMUS ELECTRICORUM TENTAMINUM

APPARATUS

SEU

DE CORPORIBUS ETEROELECTRICIS QUAE FIUNT IDIOELECTRICA

_EXPERIMENTA, ATQUE OBSERVATIONES_



NOVUS AC SIMPLICISSIMUS ELECTRICORUM TENTAMINUM APPARATUS[18]


CAP. I.

DE RATIONE LIGNA ALIAQUE CORPORA PARANDI, UT FIANT AB ORIGINE ELECTRICA.

I. Ligna probe sicca, tum fricta ex oleo evadere _coercentia_, Patre
Ammersino ostendente Nolletus animadverterat[19].

II. Quae res valde commode cedit, cum ex iisdem lignis fulcra comparari
possint aptissima _sejungendis_ corporibus, in quae electricitas per
communicationem est congerenda.

III. Porro ligna sic in oleo cocta _electricitatem originariam_
praeseferre, seu signa edere, et ea quidem vivida, cum vel leviter
fricantur, nemini, quod sciam, observatum[20]. Hoc tamen est, quod,
experimentis nondum initis, uni meo principio nixus, conjectura
assequutus fueram, quam postea probavit eventus.

IV. Equidem mira est vis, qua hujusmodi ligna pollent, ut mihi certe,
nedum sericis, resina, sulphure, ipso etiam vitro potiora habeantur.
Statim enim ac fricantur, dummodo probe sicca extiterint, et crepitus
exaudire, et penicillos ex admota cuspide erumpentes inspicere liceat.

V. Nec ligna tantum hac arte comparata eo perducuntur, ut et corpora
rite _sejungant_, et perfricata electricitatis signa edant. Quamplurima
reperi corpora, quae similiter in oleo excocta idem praestant.

VI. Quin, non inveni nisi corpora metallica, quae tali pacto fieri
_electrica ab origine_ perpetuo renuant.

VII. Igitur charta, corium, ossa, testae ostrearum, ovorum, lateres,
vasa figuli, ipsi denique lapides, praesertim leves ac spongiosi, etsi
non ita perfecte ut ligna, tamen omnia et _sejungere_ queant, atque
aliquali electricitate imbui cum perfricantur. Imo vero ossa signa
valde sensibilia mihi promunt, ut credam ipsi ligno non concederent,
si validam frictionem sustinere possent quin attererentur, utpote vi
coctionis friabilia effecta.

VIII. Nec in oleo tantum, sed in pice, cera, sulphure, caeterisque
resinosis possunt ligna, aliaque corpora concoqui, ut fiant _ab origine
electrica_.

IX. Oleo tamen felicius utor, maxime cum ligna paullo crassiora mihi
sunt comparanda: quod ea intimius pervadat oleum, quam aliud densius
bitumen.

X. Quamnam vero electricitatem praeseferunt ligna, caeteraque
corpora ita excocta, _vitream_, seu _excessivam_; an _resinosam_,
seu _defectivam_? Equidem facile est conjicere quod _resinosam_; nec
conjectura fallit: ea enim corporibus fere omnibus quibus fricantur,
non secus ac resinae, ignem suum impertiuntur, ut manui, corio, panno,
sericis, pilis, chartae nudae: aliquando tamen alienum accipiunt, uti
dum charta inaurata, vel lamella ex orichalco fricantur: quod faciunt
et resinae.

XI. Quod vero non ita facile fuisset conjicere, haec corpora
electricitatem _defectivam_ tenacius affectare mihi ferme sunt visa,
quam aliquae resinae; non raro enim mea ligna ipsis lamellis metallicis
_dant_, a quibus _accipit_ cera signatoria. At hic infinitae propemodum
varietates sese offerunt, quas satius erit ad alium locum rejicere.

XII. Illud unum notabo, quod longe debiliori virtute emicant sive
ligna, sive resinae, cum charta inaurata, vel alia lamella metallica
perfricantur, ut fiant electrica _excessu_. An vero quod renuant
alienum ignem induere, cum eorum ingenium sit proprio exspoliari?

XIII. Caeterum compertum habui, et inter reliqua corpora, quae
similiter electricitatem _defectus_ inducunt in ligno, quod fricant,
eam nempe electricitatem, quam idem lignum affectat, alia vividiorem,
debiliorem alia vim excitare. Pannum ex. gr. praestat corio, chartae
nudae, fortasse etiam manui: item pannum album panno nigro, rubeo etc.
Tandem praestantissimi sunt pili felis, leporis, etc.

XIV. Jam cum mea haec ligna tum _coercentia_, tum _electrica
ab origine_ evaserint, quidni rite aptata electrica fiant ad
_explosionem_, more vitrorum, ac resinarum?

Equidem in mea dissertatione _De vi attractiva ignis electrici_[21]
illud conabar ostendere: corpus quodcumque, dummodo sit ita _coercens_,
ut electricitas, quae uni ejus faciei immittitur ad oppositam faciem
non praeterfluat, corpus hoc, inquam, ob ipsam vim attractivam
particularum nec quid supra, nec infra saturitatem ferentium, ratione
qua ignis adventitius uni ejus faciei applicatur, nativum ignem suum ex
alia dimittere conari; et vice versa, quo nativus ignis ex una facie
hauritur, eo sibi alienum ad oppositam faciem allicere. Quod cum, ut
in vitro primum deprehensum fuerat, inde sollertia Beccariae ad resinas
extendebat, nunc demum in ligno, corio, charta, caeterisque, statim ac
_coercentia_ evaserunt, aeque locum habere experimentis comprobarim,
principio meo, unde universam hanc _coercentium_ indolem deducebam, non
parum roboris adfert.

XV. Igitur tabulas ex ligno, charta crassiore, corio confeci lamellis
metallicis rite indutas, quae _quadrum Franklinianum_ aemulantur. Quin,
_experimentum Pekinense_, et socia _electricitatis vindicis_ phaenomena
facili admodum ratione obtinentur.

XVI. Monebo tamen nonnisi mediocrem explosionem ex novis hisce quadris
esse expectandam. Ratio autem, cur validissima frustra desideratur,
haec est: quod licet ignis electricus in aliqua tantum quantitate
congestus, ut in catena evenit, crassiora ligna, quae fulcri ope
funguntur alius non permeet; tamen ubi super facie assiculi modicae
crassitiei praeter modum densatur, per hanc vel insensibiliter, vel uno
ac repenti ictu sibi viam molitur, et trajicit.

XVII. Equidem hujus subitanei trajectus saepe me certiorem facit
crepitus inopinatus furtivae veluti ac spontaneae explosionis, quae
per mediam assiculi crassitiem existit, dum electricitatem in una
facie usque et usque urgere pergo. Quod si quadro ex charta utar; tunc
crebrissimi hi ictus spontanei emicantes: ac per hoc longe debilius
quatior dum digitis explosionem cieo.

XVIII. Porro nil tale in vitro metuendum, cujus vel exiguam crassitiem
nullatenus trajicere potest ignis electricus, licet ingentem copiam
in una superficie cumulare pergamus. Caeterum eo modico tempore, quo
lamina lignea maximam, quae illi competit, vim explodendi acquirit,
nihilo majorem sibi vitrum comparare didici.

XIX. Nec mihi objiciatur, cur non utar tabula lignea satis crassa, quae
hunc ignis transitum probe impediat. Nonne enim apud omnes receptum,
vitrum, seu corpus illud quod ad explosionem paratur, eo minus esse
aptum quo majore donatur crassitie? Equidem juxta meum _attractionis_
principium ratio hujus discriminis ultro se prodit[22].

XX. Hactenus de lignis aliisque corporibus oleo excoctis. Nunc quae
ligna solo igne assata mihi obtulerunt, proferam; et quidem omnia uno
verbo proferam, si dixero: ligna simpliciter ustulata eadem prorsus
praestare ac illa, quae fricta fuerunt ex oleo.

XXI. Immo vero vividiorem ex affrictu electricitatem mihi ferme
obtulerunt nova haec ligna, quae prunis ardentibus imposita, sive (quod
commodius) in furno, nullo alio adminiculo torrueram.

XXII. Et sane cum primum educta e furno refrixerint (calor enim, si
paullo sit intensior, electricitati tum excitandae, tum retinendae
maximae infensus deprehenditur) qualibet vel levi frictione,
percussione, scissione ipsiusmet ligni, quin et simplici attrectatione,
illico electricitatis signa, motus levium corpusculorum, crepitus,
emanationes, ut videantur (liceat mihi hac uti significatione)
electrica peste infecta. Cum vero aptiori corpore, panno scilicet, seu
pilis felis rite perfricantur, et odor acer, et crepitus favillarum
crebrissimi, et universe lucis semitae, tum admota cuspide ad plures
pollices penicilli: qui quidem penicilli eo spectabiliores se produnt,
quo ab igne non jam ad cuspidem confluente, ut in vitro accidit, verum
ab igne palam ex ipsa cuspide in lignum transmeante existunt.

XXIII. Quid plura? Tanta est vis, qua hujusmodi ligna donantur, ut
ipse saepius ligneo bacillo utar hac arte comparato, quo in catenam
satis amplam, sive in hominem rite sejunctum electricitatem immittam.
Porro vix tertio vel quarto bacillus aspere supra pannum aut pilos
raptatus ad catenam devenit, lambens flocculum, quem ex charta inaurata
eidem catenae apte accommodavi, cum jam scintillas ex hac ciere possum
satis sensibiles. Quin et saepius obtinere potui, ut phialam Batavicam
electricam facerem ad explosionem.

XXIV. Haec cum ita prospere evenirent, non poteram non eo adduci, ut
machinam disco ligneo sic probe assato instructam, loco vitri, mihi
compararem. Nec verear dicere hanc effectuum promptitudine, quin et
persaepe magnitudine longe aliis praestare, quae ex vitro hucusque
conflari consueverunt. Quid quod? Machinulam construi curavi, quam in
pera gestare possem: atque haec tam parvula machina non tam parvos edit
effectus.

XXV. En igitur _novum_, quem prima fronte libelli proferebam,
_apparatum_ ad electrica tentamina, omnium certe simplicissimum; cum,
nullis amphus nec vitro, nec resina, nec sericis opem ferentibus, omnia
jamnum ex ligno, tum fulcra (II), tum discus (XXIV), tum quadrum (XV)
commode suppetant.

XXVI. Equidem non dissimulabo hos tam magnos effectus ligna, etsi probe
subusta, nonnisi tempestate siccissima edere, vel coelo etiam minus
favente, dummodo nuper e furno educta: cum nimirum nullo madent humore.

XXVII. Caeterum nulla erit dies tam electricitati infensa, qua haec
ligna panno primum, vel spongia detersa, tum paullo diutius perfricata,
signa satis sensibilia promere renuant. Sin vero validiora desideras,
hisce lignis soli, seu blando igni ad modicum tempus expositis integra
vis redibit.

XXVIII. Illud hic non praetermittam quod, licet ligna nudo igne
ustulata principio validiores effectus ederent, ac porro edant
tempestate siccissima, ac quae in oleo frixeram (XXI); coelo tamen
pluvio haec illis mihi potiora habeantur, praecipue vi _coercendi_.
Cujus rei non aliam puto afferri posse rationem, nisi quod ligna multo
oleo imbuta humorem respuant, quem ligna tantummodo assata attrahunt.

XXIX. Hoc si ita est: quidni ligna primum in furno probe ustulentur,
ut quammaximam assequantur virtutem, tum iterum in oleo frigantur?
Porro hanc optimam esse rationem et ipse prospiciebam, et mea tentamina
comprobarunt.

XXX. Expedit etiam loco coctionis in oleo, hoc tantum ligna jam assata
linire, sicque iterum in furno torrere.

XXXI. At nec inutile erit aqueis vaporibus arcendis haec ligna jam
probe parata pannis oleo linitis involuta servare: quo fiet, ut vel
humentibus diebus, si ea, (primum probe detersa) libeat ad tentamen
vocare, absque ignis vel solis calore res prospere succedat.

XXXII. Quod si quidquid diligentiae impensum fuerit, ligna post
diuturnum aliquod tempus vim ferme omnem amisisse reperiantur, hancque
blando calori exposita recipere renuant; tum opus erit illa iterum
assare: non quidem ita vehementer ac diuturne, ut prima vice, sed ad
modicum tempus, quo nempe satis sit, ut omnis avolet humor, quem longa
aetate contraxere[23].

XXXIII. Jam cum aliqua praenotarim, quae non parum conferunt ut ligna
electricis viribus exerendis aptiora evadant, illud non omittam,
delectum lignorum non esse spernendum. Etsi enim omnia omnino ligna
probe subusta vim satis magnam acquirant; at plura insigniorem sibi
comparant: ut resinosa: tum quae solidiora sunt.

XXXIV. Quod autem rem propius spectat, optimam nempe rationem haec
ligna assandi: cavendum, et omnino cavendum ne ita pene comburantur, ut
in carbones desinant. Carbones enim cum _sejungendis_ corporibus, tum
electricitati ope affrictus promendae constanter impares inveni.

XXXV. Immo vero iidem carbones non solum non sunt ex genere
_coercentium_, sed longe facilius _deferunt_ quam ligna nondum assata;
facilius quam lignum ipsum viride: quod plane demonstrant scintillae
alacriores, quae emicant admoto frustulo carbonis catenae electricae,
seu digito admoto ipsi carboni, qui sit pars catenae, alacriores,
inquam, quam quae cientur, cum lignum etiam viride tali pacto tentatur.

XXXVI. Igitur ligna e furno educenda non jam ex igne depasta, seu
pene combusta; sed ustulata tantum: cum eo nimirum deducta sunt, quo
ingenti fumi copia emissa adustionem redolent, ac subnigrum colorem
contraxerunt.

XXXVII. Jam cum viderimus ligna absque olei adminiculo fieri posse
_electrica ab origine_, idem ne extendendum ad reliqua omnia corpora,
quae fricta ex oleo exitum habuere (VII): nimirum ut et ipsa nudo igne
subusta idem praestent? Ita sane:

XXXVIII. Si modo lapides excipias, qui vel diuturne in furno decocti
parum admodum _coercent_, et fricati vix quidquam electricitatis
produnt.

XXXIX. Ossa igitur, corium, charta, caeteraque, quae apte in furno
ustulavi optimum habuere successum; et quidem crediderim non valde a
ligno superarentur, ni pluribus essent obnoxia incommodis.

XL. His nihilo obstantibus discum ex charta crassiore ita probe
ustulata machinae aptabam, quo electricitatem non ita modicam obtinere
dabatur.

XLI. Porro inter caetera incommoda, quibus charta subjicitur illud
maxime molestum, quod facillime humorem combibat; quo fit ut nihil
ferme suae virtutis exerat, ni prius sole, vel blando igne probe
exsiccetur.

XLII. Quin nec blandus calor saepe satis erit; haec enim charta vix
post aliquot dies signa dabit: oportebit igitur hanc iterum aliquanto
ustulare, ut de lignis notavimus (XXXII).


CAP. II.

DE CAUSSA QUAE EFFICIT UT CORPORA SINT COERCENTIA.

XLIII. Postquam seriem experimentorum exposui aperientium qua
potissimum ratione corpora suapte natura igni electrico pervia,
proinde electricitati excitandae nullatenus apta, novam hanc indolem
praestanter assequantur, seu fiant tum _coercentia_, tum _electrica ab
origine_; nunc in caussam ipsam tam mirandae immutationis inquirendum,
ac primo unde vis _coercendi_ corporibus manet perscrutabimur: hoc
enim unum si detegatur, jam ad reliqua explananda non parum lucis
affulgebit. Equidem huc maxime spectabant experimenta a me instituta,
ut intelligerem quid caussae esset cur quaedam corpora ignem electricum
respuant.

XLIV. Namque, fateor, nunquam in animum inducere potui ignem electricum
ideo sulphur, resinas, serica non permeare, quod haec corpora ob
eorum texturam reapse sint impervia, scilicet quod arctiores seu
intricatiores meatus habentia, solidis partibus obsistant.

XLV. Qui enim credidissem ignem electricum filum ferreum ad centum et
ultra pedes distentum libere pervadentem, quin usquam pororum anfractus
impedimento sint, hoc impedimentum, et quidem quammaximum, invenire
in poris serici funiculi duos pollices longi, imo in poris lamellae
piceae tres tantum lineas crassae? Ut enim non repugnabo vitrum meatuum
angustia metallis longe praestare; at resinas, serica, laxiori esse
corpore fateantur oportet.

XLVI. Addam ne et hoc? Ligna arentia, chartam, non ita libere permeat
ignis electricus ac permeat metalla: etenim ex catena non omnis effluit
electricitas, licet medio bacillo ligneo, vel segmento ex charta catena
cum solo communicet. Sunt igitur haec corpora aliquomodo _coercentia_,
dum metalla perfecte _deferunt_: at si haec cum illis conferantur,
quaenam, oro, laxiore donantur textura?

XLVII. Haec igitur satis fuerunt ut vim _coercendi_ non in poros
corporum quodammodo obseptos rejicerem, sed _viribus_ quibusdam
_mutuis_ adscribendam autumarem.

Porro hujusmodi vires, quas etiam (nescio an ut invidiam faciant
vocabulo) _immechanicas_ vocant, maximam in phaenomenis electricis
sibi partem vindicare, ostendere conabar in memorata dissertatione _De
vi attractiva ignis electrici_: in hoc enim totus eram, ut praeter
_pressionem_, _elasticitatem_, _aequilibrium_ ignis electrici, quid
aliud admittendum evincerem.

Quod si tunc genus hoc virium, nempe _attractionem_ ignis electrici
adstruere contendebam tum aliorum naturalium effectuum analogia
fretus, tum praecipue eo quod simplicissimam jam proderet distractorum
phaenomenorum caussam, quam ex notis mechanicae legibus frustra
conaremur eruere; nunc sane et _repulsionis_ vim non probabilibus
tantum argumentis ex analogia petitis ac phaenomenorum consensione,
sed directe probare atque oculis subjicere confido; ita ut cum et ipsi
virium mutuarum obtrectatores vim hanc _repulsionis_ jam agnoscere
cogantur, nec illam _attractionis_ repudiare merito possint: siquidem
ex eodem genere sunt _virium mutuarum_.

XLVIII. Dico igitur nullum corpus ex genere _coercentium_ (si vitrum
fortasse excipias, de quo aliqua infra) ita poros habere obstructos,
ut per hoc igni electrico via praecludatur. Quid ergo caussae erit cur
haec permeare impediatur, nisi vis quaedam insita _repulsionis_?

XLIX. Sitne vero haec vis insita particulis omnibus corporum
_coercentium_, vel aliquibus tantum: seu, quod idem est, vis haec
repellens nonnisi certae cuidam materiei competat hisce in corporibus
degenti, dubitari poterat.

L. Dubitari, inquam, poterat relate ad corpora _coercentia eterogenea_,
non utique relate ad _omogenea_, ut aerem purum concipimus, tum etiam
vitrum.

LI. Sed dubitationem omnem sustulerunt experimenta a me instituta: ea
enim oleosae tantum substantiae in corporibus eterogeneis degenti id
muneris esse tribuendum jam plane demonstrant.

LII. Etenim quid aliud requiritur ad hoc ut lignum, charta, corium,
ossa, lapides etc. quae ab igne electrico permeantur, jam hunc ignem
respuant, nisi ut in oleo excoquantur (I, V, VI, VII)?

LIII. At nec est necesse ut oleum extrinsecus adjiciatur corporibus
illis, quae jam idonea portione naturaliter donantur: haec enim corpora
tantummodo ustulata recte _coercentia_ evadunt (XX).

LIV. Et quidem ligna resinosa omnium praestantissima inveniuntur
(XXXIII).

LV. Lapides vero, qui hac oleosa substantia ferme destituuntur, nudo
igne assati pene nihil produnt (XXXVIII).

LVI. Tum autem prodent, cum oleo excoquantur (VII).

LVII. Et hic liceat mihi iterum urgere. Ligna, ossa, corium, charta
etc. antequam adurerentur igni electrico pervia extabant; nunc vero in
furno assata jam non permeantur. Atqui nulla extranea materies advenit
qua pori obstruerentur: quin, leviori ac laxiori corpore effecta
deprehenduntur. Jam igitur desperent, si qui adhuc in hoc animum
intendunt, ex modulo pororum, aut ex sola partium textura rationem
reddere cur quaedam corpora sint igni electrico impervia.

LVIII. At si tota vis _expultrix_ rejicienda in oleosam substantiam,
cur ergo cum haec usque praesens sit in memoratis corporibus, nempe
lignis, ossibus, charta etc. tamen haec ignem electricum non _coercent_
ni probe ustulentur? Praeterea, cur lignum vel diuturne in oleo
demersum, ac magnopere imbutum vi hae _coercendi_ non pollet, ni et
ipsum suburatur, aut violenter frigatur?

LIX. Equidem oleosa materies, quae in his corporibus degit, vim suam
_expultricem_ erga ignem electricum exerit; verum cum haec eadem
corpora non parum aquei humoris in sinu suo condant, quem quidem
humorem magna vi _attractrice_ praeditum satis prodit genius ipse ignis
electrici humorem prae reliquis (metalla excipio) affectandi; inde fit,
ut contrariis viribus se mutuo elidentibus, transitus ignis electrici
minus impediatur.

LX. Minus, inquam, impediatur: nam nec ita libere permeat, ut aliqua ex
parte non _coerceatur_ (XLVI).

LXI. Et quidem eo magis _coercetur_, quo haec corpora plus humoris
amiserint.

LXII. Jam vero humorem hunc aqueum e corporibus plenius educito, adeo
ut materies oleosa jam sola, ut ita dicam, dominatum habeat: sicque
corpora habebis vere ac perfecte _coercentia_.

LXIII. Hoc autem est quod perficitur haec corpora probe suburendo:
aqueum enim humorem avolare, ac plane hauriri testatur fumus; cujus
equidem quo ingentior hausta fuerit copia, eo potiora evadent corpora
(XXXVI).

LXIV. Eadem est ratio corporum, quae in oleo friguntur: nempe et
ope hujus coctionis efficitur, ut plurimum aquei humoris avolet. Ac
reapse si diuturne frigantur haec corpora, assata jam ac plane subusta
invenientur.

LXV. Crediderim tamen omnem omnino humorem non ita facile hauriri hac
arte; quod quaedam aqueae particulae olei tegumento veluti pressae
se se extricare nequeant. Hinc ratio cur ligna fricta ex oleo non tam
magna virtute praestant, ac illa quae nudo igne ustulantur (XXI), seu
quae primum ustulata, postmodum in oleo excoquuntur (XXIX).

LXVI. Jam illud facile intelligitur, cur summopere cavendum ne ligna
aliaque corpora ita prope comburantur, ut in carbones desinant: proinde
ustulanda tantum sint (XXXIV, XXXVI). Oportet enim ut aqueus tantum
humor exhauriatur oleosa substantia integra manente; quae si et ipsa
avolaverit, seu pabulo ignis cesserit, ut reapse in carbonibus evenit,
jam nihil erit quod igni electrico vim _repulsivam_ objiciat, adeoque
hi carbones liberrime permeabuntur (XXXV).

LXVII. Haec omnia si expendantur, atque invicem conferantur, quis
dubitet ad hoc principium statuendum conspirare: vim _repulsivam_
oleosae substantiae in corporibus eterogeneis degentis eam esse
quae efficit, ut haec eadem corpora ignem electricum plus vel minus
_coerceant_: quantum scilicet patitur vis contraria _attractiva_
alicujus alterius substantiae, ut est aqua? Ut autem hoc magis oculis
subjiciatur, lubet hic in unum veluti punctum redigere quid lignum
prodat in quolibet statu consideratum.

LXVIII. 1. Igitur lignum viride extat facile pervium: et hoc quia copia
aquei humoris, quo imbuitur, vi sua _attractrice_ vim _repellentem_
oleosae substantiae prorsus extinguit. 2. Quo ex hoc humore amittit,
eo minus alacriter pervaditur igne electrico: imminuta enim vi
_attractrice_ aquei humoris actio virium _repulsivarum_ oleosae
substantiae incipit aliquatenus emergere. 3. Jam aestivis solibus probe
siccum aliquomodo _coercens_ evasit: quod vis _repulsiva_ hinc magis
se efferat. 4. Assatum vero atque subustum plane impervium se praebet:
humore enim plenius exhausto sola oleosa materies vim suam exerit.
5. Denique et hac consumpta, cum lignum jam in carbones abiit, iterum
omnino pervium efficitur: namque vis omnis _repulsiva_ concidit.

LXIX. Consideravimus aquam in corporibus eterogeneis, quae sua vi
_attractrice_ vim _expultricem_ oleosae substantiae eludit. Porro et
metalla vi magna _attrahendi_ praedita esse, et quidem majore quam
aqua innuimus (LIX): qua de re dubitare non sinit ardor maximus, quo
ignis electricus ad metalla inhiat. Quid ergo accidet, si metallo
permisceatur quantitas materiae oleosae? Sane haud difficile erit
conjicere analogum evenire debere iis quae in ligno aliisque corporibus
notavimus, habita tantummodo ratione differentiae virium: nec me
huic conjecturae nixum, principioque meo magnopere fidentem eventus
fefellit.

Verum quo pacto oleosa haec substantia corpori metallico intime
commiscebitur? Frustra enim ferreum, sive aeneum frustulum in oleo,
pice etc. vel ad plures dies frigas: non enim quidquam ex hoc oleo
particulis metallicis adglutinatur. Nil ergo mirum si metalla tali
pacto excocta nullatenus _coercentia_ evadunt (VI).

LXX. Oportuit igitur ut alio me converterem. Tenuia ramenta metallica
sumebam, quibus aequali portione picis ope fusionis commixtis,
corpus conflavi, si non absolute _coercens_, at nec ita pervium igni
electrico: ex hoc enim catenae adnexo non jam alacres scintillae
emicabant, ut ex puris metallis, sed longe languidiores, nec sine
quodam stridore, qui est nota ignis aegre erumpentis.

LXXI. Plura alia tentamina inii metallo in subtilissimum pulverem
comminuto, ac modo dupla, modo tripla, modo quadrupla colophoniae massa
commixto: utque in reliquis eo difficilius permeabatur igne electrico
corpus, quo majore picis parte coaluerat; postremum hoc, in quo pars
picea metallicam quadruplo excedebat, jam satis _coercens_ inveni.

LXXII. Quod si metalla, eo quod insigni vi _attractiva_ pollent,
debent multa pice commisceri, ut ea sit in corpore quod ex hac
mixtione emergit oleosae substantiae vis _repulsiva_, quae valeat
ignem electricum _coercere_; non eadem porro est ratio aliorum
corporum, quorum vis _attractiva_ non multum est attendenda, vel
certe nullatenus comparanda cum metallis, aut cum aqua. Hinc est quod
pulvis ex marmore, cineres, carbones[24] similiter in pulverem contusi
aliaque id generis, si aequa tantum pici portione commixta coalescant,
jam erunt _coercentia_. Quid? Iterum ne in medium proferenda ligna,
ossa, corium, charta etc. in quibus vel exigua olei portio particulis
corpus constituentibus intime permixta (modo aqueae particulae desint)
efficit, ut probe _coerceant_?

LXXIII. Jam ergo ex hac analysi constat corpus vel _deferens_ vel
_coercens_ se prodere, prout nempe vel vis _attractiva_ particularum
sive metallicarum, sive aquearum, sive etiam quarumcumque idem corpus
constituentium ipsa praevalet, vel contra praevalet vis _repulsiva_
oleosae substantiae iisdem corporis particulis alligatae.

LXXIV. At si ita est, objici potest, nullum corpus inveniri debere
tam probe _coercens_, quam ipsum oleum, quod nullam habeat extraneam
materiam admixtam, quae vi _attractrice_ vim illius _expultricem_
elidat. Atqui longe melius _coercent_ ligna subusta, quae ex multis
extraneis particulis constant, parvo oleo admixto?

LXXV. Equidem oleum quammaximam exerere erga ignem electricum vim
_repulsionis_ ratum habeo. At nec inde illico consequitur firmius
obstaculum ipsi igni objicere, quam reliqua _coercentia_: illius enim
fluiditas maxime est attendenda, quae facit, ut particulis ejusdem olei
motui cuilibet se praebentibus, aliquali ignis electrici effusioni via
aperiatur.

LXXVI. Re enim vera si brachium catenae electricae proxime respiciat
superficiem olei, quamdam particularum hujus disjectionem, quosdam
veluti vorticulos ipso demum oculis cernimus: qui quidem motus, ut mihi
attente consideranti se se offerunt, a lege motuum electricorum non
abludunt: efficiuntur enim ex eo quod particulae olei, quibus a catena
vi urgente electricitas aliqua immediate est immissa, jam et ipsam
catenam et se se mutuo fugiunt, tum ad latera alias particulas petunt
nullatenus electricas, quae hoc ipso properant ad catenam electricam,
ac in locum primarum succedunt.

LXXVII. En igitur quomodo ignis electricus aliqua ex parte diffundatur
in oleo. En ratio cur nullatenus queat stratum olei ad _explosionem_
parari. Qui enim in oppositis faciebus contrariae electricitates
consistant perpetuo hoc particularum olei fluxu intestino? Porro
huic fluiditas desit, eritque probe _coercens_, et ad explosionem
paratissimum. Etenim resinae quid aliud sunt nisi oleum quoddam
crassius; aut quid aliud oleum nisi resina modico calore fluens?

LXXVIII. Illud hic notabo, quod si fluiditas olei ineptum reddit hoc
ipsum explosioni edendae, quae ex contrariis oppositarum facierum
electricitatibus existit; videtur nec hanc veram explosionem locum
habere posse in stratis aeris, ut contendunt nonnulli, qui stratum
aeris considerant non secus ac laminam vitream debiliorem. Fluxum
enim particularum in aere aeque ac in oleo, imo facilius obtinere non
praesumamus?

LXXIX. Sane quid aliud sibi vult lenis illa aura e corpore electrico
spirans, ac cutem blanda titillatione afficiens, quam _aurae
electricae_ nomine designamus, nisi fluxum hunc particularum aeris se
mutuo fugientium, quippe eadem imbuuntur electricitate, tum ad corpora
non electrica properantium, juxta legem motuum electricorum[25]?

LXXX. Jam de ipso aere aliquid dicendum, ac de vitro, quae cum sint
corpora _coercentia_ non tamen affectionem hanc vi _repulsivae oleosae
substantiae_ acceptam referunt, siquidem _omogenea_ sunt, aut certe
nulla hujus oleosae substantiae parte coalescere dicentur, qua corpora
_eterogenea_ donantur; nempe resinae, serica, pili; tum ligna, corium,
ossa etc. quae ustulavi: de quibus corporibus _eterogeneis_ intelligi
velle, cum vim omnem _coercendi_ ex sola oleosa substantia repetebam,
et ab initio monitum feci (L.) et inde saepius memoravi.

LXXXI. Necessarium igitur est ut vim hanc _repulsivam_ particulis
omnibus fluidum aereum constituentibus insitam dicamus; itemque
particulis omnibus vitri.

LXXXII. Quod ad aerem spectat, nemini non perspectum eo magis
ignem electricum respuere, quo densior est aer; tum quo purior,
ac defaecatior: scilicet hic vis _repulsiva_ minus a vi contraria
extranearum particularum oppugnatur; illic plus intenditur particulis
numero pluribus ipsiusmet aeris conspirantibus.

LXXXIII. Eadem e caussa in vitro densitas cum sit maxima, idcirco
omnium vi _coercendi_ praestantissimum extare par est (XVIII): ut
consentaneum est solidiora ligna laxioribus praecellere (XXXIII).


CAP. III.

QUOMODO CORPORA COERCENTIA ELECTRICITATEM INDUANT.

LXXXIV. Plurima congessimus, quae vim vere _repulsivam_ erga ignem
electricum in corporibus _coercentibus_ praedicant. At quomodo vis haec
patitur, ut haec eadem corpora et uberi ignis _nativi_ copia donentur,
et adhuc ingenti portione ignis _adventitii_ onerari possint? Siquidem
vel ope communicationis super facie laminae vitreae, piceae, ligneae
etc. ignem tum congerere possumus, tum ex iisdem haurire, prout nempe
respiciunt corpus _excessu_ electricum, vel electricum _defectu_
adeo ut quam validam explosionem edere pares sint; vel ope affrictus
_alieno_ igne vitreum tubulum induimus; resinas vero, ligna, serica
nunc similiter _alieno_ induimus, nunc _nativo_ spoliamus. Ex quo
nescio an quis nimium properanter concludat vim hanc _repulsivam_, quam
toto cap. 11 adstruere conabar, esse prorsus commentitiam.

LXXXV. Quasi vero cum vim _repulsivam_ in medium afferebam, vim
quamlibet _attractivam_ excluderem; aut sit aliquis in his rebus ita
extraneus, qui ignoret indolem _virium mutuarum_ in eo praecipue sitam,
quod ita e minimis pendent distantiis, ut saepe ex _attractivis_ in
_repulsivas_ e _repulsivis_ in _attractivas_ transeant. Hujusmodi
exempla pene infinita cum ex notissimis naturalibus phaenomenis, tum
praecipue ex Chemia deprompta, insuper gravissimorum hominum testimonia
recensere possem; at nec vacat, nec est necesse.

LXXXVI. Hoc si ita est, quidni dicere possim particulas corporum
_coercentium_, puta vitri, aeris, oleosae substantiae, quas vim
_repellentem_ exerere erga ignem electricum tot experimenta evincunt,
in distantiis minoribus nullatenus _repellere_; imo contraria vi esse
praeditas, qua copiam ignis satis magnam arcte complectuntur?

LXXXVII. Porro _nativum_ hunc ignem, quem veluti in sinu suo haec
corpora condunt, haurire poterit sive affrictus, seu corpus quodlibet
applicitum _defectu_ electricum: hoc viribus suis alliciendo,
extorquendoque ignem e complexu particularum corporis _coercentis_;
ille mutata partium positione efficiendo, ut vis _attractiva_
particularum ejusdem corporis _coercentis_ remissior evadat[26].

LXXXVIII. Quod autem haec corpora _coercentia_ et ignem alienum induant
tum ope communicationis, tum ope affrictus, minus negotii facessere
debet. Quid enim mirum, si corpus electricum _excessu_ superata vi
_repellente_ corporis _coercentis_, super hujus facie copiam ignis
redundantis congerat? Quid absonum, si affrictus eam aliquando inducat
partium positionem, quae vi _attractivae_ particularum corporis
_coercentis_ magis faveat, unde hoc ipsum _alieno_ igne ex affrictu
onustum se prodat[27]?

LXXXIX. Quod attinet ad affectionem corporum _coercentium_, qua
fit, ut quantum _alieni_ ignis in una facie congeritur, tantundem
_nativi_ ex opposita facie discedere nitatur; et vice versa quantum
ex una _nativi_ hauritur tantundem _alieni_ ad se alliciat altera:
id ex sola vi _attractiva_ particularum corporis _coercentis_
repetebam in saepius memorata Dissertatione _De vi attractiva ignis
electrici_[28]: uti etiam phaenomena omnia _athmosphaerae electricae_,
atque _electricitatis vindicis_ ex eodem principio mihi prospere
fluebant, scilicet: _quo ignis redundans corpori cuilibet applicatur,
licet in hoc vere non ineat, eo vim attractivam particularum ejusdem
corporis remissiorem evadere igni nativo retinendo_; et vice versa:
_quo defectus eidem corpori applicatur, eo vim attractivam ejusdem
intendi_[29]. Haec, inquam, tunc temporis explicabam nulla habita
ratione vis _repulsivae_ corporum _coercentium_, cujus argumenta prae
manibus non erant; nunc vero cum horum et plurima, et eloquentissima in
promptu sint, possem mutata partium vice vim hanc _repulsivam_ in locum
_attractivae_ sufficere: atque omnia hujus generis phaenomena aeque
feliciter mihi novam hanc viam ineunti cederent. Porro illud semper
constaret, cui maxime insistebam: _vires mutuas_ hanc in phaenomenis
electricis sibi partem vindicare.

XC. Verum, ut quod sentio ingenue fatear, huic explicationi, quae
peti posset e vi _repulsiva_, nonnulla alia phaenomena reclamant.
Si enim ponamus ex. gr. laminam vitream, cujus uni faciei _excessus
applicatur_ idcirco _nativum_ ignem ex opposita facie dimittere, quod
ille ignis redundans vim _repulsivam_ particularum vitri vere intendat;
consectarium est vim hanc _repulsivam_ vitri erga ignem electricum
ad sensibilem distantiam extendi; siquidem etsi in aliqua distantia
_applicetur_ hic _excessus_, adhuc ignem nativum vitri cogit abire.
Atqui et vitrum, et quodlibet corpus _coercens_ neutiquam fugit corpus
electricum _excessu_, quod proxime respicit; sed illud petit, ac mutuo
adhaerent.

XCI. Quod si haec faciunt ut minus probem explicationem petitam e
vi _repulsiva_; non desunt quae et illam e vi _attractiva_ desumptam
adversari videantur. Quomodo enim vis haec _attractiva_ ad sensibilem
distantiam pertinget, si in distantia adhuc ultra captum exigua jam in
_repulsivam_ abiit (Cap. II), ut ex vi _coercendi_ colligimus?

XCII. Ex his autem facile me expedio, omnibusque satisfacio
considerando particulas corporum _coercentium_ in minimissima distantia
vi _attractrice_ praeditas, quae porro in aliquanto majori distantia,
adhuc tamen exilissima, in _repellentem_ abit, mox vero iterum in
_attractivam_ desinit, quae ad sensibilem distantiam pertingit. Primus
hujus vis modus (non enim vires diversae mihi habentur, sed diversi
ejusdem vis modi, seu status) rationem prodit cur ea corpora copia
ignis nativi satis magna donentur, ut innuimus (LXXXVI). Secundus cur
eadem _coerceant_, quod toto Cap. 11 ostendi. Tertius cur accessus,
atque adhaesiones obtineant inter haec corpora _coercentia_ ac
corpus quodvis electricum (XC). Quibus positis omnia jam firmo stant
fundamento, quae de laminis _coercentibus_ ac de _electricitate
vindice_ olim disserebam.

XCIII. Jam quid intersit inter particulas corporum vere _coercentium_,
et particulas _deferentium_ liquido eruitur. Hae enim aeque ac illae
vim _attractivam_ praeseferunt; sed in illis spatium datur certis
limitibus conscriptum, quo vis haec in _repulsivam_ degenerat; in his
eadem vis _attractiva_ nullo in contrariam transitu perseverat.

XCIV. Hucusque consideravi corpora _coercentia omogenea_, sive
_substantias vere ac per se coercentes_, ut sunt aer, vitrum atque
oleosa substantia: quod si de corporibus _coercentibus eterogeneis_
agatur, ut sunt ligna, ossa, charta, quae partim ex _substantia vere
coercenti_, partim ex _deferenti_ constant, facile intelligitur eadem
plus fundi, ut ita dicam, habere quo ignem et in sinu suo excipiant,
et foras effundant. Hinc ratio mihi desumitur cur corpora _eterogenea_
vividiorem electricitatem ex affrictu ferme contrahant quam resinae,
aut vitra (IV); licet haec vi _coercendi_ praestent (XVI, XVII, XVIII).

XCV. Sed redeamus ad electricitatem, quae oritur ex affrictu. Illud
enim mihi in hoc capite maxime propositum, ut inquiram quid affrictus
pariat in lignis, aliisque corporibus a me paratis. Observavimus
affrictum naturalem partium positionem turbare, novamque inducere,
quae vel vim _attractivam_ earundem particularum corporis _coercentis_
remissiorem reddit, unde ignem _nativum_ dimittunt; vel contra
intendit, unde _alienum_ ad se alliciunt (LXXXVII, LXXXVIII).

XCVI. Equidem quaenam partium positio viribus _attractivis_ adjumento
sit, quaenam, detrimentum afferat, introspicere negatum: facile
tamen intelligitur pro diversa corporum superficie, quibus idem
corpus _coercens_ fricatur, diverse affici debere, ita ut nunc
intendantur vires, nunc remittantur[30]. Hinc porro tot, tamque variae
vicissitudines, quas passim occurrere in lignis, aliisque corporibus,
super quae tentamina instituebam, (XI) innui. Has profecto singulas
vicissitudines definite notare operae pretium foret; verum e tam
minimis persaepe adjunctis pendent, ut aliquid stati determinare non
semper praesto sit. Quare generaliora quaedam, quae meis experimentis
fere unice circa ligna et chartam mage comperta habeo, proferre, satis
in praesenti duxero.

XCVII. Igitur ligna nudo igne assata electricitatem _resinosam_
praeseferunt, aeque ac ligna, quae in oleo excocta fuerunt (X); et
quidem, non secus ac illa (XI), electricitatem hanc magis affectare
videntur, quam quaedam resinae.

XCVIII. Nam cum ceram signatoriam a quavis bractea metallica constanter
_accipere_ observaverim; at mea ligna nonnunquam _dare_ omnibus omnino
bracteis metallicis; saepe pluribus _dare_, nec nisi a certis quibusdam
_accipere_, compertum habeo.

XCIX. Veruntamen inter haec ligna non raro inveniuntur quae ab omnibus
omnino bracteis metallicis _accipiunt_: quin et quandoque a serico, aut
panno nigro, rubeo, viridi, a charta nigra etc.

C. Quod autem admirationem maximam facit: non solum hae differentiae
in diversis lignis obtinent, sed in eodem persaepe ligno; adeo ut ille
idem bacillus, qui hodie _dat_ bracteae stamneae, chartae inauratae,
orichalco, cras _accipiet_ ab eadem charta, bractea, orichalco, iterum
_daturus_ tertia die etc.

CI. Dixi ceram signatoriam a quacumque lamella metallica _accipere_:
quod de omnibus resinis minime intelligendum volo. Sulphur enim, et
colophoniam certis quibusdam bracteis, ut stamneis, aut plumbeis
_dare_, contra ac generaliter nimis sancitum fuerat, indubiis
experimentis mihi constat.

CII. Ex his tria constituo. 1. Non omnia corpora, quae electricitatem
_defectivam_ affectant, compelli posse ope affrictus laminarum
metallicarum, ut electricitatem _excessivam_ induant. Extant enim
ligna, quae constanter nativo igne orbantur, nec nisi _defectu_
electrica se produnt (XCVIII).

CIII. 2. Et inter corpora resinosa, quae aliquando vim patiuntur, atque
_excessum_ induere non renuunt, multum intercedere differentiae: quippe
alia ab omnibus metallis coguntur ignem _accipere_, ut cera signatoria
(XCVIII); alia ab aliquibus tantum _accipiunt_, aliquibus _dant_; ut
sulphur, et colophonia (CI).

CIV. 3. Quod consequens est, in metallis diversam aptitudinem inveniri
ignem suum impertiendi corporibus resinosis; majorem ex. gr. inesse
orichalco, quam plumbo, aut stamno (XCVIII, CI).

CV. Quod ad 1. Spectat: quaenam ligna inquiro, ac quibus in casibus
cuilibet metallo _dent_: invenioque hoc praestare lignum probius
subustum, nuper e furno eductum, quod adhuc modice calet.

CVI. At hoc calore sensim evanescente incipit jam idem lignum
_accipere_ a bractea stamnea viscoso quodam tegumento (nobis _vernice_)
obducta, ut aurum colore mentiatur; eidem vero bracteae in facie nuda,
aliisque bracteis metallicis nudis pergit _dare_.

CVII. Mox a laminis elasticis ex metallo flavo, aut rufo ut aurum, aes,
orichalcum, tum a charta inaurata _accipit_: _dat_ laminis elasticis
sed albis; chartae argenteae; bracteis stamneis, aut plumbeis.

CVIII. Inde _accipit_ a laminis quoque albis, dummodo elasticis, a
charta argentea, a tela item argentea: bracteis vero plumbeis, stamneis
adhuc _dat_.

CIX. Tandem et ab his _accipit_.

CX. Ex quo 2., et 3. pariter illustrantur. 2. eo quod jam differentiae
inter corpora resinosa minus obscure emergant. 3. quod quaedam series
corporum metallicorum, seu partitio per gradus (_scalam_ vocabo) se
prodat, qua quaeque aptiora se praebent igni in resinis ope affrictus
congerendo.

CXI. Verum quidem est ligna tali pacto successive tentata in eo aliquid
discriminis ostendere, quod alia post multas etiam horas, quin et
post plures dies nonnisi ad aliquot gradus descendant, videlicet non
_accipiant_ nisi a bractea aqua gummata[31] obducta, aut etiam ab
aurichalco, et charta inaurata; pergant vero _dare_ bracteis plumbeis,
stamneis: dum contra alia vix calorem amiserunt, cum jam ab omnibus
bracteis metallicis _accipiunt_, imo nonnulla et a serico nigro, panno
etc. At quid inde conficitur? Scilicet non omnia ligna omnes _scalae_
metallorum gradus descendendo percurrere; non vero ullatenus invertere.

CXII. Non dissimulabo tamen postquam in sua quaque sede assignando
corporibus metallicis processeram, certam quamdam aberrationem
deprehendisse: quam priusquam aperio, non inutile erit diligentius
perscrutari cur aliqua metalla aptiora sint igni suo suppeditando.

CXIII. Porro plura ad id conferre allatis experimentis docemur. Sunt
nempe: aqua gummata; color ipse metalli; elasticitas.

_Aqua gummata:_ etenim a bractea stamnea hac linita _accipit_ lignum,
quod cuivis bracteae nudae _dat_ (CVI).

_Color:_ namque sunt ligna, quae _accipiunt_ a lamina aurea, aenea, ex
orichalco, _dant_ vero argenteae, aut cuivis albae laminae; similiter
_accipiunt_ a charta inaurata, quae _dant_ chartae argenteae (CVII).

_Elasticitas:_ constat enim ligna, quae a laminis elasticis albis
_accipiunt_, adhuc _dare_ laminis plumbeis, aut stamneis (CVIII): item
sulphur et colophonia _accipiunt_ ab elasticis, _dant_ non elasticis
(CI) etc.

CXIV. Quod ad elasticitatem spectat mirum non videbitur affectionem
hanc plurimum conferre ut metalla ignem suum resinis impertiantur.
Concipi enim potest partium elasticarum motum plane diversum
motu partium non elasticarum efficacius agere, ut ignis e corpore
extrudatur. Alioqui jam compertum habemus calorem, qui elasticitati est
maxime affinis, corpora disponere igni suo ope affrictus dimittendo.

CXV. Illud vero non intelligitur, quomodo color metalli conferat. Porro
diversitatem non repetemus a diversa luminis reflexione; namque in
tenebris omnia similiter eveniunt.

Equidem hoc ipsum in tibialibus sericis albis et nigris animadversum
fuerat: nimirum colorem, pro ut est in luce, nihil conferre. Statim
vero et illud compertum: neque pendere contrarietatem electricitatum
e colore prout est in corpore; sed unice e certa quadam mixtura, qua
tibialia imbuuntur, ac fucantur: quae mixtura alba ne sit, an nigra,
perinde est.

CXVI. At in metallis nil tale usuvenit. Quare dispositio in corpore
ipso est invenienda, in ipso colore, non, inquam, prout est in luce
(CXV); sed prout est in metallo: videlicet in superficie hujus his vel
illis radiis reflectendis accommodata.

CXVII. Jam de _aqua_ illa _gummata_ quid adnotandum? Observavimus
bracteas metallicas illa linitas, omnium primas ignem suum impertiisse
ligno quod fricabant (CVI). Hic ulterius observabo hanc _aquam
gummatam_ non solum metalla, sed alia quoque corpora aptiora reddere
igni impertiendo. Compertum enim habui a ligno, aut alio corpore ita
linito _accipere_ sericum nigrum, quod ligno nudo (non ustulato),
corporibusque fere omnibus _dat_: similiter ab hoc ligno linito
_accipere_ aliud lignum ustulatum, quod nedum ligno nudo, sed quibusdam
metallis adhuc _dat_.

CXVIII. Hinc facile concipitur cur charta inaurata igni impertiendo
paratior sit, quam aliae lamellae metallicae similes, ejusdemque
coloris; item charta argentea (CVII, CVIII). Siquidem bracteolas,
quibus charta induitur, non omnino nudas, sed aliqua _gummata aqua_,
licet levissime, linitas extare credibile est. Etsi enim bracteolis
jam chartae applicatis nihil artifices consulto superducant; ea tamen
ipsa _aqua gummata_, qua folia primum nuda perfunduntur, ut bracteolae
adglutinentur, quidni has bracteolas, dum apprimuntur, supergressa
exteriorem quamdam tunicam compingat?

CXIX. Hoc vel ex eo suadetur, quod charta aurea, sive argentea usu
frequenti attrita, non amplius aptitudine ignis impertiendi prestat
aliis laminis metallicis nudis, ut antea praestabat. Imo non raro
vix aliquid nitoris amisit, cum jam praestantia concidit. Porro quid
hic detrimenti passa est charta, siquidem hanc bracteola metallica
nullatenus denudatam cernimus? Scilicet illi tunica _gummosa_ abrasa,
ita ut bracteola jam nuda appareat.

CXX. Haec optime deducerentur ex maxima _aquae gummatae_ aptitudine
ignis impertiendi, si haec et ubique, et semper constaret; verum
exceptio magni nimis momenti moram facit, ne rem tuto definire liceat.
Etenim compertum habui bracteam stamneam _aqua gummata_ fucatam
aliquando deteriorem se prodere aliis bracteis metallicis nudis, albis
quoque, nec elasticis. Hoc in sulphure primum, et colophonia fere
semper obvenit: nempe haec renuunt _accipere_ ab hac bractea fucata,
quae non renuunt _accipere_ ab aliis laminis nudis.

CXXI. Quin, inter ipsa ligna non pauca inveni, quae ad infimum _scalae_
gradum devenerant, nec tamen _accipiebant_ a bractea stamnea _gummata_.

CXXII. Veruntamen et hanc ipsam exceptionem aliquid constantis prodere
visum est mihi: nimirum bracteas _aqua gummata_ fucatas praestare
bracteis metallicis nudis, tunc cum corpus resinosum quod fricatur
valde pollens est, sive cum a nullis, aut ferme nullis laminis
metallicis _accipit_ (CVI); has vero bracteas _gummatas_ omnium
deteriores esse, cum corpus resinosum ad inferiores _scalae_ gradus
descendit, sive _accipit_ ab omnibus, aut fere omnibus laminis nudis.

CXXIII. Atque haec est illa aberratio quam (CXII) prospiciebam, quaeque
_scalam_ metallorum a me descriptam invertit: siquidem bracteas
_aqua gummata_ linitas primum obtinere locum statuebam (CVI); hic
vero ad ultimum detrusas cernimus. Quod spectat ad colorem, atque
elasticitatem bractearum, inversio nulla mihi adhuc usque se obtulit:
semper enim corpus resinosum prius a laminis ex metallo flavo, rufo
etc. _accipere_, quam a laminis metallicis albis; itemque prius ab
elasticis, quam a non elasticis deprehendi, ut statutum est (CVII,
CVIII).

CXXIV. Investigata aptitudine laminarum metallicarum ignis sui
impertiendi, restat ut accuratius investigemus repugnantiam in ipsis
corporibus resinosis, praecipue lignis (de quibus agere propositum
mihi est) _accipiendi_ a metallis; et quomodo ab hac repugnantia
gradatim recedant. _Repugnantiam_ autem dico vim illam, qua perstant
in electricitate _defectiva_ sibi comparanda, licet laminis metallicis
perfricentur.

CXXV. Vidimus lignum nuper e fumo eductum, adhuc modice calens
omnino _repugnare_ (CV); tractu vero temporis ab hac _repugnantia_
sensim remittere, eoque deduci, ut jam ab omnibus laminis metallicis
_accipiat_ (CVI, CVII, CVIII, CIX).

CXXVI. Porro in ligno nuper e furno educto tria mihi veniunt
consideranda: maxima virtus electricitatis _originariae_; siccitas
maxima; calor. Quaero igitur num omnia conferant; num unum, aut alterum
per se: et si primum; quanta quodlibet parte.

CXXVII. _Calor_ certe conferre debet ut lignum subustum renuat
_accipere_. Calorem enim igni potius effundendo corpora disponere
novimus. At nec soli calori omnis _repugnantia_, nec vero multum
ex hac illi tribuendum. Etenim lignum probe subustum, cujus tamen
vis aliquanto concidit, hanc non integre recuperat, etsi illud soli
expositum incalescere curemus: quippe non renuit _accipere_ a pluribus
bracteis metallicis, quibus porro pergit _dare_ lignum e furno eductum,
quod ferme refrixerit.

CXXVIII. _Maxima virtus_ magis conferre videtur. Reapse ligna, quae
validiores effectus edunt, ea ut plurimum sunt, quae magis renuunt
_accipere_ a laminis metallicis. Quod et facile concipitur, si illud
solum attendatur, haec ligna _affectare_ electricitatem _defectivam_
(X, XI): quid enim magis consentaneum, quam eo expressius _affectare_,
quo major inest vis?

CXXIX. Dixi _ut plurimum_ ligna insigniori virtute pollentia magis
_repugnare_, non semper: quandoquidem et debiliora inveniuntur,
quae magis _repugnant_, quam praestantiora. Quod satis evincit hanc
_repugnantiam_ et ab aliis pendere adjunctis.

CXXX. _Siccitas_ igitur maxime est attendenda: quod sequentibus
experimentis didici. Ligneum bacillum probe in furno subustum, adhuc
modice calens, virtute praestantissimum, quod propterea a qualibet
bractea metallica renuit _accipere_, halitu oris, vel manuum levissime
humecto: illico _accipit_ ab aliquibus metallis, licet et adhuc
praestans virtute sit, et adhuc modice caleat. Pergo sensibilius
humectare; et ad inferiores _scalae_ gradus quam citissime descendit,
ita ut ab omnibus, aut fere omnibus bracteis metallicis _accipere_ non
renuat.

CXXXI. Scio equidem censeri posse ligna quae paullatim humescunt ideo
minus _repugnare_, quod in ipsis virtus electricitatis _originariae_
pari passu infirmetur; unde hinc potius ratio discriminis sit petenda,
quam a madore, prout est mador. Qua de re etsi certo certius nihil
pronuntiare possim, hoc tamen asserere non vereor, aliter mihi
visum esse: nimirum et ipsum madorem, praeter virium electricarum
infirmitatem, minuere _repugnantiam_ in ligno _accipiendi_ a metallis.

CXXXII. Post haec nemo sane mirabitur, si illi ostendam eundem ligneum
bacillum eadem bractea metallica fricatum, altera sui parte seu extremo
electricitatem _excessivam_ induere, altera _defectivam_: illic taeniam
nigram attrahere, quam hic respuit, fugere albam quam hic attrahit etc.
Sufficit enim ut alterum bacilli extremum vel sit minus probe subustum,
vel halitu oris aut manuum aliquanto madeat, ad hoc ut non renuat
_accipere_ a bracteis metallicis inferioris ordinis, quibus pergit
_dare_ alterum bacilli extremum plane siccum, aut probius subustum.

CXXXIII. Porro et mirari desinemus eundem bacillum ligneum diversam
indolem diversis temporibus praeseferre, ita ut _det_ hodie bracteis, a
quibus heri _accepit_ etc. (C). Quid enim mirum si certis diebus virtus
in ligno potissimum infirmetur, aut, quod est maxime attendendum, plus
humoris contrahat?

CXXXIV. Haec sunt quae ligna lamellis metallicis perfricata mihi
obtulerunt. Varietates, in quas incidi, non tacui. Iisdem experimentis
super charta institutis eadem ferme obtinuerunt: hoc unum inest
discriminis, quod charta minorem prodit _repugnantiam accipiendi_ a
metallis. Equidem non audeam omnia rata constitutaque habere, quae meis
experimentis deducebam; nam et tot adjunctorum varietas, et aliorum in
hac re errata cautiorem me faciunt. Experimenta vero quae inii, licet
plura, si ea per se spectentur, dici possint, pauca admodum sunt, si
quantum in hac re expostulatur attendamus. Ossa, corium, caeteraque
corpora ustulata essent eidem examini, imo diligentiori subjicienda.
Accedit quod nonnisi colorem, elasticitatem, tum quoddam _aquae
gummatae_ tegumentum paucis meis experimentis ductus consideravi in
metallis; in lignis vero virtutis praestantiam, calorem, siccitatem.
Quid si autem et diversa superficierum asperitas in illis, densitas
diversa; in his vero asperitas, densitas, elasticitas, aliaeque, quae
nec animum subeunt, affectiones non parum in hoc sibi vindicent?

CXXXV. Atque hic lucubratiunculae huic meae finem facienti liceat
appendicis loco animadversionem subnectere, quae ad res cum altioris,
tum foecundioris indaginis iter parat. Si novis hisce experimentis
Electricitas _Artificialis_ plurimum debet, et quod historia corporum
_idioelectricorum_ insigniter aucta est, et quod ratio hujus in
corporibus affectionis propius investigata, ac pene educta; num ex
iisdem nihil prorsus Electricitatis _Naturalis_ seu athmosphaericae
bono profluere posse censebimus? Mihi certe lucem quamdam affulgere
videtur, ut quod in abscondito positum erat, jam se prodat apertum.
Quaerebatur unde nubibus electricitas manaret: e tellure inquiebant:
recte; at si praeter vitra, resinas, serica, quae ope affrictus
electricitatem satis validam _originarie_ movere possunt, reliqua
corpora vix aut ne vix quidem hac virtute donari vestra hucusque
experimenta praedicant, unde, instabo, tam immanis in athmosphaera
electricitas? Num haec vitra, serica, resinae passim et ubique
telluris praesto sunt, ac fricantur? At huic quaestioni satisfacere
in promptu est, postquam compertum omnia omnino corpora, metallis
tantum ac lapidibus exceptis, probe assata, maxima electricitatis
_originariae_ virtute pollere. Sane non desunt ligna, aliaque corpora,
quae quotidie, et ubique locorum comburuntur. Quod si haec corpora
rite ustulata qualibet vel levi frictione, percussione, scissione
illico electricas vires exerere observavimus (XXII); nonne plane
credibile est particulas, quae vi ignis, vel aliquomodo abraduntur ab
his corporibus, dum per varios gradus combustionis transeunt, quaeque
fumose ascendunt, similiter electricam vim induere? Nec obstat quod
ea debilis sit, nec facile signis exploranda, dummodo esse aliquam
concedatur: immanis enim particularum avolantium copia in subsidium
venit. Porro vim hanc qualemcumque sive diu tenaciterque servent hae
particulae, etiamdum ad superiora athmosphaerae loca evectae in nubes
coeunt, sive in aere quem tranant sensim deponant, aeque semper nubium
atque atmosphaerae electricitas obtinebit. Quod de corporibus vere ex
igne combustis dixi, intellectum volo, habita ratione inaequalitatis
virium, de iis etiam, quae aestu solis torrentur. Re enim vera inveni
ligna, corium, ossa etc. aestivis solibus diu exposita apta evasisse,
quae frictione electricas aliquas vires sibi compararent. Sed quae hic
profero conjectationum vim non excedunt; nondum enim experimenta, quae
rem conficiant, suppetunt. Latus sane campus hujusmodi experimentorum
aperitur uberem fructum promittens. Quantum ex hoc mihi jam alacriter
ingredienti percipere dabitur, nescio. Optandum ut melioris notae
Physici ad hoc tentaminum genus animum adjungant, majora certe
praestituri.



LETTERE SULL'ELETTROFORO PERPETUO

_Questi articoli sono stati estratti dal Volume 8.º della Scelta di
Opuscoli di Milano p. 127._



ELETTROFORO


ARTICOLI DI DUE LETTERE

_Scritte al P. C. G. Campi. C. R. S._

                                                 Como 13 Giugno 1775.

Ho scritto ultimamente a Priestley alcune che credo mie scoperte
in elettricità, e forse sorprendenti. Ho costrutto un piccolo
semplicissimo apparecchio, che sta tutto rinchiuso in una scatola
portatile comodamente in tasca. In questo ho stampata, dirò così,
un elettricità tale, che non s'estingue più mai; ve l'ho impressa
senz'altro corredo di macchina; e sì ne ho i segni d'ogni maniera senza
dispendio finchè mi giova averne, e segni affatto vivaci, bastevoli
ad elettrizzare fortemente un ben capace conduttore, un uomo isolato,
e caricare una boccia per la scossa ec. in somma quanto s'ottiene
da una competente macchina, io l'ottengo dal mio apparecchio senza
ruota, senza giro, senza stropicciamento di sorta, a riserva del
primo leggerissimo impiegatovi una volta sola quando dapprima, ed
ha già più d'un mese, vi stampai l'elettricità; l'effetto del qual
primo, ed unico strofinamento, senza che più si rinnovi, ho trovato
un mezzo facilissimo di far sì, che nè manchi, nè punto pur scemi
per qualsivoglia tratto, e sia pure interminabile. Mi trovo in grado
di chiamare questa specie d'elettricità _Vindice indeficiente_, e il
mio apparecchio _Elettroforo perpetuo_. Questi miei ritrovati potrò
in breve pubblicarli con la stessa lettera con cui ne do parte a
Priestley, quando pure non pensi meglio a farlo con una memoria più
seguita, ed estesa.

                                                      22 Giugno 1775.

Potrà aggiugnere a quel tanto che ne dissi un altra cosa, la quale può
far crescere la sorpresa, ed è che non solo ho il mezzo di esaltare
l'elettricità del mio apparecchio, qualora dopo lungo tratto di
giorni, o settimane si scorga infievolita, e di ricondurla al grado
massimo d'intensione senz'altro ajuto di macchina, o di novello
stropicciamento; ma quello eziandio, ed è poi lo stesso, di far servire
l'elettricità comunque sia o debole, o forte d'un apparecchio, ad
eccitare in un secondo, e se bramisi pur gagliarda, in un terzo, in
dieci, in cento apparecchi ec. senzachè venga a smarrirsi la prima.


ARTICOLO DI UNA LETTERA[32]

_Al Sig. Dottore GIUSEPPE PRIESTLEY._

                                                 Como 10 Giugno 1775.

. . . . . . Io non so se tanto prometter mi debba dalle mie
osservazioni, che esse anzichè importune, gradite vi riescano, e
interessanti. Avanzandole siccome miei nuovi ritrovamenti, avvenir
potrebbe un'altra volta che deluso rimanessi non altrimenti che accadde
di quelle sopra il legno abbrustolito, cui la vostra eccellente Storia
dell'Elettricità avveder mi fece, ma troppo tardi, essere state in
parte da altri preoccupate. Or chi sa che la continuazione da voi
disegnata della medesima Storia non venga per egual modo a rapirmi
la gioconda illusione di queste nuove mie pretese scoperte? Comunque
la cosa sia per riuscire, io dovrò non men d'allora saper grado alla
lezione della vostra Storia del disinganno, e de' lumi che mi verrà
porgendo; ma grado mille volte maggiore vi saprò, se fin d'ora mi
significherete candidamente qual luogo, e parte io mi possa sicuramente
attribuire nell'invenzione de' fatti, che a me sembran nuovi; e il
valore che voi medesimo loro date.

Voi avete già inteso che l'Elettricità è il soggetto de' miei
ritrovamenti. Or dirò il genere particolare intorno a cui s'aggirano.
Egli è quel ramo, che se a buon diritto nol so, ha ottenuto di
chiamarsi _Elettricità Vindice_[33]. Ecco in breve il capitale
dell'invenzione che ha sorpreso me, e quanti finora furono a parte
di un tale spettacolo. Io vi presento un corpo che una volta sola
elettrizzato per brevissim'ora, nè fortemente, non perde mai più
l'elettricità sua conservando ostinatamente la forza vivace de' segni a
dispetto di toccamenti replicati senza fine. Voi tosto indovinate che
sì fatto corpo vuol essere una _lastra isolante_ vestita, e snudata
a vicenda della sua _armatura_: ed è ciò appunto che io ho inteso di
accennare, allorquando ho detto, che i fatti che sono per riferire
appartengono all'_elettricità vindice_. Ma non che indovinare, durerete
forse fatica a credere la costante vivacità de' segni, e più la
straordinaria loro durevolezza, che è veramente quale ve la propongo,
senza termini, o limiti, mentre osservato avrete, che troppo lungi
ne sono que' che s'ottengono dalle lastre di vetro tenute in conto
delle più eccellenti, e guernite della consueta armatura d'una foglia
metallica reputata essa pure la più acconcia a tal uopo; infatti con
tale apparato si hanno da principio alcune vive scintille, ma che ben
presto illanguidiscono, e durano per lo spazio di poche ore in tempi
ancora favorevolissimi. Perciò appunto io ho rifiutato, e le une, e
le altre sostituendo alle lastre di vetro, quelle di ceralacca, di
zolfo, o d'altra resinosa materia; e alle sottili, e pieghevoli foglie
surrogando altre _armature_ metalliche sì, ma ferme, e di volume assai
più ampio, e modellate su lodevole forma d'un capace _conduttore_. E
con ciò quantunque mi sembri d'avervi data un'idea generale della somma
di questo nuovo apparato, permettetemi ch'io vi descriva parte a parte
quello di cui fò uso, che è semplicissimo, e la maniera di trarne i
promessi vantaggi.

Ho dunque un piatto di stagno con l'orlo che rileva poco più d'una
mezza linea, d'un piede di diametro, entro ho versato un mastice
fuso composto di trementina, ragia, e cera, steso, e rassodato in una
superficie piana, e lucida. Ne ho parecchi altri, e più grandi, e più
piccoli di legno eziandio al cui fondo è incollata una laminetta di
piombo, e in cui ho versato ove zolfo, ove ceralacca, ed ove altri
mastici di varia composizione, ma l'indicato di sopra ch'io fo di tre
parti di trementina due di ragia, ed una di cera bollite insieme per
più ore, mescendovi in fine alquanto di minio, ad oggetto di avvivarne
il colore, l'ho trovato il più comodo, e il migliore. Fa l'officio di
armatura al di sopra un legno dorato della figura a un di presso d'uno
scudo di dieci pollici di diametro, e alto due all'incirca, piano nella
base che dee combaciare col mastice, alquanto convesso nei lati, o
sia nel contorno. Dal centro della concavità sorge un manico di vetro,
o meglio di ceralacca ben levigato, che ha gli spigoli (e ciò rileva
assai) smussati, e ritondati. Chiamerò dunque quest'armatura col nome
di _scudo_. Stimo superfluo l'avvertire, che mi attengo ordinariamente
ad uno scudo di legno dorato, perchè meno dispendioso, e più leggiero,
e manesco che uno di metallo sodo. Peraltro avendo in seguito pensato
a farne uno d'ottone tutto cavo interiormente a foggia di una scatola,
che serve per un altro apparato minore portatile in tasca, trovo che
m'offre in compenso non piccoli vantaggi, uno rilevante, che è quello
d'essere più forbito, e perciò di dissipar meno d'elettricità: gli
altri di sola appariscenza, e comodo, per atto d'esempio di render
sonore le scintille anche meno vive; e di poter racchiudere in esso
vari stromenti che vengono ad uso, come caraffe, manichi per isolare,
palle, fili ec.

Eccovi, Sig., tutto l'apparato —

Mettiamolo ormai alle prove, e veggiamo come gli effetti corrispondono
alle promesse. Carico mediocremente la lastra al modo ordinario
coll'ajuto della macchina, e ne provoco la scarica giusta il costume
toccando congiuntamente, o alternatamente _lo scudo_, e _il piatto_.
Allora alzando lo _scudo_ pel suo manico isolante, e riponendolo
sul mastice, con toccarlo alternatamente, siccome richiede la teoria
dell'_elettricità vindice_; e quando è alzato, e quando torna a posare
ne ho scintille tali, e sì vive (quelle segnatamente dell'innalzamento,
e più le succedenti alle prime due, o tre) che si spiccano, e dirigonsi
alla nocca del mio dito ad un pollice e mezzo, e talora più di
distanza, per nulla dire del venticello, e de' fiocchi di luce che
si manifestano sulle punte all'intervallo di più pollici, e degli
attraimenti de' corpicciuoli oltre allo spazio d'un piede. Che più? Con
quattro, o sei scintille cavate dallo _scudo_ elettrizzo fortemente un
_conduttore_ assai capace, un uomo isolato ec., con trenta in quaranta
di esse carico fortemente una caraffa; tutte queste operazioni io
fo, e replico finchè mi piace. Ma i segni illanguidiscono col tempo?
Nol niego, massimamente ove non si cessi di tormentar l'apparecchio
per lungo tratto, e a varie riprese. Dunque finalmente cesseranno del
tutto? Sì, ciò forse avverrà, ma non so dopo qual tratto di tempo. Ma
che direte se io dimostro che questa minacciata estinzione de' segni
si può prevenire, e riparare l'illanguidimento, e finanche ristorare il
primiero vigore con niun altro ajuto che quello delle deboli forze che
rimangono? M'affretto a spiegarvi per qual modo ciò si possa ottenere.

È cosa troppo nota che si può caricar una lastra per mezzo d'un'altra
lastra, o caraffa già caricata, col compartire a quella la carica di
questa. Or bene, io non cerco di più; imperciocchè se col mio scudo,
allora pure che non mi dà se non scintille deboli, giungo a caricare
anche debolmente una caraffa, posso contare d'avere in questa caraffa
un ristoratore dell'elettricità indebolita, e di portarvi una vera
aggiunta eccitandone la scarica, o sia compartendola alla superficie
del mastice. E così adoperando non m'inganno, col badar bene però di
applicare al mastice non già l'uncino della caraffa, se questo ha
ricevuto la carica dallo scudo, ma sibbene la pancia, o la base; e
vice versa, se questa ha toccato lo scudo. Per poi viemeglio riuscir
nel mio intento non iscarico la caraffa in un colpo sopra la faccia
armata del suo scudo, ma gradatamente con una scintilla per volta, o
(che è d'un bel tratto più efficace) portando a combaciamento la base,
o l'uncino della caraffa colla faccia nuda del mastice, e scorrendovi
sopra per tutto, onde imprimere, dirò così, ad ogni punto la competente
porzioncella di carica. Per tal modo e con tale attenzione trovo più
spediente di elettrizzare il mio apparecchio ben anche la prima volta,
senza applicarlo immediatamente alla macchina per mezzo solamente d'una
caraffa carica; e se vaghezza mi prende di far senza interamente d'ogni
macchina, e nulla prenderne ad imprestito, ci riesco con pochissima
pena usando un leggiere stropicciamento di mano, o panno, o carta, o
(che è meglio) pelliccia fina, e bianca sulla faccia del mastice ancor
vergine, col quale strofinamento produco primamente, e in un attimo
una discreta elettricità, che messa poi a profitto mercè il replicare
una, o due fiate l'artificio già descritto di caricare un caraffino, e
rinfondere la carica sulla superficie del mastice, arriva in brevissimo
tempo al sommo di vivacità.

Se mi chiedete dopo quanto intervallo di tempo faccia mestieri
di ricorrere a cotale industre modo di ravvivare l'elettricità
moribonda, perchè non si perda del tutto, vi dirò non aver io
fissata, nè potersi per avventura fissare regola alcuna. Sono però
in grado d'assicurarvi che dopo il corso non già d'ore, o di giorni
(soprattutto se l'apparecchio si lasci buona parte del tempo in riposo,
e ben custodito, sicchè si mantenga asciutta, e pura la faccia del
mastice) ma d'intere settimane l'elettricità non vi verrà mai meno,
solo che vi prendiate la cura di replicare due, o tre volte il giuoco
della caraffa. Non debbo quì lasciar di suggerire che in luogo d'una
caraffa di vetro torna forse più comodo un cannoncino di rame, o latta
intonacato di cera lacca, o mastice, e armato acconciamente, a cui
avvegnachè tocchi minor quantità di carica, ciò non ostante perchè
l'acquista prestissimo, serve perciò meglio, e quello che più monta,
teme assai meno l'umidità dell'aria.

Non so finir di parlare dell'artificio di risvegliar l'elettricità
languente col rifondere, e ritorcere contro di se stessa quella poca
che rimane, e sì ricondurla al grado massimo d'intensione, senza dire
che sebbene tal ritrovamento non sia altro più che una conseguenza
della teoria, che appunto me lo ha fatto tosto immaginare, sembra
però oltre modo maraviglioso a chi non sente ben addentro in così
fatte cose, e senza confessare ch'io stesso ne andai pieno di gioja
tostochè vidi il fatto risponder pienamente all'idea concepita, non
meno per la bella armonia, che ravvisai co' principj come per la
novità sorprendente che ne risultava unita al vantaggio di poter,
ove che fosse, col mio semplice apparato passarmela senza il corredo
della macchina, e produrre ciò nonostante lo spettacolo della più viva
elettricità, e con quel solo destarla egualmente viva in altri apparati
senza fine (la qual industria mi richiamò tosto alla mente quella onde
andiamo debitori a Voi Inglesi di calamitare fortissimamente l'acciajo
senza calamita), e sì anche perchè io veniva a giustificare l'aggiunto
di un nuovo vocabolo, che non senza esitazione aveva destinato a
questa fatta di elettricità, il che ora senza scrupolo, e a tutto
rigor di termine sento di poter fare, chiamandola elettricità _Vindice
indeficiente_. Che se a voi non dispiacesse, ardirei pure imporre un
nome al mio picciolo apparecchio, e sarebbe quello di _Elettroforo
perpetuo_.

Or vi dirò che ho immaginato di inalberare sulla sommità dello scudo
un asta di ferro contro le nuvole, di maniera che abbia ad involare e
concepir in seno del fuoco elettrico di colassù.

Vi ho reso conto, Signore, dei sommi capi delle mie scoperte, se tali
pur sono, tralasciando tutto il dettaglio de' varj tentativi, e le
molte riflessioni che mi ci han condotto, o spuntate ne sono, e che
però riservo per un'altra Lettera, o per la Memoria, che vi dissi
da principio aver in animo di pubblicare. Questo solo vi anticipo,
che tutto tende a confermare quella mia sentenza che mi argomentai
già di venir persuadendo nella Dissertazione _De vi attractiva ignis
electrici_ etc. 1769, cioè, che le elettricità delle lastre, non si
estinguono realmente, e interamente per la scarica, come ha preteso
il P. Beccaria, e persiste anche in oggi a volere[34], ma perseverano
lunga pezza ad esservi in parte aderenti, inducendo, perchè abbia luogo
un certo quale equilibrio, l'elettricità contrarie nelle respettive
_armature_; onde vengono per tal modo a contrappesarsi; onde le
adesioni d'esse armature alle facce della lastra; onde finalmente lo
sbilancio della separazione, i segni ec. Quell'eccellente Professore di
Torino è portato in conseguenza del suo opinare ad accagionar la luce
che spunta trallo disgiungimento d'indurre una nuova elettricità sulla
faccia della lastra che si snuda, a spese dell'armatura: io accuso
questi discorrimenti di luce di portare non già l'_inducimento_ di
una nuova, ma all'opposito un vero _dissipamento_ delle due contrarie
elettricità; della prima cioè impressa, e tuttor'affitta alla faccia
isolante, e dell'opposta indotta nell'armatura per l'antecedente
scarica: e sì seguendo quelle strisce di luce, e contemplandole
attentamente, dalle circostanze in cui si mostrano, o nò, o
crescono, o scemano, dalla figura, da tutto in somma ricavo argomenti
evidentissimi, e palpabili, che il mio sospetto è pur vero. E per
addurne una, od altra prova: se altrimenti andasse la bisogna, a grado
cioè del Padre Beccaria, non dovrebbe l'ordinaria armatura di foglie
metalliche dispiegare, e in se stessa, e nella faccia della lastra
che lascia nuda, elettricità maggiore, che non quando fa l'ufficio
d'armatura il mio scudo? tanto maggiore, io dico, quanto le strisce di
luce ch'eccita quella nell'atto del divellerla sono più copiose delle
strisce ch'eccita codesto scudo? Ma appunto succede il contrario: e
a questo singolarmente è dovuta la prestante eccellenza del mio scudo
sopra le solite armature, dall'aprir esso lo sfogo a minor luce, che è
quanto dire a minor dissipamento.

Diciam più: se la luce che compare trallo disgiungimento fosse quella
dell'elettricità, che la faccia snudata rivendica a se, o vogliam
dire ripete dall'armatura, giusta il sentimento dell'avversario, non
so vedere perchè non dovesse provocarne molto di più di questa luce
quando s'alza l'armatura, senza tenerla isolata, che non quando s'alza
isolata; giacchè nel primo caso ne è la capacità senza limiti. Eppure
punto, o poco di luce appare alzando lo scudo non isolato, nello stato
cioè che potrebbe più fornirne; e grandi strisce ne spicciano alzandolo
isolato. Dunque non è la faccia snudata che muova questa luce,
perchè cerchi ricuperare la sua antica elettricità a spese diremmo
dell'armatura; nè questa obbedisce altrimenti alle sollecitazioni di
quella; ma a se stessa obbedisce, cioè a quella forza di dissipare quel
soverchio di elettricità propria, di cui è insofferente, e che perciò
scappa massimamente dagli angoli.

Io non ho fatto più sperienze sull'aria....


_AGGIUNTA_

Avendo pensato che il nuovo apparecchio oltre la sorprendente
singolarità de' segni indeficienti, di cui si è venuto ragionando,
offre altri non meno reali che speciosi vantaggi, sì per la mira
d'illustrare per eccellente modo la teoria elettrica, sì per lo scopo
di condurre con l'ultima agevolezza ogni maniera di sperienze, i quali
vantaggi hanno obbligato a dar a quello la preferenza sopra ogn'altro
apparato non dirò me solo, cui l'amore di un bel ritrovamento potrebbe
di leggieri aver sedotto, ma alcuni eziandio che da principio si
mostravan ritrosi a concederli questa superiorità; e considerando
d'altra parte che la descrizione da me datane ristretta ne' limiti
d'una lettera, e all'intelligenza de' più esperti elettrizzatori,
potrà per avventura far nascere desiderio a taluno non versatissimo,
il quale amasse pure, di ricrear se ed altri con siffatte dilettevoli
sperienze rese omai sì domestiche e comuni, d'avere sott'occhio il
disegno de' pezzi, e il giuoco che loro si fa eseguire, ho pensato di
far cosa grata esponendo nelle seguenti figure sotto diversi aspetti,
e combinazioni tutto ciò che compone uno de' miei comodi apparati
portatili, e quanto esso offre su due piedi a vedere di singolare. AA
(fig. 1) è _il Piatto_, o sia una lastra d'ottone lavorata al torno con
l'orlo ben rotondato prominente nella faccia superiore una mezza linea
all'incirca, in cui è contenuta la stiacciata di ceralacca, o mastice
B, nella inferiore sporgente una buona linea, o più pell'uopo che si
dirà. CC è lo _Scudo_ di legno dorato, o d'ottone cavo, senz'angoli,
e ben forbito, che si apre a foggia di scatola, e contiene i vari
pezzi che hanno da venire ad uso. E è il _manico isolante_, cioè un
bastoncino di vetro intonacato di ceralacca, armato nell'estremità
di due cappelletti d'ottone _ff_ (fig. 2), uno fatto a vite con cui
si ferma a un bottone lavorato per questo nel centro della faccia
superiore dello scudo CC, e l'altro che termina in un anello, per cui
si regge alzandolo (fig. 2,3).

Nella figura 1. sta il piatto AA, o meglio il mastice armato del suo
scudo CC ricevendo l'elettricità, o sia la carica dalla catena O di una
macchina ordinaria; indi se ne eccita la _scarica_ dalla mano AD che
tocca congiuntamente il _piatto_, e lo _scudo_. (fig. 2.) Una mano alza
per mezzo dell'anello _f_ del manico E, lo scudo CC; e l'altra mano
X ne trae una lunga scintilla: e ciò ognora che si leva lo scudo dopo
averlo posato, e poi toccato.

La stessa fig. 2 mostra come elettrizzato una volta un solo apparato,
se ne possa avvivar un altro, o quanti altri ne aggrada: dando cioè
replicatamente le scintille dello scudo alzato ad un filo, od uncino
d'ottone K sporgente da un altro scudo, che posa sul suo mastice.
Fatto ciò, e mutando mano voi potete con questo secondo, e collo stesso
processo rinvigorir la forza nel primo, e così via via reciprocamente.

(Fig. 3). L'operazione indicata è simile a quella della figura
precedente, tranne che si fanno spiccare le scintille dallo scudo
CC verso l'uncino I della caraffa armata G, la quale perciò viene a
caricarsi. La mano D sta in atto di toccare il _piatto_ in A, e lo
_scudo_ in C ogni volta che posi, e di ritirare da questo il dito
qualor s'alza. La caraffa poi si scarica coll'_arco conduttore_ T, o si
adopra per la scossa ec.

(Fig. 4). Colla caraffa stessa caricata nel modo surriferito si ravviva
l'elettricità, che per avventura si fosse indebolita. S'impugna dalla
mano L per la pancia G, si posa sulla faccia nuda del mastice B. Indi
lasciata la pancia si trasporta la mano L a reggerla pell'uncino I, e
così dimenandola si viene a scorrere sopra tutta la faccia B fin presso
l'orlo del piatto AA, senza però toccarlo: dopo di che si rimette lo
scudo, si scarica toccando ec.

(Fig. 5). Senza poi togliere ad imprestito alcuna straniera elettricità
basta ad imprimerla la prima volta sulla faccia del mastice ancor
vergine B, un leggiero strofinamento colla palma della mano. Questo
v'imprime elettricità di _difetto_, e tale pure ve l'eccita lo
strofinare con panno, carta ec.; ma strofinando con carta dorata
sorge spesso (non però sempre) elettricità di _eccesso_. I segni che
s'ottengono col solo strofinamento sono alquanto deboli, è vero;
tuttavia essendo capaci di caricare alcun poco la caraffa, eccovi
pronto il mezzo di avvivarli col giuoco di sopra mentovato della stessa
caraffa.

(Fig. 7). Il piatto AA è sorretto da una colonnetta di vetro E,
intonacata di ceralacca, impiantata, o fermata a vite nel piedistallo
ossia scatola di legno PP (che serve poi a rinchiudere tutto
l'apparato), e fermata pure a vite a un dado, o bottone che risalta
dal centro della faccia inferiore di esso piatto (e questa è la ragione
per cui l'orlo inferiore del piatto debbe sporgere alquanto più, come
si è di sopra avvertito, a fine cioè che il bottone non impedisca
quando si vuol far posare il piatto piano e fermo). Questo piatto così
_isolato_ porta una punta ottusa N inserita in uno de' forellini _s
s s_ praticati a tal oggetto sì nell'orlo del piatto, come attorno
allo scudo, e un'altra verghetta metallica terminante in palla Q,
a cui viene presentata a qualche pollice di distanza la punta M. Lo
scudo CC porta pure inserita una punta N nel mentre che un'altra M
gli vien presentata dall'opposto lato. Ogni volta adunque che s'alza
nella debita forma lo scudo CC (ben inteso che non si ometta mai la
solita alternativa dei toccamenti allora che posa) si manifestano
due _fiocchi_, e due _stellette_: un _fiocco_ dalla punta M contro la
palla Q del piatto, ed una _stelletta_ sulla punta N che sporge dal
piatto medesimo: vice versa il _fiocco_ spicca dalla punta N attenente
allo scudo, e la _stelletta_ compare sulla punta M che guarda esso
scudo. Questo avviene allorquando l'elettricità impressa sul mastice
sia _difettiva_, quale cioè la suole eccitare lo strofinamento della
mano ec. Qualora sia _eccessiva_, mutan tutti luogo i _fiocchi_, e
le _stellette_, comparendo appunto a rovescio. (fig. 8) In somma è
la stessa che la fig. 7, ma rovesciata. Lo scudo CC è sorretto in
luogo del piatto AA dalla colonna isolante E fermata sul piedestallo
PP, ed esso scudo porta la verghetta armata di palla Q, le scintille
della quale in tempo che s'alza il piatto AA pel manico E vibrate
vivissimamente contro l'uncino I della caraffa G la caricano, mentre
che esso piatto pure eccita scintille in A dalla nocca d'un dito, e può
caricare contrariamente un'altra caraffa.

Non debbo lasciare di far osservare che si può supplire all'incomodo
di toccar colla mano lo scudo ogni volta che si è posato, con un
mezzo facilissimo. Basta inserire nell'orlo del piatto A fig. 2 in un
de' forellini _s_ un fil d'ottone terminante in una picciola palla,
ripiegato in modo sopra la faccia del mastice, che detta pallina venga
a toccare lo scudo CC quando si posa: così siegue da se la scarica.

La fig. 6 rappresenta il fondo, e il coperchio della scatola di legno
PP destinata a chiudere tutto l'apparato, per portarselo in tasca.
Questa scatola poi medesima serve come di base, o piedestallo a portare
la colonnetta isolante E fig. 7 e 8: al qual fine nel centro del
coperchio si è praticato un buco _y_ atto a ricevere la vite _f_ di
detta colonnetta E. Serve pure essa scatola coll'ajuto di quattro piedi
isolanti _zz_, ch'entrano a vite sotto il di lei fondo, di sgabello,
su cui può montare una persona per essere elettrizzata ec. Allorquando
s'ha a chiudere tutto l'apparecchio, si nascondono questi piedi in un
cogli altri bastoncini isolanti, colla caraffa, le verghe puntate,
l'arco conduttore ec. in seno allo scudo; esso scudo poi col piatto
si racchiude in cotesta scatola di legno: ed ecco assettato, e riposto
tutto.

Benchè dalle figure quì espresse rilevinsi abbastanza i comodi, e i
vantaggi che offre questo apparato sopra ogn'altro, gioverà toccarne
quì ancor di passaggio alcuni, accompagnandoli con poche avvertenze
intorno al maneggio di cotesto Elettroforo.

Quanto ai vantaggi, non ci arrestiamo più al massimo e solenne, che
è la durevolezza, anzi meglio perennità dei segni: se n'è detto già
abbastanza a suo luogo. Unicamente si vuol far notare, che sebbene
la costanza nel mastice a ritenere l'elettricità impressa regga agli
attacchi dell'umido, e fino alla prova insolente di alitarvi sopra a
larga bocca; pure sviene, e si dissipa quasi in un subito ogni virtù,
tentata dalle _punte_ la superficie di esso mastice: e ciò per tal
modo, che scorrendovi sopra senza notabile strofinamento, e dirò così,
leccandola con un fiocco di fili, o carta d'oro, ed anche solamente
con una spazzola, con un pezzo di lana ec., tutta l'elettricità viene
a smarrirsi. Questa debole disposizione mi torna talvolta a comodo.
Qualora non so che farmi dell'elettricità d'un apparato, e cerco
d'aver il mastice siccome fosse vergine, non ho che a stendere bene il
mio fazzoletto sopra la faccia di quello; ed ecco spenta ogni virtù.
All'incontro ognor che voglia conservata l'elettricità per giorni,
o settimane, ho cura di non permettere che panno, o tela, od altro
chicchessia irto di peli venga a scorrere od applicarsi sulla faccia
del mastice; e mi tengo fino in guardia, che i miei manichetti in
qualche parte non mi tradiscano. Ma con tutte queste attenzioni toglier
non posso, che la polvere, e i peli sottilissimi, che d'ogni parte
accorrono attratti dalla faccia elettrica, non vadano di mano in mano a
portare notabile illanguidimento ai segni, in ragion che dura il giuoco
di alzare ed abbassar lo scudo: sicchè è pur mestieri per ottenerli del
tutto vivaci ricorrere di tempo in tempo al maneggio della caraffa ec.
Tuttavia il decadimento non è tale, che non si mantengano a dispetto
di tormentar di continuo l'apparato, e senza l'artificio di ravvivarli,
per ore e giorni.

Non è per la sola durevolezza e vera _indeficienza_ dei segni, che
il nostro elettroforo ottiene sicuramente il primo vanto; ma per
la _grandezza_ eziandio di questi, e per la _qualità_. Per qualità
intendo e la natura dell'_elettricità vindice_ in genere, che non
è propriamente la stessa dell'elettricità ordinaria, di quella cioè
che muove immediatamente dallo stropicciare, e a questa sola cagione
risponde; e intendo più in particolare le vicende dell'elettricità non
già più di natura, ma di specie soltanto contraria, com'è d'_eccesso_,
e di _difetto_, le quali in tante forme, e quasi con niun particolar
maneggio si manifestano a un tempo, come si è veduto nella fig. 7 e
8, in cui già di per se danno i segni vivaci, e continui sì il piatto,
che lo scudo, questo _contrariamente_ a quello: laddove nelle macchine
ordinarie, sebben si preparino con i _cuscini isolati_, compajono è
vero le due elettricità opposte; ma durando l'isolamento dei cuscini,
ben presto ammutoliscono quasi del tutto i segni nella catena.

Il cambiar poi tosto nella contraria l'elettricità sì de' _cuscini_ che
della _catena_ non è tanto agevol cosa nelle macchine usuali: anzi se
queste, com'è di solito, portano il disco di vetro liscio, non è mai
che si ecciti altra elettricità che di _difetto_ negli _strofinatori_,
qualunque essi siano, e di _eccesso_ nella _catena_; se poi il disco
sia di zolfo, potrem bene elettrizzare or nell'una, or nell'altra
maniera, ma è mestieri per ciò cangiare di _strofinatori_. L'apparato
nostro non abbisogna d'altro per mutar le vicende de' segni, che di
compartir sopra il mastice la carica della caraffa da quella banda
che la ricevette dallo scudo (es. gr. nella fig. 4 va impugnata la
pancia G della boccia, e visitato il mastice coll'uncino I). A tal uopo
gioverà aver prima distrutta, mediante l'applicazione del fazzoletto,
l'elettricità vecchia del mastice.

Ma queste vicende delle contrarie elettricità riescono poi affatto
graziose usando di un Elettroforo per animarne un'altro, come nella
fig. 2; e più avendovene una serie: giacchè se il primo era elettrico
per _eccesso_ dà al secondo l'elettricità per _difetto_, e questo
secondo porta novellamente carica d'_eccesso_ al terzo; e così
adoperando di seguito, il quarto diventa elettrico come il secondo, il
quinto come il primo, e il terzo ec. Alzando poi ad un tempo due scudi
vicini, vale a dire contrariamente elettrizzati, ne spicca la scintilla
del doppio più forte coerentemente alla teoria.

Finalmente la costruzione del nostro apparato vi offre il mezzo più
sicuro, e spedito di esplorare queste vicende medesime, ossia la specie
di elettricità in ogni caso. Abbiate un piccolissimo Elettroforo
(può essere non più grande di due pollici), con de' fili appesi
allo scudetto. Una volta sola che impressa ci abbiate l'elettricità
qualunque, ad ogni sollevamento dello scudo si rizzeranno, e
divergeranno i fili, e semprechè nota vi sia la specie d'elettricità
onde rimangono imbevuti, vi dinoteranno coi moti d'_attrazione_, o
di _ripulsione_ verso altro corpo elettrico, la specie di cui questo
gode. Più chiara, e decisiva ne sarà la prova, se due di cotai
piccoli Elettrofori vi abbiano alla mano, un de' quali porti scolpita
l'elettricità per _eccesso_, l'altro per _difetto_. Or questi, che
convenientemente all'uso loro io chiamo _Esploratori_, servono ben
meglio che i nastri di seta bianchi, e neri soliti ad usarsi per
tal uopo, i quali smarriscono presto la lor virtù, e ci obbligano
a stropicciarli tratto tratto: ciò che non accade di dover fare co'
primi, che non abbisognano d'altro maneggio per giorni, e settimane.

Diciamo or qualche cosa della superiorità riguardo alla _grandezza_,
o forza de' segni: e così diremo anche della facilità d'ottenerli
mercè di alcune cautele. In generale le scintille da un apparato di
mediocre capacità s'ottengono ben vive: e sono stato modesto anzichè
nò nel dire che emulavano quelle d'una competente macchina ordinaria.
Adunque un Elettroforo da tasca, qual è il descritto nelle figure, che
porta lo scudo del diametro di pollici cinque inglesi, mi dà scintille
alla distanza di due buoni diti, e talor più. Con un'altro, che fu
il primo da me costrutto di pollici otto, e tre quarti le ottengo
all'intervallo di più di tre diti; e da uno di pollici diciassette
vengono sì scuotenti, e fragorose, che son quasi insoffribili. Io
mi aspetto da uno che sto facendo costruire di più di due piedi di
diametro, effetti sovragrandi, e strepitosi, superiori a quelli della
miglior macchina ch'io mi abbia visto: giacchè mi s'ingrandiscono
smodatamente i segni in ragione che cresce la superficie. Eppure con
una superficie sì poco estesa, com'è quella di due pollici nel piccolo
Elettroforo che ho chiamato _esploratore_ i segni sono bastantemente
forti per manifestarsi con scintilluzze, e dare una carica sensibile ad
una piccola boccetta.

Ma ecco le attenzioni necessarie per averne sì grandiosi effetti: e
primamente riguardo alla costruzione. Egli è di troppo essenziale che
lo strato del mastice sia sottile; e il meglio è sempre che lo sia il
più che far si possa, salvo che la troppa sottigliezza non provochi
la scarica attraverso l'istesso mastice: perciò è da curar bene che
alcuna screpolatura non dia luogo ad una spontanea esplosione; e
l'orlo pure del piatto deve restare convenientemente distante dallo
scudo od essere coperto dal mastice, ad oggetto di permettere la più
forte carica, senza che se ne ecciti l'esplosione spontanea. La faccia
poi del mastice vuol essere sì piana, che benissimo vi s'adatti lo
scudo, piano esso pure nell'inferior faccia, però senz'ombra quasi
d'angolo, e ben ritondato nel contorno. Dico piano il mastice, sebbene
con la superficie alquanto scabra riesca con eguale, o forse miglior
esito; ma intendo che non v'abbiano ridossi, e grandi ineguaglianze,
onde lo scudo sia tenuto discosto da molti tratti di superficie. È
egli necessario l'avvertire, che se il mastice pel lungo uso si trova
insudiciato convien ripulirlo? Non si crederebbe quanto contribuisca
l'essere esso mondo, e scevro d'ogni lordura. Però giova assaissimo
tenerlo sempre ben custodito: e quando pur si vegga imbrattato (di che
anche s'accorge per un certo viscidume, se si stropiccia) raschiandolo
con una lama di coltello, e col far iscorrere per brevissima ora la
faccia di questo mastice sopra le brage, o entro la fiamma stessa, gli
vien tosto ridonata colla sua nitidezza l'ottima disposizione ad agire.
Ho trovato che passandolo sopra la fiamma di una candela, quella sottil
patina di che è lordo s'imbianca, e s'annebbia come fa l'alito sulla
faccia di uno specchio, e tosto come questa sparisce, lasciandovi la
maggior lucentezza. Ecco dunque un mezzo facilissimo di raccomodare il
mastice guasto o imbrattato, senza fonderlo tutto di bel nuovo.

Riguardo al maneggio dell'apparato, se la giornata non è del tutto
favorevole bisogna asciugar bene al fuoco, o al sole non già tanto il
mastice, che, come s'è detto da principio, poco o nulla teme l'umido,
ma la boccetta, e il manico isolante: ed è più spediente ancora in
luogo di regger lo scudo per il bastoncino di ceralacca, alzarlo con
cordicelle di seta asciutte, e monde, e piuttosto lunghe. Come abbiam
già toccata l'importanza di tener lungi dalla faccia del mastice
la polvere, e i peli, si vuol aggiungere che importa finanche di
nascondere i manichetti perchè essi pure a poca distanza rubano molto;
il tener discoste le vesti ec. Quando poi occorre d'indurre primamente
l'elettricità sul mastice collo stropiccío della mano, è più necessaria
la cautela di far rientrare i manichetti (fig. 5); e necessarissimo è
che essa mano sia ben asciutta: altrimenti varrà meglio lo strofinare
con carta, panno, e singolarmente con velluto bianco; ma trovandosi
quella asciutta, io prometto che il solo scorrere velocemente sulla
faccia del mastice colla palma due, o tre volte senza premerla con
forza, basterà perchè abbiate tosto dallo scudo la scintilla quasi d'un
dito.

Dopo tutto questo che ho detto de' vantaggi del mio Elettroforo, non ho
pena a confessare, che le macchine ordinarie ben grandi, e ben eseguite
ne' tempi _favorevolissimi_ giungono più presto a caricare un quadro di
ampia superficie, od una batteria, per la ragione che il fuoco vi cola
incessantemente: laddove nel nuovo apparecchio spiccando le scintille
con quella interruzione, che porta l'abbassare, e rialzar lo scudo, più
tardi ci si perviene. Ho detto ne' tempi favorevolissimi: perchè poi
sono gli effetti dell'Elettroforo sì vivi anche ne' tempi men propizj,
che vuolsi bene spesso preferire un simile apparato che sia grande,
per l'oggetto pure di caricare quadri, e batterie, alla macchina di
vetro ordinaria, da cui le molte volte si pena a cavar partito. Oltre
di che io credo non sarà difficile col tempo immaginare de' mezzi per
ottenere cotesto necessario accostamento, e discostamento dello scudo
più speditamente, e con un moto uniforme, e con minor incomodo. Dirò
anche che sto per metter mano ad un meccanismo assai semplice onde
venirne a capo. Una molla, che al premere della mano, od al girar d'una
cordicella o staffa, alzi, ed abbassi lo scudo, promette di dispensarmi
da molta parte d'incomodo. Oppure in altra forma lo scudo portato da
un pendolo, cui dia moto una ruota, e un peso, e che vada a baciare a
destra, e a sinistra due piatti, ossia faccie di mastice elettriche, e
così andando, e venendo incontri nel mezzo da salutare con le scintille
un conduttore, o la caraffa, mi rappresenta un doppio apparato, che per
la ragione della celerità de' movimenti potrà darmi effetti molto più
che duplicati.

Ma infine io dichiaro col miglior cuore che non ho l'abilità di riuscir
bene in simili costruzioni meccaniche; che d'altra parte non è questo
il mio scopo principale; e che per quanto io tenga conto, e lo tengano
tutti quelli, innanzi a cui ho mostrate in esteso l'esperienze, dei
comodi che ne offre l'Elettroforo, io valuto assai più i lumi che mi si
vanno svolgendo su diversi punti della teoria elettrica: intorno a che
pubblicherò fra non molto le mie osservazioni già in parte comunicate
al Signor Dottor Priestley[35].


ARTICOLI DI TRE LETTERE[36]

_Scritte al Sig. Canonico FROMOND._

                                                Como 26 Ottobre 1775.

Aspetto con impazienza le osservazioni vostre sulla migliore struttura
dell'Elettroforo. Intanto vi darò io nuova della riuscita di quello
che ho ultimamente terminato di legno del diametro poco meno di due
piedi. In questi due ultimi giorni che spira una forte tramontana
ho ottenuto scintille a dieci, dodici, ed anche quattordici diti
trasversi: v'immaginate com'erano guizzanti. Per averle di questa forma
presento non più la nocca, ma la punta del dito. Sovente in luogo della
scintilla esce dal dito un grandissimo fiocco, collo scoppiettar in
seguito di più scintille succedentisi. È tale la forza, e la copia del
fuoco, che le punte metalliche affatto ottuse, come d'una chiave, anzi
l'anello di essa, e fin le palle, se non sono affatto grosse, fanno
appunto l'officio di punte, e gettano il fiocco. Che più? Tre sole
scintille dello scudo caricano una mezzana caraffa a dare una scossa
penosa; e dieci in dodici la sopraccaricano a segno di scaricarsi
spontaneamente.

                                               Como 14 Novembre 1775.

Vi ho detto già come pensava d'or in avanti di costruire l'apparato
portatile, per avere in un egual volume assai maggiore capacità. In
luogo di stendere il mastice sopra un piatto, lo stendo nella cavità
d'un emisfero, dando poi allo scudo la stessa conveniente figura. Trovo
anche meglio dell'emisfero divisato un cono troncato, che può essere
lungo benissimo d'un palmo, e largo quanto porta l'apertura della
tasca: un'altro cono ch'entri nella cavità del primo mi fa l'ufficio
di scudo, e può chiudere in seno una boccia di discreta capacità, e
l'uno, e l'altro facendoli di latta, oppur lastra di rame, ottone ec.,
e tutto insieme porta poco peso, e men imbarazzo. Ma io non voglio
curarmi tanto di questi apparati portatili, nè dell'eleganza, quanto
della grandiosità degli effetti, di cui fan pompa i grandi: sicchè mi
tratterrò a parlare dell'apparato mio massimo.

Ho dunque tralle mani il grande Elettroforo del diametro di quasi due
piedi che ho fatto terminare tosto che ripatriai. L'attività di questo
è veramente sorprendente. Basta dire che ottengo non di rado scintille
a dieci, dodici, e più diti trasversi: scintille che appajono in
vaghissima forma guizzanti emulatrici appunto del telo di Giove. Per
averle tali elettrizzo il mastice per eccesso, e presento allo scudo
alzato la punta del dito, ovver facendomi ribrezzo, l'anello d'una
chiave, da cui ora balza la scintilla lunga come dissi, e guizzante,
or una serie di scintillette crepitanti succedonsi, or ne spiccia
con leggier sibilo un lunghissimo fiocco. Una canna spaccata della
lunghezza di due braccia vestita nella parte convessa di carta dorata
raschiata con pelle di pesce rappresenta ancor meglio, e nella maggior
estensione il balenar vivissimo della folgore su tra le nubi, mentre è
percossa tutta, o per gran tratto almeno, ad ogni scintilla che riceva
dallo scudo, da una, o più striscie di luce verde-lucenti. Finalmente
una caraffa di mediocre capacità in quattro, o sei volte che io faccia
giuocar lo scudo, riceve una carica, che mi scuote validamente.

Nè crediate già che effetti cotanto strepitosi abbian luogo solamente
ne' tempi all'elettricità molto propizj: gli ho ottenuti di poco minori
in questi ultimi giorni di nebbia, e pioggia incessante, mercè la sola
attenzione di asciugare le lunghe cordicelle di seta, con cui alzo
lo scudo. Nè pur temiate che lasciando l'apparato in riposo, e senza
ravvivarlo per molte ore, o per alcun giorno, vada a cader di molto la
forza: dopo due, o tre dì io ricavo ancora scintille tali, che il dito
non può soffrirle che con pena, e con dieci, o dodici di esse porto una
discreta carica alla boccetta: così poi volendola metter a profitto
col bel giuoco di rifonderla sul mastice, ottengo tosto la massima
intensione. A finirla, non v'è più da dubitare, che col mio apparato
non si possano creare, ed avere ad ogni ora, e ne' tempi singolarmente
men propizj, effetti di gran lunga superiori a quelli della miglior
macchina a globo, o a disco. A buon conto io posso fare il mio
piatto di metallo, o di legno _magnitudine quantalibet ad effectus
quantoslibet_, come diceva il P. Beccaria, vantando il suo tavolino
fulminante.

Due sono solamente gl'inconvenienti che s'incontrano, volendosi far
l'apparato di una smisurata grandezza: uno intrinseco, e sostanziale,
l'altro estrinseco, e accidentale. Il primo è che crescendo in ragione
dell'ampiezza della superficie la forza della carica, della scarica,
e quella pure della scintilla, che tende a balzar dallo scudo mentre
s'alza, il mastice ne vien tosto in alcun sito spezzato, o fuso, salvo
che non sia di una comoda spessezza; ma che? la spessezza maggiore
toglie molto della capacità della carica, e quindi anche della forza
dell'elettricità permanente (dico elettricità _permanente_ non più
_vindice_, perchè l'idea che ci porta il termine _vindice_ è meno al
fatto, ed alla teoria confacente per non dire assolutamente erroneo,
come avrò luogo di provare in altro tempo). Il secondo inconveniente
riguarda l'incomodo nell'usare di un apparato assai grande. Per nulla
dire, che convien tenersi col braccio allungato, e col corpo, e vesti
discoste nell'alzar lo scudo, pur troppo devo sentire, che il peso di
questo, sebben sia di legno inargentato, stanca potentemente, e che
m'impedisce di alzarlo, ed abbassarlo, come vorrei, con celerità.

Quanto però all'incomodo nel far agire cotesto scudo, penso di potervi
agevolmente portar riparo: tra gli altri presidj quello mi propongo
di un vette, o che verrà più opportuno, di alcune carrucole. Questo
ingegno mi porrà in istato di vincere il peso con poca forza, e di
far giuocar lo scudo standomi ad una comoda distanza, e con tutto agio
della persona. Esso scudo poi ho già pensato a farlo dieci volte più
leggiero che quel di legno: e vuol essere di tela stesa a foggia de'
nostri quadri sopra una cornice, ma questa ritonda (meglio anche della
cornice di legno s'impiegherebbe un larghissimo collare di vimini che
riuscirebbe, e più leggiero, e men soggetto a gettarsi) di tela dissi,
in tal maniera stesa, e poscia inargentata. Avrà questa, oltre la
leggierezza, un altro considerabilissimo vantaggio di adattarsi bene, e
sempre a combaciamento colla faccia del mastice assoggettata, e per la
propria pieghevolezza, e per virtù dell'adesione elettrica.

Con tali espedientissimi sussidj io potrò costruire, e render
maneggevole anche ad un uomo solo un apparato grande di sette,
otto, e più piedi. Immaginatevi una tavola grande come quella per
il giuoco del Bigliardo, ma rotonda, foderata convenientemente di
latta, o di rame con sopra steso bene in piano un mastice nero, e
lucente siccome specchio: vedetevi indosso posato un bel coperchio a
_plat-fond_ inargentato, o dorato, pendente da quattro capi di corda
di seta che terminano poi uniti in un solo a un congegno di carrucole,
e guidato nel salire, e scendere da due altre corde di seta fisse
verticalmente, che giuocano in altre due girelle annesse a due parti
estreme, ed opposte di esso coperchio, o scudo: ecco l'uomo a qualche
passo dalla tavola, che col tirar una fune pendente, quasi in atto di
suonar le campane, fa che suonino invece scintille fragorosissime, e
fischino fiammelle, e getti di luce a tutti i lati a distanza di più
palmi contro i varj conduttori ad arte, o a caso d'intorno disposti:
dite, non è quel coperchio l'idea d'una nuvola fulminante? Non vi fa
terrore l'accostarvi? Eppur io, dato bando ad ogni spavento, amo anzi
pronosticare utili cose, e vantaggiose, e mi compiaccio raffigurar ivi
quella camera per la Medicina elettrica che vorrebbe il Sig. Priestley
istituita. Ne vaneggio io già decantando così grandi, e strepitosi
gli effetti d'un così vasto apparato: oso predirli tali, incoraggito,
e quasi rassicurato dall'azione di quello, sopra cui sto attualmente
sperimentando, il quale sebben non giunga ancora a due piedi di
diametro, è mirabile il vedere di quanto lungo tratto si lascia
addietro tutti gli altri apparati di circa un piede, o minori.

Ma la spessezza del mastice per tanta estensione di superficie
richiesta, che notai per primo, e intrinseco inconveniente mi dà ancor
molto a pensare. Se non che ho fondamento di credere che una linea, e
mezza, o poco più sia per essere sufficiente per qualunque ampiezza, e
il fondamento riposa sopra delle prove che ho fatte a quest'oggetto.
Altronde per prove similmente fatte mi risulta che tale spessezza di
una linea, e mezza (sebbene si diminuisca di molto la virtù della mezza
linea in sù) porta ancora una carica abbastanza forte.

Ho detto che io estimo poter bastare per qualunque grande apparato
l'altezza nel mastice d'una linea, e mezza: intendo però che questo sia
dappertutto unito, e sodo sopra un piano similmente eguale, e liscio,
che non abbia screpolature, nè vi si coprano sotto dei vacui, o bolle
d'aria. Ma come emendar quelle, e purgarlo affatto di queste? Non è
difficil cosa il venirne a capo. Steso bene, e rassodato nella vostra
tavola il mastice, scorretevi sopra dappertutto, senza però toccarlo,
con un largo, e grosso ferro rovente. In un subito vi si apriranno
sulla superficie innumerabili buchi, i quali per forza dell'istesso
calore di lì a poco si riempiranno, e spariranno. Non basta, avviene
spesso che adoperando l'apparato, e tormentandolo, salti fuori quà, e
là una magagna, per cui avete ad ogni tratto una esplosione spontanea.
Allora conviene andar in cerca colla lanterna del sito, ove s'asconde
il vizio: e la lanterna è una boccia ben carica con cui scorrendo
sopra, una scintilla che scappi furtivamente vi avverte a pelo di ciò
che dovete correggere col vostro ferro rovente.

                                               Como 21 Dicembre 1775.

Ho provato a far lo scudo, giusta quanto avea divisato, con una tela
stesa su d'una cornice. Ho scelto la tela incerata, e senza punto
inargentarne la faccia stessa incerata che guarda, e bacia il mastice,
mi sono contentato di vestire di foglia d'argento la faccia che resta
scoperta, e il contorno della cornice. Trovo che questo scudo giuoca
ottimamente, e corrisponde a tutta l'aspettazione mia. Dapprima avendo
pensato che l'argentatura alla faccia che tocca il mastice era per lo
manco inutile, credei il meglio non vestire di foglia metallica che
il contorno della cornice da cui si cavano le scintille ec. Ma poi
m'avvidi ben presto che essendo la tela incerata conduttore pochissimo,
buono, a stento, e lentamente dismetteva ella il suo nativo fuoco
in ragione che l'eccesso del mastice lo esigeva, o _viceversa_: ciò
era chiaro da vedere che toccando col dito, con catenella lo scudo
posato, toccandone dico l'orlo inargentato, una piccola scintilla
si estraeva: indi a qualche momento tornando a toccare, un'altra
piccola scintilla; e così successivamente per alcuni minuti. Da ciò ne
risultava, che alzando lo scudo dopo consumata dirò così la scarica,
cioè dopo estratta tutta quella serie di scintillette, vibravasi
scintilla fragorosissima guizzante ec. ma alzando esso scudo dopo un
sol toccamento, la scintilla non ne sortiva che men forte di molto.

Allora fu dunque che mi volsi al ripiego di vestir di foglia metallica
la faccia tutta esterna della tela: così la scarica si fa sensibilmente
tutta in un sol toccamento, non impedendola guari la poca spessezza
della tela che prima l'impediva coll'estension sua. Del resto torno
a dire, il dare una superficie metallica alla faccia che guarda il
mastice, è inutile senz'altro, anzi può essere per alcun riguardo
di nocumento. In prima l'estrema mobilità del fluido elettrico ne'
corpi metallici, e qualche picciola prominenza che si trovi in detta
faccia inferiore, dà facilmente luogo a qualche disperdimento: si
provoca più fortemente l'elettricità inerente nel mastice a tradursi
per quella: non così però una superficie quasi coercente, qual è
quella dell'incerata nuda. D'altra parte poi un simile scudo, che non
affaccia metallo alla superficie del mastice, nè minaccia di romperlo,
o fonderlo colla scintilla nel venir alzato, nè sopra posandovi, e
ricevendo la carica, provoca sì facilmente per qualche sopraggiunta
screpolatura al mastice medesimo l'esplosione spontanea, come
d'ordinario addiviene cogli scudi sin quì usati, per poco che s'incalzi
la carica.

Giacchè siamo sul punto di sopprimere la superficie metallica ad
oggetto di toglier massimamente il luogo all'esplosioni spontanee,
non debbo lasciare di farvi parte d'alcune altre mie osservazioni, e
avanzamenti circa la pratica, e la teoria dell'Elettroforo. Ho dunque
sospettato che non fosse necessario, che il mastice steso venisse
sopra un metallo: e basterà bene, io mi dicea, che sia steso sopra
un corpo non isolante. Ho provato dunque a versare il mastice sopra
un disco di legno nudo, e sopra uno di cartone: ed ho veduto difatti
che si hanno i segni quasi egualmente forti di quando adoperasi un
piatto di metallo. Noto solamente che facendo un Elettroforo di legno
grande non può farsi la scarica che lentamente (presso a poco come
ho osservato nel caso dello scudo non vestito di metallo in ambe
le facce) mercecchè il fuoco che si dismette dalla faccia superiore
ossia dallo scudo non può tostamente restituirsi per entro al legno
non molto permeabile, e condursi alla faccia inferiore del mastice, o
_viceversa_. Del resto dando tempo che ciò effettuar si possa, veggo
che il legno si presta ottimamente a tutti gli effetti. Si potrebbe
anche rimediare al difetto che nasce da questa lentezza, versando sì
il mastice sopra tavole di legno nudo, ma coprendo poi di metallo il
di sotto delle tavole medesime, le quali vorrebber essere grosse sol di
poche linee. Ma la fermezza di esse? Mi pare che queste sottili tavole
così guernite si potrebbero indi assoggettare a un gran tavolo fermo,
e sodo. Ma a che però, mi dite; un tale macchinamento? Per istendere
il mastice sul legno nudo, anzichè sul metallo? Appunto: giacchè per
questo modo verremo (ciò che mi era proposto a principio) a dare niun
luogo più alle esplosioni spontanee: e sì potremo stendere senza timore
di questo il nostro mastice molto più sottile; che importa pur tanto
per la miglior riuscita. Eccovi, Amico, un nuovo indirizzo per la
costruzione di quel tremendo Elettroforo che vorrei pur veder eseguito:
ecco le correzioni che ho potuto immaginare tanto riguardo allo
scudo, quanto riguardo al piatto, o disco. Saranno queste le ultime?
Non so. Ma non le chiamate perciò inutili: sono sempre passi che
portano all'ingrandimento, e i dati fin quì non furono mai senza alcun
progresso.

Non termino senza darvi un ragguaglio delle considerazioni mie sul
raro fenomeno di elettrizzarsi costantemente _in più_, il mastice di
quel mio grande Elettroforo. Io sono ben persuaso che voi non sarete
riuscito ad osservare il medesimo in qualunque maniera vi ci siate
preso. L'essere l'apparato grande, o piccolo punto non rileva; nè
io ho voluto insinuare che la grandezza mettesse quella differenza:
indicai solo che il mastice il quale mi presentava tale singolarità
era quello dell'apparato grande, sebbene ne fosse la composizione
simile agli altri mastici che adoperava. Era difatto così la cosa
riguardo agl'ingredienti, e manipolazione, ma io non poneva mente a un
accidente sopravvenuto durante la cottura del mastice, che ha dovuto
alterarlo: l'accidente fu che vi si appiccò la fiamma, e ne venne in
molta parte consumato: il residuo contrasse dell'abbruciato, o del
carbone di maniera che lascia sempre tinta la mano, o la carta quando
si stropiccia, e facilissimamente si sfregola. Dunque ho concluso
che da questa alterazione dipenda l'indole mutata nel mastice di
elettrizzarsi, cioè _positivamente_. Portando poi più addentro la
considerazione, ho preso a sospettare che codesta mutazione d'indole
derivi dal deterioramento della virtù di elettricità originaria, o
almen vi vada di paro: osservando che infatti cotesto mastice mezzo
bruciato aveva pochissima virtù di elettrizzarsi per istropicciamento:
laddove l'altro che costantemente contraeva per la via medesima
elettricità _in meno_, e fino stropicciato con lamine metalliche,
godeva di un'elettricità generosa. L'induzione per me felicemente si
estendeva ad altri corpi, i quali non meno che la resina affettano
l'elettricità difettiva, e sono i legni abbrustoliti. In questi
aveva osservato già, e scritto nel 3 Cap. della mia dissertazione
latina 1771, che i legni abbrustoliti di fresco, e a dovere, danno
a qualsivoglia corpo anche metallico con cui si strofinano, finchè
dura in quelli la massima virtù; ma che a misura che questa decade,
degradano anche dall'indole sua, e ricevono prima da alcuni metalli
solamente, poi da più, poi da tutti, e fin talvolta dal panno nero ec.
Or nella resina mi si spiega più largo il campo di questo passaggio.
Occupa un estremo il mastice, che ho veramente ottimo, il quale con
leggierissimo, e breve stropicciamento conseguisce una elettricità
affatto generosa; tien l'altro estremo quel mastice mezzo bruciato, dal
quale, sebbene stropicciato per una sì vasta estensione, qual è quella
di due piedi nell'apparato grande, appena ottengo una scintilluzza
(dico semplicemente stropicciato ch'eccita nello scudo una debolissima
scintilla, perchè poi infondendovi maggior forza d'elettricità con
altra macchina, o colla caraffa acquista non meno che il mastice
migliore; tutti i gradi di forza). Di mezzo a questi tengo altri
mastici, i quali convenientemente si elettrizzano per istropicciamento.
Parallelamente dunque a questa originaria virtù il primo affetta sì
fortemente l'elettricità _in meno_, che non consente di elettrizzarsi
_in più_ nemmeno dalla carta dorata, od altre foglie metalliche:
solamente coll'amalgama di mercurio ve lo costringo. Il secondo, o per
dir meglio l'ultimo in ordine alla virtù, è passato a mutar affatto
indole, e non che elettrizzarsi _in più_ per l'affritto di corpi
metallici, lo stesso fa con qualsivoglia corpo. I mezzani finalmente
_danno_ alla mano, carta nuda, panno, cuojo ec., e _ricevono_ dalla
carta dorata, foglie di stagno ec. L'induzione dunque, e l'analisi
vengono in conferma di quel mio sospetto circa il decadimento della
virtù, cagione del rovesciarsi l'indole nei corpi resinosi.

Ma credete voi che di queste osservazioni possa contentarmi?
L'induzione è ancor troppo poco estesa: d'altra parte io la vorrei
confermata colla sintesi; e voglio dire che niente ho per istabilito
finchè non giunga a comporre a mia posta de' mastici che abbian
l'un'indole, e di que' che abbiano l'altra, col solo mezzo di
differenziarne la qualità, ossia virtù. Dirovvi per ora che mi ci
sono provato, e in qualche parte con esito. Ho preso lo spediente
per deteriorare la qualità del mastice, di meschiarvi del carbone
messo in polvere. Il carbone, come si sa, è un corpo conduttore poco
meno che i metalli: per questo lo scelsi, e dirollo pure, per veder
d'accostarmi all'alterazione che dovette ricevere quel mio mastice,
che fu in preda qualche tempo alle fiamme. Il resultato fu che
una certa dose di carbone meschiata all'altro mio mastice d'ottima
condizione lo deteriorò d'assai, e lo ridusse difatti a _ricevere_
dalle foglie metalliche a cui prima _dava_. Non potei però giammai
ottenere che ricevesse dalla mano, carta nuda, panno ec., e in somma
che mutasse affatto indole come il mastice mezzo bruciato. Provai
dunque ad appiccarvi la fiamma, e lasciarlo in buona parte consumare;
ma nemmeno con questo mi riuscì. Accrebbi la dose del carbone; ma
allora non si elettrizzò più nè per _eccesso_, nè per difetto. I
tentativi fatti adunque non finiscono di appagarmi: non depongono però
contro la concepita idea. Anzi mi resta ancor luogo a credere che il
mastice alterato a segno di non vestir più sensibile elettricità per
lo stropicciamento, abbia di poco oltrepassato il segno che cercava:
può anche non averlo oltrepassato, ed essersi elettrizzato realmente
_in più_, ma così debolmente che non ne abbia avuti segni sensibili: i
quali segni sono forse sensibili soltanto nel grande apparato per esser
tanta la superficie stropicciata.


LETTERA

_Al Sig. GIUSEPPE KLINKOSCH._

_R. Consigliere, Pubblico e Primario Professore di Anatomia
nell'Università di Praga, e Membro della Reale Società delle Scienze di
Gottinga._

                                                         Maggio 1776.

Ho ricevuto alcune settimane sono sotto coperta a me diretta, e marcata
dell'officio di Praga uno scritto tedesco, che tratta in parte del
mio _Elettroforo perpetuo_. Siccome ho fermo nell'opinione, essere
l'autor medesimo, che abbia voluto obbligarmi coll'inviare a me questa
operetta; così mi credo permesso di trasmettergli io pure alcuni
fogli italiani da me pubblicati l'anno scorso in un'Opera periodica
concernenti il medesimo Elettroforo. Non senza difficoltà ho io potuto
intendere, Signore, cotesto vostro tedesco, attesa la poca cognizione,
che ho di cotal lingua; di che mi duole pur assai. Se voi trovaste
mai la medesima difficoltà rispetto al mio italiano, starebbero tra
di noi le cose pari. Se non che io voglio pur procurare di rendermi,
o più scusabile, o ben anche più benemerito di voi, accompagnando i
fogli impressi con alcuna cosa scritta di mia mano, e alla meglio che
mi verrà fatto in una lingua, che non è la vostra nè la mia, ma che
saravvi senza dubbio più famigliare che l'italiana[37].

Non mi sorprende punto, Signore, che voi stimiate dover diffalcar
molto da quel merito, e vanto dell'_Elettroforo_, che il volgo de'
Fisici, siccome voi dite, troppo precipitosamente gli ha accordato.
L'ammirazione, che molti ne presero ha oltrepassato, e quello ch'io
poteva a buon dritto pretendere, e ciò che avrei mai potuto sperare.
Si è tenuto in conto di una scoperta mia propria quello, ch'io fui ben
lontano dall'attribuirmi, val a dire un nuovo genere di Elettricità,
ossia una nuova maniera di eccitarla. Si può vedere per altro, ch'io
faceva intendere assai chiaro col primo annunzio che uscì del mio
nuovo apparecchio nella _Scelta d'Opuscoli_ di Milano per il mese
d'Agosto, e più apertamente ancora colla lettera al D. _Priestley_ in
data de' 10 Giugno, pubblicata in appresso nella medesima _Scelta_,
ch'io non avea fatto altro più, che tener dietro, e dar risalto a un
ramo di Elettricità, che già era noto sotto il nome di _Elettricità
Vindice_. Tanto non vien egli indicato dai termini stessi, onde ho
cognominata l'elettricità del mio apparato _Vindice indeficiente_? Ma
poi anche in termini più formali mi esprimeva nella succennata lettera
a _Priestley_: basta vederne il secondo paragrafo, ove, dopo avergli
detto, che i fatti ch'io era per riferire appartengono all'_Elettricità
Vindice_; e che egli da ciò immaginerebbe tosto, che si tratta
d'una _lastra isolante vestita_, e _snudata a vicenda della sua
armatura_, vengo a spiegare in qual maniera sono riuscito coll'ajuto
d'un'_armatura_ più conveniente, e col surrogare alle consuete lastre
di cristallo altre di resinosa materia a rendere cotesta elettricità di
una forza stupenda, e di una durevolezza ancor più maravigliosa.

Ma non solamente ho io fatta menzione dell'_Elettricità Vindice_
nel modo che si è veduto: ho parlato eziandio della teoria di essa,
e fatto caso delle sue leggi come di già stabilite. Ho detto in un
luogo: _siccome richiede la teoria dell'Elettricità Vindice_: sul
fine poi della lettera mi trattengo a parlare d'una contrarietà di
sentimenti tra me, e il Padre _Beccaria_ sul conto dell'elettricità
dell'_armatura_ in virtù della _scarica_, e per l'atto dello
_snudamento_; e mi argomento di comprovare con nuovi fatti quella
mia opinione avanzata già in una lettera latina al medesimo Padre
_Beccaria_ impressa fin dall'anno 1769, nella quale molto mi occupava a
sviluppare cotesto principio dell'_Elettricità Vindice_.

Egli è dunque fuor d'ogni dubbio e contrasto, ch'io era ben lungi
dal pretendere alla scoperta della sovente menzionata _Elettricità
Vindice_, od a quelle sue leggi già conosciute, e stabilite; comechè io
volgessi in mente già da gran tempo, ed or più di proposito mi studj
di riformarne alcuna, anzi pure un de' precipui capi della teoria.
Che se poi alcuni, come voi dite, mi hanno gratuitamente attribuito
un merito, e una lode, che per nulla ragione mi si devono, e contro
cui io protesto, a chi dovrassene far carico? a me non già. D'uopo
è però convenire, che molte persone dovettero formare appunto quel
giudizio, che ne formarono, attesochè le sperienze dell'_Elettricità
Vindice_ lungi ben erano dall'essere famigliari: infatti il numero
di coloro, che aveanle viste non è già grande, e assai più scarso si
troverà di chi le avesse da se stesso eseguite compitamente sopra le
consuete lastre di vetro; non essendo il riuscir di questa maniera
sì agevole, bensì frutto di somma diligenza, e destrezza, concesso
soltanto alla mano de' più esperimentati. Ora tostochè comparve il mio
apparato, i di lui effetti tanto più grandi, e sorprendenti, quanto
facili ad ottenersi, dovettero colpire, e fermar gli occhi di tutti:
il nome imponente di _Elettroforo Perpetuo_ concorse pur anche a far
crescere quella specie di stordimento; infine l'amore del nuovo, e
del maraviglioso indusse a credere, che tutto lo fosse, di sorte che
accoppiando all'invenzione del nome, e dell'apparato quella puranco del
genere di elettricità, venne così indistintamente attribuita ogni cosa
al medesimo autore.

Giusto è bene, che per rivendicare il merito a chi è dovuto, io
venga spogliato di quello che mal mi conviene; ed io con pieno animo
acconsento a questo, e mi fo sollecito ancora di contribuirvi. Guardimi
per tanto il Cielo, ch'io muova lamento contro di voi, Signore, perchè
impreso abbiate di farlo; debbo e voglio anzi sapervene grado: solo
mi credo permesso di porvi sott'occhio che non si son fatte da voi le
parti in tutto giuste, perciocchè attribuito avete al Padre _Beccaria_
ben più di quello, che non gli si compete, ponendo l'_Elettricità
Vindice_ in vista di scoperta tutta sua. Epino dietro il celebre
sperimento de' Gesuiti di Pekino, Symmer con le sue calze di seta,
Cigna con una serie di sperienze analoghe prodigiosamente combinate,
e variate, e in gran parte nuove hanno aperta questa bella carriera,
nella quale entrato il Padre _Beccaria_ vi ha fatto di vero i più gran
progressi, giugnendo a stabilire delle leggi semplici, e luminose.
Parlo di alcune di queste leggi ossia canoni, non già di tutte, e
nullamente delle sue Teorie, cui ho avuto sempre in mira di oppugnare
rispetto ad uno de' precipui capi (ciò che anche mi provai di fare
nella lettera latina menzionata), e cui mi applico presentemente più di
proposito a riformare, come già accennai.

Ritornando ora al mio apparato, mi pare aver lasciato abbastanza
intendere, che io ne riduco tutta la novità, per quanto è della
sua costruzione, alla miglior foggia d'_armatura_, ed allo _strato
resinoso_ sostituito alla lastra di vetro: quanto poi sia degli
effetti, all'_intensità_ costante dei segni elettrici, e vera
_perennità_ di essi: ciò che vale ad esprimere per se solo il
nome di _Elettroforo perpetuo_. Non deggio però dissimulare le
opposizioni, che intorno a ciò sò essermi state fatte; e sono: che
la disposizione propria dei corpi resinosi ben più che del vetro a
ritenere l'elettricità, è stata osservata, e conosciuta gran tempo
prima di me da Grey, Du-fay, Epino ec.: che quest'ultimo inoltre in
compagnia di Wilke ci avea dato l'esempio di un vero _Elettroforo_ con
quel bellissimo esperimento dello zolfo fuso in una coppa di metallo,
ond'egli traeva i segni elettrici sì dal recipiente, come dal corpo di
zolfo, ogni volta che ne li disgiungeva: e ciò anche dopo settimane, e
mesi.

Nulla io ho a ridire riguardo a questa anteriorità di tempo; ciò che
posso assicurare si è, che non son già io partito dalle sperienze di
Wilke o d'Epino (delle quali non era nemmanco informato) per giugnere
alla costruzione del mio apparato; bensì partii da quelle, che si
faceano comunemente per la _Vindice Elettricità_ servendosi di lamine
di vetro: quì veramente io seguiva le sperienze di Beccaria ad oggetto
di confutare, come ho sopra indicato, un fondamento della sua teoria; e
così dietro ai miei principj fui condotto primieramente a dar una forma
più convenevole all'_armatura_, onde ottenere valida, e intiera forza
d'elettricità[38]; e ben tosto a sostituire le resine al vetro acciò mi
si mantenessero più durevoli i segni; richiamandomi allora come io mi
era già assicurato della disposizione singolare, che hanno questi corpi
di conservare tenacemente l'elettricità impressa; e rivolgendo pure in
mente le idee, onde io mi era argomentato di spiegare questa tenacità
medesima in una lettera al Dr. Priestley fino dal Maggio del 1772[39].

Del rimanente pare non si possano metter in confronto i piccoli saggi
di Epino, e di Wilke sopra lo zolfo, e altre resine fuse, col mio
_Elettroforo_ per conto della grandezza degli effetti. E forse che gli
si vorranno paragonare le sperienze di Beccaria colle sue lastre di
cristallo vestite di sottili lamine metalliche? Ognuno, io credo, ha
dovuto riconoscere la superiorità a questo riguardo del mio apparato:
voi, Signore, sì, voi medesimo la riconoscete, e mi fate l'onor di
dire, che gli amatori me ne deggiono saper grado. Grado dunque mi
sapranno (tal'è la mia lusinga) della costruzione d'un apparecchio
così semplice, che tien luogo d'una buona macchina per tutte le
sperienze ordinarie, col quale anzi si possono diversificare di più
maniere, e facilissimamente; apparecchio, che può farsi tanto piccolo
da esser portatile in tasca, oppur grande a qual si voglia segno, onde
averne effetti superiori a quelli di qualunque altra macchina, di cui
l'attività malgrado i tempi, e l'aria men propizia poco, o punto vien
a perdere; che infine (e questo è il massimo suo pregio) può conservar
per sempre l'elettricità, una volta impressavi, cioè a dire senza
che faccia mestieri ricorrere ad un novello stropicciamento, o ad
elettricità straniera.

Ecco dunque ove mette capo tutta la mia pretesa alla novità: egli è
d'aver inventato, o (se questo ancora sembra troppo forte) perfezionato
cotal apparato al segno di riunire tutti gli accennati vantaggi,
e ridotto a grandissimo comodo per tutti. Infatti quanti di questi
apparati veduti non si sono sparsi, e moltiplicati in poco tempo? Tanto
già non succedette cogli apparecchi di Epino, di Cigna, di Beccaria,
che pur qualcuno, invidioso forse della considerazione, e grido, che si
acquistò il mio Elettroforo, non cessa per anco di porgli incontro.

Ho nominato Cigna, perchè se v'ha persona, che si sia portata più
vicina alle sperienze mie sull'_Elettroforo_, e, dirò così, vi abbia
preluso, egli è desso Sig. Cigna. È certo almeno, ch'ei pervenne avanti
di me a caricare la caraffa per mezzo dell'elettricità _vindice_, o
_simmeriana_, com'egli amò appellarla: e ciò ricevendo nel pomo della
caraffa la scintilla di una lamina di piombo tenuta con fili di seta
isolata, allorchè dopo avervi applicato, ed accostato ben davvicino
un nastro fortemente elettrizzato, e dopo aver toccata col dito essa
lamina, ne ritirava bruscamente il nastro, replicando poi tante volte
questo giuoco, quante bastassero scintille ad una tal carica.

Ma non è meno certo, che con un simile apparecchio non si può sperare
di caricare una boccia che debolmente, e ciò anche con molta pena,
ed imbarazzo, laddove nulla v'ha di più facile che il caricarla
convenientemente, e ad ogn'ora coll'_Elettroforo_, e sì anche con uno
da tasca.

Mi cade ora a proposito di domandare, se un tal nome, che conviene
tanto propriamente al mio apparecchio, e che è stato comunemente
addottato, converrebbe di pari a quello di Cigna, o a quel d'Epino, o
alle lastre del P. Beccaria. Accordiamolo loro pure: sicuramente però,
che quest'altro termine di _perpetuo_, il qual compete a tutto rigore
al mio _Elettroforo_, niuno pensa tampoco di appropriarlo a qualsisia
degli altri. Sfido tutti gli elettrizzanti, se alcun d'essi con lastre
di cristallo, o con calze di seta applicate a laminette sottili di
metallo può perpetuare l'elettricità, anzi solo mantenerla, senza
nuovo strofinamento, o senza prenderne altronde in imprestito, a molti
giorni. Vi si giugnerebbe, ne son ben d'accordo, colla coppa, e massa
di zolfo d'Epino, mercè il giuoco di caricar la boccetta, e portarne
indi il fondo a scorrere sulla faccia stessa dello zolfo: al qual
giuoco però nè esso, nè alcun altro ha giammai pensato, avendolo io,
per confessione degli stessi miei oppositori, e ritrovato, ed insegnato
il primo.

Non è già poco per me, che essi faccian caso di questo giuoco della
boccetta, intantochè ne apporta la perpetuità dei segni elettrici:
s'eglino ristringono a ciò tutto il merito della mia scoperta, e i
pregi dell'_Elettroforo_, non me ne chiamerò scontento, quantunque
vi sia apparenza almeno, che io potessi pretendere a qualche cosa di
più. Ella è finalmente questa perennità dei segni, e cotesto giuoco
singolare della boccetta, che ho fatto tanto valere, e su cui ho più di
tutto appoggiato ne' miei primi scritti.

A questo luogo non posso lasciar di manifestare, che non fui già
soddisfatto del conto, che rende dell'_Elettroforo_ la lettera
dell'_Ab. Iacquet_[40], nella quale niente trovo detto di questa
importante operazione della boccetta, sia ad oggetto di rianimare per
se stessa l'elettricità indebolita, ed innalzarla al più alto grado
d'intensità, sia per renderla realmente perpetua. Egli però nulla
verisimilmente veduto avea di quanto erasi da me scritto, e pubblicato,
e non conosceva l'Elettroforo, che sul rumore pervenutogliene, e dietro
alcune poche sperienze di fresco da lui fatte. Non so attribuire
ad altra cagione che questa, da una parte la confidenza, con cui
parla di qualche fenomeno come fosse da lui scoperto, dall'altra il
silenzio tenuto riguardo a tante altre sperienze, di cui io avea dato
il dettaglio. Non vi si parla punto della maniera di animare un con
l'altro una serie di Elettrofori; nè della facilità di cambiare a
talento, ossia rovesciare l'elettricità sullo strato resinoso: niuna
parola della sua mirabile tenacità, che regge non che a dispetto
d'un'aria vaporosa, ma all'insulto dell'alito della bocca; nulla del
mezzo singolare di spegnerla cotesta ostinata elettricità ec. Torno
a dire, non son punto soddisfatto del ragguaglio, che il Sig. _Ab.
Iacquet_ si è accinto a dare del mio Elettroforo, comechè egli ne abbia
molto innalzato il pregio, dichiarandolo _un nuovo apparecchio, che
stordisce i più abili Elettrizzanti_. Riconosco che questa espressione
è alquanto esagerata: e apprendo da voi, Sig., che lo stordimento non
fu, nè è di tutti, conciossiachè abbiate saputo tenervene voi così
in guardia, che preso non ne rimaneste. Avete fatto ancor più: sorto
siete colla vostra lettera stampata a fare svenir cotesto abbagliante
stupore dagli occhi pure dei prevenuti; e io non dubito punto, che
la riputazion grande di cui godete, non abbia prodotto l'effetto
preteso, e forse, chi sa? oltre il giusto. Non intendo quì parlare
della scoperta dell'_Elettricità vindice_: ho abbastanza palesato
sopra ciò i miei sentimenti, cioè, che ben lungi di dolermi con voi
d'alcun torto, ho occasione anzi d'esservi tenuto. Mi lagno soltanto
di ciò, che questo vostro scritto tende di più a diminuire il pregio
dell'_Elettroforo_, preso anche in qualità di semplice apparecchio,
o stromento, giacchè ne lo fa comparire senza il corredo de' suoi più
singolari vantaggi: mi lagno, dico, unicamente dello scritto, non già
di voi, Signore, cui fo la giustizia di credere, che non avete voi
cercato di celare questi vantaggi, ma che non li conoscevate per anco,
giudicato avendo dell'Elettroforo dietro la lettera di Vienna, e un
piccol numero di sperienze.

Or dunque, Signore, io mi prometto da voi un giudizio più favorevole,
quando ricavate abbiate delle notizie più complete da questa parte di
descrizione accompagnata da alcune figure, che vi trasmetto, e dopo
che ripetute avrete da voi medesimo le mie sperienze più capitali.
Sono in vero impaziente d'intendere ciò che sarete per dire di quel
giuoco singolare della boccetta per rianimare l'elettricità languente,
ritorcendola a modo di dire contro se stessa; e della durazione
perpetua dei segni, che per tal mezzo si viene a procurare.

Dopo la descrizione succinta, che voi quì vedete nei fogli stampati, ho
fatto un gran numero di sperienze, le quali somministrano molto lume
per la teoria delle _Atmosfere_, e dell'_Elettricità vindice_, che ho
pubblicate in parte, e in più gran parte riservo per la Memoria, che
ho promesso. Amerei pure farvene parte, se i limiti di una lettera
me lo permettessero: per angusti però che siano vuò farmi luogo a
comunicarvi un'osservazione, che concerne direttamente la costruzione
dell'Elettroforo. Con tutta la buona fede deggio confessar un inganno
da me preso. Ho inculcato in più d'un luogo, che lo strato resinoso
debba essere sottile, in difetto di che non agirebbe di lunga mano così
bene: in vero io riguardava ciò come il più essenziale alla grandezza
degli effetti; m'ingannai. Non mi rincresce la confessione d'un errore,
massime che a rinvenir sul giusto m'insegnarono le sperienze d'un
Principe illuminato, che in mezzo alle cognizioni estese in ogni genere
di utili, e sublimi scienze, e a quella più difficile di governare,
nutre un gusto particolare per le naturali cose e sa trovar de' momenti
da consecrare ai trattenimenti di Fisica, e che non ha poco contribuito
a dar grido, e voga al mio Elettroforo, per mezzo d'uno che ne inviò al
Sig. Ingen-housz. Egli è dunque provato, e costante, che la spessezza
di più linee, e fin d'alcuni pollici nello strato resinoso non toglie
all'Elettroforo di agire vigorosissimamente, come io avea avanzato;
sebbene poi, a dir tutto, una minore spessezza sia preferibile per
altri riguardi e sono: primieramente che uno strato sottile, oltre
l'uso come _Elettroforo_, può servire di un buon _Quadro Magico_, vale
a dire ricevere una grande carica, e dare una violenta esplosione; ciò
che uno strato troppo grosso non giugne mai a fare, com'è noto per i
principj delle _cariche_. Per un medesimo principio lo strato sottile
vi offrirà lo spettacolo della comparsa dei segni elettrici dalla parte
del _piatto_, o lastra inferiore tenendola isolata, pressochè tanto
vivi quanto quelli che dà lo _scudo_ ossia lastra superiore; ma se lo
strato di resina sia assai grosso, il giuoco del _piatto_ verrà meno in
tutto, o in parte della forza. Da ultimo quello che ancor più merita
d'essere considerato si è, che la virtù di ritenere l'elettricità è
minore in uno strato grosso, che in un sottile; in un di questi potrete
trovar elettricità ancor inerente dopo tre o quattro mesi senza averla
mai in tutto quell'intervallo rianimata, come ho io esperimentato,
laddove in quelli non vi si manterrà un mese. Del rimanente per quanto
riguarda le sperienze ordinarie dell'_Elettroforo_, lo strato di resina
grosso può servir a un dipresso egualmente, col vantaggio anzi di non
essere così soggetto a screpolare: le scintille che darà lo _scudo_
sollevato saranno abbastanza forti per mettere in vista l'errore, in
che io son caduto avanzando il contrario, e di cui ho avuto già luogo
a disingannarmi, ed or l'ho di ritrattarmi, e ne godo, come anche godrò
di farlo pubblicamente.

  Ho l'onore di essere ec.



SOPRA LA CAPACITÀ

DEI CONDUTTORI ELETTRICI

_e sulla commozione che anche un semplice Conduttore è atto a dare
eguale a quella della boccia di Leyden_

_LETTERA_

AL SIGNOR DE SAUSSURE



DEI CONDUTTORI ELETTRICI[41]


Da molto tempo io mi era proposto di lavorare a un'Opera
sull'Elettricità, in cui avrei ridotto la massima parte de' fenomeni
all'azione, e giuoco delle _atmosfere elettriche_. Molte altre
occupazioni, e ricerche di genere diverso me ne hanno distolto: non
ne ho però deposto il pensiero. Ma perchè io vedo che la cosa potrà
andare in lungo, e Voi già mostraste desiderio, o Signore, che io vi
facessi parte delle mie idee, ed osservazioni, ho pensato intanto di
soddisfarvi in qualche maniera, staccando dal resto questa particella
che può in certo modo stare da se; le altre cose tutte essendo così
legate, che non potrebbero una senza l'altra, e senza l'intiero
complesso, essere, nè spiegate a dovere, nè abbastanza intese.


§. 1. _Della capacità dei Conduttori Elettrici._

È stato dimostrato, e niuno più de' Fisici Elettrizzanti dubita,
essere la capacità de' Conduttori in ragione non già della massa, ma
del volume, e superficie di essi. Tralle altre la bella, e originale
sperienza di Franklin della catena ammucchiata, e accolta in un catino
elettrizzato, la quale quando esce fuori, e si dispiega nell'aria
accresce capacità al Conduttore, e come vi ricada ne lo riduce
all'angusta capacità di prima[42] ma singolarmente, e soprattutto
le sperienze fatte intorno al così detto _pozzo elettrico_ di cui
Voi foste il primo, o Signore, a darci una bella analisi[43], ci
fan vedere, e toccar con mano come l'elettricità sull'esterna faccia
solamente de' Conduttori si dispieghi[44]. Quindi è che nelle nostre
macchine per uso de' Conduttori comodi a un tempo, e capaci soglionsi
in oggi adoperare grossi cilindri, e sfere vuote d'ottone (giacchè il
fargli massicci a nulla giova), cannoni grossissimi di latta, ovvero
anche di cartone ricoperto di foglietta metallica, o carta dorata ec.
In somma si cerca che il volume sia grande, cioè ampia la superficie
del Conduttore qualunque siane la figura, salvochè puntuta, ed
angolosa: poichè ben ci è noto per altro principio, come, e quanto le
punte, e gli angoli favoriscono la dispersione dell'elettricità.

Ma niuno si è ancora avveduto, che io sappia, (o se per avventura
taluno ne ha dato un cenno, lungi è troppo che siasi la cosa posta
nel lume che merita) che di due Conduttori di egual superficie fra
loro quello abbia maggior capacità, che di tal dato volume più gode
in lunghezza, che in larghezza, o in grossezza. Eppure la differenza
è notabilissima. Alcune sperienze intorno all'azione dell'atmosfere
elettriche mi hanno condotto a questa scoperta, e a stabilire le
seguenti proposizioni, cioè: che la grossezza di un Conduttore
conferisce molto meno che la lunghezza alla capacità di lui, che la
figura sferica non è la più vantaggiosa a tale oggetto; che lo è assai
più la cilindrica: che però anche riguardo ai cilindri se non può dirsi
assolutamente superfluo il dare ad essi un gran diametro in grossezza
(come fassi comunemente co' cannoni di latta, o di cartone destinati
ad uso di _gran Conduttori_), è però un meschino vantaggio, che se ne
ritrae, e incomparabilmente minore di quello che trarrebbesi, se in
luogo di grossezza gli si desse un equivalente in lunghezza: che in
una parola poco importa che il Conduttore sia grosso, ma molto che sia
lungo.

Per comprovare le asserite cose con delle sperienze che fossero
decisive, ho preso tre cilindri di legno, il primo della lunghezza di
un piede, e del diametro di 4 pollici; il secondo lungo il doppio, e
la metà men grosso; il terzo lungo otto volte più, e altrettanto men
grosso: cioè quello ha 2 pollici di diametro con 2 piedi di lunghezza,
questo 8 piedi di lunghezza con 6 linee di grossezza. Ciascheduno di
questi tre cilindri ha dunque un'egual superficie, cioè di un piede
quadrato, senza contare però quella delle teste, per cui il vantaggio
sta dalla parte del cilindro più grosso. Sono poi tutti similmente
inargentati, e bruniti, e così resi buoni Conduttori. Or giusta la
legge generalmente stabilita, che la capacità de' Conduttori siegue la
ragione delle superficie, dovrebbe poter ricevere, e contenere tanto
l'uno, quanto l'altro di tali cilindri un'eguale dose di elettricità;
anzi un poco più il cilindro più grosso, per conto della maggiore
superficie, che, come si è detto, si trova avere alle due teste. Ma la
cosa non và così: il cilindro grosso 2 poll. e lungo 2 piedi riceve una
quantità notabilmente maggiore di elettricità di quello che ne riceva
il cilindro grosso 4 poll. e lungo solamente un piede. Il cilindro
poi grosso appena 6 linee, ma in compenso lungo 8 piedi, si carica
incomparabilmente più che questo, o quell'altro, e più che ambedue
gl'altri insieme.

Se alcun mi domandasse come accertar si possa, che uno riceva maggior
dose di elettricità, che l'altro, non avrei che a fargli provare la
scintilla di ciascuno di questi Conduttori caricato quanto più si può,
finchè e. g. ne spicca il fuoco spontaneamente nell'aria; sentirebbe
quanto la scintilla del cilindro lungo, e sottile è più scotente della
scintilla dell'altro corto, e grosso, e del mezzano ancora. Per Voi,
Signore, che sapete meglio di me giudicare dai moti di un Elettrometro
(mi servo ancor io come Voi di un semplice filo di lino teso
leggermente da una pallottola di sughero, e che pende lungo il dorso
d'un'assicella), che comprendete che quanto più di azione, e di giri
della macchina accade d'impiegare per far salire il pendolino ad una
determinata tensione, tanto maggiore vuol dirsi che sia la capacità del
Conduttore, basterà il dirvi, che appunto conviene aggirare la macchina
di più per il cilindro più lungo, e sottile; che quanta tensione eccita
per avventura un sol giro negl'altri grossi, non l'eccitano ancora
tre, o quattro giri nel detto cilindro lungo. Sapete altresì, che
appressando l'oncino di una boccia di Leyden carica ad un Conduttore
isolato, ne trae questo una scintilla proporzionata alla sua capacità.
Ora de' tre miei cilindri quello che riceve dalla boccia scintilla più
grande, e dimolto, egli è appunto il più lungo, e stretto.

Ella è dunque posta fuor d'ogni dubbio la prevalenza riguardo alla
capacità di quello tra i Conduttori di egual superficie, che supera
gl'altri in lunghezza, quanto ad essi è inferiore in grossezza:
prevalenza notabilissima, e che d'ora innanzi dovrà determinarci ad
abbandonare i grossi cilindri, o cannoni usitati, per sostituirvene
dei sottili ma altrettanto più lunghi; come sono i bastoni di
legno inargentati, che io adopro con ottimo successo, e con minor
dispendio. Ma non vi sarà poi limite alcuno da osservarsi circa questo
assottigliamento di Conduttori compensato per conto di lunghezza? Sì
vi è quello suggerito dalla facile dispersione dell'elettricità, che
spruzza da se nell'aria quando il cilindro non sia più grosso di un
grosso filo di ottone. Se tal dispersione non fosse, un sottil filo
di rame tanto lungo, che venisse ad avere la superficie di un piede
quadrato (supposto che il diametro fosse di 1/3 di linea, importerebbe
la lunghezza di 144 piedi) formerebbe un Conduttore molto superiore
al mio bastone di 8 piedi lungo, e 6 linee grosso. Senza dubbio, esso
sarebbe più capace; inquantochè a caricare di elettricità l'uno, o
l'altro fino a un determinato grado di tensione (marcata dal segno
a cui sale il pendolino dell'Elettrometro) s'impiegherebbe tempo ben
diverso, cioè assai più per caricare il filo; il quale conseguentemente
vibrerebbe a quel dato grado di tensione scintilla più grossa, e
scuotente. Un'esempio di questo lo abbiamo nel lungo filo, che dalla
spranga Frankliniana, o _parafulmine_ sia condotto in una stanza, il
qual filo elettrizzato, comecchè a piccola tensione, ci dà scintille
corte sì, ma rabbiose, e scuotenti, e di più per un po' di tempo
continue. Io mi sovvengo di avervi una volta detto, parlandomi Voi di
un tal fenomeno, che non vi parea facilmente esplicabile, come io avrei
creduto poterne rendere compiuta ragione, e piana, deducendola dalla
grande capacità di questo lungo filo, eccedente dimolto la capacità
degli ordinarj Conduttori. Certamente la notata disparità degl'effetti
non procede perchè l'elettricità instillata alla spranga, e al
filo dalle nuvole agisca in un modo suo particolare, o diversamente
dalla nostra elettricità artificiale. Il sospetto è vano. Provate ad
infondervi l'elettricità colla macchina ordinaria, o con una boccia
carica, e quinci a trarre dal filo le scintille; saranno non altrimenti
che quelle del temporale, pungenti, rabbiose sebben corte, e molte
seguentisi. Ma poi è da notare che siccome arrivata l'elettricità a
certa non molto grande tensione si disperde dal filo, a cagione di
sua troppa sottigliezza, e massime dalle scabrezze, che regnano quà,
e là, e toglier non si possono; così all'incontro il bastone di legno
inargentato della grossezza di 6 linee, purchè sia in tutta la sua
superficie ben liscio, e forbito, può esser caricato di più, cioè
elettrizzato a molta maggior tensione, non iscagliando esso il fuoco
in spruzzi spontanei se non dall'estremità, quando finalmente si trovi
estremamente carico; e neppur da queste, ove guarnite sieno di grosse
palle levigate.

La grossezza dunque di sei linee ne' bastoni di legno inargentati io la
trovo più che sufficiente per l'elettricità, che vi si voglia portare a
qualunque tensione. Del resto tutto quello di ampiezza che uno cerchi
di dare alla superficie del Conduttore, acciò divenga capace di una
gran dose di elettricità, vuol essere in pura lunghezza. Dietro una
tale idea io mi son procacciato un Conduttore, che riceve una strana
quantità di elettricità, e da cui si cava una scintilla intollerabile,
che scuote fortemente tutta la persona. È fatto questo gran Conduttore
di 12 bastoni di legno della succennata foggia, e grossezza, cosicchè
in 96 piedi di lunghezza non ha di superficie in tutto che 12 piedi
quadrati. Non eccede pertanto la mole di un cilindro, che fosse lungo
solamente 6 piedi, ma grosso 8 pollici; le quali misure se le abbia
un cannone di latta o di cartone dorato, tiensi per uno dei Conduttori
assai capaci. Ma troppo sorpassano quei bastoni disposti in lunga fila
un tal grosso cannone nella quantità dell'elettricità che ricevono,
e degl'effetti che producono veramente poderosi. Colla mia macchina a
disco di cristallo, quando anche agisce vigorosamente, fa bisogno per
portare l'elettricità nella lunga serie dei miei bastoni alla massima
tensione, di venticinque, o trenta giri, nulla meno di quanto ricercasi
per caricare fortemente una piccola boccetta di Leyden: laddove
quattro, o cinque giri solamente vi vogliono per eccitare la massima
tensione nel cannone di 6 piedi. Corrispondentemente chi si cimenta a
cavare da quelli, o da questo una scintilla col dito, sente l'enorme
differenza che vi passa; mentre comecchè tragga forte, e vivace
scintilla eziandio dal cannone, è però di gran lunga men grossa, piena,
e scuotente che quella dei bastoni.

Non vi dovrà esser più dunque, lo ripeto, chi proponendosi di avere
da un Conduttore effetti grandiosi, non voglia sostituire ai grossi
cannoni, sfere, ed altri corpi stati fin quì in uso, i miei bastoni
di legno inargentati, e disposti in lungo punta a punta. Se non che
il disporli in questa guisa, mi si dirà, non è sempre facile, anzi
neppur possibile, se non si fa in una stanza grande, o in un lungo
corridore; e diviene poi sempre imbarazzante. Certo ci fa bisogno
di una stanza grande anzi che nò, o della fuga di una galleria:
tuttavolta non si richiede che sia questa, o quella lunga tanto
quanto i bastoni tutt'insieme; giacchè non è necessario disporgli
tutti in una sola fila: si possono convenientemente ripartire in due,
tre, quattro file parallele in un piano orizzontale, a misura che la
stanza o il corridore è largo; e inoltre sotto le prime altre file si
possono collocare, e dopo il secondo, il terzo ordine ec. secondochè
l'altezza della stanza può comportare. Basterà solamente che dall'una
all'altra fila passi la distanza di tre in quattro piedi: condizione
importantissima, di cui verremo tosto indagando la ragione. Nulla
poi di più facile che l'isolare perfettamente tutte quante le file,
sospendendole con cordoncini di tortiglia: quelle del prim'ordine
alla soffitta della stanza; quelle del secondo al prim'ordine ec. Un
colpo d'occhio alla Tav. II. figura 1. vi dà l'idea dell'accennata
disposizione. AA BB sono due file di bastoni sostenuti dalle cordicelle
_aaaa_ e _bbbb_ raccomandate alla soffitta. CC DD altre due file
appese al prim'ordine per le cordicelle _cccc_, e _dddd_, come il
second'ordine al primo, così il terzo al secondo, e al terzo il quarto
ec. si possono far succedere: e similmente, come di due file, così
di tre, di quattro e di quante più uno vuole si può formare ciascun
ordine, o piano. A far poi che tutte comunichino, e compongano un sol
Conduttore, basterà una verga metallica per ciascun ordine posata a
traverso il corso delle file dimodochè tutte insieme le tocchi, come
ABCD; e un'altra verga come BD che congiunga un piano coll'altro.
Ben s'intende, che i bastoni componenti ogni fila debbono toccarsi,
e restare uniti punta a punta; e comecchè ad ognuno possa suggerire
un qualche mezzo di ottener ciò, tuttavia non istimo superfluo di
accennare il mio, che è di ficcare sulla testa di un primo bastone
un pezzo di fil di ferro, il quale ne sporga un pollice o più, acciò
con tal parte sporgente entri in un foro praticato nella testa di un
secondo bastone, e così di seguito.

Or parliamo più di proposito della distanza delle file. È ella poi
richiesta assolutamente cotanto grande? E se in luogo di tre, o
quattro piedi si accostassero, a tre, o quattro pollici solamente
quale svantaggio ne verrebbe? Grandissimo: quello di ristringersi
incredibilmente la capacità del Conduttore. Di vero pare incredibil
cosa; perchè la superficie riman pur tutta di tutti i bastoni, come
prima. Ma conviene osservare, che non è più, come dianzi, tutta affatto
libera. Convien riflettere che per sì fatto avvicinamento vengono i
bastoni ad essere immersi nell'atmosfera elettrica, ossia sfera di
attività, un dell'altro. Ebbene questa atmosfera elettrica di uno che
fa ella sopra di un'altro corpo, che vi sia immerso? viene a portarvi
una tensione, o sia ad attuarvi una elettricità omologa, a un grado più
o meno intenso secondo che più o meno è avvolto in detta atmosfera,
secondo che vi si trova immerso più o meno profondamente, e vicino
al centro di attività. Questa è una verità di fatto; e non accade
quì rintracciarne la ragione, e il modo. Or quanto un corpo ha già
di tensione elettrica, tantomeno gli resta di capacità per ulteriore
elettricità omologa. Così dunque stando i bastoni tra loro poco
distanti, al primo infondervi l'elettricità, quel grado di tensione che
risultar dee per quella dose che ciascun riceve in proprio, s'accresce
dimolto per l'azione che vi giunge de' compagni; sicchè venendo di tal
modo attuati tutti a maggior tensione, tutti per conseguenza arrivano
più presto al termine della loro capacità. Se vi fosse il caso in
cui un corpo per parte unicamente delle atmosfere elettriche venisse
attuato alla massima tensione, non potrebbe quegli già più ricevere di
elettricità propria (ben s'intende _omologa_): o se acquistasse giusto
tanto di tensione, quanto ne ha il corpo attuante, non riceverebbe da
questo, neppur toccandolo, la più piccola scintilla, nè gli verrebbe
compartito punto di assoluta elettricità. E questo è giusto il caso
_del pozzo elettrico_, in fondo a cui _la secchia_ investita da tutti
i lati dall'atmosfera elettrica ne viene appunto _attuata ad egual
tensione_; e perciò nulla dal pozzo le si comparte della propria
elettricità.

Or si comincia a intendere perchè in un grosso e corto cannone, che
abbia non minor superficie, ed anche un po' maggiore di un lungo, e
sottil cilindro, più presto l'elettricità vi si porti alla massima
tensione, e per conseguenza non vi si possa accumular in così grande
quantità. Se idear vogliamo la superficie di quello divisa in tante
liste, o fasce longitudinali, potrem concepire ciascuna _attuata_ a
maggior tensione dalle aggiacenti: a tensione, dico, maggiore di quella
che la propria infusavi elettricità da se sola le porterebbe. Cosa
dunque ottiensi commutando con altrettanta lunghezza la grossezza del
Conduttore? Si riducono a meno le ideate fasce, si toglie via buona
parte delle atmosfere laterali, si libera, diciam così, se non da tutte
da molte forzate, e importune tensioni la superficie; e quinci vi riman
luogo a tanto maggior dose di elettricità propria, ed assoluta.

Non ho voluto estendermi di più in questo campo delle atmosfere
elettriche oltremodo fecondo, e che mena diritto ai principali
fenomeni, e leggi dell'elettricità; ma ho preso soltanto ad esporre
in termini, e modi generali quello che ha una necessaria relazione
coll'oggetto, che mi era proposto. Troppo più diffondermi conveniva
se avessi voluto rimontare ai principj; ma scrivo una lettera, e
non un trattato; e la scrivo a Voi, Signore, a cui non fa bisogno
spiegare d'avvantaggio, e forse nemmeno tanto occorrea di dirne,
poichè sì fatta materia delle atmosfere elettriche, e foste dei primi
ad illustrare, e intendete più di me a fondo. Io poi destino per una
memoria a parte tutto quello che le mie osservazioni mi hanno insegnato
intorno all'azione delle atmosfere elettriche: delle quali mie
osservazioni, e idee alcune, e singolarmente quelle che riguardano la
virtù delle punte, già vi son note per vari discorsi che con voi feci
su tal soggetto le poche volte che ebbi il piacere di goder la vostra
conversazione.


§. 2. _Della commozione che può dare un semplice Conduttore._

Io non so che alcuno sia giunto ad ottenere da un Conduttore semplice
una commozione gagliarda in nulla dissimile da quella che dà la boccia
di Leyden, o il quadro magico: commozione cioè, che si faccia sentire
alle braccia, e al petto, che scorra per una lunga catena di persone
scuotendole tutte validamente ec. Mi è noto solamente che i Sigg.
Wilke, ed Epino sono riesciti a fare l'esperimento della _commozione_
con quei due larghi piani deferenti affacciantisi a poca distanza, uno
de' quali venendo elettrizzato _in più_, o sia infondendosi eccessiva
dose di fuoco, obbligava l'altro a spogliarsi in parte del proprio[45],
e so che si è voluto spiegare tal fenomeno coll'idea che si caricasse
propriamente una _lastra d'aria_ in simil modo che si carica una
lastra di vetro armata facendo appunto per la lastra d'aria officio di
armature gli stessi due piani deferenti. Ma io posso ora far vedere
che non vi è bisogno nè di lastra che si carichi, nè di tal doppia
armatura, nè in una parola della combinazione delle due contrarie
elettricità, perchè abbia luogo la vera commozione, e che un semplice
Conduttore, e solitario, sol che sia di sufficiente grandezza, basta
a produrla eguale, e nella qualità, e nella quantità a quella che ne
dà qualsivoglia boccia di Leyden, o quadro magico. E tanto ho predetto
innanzi che potessi verificarlo, come dipoi feci pienamente, sopra il
capacissimo Conduttore composto di dodici bastoni di cui ho parlato
ampiamente di sopra, e che all'oggetto principalmente di questa prova
ho voluto fabbricarmi.

Questi sottili bastoni disposti in una fila sola, ovvero in più, ma
colla necessaria distanza, come ho spiegato, i quali fanno in tutto
96 piedi di lunghezza, quando sono elettrizzati a dovere, se alzo il
dito per toccarli, vibranmi contro tal scintilla, che mi scuote tutto
il braccio singolarmente al gomito, e il collo di uno, o due piedi
insieme. Se un'altra, o più altre persone mi danno mano esse pure nelle
giunture delle braccia, e de' piedi simil scossa riportano. Fin quì
peraltro, come che sia già questa, a chi ben mira, e intende una vera
commozione, simile a quella che si rileva da una boccia ben carica, di
cui si tocca il solo oncino, stando essa col fondo posata sul pavimento
non molto asciutto, e stando la persona che tocca ella pure in piedi
sul pavimento medesimo, è ancora distante molto da quella violenta
scossa che si sente toccando l'oncino con una, e il ventre della boccia
coll'altra mano a un tempo. Volete dunque una scossa di tal polso
anche dal mio Conduttore? toccatelo con una mano, mentre coll'altra
toccherete un filo di ferro che va a terminare in un pozzo, o nella
terra umida, oppure senz'altro fate che sia ampiamente adaquato il
pavimento della stanza.

La comunicazione con un tal filo metallico, od altro buon deferente
continuo che porti giù nell'ampio universale ricettacolo della terra è
necessaria per dare il libero sfogo all'eccessiva dose di elettricità
che si trova accumulata nel capacissimo mio Conduttore: sfogo, che
il solo pavimento poco deferente allorquando è asciutto, non concede
che a piccola quantità di fuoco, una grande non trasmettendola che
successivamente, e a stento. Una prova ben chiara di ciò è che se si
sperimenti sopra uno dei soliti Conduttori piccoli, o mezzani, ed anche
competentemente grandi, avverrà che per via di una sola scintilla, che
un'uomo comunicante semplicemente col pavimento, ne cavi, scintilla
che ei sente unicamente sul dito che ne vien colpito, o poco più in là,
avverrà dissi che si spogli quel Conduttore di tutta quell'elettricità
che contiene, la quale elettricità comunque portata alla massima
tensione, è tuttavia in poca dose, attesa l'angusta capacità di tal
Conduttore. All'incontro se sia questo assai capace, come lo è il
mio, esplorandolo col dito, o con un pezzo di metallo, dopo la prima
scintilla gagliarda, scuotente discretamente il braccio e il collo del
piede, si estrarranno replicate altre scintille assai più piccole,
ma tuttavia pungenti. Non così però se il pavimento sia abbastanza
umido, o meglio se chi esplora il Conduttore tocchi a un tempo il
fil di ferro suddetto che va a terminare sotto terra: in tal caso una
sola scintilla, che porta una scossa altrettanto più forte, disperde
quasi tutta l'elettricità. Vedesi dunque chiaramente come il pavimento
asciutto, il quale niuno o almeno non sensibile ritardo apporta al
passaggio del fluido elettrico, quando è in discreta copia, l'apporta
poi notabilissimo quando la piena ne è soverchiamente grossa. Il che
ancor meglio si vedrà, se farassi che una, due, o più persone tocchino
la mano, la gamba, il collo, o qualunque altra parte non troppo coperta
dalle vesti di colui che si accinge a trarre la scintilla dal gran
Conduttore, o senza anche toccarlo, gli presentino a piccolissima
distanza la punta del dito; imperocchè all'atto che egli provocherà
sopra di se la scarica, scosse verranno con esso lui le altre persone
eziandio, e balzerà visibilmente la scintilla dalla mano, dal collo
ec. di quello alla punta del dito di queste. La stessa sperienza, e al
modo stesso succede, se in luogo di trarre la scintilla dal mio gran
Conduttore, si cava dall'oncino di una boccia fortemente carica. E in
questa, e in quella esperienza l'eccessiva quantità di fuoco, che si
affolla nella persona che la riceve immediatamente dal Conduttore o
dalla boccia non potendo pervadere liberamente e tutto a un tratto il
pavimento, schizza quà e là, e si sparge in vari rami, gettandosi di
preferenza ne' corpi più deferenti, che trova più a portata di fargli
strada, più capaci ec. Se vi avrà a cagion di esempio una ringhiera di
ferro, e la tocchi con una mano chi tragge la scintilla con l'altra dal
Conduttore, sarà scosso nelle due braccia non più nel collo del piede.
Se comunichi con tai ferramenti non immediatamente, ma per mezzo di una
catena di persone, la scossa si propagherà egualmente a tutte. Questa
poi sarà più grande a proporzione che il corpo deferente a cui comunica
la persona, o la catena di persone sia più ampio, e sia deferente
più perfetto. Così umettando bene ed ampiamente il pavimento della
stanza, massime se è terrena, la corrente del fuoco non si dirigerà
più per gran parte verso la ringhiera che sia piantata in un muro
secco, comunque la tocchi uno della catena; ma meglio passerà già per i
piedi nel pavimento, e la scossa si sentirà più violenta al collo del
piede, e fin sopra al ginocchio. Così andate discorrendo per le varie
disposizioni che incontrar si possono. Avrete sempre più, o meno valida
scossa a norma dello sfogo, che si apre, e potrete indovinare qual
direzione prenderà la scossa medesima. Ma perchè sia intera, e valida
quant'esser può, cosicchè dia al petto, bisogna stabilire, come ho già
detto, una comunicazione con corpi deferenti tale, che libero e intiero
sfogo conceda a tutta la copia di elettricità accumulata nel gran
Conduttore, sicchè a un colpo solo si scarichi. E questa comunicazione
non si ottiene mai così bene, come mandando un filo metallico dalla
stanza fino in fondo di un pozzo, o a seppellirsi nella terra umida.

Io mi piaccio sovente di far sentire la vera e forte commozione che
dà il mio gran Conduttore, e vedere a un tempo come, e quanto il
foco elettrico presceglie la strada dei migliori deferenti, e la
segue religiosamente per il corso continuo fino al grande universale
ricettacolo, con questa sperienza ch'è altrettanto bella quanto
eloquente. Una persona posa la mano su d'una tavola, ove è fisso ad
una piccola lastra un capo del fil di ferro, che dopo varj giri sul
pavimento della stanza posta al terzo piano della casa, mette fuori
della finestra, e lungo i muri prostrato per alcune centinaja di piedi,
va finalmente coll'altro capo a terminare in un pozzo. La persona posa,
come dicea, la mano sulla tavola in modo che le mancano solo alcune
linee per toccare coll'estremità delle dita il detto filo, o lastra.
Un'altra persona portatasi a basso in vicinanza del pozzo spezza
colaggiù il filo di ferro, e i tronchi capi impugna uno colla destra,
l'altro colla sinistra. Così stando le cose disposte, dico alla prima
persona che cavi con la mano che tiene in libertà la scintilla dal
gran Conduttore: ed ecco che la scintilla si ripete, e balza piena,
e vigorosa dalla punta delle dita posate sulla tavola alla lastra, o
filo di ferro, quand'anche sia distante di più di un mezzo pollice, e
fin d'un pollice intiero, intantochè risente la persona medesima nelle
braccia, e nel petto una potente commozione; ed una simile niente o
poco minore sente pur l'altra persona rilegata presso al pozzo.

Tutte queste prove, ed altre molte, che tralasciar mi conviene adesso,
si uniscono a dimostrarci, che la quantità di fuoco elettrico, che
rapidamente, e a un colpo, diciam così, invade ed attraversa il corpo,
è la cagion vera, e propria della commozione: che questa corrisponde
appunto, e a pelo a tali due condizioni della dose di elettricità
accumulata da una parte, e dello sfogo che trova dall'altra. Non accade
più dunque di mettere studio a rintracciare altra cagione, di ricorrere
ad una maniera particolare d'agire del fuoco elettrico nella scarica
delle lamine isolanti, ad una supposta reazione a qual siasi non intesa
energia. Non ci è altra energia che quella, che chiamo _tensione di
elettricità_, che è poi lo stesso che lo sforzo di spingersi fuori:
il quale sforzo o tensione non può esser maggiore nella faccia della
lastra caricata di quello sia nel Conduttore che gli dà tal carica.
Inezie poi sono il tirare in campo dell'immaginarie oscillazioni delle
parti di tali lamine, l'ideare di posta la fabbrica di tali parti, la
configurazione dei pori, e somiglianti cose. Il giusto e il vero punto
è di cercare come tanta quantità di elettricità raccoglier si possa
sulla faccia di una lamina isolante armata, come abbia sì prodigiosa
capacità un quadro di pochi pollici, quanta appena si trova in un
Conduttore di molti piedi. Del qual problema io trovo la spiegazione
chiarissima nella teoria delle atmosfere elettriche, essendo una
conseguenza dello scaricarsi del fuoco proprio che fa una faccia in
ragione, che la faccia opposta si carica dell'altrui. Ma di ciò avrò
luogo di parlare più di proposito.

Qui mi giova insistere ancora, mostrando la scintilla e scossa di un
semplice Conduttore non differire per alcun'accidente che sia dalla
scintilla e scossa della boccia di Leyden, se non dal più al meno; e
nemmanco tanto, ove sol diasi tal grandezza al Conduttore, che divenga
in ragione di capacità eguale ad una delle due superficie armate della
boccia. A quest'intendimento io andrò prima togliendo certe apparenti
differenze, che più sembrano saltare all'occhio; indi seguirò a fare un
compiuto parallelo combinando in vari modi l'esperienze. Che sì, che
arrivo a convincer voi pure, Signore, come mi son convinto io stesso,
che l'esperimento della commozione non è più proprio alla boccia, o
al quadro magico, di quello sia al Conduttore semplice? che una grossa
piena di fuoco comunque, e da qualunque parte si scarichi rapidamente,
e ad un tratto produce nel corpo che attraversa l'effetto di cui ora si
tratta?

Voglio prendere da Voi medesimo, giacchè succintamente ed elegantemente
più d'ogn'altro l'avete notate le pretese differenze. Ecco come
vi esprimete alla tesi XIII della vostra lodatissima Dissertazione
«Quantumcumque electricum fluidum in uno corpore, si vitrum excipias,
condensatum fuerit, et quantumcumque in altero rarefactum, corpus
per quod aequilibrium restituitur commotionem nunquam experitur;
validissimae quidem, crepitantes, pungentes, lucentes, magnaque e
distantia prodeuntes erumpunt scintillae, sed absque illo singulari
commotionis sensu, qui facile cognoscitur, difficile describitur.
Nec in doloris quantitate stat differentia sed in ipso genere sensus;
levissima enim commotio a fortissima scintilla omnino differt, licet
haec plus doloris, quam illa afferat» Riguardo dunque a ciò che
concerne quel genere _singolare di senso_, a cui si è appropriato
il nome abbastanza spiegante di _commozione_, altro non occorre che
richiamarvi alle sperienze, che ho sopra descritte, ed invitarvi a
ripeter tali prove. Aggiungerò qui solo che la scossa che si rileva
dal mio gran Conduttore è così simile a quella di una boccetta di
Leyden, che può ingannare qualunque fosse più versato nelle sperienze
elettriche. Vorrei che Voi foste qui, caro Signore (come nella scorsa
state vi foste, e lasciato mi avete belle speranze sì allora, che il
seguente autunno, quando fui io a ritrovarvi a Ginevra di rivedervi
un'altra volta a Como), e vi farei sentire delle scosse, che non
potreste distinguere d'onde vengano, se da una boccetta carica, o dal
mio Conduttore semplicemente, no, non potreste distinguere, fuorchè
veggendo ciò che passa, e non veggendo nulla e. g. stando lontano dalla
stanza ove io opero, e tenendo Voi due fili di ferro un colla destra,
un colla sinistra, dovreste giocare a indovinare, e sì sbagliereste
sovente.

Ma dunque non sarà vero ciò che dite, che a qualunque gran segno
sia condensato il fluido elettrico in un Conduttore, e rarefatto in
un'altro, il corpo per cui passando rimettesi in equilibrio non prova
punto quel genere singolare di senso, che diciam commozione? Sì sarà
vero dei Conduttori ordinarj, che non siano di grande capacità; non
però di Conduttori capacissimi. Ecco che i due gran piatti d'Epino
uno carico di fuoco, l'altro spogliato portano una vera commozione a
chi tocca questo, e quello insieme. Ma anche senza il contrapposto di
due contrariamente elettrizzati, ecco il mio Conduttore lunghissimo,
che dà una commozione pur vera verissima a chi ne provoca la scintilla
comunicando semplicemente con la terra umida, o immediatamente, o per
mezzo di un filo di ferro.

Ho detto che la vostra asserzione sarà vera quando si esperimenti sopra
Conduttori non molto capaci quali si adoprano d'ordinario. Ad ogni
modo se il Conduttore non sia dei più piccoli, se sia un cannone e.
g. lungo quattro, o cinque piedi, ed anche meno, e lo elettrizzerete
a una gran tensione a segno che esplorandolo vi dia quelle scintille
che dite strepitose pungenti, e vibrate a gran distanza, nulla più
avrete a fare per rilevarne una commozione leggera sì, ma pur vera
commozione, che di toccare col dito di una mano il filo di ferro
che mette in terra umida, mentre con un dito dell'altra eccitate dal
Conduttore sì fatta vivace scintilla: vi sentirete ambe le dita punte,
e scosse le articolazioni di esse, e fino la giuntura della mano col
braccio. Se la scossa non arriva al petto, e ne anche fino ai gomiti,
non vi arriva neppure quella di una boccetta di Leyden molto piccola,
e leggermente carica. Ciò proviene in ambi i casi dalla scarsa dose di
fuoco elettrico che si scarica a traverso del vostro corpo, giacchè
è poca la quantità di elettricità accumulata là nel Conduttore non
molto grande, quì nella boccetta piccolissima. Che? non si può fare una
boccetta di così miserabile capacità per essere piccola oltremodo, o di
vetro assai grosso, che caricata quanto mai può portare giunga tutta
al più a squotere le prime articolazioni delle dita, ed anco meno di
queste, cioè a farsi appena sentire con leggera puntura all'estremità
del dito mignolo con cui si tocchi la sua esterior veste, intantochè
dall'uncino si trae la scintilla, alquanto più pungente, e assai più
vivace? Or così meschina commozione, che appena può dirsi tale non
mancherà di darvela pure un Conduttore semplice di meno che discreta
mole, un cilindro di un piede, o poco più, se lo esplorerete mentre
in egual modo con la punta del dito mignolo toccate il filo deferente
che va nel pozzo. Che se (per rimontare omai dagli ultimi termini a
cui abbiam portato la commozione, sì della boccia che del Conduttore
a gradi superiori) a proporzione che la boccetta è più capace, e più
carica, viene a portare la scossa più in su alle giunture delle dita,
a quella della mano col braccio, ai gomiti, agli omeri, al petto,
tanto e nulla meno giunge a fare un semplice Conduttore a misura che
esso pure è più ampio e capace. Così quattro dei miei bastoni che
vengono a dare 32 piedi di lunghezza fan già sentire la commozione
fino ai gomiti, quale, e quanta la può far sentire una boccetta che
abbia sol 2, o tre pollici in quadro di superficie armata, o ben 5, o
6, se il vetro è grosso (si sa che più lo strato isolante è grosso, e
meno di carica può ricevere, il che pure si spiega colla teoria delle
atmosfere elettriche): i dodici poi bastoni insieme, che fanno piedi
96 mi portano la commozione fino al petto, come ho detto e ridetto
più volte, commozione non men grave di quella che mi dà una lastra
di vetro discretamente sottile di 4 poll. in quadro di superficie
armata. Dal che vedesi ancora più particolarmente, come l'ampiezza
del Conduttore semplice dee essere stragrande comparativamente alla
grandezza della boccia per venire ad avere una capacità eguale. La qual
cosa per ridirlo quì ancora s'intende a maraviglia nella teoria delle
atmosfere elettriche; e sarà a suo luogo spiegata. Vengo ad un'altro
passo che mi offrite nella nota alla tesi XII. «Omnia phaenomena,
quae attentus miratur observator, dum ingens lagena, vel magna tabula
magica oneratur, ostendunt electricum fluidum a globo suppeditatum,
incognitae impulsionis actione, totis viribus ruere in vitrum aquae
vel metallo suppositum. Etenim lentissime interea ascendit subereus
electrometri globulus, brevissimae sunt scintillae ex propagatore,
et omnino diversae ab eis quae absente phiala educuntur. Hae scilicet
albae unicam explosionem, unicum crepitum cum unica punctione edunt.
Illae rubellae, plures simul ad exiguam distantiam exeuntes, digitum
cum acerbo dolore continuoque sibilo rodunt, quasi aegre, et invite
amatam vitri superficiem desereret fluidum electricum. Quis nitidam
illorum factorum dedit explicationem? Nemo, ut opinor. Desunt adhucdum
sat magno numero collectae observationes, desunt experimenta». Or io
mi lusingo di avere le desiderate esperienze ed osservazioni prodotte,
tali che vi soddisfacciano pienamente. E già voi vi aspettate ciò
che io voglio dire, che sì fatte men reali che apparenti differenze
son nate dall'essersi presi per termine di confronto Conduttori non
abbastanza capaci, e bocce capaci di troppo. Infatti mettendocisi
innanzi un gran fiasco, od un vasto quadro magico, quale sterminato
Conduttore convien porgli in confronto? Giudicatelo da ciò che il mio
lungo 96 piedi non ha più di capacità di una boccettina, o lastra di
vetro di 4 pollici in quadro di superficie armata. Prendete dunque
a rifare l'esperienze con boccetta non più grande, e con Conduttore
non più piccolo dei divisati, e si ridurranno le apparenze tutte
ad una ammirevole perfetta eguaglianza. Vedrete nell'infondere
l'elettricità eziandio al Conduttore solitario, come lentamente ascende
l'elettrometro, nè più, nè meno di quel che succede nel caricare in
luogo suo la boccetta: come vi vuole presso a poco egual numero di giri
della macchina per portar quello ad una certa tensione, e per portarvi
questa.

Il montar dunque lentissimo dell'elettrometro quando al vostro
Conduttore annettete il gran vaso di vetro, o quadro magico non
proviene dalla capacità stragrande di tal quadro o vaso. Un Conduttor
semplice lungo tante migliaja di piedi, che agguagliar potesse tale
capacità, vi mostrerebbe sicuramente il medesimo, richiederebbe un
egual numero di giri per venire all'istesso punto di tensione; siccome
darebbe puranche le medesime brevi, rossiccie, mordenti scintille
accompagnate da quel continuo sibilo, che provate nell'esplorare il
quadro che si và caricando. Sì: lo smisurato Conduttore che io dico vi
darebbe somiglianti brevi, rossiccie, acerbe scintille, esplorandolo
prima che vi giungesse l'elettricità a molta tensione; poichè giunta a
tal segno sia in Conduttore piccolo, sia in grande, sia anche in una
boccia, ne balza allora una scintilla chiara e vivace a più, o meno
grande distanza: scintilla pungente solo la pelle, se da Conduttore
non molto grande proviene, ma scuotente braccia, e gambe se da
amplissimo Conduttore, o da boccia procede; dopo la quale scuotente
scintilla, le anzidette piccole rabbiosette a provarsi rimangono. Tali
scintille replicate, e continue per alcun tempicciuolo, le dà già il
mio Conduttore lungo 96 piedi, come nel raccontarvi disopra le prime
prove ho spiegato; e le dà anche più mordenti il lunghissimo filo di
ferro del _para fulmine_ come pur si è detto, e Voi stesso, o Signore,
provato avete, e ci avete fatto sopra di molta riflessione, più ancora
crescono, se unisco, come tal volta mi diletto di fare, detto filo
del parafulmine alle mie serie di bastoni per farne un sol Conduttore.
Che se non sono tuttavia così rabbiose, nè durevoli tanto, quanto le
scintille che si cavano dal gran Quadro, non cedono punto a quelle di
una discreta boccetta esplorata all'istesso modo, e bastano a farci
presumere quali sarebbero se il Conduttore fosse ancora di molto più
grande. Imperciocchè se da uno di pochi pollici di lunghezza (quale io
credo che voi solo adoperato abbiate) elettrizzato a forte tensione
ottener non si può che una o due scintille chiare e spiccate, che
dissipano a un tratto tutta la di lui elettricità, tanta non essendo,
che il pavimento comechè asciutto apportar le possa notabil ritardo;
all'incontro da un Conduttore lungo presso a 100 piedi, a piccola
tensione di elettricità, si cavano, pria che se ne spogli affatto,
replicate scintille; già viene da se, ed ammetter ben dobbiamo, che
un Conduttore otto, o dieci volte più capace ancora, elettrizzato
similmente a piccola tensione, ci scarichi una pioggia frequente e
lunga di tali scintille viepiù rabbiose, e stridenti.

Ho avuto occasione di notare più volte che una piccola boccetta
di pochi pollici di superficie armata è capace di tanta dose di
elettricità, quanta appena ne può contenere un Conduttore semplice
lungo molti piedi, ed ho anche più determinatamente fissato, che il mio
Conduttore di 96 piedi equivale a 4 pollici in quadro di superficie di
vetro armata più, o meno, secondochè il vetro è più o men grosso. Or
mi resta a spiegarvi più particolarmente le prove con cui confronto
io le respettive capacità del Conduttore, e del vetro armato. Si
riducono queste propriamente a due. Una è di osservare quanto convenga
somministrare di elettricità colla macchina al Conduttore, e quanto
alla boccetta per portarli a un determinato grado di tensione: ciò che
si misura presso a poco dai giri che si deggiono far fare al disco,
o globo della macchina nell'un caso, e nell'altro per far salire
l'elettrometro ad un dato segno. L'altra prova è di confrontare, per
quanto il senso giudicar ne può, il valore della commozione quando
proviene dalla boccetta carica, e quando dal Conduttore elettrizzato.
Riguardo alla prima adunque se tanto vi vuole a un di presso di giuoco
della macchina per il mio gran Conduttore di 96 piedi quanto per una
boccetta di 4 pollici in quadro di armatura, conchiuderò che hanno
questo e quello presso a poco capacità eguale. E così è appunto: vi
sovviene che ho detto richiedersi da 25 in 30 giri del mio disco di
cristallo, quando l'elettricità è vigorosa, tanto per elettrizzare alla
massima tensione il Conduttore soprannominato, quanto per caricare il
più potentemente che far si possa una boccetta della suddetta misura.

Rapporto alla commozione ho detto tutto col dire, che si sente
egualmente valida data da quello, o data da questa: bene inteso che
la tensione sia in ambedue eguale. Perciò io soglio confrontare la
boccetta ed il Conduttore portati a quel grado di tensione in cui già
cominciano a spruzzare (una dal pomo, od uncini, l'altra da qualche
simil palla, od estremità ritondata) l'elettricità nell'aria. Anzi per
assicurarmi meglio che la tensione sia in amendue eguale, elettrizzo
unitamente boccetta, e Conduttore, indi ritirata quella da questo gli
esploro separatamente: quella nel modo solito impugnando il ventre,
e toccando con l'altra mano l'uncino; questo alla mia maniera, cioè
postandovi una mano per estrarne la scintilla, mentre coll'altra
impugno il filo di ferro che conduce in terra. In questa forma, e con
tali attenzioni provando io una scossa egualmente forte che l'altra,
eguale giudico la capacità del Conduttore, e quella della boccetta; il
che nuovamente confermo col variare in più belle maniere, e combinare
simili sperienze.

1.º Elettrizzo il Conduttore, e la boccetta ambedue alla massima
tensione, ma contrariamente, quello _per eccesso_, questa _per
difetto_. Toccando con una mano il filo di ferro, già tante volte
mentovato, che mette capo in terra, e che più brevemente chiamerò
d'ora innanzi _filo deferente_, e impugnando coll'altra la boccetta,
ne porto l'uncino contro il Conduttore: ecco scoppia forte scintilla;
ed io ricevo attraverso le braccia, ed il petto la commozione tanto
valida, quanto se scaricato avessi sopra il mio corpo immediatamente la
boccetta, o immediatamente ricevuto la scintilla del Conduttore. Dopo
esplorando e questo Conduttore e quella boccetta, trovo che non vi è
più nulla, o quasi nulla di carica in nessuno dei due.

Gli accidenti tutti di questo sperimento si spiegano da se, supposta
nel Conduttore e nella boccetta eguale la capacità. Siccome quanto
soprabbondava di fuoco nel Conduttore elettrico _in più_, tanto
ne mancava all'interior superficie della boccetta elettrica _in
meno_, ed altrettanto di bel nuovo ve ne aveva di accumulato sulla
superficie esteriore della medesima (conforme a quel che vuole la
teoria delle cariche); così coll'appressare l'uncino della boccetta al
Conduttore si diè luogo a questo di fare la piena scarica di tal suo
fuoco sovrabbondante, che giusto valse a risarcire tutto il difetto
dell'interna superficie della boccetta, la quale in conseguenza fu
obbligata a rilasciare dall'altra faccia esterna quella egual copia
di fuoco già accumulatovi, che detto abbiamo, a rilasciarlo sì ad
un tratto tutto questo fuoco scaricandolo nella mano impugnante la
boccetta, e mandandolo attraverso il mio corpo, e il filo deferente a
perdersi nel comun ricettacolo della terra.

2.º Replico la stessa sperienza, ma al rovescio, cioè elettrizzando
l'interiore della boccetta _in più_ e il Conduttore _in meno_. Istessa
commozione nel mio corpo; e istessa compita distruzione della carica di
elettricità, sì nella boccetta che nel Conduttore.

La spiegazione è pur quì chiarissima. Il fuoco eccessivo accumulato
nell'interior superficie della boccetta è appunto sufficiente a
compensare il difetto del Conduttore in cui si getta: ma ciò non
si fa senza che all'esterna faccia della boccetta medesima accorra
altrettanto fuoco, onde risarcirla di quello di cui si trova
spogliata: ed ecco appunto, che vi accorre venendo su dal grande
comune ricettacolo per il filo deferente, e per la persona che tocca
questo filo con una mano, e con l'altra impugna la boccetta. La
commozione pertanto, che è sempre l'effetto di una corrente di fuoco
che attraversa il corpo, e che è proporzionale alla copia di fuoco, e
alla rapidità con cui tragitta, ben si vede, che dee risentirsi quale
e quanta si proverebbe scaricando immediatamente la boccetta sopra il
corpo, o immediatamente ricevendovi la scintilla del gran Conduttore;
ed eguale in questo, come nel primo sperimento, giacchè la piena
essendo egualmente grossa e rapida, egli è poi tutt'uno che si diriga
dal braccio destro al sinistro, o dal sinistro al destro; che mova dal
Conduttore alla terra, o dalla terra al Conduttore.

3.º Carico or solamente la boccetta _per eccesso_, e impugnatala ne
porto l'uncino contro il Conduttore che non ha punto di elettricità nè
di una specie, nè dell'altra: con questo non si scarica la boccetta
che per metà; ed io riporto una commozione, che vale giusto la metà
di quella che mi avrebbe dato la boccetta scaricandola immediatamente
sopra il mio corpo. Tale scossa, che dico la metà men forte, è non
pertanto di qualche polso, e mi giunge discretamente grave ai gomiti, e
fino al petto, se la boccetta fu caricata a gran tensione.

Egli è evidente che l'interna superficie della boccetta dee scaricare
sopra il Conduttore tanto del suo fuoco eccessivo, quanto ve ne vuole
per ridurre in amendue l'elettricità ad un egual grado di tensione;
tutta la quantità pertanto del fuoco soprabbondante si distribuisce tra
i due a proporzione della rispettiva capacità. Se dunque si comparte
giusto per metà è questa una prova sicura che hanno la boccetta, e il
Conduttore una capacità eguale. E ciò è appunto che raccolgo da quella
scossa che ho detto equivalere alla metà della scarica totale; e ancor
più chiaramente confermo col residuo di carica che trovasi avere ancora
la boccetta, e con quella che ha acquistato il Conduttore, conciosiachè
esplorando la boccetta a parte, ricevo un'altra mezza scossa del valore
della prima, e una terza finalmente d'egual peso ne ricevo esplorando
similmente a parte il Conduttore.

4.º Or fò l'esperienza in senso contrario, elettrizzando cioè il solo
Conduttore _per eccesso_, e presentandoli l'uncino della boccetta non
punto carica. Con che acquista essa quella carica che può darle la metà
del fuoco sovrabbondante di quello che lanciasi all'interiore di lei
superficie, ed io riporto una corrispondente commozione per altrettanto
fuoco che si spinge via dalla faccia esteriore della boccetta medesima:
commozione che vale la metà di quella che mi darebbe la piena scintilla
del Conduttore scaricata immediatamente sul mio corpo. Così poscia
esplorando e la boccetta e il Conduttore, ciascuno a parte, rilevo,
come sopra, due altre scosse eguali alla prima, e tra loro.

5.º Gli stessi sperimenti 3.º e 4.º gli ripeto sostituendo
all'elettricità _di eccesso_ quella _di difetto_; e i resultati son
quali si devono aspettare. Io ho le tre scosse dimezzate (ciascuna cioè
che vale la metà della piena scarica che si eccitasse immediatamente
sul corpo): la prima nell'atto di provocare la scintilla tra l'uncino,
e il Conduttore, la seconda, e la terza nello scaricare il Conduttore e
la boccetta, ciascuno a parte.

Ho sempre inteso che in tali prove si tenga con una mano il filo di
ferro che conduce in terra, mentre con l'altra si provoca la scarica
del Conduttore, o immediatamente, o per mezzo della boccetta. Se la
persona non tocca in qualche modo a un buon deferente continuo, se
comunica solo col pavimento asciutto, od altri corpi poco deferenti, o
interrotti, la corrente di fuoco viene più o meno ritardata, tantochè
la scarica non si compie più ad un tratto, ma successivamente in tempo
comunque non grande; ciò che basta perchè la commozione si risenta
molto men valida.

Tutte le surriferite sperienze, che concorrono a farmi giudicare la
capacità del mio Conduttore di 96 piedi prossimamente eguale alla
capacità di una boccetta di 4 pollici in quadro d'armatura, mi piace
poi di variarle con altre boccette di maggiore, e di minor capacità.
Dunque prendendone una di 3 pollici solamente d'armatura, ed una pur
anche di più di 4 ma di vetro assai grosso, osservo che comparte più
che la metà della carica al Conduttore, e che questo all'incontro
comparte meno della metà della sua a tal meschina boccetta: così poi
dopo sì fatta distribuzione prevale sempre la scossa del Conduttore a
quella della boccetta. Tutto l'opposto avviene quando sperimento con
boccie di 5 di 6 di 8 pollici in quadro di superficie armata. Queste
si portano via a proporzione più della metà della carica che abbia
il Conduttore; e della carica che abbiano esse non ne danno che una
parte minore della metà a quello: coerentemente le scosse loro sono
di maggior polso ec. Quando poi si provocano alla scarica boccia, e
Conduttore elettrizzati contrariamente (suppongo ad egual tensione)
nel più capace, o sia questo il Conduttore, o sia la boccia, non vien
già distrutta tutta la carica: ma vi rimane un residuo più o meno
grande a proporzione che è più, o meno grande la differenza; e nel men
capace, non solamente viene a perdersi per l'intero la primiera carica,
ma vi prende luogo una carica in senso contrario, che è la parte sua
proporzionale che gli tocca del sopraddetto residuo.

Sarebbe ora superfluo il fare ulteriori combinazioni di questa sorte;
ed io volentieri lascio a voi, Signore, di moltiplicarle, e variarle a
grado vostro colla soddisfazione di veder sempre i resultati rispondere
all'aspettazione, cioè a quanto dalla considerazione delle respettive
capacità eguali, o disuguali e dalla _tensione_ sempre eguale a cui
sorger dee l'elettricità nel comunicarsi dal Conduttore alla boccia
o da questa a quello potete anticipatamente dedurre, e pronosticare.
Desidero grandemente che ne facciate presto alcuni saggi almeno, che
potranno bastare a voi dotato di tanta sagacità per tutto comprendere.
Non vi è duopo perciò di fabbricarvi a bella posta un Conduttore della
grandezza del mio. Ne avete uno capacissimo, bello e preparato, ed
è il lungo filo conduttore del vostro parafulmine. Ho ancora innanzi
agl'occhi come stanno colà dietro il giardino in quella vaga stanzetta,
ed entro quella bussola, che ha vetriata e porta che s'apre, il tutto
con somma eleganza disposto, come stanno, dico, i due campanelli tra
i quali giuoca il pendolino: e mi figuro non senza compiacenza di
veder voi impugnata una boccetta, portarla a toccar coll'uncino il
campanello, o filo proveniente dall'asta metallica, e con essa isolato,
mentre coll'altra mano toccate l'altro campanello, o filo deferente
continuo, che va a seppellirsi in terra, e che noi chiamiamo _filo
di salute_. Non dubito che tosto non troviate di proporzionare la
boccetta, ossia di sceglierne una di presso a poco eguale capacità al
vostro Conduttore; per riuscire a distruggere reciprocamente la carica
di quella coll'elettricità contraria di questo; e per confrontare il
valor delle scosse date dalle scariche intiere, e dimezzate dell'uno, e
dell'altra ec.

Non posso qui lasciare d'invitarvi ad osservar meco, come non è
assolutamente necessario perchè abbia luogo la compiuta scarica della
boccia di Leyden, e molto meno perchè si sperimenti la vera commozione,
che il fuoco vomitato dalla faccia ridondante ricorra per una serie
continuata di deferenti, ossia per il così detto _Arco conduttore_,
all'opposta faccia deficiente: come si è supposto, e tiensi comunemente
per indispensabile. È ben necessario, che il fuoco accumulato su quella
faccia abbia dove gettarsi, ossia trovi uno scaricatore di capace
sfogo, e che la faccia deficiente trovi pure un fonte onde trarre
a se il convenevole risarcimento. Di qui è che l'_Arco conduttore_
appresta opportunissimo mezzo alla scarica, che migliore non può
darsi, riunendo per tal modo le opposte faccie, che l'una supplir
possa al bisogno dell'altra facilmente, e pienamente. Ma pure esser
possono lo scaricatore della faccia ridondante, e il sovventore (se
mi è lecito così esprimermi) della faccia deficiente, un dall'altro
indipendenti, e separati affatto; e nulla meno dar luogo alla scarica,
o intiera, o dimezzata, e produrre la corrispondente commozione. E
non si è veduto negli sperimenti riportati di sopra? Nel 2.º e. gr.
il fuoco scaricato dalla faccia interiore della boccetta nel gran
Conduttore non ricorre già alla faccia esteriore, con cui il detto
Conduttore, siccome isolato, non ha comunicazione veruna, ma s'arresta
in quello, che ha giusto capacità di riceverlo tutto, anzi meglio
bisogno. D'altra parte la faccia esteriore cava tutto il fuoco di cui
è bisognosa dal magazzino universale, ossia ampio ricettacolo della
terra, che può fornirgliene qualunque gran copia: lo caverebbe eziandio
da un Conduttore isolato, quando fosse di sufficiente capacità, ed
elettrizzato per eccesso sì che ridondasse di fuoco tanto appunto
quanto è il difetto di essa faccia esteriore. Così discorrete per gli
altri esperimenti in cui la scarica della boccetta sopra il Conduttore
isolato non si fa intiera, ma o per metà, o più, o meno secondo le
respettive capacità. Concludiam dunque che, sebbene le due faccie di
una boccia, o d'un quadro contrariamente elettrizzate dipendono una
dall'altra rispetto a ciò che non può la faccia caricata per eccesso
dismettere nè tutto nè molto del fuoco che vi è stato accumulato, se
corrispondentemente, e al tempo medesimo l'opposta faccia deficiente
non ricupera il fuoco onde è stata spogliata, sebben, dico, questo dare
e ricevere debbano proceder di paro, pure ciascuna faccia la fa da se
in questo senso, che una scarica il fuoco sovrabbondante dovunque le
si apre sfogo, come, e quanto può; l'altra tira a se il fuoco di cui
abbisogna da dove può, e quanto può.

Ma che? Non è provato che il fuoco scaricato da una faccia affetta di
portarsi alla faccia opposta? Che vi si porta per la strada più breve,
o men resistente? Non trascorre egli realmente l'_Arco conduttore_,
la catena di persone ec.? È provato sì, che una corrente di fuoco esce
da una faccia, e che una corrente entra nell'altra; ma non già che sia
quell'istesso fuoco che parte da un termine, e arriva all'altro. Si può
ben dire che una corrente raggiugne l'altra in guisa che si riuniscano
in una sola; ma neppur ciò succede sempre, e non è punto necessario
per effettuarsi la scarica. Abbiam veduto e. gr. che una corrente
termina nel Conduttore isolato, e l'altra corrente vien su dalla terra.
Consideriamo ora per poco anche l'esperimento che ci si obbietta della
catena di persone. Siano le persone _a b c d e f g h i l m n o_, che
tutte si dan mano, e delle quali la prima impugna il fondo della boccia
di Leyden, e l'ultima s'accinge a tirar la scintilla dall'uncino. Io
tengo che all'atto stesso che _o_ riceve il fuoco lanciato dall'uncino
ossia scaricato dall'interior superficie della boccia, _a_ ne fornisce
tosto del suo alla faccia esteriore: tosto, dico, senza punto aspettare
che quel fuoco scaricato sopra _o_ pervenga per la strada _n m l_ ec.
ad esso _a_. È ben vero che cotesto fuoco invade tale strada, cioè
passa da _o_ in _n_ in _m_ ec., intantochè a risarcire la perdita
di _a_ accorre nuovo fuoco da _b_, a questo da _c_, e così seguendo;
vero è che è un solo il corso se non si considera che la direzione:
ma essendochè si eccita di quà, e di là simultaneamente, e principia a
due capi il moto, non si può dire a rigore una sola corrente, bensì due
cospiranti in una. Ne viene da ciò, che se l'estrema rapidità con cui
scorre, e trapassa il fuoco ci lasciasse accorgere della successione
delle scosse da una in altra persona, troveremmo, che non sieguono già
l'ordine _o n m l_, ma bensì che si fanno sentire simultaneamente prima
ai due estremi _o_, ed _a_, indi a _n_ e _b_, _m_ e _c_; procedendo
così verso il mezzo della catena.

Si è preteso, che quantunque lunga sia una tal catena di persone,
tutte risentano la commozione egualmente forte: la verità è però,
che a proporzione che la boccetta è più piccola, e meno carica, e
d'altra parte più grande è il numero delle persone, quelle di mezzo,
e a misura che si trovano men vicine alle faccie della boccia, cioè
ai capi dell'una e dell'altra corrente, risentono minore la scossa.
Così esser dee nella mia ipotesi. Il fuoco scaricato dall'uncino, che
non è poi molto copioso, essendo la boccetta piccola, invade la prima,
seconda, terza persona, si diffonde a tante, che trova già quasi comodo
e sufficiente ricetto nella capacità delle medesime, e in varj sfoghi
quà e là nel pavimento ec.: comincia dunque a farsi men grossa la
corrente; meno per conseguenza scuote ed urta come più avanti procede,
e giugne alle persone che stanno verso il mezzo della fila. Avviene lo
stesso all'altra parte della fila: la persona che ne è capo comincia
essa a somministrare il suo fuoco alla faccia esteriore della boccia
che impugna: subentra la seconda a sollievo della prima, e così via via
contribuiscono le altre; però gradatamente meno; atteso che qualche
soccorso di fuoco viene anche dal pavimento su per i piedi di quelle
prime persone, sicchè alle altre consecutive verso il mezzo della fila
resta a dar tanto meno: dunque anche queste poco saranno scosse. Or a
quelli che volessero ancora attenersi all'idea comune della corrente
che muove soltanto da una faccia, e procede ordinariamente senza
punto deviare fino all'opposta faccia della boccetta, io domanderei:
ond'è dunque che le persone sono meno scosse quanto più sono vicine al
mezzo dell'arco che formano? E perchè mai, se la scossa propagandosi
si debilita, non la sentono minore piuttosto quelle che son di là del
mezzo, ed ultime verso la faccia negativa della boccetta?

Voglio render la cosa anche più evidente. Separiamo in due serie la
lunga catena di persone; ossia formisi una fila dritta _a b c d — e
f g h_ rotta nel mezzo: _d_ impugni una boccia fortemente carica, ed
_e_ che gli sta a fronte, e vicino ne provochi la scarica toccandone
l'uncino: tutti sono in piedi sul pavimento asciutto. Or se fosse
obbligato il fuoco vomitato dall'interior superficie della boccia
a recarsi per la strada la più spedita alla superficie esterna
che ne è digiuna, come si è stabilito per legge, e si pretende che
immancabilmente succeda, dovrebbe dunque passar più per i piedi della
persona e che tocca l'uncino, e per il pavimento portarsi ai piedi di
_d_, e venir su per essa alla faccia esteriore della boccia, intatte
lasciando le altre persone _f g h_, che restano dietro, e fuori affatto
di strada. Che dirassi dunque s'io mostro che si diparte appunto dalla
via segnata per seguire la traccia di quelle persone, che siccome corpi
deferenti gli offrono un discreto sfogo; e che il fuoco che accorre
alla faccia esteriore della boccetta si ricava da un altro fonte? Così
è: il fuoco scaricato della faccia interna scorre manifestamente da _e_
ad _f g h_, portando una discreta scossa a tutte queste persone, cioè
alla mano con cui si tengono, e al collo del piede; e balzando anche
con visibile scintilla ove non si tocchino l'una l'altra, ma tengansi
colle mani o co' piedi molto appressate; e finalmente va a perdersi
nel comune ricettacolo. Similmente _d_ che primo fornisce il fuoco di
cui abbisogna la faccia esteriore, ne ripete da _c_, e questo da _b_,
da _a_, e tutti ne ritraggono dal suolo: il che si fa sensibile colla
scossa che riportano coteste persone, e visibile se si vuole pur anche
colle scintille. Dirassi forse, che il fuoco scaricato dall'interno
della boccia siegue la fila delle persone _e f g h_, e poi dall'ultima
di queste passa all'ultima parimenti dell'altra fila, cioè ad _a_,
onde giugnere per _b c d_ all'amata faccia esterna? Ma oltrechè non
si accorda questo colla scossa che sentono al collo del piede tutte o
quasi tutte le persone, come s'intenderà che scelga il fuoco un lungo
tratto di pavimento asciutto, e resistente, anzichè il più breve tra
_e_ e _d_? E come andrà colla legge, con cui si vuol obbligare a far
in ogni caso per la via più spedita, e meno resistente il circuito da
una superficie all'altra? Eh diciam dunque che altra è la corrente che
parte dall'uncino della boccia, e scorrendo le persone, e qualsivoglia
altro buon deferente che incontra va a perdersi nel comune ricettacolo;
altra quella che _simultaneamente_ move dalla terra medesima, e per il
canale d'altre persone, o d'altri deferenti mette capo nella esterior
superficie dell'istessa boccia: e in generale concludiamo che il fuoco
della faccia eccessiva si scaglia, e diffondesi ovunque trova sfogo;
ed altro fuoco accorre alla faccia difettiva indifferentemente da
ogni parte, da qual siasi corpo, o serie di corpi, che fornir gliene
possono. Vedrete anche quel fuoco vomitato spargersi quà, e là in varj
rami, ove le persone _f g h_, ed altri deferenti corpi, non in serie
ordinata seguente, ma chi da una parte chi dall'altra stiano d'attorno
alla persona _e_, che provoca la scarica dall'uncino, spargersi, dico,
in varj rami, e dissiparsi così nel suolo; e vedrete similmente su del
suolo sorgere e per varj rami o canali di corpi deferenti confluire
alla persona _d_ il fuoco che riacquista l'esterior superficie della
boccia: nè vorrete già credere che questa sia una continuazione di
quella corrente, anzi lo stesso fuoco che con circolo non interrotto
si sia recato dall'una all'altra faccia; ma bensì convenite meco che
ciascuna ha eccitato la sua particolar corrente entrante questa, quella
sboccante. Così poi svanirà la maraviglia di quei famosi sperimenti,
con cui si crede di far fare al fluido elettrico tutto intiero il
giro di un lungo corso di fiume, e d'un canale insieme da quello
derivato, col fare scendere un filo di ferro dal fondo d'una boccia
nel fiume, e scaricar per l'uncino l'interna superficie sopra un altro
filo metallico comunicante col canale. Svanirà la maraviglia fondata
sul supposto _circuito_ del fuoco elettrico: conoscendo noi ora come
non ebbe mai luogo in tali sperimenti cotesto circuito, abbenchè si
effettuasse la scarica, e riportassero la commozione le persone che
vollero provare ad interporsi si da una parte che dall'altra al filo
metallico, e all'acqua, toccando quello con una mano, e tuffando un
piede nell'acqua, o in altra equivalente guisa mettendosi di mezzo;
comprendendosi come il fuoco scaricato andò a perdersi nel canale, ove
dilagando il suo corso finì, e come finalmente a spese, dirò così, del
fiume fu somministrato il fuoco richiesto alla faccia esteriore della
boccia.

Tutti questi esempj, in cui le due correnti simultanee, quella del
fuoco effluente dalla faccia eccessiva della boccia, e quella affluente
alla faccia difettiva, si fanno manifestamente vedere distinte, e
non già riunite, e formanti un continuato corso, ma interrotte quando
più, quando meno, e quando affatto verso il mezzo della troppo lunga
serie de' corpi deferenti, o nel gran seno della terra; non deggiono
poi farci concludere (che sarebbe uno spingere la cosa troppo avanti)
che giammai una corrente non raggiunga l'altra: anzi ciò succede,
come di sopra ho accennato, nel modo ordinario di fare la scarica,
cioè quando l'arco conduttore non sia sterminato, ed ove formato sia
tutto di ottimi deferenti continui, la corrente di fuoco vomitato
dalla faccia ridondante della boccia, che lo invade ad un capo, non si
sparge allora e dissipa in molti altri rami, ma tutta insieme raccolta
lungo quel comodo canale tien dietro all'altra corrente similmente
raccolta che per l'altro capo di detto arco conduttore mette nella
faccia deficiente: le tien dietro, e la raggiugne, in guisa che si
riuniscon tosto, e formano un corso continuo in uno stesso canale.
Non vuole scordarsi finalmente, quello che ho pur detto di sopra, che
migliore sfogo non può trovare la faccia ridondante, quanto la faccia
deficiente; nè questa chi meglio la soccorra, che quella: e che l'arco
conduttore a tal vicendevole scarica, e soccorso appresta il mezzo
opportunissimo.

M'accorgo d'aver fatta una ben lunga digressione; la quale però può
sembrare non del tutto inutile, nè molto lontana dal mio proposito;
giacchè serve a mostrare come il fuoco scaricato dalle bocce, o quadri,
non altrimenti che quello scagliato da un semplice Conduttore, si getta
nel modo che può, e quanto può dovunque gli si apre sfogo: come affetta
di preferenza quelle vie, che glielo concedono più libero, scorrendo
per un sol canale, se quinci un intiero scarico gli si appresta, o
diramandosi in molti se la sua piena è ritardata, e rotta da corpi od
affatto impermeabili, ovver poco deferenti, che lascian sì passare una
piccola copia di fuoco, ma non una grande a un tratto: come scuote i
corpi che attraversa più o men fortemente in ragione che la corrente
sua è più o meno riunita e rapida; come, infine, tutto quello succede
al fuoco scaricato dalla boccia, che succede al fuoco lanciato da un
semplice Conduttore che sia abbastanza capace, ed egualmente carico.
Checchè ne sia che io abbia poco o molto deviato dal mio cammino,
riprendendolo ora, terminerò il proposto confronto della capacità dei
Conduttori semplici colle boccie o quadri armati, soggiugnendo alcune
considerazioni sul possibile ingrandimento dei Conduttori a segno di
emulare non che le scariche delle grandi giare, e tavole magiche, ma
delle più potenti _batterie_.

Un Conduttore fatto come il mio di molti sottili bastoni inargentati,
che sia lungo in tutto 96 piedi (prendiam cento per facilità del
calcolo) è capace di contenere tanto di elettricità quanto una lastra
di vetro di discreta spessezza avente di buona armatura 4 poll.; di
dare una commozione di egual polso; e di produrre altri effetti nulla
men validi. Per esser dunque equipollente a un quadro di 12 poll.,
cioè d'un piede quadrato d'armatura, dovrebbe essere la lunghezza
nove volte più grande, vale a dire presso a 900 piedi. Che bel
vedere allora con una scintilla veramente fulminante di tal semplice
Conduttore uccidere un uccelletto, fondere una sottil foglietta
d'oro! Ma, è cosa poi cotanto difficile il procacciarsi tanti bastoni
inargentati, e il disporli come conviene? Il disporli non già: che un
vasto portico quadrato, ovvero alcuni corridori seguentisi capir li
possono tutti in una sola fila. Se poi i portici, e corridori fossero
larghi discretamente, ed alti, si potrebbero tirare quattro ordini di
quattro file di bastoni per ciascuno sul modello della figura (vedete
la Tavola II.) in cui per minor imbarazzo abbiam disegnati due ordini
solamente, e due sole file per ordine, colla debita distanza d'una fila
dall'altra. Per tal modo avremmo un Conduttore, la di cui scarica,
e i di cui tremendi effetti agguaglierebbero quelli di una potente
batteria elettrica, qual è una che sia composta di 16 boccali di un
piede quadrato d'armatura ciascuno, ma costruita a dovere. La vostra,
Signore, formata di due campane di vetro, non credo che oltrepassi,
almen di molto, i 16 piedi quadrati d'armatura: eppur quali strepitosi
effetti non ne ho io stesso veduti, ed ammirati? Voi con essa fondete,
più, disperdete in faville un filo metallico non de' più sottili: voi
il fondete pur anche nell'acqua; e cento altre cose fate incredibili
quasi a chi non le ha vedute. Le grandi batterie di PRIESTLEY, e di
FONTANA, non so che facciano molto di più. Dunque anche il Conduttore
ch'io mi compiaccio di contemplare in immaginazione, composto di 16
file di bastoni lunghe 990 piedi ciascuna, fonderebbe, disperderebbe,
ammazzerebbe grossi animali; in una parola fulminerebbe. Ma io poi
non mi fo illusione fino al segno che speri di veder unqua messo in
opera un così sterminato Conduttore. Un WATSON forse sarebbe tentato
di farlo, egli che prolungò, ad altro intendimento (cioè per mostrare
l'estrema celerità con cui si comunica la virtù elettrica da un capo
all'altro d'un buon Conduttore comechessia lunghissimo), de' fili
di ferro, e delle corde bagnate, isolati tutti, a più di duemila
tese: a cui perciò scrivea il MUSCHENBROEK _magnificentissimis tuis
experimentis superasti conatus omnium_. Di vero non so fin dove
giungeranno i miei o gli altrui sforzi riguardo a fare dei Conduttori
oltremodo lunghi: che poi alla fine di poco utile sarebbero. Non di
utile alla pratica; perchè ciò che far si può colle boccie, quadri, e
batterie tanto più comode, a che cercare di ottenerlo in altro modo
con gravissimo dispendio, ed imbarazzo? Non alla teoria; attesochè
parmi, seppur troppo non presumo, di aver già fatto abbastanza per
quella, quando giunto sono col mio Conduttore di 96 piedi a dimostrare,
come la commozione, e ogn'altro effetto che produce la boccia o il
quadro armato, può produrre eziandio un semplice Conduttore: come a
tale effetto gli basti d'avere una conveniente capacità: e come questa
capacità è in lui più grande a misura che la sua superficie è più
estesa in lungo[46]. Dunque il contemplare anche solo in immaginazione
quello smisurato Conduttore, sarà vano, inutile, puerile? Non già; se
può somministrarci od agevolarne in qualche modo l'idea del gran potere
di una nuvola elettrica fulminante. Ecco l'idea suggeritami, e che
volgo in mente.

Suppongo che la nuvola, la qual profonde una strana copia di
elettricità al para-fulmine, cui pende sopra in alto, o che s'abbassa a
scaricare dove che sia un vero fulmine, non sia più lunga di 900 piedi,
larga altrettanto, e grossa sol 90. Qual immane dose di elettricità
non può essa contenere! Massime che potrebbe in lei crescere a molto
maggior tensione di quella che o i nostri vetri dar possono, o i
nostri Conduttori sopportare. L'eccessiva tensione dell'elettricità
delle nuvole a me sembra che venga infatti indicata dal giugnere la
loro sfera d'attività da così alto fino in terra. Ma posto anche che
l'elettricità della supposta nuvola non ecceda la tensione ordinaria
de' nostri Conduttori elettrizzati artificialmente: io considero uno
spazio d'aria così grande come la nuvola rappresentata; e calcolo che
vi potrei collocare 1000 file de' miei bastoni lunghe 900 piedi; in
guisa che resterebbero ancora discoste una dall'altra ben 9 piedi;
tanto cioè, che per l'azione delle atmosfere non s'impediscano
vicendevolmente di ricevere tutta quella dose di elettricità che
ciascuna fila può portare da se. Ogni fila dunque essendo lunga 900
piedi si caricherebbe come una tavola magica di un piede quadrato di
armature: sicchè tutte insieme quelle file varrebbero una batteria
elettrica di 1000 piedi quadrati di superficie di vetro armata. Abbiamo
noi l'idea pur solo degli effetti spaventevoli che produrrebbe una
tal batteria? Che sono mai a petto di questa quelle che si sono fin
quì vedute? Uno scherzo. Ma poi il complesso di tutte queste file di
bastoni in un sol Conduttore non ha maggiore capacità della nuvola,
che abbiam preso a considerare; anzi l'ha minore d'assai; perocchè
nell'intiera mole di essa non solamente altrettanti cilindri disegnar
si possono, e sono realmente compresi di vero corpo conduttore; ma
nella ideata distanza de' piedi da questa a quella fila più altre vi si
capiscono, o a dir più giusto migliaja, e migliaja di punti corporei
vi hanno, i quali tuttochè dalle circostanti atmosfere _attuati_,
pur nulla meno ricever possono qualche dose di elettricità propria.
In somma un corpo continuo, qual è la nuvola, ha maggiore capacità,
che tanti corpi staccati che formino un'egual mole. Nella figura
(Tavola II.) quelle quattro file di bastoni che formano gli angoli
d'un parallelepipedo non arrivano già a contenere tanto di elettricità
quanto un eguale parallelepipedo di superficie intiera (abbenchè la
maggior capacità di questo non corrisponda di gran lunga alla maggiore
sua superficie corporea, per la ragione che le parti prese di mezzo,
e attuate dall'atmosfera elettrica d'altre parti laterali possono
ricevere tanto meno di elettricità propria; come ho spiegato nella
prima parte di questa lettera). Che poter terribile di elettricità può
dunque avere questa nuvola? che immensa copia di fuoco contenere, e
lanciare, avendo anche poca tensione? Che poi, se l'elettricità vi è
portata a tensione non ordinaria? Che diremo delle nuvole grandi non
poche centinaja di piedi, ma migliaja di tese quadrate?

Si è domandato[47]: l'elettricità naturale ha ella l'indole
dell'elettricità di semplice Conduttore, o piuttosto quella di
boccia di Leyden? Il fulmine si comporta come scintilla scagliata
semplicemente da un Conduttore elettrizzato, o come scintilla scaricata
da una lastra isolante armata? Gli effetti poderosi delle scariche, il
senso particolare della commozione, che produce, non vi ha dubbio, il
fulmine, è in grado molto superiore a quello di qualunque gran quadro,
e batteria, le scintille stesse che dà il filo del para-fulmine, le
quali appunto come la scintilla cavata dalla faccia d'un gran quadro
non hanno bisogno che d'esser lunghe poche linee per farsi sentire
rabbiose alla pelle, e scuotere ben anche tutta la persona, facean
propendere a questa seconda opinione. Ma il non concepirsi come siegua
scarica vera di lastra isolante armata, per mezzo di arco conduttore,
da una all'altra faccia opposta, nel valicare che fa semplicemente il
fuoco della saetta il tratto d'aria dalla nuvola alla terra; e la forma
guizzante della scintilla, quale i semplici Conduttori, e non le boccie
o quadri armati ci sogliono far vedere, portavano a non riconoscere
nel fulmine, il quale appunto affetta un cotal guizzo, altro che una
scintilla scagliata da un gran Conduttore fortemente elettrico. Or
finalmente in questa opinione dovran riunirsi tutti i voti, e sciolto
rimarrà il problema, or, dico, che e commozione, e qualunque altro più
valido effetto nella prepotente forza de' Conduttori d'immane capacità
riscontrato abbiamo.

Son giunto al termine dell'argomento che mi son proposto in questa
lettera, che è la capacità de' Conduttori semplici; e però quì finisco.
Passerò, se vi piace, in un'altra alla capacità de' Conduttori
_conjugati_ (come a me piace di chiamarli) e progredirò pur anche
all'elettricità che s'imprime sulle faccie delle lastre isolanti
trattando della durezza loro a lasciarsela affiggere, e tenacità a
conservarla una volta che sia affitta. Il campo è bello, e vasto:
abbraccia tutta la teoria delle cariche, e delle scariche con quella
dell'elettricità già detta _Vindice_, che meglio io amo di dir
_permanente_, quindi tutti i fenomeni dell'Elettroforo ec. Procurerò
d'esser men prolisso che in questa, e con una materia tanto più vasta,
la lettera riuscirà meno lunga.

  Como 20 Agosto 1778.



DEL CONDENSATORE

_ossia del modo di render sensibilissima la più debole Elettricità sia
naturale sia artificiale_

_MEMORIA_

_Letta nella Società Reale di Londra_

_DIVISA IN DUE PARTI_



DEL CONDENSATORE[48]


_PARTE I._

1. Un apparecchio, che portando a uno straordinario ingrandimento
i segni elettrici fa sì, che osservabile divenga, e cospicua quella
virtù, che altrimenti per l'estrema sua debolezza sfuggirebbe i nostri
sensi, ognun comprende di quale, e quanto vantaggio sia per riuscire
nelle ricerche sull'elettricità, e massime intorno alla naturale
atmosferica, la quale, come sappiamo, non in ogni tempo, anzi assai
di rado, allora solamente cioè che il Cielo è ingombro di nuvoloni
scuri, e tempestosi, avviene che ci si renda sensibile ne' conduttori
ordinari non molto elevati, e appena è che in altri tempi ne mostri
qualche indizio in quelli elevatissimi, o ne' _cervi volanti_ portati
all'altezza di più centinaja di braccia. Or un tale apparecchio, mercè
di cui un conduttore atmosferico, anche di non grande elevazione, vi
dia segni ad ogni ora e in ogni costituzione di tempo, molto chiari
e distinti di quel qualsisia picciolo elettrizzamento che in lui
induce l'atmosfera, ecco io ve lo presento nel mio elettroforo: in
quella semplice macchina, che è ormai nelle mani di tutti, e che se
altro pregio pur non avesse, verrebbe abbastanza raccomandata agli
elettricisti per questo che lor offre facile mezzo di spiare la più
languida, e impercettibile elettricità sì naturale che artificiale,
con tirarla sopra di se, ed accumularla al punto di promoverne, e
invigorirne per singolar maniera i segni.

II. In vero ogni volta che questi mancano nell'ordinario modo di
sperimentare, che nè scintilla scorgesi nè cenno benchè minimo di
attraimento, il dire che pur vi sia elettricità, fora un'asserzione
gratuita, anzi un giudicare contro ogni apparenza. Malgrado questo
non possiamo neppur dire accertatamente che punto non ve ne abbia:
e il concluderlo da ciò solo che niun segno per anco ci si mostra,
è un precipitare il giudizio; imperocchè chi ci assicura che qualche
elettricità ivi non si trovi realmente, ma così debole da non potere
attrarre tampoco un leggier filo? Or questo è che c'importa in molti
casi di sapere, specialmente quando si tratta di elettricità naturale.
Un conduttore atmosferico poco elevato non dà ordinariamente segni
come già si è detto, che quando gli sovrasta oscuro nembo: a cielo
coperto d'alte nubi sparse, o distese equabilmente, quando l'aria è
ingombrata da nebbie, in tempo di pioggia placida, ed anche dirotta,
tranne qualche rovescio improvviso, raro è che scorger vi si possa
alcun indizio di elettricità, e nulla mai a ciel sereno, sia placido,
sia ventoso. Stando pertanto alle apparenze, e al giudizio di un
elettroscopio comune, anche de' più sensibili, direbbesi che il
conduttore non è elettrizzato punto, e che per conseguenza non domina
elettricità di sorta ne' campi dell'aria poco alti ove quel conduttore
porta la testa. Eppure non è così: un altro elettroscopio di gran lunga
migliore, qual veramente può dirsi il nostro apparecchio, giacchè ne
adempie con tanto vantaggio le funzioni, ci fa vedere che da qualche
elettricità è pur sempre investito quel conduttore, avvegnachè ne si
mostri di per se affatto inerte: ci fa, dico, vedere e toccar con
mano ch'esso non ne è mai privo affatto; onde convien giudicare in
egual modo che non ne è mai priva l'aria che lo circonda. Ed ecco come
restiamo convinti che anche alla più bassa regione dell'atmosfera, e
fino a pochi piedi da terra s'estende l'azione costante, e perenne
dell'elettricità naturale. Cotal elettricità sebbene insensibile
rimanga finchè da quel tratto d'atmosfera si comunica soltanto al
detto conduttore, ove poi per mezzo di lui si comunichi insiememente
all'elettroforo nostro, si raccorrà entro a questo più facilmente, e in
maggior copia[49]; sì e per tal modo, che sorger quindi potranno i noti
segni di attrazione, e di repulsione sensibili abbastanza per dinotarci
senza equivoco non che l'esistenza, la specie ancora dell'elettricità,
cioè se _positiva_, o _negativa_. Che più? non mancherà talora di
comparire perfino qualche scintilluzza. Ogniqualvolta poi il conduttore
desse già di per se qualche segno, movendo alcun poco un leggier
filo, aspettatevi pure, col soccorso del nostro apparecchio, scintille
pungenti e ogn'altro segno vigorosissimo.

III. Ma veniamo senza più al modo di far servire all'intento cotal
apparecchio, a cui in questo caso meglio che il nome che altronde porta
di elettroforo, l'altro già indicato di _elettroscopio_, anzi pure
quello di _micro-elettroscopio_ potrebbe convenire. Ma io amo meglio
di chiamarlo _condensatore_ dell'elettricità, per usare un termine
semplice, e piano, e che esprime a un tempo la ragione, e il modo de'
fenomeni di cui si tratta come vedrassi nella 2.ª parte del presente
scritto. Tutto dunque si riduce a queste poche operazioni.

(A) Convien prendere un piatto d'elettroforo, che abbia l'incrostatura
di resina assai sottile, e a cui, o non sia stata dianzi impressa
alcuna elettricità, o se mai vi è stata, vi sia spenta affatto.

(B) A questa faccia resinosa immune da ogni elettricità si soprapponga
convenientemente il suo scudo (così io chiamo la lamina superiore
dell'elettroforo): cioè le si applichi cotal lamina o scudo in piano,
collocandolo nel bel mezzo in modo, che non tocchi in alcun punto
l'orlo metallico del piatto, ma rimanga isolato.

(C) Così congiunti essendo, si adattino sotto al filo conduttore
dell'elettricità atmosferica in guisa, che lo scudo venga toccato dove
che sia dal detto filo, esso solo lo scudo, e in niun modo il piatto.

(D) In questa situazione si lascino le cose per un certo tempo, finchè
lo scudo possa aver raccolta competente dose di quell'elettricità, che
dal filo conduttore gli viene molto lentamente instillata.

(E) Da ultimo sottraggasi al contatto e influsso del filo conduttore lo
scudo tuttavia unito al suo piatto e combaciante la faccia resinosa;
indi si disgiunga anche da questa, levandolo in alto al consueto modo
per il suo manico isolante: e allora sarà che se ne otterranno gli
aspettati segni cospicui di attrazione, di ripulsione, e di qualche
scintilla eziandio, di pennoncelli ec. nel tempo che il conduttore di
per se non giunge a mostrar nulla, o appena un'ombra di elettricità.

IV. Ho detto (§. prec. e D) che il filo conduttore debbe toccare lo
scudo per un certo tempo. Quanto però, non è facile il determinarlo,
dipendendo ciò dalle circostanze. Talora vi abbisogneranno 8, 10, e
più minuti, quando cioè il conduttore da per se solo non fa vedere il
minimo segno d'elettricità; altre volte più poco. Che se un debole
indizio pur vi comparisse, tantochè un leggier filo facesse cenno
d'esserne attratto, basteria in tal caso lasciar in contatto di esso
conduttore il nostro scudo sol pochi secondi, per abilitar questo a dar
segni molto vivaci.

V. Una cosa si vuol osservare rispetto al filo conduttore medesimo, ed
è ch'egli sia ben continuo, e se è possibile d'un pezzo solo dall'alto
al basso fin dove viene a comunicare collo scudo: cioè si deve evitare
assolutamente ogni interruzione, e il più che si può ancora le semplici
giunture ad anello od uncino; per la ragione che ciascuna di tali
giunture portando un qualche impedimento al passaggio dell'elettricità,
avvenir può che quella che contrae il conduttore in alto s'arresti,
ne giunga al luogo desiderato, cioè fino allo scudo. Così succederà
diffatti ogni qual volta l'elettricità è debolissima, se in luogo d'un
filo metallico continuo, una catena di più anelli da quello pendente
venga a toccare cotesto scudo. Non si creda per questo che una sola
giuntura o due possano egualmente ed ognora impedire la riuscita;
ma ne verrà sempre del pregiudizio: e qualora l'elettricità fosse
estremamente debole, potrebbe sì per l'indicato difetto mancare del
tutto l'esperimento.

VI. Riguardo all'elettroforo da adoperarsi altre osservazioni
rimangono, di cui ora mi convien parlare. E la prima accennata sopra
(§. III. lett. A) si è che lo strato resinoso importa molto che sia
sottile, avendo io sempre provato che quanto più lo è tanto maggior
dose di elettricità permette, anzi fa che si raccolga nello scudo
cui porta indosso, di quell'elettricità, dico, che gli s'infonde
o dall'atmosfera per mezzo del filo conduttore, o da qualsivoglia
altra potenza elettrica. Se fosse pertanto stesa la resina alla
spessezza d'un quarto di linea, o non maggiore di una mano di vernice,
riuscirebber le prove ottimamente; siccome all'incontro essendo grossa
un pollice o più, riuscirebber malissimo.

VII. In secondo luogo la superficie di essa resina debb'essere quanto
è possibile piana, e liscia, e piana e liscia similmente l'inferior
faccia dello scudo, sicchè vengano a combaciarsi bene (ivi lett.
B). È noto quanto un miglior combaciamento favorisca gli effetti
dell'elettroforo; ond'ebbi ben ragione di raccomandar questa come
una delle principali condizioni nella descrizione che pubblicai a
suo tempo di tal mia macchina. Ma è ancor più grande il vantaggio che
risulta da un ampio, e perfetto combaciamento allorchè l'istesso nostro
apparecchio fa funzione di condensatore.

VIII. Da ultimo merita particolar attenzione quanto alla già citata
lett. A si è prescritto, cioè che alla faccia resinosa cui si applica
lo scudo, non dee trovarsi impressa alcuna elettricità. La ragione
per cui vuolsi che ne sia affatto priva ella è, che altrimenti
i segni dello scudo, allorchè s'alza, diverrebbero equivoci; non
essendo più la sola elettricità trasfusa in esso scudo dal conduttore
atmosferico quella che giuoca, ma insieme anche l'altra occasionata
dall'elettricità impressa, ed inerente alla faccia resinosa: quando
a noi importa di esplorare la sola prima, quella cioè sopravvenuta a
detto scudo.

Se dunque la faccia resinosa del piatto, di cui volete servirvi, è
rimasta sempre intatta, va bene. Ma se è stata già eccitata, e vi si
mantiene tuttavia qualche parte dell'impressa elettricità conviene fare
di tutto per ispegnerla; ciò che non è sì agevol cosa. Il passarvi
sopra un panno alquanto umido, applicandolo ben bene a tutta la
superficie, è un de' mezzi più efficaci ch'io mi abbia trovato; pur
non toglie talvolta che dopo qualche tempo lo scudo postovi sopra, e,
previo il solito toccamento, rialzato, non attragga sensibilmente un
filo. Lo stesso succede non di raro anche dopo aver tuffato tutto il
piatto nell'acqua, lasciatovelo un pezzo, e quindi fattolo rasciugare
all'aria. Lo squagliare la superficie della resina al fuoco o al
sole, è forse il più sicuro spediente per farne svanire tutta quanta
l'elettricità, sicchè non ne rimanga pur ombra o vestigio nella stessa
resina, rassodata che sia[50]. La maniera, più spedita è di far passare
sopra tutta la faccia della resina la fiamma di una candela, o d'un
foglio di carta acceso. A qualunque però di tali mezzi uno si appigli,
per accertarsi che l'elettricità sia spenta a segno che più non possa
aver parte alcuna l'azione propria dell'elettroforo negli effetti che
risultar debbono unicamente dall'elettricità infusa allo scudo dal
conduttore atmosferico, converrà far prima la prova di posare esso
scudo sulla faccia resinosa, toccarlo col dito, e rialzatolo quindi
al consueto modo, vedere che non muova neppure un sottilissimo pelo:
allora non producendo alcun effetto in qualità d'_elettroforo_, servirà
ottimamente all'altro uso, cui vien destinato, di _condensatore_
dell'elettricità.

IX. Se mi dimandasse ora a qual grado giunga nel descritto apparecchio
cotal condensazione dell'elettricità, cioè a quanto maggior forza
sorger possano i segni elettrici nello scudo quando s'alza, risponderei
che non è facile il determinarlo, dipendendo ciò da molte circostanze.
È però certo che, le altre cose pari, l'aumento è maggiore in ragione
che il corpo il qual fornisce l'elettricità allo scudo, si trova
avere più grande capacità. In secondo luogo a misura che la forza
elettrica impiegata è più debole, l'aumento che otteniamo è maggiore a
proporzione. Così vedemmo già, che se il conduttore atmosferico non ha
la forza di alzare d'un grado il pendolino dell'elettrometro, movendo
tutto al più un sottil pelo, potrà tuttavia abilitare lo scudo non che
a vibrar l'elettrometro a 60 e più gradi, ma a scagliare pur anche
vivace scintilla (§. 2 e seg.). Ma se l'elettricità nel conduttore
atmosferico sarà già discretamente forte a segno di dare qualche
scintilletta, di elevare l'elettrometro a 5 o 6 gradi lo scudo che
riceverà questa elettricità, darà egli è vero una scintilla assai più
forte, e l'elettrometro vibrerassi al più alto punto a cui mai salir
possa, che suol esser di 90 gradi nel quadrante elettrometro. Ad ogni
modo è visibile che la condensazione dell'elettricità è minore in
questo che nel primo caso; giacchè venne aumentata sì, ma non di 60
volte. La ragione è che al di là del massimo non si può andare, cioè di
quel grado a cui giunta l'elettricità si dissipa da se stessa aprendosi
il passaggio per tutto. Dunque a misura che la potenza elettrica, la
quale si applica allo scudo posato, è più vicina a tal sommo grado,
minor accrescimento può ricevere dall'apparecchio condensatore. Ma che
bisogno abbiamo noi allora di lui, e tutte le volte che l'elettricità
è già sensibile, e forte abbastanza? L'uso a cui vien destinato è di
tirare sopra di se, e raccolta in sufficiente dose, render sensibile
quella elettricità, che è languida affatto e impercettibile, finchè
rimane nel gran conduttore (§. I.).

X. Quando dunque il conduttore vi dà già da se solo segni abbastanza
distinti di elettricità, non accade ricorrere all'altro apparecchio.
Dirò di più che il farlo può produrre un grande inconveniente, ed
è, che per poco che l'elettricità di esso conduttore sia vigorosa, a
segno di dare qualche scintilla, avviene allora che facendogli toccare
lo scudo l'elettricità non si arresti in lui solo, ma che passi in
parte ad imprimersi alla faccia resinosa cui copre; onde in seguito
l'apparecchio prenda a fare le funzioni di vero elettroforo: ciò che
per le ragioni già dette (§. VIII) si dee con ogni studio evitare.

XI. Per prevenire un tal inconveniente ho pensato di surrogare al
piatto incrostato di resina, un piano che non fosse vero e perfetto
isolante, assolutamente impermeabile al fluido elettrico; ma tale
solamente che opponesse una discreta resistenza al suo passaggio; come
una lastra di marmo asciutta e politissima; un piattello di legno
similmente asciutto, ed arido, oppure incrostato di gesso, o meglio
ancora inverniciato; una tela incerata secca, e monda, od altro simile.
Alla superficie di tali corpi non avverrà d'ordinario che s'affigga
l'elettricità, potendo appiccata che sia scorrere, e trapassare per
entro ad essi; o se pur talvolta ve ne rimanesse un pocolino quasi
stagnante, sia questa passeggiera in brevi momenti svanita. Quindi è
che un tal apparecchio inetto alle funzioni d'_elettroforo_, non ce ne
darà i fenomeni; ma per questo appunto meglio servirà all'altro uso di
_condensatore_.

XII. Sostituendo così allo strato resinoso o a qualsivoglia altro
coibente perfetto un piano, o strato che sia mezzo tra coibente,
e deferente, cioè un corpo isolante molto imperfetto, e insieme
imperfettissimo conduttore, quali sono nelle divisate circostanze
gl'indicati corpi (§. prec.), non solamente si toglie o si fa minore il
pericolo di qualche elettricità che possa imprimersi, e restar aderente
alla superficie del piano, la quale renderebbe equivoche le sperienze
delicate; ma inoltre un notabile vantaggio da noi si ottiene, ed è, che
lo scudo posato su tai piani non affatto isolanti cava dal conduttore,
e si tira addosso maggior dose di elettricità, che se posato fosse
sopra uno strato resinoso, od altro perfetto coibente. E come detto
già abbiamo (§. VI.), che uno strato resinoso quanto è men grosso,
tanto più abilita la lamina che gli è sovrapposta ad arricchirsi di
elettricità; così tale strato ridotto ad una semplice vernice, o
intonaco di cera, l'una, e l'altra già men coibente della resina,
e infine ridotto a niente, sostituendovi soltanto una superficie
poco deferente, come quella del marmo, o del legno arido, offre alla
lamina metallica la più favorevole positura che mai aver possa, per
raccogliere nel suo seno abbondante elettricità.

XIII. Guardiamoci però nel voler ischivare la troppa coibenza di dare
nel poco, accostandoci ai deferenti perfetti, o quasi perfetti. Non
bisogna perder di vista, che la superficie del piatto dee opporre una
discreta resistenza al trapasso del fluido elettrico, per rattenere
una competente dose di elettricità nello scudo addossatole. (§. XI.) Nè
basta che ciò faccia per un qualche piccolissimo tempo; d'uopo essendo
non rare volte di tenervi confinata l'elettricità otto, dieci, e più
minuti, quanti cioè ne impiega il conduttore atmosferico a raccoglier
dall'aria ed infondere in esso scudo tal copia di elettricità, che
possa rendersi sensibile, e cospicua. (§. III. lett. D e IV.)

Dal che facilmente s'intende quanta attenzione porre convenga, e
nella scelta del corpo da surrogarsi allo strato di resina, e nella
convenevole preparazione del medesimo: la quale preparazione consiste
generalmente in certo grado di essiccamento, che lo riduca allo stato
di _semicoibente_ nè più, ne meno. Ad ogni modo fia meglio peccare
per eccesso di coibenza, che per difetto; meglio prendere un piatto
qualsivoglia incrostato di resina, che un disco di legno nudo non
aridissimo, una lastra d'osso, od una di marmo comune non previamente
riscaldate al sole o al fuoco: giacchè niun osso, e pochissimi tra i
marmi ho trovato che valgano a tener confinata l'elettricità nella
lamina metallica che lor si soprappone, a tenerla, dico, confinata
sì, che non trapassi, oltre ad un minuto o due, quando abilitati non
vengano da un convenevole riscaldamento. Disposti però che siano in tal
modo, e ove singolarmente incontrata abbiasi ottima qualità nel marmo,
riescono a maraviglia, e sorpassano ogni aspettazione; onde sosterrò
sempre con ragione, che sì fatti piani di legno, d'osso, di pietra,
nudi come sono, e ancora notabilmente deferenti, meritano tuttavia
d'essere preferiti a un ordinario piatto d'elettroforo fornito del suo
strato resinoso.

XIV. Venendo ora più davvicino alla maniera, onde praticamente si può
ridurre il nostro apparecchio alla maggior perfezione, per ritrarne il
più gran vantaggio; dopo aver ricordato come conviene soprattutto che
la lamina metallica o scudo s'adatti bene a combaciamento col piano
sottoposto (§. III. lett. B e VII), soggiugnerò che per ottener ciò
nel miglior modo è bene d'applicarsi ad una lastra di marmo, e questa
insieme alla lamina o scudo metallico spianare ben bene, lavorandole
una sopra l'altra, finchè sian ridotte a tale perfetto combaciamento,
che ne nasca sensibile coesione tra loro.

Il marmo poi così lavorato si esponga per molti giorni al calore
d'una stufa, con che espellendosi l'umido di cui anche tali pietre
sono spesso imbevute, verrà esso marmo condotto a quello stato
d'imperfettissimo conduttore, che è l'ottimo per le sperienze di questo
genere (§. XII. e XIII.); e si manterrà tale per un pezzo, sol che non
resti lungamente esposto al grand'umido: giacchè quanto a quell'umidore
che può contrarre accidentalmente, e in poco tempo, non essendo che
superficiale, non verrà il nostro marmo a deteriorarsi notabilmente; e
basterà prima di sperimentare esporlo per alcuni minuti al sole, o pur
anche asciugarlo con un pannolino caldo.

XV. E quì giova avvertir di nuovo, che non tutti i marmi sono
egualmente buoni. In generale i più vecchi, e che da molto tempo sono
stati guardati dal grand'umido riescono incomparabilmente meglio
che quelli tratti di fresco dalla cava, o stati esposti lungamente
all'ingiurie dell'aria; onde i secondi principalmente han bisogno di un
buon essiccamento nella stufa, ed i primi appena. Ma oltre di ciò avvi
ancora notabilissima differenza tra una specie, e l'altra di marmo:
io ne ho trovato di tali, che senza riscaldarli nè tampoco asciugarli,
riescono sempre a maraviglia, e di tali altri, che anche con una tale
preparazione non corrispondono troppo bene; a meno che non si continui
loro il caldo durante il tempo dell'esperienze. Sopra tutti finora ho
trovato eccellente il bel marmo bianco di Carrara. Ciò non pertanto
io non so abbastanza raccomandare di riscaldare e questo, e gli altri
marmi, almeno un poco innanzi adoperarli: con che vantaggian sempre
per eccellenti che siano, ed essendo cattivi vengono a migliorarsi
insignemente, e ad agguagliarsi ben anco ai più buoni. Anzi posso
dire per esperienza che la maggior parte dei marmi di lor natura poco
buoni, ove siano ben riscaldati previamente, e in seguito si mantengano
tiepidi tutto il tempo dell'esperienza, prevalgono, se non a tutti, a
molti dei migliori non punto riscaldati.

XVI. A chi però sembrasse incomoda questa preparazione (la quale per
altro a che si riduce? Ad esporre il piatto di marmo al sole, od a
presentarlo per poco d'ora innanzi al fuoco d'un cammino, o al più
tenerlo su d'un piccolo braciere ove sia o cener calda, o pochi carboni
accesi), io suggerirò il mezzo di dispensarsene molte volte; basta
dare alla faccia piana del marmo una buona mano di vernice copal, da
asciugarsi quindi in una stufa ben calda o in un forno tantochè prenda
un color d'ambra tirante al bruno. La vernice medesima d'ambra sarà
ottima, siccome pure la lacca. Con ciò non solo i buoni, ma i cattivi
marmi eziandio serviranno mirabilmente all'intento (che è pure un
gran vantaggio) serviranno senza previo riscaldamento, o almeno senza
continuarlo loro durante l'esperienza; quando però l'ambiente non sia
molto umido, e quando per raccogliere sufficiente elettricità non debba
stare la lamina metallica troppo lungo tempo, 8, o 10 minuti es. gr.
posata su tal piano di marmo verniciato; che allora converrebbe per lo
più mantenere esso piano un po' caldetto.

XVII. Appigliandosi allo spediente della vernice si può benissimo in
luogo del piatto di marmo far servire una lamina di metallo eguale
all'altra lamina o sia scudo, e resa perfettamente combaciante. Se la
vernice si desse ad amendue le faccie combacianti, non sarebbe male;
ma basterà anche il darla all'una o all'altra: in questo caso però una
mano sola di vernice, che sarebbe più che sufficiente per la lastra di
marmo, forse non basteria per la lamina metallica, ma ce ne vorrebbe
una seconda, ed anche una terza mano.

XVIII. Ma con ciò, mi si dirà, noi siam ricondotti ad un vero piatto
d'elettroforo, giacchè l'intonaco di vernice tien qui luogo del sottile
strato di resina. Io non voglio negarlo; anzi dirò, d'aver provato che
e il metallo e il marmo singolarmente così inverniciati, son tali, che
l'elettricità vi si affigge facilmente per comunicazione, e non men
facilmente vi si eccita per istrofinamento, talchè il solo strisciare
che faccia lo scudo sulla superficie inverniciata del piatto, o il
percuoterla con qualche forza mentre si viene a posarvi sopra cotesto
scudo, basta perchè poi dia segni sensibili di elettricità allorchè
se ne distacca. Talora anzi non è possibile d'impedire che questo
succeda, per quanto si procuri di posar lo scudo pian piano, e di
alzarlo senza punto strofinare. Tal importuna elettricità però è
debolissima, e non si suscita che nel caso in cui il piatto verniciato
si trova asciugatissimo, e ancor tiepido dal sole o dal fuoco. Sì fatto
riscaldamento adunque non solo non è necessario per il più delle nostre
esperienze quando adoperiamo un piano verniciato, com'è necessario
quasi sempre ove s'adoperi marmo nudo (§. XIII. XV. XVI.), ma è di più
pregiudizievole, perciò che dando luogo ai fenomeni d'_elettroforo_,
può facilmente produrre equivoci, ed incertezze (§. VIII.).

XIX. Qual vantaggio adunque mi si dirà un'altra volta, nell'adoperare
in luogo di un piatto incrostato, al solito degli Ettrofori, di
resina, un piatto solamente verniciato? Altronde si è pur detto che
vuol preferirsi un piatto nudo di marmo (§. XI. e seg.). Il vantaggio
del piatto verniciato sopra un ordinario d'elettroforo è: I.º che la
vernice sarà sempre più sottile di qualunque incrostatura resinosa;
II.º che quella meglio che questa può lasciare la superficie del
piatto, sia di marmo sia di metallo, piana e liscia in modo, che lo
scudo vi s'adatti ancora quasi a coesione: due circostanze, quali
veduto già abbiamo (§. VI. VII. XIV.) quanto influiscano alla buona
riuscita delle sperienze di cui si tratta. Riguardo al piatto nudo di
marmo, egli è ben vero che questo può servire egualmente bene, e forse
meglio s'egli è d'ottima qualità, o allorchè si tenga convenevolmente
riscaldato (§. XIII.); ma valutando bene le cose, l'incomodo, cioè di
tal preparazione, qualunque egli sia (§. XVI.), e la difficoltà d'aver
il marmo perfetto (§. XV.), credo che convenga ancora l'espediente
della vernice, che vi dispensa da tutto questo salvo solamente
qualche prova che duri assai lungo tempo (§. XVI.) quando ex. gr.
l'elettricità atmosferica è sì poca che devon passare più minuti prima
che se ne possa raccorre una quantità sensibile. Vi resta è vero,
l'altro inconveniente di potersi per poco affiggere l'elettricità alla
superficie di detta vernice; ma oltrecchè anche il marmo perfettamente
asciutto, e molto più se caldo, non va esente da tal incomoda
disposizione, egli non è poi tanto difficile di ciò scansare adoperando
le debite attenzioni; e l'accurato sperimentatore non lascierà di
assicurarsi coi mezzi che già si sono indicati (§. VIII.), che non
trovisi neppur ombra di elettricità impressa alla faccia verniciata,
quando imprende a fare col Condensatore delle sperienze delicate.

XX. Al piatto di marmo, o di metallo inverniciate va di paro un piano
qualunque coperto di buona tela incerata secca, e monda, di taffettà
cerato, o gommato, di raso o d'altro drappo di seta il quale più
che è sottile è meglio: dico, che questi piani così vestiti van di
paro agl'altri verniciati, stante che non han bisogno che d'avere
cotal veste ben asciutta, e al più un pocolino riscaldata prima di
servirsene; anzi pure e la tela e il taffettà incerati non attraendo
molto l'umido, non hanno di ordinario neppur bisogno d'esser posti al
sole o al fuoco innanzi farne uso. Il ciambelotto, il feltro, ed altri
drappi di pelo son buoni anche essi, ma men della seta; quei di lana,
o di cotone, meno ancora; e più infelici sono quei di canape, e di
lino: ad ogni modo un buon asciugamento, e un gentil calore continuato
possono abilitare anche questi, siccome pure abilitano la carta, il
cuojo, il legno, l'avorio, e gli altri ossi: tutti in somma i corpi che
sono da se stessi imperfettissimi conduttori, anzi non conduttori, ma
che sono troppo bibaci dell'umido, cui perciò convien espellere fino a
un certo segno.

XXI. Dico _fino a un certo segno_: perchè un troppo grande isolamento
è pregiudizievole anzichè nò, come si è già accennato (§. XII.), e
come si farà più chiaramente vedere nella 2.ª parte di questa memoria.
Or dunque se i detti corpi vengano spogliati affatto d'umido, posti
per esempio a seccare nel forno, in tal caso siccome diverranno veri
e perfetti coibenti al par delle resine; così non serviranno più al
nostro intento, a men che non sian ridotti ad uno strato sottile, e
questo strato venga applicato ad un conduttore (ivi) in modo che ne
risulti un vero piatto di elettroforo.

XXII. Non lascerò da ultimo di dire, che si può rendere l'apparecchio
ancor più semplice, se si applichi, sia l'intonaco di vernice, sia la
veste d'incerato, sia il taffettà od altro velo di seta, sia infine
qualunque materia semi coibente, alla lamina superiore cioè allo
_scudo_, in luogo di coprirne l'inferiore cioè il _piatto_; il qual
piatto in questo caso diventa inutile, servendo allora in sua vece un
piano qualunque egli sia, una tavola di legno o di marmo, anche non ben
asciutti, una lastra di metallo, un libro, od altro conduttore, buono
o cattivo che sia, sol che vi si possa applicare convenientemente la
faccia vestita dello scudo.

E in vero altro più non si ricerca per la buona riuscita delle
sperienze, se non che l'elettricità la quale tende a passare dall'uno
all'altro dei piani combaciantisi, incontri sull'una delle superficie
tale resistenza, che valga a trattenerla, come si è già accennato
(§. XI.), e si farà chiaro nella stessa seconda parte; dove al dipiù
mostrerassi, come a tale effetto basti anche una piccola resistenza.
Ciò posto: che lo strato sottile coibente o quasi coibente tenga al
piano di sotto, o a quel di sopra, egli è lo stesso; quello che importa
è che si combacino bene (§. VII): la qual cosa non è sì facile ottenere
allorchè si posa lo scudo su d'una tavola, od altro piano non preparato
a bella posta. Egli è solo per questa ragione, per ottenere cioè un più
esatto combaciamento, che io dò la preferenza a due piani lavorati un
sopra l'altro, che intonaco poscia, od amendue, o quel solo, che più mi
piace (§. XIV. XVII). Del resto la comodità d'avere per tutto apparato
una sola lamina di metallo inverniciata da un lato, o coperta di
taffettà, e dall'altro guarnita di tre cordoncini di seta, fa che io me
ne serva più comunemente; e la riuscita, se non agguaglia per avventura
quella dell'altro apparecchio composto dei due piani lavorati un sopra
l'altro, è tale però che basta d'ordinario all'intento.

XXIII. Fin quì abbiamo considerato l'utile che si può ritrarre
dal nostro _apparecchio condensatore_, applicato ai conduttori per
esplorare l'elettricità atmosferica, allorchè è debole affatto, ed
impercettibile[51]. Questo però, a cui vien destinato principalmente,
non è il solo uso che far se ne possa, nè il solo vantaggio che esso ci
procura: il medesimo serve altresì molto per l'elettricità artificiale,
a discoprirla cioè ove per altra via non si manifesterebbe, o renderne
i segni assai più cospicui. Molti sono i casi, in cui l'elettricità,
che è nulla in apparenza o molto dubbia, vi si renderà chiara, e
sensibilissima coll'ajuto di tal apparecchio: ne andrò accennando per
modo d'esempio alcuni.

XXIV. 1.º Una boccia di Leyden caricata, e quindi addotta alla scarica,
coll'applicarvi tre, o quattro volte l'arco conduttore, o con replicati
toccamenti della mano, chi non crederebbe che fosse omai spogliata
affatto della sua elettricità? Così sembra infatti esplorandola
con qualsivoglia Elettrometro anche de' più sensibili. Pure toccate
coll'uncino di tal boccia la lamina metallica posata convenevolmente
(cioè sopra qualunque piano, s'ella è ben inverniciata nella faccia
inferiore, o vestita di taffettà ec. oppur s'è nuda sopra un sottile
strato resinoso, o su d'un incerato, o su drappo di seta, o sopra
tavola di legno inverniciata, o sopra lastra di marmo ben asciutto),
e tosto alzata cotal lamina o scudo interrogatela che ne avrete segni
elettrici sensibilissimi: dal che concluderete che l'elettricità della
boccia non era già tutta spenta, come appariva. Che se questa avesse
mai una carica sensibile a segno di attrarre un leggier filo, in tal
caso lo scudo toccato dal di lei uncino anche per un sol momento, e
quindi alzato, vibrerà vivace scintilla: riposto lo scudo, ritoccato
coll'istesso uncino della boccia, e rialzato di nuovo, ne otterrete
una seconda scintilla, nulla o poco men vivace della prima; e un tal
giuoco potrassi continuare per molte e molte volte con pari diletto, e
meraviglia.

Cotesto artificio di produrre scintille, e replicarle a piacimento
con una boccia, che non ha carica sufficiente per darne neppur una
da se sola, vi appresta una grande comodità per varie sperienze
dilettevoli, come quelle della mia _pistola_, e della mia _lucerna
ad aria infiammabile_, massimamente trovandovi provveduto d'una di
quelle boccette preparate alla maniera del Sig. Tiberio Cavallo[52], le
quali si possono portare cariche in tasca molto tempo. Queste, poichè
conservano una carica sensibile alcuni giorni, ne conserveranno una
insensibile per settimane, e mesi: insensibile dico, senza l'ajuto del
nostro apparecchio condensatore; ma con questo sensibilissima, e più
che sufficiente all'uopo di accendere l'aria nella pistola ec.

XXV. 2.º Avete una macchina elettrica meschina, così mal in ordine,
e in tali circostanze sfavorevoli d'umido ec., che non potete trarre
la più piccola scintilla dal conduttore, il quale appena attrae un
leggerissimo filo, o non giugne neppur a tanto? Or via fate toccare
a tal conduttore inerte il nostro apparecchio, ossia lo scudo posato
come conviene sul piano, e lasciate che il toccamento duri per qualche
minuto, tenendo intanto in azione la macchina; e vi riuscirà di
ottenere col solito giuoco di staccare lo scudo dal sottoposto piano,
una buona scintilla, ed ogn'altro segno vivace.

XXVI. 3.º Sia pure la macchina buona, e agisca a dovere; ma il suo
conduttore trovisi così male isolato, che l'elettricità non vi si possa
accumulare a segno di dar scintilla, e neppure di attrarre un filo:
come accade quando l'istesso conduttore tocca al muro della stanza,
o quando una catena pende da esso sopra una tavola, e fin sopra il
pavimento della stanza. In simil caso crederete che l'elettricità per
quelle comunicazioni si disperda intieramente, ma cercando più oltre,
ricorrendo cioè al condensatore, troverete che un poco se ne trattiene
ad ogni momento nel conduttore tuttochè non isolato, tanto che durando
l'azione della macchina qualche tempo, i molti pochi raccolti insieme
nello scudo, per la vantaggiosa disposizione ch'egli ha di tirar sopra
di se l'elettricità (§. II.), fanno ch'il medesimo sia poi in istato di
dar segni abbastanza forti.

XXVII. 4.º L'ordinaria maniera di strofinare alcuni corpi, e quindi
presentarli ad un elettrometro, onde vedere se per tal mezzo abbiano
o nò contratto qualche elettricità, è in molti casi insufficiente,
dimodochè sovente si crede che sia nulla, sol perchè debolissima. Si
trae dunque un gran vantaggio strofinando i corpi dubbi collo scudo
o lamina metallica del nostro apparecchio, che in questo caso deve
esser nuda, poi levatala in alto isolata, interrogando lei medesima,
la quale darà segni abbastanza sensibili per qualunque piccola ed
insensibile elettricità eccitata nel corpo contro cui si è strofinata,
e dinoterà quale specie di elettricità quello abbia contratta, giacchè
si sa che debbe essere nei due contraria. Anche il Sig. Cavallo
si serviva di questo mezzo per iscoprire l'elettricità in molti
corpi[53]. Ma ve n'è uno a certi riguardi migliore, che certamente
nè egli nè altri, ch'io sappia, han conosciuto. Quando il corpo, di
cui si vuol provare la virtù, non è tale che vi si possa addattare
in piano la lamina metallica per dimenarla sopra strofinando, si
faccia in vece così: posata la lamina o scudo sopra il solito piano
semicoibente, si strofini essa, o meglio si percuota a vari colpi
col corpo in questione; il che fatto si levi la lamina, e si osservi
se è elettrizzata: lo sarà senza meno nel caso che vi siate servito
a percuoterla di una striscia di cuojo, di una corda, d'un pezzo di
panno, di feltro, o simili cattivi conduttori; e lo sarà assai più che
se l'aveste sferzata, o strofinata per egual maniera coi medesimi corpi
stando essa lamina metallica isolata. In somma coll'uno, o coll'altro
degl'indicati mezzi voi otterrete elettricità da corpi che non avreste
mai creduto che godessero di questa virtù; la otterrete, anche da
corpi non secchi, da tutti infine, eccetto solo i metalli, e i carboni:
dirò di più, ch'io ne ho ottenuto qualche volta strofinando la lamina
metallica col rovescio della mano nuda.

XXVIII. 5.º Si è cercato se il calore, l'evaporazione, le fermentazioni
ec. producano qualche grado di elettricità, ossia cagionino qualche
alterazione alla dose naturale del fluido elettrico nei corpi che
subiscono coteste azioni, e in quelli che sono in contatto coi
medesimi. La ricerca era di grande importanza per fissar pure qualche
idea sull'origine dell'elettricità naturale, ossia atmosferica. Io
so di molti che hanno tentato specialmente sull'evaporazione delle
sperienze invano (_Franklin, De Saussure, Wenly, Cavallo_), e che
hanno infine rinunciato alla speranza di ottenere per tal mezzo segni
elettrici; nè so d'alcuno che sia ancor giunto ad ottenerli. Le mie
proprie sperienze non avean avuto miglior successo; con tuttociò
ben lungi di rinunciare ad ogni speranza, io le andava sempre più
nodrendo. Da gran tempo fissato mi era in mente che le dissoluzioni,
le effervescenze, le volatilizzazioni ec. sconvolgendo le minime
particelle dei corpi, e forma, e posizione mutandone, doveano
coll'alterazione delle forze mutue di esse particelle, aumentare o
diminuire le respettive capacità dei corpi medesimi sottoposti a quei
moti intestini (le capacità dico, a contenere il fluido elettrico);
e conseguentemente occasionare dove condensazione, dove rarefazione
di esso fluido: io ne era così persuaso, che non sapeva darmi pace
che l'elettricità non si manifestasse per alcuno di tai processi;
di tal mancanza di segni pertanto io ne accagionava parte alla
debolezza dell'elettricità che per tal modo si eccitava, parte alla
dissipazione di essa prodotta dai vapori medesimi che si sollevano
durante il processo, e distruggono quasi intieramente l'isolamento:
mi compiaceva però sempre a pensare, che l'avrei un giorno potuta
scoprire cotesta elettricità fugace, moltiplicando le sperienze,
e mettendovi più d'attenzione, e di accuratezza[54]. Due anni sono
allorchè fui passo passo condotto alla maniera di condensare a un segno
sì grande l'elettricità coll'apparecchio qui descritto, i miei pensieri
si rivolsero nuovamente all'oggetto delle antiche mie ricerche, e
concepii molto più fondata speranza di poter iscoprire qualche cosa,
e già mi proponeva di applicarmi a tali sperienze, quasi presagendone
la riuscita; ma varj accidenti le ritardarono fino al Marzo, e Aprile
di quest'anno, in cui intraprese avendole a Parigi in compagnia di
alcuni membri dell'Accademia R. delle Scienze, mi riuscì finalmente di
ottenere segni non dubbj di elettricità, (che dico segni non dubbj?)
fin la scintilla elettrica dall'evaporazione dell'acqua, dalla semplice
combustione dei carboni, e da varie effervescenze, segnatamente da
quelle che producono l'aria infiammabile, l'aria fissa, e l'aria
nitrosa.

XXIX. Terminerò la prima parte di questa memoria col dire, che oltre
gli accennati vantaggi, ed altri del medesimo genere, che ne procura
il nostro condensatore considerato semplicemente come istromento atto
ad ingrandire i segni dell'elettricità; le varie sperienze che possono
farsi con esso spargono eziandio molto lume sulla teoria elettrica, per
quella parte massimamente che riguarda l'azione delle _atmosfere_: lo
che andiamo a vedere nella Parte seconda.


_PARTE SECONDA._

_In qual maniera un conduttore accostandosi a un altro sotto certe
condizioni acquisti una straordinaria capacità di ricevere e contenere
l'elettricità._

XXX. Le sperienze riportate nella prima parte, di questa Memoria ci
hanno abbastanza mostrato come una lamina metallica, o qualsivoglia
piano conduttore, cui soglio appellare _scudo_, applicato ad un altro
piano, il quale opponga, o per la qualità sua di cattivo conduttore,
o per l'interposizione di un sottile strato coibente, una certa non
grande resistenza alla trasfusione dell'elettricità, come dissi, tale
scudo in siffatta posizione atto sia a tirare sopra di se, e raccorre
nel suo seno maggiore copia di elettricità, che se si trovasse in
qualsivoglia modo perfettamente isolato. Abbiam veduto come facendolo
toccare all'uncino di una boccia di Leyden, al conduttore di una
macchina elettrica, o a quello dell'elettricità atmosferica, infine
a qualunque potenza o sorgente elettrica, anche quando l'elettricità
è debolissima, e affatto impercettibile, pur gli se ne comunica tanto
da poter manifestarsi quindi con segni molto vivaci, tosto che si leva
esso scudo in alto. Or quì intraprendiamo di spiegare un tal fenomeno:
e la spiegazione medesima servirà più ch'altra cosa a facilitare la
pratica delle sperienze di questo genere.

XXXI. Adunque il tutto si riduce a questo: che la lamina, o scudo ha
molto, e molto maggiore capacità nel 1.º caso, quando cioè posa sul
piano avente le condizioni indicate (prec. e 11, 12, 22), che nel 2.º,
in cui tiensi ex. gr. in alto sospeso per i suoi cordoncini di seta, o
per un manico isolante, oppur che posa sopra un grosso strato coibente,
o sopra un piatto isolato.

Per dilucidare questo punto essenziale, prendiam le cose da più lontano.

XXXII. Non vi vuol molto a comprendere, che ivi è maggiore capacità,
dove una data quantità di elettricità sorge a minor intensità, o che
è lo stesso, quanto maggior dose di elettricità è richiesta a portare
l'azione a un dato grado d'intensità; e _viceversa_: a dir breve,
la _capacità_, e l'_azione_, o _tensione_ elettrica sono in _ragione
inversa_.

Farò quì osservare sul principio ch'io dinoto col termine di
_tensione_ (che volentieri sostituisco a quello d'intensità) lo
sforzo che fa ciascun punto del corpo elettrizzato per dissiparsi
della sua elettricità, e communicarla ad altri corpi: al quale sforzo
corrispondono generalmente in energia i segni di attrazione, ripulsione
ec., e particolarmente il grado a cui vien teso l'elettrometro.

XXXIII. Ciò che abbiam detto comprendersi facilmente che la _tensione_
debb'essere _in ragione inversa delle capacità_, ci viene poi mostrato
nella maniera più chiara dall'esperienza. Siano due verghe metalliche,
di egual diametro, una lunga 1 piede, e l'altra 5. S'infonda alla prima
tanto di elettricità, che giunga a vibrare un elettrometro annesso a
60 gradi: se in questo stato si farà toccare quella all'altra verga,
l'elettricità compartendosi equabilmente ad ambedue, diminuirà di
tensione tanto appunto, quanto la capacità si trova ora accresciuta,
cioè 6 volte: lo chè ci farà vedere l'elettrometro, discendendo dai 60
ai 10 gradi[55]. Così se l'istessa quantità di elettricità venisse a
diffondersi in un conduttore 60 volte più capace, non rimarrebbe che
1/60 della primiera tensione, cioè un grado solo; come _viceversa_
la tensione di 1 sol grado di cotesto gran conduttore, o d'altro
qualunque, salirebbe a 60 gr., ove la di lui elettricità venisse a
raccorsi, e condensarsi in una capacità 60 volte minore.

XXXIV. Or non solo conduttori di mole, e massa diversi hanno diversa
capacità; ma anche l'istesso conduttore può averne una maggiore, o
minore, secondo varie circostanze; alcune delle quali non sono per anco
state considerate, come si conviene. È stato osservato che l'istesso
conduttore acquista, o perde in capacità, a misura che si aggrandisce,
o si ristringe di superficie; secondo che una catena metallica ex.
gr. si dispiega in lungo, o si ammucchia; secondo che vari cilindri
contenuti un nell'altro, (come quelli d'un canocchiale) si traggono
fuori, o si fanno rientrare ec. Quindi si è concluso generalmente
che la capacità non è _in ragion della massa_, ma bene _in ragion
della superficie_ del conduttore, come Franklin ha dimostrato appunto
coll'indicato sperimento della catena.

XXXV. Questa conclusione è giusta, ma non comprende ancor tutto;
perocchè anche con superficie egualmente grandi si ha maggiore, o
minore capacità, se siano i conduttori diversamente conformati. Essa
si troverà maggiore di molto in quel conduttore che avrà più lunghezza
comunque sia d'altrettanto men grosso, cosicchè la quantità della
superficie rimanga eguale: come Watson, ed altri aveano già osservato,
e come io mi lusingo d'aver posto in miglior lume nella mia memoria
sulla capacità de' conduttori semplici, nella quale dimostro il grande
vantaggio di un conduttore costrutto di molte verghe di legno coperte
di foglia metallica, e collocate in lungo punta a punta sopra gli
ordinarj conduttori assai più grossi, e meno lunghi. Se l'istesso
conduttore colla grossezza, e lunghezza medesima non sia diritto, ma
assai curvo, e molto più se essendo ex. gr. un fil di ferro, abbia
molti torcimenti, o si ripieghi indietro, avrà minore capacità;
così pure l'avranno minore le indicate verghette, se invece d'esser
collocate punta a punta in linea retta, lo siano ad angolo, e peggio se
s'accostino parallele.

Le sperienze, ed osservazioni da me rapportate in quello scritto,
ed infinite altre, massimamente quelle intorno al così detto _pozzo
elettrico_, concorrono tutte a provare, che la capacità è in ragione
non delle superficie qualunque esse sieno, ma delle _superficie
libere dall'azione delle atmosfere omologhe_: nella quale rettificata
proposizione converranno tutti quelli, che si faranno a considerare i
principali fenomeni delle atmosfere elettriche.

XXXVI. Ma v'è di più ancora, e questo è propriamente che fa al nostro
caso. L'istesso conduttore ritenendo la stessa superficie, e la
forma sua non mutata acquista maggiore capacità allorachè in luogo di
rimanere isolato solitariamente si affaccia a un'altro conduttore non
isolato; e l'acquista tanto sempre maggiore, quanto vi si affaccia più
davvicino, e quanto le superficie che si presentano un l'altro sono più
larghe. Io chiamo quel conduttore isolato che ne ha un'altro di fronte
(sia questo non isolato, come nel caso nostro, sia anche isolato,
elettrizzato, o nò), lo chiamo _conduttore conjugato_; e già io aveva
promesso nella mentovata dissertazione, trattato avendo della capacità
de' _conduttori semplici_, o _solitarj_, di trattare in seguito di
quella dei _conduttori conjugati_.

XXXVII. Tale circostanza, che accresce prodigiosamente la naturale
capacità di un conduttore, quella è sopra tutto, a cui non trovo che si
sia fatta ancor la debita attenzione; molto meno che alcuno ne abbia
tratto quei vantaggi, che dall'applicazione facilmente ne derivano.
Ma veniamo a quelle sperienze più semplici, che ci mettono sott'occhio
questa accresciuta capacità.

Prendo un disco di metallo, (il solito scudo d'elettroforo per
esempio), e tenendolo in alzo isolato lo elettrizzo a una data forza,
quanto basta; supponiamo, a fare un'elettrometro annesso si tenda a 60
gradi; calando indi esso disco gradatamente verso una tavola od altro
piano deferente, ecco che decade l'elettrometro dai 60 a 50, 40, 30
gr. Non crediate perciò che sia scemata a questo punto la quantità
d'elettricità che il disco possiede, la quale anzi, purchè quello
non sia giunto a tale vicinanza dell'altro piano deferente da dar
luogo alla trasfusione collo scoccare di qualche scintilla, si sarà
mantenuta nell'interezza sua, quanto almeno la lunghezza del tempo,
lo stato dell'aria e dell'isolamento lo permettono. Onde dunque tale,
e tanto abbassamento di tensione? Non altronde che dall'accresciuta
_capacità_ del disco, or non più solitario, ma _conjugato_. In prova di
che se si sollevi di nuovo gradatamente, risalirà il suo elettrometro
a 40, 50, e fin presso ai 60 gradi di prima (risalirebbe ai 60
giusto, se si potesse impedire affatto il dissipamento nell'aria, e
lungo gl'isolatori non mai perfetti abbastanza); a misura cioè che
allontanandosi dall'altro piano deferente ritorna il disco a quella più
angusta capacità, che gli compete quand'è solitario.

XXXVIII. La ragione di un tale fenomeno si deduce facilmente
dall'azione delle _atmosfere elettriche_. Quella del disco, che or
suppongo elettrico _per eccesso_ si fa sentire alla tavola, od altro
qualsivoglia conduttore, a cui si affaccia in guisa che il fuoco di
questo, giusta le note leggi, ritirandosi si dirada nelle parti che
restano più vicine al disco sovrastante, e tanto più si dirada, quanto
esso disco elettrico si va più accostando. Se l'elettricità di questo è
_per difetto_, il fuoco della tavola, o piano inferiore qualunque sia,
accorre e si addensa verso la superficie medesima, che guarda il disco,
e che ne sente più davvicino l'azione. In somma le parti immerse nella
sfera di attività del disco contraggono un'elettricità _contraria_,
elettricità che può dirsi _accidentale_; e che portando in certo modo
un _compenso_ a quella _reale_ del disco medesimo, ne diminuisce la
_tensione_, come appunto ci dimostra l'abbassamento dell'elettrometro.

XXXIX. Due altre sperienze porranno in maggior lume questa
azione reciproca delle atmosfere elettriche, mercè di cui ora
s'infievoliscono, ora si rinforzano mutuamente le _tensioni_ ossia
azioni elettriche di due corpi pel solo avvicinarsi l'uno all'altro,
ritenendo ciascuno nè più nè meno la sua dose di elettricità.

Cominciam da quelle che si rinforzano. Queste sono le _atmosfere
omologhe_. Siano pertanto due piani conduttori, elettrizzati o per
eccesso amendue, o amendue per difetto. Si affaccino questi, e si
vadano gradatamente avvicinando: vedrassi che influiscono l'uno
sull'altro in modo, che la _tensione_ elettrica s'accresce in
amendue a proporzione del più grande avvicinamento, e della quantità
di superficie che si presentano: ciò, dico, vedrassi dal maggiore
innalzamento de' respettivi elettrometri, e dalla scintilla, che
esplorando l'uno o l'altro di quei piani scoccherà a maggiore distanza,
che se ciascuno fosse rimasto con tutta la sua elettricità _solitario_.
In quello stato adunque di avvicinamento egli è chiaro, che ciascuno
de' due conduttori conjugati ha una minore capacità; giacchè a
proporzione che sono già _attuati_ a un più alto grado di elettricità,
lor resta meno per giungere al sommo, o a parlar più giusto, maggiore
è la resistenza che oppongono ad un ulteriore carica, conformemente a
quanto osservato già abbiamo che la tensione esprime lo sforzo, onde un
corpo tende a disfarsi dell'elettricità, e a comunicarla altrui. Così
una boccia di Leyden carica a un grado un poco maggiore di quello dei
dischi _solitari_, la quale per conseguenza _darebbe_ loro, in tale
stato, _riceverà_ all'incontro da essi quando essendo _conjugati_ vi
prevale la _tensione_: ritornando questi _solitari_, cederanno un'altra
volta alla boccia ec.

Or anche si comprende quello che abbiamo fatto più sopra osservare,
onde sia cioè che un filo metallico ripiegato, e molte verghe poste
allato, e vicine l'une all'altre, abbiano minore capacità che disposti
quello, e queste in una linea retta; perchè con superficie eguali un
Conduttore corto, e grosso abbia meno capacità d'un lungo, e sottile;
perchè infine la capacità sia _in ragione delle superficie libere_ o
meno _attuate_ dall'influsso delle _atmosfere omologhe_.

XL. Siano ora i medesimi dischi della sperienza precedente ambi
elettrizzati, ma uno _per eccesso_ l'altro _per difetto_; ben si vede
che ne seguiranno effetti contrarj, cioè l'influenza vicendevole
delle atmosfere, per cui l'uno è _attuato_ dall'altro, produrrà un
_compenso_ od _equilibrio accidentale_, onde diminuirassi la _tensione_
in amendue, cadrà l'elettrometro, ec. Allora io dico che trovasi
accresciuta in ciascuno de' due dischi la capacità, inquantochè opporrà
ciascuno minor resistenza ad un'ulteriore carica dell'elettricità che
già possiede, e gliene rimanda di più a prendere per giugnere a un dato
grado di _tensione_. Così una boccetta di Leyden carica dell'istessa
specie d'elettricità d'uno di questi dischi, e all'istesso grado,
ed anche al disotto, potrebbe tuttavia aggiugnere all'elettricità di
quello, quando, trovandosi _conjugato_, la sua _tensione_ è indebolita
dall'atmosfera elettrica contraria del disco compagno; ma rimosso
quello da questo, e divenuta in lui la _tensione prevalente_, darebbe
egli della sua elettricità alla boccetta ec.

XLI. Non resta più ora che fare un'applicazione di quest'ultima
esperienza a quelle riportate di sopra, in cui il disco elettrizzato
si affaccia a un piano conduttore non isolato. S'egli è vero, come
supposto abbiamo che questo nella parte più vicina a detto disco
elettrico, per l'azione della di lui atmosfera, si compone ad
un'elettricità contraria, vale a dire che il fuoco ivi si dirada qualor
l'incombente elettricità sia _in più_, o vi si condensa qualor sia
_in meno_, dovrà dunque nascere l'istesso _equilibrio accidentale_,
l'istesso _compenso_, e alleviamento alla _tensione_ elettrica del
disco, lo stesso abbattimento dell'elettrometro, come appunto si
osserva: quindi l'accresciuta capacità di esso disco; quindi la maggior
dose di elettricità che potrà ricevere.

XLII. La cosa è già bastantemente chiara, ma si renderà ancora più
manifesta, e toccherassi con mano, se si venga ad isolare il piano
conduttore (supponiam che questo sia parimenti un disco metallico,
che chiameremo disco inferiore) affacciato già al disco elettrico,
e dopo si allontanino un dall'altro; giacchè allora compariranno
realmente in esso piano, o disco inferiore i segni dell'elettricità
contraria da esso lui acquistata allorchè non era isolato, e trovavasi
immerso nell'atmosfera del disco superiore. Cotesto disco superiore
poi, il quale intantochè si allontana, ricupera la _tensione_, che
l'avvicinamento gli avea fatto perdere, la perderà di nuovo a misura
che si accosterà un'altra volta al disco inferiore, e la farà perdere
a lui medesimo, in virtù dell'azione reciproca delle contrarie
elettricità a indicare le quali vicende è opportuno che trovisi
un'elettrometro annesso a ciascuno de' dischi; poichè il linguaggio
dell'elettrometro è il più significante di tutti, e ardisco dire
ch'esso solo vi dà la spiegazione di tutti i fenomeni riportati in
questo scritto, e d'infiniti altri analoghi.

XLIII. Che se il disco inferiore si trovi isolato al primo affacciarvi
il disco superiore elettrizzato, e isolato pure rimanga tutto
il tempo che questo vi sta sopra; in tal caso venendo _attuato_
dalla di lui atmosfera, acquisterà quella che chiamo elettricità
omologa accidentale, cioè una _tensione_ od azione elettrica, con
cui fa sforzo di conseguire l'elettricità _contraria_; il che non
venendogli dato di effettuare, per l'isolamento in cui si trova, non
potrà neppur _compensare_ nel dovuto modo l'elettricità del disco
incombente, nè quindi diminuire in lui la _tensione_ notabilmente,
dimodochè l'elettrometro di questo, appena farà cenno di abbassarsi
(il quale picciolo abbassamento si deve a quel poco di fuoco, che per
l'azione dell'atmosfera elettrica può muoversi nella spessezza del
disco inferiore, o lungo i suoi sostegni isolanti non mai perfetti
abbastanza), e per conseguenza non acquisterà il disco superiore
maggiore _capacità_, onde poter prendere maggior dose di elettricità.
Ma bene l'acquisterà, se un momento si venga a toccare il disco
inferiore, onde distruggere in esso l'elettricità _accidentale
omologa_, che vuol dire fargli prendere la _reale contraria_.

XLIV. Se il disco inferiore non che trovarsi isolato, sia egli medesimo
isolante, succederà lo stesso, cioè non potrà diminuire la _tensione_
elettrica, nè quindi aumentare la _capacità_ del disco superiore
accostatogli comunque. Non così però se cotal disco isolante sarà
semplicemente un sottile strato che copra un conduttore comunicante
col suolo; mercecchè questo piano conduttore che trovasi poco sotto,
e in cui può moversi liberamente il fuoco, farà esso il giuoco di
_compensare_ l'elettricità del disco superiore, e lo strato isolante
interposto diminuirà soltanto l'azion mutua delle atmosfere elettriche,
in ragione della maggior distanza che pone tra l'uno, e l'altro
conduttore.

XLV. La _tensione_ ossia azione elettrica del disco, la quale, come
abbiam veduto va diminuendosi a misura ch'egli si affaccia più
davvicino ad un piano deferente non isolato è portata a un tale
decadimento quando si arriva quasi al contatto, il _compenso_ od
_equilibrio accidentale_ essendo allora quasi perfetto, che dove
l'elettrometro era teso a 60, 80, 100 gradi, si vedrà or disceso a
un grado solo, ed anche meno. Quindi se il piano o disco inferiore
opponga solo una piccola resistenza al trapasso dell'elettricità, o
per l'interposizione d'un sottile strato coibente, o per la natura sua
propria d'imperfetto conduttore, qual è il marmo asciutto, il legno
secco ec. tale picciola resistenza congiunta a quella della distanza
comunque piccolissima non potrà essere superata da tale debolissima
_tensione_ del disco elettrico; il quale perciò non iscaglierà
scintilla al piano (salvo che forse dagli orli non ben ritondati, e
nel caso che possieda una gran copia di elettricità); anzi conserverà
tutta, o quasi tutta la sua elettricità, dimodochè rialzandolo, il suo
elettrometro ascenderà quasi al grado di prima. Più: potrà il disco
senza gran detrimento della sua elettricità giugnere fino al contatto
del piano imperfetto conduttore, e restarvi qualche tempo applicato:
nel quale contatto la tensione elettrica trovandosi pressochè ridotta
a nulla non ha forza di passare dal disco al piano che combacia se non
lentissimamente.

XLVI. Non andrà però così la bisogna, se ripetendo l'esperienza
s'inclini il disco, e si porti a toccare il medesimo piano in costa:
allora sussistendo in quello maggior _tensione_ di elettricità (come
ci mostrerà il fedele elettrometro), giacchè non vien bilanciata che
corrispondentemente ai punti di superficie dell'uno che guardano
davvicino la superficie dell'altro, cotal azione elettrica meno
indebolita vincerà la picciola resistenza del marmo, o di qualsivoglia
altro imperfetto conduttore, e fino di un sottile strato coibente che
trovisi interposto, cosicchè l'elettricità trasfonderassi realmente,
e s'affiggerà a cotesto strato coibente che copre il conduttore, o
passerà entro a questo, se ne è nudo, fino a perdersi nel suolo[56],
e ciò in brevissimo tempo: laddove vedemmo, che non ne passa nulla o
quasi nulla in tempo assai più lungo, quando, il contatto col medesimo
piano è il più ampio possibile. Il che ha l'aria di paradosso; ma pur
si spiega così ben coi principj delle atmosfere elettriche.

XLVII. Quello che sembra anche più paradosso, o almeno che sorprende
di più, si è che neppure il contatto di un dito, o di un pezzo di
metallo comunicanti col suolo, replicato più volte, e continuato per
alcuni secondi, valga a spogliare intieramente dell'elettricità il
disco posato sull'amico piano; ma ve ne lasci sovente tanto da poter
dare ancora una scintilla quando in seguito si leva esso disco in alto.
Invero tal fenomeno sarebbe inesplicabile anche nei nostri principj,
se il dito, o il metallo fossero perfetti conduttori, a segno di
non opporre la minima resistenza al passaggio del fluido elettrico,
come si crede comunemente; ma la cosa non è così; e ce lo dimostrano
queste stesse sperienze. I metalli dunque non sono che conduttori
meno imperfetti degl'altri corpi. Ma, dirassi, noi vediamo che si
trasfonde da un capo all'altro di un metallo, e da un metallo all'altro
l'elettricità in un'istante. Sia pure così di quell'elettricità che
dispiega una forza sensibile a segno di tendere un'elettrometro,
o di attrarre un filo leggierissimo. Ma convien riflettere che al
disotto di questo vi hanno da essere ancora altri gradi di elettricità
impercettibili, i quali, dico, non son valevoli a superare sì tosto
quella qualunque piccola resistenza che pure oppor denno i migliori
Conduttori. Quando dunque un metallo tocca il disco elettrizzato che
riposa sul suo piano, lo spoglia immantinente dell'elettricità fino
al segno che la tensione diviene affatto insensibile, non però nulla,
essendo ridotta supponiamo a 1/50 di grado. Ma se sollevando il disco
in alto la sua capacità si ristringa a segno che dispieghi una tensione
elettrica cento e più volte maggiore, questa salirà dunque a due gradi,
ed oltre; con che sarà divenuta sensibile, finanche al punto di dare
una scintilla.

XLVIII. Fin quì considerato abbiamo come l'azione delle atmosfere
elettriche debba modificare l'elettricità del disco nelle sue varie
situazioni, allorchè gli è stata infusa prima di accostarlo al piano
deferente. Ora vediamo che avvenir debba allorchè gli s'infonde
stando già egli vicino, o meglio applicato al detto piano. Quando
ho detto dal bel principio che in tale stato egli ha molto maggiore
_capacità_, e son venuto provandolo fin quì, ho detto, e provato
tutto: le applicazioni sono facili a farsi. Gioverà non pertanto
esemplificare con un'esperienza. Mi si dia una boccia di Leyden, o
un ampio conduttore elettrizzati a un sol grado di _tensione_, od
anche meno. Se io farò toccare l'una, o l'altro al mio disco posato, è
chiaro che gli comunicheranno della loro elettricità a misura della sua
_capacità_, tanto cioè quant'egli può riceverne per comporsi con essi
ad una _tensione_ ossia forza elettrica _eguale_, supponiamo di 1/2
grado. Ma la sua capacità or ch'il disco è non solamente _conjugato_
ma combaciante il conduttore compagno, è cento, e più volte maggiore
di quando si trova isolato solitariamente, ossia vi vuole per produrvi
la data tensione cento volte maggior dose di elettricità, quindi
appunto ne avrà preso cento volte più, che non avrebbe potuto prenderne
stando isolato in aria. Quando dunque si leverà in alto a misura che
allontanandosi dal caro piano si ridurrà alla naturale sua angusta
_capacità_, la _tensione_ elettrica dispiegherassi maggiore, e maggiore
sempre fino al termine di 50 gradi (nel supposto caso che la tensione
fosse di 1/2 grado stando il disco posato e la sua capacità in tale
stato cento volte maggiore), quando cioè la sua atmosfera non facendosi
più sentire al detto piano sarà cessata ogni maniera di _compenso_,
e tolto quell'_equilibrio accidentale_, che teneva la tensione così
bassa. È inutile il dire, che calando di nuovo il disco verso il
piano, si abbatterà di nuovo l'elettrometro, a misura che l'_equilibrio
accidentale_ si andrà ristabilendo; giacchè questo è il primo fenomeno
che contemplato abbiamo, e che ne ha condotti alla spiegazione di tutto
il resto.

XLIX. Soggiugnerò questo per ultimo schiarimento. Succede al disco
che passa dallo stato d'isolamento solitario a quello di affacciarsi
finanche a combaciare un piano convenientemente preparato, o da questo
all'altro stato, lo stesso che succede ad un conduttore compreso
sotto angusta superficie, che si dispieghi in una assai più ampia, e
_vice versa_ (richiamiamo l'esempio della catena ammucchiata, e poi
distesa, o dei cilindri ch'entrano un nell'altro). Elettrizzato a un
alto grado il conduttore quand'è avvolto e impicciolito, se dopo viene
a distendersi od allungarsi, decade in lui la _tensione_ a misura
che l'elettricità, compartendosi a una più grande _capacità_, vien
diradata. All'incontro elettrizzato debolmente quando è disteso e gode
della sua maggiore capacità, se dopo si avvolge, e rappicciolisce,
va egli acquistando vie maggior _tensione_ a misura che l'elettricità
si raccoglie, e viene condensata in una capacità minore. Così appunto
il nostro disco se venga elettrizzato quand'è _solitario_ a una forte
_tensione_, questa anderà scemando a misura ch'egli si affaccia ad un
altro piano non isolato; all'incontro elettrizzato debolissimamente
quando è prossimo a questo piano, o lo combacia, vedrassi crescere in
lui insignemente la _tensione_ a misura che si allontana da quel piano.
Si può dunque dire che l'elettricità viene quì pure in certo modo
_condensata_, non altrimenti che nell'addotto esempio del conduttore
che s'impicciolisce: e quindi il nome di _condensatore_ che ho dato al
mio apparecchio. Certo se non può dirsi nel nostro caso _condensata_
l'elettricità in minore spazio, giacchè e massa e volume rimangono i
medesimi nel disco che adoperiamo, ella è però confinata in tal corpo
di cui la _capacità_ di grandissima che era è divenuta come che sia
picciolissima.

L. Ora se una debole insensibile forza elettrica di una boccetta di
Leyden o di un conduttore appena un poco carichi, applicata al disco
giacente può accumularvi tanto di elettricità, onde poi levato in alto
dispieghi una forte tensione, vibri vivace scintilla ec. che farà una
carica forte della boccia, o del conduttore applicatavi egualmente? Non
farà gran cosa di più, per la ragione che tutta quell'elettricità ch'è
superiore in forza alla piccola resistenza che oppone la superficie del
piano, fia persa, trapassando in esso. Ad ogni modo se questo piano
essendo convenientemente preparato, tale resistenza sia discreta, il
disco non se ne staccherà senza vibrare d'attorno dagli orli, comunque
ritondati, fiocchi di luce per la strabocchevole copia di elettricità,
di cui si troverà carico: e a far tanto non sarà neppur necessario
che la boccetta che s'impiega abbia assai forte carica, bastando una
mediocre, e meno che mediocre, tale che appena giunga a dar scintilla.

LI. Da tutto il fin quì detto s'intende facilmente, che se il disco
posato può prendere buona dose di elettricità da una boccia di
Leyden[57], o da un'ampio conduttore, comechè debolissimamente animati,
non lo può in alcun modo da un conduttore poco capace (e come darebbe
questi ciò che non ha?) a meno che non si continui d'altra parte ad
infondere a lui medesimo quella qualunque debole elettricità, a meno
che la sorgente non continui per qualche tempo: il che ha luogo per
esempio nel conduttore atmosferico che bee l'elettricità insensibile
dell'aria, e in quello malissimo isolato d'una macchina ordinaria, il
di cui giuoco vi mantiene una sì debole tensione di elettricità, che in
niun modo appaja. In ambi questi casi abbiamo osservato infatti che vi
vuol del tempo prima che il disco possa raccorre una dose sufficiente
di elettricità.

LII. Come un ampio conduttore trasmette la massima parte della sua
elettricità al nostro disco, il quale quantunque assai più picciolo,
gode però in grazia della sua vantaggiosa posizione, in grazia di
quell'_equilibrio accidentale_ a cui si compone col piano, d'una
_capacità_ molto più grande di quella che gli compete in istato
solitario; e come levando in seguito esso disco in alto, con che
tolto ogni _equilibrio_ o _compenso_, vien ristretto alla naturale
sua angusta capacità, quella stessa dose di elettricità presa al
gran conduttore e che appunto per esser egli sì grande vi producea sì
debole _tensione_, or ne produce una tanto più grande in cotesto disco;
nell'istessa maniera, e per l'egual ragione l'elettricità aumenterà una
seconda volta di tensione facendola passare dal disco già sollevato ad
un altro giacente molto più piccolo, da innalzarsi quindi similmente.

Il Sig. Cavallo, a cui dietro le altre mie sperienze, suggerì
quest'artificio, ha fatto tal picciolo disco d'una laminetta non
più grande d'uno scellino. E certo questo secondo _condensatore_
dell'elettricità è utile in molti casi in cui l'elettricità non è
sensibile ancora o dubbia col primo: come ce ne hanno assicurato varie
prove che facemmo insieme. Talora l'ordinario disco toccato dal corpo,
di cui si dubitava se avesse o no un principio di elettricità, non
movea ancora l'elettrometro sensibilissimo dell'istesso Sig. Cavallo;
ma toccato con quel disco l'altro picciolino, questo facea divergere
sensibilmente le pallottoline dell'elettrometro. Eppure qualche
volta anche con questo non si otteneva nulla, o un'ombra solamente di
elettricità. Or se noi supponiamo la _tensione_ elettrica accresciuta a
1000 volte per l'intervento dei due condensatori, il che non è troppo,
quanto mai debole esser dovea originariamente nel corpo esaminato?
Quanto debole p. e. quella che si eccita in un metallo strofinandolo
colla mano nuda, giacchè communicata al primo grande, e da questo
al secondo picciolo disco, e finalmente all'elettrometro, le palle
appena fan cenno di scostarsi? Ma basta che facciano tanto per esser
noi convinti, che l'elettricità non è nulla, e che il metallo l'ha
originariamente contratta per lo stropicciamento della mano. Quanto
mai eravam lontani da una simile scoperta pochi anni addietro prima
del nostro _Condensatore_, e dell'elettrometro così sensibile del Sig.
Cavallo! Quanti gradi di elettricità noi scopriamo adesso al disotto
del più picciolo d'allora?


APPENDICE.

Ho detto al §. XXVIII. che mi è riuscito finalmente di ottenere
segni distintissimi di elettricità, e dalla semplice evaporazione
dell'acqua, e da varie effervescenze chimiche. Essendo questo un
fatto non meno interessante che nuovo, stimo non inopportuno di
far quì il racconto fedele delle sperienze. Le prime dunque, come
ivi accenno, sono state fatte a Parigi in compagnia di due fisici
illuminati, e membri dell'Accademia R. delle Scienze. Furono questi
il Sig. Lavoisier, e il Sig. De la Place. Eglino concepiron meco
la speranza di un felice riuscimento, quando ebbi loro mostrato gli
effetti del mio _Condensatore_, e spiegata la ragione dei fenomeni;
conseguentemente il Sig. Lavoisier ne ordinò un grande col piano di
marmo bianco. I primi tentativi da me fatti con questo in compagnia
del Sig. De la Place sull'evaporazione dell'acqua, e dell'etere non
furono coronati dal successo; ma il tempo era cattivo, la stanza
troppo picciola, e ingombrata di vapori, e l'apparato non troppo ben
in ordine. All'incontro quelli che ripeterono l'istesso Sig. De la
Place, e Sig. Lavoisier ad una campagna di quest'ultimo ebbero buon
riuscimento. La qual cosa c'invogliò a ripetere e moltiplicar le
sperienze; e il successo fu completo, avendo ottenuto segni chiarissimi
di elettricità dall'evaporazione dell'acqua, dalla semplice combustione
dei carboni, e dall'effervescenza delle limature di ferro nell'acido
vitriolico diluto. Ciò avvenne il giorno 13 Aprile, e la maniera di
far l'esperienza fu questa: si isolò in un'aperto giardino una gran
lastra di metallo, alla quale era attaccato un lungo filo di ferro
che veniva a terminare in contatto dello scudo o disco posato sul
piano di marmo, e questo tenevasi continuamente asciutto, e caldo
da alquanti carboni sottoposti. Ciò fatto ponemmo su la detta lastra
isolata alcuni bracieri ripieni di carboni mezzo accesi, e lasciammo
che la combustione ajutata da un gentil vento che spirava andasse
rinforzandosi per alcuni minuti: allora rimovendo lo scudo dal contatto
del filo metallico, e quindi da quello del marmo, con alzarlo al
consueto modo, vi comparvero i segni aspettati di elettricità, mentre
accostato al nuovo elettrometro del Sig. Cavallo, fece che s'aprissero
i due fili colle pallottoline: esaminata questa elettricità si trovò
essere _negativa_. Si ripetè l'esperienza ponendo sulla lastra isolata
invece dei bracieri quattro vasi con entro limatura di ferro e acqua,
quindi versando in tutti quattro a un tempo abbastanza d'olio di
vitriolo per far sorgere una furiosa effervescenza: quando il più
forte bollore cominciava a cadere, allora fu che rimosso ed esplorato
lo scudo non che movere i fili dell'elettrometro a qualche distanza,
ci diede una sensibile scintilla. Anche quì l'elettricità si riconobbe
essere _negativa_. Quanto furon vivi, e distinti i segni elettrici con
tal prova dell'effervescenza, altrettanto deboli ed equivoci riuscirono
questa volta coll'evaporazione dell'acqua eccitata or con mettere delle
casserole con entro acqua a bollire sopra i bracieri portati come
quì innanzi dalla lastra isolata, ora con versar l'acqua in coteste
casserole previamente ben riscaldate.

Pochi giorni dopo ripetemmo le sperienze in una grande stanza
estendendole alle altre effervescenze che producono l'aria fissa,
e l'aria nitrosa, con buon successo: l'evaporazione sola dell'acqua
produsse segni debolissimi talchè ebbimo pena a determinare di quale
specie fosse l'elettricità; anzi di tre volte, due ci parve che fosse
_positiva_; ma v'è luogo a credere, ed io giudico certamente, che sia
stato un errore.

Ancor passati alcuni giorni si ritornò alle sperienze essendo di
compagnia anche il Sig. Le Roy membro esso pure dell'Accademia
Reale; ma nè la combustione, nè l'evaporazione dell'acqua non dieder
segni sensibili; di che accagionammo l'esser l'aria umidissima per
il tempo piovoso che faceva. Pur ne ottenemmo colla generazione
dell'aria infiammabile nel momento della più viva effervescenza: e
se l'elettricità non fu questa volta così forte da scintillare, lo fu
abbastanza perchè ne distinguessimo chiarissimamente la specie, che era
_negativa_.

Prima di lasciar Parigi (che fu il 23 Aprile) volendo io mostrare
qualche sperienza di questo genere ad un'amatore di elettricità, e
valente macchinista, il Sig. Billaux, una volta che mi trovai nel suo
laboratorio, presi una giara di vetro, e sospesala a un cordoncino di
seta, vi misi i materiali per la produzione dell'aria infiammabile:
avea fatto entrare nella giara medesima un filo di ferro in modo
che toccasse la limatura, e l'altro suo capo sporgente venisse a
comunicare coll'elettrometro sensibilissimo del Sig. Cavallo. Quando
l'effervescenza fu salita al sommo, e la spuma sormontava i labbri del
vaso, le palle scostandosi, dieder segno di elettricità; nè questa fu
così debole, che non potesse conoscersi esser _negativa_.

Le sperienze coll'evaporazione dell'acqua, che non avean troppo bene
corrisposto a Parigi, ebbero poco tempo dopo molto miglior successo a
Londra, quando mi suggerì l'espediente di gettare dell'acqua sopra i
carboni accesi ch'erano in un braciere isolato. L'effumazione rapida
che succede non manca mai di elettrizzare il braciere _negativamente_,
il quale dà segni abbastanza sensibili col solo elettrometro, e
col condensatore, se è ben preparato, arriva a produr scintille. Si
trovarono presenti la prima volta a queste sperienze in casa del Sig.
Bennet grand'amatore di elettricità, l'Ab. Magellan, il Sig. Cavallo, e
il Sig. Kirwan membri della Società Reale, e il Sig. Walker Lettore di
Fisica. Ci servimmo per apparecchio condensatore di un picciolo scudo
d'elettroforo, e d'un piattello di legno, che si trovò al giusto punto
semicoibente, il che è raro quando il legno non è inverniciato.

Un'altra volta in casa del Sig. Cavallo riuscì l'esperienza isolando
un picciolo crogiuolo con entro due o tre carboni accesi, e quindi
versandovi un cucchiaio d'acqua: un filo di ferro che toccava i
carboni, ed estendevasi fino all'elettrometro, vi portò sensibile
elettricità, e sempre _negativa_.

Queste sono le sperienze, che fino ad ora ho avuto occasione di
fare[58]; intorno alle quali non debbo tralasciar di dire, che sebbene
non avessimo sempre bisogno dell'apparecchio _condensatore_ (il quale,
se non è benissimo in ordine, a nulla serve, e può nuocere anzichè
giovare) per aver segni non dubbj, il solo elettrometro sensibilissimo
del Sig. Cavallo avendoci bastato più volte: convien però confessare
che si fu quell'apparecchio che ci mise sulla via di tali sperienze,
e che col mezzo suo solamente potemmo ottenere segni di una certa
forza, e fin la scintilla elettrica. Io non dubito che essendo ora
rese così facili tali sperienze, non siano per essere, e ripetute, e
promosse. Il campo è solamente aperto, e molto resta ancora a fare.
Se i corpi risolvendosi in vapori o in un fluido elastico si caricano
di fuoco elettrico a spese degl'altri corpi, e gli elettrizzano per
conseguenza _negativamente_; venendo in seguito i vapori medesimi
a condensarsi, non cercheranno essi di deporre questo carico, e non
produrranno conseguentemente segni di elettricità _positiva_? Ecco ciò
che merita singolarmente d'essere verificato coll'esperienza. Io ho
già immaginato diversi modi di tentare la cosa che metterò alla prova
tosto che ne abbia il comodo. Intanto mi sia quì permesso di dar corso
per un momento all'idee che volgo in mente intorno all'elettricità
atmosferica.

Le sperienze fatte fin quì, e che abbiamo riferite, benchè non sian
molte, tutte però concorrono a mostrarci che i vapori dell'acqua, e
generalmente le parti d'ogni corpo, che si staccano volatilizzandosi,
portano via seco una quantità di fluido elettrico a spese dei corpi
fissi che rimangono, lasciandoli perciò elettrizzati _negativamente_,
non altrimenti che ne portan via una quantità di fuoco elementare, con
ciò raffreddandoli. Quindi vuolsi inferire che i corpi risolvendosi in
vapori, o prendendo l'abito aereo, acquistino una maggiore capacità
rispetto al fluido elettrico, giusto come l'acquistano maggiore
rispetto al fuoco comune o fluido calorifico. Chi non sarà colpito da
così bella analogia, per cui l'elettricità porta del lume alla novella
dottrina del calore, e ne riceve a vicenda? Parlo della dottrina del
calor _latente_ o _specifico_, come si vuol chiamare, di cui Black, e
Wilke colle stupende loro scoperte han gettato i semi, e che è stata
ultimamente tanto promossa dal D. Crawford dietro le sperienze del D.
Irwine.

Seguendo questa analogia, siccome i vapori allorchè si condensano,
e ritornano in acqua, e conseguentemente alla primiera più angusta
capacità, perdono il lor calore _latente_, ossia depongono il di
più di fuoco che si avevano appropriato volatilizzandosi; così pure
manderan fuori il fluido elettrico divenuto ora ridondante. Ed ecco
come nasce l'_elettricità di eccesso_, che domina sempre più o meno
nell'aria anche serena, a quell'altezza in cui i vapori cominciano
a condensarsi; la quale è più sensibile nelle nebbie, ove quelli si
condensano maggiormente; e infine fortissima laddove le folte nebbie si
agglomerano in nubi, e già si figurano in goccie. Fin quì l'elettricità
dell'atmosfera sarà sempre _positiva_. Ma formata che sia una nube
potentemente elettrica _in più_, ella avrà una sfera di attività
intorno ad essa, nella quale se avviene ch'entri un'altra nube,
allora giusta le note leggi delle _atmosfere_, gran parte del fluido
elettrico di questa seconda nube si ritirerà verso l'estremità più
lontana dalla prima, e potrà anche uscirne ove incontri o altra nube, o
vapori, o prominenze terrestri che lo possan ricevere: ed ecco una nube
elettrizzata _negativamente_, la quale potrà a sua posta occasionare
coll'influsso della propria atmosfera l'elettricità _positiva_ in una
terza, ec. in questa maniera s'intende benissimo come si possano avere
sovente ne' conduttori atmosferici segni di elettricità _negativa_ a
cielo più che coperto; e come ne' temporali specialmente, ove molte
nubi si veggono pensili, e staccate vergere al basso, e or ondeggiare
per qualche tempo, ora scorrere le une sotto le altre, or trasportarsi
rapidamente, l'elettricità cambi più volte, e spesso a un tratto da
_positiva_ in _negativa_, e vice versa.

Or anche non fia più stupore, che l'eruzioni de' vulcani, siano state
sovente accompagnate da fulmini: in ispecie quella strepitosissima del
Vesuvio dell'anno 1779, in cui infinite saette si son vedute guizzare
entro gl'immensi globi di fumo. Le poche sperienze fatte mi han dato
a vedere che la quantità di elettricità prodotta dalle effumazioni,
dipenda molto e dalla copia de' fumi che s'alzano, e singolarmente
dalla rapidità. Or quale e quanta non dee essere l'elettricità in
simili eruzioni?

  _Fine della Parte I. del Tomo I._



INDICE

DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTA

PARTE PRIMA DEL TOMO PRIMO


  _De Vi Attractiva Ignis Electrici ad Joannem
  Baptistam Beccariam. Dissertatio Epistolaris_            Pag. 1

  _Novus ac simplicissimus Electricorum tentaminum
  apparatus etc. _                                             61

  _Lettere sull'Elettroforo perpetuo_                         103

  _Sopra la capacità de' Conduttori Elettrici.
  Lettera al Sig. De Saussure_                                165

  _Del Condensatore. Memoria letta alla Società
  R. di Londra_                                               219

   [Illustrazione: T. I. — Tav. I.]

   [Illustrazione: T. I. — Tav. II.]



NOTE:


[1] Parad, c. 2. v. 96.

[2] Nuovi Commentarj dell'Accademia di Pietroburgo, T. 7.

[3] Trans. Filosof. di Londra dell'an. 1759.

[4] Mem. dell'Accad. di Parigi an. 1761. p. 248.

[5] Miscellan. Taurin. T. 3.

[6] _Dissertatio epistolaris de attractione ignis electrici_ etc., che
è la prima della presente collezione.

[7] Ivi pag. 34.

[8] Ivi T. 1. Par. 1. pag. 165.

[9] Questa lettera è la prima della presente collezione accennata di
sopra.

[10] Elettr. Art. §. 134.

[11] »Je verrai avec bien du plaisir votre nouveau système sur les
causes de l'électricité, quand vous le ferez paroître: je serai
surpris, si vous tirez de l'attraction Newtonienne des explications
physiques des phénomènes de ce genre; il me semble, qu'en laissant
subsister les loix, qu'on attribue à cette espèce de vertu, il est
bien difficile de rendre raison des principaux faits: personne jusqu'à
présent n'a osé l'entreprendre; il sera glorieux pour vous de l'avoir
fait avec succès«.

[12] Plurima congessit Musschembroekius _Essai de Physique_. Vide etiam
_Nouveau Cours de Chymie selon les principes de Newton, et de Sthal_.

[13] Theoria Philosophiae Naturalis ad unicam legem redacta virium in
Natura existentium.

[14] Censeo ego quidem concursum ferri et magnetis a principio
attractionis pendere, contendant licet plurimi impulsu fieri
effluviorum magneticorum.

[15] Haec fuerunt argumenta, quae pro vi attractiva ignis electrici
primo mihi se obtulerunt, quaeque ad theoriam vitrorum me deducebant,
cujus specimen jam ab anno 1763 exhibui Nolleto. Res erat tunc quidem
male digesta: nam nihil ferme adduxeram, praeter exemplum magnetis, cui
maxime insistebam.

[16] Cum ea, quae puteo in apertura redacto consequuntur pervidere
juvat, experimentum ego similiter, ac Tu faciebas, instituo in tubo
charta crassiori inaurata conflato, cujus chartae ita involutae limbos
staminibus sericis distraho, atque ad planam superficiem distendo.

[17] Haec etiam in tibiali serico optime eveniunt etc.

[18] Quest'Operetta fu dedicata dall'Autore al celebre Spallanzani, a
cui pure inviò una piccola macchina elettrica con disco ed isolatori di
legno ben tostati.

[19] In Lectionibus Physicae experiment. tom. VI. lect. XX. pag. 188.
Italicae edit.

[20] L'Autore mi ha avvisato con lettera che qui converrebbe fare una
correzione, ed è: quando scrisse quest'Opuscolo guidicò dalla citata
lezione di Nollet che Ammersino non avesse conosciuto che i legni
fritti nell'Olio divenissero ancora _Idiolettrici_ eccitabilissimi.
Alcuni anni dopo però venne in cognizione che il detto Ammersino avea
sì bene conosciuta questa proprietà, che intitolò la sua Operetta _De
Electricitate ligni_.

[21] Pag. 27, et seq.

[22] Dissert. de vi attract. ignis elect. pag. 31.

[23] Contingit etiam ut paucis aestivis diebus in deterius abeant
ligna, quae per hiemem ad plures menses integra virtute servantur.

[24] Carbones inter haec corpora ii sunt, qui majorem picis dosim
requirunt.

[25] Phaenomenum hoc _aurae electricae_ nullibi probe expensum, ut
meretur, inveni. Ego quidem jam olim ex lege motuum electricorum illud
repetere non dubitavi. Nolleto enim contendenti hanc _auram_ verum
esse effluxum ignis e corpore electrico, atque hoc ipsum obtrudenti,
ut evinceret e corporibus, quae apud nos sunt electrica _defectu_,
ignem effluere, non secus ac a corporibus electricis _excessu_,
siquidem ut in his, in illis _aura_ persentitur, hoc, inquam. Cl. Viro
objicienti respondebam: nullatenus esse ipsum ignem qui cutem impactu
suo titillat; verum aerem legi motuum electricorum obtemperantem
hoc praestare: quod sane innuit sensus ipse, quem in cute percipimus
ventuli nempe lenis frigidiusculi admota manu cuspidi catenae fortiter
electricae, vel admoto ori tubo nuper perfricato cujusdam titillationis
illi non absimilis, quam persentimus cum levis aranea ori impingit.
Quod si _aura_ verus esset ignis electrici effluxus, an censemus leni
illo ac ferme cunctanti motu procederet, ac cutem veluti lamberet
fluidum istud actuosum, ac ultra captum tenuissimum, cujus ingenium est
et vis corpora, ut est manus, _deferentia_ quam celerrime permeare?

[26] Consulatur Dissert. de vi attract. ignis elect. pag. 18 et seq.

[27] Ibid.

[28] A pag. 26 ad pag. 31.

[29] Pag. 33 et seq. et pag. 46 ad pag. 57.

[30] Dissert. de vi attract. pag. 19, 20.

[31] _Aquam gummatam_ vocum egestate usurpo pro eo quod nobis est
vernice.

[32] Estratto dai Vol. 9.º e 10.º della Scelta d'Opus. di Milano.

[33] (Beccaria §. 939 Elettricismo artificiale), (pagina 196
Elettricismo naturale) il Tomo 7. de' nuovi Commentari di Pietroburgo.
Beccaria Observat. atque exper., quibus Electricitas vindex late
constituitur, atque explicatur.

[34] Dell'Elettricismo artificiale, 1772, pag. 404 e seg.

[35] Si propone di dare in una Memoria a parte il dettaglio di varie
delicate sperienze con le combinazioni non che d'una lastra, e dello
snudamento d'una faccia, ma di ambe le faccie sì d'una lastra che
di due. Per questo ho trovato ultimamente potermi valere di lastre
di vetro intonacate di mastice; giacchè anche con esse ottengo la
maravigliosa durevolezza de' segni. La Memoria tratterà _dell'Azione
dell'Atmosfere Elettriche, e de' fenomeni che ne derivano negli strati
isolanti_.

[36] Estratti dai Vol. 12º, e 14º della Scelta d'Opuscoli di Milano.

[37] La presente lettera fu dall'autore scritta in Francese, ed è
riportata (tradotta in Italiano) nel Vol. 20 della Scelta d'Opuscoli di
Milano pag. 32.

[38] Il P. Beccaria nella grande sua Opera dell'Elettricismo
Artificiale 1772 n. 953 propone le seguenti questioni. «I. Quando
stropiccio un nastro sopra di un piano, e dopo lo stropicciamento
gli resta aderente, ritiene egli in tale stato l'Elettricità sua,
ovvero la smarrisce in esso, e non ritiene che la disposizione di
ripigliarla quando ne è disgiunto? II. Quando il nastro bianco, o
nero per l'attuale elettricità contraria, cui hanno, volano ad unirsi
l'uno, all'altro, o quando uno di essi vola ad unirsi alla tavola,
al muro ec., ritengono essi in tale stato di adesione le attuali
loro elettricità, ovvero vogliamo dire, che le smarriscano, e che
non ritengano che la disposizione di riacquistarle nell'attuale
disgiungimento?» Prosiegue n. 954. «Pare, che siasi opinato, che
gl'isolanti elettrizzati condotti al detto stato di adesione ritengano
le attuali loro elettricità; e ognuno ha dovuto tanto più facilmente
condiscendere a tale opinione, quantochè la particolare adesione
non insorge tra un corpo isolante, e un altro isolante, o tra un
corpo isolante, e uno deferente, se non in quanto gl'isolanti sono
attualmente elettrizzati; sicchè l'adesione particolare permanente pare
un indicio della permanente elettricità. Oltrechè la elettricità, che
si osserva di nuovo dopo il disgiungimento, pare, se non si facciano
altre considerazioni, che ne addimandi la permanenza nello stato di
adesione.»

Queste infatti sono le ragioni ch'io avea esposte, e incalzate nella
già nominata dissertazione _De vi attractiva ignis electrici_, per
sostenere la permanenza d'una dose di elettricità ne' _coibenti_ nello
stato di adesione, e conseguentemente nelle lastre dopo la _scarica_:
alle quali ragioni aggiugneva pur quella della difficoltà, e lentezza
di moto, con cui, sebbene sbilanciato entra o esce il fluido elettrico
ne' detti corpi coibenti, per condursi al naturale equilibrio; a cui
perciò non può giugnere, che dopo lungo tratto di tempo. Il P. Beccaria
non ha creduto per tante ragioni addotte dover recedere dall'opinione
sua, ma contrapponendone altre a suo giudizio di maggior peso, che
vien esponendo dal n. 955 al 960, ha conchiuso novellamente: «I. Che
gl'isolanti elettrizzati nel passare allo stato di adesione smarriscono
l'attuale loro elettricità. II. E che nell'atto del disgiungimento
la ripigliano». Ora studiandomi io di ribattere queste sue ragioni,
mi fermai singolarmente intorno alla prima, la risoluzion della
quale credetti bastar potesse a decider la questione. Ecco come da
lui si propone. «Primamente io osservo che nell'atto che al bujo
disgiungo un nastro da un tavolino, sopra cui l'ho stropicciato, nè
successivi luoghi del progressivo disgiungimento appare un solco di
luce, in conseguenza del quale ogni parte ultimamente disgiunta dà
già i convenienti segni di elettricità a differenza della parte, che
resta ancora aderente, la quale, fintantochè resta aderente, non dà
niunissimo segno. E però il detto solco, cui ho osservato anche ne'
successivi disgiungimenti, a me vale di prova significantissima della
elettricità, che il nastro dopo lo stropicciamento aveva dismessa
nel deferente piano, e che nell'atto dello stropicciamento (deve dir
_disgiungimento_) sta ripigliando» Egli opina adunque (facciam il caso
più determinato, ed esperimentiamo sopra un quadro di vetro; giacchè
conviene egli nello stabilire n. 964. «Che la legge della elettricità
vindice nelle lamine isolanti compatte, v. g. nelle lastre di cristallo
generalmente è la stessa, che la legge della elettricità vindice ne'
corpi isolanti rari, v. g. ne' nastri») che quando la faccia del vetro
è elettrica _in più_, e le si applica la sua _veste_, ossia una sottil
lamina metallica, vi deponga realmente tutta la sua elettricità, cioè
il fuoco ridondante, che poi venga a ripigliare dalla veste medesima
nell'atto del disgiungimento; in conseguenza, che i tratti di luce, che
ne spuntano seguano lo scorrimento del fluido elettrico dalla detta
_veste_ alla faccia del vetro snudata. Non poteva egli altrimenti
conchiudere ne' suoi principj: io conchiuder doveva l'opposito ne'
miei. Stabilendo io, che la faccia isolante del vetro sebben applicata
alla lamina metallica non deponga già tutto il fuoco ridondante,
ma ne ritenga buona parte; che perciò miri a scacciare altrettanto
di nativo dalla stessa lamina, onde ottenere, in luogo del vero, ed
assoluto equilibrio (che non le si dà per l'impedito moto del fluido
incappato dirò così nelle parti del vetro medesimo) un supplemento a
questo, o, come amerei chiamarlo, un _equilibrio di compenso_; che indi
nasca l'adesione della veste colla faccia del vetro, l'azione tutta
rivolta indentro, e la niuna apparenza de' segni al di fuori ec.; che
in una parola, divenga la veste elettrica _per difetto_, mentre la
faccia del vetro persevera ad esserlo _per eccesso_, standosi unite:
stabilendo, dico, tali principj ne veniva in seguito, che la luce, che
appare per lo snudamento, debba essere luce del fluido che scorre dal
vetro elettrico _in più_ alla lamina elettrica _in meno_. In mio senso
adunque que' discorrimenti di luce non dinotano l'elettricità, che
estinta già, venga di bel nuovo ad indursi; ma sibbene la permanente,
ed attuale nella faccia del vetro con la contraria nella veste, che
scappa in parte, e si dissipa.

Fra queste contrarietà il fatto semplicemente dovea decidere; e ben
mi parve, che il solo contemplar attentamente la forma, che veston
que' tratti di luce bastar potesse a por la cosa in chiaro. Osservai
difatto, che caricata una lastra di vetro, e scaricatala, nell'atto
indi di alzar con fili di seta la laminetta metallica, che vestiva la
faccia _ridondante_, i piccoli getti di luce non avevan più la figura
di _fiocchi_ spandentisi dalla lamina al vetro (come esser dovrebbono
nella supposizione del P. Beccaria), ma quella anzi di luce affluente
alla stessa veste, con apparire più che altrove distintissime le
_stellette_ agli orli, e sugli angoli di essa. Il contrario accadeva
snudando l'altra faccia _deficiente_ del vetro; la foglietta metallica
divenuta nella scarica, secondo i miei principj, elettrica _in più_
tostochè alzavasi spandeva d'attorno bellissimi _fiocchi_. Fui dunque
sicuro non per conseguenza solo de' meditati principj, ma per dirette
osservazioni, e prove di fatto, che la faccia della lastra all'atto
dello snudamento non ripigliava il suo primo fuoco _ridondante_ a spese
dirò così della veste, che anzi questa ne tirava a se per rifarsi d'un
già sofferto spogliamento (il contrario s'intende nello snudamento
della faccia _difettiva_): che dunque la luce trallo disgiungimento
mirava non già ad indurre elettricità in ambedue, bensì a dissipar la
esistente, segnatamente quella della veste. Allora conchiusi, che ove
trovassi mezzo di sofocare, od impedire in molta parte questa luce,
che vuol dire un cotal disperdimento di elettricità, ottenuta l'avrei
più vigorosa nella veste separata, e di tanto appunto più vigorosa,
quanto a minor effusione di luce fosse lasciato luogo. Il mezzo mi
suggerì ben tosto, come era ovvio: si trattava di scansar ogni angolo
nell'armatura, essendo dagli angoli, e dalle punte singolarmente,
che scappa l'elettricità: tanto ho io praticato, surrogando alle
sottili lamine metalliche per armatura quella foggia di _scudo_
convenientemente grosso ben ritondato, e forbito.

Or l'evento respondendo per intiero all'aspettazione, nuovamente, e
invincibilmente confermò l'opinion mia: che l'atto dello snudamento
non va inducendo elettricità, piuttosto ne eccita a dissiparsi;
che in conseguenza quella, che mostrano respettivamente contraria
la faccia _isolante_, e l'_armatura_ separate, l'aveano già prima
stando unite; che finalmente nell'isolante è parte della stessa,
e propria sua elettricità, di quella cioè, che regnava prima della
scarica (onde pare, che converrebbe di chiamarla col termine piano
di _permanente_, anzichè con quello più specioso che proprio di
_vindice_); nell'armatura si è l'elettricità contraria indotta mercè
del toccamento, o scarica, per l'azione appunto di quella _permanente_
intesa a portare tal fatta di equilibrio, che son venuto a distinguer
col nome di _equilibrio per compenso_. Ma non è quì luogo di stendermi
intorno a questo fecondissimo principio, che abbraccia quello delle
_atmosfere elettriche_, anzi è lo stesso in fondo, e che verrò
ampiamente svolgendo, e confermando nella memoria già da qualche tempo
promessa.

[39] «Un corpo (diceva io), che lo strofinamento ha reso elettrico, è
un corpo, in cui la dose di fuoco elettrico è alterata, e che si sforza
continuamente di ristabilirsi. Si conviene generalmente, che questo
sforzo sia corrispondente alla quantità di fuoco tolto, od accresciuto;
ma io vado più innanzi, e sostengo aver'altresì un rapporto colla
costituzione del corpo medesimo. E non si ha egli fondamento di
supporre, che quanto più un corpo avrà di elaterio, di solidità, che
è quanto dire più parti riunite, le quali reagiscano contro un dato
grado di elettricità, tanto più presto giugnerà a scuoterla di dosso,
e a liberarsene? In questa supposizione, e per tal verso ben si vede,
che il vetro la vince sopra ogn'altro corpo elettrico, come resine,
legno tosto (di cui ora parliamo) seta ec...... Lo sforzo, che fa
il vetro per vomitar in seno del conduttore il fuoco, onde tende a
disfarsi è il più vivo, ed energico...... per breve che sia il tempo
in cui sta a fronte del Conduttore, troppo v'incalza di scaricarsi di
questo fuoco; per non isgorgarne una quantità considerabile...... la
quantità del fuoco posto in moto negli altri corpi (legni, resine ec.)
è spesse fiate più grande, ma questo moto è men vivo, e pigro anzichè
no...... In questa inerzia, se mi è lecito dir così, che hanno tai
corpi di cacciar fuora, e comunicare ad altri la loro elettricità, io
trovo la spiegazione di alcune altre particolarità molto considerabili:
a cagion d'esempio come un cilindro di legno tosto, un bastone di
ceralacca strofinati, sebbene attirino una leggier foglia in distanza
assai più grande, che non fa un bastone di vetro, non s'affrettino poi
di rispignerla, ne con tanta vivacità, come si fa da esso vetro: come
togliendo, e riponendo alternativamente le armature a una lastra di
legno, o di resina dopo la scarica, le vicende dell'elettricità, che si
è chiamata _vindice_, si protraggano a più lungo tempo, e i segni non
s'estinguano che assai lentamente».

Queste idee potran sembrare ardite, e non abbastanza sviluppate;
confesso io pure, che non rendono adequatamente ragione della
prodigiosa differenza, che passa tra le resine, e il vetro, rispetto
alla virtù di ritenere l'elettricità: in questo ordinariamente non si
mantiene che pochi minuti, in quelle non giorni, ma settimane, e mesi.
Ciò nondimeno le ho volute quì recare, per esser quelle idee che mi
han messo sulla via di giugnere a farmi padrone d'un elettricità, che
ho potuto a buon dritto chiamare _indeficiente_. Ad assegnare però la
compiuta ragione della succennata differenza, altro non rimane, che
di far conto dell'umido, e della grande affinità che ha con quello
il vetro, laddove pochissima ve n'hanno i corpi resinosi. Ma come? Se
anche appannata coll'alito della bocca, o col vapore di acqua bollente
la faccia della resina punto, o poco smarrisce della sua elettricità;
quando al contrario il vetro spogliato ne viene senza pur contrarre
visibile appannamento? Non importa: ho detto, doversi far conto
dell'umido, e dell'affinità del corpo elettrico con questo umido: quì
sta il forte. Nella memoria, che sto preparando verrò a rischiarare
questo punto importante: quì solo dirò essermi accertato con esperienze
dirette, che il vetro può trovarsi in circostanze di mantenere a più
giorni l'elettricità, e quel ch'è più, di non lasciarsela involare
tampoco dall'alito della bocca, che lo appanni visibilmente, appunto
come un simile appannamento non l'invola alle resine.

[40] Lettre d'un Abbé de Vienne a un de ses amis de Presbourg sur
l'Electrophore perpetuel. Vienne 1775.

[41] Questa lettera è stata estratta dal T. I. degli Opuscoli scelti di
Milano.

[42] Osservò Franklin che alcuni fili annessi al catino i quali per
l'elettricità indottavi aveano acquistato un certo grado di divergenza,
l'andavan mano mano perdendo a misura che egli traeva fuori per
mezzo di un cordoncino di seta, e distendeva la catena che trovavasi
prima ammucchiata nel catino; e conchiuse quindi giustamente, che
l'elettricità andava così diradando mercè del propagarsi via via
dalla superficie del catino a quella della catena a misura che questa
svolgevasi: ed in tale spiegazione fu viepiù confermato dal vedere
che lasciata cadere di bel nuovo ad ammucchiarsi la catena in seno al
catino invigoriva la divergenza de' fili; segno evidente, che soppressa
la superficie della catena la porzione di elettricità che toccata le
era, ricorreva ad addensarsi tutta sulla superficie sola del catino.

[43] _Dissertatio de Electricitate_ etc. _Genevae_ 1766.

[44] Comecchè sia più che sufficiente la prova di calare profondamente
nella cavità del pozzo elettrizzato un corpo qualunque perfettamente
isolato (si adopera comunemente un cilindro di carta dorata appeso
ad un fil di seta, e si chiama _secchia_) il quale tuttochè venga a
toccare o il fondo o le pareti giù verso il fondo del pozzo, non ne
tragge la più piccola scintilla, e non ne riporta punto di elettricità;
a me piace più, ed è più palpabile quest'altra prova: accosto la
secchia pendente dal filo ad un lato esteriore del pozzo, o all'orlo,
e veggo che ne trae una scintilla, e capisco che l'elettricità si
comparte dal pozzo alla secchia in ragione delle respettive capacità.
Allora immergo la secchia così elettrizzata nella cavità del pozzo fin
verso il fondo, e vedo che là torna a vomitare la scintilla restituendo
al pozzo l'elettricità da esso poc'anzi ricevuta; infatti tratta fuori
la secchia, trovo che ha smarrita ogni elettricità. Un sol grado
non ne vuol dunque stare nell'interiore dei corpi; ma tutta quanta
l'elettricità si porta, e si raccoglie sulla faccia esteriore.

[45] Questo sperimento veramente originale è riportato, e spiegato
nell'Opera profondissima di Epino (_Tentamen theoriae electricitatis,
et magnetismi_) pubblicata già venti anni addietro, ma molto rara; che
ho avuto occasione una volta sola di scorrere rapidissimamente; e che
ardisco dire non sembra abbastanza conosciuta o intesa dalla più parte
dei Fisici che hanno scritto in appresso sull'Elettricità.

[46] Dopo scritta la prima parte di questa lettera, e terminata quasi
la seconda, scorrendo la Storia dell'elettricità di PRIESTLEY, mi sono
avvenuto in alcuni passi nei quali l'osservazione del vantaggio che ha
un Conduttore, di cui la superficie è estesa molto in lungo, sopra un
Conduttore che ne ha un'eguale ma meno in lungo esteso, e più in largo,
è toccata più che leggermente. Il passo più formale è il seguente
«Io devo quì osservare, che il Sig. MONNIER, il giovine scoprì, che
l'elettricità non si comunica ai corpi omogenei in proporzione della
loro massa, o quantità di materia, ma bensì in proporzione della loro
superficie, e che tutte le superficie eguali non ricevono un'eguale
quantità d'elettricità; ma quelle ne ricevono di più che sono estese
in lunghezza. Così, per esempio, un piede quadrato di stagno, riceveva
molto minore quantità d'elettricità che un bastoncello dello stesso
metallo, che avesse una superficie eguale a quella del piede quadrato».
Phil. Trans. Abridg. V. X. pag. 309, PRIESTLEY hist. of. Electr. Part.
I. Per. VIII. Sect. II. Se pertanto debbo riconoscere d'aver detto
troppo poco coll'insinuare, che di tale scoperta _qualche cenno_
solamente ne avea potuto dare _taluno_, credo d'altra parte aver
detto giusto col soggiugnere che _lungi è bene che la cosa sia stata
posta nel lume che merita_. Quando dunque mi si conceda d'averle io
dato il suo giusto lume, o almeno un nuovo aspetto, avrò pur fatto
qualche cosa: avrò schiarita, e promossa una scoperta che diviene,
e per la teoria, e per la pratica interessante. Mi lusingo d'aver
dimostrato che tal fenomeno dipende dall'azione delle atmosfere
elettriche; alla teoria delle quali ho condotto omai i principali
capi di tutta la teoria elettrica; come a suo tempo farò vedere.
Certamente nè WATSON, nè MONNIER, nè altri che ha parlato comechessia
del vantaggio di prolungare i Conduttori piuttosto che ingrossarli,
hanno motivata la spiegazione ch'io dò dedotta dall'azione delle
atmosfere elettriche. V'ha, se ben mi ricordo, chi si è argomentato
di spiegare la forza maggiore cui giugne l'elettricità ne' Conduttori
lunghi colla legge generale dei fluidi, che esercitano sopra una data
base maggior pressione in ragion che cresce l'altezza della colonna.
Ognun vede quanto una tale spiegazione idrostatica, ed altre consimili
che si siano ideate puramente meccaniche, son lontane dalla mia.
Finalmente dee pur convenirsi, che poco o niun caso si è fatto fin
quì della scoperta di cui parliamo, quando si riflette come si sono
attenuti generalmente i Fisici elettrizzanti ai grossi cilindri, e
sfere per i loro gran Conduttori: al qual uso raccomando io in oggi
i lunghissimi, e discretamente sottili, e mostrandone palpabilmente
i tanto considerabili vantaggi per via di esatti confronti, e troppo
decisi resultati, e coll'esempio del mio gran Conduttore formato d'una
serie di bastoni inargentati di 96 piedi di lunghezza, potrò lusingarmi
d'avere, dopo promossa la teoria intorno alla capacità de' Conduttori,
giovato eziandio alla pratica.

[47] Veggasi Giorn. di Rozier, Febbrajo 1777, secondo problema di
Fisica sopra l'Elettricità.

[48] Questa Memoria è stata estratta dal Tomo 72. P. 1. delle
Transazioni filosofiche di Londra (1782).

[49] Come ciò segua si spiegherà nella 2.ª parte di questa Memoria.

[50] È stato creduto per molto tempo che il calore, e molto più
la liquefazione del solfo, e delle resine, bastasse senz'altro ad
eccitarvi l'elettricità. Ma tranne la _tormalina_, ed alcune altre
pietre, che sì veramente concepiscono l'elettricità pel solo calore, le
resine, e il solfo non è mai che lo facciano, se loro non sopravvenga
qualche stropicciamento, o tocco almeno d'altro corpo. L'errore è
nato come ha avvertito il P. Beccaria con altri, da che ogni legger
tocco della mano, o di checchè altro può bastare in tali circostanze
favorevoli. Senza questo la materia fusa abbandonata a se stessa nel
rapprendersi e dopo, tanto è lungi che contragga alcuna elettricità,
che anzi perde quella qualunque che per sorte aver potesse prima della
fusione, come le nostre sperienze ci assicurano. Nè fia maraviglia;
giacchè tutti i corpi coibenti per un forte grado di calore divengono
conduttori; e i corpi resinosi in ispecie lo sono già, quando si
trovan molto rammolliti, e molto più allorchè cominciano ad entrare in
fusione.

[51] A questo proposito non debbo omettere, che ne' pochi giorni
in cui m'applicai a spiare l'elettricità atmosferica col soccorso
del _condensatore_, non son rimasto senza buon frutto raccorne. Il
Sig. Canton, ed altri assicuravano di aver ottenuto dall'apparato
atmosferico de' segni elettrici più vivi dell'ordinario in tempo di
qualche aurora boreale; ma molti de' fisici non sono persuasi ancora
che l'elettricità influisca in queste meteore, e alcuni lo negano
apertamente. Io stesso ne dubitai moltissimo: ora però parmi la cosa
certa, e posso dire d'averla veduta, e toccata con mano. In quella
bellissima aurora comparsa nella notte dei 28 ai 29 Luglio dell'anno
1780 quando salendo a poco a poco dall'orizzonte fu ascesa tra le
4, e le 5 ore Italiane allo zenit, spargendo tutt'all'intorno un
vaghissimo lume rossigno, il cielo altronde essendo sereno, e ventoso,
si ottennero coll'ajuto dell'apparecchio condensatore da un conduttore
atmosferico ordinario (posto in casa di un mio amico, e dilettante
di Fisica il Sig. Canonico Gattoni di Como) molte belle scintillette
chiare, e crepitanti; quando in tutti gl'altri tempi sereni, e in ogni
ora del giorno, e della notte dall'istesso conduttore, e coll'ajuto
dell'istesso condensatore o non ottiensi scintilla o minutissima
soltanto; e ciò perchè quel conduttore atmosferico non è alto molto; nè
molto ben situato.

[52] Veggasene la descrizione nel suo _Trattato completo di Elettricità
teorica, e pratica, con sperimenti originali_, tradotto dall'Inglese.
Firenze 1779 parte IV, pag. 431.

[53] Vedi il suo trattato, cap. VI. p. IV. pag. 494.

[54] Vedasi la prima memoria latina, della presente collezione dalla
pag. 22 alla pag. 25.

[55] Suppongo quì che siano eguali tra loro i gradi dell'Elettrometro,
voglio dire che segni ciascuno un'eguale quantità di elettricità, in
quella maniera che ciascun grado di un buon Termometro di mercurio
segna un egual addizione di calore. Nel _quadrante elettrometro_
del Sig. Wenly che è il migliore di quanti elettrometri si sono mai
immaginati, e ch'io ho in qualche parte perfezionato, la divisione de'
gradi fatta col compasso non è altrimenti giusta; ma ha bisogno di una
correzione intorno a che mi sono non poco applicato con un successo
maggiore anche di quello che avrei potuto sperare. Penso ora a rendere
tale strumento del tutto _comparabile_: al che se giungo, come ho
luogo di sperare, non tarderò guari a pubblicarne la descrizione in
un colle osservazioni necessarie per ben servirsi in generale degli
elettrometri, ed in particolare di questo mio.

[56] Questa spiegazione bene intesa ci conduce a render ragione in
generale della _virtù delle punte_. A parlar giusto una punta non
isolata, presentata a un corpo elettrico non ha alcuna virtù propria
per attirarne l'elettricità, ella si comporta semplicemente come un
conduttore non isolato che non oppone resistenza al passaggio del
fluido elettrico. Se il medesimo conduttore presenta al corpo elettrico
invece della punta una palla od una superficie piana, non oppone già
egli per questo maggiore resistenza; onde è dunque che l'elettricità
non vi si getta egualmente all'istessa distanza dal corpo elettrico?
Ciò viene dall'indebolita _tensione_, ossia azione elettrica di
cotesto corpo in virtù della più larga superficie presentatagli da
quel conduttore non isolato, la quale superficie componendosi ad
un'elettricità contraria, offre maggior _compenso_ che una punta,
come si è quì sopra spiegato. Adunque in luogo di dimandare perchè una
punta tragga, o getti sì da lungi l'elettricità, dovrebbesi domandare
piuttosto perchè una palla o un piatto egualmente conduttore non
lo facciano: allora io farò osservare che non è già un difetto di
questa palla, o di questo piano, come non è una virtù propria della
punta che metta tale, o tanta differenza; ma bene lo stato del corpo
elettrico e della sua atmosfera (con cui intendo anche l'aria che lo
circonda _attuata_ ad una tensione di elettricità omologa) il quale
decade dalla sua forte tensione a proporzione che s'immergono in detta
sua atmosfera, e si affacciano a lui più punti d'un conduttore non
isolato. Affievolita pertanto l'azione elettrica, è egli sorprendente
che non possa più superare la resistenza di quel grosso strato d'aria
interposta tra il corpo elettrico, ed il conduttore, che supera
agevolmente, quando non presentandoglisi alla medesima distanza che
una punta sottile, la _tensione_ di esso corpo elettrico, e dell'aria
infinitamente meno bilanciata, sussiste nel suo pieno vigore?

[57] Nella mia memoria sulla capacità de' conduttori semplici dimostro
la grandissima _capacità_ che ha una boccia di Leyden comparativamente
alla sua mole appunto perchè l'elettricità che s'infonde ad una
superficie trova un gran compenso nell'elettricità contraria che
prende la superficie opposta, ciò che produce la solita diminuzione
di tensione ec. Ivi fo vedere come 16 pollici quadrati di superficie
armata hanno una capacità eguale a un conduttore di verghe inargentate
lungo presso a 100 piedi, il quale ne ha una grandissima, tal che le
sue scintille producono la vera _commozione_ in un grado abbastanza
forte. Ivi anche accenno come tutti i fenomeni della carica, e della
scarica degli strati isolanti, dell'elettroforo, delle punte ec.
possono dipendere dall'istessa azione delle atmosfere elettriche,
combinata, per ciò che appartiene agli strati isolanti, con una certa
non molto grande resistenza che prova l'elettricità ad affiggersi
alla superficie di questi egualmente che ad escirne, e con quella
incomparabilmente più grande, e può dirsi insuperabile che la impedisce
di diffondersi attraversandone la spessezza. Intorno a che fin dal
tempo in cui pubblicai la descrizione, e le principali sperienze del
mio elettroforo, che fu nel 1775 (vegg. la scelta d'Opusc. interess.
di quell'anno) io avea promesso di esporre tutte le mie idee in
un trattato che avrebbe per titolo _Dell'azione delle atmosfere
elettriche, e de' fenomeni che ne derivano negli strati isolanti_.

[58] Cioè fino al Maggio del 1782. Dopo tal tempo le ho replicate
moltissime volte sempre con egual successo, e molte persone le hanno
vedute.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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